Parlami, ho ancora bisogno di te

di Flying_lotus95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0- Prologo ***
Capitolo 2: *** 1- Hāfu ***
Capitolo 3: *** 2- Il club di pallavolo ***
Capitolo 4: *** 3- Capitano, bagno e minacce ***
Capitolo 5: *** 4- "I miei ragazzi" ***
Capitolo 6: *** 5- Gelati e calendari astrali ***
Capitolo 7: *** 6- Edgardo ed Enrico ***
Capitolo 8: *** 7- Il mostro verde ***
Capitolo 9: *** 8- "Amami, Alfredo!" ***
Capitolo 10: *** 9- Zuffe ***
Capitolo 11: *** 10- Wagasa ***
Capitolo 12: *** 11- Le mani di un uomo ***
Capitolo 13: *** 12- Tempo ***
Capitolo 14: *** 13- Bento ***
Capitolo 15: *** 14- Genitori ***
Capitolo 16: *** 15- La fine dei giochi ***
Capitolo 17: *** 16- Il drago cattivo ***
Capitolo 18: *** 17- Trippa per gatti ***
Capitolo 19: *** 18- Non aveva idea ***
Capitolo 20: *** 19- Maschera di cera ***
Capitolo 21: *** 20- Rondinella ***
Capitolo 22: *** 21- "E io sto vicino a te" ***
Capitolo 23: *** 22- La metà spezzata ***
Capitolo 24: *** 23- Da sorella, da fratello ***
Capitolo 25: *** 24- Tamago kake gohan ***
Capitolo 26: *** 25- "Amore perduto" ***
Capitolo 27: *** 26- Love is a losing game ***



Capitolo 1
*** 0- Prologo ***


Prologo

 
Non si può volare senza avere un cielo
Che cielo sceglierai tu?
 
Fai un bel respiro, andrà tutto bene.
Attraverso le palpebre chiuse, Hikaru ripeteva quelle parole come un mantra.
Fai un bel respiro, andrà tutto alla grande.
Tra le mani il tessuto della palla sfregava sui polpastrelli, la pressione troppo forte della stretta doveva avergli bloccato la circolazione sanguigna, il cuore galoppava frenetico.
Con gli occhi chiusi era facile percepire ogni singolo rumore.
Lo stridio delle scarpe da ginnastica, il rimbalzare delle palle, il vociare degli spettatori, le risate degli altri ragazzi sul campo da gioco e la tensione nell’aria, l’aspettativa.
Trasse un respiro profondo, cercando di calmare il proprio cuore e …
«Hikaru, hai ascoltato?».
Hikaru spalancò gli occhi di colpo, i rumori salirono di un’ottava contemporaneamente, quasi come se qualcuno avesse automaticamente alzato il volume di una radio; i colori gli ferirono le iridi, la luce del sole sul campo, la rete bianca …
E gli occhi imperscrutabili e gentili del suo allenatore, fissi su di lui.
«Ah, certo Suga-san!» Si affrettò a commentare, avvertiva uno spiacevole formicolio alle dita di entrambe le mani, a quel punto si accorse di star stringendo la palla troppo forte.
Allentò la stretta e abbassò le braccia, l’adrenalina pompava a mille nelle vene.
Sugawara lo guardò ancora per un po’, lo sguardo sereno che Hikaru sostenne risoluto.
Lo zio Kōshi doveva aver percepito la sua inquietudine, la sua agitazione, era un tipo di empatia che aveva sempre avuto con lui, fin da quando era bambino.
Quel tipo di empatia silenziosa, fatta di sguardi, di pelle e di ricordi.
«È normale che ci sia un po’ di agitazione» Riprese a parlare Sugawara, «Per alcuni di voi questa potrebbe essere l’ultima partita» Hikaru strinse nuovamente la palla tra le mani, guardandola. «Ma non dobbiamo avere nessun tipo di rimpianto, comunque vada, non ci siamo mai risparmiati. Dovete andar fieri di essere arrivati fin qui, mettetecela tutta!».
Hikaru aveva sempre trovato rassicurante la voce di zio Kōshi.
Se avesse chiuso gli occhi anche solo per un istante, le immagini di quando era bambino avrebbero cominciato a scorrere freneticamente dietro le palpebre, come una pellicola cinematografica, una cacofonia di voci, tra cui quella di Suga-san.
Che spiccava tra le altre, evocata dal marasma di ricordi.
Quella sarebbe potuta essere la sua ultima partita.
L’ultima partita alla Karasuno se avessero perso, l’ultima partita della prefettura ad un passo dalle Nazionali a Tokyo. Hikaru era agitato, ma l’agitazione che aveva percepito non era esattamente quella che si sarebbe aspettato, era un misto di paura e incoscienza.
La voglia matta di giocare e quella folle di pericolo data dalla possibile sconfitta.
Aveva diciotto anni ormai, era al terzo anno, ne aveva passate così tante in quella palestra.
Drizzò le spalle e guardò i suoi compagni di squadra uno per uno, era l’asso, il capitano di quella squadra, ancora una volta, con tutto sé stesso, li avrebbe portati alla vittoria.
«Ce la metteremo tutta, Suga-san!» Replicò risoluto, respirando profondamente.
Sugawara appoggiò entrambe le mani sui fianchi e sorrise, gli occhi scintillanti.
Quando si entusiasmava in quel modo sembrava ancora un ragazzino.
«Bene, andiamo in campo a -»
«FORZA HIKARU! FAI IL CULO A TUTTI!»
Hikaru rischiò di inciampare nei suoi stessi piedi quando quella voce estremamente familiare sovrastò tutte le altre, mettendolo visibilmente in imbarazzo.
Cercò di ignorare le risate divertite dei suoi compagni di squadra, o la pacca violenta di Tomomi Nakajima, suo vice e amico, sulla spalla, si grattò con fare imbarazzato la nuca, rosso in faccia.
Avrebbe dovuto aspettarsela una reazione del genere dal suo migliore amico.
Hikaru azzardò un’occhiata agli spalti, aveva evitato di farlo per tutto il tempo, perché proprio non sopportava essere al centro dell’attenzione, ma Kansuke si sbracciava così tanto che era davvero impossibile cercare di ignorarlo deliberatamente.
Oh, pensò Hikaru abbassando il braccio, ci sono proprio tutti.
«Ah!»Fu il sospiro esasperato di zio Kōshi a distrarlo «Vorrei proprio sapere perché il mio primogenito è così esuberante!» commentò sospirando sonoramente.
Hikaru si lasciò scappare un sorrisetto, mentre riportava l’attenzione sugli spalti.
Kansuke Sugawara era il suo migliore amico da quando aveva imparato a ricordare.
Avevano tre anni di differenza, ma non erano mai stati davvero un problema per loro due, erano entrambi così agli antipodi che diventare migliori amici si era rivelata una necessità.
«Andiamo a scaldarci in campo, capitano!».
La pacca sulla spalla di Tomomi lo allontanò nuovamente dai suoi pensieri, Hikaru scosse la testa, non avrebbe dovuto distrarsi quel giorno.
Rivolse ancora una volta un’occhiata veloce agli spalti, in direzione del suo migliore amico, e sollevò una mano in segno di saluto generale, anche a zia Kiyoko che stava sgridando suo figlio Kansuke e agli altri, intenti a parlottare.
Hikaru scoppiò a ridere felice e corse verso il campo, aggiustandosi prontamente il cerchietto che gli teneva fermo il ciuffo nero e ribelle che gli cadeva sulla fronte.
«Non voglio sentirti frignare negli spogliatoi, perciò facci vincere idiota!».
Hikaru accolse passivamente il pugno poco gentile che gli tirò sulla spalla l’altro suo compagno di squadra, Takeru Izumi, il miglior centrale della sua squadra.
Senza lui e Tomomi, Hikaru non sarebbe mai stato in grado di portare la squadra così lontano. Senza di loro, non avrebbe fatto praticamente nulla.
Erano tutti lì, mancava solo sua madre, ma Hikaru sapeva sarebbe arrivata presto, andava tutto bene, non doveva aver timore di nulla.
Avrebbe vinto anche quella partita.
 
«Ah! Tani-chan sta tardando! Così si perderà l’inizio della partita!».
Lo strepitio rumoroso di Nishinoya fece voltare gli sguardi di tutti i presenti su di lui.
Shimizu smise di rimproverare Kansuke, che per tutto il tempo sembrava non averla nemmeno ascoltata, troppo impegnato a sbracciarsi oltre la ringhiera.
Asahi e Daichi, l’uno vicino all’altro, smisero di parlottare, fissando l’amico.
«Tranquillo Noya, sono sicuro che Maria sarà qui tra poco».
Commentò Asahi con aria tranquilla, scrutando l’amic0 di una vita con occhi gentili.
Nishinoya sembrava emozionato ed esuberante tanto quanto Kansuke, non riusciva a starsene fermo in nessun modo, l’esatto opposto di Shimizu, che se ne stava invece tutta composta accanto a lui.
«Dopotutto potrebbe essere l’ultima partita di Hikaru, non se la perderebbe mai».
Il commento pacato di Daichi venne pronunciato dal proprietario mentre aveva gli occhi fissi sul campo, precisamente sul ragazzo con la zazzera di capelli neri come la pece.
«È cresciuto bene, vero?» La domanda di Asahi, posta in maniera un po’ distratta, fece riscuotere Daichi dai suoi pensieri. Come lui, anche l’amico stava guardando Hikaru, lo sguardo attento e un po’ nostalgico, gentile come sempre.
«Sta diventando un uomo ormai. Ah, mi sento proprio vecchio!»
Asahi ridacchiò al commento fintamente esasperato di uno dei suoi migliori amici.
Incrociò le braccia al petto e seguì distrattamente un’azione in campo.
«Suga li ha allenati proprio bene eh?» La voce allegra di Nishinoya ancora una volta risuonò estremamente rumorosa comparata alle loro chiacchiere pacate.
Daichi aprì la bocca per replicare qualcosa, ma fu ampiamente anticipato da Shimizu.
«Certo che li ha allenati bene, mio marito ama il suo lavoro».
Erano rare le volte in cui Shimizu interveniva spontaneamente in una conversazione, quindi i tre uomini rimasero in silenzio per un po’, finché Nishinoya non cominciò a far nuovamente chiasso insieme a Kansuke, tifando sfacciatamente per Hikaru e Takeru.
«Buongiorno, non sono in ritardo, vero?».
Nel sentire quella voce cristallina, ancora una volta tutti i presenti si voltarono.
A parlare era stata una donna, minuta ed esile, era appena salita sugli spalti e aveva un leggero affanno. La lunga sciarpa rossa che le avvolgeva il collo si era aperta pendendo eccessivamente sulla spalla destra, mentre alcune ciocche di capelli neri come il carbone le svolazzavano sul viso con aria ribelle.
Gli occhi azzurri e grandi osservavano i presenti.
«No, Maria-chan, si stanno ancora riscaldando» commentò Shimizu riportando l’attenzione sul campo.
Maria tirò un sospiro di sollievo, si aggiustò una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro e la fede che portava al dito scintillò in contrasto con un raggio di sole piuttosto insistente.
«Meno male, Hikaru mi avrebbe odiata a vita se non fossi arrivata in tempo!»
«Tani-chan!» Esplose Nishinoya salutando la donna con eccessivo entusiasmo «Com’è andata l’ecografia, Tani-chan!?».
Maria sussultò quando sentì quelle parole, era evidente che avesse completamente dimenticato l’ecografia, al suo fianco anche Asahi e Daichi si fecero attenti.
«L’ho fatta! Ho saputo il sesso del bambino!» Commentò vittoriosa sventolando per aria quei fogli che fino ad alcuni istanti prima aveva dimenticato di avere tra le mani.
«Davvero?» Domandarono Asahi e Daichi contemporaneamente, posando entrambi lo sguardo sul ventre rigonfio della donna, avevano gli occhi brillanti d’emozione.
Maria sorrise e avanzò verso i due, posizionandosi esattamente tra di loro li prese entrambi per un braccio, continuando a guardare suo figlio riscaldarsi per la partita.
«Allora Tani-chan! È un maschietto come il mio Hiro-chan, vero?» domandò Nishinoya emozionato.
Maria mise su un sorriso furbo, guardando prima Asahi e poi Daichi negli occhi, erano evidentemente i più emozionati e vogliosi di avere la notizia.
«È una femminuccia!».
Dichiarò, stringendo maggiormente le braccia di entrambi gli uomini.
Al suo fianco, Asahi si mosse leggermente, cambiando il peso da una gamba all’altra.
«Ehi, la partita sta per cominciare!» Esclamò all’improvviso Kansuke, gridando.
Shimizu lo rimproverò ancora una volta, facendo ridere Nishinoya di gusto.
Yū guardò la scena divertito, appoggiandosi al corrimano di ferro con entrambe le braccia, poi lo sguardo gli ricadde su Daichi, Maria ed Asahi, intenti a parlare ancora di qualcosa.
Aveva quasi come l’impressione di essere tornato indietro nel tempo.
Un piacevole dejà vu che sapeva di liceo, giovinezza e spensieratezza.
Non era da lui essere nostalgico, ma di tempo, in effetti, ne era passato parecchio.
« Cosa c’è, Nishinoya-kun? » La domanda incuriosita di Shimizu lo riportò al presente.
« Nulla » Commentò Yū facendo spallucce. «Stavo solo pensando a quante ne avessero passate quei tre per arrivare fin qui ».
Kiyoko osservò Maria, Asahi e Daichi solo per un breve istante e non rispose.
Non c’era davvero bisogno di troppe parole.
Nishinoya riportò lo sguardo sulla partita, Hikaru stava prendendo posizione in campo, tra le mani stringeva qualcosa, un oggetto, un portafortuna, lo strinse sul cuore e poi lo baciò.
Ne hanno passate tante, ma ne è davvero valsa la pena.
Pensò Nishinoya, mentre osservava un raggio di luce accarezzare i capelli scuri di Hikaru.
 
Ti alzerai senza far rumore
Saluterai il sole quando muore
Non conta troppo essere forti ma sentirsi vivi sì

 
Francesca Michielin – 25 Febbraio


 

Ma buonasera a tutti voi, cari lettori!
Mi presento con questa piccola sorpresa scritta a quattro mani con la mia cara amica effe_95 (infatti noterete un notevole miglioramento di stesura nel leggere rispetto al mio :D) 
Era da un pò che la tenevamo in pentola, aspettando tempi migliori, ma a quanto pare, il momento di essere presentata a voi è finalmente giunto, e non immaginate quanto siamo emozionate per questa cosa!
Adesso passo ad un brevissimo quanto fondamentale "avviso ai naviganti", così da placare già in partenza domande, curiosità e simili.
- La storia dovete concepirla come un "What if/Missing Moment": segue le vicende del manga, ma fino ad un certo punto. Quindi se troverete momenti in cui alcuni eventi vengono stravolti o vedrete spuntare fuori personaggi che ancora, in quel particolare momento narrativo, non sono ancora usciti, qui è normale :)
- Questa NON è una storia basata sulle ship classiche. L'amore è presente, ma in forme che vedrete man mano che avanzerete nella lettura. Abbiamo un pò "giocato" con alcune coppie per il semplice gusto di vedere come ci uscivano. Ci direte voi se l'esperimento è riuscito ;)
- L'idea della trama è mia, mentre il testo scritto è totalmente a cura di effe_95. Abbiamo deciso di comune accordo di pubblicarla sul mio profilo, e risponderemo entrambe a curiosità e domande che verranno poste nelle recensioni, se ne lascerete :*
- La storia sarà divisa in due parti, la prima parte, come vi ho già detto, seguirà più o meno la storyline del manga, la seconda parte invece no, poi vedrete ;) I capitoli sono ancora in fase di scrittura, e occuperà un arco temporale piuttosto lungo.
Abbiamo detto tutto per ora! Spero che questo prologo vi abbia lasciato un pochino di hype e vi lasci qualche domanda riguardo a chi possano essere i giovanotti menzionati nel testo ;)
Vi lasciamo col dirvi che i capitoli verranno pubblicati ogni due settimane a partire da questo sabato, quindi dateci tutto il vostro affetto e la vostra partecipazione, in cambio vi offriremo una pizza simbolica :D
Non ci resta che augurarvi buona lettura! :)

Flying_lotus95
Effe_95

 

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Capitolo 2
*** 1- Hāfu ***


1.Hāfu.

-Prima parte-
 
“Un bel di, vedremo levarsi un fil di fumo sull’estremo confin del mare … “
Se avesse chiuso gli occhi anche solo per un istante, Maria era sicura che qualsiasi cosa in quella stanza silenziosa avrebbe perso ogni significato evidente per lei.
Ogni minimo dettaglio, come il raggio di sole del primo pomeriggio che le accarezzava gentilmente la nuca, il ronzio fastidioso di una mosca sulla parete o il frusciare delle tende mosse dal piacevole vento primaverile, tutto sarebbe svanito dalla sua mente.
Svanito per lasciar posto solamente a quelle parole, a quella voce.
Chinò leggermente il capo di lato e picchiettò l’indice sottile della mano destra sul foglio dello spartito, che aveva appoggiato sulle sue gambe penzolanti nel vuoto.
L’aula di musica era inondata di luce quel tiepido pomeriggio di inizio Maggio, dalla finestra semiaperta Maria riusciva a sentire gli schiamazzi degli altri ragazzi intenti nelle attività dei rispettivi club; sistemò con insistenza la cuffietta nell’orecchio destro e tracciò qualcosa con la matita su una nota particolarmente ostica da solfeggiare.
Le attività del suo club, quello di musica, erano state sospese anche quel pomeriggio, ma per Maria imparare quel pezzo era una questione di priorità assoluta, era dal primo anno di liceo che desiderava provare a cantare un pezzo della “Madame Butterfly” di Puccini.
«E poi la nave appare-» Cominciò a canticchiare nel suo italiano scorretto, per poi bloccarsi di colpo quando gli schiamazzi divennero troppo fastidiosi.
Scontenta bloccò la canzone e strappò la cuffietta dall’orecchio, per poi scendere dalla cattedra su cui era seduta con un colpo di reni ben piazzato.
Appoggiò lo spartito sulla superficie bianca e lucida, rassettò la gonna grigia e si avviò alla finestra con tutta l’intenzione di chiuderla, avrebbe fatto molto più caldo nella stanza ma non le importava. Voleva solamente studiare il brano senza essere disturbata.
Quando afferrò la maniglia di plastica con la mano destra la trovò riscaldata dal sole, la tenda le sfiorava il braccio spinta dal vento e i raggi del sole si infrangevano sul suo maglioncino beige e sulla camicia bianca quasi ne venissero catturati naturalmente.
Una brezza leggera le scostò i capelli scuri dalla fronte solleticandole la pelle.
Maria sospirò pesantemente e chiuse la finestra di botto, aveva sempre trovato fastidioso il baccano che facevano quelli degli altri club, sembravano non avere rispetto per nessuno.
Sospirando profondamente Maria rivolse uno sguardo all’orologio sulla parete, aveva ancora un paio d’ore prima di tornare a casa, e non aveva intenzione di sprecarle.
La musica lirica era importante per lei, era vita.
Aveva appena afferrato nuovamente lo spartito quando un vociare fastidioso proveniente dal corridoio la fece trasalire.
Maria conosceva quelle voci e le detestava, le facevano venire i brividi.
Senza pensarci troppo, colta dal panico, afferrò velocemente lo spartito e l’iPod, ficcò tutto nella borsa e spalancò la porta prima ancora di averla sistemata come si deve sulla spalla.
Le voci dei soliti bulli che la importunavano si facevano sempre più vicine, se non si fosse data una mossa avrebbero girato l’angolo e l’avrebbero vista lì, da sola.
Maria non poteva sopportare un incontro con loro in quel momento.
Non avrebbe sopportato i soliti commenti maligni sui suoi occhi azzurri o sulle sue origini.
Senza nemmeno chiudersi la porta alle spalle cominciò a camminare con passo affrettato nella direzione opposta, dall’altra parte del corridoio, il cuore a mille e la mano al petto.
Svoltò l’angolo giusto in tempo, un istante prima di sentire quei commenti lontani.
«Oh, chi ha detto che la troietta era nell’aula di musica? Qui non c’è nessuno!».
«Ti ho detto che l’ho vista mentre chiudeva la finestra!».
«Beh, qui non c’è! Che palle!».
«Ci rifaremo un’altra volta».
«Peccato però, infastidire quella sporca hāfu è il mio passatempo preferito!».
Maria si tappò le orecchie e corse più forte che poté, con quella maledetta parola che le rimbombava senza sosta nelle orecchie.
Ascoltata così tante volte da sembrare incisa sulla pelle come una cicatrice.
 
«Maria-chan! Ehi, Maria-chan! Cosa ci fai in palestra?».
Maria sussultò vistosamente quando qualcuno le picchiettò gentilmente su una spalla.
Era talmente assorta, con la musica al massimo volume, che non si era nemmeno resa conto di quanto fosse tardi. Sollevò lo sguardo e fissò la sua interlocutrice sbattendo le palpebre.
Shimizu la guardava fisso, con le braccia incrociate al petto e l’espressione impassibile.
Maria non ricordava esattamente come avesse fatto ad arrivare in palestra.
Correva senza una meta precisa, aveva visto la porta aperta e si era fiondata sugli spalti senza nemmeno pensarci troppo, sistemandosi nell’angolo più lontano e meno in vista.
In realtà, non era la prima volta che faceva una cosa simile.
Le era già capitato di rifugiarsi in palestra durante gli allenamenti della squadra di pallavolo.
Probabilmente anche quella volta le gambe avevano scelto la meta da sole.
«Kiyoko-san! Non ti avevo vista …» Commentò distrattamente Maria sfilandosi le cuffie, era riuscita a fare molto più di quanto si aspettasse nascosta in quell’angolo.
Aveva smesso di pensare, di aver paura o ansia di essere inseguita.
Shimizu la scrutò attentamente per un po’, indossava la tuta nera del club di pallavolo, con la felpa totalmente aperta su una maglietta bianca un po’ stropicciata, i soliti occhiali.
«Sei venuta di nuovo a studiare in palestra?» Domandò sedendosi accanto a lei.
Maria fece spallucce e cominciò a sistemare con tranquillità la sua borsa.
Non se n’era nemmeno accorta, ma fuori il sole infiammava l’orizzonte d’arancione, dovevano essere le otto passate eppure i giocatori in campo, a cui Maria aveva prestato zero attenzioni, continuavano ad allenarsi e a far casino senza mostrare segni di cedimento.
«Nell’aula di musica c’era troppo casino, non riuscivo a concentrarmi».
Il commento distratto di Maria sembrò non convincere del tutto Shimizu, che seduta accanto a lei continuava a scrutarla con quella severità gentile che l’aveva sempre caratterizzata.
«Sei stata di nuovo infastidita da quei tipi, Maria-chan?».
Maria non rimase troppo sorpresa da quella domanda, dopotutto lei e Shimizu si conoscevano da così tanti anni che nasconderle qualcosa le risultava piuttosto difficile, se non impossibile. Erano diventate amiche all’asilo, quasi per caso.
Maria era stata immediatamente presa di mira dagli altri bambini a causa dei suoi tratti occidentali, quegli occhi azzurri non del tutto a mandorla che detestava con tutta sé stessa.
Sarebbe scoppiata a piangere, odiandosi ancora di più, se quel giorno Shimizu non l’avesse presa per mano senza dirle una sola parola, senza chiedere mai.
Da quel giorno quella mano Maria non l’aveva più lasciata.
Aveva fatto di tutto per seguire Kiyoko passo passo, era entrata anche lei al Karasuno con tanta fatica, e al loro terzo anno finalmente era capitata in classe con la sua migliore amica.
«Non preoccuparti Kiyoko-san, nessuno mi ha importunato».
Commentò chiudendo finalmente la cartella, nascose le mani sotto le cosce e guardò distrattamente il campo, dove alcuni ragazzi con una maglietta bianca zuppa di sudore si agitavano come grilli tentando di colpire la palla.
Maria non aveva mai davvero capito perché Shimizu fosse così devota al suo club.
Era sempre indaffarata, non aveva mai molto tempo da passare con lei, se non in tarda serata quelle poche volte che riuscivano entrambe ad essere libere dagli impegni.
«Maria-chan, lo sai che-».
«Shimizu-san, abbiamo finito!».
L’imminente invettiva di Kiyoko venne prontamente interrotta dall’arrivo di un ragazzo.
Era sudato, ciocche di capelli grigi gli si arricciavano sulle tempie, la maglietta bianca era leggermente attaccata al petto, mentre gli occhi castani chiari, sereni, scrutavano le due ragazze.
Kōshi Sugawara, terzo anno come lei e fidanzato storico di Shimizu, Maria aveva sempre provato simpatia per lui. Non avevano una grande confidenza, ma si rispettavano.
Inoltre, era anche l’unico membro della squadra di pallavolo che conoscesse.
«Oh, Sugawara-kun! Arrivo subito» Replicò Shimizu, non prima di rivolgere un’occhiata incerta all’amica. Maria la conosceva abbastanza bene da sapere che, nonostante l’aria impassibile, era combattuta tra il desiderio di andare e quello di non lasciarla sola.
«Non preoccuparti Kiyoko-san, vai pure. Io raccolgo le mie cose e vado via».
Shimizu la osservò per alcuni secondi, mentre si tirava lentamente in piedi.
Maria resse fiera il suo sguardo, fredda e determinata come sempre, niente sarebbe venuto fuori senza permesso: nessuna paura, nessuna incertezza, nessun rimpianto.
«Va bene, ci vediamo domani allora» Si arrese infine Shimizu.
«Alla prossima Taniguchi-san» La salutò cortesemente Sugawara con un piccolo inchino, sul viso un sorriso sereno, mentre ricambiava il saluto Maria si ritrovò a pensare che fosse uno dei pochi sorrisi sinceri che qualcuno le avesse mai rivolto.
Un altro motivo per cui Sugawara le era sempre piaciuto, nonostante lo conoscesse poco, riguardava il modo in cui la fissava, senza accusa, o domande implicite negli occhi.
«Fai attenzione Maria-chan!».
La voce di Shimizu la raggiunse mentre si affrettava a scendere le scale degli spalti, Maria si girò velocemente, solo per un istante, e salutò la sua migliore amica con un cenno della mano. Pochi secondi dopo si ritrovò alla luce del sole calante, con la brezza serale a baciarle i capelli.
 
«Sono a casa!»
Non appena aveva messo piede nel piccolo ingresso, il naso di Maria era stato investito da una serie di odori piuttosto piacevoli: cipolla, zenzero e qualcos’altro che non riusciva ad identificare. Si sfilò velocemente le scarpe, lasciandole accanto alle altre che occupavano il piccolo spazio nell’ingresso, e abbandonata la cartella si fiondò in cucina.
Come aveva immaginato, sua nonna Mariko stava cucinando, mentre nonno Akio leggeva un giornale, seduto tutto ingobbito attorno al tavolino, le gambe incrociate con i calzini bianchi in bella vista e le sopracciglia folte corrucciate.
«Mari-chan, sei tornata!»
«Proprio adesso nonna, cosa stai preparando di buono?».
Maria pronunciò quelle parole stringendo calorosamente le braccia attorno alle esili spalle della nonna, tutta affaccendata a preparare la cena. Mariko barcollò leggermente, ma lasciò che la nipote le appoggiasse affettuosamente la testa sulla spalla.
«Stasera ho preparato i takoyaki» Commentò fiera la donna.
«Davvero?! Nonna sei la migliore!» Esplose Maria stampando un bacio sulla guancia della donna, Mariko si lamentò un po’ con il sorriso sulle labbra.
«Quanta energia che ha questa benedetta ragazza!»
Al commento del nonno, che aveva finalmente abbassato il giornale, Maria lasciò finalmente libera la nonna e andò a sedersi accanto al vecchio, scompostamente.
«Beh? Che ci fai ancora in divisa? Fila a fare il bagno!» La rimproverò Akio indicando con il dito bitorzoluto e pieno di calli la tromba delle scale, visibile oltre la porta.
Maria sorrise divertita e afferrò il braccio del nonno tenendolo stretto.
Quel teatrino si ripeteva più o meno tutte le sere, la nonna che si lamentava, il nonno che faceva il burbero con lei … se non avesse avuto loro Maria non avrebbe saputo cosa farsene della sua vita. Era più o meno quello il pensiero che la sfiorava ogni volta.
«Ora vado nonno! Fammi stare un po’ qui con voi, uhm?».
Pronunciò quelle parole rivolgendo al vecchio un sorriso da bambina birichina, Akio mise su un cipiglio severo, con le folte sopracciglia grigiastre contratte e la ruga nel mezzo.
«Uhm, ragazza testarda» Bofonchiò, facendola ridere.
«È andato tutto bene oggi a scuola Mari-chan?».
Alla domanda della nonna Maria vide bene di non cambiare l’espressione del suo viso, ma ormai le risultava così facile far finta di nulla, era sempre stata brava a recitare quella parte.
Era qualcosa che dopotutto le veniva piuttosto naturale.
«Tutto alla grande!» Dichiarò lasciando andare il braccio al nonno.
Si era messa a sedere composta, con le gambe incrociate e le mani sulla gonna.
«Sei stata con Shimizu-san?» Continuò imperterrita Mariko, scrutando la nipote di sottecchi con i suoi occhi scuri mentre preparava le polpette.
Maria annuì solennemente, non avrebbe mai detto alla nonna e al nonno che con Kiyoko riusciva a passare poco tempo, e che per lo più se ne stava da sola cercando di scappare.
«Sono a casa».
Il teatrino familiare venne interrotto dall’arrivo di un uomo, appena entrato in cucina.
Era alto, ben piazzato, sulla testa una massa di capelli scuri come la pece gli incorniciava il capo, sembrava stanco dopo il lavoro, ma aveva comunque un sorriso cordiale sul viso.
«Bentornato» Commentò Maria a voce bassa, tentando un sorriso.
Fujio Taniguchi, suo padre.
Maria amava suo padre, ai suoi occhi era l’uomo migliore del mondo, ma aveva sempre trovato piuttosto difficile parlargli a cuore aperto, forse per quello che era successo, forse perché lui non la guardava mai davvero negli occhi …
«Maria … prima mi ha chiamato Simona».
Un’altra cosa che Maria non capiva di suo padre era proprio quella, la capacità che aveva di buttare tutto fuori nel momento sbagliato, di dire certe cose senza preoccuparsi.
Senza preoccuparsi dei sentimenti di nessuno.
Nel sentire quel nome fu come se nella stanza fosse calato un silenzio mortale.
«La richiamerò più tardi» Fu la laconica risposta di Maria, non l’avrebbe fatto davvero.
Fujio annuì distrattamente e si mise seduto accanto al padre, arrotolando le maniche della camicia bianca che indossava quella sera.
Maria contò fino a dieci, poi si tirò in piedi con calma.
«Vado nella mia stanza a togliere la divisa» Annunciò, e prima che chiunque potesse replicare aveva già raggiunto le scale, salendole a due a due.
Simona, non sopportava proprio quel nome, non ne sopportava il suono e le origini.
Non sopportava proprio niente di quella madre italiana che l’aveva abbandonata.
 
 
Quando il giorno successivo Maria andò a sbattere contro il capo dei bulli, in pieno pomeriggio, mentre camminava verso la palestra, disse a sé stessa che avrebbe dovuto aspettarselo.
La giornata era andata troppo bene perché potesse finire in quel modo.
Aveva pensato che anche quel pomeriggio sarebbe stata una buona idea andare a studiare solfeggio in palestra, durante il club di pallavolo, lì nessuno la disturbava.
Avrebbe tratto più profitto dallo starsene lì seduta sugli spalti, ben nascosta, che nell’aula di musica, dove ancora una volta i suoi compagni del club non si erano presentati.
Probabilmente era stata la musica a distrarla, il volume troppo alto, il fatto che guardasse per terra invece di avere lo sguardo sollevato …
Ad ogni modo, sapeva solo di essere andata a sbattere dritto sul petto duro del bullo che non sembrava volerle dar pace da tre anni a quella parte.
Maria aveva sollevato lo sguardo quasi con aria impassibile, incredula della sua sfortuna.
«Ohi, ohi, ma guarda un po’ chi abbiamo qui, la piccola troietta hāfu»
Poi aveva sentito quelle parole, si era vista afferrare per le spalle e aveva realizzato.
Oh cazzo.
 
«Asahi-san, hai fatto tardi anche oggi!»
Asahi ascoltò pazientemente lo strepitio indignato e rumoroso di Nishinoya.
Aveva ancora le mani sporche di gesso dopo aver pulito la lavagna, le sfregava continuamente sui pantaloni ma quella sensazione fastidiosa non sarebbe sparita facilmente.
«Scusa Noya-san, le pulizie sono durate più del previsto».
Commentò Asahi grattandosi la nuca, con voce bassa e una punta di imbarazzo.
Yū aveva preso l’abitudine di aspettarlo fuori classe ogni giorno, faceva tantissimo chiasso e Asahi finiva sempre con il combinare qualche guaio per affrettarsi, come inciampare in un banco o sporcare nuovamente il pavimento appena pulito rovesciando la pattumiera, esattamente ciò che era successo quel giorno (il reale motivo del loro ritardo).
«Se arriviamo tardi il capitano ci sgriderà».
Nishinoya pronunciò quelle parole con troppa allegria per i gusti di Asahi, lui trasalì al solo pensiero di vedere la faccia spaventosa che metteva su uno dei suoi migliori amici quando perdeva le staffe. Rabbrividì e scosse la testa, affrettando il passo.
Non aveva più tanta voglia di far tardi agli allenamenti del club.
Avevano appena raggiunto l’angolo del corridoio, che sentirono uno schiamazzo tremendo.
Asahi rallentò il passo quasi inconsciamente, mentre gli occhi gli si posarono su una banda di ragazzi, tra il secondo ed il terzo anno, tutti raggruppati attorno ad un esile figura di cui riusciva a distinguere solamente una massa di capelli scuri.
Doveva essere una ragazza, schiacciata contro la parete.
Al suo fianco Nishinoya si fermò a sua volta e fischiò sonoramente, impressionato.
«Ma che sta succedendo? Qualcosa non va?».
La domanda uscì dalla bocca di Asahi quasi con naturalezza, sovrastando di qualche tono quelle sovrapposte di tutti gli altri, aveva avuto come l’impressione che quella povera ragazza si stesse sentendo male e che tutti gli altri la stessero soccorrendo.
Non poteva far finta di nulla in quella situazione.
Gli occhi di tutti i presenti si posarono su di lui e Nishinoya, ancora fermi impalati.
«Tu che cazzo vuoi, piantagrane?!» Sbottò uno in particolare.
Si staccò dal gruppo, aveva i capelli tinti e un orecchino vistoso, sorrideva con disprezzo, le mani nelle tasche dei pantaloni della divisa un po’ troppo calanti.
Asahi lo guardò interdetto per alcuni secondi, sbattendo le palpebre.
Lo sconosciuto avanzò ancora di un passo prima che uno dei suoi compagni lo afferrasse per un braccio, bloccandolo, sembrava stranamente terrorizzato.
«Ohi Takumi, lascia perdere! Quello è Azumane!»
Quelle parole sembrarono sortire uno strano effetto su quel Takumi, perché si arrestò a sua volta e sbiancò, sotto lo sguardo sempre più stranito e avvilito di Asahi.
«Quell’Azumane?!» Bisbigliò a voce un po’ troppo alta, poi lo fissò di nuovo con fare ostile, ma gli si leggeva chiaramente la paura sul viso «Tsz, non finisce qui!» Balbettò, e preso il suo compagno per la collottola della maglietta si allontanò, seguito dalla sua banda.
Asahi rimase a fissare la scena per un po’, incredulo.
Non era sicuro di aver davvero capito bene cosa fosse successo.
Al suo fianco Nishinoya scoppiò a ridere senza ritegno, sbellicandosi come se avesse appena assistito alla scena più divertente del mondo, mentre Asahi si deprimeva come non mai.
Aveva come l’impressione che se Suga-san l’avesse visto in quel momento, avrebbe preso a rimproverarlo e a chiamarlo “emo barbuto” senza pietà.
«Ma ho semplicemente chiesto se andasse tutto bene …» Mormorò depresso.
Nishinoya si asciugò frettolosamente gli occhi, dandogli una gomitata nello stomaco.
«Sei spaventoso come sempre Asahi-san!» Lo prese in giro.
Asahi fece per replicare qualcosa, quando intravide una figura con la coda dell’occhio e girò il capo di colpo, sorpreso.
«Ehm … grazie».
A balbettare era stata la ragazza accerchiata, nella confusione sia Asahi che Yū si erano completamente dimenticati di lei. Se ne stava davanti a loro con i capelli un po’ scombinati, la camicia sgualcita sulle spalle e le mani raccolte davanti al grembo, imbarazzata.
Nishinoya fischiò sonoramente quando la vide.
La sconosciuta sollevò il viso a quel rumore e Asahi trasalì, irrigidendosi tutto.
Erano gli occhi più belli che avesse mai visto, azzurri, leggermente a mandorla e grandi.
Non seppe cosa rispondere, non articolò nemmeno una parola, neanche quando la ragazza chinò leggermente il capo e gli voltò le spalle, camminando in maniera affrettata.
Fu la gomitata di Nishinoya a farlo riprendere, piuttosto dolorosa proprio tra le costole.
«Che bella tipa! Com’è che è passata inosservata per tutto questo tempo? Non potrei mai tradire il mio amore per Kiyoko-san, ma devo proprio dirlo a Ryu!».
Asahi ascoltò solo metà del farneticare senza senso dell’amico.
«Su Asahi-san, andiamo in palestra. Altrimenti Daichi-san ci ammazza!».
Nishinoya lo afferrò per un braccio, tirandolo, Asahi incespicò nei passi, stordito.
Aveva ancora quegli occhi stampati nella retina, e come la sensazione che non li avrebbe dimenticati molto facilmente.


 
Salve a tutti 😊
Oggi è Effe_95 che vi scrive.
Come ha già detto la mia fantastica amica nelle note al prologo, io ho prestato solo la mia penna per la stesura di questa storia.
Motivo per cui, ci fosse qualche rimostranza sul modo di scrivere e sullo stile, dovete insultare me :D
In questo ufficiale primo capitolo siamo tornati indietro nel tempo, al principio dei fatti che condurranno poi a quello che succede nel prologo. Viene introdotta Maria, e si comincia a scoprire già qualcosa di lei.
Come è stato già specificato nelle note precedenti, noterete subito che questa trama non segue del tutto quella del manga.
Ci teniamo a specificarlo ancora, nel caso qualcuno se lo sia perso e possa rimanerci male.
Inoltre, questa storia è nata nel lontano 2017 – il manga non era ancora terminato (abbiamo già più di 30 capitoli pronti) e molte cose del finale non compaiono affatto o sono, ovviamente, diverse.
Ma dette queste piccolezze, speriamo comunque che la storia possa piacervi. Personalmente do’ il benvenuto a chi vorrà iniziare questa avventura con noi.
Alla prossima e grazie.
 
Effe_95 e Flying_lotus95

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Capitolo 3
*** 2- Il club di pallavolo ***


2.Il club di pallavolo.


Maria aveva il cuore che batteva nel petto in maniera frenetica.
Lo sentiva premere con insistenza sulla cassa toracica e pompare adrenalina nel suo corpo.
Le sembrava di poter percepire ogni singolo pezzo di pelle, muscolo e ossa mentre si guardava intorno con aria circospetta, nascosta dietro il muro dell’edificio.
Aveva fatto davvero molta attenzione quel giorno, non aveva nemmeno pranzato per arrivare in palestra prima di tutti gli altri, e le stava risultando sempre più difficile non pensare al bento ancora riposto e bene impacchettato nella borsa.
Ignorò il gorgogliare del suo stomaco e, guardato prima a destra e poi a sinistra, decise che era il momento propizio per intrufolarsi attraverso la porta aperta.
Era stata brava a fare la detective, si era accertata prima di tutto che dalla palestra non giungessero rumori di scarpe da ginnastica che strusciavano sul pavimento, palle che rimbalzavano o chiacchiere, poi aveva dato un’occhiata veloce negli spogliatoi.
Li aveva trovati chiusi, quindi aveva pensato fosse il momento giusto per nascondersi sugli spalti senza essere beccata da nessuno.
Non era mai stata così insistente nel nascondersi in un determinato posto prima d’ora.
La palestra non era mai stata necessariamente il suo posto preferito, ci era capitata alcune volte per caso, ma da quando si era resa conto che lì nessuno la disturbava, aveva stabilito fosse il luogo perfetto e definitivo dove poter studiare decentemente.
Trasse un respiro profondo, strinse più forte le dita attorno l’angolo del muro, graffiandosi e sporcando leggermente i polpastrelli di intonaco, e poi scattò come un fulmine.
Probabilmente avrebbe dovuto essere più cauta, ma la sua meta era lì, davanti ai suoi occhi.
Aveva appena salito il primo gradino, saltellando allegramente come per pregustare già la vittoria, quando una figura slanciata e posata le bloccò la strada.
Maria trasalì sonoramente e imprecò tra i denti, forse a voce un po’ troppo alta.
Rischiò anche di scivolare sul gradino successivo, ma con una mossa un po’ imbarazzante, che le sgualcì tutta la gonna, riuscì a posare il piede destro a terra senza troppi danni.
Shimizu se ne stava davanti la porta della palestra, indossava la tuta nera del club di pallavolo con la solita maglietta bianca, tra le braccia stringeva una cartellina ben premuta sul petto, gli occhi non trasudavano alcuna emozione.
«Che cosa stai cercando di fare, Maria-chan?».
Maria tentò di ricomporsi quando Shimizu le rivolse la parola, rassettò la gonna, tirò il maglioncino per togliere le pieghe e tossicchiò leggermente per darsi un contegno.
Non sarebbe riuscita ad imbrogliare la sua migliore amica, ma ci avrebbe provato lo stesso.
«Ero venuta a cercarti Kiyoko-san! Per pranzare insieme!» Commentò troppo frettolosamente, avvalorando le sue parole mettendosi a frugare nella borsa in cerca del bento, sepolto sotto una marea di libri e cianfrusaglie.
«Maria-chan» Esordì Shimizu, senza accennare a spostarsi dalla porta, si aggiustò gli occhiali sul naso e la scrutò, impassibile «Sai benissimo che oggi non posso pranzare con te perché ho il club».
Maria imprecò interiormente e mise su un sorriso luminoso, ficcandole il bento sotto il naso, gliel’aveva preparato la nonna come tutti i giorni, avvolgendolo nel solito fazzoletto bianco ricamato a mano con le iniziali del suo nome in lettere occidentali.
«Beh, sarebbe un peccato non mangiarlo Kiyoko-san! Posso -».
«Maria-chan, stavi tentando di intrufolarti un’altra volta in palestra per studiare, vero?».
L’affermazione interrogativa di Shimizu prese Maria di contropiede, fu così sorpresa che rischiò di perdere la presa dal fiocco del bento.
«E-ecco io -» Cominciò a balbettare, abbassando arresa la mano con cui stringeva ancora il suo pranzo. Non sarebbe più servito a molto, Shimizu era incorruttibile.
«Maria-chan, ti ho già detto molte volte cosa devi fare se vuoi stare a studiare in palestra. Perché per una volta non prendi in considerazione la proposta che ti ho fatto?».
Maria era sicura che Shimizu sarebbe tornata a battere su quel punto, l’ultima volta era stata fortunata grazie all’arrivo di Sugawara, ma la fortuna non sarebbe potuta durare per sempre.
Kiyoko aveva cominciato a farle quella proposta fin dalla prima volta che l’aveva vista studiare sugli spalti; le aveva chiesto di iscriversi al club di pallavolo.
Maria aveva sempre rifiutato, per alcuni motivi ben precisi che avrebbe ammesso molto difficilmente ad alta voce. Il primo era che non voleva lasciare il club di musica, sebbene ci fossero solo tre iscritti e lei era l’unica a prendere sul serio la cosa, e poi, non sopportava l’idea che Kiyoko gliel’avesse chiesto solamente per tenerla sotto la sua ala protettiva.
Maria non voleva l’aiuto di nessuno, nemmeno della sua migliore amica.
«Kiyoko-san, ti ho già detto che -».
«Oh Shimizu, sei già qui?».
Sia Maria che Kiyoko voltarono il capo in direzione di quella voce quando la sentirono.
Maria trasalì come se fosse stata punta da un’ape, per un momento aveva pensato fosse Sugawara, ma la voce di quel ragazzo era molto più calda e profonda.
Quando gli posò gli occhi addosso sentì il cuore fare una strana capriola insensata nel petto. Era alto, ma non in maniera eccessiva, ben piazzato e con le spalle larghe, indossava anche lui la tuta nera delle Karasuno con il borsone a tracolla, ed era il ragazzo più bello che avesse mai visto. Mentre sentiva il cuore galopparle insensatamente nel petto, Maria indietreggiò automaticamente, nascose il bento dietro la schiena e fece di tutto perché i capelli le cadessero sugli occhi, nascondendoli, se ne vergognava troppo in quel momento.
«Sawamura-san, siete in anticipo» Replicò Shimizu facendo un piccolo inchino di saluto.
Portandosi una mano al petto per calmare il suo cuore, Maria si rese conto che Sawamura, annotò mentalmente il nome che Kiyoko aveva appena pronunciato, non era solo ma accompagnato da molte altre persone. Due ragazzini del primo anno, uno basso dai capelli pel di carota e l’altro alto e imbronciato.
Accanto ai due se ne stavano Sugawara e un altro ragazzo enorme che Maria non riusciva a vedere bene in faccia, nascosto dietro il compagno di squadra.
Dovevano essere alcuni dei componenti della squadra di pallavolo, non vi aveva mai prestato davvero attenzione quando si intrufolava in palestra per studiare, quindi non aveva la minima idea di che faccia potessero avere.
«Si, abbiamo pensato che cominciare un po’ in anticipo per allenarci sulla ricezione … Oh, vedo che sei in compagnia!».
Oh cazzo no! Ignorami!
Maria imprecò mentalmente quando Sawamura pronunciò quelle parole, tuttavia, era decisamente troppo tardi per scappare o ignorare la situazione, perciò si ricompose velocemente mettendo su l’espressione più fredda e finta del suo repertorio.
La faccia sfacciata e sicura di sé che le veniva meglio.
«Lei è Taniguchi Maria, Sawamura-san. Una mia compagna di classe».
Li presentò educatamente Shimizu, Maria fece un piccolo inchino di saluto e tentò in tutti i modi possibili di costringere sé stessa a non immaginare cosa quei ragazzi, e Sawamura in particolare, stessero pensando dei suoi occhi e dei visibili tratti occidentali misti a quelli orientali che le delineavano il viso.
«Piacere di conoscerti, Sawamura-san» Disse con voce ferma, professionale quasi.
Sawamura ricambiò il saluto con un inchino di rimando.
«Ohi, ohi! Ma non è la ragazza che qualche volta si mette seduta sugli spalti a leggere?».
Il ragazzetto con i capelli arancioni pronunciò quella frase con tale entusiasmo che Maria trasalì con trasporto quando la sentì, vergognandosi immensamente per la reazione, ma anche per la prospettiva di essere stata beccata da qualcuno.
«Ohi Hinata boke! Allora non hai solo la palla in quella zucca vuota che ti ritrovi eh?!» Lo prese immediatamente in giro l’altro primino.
«Ehi Kageyama, v-vuoi fare a botte eh?».
I due presero immediatamente a litigare, facendo un chiasso tremendo alle loro spalle.
Maria provava il forte desiderio di dileguarsi, possibilmente in palestra, per studiare e non far vedere la sua faccia almeno per le prossime quattro ore.
«Ah, scusali Taniguchi-san» Intervenne Sugawara sorridendole, poi separò i due.
«Stavo proponendo a Maria-chan di unirsi al nostro club».
L’affermazione di Shimizu giunse talmente inaspettata che tutti tacquero, sorpresi, persino Maria, prima di provare vergogna e indignazione per quel tradimento, rimase sorpresa.
Non poteva dare una risposta diretta davanti a tutte quelle persone.
«Oh, davvero?» Intervenne Sawamura facendole un sorriso gentile e posato.
Maria desiderò ardentemente che le guance non le fossero diventate troppo rosse.
Ma che cosa le stava prendendo?
«Saremmo davvero felici se ti unissi al club».
Il cuore fece un’altra capriola, e per la prima volta Maria sembrò dimenticare tutti i suoi propositi e i motivi per cui aveva sempre rifiutato la proposta di Shimizu.
«Ci penserò» Lo disse senza riflettere, senza pensare, impulsivamente.
Tentò di ignorare l’occhiata sorpresa della sua migliore amica e le accennò un segno di stizza con l’occhio, sperando di non essere sorpresa da quegli sconosciuti a farlo.
«Bene, adesso è meglio se vado …» Balbettò imbarazzata e, senza davvero salutare nessuno, accennò un inchino impacciato ed imbranato, ficcò il bento nella borsa e andò via.
Nella testa un’eco continuo: Sawamura-san
 
Maria avrebbe volentieri preso a testate un muro se avesse potuto.
Ma suppose che camminare come uno zombie per i corridoi fosse sufficientemente strano per le persone che la fissavano e scansavano come fosse appestata.
Aveva preso a camminare senza una meta precisa da quando era scappata dalla palestra.
Non poteva credere che il suo piano fosse finito in quel modo catastrofico, non solo si era fatta beccare da Shimizu, ma anche dagli altri componenti della squadra di pallavolo, e aveva addirittura acconsentito alla possibilità di iscriversi al loro club!
Lo stomaco le gorgogliò tremendamente, vi portò una mano sopra e strinse tra le dita la stoffa morbida del maglione, non aveva nemmeno mangiato per un piano fallito miseramente. Sospirò pesantemente e prese in considerazione l’idea di andare all’aula di musica, anche se la probabilità di incontrare i soliti bulli era altissima, avrebbe almeno avuto il tempo di ripetere ancora una volta le scale minori della chiave di violino.
Abbassò lo sguardo sulla cartella, cercando tra i libri di musica quello dedicato propriamente alle scale, e mentre avanzava lentamente sul lato destro del corridoio, quello delle aule, una porta si spalancò di colpo cogliendola di sorpresa, mentre un ragazzo le finiva precipitosamente addosso, mandandola quasi a schiantarsi contro le finestre.
Per sua fortuna, o sfortuna, Maria si vide rimbalzare come una pallina di tennis contro un altro ragazzo, che stava passando di lì proprio in quel momento, evitando così una defenestrazione piuttosto indesiderata. Era stordita ed incredula, completamente attonita di come quella giornata stesse procedendo nel modo peggiore possibile.
«Ehi, guarda un po’ dove metti i piedi»
A pronunciare quella frase era stata una voce leggermente annoiata, apatica e strascicata, Maria si raddrizzò rivolgendo un’occhiataccia al tipo contro cui si era scontrata, dopotutto era una ragazza di terza, i suoi kohai meritavano una buona lezione di disciplina.
Tuttavia, la voce le venne del tutto a mancare quando si rese conto che per poter guardare negli occhi il diretto interessato avrebbe dovuto alzarsi sulla punta dei piedi.
Era terribilmente alto e magro, capelli biondi e un paio di occhiali sul naso, l’espressione sprezzante con un sorriso fastidioso a deturpare le labbra e delle cuffie attorno al collo.
«Ehi Tsukishima, Yamaguchi!».
Maria avrebbe voluto domandare, mentre si spostava indignata dopo aver ricevuto una spinta, perché i ragazzi avessero la mania di urlare in quel modo brutale.
A spingerla malamente di lato, come se non l’avesse nemmeno vista, era stato il tipo che aveva aperto la porta di botto, venendole addosso.
Maria trasalì quando lo vide, aveva esattamente l’aspetto di un bullo, capelli rasati quasi a zero, sguardo feroce ed intimidatorio … no, non era il caso si facesse altri nemici.
Approfittando del fatto che i tre si fossero distratti, si era resa conto solamente in quel momento che accanto al ragazzo biondo ne era spuntato un altro un po’ più anonimo, con il viso completamente ricoperto d’acne e i capelli scuri, girò le spalle e fece per andarsene.
«Tanaka-san, non hai ancora raggiunto la palestra?»
«Coraggio matricole, scortate il vostro senpai!».
Maria si bloccò di colpo quando sentì quella piccola conversazione, fermò i suoi passi e si voltò, giusto in tempo per vedere il tizio pelato, Tanaka da quel che aveva capito, afferrare i due primini per il braccio e trascinarli a forza nella direzione opposta.
«Ehi, ehi scusatemi!».
Le era appena venuta un’idea geniale e voleva metterla in pratica a tutti i costi, cocciuta.
Raggiunse i tre correndo leggermente e mise su un sorriso finto.
Dall’espressione che fece il biondino guardandola, Maria si rese conto che quel ghigno ammaliante che aveva messo su, facendo un po’ la frivola, non l’aveva ingannato per nulla.
Al contrario invece, la crapa pelata la fissava come abbagliato.
«Siete del club di pallavolo, vero?» Domandò con voce gentile.
«Puoi scommetterci dolcezza!» Replicò immediatamente quel Tanaka.
Maria avrebbe alzato gli occhi al cielo se avesse potuto, ma doveva trattenersi per raggiungere il suo scopo, Kiyoko non l’avrebbe mai scoperta in quel modo.
«Mi stavo chiedendo … non è che potreste indicarmi un posto dove studiare in santa pace nei pressi della palestra?» E guardò con occhi imploranti la crapa pelata.
«Non esistono posti del genere» La liquidò in fretta Tsukishima, riprendendo a camminare come niente fosse, ma prima che potesse allontanarsi troppo Tanaka lo afferrò per la collottola della camicia e lo trascinò sotto il suo braccio, bloccandolo.
«Non essere maleducato Tsukishima!» Lo rimproverò mettendo su un sorriso raccapricciante, se fosse stato un animale Maria l’avrebbe paragonato a quello di uno squalo.
«C-ci sarebbe lo stanzino vicino gli spogliatoi».
Maria catturò subito l’informazione e guardò con gratitudine il ragazzino con la faccia butterata, Yamaguchi se aveva sentito bene il suo nome.
«Grazie mille» Disse di fretta facendo un inchino.
«Ehi!» La richiamò il crapa pelata, ma Maria stava già correndo in direzione della palestra, per la seconda volta nell’arco della giornata.
 
Asahi aveva una sete tremenda.
Sentiva i muscoli delle braccia particolarmente indolenziti, si tamponò la fronte con l’asciugamano che stringeva tra le mani per poi sistemarlo attorno al collo.
Sfilò il codino e riprese a farsi la coda scompostamente.
Aveva temporaneamente lasciato gli allenamenti per andare a prendere qualcosa da bere alla prima macchinetta disponibile, nel corridoio che portava agli spogliatoi.
Era stato piuttosto distratto quel giorno, ma non riusciva proprio a togliersi quella sensazione fastidiosa dal cuore, era sicuro che la ragazza di quella mattina fosse la sconosciuta che aveva inconsapevolmente aiutato il giorno precedente.
Non avrebbe mai potuto dimenticare i suoi occhi.
Taniguchi Maria, Shimizu l’aveva chiamata in quel modo.
Maria, era un nome piuttosto singolare, come singolare era stato, senza ombra di dubbio, l’interesse abbastanza velato che lei aveva mostrato per Daichi.
Asahi scosse il capo e tornò al presente, la macchinetta era proprio lì davanti, infilò distrattamente le monetine e aspettò pazientemente che l’energetico cadesse dall’anello di metallo, lo raccolse e ne bevve una gran bella sorsata prima di tornare verso la palestra.
Aveva appena mosso qualche passo quando sentì uno strano rumore, come un gorgheggio o il rantolo di un animale morente, si fermò di colpo restando in silenzio assoluto.
Lo udì nuovamente, in maniera molto più nitida, e si rese conto che proveniva dallo stanzino solitamente inutilizzato accanto agli spogliatoi.
Assomigliava terribilmente al lamento di un gatto ferito, o di qualche altro animaletto che doveva essere rimasto intrappolato nella stanza in qualche modo inaspettato.
Preoccupato Asahi accostò lentamente la porta, entrando nella stanza, e trasalì di brutto quando vi trovò dentro una persona, una ragazza per l’esattezza.
E non una ragazza qualsiasi, ma quella ragazza, di nuovo.
Lei non si era accorta di lui, così quando si girò e lo vide urlò, provocando in Asahi un tale panico da fargli alzare immediatamente le mani e scuotere la testa con vigore.
«S-scusami! Tranquilla, non ti faccio niente io -» Si interruppe, senza sapere cosa dire.
Maria smise di gridare, portandosi una mano sulla bocca.
Aveva il cuore a mille, quel giorno aveva provato così tante emozioni contemporaneamente che era fermamente convinta del fatto che avesse avuto una prova lampante del suo funzionamento, perché non vi erano stati segni di infarto imminente.
Tentando di trovare il contegno, rivolse un’occhiataccia ad Asahi, che si fece piccolo accanto alla porta, Maria trovò quel particolare piuttosto interessante considerato che lui era grande più o meno come un armadio.
«Allora?» Esordì inacidita, si rendeva conto che quella dalla parte del torto era lei.
Il ragazzo era un membro della squadra di pallavolo, era evidente dal sudore, dalla casacca gialla che indossava sulla maglietta bianca e dalla bevanda energetica che aveva tra le mani.
Inoltre aveva un’aria familiare, come se l’avesse già visto prima.
Ma aveva imparato che fare la prima mossa in una battaglia dava vantaggio assoluto.
E lei non aveva intenzione di farsi cacciare da quella stanza, stava studiando finalmente senza essere disturbata e non voleva cedere quel posto.
«Ehm io -» Balbettò il ragazzo grattandosi la nuca «Ho sentito uno strano rumore, pensavo fosse un animale ferito oppure-»
«Un animale ferito?!» Maria dovette pronunciare quella frase con una tale indignazione da far arrossire lo sconosciuto fino alla radice dei capelli, era l’occasione giusta per farlo sentire in colpa e approfittarne «Stai paragonando la mia voce a quella di un animale agonizzante?! Ma come ti permetti!» Disse enfatizzando le ultime parole.
Asahi aprì la bocca per articolare qualcosa, si grattò la nuca, richiuse la bocca e poi abbassò le braccia, mettendo su un’espressione talmente sorpresa che Maria dovette forzare se stessa a non scoppiargli a ridere in faccia con sfacciataggine.
«Voce?» Domandò lui, guardandola incredulo.
Aveva dei caldi occhi castani, Maria era sicura di averlo già incontrato, ma non ricordava esattamente dove. 
«Si, stavo ripetendo una scala…» Cominciò a spiegare, poi si rese conto che probabilmente quel ragazzo non ne avrebbe capito molto e tacque, sospirando.
Rimasero in silenzio a fissarsi per alcuni secondi, lo sguardo di Maria era così penetrante e fisso che Asahi cominciò a domandarsi se non l’avesse riconosciuto dal giorno precedente.
«Ci siamo già visti da qualche parte?» Domandò infatti lei, guardinga.
«Ah, sono un membro della squadra di pallavolo, probabilmente -».
«No, ti ho visto da qualche altra parte, ma-».
Maria si interruppe immediatamente non appena la porta alle spalle di Asahi si aprì lentamente, rivelando la figura ben piazzata di Sawamura.
Asahi si girò di scatto, sentendosi stranamente colpevole anche se non aveva fatto nulla di male, mentre il cuore di Maria si esibì ancora una volta in acrobazie mai provate prima.
«Asahi, stavo venendo a cercarti, ma dove – Oh, Taniguchi-san?».
Maria sgranò gli occhi quando Sawamura pronunciò il suo nome, non credeva che se lo sarebbe ricordato, in realtà, non aveva programmato nemmeno di vederlo due volte lo stesso giorno. Prese a tormentarsi le mani, poi notò lo sguardo di Asahi e smise di farlo.
«Sawamura-san, giusto? E …».
La frase di Maria rimase sospesa, mentre osservava Asahi con insistenza.
«Lui è Azumane Asahi, è un po’ uno scemotto come puoi vedere» Intervenne Daichi dando una leggera spinta al braccio dell’amico, Asahi arrossì imbarazzato e si grattò la nuca.
Daichi avanzò nella stanza e affiancò i due.
«Cosa facevate qui dentro?».
Maria arrossì violentemente ma, prima che potesse essere troppo evidente, fece un passo in avanti, mise le mani dietro la schiena e sorrise.
«Stavo riflettendo sulla proposta di entrare nel club» Buttò lì, rivolgendo ad Asahi un’occhiata un po’ ammonitrice, come se volesse sfidarlo a dire che non era vero.
Tuttavia, il ragazzo non sembrava affatto intenzionato a farlo.
«Oh, davvero? Ah! A proposito, ecco a te il modulo!»
Daichi pronunciò quelle parole muovendosi frettolosamente nella stanza, arrivò alla scrivania dove Maria aveva appoggiato la cartella ed estrasse un foglio da uno dei cassetti.
Glielo porse e Maria lo prese con lentezza, le mani un po’ tremanti.
«Se dovessi accettare, come spero, compilalo e portamelo».
Sawamura le sorrise cordiale, Maria tremò d’emozione.
«Va bene» Mormorò, e si dimenticò di tutto il resto.
 
Quando rientrò a casa quella sera, la trovò buia e silenziosa.
I nonni non dovevano essere in casa, mentre suo padre probabilmente se ne stava rintanato nel suo studio, troppo impegnato anche solo per accendere le luci nelle altre stanze.
Gettò le scarpe per aria, ignorò il post-it che qualcuno le aveva lasciato sul mobile: “Simona ha chiamato” e si affrettò a salire le scale a due a due.
Si chiuse la porta della sua camera alle spalle sbattendola con vigore, afferrò il modulo dalla cartella, lo depose al centro della scrivania e si mise a fissarlo per minuti interi.
Non aveva la minima idea di cosa farne.
Iscriversi al club di pallavolo avrebbe significato dover rinunciare a quello di musica, ma restare nel club di musica non avrebbe comunque portato alcuna differenza, perché nessuno si presentava per provare e le sarebbe toccato studiare da sola a prescindere.
Si mise seduta e fissò il foglio ancora una volta, sbuffando esasperata.
Poi, senza alcun preavviso, le tornò in mente il sorriso gentile di Sawamura e le parole cordiali che le aveva rivolto quella mattina. In diciassette anni della sua vita non aveva mai davvero provato interesse per nessun ragazzo, tendeva ad evitarli per lo più.
Quella strana sensazione che aveva provato guardando Sawamura non la capiva del tutto.
Guardò ancora una volta il foglio, esitante, poi afferrò impulsivamente la prima penna che trovò e cominciò a compilare il modulo, freneticamente.
Non capiva quel sentimento, ma era decisa ad assecondarlo il più possibile.

 
 
 
Buon pomeriggio e ben trovati miei cari 😊
Oggi è Flying_lotus95 a salutarvi 😉 Come avete potuto notare, Maria ha finalmente incontrato alcuni membri del Karasuno, e ha finalmente deciso di fare un bel passo avanti iscrivendosi al club.
Vi pongo una domanda un po' birichina: quale incontro descritto finora vi è piaciuto di più?
Vi svelo il mio intanto: l’incontro con Daichi è il mio preferito, ma io sono di parte, quindi non lasciatevi influenzare :P
Vi confesso, e penso di parlare anche per la mia amica effe_95, che mi sarebbe piaciuto avere a che fare con ragazzi come i corvetti del Karasuno al liceo, a suo tempo… Io mi auguro che almeno voi lettori abbiate avuto conoscenze belle e significative al liceo o all’università, e se così non è stato, non disperate! Questa storia spero vi faccia anche evocare un po' quel senso di nostalgia benigna che ci fa pensare al passato con occhi diversi. Vi avviso però, questo effetto-nostalgia non durerà per tutta la storia, quindi godetevelo ora, in questi primi capitoli!
Detto questo, ringrazio vivamente chi ha iniziato a leggerci e seguire la storia. Vedrete, non ve ne pentirete 😉
Buona lettura, vi auguriamo un buon Ferragosto e vi diamo appuntamento con il terzo capitolo a sabato 27 agosto! :-*

 
Flying_lotus95 & effe_95

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Capitolo 4
*** 3- Capitano, bagno e minacce ***


3. Capitano, bagno e minacce.



Quando Maria varcò la porta della palestra, il giorno successivo, sentì per la prima volta di poterlo fare finalmente senza doversi nascondere o essere rimproverata.
Tuttavia, il coraggio e la determinazione che l’avevano accompagnata lungo tutto il tragitto dalla sua classe fino al cortile, stavano lentamente svanendo, sostituiti dall’imbarazzo.
Aveva immaginato di fare un’entrata piuttosto teatrale, stringendo il foglio tra le mani avrebbe mostrato un’immagine fiera e decisa di se stessa, risoluta.
Le cose non stavano andando esattamente come le aveva immaginate, una volta raggiunta la palestra aveva perso coraggio, la prospettiva di essere presentata a tutti quei ragazzi, di esporsi così apertamente agli occhi di persone estranee aveva preso il sopravvento su di lei.
Il suo cervello aveva cominciato freneticamente a lavorare di immaginazione, le frasi cattive che quegli sconosciuti avrebbero potuto rivolgerle, i pensieri maligni alle sue spalle …
Maria scrollò le spalle, era qualcosa a cui aveva fatto l’abitudine da anni, e non era il tipo di persona che tornava indietro sui suoi passi; aveva già lasciato il club di musica quella mattina e non avrebbe cambiato idea proprio in quel momento.
Tuttavia, aveva paura, ma dalla sua espressione non sarebbe mai uscita fuori.
Avrebbe preferito morire piuttosto che dire ciò che pensava realmente.
Il suo non fu un ingresso trionfale, ma non fu nemmeno male come se l’aspettava.
Quando entrò, i ragazzi si stavano ancora allenando, erano indaffarati e non si accorsero di lei, complice il fatto che fosse entrata il più silenziosamente possibile per non far rumore.
Quindi le risultò facile raggiungere un angolo sicuro della palestra senza dare fastidio.
Osservò per un po’ i giocatori, riconobbe Tanaka, il crapa pelata del giorno precedente, Tsukishima e il suo amico Yamaguchi, i due primini che si erano messi a bisticciare e ovviamente Sugawara, in compagnia di Sawamura e dell’altro ragazzo, Azumane.
Era terribilmente nervosa, ma non si permise di lasciarlo a vedere.
Inoltre, scandagliando la stanza con lo sguardo, si era appena resa conto che Shimizu non era presente, al contrario invece, accanto al coach e al professore era seduta un’altra ragazza, un po’ bassina e con un caschetto biondo ad incorniciarle il viso.
Maria aggrottò le sopracciglia e guardò la scena mentre andava a sedersi compostamente sugli spalti più bassi, facendo attenzione a non fare rumore.
Quella mattina Shimizu era andata a scuola, erano state insieme in aula come sempre e Maria non aveva notato nulla di particolarmente strano in lei, che le fosse successo qualcosa mentre andava a prepararsi per il club?
Era immersa nei suoi pensieri quando una pallonata piuttosto violenta, che andò a schiantarsi sulla ringhiera di ferro che delimitava gli spalti dal campo, la fece trasalire lasciandole scappare un gridolino di spavento piuttosto rumoroso.
Maria ci impiegò qualche secondo di troppo per capire che con quel verso aveva attirato l’attenzione di tutti, era stata troppo impegnata a controllare il battito cardiaco del suo cuore per prendersi immediatamente le responsabilità di quell’azione.
Avvampò violentemente, ma nascose prontamente il viso, respirando a fondo.
«Taniguchi-san?» Quando Sugawara la chiamò, con un leggero accenno di stupore nella voce, Maria era tornata la solita calcolatrice di sempre, espressione fissa e impassibile.
Si alzò in piedi, lisciandosi la gonna, e prese a scendere le scale con compostezza.
Se non avesse avuto anni di autocontrollo alle spalle le gambe avrebbero preso a tremarle dalla tensione, con tutti quegli sguardi puntati addosso.
Le sembrava che i suoi occhi occidentali fossero più grandi del normale in quel momento.
Più in vista di quanto fossero mai stati precedentemente.
Non aveva mai avuto così tanti paia di occhi a fissarla contemporaneamente.
«Scusami Sugawara-san, non volevo disturbare l’allenamento» Replicò compostamente, nel solito tono apatico e freddo, ma affabile, che utilizzava per comunicare con lui.
Sugawara sollevò una mano in segno di diniego e fece una risatina elegante e moderata.
«Non preoccuparti Taniguchi-san, stavamo per finire».
«Cosa succede qui?».
Maria fu profondamente grata al proprietario di quella voce, un uomo vicino alla trentina, con folti capelli di un biondo tinto e l’espressione feroce: il coach della squadra.
«Ah, Ukai-san! Questa è -» Aveva cominciato Sugawara, ma Maria lo interruppe.
«Sono Taniguchi Maria, terzo anno, sono venuta a consegnare il modulo d’ammissione al club di pallavolo come assistente manager» E pronunciate quelle parole fece un piccolo inchino porgendo il modulo compilato in direzione del coach.
Sarebbe sembrata una scena piuttosto solenne, se proprio in quel momento, poco dopo aver sentito quelle parole, Asahi non avesse sussultato, finendo per la sorpresa con i piedi su una palla, rotolata silenziosamente fino a bordo campo quando avevano smesso di allenarsi.
Maria guardò la scena attonita, fu un vero e proprio effetto domino.
Asahi andò a schiantarsi addosso ad un piccoletto con il ciuffo colorato, Maria aveva come l’impressione di averlo già visto da qualche parte, che cadde a sua volta su Tanaka, che finì addosso al ragazzo di prima con i capelli scuri, che a sua volta trascinò giù con sé Tsukishima, Yamaguchi e pel di carota.
«Che cavolo combini Asahi-san?!».
Strepitò immediatamente il piccoletto con il ciuffo colorato, tentando inutilmente di districarsi dal groviglio di gambe e braccia che lo schiacciava sul pavimento.
«Toglimi quel piede dalla faccia, Noya-san!» Sbottò Tanaka con fare rabbioso.
«S-scusatemi!» Balbettava invece Asahi in preda al panico.
«Ohi Hinata, levati di mezzo».
«Sei tu che mi stai addosso Kageyama!».
Maria rimase attonita ad osservare la scena, con il foglio ancora stretto tra le mani a mezz’aria e la schiena leggermente protesa in avanti, residuo dell’inchino che aveva attuato.
Vide Sugawara intervenire prontamente, rimproverando i malcapitati con fare da mamma super protettiva, mentre il coach si sbellicava dalle risate e la ragazzina bionda seduta accanto a lui si agitava come una matta, insieme ad un professore che portava gli occhiali.
«Scusali, Taniguchi-san. Loro sono … beh, sono fatti così».
Nel trambusto che si era andato a creare, Maria non si era resa conto che Sawamura le si era avvicinato, quando sentì la sua voce trasalì mordendosi la lingua.
Era stato silenzioso per tutto il tempo, e Maria aveva tentato di non fissarlo troppo, altrimenti il cuore avrebbe preso a batterle furiosamente proprio come stava facendo in quel preciso momento, mentre lui le sorrideva cordiale.
Non avrebbe mai ammesso ad alta voce di aver accettato di iscriversi solamente per lui, per stargli più vicino e cercare di capire cosa fossero quei sentimenti strani che provava ogni volta che si trovava in sua presenza, sebbene non lo conoscesse nemmeno.
«Sono felice che tu abbia accettato di unirti al club» Continuò Sawamura, indicando il modulo, Maria lo fissò per un istante, poi sussultò e glielo porse.
Sentiva le dita leggermente tremanti, ma strinse talmente la presa che smisero subito.
Sawamura la scrutò per un po’ negli occhi, cosa che fece venire a Maria il fortissimo desiderio di abbassare lo sguardo, ma si limitò a prendere il foglio con compostezza.
Maria avrebbe voluto rispondere qualcosa, ma proprio quando trovò il coraggio per farlo, Sawamura si girò verso i suoi compagni di squadra e andò a rimproverarli.
Fu sorprendente il modo in cui si dilagò il panico tra i componenti della squadra.
«Piacere Taniguchi-san, io sono Hitoka Yachi!».
A presentarsi era stata l’unica ragazza presente nella stanza a parte Maria.
Le fece un piccolo inchino e arrossì, aveva un viso grazioso e infantile, era bassa e mingherlina, doveva essere di prima o di seconda, perché Maria non l’aveva mai vista prima.
«Piacere» Replicò di rimando, inchinandosi a sua volta.
«Sono una manager della squadra insieme a Shimizu-san» Continuò Hitoka, era ancora rossa in viso, segno che doveva essere una persona piuttosto timida ed insicura, e continuava a fissare un po’ Maria un po’ il campo, il secondo con un grande affetto.
«Ah! Kiyoko-san è una mia compagna di classe» La buttò lì Maria, trovava piacevole parlare con Hitoka, una sensazione un po’ strana per lei, ma si rese conto in quel momento che avrebbe passato molto tempo con quella ragazzina timida e insicura, quindi era un bene che le comunicasse quella sensazione così piacevole.
«Come mai non è in palestra oggi? È stata lei a convincermi ad iscrivermi qui».
Mentì Maria, mentre osservava solo distrattamente il modo in cui gli altri ragazzi subivano la ramanzina di Sawamura a testa china, mortificati.
«Davvero?! Oggi non stava troppo bene così è tornata a casa. Shimizu-san è proprio una persona fantastica!» Esclamò felice Hitoka, sorridendo calorosamente.
Maria le sorrise di rimando, trovando per la prima volta del tutto spontanea quell’espressione.
«Mi ha aiutata tantissimo nel club i primi tempi! E io aiuterò te, Taniguchi-san!».
«Molto volentieri» Replicò Maria, e poi scostò lo sguardo quando si accorse che Hitoka la stava osservando con curiosità, probabilmente per studiare i suoi occhi azzurri.
Proprio in quel momento, Sawamura si era girato verso di loro e le stava chiamando.
Maria ed Hitoka si avvicinarono, entrambe un po’ titubanti.
«Taniguchi-san, volevamo accoglierti ufficialmente nel nostro club».
Commentò Sugawara, allegro, e sotto lo sguardo sorpreso di Maria, e quello divertito di Hitoka, presero tutti ad indossare le felpe nere della squadra, si girarono di spalle e con i pollici indicarono la scritta in caratteri bianchi nella loro scuola.
«Benvenuta nella squadra!» Esclamarono in coro.
Maria rimase allibita, ma scoppiò in una risatina sorpresa, autentica.
Non sapeva spiegarsi per quale motivo, ma si sentiva stranamente bene in quel momento.
«Ehi, ehi! Tani-chan, Tani-chan! Ma tu sei la ragazza di quella volta!».
Tani-chan?” Pensò Maria inorridendo, quando il piccoletto con i capelli colorati prese a chiamarla a quel modo, facendo un chiasso infernale.
Le si parò davanti, in una posa che avrebbe dovuto renderlo sensuale, ma che Maria trovava semplicemente ridicola, e cominciò a far chiasso.
«Non essere maleducato Nishinoya!» Lo rimproverò immediatamente Sawamura.
Nishinoya non sembrò troppo turbato dal rimprovero del suo capitano, piuttosto afferrò Azumane per un braccio e lo tirò in avanti, sotto lo sguardo sconcertato di Maria e quello sempre più rosso e imbarazzato del diretto interessato.
«Tani-chan! Lui è il ragazzo che ti ha salvato dai bulli, ricordi?!».
«Nishinoya, smettila, non è vero!» Sbottò immediatamente Azumane dopo l’affermazione a gran voce dell’amico, sembrava terribilmente imbarazzato.
Maria aggrottò le sopracciglia, scrutò Asahi ancora per un po’ e poi schioccò le dita, come se avesse appena scoperto qualcosa di assolutamente essenziale.
«Ecco chi eri!» Commentò, fissandolo dritto negli occhi.
Nel compiere quel gesto, finalmente soddisfatta di aver capito perché quel ragazzo le risultasse così familiare, Maria si rese conto che per la prima volta lui non aveva abbassato immediatamente lo sguardo. Forse per la sorpresa dipinta sul suo viso.
«Hai capito Asahi-san!» Intervenne prontamente Tanaka, il crapa pelata, agguantando il compagno di squadra per le spalle, Asahi lo guardò interdetto, rosso in viso.
«Asahi-san, sei anche un eroe!» Sbottò tutto infervorato il gamberetto con i capelli rossi, quello che Maria aveva capito chiamarsi Hinata, Azumane arrossì ancora di più, tentando inutilmente di balbettare qualche parola per confutare quell’immagine.
«Esatto Shouyou! Non era per nulla il solito cacasotto!» Replicò di rimando Nishinoya, infervorandosi ancora di più di quanto non avesse fatto precedentemente.
Prese a muoversi come un grillo impazzito raccontando con estrema fantasia l’accaduto, colorandolo di colpi di scena inesistenti e rappresentazioni mimiche, mentre il tentativo di Asahi di farlo smettere scemava sempre più.
Maria faticò a trattenersi dal ridere, mantenere la sua solita faccia impassibile di fronte ad una scena simile le risultava estremamente difficile, ma osservando gli altri componenti della squadra, si rese conto che doveva essere una scenetta consueta.
Sugawara tentava inutilmente di non sorridere troppo, Tanaka strepitava dando man forte all’amico, sotto i saltelli esaltati di Hinata, i rimproveri di Sawamura e la faccia sempre più rossa di Azumane. Osservando quel teatrino Maria si sentì stranamente rilassata.
Al suo fianco Hitoka batteva le mani entusiasta, mentre il professore con gli occhiali e il coach se la ridevano alla grande, sereni.
Era un’atmosfera piacevole e calda, che le comunicava una stupefacente sensazione di familiarità, come se avesse conosciuto quelle persone da sempre.
Era ridicolo, e assurdo.
Ma terribilmente accogliente.
 
Quella sera l’aria era stranamente calda, le accarezzava gentilmente i capelli scostandoglieli dalla fronte come una carezza leggera. Camminare per strada era piacevole.
Si sentì stranamente delusa quando raggiunse casa di Shimizu così in fretta, avrebbe voluto passeggiare ancora per un po’ sotto quella brezza primaverile che sapeva già di estate.
Aveva appena sollevato la mano per suonare il campanello, quando la porta di casa si aprì lentamente, e ne uscì la figura composta di Sugawara.
Indossava la divisa scolastica e stringeva la cartella tra le mani, doveva essersi cambiato di corsa dopo gli allenamenti per andare a sincerarsi delle condizioni fisiche di Shimizu.
Camminò verso il cancello con aria distratta, senza accorgersi immediatamente di Maria, ferma dall’altra parte, composta e con le mani intrecciate davanti al grembo.
«Buonasera Sugawara-san» Lo salutò, prendendolo di contropiede.
Sugawara sussultò e sollevò il viso, con gli occhi leggermente spalancati, ma l’espressione si addolcì immediatamente quando riconobbe la sua interlocutrice.
«Taniguchi-san, non sapevo saresti venuta anche tu» Le rispose con gentilezza, aprendo il cancello per lasciarla passare per prima «Se l’avessi saputo avremmo potuto fare la strada insieme una volta terminate le attività del club».
Maria fece spallucce ed entrò nel piccolo cortile con familiarità.
«Non importa Sugawara-san, sono stata trattenuta da Hitoka-chan per alcuni chiarimenti sui miei compiti all’interno del club. Avresti fatto tardi».
Si guardarono per un po’ negli occhi, imbarazzati, mentre la brezza serale aumentava.
«Beh, si è fatto tardi. Ci vediamo domani Taniguchi-san» La congedò Sugawara.
Maria annuì, fece un inchino di saluto e, aspettato che Sugawara si fosse allontanato di almeno qualche metro, si fiondò sulle scale suonando freneticamente il campanello.
Ad aprirle la porta fu proprio Shimizu, composta come sempre, la scrutava con fare severo, probabilmente per rimproverarla di aver suonato così freneticamente.
«Kiyoko-san, perché non sei venuta alle attività del club?».
Le domandò immediatamente, una volta entrata in casa, mentre sfilava le scarpe e lasciava la cartella nel piccolo ingresso.  Shimizu le rispose di spalle, mentre già si avviava verso la cucina, doveva essere sola in casa.
«Ero un po’ indisposta» Commentò distrattamente, poi si fermò di colpo «Maria-chan, non dirmi che ne hai approfittato per intrufolarti nuovamente nella palestra!».
Maria incrociò le braccia al petto, sollevò un sopracciglio scuro e le fece una pernacchia.
«Kiyoko-san, mi ritieni così stupida da venirti a spifferare tutto intenzionalmente?» Replicò piccata, mentre si metteva seduta attorno al piccolo tavolo «Invece, ho consegnato il modulo di iscrizione! Così adesso non potrai più rimproverarmi!» Disse soddisfatta.
Shimizu smise di trafficare in cucina, bloccandosi nell’atto di versare del succo di frutta in due bicchieri, si voltò compostamente e fissò Maria negli occhi, ancora tronfia e fiera di se.
«Modulo? Come hai fatto ad avere il modulo?» Le domandò, sospettosa.
Maria imprecò interiormente, avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa o quanto meno essere più accorta, la verità non avrebbe potuto dirla, altrimenti avrebbe dovuto ammettere di essersi intrufolata nei pressi della palestra nonostante i suoi divieti espliciti.
«Ho – ho incontrato Sawamura-san per caso e me l’ha consegnato» Buttò lì di colpo, suonando poco convincente alle sue stesse orecchie, Shimizu la fissò sollevando un sopracciglio. Maria resse il suo sguardo per un po’, poi lo distolse, imbronciata.
Ad ogni modo Shimizu sembrava intenzionata a non indagare oltre, perché si limitò a finire di riempire i bicchieri e portare il vassoio sul tavolino, dove si mise seduta.
Sorseggiarono in silenzio per un po’, poi Maria abbassò il bicchiere e tossicchiò.
«Oggi ho conosciuto i ragazzi … mi sono sembrati molto interessanti» Buttò lì, con aria indifferente, guardò Shimizu di sottecchi e incrociò le braccia al petto «Il capitano, ad esempio … Sawamura-san, giusto? Ha un bell’aspetto, sembra molto portato per il ruolo».
Commentò, tentando in tutti i modi di far risultare la sua voce carica di indifferenza.
Ma quando sollevò lo sguardo per verificare se Shimizu ci fosse cascata, ebbe la prova lampante di aver appena preso una bella cantonata.
Doveva immaginarlo.
«Maria-chan, in che guaio ti stai mettendo? Non avrai mica intenzione di-».
«S-sei totalmente fuori strada!» La bloccò immediatamente Maria, arrossendo un po’ troppo per qualcuno a cui non era stato detto esattamente quello che pensava.
Shimizu la guardò per un po’, Maria aveva come l’impressione che le sue intenzioni le si leggessero in faccia, il motivo per cui si era iscritta al club, l’interesse per Sawamura …
«Ascoltami Maria-chan, non voglio intromettermi nelle tue faccende. Ma fa attenzione, ti prego, Daichi è un bravo ragazzo ma … ha la testa altrove» Commentò Shimizu, scrutando il suo bicchiere mezzo vuoto con aria assente, come persa in qualche ricordo.
«In che senso?» Domandò precipitosamente Maria, rendendo così evidente il suo interesse per il capitano della Karasuno. Shimizu fece finta di non notarlo, lo sguardo fisso.
«Ho paura che tu possa rimanere delusa da questa situazione».
Quando Shimizu ebbe pronunciato quelle parole, nella stanza cadde un silenzio carico di pensieri, che le due ragazze non sciolsero fino a quando si salutarono pochi minuti più tardi.
Maria aveva come l’impressione di poter leggere l’amica come un libro aperto, la sua preoccupazione nei suoi confronti, e il pensiero che non avrebbe potuto reggerlo.
Un altro rifiuto, un altro addio, un altro no.
 
«Bisogna passare il panno a terra quando hanno finito di allenarsi e raccogliere tutte le palle sparse per la palestra! E poi lavare le casacche e…»
La voce di Hitoka si perse nel brusio del corridoio, Maria avrebbe voluto davvero prestarle più attenzione, ma aveva la testa completamente altrove.
Le sembrava quasi di aver lasciato il cervello a casa di Shimizu, perché non riusciva a togliersi dalla testa le parole che si erano scambiate la sera precedente.
«Tutto bene, Tani-chan?» Maria sussultò leggermente quando Hitoka le toccò un braccio, richiamando la sua attenzione; non si era ancora abituata a quel nomignolo, ma da quando Nishinoya l’aveva pronunciato quasi tutta la squadra aveva preso ad usarlo.
«Scusami Hitoka-chan, ero un po’ sovrappensiero» Commentò, sorridendo in direzione della più piccola per evitare che potesse anche solo sospettare qualcosa.
Yachi le aveva proposto la sera precedente di pranzare insieme, le aveva detto che sarebbe passata a prenderla una volta terminate le lezioni e aveva mantenuto la parola, sebbene Maria l’avesse completamente dimenticato.
Avevano appena raggiunto il distributore automatico per prendere da bere.
 Maria lanciò distrattamente uno sguardo al gruppo di ragazze radunate attorno alla finestra, intente a chiacchierare allegramente, e scrutò le bevande.
«Avrai una marea di problemi immagino».
Il commento di Yachi la distrasse, aveva appena sollevato la mano per inserire le monetine e ordinare un succo di mirtilli, il suo preferito, e la lasciò sospesa a mezz’aria, stupita.
Maria non replicò, guardando la più piccola sorpresa.
Hitoka non la fissava negli occhi, era un po’ rossa in faccia e giocherellava distrattamente con il pollice e l’indice di entrambe le mani.
«Ma volevo dirti che a me i tuoi occhi piacciono tantissimo Tani-chan!».
Maria avrebbe preferito che Hitoka quelle parole non le urlasse, certo, l’aveva fatto per farsi coraggio, ma alcune delle ragazze si erano girate a guardarle, incuriosite.
Mise su la sua solita faccia impassibile, quello scudo che usava ogni volta per difendersi da quell’argomento.
Non rispose, si limitò a mettere i soldi della macchinetta e premere il pulsante giusto.
Aspettava con trepidazione che la bevanda scendesse, bere le avrebbe dato una scusa per cambiare argomento o non rispondere affatto.
Tuttavia la bibita si bloccò a metà, lasciando Maria completamente spiazzata.
«Perché fa così?» Domandò ad alta voce, premendo nuovamente il pulsante.
«Oh no! Si è mangiata di nuovo i soldi!» Commentò Hitoka, guardando la scena con estremo trasporto «È da un po’ che fa così. Pensavo l’avessero riparata!».
Maria sbuffò spazientita e prese a colpire la macchinetta, ma con la sua esile forza non riusciva nemmeno a spostarla di un millimetro; guardò il succo con occhi ardenti di desiderio e menò un calcio alla macchinetta, rimproverandola come fosse una persona.
«Andiamo! Dammi il mio succo brutta-».
«Oh, Daichi-san!».
L’affermazione allegra di Hitoka la fece trasalire di colpo, smise di prendere a calci la macchinetta e si voltò di scatto, nascondendo le mani dietro la schiena.
Daichi avanzava verso di loro con il solito sorriso educato sulle labbra, un sorriso che lo rendeva un po’ criptico agli occhi di Maria, dietro quale si scorgeva poco.
«È successo qualcosa?» Domandò il capitano, guardando prima l’una poi l’altra «Ho visto Taniguchi prendere a calci la macchinetta».
Se non avesse avuto un autocontrollo così assoluto delle sue emozioni Maria sarebbe arrossita violentemente nel sentire quelle parole, ma ingoiò la vergogna e rimase impassibile. Avrebbe voluto replicare in tono solenne e senza esitazione, ma proprio quando fece per aprire la bocca, le ragazze che aveva notato precedentemente accanto alla macchinetta presero a chiamare Daichi a gran voce, con aria frivola e fastidiosa.
Sawamura si limitò a salutarle educatamente e rivolse l’attenzione a Maria.
Oh no, si ritrovò a pensare lei, notando l’occhiataccia che le sconosciute ignorate le avevano appena rivolto, altre persone che mi detesteranno!
«La macchinetta si è mangiata i soldi e Tani-chan non ha avuto il suo succo!».
Si precipitò a raccontare Hitoka, strappando Maria ai suoi lugubri pensieri.
Daichi aggrottò le sopracciglia e si avvicinò alla macchinetta, provò anche lui a premere nuovamente il pulsante, a scuoterla, ma la bevanda rimase ostinatamente bloccata.
A quel punto infilò la mano destra nella tasca dei pantaloni ed estrasse alcune monete.
«Non farlo, Sawamura-san!» Scattò immediatamente Maria quando si accorse delle intenzioni del ragazzo, e in un impeto di intraprendenza gli bloccò il braccio.
Daichi la fissò sorpreso per un momento, poi scosse il capo.
«Mi offrirai un gelato la prossima volta» Replicò deciso, Maria gli lasciò andare il braccio di colpo, essendosi resa conto solo in quel momento di aver continuato a stringerlo.
Quelle parole la fecero avvampare, e quella volta non riuscì a controllarsi.
«Contaci» Rispose, vergognosa.
Era un invito ad uscire? Una scusa? O semplice cortesia?
Daichi le sorrise incoraggiante, si chinò per raccogliere la bevanda e gliela porse.
Maria la prese con mani tremanti, stringendola poi tra le dita, provava una sensazione così strana alla bocca dello stomaco che non sapeva nemmeno spiegarsi di cosa si trattasse.
In quel momento nulla avrebbe potuto turbarla.
Di certo non poteva aspettarsi quello che le sarebbe successo nelle ore successive.
 
Stava andando in bagno.
Aveva deciso di passarci prima di raggiungere la palestra, voleva farsi trovare in anticipo per fare bella impressione il suo primo giorno ufficiale, così aveva accelerato il passo.
Quando era entrata in bagno non si era accorta di essere seguita.
Aveva la testa persa tra mille pensieri, così una volta uscita da uno dei cubicoli si era ritrovata la strada completamente sbarrata da tre ragazze.
Le stesse che poche ore prima avevano salutato calorosamente Daichi, al distributore.
Maria andò a sbattere contro la più alta, anche lei una ragazza del terzo anno probabilmente, capelli nerissimi e occhi pericolosamente affilati e truccati.
«Ma guarda un po’ quanta fretta ha di andarsene la troietta!».
Maria rabbrividì impercettibilmente quando sentì quella parola, le ricordò spiacevolmente i bulli che la tormentavano abitualmente e a quanto pareva, in quel preciso momento avrebbe dovuto aggiungere anche quelle sconosciute alla lista di persone che usavano quel termine per rivolgersi a lei.
«Ti è piaciuto farti offrire da bere dal capitano, vero?» Replicò la seconda, capelli tinti e due codini piuttosto infantili sulla testa, sembrava molto più aggressiva della spilungona.
Infatti, quando Maria non replicò nulla e si limitò a scostarle per passare, quella la afferrò per le spalle e la fece sbattere dolorosamente contro la porta del primo cubicolo.
«Ahia! Lasciami in pace!» Sbottò Maria senza fiato, la spalla dolorante.
«Secondo me ha bisogno di una bella lezione questa sporca meticcia».
A farsi avanti era stata la terza e ultima componente del gruppo, una ragazza un po’ bassina e mingherlina, ma dal viso particolarmente attraente e molto orientale.
Il prototipo esatto di come avrebbe dovuto essere una perfetta ragazza giapponese, e tutto quello che Maria non sarebbe mai stata in vita sua.
«Ho sentito dire che hai origini italiane, è vero?»
La incalzò, Maria strinse i denti e fece nuovamente per spostarsi, ma un nuovo spintone la fece sbattere ancora più violentemente di quanto non avesse fatto prima contro la porta, un fastidioso bruciore alla nuca le suggerì che le sarebbe uscito un bel bernoccolo.
«Resta ferma dove sei, se non vuoi che ti strappi tutti i capelli!» La minacciò la spilungona afferrandole con la mano una ciocca di capelli, che tirò senza pietà.
Maria si lasciò sfuggire un’imprecazione a voce alta, ma non si lamentò.
«Non vuoi rispondere perché ti vergogni, non è vero?» Continuò ad insistere quella che Maria aveva ormai etichettato come il capobranco «Pensi davvero che uno come Sawamura possa interessarsi a te? Ma non l’hai ancora capito? Tu gli fai pena!».
Maria non replicò e avrebbe volentieri evitato di farsi condizionare da quelle parole, ma era stata colpita nel suo punto debole, nei suoi dubbi più profondi, nelle sue paure.
Avevano toccato quel muro che aveva messo su da anni.
Quel muro che con Daichi aveva cominciato ad assottigliare.
«La sua è solo gentilezza» Incalzò quella con i codini.
«Non potrà mai vederti, perché alla fin fine, i tuoi occhi fanno ribrezzo anche a lui!».
Maria aveva sentito abbastanza per quel giorno.
Con un impeto dettato dalla rabbia irrefrenabile che le bolliva nel petto, spintonò la capobranco e fece per raggiungere risoluta la porta del bagno, ma si sentì afferrare per la collottola della camicia e un istante dopo, senza che nemmeno se ne accorgesse, si ritrovò rinchiusa a chiave all’interno del cubicolo contro cui l’avevano sbattuta.
«Vediamo quanto tempo ci mettono per trovarla» Commentò sprezzante la spilungona, Maria sentì la sua voce squillante accompagnata dalle risate fragorose delle tre.
Poi i rumori cessarono di colpo, e si ritrovò sola.
Decise fermamente di non farsi prendere dal panico, per un momento fu tentata di chiamare aiuto a gran voce, ma l’orgoglio glielo impedì categoricamente, urlare avrebbe significato chiedere aiuto a qualcuno, e lei non voleva assolutamente essere aiutata.
Era già capitata in situazioni simili, non era la prima volta che le succedeva.
Era davvero inutile farsi prendere dal panico, davvero …
Strizzò forte gli occhi lucidi di lacrime e scosse la testa, stringendo con forza il maglione nella mano destra all’altezza del petto, avrebbe voluto prendersi a schiaffi.
Quelle parole non contavano niente, e nemmeno quelle stupide paure che provava.
Sawamura era una brava persona, non lo conosceva bene, ma ne aveva quasi la certezza, non doveva credere a quelle parole orribili, non doveva farlo assolutamente.
Si lasciò cadere sul water e scosse la testa, respirando forte, proprio in quel momento sentì qualcuno aprire di fretta la porta del bagno e un passo felpato sulle mattonelle bianche.
Trasse un respiro profondo per trovare il coraggio e si schiarì la voce.
«C’è nessuno lì fuori?» Domandò con fermezza «Si è rotta la porta e non posso uscire dal bagno» Continuò impassibile, con una tale fermezza che riuscì quasi ad auto convincersi lei stessa che quella fosse la verità.
Nel bagno cadde il silenzio, alcuni secondi e poi …
«Tani-chan, ma sei tu?».
Maria provò un sollievo indescrivibile quando dall’altra parte del bagno le rispose la voce incredula e timorosa di Hitoka.
«Hitoka-chan, sono io! Sono bloccata nel primo cubicolo».
«Corro a cercare subito aiuto!».
Fu la replica immediata di Hitoka, che senza pensarci due volte uscì frettolosamente dal bagno e si fiondò nel corridoio, guardandosi intorno con aria disperata.
A quell’ora era difficile che qualcuno gironzolasse ancora nei paraggi.
Aveva appena cominciato ad andare in panico, quando vide Shimizu, Daichi e Asahi svoltare l’angolo proprio in quel momento, probabilmente diretti anche loro verso la palestra.
Parlavano tranquillamente, Shimizu con lo sguardo fisso davanti a se, Sawamura con espressione serena diceva qualcosa ad Asahi, intento a grattarsi la nuca con imbarazzo.
«Shimizu-san, Daichi-san, Asahi-san!» Li chiamò di getto, precipitandosi verso di loro, i tre smisero di parlare e la guardarono allarmati, le espressioni improvvisamente cambiate.
«Cosa c’è, Yachi-san?» Domandò Shimizu, un accenno di allarme nello sguardo.
Hitoka saltellò sul posto, poi gesticolando furiosamente indicò il bagno delle ragazze.
«Tani-chan!» Sbottò infine «È rimasta chiusa nel bagno!».
«Che cosa?!» Replicò Daichi di getto, guardando sgomento la porta del bagno.
Tuttavia, prima ancora che potesse davvero riflettere su come agire, vide Asahi lasciare il suo fianco e dirigersi con passo risoluto verso il bagno delle ragazze, del tutto incurante del fatto che se qualcuno l’avesse visto sarebbe finito nei guai.
«Asahi, aspetta!» Provò a fermarlo, ma troppo tardi.
L’amico era già entrato nell’ambiente e si guardava attorno, cercando il primo cubicolo.
Nel frattempo, anche Shimizu, Hitoka e Daichi, sebbene piuttosto reticente, erano appena arrivati.
«Taniguchi-san, sei qui?».
Maria trasalì quando sentì quella voce, se n’era stata seduta per quei brevi minuti sul water, che le erano sembrati un’eternità, ricolma d’ansia e d’angoscia.
Sentire la voce di Asahi, anch’essa pregna di preoccupazione, le fece provare un tale sollievo che gli occhi le si inumidirono inconsapevolmente.
Si alzò in piedi e appoggiò le mani sulla porta, in un impeto di sollievo.
«Sono qui, Azumane-san!».
«Stai tranquilla Taniguchi-san, ti tireremo fuori di lì!».
Quella era la voce di Sawamura, il cuore di Maria fece un balzo nel petto incontrollato, batteva talmente forte contro la cassa toracica che sarebbe potuto volare via da un momento all’altro come un piccolo passero eccitato.
«Si – si è rotta la porta!» Si affrettò a replicare, improvvisamente decisa a far sì che gli altri non capissero assolutamente che in quel bagno ci era stata chiusa da fuori.
«Shimizu, vai a chiamare qualche responsabile. La sala insegnanti non è lontana e -».
«No, ci penserò io».
La voce di Daichi, risoluta e pratica proprio come lo sarebbe stata quella di un capitano, venne prontamente interrotta dall’affermazione quieta di Asahi.
«Che cosa vuoi -».
«Taniguchi-san, se sei accanto alla porta fatti il più indietro possibile, va bene?».
Continuò imperterrito Asahi; Maria annuì come se lui fosse lì davanti a lei, e fece qualche passo all’indietro, arretrando fino al water su cui era stata seduta fino ad un istante prima.
Asahi fece un respiro profondo, e prima che Daichi potesse realizzare o anche solo tentare di fermarlo, si buttò con la spalla contro la porta.
Il gesto non ebbe immediatamente l’effetto desiderato, la porta rimase fermamente chiusa, mentre la sua spalla pulsò terribilmente dal dolore, tuttavia, Asahi non si lasciò scoraggiare.
«Asahi, aspetta -» Tentò nuovamente di fermarlo Daichi, ma lui riprese la rincorsa.
Quella volta ci mise un po’ troppa forza, l’uscio si sradicò dai cardini, Maria strillò dalla paura e cadde a sedere sul water, mentre Asahi le finiva con la faccia sulle gambe dopo aver perso l’equilibrio a causa dell’eccessiva spinta.
Cadde un momento di silenzio, in cui Daichi si schiaffò una mano sulla faccia, Maria guardò Asahi allibita, Hitoka si portò una mano sulla bocca rossa in faccia e Shimizu rimase impassibile come suo solito, anche se leggermente contrariata.
Fu Asahi a ritrovare per primo la parola, saltò in piedi come un grillo viola dall’imbarazzo e cominciò ad agitare le braccia chiedendo scusa a ripetizione, smettendo solamente quando Daichi lo afferrò per la collottola della camicia e lo tirò via dal cubicolo.
«Guarda un po’ che hai combinato!» Lo rimbrottò immediatamente.
Asahi sembrò rendersi conto solamente in quel momento di aver rotto la porta.
Oh cavolo!
Nel frattempo Shimizu aveva appena aiutato Maria ad uscire dal cubicolo senza farsi male.
Aveva il viso ancora un po’ arrossato dalle recenti emozioni, ma guardava la scena senza sapere bene come comportarsi, se arrabbiarsi con Asahi, scoppiargli a ridere in faccia oppure ringraziarlo per averci messo tanto impegno a tirarla fuori di lì.
«Tutto bene, Tani-chan?» Domandò immediatamente Hitoka, riportando un po’ l’attenzione su di lei, cosa che Maria avrebbe volentieri evitato «Cos’è successo?».
Alla domanda anche gli altri si fecero attenti, Daichi e Asahi smisero di discutere della porta.
«N-niente di che! Forse ho girato la chiave nel modo sbagliato e …».
La frase scemò lentamente, Maria fece spallucce imbarazzata e si scostò i capelli dagli occhi.
Daichi e Asahi guardarono nuovamente la porta e si scambiarono uno sguardo.
Era evidente che nessuna chiave si fosse spezzata all’interno della toppa.
«Sono stati di nuovo loro, vero? Ti hanno chiusa di nuovo in bagno».
L’affermazione di Shimizu fece raggelare Maria, si irrigidì sul posto e rivolse un’occhiata d’avvertimento alla sua migliore amica, che la scrutava severamente da dietro le lenti.
«Loro chi?» Intervenne immediatamente Daichi, questa volta nessun sorriso gentile e comprensivo gli increspava le labbra.
Per Maria fu insopportabile.
Si scansò velocemente, fulminò Shimizu con lo sguardo e corse fuori dal bagno.
«Tani-chan!» La chiamò Hitoka correndole dietro.
Shimizu esitò leggermente, poi fece un inchino di scuse e si affrettò a seguirle a sua volta.
Daichi e Asahi rimasero in silenzio nel bagno delle donne, a fissarsi senza davvero riuscire a capacitarsi di cosa fosse successo, con una porta rotta da sistemare.
«E adesso cosa facciamo?» Domandò Asahi grattandosi la nuca.
«È tutta colpa tua! Ti fa male la spalla? Ben ti sta!».
Lo rimbeccò immediatamente Daichi, rifilandogli un calcio.
 
«Per un po’ nessuno dovrebbe accorgersene …»
Il commento di Daichi, parecchi minuti dopo l’accaduto, fu accompagnato da un grosso sospiro di rassegnazione, al suo fianco, Asahi arrossì violentemente.
Avevano rimesso la porta sui cardini alla bell’e meglio, ma sarebbe solo stata questione di tempo prima che qualcuno si accorgesse che era stata effettivamente sradicata.
«M-mi dispiace …» Balbettò Asahi per l’ennesima volta.
Erano in ritardo cronico per gli allenamenti e Daichi sembrava di pessimo umore.
Avevano appena raggiunto il corridoio che li avrebbe condotti fuori dall’edificio scolastico, quando delle risatine divertite attirarono la loro attenzione.
«Secondo te l’hanno trovata?» Domandava una voce eccitata.
«Spero proprio di no!» Replicò un’altra, con fare derisorio.
«Pregherò i kami che se ne rimanga chiusa tutta la notte in quel gabinetto!»
Nel sentire quelle parole, Asahi e Daichi avanzarono insieme senza nemmeno guardarsi negli occhi, di comune accordo, svoltarono l’angolo e videro tre ragazze sedute sul davanzale di una finestra, ridacchiavano sonoramente e sembravano piuttosto fiere del loro operato.
«Perché avete fatto una cosa del genere?».
Alla domanda improvvisa di Asahi trasalirono e strillarono, scendendo dal davanzale.
Si raggrupparono insieme, una accanto all’altra, fissando Daichi e Asahi con occhi sgranati.
«Arisa! Quello è il tipo del terzo anno!» Mormorò una delle tre carica di terrore, aveva dei buffi codini in testa e i capelli evidentemente tinti.
Sarebbe stata una situazione piuttosto comica se Asahi non avesse avuto quell’espressione terribilmente seria sul viso, nel guardarlo Daichi rimase piuttosto sorpreso.
In effetti, non era da Asahi comportarsi in quel modo risoluto.
Nemmeno per una persona conosciuta da poco tempo.
Doveva aver trovato quella situazione piuttosto deplorevole.
«Che cosa avete intenzione di fare alla mia ragazza, eh?!».
Quella voce esplose dal fondo del corridoio, Asahi e Daichi distolsero lo sguardo dalle tre e si voltarono, giusto in tempo per vedere avanzare un gruppo piuttosto folto di ragazzi.
«Takumi!» Esclamò rincuorata quella che si chiamava Arisa.
Asahi aggrottò le sopracciglia quando sentì quel nome, ci mise solamente pochi secondi a riconoscere l’individuo che avanzava con fare beffardo verso di loro.
Lo stesso che gli aveva urlato contro la prima volta che aveva incontrato Maria.
E a giudicare dallo sguardo beffardo che quest’ ultimo gli rivolse, anche Asahi doveva essere appena stato riconosciuto.
«Assolutamente nulla» Intervenne pacatamente Daichi, con il solito fare diplomatico ma risoluto «Volevamo solamente chiederle di smetterla di chiudere la gente nei bagni».
Commentò, e afferrato Asahi per un braccio fece per voltare le spalle e andare via.
«Se ti riferisci a quella sporca troietta hafu, non vedo dove sia il problema».
Asahi e Daichi si bloccarono di colpo, girandosi lentamente sorpresi.
«Cosa inte-» Cominciò Daichi, ma venne immediatamente bloccato da Takumi.
«Fossi in voi mi concentrerei sulla palla, piuttosto che correre dietro sottane già scoperte da qualcun altro …» Asahi e Daichi ci misero qualche secondo per capire quelle parole, pronunciate con fare lascivo. Il primo aveva già mosso un passo verso quel Takumi, ma il secondo aveva alzato un braccio per fermarlo, risoluto e imperterrito.
«Lascia perdere Asahi, non ne vale la pena».
E aveva trascinato l’amico nella direzione opposta, mentre la voce di quel Takumi gli correva dietro carica di minacce.
«Non finisce qui!».

 
 
 
Salve a tutti 😊
Oggi è Effe_95 che vi scrive. Per puro miracolo, perché sono in montagna, e dovete ringraziare la pioggia per questo :’-)
Del capitolo 3 ne vado particolarmente fiera, ricordo che mi piacque molto scriverlo. Soprattutto la parte in cui Maria viene accolta nel Club (con relativa caduta XD)
Qui la situazione scolastica di Maria decisamente più chiara (anche agli occhi dei ragazzi che l’hanno accolta) e anche la sua cotta per Daichi :S anche se Shimizu l’ha messa in guardia su di lui…
E Asahi che cosa combina?
E ne vedrete delle belle da adesso in poi 😉
Coraggio, fatevi sentire ogni tanto. Non vediamo l’ora di sapere se questi capitoli incipit vi stanno stuzzicando a dovere 😊
Grazie e alla prossima.


Effe_95 & Flying_lotus95

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Capitolo 5
*** 4- "I miei ragazzi" ***


4 .“I miei ragazzi”.

 
„I was always ten feet behind you from the start
Didn't know you were gone 'til we were in the car“
 
 
Quando le avevano annunciato che quel giorno ci sarebbe stata un’amichevole, Maria aveva accolto la notizia come una splendida opportunità per mettersi a studiare solfeggio.
Si era messa seduta sugli spalti insieme ad Hitoka, aveva tirato fuori dalla borsa i libri di musica e aveva anche già messo le cuffiette nelle orecchie.
Era piuttosto sicura che non le sarebbe importato nulla di schiacciate e palleggi.
Era il momento perfetto per estraniarsi e fare quello che voleva, nessuno le avrebbe prestato molta attenzione, sarebbero stati sicuramente presi dalla partita.
Tuttavia, nel progettare quel piano perfetto Maria non aveva messo in conto la sua di attenzione, perché non era riuscita a staccare lo sguardo dal campo nemmeno un istante.
Dal secondo in cui l’amichevole era cominciata, Maria aveva totalmente perso l’interesse per i suoi libri di musica, li aveva abbandonati sul sedile vicino e non si era nemmeno resa conto di aver fatto cadere alcuni fogli da una cartellina particolarmente colorata.
I ragazzi un po’ chiassosi che stava lentamente cominciando a conoscere sembravano aver subito una metamorfosi sorprendente. Erano silenziosi, attenti e seri.
Seduta al suo fianco Hitoka ridacchiò sommessamente, Maria sussultò e si accorse solamente in quel momento che l’altra l’aveva osservata per tutto il tempo. Si ricompose velocemente e distolse rapidamente lo sguardo, tentando di calmare il cuore galoppante.
«Sono sorprendenti, vero?» Domandò Hitoka, riportando l’attenzione sul campo.
Maria seguì il suo sguardo, e spalancò la bocca senza riuscire a controllarsi.
Aveva appena assistito ad un’alzata spettacolare di Sugawara alla volta di Asahi, che aveva preso la rincorsa e schiacciato quella palla con una tale forza e grazia - combinazione bizzarra, da sfondare il muro avversario senza troppi complimenti.
«Direi di sì» si ritrovò così a mormorare alla volta di Hitoka, piuttosto emozionata.
Inizialmente Maria non aveva dato troppa importanza alla regola che prevedeva la presenza di una sola manager in panchina, le era sembrato perfetto per nascondersi e fare quello che voleva, in quel momento tuttavia provò un po’ di invidia nei confronti di Shimizu.
«Quando vanno in campo sembrano quasi trasformarsi … io penso solamente che acquisiscano tutti quanti più forza interiore» Continuò Hitoka sempre concentrata sul campo, Maria sussultò colpita «Azumane-san, ad esempio … è molto forte. È una persona su cui si può far affidamento. Ha le spalle larghe, lì dietro ti dà sicurezza!».
Maria sollevò un sopracciglio, non conosceva Asahi ancora molto bene, ma non era di certo quella l’impressione che gli aveva dato la prima volta che l’aveva incontrato.
Le era sembrato un ragazzo taciturno, timido e impacciato nonostante la sua aura da delinquente incallito che Maria aveva trovato piuttosto derisoria.
«Lui è l’asso della squadra» Replicò Hitoka entusiasta.
«L’asso? Davvero?» Domandò Maria di riflesso, guardando incredula nel punto dove se ne stava Asahi, con espressione concentrata al massimo e lo sguardo forte e determinato.
Maria sussultò, quello sguardo Asahi non ce l’aveva mai avuto fuori dal campo.
In quel momento le parole di Yachi cominciarono ad acquistare un senso logico per lei.
«Oh, sì! E guarda Nishinoya-san!» Esclamò tutta entusiasta la più piccola. Maria la accontentò e assistette ad un recupero spettacolare da parte del libero della Karasuno.
«Non trovi che in campo sia particolarmente silenzioso?».
Il cuore di Maria fece un’altra capriola carica di sorpresa e stupore: era vero.
Fuori dal campo Nishinoya faceva un chiasso tremendo, le era sembrato rumoroso per natura e indole; sul campo era così tranquillo, silenzioso e aggraziato da sembrare un altro.
«Uhm» Si limitò a commentare Maria, improvvisamente distratta da un movimento fulmineo di Hinata, che aveva rincorso la palla senza una logica evidente e l’aveva colpita con un’agilità davvero sorprendente, nonostante la sua altezza.
Maria si strinse nelle spalle e un brivido di eccitazione le attraversò la schiena.
In quel momento, vedendo Hinata spiccare quel salto mozzafiato, a Maria era sembrato di vedere proprio un piccolo corvo spiegare le ali e prendere il volo.
«Tani-chan! Ma dove stai andando?».
Le parole di Hitoka le risuonarono vuote nelle orecchie, senza nemmeno rendersene conto Maria si era alzata in piedi, aveva raggiunto le scale e le stava scendendo velocemente.
Era intenzionata ad assistere a quella meraviglia da bordo campo, e dopotutto era anche lei una manager della squadra, aveva tutto il diritto di osservare la scena da vicino.
Guardò con aria risoluta la panchina, aveva appena sceso l’ultimo gradino, camminando impettita alla volta di Shimizu, del coach Ukai e del professor Takeda, quando un urlo agghiacciante proveniente da un punto indefinito del campo la frenò di botto.
«Taniguchi-san, attenta!».
Maria ebbe giusto il tempo di girare lo sguardo, il suo campo visivo fu completamente invaso dall’immagine di una palla che sfrecciava a velocità esorbitante verso il suo viso.
Strillò per riflesso, e si portò le mani sugli occhi, aspettando un impatto che non avvenne.
Scostò lentamente le dita tremanti e sgranò gli occhi atterrita. Dove un momento prima se ne stava la palla, ancora impressa nella retina, in quel momento si trovavano le spalle di Daichi, con i muscoli tesi in avanti in quella posa tipica di chi aveva appena effettuato un perfetto bagher.
Maria impiegò qualche secondo di troppo per rendersi conto che l’aveva appena salvata.
Sul campo i giocatori avevano ripreso la partita come se non fosse successo nulla, a parte forse Kageyama, che la fissava ancora un po’ agghiacciato e pallido.
Doveva essere stato lui a lanciare quella palla micidiale che l’aveva quasi stecchita sul posto.
«T-Tani-chan!» Piagnucolò all’improvviso qualcuno alla sua destra, Maria si rese conto solo in quel momento di avere ancora le mani davanti al viso, le abbassò di colpo giusto in tempo perché Hitoka, quasi in lacrime, l’afferrasse per il braccio «Meno male! Per un momento ho pensato che ti si sarebbe staccata la testa dal collo!».
Nel sentire quelle parole Maria si lasciò sfuggire un singulto misto di ilarità e paura.
E poi ebbe come un capogiro, dato dallo spavento arrivato in scoppio ritardato, barcollò leggermente a sinistra e probabilmente sarebbe precipitata malamente sulla panchina se Shimizu non l’avesse afferrata in tempo per l’altro braccio.
Maria aveva sempre pensato che la stretta di Shimizu fosse forte e rassicurante, in quel momento ancora una volta ne ebbe una prova tangibile, quando l’amica la bloccò con fermezza, Maria sentì immediatamente di stare meglio.
Si rasserenò di colpo.
«Tutto bene, Shimizu-san, Taniguchi-san?» Intervenne il professor Takeda, accorso con fare allarmato alla volta delle ragazze. Maria non l’aveva ancora inquadrato benissimo, ma le aveva dato l’impressione di un uomo molto insicuro ma contemporaneamente gentile.
«Tutto bene, professore» Bofonchiò Maria, scrollandosi un po’ dalla stretta delle due colleghe, come a voler ostinatamente dimostrare a quell’uomo di non aver bisogno di aiuto.
Tuttavia, la stretta di Kiyoko quasi le spezzò il braccio.
«La riaccompagno sugli spalti» Si limitò a commentare, facendo un inchino a Takeda.
Si incamminarono lentamente sugli spalti, salendo i gradini a uno a uno.
Maria guardava Kiyoko di sottecchi, aspettando un rimbrotto da un momento all’altro per essere scesa senza il permesso di nessuno, tuttavia raggiunsero i posti a sedere che avevano occupato lei e Hitoka fino a pochi istanti prima, e ancora nessun rimprovero era giunto.
Maria avrebbe voluto prendersi a schiaffi, conosceva abbastanza bene Shimizu da sapere che la ramanzina sarebbe giunta più tardi, in separata sede e con rinnovato ardore.
Depressa dalla prospettiva, Maria si lasciò cadere sulla panchina e guardò tutto il resto della partita senza fiatare, né pensare minimamente di alzarsi o fare un singolo movimento.
Aveva come l’impressione che se l’avesse fatto, un fulmine l’avrebbe colpita sul posto, un fulmine evocato molto probabilmente dalla sua migliore amica.
Era così depressa e assorta nei propri pensieri, che non si accorse nemmeno del fatto che la partita fosse terminata, e che Kageyama la fissava evidentemente impacciato da un paio di metri di distanza; tutto sudato doveva aver fatto le scale di corsa per raggiungerla al termine della partita.
Maria lo fissò con le sopracciglia aggrottate, lui la osservò per un momento, poi cominciò a stropicciarsi la maglietta con fare nervoso, aveva un’espressione così spaventosa che per un momento Maria ebbe paura che prendesse ad urlarle contro per essersi precipitata in campo.
Non ci aveva mai parlato molto con Kageyama, ma le aveva fatto una certa soggezione.
Sembrava scorbutico, dispotico e sorrideva terribilmente. Ma c’era anche qualcosa in lui, qualcosa di affine tra loro, qualcosa che ancora non aveva visto con precisione.
«S-scusami» Balbettò, impacciato più che mai, «Non l’ho fatto apposta».
Prima che Maria potesse rispondere, un movimento alle spalle di Kageyama la fece ammutolire di colpo, Daichi aveva poggiato affettuosamente una mano sul capo del ragazzo e sorrideva bonario alla volta del primino imbarazzato più che mai.
«Sta’ tranquillo Kageyama, lei sta bene. Vero, Taniguchi-san?».
Maria rimase imbambolata per qualche secondo, ancora stordita dalla presenza di Daichi.
«S-sì, è tutto apposto. È stata colpa mia!» Replicò poi riprendendosi di botto, intrecciò le dita, fece un piccolo inchino e ne approfittò per darsi un pizzico sulla gamba per riprendersi.
Cominciava a detestare il modo in cui la lingua le si attorcigliava ogni volta che Sawamura le compariva davanti.
Kageyama sembrò arrossire ancora più vistosamente quando Daichi parlò, guardò ancora una volta Maria con una strana espressione, poi le fece un inchino rigido, che indirizzò anche a Daichi e se ne andò con passo affrettato.
Maria sembrò rendersi conto solamente in quel momento, mentre la presenza dell’altro diventava sempre più ingombrante ed evidente, che Hitoka-chan era scesa in campo e l’aveva lasciata sugli spalti da sola, probabilmente convinta che l’avrebbe seguita.
Maria era sola con Daichi, per la prima volta davvero faccia a faccia, e non poteva scappare.
«Spero non ti sia spaventata troppo prima» Commentò distrattamente Daichi, la sua voce rimbombò nelle orecchie di Maria come uno sparo di pistola improvviso.
Lui avanzò distrattamente verso di lei e si bloccò di colpo, senza che Maria capisse cosa stesse facendo, lo vide chinarsi a terra e raccogliere dei fogli.
I suoi fogli, quelli che aveva completamente dimenticato.
«Questi sono tuoi, Taniguchi?» Continuò lui imperterrito, tendendoglieli.
Maria allungò le mani, controllandone il tremore, e prese gli spartiti con fare fermo.
«Grazie Sawamura-san» Replicò decisa, con la voce ferma a contrasto del tumulto che aveva nel cuore. Daichi sembrò soppesarla per un momento, poi senza troppi complimenti si mise seduto nella sedia accanto alla sua, lì dove se ne stavano gli altri libri abbandonati.
Maria aspettò che lui glieli passasse, ma Daichi non lo fece.
«L’ultima volta sei scappata … tutto bene con quella faccenda?».
Maria si irrigidì involontariamente non appena sentì quelle parole, tra tutti gli argomenti non avrebbe mai pensato che Sawamura avesse il coraggio di tirare fuori proprio quello.
Che gli importasse così tanto?
«Ah, sì … perdonami. Non ti ho nemmeno ringraziato l’ultima volta!».
Si affrettò a commentare, facendogli un inchino impacciato, evidentemente vogliosa di cambiare argomento il prima possibile, e data l’espressione di Daichi, le sue intenzioni e il suo commento così fuori luogo, lui doveva anche averlo intuito.
«In realtà non dovresti ringraziare me ma …» E qui si interruppe un attimo, facendo un verso stranissimo che Maria trovò piuttosto curioso, quasi come una tosse irritata «… ma quello scemotto lì che sembra uno yakuza» E indicò con il pollice un punto preciso del campo, precisamente Asahi, intento a chiacchierare con Nishinoya.
Maria scoppiò a ridere senza riuscire a controllarsi, una risata cristallina e genuina, si portò le mani sulla bocca e guardò Asahi continuando a ridacchiare.
«Ti hanno dato di nuovo fastidio?».
«Nah, ormai ci sono abituat-».
Maria si accorse troppo tardi dell’errore, si raggelò totalmente.
Avrebbe voluto colpirsi in testa con qualcosa di pesante e contundente, così da perdere i sensi per un bel po’.
Come aveva potuto lasciarsi scappare una cosa del genere con tanta leggerezza?
Perché aveva abbassato la guardia?
«Perdonami Sawamura-san, ma non credo siano cose che ti riguardano».
La risposta le uscì un po’ più dura di quanto avrebbe voluto, era una difesa naturale che metteva su senza nemmeno accorgersene, e non avrebbe voluto abbassarla nemmeno se si fosse trattato di Daichi, per cui ormai, ne era sicura, nutriva un certo interesse.
Sawamura sembrò non prendersela, le rivolse un sorrisetto e fece spallucce.
«Sai Taniguchi, credo proprio che invece ormai mi riguardi eccome. Fai parte della squadra adesso, fai parte della famiglia, e io sono il capitano. Ho il dovere di proteggere i miei ragazzi».
Maria sentì un brivido percorrerle tutta la schiena.
Era un brivido che non aveva a che fare con il freddo o altro, era un brivido di commozione, una sensazione stranissima che non aveva mai provato prima.
Perché si sentiva tremendamente accettata?
Perché quelle due semplici parole, famiglia e proteggere, le avevano fatto così breccia nel cuore, con la stessa facilità di una freccia scagliata?
Sentì le lacrime pungerle gli occhi, ma scosse impercettibilmente la testa e sbatté le ciglia.
Nessuno l’aveva mai accettata con tanta sicurezza, ma davvero Daichi non provava solo pietà nei suoi confronti? Davvero poteva aprirsi di più con lui?
Lasciarlo entrare un po’, farlo passare attraverso quel muro che aveva tirato su con fatica.
Lasciarsi inondare dal calore che le trasmetteva con la sua sola presenza?
«Non voglio obbligarti a parlarcene Taniguchi, ma devi sapere che sei liberissima di farlo, quando vorrai. Avrai sempre qualcuno pronto ad ascoltarti».
Maria annuì impercettibilmente, chiuse gli occhi, si morse il labbro inferiore, strinse le braccia al petto, confortata, e annuì con risolutezza, commossa.
Cadde il silenzio, attutito solamente dagli schiamazzi degli altri ragazzi ancora in campo, le raccomandazioni del coach Ukai e le strillate di Hinata e Kageyama, sempre a litigare.
Daichi fece per alzarsi, Maria, sebbene non lo guardasse, percepì il movimento alla sua destra. Provò una strana delusione, non voleva che se ne andasse così in fretta, e miracolosamente qualcuno sembrò accontentarla, perché Daichi si fermò.
«Quasi dimenticavo!» Esclamò con enfasi «Questi libri sono tuoi vero?»
E le porse il plico che aveva tenuto tra le mani fino a quel momento.
Maria sussultò, aveva completamente dimenticato quel particolare.
Allungò le mani pronta a riprendersi i libri, ma quando tirò leggermente Daichi non mollò la presa.
«Ma questo è la Lucia di Lammermoor di Donizetti? Studi musica lirica?»
C’era così tanto interesse, sorpresa ed entusiasmo nella voce di Sawamura che Maria non seppe cosa replicare, aveva ancora le mani strette attorno ai libri, come Daichi, e gli occhi azzurri sgranati e ancora un po’ lucidi di commozione.
«Conosci quest’opera?» Domandò con una voce leggermente trasfigurata.
Daichi annuì con vigore e il viso di Maria si aprì ancora una volta in un sorriso sincero.
«Quand’ero piccolo mia sorella aveva l’abitudine di leggermi le opere dei testi lirici, le trovavo pazzesche! Sempre piene di avventure, di colpi di scena, belle dame …».
E le sfilò dalle mani lo spartito della Lucia, cominciandolo a sfogliare con un interesse palpabile, mentre comparava, mormorando a mezza voce, la versione italiana con la traduzione giapponese. Maria non avrebbe dovuto osservarlo in quel modo, lo sapeva.
Ma non poteva fare a meno di sentirsi bene, appagata ed emozionata.
«So che in città stanno dando delle repliche dell’opera!» Commentò all’improvviso il capitano, strappandola violentemente alle sue fantasie, Maria si affrettò a spostare lo sguardo «Mi informo sul prezzo dei biglietti, se ti va. O lo studi soltanto?».
«Stai scherzando?!» Esplose Maria, mostrando per la prima volta al ragazzo l’impetuosità del suo carattere, quella che tendeva a nascondere di più «È da tutta la vita che sto cercando di convincere Kiyoko-san a venire con me a teatro!».
Daichi provò una strana sensazione nel sentire quelle parole, si era avvicinato a Maria con il desiderio di sentirla confidare i suoi problemi, faceva parte della squadra, avrebbe davvero voluto aiutarla. Si era reso conto che le sue ferite dovevano essere più profonde di quanto sembrasse da fuori, ma aveva trovato degli sprazzi di verità in lei.
Entusiasmo, genuinità, infantilità e forse anche solitudine.
«Ti farò sapere Taniguchi. Adesso devo andare, abbiamo il meeting …».
Si alzò in piedi e le porse il libro con un sorriso, Maria lo prese, questa volta senza tremare.
«Puoi chiamarmi Maria, Sawamura-san … se ti fa piacere» Mormorò, timida.
«Allora tu chiamami Daichi, se ti va» Commentò lui avviandosi di schiena verso le scale, sembrava un gambero che camminava all’indietro.
«Allora a domani … Daichi-san» Disse lei agitando una mano per salutarlo.
«A domani, Maria».
E scese le scale, lasciandola lì con il cuore in fiamme, l’eco del suo nome nelle orecchie.
 
«Asahi-san! Ohi, Asahi-san!».
«Ahia!».
«Calmati Nishinoya, così gli farai male».
Asahi si trovò perfettamente d’accordo con le parole di Sugawara mentre si massaggiava dolcemente la spalla dolorante, nel punto in cui Nishinoya l’aveva colpito senza pietà.
Sapeva di non essere molto di compagnia quel giorno, ma proprio non poteva farne a meno.
Aveva impressa nella mente, come un dipinto ad olio particolarmente vivace, l’immagine di Daichi e Maria seduti su quegli spalti, a ridere e scherzare con naturalezza.
In cuor suo ancora non sapeva cosa pensare di quella scena.
Non capiva cosa gli stesse succedendo, aveva provato una sensazione così strana in quei giorni, qualcosa che prima di incontrare quella ragazza minuta dai grandi occhi azzurri e i lunghi capelli corvini non sapeva nemmeno esistesse.
Che cos’era di preciso?
Cos’era di preciso che l’aveva spinto a buttare giù la porta del bagno in quel modo?
Cos’era ad averlo spinto a provare un dolore leggermente velato nel vederla insieme a Daichi? Quel pensiero in particolare lo disturbava terribilmente.
Daichi era uno dei suoi migliori amici dopotutto, e Asahi sapeva che, se solo il capitano avesse fatto un po’ di ordine in quel casino di sentimenti che provava dentro di sé dalle medie, avrebbe anche potuto provare qualcosa di importante per Maria.
Maria e Daichi … suonava anche bene.
«Ehi, c’è Tani-chan» L’esclamazione chiassosa di Nishinoya, al suo fianco, lo strappò da quei pensieri strani che lo stavano facendo vergognare di sé stesso «Tani-chan!» Abbaiò Nishinoya cercando di attirare l’attenzione della ragazza.
Tuttavia, Maria sembrava completamente con la testa tra le nuvole, non dava segno di averli né visti né sentiti. Camminava con un libro stretto al petto, con una mano si tormentava una ciocca di capelli e aveva lo sguardo sognante, perso in qualche fantasticheria.
«Ehi, Tani-chaaan!» Continuò imperterrito Nishinoya, e fece per saltarle addosso.
Probabilmente quella mossa sarebbe servita a risvegliare Maria dalle sue elucubrazioni mentali, ma Sugawara afferrò Yū per la collottola della camicia prima che potesse farle male.
«Ciao Taniguchi-san» Si limitò a salutarla con educazione, sorridendole mentre Nishinoya si agitava come un matto nella sua stretta, tentando di attirare l’attenzione della ragazza.
Maria li guardò per un istante, non sembrava nemmeno sorpresa di trovarseli davanti, aveva ancora l’aria felice e lo sguardo un po’ folle, come persa in mille pensieri diversi.
Inevitabilmente lontana da lì.
Asahi provò un impulso stranissimo, l’impulso di voler entrare nella sua testa e scoprire cosa o chi la stesse rendendo così felice.
Anche se ne aveva una mezza idea.
«C-ciao ragazzi … Tutto bene?» Balbettò Maria tentando di tornare con i piedi per terra.
«Adesso che ti ho visto sto benissimo Tani-chan! Oggi sembri proprio di ottimo umore».
Affermò Nishinoya, con il colletto della camicia ancora stropicciato, nonostante Sugawara l’avesse lasciato andare, si teneva sempre dietro di lui nel caso avesse voluto riprovarci.
«Come sono andate le lezioni, oggi?» Le domandò Sugawara educato come sempre.
Maria fece spallucce e commentò qualcosa che Asahi non sentì.
La testa aveva cominciato a lavorare nuovamente frenetica.
Non avrebbe dovuto distrarsi nel bel mezzo di quella conversazione, perché Nishinoya gli rifilò una gomitata così potente nel fianco che non si piegò in due per decenza.
«Asahi-san, Tani-chan sta parlando con te, sai?».
Asahi sussultò, si massaggiò il fianco e le rivolse uno sguardo timoroso, rosso in faccia.
«Volevo ringraziarti per l’altra volta» Disse lei guardandolo dritto negli occhi, Asahi provò a reggere lo sguardo per un po’, ma quegli occhi azzurri erano troppo intensi.
Pesavano di cose mai dette.
«Spero la spalla non ti faccia troppo male» Insistette lei cercando ostinatamente il suo sguardo, per un momento sollevò anche una mano come per toccarlo nel punto dolorante, ma poi sembrò rendersi conto lei stessa di ciò che stava facendo e si fermò, sorpresa.
«Tranquilla Taniguchi-san, sto bene. Non mi fa male per niente!» Replicò Asahi con un sorriso gentile ma incerto, grattandosi la nuca imbarazzato.
«Ti diverte così tanto fare l’eroe con Tani-chan, Asahi-san?!» Commentò di botto Nishinoya dandogli una pacca troppo forte sulla spalla, il dolore fu tale che Asahi si lasciò scappare un lamento e si strinse l’arto al petto, imprecando in silenzio.
E addio all’idea di far credere a Maria che non mi fossi fatto nulla.
Maria sollevò un sopracciglio, aprì la bocca per esclamare qualcosa, ma non ebbe mai modo di farlo o di esprimersi, perché proprio in quel momento Sugawara sembrò notare qualcuno.
«Oh, Michimiya-san!» Esclamò sorpreso, salutando con calore una giovane che si era avvicinata. Aveva corti capelli castani, un viso rotondo e semplice, genuino, ed intensi occhi castani, allegri e decisamente vitali.
«Sugawara-san, Azumane-san, Nishinoya-kun cercavo proprio voi!».
Esclamò con vivacità, sembrava andare di fretta.
«Ho bisogno di vedere Sawamura, sapete dirmi dov’è?».
Mentre Sugawara si apprestava a rispondere, Asahi rivolse distrattamente uno sguardo a Maria e sussultò sorpreso. Guardava Yui con una tale intensità e sfida, con un’espressione talmente tramutata che non sembrava nemmeno più lei.
Era evidente che la gelosia le stesse corrodendo lo spirito.
Asahi sorrise tra sé e sé, aveva finalmente capito.
Maria era innamorata di Daichi, era così evidente dopotutto.
O almeno, per lui lo era stato.
«Asahi-san, Michimiya-san ti ha salutato».
Al commento paziente di Sugawara, che zittì Nishinoya prima che potesse rimproverarlo aspramente per essersi distratto ancora una volta, Asahi tentò di darsi un contegno.
Salutò educatamente Yui, poi la vide voltarsi verso Maria e farle un inchino, senza che l’altra lo ricambiasse, testarda, ma nessuno sembrò accorgersene.
Michimiya se ne andò pochi istanti dopo, ancora di fretta.
«Ti scortiamo in classe, Tani-chan!» Si propose immediatamente Nishinoya quando la campanella annunciò la ripresa delle lezioni.
Si incamminarono tutti e quattro per il corridoio, inizialmente in silenzio.
«Ehm chi – chi era quella ragazza? Non l’ho mai vista prima» Commentò distrattamente Maria, simulando un’indifferenza all’argomento che Asahi trovò piuttosto sorprendente.
Si lasciò scappare un sorrisetto, ma lo nascose immediatamente.
«È il capitano della squadra femminile di pallavolo» le rispose per dare sfogo alla sua curiosità, aveva sempre trovata strana l’ossessione delle donne di dover sapere tutto del “nemico”. Maria stava evidentemente tastando il terreno.
«Lei e Dai- Sawamura-san si conoscono da molto tempo?» Continuò l’interrogatorio.
«Da quando erano piccoli, sono cresciuti insieme» Replicò Sugawara picchiettandosi il mento come per riflettere, o rievocare qualche vecchio ricordo.
«Ma perché ti interessa così tanto saperlo, Tani-chan?» Si intromise inaspettatamente Nishinoya, sporgendosi in avanti per guardare Maria negli occhi.
Quando la vide arrossire violentemente, Asahi provò lo strano impulso di coprirla con il suo corpo, così si fece avanti e ostruì la vista di Nishinoya, riportando la sua attenzione su di sé.
«Siamo arrivati alla tua classe, Taniguchi-san» Commentò con sollievo.
Maria si fermò davanti all’uscio, li salutò calorosamente e sembrò del tutto intenzionata a dargli le spalle ed entrare nell’aula, così quando Asahi si sentì tirare per la manica, dopo essersi girato a sua volta, rimase piuttosto sorpreso.
Sugawara e Nishinoya continuavano ad allontanarsi, per nulla accortosi che lui era rimasto indietro. Asahi si girò sorpreso, e si rese conto che era proprio Maria a tenerlo lì.
Gli stringeva un lembo di maglietta tra le dita e lo tirava, guardandolo con aria furbetta.
«Non prenderti l’abitudine di farmi da bodyguard Azumane» Commentò piccata.
Asahi arrossì e balbettò qualcosa, poi si schiarì la voce.
Aveva notato l’assenza di onorifico accanto al suo cognome.
«Tu vedi di non cacciarti nuovamente nei guai, Taniguchi …».
Maria rimase sorpresa per un attimo, del tutto spiazzata dalla replica.
E lo stesso Asahi non sapeva da dove gli fosse venuta, aveva solo sentito la necessità di replicare in quel modo.
«Ci vediamo in palestra» Lo salutò lei, e dandogli una pacca affettuosa sulla spalla dolorante se ne andò con un sorriso soddisfatto sulle labbra che Asahi vide benissimo.
Si grattò la nuca imbarazzato, poi sorrise a sua volta e si incamminò nel corridoio deserto.
Mentre muoveva un passo dietro l’altro, solo con sé stesso, sentì il sorriso svanire lentamente dalle labbra e una strana angoscia afferrargli il cuore.
Non stava capendo assolutamente nulla di quel groviglio che gli stringeva lo stomaco.
I sentimenti di Maria erano così evidenti, così chiari, così luminosi ai suoi occhi …
Asahi fermò il passo, lasciò cadere le braccia nel vuoto e si girò nuovamente.
Il corridoio era completamente deserto, l’aula chiusa, Maria scomparsa.
Aveva come la sensazione che da entrambe le parti il corridoio si fosse allungato a dismisura, lasciando lui bloccato proprio al centro, senza sapere dove andare, confuso come non mai.
Asahi strinse i pugni delle mani, si morse il labbro, sussultò e tenne lo sguardo fisso puntato sulla porta ormai chiusa dell’aula dietro la quale Maria era sparita pochi istanti prima.
Un pensiero l’aveva fulminato.
Che stia cominciando a provare anche io qualcosa per lei?
 
„Oh, the glory of it all was lost on me
'Til I saw how hard it'd be to reach you
And I would always be light years,
light years away from you”
 
 
 
Buongiorno a tutti amatissimi 😊
Flying_lotus95 a rapporto! Spero non abbiate subito il trauma del rientro dalle vacanze in modo troppo brusco. In tal caso, questo capitolo esce giusto in tempo per addolcirvi la pillola :D
Non lo ricordavo così breve, devo dire, ma allo stesso tempo, molto funzionale: vediamo Maria interagire con i due capisaldi del Karasuno, ovvero Daichi ed Asahi: vediamo poi di conseguenza il suo modo di porsi, che sembra non tralasciare alcun dubbio a riguardo (o forse sì?).
Avrete sicuramente notato la presenza “anticipata” di Hitoka rispetto ai tempi del manga e dell’anime; come vi abbiamo già sottolineato, questa prima parte segue più o meno lo svolgimento della storia madre, con qualche modifica apportata 😉
Diciamo pure che a me ed effe_95 stuzzicava parecchio l’idea di creare un fronte al femminile piuttosto compatto, e che Maria avesse comunque dalla sua parte due figure femminili su cui potesse contare, senza farle scadere, ovviamente, in semplici controfigure.
Anzi, la piccola Hitoka vi stupirà :P e non dirò altro!
Altra cosa che vi segnalo, le frasi che aprono e chiudono il capitolo sono tratte dalla bellissima canzone dei The National, dal titolo Light Years.
Probabilmente la ritroverete anche nei prossimi due capitoli successivi 😉
Le frasi ad inizio capitolo richiamano lo stato d’animo di Maria, mentre quelle conclusive richiamano fortemente i pensieri di Asahi riguardo alla realizzazione “funesta” dei propri sentimenti.
E ora viene il bello: avete teorie? Qualche idea vi sta frullando in mente?
Come sempre, fatecelo sapere se lascerete due frasi sul capitolo.
Ultimissima cosa, la mia “commarella” (mi odierà quando lo leggerà :P) ha aperto da poco la sua pagina Instagram, dove pubblicizza le sue storie e l’aggiornamento dei capitoli. È anche un modo per condividere più facilmente impressioni, pareri, commenti etc.
La pagina è @effe9_5, seguitela se vi va 😊
Mi scuso per il pippone, vi lascio liberi 😊
Grazie come sempre a chi ci segue e a chi sta dando una chance alla storia.
Vi rinnovo il consueto appuntamento tra due sabati!
 
Flying_lotus95 & effe95

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Capitolo 6
*** 5- Gelati e calendari astrali ***


5.Gelati e calendari astrali.


„You were waiting outside for me in the sun…“
 

“Il dolce suono mi colpì di sua voce! Ah, quella voce! M’è qui nel cor discesa! Edgardo! … “
La fantasia di Maria vorticava freneticamente mentre quelle parole, quel suono armonioso si propagavano nelle quattro mura della sua piccola camera, entrandole nelle vene con gentilezza. Avrebbe dovuto terminare i compiti di letteratura giapponese, ma quando lo sguardo le era caduto sullo sparito di Lucia di Lammermoor, quando i ricordi erano tornati indietro al giorno precedente, alla palestra e a Daichi …
Maria non aveva saputo proprio resistere.
Aveva afferrato lo stereo, inserito il cd, si era messa seduta dritta sul letto e aveva chiuso gli occhi, persa ad ascoltare, persa a mescolarsi con Lucia, a sentirsi lei
E così quell’ “Edgardo” era diventato inevitabilmente “Daichi” …
Un colpo violento alla porta rischiò quasi di farla cadere dal letto.
Maria spalancò gli occhi di colpo e saltò in piedi come un grillo, correndo a spegnere lo stereo con la foga che s'addiceva esattamente a chi era stato beccato a fare altro invece del proprio dovere. Si era appena gettata malamente sulla sedia, andando a sbattere dolorosamente con il fianco destro sul bordo di legno della scrivania, quando la porta si aprì.
Era suo nonno Akio, si era affacciato sull’uscio con il suo solito cipiglio nervoso.
Maria non riuscì a nascondere l’accenno di sorpresa che le increspò il viso.
Solitamente era nonna Mariko che bussava alla sua porta, il nonno si limitava a chiamarla scorbuticamente e raramente andava a trovarla nella sua piccola cameretta stipata di libri, spartiti e dischi, quasi potesse temere di invadere il suo spazio personale.
«Ho bisogno di parlare con te, Maria-chan» Commentò burbero l’uomo.
Non aspettò nemmeno che Maria gli desse il permesso o il suo consenso, che si chiuse la porta dietro le spalle e si voltò per fronteggiarla, le braccia strette al petto.
«Posso sedermi?» Domandò l’uomo dopo un po’, non sembrava arrabbiato o altro, ma a causa della solita espressione corrucciata che Maria gli aveva sempre visto addosso, le risultava davvero difficile capire se fosse lì per rimproverarla, per litigare o altro.
Maria annuì distrattamente e vide il nonno occupare il posto, nella parte spiegazzata del letto, che solo fino a pochi istanti prima era stata lei ad occupare, in preda a sogni infantili di principesse, cavalieri e fratelli vendicativi.
«È successo qualcosa, nonno?».
La domanda le sorse quasi spontanea dalle labbra, chiuse automaticamente i quaderni di letteratura giapponese, sebbene non gli avesse dato più di un’occhiata, e si concentrò sull’uomo. Persino il dolore al fianco sembrava misteriosamente scomparso.
«Maria-chan!» Esordì l’uomo con sorprendente veemenza, e Maria si sentì in colpa ancor prima di sapere se avesse effettivamente combinato qualcosa.
«Da quant’è che non chiami Simona?» La domanda la colse di sorpresa, in contropiede.
Abbassò lo sguardo e provò un improvviso disinteresse per la conversazione.
Voleva dare le spalle al nonno e tornare a studiare, ma sarebbe stato un gesto estremo anche per una con il suo carattere, e poi, Maria rispettava immensamente suo nonno.
«Non ho avuto il tempo di farlo ultimamente … » Si giustificò inizialmente, poi smise di agitare le mani sulle gambe e guardò il nonno negli occhi «E poi, non mi va».
Quando Maria pronunciò quelle parole, lo fece aspettandosi di essere immediatamente rimproverata, cosa che non accadde.
Akio si limitò a sospirare e alzarsi in piedi, lamentandosi dei dolori alla schiena.
«Simona sta cercando di contattarti da una settimana, dovresti -»
«Non dovrei fare proprio un bel niente nonno!» Sbottò Maria interrompendo l’uomo, e se ne vergognò immediatamente, mordendosi furiosamente il labbro inferiore.
Era sempre stata brava a controllarsi, ma quando si trattava di sua madre trovava sempre troppo difficile ed estremamente inutile tutto quell’autocontrollo che si era imposta.
Quando aveva quegli scatti d’ira, impetuosi, si vergognava da morire di sé stessa.
Calò un silenzio carico di tensione, sembrava che il tempo stesso avesse trattenuto il respiro.
«Maria-chan» Esordì dopo un po’ il nonno, era pacato e tranquillo «Posso provare ad immaginare, anche solo un pochino, come ti senti. Ma quella donna è comunque tua madre. Che si trovi dall’altra parte del mondo, non può cambiare questa cosa».
Maria credeva che invece quel dettaglio valesse tutta la differenza.
In un momento, quasi come un brutto schiaffo tirato a tradimento, le passarono davanti agli occhi tutte le immagini delle vessazioni che aveva dovuto subire nella vita.
Le vessazioni per quegli occhi così simili a quelli di una donna che nemmeno conosceva bene, una donna che aveva visto sporadicamente, di cui a stento ricordava i tratti.
Quegli occhi che detestava con tutta sé stessa.
Ogni volta che si guardava allo specchio Maria aveva come l’impressione di avere a che fare con un’estranea, e allora avrebbe voluto infrangere il vetro, e urlare ad alta voce, e chiedere perché doveva soffrire in quel modo per gli occhi di una persona che nemmeno l’amava.
Ma non disse nulla di quel che pensava al nonno.
«Va bene, ho sbagliato. Perdonami».
Pronunciare quelle parole con freddezza, senza un minimo di calore nella voce, meccanicamente, le risultò semplice come ogni volta.
Akio la guardò per un secondo, indugiando in piedi davanti la porta, l’espressione di chi capiva molto più di quanto lasciasse intendere; tuttavia non indagò oltre.
«Quando avrai finito di parlare con tua madre vieni giù. Tua nonna ha preparato i mochi come piacciono a te» Commentò distrattamente, e poi lasciò la stanza.
Maria rimase seduta sulla sedia per qualche secondo, come ipnotizzata.
Sentiva ancora la rabbia, il disgusto e il dolore pulsarle sonoramente nelle tempie come qualcosa di vivo; non sopportava l’idea di dover parlare con Simona …
Sospirò pesantemente, trasse un respiro profondo e afferrò il cellulare, scrutando con aria impassibile lo sfondo bianco del display.
E con la mente ben lontana dallo stato idilliaco in cui si trovava solo pochi attimi prima, compose il numero di telefono di sua madre, ascoltando ogni squillo come fosse un peso sempre più grave e pesante del cuore.

 
„ …Laying down to soak it all in before we had to run…“
 
 
Quando arrivarono fuori la porta della palestra, il giorno seguente, faceva talmente caldo che Maria avrebbe voluto solamente tornarsene a casa, stendersi sul pavimento fresco con un bel ghiacciolo tra le mani e un ventilatore extralarge puntato sulla faccia.
Aveva già tolto la felpa, restando nell’anonima maglietta bianca a mezze maniche, e legato i lunghi capelli scuri in una perfetta coda di cavallo, ma continuava a sudare copiosamente.
Era in momenti come quelli che Maria rimpiangeva enormemente di aver lasciato il club di musica, ma quegli attimi di nevrosi sparivano immediatamente se pensava al Capitano.
Se fosse rimasta chiusa in quell’aula di musica sempre vuota, non avrebbe mai incontrato Daichi, non avrebbe mai provato quello che stava provando, e probabilmente non avrebbe mai nemmeno avuto la tentazione di aprirsi con quel ragazzo così enigmatico.
Ormai, oltre ogni buonsenso e ogni previsione, Maria aveva cominciato a provare qualcosa per lui. Ne era certa, e non poteva più mentire a sé stessa.
Aspettò pazientemente sotto il sole che Shimizu aprisse la porta della palestra.
Non erano le prime ad essere arrivate, ma siccome Maria trascinava controvoglia le borse con i ricambi, toccava a Kiyoko aprire le pesanti porte d’acciaio.
Quando entrarono in palestra il rumore delle scarpe da ginnastica che graffiavano il pavimento, già udibili dall’esterno, si amplificò ancora di più.
L’ambiente era illuminato intensamente dalla luce del sole, con le tende completamente tirate e le finestre spalancate per lasciar filtrare un rivolo d’aria, che ogni tanto passava per dare un po’ di tregua a quel caldo infernale di inizio Giugno.
«Ah! Shimizu-san, sei arrivata».
Avevano appena varcato la soglia che la voce di Sugawara le raggiunse con entusiasmo.
L’alzatore si trovava dall’altra parte del campo e palleggiava distrattamente contro una parete, era già sudato e stanco, con il fiatone per il duro riscaldamento.
Shimizu lo salutò calorosamente, fece cenno a Maria di cominciare ad incamminarsi verso le panchine, e raggiunse il proprio fidanzato reggendo tra le mani un energetico e un asciugamano pulito, recuperato da una pila di capi lavati e stirati il giorno precedente.
Maria li osservò distrattamente mentre raggiungeva le panchine e lasciava le pesanti borse ai piedi di una di quest’ultime, Shimizu stava parlando animatamente mentre asciugava con fare pratico, ma anche leggermente intimo e confidenziale, la fronte di Sugawara.
Maria scostò lo sguardo, stranamente infastidita, e guardò con aria corrucciata i legacci della rete, che ancora nessuno si era preso la briga di allacciare.
Era ancora nervosa per la telefonata della sera precedente con la madre, scacciò il pensiero con un gesto della mano come una mosca molesta e prese a tirare fortemente i legacci guardandosi intorno con aria curiosa.
L’unico motivo per cui aveva accettato di anticiparsi in palestra, era la speranza di incontrare Daichi e poter parlare con lui senza troppi sguardi indiscreti.
Tuttavia, mentre si guardava intorno con trasporto, sporgendo anche la testa, Maria si rese conto che di Daichi non vi era nemmeno l’ombra, al contrario di quanto aveva pensato.
«Ehi tu! Se cerchi il Capitano, non è ancora arrivato».
Quel commento beffardo, pronunciato alle sue spalle con estrema malizia, la fece sobbalzare e voltare di colpo, sorpresa. Per lo spavento Maria lasciò cadere malamente i legacci e la rete si afflosciò nuovamente a terra, sotto lo sguardo sempre più divertito di Tsukishima.
Tsukishima Kei, non esattamente l’elemento della squadra con cui Maria aveva legato di più.
Era da quella volta in corridoio, quando si erano scontrati, che si detestavano cordialmente.
In realtà non avevano mai parlato molto, se non per necessità, ma l’aria si faceva elettrica ogni volta che si trovavano anche solo vicini, quasi fossero nemici naturali.
Inoltre, in quel momento Maria era estremamente contrariata dall’affermazione del più piccolo, le dava immensamente fastidio che Tsukishima l’avesse colta sul fatto.
E l’ansia si mischiò ad un pizzico di panico, quando una piccola parte del suo cervello cominciò a domandarsi se in effetti quel biondino insolente non avesse capito più del necessario. In tal caso, Maria sarebbe stata una donna morta.
Tsukishima la osservava di sottecchi, anche lui già sudato e con la palla ben stretta tra le mani, Maria si limitò a fargli una smorfia molto infantile, con la lingua da fuori, e a vederlo allontanarsi verso Yamaguchi con l’aria tronfia di chi si era appena migliorato la giornata.
Afferrò violentemente i legacci caduti e strattonò la rete, sbuffando inviperita.
«Non prendertela così tanto, Taniguchi-san. Altrimenti gliela dai vinta».
Maria sussultò per l’ennesima volta quando un’altra voce la colse di sorpresa alle spalle.
Stranamente però, non la irritò né le provocò eccessivo spavento.
Al contrario, quando si girò e incrociò lo sguardo gentile e pacato di Asahi, Maria provò una stranissima sensazione di tranquillità e benessere, che stava sempre più cominciando ad associare a quel ragazzone dal fisico possente e il cuore buono.
Era una sensazione davvero strana da spiegare, ma se avesse proprio dovuto farlo, Maria l’avrebbe paragonata ad un giorno invernale, con la neve che cadeva fuori la finestra, stretta in una coperta calda con una bella tazza di cioccolata tra le mani, appagata e serena.
La voce di Asahi aveva quell’effetto su di lei.
Maria scrollò frettolosamente le spalle e terminò finalmente di tendere quei benedetti legacci della malora. Asahi raccolse la palla che era scivolata fino ai piedi di Maria e nel farlo la ragazza si accorse che aveva un graffio sul braccio destro.
«Sei ferito al braccio, Azumane-san!» Esclamò sorpresa.
Asahi sollevò le sopracciglia e osservò la zona interessata, era così concentrato nell’allenamento che non si era minimamente accorto della lunga linea rosacea che gli attraversava tutto l’avambraccio quasi fino al polso.
Ad ogni modo, siccome non vi erano tracce di sangue, si limitò a scrollare le spalle.
«Nulla di grave, non mi brucia nemmeno» Mormorò grattandosi la nuca.
Maria incrociò le braccia al petto, sollevò un sopracciglio e mise su di nuovo quell’espressione insieme esasperata e divertita che le veniva ogni volta che aveva a che fare con Asahi.
«Nulla di grave come per la spalla?!» lo provocò. Asahi abbozzò un sorriso tirato e prese a far roteare distrattamente la palla tra le grandi mani, Maria sospirò esasperata e poi, con una confidenza che le risultò naturale come respirare, afferrò Asahi per il polso del braccio graffiato e lo trascinò verso la panchina.
«Sta seduto qua e non muoverti Azumane! Chiaro?» Lo minacciò puntandogli un dito contro e poi si affrettò a prendere la piccola cassetta del pronto soccorso.
Quando tornò in palestra, Asahi era seduto esattamente dove l’aveva lasciato, con la palla bloccata tra i piedi, i capelli leggermente spettinati e l’espressione inebetita.
Maria ridacchiò e lo raggiunse, sedendosi senza troppi complimenti al suo fianco.
Gli afferrò nuovamente il braccio, sicura e confidente, e se lo appoggiò sulle gambe.
Se avesse prestato un po’ più di attenzione ad Asahi, e non al suo arto, l’avrebbe trovato rosso come un pomodoro, con il cuore che gli pompava rumorosamente nel petto.
Lui la lasciò fare per un po’ standosene in silenzio, mentre lei tamponava delicatamente il graffio, quasi come se stesse disinfettando una ferita mortale, piuttosto che una piccola escoriazione che non provocava nemmeno alcun tipo di dolore al proprietario.
«Tsukishima è un idiota» Sbottò lei all’improvviso sollevando lo sguardo.
Asahi trasalì, tirando leggermente il braccio, ma Maria lo tenne ben fermo.
Stava trafficando ancora con la borsa del pronto soccorso, alla ricerca del cicatrizzante.
Era talmente presa dal suo compito che non si era nemmeno resa conto di aver lasciato uscire liberamente quella parte polemica che tentava sempre di tenere sotto controllo.
«Lui è fatto così» Commentò Asahi osservandola «Non è cattivo» continuò distrattamente, troppo rapito dal profilo di Maria, con il nasino all’insù.
Scostò velocemente lo sguardo quando lei trovò finalmente il cicatrizzante e lo fissò.
«Le persone come lui non le sopporto» Disse, e poi cominciò a buttargli malamente la polverina bianca su tutto l’avambraccio, anche dove non era necessario.
Asahi la osservò per un po’, poi trasse un respiro profondo e spostò lo sguardo verso la porta della palestra, dove Nishinoya e Tanaka erano appena entrati facendo un chiasso tremendo.
«Daichi è un bravo ragazzo Taniguchi-san. Sono contento per te».
Probabilmente Asahi avrebbe potuto usare altre parole, o essere meno diretto, ma era piuttosto sicuro che nemmeno in quel caso Maria avrebbe potuto reagire meglio.
Trattenne il respiro con tale forza, che sembrò quasi che l’aria le fosse stata completamente risucchiata dai polmoni. Il cicatrizzante le cadde di mano, macchiando il pavimento.
«Che cosa stai insinuando Azumane-san?! Io-»
«A te piace Daichi, vero Taniguchi-san?»
La domanda di Asahi fu così ingenua e semplice che Maria non trovò nemmeno la forza di negare con tutte le proprie forze. Rimase con la mani strette in grembo, la bocca leggermente spalancata e il braccio di Asahi ancora appoggiato sulle gambe.
«Si vede davvero così tanto?» Mormorò dopo un po’, avvilita.
Scostò delicatamente il braccio del ragazzo, si chinò a raccogliere il cicatrizzante caduto e con la scusa di mettere a posto la borsa del pronto soccorso gli diede le spalle.
Si sentiva scoperta, con le spalle al muro, nuda.
«No, non si vede Taniguchi-san».
Maria chiuse la borsa di scatto e si girò, indignata con Asahi.
«Allora come mai tu -»
«Me ne sono accorto perché …»
Perché non posso fare a meno di osservarti sempre, avrebbe voluto dirle.
«Perché Daichi è il mio migliore amico, e certe cose i migliori amici le sentono».
Maria spalancò la bocca esterrefatta, fissando Asahi come se lo vedesse davvero per la prima volta. Le veniva da ridere e piangere allo stesso tempo, si era resa conto solo in quel momento che aveva detto per la prima volta ad alta voce qualcosa che si era ripromessa di portare nella tomba, se fosse stato necessario.
E ne aveva parlato proprio con la persona più improbabile del mondo.
Quel ragazzo un po’ impacciato, con le spalle curve per guardarla negli occhi, l’aria sempre spaventata e l’aspetto di un criminale in erba.
Maria si lasciò scappare una risatina di sorpresa e una stranissima sensazione di serenità, di liberazione, si impadronì del suo petto.
Fu così strano che le sembrò quasi di avere qualcuno di estraneo nel petto.
Asahi sorrise imbarazzato, poi spostò lo sguardo sul campo e trasse un respiro profondo.
«Ad ogni modo, Taniguchi-san» disse, contro ogni buonsenso, «Faccio il tifo per te».
Maria lo guardò incredula per l’ennesima volta, poi sorrise imbarazzata.
Avrebbe voluto continuare a parlare con Asahi per ore, avrebbe voluto chiedergli mille cose adesso che si sentiva così libera, avrebbe voluto tenerlo lì sulla panchina per sempre.
Avrebbe voluto, ma non aveva tenuto in conto Nishinoya e Tanaka.
Il fracasso fu così assordante che qualcuno strillò dallo spavento.
I due, in un impeto di entusiasmo, avevano rovesciato l’intero carrello con gli energetici, che si erano sparsi allegramente per tutto il pavimento.
«Accidenti!» Commentò Maria saltando in piedi, guardò per un momento Asahi, con un tale desiderio che quasi si stupì di sè stessa «Mi spiace Azumane-san, devo andare» Si ritrovò invece a rispondere, e corse verso il disastro.
Si era appena avvicinata, furente di rabbia perché sarebbe toccato a lei, Yachi e Kiyoko pulire tutto quel disastro, che la sua migliore amica le indicò la porta.
«Corri a prendere gli attrezzi per lavare a terra, Maria-chan».
Maria non se lo fece ripetere due volte, ignorò le scuse supplichevoli dei due combina guai e corse fuori dalla palestra, facendo la strada con un passo più affrettato del normale.
Aveva appena raggiunto il capanno, quando si fermò di colpo, pietrificata dalla scena che le si era appena parata davanti.
Proprio a pochi metri dalla palestra, sorridenti e confidenti, Daichi e Michimiya sembravano chiacchierare allegramente; Maria sentì il sangue affluirgli al cervello a quella vista.
Non riusciva a sopportare che si guardassero in quel modo, né che avessero tutta quella confidenza. Razionalmente sapeva di non poter competere con quella Yui, dopotutto conosceva Daichi da sempre, mentre lei non sapeva assolutamente nulla di lui.
Nonostante questo, trasse un respiro profondo, dimenticò completamente il compito che le era stato affidato e marciò a passo spedito verso i due ignari, stampandosi un sorriso amichevole piuttosto finto sulle labbra.
«Daichi-san!» Esclamò giuliva, marcando forzatamente il nome.
Sawamura e Michimiya si voltarono contemporaneamente, entrambi sorpresi.
Maria li affiancò velocemente e contro ogni buonsenso, guidata da un desiderio davvero strano di possesso e dalla voglia di marcare il territorio, diede un colpetto affettuoso sulla spalla del ragazzo, lasciandolo leggermente sorpreso.
«Maria …» Commentò lui ritrovando immediatamente il contegno, le sorrise con sincerità «Gli altri hanno già cominciato gli allenamenti?»
«Si, solo che Nishinoya-kun e Tanaka-kun hanno combinato un macello» si affrettò a commentare lei, rivolgendo un sorriso alquanto esagerato al Capitano, poi lanciò un’occhiata veloce a Michimiya, e notò l’espressione sorpresa sul suo viso.
Qualsiasi cosa stesse pensando in quel momento, Maria voleva mettere in chiaro le cose.
Daichi era suo, e quella tipa si trovava nel suo territorio.
«Cos’hanno fatto stavolta?» Domandò esasperato il ragazzo, schiaffandosi una mano sulla faccia.
«Niente che non si possa risolvere Daichi-san» Commentò Maria, poi lo picchiettò nuovamente sulla spalla, si aggrappò con fare impacciato, ma ben calcolato, alla manica della sua felpa nera e puntò apertamente lo sguardo su Michimiya.
Daichi seguì la traiettoria dei suoi occhi e sussultò appena.
«Oh, perdonatemi. Non vi ho nemmeno presentate. Maria, lei è Michimiya Yui. Michimiya, lei è Taniguchi Maria, è entrata a far parte da poco nel club».
Maria e Yui si squadrarono per un po’, la prima ostile, con un finto sorriso di cortesia sulle labbra, la seconda sinceramente incuriosita dalla situazione.
Non sembrava minimamente turbata dal modo amichevole in cui lei e Daichi interagivano.
«Piacere di conoscerti Taniguchi-san» Replicò educatamente Yui.
Maria le sorrise ancora una volta, zuccherina, e fece un leggero inchino.
«Il piacere è tutto mio Michimiya-san» commentò, e quando vide che la ragazza aveva aperto la bocca per rivolgersi nuovamente a Daichi, afferrò il ragazzo per entrambe le spalle e lo girò verso di sè, in modo che desse la schiena a Michimiya, sorpresa.
«Daichi-san, volevo chiederti una cosa» Buttò lì guardando il ragazzo negli occhi, gli lasciò andare le spalle, facendo un passetto indietro per non sembrare troppo sfacciata.
Daichi le rivolse un sorriso incoraggiante e, senza accorgersene, diede ulteriormente le spalle a Michimiya, che nel frattempo osservava la scena con educato interesse.
«Oggi, dopo gli allenamenti … insomma …» Balbettò, poi guardò Yui, raddrizzò le spalle e sorrise ancora una volta, mettendo in bella vista le fossette «Volevo sapere se potevo offrirti quel gelato che ti avevo promesso!» concluse con sicurezza.
Aveva nuovamente ritrovato quella maschera di compostezza e forza che le veniva magistralmente. Daichi la guardò sorpresa per un secondo e Maria ebbe paura di aver oltrepassato troppo la linea, di essersi sbilanciata troppo, poi lui sollevò una mano battendogliela affettuosamente sulla spalla e annuì.
«Volentieri».
E per la prima volta quel giorno il viso di Maria si aprì in un sorriso sincero.
Il cuore prese a batterle freneticamente nel petto, e qualcosa prese a muoversi convulsamente nel suo stomaco, qualcosa di piacevole e spiacevole contemporaneamente.
Guardò ancora una volta Michimiya con aria trionfante, ma il sorriso le morì un po’ sulle labbra quando si rese conto che la “rivale” sorrideva affabilmente, tranquilla.
«Adesso vado Sawamura» Commentò salutando il ragazzo «Buon allenamento».
Daichi la salutò con calore, e Maria fece lo stesso con aria distratta.
Possibile che Yui non avesse capito le sue evidenti intenzioni?
Perché la guardava in quel modo?
Era così tranquilla perché pensava che Maria non avrebbe mai potuto interessare Daichi?
Era così sicura di sé stessa, oppure quell’espressione voleva dire qualcos’altro?
«Andiamo a vedere cos’hanno combinato in palestra?».
La domanda di Daichi la colse di sorpresa, scosse freneticamente la testa e annuì.
Non doveva lasciarsi turbare da quelle cose.
 
 
Avevano finito di allenarsi tardi anche quel giorno.
Mentre risalivano lentamente la strada che li avrebbe portati nei pressi del negozio del coach Ukai, il cielo era infuocato di rosso, con il sole più grande che Maria avesse mai visto.
Non era calato ancora il buio, ma la brezza calda e il frinire dei grilli sembravano chiamare silenziosamente la notte affinché scendesse gentile a ricoprire tutto.
Maria non percepiva più il caldo soffocante del primo pomeriggio, trovava invece piuttosto piacevole quella brezza calda che le scombinava delicatamente la frangetta sulla fronte.
Camminare al fianco di Daichi, in silenzio, era una sensazione stranissima.
A Maria sembrava quasi di essere avvolta da una coperta pesante, si sentiva rinfrancata, vittoriosa ed estremamente tranquilla, come protetta.
Daichi guardava la strada con aria serena, stringendo con la mano destra la tracolla della cartella, ignaro del fatto che appena ne avesse l’occasione, Maria lo osservava di sottecchi.
«Cosa stai pensando, Daichi-san?» Domandò dopo un po’, guardandosi le scarpe.
Aveva dovuto farsi forza per fargli quella domanda, avevano ancora troppa poca confidenza, sebbene il comportamento che lei aveva intrattenuto con lui quel pomeriggio andasse ben oltre, e non sapeva se potesse davvero permettersela senza sembrare invadente.
«Stavo pensando che ancora non l’abbiamo fatto» Commentò invece Daichi.
Maria sobbalzò e lo guardò scandalizzata, ma il ragazzo sembrava sereno come non mai.
«F-fatto cosa?!» Esclamò con la voce leggermente acuta, tormentando spasmodicamente la tracolla della sua povera borsa.
«Mangiare dei nikuman con tutta la squadra» commentò il ragazzo.
Avevano appena raggiunto il negozio del coach e Maria non se n’era nemmeno accorta.
Seguì distrattamente Daichi nel piccolo negozio confusionario e gli fissò ostinatamente la nuca, senza sapere se sentirsi sollevata, vergognarsi di sé stessa o dare una testata nel muro.
«Nikuman?» Chiese stranita, Daichi annuì e si avvicinò al bancone.
«Si, qualche volta offro i nikuman a tutti quando facciamo la strada insieme per tornare a casa. Stavo pensando che con te non è ancora successo» raccontò distrattamente. «Due ghiaccioli per favore» domandò poi alla volta della signora, la madre del coach Ukai probabilmente, pronta a servirli dietro il bancone.
Quel commento servì a farla riscuotere dai suoi pensieri, si affrettò a chiedere un ghiacciolo ai frutti di bosco, osservando attentamente quello al gusto di melone scelto da Daichi, informazione che archiviò internamente, e pagò i due gelati.
Stavano per lasciare il negozio, quando lo sguardo di Maria ricadde su uno strano poster affisso accanto alla porta d’uscita del negozio.
Si fermò incuriosita, mordendo distrattamente il ghiacciolo, e chinò il capo per osservare.
«È un calendario astrale» Commentò Daichi chinandosi a sua volta.
Le loro spalle si sfiorarono casualmente e il cuore di Maria perse un battito, si rese conto per la prima volta che Daichi aveva un odore buonissimo, ed era caldo.
«Qual è il tuo segno, Maria?»
«Bilancia. Sono nata il 9 Ottobre» mormorò lei, per poi schiarirsi la voce impercettibilmente.
Daichi consultò velocemente il calendario astrale, poi sollevò l’indice e indicò una serie di frasi che Maria non si prese nemmeno la briga di leggere, ancora stordita per l’inaspettata vicinanza. Fu solamente quando si rese conto che il ghiacciolo le si stava sciogliendo in mano che smise di fantasticare e scosse la testa, prestando attenzione al ragazzo.
«Io sono Capricorno invece» disse, indicando la data del 31 Dicembre.
Maria trattenne il fiato, quello doveva essere il giorno del suo compleanno.
«Davvero?» domandò incuriosita, Daichi annuì e le sorrise.
Doveva assolutamente controllare in che tipo di rapporto si trovavano i due segni.
Tuttavia non fece in tempo a guardare, che Daichi si tirò in piedi, raddrizzando la schiena.
Aveva già finito il suo ghiacciolo e giocherellava distrattamente con la stecca, guardando fuori la porta; Maria sentì il cuore sprofondarle un po’ nel petto.
Era già ora di andare? Dovevano già separarsi?
Perché Daichi aveva tutta quella fretta?
Dandosi un po’ di contegno, speranzosa che non le si leggesse in faccia la delusione, raddrizzò a sua volta la schiena, infilò in bocca l’ultimo pezzo di ghiacciolo e lo seguì.
Quando uscirono fuori la brezza calda si era leggermente rinfrescata, e il cielo era passato dall’accecante tonalità rossastra ad una più mite tonalità violacea.
«Ah, quasi dimenticavo» Esclamò all’improvviso il ragazzo, fermandosi di colpo proprio fuori la porta del negozio «Ho controllato gli orari dello spettacolo della Lucia di Lammermoor come promesso. C’è n’è uno domani in mattinata, ti piacerebbe andarci?».
Maria sentì il cuore cominciare a pompare freneticamente nel suo petto.
Aveva sentito bene?
Sawamura Daichi l’aveva appena invitata ad un appuntamento?
«Si, certo che si!» Esclamò fuori di sè dalla gioia, tentando tuttavia di contenere il suo entusiasmo sfrenato dietro un sorriso eccessivamente radioso.
Fece per aprire la bocca e replicare qualcos’altro quando uno schiamazzo di voci festanti, incredibilmente familiari, giunse alle loro orecchie.
Entrambi voltarono lo sguardo per veder risalire, facendo un chiasso della malora, gli altri componenti della squadra, a loro volta intenti a tornarsene a casa.
«Daichi-san, Tani-chan!» esclamò immediatamente Nishinoya quando li vide.
Maria sentì le guance infiammarsi involontariamente allo sguardo indagatore di Shimizu, ma ignorò la cosa cercando di farsi il più piccola possibile.
«Ragazzi, siete capitati al momento giusto» commentò Daichi, facendo sollevare nuovamente lo sguardo a Maria, improvvisamente interessata «Avevo appena proposto a Maria di andare all’opera domani mattina. Avevo pensato che potessimo andarci tutti insieme, che ne dite?».
Maria sentì il terreno scivolarle da sotto i piedi.
Strinse i pugni e lasciò la sua espressione impassibile, addirittura entusiasta all’idea.
Ma dentro sentì uno tsunami di emozioni investirle il cuore.
Daichi non aveva mai avuto intenzione di invitarla ad un appuntamento, giusto?
«Si, andiamo tutti all’opera!» Esclamò allegramente Nishinoya.
«Sono d’accordo! Andiamoci tutti insieme!» Gli diede man forte Tanaka.
Per poi cominciare entrambi a domandarsi a vicenda che cosa fosse l’opera.
Maria provò un grande moto di stizza, avrebbe voluto schiaffarsi una mano in faccia, ma non lo fece. Ritrovando un entusiasmo che credeva di aver perduto per la delusione, pensò che dopotutto fosse comunque una buona occasione per conoscere meglio Daichi.
Doveva solamente trovare un modo per tenere buoni Tanaka e Nishinoya.
«Veniamo anche io e Sugawara-kun» informò Shimizu con voce ferma.
Maria guardò la sua migliore amica con un sopracciglio sollevato e in quel momento lo sguardo le ricadde su Asahi, che se n’era stato lì per tutto il tempo in silenzio.
«Anche Azumane-san vuole venire!» Intervenne prontamente.
Asahi la guardò con gli occhi sgranati, grattandosi la nuca, imbarazzato.
«Ma veramente io -» Cominciò a balbettare.
«Vero?!» Lo incalzò Maria, e lanciò un’occhiata piuttosto evidente alla volta di Daichi.
Asahi sembrò metterci un po’ di tempo per capire, ma poi arrossì.
«C-certo» si ritrovò a balbettare, scostando frettolosamente lo sguardo.
Maria si sentì immediatamente tranquilla e appagata. Poteva ancora approfittarne, nonostante la presenza di persone indesiderate al suo mancato appuntamento.
«V-verrei anche – anche io» Si intromise Kageyama, con lo sguardo abbassato, il viso rosso e un’espressione spaventosa sulla faccia.
Hinata colse al balzo l’occasione per rimbeccare il compagno e rischiò di beccarsi una gomitata piuttosto violenta nel fianco, scansata con un’agilità del tutto sorprendente.
«A me l’opera non interessa. A presto» Commentò Tsukishima, e con un saluto apatico e annoiato salutò tutti e se ne andò senza aggiungere altro.
«Antipatico di uno Tsukishima» Mugugnò Hinata tra i denti.
«Siamo d’accordo, allora?» Domandò Daichi con un certo entusiasmo.
Era un tipo di entusiasmo che Maria non condivideva in quel preciso momento, ma non si sarebbe arresa facilmente.
In un modo o nell’altro, la giornata di domani sarebbe risultata piuttosto interessante.
 
 
„ …I was always ten feet behind you from the start.“
(The National – Light Years)
 
 
Salve a tutti/e :)
Per questo capitolo cinque passo io - la scrittrice che ci prova ma non è capace - Effe_95.
Non ricordavo fosse tanto corto, lo confesso, ma non temete, arriveranno più avanti i capitoli talmente lunghi che dovrete fare una pausa, vedrete 😌
Comunque, credo che - anche se corto - sia un capitolo pieno di potenziale.
Fa da passaggio al prossimo, sicuramente (spoiler: sarà molto divertente) ma vengono fuori tante cose su Maria, questa ragazza misteriosa e molto testarda: il suo rapporto con la madre comincia ad intravedersi meglio, la sua cotta stratosferica per Daichi che comincia ad essere pericolosa ... la sua gelosia per Yui. E il povero Asahi, che è diventato inconsapevolmente complice di questa faccenda ... non potete pensare che tutto questo non avrà delle conseguenze ... 😈 ma per la trama dovete scrivere a Flying_lotus95, io non faccio spoiler a riguardo 🤞
 
Detto questo, passate a dirci due paroline se vi va, che questo silenzio stampa ci preoccupa. E grazie tante a chi legge la storia 😃 Inoltre, faccio pubblicità alla mia compare dicendovi che sta lavorando a qualcosa di interessante per il Writober di Fanwriter.it, datele tanto affetto quando sarà il momento.
 
Alla prossima!
Effe_95 & Flying_lotus95

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Capitolo 7
*** 6- Edgardo ed Enrico ***


6. Edgardo ed Enrico.


Asahi si sentiva in evidente imbarazzo con quella camicia addosso.
Continuava a passarsi il dito attorno al colletto ad intervalli irregolari, si sbottonava all’altezza della gola, per poi vergognarsi e riabbottonare nuovamente la camicia.
In realtà, non aveva la minima idea di come ci si vestisse all’opera.
Quando sua madre l’aveva fermato sull’uscio urlandogli dietro come una forsennata, Asahi aveva cominciato a temere che quella giornata si sarebbe rivelata più ardua del previsto.
Si era cambiato quattro volte sotto la vigile sorveglianza della madre, e aveva legato i capelli con una tale meticolosità da fare invidia al miglior parrucchiere del Giappone.
Tuttavia, quando aveva visto arrivare Daichi, Maria, Suga e Shimizu, Asahi aveva cominciato a pensare che dopotutto nemmeno le urla di sua madre e il suo continuo affannarsi fossero serviti a qualcosa, perché si sentiva fuori posto come non mai.
Daichi e Suga erano talmente eleganti e ben vestiti da metterlo in imbarazzo.
Tanto per cominciare non indossavano il jeans, avevano fatto a meno delle scarpe da ginnastica e le loro camicie, bianche, non sembravano uscite da una lotta recente.
Daichi inoltre aveva indossato anche una giacca in nero.
Il colpo più duro però era stato trovarsi davanti Maria, bella come non mai.
I lunghi capelli neri le cadevano con semplicità sulle spalle accarezzate dall’elegante cardigan bianco, aveva raccolto la frangetta in un elaborato cocco piuttosto vaporoso.
Indossava un semplice vestitino azzurro, stretto in vita da una cintura di camoscio dalle fantasie elaborate, accompagnato da un paio di ballerine bianche di velluto.
Le maniche a tre quarti del cardigan lasciavano scoperte le braccia, scintillanti di bracciali.
Nel breve attimo in cui Asahi l’aveva guardata, distogliendo immediatamente lo sguardo per non arrossire, si era accorto che aveva truccato gli occhi.
Non erano appariscenti o altro, ma emanavano una tale luce da accecare.
La camicia attorno al collo era diventata ancora più stretta mentre se ne stavano tutti e quattro fuori la biglietteria, ad aspettare pazientemente che Tanaka, Nishinoya, Kageyama ed Hinata si aggiungessero al gruppo; tutti e quattro palesemente in ritardo.
Asahi si grattò la nuca e cercò di ignorare la spiacevole sensazione che gli stringeva lo stomaco. Aveva come l’impressione di essere un intruso tra due coppiette.
Era una sensazione stupida, lo sapeva, dopotutto Shimizu e Sugawara non stavano facendo nulla di sconveniente, e Maria e Daichi si limitavano semplicemente a parlare con entusiasmo di cose che lui non poteva capire, eppure non poteva non sentirsi in quel modo.
Il colletto della camicia era decisamente troppo stretto per lui.
Fu davvero con sollievo che Asahi accolse, per la prima o unica volta nella vita, le grida spensierate e fuori luogo di Nishinoya e Tanaka.
I due avanzavano allegramente tra la folla di persone ben vestite ed eleganti, sfoggiando con estrema nonchalance delle felpe sgargianti e colorate, jeans malmessi, capelli osceni e scarpe vistosamente fuori luogo con i lacci allegramente sciolti.
Dietro di loro, intenti in un fitto battibecco piuttosto rumoroso, Hinata e Kageyama si urlavano a vicenda improperi e minacce di morte piuttosto violente.
Asahi avrebbe voluto schiaffarsi una mano in faccia seduta stante.
«Ehi Asahi-san!» Esplose Nishinoya colpendolo in pieno petto non appena si fu avvicinato al gruppetto «Come sei strano con questa camicia addosso!» Commentò a voce piuttosto alta, Asahi arrossì violentemente e si grattò la nuca.
Nishinoya sembrava anche fin troppo compiaciuto per una persona che era vestita completamente fuori luogo.
«Tani-chan! Kiyoko-san!» Strepitarono contemporaneamente lui e Tanaka, precipitandosi alla volta delle due povere ragazze, Asahi fece giusto in tempo ad allungare le mani e bloccarli entrambi per il cappuccio della felpa.
Almeno stava adempiendo adeguatamente al suo compito di guardia.
Maria e Daichi avrebbero passato una bella giornata in santa pace.
«Ci siamo tutti? Ho già preso i biglietti» Annunciò Daichi mostrando una busta bianca con la mano destra, Hinata, Tanaka e Nishinoya strepitarono per un po’, entusiasti.
Sebbene Asahi avesse come l’impressione che nemmeno sapessero cosa dovevano vedere.
Avevano appena varcato la soglia della grande hall lussuosa quando accadde.
«Oh santo cielo! Caro, guarda lì, una banda di teppisti!».
Il commento poco felice, pronunciato ad alta voce, proveniva da una signora tutta in ghingheri non troppo distante da loro, accompagnata dal marito corpulento.
«Quello con il codino deve essere il capo!» Mormorò l’uomo fissando Asahi.
Il ragazzo avvampò dalla vergogna e si grattò la nuca, desiderando ardentemente di sparire.
Inciampò nel tappeto per la fretta di seguire Daichi, Maria, Suga e Shimizu, e andò a sbattere contro una povera ragazza, che strillò spaventata a morte.
Si era distratto solamente un momento per chiedere scusa ripetutamente alla malcapitata, che vide Nishinoya indicare con il dito teso la donna inghirlandata.
«Ehi nonna! A chi hai dato del teppista eh? » strepitò con fare indignato, puntando la vecchia signora, facendo sì che con quel comportamento sembrasse esattamente un teppista scapestrato con il ciuffo tinto.
«Già, chi sarebbe il teppista uhm? Le vuoi prendere?» Gli diede man forte Tanaka.
«Si, le vuoi prendere?» Gli fece eco Hinata, nascosto dietro di lui.
Oh mio Dio!
Asahi sarebbe voluto sprofondare nello strato più profondo della terra.
Vide il marito della signora gonfiare il petto indignato, e approfittando del fatto che Daichi non si fosse accorto di nulla, troppo impegnato a passare i biglietti al giovane che li avrebbe accompagnati in sala, nascose Nishinoya e Tanaka sotto le sue braccia e li trascinò via.
«Hinata boke!» Strillò dietro di lui Kageyama.
«Ahia, Kageyama maledetto!» Strepitò di rimando Hinata.
Asahi stava cominciando a sudare freddo, avevano troppi sguardi addosso, così si sentì decisamente rincuorato quando Daichi si voltò di colpo, l’espressione raggelante.
Nishinoya e Tanaka si fecero piccoli sotto le sue braccia.
«Ma cosa credete, che siamo in palestra? Banda di deficienti!».
Li aggredì il capitano con la sua faccia spaventosa, Asahi si gelò sul posto, pensando che dopotutto l’intervento di Daichi non avesse fatto altro che peggiorare la situazione, perché se prima a guardarli erano solo poche persone, adesso lo faceva tutta la sala.
Nel frattempo Kageyama e Hinata cominciavano a tirarsi gomitate, ignorando Daichi.
Asahi azzardò un’occhiata alla volta di Maria, credendola in collera con lui, ma sia lei che Sugawara riuscivano a stento a trattenere le risate, mentre Shimizu guardava la scena con le guance leggermente arrossate, tentando inutilmente di restare impassibile.
Fu solamente per miracolo, o forse grazie all’intervento divino di un povero accompagnatore, che pochi minuti dopo si ritrovarono tutti seduti sul loro palchetto ad opera iniziata.
L’ambiente era scuro, illuminato solo sporadicamente dalle luci che riflettevano dal palco, Asahi avrebbe voluto prestare attenzione a quello che succedeva in scena, ma non poteva.
Non era solo Nishinoya, che dormiva profondamente russando sonoramente al suo fianco, o Tanaka, che grugniva dall’altro lato, né Kageyama, che sporgeva in continuazione il collo davanti a sé, dove erano seduti Maria e Daichi, come se non vedesse bene.
Era tutta colpa del suo cuore, che continuava a fare male e non voleva saperne di smetterla.
E poi gli occhi, quei maledetti occhi che non la smettevano di posarsi sulle loro teste.
Asahi sospirò, appoggiò la guancia sul pugno chiuso e cercò in tutti i modi di non badare all’umidità sul braccio destro, nel punto in cui Nishinoya stava sbavando senza pietà.
Posò lo sguardo sul palco e per un po’ riuscì a seguire la trama, tentando in tutti i modi di capirci qualcosa della lingua in cui i cantanti stavano parlando, ma un movimento con la coda dell’occhio fece distogliere ulteriormente la sua attenzione.
Maria si era sporta in avanti per comunicare qualcosa a Daichi nell’orecchio.
Aveva gli occhi brillanti di gioia ed entusiasmo, le dita incrociate davanti alla bocca, l’espressione gioiosa alla replica entusiasta di Daichi.
Maria non avrebbe mai guardato lui in quel modo.
Asahi ne era talmente consapevole che quel pensiero non gli provocava nemmeno dolore.
Era una consapevolezza così ovvia.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per far sì che quanto meno fosse Daichi, il suo migliore amico, a ricevere quello sguardo tutte le volte che fosse stato possibile.
Dei suoi sentimenti non doveva averne cura, quei suoi sentimenti non sarebbero serviti proprio a nessuno, innamorarsi di una ragazza … chiunque era in grado di farlo.
E innamorarsi di Maria … beh, non era stata la mossa migliore della sua vita.
Asahi sobbalzò quando al suo fianco, inaspettatamente, Hinata scivolò dalla sedia e cadde addosso a Kageyama, che proprio in quel momento aveva allungato il collo per l’ennesima volta verso il palco. I due strepitarono sotto voce, ostinati.
Asahi sbuffò divertito, mentre Nishinoya continuava a sbavargli sulla camicia, e pensò che dopotutto non avrebbe ricordato nulla della Lucia di Lammermoor, di quella giornata gli sarebbe rimasto come ricordo solamente una macchia di bava, una ferita sul cuore.
E la consapevolezza che almeno era riuscito a fare il suo dovere.
Tenere quei matti lontani da Maria e Daichi.
 
«Daichi-san, io non ci ho capito nulla comunque!».
All’ennesima affermazione di Nishinoya, Maria provò il fortissimo desiderio di infilargli le bacchette su per il naso. Lo spettacolo era terminato da circa un’oretta.
Era stata una delle esperienze migliori della sua vita, essere lì, vedere Lucia muoversi su quel palcoscenico, lottare, soffrire ed impazzire per quell’amore che mai aveva rinnegato.
Maria avrebbe voluto dire di essere stata totalmente attenta, ma avrebbe mentito per certo.
La vicinanza di Daichi, le loro spalle che si sfioravano, il suo profumo, il suo respiro silenzioso in quell’ambiente buio, avevano quasi rischiato di farle perdere la ragione.
Sarebbe stato perfetto se fosse riuscita a mettersi seduta accanto a lui anche a pranzo.
Sarebbe stato davvero perfetto, se Nishinoya e Tanaka non si fossero piazzati davanti a Daichi con una testardaggine piuttosto sorprendente.
Maria aveva rivolto un’occhiataccia piuttosto eloquente ad Asahi, che aveva ingaggiato appositamente per quella giornata, ma il ragazzo era troppo impegnato a mangiare i gyoza per badare a lei.
«Ma Lucia chi era poi?» Intervenne Tanaka agitando in aria le bacchette.
Maria strinse forte il pugno attorno alle bacchette e fece per afferrare, spinta da un moto di stizza, l’ultimo raviolo fritto rimasto nel grosso piatto che avevano diviso, giusto in tempo per vedere Kageyama fare esattamente la stessa cosa.
I due rimasero con le bacchette strette attorno al raviolo, il braccio sospeso per aria, a fissarsi negli occhi con la bocca leggermente spalancata per la sorpresa.
Arrossirono entrambi di botto, spostarono lo sguardo e mollarono la presa, lasciando cadere il povero raviolo nel piatto ormai vuoto.
Maria ritrasse le braccia e posò le bacchette nel piatto.
«Prendilo tu» Disse alla volta di Kageyama avvicinandogli il piatto, il ragazzo scosse freneticamente la testa, rosso peggio di un pomodoro ben maturo, e risospinse l’oggetto conteso verso Maria.
«No Taniguchi-san, sei una mia senpai. Prendilo tu!» Insistette il primino.
Maria sollevò un sopracciglio e contro ogni aspettativa lei e Kageyama ingaggiarono una lotta silenziosa spingendosi a vicenda il piatto, finché non arrivò Hinata e prese il raviolo infilandolo in bocca tutto intero.
Maria scoppiò a ridere mentre Kageyama saltava in piedi indignato, afferrava Hinata per il collo e cominciava a strapazzarlo per bene, ripetendo in continuazione la parola “boke”.
«Ma insomma Daichi-san, Lucia era innamorata di Edgardo o di Enrico?».
La domanda di Nishinoya le arrivò all’orecchio come da lontano.
Maria distolse lo sguardo dalla scenetta tragi-comica che le era capitata davanti e riportò l’attenzione sui ragazzi, Nishinoya e Tanaka erano ancora intenti a fare l’interrogatorio a Sugawara e Daichi, sotto lo sguardo composto e paziente di Shimizu.
«Noya-san, Lucia non può essere innamorata di Enrico. È suo fratello».
Spiegò pazientemente Sugawara, sorridendo quasi forzatamente.
I due stavano mettendo davvero a dura prova la pazienza di tutti.
«Scusatemi ragazzi, ma non avete seguito nulla di quello che abbiamo visto?».
Intervenne Maria con una certa nota di stizza nella voce, gli sguardi dei presenti si posarono su di lei, leggermente sorpresi, e Maria tentò di dissimulare la sua disapprovazione con uno sguardo di interesse malcelato.
«Certo che sì Tani-chan!» Replicò Nishinoya, e si lanciò in un resoconto del tutto insensato ed erroneo, aiutato da Tanaka e Hinata, della storia di Lucia.
«La mia camicia ne sa qualcosa …» Maria sentì distintamente Asahi borbottare quelle parole tra un’esclamazione e l’altra del più piccolo, e le sfuggì un sorriso spontaneo.
Asahi le sembrava leggermente stanco, mentre lo guardava davvero per la prima volta nell’arco di quella giornata, a Maria diede l’impressione di una persona davvero provata.
Senza sapere perché, o per quale assurdo motivo, provò il desiderio di toccarlo.
Di dargli un buffetto sul viso, o un pizzicotto sul braccio.
E poi si sentì in colpa, in colpa per averlo fatto venire controvoglia, sebbene era palese che ad Asahi non importasse minimamente quello spettacolo; era stata egoista.
Doveva essersi stancato troppo a star dietro a Nishinoya, Tanaka ed Hinata.
Inoltre, Maria si rese conto che dopotutto, nonostante Asahi le avesse detto di fare il tifo per lei, non poteva costringerlo ad aiutarla in quel modo, dando per scontato che lui l’avrebbe fatto a prescindere.
«Daichi-san, non è giusto!»
Il commento di Sugawara, pronunciato con una tale fermezza da farla girare per la sorpresa, la strappò anche a quei strani pensieri, riportandola ad un presente in cui i ragazzi stavano litigando animosamente per impedire a Daichi di pagare loro anche la cena, oltre il biglietto.
«Sono d’accordo con Sugawara-kun, Sawamura» Intervenne di rimando anche Shimizu.
Maria l’aveva trovata bellissima quella sera, nel suo vestito rosso semplice e accollato.
Quella sera avrebbe proprio voluto dirglielo.
Maria avrebbe proprio voluto dire a Shimizu la decisione che aveva preso.
Quello che provava per Daichi, quello che stava imparando a provare per la prima volta.
«Ma-».
«Io vado un attimo in bagno».
Le parole di Asahi, pronunciate a voce non abbastanza alta, furono udite solamente dalle persone a lui più vicine, che non vi badarono granché, troppo prese dalla discussione.
Maria seguì Asahi con lo sguardo, aveva la schiena curva e andava verso i bagni con passo strascicato, grattandosi la nuca come era solito fare in quel suo modo del tutto naïve.
Aveva le spalle grandi Asahi … e non stava andando affatto in …
Il filo dei pensieri di Maria venne bruscamente spezzato quando il tintinnio della porta, segno che qualcun altro era entrato nel locale, la distrasse completamente da Asahi.
Maria si sentì raggelare.
Dall’entrata, con un sorriso quasi trionfante sulle labbra, Takumi la fissava divertito.
Era in compagnia di una delle ragazze che l’avevano chiusa in bagno, probabilmente Arisa, la sua presunta fidanzata, e altri due ragazzi di cui non ricordava i nomi, suoi scagnozzi.
«Ma guarda un po’ che sorpresa!» Esordì ad alta voce, e al tavolo si zittirono tutti.
Anche coloro che non si erano accorti di quella spiacevole entrata in scena dovettero a quel punto puntare lo sguardo sul ragazzo, che aveva occhi solo per Maria.
«La squadra di pallavolo tutta al completo!» Continuò Takumi imperterrito.
«Guarda un po’ come sono messi a tiro!» Commentò un altro.
Maria sentì gelarsi il sangue dentro tutte le vene del proprio corpo.
Le sembrava di vivere un terribile incubo, non poteva incontrare quei mostri anche in quel caso, non poteva succedere anche quando aveva finalmente trovato un po’ di pace.
«Oh, c’è anche la nostra hafu troietta» Sbottò Takumi, fingendo di aver visto Maria solamente in quel momento, mentre non aveva fatto altro che puntarle gli occhi addosso per tutto il tempo.
«Guardala bene Taku-kun» Intervenne Arisa, incrociando le braccia al petto, era tremendamente e spaventosamente bella e Maria si sentiva così piccola, e sporca e occidentale e diversa … «Non ti sembra vestita per andare a battere?».
Successero diverse cose contemporaneamente a quelle parole.
Nishinoya scattò in piedi imbufalito e fece per gettarsi contro Arisa, ma fu prontamente fermato da Sugawara e Shimizu, che si erano alzati contemporaneamente quasi si aspettassero la reazione repentina del più piccolo.
Daichi si tirò in piedi con una calma sorprendente e avanzò verso Takumi, faccia a faccia.
«Mi spiace, ma devi capire che se offendi Maria, offendi tutta la squadra» Dichiarò con voce ferma, senza scomporsi minimamente, sembrava talmente sicuro delle sue parole che Maria sentì le lacrime salirle agli occhi senza freni, sentì di amarlo moltissimo.
«Questo è l’ultimo avvertimento che ti do. Non ce ne saranno altri».
Non appena Daichi ebbe finito di pronunciare quelle parole, Takumi scattò per la rabbia e lo afferrò per la collottola della camicia, avvicinando pericolosamente i loro volti.
Probabilmente l’avrebbe colpito se una mano, spuntata dal nulla, non gli avesse bloccato senza troppi complimenti il polso, allontanandolo dal viso di Daichi.
Maria, come tutti gli altri, guardarono Asahi con gli occhi sgranati.
«Molla la presa» Sbottò il ragazzo fissando Takumi negli occhi.
Era talmente serio che non sembrava essere nemmeno più lui.
Takumi imprecò tra i denti, poi mollò la presa dalla camicia di Daichi, che si limitò ad aggiustarsi le pieghe con una compostezza del tutto invidiabile; sembrava intimorito da Asahi, nonostante non avesse mai lesinato minacce e soprusi.
«Andiamo a mangiare da un’altra parte» Mormorò Arisa tirandolo per un braccio.
Takumi sembrò pensarci per un po’, ringhiando tra i denti.
«Ti do un consiglio, capitano» Sbottò a denti stretti, fissando Daichi negli occhi «Non abbassate mai la guardia, né tu, né quella sorta di bodyguard scimpanzé che ti porti dietro»
Puntò il dito prima contro Daichi, poi contro Asahi e agli altri del tavolo.
«L’avete voluta voi, ormai è guerra» Dichiarò tra un ringhio e l’altro, e se ne andò.
Nella piccola tavola scese un silenzio tombale, del tutto innaturale rispetto alla confusione che aveva regnato sovrana per tutta la giornata, tra risate, divertimento e sciocchezze varie.
Maria era ancora seduta, i pugni stretti talmente forte da sentire le unghie lacerarle i palmi delle mani, le lacrime premevano troppo intensamente dietro gli occhi, non sarebbe riuscita a frenarle, lo sapeva, ma non voleva piangere davanti a tutti loro.
Li aveva messi nei guai, li aveva messi nei casini ma non riusciva a non sentirsi bene.
Amata, protetta e accettata per quella che era.
Avrebbe voluto non aver legato i capelli in quel modo, avrebbe voluto avere la frangetta libera per coprirsi il viso, perché era rossa, e gli occhi erano lucidi e …
«Chi vuole mangiare dei nikuman? Li offro a tutti!».
Daichi le appoggiò una mano sulla testa, accarezzandola distrattamente, e con quella domanda aveva distolto l’attenzione di tutti da lei e dal suo imbarazzo.
Maria respirò profondamente, asciugò frettolosamente gli angoli degli occhi e sorrise.
Si sentiva rincuorata, si sentiva amata.
E si sentiva di voler amare con tutta sé stessa.
Aveva preso la decisione giusta, ne era convinta.
«Aspettate un attimo!»
Intervenne Kageyama una volta che ebbero raggiunto la porta del locale.
«Che succede Kageyama, devi usare il bagno?» Intervenne prontamente Hinata, beccandosi un cazzotto dietro la testa dal compagno primino.
«Non abbiamo pagato il conto!» Continuò il moro profondamente indignato.
Daichi e Sugawara sobbalzarono, arrossendo entrambi per la vergogna, tuttavia, quando si avvicinarono al cameriere per accertarsi di non lasciare il locale come dei ladri, scoprirono che il conto era già stato pagato da qualcuno.
«Chi è stato?» Proruppe Daichi guardandoli uno ad uno.
«Non guardare me!» Replicò immediatamente Tanaka.
«Io ero in bagno» Si giustificò Asahi, e continuarono a battibeccare finché non raggiunsero il negozio dei genitori del coach Ukai e comprarono i tanto agognati nikuman.
Non smisero di farlo nemmeno dopo, mentre li mangiavano sulla strada del ritorno.
Maria era stata zitta e sovrappensiero per tutto il tempo.
Voleva solamente dimenticare quel terribile episodio, e la storia del pagamento era stata davvero una buona scusa per farlo, perché le era venuta in mente una cosa …
Si avvicinò ad Asahi di sottecchi, proprio mentre il ragazzo dava il suo primo morso.
«Sei stato tu vero, Azumane-san?».
Maria lo colse talmente di sorpresa che Asahi rischiò di strozzarsi, tossì vistosamente, mentre senza troppi complimenti Maria gli colpiva la schiena per aiutarlo a respirare.
«N-no, io non ho-» Balbettò il ragazzo, rosso in viso.
«Non lo dirò a nessuno, tranquillo» Commentò Maria sorridendo.
Si guardarono negli occhi per un attimo, e vi lessero così tante domande che distolsero frettolosamente lo sguardo l’uno dall’altra.
Nessuno dei due avrebbe davvero voluto parlarne, e lo capivano entrambi.
Avevano trovato molte più risposte alle loro domande.
Continuarono a camminare in silenzio per un po’, sotto il cielo pieno di stelle della sera che si affacciavano all’orizzonte, un nikuman caldo stretto tra le mani, uno affianco all’altra.
 
 
„Everyone was lighting up in the shadows alone“
 
 

Quando Asahi rientrò a casa, a sera tarda, la prima cosa che sentì fu l’odore dei medicinali.
Impregnava ogni singolo angolo della casa, come se fosse stato uno di quegli spray ambientali che si utilizzavano per profumare l’ambiente.
Asahi ne aveva talmente fatto l’abitudine da dimenticarsene ogni volta che usciva.
Si tolse goffamente le scarpe e si avviò lungo il corridoio con passo leggero.
Sua madre doveva già essere a letto da un pezzo, stanca dopo la giornata di lavoro, ma dalla piccola cucina proveniva ritmicamente il suono fastidioso di un macchinario in uso.
Asahi scostò leggermente la porta e una scena del tutto familiare lo accolse.
Hotaru, sua sorella minore, se ne stava seduta scompostamente su una sedia, il fisico atletico curvo e rannicchiato, gli occhi leggermente chiusi e il beccuccio dell’aerosol a coprirle il viso.
Aveva beccato il raffreddore per la terza volta quel mese, aveva le difese immunitarie così provate ultimamente …
Le medicine si accumulavano in un angolo sul ripiano della cucina come tanti piccoli regali non desiderati, rivolgendogli uno sguardo distratto Asahi lesse la parola “cuore” su almeno dieci farmaci diversi.
Hotaru sembrava sonnecchiare, ma quando Asahi aprì la porta del frigorifero per prendersi dell’acqua fresca da bere, la trovò con lo sguardo vigile su di lui, gli occhi scuri come i suoi a fissarlo sorridenti nonostante tutte le sofferenze attraverso cui erano passati.
«Sei tornato, fratellone?» Domandò con fare energico, la voce leggermente ovattata e distorta a causa dell’apparecchio che ronzava fastidioso «Dove sei stato?».
Asahi scostò la sedia e si mise seduto accanto alla sorella.
«All’opera» Mormorò guardandola con infinita tenerezza.
Hotaru era il suo tesoro più grande, la cura a tutte le sue debolezze, la sua forza.
Erano cresciuti praticamente in simbiosi, Asahi ricordava, come se fosse ieri, che cosa aveva provato il giorno in cui gli avevano diagnosticato quella tremenda malattia al cuore che non l’aveva lasciata vivere in pace nemmeno per un giorno.
Ma Hotaru era stata così forte.
Era sempre stata forte, era sempre stata piena di vita, era sempre stata molto più forte di lui.
«All’opera? Che ci è andato a fare un testone come te all’opera, eh?».
Lo rimbeccò immediatamente con fare energico, dandogli una pacca sulla spalla.
Osservandola bonariamente, Asahi si rese conto che indossava ancora la tuta, segno che quel giorno aveva fatto attività fisica testarda, nonostante le fosse stato impedito mille volte.
«Ci sei andato con una ragazza, vero?» Volle immediatamente sapere lei.
Lo colpì ancora una volta, nello stesso punto e con più violenza, Asahi si ritrovò ad arrossire violentemente, perché non sapeva controllarsi con Hotaru, lei era sempre stata troppo brava a leggerlo, troppo brava a capire ogni suo stato d’animo.
«Ci sono andato con la squadra …» Mormorò con fare poco convincente, il bicchiere ancora pieno sul tavolo, rivoli d’acqua che scendevano lungo i bordi macchiando la tovaglia.
«Uhm, non me la conti giusta!» Replicò Hotaru piccata.
Aveva spento l’apparecchio e gettato da parte il boccale.
Senza riuscire a trattenersi Asahi rivolse un’occhiata veloce al macchinario, per vedere se Hotaru avesse effettivamente completato la terapia. Lei sembrò accorgersene, ma come ogni volta fece finta di nulla. Si allungò sul tavolo con il suo corpo flessuoso e atletico e lo baciò sulla fronte, scombinandogli poi tutti i capelli con fare ostinato.
«Hotaru, smettila» Protestò Asahi bonariamente, tuttavia lasciandola fare.
Asahi avrebbe voluto dirle tutto di Maria, avrebbe voluto raccontarle ogni singola cosa.
Il terremoto che aveva nel petto ogni volta che lei era vicina, il desiderio del tutto contorto che provava nel vederla felice con Daichi, la paura, e altri mille sentimenti.
Ne erano così tanti che anche solo riordinarli sembrava impossibile.
«La mamma dorme?» Domandò dopo un po’, quando Hotaru ebbe smesso di rendergli la testa molto simile al nido di un procione.
«Si, oggi è quel giorno , sai?» Disse Hotaru, e saltò in piedi come un grillo felice.
Aveva sedici anni, era così piena di vita, così viva, così felice …
Ma il suo cuore era quello di una persona vecchia, non funzionava.
Quel giorno “li”, era proprio quel giorno in effetti.
Il giorno in cui suo padre, otto anni prima, era morto lasciandogli la famiglia a carico.
Asahi non l’aveva davvero dimenticato; ripensò a sua madre, nella stanza sopra …
Forse non stava dormendo, forse stava piangendo …
Asahi fece spallucce e si tirò in piedi, un po’ stanco, doveva ancora studiare quelle cose per letteratura inglese …
«Sei stanco?» Domandò Hotaru aggrappandosi a lui come un koala.
Asahi lasciò che gli salisse sulla schiena, tenendola ben stretta.
«Tu non sei stanca?» Le chiese di rimando, mentre salivano silenziosamente le scale che portavano al piano di sopra, con i piedi scalzi sul legno del parquet e le loro ombre che si proiettavano lugubri sulle pareti.
«Posso dormire nella tua stanza?»
«Va bene, ma devo studiare fino a tardi»
«Ti aiuterò, sono più intelligente di te!».
Stai bene?
Le hai prese le medicine?
Puoi smetterla di fare sport?
Tutte quelle domande Asahi non le fece, non le avrebbe fatte mai probabilmente.
Ehi, papà, la promessa che ti ho fatto, la sto mantenendo bene?
Dimmi, papà …
 
 
«Sono innamorata di Daichi-san, Kiyoko-san»
Quando Maria confessò quelle parole a Shimizu, lungo la strada verso casa, con la luna alta in cielo e il frinire dei grilli sugli alberi, lo fece con una certa tranquillità.
Era la calma di chi aveva preso una decisione ferma, di chi era appena arrivato ad una conclusione e non aveva nessuna intenzione di tornare indietro sui propri passi.
Shimizu non ebbe alcun tipo di reazione diversa, continuò a camminare al suo fianco.
Probabilmente lo sapeva, l’aveva saputo dal primo istante.
Shimizu era l’unica persona che conosceva Maria per quella che era davvero, conosceva ogni singolo aspetto di lei, ogni sfumatura, ogni sfaccettatura, tutto, tutto.
«Ho deciso di dichiararmi, Kiyoko-san».
Anche quelle parole furono accompagnate da un silenzio rispettoso fatto di riflessioni.
Maria aveva quasi sperato che Shimizu non parlasse affatto, ma proprio quando raggiunsero la sua piccola abitazione, con l’unica luce accesa nello studio di suo padre, la mora la prese per le spalle e la guardò dritta negli occhi.
«Maria-chan, ascoltami. Non è davvero una buona idea».
Quelle parole Maria le aveva aspettate, ma la serietà nel tono di voce dell’amica, una serietà così profonda, così disperata, le fecero venire la pelle d’oca, e non riuscì a ribattere come avrebbe voluto.
«Perché, perché non è una buona idea Kiyoko-san? Sono sicura che anche Daichi-san ha un interesse per me! Lui-»
«Sawamura è un bravo ragazzo Maria-chan» La interruppe bruscamente Shimizu «Ma non è abbastanza bravo per te. Non può darti ciò che vuoi»
Maria rimase in silenzio per alcuni istanti, lo sguardo distante, i pensieri che correvano frenetici, i pezzi di un puzzle troppo difficile da comporre che schizzavano dappertutto.
«Che cosa è successo tra Daichi-san e Michimiya?»
La domanda sembrò cogliere Shimizu di sorpresa, per un istante sembrò non riuscire a trovare le parole, poi riassunse la sua solita espressione imperturbabile.
Era evidente che si sarebbe aspettata che Maria ci arrivasse prima o poi.
«Non è una cosa che spetta a me dirti. Buonanotte Maria-chan».
E con un leggero inchino la lasciò da sola davanti al cancello di casa.
La rabbia e l’amarezza che si mischiavano impazziti nel petto.
Aveva preso una decisione quel giorno, aveva avuto la conferma dei suoi sentimenti per Daichi, uscire con lui, stare con lui, parlare con lui … tutto aveva trovato un senso per lei quella mattina, in quel ristorante, all’opera, in ogni singolo posto e secondo.
Era innamorata di Daichi, ne era certa come respirare.
E non sarebbero state le parole di Shimizu, né la sua paura, né altro a farle cambiare idea.
Avrebbe confessato il suo amore a Daichi, fosse crollato il mondo l’avrebbe fatto.
 
 
You could've been right there next to me, and I'd have never known.
(The National – Light Years)
 
 
Buongiorno e bentrovati tutti!
Flying_lotus95 vi fa gli onori di casa 🥰
Nonostante il Writober, la pubblicazione di Parlami non si arresta 🤗
Allora, passiamo al dunque: visto che delirio 'sto capitolo?? 🤭
All'epoca ricordo che io ed effe_95 ci siamo ritrovate piegate in due dal ridere, per ciò che eravamo state capaci di partorire su questa bislacca combriccola... Che poi, ancora non mi spiego cos'abbia spinto Tanaka, Nishinoya, Hinata e Kageyama a buttarsi sull'opera! 🤭🤭
Oddio, forse Kageyama i suoi buoni motivi li aveva 😉😉 ma sugli altri sono ancora fortemente in dubbio sul fatto che abbiano scambiato l'opera per qualcosa di ludico 🤭🤭
Qui è apparsa anche Hotaru, la sorellina di Asahi 🥺🥺 un personaggio tanto bello quanto fragile... e qui mi taccio 💔
E poi, per concludere, Maria... Maria che sembra aver raggiunto una realizzazione, ma il cuore invece sembra suggerirle involontariamente altre strade...
Che cosa succederà?
Lo scoprirete tra due sabati, sempre se Writober e la real life non complottano contro di noi 🤗
Ah, prima di andarmene, vi consiglio di seguire la raccolta di one shots su Haikyuu che la mia compara sta scrivendo qui su EFP per il Writober, una più bella dell'altra a mio dire 😊
Adesso vi lascio, vi auguro un buon week end, un buon Writober per chi partecipa, e un dolcino simbolico per chi ci lascerà un feedback o un'impressione a caldo sui capitoli.
Baciniiiii 😘😘😘
*torna a piangere sul prompt del giorno 🥲*
Flying_lotus95 & effe_95

 

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Capitolo 8
*** 7- Il mostro verde ***


7. Il mostro verde.

 
“Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore.
È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre.”
(Otello, atto III, scena III)
 

Quella domenica il caldo era davvero insopportabile.
Maria si aggirava in mezzo alla folla con aria distratta, aveva indossato un paio di sandali bianchi con il tacchetto e aveva male ai piedi.
E sebbene avesse legato i capelli in una treccia a spina di pesce composta e rigida, sentiva le guance bollenti e la pelle febbricitante.
All’inizio aveva pensato fosse una buona idea andare a fare compere in quel centro commerciale con Shimizu e Hitoka.
L’aveva presa come un’ottima occasione per distrarsi e smettere di pensare intensamente a Daichi, alla situazione in cui si era cacciata e alle parole di Shimizu.
Ancora rimbombanti nella testa.
Il luogo era sorprendentemente affollato, e Maria cominciava a domandarsi come mai alla fine si fossero trovate a comprare più attrezzature per il club che vestiti e scarpe per loro.
«Tani-chan! Tu che cosa ne pensi?» la voce allegra di Yachi la sottrasse ai suoi pensieri opprimenti, Maria cercò di far sparire dal viso l’espressione infastidita e il cipiglio nervoso che le attraversava la fronte. Non voleva riversare su Hitoka il suo malumore, né dare a Shimizu l’opportunità di capire quanto le sue raccomandazioni l’avessero toccata.
«Yachi-san ci ha proposto di andare ad un pigiama party da lei una di queste sere» intervenne Shimizu andando in suo aiuto.
Maria le rivolse un’occhiata veloce, l’amica non la stava guardando, era invece piuttosto interessata ad un paio di scarpe esposte in una vetrina. Shimizu, che la conosceva meglio delle proprie tasche, doveva aver capito che la sua testa gravitava ovunque tranne che in quel centro commerciale.
«Sarebbe bellissimo Hitoka-chan!» Commentò, rivolgendo alla più piccola un sorriso.
Maria avrebbe voluto smetterla di arrovellarsi il cervello in quel modo, avrebbe voluto godersi quella giornata con le sue amiche e conservarne un bel ricordo.
Ma era così spaventata dalla decisione che aveva preso, da ciò che avrebbe fatto di lì a qualche giorno, da ciò che ne sarebbe potuto venire.
Aveva avuto paura per tutta la sua vita.
Aveva avuto paura di essere ferita; era stata maltrattata, insultata, emarginata.
Chiudersi a riccio, fingere, nascondersi, le era sempre sembrato il modo migliore per difendersi, il modo migliore per soffrire di meno.
Entrare nel club di pallavolo, incontrare quei ragazzi, incontrare Daichi, aveva significato mettere in discussione tutte quelle difese, cominciare a scoprirsi.
Porgere il fianco, e rischiare di essere pugnalata da un momento all’altro.
Eppure Maria era sicura che non sarebbe successo, con Daichi non sarebbe successo.
«Prendiamo un gelato?» La proposta improvvisa di Hitoka la colse di sorpresa.
Maria smise di fantasticare e guardò finalmente le sue compagne di shopping, erano accaldate come lei, stracolme di buste e piuttosto stanche.
«È un’ottima idea Yachi-san» Acconsentì Shimizu, tutta intenta a controllare che le tovagliette pulite che avevano acquistato per il club fossero del numero giusto.
Maria assentì di rimando e le tre si incamminarono chiacchierando verso la prima gelateria disponibile, un posto carino dai colori sgargianti piuttosto infantile.
«Oh, ma quello non è Daichi-san?».
Alle parole di Hitoka tutte e tre rallentarono il passo automaticamente, puntando lo sguardo sull’unico tavolo occupato, quello più esterno e visibile da ogni angolazione.
Maria si fermò di colpo, sentendo tutto il respiro venirle meno nei polmoni.
E non era sicura fosse dato dal fatto di essersi ritrovata davanti Daichi proprio in un momento simile, nel momento di massima debolezza, dove tutti i nervi erano scoperti e le ferite esposte, e le escoriazioni ancora sensibili al tocco.
E tutti quei segni facevano terribilmente male, e pulsavano, perché Daichi era con Yui.
Maria si sentì mortalmente offesa, sebbene una parte della sua testa fosse del tutto consapevole di non avere nessun diritto nel sentirsi in quel modo.
«Non dovremmo disturbarli» intervenne Shimizu «Andiamo da un’altra parte».
E pronunciate quelle parole voltò le spalle alla scenetta, già intenta ad andare via.
Maria esitò per un istante, così come Hitoka, che tuttavia si affrettò a convenire con Shimizu che in effetti fosse meglio non disturbarli, dopotutto Daichi non le aveva nemmeno viste. Gli occhi azzurri, quegli occhi che avrebbe volentieri strappato dalla propria faccia se avesse potuto, osservavano ogni singolo movimento del loro viso, feriti.
Maria non poteva sopportarlo, non poteva.
Era troppo orgogliosa per farlo, era troppo lacerata per accettarlo.
«Invece credo che sarebbe educato salutarli!» esordì con veemenza, e prima che Shimizu potesse fermarla, prendendola per il polso con la mano che aveva appena allungato nel tentativo di impedirle qualche sciocchezza, Maria partì a passo spedito verso il tavolino, sorriso smagliante e aria cattiva.
Nessuno può farmi male, nessuno può ferirmi. Sono d’acciaio.
«Salve capitano!» Esordì con voce squillante, alzando una mano in segno di saluto.
Daichi e Yui si voltarono a guardarla, entrambi estremamente sorpresi.
Maria rallentò leggermente il passo quando lesse, desiderando che non fosse così evidente, un accenno di imbarazzo e disagio nello sguardo di Daichi.
Forse aveva interrotto qualcosa, forse non avrebbe dovuto essere così espansiva.
Quel brutto tratto del suo carattere doveva averlo preso da quella sconosciuta di sua madre.
Rallentò la camminata, si fermò ad almeno un metro di distanza e fece un piccolo inchino.
«Maria, che sorpresa … Ah, ci sono anche Shimizu e Hitoka» replicò Daichi con estrema educazione, involontariamente, a causa di uno spasmo nervoso, Maria si ritrovò a stringere i manici delle buste con troppa forza, segandosi i palmi.
«Buongiorno Daichi-san, Michimiya-san» Salutò educatamente Hitoka.
Shimizu si limitò a fare un inchino composto, salutando i due capitani con voce apatica.
Maria le rivolse uno sguardo risoluto, sapendo bene che molto presto sarebbe scoppiata una vera e propria tempesta, ma non le importava, in quel momento l’unico folle, assurdo pensiero, era quello di allontanare quella gatta morta da Daichi.
«È un piacere vedervi» Rispose allegra Michimiya.
«Che cosa fate?» Sbottò Maria prima che Hitoka o Shimizu potessero intervenire.
Daichi e Yui si fissarono, facendola sentire ancora di più fuori luogo e in imbarazzo, poi il ragazzo si grattò la nuca, fece spallucce e sorrise.
«Stavamo solo chiacchierando un po’» spiegò con educazione.
Maria strinse ancora più forte i manici delle buste, e il dolore le fece venire un’idea, sollevò gli acquisti recenti e li mostrò a Daichi con aria fiera e risoluta, il sorriso troppo grande.
Avrebbe voluto solamente che Sawamura non si sentisse così a disagio di fronte a lei.
Avrebbe solamente voluto che lui le desse un po’ più di forza.
Avrebbe voluto che le sorridesse un po’ più calorosamente, che le desse un po’ di coraggio.
Ma Daichi sembrava quasi imbarazzato dalla sua presenza, senza sapere cosa dirle.
Proprio come due perfetti sconosciuti.
«Noi abbiamo fatto compere per il club!» esclamò, la voce un po’ troppo alta, quasi squillante, segno che non riusciva più a trattenere davvero quello che stava provando, doveva sembrare strana ai loro occhi.
«Oh, perfetto. Grazie» replicò Daichi, e poi tacque.
Maria rimase in silenzio con le buste alzate, il sorriso tirato ed eccessivo sulle labbra, nel silenzio più totale, senza sapere cosa dire.
Avrebbe davvero voluto piangere, non si era mai sentita così fuori posto.
Esattamente come qualcuno di estremamente fastidioso, qualcuno di troppo.
«Dovremmo andare, Maria-chan» Intervenne Shimizu, pronta a tirarla fuori dai guai.
Maria abbassò lentamente le braccia, il sorriso più finto del suo repertorio sul viso.
Si girò talmente di scatto che non vide il cameriere, fu un’azione talmente fulminea che nemmeno se ne rese conto, un attimo prima il vassoio era tra le mani dell’uomo, il secondo successivo era finito sul vestito di Yui, macchiandola tutta di frappè.
Maria guardò la scena totalmente raggelata dall’orrore.
Sembrava quasi che l’avesse fatto apposta, ma non era così.
Vide con gli occhi sgranati dal terrore, dalla vergogna e dal dolore Daichi alzarsi di colpo e porgere a Yui tutti i fazzoletti che trovava a disposizione, così come Shimizu e Hitoka, tutte affaccendate nei confronti di quella ragazza che sembrava proprio volerle portar via l’unica cosa che Maria avesse mai desiderato: l’amore di qualcuno.
L’amore di qualcuno gentile e pacato come Daichi.
L’amore di qualcuno che non la guardasse come se fosse diversa. O un mostro.
«Non è stata colpa mia!» Si ritrovò ad urlare, le buste strette troppo forte tra le dita, il viso arrossato dalla rabbia, dal dolore, lo sguardo fisso su Yui, sorpresa «Non guardatemi come se l’avessi fatto apposta! È stato solo un incidente!».
Maria era consapevole del fatto che le sue parole non avessero il minimo senso.
Shimizu, Hitoka e Daichi avevano smesso di affaccendarsi nei confronti di Yui dopo la sua eccessiva sparata, e la fissavano con tre espressioni completamente diverse.
Shimizu era preoccupata per lei, la compativa.
Hitoka era confusa, sorpresa, preoccupata.
Daichi … quello di Daichi era lo sguardo peggiore: disagio, imbarazzo, domande.
«Maria, qui nessuno-»
«Devo andare!» Sbottò, prima che Sawamura potesse terminare la frase, voltò le spalle a quella scena pietosa e corse via, senza badare a niente e a nessuno, mortificata.
Shimizu esitò per un po’, poi fece un inchino a Daichi e Yui e se ne andò a sua volta.
Quando anche Hitoka, dopo alcuni secondi di panico in cui aveva continuato a buttare fazzoletti addosso alla povera Michimiya, se ne fu andata, cadde un silenzio religioso.
Daichi e Yui si fissarono per un po’ in silenzio, sgomenti.
Il cameriere era sparito, portandosi dietro i resti del bicchiere e tante imprecazioni.
«Ehi, Sawamura» lo richiamò dopo un po’ lei, continuando a smacchiarsi inutilmente il vestito «Non è che Taniguchi prova qualcosa per te?».
Daichi sembrò talmente colpito da quella domanda che guardò Yui per un po’, in silenzio.
Non aveva mai pensato ad un’eventualità simile.
«Non dire sciocchezze Michimiya» replicò ridacchiando «Probabilmente non sono nemmeno il suo tipo» Sorrise divertito, si grattò la testa e guardò Yui negli occhi.
Avrebbero dovuto ordinare un altro frappé nel frattempo.
 
 
Quando Shimizu raggiunse Maria, era quasi ora di pranzo e il sole picchiava fortissimo.
L’aveva persa un attimo di vista quando aveva salutato frettolosamente Hitoka, promettendole solo fugacemente che le avrebbe dato una spiegazione il giorno seguente.
Tuttavia non era stato difficile trovare Maria, era diretta verso casa.
Shimizu l’aveva vista da lontano, che arrancava lungo la strada a passo lungo, ancora agitata e furiosa con sé stessa, le buste ingombranti tra le mani e la treccia che ondeggiava.
«Maria-chan!» la chiamò, e scattando con l’agilità tipica di chi aveva praticato uno sport atletico come lei, la raggiunse prima che Maria potesse sparire oltre il cancelletto.
L’afferrò per un braccio e la tirò leggermente, lasciando che l’amica le mostrasse il viso paonazzo e completamente stravolto; non era coperto di lacrime, ma per Shimizu non significava nulla. Non aveva mai davvero visto Maria versarne, lei si teneva tutto dentro.
«Maria-chan, perché sei scappata via in quel modo?» le domandò, lasciandole andare il polso con gentilezza, Maria stava lentamente riacquistando un po’ del suo colorito normale, ma aveva l’espressione ribelle che Shimizu associava a guai in arrivo.
«Ho dovuto inventare una marea di scuse con Yachi-san. Era preoccupata per te, credeva che fossi scappata perché ti sentivi in imbarazzo per quanto successo con Daichi-san» continuò Shimizu imperterrita, aveva il solito tono di voce pacato e tranquillo, l’espressione ferma; da come si fissavano negli occhi, entrambe battagliere, Maria sembrava essersi aspettata quella ramanzina per tutto il tempo.
Lasciò cadere a terra le buste, giusto oltre il cancelletto che delineava il suo giardinetto.
Non sembrava intenzionata a proferire verbo ancora per un po’, scossa e ferita.
Shimizu avrebbe voluto essere meno severa con Maria, ma aveva paura che potesse inciampare e farsi male sul serio, era già stata ferita troppe volte dalla vita.
Maria non sarebbe stata in grado di sopportare anche quella delusione.
«Maria-chan, stai mettendo anche me in una brutta situazione comportandoti -»
«Non ti ho chiesto di intrometterti nelle mie faccende Kiyoko-san!» la interruppe bruscamente Maria, sciogliendo la posizione rigida delle braccia.
Il suo colorito era tornato normale, ma aveva l’espressione inacidita e incattivita.
«Posso vedermela anche da sola!» Sputò senza remore, come a volerla sfidare.
Shimizu rimase impassibile, ma una persona più attenta avrebbe notato l’impercettibile movimento che le sue mani avevano compiuto attorno ai manici delle buste, stringendoli un po’ più forte del necessario.
«Maria-chan» Esordì con una voce talmente carica di gelo che l’altra fece un passetto all’indietro, improvvisamente intimorita «Non è la prima volta che ti sento pronunciare una frase del genere» Continuò senza remore Shimizu, non era la prima volta che litigavano, avevano dei caratteri talmente opposti che era capitato spesso, ma quella volta c’era qualcosa di diverso nell’aria; avevano entrambe la sensazione di trovarsi sul limite di una linea invisibile. Superare quella linea avrebbe significato andare troppo oltre.
«E sinceramente, Maria-chan, è qualcosa che davvero non sopporto».
Shimizu vide chiaramente le spalle di Maria restringersi, come una difesa naturale.
«Non puoi dire queste cose proprio di fronte ad una persona che ti conosce da anni» e cadde il silenzio, pesante, carico, aggravato dal silenzio che regnava nella strada.
Shimizu aspettò che Maria reagisse, che mostrasse un po’ di rimorso, un po’ di buon senso.
Che almeno per una volta prestasse ascolto alle sue parole.
«Non mi interessa Kiyoko-san, queste non sono cose che ti riguardano» Se Shimizu avesse avuto un altro carattere o un’altra tempra, dall’espressione del suo viso sarebbe anche potuta tramutare tutta la delusione che quelle parole le avevano fatto sbocciare nel cuore.
«Ho preso la mia decisione, dovesse cascare il mondo io domani mi dichiarerò!».
Shimizu trasse un respiro profondo e guardò Maria negli occhi, stanca.
Aveva capito fin dal primo momento che avere Maria come amica sarebbe stata dura.
All’epoca erano ancora troppo piccole per capire che cosa sarebbe successo, erano ancora entrambe troppo piccole per capire cosa significavano quei silenzi, e quelle parole, cosa significavano gli sguardi degli adulti e dei bambini ogni volta che Maria era nei paraggi.
Shimizu però era stata la prima a capirlo, era stata la prima a capire che Maria avrebbe sofferto moltissimo.
Sarebbe stato davvero difficile sostenerla senza mostrarle pietà.
Eppure Shimizu non si era mai tirata indietro, mai.
Maria era la sua migliore amica, con tutti i difetti e le delusioni che le aveva dato, e non l’avrebbe cambiata mai, e mai avrebbe voluto farlo in futuro.
Ma quella volta non poteva fare proprio nulla, quella volta non poteva evitare che si facesse male, che andasse a sbattere troppo forte contro un muro e rimanesse stordita.
A volte forse, era necessario che le cose andassero in quel modo dopotutto.
«Va bene, Maria-chan» Acconsentì alla fine, dopo un silenzio opprimente che stava cominciando a stancare entrambe «Ma non dire che non ti ho avvisata».
E Shimizu pensò fosse tutto quello che aveva da dire al riguardo, così pensò di andarsene.
Non poteva fare altro, se non aspettare che Maria tornasse indietro senza troppe ferite.
«Ah, certo! Ma tu che cosa ne puoi sapere Kiyoko-san!» Sbottò all’improvviso Maria, quando ormai Shimizu le aveva già voltato le spalle per allontanarsi «La tua vita è perfetta! Tu non hai mai dovuto nascondere il tuo viso, né avere paura degli altri!» Shimizu si voltò a guardare Maria con gli occhi leggermente sgranati, l’amica era furiosa.
Aveva il viso arrossato dalla rabbia e gli occhi folli di dolore.
«Non sei mai stata maltrattata! Hai un fidanzato perfetto che ti ama, mentre io non ho proprio nessuno! Perché proprio nessuno potrebbe accettarmi! Sei invidiosa, vero?!» continuò Maria, imperterrita, senza nemmeno accorgersi dell’espressione allibita e ferita di Shimizu, o di quanto stesse parlando senza nemmeno rendersi conto di quello che diceva.
«Sei invidiosa del fatto che io possa trovare qualcuno che mi apprezzi?! Non stai nemmeno tentando di aiutarmi! Tu che sei la mia migliore amica! Invece Azumane-san non ci ha pensato due volte a darmi una mano!» dopo aver pronunciato quelle parole, senza capire bene perché, Shimizu, sebbene allibita, vide Maria arrossire violentemente.
«Che cosa c’entra Azumane-san?» Domandò per istinto, ma Maria scosse la testa.
«Non importa! Ormai l’ho capito, non ti basta Sugawara-san! Vuoi anche Daichi-san!».
Il silenzio cadde nuovamente, questa volta talmente pesante da gelare ogni cosa.
Maria e Shimizu si fissarono negli occhi per un attimo, la prima con il fiatone e la seconda come pietrificata, il tempo congelato.
Quella linea Maria l’aveva superata di corsa, senza nemmeno guardarla.
Shimizu sbatté le palpebre per una volta, poi girò le spalle a Maria senza dire una sola parola, e fece per incamminarsi lungo la strada, dritta e composta nella sua dignità.
Maria ci mise un po’ per capire quello che aveva combinato, era andata davvero oltre.
Spalancò il cancelletto, lo lasciò aperto e corse dietro Shimizu, prendendola per un polso.
«Kiyoko-san io – Mi dispiace! Non lo penso davvero, io – Non so che mi è preso» balbettò in preda all’imbarazzo, alla vergogna, alla paura di perdere anche lei.
Shimizu sospirò e tentò di controllarsi, perché Maria stava male e poteva capirla.
«Maria-chan» Mormorò con voce bassa, girandosi verso l’amica, le tolse delicatamente la mano dal suo polso e la fronteggiò, nascondendo le sue ferite e la sua delusione «Va bene, non è la prima volta che succede. Io lo posso accettare, lo so, ti conosco. E non mi intrometterò più in questa faccenda, non ti dirò più nulla. Ma se dovesse succedere qualcosa, non incolparmi di nulla Maria-chan».
Maria abbassò gli occhi, ancora mortificata, avrebbe voluto piangere, Shimizu glielo poteva leggere in faccia, e probabilmente l’avrebbe anche fatto una volta sola nella sua stanza.
Sbuffò teneramente e le accarezzò la testa.
«Io sarò qui, ad ogni modo».
E quello fu l’unico consenso che riuscì a darle.
 
 
Maria era in ritardo per la lezione quel pomeriggio.
Si era fermata a pranzare con Hitoka-chan e aveva perso la nozione del tempo.
All’inizio era stata indecisa tutta la mattina se andare all’appuntamento con la più piccola o meno, ma dopo la figuraccia che aveva fatto con Shimizu, dopo essersi permessa di dirle quelle cose imperdonabili, aveva pensato di doversi almeno prendere carico di quella faccenda. Ovvero, dare una spiegazione quanto meno credibile ad Hitoka.
Tutto sommato, Maria aveva trovato piacevole quell’ora passata a chiacchierare.
Affrettò il passo nel corridoio semi deserto, il rumore dei suoi passi riecheggiava tra le pareti insieme al quieto chiacchiericcio dei pochi rimasti a bighellonare, doveva raggiungere l’aula di educazione domestica il prima possibile se non voleva essere rimproverata.
Infilò la mano nella cartella per riporre il testo di solfeggio che aveva sfogliato fino a pochi istanti prima, ma mancò il bersaglio e il libro le scivolò a terra.
Maria si fermò di colpo, inginocchiandosi per recuperare il libro, sbuffò sonoramente e imprecò mentalmente, immaginando la strigliata che si sarebbe presa dal professore.
Fece per allungare la mano e raccogliere lo spartito, quando qualcun altro, con una mano lunga ed elegante, un orologio costoso al polso e la camicia sbottonata lo afferrò prima di lei.
Maria sollevò di scatto la testa e raggelò interiormente.
Takumi era chino su di lei, solo, e sfogliava lo spartito senza nemmeno guardarlo.
Rabbrividendo per l’orrore ed il disgusto, Maria si tirò su in piedi e fissò il ragazzo con astio.
Stava cominciando a domandarsi quando sarebbe riuscita a liberarsi di lui, ma immaginò sarebbe successo solamente dopo il diploma.
«Vediamo che cosa legge di tanto interessante la piccola sporca hafu»
Commentò con aria divertita, sfogliando lo spartito troppo velocemente per una persona realmente interessata ad esaminare il contenuto di quel libro.
Maria lo guardò per un po’ con aria disgustata, poi allungò il braccio.
«Restituiscimi il libro» Replicò atona, senza scomporsi troppo.
Takumi era da solo, con un po’ di fortuna l’avrebbe maltrattata un po’, insultata, per poi lasciarla andare con un commento sarcastico; Maria doveva solamente avere pazienza.
Sarebbe finita presto.
«Hai così tanta fretta di sbarazzarti di me?» Domandò Takumi con aria birichina.
Maria lo fissò negli occhi e fu presa da un moto di disgusto violentissimo.
Solamente il pensiero di stare anche solo un altro secondo con un essere simile le fece venire la pelle d’oca fin dentro il midollo, Takumi aveva un’espressione disgustosamente lasciva.
«Devo andare a lezione» Replicò Maria ostinata, ma Takumi finse di non sentire.
«Hai fretta di andare dai tuoi nuovi amichetti?» E dopo aver posto quella domanda si abbassò improvvisamente in avanti, trovandosi a pochi centimetri dalla faccia di Maria, che trasalì e deglutì, talmente scioccata da non riuscire a muoversi «Dimmi un po’, ancora non te ne sei resa conto? Quelli vogliono una sola cosa da te, sciocchina!».
E con fare assolutamente ilare e derisorio la picchiettò affettuosamente sulla testa.
Maria reagì d’impulso, gli scostò la mano e fece un passetto all’indietro.
Fu talmente disgustata da quel contatto fisico che prese in considerazione l’idea di andarsene e lasciargli il libro, ma quell’idea era controproducente per un paio di ragioni.
Prima di tutto avrebbe dato una scusa a Takumi di parlare ancora con lei, e poi quello spartito le era costato un occhio della testa, ed era una versione limitata di un arrangiamento nella sua tonalità preferita di un famoso compositore italiano.
Aveva dovuto aspettare mesi perché quel libro arrivasse.
Era una questione di principio.
«Dimmi un po’, chi è che ce l’ha più grosso? Il capitano non mi pare, ha la faccia da damerino. Lo scimmione, forse? Nah, quello è tutto fumo e niente arrosto! Andiamo, confidati con me dai, sono particolarmente curioso!».
E pronunciate quelle parole si fece ancora più vicino, con aria disgustosamente confidenziale, Maria stava cominciando a domandarsi perché Takumi fosse particolarmente eloquente quel giorno.
Aveva preso coraggio perché era solo?
Non doveva essere esattamente il contrario?
«Dammi quel libro!» Sbottò Maria, stava cominciando a perdere la pazienza.
Takumi sembrò non prendere troppo bene quel commento di Maria, tuttavia le tese il libro.
Maria rimase per un attimo allibita, valutando se allungare la mano o meno, ma Takumi sembrava improvvisamente mortalmente annoiato dalla sua mancanza di interazione e forse aveva deciso di smettere di maltrattarla per quel giorno, così Maria non ci pensò troppo.
Afferrò il libro, ma proprio quando Takumi lo lasciò andare, senza preavviso, Maria incespicò all’indietro e il ragazzo ne approfittò per avvolgerle il fianco con un braccio e tirarla verso di sé, bacino contro bacino, il fiato di sigaretta sulla faccia.
Maria rimase senza fiato, completamente scioccata, un conato di vomito le salì alla gola.
«Ehi, dimmi un po’, in confidenza» Le alitò Takumi sul viso «Davvero non hai capito che cosa voglio da te?» Maria provò un tale terrore e disgusto a quelle parole che cominciò ad agitarsi come una forsennata, voleva che quell’essere schifoso smettesse di toccarla.
Si sentiva sporca, infettata e disgustosa.
E improvvisamente il motivo per cui era tanto stata messa sotto torchio da Takumi le sembrò talmente evidente da sentirsi una vera e propria stupida per non essersene accorta.
«Toglimi le mani di dosso» Sbottò e prese a colpirlo con il libro.
Takumi sembrò trovare la cosa divertente, la strinse ancora di più e rise.
Maria imprecò e si guardò attorno, il corridoio era ormai deserto, se solo fosse passato un insegnante qualsiasi, uno studente … chiunque!
«Ehi, prima sembravi avere così tanta fretta… Dimmi la verità, chi è che ti stava aspettando nello spogliatoio per farselo succhiare?» Maria trattenne il fiato, scioccata «Quanto ti prendi per il servizio? Ti andrebbe di succhiarmelo?».
Non ci vide più dalla rabbia e dallo schifo, gli sputò in faccia con tutta la forza che aveva.
Takumi la lasciò andare di botto e Maria incespicò un po’ all’indietro.
Per un breve istante provò un impeto di soddisfazione e gloria personale, finalmente era riuscita a reagire contro quello sporco animale, ma quando Takumi le rivolse uno sguardo omicida, Maria provò un po’ meno gioia.
«Sporca puttana di merda!» sbraitò il ragazzo e la spinse con tale violenza che per un istante Maria pensò che sarebbe andata a sbattere dolosamente contro la parete opposta.
Fortunatamente per lei però, proprio in quel momento suonò la campanella e le porte delle classi si spalancarono contemporaneamente, riversando in corridoio una fiumana di persone, cosicché Maria andò a sbattere contro qualcuno, attutendo l’impatto.
«Oh, scusami» si affrettò a replicare, scostandosi dallo sconosciuto.
Tuttavia quest’ultimo le strinse le spalle, con confidenza, e la trascinò dietro di sé.
Maria incespicò, a corto d’aria, e si rese conto di essere andata a finire contro Asahi.
Non se n’era resa conto, ma per tutto quel tempo era stata proprio davanti la sua classe.
Maria si rese conto solo in quel momento, nel vociare della folla che si diradava, dietro le spalle di Asahi, di quanto avesse avuto paura. Le tremavano le gambe, e prima che se ne rendesse conto, senza sapersi controllare, afferrò un lembo della maglietta di Asahi e strinse.
Il ragazzo sussultò lievemente, ma non si girò a guardarla, doveva aver capito la situazione perché teneva lo sguardo fisso piantato sul viso scocciato di Takumi.
«Ah, ecco svelato il mistero!» la provocò il bullo «Era lo scimmione!» continuò imperterrito, ma aveva perso un po’ di baldanza di fronte lo sguardo fisso di Asahi.
I due si fissarono in silenzio per un po’.
«Non so di che cosa stai parlando» sbottò ad un certo punto Asahi «E nemmeno mi interessa» continuò, lo sguardo truce «Ma sparisci dalla mia vista».
Takumi gli scoppiò a ridere nervosamente in faccia, ma non si avvicinò, infilò piuttosto le mani nella tasca del pantalone e ammiccò in direzione di Asahi.
«Salutami tanto il tuo capitano, scimmione!» Lo schernì, poi rivolse a Maria uno sguardo disgustosamente lascivo che fece venire i brividi alla ragazza e muovere Asahi sul posto, improvvisamente irrequieto «Con te continuo un’altra volta …» La minacciò e se ne andò.
Maria sentì un brivido lungo la schiena e la forza venirle meno.
Non doveva più incontrare Takumi da solo, assolutamente.
Se l’avesse beccato in gruppo lui avrebbe continuato a fingere il suo disprezzo, avrebbe continuato a non metterle un dito addosso per farsi bello di fronte la sua banda e Arisa, ma se fosse stato da solo …
Maria stava cominciando a perdere la testa al pensiero, quando sentì Asahi sospirare pesantemente, portandosi una mano tremante al petto.
Per la prima volta si rese conto di trovarsi ancora dietro di lui, nascosta, di essere aggrappata al suo braccio e di provare una stranissima sensazione.
Si sentiva protetta. Asahi aveva le spalle larghe, erano così ampie che Maria avrebbe voluto appoggiarvi la faccia sopra, avvolgergli la vita e tenerlo stretto, e …
«Taniguchi-san, stai bene?» Maria scosse la testa, scioccata, e si rese conto troppo tardi di aver appena fatto un verso di diniego, cosicché Asahi la prese per le spalle, girandosi, e la fissò negli occhi con una tale preoccupazione che Maria si sentì in colpa.
Ma che cosa le era venuto in mente? Che cosa stava pensando?
Era Asahi! Era solamente Asahi!.
«Va tutto bene Azumane-san, ha solo fatto un po’ il prepotente» mormorò tentando di darsi un po’ di contegno, e senza farlo troppo rudemente, tolse le mani di Asahi dalle sue spalle, turbata.
«Sei sicura di stare bene?» insistette lui, grattandosi imbarazzato la nuca.
Maria lo guardò per un secondo, e si ritrovò a ridacchiare sotto lo sguardo sconcertato di Asahi. In realtà, appena aveva visto quella faccia preoccupata, Maria aveva cominciato a domandarsi come avesse fatto Takumi a spaventarsi.
Lei aveva sempre pensato che Asahi fosse tremendamente dolce.
«È ora di andare in palestra, vero?» Domandò Maria, che ormai aveva perso la lezione di educazione domestica e non osava nemmeno immaginare la ramanzina che avrebbe avuto dal professore alla prima occasione disponibile «Facciamo la strada insieme».
E così si incamminarono uno affianco all’altra. Maria aveva finalmente riposto il libro nella borsa, in tutto quel trambusto le era caduto a terra ed era stato calpestato, ma almeno non si era stracciato né rovinato permanentemente.
«Ieri ho litigato con Kiyoko-san» raccontò all’improvviso Maria, catturando l’attenzione di Asahi, che per tutto il tempo aveva camminato al suo fianco in silenzio, con un braccio sollevato all’indietro che reggeva la cartella pendente dietro la schiena.
In realtà nemmeno lei sapeva dire con esattezza perché gliel’avesse detto, ma aveva come l’impressione che Asahi fosse l’unica persona dalla sua parte - sebbene la seconda e unica persona a sapere del suo amore per Daichi - e che non l’avrebbe delusa.
«Io … ho deciso di dichiararmi a Daichi-san questo pomeriggio».
«Davvero?!» sbottò Asahi con una veemenza che Maria non gli aveva mai visto.
Il ragazzo arrossì violentemente, abbassò lo sguardo, lo spostò, e continuò a camminare.
Maria trovò curiosa la reazione, ma non vi diede molto peso.
«Kiyoko-san mi ha detto di non farlo. Ha detto che Daichi-san mi rifiuterà».
Asahi smise di camminare e si fermò di colpo, tornando a guardarla.
Erano arrivati quasi nei pressi della palestra, ed erano soli.
«Una parte di me crede che Kiyoko-san abbia assolutamente ragione, ma l’altra parte è piuttosto fiduciosa. E io vorrei aggrapparmi a quella con tutte le mie forze, che dici?».
Asahi la guardò per un po’ con quegli occhi grandi e sinceri da bambino, l’espressione pensierosa, alcune ciocche di capelli erano sfuggite al codino accarezzandogli il viso e Maria provò l’assurdo e folle desiderio di mettergliele apposto dietro le orecchie.
Quindi desiderò ardentemente che Asahi si muovesse a rispondere per reprimere quell’impulso del tutto malato, che doveva essere dato dal fatto che il ragazzo le ricordava terribilmente un cucciolo di animale bastonato bisognoso di coccole.
«Sono sicuro che Daichi ti accetterà, Taniguchi-san. Ne sono certo».
Asahi pronunciò quelle parole con una tale convinzione che Maria sentì il cuore riempirsi di gioia, sicurezza e fiducia, come se una piccola bolla carica di bei sentimenti le fosse scoppiata magicamente nel cuore.
Sorrise radiosa e afferrò la tracolla della cartella con entrambe le mani, quasi volesse mettersi a saltellare sul posto.
«Si, mi sento molto positiva! Ho anche scoperto che Daichi-san è del segno del capricorno! Sono andata a controllare le affinità tra i segni e ho visto che siamo fatti l’uno per l’altra!» cominciò a raccontare Maria, improvvisamente più loquace e sincera.
In effetti, se non fosse stata troppo distratta da sé stessa, si sarebbe resa conto di essere estremamente vera solamente quando si trovava alla presenza di Asahi.
E si sarebbe resa conto anche dello sguardo d’affetto che lui le aveva rivolto, rapito.
«L’oroscopo dice che l’uomo della mia vita è del segno del capricorno. È destino!».
Maria scoppiò a ridere genuinamente pronunciando quelle parole, sembrava un po’ infantile mentre metteva a nudo tutti i suoi sentimenti, senza sapere quanto male stava facendo.
Sai Maria-san, anche io sono del segno del capricorno … vuol dire che ho speranza anche io?
Asahi rise di quel pensiero, e continuò a seguire Maria fin quando lei non si fermò di colpo.
Aveva completamente cambiato espressione e sembrava terrorizzata e giù di morale.
«Che succede, Taniguchi-san?» domandò Asahi, accigliato.
«Stavo pensando, Azumane-san, che dopotutto Daichi-san ha Michimiya …» E si interruppe, lasciando leggermente raggelato Asahi, che stava cominciando a domandarsi se Maria non sapesse qualcosa di quanto successo anni prima … «Lei è una purosangue, e credo che starebbe decisamente meglio con lui. Non è forse così?» e si girò a guardarlo quasi con aria supplichevole, quasi lo pregasse di dire il contrario.
Asahi perse temporaneamente la testa nel vedere quel viso, lasciò cadere la cartella a terra, afferrò la ragazza per entrambe le spalle e la girò verso di sé, possessivo.
«Smettila di dire sciocchezze Maria» sbottò, e lei lo guardò indignata, pronta a urlargli contro qualsiasi improperio per essersi permesso di chiamarla per nome.
Ma Asahi sentiva di doverlo fare, così continuò a parlare, anticipandola.
«Tu sei una ragazza meravigliosa! E i tuoi occhi sono in assoluto la cosa più bella che io abbia mai visto … per questo motivo, come potrebbe – insomma- come potrebbe Daichi non amarli? Sarebbe davvero da folli …».
E preso da un momento di debolezza, dallo sguardo troppo intenso di Maria, allungò le dita e le accarezzò una guancia, risalendo con il pollice verso la palpebra, quasi volesse baciarla con una carezza.
Per un breve, folle istante, Maria appoggiò la guancia sul suo palmo.
E chiuse gli occhi.
Poi li spalancò di colpo, scioccata, e scostò malamente la mano di Asahi, che indietreggiò, anche lui totalmente in stato di shock.
Si fissarono per un attimo, terrorizzati.
«Vado in palestra Azumane-san, ho delle cose da fare!» sbottò all’improvviso Maria, e corse via senza lasciargli il tempo di replicare.
Asahi rimase fermo immobile, con la mano tesa in avanti, ancora calda …
Che cosa era appena successo?
Che cosa diavolo aveva appena fatto?
Era solo un idiota.
 
 
«Asahi, è tutto il pomeriggio che sei strano. È successo qualcosa?».
Sugawara provò uno strano senso di liberazione dopo aver pronunciato quelle parole.
Era tutto il pomeriggio che avrebbe voluto farlo, ma ne aveva avuto l’occasione solamente in quel frangente, mentre lui e Asahi si erano ritrovati a mettere apposto lo sgabuzzino.
Quel pomeriggio gli allenamenti di Asahi non erano andati troppo bene e il coach l’aveva strapazzato senza pietà, aiutato sadicamente da Daichi.
«Ehi, Suga, posso … posso farti una domanda un po’ personale?».
Sugawara smise di mettere a posto le varie scope e sollevò le sopracciglia, sorpreso.
Asahi era uno dei suoi migliori amici, e sebbene Sugawara sapesse attraverso quanto fosse passato, non era mai davvero riuscito a parlare con lui liberamente.
Quella domanda lo colse di sorpresa.
«Dimmi pure Asahi».
«Come … come hai fatto a capire che Shimizu era la donna giusta?» balbettò Asahi grattandosi la testa, non guardava Sugawara negli occhi, e ad un certo punto gli girò addirittura le spalle, fingendo di dover mettere apposto le varie attrezzature.
Kōshi rimase talmente sorpreso da quella domanda che per un po’ non parlò.
Solamente il rumore dei grilli attraverso la porta aperta, e i rumori prodotti da Asahi, riempirono l’ambiente per un po’. Poi Sugawara strizzò gli occhi e scosse il capo.
La testa aveva cominciato a lavorare freneticamente.
Asahi era forse innamorato di qualcuno?
«Beh, non è qualcosa che si capisce subito sai, Asahi?» cominciò a raccontare. Fuori la luce del sole era quasi calata del tutto, e dallo sgabuzzino era possibile vedere il profilo della palestra, ancora illuminata mentre gli altri finivano di sistemarla.
«È qualcosa che si capisce con il tempo. Ho semplicemente capito, stando con lei, che vorrei averla accanto. Perché senza di lei vivere non sarebbe divertente come prima».
Asahi aveva smesso di affannarsi a mettere apposto la sua parte di sgabuzzino e si era voltato verso Sugawara, sembrava sorprendentemente incantato dalle sue parole, e vedendo quell’espressione così imbambolata in un corpo di quelle dimensioni, Kōshi non riuscì a trattenersi, scoppiò a ridere.
Asahi arrossì violentemente.
«Comunque Asahi, perché questa domanda?» indagò Sugawara, guardando l’amico di sottecchi «C’è forse qualcuno che ti piace?».
Quando Sugawara pronunciò quella domanda a tradimento, successero un paio di cose contemporaneamente: Asahi lasciò cadere a terra la mazza che reggeva in mano e la porta della palestra, quella degli spogliatoi, venne sbattuta fragorosamente con uno schianto.
Asahi e Sugawara trasalirono, precipitandosi fuori lo sgabuzzino.
L’aria era calda, il cielo viola scuro, ma entrambi riuscirono a distinguere benissimo la figura di Maria che correva come una forsennata, il viso completamente inondato di lacrime.
«Taniguchi-san!» la chiamò Sugawara, sorpreso, a gran voce «Che cosa sarà mai successo?» mormorò poi tra sé e sé, girandosi verso Asahi come se potesse avere la risposta. Tuttavia, il ragazzo aveva lo sguardo fisso sulla schiena di Maria.
«Scusami Suga, finisci tu qui!» sbottò all’improvviso, gettò la mazza tra le mani di Sugawara, completamente confuso, e cominciò a correre dietro Maria, sparendo nel buio.
«Non ha nemmeno preso la cartella …» Commentò Sugawara nel vuoto.
Maria e Asahi erano appena spariti nel buio, lontani.
Eppure Kōshi non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine delle loro schiene.
Che cosa stava succedendo, esattamente?

 
 
 
 
Salve a tutti, qui è Effe_95 che vi scrive oggi.
Un po' di fretta perché nella vita non si fa altro che correre.
Questo capitolo 7 è preludio di tante cose ...
Possiamo dire che dà la spinta per quello che succederà in futuro (a breve) e sarà un delirio preannunciato, ve lo garantiamo 🤣
Grazie come sempre ai nostri lettori silenziosi, se ogni tanto vi va di farvi sentire ci fa piacere. Non mordiamo 😜
Inoltre, ne approfitto per ricordarvi - se ancora non vi è capitato di darci un'occhiata - che la partner in crime sta facendo un ottimo lavoro per il Writober. Non perdetevi una bella storia da leggere! 😉
Alla prossima!
Effe_95 & Flying_lotus95

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Capitolo 9
*** 8- "Amami, Alfredo!" ***


8. “Amami, Alfredo”.

 

“Sen soylu kan asilzade
Ben çiçek açtım sadece
Olur mu ki ne dersin
Sen de beni sever misin?”

 
(Tu alto, nobile sovrano
Io sono appena sbocciata
Potrebbe accadere, che ne dici?
Potresti amarmi anche tu?)
 
 
 
 
Maria era stanca.
Era stanca nell’anima e nel corpo; non ricordava di avere avuto giornate impegnative come quelle da parecchio tempo. Ne erano successe talmente tante.
Le immagini si susseguivano nella sua mente come tanti fotogrammi.
Daichi e Yui seduti in quella caffetteria, la faccia di Shimizu alle sue parole, l’alito di Takumi sul suo viso, la schiena di Asahi e la sua mano sulla guancia…
Maria scosse violentemente la testa e respirò a fondo.
Non doveva pensarci troppo, quella giornata ormai era quasi finita, l’allenamento era finito e poteva finalmente restarsene un altro po’ negli spogliatoi, ormai vuoti, a studiare.
Aveva perso le speranze di poter restare da sola con Daichi, e dopotutto non era più sicura di volersi dichiarare apertamente, o almeno, voleva quanto meno verificare prima di poterlo fare.
L’espressione imbarazzata di Daichi alla gelateria era ancora così chiara …
Maria pensò che dopotutto non fosse il caso di scervellarsi troppo.
Si mise seduta compostamente sulla vecchia scrivania, incrociò le caviglie, infilò le cuffiette nelle orecchie, estrasse il libro di solfeggio - quello calpestato dalla folla - e lo aprì con amore.
Il titolo riluceva in bella mostra nella prima pagina, era scritto in italiano, ma anche in quel caso Maria ne conosceva il significato senza bisogno di comprenderlo: “Amami Alfredo” della “Traviata” di Verdi.
Era letteralmente impazzita per cercare quella versione.
E in quel momento le sembrava l’unica cosa in grado di migliorarle un po’ la giornata.
Aveva appena chiuso gli occhi, come faceva sempre quando si accingeva ad ascoltare una canzone fino in fondo, che sentì chiaramente una presenza imponente al suo fianco.
Spalancò gli occhi di colpo e sussultò, sorpresa, il cuore a mille nel petto.
Daichi si era appena messo seduto accanto a lei, a pochi centimetri di distanza, e la guardava con un sorriso bonario sulle labbra.
Indossava ancora la tuta nera della Karasuno, aperta su una maglietta bianca fresca di bucato, i capelli erano leggermente umidi sulle tempie e sembrava anche lui piuttosto stanco.
Maria ebbe come l’impressione di averlo guardato per troppo tempo come un ebete.
Trovò velocemente la compostezza e spostò lo sguardo, improvvisamente imbarazzata.
«Che cosa fai qui tutta sola? Gli altri sono quasi andati tutti via».
Daichi aveva un insolito accenno di dolcezza nella voce, come se volesse rassicurarla.
E Maria si rese conto che erano da soli, nello sgabuzzino, lontano dagli altri, e poteva finalmente mettere in atto il suo piano, confessando a Daichi tutto quello che provava.
Era lì, proprio davanti a lei, le sarebbe bastato aprire la bocca, eppure …
Eppure Maria non lo fece, non lo fece subito, immediatamente, impulsivamente.
«Volevo esercitarmi un po’ nel solfeggio» Mormorò mostrando al ragazzo le cuffiette.
Con sua enorme sorpresa, Daichi ne prese una e l’accostò all’orecchio.
«Che cosa stavi per sentire?» Domandò incuriosito, rivolgendo un’occhiata di sincero interesse alla prima pagina dello spartito, sul titolo che non era in grado di leggere.
Maria sentì immediatamente un’ondata di tranquillità, familiarità e sicurezza calarle sulle spalle come un manto gentile, silenzioso e soporifero; le migliorò subito l’umore.
«Un pezzo della Traviata di Verdi» Rispose con più confidenza, le nacque un sorriso spontaneo sulle labbra, e indicò con la punta del dito il titolo in nero «“Amami, Alfredo”».
Daichi aveva gli occhi puntati sullo spartito, sembrava talmente assorto che per Maria furono una vera e propria sorpresa le parole che pronunciò poco dopo, sempre fissando la carta.
«Non preoccuparti per quello che è successo ieri. È stato un incidente. Michimiya mi ha chiesto di dirti che non se l’è presa affatto».
Maria strinse più forte la mano destra, nascondendola vicino al fianco, non capiva perché Daichi dovesse parlare di quella ragazza anche in quel momento, quando si trovavano da soli e in una situazione così delicata, che sarebbe bastato un soffio per toccarsi.
«Si, mi dispiace per quello che è successo…» si ritrovò costretta a mormorare, ma lasciò immediatamente cadere l’argomento, perché Daichi le aveva appena preso l’iPod di mano.
Probabilmente anche lui voleva lasciar cadere l’argomento, perché schiacciò il tasto d’avvio.
Maria chiuse immediatamente gli occhi quando partì la voce meravigliosa e potente di Maria Callas nei panni di Violetta, la protagonista della Traviata.
Violetta parlava con una tale intensità al suo Alfredo …
 
“Ch’ei qui non mi sorprenda: lascia che m’allontani, tu lo calma. Ai piedi suoi mi getterò, divisi ei più non ne vorrà, sarem felici, perché tu m’ami, Alfredo, non è vero?”
 
Maria sentì la presenza di Daichi al suo fianco farsi incredibilmente ingombrante, lo sentiva, ogni centimetro, millimetro della sua pelle lo sentiva, anche se non si stavano toccando.
Perché tu m’ami, Daichi, non è vero?
E l’ansia di Violetta era la sua ansia, e il grido di Violetta era il suo grido.
Amami Alfredo!”
Senza nemmeno rendersene conto, completamente trasportata dalla musica, Maria si lasciò andare e appoggiò la testa sulla spalla del ragazzo, gli occhi ancora chiusi.
Daichi non sussultò nemmeno a quel contatto, rimase in silenzio per un po’, la canzone che andava avanti dolcemente, in un crescendo sempre più passionale e frenetico; poi sollevò la mano e le accarezzò dolcemente la testa, in un gesto d’affetto istintivo.
«Sei stanca, vero?» Le domandò a voce bassa, quasi non volesse disturbare la musica.
Lo sgabuzzino era ormai quasi semibuio, dal corridoio non giungevano più rumori, gli altri ragazzi dovevano aver chiuso la palestra, o quasi terminato di mettere tutto apposto.
Maria avrebbe provato qualche senso di colpa nei confronti di Hitoka e Shimizu se il cervello non fosse stato troppo concentrato sul presente, su quello che sentiva in quel momento.
Aprì gli occhi, la mano di Daichi sulla testa, la sua spalla forte e ampia a cui aggrapparsi, il suo profumo di biancheria fresca e menta …
«Ti amo».
Lo disse senza pensarci, lo disse a voce alta, chiara, direttamente dal cuore.
Tutte le sue paranoie in quel momento le sembrarono sorprendentemente ridicole, tutto quell’arrovellarsi, quelle paure … era stato tutto terribilmente inutile e ridicolo.
Perché quelle due semplici parole le erano venute facili come respirare, spontanee.
Maria sollevò la testa, tolse la cuffietta dall’orecchio, la musica ormai cessata, e si girò a guardare Daichi, lo sguardo leggermente sorpreso, anche lui la cuffietta in mano.
«Si, anche io amo molto questo testo» commentò con un certo imbarazzo.
Maria rischiò di cadere dalla cattedra quando sentì quelle parole, ma non si scoraggiò.
Ridacchiando, contemporaneamente divertita e imbarazzata, afferrò le mani di Daichi con una confidenza che prima non avrebbe mai avuto se non avesse avuto la certezza che i suoi sentimenti fossero assolutamente ricambiati.
Daichi l’avrebbe accettata, Maria ne era sicurissima.
«Daichi-san, no … Sono innamorata di te. Io, sono davvero innamorata di te».
Maria aspettò trepidante, le mani di Daichi strette nelle sue, un sorriso accondiscendente e carico di speranza sul viso, gli occhi del ragazzo che era sicura di amare profondamente puntati nei suoi, per una volta non ne aveva vergogna.
Voleva che lui li guardasse attentamente, voleva che …
Daichi scostò lentamente le mani dalle sue, un sorriso leggermente tirato sulle labbra.
«Maria» esordì, grattandosi la nuca, il sorriso di Maria vacillò leggermente, forse era imbarazzato, forse non sapeva cosa dirle «Maria, provo davvero un grande affetto per te» continuò lui, e allungò nuovamente la mano per accarezzarle la testa «Ma non posso darti quello che mi stai chiedendo. Non riesco a vederti in altro modo».
Se le avesse sparato in pieno petto, all’altezza del cuore, Maria era sicura che avrebbe provato meno dolore e meno umiliazione di quella che stava provando in quel momento.
Aveva come la sensazione di non aver sentito bene, di avere le orecchie otturate.
Aveva come la sensazione che qualcosa di estremamente rovente le stesse scavando nel petto senza alcun riguardo, senza alcuna pietà.
“Pensi davvero che uno come Sawamura possa interessarsi a te? Ma non l’hai ancora capito? Tu gli fai pena!”
E all’improvviso, le parole che Arisa le aveva gettato addosso con violenza settimane prima, quelle parole che aveva continuato a soffocare nella sua testa perché si quietassero, le tornarono prepotentemente in mente come un fiume in piena.
Perché erano vere, erano maledettamente vere!
Ma che cosa le era venuto in mente? Daichi non poteva amare una come lei.
La sua era stata solamente pietà, era sempre stata solamente pietà.
Eppure, eppure Asahi le aveva detto …
«Daichi-san, io ti amo! Davvero io-»
«Maria» la interruppe dolcemente il ragazzo, riprendendo le mani che aveva lasciato poco prima per lo sconcerto tra le sue «Quello che provi per me non è amore».
E sorrise, bonariamente, come se stesse parlando con una bambina estremamente testarda.
«Maria, l’amore è un’altra cosa».
Maria non riuscì a sopportare oltre, mollò malamente le mani di Daichi e saltò in piedi.
Non le importava più nulla degli occhi carichi di imbarazzo di lui, né della sorpresa dipinta sul suo viso provato, voleva solamente fargli male, voleva che lui sapesse che cosa le stava facendo in quel momento, voleva che pagasse in qualche modo.
Che pagasse lui per tutte le sue stupide fantasie infantili.
«Non te n’è mai importato nulla di me, vero?! Tu provi solo pietà. Io ti faccio schifo non è vero Daichi-san? A te faccio schifo come a tutti gli altri! I miei occhi ti fanno schifo eh?».
E non aspettò che lui potesse rispondere, non aspettò che lui potesse spiegarsi.
Prese la cartella, ci gettò dentro l’iPod, e corse via come un fulmine.
Perché faceva decisamente troppo male, faceva davvero male.
Faceva così male che non riusciva nemmeno a respirare.

 
 
 
“Edalı bir bakış attın
Sonra hemen aşktan kaçtın”

 
(Mi hai guardata in modo affascinante
E poi sei subito scappato via dall’amore)
 
 
 
Asahi riuscì a raggiungere Maria solamente quando lei si fermò di colpo, a corto di fiato.
Aveva corso senza sosta, come in preda a un eccesso sfrenato di adrenalina, che poi doveva essere venuto meno all’improvviso, privandola di ogni forza.
Asahi la vide appoggiare la spalla sul muro, accasciarsi a terra e cadere seduta sul marciapiede sporco e pieno di erbacce, poco lontana dall’uscita della scuola.
Le spalle esili erano scosse furiosamente dai singhiozzi, sembrava talmente piccola e indifesa che Asahi non riuscì a fare altro che fermarsi, ad alcuni metri di distanza, sentendosi tremendamente inadeguato nel suo fisico così possente.
Avrebbe voluto avvicinarsi, ritrovare nuovamente il coraggio che l’aveva spinto a seguirla senza alcuna esitazione lasciando Sugawara da solo nello spogliatoio, senza nemmeno prendere la cartella, con solo il cellulare nella tasca dei pantaloni della divisa scolastica.
Avrebbe voluto metterle una mano sulla spalla, sedersi accanto a lei e chiederle cosa fosse successo, ma tutto quello che riuscì a fare fu muovere qualche passo incerto, spaventarla per il rumore e ricevere uno sguardo colmo di lacrime, rabbia e risentimento.
Quegli occhi azzurri che Asahi aveva amato dal primo istante, quegli occhi che avevano tormentato le sue notti, quegli occhi erano rossi e gonfi di lacrime.
Sembrava che qualcuno l’avesse pugnalata dolorosamente nel petto, dritto nel cuore.
Asahi si guardò le mani, impacciato, riusciva a reggere il suo sguardo per un pelo.
«Azumane-san!» lo chiamò lei con la voce roca, rotta dal dolore «È tutta colpa tua!» gli gridò addosso, e scoppiò a piangere come una bambina piccola, il viso tra le mani.
Asahi non se la prese troppo, dopotutto, aveva pensato che fosse colpa sua fin dall’inizio in qualche modo; che quelle lacrime fossero tutta colpa sua.
Si sfregò frettolosamente le mani, e quando la pelle cominciò a fargli male, smise di tormentarsi e andò a sedersi accanto a Maria, ad un paio di metri di distanza.
«T-Taniguchi-san … cos’è successo?» Domandò, a voce bassa.
Se avesse parlato con quel tono di giorno, Maria non sarebbe riuscita a sentire nemmeno una parola, ma quella sera la strada era deserta, i lampioni accesi proiettavano una luce fioca contro il cielo gravido di stelle, faceva caldo e i grilli frinivano in lontananza.
Asahi ebbe come l’impressione che la sua voce rimbombasse furiosamente.
«Non avresti dovuto darmi tutta quella speranza Azumane-san. Così fa troppo male».
Il sussurro di Maria gli sembrò come uno schiaffo in pieno viso.
Asahi la vide rannicchiarsi, accartocciarsi su sé stessa come un foglio di carta spiegazzato troppe volte, pronto a strapparsi da un momento all’altro alla minima pressione.
Daichi l’aveva rifiutata? Daichi l’aveva davvero rifiutata?
«Certe volte Daichi non lo capisco proprio…» si ritrovò a mormorare, grattandosi la nuca in imbarazzo «Dovrò dirgliene quattro mi sa, eh?» Mugugnò, disperato.
Sorprendentemente, inaspettatamente, come una perla di cristallo in un mare di perle comuni: la risata cristallina di Maria, mista a un pizzico di dolore e follia.
Asahi smise di grattarsi la nuca e si girò a guardarla, con la mano sospesa per aria e l’espressione leggermente sorpresa, la bocca spalancata; Maria lo fissava divertita, arrabbiata, dolorante, confusa e profondamente ferita.
«Chiudi quella bocca, ci entreranno le mosche» Commentò lei, allungando una mano per spingergli la mascella in avanti, Asahi rabbrividì quando le sue piccole mani ancora umide di pianto entrarono a contatto con la barba e la pelle calda a causa dell’afa.
Senza pensarci troppo, allungò una mano e le afferrò le dita, stringendole tra le sue.
«Taniguchi-san, mi dispiace che abbia fatto male. Sono sicuro che Daichi non era sincero, doveva essere confuso, lui -»
«Azumane-san, basta così. Daichi-san è innamorato di Michimiya, l’ho capito».
Asahi trovò una tale disperazione nelle parole di Maria che cominciò ad agitarsi.
«No, Taniguchi-san, tu non sai come … tu non … davvero …».
Ma dopotutto non sapeva davvero cosa dirle, nemmeno lui aveva mai capito cosa passasse davvero per la testa di Daichi.
Era innamorati di Yui? Non gliel’aveva mai detto.
Era confuso? Non gli aveva mai detto nemmeno quello.
Asahi, dopotutto, non lo sapeva.
«Non credere che sia per questo motivo» Mormorò infine, tuttavia deciso.
Non poteva dare a Maria la risposta che avrebbe voluto sentire, non sarebbe stato in grado di mentire senza che lei se ne accorgesse, ma quella era in assoluto la sola verità in cui credeva. La verità che Daichi, dopotutto, non l’avesse rifiutata per Yui.
Era semplicemente che Daichi certi sentimenti, certe emozioni, non le provava.
Non era in grado di provarle in quel momento, non era ancora tempo.
«Se non è per quello, allora deve essere per i miei occhi».
La replica di Maria lo lasciò talmente spiazzato che Asahi non si rese nemmeno conto del fatto che lei si fosse alzata, spiegazzandosi la gonna, e avesse preso la cartella, pronta.
«Non è per -»
«Azumane-san, mi accompagneresti a casa?».
Asahi rimase talmente sorpreso, che per un momento non si rese conto nemmeno del fatto che lei l’avesse interrotto per la seconda volta di fila, troppo impegnato ad osservare la mano che lei gli aveva teso.
Si tirò in piedi, leggermente impacciato, e le prese la mano.
Maria cominciò a camminare, esortandolo a seguirla, mentre Asahi se ne stava un passo indietro, guardandola ondeggiare lungo la strada e ogni tanto tirare su con il naso.
Camminarono per una ventina di minuti, in totale silenzio, finché non raggiunsero una piccola villetta a schiera, identica a tutte le altre che la circondavano, completamente buia e silenziosa, come la strada e tutto il resto.
Maria si fermò di colpo davanti al cancelletto e lo spalancò, con calma, poi sembrò ricordarsi di aver tenuto Asahi per mano tutto il tempo e lasciò la presa di colpo, guardandolo come se volesse sfidarlo a rimproverarla, o semplicemente a ricambiare a sua volta con lo sguardo.
Era turbata da quanto le venisse naturale toccare quel ragazzo, o sentirsi toccata da lui.
«Beh, direi che ci vediamo domani» mormorò Asahi mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloni. Le punte delle dita, che Maria aveva stretto fino a pochi secondi prima, erano ancora calde a contatto con il materiale freddo del cellulare.
Maria incrociò le braccia al petto, lo scrutò per un po’, poi indicò la casa.
«Vuoi farmi compagnia ancora per un po’ Azumane-san?».
Asahi la guardò allibito per un istante, insicuro su cosa fare, l’abitazione sembrava essere deserta, ma quando incrociò gli occhi di Maria, ancora arrossati, non riuscì a rifiutare.
Maria lo condusse in casa con una certa noncuranza, accendendo tutte le luci che si trovava davanti mentre Asahi si toglieva distrattamente le scarpe, seguendola con lo sguardo.
In casa non c’era nessuno, tutto era silenzioso e calmo.
«Dove sono i tuoi genitori?» le domandò, mentre la raggiungeva nella piccola ma confortevole cucina, confusionaria, vissuta e sorprendentemente profumata di spezie varie.
Maria smise di trafficare con alcune cose in una pentola e lo guardò, facendo spallucce.
«I miei nonni sono andati alle terme, rientrano domani sera. Papà ha il turno di notte al comune» spiegò con semplicità, poi smise di controllare il cibo e guardò Asahi.
Si fissarono, per un istante, senza sapere bene cosa dire, entrambi in imbarazzo.
Asahi notò solo vagamente che non aveva fatto accenno alla madre.
A quel punto Maria uscì dalla cucina e prese a salire la rampa di scale, probabilmente intenzionata ad andare nella sua camera, Asahi la seguì di riflesso, intontito.
Maria aveva una stanza molto semplice, un letto un po’ sfatto, una scrivania, l’armadio con la libreria e un futon stropicciato accanto alla finestra, che lasciò Asahi piuttosto perplesso.
«Ogni tanto mi piace dormire nel futon» commentò Maria arrossendo.
Asahi annuì distrattamente e andò a sedersi sul bordo del letto, le mani nascoste sotto le cosce, lo sguardo che vagava distrattamente sulla serie infinita di spartiti che ingombravano la libreria come un arcobaleno multicolore leggermente caotico.
Proprio in quel momento, il suono di un telefono lo fece sobbalzare.
Asahi si portò una mano sul cuore, sentendosi stranamente colpevole per qualcosa di indefinito, e guardò con le sopracciglia aggrottate Maria che scrutava torva il display del telefono e chiudeva la chiamata in faccia al mittente, senza rispondere.
E prima che potesse aprire bocca, prima che potesse anche solo azzardare a domandare qualcosa, Maria gettò il cellulare sul letto e scoppiò in lacrime senza ritegno.
Asahi aveva temuto che sarebbe successo, aveva temuto che Maria sarebbe scoppiata come una bomba ad orologeria, che avrebbe preso a gridare con forza tutto il suo dolore.
Solo non sapeva cosa dirle, né cosa fare, né come aiutarla, e si sentiva uno stupido a starsene lì su quel letto, mentre lei piangeva, e digrignava i denti e soffriva.
«È tutta colpa di quella donna! È tutta colpa sua!» singhiozzò.
«Q - quella donna?» mormorò Asahi, aveva allungato una mano verso di lei come se farlo avesse potuto portarle conforto, ma una carezza non le sarebbe stata di alcun aiuto.
«Simona, mia madre» spiegò Maria asciugandosi inutilmente le guance, Asahi lasciò la mano sospesa a mezz’aria, personalmente non si era aspettato una risposta.
Aveva avuto poche occasioni per parlare con Maria da quando l’aveva vista la prima volta, da quando, inaspettatamente, era entrata nel club e, di conseguenza, anche nella vita di tutti loro. Ma quelle poche volte che erano stati in contatto, aveva sempre avuto come l’impressione di parlare con qualcuno che conosceva da tempo.
In quel momento stava provando la stessa identica sensazione.
Parlare con lei gli veniva sempre naturale, era un po’ come … un po’ come se la conoscesse da tutta la vita. Come se l’avesse sempre conosciuta nel suo cuore.
Quindi quella risposta, gettata fuori senza scudi, senza scuse, senza finzioni, non se l’era affatto aspettata da Maria, che ergeva muri uno dietro l’altro per non essere ferita.
Probabilmente, senza saperlo, Daichi quella sera aveva gettato giù tutto con un soffio di vento, lasciandola sola e scoperta, nuda, di fronte a sé stessa.
«Mia madre è italiana Azumane-san. Ma questo lo sapevi, vero? A scuola lo sanno tutti ormai» continuò lei, si era sfregata talmente tanto il viso che aveva gli zigomi tutti arrossati all’altezza degli occhi, l’espressione selvaggia e completamente sconvolta «Mia madre è una stupida ragazza italiana che si è fatta mettere incinta dal suo migliore amico giapponese dopo una notte di bevute allegre tra amici!» Maria pronunciò quelle parole con uno strano sorriso carico di risentimento e ilarità, sapeva benissimo che probabilmente il giorno dopo se ne sarebbe pentita, si sarebbe pentita di aver raccontato tutto ad Asahi, ma in quel momento non le importava, in quel momento avrebbe fatto qualsiasi cosa per sparire.
«Quella donna non mi voleva nemmeno! Non aveva il minimo istinto materno, mi avrebbe ucciso nell’istante esatto in cui ha saputo della mia esistenza se non fosse stato per mio padre. Mi ha fatto nascere con questi occhi maledetti, e poi è sparita. “Torno per il tuo compleanno Maria”, “Ci vediamo a Natale Maria”, tutte bugie! Tutte bugie!» strillò, afferrando con violenza i braccioli della sedia da scrivania su cui era seduta.
«Vorrei davvero che fosse morta piuttosto!».
Successe una cosa stranissima dopo che ebbe gridato quella frase con tutto il fiato che aveva in gola, rossa in faccia per la collera, imbarazzata per le lacrime; Asahi le afferrò un po’ rudemente i polsi delle mani e la strattonò in avanti, l’espressione severa sul viso.
«Non dire mai più una cosa del genere, Maria!».
Il suo nome, l’aveva chiamata ancora una volta con il suo nome.
Maria lo guardò dritto negli occhi, lo sguardo sorpreso, per una volta senza parole.
Non sapeva nemmeno se arrabbiarsi con lui o meno, perché non l’aveva mai visto così serio.
«Non dire queste cose davanti a me, che ho perso mio padre quando avevo dieci anni».
«I-io …» balbettò Maria, presa in contropiede, ma poi tacque, senza sapere cosa dire.
Nella stanza cadde un silenzio inaspettato, carico di stupore e dolore.
Maria e Asahi si guardarono negli occhi, lui la lasciò andare di colpo, come se si fosse reso conto solamente in quel momento di averle afferrato i polsi rudemente, di essersi alzato dal letto e di averla completamente sovrastata con la sua mole.
Quando Asahi l’ebbe lasciata, Maria abbassò lo sguardo e si guardò le mani.
«Qualcuno potrà mai amarmi con questi occhi? Ma che dico? Se non mi ha amata colei che mi ha dato la vita, come posso pretendere che qualcun altro lo faccia?»
«Maria, non dire così, non è vero …».
Ad Asahi mancò il respiro quando, dopo aver pronunciato quelle parole, Maria gli afferrò all’improvviso la maglietta, fece qualche passo in avanti e si mise sulla punta dei piedi.
I loro respiri erano talmente vicini che si confondevano uno nell’altro.
Asahi era come impietrito, non riusciva a muovere nemmeno un muscolo per la sorpresa.
«Non puoi amarmi tu? Non puoi amarmi almeno tu?» soffiò Maria.
E poi lo baciò, un bacio a fior di labbra, un bacio dato in preda al delirio più totale.
Asahi si irrigidì come una statua, gli occhi fuori dalle orbite per la sorpresa, le labbra serrate in una fessura sottile, in contrasto evidente con quelle gonfie e morbide di Maria.
Il suo profumo di rose gli stava mandando il cervello in cortocircuito.
Che cosa diavolo stava succedendo?
Come erano finiti dal parlare dei loro genitori a baciarsi?
Quando Maria si allontanò, solo di qualche centimetro, erano talmente vicini che Asahi riusciva a vedere solamente il mare immenso dei suoi occhi chiari.
«Amami almeno tu, anche solo per stasera, Asahi».
Maria sussurrò il suo nome come un gemito.
Asahi perse completamente la testa, le afferrò il viso tra le mani e la baciò con vigore.
Incespicarono nei loro stessi passi per l’impeto, Maria inciampò con il tallone nel futon e prima che potessero rendersene conto erano scivolati per terra sul materassino morbido.
Avvinghiati, completamente fuori di sé.
Le mani dappertutto, la ragione da un’altra parte …
Il cuore tra le mani.
 

 
 
“Anlaşmamızda yok tamam
Sen de bana aşık olsan…”
 
 
 
 
Asahi si svegliò di soprassalto, con i capelli di Maria in bocca.
Aveva gli occhi ancora impastati di sonno, l’ambiente non gli sembrava familiare e sentiva un freddo tremendo alle gambe e ai piedi; dov’erano finiti i calzini?
Sbattendo lentamente le palpebre Asahi mise a fuoco la stanza, il soffitto non troppo alto, la penombra rischiarata in alcuni punti dalla poca luce che filtravano dalla finestra non completamente chiusa, la scrivania, e il corpo caldo di qualcuno ancora immerso nel sonno più profondo alla sua destra …
Asahi si lasciò scappare un grido di sorpresa, che soffocò premendosi una mano sulle labbra, e guardò Maria con gli occhi completamente spalancati, inorridito mentre i ricordi tornavano alla mente come un fiume in piena.
Asahi si guardò frettolosamente intorno, l’orologio appeso alla parete segnava le 5:38 del mattino. Sospirando pesantemente si tirò a sedere, lasciando che il futon gli coprisse le gambe e lasciasse scoperto il petto, voltò la testa verso Maria e si grattò la nuca.
Dormiva profondamente, i capelli sparsi sul viso, sul cuscino, dappertutto, era mezza scoperta e inequivocabilmente nuda … beh, sollevando le coperte Asahi constatò che anche lui era inequivocabilmente nudo, quindi non c’era possibilità che fosse stato tutto un sogno.
Asahi cercò di scacciare momentaneamente i ricordi che gli tornavano in mente, traditori.
Scostò delicatamente il piumino e lo sistemò con premura sul corpo di Maria, facendo in modo che fosse completamente coperta e non prendesse freddo, le accarezzò la nuca sospirando; poi andò alla ricerca dei suoi vestiti.
Ci avrebbe pensato più tardi a vergognarsi di sé stesso e di quello che aveva combinato.
Aveva appena raccolto il maglioncino da terra, l’ultimo indumento ancora rimasto, oltre i codini, che sentì il rumore inequivocabile di una porta che veniva aperta e chiusa.
Asahi inorridì quando pensò alle sue scarpe abbandonate nell’ingresso, Maria gli aveva detto che suo padre aveva il turno di notte al Comune, doveva essere tornato proprio in quel momento, e se avesse visto le scarpe …
Infilò frettolosamente il maglione alla rovescia, si passò alla bell’e meglio una mano nei capelli aggrovigliati, e cominciò a scendere le scale in punta di piedi, nella semioscurità.
L’unica luce accesa proveniva dalla cucina, la porta era semichiusa e un raggio di luce si proiettava sul pavimento, scendendo le scale il più silenziosamente possibile Asahi sentì il rumore di stoviglie che venivano gettate incurantemente nel lavabo, il suono dell’acqua corrente e la voce calda e bassa di un uomo che canticchiava un’antica canzone popolare.
Mordendosi il labbro inferiore, raggiunse il piccolo ingresso con un unico balzo, rischiando pericolosamente di finire schiantato dritto nella scarpiera; imprecò tra i denti, afferrò le proprie scarpe e sgattaiolò di fuori come un fulmine, ritrovandosi all’aria fresca del mattino.
Il sole non era ancora sorto del tutto, la strada, le case, ogni angolo del quartiere sembrava immerso nel silenzio religioso che precedeva il risveglio, quel momento di quiete improvviso in cui la luna si ritirava tingendo il cielo di un blu cobalto, l’alone delle stelle ancora visibile.
Asahi camminava lentamente, le scarpe infilate distrattamente ai piedi, le mani nelle tasche dei pantaloni, il cellulare ancora stretto tra le dita.
Aveva una mezza idea di mandare un messaggio a Suga-san per chiedergli se aveva recuperato la sua cartella quando l’aveva sconsideratamente lasciata nello sgabuzzino.
Afferrò il cellulare e lo tirò fuori, ma si bloccò immediatamente quando guardandosi il dorso della mano, lo trovò inequivocabilmente graffiato.
Tre linee perfette, rosse e quasi della stessa lunghezza.
Prima che potesse anche solo rendersene conto, Asahi tornò indietro con la memoria a poche ore prima, quelle poche ore che erano sembrate lontane chilometri di distanza.
Quei graffi glieli aveva fatti Maria, quando si era aggrappata a lui mordendosi il labbro per non gridare … o forse alla fine aveva gridato lo stesso?
E poi le mani tra i suoi capelli; aveva voluto farlo dalla prima volta che l’aveva vista, vedere se erano morbidi e soffici come sembravano, e le mani sul suo corpo, e le mani …
Asahi si fermò di colpo, avvampando per la vergogna, si inginocchiò e nascose il viso tra le mani, scuotendo la testa nel totale imbarazzo.
Dove l’aveva baciata? Dove aveva messo quelle mani? Che cosa le aveva detto?
Si sentiva talmente sporco, talmente colpevole che avrebbe volentieri scavato la terra sotto i suoi piedi a mani nude per sparirci dentro senza alcuna esitazione.
Gli era sembrato di avere approfittato delle debolezze di Maria, lei se ne sarebbe pentita sicuramente.
Come avrebbe potuto guardarla in faccia?
Come avrebbe potuto guardare Daichi negli occhi?
Se mai quella storia fosse venuta fuori, Maria sarebbe stata ancora di più nei guai, ad Asahi non importava che girassero delle voci strane su di lui, ne era abituato, ma non voleva che Maria subisse ancora di più di quanto era già costretta a subire.
Si sfregò violentemente la faccia tra le mani, infilò le dita nei capelli, scombinandoli ancora di più, e gli tornò in mente il modo in cui Maria aveva sussurrato il suo nome, stremata …
No, no, smettila! Smettila!
Si colpì violentemente la testa e saltò in piedi, spaventando a morte una bambina appena uscita nel cortile di casa, ancora in pigiama.
«Mamma! Mamma c’è un barbone!» strillò la bambina, e Asahi vide una donna affacciarsi dalla portafinestra, guardarlo spaventata, agguantare la bambina e trascinarla in casa.
«Non guardare Tsubaki-chan! È un pervertito!».
Asahi arrossì violentemente e continuò a camminare, tirandosi nervosamente la camicia.
Raggiunse casa che l’orologio del cellulare segnava le sette precise.
Quando aprì la porta, facendo meno rumore possibile, trovò l’esile figura di sua madre rannicchiata sotto l’uscio della porta della cucina, sembrava pallida, spaventata.
Indossava la solita vecchia vestaglia di peltro lilla, aveva i capelli castani raccolti scompostamente in una crocchia sul capo, erano bianchi alla radice, anche quel mese non era riuscita a mettere i soldi da parte per andare a farsi la tinta …
Quando la vide con quello sguardo preoccupato, il senso di colpa che cresceva nel petto di Asahi come un piccolo germoglio, si trasformò improvvisamente in una pianta, ingigantendosi enormemente.
«Asahi, tu … stai rientrando adesso? Do-dove sei stato?» domandò Kaori Azumane, stringendo le braccia al petto sotto il seno, Asahi la guardò negli occhi solamente per un secondo, poi le fece un piccolo inchino.
«Scusami mamma, mi sono dimenticato di avvisarti. Io … ho studiato tutta la notte a casa di Nishinoya con gli altri ragazzi!». Asahi si rese conto della debolezza della sua scusa nel momento esatto in cui ricordò di non avere la cartella. «Ho dimenticato la cartella a casa sua» si affrettò a commentare, pettinandosi nervosamente i capelli.
Kaori rimase a guardarlo per un po,’ preoccupata.
Gli occhi scuri indugiarono per un secondo sul maglione al rovescio del figlio, sui calzini uno più basso, l’altro più alto, e sui capelli completamente arruffati, le gote arrossate ….
«Va bene, vai … vai a farti una doccia calda. Ti preparo la colazione».
E sparì oltre la porta, lasciando Asahi solo nell’ingresso.
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo e sgattaiolò verso le scale, raggiungendo la porta del bagno proprio mentre quella di camera di sua sorella si spalancava di colpo.
Hotaru vi uscì tutta pimpante, già in divisa pronta per andare a scuola.
Si bloccò di colpo quando vide il fratello, in quelle pessime condizioni, che la fissava spaventato e inorridito, con una mano stretta attorno al pomello della porta del bagno.
Il viso di Hotaru si allargò in un sorriso spropositato che le mise in mostra tutta la dentatura davanti, e appoggiò le mani sui fianchi con aria birichina.
«Da dove vieni?» Domandò immediatamente, agguantando Asahi per i fianchi per stringerlo in un abbraccio da orso.
«Ero …. Ero da Daichi» balbettò, cercando di liberarsi delicatamente dalla stretta della sorella più piccola, aveva paura che Hotaru potesse sentire il profumo di Maria su di lui.
Perché Asahi lo sentiva dappertutto.
«Sawamura-san? Non eri da Noya-san tu? Ti ho sentito che lo dicevi alla mamma prima» commentò Hotaru ridacchiando divertita, per poi pizzicargli i fianchi.
Asahi sussultò, non aveva mai sopportato il solletico, e avvampò.
«Beh si … ma c’era anche Daichi!» borbottò scrollandosi la sorella di dosso.
Hotaru ridacchiò divertita, guardandolo dritto negli occhi uguali ai suoi.
«Non me la conti giusta fratellone … e comunque, hai la braghetta aperta, sai?».
E se ne andò, lasciandolo con la faccia viola, il respiro corto, alle prese disperate con i pantaloni completamente slacciati.
 
 
Quando Maria aprì gli occhi, lo fece con le immagini che le galleggiavano vivide dietro le palpebre. Era già sveglia da alcuni minuti quando spalancò prima un occhio e poi un altro.
In realtà, non aveva nemmeno osato muoversi, per paura di toccare Asahi.
Quando si rese conto che di lui non c’era traccia, provò prima un vuoto doloroso di delusione alla bocca dello stomaco, poi un sollievo caldo che le si propagò nel petto.
Sarebbe stato davvero troppo imbarazzante affrontarlo in quello stato.
Il modo in cui si era comportata la sera prima, il modo in cui gli si era gettata tra le braccia …
Maria si tirò a sedere di scatto, tirando la coperta del futon con sé, e imprecò tra i denti per una fitta improvvisa all’altezza del basso ventre; le girò un po’ la testa.
Scostò malamente le lenzuola e imprecò tra i denti quando trovò il materasso macchiato di sangue, una gocciolina minuscola come prova indelebile.
Camminò zoppicando un po’ verso la porta del bagno e si ficcò sotto la doccia gelata.
Rabbrividì sotto il getto d’acqua fredda, ma non servì a toglierle dalla mente i ricordi di quella notte. Afferrò la saponetta e il bagnoschiuma, ma non appena cominciò a sfregarsi la pelle ancora sensibile, le sembrò di sentire nuovamente la mano di Asahi, grande e calda, ripercorrere ogni centimetro della sua pelle a partire dal fianco fino al seno.
Per un istante le mancò il respiro, lasciò cadere la spugnetta per terra e si accovacciò, l’acqua che le cadeva sulla schiena scoperta percorrendo la spina dorsale.
Maria non sapeva con che coraggio sarebbe riuscita ad andare a scuola quel giorno.
Le sembrava di aver tradito Daichi, e contemporaneamente di aver fatto qualcosa di bellissimo e unico … qualcosa che in cuor suo, profondamente, aveva desiderato.
Asahi era stato gentile, sembrava … sembrava davvero che l’avesse amata con desiderio …
Si strinse forte le braccia tra le mani, conficcandosi le unghie nella pelle, e chiuse gli occhi, sollevando il capo affinché il getto di acqua fredda le colpisse il volto.
Le sembrava tutto un sogno bellissimo e contemporaneamente un incubo infinito.
Che cosa aveva fatto?
Che cosa le stava succedendo?
Sentiva i brividi in ogni singolo pezzo di pelle, l’odore di Asahi ancora nelle narici, e i suoi capelli morbidi tra le dita, e le sue labbra sul ventre, e i suoi sospiri lievi …
A Maria sembrò di vivere uno stato di trance per tutto il tragitto verso scuola.
Era uscita di casa di fretta, senza nemmeno salutare suo padre, si era messa le cuffiette nell’orecchio con la musica al massimo volume per non pensare, ma non riusciva a staccare gli occhi dai codini che aveva al polso …
Li aveva trovati a terra, tra i suoi vestiti, i codini di Asahi …
Maria non sapeva perché li avesse messi al polso, comunque non avrebbe avuto il coraggio di restituirglieli, ma gettarli via, o lasciarli a casa, le era sembrato stupidamente sbagliato.
«Maria! Maria! Ehi, Maria!» sobbalzò vistosamente quando, arrivata a scuola, qualcuno le si parò davanti afferrandola improvvisamente per un braccio. Era Daichi, che sembrava averla aspettata fuori l’entrata della scuola, perché aveva ancora la cartella in mano.
Per un brevissimo, tremendo istante, Maria aveva pensato si trattasse di Asahi; si strappò violentemente le cuffiette dall’orecchio, guardandolo terrorizzata.
Daichi sembrava estremamente teso, preoccupato, e qualcosa di tremendamente spiacevole si contorse nel ventre di Maria, che per la prima volta da quando l’aveva incontrato non riuscì a sostenere il suo sguardo.
Non voleva nemmeno sapere che cosa aveva da dirle.
«Maria, possiamo parlare un secondo? Vorrei chiarire l’equivoco di ieri sera, io -»
«No, Daichi-san. Non voglio parlare con te di questa cosa. Mai più» sbottò Maria, tentando inutilmente di scansarlo, lo sguardo sempre basso.
Sarebbe impazzita se Daichi avesse continuato a braccarla in quel modo.
«Davvero Maria, mi dispiace moltissimo per -»
«Smettila! D’altronde cos’altro dovevo aspettarmi? Ti sei solamente rivelato identico a tutti gli altri Daichi-san!».
Sawamura si bloccò di colpo, sorpreso, tuttavia Maria non si fermò a verificare se l’avesse ferito come aveva sperato usando quelle parole, tenendo sempre lo sguardo basso lo sorpassò senza remore, senza pietà.
Perché era sicura di non meritare nemmeno di guardarlo negli occhi dopo quello che aveva combinato, dopo il modo in cui si era comportata.
La situazione le era sfuggita tremendamente di mano.
Mosse solamente alcuni passi, diretta verso la palestra, che si trovò faccia a faccia con Asahi.
Doveva essere una punizione dettata dal karma per come si era appena comportata con Daichi.
Il ragazzo veniva dalla direzione opposta, stava controllando la cartella con una concentrazione un po’ troppo esagerata, e sobbalzò di brutto quando se la trovò davanti.
Il tempo sembrò fermarsi di colpo, mentre si guardavano negli occhi.
La memoria traditrice.
«Ah» commentò Asahi spalancando la bocca.
In quel preciso momento Maria vide Hitoka uscire dalla palestra, le braccia cariche di casacche, agitò furiosamente la mano, sorpassando Asahi con il cuore a mille.
«Hitoka-chan, ti do una mano!» esclamò a gran voce, per evitare che nel caso Asahi volesse dirle qualcosa, lei non sarebbe stata in grado di sentirlo.
Quando raggiunse Hitoka, Maria si rese conto che con lei c’era anche Shimizu.
Kiyoko la osservò a lungo, preoccupata, lo sguardo fisso anche su Asahi alle sue spalle.
«Che cos’è successo, Maria-chan?» Le domandò, indagatrice.
Maria fece spallucce e scosse la testa.
«Nulla, Kiyoko-san» Mormorò, trascinando l’amica verso la palestra.
Da quella situazione non ne sarebbe venuto nulla di buono, lo sapeva.
Inoltre, aveva ancora il profumo di Asahi impresso nella mente.

 
 
(Va bene, non abbiamo nessun accordo ora
Se solo anche tu ti innamorassi di me…)

 
(Başak Gümülcinelioğlu – Sen Çal Kapımı)
 
 
 
 
 
Buonsalve á tout le monde!
Flying_lotus95 vi dà il benvenuto, tra un capitolo e l'altro del Writober ancora da scrivere (manca poco alla fine, dai 😅).
Ed eccoci qui con questo capitolo bomba, io e la scrittrice non vedevamo l'ora di postarlo, per vedere la reazione di tutti voi lettori 😈
Vi eravate aspettati un risvolto simile??
E dovete vedere cosa succede da adesso in poi... Voleranno mazzate, in tutti i sensi!
Come avrete potuto notare, nel capitolo sono presenti frasi in turco tratte da una canzone di cui entrambe siamo innamorate, Sen Çal Kapımı.
Sono piuttosto soddisfatta di come sono state inserite le frasi, esaltando i punti salienti di questo bocconcino di capitolo🍷
Sto facendo una testa enorme alla mia partner in crime su questa cosa, mi sembrava giusto riproporlo anche a voi 🤗🤗
Hype ne abbiamo per i prossimi capitoli??
Fateci sapere, anche con un messaggio su Instagram o commentando i post dei capitoli sul medesimo social.
Io, personalmente, ho (ri)aperto anche il profilo Twitter, nel caso qualcuno volesse seguire i miei scleri e l'aggiornamento dei capitoli delle storie 😉
Come sempre, vi ringraziamo entrambe per le visite e l'interesse che dimostrate all'uscita di ogni capitolo. Ormai sappiamo che siete timidi, ma una vostra recensione, anche solo per darci un input, sarà sempre ben accetta.
Vi mando un bacio al volo 💋
Flying_lotus95 & effe_95

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Capitolo 10
*** 9- Zuffe ***



9. Zuffe

 
 

“Nefretle başladık seninle
Yediremedim kendime
Bekliyorum açmayı
Gelsen de çalsan kapımı“
 
 
 
 
«Asahi-san, vuoi berlo quel succo oppure no?».
Se Tanaka non avesse alzato la voce in quel modo, scuotendolo leggermente per il braccio, Asahi non sarebbe mai uscito volontariamente dal turbinio di pensieri che gli affollava la testa senza alcuna pietà.
Era stato distratto tutta la mattina.
Da quando aveva incontrato Maria fuori la palestra, da quando aveva rivisto i suoi occhi colmi di terrore e preoccupazione, non era riuscito a pensare a nient’altro.
Guardò con occhi leggermente assenti il succo al mirtillo, il suo preferito, che non aveva nemmeno ancora aperto, e ripensò a quanto gli sarebbe piaciuto poter dimenticare tutto.
«Asahi-san! Oggi sei più scemo del solito, sai?» lo rimbeccò allegramente Nishinoya dandogli una pacca troppo rumorosa sulla spalla.
Asahi si lasciò scappare per la prima volta da quella mattina uno sbuffo divertito, e si grattò la nuca, pensando dopotutto che se il succo fosse stato aperto, sarebbe finito tutto sul pavimento per colpa di Nishinoya.
Il corridoio era tremendamente affollato a causa della pausa pranzo.
Ad Asahi era sempre piaciuto fermarsi accanto alla finestra proprio di fronte la sua classe per parlare con Tanaka e Nishinoya, lo facevano spesso, quasi tutti i giorni, era come un rituale, e in quel momento, quindi, trovava tremendamente sacrilega la sua totale distrazione.
Proprio in quel momento la campanella annunciò la fine della pausa pranzo, e anche di tutte le sue speranze alla possibilità di smetterla di pensare troppo: doveva andare in palestra, e in palestra sarebbe stato davvero impossibile evitare Maria e Daichi.
«Dobbiamo già andare? Sono stanco» si lamentò Tanaka grattandosi la testa.
Si allontanarono lentamente dalla finestra, incamminandosi con passo lento verso le scale, avevano tutti e tre un’andatura piuttosto rilassata; Tanaka sembrava un vecchietto con la schiena curva e le gambe a ciambella, Nishinoya ondeggiava con fare esuberante, Asahi aveva una mano infilata nella tasca dei pantaloni della divisa scolastica, l’altra stretta saldamente attorno alla bottiglia di succo che non avrebbe più bevuto.
Avevano fatto solamente pochi metri, ridendo e chiacchierando, che Nishinoya andò a sbattere prepotentemente contro il tizio di un gruppetto troppo folto, uscito all’improvviso dal cerchio di gente in preda ad un attacco di risate incontrollate.
«Oh, vedi un po’ dove cammini, puffo!» commentò immediatamente il tipo guardando Nishinoya come se fosse una mosca piuttosto fastidiosa su un cumulo di escrementi.
Il libero della Karasuno si massaggiò la spalla e fissò il diretto interessato con occhi di fuoco.
«Ehi, a chi cazzo hai dato del -»
Prima che potesse finire di parlare, Asahi gli aveva messo una mano sulla spalla e l’aveva tirato indietro, intimandolo di non prendere questioni inutili con tipi come quelli.
Inoltre, osservandoli meglio, Asahi si era appena reso conto del fatto di essersi imbattuti nella banda di bulli capeggiata da Takumi, il che gli sembrava già una bella sfortuna.
«Tanaka, Nishinoya, andiamo via» intimò gli altri due, tenendo sempre stretta la mano sulla spalla del libero, che lo guardò per un secondo con aria rabbiosa, combattuto.
Probabilmente sarebbe finita lì, in quel momento, se Takumi non li avesse notati.
«Oh, oh, ma guarda un po’ chi abbiamo qui! La banda degli intoccabili!» esordì con fare plateale, facendosi largo tra la folla di gente che lo accerchiava per avvicinarsi ad Asahi, Nishinoya e Tanaka; gli ultimi due già pronti a dare battaglia.
Takumi era disgustosamente compiaciuto di sé quel giorno, aveva la camicia della divisa sbottonata quasi a metà petto, un’appariscente collana d’argento scintillava attraverso la scollatura. Inoltre, puzzava talmente tanto di fumo misto a dopobarba da risultare davvero nauseante anche il solo stargli vicino di qualche metro.
«Io a questo ora gli spacco la faccia» commentò Tanaka scrocchiando le nocche.
Aveva messo su quell’espressione intimidatoria che utilizzava per insultare i “city boy”, come gli piaceva chiamarli, e Asahi pensò che dopotutto fosse meglio non l’avesse fatto.
Perché Takumi gli scoppiò a ridere in faccia, per nulla intimorito, e quello era più o meno l’effetto che l’espressione “intimidatoria” di Tanaka faceva a tutti.
«Già, mi infastidisce. Diamoci dentro, Ryu!» replicò Nishinoya dandogli man forte, si era tirato su le maniche della divisa, del tutto intenzionato anche lui a sembrare minaccioso.
Asahi sospirò pesantemente, afferrò entrambi per la collottola della divisa e li tirò via.
Non aveva la minima intenzione di lasciarsi provocare da quel Takumi, o di dargli la minima opportunità; la giornata era già cominciata male, non c’era bisogno di farla finire peggio.
«Te ne vai, scimmione?» Lo scimmiottò Takumi, ma Asahi lo ignorò.
Tenendo sempre fermi Tanaka e Nishinoya, che nel sentire quell’epiteto avevano cominciato ad agitare i pugni con aria minacciosa, sparando insulti del tutto inopportuni, Asahi gli voltò le spalle e si incamminò nella direzione opposta.
Si erano allontanati solamente di qualche metro quando videro Maria e Yachi affacciarsi sul corridoio, probabilmente anche loro del tutto intente a raggiungere la palestra.
Parlavano allegramente tra di loro, e guardandole Asahi trovò che Maria era piuttosto rilassata e serena, a differenza sua. Si sentì così stupido a riguardo.
«Oh, ma guarda un po’ chi abbiamo qui! Anche la vostra amichetta troia!».
L’espressione di Takumi, urlata ad alta voce nel corridoio ancora abbastanza affollato, fece girare parecchie teste, e fermare di botto Nishinoya, Tanaka e Asahi, impietrito.
Maria e Hitoka rallentarono il passo, rivolgendo a Takumi un’occhiata intimorita, e solamente in quel momento sembrarono rendersi conto della presenza dei tre compagni di club, fermi dall’altra parte del corridoio.
Doveva risultare come una scena piuttosto comica vista dall’esterno, con Asahi che teneva ancora Nishinoya e Tanaka per la collottola della camicia, tutti agitati.
«Ehi! Come ti permetti di chiamarla così?!» abbaiò il libero, e con uno strattone piuttosto violento si liberò dalla stretta di Asahi, ansante, con l’espressione più truce e seria del suo repertorio.
«Chiedile immediatamente scusa» rincarò la dose Tanaka, e Asahi lo lasciò andare prima che anche lui si agitasse rischiando di rompergli una mano, come aveva fatto Nishinoya pochi secondi prima.
Gli sembrava una situazione davvero assurda.
Nel frattempo, Maria non aveva fatto altro che fissarlo negli occhi, e più che spaventata sembrava volergli comunicare qualcosa che Asahi non riusciva a capire, troppo impegnato a trovare anche solo il coraggio di ricambiare lo sguardo senza ripensare a cosa era successo la notte precedente tra di loro.
Al modo in cui si erano guardati allora, alle cose che si erano detti.
«Perché?» Esordì Takumi con aria beffarda, strappando Asahi allo sguardo di Maria.
«Alla fine non faccio altro che chiamarla con il suo nome. Tanto lo sanno tutti quello che fate in quella palestra. È davvero brava come dicono a fare quel “servizietto” lì?» e mimò la parola con fare del tutto lascivo, utilizzando le dita come virgolette.
Nishinoya e Tanaka proruppero in una serie di imprecazioni sguaiate alla volta del ragazzo, che nel frattempo, ignorandoli completamente, afferrò Maria per un braccio, tirandola a sé.
Fu un gesto che provocò in Asahi un tale moto di rabbia e disgusto da fargli salire la bile alla bocca; Takumi aveva toccato Maria con una confidenza tale da lasciarlo del tutto intontito.
Aveva sospettato da sempre che le intenzioni di quel maledetto non fossero quelle che voleva davvero far credere alla sua banda di idioti, in quel momento ne ebbe la totale certezza.
Fece un passetto in avanti, senza sapersi controllare, e strinse forte i pugni.
«Dimmi un po’ troietta hafu» commentò Takumi a voce perfettamente udibile, avvicinando pericolosamente la faccia a quella di Maria, come se volesse sussurrarle nell’orecchio con aria confidenziale «è vero quello che mi ha raccontato un uccellino stamattina? Ho saputo…» E si interruppe per creare appositamente tensione, nel frattempo aveva avvolto un braccio attorno alle spalle di Maria «Che ieri qualcuno si è appartato con il Capitano nello sgabuzzino della palestra».
Nel sentire quelle parole, calò un silenzio del tutto attonito.
Nishinoya e Tanaka smisero di ribellarsi, sorpresi, Hitoka si portò una mano sulla bocca.
Asahi imprecò mentalmente, chiedendosi chi diavolo avesse spifferato una cosa del genere.
«Non deve essere andata troppo bene, vero? Mi hanno detto che sei scappata via piangendo» e scoppiò a ridere quando, nel tentativo di sollevare il viso di Maria verso il suo con un dito, lei gli scostò malamente la mano infastidita.
«Questi non sono fatti tuoi!» sbottò lei, l’espressione impassibile come se nulla di quello che Takumi le aveva detto l’avesse realmente toccata.
«Andiamo, non fare così, siamo tutti curiosi qui. Anche i tuoi amichetti del cuore».
Asahi chiuse gli occhi per alcuni secondi, cominciando a contare fino a dieci.
Sentiva i palmi delle mani leggermente sudati nei pugni stretti, le orecchie in fiamme.
«Adesso basta, non ho tempo da perdere con te!» sbottò Maria con fare ribelle, strattonandosi con tale forza dalla stretta di Takumi da farlo vacillare leggermente.
«Andiamo in palestra Hitoka-chan» commentò come se niente fosse, facendo per avvicinarsi alla compagna più piccola; proprio in quel momento Takumi le afferrò un polso con violenza, senza alcun tipo di riguardo, infastidito dal comportamento di lei.
«Stai diventando troppo insolente per i miei gusti, puttanella!».
Asahi con ci vide più dalla rabbia quando lesse l’espressione di dolore sul viso di Maria.
Scostò malamente Nishinoya e Tanaka e avanzò verso i due.
«Adesso mi hai davvero rotto. Lasciala immediatamente!» Sbottò con il tono di voce più severo del suo repertorio, l’espressione truce e seria, le mani ancora strette a pugni.
Non era mai stato avvezzo a perdere facilmente la pazienza.
Con Takumi quel giorno aveva scoperto un nuovo livello di sopportazione: nullo.
«Oh, ma cos’è successo? Ho destato l’interesse dello scimmione?» berciò il bullo ridacchiando divertito, Asahi non si mosse e non cambiò espressione.
Alle spalle di Takumi qualcuno cominciò ad agitarsi e il suo braccio destro, il ragazzo che più di una volta aveva mostrato nei confronti di Asahi una certa dose di paura, afferrò il proprio capo per un braccio e lo tirò leggermente.
«Takumi lascia stare, questo fa sul serio. È pericoloso» bisbigliò, continuando tuttavia a tenere lo sguardo nervoso sulla faccia impassibile e truce di Asahi.
Takumi scostò malamente il braccio dell’amico, senza dargli conto, e fissò negli occhi l’asso della Karasuno con un’espressione talmente lasciva e beffarda da risultare disgustoso.
«Pericoloso? È solamente un cacasotto» commentò, stringendo la presa sul polso di Maria, che si lasciò scappare un gemito di sorpresa e dolore «Scommetto che non saresti capace di alzare un dito nemmeno se le infilassi la faccia tra le gambe qui e adesso».
Successe tutto talmente all’improvviso che nessuno realizzò l’accaduto per qualche secondo.
Asahi caricò il pugno e colpì Takumi dritto in faccia, fu un colpo talmente violento che nell’indietreggiare il ragazzo lasciò andare di colpo il polso di Maria, che cadde violentemente a terra perdendo l’equilibrio.
Hitoka, che fino a quel momento se n’era stata zitta in un angolo, completamente terrorizzata ed attonita, strillò dallo spavento e corse verso Maria, proteggendola con il proprio corpo nel caso la situazione si fosse fatta ancora più pericolosa.
Per un istante cadde un silenzio mortale.
Asahi aveva l’affanno, completamente stravolto dalla collera, le nocche arrossate.
Takumi tentava inutilmente di asciugarsi con il bordo della camicia il sangue che gli era uscito dal labbro spaccato, quando si rese conto che non sarebbe servito a nulla, sputò a terra, guardò Asahi con una ferocia nuova e lo colpì violentemente allo stomaco.
A quel punto la situazione degenerò tremendamente.
Asahi venne aggredito in massa dai compari di Takumi.
Nishinoya e Tanaka, che per tutto il tempo se n’erano stati sorprendentemente zitti, troppo meravigliati da quello che avevano sentito, scattarono in avanti e si buttarono nella zuffa.
Maria, lottando follemente contro lo shock che aveva provato nel vedere Asahi compiere un gesto del genere per lei, lottando furiosamente contro il senso di colpa che le stava nascendo nel petto, e la paura, si tirò coraggiosamente in piedi e afferrò Hitoka per le braccia.
La più piccola piangeva terrorizzata, in preda al panico, senza sapere cosa fare.
«Hitoka-chan, ascoltami!» sbottò Maria, scuotendola. «Dobbiamo chiamare -».
Non finì di pronunciare la frase, che un grido dall’altra parte del corridoio le fece nascere un fiotto di speranza improvvisa nel cuore.
Daichi, Sugawara, Tsukishima, Kageyama ed Ennoshita avanzavano verso di loro.
Per il sollievo, Maria sentì le gambe cedere nuovamente, ma prima che potesse cadere Sugawara l’afferrò per un braccio, tenendola stretta, l’espressione scioccata e contrita contemporaneamente.
«Tutto bene, Taniguchi-san?» le domandò, senza tuttavia guardarla in viso «Ma che cosa diamine sta succedendo qui?» Mormorò poi tra se e se, osservando con occhi carichi di preoccupazione gli altri che tentavano inutilmente di separare i contendenti.
Daichi cercava di tenere fermo Asahi con tutte le sue forze, ma l’altro sembrava essere diventato un demonio in preda ad una furia tremenda; e senza rendersene conto colpiva accidentalmente anche il suo migliore amico, che strillava ordini senza essere ascoltato.
Proprio in quel frangente, nel momento più inaspettato, arrivò il vicepreside.
Probabilmente, nella foga della situazione, qualcuno degli spettatori nel corridoio doveva essere corso a chiamarlo; l’uomo avanzava con fare tronfio, il parrucchino storto sul capo.
«Che cosa sta succedendo qui?!» berciò con la sua voce femminea e lamentosa.
Tutti smisero di agitarsi, con il fiatone, i vestiti strappati e l’aria ribelle.
Il tempo sembrò congelarsi per alcuni secondi quando l’uomo strillò, indignato.
«È colpa di Azumane!» intervenne all’improvviso Takumi, il primo a ritrovare un briciolo di voce «Ha cominciato lui! Senza motivo, mi ha tirato un cazzotto in faccia».
E mostrò il labbro spaccato e lo zigomo violaceo.
«Non è vero! Brutto -» intervenne immediatamente Nishinoya, bloccato da Ennoshita, ribellandosi come un matto alla stretta, del tutto intenzionato a darne altre a Takumi.
«Adesso basta! Voi tre, nel mio ufficio!» strillò il vicepreside in un impeto di indignazione suprema contro Asahi, Nishinoya e Tanaka, si surriscaldò talmente tanto che il parrucchino si spostò di centottanta gradi sulla testa e gli coprì buona parte della fronte.
Ci fu un momento attonito di silenzio, poi i diretti interessati cominciarono a muoversi.
Asahi aveva il fiato corto, gli faceva male dappertutto e aveva come la sensazione che qualcosa di troppo caldo gli stesse mandando a fuoco il cervello.
Perché non sapeva che cosa gli fosse preso, ci aveva semplicemente visto rosso.
Aveva visto rosso, Maria tra le mani di quel verme, e non aveva capito più nulla.
Si passò una mano sulla fronte, tra i capelli stravolti, e senza guardare nessuno si incamminò dietro il vicepreside; aveva appena sorpassato Takumi che lo sentì ridacchiare tra l’affanno.
«Ve l’avevo detto che non avreste dovuto mettervi contro di me».
Un sussurro calcolato, detto quando il vicepreside non poteva sentire.
«TI SPACCO LA FACCIA!» Asahi non ci vide più dalla collera e la frustrazione e si girò di nuovo, il pugno teso.
Fu Daichi a fermare la sua mano, lo placcò come un giocatore di rugby e lo tirò indietro, gridandogli qualcosa che, totalmente fuori di se, Asahi non sentì.
A quel punto successe qualcosa di assolutamente inaspettato.
Prima che Asahi potesse realizzarlo, vide Maria strattonarsi dalla presa di Sugawara, camminare impettita verso di lui e spingerlo con tutta la forza che aveva in corpo, rossa in faccia, completamente sconvolta e arrabbiata.
«Adesso basta!» strillò, colpendolo ancora «Non ne hai avuto abbastanza per oggi?!» e lo guardò dritto negli occhi, con ferocia e risolutezza.
Quelle parole per Asahi furono come uno schiaffo in pieno viso, e fecero molto più male dei pugni di Takumi o dei colpi che Maria gli aveva rifilato sul petto pochi secondi prima.
Fecero molto più male di qualsiasi altra cosa gli fosse successa quel giorno.
E io per chi l’ho fatto? Per chi ho preso tutte queste botte Maria?
«Asahi -» Cominciò a parlare Daichi, ma il ragazzo sollevò una mano e lo zittì.
Fu un gesto talmente brusco che tutti si gelarono sul posto.
Asahi non aveva nemmeno il coraggio di guardarla più negli occhi, girò le spalle, e prima che chiunque potesse seguirlo si incamminò alla volta dell’ufficio del vicepreside, che nel frattempo aveva continuato a camminare borbottando tra sé e sé senza rendersi conto del fatto che sarebbe potuta scoppiare nuovamente una rissa mentre lui non guardava.
Quando Asahi si fu allontanato del tutto, sparendo dalla scena, Daichi imprecò.
«Che cosa diavolo è successo?» Domandò alla volta di Maria, sconvolta.
Sarebbe caduta a terra se Sugawara non l’avesse afferrata nuovamente per le spalle, sostenendola; era talmente stanca, spaventata e sconvolta per quello che aveva fatto da non riuscire nemmeno a ricambiare lo sguardo truce che Tsukishima le rivolse.
«Non lo so Daichi-san» mormorò Hitoka asciugandosi il viso.
Daichi sospirò, nero di collera, e guardò Nishinoya e Tanaka come se avesse voluto mangiarli vivi in quel preciso istante; ma sembrò ripensarci, perché esortò i due a raggiungere la stanza del vicepreside prima che l’uomo potesse perdere ulteriormente la pazienza.
Takumi, nel frattempo, era sparito dalla circolazione con la sua gang.
«Andiamo immediatamente in palestra, voglio sapere tutto» sbottò arrabbiato, e si incamminò, seguito dagli altri.
 
 
 
«Ho una pessima notizia!».
L’esordio del coach Ukai non sembrò sorprendere nessuno in palestra.
Si erano tutti cambiati per l’allenamento, e nel frattempo la voce di quanto successo aveva raggiunto anche le orecchie di chi non era presente al momento della rissa.
Nella palestra non c’era mai stato così tanto silenzio, nessuno guardava negli occhi nessuno e tutti avevano lo sguardo fisso sul coach e sul professore.
«Azumane-san, Tanaka-san e Nishinoya-san sono stati sospesi per una settimana».
Alla notizia scoppiò un piccolo putiferio di voci, che venne bruscamente interrotto dalla voce di Ukai, che aveva ricominciato a parlare con tono più alto, quasi gridando.
«E gli è andata anche bene!». Gli altri ammutolirono di nuovo, sconcertati.
Daichi aveva le braccia incrociate al petto, l’espressione rabbuiata; al suo fianco Sugawara sembrava in preda ai tormenti più profondi, si mordeva continuamente il labbro inferiore.
Shimizu sembrava come al solito composta, ma da una ruga sulla sua fronte Maria poteva ben capire che in realtà era in pena anche lei per quella situazione.
Ad ogni modo, era sicura che le pene degli altri non potessero affatto superare le sue.
Si sentiva come una teiera sul punto di scoppiare, troppo piena d’acqua in ebollizione.
«Io e il professor Takeda abbiamo dovuto lottare fermamente con il vicepreside per diminuire la punizione di Azumane-san, che come ben sapete è al terzo anno».
Maria sospirò pesantemente e si portò una mano al petto, sul cuore.
Che cosa era passato per la mente di quello stupido?
Perché aveva reagito in quel modo alle parole di Takumi, perché si era lasciato provocare in quel modo così stupido? Maria non riusciva a far fatica ad immaginare la risposta.
L’aveva fatto perché si sentiva in dovere nei suoi confronti.
Maria strinse forte i pugni e si morse il labbro inferiore: Asahi era solo uno stupido.
«Tsz» commentò all’improvviso Tsukishima, attirando l’attenzione di tutti i presenti, compresi coach e professore, su di se «Chissà chi dobbiamo ringraziare per questo».
E puntò direttamente lo sguardo su Maria, incrociando le braccia al petto, aveva l’aria disgustata e sembrava inequivocabilmente contrariato, inoltre, nel tentativo di frenare la rissa si era beccato un cazzotto sotto l’occhio che gli aveva lasciato un brutto livido violaceo.
La cosa doveva averlo infastidito tremendamente,
Maria si portò le mani ai fianchi, stanca e arrabbiata, e prima che Shimizu potesse percepire il pericolo e fermarla, prima di ricordarsi di indossare la solita maschera per nascondere il suo pessimo caratteraccio, avanzò verso Tsukishima con fermezza.
«Che cosa vuoi insinuare? Parla chiaro!».
«Sono stati dei veri stupidi quei tre!» sbottò all’improvviso Tsukishima, beccandosi uno strattone da parte di Yamaguchi, che tentava goffamente di fermarlo.
«Tsukishima!» lo rimbeccò immediatamente Daichi, lo sguardo infiammato.
Il biondo non si lasciò intimorire, scostò l’amico con una manata e si mise faccia a faccia con Maria; la scena sarebbe risultata piuttosto comica considerando che lei era alta quanto la metà esatta di lui, ma c’era una tale tensione nell’aria che nessuno ci avrebbe fatto caso.
«Tre stupidi a difendere una come te! Io non avrei mai difeso una persona che non si fida di me. Perché dovrei essere sospeso per una persona che non si fida abbastanza nemmeno dal raccontare i propri problemi? Ci hai presi per degli idioti forse?».
Maria non replicò subito, perché in fondo non sapeva cosa dire, né come giustificarsi.
«Se fossi stato nei loro panni» continuò Tsukishima «Mi sarei girato dall’altra parte e te la saresti vista da sola. È da quando sei qui che crei solo problemi».
Quando Tsukishima smise di parlare, evidentemente soddisfatto della sua ramanzina, cadde un silenzio pesante per alcuni secondi, secondi in cui Maria lottò prepotentemente contro le lacrime che premevano a forza per farsi strada.
«Smettila Tsukishima, non è stata colpa di Taniguchi-san» intervenne dopo un po’ Kageyama, incrociando le braccia al petto, fissava il coetaneo con l’espressione più truce del suo repertorio, sembrava ancora più cupo di quanto non lo fosse già di natura «Chiunque con un briciolo di buon senso si sarebbe comportato come hanno fatto Azumane-san, Tanaka-san e Nishinoya-san!» terminò il primino con fervore.
«Esattamente» intervenne prontamente Daichi, prendendo la palla al balzo. «Siamo una squadra, e la squadra è come una famiglia. Tutti avremmo fatto la stessa cosa».
Tsukishima guardò entrambi con aria contrariata, ma non aggiunse altro.
Si limitò a girare le spalle e lasciare la palestra; Yamaguchi lo chiamò un paio di volte senza successo, poi fece per seguirlo, ma sembrò ripensarci all’ultimo secondo quando si ricordò di essere alla presenza dei senpai per cui nutriva molto rispetto.
Esitò, si girò verso Maria e le fece un piccolo inchino di scuse.
«Perdonalo Tani-chan, lui … è solamente dispiaciuto per quello che è successo. Tsukki è … sapete com’è fatto, no?» mormorò debolmente, poi si grattò la nuca in imbarazzo, fece un altro inchino di scuse, alla volta di Daichi, Sugawara, Shimizu, il coach e il professore, e si affrettò a seguire l’amico di sempre, chiamandolo nuovamente con forza.
«Quell’idiota!» sbottò Kageyama in preda alla collera.
Daichi incrociò le braccia al petto e guardò gli altri forzando un sorriso.
«Non è la fine del mondo» disse, e si girò a guardare Maria «Non è colpa tua, questa situazione si risolverà e -».
Ma Maria, che la pazienza quel giorno l’aveva esaurita del tutto, non voleva sentirsi dire quelle cose proprio da Daichi, non voleva sentirsi dire nulla.
Non voleva la sua stupida pietà o la sua stupida comprensione.
Erano il motivo per cui l’aveva rifiutata, e Maria detestava immensamente quel lato di lui.
«Ah, ma smettila!» sbottò all’improvviso, scioccando tutti i presenti, «Sei l’ultima persona che dovrebbe parlare qui!». E allo stesso modo di Tsukishima, con il passo solamente più sostenuto, anche lei voltò le spalle a tutti e se ne andò.
Cadde nuovamente il silenzio attonito, sembravano tutti tremendamente sconcertati.
«Qualcun altro vuole andarsene?» Domandò nervosamente il coach, tentando inutilmente di alleggerire la tensione con quella che avrebbe dovuto essere una battuta; inaspettatamente tuttavia Shimizu alzò il braccio.
«Se non le dispiace, vorrei andare con Maria-chan» commentò la ragazza, lasciando Ukai e il professor Takeda del tutto senza parole.
Pochi secondi dopo, anche Shimizu aveva lasciato la palestra.
Daichi sospirò pesantemente, sembrava essere tremendamente avvilito dalla situazione.
«Vorrei proprio sapere che cosa è passato per la testa di Asahi» mormorò alla volta di Sugawara, totalmente senza parole per tutto quello che era successo.
«La prossima volta che lo becco gli faccio un rimbrotto che ricorderà per tutta la vita!».
 
 
 
Maria camminava con passo sostenuto senza una meta precisa.
I piedi la portarono automaticamente nei pressi dello spogliatoio, salì con passo pesante la scalinata di ferro, facendo un baccano tremendo, ma rallentò quando si rese conto che nella piccola stanza che usavano per cambiarsi a turno c’era qualcuno.
Non rimase sorpresa quanto si sarebbe aspettata, quando si rese conto che la fonte del rumore non era nient’altro che Asahi. Il ragazzo era del tutto affaccendato a raccogliere le sue cose dall’armadietto e sistemarle con aria afflitta, testa china e movimento lenti, nel grosso borsone che aveva posizionato ai suoi piedi.
Maria si fermò per un momento sulla soglia, Asahi non l’aveva ancora notata, e lei ne approfittò per osservarlo alcuni secondi, il cuore stretto come una nocciolina nel petto.
Asahi le sembrava così stanco con quelle spalle curve e i vestiti sgualciti …
Maria era arrabbiata con lui, era tremendamente arrabbiata con lui, eppure in quel momento non avrebbe voluto far altro che entrare in quella stanza ed abbracciarlo, abbracciarlo contro ogni logica e rigore morale. Contro ogni buon senso.
Abbracciarlo e alleviare anche solo di poco tutta quella stanchezza di cui lei non sapeva nulla. Maria era convinta che tutti quei sentimenti che stava provando fossero dati semplicemente dal fatto che avesse condiviso con Asahi qualcosa di unico.
Era affezionata a lui, ne era certa, e non avrebbe mai voluto causargli dolore.
Eppure, sicuramente quel giorno gliene aveva causato tantissimo in quel corridoio, ne era sicura. Quando gli aveva urlato contro in quel modo violento, Maria l’aveva fatto perché non voleva che si facesse ancora male, perché quel pugno che Asahi aveva preso nello stomaco l’aveva sentito anche lei, aveva colpito anche lei; ma lui non avrebbe potuto vederla così.
Per lui Maria non aveva fatto altro che urlargli contro come un’ingrata.
Era così confusa mentre osservava la sua ampia schiena piegata in avanti verso il borsone, era talmente confusa e arrabbiata, avrebbe voluto dirgli tutte quelle cose, tranquillizzarlo, invece l’unica cosa che riuscì a fare fu quella di aggredirlo con violenza.
Perché non voleva dargliela vinta, perché voleva fargli capire che non le doveva nulla.
Perché non voleva che per colpa sua Asahi si mettesse ancora nei casini.
«Complimenti! Bravo!» esordì con voce sarcastica, incrociando le braccia al petto.
Asahi sussultò leggermente e si voltò a guardarla, aveva una piccola escoriazione sotto l’occhio sinistro e alcune ciocche di capelli che gli cadevano sulla fronte.
Il cuore di Maria ebbe una capriola e automaticamente si ritrovò a nascondere il polso con i codini del ragazzo, tirando giù la maglietta della tuta.
«Hai dovuto trascinare anche Nishinoya e Tanaka in questa vendetta personale, vero?» continuò, imperterrita, avanzando verso di lui con passo fermo.
Asahi la fissava con lo sguardo accigliato, leggermente rosso in faccia, ferito.
«Ti sei sentito punto sul vivo, vero?» e lo spintonò su una spalla con l’indice.
Tutto quello che avrebbe voluto gridargli fuori le uscì nel modo totalmente sbagliato.
«Nessuno ti ha detto di intervenire! Potevi anche benissimo farti i fatti tuoi».
Mentre Maria cominciò a gridare, Asahi fece qualcosa che la lasciò davvero spiazzata: le girò le spalle e continuò a sistemare il borsone come se le fosse del tutto indifferente.
Come se non volesse nemmeno guardarla in faccia, perché faceva troppo male.
«Non ho bisogno che tu ti debba sentire in colpa, il fatto che tu sia venuto a letto con me non implica che tu debba sentirti in dovere di aiutarmi, perché non ti ho chiesto nulla! Non ho preteso nulla da te!» Continuò lei alzando eccessivamente il tono di voce.
Stava parlando alla schiena di Asahi, ma dal modo in cui le spalle gli si contrassero capì che il ragazzo la stava ascoltando molto attentamente, nonostante i movimenti frenetici.
Maria si portò una mano sulla bocca, sentiva un affanno tremendo e la nausea.
Non avrebbe voluto dirgli quelle cose, non avrebbe voluto, ma doveva farlo.
Doveva.
«Non ti ho mai detto di doverti prendere alcun tipo di responsabilità nei miei confronti Azumane! Non l’ho fatto perché eri tu, non l’ho fatto perché volevo qualcosa da te. Sarebbe stato lo stesso se con me ci fosse stato qualcun altro. Alla fine non ci hai solo guadagnato pensandoci bene? Sei solo stato fortunato a trovarti lì in quel momento, no?».
Maria capì di aver esagerato nel momento esatto in cui Asahi sbatté violentemente la porta dell’armadietto, si girò con l’espressione più truce che gli avesse mai visto in faccia e l’afferrò per i polsi con una tale violenza da farle un male cane.
«Come ti permetti di paragonarmi ad una bestia?!» gridò lui scuotendola con forza.
Maria era letteralmente terrorizzata, pensava di aver oltrepassato troppo la linea.
«Ma tu come ti permetti di dire queste cose su di me? Tu che cosa ne sai di cosa ho provato io con te ieri sera? Pensi davvero che sia stata una cosa di poco conto? Forse per te lo sarà stato, ok, ma per me non è stato così Maria! Stupido io che ho perso la testa per una come te!» sbottò lui con un tono talmente lamentoso che Maria rimase attonita.
Le sembrava di aver ricevuto una padellata dritto in mezzo alla fronte, senza pietà e con piena violenza, quelle parole le erano rimbombate nel cranio come un grido continuo.
Non sapeva se scoppiare a piangere tutte le sue lacrime, o scoppiargli a ridere in faccia.
Quello stupido provava qualcosa per lei?
E gliel’aveva detto con quell’aria lamentosa?
E lei, lei che cosa aveva combinato andandoci a letto insieme? Che cosa aveva fatto?
Asahi la fissò negli occhi per un altro istante, l’aria di una persona che voleva sparire dalla faccia della terra, poi le lasciò andare immediatamente i polsi, si guardò la mano ferita nel punto in cui aveva picchiato senza remore la porta dell’armadietto, afferrò la borsa e se ne andò, lasciandola da sola in quella stanza fredda a rabbrividire.
A Maria sembrò si restarsene lì ferma immobile per un tempo infinito.
Quando strinse le braccia al petto dopo un’immobilità eccessiva, le sembrò che ogni arto del suo corpo protestasse insistentemente; si sentiva talmente in colpa per quello che aveva detto. Aveva così vergogna di sé stessa.
Si girò lentamente verso la porta, voleva solamente andare in bagno a piangere.
Shimizu era lì ferma sulla porta, con una mano premuta sulla bocca, gli occhi sgranati.
Maria non ci pensò nemmeno per un secondo di mentirle, o di fingere che lei non avesse sentito tutto quello che lei e Asahi si erano appena gridati solamente alcuni secondi prima, perché le si leggeva chiaramente su tutta la faccia esattamente il contrario.
«Quello che hai sentito Kiyoko-san … è tutto vero» esordì con voce bassa, fissando Shimizu negli occhi, per una volta non riuscì a trattenere le lacrime «Non lo so perché l’ho fatto. Non so perché sono andata a letto con Asahi, non chiedermelo, ti prego».
Maria si portò le mani al volto e scoppiò a piangere tutte le lacrime che avrebbe voluto piangere quel giorno da quando aveva aperto gli occhi e il mondo aveva cominciato ad andare nel verso sbagliato.
«Sono così confusa» mormorò con voce rotta, disperata, ed un istante dopo due braccia calde e un po’ tremanti la avvolsero con affetto; Maria si ritrovò a singhiozzare nell’abbraccio caldo e confortevole di Shimizu.
Maria era sicura che Shimizu avrebbe voluto dirle tantissime cose, rimproverarla magari, farle la ramanzina più lunga della sua vita, ma nonostante questo era anche troppo sconvolta per fare una sola di quelle cose.
Abbracciarsi in quel momento, valeva certamente molto più di altre mille parole.
Tutto il resto sarebbe venuto in seguito.
Shimizu forse aveva capito anche molto di più di lei, forse gliel’avrebbe anche detto prima o poi, o sicuramente, ma non era quello il tempo delle parole.
Era solamente il tempo della vergogna e delle lacrime.
 
 
 
Asahi trovò un po’ di pace solamente quando si chiuse la porta della sua camera alle spalle.
La cartella e il borsone gettati malamente sul letto, seduto alla scrivania con la faccia completamente schiacciata sul piano freddo di legno.
Si sentiva completamente svuotato, senza forze, prosciugato di ogni singola forza.
Quella era stata in assoluto una delle peggiori giornate della sua vita.
Non aveva detto alla madre che era stato sospeso da scuola per un’intera settimana, si era limitato a baciarla sulla guancia come faceva ogni volta che tornava a casa, dirle che era andato tutto bene e salire nella sua stanza per “studiare”.
Sin da quando era ragazzino aveva sempre trovato piacevole appoggiare la guancia calda sul materiale freddo della scrivania, gli sembrava un ottimo modo per schiarirsi le idee.
Inoltre, da quella posizione poteva vedere la fotografia in modo migliore.
In realtà era anche l’unica che avesse nella sua stanza, piccola, in un’anonima cornice di legno, una fotografia di suo padre pochi anni prima che morisse.
Asahi non ricordava il momento in cui era stata scattata, perché aveva solo quattro anni ed era ancora troppo piccolo; se ne stava a cavalcioni sulle spalle del papà, tirandogli le orecchie, le gambe a taralluccio leggermente scoperte sulle caviglie.
Hajime Azumane era un uomo alto, aveva le spalle larghe, il sorriso gentile e gli occhi grandi e scuri, caldi come una tazza di cioccolato in una mattina troppo fredda.
Asahi aveva solamente dieci anni quando era morto; un incidente sul lavoro avevano detto.
I primi tempi, quando suo padre se n’era ormai andato, gli era sembrato di non riuscire a ricordare altro di lui se non la sua faccia pallida, la barba macchiata di sangue, le pareti bianche dell’ospedale dove aveva passato le ultime ore della sua vita, e i lunghi capelli castani sfibrati e rovinati. Gli era sembrato di impazzire in quel periodo.
I ricordi belli erano tornati con il tempo, erano tornati con quella fotografia.
Hajime amava portare i capelli lunghi; quando rideva gli si sollevavano in maniera espressiva gli angoli degli occhi, aveva le mani grandi e piene di calli, i mochi erano il suo dolce preferito, aveva giocato anche lui a pallavolo ai tempi del liceo perché era sempre stato alto; era una schiappa totale quando si trattava di giocare a shogi, amava prendersi cura del proprio giardino …
Amava Kaori, era l’amore della sua vita.
Amava Asahi, era l’amore della sua vita.
Amava Hotaru, era l’amore della sua vita.
Asahi strizzò le palpebre e scosse la testa, una lacrima calda rotolò lungo la guancia.
«Papà, sono un po’ stanco» mormorò, afferrando la fotografia con la mano destra.
«Mi sembra di aver fatto solamente un mucchio di stupidaggini».
Un’altra lacrima, più profonda, più dolorosa, seguì il percorso della precedente.
«Che cosa devo fare, papà? Mi manchi davvero tanto, fa così male».
Stringi forte i denti, gli uomini non piangono, né Asahi!”
La voce di suo padre, così calda, così chiara, gli rimbombò nella mente come una carezza.
Asahi si asciugò gli occhi, e proprio mentre lo fece si sentì avvolgere da due braccia calde, flessuose e morbide, l’odore di vaniglia gli accarezzò le narici con familiarità.
L’abbraccio di Hotaru fu come ricevere un bacio sulla fronte.
Un porto sicuro dopo la tormenta, la salvezza dopo il pericolo.
«Ehi, cos’è successo fratellone?» gli domandò senza fare troppi complimenti.
La voce chiara, forte, allegra come sempre; Hotaru assomigliava così tanto ad Hajime …
Asahi si ritrovò a sorridere tra le lacrime, ormai irrefrenabili sul suo viso, afferrando le braccia della sorella per tenerla ancora un po’ stretta a sé …
Hotaru liberò una mano dalla sua stretta e lo picchiettò sulla fronte, un piccolo pizzicotto proprio al centro, né troppo doloroso, né troppo fastidioso …
«Fatti forza Asahi! Stringi forte i denti, gli uomini non piangono né?».
Il cuore di Asahi si aprì come un piccolo bocciolo, come se qualcosa di meraviglioso avesse cominciato a crescergli nel petto, come il sole dopo la tempesta, come l’arcobaleno dopo la pioggia. Allora sorrise, sorrise e gettò tutto fuori.
Raccontò ad Hotaru ogni singola cosa, tutto quello che era successo; lo fece mentre si accarezzava la fronte, il viso di suo padre impresso nella mente quando innumerevoli volte aveva compiuto lo stesso gesto quando erano solamente due bambini.
Buttò fuori tutto e Hotaru rimase in silenzio ad ascoltare, stretta a lui.
Hajime sorrideva, fissandoli dalla fotografia.

 
 
(Io e te abbiamo iniziato con l’odio,
ma non sono riuscito ad accettarlo,
 ora sto aspettando di aprirmi,
se solo tu bussassi alla mia porta)

(Başak Gümülcinelioğlu – Sen Çal Kapımı)
 
 
 
 
Salve gente 😊
Qui effe_95, in un capitolo battagliero - letteralmente 😬
Lo potremmo definire il capitolo delle botte?
Direi proprio e decisamente di si!
Sia fisiche che verbali.
Ammettetelo ... Asahi vi ha sorpreso, vero?
Noi speriamo proprio di sì 😁
E non prendetevela con Maria, ha il carattere che ha, ma in fondo è una brava ragazza ... anche se ovviamente ve ne farà passare di tutti i colori, vi avvertiamo 🤣🤣
La canzone ad inizio capitolo è la stessa nel capitolo predecente - Sen Cal Kapımı.
Sappiamo che siete timidi, ma noi insistiamo a dirvi che anche solo una parolina in privato o su Instagram ci fa piacere riceverla 😊
Alla prossima!
Effe_95 & Flying_lotus95

 

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Capitolo 11
*** 10- Wagasa ***


10. Wagasa.
 
I wouldn’t trade it for anything,
‘cause my brokennes brought me to you…
 
 
Azumane-san? Come stai? Io …
Maria sollevò le dita dalla tastiera del suo cellulare, sospese in aria.
Gli occhi seguivano frenetici le parole appena scritte.
Erano già passati cinque giorni dalla sospensione di Asahi, e lei non era riuscita a mandargli nemmeno un misero messaggio per scusarsi, per chiedergli come stava.
Sospirando nervosamente premette senza esitazione il tasto per cancellare il messaggio, ritrovandosi così a fissare ancora una volta uno sfondo completamente bianco.
Azumane-san, stai bene? Qui a scuola le cose vanno benino …”
“ Azumane-san?  Sei arrabbiato con me? Io … “
“ Azumane-san, sei stato davvero uno stupido! Stupido! Stupido! Stupido!”
Maria si portò una mano sulla fronte, massaggiandosi distrattamente la pelle.
Le sembrava di impazzire mentre guardava quello schermo per l’ennesima volta bianco, in realtà sapeva molto bene cosa avrebbe voluto scrivere, ma aveva paura.
Aveva paura che mettere per iscritto quello che stava provando in quel momento non avrebbe avuto alcun senso, aveva paura che Asahi non le avrebbe mai risposto.
E perché avrebbe dovuto dopo le cose terribili che si erano detti l’ultima volta?
Quelle parole gridate uno contro l’altro le rimbombavano ancora nella testa, come se Asahi fosse stato proprio lì davanti a lei, la divisa scolastica sgualcita, i capelli sfatti, le ciocche sul viso e l’espressione ferita di un cucciolo.
Maria avrebbe voluto essere abbastanza forte da non pensarci.
Ma forte non lo era mai stata, aveva sempre finto, avrebbe sempre finto.
Asahi, mi dispiace. La verità è che non penso quello che ti ho detto. Nemmeno una parola. L’ho fatto solamente perché volevo che tu la smettessi di farti male. Non mi pento di quello che è successo, e tu non hai alcuna responsabilità! Perciò puoi smetterla di farti male per colpa mia? Puoi perdonarmi? Mi hanno sempre detto che ho un carattere davvero difficile … il nonno si lamenta sempre! Dice che non dico mai quello che penso, e suppongo che dopotutto abbia ragione … quel giorno io non ti ho detto affatto quello che pensavo. Perdonami. Stai bene? Sei in salute? Non sei triste, vero? Torna presto Asahi, non ho capito ancora bene perché, non ho capito nulla, ma … un po’ mi manchi. Quindi torna presto, va bene?”.
Quando Maria mise il punto finale le tremavano terribilmente le dita.
La verità era che da quel giorno tremendo non era cambiato assolutamente nulla per lei, il tempo sembrava essersi fermato negli spogliatoi, a quando Asahi le aveva dato le spalle e se n’era andato. Lasciandola con una tale confusione nella testa da impazzire.
Maria aveva come la sensazione di essere divisa in due; da una parte c’erano i suoi sentimenti per Daichi, le erano sempre sembrati così chiari, così trasparenti, nessuno avrebbe potuto sporcarli o macchiarli, erano forti.
Dall’altra parte c’era Asahi, la persona più improbabile del mondo.
La persona più improbabile del mondo che aveva detto di provare qualcosa per lei.
Maria aveva come la sensazione di essere stata squassata a metà da due poli opposti che tiravano, e tiravano, e tiravano con tale violenza da lasciarla senza fiato.
Incapace di capire, incapace di scegliere, incapace di fare chiarezza nella sua testa.
Guardò ancora una volta il messaggio che aveva scritto, sospirò pesantemente e lo cancellò.
Era sicura che non ne avrebbe scritti altri per quel giorno.
Aveva appena oscurato lo schermo del cellulare, infilandolo nella tasca della gonna, che qualcuno le posizionò un bento tutto infiocchettato di rosso sotto il naso.
Maria sollevò la testa con aria sorpresa e si ritrovò davanti il viso gioioso di Hitoka.
Le sorrideva gentilmente, con quel suo fare timido che la faceva apparire davvero carina, porgendole il pranzo con fare incoraggiante; Maria le sorrise di rimando e allungò le mani per prendere il bento.
«Pranziamo insieme Tani-chan?» le domandò, mettendosi seduta accanto a lei sul davanzale dell’ampia finestra, senza aspettare che Maria le desse una risposta effettiva. Era tradizione che a pranzo mangiassero insieme. In effetti, da quando era entrata a far parte del club di pallavolo, Maria non aveva più passato quell’ora in solitudine come capitava spesso precedentemente.
Certo, c’era Shimizu, ma non era sempre disponibile a causa delle attività del club.
In quelle occasioni Maria andava a nascondersi nell’aula di musica, perché quello era anche il momento in cui Takumi e la sua banda si divertivano di più a perseguitarla.
Entrare nel club aveva significato non dover scappare più, mangiare sempre in compagnia, sorridere di più e provare meno paura.
Dopotutto, non era stata poi una decisione così sbagliata.
«Hai preparato tu questo bento?» domandò distrattamente Maria, sciogliendo il fiocco con mani agili. Quel giorno aveva detto alla nonna che avrebbe comprato qualcosa alla mensa, ma non aveva avuto intenzione di mangiare fin dall’inizio.
«Si. Preparo il mio tutte le mattine, ma di solito esagero sempre con le porzioni».
Maria rischiò di lasciarsi scappare un’esclamazione a voce alta quando aprì il bento e vi trovò dentro una serie infinita di prelibatezze e piatti complicatissimi.
Era improbabile che Yachi avesse preparato tutto quel cibo per sbaglio.
Lottando contro la commozione per il gesto dell’amica e lo stomaco chiuso, Maria separò le bacchette e cominciò a mangiare lentamente, assaporando tutto.
«Sei bravissima Hitoka-chan!» si complimentò, osservando la più piccola sorpresa.
Yachi arrossì leggermente, regalandole di rimando un piccolo sorriso d’imbarazzo.
Ad un certo punto, tra un boccone e l’altro, Maria ripensò al messaggio che aveva appena cancellato, ritrovandosi a chiedere nuovamente se Asahi stesse bene, se fosse in salute.
La mente cominciò a vagare altrove, lontana, e Maria rimase con le bacchette sospese sul bento per troppo tempo, l’espressione vacua.
«Tani-chan, tutto bene? Mi sembri distratta … triste» commentò Hitoka con voce flebile, scuotendola delicatamente per il braccio; Maria sussultò, la fissò di rimando per qualche secondo, poi scosse la testa, abbassando finalmente il braccio con le bacchette.
«Va tutto bene Hitoka-chan».
«Sei … sei ancora arrabbiata per quello che ha detto Tsukishima giorni fa?».
Maria rimase leggermente sorpresa dalla domanda di Hitoka, e lei stessa sembrava piuttosto imbarazzata per averla posta. In realtà, in quei cinque giorni nessuno in palestra aveva più parlato di quanto era successo, avevano continuato ad allenarsi come se nulla fosse.
Lei e Tsukishima si erano ignorati come al solito, scambiandosi solo parole di convenienza.
E gli altri erano stati casinisti e allegri come sempre, anche se un po’ meno senza Nishinoya e Tanaka nei paraggi.
A tutti era sembrato di camminare senza gambe, ma nessuno l’aveva detto esplicitamente.
In quel momento, probabilmente Hitoka aveva la sensazione di aver toccato un tasto dolente, qualcosa che avrebbe voluto chiedere da tempo ma di cui aveva paura.
«No Hitoka-chan, tranquilla. Non me ne importa nulla di cosa pensa quell’idiota» replicò tuttavia Maria, tornando a mangiare nuovamente il suo pranzo.
Yachi era stata talmente brava a cucinare che le si era aperto finalmente lo stomaco.
«Sai Tani-chan, io non credo che Tsukki abbia fatto qualcosa di sbagliato».
Maria sentì le bacchette sfuggirle di mano quando Yachi pronunciò quelle parole, le caddero in grembo, ma lei non se ne accorse minimamente mentre si voltava a guardarla, sorpresa.
«Non fraintendermi Tani-chan!» si affrettò a ribattere la più piccola, agitando con fare comico le mani davanti al viso «Non sto giustificando quello che ha detto! Ma … ma credo che fosse semplicemente dispiaciuto» e tacque, guardando Maria per un istante con il fiato sospeso, quasi si aspettasse che potesse aggredirla da un momento all’altro. «Vedi Tani-chan, io ho sempre pensato che Tsukki sia la persona più sensibile di tutti il gruppo.
Anche se non lo ammetterebbe mai. Quel giorno doveva essere davvero preoccupato per Nishinoya-san, Tanaka-san e Azumane-san. Ha solo trovato il modo sbagliato di esprimere quella sua preoccupazione, rigettandola su di te».
Maria avrebbe voluto trovare qualcosa da ribattere alle parole di Yachi.
Ma non riusciva a trovare alcuna argomentazione al riguardo, perché dopotutto non conosceva Tsukishima nemmeno un po’, e non si era mai presa la briga di approfondire il loro rapporto, o di provare quanto meno a cercare di capirlo.
Forse, dopotutto, loro due non erano poi così diversi l’uno dall’altra.
Forse era proprio quello il motivo per cui Maria non riusciva a sopportarlo.
«Io sono assolutamente d’accordo con Daichi-san comunque! Tu sei parte della squadra ormai, e quindi vuol dire che sei parte della famiglia. Sono contenta che tu sia venuta!».
Hitoka interruppe il suo piccolo monologo facendole un altro sorriso incoraggiante.
Maria rimase a fissarla ancora per un po’, poi sospirò e le sorrise a sua volta, riprendendo in mano le bacchette che aveva lasciato cadere precedentemente sul grembo.
Anche io sono contenta di essere entrata nel club, Hitoka-chan.
Aveva appena formulato quel pensiero, riprendendo a mangiare rincuorata, che uno schianto improvviso alla loro destra, lungo il corridoio, fece saltare entrambe dallo spavento.
Sia Maria che Hitoka misero da parte i bento e si tirarono in piedi, avvicinandosi cautamente alla fonte del baccano, lì dove si erano radunate le persone che passavano per il corridoio.
Facendosi faticosamente spazio nella calca, videro una scena che le lasciò basite.
Per terra, caduto scompostamente contro degli armadietti, c’era Kageyama, i capelli scomposti davanti al capo, la camicia sgualcita e il labbro spaccato.
A torreggiare sopra di lui, con aria feroce, se ne stava Takumi.
«Adesso ti do davvero una lezione moccioso» diceva scrocchiandosi le nocche.
Maria e Hitoka si rivolsero uno sguardo allibito, era da una settimana che Takumi non azzardava nulla di troppo estremo. Da quando c’era stata la zuffa sembrava essersi tranquillizzato un po’ in seguito ad una presunta ramanzina da parte del corpo docente.
Maria aveva sperato, per un folle istante, che la sua persecuzione era finita.
Evidentemente invece, Takumi aveva preso di mira altre persone.
Guardandosi attentamente attorno per capire cosa fosse successo, individuò Arisa, poco distante da Takumi, in compagnia delle sue due amiche; si teneva premuta una mano sulla guancia e aveva l’espressione lucida di pianto.
«Cosa sta succedendo qui?» intervenne prontamente Maria, senza rifletterci troppo su si piazzò davanti a Kageyama e afferrò Takumi per il polso, prima che potesse colpirlo nuovamente al volto «Lascialo stare! Non hai vergogna a colpire un tuo kohai?».
«Tani-chan!»
«Taniguchi-san!»
I richiami di Hitoka e Kageyama arrivarono nello stesso preciso istante con due intonazioni completamente diverse, la prima estremamente preoccupata, la seconda carica di stupore.
«Levati di mezzo! Questo verme schifoso ha messo le mani addosso alla mia ragazza!» ringhiò Takumi, indicando come un matto Arisa, che frignava ancora alle sue spalle.
Maria le rivolse solo per un istante uno sguardo di biasimo, disgustata.
«Se l’è meritato!» replicò Kageyama tirandosi in piedi «Sa usare la bocca solo per parlare male degli altri» continuò, pulendosi il labbro con il dorso della mano.
Maria gli appoggiò una mano sul braccio, controllandogli velocemente la ferita, poi si girò alla volta di Takumi e lo fronteggiò, con un coraggio che stava scoprendo da poco.
Aveva sempre avuto paura di quell’essere prima di entrare nel club di pallavolo.
Aveva sempre subito in silenzio, aspettando che tutto finisse il prima possibile.
Stranamente, senza sapere perché, quella paura aveva cominciato a diventare sempre più evanescente, sostituendosi ad un coraggio che le veniva da qualche parte nel cuore.
Takumi le sembrava sempre più patetico, ogni giorno che passava.
«Dovresti davvero insegnare le buone maniere alla tua ragazza» pronunciò quelle parole fissandolo dritto negli occhi scuri e taglienti, così carichi di odio e disgusto da risultare pateticamente privi di qualsiasi fascino.
Takumi l’afferrò immediatamente per il polso destro, strattonandola.
«Ho già detto che ti sei fatta troppo insolente ultimamente» ringhiò tra i denti, chinandosi con la faccia in avanti perché solo lei potesse sentire le sue parole.
Nel frattempo, nel vedere il gesto di Takumi, molti dei ragazzi che si erano fermati a guardare la scena presero a bisbigliare tra di loro e andarsene, intimoriti.
Maria fece per strattonare il braccio, ma il gesto fu talmente brusco che le saltò via il bottone del polsino, scoprendo la pelle pallida avvolta dai due codini di Asahi.
Lo sguardo di entrambi si posò contemporaneamente sui due oggetti.
«Mollami» Sbottò Maria strattonando ancora un po’ il braccio, la stretta di Takumi si fece di riflesso ancora più forte, provocandole una brutta escoriazione sulla pelle.
«E credo anche di aver appena capito come mai».
E pronunciate quelle parole, infilò l’indice sotto uno dei codini e tirò l’elastico, facendolo rimbalzare sulla pelle pallida di Maria, che si arrossò immediatamente, pizzicando.
Maria rivolse un’occhiata nervosa ai codini, si guardò intorno, facendo attenzione che nessuno li stesse ascoltando, ma erano troppo vicini perché qualcuno origliasse.
Bisbigliavano troppo a bassa voce, ringhiando, perché qualcuno osasse avvicinarsi.
«Che cosa vuoi insinuare?»
«Qualcuno qui ha il piede in due scarpe?»
Maria impallidì quando Takumi le rivolse un sorriso raccapricciante, il sorriso di una persona che era appena venuta in possesso di un segreto preziosissimo, il segreto per distruggere definitivamente il suo acerrimo nemico e tenerlo in pugno.
«Sei solamente un animale!» berciò Maria, e gli sputò in faccia.
Tuttavia, prima che lo schiaffo che si sarebbe aspettata arrivasse, Kageyama si precipitò e bloccò la mano tesa di Takumi, strappando Maria alla sua stretta possessiva.
«Adesso hai esagerato stronzo» sbottò il primino alla volta di Takumi.
«Che succede qui?».
Quella nuova voce, inaspettata, fece voltare i pochi rimasti nella sua direzione.
Daichi avanzava compostamente verso di loro, un quaderno sotto braccio.
Lanciò un’occhiata molto esplicita a Kageyama, e il primino ne approfittò per trascinare via Maria e Hitoka, ancora scossa dal gesto suicida della compagna di squadra.
Solo quando i tre si furono allontanati, e la folla dispersa, i due ragazzi si fissarono negli occhi, fronteggiandosi per l’ennesima volta.
«Ah!» Esordì Takumi con fare sarcastico, appoggiando una mano su un fianco e passando l’altra tra i capelli, in un’evidente gesto di disprezzo «È arrivato il paladino della giustizia! Il capitano! Non ti senti tanto sicuro senza il tuo scimmione, vero?».
Daichi rivolse a Takumi un’espressione impassibile, tuttavia talmente penetrante da dare l’idea di un predatore sopito, addormentato dietro la maschera.
Bisognava sorpassare la linea solamente di poco perché si risvegliasse.
«Quella tua bocca lurida non dovrebbe fare alcun riferimento ad Asahi».
Takumi sollevò distintamente un sopracciglio sentendo gli epiteti rivolti alla sua bocca.
«Stai attento, perché a dispetto di quanto tu creda, ho capito benissimo le tue reali intenzioni dei confronti di Maria» Daichi provò una strana soddisfazione quando sul viso bello e severo del bullo si delineò un accenno di disagio, in quanto si guardò intorno con aria circospetta, come volesse assicurarsi che Arisa non avesse sentito «Se osi avvicinarti ancora ai miei ragazzi, o a Maria, te la faccio pagare. Tu provaci soltanto».
Pronunciate quelle parole, per Daichi la discussione era chiusa.
Voltò le spalle a Takumi, solamente per ritrovarsi la strada sbarrata da Arisa.
Aveva le braccia incrociate sotto il seno troppo scoperto ed evidentemente imbottito, quasi volesse sollevarlo ulteriormente con le braccia e schiaffarlo sotto il naso di Daichi.
«Tieni a bada i tuoi kohai Sawamura! Quel Kageyama mi ha fatto quasi saltare un dente» Daichi le rivolse un sorriso finto di cortesia piuttosto agghiacciante.
«Beh, si vede che hai parlato un po’ troppo».
Replicò, fece un inchino e si allontanò.
 
 
Asahi sospirò pesantemente per quella che doveva essere la centesima volta, ormai.
Al parco faceva caldo, terribilmente caldo, eppure non gli era venuto in mente nessun altro posto dove andare a trascorrere le sue giornate.
Non aveva detto nulla alla madre della sospensione, e non l’aveva fatto perché aveva paura potesse arrabbiarsi con lui; avrebbe desiderato mille volte che fosse così piuttosto che sopportare la delusione che le si sarebbe sicuramente delineata sul viso se avesse saputo.
Non aveva detto nulla nemmeno ad Hotaru in realtà, sebbene la confessione che le aveva fatto fosse decisamente ben più importante, tuttavia Asahi aveva come il sospetto che lei avesse capito benissimo che non stava andando a scuola.
Perché nonostante Asahi continuasse ad indossare la divisa, portare la cartella e il bento con sé, Hotaru gli infilava sempre un paio di mele nella borsa, per merenda.
Sorridendo lievemente accarezzò con le dita lunghe e piene di calli la copertina del libro che stava consultando.
Asahi aveva trovato che fosse sorprendentemente piacevole starsene al parco, sotto l’ombra di un albero a leggere, osservare i bambini giocare, le persone passeggiare con i propri animali e le coppiette andarsene a spasso con un gelato da dividere in due.
Era piacevole, ma non ne poteva davvero più.
Fortunatamente, quello era l’ultimo giorno di sospensione, l’indomani mattina sarebbe ritornato a scuola e avrebbe ripreso le attività del club; anche se non era sicuro che tutto sarebbe andato per il meglio.
Visto quanto successo, lo preferiva sicuramente allo starsene tutto il giorno con le mani in mano e i pensieri in subbuglio.
Aveva appena sfilato il segnalibro dalla copertina, per riprendere la lettura doveva l’aveva interrotta prima che i pensieri lo portassero lontano anni luce, che qualcuno lo colpì senza troppi complimenti con un quaderno dietro la nuca.
Quella mattina Asahi aveva legato i capelli con una semplice fascia, il colpo ricevuto fece sì che gli frustassero la faccia dolorosamente, facendolo pentire di non aver portato con se i suoi tanto amati codini.
Si massaggiò la nuca e sollevò lo sguardo lacrimevole alla volta dei suoi migliori amici.
A colpirlo era stato, ovviamente, Sugawara, che lo guardava dall’alto tutto allegro, il viso pieno di quel suo sorriso genuino che faceva scaldare immediatamente il cuore.
Al suo fianco se ne stava Daichi, le braccia incrociate al petto e l’espressione serena.
Asahi si era già beccato una bella ramanzina da lui, e non avrebbe voluto ripetere l’esperienza mai più per il resto della sua vita, ne era piuttosto certo.
«Vediamo un po’ a che letture si sta dedicando il nostro asso!» commentò immediatamente Daichi strappandogli senza troppi complimenti il libro di mano, Asahi arrossì vistosamente e borbottò qualcosa tra i denti mentre Sugawara si accomodava al fianco dell’amico a sua volta piuttosto incuriosito.
L’ombra del faggio sotto il quale si erano sistemati era grande e riparava tutti e tre dal sole cocente del primo pomeriggio, quel giorno piuttosto insistente.
«Fisioterapia?» osservò Sugawara, strappando il libro dalle mani di Daichi.
«Vuoi diventare un fisioterapista?» lo punzecchiò il capitano, Asahi si scostò i capelli dagli occhi per poi grattarsi la nuca, ancora imbarazzato, ma leggermente più sereno.
«Si beh … l’idea mi piaceva …» borbottò, scombinandosi i capelli tra una parola e l’altra, nell’enfasi eccessiva di nascondere il rossore e il viso contemporaneamente, Daichi lo spintonò leggermente sulla spalla, restituendogli il libro che aveva preso da Kōshi.
«Vedi di non rompere le ossa a qualcuno per sbaglio» lo prese in giro Sugawara, ridacchiando insieme a Daichi all’espressione depressa che Asahi mise su immediatamente dopo quelle parole. Era così semplice capirsi tra di loro.
L’umore di Asahi migliorava notevolmente ogni volta che Suga e Daichi si trovavano nei paraggi. A loro non l’aveva mai detto, non l’avrebbe fatto mai probabilmente, ma ogni volta che vedeva le spalle larghe di Daichi, e ogni volta che incrociava il sorriso smagliante di Suga, gli sembrava improvvisamente di avere Hajime ancora lì con sé.
Era una sensazione stranissima che aveva scoperto con il tempo, e che aveva trovato incredibilmente piacevole e rassicurante contro ogni aspettativa.
«Come stanno andando le cose a scuola?» domandò ad un certo punto, chiudendo il libro per posarlo nuovamente nella cartella.
Quando sollevò lo sguardo, sorpreso dal silenzio meditabondo dei due, li trovò con l’espressione preoccupata, persi in qualche pensiero, l’allegria che li aveva contagiati solamente alcuni secondi prima sembrava sparita come uno sbuffo d’aria.
«Potrebbero andare decisamente meglio se qualcuno non si fosse fatto sospendere!» lo rimbrottò immediatamente Daichi, e Asahi distolse lo sguardo, imbarazzato.
In realtà avevano litigato davvero di brutto il giorno immediatamente successivo alla sospensione, avevano litigato come non era mai successo.
Non era stata un’esperienza piacevole, ma avevano lasciato correre come nulla fosse.
Come una sorta di fantasma che si sarebbero portati dietro per sempre.
«È successo qualcosa?» domandò dopo un po’ Asahi, con voce flebile.
In un primo momento Daichi sembrò esitare, come se fosse indeciso se parlare oppure no, ma fu l’indecisione di un istante, perché un secondo dopo gettò fuori tutto.
L’accaduto con Kageyama, le minacce di Takumi e le sue preoccupazioni a riguardo.
«Se devo essere sincero, sono un po’ preoccupato per Maria. Non so davvero come aiutarla, fa parte della squadra, io sono il capitano ed è un mio compito! Ma con lei ho come la sensazione di fare solo casini e di lasciarla sempre più sola».
Quando Daichi smise di parlare, Suga e Asahi si scambiarono uno sguardo più comunicativo di mille parole. In realtà, nessuno dei due aveva chiesto esplicitamente a Daichi che cosa fosse successo con Maria, se le voci che aveva messo in giro Takumi fossero effettivamente vere. Asahi, che sapeva più o meno tutta la verità, non ne aveva parlato con Suga.
E Suga, a sua volta, non aveva chiesto nulla a nessuno dei due.
C’erano talmente tante cose che non si erano detti …
Si ergevano tra di loro come tanti muri invisibili, attraversabili, ma pur sempre muri.
«Lei non è sola Daichi» intervenne prontamente Asahi, strappando con ferocia un ciuffo d’erba con la mano destra «Lei ha m-» Si interruppe per qualche secondo, mordendosi la lingua «Lei ha noi adesso. Non devi accollarti addosso tutto tu».
Alle parole di Asahi, così strane pronunciate con quel tono fiero e sicuro, Suga e Daichi rimasero in silenzio per un po’ guardando l’amico sorpresi.
Suga, in particolar modo, sembrava come perso nei propri pensieri, rimuginando.
«Ah! Torna presto asso, manchi troppo alla squadra!» Disse dopo un po’ rompendo la tensione, pronunciando quelle parole con aria nuovamente allegra.
Asahi ridacchiò, lasciando andare la manciata di fili d’erba che aveva stretto precedentemente nel pugno della mano per l’eccessiva tensione.
«Ho sentito anche Noya e Tanaka. Stanno bene».
«Oh, con loro saremo finalmente riuniti!» Continuò Suga battendo le mani.
Sembrava quasi un bambino entusiasta di fronte la prospettiva di una caramella.
«E poi Asahi, anche a Daichi sei mancato parecchio, sai?»
«Ehi!».
Al commento di Sugawara Daichi replicò immediatamente spintonandolo, tuttavia sorrideva divertito, anche lui tranquillizzato dallo sparire delle nubi nei loro pensieri.  
Quel pomeriggio del loro terzo anno di liceo, giovani e spensierati, nessuno si domandò se quei segreti che avevano lasciato taciuti avrebbero portato a delle conseguenze nel futuro, nessuno si domandò o si chiese che cosa sarebbe potuto succedere.
Erano solamente dei ragazzi di diciassette anni, sotto l’ombra di un faggio.
Il futuro sembrava ancora troppo lontano.
 
 
Daichi era andato a scuola di buon’umore quella mattina.
Ed era stato di buon’umore fin quando non aveva visto il disegno sulla parete della palestra.
Probabilmente avrebbe dovuto accorgersene prima, ma aveva la mente persa nei propri pensieri; aveva deciso di raggiungere la palestra un po’ prima del solito per organizzare alcune cose in vista di un probabile ritiro nei mesi autunnali.
Inoltre, quel giorno sarebbero tornati ad allenarsi con loro anche Asahi, Nishinoya e Tanaka.
Daichi aveva come la sensazione che le cose avrebbero potuto cominciare ad andare meglio.
Aveva la sensazione che sarebbe riuscito finalmente a chiarire il malinteso con Maria e che le cose per la squadra sarebbero tornate esattamente come erano prima.
Era così carico di aspettative e buoni propositi, che ci mise un po’ a digerire quello che vide.
Il disegno era enorme, ed occupava tutta la parete esterna.
Da lontano dava l’impressione di un wagasa, l’ombrello tradizionale giapponese, ed effettivamente quello che Daichi stava guardando sarebbe stato davvero un normalissimo ombrello, se non fosse stato per il particolare che il manico era stato disegnato come un pene gigante, e il cappuccio fosse l’esatta riproduzione di una vagina.
Daichi si avvicinò lentamente, incredulo, e quando fu abbastanza vicino da leggere i nomi che erano stati scritti sotto l’immagine oscena, lasciò cadere la cartella a terra.
Sul lato destro, con i caratteri in grande c’era scritto “Karasuno”, alla sinistra, più o meno della stessa grandezza della scritta precedente, “Troietta hafu”.
Daichi sentì un moto incontrollato di nausea salirgli dallo stomaco fino alla gola, si portò una mano sulla bocca e soffocò un conato di vomito.
La scritta era talmente grande che doveva averla già notata mezza scuola.
Daichi non aveva alcun tipo di dubbio su chi potesse essere l’artefice di quello scempio osceno; solamente Takumi avrebbe potuto trasformare una tradizione romantica antica come il tempo in qualcosa di assolutamente spiacevole.
Dopotutto, le sue minacce non erano campate in aria.
Se la storia si fosse diffusa sarebbe stato davvero l’inferno per Maria.
A lui non importava cosa dicessero di lui, gli altri ragazzi sarebbero stati al sicuro, dopotutto erano uomini, ma Maria non l’avrebbe passata liscia nemmeno un po’.
Per il puro fatto di essere donna, per il puro fatto di avere sangue misto, l’avrebbero tormentata fino all’esaurimento, Daichi ne era sicuro.
Si passò una mano tremante sulla bocca, ricacciò indietro il senso di nausea, afferrò la cartella mettendosela a tracolla e fece dietrofront, del tutto intenzionato a mettere fine una volta per tutte a quella situazione.
Voltò le spalle alla scritta e cominciò a camminare con passo sostenuto verso la scuola.
Aveva sempre detestato la leggenda romantica che si celava dietro la figura del wagasa, gli riportava alla mente cose che non avrebbe voluto ricordare, il viso di una ragazza che non avrebbe mai potuto avere, cose che pensava di aver cancellato molto tempo prima, eppure …
Eppure, mentre il passo andante lasciava spazio ad una vera e propria corsa, i ricordi lo afferrarono di peso per le spalle, trascinandolo indietro nel tempo controvoglia …
 
 
Andava alle medie, all’ultimo anno per la precisione.
Era sempre stato un ragazzo tranquillo; ottimi voti, referenze da tutti i docenti, amico di tutti i ragazzi, amato da tutte le ragazze, ben voluto dalla squadra di pallavolo …
O almeno, le cose erano sempre andate in quel modo prima dell’incidente.
L’incidente che l’avrebbe allontanato da Yui, l’incidente che l’avrebbe allontanato da suo padre.
La voce a scuola si era sparsa velocemente, molto più di quanto Daichi si fosse aspettato.
Eppure ne era stato consapevole, quando aveva fatto quello che aveva fatto, era consapevole di quello che sarebbe successo dopo, e ovviamente non se n’era mai pentito.
Era andato avanti, sperando che la cosa non fosse troppo dura da sopportare.
Quel giorno era entrato nella sua classe come tutte le mattine, salutando educatamente.
Si era messo seduto al solito posto, aveva sistemato i libri sotto il banco, estratto l’astuccio e sistemato i quaderni per la prima ora di lezione; si era reso conto che qualcosa non andava solamente quando, sollevando lo sguardo, aveva beccato un gruppo di ragazzi a ridere di lui.
E poi aveva finalmente visto il disegno sulla lavagna.
Un wagasa, con tanto di cuoricino sulla sommità, e sotto il suo nome accanto a quello di Yui.
Prima di vedere quel disegno, Daichi aveva sempre trovato tenera e un po’ divertente la leggenda dell’ombrello, le ragazze che fingevano di dimenticare il proprio a casa per lasciarsi accompagnare dal proprio innamorato, eludendo le rigide regole del corteggiamento antico.
In quel momento, con lo sguardo puntato sulla lavagna, provava solamente un senso di nausea opprimente, la paura che suo padre potesse scoprirlo, che Yui fosse di nuovo nei guai …
Era saltato in piedi, con una mano sulla bocca, e una volta in bagno aveva rigettato anche l’anima …
 
 
Daichi ritornò al presente solamente quando si trovò di fronte l’aula di Takumi.
Aveva lo stesso senso di nausea che aveva provato all’epoca, lì fisso nello stomaco, ma una furia tale nelle vene da offuscare tutto il resto.
Entrò nell’aula senza troppi complimenti, diretto senza posa alla volta di Takumi, che se ne stava seduto con aria scomposta al suo posto vantandosi di qualcosa con i suoi compari, e lo afferrò per la collottola della camicia alzandolo di peso.
Takumi parve sorpreso da quel gesto solamente per un istante, poi sogghignò.
«Ohi, ohi, a cosa dobbiamo tutta quest’aggressività?»
«Smettila di fare il finto tonto. Sei stato tu, vero?».
Daichi non ricordava di aver mai davvero perso la calma come in quel caso.
Nel frattempo, nella classe si era creato un brusio insistente, e con la coda dell’occhio il ragazzo vide anche qualcuno sgattaiolare fuori dall’aula con l’aria eccitata, probabilmente per andare a spargere la voce di un’imminente rissa tra il capitano della squadra di pallavolo e il capo dei bulli della scuola.
«Siete stati voi a fare quello schifo sul muro della palestra, vero?!» lo incalzò Daichi, ignorando tutto il resto, per concentrarsi su quel viso che avrebbe voluto ridurre a gelatina in quel preciso istante, in un moto di violenza che mai prima nella vita aveva provato così tanto intensamente.
«Ah!» Esclamò Takumi, per nulla impressionato «Sapevo che l’avresti trovato carino. Cosa ne pensi? L’idea artistica è stata mia, ma il disegno l’ha fatto Shoji» e indicò con il pollice il suo braccio destro, quello che avrebbe dovuto essere suo amico.
Daichi rivolse un’occhiata innervosita al diretto interessato, e Takumi ne approfittò per liberarsi dalla sua stretta, scostandogli le braccia con violenza evidente.
«Sawamura, che cosa sta succedendo?».
Daichi trasalì quando sentì la voce di Yui proprio alla sua destra.
La guardò per un singolo istante senza riconoscerla, per poi ricordare finalmente che la classe di Takumi era anche la classe di Michimiya; e lei era proprio lì, nella sua divisa scolastica, con l’espressione preoccupata e un sopracciglio sollevato.
«Nulla che ti riguardi, Michimiya» Replicò dopo un po’, distogliendo lo sguardo.
Non voleva che lei venisse coinvolta in quella situazione terribile.
Non voleva che soprattutto lei venisse coinvolta, non l’avrebbe sopportato con i ricordi  come un nervo scoperto, pronti a fare male, a tradirlo e a farlo cadere.
Tuttavia, Takumi doveva aver notato il suo nervosismo, perché si sistemò con fastidiosa calma il colletto della camicia e gli rivolse un sorrisino trionfante un po’ sghembo.
«Oh, non sapevo che Michimiya fosse un’altra delle tue fan!».
Lo rimbeccò immediatamente il biondino, fischiando nella direzione di Yui.
Daichi si portò una mano sulla tempia e chiuse gli occhi, respirando a fatica.
«Smettila!» Lo intimò, contando fino a dieci nella testa.
«Dalla reazione direi che ci ho preso, vero?»
«Sta zitto!»
«Che dici, la prossima volta ci mettiamo il suo nome sotto l’ombrello
Daichi perse totalmente la calma, l’immagine del disegno sulla parete della palestra si sovrappose all’immagine che aveva visto quel giorno sulla lavagna, e prima che se ne rendesse conto aveva afferrato Takumi nuovamente per la collottola e aveva tirato il pugno per colpirlo proprio al centro del naso, dolorosamente.
Voleva romperglielo.
Voleva rompergli quel naso da statua greca di cui andava tanto fiero.
«Sawamura!»
«Daichi!»
Tuttavia, quel pugno tanto desiderato non si abbatté mai sul bel faccino di Takumi.
Prima che potesse anche solo sfiorarlo, Daichi sentì la voce di Sugawara, lo vide entrare nel suo campo visivo, afferrarlo per la vita e spingerlo all’indietro come un lottatore di sumo.
Quando Takumi fu abbastanza lontano da lui, Daichi lasciò cadere il braccio e sembrò rendersi conto per la prima volta di quanto avesse perso la calma.
Con il ritorno della coscienza, della lucidità e della solita compostezza, si rese conto di quanto la sua mente avesse viaggiato indietro nel tempo, quasi quel pugno avesse voluto tirarlo con violenza contro quella lavagna, ripetutamente, fino a rompersi le nocche.
«Daichi!» Lo richiamò nuovamente Sugawara, strappandolo ai suoi pensieri lugubri e alle grinfie del tempo, facendo in modo che ripiantasse i piedi nel presente.
Un presente dove aveva quasi aggredito qualcuno.
«Che cosa ti è passato per la testa, Daichi?! Vuoi farti sospendere anche tu?»
«Sugawara-kun ha ragione Sawamura».
Con un piccolo moto di sorpresa, Daichi si rese conto che anche Shimizu era lì.
«Se non avessimo incrociato quei ragazzi nel corridoio …».
Commentò distrattamente Sugawara passandosi una mano sulla fronte, Daichi ricordò vagamente di aver visto solo pochi minuti prima alcuni ragazzi lasciare la classe con aria trepidante, pronti a spargere la notizia della rissa in tutta la scuola …
«Abbiamo visto il disegno, Sawamura» Gli spiegò Shimizu, lo sguardo fermo «Ma non è una buona motivazione per rovinarsi la media scolastica».
«Shimizu ha ragione, Sawamura».
E come se gli avesse appena tirato uno schiaffo, Yui gli ricordò la sua presenza.
Sembrava scossa, ancora sconvolta da quello che aveva appena visto, l’espressione contemporaneamente severa nella sua direzione, preoccupata.
Daichi distolse lo sguardo e strinse forte i pugni, gli formicolavano ancora le dita.
«Che fai, te ne vai come un codardo?».
Lo richiamò Takumi quando Sugawara e Shimizu lo trascinarono controvoglia verso la porta, Daichi non ci pensò due volte a girarsi verso di lui e puntargli un dito contro, sebbene fosse davvero difficile con gli altri due che lo tiravano via a forza.
«Questa volta hai esagerato» Gli gridò dietro «Avvicinati un’altra volta alla mia palestra, e vedrai che non userò quella palla solamente per schiacciare a rete!».
Daichi sentiva la faccia bollente quando si lasciò alle spalle la classe di Yui.
Perdere la pazienza non era stata una delle mosse più intelligenti della sua vita.
Ma in quel momento non aveva alcun’importanza.
Non gli importava di essere stato fortunato a non farsi beccare da un docente, che la voce non si fosse sparsa troppo velocemente per i corridoi, non gli importava nulla di quelle cose.
L’unica cosa che Daichi desiderava veramente, era che Maria non vedesse quel disegno.
 
Tuttavia, il desiderio del capitano non venne esaudito.
Maria, che come Daichi aveva pensato di anticiparsi un po’, troppo agitata all’idea di rivedere Asahi dopo una settimana, troppo agitata alla prospettiva di ritrovarsi faccia a faccia con lui, si imbatté nel disegno senza alcun preavviso.
Fu talmente scioccante, sconvolgente e inaspettato che perse l’equilibro.
Prima che se ne rendesse conto, si ritrovò inginocchiata per terra, una mano sulla bocca e gli occhi azzurri sgranati e fissi sul disegno, rosso come una cicatrice indelebile.
Sentì le lacrime premere dietro le palpebre, i pensieri svuotarsi completamente.
Era così sconvolta, così spaventata e ferita, che non sentì nemmeno le voci degli altri.
Tanaka, Asahi, Nishinoya, Kageyama, Hinata, Yamaguchi, Tsukishima, Ennoshita e Hitoka camminavano tutti insieme alla volta della palestra, chiacchieravano allegramente.
Se Maria avesse potuto prestare attenzione alla loro conversazione, avrebbe capito immediatamente che stavano parlando di quello che avevano combinato Tanaka e Nishinoya nella settimana di sospensione, ne sarebbe stata interessata, perché più volte aveva provato a immaginare che cosa Asahi avesse combinato.
Ma l’unica cosa che poteva vedere, o sentire, era solo il rimbombo di quella scritta.
«Ehi, ma quella non è Tani-chan?» Domandò ad un certo punto Tanaka, che si era accorto di lei, inginocchiata sul selciato, l’espressione sconvolta.
«Ma che cosa sta guardando?» Mormorò Hinata sporgendo il capo.
E per la prima volta anche loro notarono il disegno del wagasa, oscenamente modificato, con le apposite scritte al di sotto. Tutto il chiacchiericcio che c’era stato precedentemente si spense immediatamente, sostituito dall’orrore e dal disgusto più totale.
Disgusto che in Kageyama sembrò durare solamente alcuni secondi, perché fece per avviarsi a passo di marcia verso Maria, probabilmente con l’intento di consolarla, prima che Tsukishima lo bloccasse guardandolo con aria seria.
«Non andare. Lei non vorrebbe farsi vedere in quello stato».
Pronunciò quelle parole con la serietà di una persona che avrebbe potuto capire davvero bene i sentimenti di Maria, nonostante non provasse alcuna evidente simpatia per lei.
Kageyama esitò un istante, mordendosi il labbro, ma non si mosse.
In realtà, fu il gesto di Asahi a sorprendere tutti.
L’asso della squadra non pronunciò parola, non disse nulla, fissò solamente per un istante Maria, con le ginocchia premute sulla terra sporca, poi si rimboccò le maniche della camicia, legò i capelli sciolti in una coda di cavallo e andò verso gli sgabuzzini, tornando poco dopo stringendo tra le mani un secchio pieno d’acqua, del sapone e una spugna.
«Ce ne sono altre lì dentro» Disse ai suoi compagni ammutoliti, indicando il capanno degli attrezzi «Prendete anche qualche altro secchio d’acqua e il detersivo».
E senza aggiungere altro si piazzò davanti al wagasa osceno, gettò l’acqua contro la parete e cominciò a strofinare con tale vigore che le ciocche di capelli sfuggirono al codino.
Quando Asahi si avvicinò alla parete, senza saperlo, occupò tutto il campo visivo di Maria.
Per lei fu come risvegliarsi da un incubo, come se le cose si fossero nuovamente messe a fuoco: i colori, i suoni, gli odori.
Era consapevole di tutti gli altri che si affaccendavano a loro volta per pulire il muro, ma per lei, in quel momento non c’era nient’altro che la schiena di Asahi, ampia, piegata in avanti e curva per il continuo lavoro manuale.
Fu una sensazione strana.
Non appena Maria si rese conto che Asahi era proprio lì davanti a sé, nel suo stesso spazio e campo visivo, così vicino che avrebbe potuto toccarlo, tutta l’ansia, l’angoscia e i dubbi che aveva provato fino a quel momento sparirono come un soffio di vento.
Si sentì al sicuro, si sentì protetta e si rese conto che con Asahi era sempre stato così.
Si rese conto che con lui era sempre stata se stessa, era sempre stato facile toccarsi, o parlare, o incoraggiarsi, o confidare cose che nemmeno Kiyoko aveva mai saputo.
Con lui era sempre stato facile fare qualsiasi cosa, pensino piangere e urlare.
Era stato facile perfino toccarsi intimamente, intensamente.
Talmente intensamente da sembrare quasi naturale come respirare.
Maria era consapevole, mentre si tirava in piedi, che non avrebbe dovuto provare quelle cose per Asahi; era consapevole di risultare piuttosto incoerente in quel momento.
Non aveva forse detto di amare Daichi?
Non aveva forse fatto follie per averlo?
Non aveva forse perso abbastanza dignità per quell’assurda convinzione?
In realtà, in quel momento i suoi reali sentimenti per Daichi le apparvero così chiari …
Maria lo ammirava, l’aveva visto come un porto sicuro a cui aggrapparsi, l’aveva visto come la persona che avrebbe voluto essere, la persona che avrebbe voluto accanto, l’aveva visto come la persona che per la prima volta l’aveva avvicinata senza pregiudizi.
Non come la persona davvero giusta per lei.
In quel preciso momento, Maria non aveva imparato ad amare Asahi, non aveva smesso di amare Daichi, quelle erano cose che probabilmente avrebbe fatto con il tempo.
In quel momento, Maria aveva capito che cosa era meglio per lei.
E per lei, il meglio era Asahi.
Era sempre stato Asahi.
Si asciugò frettolosamente il viso, si rimboccò a sua volta le maniche della camicia e con passo deciso, sicuro per la prima volta dopo parecchio tempo, si affiancò ad Asahi.
Le venne spontaneo appoggiare la propria mano, piccola e pallida, su quella grande, scura e piena di calli di Asahi, lo fece con confidenza, con semplicità, con naturalezza.
Lo fece per chiedergli scusa, lo fece perché lui capisse, lo fece perché lo voleva.
E senza dire niente, senza bisogno di parole inutili, continuarono a pulire.
 
«Sai Shimizu, non so davvero come abbia fatto Maria a sopportare tutto questo».
Il commento di Daichi arrivò sulla strada verso la palestra, dopo molti minuti di silenzio.
Kōshi e Kiyoko non avevano aperto più bocca da quando avevano lasciato la classe di Yui.
Meditabondi, camminavano al suo fianco, probabilmente domandandosi se fosse impazzito.
In effetti, Daichi non era sicuro che non fosse stato proprio così.
Perché gli era sembrato davvero di perdere la testa quando aveva visto quel disegno.
«È sempre stato così Shimizu?» Chiese, guardando la manager.
Shimizu non rispose immediatamente, continuò a camminare, guardando davanti a sé con la solita espressione enigmatica, come se stesse tentando di ordinare le idee.
«Si» Rispose alla fine, e non aggiunse nient’altro.
«Ma insomma, non ha mai sentito la necessità di chiedere una mano?» insistette Daichi, incrociando le braccia al petto, si sentiva stranamente irrequieto.
Shimizu si prese ancora una volta il suo tempo per rispondere.
«No. Io ho cercato di starle accanto il più possibile, ma a Maria non piace».
«Ma -».
«Vedi Sawamura, Maria ha sempre preferito cavarsela da sola. Perché sapeva che per lei le cose sarebbero state difficili. E in effetti, sono sempre state difficili».
E sorprendentemente, dopo aver pronunciato quelle parole, il viso di Shimizu si aprì in un sorriso tristissimo, che comunicò a Daichi molto più di quanto mille parole avrebbero potuto fare. Avrebbe voluto replicare, dire qualcosa, ma quando arrivò nei pressi della palestra, aspettandosi di non trovarci ancora nessuno, rimase piuttosto spiazzato dalla scena che si ritrovò davanti.
Erano tutti lì, sporchi di sapone, bagnati, che pulivano il muro assiduamente ridendo e scherzando, facevano un chiasso tremendo e sembravano sorprendentemente felici.
Hinata se ne stava sulle spalle di Kageyama per pulire la parte in alto, lo stesso valeva per Nishinoya e Tanaka, ma facevano talmente tanto baccano che l’acqua finiva più oltre il secchio che sulla parete.
Daichi provò un tale moto d’affetto nei confronti dei suoi kohai e compagni di squadra che tutto il malumore, tutto il passato, quella sensazione fastidiosa che gli aveva stretto il cuore nel petto quando qualcosa di indesiderato era tornato a fargli visita, tutto sparì.
«Dovremmo andare a dare una mano, no?» propose Sugawara, sorridendo alla volta di Daichi, si era già rimboccato le maniche.
Gli altri li accolsero chiassosamente, spruzzandogli addosso dell’acqua sporca, passando le spugne ridendo rumorosamente.
Lavorarono insieme per quelle che sembrarono ore, oppure potevano essere stati solamente secondi, prima che arrivassero anche il coach Ukai e il professor Takeda.
La loro comparsa inaspettata fece spaventare a morte il povero Hinata, che accidentalmente rovesciò il suo secchio d’acqua sulla testa di Kageyama, bagnandolo da capo a piedi.
L’alzatore non proferì verbo per alcuni secondi, il che diede la possibilità ad Hinata di osare e trovare il coraggio di sollevare il secchio per controllare l’espressione del coetaneo, ovviamente non doveva essere delle migliori, perché si affrettò a riabbassarlo.
Tempo massimo pochi secondi e l’urlo di Kageyama squarciò il silenzio.
«Hinata boke! Io ti uccido!».
Il professore e il coach, ormai abituati al chiasso dei due primini, interrogarono i più grandi su cosa fosse successo al muro e perché lo stessero pulendo.
Ormai, il disegno del wagasa era quasi del tutto irriconoscibile.
«L’abbiamo sporcato per sbaglio» Intervenne inaspettatamente Asahi, prima che Daichi potesse dire qualcosa, o dover raccontare la spiacevole verità «Eravamo un po’ troppo entusiasti per il nostro rientro e ci siamo lasciati sfuggire la mano».
Terminò grattandosi la nuca, senza rendersi conto che in quel modo, con le mani bagnate e piene di sapone, si sarebbe sporcato tutti i capelli.
Maria si ritrovò a fissare prima lui, poi Daichi.
Asahi probabilmente sapeva che per Sawamura sarebbe stato penoso dover raccontare la verità, sapeva che per lei sarebbe stato penoso e con una semplicità sorprendente, senza chiedere nulla in cambio, senza mai pretendere, era andato in soccorso del suo migliore amico.
Maria avrebbe voluto abbracciarlo, avrebbe voluto parlargli.
Ma, mentre anche il professore e il coach si univano alla grande pulizia, mentre Hinata e Kageyama continuavano a rincorrersi, pensò che dopotutto non fosse il momento giusto per farlo. Che sarebbe sicuramente arrivato in futuro.
Era il tempo del presente, era il tempo della serenità.
E lei si sentiva molto serena, fin nel profondo dell’anima.

 
 
 
…and these wounds are story you’ll use.
(I am They – Scars)
 
 
 
Bentrovati cari lettori!
Flying_lotus95 vi fa gli onori di casa a questo giro 🤓
Questo capitolo penso sia tra quelli che più ho amato ed apprezzato, soprattutto per il focus introduttivo sul mio amato Daichi 🥺 per lui ho un occhio di riguardo speciale, penso che ve lo ricorderò ad ogni occasione buona 🤗
Piaciuta poi la scena finale, dove tutti sono intenti a ripulire il murales denigratorio??
Ricordo ancora il momento esatto quando lo pensai e condivisi l'idea con effe_95, fu emozione pura e brividi 💘
Quest'atmosfera da found family mi rincuora sempre tanto, ogni volta che mi ritrovo a leggere di loro 🥰 credo che proprio Haikyuu si basi, o si possa basare, su un concept simile, e più avanzerete nella storia, e più troverete la sensazione evidente 😉
Perchè Haikyuu è soprattutto famiglia, unione, amicizia. E spero vi sentiate a casa anche voi lettori, nel leggere di tutti loro ❤
Come sempre, vi sproniamo a lasciare qualche impressione o a condividerle sui nostri social, che trovate nelle nostre pagine personali qui su EFP.
Datele affetto, perchè questa storia se la merita tutta!
Buona lettura, á bientôt! 🌺
Flying_lotus95 & effe_95

 

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Capitolo 12
*** 11- Le mani di un uomo ***


11.Le mani di un uomo.

 

Cause here I am, I’m givin’ all I can
But all you ever do is mess it up
Yeah, I’m right here, I’m tryin’ to make it clear
That getting half of you just ain’t enough
 
 
 
Maria rivolse per l’ennesima volta uno sguardo esasperato all’orologio.
La lancetta si era spostata solamente di un altro minuto.
Era dall’inizio delle lezioni che non riusciva a star seduta dietro il banco in maniera decente, avrebbe voluto essere più attenta, prestare più attenzione al sensei, ma lo sguardo le cadeva inevitabilmente sull’orologio circa ogni minuto.
Quella giornata, di conseguenza, stava diventando davvero infinita.
Le succedeva sempre qualcosa di simile ogni volta che prendeva una decisione importante, le veniva voglia di mettere in atto la sua idea, il suo piano il prima possibile, quasi avesse paura che qualche forma negativa di karma potesse mandare tutto a rotoli.
Aveva deciso che quel giorno avrebbe risolto la questione con Daichi e Asahi.
E non vedeva l’ora che quella maledetta campanella suonasse, annunciando la fine delle lezioni, perché voleva correre e mettere tutto al posto giusto.
Voleva parlare con Daichi, e far tornare le cose com’erano prima.
Voleva parlare con Asahi, e scoprire che effetto le avrebbe fatto.
Le si erano aperte talmente tante possibilità davanti; provare a costruire qualcosa con Asahi, vedere se Daichi non era davvero la via giusta, oppure scoprire che lo era sempre stata.
Oppure rendersi addirittura conto che nessuno dei due lo sarebbe mai stata.
Maria era impaziente, fremeva dalla voglia e le sembrava di impazzire.
All’ennesimo sguardo all’orologio tuttavia, dato con un certo nervosismo e proprio nel momento in cui il sensei era girato dalla sua parte, le costarono un immediato richiamo.
«Taniguchi-san! Sei stata distratta per tutta l’ora».
Maria sobbalzò, abbassando immediatamente lo sguardo e la matita, che fino a pochi istanti prima aveva fatto roteare distrattamente tra le dita, le sfuggì di mano finendo per terra.
Si affrettò immediatamente a raccoglierla, rossa in volto mentre lo sguardo di tutta la classe si posava inevitabilmente su di lei, e sistemò i capelli dietro le orecchie per darsi un tono.
«Mi spiace, sensei» replicò immediatamente, sembrando il più contrita possibile.
Il professore la scrutò per un istante in faccia, dubbioso, ma Maria era sempre stata sorprendentemente brava a recitare qualsiasi ruolo richiedeva il momento.
Alla fine l’uomo si arrese, probabilmente convinto della sua sincerità, e continuò a leggere.
Maria sospirò pesantemente, portandosi una mano sul cuore, non aveva mai sopportato molto l’ora di letteratura giapponese, la trovava estremamente noiosa.
«Maria-chan, che cosa stai combinando?» sussultò per la seconda volta, spaventata a morte, quando la voce bassa ma contemporaneamente ferma di Shimizu le giunse sibilante come quella di un serpente all’orecchio.
Maria si portò per l’ennesima volta la mano sul petto, il cuore sempre più veloce.
«Niente Kiyoko-san, sono solamente impaziente!» le bisbigliò in rimando.
L’occhio le cadde nuovamente sull’orologio, ma quella volta fece ben attenzione a far sì che il professore non se ne accorgesse.
«Impaziente?» domandò Shimizu di rimando, concentrata per la prima volta più su di lei che sulla lezione, Maria avrebbe potuto considerarlo come un evento davvero raro.
«Si, non vedo l’ora di parlare con Daichi-san e Asahi».
Shimizu rimase in silenzio per un po’, scrutandola fisso; probabilmente stava ripensando alla lunga chiacchierata che si erano fatte la sera precedente, sedute fuori il giardino di casa sua.
A tutto quello che Maria le aveva confidato, e alle sue intenzioni su entrambi.
«So che sei impaziente Maria-chan, ma sarebbe meglio se ti concentrassi sulla lezione adesso. Il tempo passerà più in fretta in questo modo» concluse infine, tornando alla lezione. Maria le rivolse un’occhiataccia un po’ contrariata, ma si ritrovò anche a sorridere.
E pochi minuti più tardi, quando la campanella suonò, giurò a sé stessa di non rivelare mai a Shimizu che, dopotutto, aveva assolutamente ragione.
 
Trovare Daichi fu piuttosto semplice per Maria.
Aveva deciso che avrebbe preferito parlare prima con lui ad ogni modo, la prospettiva le risultava molto più semplice rispetto all’idea di andare da Asahi.
Non che non avesse paura di affrontare il capitano, dopotutto, quando lui l’aveva rifiutata se n’era scappata in malo modo dicendogli delle cose orribili, l’aveva completamente ignorato quando lui l’aveva aspettata apposta fuori il cancello della scuola per chiarire e gli aveva addirittura gridato contro in palestra quando l’aveva difesa da Tsukishima.
Ripensare a quei momenti significava provare una grande vergogna per Maria.
Aveva provato talmente tanta rabbia nei suoi confronti quando l’aveva trattata in quel modo dopo la sua dichiarazione; aveva provato talmente tanta rabbia che sicuramente, una minuscola parte di lei, era andata a letto con Asahi solamente per fare un torto a Daichi.
Ma Maria stessa si rendeva conto che era una cosa davvero stupida da pensare, e dopotutto, non era quello il motivo reale per cui si era comportata in quel modo.
In realtà, tra le braccia di Asahi ci era inciampata quasi per caso.
Stava attraversando il corridoio, distratta, quando passando di fronte la classe 3 sezione 4, vide Daichi tutto intento a pulire la lavagna.
Maria rallentò il passo di conseguenza, fino a fermarsi davanti la porta dell’aula, le mani strette in grembo e l’espressione leggermente imbarazzata, un po’ persa a contemplare il profilo sereno di Daichi e il movimento circolare delle sue mani sulla lavagna.
Doveva essere il suo turno per la pulizia di classe quel giorno.
Facendosi forza e traendo un sospiro profondo, Maria entrò nell’aula a passo deciso.
«Ciao, Daichi-san» Lo salutò con voce ferma, il ragazzo rimase talmente sorpreso di trovarsela davanti che rischiò di lasciarsi scappare il cancellino dalle mani.
La fissò, con espressione evidentemente sorpresa, e sbatté le palpebre, lento.
«Maria!» Esclamò in fine, riprendendosi dallo shock, la voce carica di stupore.
«Stai pulendo l’aula? Posso darti una mano?» domandò lei di rimando, e senza aspettare una vera e propria risposta, afferrò a sua volta un cancellino e si mise a pulire la lavagna.
Daichi esitò solamente per un istante, poi continuò a lavorare al suo fianco.
Rimasero in silenzio per un po’, svolgendo il loro compito con devozione, fin quando Maria non decise che era arrivato il momento di affrontarlo.
«Daichi-san … mi dispiace di aver alzato la voce con te l’altra volta» pronunciò quelle parole con un tono di voce piuttosto basso, leggermente diverso da quello che si era immaginata, ma non voleva che le altre persone intente a pulire la classe potessero origliare la loro conversazione; parlò senza smettere di pulire la lavagna, mentre le mani di Daichi si fermarono di riflesso, il cassino ancora stretto tra le dita, fermo a metà di una cancellatura. «Non avrei dovuto farlo. Ero arrabbiata, è vero. Ero arrabbiata con Azumane-san, che si è fatto sospendere per colpa mia. Ero arrabbiata con Nishinoya-san e Tanaka-san, che lo hanno seguito in questa stupidaggine. Ed ero arrabbiata con Tsukishima perché aveva ragione. Ero arrabbiata, ma non avevo il diritto di riversare la mia rabbia su di te».
Daichi distolse lo sguardo e continuò a cancellare, sorrideva.
«Non preoccuparti di Asahi, si è preso un bel rimbrotto anche da me» le disse, e quando ebbe finito il suo lavoro posò il cassino e si girò a guardarla, facendole l’occhiolino.
Maria provò una tale serenità, che non riuscì ad evitare di sorridere a sua volta.
Le sembrava, per la prima volta dopo giorni, che tutto quel peso che le opprimeva il petto fosse improvvisamente diminuito di volume, lasciandola respirare un po’ meglio.
«Ho sempre pensato che Asahi fosse davvero uno scemotto» continuò ancora Daichi.
Si era messo seduto per metà su uno dei banchi e aveva incrociato le braccia al petto.
Maria lo imitò, sedendosi a sua volta nel banco successivo, le mani intrecciate in grembo.
Era la prima volta che sentiva Daichi parlare di Asahi, stranamente voleva ascoltarlo con tutta sé stessa, voleva sapere cosa pensava di lui, per lei il giudizio di Daichi valeva più di quello di chiunque altro in quella scuola.
Le venne da sorridere nel ripensare che solamente fino a qualche giorno prima avrebbe dato assolutamente tutto per il contrario, per sentire Asahi parlarle di Daichi.
«E in effetti lo è» Dichiarò il ragazzo sorridendo «Ma se fossi in guerra, lui sarebbe la prima persona che sceglierei di portare con me. Insieme a Suga ovviamente».
Maria sentì uno strano movimento nel petto quando sentì quelle parole, qualcosa di caldo e viscerale, e poi si rese conto che quella sensazione non era nient’altro che orgoglio.
«Comunque sia Maria, per quella volta …»
«È tutto apposto Daichi-san, ho capito. Davvero.».
Maria sapeva che prima o poi sarebbero finiti con il parlare di quella sera, la sera in cui Daichi l’aveva rifiutata, del modo in cui lei l’aveva trattato successivamente e di tutto quello che ne era venuto fuori. Ma non aveva bisogno che si spendessero troppe parole al riguardo.
Maria voleva che Daichi capisse, che dopotutto era tutta acqua passata.
Che sarebbe stato meglio se non ne avessero parlato più, almeno non tra di loro.
Era l’unico modo che avevano per andare avanti, l’unico modo che avevano per lasciare gli equilibri stabili, per scoprire come sarebbe andata in futuro, per non sporcare nulla.
Capire le motivazioni che c’erano dietro, capire perché, non era necessario che lo facessero.
Non era necessario farlo in quel momento, dopotutto, la vita aveva così tante fasi.
«Dato che stiamo parlando un po’ di tutto, c’è qualcosa che vorrei dirti» disse ad un certo punto Daichi, al seguito del lungo silenzio calato tra di loro, fatto di riflessioni e comprensione, accettazione e compromessi; come se avessero stretto un patto senza usare parole, senza stringere le mani.
«Cosa?» domandò Maria, leggermente incuriosita dall’improvviso cambio d’argomento.
Daichi si girò di centottanta gradi verso di lei e la guardò con aria severa, facendola sentire un po’ come una bambina sotto lo sguardo inquisitore del padre.
Maria aveva sempre saputo che Daichi, nonostante l’aria posata e gentile, sapesse incutere abbastanza timore da tenere a bada quegli scalmanati dei suoi kohai, ma sperimentare quello sguardo sulla propria pelle le fece venire la pelle d’oca per tutta la schiena.
Provò un po’ di pena per Asahi, quando ripensò alla probabile strigliata che si era beccato.
«Takumi» sbottò, e Maria impallidì «Ho capito benissimo che quel verme ha intenzioni sporche nei tuoi confronti». Quelle parole furono come uno schiaffo in faccia per lei.
Maria sapeva che prima o poi quella cosa sarebbe venuta fuori, era così evidente, ma sentirlo dire ad alta voce, con una tale certezza da mettere i brividi, fu come ritrovarsi all’improvviso nuda di fronte qualcosa di indecente, come sentirsi sporca e vulnerabile.
Si strinse forte le braccia al petto e distolse lo sguardo da quello fisso di Daichi.
Le era insopportabile sostenerlo.
«Non – non pensare che l’abbia incoraggiato Daichi-san, io -».
«Maria» la interruppe il ragazzo con voce severa, quando la sentì balbettare, imbarazzata, mentre si grattava le braccia quasi volesse scorticarsi la pelle «Nessuno di noi penserebbe mai una cosa del genere di te. Siamo tutti dalla tua parte».
E pronunciate quelle parole il viso di Daichi si riaprì nuovamente in un sorriso rassicurante.
Maria sentiva le lacrime punzecchiarle gli occhi, dopotutto gliel’avevano ripetuto mille volte che poteva fidarsi di loro, le risultava solamente difficile credere che fosse vero.
Era stata sola per troppo tempo, si era difesa da sola per troppo tempo.
Scostò lo sguardo e si tamponò gli occhi, leggermente imbronciata per essersi fatta vedere in quelle condizioni, e a quel punto Daichi fece qualcosa che Maria proprio non si aspettava.
Saltò giù dal banco, le avvolse un braccio attorno al collo e le scombinò con fare fraterno i capelli; Maria era talmente piccola e minuta sotto la sua ala che non riuscì a fare altro che ribellarsi un po’, facendolo scoppiare a ridere.
«Andiamo in palestra, dai» commentò lui trascinandola verso la porta.
Maria alzò gli occhi al cielo, ma un istante dopo scoppiò a ridere anche lei, rincuorata, avvolgendo un braccio attorno alla vita di Daichi come avrebbe potuto fare con un fratello maggiore un po’ troppo apprensivo.
Non sentiva una serenità del genere da molto tempo.
 
A fine giornata però, non era riuscita a parlare con Asahi.
Maria si ritrovò a chiedersi, mentre scioglieva distrattamente i fili delle cuffiette, se dopotutto non fosse stata un po’ anche opera del ragazzo.
In palestra si era allenato come un matto senza darsi un minimo di tregua, e quando Maria gli si era avvicinata per offrirgli un po’ d’acqua - l’unica scusa che le era venuta in mente per chiedergli di parlare - Asahi si era allontanato per andare ad aiutare Nishinoya con la rete.
Non l’aveva vista?
O l’aveva vista ma aveva fatto finta di nulla?
Maria sospirò pesantemente e infilò le cuffiette nelle orecchie.
Avrebbe voluto davvero liberarsi anche dell’altra metà del peso che le opprimeva lo stomaco, ma evidentemente era troppo chiedere di risolvere tutto nella stessa giornata.
Forse Asahi dopotutto non voleva parlare con lei.
Forse era ancora arrabbiato, forse quel gesto di solidarietà, quando avevano cancellato la scritta dal muro, era stato solamente dettato dal senso del dovere.
Forse, dopotutto, Maria non avrebbe dovuto vederci niente di diverso …
Si lasciò andare ad un altro respiro pesante, aggiustò meglio la borsa a tracolla e fece partire la musica; quella giornata era finita, la luce del sole tingeva tutto di un forte arancione, infiammando ogni cosa su cui posava lo sguardo, e Maria voleva solamente tornare a casa.
Avrebbe riprovato a parlare con Asahi il giorno seguente, e quello seguente ancora se fosse stato necessario, dopotutto non doveva avere tutta quella fretta.
Aveva scelto come brano “E lucevan le stelle” della Tosca di Puccini, era un brano che le era sempre piaciuto sin da quando era bambina, nonostante all’epoca non potesse capirne le parole o l’intensità.
E lucevan le stelle …” Involontariamente Maria sollevò lo sguardo sul cielo striato di nuvole, tinto del viola del crepuscolo e accarezzato dall’alone dei primi astri “Ed olezzava la terra …”.
Maria camminava lungo il marciapiede con aria distratta, le braccia strette al petto, nemmeno il passaggio sporadico di una macchina riusciva a riscuoterla dai pensieri.
Stridea l’uscio dell’orto … E un passo sfiorava la rena … Entrava ella, fragrante …”.
Maria rabbrividì, mentre la voce potente di Pavarotti - aveva infatti scelto la sua versione, risuonava nelle orecchie percuotendola fin dentro le ossa con violenza.
Inevitabilmente, senza sapersi spiegare il perché, tornò con la mente a quella sera …
Ancora una volta …
Mi cadea tra le braccia … Oh dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli …
A Maria sembrò di ricordare per l’ennesima volta la mano di Asahi che le sfiorava la spalla, la bretella della canotta che cadeva sulla pelle, le sue labbra sulla …
Svanì per sempre il sogno mio d’amore!”
La voce di Pavarotti si fece improvvisamente potente, facendola sussultare, strappandola a quei ricordi che sicuramente l’avrebbero fatta impazzire di vergogna, di desiderio, di …
Non sapeva nemmeno lei di cosa.
Sussultò leggermente quando si rese conto di aver appena raggiunto il semaforo, lanciò uno sguardo distratto alla luce verde, segno che poteva passare, e prese ad attraversare.
Aveva appena mosso il primo passo che il bussare frenetico di un clacson la spaventò a morte; il rombare di una moto, un’imprecazione e Maria si ritrovò con il sedere per terra sul marciapiede, allibita, mentre la voce di Pavarotti le ruggiva nelle orecchie …
E muoio disperato! “
Maria si strappò le cuffiette, portandosi una mano sul cuore.
Lo sentiva battere con una tale violenza che sarebbe bastata una piccola pressione perché se ne scappasse senza il suo permesso; rivolse un’occhiata veloce al motorino che si allontanava indisturbato, del tutto indifferente all’accaduto.
«Brutto stronzo!» gli gridò dietro fino a sgolarsi, poi sbuffò infastidita.
Le tremavano terribilmente le mani mentre ficcava rudemente l’iPod della tasca esterna della cartella, era ancora seduta per terra sul marciapiede e non aveva il coraggio di alzarsi, perché temeva che le gambe tremassero troppo per poterla sorreggere.
Tuttavia, dopo un lungo respiro, appoggiò i palmi delle mani per terra e si tirò in piedi.
Per cadere nuovamente e fragorosamente con un dolore lancinante alla caviglia.
Maria rimase allibita, mentre fissandosi il piede lo sentiva pulsare furiosamente per la prima volta; doveva aver preso una storta mentre indietreggiava verso il marciapiede.
Probabilmente proprio quando era caduta a terra senza controllo.
In quel momento, con lo scemare dell’adrenalina, il dolore che prima non aveva percepito si stava facendo strada nella sua pelle come un veleno bruciante ad azione rapida.
«Maria
La ragazza sollevò di scatto la testa quando sentì quel richiamo preoccupato.
Veniva da qualche metro di distanza, dall’altra parte del marciapiede, dal ragazzo a cui Maria aveva desiderato parlare per tutto il giorno, ma che avrebbe assolutamente voluto evitare in quel momento, assalita da un improvviso senso di contraddizione interiore.
«Maria! Cos’è successo?» la voce di Asahi si fece sempre più vicina, come la sua figura, mentre attraversava prudentemente la strada, l’espressione corrucciata e i capelli al vento.
Maria distolse lo sguardo e lo puntò sulla caviglia, che stava cominciando a gonfiarsi.
Improvvisamente si rese conto che non ce l’avrebbe fatta a parlare con lui in quel momento, che nonostante l’avesse desiderato con tutta sé stessa fino a pochi istanti prima, trovarselo lì davanti, talmente vicino che avrebbe potuto toccarlo, comportava la necessità di un coraggio che non aveva. Un coraggio che forse non aveva mai avuto, che nemmeno si era aspettata.
«Niente Azumane-san, uno stupido sulla moto … ma sto bene».
Maria si morse l’interno della guancia quando lesse nello sguardo di Asahi una leggera esitazione, una leggera delusione; chiamandolo per cognome aveva messo una barriera tra di loro, una barriera che Asahi non poteva superare da solo.
Siccome non riusciva più a sopportare il suo sguardo su di sé, Maria si morse violentemente il labbro inferiore e lottò contro la nausea per tirarsi in piedi, ci riuscì, ma oscillò pericolosamente sbiancando di brutto.
«Ti sei fatta male alla caviglia?» intervenne immediatamente Asahi, corrucciando ancora di più lo sguardo, senza pensarci due volte le prese i polsi per sorreggerla e si chinò leggermente in avanti per dare un’occhiata al suo piede, sempre più gonfio.
Maria sentiva uno strano calore innaturale percorrerle la pelle, e siccome era piuttosto pallida per il dolore, aveva come il presentimento di avere le guance in fiamme, e non voleva assolutamente che Asahi notasse quel particolare.
In verità Maria si sentiva piuttosto contrariata in quel momento, le sembrava quasi che il destino si stesse facendo beffe di lei, facendole comparire Asahi davanti proprio quando si era rassegnata all’idea di parlare con lui il giorno seguente.
«No! Davvero, sto benissimo!» esclamò di getto, scrollando i polsi dalla presa di Asahi, vacillando, «Adesso vado a casa, ci vediamo domani!».
E balbettate di fretta quelle parole, gli voltò le spalle, chiudendo gli occhi tra le mille imprecazioni mentali, e cominciò a zoppicare verso le strisce pedonali.
Maria mosse appena un passettino, il tempo di percorrere qualche centimetro, che Asahi le afferrò immediatamente un braccio, se lo passò attorno alle sue spalle e la sostenne.
Il suo collo era talmente vicino che Maria sentiva l’odore di bagnoschiuma nelle narici, riusciva a vedere ogni pelo di barba incolta e perfino un piccolissimo neo che gli baciava la pelle proprio sotto la mandibola.
Scosse la testa e incespicò in un goffo tentativo di liberarsi dalla presa, che Asahi dovette interpretare come un vacillamento dato dal dolore, perché rafforzò la stretta.
«Casa mia è qui vicino. Andiamo a dare un’occhiata alla caviglia, nel caso il pronto soccorso è a due passi, potremmo andare a fargli dare un’occhiata per vedere che l’osso non sia rotto. Cosa ne pensi?» propose il ragazzo con una strana aria professionale.
Nel frattempo, Maria aveva cominciato a provare uno strano piacevole tepore a starsene così sorretta a lui, le aveva sempre dato fastidio farsi toccare dagli altri, ma in quel momento si rese conto che con Asahi non aveva mai provato quella sensazione di fastidio.
Nemmeno una volta.
«Non ce n’è bisogno Azumane-san, sto bene. Passerà in fretta».
Asahi non la stette a sentire, lasciò andare improvvisamente la stretta e si accovacciò a terra, mostrandole la schiena, in una posa che Maria trovò sorprendentemente inaspettata.
«Sali» replicò Asahi «Sarebbe meglio se tu evitassi di camminare sul dolore. A casa ho un po’ di spray al ghiaccio, e delle bende per fasciare il piede».
Maria guardò la schiena di Asahi con aria attonita, aveva capito che insistere con lui sarebbe stato inutile, perché l’avrebbe costretta a venire anche caricandosela sulle spalle a forza, ma salire sulla schiena era qualcosa che proprio non poteva fare.
Era qualcosa di troppo intimo, qualcosa che la spaventava.
E Maria non voleva lasciarsi scappare cose di cui si sarebbe pentita, voleva parlare con Asahi con calma, con lucidità, con serenità.
«Forse sarebbe meglio se camminassi da so-».
«Maria!» la rimproverò lui, inaspettatamente «Per una volta vuoi lasciarti aiutare?!».
Maria ammutolì di colpo e non seppe cosa rispondere, rimase lì in piedi, traballante, con una mano appoggiata sul muro a fissare la schiena di Asahi, che le aveva voltato le spalle.
Improvvisamente si sentì stupida per essersi agitata in quel modo insensato.
Era solamente Asahi che stava guardando in quel momento, lo stesso Asahi di sempre.
Parlare con lui in quel momento, o il giorno successivo, non avrebbe fatto differenza.
Ritrovando la calma e la determinazione che aveva avuto fino a pochi minuti prima, Maria sospirò pesantemente e si arrampicò sulla schiena di Asahi, tenendosi stretta al suo collo.
Asahi aveva le spalle larghe e forti, la teneva sotto le gambe con una presa ferrea, non sembrava nemmeno minimamente affaticato dal peso che portava, camminava con fare posato e gentile, per non farla ballonzolare a destra e sinistra; le mani rispettose erano ferme, senza toccare la pelle sensibile dell’interno coscia.
Maria si scoprì profondamente delusa quando si rese conto che casa di Asahi era, effettivamente, davvero a due passi dal semaforo. Si trovava nella direzione diametralmente opposta alla sua, proprio nei pressi dell’unico ospedale della prefettura.
Si trattava di una villetta unifamiliare, identica a quella di tutti gli altri, con la sola differenza di un cartello piuttosto colorato affisso al cancello e un bellissimo roseto che sporgeva oltre la parete, rigoglioso, curato e sorprendentemente suggestivo.
Asahi lasciò che Maria scendesse dalla sua schiena con cura, arrivando addirittura ad inginocchiarsi per fare in modo che non dovesse dare troppa fatica alla caviglia; mentre il ragazzo rovistava distrattamente nella cartella alla ricerca delle chiavi, Maria zoppicò fino al piccolo cartello, osservandolo da vicino.
Si trattava di un compensato di legno vecchio e rovinato dalle intemperie, su cui qualcuno aveva scritto, con aria infantile, “Famiglia Azumane”; i caratteri erano un po’ grossolani, tracciati con della vernice azzurra, ma non erano stati quelli a catturare l’attenzione della ragazza, piuttosto le impronte colorate delle mani che contornavano la scritta.
Quelle rosse erano le mani di un uomo, sull’angolo alto del compensato, quello destro.
Alla sinistra si trovavano delle impronte verdi, più piccole, quelle di una donna forse.
E sotto a tutto, quasi vicine, le mani riconoscibili di due bambini.
Maria accarezzò la pittura gialla e secca, leggermente scorticata, tracciando con l’indice la forma di tutte le piccole dita.
«È la tua mano, vero?» gli domandò ad un certo punto, perché si era accorta che Asahi aveva trovato le chiavi e la stava fissando già da un po’, senza tuttavia metterle fretta.
«Quel cartello lo ha fatto papà» spiegò Asahi, e Maria ricordò all’improvviso che l’aveva perso all’età di dieci anni. «Gli piaceva lavorare con le mani» continuò il ragazzo infilando le chiavi nella toppa del cancello, Maria allontanò le dita ma non distolse lo sguardo dall’impronta delle mani di Asahi, «Avevo sei anni all’epoca».
Lui spalancò il cancello, e le prese le mani per aiutarla ad entrare nel giardino con calma, ma nella mente di Maria, sebbene il cartello fosse sparito visivamente, l’immagine delle mani di Asahi bambino erano ancora chiare, quasi come impresse nella retina.
Senza sapere bene perché, Maria provò il bruciante desiderio di tenere le mani di quel bambino strette saldamente tra le sue, inginocchiarsi davanti a lui e asciugargli il viso.
Quel bambino però adesso era diventato un uomo, un uomo con le spalle larghe, un uomo con le mani gentili e grandi, un uomo buono e insicuro.
«Az- Asahi» Lo richiamò Maria con gentilezza «Come si chiamava tuo padre?».
Asahi la accompagnò gentilmente fino ad una piccola panchina, dove la fece accomodare.
Maria aspettò pazientemente, con le mani strette in grembo, mentre lui andava verso la porta di casa e la apriva, probabilmente per andare a prendere spray e bende.
«Si chiamava Hajime» le disse, e poi sparì oltre la soglia.
Maria rimase seduta in silenzio, stringendo il bordo della maglietta tra le dita, con la caviglia che pulsava lentamente per il dolore, sempre meno forte, e la consapevolezza di volere a tutti i costi che quella giornata finisse esattamente come aveva programmato.
Con Asahi nella sua vita, davvero nella sua vita.
Lui tornò alcuni minuti dopo lasciando la porta di casa aperta alle spalle, stringeva tra le mani una sorta di cassetta artigianale del pronto soccorso; si inginocchiò davanti a lei e le prese delicatamente la caviglia, appoggiandosela sulla gamba.
«Tolgo la scarpa, va bene?» chiese e prima che Maria potesse ancora solo rispondere, le sfilò la scarpetta nera insieme al calzino, prendendo ad esaminarle la caviglia con fare esperto, l’aria concentrata, le mani che toccavano la pelle come se sapessero esattamente come muoversi. Come se l’avessero fatto altre mille volte, come se Asahi lo avesse letto da qualche parte, avesse letto da qualche parte come fare.
Maria avrebbe voluto aprire la bocca per fargli qualche domanda a riguardo, incuriosita, ma l’unica cosa che le sfuggì fu un acuto grido di dolore quando lui toccò la zona più sensibile.
«Ahia!» si lasciò scappare, tirando un po’ il piede a sé per riflesso, poi si morse il labbro.
«Scusa, ti ho fatto molto male?» domandò di riflesso Asahi, lasciandole andare il piede.
Per Maria, sentire quelle parole fu come se un piccolo bocciolo le fosse spuntato nel petto, al centro del cuore, perché lo sentiva pesante, frenetico nella cassa toracica.
Senza pensarci troppo, si portò una mano proprio al centro del petto, sussultando.
«Anche quella volta hai detto la stessa cosa» mormorò, tornando con la memoria nella sua stanza buia, quella sera, con la voce calda e roca di Asahi a sussurrarle nell’orecchio.
Il ragazzo sollevò la testa e la guardò con fare corrucciato, evidentemente stupito.
«Quella volta? Detto?» domandò interdetto, con un filo di voce.
Maria arrossì violentemente e scosse la testa, spostando lo sguardo, la mano ancora premuta sul petto, il cuore che batteva come un passero rinchiuso in gabbia contro i polpastrelli.
Fu a quel punto che, inaspettatamente, Asahi smise di medicarle il piede e le afferrò la mano, proprio quella che aveva tenuto schiacciata sulla pelle fino a pochi istanti prima.
Con sgomento, Maria si rese conto che il polso si era scoperto, mostrando i codini.
«Quelli sono i miei …?» Asahi sembrava leggermente incredulo, titubante.
Aveva la mano calda, ma la presa era leggerissima, così a Maria bastò solo scostare leggermente la sua per sfuggire e nascondere il polso, insieme ai codini.
«Li hai lasciati da me l’ultima volta» raccontò, tossicchiando un po’ per avere una voce più ferma, Asahi sbatté le palpebre, guardandole il viso quasi volesse leggerci una risposta.
«Io – io non ho avuto occasione di restituirteli!» continuò immediatamente lei, con voce leggermente più sicura di se, tanto sicura da poter pensare di affrontarlo guardandolo direttamente negli occhi «Sono successe troppe cose e l’ho dimenticato!».
Quando finì di parlare aveva un leggero fiatone, come se avesse corso una maratona.
Asahi non rispose subito, rimase in silenzio, e Maria aspettò.
Aspettò finché Asahi non si limitò semplicemente ad allungare una mano, palmo insù.
«Puoi ridarmeli adesso».
E Maria fece qualcosa di assolutamente inaspettato, si nascose la mano dietro la schiena.
Lo fece d’istinto, perché non voleva separarsi da quei codini.
Si fissarono, in silenzio, arrossendo entrambi contemporaneamente per motivi diversi.
Sarebbero rimasti in quel modo, a farsi mille domande, se Asahi non avesse deciso di ignorare completamente la cosa, come se non fosse mai successo; le prese nuovamente il piede e continuò a medicarlo, facendo una fasciatura che glielo tenesse fermo.
Maria sopportò poco quella situazione, si fece forza.
«Come … com’è andata la settimana?» gli domandò infine, per spezzare la tensione.
Asahi rispose senza sollevare lo sguardo, concentrato su quello che stava facendo.
«Bene … sono andato al parco tutti i giorni» raccontò «Un piccione me l’ha fatta in testa» continuò, sollevando le labbra in un sorriso divertito, Maria scoppiò a ridere.
Aveva capito che era un modo per spezzare la tensione, per non farsi troppe domande.
Un modo per non andare troppo oltre quello che avrebbero potuto dirsi se avessero indagato a fondo, se avessero messo insieme tutti quegli indizi, i gesti, gli sguardi …
«Tu invece? Con Daichi?» domandò Asahi, tirando la fasciatura.
«È andata bene» mormorò Maria con un filo di voce, Asahi era inginocchiato davanti a lei, non poteva vedergli il viso, i capelli glielo coprivano «Ho parlato con lui stamattina».
Continuò, le mani strette a pugno lungo i fianchi, poggiati sulla panchina.
Era vero che non poteva vedere la faccia di Asahi, ma le orecchie, scoperte, erano rosse.
«Non gli ho detto nulla di quello che è successo» lo rassicurò, mogia.
«Maria … mi sento davvero in colpa» le parole di Asahi vennero pronunciate come un vero e proprio lamento, mangiate tra i denti «Ti ho messa in una situazione terribile. Mi sento così a disagio … non volevo davvero! Non era questa la mia intenzione».
Maria provò un piccolo principio di panico nel sentire quelle parole, avrebbe voluto accarezzare Asahi sulla testa, ma le mani rimasero ferme a pugno, le unghie nella carne.
«Asahi, non è così, ti prego. Non devi sentirti in colpa … è successo … è successo senza un motivo preciso. Forse doveva andare così. Cerchiamo di dimenticarlo, uhm? Io sto bene» si precipitò lei, aveva una voce così strana, una fretta che non era da lei.
«Sono stata stupida a reagire in quel modo con te quella volta. Sono stata così male per averti trattato in quel modo … Sono stata cattiva. Ma volevo solamente che tu la smettessi. Volevo che la smettessi di farti male per colpa mia! Credevo che – Credevo fosse l’unico modo ….» l’urgenza di dirgli tutto arrivò da sola, senza bisogno che Maria la cercasse.
Erano parole che avrebbe voluto dirgli da sempre, da quando aveva cominciato a provare quella fastidiosissima sensazione che seguiva una decisione risoluta, la sgradevole sensazione di aver preso la decisione giusta rinunciando a qualcosa, ma accompagnata da un costante fastidio al petto, quasi il cuore volesse costringerla a tornare indietro sui suoi passi.
«Quella volta l’ho fatto solamente perché mi sentivo in dovere dopo– dopo quello» biascicò Asahi, a disagio, Maria lasciò andare i pugni e lo prese per le spalle.
Voleva che lui la guardasse negli occhi, che non le dicesse proprio quelle parole lì.
Che non le dicesse quello che aveva pensato per tutto il tempo.
Non voleva sentirsi dire che quei pensieri erano corretti, o veri.
«Non ti devi sentire in dovere Asahi! Io … io non mi pento!» sbottò Maria, scuotendolo un po’, doveva sembrare una pazza, sebbene stesse parlando con un tono di voce normale, o forse era lei stessa a sentirsi impazzire «Quello che è successo mi ha aiutata a capire una cosa importantissima!» e allacciò le braccia dietro le spalle di Asahi, attonito, avvicinando i loro volti, quasi volesse baciarlo come quella volta nella sua stanza «Perché non proviamo a stare insieme? Perché non vediamo come va a finire questa follia?».
Maria accorciò le distanze, appoggiò la fronte a quella di Asahi …
«Voglio stare con te».
E fu come se per un momento il tempo si fosse fermato di colpo.
Fu come se all’improvviso non avesse avuto più valore, come se si fosse dilatato a dismisura senza seguire più le logiche dello spazio, perché quei secondi che seguirono la risposta di Asahi sembrarono durare per entrambi quanto una vita intera.
«Non credo sia una buona idea ...».
Maria non capì subito quelle parole, non le capì perché non se le aspettava, perché per lei non avevano alcun senso logico, non ne avevano nemmeno un po’.
Non capì subito quelle parole e quindi non si scompose nemmeno quando Asahi sciolse la presa con delicatezza, allontanando le sue braccia e riponendole con cura sul suo grembo.
Aveva anche finito di medicarle il piede, ora di nuovo inserito nel calzino, e Maria non aveva nemmeno una scusa buona per abbassare lo sguardo, né Asahi ne aveva alcuna dopotutto.
«Non fraintendermi. Tu per me sei importante. Non fingiamo che non sia così» cominciò Asahi, dopo un silenzio pesante come un macigno; si era tirato in piedi e Maria si sentiva come soffocare mentre, piccola e ancora seduta su quella panchina, le sembrava che lui la sovrastasse con la sua mole e il suo metro e ottanta.
«Ma non voglio che le cattiverie su di te aumentino, non voglio che abbiano gli occhi su di te più di quanto già non facciano. Oltretutto, se ti mettessi con me quelle voci non farebbero altro che aumentare, perché sai, anche io ho una reputazione un po’ strana in giro» continuò lui, e si girò a guardarla sorridendo appena, mentre si grattava la nuca.
Maria non sapeva esattamente cosa provare; delusione, assenza.
Forse non sentiva proprio nulla dopotutto.
Almeno, poteva dire di averci provato.
«E poi, Maria, la cosa più importante» Mormorò Asahi, lasciando cadere la mano con cui un istante prima si era grattato la nuca, l’espressione di nuovo seria, via il sorriso «Non posso essere il rimpiazzo di Daichi».
Quelle parole la ferirono, la ferirono profondamente.
Carica del suo orgoglio, Maria alzò la testa di scatto, feroce come una pantera.
«Non è -».
«Si che lo è!» la interruppe Asahi prima che lei potesse urlare fino a surclassarlo «Lo so! Per te potrà anche essere facile chiedermi di diventare il tuo ragazzo dopo quello che è successo tra di noi, ma … non voglio. Non voglio essere il rimpiazzo di nessuno. E non voglio che tu faccia tutto questo per fargli un dispetto».
Asahi sbuffò come se fosse improvvisamente stanco, poi si lasciò cadere sulla panchina accanto a lei, la schiena ingobbita, le mani intrecciate nel vuoto davanti a sé.
Era stato difficile anche per lui, aveva fatto male anche a lui.
Aveva fatto davvero troppo male dire quelle cose.
Ma anche lui aveva la sua dignità, e non avrebbe mai voluto avere Maria in quel modo.
Mai e poi mai.
«Ora ascoltami, lo so che le mie parole ti sembreranno quelle di un egoista ma … ma tu ascoltale lo stesso, va bene? Non pensare di non poter contare più su di me, sarò sempre dietro di te a vegliare. Quindi cerca di capirmi, per favore».
Maria chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo, incrociando le braccia al petto.
Alla fine, dopotutto, quella giornata non era finita come avrebbe voluto, ma nonostante tutto sentiva che il peso nel petto era sparito, almeno per un po’.
Le cose non andavano sempre come si desiderava; Maria l’aveva capito nel modo peggiore.
Se avessi capito prima … se mi fossi dichiarata a te e non a Daichi …
Erano dei “se” davvero inutili dopotutto, arrivati a quel punto.
«Lo capisco» replicò infine Maria, e sebbene le costò una forza immane, mise su un sorriso accennato e gli afferrò una mano, stringendola leggermente.
Dimentichiamo. Sembrava dire lo sguardo di Asahi.
Dimentichiamo … ma ne sono poi capace? Replicava quello di Maria.
«La caviglia è solamente gonfia. Non è rotta, ne sono sicuro. Ti accompagno a casa?».
Maria annuì silenziosamente e non aggiunse altro.
La caviglia aveva smesso di farle male da un pezzo, c’era un altro dolore più forte da sopportare.
 
 
 
I’m not going to wait until you’re done
Pretending you don’t need anyone
I’m standing here naked
 
 
 
La strada verso casa di Maria fu silenziosa.
Lei si rifiutò categoricamente di farsi portare nuovamente sulle spalle, asserendo che percorrere un tratto così lungo di strada con un tale peso gli avrebbe fatto male alla schiena.
L’aveva trovata una scusa buona per non toccarlo troppo, e vendicarsi un po’.
Asahi non insistette nemmeno troppo, forse inconsapevolmente attento anche lui a far sì che i contatti tra di loro non tradissero il loro reale desiderio, o non contraddicessero troppo le sue parole. O forse semplicemente per lasciarla vendicarsi un po’, come una bambina.
Tuttavia, sebbene il dolore alla caviglia avesse già cominciato a scemare, chiaro segno che l’analisi dettagliata di Asahi era stata corretta e accurata, Maria fu comunque costretta a camminare tenendosi aggrappata al suo braccio sinistro.
Braccio che Asahi teneva compostamente irrigidito per farle da contro peso, e accuratamente distante da sé di qualche centimetro, così che Maria non dovesse sentire il bisogno di toccarlo troppo, oppure di dipendere da lui in qualcosa.
La conosceva abbastanza bene ormai da capire che sarebbe stata più contenta in quel modo.
Quando raggiunsero finalmente la piccola villetta bifamiliare, Asahi la scrutò con un certo disagio, ripensando a cosa era successo al suo interno, e al modo in cui vi era fuggito via.
Successe proprio mentre spostò lo sguardo su Maria, per aiutarla a saltare un gradino.
Le urla di un uomo infransero l’aria, facendolo sobbalzare come un gatto con il pelo rizzato.
Un vecchio avanzava a passo spedito verso di loro, le gambe leggermente a ciambella, la schiena curva e l’espressione truce, brandiva un tubo d’acqua a mo’ d’arma e inveiva proprio contro di loro, o meglio, Asahi si rese conto che inveiva contro di lui.
«Che cosa stai facendo a mia nipote?! Brutto mascalzone che non sei altro!» sbraitò l’uomo agitando la pompa con aria minacciosa. Completamente sconcertato Asahi si rese conto che se non avesse tenuto Maria in quel modo, sarebbe già stato completamente zuppo dalla testa ai piedi. Con qualche costola rotta probabilmente.
«Ora ti faccio vedere io! Ti gonfio di botte, vieni qui!».
Asahi era completamente allibito, in bilico tra la necessità di scappare e quella di scoppiare a ridere, mentre vedeva quel vecchietto arrancare sulle sue gambe storte come al rallentatore.
«Calmati nonno!» E Asahi trasecolò quando sentì l’urlo esasperato di Maria.
Quel vecchio minaccioso e testardo era suo nonno.
«Chi è questo delinquente?!» continuò il vecchio fermando la corsa, con l’acqua che cadeva sul marciapiede bagnando tutta la strada, l’espressione più truce che mai.
Nel frattempo, in quell’attimo di silenzio imbarazzante, una donna si precipitò fuori al giardino, l’espressione preoccupata, le braccia strette sotto il seno e i capelli scombinati.
«Cosa succede qui?» domandò con voce gentile, stirando le labbra in un sorriso.
«Succede che questo delinquente della yakuza sta importunando tua nipote!» intervenne immediatamente il nonno di Maria, facendo arrossire violentemente Asahi quando gli occhi scuri e gentili della donna, che doveva essere la nonna di Maria, si posarono su di lui con un’esplicita espressione di scuse.
«Nonno! Ma quale yakuza? È un mio compagno di scuola!» sbottò Maria portandosi una mano sulla fronte mentre alzava gli occhi al cielo, poi fece un passetto in avanti e Asahi si affrettò ad aiutarla, tenendola ferma per le spalle.
«È Azumane Asahi, frequentiamo lo stesso club» continuò lei, infastidita.
Asahi arrossì ulteriormente, grattandosi la nuca, e fece un piccolo inchino prima alla volta di Akio, senza tuttavia riuscire a guardarlo negli occhi per il terrore, e poi alla volta di Mariko, senza riuscire a guardare nemmeno lei negli occhi perché troppo gentili e comprensivi.
«Beh, ragazzino! Cosa sono quei capelli lunghi?! Perché sei così grosso, eh?».
Asahi trovò i rimproveri dell’uomo piuttosto sorprendenti, senza sapere come replicarvi.
«Oh andiamo Akio! Non vedi com’è stato gentile a riaccompagnare Mari-chan?» intervenne prontamente Mariko, uscendo a sua volta dal giardinetto per raggiungere il marito. Era una donna minuta e magra, tutta pelle e ossa ma sorprendentemente ferma.
Sembrava aver lavorato sodo per tutta la vita, come suo marito.
«Gentile? Non è che voleva approfittarsene per -»
«Nonno, se non fosse stato per Azumane-san non sarei nemmeno qui!» replicò Maria piuttosto piccata, incrociando con difficoltà le braccia al petto.
Akio borbottò qualcosa, osservando Asahi con espressione truce, ma ormai sembrava aver abbandonato del tutto l’intenzione di annaffiarlo dalla testa ai piedi con il tubo.
«Cos’è successo alla tua caviglia?» intervenne immediatamente Mariko, rendendosi conto per la prima volta della fasciatura che accarezzava la caviglia scoperta della nipote.
Maria fece un gesto di impazienza e si tenne un po’ di più sul braccio di Asahi.
Entrambi gli adulti sembravano essersi resi conto solamente in quel momento che i due non si stavano abbracciando intenzionalmente, ma che Asahi stava semplicemente facendo da supporto a Maria, come un bastone per uno zoppo.
«Niente di grave, nonna. Azumane-san mi ha fatto una fasciatura prima di venire qui. Non si è rotta, è solamente un po’ gonfia, giusto?» domando Maria e si girò a guardare Asahi, che preso del tutto di sorpresa ci impiegò qualche secondo in più per annuire.
«Oh, ma che caro. Grazie mille» replicò Mariko sorridendogli «Perché non resti a cena da noi questa sera?».
«Tsz» Commentò Akio incrociando le braccia al petto, la pompa con l’acqua che gli bagnava i piedi nudi con le infradito, anche se lui non ne sembrava minimamente infastidito. Mariko lo ignorò e si avvicinò ad Asahi, sorriso sulle labbra.
Se fosse stata un’altra situazione, probabilmente avrebbe accettato quella proposta, se avesse detto di sì a Maria pochi minuti prima, allora Asahi avrebbe accettato la proposta volentieri.
Avrebbe conosciuto i nonni di Maria con gioia, nonostante l’accoglienza di Akio.
Ma farlo in quel momento avrebbe significato mettere in imbarazzo tutti e due.
«La ringrazio» cominciò, poi fece un inchino «Ma mia madre mi aspetta a casa».
«Oh, che peccato. Sarà per la prossima volta, va bene, Azumane-san?».
«Quale prossima volta, eh?» bofonchiò Akio, guardandolo di sottecchi.
Asahi arrossì e annuì distrattamente, poi guardò Maria negli occhi e capì che doveva andare via. La aiutò a raggiungere sua nonna, aspettando che fosse al sicuro tra le sue braccia.
«Ci vediamo domani» lo salutò lei, l’espressione un po’ ferita, un po’ orgogliosa.
«Fai attenzione alla caviglia» si raccomandò lui, quando stava ormai per andar via «Mi raccomando, non camminare troppo, mettici tanto ghiaccio. E se peggiora vai in ospedale. Arrivederci» aggiunse poi, alla volta dei nonni di Maria «È stato un piacere».
Fece un inchino, si voltò e andò via con le spalle basse.
Maria indugiò un po’ sulla sua figura prima di girarsi e lasciarla andare, facendo sì che in quel modo Akio e Mariko potessero osservare la scena indisturbati.
Si guardarono un momento negli occhi, sorridenti.
Alla loro età, era davvero facile capire certi sentimenti.
 
 
 
A Yui girava tremendamente la testa.
Le capitava spesso quando si trovava in quel periodo del mese, era qualcosa con cui aveva imparato a convivere ormai; la conseguenza di quell’errore madornale che aveva trascinato sé stessa e Daichi in un vortice di eventi troppo grandi da sopportare …
Yui scosse la testa e tornò a concentrarsi sulla serie di scope che stava mettendo a posto un istante prima, non era una novità per lei stare male durante le mestruazioni.
Non doveva pensare a cose spiacevoli del passato.
Si passò una mano sulla fronte, e perse totalmente l’equilibrio.
Il pavimento prese a fluttuare, capovolgendosi totalmente contro la sua volontà, e prima che Yui potesse rendersene conto, si sentì precipitare all’indietro senza controllo.
Probabilmente avrebbe battuto dolorosamente la testa se qualcuno non l’avesse afferrata da dietro con forza e sicurezza, stringendole i gomiti in una morsa calda e accogliente.
Doveva essere stata una delle ragazze della sua squadra, qualcuno che era rimasto fino a tardi nonostante gli allenamenti per loro fossero ormai già finiti da un pezzo.
Yui si portò una mano sulla fronte, forzò un sorriso e si voltò con fare allegro.
Il sorriso le morì sulle labbra non appena si rese conto che dietro di lei non vi era nessuna delle sue compagne di squadra, ma solamente Daichi, estremamente preoccupato.
Per alcuni secondi soltanto, secondi che sembrarono sospesi nel tempo all’infinito, Yui riuscì solamente a concentrarsi sul petto ampio e caldo che sentiva premere sulla sua schiena, sul calore che le si propagava per tutto il corpo a contatto con quelle mani grandi, e al profumo di bucato fresco misto a quello leggermente accennato di sudore e residui di dopobarba.
L’incantesimo si interruppe non appena i loro occhi entrarono in contatto diretto.
«Sawamura!» esclamò Yui allontanandosi gentilmente da lui «Grazie …».
Non voleva dargli l’impressione di essere rimasta troppo sorpresa, di aver rifiutato istintivamente il contatto diretto con lui, ma a giudicare dall’espressione leggermente imbarazzata di Daichi, non doveva essere riuscita nel suo intento nemmeno un po’.
«Stai bene?» domandò il capitano, grattandosi dietro la nuca.
Yui annuì vigorosamente, stringendosi distrattamente le braccia al petto.
«Si, lo sai … ogni tanto mi capita … quando sono in quel periodo …» balbettò grattandosi leggermente la testa, poi gli sorrise sinceramente e lo sguardo di Daichi si rilassò un po’.
Non insistettero sull’argomento, entrambi sapevano che non ne avrebbero cavato nulla.
Era un tacito accordo che avevano preso anni prima, quando tutto era crollato.
Era un accordo silenzioso che avevano preso di comune accordo per rispettare quell’amicizia che li aveva legati fin da quando erano stati bambini, nel modo più bizzarro e inaspettato.
«Cosa fai qui?» domandò Yui, posando l’ultima scopa rimasta ancora fuori posto.
«Abbiamo appena finito gli allenamenti» commentò Daichi facendo spallucce «Ho visto la luce accesa e sono venuto a controllare … credevo qualcuno avesse dimenticato di chiudere» spiegò incrociando le braccia al petto, Yui lo guardò di sottecchi.
Daichi aveva l’aria matura e severa, sembrava proprio cresciuto in quegli ultimi anni.
Se n’era resa conto anche quando si erano visti quell’ultima volta alla gelateria, o quando era entrato nella sua classe come una furia solamente pochi giorni prima …
Quel pensiero le fece venire in mente una domanda che avrebbe voluto rivolgergli da tantissimo tempo.
«Ehi, cos’è successo l’altro giorno?».
Gliela pose con estrema curiosità, mentre infilava distrattamente la felpa nera sulla maglietta bianca a mezze maniche, tenendo lo sguardo fisso sull’amico per non perdersi nemmeno una piccola parte della sua espressione.
Daichi sorrise forzatamente e fece spallucce, reggendo il suo sguardo.
«Ultimamente … stiamo avendo un po’ di problemi con quel tuo compagno di classe, quel Takumi» cominciò a raccontare Daichi, Yui l’aveva appena affiancato, pronta per lasciare la palestra e chiuderla definitivamente; come un tacito accordo, si misero uno affianco all’altra e cominciarono a camminare molto lentamente sotto le stelle.
«Takumi è un pessimo elemento» commentò Yui, stringendosi le braccia al petto per una brezza d’aria fresca improvvisa che le aveva accarezzato la pelle.
«Ha preso di mira Maria» spiegò Daichi, lo sguardo fisso davanti a se.
«Maria?» domandò Yui tornando a guardarlo, sebbene riuscisse a distinguerne solamente il profilo spigoloso, la mascella squadrata e le spalle larghe. «Taniguchi-san, intendi?».
Daichi si limitò ad annuire distrattamente, fece calare un leggero silenzio tra di loro, silenzio che spezzò alcuni minuti dopo, cominciando a raccontarle solamente alcuni degli episodi spiacevoli che si erano verificati da quando Maria era entrata in squadra.
Yui lo ascoltò in silenzio come quando erano bambini.
«Sono davvero preoccupato» Disse alla fine, stringendo spasmodicamente la tracolla della cartella tra le mani, l’espressione seria; avevano raggiunto i cancelli della scuola e si fermarono «Sono il capitano. Dovrei poter proteggere tutti e -»
«Sawamura, sei sicuro di non provare nulla per Taniguchi-san?».
La domanda di Yui sembrò sorprendere Daichi enormemente, lasciandolo in silenzio per un tempo abbastanza lungo da pensare che avesse addirittura perso la voce.
Da parte sua, Yui aveva posto quella domanda con curiosità, una curiosità mista ad uno strano senso di tristezza, tristezza per un passato che sembrava talmente lontano da poter benissimo appartenere alla vita di qualcun altro.
La vita di altre persone che non erano loro, forse non lo erano mai state.
«Maria è come una sorella per me» dichiarò Daichi con eccessiva confidenza.
La voce sembrava essergli tornata di colpo, tutta in una volta, ridacchiò leggermente imbarazzato e si passò una mano dietro la nuca, come se il pensiero fosse troppo divertente anche solo per prenderlo in considerazione.
Yui tuttavia, che aveva sempre saputo leggergli nell’anima troppo facilmente, percepì molto altro dietro lo strato di quel sorriso accennato, leggermente nervoso.
Qualcosa che era successo, qualcosa di cui Daichi non le aveva parlato.
E tutto sommato, non era nemmeno costretto a farlo dopotutto.
«Peccato» si ritrovò a commentare, mettendo su un sorrisetto malandrino accompagnato da un occhiolino accattivante. «Sareste stati bene insieme. Ci vediamo» aggiunse poi sollevando una mano per salutarlo.
Le loro strade si dividevano sempre fuori dai cancelli di quella scuola.
Yui voltò le spalle per tornare a casa, ma prima che riuscisse a muovere anche solo un passo si sentì afferrare per il polso destro dalla mano calda di Daichi.
«Yui, aspetta -» sbottò il ragazzo, ma prima che potesse finire lei gli posò una mano sul petto con decisione e lo allontanò; lasciandolo gelato sul posto con il respiro corto.
«Sawamura!» Marcò con forza sul suo cognome «Non puoi chiamarmi per nome».
Daichi sgranò leggermente gli occhi, solamente per un istante gli si fecero grandi per la sorpresa, poi sembrò rendersi conto del suo gesto avventato, del modo in cui le aveva afferrato il polso come soleva fare quando erano bambini, di averla chiamata per nome …
Non ci aveva pensato.
L’unica cosa che gli era passata per la testa in quel momento era di non volere in alcun modo che Yui se ne andasse credendo che tra lui e Maria ci fosse qualcosa.
E non poteva permetterselo, Daichi non ne aveva il diritto e lo sapeva.
«Non c’è nessuno qui» si ritrovò a mormorare, più a sé stesso che alla ragazza ferma di fronte a lui, l’espressione seria e impassibile «Mio padre non è qui. Nemmeno tuo padre».
«Non importa» commentò lei con voce altera, era tranquilla, ma non poteva lasciare trapelare nemmeno una crepa nella sua voce se voleva aiutare Daichi.
Mostrargli le sue debolezze non l’avrebbe aiutato in nessun modo, al contrario.
Daichi sembrò capirlo.
«Hai ragione … perdonami Michimiya».
Yui aspettò che la salutasse come sempre, con un piccolo inchino e il sorriso gentile.
Aspettò che le voltasse le spalle prima di farlo a sua volta, un peso sullo stomaco.
Cominciò a camminare, trascinata dall’abitudine, e scivolò nei ricordi lentamente …
 
Takahiro Sawamura le aveva sempre messo un po’ di soggezione.
Yui ricordava di averlo guardato negli occhi solamente poche volte, sebbene fosse amico di suo padre da prima ancora che nascesse e avrebbe dovuto essere abituata alla sua presenza.
Tutto quello che Yui riusciva a tenere in mente di quel profilo severo, era la mascella squadrata, la cravatta che cambiava colore e la giacca gessata sulle spalle ampie.
Esattamente il punto in cui i suoi occhi si fermavano.
Oltre non era mai riuscita ad andare senza provare soggezione e disagio.
Quel giorno invece, Takahiro la terrorizzava.
E tutto quello che Yui riusciva a vedere era il viso sconvolto di Daichi, mentre suo padre gli inveiva contro dopo avergli mollato uno schiaffo talmente violento da lasciargli l’impronta delle sue cinque dita, grandi e forti, impressa sul viso piccolo e infantile.
Era colpa sua, era solamente colpa sua.
Daichi era finito in quel pasticcio per la sua stupidità.
Quello che Yui non riusciva a perdonarsi, e non sarebbe riuscita a farlo mai, nemmeno negli anni a venire, non era tanto lo stupido errore che li aveva portati a quella terribile situazione, ma la consapevolezza dell’umiliazione sul viso di Daichi nel farsi vedere da lei con le lacrime agli occhi.
L’umiliazione di quelle lacrime che stava tentando di trattenere mordendosi il labbro a sangue.
Yui avrebbe voluto voltare la testa, avrebbe voluto che tutte quelle altre persone sparissero dalla sua vista, avrebbe voluto stringere Daichi sotto il braccio e proteggerlo …
L’unica cosa che riuscì a fare fu provare una paura terribile.
E fu certa del fatto che non sarebbe riuscita a guardare Takahiro Sawamura negli occhi mai più. Nemmeno per scherzo.
Nemmeno per sbaglio.
 
Yui scosse furiosamente la testa e strinse le labbra in una linea sottile.
Andava bene, era solamente un brutto ricordo.
Finché lei e Daichi avessero continuato a mantenere le distanze, sarebbe andato tutto bene.

 
 
I’m not going to try ‘til you decide
You’re ready to swallow all your pride
I’m standing here naked…

 
(James Arthur – Naked)
 
 
 
 
 
Salve a tutti!
Oggi Effe_95 in questi lidi 😊
Il capitolo 11 ... possiamo affermare con certezza che da adesso in poi la storia si fa davvero bella e interessante (e succede di tutto 🤣).
Ve lo aspettavate che Maria avrebbe preso in mano le redini della situazione? O che Asahi l'avrebbe rifiutata? E del passato misterioso di Yui e Daichi?
Scommetto di no 😏
Ormai non insisto più con le recensioni ma ... come sempre, se vi va, abbiamo anche le pagine social 😉
Alla prossima!
Effe_95 & Flying_lotus95

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Capitolo 13
*** 12- Tempo ***


12. Tempo.

 
 
Non si può stare soli,
lo so io, lo sai anche tu
 
 
 

Maria amava le calde serate d’estate.
Quando il sole impiegava sempre più tempo a sparire dietro l’orizzonte, dall’altra parte del mondo, illuminando tutto di un arancione terso che si perdeva nel viola più cupo.
Quando la brezza serale arrivava inaspettata, gentile e tiepida.
Quando i grilli e le cicale cantavano senza sosta accompagnando i suoi passi sul selciato.
Era piacevole starsene fuori dal combini, seduta su quella panchina arrangiata, con le gambe stese compostamente in avanti e la pelle pallida esposta alla luce delle prime stelle.
Il vestitino che aveva indossato era leggero e le arrivava proprio sopra le ginocchia, seguendo la linea delle cosce si piegava morbidamente in una curva gentile che aveva la forma delle sue gambe magre e un po’ ossute.
Era stata un’ottima idea organizzare quella serata tra ragazze a casa di Hitoka.
La compagna di squadra sarebbe rimasta sola per un intero weekend, e almeno per quella sera Maria e Kiyoko le avrebbero fatto compagnia, lasciando che la più piccola si distraesse almeno un po’ dal pensiero dell’ennesima assenza di sua madre.
Era stata piacevole anche la passeggiata fino al combini.
Hitoka si era resa conto troppo tardi, e con estremo imbarazzo, di non avere nulla nel frigorifero con cui potessero cenare; aveva perfino dimenticato di fare la spesa.
Maria e Kiyoko avevano sorriso all’espressione vergognosa e mortificata della compagna.
Per loro non era stata altro che un’ottima occasione per scendere a fare una passeggiata insieme, al calar del sole, con il vento piacevole ad accarezzare loro i capelli.
Quando avevano raggiunto il piccolo negozio, Hitoka aveva insistito perché Maria e Shimizu l’aspettassero all’aperto, in quanto avrebbe svolto le sue commissioni il prima possibile.
Le due amiche di sempre si erano accomodate sulla panchina vecchia e scorticata.
Maria sospirò pesantemente ed intrecciò le mani sul grembo, osservando la strada illuminata d’arancione, con i lampioni spenti e i pochi passanti che la attraversavano, chi correndo a casa, chi di ritorno dal lavoro, chi in compagnia del cane e chi correndo.
Aveva sperato che quella serata tra amiche l’avrebbe aiutata a smettere di pensare.
Smettere di pensare ad Asahi, al suo rifiuto, alla decisione che aveva preso senza guardarsi indietro; gli era sembrato talmente sicuro di sé, che Maria si era sentita sconfitta subito.
Si era detta che non avrebbe nemmeno dovuto pensare di provare a fargli cambiare idea.
Asahi aveva avuto tante ottime motivazioni per dirle di no.
Gliele aveva spiegate chiaramente, forse l’aveva fatto anche con fatica.
Tuttavia, Maria non riusciva a fare a meno di pensare di star perdendo un’occasione.
«Kiyoko-san» mormorò, chiamando l’amica seduta proprio accanto a lei.
Shimizu aveva legato in capelli in una coda di cavallo, indossava anche lei un vestitino bianco che le stava d’incanto, rendendo il suo incarnato ancora più delicato. Sembrava serena e riposata, tutto l’opposto di come si sentiva Maria.
«Kiyoko-san, che cosa devo fare per far cambiare idea ad Asahi?».
Maria non provò vergogna nel porre quella domanda alla sua migliore amica, né disagio, né umiliazione per sé stessa; non la pose con disperazione, né con tono insistente.
Lei e Shimizu ne avevano parlato al telefono la sera stessa del “no” di Asahi.
Maria pose quella domanda sospirando, con determinazione, come avrebbe potuto porre una qualsiasi domanda difficile di un compito di matematica.
«Non devi fare nulla, Maria-chan» replicò Shimizu, fissando distratta la strada.
In realtà, Maria sapeva che l’amica era attenta e vigile al suo fianco, pronta ad ascoltarla.
La porta automatica del combini si aprì in quel momento, ne uscirono due persone che chiacchieravano svogliatamente a bassa voce; Maria sollevò solo distrattamente lo sguardo, per accertarsi che non fosse Hitoka.
Quando si rese conto che non si trattava di lei, ma semplicemente di una coppia che si teneva per mano, a cui non prestò molta attenzione, distolse velocemente lo sguardo.
I due si fermarono sulla panchina dall’altro lato della porta, chiacchierando a voce bassa.
Avevano entrambi delle bandane in testa per il caldo, non si vedevano i loro visi.
Maria non notò tutti quei dettagli però, si guardava la punta dei piedi, le ballerine di vernice lucida azzurra, e non riusciva a pensare ad altro che non fossero le mani di Asahi sulla sua caviglia ossuta e pallida, ormai completamente guarita.
Alla sua testa china, ai capelli che gli cadevano ai lati del viso, alle sopracciglia aggrottate e alla sua bocca dischiusa per la concentrazione.
«Azumane è testardo, anche se non sembra» continuò a parlare Shimizu, aveva smesso di guardare la strada per osservare lei, gli occhi luminosi e un sorriso gentile sulle labbra.
«Quando si mette in testa qualcosa, è difficile persuaderlo. Solitamente ci riesce solamente Nishinoya» Shimizu ridacchiò, probabilmente persa in qualche ricordo che non poteva condividere con Maria, qualche ricordo del passato dolce e amaro contemporaneamente.
«Che cosa mi stai dicendo, che devo sguinzagliargli contro Nishinoya?».
L’obbiezione di Maria venne subito smorzata dal sorriso che seguì immediatamente quelle parole, era impossibile non scoppiare a ridere ad una simile immagine.
Le due amiche si guardarono negli occhi e risero in contemporanea, portandosi una mano sulla bocca per non attirare troppo l’attenzione, o disturbare la coppia sulla panchina.
Il cielo era sempre più scuro, le stelle sempre più fitte all’orizzonte, i lampioni appena accesi.
«Non sarebbe una tattica sbagliata» riprese a parlare Shimizu dopo un po’ «Ma io te ne suggerisco una migliore, una che con Azumane funzionerà sicuramente».
Si aggiustò una ciocca di capelli sfuggita al codino dietro l’orecchio. «Dargli tempo».
Maria sospirò pesantemente e si imbronciò leggermente, sapeva che Kiyoko aveva ragione.
«Tempo … mi sembra già di averne sprecato troppo …» mormorò, sospirando ancora.
Shimizu tornò a guardare la strada, incrociò le caviglie davanti a sé e strinse le spalle.
«Maria-chan, Azumane ti vuole bene. È così evidente. Non puoi capire cosa prova? Davvero non puoi capire perché ti ha detto quelle cose? Davvero non puoi dargli tempo?».
Maria non rispose immediatamente, sollevò lo sguardo sul cielo ormai buio, costellato di stelle, sulla luce fatiscente di alcuni lampioni che illuminavano la strada a malapena.
Poteva capire tutto, riusciva a capire ogni singola cosa.
«E che cosa me ne faccio io di questo tempo?» si ritrovò invece a chiedere.
La brezza serale cominciava a pizzicarle la pelle e farsi sempre più insistente.
Hitoka ci stava mettendo più tempo del dovuto, e una piccola parte della mente di Maria cominciò a desiderare intensamente che si sbrigasse, per alzarsi da quella panchina, per smettere di aspettare, per occupare tutto quel tempo con qualcosa che la stordisse.
«Il tempo è preziosissimo Maria-chan» la rimproverò Shimizu bonariamente «Usa questo tempo per fare le cose con naturalezza. Convincilo. Azumane ti vuole bene. Non ci vorrà molto perché ti dica di sì. Non ti ha rifiutato perché non ti vuole, e questo fa tutta la differenza del mondo» Maria sentì improvvisamente bene al cuore.
Come se un pezzettino di quell’ansia opprimente che le schiacciava il cuore fosse volato via insieme alle parole di Kiyoko, riempiendosi improvvisamente di speranza piccola e fragile.
Ma pur sempre speranza.
Avrebbe ricominciato tutto d’accapo dal giorno seguente.
Le due rimasero in silenzio per un po’, Maria rivolse distrattamente un’occhiata agli altri due seduti sulla panchina, avevano smesso anche loro di chiacchierare. Il ragazzo le dava la schiena, la bandana gli copriva i capelli e la luce esterna del combini gli illuminava la schiena curva e tonica; probabilmente quei due si stavano baciando.
Maria distolse lo sguardo, del tutto disinteressata a quel duo.
Avrebbe voluto solamente che si alzassero da quella panchina per andarsene altrove.
«Kiyoko-san, come ti sei resa conto che Sugawara-san era il ragazzo che amavi?».
La domanda le uscì spontanea dalle labbra, era qualcosa che Maria avrebbe sempre voluto chiedere a Shimizu, ma non aveva mai trovato il coraggio di farlo per colpa di quella innata discrezione che l’amica sembrava emanare anche solamente con un singolo sguardo.
Maria, in effetti, non aveva mai domandato nulla a Kiyoko della sua storia con Kōushi.
Sorprendentemente, l’amica sorrise a quella domanda.
«Aspettavo questa domanda da una vita!» confessò con aria allegra.
Maria si limitò a fissarla sbattendo ripetutamente le palpebre, sorpresa da quella reazione.
«È successo a metà del primo anno» raccontò, infilando le mani sotto le cosce per poter far dondolare meglio i piedi incrociati sotto la panca vecchia e logora «Sono stata davvero dura con lui».
La voce di Shimizu era bassa, persa in ricordi piacevoli che le facevano affiorare spontaneamente un sorriso gentile sulle labbra lucide di labello.
«Sugawara-kun aveva fatto davvero tantissima fatica per dichiararsi. Era tutto rosso in faccia, gli tremavano le mani, balbettava. E io gli ho detto immediatamente di no» Kiyoko ridacchiò lievemente.
«Davvero?!» Sbottò Maria senza riuscire a controllarsi, aveva alzato talmente la voce quella volta che anche i due piccioncini sulla panchina dovevano essersi accorti di loro.
Tuttavia, Maria non si preoccupò di quel piccolo dettaglio.
«Davvero!» replicò Shimizu con solennità, annuendo un paio di volte.
«Povero Sugawara-san!» sbottò Maria imbronciando un po’ il labbro inferiore.
«Ci ha riprovato una settimana dopo, e quella dopo ancora, e quella dopo …» Maria strabuzzò gli occhi e guardò Shimizu con lo sguardo allucinato, non credeva che Sugawara fosse capace di fare qualcosa del genere così testardamente «Kōushi è un ragazzo determinato, anche se non sembra. Ogni giorno della settimana, lo stesso giorno, veniva da me e si dichiarava con sempre più forza, sempre più coraggio … Ed ogni volta, lo stesso giorno, inconsapevolmente ho cominciato ad aspettare quella dichiarazione».
Maria sentiva il cuore palpitare nel petto come se fosse lei stessa la protagonista di quella storia, continuava a domandarsi perché non avesse fatto quella domanda a Shimizu molto prima, perché non avesse trovato prima il coraggio di ascoltare una storia così bella.
«La aspettavo e mi innamoravo di quel ragazzo sempre, sempre di più».
«E poi gli hai detto sì?» domandò Maria con trasporto, Shimizu si girò a guardarla sorpresa, e sorrise calorosamente quando la vide protesa verso di se come una bambina con gli occhi brillanti di curiosità.
«No, non è andata proprio così. Un giorno la dichiarazione non è arrivata più».
Maria rimase interdetta a quelle parole, ma Shimizu era tranquilla, aveva sul viso la serenità di chi sapeva per certo che quella storia avrebbe comunque avuto un lieto fine scontato.
Era un’ovvietà che fece sentire Maria leggermente imbarazzata per tutto quell’entusiasmo che stava mostrando, nemmeno fosse una bambina che ascoltava una bella storia d’amore per la prima volta nella vita.
«Suppongo che anche Sugawara-kun avesse un limite. Quel giorno ho avuto paura di aver aspettato troppo. Ho avuto paura di aver tirato troppo la corda».
«E allora cos’hai fatto?» domandò Maria testarda, leggermente imbronciata.
«Allora mi sono dichiarata io. Sono andata negli spogliatoi e mi sono dichiarata».
Shimizu tacque e Maria seppe che non avrebbe aggiunto altro su quella storia.
Dopotutto, non aveva davvero bisogno di un continuo, Suga-san doveva aver detto sì, e da quel momento non si erano più lasciati, costruendo e camminando insieme giorno dopo giorno con fatica e costanza qualcosa di solido e stabile che Maria avrebbe potuto vedere anche da lontano, anche se non si fossero sfiorati affatto.
Rimasero in silenzio ancora per un po’, i grilli cantavano, i due sulla panchina si baciavano.
Era un rumore che avrebbe potuto infastidire entrambe, ma Shimizu era persa in ricordi piacevoli, Maria non smetteva di pensare invece a quanto le erano sembrate morbide le labbra di Asahi quella sera, tiepide e gentili.
Il tempo.
Maria aveva cominciato a capire il consiglio di Kiyoko, se lei non avesse avuto il suo tempo, se avesse detto di sì quel primo giorno, forse le cose non sarebbero andate in quel modo.
Se Maria avesse cominciato a correre spingendo Asahi senza preoccuparsi, sarebbero caduti entrambi in quel baratro che lei aveva fatto finta in tutti i modi di non vedere.
Maria riusciva a capire Asahi, ed era quella la cosa che le faceva più male in assoluto.
«Ecco perché il tempo è importante …» mormorò stringendosi nelle spalle, aveva cominciato a fare fresco, sebbene lo strato di sudore provocato dal caldo soffocante del tardo pomeriggio fosse ancora attaccato alla sua pelle bollente.
Shimizu si girò a guardarla, strappata dai suoi pensieri, e le sorrise incoraggiante.
Senza aggiungere nulla.
Proprio in quel momento, uno dei due ragazzi sulla panchina si alzò in piedi, bisbigliando qualcosa all’altro, e sparì all’interno del combini; né Maria né Shimizu se ne accorsero.
«Kiyoko-san …» la voce bassissima, le mani strette sul vestito.
«Uhm?»
«C-com’è – com’è stata la prima volta con Sugawara-san?».
Maria si morse violentemente il labbro inferiore, aveva dovuto trovare davvero troppo coraggio per formulare quella domanda, talmente tanto coraggio che le sembrava di poter esplodere da un momento all’altro per l’eccessivo flusso di sangue che le era arrivato alla testa. Ma era quell’altra domanda che avrebbe voluto fare a Shimizu da sempre.
L’amica non rispose subito, il suo sguardo si perse in lontananza.
E Maria pensò che dopotutto non volesse parlarne, era una cosa talmente intima …
Forse, Shimizu e Sugawara non erano nemmeno mai arrivati a quel punto.
Forse …
«É successo ad un ritiro del secondo anno. È stato naturale».
«Naturale» mormorò Maria «È stato naturale anche per me ed Asahi» sospirò e strinse le mani sul grembo, la stoffa premuta saldamente tra le dita sbiancate dallo sforzo.
«Kiyoko-san … io- io rifarei l’amore con Asahi anche adesso, anche altre mille volte!» Confessò Maria abbassando il viso, la faccia rossa come il fuoco «È naturale anche questo?».
É naturale che sia così anche se non sono ancora sicura di amarlo?
Shimizu le poggiò una mano sulla schiena, una sorta di carezza pregna di forza.
«È naturale molto più di quello che credi».
Sarebbero rimaste in quel modo per molto altro tempo se proprio in quel preciso istante la porta del conbini non si fosse spalancata, ed una Yachi sommersa di buste non fosse uscita barcollando dal negozio sotto il peso dei suoi eccessivi acquisti.
Shimizu si alzò immediatamente in piedi, allertando anche Maria.
«Hitoka-chan! Quanta roba hai comprato?!»
«Tani-chan, ho preso anche i tuoi snack preferiti!» le rispose di rimando la più piccola, sorridendole nonostante in quel momento facesse davvero fatica a reggersi in piedi.
Maria sospirò pesantemente, sorridendo con stanchezza e tenerezza allo stesso tempo.
Si avvicinò ad Hitoka e le tolse un paio di buste dalle mani, aiutata da Shimizu.
«Ho preso anche della cioccolata calda e i marshmallow e poi …».
La lista di dolci che Hitoka pronunciò successivamente si perse lungo il percorso della strada, insieme ai pensieri opprimenti di Maria e ai bei ricordi di Kiyoko.
Seduto sulla panchina, il ragazzo se n’era stato ad ascoltare per tutto il tempo da quando la sua fidanzata l’aveva lasciato per andare a comprare due ghiaccioli.
Non gli era sembrato vero quando le aveva riconosciute entrambe.
La troietta hāfu e l’altra manager della Karasuno.
Takumi si era messo di schiena apposta, si era ritenuto fortunato ad aver indossato quella bandana, e aveva tenuto Arisa zitta e buona baciandola per tutto il tempo.
Non aveva paura di essere beccato da Maria, ma aveva sentito delle cose davvero interessanti quella sera, cose per cui avrebbe pagato senza pensarci due volte.
Fortuna per lui che quelle due erano troppo occupate a parlare di sé stesse per accorgersi di lui, di Arisa o di essere ascoltate da più o meno tutta la strada.
Takumi non aveva mai avuto dubbi sul fatto che fosse successo qualcosa tra la sua troietta e quel mezzo scimmione idiota, ne aveva avuto la conferma quando aveva visto quei codini.
I codini erano stati fondamentali, insieme a tutto il resto.
Erano andati a letto insieme, ne aveva avuto la conferma.
«Dopotutto sei davvero troia come si dice eh?» mormorò divertito.
Aveva lo sguardo ancora puntato sulla schiena delle tre ragazze che si allontanavano ridendo, spintonandosi, Maria sembrava incredibilmente felice, sollevata forse.
Takumi avrebbe voluto cancellare quel sorriso con un morso.
Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e mise il broncio, incattivendo lo sguardo.
Meno male che la città era piccola.
«La prossima volta non mi dirai di no. Non puoi dirmi no, mia piccola hāfu».
La porta scorrevole del conbini si aprì e Takumi sollevò lo sguardo su Arisa, sorridente gli porgeva il gelato; Takumi prese il gelato e ricambiò lo sguardo.
Avrebbe voluto che fosse già lunedì.
 
 
Sugawara si era pentito amaramente di aver invitato quegli invasati a casa sua.
L’aveva fatto perché i suoi genitori erano fuori per il weekend, perché gli era sembrata una buona idea passare quella serata in loro compagnia, ma non aveva messo in conto i continui assalti di Tanaka e Nishinoya, né le mazzate continue tra Kageyama ed Hinata e nemmeno che Asahi se ne stesse tutto depresso in un angolo della stanza.
Era già passata l’una di notte e nessuno di loro sembrava intenzionato a mollare.
Sugawara pensò che dopotutto fosse anche colpa della birra che avevano bevuto.
L’idea geniale era stata di Tanaka, con la complicità forsennata di Nishinoya.
Si era presentato tutto orgoglioso con quelle buste di birra che aveva rubato dalla stanza di sua sorella, affermando che la donna le aveva comprate per passar tempo con degli amici.
Sugawara si era schiaffato una mano in faccia, preoccupato.
L’unica consolazione era stata la prospettiva che Daichi si sarebbe infuriato come un matto e li avrebbe messi in punizione senza ombra di dubbio.
Con sua grande costernazione, tuttavia, Daichi era stato il primo ad aprire una lattina.
La birra non era troppo alcolica, la gradazione era bassissima e le lattine non erano nemmeno sufficienti per tutti quanti, ma aveva reso gli umori piuttosto accesi.
Tanaka e Nishinoya non facevano che piagnucolare alla sua volta affinché tirasse fuori le foto segrete e compromettenti di Shimizu che Sugawara non aveva mai posseduto.
E nemmeno mai avrebbe posseduto, neanche in un futuro probabile.
Ogni tanto smettevano di chiedere, mettendosi a cantare come due invasati insieme ad Hinata, tentando brutalmente di coinvolgere Tsukishima e Kageyama, e ad infastidire generalmente tutti gli altri; poi tornavano all’attacco come forsennati tentando di prenderlo di contropiede. Il fallimento era assicurato, ma Sugawara era stanco di rispondere.
Quando l’orologio scoccò le due del mattino, decise che isolarsi con Asahi fosse meglio.
L’amico si era lasciato coinvolgere qualche volta, aveva bevuto il bicchiere di birra che Nishinoya gli aveva forzatamente ficcato in mano, si era lasciato legare i capelli in due treccine assecondando la follia momentanea di Tanaka, aveva anche cantato una canzone sdolcinata a quella sorta di karaoke che avevano improvvisato e fatto braccio di ferro con Daichi perdendo miseramente, ma era stato distante e distratto per tutto il tempo.
Sugawara l’aveva sentito, in un certo senso.
Aveva sentito che l’amico era lì fisicamente, ma in realtà non c’era.
E ne aveva avuto la conferma quando, calmatisi un po’ gli umori, Asahi si era immusonito accanto alla finestra, fissando il cielo con una tale intensità da rasentare la malinconia.
Sugawara aveva depistato Tanaka e Nishinoya lasciando ad entrambi un indizio fasullo di un album segreto di foto da qualche parte nelle zone della sua libreria, e ne aveva approfittato per avvicinarsi all’amico con discrezione.
Daichi stava parlando di qualcosa con quelli del primo anno, mentre Ennoshita rimproverava aspramente Noya e Tanaka senza ottenere risultati concreti.
«Ehi!» bisbigliò con voce gentile picchiettando l’amico sulla spalla.
Asahi sussultò leggermente e guardò Sugawara sbattendo ripetutamente le palpebre, quasi non l’avesse immediatamente riconosciuto; Kōshi si lasciò andare ad un sospiro gentile e pensò che fosse dannatamente ingiusta l’evidenza con cui i pensieri di Asahi si agitavano dietro le palpebre, quasi volessero attirare ad ogni costo l’attenzione.
«Suga» replicò l’asso con un tono di voce leggermente sorpreso.
«Sembri proprio un brutto emo barbuto e depresso!».
Sugawara accompagnò il rimbrotto con uno dei suoi colpi poco gentili nel fianco e Asahi si piegò in avanti piagnucolando come suo solito, stringendosi le braccia all’addome.
L’alzatore della Karasuno sorrise lievemente nell’osservare quella scena familiare.
«È successo qualcosa Asahi?». Sapeva di averlo preso in contropiede con quella domanda a tradimento, gettata lì in un momento di evidente difficoltà, ma era l’unico modo che Sugawara conosceva per fare aprire l’amico senza dover usare la forza bruta.
Quella parte era sempre venuta meglio a Daichi.
Asahi si grattò distrattamente la testa e rivolse a Kōshi uno sguardo carico di disagio.
«No …» mormorò all’inizio. «È così evidente?» aggiunse poi immediatamente dopo, arrendendosi subito allo sguardo intenso e dorato dell’amico.
Asahi sapeva benissimo di non dover pensare nemmeno per un istante di mentire.
Mentire con Suga non aveva mai funzionato, con lui e Daichi aveva sempre avuto un sesto senso particolare; quasi riuscisse a captare le loro ansie con un semplice tocco distratto.
«Sai Asahi, se non vuoi far capire che stai male, isolarti accanto ad una finestra con un muso lungo che si vede a chilometri di distanza non è una buona idea» lo prese bonariamente in giro l’amico.
«Gli altri non se ne sono accorti» protestò lievemente Asahi, rivolgendo uno sguardo distratto al casino che albergava nella stanza, metà del quale era colpa di Noya e Tanaka.
Sugawara lo guardò sollevando leggermente le sopracciglia e Asahi arrossì come un bimbo.
Sembrava quasi volergli dire, senza bisogno di parlare, che gli altri non erano lui.
Asahi si morse violentemente il labbro inferiore.
Non poteva scivolare su quell’evidenza, non poteva farlo nemmeno se si trattava di Suga.
«Di chi sei innamorato?».
Asahi avrebbe dovuto aspettarselo però, avrebbe dovuto aspettarselo davvero.
Forse fu proprio per quell’aspettativa insita sotto la pelle che non rimase troppo sorpreso e riuscì a controllare in parte la sua reazione, tradita solamente da una stretta troppo forte delle ginocchia al petto e forse da un leggero rossore alle guance, ma per quello poteva essere anche stata colpa della birra.
Seguì un silenzio talmente lungo a quelle parole che Asahi se ne sentì imbarazzato.
Non sapeva come rispondere, non poteva rispondere.
Se voleva proteggere Maria da quell’umiliazione, se voleva proteggere sé stesso da quella vergogna schiacciante che, nonostante la dichiarazione di Maria, continuava a pesargli sulla schiena; se voleva mantenersi fermo nelle sue decisioni, non doveva dire nulla.
«Va bene, non vuoi dirlo» concluse Sugawara, ma non si spostò, non lo lasciò solo, si limitò semplicemente ad aggrottare le sopracciglia con aria pensierosa «Allora, lasciami riformulare la domanda, ti prego» Incrociò le gambe e si fece ancora più vicino, tanto che Asahi si sentì come sotto esame «Sei innamorato di qualcuno?».
«Suga, io non – Si». Ancora una volta, Asahi si arrese ancora prima di provarci.
«Non stai tradendo nessuno, Asahi. Non voglio nemmeno sapere di chi».
La voce di Sugawara era gentile mentre pronunciava quelle parole, Asahi sentiva il suo sguardo premere con insistenza, si vide costretto a ricambiarlo anche se con fatica.
Asahi avrebbe davvero voluto parlare e raccontargli tutto, farlo guardando dritto negli occhi fiduciosi del suo migliore amico senza provare alcuna vergogna o imbarazzo, sapendo che non l’avrebbe mai guardato in modo diverso, qualsiasi cosa terribile avrebbe potuto rivelargli di sé stesso.
Asahi avrebbe voluto avere quel coraggio che non aveva mai avuto.
L’unica cosa di cui sembrava padrone, era una costanza ed una testardaggine senza precedenti che non l’avrebbero portato da nessuna parte; soprattutto se si trattava di Maria.
Dirle quel “no” era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto in tutta la sua vita.
Ma non avrebbe ceduto nemmeno di un passo, era l’unico modo per non farsi del male, era davvero l’unico modo che aveva per proteggere Maria da tutto quello che sarebbe venuto.
Asahi ne era fermamente convinto e non avrebbe cambiato idea, eppure …
Eppure desiderava così ardentemente che qualcuno lo contraddicesse.
Che qualcuno gli desse una valida motivazione, una soltanto, per lasciarsi quel “no” alle spalle; per lasciarsi la paura, i timori, i dubbi, le difese, tutto alle spalle.
Deglutì forzatamente e si protese verso Sugawara, che spalancò gli occhi leggermente sorpreso da quell’improvviso avvicinamento, quasi Asahi volesse confidargli un segreto.
Nella stanza, nessuno li stava guardando.
Tanaka e Nishinoya erano ancora immersi nella loro inutile ricerca, Daichi era circondato dai primini che ascoltavano con interesse una qualche storia, perfino Tsukishima.
«Suga … q-questa persona si è dichiarata. E io ho detto no».
«Perché?» fu l’immediata replica dell’alzatore, per nulla turbato «C’è un motivo?».
«S-si …» balbettò Asahi, un po’ intimorito dalla reazione repentina dell’altro.
«È abbastanza valido?» lo incalzò, lo sguardo grande fisso su di lui, ancora.
Asahi respirò profondamente e annuì due volte, come a volersi convincere ancora di più.
«Io- io credo di aver bisogno di tempo, Suga».
Non era tutto lì, non era affatto tutto lì, ma Asahi non poteva dire di più.
Non poteva dire a Suga di avere terribilmente paura, di essere innamorato al punto tale da sembrare di stare impazzendo da un momento all’altro, non poteva raccontargli del modo in cui il cuore gli si era fermato nel petto quando Maria gli aveva chiesto di mettersi insieme.
Non poteva raccontargli di come si fosse spaccato in mille pezzi quando aveva detto di no,
quando le aveva detto di no per tutte quelle verità scomode che odiava.
Tutte quelle ottime motivazioni.
Non poteva raccontare a Sugawara tutto quello che era successo.
Soltanto un pezzo di verità, sempre e soltanto un piccolissimo pezzo di verità.
Un’altra cosa che stavano nascondendo, un’altra cosa che facevano finta di non capire, un altro piccolissimo tassello che si aggiungeva alla lista di quei piccoli segreti che avrebbero giocato un ruolo importantissimo nel loro futuro, sebbene ancora non potessero capirlo.
«Tempo … Senti Asahi, ti ho mai raccontato come ci siamo messi insieme io e Shimizu?»
L’espressione sul viso dell’asso della Karasuno fu una risposta sufficiente per Kōshi.
No, evidentemente non doveva avergliene parlato, né a lui, né a Daichi.
«Sono stato io il primo a dichiararmi» cominciò a raccontare, pensieroso «Mi sono dichiarato quasi subito e avevo parlato con Shimizu solamente un paio di volte» Sugawara ridacchiò divertito, deridendo il se stesso di allora.
«Ovviamente lei ha detto no. Ma ci pensi? Chi avrebbe detto di sì ad un estraneo totale? Allora non lo capivo, però» Asahi rimase in silenzio quando l’amico fece una pausa, lo sguardo sereno, sentiva di non dover dire nemmeno una parola a quel punto, sentiva di doverlo lasciar parlare «Non lo capivo, ed è stato un bene. Non mi sono arreso, nemmeno un po’. Sono una persona tendenzialmente mediocre, mi piace fare affidamento sugli altri se posso, ma con Shimizu ho provato davvero qualcosa di insolito. Volevo quel sì, e lo volevo a tutti i costi. Ho continuato a farle una dichiarazione, ogni settimana. Ed ogni settimana ne approfittavo per dirle qualcosa di me, ed io scoprivo nuove cose di lei. Ho pensato che tutto quel tempo fosse assolutamente necessario! Tempo, datemi tutto il tempo del mondo, mi dirà di sì! Lo pensavo davvero Asahi, ne ero assolutamente convinto» Sugawara si interruppe di nuovo e guardò Asahi negli occhi, aveva un sorriso gentile sulle labbra, un sorriso di chi sapeva che nonostante la piega della sua storia non fosse propriamente positiva, avrebbe avuto comunque un lieto fine «Beh, le settimane passavano e quel sì non arrivava mai. Alla fine, credo che tutto sommato la mia indole sia uscita fuori. Mi sono arreso, e ho smesso di dichiararmi» Asahi provò un leggero disappunto quando Kōshi si interruppe nuovamente.
Dal tono della sua voce, la storia sembrava voler finire proprio in quel preciso istante.
E sebbene Asahi sapesse perfettamente che non poteva essere così, in quanto era testimone diretto del presente e ancora doveva vederne scritta la fine, provò ugualmente una sensazione d’ansia alla bocca dello stomaco. Si sentì un po’ stupido per quello.
«Credevo di avere tutto il tempo a disposizione Asahi, ma di tempo ne avevo davvero usato troppo. Ne avevo abusato, e alla fine sono stato io quello a stancarmi per primo».
Asahi sentì uno strano brivido di comprensione accarezzargli la schiena, era una sensazione a cui non sapeva dare esattamente un nome, ma sapeva di paura e gioia allo stesso livello.
La paura di cominciare a capire perché Suga gli stesse raccontando quella storia, e la gioia di
aver trovato quell’unica scappatoia che aveva cercato, nel suo inconscio, strenuamente.
«Fortunatamente, Shimizu la pensava esattamente al contrario. Quello stesso giorno, venne a cercarmi negli spogliatoi e si dichiarò lei. Il resto lo sai».
Sugawara tacque e tra di loro cadde il silenzio, interrotto dal chiasso che gli altri continuavano a fare senza vergogna, nonostante fossero le tre di notte, il cielo fosse più scuro del solito e la strada fuori dalla finestra silenziosa come una tomba.
Non sembravano nemmeno sentire la stanchezza.
«Quello che sto cercando di dirti Asahi, è che a volte il tempo non serve a niente».
Le ultime parole che Kōshi gli rivolse, furono semplicemente sussurrate.
Tuttavia, Asahi le sentì forti e chiare, le percepì come l’eco di un permesso che aveva desiderato ardentemente, l’eco di un permesso che andasse contro tutta la paura.
Un pizzico di coraggio contro la sua codardia e i suoi sensi di colpa.
Non aveva raggiunto un punto di arrivo, ma aveva quanto meno sentito di aver cominciato a correre senza più un fardello troppo pesante sulle spalle.
Avrebbe voluto ringraziare Sugawara in qualche modo, per averlo ascoltato nonostante in realtà non gli avesse detto nulla, per avergli raccontato quella storia così intima nonostante sapesse benissimo che Asahi tutta la verità non gliel’aveva raccontata.
L’avrebbe fatto se Nishinoya non avesse deciso di porre quella domanda proprio in quel momento, a voce alta, intromettendosi nel discorso di Daichi perché si era scocciato di cercare un album fotografico che non era mai esistito.
«Daichi-san, ma è vero che Tani-chan si è dichiarata a te?».
Quelle parole ebbero il potere di attirare gli sguardi di tutti sul capitano ed il libero della Karasuno e far cadere un silenzio talmente di tomba, che per un momento si sentì solamente il frinire frenetico che proveniva dagli alberi fuori la finestra spalancata.
«Già» intervenne Tanaka, facendosi più vicino al gruppetto di ragazzi che avevano accerchiato il capitano «È una cosa che ci stavamo chiedendo un po’ tutti Daichi-san».
Gli altri abbassarono gli sguardi un po’ imbarazzati, quasi Tanaka avesse dato voce a pensieri un po’ scomodi che nessuno avrebbe voluto far emergere alla luce del sole.
Daichi tuttavia non sembrò particolarmente turbato da quella curiosità.
Il suo viso aveva smesso di essere rilassato e allegro, ma sorrideva cordialmente, in quel modo tipico che aveva di rassicurare le persone senza risultare troppo severo come sempre.
Era una curiosità quella, che probabilmente andava sopita ad ogni modo.
«Insomma, sappiamo che quel Takumi non è molto affidabile ma -»
«È vero».
Il balbettio leggermente imbarazzato di Nishinoya venne interrotto dalle parole sicure e sorprendentemente chiare di Daichi; il silenzio divenne sempre più pesante.
Seduto accanto alla finestra, Asahi provò una spiacevole stretta alla bocca dello stomaco.
Forse strinse un po’ troppo violentemente le braccia attorno alle ginocchia, forse arrossì, ma non si preoccupò troppo, non si preoccupò nemmeno dello sguardo sorpreso che Sugawara gli rivolse perché non se ne accorse davvero; non si rese conto che con quei gesti avrebbe solamente alimentato un sospetto che l’amico aveva taciuto ma custodiva da un po’.
Sentiva solamente che con quelle parole, la possibilità che lui e Maria potessero costruire qualcosa alla luce del sole fosse calata drasticamente sotto lo zero, ma strinse i pugni, cercando di tenere saldo e fermo quel barlume di speranza che aveva guadagnato solamente pochi istanti prima.
«Maria si è dichiarata un po’ di tempo fa» Continuò a raccontare Daichi con lo stesso tono fermo che aveva utilizzato anche prima per affermare la verità, «Ma non è successo nulla tra di noi. Per me, Maria è un membro fondamentale della nostra famiglia, come una sorellina di cui prendersi cura» Daichi si interruppe per un istante e sorrise «Ne abbiamo anche già parlato ed è tutto chiarito tra di noi. Quindi vi prego di non preoccuparvi».
Era evidente che Daichi non avrebbe aggiunto altro a quelle parole.
E dopotutto non ce ne sarebbe davvero stato bisogno, erano così chiare e vere che nessuno avrebbe potuto dubitarne, o considerarle false.
Asahi aggrottò le sopracciglia, le mani strette a pugno per la tensione ancora percepibile.
Nishinoya e Tanaka presero a parlare contemporaneamente, spezzando quella sensazione spiacevole con una serie di esclamazioni allegre e domande stupide che servirono un po’ anche agli altri per ritrovare la serenità.
La serenità che per un solo, singolo, istante aveva intaccato l’equilibrio della squadra.
Seduto al fianco del capitano, Kageyama sospirò pesantemente portandosi una mano sul petto, lo sguardo fisso e teso di chi aveva appena saputo qualcosa di importante.
Di chi aveva ottenuto un’informazione indispensabile per il proprio benessere interiore.
Seduto al suo fianco, Tsukishima gli rivolse un’occhiata tra il divertito e l’annoiato.
«Un altro scemo che si aggiunge alla lista» mormorò a voce un po’ troppo alta perché Kageyama non potesse sentirlo, ma comunque non abbastanza perché potesse essere udita da chiunque altro non fosse lui. Il primino sollevò la testa di scatto e fece per replicare immediatamente qualcosa, fortemente colpito dal commento del compagno.
Le parole non gli uscirono mai di bocca, perché ci pensò Hinata a zittire di nuovo tutti.
«Capitano, hai rinunciato a Tani-chan perché ti piace la senpai Michimiya?» Shouyou pose quella domanda con estrema naturalezza e curiosità, fissando Daichi negli occhi. «Ho sempre pensato che tu e la senpai sareste stati davvero bene insieme! Insomma, siete due capitani, state sempre insieme!» continuò il primino, infervorandosi.
Daichi non rispose prontamente come aveva fatto precedentemente.
Se ne rimase seduto in quella posizione a fissare il vuoto per un tempo troppo lungo.
Il silenzio che si prolungò, sembrò decisamente troppo pesante.
«In effetti stareste bene insieme!» azzardò Tanaka dando una pacca a Daichi.
«Si! Dichiarati capitano, Michimiya ti piace non è vero?» incalzò Nishinoya.
Daichi non replicò, non sembrò nemmeno sentire la pacca di Tanaka sulla spalla, si limitò a smetterla di fissare il vuoto, sollevare forzatamente un angolo delle labbra e portare le mani in avanti in gesto difensivo che, per chi non lo conosceva bene come Sugawara e Asahi, sarebbe potuto apparire semplice e scontato, spontaneo.
Daichi però non portava mai le mani in avanti.
Sul campo Daichi giocava bene in difesa, nella vita l’aveva fatto solamente con due persone.
Ed una di quelle due persone era Yui.
Asahi non riuscì a reggere quel gesto, gli sembrò sbagliato su Daichi.
Si tirò in piedi sotto lo sguardo sorpreso e grande di Sugawara.
«Ehi, lasciate in pace Daichi. Non sono cose che vi riguardano» tuonò a voce alta, senza apparire minaccioso, ma con la ferma intenzione di non ammettere repliche alle sue parole.
Gli altri tacquero nuovamente, guardandolo quasi scioccati.
Asahi ne approfittò per mettersi seduto tra di loro, fingere una calma e un menefreghismo per la situazione che in realtà non aveva affatto, proponendo un altro giro al karaoke.
Non era una richiesta da lui, era stonato come una campana, ma rese felicissimi sia Nishinoya che Tanaka e indispose enormemente i primini come Kageyama e Tsukishima.
Asahi si lasciò afferrare per entrambe le braccia da un Hinata e un Nishinoya più che entusiasti, ma quando sollevò lo sguardo per tirarsi indietro, incrociò gli occhi di Daichi.
Erano talmente carichi di gratitudine che Asahi si sentì arrossire immediatamente.
Non ci furono parole o altro, non ce n’era davvero bisogno.
Era evidente che in quella stanza, quella sera, Asahi e Daichi fossero tremendamente in debito di gratitudine con qualcuno; ma non c’era davvero bisogno di dirlo.
 
Maria, Kiyoko e Hitoka si erano infilate sotto il futon verso le quattro del mattino.
Il cielo era ancora scuro, ma in lontananza sembrava esser già più chiaro, di un bellissimo blu cobalto che si macchiava di pallide stelle, come piccole cicatrici della pelle.
Era stata una serata piacevole e Maria non si era sentita così serena da molto tempo.
Non aveva trovato una soluzione al problema che l’affliggeva, ma sentiva una strana serenità nel cuore, come la sensazione che molto presto sarebbe successo qualcosa di bello.
Non sapeva se quella sensazione era data dalla conversazione che aveva avuto con Shimizu solamente poche ore prima, ma la faceva sentire sorprendentemente bene.
«Tani-chan! Ma quelli non sono i codini di Asahi-san?».
Maria sussultò quando sentì quella domanda nel silenzio della stanza.
La voce sorpresa di Yachi era rimbombata tra le pareti, Maria aveva appena spento il cellulare e per un brevissimo istante lo schermo aveva illuminato i codini che ormai non toglieva più, prima di diventare completamente nero e riportare la stanza nell’oscurità.
Shimizu alla sua destra rimase in silenzio, qualcuno avrebbe anche potuto crederla addormentata se non fosse stato per il respiro ancora troppo intenso e irregolare.
«Ah, sì» replicò Maria nascondendo il braccio al petto, nonostante fosse buio e nessuno potesse davvero vederla, la luce della luna era troppo tenue per rischiarare la parte più interna della stanza, dove si trovava il suo futon «Me li ha prestati un po’ di tempo fa».
Le risultò più facile mentire nel silenzio, senza poter essere vista.
Dietro di lei, Shimizu si mosse leggermente per cambiare posizione.
«Asahi-san ha sempre tantissimi codini con se!» replicò allegramente Hitoka.
Maria sorrise e mormorò qualcosa in risposta, mentre stringeva il polso con l’altra mano.
Si addormentò esattamente con il pensiero di Asahi a cullarla in quelle prime ore del mattino nuovo, serena.
Quasi avesse potuto sentire la sua mano grande e calda accarezzarle la testa.
Non avrebbe mai potuto immaginare la tempesta che si stava avvicinando.

 
 
 
Più che due cuori nuovi,
basterebbe usarli di più.

 
(Nek – La teoria del caos)
 
 
 
 
Buonsalve à tous le monde!
Flying_Lotus95 vi saluta e vi presenta il capitolo 12 😉
Bel capitolo, né? Molto leggero, confortevole, sembra calzare a pennello con il periodo festivo a cui ci stiamo accingendo tutti ad avvicinarci 🤗🥰
Anche se... nasconde insidie 😏
Io direi di tenere d'occhio i primini, in particolare un certo "re del campo", proprio come ha fatto Tsukki... 🤭
Come avete potuto notare, è un capitolo di passaggio, molto leggero e divertente ☺
Il capitolo perfetto per andare in pausa in queste due settimane di festa.
La pubblicazione riprenderà con il solito ritmo (ogni due sabati) dal 7 gennaio, e per il capitolo 13... preparatevi. Perché si torna col botto (in tutti i sensi!).
Ringrazio tutti voi lettori che continuate a leggere la storia, nonostante non sia la classica storia che vi sareste aspettati di trovare qui nel fandom di Haikyuu. Nessuna ship classica, nessun riferimento ad esse... è tutto nuovo, e sia io che la socia ne eravamo consapevoli. Ma non per questo penso non meriti attenzione ed interesse 😉
Alla fine, è una storia come le altre, è la nostra versione di come avremmo voluto vederli, lasciandoli agire come meglio gli si confà 🤗🤗
Però chissà, siccome a Natale siamo tutti più buoni, magari riceveremo una recensione sotto l'albero, non si sa mai 🤭🤭
Bene, finito il sequestro di persona 🤣
Vi auguro buone feste a voi e ai vostri cari, e su questi lidi ci rivediamo a gennaio (non per quanto riguarda me almeno... Sì, la storia dell'Avvento mi sta chiamando male 😬)
Á bientôt! 🎅🌲🍾🥂☃️
Flying_Lotus95 & effe_95

 

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Capitolo 14
*** 13- Bento ***


13. Bento.



Maria si era bruciata due volte il polso destro con l’olio bollente, aveva cerotti attorno a quattro dita su cinque e numerose abrasioni anche sui palmi, ma non era mai stata tanto contenta come in quel momento, mentre ripensava ai due bento che aveva preparato chiusi per bene nella borsa del pranzo.
Non aveva mai cucinato in vita sua prima di quella mattina; si era alzata all’alba per farlo.
Le era sembrata davvero una buona idea e aveva voluto metterla in pratica.
Era stata Shimizu a suggerirgliela, le aveva detto che il lunedì era l’unico giorno in cui Asahi non portava il bento, le aveva detto che andava a mangiare sempre in mensa, le aveva fatto capire che sarebbe stata un’ottima occasione per avvicinarlo.
Maria non ci aveva pensato due volte, non si era preoccupata, aveva chiesto a sua nonna di aiutarla a preparare i due bento e Mariko non aveva nemmeno fatto domande.
Era stata un’insegnante paziente nonostante i suoi terribili errori.
Maria aveva infiocchettato le due scatolette con cura e amore, le aveva riposte nella borsa facendo attenzione che non si rovesciassero e non aveva pensato ad altro per tutto il giorno.
L’ora di pranzo non voleva arrivare mai, come per ogni cosa che si desidera con tutto il cuore e ardentemente, l’orologio sembrava essersi bloccato di colpo e le lancette procedere con una lentezza tale da snervare fino ad avere una vera e propria crisi di nervi.
Maria era talmente satura, che quando suonò la campanella scattò in piedi senza nemmeno prendere la borsa con il pranzo; il suo unico pensiero era quello di fermare Asahi prima che raggiungesse la mensa, e non le passò nemmeno per la mente di aver dimenticato la cosa più importante, la cosa per cui aveva lavorato tutta la mattina e per cui si era svegliata all’alba, per cui aveva le mani conciante in quel modo terribile e con cui avrebbe voluto far colpo su Asahi ad ogni costo.
Semplicemente, nella foga del momento, scivolò fuori dalla classe con passo affrettato riponendo in un angolino della mente quel minuscolo fastidio che ad ogni modo aveva preso a punzecchiarla, anche se solamente di sfuggita.
«Tani-chan!». Rallentò il passo solamente quando si ritrovò davanti Hitoka.
Maria sbatté più volte le palpebre e guardò l’amica come se fosse un miraggio lontano, per poi ricordarsi solamente all’ultimo momento che solitamente passavano l’ora del pranzo insieme. Le era completamente passato di mente.
Quel pensiero, inoltre, servì anche a renderla consapevole del fatto che si trovava a mani vuote e che aveva dimenticato la cosa più importante nella sua classe.
«Hitoka-chan!» replicò con voce frustata, girandosi verso la porta della sua aula.
«Tani-chan, cosa succede?» domandò immediatamente la più piccola preoccupata.
Maria si portò una mano dietro il collo e si morse violentemente il labbro inferiore.
Rivolse uno sguardo imbarazzato al bento che l’amica stringeva tra le mani, alla sua espressione interrogativa e preoccupata, poi spostò velocemente lo sguardo sulla porta della sua aula e ripensò a tutta la fatica che aveva fatto …
Sospirò pesantemente e rilassò i muscoli, non aveva importanza.
Non se la sentiva di deludere le aspettative di Hitoka, probabilmente sarebbe rimasta a mangiare da sola per tutto il tempo se le avesse detto di non poter pranzare con lei.
Maria abbassò le mani e smise di arrovellarsi, non aveva davvero importanza, avrebbe provato il lunedì successivo, dopotutto forse il cibo non sarebbe stato nemmeno così buono …
Forse sarebbe migliorata nell’arco di quella settimana se avesse continuato ad esercitarsi …
«H-ho dimenticato il bento in classe» rispose alla fine, sorridendo cordialmente.
Cercò di nascondere la delusione in un angolino molto profondo della sua mente.
Non doveva avere fretta, anche Shimizu gliel’aveva detto.
Yachi le si avvicinò e sorrise gentilmente mettendole il proprio pranzo tra le mani, aveva un’espressione rassicurante e comprensiva, quasi avesse capito che cosa le stesse passando per la mente in quel momento, sebbene fosse praticamente impossibile.
«Oggi andiamo a mangiare nell’aula di musica, va bene?» le disse cordialmente. «Ho sentito che è vuota, ed è un posto tranquillo dove parlare. Gli altri si vedevano in palestra per discutere di qualcosa, dopo possiamo anche raggiungerli» spiegò Hitoka stringendo gentilmente le sue dita attorno al bento, Maria seguì quel gesto con le sopracciglia aggrottate, non aveva idea che gli altri si vedessero. «È una cosa dell’ultimo minuto, Shimizu-san me l’ha detto pochi minuti fa» le spiegò la più piccola, «comincia ad andare nell’aula di musica, io prendo il tuo bento e ti raggiungo, va bene?».
Maria non replicò, ancora un po’ stordita, guardò Hitoka andare verso la sua aula e si mosse automaticamente in direzione del secondo piano, verso la stanza in cui aveva passato quasi tutti i pomeriggi dei primi due anni di liceo a portare avanti un club interamente da sola.
Camminando, con la mente piena zeppa di pensieri, provò una sorta di strano sollievo nel rendersi conto che evidentemente, anche se non avesse dovuto pranzare con Yachi, quel giorno non sarebbe riuscita a fermare Asahi nemmeno se avesse voluto.
Sarebbe stata quella sorta di riunione improvvisata ad impedirglielo, probabilmente.
Quel pensiero le rimise un po’ del buon umore che aveva perso quando si era resa conto che le cose non sarebbero andate esattamente come aveva previsto; quando raggiunse l’aula di musica la trovò deserta, come il corridoio, e tremendamente tranquilla.
Le finestre erano aperte ed una brezza leggera e piacevole aleggiava nell’aria rinfrescando leggermente l’ambiente assolato, Maria fu investita da una marea di ricordi; ricordi che tuttavia non le causarono nessun dolore emotivo, fu invece sorprendentemente piacevole.
Capì immediatamente perché Hitoka le aveva proposto di pranzare in quel luogo, perché l’aveva vista agitata e aveva pensato che starsene in un posto familiare, silenzioso e tranquillo avrebbe potuto contribuire a riportare un po’ di serenità nella sua anima.
Yachi aveva avuto ragione.
Maria entrò nell’aula lasciando la porta aperta, appoggiò il bento dell’amica su uno dei banchi raggruppati negli angoli delle pareti e avanzò nell’aula con un sorriso pregno di memorie sulle labbra, accarezzando con i polpastrelli della mano destra la superficie sporca di polvere della cattedra su cui si era seduta innumerevoli volte.
Fu davvero uno shock per Maria voltarsi e scoprire di non essere più sola.
C’era qualcuno nell’arco della porta e quella figura sembrava tremendamente surreale in tutta quella pace e tranquillità che continuava a non essere turbata da nulla.
Anche il suo stesso cuore ci mise più tempo del normale ad accelerare i battiti per la paura.
Il ragazzo sembrava tremendamente rilassato, era alto come sempre, non era mai stato grosso ma stranamente la sua figura sembrava coprire da sola tutto l’arco della porta, senza lasciare alcuna via di fuga.
Aveva la camicia sbottonata sui pettorali e la solita collana d’oro che scintillava sulla pelle pallida e tesa, le braccia incrociate al petto mettevano in mostra i bicipiti, la stoffa tirata quasi sul punto di volersi strappare. Il viso spigoloso era rilassato e i capelli sistemati con cura, tinti come sempre, tagliati recentemente.
Avrebbe dovuto essere bello.
Ma Maria di quella bellezza era riuscita sempre a vederne il lato peggiore: il suo respiro di sigaretta, la sua sola presenza ingombrante, le sue mani lunghe e sudate …
Tutto quello le aveva fatto schifo fino ai conati di vomito.
Maria non si era nemmeno resa conto di essersi fermata con i polpastrelli ancora premuti sulla scrivania, sporchi di polvere; quando ritrasse la mano per portarla al petto, sulla superficie si legno erano rimaste impresse le linee tracciate dalle sue piccole dita.
Takumi le sorrideva quasi teneramente, i denti bianchi mostrati attraverso un ghigno.
Si staccò dalla porta ed entrò nella stanza con passo lento, il sole gli accarezzava il viso con dolcezza, quasi volesse risultare assolutamente grottesco in quel contesto pericoloso.
Maria indietreggiò automaticamente e andò a sbattere con la schiena sul bordo della scrivania, Takumi non l’aveva nemmeno toccata ma già sentiva di essere sporca.
«Mi è sempre piaciuta quest’aula» cominciò a parlare lui guardandosi intorno, si era fermato proprio di fronte a lei e aveva incrociato le braccia al petto, fissandola, Maria si era sorpresa del fatto che non avesse aperto bocca prima. «È piena di bellissimi ricordi per me e te, non credi?» e sollevò le labbra in un ghigno raccapricciante. «Ah cert0 … prima che decidessi di rifugiarti in quel covo di pagliacci …».
Maria aveva come la sensazione di essere caduta in uno di quegli incubi che faceva la notte quando era particolarmente agitata; si era ripetuta mille volte di non dover restare da sola con lui nemmeno per errore.
Era stata stupida, non si era neanche accorta del fatto che la stesse seguendo.
Nel panico, lo sguardo le ricadde sulle dita della mano che stringeva convulsamente davanti a sé, erano gelide e ricoperte di cerotti … era stata così contenta quella mattina di preparare il pranzo per Asahi … Asahi …
Mi dispiace.
Si ritrovò a pensare, immaginando il sorriso gentile dell’asso.
Takumi avrebbe sicuramente sporcato anche l’unica cosa preziosa che gli aveva donato.
Sé stessa, per una sola notte.
«Hai scelto questo posto apposta? Non potevo davvero crederci quando quella nanerottola cacasotto ti ha lasciato indietro! Mi è sembrato un colpo di fortuna, davvero».
Takumi fece un passo in avanti, sciolse le braccia che aveva incrociato al petto e bloccò Maria contro la cattedra appoggiando entrambi i palmi delle mani sulla superficie dietro di lei, uno a destra e l’altro a sinistra.
Erano abbastanza vicini in quel modo, perché Maria potesse sentire il tanfo della sigaretta.
«Non mi dirai di no questa volta, vero? Dopotutto prima ti sei fatta il capitano, poi quello scimmione … Dammela, andiamo! So fare un paio di cosette che ti piaceranno parecchio».
Maria guardò Takumi leccarsi le labbra con gli occhi carichi di disgusto.
Non aveva idea di come facesse a sapere che cosa fosse successo con Asahi, ma d’altra parte Takumi era stato il primo ad accorgersi dei codini, non doveva nemmeno essere tanto stupido come lasciava credere; e Maria era talmente spaventata da non avere nemmeno la forza di replicare a quelle parole.
«Scusami per il ritardo Tani-chan! Ho trovato due bento e non sapevo quale prendere, se fossero entrambi tuoi o – Ah!».
Maria sentì le lacrime di sollievo pungerle gli angoli degli occhi, ma strizzò le palpebre in modo tale che nemmeno una cadesse a bagnare le sue guance.
Hitoka era ferma sulla porta, l’espressione atterrita, spaventata a morte.
I bento che Maria aveva preparato quella mattina all’alba stretti tra le piccole dita.
«Sparisci microbo» sbottò Takumi in direzione della più piccola, guardandola con aria assolutamente annoiata «E quando esci chiudi la porta, abbiamo da fare qui».
Hitoka tuttavia non si mosse, era come paralizzata, gli occhi già gonfi di lacrime.
Maria le rivolse uno sguardo spaventato, Takumi sembrò scocciarsi immediatamente della paura e dell’immobilità dell’altra, scostò un braccio e si voltò a guardarla rabbioso.
«Vuoi che fotta anche te?!» le sbraitò contro e Hitoka sussultò, urlando.
Maria si morse violentemente il labbro inferiore e afferrò il braccio di Takumi con forza, tirandolo verso di sé affinché smettesse di prendere di mira l’altra, la ragazzina che stava rovinando il suo piano perfetto.
Maria avrebbe potuto accettare qualsiasi cosa alla sua persona, ma quelle mani sudate non avrebbero dovuto toccare Hitoka nemmeno di striscio.
«Hitoka-chan, guardami!» si sorprese lei stessa a riscoprire la propria voce così ferma mentre guardava l’amica negli occhi, Maria sperava che Yachi fosse abbastanza lucida da leggere molto di più in quei suoi occhi improvvisamente sicuri.
«T-Tani-chan …» piagnucolò l’altra fissandola dritta negli occhi.
Maria non spostò lo sguardo, ma infilò lentamente due dita della mano destra sotto i codini che le incorniciavano invece il polso sinistro, tirandoli al massimo affinché l’altra lo notasse.
Yachi li notò.
«Hitoka-chan, vai in palestra! Non preoccuparti per me».
Maria mise in quelle parole tutta la forza che riuscì a trovare in sé stessa in quella brutta situazione, sperava solamente che Yachi fosse abbastanza lucida da cogliere il suo messaggio silenzioso e fare quanto le aveva chiesto.
Hitoka sembrò capire, annuì un po’ più risoluta, indietreggiò e chiuse la porta.
Maria sentì il rumore affrettato dei suoi passi farsi sempre più lontano nel corridoio fuori quella stanza infernale, provò un moto violento di panico che riuscì a domare a stento.
L’ondata di sollievo che aveva provato nel vedere Hitoka era sparita insieme a lei.
Ma almeno Maria poteva avere la certezza che prima o poi qualcuno sarebbe arrivato a prendere quel che sarebbe rimasto di lei quando Takumi avrebbe ottenuto finalmente quello che voleva fin dal primo momento in cui le aveva messo gli occhi addosso.
Disprezzandola perché era diversa …
Era stata davvero una bella scusa e tutti l’avevano creduto senza fatica.
Farla sentire sporca per i suoi occhi occidentali, per il suo viso spigoloso, quando alla fine quegli occhi che aveva tanto disprezzato non erano nient’altro che tutto ciò che desiderava più profondamente e ossessivamente nei suoi pensieri lascivi.
«Sei particolarmente collaborativa oggi. Sapevo che non vedevi l’ora di farti una scopata con me. L’hai fatto apposta a provocarmi con quello scimmione, eh? >>.
Takumi pronunciò quelle parole con una nota di soddisfazione nella voce, afferrandole il viso con le sue dita lunghe e fredde, Maria fu investita dal tanfo della sigaretta ma non tossì, né scostò lo sguardo, né lasciò che gli occhi le lacrimassero più del dovuto.
«Non farti l’idea sbagliata» lo frenò immediatamente, senza nemmeno prendersi il disturbo di scostare il viso, ad ogni modo non aveva alcuna possibilità di scappare da lui.
Ribellarsi avrebbe significato solamente rendere le cose più dolorose.
Ma se proprio doveva cadere, Maria avrebbe almeno fatto in modo che Takumi avesse le cose ben chiare: che da lei non avrebbe avuto nulla di quello che voleva spontaneamente.
«Tu mi fai schifo. Sei un essere ripugnante. Sei un verme che striscia seguendo i suoi istinti più bassi … Asahi è un uomo. Sono sicura che tu non sappia nemmeno quale sia la differenza. Rifarei quello che ho fatto con lui ogni secondo della mia vita. Feccia!».
Fece male quando Takumi le riafferrò il volto con rudezza, stringendole il viso in maniera talmente violenta che le sarebbero rimaste le impronte dei suoi polpastrelli sulla pelle se avesse continuato a tenerla in quel modo ancora per un po’.
«Tu non sai nemmeno come toccarla una donna. E io ancora mi ricordo le sue mani sulla pelle … hai idea di quanto mi abbia fatto go-!»
«Stai zitta, troia da quattro soldi!», la mano che fino ad un secondo prima Takumi aveva usato per stringerle la faccia scattò sulle sue labbra premendo con violenza, per non farla parlare. Non avrebbe accettato di sentire quella verità come se nulla fosse stato.
Maria non aveva paura, o almeno, non più di quanta già ne avesse prima.
Doveva prendere tempo, doveva prendere tempo per gli altri …
Stavano sicuramente arrivando, Maria ne era certa.
Forse, se continuava a provocarlo in quel modo …
Forse Takumi si sarebbe stancato di lei come sempre, avrebbe smesso di tormentarla e non sarebbe andato oltre come aveva minacciato, forse aveva ancora una piccola possibilità.
Lui spostò la mano e Maria prese un breve respiro.
«È proprio questa la cosa che non ti posso perdonare, puttana! Il capitano, gli altri idioti … avresti potuto farti chiunque! Ma quello scimmione … quel lurido scimmione …»
«Quel lurido scimmione mi ha fatta venire due volte in una sola notte» sbottò Maria con aria estremamente soddisfatta, sollevando gli angoli della bocca, «scommettiamo che con te non sarebbe successo nemmeno una volta?».
Takumi non reagì come si era aspettata Maria, le cose non andarono minimamente come aveva programmato lei. Nemmeno una sola, singola cosa.
Takumi non la lasciò andare, non le urlò contro e non se ne andò sbattendo la porta come suo solito; Maria capì troppo tardi di aver giocato tutte le sue carte e di aver perso.
Prima che avesse il tempo di poter prendere il respiro successivo, si ritrovò a terra.
Takumi le stava addosso a cavalcioni, l’espressione trasfigurata di una bestia, le afferrò i polsi bloccandoglieli sopra la testa e senza troppi complimenti le strappò la camicia e il reggiseno in un colpo solo; i bottoni volarono da tutte le parti, il laccetto di metallo strappato con violenza le graffiò tutta la schiena.
Era stato talmente brutale da scoprirle il petto senza nemmeno spogliarla come si deve.
Maria gridò quando lui si chinò mordendole la pelle morbida e candida del seno destro.
Cominciò a scalciare, la paura aveva preso il posto di qualsiasi altra sensazione.
Cercò di pensare ad altro, tentò di sovrapporre le immagini della prima volta con Asahi a quelle che stava vivendo in quel preciso momento, non ci riuscì.
Il presente era troppo violento.
«E sta zitta!» sbraitò Takumi tappandole la bocca con una mano.
Maria continuò a gridare, nonostante i suoni fossero attutiti dal palmo dell’altro, le lacrime scesero agli angoli degli occhi senza controllo bagnandole i capelli sparpagliati sul pavimento sporco e freddo.
Non aveva mai pensato che potesse succedere davvero.
Aveva creduto di poter tenere la situazione sotto controllo, di poterlo quanto meno sopportare … ma le sembrava di impazzire, aveva paura, voleva scappare, voleva che finisse.
Quando Takumi infilò il pollice sotto l’elastico delle mutande, sfiorando la zona sensibile, Maria gridò talmente forte che sarebbe rimasta afona sicuramente, scalciò senza sosta.
Non servì a nulla.
La gonna si sollevò facilmente e le mutande scivolarono a metà coscia con troppa facilità.
Takumi l’afferrò per le spalle e la ribaltò con violenza, costringendola a quattro zampe contro il pavimento … A quel punto, Maria chiuse gli occhi.
Fa che finisca presto, ti prego …
Fa che finisca presto …
Pianse fortissimo e si morse il braccio con violenza, aspettando l’impatto, qualcosa …
E tutto sommato un impatto avvenne, ma non quello che si sarebbe aspettata.
Sentì un tonfo sordo sul pavimento, i rumori di una colluttazione violenta, dei respiri ansimanti talmente feroci da sembrare quelli di due bestie inferocite.
Maria smise di mordersi il braccio e si girò di scatto.
Avrebbe preferito non farlo.
I ragazzi del club erano tutti lì, nella stanza.
Maria rivolse solamente un’ultima occhiata alla causa di tutto il baccano che aveva sentito; Asahi aveva agguantato Takumi per le spalle e l’aveva sbattuto contro il pavimento mettendosi a cavalcioni su di lui, un braccio premuto contro la sua gola, l’altro stretto attorno alla sua faccia e l’espressione trasfigurata.
Si lasciò andare ad un singhiozzo e si rannicchiò su sé stessa, piangendo senza sosta.
Se dal sollievo o dalla vergogna non sapeva dirlo; non era successo nulla.
Almeno, non era successo nulla.
«Così lo ammazza» mormorò qualcuno nella stanza, probabilmente Sugawara.
Maria non sollevò lo sguardo su nessuno di loro, non riuscì a vedere le loro espressioni.
Quando si erano visti arrivare Hitoka nella palestra in lacrime, sconvolta, balbettante e stravolta dalla paura, avevano capito immediatamente che qualcosa non andava; era bastato pronunciare solamente un nome perché tutti scattassero.
La scena che si erano ritrovati davanti era stata tremenda.
Maria era a quattro zampe, schiacciata a terra dal braccio di Takumi, le mutande tirate giù, lui aveva i pantaloni sbottonati e lei gridava come un’ossessa …
Kageyama si era fermato sull’uscio costretto da un conato di vomito che l’aveva colto all’improvviso, Tsukishima l’aveva seguito, irrigidendosi tutto: non aveva osato sollevare lo sguardo. Al suo fianco Tadashi si era talmente spaventato da non osare nemmeno entrare.
Tanaka e Nishinoya erano stati i primi a precipitarsi nella stanza, ma non erano stati loro ad afferrare Takumi per le spalle e sbatterlo a terra con una violenza disumana.
Asahi era avanzato senza nemmeno guardare la condizione in cui versava Maria.
Aveva reagito d’istinto prima di tutti gli altri.
Hitoka invece aveva gridato più forte di Maria quando l’aveva vista e si era aggrappata ad Hinata, che le aveva nascosto la testa sulla propria spalla e l’aveva tenuta stretta forte affinché smettesse di tremare come una foglia.
Shimizu aveva barcollato dallo shock, solo il braccio di Sugawara attorno alle sue spalle l’aveva tenuta ferma. Pallida come un lenzuolo, guardava la sua migliore amica scossa dai singhiozzi rannicchiarsi sempre di più su sé stessa, farsi piccola piccola, minuscola.
Tuttavia, quello che sembrava più sconvolto di tutti era proprio Daichi.
Si era bloccato al centro della stanza, orripilato.
«Capitano» lo richiamò Hinata, Daichi si diede un pizzico violento sulla gamba e avanzò con passo sicuro verso Maria, si inginocchiò davanti a lei e tentò di metterle le mani su entrambe le spalle per rassicurarla almeno un po’.
La reazione della ragazza fu terribile.
«Non mi toccare! Non toccarmi!» gridò come un’ossessa portandosi le mani sulle orecchie, gli occhi chiusi, i capelli sconvolti. Daichi rimase impietrito con le mani sospese nel vuoto, pallido come un lenzuolo.
Avrebbe voluto piangere anche lui, erano forse arrivati troppo tardi?
Era forse già successo tutto?
Respirò profondamente e si tirò in piedi, stringendo i pugni, livido di rabbia.
«Che cosa hai fatto?!» stava gridando Asahi sbattendo ripetutamente Takumi sul pavimento, l’altro era talmente rosso in faccia e paonazzo nel tentativo di liberarsi da non avere nemmeno la forza di rispondere a tono qualcosa di lascivo come suo solito.
Stranamente, sembrava spaventato a morte lui stesso da quello che aveva combinato.
Daichi si avvicinò ad Asahi e gli mise una mano sulla spalla.
«Asahi, a lui ci penso io. Lo porto da Takeda-sensei, ti giuro che la faccio finita una volta per tutte!» Daichi aveva la voce bassa e posata, ma talmente carica di una rabbia esplosiva da far tremare anche tutti gli altri, immobili «Pensa tu a Maria».
Come se quella mano sulla spalla avesse avuto il potere di tranquillizzarlo, Asahi smise di sbattere Takumi sul pavimento, lo lasciò andare e si tirò in piedi barcollando.
Daichi afferrò il bullo per la collottola della camicia e lo tirò su senza troppi complimenti, trascinandolo verso la porta mentre l’altro tossiva per riprendere a respirare.
«Tanaka, Tsukishima, Ennoshita» chiamò, e non ci fu bisogno di aggiungere altro.
I quattro sparirono un istante dopo.
Nel silenzio che calò nella stanza, interrotto solamente dai singhiozzi moderati di Hitoka, Asahi trasse un respiro profondo e si avvicinò tranquillamente a Maria, inginocchiandosi davanti a lei in modo tale da coprirla totalmente allo sguardo di tutti gli altri.
Allungò una mano e gliela posò sulla testa, Maria non urlò.
Puntò le iridi azzurre ricolme di lacrime in quelle scure e rassicuranti dell’altro.
«Hai vergogna anche di me?» le sussurrò con gentilezza, senza farsi sentire dagli altri.
Maria scosse lievemente la testa, tolse le mani tremanti dalle orecchie e afferrò la camicia di Asahi, seppellendo il viso nel suo petto ampio, e nascondendo la sua nudità tra le sue braccia.
Asahi chiuse gli occhi e respirò profondamente, tentando di non collassare sul posto.
Strinse Maria al petto e la sollevò da terra, lasciando che lei si nascondesse dagli altri.
«Shimizu, mi accompagni in infermeria?» domandò, guardando l’altra negli occhi.
Kiyoko era ancora pallida, stravolta, Sugawara le teneva ancora il braccio attorno alle spalle per reggerla; tuttavia annuì due volte senza tirarsi indietro.
«Sei sicura Shimizu, posso -» si intromise Kōshi, ma Kiyoko lo fermò prima.
«Ce la faccio Sugawara-kun».
E un istante dopo anche loro tre furono fuori dalla stanza.
Gli altri rimasero in silenzio per un tempo che sembrò dilatarsi all’infinito, Hitoka aveva smesso di piangere, ma se ne stava ancora accoccolata sulla spalla di Hinata, tra le sue braccia.
«Sei stata bravissima» le ripeteva lui in continuazione.
Kageyama aveva la faccia verde e lo sguardo fisso sul pavimento, come ipnotizzato.
Yamaguchi non era ancora entrato nella stanza, restandosene fuori.
Sugawara fissò la porta per un istante che gli sembrò infinito, credeva che le gambe avrebbero potuto cedergli da un momento all’altro, se non fossero arrivati in tempo …
Non voleva nemmeno pensarci.
Scostò lo sguardo dalla porta, nel tentativo di farsi forza e parlare agli altri, ma le parole gli morirono in gola quando notò lo sguardo serio e fisso di Nishinoya su di sé.
Yū non disse nulla, ma Sugawara non ebbe bisogno di parole per capire.
Anche lui aveva ancora impressa nella mente l’immagine di Maria stretta al petto di uno dei suoi migliori amici; sebbene prima non si fosse fatta nemmeno sfiorare da Daichi, con Asahi era stato decisamente diverso …
Forse, Sugawara aveva colto un po’ più di Nishinoya, ma non era il momento per parlarne.
 
Quando erano arrivati in infermeria, l’avevano trovata vuota.
Era ora di pranzo e l’infermiera era in pausa.
Asahi non sapeva dire se fosse stato un bene o un male, ma sicuramente fu un punto in più per permettere a Maria di riprendere il controllo di sé stessa e calmarsi un po’.
Non si era staccata dal suo petto fin quando non si erano ritrovati da soli in quella stanza asettica piena di lettini, mentre Shimizu andava a cercare l’infermiera.
Maria se n’era rimasta seduta buona sul letto, la schiena un po’ curva e le braccia strette attorno al petto nudo. Non aveva potuto indossare il reggiseno perché si era strappato il laccetto e la sua camicia era del tutto inutilizzabile.
Shimizu non si era scomposta quando era stato Asahi ad aiutarla a togliersi di dosso gli stracci di quella che una volta era stata una parte della sua divisa scolastica.
Dopotutto, Maria non aveva voluto che nemmeno lei la toccasse.
Asahi sospirò pesantemente e si morse violentemente il labbro inferiore.
Gli tremavano le mani, avrebbe voluto sedersi, ma non poteva permetterselo.
Non poteva nemmeno fermarsi un solo istante a riflettere su cosa sarebbe potuto succedere se non fossero arrivati in tempo, altrimenti sarebbe rimasto in un angolo di quella stanza a piagnucolare per tutto il tempo ad evitare di farsi venire un attacco di panico.
Medicare le ferite di Maria, prima che arrivasse l’infermiera e la trovasse in quelle condizioni, facendo domande scomode, gli era sembrata un’ottima prospettiva per distrarsi.
Questo almeno all’inizio … poi era subentrata una rabbia sottile sotto la pelle.
Gli tremavano le mani mentre le medicava con del semplice disinfettante i tre graffi che il laccetto del reggiseno le aveva lasciato sulla schiena, ma almeno Maria non poteva vederlo.
Asahi poteva lasciare andare il respiro, tremare come una foglia e digrignare i denti fin tanto che lei gli dava le spalle e non poteva percepire la sua paura, la sua rabbia, lo sgomento.
Finì di picchiettare gentilmente con l’ovatta e applicò con delicatezza un cerotto sulla pelle pallida e livida della ragazza, sfiorando con la punta dei polpastrelli la parte lesa.
Asahi respirò profondamente per l’ennesima volta nella giornata e fece il giro del lettino.
Forse era davvero la prima volta che affrontava Maria faccia a faccia.
Da quando Hitoka era apparsa nella palestra in lacrime, pronunciando in maniera disperata e sconnessa il nome di Maria e l’aula di musica, Asahi non aveva avuto più tempo per riflettere. Non aveva potuto riflettere.
Se avesse osato farlo anche solo per un secondo sarebbe rimasto bloccato come Daichi.
Daichi … Daichi non era sembrato nemmeno sé stesso.
Asahi era riuscito a vedere, in tutto quel disordine di emozioni che l’avevano travolto, i tentacoli del passato afferrare il suo migliore amico alle spalle e cominciare a soffocarlo senza alcuna pietà … Scosse la testa, non doveva pensarci in quel momento.
Maria aveva gli occhi rossi per il troppo pianto, l’azzurro sembrava liquido come acquerello, gli zigomi erano tutti arrossati per le varie volte che li aveva strofinati nel tentativo di asciugare le lacrime. Aveva i capelli tutti in disordine e due piccoli lividi sulla guancia destra.
I lividi di due polpastrelli che avevano stretto troppo forte la sua pelle pallida.
Asahi non riuscì a trattenersi, sollevò la mano e li accarezzò con gentilezza.
«Maria» la chiamò con calma, a voce bassa, «devo medicarti il morso» continuò sempre nello stesso tono, prendendo lo sgabello per mettersi seduto davanti a lei; controllò distrattamente il cellulare, aveva detto a Shimizu di mandargli un messaggio nel caso avesse trovato l’infermiera. «Devi solo abbassare un po’ la mano …».
Asahi le sorrise gentilmente, Maria lo fissò dritto negli occhi.
Non abbassò solamente la mano, tolse completamente il braccio, scoprendo tutto il seno.
Asahi trovò naturale non arrossire come avrebbe potuto fare in un’altra occasione, il segno dei denti di Takumi sulla pelle morbida era evidente come una cicatrice ancora fresca.
Spostò leggermente lo sguardo e preparò un altro fiocco di cotone imbevuto con dell’acqua ossigenata, poi si girò e con gentilezza prese a tamponare la ferita, lo sguardo fisso.
Riuscì a farlo solamente per pochi secondi, strinse forte il pugno della mano destra e abbassò lo sguardo, appoggiando la fronte sul petto nudo della ragazza.
Le spalle scosse da singhiozzi privi di lacrime.
Asahi si sentì un codardo a cedere in quel modo, ma avrebbe spaccato qualcosa se non avesse sfogato anche solamente un po’ tutto quel turbinio di emozioni soffocanti.
«Mi dispiace» mormorò baciandole delicatamente, con labbra tremanti, la ferita.
Maria rabbrividì e le ultime lacrime ancora incastrate negli angoli dei suoi grandi occhi chiari scivolarono lungo le guance, seguendo il percorso della mascella per poi bagnarle lo sterno scoperto; sollevò le braccia tremanti e le avvolse attorno alle spalle di Asahi.
Fu un abbraccio disperato.
«Non è successo niente. Non si è preso niente».
Maria parlò per la prima volta da un tempo infinito e la sua non fu un’affermazione, ma la consapevolezza di chi si rendeva conto di qualcosa di meraviglioso, di chi aveva la voce talmente carica di sollievo da poter scoppiare a ridere da un momento all’altro.
La paura era stata tale da fermarle il cuore, ma non era successo nulla di irreparabile.
Asahi era arrivato alla fine, gli altri erano arrivati, come aveva sempre creduto.
Fu quell’abbraccio a farle scivolare tutto lo shock di dosso.
Come la carezza di una mano gentile su una macchia di sporco lavata via.
Asahi sciolse l’abbraccio per primo, si tolse con estrema gentilezza le braccia di Maria dalle spalle e sollevò il viso, non era bagnato di lacrime, non era rosso, era solo provato.
«Fammi finire di medicarti la ferita» le disse, e continuò a tamponarle la pelle senza nemmeno aspettare che lei potesse rispondere o replicare.
Ad ogni modo Maria lo lasciò fare restandosene in silenzio, esposta a lui, senza provare la minima vergogna, la minima paura o il minimo disagio.
Dopotutto Asahi era stata l’unica persona a vederla per davvero, in tutti i modi possibili.
Era stato come il migliore amico di sempre, era stato un amante, un fratello …
Era stato troppe cose in pochissimo tempo.
Un frammento di qualcosa che Maria doveva ancora trovare, un frammento a cui ancora non aveva saputo dare un posto ben preciso all’interno della sua vita.
Asahi le applicò un altro cerotto sul morso, poi raddrizzò la schiena e si sfilò il maglioncino.
Quando Maria lo prese tra le mani, capendo che era un chiaro intento di invitarla a coprirsi, lo trovò caldo, soffice e talmente pregno dell’odore di Asahi che se lo infilò subito.
L’asso tornò a sedere sul suo sgabello, ingobbendo la schiena in un chiaro gesto di sollievo.
«Volevo pranzare con te oggi».
L’affermazione di Maria giunse un po’ inaspettata, probabilmente Asahi aveva pensato che non avrebbe avuto voglia di parlare di nulla, che si sarebbe chiusa a riccio come sempre.
Maria invece voleva parlare, voleva parlare con lui, voleva lui.
«Shimizu mi aveva detto che il lunedì non portavi il bento …».
«Mi avevi preparato da mangiare?» Domandò Asahi con sgomento.
Maria si strinse nelle spalle, riscaldandosi nel maglione dell’altro, le andava talmente largo che le copriva anche tutta la gonna; aveva freddo anche se fuori c’era un sole cocente.
«Si» replicò ridacchiando leggermente, nascondendo le mani incerottate sotto il bordo lungo della maglietta del ragazzo «Volevo passare la pausa pranzo con te. Credevo che se avessi insistito tu avresti potuto cambiare idea e darmi una possibilità» Maria sospirò profondamente e tornò a guardare Asahi negli occhi «Ma avevo dimenticato di dover pranzare con Hitoka-chan, così ho detto a me stessa che andava bene anche la prossima volta». I ricordi di cosa era successo in quell’aula di musica tornarono a farsi prepotenti nella sua mente, come tanti flash sconnessi, gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime ma quel sorriso un po’ strafottente non le sparì dalle labbra. «Me la concedi questa prossima volta, Asahi? Il cibo non era nemmeno così buono …» e scoppiò a piangere a dirotto, di nuovo.
Asahi la guardò senza sapere cosa fare per alcuni secondi.
Non sapeva nemmeno più cosa provare in quel momento, non sapeva come avrebbe dovuto comportarsi, né se avrebbe dovuto dar sfogo a tutto quello che stava provando prima di scoppiare nel modo e nel momento peggiore.
Si mosse praticamente d’istinto.
Allungò le proprie mani e afferrò quelle piccole di Maria, notando per la prima volta tutti i cerotti e le piccole scottature sui palmi, si morse violentemente il labbro inferiore prima di chinarsi in avanti su di lei e posarle un bacio gentile sulle labbra salate di lacrime.
«Va bene, hai vinto tu» mormorò arrossendo gentilmente.
Erano talmente vicini che i loro respiri si confondevano senza remore l’uno nell’altro.
Maria aveva gli occhi azzurri spalancati dalla sorpresa, sembrava incredula.
«Va bene, Maria. Proviamo a stare insieme» continuò Asahi deglutendo, le parole di Suga gli rimbombavano ancora nelle orecchie, e dopo quello che era successo aveva sentito l’insensata urgenza di appigliarsi a quella minuscola e misera speranza senza freni.
Il viso di Maria si riempì talmente tanto di meraviglia che Asahi riuscì a farsi scappare un sorriso, in un singolo istante tutte le ombre di quello che sarebbe potuto accadere e di quanto era accaduto svanirono come fumo dopo una folata di vento.
«Ma ad una condizione» la frenò immediatamente il ragazzo, facendosi più vicino con lo sgabello; Maria aggrottò immediatamente le sopracciglia «Non diciamolo agli altri. Almeno non subito. Aspettiamo il diploma, aspettiamo che le acque si calmino un po’».
Non voglio che gli altri parlino male di te.
Non voglio che pensino male, la voce su te e Daichi è ancora in giro.
Non voglio che Daichi sappia.
Ho ancora paura che tu possa scegliere lui e lasciarmi indietro.
Tutte quelle parole Asahi non le pronunciò, non le pronunciò in quel momento, ma Maria le sentì lo stesso, le accettò lo stesso nonostante non fosse pienamente d’accordo.
Avrebbe voluto dire ad Asahi che avrebbe cercato in tutti i modi di non fargli del male.
Invece disse solamente sì.
«Va bene» acconsentì con un cipiglio da bambina capricciosa.
Si chinò in avanti per baciarlo nuovamente, il cellulare nella tasca dei pantaloni del ragazzo prese a vibrare, annunciando l’arrivo di un messaggio; doveva essere Shimizu di ritorno.
Come se fosse stato solamente un raggio di luce momentaneo, le ombre tornarono a lambirle le membra e il sorriso si spense in automatico sulle sue labbra.
Asahi se ne accorse immediatamente.
«Non si è preso nulla Maria. Nulla. Va tutto bene».
Sei sempre stata solamente mia.
Non appena quel pensiero si formulò nella mente di Maria con la voce di Asahi, tutta la paura sfumò via con semplicità. Come se non ci fosse mai stato motivo di averla.
La porta dell’infermeria si aprì proprio in quel momento e Asahi si tirò subito in piedi.
Richiuse velocemente la borsa del pronto soccorso e nascose i batuffoli di cotone usati nella tasca del pantalone; fortunatamente per lui l’infermiera era entrata di spalle trascinando un piccolo tavolino con rotelle pieno zeppo di medicinali e antidolorifici.
«Ah! Tu sei la ragazza che ha bisogno di un tranquillante?» domandò con voce allegra.
Maria guardò Shimizu con occhi grandi.
«Io aspetto fuori» commentò Asahi a voce bassa.
Ma non riuscì ad allontanarsi troppo perché Maria sollevò una mano e gli strinse con forza il bordo della camicia che usciva fuori dai pantaloni, un chiaro invito a non lasciarla sola.
Shimizu puntò lo sguardo su quel gesto, ma non disse nulla.
La voce dell’infermiera riempiva l’ambiente di domande che nessuno stava ascoltando.
«Sono in palestra con gli altri» le mormorò con dolcezza.
Quando si ritrovò fuori la porta dell’infermeria, Asahi si lasciò cadere a terra appoggiando la schiena al muro adiacente. Strinse forte le ginocchia tra le mani e scoppiò a ridere.
E insieme alla risata si mischiarono anche le lacrime.
Fortuna che il corridoio era vuoto per la ripresa delle lezioni.
Fortuna che aveva appena fatto la più grande pazzia della sua vita.
 
Una volta raggiunta la palestra, Asahi aveva trovato tutti riuniti lì.
Compreso il professor Takeda ed il coach Ukai, con l’espressione più seria del loro repertorio. Sembravano aver appena rimproverato gli altri per qualcosa.
Qualcosa che Asahi poteva capire senza reale bisogno di chiedere: il loro silenzio.
Ad ogni modo, il suo arrivo servì ad interrompere l’invettiva del coach alla volta dei suoi compagni, che si precipitarono verso di lui per chiedere informazioni su Maria.
Asahi si ritrovò a spiegare la situazione completamente in imbarazzo, rassicurò gli altri che Maria era in compagnia di Shimizu e li avrebbe raggiunti presto.
Che stava bene e non le era successo nulla, nulla di irreparabile.
Il sollievo che lesse sui volti dei suoi compagni di squadra contagiò anche lui. Per la prima volta nell’arco di quella giornata che stava risultando essere incredibilmente lunga, Asahi si rese conto davvero per la prima volta del pericolo che avevano scampato.
Fu il turno di Daichi poi di raccontare cosa ne avevano fatto di Takumi.
Raccontò di averlo portato dal professor Takeda e di aver confessato al docente tutto quello che era successo dal giorno in cui Maria si era iscritta al club fino a quello che era accaduto solamente alcuni secondi prima nell’aula di musica.
Asahi era sicuro che Daichi aveva dovuto compiere quel gesto con una certa fatica.
Doveva essere stato difficile per lui accettare il fatto che da solo non avrebbe potuto salvare Maria dalla mano di quel verme schifoso; doveva essere stato davvero difficile per lui.
Troppo difficile accettare ancora una volta di non essere abbastanza forte.
Quando Daichi si interruppe, toccò al professor Takeda continuare a spiegare la situazione.
Confidò agli altri di aver minacciato apertamente Takumi con una mossa vecchia come il mondo ma quanto meno astuta per un sempliciotto come quel bullo; gli aveva raccontato che nell’aula di musica erano installate delle telecamere che avevano ripreso tutto.
Gli aveva detto che l’avrebbe denunciato al corpo insegnanti se non avesse smesso.
Gli aveva detto che la questione sarebbe diventata legale a quel punto.
Era bastato poco perché Takumi si inginocchiasse in lacrime davanti al docente chiedendo perdono … Asahi provò uno strano moto allo stomaco quando seppe che Takumi si era girato anche alla volta di Daichi e aveva pregato anche lui con la faccia per terra.
Tuttavia, quando il professore raccontò quel piccolo dettaglio Asahi non notò nessun tipo di soddisfazione nello sguardo del suo migliore amico.
Daichi era fuori di sé.
Fu a quel punto che Maria fece il suo ingresso in palestra accompagnata da Kiyoko.
Si era cambiata, indossava una maglietta bianca del club e stringeva il suo maglioncino ripiegato per bene tra le braccia, sembrava tremendamente imbarazzata.
Gli altri cominciarono immediatamente a farle la festa, gridando il suo nome.
Asahi tuttavia riuscì a prestare attenzione solamente ad una cosa che entrò nel suo campo visivo; Daichi che avanzava con passo fermo verso Maria e le si piazzava davanti.
«Sei un’irresponsabile!» le gridò contro con il tono di voce che utilizzava per rimproverare gli scapestrati della squadra, gli altri ammutolirono allibiti.
Perfino il coach Ukai ed il professor Takeda si fecero silenziosi e rigidi.
Maria sembrò incassare il colpo con una certa dignità, come se se lo fosse aspettato.
Si limitò ad abbassare gli occhi e prendersi il rimprovero in silenzio.
«Che cosa ti è passato per la testa eh?» il tono di voce di Daichi si fece ancora più duro nell’avanzare dell’invettiva «Sei impazzita? Credevi davvero di poter tenere testa a quel – a quel disgraziato! Come hai anche solo potuto pensare per un istante di affrontarlo da sola?».
Maria non ci provò nemmeno a replicare quando Daichi si fermò un istante per riprendere fiato, sembrava talmente fuori di sé e spaventato da avere un’espressione folle.
«Hai capito che cosa sarebbe potuto succedere? Quante volte ti ho detto di parlare con noi? Quante volte ti ho detto di fare affidamento su di noi? Sei stupida per caso!?».
Maria scosse la testa, aveva gli occhi azzurri nuovamente pieni di lacrime e si mordeva il labbro; sembrava una bambina rimproverata ferocemente dal fratello maggiore.
Asahi osservava la scena con una certa apprensione.
Daichi … Daichi non gli sembrava affatto normale, e non riusciva a togliersi di mente la sensazione che dopotutto non fosse davvero presente a sé stesso.
Quei tentacoli del passato che aveva visto ghermirlo nell’aula di musica sembravano tornati nuovamente, sembravano molto più grandi e lo soffocavano senza pietà.
«Ti avevo detto chiaramente di fare attenzione a quel tipo! Perché diavolo non mi hai ascoltato? Perché hai dovuto fare una cosa così stupida, eh?!».
Nel sentire quelle parole, gli altri cominciarono a mormorare sconcertati.
Maria aggrottò leggermente le sopracciglia, asciugandosi il viso.
«Ti avevo detto che non ne sapevi nulla … perché non mi sei stata a sentire!».
A quel punto Daichi smise di gridare e si portò una mano chiusa a pugno sulla fronte, imprecando forzatamente tra i denti, gli angoli degli occhi pieni di lacrime.
«Dannazione!».
Sugawara rivolse un’occhiata piena di terrore ad Asahi e l’asso fu assolutamente certo che Daichi non stava più parlando con Maria, ma con una persona che non era presente in quel momento. Asahi si rese conto che Daichi non era lì con loro, ma prigioniero del passato.
Doveva tirarlo fuori di lì prima che fosse troppo tardi.
«Daichi, basta così, Maria ha capito» intervenne immediatamente mettendo una mano sulla spalla del compagno. Strinse forte, abbastanza forte perché l’altro si calmasse.
Lo sguardo che gli rivolse Daichi fu completamente atterrito.
«Bene, direi che oggi possiamo andare a casa».
Asahi trasse un sospiro di sollievo quando sentì le parole del coach Ukai, che fossero state pronunciate di proposito o meno non aveva importanza.
Erano sufficienti perché gli altri allontanassero lo sguardo da Daichi, sarebbe stato troppo da sopportare per lui, davvero troppo.
Gli altri cominciarono a sparpagliarsi, chiacchierando sottovoce.
Asahi rimase fermo lì dov’era, accanto ai suoi migliori amici, sollevò lo sguardo solamente per incrociare gli occhi stanchi di Maria, Shimizu le tirava un braccio per attirare la sua attenzione, ma lei faceva fatica a seguirla continuando a fissare lui.
Asahi arrossì come un bambino, fece spallucce e le sorrise.
Maria ricambiò il sorriso.
 
 
Rientrare a casa quella sera le sembrò quasi surreale.
Maria non si trattenne troppo con i nonni, aveva paura che potessero notare i suoi occhi rossi o l’espressione sconvolta, il fatto che non stesse indossando la divisa scolastica e che avesse un cerotto piuttosto grande sul braccio che si era morsa.
Li salutò velocemente e scappò in camera sua con la scusa di dover studiare.
Quando si fu chiusa la porta alle spalle, cacciò un sospiro di sollievo e si lasciò cadere sul letto a peso morto, nascondendo la faccia nel cuscino.
Riuscì a tenere gli occhi chiusi solamente per pochi secondi.
Le immagini di quella giornata le tornarono in mente come un fiume in piena strappandole il respiro dal petto; Maria sapeva che non le sarebbe passata presto.
Non era successo nulla di irreparabile, ma si era spaventata.
Aveva avuto paura come mai prima in vita sua.
Saltò in piedi immediatamente e afferrò il cellulare che aveva sentito vibrare innumerevoli volte nella tasca interna della borsa sulla via di casa.
Lei e Shimizu non avevano parlato di quello che era successo.
Erano ancora troppo scosse, non era il momento giusto per farlo.
Si lasciò cadere sulla sedia della scrivania e aprì il telefono strabuzzando gli occhi, aveva quattro messaggi in lista, tutti appartenenti a membri della squadra.
Le tremavano leggermente le mani quando cominciò a leggerli, aveva vergogna.

 
Tani-chaannnn! Stai bene? Sei a casa sana e salva? Domani ti compro due gelati, uno alla pera e l’altro alla coca-cola! Quindi non preoccuparti, se hai bisogno di qualcosa non esitare a contattarmi! Dormi bene ^o^ La Divinità Guardiana più bella, strafiga, sensazionale, unica e super cool del mondo.
 
Tani-chan! Tutto bene? Non farmi prendere mai più uno spavento del genere hai capito? La prossima volta che quell’orango tango si permette di toccarti lo meno! Non hai nulla da temere, sistemerò quel shitty boy in un nanosecondo! ;) Trust me!
Altrimenti Kiyoko-san non mi perdonerà mai T_T
Riposa bene, ci vediamo domani. Tanaka.

 
Tani-chan, come stai? Spero tu sia tornata a casa con tranquillità! Ti prego perdonami per oggi, non avrei mai dovuto lasciarti da sola. Non avrei mai dovuto lasciare che tu andassi nell’aula di musica senza di me. Mi sono spaventata così tanto! Ti prego perdonami Tani-chan,
Non succederà più, lo giuro. Sarò sempre lì per te.
Buona notte. Hitoka.

 
Maria lesse quei tre messaggi con il sorriso sulle labbra.
Si appuntò mentalmente di rispondere una volta a letto, tutta la vergogna che aveva provato precedentemente, la paura che gli altri avrebbero potuto guardarla in maniera diversa o allontanarsi da lei sparì velocemente.
Era stata una prospettiva che Maria era sicura di non poter sopportare.
Ancora una volta ebbe la prova lampante che quei ragazzi entrati così all’improvviso nella sua vita non fossero altro che una benedizione.
L’ultimo messaggio le fece ballare il cuore nel petto, era da parte di Asahi.
Maria si rese conto in quel momento, nel silenzio della sua stanza, che se quel giorno non avesse avuto lui, non si sarebbe mai alzata da quel pavimento.
Non aveva avuto intenzione di urlare contro Daichi quando le si era avvicinato, Maria sapeva che era lui, sapeva di non dover aver paura ma era stato più forte di lei.
Il pensiero che Daichi potesse toccarla o anche solo vederla in quelle condizioni le aveva fatto provare una rabbia e un disgusto per sé stessa che non aveva saputo contenere.
Con Asahi era stato diverso.
Maria aveva sentito, in un certo senso, che con lui avrebbe potuto mostrarsi in qualsiasi modo possibile, anche quello, era sempre stato così fin dal principio.
Naturale al cento per cento senza finzione.
Strinse più forte il cellulare tra le dita e ripensò al rimprovero violento che il capitano le aveva rivolto nella palestra; Maria sapeva di esserselo meritato e quindi non aveva replicato né osato pensare di alzare la cresta, ma ad un certo punto gli era sembrato che Daichi non stesse più parlando con lei, né di lei.
Maria aggrottò le sopracciglia, avrebbe voluto che Daichi le spiegasse …
Scosse freneticamente la testa e tornò con lo sguardo sul cellulare, aprì il messaggio.

 
Ecco … non sono bravo a scrivere messaggi, sai? Sei tornata a casa? Ho ripensato tutto il tempo a quanto sia stato imperdonabile da parte mia non riaccompagnarti … Sei arrabbiata? Cioè – sì, lo capisco! È giusto. Mangia stasera, d’accordo? Vai a letto presto. Non pensare troppo. Fai solo sogni belli. Ti prometto che da domani non ti succederà più nulla. Oddio, forse è una promessa troppo grande? In effetti … Lascia stare! Ehm … buona notte.
 
P.S Ero serio prima …
 
P.P.S Ero serio anche oggi.
 
P.P.P.S Ci vediamo domani.

                          
Maria scoppiò a ridere e si portò il cellulare al petto, all’altezza del cuore, senza nemmeno accorgersi che proprio lì si trovava il cerotto che copriva il morso che Asahi aveva baciato dolcemente solamente poche ore prima.
Si sentiva come una bambina in quel momento, e non sapeva nemmeno dare un nome a tutte le emozioni che stava provando.
Gioia per aver ottenuto quello che desiderava, Asahi le aveva detto che ci avrebbe provato …
Le aveva detto di sì … Stavano insieme?!
Maria arrossì violentemente e si coprì il viso con le mani con tanto di cellulare, scuotendo convulsamente la testa per ritrovare un minimo di lucidità.
Aveva un fidanzato. Bene.
Trasse un respiro profondo e cercò di ritornare sé stessa; era quello che aveva desiderato fin da quando se n’era stata a guardare Asahi e Daichi che ripulivano quella scritta dal muro della palestra, quando aveva realizzato quello che realmente provava per entrambi.
Le possibilità che aveva visto davanti a sé erano state infinite.
Maria avrebbe finalmente potuto vedere dove sarebbe andata seguendo quella strada.
Appoggiò il cellulare sulla scrivania e si stiracchiò come un gatto, aveva intenzione di andarsi a fare una doccia calda molto lunga e riposante, che potesse aiutarla a conciliare il sonno e cancellare finalmente tutta quell’ansia e quella paura ancora attaccata alla pelle.
Fece per alzarsi dalla sedia girevole della scrivania, ma qualcuno bussò alla porta della sua stanza, per poi aprirla lentamente prima che avesse il tempo di rispondere.
Suo padre, Fujio, si affacciò sull’uscio e Maria ne rimase sorpresa.
Erano davvero rare le volte in cui suo padre si presentava nella sua stanza spontaneamente.
«Posso entrare?» domandò, Maria annuì distrattamente e rimase seduta senza muovere nemmeno un muscolo. L’uomo varcò la soglia della stanza e si guardò intorno.
Tuttavia i suoi occhi non prestarono attenzione al disordine che regnava sovrano.
Fujio sembrava stanco e terribilmente distratto; indossava una camicia azzurra un po’ stropicciata con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un pantalone nero.
Doveva essere tornato anche lui da poco dal lavoro.
Maria lo scrutò attentamente negli occhi ed una stranissima sensazione le chiuse la bocca dello stomaco; conosceva l’espressione distratta sul viso di suo padre, quel disinteresse scocciato di chi doveva dare una notizia poco piacevole …
Solitamente la metteva sempre su quando si trattava di parlare di sua …
«Oggi mi ha chiamato tua madre» disse l’uomo senza guardarla negli occhi, interrompendo immediatamente il filo dei suoi pensieri.
Maria strinse convulsamente le mani sulla gonna della divisa e arricciò il naso in una chiara espressione di rabbia e disinteresse.
«Sta venendo in Giappone. Arriva domani».
Maria rimase immobile sulla sedia.
Quella giornata sembrava non voler finire mai.

 
 
 
 
 
Ehilà gente, effe_95 a rapporto oggi ✌
Ci sono state le feste di mezzo, vero, ma visto con che capitolone siamo tornate?
Ammettetelo, vi siete messi/e paura eh? 🤭
In compenso però ... Asahi e Maria ... 👀
Che cosa ne pensate invece di Daichi e della sua strana reazione? O dell'imminente arrivo della fantomatica madre italiana, Simona?
Io vi faccio tutte queste domande, ma voi nemmeno una parolina ☹ anche se abbiamo notato con estremo piacere che l’ultimo capitolo pubblicato ha superato le 100 visite! Questo ci fa ben sperare che tutto sommato, chi legge, attende gli aggiornamenti con assiduità e partecipazione, e questo non può far altro che renderci contente.
Ad ogni modo, grazie comunque a chi legge questa ff perché ci abbiamo davvero messo anima e corpo a crearla e scriverla.
Alla prossima!
effe_95 & Flying_Lotus95

 

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Capitolo 15
*** 14- Genitori ***


14. Genitori

 
 
Tenere bene le mani sopra gli occhi
Fare duemila giri su sé stessi
Con la luce spenta, con la luce spenta

 
 
 
Simona, alla fine, era arrivata e Maria aveva perso tutta la serenità.  
Erano rare le volte in cui si era fermata in Giappone tanto a lungo da rendere la sua presenza estremamente fastidiosa; quella volta riuscì perfino a superare sé stessa.
Era stata una settimana difficile da sopportare per Maria, aveva messo a dura prova la sua pazienza già effimera, ma se aveva sopportato la presenza di quella donna chiassosa, frivola e piena di sé era stato solamente per non turbare gli altri.
Il nonno e la nonna non avrebbero voluto conflitti nella loro casa, e sebbene nutrissero per Simona un sentimento più di rancore e freddezza che d’affetto, non avevano mai mancato di ospitarla con calore e numerosi sorrisi sempre pronti su quei visi stanchi e segnati.
Maria aveva creduto che sarebbe stato semplice e indolore come tutte le altre volte.
Simona arrivava, portava confusione, parlava troppo ad alta voce con quel suo giapponese scorretto, gesticolava attirando l’attenzione delle persone e le piaceva; camminava con i suoi vestiti firmati per strada parlando solo di sé stessa e poi andava via.
Un uragano che distruggeva tutto sulla sua strada, senza preoccuparsi di quello che si lasciava dietro una volta sparita nuovamente da qualche parte.
Non era andata diversamente nemmeno quella volta, ma arrivata al venerdì Maria sentiva di non poter sopportare un altro giorno come quelli appena trascorsi.
Simona aveva sempre evitato di interagire troppo con lei e Maria poteva anche capirne il motivo; doveva essere difficile interagire con una figlia che non aveva mai davvero amato.
Era stato un po’ come se a partorirla fosse stata un’altra persona, una persona che Simona non conosceva, una persona che credeva di essere stata in passato, ma che aveva lasciato inevitabilmente il posto a quella nuova sé stessa che aveva voluto costruire con tutte le forze. Anche al prezzo di essere odiata da carne della sua carne.
Quando era più piccola Maria aveva amato farsi stringere tra quelle braccia calde.
Aveva amato sentire le mani protettive di Simona accarezzare e pettinare i suoi capelli di bambina, aveva amato addormentarsi in quel futon accanto a lei, aveva amato ascoltare le sue storie e i suoi baci sulla fronte prima di addormentarsi.
Simona ci aveva provato, non lo si poteva negare, aveva provato ad amarla come una madre.
L’aveva fatto per i primi tre, quattro anni della sua vita; poi era stato troppo.
Fujio aveva chiesto troppo; Maria era stata troppo.
Erano cominciati in quel modo quei viaggi in Italia per lavoro, all’inizio sporadici, solamente di alcuni giorni e poche volte all’anno; poi sempre più frequenti, fino a quando il tempo trascorso in Giappone con sua figlia ed il suo migliore amico era diventato inferiore a quello che trascorreva in Italia a fare chissà cosa e con chissà chi.
Maria aveva un ricordo abbastanza nitido di una discussione accesa che nonno Akio aveva avuto con Fujio durante uno dei lunghi periodi d’assenza di Simona, aveva all’incirca cinque anni e non riusciva a dormire.
Il nonno era arrabbiato, anche il papà lo era.
Maria ricordava le loro facce scure, il tono di voce altero.
«Quella donna non tornerà più Fujio! Senti a me!».
Quella frase il nonno l’aveva detta rabbiosamente, con quel suo modo burbero, Maria non ricordava che cosa avesse risposto suo padre, ricordava solamente di aver provato un’angoscia profonda che le aveva stretto il petto in una morsa soffocante. Ricordava di essere corsa a letto per infilarsi sotto le coperte, premere le orecchie tra le mani, ripetendo in continuazione tre parole come un mantra, sperando che funzionasse.
Non è vero, non è vero, non è vero, non è vero …
Purtroppo, non aveva funzionato.
Simona aveva smesso davvero di tornare, era stata una cosa graduale, quasi la donna stessa avesse voluto abituarli a quella novità lentamente, di modo che l’accettassero con serenità.
Maria si era abituata a fare tutte quelle cose che prima faceva con sua madre da sola.
Tutto sommato l’aveva presa con estrema tranquillità, Simona era diventata un’estranea per lei, una persona fastidiosa che non sapeva come prenderla in braccio, né come toccarla, né come comportarsi con lei. Una persona fastidiosa che andava ogni tanto a trovarla.
Una persona da cui aveva ereditato quegli occhi grandi e azzurri, quel viso occidentale; una persona che l’aveva lasciata da sola ad affrontare quella sua diversità, senza spiegarle che le cose non dovevano andare in quel modo, senza spiegarle che era sbagliato sentirsi così.
Odiarla era stato troppo semplice e scontato.
Qualcosa si era rotto inevitabilmente tra i continui viaggi in Italia di Simona e la crescita solitaria di Maria, qualcosa che non avrebbe mai trovato un posto in quel macello di frammenti e cocci rotti che nessuno si sarebbe preso la briga di riparare.
Fujio, una volta forse l’avrebbe fatto, ma anche lui doveva essersi stancato da tempo.
Maria si era chiesta tante volte se si era pentito di aver insistito, quando era troppo giovane per capire cosa significasse, affinché Simona mettesse ugualmente al mondo quella bambina nata da una notte di follie, dall’affetto sicuramente, ma non certo dall’amore.
Maria era sicura che Fujio e Simona c’avessero provato a modo loro.
Il fallimento era, semplicemente, scontato.
Nessuno dei due aveva dovuto pensare che provarci solamente non fosse affatto sufficiente, non quando l’unica vittima di quel tentativo, di quel gioco, sarebbe stata la loro stessa figlia.
Quella figlia messa al mondo per vedere come sarebbe andata a finire.
Se va tutto bene avremo la nostra famiglia felice, con la nostra bambolina da coccolare.            
Se va male, andiamo ognuno per la propria strada, la bambolina la possiamo abbandonare.
Erano stati forse quelli i pensieri che avevano animato i suoi genitori?
Pensieri di due ragazzi di appena ventitré e ventiquattro anni.
No, forse suo padre non l’aveva mai pensata una cosa del genere, forse Fujio, dietro quegli sguardi distanti e annoiati, dietro il vuoto che aveva lasciato Simona, non aveva mai pensato nulla del genere. Tuttavia, quelli dovevano essere stati per certo i pensieri di sua madre.
Arrivata a quell’età, Maria aveva creduto davvero di poter sopportare quella farsa.
Aveva perfino pensato di dire chiaramente a Simona che non c’era bisogno tornasse a trovarla, Maria non aveva bisogno di lei, e tutto quello che avrebbero potuto essere era semplicemente scivolato via tra l’indifferenza e la lontananza.
Ad ogni modo, nessuno si sarebbe assunto le proprie colpe in quella storia.
Maria aveva immaginato che la settimana sarebbe stata dura, aveva segretamente sperato che andando a scuola la mattina, passando il tempo con i ragazzi del club, con Asahi per abituarsi a quella nuova condizione che ancora non riusciva a fare sua, sarebbe passato tutto molto velocemente, come un incubo nascosto dietro un battito di ciglia.
Si era enormemente sbagliata e faceva fatica perfino ad ammetterlo a sé stessa.
Simona era stata talmente presente nelle sue giornate da farle dimenticare perfino l’orrore che aveva provato per colpa di Takumi, Maria non era riuscita a godersi nemmeno la premura inaspettata dei suoi compagni di squadra, Nishinoya e Tanaka in primis, che la seguivano sempre dappertutto con la scusa di farle compagnia.
Soprattutto, non aveva avuto un secondo solo per stare con Asahi a cercare di capire insieme cosa davvero significasse essere fidanzati.
No, Simona era arrivata e aveva preteso la sua attenzione totale.
Aveva pensato che portarla in giro a fare shopping, comprarle cose inutili e parlare esclusivamente di sé stessa sarebbe stato sufficiente per adempiere al suo dovere di madre.
Aveva creduto, ancora una volta, che andasse tutto bene.
Maria l’aveva seguita tutti i pomeriggi, l’aveva portata dappertutto e aveva sopportato solamente perché erano stati i nonni a chiederglielo. Ogni volta, durante la cena, non poteva sfuggire in alcun modo allo sguardo di nonno Akio, uno sguardo che sapeva parlare molto più di mille discorsi o rimproveri o parole completamente inutili.
Sopporta, andrà via anche questa volta.
Non avevano delle vere e proprie conversazioni, Simona parlava un ottimo giapponese, ma ogni tanto le piaceva anche mischiare le due lingue quando si rivolgeva a lei.
Era una cosa che Maria non aveva mai sopportato, l’unico motivo che aveva di saper leggere o capire qualcosa di quella lingua era per comprendere i suoi tanto amati spartiti.
Ad ogni modo, l’unica cosa che avevano ricavato da tutto quello, era stato che Maria non doveva assolutamente chiamare Simona “mamma” perché l’avrebbe fatta sembrare vecchia.
Un tempo, quelle parole pronunciate con allegria infantile da quella donna che non voleva crescere e che pensava solamente alla carriera, le avrebbero fatto male.
Dopo più di dieci anni l’unica cosa che Maria riuscì a fare fu scuotere le spalle con assoluto disinteresse e assecondare quell’ennesima follia senza farsi troppe domande scomode.
Doveva solamente portare un altro po’ di pazienza e quella situazione sarebbe finita, Simona sarebbe sparita nuovamente, possibilmente per altri lunghi e sperati sei mesi.
Maria era persa in quei pensieri scomodi quando sentì qualcuno picchiettarle la spalla.
Sollevò distrattamente gli occhi e per un istante la figura grande e grossa di Asahi offuscò la luce del sole che le aveva riscaldato il viso fino a solamente un istante prima.
Asahi se ne stava davanti a lei, la schiena leggermente curva per guardarla, le mani nelle tasche dei pantaloni della divisa; sorrideva gentilmente e sembrava sereno.
Non era mai capitato che si incontrassero sul tetto della scuola per l’ora di pranzo.
In realtà, quella settimana avevano avuto talmente poco tempo per stare un po’ da soli a cercare di capire che cosa stesse realmente succedendo tra di loro, che non avevano avuto il tempo di decidere se pranzare insieme o meno, a come fare attenzione con gli altri.
Maria si era ritrovata quella mattina, semplicemente, a mandare ad Asahi un messaggio per chiedergli se gli andava di pranzare con lei sul terrazzo; perché aveva come la sensazione che se non si fosse fermata anche solo per un secondo sarebbe impazzita.
Voleva vedere il volto di Asahi per tranquillizzarsi.
Per cercare un punto fisso e stabile in tutto quel turbinio che aveva portato Simona.
Con una scusa ben elaborata aveva avvisato Hitoka che non ci sarebbe stata per pranzo e aveva aspettato lì che Asahi arrivasse, pazientemente.
«E’ successo qualcosa?» le domandò lui lasciandosi cadere seduto accanto a lei.
Il muro alle loro spalle era caldo per il sole cocente, che riusciva a raggiungere anche lo spicchio d’ombra che Maria si era ritagliata con estrema fatica.
«Ti ho preparato il pranzo!» annunciò lei con aria solenne.
Asahi sollevò un sopracciglio e la osservò con attenzione, mentre gli appoggiava un bento perfettamente infiocchettato sulle gambe, con tanto di bacchette usa e getta sigillate e avvolte in un tovagliolino tutto fronzoli.
L’asso cercò di non pensare troppo al fatto che Maria doveva essersi svegliata all’alba per prepararlo con tanta cura; in realtà, da quando ne avevano parlato in infermeria quasi una settimana prima, nessuno dei due aveva più accennato alla questione.
Avrebbe significato far riaffiorare ricordi che, seppure misti ad attimi di gioia, entrambi avrebbero voluto cancellare velocemente perché troppo freschi e spaventosi.
Asahi si limitò allora a sciogliere il fiocco ed osservare con occhi sorpresi il modo composto ed ordinato con cui Maria si era impegnata a sistemare tutto il cibo in ogni apposito spazio.
«Mi sono esercitata tutta la settimana!» commentò con aria fiera, mentre si apprestava a sua volta ad aprire il suo bento, meno elaborato e decisamente molto più rozzo.
Asahi aveva appena separato le bacchette quando un pensiero lo colse alla sprovvista.
«Tutta la settimana? Ma hai dormito come si deve?» le domandò con un filo di voce.
Maria scrollò le spalle e si infilò una frittatina in bocca con troppa energia.
Asahi sospirò pesantemente e si mise seduto meglio contro il muro per poterla guardare in faccia, dandole tutta la sua attenzione Maria non sarebbe potuta scappare da nessuna parte.
«Ho dormito abbastanza» replicò, continuando a mangiare con aria stizzita.
Asahi sospirò nuovamente e si grattò la nuca con fare rassegnato.
Era stato frustrante anche per lui poter parlare con Maria solamente tramite messaggio in quei giorni. Da quando si erano salutati in palestra quel famoso pomeriggio, non avevano passato un solo minuto da soli. Il club non contava, potevano scambiarsi solamente poche parole in quelle occasioni, di stare da soli tuttavia non se n’era parlato nemmeno per scherzo. Asahi si era ritrovato a pensare che dopotutto potevano almeno vedersi tutti i giorni, lamentarsi non era proprio nella sua natura in ogni caso.
Tuttavia, per Maria quella settimana doveva essere stata piuttosto pesante.
E lui non c’era stato un granché.
«Dovresti essere contenta di poter passare del tempo con tua madre, Maria».
Replicò lui con aria paziente, continuando a fissare ostinatamente il suo profilo.
Maria si imbronciò istantaneamente e gli rivolse un’occhiataccia tremenda, una delle migliori del suo intero repertorio, che peggiorò quando si rese conto che il ragazzo non aveva ancora toccato il suo pranzo.
«Asahi, non dire sciocchezze! Hai idea di che vuol dire sopportare quella donna? Mangia piuttosto, non ho mica cucinato con tanta cura per nulla!».
Per non contrariarla ulteriormente Asahi si affrettò a prendere a sua volta una frittatina e infilarla in bocca alla velocità della luce, rimase sorprendentemente stupito quando un sapore dolcissimo gli accarezzò il palato.
«Allora?» domandò Maria con finto disinteresse, sembrava quasi che il suo giudizio non le importasse molto, ma la pelle pallida del viso era leggermente arrossata sugli zigomi.
Asahi represse un sorriso e continuò a mangiare con interesse, rendendo chiaro il responso.
L’umore di Maria sembrò, di conseguenza, migliorare, così rimasero a mangiare in silenzio per un po’, godendosi la luce del sole sul viso, lo schiamazzo che veniva dal cortile, una piacevole brezza fresca che ogni tanto tornava ad accarezzare i loro corpi intiepiditi e a godere della presenza l’uno dell’altra.
«Comunque dicevo davvero, Maria» Asahi tornò all’attacco solamente una volta che ebbero messo i bento vuoti da parte all’interno della cartella che la ragazza si era portata dietro quella mattina. Il suo era stato un colpo basso, ma ormai stava cominciando ad imparare le regole di quel gioco intrapreso solo pochi mesi prima con Maria.
«Lo sai che non la sopporto» mugugnò Maria tirandosi le ginocchia al petto.
Era vero, Asahi lo sapeva bene, Maria gliel’aveva gridato con forza un giorno non troppo lontano che nessuno dei due avrebbe mai dimenticato, per le conseguenze enormi che aveva comportato per entrambi.
Lui non aveva chiesto altro, ma era stato facile capire.
«Lo so» replicò di rimando, mettendosi seduto in modo tale da poterla guardare in faccia, per riflesso anche lei gli si mise più vicina «Ma la tua è comunque una fortuna» continuò il ragazzo, sporgendosi leggermente in avanti senza nemmeno rendersene conto.
Non si toccavano da talmente tanto tempo che avevano entrambi timore di farlo.
«Potresti pentirtene un giorno. Potresti ripensare a tutte quelle cose che avresti potuto fare e dire, a quelle che invece hai fatto e detto e non avresti voluto … Farà male. E non voglio che te ne faccia, perciò pensaci bene. D’accordo?».
Maria aveva scoperto, in modo del tutto sorprendente, che quando Asahi le parlava con quel tono di voce basso, esponendole i suoi pensieri senza imporglieli, nascondendo il riflesso di Hajime dietro una patinatura ben nascosta che aveva permesso solo a lei di attraversare, il suo animo trovava una strana predisposizione all’ascolto.
Come se qualsiasi problema potesse avere una soluzione.
Come se anche un vaso fatto in mille pezzi potesse ritrovare la sua forma, in qualche modo.
«Va bene» si ritrovò a mormorare, improvvisamente comprensiva.
Asahi le prese le mani con esitazione, accarezzandole il dorso con le dita come se le stesse chiedendo silenziosamente il permesso, aveva le mani grandi, ruvide e piene di calli, calde.
Erano talmente grandi che quelle di Maria, piccole, ossute e pallide, ne coprivano giusto i palmi; quando Asahi gliele strinse sparirono totalmente alla sua vista.
Era bello potersi toccare in quel modo dopo tanto tempo, era naturale e piacevole.
«C’è una cosa che volevo chiederti» mormorò Maria dopo un po’, mentre continuava a fissare le loro mani giunte, e le gambe che avevano incastrato tra loro senza nemmeno rendersene conto per farsi ancora più vicini «Si tratta di Daichi».
Asahi sembrò irrigidirsi immediatamente nel sentire quel nome, ma non la frenò.
«Sai, noi …» cominciò Maria, per poi incespicare un po’ «Da quel giorno non abbiamo più parlato di cosa è successo in palestra. Della sua sfuriata, insomma. Abbiamo pensato di comune accordo che non fosse il caso di parlarne, e poi non c’era molto da dire … ma -».
Maria si interruppe di nuovo e sollevò lo sguardo all’improvviso, determinata.
«Ho avuto l’impressione che quel giorno lui non stesse rimproverando me!».
Asahi non rispose, Maria lo guardò con insistenza cercando uno sguardo che lui non le negò.
«Ho ragione?» continuò ad incalzarlo lei «C’entra qualcosa Michimiya?».
Asahi non seppe da dove arrivò tanta fortuna, ma proprio in quel momento suonò la campanella di fine pranzo e inizio delle lezioni pomeridiane.
Una campanella che mise fine al terribile mostro che gli stava nascendo nel petto.
Daichi, Daichi, ancora Daichi?
Prima che Maria potesse contestare, si chinò in avanti e le regalò un bacio a fior di labbra lasciandola completamente basita, poi saltò in piedi come un grillo.
«Devo scappare, ci vediamo in palestra. Grazie per il pranzo!».
La salutò con una mano e sparì ben presto oltre le scale, con troppa fretta.
Asahi sapeva che Maria gliel’avrebbe fatta pagare in qualche modo, ma non poteva dirle nulla di quella storia, non poteva dirle che, si, Michimiya c’entrava eccome.
Non poteva nemmeno dirle che non gli andava bene.
Non gli andava affatto bene parlare con lei di Daichi.
Non gli andava bene, e non si sopportava affatto per quel sentimento terribile.
 
«Maria! La tavola!».
All’ennesima strillata del nonno, Maria si ritrovò a sollevare gli occhi al cielo.
Era al telefono con Kiyoko solamente da una ventina di minuti e l’uomo non aveva fatto altro che rivolgerle occhiatacce e frecciatine per tutto il tempo, facendo un gran chiasso con pentole e tegami in quella cucina già piccola e straordinariamente caotica.
Maria non riusciva a capire perché dovessero darsi tanto da fare per quella cena.
Il giorno seguente, nel pomeriggio, Simona se ne sarebbe finalmente tornata in Italia.
E non meritava di certo che Mariko e Akio si affaticassero tanto per lei.
Seduta sul piccolo portico di legno che dava sul giardino interno, quello dove il nonno ci faceva crescere le piante di limone e gli aranci con tanta fatica, Maria cercava di ignorare l’ottimo odore dei manicaretti che la nonna si era premurata di preparare fin dall’alba.
Quando le aveva chiesto la sera precedente di darle una mano, Maria si era rifiutata.
Pentendosene immediatamente il secondo successivo quando aveva immaginato tutta la fatica che avrebbe fatto la nonna a svegliarsi prima che il sole sorgesse per preparare tutto.
Tuttavia non era tornata sui suoi passi.
Non avrebbe mosso un solo dito per Simona, nemmeno per aiutare i nonni.
Erano ragioni che lei non riusciva proprio a capire, quelle che spingevano Mariko e Akio a comportarsi con quella donna con affetto e gentilezza, sebbene non lo meritasse affatto.
Maria poteva capirle, ma non riusciva ad accettarle.
Non lo avrebbe fatto mai.
«Arrivo, arrivo!» sbottò con voce annoiata, rivolgendo al nonno un’occhiata accompagnata da un gesto della mano piuttosto eloquente; di puro fastidio.
Le piaceva starsene seduta sul tatami di legno con la brezza estiva sulla faccia.
- Perché non vai ad aiutare i tuoi nonni, Maria-chan? -
La voce di Shimizu, dall’altro lato del telefono, era tranquilla e paziente, sebbene fosse assolutamente evidente che l’umore di Maria era nero come il carbone.
«Non mi va! Non voglio fare niente per quella donna» sbottò scocciata.
Schiacciò distrattamente una zanzara che aveva avuto l’ardire di posarsi sul suo braccio scoperto e scacciò malamente il gatto randagio del quartiere, che andava sempre ad infilarsi
nel loro giardino le sere di estate quando sentiva il buon profumo che usciva dalla cucina.
- Maria - la rimproverò pazientemente Kiyoko - Fallo almeno per tuo padre. Lui ci tiene”- .
Maria sbuffò sonoramente ma non replicò subito, fissando con occhi assenti il micio che gironzolava attorno ad un albero di limoni; sapeva che suo padre ci teneva.
Fujio ci aveva sempre sperato infondo, che Simona decidesse di restare prima o poi.
Era per lui che il nonno e la nonna si sforzavano in quel modo, ed era sempre per lui che non dicevano nulla e non si lamentavano mai; certo, il nonno lo faceva, ma tra i denti.
«Per colpa sua non posso nemmeno vedere Asahi come si deve! Quindi non riesco proprio ad essere comprensiva, Kiyoko-san!» replicò acidamente Maria.
«Maria! La tavola!».
Sbottò nuovamente Akio, che proprio in quel momento era passato dietro di lei trascinando con sé una pentola piena di riso; Maria trovò davvero sorprendente il fatto che il nonno avesse avuto proprio il tempismo perfetto per sentire il nome di Asahi uscire dalla sua bocca. 
«Sta parlando con quel delinquente Mariko-chan, me lo sento!».                                                 
Grugnì infatti l’uomo a voce troppo alta, quasi volesse farsi sentire intenzionalmente dalla nipote. Maria alzò gli occhi al cielo per l’ennesima volta, ignorando completamente quello che Shimizu le stava dicendo al telefono, perché troppo impegnata a rivolgere al nonno una di quelle occhiatacce che le uscivano meglio.
«Lasciala in pace Akio-kun!» lo prese bonariamente in giro Mariko, dando una gomitata nel fianco del marito, aveva tutte le mani impiastricciate di riso e condimenti vari.
- Mi stai ascoltando, Maria-chan? - la distrasse Kiyoko.
«Si …» replicò Maria mentendo spudoratamente, se il cellulare non avesse preso la linea piena solo in cucina, se ne sarebbe andata a parlare da qualche altra parte sicuramente.
«Ti dico che sta parlando con quel yakuza dell’altra volta! L’ho sentita!» insistette l’uomo borbottando a tutto spiano, Maria gli diede le spalle, ma sentì ugualmente lo sguardo perforante e minaccioso del nonno dietro la nuca, esasperante.
«Oh! E smettila Akio-kun!» sbottò Mariko con voce più ferma.
Akio incassò l’occhiataccia della moglie con un certo contegno, poteva sembrare anche mortificato in un certo qual modo, ma di certo non doveva esserlo molto, perché tornò alla carica quasi immediatamente.
«Kiyoko-san, lo sai che-»
«MARIA! LA TAVOLA!» Strillò l’uomo con voce talmente potente che Maria si lasciò scappare il telefono di mano, che atterrò con estrema fortuna sulla gonna azzurra che indossava quella calda sera d’estate «Smettila di parlare con quel delinquente e aiutaci!».
Maria tentò di respirare profondamente per contenersi, non ci riuscì.
«Ma quale delinquente, nonno?! Sto parlando con Kiyoko-san!» replicò con voce ancora più alta dell’uomo, Akio sollevò un sopracciglio e incrociò le braccia al petto.
«Pensi che sia nato ieri?» la rimbrottò con aria di chi la sapeva lunga.
Maria sollevò un sopracciglio a sua volta e un sorrisetto birichino le increspò le labbra, allontanò la cornetta dall’orecchio e schiacciò con aria trionfante il tasto del vivavoce.
«Kiyoko-san, saluta i nonni» disse ad alta voce con aria tronfia, dall’altro lato del telefono Shimizu non replicò immediatamente, doveva essere rimasta sorpresa.
- Buonasera Akio-san, Mariko-san - salutò poi educatamente.
Maria osservò con estrema soddisfazione l’espressione contrita del nonno, perfino Mariko tentava di non ridere sotto i baffi, lo sguardo fermo sulle pietanze che aveva appena terminato di preparare.
«B-buonasera Kiyoko-chan» brontolò l’uomo, cominciato a sistemare la tavola.
La vergogna doveva averlo indotto anche a rinunciare al tentativo di forzare Maria.
La ragazza sorrise soddisfatta e tolse il viva voce, riportando la cornetta all’orecchio.
«Hai visto, nonno? Non sto parlando con chi credi tu!» lo rimbeccò come una bambina capricciosa, Akio era scuro in faccia, ma Mariko riuscì ad intravedere controluce un sorriso leggermente accennato increspargli le labbra.
- Sei troppo infantile Maria-chan - Maria scoppiò a ridere e decise di inoltrarsi nel giardinetto, anche se la linea non era proprio il massimo e si sentiva ad intermittenza.
Mentre sistemava la tavola, Akio la seguì con lo sguardo finché non sparì nell’oscurità.
«Ultimamente la vedo proprio strana!» borbottò tra sé e sé, sistemando i bicchieri.
Mariko, che era intenta a lavare le stoviglie che aveva appena utilizzato, lo guardò solamente per un secondo prima di tornare a svolgere fermamente il suo lavoro.
«Sarà così per la presenza di Simona, no?» disse con naturalezza, macchiandosi gli avambracci di sapone «Maria diventa sempre strana quando c’è sua madre».
«No, no» brontolò Akio, tirandosi faticosamente in piedi «È nervosa, è vero. Ma è un tipo di nervosismo positivo! È agitata, ma non di quell’agitazione ansiosa … è agitata come se volesse strafare!» terminò il vecchio prendendo ad asciugare le stoviglie che la moglie aveva lasciato gocciolare sul piano del lavello, Mariko aprì la bocca per replicare qualcosa, ma proprio in quel momento sentirono la porta di casa aprirsi rumorosamente.
Fujio era andato a prendere Simona nell’albergo a cinque stelle in cui alloggiava.
Il profumo costoso che indossava riempì immediatamente e in modo spiacevole il piccolo ambiente, coprendo perfino quello delizioso del cibo preparato con estrema cura.
Mariko e Akio smisero di fare quello che stavano facendo e si ricomposero in silenzio.
Simona comparve sulla porta della cucina per prima.
Indossava un completo talmente costoso e raffinato da sembrare estremamente fuori luogo in quell’ambiente caotico dalle pareti ingiallite e vecchie; quando Maria rientrò dal giardinetto, allarmata dalla voce fastidiosa di sua madre, trovò quella scena davvero orribile.
I suoi nonni, persone semplici che avevano lavorato tutta la vita per guadagnarsi da vivere, sembravano due mentecatti al confronto, vecchi, curvi e con i vestiti consumati.
Maria sbuffò sonoramente ed entrò in cucina per rompere quel silenzio imbarazzante.
«Buonasera!» cantilenò allegramente Simona, chinandosi in avanti per baciare sia Mariko che Akio sulla guancia, com’era abitudine in Italia.
«Ho portato del vino!» continuò con fare giulivo, sottraendo dalle mani di Fujio, appena apparso dietro di lei, la bottiglia del costoso vino italiano che doveva aver comprato lungo la strada.
«Non c’era bisogno di disturbarsi» borbottò Akio con voce leggermente imbronciata.
Simona sembrò non farci troppo caso, gli piazzò la bottiglia tra le mani e guardò Maria.
«Oh, ecco la principessa di casa!».
Maria detestava sentirsi chiamare in quel modo, l’aveva sempre detestato.
Simona si protese in avanti per baciare anche lei con quelle labbra tinte di rosso; Maria si spostò verso la tavola prima che potesse anche solo sfiorarla con quelle dita curate piene di anelli costosi, il suo profumo era troppo forte e non l’avrebbe sopportato se si fosse attaccato sui suoi vestiti per tutta la sera. Le sarebbe venuto sicuramente un gran mal di testa.
«Ho fame» si limitò a dire, mettendosi seduta attorno al tavolo imbandito.
Ci fu un silenzio prolungato di alcuni secondi che caricò l’aria di imbarazzo, Maria sentì distintamente lo sguardo di suo padre addosso, e trovò irritante che Fujio decidesse di riprendere vita solamente quando Simona si faceva viva in carne ed ossa.
«Oh, ma che tavola meravigliosa!» commentò la donna per spezzare la tensione.
Funzionò, gli adulti si misero seduti attorno al tavolo facendo più rumore possibile.
Riuscirono a mangiare per un po’ chiacchierando amabilmente del più e del meno.
Maria ripensò con insistenza al cellulare che aveva infilato nella tasca della gonna quando aveva chiuso la conversazione con Shimizu, e desiderò sentire la voce di Asahi.
Scacciò quel pensiero dalla testa e si concentrò sul cibo nel suo piatto.
«Mia principessa, hai aiutato tua nonna a preparare queste prelibatezze?».
Maria ci mise un po’ a capire che quella domanda era rivolta a lei, fu una gomitata del nonno a farle riportare l’attenzione sulla conversazione che gli adulti avevano intrattenuto fino a quel momento, doveva aver riguardato il cibo evidentemente.
«No» si limitò a replicare Maria e ignorò bellamente l’occhiata scura di suo padre.
«Oh, siccome Mariko-san mi aveva detto che avevi cominciato a cucinare tutte le mattine, pensavo che -»
«Cucino solo per le persone a cui tengo».
Cadde nuovamente il silenzio attorno al tavolo, Maria continuò a mangiare senza davvero guardare nessuno in faccia, le bacchette appoggiate sulle labbra mentre decideva se prendere la porzione più piccola oppure quella più grande.
«Non è ancora molto ferrata con i fornelli, fa la modesta …».
Mariko pronunciò quelle parole con un tono di voce basso, ma nel silenzio suonò abbastanza convincente, Simona rivolse a Maria uno sguardo gelido come i suoi occhi.
«Tuo padre mi diceva che sei entrata nel club di pallavolo del tuo liceo. Com’è fare la manager?» insistette la donna forzando un sorriso gentile. Maria la guardò.
«Sto mangiando adesso» replicò «Hai avuto tutta la settimana per farmi queste domande. Avresti potuto pensarci prima, invece di parlare solo di te e di cose che non mi interessavano affatto. Come la tua vita in Italia, per esempio».
«Maria!».
Fermare l’invettiva che le stava lentamente salendo alle labbra risultò difficile, ma lo sguardo che Fujio le rivolse e il suo tono di voce, un tono talmente freddo che non gli aveva mai sentito, servirono a farla desistere dal proposito di scatenare una tragedia.
Era andata troppo oltre, se avesse continuato su quella linea, Maria avrebbe tirato fuori qualcosa che nessuno aveva mai osato dire ad alta voce, una storia che era stata scritta dalle persone presenti in quella stanza, ma che nessuno aveva mai voluto rileggere.
Chiuse gli occhi, sospirò profondamente.
Il nonno le strinse con forza la caviglia sotto il tavolo.
«Prova questi Simona-san, vengono da …».
Le parole di nonna Mariko si persero nella stanza, ovattate alle sue orecchie, lontane.
Appoggiò le bacchette sul suo piatto e si tirò in piedi sotto lo sguardo di tutti.
«Ho bisogno di usare il bagno» disse, voleva allontanarsi, perché era sicura che se fosse rimasta in quella stanza con Simona ed il suo sguardo lezioso ma finto anche solo per un altro secondo, sarebbe impazzita dalla rabbia.
E a quel punto nemmeno suo padre avrebbe potuto frenare la sua lingua.
Maria non andò in bagno, si chiuse nella sua stanza, l’appetito completamente sparito.
Passarono solamente una ventina di minuti prima che il nonno bussasse alla porta.
Maria sapeva che si trattava di lui ancora prima che l’uomo entrasse nella camera in silenzio,
senza aspettare un invito che, anche nel qual caso fosse stato negativo, non l’avrebbe comunque fermato dal proposito che si era messo in testa.
«Stiamo per prendere il dolce» esordì l’uomo sedendosi sul letto accanto alla nipote.
Maria si limitò a fare spallucce e guardare altrove, gli occhi fissi sul cellulare.
«La nonna ha fatto i mochi, sai? Li ha fatti per te».
Li ha fatti perché sa che ti mettono sempre di buon umore.
Akio non pronunciò quelle parole, ma fu come se Maria le avesse udite distintamente, sospese nel silenzio che seguì: i silenzi del nonno erano sempre stati incisivi per lei.
Avevano saputo colpirla molto più di mille parole inutili.
«Lo so che è difficile» e nel pronunciare quelle parole Akio le accarezzò rudemente la testa con dei colpetti un po’ impacciati, proprio come faceva quando era bambina.
«Vorrei cacciare quella donna a calci da casa mia! Lei e quell’odore nauseabondo che si porta dietro, quelle scarpe firmate e tutti quei fronzoli lì! Ma non si può».
Maria strinse forte i pugni sulla gonna e si morse il labbro inferiore, non aveva ancora proferito parola e probabilmente non l’avrebbe nemmeno fatto.
Parlava sempre poco quando il nonno si apriva in quel modo con lei.
«Non posso farlo Mari-chan. Non posso farlo per mio figlio, lo capisci no? È anche tuo padre dopotutto, forse, tu lo capisci addirittura meglio di me. Andrà via, devi solamente avere un po’ di pazienza» Akio si interruppe e rimase in silenzio per un po’, meditabondo.
Passarono solamente pochi istanti prima che si tirasse in piedi sbuffando sonoramente per lo sforzo e i dolori, Maria notò un dettaglio davvero fuori luogo in un momento come quello, ma gli sembrò che la schiena del nonno si fosse incurvata ancora di più nelle ultime settimane.
«Bene!» borbottò l’uomo massaggiandosi i reni «Dirò alla nonna di mettere il dolce da parte per te, allora» E si avviò verso la porta ciabattando sul pavimento.
Maria si perse in quel rumore familiare solamente per alcuni istanti, prima che Akio avesse raggiunto la porta, era già dietro di lui per seguirlo.
«Scendo a mangiarlo con voi».
Non furono aggiunte altre parole.
 
 
Nella piccola cucina caotica, Fujio non si era mai sentito tanto fuori luogo.
Non aveva capito perché Simona si fosse offerta di aiutarlo a lavare i piatti, lei che detestava sporcarsi le mani curate, o rischiare di spezzarsi un’unghia smaltata di fresco.
Era qualcosa che non avevano mai fatto insieme, nemmeno nel lungo periodo in cui avevano condiviso l’appartamento, quando erano solamente due ragazzi ai tempi dell’Università.
La loro era sempre stata una strana amicizia, Fujio era stato attratto immediatamente dalla vitalità allegra di Simona, dalla sua follia e spensieratezza, dalla sua diversità.
Le era sembrata una ragazza di ampie vedute, di mentalità aperta, vogliosa di vivere e desiderosa di voler conquistare il mondo con le sue sole forze, seguirla in quella follia era stata davvero semplice per lui.
Erano giovani, erano liberi.
Ma erano passati davvero troppi anni da quei giorni, talmente tanti che Fujio aveva come la sensazione di non riconoscere la donna che aveva accanto in quel momento.
Quella donna fatta e finita, alta, magra, elegante, con quei suoi capelli biondi come il grano sempre ben curati, gli occhi truccati e nessuna ruga sul viso.
Simona aveva sempre avuto quel lato nascosto dentro di sé, anche all’epoca.
Per lui era semplicemente stato più facile far finta di non vederlo.
Fujio si era domandato spesso se aveva provato davvero qualcosa per lei.
L’aveva creduto nei primi tempi, quando avevano provato a far funzionare le cose per il bene di Maria.
L’aveva creduto anche quando Simona aveva cominciato a sparire.
L’aveva creduto perfino quando gli aveva detto che non sarebbe tornata per restare.
Fujio aveva dovuto affrontare quella nuova Simona fin da quando avevano scoperto di aspettare Maria, fin da quando lei, con occhi tranquilli e sereni, gli aveva detto che aveva intenzione di sbarazzarsi di quel bambino come fosse stato spazzatura.
Fujio aveva tentato strenuamente di convincerla, e ce l’aveva fatta, Maria era lì, con loro.
Aveva creduto di avere ancora potere sulla vecchia Simona in qualche modo, quella Simona spensierata e giovane che l’aveva tanto affascinato, con cui aveva stretto un’amicizia strana ma profonda, prima che tutto si consumasse tra alcool e fumo.
Era stata una sciocca illusione la sua, solamente una stupida speranza.
Quella vecchia Simona non era mai esistita, semplicemente, lui non era stato capace di vederlo, non era stato capace di accettarlo.
Simona aveva partorito Maria solamente per fargli un piacere.
L’aveva partorita, ma non era mai stata capace né di amarla, né di toccarla.
Perché era lui, per primo, che non aveva mai amato.
Fujio quelle cose le aveva imparate solamente con il tempo, era stato difficile farlo mentre sua figlia cresceva giorno dopo giorno, quasi volesse essere un monito ai suoi errori.
Tuttavia, se c’era una cosa in quella storia di cui Fujio non si sarebbe mai pentito era proprio quella, l’aver insistito tanto affinché Simona mettesse al mondo quella creatura meravigliosa.
Se Fujio aveva mai avuto il sospetto di non essere in grado di amare, era stato smentito meravigliosamente da Maria, da quella ragazzina impertinente che gli somigliava troppo.
Le cose tra lui e Simona potevano non essere andate come aveva voluto, poteva essere stato ingenuo, stupido, cieco, troppo fiducioso, ma tutto sommato non era rimasto a mani vuote.
Aveva Maria, gli sarebbe bastato per sempre.
«Ho un nuovo compagno in Italia».
Fujio non si sorprese nemmeno quando sentì quelle parole.
Conosceva quella donna talmente bene da esserselo aspettato per tutto il tempo, fin da quando Simona aveva annunciato che sarebbe venuta a trovarli, Fujio aveva capito.
Aveva capito che c’era qualcosa sotto, che non era venuta per Maria.
Non era mai tornata per lei, non sarebbe stato diverso nemmeno quella volta.
«É una cosa seria. Andremo a convivere insieme la settimana prossima».
Fujio poteva sentire lo sguardo di Simona fisso sul suo profilo, ma era passato il tempo in cui quelle parole avrebbero potuto fargli qualsiasi effetto, perciò si limitò a scrollare le spalle e continuare a lavare i piatti meticolosamente, con la camicia arrotolata attorno ai gomiti e gli avambracci sprofondati nell’acqua calda piena di schiuma.
«Gli hai spiegato la situazione?» si limitò a domandare, sentì Simona sospirare pesantemente alla sua destra e prendere un’altra stoviglia da asciugare dal mucchio che si era andato sempre più accumulando sul lavabo.
Anche lei doveva aver capito di non avere più alcun potere su di lui da tempo.
«Si, ho dovuto spiegargliela» commentò la donna «Mi ha chiesto di sposarlo».
Fujio inarcò solamente un sopracciglio, ma quella fu la sua unica reazione.
«Te l’ho detto, è una cosa seria. Ne ho parlato anche con la mia famiglia. Mi hanno detto che dovevo dirvelo, che fosse giusto che tu e Maria lo sapeste».
«Davvero gentile da parte loro» si limitò a replicare l’uomo con indifferenza.
Simona smise di asciugare il piatto e tenne lo sguardo fisso ed ostinato su Fujio, contrariata.
Lui dovette rendersene conto, la conosceva abbastanza bene da sapere che se non le avesse prestato le giuste attenzioni sarebbe scoppiata in una delle sue scenate da diva rumorosa.
<< Cosa c’è, Simona? Lo sai che non ti ho mai trattenuto. Non ti ho mai messo nessuna catena attorno ai polsi. Sei sempre stata libera» si limitò a rispondere, fissandola con quegli occhi scuri e taglienti, vuoti e apatici. A Simona erano sempre piaciuti quegli occhi.
Fujio era bello, lo era sempre stato, la prima cosa ad attrarla di lui era stata quella.
All’Università lo ammiravano, le altre gli andavano dietro e lei voleva averlo.
Voleva averlo vicino per brillare; affezionarsi a lui non era stato nei programmi.
Era successo, il resto era stata tutta una conseguenza.
«No, è vero!» replicò con aria stizzita «C’è un’altra cosa che ti devo dire».
 Riprese ad asciugare svogliatamente una padella e l’appoggiò sul ripiano di legno, dove aveva ammucchiato tutto il resto, che ancora gocciolava in alcuni punti; ci impiegò un po’ per aggiungere quello che aveva da dire, forse per trovare le parole giuste, o semplicemente perché le piaceva creare un’aspettativa indesiderata negli altri.
«Io e il mio compagno abbiamo deciso che non avremo figli».
Nonostante i propositi di non restare troppo sorpreso, Fujio smise di lavare i piatti e per la prima volta da quando quella conversazione era cominciata sollevò lo sguardo sul viso dell’amica, Simona sembrò estremamente soddisfatta di aver finalmente catturato la sua attenzione. Aveva un sorrisetto compiaciuto sulle labbra rosse e morbide.
Fujio non sembrò notarlo, non riusciva davvero a credere alle sue orecchie.
«Perché?» domandò, cercando lui per la prima volta gli occhi di Simona «Perché pensi di fare un torto a Maria? Pensi che possa essere troppo per lei?».
Fujio diede voce alla sua sorpresa con quelle domande dal tono insistente; a turbarlo non era stato tanto la prospettiva che Simona avesse potuto sposarsi o stare con un altro, ma che per una volta, inaspettatamente, avesse messo Maria al primo posto in tutta quella storia.
Tuttavia, la sorpresa e quel briciolo di contentezza che gli era sbocciata nel petto in seguito a quella realizzazione, morirono immediatamente quando Simona si portò una mano sulle labbra con fare teatrale e scoppiò a ridere.
Fujio aggrottò le sopracciglia, Simona ripose l’ennesima pentola e gli accarezzò teneramente una guancia con qualche buffetto, quasi volesse consolare un bambino un po’ sciocchino.
«Oh, no. Semplicemente, non voglio avere figli». Allontanò le mani smaltate dal viso dell’uomo, incrociò le braccia al petto e si appoggiò al ripiano della cucina continuando a fissarlo con quei suoi occhi azzurri penetranti e grandi «Parliamo chiaramente Fujio, se fosse stato per me Maria non sarebbe nemmeno nata. Io non sono in grado di essere madre. L’ho fatta nascere solamente per te. Come un premio speciale per quello che avevi fatto per me in quei mesi, ma tutto lì. Sono fatta così e non posso sentirmi sbagliata per questo».
Fujio sentì qualcosa di caldo e spiacevole stritolargli lo stomaco senza pietà.
Doveva aspettarselo, che cosa gli era passato per la testa?
Perché aveva pensato che Simona potesse fare qualcosa di tanto sorprendente?
Quel dolore era solamente colpa sua, se l’era procurato da solo con delle finte aspettative.
«Non farò di nuovo lo stesso errore, tutto qui» Simona sospirò pesantemente e riprese tra le mani lo strofinaccio che aveva posato solamente pochi secondi prima, serena.
Fujio immerse ancora di più le mani nell’acqua calda, stringendo i pugni sul fondo.
«Tu hai davvero qualcosa che non va» mormorò a denti stretti, riprendendo a strofinare freneticamente le posate e i piatti ammucchiati ancora nell’acqua.
Nel sentire quelle parole Simona sbatté con violenza lo strofinaccio sul lavabo e dell’acqua schizzò dalla superficie macchiando la parete, i mobili e anche i vestiti di Fujio.
«Sei tu quello che ha qualcosa che non va!» sbottò inviperita in un pessimo giapponese, quando si agitava tendeva a sbagliare frequentemente «Ormai Maria è grande! Dovresti andare avanti anche tu, dovresti smetterla di fare da babysitter a quei vecchi e a quella ragazzina impertinente!» continuò con voce sempre più alterata, gesticolando troppo.
Fujio aveva sempre detestato il modo in cui Simona agitava le braccia quando era furiosa.
Tirò finalmente via le mani dall’acqua calda e le asciugò alla bell’e meglio sul grembiule.
«Quella ragazzina impertinente è mia figlia. Io non devo andare avanti, non ho nulla e niente che mi sono perso o lasciato alle spalle! E quei vecchi sono i miei genitori. Se non fosse stato per loro non avrei nemmeno saputo come prendermi cura di quella bambina!».
Fujio aveva alzato anche lui la voce, forse un po’ troppo per i suoi standard, ma in realtà era sempre stato focoso e facile all’ira, due caratteristiche che aveva passato anche a sua figlia.
Simona era l’unica persona in grado di risvegliare quel lato del suo carattere, dopo Maria.
«Ero un ragazzino anche io, Simona. Ma non sono un ingrato, da solo non sarei stato capace di fare assolutamente un bel nulla! Ma che ne puoi sapere tu?».
Quelle parole segnarono un lungo silenzio tra di loro, un silenzio che impiegarono entrambi per guardarsi negli occhi, le espressioni feroci e ferite, le cicatrici ancora fresche.
Simona fu la prima ad interrompere quell’immobilità, incrociò di nuovo le braccia al petto e scostò la testa di lato con un gesto piuttosto teatrale di rigetto.
«Se non eri in grado allora avresti dovuto darla via e basta».
Sibilò quelle parole con convinzione, sollevando ferocemente lo sguardo sull’uomo.
«Avresti dovuto darla via e vivere la tua vita. Come ho fatto io».
Fujio non seppe cosa replicare a quelle parole, non avrebbe comunque avuto il tempo di farlo, ma se Maria non fosse entrata nella cucina come una furia, sbattendo la porta, probabilmente non avrebbe saputo cosa dire o cosa pensare, o cosa fare.
Maria però, entrò, sbatté la porta e gli evitò quell’umiliazione.
Aveva l’aria talmente feroce, che Fujio non ebbe alcun dubbio sul fatto che avesse sentito tutto, probabilmente nascosta dietro la porta. Non l’aveva mai vista con una tale espressione sul volto, era un misto di dolore, esasperazione, rabbia, ma anche soddisfazione.
La soddisfazione di avere finalmente l’opportunità di arrabbiarsi e poter gridare.
«Ah, le cose mi sono chiare adesso! Sei venuta qui per regolare i conti? Per dire finalmente le cose come stanno? Perché invece di parlare con papà non ti rivolgi direttamente a me?» Maria urlava a voce ancora più alta di Simona, che ancora scossa dall’entrata in scena della figlia, colta di sorpresa, la fissava con gli occhi sgranati e una mano premuta sul petto, all’altezza del cuore. Fujio, sebbene sorpreso anche lui, provò soddisfazione a quella vista.
Quelle grida servirono anche ad attirare la presenza di Akio e Mariko, che si precipitarono in cucina con una certa urgenza. Rimasero fermi sulla soglia quando videro la faccia di Maria.
«Non preoccuparti, sapevo da una vita che non mi hai mai amata e che mi odi!».
«Maria!» tentò di intervenire Simona, ritrovando improvvisamente la voce.
«Nessuno ti crede più ormai! Sei solamente una falsa bugiarda!».
«Stai zitta!» strillò ad un certo punto Simona con fare isterico, battendo il piede a terra come una bambina capricciosa «Sei insopportabile! Avrei dovuto levarti di mezzo quando ne avevo la possibilità! Se non ti avessi partorita, ora non starei qui, obbligata a fare tante cerimonie insulse!».
Nella piccola stanza cadde un silenzio talmente pesante che per la prima volta Maria si rese conto che fuori aveva cominciato a piovere insistentemente, sentì un tuono in lontananza.
Quegli attimi di silenzio, che potevano essere durati secondi, minuti, ore o mesi interi, si infransero miseramente quando Maria voltò le spalle sia a suo padre che a sua madre e se ne andò verso l’ingresso scansando via perfino Mariko e Akio, che la seguirono prontamente.
«Che cosa vuoi fare Mari-chan?» le domandò la nonna quando la vide intenta ad infilarsi un paio di ballerine nel piccolo ingresso di casa, a quel punto comparve anche Fujio.
«Dove stai andando?» la voce del padre era preoccupata, incrinata.
«Non voglio stare in questa casa un secondo di più!» sbottò Maria spalancando la porta.
«Ma fuori piove!» le gridò dietro Akio afferrandola per un polso, Maria si divincolò facilmente e sparì oltre la porta nel buio della notte, inzuppandosi subito i vestiti leggeri.
«Vado da Kiyoko-san, non cercatemi!».
E corse via, Fujio le andò dietro l’istante successivo.
L’eco dei suoi passi andò tuttavia sbiadendo sempre di più sotto lo sciabordare dell’acqua, la pioggia era talmente forte da offuscargli la vista e schizzargli negli occhi, Fujio la perse di vista quasi subito, chiamò il suo nome un paio di volte, ma fu del tutto inutile.
Rientrò in casa con la sensazione che la figlia avesse preso la direzione esattamente opposta a quella che avrebbe dovuto condurla a casa di Kiyoko.
Maria, di fatto, non andò mai da Shimizu.
 
 
Asahi stava studiando quando sentì bussare freneticamente alla porta di casa.
Se ne stava con la schiena curva sui libri di fisioterapia, tre ciotole di ramen istantaneo vuote abbandonate sul tavolo insieme a post-it ed evidenziatori di tutti i colori, che aveva appena scaricato imbrattando tutto il quaderno di scritte multicolore.
Sollevò lo sguardo sull’orologio da parete, aggrottando le sopracciglia quando si rese conto che era quasi mezzanotte passata, e si tirò in piedi strascicando la sedia.
Sentiva la pioggia infuriare ferocemente contro i vetri delle finestre e cominciò a domandarsi seriamente chi potesse essere a quell’ora; guardò con un certo imbarazzo la tuta logora che stava indossando, la t-shirt nera e passò freneticamente una mano nella matassa di capelli che aveva sul capo, non aspettava visite quella sera e non era presentabile.
Per un solo istante, mentre si incamminava lungo il corridoio, fu preso dal panico.
Quella sera sua madre era rimasta a dormire dai suoi genitori fuori città, Hotaru invece era ospite di una sua amica ad un pigiama party; per un singolo, folle istante, Asahi pensò che le fosse successo qualcosa di irreparabile, il cuore gli si fermò in gola e si precipitò alla porta.
La sorpresa fu ancora maggiore quando ad apparirgli davanti fu Maria.
Asahi dimenticò la paura, dimenticò i capelli disordinati e la tuta logora.
Dimenticò tutto non appena gli occhi grandi di Maria, rossi per la pioggia o forse per un pianto recente, incrociarono i suoi. Asahi rimase fermo sull’uscio della porta, a fissarla.
Sapeva di sembrare ridicolo in quel momento, avrebbe dovuto lasciarla entrare, tirarla via dall’acqua che continuava a bagnarla insistentemente facendola tremare, ma era troppo sorpreso per muovere anche solo un dito, perché Maria non gli sembrava reale.
Fu solamente quando lei si slanciò in avanti, perdendo una scarpetta nell’impeto, che ai suoi occhi assunse consistenza e forma; fu solamente quando, scivolando sul pavimento a causa dei piedi bagnati, Maria rischiò di cadere in ginocchio davanti a lui, che Asahi si mosse.
Le afferrò saldamente le spalle e la tenne su, guardandola con aria apprensiva.
Maria allungò immediatamente le mani bagnate e gli affondò i polpastrelli scivolosi nella pelle delle braccia, cercando disperatamente il suo abbraccio o un contatto fisico con lui.
«Maria» mormorò Asahi aiutandola ad entrare in casa, le scarpe bagnate nell’ingresso.
Era ancora incredulo, ma non ci mise due secondi a condurla in cucina, l’ambiente più caldo e confortevole della casa. Maria non pronunciò parola, ma si tenne stretta a lui con forza.
Tremava, era ghiacciata e bagnata in ogni centimetro di pelle.
La camicetta bianca le si era completamente attaccata addosso mettendo in mostra anche il reggiseno bianco che c’era sotto, la gonna lunga era incollata sulle cosce, trasparente.
Asahi la guardò per un istante, incerto se allontanarsi o meno, poi imprecò tra i denti e si precipitò nel bagno al piano terra, afferrando il proprio accappatoio con tale fretta da trascinarsi dietro anche quello di sua sorella e di sua madre, imprecò ma non si fermò a rimettere a posto il disastro che aveva combinato.
Quando tornò in cucina, trovò Maria esattamente dove l’aveva lasciata.
Non tremava più e l’espressione sul suo viso era completamente cambiata, come si fosse improvvisamente tranquillizzata; le avvolse amorevolmente il proprio accappatoio attorno alle spalle, era talmente grande da nasconderla quasi completamente.
Mentre compiva quel gesto, Maria si fece più vicina e gli afferrò la maglietta con la punta delle dita, appoggiando la propria fronte sul petto caldo di Asahi, ne sentiva battere il cuore.
«Che cosa è successo?» mormorò lui avvolgendole dolcemente un braccio attorno alle spalle, per tenerla più vicina all’unica fonte di calore presente in quella casa, il suo corpo.
Maria non parlò immediatamente, ma quando lo fece, vomitando fuori tutto quello che era successo quella sera, tutto quello che aveva sentito, detto e fatto, lo fece con voce roca.
Stretta a lui, fermi entrambi in piedi al centro della cucina.
«Ha detto che avrebbe preferito togliermi di mezzo» mormorò infine Maria e sentì Asahi tenerla ancora più stretta a se, era strano, ma ancora una volta ebbe la prova di come insieme a lui tutti i tormenti che provava sparissero immediatamente; anche le parole di Simona, che l’avevano ferita molto più di quanto le piacesse ammettere, si quietarono subito.
«Se dice una cosa del genere è solamente una stupida» le mormorò lui di rimando.
La strinse ancora di più nell’accappatoio e poi si allontanò lentamente, con tatto.
Maria sollevò il viso sottile e lo guardò negli occhi, carichi di domande e aspettative.
«Devi andarti a fare una doccia calda, adesso. Altrimenti rischi il raffreddore» le disse gentilmente, sollevando il cappuccio dell’accappatoio per frizionarle i capelli.
«Posso restare da te stanotte?» Maria gli pose quella domanda con un filo di voce.
Asahi continuò ad asciugarle gentilmente i capelli, ma dal modo in cui le sue dita indugiarono per un istante sul suo capo, Maria capì che non doveva averci pensato prima.
«Certo che puoi» commentò lui ad ogni modo «Fuori piove, ed è tardi».
«Sei sicuro che questo non crei problemi? Tua madre …» le parole di Maria si persero sul finale, mentre rivolgeva uno sguardo un po’ titubante sul soffitto, al piano di sopra.
Asahi le sorrise gentilmente, smise di frizionarle il capo e fece spallucce.
«Né mia madre, né mia sorella sono in casa stasera. Rientrano domani. Siamo soli».
E prima che Maria potesse vederlo arrossire, o lui potesse vedere arrossire lei, Asahi le prese dolcemente un polso e la trascinò verso le scale, al piano di sopra, fino al piccolo bagno che condivideva con Hotaru.
«Fai una doccia calda, tutto quello che ti serve lo trovi in quel mobiletto lì. Io vado a prenderti un cambio di vestiti nella stanza di mia sorella» disse Asahi voltando le spalle per uscire da quell’ambiente troppo piccolo, prima che potesse allontanarsi però Maria l’afferrò per il bordo della maglietta, trattenendolo un po’.
«Sei sicuro che vada bene?» domandò con voce incerta, rossa in viso.
Asahi annuì velocemente e aspettò che lei lo lasciasse andare, Maria lo accontentò alcuni secondi più tardi. Quando si ritrovò nella stanza scura e buia di Hotaru, Asahi rilasciò tutto il fiato che aveva trattenuto precedentemente, era una situazione talmente strana che gli sembrava quasi di ritrovarsi all’interno di uno di quei sogni assurdi in cui non si riusciva a distinguere tra realtà e finzione, da cui ci si voleva svegliare e non svegliare insieme.
Scosse la testa e cominciò a frugare nei cassetti di Hotaru.
Estrasse una felpa talmente grande che a Maria avrebbe fatto sicuramente da vestito, si morse il labbro inferiore e afferrò anche la parte di sotto della tuta, anche se dubitava che sarebbe mai stata indossata, perché troppo lunga.
Quando tornò nuovamente fuori la porta del bagno, sentì lo scroscio dell’acqua e indugiò per alcuni istanti con la mano sul pomello della porta, indeciso se entrare oppure no.
Alla fine trasse un respiro profondo e aprì lentamente la porta, affacciando la testa nella stanza con una certa cautela, si diede immediatamente dello stupido quando si ricordò che la doccia era praticamente blindata e non si poteva vedere assolutamente nulla.
«Ti ho lasciato i vestiti accanto alla vasca» commentò a voce alta, per far sapere a Maria che si trovava lì in quel momento, la ragazza allungò un pollice da oltre la tenda in segno affermativo, per fargli capire che aveva sentito. Asahi si grattò distrattamente la nuca e raccolse i vestiti bagnati che Maria aveva lasciato appoggiati sul water, infilandoli dentro la lavatrice «Metto a lavare i tuoi vestiti, per domani mattina saranno asciutti».
Maria non rispose, forse il getto dell’acqua era troppo forte e non l’aveva sentito, forse lui aveva parlato a voce troppo bassa, ancora rosso in faccia e decisamente imbarazzato.
Sospirò pesantemente e impostò la lavatrice sul giusto lavaggio, accovacciato a terra.
«Com’è morto tuo padre?» La domanda di Maria lo colse completamente impreparato.
Rimase con le mani salde sul bordo della lavatrice, le nocche bianche per la troppa forza che aveva impiegato per reggersi all’incerata, rischiando quasi di stracciarla.
Kaori ci sarebbe rimasta malissimo se fosse successo, le piaceva particolarmente.
Nella doccia, stretta con le braccia al petto sotto l’acqua calda, Maria si morse il labbro inferiore pensando di aver posto una domanda troppo intima, anche se si trattava di Asahi.
«Papà faceva l’operaio».
Quella replica la lasciò sorpresa. «Era davvero bravo a costruire le cose. La cucina che abbiamo l’ha fatta lui. Era bravo anche con le piante, il roseto era il suo orgoglio» Asahi si sentì improvvisamente meglio dopo aver cominciato a parlare.
Lasciò andare la stretta ferrea sull’incerata e si mise seduto sul coperchio del water.
«Io ho dovuto imparare da solo come fare per tenerlo in vita e ben curato. È stato difficile i primi tempi, mi graffiavo sempre con le spine, avevo le mani troppo piccole …» Asahi si passò una mano tra i capelli mentre i ricordi tornavano a galla lentamente, dolceamari.
«Papà era al cantiere quando è morto. Si trovava su un’impalcatura, era sveglio da più di quarantotto ore … ha messo male un piede … è caduto …».
Sotto la doccia, nonostante l’acqua calda, Maria sentì un brivido freddo sulla schiena.
Asahi si portò le mani sugli occhi, premendo forte per non ricordare il corpo freddo di suo padre sul quel lettino, la barba sporca di sangue, i capelli sparsi come onde sul cuscino …
Aveva visto solo degli sprazzi, dei piccoli dettagli prima che lo trascinassero via …
Gli erano rimasti come impressi a fuoco nella testa.
«Lavorava tantissimo negli ultimi tempi … le medicine per mia sorella costavano e -»
«Che cosa?» Maria sentì quelle parole scivolarle dalla bocca senza controllo.
Per Asahi fu come risvegliarsi da un sogno, come ritornare al presente dopo essere stato in un posto lontano e pericoloso; tolse le mani dagli occhi e sentì Maria chiudere l’acqua.
Vide la sua mano piccola e sottile spuntare da dietro la tendina colorata ed afferrare l’accappatoio che Asahi le aveva prestato, un istante dopo uscì dalla doccia.
L’accappatoio le stava talmente largo che la scena sarebbe potuta anche essere comica se non fosse stato che Maria aveva un’espressione atterrita, ed Asahi era pallido come non mai.
«Tua sorella è malata?» Maria pose l’ennesima domanda con appena un filo di voce.
Asahi la guardò atterrito per alcuni secondi, smarrito, poi annuì distrattamente.
«Hotaru ha una malformazione cardiaca, il suo cuore non funziona come dovrebbe. È come quello di una persona anziana, per farti capire. Deve prendere sempre tantissime medicine … Papà si era fatto dare più ore di lavoro per pagare le cure mediche …».
Maria si strinse l’accappatoio addosso e pensò a quanto fossero diversi Hajime e Simona …
Una madre che desiderava ardentemente che la figlia sparisse.
Un padre che moriva per far di tutto affinché la figlia guarisse.
Non avrebbe mai più parlato male di sua madre di fronte ad Asahi, Maria non l’avrebbe fatto mai più, Simona non aveva alcun diritto di essere paragonata ad Hajime, a un genitore.
Nemmeno una volta.
«Ho sempre pensato che papà sia morto un po’ anche per colpa mia».
Maria aggrottò la fronte quando sentì quelle parole, ritornando al presente, da Asahi.
Lui aveva lo sguardo basso, fissava le proprie mani, grandi e piene di calli, calde.
«Avevo dieci anni, non ho fatto nulla per aiutarlo. Se fossi stato un po’ più grande io-».
Asahi non terminò mai di parlare, perché prima che potesse farlo Maria cancellò la distanza tra di loro, gli afferrò il viso tra le mani e lo baciò a timbro.
Un bacio lungo e inaspettato.
Quando lo lasciò andare gli passò le dita sul viso e gli scostò i capelli dalla fronte, sorridendo per l’espressione attonita che era comparsa, insieme ad un rossore acceso, sul suo viso.
«Avrei davvero voluto conoscere tuo padre» gli disse, smettendo di accarezzargli il viso, ma solamente per spostare le braccia attorno al suo collo, Asahi era talmente alto che Maria poteva guardarlo negli occhi solamente in quel modo, mentre lui se ne stava seduto.
«Ma tu gli assomigli tanto, secondo me. Quindi devi solamente esserne fiero».
Mormorò, e si chinò nuovamente in avanti per lasciargli un altro bacio, questa volta a fior di labbra, come una carezza.
Asahi appoggiò le mani sulle braccia di lei, risalì la stoffa fino alle spalle, poi le pizzicò le guance con fare affettuoso, tirandole infine il cappuccio dell’accappatoio davanti agli occhi.
«Ehi!» protestò Maria come una bambina capricciosa, Asahi scoppiò a ridere.
«Vestiti e asciuga bene i capelli. Ti aspetto di là» commentò.
I ricordi oscuri erano tornati a strisciare nell’ombra, lontani nuovamente dal suo cuore.
Asahi aspettò appena una ventina di minuti, ne approfittò per riordinare la cucina, spegnere le luci e sistemare i futon per terra nella sua stanza; quando Maria lo raggiunse aveva appena finito di preparare la stanza per la notte, erano quasi le due di notte e fuori pioveva ancora.
Asahi scoppiò a ridere non appena si accorse che Maria aveva indossato la felpa di Hotaru, ma le andava talmente grossa che le arrivava fin sotto il ginocchio.
Lei lo fissava con un broncio evidentissimo sul viso e i pantaloni troppo lunghi della tuta stretti nel pugno della mano destra, Asahi si tirò in piedi e soffocò una risata.
«Lo trovi divertente, vero?» lo rimbeccò lei tirandogli addosso l’indumento.
Asahi lo afferrò prontamente e appoggiò i pantaloni della tuta sulla sedia della scrivania, poi allungò una mano e invitò Maria a farsi avanti nella stanza, era la prima volta che le mostrava la sua camera e lei si guardava intorno con aria curiosa.
Osservò per un po’ i poster dei giocatori di pallavolo appesi al muro, la scrivania ordinata, la fotografia di Hajime … quella catturò in particolar modo la sua attenzione.
«Da bambino eri proprio carino» commentò accarezzando con l’indice il piccolo nella foto sulle spalle del suo papà, Maria si risparmiò di ripetere ad Asahi quando si assomigliassero.
«Vuoi dire che ora sono brutto?» la prese in giro lui, facendola sedere sulla sedia.
Maria ubbidì distrattamente, guardandolo in cagnesco mentre lui si inginocchiava davanti a lei e le passava le mani tra i capelli setosi, in particolar modo sulla nuca.
«Che cosa stai facendo?» gli chiese, sospettosa con le sopracciglia aggrottate.
«Controllo che tu abbia asciugato bene i capelli. Lo faccio sempre con Hotaru».
Le spiegò Asahi fissandola negli occhi, Maria ricambiò lo sguardo e tacque, lasciandolo fare.
Rimasero in silenzio a fissarsi per un po’, Asahi aveva smesso di accarezzarle i capelli da tempo, le sue braccia erano posate sulle gambe di lei, il viso sollevato verso il suo.
Maria allungò le mani e gli sistemò due ciocche di capelli dietro le orecchie.
Era una situazione completamente diversa da quella che avevano sperimentato la prima volta, eppure entrambi sapevano quello che stava per succedere, entrambi volevano che succedesse.
Quella lunga settimana in cui non erano stati insieme, sarebbe presto stata ripagata.
Maria fu la prima a farsi più audace e Asahi la lasciò fare.
Lasciò che lei allungasse le mani, afferrasse i bordi della sua maglietta e l’aiutò a sfilargliela sollevando le braccia sopra la testa; Asahi rimase a torso nudo e aspettò con pazienza, arrossendo leggermente, che anche Maria si sfilasse la maglietta che le faceva da vestito.
Rimasero a petto scoperto uno di fronte all’altra, a fissarsi negli occhi.
Fu sempre Maria a compiere il passo successivo, gli gettò le braccia attorno al collo e lo slanciò fu tale che Asahi cadde all’indietro sul futon che aveva preparato per lei; scoppiarono a ridere entrambi come due sciocchi prima che lui ribaltasse la situazione, adagiando Maria sulla coperta morbida e calda sotto di sé.
Le scostò delicatamente i capelli che le coprivano il petto, lasciandoli cadere di lato.
Cominciò a tracciarle dei baci delicati lungo la linea della mascella, scendendo sul collo fino allo sterno, per raggiungere infine la pelle morbida del seno, lì dove cominciava la curva.
Maria intrecciò, senza rendersene conto, le gambe dietro la sua schiena.
Asahi arrossì ancora di più, ma non si fermò, in quel suo modo imbranato e dolce.
Si sollevò leggermente sui gomiti per poterla guardare, e fece scivolare la mano sotto l’elastico degli slip; quando sfiorò con le dita il punto sensibile Maria si inarcò sulla schiena.
Asahi si fermò immediatamente, trattenendo il respiro.
Non ricordava bene quello che aveva fatto quella prima volta, era stato solamente un delirio di immagini confuse, movimenti istintivi che non sapeva di poter fare …
In quel momento, presenti a loro stesso più di quanto non lo fossero mai stati prima, tutto sembrava fare troppa paura, tutto sembrava nuovo e forte, e sentito.
«Non fermarti …» sussurrò Maria ad un centimetro dalle sue labbra, le gote accese.
Asahi la trovava bellissima, languida e accesa tra le sue braccia, vogliosa.
Osò ancora di più e fece scivolare due dita nel suo centro, facendola sussultare.
«Ah!» il gemito di Maria gli rimbombò nelle orecchie.
Amarsi quella volta sarebbe stato diverso, sarebbe stato unico, irripetibile.
Avrebbe assunto un valore talmente grande che cercare di capire cosa significasse stare insieme non avrebbe avuto più alcun senso, perché sarebbe stato finalmente chiaro.
 
 
 
 
Se tieni bene le mani sopra gli occhi
Giuro che sarò forte, sarò pronto
Per tenerti stretta, per tenerti stretta

(Alex – Dire fare curare)
 
 
 
 
Buondì a tutti!
Flying_Lotus95 vi da' il suo caloroso benvenuto 🤗🤗
Questo capitolo è davvero molto interessante sotto molti punti di vista (in particolare l'ultima scena... vi vedo lì intenti a rileggervela con attenzione, non sia mai vi siate persi qualche passaggio 🤭)
Scherzi a parte 🤪 in questo capitolo ci siamo concentrate sulle rispettive famiglie di Maria e Asahi, presentandone sia i pregi che i difetti, le differenze sostanziali e qualche punto (forse) in comune.
La contrapposizione genitoriale tra Simona e Hajime è il punto focale del capitolo. Ancora non sembra, ma questo ha gettato basi importanti sul futuro dei nostri protagonisti. Ne vedrete delle belle! ❤
Grazie per essere giunti fino a qui. Bacioni 😘😘
Flying_Lotus95 & effe_95

                                                                                              
 

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Capitolo 16
*** 15- La fine dei giochi ***


15.La fine dei giochi.

 

Insegnami a giocare, a dire, fare, curare
Dimmi che errori evitare
 
 
A svegliare Maria la mattina successiva fu un insolito rumore.
Non aprì immediatamente gli occhi, si limitò ad aggrottare le sopracciglia e a lamentarsi mugugnando appena per essere stata svegliata in quel modo a dir poco brutale.
Sbuffò sonoramente e si accoccolò maggiormente contro il petto caldo di Asahi, appoggiando la fronte sulla sua spalla; era pesante il suo braccio attorno alla vita, ma a Maria piaceva quella sensazione di soffocamento e protezione.
Rimase in silenzio in quella posizione per un po’, beata, poi si rese conto con sgomento, che il rumore fastidioso che l’aveva svegliata veniva proprio dal petto del ragazzo steso accanto a lei. Maria spalancò gli occhi di colpo e sollevò la testa, Asahi dormiva beatamente con i capelli in bocca, russando come un rinoceronte.
«Incredibile …» mormorò Maria fissandolo allibita.
 Si sollevò sui gomiti, spostando delicatamente il braccio del fidanzato dalla sua vita e Asahi grugnì infastidito, stringendola ancora di più contro di sé, Maria sbuffò leggermente, ma un sorriso gentile e spontaneo le accarezzò il viso, insieme ad una tenera risatina.
Allungò le mani e gli scostò i capelli dalla bocca e dagli occhi, concedendosi in quel modo la visione del suo volto addormentato, dei lineamenti rilassati, non aveva avuto occasione di farlo la prima volta che avevano dormito insieme.
In realtà, quella volta Maria non aveva desiderato altro se non risvegliarsi da sola.
La seconda volta era stato completamente diverso, l’avevano voluto consapevolmente, si erano mossi di comune accordo, senza avere il bisogno di chiederlo, era stato intenso, potente …
Si erano come trasfigurati, ad entrambi era sembrato di conoscersi da tutta la vita, di avere abbastanza confidenza da fare tutto quello che avevano fatto, che avevano voluto.
Da quel giorno, il loro rapporto non sarebbe stato più lo stesso, erano andati troppo oltre per poter tornare indietro, erano andati troppo lontano per poter stare l’uno senza l’altra.
E non era una cosa che aveva solamente a che fare con l’amore.
Maria non era sicura che quella fosse la parola giusta per descrivere i suoi sentimenti per Asahi, l’amore era qualcosa di talmente tanto forte da avere bisogno di una prova concreta per essere capito, o accettato. Maria aveva semplicemente voluto provare quella strada …
E per il momento non aveva alcun motivo di pentirsene, sebbene ancora non avesse capito appieno che cosa avrebbe comportato stare in quel modo con una persona, in quel modo così totale, così completo, così quotidiano.
Un grugnito di Asahi particolarmente rumoroso la strappò violentemente dai suoi pensieri confusionari, Maria sobbalzò e si lasciò andare ad una risatina divertita, mentre continuava ad accarezzargli delicatamente e con affetto il viso.
Fu a quel punto che lui aprì lentamente gli occhi, ancora completamente impastati di sonno.
La fissò per un po’ con espressione confusa, quasi le sembrasse solamente un miraggio, poi i lineamenti contratti dalla sorpresa si distesero sommessamente, aprendosi a loro volta in un sorriso rilassato.
«Buongiorno» mormorò con la voce roca, lasciandole andare finalmente il fianco per stiracchiarsi come un orso grande ed assonnato, Maria si tirò a sedere portandosi le ginocchia al petto, le coperte avvolte attorno al busto la coprivano dai raggi del sole che filtravano dalla finestra.
Asahi invece era molto più scoperto, le gambe lunghe spuntavano dal futon toccando addirittura il pavimento, il petto era completamente esposto, le lenzuola gli coprivano solamente la zona della vita e le cosce fino al ginocchio.
Doveva dormire in maniera davvero scomposta per provocare tutto quel macello.
«Russi come un facocero» fu il buongiorno di Maria, che per tutta risposta afferrò il piccolo cuscino dietro la sua schiena e lo schiaffò sulla faccia di Asahi come una frusta.
«Ah –ah!» si lamentò lui, scostando immediatamente i capelli che gli erano finiti sul viso per il colpo di vento causato dal movimento del cuscino; sbatté ripetutamente le palpebre.
Maria gli scoppiò a ridere in faccia e non si ribellò nemmeno un po’ quando lui si tirò su di colpo atterrandola con estrema facilità contro il futon, bloccandola sotto di sé.
«Che cosa vuoi fare Azumane, eh?» lo provocò lei, sollevando le braccia per passargliele attorno al collo con fare pigro, lento, mentre un sorriso malandrino le sbocciava sulle labbra.
Asahi la guardò per un istante, tentando di tenere quell’espressione ferma che aveva messo su solamente pochi istanti prima; ci riuscì per circa cinque secondi prima di arrossire come un peperone e scostarsi da lei seppellendo il viso tra le proprie mani.
Maria lo guardò allibita per alcuni secondi, poi si sporse su di lui e gli baciò la fronte.
«Sono stanco» mormorò con voce funerea, sempre nascosto.
Maria ne approfittò per guardarlo con una certa tenerezza, ora che lui non poteva farlo.
Probabilmente anche Asahi doveva aver realizzato quello che era successo tra di loro, il modo in cui era successo, ma non aveva avuto lo stesso tempo a disposizione per metabolizzarlo, per accettarlo facilmente.
«Era evidente dal modo in cui russavi!» lo provocò lei pizzicandogli la fronte.
Asahi si tolse finalmente le mani dal viso e la guardò accigliato, in un’espressione che avrebbe dovuto essere intimidatoria, ma sembrava per lo più quella lamentosa di un bimbo.
«Ho fame!» esclamò il ragazzo tirandosi a sedere di scatto, rinunciando in partenza.
Maria non replicò e rimase ferma ad osservarlo mentre si infilava lentamente i pantaloni, si tirava in piedi con aria eccessivamente stanca e legava i capelli in un codino sfatto. 
Asahi compì quei movimenti regalandole una visione piena della sua schiena nuda, dei muscoli contratti ogni volta che il braccio e la mano si muovevano per far girare il codino.
Maria arrossì violentemente per i pensieri che le affollarono di colpo la mente e scostò il viso con una certa fretta quando Asahi, finita l’operazione, si voltò a guardarla.
«Vado a preparare la colazione. Prenditi tutto il tempo che ti serve» le disse con gentilezza. Poi afferrò una maglietta da un mucchio raccolto su una sedia, la infilò e lasciò la stanza senza aggiungere altro.
Una volta rimasta sola, Maria non si alzò immediatamente dal futon, aspettò che Asahi avesse il tempo di lavarsi nel bagno accanto, e ne approfittò per calmare il suo cuore.
Il ricordo di quello che era successo la sera precedente le tornò vivido in mente come se fosse successo solamente pochi secondi prima, le parole di Simona, la faccia di Fujio, le parole di nonno Akio e la preoccupazione negli occhi di Mariko …
Maria si rese conto che nella foga di andarsene da quell’inferno aveva perfino dimenticato di portare con sé il cellulare e di avvisare Kiyoko di mentire nel caso l’avessero cercata da lei.
Sospirò pesantemente e raccolse i capelli in una treccia senza codino prima di spostare lentamente le lenzuola che le coprivano le gambe e il busto, non aveva più importanza ad ogni modo, non era sicura che qualcuno si fosse azzardato a cercarla, ma nel caso avrebbe trovato una scusa solamente quando e se fosse giunto il momento.
Quando uscì dalla stanza trovò il corridoio deserto, mentre dei rumori sospetti provenienti dalla cucina le suggerirono che Asahi era di sotto; si infilò nel bagno portandosi dietro tutte le lenzuola, fece una doccia calda, si asciugò con l’accappatoio del giorno precedente e afferrò senza troppi complimenti i propri vestiti dall’asciugatrice, luogo in cui Asahi le aveva comunicato, tramite bigliettino scritto lasciato sulla lavatrice, fossero riposti.
Erano ancora tiepidi e profumati quando li indossò, piacevoli sulla pelle ancora umida.
Quando ebbe sceso le scale, dopo essersi legata i capelli in una treccia perfetta con uno dei codini di Asahi che non aveva mai tolto dal polso, i rumori si fecero ancora più intensi.
Addirittura preoccupanti ad un certo punto.
Maria si affacciò timidamente sull’uscio della porta, leggermente intimidita da quello che avrebbe potuto trovare dall’altra parte, tuttavia … si rese conto che la sua fantasia non si era nemmeno lontanamente avvicinata al macello che Asahi stava combinando.
Il tavolo era apparecchiato come per una cena a lume di candela, ma al posto di quest’ultima se ne stavano una bottiglia di latte fresco, una di succo d’arancia, una caraffa di caffè, più una moltitudine di pietanze a cui Maria non prestò troppa attenzione …
Non vi prestò attenzione, solamente perché era troppo impegnata a preoccuparsi che le tre padelle sul fuoco, contemporaneamente accese e fumanti, non saltassero in aria.
Si avvicinò precipitosamente al ragazzo e gli afferrò un polso prima che rovesciasse a terra un’intera pila di pancake bruciacchiati e dall’aspetto informe.
«Che cosa stai combinando?!» sbottò Maria con la voce pregna d’ansia.
Asahi le rivolse un’occhiata di puro panico, mentre si affrettava a controllare le uova.
«É tutto sotto controllo!» replicò con un tono di voce che esprimeva esattamente l’opposto. «Oh! Il riso!» sbottò poi all’improvviso, sporgendosi talmente inaspettatamente verso il bollitore da buttare per l’aria il mestolo, che andò a schiantarsi sul pavimento macchiando il tappeto e i mobili vicini.
Per un istante, Maria prese in considerazione l’idea di mollarlo lì su due piedi e andarsene, particolarmente esasperata dalla situazione tremenda in cui Asahi si era cacciato da solo.
Tuttavia sospirò pesantemente, per raccogliere la pazienza che non aveva, e si chinò per recuperare il mestolo appena caduto e pulire le macchie di impasto.
Se fosse stata un’altra situazione o un’altra persona, probabilmente non si sarebbe fatta scrupoli ad alzare la voce e commentare aspramente la scena, ma era Asahi che aveva davanti, Asahi, che doveva aver combinato quel macello solamente per prepararle la colazione degna di una regina.
«Posso darti una mano?» si ritrovò a chiedere alla fine, rassegnata e intenerita.
Asahi acconsentì con un po’ di imbarazzo, rosso in faccia come un pomodoro.
A quel punto, troppo impegnati a risolvere quella situazione caotica, non sentirono il rumore della porta di casa che veniva aperta, accompagnata dalla voce squillante di Hotaru.
La ragazza era appena rientrata dopo una serata passata in compagnia delle sue amiche.
Hotaru aggrottò le sopracciglia quando sentì del baccano provenire dalla cucina; Asahi non era mai stato il tipo da fare chiasso, al contrario, quando se ne stava a casa da solo era talmente taciturno da dare l’impressione che il posto fosse deserto. Oltretutto, la mattina faceva raramente colazione e non gli piaceva guardare la televisione.
Presa dalla curiosità violenta di voler capire cosa stesse succedendo, Hotaru tolse frettolosamente le scarpe, abbandonò il borsone accanto a quest’ultime e si precipitò verso la cucina, per poi bloccarsi davanti alla porta, con una mano sullo stipite, sorpresa.
Non riusciva a capire del tutto la scena che si ritrovò davanti, ma le fece nascere un sorriso spontaneo sulle labbra.
Nella cucina, in quell’ambiente familiare e caldo in cui passava la maggior parte del suo tempo, insieme a suo fratello se ne stava una persona che non aveva mai visto prima ma che, sorprendentemente, avrebbe potuto benissimo chiamare per nome.
Maria, quella ragazza doveva essere sicuramente Maria.
La Maria dei racconti e delle confessioni di suo fratello.
Hotaru si ritrovò a sorridere bonariamente quando vide Asahi andare in panico nel tentativo di staccare un pancake bruciato ostinatamente incollato alla padella; Maria lo rimproverò staccandogli la spatola dalle mani e gli ordinò qualcosa di rimando, probabilmente di mettere il riso nelle ciotole a giudicare dal fatto che Asahi si avviò tutto avvilito verso il mobile dove tenevano le stoviglie.
«Fratellone, sei proprio un imbranato!» esclamò a voce alta, decidendo finalmente di rendere partecipe gli altri due della sua presenza.
Non fu proprio una buona idea, Asahi rischiò di rompere una ciotola e Maria sobbalzò talmente tanto da lasciarsi scappare la spatola dalle mani, che cadde nella padella schiacciando il pancake già terribilmente deformato e bruciato.
I tre si guardarono per un istante, rimanendo completamente in silenzio, con tre gradi di espressioni dipinte sul viso: allegria, shock e curiosità.
«Hotaru!» mormorò Asahi interrompendo la situazione di stallo che si era andata a creare, il suo sembrò essere molto il pigolio di un animaletto spaventato, ma la voce fu abbastanza alta perché entrambe le ragazze si voltassero a guardarlo, «Q - quando sei tornata?» continuò Asahi tossicchiando leggermente per riacquistare un contegno.
Hotaru incrociò le braccia al petto e alzò gli occhi al cielo sorridendo bonariamente.
«Sono rincasata solamente pochi secondi fa! Ho anche chiamato a gran voce!» esclamò con fare possente, rivolgendo l’istante successivo lo sguardo verso Maria, a cui sorrise con eccessiva euforia «Ma a quanto pare eri troppo impegnato».
Bastò che Hotaru marcasse leggermente l’ultima parola perché Maria e Asahi arrossissero di comune accordo, quasi fossero stati beccati a fare qualcosa di moralmente illecito.
«Hotaru!» la rimproverò Asahi con una vocina piccola e strozzata, in iperventilazione.
Tuttavia, la sorella lo ignorò totalmente e si incamminò verso Maria, andandole davanti con solamente due falcate, le afferrò entrambe le mani senza fare complimenti e sorrise.
«Tu sei Taniguchi, vero? Asahi mi ha parlato tantissimo di te!» Maria non replicò a quelle parole, completamente ammutolita dalla veemenza di quella ragazzina.
Hotaru assomigliava ad Asahi, sì, era alta, slanciata, magra e aveva gli stressi colori, ma in lei c’era qualcosa di diverso; in lei c’era più sicurezza, più vitalità e più confidenza in se stessa.
Maria ricordò solamente in quel momento le parole che aveva pronunciato Asahi su di lei la sera precedente, la sua malattia, il cuore …
Guardandola in quel momento, Maria avrebbe potuto giurare di fronte a tutto il mondo che Hotaru le sembrava una ragazza perfettamente in salute, sana, forte, allegra ed esuberante.
«Io invece sono Hotaru! Voglio sperare che mio fratello ti abbia parlato altrettanto a lungo di me!» continuò la più piccola facendo arrossire per l’ennesima volta il fratello maggiore.
Maria guardò Asahi e si ritrovò a pensare che sarebbe collassato molto presto se Hotaru avesse continuato a tormentarlo in quel modo, perché aveva la faccia completamente rossa.
Non le era mai piaciuto avere contatti fisici con le persone che incontrava per la prima volta, ma stranamente non trovava spiacevoli le mani di Hotaru attorno alle sue, perché erano calde e grandi come quelle di Asahi, avevano qualcosa di familiare.
Si ritrovò a stringerle di rimando, in un gesto istintivo che colpì la più piccola.
«Asahi mi parla sempre di te. E chiamami Maria».
Replicò regalandole un sorriso un po’ timido.
Non era verissimo, Asahi le aveva parlato di Hotaru solamente per caso, e ogni cosa che aveva scoperto su di lei aveva dovuto farlo un pezzettino alla volta, con molta fatica.
Asahi la guardò di rimando, ma come sempre non disse nulla di troppo e non chiese.
Non chiese, proprio come Maria non avrebbe mai chiesto come facesse Hotaru a conoscerla, o perché con lei Asahi avesse deciso di confidarsi e dirle la verità, o almeno una parte.
«Cosa state combinando qui dentro?! Questa colazione è per un esercito!».
Hotaru interruppe quella conversazione silenziosa di sguardi con il suo commento esuberante, mentre si sporgeva sul tavolo per contare con l’indice della mano destra e a voce alta tutte le pietanze che occupavano quasi interamente la superficie del tavolo.
«Tuo fratello ha voluto strafare!» commentò immediatamente Maria, tornando a controllare il pancake che aveva lasciato sul fuoco, ormai completamente carbonizzato.
Asahi arrossì ancora una volta e non replicò, mentre posava le scodelle sul tavolo e si accingeva a sistemarvi sopra con cura anche delle bacchette pulite.
Hotaru si offrì immediatamente di aiutarli e l’atmosfera che si creò nei minuti successivi fu talmente piacevole, che chiunque avesse visto quella scena dall’esterno avrebbe pensato di trovarsi di fronte ad una famiglia affiatata e felice.
Maria e Hotaru parlarono tantissimo, del più e del meno, dei loro interessi, e Asahi rimase tutto il tempo in silenzio a guardarle, rispondendo a monosillabi solamente quando lo interpellavano direttamente per dargli qualche ordine.
In realtà guardare quella scena gli piaceva, era una sensazione stranissima, ma gli piaceva.
Fu per quella serie di motivi che nessuno vide Kaori entrare nel piccolo abitacolo.
«Che cosa è successo nella mia cucina?» esclamò la donna con voce sorpresa.
Kaori non si era accorta di Maria, ma guardava il tavolo e le padelle sporche come se fossero l’unica cosa che i suoi occhi riuscissero a captare nella stanza.
Sembrava stanca, con i capelli legati in uno chignon elegante scombinati, le braccia cariche di borse e buste della spesa, e il viso provato di chi si era alzato molto presto la mattina per prendere il primo treno disponibile per tornare a casa.
«Mamma, oggi abbiamo un’ospite!» esclamò Hotaru agitando il mestolo del riso alla volta di Maria, interdetta per l’ennesima interruzione, e improvvisamente desiderosa di essersene tornata a casa prima.
Non aveva minimamente preso in considerazione l’idea di poter incontrare Kaori Azumane.
«Oh!» replicò la donna, fissando quella bellissima ragazza dagli occhi turchesi con le labbra leggermente spalancate in una piccolissima “o” di sorpresa.
«Ti do una mano, mamma» intervenne Asahi facendosi avanti per togliere dalle mani della donna le buste più pesanti, che si affrettò a posare sul tavolo lì dove era rimasto ancora un po’ di spazio «Lei è Taniguchi Maria» la presentò a voce bassa, stando bene attento a tenere lo sguardo fisso sulle buste, con la scusa di evitare che cadessero a terra rovesciando il contenuto su tutto il pavimento.
«Piacere» mormorò timidamente la ragazza facendo un inchino un po’ troppo teso.
«P-piacere» balbettò di rimando Kaori, ricambiando l’inchino nello stesso modo.
«Maria ha passato la not-!»
«MAMMA! Come sta la nonna?!».
La voce esplosiva e piena di panico di Asahi riuscì a coprire perfettamente il commento decisamente troppo compromettente di Hotaru, ma risultò eccessivamente grottesco lo slancio che fece in avanti per afferrare la madre per un braccio e farla entrare in cucina.
«La nonna sta benissimo» commentò Kaori fissando il figlio con occhi grandi «Vi ha preparato tutti i piatti che vi piacciono, sono nelle buste … ma cos’è successo qui?».
La sua attenzione venne nuovamente catturata dal tavolo e dal disordine.
«Il fratellone si è dato ai fornelli … per Maria» punzecchiò nuovamente Hotaru.
Kaori sollevò lo sguardo sul viso arrossato della ragazzina e arrossì a sua volta di rimando, era stata del tutto impreparata, e mai nella vita avrebbe pensato che Asahi avesse potuto presentargli una probabile fidanzata.
Kaori amava suo figlio, ma l’aveva trovato sempre un gran imbranato in quelle faccende.
Maria era carina, aveva dei tratti atipici, occidentali, gli occhi ne erano una prova evidente. Era minuta e magra, aveva le forme piccole e capelli neri.
Kaori si ritrovò a pensare, che affianco a quel gigante di suo figlio fosse estremamente piccola … quella scena le ricordò per un istante di quando doveva alzarsi sulla punta dei piedi per baciare Hajime.
Si commosse.
«Perché non facciamo tutti colazione insieme?» propose, simulando un colpetto di tosse per nascondere il tono di voce incrinato dalle lacrime, ben nascoste dietro le palpebre.
«Mi sembra un’ottima idea!» commentò Hotaru con entusiasmo, e in men che non si dica si ritrovarono tutti e quattro attorno al tavolo a mangiare, con la cucina già lavata per metà e le buste della nonna sistemate al loro posto.
Mentre osservava la situazione giocherellando con la sua porzione di riso, Asahi si ritrovò a pensare che tutto sommato quella scena inaspettata non fosse andata malissimo come aveva pensato in principio.
La verità era che non aveva preso minimamente in considerazione l’eventualità che qualcosa di simile potesse accadere, era stato stupido da parte sua, ma probabilmente era anche stato un bene, un bene per far sì che tutto potesse risultare incredibilmente naturale.
«Hai degli occhi bellissimi, Taniguchi-san».
 Asahi fu riportato alla realtà dal commento di sua madre.
Lei e Maria avevano parlato per tutto il tempo, ma quelle parole in particolare ebbero il potere di catturarlo inevitabilmente, e altrettanto inevitabilmente Asahi non poté fare a meno di rivolgere un’occhiata un po’ preoccupata a Maria.
«La ringrazio» replicò tuttavia la ragazza con tranquillità «Può chiamarmi Maria».
«Oh, allora tu dammi del “tu”, va bene?».
Maria trovò rassicurante il sorriso di Kaori, come aveva trovato stranamente rassicurante la sua domanda, era stato strano non provare alcun fastidio, ma come era successo per le mani di Hotaru, anche gli occhi di Kaori le avevano ricordato Asahi.
Ed era stato facile non leggervi né accuse, né curiosità, né altro, ma solamente vero stupore.
Come per Asahi, a Kaori dovevano davvero piacere i suoi occhi.
«Sono per metà italiana» si ritrovò allora a raccontare, appoggiando le bacchette sulla ciotola ormai totalmente vuota, lo stomaco pieno sul procinto di scoppiare.
«Davvero?!» esclamò Kaori con sincera sorpresa e gioia, anche lei aveva finito di mangiare la sua parte di colazione, e da un po’ di tempo osservava Maria e Asahi con i gomiti poggiati sul tavolo e i pugni delle mani chiusi sulle guance, sorridente.
«Sono andata in viaggio di nozze in Italia!» cominciò a raccontare la donna con reale trasporto, lo sguardo immediatamente lontano, perso in qualche ricordo piacevole «È in assoluto il mio paese preferito dopo il Giappone» ridacchiò, contagiando anche i ragazzi seduti attorno al tavolo «Visitammo Roma, Livorno, Firenze … ricordo che una volta Hajime mangiò troppi arancini in Sicilia e fece indigestione» scoppiò nuovamente a ridere e fece un gesto della mano come per scacciare una mosca fastidiosa «Vomitò per tutta la notte nel bagno dell’ostello dove alloggiavamo per quei giorni, ricordo che giurò solennemente che non ne avrebbe mai più mangiato uno in vita sua … il giorno successivo ne comprò un sacchetto intero da portare in giro».
I tre ragazzi scoppiarono a ridere contemporaneamente, Asahi con un pizzico di fatica.
«Tipico di papà!» esclamò Hotaru allegra, protesa in avanti per l’evidente desiderio di ascoltare qualche altro aneddoto che riguardasse il viaggio di nozze dei suoi genitori.
Kaori, tuttavia, si protese verso Asahi e gli strinse il braccio con affetto.
«Dovevo già aspettarti in quei giorni, perché proprio non ne sopportavo l’odore».
Gli raccontò bonariamente e con affetto, Asahi arrossì anche in quell’occasione e Maria lo trovò tremendamente esasperante e dolce al contempo.
«A proposito!» intervenne improvvisamente Hotaru «Oggi andiamo da papà?».
«Certo che andiamo da papà» replicò immediatamente Asahi, alzandosi in piedi mentre raccoglieva le ciotole sporche e vuote impilandole una sopra l’altra «È domenica».
Lo disse come se fosse una cosa ovvia e scontata, nell’osservarlo Maria riuscì a capire senza bisogno di fare troppe domande che doveva essere una tradizione per la loro famiglia, probabilmente andavano a visitare la tomba di Hajime ogni domenica della settimana.
Si sentì improvvisamente a disagio, si era trovata talmente bene con Kaori e Hotaru che aveva dimenticato per un istante tutti i problemi che si era lasciata alle spalle.
Era evidente che sarebbe dovuta tornare molto presto alla realtà.
Alla realtà di una famiglia che avrebbe potuto avere tutto e non aveva nulla, e lasciarsi alle spalle una famiglia che non avrebbe dovuto avere nulla e invece aveva tutto.
Cominciava a capire perché Asahi era venuto su in quel modo, cominciava a capirlo davvero.
«Prepariamo un bel cesto del pic-nic. Abbiamo ancora tutto questo cibo da consumare» commentò bonariamente Kaori, mentre cominciava a tirare fuori dalla dispensa un numero davvero esorbitante di bento, vaschette di plastica e contenitori di vetro.
Maria si alzò in piedi con il chiaro intento di aiutare Asahi a lavare i piatti sporchi e le padelle, quando venne improvvisamente colta in fallo dalla domanda indiretta di Kaori.
«Spero non ti dispiaccia mangiare le stesse cose del mattino».
Maria rimase in silenzio forse per troppo tempo, con le mani immerse nell’acqua e l’espressione di una persona che doveva essere evidentemente sorpresa, data la gomitata nel fianco che le rifilò Hotaru mentre si accingeva tutta allegra ad asciugare le stoviglie bagnate.
«Tu vieni con noi, mi sembra ovvio!».
«Certo che viene con noi!» Rincarò la dose Kaori «Hajime ne sarebbe felicissimo!».
Maria sentì le guance imporporarsi leggermente per l’imbarazzo e l’ansia di quella prospettiva, sperò che non fosse troppo evidente, sperò che non le si leggesse in faccia la preoccupazione di non voler risultare un’intrusa in quella situazione così privata.
E sperò che non le si leggesse nemmeno il sollievo e la gioia che aveva provato, nel sapere di poter passare ancora un po’ di tempo con quella famiglia bellissima e dover rimandare il rientro in quella casa dove era cresciuta, ma che la sera precedente aveva sentito soffocante.
Alzò gli occhi ed incrociò per un istante lo sguardo di Asahi, non aveva parlato molto, era stato estremamente taciturno per tutta la colazione, ma Maria poteva capire il perché; lui si grattò la nuca con le mani bagnate di sapone e le sorrise impacciato.
«Ah!» esclamò ad un certo punto Kaori con costernazione, sia Maria che Asahi si girarono contemporaneamente verso di lei con fare allarmato «Non hai messo a tavola il succo di mirtilli, Asahi?» domandò la donna agitando la bevanda per farla vedere, aveva aperto il frigorifero per riporvi dentro alcuni dei piatti dolci che erano avanzati e un piacevole refrigerio aveva scosso l’aria calda della cucina.
«Di solito non piace mai a nessuno …» si giustificò il ragazzo grattandosi la nuca «Tu e Hotaru non sopportate nemmeno l’odore!».
«Perché fa proprio schifo!» si intromise Hotaru con aria allegra, sollevando una mano in aria come per rispondere alla domanda di un’interrogazione in classe.
«É il mio succo preferito».
Il commento di Maria, buttato fuori per l’impeto eccessivo di sorpresa, fece ammutolire tutti nella piccola cucina, Kaori fu la prima a rompere quel momento di immobilità inaspettata.
«È anche il succo preferito di Asahi! Deve essere proprio destino!» aggiunse infine ridacchiando divertita, mentre chiudeva il frigo e tornava a preparare tutto il necessario per il pic-nic che avrebbero consumato ad ora di pranzo.
Maria e Asahi si fissarono negli occhi per un po’, completamente presi in contropiede, per poi scoppiare a ridere mentre tornavano anche loro alla mansione che si erano scelti.
Doveva risultare estremamente strana ad entrambi la prospettiva di avere qualcosa in comune, ma anche se non lo ammisero mai ad alta voce, entrambi ne furono contenti.
 
 
Maria non era mai stata davvero in un cimitero.
Ne aveva visti tanti, certo, in televisione, nei giornali, in alcune scene dei manga che aveva letto, ne aveva sentito parlare, ne aveva appreso le caratteristiche nei libri.
Ma non era mai andata in un cimitero in carne ed ossa, con tutte quelle lapidi bellissime, le scritte dorate, l’aria fresca e l’erba appena tagliata, i fiori profumati, quelli freschi, quelli finti e tantissimi volti sorridenti, seri, giovani, vecchi che ricambiavano il suo sguardo.
Se avesse detto a qualcuno che non era mai stata in un cimitero, era sicura che l’avrebbe trovato estremamente strano, ma tutto sommato strano non lo era per nulla se non si aveva parenti stretti come nel suo caso, e se tutte le persone a cui teneva erano lì, vive.
Fujio non aveva fratelli, nonna Mariko era figlia unica e aveva perso i genitori quando era molto giovane, molto prima che incontrasse nonno Akio, che di genitori invece non ne aveva mai avuti, siccome era cresciuto solo in un orfanotrofio.
Era stata la guerra a renderlo tale, le aveva raccontato una volta quando era bambina.
Nel caso dei parenti di Simona invece, quei parenti italiani di cui non aveva visto il viso nemmeno una singola volta, Maria non osava nemmeno considerarli come tali.
Fu per quel motivo che cercò di starsene buona in disparte per tutto il tempo, tentando di non dare a vedere troppo la sua inesperienza di quei luoghi, o la curiosità con cui si guardava intorno, pensierosa.
Il cimitero era all’aperto, su una di quelle belle alture che si vedevano solamente nei drama in televisione, in una di quelle scene dove il protagonista e la protagonista dalla storia d’amore travagliata scoprivano di avere un passato tragico in comune.
Il tempo era bello, il cielo non era sporcato nemmeno da una sola nuvola, faceva caldo e i grilli sugli alberi di quercia, abete e pino frinivano sonoramente, al ritmo delle cicale vicine.
Nell’aria si respirava un dolcissimo profumo d’incenso.
Ogni tanto una brezza fresca passava tra le lapidi spostandole leggermente la gonna del vestito, altre persone visitavano quei luoghi scorrendo tra le file, silenziosi.
Maria stava cominciando a domandarsi se fosse normale provare tanta serenità e calma in un posto come quello, in un posto dove altre persone venivano per piangere tutto il proprio dolore, ma guardando quelle lapidi aveva provato una strana sensazione.
Tutte quelle persone che ricambiavano il suo sguardo, sembravano stare bene.
Ovunque si trovassero in quel momento, sembravano serene.
Sollevò lo sguardo dalla pila di lapidi accanto a cui stavano camminando e lo puntò sulla nuca scoperta di Asahi, dove alcune ciocche di capelli troppo corti erano fuggite al codino ricadendo sulla pelle chiara. Lui camminava un po’ più avanti, con la testa leggermente china e una mano tesa all’indietro verso di lei, dove l’indice e il medio si intrecciavano a vicenda in una presa non troppo ferrea, ma sorprendentemente salda.
Maria lo guardava intensamente, quasi volesse cercare di capire in tutti i modi i suoi silenzi, ed era sicura che Asahi potesse percepire quello sguardo, ma non si voltò.
«Eccoci papà!». L’esclamazione improvvisa di Hotaru la strappò da quel pensiero.
La ragazzina corse saltellando alla volta dell’ultima lapide della fila, quella nera con la scritta d’argento; vi si accovacciò davanti, diventando molto più piccola di quanto Maria avrebbe potuto immaginare considerato il suo metro e ottanta assicurato, e si aprì in un sorriso a trentadue denti mentre allungava la punta delle dita per accarezzare la foto di Hajime.
Maria aveva già visto una sua immagine in camera di Asahi, sulla sua scrivania. Un uomo alto, dal sorriso allegro e contagioso, i capelli lunghi arruffati e spettinati, con un bambino timido ma felice sulle spalle.
In quella fotografia Hajime aveva i capelli corti, tagliati di fresco e sparati in tutte le direzioni, il viso rasato, un sorriso genuino sulle labbra e la camicia con il papillon storto.
Doveva essere una fotografia scattata al suo matrimonio, perché era giovanissimo.
«Ti sei sentito solo, vero?» continuò a parlare Hotaru, mentre Kaori le si avvicinava per togliere i fiori vecchi dal vaso e sostituire l’acqua sporca con quella pulita.
«Hai visto come si è fatta bella la tua signorina?» domandò la donna sorridendo spontaneamente alla fotografia, mentre si inginocchiava a sua volta per sistemare i fiori freschi che aveva comprato poco prima sulla strada verso il cimitero.
«Sono cresciuta di altri due centimetri, sai papà? A scuola i ragazzi mi prendono tutti in giro. Le mie amiche dicono che non troverò mai un fidanzato per questo! Antipatiche!».
Hotaru sbuffò dopo aver pronunciato quelle parole e appoggiò i pugni chiusi sulle guance in un’espressione imbronciata molto infantile, nell’osservarla Maria provò una tenerezza difficile da spiegare, sentì uno strano magone alla bocca dello stomaco, se ne vergognò.
«Ma se sei bella come il sole!» le rispose di rimando Kaori, accarezzandole la testa mentre si tirava in piedi con una certa fatica, aggiustandosi le pieghe della gonna beige.
«Accendiamo l’incenso?».
Asahi si intromise per la prima volta, muovendosi improvvisamente in avanti verso la tomba, Maria fu colta di sorpresa e rimase ferma, lasciando in quel modo che le loro quattro dita intrecciate si sciogliessero con estrema facilità.
Asahi si girò a guardarla con aria interrogativa, l’espressione un po’ imbarazzata.
«L’incenso, mamma! L’incenso!» strepitò Hotaru tirando la donna.
«Aspetta Hotaru, con calma!» protestò debolmente Kaori inginocchiandosi nuovamente accanto alla figlia, mentre prendeva delle stecche di incenso da un incavo della lapide.
Nessuna delle due sembrava essere interessata a quel qualcosa di silenzioso che stava avvenendo tra Asahi e Maria, ancora intenti a fissarsi.
Non vuoi salutare mio padre? Le stava dicendo lui con gli occhi, la mano dietro la nuca.
Posso davvero farlo? Non sono di troppo? Diceva lei, gli occhi spalancati, ancora ferma.
«Maria, Asahi! L’incenso!».
Fu Hotaru a togliere il dubbio ad entrambi, si girarono a guardarla sentendosi chiamare in quel modo, ed osservarono entrambi per alcuni secondi le stecche di incenso che la più piccola stava porgendo loro con aria allegra, sventolandole.
Kaori aveva già acceso le sue e pregava in silenzio, gli occhi chiusi.
Per Maria, quando le sue mani afferrarono l’incenso, le ginocchia toccarono l’erba umida e l’odore intenso riempì ancora di più l’aria, quella scena cominciò ad acquistare tutto un altro valore.
Era onorata di conoscere Hajime, era onorata che Hotaru e Kaori l’avessero accettata nella famiglia come se niente fosse, anche solamente per quel giorno, senza fare domande, o chiederle che cosa ci fosse davvero tra lei e Asahi.
Era onorata da tutta quella situazione, che non era stata nient’altro che un’opportunità.
L’opportunità di vedere l’altra parte della medaglia, da tutto quel disastro che era successo solamente la sera precedente a casa sua ne era nato sicuramente qualcosa di buono.
Non sapeva ancora che cosa provava per Asahi: dell’affetto, non ne aveva alcun dubbio. Non sapeva nemmeno cosa provasse per Daichi, né in che cosa quei sentimenti si fossero trasformati.
Ma di una cosa era stata assolutamente sicura in quei due giorni, in quei due giorni in cui aveva davvero scoperto cosa significasse stare con qualcuno, anche solo per scommessa, anche solo per provare: che era immensamente grata ad Asahi, per tutto.
Maria sorrise sommessamente, mentre sentiva il fidanzato al suo fianco allungare il braccio per riporre le stecche appena accese nel vasetto di terracotta, e chiuse gli occhi giungendo le mani in una muta preghiera.
Piacere di fare la tua conoscenza, Hajime. Grazie per avermi accolta nella tua famiglia.
E le sembrò di vedere lì, dietro le palpebre chiuse, quell’uomo giovane il giorno del suo matrimonio, con la barba tagliata di fresco e il papillon storto, che le sorrideva cordialmente.
«Hai visto papà? A quanto pare i miracoli succedono davvero eh?».
Maria aprì lentamente gli occhi al suono della voce sprizzante di vitalità di Hotaru, si rese conto solamente in quel momento che la più piccola fissava lei e Asahi con aria malandrina.
Sembrava pronta con una di quelle battute piccanti che Maria stava scoprendo pian piano.
«Hotaru -» cominciò Asahi con aria lamentosa, ma la sorella lo precedette.
«L’avresti mai detto che Asahi avrebbe portato la ragazza a casa? E io che credevo di doverlo sopportare per tutta la vita fino alla vecchiaia!».
«Ehi!» l’esclamazione di Asahi arrivò quasi immediata, pronta.
Maria e Kaori scoppiarono a ridere contemporaneamente mentre Hotaru saltellava sul posto pizzicando il fratello più grande nei fianchi; Asahi stette al gioco per un po’, rosso in faccia, lamentandosi proprio come il bambino che sembrava.
Si fece pizzicare i fianchi per un po’, finché non si scocciò e afferrò Hotaru in braccio caricandosela sulle spalle come un sacco di patate, come se non pesasse nulla.
Si allontanarono insieme, parlando di raggiungere un piccolo ruscello dove facevano solitamente il pic-nic, Maria fece per seguirli, continuando a ridacchiare divertita a quella scena; fu solamente la vista di Kaori, rimasta indietro, a trattenerla.
La donna, approfittando del fatto che i figli si fossero allontanati, si era chinata verso la foto del marito e l’accarezzava con le dita tremanti, un sorriso tra le labbra e gli occhi lucidi.
Era una scena talmente bella e suggestiva che Maria sentì lo stomaco contrarsi.
Non poté fare a meno di domandarsi se un giorno anche lei sarebbe stata capace di amare in quel modo, anche dopo la morte, anche a chilometri di distanza …
Fu scossa dai suoi pensieri quando Kaori si chinò in avanti, come se volesse baciare la fotografia, distante dalle sue labbra solamente due millimetri di vetro.
Maria si girò di colpo, le guance rosse. Aveva avuto come l’impressione di trovarsi di fronte una scena troppo intima perché potesse aver avuto l’ardire di guardarla.
 
 
Il ruscello era bellissimo.
Si trattava di un piccolo corso d’acqua nascosto tra gli alberi, ai margini di una radura che era stata adibita a parco. Maria capì immediatamente perché fosse estremamente piacevole andare a pranzare in quel luogo; era assolato, ma c’erano gli alberi per ripararsi dal sole, era spazioso e vi si poteva correre liberamente, i bambini non davano fastidio con tutto quello spazio, inoltre l’acqua del ruscello era bevibile e trasparente.
Maria riusciva a vedere perfettamente la pelle pallida dei suoi piedi mentre li agitava come una bambina nella corrente, come poteva vedere il fondale sabbioso macchiato ogni tanto da qualche pietra, e i piccoli pesci che si avvicinavano ai suoi piedi facendole il solletico.
Nel punto in cui lei e Asahi si erano seduti la luce del sole faticava a filtrare a causa del grosso faggio che ne oscurava il percorso; i grilli frinivano incessantemente e una libellula troppo curiosa giocava con i capelli di Asahi nel tentativo di posarvisi sopra, ignorando i tentativi gentili del ragazzo di cacciarla via senza ferirla.
«Sei sicuro che a tua madre non dispiace se non le diamo una mano?».
Domandò Maria ad un certo punto, smettendo di fissare i propri piedi con intensità.
Voltò la testa giusto in tempo per vedere la piccola libellula spiccare il volo.
«Non preoccuparti» le rispose distrattamente lui, lo sguardo ancora sollevato al cielo.
La luce del sole che non riusciva a filtrare tra i rami degli alberi rendeva l’ambiente di un rosso abbagliante, compresa la faccia di Asahi, ora rivolta verso di lei.
«È davvero un bel posto» commentò Maria facendosi un po’ più vicina, nello scostare i piedi alcuni pesci scapparono, spaventati dal movimento improvviso.
Asahi, che non aveva voluto immergere i piedi nell’acqua come lei, lamentandosi del fatto che fosse troppo fredda per i suoi gusti, seguì quei movimenti distrattamente.
«D’inverno è un vero inferno» commentò, facendola scoppiare a ridere immediatamente; Maria allungò una mano nell’acqua e la schizzò sul viso di Asahi, che ancora distratto sobbalzò parandosi come se fosse stato colpito da un insetto molesto.
«Ehi» si lamentò debolmente, con il volto e l’avambraccio bagnato, la voce sempre più bassa di fronte al sorriso divertito che illuminava il piccolo volto spigoloso di Maria.
Quasi lo splendore che vi leggeva stesse rubando silenziosamente la sua voce.
«Sei contenta?» quelle parole gli sfuggirono di bocca, ma Asahi non si pentì di averle pronunciate, non se ne pentì nemmeno un po’ quando il sorriso sul viso di Maria rimase immutato e lei annuì con tale vigore da lasciare che i capelli le frustassero il viso.
«E tu?» gli domandò di rimando lei, facendosi ancora un po’ più vicina.
«Beh …» cominciò Asahi, grattandosi la nuca, aveva smesso di guardarla per fissare l’acqua limpida del ruscello, come se tutta quella trasparenza potesse aiutarlo a sistemare i suoi pensieri «Non mi aspettavo che le cose sarebbero finite in questo modo ma … sì, direi di sì». Lasciò che le labbra si increspassero in un piccolo sorriso e sollevò nuovamente lo sguardo, solamente per trovare quello di Maria perso nel vuoto.
«Stai pensando a casa tua, vero?» glielo chiese, ma la risposta era già evidente.
Come evidente sarebbe stato il fatto che Maria avrebbe negato la cosa con tutta sé stessa.
Fu con un pizzico di rammarico e un profondo sospiro che Asahi la vide scuotere la testa, mettere su quel sorriso finto che usava per mentire e aggrapparsi al suo braccio con forza.
«No, in realtà stavo pensando al fatto che non so quando sei nato».
Asahi provò un moto di sorpresa che non si era aspettato a quell’affermazione. Si era preparato mentalmente a lottare, ad affrontare l’argomento nonostante la sua resistenza evidente, eppure il modo in cui Maria riuscì a sviare il discorso lo destabilizzò notevolmente.
Alla fine l’unica cosa che riuscì a fare fu solamente rispondere.
«Sono nato il primo Gennaio».
Maria ci pensò un po’ su, aggrottò le sopracciglia, poi sgranò gli occhi.
«Sei un capricorno?!» domandò a voce troppo alta, puntandogli un dito contro.
«Già» replicò Asahi, arrossendo vistosamente, la mano pronta dietro la nuca.
Entrambi in quel momento dovevano essere tornati indietro nel tempo a qualche settimana prima, durante un pomeriggio molto caldo, diretti verso la palestra … 
Sono sicuro che Daichi-san ti accetterà Taniguchi-san. Ne sono certo.
Si, mi sento molto positiva! Ho anche scoperto che Daichi-san è del segno del capricorno! …
L’oroscopo dice che l’uomo della mia vita è del segno del capricorno. È destino!
Maria era sicura che avrebbe provato vergogna nel ripensare a quel giorno, che come Asahi sarebbe arrossita alla prospettiva di quale significato avrebbero potuto prendere quelle parole; eppure Maria non riuscì a fare nemmeno una tra quelle cose che aveva elencato.
Ripensò solamente a chi si era rivolta quel giorno, e pensò che per Asahi non dovesse essere stato affatto facile darle supporto, starle accanto con i sentimenti che provava, sentendo quelle parole che avrebbero potuto essere così vicine, se non fosse stato che erano per un’altra persona … Maria fece per aprire la bocca, aggiungere qualcosa, sentiva il bisogno assoluto di dover parlare, di dover dire, anche solo una parola …
Fu l’agitazione improvvisa che si scatenò alle loro spalle a spezzare il momento.
Si girarono di scatto, contemporaneamente, e prima che Maria potesse anche solo realizzarlo, Asahi era già in piedi e correva con tutte le sue forze alla volta del telo rosso e bianco dove fino a pochi istanti prima Hotaru e Kaori erano intente a sistemare il pranzo.
Maria ci impiegò qualche secondo a capire che la voce agitata che aveva sentito nello schiamazzo era quella di Kaori, come ci mise qualche secondo di troppo per uscire dal ruscello con i piedi ancora bagnati, prendere le scarpe e rendersi conto che Hotaru aveva appena avuto un malore.
Scivolò parecchie volte sull’erba nel tentativo di arrancare verso il telo.
Aveva il cuore che pompava troppo velocemente nel petto e temette davvero che sarebbe saltato fuori dalla gabbia toracica, eppure invece si fermò all’improvviso, come se avesse appena fatto una brutta frenata, quando vide quella ragazzina vivace che aveva conosciuto solamente poche ore prima respirare affannosamente tra le braccia del fratello.
Sembrava le mancasse l’aria, le mancassero le forze, aveva la mano stretta al petto.
Maria fermò la sua corsa così come si era fermato il suo cuore.
Rimase paralizzata per qualche istante, per poi lasciarsi cadere in ginocchio sul telo.
Non avrebbe voluto dare a vedere la sua paura e la sua angoscia, Asahi e Kaori non avevano tempo di pensare anche a lei o di preoccuparsi del fatto che non sapesse affatto gestire le situazioni come quelle, non avevano tempo per lei, eppure era davvero difficile.
Era troppo difficile controllare quella sensazione di panico imminente.
«Mamma!» esclamò ad un certo punto Asahi con voce ferma, una voce talmente ferma che Maria non poté fare a meno di sussultare nel rendersi conto, guardandolo in faccia, che non sembrava spaventato nemmeno un po’, al contrario, era padrone della situazione.
Come se quello fosse stato un segnale, Kaori afferrò di fretta la borsa, estrasse una boccetta piena di pillole e la lanciò immediatamente al figlio più grande, anche lei padrona di sé.
«Chissà oggi che sapore ha la medicina».
Nel sentire quella voce Maria percepì il cuore ritornare magicamente a pompare, nella fretta di tenere lo sguardo fisso su Asahi e Kaori aveva completamente perso di vista Hotaru; sembrava respirare con meno fatica, parlava con difficoltà, ma era serena
Asahi guardò la sorella per un solo istante, come se per un attimo brevissimo non avesse capito a cosa lei stesse facendo riferimento, poi le sorrise un po’ forzatamente mentre tentava di aprire la medicina con una sola mano.
«Quando l’ho assaggiata io sapeva di mango» replicò immediatamente il ragazzo, poi sollevò lo sguardo, incrociando quello di Maria per la prima volta da quando era corso via dal ruscello. Lei sperò ardentemente che non le si leggesse in faccia il terrore «E a te, Maria? Che gusto aveva per te la medicina?» le domandò fissandola, un muto messaggio.
Un messaggio che Maria non riusciva a capire.
Sbatté un paio di volte le palpebre, aprì la bocca un paio di volte, fece fatica a parlare.
«Io -»
«Ma come, non lo sai?» la interruppe inaspettatamente Hotaru, sorridendo «Questa è una pasticca magica!» esclamò con vigore, aspettando con pazienza che il fratello riuscisse nell’intento di estrarla dalla boccetta senza rovesciarne tutto il contenuto «Cambia gusto a seconda delle persone che la prendono» terminò la spiegazione, soddisfatta.
Maria ci impiegò forse qualche secondo di troppo per capire che doveva essere un gioco.
Doveva essere un gioco che qualcuno aveva inventato per Hotaru, probabilmente quando era bambina. Capì che per Asahi e Kaori quella situazione era familiare, ma non per quel motivo doveva essere meno spaventosa; e capì anche che avrebbe dovuto reagire.
Per aiutare Asahi e Kaori avrebbe dovuto reagire e rispondere a quella domanda.
Si schiarì la gola, trasse un respiro breve ma efficace, e ritrovò il controllo di sé stessa.
«Fragola» rispose «Sapeva di fragola».
«A me sapeva di kiwi» intervenne Kaori, il viso pallido, le mani strette attorno alla stoffa della gonna, ma il viso di una persona risoluta aperto in un sorriso di pura rassicurazione.
Maria capì ancora un’altra cosa in quel momento: Kaori era una persona molto forte.
Asahi riuscì ad estrarre finalmente la pillola con molta fatica, la diede velocemente alla sorella, senza aspettare oltre; Hotaru fece una piccola smorfia quando la mandò giù, ma seguendo le regole di quel gioco che Maria aveva imparato da poco, non disse che era amara, che le procurava fastidio allo stomaco o altre cose del genere.
«Ah! Oggi sa d’arancia!» esclamò invece, e schioccò le labbra come se fosse deliziata.
Ed ecco un’altra persona davvero forte in quella famiglia.
Maria sollevò lo sguardo e fissò il profilo di Asahi, domandandosi se anche lui non fosse forte e piuttosto lo nascondesse; quando i loro sguardi si incrociarono per caso non si dissero nulla, come parecchie volte avevano già fatto durante quella giornata infinita.
Eppure, per Maria fu come se Asahi avesse parlato, ad alta voce anche.
Quel “grazie per essere stata forte” l’aveva sentito senza fatica.
 
 
Asahi la riaccompagnò a casa che il sole striava già il cielo di rosso.
Era grande, luminoso, si stagliava su di loro come se volesse occupare tutto lo spazio disponibile di quel cielo troppo grande, già occupato per metà dalle stelle che spuntavano una alla volta sempre più numerose.
Maria era stanca, eppure si sentiva appagata e in pace con sé stessa.
Non aveva davvero voglia di ritornare a casa, sebbene Simona dovesse essere già andata via da un pezzo siccome aveva l’aereo nel primo pomeriggio, ma la prospettiva di affrontare quella conversazione con i suoi nonni o con suo padre la demoralizzava tantissimo.
Era andata via senza dire una sola parola, era andata via in preda alla furia e non aveva nemmeno avvisato Kiyoko nel caso l’avessero cercata da lei.
Era andata e basta, senza prendersi le responsabilità delle sue azioni, convinta che sarebbe stata in grado di affrontarle più avanti … quel “più avanti” era arrivato e Maria non si sentiva pronta nemmeno un po’.
La notte passata con Asahi, quella bellissima giornata trascorsa con la sua famiglia, era stata una bellissima illusione, sufficiente a darle la sensazione di poter dimenticare che la sua realtà era ben’ altro e che sarebbe arrivato il momento di affrontarla prima o poi.
«Mi racconti la storia delle pasticche di Hotaru?».
Si ritrovò a domandare ad un certo punto per spezzare il silenzio. In realtà, le strade quel pomeriggio erano piuttosto affollate, le macchine passavano spesso facendo un rumore infernale; era il silenzio che si era creato nella sua testa che Maria voleva cancellare.
Asahi si grattò distrattamente il braccio e fece spallucce, aveva la faccia leggermente arrossata sugli zigomi e la punta del naso completamente scottata dal sole.
«È un gioco che ha inventato papà» spiegò lui continuando a camminare a passo lento, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e l’espressione serena di chi aveva avuto una giornata un po’ stancante, ma ugualmente appagante. «Quando Hotaru era bambina farle prendere quella medicina era davvero uno strazio!» continuò a raccontare con un sorrisetto accennato sulle labbra, lo sguardo distante puntato verso l’orizzonte, perso in qualche ricordo felice della sua infanzia.
Un’infanzia ancora talmente vicina che sarebbe bastato fare un passo indietro e svoltare l’angolo per trovarla ancora lì, eppure talmente lontana che andare avanti sarebbe sempre e comunque stata l’unica soluzione possibile.
«Andava a nascondersi da tutte le parti pur di non farsi trovare. Una volta si nascose nella lavatrice!» Asahi scoppiò a ridere al ricordo, un sorriso pieno che mostrava i denti.
«Davvero?» domandò Maria di riflesso, scoppiando a ridere a sua volta.
«Giuro! Era talmente minuta che ci entrò benissimo! Impiegammo delle ore per trovarla, mamma era sull’orlo delle lacrime, papà nel panico, io non la smettevo di piangere ... fu un vero disastro … una giornata da dimenticare» si interruppe e arrossì leggermente quando incrociò lo sguardo interessato di Maria così vicino al suo, si era reso conto solamente in quel momento che nell’ascoltare il suo racconto le si era avvicinata maggiormente.
«Ma cosa fai?!» lo rimproverò bonariamente lei «Invece di aiutare, piangi?!».
«Ora non piango più!» si giustificò immediatamente Asahi, grattandosi la nuca.
Maria rimase in silenzio per un po’ prima di rispondere, il sorriso che aveva sulle labbra si rilassò leggermente, tingendosi di una sfumatura più triste che Asahi faticò ad interpretare, almeno finché lei non aprì nuovamente bocca.
«Già. È evidente che non piangi più».
E non servì aggiungere altro. Non servì chiedere se fosse stato difficile nel corso degli anni doversi abituare a quelle situazioni, se fosse stato difficile prendere un posto che non era suo alla sola età di dieci anni, se fosse stato difficile imparare a conviverci.
Quelle, erano domande che non avevano bisogno di nessuna risposta.
«Da quel giorno papà inventò il gioco dei “gusti”. Hotaru lo trovò talmente divertente che non ha mai smesso di giocarci, nemmeno quando era già abbastanza grande da capire che prendere quella medicina amara era estremamente necessario».
Quando Asahi smise di parlare, si accorsero entrambi di essere arrivati a destinazione.
Fu strano doversi separare, erano stati insieme solamente il tempo di una notte e un respiro durato qualche ora di sole; eppure era stato comunque molto più di quanto avevano avuto in quella settimana.
Mentre si alzava sulle punte dei piedi e avvolgeva le braccia attorno alle spalle di quel gigante buono, Maria si ritrovò a pensare che erano proprio strani loro due.
Non facevano mai le cose nell’ordine giusto.
«Grazie» gli mormorò ad un centimetro dalle labbra, prima di dargli un bacio a timbro.
Si era alzata sulle punte dei piedi per farlo, era vero, ma Asahi aveva comunque dovuto abbassarsi un po’ per assecondare quel suo desiderio, sebbene rosso in faccia dalla vergogna.
«Ci vediamo domani» replicò lui grattandosi la nuca quando lei lo ebbe lasciato andare.
Maria aspettò di vederlo allontanarsi a passo lento, con la schiena curva, prima di rientrare in casa; probabilmente, se non avesse prestato troppa attenzione alla strada e si fosse girata giusto qualche secondo prima, avrebbe visto la tenda di una delle finestre di casa abbassarsi velocemente.
«È andata da Kiyoko-san eh?» borbottò Akio allontanandosi dalla finestra con fare burbero e il broncio di un bambino capriccioso.
Al suo fianco Mariko aveva ancora un sorriso contento sulle labbra; rivolse al marito un’occhiataccia e lo seguì nella cucina con il dito puntato.
«Akio-san! È stato solo un bacino innocente!» lo rimproverò.
Akio si lasciò cadere a terra, prese la pentola in cui stava sbucciando le patate fino a pochi secondi prima e si rimise al lavoro con fare ancora più rabbioso.
«È pur sempre un bacio!» la rimbeccò buttando con troppa energia un tubero nella pentola, mancò il bersaglio e la patata di schiacciò sul pavimento, sotto lo sguardo sempre più esasperato di Mariko, che si inginocchiò immediatamente per pulire.
Fu in quel momento che sentirono la porta di casa aprirsi lentamente.
«Non ti azzardare a dire nulla!» berciò la donna in direzione del marito, prima di tirarsi in piedi, gettare i resti della patata schiacciata nella pattumiera, pulirsi le mani sul grembiule e raggiungere la nipote, che nel frattempo era arrivata fino all’uscio della porta della cucina.
«Maria!» esclamò afferrandole il viso tra le mani «Stai bene?».
La ragazza sembrò provare un certo disagio per l’apprensione evidente nella voce della nonna, le scostò gentilmente le mani dal suo viso e annuì un paio di volte, abbassando gli occhi per quel piccolo seme di vergogna che le stava nascendo nel petto.
«Sto bene, nonna» mugugnò, il tono leggermente esasperato.
La vergogna che provava in quel momento non riguardava affatto la bugia che aveva raccontato loro la sera precedente, o quello che aveva fatto con Asahi e la sua famiglia, la vergogna che provava era legata al pensiero di averli fatti preoccupare in quel modo.
Di essersi lasciata ancora una volta travolgere dalla rabbia.
Di essere scappata troppo facilmente.
Tuttavia, le era bastato rimettere piede nuovamente in quella casa perché i ricordi della sera precedente tornassero ad avvelenarle il pensiero, sporcando tutte le sensazioni positive che aveva provato quella mattina in compagnia della famiglia di Asahi.
«Kiyoko-san si è presa cura di me» aggiunse successivamente, nel disperato tentativo di sembrare più coinvolta nella discussione, mentre non desiderava altro che finisse lì.
«Kiyoko-san, eh?» borbottò a quel punto il nonno, che se n’era stato stranamente zitto per tutto il tempo, Mariko si girò per rivolgergli un’occhiataccia eloquente, ma Akio fece finta di non notarla «Non sapevo che le fosse cresciuta la barba!» continuò a borbottare l’uomo imperterrito, intento a sbucciare le ultime patate con fare frenetico e nervoso.
«Akio-san, metti quelle patate sul fuoco!» lo rimbeccò Mariko colpendolo senza pietà sulla spalla destra con lo strofinaccio da cucina.
Se Maria avesse sentito quel commento o meno, non fu chiaro a nessuno dei due, né lei fece alcun tipo di espressione che potesse aiutare gli adulti a capire.
«Dov’è andato papà?» si ritrovò piuttosto a domandare la ragazza, mentre entrava nella cucina e si metteva seduta compostamente accanto al nonno, lisciandosi la gonna tutta spiegazzata in seguito al lavaggio della mattina.
Né Mariko, né Akio risposero immediatamente, l’una intenta a preparare la cena con aria piuttosto indaffarata, l’altro affaccendato accanto al fornello.
«Ha accompagnato Simona all’aeroporto» disse ad un certo punto Mariko, trovando il coraggio, mentre si asciugava le mani sul grembiule tutto sporco e si fermava per guardare la nipote con un sorriso gentile, ma evidentemente cauto sulle labbra sottili. «Dovrebbe tornare a momenti» concluse; Maria non sembrò minimamente turbata dalla notizia.
Mise piuttosto su un’espressione annoiata, appoggiando il gomito sul tavolino.
«Cos’è successo ieri sera quando me ne sono andata?».
«Tuo padre ti è corso dietro» sbottò Akio, lasciando perdere le patate sul fuoco per mettersi seduto davanti la nipote, braccia conserte e cipiglio arrabbiato «Ma pioveva troppo forte e ti ha perso di vista». Maria trovò poco rassicurante il tono di voce del nonno, o il fatto che la stesse guardando direttamente negli occhi, sapeva che stava per arrivare una ramanzina, ma se l’era anche aspettata, quindi non si lasciò scoraggiare.
«Quando è rientrato in casa ha afferrato le cose di tua madre e ha insistito per riaccompagnarla all’Hotel» continuò il racconto Mariko, anche la donna aveva rivolto totalmente la sua attenzione alla conversazione, sebbene avesse deciso di non avvicinarsi.
«Simona voleva raggiungerti immediatamente. Alla fine, l’abbiamo convinta ad andare via di qui» Mariko fece una pausa di alcuni secondi «Ci ha detto di salutarti».
Maria sbuffò immediatamente nel sentire quelle parole, un sorriso ironico sulle labbra.
Avrebbe volentieri replicato qualcosa di piccante, rivangando facilmente le parole che aveva sentito pronunciare la sera precedente da quella donna, ancora stampate a fuoco nella sua mente, se nonno Akio non avesse sbattuto violentemente una mano sul tavolo.
La fece sobbalzare e ammutolire contemporaneamente.
«Levati quel sorriso dalla faccia, Maria!» la rimproverò, puntandole un dito nodoso contro «Per quanto Simona possa averti fatto arrabbiare ieri sera, tu sei stata molto più stupida di lei!» sbottò il vecchio, picchiettando con ferocia il dito che le aveva puntato contro solamente pochi istanti prima sul piano di legno del tavolino.
Maria non replicò, troppo attonita per trovare le parole adatte.
«Quante volte ti ho detto di non abbassarti mai ai suoi livelli?! Ieri sera hai fatto solamente il suo gioco andandotene di casa in quel modo!» Maria avvampò, abbassando lo sguardo. Una sensazione di rabbia mista a vergogna nel rossore che le imporporava le guance.
«Quella donna non si merita nulla da te!» continuò il vecchio, la voce sempre più alterata e il dito che continuava a battere con più forza, sottolineando ogni parola.
«Dimostrale sempre che sei migliore di lei, sempre!».
Akio smise di parlare e nella piccola cucina cadde un silenzio pesante.
Solamente il rumore della porta nell’ingresso lo infranse.
Fujio comparve sull’uscio con l’espressione stanca di una persona che si era lasciata alle spalle una questione difficile, anche se solo temporaneamente, ed era pronta ad affrontarne un’altra sapendo che quella lunga giornata sarebbe durata ancora per un po’.
Cambiò totalmente attitudine non appena si accorse che Maria era lì, con loro.
Fu il sollievo la prima emozione che sostituì quell’espressione stanca.
«Maria!» esclamò l’uomo entrando nella stanza «Quando sei tornata?».
Nel rispondere, Maria cercò di ignorare, abbassando lo sguardo, il fatto che il viso di suo padre sembrava essere ringiovanito di dieci anni rispetto a quando era entrato in cucina.
«Sono tornata solamente pochi minuti fa».
Fujio annuì, distogliendo lo sguardo a sua volta, incrociò le braccia sui fianchi ed entrò in cucina guardando prima la madre, indaffarata a controllare la cena sul fuoco, e poi il padre, con lo sguardo truce ancora puntato sulla nipote, che imbarazzata giocava con i pollici.
«Ho chiamato Kiyoko-san, stamattina. Stavi dormendo. Te l’ha detto?».
Continuò a raccontare Fujio, mettendosi anche lui seduto attorno al piccolo tavolo con aria leggermente titubante, mentre osservava di sottecchi la figlia, senza sapere se dire altro.
Aggiungere parole inutili, chiarire la situazione una volta per tutte.
Maria, nel frattempo, sentiva lo sguardo del padre addosso, ma erano le parole che lui aveva pronunciato la sera precedente a rimbombarle nella testa, ancora vive al pari di quelle di Simona, probabilmente molto più forti e potenti.
«Si, me l’ha detto …» mormorò, trovando finalmente il coraggio di guardarlo.
Nonno Akio bofonchiò qualcosa alla sua destra, qualcosa a proposito di yakuza, capelloni e barba, ma un calcio nel fianco da parte di Mariko mentre passava accanto a lui per sistemare la cena al centro del tavolo, lo fece ammutolire immediatamente.
Rimasero in silenzio per un po’; Maria non seppe dove trovò il coraggio di farlo, ma sentì semplicemente che era l’unico modo per ringraziare suo padre senza esporsi troppo.
Prese con gentilezza il mestolo dalle mani di sua nonna e si apprestò a riempire lei il piatto di suo padre, facendo attenzione che fosse una porzione piuttosto abbondante e ricca di carne e verdure; il ramen era il piatto preferito di Fujio e Maria lo sapeva.
«Ecco a te, papà» mormorò in fine, sistemandogli con cura la ciotola ricolma davanti.
Fujio la guardò per alcuni secondi senza sapere che cosa dire, evidentemente colpito da quel gesto di ringraziamento che non si era aspettato.
Ci sarebbero state davvero tante cose da dire, decisamente troppe.
Ma Fujio si convinse che ce ne sarebbe stato modo nel tempo a venire, per quella sera si limitò semplicemente a prendere le bacchette ed assaggiare con gusto i noodles fatti in casa.
«Sono buoni?» domandò Mariko accarezzando il figlio dietro la nuca.
Fujio annuì, come se fosse ancora un bambino piccolo a cui la mamma aveva preparato qualcosa di delizioso da mangiare dopo una giornata di scuola andata male, per consolarlo.
«Sono deliziosi».
Quando Maria salì nella sua stanza, più tardi, sentiva l’animo decisamente più leggero.
Si lasciò cadere sul letto con il cellulare stretto tra le mani, aveva una marea di chiamate e messaggi sullo schermo, ma li avrebbe letti con calma.
Si sarebbe anche premurata di scusarsi con Kiyoko il prima possibile, i messaggi dell’amica erano quelli più numerosi e minacciosi, ma nonostante tutto si era comunque premurata di coprirla e Maria gliene sarebbe stata eternamente grata.
Per quella sera si limitò a chiudere gli occhi e cadere in un sonno profondo.
Quella notte non sognò nulla.
 
 
Tornare a scuola il giorno successivo fu un sollievo, ma anche piuttosto strano.
Le sembrava di essere stata lontana da quel posto per mesi interi, mentre erano passati solamente pochi giorni; la verità era che Maria non aveva avuto tempo di pensare a quello che le era successo tra quelle quattro mura la settimana in cui Simona era stata lì.
Aveva avuto a malapena il tempo di arrivare a scuola la mattina e di andarsene immediatamente appena le lezioni e gli allenamenti al club terminavano, solamente per farsi trasportare a destra e sinistra tutto il pomeriggio da quella donna insopportabile.
Era stato un buon modo per non pensare, lo doveva ammettere, perché altrimenti sarebbe stato molto più difficile per lei cancellare quelle immagini orribili dalla mente.
Le brevi e fugaci pause con Asahi, sul terrazzo, erano state l’unica fonte di respiro per lei in quei giorni tremendamente caotici.
Fu per quel motivo che quella mattina, appena mise piede nell’edificio, finalmente con la mente sgombra, l’ansia che non aveva provato per tutti quei giorni frenetici la investì senza precedenti, ed ebbe paura di imbattersi in Takumi ogni angolo che girava.
Shimizu doveva aver notato qualcosa perché, dopo la serie di rimproveri che le aveva rivolto non appena l’aveva vista, all’ora di pranzo si propose di lasciar perdere l’appuntamento che aveva con Sugawara per restare con lei.
Maria aveva sorriso, tentando di risultare il più naturale possibile e l’aveva rassicurata.
Avrebbe raggiunto qualcuno dei ragazzi per pranzare insieme.
Shimizu non le era sembrata molto convinta, ma non aveva insistito oltre.
Maria aveva il passo accelerato mentre percorreva i corridoi che l’avrebbero portata verso la palestra, erano affollati e non avrebbe dovuto temere nulla, ma non riusciva a togliersi quella fastidiosa sensazione che le faceva venire i brividi lungo la schiena e le suggeriva che stava per succedere qualcosa di poco piacevole.
Fu comunque inaspettato per lei sentirsi afferrare per il braccio all’improvviso, le fece male quella stretta ferrea, nonostante provenisse da una mano piuttosto piccola.
Maria capì immediatamente che non era la mano di Takumi, aveva avuto troppe volte la spiacevole sensazione di sentirsele addosso da riconoscerle senza difficoltà, ma non ebbe il tempo di capire a chi appartenessero, perché si abbatterono sul suo viso prima che potesse realizzarlo.
Lo schiaffo fu forte e le fece male.
Quando si portò una mano sul viso, gli occhi sgranati e i capelli che le frustavano il collo per lo spostamento d’aria improvviso, era talmente incredula che guardò Arisa come se fosse impazzita; di tutte le persone che aveva avuto paura di incontrare, lei era stata l’ultima.
«Eccola qui la puttana che non sa tenere le cosce chiuse!» sbottò quella con voce alterata, scagliandosi nuovamente verso di lei come una furia; Maria non ebbe modo di respingerla, con le mani ancora sul viso arrossato, Arisa le afferrò i capelli e tirò.
«Ti è piaciuto fare la gatta morta con il mio ragazzo?!» continuò a sbraitare quella, tirandole i capelli con sempre più violenza, Maria non ebbe nemmeno modo di rispondere, era troppo impegnata dal tentativo di liberarsi ed evitare che le lacrime di dolore le appannassero la vista.
«Credevi che l’avresti fatta franca, vero? Mi dispiace per te, troia! Shoji mi ha raccontato tutto!» Arisa aveva raggiunto un tale livello di isteria nella voce, da gridare nello stesso identico modo di una gallina impazzita, Maria non osava nemmeno immaginare la folla di persone che doveva essersi andata a creare nel corridoio già affollato.
Ma ormai doveva essere abitudine per gli altri trovarla in quelle situazioni.
Alla fine, era un bene che non potesse vedere la scena, mentre Arisa le tirava i capelli all’ingiù nel tentativo di farla finire per terra ai suoi piedi.
«Ti è piaciuto appartarti nell’aula di musica con Takumi, vero?! Non hai la minima dignità per provarci addirittura con un uomo a cui fai ribrezzo! Meno male che il mio Takumi è un signore, e non si lascia irretire dalle gatte morte come te!».
Al suono di quelle parole, mentre lottava disperatamente per non cadere a terra e non gridare, le scene di quel pomeriggio terribile le tornarono in mente come tanti flashback velocizzati; non ci vide più dalla rabbia e menò uno strattone violento.
Maria sapeva che in quel modo avrebbe rischiato di farsi strappare tutti i capelli, ma non le importava, cominciò anche a tirare schiaffi e pugni.
«Qualcuno dovrebbe fermarle!» mormorarono nella calca.
«Chiamiamo i professori?» bisbigliò qualcun altro.
Maria avrebbe voluto mandarli tutti quanti a quel paese, continuavano a guardare e mormorare eccitati invece di intervenire … beh, non che se lo fosse aspettato ad ogni modo.
«Il tuo ragazzo è un animale!» riuscì a ringhiare tra uno schiaffo e l’altro, ci stava mettendo sempre più forza nel colpire Arisa sulle braccia che le tenevano i capelli, ma quella sembrava sopportare bene il dolore e aveva una stretta ferrea «Fatti raccontare la verità invece di passare per una cretina!».
Maria sapeva che provocarla non avrebbe migliorato la sua situazione, ma non poteva sopportare che l’avesse vinta in quella situazione e si prendesse la sua soddisfazione.
«Ti strappo tutti i capelli dalla testa!» strillò Arisa, ancora di una tonalità più alta.
«Ma che cazzo succede qui?!» sbottò una voce all’improvviso.
Maria la trovò stranamente familiare, ma prima che potesse realizzare di chi fosse, arrivò finalmente il sollievo, sentì la stretta sui suoi capelli sparire all’improvviso, il cuoio capelluto pulsare dolorosamente e una serie di passi affrettati ai suoi lati.
Quando sollevò la testa, con il viso stravolto, rosso come gli occhi chiari ancora pieni di lacrime mai cadute, i capelli le frustarono la faccia scombinati, sparati in tutte le direzioni.
Si sentì afferrare in una stretta sicura e, in un attimo di sgomento assoluto, si rese conto che ad avvolgerle un braccio attorno alle spalle era stato Tsukishima.
Al suo fianco c’era anche Nishinoya, che le sorreggeva la vita, mentre Kageyama teneva ferma Arisa per i polsi, che si divincolava, aiutato da Tanaka.
Maria si rese conto che i passi affrettati che aveva sentito dovevano esse stati i loro, e che la voce familiare era semplicemente quella di Kageyama, rabbiosa come quando se la prendeva con Hinata per qualcosa e lo chiamava “boke” ripetutamente.
«Tutto bene, Tani-chan?» le domandò Nishinoya al suo fianco, aveva l’espressione più seria che gli avesse mai visto in faccia, Maria si limitò ad annuire, ancora stravolta.
«Ma sei impazzita?!» sbraitava nel frattempo Kageyama, tenendo sempre più forte la stretta sui polsi di Arisa, che aveva le mani chiuse a pugni ancora piene dei capelli di Maria.
«Lasciami andare! Lasciami andare ho detto!» gridava lei, isterica.
«Tu sei di gran lunga la donna più brutta e fastidiosa che ci sia sulla terra!».
Replicava di rimando Tanaka, tentando inutilmente di farle aprire i pugni, come se volesse raccogliere i capelli di Maria in qualche modo per restituirglieli più tardi.
«Non mi interessa se a vuoi piace scoparvela a turno, ma non si doveva permettere di allungare le mani sul mio fidanzato!» Continuò a sbraitare Arisa, rossa in faccia.
Kageyama la guardò allucinato e disgustato per un secondo, poi la lasciò andare talmente di colpo che Arisa si sbilanciò, rischiando di cadere malamente a terra se non fosse stato per una delle sue amiche corpulente che la afferrò di spalle previdentemente.
«Allungare le mani sul tuo fidanzato?» la schermì Tsukishima con la sua solita calma.
Non aveva ancora spostato il braccio dalle spalle di Maria, ma quest’ultima non ci pensò nemmeno di scostarlo. Lo trovava strano, ma non le dava alcun fastidio in quel momento.
Kei avrebbe aggiunto sicuramente uno dei suoi commenti sarcastici ma efficaci, se proprio in quel momento non fossero arrivati Daichi, Suga e Asahi.
Ridevano di qualche battuta divertente, ma smisero immediatamente e progressivamente non appena si resero conto della situazione; non fu difficile per loro ricostruire la scena.
Bastò guardare Maria rossa in viso, Arisa con ancora i suoi capelli stretti nei pugni per capire esattamente che cosa era successo e come erano andati i fatti.
«Che cosa sta succedendo qui?» domandò Daichi con un sospiro pesante.
Aveva fermamente creduto che quella situazione non si sarebbe più verificata dopo gli avvertimenti che aveva avuto Takumi solamente una settimana prima, invece Maria aveva dovuto sopportare anche quell’umiliazione e lui era arrivato ancora una volta troppo tardi.
Nel frattempo, Asahi si era accostato a Maria e aveva preso il posto di Tsukishima, che con discrezione si era fatto da parte, scivolando via con una naturalezza che poche persone avrebbero notato; fortunatamente per lui nessuno aveva un occhio attento lì.
Nessuno tranne Sugawara, che si limitò ad osservare la cosa in silenzio, e Nishinoya, che aggrottò distrattamente la fronte quando vide l’amico fifone così preoccupato; tuttavia non disse nulla, probabilmente si rendeva conto che non era il momento di parlare, nonostante la sua consueta irruenza nel fare qualsiasi cosa.
«Ah!» esclamò Arisa rompendo quell’attimo di immobilità.
Aveva finalmente lasciando andare i pugni, i capelli di Maria strappati con violenza erano a terra, si portò le braccia sotto il seno, scansando Kageyama senza prima tuttavia rivolgergli un’espressione disgustata, e si avvicinò a Daichi con un sorriso sarcastico sulle labbra.
«Proprio la persona con cui volevo parlare!» berciò, compiaciuta di se stessa.
Non si rese nemmeno conto del totale disinteresse negli occhi di Daichi.
«Fai attenzione alla tua troietta. Non è colpa mia se non la fai godere abbastanza, ma non deve provarci con il mio uomo, è chiaro?».
Daichi non ebbe modo di replicare a quelle parole, come nessun altro tra loro, che un’altra voce, carica di preoccupazione e spavento, intervenne sulla scena già incredibilmente affollata. In realtà, con l’intervento di Daichi molti dei passanti se n’erano andati, ma altri se ne stavano ancora lì, tremendamente curiosi di sapere come sarebbe andata a finire la cosa.
«Che cosa stai facendo, Arisa?».
Takumi era pallido mentre fissava la fidanzata, era preoccupato.
Rivolse un’occhiata veloce a Daichi e Suga, mentre ignorò completamente Maria e Asahi.
Dall’espressione sul suo viso, era evidente che avrebbe voluto chiudere la faccenda il prima possibile; prese Arisa per il polso senza troppi complimenti e la tirò via.
«Lasciate in pace la mia ragazza!» sbottò tuttavia alla fine, con tono misero.
Daichi capì perfettamente che quell’affermazione non era nient’altro che un banale tentativo di salvarsi la faccia di fronte alla sua banda, che tuttavia doveva aver percepito qualcosa.
Tutti lo guardavano straniti, la stessa Arisa si lasciò tirar via opponendo resistenza.
«Ma che fai?!» sbottò infatti, strattonandolo «Io non ho finito finché quella non ammette di averci provato con te!».
Takumi rivolse ad Arisa un’espressione di puro terrore e orrore.
Era stato lui a dire a Shoji che Maria ci aveva provato, era stata un’ottima scusa per farsi due risate, per prenderla un po’ in giro come al solito, la verità non avrebbero dovuto saperla mai. Takumi non aveva preso minimamente in considerazione l’ipotesi che potessero dirlo ad Arisa, né che lei potesse mettere su una scenata del genere.
Doveva chiudere quella faccenda il prima possibile, o sarebbe bastato un passo falso per finire in guai seri.
«Puah!» esclamò Tanaka scoppiando in una risata esageratamente finta che attirò un po’ l’attenzione di tutti «Hai sentito Noya? Tani-chan ci avrebbe provato con lui!».
Noya scoppiò a ridere nello stesso modo esagerato, prendendo l’amico sotto braccio.
Nessuno della squadra si sentì in dovere di fermarli.
«Come se qualcuno potesse provarci con quel tipo!».
«A meno che tu non stia parlando di una facile con la faccia da cavallo».
Si intromise distrattamente Tsukishima nella conversazione, mentre sistemava gli occhiali.
Molti dei presenti scoppiarono a ridere, alcuni appartenenti allo stesso gruppo di Takumi.
«Oh! Ma come ti permetti!» sbottò Arisa, immediatamente inviperita.
«Calma i bollenti spiriti, puledrina» intervenne inaspettatamente Kageyama «Prima di piantare una scena come questa, accertarti della verità dei fatti».
«Quali sarebbero questi fatti, sentiamo!?» disse lei con sfida, rossa in faccia.
«Già, vorremmo saperli anche noi» si intromise Shoji, braccia conserte.
Takumi guardò Daichi fisso negli occhi, ma il capitano della Karasuno sembrava del tutto intenzionato a far sì che quella scenetta pietosa, quanto meno per lui, continuasse fino alla fine. Il bullo afferrò nuovamente Arisa per il braccio, tirandola via, senza rendersi conto che in quel modo non avrebbe fatto altro che alimentare maggiormente i dubbi dei suoi amici.
«Che il tuo fidanzato ha cercato di forzare Maria nell’aula di musica».
La dichiarazione di Nishinoya, pronunciata senza troppi complimenti, fece zittire tutti.
«Non è vero!» scattò immediatamente Arisa «Shoji mi ha detto che è stata lei a -».
«Perché non controlli le telecamere? Ti assicuro che il video è piuttosto chiaro» aggiunse Kageyama con un tono di voce estremamente disgustato.
A quel punto, siccome Takumi non aggiunse nulla, tutti gli altri si fecero silenziosi.
Il corridoio si era lentamente svuotato come la campanella aveva annunciato la fine della pausa pranzo, lasciando solamente i protagonisti di quella scena a chiudere finalmente la faccenda.
Seguì un momento di immobilità assoluta, poi il braccio di Arisa scattò e si abbatté sul viso di Takumi con tale violenza da lasciargli anche i segni dei graffi provocati dai suoi artigli.
«Mi fai schifo!» gli sputò in faccia e senza scusarsi, senza aggiungere altro, rabbiosa e con le lacrime agli occhi per la vergogna, se ne andò, non senza aver prima spintonato Kageyama, estremamente soddisfatto, che si trovava sulla sua strada.
Anche la combriccola di Takumi si ritrovò a mormorare contrariata, lo sguardo che rivolsero al loro “capo” era pieno di disgusto, fu con estrema soddisfazione che Daichi e Asahi lo videro allontanarsi disperatamente, inseguendo i suoi amici per spiegarsi.
Takumi non avrebbe dato più fastidio, quella era la fine dei giochi.
Quando il corridoio si fu lentamente svuotato, Maria tornò improvvisamente a respirare.
Era stata una scena terribile, aveva dovuto sopportare fino alla fine anche quell’ennesima umiliazione, la testa le faceva male dove Arisa aveva tirato senza pietà, ma era serena.
Era finalmente serena, quella storia era chiusa per sempre.
Ed era tutto merito di quei ragazzi, quei ragazzi a cui non aveva dato nulla, e che tutto invece le avevano dato in cambio, senza pretese, senza doppi fini, in un modo talmente naturale che Maria non riusciva ancora a capacitarsene.
«Tutto bene quel che finisce bene» commentò Daichi con aria serena «Ci aspettano gli allenamenti!», sembrava contento e un bel sorriso gli illuminava il viso giovane.
Le si avvicinò e le scombinò affettuosamente i capelli già completamente in disordine.
«Ah! Quando ci siamo noi Tani-chan non ha nulla da temere!» esclamò Noya con forza.
«La proteggeremo fino alla morte!» replicò a sua volta Tanaka, affiancando l’amico.
I due poi presero a tormentare i poveri Tsukishima e Kageyama, che si erano fatti valere in quel duello verbale, i due primini sarebbero tornati a casa con qualche livido nel fianco quella sera. Maria guardò la scena e scoppiò a ridere, grata che non fosse stato detto altro.
Non ne avrebbero parlato, ed era giusto che andasse in quel modo.
I gesti erano valsi più di mille parole.
Se ne stava ancora stretta sotto il braccio di Asahi, che per tutto il tempo non aveva detto una parola, limitandosi semplicemente a starle vicino, silenzioso come suo solito.
Le dispiacque un po’ quando lui la lasciò andare, ma c’erano troppe persone in quel corridoio per poter restare in quel modo senza una ragione, senza che si notasse.
Maria stava cominciando a chiedersi quando quella situazione di segretezza sarebbe finita.
Tra le risate e la confusione generale, le grida di vittoria e gli schiamazzi, fecero per dirigersi lentamente verso la palestra, dove probabilmente tutti gli altri si stavano domandando che fine avessero fatto.
Fu solamente a quel punto che videro arrivare di corsa, inaspettatamente, Yui, in compagnia di alcune delle sue compagne di squadra, nella loro direzione.
Dovevano avere appena finito gli allenamenti, perché indossavano ancora le tute nere.
«Taniguchi-san!» esclamò la ragazza, fermandosi di fronte a lei con il fiatone.
Maria la guardò con gli occhi sgranati, domandandosi se quella giornata sarebbe mai finita.
«Taniguchi-san, mi dispiace!» continuò Yui a corto di fiato «Mi hanno comunicato la notizia solamente adesso! Ho cercato di fare il prima possibile …».
Il capitano della squadra femminile di pallavolo prese un respiro profondo e raddrizzò la schiena «Takumi ti ha dato ancora fastidio? Sono mortificata!» e pronunciò quelle parole giungendo le mani di fronte al viso «Il mio compagno di classe è davvero un pessimo elemento!».
Maria scosse immediatamente la testa, le prese le mani e gliele abbassò.
«Non è colpa tua Michimiya-san» replicò con calma, sorridendole sinceramente per la prima volta da quando l’aveva conosciuta «E poi non è successo nulla, c’erano i ragazzi».
Fu solamente a quel punto che Yui spostò lo sguardo sui visi sereni degli altri presenti.
Annuì calorosamente e riportò l’attenzione su Maria, sorridendole spontaneamente.
«Sei davvero molto fortunata» poi fece qualcosa che lasciò tutti gli altri un po’ sorpresi, compreso il diretto interessato di quel gesto.
Si piazzò davanti a Daichi e gli fece un piccolo inchino di ringraziamento.
«Grazie per averla aiutata Sawamura. Sapevo che su di te ci si può contare» sollevò la testa e gli rivolse un sorriso un po’ triste, un po’ enigmatico, un sorriso che sembrò far congelare Daichi sul posto e insospettì moltissimo Maria «Ci sei sempre nel momento del bisogno. Soprattutto per i tuoi amici».
Daichi ci impiegò qualche secondo di troppo per rispondere.
Sembrò quasi uno sforzo per lui scuotere la testa e sorridere, mettendo le mani davanti.
«Non ce n’è bisogno. Io non ho fatto nulla» mormorò, imbarazzato.
Cadde il silenzio, pesante.
«Dovremmo andare in palestra» intervenne prontamente Suga, mettendo una mano sulla spalla del suo Capitano; Daichi lo guardò rincuorato e Suga gli sorrise gentilmente.
Yui annuì e si fece leggermente indietro.
«Vi raggiungo subito» aggiunse Daichi, dando una pacca sulla spalla all’amico per rassicurarlo che andava tutto bene e che li avrebbe raggiunti più tardi.
Mentre gli altri si dirigevano in palestra, allegri e pimpanti, Maria si attardò un po’, con lo sguardo fisso sull’immagine di Yui e Daichi che si scambiavano alcune parole che a quella distanza non poteva sentire.
Avrebbe voltato le spalle, seguendo gli altri serena, se ad un certo punto non avesse notato un dettaglio che la lasciò incredibilmente confusa; Daichi aveva sollevato una mano, come per dare una pacca a Yui sulla spalla, o per accarezzargliela, ma lei fece un passetto indietro con fare gentile, allontanandosi intenzionalmente da quel tocco.
La mano di Daichi rimase sospesa a mezz’aria, per poi chiudersi in un pugno ed abbassarsi.
«Taniguchi-san!».
Maria sussultò quando si sentì appellare in quel modo, per cognome e con l’onorifico.
Si girò meravigliata e rimase piuttosto sorpresa quando si accorse che a chiamarla in quel modo era stato proprio Asahi, aveva uno sguardo tranquillo, ma sembrava severo.
Maria si morse il labbro, scontenta di non aver potuto capire di più.
Sospirò pesantemente e si affrettò a raggiungere Asahi, prendendolo per mano automaticamente, senza nemmeno rendersene conto.
Daichi salutò Yui e girò il viso giusto in tempo per vedere quella scena.
La trovò rasserenante e bella; gli bastava pensare al modo in cui Maria era chiusa a riccio in sé stessa solamente pochi mesi prima per sentirsi enormemente soddisfatto di sé stesso.
Quel capitolo spiacevole della storia si era finalmente concluso, e aveva come la sensazione che da quel momento in poi per Maria sarebbe stato molto più semplice amalgamarsi con loro ed essere finalmente sé stessa.
Quel giorno, doveva avere avuto la prova di molte cose dalla squadra.
Daichi sorrise, nonostante i suoi demoni interiori e i fantasmi tentassero di portarlo indietro, un passo indietro alla volta, pensò che da quel momento in poi le cose sarebbero andate bene.
Ne era incredibilmente fiducioso.
 
 
 
Se il cielo ci promette male
Speriamo solo che se piove mi bagno io più di te.

(Alex – Dire, fare, curare)
 
 
Buonsalve, gente 😊
Effe_95 a rapporto oggi.
Il capitolo 15. Questo capitolo 15.
È uno dei miei preferiti, lo confesso.
La scena al cimitero ho adorato scriverla.
So che forse è stata un po' intensa, con il malore di Hotaru e tutto, ma la storia diventerà sempre più profonda man mano che andrete avanti ed è giusto che sia così.
Come sempre vi ricordo che se volete scriverci siamo sui social entrambe ✌
E io vi avviso eh, preparatevi per il prossimo arco ... anche se in realtà non sarete mai davvero pronti/e per quello che vi aspetta 🐈‍⬛
Alla prossima 🤭
Effe_95 & Flying_Lotus95

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Capitolo 17
*** 16- Il drago cattivo ***


16.Il drago cattivo.


Settembre si era annunciato un mese freddo ed impervio fin dall’inizio.
Era arrivato con innumerevoli piogge, era arrivato all’improvviso con tutte le sue tempeste.
Era stato un mese difficile, aveva portato con sé anche tantissime conseguenze.
Se ripensava agli ultimi tre mesi, Maria faceva fatica a mettere in ordine tutti gli avvenimenti che si erano susseguiti nella sua vita da quella tiepida domenica di inizio estate, in cui era andata a trovare la tomba di Hajime insieme ad Asahi e la sua famiglia.
Era stato un periodo frenetico, ma sostanzialmente sereno.
Si erano concentrati tantissimo sul club e sul torneo estivo, che aveva avuto i suoi esiti catastrofici ed inaspettati.
Per la prima volta da quando era entrata a far parte di quel mondo a lei completamente sconosciuto, Maria aveva avuto a che fare con l’ansia, con l’adrenalina che pompava nelle vene prima di scendere in campo, con l’odore dello spray che impregnava le palestre, con la tensione e, si, anche con l’umiliazione che seguiva una sconfitta.
Era stata dura leggere la delusione sui visi dei suoi compagni di squadra, era stata dura non poter fare nulla al riguardo, era stata davvero dura non farcela ad un passo dalla meta.
Era stata dura non riuscirci dopo tanta fatica, dopo tanto sudore e tanto sangue.
Rimettersi in piedi, una condizione scontata che tutti avevano adottato senza fatica.
Maria aveva imparato, tra una lacrima di frustrazione e l’altra, che il Karasuno era una squadra davvero forte. Non si abbattevano, lo facevano per natura.
Ma doveva aver fatto davvero male quella sconfitta, le ferite interiori erano state numerose, invisibili agli occhi, ma tremendamente sensibili sotto la pelle.
Alla fine di Agosto, con l’arrivo dei primi temporali di fine estate, delle vere e proprie tempeste si erano imbattute anche all’interno della squadra, quasi per solidarietà al meteo.
Hinata e Kageyama avevano litigato di brutto, Yachi era finita in mezzo alla discussione.
No, non erano stati dei mesi facili per nessuno.
Ma si stavano rialzando, lentamente si stavano rialzando.
In mezzo a tutto quel pasticcio, Maria si era ritrovata a pensare che qualcosa di positivo fosse successo tuttavia; si era sentita talmente legata a quella squadra da riuscire a mettere finalmente da parte qualsiasi remore difensiva avesse avuto nei loro confronti fino ad allora.
Aveva pianto come una bambina quando avevano perso, si era lasciata consolare senza imbarazzarsi troppo, era rimasta fino a tardi in palestra la sera per allenarsi con loro.
Aveva imparato anche a ricevere in bagher nel tempo passato con Noya.
Aveva scoperto di non saper battere quando si era fermata a fare da sostegno a Yamaguchi.
Aveva imparato anche a tirare dei cazzotti piuttosto efficaci sulla testa le poche volte che aveva avuto l’ardire di aiutare Hitoka ad allenare quei due strambi del primo anno.
Aveva imparato a fare la senpai, a sorridere di più, a fidarsi.
Si, erano stati davvero due mesi difficili, ma tutto sommato Maria non riusciva a lamentarsene completamente; mentre camminava distrattamente lungo il corridoio che l’avrebbe portata in palestra, in compagnia di un’Hitoka piuttosto silenziosa, si ritrovò a pensare che di giorni così sereni a scuola non li aveva mai passati in quei tre anni.
Talvolta, le sembrava ancora incredibile poter camminare senza doversi nascondere o scappare, le sembrava incredibile incrociare Takumi nei corridoi e venire completamente ignorata. Alcune volte, la paura si presentava inaspettata, stringendole la gola.
Vecchi vizi difficili a morire tornavano ad infestarle il cuore a tradimento.
Ma non era mai sola, e sciocchezze di quel genere svanivano con la velocità con cui nascevano, soprattutto se capitava quando era in compagnia di Noya e Tanaka.
Poter camminare libera per i corridoi non l’aveva tuttavia resa esente dai pettegolezzi che in quei tre mesi avevano continuato a girare tra i corridoi della scuola indisturbati.
Erano sicuramente nati molto prima della spiacevole zuffa in cui l’aveva coinvolta Arisa, ma quell’episodio non aveva fatto altro che ingigantire e confermare la questione agli occhi di chi vi aveva creduto fermamente.
Era una voce che aveva messo in giro Takumi quella che Maria e Daichi avessero una relazione, e nonostante il ragazzo non ne fosse più la fonte da parecchio tempo, si era alimentata con tutta quella piccola serie di episodi, ed era stato impossibile smentirla.
Lei e Daichi avevano smesso perfino di negarlo quando qualcuno poneva la domanda.
Il loro rapporto aveva subito un cambiamento totalmente inaspettato in quel periodo, quella soggezione che Maria aveva provato nei suoi confronti era lentamente svanita per essere sostituita da un rispetto che, sì, aveva sempre nutrito nei suoi confronti, ma che aveva totalmente perso le fattezze deliranti dei suoi sogni infantili d’amore.
Maria sentiva di avere un rapporto molto più concreto con Daichi.
Un rapporto fatto di confronti, di sostegno e di chiacchierate alla fine di ogni allenamento.
Cosa fosse diventato, o come sarebbe diventato in futuro non ne aveva ancora la minima idea, ma le piaceva ciò che aveva costruito in quei tre mesi di totale fiducia reciproca.
Si sarebbe impegnata per lasciare che le cose restassero in quel modo ancora per un po’.
Quanto meno, da tutta quella situazione estenuante, aveva sperato di poterne trarre un beneficio piuttosto importante; cercare di convincere Asahi a rivelare la loro relazione.
Maria aveva ripetuto molte volte al ragazzo che sarebbe stata l’occasione buona per far sì che quelle voci tacessero del tutto, sarebbe stata l’occasione perfetta per mettere tutto al posto giusto, probabilmente, anche lei sarebbe stata molto più serena in quel modo.
Ma Asahi non aveva voluto saperne, non aveva voluto sentire alcuna ragione.
Continuava a mettere sul tavolo tutte quelle ottime motivazioni per non dire nulla e Maria provava una fatica tremenda a lottare contro quella testardaggine che, l’aveva sospettato fin dall’inizio ma non ci aveva mai creduto davvero, Asahi possedeva inaspettatamente.
Lui non urlava, non si imponeva, non cercava nemmeno di sovrastarla.
Semplicemente, con quel suo sorriso gentile e quell’aria tranquilla, diceva “no”.
Ed era un “no” talmente definitivo che nemmeno la caparbietà di Maria riusciva a batterci contro senza provare dolore; non era servito a niente nemmeno cercare di convincerlo a comunicare la cosa quantomeno a Sugawara e Daichi, i suoi migliori amici.
Nonostante quella piccola difficoltà e il periodo movimentato che avevano attraversato da quella fatidica domenica al cimitero, anche il loro rapporto era andato avanti subendo delle notevoli trasformazioni.
Come qualsiasi cosa nel tempo, si era adattato e tramutato.
Tre mesi erano pochi dal punto di vista di qualsiasi relazione e la loro non era nemmeno cominciata nel modo giusto, ma era andata avanti inaspettatamente bene.
Era stato un po’ come per una pianta grassa, aveva avuto bisogno di poca acqua, la giusta temperatura e il luogo adatto dove riposare, per crescere lentamente ma correttamente.
Erano diventati più consapevoli del loro stare insieme, e sebbene non potessero farlo alla luce del sole e con naturalezza, avevano trovato un equilibrio nei piccoli gesti.
Tornare a casa insieme la sera dopo ogni allenamento, pranzare insieme ogni lunedì sul tetto della scuola, parlare per ore al telefono la sera prima di andare a dormire, mandarsi un messaggio ogni ora del giorno, anche quando si era a soli pochi metri di distanza.
Passeggiare nel week-end fuori città, andare a fare qualche gita inaspettata insieme ai componenti della squadra e approfittarne per stare insieme e scoprire ancora più cose l’uno dell’altra. Sfiorarsi per caso durante gli allenamenti tra una borraccia di energetico e l’altra.
Sostenersi con gli sguardi, sostenersi a distanza, senza utilizzare parole inutili.
Era stato un compromesso in quella situazione, un compromesso di cui Maria stava cominciando ad essere stanca, ma tutto sommato era servito davvero in quei tre mesi.
Era servito perché lei potesse trovare una stabilità sentimentale.
No, non sapeva ancora che cosa provasse davvero per Asahi, se fosse amore o altro; ma voleva stare con lui, in quel momento, in quel preciso istante della sua vita, voleva lui.
Era semplice, era strano, probabilmente era anche molto banale.
Ma era quello che voleva, ci avrebbe pensato il tempo ad aiutarla a capire.
Tutti quei pensieri le vorticavano nella testa in quel primo pomeriggio di Settembre, frenetici, ingombranti e confusionari, fu per quel motivo che non si accorse del gruppetto in tuta rossa che attraversava il corridoio venendo dal lato opposto.
Maria andò a sbattere con la spalla, nel goffo tentativo fallito di scansarsi all’ultimo secondo, contro il braccio di un ragazzo alto che non aveva mai visto prima, ne era sicura.
I fogli che stava stringendo tra le mani le sfuggirono, sparpagliandosi su tutto il pavimento.
Maria recuperò immediatamente l’equilibrio, aiutata da Hitoka, e prima che potesse avere anche solamente il tempo di chinarsi a terra e raccogliere il macello che si era venuto a creare, lo sconosciuto le stava già porgendo i fogli raccolti e sistemati.
Era un bel ragazzo, alto, piazzato, pelle scura e capelli tagliati corti, di fresco.
Indossava una tuta rossa su una maglietta nera, la tuta di un’altra scuola.
«Stai bene?» le domandò con voce profonda, intimidendola immediatamente.
Maria ci mise un po’ a replicare, lo sconosciuto era stato cordiale con lei, ma la metteva in soggezione, così impiegò qualche secondo di troppo per annuire, prendere i fogli e fare un piccolo e buffo inchino di ringraziamento.
Alle sue spalle, Maria aveva come la sensazione che Yachi si fosse fatta talmente piccola e tremante da sparire completamente.
«Ohi Kai! Per quanto tempo ancora vuoi intrattenerti con le signore?».
Maria sobbalzò quando sentì quell’altra voce, per la prima volta sollevò gli occhi sul resto del gruppetto, che si rese conto in quel momento essere composto solamente da altre due persone, e incrociò lo sguardo poco rassicurante di un altro ragazzo.
Un brivido freddo le attraversò tutta la schiena come una scossa.
Anche lui era alto, snello e slanciato, indossava la medesima tuta rossa e aveva una zazzera ribelle di capelli neri sulla testa, ma lo sguardo … lo sguardo che le rivolse, in quei pochissimi secondi in cui i loro occhi entrarono in contatto, le ricordò Takumi.
«Arrivo subito, Kuroo» replicò Kai, strappando Maria ai suoi lugubri pensieri.
«Grazie per i fogli» si limitò a mormorare, facendo un passettino indietro a disagio.
Kai, il ragazzo sconosciuto, fece un cenno della mano e un leggero inchino, poi si incamminò con passo deciso verso gli altri due componenti del suo gruppo.
«Devi sempre fare il gentiluomo eh?».
Lo prese in giro immediatamente l’altro, quello che a Maria aveva dato i brividi.
«Per colmare alle tue mancanze. Sei carente in gentilezza per natura».
La replica di Kai fu immediata, pacata quasi, come se fosse abituato ad avere a che fare con l’altro. Il terzo componente del gruppo, che Maria si rese conto in quel momento essere una persona piuttosto anziana, scoppiò a ridere con gusto e diede delle pacche sonore ed affettuose dietro la schiena di quel Kuroo.
«Kai ha ragione, ragazzo!».
«Lo pensa anche lei, Nekomata-sensei?».
Fu a quel punto che, per puro caso, lo sguardo di Maria incontrò nuovamente quello di Kuroo. Lui sorrise sollevando un angolo solo della bocca e le fece l’occhiolino.
Maria avvampò, non perché si fosse sentita particolarmente lusingata da quel gesto, ma perché percepì una vampata di rabbia e umiliazione lambirle tutte le membra del corpo.
La sgradevole sensazione che aveva provato all’inizio si intensificò maggiormente.
Sollevò un sopracciglio, mise su un’espressione altezzosa e disgustata e voltò le spalle al terzetto che si allontanava lentamente; quale fosse stata la reazione dell’altro non lo sapeva.
Non le interessava nemmeno, non avrebbe visto più quel tipo ad ogni modo.
Afferrò Yachi per un braccio, ancora nascosta dietro di lei, e la tirò via.
Dovevano raggiungere la palestra il prima possibile, erano già in ritardo a causa di quel piccolo incidente, se avessero perso altro tempo a rimuginare su quanto appena accaduto avrebbero fatto notte in quel corridoio.
Probabilmente scatenando il panico in tutta la squadra nel frattempo.
«Che paura!» commentò Yachi mentre affrettavano il passo, stringendosi le braccia al petto come se fosse appena stata colta da un brivido particolarmente violento.
Maria le rivolse un’occhiata veloce, strinse i fogli al petto e poi guardò dritto di fronte a sé.
«Conosci quei tipi?» domandò, sopracciglia aggrottate «Non mi sembravano di qui».
«No …» commentò Hitoka scuotendo la testa, sembrava ancora nervosa «Non li conosco, ne sono sicura, eppure … eppure ho la sensazione di aver già visto quella tuta».
Nel frattempo, avevano appena raggiunto la palestra.
Quando vi entrarono, un po’ affannate per aver aumentato il ritmo dei loro passi, trovarono i ragazzi riuniti in cerchio attorno al coach Ukai e al professor Takeda, che spiegava qualcosa con aria concitata ed esaltata contemporaneamente.
Avanzando verso di loro, Maria notò che avevano tutti una strana espressione sul viso.
Eccitazione, sfida, aspettativa, rivalità.
Erano più o meno quelle le emozioni che si potevano percepire a primo acchito.
«Oh, Taniguchi-san, Hitoka-san! Siete arrivate proprio al momento giusto!».
Esclamò il professore quando le vide avvicinarsi con passo lento, leggermente titubante, lo sguardo confuso di chi non aveva ancora capito la situazione. A quel punto, anche tutti gli altri si accorsero della loro presenza, e innumerevoli occhi di diverse sfumature si voltarono contemporaneamente nella loro direzione, investendole con tutte quelle emozioni.
«C-cosa succede?» domandò Maria con un po’ di esitazione, cercò lo sguardo di Asahi, ma non le comunicò nulla di diverso dal solito, era gentile, sereno e tranquillo.
«Hai portato i fogli che ti avevo chiesto?» le chiese il professore con gentilezza, sorridendole, Maria distolse lo sguardo e si concentrò sull’uomo che aveva di fronte.
«Si, ecco a lei» e glieli consegnò, facendo attenzione che non le cadessero nuovamente.
Il professor Takeda li prese e le sorrise prima di riportare la propria attenzione anche agli altri, che se ne stavano immobili come in attesa di qualcosa.
«Tra qualche giorno partiremo per un ritiro» spiegò il coach alla volta delle ragazze, mentre il professor Takeda cominciava a distribuire i fogli con zelo «A Tokyo».
Maria non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi quando sentì quelle parole.
Ricordava qualcosa a riguardo, un accenno da parte di Daichi parecchi mesi prima, ma le era sembrata solamente un’idea astratta e molto lontana, quasi difficilmente concretizzabile.
L’autunno era alle porte però, era arrivato velocemente, ma era arrivato.
«Si tratta di circa una settimana» continuò a spiegare il coach, nel frattempo anche Maria aveva ricevuto il suo foglio, ma troppo presa ad ascoltare non si premurò di controllare di che cosa si trattasse, in realtà, non l’aveva fatto nemmeno quando era andata a recuperare il materiale nell’aula professori «Un ritiro in gruppo con la Nekoma».
«La Nekoma?» domandò immediatamente Maria, al suo fianco, Yachi trasalì come se si fosse improvvisamente ricordata qualcosa di molto importante.
«La Nekoma è la squadra rivale della Karasuno da generazioni».
Le spiegò immediatamente Daichi, inserendosi nella conversazione, Maria lo guardò per qualche secondo, poi annuì sommessamente e guardò finalmente il foglio che aveva tra le mani. Si trattava di un modulo di permesso, da far firmare ad un genitore il prima possibile.
Non aveva mai sentito parlare di quella squadra di Tokyo rivale della Karasuno.
Nemmeno Shimizu le aveva mai accennato nulla, forse, solamente una volta le era sembrato di aver sentito Kageyama e Hinata blaterare qualcosa a riguardo, ma non ne era sicura.
Poteva capire finalmente cos’era quell’eccitazione che aveva scorto in quegli occhi familiari.
La loro rivale di sempre, una sfida perenne che durava da generazioni …
«Taniguchi-san» la richiamò il coach, attirando nuovamente la sua attenzione e così anche quella di tutti gli altri «Ora ti dirò la stessa cosa che ho detto anche a Sawamura, Sugawara, Azumane e Shimizu-san. In quanto studentessa del terzo anno, se preferisci restare e concentrarti sugli studi per gli esami d’ingresso all’università, non farti problemi».
Maria sussultò, colpita da quelle parole, non ci aveva pensato … sollevò lo sguardo
sugli altri ragazzi del terzo anno, avrebbe voluto chiedere cosa avessero scelto, ma … ma le bastò guardare nuovamente quegli occhi carichi di aspettativa per conoscere la risposta.
Nemmeno lei aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro, ad ogni modo.
Fece per aprire bocca e dare la sua risposta, quando l’intervento improvviso di Nishinoya la colse totalmente di sorpresa.
«Tani-chan non viene al ritiro con noi?!» domandò il libero quasi strillando indignato.
«Che cosa?!» gli diede man forte Tanaka «Così i nostri piani per far soffrire ulteriormente Yamamoto andranno in fumo!».
«Veramente -» Maria cercò di articolare qualche parola, inutilmente.
«Ma è ovvio che viene» A quel commento cadde un silenzio attonito, tutti quelli vicini si erano voltati a guardare Tsukishima, che li fissava invece di rimando come se fossero tutti un branco di grandissime seccature viventi «Altrimenti non avrò nessuno da prendere in giro e tormentare» continuò il primino, con un sorriso di scherno sulle labbra.
La sorpresa scivolò via lentamente, tutti scoppiarono a ridere genuinamente, Nishinoya e Tanaka si premurarono immediatamente, insieme a Kageyama e Hinata, di andare a tormentare il povero Tsukishima, che doveva essersi pentito di aver aperto bocca.
Maria alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia al petto.
«Come se potessi farmi tormentare da una patatina fritta gigante!».
Lo rimbeccò immediatamente, provocando altre risate, Tsukishima non fu in grado di risponderle, perché preso d’assalto dagli altri con il solo aiuto del povero Yamaguchi.
«Coach, verrò» si apprestò infine a dichiarare Maria, con aria solenne.
Sia il professore che Ukai sembrarono molto contenti della notizia, diedero alcune informazioni veloci, informazioni che avrebbero ripreso nei giorni successivi, ed esortarono i ragazzi a tornare presto a casa e far firmare il modulo di permesso il prima possibile.
La palestra cominciò a svuotarsi lentamente.
Finirono di sistemare le ultime cose lasciate in giro durante l’allenamento, e prima che il sole fosse calato erano già pronti per andar via.
Quel pomeriggio, Maria si era data appuntamento con Asahi al semaforo dove si era fatta male la caviglia mesi prima per tornare a casa insieme, nonostante abitassero in due zone completamente diverse, era qualcosa che facevano spesso.
Asahi non si era mai lamentato di dover fare tutta quella strada in più per tornare a casa.
Maria sistemò l’ultimo pallone della cesta e si passò una mano sulla fronte.
«Maria» si girò distrattamente quando si sentì chiamare, ancora concentrata su quello che stava facendo, rimase piuttosto sorpresa quando si ritrovò davanti Daichi.
Il capitano indossava ancora la tuta nera, era rimasto anche lui ad aiutare per mettere apposto quella sera, ma siccome si era allontanato solamente pochi minuti prima Maria aveva pensato che fosse andato a cambiarsi per tornare a casa.
Invece Daichi se ne stava lì, di fronte a lei, con un sorriso gentile sulle labbra e dei libri ben stretti sotto il braccio destro, carico di aspettativa.
«Daichi-san …» commentò lei fissandolo per un po’, sorpresa.
«Ho qualcosa per te» dichiarò il ragazzo, entusiasta «Vuoi ancora fare l'Università di musica?» le domandò poi, abbassando leggermente il tono di voce, più serio.
Maria sbatté leggermente le palpebre, trovandosi un po’ disorientata da quelle parole.
Aveva parlato spesso con Daichi di musica lirica in quei mesi, nei pochi momenti che avevano passato insieme al di fuori della palestra, quando compravano i nikuman con il resto della squadra o quando uscivano per andare da qualche parte tutti insieme.
Forse ne aveva parlato molto più con Daichi che con Asahi, in effetti.
Quel pensiero la disturbò.
«Certo …» mormorò, continuando a fissarlo con occhi grandi e sorpresi.
Espressione tipica di chi non sapeva cosa aspettarsi.
Daichi le sorrise, tolse i libri da sotto il braccio e glieli porse con aspettativa.
Maria li afferrò un po’ titubante, sorpresa, chiedendosi cosa fossero; la titubanza sparì immediatamente non appena capì che si trattava degli spartiti di alcune nelle opere più famose della lirica antica e contemporanea.
Alcuni testi erano d’epoca.
«Ma cosa …» Balbettò, non trovava le parole per continuare.
«Erano di mia sorella Reira» Le spiegò Daichi, incrociando le braccia al petto «Ha studiato anche lei al conservatorio anni fa. Adesso è una cantante di musica jazz e lirica. Viaggia in tutto il mondo» Maria percepì un pizzico di orgoglio nella voce di Daichi mentre pronunciava quelle parole, ne rimase sorpresa, perché il capitano non parlava quasi mai della sua famiglia … era la prima volta che Maria sentiva parlare di una sorella …
«Reira mi ha insegnato ad amare la musica lirica, mi raccontava le storie più avvincenti prima di dormire quando ero bambino … in realtà, sarebbe più corretto dire che cantava».
Daichi ridacchiò, divertito da qualche ricordo, e Maria non poté fare a meno di sorridere.
Strinse forte gli spartiti al petto e sentì il cuore fare un balzo pericoloso nella cassa toracica.
«E tu vuoi dare questi spartiti a me?» chiese, incredula e anche un po’ commossa.
Daichi si grattò la nuca, sembrava imbarazzato, come fosse fuori luogo.
«Beh, si … ne farai sicuramente un uso migliore. A casa prendevano solamente polvere».
Spiegò forzando un sorriso, aveva le gote un po’ rosse, Maria lo trovò carino.
Strinse ancora di più gli spartiti al petto e sorrise, gentile.
«Ne avrò molta cura» dichiarò con solennità.
Mentre parlavano, né Daichi né Maria si erano resi conto che quel piccolo teatrino non era passato poi così inosservato; in palestra erano rimasti anche Sugawara, Nishinoya e Asahi.
Se ne stavano fermi con le scope in mano ad osservare la scena.
Avevano tutti e tre espressioni diverse sul viso.
Nishinoya fischiò all’improvviso, rompendo l’immobilità che si era andata a creare.
«Continuo a pensare che sarebbero una coppia bellissima!».
La gomitata che tirò nel fianco di Asahi, quasi cercasse la sua complicità per quella dichiarazione non troppo velata, fece davvero male per diversi motivi.
Yū sollevò lo sguardo osservando l’amico, un’espressione volutamente malandrina e attenta gli attraversava il viso, forse un po’ troppo grottesca sul libero della Karasuno.
Asahi aveva ancora il volto livido, sembrava avvilito, e qualsiasi tentativo di nasconderlo non sarebbe passato inosservato, né per Nishinoya, né per Sugawara.
«Non credi anche tu, Asahi-san?» lo incalzò ancora il più piccolo, un’altra gomitata.
Asahi distolse finalmente lo sguardo dalla scena pietosa che si era ritrovato davanti.
Aveva le mani strette troppo violentemente attorno alla mazza della scopa, erano bianche.
«Non saprei». Pronunciare quelle due parole gli costò uno sforzo che non avrebbe mai creduto, la voce gli uscì bassa, quasi un mormorio.
Si morse violentemente il labbro inferiore quando voltò le spalle, continuando a spazzare distrattamente una zona di campo che aveva già lucidato due volte.
Era patetico e ridicolo, se ne rendeva conto.
Avrebbe dovuto avere più fiducia, ma non ne aveva.
Avrebbe dovuto avere più confidenza in sé stesso, ma non ne aveva.
Avrebbe dovuto avere tante cose che non aveva.
E come se non bastasse, quel comportamento di fronte a Suga e Noya non avrebbe fatto altro che esporlo alle domande e ai sospetti dei due, se mai ne avessero avuti.
Di sicuro, da quel momento avrebbero potuto averne senza ombra di dubbio.
«Torniamo a sistemare» si limitò a commentare Kōshi, voltandosi a sua volta.
Se l’avesse fatto per tatto nei suoi confronti, o per non affrontare l’argomento, Asahi non gliene fu grato in nessuno modo.
Non avrebbe voluto scoprirsi più di quanto non avesse già fatto.
Quando trovò un minimo di calma, fu facile recuperare l’espressione impassibile di sempre.
Fu per quel motivo che non vide l’occhiata che si scambiarono Sugawara e Nishinoya alle sue spalle, qualche secondo d’esitazione prima che ricominciassero anche loro a pulire.

 
 
And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
 
 
Daichi rientrò quella sera con una spiacevole sensazione di soffocamento al petto.
L’aveva sentita durante tutto il tragitto da scuola verso casa.
E sebbene avesse provato ad ignorarla, insieme a quel semplice foglio che non avrebbe dovuto pesare nulla ma che, inaspettatamente, sembrava pesante più di un macigno, si era fatta sempre più grande, pressante, insistente.
Non era un attacco di panico, non ne aveva uno come si deve da parecchio tempo.
Era la prospettiva di quello che avrebbe dovuto fare a stancarlo, della discussione a cui sarebbe dovuto andare inevitabilmente, lo sapeva, incontro.
Un tempo non avrebbe saputo gestirlo, Daichi ne era totalmente consapevole.
Un tempo si sarebbe rannicchiato in un angolo della strada aspettando che passasse.
Fortunatamente per lui, quella fase era passata già da un pezzo.
Era sfumata da qualche parte, tra la necessità di crescere e quella di non soffocare tra le mani di quel padre che amava, nonostante tutto.
Daichi scosse la testa e si passò una mano sul petto, massaggiandoselo, prima di bussare.
Il cancello dell’enorme villa in cui abitava si aprì con uno scatto rumoroso.
Percorse il vialetto che conosceva a memoria con passo lento, l’espressione distratta, la mano che continuava a massaggiare lentamente, meccanicamente.
La porta di casa si aprì ben prima che ne avesse raggiunto il portico curato e lussuoso.
I due bambini gli corsero incontro con tale impeto, che per un istante Daichi pensò sarebbe rovinosamente caduto di schiena sul selciato che si era appena lasciato alle spalle.
Il piede, che aveva poggiato sul primo dei quattro gradini delle scale del portico, oscillò pericolosamente sotto il peso di quegli abbracci che, Daichi doveva ammetterlo a sé stesso, diventavano sempre più difficili da contenere di anno in anno.
Le due pesti, come gli piaceva chiamarli, smisero di abbracciarlo e si attaccarono uno al braccio destro, l’altra al sinistro, in un chiaro invito a voler essere sollevati come dei pesi.
Daichi alzò gli occhi al cielo, fingendosi esasperato.
Kou e Akemi, i figli di sua sorella Sachi, la primogenita della famiglia Sawamura.
Mentre fingeva di avere particolare difficoltà a sollevare le braccia, giocando con i bambini, una piccolissima parte del suo cervello registrò l’informazione che, se Kou e Akemi erano a casa, allora doveva esserci anche Sachi.
La stretta al petto si fece più forte, ma ignorò quei pensieri molesti.
Concentrarsi sui bambini era la soluzione migliore che potesse trovare.
«Come sei debole zio Daichi!» lo provocò Kou, aveva tutta la vitalità dei suoi dieci anni.
Il bambino sorrise birichino, mettendo in mostra i due dentoni da castoro che gli erano cresciuti dopo aver perso quelli da latte.
Daichi sapeva quello che sarebbe successo da quel momento in poi, era come un copione che si ripeteva ogni volta che sua sorella portava i bambini in visita ai nonni, un gioco che i piccoli adoravano: quello del principe, della principessa e del drago cattivo.
Tutto cominciava proprio con quell’ingenua provocazione.
«Un vero mollaccione!» lo incalzò Akemi, dando man forte al fratello.
Daichi mise giù i bambini, incrociò le braccia al petto buttandolo in fuori e ruggì.
Il ruolo del drago era sempre toccato a lui, ovviamente.
«Ah, sì? Ora vi faccio vedere io piccole pesti!» replicò facendo la voce grossa, quella che utilizzava per rimproverare Tanaka e Nishinoya, abbellendola tuttavia con un pizzico di caricatura grottesca.
Era diventato bravo nel corso degli anni.
Akemi strillò divertita quando Daichi la sollevò senza troppe difficoltà sotto il braccio, era mingherlina per i suoi sette anni, leggera e ossuta; il vestitino tutto elegante che Sachi si era premurata di farle indossare si sgualcì in un istante, così come la treccia, l’elastico saltò via da solo liberando la chioma ribelle e fresca di taglio della piccola.
Daichi provò un pizzico di selvaggia soddisfazione nel pensare all’espressione orripilata che si sarebbe dipinta sul volto della sorella maggiore nel vedere la figlia in quello stato.
Cacciò quel pensiero infantile via dalla testa, dandosi dello stupido.
«Aiuto! Zio Daichi mi ha rapita! È un drago cattivo!».
Strillò Akemi deliziata, sembrava tutto tranne che una principessa spaventata e in pericolo.
Nonostante fosse un ruolo che adorava immensamente, perché la faceva sentire al centro dell’attenzione, bella e desiderata, anche ad un’età così piccola.
Sarebbe diventata una donna pericolosa da adulta, Daichi riusciva a vederlo chiaramente.
Qualche volta si era ritrovato a pensare al pover’uomo che il destino le avrebbe dato in sorte con un profondo senso di pietà nel petto.
«Ti salverò io, principessa!».
La parte in cui veniva salvata dal principe era quella che preferiva in assoluto.
Daichi aspettò con pazienza che Kou gli si attaccasse alla gamba, trafiggendolo con quella spada immaginaria dritta nel cuore.
«Muori, drago!» esclamò il bambino con enfasi, compiendo il gesto fatale.
«Ah!» Daichi si portò una mano al petto, in un’espressione perfettamente simulata di dolore, barcollò un po’, continuando a tenere saldamente la nipote sotto il braccio «Muoio! Mi ha ferito al cuore!» continuò con aria teatrale, inginocchiandosi a terra.
A quel punto, Kou avrebbe lasciato andare finalmente la sua gamba per salvare Akemi, lui si sarebbe accasciato a terra, ancora vestito con la divisa scolastica e con la cartella a tracolla, morendo tragicamente come qualsiasi cattivo che si rispetti.
Kou non fece nemmeno in tempo a liberarlo che sulla soglia della porta di casa, lasciata aperta dalle due piccole pesti, apparvero due donne di mezz’età dall’aspetto elegante e raffinato, interrompendo il finale migliore di sempre.
La scena rimase come sospesa, immobile nel tempo per alcuni secondi.
Daichi rimase con il ginocchio per terra, Kou ancora attaccato a lui, Akemi sotto il braccio.
Rosso e affaticato, con la cartella a rovescio, la camicia sgualcita e i capelli arruffati.
«Che cosa state facendo qui?» domandò la donna sulla destra, sorridendo divertita.
Daichi guardò sua madre incrociare le braccia al petto con un pizzico di imbarazzo sul viso; lei e Daichi si assomigliavano talmente tanto che sarebbe stato inequivocabile negare la loro parentela. Stessi occhi, stesso naso, stessa espressione, stesso colore dei capelli.
L’unica differenza evidente era nella corporatura, quella l’aveva presa da suo padre.
«Stiamo giocando nonna!» proclamò Kou, lasciando andare finalmente Daichi.
Il bambino assunse una posa da guerriero, appoggiando i pugni chiusi sui piccoli fianchi.
«Lo vedo! Mio figlio sembra uno scalmanato!» e scoppiò a ridere, genuinamente.
Daichi arrossì ancora di più e si tirò in piedi, mettendo con estrema cura la piccola Akemi a terra, un po’ imbronciata per il finale interrotto proprio sul più bello.
«Andiamo Kaede-san, a me piace con quell’aria sbarazzina e scalmanata!».
Il commento dell’altra donna, pronunciato per farlo sentire evidentemente a suo agio, servì solamente a provocare la reazione opposta, imbarazzarlo ancora di più.
Daichi era piuttosto sicuro, mentre raddrizzava la cartella e sistemava la giacca della divisa, che se a pronunciarle non fosse stata proprio Ayaka Michimiya, probabilmente non gli avrebbero provocato lo stesso effetto.
La madre di quella che un tempo era stata la sua migliore amica lo guardava con occhi gentili, gli stessi occhi di Yui, come aveva fatto fin da quanto era solo un bambino un po’ timido che si nascondeva dietro le gambe della mamma per non farsi vedere.
Ayaka aveva continuato a guardarlo e trattarlo come un figlio anche dopo l’incidente.
Anche quando i suoi rapporti con Yui si erano trasformati, anche quando aveva smesso di andare a casa loro tutti i giorni per la merenda, dopo gli allenamenti al club.
Daichi aveva ricordi ancora vividi di quel momento della giornata, quando il sole caldo del tramonto attraversava l’orizzonte rischiarando di rosso porpora i capelli della bambina che gli camminava accanto saltellando allegra.
Yui parlava tantissimo, parlava della sua giornata, degli allenamenti.
E lui la ascoltava, la ascoltava senza sosta. Senza dire mai una parola.
«Non fargli troppi complimenti Ayaka-san, potrebbe montarsi la testa».
La replica di sua madre Kaede lo riportò alla realtà, con i piedi per terra, strappandolo a quel caldo tramonto di inizio primavera dei suoi ricordi d’infanzia, Daichi aveva come la sensazione che quel sole fosse ancora lì a scaldargli il viso e la nuca.
«Mamma» mormorò grattandosi la nuca, trovando quella un’ottima occasione per abbassare gli occhi e sfuggire allo sguardo di Ayaka.
Daichi non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva guardato decentemente la donna negli occhi, reggendo il suo sguardo per molto più di pochi secondi di imbarazzo.
Ayaka tuttavia, così come sua madre, non era mai stata una donna remissiva e facile alla resa, l’aveva dimostrato chiaramente quando aveva continuato a frequentare casa Sawamura nonostante suo marito avesse rotto i ponti con il padre di Daichi.
Anche quella era stata una conseguenza di quello che avevano combinato lui e Yui.
Takahiro Sawamura e Kijuro Michimiya erano stati amici un tempo, erano stati soci.
L’imprenditore e il suo avvocato difensore, non avevano mai perso una causa. 
Era bastata una piccola frattura perché mandassero tutto a pezzi.
Per Ayaka e Kaede le cose non erano andate nello stesso modo, per loro si era trattato solamente di un piccolo incidente di percorso che, con un po’ di buona volontà, avrebbero tutti dimenticato molto presto, senza lasciare cicatrici.
Quelle di Daichi erano ancora aperte però, e lui faceva davvero troppa fatica per non fargli prendere infezione.
Ayaka e Kaede si erano ribellate entrambe alla prospettiva di non doversi più vedere, loro che erano diventate migliore amiche in quel gioco di potere che aveva accomunato per anni i loro mariti, quegli stessi mariti che avevano affrontato senza paura.
Quel tipo di amicizia che avevano mantenuto, dandosi forza a vicenda, avrebbero voluto trasmetterla anche ai loro figli; comportandosi come se nulla fosse successo, avevano pensato di poter mettere una toppa sullo squarcio nella tela bianca che rappresentava il rapporto tra Yui e Daichi.
Ma le cose non funzionavano in quel modo.
Quella toppa non sarebbe mai stata abbastanza bianca da confondersi nuovamente con la tela.
Fare finta di nulla, comportarsi naturalmente, spingerli l’uno verso l’altro … non sarebbe servito assolutamente a nulla. Non avrebbe cambiato nulla.
Daichi ne era talmente consapevole, da non riuscire a guardare nessuna delle due donne negli occhi, perché provava vergogna per quella verità che non volevano accettare.
Vergogna di non riuscire a fingere, di non riuscire a farlo nemmeno un po’.
«A che cosa stavate giocando?» domandò la donna, sfiorandogli un ciuffetto di capelli ribelli dalla fronte con le sue dita lunghe, affusolate e smaltate di fresco, perfette.
Daichi fece un impercettibile passetto all’indietro, per sottrarsi al tocco.
Fu talmente bravo a farlo sembrare naturale, che né Kaede né Ayaka se ne accorsero.
«Al drago cattivo che rapisce la principessa!» intervenne Kou, ricordando con la forza la sua presenza, e quella della sorellina ancora imbronciata, sulla scena.
«E scommetto che Daichi-kun era il principe!» proclamò Ayaka divertita, spostando la sua tenera carezza di madre sulla testa del bambino.
Prima che Kou potesse rispondere, a giudicare dal modo in cui aveva gonfiato le guance, con una grande protesta, Daichi lo anticipò senza nemmeno rendersene conto.
«No, ero il drago» lo disse in automatico, con lo sguardo perso nel vuoto.
La stretta al petto era tornata, forte.
E uno strano pensiero molesto gli frullava nella testa.
«Ma dai …» mormorò Ayaka rivolgendo un’occhiata a Kaede per la reazione del ragazzo. «Mio figlio ha decisamente la stoffa del principe, no?» intervenne la donna.
L’aveva fatto in buona fede, perché doveva aver percepito qualcosa di quei pensieri oscuri.
Mamma, così non mi stai aiutando.
La mente di Daichi non la smetteva di gridare però.
«L’ha dimostrato ampiamente» Ayaka rincarò la dose, accarezzandolo di nuovo.
Lo colse di sorpresa, quella carezza fu anche molto più aperta, non gli sfiorò i capelli ma la guancia, partendo dalla tempia fino al mento, che gli sollevò leggermente, sorridendogli.
Era proprio quello il punto.
Daichi non aveva dimostrato nulla, non aveva salvato nessuno, non aveva salvato Yui.
Ayaka e Kaede dovevano capirlo.
«No, sono decisamente più bravo a fare il drago».
Lo disse spostandosi con gentilezza, con quel sorriso enigmatico che metteva su quando affrontare qualcosa di scomodo diventava decisamente difficile.
Era l’unico modo che conosceva.
«Devo andare a parlare con papà di una cosa importante» aggiunse poi, sfuggendo allo sguardo deluso di Ayaka e a quello indagatore di sua madre. «È stato un piacere rivederti Michimiya-san» disse facendole un goffo inchino di saluto, prima di avanzare e superarla.
Non vide il sorriso triste sul viso della donna, la mano ancora sollevata in quella carezza a cui si era sottratto, come scottato.
«Vieni a trovarci a casa per la merenda qualche volta …».
Furono parole vuote, mormorate, di circostanza.
Nessuno le avrebbe seguite.
Daichi chiuse gli occhi e avanzò in casa, lasciando le donne, i bambini e il portico alle spalle.
Era scappato da quella situazione perché si sentiva soffocare, ma stava solamente percorrendo la strada verso un altro patibolo con la corda ancora più stretta.
Si fermò di fronte la porta dello studio di suo padre con la fronte imperlata di sudore.
Vi passò il dorso della mano, trasse un respiro pesante ed estrasse il modulo di permesso per il ritiro dalla borsa, pochi minuti e anche quella tragedia sarebbe finita.
Pochi minuti e avrebbe potuto rinchiudersi nella sua stanza.
Quando bussò alla porta, a dargli il permesso di entrare non fu la voce di Takahiro.
Daichi sapeva che Sachi era dietro quella porta, ma il pensiero di dover sopportare anche i suoi commenti taglienti gli faceva venire un gran mal di testa.
Takahiro sedeva come al solito dietro la sua scrivania di mogano, il completo gessato era impeccabile, la cravatta rossa si intonava con il colore del legno lucido; leggeva dei documenti con le sopracciglia folte spruzzate di bianco aggrottate.
Daichi non riusciva a vedergli gli occhi.
Quando si richiuse la porta alle spalle, ebbe come la sgradevole sensazione che l’enorme libreria che copriva tutte le pareti presenti gli stesse precipitando addosso insieme.
Aveva sempre detestato l’aria cupa e viziata di quello studio, ma era l’unico luogo dove avrebbe potuto trovare suo padre il più delle volte, non ricordava nemmeno l’ultima volta che Takahiro era andato a trovarlo nella sua stanza per farsi una chiacchierata insieme.
Quando era bambino lo facevano spesso.
Sua sorella Sachi era in piedi accanto alla scrivania, alta, magra, statuaria.
I lunghi capelli mossi se ne stavano rigidamente imbrigliati in uno chignon talmente perfetto da sembrare di plastica, il viso tirato dall’espressione severa che lo attraversava perennemente era truccato con pesantezza, matita scura, rossetto rosso…
Indossava uno dei suoi soliti tailleur rigidi e professionali.
Daichi poteva sentire il profumo che indossava già da quella distanza.
«Buonasera papà, Sachi» salutò educatamente, il foglio stretto tra le mani in bella vista.
 Aspettò che suo padre facesse un po’ di scena, continuando a leggere i documenti, aspettò che li mettesse lentamente via, che togliesse gli occhiali …
«Daichi, cosa ti porta qui?».
Takahiro lo guardò negli occhi, schiacciandolo con la pressione del suo sguardo.
Un tempo, Daichi non avrebbe potuto sopportarlo senza tremare come una foglia.
Quel giorno, si limitò a fissarlo di rimando.
«Ho bisogno che mi firmi questo modulo di permesso».
Fu diretto, atono, girarci intorno non sarebbe servito a nulla, avrebbe solamente significato prolungare lo strazio e le lamentele di Sachi.
«Di che permesso si tratta?» Takahiro incrociò le mani nodose sulla scrivania, intrecciando le dita; non aveva abbassato lo sguardo nemmeno per un secondo.
Se mai quell’uomo gli avesse sorriso, doveva essere stato in un tempo di cui Daichi non aveva alcun tipo di memoria. Non poteva aggrapparsi a nessuna memoria felice.
«Il permesso di partecipare ad un ritiro a Tokyo».
Sachi sbuffò sonoramente nel sentire quelle parole, a differenza di Takahiro non era mai stata brava a contenere il suo disappunto e i suoi malumori; abbandonò la posa stoica con cui aveva voluto fare effetto e mise i pugni chiusi sui fianchi, guardandolo come se avesse a che fare con un bambino estremamente testardo e capriccioso.
Daichi capì in quel momento Kou da chi avesse preso quell’abitudine.
«Ti sembra il caso di disturbare papà per una sciocchezza simile?».
Daichi la ignorò completamente.
«Firmi o no, papà?».
Sachi sbottò esasperata, rivolgendosi immediatamente a Takahiro per protestare.
«Papà, ma non lo vedi che è un maleducato?!»
«Calmati, Sachi» la riproverò l’uomo, senza perdere la sua compostezza.
La donna tacque, incrociando nuovamente le braccia al petto, ma l’espressione contrariata sul viso tirato rimase fissa, era chiaro che non sarebbe stata in silenzio a lungo.
«Credevo che ne avessimo già parlato, Daichi».
Takahiro era calmo, sereno mentre pronunciava quelle parole.
Era vero, avevano fatto quel tipo di discorso innumerevoli volte negli ultimi anni, fin da quando Daichi aveva trovato il coraggio di opporsi ad un destino che non aveva scelto.
Paradossalmente, quel coraggio l’aveva trovato proprio quando tutto era andato in pezzi.
Lo schiaffo che Takahiro gli aveva dato quel giorno, il giorno della “disgrazia”, era uno dei ricordi più vividi che aveva della sua breve vita, era stato anche il gesto che aveva rotto definitivamente la brocca delle sue insicurezze, facendole traboccare.
«Si papà, ne abbiamo parlato» rispose con la stessa calma.
«Mi era sembrato chiaro che la soluzione migliore per te fosse quella di lasciare quell’inutile club e concentrarti sugli studi».
Era quello il punto.
Era quello il punto che Takahiro non voleva affrontare.
«Non lascerò il club fino alla fine papà».
Daichi era stato irremovibile su quel punto, e aveva almeno avuto Kaede e Reira al suo fianco quando era arrivato il momento di farlo presente.
Quando la sua squadra aveva perso contro quella del Grande Re, Daichi non aveva dovuto affrontare solamente il peso di una sconfitta sul campo, aveva dovuto scontare il peso di una sconfitta morale, una sconfitta che leggeva negli occhi di suo padre ogni giorno.
La strada che hai scelto tu non ti porterà da nessuna parte.
Era stata dura da digerire, era stata dura molto più che per gli altri.
Ma quel rospo amaro Daichi l’aveva ingoiato, doveva solamente andare avanti.
«Il tuo stupido club non ti aiuterà a prendere in mano le redini dell’azienda di famiglia Daichi! Vuoi mettertelo in testa una buona volta?».
Sachi intervenne nuovamente, era stata zitta per poco più di cinque minuti.
Daichi doveva ammettere che si trattava di un vero record per lei.
«E tu vuoi metterti in testa che non me ne frega niente?» replicò lui bruscamente, interrompendo la tiritera che Sachi era pronta a vomitargli addosso, Daichi non era mai stato verbalmente aggressivo con nessuno, ma sua sorella maggiore aveva il potere di tirare fuori anche quella parte ben nascosta di lui. «Non ho intenzione di prendere in mano le redini dell’azienda di famiglia! L’ho ripetuto tante volte! Io voglio diventare un’insegnante come mamma» sbottò, nell’impeto strinse un po’ troppo forte le dita attorno al foglio, stropicciandolo leggermente. Si impose di darsi un contegno, respirò.
Tutte quelle cose le aveva già dette a suo padre, guardandolo negli occhi.
La prima volta aveva fatto paura.
In quel momento, gli sembrava solamente di star gridando contro il vento.
Sachi strinse i pugni e si morse il labbro inferiore.
«Sei un ingrato che non merita nulla!».
Era furiosa, e aveva morso talmente violentemente le sue stesse labbra che le si erano sporcati i denti di rossetto. Daichi la guardò severamente, non provava nemmeno più pietà per lei e la sua frustrazione, per lei e la sua insoddisfazione.
«Se ti ritieni più degna, prenditi tu a carico l’azienda!».
Daichi fu cattivo nel pronunciare quelle parole, lo fece con una certa consapevolezza.
Era sempre stato quello il sogno di Sachi dopotutto, fin da quando era bambina.
La sua freddezza caratteriale non era legata ad un fine egoistico, Daichi quella cosa l’aveva capita crescendo; Sachi era la prima figlia, era arrivata diciassette anni prima di lui, inaspettato, desiderato, l’erede maschio che lei non era mai stata.
Era cresciuta costantemente sotto pressione, Takahiro le aveva ripetuto mille volte quando era bambina che avrebbe dovuto essere forte, che se avesse ereditato l’azienda avrebbe dovuto avere carattere, non farsi mettere i piedi in testa da nessuno.
Era cresciuta per quello scopo, voleva rendere Takahiro fiero di lei.
La nascita di Daichi doveva essere stata la disgrazia peggiore della sua vita.
Tutto quello per cui aveva lavorato duramente, rinunciando ai propri sogni, tutto quello era stato assolutamente inutile; l’erede maschio era arrivato, inaspettatamente.
Non c’era più bisogno di lei.
Sposarsi con un buon partito e aiutare l’azienda era stato tutto quello che Takahiro le aveva concesso, nonostante Sachi lo venerasse più della sua stessa vita.
Daichi non incolpava la sorella per quell’odio. Le voleva bene, ed era sicuro che anche Sachi gliene volesse a modo suo, prima che tutto si avvelenasse con la consapevolezza avevano ricordi piacevoli l’uno dell’altro; dopotutto, lei non aveva avuto la possibilità di scegliere.
La sua vita, le sue ambizioni, Daichi aveva mandato tutto in fumo.
E l’affronto più grande gliel’aveva fatto rinunciando proprio a quel tutto che lei aveva sempre desiderato possedere, quello che il padre non aveva mai voluto darle, con una tale fermezza e una tale serenità che era stato come spararle un dardo nel cuore.
«Adesso basta».
Takahiro intervenne ben prima che l’espressione livida di Sachi potesse trasformarsi in una tempesta senza precedenti.
«L’azienda è ancora mia, sono vivo fino a prova contraria».
Sachi si morse nuovamente il labbro inferiore, sbavando il rossetto, aveva i pugni stretti talmente forte che Daichi si domandò se non si stesse ferendo i palmi a sangue con quegli artigli muniti di french che si ritrovava al posto delle unghie.
«Daichi rovinerà ogni cosa papà. È capace di fare solamente guai. Non è nemmeno in grado di mangiare come una persona normale in presenza di altre persone, figuriamoci guidare quest’azienda!».
Daichi trasalì, aveva aspettato la pugnalata, ma non credeva che Sachi l’avrebbe mandata in basso, alle spalle, e con quella pacatezza nel tono di voce.
Era un argomento di cui Daichi non parlava.
Era un argomento di cui Daichi non voleva nemmeno il ricordo.
«Adesso basta!» intervenne alzando il tono di voce, avanzò verso la scrivania e schiaffò il foglio sotto il naso di suo padre, che non gli era sembrato nemmeno minimamente turbato da quelle parole, né lo sembrava dalla sua espressione risoluta «Firmerai questo foglio, oppure no?».
«Se non lo firmassi?» lo incalzò l’uomo, serafico.
Daichi strinse i pugni, ma non si lasciò sconfiggere al suo gioco.
«Lo farei firmare dalla mamma, che ne sarebbe felicissima, ma …» esitò solamente per un istante prima di raddrizzare le spalle e guardare il padre negli occhi. In effetti, da quando era entrato in quella stanza non aveva abbassato lo sguardo nemmeno una volta.
Ecco un’altra cosa che aveva imparato a fare da quello schiaffo.
«… non lo farò, perché ti rispetto troppo papà».
Takahiro resse il suo sguardo, non aggiunse una parola, aspettò qualche secondo prima di prendere la sua penna a stilo dalla tasca interna del completo gessato, firmare il foglio con calligrafia elegante e spingerlo lentamente verso il figlio.
Quando Daichi lo riprese, gli tremavano le mani.
«Grazie» si limitò a dire.
Era finita, voleva solamente lasciare quella stanza il prima possibile.
Si diresse verso la porta cercando di non correre, di non affrettare il passo e dare la sensazione di voler fuggire, esitò solamente un istante prima di andarsene, quando il pomello era già abbassato e l’uscio già aperto.
Esitò un istante per accertarsi che Takahiro fosse nuovamente distratto dai documenti per sollevare il dito medio e mostrarlo alla sorella maggiore. Reira, la seconda sorella, gli aveva chiesto di farlo innumerevoli volte; era un gesto infantile, sarebbe stato divertente raccontarlo.
Sachi lo guardò con un’espressione orripilata sul viso, avvampò.
Daichi si chiuse la porta alle spalle in fretta, la donna non ebbe modo di dirgli nulla, né di ricambiare il gesto in quel modo infantile che tanto ricordava quello dei suoi figli, ne sarebbe stata assolutamente capace, nonostante i sui trentaquattro anni suonati.
Incrociò le braccia al petto e guardò il padre, aveva intenzione di continuare quel discorso, di mettere a fuoco e fiamme quell’ufficio, ma tutti i suoi propositi morirono quando si accorse dell’accenno impercettibile di sorriso che accarezzava le labbra di Takahiro.
Sachi si chiese se Daichi avrebbe mai compreso, un giorno, quanto fosse fiero di lui …

 

When everything's made to be broken
I just want you to know who I am…
 

Il ticchettìo dell’orologio appeso alla parete della cucina era diventato insistente.
Erano rimasti in silenzio a studiare per così tante ore, che ogni minimo movimento sembrava accompagnato da un rumore decisamente troppo brusco e inopportuno.
Asahi alzò lo sguardo dal suo libro di preparazione ai test di fisioterapia e guardò Maria seduta lì davanti a lui, concentrata sui suoi spartiti, la matita appoggiata sulle labbra …
Gli erano sembrati tre mesi di sogni e deliri quelli passati con lei.
Asahi non aveva pensato nemmeno di arrivarci a tre mesi.
Aveva cominciato quella cosa con passo zoppicante, come un piccolo uccellino che usciva dal nido a passo lento, con il suo zampettare incerto, indeciso se spiccare il volo o meno.
Asahi non aveva creduto possibile che quel volo incerto fosse durato tre mesi.
E si sentiva mortificato quando, a volte, nel cuore della notte, l’ansia l’assaliva e non poteva fare a meno di pensare che qualcuno avrebbe sparato a quelle fragili ali, spezzandole, interrompendo l’incanto di quel volo pindarico in cui aveva osato sperare.
Asahi non voleva ammetterlo nemmeno con sé stesso, ma quando faceva quell’incubo, quando sognava il cacciatore sollevare il fucile e sparare, la faccia che vedeva era sempre quella di Maria … qualche volta aveva visto anche quella di Daichi …
Scosse violentemente la testa, scacciando quei macabri pensieri che negli ultimi tempi venivano a fargli visita spesso, rimproverando sé stesso per quell’attitudine negativa.
Asahi faticava a ricordare a volte che era meglio ancorarsi al presente.
Che pensare al futuro non portava da nessuna parte.
Tornò a concentrarsi su Maria, su quanto gli sembrasse bella in quel momento.
Un movimento in particolare catturò la sua attenzione, la vide sollevare una mano e sistemarsi distrattamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio; questi si arricciarono immediatamente sulle punte, rendendogli evidente un dettaglio che non aveva notato.
Maria doveva aver tagliato i capelli nei giorni precedenti; non troppo, certo, a lei piacevano lunghi, ma giusto sulle punte, perché potessero poi ricrescere più sani e folti.
Asahi dischiuse leggermente le labbra a quella rivelazione, per poi schiaffarsi una mano sulla faccia e darsi dello stupido; era sempre stato lento a notare quelle cose.
Avrebbe dovuto dirle qualcosa, anche solo in quel momento, anche se in ritardo …
«Ehi, Maria …» la richiamò, lei sollevò immediatamente i grandi occhi azzurri su di lui, e come ogni volta il cuore gli pompò un po’ più forte nel petto.
Asahi avrebbe voluto davvero farle quei complimenti, sarebbe stato sicuramente meglio delle parole che gli uscirono di bocca quando, malauguratamente, i suoi occhi si posarono sugli spartiti che Maria stava studiando alacremente da parecchie ore.
Li riconobbe solamente perché quella scena nella palestra gli era rimasta impressa nel cervello come se qualcuno ce l’avesse tatuata sopra di forza.
«Sono i libri di Daichi quelli?».
Maria lo fissò per alcuni secondi in silenzio, sbattendo le lunghe ciglia nere, sorpresa.
Asahi avrebbe voluto mollarsi un altro schiaffo sulla fronte, molto più forte del precedente.
Sperava quanto meno che il suo tono di voce potesse risultare naturale, piuttosto che pregno di una gelosia e un risentimento che, odiava ammetterlo, stava facendo sempre più fatica a nascondere nel profondo di sé stesso.
Maria è tua.
È tua, sta con te perché vuole.
Non è per pietà, non è perché non ha avuto scelta.
Si era ripetuto quelle parole per tutti quei lunghi tre mesi di sogni e meraviglie.
L’unica cosa di cui era riuscito ad auto convincersi, era di amarla per davvero.
Sono come Icaro che si avvicina troppo al sole.
«Si …» commentò Maria con naturalezza, riprendendosi dalla sorpresa della domanda. Guardò gli spartiti che aveva davanti, vecchi, macchiati e decisamente preziosi.
«In realtà sono della sorella di Daichi …» sbirciò il frontespizio di un volume «Re – Reira Sawamura» lesse decifrando i kanji «Tu sapevi che Daichi aveva una sorella?».
Se ne uscì alla fine, porgendo quella domanda con una tale innocenza da far sentire Asahi un mostro per il ruggito di gelosia che gli era nato nel petto.
«Ne ha due in realtà …» disse quasi automaticamente, con la voce bassa.
«Oh …» commentò Maria «Daichi non parla molto di sè, eh?».
«No …».
Asahi avrebbe voluto smetterla di rispondere a monosillabi e con quel tono depresso.
Daichi era il suo migliore amico, e tutta quella situazione non gli faceva piacere.
Aveva come la sensazione di star costruendo un muro dietro l’altro per tenersi al sicuro; parlare con Daichi andava bene, era naturale come al solito se non pensava a Maria, anche parlare di lui con gli altri non era un problema, ma con lei …
Con lei Asahi non poteva parlare del suo migliore amico.
Avrebbe significato lasciare uscire fuori troppe cose di sé che non gli piacevano.
«A proposito di Daichi …» ancora una volta Maria lo tirò indietro dai suoi demoni interiori, perché affrontasse quelli reali, quelli che aveva davanti agli occhi.
«Cosa?» chiese cautamente, riportando l’attenzione sulla pagina del libro che stava studiando fino a poco prima ma che, ormai ne era certo, non avrebbe avuto più il suo interesse per quel giorno. I kanji e gli hiragana vorticavano sulla pagina privi di significato.
«Mi sembra sia arrivato il momento di dirglielo, no?».
Asahi sollevò lo sguardo su Maria, aggrottando le sopracciglia.
Lei lo guardava con insistenza, con quello sguardo fisso un po’ contrariato, tremendamente intimidatorio, quello sguardo che gli rivolgeva ogni volta che voleva rimproverarlo perché era troppo lento a capire le cose … la prima volta che gliel’aveva rivolto gli sembrava passata da un secolo. Quella sera di Giugno, quando avevano deciso di andare all’opera.
Una vita prima.
«Dire cosa?» osò chiedere, Maria sbuffò ed incrociò le braccia al petto.
«Di noi, ad esempio!» sbottò, battendo teatralmente le mani sul tavolo, una matita rotolò cadendo a terra, tintinnando gioiosamente sul pavimento di legno «Perché non dirlo almeno a Daichi e Sugawara-san?» Asahi sbatté le palpebre, scioccato «Ti ho già ripetuto mille volte che non capisco perché tu ti sia intestardito a voler tenere la cosa nascosta, e l’ho accettato senza fare storie … Ma Daichi e Suga? Loro dovrebbero saperlo, non sono i tuoi migliori amici?».
Asahi trovò scorretto da parte di Maria tirare fuori quell’argomento all’improvviso.
Non era la prima volta che ne parlavano, e negli ultimi tempi era diventato un argomento piuttosto comune; Maria ne parlava appena ne aveva l’occasione.
Asahi non aveva intenzione di farlo, invece, e temeva che per lei sarebbe stato troppo difficile comprendere le sue ragioni; alcune di quelle Asahi non gliele poteva nemmeno dire.
«Ne abbiamo già parlato Maria. Lo dirò a Suga e a Daichi quando me la sentirò».
Asahi era stanco anche di ripetere quella bugia.
Lo dirò a Suga e a Daichi quando sarò sicuro che mi ami davvero.
Quando non proverò più vergogna per quello che è successo tra di noi.
Per come è successo.
«E quand’è che te la sentirai Asahi? Sono tre mesi che stiamo insieme».
Maria pronunciò quelle parole aspettandosi una risposta che non arrivò, Asahi si limitò a fissarla negli occhi testardo, sicuro di sé e irremovibile come lo era stato per tutto il tempo.
Prima o poi sarebbero arrivati ad un punto di rottura, un punto in cui non sarebbero più potuti tornare indietro, in cui superare quella linea avrebbe fatto la differenza tra la vita e la morte, ma finché quel momento era ancora lontano non voleva pensarci.
«Non mi hai nemmeno permesso di avvicinarmi a te quando avete perso contro quel re vanesio don Giovanni dei miei stivali».
La voce di Maria si incrinò leggermente a quelle parole, abbassò lo sguardo sullo spartito, giocando nervosamente con le dita della mano, era un gesto davvero atipico per lei, Asahi ne rimase particolarmente attratto, gli fece stringere lo stomaco pensare che ne fosse la causa.
Ma non fece nulla per rassicurarla, per darle una certezza, un sollievo.
Quel pomeriggio a casa di Maria, passato la maggior parte del tempo a studiare in tranquillità, Asahi trovò solo spazio per le sue insicurezze.
Riuscì a dar voce solamente alle sue paure.
«Se le cose fossero andate diversamente, se tra me e te quella notte non fosse accaduto nulla, tu avresti scelto Daichi, vero?».
Non riuscì a trattenersi, lo chiese come un disperato avrebbe potuto chiedere un sorso d’acqua dopo una settimana passata nel deserto.
Fu come sganciare una bomba all’improvviso in mezzo alla folla.
Maria si gelò sul posto, fissandolo negli occhi come se fosse impazzito.
Asahi aspettò quella risposta come un condannato sul patibolo, e quando finalmente Maria schiuse le labbra, fu proprio a quel punto che la porta di casa si aprì rumorosamente.
Akio e Mariko entrarono in casa trascinandosi dietro le buste della spesa, parlottando tra di loro con una certa enfasi riguardo la nuova marca di tofu che avevano appena comprato.
Fu il momento adatto per lasciare quel discorso in sospeso.
Asahi non era mai stato così contento di vedere Akio come in quel momento, nonostante il vecchio mise su immediatamente uno sguardo contrariato quando si accorse di lui.
«Ah! Questo sta sempre qui, eh?» brontolò a voce volutamente troppo alta.
Asahi avvampò, ma lo fece solamente perché non poteva farne a meno.
Nelle ultime settimane aveva passato talmente tanto tempo a casa di Maria, che Akio e Mariko si erano entrambi abituati alla sua presenza; non sapeva dire quanto sapessero o avessero capito i due adulti della sua relazione con Maria, in quanto l’aveva presentato come un semplice amico del club di pallavolo, ma era certo che qualcosa dovessero avere intuito.
«E smettila!» lo rimbeccò immediatamente Mariko, dandogli una gomitata nello stomaco mentre entrava nella piccola ma confortevole cucina, l’espressione corrucciata si trasformò immediatamente in un sorriso gentile quando guardò Asahi negli occhi «Oh, vedo che Maria non ti ha offerto nulla da bere!» intervenne, affaccendandosi immediatamente, aveva già preparato due bicchieri ancora prima di finire il discorso «Nel frigo ci sono anche i mochi che ho preparato questa mattina! Ne volete? Ti piace il tè al matcha caro?».
Ad Asahi girava la testa per tutte quelle domande, si fece ancora più paonazzo e non osò aprire bocca per paura di balbettare e sputacchiare come uno stupido.
«Hai perso la lingua teppistello?» lo provocò immediatamente Akio, ciabattando allegramente sul pavimento in legno della cucina mentre sistemava la spesa nella credenza.
«E lascialo stare Akio-san!» rispose immediatamente di rimando Mariko.
Come se il loro fosse un copione già scritto.
«Asahi deve dirvi una cosa molto importante!».
L’intervento inaspettato di Maria lasciò tutti basiti, Akio smise di fare quello che stava facendo e rimase immobile, con un braccio teso verso l’anta dell’armadietto, Mariko lasciò il bicchiere di tè che stava versando riempito solamente per metà.
Asahi capì immediatamente a cosa si stava riferendo Maria con quell’affermazione improvvisa, gliene aveva parlato quella mattina, poco prima degli allenamenti; lo stava gettando in pasto ai leoni e lo stava facendo volontariamente.
Era una punizione quella, una piccola vendetta.
Asahi desiderò ardentemente che Maria fosse una ragazza dal carattere più docile.
Il silenzio improvviso venne interrotto dallo sbattere violento dell’anta dell’armadietto, Akio fece sobbalzare tutti con quel gesto, le attenzioni erano tutte per lui quando si schiaffò una mano sulla fronte colto da un improvviso capogiro.
«Ecco qua, me l’ha messa incinta! Lo sapevo, lo sapevo io!» borbottò il vecchio sbiancando di colpo, Mariko lo afferrò immediatamente per un braccio.
«Nonno! Ma cosa dici?!» sbottò immediatamente Maria, alzando contemporaneamente il tono di voce e gli occhi al cielo.
«Akio-san!» strillò Mariko sull’orlo dell’esasperazione.
Da parte sua, Asahi cominciò a domandarsi se avrebbe mai ripreso a respirare, se si potesse raggiungere l’ebollizione per le sfumature violacee che aveva preso la sua pelle, o se sarebbe mai più stato in grado di muoversi e alzarsi da quella sedia.
Doveva anche aver ingoiato la lingua, ad un certo punto tra la dichiarazione punitiva di Maria e quella altamente scioccante di Akio.
«Guarda che cosa hai combinato?!» continuò a strillare imperterrita Mariko, strattonando l’uomo per un braccio, che continuava a fingere svenimenti vari mentre raggiungeva la sedia vuota attorno al tavolo per sedersi «Me l’hai quasi ucciso quel povero ragazzo!» strepitò la vecchia, lasciando andare finalmente il braccio del marito, che era finalmente riuscito a sistemarsi smettendola di comportarsi come un bambino, per avvicinarsi ad Asahi e dargli una pacca troppo forte sulla spalla.
L’asso della Karasuno ebbe come la sensazione di averla perfino digerita la lingua a quel punto della conversazione.
«Quante storie!» intervenne prontamente Maria incrociando le braccia al petto con aria annoiata, aveva indossato l’espressione più ostile del suo intero repertorio.
Sembrava un furetto particolarmente arrabbiato in quel momento.
Quell’immagine fece sorridere Asahi, aiutandolo a recuperare un po’ di controllo personale.
«E allora che cosa deve dirci questo mezzo delinquente!» strepitò ancora più forte Akio, mettendo su un broncio che non aveva nulla da invidiare a quello della nipote, Asahi si chiese se non fosse una gara di famiglia quella di strillare più forte della persona che aveva parlato precedentemente.
Gli angoli delle labbra gli si sollevarono leggermente.
Si era sempre sentito in imbarazzo in presenza dei nonni di Maria, fin dalla primissima volta che li aveva incontrati, quando lei si era fatta male la caviglia; era stata una sensazione che non era riuscito ad eliminare nemmeno con il passare del tempo, probabilmente non l’avrebbe fatto mai, probabilmente avrebbe provato sempre soggezione e reverenza per quelle due persone anziane e sagge, cariche di passato sulle spalle.
Eppure … eppure non poteva fare a meno di sentirsi a suo agio in qualche modo strano.
Tutto quel chiasso, gli sguardi intimidatori di Akio, i tentativi goffi di Mariko di farlo sentire a suo agio, c’era qualcosa di assolutamente caldo ed accogliente in tutto quello …
«Nonno!».
«Akio-san!».
Sbottarono le due donne contemporaneamente.
«Gne gne» rispose di rimando il vecchio facendo la linguaccia.
Asahi si lasciò scappare una mezza risata a quella scena e tre sguardi diversi si posarono contemporaneamente su di lui, facendolo immediatamente arrossire.
Akio brontolò contrariato, Mariko gli sorrise teneramente, Maria lo fissò sconcertata.
«Ehm …» cominciò il giovane schiarendosi la voce per affrontare l’argomento.
Aveva già detto a Maria che non avrebbe voluto farlo, ma siccome lei l’aveva già tirato in ballo, Asahi era consapevole del fatto che avrebbe dovuto ballare.
Tanto valeva farlo il prima possibile.
«Tra qualche giorno la nostra squadra di pallavolo partirà per un ritiro di una settimana nei pressi di Tokyo … ecco … insomma … p-potreste concedere a Maria il permesso di venire?». Asahi terminò la richiesta grattandosi la nuca totalmente imbarazzato.
Domandando a sé stesso perché avesse ceduto alla provocazione di Maria così facilmente.
Non fu difficile per lui darsi immediatamente una risposta.
Il giorno in cui avrebbe vinto una battaglia contro di lei, sarebbe arrivata la fine del mondo.
Mariko e Akio lo guardarono per un po’ in silenzio, sbattendo ripetutamente le palpebre, prima di girarsi contemporaneamente verso la nipote a fissarla con insistenza.
Maria sembrava talmente tranquilla che non si scompose nemmeno un po’.
«E sentiamo, chi ci andrebbe a questo ritiro?! Tu?! Sono tutti maschi poi?!» brontolò Akio, spostando l’occhiataccia che aveva rivolto alla nipote al povero ragazzo.
Asahi tentò in vano di rispondere, ma la lingua gli si attorcigliò, fortunatamente per lui, nonostante la preoccupazione le si leggesse chiaramente negli occhi, ad intervenire per difenderlo fu Mariko, che afferrò bonariamente il polso del marito.
«Stai tranquillo Akio-san, sono sicura che ci sarà anche Shimizu, vero?» e rivolse un’occhiata carica d’ansia ai due ragazzi.
«Oh, ma certo!» intervenne prontamente Asahi, subito rincuorato.
«E poi io mi sento più tranquilla se ci sei anche tu» continuò inaspettatamente la donna.
Asahi rimase con la bocca leggermente spalancata, e anche Maria dovette smetterla di fare la sostenuta a quel punto, per mettere su una faccia decisamente molto colpita.
«Maria ci parla sempre bene di te, e noi siamo contenti che siate amici, vero Akio-san?».
La donna diede una gomitata al marito, che fissò i due ragazzi con il broncio ancora per un po’ prima di annuire svogliatamente, come un bambino troppo capriccioso.
«Si, si» brontolò «Va bene, puoi andarci … ma solo perché c’è Shimizu-san!».
I borbottii di Akio si persero tra gli sguardi che Asahi e Maria si lanciarono di sottecchi, sorridendo tra i denti; erano consapevoli entrambi del fatto che quel discorso lasciato in sospeso non potesse rimanere indiscusso per sempre.
Ma per quel pomeriggio non era il caso di parlarne.
Ci avrebbe pensato il tempo a far capire ad entrambi il peso di quelle scelte.
Il peso di tutti quei silenzi.
 
 
Il giorno della partenza arrivò molto prima del previsto.
La settimana passò velocemente, tra allenamenti, esami di fine trimestre, pomeriggi passati a stare insieme di nascosto e i preparativi affrettati dell’ultimo minuto.
Erano partiti di mattina presto, con il cielo ancora scuro, prossimo all’alba.
Asahi aveva pensato che con quelle facce assonnate e gonfie che si ritrovavano, sarebbero potuti facilmente passare per un gruppo di zombie viventi, spaventando tutta la scuola.
Fortunatamente, nel cortile dell’edificio scolastico c’erano solamente loro, la squadra, il coach, il professore, e quel pulmino sgangherato che avevano rimediato per andare a Tokyo.
A quanto aveva detto il professor Takeda, l’avevano rimediato grazie al parente di uno dei ragazzi, ma la faccenda non era interessata granché a nessuno, finché sarebbero potuti andare nei pressi di Tokyo ad affrontare i loro rivali di sempre.
Era andato tutto alla grande più o meno fin quando non si era venuto a sapere di chi fosse quel furgoncino, e chi avrebbe guidato per tutto il tragitto.
La prospettiva di dormire durante il viaggio di un paio d’ore aveva sfiorato la mente assonnata di tutti, Asahi aveva immaginato con una certa enfasi il momento di sistemarsi accanto al finestrino per farsi una bella dormita ristoratrice.
Il sonno era passato immediatamente quando Saeko Tanaka si era presentata in tutto il suo splendore, mettendosi alla guida con fare entusiasta.
Asahi aveva sospettato che il coach e il professore non fossero a conoscenza del modo spericolato con cui quella ragazza portasse qualsiasi mezzo di trasporto, perché sembravano piuttosto rilassati. A differenza dei loro allievi, che erano sbiancati pericolosamente.
Tanaka aveva giurato di non sapere nulla di tutta quella storia.
Di fatto, le occhiatacce peggiori erano andate proprio a lui quando si era sparsa la notizia.
Dunque, Asahi si ritrovava ormai a mattina inoltrata, schiacciato sui sedili di fondo del piccolo furgoncino sbandante, bloccato tra Maria e Daichi, con lo stomaco sottosopra e la faccia verde.
Quella mattina Saeko guidava peggio del solito.
Ad ogni curva sembrava che il furgoncino potesse ribaltarsi da un momento all’altro, Noya e Tanaka erano gli unici che trovavano una qualche forma di divertimento in tutta quella faccenda, attaccandosi ai sediolini come se fossero due cowboy ad un rodeo.
Daichi era talmente intento a non sudare freddo, che non aveva nemmeno il tempo di sgridarli; i professori invece, Asahi aveva il sospetto, dovevano essere svenuti lì davanti.
Portandosi una mano allo stomaco sottosopra, Asahi cercò di sporgersi verso il finestrino senza dare troppo nell’occhio, ma c’era Maria alla sua destra ad ostruire la vista.
Si pentì amaramente di aver fatto colazione quella mattina.
Sua madre aveva insistito talmente tanto che Asahi non se l’era sentita di rifiutare, inoltre, aveva cucinato talmente tanto che doveva essersi alzata nel cuore della notte per preparargli tutto, compresa la sacca del pranzo, almeno per quel giorno.
Asahi sarebbe stato lontano da casa per una settimana intera, non succedeva spesso.
Per Kaori doveva essere difficile avere il figlio lontano, restare da sola con Hotaru nelle sue condizioni … Asahi non aveva la pretesa di aver preso il posto del padre, non si sentiva degno di Hajime nemmeno un po’, ma sicuramente come unica figura maschile in casa, Kaori ed Hotaru dovevano sentire molto il bisogno di aggrapparsi a lui …
Il filo dei suoi pensieri si interruppe quando Maria strinse un po’ più forte la presa delle loro dita intrecciate.
Si erano presi per mano di nascosto, facendo attenzione, le dita intrecciate tra di loro.
Lei stava ascoltando la musica fin da quando erano partiti, tranquilla, sembrava essere del tutto immune alla guida spericolata di Saeko, come pochi altri di loro.
Lo guardava con una faccia leggermente preoccupata, si era tolta una cuffietta.
«Vuoi sederti tu accanto al finestrino, sei bianco come un lenzuolo» gli chiese a bassa voce, per non disturbare Daichi, che aveva appena chiuso gli occhi in un disperato tentativo di appisolarsi e smetterla di sudare copiosamente dalla paura.
Asahi le sorrise gentilmente, combattendo con l’ennesimo conato di vomito.
«Non preoccuparti, ce la faccio».
Non seppe perché volle fare tanto il gentiluomo, Maria non soffriva i mezzi di trasporto come lui, era evidente, per lei non sarebbe stato un problema fare quel cambio di posto.
Forse fu solamente per galanteria che lo fece.
Per il suo carattere tendenzialmente remissivo.
O forse perché non gli piaceva l’idea che le loro mani intrecciate si sciogliessero.
Ad ogni modo, fu davvero una pessima idea, perché se si fosse trovato accanto al finestrino quando Saeko prese quella buca tremenda che li fece sbandare leggermente, sicuramente Asahi avrebbe avuto la prontezza di rigettare tutta la colazione sul tappetino, piuttosto che sulla gonna immacolata della divisa scolastica di Maria, come invece fece.
Significò scatenare il panico generale nel giro di pochi secondi.
In realtà, Maria non se la prese nemmeno un po’ per l’accaduto, e la situazione sarebbe passata anche sotto silenzio se proprio in quel momento Noya e Tanaka non avessero deciso di accorgersi della cosa e farla diventare una questione di stato.
Dal canto suo, se avesse potuto sotterrarsi sotto terra, Asahi l’avrebbe fatto volentieri.
Non contò nemmeno il numero delle volte che chiese scusa a Maria.
Fortunatamente, quando successe il fattaccio, mancavano pochi minuti a destinazione.
Asahi scese dal pulmino respirando l’aria fresca a pieni polmoni, odiava ammetterlo, ma dopo aver vomitato stava decisamente meglio, almeno fisicamente, schivò agilmente Noya e Tanaka, insieme ai primini, pronti a tormentarlo per bene, e cercò Maria con lo sguardo.
Quando erano scesi tutti dal furgone, lei si era affrettata, guidata da Hitoka, a preparare una pezza bagnata con cui pulirsi la gonna il più possibile.
Asahi era rimasto leggermente indietro, trattenuto dalle battute degli altri. 
Voleva aiutarla il più possibile, così aveva preso la sua bottiglietta dell’acqua e un cambio dei suoi pantaloni della tuta, perché potesse indossarli e stare più a suo agio, anche se erano troppo grandi per lei.
Quindi si sentì particolarmente stupido quando, raggiunto il luogo dove Maria era sparita con Hitoka, la trovò in compagnia non della primina, ma di Daichi.
Doveva sembrare uno stupido allocco mentre se ne stava lì fermo in piedi, in mezzo allo spazio di un luogo non familiare che non si era nemmeno preso la briga di guardare, con gli altri che gli ronzavano intorno entusiasti e allegri, scaricando i loro borsoni, con quel pantalone della tuta piegato mollemente sul braccio e la bottiglia d’acqua nella mano sinistra.
Daichi era inginocchiato a terra, aveva bagnato un panno che utilizzavano per asciugarsi il sudore durante gli allenamenti con l’acqua di una piccola fontana che se ne stava nell’angolo tutta sola soletta, le stava pulendo la gonna, dicendole qualcosa che Asahi non sentiva.
Maria non rispondeva, quasi Daichi stesse parlando da solo, ma si limitava a fissarlo.
Il modo in cui lo faceva, fisso, quasi incantato, ferì Asahi più di quanto avrebbe potuto farlo una coltellata ben piazzata sotto la scapola, all’altezza del cuore, con la lama spinta dentro fino all’elsa. Avrebbe voluto che lei sollevasse lo sguardo e si accorgesse di lui.
Del fatto che era proprio lì, che li stava guardando, che stava soffrendo.
Invece Maria si limitò solamente a sussultare quando, inaspettatamente, Daichi appoggiò la mano destra, a palmo aperto, sulla pelle sensibile e scoperta della gamba destra di Maria, poco sotto il gluteo.
Lo fece per non perdere l’equilibrio, per aggrapparsi a lei, o pulirle meglio la gonna.
Forse fu un gesto spontaneo.
Non lo fu sicuramente quello di sollevare il viso e sorriderle gentilmente.
Né lo fu quello di Maria di ricambiare quel sorriso.
Asahi ebbe come la sensazione che sarebbe rimasto impalato come uno sciocco, fisso a guardare quella scena per sempre, se Sugawara e Shimizu non fossero passati di lì.
Il suo migliore amico gli passò un braccio attorno alle spalle, risvegliandolo dal torpore in cui era caduto, forse non si era nemmeno accorto di quel fugace contatto tra Maria e Daichi.
Nemmeno Shimizu sembrava troppo turbata da quello che vedeva.
«Non pensarci troppo Asahi, succede a tutti!» lo consolò bonariamente Suga.
Una consolazione che non raggiunse minimamente il cuore di Asahi.
Fu a quel punto che lo strillo improvviso di Yachi, acuto e terrorizzato, infranse l’aria, facendo sobbalzare tutti quanti dallo spavento.
Fu talmente inaspettato che riuscì a distrarre anche Asahi da quanto appena visto.
Quando il ragazzo si girò per osservare la situazione e cosa fosse successo, non poté fare a meno di pensare che quel ritiro sarebbe stato molto lungo e faticoso.
E sicuramente assolutamente non indolore.

 
 
Buongiorno a tutti, miei carissimi 🤗🤗
Flying_Lotus95 vi inoltra oggi questo meraviglioso capitolo ❤❤
A questo capitolo tengo in modo alquanto particolare, soprattutto perché finalmente ci addentriamo nel quotidiano di Daichi, e iniziamo a scoprire qualcosa in più su di lui... All’inizio e alla fine della sua scena ho inserito due frasi tratte da Iris dei Goo Goo Dolls. Penso che quella canzone dica davvero tanto, se non tutto, di questo Daichi tanto tormentato e ambiguo…
Ci tengo davvero a fare i complimenti alla mia cara socia ed amica effe_95 per il bellissimo lavoro che ha fatto su di lui, sebbene per lei sia stato un vero scoglio affrontare la cripticità del capitano dei corvetti, eppure lo ha trattato con estrema gentilezza e pazienza. Ne sono davvero soddisfatta 💖
Ma passiamo alle note "dolenti", per modo di dire... avrete sicuramente notato delle new entry sospette in questo capitolo 🐈‍⬛🐈‍⬛... bene, preparatevi, perché dal prossimo inizieranno deliri su deliri!
E ovviamente, i nostri Maria e Asahi non resteranno certo immuni dinnanzi a questo sfacelo... voi cosa ne pensate??
Grazie come sempre delle visite che stiamo ricevendo alla storia, siete inaspettatamente tanti e ne siamo davvero stupite.
E per ultimo, ma non meno importante, vogliamo ringraziare Europa_91 per l’affetto che sta dimostrando alla nostra storia con i suoi calorosi commenti 😊 a noi non può far altro che piacere, e spero che più avanti vada la storia, e più coinvolga lei e tutti voi.
Noi saremo sempre qui ad accogliervi festanti nel caso vogliate battere un colpo 🤗🤗
Buona lettura gente!
Flying_Lotus95 & effe_95

 

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Capitolo 18
*** 17- Trippa per gatti ***


17.Trippa per gatti.

 
Forse vorrei una ragazza normale
Che mi guardi e mi sorrida mentre le scrivo canzoni d'amore
 
 

«Ho visto una fontanella poco lontano dal pulmino».
Era stato con quelle parole che Hitoka aveva trascinato Maria un po’ in disparte dagli altri, tirandola con urgenza per la manica della camicia, affinché potesse pulirsi il più velocemente possibile dalla macchia di vomito che si allargava a vista d’occhio sulla sua gonna. Maria l’aveva seguita senza fare storie, lasciandosi un po’ trascinare.
Pensava che gli altri ne avessero fatto un dramma troppo grande.
E che avrebbe dovuto insistere un po’ di più con quel testone del suo ragazzo; se l’avesse fatto, probabilmente non si sarebbe trovata in quella situazione.
Stava tentando di sollevare con una certa fatica il bordo della gonna mentre trotterellava dietro il passo affrettato di Hitoka, quando quest’ultima si fermò all’improvviso, senza alcun tipo di preavviso, costringendola a finirle addosso senza possibilità di evitare l’impatto.
Hitoka non sembrò nemmeno accorgersene, mentre vedeva Hinata correrle incontro a tutta birra come un forsennato, aveva la faccia rossa per lo sforzo.
«Hitoka-chan!» affermò il primino afferrandola per il polso fragile «Hitoka-chan devi venire un attimo con me, devo presentarti qualcuno!» e prese a tirarla insistentemente, incurante di Maria che era lì a fissarli con un sopracciglio sollevato.
Hitoka era rossa fino alla radice dei capelli mentre guardava Hinata.
«Ma – Ma Tani-chan …» provò a ribellarsi debolmente la ragazzina, imbarazzata.
Maria sorrise intenerita, le fece un cenno della testa e l’occhiolino.
«Ce la faccio Hitoka-chan, posso pensarci io. Tu va’ pure».
Le sorrise incoraggiante, sollevando i pollici, Yachi arrossì moltissimo, ma le fece un piccolo inchino di ringraziamento e lasciò che Hinata la trascinasse via senza opporre resistenza.
Maria scosse la testa, sollevando gli occhi al cielo e si incamminò da sola verso la fontanella.
Era carina, con un beccuccio dorato a forma di gatto.
Stava giusto pensando a come avrebbe potuto fare a sciacquarsi senza nulla a disposizione, che Daichi occupò la sua visuale inaspettatamente, porgendole uno di quegli asciugamani bianchi che utilizzavano durante gli allenamenti per detergere il sudore.
«Ho pensato che ne avresti avuto bisogno» commentò il ragazzo, sorridendole.
Maria esitò solamente un istante prima di prendere il panno e stringerlo tra le mani, era rimasta sorpresa da quell’apparizione improvvisa, ma trovò carino che Daichi avesse avuto quel pensiero per lei.
«Grazie …» replicò, si guardarono negli occhi per alcuni secondi, immobili.
Maria fu la prima a scostare lo sguardo e muoversi verso la fontanella, Daichi la seguì, qualche passo indietro, silenzioso e discreto.
Il beccuccio a forma di gatto era difficile d’aprire con le mani occupate, Maria non chiese aiuto a Daichi, fu lui stesso a sporgersi in avanti per aiutarla.
«Mi passi il panno?» le domandò poi, appoggiando un ginocchio a terra.
Maria aggrottò le sopracciglia, sorpresa da quel gesto inaspettato, non aveva capito cosa avesse intenzione di fare Daichi, fin quando il ragazzo le sfilò gentilmente l’asciugamano dalle mani, lo bagnò sotto la fontanella e cominciò a pulirle la stoffa della gonna.
«Posso farlo anche da sola!» si affrettò a commentare Maria, immediatamente tentata dal desiderio di ritrarsi a quel contatto, fece anche un passettino all’indietro, passettino che venne prontamente bloccato dalla mano di Daichi che si posò esattamente sulla sua pelle scoperta, dietro la coscia destra.
«Non muoverti per favore» le intimò il ragazzo, aveva lo sguardo fisso sulla stoffa, sguardo che sollevò su di lei, incatenandola con un sorriso che non le aveva mai rivolto con quelle sfumature indecifrabili, sconvolgenti.
«Ti dà fastidio?» Le domandò, misterioso. Maria aveva sempre pensato che Daichi fosse particolarmente difficile da leggere. L’aveva percepito immediatamente che dietro quel sorriso non si poteva scavare senza scottarsi, o senza farsi del male, o scoprire cose che era meglio non scoprire affatto.
Ma Daichi non le era mai sembrato enigmatico come in quel momento, mentre la fissava con quel sorriso accennato sulle labbra, illeggibile, spaventoso e totalmente oscuro.
Odiava ammetterlo a quel punto, ma il cuore nel petto le palpitava troppo velocemente.
Non sapeva dire quale fosse la natura di quella palpitazione però: se eccitazione o paura.
Fu un urlo improvviso a spezzare la tensione del momento.
Maria sobbalzò come se l’avessero improvvisamente pizzicata sul braccio, senza preavviso.
Anche Daichi, sorpreso, smise di strofinarle la gonna e si tirò in piedi, guardando a sua volta nella direzione da cui era provenuto lo strillo.
Maria era certa solamente di una cosa in quel momento, quella era senza ombra di dubbio la voce di Hitoka, che aveva lasciato solamente pochi secondi prima alla mercé di Hinata.
Doveva essere stato uno scherzetto stupido di quelli del primo anno probabilmente, oppure qualche piano malvagio architettato da Nishinoya e Tanaka finito tragicamente male.
Maria non lo sapeva, ma qualunque fosse la causa, era pronta a dirne quattro al colpevole.
Si lasciò Daichi alle spalle senza troppi complimenti, ignorando completamente il torpore che ancore le scottava la pelle dove la mano grande del ragazzo era stata poggiata fino a poco prima; fu mentre scattava con passo marziale e frettoloso che si accorse di quei tre.
Asahi, Sugawara e Shimizu se ne stavano anche loro lì, poco dietro il furgone.
Anche loro intenti a cercare di capire cosa fosse successo.
Maria sollevò gli occhi verso Asahi, guardandolo solamente di sfuggita, fu un attimo.
Asahi le rivolse un’occhiata gelida, forse ferita, scosse la testa alla volta di Suga, gli diede una pacca sulla spalla e se ne andò … se ne andò senza nemmeno riguardarla …
Maria aggrottò le sopracciglia, sorpresa da quella reazione … pensò che dovesse essere ancora leggermente scosso per quello che era successo sul pulmino …
Ci avrebbe pensato successivamente.
Sfrecciò davanti la sua migliore amica e l’alzatore ignorando i loro richiami e posizionò le mani chiuse a pugni sui fianchi, pronta a dirne quattro con tutto il fiato che aveva in gola.
«Ma che cos-»
Non finì nemmeno di terminare la frase che qualcosa di enorme le ostruì la vista.
La prima cosa che Maria riuscì a pensare, irrazionalmente, fu di essere andata a sbattere contro un gigante; perché non riusciva a capacitarsi minimamente del fatto che una persona potesse essere così alta.
Lo shock maggiore fu rendersi conto che era andata a sbattere contro un ragazzino.
Un ragazzino alto due metri, con la pelle pallida, gli occhi verdi decisamente poco orientali, che la fissava dal basso all’alto con un sorriso talmente largo e spaventoso da mettere i brividi. Maria balzò all’indietro senza nemmeno rendersene conto, con la voce strozzata, inciampò nei suoi passi e urtò con le spalle contro qualcun altro.
Fu tutto talmente inaspettato che le scappò un versetto strozzato prima di girarsi di scatto.
Era andata a sbattere contro un altro stramboide e le sembrava di essere accerchiata da matti, senza via di fuga, sbandata a destra e sinistra come una trottola.
Lo stramboide aveva dei capelli strani, un caschetto tinto di biondo con la radice nera, fissava con una certa aria apatica il game-boy che gli era caduto a terra nell’impatto, quasi stesse assistendo ad un omicidio con aria totalmente disinteressata.
Maria era troppo presa dalla situazione per rendersi conto che i due indossavano delle tute rosse su magliette nere, o anche solo per leggere il nome della loro scuola sulla felpa.
«Scusami, tutto bene?» riuscì solamente a dire alla volta del ragazzo con i capelli a budino. Quest’ultimo si limitò a chinarsi a terra, darle le spalle, ispezionare il gioco e sospirare un rilassato «Non si è rotto per fortuna». Maria lo guardò allibita.
«T-tani-chaaaaannnnn» Il lamento disperato e lacrimoso di Hitoka la richiamò.
Maria si girò di colpo quando la primina le si attaccò al braccio con fare spaventato nascondendo la faccia sulla sua camicia, le si vedevano solamente le orecchie arrossate.
«Hitoka-chan, non scappare!» Hinata arrivò poco dopo, Maria si rese conto solamente in quel momento che entrambi erano spuntati da dietro il ragazzo gigantesco.
Le bastò davvero poco per capire che Yachi doveva essersi spaventata come lei.
«È solamente Lev, Hitoka-chan!» Continuò il primino, entusiasta.
Maria si rese conto che Lev era il ragazzo evidentemente meticcio che li fissava tutti dall’altro con un’aria stupida, come se non capisse, e quel sorriso terribilmente grottesco.
«Ciao a tutti!» esclamò lo sconosciuto agitando la mano in segno di saluto.
Maria fece un respiro profondo, cercando di trovare la pazienza necessaria per non rimproverare Hinata troppo aspramente e mettere, contemporaneamente, ordine in quella situazione chiassosa che si era venuta a creare, sebbene lei stessa facesse fatica a farlo.
Aveva appena sollevato un dito in aria con fare minaccioso e aperto la bocca, che le urla di qualcun altro irruppero nella scena, decisamente più minacciose di quanto avrebbero potuto essere le sue.
«Lev, idiota che non sei altro! Dove diavolo ti sei cacciato?!».
A fare tutto quel chiasso era … un bambino?
Maria dovette sbattere più volte le palpebre per accertarsi di aver visto bene, forse gli occhi erano talmente strabuzzati che dovevano sembrare proprio fuori dalle orbite.
Il presunto bambino, che ad un’occhiata molto più ravvicinata era solamente un ragazzo eccessivamente basso per la sua età, avanzò pestando i piedi a terra come un toro inferocito.
Prese la rincorsa e con un calcio ponderoso centrò il ragazzino gigante nel didietro.
Lev si lamentò prontamente, mentre l’altro lo rimproverava a raffica con una serie di insulti.
Hinata rideva al suo fianco, Hitoka era sempre attaccata al suo braccio ma meno spaventata, Shimizu e Suga osservavano la scena in disparte, appena raggiunti da Daichi, mentre quello strambo ragazzo del game-boy  continuava a giocare indisturbato da tutta la situazione.
Maria non riusciva a fare altro che osservare il tutto con aria allucinata invece.
Fu però un dettaglio in tutta quella scena a catturare la sua attenzione.
Un’ulteriore presenza, giunta con il piccoletto dal calcio rotante, che non aveva notato precedentemente perché silenziosa e discreta, sebbene piuttosto assoggettante.
Lei aveva già visto quel ragazzo da qualche parte … ma dove?
«Vi chiedo scusa se il nostro primino vi ha spaventato!».
Maria sobbalzò, tornando alla realtà, quando si ritrovò all’improvviso la piccola furia davanti, prono in un evidente inchino di scuse; un’altra scena grottesca, considerando che il nuovo arrivato aveva effettuato quell’inchino tenendo ben fermo per l’orecchio il povero Lev, piegato praticamente a metà per raggiungere l’altezza di quello che, almeno Maria così aveva immaginato, dovesse essere uno dei suoi senpai.
«Yaku-san, mi fai male!» si lamentò Lev, con un perfetto accento giapponese.
In un piccolissimo angolino della sua mente Maria si rese conto che doveva essere cresciuto come lei in Giappone, considerando che era sicuramente un meticcio con quegli occhi.
Tuttavia, si limitò a sollevare un sopracciglio e incrociare le braccia al petto per farsi forza e spiegare quanto più possibile quella situazione delirante e imbarazzante.
«N- non è successo nulla» intervenne inaspettatamente Yachi, togliendole quell’onere fastidioso, Maria la guardò leggermente stupita, ma non fece nulla per intervenire.
Pensava fosse un bene per Hitoka cavarsela da sola in quella situazione.
«H-Hinata voleva solamente presentarmi Lev, io – è – è stata colpa mia ecco! Gli sono finita addosso e mi sono spaventata inutilmente!» e finì di spiegare inchinandosi esageratamente alla volta di quel Yaku, trascinandosi dietro un’infinità di “mi dispiace”.
«Esatto!» esclamò con voce allegra Hinata, divertito dalle difficoltà del povero Lev.
«Potresti anche lasciarlo andare, Morisuke, credo che Lev abbia imparato la lezione».
L’intervento di quella voce calda e tranquilla fu inaspettato per tutti, ma aiutò anche finalmente Maria a capire dove l’avesse già sentita e dove avesse esattamente già visto il suo proprietario … le tornò in mente il corridoio, i fogli sul pavimento, quel giovane che la aiutava … il terzetto di quella squadra che non aveva saputo riconoscere all’epoca …
Fu come essere fulminata all’improvviso: quelli erano i ragazzi della Nekoma.
Come aveva fatto a non capirlo prima? Le tute le aveva già viste.
Daichi, che nello scambio di quelle brevi battute si era fatto spiegare la situazione da Suga e Shimizu il più concisamente possibile, avanzò finalmente con il passo deciso di un padre fiero pronto ad infliggere qualsiasi punizione fosse necessaria ai suoi figli indisciplinati.
«Yaku, Kai, spero che i miei ragazzi non vi abb-»
«Ecco dove ti ho già visto!».
Maria non riuscì proprio a trattenersi.
Interruppe Daichi senza ritegno ed ebbe anche l’ardire di pronunciare quella frase puntando l’indice contro il diretto interessato, a scoppio tremendamente ritardato dalla realizzazione.
Se tutti la guardarono, chi con aria perplessa come Daichi, chi con aria sorpresa come Hitoka e Hinata, e chi con un sopracciglio sollevato come Yaku - che aveva lasciato andare finalmente l’orecchio di Lev, che stiracchiava la schiena indolenzita - il diretto interessato, Kai, non sembrò minimamente impressionato da quella reazione.
Si fece avanti con una certa grazia, l’aria posata, le mani nelle tasche della tuta, gli occhi profondi e scrutatori, un po’ intimidatori.
«La ragazza dei fogli, giusto?» domandò, accennando anche un sorriso.
Maria arrossì senza saperne realmente il motivo, forse perché tutti li stavano guardando in quel momento, forse perché aveva interrotto Daichi, non riusciva a spiegarselo.
«Giusto» si limitò a commentare, abbassando lo sguardo.
«Chiedo scusa anche io se il nostro primino vi ha spaventato. Lev è un bravo ragazzo, ha solamente qualche problema a controllare la propria esuberanza» spiegò Kai, con una compostezza del tutto diversa dal suo compagno di squadra, Yaku.
Nel pronunciare quelle parole si rivolse anche a Daichi, facendogli un inchino.
Maria ne dedusse che Kai fosse il capitano della Nekoma a quel punto.
«Non preoccuparti Kai, anche i nostri primini non sanno controllare la propria esuberanza a quanto pare» replicò Daichi, e rivolse ad Hinata uno sguardo tale che il ragazzino si fece piccolo piccolo dallo spavento, avvicinandosi lentamente a Suga per cercare protezione.
Maria avrebbe riso di quella scena se non fosse stata ancora un po’ imbarazzata.
«Vedo che avete due nuove manager molto carine nella squadra».
Il commento cortese di Kai, detto solamente per alleggerire la tensione, non aiutò le due povere ragazze a ritornare ad una colorazione di pelle adeguata.
«Si, sono Yachi e Maria» le presentò Daichi, indicandole a vicenda.
Le due fecero un inchino di saluto, quello di Maria fu solamente accennato, stava pensando che dopotutto non fosse corretto restare così in silenzio, imbarazzate.
«Piacere» replicò Kai, al suo fianco anche Yaku si presentò con un inchino.
«Mi hanno parlato molto della vostra squadra …» accennò Maria, per non restare in silenzio e dare l’impressione sbagliata. «Tu sei il capitano giusto?».
Kai e Yaku si lanciarono un’occhiata veloce, un po’ enigmatica da interpretare, mentre dietro di loro Lev si massaggiava le orecchie scambiando alcune battute chiassose con Hinata, del tutto disinteressato alla conversazione per il momento.
Una risata chiassosa, del tutto fuori contesto, impedì ai due della Nekoma di parlare.
Yaku e Kai alzarono contemporaneamente gli occhi al cielo e Maria aggrottò le sopracciglia, cercando di guardare dietro i due giovani per capire da chi provenisse quella risata sguaiata; tuttavia non fece in tempo a sporgere la testa che qualcosa si frappose tra sé e gli altri.
Non qualcosa … ma qualcuno.
Maria sollevò lentamente, sbattendo le palpebre, lo sguardo sul giovane che le si era parato davanti in quel modo, appoggiando una mano sul furgoncino bianco e guardandola dall’alto in basso con quel sorriso strafottente sulle labbra.
Riconoscerlo fu troppo facile, perché gli aveva lasciato un’impressione talmente brutta al loro primo incontro da restarle facilmente impresso nella memoria.
Maria doveva ammettere di aver sperato di non incontrare mai più quell’individuo.
«Ma guarda un po’, chi sarebbe il capitano qui?» commentò con la sua voce melliflua e la faccia da schiaffi «Spiacente di deluderti tesoro, il capitano qui sono io».
Maria avrebbe voluto dare l’impressione di non essere rimasta colpita da quella verità, ovviamente non ci riuscì, fu troppo inaspettata per poter controllare le sue reazioni.
«Kuroo» lo richiamò Kai con un tono paziente, che nascondeva tuttavia un pizzico di esasperazione; il diretto interessato, tuttavia, non sembrò per nulla impressionato.
«Ci rincontriamo, corvetto indisponente» cantilenò, sorridendo.
Emanava una spiacevole puzza di sigaretta mista ad un gradevole odore di bagnoschiuma alla lavanda e dopobarba alla menta; Maria rabbrividì, il viso di Takumi le ritornò in mente senza alcun controllo, scosse la testa.
Dalle sue parole, era evidente che anche lui doveva averla riconosciuta.
Dovevano essere stati gli occhi, Maria ne era sicura.
«Piantala Kuroo!» esclamò senza troppi complimenti il piccoletto micidiale della Nekoma, Yaku; aveva incrociato le braccia al petto e messo su un’espressione di pura disapprovazione, al contrario di Kai, che se ne stava ancora composto al suo fianco.
«Non essere maleducato Yaku!» esclamò di rimandò Kuroo, spostandosi finalmente dal furgoncino su cui aveva appoggiato la mano; Maria si sentì di nuovo libera di respirare.
«Dobbiamo dare il benvenuto al Karasuno come si deve!».
E scoppiò a ridere notevolmente, in quel modo sguaiato che li fece trasalire tutti di nuovo.
Tutti tranne i suoi compagni di squadra naturalmente.
«Lev, marpione che non sei altro!» disse alla volta del primino, che se ne stava ancora lì guardando la scena con quell’espressione un po’ stupidina con cui Maria l’aveva individuato fin dal principio. Aveva smesso di massaggiarsi l’orecchio maltrattato e di parlare con Hinata; quest’ultimo inoltre si era fatto sospettosamente piccolo quando Kuroo aveva rivolto l’attenzione nella loro direzione, quasi avesse avuto una reazione fisica contro il pericolo che sembrava provenire ad ondate minacciose dal Capitano della Nek0ma. Hinata doveva averlo fiutato da piccola preda qual era, sembrava un cucciolo di corvo braccato dallo sguardo di quel felino ben più esperto; se la scena era già comica di per sé, il fatto che Yachi fosse rannicchiata dietro di lui per proteggersi non aiutava affatto a migliorarla.
«Ti basta palesarti in tutto il tuo metro e novanta per far urlare una donna, bravo!».
Kuroo scoppiò a ridere alla sua battuta, ma fu l’unico a trovarla divertente a giudicare dal modo esasperato in cui lo guardarono Yaku e Kai, dall’espressione corrucciata di Suga e Daichi, quella totalmente apatica di Shimizu e l’espressione istupidita di Lev, che non doveva averci capito nulla.
Maria, da parte sua, lo trovò semplicemente disgustoso.
«Bella faccia tosta» commentò ad alta voce, senza riuscire a trattenersi.
In quel modo era ben consapevole che avrebbe attirato gli occhi di tutti su di sé, ma non le importò in quel momento, sentiva solamente di voler far abbassare la cresta a quel galletto sovreccitato. Kuroo si voltò a guardarla interessato, con quegli assurdi occhi scuri.
«Hai detto di essere il Capitano, giusto? Allora tieni a bada i tuoi giocatori, ed evita che spaventino quelli delle squadre avversarie» continuò imperterrita, per poi incrociare le braccia al petto e sollevare l’angolo delle labbra in un sorrisetto bisbetico «O forse questa è la vostra strategia per vincere le partite? Fare fuori gli avversari facendoli morire di paura».
Maria l’aveva trovava un’affermazione tagliente e divertente, si era sentita forte.
Tuttavia, aveva commesso proprio quell’unico errore che in battaglia era vietato commettere: pensare di conoscere il proprio nemico e sottovalutarlo.
Chiunque altro si sarebbe innervosito nel sentire quelle parole, Takumi l’avrebbe fatto.
Il Capitano della Nekoma si limitò a mostrare un ghigno divertito con tanto di canini in bella vista, evidentemente divertito da quel bisticcio e di averla aizzata contro di lui.
Forse, si rese conto Maria con sgomento, era proprio quello che aveva voluto per tutto il tempo, divertirsi un po’ con lei e prenderla in giro, anche bonariamente.
Tuttavia, lo sguardo che le rivolse, a Maria non piacque per nulla, era come se Kuroo fosse in possesso di un’arma segreta, un qualcosa che avrebbe potuto fargli vincere quella battaglia in una sola mossa ben piazzata; ed era evidente che il moro non l’avrebbe usata senza parsimonia.
«Ma che carattere indomito» replicò con un tono di voce strascicato.
Infilò una mano nella tasca del pantalone rosso della tuta, mentre con quella libera afferrò inaspettatamente il viso di Maria per il mento sollevandoglielo verso il suo.
La vicinanza fu inaspettata, un movimento felino, da gatto.
Maria non reagì prontamente, non reagì affatto, Kuroo era alto, chino su di lei.
«Allora non ho avuto una svista» commentò a voce bassa, ma comunque abbastanza alta perché gli altri nello spiazzo potessero sentirla «Ehi, Kai!» chiamò poi, senza tuttavia guardare il diretto interessato «Aveva davvero gli occhi azzurri».
Maria si irrigidì come un tronco di legno quando sentì quelle parole.
«A quanto pare …» si limitò a commentare Kai, disinteressato, con infinita pazienza.
Kuroo continuò a tenere lo sguardo annoiato fisso sul volto di Maria, quegli occhi scuri e illeggibili cominciavano ad innervosirla oltre l’inverosimile.
«Ho sempre voluto rubare un bacio ad una ragazza occidentale» le bisbigliò aprendo le labbra in un sorriso assolutamente grottesco.
Maria impiegò troppo tempo per comprendere che quello sbruffone stava semplicemente scherzando, perché nello stesso momento in cui lui le pizzicò il naso come un granchio, lei gli tirò un ceffone talmente forte da lasciargli le cinque dita sulla pelle, fargli voltare la faccia e lasciar riecheggiare il rumore violento come un’eco infinita nell’ampio spazio all’aperto.
Maria ci pensò troppo tardi che quella persona non era Takumi.
Si era lasciata trascinare troppo dalla sensazione sgradevole che gli aveva comunicato.
«Ehi!» intervenne a quel punto Daichi, risvegliandosi dall’incredulità che tutta quella scenetta inaspettata gli aveva provocato.
Si avvicinò a Maria senza fare troppi complimenti e le mise entrambe le mani sulle spalle con fare protettivo, guardando il Capitano della Nekoma con espressione seria, ma contemporaneamente rilassata, come se non temesse le conseguenze di quel gesto.
Di fatto, Kuroo si massaggiò la guancia, schioccò la lingua sul palato e rise divertito.
«Che schiaffo potente» ci tenne a precisare, per nulla turbato dalla situazione.
«Te lo sarai meritato!» intervenne prontamente Yaku, sciogliendo finalmente quella posa autoritaria che aveva assunto all’arrivo del suo Capitano.
Maria sbatté le palpebre un paio di volte, del tutto scioccata dalla mancanza di reazione che tutti gli altri avevano avuto al suo schiaffo, a cominciare dal diretto interessato.
«Forza, sgombrate tutti!» continuò il piccolo demonio, e per far comprendere meglio il messaggio, afferrò nuovamente il povero Lev per l’orecchio e prese a trascinarlo nonostante le sue lamentele. Kai rivolse un’ultima occhiata al suo Capitano, poi guardò Maria e Daichi e fece un piccolo inchino, con un sorriso tranquillo ed accennato sulle labbra.
«Ci vediamo più tardi» dichiarò, incamminandosi dietro i suoi compagni di squadra.
Maria vide anche Suga e Shimizu afferrare Hinata ed Hitoka per le spalle, non poteva sentire cosa stessero dicendo ai primini con quel tono basso di voce, ma era evidente dai loro gesti posati che li stavano incoraggiando ad andarsene.
Suga esitò solo un istante prima di voltare le spalle, lo sguardo puntato su Daichi.
Il Capitano della Karasuno fece segno al suo migliore amico che andava tutto bene.
Anche il terzetto della Karasuno sparì verso l’edificio.
L’unico rimasto sulla scena, inaspettatamente, era quello strambo ragazzo del gameboy.
Non aveva staccato lo sguardo dal suo gioco nemmeno per un secondo, in quel silenzio assordante che si era andato a creare con la dipartita degli altri, la musichetta del gioco annunciò il game over sonoramente; testa a budino sospirò, rassegnato e si incamminò verso l’edificio che li avrebbe ospitati senza degnare Maria, Daichi e Kuroo di uno sguardo.
Fu la stretta un po’ più forte sulle sue spalle a riportare Maria alla scena presente, alla situazione in cui si trovava e in cui, consapevolmente, si era ficcata.
Sollevò lo sguardo sul suo Capitano, che le sorrise cordialmente, come a volerla rassicurare.
«Maria, perché non vai anche tu e mi lasci parlare con Kuroo?» le propose.
Maria sollevò un sopracciglio, all’inizio contrariata, voleva restare.
«Ma come Sawamura, la fai andare via? Non pensavo di incutere tanto timore alla tua manager!».
Maria aggrottò le sopracciglia e cambiò immediatamente idea quando Kuroo aprì nuovamente la bocca, era evidente che lo schiaffo non l’avesse affatto colpito, né positivamente né negativamente. Aveva ancora la faccia tosta di scherzare.
Maria decise che ne aveva avuto abbastanza per quel giorno, voleva solamente andare nella sua stanza con Hitoka e Shimizu e cambiarsi quella gonna ancora sporca di vomito.
Non indagò nemmeno sulle parole sospette di Kuroo, abbassando la guardia.
Guardò Daichi negli occhi, annuì, ma non si allontanò prima di aver rivolto al Capitano della Nekoma un’espressione infantile di puro astio.
Kuroo rise.
Aveva appena dato le spalle ai due Capitani e voltato l’angolo del furgoncino, che si imbatté in Tanaka e Nishinoya, intenti a fare chiasso con un terzo componente in tuta rossa.
Un moicano con la cresta tinta di bionda e la risata sguaiata.
I tre si fermarono immediatamente quando la videro.
«Tani-chan!» esclamarono in coro Noya e Tanaka, urlando come loro solito.
«Ah!» Gridò all’improvviso il moicano della Nekoma, facendo sobbalzare Maria dallo spavento, il ragazzo come fulminato cadde in ginocchio fissandola.
«Lei è la nostra nuova manager Yamamoto!» annunciò Tanaka con orgoglio, piazzando una mano sulla spalla destra del ragazzo inginocchiato.
«La terza, per la precisione» rincarò Noya con altrettanta soddisfazione, mettendo invece la mano sulla spalla sinistra del moicano.
Maria guardò tutta la scena con le sopracciglia sollevate, del tutto annoiata di essere stata nuovamente interrotta, aveva esaurito la poca pazienza che possedeva tutta per Kuroo quel giorno, non era sicura di poter sopportare le sciocchezze dei due compagni di squadra.
Voleva solamente sapere dove Asahi si fosse andato a cacciare e stare con lui.
«Un angelo!» esclamò all’improvviso quel Yamamoto, gridando per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta facendola sobbalzare, Maria si portò una mano al petto esasperata.
«Sposami!» esclamò con impeto, allungandosi per afferrarle i piedi.
Maria balzò all’indietro orripilata e sollevò le braccia al cielo con esasperazione.
«Quelli della Nekoma sono tutti matti» brontolò e se ne andò a passo di marcia.
Tanaka, Noya e Yamamoto presero ad inseguirla senza remore.
Ancora accanto al furgone, Daichi e Kuroo osservarono la scena.
Il primo aveva un sorriso bonario sulle labbra, lo sguardo puntato sulla schiena di Maria, il secondo rideva senza ritegno, tenendosi lo stomaco, la guancia ancora rossa dallo schiaffo.
Mentre la risata si andava esaurendo rivolse un’occhiata un po’ malandrina a Daichi.
«Una nuova manager piuttosto focosa, eh Sawamura?» commentò.
Daichi non si voltò a guardarlo, ancora con lo sguardo fisso dov’era stata Maria fino ad un attimo prima; se l’avesse fatto, però, si sarebbe accorto dello sguardo di Kuroo.
«Ha solo un carattere forte» si limitò a replicare «È bello vederti Kuroo» aggiunse poi, distogliendo finalmente lo sguardo per posarlo sul suo amico rivale.
Kuroo si massaggiò la guancia colpita, allungò un braccio sulla spalla di Daichi.
«Certo che …» cominciò, la voce apatica che non prometteva nulla di buono «… per averle detto una stronzata mi ha tirato proprio un bel ceffone …» e inaspettatamente, senza che Daichi se ne accorgesse, abbassò il braccio che gli aveva appoggiato sulle spalle e gli palpò la coscia, poco sotto il gluteo «Ma si vede che con te ha tutto un altro tipo di confidenza» e sorrise in direzione di Daichi con un ghigno da schiaffi.
Daichi si irrigidì come un pezzo di legno, ma mantenne momentaneamente la sua poker face, senza dare a vedere di aver perfettamente intuito a cosa Kuroo avesse fatto riferimento con quel gesto per nulla casuale. Daichi non sapeva giudicare se fosse un bene o un male che Kuroo avesse assistito proprio a quella scena prima di fare il suo ingresso teatrale.
Aveva forse architettato tutta quella situazione solamente per divertirsi?
Era difficile dirlo con il Capitano della Nekoma.
«Non so di cosa tu stia parlando, Kuroo» si limitò a replicare Daichi con espressione tranquilla, posata e serena; Kuroo dovette concedergli che aveva coraggio.
Il Capitano del Karasuno si allontanò senza troppi complimenti, lasciandolo solo.
Kuroo si accarezzò il mento, per poi stiracchiarsi come un gatto soddisfatto.
«Sarà un ritiro interessante» mormorò tra se e se «Ce n’è di trippa per gatti qui».
E strofinò le mani con aria gioiosa, aprendo il viso in un ghigno perfetto.   
                                                                                                                                        
 
A Maria non era bastata una sola notte per digerire la consapevolezza che la Nekoma non era la squadra che si era aspettata, brillante, seria e affascinante.
No, aveva fantasticato troppo nei giorni che avevano preceduto la partenza per il ritiro.
Erano una banda di gatti randagi che portavano scombino ovunque andassero.
Il fatto che negli allenamenti pomeridiani la sua squadra non avesse fatto altro che perdere un set dietro l’altro poi, non aveva affatto migliorato il suo umore; senza contare che Kuroo doveva proprio averla presa di mira dato che ogni volta che desiderava qualcosa, come un nuovo asciugamano o una borraccia d’acqua, si rivolgeva esclusivamente a lei.
E per qualche oscura ragione che Maria proprio non era riuscita a capire, ci teneva a disturbarla ogni qual volta che Daichi era nei paraggi, con commenti piuttosto sagaci.
Maria si massaggiò la fronte al ricordo; la cena non era andata molto meglio, non aveva toccato praticamente nulla e quando Suga le aveva spiegato che Asahi non avrebbe cenato con loro, in quanto era stato male tutto il pomeriggio in seguito agli allenamenti, la fame le era passata tutta di colpo.
Aveva come la sensazione che qualcosa non andasse, sebbene non riuscisse a capire cosa.
Era andato a trovarlo prima di coricarsi, l’aveva fatto con una scusa banale, quella di volersi accertare delle sue condizioni. Asahi non l’aveva nemmeno guardata in faccia, scacciandola via malamente per il fatto che Tanaka e Nishinoya fossero lì ad assistere alla scena.
Quella notte non aveva chiuso occhio, rigirandosi in quel futon scomodo e vecchio.
Si era sentita ferita da quel rifiuto più di quanto le fosse piaciuto ammettere a se stessa.
Era consapevole del fatto che il suo aspetto non fosse dei migliori quella mattina, ma aveva preso di buon grado la prospettiva di andare a fare quella passeggiata in paese.
Si era alzata inevitabilmente all’alba, fiacca e di malumore, trovando Shimizu di ritorno da una corsa mattutina intorno all’edificio; era stata lei a comunicarle che per quella mattina gli allenamenti erano stati sospesi, causa una manutenzione della palestra.
Le aveva proposto di andare a fare quella passeggiata con pochi intimi, Maria era stata reticente per i primi minuti, ma le era bastato scoprire che Asahi non sarebbe uscito dalla sua stanza nemmeno quella mattina per accettare immediatamente la proposta.
Suga le aveva assicurato che aveva solamente bisogno di una bella mattinata di risposo nel futon perché la nausea passasse del tutto.
Maria l’aveva presa come una buona occasione per pensare un po’, per lasciare ad Asahi un po’ di spazio, se era quello di cui aveva bisogno, qualsiasi cosa fosse successa tra loro.
Maria si massaggiò nuovamente la fronte all’ennesimo strillo di Hinata e Lev.
La testa le girava un po’, causa la mancanza di sonno, guardò con un certo nervosismo Tanaka, Nishinoya e Yamamoto strillare nei pressi dell’entrata di un tempio; avrebbe voluto chiedere a Shimizu come fosse possibile che quella passeggiata “ per pochi intimi” si fosse trasformata in un’allegra gita affollata, ma era troppo stanca anche solo per quello.
Sospirò per l’ennesima volta, infilando le mani infreddolite nel cappotto pesante che si era portata dietro. L’aria era fresca quella mattina, ma sorprendentemente pulita.
Maria si era aspettata di trovare difficoltà a respirare in un paesino attaccato alla città, a Tokyo per la precisione, invece aveva scoperto di essersi sbagliata di grosso.
Era come se in quella piccola bolla di verde che avevano scelto per quel ritiro congiunto, lo smog e lo stress della metropoli che gli viveva quasi attaccata addosso non avessero trovato alcun modo per entrarvi e sporcare nulla.
Le era bastato camminare per quelle stradine pittoresche e pacifiche per capire che era un paesino con le sue tradizioni, le sue regole e un profondo rispetto per la natura.
Hitoka chiacchierava del più e del meno al suo fianco, commentava tutto quello che vedeva per strada, diceva la prima cosa che le passava per la mente, Maria le era grata che non pretendesse un’eccessiva partecipazione da parte sua a quella conversazione.
Un’altra persona probabilmente avrebbe avuto preso a noia quelle sue vaghe risposte, Yachi invece sembrava soddisfatta da quel poco; pareva uno scricciolo in quel lungo piumino bianco imbottito, con il cappello rosa sul caschetto biondo e la sciarpa che le copriva la bocca, sotto un naso arrossato dal freddo pungente di prima mattina d’autunno inoltrato.
Maria si era appena fatta distrarre dal poster di una cometa che illuminava la città sottostante, attaccato sul vetro di un negozio, che la risata cristallina di Shimizu attirò immediatamente la sua attenzione.
Era raro che Kiyoko ridesse spontaneamente in quel modo.
Maria avrebbe potuto contare sulla punta delle dita le volte in cui l’aveva vista ridere di gusto, motivo per cui aveva involontariamente memorizzato il suono della sua voce quando lo faceva, come qualcosa di assolutamente prezioso, da conservare con parsimonia.
A far ridere la sua migliore amica in quel modo non era stato nient’altro che Sugawara.
I due avevano camminato per tutto il tempo mano nella mano, poco più avanti di loro, con fare discreto; Maria li guardò davvero per la prima volta da quella mattina.
Suga aveva appena comprato a Shimizu un braccialetto intrecciato a mano con una tecnica tradizionale del posto di cui Maria non ricordava il nome, con fare scherzoso aveva provato a metterle il braccialetto attorno al collo come una collana, probabilmente aveva accompagnato quel buffo scherzo con una battuta divertente.
Maria si trovò catturata dalla semplicità di quell’immagine senza nemmeno rendersene conto, le si doveva leggere sul volto l’amarezza e la mancanza di qualcosa.
«Ho sempre pensato che Shimizu-san e Suga-san fossero una coppia bellissima».
Intervenne Hitoka con il suo commento, spezzando l’immobilità che quella scena aveva assunto ai suoi occhi; Maria sbatté le palpebre, guardando la kohai al suo fianco.
Yachi osservava Shimizu e Suga con un sorriso sereno sulle labbra, evidentemente compiaciuta da quello che vedeva; doveva aver avuto gli stessi pensieri di Maria nel vederli insieme così apertamente, felici, assolutamente e indissolubilmente innamorati.
E soprattutto, innamorati alla luce del sole.
“Asahi, stai bene? Fammi sentire la front-“
“Vai via Maria, ci vedono” 
Maria abbassò lo sguardo quando alcune delle frasi che si erano scambiati lei e Asahi la sera precedente le tornarono in mente, facendole aumentare notevolmente il mal di testa.
«Mi chiedo se un giorno anche io troverò qualcuno che mi guarderà come Suga-san guarda Shimizu-san» sospirò al suo fianco Hitoka, le guance arrossate come boccioli di rosa, un commento sussurrato tra se e se che le era sfuggito dalle labbra, mentre ancora era persa a contemplare la scena dei suoi senpai ignari.
Maria pensò che Asahi aveva più o meno quello sguardo ogni volta che la guardava.
Era la prima volta che ci faceva caso davvero.
La sera precedente, comunque, Asahi l’aveva guardata in un modo ben diverso, o meglio, non l’aveva guardata affatto.
Una volta pronunciato quel commento fanciullesco ad alta voce, Hitoka arrossì ancora di più, colta da qualche pensiero che quella volta aveva preferito tenersi per sé, forse troppo intimo per condividerlo; Maria non riuscì ad evitare di notare l’occhiata veloce che la primina rivolse ad un chiassoso Hinata, a pochi metri di distanza da loro.
Fu a quel punto, mentre quel tenero pensiero le attraversava la mente, che un rumore leggermente fuori contesto, registrato quasi per caso, attirò la sua attenzione.
Un clik-clik ripetuto un paio di volte, proveniente dalla sua destra.
Maria ci mise qualche secondo per capire che proveniva da una macchina fotografica di ultima generazione, una macchina rivolta rigorosamente verso di lei.
Maria sbatté le palpebre un paio di volte, sorpresa, incapace di classificare quello che aveva appena visto; il viso che spuntò da dietro la macchina fotografica era quello di un fanciullo.
Aveva le guance leggermente arrossate per essersi fatto beccare sul fatto, ma nel contempo l’espressione era allegra, amichevole. Maria conosceva già quel giovane.
Era uno dei primini della Nekoma, di cui non si era disturbata a ricordare il nome.
«Ti chiedo scusa» commentò il ragazzo grattandosi la nuca della testa con la mano sinistra, mentre con la destra continuava a mantenere con professionalità la macchina fotografica «Non ho saputo resistere, la tua posa era perfetta».
Terminò la frase con una vocetta squillante, infantile e tuttavia piena dell’imbarazzo che ancora evidente gli imporporava le guance; il viso pienotto era attraversato da un sorriso genuino.
Maria non seppe cosa replicare di fronte tanta innocenza; in un primo momento aveva pensato di arrabbiarsi, le era sembrata l’occasione adatta per sfogare un po’ di stress su uno dei membri di quella squadra che ne era stata la causa scatenante.
In quel momento invece si sentiva stanca e anche incuriosita.
Forse quel primino della Nekoma non era matto come il resto dei suoi compagni di squadra … o quanto meno non eccessivamente matto.
Maria cercò con lo sguardo Hitoka, credendo di trovarla ancora al suo fianco, affinché potesse darle una mano a venir fuori da quella situazione imbarazzante, ma la biondina, evidentemente ignara di quanto era avvenuto, aveva continuato a camminare lungo la strada lasciandosi distrarre da Hinata, Kageyama e Lev, che volevano mostrarle qualcosa con una certa urgenza.
Era rimasta inevitabilmente sola con quel primino dalla passione per le foto.
«Ehm io sono Sou Inuoka» aggiunse il ragazzo presentandosi, allungò una mano come per stringere quella di Maria, in un gesto del tutto occidentale che ritrattò immediatamente, imbarazzato, sostituendolo con un inchino impacciato che lo portò quasi a strozzarsi con la tracolla della macchina fotografica «Sono della Nekoma» terminò con il fiato corto.
Maria si portò una mano alla bocca per soffocare una risata.
«Ti avevo riconosciuto» commentò, decidendo di rivolgergli la parola senza risultare aggressiva, non disse nulla della fotografia che il primino aveva scattato.
Non le era mai piaciuto farsi incorniciare in uno scatto, le aveva sempre dato la sensazione che in quel modo il colore dei suoi occhi sarebbe rimasto stampato permanentemente su qualcosa e l’idea la disgustava. Era da qualche mese che però aveva cominciato a pensarla diversamente, trovando quei pensieri inutili e logoranti.
Se a Inuoka faceva piacere avere quella fotografia, che facesse pure.
Riprese a camminare lentamente, senza dire altro, il ragazzo la affiancò immediatamente, senza alcuna fatica, inciampando un po’ nei suoi stessi passi, aveva finalmente lasciato andare la macchina fotografica che pendeva ferma sul suo montgomery invernale.
«Tu sei Taniguchi-san invece, giusto?» domandò retoricamente, allegro «Yamamoto-san non fa altro che ripetere di volerti sposare» ridacchiò, divertito da una situazione che Maria poteva solamente immaginare «Continua a ripetere che il Karasuno non meritava una terza manager carina come te». Arrossì leggermente dopo aver pronunciato quelle parole, quasi fosse stato lui stesso a pronunciarle «Ops».
Il viso di Maria si aprì per la prima volta in un vero sorriso quel giorno, anche il mal di testa era andato in sordina con le chiacchiere continue di quello sconosciuto.
«Yamamoto-san è il moicano con la cresta?» chiese, anche se già conosceva la risposta.
Le era sembrato un buon modo per ricambiare le aspettative di quel giovane pieno di vita.
«Esatto!» esclamò Inuoka ringalluzzito dal suo interesse per la conversazione.
«Non mi sorprende che stia sempre con Tanaka e Noya da quel che ho visto …».
Il commento di Maria strappò una risata cristallina al più giovane, nell’osservarlo con la coda dell’occhio, mentre si avvicinavano agli altri, Maria la trovò estremamente pura.
Stavano camminando da un po’ in silenzio, con ancora le tracce di un sorriso sulle labbra, quando Inuoka venne richiamato da un paio di voci allegre nel negozio accanto.
Sia lui che Maria si fermarono automaticamente.
«Sou, abbiamo preso i taiyaki, ne vuoi uno?».
A sbracciarsi era un altro primino della Nekoma, Shibayama Yuki. Maria ricordava il suo nome solamente perché il giorno precedente gli aveva medicato una ferita al mignolo.
Il moro arrossì quando si accorse di lei, abbassando immediatamente le braccia.
Non era solo ad ogni modo, a fargli compagnia c’erano anche Lev, Hinata, Kageyama e una rossissima Hitoka, che reggeva tra le mani il dolcetto a forma di pesce soffiandoci sopra.
«Taniguchi-san!» esclamò inaspettatamente Kageyama quando la vide, sobbalzando senza un reale motivo, come se non avesse saputo che anche lei era uscita a fare il giro.
«Offrile un taiyaki Yuki!» intervenne prontamente Lev, incitando l’amico.
Shibayama arrossì ancora di più, ma allungò il sacchetto strapieno in direzione di Maria.
Lei avrebbe voluto rifiutare, aveva ancora lo stomaco chiuso, ma la prospettiva di deludere il primino silenzioso della Nekoma che con tanta fatica le aveva offerto quel dolce era escluso.
Prese un taiyaki bollente tra le mani senza fare storie e lo spiluccò come un uccellino.
«Ne avete presi troppi!» brontolò Kageyama con la bocca piena e le labbra sporche di marmellata, al suo fianco Hinata era nelle stesse condizioni e Yachi tentava inutilmente di pulirgli le labbra con un fazzolettino ricamato che si portava sempre dietro.
«Sono anche per i nostri senpai!» puntualizzò Lev, che alto un metro e novanta spiccava notevolmente nel gruppo di ragazzi, i suoi capelli chiari fuori luogo con i colori autunnali.
«Ho letto da qualche parte che qui sono la specialità del posto» spiegò Shibayama con timidezza, cominciando finalmente a spiluccare il suo taiyaki
Maria cominciava a nutrire una strana simpatia per i primini della Nekoma, una sorta di strano affetto materno che provava anche nei confronti dei suoi cuccioli di corvo; evidentemente c’era ancora speranza anche per quella squadra di gattacci randagi.
«Infatti non ne ho mai mangiati di così buoni!» esclamò Inuoka al suo fianco addentando voracemente il suo taiyaki, con tale gusto da farlo sembrare il cibo migliore del mondo. Una striscia di marmellata gli aveva macchiato la guancia, ma lui sembrava non essersene accorto, troppo intento a masticare felice.
Maria lo guardò con un sorriso accennato, pensando al suo taiyaki appena morsicchiato, da quel momento in poi l’avrebbe mangiato anche lei con più gusto, ringraziando per quel piccolo dono dato con gentilezza.
«Waa! Ehi!» si girò di scatto quando sentì quel piccolo strillo soffocato provenire alla sua destra dalla bocca di Inuoka, all’inizio non capì cosa i suoi occhi stessero vedendo, le sembrava un qualcosa di tremendamente aggrovigliato e senza senso.
Dovette sbattere più volte le palpebre per rendersi conto che Kuroo - era lui e non poteva sbagliarsi, si era avvinghiato sulle spalle di Inuoka senza troppi complimenti e aveva strappato un morso piuttosto generoso al suo taiyaki, dimezzandolo.
Sbattendo le palpebre per la terza volta Maria notò qualche dettaglio inaspettato: il braccio di Kuroo era stretto attorno alle spalle del primino con confidenza, le guance si toccavano.
«Kuroo-san abbiamo preso un taiyaki anche per te!» intervenne Lev come se nulla fosse, per nulla turbato da quella scena un po’ grottesca.
«Te ne sei mangiato quasi metà!» si lagnò Inuoka, la voce tremante di lacrime, mentre Kuroo gli rideva nell’orecchio leccandosi le labbra sporche di marmellata, tenendoselo ancora stretto contro il petto.
«Ecco a te, Kuroo-san» intervenne con tranquillità Shibayama, porgendo il sacchetto al suo capitano, anche lui senza mostrare alcun segno di incredulità per quella vicinanza.
«Sei un pessimo senpai, Kuroo».
Maria voltò la testa di scatto alla sua sinistra quando sentì quella voce, non si era resa conto che Daichi l’aveva affiancata, era stata troppo presa dall’uragano che il capitano della Nekoma si era portato dietro con la sua inaspettata e molesta, almeno per lei, apparizione.
«Questi mocciosi del primo anno devono imparare a condividere» commentò prontamente il moro, prendendo il suo taiyaki dal sacchetto con aria trionfante.
Ancora piagnucolante, Inuoka tentò di morderlo, ma Kuroo glielo sfilò da sotto il naso.
«Non è giusto!» si lagnò il primino, imbronciato.
«Ho detto che i mocciosi devono condividere, non gli adulti».
Maria alzò gli occhi al cielo a quel commento e al suo fianco Daichi, che aveva assistito alla scena, ridacchiò divertito, rivolgendole un’occhiata che le chiedeva di portare pazienza.
Il malumore che Maria aveva provato fin da quella mattina sparì improvvisamente.
Quella scenetta aveva qualcosa di intimo che allontanava i suoi pensieri oscuri, che era riuscita a farle dimenticare anche la piccola incomprensione della sera precedente con Asahi.
Alla sua destra uno strillo acuto di Hinata catturò la sua attenzione, Maria però colse solamente di sfuggita quello che era successo, perché proprio mentre volgeva lo sguardo automaticamente, fu un altro dettaglio che i suoi occhi colsero.
Kuroo aveva appena leccato via dalla faccia di Inuoka la scia di marmellata che i taiyaki avevano lasciato accanto alla sua bocca.
«E smettila Tetsuro» aveva borbottato il primino, tuttavia ridacchiando.
Se qualcuno oltre Maria l’aveva notato, nessuno aveva strabuzzato gli occhi quanto lei.
Scostò immediatamente lo sguardo di fronte a sé, imbarazzata, aggrottando le sopracciglia.
Daichi, che nel frattempo si era allontanato per dividere Hinata e Kageyama dall’ennesimo bisticcio, le si affiancò nuovamente con un sospiro da padre stanco.
Non notò l’espressione corrucciata di Maria, né le sue guance arrossate.
«Ma che fai Sawamura» lo richiamò Kuroo «Lasci solo la tua bella?».
Doveva aver perso interesse per la marmellata sulla faccia di Inuoka e pensato bene di tormentare un po’ Daichi, come faceva dal pomeriggio precedente, probabilmente li stava fissando in quel momento, ma Maria non poteva esserne sicura perché non aveva il coraggio di girare il viso per verificarlo, così continuava a fissare la strada corrucciata.
Domandandosi se in realtà non avesse un’immaginazione troppo fervida.
«Non sei affatto il cavaliere che tutti decantano!» continuò con la sua voce pacata.
Kuroo aveva quel tipo di tonalità vocale da cui era difficile capire l’intenzione di una frase.
Se stesse scherzando o fosse invece terribilmente serio al riguardo.
Daichi replicò qualcosa in risposta ma Maria non lo sentì, decise deliberatamente di ignorare quel commento, concentrandosi sulla strada.
Non aveva prestato molta attenzione alle vetrine dei negozi che avevano incrociato fino a quel momento, ma un abito in particolare attirò la sua attenzione inaspettatamente.
Era bello, semplice, fatto a mano e ricamato con cura.
Senza rendersene conto sollevò una mano per sfiorare il vetro della vetrina, quel gesto catturò anche l’attenzione di Daichi, che la fissò con fare interrogativo.
Maria distolse lo sguardo dal vestito e arrossì furiosamente, scuotendo la testa.
Quanto meno era riuscita a distrarsi dalla scena che aveva visto pochi istanti prima.
Alcuni passi più indietro, rimasti in fondo alla fila per essersi fatti cacciare a calci nel sedere dal tempio, Tanaka, Yamamoto e Nishinoya avevano osservato tutta la scena con espressioni diverse stampate sul viso.
«Pensi che ci lasceranno qualche taiyaki?» domandò Tanaka pensieroso.
«Pensi che Taniguchi-san mi sposerà?» replicò di rimando Yamamoto.
Entrambi avevano la bava alla bocca, ma evidentemente non per lo stesso desiderio.
Nishinoya, che si trovava al centro della cricca in quanto vi si era auto dichiarato leader assoluto, piazzò i pugni chiusi sui fianchi e scoppiò a ridere chiassosamente.
«Ne dubito!» esclamò con l’aria di chi la sapeva lunga sulle cose del mondo.
Yamamoto lo fissò con espressione scoraggiata, per poi riportare l’attenzione sulla schiena di Maria, che continuava a camminare con la testa ostinatamente china in avanti.
«Perché? È già sposata per caso?!» domandò con aria scandalizzata al solo pensiero.
Tanaka sollevò un sopracciglio e ne approfittò per allungare un braccio verso l’amico e colpirlo con uno scappellotto non troppo gentile dietro la nuca.
«Nessuna delle nostre ragazze ha il permesso di sposarsi senza la mia benedizione!» proclamò con aria solenne, per poi scoppiare a ridere sguaiatamente, infilarsi le mani nelle tasche del pantalone e cominciare a camminare come se fosse il re della strada.
«E la mia!» precisò Nishinoya, indicandosi con il pollice il petto, che aveva magistralmente tirato fuori con fierezza mettendo in mostra la scritta “fiero alzatore” stampata sul pullover rosso che stava indossando sotto il giubbotto.
La strada si era lentamente affollata man mano che la giornata avanzava.
Stavano perdendo di vista gli altri in mezzo alla folla, ma non sembravano preoccupati.
«Taniguchi-san è straniera?» domandò Yamamoto, scansando un pedone affrettato.
«Ha la madre italiana» spiegò Tanaka distrattamente, mentre faceva la faccia da duro alla volta di un povero barboncino che aveva osato ringhiargli contro quando si era avvicinato troppo alla sua coda scodinzolante sulla strada.
«I suoi occhi sono il paradiso» commentò il moicano della Nekoma con aria sognante.
«Mi dispiace deluderti amico, ma la nostra Tani-chan è già occupata».
Il commento allegro di Nishinoya sembrò gettare Yamamoto in uno stato di shock assoluto, se avesse spalancato un po’ di più la bocca si sarebbe ben presto slogato la mascella.
«Con chi è già occupata?!» piagnucolò l’asso della Nekoma con aria afflitta.
«Con il nostro asso
«Con in nostro capitano!».
Nishinoya e Tanaka pronunciarono quelle parole contemporaneamente, per poi guardarsi negli occhi aggrottando le sopracciglia; il secondo aveva appena spalancato la bocca per ribattere qualcosa, sotto lo sguardo accigliatissimo di Yamamoto, quando Nishinoya andò a sbattere violentemente contro qualcuno, distratto.
L’impatto fu violento, Yū venne sbalzato all’indietro, finendo con il sedere sul duro selciato della strada; la sconosciuta contro cui era andato a sbattere barcollò leggermente, ma si perse presto nella folla, sparendo dalla sua vista come se nulla fosse successo.
Noya si massaggiò velocemente il fondo schiena, imprecando in tutte le lingue che conosceva, fu mentre tentava di tirarsi in piedi che, appoggiando la mano per terra, le dita si scontrarono con qualcosa di insolito, un paio di occhiali da sole dall’aspetto costoso.
Yū saltò in piedi all’istante, dimenticandosi del dolore, ignorando la mano tesa di Tanaka e le domande di Yamamoto sulla sua salute; era evidente che quegli occhiali appartenessero alla donna contro cui era andato a sbattere, se non avesse fatto in fretta l’avrebbe persa in mezzo a tutte quelle persone.
Scavalcò un paio di pedoni, passò in mezzo ad una coppia di fidanzati che stavano per baciarsi, scivolò tra due passeggini e finalmente la vide, il passo ancora claudicante perché doveva essersi fatta male la caviglia e quella sciarpa a motivo leopardato che aveva attirato la sua attenzione.
«Signora, gli occhiali!» la richiamò Noya con forza, facendo un altro balzo in avanti, le afferrò un polso.
La sconosciuta si girò lentamente, sorpresa, le labbra a cuore leggermente schiuse in un piccolo sussulto di stupore, gli occhi dalle sfumature grigiastre grandi e luminosi, i capelli raccolti in una crocchia ordinata sfuggivano in ciocche disordinate sul viso piccolo.
Era giovane, non poteva avere più di venticinque anni.
Era molto più giovane di quello che Nishinoya aveva immaginato vedendola di sfuggita.  
Yū sbatté le palpebre un paio di volte, la mano ancora stretta intorno al polso della sconosciuta, non riusciva proprio a distogliere lo sguardo da quegli occhi particolari.
Non credeva di averne mai visti di così belli, nemmeno quelli di Maria potevano competere.
«Si?» domandò la donna, con una voce gentile ed elegante, sottile come un sussurro.
Yū scosse la testa, il vociare della folla sulla strada, che per alcuni istanti si era fatto silenzioso, esplose tutto di colpo riportandolo bruscamente alla realtà.
Lasciò andare immediatamente il polso di quella giovane donna, i polpastrelli della mano sembravano scottare quando li allontanò; abbassò lo sguardo per un istante, imbarazzato.
«Ha perso i suoi occhiali» esclamò poi, porgendo l’oggetto alla volta della sconosciuta.
«Oh» mormorò lei prendendoli con delicatezza, aveva le mani piccole e curate, una fede scintillava sull’anulare sinistro sotto i raggi di quel sole freddo e distante «Grazie».
Le labbra arrossate dal lucidalabbra si piegarono in un timido sorriso di cortesia, era un sorriso che non raggiunse gli occhi, quelli a Noya sembrarono distanti anni luce.
«Tu sei la persona contro cui -»
«Tsubake! Tsubake!».
Una voce maschile si fece spazio tra la folla, un po’ rude.
Alle spalle della donna comparve un uomo, alto, in un completo nero da ufficio, indossava anche lui un paio di occhiali da sole che gli nascondevano quasi tutto il viso, ma non la forma tagliente e virile della mascella.
«Muoviti!» sbottò senza troppi complimenti, afferrando con forza quella che doveva essere la moglie per il polso, nel punto esatto in cui solo pochi istanti prima si trovavano le dita gentili di Yū. Tsubake, era quello il suo nome, non ebbe nemmeno il tempo di guardarlo un’ultima volta per scusarsi prima di essere tirata via dal marito.
Noya sbatté le palpebre per l’ennesima volta, fermo tra la folla di persone che gli scorrevano accanto ignare del tumulto interiore che stava provando in quel momento.
Un tumulto di cui davvero non riusciva a comprenderne la natura.
«Ehi, Noya!» Tanaka gli appoggiò una mano sulla spalla, aveva il fiatone per averlo rincorso in mezzo a tutta quella calca, Yamamoto era poco dietro di lui, intento a non farsi schiacciare da una banda di turisti americani obesi che ingombravano il passaggio.
«Perderemo gli altri di questo passo!»
«Che occhi tristi che aveva …» mormorò Noya, lo sguardo ancora fisso davanti a sé.
«Come?» domandò l’amico di sempre, guardandolo con aria del tutto preoccupata.
«Nulla» replicò Yū di rimando, scuotendo la testa «Muoviamoci».
Quegli occhi tristi non li avrebbe rivisti mai più in vita sua.
Solo, non riusciva a capire perché l’avessero sconvolto così tanto.
 
 
Asahi se n’era stato steso nel futon tutta la mattina.
Se n’era stato steso fino a quando la schiena e le gambe non avevano cominciato a fare male sul serio; aveva pranzato con la sola compagnia di Tsukishima e Yamaguchi, rimasti alla pensione perché il secondo si era svegliato troppo tardi, che tuttavia non erano stati di grande compagnia, sebbene Asahi avesse tentato di socializzare il più possibile.
La nausea era passata la sera precedente, ma non aveva avuto il coraggio di dirlo.
L’aveva trovata un’ottima scusa per non uscire dalla sua stanza quella mattina e di conseguenza non affrontare Maria, perché non avrebbe proprio saputo come fare in quel caso, non dopo il modo brusco in cui l’aveva mandata via la sera precedente.
Asahi era arrabbiato in quel momento, non poteva negarlo a sé stesso.
Aveva provato una rabbia bruciante alla bocca dello stomaco che si era portato dietro da quando aveva assistito a quella scena ambigua di fronte la fontana a forma di gatto.
Riversarla su Maria era stata una conseguenza non necessaria, ma inevitabile.
Ad Asahi era bastata una notte in bianco a rigirarsi nel futon per pentirsene amaramente.
Non le aveva dato il tempo di parlare, non le aveva dato modo di avvicinarsi, non le aveva concesso nemmeno un po’ di spazio o tempo perché potesse trovare un modo per giustificarsi o alleviare il suo dolore, anche con una bugia.
Asahi non aveva voluto affrontare l’argomento.
Non aveva voluto affrontare Daichi, né quello che ancora significava per Maria.
Aveva avuto paura come al solito, e seguendo la sua indole era scappato via da qualsiasi cosa avesse potuto ferirlo in uno scontro aperto in cui i sentimenti sarebbero stati messi a nudo.
Alla fine gli era scoppiato un grandissimo mal di testa a furia di pensarci su tutto il giorno, vagando come un disperato nei giardini della pensione in cui risiedevano per il ritiro.
Era finito nei pressi delle terme per puro caso, si era passato una mano tra i grovigli di nodi che si trovava nei capelli e aveva pensato che un bagno caldo gli avrebbe fatto bene.
Forse, a mollo nell’acqua calda, un po’ di quel coraggio che non aveva sarebbe venuto a galla, e con quello anche un modo per scusarsi con Maria senza sentire la dignità andare in pezzi.
Perché Asahi ne era certo, se non voleva parlare a Maria di ciò che l’aveva spinto sull’orlo della rabbia, le doveva quanto meno delle scuse per averla tratta in quel modo senza darle una ragione valida.
Si avvolse la tovaglia bianca attorno ai fianchi sospirando profondamente, mentre una fitta nella tempia destra non gli dava tregua, e raggiunse le terme deserte con lentezza.
L’acqua calda fu davvero un toccasana sulla pelle tesa da tutti quei pensieri.
Asahi lasciò andare la testa lungo il bordo della vasca di pietra e chiuse gli occhi.
Gli altri non erano ancora tornati, forse l’avrebbero fatto a momenti, ad ogni modo quella poteva essere davvero un’ottima occasione per riposarsi un po’ e recuperare il sonno perso.
Asahi non seppe dire se fossero passate ore oppure solamente minuti quando sentì l’acqua piatta della piccola piscina naturale in cui era immerso smuoversi al suo fianco.
Sobbalzò colto alla sprovvista e guardò con gli occhi ancora impastati di sonno e confusi il suo migliore amico, nonché capitano della squadra, immergersi completamente nudo al suo fianco. Daichi si lasciò scappare un sospiro di sollievo, massaggiandosi il collo con la mano.
«Le terme sono davvero un toccasana» commentò, con la voce leggermente roca.
Asahi lo guardò di sottecchi sollevando la testa dal bordo della vasca, una fitta di dolore gli attraversò la cervicale a causa della posizione scomoda in cui si era appisolato.
Si passò le dita tra i capelli bagnati scostandoli dal viso e li tirò all’indietro.
«Come va la nausea?» Daichi si voltò a guardarlo per la prima volta da quando si era immerso nell’acqua: Asahi notò che aveva l’espressione rilassata, sembrava di buonumore.
Si sentì un po’ in colpa per i pensieri oscuri che aveva avuto tutto il pomeriggio, per aver provato tutto quel rancore nei suoi confronti, per averlo un po’ evitato in quei giorni, per avergli taciuto tutte quelle cose su di lui e Maria …
Asahi si rendeva conto che metà del male che provava non avrebbe avuto modo di esistere se solo avesse trovato il coraggio di dire a tutti come stavano davvero le cose.
Ma il coraggio per dire come lui e Maria erano finiti insieme non lo aveva.
Come non aveva quello di scoprire i reali sentimenti di Daichi se avesse saputo.
Incassò la testa nelle spalle e si immerse nell’acqua fino al mento, senza guardare l’amico.
«Meglio» mugugnò, un po’ avaro nella risposta. Se ne pentì immediatamente.
«Il giro invece?» Domandò allora, tentando di risultare più socievole, interessato e non di cattivo umore o depresso come si sentiva realmente invece.
«È stato interessante» replicò Daichi senza aggiungere altri dettagli, «Solo che il freddo ha cominciando a farsi pungente, mi fanno male tutte le ossa».
E accompagnò quell’affermazione con un movimento circolatorio del braccio destro.
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, Daichi si rilassò completamente contro il bordo della vasca, lo sguardo rivolto al cielo trapuntato di stelle, nonostante non fosse ancora sera.
Le terme non erano del tutto all’aperto, ma loro si erano sistemati proprio dove si intravedeva l’unica porzione di cielo tra le assi di legno del soffitto.
«Daichi» la voce di Asahi risultò un po’ fuori luogo in quel silenzio.
L’amico si girò a guardarlo, i capelli sulla fronte umidi a causa dei vapori dell’acqua calda.
«Perché quella sera hai rifiutato Ma- Taniguchi-san?».
Asahi non seppe precisamente perché quella domanda, che avrebbe voluto fargli da sempre, gli sfuggì dalle labbra proprio in quel momento, a distanza di tanti mesi e quando era più vulnerabile emotivamente per ascoltare qualsiasi risposta.
Avrebbe voluto darsi dello stupido da solo, ma si limitò a sprofondare un po’ di più nell’acqua calda, ustionandosi i lobi delle orecchie.
Daichi portò il proprio sguardo nuovamente sul cielo trapuntato, sul viso quell’espressione indecifrabile che nemmeno Asahi, nonostante gli anni di amicizia, era riuscito mai a capire.
Forse non ci era mai riuscito perché tra di loro i segreti erano troppi.
Come troppe erano le cose che non si erano mai detti.
«Aspettavo questa domanda da tantissimo tempo» si limitò a confessare fissando il cielo, poi abbassò il capo e una risatina a sbuffo gli sfuggì dalle labbra «Ma ti confesso che pensavo sarebbe stato Suga a farmela e non tu».
E tornò a guardarlo negli occhi, le guance arrossate dai vapori caldi.
Asahi si sentì in dovere di ricambiarlo quello sguardo dopo una simile dichiarazione.
In effetti, dei tre Suga era sempre stato quello più comunicativo, quello con meno pezzi sparsi in giro da raccogliere, il più pragmatico … Asahi si chiese se un giorno non si sarebbe rotto anche lui a furia di raddrizzare quei due suoi amici senza speranza.
Ad ogni modo attese.
Attese una risposta, qualunque fosse, che avesse fatto male o meno, paura o no.
«All’epoca ero alquanto sicuro della mia scelta».
Fu il verdetto di Daichi, che rilassò finalmente le spalle, come se anche lui fosse stato in tensione per tutto il tempo della conversazione, e si immerse nell’acqua calda.
Asahi non seppe cosa provare di preciso, se non un vuoto alla bocca dello stomaco.
«E adesso non lo sei più?» mormorò, talmente a bassa voce da sembrare ridicolo.
Non era in grado di portare avanti quella conversazione senza farsi male, l’aveva saputo fin dall’inizio, ma non poteva tirarsene indietro proprio in quel momento e non l’avrebbe fatto.
Sebbene non avesse avuto il coraggio di porgergli la domanda in modo diretto.
Daichi invece quel coraggio lo ebbe.
«Mi stai chiedendo velatamente se adesso sono innamorato di lei?».
Un attimo di silenzio, per un respiro di coraggio in più.
«Lo sei?».
Un respiro lungo come una vita e poi …
«Me ne sono pentito».
E poi quelle erano le parole che Asahi non si era aspettato da Daichi, non dal suo migliore amico, quello che credeva di conoscere come le sue tasche.
Il vuoto alla bocca dello stomaco non era più sufficiente per descrivere ciò che stava provando in quel momento, non riusciva nemmeno più a sentire l’acqua bollente sulla pelle.
«Cosa?» bisbigliò a fior di labbra, ma evidentemente non abbastanza a bassa voce.
«Mi sono pentito di averle dato quella risposta affrettata quella volta».
Daichi immerse le mani nell’acqua calda raccogliendone una piccola coppa tra le dita, che poi passò tra i capelli, tirandoli indietro con un gesto secco della mano.
Aveva il viso sereno mentre si lasciava andare a quelle confessioni che stavano uccidendo il suo migliore amico, senza che lui nemmeno se ne accorgesse.
«Se avessi saputo di non essere affatto in grado di dimenticare lei» e qui Asahi seppe immediatamente che Daichi non stava parlando più della stessa ragazza, ma di un’altra che non avrebbe mai potuto avere, non aveva importanza quante montagne avrebbe smosso.
«Se avessi potuto anche solo sospettarlo … Quel giorno non avrei detto di no».
Daichi fece spallucce, si voltò nella direzione di Asahi per guardarlo negli occhi.
Non dovette guardarlo davvero con attenzione, perché altrimenti avrebbe sentito il dolore.
«Sto cercando di recuperare».
Quella fu la sua ultima confessione, l’ultima prima di immergersi nell’acqua calda.
Fu un bene che l’avesse fatto, perché in quel modo Asahi fu in grado di tirare un sospiro d’angoscia senza che l’altro se ne accorgesse; poi toccò a lui immergersi.
Fu un buon modo per sovrastare il dolore pungente che stava provando, per soffocare la confusione nella sua testa e la tremenda paura che gli aveva attanagliato il cuore.
Se prima era stata solo l’ombra delle sue fantasie, adesso era reale.
Quando riemerse, bramando aria con tutto se stesso, trovò Suga seduto sul bordo della vasca di pietra; non fu mai contento di vederlo in tutta la sua vita come in quel momento.
L’alzatore non era entrato nell’acqua, aveva piuttosto deciso di immergersi lentamente, cominciando dai piedi e dalle gambe, la pelle pallida era coperta solamente da una tovaglia bianca stretta magistralmente attorno alla vita, già zuppa dell’acqua che Daichi aveva lasciato sul bordo vasca e su cui Suga si era seduto senza troppi complimenti.
Stavano parlando i due, Daichi doveva essere riemerso ben prima di lui.
Suga intercettò il suo sguardo, bastarono solamente pochi secondi.
«Stai bene Asahi?» chiese, e l’asso seppe subito che non si stava riferendo alla nausea.
Annuì solamente, nuotando sotto l’acqua per avvicinarsi un po’, faceva freddo per uscire.
Suga non insistette oltre, ma tenne lo sguardo fisso sul suo viso per qualche secondo in più.
«Siete rientrati tutti?» domandò Daichi, rilassato.
Non sembrava affatto una persona che aveva appena confessato qualcosa di grosso.
«Quasi tutti, si, stava cominciando a fare troppo freddo» spiegò Sugawara cercando di farsi un po’ di coraggio per immergersi nell’acqua calda, la sua pelle delicata si macchiò immediatamente di rosso a contatto con la temperatura elevata.
Scherzando Daichi lo schizzò sul viso, beccandosi immediatamente uno dei colpi micidiali dell’alzatore nel fianco scoperto, Asahi si ritrovò a sorridere nonostante tutto a quella scena.
«Oh oh, le terme sono già occupate dai corvi adulti!» cantilenò una voce annoiata e bassa dall’entrata della struttura. Daichi stava ancora saltellando nell’acqua tenendosi il fianco dal dolore, ma come Asahi e Sugawara girò a sua volta il viso per portare la sua attenzione sui tre appena entrati nell’acqua.
«Kuroo» Kai richiamò pazientemente il capitano della sua squadra, si stava immergendo nell’acqua con moderazione e pacatezza, due delle sue caratteristiche caratteriali.
«Abbi almeno la decenza di tacere dato che sei venuto tu a dare fastidio!».
L’esatto opposto di Yaku che, invece, si era gettato nell’acqua con irruenza, sollevando una serie di onde sulla superficie che bagnarono le labbra di Asahi, ancora immerso fino al mento. I tre della Karasuno capirono immediatamente che l’umore di Yaku non era dei migliori quella sera, perché sebbene fosse solitamente poco gentile con Kuroo per natura, quello era un commento troppo velenoso anche per lui.
Doveva essere successo qualcosa che aveva incattivito il libero della Nekoma, qualcosa in cui Kuroo c’era dentro fino al collo.
Il diretto interessato di quell’invettiva sembrò ignorare piuttosto bene il rimprovero rabbioso del compagno di squadra, entrò nell’acqua con estrema cautela, avvolgendosi attorno al collo la tovaglia che gli aveva fatto da indumento fino a poco prima.
La luce delle lanterne gli illuminò una serie di graffi dietro la schiena.
«Come ti senti, Azumane?» chiese poi inaspettatamente, guardando l’asso della Karasuno negli occhi; Asahi aveva sempre provato un po’ di soggezione verso Kuroo.
Non che ne avesse paura, ma era davvero impossibile capirlo per lui.
I loro caratteri andavano in due direzioni totalmente diverse perché potesse funzionare.
«B-bene» balbettò, beccandosi immediatamente un’occhiataccia da parte di Daichi.
Asahi arrossì fino alla radice dei capelli e se ne andò accanto a Suga, che era finalmente riuscito ad entrare in acqua, nonostante avesse la pelle d’oca su tutte le braccia scoperte.
«Come sono cagionevoli di salute questi corvetti di provincia» li sbeffeggiò immediatamente Kuroo, rilassandosi contro la parete rocciosa da cui zampillava armoniosa l’acqua calda che li stava bagnando in quel momento.
«Siamo esemplari delicati noi».
Daichi replicò senza battere ciglio, il solito sorriso illeggibile che metteva su ogni qualvolta doveva avere a che fare con il capitano della Nekoma in uno scontro di quel genere.
Kuroo si limitò a sollevare solamente un angolo delle labbra in un sorriso accennato.
La sua attenzione doveva essere altrove, tuttavia, perché seguì con lo sguardo Yaku, che si stava cimentando in una serie di bracciate furiose nella piccola piscina schizzando ovunque.
Daichi, Suga e Asahi si guardarono sollevando un sopracciglio, quel qualcosa che era successo doveva aver lasciato da pensare parecchio anche a Kuroo.
Non era di certo da lui lasciar cadere una provocazione in quel modo.
«Se vuoi sapere di Inuoka» intervenne inaspettatamente Kai, sempre rilassato sul brodo della vasca, doveva aver seguito attentamente tutto lo scambio di battute «Non credo che verrà alle terme Kuroo». Guardava il suo capitano dritto negli occhi con quella che, sorprendentemente, sembrava una nota di durezza nello sguardo.
Asahi, Daichi e Suga, che avevano finalmente compreso la situazione, rimasero in silenzio.
«Certo che non verrà!» esplose Yaku, smettendo di nuotare «E se si permette di venire gli spezzo le gambe, una alla volta! E poi le spezzo a te!» gridò con aria furiosa, agitando le corte braccia al vento.
Kuroo fece una smorfia un po’ grottesca, ma se ne vide bene dal replicare qualcosa.
Asahi ne dedusse che doveva aver litigato con Inuoka, anche furiosamente.
Fu a quel punto che un grido improvviso squarciò l’aria, un grido femminile che proveniva dall’altra parte della parete di legno, esattamente dove si trovavano le terme femminili.
Prima che Asahi potesse realizzare davvero cosa fosse successo, Daichi era già uscito dall’acqua gridando a gran voce qualcosa contro i suoi kohai indisciplinati.
 
 
Era cominciato tutto per colpa di Nishinoya.
Yū aveva pensato di aver fatto le cose per bene, di aver calcolato tutti gli eventuali buchi nel suo brillante piano, ma non aveva fatto i conti con il suo migliore amico e compagno di guai.
La verità era che non era proprio riuscito a liberarsi di quel tarlo, e la sua natura indomita e sbarazzina aveva fatto il resto per lui.
Aveva pensato a quella donna per tutto il tempo restante della passeggiata e lungo il percorso di ritorno verso la pensione, aveva sperato di poterla rincontrare nuovamente per strada, solamente perché voleva essere certo di essersi sbagliato …
Voleva solamente assicurarsi che quegli occhi non fossero stati poi così tristi come li aveva visti, perché era sicuro che in quel modo l’immagine che aveva fissa nella mente sarebbe svanita insieme alla curiosità finalmente placata.
Non era successo, ovviamente.
La strada era piena di gente, era quasi ora di cena e cominciava a fare davvero freddo.
Era stato alla pensione che quel pensiero molesto si era affacciato nella sua mente.
Aveva pensato che in quel piccolo paese in provincia di Tokyo non c’erano molti posti per pernottare la notte, aveva colto quell’informazione per caso leggendo di sfuggita una brochure, forse … forse Tsubake, ricordava il suo nome, era lì anche lei …
Forse stava facendo il bagno alla terme a quell’ora, come le altre ragazze.
Nishinoya aveva pensato che controllare un istante non avrebbe fatto male a nessuno.
Si era incamminato da solo a compiere quell’impresa, controllando ogni angolo di corridoio per accertarsi che non ci fosse troppa gente di passaggio, si era perfino assicurato che Daichi-san fosse a sua volta alle terme … e non l’aveva detto né a Ryuu né a Taketora …
Perché non lo sapeva con precisione, ma aveva pensato che fosse una cosa intima e sua.
Un pensiero strano, doveva ammetterlo.
Ad ogni modo, aveva fatto i conti senza l’oste: gli era bastato voltare un angolo di troppo per andare a sbattere proprio contro la schiena massiccia del suo migliore amico.
Cadde a terra per la seconda volta quel giorno, assicurandosi in quel modo un bel livido nelle parti dell’osso sacro; si massaggiò lamentandosi sonoramente, mentre Taketora e Ryuu lo guardavano dall’alto in basso - cosa che richiedeva questione di secondi - sorpresi.
«Noya-san?» chiese Yamamoto sollevando un sopracciglio.
Sia lui che Tanaka avevano un asciugamano sulla spalla e indossavano il tipico abbigliamento di chi aveva intenzione di andare a fare un lungo bagno rilassante alle terme prima di cena. Erano diretti nella direzione opposta ovviamente, quella che conduceva alla parte degli uomini; Yū si diede dello stupido per non averci pensato prima.
«Che cosa stai facendo Noya?» domandò Tanaka con fare sospettoso, aiutandolo a tirarsi in piedi senza il minimo sforzo. Yū si lamentò ancora un po’ massaggiandosi il fondo schiena e brontolò qualcosa di sconnesso, con lo sguardo basso.
Tanaka guardò il libero con sospetto, poi il corridoio verso cui era furtivamente diretto, gli puntò un dito contro con violenza e spalancò la bocca scandalizzato.
«Traditore!» berciò a voce troppo alta «Stavi andando a sbirciare le ragazze senza di noi!». Nishinoya gli afferrò immediatamente il dito, saltandogli addosso come un grillo per tappargli la bocca con l’unica mano libera che aveva a disposizione per non cadere a terra.
«Stai zitto Ryuu! Così ci scoprono!» Tanaka sbottò qualcosa inferocito contro la sua mano, ma non fu possibile capire nemmeno una parola di quello che vomitò.
«Noya-san, questo da te non me l’aspettavo!» sbottò Yamamoto indignato.
Nishinoya sospirò pesantemente, smise di arrampicarsi sulla schiena del suo migliore amico e lo lasciò andare, ormai consapevole del fatto che il suo piano fosse miseramente fallito.
«Ok, ok, andiamo insieme!» decise però infine, per nulla intento ad abbandonare il proposito, Tanaka lo guardò ancora un po’ di traverso, ma l’idea sembrò piacergli parecchio.
Sia lui che Yamamoto guardarono con occhi sognanti la porta delle terme femminili.
Dovevano aver appena dimenticato i loro propositi di andare a fare un bagno a loro volta.
Il paradiso che si spalancava dietro quelle porte era troppo allettante.
Si nascosero tutti e tre dietro l’angolo, sbirciando l’altro corridoio che faceva da tramite con occhi e orecchie attenti a qualsiasi visitatore inaspettato o passo.
Nishinoya, che era quello più basso, spuntava per primo, sopra di lui se ne stava Tanaka e, ancora più sopra, spuntava la testa di Yamamoto, in piedi sulle punte.
«Credete che Taniguchi-san sia lì?» domandò con voce emozionata.
«Credo proprio di sì» commentò Nishinoya, concentrato.
«Oddio, potrei vedere il magnifico corpo di Kiyoko-san!» mormorò Tanaka estasiato.
Nishinoya fu felice che in quel momento Sugawara non fosse lì per sentire il suo amico fare un commento del genere, ma gli risultò strano non aver fatto pensieri di quel tipo sulla loro manager … in realtà, non aveva proprio pensato che ci fosse anche Shimizu.
L’idea non l’aveva nemmeno eccitato.
«Al mio tre partiamo!» dichiarò con vigore.
Non arrivarono nemmeno al due.
Bastò muovere il primo passo che dovettero immediatamente tornare indietro.
Il gruppetto di primini che veniva dal corridoio opposto non era minimamente silenzioso come il trio dei combina guai; Hinata e Kageyama continuavano a spintonarsi malamente, incolpandosi di qualcosa a vicenda, dietro di loro Lev rideva sguaiatamente.
Smisero di fare casino solamente quando i loro sguardi si incrociarono.
I sei si guardarono negli occhi con aria imbarazzata, in un attimo di immobilità.
«Che cosa state facendo qui?» domandò immediatamente Tanaka, additandoli.
Hinata avvampò immediatamente, Kageyama abbassò lo sguardo in un’espressione spaventosa di imbarazzo, Lev ridacchiò.
«S-stavamo facendo solamente un giro» mormorò Hinata grattandosi la nuca.
Era una scusa troppo debole anche per due senpai come Nishinoya e Tanaka.
«Ma non avevi detto che volevi venire a vedere Hitoka-chan fare il ba-»
«Gwaaaaah!»
Hinata assaltò Lev prima che avesse il tempo di terminare la frase che, tuttavia, era stata chiaramente udita da tutti in quello stretto corridoio, fortunatamente, deserto.
Dalla porta socchiusa delle terme femminili si levavano vapori e voci melodiose.
I tre senpai misero immediatamente su un sorrisetto famelico.
«Oh oh» ridacchiò Tanaka portandosi una mano sulla bocca con espressione spaventosa, Hinata si nascose con un passetto dietro Kageyama, rosso come i suoi capelli.
«Ohi, e mollami!» replicò il più alto strattonando il braccio a cui il partner di gioco si era aggrappato, questo riportò immediatamente l’attenzione su di lui.
«E tu che cosa stai combinando qui eh?» lo punzecchiò immediatamente Nishinoya, prendendo a colpirlo non troppo gentilmente nel fianco, Kageyama arrossì violentemente ma non diede una risposta effettiva, sarebbe morto prima di farlo.
Ancora una volta fu Lev a fare luce sul mistero in atto.
«Kageyama-kun ha detto che si trovava lì per caso, ma Hinata sospetta che volesse andare a vedere la senpai Tani-»
Ancora una volta Lev non riuscì a terminare la frase perché fu immediatamente placcato da Kageyama, che gli mollò un colpo nello stomaco per poi saltargli sulla schiena con il suo metro e ottanta, senza pietà.
«Sta zitto idiota!» berciò e poi senza preavviso additò Hinata gridandogli contro uno dei suoi soliti “boke”, con la solita convinzione che il motivo della sua tortura provenisse dal primino suo coetaneo.
A quel punto una risata improvvisa e decisamente ben più alta delle altre li fece tacere di colpo, mettendoli tutti in guardia dietro il muro.
Proveniva dalle terme, era la risata melodiosa di una donna.
Era stata sufficiente per riportarli tutti al loro obbiettivo primario.
«Al segnale di Noya-san ci nascondiamo dietro al paravento!» informò Yamamoto.
«Perché all’ordine di Noya-san?!» si lamentò immediatamente Lev «Voglio fare io il capo per una volt- ahi!» esclamò poi coprendosi la testa con entrambi le mani dopo il pugno poco gentile che l’asso della sua squadra gli aveva assestato.
«Sì, così ci beccano immediatamente!» lo liquidò il più grande.
«Ora!» esclamò inaspettatamente Nishinoya, cogliendo un po’ tutti di sorpresa.
Scivolarono malamente dietro il paravento trascinandosi l’un l’altro, avevano il cuore a mille ma erano entrati nelle terme, e il primo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi fu la curva di due schiene pallide e sinuose di due donne sedute sulle rocce, intente a lavarsi.
A Tanaka uscì immediatamente il sangue dal naso.
«Dov’è Taniguchi-san?» volle informarsi immediatamente Yamamoto.
«Ehi!» berciò senza rendersene conto Kageyama alla volta dell’asso della Nekoma.
«Dobbiamo avvicinarci ancora!» esclamò Nishinoya con aria determinata.
Non riusciva a vedere quella donna da nessuna parte, o almeno, non da quel lato della vasca.
Gli altri lo guardarono con sospetto, non del tutto convinti della sua decisione.
Fu a quel punto che tutto andò a rotoli.
Kageyama scivolò sul pavimento bagnato non appena fece un passo.
Finì nell’acqua bollente trascinandosi dietro Hinata, con tutti i vestiti addosso, prima di poter anche solamente realizzare che cosa stesse succedendo davvero.
Alle terme cadde un silenzio di tomba per alcuni secondi, infranto solamente alcuni secondi dopo dalla lenta caduta del paravento, che svelò la presenza di Lev e Yamamoto ancora nascosti lì dietro.
I volti di tutte le donne che stavano facendo il bagno erano puntati verso i quattro adolescenti in piedi, più i due che si picchiavano selvaggiamente nell’acqua cercando di affogarsi a vicenda.
«Ciao Taniguchi-san!» salutò all’improvviso Lev, in direzione della ragazza.
Maria era accorsa insieme a Shimizu e Hitoka per capire cosa fosse successo come tutte le altre donne che stavano facendo il bagno nella parte più riservata della calda piscina.
Il giovane mezzo russo aveva un sorriso a trentadue denti mentre salutava.
Fu il segnale che ruppe la sorpresa e scatenò le urla generali.
Bastò il tempo che Tanaka, Nishinoya e Yamamoto impiegarono per tapparsi le orecchie che la porta socchiusa si spalancò selvaggiamente mostrando un Daichi inferocito, con l’asciugamano stretto malamente intorno alla vita, pestare i piedi come un rinoceronte.
«Che cosa diavolo sta succedendo qui?!» tuonò il ragazzo.
Gli bastò osservare la scena per comprendere cosa fosse successo, e il fatto che quattro su sei fossero suoi compagni di squadra non servì assolutamente a migliorare il suo umore nero.
Avanzò inferocito e afferrò Tanaka e Nishinoya per le orecchie.
«Ahi! Daichi-san fa male!» esclamò Yū piagnucolando.
«Si staccheranno le orecchie!» replicò Tanaka con fare melodrammatico.
Daichi li ignorò bellamente e si diresse verso la piscina, dove Kageyama e Hinata annaspavano per uscire, ma non ci riuscivano mai perché nel processo continuavano a spintonarsi per chi dovesse tirarsi fuori per primo.
«E a voi cosa è venuto in mente! Aspettate di uscire da quella piscina e vi faccio passare la voglia, vedrete!».
Nell’impeto dell’invettiva Daichi non si accorse di come l’asciugamano, che aveva stretto frettolosamente e male intorno alla vita, scivolò a terra senza complimenti lasciandolo completamente esposto agli occhi di tutti.
Quando Asahi accorse insieme a Suga, Kuroo, Yaku e Kai, rischiò di scivolare a terra per la sorpresa quando si ritrovò davanti agli occhi il sedere completamente nudo del suo migliore amico. Anche Suga arrestò la corsa, avvampando violentemente.
Daichi continuava ad agitarsi come un matto e non si accorgeva delle risatine delle donne più anziane, né di come invece le più giovani si coprissero gli occhi imbarazzate: Maria era rossa come il fuoco, ma troppo impegnata insieme a Shimizu ad evitare che Hitoka, svenuta a quella vista, affogasse nell’acqua calda.
«D-Daichi …» mormorò Asahi alzando una mano nel tentativo blando di richiamare il suo migliore amico ed evitargli un’ulteriore vergogna, Daichi non lo sentì nemmeno.
«Oh cielo!» bisbigliò Sugawara, facendosi coraggio per intervenire, si chinò a terra raccogliendo l’asciugamano del suo migliore amico con mani un po’ tremanti.
«Lev! Taketora!» esclamò invece Yaku furioso, completamente disinteressato alla nudità del capitano della Karasuno «Se vi prendo siete morti!» e prese ad inseguire i due per tutta la piscina, finché non scapparono nel corridoio gridando come matti.
Kai assistette a quel passaggio di furie senza battere ciglio.
Al suo fianco Kuroo rideva sguaiatamente tenendosi la pancia con entrambe le braccia; il vicecapitano della Nekoma compativa enormemente Daichi per quello che lo aspettava.
«Daichi!» esclamò Suga afferrando l’amico per un braccio con insistenza.
«MA CHE COSA STA SUCCEDENDO QUI?!».
Al ringhio furioso di quella voce tutti si fermarono, immobili.
Il coach Ukai arrivò con tutta la sua furia ciabattando rumorosamente.
Il suo sarebbe stato un ingresso d’effetto se non fosse stato per la cuffia tra i capelli, le ciabatte ai piedi, l’accappatoio con le paperelle e la spugna per lavarsi a forma di oca.
«SAWAMURA!» solamente a quel punto Daichi pensò bene di fermarsi.
Si guardò attorno con il fiatone, rosso in viso, si rese conto che Suga gli stringeva un braccio con violenza, rosso in viso a sua volta, ma sicuramente non per la rabbia.
«Beh, devo dire che me l’aspettavo più grosso eh».
Il commento di Kuroo, che fissava qualcosa in basso con un certo interesse, fece abbassare lo sguardo a Daichi a sua volta, il Capitano della Karasuno lasciò andare le orecchie di Tanaka e Nishinoya e divenne di pietra. Suga ebbe la pietà di coprirlo personalmente.
Mentre Ukai cominciava a sbraitare a destra e sinistra come un ossesso, tirando calci nel sedere a destra e sinistra, scusandosi a ripetizione con le donne e le ragazzine nell’acqua, e arrossendo all’occasione, Asahi e Suga pensarono di non aver mai visto Daichi in quelle condizioni prima d’allora.
Lungo la via del ritorno, Kuroo non fece altro che prenderlo in giro.
 
 
Asahi si ritrovò a sera tarda ancora più stanco di quanto non fosse stato quella mattina.
C’era voluto un po’ di tempo per far riprendere Daichi, che con quel suo sorriso inquietante aveva proibito a chiunque di nominare anche solo per scherzo quello che era successo alle terme. Alla fine nessuno era finito in punizione, ma aveva passato un brutto quarto d’ora.
Asahi si avvolse con un sospiro pesante l’asciugamano attorno al collo, contento di potersene andare a dormire finalmente, sebbene non avesse risolto nemmeno la metà dei dubbi che non l’avevano fatto riposare la sera precedente.
Anzi, la paura non aveva fatto altro che aumentare.
Ma era stanco, terribilmente stanco e non vedeva l’ora di riprendere gli allenamenti.
Erano sempre stati un’ottima scusa per smettere di pensare e concentrarsi su altro.
Aveva ancora la pelle calda dal bagno turbolento, lo stomaco pieno della cena aveva anche migliorato un po’ il suo umore; era di ritorno dal bagno, diretto nella camera dove dormivano tutti insieme i ragazzi del Karasuno.
Aveva appena aperto l’uscio che il ronzio di un phon al minimo catturò la sua attenzione, Kageyama si stava asciugando i capelli con aria imbronciata, Tsukishima era seduto al suo fianco e sistemava accuratamente il suo futon.
Asahi sarebbe entrato senza troppi problemi se non fosse stato per le parole dell’occhialuto.
«Il re del campo si è reso ridicolo oggi eh?» commentò, continuando a sistemare.
Kageyama spense il phon con un colpo secco, i capelli perfettamente lisci se ne stavano un po’ disordinati e gonfi sulla sua testa in seguito al colpo d’aria calda che li aveva asciugati.
Guardò Tsukishima con quell’espressione rabbiosa che lo contraddistingueva.
«Non so di che cosa tu stia parlando» ringhiò, scuro in viso.
Tsukishima non sembrò affatto cogliere il pericolo, o forse non gli importava affatto.
Continuò a piegare i suoi vestiti come se nulla fosse.
«Taniguchi-san non ti guarderà mai, mio caro re».
Dietro la porta, Asahi sentì tutta la stanchezza triplicarsi di colpo e la prospettiva di passare un’altra notte a rigirarsi nelle coperte improvvisamente molto più realistica.
«Non so di che cosa tu stia parlando» ripeté Kageyama con maggiore forza.
A quel punto Tsukishima smise di fare quello che stava facendo e guardò il compagno di squadra dritto negli occhi, l’espressione scocciata e annoiata al contempo.
«So che andando tutto il tempo in giro con quell’altro idiota tu possa passare inosservato, ma io non sono Hinata» cominciò, quell’insopportabile sorrisetto sarcastico sulle labbra.
«Credi davvero che non l’abbia capito? Ti si legge in faccia come un libro aperto, mio Re».
Kageyama avvampò violentemente, mordendosi furiosamente il labbro inferiore.
«Ti ho detto -»
«Se fossi in te io eviterei di perderci tempo» lo interruppe Tsukishima prima che potesse terminare la frase. «Perché nel caso non te ne fossi accorto, quella ha la testa totalmente da un’altra parte». Kageyama non replicò a quelle parole, fissandolo come se Tsukishima gli avesse fatto la rivelazione del secolo. L’altro sbuffò infastidito da tanta stupidità.
«E se avessi fatto un po’ di attenzione, capiresti anche perché».
Cadde il silenzio tra i due, Tsukishima riprese a fare ciò che stava facendo prima senza il minimo turbamento sul viso, Kageyama invece rimase a fissare il vuoto per un po’, sopracciglia aggrottate e il phon ancora stretto nella mano destra, abbandonata a terra.
Asahi strinse forte il pomello della porta, si fece forza ed entrò nella camera.
Né Tsukishima, né Kageyama gli prestarono troppa attenzione.
Né lui diede alcun segno di aver sentito la conversazione.
«Stai parlando del capitano?» domandò all’improvviso Kageyama, inaspettatamente.
Tsukishima sollevò un sopracciglio, preso leggermente in contropiede da quell’interesse improvviso a voler parlare della faccenda da parte del Re capriccioso.
«Chissà» replicò poi, e per la prima volta sollevò lo sguardo su Asahi, che deglutì rumorosamente nel farsi scoprire a fissarli proprio in quel momento.
«Ad ogni modo perché ti interessa tanto farmi la predica?» lo aggredì Kageyama, nuovamente infastidito dalla conversazione.
Quando Tsukishima rispose, lo fece guardando Asahi negli occhi.
«Per evitare di farti fare la fine di qualche altro povero illuso che ci ha messo il pensiero».
L’asso della Karasuno ebbe come la sensazione che stesse parlando di lui, che sapesse.
Il peso che aveva nel petto non fece che farsi più pesante quella notte.
 
 
Forse vorrei qualcuno da idealizzare
Che mi tenga apposto il cuore
Mentre svuoto la mente


(Shari – Egoista)
 
 
 
Buongiorno miei cari 🤗🤗
Eccezionalmente, è di nuovo Flying_Lotus95 a farvi gli onori di casa quest'oggi 😚
Bene... siete sopravvissuti a questo capitolo?? 😅 Perché io e la socia arriviamo sempre con i crampi allo stomaco per il troppo ridere alla conclusione...
Finalmente il Nekoma ha fatto la sua entrata trionfale, e i nostri poveri corvi sono già stremati 😆 ma non temete... è solo l'inizio! 🤣🤣
Adesso passiamo ad una comunicazione veloce: la pubblicazione dei capitoli subirà un cambiamento. Invece di due/tre sabati al mese alternati, dal prossimo capitolo in poi, i restanti capitoli verranno pubblicati ogni primo sabato del mese. Purtroppo sia io che la socia abbiamo impegni improrogabili e dobbiamo rallentare un po' il ritmo, ma cercheremo di essere presenti, visto che abbiamo i capitoli pronti a disposizione. È un modo anche per riprendere in mano la scrittura della storia, ed evitare di interromperla sul più bello quando sarà. Quindi portate pazienza, amati lettori.
Detto questo, vi saluto e vi ringraziamo delle visite che continuano a salire. Magari ogni tanto lasciatecelo un feedback, se ve la sentite. Ribadisco, non è la classica storia sulle ship di Haikyuu, proprio per questo ci piacerebbe sentire un parere, un’opinione su questa storia, cosa vi suscita, se vi fa dimenticare per un attimo la logica delle ship e riuscite ad apprezzarne la trama… Sembrano sciocchezze, però c’interessa sentire la vostra voce. Quando volete e ve la sentirete, potete anche contattarci sui nostri canali social che trovate nelle nostre pagine di EFP.
Alla prossima! 🤗
Flying_Lotus95 & effe_95

 

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Capitolo 19
*** 18- Non aveva idea ***


18.Non aveva idea.

 
 
E dimmi se c'è stato amore tra quelle parole
E poi dammi duemila minuti anzi duemila ore
 
 
Maria non aveva dormito meglio della sera precedente.
Fosse stata l’adrenalina provocata dall’incidente alle terme, il trambusto che ne era seguito, le emozioni della passeggiata per il paese o l’indifferenza ostinata di Asahi nei suoi confronti, non sapeva spiegarlo. Forse era per tutte quelle questioni insieme.
L’unica cosa positiva di quella mattina fredda e uggiosa era la fame ritrovata.
Voleva fare una colazione abbondante che la ricaricasse di energie per affrontare la giornata, voleva essere positiva e combattere qualsiasi cosa stesse cospirando contro di lei.
Era l’ultimo ritiro del terzo anno, non ce ne sarebbe stato un altro, non poteva permettere che quei piccoli problemi rovinassero tutto.
Guardò con determinazione la sua ciotola di riso bianco, divorato già per metà, e la porzione di pesce alla griglia che si era affrettata a prendere non appena era arrivato il vassoio: sollevò gli occhi azzurri determinata, Asahi era seduto nell’altro tavolo, le stava di fronte.
Era con Sugawara e con Daichi, sembravano sereni mentre parlavano di qualcosa di divertente; l’incidente della sera precedente doveva essere stato messo nel dimenticatoio.
Anche se Maria aveva sentito i primini bisbigliare qualcosa a riguardo nel tavolo accanto.
Seduta al suo fianco Shimizu le chiese se andasse tutto bene, Maria annuì riprendendo immediatamente a mangiare, nonostante avesse ancora lo sguardo puntato su Asahi: quel giorno gli avrebbe parlato.
Voleva risolvere la questione quella mattina, voleva scoprire che si trattava solamente di un malinteso, riderci su insieme ad Asahi e godersi il resto del ritiro.
«Ti cadranno gli occhi se continui a fissarlo in quel modo, Maria-chan».
Il commento improvviso di Shimizu la colse di sorpresa, il filetto di pesce che aveva preso con le bacchette alcuni istanti prima le sfuggì dalla presa, cadendo sul tavolo.
Kiyoko sembrò non accorgersene e continuò a guardare impassibile davanti a sé, mentre beveva il suo succo di frutta all’arancia con moderazione, un sorso alla volta.
Maria le rivolse un’occhiata un po’ storta, complice anche l’irritazione per il fatto che l’amica fosse riposata come una rosa e avesse anche quella mattina avuto il tempo di fare jogging.
Lei si era svegliata presto, sì, ma con solo due ore di sonno alle spalle era stato tremendo. 
«Hai un’aria terribile Maria-chan» continuò Shimizu come se nulla fosse, non aveva percepito il suo sguardo o forse fingeva di non averlo fatto «Avete litigato?».
«Macché!» esclamò immediatamente Maria sospirando pesantemente.
Si rese conto in quel momento di avere particolarmente bisogno di parlare di quella cosa con qualcuno, perché non le fosse venuto in mente prima non sapeva proprio spiegarselo.
Shimizu, tra l’altro, era l’unica persona a conoscenza della sua relazione con Asahi.
«Asahi mi evita da quando siamo arrivati» le spiegò, decidendosi finalmente a raccogliere il filetto di salmone che aveva fatto cadere sulla tavola, per poi avvolgerlo in un fazzolettino pulito «Ieri sera gli ho mandato un messaggio con la buonanotte, non mi ha risposto» continuò con le sopracciglia aggrottate, pulendo il tavolo dall’olio.
Shimizu smise di sorseggiare il suo succo e appoggiò il bicchiere semi vuoto davanti a sè.
Guardò Maria, sebbene l’altra non ricambiasse lo sguardo, forse perché aveva percepito nel suo tono di voce la stanchezza, l’insicurezza, l’angoscia.
«Forse è andato a dormire prima del previsto e non l’ha letto» tentò di consolarla.
«Asahi risponde sempre ai miei messaggi» replicò immediatamente Maria.
Shimizu aprì la bocca, ma qualunque cosa avesse intenzione di dire alla sua migliore amica, si perse con l’arrivo al loro tavolo di Inuoka, Kenma e Kuroo.
Kiyoko chiuse immediatamente la bocca, sigillandola come se non avesse mai parlato.
Maria dal canto suo imprecò in tutte le lingue che conosceva, domandandosi perché Kuroo dovesse sedersi proprio al loro tavolo, sebbene razionalmente si rendesse conto che non c’erano alternative siccome era l’unico con ancora qualche posto libero.
Inuoka si mise seduto di fronte a lei, reggeva il suo vassoio tra le mani e aveva delle occhiaie spaventose che mostravano chiaramente carenza di sonno; Maria aggrottò le sopracciglia quando si rese effettivamente conto che la sera precedente non l’aveva visto a cena.
Kuroo fece per sedersi in mezzo, accanto al primino, ma fu inaspettatamente scansato via da Kenma che, per la prima volta da quando era cominciato il ritiro, guardò Maria negli occhi.
Fu un comportamento strano, assolutamente fuori dal normale.
Inuoka tuttavia sembrò sollevato dal gesto del suo senpai, mentre l’espressione infastidita e al contempo contrita di Kuroo non faceva che rendere la scena ancora più sospetta.
Maria ci aveva pensato durante tutta la passeggiata del giorno precedente al tipo di rapporto che potessero avere quei due, gli erano sembrati intimi, intimi come lei e Asahi.
Ovviamente, non avendone le prove, si era limitata a farsi semplicemente i fatti suoi.
Sebbene quella scenetta di pochi secondi avvenuta davanti ai suoi occhi non avesse fatto altro che alimentare la sua fantasia al riguardo: Kuroo e Inuoka avevano litigato?
«Oh, che onore sedere al tavolo con la regina degli schiaffi!» la punzecchiò immediatamente il capitano della Nekoma, ritrovando subito la compostezza che aveva perso quando Kenma gli aveva impedito di sedersi accanto ad Inuoka.
Il moro accompagnò quel gesto con un accenno di inchino un po’ goffo.
«Non posso dire che l’onore sia reciproco» borbottò Maria mettendo il muso.
Kuroo incrociò le braccia al petto e la fissò dritta negli occhi, con il solito sorriso enigmatico.
«Dimmi un po’, quegli occhi meravigliosi da dove vengono?».
Maria si infastidì immediatamente per la domanda, era da un po’ che non aveva più vergogna delle sue origini, perché sapeva di avere alle spalle una schiera di cavalieri pronti a difenderla e ad accettarla, ma non le piaceva ricevere domande dirette come quella.
«Non sono affari tuoi» intervenne inaspettatamente Inuoka.
Stava mangiucchiando del pesce e aveva lo sguardo fisso davanti a sè, concentrato, l’allegria  che Maria aveva percepito il giorno precedente sembrava nascosta dietro qualcos’altro.
Tetsurou rivolse un’occhiata tagliente al primino, fu solamente un istante.
«Sei già impegnata, Zaffiro-chan?» domandò invece ignorandolo totalmente. Maria sollevò le sopracciglia quando si sentì appellare in quel modo, notò con la coda dell’occhio che Inuoka aveva smesso di mangiare, fissava il tavolo con espressione concentrata, ma probabilmente era nervoso.
L’unico che non sembrava turbato dalla conversazione era Kenma, che una volta finito di mangiare si era messo a giocare con il suo game-boy, approfittando del tempo a disposizione prima degli allenamenti, che li avrebbero tenuti impegnati fino ad ora di pranzo.
Il suono della musichetta era terribilmente fastidioso anche in mezzo a tutto il vociare.
«Kuroo-san, se non mangi si raffredderà il riso».
L’intervento inaspettato di Shimizu colse un po’ di sorpresa anche il diretto interessato.
Kuroo la guardò con le sopracciglia sollevate, poi sorrise bonariamente.
«Bel tentativo, lo ammetto» replicò guardando Kiyoko negli occhi, i due si dissero qualcosa con lo sguardo che gli altri non riuscirono a capire, una lotta silenziosa.
«Anche se da quello che ho visto suppongo di non avere speranze con Zaffiro-chan eh?».
Maria sollevò un sopracciglio: che cos’aveva visto di preciso quel gattaccio?
Ad Asahi non si era avvicinata nemmeno per scherzo in quei giorni.
Doveva essere uno dei suoi brutti scherzi per farla sentire a disagio.
«Kuroo sme-» provò ad interromperlo nuovamente Inuoka, inutilmente.
«Le donne sono complicate è vero, ma ne valgono decisamente di più lo sforzo!».
Esclamò ad alta voce, con il chiaro intento di farsi sentire bene da Sou.
Maria non capì perché l’avesse fatto, ma ebbe sicuramente il potere di zittire il primino.
Qualsiasi cosa avesse voluto dire, l’aveva ferito, era evidente.
A quel punto, anche Kenma decise che probabilmente doveva essere troppo, forse in realtà nonostante il gioco era stato attento a tutta la conversazione appena avvenuta.
«Dov’è Yaku-san?» chiese, sembrava una domanda casuale, ma era chiaro che aveva invece l’intento di cambiare argomento e allentare di conseguenza un po’ la tensione. 
Forse voleva mettere in soggezione Kuroo chiamando in causa il compagno violento.
Era difficile dirlo con l’alzatore della Nekoma.
«Era al telefono con Alisa Haiba» commentò Kuroo «Tutto lovey dovey con gli occhioni a cuoricino!» e per rimarcare bene la cosa si cerchiò gli occhi con le dita in una forma solo ridicolmente simile a quella di un cuore; poi scoppiò a ridere.
Maria decise che aveva dato anche troppa corda al capitano della Nekoma per quel giorno, i buoni propositi che aveva avuto alcuni istanti prima sembravano molto più lontani dopo l’incontro indesiderato avuto con quel gattaccio della malora, ma Maria era decisa.
Riportò lo sguardo fisso sul tavolo dove erano seduti Asahi, Daichi e Suga, il tempo necessario per vedere una ragazza avvicinarsi proprio al suo fidanzato.
Era straniera, non c’era alcun’ombra di dubbio.
Era alta, forse sul metro e ottanta, aveva lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle che le cadevano sul seno abbondante, messo in mostra dalla canotta che indossava nonostante il freddo infernale; gli occhi erano grandi e verdi, era magra, con due gambe slanciate e ben fasciate in un paio di jeans attillati oltre la decenza.
Che fosse una ragazza occidentale lo percepiva dalla confidenza che emanava.
E adesso chi è quella gatta morta? Cominciò a domandarsi, mentre si mordeva le unghie della mano sinistra e sollevava un po’ la testa per seguire meglio la scena; al suo fianco, allarmata da tutti quei movimenti, Shimizu seguì con lo sguardo la traiettoria dell’amica.
«Maria-chan, calmati» Le bisbigliò per non farsi sentire, ma per sua fortuna Kuroo era troppo interessato a molestare il suo amico d’infanzia per prestare loro attenzione.
Asahi scelse proprio quel momento per sorridere alla straniera e rispondere a qualsiasi cosa lei gli avesse chiesto l’istante precedente, il modo in cui lei si ravvivò i capelli l’istante successivo fu decisamente la goccia che fece traboccare il vaso.
Ora gliela faccio vedere io a quella sciacquetta!
Maria batté violentemente le mani sul tavolo e fece per tirarsi in piedi con intenti tutt’altro che pacifici, quando Asahi la colse di sorpresa anticipandola.
Maria smise di agitarsi immediatamente quando lo vide avvicinarsi al suo tavolo con la straniera al seguito, era ancora sollevata con il sedere dalla sedia di alcuni centimetri e solamente il piccolo strattone di Shimizu la convinse a sedersi come una persona civile.
Asahi si fece vicino, le si accostò ma non la guardò in faccia.
Maria invece si sorprese a farlo più del previsto e senza ritegno: era da troppi giorni che non lo aveva vicino come in quel modo e le era mancato, la sua presenza le era mancata.
«Scusate» chiese Asahi con voce pacata, attirando l’attenzione di tutti «Per caso qualcuno qui è in grado di parlare tedesco? Questa ragazza mi ha chiesto delle informazioni … ho provato a dargliele in inglese, ma credo non mi abbia capito» spiegò e si grattò immediatamente la nuca in un evidente gesto di imbarazzo tipico di lui.
Maria avrebbe voluto prenderlo a sberle.
Cosa fai tutto il timido eh?! Gridò interiormente.
«Ah-ah!» esclamò all’improvviso Kuroo facendo saltare tutti i presenti dalla paura.
«Ich spreche Deutsch!» disse con estrema confidenza, facendo ammutolire tutti.
Aveva gli sguardi dei presenti puntati addosso con diverse espressioni stampate sul viso, ma non sembrava per nulla a disagio in quella situazione, al contrario invece ci sguazzava.
«Wirklich?» domandò la tedesca ringalluzzita, dando tutto il suo interesse a Kuroo.
Il capitano della Nekoma ne approfittò per tirarsi in piedi, raggiungerla, metterle un braccio intorno alla spalla e cominciare a parlare con lei in tedesco.
Se Kuroo non si fosse spostato intenzionalmente per mettere su quella scena sotto gli occhi di Inuoka, non era chiaro, ma era evidente che i suoi compagni di squadra erano ancora sconvolti dalla possibilità che il loro capitano pestifero parlasse un po’ di tedesco.
Maria però non si disturbò ad interessarsi della cosa più del necessario.
Le si era presentata un’occasione e aveva intenzione di coglierla; Asahi si era grattato la nuca ancora una volta a quella scena, non sembrava offeso per essere stato dimenticato, al contrario, dovette pensare che fosse un ottimo modo per tornare al suo tavolo indisturbato.
Maria non glielo permise, non appena lui girò le spalle lo afferrò per un polso, si alzò in piedi e lo tirò senza troppi complimenti in una parte della mensa che fosse un po’ più appartata.
«Vieni con me!» sbottò dispotica.
«Ma-» le proteste debolissime di Asahi non servirono a nulla contro di lei.
Il gigante del Karasuno si lasciò trascinare senza fare storie dietro una grossa colonna, non troppo lontano dal tavolo dove Kuroo stava dando spettacolo di sé, non voleva piantare su una scena proprio di fronte a tutti, quindi non obiettò.
Quando Maria lo lasciò andare si girò immediatamente ad affrontarlo, braccia conserte.
«Che cosa c’è che non va Asahi, dimmelo!».
Esordì con veemenza, quasi disperata.
Asahi non rispose immediatamente e così tra di loro cadde il silenzio.
Cosa gli stesse passando per la mente Maria non poteva saperlo, non poteva sapere che era piena di pensieri orribili, pensieri che fosse meglio non venissero alla luce.
«Niente» mormorò alla fine l’asso del Karasuno.
Non avrebbe potuto dare una risposta peggiore per Maria.
«Niente?» replicò lei ed utilizzò un tono di voce talmente minaccioso, sebbene calmo e sottile, che Asahi sentì un brivido caldo salirgli lungo la schiena alla prospettiva della discussione inevitabile che ne sarebbe seguita.
Fu fortunato l’Asso del Karasuno, qualsiasi cosa Maria stesse per vomitargli addosso con quella bocca spalancata e il dito sollevato a mo’ di ammonimento, venne bruscamente interrotto dalla voce decisamente troppo alta di Inuoka, inaspettata.
«Mi fai schifo!» lo aveva urlato, senza curarsi di essere stato sentito.
Maria e Asahi si scambiarono uno sguardo veloce, sopracciglia aggrottate, qualsiasi cosa avrebbero potuto dirsi, qualsiasi cosa avesse occupato con urgenza le loro menti solamente alcuni secondi prima, scivolò immediatamente via come se non fosse mai stato importante.
Maria fu la prima a lasciarlo andare ed uscire allo scoperto per capire cosa fosse successo.
Fu un bene che non si fosse voltata nemmeno una volta indietro, altrimenti avrebbe letto con assoluta chiarezza il sollievo dipintosi sulla faccia di Asahi.
La mensa si era svuotata nei pochi minuti che se ne erano stati nascosti dietro quella colonna, ma questo non fece altro che rendere la scena che Maria si ritrovò davanti ulteriormente inaspettata e decisamente in vista; non c’era anima viva in quelle quattro mura che non avesse lo sguardo puntato su quei due.
Inuoka era affannato, il petto gli si alzava e abbassava ritmicamente, le guance paonazze e gli occhi lucidi dalla rabbia o dalla collera; in un’immagine grottescamente opposta Kuroo se ne stava invece incredibilmente tranquillo, sembrava addirittura posato.
Maria sentì un brivido lungo la schiena, Kuroo le fece paura in quel momento molto più di quanto non avesse fatto con le sue battute sagaci e gli sguardi ammiccanti.
In quel momento le ricordò Takumi più di quanto non l’avesse fatto prima realmente.
«Non sai tenertelo nei pantaloni nemmeno per scherzo, vero?!» esclamò Sou, continuando ad inveire come se fosse totalmente estraneo al pericolo, nello sbraitare quelle parole picchiò con violenza i pugni chiusi sul petto di Kuroo; non riuscì a farlo indietreggiare nemmeno di un passo.
Maria sollevò lo sguardo incredula a quelle parole, guardò Asahi al suo fianco, Shimizu, Kenma, Daichi, Sugawara, chiunque pur di condividere con qualcuno la sua incredulità; fu scioccante per lei notare che nessuno sembrava sorpreso, semmai preoccupato.
«Ti costa tanto non fare lo stronzo con le altre davanti a me?».
Quelle erano le parole che solamente un amante avrebbe potuto pronunciare.
Tetsuro e Sou stavano insieme, Maria ne era certa, poteva dirlo senza pensare di star viaggiando troppo con la fantasia a quel punto; inoltre, tutti gli altri sembravano saperlo. 
Fu la consapevolezza che la sconvolse di più, l’unica.
Scostò con estrema fatica lo sguardo da Sou e Tetsuro per posarlo su Asahi; lui non se ne accorse, sembrava imbarazzato o forse preoccupato con quelle sopracciglia ancora aggrottate, ma se l’avesse fatto avrebbe letto il tumulto e la delusione sul viso di Maria.
«Non mi basta».
Maria tornò improvvisamente al presente quando sentì la voce di Kuroo per la prima volta in quella litigata, non aveva mosso un dito, non ancora, ma aveva su ancora quell’espressione impassibile che faceva solamente presagire il peggio.
Qualsiasi cosa avesse turbato il suo cuore, qualsiasi cosa avrebbe voluto dire ad Asahi con urgenza poteva aspettare, dopotutto quello non era il momento adatto, non lo era mai stato.
Non lo era stato nemmeno per tutti quei pensieri.
«Che cosa?» mormorò Sou con un’espressione evidentemente confusa sul viso.
«Kuroo» intervenne inaspettatamente Kenma, con un coraggio che Maria non avrebbe mai avuto; tuttavia ebbe come l’impressione che l’alzatore avesse percepito un imminente pericolo e stesse tentando di evitarlo, dopotutto lui conosceva Tetsuro meglio di chiunque.
«Tu non mi basti» non servì a molto ad ogni modo.
Kuroo pronunciò quelle parole senza farsi problemi o porsi limiti, senza pensare che avrebbe ferito qualcuno nel farlo; di fatto, Inuoka indietreggiò come se fosse stato pugnalato.
«Non mi pare di avere mai firmato un contratto esclusivo con te» continuò con quella faccia inespressiva, grottescamente bella ed ipnotica, come quella di un predatore «Non fai altro che piagnucolare ogni volta che ti tocco, è davvero esasperante ... per non dire insoddisfacente».
Al suono di quelle parole Sou si strinse le braccia al petto.
Maria capì immediatamente che non era un gesto casuale, doveva essersi sentito violato.
Non rispettato, scoperto, nudo davanti a tutti senza la minima cura.
Kuroo era arrabbiato, lo stava punendo era chiaro, lo stava punendo per averlo ignorato quella mattina, probabilmente per qualche litigio che si portavano dietro da tempo; quella confidenza piacevole che Maria aveva intravisto durante la passeggiata del giorno precedente era totalmente sparita, spazzata via da quelle parole crudeli.
«Kuroo» lo richiamò Kenma, questa volta con estrema fermezza.
Sou aveva gli occhi pieni di lacrime, ma sembrava intenzionato a non farle assolutamente cadere, al contrario, lo schiaffo che tirò a Kuroo fu talmente fulmineo, violento ed inaspettato che fece sobbalzare tutti i presenti, anche quelli meno attenti.
«Sei uno stronzo bugiardo» sbottò il primino, la mano stretta al petto, i denti che mordevano il labbro inferiore per non lasciar andare le lacrime «Bastardo».
Maria provava una tale pena per quel fanciullo con cui sentiva più empatia di quanto fosse concessa a due persone completamente estranee. Avrebbe voluto aiutarlo, avrebbe voluto tirarlo via da quella situazione e proteggerlo, era assurdo, ma voleva farlo.
Non ne ebbe il tempo, Kuroo reagì inaspettatamente, afferrò Inuoka per i capelli, dietro la nuca, avvicinandolo pericolosamente con la faccia al cavallo dei suoi pantaloni.
«Limitati a fare quello che sai fare meglio se non vuoi che ti mandi a ‘fanculo!»
E sottolineò le sue parole spingendo ulteriormente la testa del primino.
Kenma si alzò in piedi a quel punto, anche Daichi e Suga si avvicinarono, mentre Yamamoto inveiva contro il suo capitano, ma Maria fu più veloce di chiunque a raggiungere Inuoka, perché era stata pronta a scattare ben prima che quella spiacevole scena si verificasse.
Schiaffeggiò le mani di Kuroo, che mollò la presa solamente perché non si aspettava quel gesto, e aiutò Sou a sollevare il viso tenendolo fermo per le spalle, sebbene per farlo dovesse starsene sulla punta dei piedi, sarebbe stata un’immagine comica se non fosse stato spiacevole il motivo che l’aveva generata.
«Stai bene?» domandò al primino controllandogli la faccia, gli prese il mento per sollevargli il viso e lo trovò inondato di lacrime, rosso, sconvolto, ferito.
Maria gli lasciò andare il viso, strinse forte i pugni delle mani e si voltò a fronteggiare Kuroo, tentennò alcuni istanti quando notò lo sgomento nello sguardo del capitano della Nekoma, ma fu un’esitazione che scivolò via velocemente insieme a quella di Kuroo.
«Sei disgustoso!» commentò inacidita, le braccia conserte al petto.
Tetsuro non ne fu minimamente impressionato, la scansò malamente come se lei nemmeno avesse parlato e si avvicinò a Sou allungando una mano per afferrargli il braccio; lo fece, Sou nemmeno si ribellò con convinzione, lo spinse via un paio di volte mentre Kuroo tentava di abbracciarlo, di dirgli qualcosa; forse scusarsi?
Non ne ebbe il tempo.
«Che cosa succede qui? Gli allenamenti sono cominciati!».
Gli sguardi di tutti si voltarono in direzione di Nekomata-sensei, in compagnia di un confuso professor Takeda; i due adulti osservarono la scena con le sopracciglia sollevate, al vecchio allenatore della Nekoma bastò osservare Inuoka che si asciugava frettolosamente la faccia bagnata e Kuroo che lo teneva fermo per un braccio, per capire la situazione.
«Tutto bene?» chiese invece il professor Takeda, avvicinandosi ad Inuoka.
Il primino si limitò ad asciugarsi il viso, annuì, con uno strattone si liberò della presa di Kuroo allontanandosi da lui il più possibile; il capitano si irrigidì a quel gesto.
Qualsiasi frattura si fosse creata tra di loro, quel gesto non servì a sanarla.
«Sono solo stanco professore» replicò il primino con voce roca, fuggendo lo sguardo del professor Takeda, per trovare invece quello di Nekomata-sensei «Posso andare in camera a riposare per oggi? Non credo di potermi allenare».
L’allenatore si limitò ad annuire, per poi intimare gli altri a sbrigarsi e sgombrare la mensa.
Maria approfittò di tutto quel movimento per avvicinarsi ad Inuoka ed afferrargli un braccio.
«Inuoka-kun, sei sicuro che-» ma il ragazzo la zittì con un sorriso gentile.
«Tranquilla Taniguchi-san, nessuno avvertirà la mia assenza» commentò il primino, aveva la pelle sotto gli occhi terribilmente arrossata, quel sorriso forzato non faceva altro che accentuare quel dettaglio.
Nessuno che conta per me, sembrava stesse dicendo in silenzio.
«Bene!» esclamò Kuroo attirando l’attenzione degli altri nella mensa, mentre si dirigeva verso la porta «Una palla al piede in meno allora!». 
Maria si rese conto per la prima volta che il detto: “le parole uccidono più della spada”, poteva essere incredibilmente vero, se ne rese conto guardando l’espressione che si dipinse sul viso di Sou: non avrebbe nemmeno saputo descriverla, non esistevano parole giuste.
«Io vado …» mormorò il primino senza nemmeno guardarla un’ultima volta.
La scavalcò e si allontanò verso la porta prima che chiunque potesse fermarlo, Maria avrebbe voluto farlo, ma sentiva di non averne diritto, né tanto meno la confidenza.
La mano gentile di Shimizu le toccò la schiena, Maria distolse con difficoltà lo sguardo dalla porta della mensa; andò agli allenamenti con l’anima e il cuore decisamente pesanti.
Tutti i propositi della mattina erano sfumati nel vento come fumo.
 
 
Gli allenamenti si tennero all’aperto.
Una piacevole brezza che sapeva d’autunno sollevava le prime foglie cadute e scostava dolcemente, come una carezza, i capelli di Maria, sciolti sulle spalle.
Era piacevole starsene seduta sui gradini di cemento e calcestruzzo sotto il sole, non era caldo come quello d’estate, ma riusciva ancora ad infondere un piacevole tepore.
Maria sollevò il viso verso il cielo, lasciando che un tenue raggio di sole le accarezzasse la pelle; i ragazzi si allenavano chiassosamente nel campo a cielo aperto, i loro schiamazzi e le loro risate le avevano fatto compagnia mentre tentava inutilmente di fare qualche esercizio di solfeggio su un vecchio pezzo della Lucia di Lammermoor.
Maria sospirò profondamente e riaprì gli occhi, lasciandosi accecare per qualche secondo dalla tenue luce del sole; un tempo le piaceva riuscire a ricavarsi lo spazio necessario per dedicarsi al solfeggio durante gli allenamenti, in quel momento invece avrebbe preferito di gran lunga essere impegnata sul campo come lo erano Shimizu e Hitoka.
Era stato un errore da parte sua accettare quella pausa, di quel passo non avrebbe fatto altro che pensare, pensare talmente tanto da farsi venire un bel mal di testa.
Aveva rivissuto il litigio di Inuoka e Kuroo nella testa come una canzone in loop, un disco graffiato che non andava alla sequenza successiva; le sembrava davvero assurdo che Tetsuro riuscisse ad allenarsi con calma e compostezza, trovando addirittura il coraggio di ridere, fare battute e scherzare con gli altri, come se non avesse ferito nessuno.
Maria provava una profonda stizza anche solo guardandolo, l’espressione che aveva in quel momento sul viso non doveva dunque essere delle più amichevoli.
Chiuse malamente il libro, lo incastrò tra le gambe e appoggiò entrambi i gomiti sulle ginocchia, prendendosi le guance tra le mani pallide mentre combatteva contro un brivido di freddo, causato da una folata di vento arrivata inaspettatamente.
Aveva lo sguardo puntato sul campo, ma non stava realmente guardando la partita.
Una piccola parte della sua mente era ancora con Inuoka, preoccupata, l’altra parte era invece affollata da quel pensiero molesto, che aveva provato a mettere in un angolo con tutta sé stessa, senza riuscirci.
Tutto sommato non era stato davvero inaspettato scoprire di Tetsuro e Sou, le era bastato vedere la confidenza che avevano mostrato uno nei confronti dell’altro per capire. Inoltre, solamente un occhio disattento all’amore avrebbe potuto fraintendere.
No, per Maria quel litigio era stato solamente una conferma, la prova che non aveva troppa fantasia romantica che le faceva vedere l’amore dappertutto.
Maria non aveva potuto fare a meno di pensare ad Asahi piuttosto, a domandarsi perché Kuroo e Inuoka potevano avere il coraggio di vivere la loro storia alla luce del sole, con tutti i problemi che ciò avrebbe comportato a causa della chiusura mentale di certe stupide persone di quella assurda società, mentre la loro doveva essere tenuta segreta a tutti i costi.
Nemmeno avessero compiuto un crimine nell’amarsi.
Maria avrebbe voluto chiederlo ad Asahi.
Avrebbe voluto chiedergli il perché del suo silenzio, della sua paura …
Maria invidiava Kuroo e Inuoka per il coraggio che avevano avuto, per la serenità con cui vivevano la loro storia d’amore senza nasconderla agli altri, semplicemente perché era normale che fosse così, era dannatamente normale.
Ad ogni modo, aveva come la sensazione che parlarne con Asahi avrebbe significato solamente scontrarsi contro un muro di cemento, e Maria non era sicura di essere in grado di sopportare un eventuale sanguinamento in quel momento.
Scosse la testa e sospirò pesantemente, decidendo che per quella mattina ne aveva avuto abbastanza di pensieri profondi; sollevò la testa e si rese conto che i ragazzi erano in pausa.
Schiamazzavano con maggior forza mentre bevevano avidamente dalle loro bottigliette personali, quelle che lei, Shimizu e Hitoka si premuravano di lavare ogni giorno con cura.
Maria sollevò le sopracciglia quando vide i primini del Karasuno, i suoi “bambini”, come le piaceva chiamarli, dirigersi verso di lei contemporaneamente e di comune accordo.
Hinata saltellava nella sua direzione come se avesse ancora energia da vendere nonostante il folle allenamento a cui era sottoposto, gridava il suo nome senza vergogna, trascinandosi dietro un riluttante Kageyama, rosso in faccia; Yamaguchi e Tsukishima erano dietro di loro, il primo con la solita espressione remissiva e vagamente gentile, il secondo particolarmente scocciato da tutta quella situazione.
Maria li guardava con espressione curiosa, senza tuttavia incoraggiarli o viceversa.
Avevano appena raggiunto gli spalti su cui era seduta quando Kageyama, causa uno strattone inaspettato di Hinata, andò a sbattere con la punta dei piedi sul bordo di cemento del primo gradino e cadde lungo disteso sulle gambe di Maria, che fece giusto in tempo ad alzare le braccia per lasciargli il campo libero ed evitare di farsi male.
Kageyama pesava, pesava terribilmente, ma Maria non ci pensò nemmeno a lamentarsi.
Il poveretto aveva la faccia talmente rossa dall’imbarazzo che sarebbe potuto morire al minimo commento uscito dalla sua bocca; Maria non osava immaginare cosa sarebbe spettato ad Hinata una volta che l’altro avesse ritrovato la facoltà di movimento e parola.
Tsukishima non ebbe la sua stessa premura ad ogni modo.
«Non svenire ai suoi piedi, Re del Campo» lo punzecchiò immediatamente.
Quella scena doveva essergli risultata estremamente divertente, un premio che si era meritato per aver avuto la pazienza di sopportare le idiozie degli altri coetanei.
Kageyama rivolse un’occhiataccia al centrale da sotto la frangia nera di capelli.
Maria sospirò pesantemente, le braccia ancora sollevate al cielo.
«Tutto bene Kageyama-kun?» domandò con compostezza, il diretto interessato sobbalzò, annuì velocemente e si tirò in piedi con una certa fretta, sebbene questo non fece altro che aumentare le sue difficoltà nel compiere quel gesto senza toccare parti del corpo di Maria che sarebbero potute dimostrarsi compromettenti.
«Mi disf- dist – mi dispiace!» riuscì infine a borbottare, facendo un inchino esagerato.
Maria ridacchiò divertita da quella tenera scenetta, allungò una mano e scombinò i capelli del primino in un gesto molto fraterno; Kageyama la guardò come se fosse congelato.
«Ehi, tutto bene Bakayama-kun?» Lo richiamò Hinata, pizzicandolo sul fianco.
Fu un’ottima scusante per permettere a Kageyama di sfogarsi, afferrò Hinata sotto il proprio braccio e i due cominciarono a bisticciare senza alcun ritegno, rumorosamente.
«I soliti idioti» si lasciò sfuggire Tsukishima, osservando la scenetta, a detta sua pietosa, che si stava consumando davanti ai suoi occhi in quel preciso momento con aria disgustata.
Maria lo guardò con un sorrisetto insopportabile sulle labbra, divertita.
Era grata ai suoi piccoli di corvo per averle fatto tornare il buon umore con la loro ingenuità.
«Hai visto come abbiamo giocato bene Tani-chan?» le domandò Hinata, la testa che spuntava da sotto il braccio di Kageyama, i capelli ancora più ribelli di quanto già non fossero e il viso arrossato dallo sforzo della lotta.
«Ma se abbiamo perso per l’ennesima volta» mormorò Tsukishima contrariato.
Era evidente che quell’ennesima sconfitta gli bruciava molto più di quanto gli piacesse ammettere; sicuramente doveva essere stufo delle penalità che seguivano, comportavano ulteriore sforzo fisico, sudore, tutto ciò che per lui era una vera e propria tragedia.
«Ci siamo andati vicini questa volta, però!» commentò Hinata allegro, era ancora incastrato sotto il braccio di Kageyama, che non voleva accennare a mollarlo.
«La prossima volta vinceremo noi» decretò quest’ultimo con un bel broncio sul viso.
«Ne sono sicura» commentò Maria, e credeva davvero nelle sue parole.
Non sarebbe stata lì per assistere alla loro evoluzione, ma era sicura che il Karasuno sarebbe andata davvero lontana grazie a quei quattro bambini ancora troppo infantili per rendersene conto, era solamente questione di tempo prima che accadesse.
Avevano un bel futuro davanti, ne era certa.
«Io invece non faccio altro che rimanere indietro …» mormorò inaspettatamente Yamaguchi, era sempre così silenzioso che a volte Maria si dimenticava della sua presenza; doveva ammettere di non conoscerlo bene, l’aveva visto insicuro, nascosto dietro la figura molto più rassicurante di Tsukishima.
Era difficile trovare una personalità forte in Yamaguchi, eppure ce l’aveva eccome.
Anche lui avrebbe dovuto rendersene conto prima o poi.
Maria pensò che da senpai, fosse bene dargli una piccola spinta.
«Daichi conta molto su di te, Yamaguchi-kun» gli disse, accompagnando quel commento con un sorriso gentile, era evidente dal colore scarlatto sulle guance del primino che non si sarebbe mai aspettato una simile affermazione «Ti sta tenendo d’occhio da un po’, pensa che tu stia facendo dei veri passi da gigante … ha detto che se non avesse avuto Ennoshita-san, avrebbe scelto te come futuro capitano senza alcun problema».
Yamaguchi avvampò nel sentire quelle parole, aveva gli occhi lucidi. Maria non era sicura che si trattasse di lacrime di commozione però, era piuttosto un’euforia febbrile quella che gli imporporava il viso; sperò che fosse un buon punto di partenza per Tadashi.
Che quelle parole fossero abbastanza forti da spingerlo a migliorarsi, a credere in sé stesso.
«Tani-chan, certo che tu sai tantissime cose del Capitano eh?».
La domanda di Hinata la colse un po’ di sorpresa, il sorriso gentile che aveva sulle labbra scivolò via gradualmente, sostituito dallo stupore quando rivolse l’attenzione al centrale.
Kageyama lo aveva liberato dalla stretta, sembrava uno scalmanato con la maglietta tutta tirata sulla spalla destra, ma era davvero curiosa la sua espressione, curiosa quanto era accigliata quella di Kageyama, o beffarda quella di Tsukishima, Yamaguchi era ancora perso nella sua stessa gioia per prestare troppa attenzione alla faccenda.
«Beh … siamo amici» commentò Maria «Passiamo del tempo insieme».
«Molto tempo insieme» replicò immediatamente Tsukishima, tossicchiando.
Maria sollevò un sopracciglio, cominciando a detestare la piega che aveva preso la conversazione, avrebbe risposto volentieri a Tsukishima per le rime se Hinata non le avesse fatto una confessione davvero inaspettata.
«Il Capitano ci ha raccontato che ti sei dichiarata Tani-chan! A te lui piace ancora?».
Maria non ebbe modo di rispondere immediatamente perché Kageyama menò una manata dietro la nuca di Hinata, chiamandolo “boke” a ripetizione e altri epiteti simili.
Questo ad ogni modo le diede il tempo di pensare, di riprendersi. 
«E’ successo tempo fa» si limitò a rispondere «Daichi mi ha rifiutata, e non ne abbiamo più parlato dopo» raccontò. Non aveva idea che il Capitano avesse spifferato tutto, forse avrebbe dovuto aspettarselo tutto sommato, era ovvio che la squadra avrebbe voluto saperlo, ma non ci aveva mai pensato. Era un bene comunque che avesse la possibilità di chiarirlo.
Se voleva convincere Asahi ad aprirsi, gli altri dovevano avere ben chiare le cose.
«Ma a te piace ancora, vero?» la incalzò Hinata, sembrava sperarci davvero.
Tutti e quattro i primini la guardarono con aspettativa, curiosi, ognuno con un grado d’interesse diverso dipinto sul viso.
Maria era allibita.
«Siamo solo amici …» mormorò, ma sapeva bene che non sarebbe servito a convincerli.
Maria capì che era arrivato il momento di interrompere quella conversazione.
Era stata divertente finché non era diventata lei l’argomento principale.
Afferrò lo spartito che aveva incastrato tra le gambe e si tirò inaspettatamente in piedi.
«Credo che l’allenamento stia per riprendere» annunciò, anche se non era vero «Io ne approfitto per andare in bagno. Buon lavoro» continuò, tentando di risultare allegra e disinvolta. Non aspettò nemmeno di ottenere una risposta che si allontanò dagli spalti.
Hinata fece spallucce e se ne tornò sul campo, incitato da Lev; Yamaguchi lo seguì.
Kageyama impiegò un po’ più di tempo a staccare lo sguardo dalla schiena di Maria.
«Perché non la segui e le dimostri tutta la tua devozione, eh? Potresti anche ricevere un rifiuto educato tutto sommato, oggi mi sembrava di buon umore» lo punzecchiò Tsukishima, rimasto indietro con lui.
Kageyama lo fulminò con lo sguardo e gli voltò le spalle.
«Sta’ zitto idiota» commentò.
«Oh, sua maestà si è offeso» gli andò dietro Tsukishima, sulla faccia un ghigno soddisfatto.
 
 
Maria non sarebbe dovuta passare davanti a quella stanza.
Non era assolutamente nei suoi progetti, ma non aveva una meta precisa quando si era allontanata dai primini della sua squadra, quindi si era ritrovata a vagare per i corridoi.
Forse non avrebbe dovuto allontanarsi dal campo in quel modo, né lasciare Shimizu e Hitoka a svolgere tutto il lavoro da sole, ma fu un bene che l’avesse fatto.
Fu un bene, altrimenti nessuno si sarebbe accorto di Inuoka.
Maria notò che la porta della stanza dove alloggiavano i membri del Nekoma era aperta, una buona porzione di camera si intravedeva dal fondo del corridoio. Lo trovò strano, ma non vi diede peso. Pensò che potesse essere stata una donna delle pulizie a dimenticarsi di chiuderla, o forse Sou quando era andato a riposare.
Maria sospirò stancamente e si avvicinò all’uscio afferrando il pomello con convinzione.
Avrebbe voluto controllare Inuoka, vedere se stava riposando davvero, se aveva invece bisogno di parlare con qualcuno di quello che era successo, sebbene Maria non ritenesse di essere la persona più indicata per una cosa simile; esitò dunque a richiudere la porta.
Fu un bene anche quello.
La prima pillola bianca che vide era scivolata fino all’uscio in posizione eretta, senza cadere.
Ne seguiva un’altra a pochi centimetri di distanza, e un’altra ancora poco più in là.
Maria sentì il cuore salirle in gola ancora prima di spalancare l’uscio con una certa urgenza, non seppe mai spiegare dove trovò il coraggio per farlo, ma non appena mise piede nella stanza il corpo riverso di Inuoka accanto al futon su cui avrebbe dovuto riposare, catturò la sua attenzione come se avesse da sempre saputo che l’avrebbe trovato in quello stato.
Maria sentì le ginocchia cedere sotto il peso della paura, ma non lo permise.
Strinse forte il pomello della porta ancora una volta prima di lasciarlo andare e precipitarsi verso il giovane disteso; Sou era pallido, aveva la boccetta delle pillole che aveva ingurgitato ancora stretta nella mano inerte sul pavimento, Maria quasi rischiò di scivolare sul cumulo di farmaci riverso sul pavimento di legno.
Si lasciò cadere con le ginocchia a terra senza curarsi del dolore, strappò la boccetta dalle mani del kohai e controllò immediatamente che cosa avesse ingurgitato. Sembravano sonniferi, pillole per il sonno … quante ne aveva mandate giù per ridursi in quello stato?
Con mani tremanti, Maria si affrettò a prendere la testa del primino tra le mani, provò prima con degli schiaffi poco gentili, non servirono a nulla.
Con uno sforzo eccessivo lo tirò su fino a farlo sedere contro di sé, era difficile riuscirci con la mancanza di qualsiasi aiuto possibile da parte di Inuoka, ma Maria era determinata a riuscirci in tutti i modi possibili, aveva bisogno di quella forza che non aveva e l’avrebbe trovata se ciò avesse significato salvare Sou da quella terribile situazione.
Gli aprì la bocca e senza troppi complimenti infilò due dita nella gola, Inuoka ebbe come uno spasmo, gli si contrasse addosso e nell’istante successivo riversò sul pavimento tutto quello che aveva nello stomaco, compresa una poltiglia bianca davvero sgradevole.
Maria trattenne un conato di vomito e continuò a stringere Inuoka al petto finché i tremori che lo scuotevano da capo a piedi non si acquietarono; non aveva ripreso del tutto conoscenza, ma il sudore freddo che aveva sulla fronte, le sopracciglia aggrottate e i flebili lamenti che lasciavano le sue labbra facevano ben sperare.
Maria sperò che fosse sufficiente per il momento.
Passò una mano sulla fronte sudata del kohai, appoggiata ancora senza forza contro la sua spalla, le dita delle mani le tremavano terribilmente, non voleva interrogarsi su dove avesse trovato la forza di fare quello che aveva fatto, ma suppose fosse stato l’istinto.
Quell’istinto inspiegabile che spingeva gli esseri umani a salvare un proprio simile, anche quando con quest’ultimo non avevano alcun tipo di legame emotivo o confidenza alcuna.
Maria non conosceva Inuoka, ma sarebbe impazzita anzichè lasciarlo morire.
Quando si fu assicurata che avesse smesso del tutto di tremare, lo adagiò sul futon sul quale Inuoka non era riuscito a stendersi, lo coprì con cura e, sollevatasi sulle gambe tremanti di paura, scattò verso la porta saltando la pozza di vomito.
Maria andò a sbattere dritta dritta con la faccia sul petto di Kai, non fu mai così felice di vederlo come in quel momento; le lacrime le salirono agli angoli degli occhi senza che nemmeno se ne rendesse conto, mentre quella paura feroce che aveva cercato di domare la investiva come un fiume in piena che aveva rotto gli argini.
«Taniguchi-san, che cosa succede?». A porgerle quella domanda però non fu il vice-capitano della Nekoma, che tuttavia le mise le grandi mani rassicuranti sulle spalle per sostenerla, bensì il libero, Yaku, che era nascosto accanto all’amico.
Entrambi dovevano averla vista uscire dalla camera che era stata assegnata loro.
Dovevano aver capito che qualcosa non andava da quel momento, perché Maria non aveva motivo di trovarsi in quella stanza, a meno che non si fosse trattato di …
«Che cosa è successo ad Inuoka?» Yaku lo chiese come se sapesse che era quello il problema, le lacrime che bagnarono le guance di Maria furono una conferma sufficiente.
La ragazza fece un respiro profondo per ritrovare la compostezza che aveva perso, per farlo strinse con maggiore forza le proprie mani attorno alla stoffa che avvolgeva le braccia di Kai guardandolo negli occhi, lui ricambiò quello sguardo con serenità, incitandola in silenzio.
A Maria bastò.
«L’ho trovato riverso sul pavimento … c’erano delle pillole dappertutto … erano sonniferi credo, ne avrà presi troppi … l’ho fatto vomitare, ha cominciato a sudare …».
Yaku non aspettò di sentire altro, sorpassò sia Maria che Kai ed entrò nella stanza avvicinandosi al suo kohai con ampie falcate, al massimo della possibilità che gli concedessero le sue gambe. Gli bastò passargli una mano sulla fronte per ritrarla spaventato.
«Kai …» chiamò con voce ferma, sebbene la punta delle dita della mano sinistra, quella che aveva appoggiato sul pavimento per sorreggersi, tremassero vistosamente.
Maria non poté fare a meno di pensare che Yaku fosse una persona davvero forte.
«Vai immediatamente a chiamare qualcuno, allerta i professori!».
Kai non se lo fece ripetere due volte, voltò le spalle alla stanza prima ancora che l’altro avesse finito di parlare, il passo immediatamente affrettato per raggiungere il campo.
Doveva essere quasi ora di pranzo ormai, gli allenamenti stavano per finire da un momento all’altro, presto gli altri ragazzi sarebbero rientrati affamati, ridendo e scherzando, era bene che non assistessero a quella scena, era bene che non lo sapessero affatto.
Maria si domandò come avesse fatto Yaku a pensare così lucidamente anche a quella eventualità, nonostante si vedesse lontano un miglio che anche lui non sapesse cosa fare, né tanto meno come agire e fosse spaventato da morire.
«Kai!» Richiamò l’amico all’improvviso, con forza e con fermezza, l’altro si arrestò immediatamente, nonostante l’urgenza sul suo viso solitamente impassibile «Cerca di non far capire a Kuroo che cosa è successo».
Un’affermazione semplice, un ordine non gentile.
Kai nemmeno annuì, sparì dalla vista di entrambi nel secondo successivo.
Maria rimase per un po’ con lo sguardo perso sul fantasma del ragazzo che se n’era appena andato, stringendosi le braccia in un gesto distratto, sentiva improvvisamente freddo.
«Taniguchi-san, dammi una mano».
Maria sussultò quando Yaku la richiamò, si diede della sciocca per essersi lasciata prendere dalla paura quando aveva visto i due ragazzi, non era quello il momento di compiangersi, aveva già imparato la lezione quel giorno al cimitero con Asahi …
Si inginocchiò velocemente accanto al libero della Nekoma, ignorando il dolore forte che le attraversò la spina dorsale, doveva essersi fatta male nella fretta precedente.
Yaku aveva adagiato la testa di Inuoka sulle proprie gambe, per tenerlo sollevato, il colorito della sua pelle sembrava essere leggermente migliorato, aveva gli occhi socchiusi, era finalmente cosciente; i tremori continuavano a percuotergli il corpo.
«Che cosa hai combinato, Sou!» Mormorò Yaku, era arrabbiato, ma la sua era una rabbia controllata, pericolosa; Inuoka singhiozzò inaspettatamente, ebbe un sussultò e le lacrime scesero dagli angoli degli occhi solcandogli le tempie senza argini a fermarle.
«Mi dispiace Yaku-san …» biascicò tra i singhiozzi, la voce irriconoscibile «Non era quello che volevo …».
Altre lacrime, altri singhiozzi gli raschiarono la gola, rischiò anche di affogarsi e Maria fu costretta a sollevargli le spalle con l’aiuto di Morisuke «Pensavo solo che … volevo solo che si spaventasse, volevo solo fargli capire …».
Non aggiunse altro perché non ci riuscì, scosso da una lunga serie di singhiozzi.
Piangeva come un bambino tra le braccia di Maria, che come una madre invece gli asciugava il viso in silenzio, tremore ben controllato, spalle rigide ed espressione seria e stoica.
Era chiaro a chi si stesso riferendo, non c’era bisogno di fare nomi.
Era chiaro anche per chi fossero quelle lacrime.
E Maria pensò che dopotutto non se le meritasse, quella persona non se le meritasse affatto.
«Maledizione Sou! Ti giuro, questa è la volta buona che-».
Non seppero mai come sarebbe finita la frase di Morisuke, lo sbattere violento della porta coprì la parte finale. Sullo stipite della porta Kuroo aveva l’affanno, l’espressione confusa.
Maria e Yaku si girarono a guardarlo contemporaneamente, balzando per lo spavento.
Ci fu un solo istante di immobilità, istante in cui Tetsuro vide il corpo disteso di Sou, le pasticche che invadevano il pavimento, l’istante in cui comprese e un’espressione atterrita sostituì la confusione; fece solamente un passo nella stanza prima che Yaku lo aggredisse.
Maria non se ne rese nemmeno conto, si ritrovò all’improvviso a reggere Inuoka da sola.
«Fuori da questa stanza!» inveì immediatamente il libero del Nekoma, stringeva tra le mani il colletto della maglietta del suo capitano, nonostante dovesse stare sulla punta dei piedi per riuscirci; aveva un’espressione talmente feroce da mettere paura.
Kuroo non pensò di ribellarsi, sebbene gli sarebbe semplicemente bastato fare una piccolissima pressione sulle spalle del compagno di squadra per liberarsene.
Sapeva di dover prestare attenzione a Yaku, ma non riusciva a spostare lo sguardo da Sou.
«Yaku -» provò ad articolare, non andò oltre quel nome.
«Ho detto fuori da questa stanza Kuroo! Tu non parlerai con Inuoka mai più!».
Maria si rese conto per la prima volta in quel momento a chi era rivolta quella rabbia cieca che aveva intravisto nel libero, silenziosa, pericolosa e letale.
Qualcuno doveva avergli detto quello che era successo in mensa.
Yaku non aveva potuto ignorare la sua natura a quel punto, quella stessa natura che Maria avrebbe potuto riconoscere in Sugawara se avesse dovuto associarla ad una personalità del Karasuno; la naturale tendenza e capacità di prendersi cura di tutti.
«Yaku, io -» riprovò Kuroo, lo sguardo ancora fisso su Inuoka.
I due si guardarono; Sou aveva finalmente gli occhi aperti, sebbene sembrasse sul punto di riaddormentarsi da un momento all’altro, cosa che Maria stava cercando di evitare.
L’espressione di Kuroo era angosciata, avrebbe voluto raggiungerlo, era chiaro.
Fu la prima volta che Maria provò un moto di pietà per quell’insopportabile ragazzo, fu anche la prima volta che si rese conto di non avere a che fare con un’anima affine a Takumi.
«No!» continuò imperterrito il libero; Kuroo perse la pazienza.
«Non ho tempo per questo!».
Scansò malamente l’amico, si inginocchiò accanto a Maria e, anche se lo fece con gentilezza, le tolse Inuoka dalle braccia con una certa urgenza; la prima cosa che fece fu passargli una mano sulla fronte sudata, scostandogli alcune ciocche di capelli, un gesto pieno di cura.
Maria, ancora inginocchiata accanto ai due, non poté non notare il modo in cui le mani di Sou si strinsero con disperazione attorno al braccio di Kuroo; gli occhi di nuovo in lacrime.
«Tetsuro» mormorò Sou, mordendosi il labbro inferiore.
Kuroo lo zittì con un inaspettato bacio sulla fronte, mentre se lo stringeva al petto.
«E’ colpa mia, non dire altro. Ho capito». Un altro bacio, questa volta sugli occhi.
Sou gli si fece più stretto addosso, singhiozzava di nuovo, forse questa volta per il sollievo.
«Solo … non farmi una cosa del genere di nuovo, ti prego». Quelle parole le mormorò, e solamente Maria riuscì a sentirle, ancora seduta accanto ai due.
La stretta di Kuroo si fece talmente disperata che a quella vista nemmeno Yaku ebbe più il coraggio di protestare, di arrabbiarsi, di rivendicare alcun tipo di vendetta o diritto.
Di fatto, non ne aveva.
Fu a quel punto che Kai si affacciò alla porta, aveva anche lui il fiatone.
«I professori stanno arrivando con un medico» annunciò, pratico «Hanno mandato tutti gli altri direttamente in mensa per il pranzo, nessun primino saprà nulla».
Il suo sguardo si spostò poi sulla scena che aveva intrattenuto gli altri due poco prima.
«L’ha capito prima che aprissi bocca, non ho potuto fermarlo» spiegò, indicando Kuroo.
Yaku sospirò pesantemente, ma non inveì contro l’amico.
La rabbia violenta che aveva provato era svanita nel nulla non appena aveva visto Sou stringersi disperatamente contro la causa dei suoi mali, delle sue lacrime e delle mille sciocchezze che gli aveva visto fare da quando era entrato in quel club.
Quei due erano senza speranza, e si amavano senza speranza.
«Non importa» mormorò infine, Kuroo sollevò lo sguardo su di lui «Ringrazia Taniguchi-san come si deve, l’ha trovato lei» aggiunse, prima di dare le spalle a tutti e dirigersi verso la porta, il tempo necessario affinché Nekomata-sensei, il coach Ukai, il coach Naoi e il professor Takeda entrassero nella stanza, accompagnati da un medico.
Maria sussultò quando qualcuno le posò una mano sulla spalla, sollevò lo sguardo e incrociò gli occhi scuri di Kai. La guardava con serenità, la solita espressione impassibile, sebbene si potesse leggere una nota gentile nel fondo del suo sguardo.
«Credo sia meglio se usciamo Taniguchi-san» le disse, un invito cortese.
Maria lo guardò per alcuni istanti sbattendo le ciglia, come se non avesse capito quello che le aveva detto, poi annuì un paio di volte, sospirando di sollievo.
Mentre si tirava in piedi lo sguardo le cadde nuovamente su Inuoka e Kuroo, quest’ultimo non aveva nemmeno accennato per un secondo di andare via, o di scostarsi, sebbene il professor Nekomata l’avesse intimato un paio di volte a farlo.
Kuroo non aveva vergogna di quello che provava per Sou.
Non aveva paura di essere sbattuto fuori da quella stanza perché non aveva alcun diritto di rimanere lì, non aveva nemmeno paura del giudizio di tutte quelle persone adulte.
Aveva ferito Sou, l’aveva fatto intenzionalmente e aveva rischiato di perderlo nel processo; non ci aveva messo nemmeno una giornata per tornare sui suoi passi.
Maria ebbe improvvisamente paura che Asahi quel coraggio non lo avrebbe mai avuto.
Fu quello l’ultimo pensiero che le accarezzò la mente mentre si richiudeva la porta alle spalle.
 
 
In quella sera di Ottobre il cielo era meraviglioso.
Il blu cobalto della notte che avanzava si fondeva con il rosso fuoco del sole nel momento di massimo splendore, quello della sua dipartita.
Con lo sguardo sollevato sulle prime pallide stelle che si affacciavano timide, Maria si divertiva a contare le poche nuvole che sporcavano quell’immagine perfetta.
La brezza fresca della sera le accarezzava il viso impudentemente, mordendole la pelle delicata con i primi morsi freddi dell’inverno; Maria aveva scoperto quel terrazzo per caso, salendo una rampa di scale di troppo il primo giorno passato in quella pensione.
Era una piccola serra a cielo aperto, ricca di fiori dai mille colori, curata; Maria era seduta su l’unica panchina presente, la schiena ingobbita e lo sguardo ancora rivolto al cielo.
Ci era salita senza riflettere, si era lasciata la porta di quella stanza d’inferno alle spalle e i piedi l’avevano condotta lì autonomamente, come se sapessero che il silenzio era l’unica cosa che avrebbe potuto dare un po’ di pace a quel cuore agitato che le batteva nel petto.
Aveva saltato il pranzo, ma nessuno era andata a cercarla per gli allenamenti pomeridiani, nemmeno Asahi … forse avrebbe saltato anche la cena dopotutto.
Maria si rese conto che avrebbe potuto rimanere anche tutta la notte stesa su quella panca a guardare il cielo, con il cuore finalmente calmo, a domandarsi il perché del gesto di Inuoka. L’aveva trovato estremo, esasperato … devastante.
Era quella l’emozione che Maria aveva provato quando il tumulto era cessato, quando la forza era scivolata via insieme all’adrenalina, si era sentita demolita, una terra rasa al suolo.
Uno di quei vecchi templi greci di cui era rimasto in piedi solamente lo scheletro.
Non era nemmeno sicura di che reazione avrebbe dovuto avere a quel punto, ma le lacrime che si era aspettata, quelle lacrime che avevano minacciato di cadere all’apparizione inaspettata di Yaku e Kai, sembravano come congelate da qualche parte dentro di lei.
Non sarebbero cadute per quel giorno.
Sospirò stringendo con maggiore forza la mano attorno all’iPod che aveva tra le dita.
Lo portava sempre con sé, ben protetto all’interno della tasca della felpa nera del club; la musica aveva da sempre avuto il potere di calmarla, di cullare le sue emozioni più violente, di accarezzarle il cuore quando ne aveva bisogno e riportare ordine nel caos.
Senza pensarci troppo sciolse velocemente le cuffie avvolte attorno all’oggetto, le infilò nelle orecchie e premette il tasto play sull’opzione casuale; la musica partì inaspettatamente, viva fin dalle primissime note dell’orchestra, un’eufonia meravigliosa quella del “Per te d’immenso giubilo” della Lucia di Lammermoor.
Maria chiuse gli occhi, abbandonandosi con la schiena sulla panchina, la testa accasciata all’indietro sullo scomodo bordo di legno, il naso all’insù verso il cielo.
Della speranza il giorno, qui l’amistà ti guida … qui ti conduce amor …
La musica era anche un ottimo modo per dimenticare, per non pensare.
Quando riaprì gli occhi Maria non fu sorpresa di vedere Daichi sotto l’arco di rose cresciute attorno alla porta; si era sentita osservata, e nonostante la musica ad alto volume annientasse qualsiasi altro suono o sensazione, l’aveva sentito in qualche modo.
Daichi aveva quella strana capacità di trovarla sempre quando era più fragile e stanca.
Maria avrebbe voluto che fosse stato Asahi ad avere quella capacità; ma quell’orso dal cuore buono arrivava sempre in ritardo, era sempre un passo indietro.
Daichi la trovava per primo, ogni volta.
Il Capitano la osservò per alcuni istanti, appoggiato con una spalla allo stipite della porta, braccia conserte, spalle rilassate ed espressione indecifrabile.
Per poco fra le tenebre sparì la vostra stella … io la farò risorgere … più fulgida e più bella …
Si guardarono negli occhi senza dire nulla per alcuni istanti. Dopo un tempo che parve infinito Daichi tolse la spalla dallo stipite della porta e si incamminò verso di lei.
Si mise seduto accanto a lei, a solamente pochi centimetri di distanza; le porse la mano.
La man mi porgi Enrico …
Era un chiaro invito, poco fraintendibile, Maria si tolse una cuffietta e gliela passò.
Osservò con curiosità l’espressione sorpresa e al contempo piacevolmente colpita di Daichi, mentre realizzava di conoscere la canzone che stavano ascoltando e un sorriso sereno si faceva largo sulle labbra sottili disegnandogli il viso di una luce inedita.
Ti stringi a questo cor, a te ne vengo amico fratello e difensor …
«Ah, la Lucia di Lammermoor!». La voce di Daichi spezzò un silenzio che era durato a lungo, non fu spiacevole come Maria si era aspettata «Mi tornano in mente un paio di ricordi piacevoli» tornò a guardarla negli occhi mentre pronunciava quelle ultime parole.
Maria poteva ricordare solamente due momenti collegati a quello che stavano vivendo.
Un sabato mattina all’opera, una stanza buia, il sussurrò dell’altro nell’orecchio …
Una sera diversa dalle altre, in uno stanzino, il cuore palpitante, il dolore …
Erano stati due giorni che Maria non avrebbe dimenticato per il resto della sua vita, lo erano stati nel bene e nel male, avevano rappresentato un punto di svolta per lei.
Se ripensava alle emozioni travolgenti che aveva provato in entrambe le occasioni, il respiro le si bloccava nel petto come se avesse incontrato un ostacolo lungo il percorso.
Le sembrava passata una vita intera, le sembrava la vita di un’altra persona, i suoi sentimenti si erano talmente evoluti, erano talmente cambiati, che aveva come la sensazione di aver eliminato alcuni aspetti di quel disegno familiare con una gomma da cancellare, lasciando tuttavia sul foglio bianco le tracce di matita che l’avevano sporcato.
«Pensavo che fosse un appuntamento …» si ritrovò a mormorare Maria, la mente ancora attaccata ai ricordi; Daichi ebbe come la sensazione che fosse ancora lontana anni luce quando ricambiò il suo sguardo, che stesse facendo fatica ad essere lì presente, con lui.
«Come?» domandò, leggermente confuso, mentre cercava nei suoi occhi ostinatamente tracce di se stesso, della sua presenza nella mente di Maria.
Daichi doveva esserne sicuro prima di fare qualsiasi cosa.
«Il giorno che ti comprai il gelato … pensavo che tu mi avessi chiesto di uscire con te»
Specificò Maria e poi rise di se stessa, l’aveva fatto in ritardo di mesi doveva ammetterlo, ma era un bene che se ne fosse resa conto: quei sentimenti erano ingenui, costruiti sulle favole.
L’amore era una cosa complicata, forse l’arte più complicata che esistesse sulla faccia della terra, era stata una sciocca a pensare che fosse come nei romanzi che leggeva da bambina; un battito improvviso del cuore non significava niente, era solo l’inizio di qualcosa.
La parte complicata cominciava in quel momento, e ci voleva pazienza, cura e coraggio.
Daichi le rivolse uno sguardo strano a quella confessione, Maria non fu affatto in grado di leggerlo, ma notò con sorpresa il leggero rossore che aveva colto superficialmente gli zigomi del capitano; forse aveva toccato un terreno un po’ pericoloso con quell’affermazione.
Ma dopotutto non era stata lei a cominciare.
«Scusami, non sono mai stato bravo a leggere le situazioni di quel tipo» commentò infine Daichi, grattandosi la nuca imbarazzato; Maria scoppiò a ridere genuinamente piegandosi istintivamente in avanti, quel gesto le aveva ricordato Asahi.
«Lo so Daichi, ormai l’ho capito. Ti conosco, dopotutto».
Daichi mise su ancora una volta un’espressione illeggibile, il suo sguardo si fece minacciosamente intenso, tolse la cuffia dall’orecchio, la canzone finita da un pezzo ormai; tra lui e Maria c’erano pochi centimetri, Daichi li dimezzò con un movimento deciso.
«Davvero?» chiese, una domanda semplice, senza pretese.
Una risposta troppo difficile da dare.
Maria sentì un brivido freddo lungo tutta la schiena, Daichi aveva dei begli occhi scuri, era la prima volta che li vedeva da vicino, un nocciola che si fondeva nell’oro alla luce del sole.
Fu la prima a distogliere lo sguardo, puntandolo dritta davanti a sé sui fiori colorati.
Il cielo si era fatto blu cobalto in quel lasso di tempo, le stelle più visibili.
Era uno spettacolo talmente bello che nemmeno la fotografia di un professionista avrebbe potuto immortalarlo con tale perfezione in maniera degna.
Non rispose, perché non poteva farlo, non sapeva farlo. 
Maria era stata presuntuosa a fare una simile affermazione.
Il silenzio sarebbe durato in eterno se Daichi non avesse deciso di spezzarlo allungando una mano verso di lei, le sfiorò un ginocchio con la punta delle dita; Maria ricordò solamente in quel momento di averli lasciati scoperti entrambi, aveva arrotolato il pantalone della tuta fin sopra la coscia per lasciar respirare le abrasioni che si era provocata durante la caduta sul pavimento duro.
Le bruciavano, la brezza fresca della sera le era sembrata un buon rimedio.
Aveva completamente dimenticato di avere tanta carne scoperta, ma la pelle d’oca che le attraversava le gambe in modo quasi doloroso glielo stava ricordando con chiarezza.
«Ti sei fatta male?» domandò Daichi sfiorando con il pollice la pelle sbucciata.
Maria non provò dolore, ma si affrettò a scostare velocemente il ginocchio.
La mano di Daichi era bollente al tocco, la faceva sentire a disagio averla addosso.
Inoltre, stavano per intraprendere una conversazione pericolosa e Maria non aveva idea di come fare per spiegare la presenza di quelle abrasioni, non era sicura che il suo Capitano sapesse, non aveva fatto in tempo a chiedere a Yaku e Kai come comportarsi.
Non se n’era preoccupata, il suo unico pensiero era stato quello di allontanarsi, di stare sola.
Non avrebbe nemmeno potuto utilizzare la scusa degli allenamenti pomeridiani come causa di quel macello, perché non ci era andata e se ne stava pentendo per la prima volta.
Fortunatamente, fu Daichi a decidere per lei.
«Ti sei fatta male quando hai soccorso Inuoka, vero?» le domandò. Non aveva fatto nemmeno una piega quando si era scostata dal suo tocco.
Maria si limitò ad annuire, affrettandosi ad abbassare la tuta sulle gambe, un caldo piacevole la accolse come la stoffa le protesse la pelle; non se la sentì di aggiungere altro.
«Sei stata molto coraggiosa. Gli hai salvato la vita, non è poco».
«Non so come ci sono riuscita» si affrettò a replicare Maria, non sapeva spiegarsi perché ma non desiderava essere lodata per ciò che aveva fatto, aveva avuto paura, tanta paura, e non c’era stata nessuna gloria in tutta quella faccenda.
Un tempo avrebbe desiderato sentire quelle parole uscire dalla bocca di Daichi con tutta sé stessa, quel pensiero la faceva ridere in quel momento, ridere di disgusto.
«Deve essere stato tremendo, lo so» mormorò Daichi, un filo di voce appena.
«No, non lo sai» si lasciò scappare di rimando Maria, se avesse fatto attenzione avrebbe notato la colpa mista a malinconia nello sguardo di Daichi, invece fu dura nella replica.
Calò un silenzio di alcuni secondi, se fosse stata una sera d’estate le cicale avrebbero cantato.
Era solamente una sera d’autunno invece, fu una folata di vento a far da compagnia a quel silenzio, una foglia marrone caduta dal ramo più vicino, chissà come ci era arrivata lì.
Chissà quanta strada aveva fatto per cadere finalmente sul suolo, a riposare.
«Si che lo so» mormorò infine Daichi, con convinzione «Ho visto quel terrore con i miei stessi occhi». Quella frase fu meno chiara, ma convinse Maria a ridargli attenzione.
Il barlume di rabbia che aveva provato, che avrebbe voluto sfogare su Daichi perché sembrava averle dato un’ottima scusa per liberarsi finalmente di quei sentimenti violenti e negativi che aveva immagazzinato quel pomeriggio, svanì immediatamente.
Quando tornarono a guardarsi negli occhi lo sguardo di Daichi era chiaro come la luce del sole: nascondeva pentimento, amarezza e soprattutto vergogna, tantissima vergogna.
«So perché Inuoka ha compiuto quel gesto, la disperazione può farti fare di peggio».
Maria in principio non capì nemmeno quello, le servirono alcuni secondi in più per cominciare ad immaginare che cosa potessero significare quelle parole, o comprendere la consapevolezza con cui Daichi le stava pronunciando, quasi come se …
Come se le avesse vissute sulla propria pelle.
«Voler ottenere a tutti i costi l’attenzione e l’amore di qualcuno può farti fare di peggio».
Il Capitano sospirò, sollevando a sua volta lo sguardo sulla notte incalzante.
Le luci del paesino erano state accese, tante lucciole che si estendevano sul paesaggio sottostante per chilometri che sembravano infiniti, se avessero sollevato lo sguardo puntandolo all’orizzonte, avrebbero visto Tokyo.
Daichi era già immerso nei ricordi quando cominciò a raccontare, lo fece prima che Maria avesse il coraggio di chiedergli qualunque cosa …
 
Daichi aveva preso quell’idea da uno dei suoi libri preferiti.
Una scena che aveva appena finito di leggere, una scena che l’aveva colpito moltissimo …
Norwegian Wood di Haruki Murakami, uno dei suoi autori preferiti, un regalo inaspettato di suo padre per i suoi quattordici anni … Daichi ricordava ancora l’emozione che aveva provato nel stringerlo tra le mani, gli era sembrato di avere ottenuto il suo perdono.
Gli era sembrato di poter avere forza sufficiente a sollevare lo sguardo su di lui.
Era da mesi che ormai non lo faceva, non ne aveva il coraggio.
Non si pentiva di quello che aveva fatto con Yui e per Yui, ma suo padre non l’aveva visto più nello stesso modo … Daichi avrebbe mentito a sé stesso se avesse detto che non ne soffriva.
Takahiro era il suo eroe, era l’uomo che sarebbe voluto diventare, l’uomo che non avrebbe voluto mai deludere, l’uomo di cui bramava di più in assoluto l’amore …
Fu per quel motivo che Daichi si era permesso di sperare quel giorno, quando aveva avuto quel preziosissimo regalo tra le mani, un libro per adulti che non avrebbe dovuto capire …
Avrebbe preferito non farlo, avrebbe dovuto non farlo.
La delusione in quegli occhi scuri come i suoi, il nulla che vi aveva letto, la freddezza che aveva sentito, la noncuranza che vi aveva scorto, ognuna di quelle cose aveva significato morire.
Daichi non aveva pianto, non aveva abbassato lo sguardo, non aveva detto nulla.
Nessuno si era accorto di nulla, nessuno se n’era accorto che quel giorno era morto.
Daichi aveva perso l’amore di suo padre il giorno del suo quattordicesimo compleanno.
Ma non aveva fatto rumore, tutto quel dolore non aveva fatto alcun rumore.
Si era rifugiato spesso nei libri in quel periodo, a scuola non parlava con nessuno, se non con Hayato quando lo incontrava nei corridoi; la squadra aveva preso le distanze anche se non lo diceva … Daichi non aveva ancora incontrato Suga e Asahi.
I libri erano tutto per lui, erano il modo per ricordarsi di poter ancora provare emozioni, di poter ancora respirare; erano i mezzi per quella ricerca frenetica che occupava la sua mente, erano i mezzi per recuperare quell’amore che aveva perso …
La scena del suicidio di Kizuki l’aveva letta un caldo giorno d’Agosto.
Ci aveva impiegato otto mesi per trovare il coraggio di aprire quel libro, l’aveva fatto non perché se ne sentisse degno, né per affrontare la paura che gliel’aveva fatto lasciare sul comodino in bella vista per tutti quei duecentoventotto giorni.
L’aveva fatto perché non aveva altro da leggere.
Daichi aveva letto le prime trenta pagine seduto sugli scalini di legno del retro del giardino, dove c’era il garage; viveva in una casa tradizionale giapponese, le carpe koi nel laghetto convergevano verso di lui aspettando del cibo in cambio, le cicale sugli alberi frinivano.
Era una giornata di vacanze come tutte le altre.
Sulla strada nascosta dagli alberi di ciliegio i bambini del quartiere giocavano rumorosamente, qualcuno passò con una bicicletta tintinnando il campanello.
Daichi non pensava che si potesse morire in quel modo.
Aveva messo un segnalibro proprio su quella pagina, forse l’aveva fatto consapevolmente.
Si era alzato in piedi sotto il portico di legno, la manica destra della camicia bianca arrotolata attorno al bicipite era scesa fino al gomito, Daichi ricordava di indossare gli infradito.
Era andato in cucina, sua sorella Reira era seduta al tavolo, spartiti sparsi dappertutto.
Aveva sollevato lo sguardo vivace dai libri solamente per sorridergli, Reira gli sorrideva sempre quando i loro sguardi si incontravano; lei doveva averlo percepito in quel momento …
Doveva averlo percepito che qualcosa non andava.
Daichi aveva lasciato il libro sull’isola, aveva bevuto un bel bicchiere d’acqua frasca ed era uscito. Nulla era cambiato rispetto ai pochi secondi precedenti, le cicale continuavano a cantare, solamente le carpe koi avevano ripreso a nuotare nel laghetto indisturbate.
Daichi credeva di aver trovato la risposta alla sua ricerca.
Era andato verso il garage con serenità, la macchina era aperta, lo sapeva, Takahiro vi lasciava sempre le chiavi attaccate vicino.
Era stato bravo, aveva preparato tutto con estrema precisione, proprio come aveva letto.
Aveva utilizzato il tubo per innaffiare le piante, lo aveva incastrato nel tubo di scappamento con cura, aveva sigillato tutti i finestrini con il nastro adesivo quando si era chiuso dentro.
Non era mai stato seduto al posto del guidatore, si sentì anche un po’ emozionato.
Sapeva come girare la chiave per accendere l’auto, aveva anche un motore a gas.
Daichi non aveva la minima idea di quello che stava facendo.
Voleva solamente che Takahiro lo notasse, voleva solamente che si ricordasse di lui, voleva solamente che tornasse a rivolgergli uno sguardo pieno di orgoglio come faceva quando era un bambino, come faceva prima che succedesse tutto quel macello.
Quando aveva fatto quello che aveva fatto, Daichi non aveva pensato alle conseguenze.
Takahiro gli aveva gridato che invece avrebbe dovuto farlo, che era suo compito sopportarle e Daichi l’aveva fatto allora: aveva pianto solamente quando era da solo.
A scuola aveva voti altissimi, era il Capitano della sua squadra di pallavolo, eccelleva.
Era tutto il resto a non andare bene, erano le voci nei corridoi, i disegnini sulla lavagna, gli spintoni nel cortile, le scarpe per la scuola gettate nell’inceneritore, la borsa dei ricambi che spariva … Takahiro che non gli parlava, che lo ignorava.
Daichi aveva sopportato tutto: non era bastato.
Doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa per riavere l’amore di suo padre.
Ma non aveva idea di quello che stava facendo quel giorno di metà Agosto.
Accese la macchina senza esitazione, all’inizio non provò nulla, si annoiò, cominciò a domandarsi se non avesse sbagliato qualcosa, la puzza del gas nemmeno la sentiva …
Cominciò a sentire la testa pesante pochi istanti dopo, non si era mosso, era stato paziente.
Daichi era morto il giorno del suo compleanno, ma quel giorno avrebbe ucciso anche la sua famiglia se suo padre non l’avesse tirato fuori da quella macchina rompendo i vetri.
Cosa fosse successo gliel’aveva raccontato sua sorella anni dopo.
Il ricordo era sembrato molto più sopportabile a distanza di sicurezza nel tempo.
Takahiro era in ferie in quei giorni, era in casa, vedeva una partita di baseball.
Kaede era andata da Sachi ad aiutarla con i preparativi della festa di compleanno di Akemi.
Anche quello era stato egoistico da parte sua, Daichi non aveva pensato che togliersi la vita il giorno del compleanno di Akemi avrebbe significato rovinarle quel momento per sempre.
Era successo durante una pausa televisiva, Takahiro si era tirato in piedi perché aveva sete, faceva terribilmente caldo in quel salone inondato dal sole nonostante l’aria condizionata accesa al massimo, voleva un bicchiere di tè freddo, con del ghiaccio dentro.
In cucina aveva trovato Reira che studiava, era diligente quando si trattava della musica.
Si era messa sotto la ventola e non doveva soffrire troppo il caldo.
Non si erano scambiati parole, avevano solamente preso uno atto della presenza dell’altro.
Takahiro aveva notato il libro appoggiato sull’isola mentre beveva, era stata la copertina rossa ad attirarlo, su tutto quel bianco del marmo era come un pugno nell’occhio.
L’aveva preso in mano mentre continuava a sorseggiare il suo tè, se l’era rigirato sul palmo pensando al giorno in cui gliel’aveva regalato, alla luce che aveva visto negli occhi di suo figlio, la gioia … era stata l’ultima volta che l’aveva visto anche così felice.
Takahiro sapeva che era colpa sua, avrebbe voluto avere un carattere diverso.
Essere un padre diverso, ma non era capace di mostrare i suoi sentimenti.
L’aveva aperto per curiosità quel libro, perché si era domandato spesso se suo figlio avrebbe mai trovato il coraggio di leggerlo quando entrava la notte nella sua stanza, mentre lui dormiva profondamente, gli accarezzava la testa e lo vedeva sul quel comodino intoccato.
Takahiro non sospettò nulla quando lesse l’ultima scena su cui si era posato lo sguardo di suo figlio, non avrebbe sospettato nulla se Reira non avesse deciso di alzarsi e affiancarlo.
Era rimasta incuriosita, non ricordava di aver mai visto suo padre con un libro in mano.
Ad incuriosirla ancora di più inoltre era stato ricordarsi che quel libro era di suo fratello minore, le era ritornato in mente lo strano sguardo che Daichi le aveva rivolto mentre chiudeva il frigorifero dopo aver bevuto, Reira ricordava di aver provato una strana ansia.
Era l’ansia verso qualcosa che non capiva.
Non l’aveva fermato quando Daichi era uscito nel giardino senza riportarsi il libro.
Non l’aveva reputato importante e nemmeno una distrazione di suo fratello, Daichi era sempre accorto quando si trattava di quelle cose.
Tuttavia fu lei la prima a capirlo, quando si affacciò sulla spalla del padre per leggere a sua volta la fatidica scena del suicidio di Kizuki l’aveva sentita aumentare quell’ansia.
Non aveva saputo spiegarsi il perché, ma aveva come sentito rompersi qualcosa nel cuore.
Le lettere cerchiate da Daichi con una matita avevano fatto il resto.
Perdonami, papà.
Reira aveva afferrato Takahiro per le spalle e gli aveva gridato di andare immediatamente in garage, gli aveva fatto vedere la scritta, il libro era caduto a terra nella colluttazione.
Né Reira né Takahiro avrebbero mai avuto abbastanza coraggio in futuro di raccontare la scena nei minimi dettagli, quello che videro non aveva parole per loro.
Daichi aveva fatto tutto con cura, proprio come nel libro.
Ma non era quello il problema, il problema era che l’avesse fatto.
Le chiavi erano dentro, la macchina era chiusa, Takahiro lo vedeva il suo bambino semi- svenuto sul sediolino del guidatore, il viso pallido, il petto che forse non si alzava più …
Afferrò una rastrelliera e ruppe i vetri senza curarsi dei tagli che si provocò, o dei graffi che deturparono il viso di suo figlio, né delle grida di Reira; l’unica immagine che gli ritornò alla mente mentre allungava le mani per prendere suo figlio tra le braccia, fu quella di un neonato sporco di sangue. 
Quanto l’aveva desiderato, quanto l’avevano voluto lui e Kaede.
Quel figlio maschio arrivato con diciassette anni di ritardo, si era fatto attendere Daichi.
Aveva gridato a pieni polmoni quando era venuto al mondo, quattro chili e perfettamente in salute, agitava le braccia al vento strillando con un’autorità che Takahiro aveva amato.
Lo aveva alzato in aria come fosse un re, quel bambino ancora tutto sporco e urlante.
Gli aveva sorriso come aveva sorriso solamente alla madre di quella creatura.
La sua vittoria più grande!
Il viso di quel neonato si confondeva con quello dell’adolescente tra le sue braccia.
Se Daichi fosse morto quel giorno, Takahiro non sarebbe andato molto lontano.
L’aveva capito in quell’istante, mentre suo figlio tossica convulsamente e apriva gli occhi, i suoi occhi, spalancandoli di colpo sul mondo.
Suo figlio fece un primo respiro, proprio come quel neonato nel giorno della sua nascita.
Reira aveva raccontato a Daichi che Takahiro lo aveva stretto al petto per ore che erano parse infinite, lui non ricordava nulla di tutto ciò, era confuso, annebbiato.
Reira aveva raccontato a Daichi che era stato l’unico giorno in cui aveva visto piangere suo padre, di nascosto nello studio, la sera, quando erano ritornati a casa dopo l’ospedale, dopo le domande, dopo i dottori, dopo le grida e gli schiaffi di Kaede … aveva pensato di essere solo.
Doveva aver pensato di poter lasciare andare le sue emozioni.
Reira non avrebbe mai dimenticato quella scena. 
Daichi tutte quelle cose non le ricordava e ancor meno vi credeva; l’unica cosa che gli ritornava alla mente, a sprazzi confusi, erano i volti terrorizzati di Takahiro e Reira.
Erano quelli che lui non avrebbe mai dimenticato invece.
 
Maria non credeva di avere le parole adatte da pronunciare quando Daichi finì di parlare.
Aveva sbagliato quando aveva detto di conoscerlo, lei, in realtà, non conosceva affatto il ragazzo seduto accanto a se; non sapeva niente di Daichi, assolutamente nulla.   
Non avrebbe mai potuto dare una risposta a quella domanda.
CI sarebbe voluta una vita per farlo, una vita vissuta accanto a lui e forse non sarebbe nemmeno bastato. Era stata una sciocca nel mondo delle favole.
Amare Daichi, stare con Daichi non sarebbe stato affatto semplice come aveva creduto.
Lui non era un principe azzurro, non era nemmeno l’emblema della perfezione.
Daichi era semplicemente un ragazzo come tutti gli altri.
Quella rivelazione per Maria fu più scioccante di qualsiasi verità avesse appena sentito.
La pace della sera, il rumore delle voci nella strada sottostante, tutto era lontano e sfocato.
Maria si domandò se Asahi sapesse, se Suga sapesse.
Se entrambi conoscessero quella verità: che il loro migliore amico aveva tentato di togliersi la vita quando aveva quattordici anni.
Probabilmente sì, probabilmente lo sapevano, ma Asahi non parlava mai di Daichi.
Di certo non con lei.
«Stupido da parte mia, vero?» la domanda di Daichi suonò un po’ forzata in quel silenzio necessario, Maria non sapeva nemmeno che cosa dirgli, cosa rispondere.
«Non avercela con Inuoka» continuò lui, il viso piegato in avanti, in ombra.
«Sono sicuro che lui nemmeno lo sapeva quello che stava combinando».
Daichi fece un sospiro profondo e appoggiò la schiena sulla panca, esponendo il suo volto alla luce dell’unico lampione presente su quel terrazzino floreale.
Maria vide quell’unica lacrima solcargli il volto e trattenne il respiro.
Non l’aveva sentita arrivare durante il racconto.
Non aveva percepito nemmeno un cambiamento di tono nella voce di Daichi.
Eppure quella lacrima era scesa, era lì, inaspettata, ma c’era.
Maria non seppe spiegarsi che cosa la spinse a comportarsi in quel modo, ma sollevò la mano destra, la appoggiò sulla guancia del ragazzo e accarezzò via quella lacrima.
Sentiva che doveva farlo, sentiva di dovergli dare coraggio.
Sentiva qualcosa che sapeva non avrebbe dovuto sentire.
Quella mano non la scostò, la tenne troppo a lungo su quella guancia, diede il tempo sufficiente a Daichi di coprirla con la propria, grande e calda.
Maria non si mosse, il respiro di Daichi fu sul suo viso prima di un battito di ciglia.
Sapeva di menta e qualcos’altro.
Si sfiorarono solamente le loro labbra, Maria non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene.
La mano che aveva accarezzato quella lacrima era bloccata in quella di Daichi.
Le fece paura e non ebbe modo di difendersi, di scostarsi, di realizzarlo.
«Stai attento Lev!».
Fu un terribile fracasso fuori dalla porta a darle una via di fuga da quella scena.
La porta si spalancò di botto, non era mai stata chiusa ma solamente socchiusa, Lev e Hinata caddero a terra in avanti, esattamente sulle ginocchia, come se fossero seduti sui fagioli.
Maria ne approfittò per liberarsi la mano e tirarsi in piedi di colpo, spaventata.
«Non stavamo spiando, lo giuro!» esclamò di colpo Hinata chinando la testa.
Aveva strillato ed era rosso come i suoi capelli, al suo fianco Lev era meno preoccupato.
«Ma veramente -» cominciò a parlare, ma una gomitata nel fianco da parte dell’altro lo fece tacere «Giusto, non abbiamo visto che vi stavate baciando!» esclamò.
Hinata si schiaffò una mano in faccia.
Maria sarebbe arrossita se non fosse stata orripilata da quella situazione, sentì Daichi sospirare al suo fianco e tirarsi in piedi, provò a sfiorarle un braccio, ma lei si allontanò.
Si guardarono negli occhi, Daichi non sembrava sorpreso da quella reazione.
«Volevamo solamente andare a trovare Inuoka-kun, sapevamo che era malato!».
Mormorò Hinata con una vocetta tutta mortificata.
«Ma io li ho cacciati» intervenne una voce inaspettata, Kuroo apparve dietro di loro.
Maria si ricordò che la stanza di Inuoka era proprio sotto le quattro scale che portavano al terrazzo, Hinata e Lev dovevano averli sentiti parlare e anche Kuroo di conseguenza.
Che lui avesse visto qualcosa però non era chiaro dalla sua espressione, e quella sera lo sarebbe stato meno che mai con quegli occhi scuri grevi di stanchezza.
Kuroo doveva essere stato chiuso nella camera di Inuoka per tutto il pomeriggio.
«A proposito, Asahi-san se n’è appena andato» mormorò Hinata casualmente «Era qui quando io e Lev siamo stati cacciati da Kuroo-san, se n’è andato poco prima che facessimo cadere la porta».
Maria congelò quando sentì quelle parole, il cuore le schizzò in gola.
Dimenticò Daichi dietro di lei, lo detestò perfino per alcuni istanti.
«Voleva chiamarti per la cena credo Tani-chan» terminò di spiegare Hinata.
Maria avrebbe voluto piangere, ma non poteva farlo.
«L’ho visto andare via» le disse inaspettatamente Kuroo, la guardava negli occhi e aveva l’espressione più seria che Maria gli avesse visto sul viso fino a quel momento.
Allora si mosse senza dare spiegazioni a nessuno, senza scusarsi, senza aggiungere altro.
Era dietro l’ombra di Asahi prima che lei stessa se ne rendesse conto.

 
 
 
 
Tu che senza volerlo mi hai insegnato a respirare
Poi sei scappato ed hai rubato tutta la mia voce

(Mara Sattei Duemilaminuti)
 
 
 
Ehilà, buongiorno a tutti 🤗
Flying_Lotus95 torna a darvi il benvenuto dopo un mesetto di assenza su questi schermi 😅
Sono dispiaciuta che per alcuni di voi la lettura si sia interrotta sul più bello, ma recupereremo piano piano 😉
Intanto... ha destato pareri questo capitolo??
Come avete potuto notare, vengono descritti ben due casi di tentato suicidio, spero che la cosa non vi abbia disturbato troppo. Questo arco narrativo oscilla tra risate di pancia e momenti di forte tristezza, e forse è proprio per questo che li reputo i più belli di tutta la storia 🤭
Cosa ne pensate di Sou? E di Daichi? Avreste mai immaginato un risvolto simile da parte sua? E sul finale siete rimasti sorpresi?? Siamo davvero curiose di sapere cosa vi ha colpito di più 🤗
Ah, ultima cosa ma non meno importante: la coppia Kuroo/Inuoka vi ha lasciato a bocca aperta?? 😆 Sì, non è una coppia canon, ma come avrete notato, loro non sono stati messi a caso 😉 e in questo non c'entra l'inclusività o la tattica magica di inserire coppie LGBT per aumentare interesse... Semplicemente avevamo pensato che Kuroo non sarebbe stato male in coppia con un ragazzo, e Inuoka (non è un OC, è presente nel manga/anime di Haikyuu) ha superato i miei provini mentali a pieni voti 😅😉
Detto questo, vi lascio, e ci ribecchiamo al prossimo capitolo 👐
À bientôt! 🌺
 
Flying_lotus95 & effe_95

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Capitolo 20
*** 19- Maschera di cera ***


19.Maschera di cera.

 
 
Forse vorrei un uomo che mi ascolti
Parlare dei problemi e dei posti in cui vorrei abitare
 
 
«Asahi! Asahi, aspetta!».
A Maria bruciava la gola, ma ancora non si era stancata di chiamare quel nome.
Quando si era lasciata gli altri alle spalle sul terrazzo, aveva avuto paura che fosse troppo tardi per raggiungere Asahi, non sapeva da quanto tempo se ne fosse andato, né cosa avesse visto o sentito e questo le faceva paura più di qualsiasi altra eventualità.
Asahi aveva il passo veloce, i pugni chiusi, ma Maria riuscì a scorgerlo alla fine del corridoio, diretto inequivocabilmente verso il cortile esterno del ryokan.
Si sentì inaspettatamente sollevata al pensiero di poterlo raggiungere per risolvere la questione e chiarire qualsiasi fraintendimento.
Maria, però, avrebbe dovuto accorgersi che la posa delle spalle di Asahi era diversa.
Se avesse notato prima che non erano curve, né provate, né piegate, si sarebbe fermata prima.
L’avrebbe lasciato andare, sfogare magari e non si sarebbe fatta male.
Ma Maria non lo vide, non se ne accorse, non se ne accorse che Asahi era troppo arrabbiato, troppo ferito per affrontare quella conversazione senza ferire anche lei.
«Asahi, aspe-»
«Non mi devi toccare!».
Fu un’esplosione di rabbia talmente violenta e inaspettata che Maria rimase senza fiato.
Aveva allungato una mano per fermarlo, ma come se Asahi l’avesse percepito ben prima del tocco effettivo, si era girato di scatto scacciandogliela senza alcun riguardo.
Aveva fatto male, terribilmente male, in molti modi diversi.
Asahi aveva gridato, aveva gridato davvero: era arrabbiato, non c’erano più dubbi.
Maria si strinse la mano al petto, sentiva il cuore battere sonoramente contro la cassa toracica, sollecitato da tutta la spiacevole adrenalina che le pompava nelle vene; si sforzò di tenere lo sguardo fisso sul viso di Asahi, ma le era tremendamente difficile quando non riusciva nemmeno a riconoscere la persona che aveva di fronte.
Asahi non si era nemmeno reso conto di averle fatto male.
Se fosse stata solamente rabbia quella a cambiargli il viso, forse Maria sarebbe stata in grado di accettarlo e ricambiare quello sguardo, ma il dolore, la delusione e la rassegnazione che vi lesse, mista ad un’insopportabile furia, la schiacciarono senza pietà.
Aveva litigato altre volte con Asahi, ma si rese conto per la prima volta di non avere la minima idea di cosa significasse veramente; si rese conto per la prima volta che Asahi doveva sempre esserci andato piano con lei, che gliel’aveva data vinta innumerevoli volte …
Maria aveva provato una simile sensazione di smarrimento e timore solamente il giorno in cui si erano ritrovati da soli nello spogliatoio della palestra, mesi prima, e lei gli aveva vomitato addosso esattamente tutto quello che non avrebbe mai voluto dirgli …
Asahi era arrabbiato esattamente come quel giorno, forse anche di più.
Maria provò una paura folle, una paura che non aveva mai provato prima, sentiva l’urgenza di spiegare cosa fosse successo, sentiva l’urgenza di calmarlo prima che lui decidesse troppo impulsivamente di farla finita … Maria aveva paura che potesse esserne capace.
Si diede della stupida, perché non aveva fermato Daichi?
Perché si era sentita, anche se solo per pochissimo, lusingata da quel tocco?
«Asahi» riprovò, inutilmente. Asahi le diede immediatamente le spalle, continuando ad incamminarsi a passo svelto nel cortile esterno, Maria gli andò dietro tenendosi la mano stretta al petto, l’affanno che aumentava insieme alla voglia di piangere.
«Asahi, che cosa hai visto?!».
Quella domanda non avrebbe dovuto fargliela, non era quella giusta.
Asahi continuò a camminare imperterrito, passarono accanto ai vetri illuminati della mensa, Maria rivolse uno sguardo distratto alla scena familiare e allegra che si stava svolgendo a pochi metri da lei: le sembrava di trovarsi lontana chilometri di distanza da lì.
Almeno, nessuno li avrebbe sentiti litigare in quel modo.
«Non è quello che pensi, Asahi!» riprovò, ed ebbe finalmente la reazione aspettata.
Asahi si fermò all’improvviso, aveva ancora i pugni incredibilmente stretti, talmente stretti che Maria si chiese, per un brevissimo momento, se non si stesse ferendo con le unghie.
Erano arrivati quasi all’imboccatura dei giardini, quelli che portavano al lungo sentiero da percorrere per raggiungere le palestre, l’intento di Asahi le fu improvvisamente chiaro: sfinirsi con una serie interminabile di battute al servizio in salto massacranti.
Ottimo modo per non pensare e sbarazzarsi di lei.
«Non è quello che penso?!» sbraitò con voce incredibilmente trasfigurata. Maria, che non aveva mai dovuto affrontare una situazione del genere, né un tale impeto di rabbia in lui, indietreggiò senza sapere cosa fare.
«Sono da giorni che cerco di convincermene Maria! Ma non è vero … è esattamente quello che penso!».
Da giorni … Maria non riusciva a credere che Asahi ne stesse parlando in quel momento.
Era dall’arrivo al ryokan, appena due giorni prima, che non parlavano decentemente, che la evitava ... le aveva risposto che non era “niente” quando aveva provato a farsi spiegare …
Non era mai stato “niente” e Maria avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto insistere prima, ben prima di lasciare che Asahi le vomitasse addosso tutto in una volta sola.
Avrebbe voluto capirlo prima che c’entrava Daichi in tutta quella storia.
Ben prima di farsi travolgere senza sapere come fermare la frana.
«Ma Asahi, ti ho chiesto esplicitamente se -»
«Facciamola finita Maria!» la interruppe lui «Falla finita».
Asahi aveva la voce rotta, come se stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro, ma era evidente che non l’avrebbe fatto, al contrario di Maria, che a stento riusciva a controllare sé stessa.
E non perché Asahi le stesse facendo male, non perché la stesse ferendo, era arrabbiato per quello che aveva visto e Maria non riusciva davvero a biasimarlo; no, era il pensiero della sofferenza che gli aveva provocato a far premere quelle lacrime con violenza.
«No, io -». Fu un altro tentativo blando e interrotto con violenza.
Asahi scoppiò in una risata nervosa, mista a quei singhiozzi che non si sarebbe lasciato sfuggire; lo sguardo che le rivolse con quel macabro sorriso sulle labbra le spezzò il cuore.
«Se lo ami devi dirmelo».
Non avrebbe potuto dirlo con un tono di voce meno straziante.
Maria non riuscì a controllare ulteriormente le lacrime, scesero senza freni, ma le scacciò via prima che potessero raggiungere il mento e cadere sul selciato.
Asahi odiava vederla piangere, piangere per colpa sua poi, non lo sopportava affatto, ma sentiva che non avrebbe potuto farsi commuovere quella sera; non era solamente la rabbia che provava a suggerirglielo, ma l’impossibilità di porre un freno a sé stesso.
Aveva rotto l’argine e non poteva fare nulla per ritirare la piena.
Quella sera, che lo volesse o meno, che facesse male o meno, voleva sapere, doveva sapere.
«Ma perché dici queste cose?». La domanda di Maria era piena di lacrime e lamenti.
La voce rotta dal pianto come quella di una bambina sempre un po’ rabbiosa.
«Non ce la faccio più» biascicò Asahi prendendosi naso e bocca tra le mani chiuse in preghiera «Ci ho provato, ma non ce la faccio davvero più».
Maria sentì quel terrore improvviso che strisciava sotto la sua pelle esplodere come un petardo nel buio, azzardò qualcosa che precedentemente gli era stato negato con violenza, si avvicinò ad Asahi e gli afferrò entrambi i gomiti, invitandolo ad abbassare le mani.
Voleva che la guardasse negli occhi, che non si lasciasse trascinare via da altro.
«Non era un bacio Asahi, quello che hai visto non era niente».
Voleva convincersene anche lei e in parte vi credeva, non aveva mai davvero capito quali fossero i suoi sentimenti per Daichi, ma sapeva che non era una scusa sufficiente.
Aveva provato qualcosa e non l’avrebbe negato, non si era tirata indietro immediatamente e non avrebbe negato nemmeno quello, ma aveva bisogno che Asahi credesse il contrario.
«Quello che ho visto era tutto, Maria!». Il ragazzo abbassò le braccia e ancora una volta la allontanò da sé, lo fece con maggior gentilezza, ma ciò con cambiò la natura del gesto.
Si erano sempre toccati con naturalezza, da ben prima che la loro amicizia cambiasse, Maria sentì qualcosa di profondamente sbagliato in quell’allontanamento intenzionale.
«Quella notte ti ho forzata. Se non l’avessi fatto, tu avresti scelto Daichi liberamente. Hai scelto me perché non avevi alternative, lo sapevo, è solo che non volevo accettarlo».
Improvvisamente, tutta la scena acquistò un significato diverso per Maria.
Quella sera si stavano dicendo cose che non si erano mai detti da quando era cominciata la loro relazione: Asahi stava dicendo cose che aveva pensato ma che, no, non aveva mai detto.
Maria l’aveva sospettato, l’aveva sentito che doveva essere quello.
Accettarlo però, era davvero un’altra cosa.
«Che cosa stai blaterando?» esclamò all’improvviso, la voce inaspettatamente indurita, cominciare a capire le ragioni del mutismo e della rabbia di Asahi, tutto quello che si era portato dentro in quei mesi, le aveva fatto nascere una furia inattesa.
«Se vuoi andare da lui sei libera di farlo, non ti dirò nulla».
«Che cosa stai dicendo?» Maria accompagnò quella frase con uno spintone, ovviamente non lo mosse di un passo, non gli fece male; lo afferrò per la maglietta bianca stringendola tra le mani. «Sei un maledetto codardo!» e tirò un altro pugno su quel petto.
I loro sguardi si incontrarono davvero per la prima volta quella sera.
Erano vicini, vicini come non lo erano stati per giorni, da quando erano scesi da quel pulmino, e non stavano facendo altro che rigettarsi addosso veleno su veleno.
Maria sentì le lacrime tornare nuovamente a sovrapporsi alla rabbia alla vista della tristezza infinita che scorse in quelle iridi gentili, mista ad altri mille sentimenti.
Avrebbe voluto che non si ferissero troppo, avrebbe voluto sollevare le mani e accarezzargli il viso e sperare che quell’incubo finisse il prima possibile, dirgli quello che non gli aveva mai detto, spiegargli quello che aveva sempre dato per scontato e liberarlo dalle sue paure.
Ma non ne sarebbero usciti senza far crollare tutto, tutto per la prima volta.
Maria tentò di sollevare le mani per prendergli il viso, Asahi si scostò.
Il solo pensiero di essere toccato da quelle mani in quel momento lo irritava, era debole quando Maria si avvicinava a lui, era stato debole anche quella notte.
Era per quella debolezza che non aveva saputo tenere le mani apposto, ed era sempre per quella debolezza che non aveva saputo dirle di no con maggior fermezza.
Asahi non avrebbe voluto dare adito a quelle paure, era andato a cercarla su quella terrazza per quel motivo, perché quello che era successo a Inuoka - era stato comunicato solamente a loro del terzo anno - l’aveva lasciato sconvolto, perché aveva pensato che Maria dovesse avere avuto paura, voleva esserci per lei ed essere lì con lei, mettendo tutte le ansie da parte.
Ci aveva provato almeno.
Quel bacio aveva distrutto tutto.
Asahi non avrebbe mai saputo spiegare a parole quello che aveva provato. C’erano Hinata e Lev lì, aveva intravisto anche Kuroo, ma erano tutti spariti dalla sua mente in un istante.
Asahi aveva avuto come la sensazione che tutte le sue paure si fossero materializzate in un istante, proprio davanti ai suoi occhi, come un mostro deforme, e tutti i suoi buoni propositi erano spariti come fumo, non c’era nulla da recuperare con Maria.
Non c’era mai stato nulla da recuperare.
Da quella notte Asahi era stato tremendamente egoista.
Aveva sperato, e non avrebbe mai dovuto farlo.
«Per una volta nella mia vita avevo creduto che potessi avere la mia occasione» disse, e non la guardò negli occhi nel farlo, sentiva di essere ancora troppo arrabbiato «Ho pensato solo a me, o meglio … non ho pensato affatto». Dal modo in cui Maria aggrottò le sopracciglia fu chiaro che aveva capito a cosa Asahi si stesse riferendo, non si erano mai spostati da lì, nemmeno di un millimetro. «Eri lì, davanti a me, avevi bisogno di essere consolata, ascoltata … e invece sono stato egoista. Un egoista che non ha pensato minimamente alle conseguenze».
Asahi si morse forte il labbro inferiore prima di lasciarlo andare nuovamente, si era ferito all’interno e sentiva il sapore metallico del sangue. «Mi sono approfittato delle tue debolezze per sentirmi potente, grande … ti ho presa senza il minimo riguardo, senza alcun diritto …».
Lo schiaffo che seguì fu violento, forte e senza cuore.
Maria gliel’aveva tirato perché voleva fargli male, gliene aveva fatto. Asahi sentiva la guancia arrossarsi velocemente sotto il colpo ricevuto, ma quello che doveva dire gliel’aveva detto.
Non aveva importanza che lei si sentisse ferita, quella era la semplice e pura verità.
Allo schiaffò seguì un pugno sulla spalla, un pugno a mano chiusa.
«Se davvero mi fossi sentita violentata, credi che mi sarei tenuta questi ai polsi per tutto questo tempo?» gridò in preda alle lacrime per l’ennesima volta, mostrando con violenza i codini che non aveva mai tolto, nemmeno per farsi la doccia o fare l’amore con lui.
Asahi li guardò e provò un po’ di vergogna per sé stesso.
«Cosa credi, che io sia una cretina? Ti avevo già detto che l’avevo voluto quanto te».
Maria gli afferrò il viso senza troppi complimenti e lo costrinse a guardarla «Devi guardarmi negli occhi quando ti parlo Asahi, perché ti sia chiaro una volta per tutte: ho scelto io, ti ho scelto io».
Non puoi davvero avere avuto tutto questo nel cuore.
Non per tutto questo tempo, altrimenti me ne sarei accorta …
Avrei dovuto accorgermene.
«Ma non te ne fai niente di me, Maria» replicò Asahi scostandosi e sfuggendole per l’ennesima volta quella sera «Almeno abbiamo evitato di dirlo agli altri …».
Maria non ci vide più dalla rabbia a quell’affermazione.
«Certo, gli altri! Gli altri! Gli altri! Se avessi anche solo un po’ del coraggio di Kuroo …».
Le sue parole parvero infiammare nuovamente anche Asahi, che strinse i pugni.
«Che cosa c’entra Kuroo adesso!».
«Guarda lui ed Inuoka, avrebbero mille motivi per tacere! Mille motivi per nascondersi! E invece vivono la loro storia con serenità, forza e coraggio!» esplose Maria esasperata, guardandolo in cagnesco con gli occhi fiammeggianti «Vorrei che quel coraggio lo avessi tu, per capire che ho scelto di stare con te! Per dirti di essere più forte e -».
«Però hai baciato Daichi».
Maria tacque all’improvviso, presa inaspettatamente in contropiede.
Qualsiasi tentativo facesse per mettere a posto le cose veniva respinta indietro con violenza.
Capiva la rabbia di Asahi, adesso la capiva, ma non era in grado di domarla.
«Quello non era un bacio» si ritrovò a mormorare, portandosi senza rendersene conto le dita sulle labbra screpolate, erano ancora calde lì dove si erano sfregate con quelle del ragazzo.
Asahi notò quel gesto, notò il rossore sulle guance di Maria, la confusione nello sguardo …
«Allora guardami negli occhi e dimmi che non hai provato nulla».
Maria sobbalzò nel sentire quella domanda, sollevò lo sguardo su di lui.
Asahi avrebbe voluto ottenere una risposta immediata, se Maria gli avesse risposto immediatamente e senza esitare avrebbe dimenticato tutto, avrebbe dimenticato anche le sue paure, quello che le aveva detto … si sarebbe prostrato anche in ginocchio se necessario.
Maria impiegò un tempo infinito per rispondergli.
«Non ho provato nulla di importante».
E non era la risposta che Asahi avrebbe voluto sentire.
Afferrò Maria per le braccia e la allontanò da sé con una certa fermezza, siccome era bassa quasi la sua metà e gracile come un fuscello di grano non gli fu difficile.
Per quella sera non voleva più vedere la sua faccia, ne aveva la nausea.
«Vai a cenare Maria» la liquidò con voce dura dandole le spalle.
Riprese a camminare lungo il sentiero che l’avrebbe condotto alle palestre, erano aperte fino a tarda sera e mai come in quel momento avrebbe voluto stancarsi fino a perdere i sensi.
Maria se ne rimase buona per alcuni secondi insperati, troppo sorpresa per muoversi.
«E quindi che succede Asahi? Ti arrendi in questo modo?» gli gridò dietro, i piedi non si muovevano, ma la voce era pronta, anche se tremante.
Asahi non si fermò, non si voltò per guardarla, non fece nulla per rassicurarla.
«Sono stanco, lasciami in pace».
Maria seppe per certo, quando sentì il cuore stringersi nel petto, che nemmeno quella notte avrebbe chiuso gli occhi e riposato decentemente.
Asahi sparì ben presto dalla sua vista, Maria indugiò solamente alcuni secondi, lo sguardo perso lungo il percorso illuminato dai lampioni; aveva improvvisamente freddo.
Le grida, le parole che si erano scambiati riecheggiavano nella sua mente come schiaffi prepotenti che non riuscivano a farle pensare ad altro.
Era stata una giornata pesante.
Maria sentì le gambe intorpidite quando mosse i primi passi dalla posizione rigida in cui si era costretta, riuscì ad arrivare solamente al muretto più vicino prima di lasciarsi cadere a peso morto seduta. Era davanti la vetrata della mensa, da lì riusciva a vedere Hinata, Yamaguchi, Tsukishima e Kageyama mangiare con gusto e prendersi in giro bonariamente; Shimizu e Suga seduti allo stesso tavolo che parlavano compostamente di qualcosa di evidentemente piacevole, Daichi accanto a Kuroo parlavano di qualcosa con serietà …
Maria si sentiva distante anni luce da loro.
Si strinse le braccia al petto quando una folata di vento la colse di sprovvista.
Lo sguardo le cadde sui codini che aveva mostrato con tanto vigore. Era arrabbiata, delusa con Asahi, ma sentiva la sua mancanza e non avrebbe voluto altro se non stare tra le sue braccia.
Quelle lacrime che aveva temuto non sarebbero mai scese arrivarono tutte di colpo.
Maria si portò una mano sulla bocca e trattenne a stento un singhiozzo rumoroso.
Quella sera andò a dormire senza cenare.
 
 
Il sole nel cielo era brillante la mattina seguente.
Maria non riusciva a sollevare il viso senza ferirsi gli occhi; li sentiva tirati, gonfi e secchi a causa di tutte le lacrime che aveva versato la sera precedente nel suo futon.
Almeno, erano riuscite a sfinirla al punto tale da farla crollare in un sonno profondo.
La sveglia aveva suonato presto, Maria aveva scoperto solamente in mensa che quella mattina ai ragazzi spettava un allenamento massacrante che sarebbe cominciato alle sette precise.
L’aveva scoperto solamente a colazione perché non era presente la sera precedente quando se ne era parlato; a dirglielo era stata una Shimizu particolarmente di fretta, che l’aveva liquidata senza troppi complimenti.
Maria aveva trovato strano il comportamento della sua migliore amica.
Avrebbe voluto avere del tempo da sola con lei per poterle raccontare quello che le era successo, per farsi consolare dalle sue parole sempre rassicuranti …
Ma quando le aveva chiesto dove stesse andando tanto di fretta insieme ad Hitoka, era stata evasiva, affermando che doveva preoccuparsi di alcune commissioni dell’ultimo minuto.
Maria non aveva insistito, troppo stanca anche solo per provarci, e si era ritrovata a lavare le casacche e le tovagliette tutta da sola; ma non le era dispiaciuto.
Era stato un ottimo modo per non pensare, per non lasciare troppo spazio alla mente.
Non avrebbe voluto pensare ad Asahi, ma in realtà non aveva fatto altro che pensare a lui.
Sospirò pesantemente per l’ennesima volta da quando aveva aperto gli occhi quella mattina e sbatté con una certa energia la casacca gialla che aveva tra le mani, prima di alzarsi sulla punta dei piedi per stenderla sul filo. Le facevano male le braccia a causa di tutte le volte che le aveva alzate ed abbassate per compiere lo stesso gesto.
Guardò la cesta quasi vuota con un certo sollievo, aveva ancora da ritirare le lenzuola dalla lavanderia e raggiungere la palestra il prima possibile per riempire le borracce d’acqua e aiutare a tenere il campo pulito dal sudore, o aiutare i ragazzi dove ne avevano bisogno.
Erano tante cose da fare per una sola persona, e Maria si rese conto per la prima volta che doveva essere stata dura per Shimizu i primi tempi; l’amica non si era mai lamentata e Maria non le aveva mai chiesto molto, troppo presa dal club di musica che naufragava miseramente.
Tuttavia non le dispiaceva avere la giornata impegnata, avere uno scopo.
Era un motivo valido per non andare da Asahi, per lasciarlo da solo.
Non poteva essere cambiato nulla in una sola notte, non poteva essergli passata.
Maria afferrò un’altra casacca, sbattendola con vigore, si spostò una ciocca di capelli dal viso, infastidita che fosse fuggita dalla stretta ferrea in cui l’aveva costretta con quella coda di cavallo. Il sole tornò a ferirle la vista, accecandola per l’ennesima volta, quando riabbassò lo sguardo, con i colori alterati dalla luce violenta, si ritrovò davanti uno spettacolo inaspettato.
Due giocatori della Nekoma avanzavano verso di lei portando una cesta carica di lenzuola.
Erano Shouhei Fukunaga e Yuki Shibayama, reggevano il carico con entrambe le mani, una maniglia a testa; Maria li osservò con un sopracciglio sollevato.
«Buongiorno Taniguchi-san» la salutò educatamente Fukunaga.
Lui e Shibayama lasciarono il cesto proprio accanto a quello delle casacche.
«Queste sono le nostre lenzuola» spiegò Yuki con fare timido, cominciando ad afferrarne una in cima al mucchio, mentre Fukunaga lo aiutava a sbrogliare la matassa.
Maria osservò la scena con le sopracciglia sollevate ancora per un po’.
«Lo vedo … ma avrei dovuto ritirarle io» disse ai due, che stavano cercando con estrema difficoltà di estrarre il primo lenzuolo dalla fila senza far cadere tutti gli altri.
Maria osservò la scena con un pizzico di impazienza mista a divertimento.
«Kuroo-senpai ci ha detto di aiutare» le spiegò Fukunaga, aveva le strane sopracciglia aggrottate per la concentrazione.
«Ha detto che siccome non abbiamo una manager, è nostro compito» continuò Shibayama, allungando un braccio verso il cestino delle mollette gialle «Ha detto che non è giusto che siate voi ad occuparvi anche delle nostre cose».
Terminò il primino sollevandosi sulla punta dei piedi per aiutare il compagno di squadra a stendere il lenzuolo in tutta la sua ampiezza, senza grinze e nella lunghezza giusta.
Maria sollevò un sopracciglio, se qualcuno le avesse chiesto di indovinare da chi fossero state pronunciate quelle parole, Kuroo sarebbe stata l’ultima persona a cui avrebbe mai potuto pensare.
Ci mise un po’ a capire che cosa significassero davvero.
Prese l’ultima casacca dal cesto e sospirò con pesantezza, accennando un sorriso.
«Il vostro è un gesto davvero carino» cominciò a parlare «Ma sarebbe meglio che tornaste ad allenarvi, io posso fare tutto e non lo trovo stancante».
Terminò la sua frase rivolgendo ai due un sorriso moderato ma rassicurante; Fukunaga e Shibayama arrossirono contemporaneamente, restandosene impalati con un lenzuolo stretto tra le mani alle due estremità, ancora tutto attorcigliato dai giri in lavatrice.
Fukunaga aprì la bocca per ribattere qualcosa, probabilmente per accettare il suo invito dato che sembrava morire dalla voglia di ritornare a sfinirsi sul campo, ma non fece in tempo a proferire nemmeno una singola parola: qualcuno lo precedette.
«Ottimo! Vedo che i mocciosi si stanno dando da fare!».
Sembrava un tono di voce anche troppo carico per una persona sottoposta a pesanti fatiche fin dalle prime ore del mattino; Kuroo se ne stava appoggiato ad uno dei pali che reggevano i fili per stendere i panni, indossava una maglietta bianca madida di sudore nella zona ascellare e attorno al giro del collo, una casacca verde con il numero faceva da contrasto agli anonimi pantaloncini neri e alle scarpe da ginnastica dell’ennesimo colore.
Aveva i capelli bagnati d’acqua e sudore incollati alle tempie e sulla fronte, ma l’incrollabile sorriso serafico e preoccupante sulle labbra non tradiva nessun tipo di fatica.
Maria si ritrovò a pensare per la prima volta che sembrasse finalmente un moccioso di soli diciotto anni conciato in quel modo, e non un adulto idiota dall’indole ironica e masochista.
I due si guardarono negli occhi scrutandosi a vicenda, studiandosi.
La prima a distogliere lo sguardo fu Maria, troppo impegnata a sistemare l’ultima casacca.
«Perché non lasci fare ai due marmocchi, Zaffiro-chan?» le domandò Kuroo a voce alta, come se volesse farsi sentire appositamente anche dai suoi poveri malcapitati kohai.
Maria l’osservò con la coda dell’occhio, raccogliendo il cesto delle casacche ormai vuoto, Kuroo si era spostato verso un muretto e vi si era seduto incrociando le caviglie nel vuoto, le faceva segno con la mano di andarsi a sedere accanto a lui.
A Maria la prospettiva non piaceva e l’idea non la faceva impazzire, ma sentiva di dover accettare quella proposta. Sentiva di doverlo fare.
«Siediti un po’ qui con me, ti va Zaffiro-chan?».
Maria sbuffò pesantemente quando si lasciò cadere accanto al capitano del Nekoma, incrociò le braccia al petto mettendo su un’espressione corrucciata degna di suo nonno.
«Non devi allenarti, tu?» domandò, premurandosi di tenere lo sguardo fisso su Fukunaga e Shibayama, che bisticciavano a gran voce su quale fosse il verso giusto in cui stendere un lenzuolo, senza curarsi minimamente di loro.
Al suo fianco Kuroo fece spallucce, se ne stava piuttosto rilassato, braccia distese all’indietro, sguardo rivolto al cielo, come se volesse scaldarlo sotto quegli ingannevoli raggi di sole.
«Noi del Nekoma abbiamo finito il turno» spiegò il moro chiudendo gli occhi.
Maria si accorse solamente in quel momento che aveva le occhiaie.
Non doveva aver dormito per vegliare su Inuoka.
Poteva quasi immaginarlo a starsene steso nel suo futon, un gomito appoggiato sul materasso, una mano sulla guancia, a vegliare i movimenti di Sou per tutta la notte.
«Come sta Inuoka-kun?» gli domandò cautamente, scostando subito lo sguardo quando lui aprì gli occhi, non voleva farsi cogliere nell’atto di osservarlo di sottecchi.
Kuroo si stiracchiò, dando in quel modo la vivida sensazione di avere a che fare con un gatto, non si lamentò, ma dal modo insolito in cui piegò le labbra in un sorriso tirato Maria riuscì a capire che probabilmente non le aveva chiesto di sedersi lì con lui per parlare di quello.
Tuttavia, glielo doveva.
«Sta meglio» Kuroo abbandonò la posizione rilassata che aveva indossato fino a quel momento, aveva la schiena terribilmente ingobbita quando alla fine fu seduto composto.
«I professori l’hanno portato nell’ospedale più vicino. Una lavanda gastrica, altre merde del genere e stava bene … hanno detto che non aveva motivo di restare lì la notte».
Fece spallucce, tirando per terra un sassolino che aveva trovato sul muretto. 
Fukunaga e Shibayama avevano quasi terminato il lavoro, ma continuavano a bisticciare.
«I sonniferi non erano forti, roba da poco … a quanto pare».
Kuroo non aggiunse altro, era una spiegazione sufficiente per lui.
Maria avrebbe voluto sapere altre mille cose invece, ma non le chiese, non chiese nulla.
Le occhiaie di Kuroo parlavano da sole, inoltre, lui non sembrava nemmeno il tipo di persona pronta a dare alcun tipo di spiegazione possibile; Maria non conosceva quel gatto randagio che aveva accanto, non avrebbe mai avuto né la presunzione né il desiderio di farlo, ma stava cominciando a capire che, sul bel viso da masochista spensierato, aveva messo su una pesante maschera di cera, e non era lei la luce che l’avrebbe fatta sciogliere.
Una cosa però Maria avrebbe voluto dirgliela, una cosa voleva chiedergliela.
«Ti confesso che sono rimasta sorpresa quando ho capito la natura del legame che ti unisce a Inuoka-kun» gli disse, non si aspettava che lui lo accettasse, ma non lo guardò negli occhi né gli diede il tempo di ribattere.
«Lo sapevano tutti, ed io ero l’unica a non capirci nulla …  beh, la litigata mi è stata piuttosto d’aiuto …» l’ultima parte della frase la borbottò.
Maria azzardò un’occhiata di sbieco al ragazzo che le stava seduto accanto e notò immediatamente che la stava osservando con un certo interesse, era illeggibile la sua espressione, ma non comunicava risentimento, né disagio o altro.
«Come fate tu e Inuoka ad avere tanto coraggio?».
Era quella la domanda che avrebbe voluto porre più di tutte.
Non le interessava dei loro trascorsi, di quello che avevano dovuto affrontare per arrivare fin lì o di come fossero finiti insieme, di tutto quello che aveva significato per loro capire quel sentimento e accettarlo.
A Maria tutte quelle cose non interessavano.
Forse … per quello sarebbe venuto il tempo, forse sarebbero rimasti amici lei e Inuoka, forse avrebbe avuto il coraggio di farselo raccontare un giorno … ma in quel momento, con il pensiero della schiena di Asahi che si allontanava ancora marchiato a fuoco nella sua memoria, l’unica cosa che voleva sapere era quella.
Era come trovare il coraggio per andare avanti.
E non avrebbe mai potuto immaginare di doverlo chiedere proprio a quel rompiscatole.
«Non si tratta di coraggio» fu la replica inaspettata di Kuroo.
«Io non ho paura Zaffiro-chan, è tutto qui. Non ho paura dei miei compagni di squadra, né delle persone per strada, o della società … non ho paura nemmeno dei miei genitori».
Kuroo fece spallucce, osservando con un certo interesse il modo furioso in cui Shibayama aveva appena avvolto il suo senpai nel lenzuolo per cui stavano litigando da tempo, colto da un moto violento di stizza.
Maria rimase in silenzio per alcuni istanti, sapeva che la differenza stava tutta lì.
Aveva sempre saputo che Asahi aveva paura, i motivi poi, le erano diventati incredibilmente chiari con la litigata della sera precedente; Maria aveva capito che quelle paure erano anche colpa sua, non serviva piangersi addosso, era suo compito fare in modo che sparissero.
Maria non ci aveva mai pensato prima, ma non aveva fatto nulla per rassicurare Asahi.
E il bacio accennato con Daichi non era servito a migliorare di certo la situazione.
Era stata una sciocca, ne avrebbe parlato con Asahi stesso quella sera se fosse stato necessario.
«Me l’hai chiesto per la tua situazione con Azumane?».
Maria sentì il sangue gelare nelle vene, si girò di scatto verso Kuroo dedicandogli, per la prima volta da quando si era seduta su quel muretto accanto a lui, piena attenzione. Doveva sembrare indignata dato che l’altro scoppiò a ridere sguaiatamente.
«E non guardarmi con quella faccia!» la rimbeccò immediatamente «Se volevate fare le cose di nascosto, dovevate essere più attenti Zaffiro-chan!».
Maria percepì una punta di sarcasmo nel suo tono di voce che la irritò parecchio, insieme a quel nomignolo che aveva cercato di ignorare, ma stava cominciando a diventare petulante; non ci pensò due volte a colpire il capitano della Nekoma sul braccio.
Kuroo, ovviamente, non si scompose nemmeno di una virgola.
«Anche se devo ammettere che ci siete quasi riusciti a fregarmi …».
Quello fu solamente un mormorio, detto quasi con distrazione ma, ormai Maria l’aveva capito bene, con Kuroo non era mai davvero facile capire quali fossero le reali intenzioni.
Non era stupido, al contrario, era molto più intelligente di quanto si potesse pensare e Maria non provò nemmeno a negare, dopotutto aveva avuto la sensazione che Tetsuro avesse intuito qualcosa fin dal primo giorno del ritiro, si era solo chiesta perché non l’avesse tirato fuori prima, magari per ricattarla o metterla in imbarazzo davanti a tutti prendendosi gioco di lei.
«Che cosa vuoi dire?» domandò Maria con tono stanco, quasi esasperato.
Shibayama lanciò uno strillo acuto quando per poco il lenzuolo che copriva la testa del compagno, che se n’era liberato con uno strattone, non finì sul lastricato sporco di terreno.
«Che all’inizio pensavo che te la facessi con Sawamura».
Maria detestò la nonchalance con cui Kuroo pronunciò quella frase, avvampò furiosamente e incrociò le braccia al petto in un moto incontrollabile di stizza e imbarazzo.
«Se è per quello che hai visto ier-»
«Non è solo per quello che ho visto ieri» la interruppe immediatamente Kuroo, avvicinandosi pericolosamente al suo viso con un sorriso furbetto sulle labbra «E’ per tutto quello che ho visto finora Zaffiro-chan».
Maria lo fissò orripilata per alcuni secondi, domandandosi che cosa avesse visto.
Si domandò se non avesse avuto degli atteggiamenti sbagliati con Daichi, se l’insicurezza dei suoi sentimenti nei confronti del suo capitano non l’avesse portata a comportarsi nel modo sbagliato, se non fosse anche quella la causa del malessere di Asahi.
«Beh, devi avere qualche problema alla vista allora … maledetto gattaccio».
Le ultime due parole Maria le borbottò, ma non a voce abbastanza bassa da far credere di non volersi far sentire intenzionalmente; Kuroo ghignò divertito, mettendo in mostra i canini appuntiti. In effetti, pensò Maria, nel ruolo del vampiro ci sarebbe stato benissimo.
«Tu e Azumane non l’avete detto a nessuno eh?».
Un’altra domanda, un’altra intuizione scomoda, Maria lo trovava estremamente irritante.
Guardò il vuoto per alcuni istanti, combattendo contro il desiderio di terminare quel maledetto impiccione so-tutto-io con uno dei colpi micidiali di Sugawara.
«Andiamo Zaffiro-chan, non mi avresti fatto quella domanda altrimenti» insistette Kuroo dandole perfino una spintarella sul braccio con il gomito, come se fossero compagni pronti a confidarsi qualsiasi segreto; Maria si ritrovò a pensare di non poter cadere più in basso di così, se Kuroo era a conoscenza di quel segreto … la fine era vicina.
«Come te ne sei reso conto, eh?» domandò infine, arrendendosi con un sospiro pesante.
Tetsuro fece spallucce e tornò a fissare il cielo, questa volta chiuse solamente un occhio.
«L’espressione di Azumane ieri su quella terrazza …» spiegò il ragazzo, e lo sguardo, puntato verso il cielo, si perse nei ricordi della sera precedente «Ho incrociato il suo sguardo per puro caso … credo che pugnalarlo gli avrebbe fatto meno male Zaffiro-chan».
Kuroo tornò a fissarla appena smise di parlare, aveva l’occhio destro ancora stretto, la testa reclinata all’indietro metteva in evidenza il pomo d’Adamo sul collo sottile.
Maria distolse lo sguardo invece, premendosi una mano sul petto inconsciamente.
«Non dirlo a nessuno ... ti prego» non riuscì a mormorare altro.
Kuroo tornò a fissare i due compagni di squadra che guardavano con entusiasmo il cesto delle lenzuola finalmente vuoto, lo strazio era terminato e potevano andare finalmente a mangiare.
«Non lo dirò a nessuno».
Sebbene fosse stata lei stessa a chiederglielo, Maria rimase sorpresa da quella risposta.
Non avrebbe voluto mostrare a Kuroo un’espressione sorpresa, ma non riuscì ad evitarla.
«Dopotutto tu mi hai salvato la vita».
Kuroo le sorrise, non un sorriso sincero, genuino, ma uno di quei suoi sorrisi ambigui e leggermente minacciosi, oscuri; Maria tuttavia non provò alcun tipo di difficoltà a capire cosa si nascondesse dietro quelle parole, quello era il suo modo contorto e strano di ringraziarla.
Ringraziarla per aver soccorso Inuoka, per aver avuto il sangue freddo di fare la cosa giusta.
Era il suo modo di dire “grazie”, senza dirlo davvero.
Maria si lasciò andare ad un sorrisetto divertito e supponente, incrociando le braccia al petto, lo sguardo le ricadde sui due kohai che impilavano il cesto delle mollette a quello ormai vuoto delle lenzuola; quei due li aveva mandati Kuroo, un gesto più che chiaro.
«Quelle lenzuola erano troppe per essere solamente della tua squadra».
Commentò Maria con serenità, quasi con nonchalance, osservando i panni che si gonfiavano come vele al vento, bianchi quasi da accecare contro il verde degli alberi circostanti.
«Dici?» le domandò di rimandò Kuroo, muovendo i piedi nel vuoto come un bambino.
Il sorriso sulle labbra di Maria si allargò e di riflesso fece lo stesso anche quello del ragazzo.
No, non sarebbero mai andati d’accordo senza stuzzicarsi o provocarsi, o forse non sarebbero mai andati nemmeno oltre quella inaspettata e piacevole conversazione, ma era evidente ad entrambi che avevano imparato qualcosa l’uno dall’altro in quei giorni.
«Adesso posso farti io una domanda Zaffiro-chan?».
Kuroo ruppe inaspettatamente il silenzio sereno che si era creato tra di loro, Maria annuì senza pensarci, senza fare resistenza, era particolarmente rilassata in quel momento.
Fu un errore.
«Tu che cosa provi esattamente?».
Era una domanda cattiva, una domanda a cui Maria aveva cercato di dare una risposta per un lungo periodo di tempo e a cui ancora non era riuscita a dare voce.
Non sapeva cosa dire a Kuroo, così rimase in silenzio, rimase in silenzio il tempo necessario per essere salvata dall’arrivo inaspettato di Daichi.
Il capitano del Karasuno apparve scostando con delicatezza uno dei lenzuoli bianchi, la fronte era madida di sudore, con i corti capelli che la coprivano, la casacca gialla con il numero uno se ne stava incollata alla maglietta bianca sottostante.
Sembrò sorpreso di trovare Kuroo e Maria seduti vicini sullo stesso muretto.
I due lo guardarono senza parlare per alcuni secondi, Tetsuro fu il primo a riprendersi dalla sorpresa, scese con un agile saltello atterrando senza alcun problema, si sfregò le mani sui pantaloncini neri stiracchiandosi poi come un gatto selvatico.
«Bene, noi del Nekoma togliamo il disturbo!» esclamò a voce alta, rivolgendo a Maria e Daichi uno sguardo un po’ furbetto e malizioso «Andiamo su!» disse poi, esortando i suoi kohai, contenti di aver terminato quello strazio, a dirigersi verso il ryokan.
Maria e Daichi rimasero a fissarsi in silenzio per alcuni istanti, imbarazzati, non avevano parlato dalla sera precedente, ma non potevano fingere che non fosse successo nulla arrivati a quel punto.
Daichi fu il primo a trovare il coraggio di fare un passo avanti.
Scostò del tutto il lenzuolo e uscì allo scoperto, avanzando con andatura lenta ma sicura verso lo stesso muretto su cui si lasciò cadere con un’agile spinta, attento a trovarsi almeno a mezzo metro di distanza da Maria, era evidente che non voleva darle l’impressione sbagliata.
«Aspettavamo tutti che venissi in palestra …» la buttò lì, una frase pronunciata con un tono di voce sottile che si perse un po’ verso la fine.
Maria cominciava a sentir male al fondo schiena a furia di starsene seduta su quel muretto per tutta la mattina, si mosse leggermente in avanti per migliorare un po’ la sua postura e vide Daichi irrigidirsi al suo fianco; si rese conto di avergli dato un’impressione sbagliata.
«Sei impegnata, vero? Farò in fretta allora».
Maria avrebbe voluto spiegare a Daichi che non voleva dargli fretta, che non stava scappando da lui, che si era spostata solamente per starsene seduta un po’ più comoda, ma non una singola parola le uscì di bocca. Osservò con curiosità Daichi frugarsi nelle tasche e tirare fuori il suo iPod, Maria sgranò leggermente gli occhi quando lo vide, sorpresa.
«L’hai dimenticato ieri sulla panchina» le spiegò Daichi porgendoglielo con la mano a palmo aperto, Maria fece attenzione a non toccarlo quando lo riprese con se.
Non si era nemmeno resa conto di averlo lasciato lì nella fretta di raggiungere Asahi.
Si rigirò l’oggetto tra le mani prima di infilarlo nella tasca della felpa nera.
«Ti ringrazio» replicò poi alla volta del suo capitano.
Daichi annuì sommessamente, giocando con le proprie dita, in evidente imbarazzo.
Stava combattendo con sé stesso, a dispetto di quanto fosse difficile capirlo.
«Shimizu e Hitoka torneranno presto».
Un’altra frase detta per trattenerla, un’altra frase nervosa e affrettata.
«Ce la faccio anche da sola» fu la replica di Maria, non aveva provato disagio fino a quel momento, ma di fronte all’imbarazzo inaspettato di Daichi sentiva di volersene andare.
Sentiva l’urgenza di allontanarsi da lui, perché aveva paura di quello che avrebbe potuto dirle.
Inoltre, se Daichi era lì con lei voleva dire che anche il Karasuno aveva terminato gli allenamenti per quella mattina, e Maria non voleva dare altri motivi ad Asahi di dubitare.
Quella volta si affrettò davvero a scendere dal muretto, pulì i pantaloni della tuta dal gesso bianco che l’aveva sporcata e si preparò a salutare velocemente il suo capitano.
Daichi la afferrò per un braccio prima che ci riuscisse.
«Mi dispiace per quello che è successo ieri, non avrei dovuto farlo».
La voce di Daichi fu ferma una volta raggiunto il punto, Maria chiuse gli occhi e sospirò.
Dovevano parlarne, era ovvio, altrimenti avrebbero aggiunto solamente un altro tassello alla pila di cose di cui non avevano mai voluto parlare per davvero.
«Non importa, non è successo nulla in realtà».
Maria si sentì in dovere di dire, per chiuderla lì. Dovevano chiuderla lì.
Daichi scese a sua volta dal muretto, si tenne comunque a distanza da lei, ma le si mise davanti in modo tale che non potesse allontanarsi da lui né fuggire alla conversazione.
Sembrava avere delle cose da dirle.
«In realtà avrei voluto chiederti una cosa … ma avevo paura di farlo» cominciò, giocando nervosamente con le proprie dita, aveva le mani sudate e le sfregava tra di loro con un certo vigore.
«Avrei dovuto chiederti questa cosa prima di provare a … mi dispiace».
Maria non intervenne, ma lo guardò negli occhi con una certa intensità, pronta a fronteggiarlo qualsiasi cosa le avesse detto, pronta ad ascoltarlo con serietà.
Il nervosismo di Daichi sembrò sparire all’improvviso, tornò la sua solita compostezza.
«Vorrei una seconda possibilità con te». Conciso, diretto.
«Dammi modo di rimediare, Maria. Io … ho bisogno di andare avanti».
Il silenzio nel cortile interno del ryokan si fece improvvisamente opprimente. 
Maria e Daichi rimasero a fissarsi negli occhi per pochi secondi, ma ad entrambi parvero passare delle ore eterne sotto il tiepido calore di quel sole ingannevole, con le cicale che non cantavano più perché l’estate era finita e il vento che fischiava ingravidando le lenzuola.
Maria pensò alla sé stessa di alcuni mesi prima, alla ragazzina che favoleggiava di una storia d’amore con il capitano della squadra di pallavolo, una ragazzina che era arrivata ad iscriversi perfino al suo club pur di potergli stare vicina.
Una ragazzina che era arrivata ad umiliarsi per confessargli il suo amore.
Se Maria fosse stata ancora quella ragazzina, avrebbe pianto di gioia nel sentire quelle parole.
Se Daichi le avesse pronunciate prima, avrebbe risposto di sì senza esitare, mossa da quei sentimenti che era certa di provare e di capire, presuntuosa di sapere cosa fosse l’amore.
Maria non avrebbe negato mai a sé stessa che quei sentimenti ancora li provava.
Che il cuore le aveva ballato nel petto senza che potesse controllarlo.
Ma la differenza tra quella ragazzina e la sé stessa di allora non poteva ignorarla, e la differenza stava tutta nel fatto che aveva capito molte più cose di sé.
E tra quelle cose c’era Asahi, e non poteva ignorarlo.
«Non essere così avventato Daichi, non è da te».
Non lo disse con cattiveria, ma al contrario gli sorrise con affetto, permettendosi di sollevare una mano per fargli una carezza sul braccio, all’altezza della spalla.
«Quella volta mi dicesti che non avevo idea di cosa fosse l’amore» continuò Maria con un tono di voce tranquillo, sebbene dentro non si sentisse affatto calma «Mi arrabbiai … ma ebbi la sensazione che invece tu sapessi bene che cosa fosse …». Fece un passettino all’indietro, una chiara intenzione di mettere una distanza maggiore tra di loro «Io … sono contenta delle tue parole ma … ma credo che tu debba fare chiarezza nel tuo cuore prima».
Daichi la guardò come se avesse davanti una sconosciuta, una persona totalmente diversa.
Mosse le labbra un paio di volte prima di riuscire ad articolare una frase coerente.
«Sei cambiata» fu l’unica cosa che riuscì a dire mentre abbassava lo sguardo, in difficoltà.
Era stato rifiutato, ma sapeva bene che Maria non l’aveva fatto per ripicca.
L’aveva fatto semplicemente perché quella volta era toccato a lei essere più saggia di lui.
Forse, i suoi sentimenti erano cambiati, forse erano spariti … Daichi non ci aveva pensato.
Maria fece spallucce e non abbandonò il sorriso rassicurante.
«Questo non lo so» replicò, dopotutto, non si sentiva diversa da prima.
«Lo sei» insistette Daichi, ed ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo e ricambiare l’intensità con cui si stavano scrutando.
«Daichi-san» lo richiamò Maria, aggiungendo quell’onorifico che non usava da un po’ per mostrargli un rispetto che sentiva di star per violare «Tu ami Michimiya-san, vero?».
Poté vedere con chiarezza il colore sparire dal viso del suo capitano.
«O almeno … l’hai amata, no?».
Era una domanda semplice, e la risposta avrebbe potuto essere breve, concisa.
Si o no. Era facile.
«Questo … questo non – questo non … ».
Daichi buttò fuori quel mozzicone di frase con un sospiro arreso, senza riuscire a finirla.
Maria accentuò il sorriso e lo colpì un’ultima volta sulla spalla, con maggior vigore.
«Hai visto? Te l’ho detto … il cuore Daichi-san! Prima il cuore!».
 
 
Maria aveva sperato che, dati gli allenamenti sfiancanti, quella sera i ragazzi sarebbero stati troppo esausti per fare il solito chiasso nella camera comune che condividevano per passare alcune ore insieme prima di andare a dormire.
Si era evidentemente sbagliata, perché tutti, dopo un bagno caldo alle terme e una bella mangiata, sembravano piuttosto vispi e allegri, con le gote arrossate e l’euforia sprizzante.
Maria invece aveva cominciato ad avvertire la stanchezza della giornata proprio in quel momento; Shimizu ed Hitoka erano ritornate solamente a pomeriggio inoltrato, parecchie ore dopo pranzo, che avevano consumato fuori a quanto pareva.
Le facevano male le braccia e le spalle per tutte le casacche stese e le ore passate a ripulire il campo con il panno, riempire le borracce, mettere a lavare altre casacche e occuparsi di riportare alcuni dati statistici sugli ultimi due set disputati, in cui avevano perso per poco.
Era stato il primissimo giorno che era riuscita ad assistere alla nuova veloce di Hinata e Kageyama, le ferite di quella sconfitta contro il Grande Re stavano cicatrizzando bene.
Si lasciò cadere con un sonoro sospiro sull’unica poltrona che trovò libera, attirando l’attenzione del gigante buono del Nekoma, che le dava le spalle seduto sul grande divano.
«Taniguchi-san!» la salutò il primino con voce squillante, posando i suoi grandi occhi felini dalle molteplici sfumature verdi su di lei.
Maria sentì una fitta di dolore alla testa, era difficile sopportare tutto quell’entusiasmo.
«Non sei stanco Haiba-kun?» il primino, che fino ad un istante prima era immerso in una conversazione concitata con Hinata e Kageyama riguardo a chi dovesse essere il prossimo asso della squadra o roba del genere, si voltò completamente verso di lei, accovacciandosi sul divano come un gatto decisamente troppo cresciuto e curioso.
«Taniguchi-san, quale dei tuoi genitori è straniero?» partì immediatamente a razzo Lev, era da giorni che cercava di placcarla con una serie infinita di domande curiose «Per me lo è mia madre, è russa, anche se io non mastico una parola di russo …» Maria lo lasciò parlare, era sempre riuscita a scampare a quegli attacchi improvvisi, ma capiva la curiosità di Lev.
Non era comune trovare un proprio “simile” così facilmente.
Maria si era domandata spesso, osservando quel ragazzino allegro e orgoglioso, se anche lui si fosse trovato a subire dei soprusi o delle ingiustizie da bambino; dalla squadra non era mai stato maltrattato, ma Maria non ne era rimasta stupita data la serenità che avevano dimostrato di avere nell’accettare la relazione di Inuoka e Kuroo.
Lei stessa aveva scoperto cosa significasse sulla propria pelle essere accettata da un gruppo.
Ad ogni modo, Lev sembrava stare bene, essere estraneo a qualsiasi esperienza negativa e probabilmente quello era una conseguenza stessa del suo carattere, del suo essere ingenuo.
Doveva avergli fatto vedere le cose in maniera diversa, con meno consapevolezza.
«Non dare fastidio a Taniguchi-san, Lev!».
Maria fu contenta e sorpresa allo stesso tempo di vedere Yaku avvicinarsi, aveva riconosciuto immediatamente la sua voce dal tono esasperato; il libero posò una mano sulla testa di Lev, che seduto sul divano si trovava all’altezza giusta, mettendolo subito in soggezione.
«Non le stavo dando fastidio!» replicò immediatamente il primino.
Maria guardò Yaku e gli fece un gesto bonario della mano, accompagnato da un sorriso stanco per fargli capire che non c’era bisogno di preoccuparsi, che non si sentiva infastidita.
Yaku aprì la bocca per dire qualcosa, ma contemporaneamente il suono squillante di un cellulare, che riuscì a superare anche quello del chiacchiericcio rumoroso che regnava nella stanza, lo zittì immediatamente facendogli spuntare sul viso un cipiglio nervoso.
Lev si tirò in piedi sul divano per estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans, risultando in quel modo grottescamente alto, Maria avrebbe voluto urlargli di sedersi dalla paura che aveva provato.
Non ce ne fu bisogno, il primino si rimise immediatamente seduto per rispondere.
«Sorellona, cosa c’è?» domandò con voce squillante.
Dall’altro lato del telefono non si riusciva a captare nulla se non un mormorio sommesso, Maria non era intenzionata ad ascoltare la conversazione ovviamente, ma era rimasta incuriosita dallo scoprire che Lev aveva una sorella maggiore.
In effetti, ricordava di aver sentito Kuroo nominare una certa Alisa Haiba in mensa.
Non aveva pensato che potesse essere parente di Lev in quell’occasione.
Lev sospirò annoiato.
«Si, si» replicò svogliatamente e inaspettatamente scostò il cellulare dall’orecchio per passarlo a Yaku, che lo prese sbattendo le palpebre.
«Vuole parlare con te, Yaku-san, dice che non rispondi mai al telefono».
Maria osservò con un certo interesse e divertimento le guance di Morisuke tingersi inequivocabilmente di rosso fuoco mentre prendeva tra le mani il cellulare, borbottando parole sconnesse prima di rispondere «Non me lo porto sempre dietro … pronto?».
Il libero della Nekoma si allontanò di qualche metro, andando in un posto della stanza meno confusionario, Maria lo seguì con lo sguardo ancora per qualche secondo, sorridendo tra sé e sé mentre lo vedeva scuotere la testa e arrossire come il ragazzino che era, tutto sommato.
Si voltò a guardare Lev poi, curiosa di osservare l’espressione che avrebbe trovato sul suo viso nel sapere che la sorella si sentiva con un suo senpai, fu sorpresa invece quando si rese conto che il primino aveva ripreso a parlare con Hinata, Kageyama e Hitoka, che si era unita a loro in quel momento, come se la faccenda non gli interessasse minimamente; aveva anche perso velocemente interesse nei suoi confronti.
Maria se ne sentì sollevata, appoggiò le spalle sul morbido schienale della poltrona e tirò un sospiro di sollievo, cercando finalmente di rilassarsi e tirare fuori la tensione che si portava dietro da quando quel ritiro era cominciato.
Aveva cercato per tutto il tempo di non voltare lo sguardo nell’angolo dove se ne stavano seduti Sugawara, Shimizu, Daichi e Asahi; sapeva che forse avrebbe dovuto unirsi a loro come studentessa del terzo anno, ma non se la sentiva di rovinare l’atmosfera con la sua presenza, inoltre, non voleva trovarsi nelle vicinanze di Daichi.
Avevano parlato abbastanza per quel giorno, l’unica cosa che le interessava era cercare un contatto con Asahi appena tutti si fossero decisi ad andare a dormire, senza dare nell’occhio.
Maria indugiò troppo con lo sguardo sul gruppetto, molto più di quanto si fosse ripromessa.
Incrociò lo sguardo curioso di Sugawara, che l’avrebbe invitata ad unirsi a loro, ne era certa; per la prima volta fu contenta di essere stata salvata dalla chiassosa entrata in scena di Nishinoya, Tanaka e Yamamoto.
I tre erano tremendamente agitati ed eccitati, lo erano molto più del solito, entrarono facendo un tale baccano da riuscire ad attirare l’attenzione di tutti su di loro; il chiacchiericcio costante che aveva riempito la stanza scese notevolmente di decibel, fino ad acquietarsi.
«Abbiamo la notizia del secolo!» esclamò Yuu salendo in piedi su una sedia.
«Scendi immediatamente da quella sedia Nishinoya!».
Il rimprovero di Daichi arrivò immediato e istantaneo, ma non sgonfiò minimamente l’entusiasmo dei tre, che sembravano davvero venuti a conoscenza di qualcosa di eccezionale.
«Daichi-san, questa devi proprio sentirla!» Tanaka andò immediatamente in difesa dell’amico con quelle parole concitate; Daichi sembrò sul punto di voler ribattere qualcosa, ma una gomitata e un’occhiata eloquente da parte di Sugawara lo fecero desistere.
«Stavamo tornando dalle terme …» cominciò a raccontare Yamamoto con un tono di voce che sarebbe dovuto suonare intrigante, poi rivolse a Maria una strana occhiata emozionata e smise di parlare per perdere tempo a salutarla con entusiasmo.
La ragazza alzò gli occhi al cielo; le proposte di matrimonio, o agguati a seconda del caso, non erano cessati e avvenivano in momenti inaspettati, provocandole numerosi infarti al giorno.
«… quando abbiamo visto i professori e i coach chiacchierare allegri nel corridoio …» continuò Tanaka come se non fosse successo nulla, aveva le guance arrossate.
«Andate al punto, mocciosi» intervenne Kuroo con aria annoiata.
Era entrato nella stanza da pochi minuti, e nel passare aveva sottratto il cellulare dall’orecchio di Yaku, esortandolo ad ascoltare con uno dei suoi commenti sagaci sugli innamorati tutti lovey dovey, che gli era costato un calcio nel sedere piuttosto violento. 
«Non fare il solito guastafeste Kuroo-san!» Gli latrò contro Yamamoto.
«Il punto è!» gridò Noya saltellando sulla sedia in perpetuo pericolo di caduta; Asahi non riuscì a fare a meno di sporgersi verso l’amico lamentando una profonda preoccupazione.
«Che domani sera i professori andranno a divertirsi al festival che inizia in paese lasciandoci qui tutti soli soletti … e questo vuol dire che …»
«Che possiamo scatenarci con un party da urlo!».
Tanaka si lasciò andare a quell’affermazione con eccessivo entusiasmo, se i professori in questione fossero stati fuori la porta ad ascoltare, avrebbero scoperto le loro malevole intenzioni nel giro di un istante. Il silenzio che seguì, inoltre, fu ancora più grottesco.
Maria aspettava con trepidazione il momento in cui Daichi, o Yaku, o Sugawara, o chiunque con un briciolo di cervello in testa, fosse intervenuto per mettere a tacere definitivamente le stupidaggini di quei tre bambini pestiferi un po’ troppo cresciuti.
Sarebbe stato soddisfacente vederli filare via con la coda tra le gambe.
«Tu che dici, Sawamura?» domandò inaspettatamente Kuroo alla volta di Daichi.
Il Capitano del Karasuno si grattò il mento, Maria lo guardò con aria sbalordita mentre rivolgeva un’occhiata significativa a Sugawara, sorridente e rilassato al suo fianco.
«A patto che non si finisca a correre in giro nudi come l’ultima volta. Non ci hanno scoperto per un pelo!».
Al commento di Daichi, la tensione - perché era quella che aleggiava nella stanza fino ad un istante prima, esplose in un coro di voci festanti e chiassose.
Maria batté le palpebre un paio di volte, completamente frastornata.
Non era quella la reazione che si era aspettata, inoltre, scoprire che non era la prima volta che organizzavano un party segreto la sera in cui i professori se la prendevano comoda, fu un tale shock da lasciarla assolutamente senza parole, immobile sulla sedia a bocca spalancata.
Maria sentiva di essere stata improvvisamente tradita da Daichi e molte altre persone.
Intorno a lei il caos era padrone indiscusso, tutti proponevano qualcosa eccitati, le voci si sovrapponevano, qualcuno raccontava aneddoti del passato con una certa squadra del Fukurodani …
«Daichi-san, quest’anno andiamo noi a comprare l’alcool!» esclamò Nishinoya prendendo Yamamoto e Tanaka sotto braccio.
«Si, ma non esagerate!» lo rimproverò il capitano della Karasuno, Maria sentì la mascella slogarsi nel tentativo di aprirsi ancora di più di quanto non avesse già fatto.
«Vogliamo venire anche noi Noya-san!» intervennero inaspettatamente Hinata e Lev, particolarmente entusiasti della situazione.
«Si, è ora che anche voi impariate come fare ad ingannare i commessi!».
Tanaka pronunciò quelle parole con aria fiera, come un padre che insegna ai propri figli.
Si supponga che tu non debba insegnargli certe cose come senpai!
Maria si tenne quel commento esasperato e incredulo per sé, si massaggiò la mascella e scosse la testa; Shimizu non le aveva detto nulla dei party, né che fossero una sorta di festa nazionale da rispettare ogni qual volta avveniva.
Non sarebbero finiti nei guai in quel modo?
«Che cosa sta succedendo qui dentro?».
La persona che pronunciò quella frase con voce allegra e squillante, ebbe il potere di zittire la stanza e catturare l’attenzione di tutti; Inuoka se ne stava sulla soglia con un sorriso scintillante a trentadue denti sulle labbra, indossava i vestiti per dormire e aveva i capelli ancora umidi da un bagno recente, aveva una mano sullo stomaco ma sembrava stare bene.
Maria, che non si era aspettata di vederlo, ebbe una reazione inaspettata che non seppe controllare e precedette di molto quella di tutti gli altri: scattò in piedi come un fulmine e saltò al collo del kohai, abbracciandolo forte come se volesse soffocarlo.
«Inuoka-kun, stai bene!» la sua non fu una domanda, ma un’affermazione.
La sorpresa degli altri a quella reazione diede il tempo ad Inuoka di ridacchiare, ricambiare l’abbraccio in modo goffo e dare a Maria una pacca sulla spalla per rassicurarla.
«Sto bene Taniguchi-san … grazie a te» le sussurrò nell’orecchio «Scusami».
L’istante successivo Maria si sentì strappare via violentemente dall’abbraccio, Sou fu ben presto accerchiato dai suoi compagni di squadra e dai primini del Karasuno.
«Era solamente un’influenza Tani-chan!» esclamò Nishinoya, ignaro della verità, dandole una pacca sulla spalla mentre le passava accanto per andare anche lui ad accertarsi della salute di Inuoka.
Maria si ritrovò ad arrossire imbarazzata, aveva avuto una reazione spropositata e se ne rendeva conto solamente in quel momento, ma quando aveva visto Sou stare bene, in piedi sulle sue gambe e con la solita aria spensierata con cui l’aveva conosciuto, per la prima volta si era resta conto di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo e di aver ripreso a respirare solamente in quell’istante.
Non aveva saputo controllare il sollievo che aveva provato.
Ma gli altri non sapevano cosa fosse successo davvero al loro amico e compagno, non ne avevano la minima idea e non potevano affatto capire perché si fosse comportata in quel modo con uno sconosciuto.
«Come sono geloso Inuoka!» commentò Yamamoto con le lacrime di frustrazione agli occhi.
Maria fece un passettino indietro, imbarazzata, almeno nessuno le aveva dato addosso, se fosse stata fortunata avrebbero dimenticato tutti molto presto quel piccolo incidente.
«Levate le vostre luride mani, non toccate l’amore della mia vita prima di me!».
Gli altri si sparpagliarono presto quando Kuroo avanzò verso di loro menando manate a destra e sinistra, Inuoka rideva quando il moro lo strinse a sé con entrambe le braccia sollevandolo in aria di peso, aveva un sorriso sghembo leggermente euforico sulle labbra.
«Chi è quello tutto lovey dovey adesso, eh?» brontolò Yaku acido e contrariato.
Kuroo lo ignorò mentre faceva una piroetta goffa su sé stesso, Sou rise e gli prese il viso tra le mani. Per un istante Maria pensò che l’avrebbe baciato lì davanti a tutti, aveva le guance in fiamme al solo pensiero, ma Sou si limitò ad accarezzargli la fronte con le labbra.
Kuroo lo lasciò andare presto, apparentemente soddisfatto.
«Inuoka-kun, stiamo organizzando un party segreto per domani sera, ci sei?».
«Certo che ci sono!».
Inuoka venne nuovamente accerchiato, Maria si fece definitivamente in disparte, sbuffando sonoramente, la faccenda del party non aveva fatto altro che renderli ancora più attivi.
Sospirò stancamente e prese in considerazione l’idea di andarsene a dormire prima.
Aveva lavorato parecchio quella mattina, era un’ottima scusa per filarsela.
Una volta nella stanza da sola con Shimizu e Hitoka, ne avrebbe approfittato per fare una serie di domande che riteneva piuttosto urgenti, la prima in assoluto, come fosse possibile che Daichi avesse dato il consenso a tutto ciò senza arrabbiarsi come suo solito.
«Io passo, per questa volta».
Fu l’esclamazione inaspettata di Asahi a farle cambiare idea e restare dov’era.
Lei, Daichi, Sugawara e Shimizu furono i primi a sentirlo perché erano anche quelli più vicini al ragazzo, Asahi non guardava nessuno di loro in faccia ma sembrava particolarmente deciso.
«Cosa intendi con “passo”?» gli domandò Daichi.
«Che non intendo partecipare» commentò Asahi senza guardare il suo migliore amico negli occhi, Maria osservò con espressione preoccupata Daichi e Suga scambiarsi uno sguardo sorpreso.
Era piuttosto certa di conoscere i motivi di quel rifiuto.
Asahi si grattò la nuca prima di tirarsi in piedi, evidentemente intenzionato a voler lasciare la stanza. Daichi gli afferrò il polso prima di dargli il tempo di muovere anche un solo passo.
«Ohi Asahi, è da stamattina che -»
«E lasciami in pace dannazione!» Asahi scacciò il braccio di Daichi con tale violenza da provocare un rumore d’impatto che riuscì a zittire tutti gli altri, rendendoli in quel modo partecipi di ciò che stava succedendo «Ho detto che non ci voglio venire!».
Lo scoppio d’ira di Asahi, evidentemente inaspettato, aveva lasciato sia Suga che Daichi completamente senza parole, il secondo in particolar modo era rimasto con la mano sospesa a mezz’aria, segno evidente di un qualcosa che non si era aspettato.
«Asahi -» provò Suga, ma Daichi lo fermò prima che potesse continuare.
«Ti ho fatto qualcosa, Asahi? Ce l’hai con me?» domandò il capitano della Karasuno, improvvisamente tranquillo, aveva ritrovato la compostezza per affrontare l’amico «E’ da stamattina che avrei voluto domandartelo, sai?».
Asahi non rispose immediatamente, aveva lo sguardo basso, forse era mortificato.
«Ho solamente detto che non ci voglio venire … perché tante storie?» mormorò infine.
Maria, che aveva scoperto solamente il giorno prima, e nella maniera più bruta, quanta paura potesse davvero fare la vera rabbia in Asahi, si rese immediatamente conto che era invece imbarazzato per aver reagito in quel modo con Daichi.
Lei era l’unica in grado di comprendere la causa dietro quella reazione.
Pensò di poter intervenire, pensò di averne tutto il diritto, ignorò lo sguardo indagatore di Shimizu, che la guardava come se si fosse resa conto solamente in quel momento che Maria e Asahi non si erano praticamente parlati per tutto il pomeriggio, e si avvicinò al ragazzo.
«Azumane-san, ma perché non vuoi partecipare?».
Le sembrava la domanda giusta da fare in quel momento, la domanda che tutti quegli occhi puntati addosso avrebbero voluto porre, aveva dimenticato che Asahi non avrebbe mai accettato di sentirla formulare proprio da lei, non in quel momento almeno.
«Non sono affari tuoi!» replicò immediatamente, incattivito.
Maria fece automaticamente un passetto all’indietro, come per difendersi da un colpo.
«Ohi Azumane-san!» ringhiò inaspettatamente Yamamoto, avvicinandosi mentre si faceva largo tra la piccola folla osservante «Non c’è bisogno di essere aggressivi! Taniguchi-san ha fatto una semplice domanda».
Asahi si morse violentemente il labbro inferiore nel sentire quelle parole, strinse i pugni, ma non ribatté in alcun modo, prima che Maria realizzasse aveva già scavalcato tutti e si era diretto con ampie falcate verso la porta.
«Ma che gli è preso?» mormorò qualcuno della squadra.
«Strano … Azumane-san non ha mai fatto così …» bisbigliò qualcun altro.
«Sarà una giornata storta … capita a tutti». 
Nemmeno il tentativo di Kuroo di placcarlo sulla porta era servito.
«Beh» intervenne inaspettatamente Kenma, per nulla turbato «Se Azumane-san non viene allora passo anche io» e si alzò dal divano su cui se n’era rimasto seduto per tutto il tempo indisturbato a giocare, con il chiaro intento di andarsene a sua volta.
Tetsuro lo afferrò per la collottola della felpa prima che ci riuscisse.
«Azumane-san viene, non ci provare nemmeno Kenma!» lo rimproverò con un sorriso grottesco e spaventoso. Per la prima volta da quando era cominciato il ritiro Maria vide un’espressione vera sul viso di Kenma: irritazione.
Kuroo lo trascinò a peso quasi morto sulla poltrona più vicina e lo lasciò lì a lamentarsi. Nel frattempo, con un po’ di titubanza, gli altri avevano ripreso a parlare della festa segreta.
Maria sospirò pesantemente, lottando furiosamente con le lacrime che premevano agli angoli degli occhi con insistenza, Kuroo le mise inaspettatamente una mano sulla spalla.
«Certo che … l’hai fatto incazzare di brutto eh?» la stuzzicò.
«E sta zitto imbecille!» scattò immediatamente Maria facendolo ridere di gusto.
Nella stanza, nessuno aveva prestato particolare attenzione all’assenza di Nishinoya.
 
 
Asahi riuscì a rinchiudersi in quel bagno prima che Yuu lo raggiungesse.
L’aveva sentito chiamarlo un paio di volte lungo il corridoio, prima con voce preoccupata, poi con quel tono polemico e rabbioso che gli aveva fatto accelerare subito il passo.
Asahi aveva dalla sua parte il vantaggio dell’altezza, ma Noya aveva dalla sua la testardaggine.
Quando si rinchiuse dietro la porta, Asahi sapeva che avrebbe perso quella battaglia ancora prima di combatterla, Yuu era davvero l’ultima persona che avrebbe voluto lì.
In realtà, Asahi aveva desiderato restare da solo dalla sera precedente.
Non aveva cenato e si era sfinito come un matto nella palestra finché non l’avevano cacciato.
Le terme erano chiuse quando era rientrato, quindi si era dovuto accontentare di una doccia fredda nel primo bagno disponibile, concessagli dalla burbera vecchietta che gestiva il ryokan.
Aveva dormito poco, male, la sveglia alle cinque del mattino era stata devastante.
L’unica cosa positiva di tutta quella faccenda stressante degli allenamenti intensivi stava nel fatto che non avrebbe avuto alcun motivo di scontrarsi faccia a faccia con Maria.
Il suo sguardo ferito lo perseguitava non appena chiudeva gli occhi, ma era la vergogna il sentimento che faceva davvero fatica a gestire, mischiato a tutta quella rabbia violenta.
Era stata la rabbia a fargli vomitare fuori tutte le sue paure, quelle parole nascoste che si era ripromesso di tenersi per sé finché le loro strade non si sarebbero divise perché, in cuor suo, Asahi aveva sempre creduto che sarebbe successo prima o poi.
Era stata la rabbia a cui non aveva saputo dare un freno.
Nemmeno quella sera con Daichi, a cui non era mai stato in grado di nascondere nulla.
O forse, invece, era la vergogna di esserci riuscito per la prima volta in vita sua.
Asahi era arrabbiato con Daichi come non lo era mai stato, sapendo di non averne il diritto, era arrabbiato con Maria per avere avuto maledettamente ragione a dargli del codardo, ma soprattutto, era dannatamente arrabbiato con sé stesso.
Si lasciò scivolare con la schiena sull’uscio della porta e nascose la faccia tra le ginocchia.
Gli sembrava si essere precipitato in un buco nero senza sapere come venirne fuori.
Senza contare che aveva trattato Daichi in quel modo davanti a tutti … e Maria …
«Asahi-san!» Noya si scagliò contro la porta con tale violenza da farlo sobbalzare.
Provò più volte ad aprire il pomello della porta senza riuscirci.
«Non fare il cacasotto ed esci immediatamente da quel bagno!».
Yuu era arrabbiato, aveva lo stesso tono di voce di quella volta che avevano bisticciato violentemente negli spogliatoi, quando Asahi aveva lasciato il club di pallavolo per un po’.
In effetti, era tornato da pochi giorni in squadra quando aveva conosciuto Maria …
Un altro colpo violento alla porta gli percosse anche la schiena.
«Ahia!» berciò il più piccolo con uno strillo acuto, imprecando successivamente.
Asahi lo immaginò saltellare tenendosi il piede dolorante tra le mani, un lieve tonfo gli annunciò invece che l’amico si era lasciato cadere con la schiena sulla porta.
Dovevano aver creato una scena speculare senza saperlo.
«Si può sapere che cosa ti succede in questo periodo?» domandò Yuu, il suo tono di voce non era più aggressivo come lo era stato solamente pochi istanti prima, era piuttosto tinto di un briciolo di frustrazione e lamento doloroso «Da quand’è che non parliamo più?».
Asahi non rispose, ma sentì le lacrime premere agli angoli degli occhi.
Non aveva pianto né la sera precedente, né quella mattina, non l’avrebbe fatto nemmeno in quell’occasione se non si fosse trattato di Yuu, lui sapeva sempre quali corde toccare.
«Ahhhh!» urlò il libero, probabilmente scombinandosi i capelli già ribelli sulla testa in un gesto di stizza «Questa cosa mi fa davvero incazzare!». Una gomitata nella porta.
«Cos’è questa storia che non vuoi venire alla festa eh?!» lo incalzò nuovamente, con voce alterata «Hai risposto male a Daichi-san, e la cosa che mi fa incazzare ancora di più è che eri davvero fico mentre ti ribellavi!» Noya si lasciò andare ad un altro urlo liberatorio che, molto probabilmente, avrebbe infastidito chiunque fosse passato nel corridoio in quel preciso istante «Qualunque sia il motivo, non dovresti venire lo stesso alla festa e metterla a quel servizio a tutti, eh? Che dici, Asahi-san, non è un’idea geniale?».
Asahi percepì un pizzico di brio nella voce di Yuu, era sempre stato bravo a trovare immediatamente la nota positiva, anche in una situazione in cui lui non riusciva a vedere altro che negatività e nessuna via d’uscita.
Non era uno che si faceva abbattere facilmente Noya, sebbene la vita non fosse sempre stata clemente con lui, a cominciare dalla madre che l’aveva partorito e scaricato come un rifiuto nella spazzatura fuori casa dei suoi parenti acquisiti.
Forse, era proprio per quella sua naturale indole votata al bene che Asahi non poteva fare a meno di avere Yuu nella sua vita, nei suoi momenti peggiori c’era sempre.
C’era stato anche quando non l’aveva cercato, quando non gli aveva chiesto aiuto.
Yuu era diverso da Suga e Daichi, con lui Asahi non poteva nascondersi in nessun modo.
Era come una coscienza che lo seguiva passo passo.
«Che cos’è che ti fa stare male, Asahi?».
Era come avere Hajime di nuovo lì accanto a lui, non sapeva spiegarselo, Asahi ricordava vagamente il carattere del padre, erano ricordi frammentari, preziosi …
Hajime era simile a Yuu in molte cose.
Asahi si lasciò andare ai singhiozzi prima di rendersene totalmente conto.
Erano singhiozzi rumorosi, al massimo controllati, si ritrovò immediatamente con la faccia bagnata di lacrime e i capelli disordinati attaccati sulle labbra umide.
Si ritrovò a gettare fuori la frustrazione e l’ansia, la vergogna e i sentimenti oscuri che si era portato dietro da quando aveva visto Maria e Daichi accanto alla fontanella a forma di gatto.
No, non era corretto … quei sentimenti li aveva avuti fin dal principio.
«Asahi- san …» la voce di Yuu era pregna di costernazione quando lo chiamò.
«Papà mi manca così tanto, Noya … che sento di poter soffocare da un momento all’altro». Asahi strinse violentemente le mani a pugno quando comprese la verità delle sue stesse parole, l’aveva capito solamente pochi istanti prima con Yuu.
Ad Asahi mancava la possibilità di poter afferrare il cellulare e telefonare suo padre …
Di poter ascoltare la sua voce nei momenti in cui sentiva di sbandare in tutte le direzioni …
La possibilità di potergli chiedere cosa fare in quella situazione …
«Asahi ascolta, non posso sostituire Hajime-san» affermò Yuu dall’altro lato della porta, fu un’affermazione chiara e limpida, pronunciata a pieni polmoni, Asahi riusciva quasi ad immaginarselo con il petto all’infuori e l’aria fiera nonostante la forza di quella dichiarazione «Non posso sostituire nemmeno Daichi-san e Suga-san!» continuò imperterrito «Ma se non puoi proprio parlarne con loro …» era qualcosa che Yuu aveva capito bene senza che nessuno glielo spiegasse «Ci sono io qui!».
Asahi si morse convulsamente il labbro inferiore, le lacrime avevano cessato di scendere.
Era fiduciosa la voce di Noya.
«Puoi fidarti di me. Non ti abbandonerò, ci sarò sempre quando avrai bisogno di me».
Asahi lesse in quell’affermazione molto più di quanto una persona qualunque, che non conosceva Noya abbastanza bene, avrebbe potuto leggervi…
 
Yuu aveva sempre affermato di non ricordare quasi nulla dei suoi genitori biologici.
Suo padre, Kota Nishinoya, era il secondogenito di una famiglia benestante, arrivato inaspettatamente in età avanzata; era cresciuto viziato, coccolato, non sapeva cosa farsene della propria vita, cosa farsene di tutte le aspettative che quegli adulti avevano su di lui …
Sua madre, Yumi Osaki, era sempre stata povera, maltrattata … non avrebbe attirato l’attenzione di nessun uomo influente se non fosse stato per la sua indole lasciva, sporca ... affamata di soldi, successo e rivalsa sociale.
Due anime squilibrate che si erano incontrate scontrandosi come asteroidi.
Avevano diciassette anni quando erano scappati di casa contro la volontà della famiglia di lui.
Ne avevano diciotto quando avevano avvolto Yuu in un sacco della spazzatura, ancora sporco di sangue e liquido amniotico, con il cordone ombelicale attaccato, e l’avevano scaricato nei bidoni davanti casa Nishinoya.
Era stato il suo attuale padre adottivo a trovarlo: Hiro Nishinoya.
Hiro aveva sentito il pianto disperato di un neonato quando era sceso a buttare la spazzatura, era un pianto vigoroso, enunciato a pieni polmoni ... aveva sollevato il bambino con mani tremanti … era violaceo per il freddo, affamato, malmesso, minuscolo …
Hiro Nishinoya, primogenito della famiglia, aveva riconosciuto immediatamente suo fratello Kota quando quel neonato portentoso aveva aperto gli occhi sul mondo.
Lui e sua moglie, Ayumi, erano sposati da anni, un grande amore che non aveva dato frutti …
Yuu era stato una benedizione, un regalo inaspettato: il figlio che avevano sempre desiderato.
Quel figlio che suo fratello minore aveva gettato via come se non avesse alcun valore …
Hiro aveva ripensato alle lacrime sue e di sua moglie ad ogni tentativo fallito, mentre quel neonato desideroso di vivere stringeva con vigore e fiducia il dito che l’aveva accarezzato ...
Hiro non era più stato in grado di lasciarla quella mano.
Lui e Ayumi l’avevano adottato senza pensare, senza riflettere, erano andati contro la loro famiglia, contro i propri genitori, contro chiunque vedesse in Yuu il riflesso di un padre che aveva avuto certo la decenza di metterlo al mondo, ma non il coraggio di crescerlo e amarlo …
Era bastato che quel bambino crescesse perché tutti se ne innamorassero, dimenticando.
Yuu aveva sempre raccontato ad Asahi di essere stato amato sopra ogni cosa.
Hiro e Ayumi erano stati sinceri con lui dal primo istante, ma Yuu non li aveva chiamati “zii” nemmeno una volta, erano sempre stati “mamma” e “papà” per lui.
Lui era, a tutti gli effetti, figlio loro. Il sangue non aveva importanza.
Ayumi gli aveva insegnato a parlare, a camminare, gli aveva rimboccato le coperte tutte le sere prima di andare a dormire, l’aveva rincorso per la mansione quando scappava ancora tutto bagnato e nudo dopo un bagno fatto controvoglia, l’aveva medicato con pazienza quando cadeva sbucciandosi le ginocchia, non aveva fatto storie quando Yuu aveva portato a casa un randagio trovato per strada grande il doppio di lui all’età di sei anni, non aveva fatto storie nemmeno quando aveva cominciato a tornare a casa pieno di lividi dagli allenamenti. 
E quando Yuu le aveva chiesto una sera, mentre facevano il bagno insieme, perché non fosse venuto dalla sua pancia come gli altri bambini con le loro mamme, Ayumi l’aveva baciato sul nasino e gli aveva detto che lui veniva da un altro posto: il suo cuore.
Hiro gli aveva insegnato a correre, l’aveva portato sulle spalle innumerevoli volte nonostante il mal di schiena, gli aveva costruito una casa sull’albero con le sue mani, l’aveva rialzato da terra quando era caduto, gli aveva insegnato le cose che sapeva, gli aveva insegnato che il rispetto e la dignità erano la forza di un uomo, gli aveva insegnato che amare una donna non era una debolezza, gli aveva insegnato a giocare a pallavolo nonostante non ne fosse capace …
E quando Yuu gli aveva chiesto, scalzo e con gli occhi pieni di lacrime una notte diversa dalle altre, perché gli adulti continuassero a ripetere che non si assomigliavano, Hiro si era messo seduto come un bambino a gambe incrociate e aveva messo le loro mani palmo a palmo, dicendogli che erano uguali, così come i loro piedi, e le braccia, i capelli, gli occhi …
Yuu aveva raccontato ad Asahi di aver visto i suoi veri genitori una volta, per poco tempo.
Erano tornati all’improvviso il giorno del suo quarto compleanno.
Yuu ricordava di essersi nascosto dietro la gonna di Ayumi quando quella donna sconosciuta, con un succinto vestito leopardato, i capelli biondi cotonati, le labbra rosse come il fuoco e un terribile profumo costoso ad appestare l’ambiente, si era chinata verso di lui a braccia aperte per ricevere un abbraccio che non avrebbe mai avuto …
Yumi era rimasta in quella casa per poche settimane, Yuu era troppo piccolo per capire che
stava cercando di comprarsi il suo affetto per ottenere solo ciò che voleva: soldi e potere.
E un diritto che riteneva suo, per aver messo al mondo l’erede che tutti volevano.
Quell’erede che Ayumi non era stata in grado di dare.
Era un affetto che Yuu non le aveva dato: gliel’aveva fatta pagare per questo.
L’ultimo ricordo vivido che aveva di quella signora erano le sue mani graffianti e il suo viso sfigurato dalla rabbia mentre lo picchiava selvaggiamente, ripetendogli parole crudeli che non avrebbe dimenticato mai …
Anche se non facevano male da tempo ormai. 
Ti ho dato la vita brutto disgraziato! Ti ho sopportato per nove mesi nel mio corpo … E sei anche uno sgorbio malaticcio! Mi devi qualcosa anche solo per non averti ucciso, moccioso!
Era stata Ayumi a sottrarlo da quelle mani violente stringendoselo al petto in lacrime e tremante, finendo per prendere lei stessa sul suo corpo le ultime percosse.
Yumi era sparita il giorno successivo all’accaduto.
La settimana seguente, qualcuno l’aveva trovata morta sul letto di un motel: overdose.
Con Kota era stato diverso invece.
Yuu ricordava a malapena l’uomo che era giunto con quella sconosciuta spaventosa, era suo marito, lo sapeva, ma gli faceva paura con quei capelli rasati e i tatuaggi, i piercing …
Era basso quel signore, gli assomigliava …
Yuu aveva un solo ricordo di Kota: le sue braccia forti che lo stringevano mentre precipitava dal ramo di un albero, il suo profumo forte da uomo, gli occhiali neri che si era tolto rivelando due occhi dalle sfumature dorate …
Yuu ricordava un buffetto sulla testa da quelle mani piene di calli.
Non devi salire sugli alberi da solo moccioso … sei cresciuto bene … sono contento tu sia vivo.
Anche Kota era sparito insieme alla signora che gli faceva tanta paura.
Lui era morto il mese successivo, incidente sulla moto.
Yuu aveva scoperto solamente dopo anni che quel giorno suo padre stava tornando a casa da lui, aveva richiesto la custodia di suo figlio, aveva un regalo sotto braccio … ma pioveva, pioveva davvero tanto quel giorno e Kota correva, emozionato di rivedere il suo bambino …
Quel bambino che aveva gettato nella spazzatura.
Yuu non aveva provato nulla quando l’aveva scoperto. 
Sapeva di avere un passato tragico alle spalle, chiunque avesse sentito la sua storia raccontata in quel modo avrebbe avuto pietà di lui … ma la verità era che Yuu non si sentiva minimamente influenzato da quella faccenda, perché a parte quell’unico ricordo spiacevole, era stato un bambino allegro, ed estremamente felice.
Non gli era mancato nulla e non sapeva cosa fosse la disperazione.
Ayumi e Hiro gli avevano insegnato che i legami di sangue non erano una garanzia, gli avevano insegnato ad affrontare la vita con il sorriso sulle labbra, sempre.
 
Non ti abbandonerò, ci sarò sempre quando avrai bisogno di me.
Con quelle parole Noya stava dicendo ad Asahi che non era come Yumi o come Kota.
Non era come le persone che l’avevano messo al mondo, ma come chi l’aveva cresciuto.
Gli stava dicendo che si poteva andare avanti, cambiare e combattere.
E ad una persona forte come Yuu, Asahi sentì di poter raccontare la verità, almeno una parte.
Sapeva di poter dare un po’ del suo peso a Yuu, perché avrebbe saputo come sopportarlo …
«Ho fatto l’amore con Maria» confessò, infine «La sera che Daichi l’ha rifiutata …».
Fu liberatorio, fu tutto esattamente come non se l’era aspettato.
«Mi sembra di impazzire Noya, da quella sera sento come di impazzire ogni volta che ci penso … non faccio altro che domandarmi se non l’ho forzata in quell’occasione, se non mi sono preso qualcosa con la forza … ci penso e ci ripenso …».
Asahi aveva già esternato quelle parole a Maria, ma non era stato come prendere un’improvvisa boccata d’aria come in quell’occasione, al contrario si era sentito soffocare.
Con Noya, riuscì a capire finalmente perché Maria avesse sentito il desiderio di dirlo a Kiyoko.
Sapere che almeno una persona sulla faccia della terra avrebbe potuto capirlo …
«E vorrei che mio padre fosse qui, per chiedergli che cosa devo fare … e non posso parlarne con Daichi e Suga, perché ho paura di scoprire che cosa potrebbero pensare di me e -».
«Non ci posso credere!».
Asahi tacque di botto quando sentì l’esclamazione violenta di Noya.
Aveva smesso di piangere quasi immediatamente, ma non poté fare a meno di sgranare gli occhi, si era aspettato una probabile reazione rabbiosa, ma riceverla era ben diverso.
Lo stomaco gli si contrasse come un verme, ma era pronto a sentire qualsiasi cosa a riguardo.
«Ma questo è un miracolo!» ululò Yuu dall’altra parte della porta «Non ci speravo davvero più Asahi-san!» sembrava sull’orlo delle lacrime per la gioia «Credevo che saresti morto vergine! Stavo già pensando di andare al tempio per ...».
Asahi smise di ascoltare il fiume in piena di parole pronunciate da Noya molto presto, gli occhi continuarono a rimanere irrimediabilmente sgranati, ma la spiacevole sensazione allo stomaco si era sciolta con l’entusiasmo del libero.
Asahi si ritrovò a ridere prima di rendersene conto.
«Che fai, ridi? Non c’è nulla da ridere Asahi-san» lo riprese immediatamente Nishinoya, interrompendo il suo monologo sul lungo viaggio con lo zainetto in spalla che aveva programmato da tempo insieme a Tanaka per andare a pregare gli dei di aiutarlo.
Asahi non smise di sorridere nemmeno in quell’occasione.
Aveva fatto bene a puntare su Noya, era una scommessa che non avrebbe mai perso.
«Sei andato a letto con Tani-chan, Asahi-san! Questo è scioccante».
Si, lo era, ma Asahi si sentiva terribilmente leggero in quel momento, non riusciva a smettere di sorridere.
«L’avevo capito in qualche modo, sai?».
Si, Asahi sapeva anche quello.
«Avresti dovuto dirmelo prima! Sei strano da troppo tempo!».
Il rimprovero arrivò ugualmente, ma non era quello che Asahi si era aspettato di sentire.
Yuu non lo stava accusando di nulla, non aveva chiesto dettagli, non l’aveva ritenuto disgustoso, né gli aveva urlato in faccia di non volere più la sua amicizia.
«Si, avrei dovuto farlo davvero …» mormorò, ma Noya non lo sentì.
«Beh, state insieme adesso? Uscite insieme?».
Quella era l’unica parte di quella verità che Asahi non poteva rivelargli.
C’erano ancora troppe cose che aveva bisogno di capire, troppe incertezze, troppi dubbi nella sua relazione con Maria che aveva bisogno di dissipare.
«No» mormorò, ma quella volta lo fece a voce un po’ più alta, udibile anche per Noya.
«Ma lei ti piace Asahi, vero?». Una domanda diretta, scontata.
«Si».
«Allora devi solamente provarci con lei». Una risposta diretta, semplice.
Asahi si ritrovò a sorridere ancora una volta, ma il suo sorriso era velato di tristezza.
«Non pensare a cose inutili, Tani-chan non ce l’ha con te, si vede, e sono sicuro che sia abbastanza matura da prendere le sue decisioni consapevolmente … e non prendertela con Daichi-san solamente perché sei geloso, lo farai preoccupare».
Asahi avrebbe voluto spiegare a Noya perché alcune di quelle raccomandazioni non avrebbe potuto seguirle, ma non lo fece … decise piuttosto di aggrapparsi alla parte di quelle parole, a cui avrebbe potuto aggrapparsi senza difficoltà, a cui aveva bisogno di aggrapparsi.
«Per quanto riguarda la festa» concluse Yuu, minaccioso «Vedi di presentarti se non vuoi che spifferi tutto ai quattro venti. E sì, ti sto ricattando Asahi!».
Asahi sentì dei movimenti contro la porta del bagno e capì immediatamente che Noya doveva essersi alzato, lo sentì lamentarsi a proposito di un sedere dolorante.
«Grazie, Noya-san» si ritrovò a mormorare.
L’istante successivo si tirò in piedi e girò la chiave del bagno con l’animo più sereno. 
 
 
Al termine di quella serata delirante, Maria non si era ancora arresa.
Era sempre stata testarda, Fujio non faceva altro che ripeterglielo continuamente a quanto assomigliasse ad Akio in quello; Maria sapeva che la reazione di Asahi avrebbe dovuto scoraggiarla, ma non era mai stata incline a scoraggiarsi o ad arrendersi.
Voleva parlare con Asahi e voleva farlo quella sera stessa.
Voleva farlo prima che quell’esperienza finisse, prima che la realtà della vita quotidiana si mettesse tra loro rovinando ulteriormente le cose, Maria sapeva che sarebbe successo.
Fu per quel motivo che attraversò il corridoio buio e deserto del ryokan in pigiama, il coprifuoco passato da qualche minuto, per raggiungere la camera dei ragazzi.
Dovevano essere ancora svegli, un raggio di luce fendeva come un pungiglione il pavimento.
Dalla camera provenivano delle voci eccitate, probabilmente stavano ancora progettando e organizzando qualcosa per la festa, la voce di Hinata era la più acuta in assoluto.
Maria sentiva il cuore martellare nel petto, era talmente forte che catturava totalmente la sua attenzione, molto più delle voci risonanti che si nascondevano dietro la porta.
Strinse una mano sulla stoffa del pigiama all’altezza del cuore, un respiro profondo prima di bussare, probabilmente Asahi si sarebbe arrabbiato ulteriormente per un gesto così plateale.
«Taniguchi-san, hai bisogno di qualcosa?».
Maria sperò di non essere sobbalzata troppo vistosamente quando la voce di Sugawara la colse impreparata, come se l’avesse colta all’improvviso nell’atto di fare qualcosa di losco.
L’alzatore stava evidentemente tornando dal bagno, era vestito per dormire ma stringeva lo spazzolino tra le mani, ancora umido, aveva il mento sporco di dentifricio.
Maria si rese conto di non dover dare una bella impressione con quella mano sul cuore, gli occhi sgranati e l’espressione di una persona colpevole di qualche crimine orribile.
Cercò di rilassarsi, cominciò con il lasciare la stoffa della canotta che indossava riadagiando il braccio lungo il fianco, sebbene avrebbe voluto torcere le dita per l’imbarazzo.
«Ah, Suga-san» balbettò in difficoltà «In realtà stavo cercando Azumane- san».
Non voleva sembrare incerta e imbarazzata, ma non aveva programmato quell’incontro.
Suga le aveva sempre dato l’idea di una persona paziente, ma estremamente ferma nelle proprie decisioni e nei confronti delle altre persone; era una persona gentile, ma sapeva incutere un certo timore e rispetto di sé stesso agli altri, Suga sapeva leggere l’anima.
Maria non era sicura di quanto avesse letto in lei, o in Asahi.
Non voleva scoprirlo proprio quella sera.
Inoltre, era sicura che Shimizu non avesse fatto parola con il suo fidanzato della sua relazione con Asahi, ma quella non era una garanzia con uno come Sugawara.
«Cercavi Asahi?» domandò il ragazzo leggermente sorpreso.
Maria si limitò ad annuire, grattandosi con fare nervoso il braccio sinistro, abbassò lo sguardo.
Se non l’avesse fatto, avrebbe notato quanto l’espressione di Kōshi si fosse ingentilita.
«Volevo parlare con lui della festa di domani sera, cercare di convincerlo …».
Era una scusa banale, ingenua, non fu nemmeno in grado di sostenerla con convinzione.
Sugawara non gliel’avrebbe fatto notare probabilmente, non era il tipo da farlo.
Le sorrise gentilmente, in quel modo che Maria avrebbe osato definire addirittura materno, e fece per suggerirle qualcosa quando la porta della camera si aprì inaspettatamente.
«Suga, non hai ancora finito con -».
Asahi smise di parlare quando si accorse che Kōshi non era da solo.
Maria aveva rischiato di beccarsi la porta in faccia, ma il cuore non le stava battendo nel petto come un puledro impazzito per lo spavento; non si era aspettata di trovarsi in quella situazione.
Avrebbe mentito a sé stessa se avesse affermato che il coraggio non le stesse venendo meno.
Asahi la guardò battendo le palpebre come inebetito, sorpreso, al suo fianco c’era Noya.
«Tani-chan!» esclamò il libero, un pizzico di sorpresa nell’affermazione.
Maria perse inaspettatamente il coraggio, non poteva farlo davanti a Suga e Noya.
«I-io tolgo il disturbo» balbettò.
Era un’affermazione stupida, lo sapeva, Sugawara avrebbe pensato che fosse impazzita, ma l’unica cosa a cui Maria riusciva a pensare, era che fortunatamente il corridoio era troppo buio perché si potesse vedere il rossore che le imporporava notevolmente le guance. 
Mosse un passo nella direzione opposta prima che la voce di Suga lo fermasse.
«Taniguchi-san» Maria si bloccò per riflesso «Volevo dirti che Asahi ci sarà domani. Ha cambiato idea, giusto?». L’ultima domanda la rivolse al diretto interessato.
Maria sentì di avvampare ancora di più, ma non poté fare a meno di voltarsi e sollevare lo sguardo per osservare la reazione di Asahi: aveva lo sguardo sorpreso puntato su di lei.
Non era arrabbiato, non era deluso, né disperato, per la prima volta da quando avevano litigato Asahi sembrava di nuovo sé stesso, più sereno, come se si fosse tolto un peso.
«Taniguchi-san era venuta per cercare di convincerti a venire».
Spiegò Sugawara alla volta del suo migliore amico, non sembrò prendersela quando Asahi non mostrò alcun interesse alle sue parole, se non con un breve accenno; aveva ancora lo sguardo puntato sul viso arrossato ma nascosto dalla semi oscurità di Maria.
Non disse nulla.
«Va bene, ti ringrazio Suga-san» si sentì in dovere di aggiungere Maria.
Voltò immediatamente le spalle ai tre, allontanandosi non prima di aver salutato con un goffo inchino frettoloso. Aveva le sopracciglia aggrottate Maria, doveva essere successo qualcosa …
Di certo non era riuscita a parlare con Asahi come avrebbe voluto, ma l’espressione sul suo viso e il fatto che non l’avesse allontanata nuovamente con fare rabbioso le aveva infuso un po’ di speranza per trovare il coraggio necessario di riprovarci il giorno successivo.
Era risaputo che la notte era un ottimo momento per trovare consiglio, e che il mattino di un giorno nuovo avrebbe portato con sé umori e situazioni diverse.
Si allontanò con il cuore sereno.
Né lei né Asahi si resero conto degli sguardi che si scambiarono Suga e Noya; il secondo lo fece solo per un breve istante prima di distogliere lo sguardo velocemente.
Quella sera, avrebbero dormito tutti con un cuore meno agitato.

 
 
Forse vorrei
Solo qualcuno d'amare

(Shari – Egoista)
 
 
 
Salve a tutti 😁
Effe_95 torna su questi lidi dopo secoli e dopo un periodo davvero di fuoco!
Piaciuto questo capitolo? Io sinceramente lo adoro, è uno dei miei preferiti.
Il litigio di Maria e Asahi era dietro l'angolo … e posso confessarvelo? Scriverlo è stato un vero piacere 🤭🤭 Asahi arrabbiato lo abbiamo visto già nel manga/anime, solo un piccolissimo assaggio e io non vedevo l'ora di provare a rendere su carta questa rabbia!
E cosa ne pensate del passato di Noya?
Ovviamente, come abbiamo già ampiamente spiegato, questa storia non segue il manga, e questo capitolo è stato scritto ben prima che fosse concluso. Di Noya non sapevamo quasi niente all'epoca e ci siamo sbizzarrite 🤭 A me personalmente piace tanto la sua storia, come è venuta fuori …
Ora, per il prossimo capitolo, io vi avviso … leggetelo a portata di mano di un bagno perché ci sarà da ridere 🤣
Alla prossima, miei prodi!
Effe_95 & Flying_Lotus95

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Capitolo 21
*** 20- Rondinella ***


 20. Rondinella.

 
I know there is hope in these waters
But I can't bring myself to swim
When I am drowning in this silence
 
 
I professori li avevano lasciati da soli poco prima di cena.
Si erano raccomandati ripetutamente, sia con Daichi sia con Kuroo, affinché si prendessero loro il compito di far rigare dritto i kohai indisciplinati.
Era stato divertente vederli ripetere con insistenza di rispettare il coprifuoco e non disturbare.
Ed era stato ancora più divertente osservare con quanta nonchalance Daichi e Kuroo si erano premurati di rassicurare i loro docenti che, mai e poi mai, avrebbero dubitato di loro.
Se solo avessero saputo …
Il fermento per la festa segreta, prevista per il dopocena, aveva accompagnato i ragazzi per tutto l’arco della giornata; sussurri eccitati nei corridoi, dettagli per l’organizzazione, aspettativa crescente.
Si erano sistemati tutti nella camera assegnata ai ragazzi del Karasuno.
Era l’ultima del corridoio, la più lontana dalla hall.
L’avevano fatto quando si erano accertati che la vecchia e burbera proprietaria fosse soddisfatta di come avevano preparato i futon per la notte, e li credesse tutti a letto a dormire come degli angioletti.
Nishinoya, Tanaka, Yamamoto, Hinata e Lev avevano comprato una quantità d’alcool esagerata, e sul come fossero riusciti a prendere tutta quella roba ed introdurla, o nasconderla, nel ryokan, era stato un mistero che nessuno si era premurato di risolvere.
L’aria nella camera era irrespirabile, ma non di certo per le persone che la occupavano.
Era un misto di frutta, spirito e sudore.
Qualcuno era brillo, qualcun altro se ne stava seduto sul futon a chiacchierare allegramente.
«Chi ha comprato il collutorio?» domandò Daichi agitando una bottiglia decisamente sospetta dal liquido verde inconfondibile, ad azione rapida e rinfrescante.
Non ottenne risposte il capitano del Karasuno, si allontanò barcollante e borbottante.
Maria cominciava a sentirsi stordita anche lei in quell’aria afrodisiaca e irrespirabile, sebbene non avesse toccato un solo goccio d’alcool, bere era qualcosa che non amava fare.
Le ricordava il modo in cui era stata concepita e le saliva la nausea incontrollata.
Tuttavia, aveva dovuto ammettere che l’atmosfera che si respirava in quell’ambiente piccolo, ma stipato di persone, era inaspettatamente confortevole e piacevole.
Sebbene fosse chiaro come il sole che la situazione stesse cominciando a sfuggire di mano.
Qualcuno aveva anche aperto la finestra della balconata per lasciar passare un po’ d’aria fresca della notte, senza curarsi del fatto che uno sconosciuto, passando, avrebbe potuto insospettirsi e chiamare la vecchia padrona o lamentarsi della puzza.
Maria era scettica su tutta la faccenda, dubitava che sarebbero riusciti a portare a termine quella bravata senza alcuna conseguenza e non si spiegava come fossero riusciti  a farla franca nelle altre occasioni, ma non voleva di certo essere lei la voce fastidiosa della ragione.
Non era nella sua natura e non voleva di certo cambiarla quella sera.
La situazione cominciò a degenerare quando qualcuno mise della musica.
Non era ad un volume esagerato o inaccettabile, ma servì a scaldare immediatamente la situazione; chi era brillo o già ubriaco, cominciò a ballare in tondo facendo il trenino.
«Si schianteranno nella finestra» commentò Maria con aria annoiata, mentre osservava con disinteresse un evidentemente ubriaco Nishinoya, che guidava un trenino altrettanto evidentemente traballante verso l’unica fonte di pericolo presente della stanza.
«Stai tranquilla Taniguchi-san, Noya è un bevitore esperto» la rassicurò inaspettatamente Sugawara con la sua risata cristallina.
Maria si girò a guardare il diretto interessato con le sopracciglia aggrottate. Suga aveva le guance arrossate, dettaglio particolarmente accentuato a causa della sua pelle pallida, sorrideva perennemente e sembrava particolarmente di buonumore.
Non era ubriaco, lui e Shimizu - Maria si era seduta accanto a loro nella speranza di poter passare una serata meno movimentata ed essere tirata in causa il meno possibile - avevano preso per loro una sola bottiglia di birra dalla gradazione piuttosto bassa; tuttavia, dovevano averne ugualmente subito gli effetti a giudicare dalla totale assenza di reazioni responsabili.
Maria aveva sempre sospettato quel lato della natura di Sugawara un po’ ribelle.
Averne la conferma era stata una piccola vittoria per lei, ma della sua migliore amica non aveva mai sospettato nemmeno una volta … aveva parlato con Shimizu quella stessa mattina della sua situazione con Asahi, omettendo il dettaglio del bacio sfiorato con Daichi …
Si era presa una piccola vendetta per tutti quei segreti sul ritiro che l’amica non le aveva mai raccontato, nemmeno quando Maria era ancora ostinatamente legata ad un club fatiscente.
Era stato uno shock vedere ragazzi che aveva sempre ritenuto responsabili, a torto probabilmente, mostrare un lato di sé estremamente adolescenziale e ribelle.
Ma tutto sommato, doveva ammettere che la situazione stava cominciando a piacerle parecchio, rappresentava esattamente tutto quello che era la sua età: impulsività.
«Stai attento, ti rovesci tutta la birra addosso».
Maria riportò l’attenzione sul commento pronunciato con una certa intimità dalla sua migliore amica, dettaglio che l’aveva spinta a voltarsi verso di lei; Suga si era lasciato andare ad uno scoppio piuttosto ilare di risate quando il trenino era “deragliato” e i “vagoni” erano precipitati l’uno sopra l’altro proprio in mezzo alla pista da ballo improvvisata.
Shimizu gli stava asciugando il mento in un gesto particolarmente familiare, mentre Suga le prestava adesso totale attenzione lasciandola fare, aveva gli occhi totalmente innamorati …
Maria ebbe paura che la situazione si sarebbe evoluta davanti ai suoi occhi.
Aveva appena preso in considerazione l’idea si alzarsi in piedi e fuggirsene nella camera riservata a lei, Shimizu ed Hitoka, sperando di trovarla vuota, quando qualcuno si lasciò cadere sgraziatamente al suo fianco facendole particolarmente male.
Fu un braccio piuttosto pesante quello che le si appoggiò sulle spalle, Maria voltò lo sguardo sul diretto interessato e un’ondata di puzza d’alcool la investì in pieno viso.
Kuroo aveva gli occhi lucidi, un sorriso preoccupante sulle labbra e tra le mani un bicchiere con un liquido dal colore poco identificabile, probabilmente causato da un mix d’alcool.
«Te ne stai troppo tranquilla per i miei gusti, Zaffiro-chan» la rimbeccò immediatamente, premurandosi di picchiettarle il naso per ogni sillaba pronunciata e contenuta in quel nomignolo ridicolo che le aveva affibbiato.
Maria sentì di dover fare immediatamente uno starnuto, come se si trovasse di fronte ad un animale di cui era tragicamente allergica e che proprio non poteva tollerare.
Scostò immediatamente la mano del gattaccio e mise subito il broncio.
«Sembra un furetto arruffato, non trovate?» domandò con fare allegro e la voce troppo alta alla volta di Shimizu e Sugawara, la prima si limitò a tacere, sorseggiando la sua casta birra con moderazione, il secondo sorrise, le scocche rosse ma il viso lucido e vigile.
«Non pensi di aver bevuto un po’ troppo Kuroo-san?»
«Sciocchezze!» lo liquidò immediatamente il capitano del Nekoma, agitando una mano proprio davanti al viso di una sempre più irritata Maria, per marcare il concetto sorseggiò con gusto la sua bevanda superalcolica dal colore preoccupante, simile a quello dello spirito.
«Che cosa sta bevendo la nostra Zaffiro-chan per essere ancora così posata?» domandò con fare curioso, ficcando senza permesso il naso del bicchiere di Maria; arricciò le labbra quando non sentì provenire alcun tipo di odore dall’oggetto incriminato.
Strappò il bicchiere dalle mani della ragazza e ne bevve un sorso, per poi sputare indignato come se avesse appena ingerito della cicuta.
«Chi le ha dato dell’acqua?!» strillò ad alta voce, agitando il bicchiere con una tale violenza da spargerne il contenuto sulla testa di tutti i vicini, come acqua benedetta.
«Sono stato io!».
L’esclamazione rabbiosa arrivò da Yaku, che si era trovato a passare di lì per caso; Maria si rese conto che il libero del Nekoma reggeva nella mano destra una pila di bicchieri da lui appositamente sequestrati e svuotati nella prima pianta disponibile, probabilmente deceduta.
Kuroo deglutì sonoramente, rivolgendo al coetaneo un sorriso tirato mentre metteva via il proprio bicchiere prima che potesse diventare un’altra povera vittima nelle sue perfide mani.
Yaku si allontanò, guardando con fare disgustato i cadaveri ancora riversi sul pavimento.
Maria, che aveva sperato di liberarsi di quella piaga che era diventata il capitano del Nekoma nella sua vita, sospirò afflitta quando vide sparire il suo bicchiere in un volo pindarico.
L’acqua schizzò dappertutto, depositandosi per la maggior parte sulla testa di Lev.
«Chi mi ha fatto pipì in testa?!» sbottò il primino alzandosi in piedi di botto.
Kuroo ignorò totalmente il caos che aveva creato e riportò la sua attenzione su Maria.
La stretta del suo braccio si fece ancora più pesante mentre la tirava a sé con aria complice, l’odore d’alcool che proveniva dalle sue labbra non era nemmeno spiacevole, fruttato, ma Maria non poteva evitare di avere sulla faccia un’espressione perennemente disgustata.
«Allontanati da me, sei disgustoso!» commentò, piazzando senza troppi complimenti una manata sul viso del ragazzo per scostarlo, lo fece senza grazia, ma non lo mosse di un millimetro dalla sua posizione, l’unica cosa che ottenne fu una leccata di lingua sulle dita.
Maria scostò la mano orripilata, affrettandosi a pulirla per reazione sulla maglietta del protagonista stesso di quel gesto, Kuroo rise trovando il tutto estremamente divertente.
«E così la nostra Zaffiro-chan fa tutta la santarellina che non tocca alcool» la rimbeccò il moro, sorseggiando nuovamente, lo sguardo che le rivolse da sopra il bordo del bicchiere era provocatorio, sottile, Maria sapeva di non doverci cascare, ma la sua naturale tendenza orgogliosa venne inevitabilmente punta da quel commento volutamente lascivo.
«Non sono affari tuoi se bevo o meno» replicò immediatamente, provando a scostare il viso dell’altro con un’altra manata a sorpresa, l’unica cosa che riuscì ad ottenere fu di lasciargli l’impronta rossa delle sue dita in faccia e consentire all’altro di usare la sua spalla come cuscino.
«So reggere l’alcool benissimo e non ho motivo di dimostrarlo a nessuno!».
Il commento di Maria era stato audace, soprattutto per una ragazza che non aveva mai bevuto un goccio d’alcool in vita sua; ignorò l’occhiata eloquente con tanto di sopracciglio sollevato di Shimizu e sollevò il naso all’insù con aria altezzosa.
Kuroo scoppiò a ridere e la sua risata vibrò attraverso le corde vocali facendo venire a Maria, che aveva praticamente il collo del ragazzo appoggiato sulla spalla, la pelle d’oca.
«A me sembrano solamente tante balle» mormorò Kuroo con aria serafica, quasi petulante «Secondo me non reggi nemmeno un sorso, Zaffiro-chan».
Maria avrebbe dovuto saperlo che l’intento di Kuroo era solamente e soltanto uno.
In cuor suo lo sapeva, ma non era mai stata capace di lasciar cadere una provocazione.
Soprattutto se le veniva lanciata in quel modo sottile e davanti ad altre persone.
Maria non rifletté affatto quando afferrò senza complimenti la birra di Shimizu, gliela strappò di mano e se la portò alle labbra, tracannandone il contenuto rimasto in soli tre sorsi rumorosi. Aveva la gola in fiamme e lo stomaco rovente quando restituì a Shimizu, evidentemente sorpresa, quel contenitore di vetro ormai vacante, per non parlare del terribile retrogusto amaro che sentiva sul palato.
Non aveva mai bevuto una birra prima di allora e non le piaceva affatto.
Inoltre, lo stomaco le fece improvvisamente presente che non aveva toccato cibo da ore …
Sentì la testa pesante ancora prima di girarsi verso Kuroo con aria trionfante, un sorrisetto di vittoria sulle belle labbra carnose, la vista appannata e una strana sensazione di leggerezza …
«Tutto qui Zaffiro-chan?» la schernì Kuroo, per nulla impressionato.
Il sorrisetto di vittoria sparì immediatamente dalla faccia di Maria, sostituito da un broncio scocciato e una smorfia contrariata. Si guardò intorno freneticamente prima di individuare Yamamoto, seduto alle sue spalle, che rideva sguaiatamente con un bicchiere tra le mani.
Maria glielo strappò prima che chiunque avesse il coraggio di protestare.
Ne tracannò il contenuto tutto d’un fiato, non ne sentì nemmeno il sapore inizialmente, ma non era birra … era un liquido trasparente che le infiammò la gola come gasolina pura …
Maria sentì vagamente Kuroo scoppiare a ridere al suo fianco, Shimizu protendersi verso di lei per strapparle il bicchiere di mano e gridare qualcosa a proposito del fatto che diversi tipi di alcool non andavamo mai mischiati come aveva appena fatto lei in quel momento.
Maria si sentiva invece improvvisamente leggera, allegra e felice.
Aveva voglia di ballare.
«Era un bacio indiretto quello!» stava strepitando nel frattempo Yamamoto, steso a terra come un verme, si contorceva in lacrime ai piedi di un disgustato Yaku che saltellava per evitare che il kohai lo afferrasse sporcandogli i calzini di muco.
«L’avete visto tutti, Taniguchi-san mi ama!».
Maria ignorò quel teatrino che la riguardava, scavalcò il corpo di Yamamoto come se fosse un tappetino o un rifiuto della spazzatura, sfuggì alla presa di Shimizu e si lanciò in direzione dell’improvvisata pista da ballo.
Barcollò pericolosamente e finì addosso ad Inuoka, si scambiarono alcune parole tra le risate, entrambi evidentemente brilli, prima di mettersi a ballare una salsa improvvisata sulle note di quella vecchia musica latina, Obsesion degli Aventura.
Accompagnati dalle risate esagerate di Kuroo.
 
 
Asahi non riusciva a staccare gli occhi da Maria.
Se n’era stato seduto in quell’angolo innocuo, insieme a Kenma e pochi altri che sembravano voler partecipare alla festa restando assolutamente sobri e presenti a sé stessi, per molto più tempo di quanto avesse creduto possibile.
Fortunatamente per lui, nessuno aveva fatto notare con troppa enfasi che solamente la sera precedente aveva piantato su una scenata perché non voleva partecipare a quel macello in cui si stava tramutando la situazione. Inoltre, Noya era troppo brillo ed euforico per badare a lui.
Era stato per quel motivo che Asahi si era ritrovato a fare l’inevitabile: osservare Maria.
L’aveva fatto per tutto il tempo, ad eccezione di alcuni intervalli.
Era andato tutto sorprendentemente bene, fin quando non si era avvicinato Kuroo e Maria si era scolata, per un motivo apparentemente incomprensibile, una birra ed un bicchiere di vodka pura … si era messa a ballare all’improvviso insieme ad Inuoka …
Asahi aveva rischiato di affogarsi con la sua stessa saliva alla vista di quei fianchi che si muovevano con un certo vigore ed una certa sensualità mediterranea.
Maria aveva gli occhi di altre persone addosso ma non se ne accorgeva, ballando allegra.
Non era nemmeno particolarmente attraente con quella vecchia tuta che le faceva da pigiama addosso, ma il modo in cui oscillava i fianchi e muoveva le braccia e i piedi era erotico e …
Asahi si era ritrovato a tracannare qualcosa di forte prima di rendersene realmente conto, cominciò ad accorgersi del suo stesso gesto solamente quando osservò la bottiglia rossa di Martini scolata a metà e sentì la vista appannarsi.
Non era la prima volta che beveva, ma era di certo la prima volta che lo faceva in quel modo.
Era dalla sera precedente, da quando aveva parlato con Noya, che stava prendendo in considerazione l’idea di smetterla con quel silenzio e mutismo.
Aveva pensato di mettere da parte la rabbia ed affrontare l’argomento insieme a lei con maggiore calma, trovare finalmente pace e risolutezza in sé stesso … era stato facile pensarlo con il cuore leggero, ma trovare un momento giusto per farlo era stata tutta un’altra faccenda.
Maria stava ballando in quel momento, bella, sensuale e Asahi sentiva i buoni propositi scivolare via con la stessa facilità con cui l’alcool stava scivolando nella sua gola.
Provava il terribile impulso di alzarsi in piedi, prendere a calci un po’ di persone ed impedire a Maria di agitare i fianchi in quel modo alla presenza di altri uomini.
Asahi stava decisamente bevendo troppo, non aveva dubbi al riguardo …
Fu solamente per puro caso che lo sguardo gli cadde su Daichi.
Qualcuno aveva cominciato ad urlare a voce piuttosto alta imprecazioni di varia sorta, c’era un fuggi fuggi di persone in tutte le direzioni e Asahi ci mise un po’ a capire che tutti stavano scappando da Tanaka; il crapapelata del Karasuno aveva bevuto troppo alcool e non era riuscito a trattenere lo stimolo impellente che l’aveva colto evidentemente impreparato.
La sua pipì schizzava dappertutto mentre tentava di farla nel vaso di una povera pianta.
Asahi fece appena in tempo a tirarsi in piedi e scansarla, era stato a quel punto che lo sguardo si era posato su uno dei suoi migliori amici.
Ad Asahi non era piaciuto quello che aveva visto.
Non parlava con Daichi dalla sera precedente, da quando gli aveva risposto in quel modo totalmente innaturale, o meglio, non parlava con lui seriamente da quel momento.
Daichi non era mai stato il tipo da trattenersi troppo durante quelle festicciole che organizzavano, ma era sempre rimasto abbastanza lucido da tenere sotto controllo la situazione, perché di certo doveva sapere di non poter contare sull’aiuto di Kuroo.
C’erano sempre stati Yaku, Kai e Suga a mitigare la situazione, ma con non troppo interesse.
Asahi si accorse immediatamente che Daichi aveva bevuto troppo per i suoi standard.
Non stava affatto tenendo sotto controllo la situazione a giudicare dal caos regnante che si era propagato nella camera nel giro di pochi istanti, senza contare che qualcuno se l’era anche svignata. Asahi, nonostante la testa vorticante e il senso di nausea sempre maggiore, fu l’unico a notare il capitano del Karasuno rannicchiato in un angolo, con un fazzoletto premuto sulla bocca, che sputava tutto il cibo che aveva cercato di ingerire.
Era passato troppo tempo dall’ultima volta che Asahi l’aveva visto fare una cosa del genere.
Non era un buon segno, non era affatto un buon segno.
Asahi rivolse un’occhiata veloce a Suga, che non ricambiò il suo sguardo, troppo impegnato a farsi le coccole con Shimizu per dare retta a chiunque altro in quella stanza.
Impiegò qualche secondo di troppo a prendere la decisione di avvicinarsi al suo migliore amico, era stato l’orgoglio a trattenerlo, ma se ne pentì immediatamente, Asahi sapeva che Daichi doveva stare davvero male per ricascarci … e non l’avrebbe mai detto. 
Era l’unica occasione che aveva per riavvicinarsi autenticamente a lui, senza bugie di mezzo, senza rabbia o sentimenti negativi che l’altro non poteva capire, ma Asahi quell’occasione la perse.
Fu Kuroo il primo a raggiungere il capitano del Karasuno che, sebbene palesemente ubriaco, si affrettò a nascondere dietro la schiena il fazzoletto pieno di cibo rigettato.
Daichi aveva un’espressione annoiata quando Kuroo, ubriaco sì, ma tremendamente presente a se stesso, gli avvolse un braccio attorno alle spalle lanciandosi in una conversazione che doveva essere palesemente a sfondo sessuale e ricca di doppi sensi.
Asahi indugiò troppo ad osservare quel quadretto, Kuroo lo notò.
«Ehi, Azumane-san!» lo richiamò a gran voce «Perché non affoghi le tue pene nell’alcool con noi?». A voce decisamente troppo alta, chiunque avrebbe colto il doppio senso, e chi non l’avesse fatto, avrebbe trovato decisamente sospette quelle parole.
Asahi fece finta di non aver sentito nulla, si grattò la nuca, fece un passettino all’indietro rischiando di inciampare sul corpo riverso di qualcuno, scivolare su una pozza di vomito e sulla pipì di Tanaka, e ritornò nell’angolino in cui si era nascosto prima.
Kenma, seduto accanto a lui, gli rivolse un’occhiata apatica decisamente scocciata.
Asahi sospirò, prima di tracannare un altro sorso di Martini.
Quando tornò a guardare in direzione di Daichi, l’amico era nuovamente solo.
Kuroo aveva appena visto passare Sou e si era alzato afferrandolo per un fianco con fare decisamente lascivo, gli aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio e i due avevano lasciato la camera … Daichi non fece nulla per fermarli.
Aveva lo sguardo perso nel vuoto, il fazzoletto pieno di cibo nella mano inerte.
Asahi aveva perso il coraggio per avvicinarsi.
 
 
Daichi sentiva la testa completamente vuota.
Era una sensazione che aveva provato altre volte nella vita, ma quella totale assenza di pensieri, quello stranissimo impulso di lasciarsi andare e l’assoluta assenza di freni inibitori avevano dato a quella sensazione decisamente tutto un altro significato.
Da qualche parte sentiva un dolore fastidioso farsi incalzante, lo stomaco protestare per il bruciore e le membra intorpidite, ma non voleva dargli peso, era da troppo tempo che non provava quella serenità mentale e ne aveva assoluto bisogno.
Doveva aver oltrepassato il limite quando si era reso conto di non riuscire a mangiare.
Daichi avrebbe voluto dare la colpa all’alcool, ma sapeva che sarebbe stato inutile.
Aveva già provato in passato a mentire a sé stesso e aveva significato stare solamente peggio.
In quel momento della sua vita c’erano decisamente troppe cose a non andare per il verso giusto, non aveva perso la calma in alcun modo, come sempre … era stato il suo corpo a farlo.
Daichi non voleva ripensare agli psicologi, alle ore interminabili su quei lettini … alle lacrime di sua madre, alla collera silenziosa di suo padre … alle parole cattive di Sachi, agli occhi tristi di Reira … non era stato un buon figlio e nemmeno un bravo fratello.
Ma quella totale assenza di sensazioni, di sensi di colpa, di dolore …
Non aveva saputo combattervi contro, scappare era stato decisamente molto semplice.
Daichi aveva in programma di ritornare alla normalità il prima possibile, ma solamente per quella sera, solamente per una volta, aveva deciso di non essere quello che gli altri volevano.
Smise di essere presente a sé stesso anche prima di quanto sperato.
Daichi non si era reso pienamente conto dell’arrivo di Kuroo, non avrebbe mai ricordato che cosa si erano detti in quei brevi istanti di interazione, non l’aveva visto nemmeno alzarsi e andare via insieme a Inuoka.
L’ultima immagine vivida che aveva nella memoria era lo sguardo di Asahi.
Fu probabilmente quello il motivo che lo spinse a parlare di lui quando si lasciò cadere con poca grazia accanto a Suga e Shimizu, interrompendo senza vergogna le loro effusioni.
«Asahi è arrabbiato con me!» esordì con voce strascicata ma squillante, poi rise.
Suga sollevò la testa dalla spalla di Kiyoko e, per la prima volta nel corso di quella folle serata che aveva completamente perso ogni freno e moralità, il sorriso sulle sue labbra venne sostituito da una smorfia preoccupata.
Si sporse immediatamente verso Daichi e lo aiutò a non precipitare rovinosamente all’indietro, impedendogli così di picchiare la nuca sul muro che aveva alle spalle.
«Ma quanto hai bevuto Daichi!?» lo rimproverò immediatamente, scostando automaticamente il viso per un moto di disgusto quando Daichi gli rise in faccia.
«Hai un alito tremendo» mormorò Koushi tappandosi il naso.
«Perché Asahi è arrabbiato con me Suga, eh?» biascicò in risposta il capitano del Karasuno, ignorando completamente il commento poco lusinghiero dell’amico.
Sugawara sospirò pazientemente lasciando che Daichi si appoggiasse su di lui, rivolse a Shimizu uno sguardo di scuse, ma lei gli fece un sorriso accennato, comprensivo.
Sia lei che Sugawara avevano intuito i motivi dietro quella condizione ignobile.
«Sugaaaaa» si lamentò Daichi per la mancanza di immediata attenzione da parte dell’amico, Suga sospirò nuovamente, accennando un sorriso sorprendentemente materno.
«Asahi non è arrabbiato con te Daichi» replicò con pazienza.
Daichi sollevò gli occhi lucidi su di lui, incatenandolo con quello sguardo completamente fuori luogo su quel viso sempre posato, calmo e rassicurante.
Suga ebbe l’impressione, una di quelle rare impressioni, di avere finalmente a che fare con un ragazzo prossimo ai diciotto anni e non con un adulto finito e consumato.
«Anche tu sei arrabbiato con me Suga?» domandò invece Daichi, dando l’impressione di non averlo ascoltato ancora una volta, Koushi sbatté le palpebre un paio di volte.
«Non sono mai stato arrabbiato con te Daichi …» mormorò, leggermente colpito.
Era evidente che l’alcool gli aveva dato alla testa, la lingua di Daichi era decisamente sciolta per i suoi standard; era la prima volta che Sugawara sentiva una cosa del genere.
«Ho deluso anche te, Suga?» l’altro non rispose subito, allibito.
«No …» sussurrò, Daichi sospirò come se fosse sconsolato e distolse lo sguardo.
«No, no!» commentò alzando un dito come se volesse ammonire qualcuno, ma in realtà sembrava quasi stesse parlando con sé stesso a voce un po’ troppo alta «Non sai fare né il figlio, né il fratello, né l’amico … non sei in grado di proteggere nessuno! No, inutile!».
Sugawara si ritrovò ad aggrottare le sopracciglia e stringere i pugni senza rendersene conto.
Sembrava essersi reso conto per la prima volta di quante cose non si erano mai detti …
«Daichi -»
«Maria è bella, vero?».
L’improvviso cambio d’argomento colse di sorpresa sia Koushi che Kiyoko, che aveva ascoltato la conversazione nel suo solito modo discreto, senza intervenire se non chiamata in causa.
Suga seguì la linea dello sguardo di Daichi e si accorse che l’aveva posato sull’improvvisata pista da ballo su cui Maria stava ballando una sorta di salsa con un piangente Yamamoto. 
«Mi sono dichiarato e mi ha rifiutato …» borbottò Daichi, poi scoppiò a ridere.
Sugawara sollevò un sopracciglio preso completamente alla sprovvista, e tornò a guardare Shimizu nel tentativo di capire se fosse a conoscenza di quel dettaglio scabroso assolutamente inaspettato; a giudicare dal modo in cui la sua ragazza guardò Maria e sollevò le sopracciglia stringendo le braccia sul petto, sotto il seno, non doveva esserne a conoscenza.
«Ma sai, Suga …» Daichi attirò nuovamente la sua attenzione «Yui è molto più bella».
Fu come se, all’improvviso, tutti i rumori della festa fossero stati messi in pausa.
Daichi aveva ancora lo sguardo fisso sul corpo di Maria, ma non era lì, con loro.
Si era ridotto in quello stato per scappare da ciò che non avrebbe mai detto … per ritrovarsi invece a rigettare fuori come un fiume in piena quei segreti che aveva custodito con cura …
«Daichi …» lo chiamò, quasi con una punta di disperazione nella voce.
Non aveva mai, mai più parlato di Yui con loro dopo una prima confessione sincera.
Daichi aprì la bocca, ma qualsiasi cosa volesse dire venne immediatamente interrotta da un conato di vomito rumoroso, era arrivato al capolinea.
Suga ne approfittò immediatamente per afferrare l’amico sotto le braccia e sollevarlo.
«Adesso andiamo in bagno Daichi, eh?» disse come se stesse parlando ad un bambino.
«Non mi sento molto bene» commentò invece Daichi, pericolosamente bianco in faccia.
Koushi si scusò in fretta con Shimizu, che invece lo aiutò a sorreggere il coetaneo, avrebbe voluto l’aiuto di Asahi, magari per approfittarne e trovarsi loro tre da soli …
Suga capì che la situazione era disperata quando vide l’asso fifone seduto a terra con la testa ciondoloni … non sarebbero usciti vivi da quella serata … Ma quando era successo?
Aveva appena finito di formulare quel pensiero, che Shibayama entrò nella stanza allarmato.
«STANNO TORNANDO I PROFESSORI!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
La musica cessò di colpo e una ventina di teste si girarono nella sua direzione.
«Un cliente si è lamentato del casino con la vecchia ...».
Ancora silenzio e sguardi fissi, immobili, increduli.
«DOVE SONO QUEI DISGRAZIATI!».
Il ruggito del coach Ukai sembrò squassare le mura.
«FUGGITE, SCIOCCHI!».
All’urlo esagerato di Tanaka scoppiò il caos più totale.
Nel giro di pochi istanti la camera, che era stata teatrino di quella festa clandestina, rimase improvvisamente vuota, con la sola presenza delle bottiglie, le macchie di vomito e le chiazze di pipì a fare da prova e testimone di quanto accaduto.

 
I was still a child
Didn't get the chance to
Feel the world around me
 
Yuu era sicuro di essere ubriaco prima che arrivasse la fine del mondo.
Ma era anche piuttosto certo di non esserlo più mentre correva in uno degli innumerevoli corridoi del ryokan senza una meta precisa.
La scarica di adrenalina che gli aveva percosso la schiena alla prospettiva di essere stati scoperti e di dover scappare, aveva avuto la forza di renderlo improvvisamente sobrio.
Yuu si guardò alle spalle come un fuggitivo inseguito dalla polizia e rabbrividì quando intravide il coach giovane del Nekoma afferrare Lev e Yamamoto per la collottola della maglietta.
Tremava al solo pensiero di che cosa avrebbe potuto fargli il coach Ukai se l’avesse acciuffato, fu nel sentire all’improvviso la sua voce, troppo vicina, che Yuu prese l’affrettata e decisamente non ponderata decisione di infilarsi nella prima stanza che trovò a disposizione.
Fu un bene.
A distanza di anni, Yuu avrebbe ripensato a quel momento come un errore miracoloso.
Non si voltò immediatamente quando si richiuse la porta alle spalle, quasi volesse accertarsi che i suoi inseguitori non l’avessero visto rifugiarsi lì dentro; sentiva il cuore battere violentemente nella cassa toracica mentre appoggiava i polpastrelli delle dita tremanti sull’uscio della porta, un blando tentativo di essere pronto a respingere l’attacco se necessario.
Bastarono alcuni secondi di silenzio per rasserenarlo.
Fu a quel punto che si voltò, colto dall’improvviso presentimento di essere osservato.
La donna alle sue spalle era appena uscita dal bagno, i capelli biondo cenere se ne stavano sciolti e voluminosi sulle spalle scoperte, umidi sulle punte, indossava uno yukata da notte eccessivamente allentato sulla vita che metteva in mostra una generosa scollatura e gli occhi …
Noya sentì il respiro morire un istante quando li riconobbe.
Sembrava lontano anni luce il tentativo fallimentare alle terme, sebbene non fossero passati in realtà nemmeno due giorni … Yuu si era rassegnato ben presto all’idea di non rivedere mai più la donna contro cui si era scontrato quel giorno trascorso nel paesino.
Si era detto che non l’avrebbe rivista mai più.
Quegli occhi tuttavia non era mai riuscito a dimenticarli … e adesso lo fissavano sgranati.
Yuu capì in una frazione di secondo che si sarebbe messa a gridare spaventata e fece un passo in avanti agitando le braccia per non allarmarla ulteriormente, ci mise troppa foga.
Inciampò sulle scarpe di qualcuno e precipitò di faccia sul pavimento di legno.
Fu doloroso, fu dannatamente doloroso.
Quando si tirò a sedere sulle ginocchia alcune macchioline di sangue sporcarono il parquet.
Yuu sentì il liquido scarlatto percorrere la linea delle labbra, scivolare sul mento e schiantarsi in silenziose goccioline accanto alle compagne che le avevano precedute.
Il libero del Karasuno si portò una mano sul viso nel tentativo di frenare l’inondazione, era certo di non essersi rotto il naso, il dolore non era abbastanza intenso, ma cominciava a domandarsi perché dovesse sempre avere incontri rocamboleschi con quella donna.
Tsubake … ricordava si chiamasse.
Un dolcissimo profumo d’olio d’argan lo investì in pieno e prima che se ne rendesse conto la ritrovò inginocchiata davanti a lui, una mano sotto il suo mento per tenerlo sollevato, l’altra impegnata a ripulirgli alla bell’e meglio il sangue dal viso con il bordo manica dello yukata.
«Ti sei fatto male?».
Aveva una voce sottile, delicata, ma sorprendentemente ferma.
Yuu doveva averla sentita anche quel giorno, ma non la ricordava affatto, ebbe il potere di provocare in lui un vero e proprio terremoto d’adrenalina: ora era sobrio al cento per cento.
Scosse vigorosamente la testa, non fu una buona idea, il sangue che lei gli stava pulendo con cura, guidata da un istinto puramente materno, gli disegnò due baffi sul labbro superiore.
Tsubake non riuscì ad evitare di lasciarsi andare ad una risata contenuta a quella vista.
Gli occhi castani macchiati di grigio si illuminarono …
«Ehi, hai battuto la testa per caso? Sto parlando con te».
Yuu sbatté ripetutamente le palpebre e smise di fissarla come un povero scimunito con la bocca leggermente spalancata e un rivolo di bava sul mento.
Quanto meno, prendendosi quella caduta colossale aveva evitato che lei gridasse allarmata.
«Si, scusami io … Non cacciarmi ti prego, nascondimi solamente per qualche minuto».
Esclamò Noya preso all’improvviso dalla frenesia, si guardò alle spalle per assicurarsi che la porta fosse ancora ben chiusa; era ancora inginocchiato a terra, e quella donna bellissima che aveva creduto di non rivedere mai più in vita sua, se ne stava accovacciata davanti a lui con le braccia strette attorno alle ginocchia, la scollatura dello yukata ben visibile, i capelli che profumavano umidi e mossi e un sorriso genuino, ma curioso e riservato sulle labbra.
«Sei uno di quei ragazzini in ritiro che stavano facendo chiasso, vero?» gli domandò, Yuu distolse immediatamente l’attenzione dalla porta alle sue spalle e la guardò.
Non si era ricordata di lui, non l’aveva riconosciuto.
Noya non ci rimase male, ma nonostante ciò sentì una morsa alla bocca dello stomaco.
Tsubake ridacchiò nuovamente e si portò lo stesso braccio con cui gli aveva ripulito il viso sulla faccia, le macchie di sangue sulla manica sembravano suggestivi boccioli di rosa.
«A giudicare dall’odore che emani avete bevuto parecchio eh?».
Yuu la guardò con un pizzico di imbarazzo a dipingergli le guance, si sentiva in soggezione alla presenza di una vera donna, perché era certo che lo fosse … aveva visto la fede al dito.
Tuttavia, si lasciò andare ad un sorrisetto sbarazzino che fece arrossire l’altra.
«Ma io sono perfettamente sobrio» dichiarò da uomo vissuto, puntandosi il petto con il pollice. Tsubake - non avrebbe mai avuto occasione di chiamarla in quel modo quella sera, scoppiò a ridere con vigore per poi tentare di contenersi portandosi una mano sulla bocca.
Rideva, ma aveva gli occhi tristi.
Noya aveva organizzato quel macello alle terme solamente per accertarsi che fosse vero.
Averne la conferma in quel momento non gli diede nessuna soddisfazione, nessun senso di completamento, non provò nemmeno un po’ di quella gioia che seguiva il raggiungimento di un obiettivo a lungo atteso. No, l’unica cosa che provò fu insoddisfazione.
Una sensazione che non gli era affatto familiare: gli dava fastidio.
«Mi dispiace» disse lei appoggiando il mento sul palmo della mano «Temo sia stato mio marito a lamentarsi» gli occhi sembrarono farsi ancora più tristi «Si è arrabbiato molto».
Sarà un imbecille …
Yuu non lo disse.
«Credo sia stato il karma a mandarti da me, voleva farmi rimediare per aver interrotto la vostra meritatissima festa evidentemente» continuò lei ridacchiando «Posso nasconderti per un po’, ma devi andare via prima che lui torni».
Tolse la mano dal mento e sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, Yuu lo notò solamente in quel momento, sul labbro di lei …
«Non è un uomo molto ragionevole».
Prima che avesse modo di dire o fare alcunché, qualcuno bussò alla porta.
Noya sgranò gli occhi allarmato, si guardarono una frazione di secondo, poi la donna si tirò in piedi con prontezza, lo afferrò per un polso intimandolo a tirarsi in piedi e lo spinse senza troppi complimenti all’interno dell’armadio a muro di legno.
«Non fiatare, ci penso io» lo intimò prima di chiudergli la porta in faccia.
Lo spazio nell’armadio era angusto, ma Yuu ci stava perfettamente, se ne stava rannicchiato con le ginocchia strette al petto, alla sua destra un futon arrotolato e chiuso occupava spazio.
Poteva vedere tutto tramite le fessure che dividevano le tegole di legno trasversali.
Sperava solo che per colpa della luce nella stanza non potessero vedere lui.
Prima di aprire la porta Tsubake si passò velocemente le mani nei capelli, rendendoli vaporosi, abbassò strategicamente una spallina dello yukata mostrando ulteriormente la scollatura compromettente e alzò il vestito sulle gambe magre e abbronzate incastrandolo sotto la cintura allentata sulla vita.
Fece un respiro profondo e aprì.
Sull’uscio se ne stavano il coach Ukai e il professor Takeda.
«Ci perdoni signora, ma siete stata per caso disturbata da -» la domanda del coach si interruppe bruscamente come gli occhi si posarono per davvero sulla donna che aveva davanti.
Yuu osservò con la mano premuta sulla bocca il professor Takeda schizzare sangue dal naso e la faccia del coach tingersi di un rosso vermiglio mentre tentava di non lasciar cadere lo sguardo sulla generosa scollatura.
«Posso esservi d’aiuto?» domandò la donna fingendo innocenza.
«C-ci scusiamo per averla disturbata» balbettò il coach, sudando.
Quando la porta si fu chiusa, Yuu spalancò le ante dell’armadio e nell’impeto della risata, che non sarebbe stato in grado di trattenere ancora per molto se non se ne fossero andati, inciampò nelle lenzuola pulite su cui era rannicchiato e cadde in avanti atterrando sulle ginocchia, altri lividi da aggiungere a quelli che già aveva dagli allenamenti.
«Erano i tuoi insegnanti quelli?» chiese lei chinandosi verso di lui, aveva gli occhi sorprendentemente luminosi e per la prima volta Yuu vi scorse qualcosa di particolare oltre tutta quell’asfissiante tristezza: un pizzico di ribellione ed eccitazione. 
Noya si asciugò le lacrime che aveva agli angoli degli occhi e la guardò.
Doveva essere un qualcosa che era stata molto brava a soffocare dentro di lei.
Ma dopotutto, non conosceva quella donna e non l’avrebbe fatto mai, era nato con qualche anno di ritardo, nel luogo sbagliato e nel momento sbagliato.
«Devo raccontarlo a Ryu» disse tra uno sghignazzo e l’altro, parlando tra sé e sé.
«Adesso devi andare».
Yuu smise di ridere, ma non tornò serio di colpo, il fantasma di un sorriso ancora gli incorniciava le labbra, annuì e si tirò in piedi, poteva essere soddisfatto dopotutto.
Aveva realizzato il sogno di rivederla un’ultima volta e non aveva importanza che lei non ricordasse nulla del loro incontro rocambolesco, non l’avrebbe vista mai più, comunque.
Poteva essere soddisfatto, si, ma c’era ancora qualcosa che …
Tsubake lo accompagnò vicino la finestra che dava sul cortile.
«Se esci da qui e prosegui dietro le siepi, ritorni nella tua stanza senza problemi» spiegò mentre si affacciava per controllare che non ci fosse nessuno, l’aria della notte era fredda e piacevole sulla pelle ancora accaldata dall’adrenalina che circolava potente.
Yuu raggiunse la cornice della finestra e vi salì su come un gatto esperto e agile.
Non saltò immediatamente, si voltò un’ultima volta verso quegli occhi indimenticabili.
Le rubò un bacio a fior di labbra: si era ricordato che cosa aveva dimenticato di fare.
Fu uno sfiorarsi innocente, non aveva il significato di un bacio.
Quando si ritrasse Yuu passò il polpastrello dell’indice sul labbro spaccato di lei.
Non è un uomo molto ragionevole.
Tsubake lo fissò con gli occhi sgranati, fece un passetto all’indietro terrorizzata.
«Potrò vantarmene con i miei amici» scherzò Noya ridacchiando.
Lei non cambiò atteggiamento, ma sembrò rendersi conto per la prima volta di avere a che fare con un uomo e non con un ragazzino, si toccò inconsapevolmente la fede.
Yuu lo notò.
«Grazie» le disse, diventando improvvisamente serio, nonostante sorridesse ancora.
Tsubake sgranò gli occhi, sembrava essersi resa conto che non si sarebbero visti mai più, che quell’incontro per lei completamente folle, quella parentesi di universo parallelo, sarebbe finita come quello studente esuberante avesse saltato oltre la finestra.
«C’è di meglio, rondinella».
Era quella l’ultima cosa che Yuu voleva, poteva fare per lei.
Saltò.
Non vide mai la mano tesa di Tsubake verso il vuoto della notte in cui era sparito, un blando tentativo da parte di lei di trattenerlo contro ogni logica.
La mano le si era mossa da sola.
Avrebbe voluto chiedergli il suo nome in realtà, avere almeno quel ricordo.
Avrebbe voluto chiedergli come facesse a conoscere il suo …
L’unica cosa che le era rimasta, invece, erano delle macchie di sangue sullo yukata bianco.
Tsubake sorrise, un attimo di ribellione e libertà nella sua rigida vita.
Se avesse potuto dare un nome a quel ragazzino sarebbe stato guerriero.
Lui le aveva comunicato quella forza e poi, non suonava male.

 
I had no time to choose
What I chose to do
 
A Maria girava la testa.
Il corridoio in cui stava camminando, che non riusciva a riconoscere, oscillava a destra e sinistra come uno di quei giochi al luna park dove si finiva con la testa sottosopra.
Barcollava nel camminare, ma la mano posata sulla parete era un ottimo sostegno.
Aveva ballato: non l’aveva mai fatto prima.
Maria sapeva di essere ancora troppo lucida per perdere completamente il controllo di sé stessa, ma l’alcool era stato comunque in grado di scogliere i suoi freni inibitori.
Danzare in quel modo sensuale l’aveva fatto solamente davanti allo specchio di casa sua quando era sicura al cento per cento di essere da sola.
Era stato un buon modo per non pensare ai suoi problemi con Asahi o a Daichi, ma non era stato sufficientemente buono da evitarle di pensare invece ai suoi genitori.
Maria non aveva potuto fare a meno di notare che era stata concepita in una sera come quella.
Si era sentita tremendamente disgustata e aveva cominciato a ballare con Yamamoto …
Era decisamente ancora troppo sobria per affrontare quella verità.
Non aveva ben capito che cosa fosse successo, ma aveva seguito la massa che fuoriusciva dalla stanza senza nemmeno rendersene conto; la sua meta sarebbe stata la stanza che condivideva con Shimizu e Hitoka, era sicura che i professori non sarebbero andati a controllare.
Ma non riusciva a ricordare dove, effettivamente, quella camera si trovasse.
La testa smise improvvisamente di girare quando si rese conto di non essere da sola.
Ci mise un po’ di tempo a riconoscere il primino fermo alla fine del corridoio, piegato in due con una mano sullo stomaco e la fronte imperlata di sudore; la frangia di capelli neri sulla fronte era inconfondibile, così come i taglienti occhi blu dalle sfumature oscure.
Kageyama le sembrava in difficoltà, e Maria era abbastanza lucida da sentirsi in dovere di intervenire per aiutarlo. Affrettò il passo per raggiungerlo e gli afferrò un braccio con urgenza.
«Che succede Kageyama-kun?» gli domandò con un pizzico di urgenza nella voce.
Il primino la osservò con espressione sofferente mista ad una sorpresa, quasi scandalizzata.
«Taniguchi-san …» mormorò incredulo, per poi arrossire senza motivo.
Maria aggrottò le sopracciglia e gli passò una mano sulla fronte, era imperlata di sudore.
«Hai bevuto, Kageyama-kun?».
Era una domanda che non avrebbe dovuto fare, non era nella posizione giusta a giudicare da come il suo alito doveva star profumando l’ambiente in quel momento, ma sentiva di doversi comportare da senpai responsabile almeno in quell’occasione.
Kageyama scosse la testa e contrasse la mano sullo stomaco in una smorfia di dolore.
«Ho bevuto del collutorio» dichiarò, Maria lo guardò incredula «Credevo fosse alcoolvolevo provarne un po’ … Hinata mi prendeva in giro ...» si giustificò il primino, arrossendo violentemente per l’imbarazzo.
Maria decise di non infierire sulla questione, ci avrebbe pensato in un altro momento a fargli un lungo discorso, in quel momento non era abbastanza sobria anche per quello.
Inoltre, dovevano nascondersi prima che i professori li beccassero.
Con un po’ di goffaggine si lasciò passare una mano del ragazzino, venti centimetri più alto di lei, sulla spalla e presero a camminare barcollando a destra e sinistra come una coppia di ubriaconi in mezzo alla strada sotto il chiaro di luna … e non ci erano andati molto lontano.
«Dobbiamo andarcene da qui per prima cosa» mormorò lei «Poi ti farò vomitare».
Maria, che aveva recuperato la lucidità nonostante la testa girasse come una trottola, aveva finalmente riconosciuto il corridoio in cui si trovavano, era andata nella direzione giusta.
Riconobbe immediatamente la porta della stanza destinata al Nekoma.
Era grottescamente socchiusa come nel giorno in cui era intervenuta per soccorrere Sou, come quella volta un fascio di luce si stendeva come un ago acuminato sul pavimento, ma non c’erano pillole bianche a segnalarle che qualcosa non andasse.
Maria pensò fosse il posto adatto per nascondersi con Kageyama, era certa che vi avrebbe trovato dentro alcuni ragazzi del Nekoma, rintanatisi lì per fuggire ai professori ... magari a fingersi addormentati e riposati da ore come dei bravi angioletti.
Quando spalancò la porta di colpo, trafelata, pensò che avrebbe dovuto prestare attenzione ai rumori che provenivano dall’interno della camera, perché non erano affatto silenziosi.
Quello che vide se lo sarebbe ricordato per sempre, ma in quel momento ebbe solamente la prontezza di coprire gli occhi di Kageyama con il proprio braccio, provocandogli un probabile colpo della strega quando lo costrinse ad abbassarsi all’improvviso.
C’erano Tetsuro e Sou in quella camera, completamente nudi, avvinghiati come polpi.
Tetsuro era seduto in mezzo al futon, Sou era a cavalcioni su di lui e aveva la testa reclinata all’indietro … Maria decise di aver visto abbastanza.
Non si scusò, non sarebbe servito a nulla, quei due erano evidentemente ubriachi e non si sarebbero accorti di nulla nemmeno se una cavalleria intera avesse sfondato la porta ... si limitò ad uscire dalla camera sbattendosi quest’ultima alle spalle con enfasi.
I rumori da dentro continuarono indisturbati, sospiri di piacere inequivocabili che aumentavano di volume in ogni istante … 
«Che cosa succede, Taniguchi-san?» domandò Kageyama affaticato, aggrottando le sopracciglia mentre voltava la testa in direzione della porta da cui provenivano i gemiti.
Maria si rese conto di avere ancora il braccio sui suoi occhi e lo tolse frettolosamente, tirando il primino per la manica della giacca con una certa urgenza, non voleva dovergli coprire anche le orecchie, inoltre, era un ottimo modo per impedirgli di vedere il suo viso in fiamme.
«Nulla di cui ti debba preoccupare» lo liquidò, imboccando un altro corridoio.
La sua camera era l’unica soluzione rimasta, l’ultima opzione.
Fortuna che ho salvato la sua innocenza … domani quei due mi sentiranno!
Maria intravide la porta della stanza in cui aveva dormito e pianto nelle ultime sere e sentì come un moto improvviso di adrenalina nelle vene, una sensazione molto simile a quella di una persona che arrivava ad un passo dalla fine del videogioco dopo estreme fatiche …
La porta di quella camera era la meta, la vittoria dopo la sconfitta del boss …
Quando Maria la spalancò, pronta a ficcarci dentro un Kageyama sempre più verde … sentì di essere stata frodata, il gioco che le avevano regalato era difettoso … c’era un altro boss inaspettato da sconfiggere.
Quella volta, Maria non ebbe la prontezza necessaria per coprire gli occhi del primino.
Non era nulla di compromettente, ma forse avrebbe dovuto farlo per il bene delle due persone in questione … era evidente dall’espressione sul viso di Kageyama che non l’avrebbero passata liscia nemmeno un po’ quando tutta quella faccenda sarebbe finita.
Hinata e Hitoka erano inginocchiati l’uno davanti all’altra, avevano le mani intrecciate tra di loro e si stavano evidentemente scambiando un bacio che profumava d’innocenza da chilometri di distanza. Entrambi si separarono di colpo quando si accorsero dei due.
Maria credeva che non fosse possibile osservare così tante sfumature di rosso in un solo istante, ma entrambi i primini colti sul fatto dimostrarono esattamente il contrario.
«K-kageyama gwaaaaa» esclamò Hinata sollevando in avanti le mani come per difendersi da qualcosa, il partner di gioco non si era avvicinato ma gli puntava un dito contro.
«Hinata, razza di cretino, che cosa stai facendo?!» strillò di rimando, ritrovando la voce.
Nel frattempo, Hitoka era saltata in piedi scuotendo la testa ripetutamente, completamente in panico mentre tentava di trovare le parole giuste per giustificare qualcosa che non ne aveva assolutamente bisogno, non di certo per Maria.
«Non è come sembra Taniguchi-san!» piagnucolò in fine la primina, in lacrime.
Maria ebbe il tempo di sorriderle, nonostante la testa dolorante, e scuotere la testa.
Non si sentiva nemmeno irritata dalla prospettiva di dover pensare ad un altro posto per nascondersi, vedere la compagna di squadra arrossire per quel bacio le aveva messo il buon umore … non voleva essere lei ad interrompere nulla.
Afferrò Kageyama per la collottola della maglietta, staccandolo da un Hinata terrorizzato che aveva appena sollevato per il bavero, e fece un gesto noncurante con la mano ai due.
«Continuate pure, noi togliamo il disturbo».
Qualsiasi protesta Hinata e Hitoka cominciarono a piantar su non ebbe importanza, Maria si richiuse la porta alle spalle ben prima che potessero anche solo provarci.
Kageyama, che si faceva trascinare come un cagnolino perfettamente imbronciato, era rosso in faccia mentre lei vagava come un’anima in pena in quei corridoi deserti e silenziosi, dovevano essere passate le due di notte ormai, borbottava frasi su Hinata, boke e cose simili.
Maria cominciò a pensare che la situazione doveva essersi leggermente calmata nel frattempo.
Non sentiva più passi affrettati nel corridoio, grida improvvise e botti sospetti.
Si fermò per riprendere fiato nei pressi di uno dei bagni comuni, doveva riflettere su cosa fare ma l’adrenalina era improvvisamente calata e cominciava a sentire le palpebre pesanti, la testa leggera e le membra del corpo irrigidite, voleva farsi una bella dormita …
Non ricordava nemmeno di star continuando a stringere il polso di Kageyama, il ragazzo aveva un’espressione verdognola e sofferente sul viso, si stringeva lo stomaco, ma Maria non ricordava per quale motivo, né perché se lo fosse portato dietro …
«Taniguchi-san?» la richiamò il primino abbassando il viso per guardarla in faccia.
Era la prima volta che Maria si ritrovò a guardarlo davvero bene negli occhi.
«Hai degli occhi molto belli Kageyama-kun» dichiarò all’improvviso, dal nulla.
Bastò a lasciare che il viso del primino si incendiasse d’imbarazzo, rimasero a fissarsi per alcuni secondi; Maria non aveva la minima idea di cosa stesse succedendo, voleva davvero dormire … Kageyama invece si era fatto un po’ troppo vicino, il suo respiro profumava di collutorio alle erbe … quello per un alito super fresco a prova di bacio … bacio … le labbra del primino erano in effetti improvvisamente vicine e …
SNAP.
Maria sobbalzò e fu improvvisamente sveglia, vigile, come se si fosse spezzato un incantesimo. Sbatté ripetutamente le palpebre quando si rese conto che Kageyama si era piegato in due, colto da un violento conato di vomito; non era solamente quello ad averla lasciata basita ad ogni modo, ma l’altro primino comparso dal nulla.
Tsukishima sembrava stare benissimo, aveva la solita espressione tremendamente annoiata, e l’aria di chi non aveva toccato nemmeno un goccio d’alcool, ritrovandosi così a dover assistere ad ogni sorta di scempiaggine e follia.
Aveva appoggiato una mano sulla schiena di Kageyama, disgustato e fissava Maria con un’espressione di tale disapprovazione da farla sentire colpevole anche se non sapeva di preciso per cosa.
«Che cosa è successo a questo idiota?» chiese con disprezzo. Se Kageyama non fosse stato troppo impegnato a sopportare il dolore, l’avrebbe riempito di botte, era evidente.
Maria scosse la testa per eliminare gli ultimi sprazzi di sonnolenza e sospirò pesantemente.
Era certa che stesse per succedere qualcosa di irreparabile, ma non voleva pensarci …
«Ha bevuto del collutorio, deve vomitare immediatamente!» spiegò, stanca.
L’espressione che mise su Tsukishima, con quel sopracciglio sollevato, sembrava gridare l’arrivo di una battuta piccante da ogni dove; Maria decise per il bene di Kageyama di intervenire prima che si sentisse umiliato e costretto a replicare nonostante le sue condizioni.
«Che cosa è successo di là?» domandò per cambiare discorso, funzionò.
Tsukishima distolse l’attenzione da Kageyama e la fissò con espressione scocciata.
«Siamo stati salvati da Shimizu-san» raccontò, Maria sgranò leggermente gli occhi «Lei è rimasta calma quando il branco di idioti si è dato alla fuga. Quelli sobri l’hanno aiutata a ripulire la stanza in mezzo secondo, ha buttato tutto l’alcool, cambiato i futon … spruzzato del profumo e: magia!». Il racconto di Tsukishima sembrava assolutamente impersonale, soprattutto considerato che lui, in quanto sobrio, doveva aver dato una mano di conseguenza.
«Questo ha ridimensionato la tragedia. I professori sono convinti che volessimo solamente provare l’eccitazione di non rispettare il coprifuoco … gli idioti che hanno beccato fortunatamente non erano ubriachi … abbastanza ...».
Tsukishima tacque e Maria capì che non avrebbe aggiunto altro, altrimenti quella conversazione si sarebbe trasformata in una lunga serie di epiteti poco piacevoli.
Immaginava che il giorno seguente avrebbero ricevuto tutti una bella ramanzina, le sembrava di poter già sentire la voce ringhiante del coach Ukai … sperava almeno nella clemenza di Nekomata-sensei, che si era dimostrato un vecchietto piuttosto accomodante e frizzantino.
«Torna nella tua camera Taniguchi-san, aiuto io Kageyama. La situazione è rientrata».
Maria esitò prima di fare come le aveva suggerito Tsukishima, rivolse un’occhiata veloce al suo kohai agonizzante, avrebbe vomitato da un momento all’altro su quel pavimento se non l’avesse lasciato andare con il compagno, fu quel dettaglio a convincerla del tutto.
Si limitò ad annuire e Tsukishima se ne andò senza nemmeno salutarla, trascinandosi dietro Kageyama senza troppi complimenti o alcun riguardo per la sua indisposizione.
«Fai pietà Re del Campo».
«Sta zitto o ti vomito addosso!».
Le voci dei due primini andarono lentamente scemando, fino a sparire.
 
 
Maria rimase da sola nel corridoio buio e silenzioso, cominciava a farle male la testa, ma il sonno che l’aveva colta all’improvviso alcuni istanti prima era completamente sparito.
Era stata una sciocca a lasciarsi provocare da Kuroo, dandogli esattamente quello che cercava.
Inoltre, in quel modo era anche andata contro un suo principio: niente alcool.
Era in quel modo sciocco che i suoi genitori l’avevano concepita, senza un briciolo di sentimento, spinti solamente da un desiderio carnale e animalesco …
Un brivido le attraversò la schiena, nella bocca aveva un sapore tremendo.
Pensò di ritornare in camera a cercare di chiudere occhio per qualche ora, era sicura che Hinata se ne fosse andato, dato che la situazione era rientrata per il momento.
Inoltre, Shimizu doveva essere tornata anche lei una volta sistemata la faccenda per tutti.
Si passò una mano sul collo e sospirò stancamente, fu nell’assoluto silenzio che percepì un lamento sommesso e singhiozzante.
All’inizio Maria pensò di esserselo immaginato, suggestionata dall’atmosfera cupa del corridoio; aveva mosso appena un passo quando lo risentì con chiarezza, era un conato di vomito seguito dalle sue conseguenze.
Qualcuno stava rigettando nel bagno comune alla sua destra.
Maria si avvicinò alla porta senza riflettere molto, non aveva preso in considerazione l’eventualità che potesse trattarsi di uno sconosciuto che si era sentito male nel cuore della notte, considerata la quantità di alcool che era circolata quella sera, aveva dato per scontato potesse trattarsi di uno dei ragazzi attardatosi da qualche parte per nascondersi.
Non aveva avuto torto, ma non aveva pensato a lui quando era entrata.
I primi secondi non ebbe alcuna reazione, rimase immobile sull’uscio come pietrificata mentre Asahi se ne stava inginocchiato davanti al water con una mano stretta lungo il bordo di porcellana dell’accessorio da bagno e l’altra intenta a mantenersi i capelli alla bell’e meglio.
Fu colto da un altro spasmo di vomito e l’alcool che aveva ingurgitato fuoriuscì insieme al poco cibo che gli era rimasto nello stomaco dalla cena consumata ore e ore prima.
«Asahi!» Maria non riuscì ad evitare di intervenire, non le importava del loro litigio.
Rimase in piedi accanto al fidanzato e si affrettò a passargli una mano sulla fronte sudata tirandogli i lunghi capelli castani e setosi all’indietro, in modo che potesse rigettare senza doversene preoccupare. Asahi sollevò gli occhi lucidi e febbricitanti su di lei, aveva le guance arrossate e bagnate di lacrime, che aveva dovuto versare nel processo, e sudore freddo.
«Maria …» biascicò riconoscendola, per poi chinarsi in avanti e rigettare ancora.
«Non preoccuparti, ci sono io adesso» mormorò lei baciandogli la fronte.
Asahi fu scosso ancora da un paio di conati di vomito, ma la seconda volta il suo stomaco dichiarò di non avere nulla di rimasto da cacciare; Maria si accertò che avesse davvero smesso prima di afferrare della carta igienica, bagnarla con quell’acqua e ripulirgli il viso.
«Va un po’ meglio?» gli domandò, mentre Asahi si lasciava andare contro di lei come avrebbe potuto fare un bambino con la sua mamma durante una febbre sfiancante.
Maria non esitò a stringerlo a sé, non si vergognò di stare approfittando di un suo momento di debolezza per farlo, per riavvicinarsi a lui. Erano stati lontani abbastanza per i suoi gusti.
«Credo di aver bevuto un po’ troppo» commentò Asahi con voce strascicata.
Maria rise, una risata liberatoria in cui lasciò andare la tensione, si rilassò con la schiena lungo il bordo di marmo della vasca fredda alle sue spalle e divaricò le gambe per lasciare maggior spazio ad Asahi, che di riflesso si sistemò meglio abbandonando la schiena sul suo sterno.
Maria continuava a passargli la mano fredda sulla fronte e lui doveva trovarlo un sollievo.
«Davvero?» lo prese bonariamente in giro, la sbronza le era completamente passata.
Asahi non rispose, Maria immaginò che avesse chiuso gli occhi, non si era addormentato ma la tranquillità del suo respiro le suggerì che l’avrebbe fatto a breve se fossero rimasti lì.
Non le importava, sarebbe stata capace di rimanere tutta la notte in quella posizione se fosse stato necessario, a patto che si lasciassero tutto alle spalle per fare finalmente pace.
«Anche tu hai bevuto …».
Maria fu colta di sorpresa, non credeva che quel silenzio sarebbe stato interrotto.
Le dita che accarezzavano la fronte del giovane si fermarono per un istante.
«Solamente un pochino» si giustificò con un filo di voce.
Asahi fece qualcosa di inaspettato a quel punto, le afferrò la mano e se la portò alle labbra baciandogliela, per poi tenersela stretta sul petto, in quel modo, Maria poteva sentire il suo cuore battere a ritmo regolare sul palmo freddo della mano.
«Sono stati dei giorni difficili. Mi dispiace se non ti ho reso le cose facili».
Maria non se l’era aspettato, per quel motivo non riuscì a replicare nulla.
«Ma ti ho detto tutto quello che pensavo, Maria» Asahi continuò a parlare liberamente, forse, era stato un bene che lei non avesse risposto «Tutto quello di cui avevo paura».
Forse in realtà non le aveva detto davvero tutto … ma Maria pensò per la prima volta che fosse assolutamente vero.
Si erano scoperti in quel gioco fatto di litigi.
Si erano messi a nudo come non avevano mai fatto prima e inconsapevolmente.
«Anche io ti ho detto tutto quello che pensavo».
Nonostante la sorpresa però, la risposta di Maria fu ferma e decisa, sincera.
Le loro dita si intrecciarono sul petto palpitante di lui.
«Ho deciso di crederci con tutto me stesso, perciò … da adesso si fa sul serio».
Maria non comprese appieno il significato di quelle parole, ma capì che pronunciate da Asahi dovevano significare molto più di quello che comunicavano a primo acchito.
Asahi era arrivato ad una conclusione nel suo peregrinare.
Qualunque essa fosse Maria non vedeva l’ora di scoprirlo.
L’inizio, quella determinazione, sembrava già buono.
«Si fa sul serio» rimarcò, per poi chinarsi e dargli un bacio sulla fronte. 
Asahi si sollevò inaspettatamente dal suo petto, ma lo fece con gentilezza.
Maria si trattenne a stento dal ridere quando vide la massa informe, molto simile al nido di un uccellino, che avevano assunto i capelli di Asahi dietro la nuca; aveva ancora lo sguardo febbricitante e arrossato di chi non aveva del tutto smaltito la bronza.
Ma Asahi era cosciente a sé stesso, Maria lo sapeva bene.
Il ragazzo si mise seduto a gambe incrociate davanti a lei e Maria ne approfittò immediatamente, senza farselo dire due volte si sollevò sulle ginocchia e gli circondò il collo con entrambe le braccia, facendo trovare le loro facce alla stessa altezza.
«Hai un carattere di merda quanto ti arrabbi» gli disse provocatoria, Asahi arrossì immediatamente accontentandola, lasciandole vincere quel giochino divertente.
Le loro labbra si sfioravano, l’odore di alcool era pungente.
«In realtà ti piace» mormorò Asahi, Maria rise sulle sue labbra e un istante dopo lo baciò.
Non fu affatto un bacio innocente, era carico di significato.
Era un bacio che racchiudeva tutti quelli che non si erano dati nei giorni precedenti.
Erano entrambi ben lontani dal trovare la serenità o la stabilità, ma qualcosa doveva essere cambiato davvero quella sera e nei giorni precedenti, l’avrebbero visto pian piano.
Il bacio continuò fin quando entrambi non restarono senza fiato.
Maria aveva il fiatone, ma non ci pensò due volte a mettersi a cavalcioni su di lui cogliendolo impreparato, si baciarono ancora una volta e le mani di lei si posarono sul bordo della maglietta di lui per sollevargliela, prima che Asahi la bloccasse.
«Aspetta!» mormorò mentre si mordeva il labbro inferiore per la frustrazione.
Maria lo guardò completamente interdetta, sopracciglia aggrottate e labbra rosse.
Era dannatamente bella con quei capelli tutti arruffati e la maglietta un po’ sollevata, talmente bella che Asahi provò dolore fisico a togliersela di dosso.
«Sono ubriaco fradicio …» si giustificò lui, Maria alzò gli occhi al cielo e aprì immediatamente la bocca per replicare qualcosa, Asahi la interruppe prima «Vorrei davvero poterti amare stanotte … ma non di certo mentre sono in queste condizioni».
E Maria finalmente comprese.
Comprese quanto amore c’era dietro quel gesto e le vennero le lacrime agli occhi, ma le nascose. Asahi allungò una mano per aggiustarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Non farò con te la stessa cosa che hanno fatto i tuoi genitori.
Era quello che le stava dicendo, ma in silenzio.
«Voglio sentire tutto quando sono con te …».
Forse, l’alcool fu complice nell’aiutare il ragazzo a pronunciare parole che, altrimenti, avrebbe trovato difficoltà ad esprimere o, forse, non avrebbe detto mai.
A Maria comunque non importava, piangeva e, per nascondere le lacrime, afferrò il viso febbricitante di Asahi tra le mani e lo baciò nuovamente con tenerezza.
Non si rese conto che, in quel modo, le sue lacrime di commozione bagnarono anche lui.

 
 
 I had good intentions
And the highest hopes
But I know right now
It probably doesn't even show
So go easy on me, baby…

(Adele – Easy on me)
 
 
 
 
 
Ma buongiorno cari lettori,
Flying_Lotus95 vi augura una buona domenica 🤗⚘
Allora, capitolo piuttosto movimentato, né?!
Gente che beve, si ubriaca, balla, fa cose sospette, si nasconde negli armadi, vomita, beve collutori per rinfrescarsi l'alito in caso dovesse capitargli l'occasione di baciare la ragazza che gli piace (👀👀) e c'è perfino chi si riappacifica nei bagni... insomma, ne abbiamo di tutte le salse 🤣
Eppure, in tutto questo marasma, le frasi che accompagnano questo capitolo sono molto toccanti e tristi: qualcuno ne ha capito il motivo?? C'entrerà per caso la "rondinella" del titolo? Chissà, chissà...😉
Ora info tecniche, mi tocca baes: a Giugno non vi saranno aggiornamenti di Parlami e di altre mie storie in generale. Ci ho tenuto a pubblicare ora il 20 per rendervi la pausa più lieta, visto che qui apparentemente tutto sembra finire bene, per ora...
Ci vedremo prossimamente su questi schermi, a presto cari 👋
Flying_Lotus95 & effe_95

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Capitolo 22
*** 21- "E io sto vicino a te" ***


21.”E io sto vicino a te”.

 
 
Daichi non riusciva ad aprire gli occhi.
La fitta alla testa era talmente violenta che era sicuro sarebbe morto se ci avesse provato.
In bocca aveva un saporaccio tremendo, come se dell’acido gli avesse bruciato l’esofago, gli faceva anche male lo stomaco e aveva una fame tremenda.
Doveva esserselo meritato tutto sommato, ulteriore motivo per non aprire gli occhi.
Daichi non ricordava nulla della sera precedente, se non alcuni sprazzi, attimi… la sua memoria si fermava al momento in cui si era reso conto di non riuscire a mangiare.
Ricordava di aver sputato nel fazzoletto, ricordava pensieri confusi sul passato e la brillante decisione di bere fino a perdere i sensi; cosa avesse detto o fatto successivamente era l’oblio.
Provò un profondissimo stato di ansia quando si rese conto di non sapere come fosse andata a finire la faccenda, non sapeva nemmeno come ci fosse finito in quel futon, chi gli avesse messo addosso quel pigiama e chi avesse avuto la forza di trascinarlo fino al letto.
Non aveva controllato né i primini, né quei pazzi scatenati della sua squadra.
Erano stati scoperti? Avevano esagerato? Qualcuno si era lamentato?
Daichi non sapeva davvero che cosa pensare e il dolore alla testa non fece che aumentare.
Doveva aspettarsi un rimprovero dal coach Ukai? Il solo pensiero lo faceva stare male.
Si stropicciò gli occhi e trovò il coraggio di aprirli lentamente. Come si era aspettato, la luce del sole li trafisse facendo aumentare notevolmente il suo mal di testa, ma la sveglia era suonata alle sei e mezza precisa, inclemente come ogni mattina.
Che avessero fatto le ore piccole la sera precedente e non avessero dormito che poche ore, non aveva importanza, di certo non per i coach e i professori.
Un lamento gutturale gli sfuggì dalle labbra quando, mettendosi seduto di peso sul futon, il dolore alla testa rimbombò come un gong suonato con particolare violenza.
Aveva freddo, un freddo tremendo che poco aveva a che fare con il clima di Ottobre.
Puzzava e non vedeva l’ora di farsi una doccia.
Si portò una mano sullo stomaco e soffocò dentro di sé l’ansia. Aveva fame, ma chiedersi se sarebbe riuscito a mangiare o se invece fosse davvero ricaduto nel suo problema con il cibo, non l’avrebbe affatto aiutato a migliorare la situazione.
Quando si fu abituato alla luce che filtrava dalle tapparelle - il tempo fuori era meraviglioso nonostante il fresco, si rese conto di non essere l’unico ad aver fatto fatica ad alzarsi dal futon.
«Ehi, prendi».
Daichi ci mise qualche secondo a reagire quando sentì quella voce.
Voltò il viso alla sua destra e trovò Asahi, che dormiva esattamente accanto a lui, con il braccio teso e tra le mani un bicchiere ricco di acqua all’apparenza effervescente.
Daichi lo fissò per alcuni secondi, rincitrullito. Anche Asahi aveva un aspetto tremendo, le occhiaie erano violacee e i capelli in pessime condizioni; inoltre, la maglietta bianca con cui aveva dormito era schizzata di vomito in alcuni punti.
«È aspirina» lo informò spingendo nuovamente il bicchiere verso di lui «Ne ho presa una anche io pochi istanti fa. Hai mal di testa, no?».
Daichi indugiò un ultimo istante prima di allungare la mano ed afferrare il bicchiere.
«Grazie» mormorò, prima di mandarlo giù con una certa fretta.
Rimasero in silenzio quando il bicchiere fu finalmente vuoto, Daichi lo reggeva in entrambe le mani prive di forza e appoggiate sulle sue gambe; rimasero in silenzio per un tempo eccessivamente lungo, troppo per due persone che sembravano non avere nulla da dirsi.
Ma loro due avevano litigato e non parlavano a dovere da giorni.
Daichi era abbastanza intelligente da capire che il gesto di Asahi, quell’accortezza nei suoi confronti, non fosse stato solamente dettato dall’affetto, ma era anche un pretesto per poter parlare con lui, avvicinandosi senza pretese e senza violenza.
Asahi il primo passo l’aveva fatto, ora, spettava semplicemente a lui afferrare l’occasione.
«Che cosa è successo ieri sera?».
Quella gli sembrò la domanda più innocua, la migliore con cui cominciare quella conversazione, un passettino alla volta per raggiungere l’obiettivo finale.
Asahi si passò una mano dietro la nuca, nella matassa di capelli arruffati, e fece spallucce.
«Siamo stati scoperti ovviamente» sentenziò e Daichi sentì un brivido lungo la schiena.
«Qualcuno si è lamentato pare … un riccone in viaggio di nozze … ma non è finita in tragedia come ci si sarebbe potuto aspettare». Daichi sentì la fiammella della speranza perduta ravvivarsi nel suo petto dolorante. «Shimizu ha ripulito la stanza prima che entrassero i professori con l’aiuto di Kai, Yaku, Yamaguchi e Tsukishima. Hanno gettato l’alcool in un enorme sacco della spazzatura e Kai se n’è sbarazzato … non chiedermi come. Ha parlato lei con i professori, gli ha fatto credere che volevamo fare una di quelle sfide sciocche, tipo non rispettare il coprifuoco e cose così …».
Quando Asahi smise di raccontare, Daichi sentì una profonda gratitudine nei confronti della loro manager anziana, l’avrebbe ringraziata con le lacrime agli occhi se fosse stato necessario.
«E tutti gli altri?» chiese, continuando a rigirarsi il bicchiere tra le mani.
«Siamo stati fortunati» ammise Asahi grattandosi nuovamente la nuca «Il coach del Nekoma ha acciuffato Lev e Yamamoto e si è sfogato con loro due. Nekomata-sensei è andato a dormire incurante, mentre il coach Ukai e Takeda-sensei … non ho capito bene cosa sia successo a loro, in realtà. Non hanno saputo spiegarmelo».
Daichi annuì sommessamente e rilasciò un sospiro di sollievo.
L’aspirina stava cominciando a fare effetto e sentiva il mal di testa diminuire notevolmente di intensità, l’unico fastidio rimasto della bravata della sera precedente era quel vuoto allo stomaco e una spossante stanchezza sulle spalle.
«E Suga?» domandò, ricordandosi all’improvviso che non era stato nominato nel gruppo di persone che avevano aiutato Shimizu a ripulire la stanza in fretta e furia.
Asahi lo guardò con un sopracciglio sollevato, come se la sua domanda fosse stata sciocca e Daichi avrebbe dovuto invece sapere benissimo che cosa avesse fatto Suga la sera precedente.
«Era con te in bagno a farti vomitare. Per la cronaca, hai rigettato sui suoi pantaloni».
Asahi diede il decreto in modo distaccato, voleva farlo sentire in colpa, era evidente.
Daichi sospirò stancamente e si passò indice e pollice della mano destra sulla radice del naso schiacciando con vigore, sperava in quel modo che la stanchezza potesse sparire.
Oltre al rimprovero degli adulti, doveva aspettarsi anche un colpo di karate nel fianco da parte di Sugawara; l’amico era anche lui nella stanza in quel momento, impegnato a tirare il cadavere di Tanaka per le braccia con l’aiuto di Ennoshita.
I loro sguardi si incrociarono per un istante e Sugawara sollevò le sopracciglia contrariato.
«Sono caduto davvero in basso …» mormorò Daichi tra se e se, giocando distrattamente con il bicchiere tra le mani, era rimasto un residuo d’acqua sul fondo e lui si divertiva a farla girare prima a destra e poi a sinistra ruotando l’oggetto in entrambe le direzioni.
«Si, lo sei». 
Daichi raggelò quando giunse quella risposta da parte di Asahi.
Sollevò gli occhi spalancati alla volta del suo migliore amico e gli vide dipinta sul viso un’espressione che non era abituato a scorgere, era troppo seria.
«Non credi di aver esagerato con l’alcool ieri sera?».
Asahi chiarì meglio la faccenda con quella domanda diretta, aveva qualcosa di strano negli occhi, una determinazione che Daichi non riusciva a spiegarsi. Per un momento, aveva anche creduto di averla immaginata.
Non era sicuro di conoscere l’amico che aveva davanti.
Era successo qualcosa nelle ultime ore, qualcosa che lui non sapeva e Asahi non sembrava intenzionato a raccontare, o altrimenti doveva essere ancora ubriaco e aveva le allucinazioni.
Tuttavia, sebbene la domanda l’avesse turbato, Daichi si limitò a fare un gesto noncurante con la mano accompagnato da una smorfia, come a voler liquidare velocemente la faccenda.
«Avresti almeno potuto mangiare qualcosa Daichi».
Asahi, però, quella faccenda non era intenzionato a chiuderla affatto.
Daichi si irrigidì, come gli capitava ogni volta che si arrivava anche solo a toccare quell’argomento; si era pentito di averlo confidato a Suga e ad Asahi. Tuttavia, sapeva di non potersi lamentare: non ricordava cosa fosse successo la sera precedente, ma detestava averlo confessato ai suoi migliori amici esattamente per quel motivo, non voleva essere controllato.
Nonostante sapesse di non poterlo fare, Daichi mentì lo stesso.
«Non è vero, ho mangiato. Ho mangiato benissimo!».
Forse ci mise troppa enfasi, forse fu quello il motivo per cui non risuonò affatto convincente.
Asahi non lo accusò di aver mentito, non era nella sua natura, e di solito aveva paura di dirgli qualsiasi cosa gli passasse per la testa, era una cosa che Daichi aveva sempre trovato divertente, ma che a volte era servita a creare solamente muri invalicabili tra lui e Asahi.
Se avesse dovuto mettere su una bilancia il rapporto che aveva con l’asso e l’alzatore della sua squadra, non sarebbe stato difficile distinguere la differenza di peso; il suo rapporto con Suga era sempre stato leggero e cristallino, con Asahi aveva dovuto costruirlo mattone su mattone.
Daichi non si era mai sentito giudicato dallo sguardo di Asahi, nemmeno quando aveva confessato tutti i suoi peccati, tutti i suoi segreti in un momento di disperazione.
Quel giorno, su quel futon sporco e puzzolente, quello sguardo gli pesò eccome.
«Credo che se controlli i pantaloni, puoi trovarci ancora il fazzoletto pieno di cibo» si limitò a commentare Asahi, distolse immediatamente lo sguardo quando ebbe finito la frase, conclusa con un tono di voce incredibilmente basso; Daichi aveva sentito una stilettata al cuore, l’istinto e la vergogna gli avevano suggerito di afferrare immediatamente i suoi vecchi pantaloni sporchi per controllare se fosse vero, come se avesse voluto occultare le effettive prove della sua colpevolezza.
Ovviamente non lo fece, si ferì i palmi delle mani per impedirselo.
Tenne invece lo sguardo fisso sul viso di Asahi, che non lo stava guardando, sentiva il cuore galoppare come un puledro impazzito nel petto perché temeva vi avrebbe letto delusione.
Daichi non aveva bisogno di un’altra persona da deludere.
Invece, con uno sgomento che gli strinse il cuore dolorosamente, lesse in quegli occhi castani dalle sfumature gentili una tale preoccupazione da sentirsi schiacciare dalla colpa.
Allungò una mano senza pensarci e la posò sulla gamba scoperta dell’amico per richiamarne l’attenzione, Asahi aveva la pelle fredda come il ghiaccio o forse erano le sue dita ad esserlo.
«Non devi preoccuparti» lo rassicurò immediatamente, quasi sentisse il dovere di farlo «Ogni tanto mi ricapita ma … è solamente un momento un po’ … non ci ricasco, fidati».
Asahi continuò ostinatamente a non guardarlo, nonostante Daichi non avesse smesso di farlo nemmeno per un secondo invece; non lo fece nemmeno quando la stretta sulla gamba si fece forte e fece anche sorprendentemente male.
«Ohi, te lo giuro».
A chi stesse giurando, però, Daichi non ne era sicuro.
Insistette ancora per un po’ con lo sguardo, sperando che Asahi cedesse a quella pressione e lo ricambiasse, non passarono che pochi secondi prima che l’altro lo accontentasse.
Si guardarono negli occhi cerchiati di viola e lucidi per la carenza di sonno.
Ad entrambi sembrava passato un tempo infinito dall’ultima volta che avevano parlato decentemente senza menzogne di mezzo, bugie e muri.
«Mi dispiace di averti risposto male l’altro giorno».
Daichi capì immediatamente, dal modo in cui Asahi buttò fuori quella frase, che non aveva aspettato di fare altro per tutto il tempo di quella lunga e necessaria conversazione.
«Ero nervoso e … me la sono presa con te» concluse, sospirando con spossatezza.
Daichi non replicò immediatamente, in un’altra occasione ne avrebbe approfittato per fare una delle sue scene da capitano, probabilmente avrebbe preso l’altro un po’ in giro, bonariamente però, senza essere troppo cattivo.
In quel momento decise di essere sincero, perché sentiva che la loro amicizia ne aveva bisogno, aveva bisogno di quella sincerità e di quella spontaneità.
«Non importa» lo pensava davvero, «Ma se hai avuto qualche problema con me Asahi … se c’è qualcosa cosa che avresti voluto dirmi … preferirei saperlo … da amico».
Rimasero in silenzio entrambi per alcuni secondi, istanti in cui a Daichi tornarono in mente, senza un motivo preciso, stracci della conversazione che aveva avuto con Sugawara la sera precedente «Se ti ho ferito o deluso in qualche modo … spiegami il perché».
Asahi colse una tale disperazione nascosta nella richiesta del suo capitano da sentirsene profondamente scosso. Daichi glielo lesse in faccia di non essere riuscito a nascondersi.
Non ci era mai riuscito, né con Asahi, né tanto meno con Suga.
«Tu non mi hai mai deluso, Daichi».
La timidezza con cui Asahi pronunciò quelle parole sarebbe potuta risultare o sembrare titubanza, insicurezza, ma non per Daichi. Quelle parole erano sincere, gli accesero una tale fiamma di sollievo nel petto da farlo sentire quasi ridicolo, un povero mendicante.
«Ma c’è una cosa che vorrei davvero dirti».
Daichi si fece immediatamente attento.
Quando Asahi sollevò lo sguardo per sfidarlo ancora una volta, aveva trovato una tale determinazione in sé stesso che Daichi si sentì per la prima volta piccolo piccolo di fronte a lui. Era una prospettiva del tutto inedita, che lo lasciò senza parole.
«Avrei dovuto dirtelo giorni fa, quando abbiamo parlato alle terme, ma non ho avuto il coraggio di farlo perché sono uno stupido».
Asahi tacque e prese fiato per continuare il discorso.
«Allontanati da Maria».
In un primo istante Daichi pensò di aver capito male, non aveva mai sentito l’amico chiamare la ragazza per nome di fronte a nessuno, e se questo avesse dovuto farlo insospettire non lo fece ma, piuttosto, lo portò ad impiegare più tempo del necessario a capire di chi e cosa stessero realmente parlando.
«Se hai pensato anche solo per un istante di utilizzarla come ripiego per non aver avuto Michimiya, allora togliti dalla testa l’idea di avvicinarla. Non mi piace, non mi piace che tu l’abbia pensato e non mi piace che tu le faccia del male».
Ancora una volta, Daichi rimase senza parole.
Aveva continuato a stringere il bicchiere vuoto tra le mani, ma la stretta si era fatta talmente ferrea da sbiancargli le nocche, non si era nemmeno preoccupato dell’eventualità che se la pressione fosse aumentata il vetro avrebbe potuto infrangersi in mille pezzi.
Ma chi era la persona che aveva davanti?
Aveva perso il conto di quante volte se l’era chiesto da quando aveva aperto gli occhi.
Sentiva fermento nella stanza, imprecazioni e lamentele per il brusco risveglio, non dovevano essere passati che una ventina di minuti da quando Asahi gli aveva offerto il bicchiere con il medicinale per il mal di testa, eppure a Daichi sembrò passata un’eternità.
Non sapeva che cosa rispondergli e non lo fece.
Avrebbe prima dovuto riflettere a lungo sulla verità e la potenza di quelle parole prima di poter anche solo fiatare una sillaba su tutta la faccenda.
Sbuffò invece, passandosi una mano dietro la nuca in un gesto frustrato che tuttavia accompagnò con un sorrisetto enigmatico.
«Certo che … ci tieni parecchio a Maria, vero?» Non pose quella domanda con fare malizioso o nessuna seconda intenzione, ma Asahi arrossì violentemente, tornando molto simile al se stesso di sempre, assecondando in questo modo, e senza che se ne accorgesse, il desiderio di Daichi di deviare il discorso verso qualcos’altro.
«Hai un occhio particolare per lei. Ma non è che ti piace?».
L’intento di Daichi era quello di prenderlo bonariamente in giro, Asahi avvampò ancora di più e fece un saltello sul posto, scostando senza troppi complimenti la mano dell’amico, che l’aveva leggermente spintonato quando gli aveva posto la domanda.
«Daichi!» borbottò «Figurati se …» Lasciò morire la frase, prese un respiro profondo per aggiungere qualcos’altro, qualcosa di importante da dire.
Daichi lo spintonò nuovamente spezzando il momento. 
L’atmosfera pesante era sparita, il momento cruciale era passato.
Se avesse fatto più attenzione, Daichi si sarebbe reso conto che Asahi era stato sul punto di dirgli qualcosa di importante, qualcosa che, nel tentativo di scappare da quella verità scomoda che gli era stata gettata in faccia, non aveva affatto notato.
Non era stato lo stesso per Sugawara.
Koushi aveva assistito a tutta la scena senza che i due ragazzi se ne rendessero conto.
La camera era piccola, una conversazione come quella, con il chiasso tremendo che stavano facendo, sarebbe passata inosservata per chiunque non fosse stato lui.
In un’altra occasione, Koushi sarebbe stato felice di vedere Daichi e Asahi scherzare in quel modo; era da troppo tempo che non lo facevano, l’ultimo litigio inoltre aveva finito con il ferire anche lui, inevitabilmente.
Suga non aveva saputo come intervenire, né che cosa fare.
Si era sentito impotente, quindi, non avrebbe esitato a buttarsi tra di loro se non avesse notato proprio quella cosa che a Daichi era sfuggita, Asahi aveva esitato, per un solo istante, ma l’aveva fatto.
«Sugawara-kun».
Koushi sollevò la testa automaticamente, sulla soglia della porta c’era Kiyoko.
Era vestita con la tuta nera del Karasuno e lo stava aspettando per fare colazione insieme.
Suga lasciò immediatamente andare la gamba di Tanaka, che aveva continuato a cercare di svegliare per tutto il tempo, arrendendosi anche lui come aveva già fatto Ennoshita.
Raggiunse Shimizu e le si affiancò, non senza prima averle afferrato una mano.
Si guardarono e Koushi sorrise immediatamente al suo indirizzo, subito ricambiato.
«Sei stata fantastica ieri sera» le disse, facendo dondolare le loro mani intrecciate.
Il sorriso appena accennato sulle labbra di Kiyoko scomparve velocemente nel sentir nominare quanto accaduto la sera precedente, Koushi le strinse la mano con maggior vigore.
«Voglio dimenticare quanto successo ieri il prima possibile Sugawara-kun».
Il commento neutro di Shimizu venne accompagnato da un profondo sospiro di stanchezza.
Anche lei aveva dormito solamente per poche ore. Le occhiaie, nonostante nascoste abbondantemente dal correttore, si notavano ugualmente sul bel viso.
Koushi rise nel sentire quelle parole, e Kiyoko si ritrovò a sorridere mentre lo osservava con la coda dell’occhio; aveva amato immediatamente l’innocenza di quella risata felice.
«Credo che le macchie di vomito mi rimarranno sui pantaloni a vita».
Kiyoko distolse lo sguardo quando Koushi riaprì gli occhi, le piaceva osservarlo di sottecchi con un sorriso innamorato sul viso, ma non voleva essere scoperta a farlo, tanto meno da lui.
Sugawara non se ne rese conto dopotutto, pensò piuttosto di approfittare di quel momento.
«É tutto pronto per stasera?» le domandò, tornando serio.
Shimizu gli rivolse un’occhiata, annuendo sommessamente.
«Si, Hitoka-chan mi ha aiutata a nascondere il regalo. Ho parlato con il professor Takeda e mi ha detto che la cena non è stata cancellata, possiamo approfittare di quell’occasione».
Suga ascoltò attentamente, quel giorno era il compleanno di Maria.
Shimizu l’aveva confessato loro solamente con pochi giorni di anticipo, inaspettatamente, l’idea di fare una colletta per comprarle un regalo era stata di Suga, non aveva raggiunto le orecchie di tutti e molti si erano limitati a dare i soldi senza capire nemmeno per quale motivo. Erano stati solamente alcuni membri del Karasuno ad occuparsene.
La faccenda del festino non aveva contribuito a far sì che la cosa fosse ricordata, ma Shimizu non avrebbe mai potuto mettere da parte la sua migliore amica e si era premurata di far sì che la sorpresa che gli avevano riservato per quella sera non venisse rovinata dalle loro bravate.
Suga poteva immaginare le proteste del coach Ukai a riguardo, cancellare l’ultima cena tutti insieme e l’uscita serale successiva sarebbe stata un’ottima punizione per tutti; doveva esserci lo zampino di Nekomata-sensei dietro tutta quella storia. Conoscendolo, la punizione sarebbe avvenuta stesso quella mattina sul campo, durante gli allenamenti.
Koushi sorrise sconsolato all’idea, gli facevano male i muscoli al solo pensiero.
Il regalo era stato acquistato magistralmente di nascosto da Shimizu e Hitoka il giorno in cui avevano lasciato Maria da sola ad occuparsi delle faccende del club; l’idea di cosa acquistare invece era inaspettatamente arrivata da Daichi. Aveva raccontato di aver visto Maria fissare con una certa insistenza un vestito in una vetrina quando erano usciti a fare il giro del paesino uno dei primissimi giorni; lei aveva cercato con tutta sè stessa di non farsi scoprire.
«É tutto merito tuo, Kiyoko-san» la lusingò Suga facendo un sorriso birichino.
Shimizu tossicchiò leggermente e lo spintonò con leggerezza, come per intimarlo a smettere.
Koushi pensò fosse una buona atmosfera per domandare quello che da mesi gli premeva.
Sapeva che se l’avesse chiesto alle persone interessate non avrebbe ottenuto risposta.
«Certo che Daichi è stato proprio bravo a captare quel particolare». Fece quel commento facendolo sembrare quasi casuale, distratto «Deve aver osservato Taniguchi-san piuttosto bene!» Mise la giusta dose di enfasi nella voce, non sembrava affatto caricaturale.
Suga non era molto contento di quello che stava facendo in quel momento, ma Shimizu era l’unica persona che avrebbe potuto sapere qualcosa su quella faccenda che lo stava facendo impazzire. Era successo qualcosa tra Maria, Asahi e Daichi, qualcosa che lui non sapeva.
Qualcosa che, Suga sospettava, nemmeno tra quei tre fosse chiara del tutto.
La conversazione avvenuta pochi istanti prima ne era la prova evidente.
«Si, Sawamura è sempre attento quando si tratta dei ragazzi».
La risposta di Kiyoko fu cauta, accorta, Suga si ritrovò a sorridere interiormente.
Amava anche quel lato di lei, quello cauto e attento, riservato anche quando si trattava di lui.
Non sarebbe stato facile scucirle qualche informazione.
«Quando si tratta di Taniguchi-san però anche Asahi diventa molto attento».
L’espressione di Shimizu non cambiò, nemmeno un muscolo del viso si mosse, fu solamente un impercettibile movimento nella stretta della mano che fece capire a Suga di aver toccato il tasto giusto, dopotutto, conosceva la ragazza che gli camminava accanto come sé stesso.
«Parecchio attento a dire il vero» si portò una mano dietro la nuca e forzò una risata leggermente imbarazzata «Mi viene da pensare che sia interessato a lei ma, imbranato com’è, temo possa non avere il coraggio di dirlo … tu … ne sai qualcosa per caso?».
Giocarsi la carta della preoccupazione per i suoi migliori amici era una piccola cattiveria che si era concesso senza malizia, Shimizu era sempre stata debole in quelle occasioni.
L’aveva fatto perché voleva sapere, voleva sapere che cosa stava succedendo.
La stretta delle loro dita intrecciate si fece ancora più forte per un brevissimo istante, fece quasi male, Suga lesse un istante di indecisione sul viso di Shimizu prima che si rilassasse nuovamente, prendendo la sua decisione su quale risposta dare.
«Non ne so nulla Sugawara-kun».
Koushi sospirò profondamente, rassegnato.
Sul viso non gli si dipinse delusione o altro, ma un semplice sorriso d’accettazione.
Aveva perso quella battaglia, ma non era la prima volta che capitava con Shimizu.
Sperava solamente non fosse una sconfitta troppo grave.
«Vinci sempre tu Kiyoko-san» mormorò, per poi sporgersi e darle un bacio sulla guancia.
Shimizu gli rifilò immediatamente una gomitata gentile nel fianco, Koushi scoppiò a ridere tenendosi con la mano libera la parte colpita, sebbene il dolore fosse effettivamente lieve, lo divertiva quella risposta e il rossore accennato che le era spuntato sulle guance.
«Pensa alla punizione che avrete piuttosto, Sugawara-kun».
«Come sei crudele!».
Se ne andarono in mensa finendo con il parlare del più e del meno.
Koushi si sarebbe arreso per il momento, ma non avrebbe alzato ancora bandiera bianca.
 
 
La gatta continuava a scappare senza che lei riuscisse ad acciuffarla.
Maria era caduta un paio di volte, due tentativi falliti.
La prima volta era inciampata sugli attrezzi da giardino del nonno, si era sbucciata le ginocchia, ma non aveva fatto troppo male. La seconda volta aveva sporcato il vestitino bianco che la nonna le aveva sistemato con tanta cura, sentiva le lacrime premere per uscire, non voleva deluderla, non voleva vedere il dispiacere delinearsi su quel viso paziente e gentile …
Maria amava il giardino di nonno Akio, era curato e ci crescevano alberi di limone e d’arancio … i frutti non erano mai grandi e saporiti come quelli che venivano dall’occidente, ma non aveva importanza, l’odore era buono e d’estate era piacevole nascondersi all’ombra a giocare.
Inginocchiata, con i palmi delle mani scorticati, Maria si rese conto di essere tornata bambina. Aveva gli arti troppo piccoli, era scalza, sporca e scalmanata.
Non aveva importanza però, doveva acciuffare quella gatta gialla dagli occhi azzurri a tutti i costi, o altrimenti sarebbe scappata lasciandola sola di nuovo …
Maria si tirò in piedi e cominciò a correre, correva senza fine, la gatta scappava.
Il giardino del nonno era diventato un labirinto infinito e infido.
Alla fine inciampò di nuovo, era arrivata al centro dell’intrico e la gatta la fissava dal bordo della fontana gorgogliante decorata in stile occidentale.
Quegli occhi azzurri familiari la guardavano dall’alto con supponenza, la coda dritta e la postura rigida da signora consumata; cadere sul selciato aveva fatto decisamente molto più male, Maria guardò le sue mani d’adulta questa volta, sanguinavano.
La gatta gialla la fissò un’ultima volta con aria di sufficienza prima di gettarsi nell’acqua della fontana e sparire senza rimpianti, senza curarsi di lasciarla alle sue spalle …
Aspetta, non abbandonarmi! Aspetta! Non abbandonarmi di nuovo.
Avrebbe voluto gridarlo ma la voce non le usciva, si portò una mano alla gola, incespicava nelle sue stesse parole senza riuscire a proferirle, ed era come soffocare.
La scena cambiò all’improvviso, drasticamente: era nella cucina di casa sua.
Davanti a sé aveva una torta di compleanno della Sirenetta, la nonna ci aveva lavorato tutto la notte, anche lei aveva aiutato a fare le conchiglie con il cioccolato plastico.
Le candeline con il numero dieci erano accese e si stavano sciogliendo, ma era sola.
Nessuno era venuto il giorno del suo compleanno … o forse no, qualcuno c’era.
Sentì dei singhiozzi provenire dall’angolo buio della stanza, all’inizio ne ebbe paura, poi vide un paio di scarpe da bambino e due piccole gambe illuminate da un fascio di luce.
Si fece coraggio e strisciò di qualche centimetro alla volta dei singhiozzi, che divennero improvvisamente sussulti spaventati; il bambino era rannicchiato nell’angolo, aveva le ginocchia strette al petto, le manine chiuse a pugno sulla stoffa dei jeans a salopette che indossava, i calzini corti e neri spuntavano dalle scarpe consumate sulle gambe magre.
Maria si accorse che erano macchiate di qualcosa di scuro, sembrava ruggine …
N-non ti avvicinare. La voce infantile, tremante di pianto e paura.
Maria smise immediatamente di strisciare verso di lui, era curiosa di vedergli il viso, ma ascoltò quella preghiera disperata. Era una donna fatta e finita, con davanti la torta di compleanno dei suoi dieci anni e un bambino di cui non conosceva il volto.
Perché non piangi? La domanda tremante del bambino la colse di sorpresa Sei sola alla tua festa di compleanno, perché non piangi?.
All’inizio, Maria ebbe paura che la sua voce non uscisse come le era capitato prima, si sorprese incredibilmente quando invece la sentì limpida e chiara, la sua voce da ragazza.
Vorrei tanto piangere, confessò con voce materna, ma le lacrime non escono. 
Se ne stavano incastrate agli angoli degli occhi da quando la gatta se n’era andata.
Il bambino rimase in silenzio, i singhiozzi erano cessati, tese inaspettatamente la manina verso di lei dopo alcuni istanti … Maria la prese senza esitare, era morbida.
Io piango perché il mio papà è morto. Mi sento molto solo.
Una strana sensazione di familiarità la colse alla sprovvista, un vuoto alla bocca dello stomaco che le fece venire voglia di allungare una mano nel buio e accarezzare il viso di quel bimbo.
Non lo fece.
Anche io mi sento molto sola. Chi mi ha promesso di venire oggi ... non l’ha mai fatto.
Sorrise alla fine di quella confessione, era sicura che lui potesse vederla in viso, chissà che cosa stava pensando dei suoi occhi azzurri brillanti di lacrime mai versate …
La piccola mano si mosse inaspettatamente contro il suo palmo ... quando Maria la guardò non era più quella di un bambino, ma quella di un uomo … era calda, piena di calli, le vene sul dorso tese … era stranamente familiare quella stretta gentile.
Sono venuto io per te. Adesso non siamo più soli io e te.
Anche la voce era da uomo, ed era gentile, le sciolse finalmente le lacrime.
Le loro dita si intrecciarono a palmo aperto, la cucina era scomparsa e su di loro c’era la volta celeste della notte, la via Lattea in tutto il suo splendore; fu a quel punto che una stella si staccò dal cielo, un fascio brillante che cadde e si posò sui loro palmi uniti.
Sono la luce che vi guiderà sempre verso casa. Mormorò la voce di un angioletto. 
Era una luce intensa, e quando Maria si ricordò di poter finalmente sollevare il viso per osservare quello dell’uomo che le aveva promesso una solitudine condivisa, era troppo tardi: la luce rischiarava tutto ...
Buon compleanno, Maria.
Era accecante …
 
Un trillo improvviso la fece svegliare di soprassalto.
Maria ci mise qualche secondo di troppo per rendersi conto che si trattava della suoneria del suo stesso cellulare; sentiva il cervello lento per il sonno interrotto.
Allungò una mano con un grugnito infastidito e la luce del display le accecò gli occhi sotto il caldo futon che si era tirata fin sopra la testa, sentiva di essere ormai sola nella stanza.
Lesse il nome sul display aggrottando leggermente le sopracciglia: papà.
Del sogno che aveva fatto non ricordava nulla, l’unica traccia era nelle lacrime secche che le bagnavano il viso, sgorgate per davvero durante la notte.
«Pronto?» rispose con voce roca, strofinandosi gli occhi con la mano libera.
«Maria? Stavi ancora dormendo?» la voce di Fujio dall’altra parte del telefono era bassa, composta e roca come al solito; Maria immaginò che dovesse trovarsi a lavoro.
Era anche la prima volta che le telefonava da quando era al ritiro, nonna Mariko non si era risparmiata a riguardo e Maria era piuttosto sicura che non avesse mancato di riferire al resto della famiglia che stava bene, che mangiava e si prendeva cura di sé stessa.
«No, stavo per alzarmi» mentì scostando svogliatamente il futon, l’aria fredda le lambì immediatamente le membra facendole venire la pelle d’oca.
Fu un ottimo modo per svegliare il suo corpo ancora intorpidito, aveva dormito all’incirca un quattro ore quella notte e i postumi della leggera sbronza si facevano sentire.
Si tirò a sedere e sospirò pesantemente, trattenendo a stento uno sbadiglio.
«Maria, sei sicura? Ti sento stanca» commentò la voce di suo padre dall’altro lato del telefono, Maria si grattò la nuca infilando le dita nel groviglio di capelli che si ritrovava.
«Sto bene papà, il ritiro è solo molto faticoso».
Non aveva la forza di alzarsi in piedi, ma guardando l’orologio da polso che aveva appoggiato accanto al futon, si rese conto che doveva sbrigarsi se voleva fare colazione.
«Ti stai divertendo?» Maria aggrottò le sopracciglia, era una domanda insolita per suo padre, Fujio non si era mai interessato alla sua vita scolastica o ai vari club che aveva seguito.
Non aveva battuto ciglio nemmeno quando gli aveva comunicato che sarebbe partita, non aveva accennato come suo nonno alla presenza di troppi uomini nel gruppo, si era limitato ad accarezzarle la testa come fosse stata un cagnolino e dirle di fare attenzione.
Non che Maria ci fosse rimasta male, suo padre era fatto in quel modo e lo sapeva bene.
Semplicemente, Fujio non era portato per quel genere di preoccupazioni, fintanto che Maria era sana e felice, non aveva motivo di immischiarsi nella sua vita più del necessario.
«É un ritiro papà, non faccio altro che pulire casacche, lenzuola e riempire borracce» commentò Maria incastrando il cellulare tra l’orecchio e la spalla, si era finalmente tirata in piedi per prepararsi, aveva un leggero mal di testa, ma non era di natura insopportabile.
Si legò frettolosamente i capelli alla bell’e meglio, raccolse da terra i vestiti sporchi della giornata precedente e li gettò con noncuranza nella sua valigia, non prima di aver recuperato la tuta pulita e il beauty case; sperava davvero che il bagno comune non fosse affollato.
«Beh, suppongo sia questo il tuo lavoro …».
Fujio lasciò morire la frase e Maria si rese conto, mentre si lasciava la porta della sua camera alle spalle per raggiungere il bagno, che c’era un pizzico di imbarazzo nella sua voce, stava cercando di fare conversazione con lei, ma aveva già terminato gli argomenti a disposizione.    
«É successo qualcosa a casa, papà?» Domandò, era ferma fuori la porta del bagno.
Fujio esitò alcuni secondi prima di darle una risposta, la spiegazione alla sua chiamata.
«Buon compleanno bambina mia».
Fu una vera e propria sorpresa sentirsi rivolgere quelle parole; Maria rimase muta sbattendo ripetutamente le palpebre, sollevò automaticamente lo sguardo sul calendario appeso accanto alla porta del bagno comune e sussultò, era davvero il giorno del suo compleanno.
Lo aveva completamente dimenticato, era da anni che non festeggiava …
Il giorno della sua nascita le ricordava troppe attese disilluse.
«Grazie …» mormorò alcuni istanti dopo, troppi perché Fujio non lo notasse.
«L’avevi dimenticato?» domandò con fare indulgente, forse stava addirittura sorridendo.
Maria si morse il labbro inferiore e scosse la testa, poi si ricordò di essere al telefono.
«No …. forse solamente un pochino» Fujio rise, una risata contenuta ma sincera.
«Stasera ti chiameranno anche i nonni» la informò l’uomo.
Maria mugugnò una risposta d’assenso che fosse udibile anche per lui, non aggiunse altro e non si sorprese che Fujio non avesse accennato a Simona.
Non aveva mai ricordato il giorno del suo compleanno.
I primi anni della sua vita Maria li aveva passati ad aspettare davanti ad una torta che avrebbe spento sempre solo con il suo papà e i suoi nonni, c’era voluto del tempo per capire che quell’attesa non sarebbe mai stata ripagata.
Nemmeno in quel momento.
«Ci vediamo tra qualche giorno».
Fujio la salutò riportandola nuovamente alla realtà, al presente, lontano da pensieri cattivi.
«Va bene, a presto papà».
Chiuse la telefonata e impiegò solamente pochi secondi per aprire la porta del bagno.
Lo trovò vuoto, ormai dovevano essere tutti a colazione, si rassegnò all’idea di saltarla, nonostante il suo stomaco stesse protestando abbondantemente per la fame.
La doccia fu piacevole, calda e rilassante, si prese del tempo per sé stessa.
Quando rientrò in camera a riporre il beauty case e il pigiama, la trovò sistemata e pulita, si fece una coda di cavallo con uno degli elastici di Asahi e pensare a lui le mise il buon umore.
I loro dissapori erano scivolati via la sera precedente e Maria si sentiva leggera.
Fu solamente lungo la via per la hall, dove si incontravano prima degli allenamenti, che cominciò a prendere in considerazione l’idea che Shimizu avesse sparso la voce del suo compleanno. In realtà, l’amica non era mai stata quel tipo di persona, ma non era una consolazione sufficiente, né una conferma ai suoi timori.
Si affacciò nella hall con cautela, erano quasi tutti lì, qualcuno doveva essersi attardato a colazione. Maria individuò immediatamente Daichi e Kuroo alle prese con i coach delle rispettive squadre, che sembravano star facendo loro una lavata di capo non indifferente. Le dispiacque per il suo capitano, ma provò una sottile soddisfazione nel vedere Tetsuro nei guai.
La scena che le aveva regalato la sera precedente era ancora ben fissa nella sua memoria.
Gli altri stavano tutti parlando della festa, anche se in silenzio.
Maria sentì casualmente Tsukishima prendere in giro Kageyama per la faccenda del collutorio, Hinata scoppiare a ridere, per poi zittirsi immediatamente al commento del partner di gioco su quello che aveva visto la sera precedente e l’intervento incuriosito di Yamaguchi.
Si tranquillizzò, era evidente che nessuno sapesse del suo compleanno.
Era un bene, preferiva che fosse in quel modo, nemmeno Asahi doveva sapere.
Lo cercò con lo sguardo entrando timidamente nella hall, ma incrociò per puro caso quello di Hitoka e la vide arrossire violentemente fino alla radice dei capelli.
Era anche lei tra i primini, seduta accanto ad Hinata, che cercava in tutti i modi di attirare la sua attenzione avendo perso interesse per la conversazione con Kageyama.
Maria trovò oltremodo tenero il modo in cui cercava di evitare qualsiasi contatto con Hinata.
Asahi non era da nessuna parte, doveva essere ancora in mensa, sospirò rassegnata all’idea di dover aspettare ancora qualche minuto prima di rivederlo e si avvicinò con un sorriso gentile sulle labbra alla kohai, che sobbalzò come se avesse visto arrivare un giustiziere.
«B-buongiorno Tani-chan» balbettò, rossa in faccia come un pomodoro.
Maria ridacchiò portandosi una mano sulle labbra e guardò la compagna con affetto.
«Buongiorno Hitoka-chan». Non voleva prenderla in giro, ma non riuscì a dissimulare un tono di voce leggermente divertito.
«P-possiamo parlare un attimo?» le domandò con timidezza, una mano sul braccio.
Maria annuì sommessamente e prese la kohai da parte allontanandosi con serenità, in modo da non creare sospetti, dal gruppetto dei primini del Karasuno. Hinata non se ne accorse.
«Q-quello che è successo i-ieri – io – io …»
«Stai tranquilla Hitoka-chan, non hai nulla da giustificare con me».
Maria tentò immediatamente di tranquillizzarla, le aveva fatto una certa tenerezza vedere Yachi in affanno per cercare di spiegarle; le sue parole sembrarono subito rasserenarla.
L’espressione le si rilassò immediatamente, anche il rossore passò.
«Ti ringrazio» le disse con un sorriso decisamente molto più sereno.
Fu a quel punto che Kageyama si alzò inaspettatamente, sia Maria che Hitoka non poterono evitare di far cadere la loro attenzione su di lui; il primino aveva lo sguardo inequivocabilmente puntato sulla senpai del terzo anno ed era decisamente strano.
Anzi … Maria avrebbe potuto definirlo quasi spaventoso in un certo senso.
Come un flash improvviso, l’incidente mai avvenuto della sera precedente le tornò alla memoria, sgranò gli occhi e vide Kageyama sussultare e arrossire violentemente prima di affrettarsi ad andarsene verso il campo da gioco … era una questione che Maria doveva assolutamente risolvere, non aveva mai pensato che …
«Va bene, adesso basta fare le comari! Ad allenarvi, forza!».
L’esclamazione improvvisa di Kuroo interruppe il flusso dei suoi pensieri.
Il capitano del Nekoma aveva i capelli più selvaggi del solito e l’umore decisamente nero a giudicare dall’enfasi quasi del tutto inesistente nella sua voce; la noia, al contrario, la mostrava tutta e apertamente. Gli altri si lamentarono, spaventati dalla prospettiva degli allenamenti.
«Non mi meraviglio che Bokuto ci consideri tutti dei buoni a nulla sfaticati!» continuò a rimproverarli, di pessimo umore. Anche lui aveva dormito poco o niente e la lavata di capo a prima mattina non doveva essere stata piacevole, ma ancora una volta Maria provò una piccola soddisfacente sensazione di vendetta che la fece ghignare.
Tra le lamentele cominciarono, chi prima e chi dopo, ad incamminarsi verso il campo da gioco, Maria sospirò pesantemente alla prospettiva di un’altra giornata faticosa, ma non se ne fece un cruccio eccessivo. Che fosse il giorno del suo compleanno non faceva differenza.
Erano solamente diciotto anni di vita ed era meglio che nessuno sapesse.
«Ahi, che dolore!».
Quell’esclamazione le arrivò all’orecchio mentre passava accanto ad uno dei soffici divanetti della hall, sedutovi sopra vi era Sou.
Il primino aveva una smorfia di dolore dipinta sul viso, non riusciva a tirarsi su, era chiaro.
Maria sollevò le sopracciglia e incrociò le braccia al petto, sarebbe voluta intervenire perché aveva cominciato a sospettare la natura di quel dolore, ma Yaku la anticipò.
«Che cosa ti è successo?!» esclamò il senpai con voce immediatamente allarmata, ma era facilmente percepibile anche un’evidente nota polemica di rimprovero «Perché ti fa male la schiena? Che cosa hai fatto ieri sera che io non so?!».
Sou si fece piccolo piccolo sul divano e sollevò le mani in avanti come se volesse difendersi dal proprio compagno di squadra che superava a malapena il metro; era una scena davvero comica e Maria non poté fare a meno di osservarla con un sorrisetto soddisfatto sulle labbra.
Sou era rosso in viso e Yaku sembrava una vera minaccia proteso verso di lui in quel modo.
«Non è che mi faccia male proprio la schiena …» mormorò il primino evitando a tutti i costi qualsiasi contatto visivo con il compagno più grande.
Yaku sollevò un sopracciglio e si fece ancora più minaccioso se possibile, Sou si rannicchiò nel divanetto e strinse gli occhi a fessura come se si aspettasse una strillata improvvisa o addirittura uno schiaffo. Ovviamente non arrivò nessuna delle due.
Yaku sospirò pesantemente e girò lo sguardo alla volta di Kuroo, che se ne stava accanto alla porta ad aspettare che tutti lasciassero la hall, ma era evidente che non si era perso nemmeno una singola battuta di quella breve conversazione.
«Sei un animale!» lo rimproverò con fare rabbioso, ma contemporaneamente rassegnato.
Kuroo aspettò che la hall fosse finalmente svuotata di tutti i presenti e si avvicinò al divanetto, aveva una mano dietro la nuca e se la passava tra i capelli, rendendoli una massa informe.
Aveva un aspetto tremendo, sembrava un gatto randagio maltrattato e denutrito.
Così impara a darsi alla pazza gioia nel cuore della notte! pensò Maria con un ruggito di trionfo.
«Se … se non te la senti di allenarti, lascia perdere. Parlo io con i professori» bofonchiò alla volta di Sou, che lo fissava con le guance infiammate d’imbarazzo per ciò che si era lasciato scappare, o forse perché aveva cominciato a ricordare qualcosa.
Yaku e Maria sollevarono gli occhi al cielo contemporaneamente.
«Va bene, ho capito!» esclamò il libero del Nekoma con enfasi, afferrò improvvisamente Kuroo per il polso e lo tirò via con urgenza, forse lo fece con irruenza di proposito.
«Potresti restare tu con lui, Taniguchi-san?».
Maria provò un pizzico di delusione alla prospettiva di non vedere Asahi quella mattina, aveva la sensazione che come lei avesse saltato la colazione per andare direttamente in palestra, oppure si era affrettato rispetto agli altri … ad ogni modo, non ne fece una tragedia.
Ci sarebbe stata sicuramente un’altra occasione nell’arco della giornata.
«Certo» confermò allora con un sorriso rassicurante sulle labbra.
Yaku la ringraziò con un borbottio e si trascinò via Kuroo, che avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma era talmente stanco e istupidito che si limitò ad inciampare nei suoi passi.
Maria e Sou rimasero in silenzio ad osservare la scena per alcuni secondi.
La hall era stranamente tranquilla ora che tutti i giovani petulanti l’avevano lasciata, solamente le due donne alla reception, che parlottavano tra di loro osservando i propri cellulari, disturbavano il silenzio; Maria si domandò cosa avrebbe pensato la vecchia proprietaria del ryokan se le avesse viste in quel preciso momento.
Non che le importasse comunque, sospirò pesantemente e si lasciò cadere accanto ad Inuoka, che sussultò come se si fosse dimenticato della sua presenza.
Maria lo fissò con una leggera aria di disapprovazione e il primino arrossì nuovamente.
«Te lo meriti quest’imbarazzo» esordì, incrociando le braccia al petto.
Inuoka si rannicchiò nell’angolo del divano e abbassò lo sguardo, senza riuscire a nascondere una smorfia di fastidio sul viso, Maria pensò che fosse estremamente carino in quel momento.
Le faceva venire voglia di prenderlo ancora un po’ in giro, ma decise di risparmiarlo.
Non voleva di certo fargli sapere di aver assistito in diretta live al motivo del suo dolore fisico.
«Non abbiamo avuto occasione di parlare negli ultimi giorni …».
Quel cambio improvviso d’argomento non servì a far rilassare del tutto il primino, stavano ugualmente sconfinando in un campo minato, ma servì almeno a far sparire il rossore.
Sou rilassò le gambe e trovò finalmente il coraggio di guardare l’altra negli occhi.
«Sono stato un po’ impegnato …» mormorò con un tono di sarcasmo amaro.
Maria scrollò le spalle e gli pizzicò leggermente il braccio per tirarlo su di morale.
«Hai imparato la lezione, vero?». Quella frase la pronunciò con tono scherzoso.
Inuoka abbozzò un sorriso tirato sulle labbra e Maria ne approfittò per avvicinarsi un po’ di più al primino, che di riflesso rilassò completamente la rigida postura in cui si era costretto.
«Non volevo fare davvero quello che ho fatto. Pensavo che in quel modo -».
«Lo so».
L’interruzione di Maria lasciò Inuoka interdetto, lei non lo stava guardando in faccia nel pronunciare quelle parole, ma non gli avrebbe fatto vivere lo sforzo di provarci.
Era chiaro dalla tensione nella voce che Sou stesse facendo uno sforzo enorme.
«Qualcuno che conosco me l’ha fatto capire davvero bene. Lo so Inuoka-kun. E proprio perché lo so …» Maria sospirò un istante e risollevò il viso con un’espressione alleggerita e rassicurante «… so anche che non lo farai mai più».
Sou annuì con forza, aveva gli occhi un po’ lucidi, ma Maria non sapeva dire se fosse a causa del dolore al fondo schiena, del sollievo o della luce che penetrava dalla porta principale.
Era una bella giornata, fredda e autunnale, ma bella come ce n’erano state poche.
Maria non si sentiva né più saggia, né più vecchia del solito, ma stava bene.
«Non penso di averti ringraziato abbastanza Taniguchi-san».
Maria fece un gesto deciso di noncuranza con la mano e scosse la testa.
«Non hai nulla per cui ringraziarmi. Piuttosto Inuoka-kun, c’è una cosa che vorrei chiederti se non ti dispiace».
Maria aveva lo sguardo sereno, ma Sou si ritrovò davvero incuriosito da quale potesse essere la domanda in arrivo, non ne aveva il minimo presentimento.
Tacque, dando in quel modo a Maria il permesso di procedere senza indugi.
«Kuroo ti ha parlato di me e di Azumane-san, vero?».
Lo sgomento sul viso del primino fu per Maria una conferma ben prima di qualsiasi parola, aveva posto quella domanda con voce ferma, senza titubanze o indugi. Era da quando ne aveva parlato con il capitano del Nekoma che quella possibilità si era affacciata nella sua mente, gli eventi che si erano susseguiti avevano solamente posticipato la faccenda.
Maria non provò rabbia nel sapere di avere ragione, nemmeno frustrazione.
Si sentì piuttosto sollevata, sollevata che una persona simile a lei potesse capirla.
«Non hai bisogno di sentirti in imbarazzo Inuoka-kun, ti dirò, ne sono molto sollevata».
«Davvero?» la fretta con cui il primino si pronunciò fece sorridere Maria.
«Davvero» replicò con aria quasi solenne, accavallando le gambe «Poterne parlare con te a cuore aperto mi rende molto sollevata» gli confidò infine.
Sou non rispose immediatamente, rimase per qualche istante a contemplare i suoi stessi pensieri, a raccoglierli, a riflettere; Maria lo lasciò fare con pazienza, era chiaro che nessuno sarebbe venuto a cercarli non prima dell’ora di pranzo, Kuroo doveva aver avuto successo.
«Tetsuro mi ha detto di non parlarne a nessuno … mi ha detto che non avresti voluto».
«E aveva ragione» confermò «Ma con te posso fare un’eccezione» gli fece l’occhiolino e Sou sorrise, con quel rossore ancora accennato sulle gote sembrava esattamente il ragazzino che era, se Maria ripensava a come l’aveva visto la sera precedente ... gli veniva voglia di mollare una sberla potente sul viso di Kuroo, era piuttosto sicura che fosse stato lui a traviare l’innocenza di Inuoka.
«Taniguchi-san» la richiamò il kohai all’attenzione, Maria lo guardò con fare distratto, doveva avere un’aria di disapprovazione sul viso a giudicare dal modo in cui Sou si intimorì, tentò allora di rilassarla «A te non pesa non poterne parlare con gli altri della squadra?».
Maria non era davvero sorpresa di ricevere quella domanda.
«Si, mi pesa» confessò con leggerezza, serenità «Ma ci sono cose che si devono mettere da parte quando si vuole il bene di una persona. Ho strepitato, gridato, mi sono indignata … e non capivo le ragioni che aveva Asahi per dirmi di no. Beh … ancora adesso non le capisco davvero del tutto, ma in questi giorni abbiano fatto un passo avanti».
Maria sospirò dopo quella confessione, faceva bene esprimere alcuni pensieri complessi ad alta voce, sembrava quasi di poter mettere ordine nella propria testa in quel modo.
Inoltre, parlare era una vera e propria medicina e Maria non l’aveva fatto con Shimizu per giorni interi, perché non sapeva come spiegarsi, come giustificarsi …
Sou invece non ne sapeva nulla di tutta quella faccenda e non l’avrebbe giudicata affatto.
«Sai Inuoka-kun … io ho invidiato molto te e Kuroo per il vostro coraggio».
Alla confessione di Maria, Sou abbassò lo sguardo e si morse il labbro inferiore.
«Non è stato facile come sembra Taniguchi-san … non per me. Kuroo invece …».
Inuoka lasciò cadere la frase, era evidente che non si sentiva in grado di poter dire quali fossero stati i sentimenti di Kuroo in tutta quella faccenda, Maria poteva davvero solamente immaginare attraverso cosa fossero passati entrambi… ad ogni modo, non era nelle sue intenzioni alimentare alcun tipo di insicurezza in lui.
Gli doveva almeno quel poco che aveva capito dalla sua conversazione con Tetsuro.
«Kuroo mi ha detto che per lui non si è trattato di coraggio. Mi ha detto semplicemente che non ha paura. Non ha paura di quello che prova per te e di cosa potrebbero pensare gli altri» Sou sollevò la testa e la guardò con una strana luce negli occhi, le gote arrossate d’emozione.
Maria gli sorrise con aria rassicurante, complice quasi.
«Anche se le cose dovessero farsi difficili a volte, hai lui dalla tua parte Inuoka-kun».
Sou la guardò negli occhi per secondi che sembrarono ore interminabili.
«Sono sicuro che lo stesso valga anche per te Taniguchi-san».
Maria rise, contenta, parlare con Inuoka le aveva aumentato il buonumore.
 
 
La giornata era passata velocemente tutto sommato, inaspettatamente.
Nonostante Maria avesse passato l’intera mattinata seduta su quel divano a chiacchierare con Inuoka, si era ritrovata lo stesso la sera a cominciare a preparare la valigia per la partenza.
I ragazzi erano ritornati di buon umore dagli allenamenti, nonostante avessero saltato il pranzo e lavorato come muli, era stata la prospettiva della cena a tenerli belli carichi.
E Maria poteva ben dire che avevano avuto assolutamente ragione.
Era un vero e proprio banchetto quello che si era ritrovata davanti nell’immensa tavola che li aveva ospitati tutti; il cibo era talmente tanto che si era ritrovata piena già dopo una ventina di minuti da quando quell’ultima cena insieme era cominciata.
Incastrata tra Shimizu e Hitoka, riusciva a sentirle a malapena a causa del caos che regnava nella mensa, senza contare che metà di quel frastuono proveniva dai loro compagni.
Nonostante la rigidità della mattina i coach e i professori erano troppo occupati a bere e divertirsi a loro volta per rimproverarli, inoltre, nessuno sembrava infastidito dalla loro allegria. Maria sorseggiò il suo bicchiere d’acqua, aveva caldo ed era sicura che il colorito delle sue guance fosse di tonalità rossastra, la giornata era andata come l’aveva programmata, per sua fortuna nessuno si era fermato a farle gli auguri di compleanno, nemmeno Shimizu.
Maria avrebbe mentito a sé stessa se non avesse ammesso che la cosa l’aveva stupita.
Ma siccome non festeggiava il compleanno con la sua migliore amica da anni, pensò che fosse assolutamente legittimo che Shimizu avesse dimenticato perfino la data.
Non le dispiaceva, aveva di gran lunga preferito quel modo …
Ne era certa, e non riusciva a spiegarsi quella spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco. Appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolo e sollevò lo sguardo per cercare Asahi.
Era seduto di fronte a lei, leggermente sulla destra, accanto a Noya e Sugawara.
Il libero gli stava riempiendo il piatto di cibo, noncurante del panico nell’espressione del suo senpai, che agitava le mani in aria per tentare di fermarlo e fargli capire che non avrebbe potuto mangiare così tanto nemmeno se fosse stato Godzilla.
I loro sguardi si incrociarono e Asahi smise di agitare le mani, per sorriderle timidamente.
Maria si ritrovò a ricambiare quel sorriso intimo senza nemmeno rendersene conto.
«Va bene, adesso fate silenzio!» esordì Yamamoto con il suo vocione «I capitani ci faranno un lungo discorso su quanto sia stato bello questo ritiro eccetera eccetera».
«Ma com’è spiritoso stasera!» commentò Kuroo afferrando il moicano per il collo con il braccio destro, Yamamoto si lamentò immediatamente per il dolore «A te gli onori Sawamura!» dichiarò poi sollevando il suo bicchiere rigorosamente pieno d’acqua.
L’attenzione della tavolata era tutta su di loro, Maria osservò con un sorrisetto sulle labbra l’occhiataccia velenosa che Daichi rivolse al coetaneo, seduto accanto a lui sulla sinistra.
«Si, beh … è stata una bellissima esperienza. Vi aspettiamo a Tokyo».
Il tavolo scoppiò in un caos festante all’allusione alle nazionali, cominciarono immediatamente le frecciatine agonistiche, le risate e la gioia nella prospettiva.
Maria si sentì incredibilmente bene, nonostante una sensazione nostalgica si fosse improvvisamente impossessata di lei alla prospettiva che quella sarebbe stata la prima e ultima volta che avrebbe mai vissuto una cosa simile … se solo avesse accettato l’invito di Shimizu molto prima …
Scosse la testa, non c’era nulla da rimpiangere in quella storia.
Era tutto esattamente al posto giusto e al momento giusto.
Quel ritiro sarebbe finito e avrebbero dovuto pensare alle qualificazioni.
L’idea di poter affrontare nuovamente quel Grande Re vanesio le stringeva lo stomaco.
Era distratta da quei pensieri e non si accorse del fatto che Shimizu si fosse allontanata durante il brevissimo discorso di Daichi, né che l’atmosfera si fosse fatta molto più soffusa e trepidante d’attesa.
Maria si ritrovò con la torta davanti e quel pacco regalo sulle gambe senza rendersene conto.
«Buon compleanno Taniguchi-san!».
Esclamarono tutti in un coro discorde, qualcuno in ritardo di qualche secondo e qualcuno completamente sceso dalle nuvole, come se fosse ignaro di tutta la faccenda.
Maria sbatté le palpebre per alcuni secondi come una sciocca, incredula.
Voltò automaticamente lo sguardo in direzione di Shimizu, ma come sempre la sua migliore amica non mostrava nulla più del necessario sul bel volto, solamente un sorriso accennato che la incitava a godersi quel momento.
«Avanti, apri il regalo Tani-chan!» la incoraggiò Noya a pieni polmoni.
Maria osservò la scatola tra le sue gambe con un certo imbarazzo, trovò poi la forza di sollevare il viso e ricambiare le occhiate allegre e contente di chi la circondava, anche delle persone che se l’erano dimenticato o avevano partecipato al regalo senza saperlo.
Maria sollevò le mani tremanti e sciolse il fiocco.
Quando sollevò il coperchio della scatola rimase sorpresa, non poté fare a meno di spalancare la bocca e prendere il vestito tra le mani, la stoffa morbida tra le dita …
L’aveva guardato solamente per un istante, l’aveva fatto con desiderio, ma per un solo istante.
«É stata una mia idea!» dichiarò Daichi con orgoglio, il petto all’infuori.
Maria lo guardò con gli occhi sgranati, non sapeva cosa dire e non riusciva a parlare.
«G-grazie» balbettò infine e il tavolo scoppiò nuovamente nel chiasso.
I minuti successivi furono assolutamente caotici, la incitarono a spegnere le undici candeline sulla torta alla cioccolata sciolta, che tagliarono alla male e peggio perché non sufficiente.
Maria si ritrovò improvvisamente circondata di persone, era stordita.
Non si era nemmeno resa conto del fatto che Asahi non si fosse avvicinato.
In realtà, il ragazzo se n’era stato seduto pietrificato al suo posto, forse tentando di farsi piccolo piccolo e seppellirsi nella sua stessa vergogna.
Ricordava vagamente che aveva dato dei soldi per qualcosa … ma non aveva capito per cosa.
Era stato troppo impegnato a deprimersi per farlo, e si ritrovava quella sera come un allocco a domandarsi come avesse potuto non sapere che quel giorno era il compleanno di Maria…
Era il suo fidanzato e non ne aveva avuto la minima idea.
«Che cos’è quella faccia Asahi-san?!» Noya lo colpì violentemente sulla schiena con una pacca e Asahi si lasciò scappare un lamento soffocato di dolore, poi si portò le mani in faccia.
«Non sapevo fosse il suo compleanno, Noya» dichiarò con fare lamentoso.
«Che cosa?!» Esclamò Yuu con una tale indignazione che metà tavolo si girò nella sua direzione, Asahi sollevò la testa di scatto e tentò di zittire l’amico di sempre in panico, ma sapeva che il suo sarebbe stato un tentativo fallito in partenza «Che vergogna Asahi-san! Come pensi di conqu-» Asahi saltò in piedi e gli tappò la bocca appena in tempo.
Tuttavia, non l’aveva fatto con la giusta prontezza, Suga aveva assistito a tutta la scena e con lui Shimizu; i due sembravano particolarmente interessati, o forse contrariati.
«Ehi, c’è il festival!» esclamò poi all’improvviso Noya, si era liberato facilmente della mano di Asahi, che non l’aveva stretto sul serio con forza «Portacela stasera, no?».
Asahi aggrottò le sopracciglia, non era una cattiva idea …
Tremò al pensiero di quello che avrebbe potuto dire Noya se avesse effettivamente saputo che lui e Maria avevano una relazione … Asahi fu contento di non averglielo confessato.
«Ho sentito che il festival stasera è particolarmente bello Sugawara-san».
Il commento di Shimizu arrivò posato, non sembrava assolutamente fuori luogo.
Non guardava Asahi in faccia mentre pronunciava quelle parole, ma era chiaro che si stesse rivolgendo a lui in quel momento, come se volesse incoraggiarlo in qualche modo.
«Oh sì, dovremmo andarci Kiyoko-san. Sarebbe un’occasione sprecata non approfittarne».
Asahi si irrigidì alla replica di Sugawara, ma lui guardava Shimizu e la sua espressione era indecifrabile; Noya lo incalzò con uno sguardo, sembrava un cagnolino scodinzolante.
Asahi sollevò nuovamente lo sguardo su Maria, circondata di persone allegre, imbarazzata con il suo regalo tra le mani e una fettina minuscola di torta che non avrebbe mangiato.
Quel vestito era stata un’idea di Daichi …
Asahi avrebbe voluto regalare a Maria qualcosa che non avrebbe potuto dimenticare.
Prese facilmente la sua decisione.
 
 
Maria si sentiva ancora frastornata alla fine della cena.
Le era sembrato tutto incredibilmente surreale, si era rilassata alla prospettiva che la giornata fosse ormai terminata, era stato un errore ma ne era stata inaspettatamente felice.
Il calore che le imporporava le guance di rosso non era merito solamente dalla temperatura.
Maria si portò il vestito nuovo sul viso e nascose un sorriso dietro la stoffa.
Era stata contenta, non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma da quel momento in poi avrebbe avuto un ricordo completamente diverso del giorno del suo compleanno.
Stava ancora ripensando a quando aveva spento le candeline che una mano gentile e familiare le si posò sulla spalla, Maria ne riconobbe immediatamente il tocco.
Aveva aspettato di poter parlare e restare sola con Asahi per tutta la giornata.
Quando incrociò il suo sguardo gentile lo trovò arrossato, sembrava imbarazzato e Maria riusciva anche a capirne il motivo; Asahi era uno dei poveri ignari.
«C-ciao» balbettò, come se avesse la lingua attorcigliata in bocca.
Le venne da sorridere alla prospettiva di quanto fosse imbranato, ma si trattenne.
«Beh … stavo pensando che … potremmo andare al festival da soli … per l’uscita serale ...».
Asahi balbettò e gli sforzi di Maria di trattenersi dal ridere furono vani.
Fu una risalta leggera, allegra e non affatto offensiva; sembrava splendente e lo stesso Asahi finì per aprirsi in un sorriso accennato, sebbene grattandosi la nuca dall’imbarazzo.
«Sarebbe un bellissimo regalo per me, Asahi» commentò in fine.
Avrebbe voluto allungare una mano per accarezzargli il viso, ma non poteva farlo in presenza di tutte quelle persone, sarebbe stato meglio se avessero continuato a parlare in quel modo, tenendo una certa distanza, era già abbastanza intimo il modo in cui si stavano guardando.
«Allora ci vediamo nella hall tra un po’».
Il vero regalo che i professori avevano concesso quella sera non era stata la cena, ma quello che vi seguiva.
La libertà di poter visitare il festival del villaggio, a patto che non si uscisse dall’aria designata e che si rientrasse al ryokan prima del coprifuoco.
Maria non aveva pensato affatto alla possibilità di andare a fare una passeggiata con Asahi.
Non aveva pensato che lui avrebbe trovato il coraggio di proporglielo.
Ne era stata ovviamente molto felice.
Fu per quel motivo che si impegnò particolarmente per sembrare bella.
Indossò il vestito nuovo, un paio di sandali comodi e lasciò i capelli sciolti sulle spalle, vaporosi e ribelli, un filo di lucidalabbra, un cappotto lungo per combattere il freddo e fu pronta.
La hall non era del tutto deserta quando la raggiunse.
Qualcuno si era attardato ad aspettare il proprio compagno di serata, Maria vide di sfuggita Kuroo avvolgere la sua sgargiante sciarpa rossa attorno al collo di un imbarazzato Inuoka, prima di trascinarlo per scherzo verso di sé e stampargli un bacio sulla fronte.
Era una scena tenera, inaspettata.
Asahi la stava aspettando accanto alla porta di legno da cui i due del Nekoma se n’erano appena usciti, lasciando entrare nella hall un vento fresco che sapeva di neve e d’inverno.
Indossava un montgomery pesante da cui spuntavano i jeans scuri e gli eleganti scarponi di ginnastica comperati da poco, i capelli lunghi erano legati come al solito, ma in un codino morbido che lasciava la libertà ad alcune ciocche ribelli di svolazzare libere sul viso.
Non era da solo, la sua espressione era allegra e serena mentre scherzava e rideva con Yuu.
Maria si avvicinò cautamente, come se non volesse intromettersi nella conversazione.
Asahi e Nishinoya si voltarono contemporaneamente verso di lei quando sentirono la sua presenza nel loro campo visivo, avevano ancora entrambi il riso sulle labbra.
«Ah, Tani-chan!» esclamò immediatamente Noya con la solita aria chiassosa.
Maria notò solamente in quel momento che il libero era vestito per la notte e non affatto per uscire; fu un dettaglio che catturò immediatamente la sua attenzione, perché Yuu era stato uno dei primi ad emozionarsi quando erano venuti a sapere di quell’uscita serale.
«Non ti senti bene, Noya-san?» chiese automaticamente, sopracciglia aggrottate.
Yuu fece spallucce e guardò Maria con aria sorpresa.
«In realtà sto alla grande!» dichiarò e per provarlo tirò il petto all’infuori con impeto.
Maria sollevò le sopracciglia aggrottate e si girò alla volta di Asahi, che fece spallucce.
Solamente una minima parte della sua testa si domandò come avrebbero fatto a spiegare al compagno di squadra il motivo di quell’appuntamento a due proprio la sera del festival.
«E allora perché non esci con Tanaka e Yamamoto?» chiese tuttavia, scacciando quel fastidioso e recondito pensiero per concentrarsi sulla realtà presente.
Asahi abbassò immediatamente lo sguardo imbarazzato a quella domanda, mentre Noya fece qualcosa di inaspettato grattandosi la nuca con una certa vergogna.
«Sono in punizione» dichiarò, accompagnando la confessione con un broncio infantile.
Maria sollevò le sopracciglia ancora più su se possibile, quasi da nasconderle sotto la frangia, guardò Asahi e l’altro fece spallucce, aveva le guance arrossate come se fosse lui quello in punizione per aver combinato sicuramente qualche guaio.
«Pare che abbia sputato del collutorio addosso ad un ospite del ryokan ieri notte».
«Nessun rimpianto!» intervenne immediatamente Yuu al termine della spiegazione di Asahi, dal tono di voce e dall’espressione che aveva indossato sembrava davvero non avere alcun tipo di rimpianto «Era uno stronzo che se lo meritava».
Maria strabuzzò gli occhi quando sentì quella parola uscire dalla bocca del libero del Karasuno, anche la sua espressione sembrò rabbuiarsi per alcuni secondi.
«Il tipo che si è lamentato alla reception …» spiegò Asahi, come se quel particolare in più fosse assolutamente fondamentale per comprendere la reazione di Nishinoya.
«Purtroppo per me il coach Ukai è passato di lì proprio in quel momento … ma dovevate vedere la faccia di quell’allocco mentre grondava collutorio!».
Noya terminò il racconto della sua punizione scoppiando chiassosamente a ridere con soddisfazione, doveva essere davvero contento di sé stesso.
Non sembrava triste o abbattuto per il fatto di doversene restare da solo nel ryokan.
«Noi dovremmo andare Noya-san» intervenne Asahi alcuni istanti dopo.
Yuu si girò a guardarli entrambi contemporaneamente e un sorriso birichino che Maria non comprese del tutto illuminò il suo viso ancora infantile.
«Divertitevi voi due, eh!» esclamò con eccessiva enfasi.
«Yuu-chan! Vieni a giocare a shoji con me!».
Proprio in quel momento, inaspettatamente, la proprietaria del posto, la vecchia bisbetica, entrò nella hall reggendo tra le vecchie mani rugose una vecchia tavola dall’aria costosa.
«Arrivo nonnina!» esclamò allegramente Noya alla volta della proprietaria «Adesso devo andare, Chiyo-san mi aspetta» commentò, congedando i due frettolosamente.
Maria e Asahi osservarono entrambi con occhi spalancati Yuu saltare allegramente su un divanetto facendo i complimenti per la sua bellezza alla vecchia megera, entrambi domandandosi quando fosse nata quell’amicizia inaspettata e quali super poteri possedesse Nishinoya per avere l’abilità di sciogliere anche i cuori di pietra.
I loro sguardi si incrociarono alcuni istanti dopo quel pensiero.
Stavano ridendo entrambi di gusto quando si lasciarono la hall alle spalle, mano nella mano.
 
 
Il paesino trasformato per il festival autunnale era la cosa più bella che avessero mai visto.
Entrambi dovevano aver partecipato a qualche matsuri estivo nel loro paese natale negli anni precedenti, ma né Maria né Asahi ricordavano di aver visto nulla di simile.
I colori dell’autunno regnavano sovrani, a partire dagli immensi alberi rossi e arancioni che si confondevano con le bancarelle sottostanti, i teli che le ricoprivano dalle tonalità gialle e marroni e le lanterne appese sulle loro teste che illuminavano le lucide strade lastricate.
Nell’aria si sentivano profumi di innumerevoli pietanze, le voci chiassose dei venditori, dei bambini che correvano nei loro kimono, inciampando nei geta di legno che non sapevano indossare, incuranti dei rimproveri dei genitori che provavano a stargli dietro.
Maria e Asahi camminavano nella confusione tenendosi per mano, incuranti di tutto.
La mente di nessuno dei due venne attraversata dalla paura di poter essere visti da qualcuno.
Erano stati lontani troppo a lungo quei giorni per permettere all’angoscia e all’ansia di rovinare anche quell’unica e splendida serata da trascorrere insieme durante il loro ultimo ritiro liceale, alla fine del loro tempo delle mele.
Maria non vedeva Asahi sereno come quella sera da tempo; era evidente che volesse regalarle il miglior compleanno della sua vita, probabilmente per rimediare alla sua totale disattenzione, ma Maria si lasciò coccolare e viziare da quella prospettiva.
Si fermarono a comprare una mela caramellata alla prima bancarella disponibile, quella di Asahi si ruppe a metà del terzo morso e cadde a terra, schiacciata dalla calca; Maria rise fino a farsi venire dolore allo stomaco prima di afferrare il viso dispiaciuto del suo fidanzato tra le mani, stampargli un bacio sulla guancia e dividere la sua mela con lui.
Comprarono anche dello zucchero filato, nonostante lo stomaco pieno, ma finirono solamente per ritrovarsi con le mani tutte appiccicate mentre lo dividevano a vicenda.
Finirono con il lavarsi sotto una fontanina dove dei bambini stavano giocando a schizzarsi, Maria si mise ben presto a scherzare con loro, facendosi coinvolgere.
Si allontanarono ridendo parecchi minuti dopo, bagnati ma felici.
Fermarsi alle bancarelle dei pesciolini rossi fu un’idea di Maria, insistette trascinando un riluttante Asahi verso la vasca bianca su cui erano già chine alcune ragazzine delle medie, vestite con kimono all’ultima moda. Entrambi non sapevano come comportarsi nell’eventualità fossero riusciti a pescare il pesciolino senza rompere la retina, ma la reticenza di Asahi a quella prospettiva venne vinta dall’entusiasmo di Maria.
Era negato e lo sapeva, ma si accovacciò ugualmente accanto ad una delle vaschette, le maniche del montgomery arrotolate sugli avambracci e le sopracciglia aggrottate dalla concentrazione; la retina si ruppe quasi immediatamente, un pesciolino particolarmente vivace vi si gettò contro a capofitto come se avesse voluto sfidarlo. 
Asahi si lasciò andare ad un verso lamentoso di frustrazione, accompagnato dalle risate immediate di Maria, che si accovacciò accanto a lui aggrappandosi al braccio con cui il ragazzo reggeva la retina ormai bucata; fu solamente a quel punto che si accorse del piccolo pubblico che avevano attirato.
Le ragazzine delle medie sedute attorno alla vasca vicina osservavano Asahi con un certo interesse, bisbigliando e ridacchiando tra di loro, dandosi gomitate a vicenda.
La risata di Maria svanì all’istante, sostituita da uno sguardo glaciale.
Il gruppo si zittì immediatamente, intimorito.
Fu con un bacio consolatorio sulla guancia che Maria marcò il suo territorio, soddisfatta quando vide le sfacciate ragazzine voltare lo sguardo con le gote arrossate dall’imbarazzo.
Asahi le domandò se ci fosse rimasta male per il pesciolino, Maria si limitò ad alzarsi in piedi e trascinarlo verso un’altra bancarella perché aveva voglia di provare i dango.
La trovò un’ottima scusa per allontanare il suo fidanzato da quel branco famelico di gatte morte in erba, Asahi non si era accorto assolutamente di nulla e Maria cominciava a domandarsi quanto ancora gli ci sarebbe voluto per rendersi conto di come lo guardavano le altre … anche quando erano spaventate dal suo aspetto, probabilmente, era proprio quel lato di lui ad attirare maggiormente la loro attenzione, il fascino del ribelle …
Se solamente avessero potuto immaginare quanto poco di ribelle ci fosse in realtà.
Non dovette pregarlo a lungo ad ogni modo, si ritrovò ben presto con una porzione fumante di dango tra le mani, nonostante non avesse più un briciolo di spazio nello stomaco.
Visitarono le stradine del paesino ancora per alcune ore senza una meta precisa, seguendo il flusso di persone si ritrovarono accanto alla riva di un lago per puro caso, circondato da una distesa verde su cui le persone si erano accomodate aspettando qualcosa, lo sguardo perso verso il cielo stellato. Era una notte limpida.
«Avevo letto da qualche parte che il lago è la maggiore attrazione in questo paesino …» commentò distrattamente Asahi, osservando l’immensa distesa nera su cui si rifletteva un arcobaleno di colori diversi, regalo delle luci che si riverberavano numerose.
Infilò distrattamente l’ultimo dango in bocca, alla fine aveva finito per mangiarseli tutti lui.
Maria se ne stava aggrappata al suo braccio come ad un bastone, aveva freddo.
«Cosa stanno aspettando tutte quelle persone?» chiese, stringendosi a lui.
Asahi gettò il sacchetto sporco nella spazzatura e ne approfittò per stringere Maria contro il petto, avvolgendola nel suo montgomery e tra le sue lunghe braccia.
Lei si lasciò coccolare da quel calore, con un sorrisetto soddisfatto sulle labbra.
«I fuochi d’artificio ... credo» commentò Asahi appoggiando il mento sulla sua testa.
Maria sussultò nel sentire quelle parole, osservando improvvisamente le persone sedute sull’erba con un certo interesse, notò solamente in quel momento che vi era un numero elevatissimo di coppie e famiglie, sistemati su tovaglie per il pic-nic o sulle panchine e i muretti. Era distratta da quello spettacolo e non poteva vedere né sentire lo sguardo di Asahi su di sé, il ragazzo stava sorridendo, intenerito dal fremito di eccitazione che aveva percepito percorrere il corpo di Maria stretto tra le sue braccia forti.
«Ci sediamo a vederli anche noi?» glielo chiese, ma conosceva già la risposta.
Il viso di Maria si illuminò di contentezza e Asahi pensò che dopotutto ne fosse valsa la pena.
Si accomodarono in un piccolo spazio di erba libero, era umida di rugiada ma Asahi non si impensierì, si accomodò a terra lasciando che Maria trovasse spazio tra le sue gambe e si appoggiasse contro il suo petto.
Il cielo era stellato, privo di nuvole temporalesche come lo era stato nelle settimane precedenti, era uno spettacolo meraviglioso, nonostante l’aria fresca cominciasse a farsi pungente con l’avanzare delle ore. Il tempo sembrò sospeso nei minuti che precedettero il meraviglioso spettacolo, entrambi lo passarono con il naso all’insù.
Fu unico e indimenticabile.
I colori e le figure nel cielo si riflettevano sul lago creando un gioco di specchi magistrale.
Se avesse potuto imprigionarlo per sempre nella sua memoria Maria l’avrebbe fatto.
Si sentì protetta e al sicuro, felice, era una sensazione che ricordava di aver vissuto solamente pochissime volte sulla sua pelle, qualcosa di simile alle domeniche trascorse a casa in famiglia, nelle prime ore del pomeriggio, sotto il portico di legno del giardino a prendere una tazza di tè con i nonni e con suo padre, i mochi nel piattino a forma di fragola.
Era una sensazione di familiarità e di protezione, e la stava provando con Asahi.
L’angoscia e l’ansia che l’avevano assalita nei giorni precedenti lontano da lui sembravano totalmente sparite quella sera, se Asahi avesse sepolto quelle paure o si stesse semplicemente sforzando per lei, non avrebbe saputo dirlo.
L’unica certezza che possedeva era che stesse facendo di tutto perché quel compleanno fosse indimenticabile e, Maria non sapeva spiegarsi il perché, aveva come la sensazione che lo sarebbe stato per davvero. Era una sensazione strana che non sapeva spiegarsi del tutto.
Era una sensazione che sapeva inaspettatamente di cambiamento.
Lo spettacolo pirotecnico durò pochi minuti, che sembrarono eterni.
Tutto finì comunque troppo presto, il vociare si intensificò come le persone prendevano ad alzarsi in piedi piegando i teli su cui si erano seduti, le famiglie con i bambini piccoli parlavano di tornare a casa perché si era fatto tardi; anche Maria e Asahi sapevano di avere un coprifuoco, ma non avevano controllato l’orologio né tanto meno si erano alzati da terra.
Se ne rimasero in quella posizione ancora per un po’, anche quando il prato fu quasi del tutto vuoto, a contemplare il silenzio della notte e la luce della luna che disegnava strisce luminose sulla superficie piatta del lago, nero come la pece più scura.
«Credo ci sia un tempio alla fine di quella lunga scalinata».
Il commento di Asahi arrivò inaspettato, infranse il silenzio della notte, ma non lo fece bruscamente, il suo tono di voce era basso, piacevole quasi come una ninna nanna.
Maria seguì la linea del suo sguardo voltando la testa all’indietro e intravide anche lei la scalinata di pietra, divisa al centro da una ringhiera e circondata ai lati da fitti alberi, rischiarati dalle lanterne rosse della fiera che proseguivano anche lungo quella strada.
Alcune coppie salivano la scalinata tenendosi per mano.
«Vuoi andarci?» le domandò Asahi, dandole un bacio sulla tempia.
Maria annuì, era davvero curiosa di scoprire cosa ci fosse lì sopra.
Quella prospettiva rese molto più semplice ad entrambi alzarsi e abbandonare quella posizione comoda.
Raggiunsero i piedi della scalinata tenendosi per mano, era vecchia e alcune erbacce crescevano tra le crepe di pietra.
«Quante scale saranno in totale?» domandò Maria con aria scettica, la fine della lunga salita le sembrava decisamente troppo in alto, non riusciva quasi a vederne la fine a causa dell’oscurità in lontananza e del riverbero eccessivo delle luci dei lampioni.
«Credo siano meno di quelle che faccio correndo in salita durante gli allenamenti» commentò Asahi portandosi una mano sugli occhi per osservare meglio i gradini, forse li stava addirittura contando, Maria gli rivolse un’occhiataccia sollevando un sopracciglio.
«Mister Muscoli, se sei tanto bravo portami in braccio fin lassù!» lo schernì incrociando le braccia al petto e accompagnando il gesto con una linguaccia infantile; per alcuni secondi non successe nulla, Maria avrebbe voluto girare la faccia per osservare l’espressione di Asahi, ma aveva paura di scoppiare a ridere se l’avesse fatto e a quel punto la sua farsa non sarebbe servita a nulla.
Fu per quel motivo che non si aspettò quello che successe, non lo vide arrivare.
Prima che potesse rendersene conto si sentì sollevare da terra da due braccia forti, uno strillo di sorpresa le sfuggì di bocca, automaticamente si aggrappò al collo di Asahi e lo guardò con aria incredula mentre si slanciava verso i primi gradini come se non si stesse sforzando.
Si fermò solamente a metà scalinata con il fiato corto, ma le braccia ancora ferme.
«Puoi farmi scendere Asahi, stavo solamente scherzando» disse Maria, trovando finalmente la voce che aveva perso per la sorpresa, spinse le gambe per scendere, ma la presa di Asahi fu talmente salda che non riuscì a muoversi oltre.
«Sto bene» la rassicurò per poi sorriderle ingenuamente, Maria immaginò che si sarebbe passato una mano dietro la nuca se solamente non le avesse avute entrambe occupare.
Lo lasciò fare, perché capì che insistere per il contrario non sarebbe servito a molto.
Una volta raggiunta la cima Asahi la depose a terra con delicatezza, quasi stesse portando tra le braccia la cosa che aveva di più prezioso al mondo. Maria arrossì a quello sciocco pensiero.
Lo guardò di sottecchi e un sorriso intenerito le accarezzò le labbra quando lo vide asciugarsi la fronte con discrezione, come se non volesse farsi vedere, Maria lo accontentò e fece finta di non aver assistito a quella scena.
Lo prese piuttosto per le mani e si spinse in avanti, ad esplorare.        
Come avevano ipotizzato, pochi metri più avanti si affacciò un antico tempio aperto al pubblico, l’ambiente era popolato, il silenzio che li aveva accompagnati fino a quel momento venne nuovamente interrotto.
Il tempio era rosso e nero e dorato, una lunga corda pendeva al centro, davanti l’altare.
«Quella che cos’è?».
Lo sguardo di Maria venne catturato da una pietra proprio al centro dello spiazzato.
Asahi si avvicinò al cartello informativo e lesse velocemente, incuriosito.
«É una pietra dell’amore» spiegò, lesse ancora, restando in silenzio e poi si girò alla volta di Maria, aveva una strana espressione sul viso, le gote leggermente arrossate, allungò una mano per richiamarla a sé e Maria si avvicinò con le sopracciglia aggrottate, perplessa.
«Mettiti qui davanti alla pietra!» la istruì Asahi, sistemandola davanti all’oggetto ancor prima di aver finito di parlare, impedendole in quel modo la lettura del cartellone.
Maria lo assecondò in silenzio, osservandolo con aria perplessa mentre lo vedeva allontanarsi, ma posizionarsi esattamente davanti a lei ad alcuni metri di distanza.
«Resta ferma lì» continuò il ragazzo alzando il tono di voce, non sembrava imbarazzato dal fatto che molte teste si fossero girate nella loro direzione «Adesso io chiuderò gli occhi, tu non parlare per nessun motivo al mondo!».
Maria non replicò, ancora stupita da quella situazione, incredula di quanto stava succedendo.
Fece comunque come le era stato chiesto, rimase in silenzio ad osservare il suo fidanzato chiudere gli occhi e cominciare a muovere i primi passi verso di lei.
All’inizio Maria non comprese quello che stava facendo, improvvisamente poi ricordò un dettaglio, un particolare che aveva letto su una brochure, che era passata di mano in palestra durante gli allenamenti qualche giorno prima che partissero per il ritiro.
Ricordò di aver letto di un tempio nella località in cui dovevano alloggiare, un tempio dedicato agli innamorati, che possedeva una pietra dell’amore; le coppie si sistemavano l’uno di fronte all’altro ad alcuni metri di distanza, la donna doveva rimanere immobile davanti al piccolo monumento, mentre l’uomo camminava verso di lei con gli occhi chiusi … se fosse riuscito a raggiungerla senza perdersi nella calca o deviare il percorso allora …
Maria si sentì afferrare per le spalle, si era distratta nel ripensare a quella storia e non si era accorta che Asahi era arrivato esattamente davanti a lei, con gli occhi ancora ben chiusi.
Fu attraversata da una miriade di farfalle alla bocca dello stomaco.
«M-Maria, sei tu vero?» balbettò Asahi imbarazzato, con le guance rosse come il fuoco.
Maria sollevò entrambe le mani e le posò sul viso del ragazzo, pungendosi con la barba.
«Sono io» mormorò, sollevandosi sulla punta dei piedi per baciarlo sulle labbra.
Asahi sussultò sotto la sua stretta per quel gesto che non si era aspettato e aprì gli occhi.
… se fosse riuscito a raggiungerla senza perdersi nella calca o deviare il percorso allora …
«Allora sarebbe stato per sempre» sussurrò Maria «Diceva così il cartellone, no?».
Asahi sbatté le palpebre per alcuni secondi, come inebetito, poi la colorazione rossastra della sua pelle assunse sfumature ancora più scure; fece un passettino all’indietro sottraendosi gentilmente alla stretta delle mani di Maria sul suo viso e scostò lo sguardo.
Nonostante quel gesto, Maria non se la prese, piuttosto provò una profonda tenerezza.
Si era resa conto che quella sera, per la prima volta da quando stavano insieme, erano liberi da qualsiasi catena li avesse tenuti fermi fino a quel momento.
Si era resa conto di provare qualcosa di profondo.
Non era mai stata così bene con Asahi, lontana da tutti i legami e le responsabilità.
Si rese conto anche del fatto che quello sarebbe stato il modo in cui la loro vita avrebbe funzionato tutti i giorni se avessero cominciato a frequentarsi in maniera diversa, pensò che una cosa del genere ad Asahi non l’avrebbe mai detta.
«Dammi la mano» lo invitò piuttosto, allungando l’arto verso di lui.
Asahi guardò la mano tesa della sua fidanzata per alcuni secondi, secondi in cui Maria lo incoraggiò un paio di volte ad accettare, quasi dovesse davvero convincerlo.
Non ce ne fu bisogno e non era quello che Asahi voleva.
Anche lui, per la prima volta quella sera, doveva essersi reso conto di alcune cose.
Andarono all’altare e pregarono in silenzio le loro offerte, senza rendersi conto che le loro preghiere dovevano essere state molto simili agli occhi di Dio.
Asahi fu il primo a riaprire gli occhi e sciogliere le mani congiunte, voltò lo sguardo verso il profilo di Maria; gli era sempre piaciuto quel nasino all’insù sbarazzino, le lunghe ciglia scure se ne stavano su spontaneamente, senza trucco a camuffarne la forma, i lunghi capelli neri si arricciavano sulle punte e le gote sporgenti erano arrossate a causa del freddo.
Un sorriso spontaneo gli nacque sulle labbra, infilò la mano nella tasca del giubbotto e strinse tra le dita il braccialetto che aveva acquistato di nascosto tra le bancarelle.
Aveva deciso di fare un passo importante quella sera, un passo che non aveva a che fare con Daichi, con le sue paure e con ciò che non aveva detto; era un passo che voleva fare per sé stesso. E per la prima volta nella sua vita pensò di rischiare, di farsi anche male se necessario.
Afferrò il polso di Maria non appena la vide riaprire gli occhi, quelle sfumature azzurre incredibili furono immediatamente su di lui, facendogli venire i brividi lungo la schiena.
Agganciò il braccialetto intrecciato attorno al polso della ragazza e osservò con una certa soddisfazione l’espressione di puro stupore che le si dipinse sul viso.
«Suga mi ha raccontato di averne regalato uno simile a Shimizu il primo giorno di ritiro, quando la palestra era in manutenzione …» cominciò a raccontare Asahi, prendendo entrambe le mani di Maria tra le sue, lei se ne stava in silenzio, con i meravigliosi occhi dal colore sorprendente puntati su di lui «… mi sono sentito in colpa di averti lasciato da sola, ero arrabbiato e non volevo …» Asahi lasciò cadere la frase «Ho scelto il rosso perché mi fa pensare al filo del destino … N-non voglio metterti nessuna pressione, sia chiaro! Solo … solo pensavo andasse bene … ecco».
Smise di parlare, la voce ridotta a un filino.
«Va molto bene infatti».
Il commento di Maria arrivò immediato, sicuro, gli diede la forza di guardarla nuovamente negli occhi, senza vergognarsi delle sue parole o delle guance arrossate.
«Maria» la chiamò, lei già lo guardava «Ti amo».
Glielo disse in italiano, con una pronuncia scorretta, strana, non era nemmeno sicuro del fatto che lei potesse davvero capirlo, conosceva solamente poche parole di quella lingua che in parte portava nel sangue, le parole che aveva imparato dalle canzoni che amava.
Lo disse perché aveva voluto prendersi il rischio, perché sentiva di volerlo fare.
Ebbe la prova del fatto che Maria aveva compreso le sue parole dal modo in cui gli occhi le si riempirono di lacrime; lei abbassò immediatamente lo sguardo per nascondersi, non gli rispose, ma prese invece a colpirgli il petto nel tentativo di nascondervisi contro.
Asahi rise dei suoi tentavi falliti, non gli importava di non aver ottenuto risposta.
Non era di una conferma che aveva bisogno, non era mai stato nella sua natura forzare nulla su nessuno e non l’avrebbe mai fatto con Maria.
Era un suo limite, un limite che Asahi aveva superato.
«Maria» la richiamò, lo fece con gentilezza, senza forzarla in nessun modo.
Lei sollevò il viso arrossato, non solo più dal freddo.
Aveva lo stomaco in subbuglio mentre una serie di emozioni a cui non sapeva dare nome la investivano come un veicolo alla massima velocità.
«Buon compleanno».
Maria sussultò nel sentire quelle parole, fu colta da uno stranissimo senso di dejà vu e seppe finalmente, ad almeno dodici ore di distanza, chi fosse il bambino e l’uomo del suo sogno.
 
 
Quando scesero la scalinata per tornare al lago, la strada sottostante era ormai deserta.
Il prato su cui avevano osservato il meraviglioso spettacolo pirotecnico era un’immensa distesa scura illuminata solamente dai raggi della luna e dalle numerose stelle.
Solamente un battello solitario se ne stava attraccato al molo, una serie di lucine di Natale erano attaccate come delle tendine attorno alla circonferenza dell’imbarcazione.
Maria e Asahi vi si avvicinarono per pura curiosità.
Notarono solo successivamente il cartello che proponeva una visita sull’isoletta centrale del lago, non visibile ad occhio nudo, su cui crescevano alberi di kiwi e ciliegi.
Anche se non era periodo dell’anno per osservarli in fioritura, essendo il giro a poco prezzo Maria e Asahi vi salirono sopra senza controllare orari o preoccuparsi del coprifuoco.
Passarono il giro sul battello appoggiati al parapetto, abbracciati mentre il vento freddo della notte li investiva in pieno viso e gli schizzi d’acqua del motore provocavano piccoli brividi.
L’isolotto che visitarono non aveva nulla di spettacolare senza gli alberi in fiore, ma era carino e suggestivo, abbastanza piccolo perché potessero viverci solamente poche persone.
Quando tornarono al molo per prendere il battello del ritorno, lo trovarono deserto.
«Perché non c’è nessun battello qui, Asahi?» domandò immediatamente Maria, un principio evidente di panico nella voce.
Asahi si grattò la nuca e osservò il molo ineluttabilmente ed evidentemente vuoto.
Sollevò la manica del giubbotto pesante e osservò l’orologio da polso con un certo nervosismo, ci mancò poco che non svenisse seduta stante quando vide che erano le due passate, l’orario del coprifuoco era passato da un pezzo.
«Non ce ne saranno fino alle sei del mattino temo».
Commentò con voce funerea, Asahi sperò quasi che Maria non l’avesse sentito, ma lei lo guardò con un’espressione allibita, carica di panico e sconcerto.
«Come sarebbe a dire che non ce ne saranno altri fino alle sei del mattino?! E noi come torniamo indietro!». La sua voce isterica venne improvvisamente spezzata dai singhiozzi del pianto imminente, Asahi riusciva a capire lo sconforto che aveva dovuto provare alla prospettiva di rimanere bloccati al centro di un isolotto sperduto, in un posto che non conoscevano, lontano da tutti e senza poter chiedere aiuto a nessuno se non volevano essere scoperti.
Sapeva che tutto quello sarebbe bastato a fare uscire fuori di testa anche lui, ma stranamente la sensazione di puro panico che l’aveva colto sul principio era sparita immediatamente alla vista del viso bagnato di lacrime di Maria.
Si avvicinò alla fidanzata e le afferrò i polsi per tranquillizzarla, sebbene il primo impulso di Maria fu quello di prenderlo a pugni sul petto ed urlargli contro.
«É tutta colpa tua Asahi, avresti dovuto fare attenzione all’orario!» lo aggredì in preda alla paura, tentando inutilmente di colpirlo al petto, ma Asahi le stringeva i polsi con delicatezza e qualsiasi movimento brusco diventava sempre più effimero «Che cosa facciamo adesso? E non startene così calmo! Qui non ne usciamo indenni!». Altre lamentele, altri singhiozzi.
«Shh, si, hai ragione, scusami» commentò Asahi baciandole la fronte, a quel punto Maria smise di protestare e lamentarsi e si arrese tra le sue braccia, tirando su con il naso.
«Che cosa facciamo adesso?» mormorò lei, voleva fidarsi di lui e lasciare che risolvesse quel problema, Asahi non aveva intenzione di deluderla, non quella sera.
«Per prima cosa mandiamo un messaggio a Shimizu, per avvertirla. Ci aiuterà a coprire la situazione con i professori se dovesse essere necessario». Fare il nome di Kiyoko servì immediatamente a tranquillizzare Maria, che sollevò il viso e annuì, subito rincuorata.
«Seconda cosa, piuttosto importante, troviamo un posto economico dove andarcene a dormire, va bene? Metteremo la sveglia alle cinque, per le sei ce ne andiamo».
Maria annuì nuovamente, le lacrime non sgorgavano più dai suoi occhi preoccupati e solamente quelle che aveva già versato le bagnavano la pelle, Asahi si apprestò ad asciugarle.
Non aveva idea di dove avrebbero potuto trovare un posto per dormire, soprattutto con i pochi risparmi che entrambi si ritrovavano in tasca, ma non voleva dirlo a Maria proprio adesso che era riuscito a calmarla, inoltre, avrebbe pensato a qualsiasi conseguenza solamente quando se ne fosse presentato il momento.
Lasciò che Maria se ne restasse accoccolata sul suo petto tutto il tempo necessario per calmarla. Faceva freddo ormai, il freddo pungente dell’inverno che avanzava.
Doveva starsene calda stretta al lui e al suo montgomery, e Asahi non aveva fretta di allontanarla, la lasciò fare, accarezzandole la testa con fare rassicurante per tutto il tempo.
Fu lui il primo ad accorgersi dell’anziana vecchietta che avanzava verso di loro reggendosi con il bastone; aveva un sorriso gentile sul viso rugoso.
«Ero seduta lì, sul molo!» esclamò con voce gracchiante, sorprendentemente squillante.
Maria, che non si era accorta di lei, saltò dallo spavento stringendosi ancora di più ad Asahi.
«Vivo in quella casa sul lago, mio marito è un pescatore!» continuò a raccontare la vecchietta con voce sempre più squillante, si era fermata abbastanza lontano da loro, ma non ad una distanza tale da non farsi sentire, il tono di voce era gentile ed incoraggiante.
«Ho sentito tutta la vostra conversazione senza farlo apposta, siete minorenni vero?».
Maria e Asahi trasalirono, la vecchietta dovette accorgersi immediatamente del loro timore.
«Oh no no, non preoccupatevi!» Intervenne, agitando una mano in avanti per tranquillizzarli, la sua pelle era scura come quella di un contadino e le sue dita callose «Non ho intenzione di farvi nulla! Io e mio marito abitiamo da soli, i nostri figli hanno lasciato la casa da tempo … in soffitta c’è una stanza in più».
Maria e Asahi ascoltarono quella vecchietta parlare ancora stretti l’uno all’altra.
«Potete fermarvi per la notte se volete» continuò la donna «Ed è gratis!».
Specificò poi, e si incamminò senza nemmeno dare il tempo ai due giovani di replicare.
Maria e Asahi si guardarono negli occhi comunicando in silenzio, pensarono ai rischi … ma anche ai pochi soldi che avevano nel portafoglio, alla possibilità che non ci fossero altri posti in cui passare la notte, se non il molo freddo e gelido …
Si tennero per mano mentre arrancavano dietro l’anziana signora.
«G-grazie mille» trovò in fine il coraggio di dire Asahi, quando fu a portata d’orecchio della gentile signora, che fece un gesto secco della mano.
«Sciocchezze, è sempre bello aiutare una coppia di giovani innamorati».
Maria e Asahi arrossirono contemporaneamente nel sentire quella frase.
La casa della signora era una vecchia baita di legno sul lago in stile giapponese, con il portico ricoperto di vecchie reti da pesca, una sedia a dondolo consumata e le pareti di legno ricoperte di conchiglie dalle forme più svariate; non appena misero piede nell’abitacolo trovarono l’ambiente caldo, accogliente, profumava di acqua dolce e spezie.
«Prego, sedete sedete», l’anziana signora si accomodò attorno ad un tavolo basso, incitando i due giovani a fare altrettanto, Maria e Asahi esitarono prima di accontentarla.
Se ne stavano sempre ben stretti l’uno all’altro, Maria con maggior fervore.
«Io sono Atsuko-san» si presentò la donna, omettendo il cognome.
«I-io sono Asahi» fu lui il primo a presentarsi dopo qualche istante di sconcerto, pensò di omettere anche lui il cognome dato che l’anziana signora non aveva sembrato darne conto, voleva essere amichevole a tutti i costi e ospitale.
«Io Maria» replicò la ragazza al suo fianco, immediatamente dopo.
«Oh, che nome curioso, sei occidentale cara? Ma parli molto bene il giapponese!».
Mentre pronunciava quelle parole l’anziana signora prese a versare del tè caldo, che doveva aver preparato forse prima di uscire per andare a vedere chi stesse urlando sul molo a pochi metri da casa sua.
L’attenzione di Asahi fu catturata dalla presenza di una tazza in più sul tavolino, la signora aveva parlato di un marito, ma di lui non aveva visto nemmeno l’ombra … forse stava dormendo, forse la signora aveva l’abitudine di svegliarsi nel cuore della notte per bere il tè.
Maria parlava al suo fianco, ma Asahi non l’ascoltava, distratto da quel dettaglio.
«Ah l’Italia! Io e mio marito ci siamo stati molti anni fa … un viaggio meraviglioso!» esclamò Atsuko versando il tè nella quarta tazza, quella in più, Asahi aggrottò le sopracciglia.
«Non è vero, caro?» e pronunciante quelle parole, l’anziana signora sollevò la propria tazza  verso l’angolo opposto della stanza, Asahi e Maria seguirono automaticamente quella direzione con lo sguardo e notarono l’altare con l’incenso per la prima volta.
Rimasero interdetti, guardandosi negli occhi.
«La notte non riesco a dormire bene ultimamente, bere il tè con Daiki mi tranquillizza» spiegò Atsuko sorridendo allegramente, Maria e Asahi compresero solamente in quel momento che la loro ospite doveva aver perso il marito solamente da poco tempo.
«Lo so che se n’è andato, non preoccupatevi. Ma per me è sempre qui. Mi sta aspettando, lo so … ma io sono lenta, e lui è sempre stato un brontolone frettoloso».
Sia Maria che Asahi trasalirono nel sentire quelle parole, entrambi arrossirono per l’intimità di quelle confessioni, soprattutto se provenienti da un’estranea.
«Q-quanto tempo siete stati sposati?».
Si azzardò a domandare Maria cercando di interessarsi in maniera discreta alla faccenda, non voleva sembrare irriconoscente per l’ospitalità ricevuta, per dimostrarlo prese tra le mani la sua tazza di tè e ne bevve un lungo sorso
«Più di sessant’anni!» esclamò la donna con fierezza «Ci siano sposati prima della guerra, sapete? Eravamo due ragazzini, avevamo diciotto anni! Vivemmo un’unica notte d’amore prima che lui partisse per il fronte ...» Maria e Asahi arrossirono a quella confessione inaspettata «Quando tornò a casa il nostro Haruki era già un bambino cresciuto … ricordo ancora oggi le lacrime di commozione di Daiki quanto lo strinse tra le braccia …».
La donna si interruppe, persa in qualche ricordo, Maria la fissava incantata, gli occhi lucidi di lacrime, aveva lasciato andare il braccio di Asahi e al ragazzo non era passato inosservato quel gesto. Era il segno evidente del fatto che Maria stesse cominciando a sentirsi a suo agio in quella situazione e lo stesso poteva dire di sé stesso, Atsuko era una donna sola che aveva rivisto in loro i tempi della sua giovinezza, il suo amore passato.
C’era qualcosa di confortevole nello starsene in quella piccola stanza calda e accogliente, con una tazza di tè fumante davanti e la prospettiva di un tetto sulla testa, anche se sconosciuto.
Le ansie e le preoccupazioni in quel modo sembravano molto lontane.
Maria fece qualche altra domanda, parlarono calorosamente ancora per qualche minuto, Asahi bevve il suo tè, e quando l’orologio da pendolo annunciò le due e mezza precise, Atsuko si decise ad accompagnarli nella vecchia soffitta dove avrebbero dormito per quella notte.
 
 
Era una stanza minuscola, il soffitto a spiovente la rendeva grande a sufficienza perché ospitasse al massimo un futon, ma la finestra che dava sul cielo ne aumentava il valore.
Maria ne rimase incantata, si mise inginocchiata sul futon quando Atsuko li ebbe lasciati.
Ammirava lo spettacolo di quel cielo incantato sopra la sua testa e le ritornò in mente quello del suo sogno, da cui una stella si era staccata per posarsi sulle loro mani intrecciate.
La luce che li avrebbe sempre guidati a casa.
«É uno spettacolo meraviglioso» mormorò, una volta che Asahi si fu inginocchiato accanto a lei. Il futon era matrimoniale e occupava tutto il pavimento, sopra vi erano variopinti cuscini colorati dalle forme variegate e numerosi plaid a quadri, di lana, di cotone.
«Lo è davvero» commentò Asahi al suo fianco, naso all’insù.
Maria smise di osservare il soffitto per guardare invece lui, erano soli per la prima volta da giorni, soli per davvero, senza folla, senza amici, senza litigi, senza pensieri, da soli in una stanza dove non contava altro che la presenza l’uno dell’altro.
La prospettiva di addormentarsi sotto tutti quei plaid tra le braccia calde di Asahi, anche fosse stato solamente per poche ore, la rendeva estremamente felice.
«Sessant’anni d’amore … ti sembra possibile Asahi?».
L’asso del Karasuno smise di guardare il cielo quando Maria gli porse quella domanda e i due tornarono a fissarsi negli occhi, erano incredibilmente vicini.
«Si» replicò lui senza pensarci «Mia madre ama mio padre anche oltre la morte».
Maria annuì sommessamente, aveva gli occhi lucidi dalla commozione.
Non seppero spiegare come si ritrovarono stretti l’uno all’altra, a sfiorarsi le labbra con baci leggeri come carezze sotto la volta del cielo stellato, avevano desiderato farlo dalla sera precedente entrambi, avevano desiderato sentirsi così vicini, così vivi.
Avevano ancora tutti i vestiti addosso quando cominciarono, ma quei vestiti finirono tra le pieghe dei plaid e sotto i cuscini un pezzo alla volta, mano a mano che i loro baci diventarono intensi, lasciandoli senza fiato.
Si amarono in un modo diverso quella sera.
Lo fecero stretti l’uno all’altro, seduti al centro del futon con il cielo e le stelle come unici testimoni. Maria, seduta a cavalcioni su Asahi, poteva sentire il suo cuore battere frenetico nel petto e le sue mani gentili sui fianchi erano calde, accompagnavano i suoi movimenti inesperti con lentezza, il piacere che come le onde di un oceano pronto alla tempesta aumentava di ampiezza e intensità.
La testa rovesciata all’indietro.
La fronte appoggiata sul petto candido, tra i seni.
Le loro voci erano spezzate dai sussulti, dai sospiri, ma silenziose.
Raggiungere il culmine fu come lasciarsi cullare dalle acque in tempesta del mare.
A Maria sembrò che un fiore le fosse sbocciato nel ventre, caldo e amorevole.
Se ne rimasero in quella posizione anche quando il respiro di entrambi fu nuovamente regolare, quando il galoppare frenetico dei loro cuori si fu quietato.
Non avevano fatto rumore, erano stati discreti, ma in quei silenzi interrotti solamente dai sospiri contenuti, era stato come se entrambi avessero urlato fino a perdere il fiato.
Urlato contro il silenzio di quei giorni, contro il loro litigio, contro Daichi, contro chiunque.
Si accoccolarono sotto la coperta del futon e i numerosi plaid quando entrambi cominciarono a sentire il freddo della notte; Asahi se ne stava steso di schiena, una mano piegata dietro il collo, nella massa aggrovigliata di capelli, Maria invece era stesa su un fianco, abbracciata al suo petto, aveva intrecciato le gambe a quelle di lui nonostante i peli le facessero il solletico.
Asahi aveva gli occhi chiusi, ma non stava dormendo.
«Non riesci a riposare?» le chiese, e furono le prime parole pronunciate dopo tempo.
Aveva la voce roca, calda, gli occhi erano chiusi, ma era comunque riuscito a percepire lo sguardo di Maria sul suo profilo, quegli occhi azzurri illuminati dalle stelle del cielo.
La luna rifletteva la sua luce sui loro corpi semi scoperti.
«No» mormorò lei, posandogli un bacio su una spalla «Cantami una ninna nanna».
Asahi aprì lentamente gli occhi, leggermente impastati dal sonno, si rigirò nelle coperte ma non per allontanarsi da lei, la strinse maggiormente a sé e si voltò di lato, in modo tale che i loro nasi si sfiorassero, fossero occhi negli occhi e il loro respiro si confondesse.
«Ma non so cantare» bisbigliò, Maria sorrise e sollevò leggermente la testa per dargli un bacio a stampo sulle labbra, veloce e birichino.
Asahi sospirò teatralmente, sconfitto, avevano un paio d’ore di tempo per riposare, ma se Maria avesse continuato a tormentarlo in quel modo non avrebbero chiuso occhio quella notte. Si prese il suo tempo per pensare a cosa cantarle, prima di cominciare prese ad accarezzarle i capelli e Maria chiuse automaticamente gli occhi, lasciandosi andare a quelle tiepide carezze.
«Questa notte e altre notti verranno anche se non sentiremo ancora cantar …» Asahi iniziò a cantare con la sua voce roca, stonata, ma sorprendentemente rassicurante; Maria sussultò nel riconoscere la lingua che stava utilizzando, le parole che stava dicendo, ma non aprì gli occhi né lo interruppe «Ascolteremo la pioggia bagnarci i colori e mischiare i miei pensieri nei tuoi … ormai è l’alba e ho paura di stare e restare da sola a scordarmi di noi …» le carezze sui capelli di Maria si fecero più lente, meno frequenti «E allora sto vicino a te … anche se non vedi che, io son qui vicino a te questa notte e domani sarò …».
La sua voce si spense e rimasero entrambi in silenzio, Maria con gli occhi chiusi.
«Era la canzone che mio padre dedicava a mamma».
Le parole di Asahi non arrivarono inaspettate, ma al momento giusto, quando se l’era sentita.
«É italiana» Si limitò solamente a commentare Maria, occhi ancora chiusi.
«Lo è. Modì di Vinicio Capossela» Asahi fece una pausa «Mia madre la ascoltava sempre quando erano a Livorno. Non ne capiva una sola parola, ma la amava. É diventata la loro canzone e una ninna nanna per me e Hotaru quando siamo nati».
Maria socchiuse gli occhi per sbirciare, Asahi aveva lo sguardo rivolto alle stelle, verso i ricordi dell’infanzia, quei ricordi in cui lei non c’era ancora.
«L’ho imparata a memoria senza nemmeno rendermene conto».
«Me la canti di nuovo?».
Asahi distolse lo sguardo dal cielo stellato e lo rivolse a Maria, che lo fissava vigile adesso.
Lui le appoggiò una mano sul ventre e annuì sommessamente.
«Solo se dormi Maria» mormorò, stanco.
Maria fece fatica a soffocare la risatina che seguì premendosi le dita sulle labbra.
Se ripensava alle lacrime e all’angoscia che aveva provato sul molo le veniva da ridere, avrebbe accettato volentieri qualsiasi punizione il giorno successivo se fosse stato necessario.
Era stato il compleanno migliore della sua vita, l’unico che avrebbe ricordato.
Sorrise un’ultima volta prima di chiudere gli occhi, ripensando al bambino del suo sogno, che le cantava una ninna nanna stringendola tra le sue braccia calde e forti, adulte.
Sono venuto io per te. Adesso non siamo più soli io e te.
Maria si addormentò con l’eco di quella voce familiare.
 
 
Il mattino seguente presero il battello delle sei meno venti.
Avevano dormito entrambi due ore scarse, ma non sembravano stanchi quando Atsuko mise tra le mani di entrambi un sacchetto della colazione, preparato appositamente da lei.
Non doveva aver dormito quella notte per prepararlo.
Maria salutò l’anziana signora con un bacio sulla guancia, si fece baciare a sua volta sulla fronte. Atsuko li salutò con allegria, accompagnandoli fino al molo, li invitò a tornare.
Nonostante sapevano che sarebbe stato difficile, se non impossibile, promisero di farlo.
Fu un viaggio tranquillo, veloce, alle sette meno venti erano entrambi fuori la porta del ryokan, Shimizu li aspettava entrambi insonnolita, avvolta nella vestaglia.
Non disse nulla sul momento, non si lamentò nemmeno quando Maria fece fatica a lasciare andare la mano di Asahi, ma ben presto si sarebbero alzati anche gli altri e non c’era tempo da perdere. Kiyoko la rimproverò solamente quando si trovarono da sole nel bagno, dopo aver fatto una doccia calda e rilassante, sebbene fuori avesse appena cominciato ad albeggiare.
Parlarono di moltissime cose, parlarono del bacio di Daichi, della confessione e del rifiuto di Maria, parlarono della litigata con Asahi e della riappacificazione, della serata appena trascorsa e di Atsuko … parlarono di tutto quello di cui non avevano parlato.
Quando ebbero finito e si furono preparate per bene, pronte a ripartire, Maria si sentiva l’animo improvvisamente leggero, si sentiva felice come non lo era mai stata prima.
«Spero tu abbia finito con i colpi di testa Maria-chan».
Fu l’unico commento di Kiyoko quando ebbero terminato di preparare le valigie, Hitoka si era aggiunta al loro gruppo e avevano dovuto smetterla di parlare di Asahi, Daichi e Suga.
«Ma se ho appena cominciato Kiyoko-san» fu la sua laconica risposta.
Poi si avviarono tutte e tre verso la hall dov’era fissato l’appuntamento quella mattina, prima della partenza.
Sorprendentemente erano quasi tutti lì quando arrivarono a destinazione.
Yamamoto e Tanaka piangevano stretti in un abbraccio disgustoso ben prima del tempo, mentre la vecchia Chiyo-san, la megera, riempiva Noya di sacchetti e regali delle altre anziane signore che alloggiavano nel ryokan … a quanto pareva Yuu aveva fatto colpo la sera precedente, durante uno dei tanti tornei di burraco e shoji.
«Non credere di liberarti di me tanto facilmente, Zaffiro-chan».
Maria sussultò quando quelle parole melliflue le furono sussurrate nell’orecchio e una voce fastidiosamente familiare le solleticò la pelle; sospirò con eccessiva teatralità ed evitò di alzare gli occhi al cielo, era una causa persa ad ogni modo.
«Kuroo» replicò con esasperazione «Non temere, non l’ho sperato nemmeno per un momento». Kuroo ridacchiò, mettendole un braccio attorno alle spalle con familiarità.
Maria non si prese nemmeno più la briga di scostarlo, ormai aveva capito che era inutile.
«Mi raccomando, non farmi disperare troppo il povero Azumane-san».
Tetsuro rise quando Maria gli rifilò una gomitata nel petto non troppo gentile, intimandolo di tacere su quella faccenda, nonostante accanto a lei non vi fosse nessuno.
Sou varcò la porta della hall con la sua valigia proprio in quel momento, indossava ancora la sciarpa rossa che Kuroo gli aveva avvolto attorno alle spalle la sera precedente e camminava con una certa fatica, segno che la partaccia del giorno precedente non era servita.
Maria non se la prese ad ogni modo, fu troppo impegnata ad abbracciare il primino.
«Io vado a torment-, intendevo salutare, Sawamura».
Kuroo si allontanò con inaspettato tatto, lasciando i due amici da soli.
Quando sciolsero l’abbraccio Maria non smise di tenere le mani di Sou strette tra le sue.
«Mi raccomando Inuoka-kun, non farti mettere i piedi in testa da quel gattaccio».
Lo istruì immediatamente Maria, con un rimprovero bonario.
Sou arrossì leggermente ma annuì, aveva gli occhi lucidi di lacrime.
«Sai Tani-chan, all’inizio ero geloso di te» confessò il primino inaspettatamente, Maria non poté evitare di sollevare un sopracciglio «Kuroo ti aveva immediatamente puntata, fin dalla prima volta che ti aveva visto al Karasuno non faceva che parlare di te ben prima del ritiro … quel giorno ti avvicinai per curiosità, quello della foto … beh, sono contento di averti conosciuta. Teniamoci in contatto, va bene?».
Finito il suo breve racconto il primino allungò un foglio alla volta di Maria.
Lei lo prese con sopracciglia aggrottate, poi si rese conto che era il contatto mail di Sou.
«Anche io sono contenta di averti incontrato Inuoka-kun. Spero che tu e Kuroo siate felici, ti contatterò presto» sorrise, Inuoka ricambiò il sorriso e le strinse la mano con forza.
«Anche tu Tani-chan, spero che tu sia felice con Azumane-san».
Salutarsi non fu facile come Maria aveva immaginato il primo giorno che era arrivata al ryokan, erano stati solamente sette giorni, ma in quei sette giorni si erano creati dei legami.
Yamamoto pianse quando Maria lo salutò con un bacio sulla fronte, inaspettato regalo.
Lev strepitò per tutto il tempo saltellandole attorno, prontamente colpito da Yaku.
Kai fu cortese come sempre, mentre il libero burbero ma affettuoso.
Era l’ultimo ritiro che avrebbero passato insieme alcuni di loro, si lasciarono con la promessa di rincontrarsi alle nazionali se possibile, o nella vita in un futuro ancora lontano.
Erano certi che i passi di alcuni di loro si sarebbero rincontrati lungo la strada.
Il Nekoma partì per prima, essendo originari di Tokyo il loro viaggio richiedeva una paio d’ore con un pullman; il Karasuno invece non tornò come era arrivata.
Per loro fortuna non fu Saeko a presentarsi, ma un giovane ragazzo che Maria scoprì con estrema sorpresa essere il fratello di Tsukishima, Akiteru.
Reggeva tra le mani le chiavi del furgoncino della ragazza, dettaglio che provocò una serie di commenti sagaci che coinvolgevano relazioni e parentele inaspettate, che lasciarono Tanaka e Tsukishima molto contrariati e disgustati.
Aveva il riso sulle labbra quando partirono.
Il viaggio del ritorno fu molto più tranquillo, Akiteru guidava con moderazione.
Maria era capitata seduta accanto a Hitoka, e dopo un paio d’ore dalla partenza era una dei pochi ad essere ancora sveglia nonostante non avesse praticamente chiuso occhio la sera precedente, semplicemente aveva troppo a cui pensare per riposarsi.
Era sovrappensiero quando, inaspettatamente, Asahi si sporse dal sedile di fronte.
Si era arrampicato, Suga, suo vicino di sedia, sembrava profondamente addormentato.
Maria lo guardò con un sopracciglio sollevato, perplessa.
«Che cosa c’è?» bisbigliò, sorpresa.
Asahi le fece semplicemente segno di avvicinarsi, e quando Maria lo fece, poco convinta, inaspettatamente le stampò un bacio fulmineo sulla punta del naso, lasciandola interdetta.
«Ma che fai?!» mormorò, arrossendo fino alla punta delle orecchie.
Asahi ridacchiò, mettendosi seduto sulla sedia come se non fosse successo nulla.
Se fosse stato l’Asahi di un tempo, non avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa del genere, e Maria se ne rese perfettamente conto mentre sollevava lo sguardo per controllare che nessuno avesse assistito a quel gesto completamente fuori programma.
Ma stavano tutti riposando da ore, solamente Noya stava vigile al suo posto, ma pensieroso.
Le sembrava finita un’era, un periodo bellissimo della sua vita.
Era una sensazione strana che non riusciva a spiegarsi, ma non era spiacevole.
Non poteva immaginare cosa avrebbe significato ritornare a casa.
Non poteva immaginare di dover fare i conti con il futuro.

 
 
 
 
Salve a tutti! 😊
Effe_95 a rapporto per questo capitolo!
Piaciuto? 😏😏
Noi abbiamo adorato progettarlo e, per quanto riguarda me in particolare, scriverlo. Soprattutto tutta la parte dove perdono il traghetto di ritorno e Maria se la prende con il povero Asahi 🤣 dico sempre alla mia partner in crime che è un sant’uomo questo ragazzo!
Questo capitolo rappresenta un po' uno spartiacque tra due momenti della storia. Da adesso le cose si fanno davvero ... movimentate? Tragiche? Serie? Fate un po' voi 🤣
Come sempre vi auguro buona lettura.
Alla prossima, baldi giovani ✌🏻
Effe_95 & Flying_lotus95

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Capitolo 23
*** 22- La metà spezzata ***


22. La metà spezzata.



Tornare alla solita routine era stato davvero semplice.
Le settimane erano volate come la vita di tutti i giorni aveva ripreso il sopravvento: la scuola, gli esami in vista, il torneo. Maria non aveva avuto un attimo per respirare.
La sera del rientro a casa dal ritiro era stata accolta come se fosse stata lontana per mesi interi, nonno Akio aveva brontolato più del solito, sua nonna le aveva preparato la cena degna di una regina, mentre suo padre era tornato prima dal lavoro portando con se una torta.
Maria aveva sorriso nell’immaginare un uomo introverso come Fujio starsene in piedi imbarazzato davanti una vetrina colorata, in un luogo tutto rosa e affollato di bambini.
Quella sensazione di festa, l’euforia del ritorno e la nostalgia per il ritiro, erano svaniti in fretta come era rientrata a scuola e la realtà aveva picchiato forte come un martello in testa.
Non c’era stato tempo da perdere, gli allenamenti, lo studio, la famiglia avevano occupato tutto il suo spazio, come se non fosse mai partita.
L’unico aspetto positivo di tutta la faccenda era stato il modo in cui il suo rapporto con Asahi si era trasformato; passavano quasi tutti i giorni insieme, in un modo o nell’altro.
Era stato come se quella notte trascorsa nella casa di Atsuko avesse cambiato prospettiva alle cose, e di certo le aveva cambiate per Asahi, che sembrava totalmente un’altra persona.
Allo stress degli esami si era aggiunta la prospettiva di riprovare a qualificarsi per le nazionali.
Maria non aveva mai provato tanta tensione in vita sua.
Avevano giocato contro così tante squadre che ne aveva perso il conto.
Aveva sudato freddo quando Daichi si era fatto male al viso, aveva stretto i denti quando la situazione si era fatta difficile, aveva tremato di paura quando si erano ritrovati a dover giocare nuovamente contro la rivale che li aveva mandati a casa la volta precedente.
Erano stati momenti di tensione assoluta, ma Maria non avrebbe mai dimenticato la gioia e lo sgomento che le avevano serrato il petto quando la palla era frecciata via dalle mani del Grande Re, decretando la loro vittoria; si era lasciata cadere sulla panchina stremata.
Era stata la gioia di un attimo: li attendeva la Shiratorizawa.
Maria non aveva ben capito cosa avesse di tanto spaventoso quella squadra, se non un capitano apatico che non le incuteva il minimo timore, né il minimo rispetto.
Ma d’altronde lei era sempre stata incurante del pericolo.
Quel pomeriggio di autunno inoltrato lei e Asahi avevano deciso di prendersi una pausa.
Maria aveva passato la mattina affaccendata nella cucina del fidanzato a preparargli qualcosa da mangiare per i giorni successivi.
Era il week-end e Asahi l’avrebbe passato a casa da solo.
Kaori e Hotaru erano partite la sera precedente per raggiungere Tokyo; era il periodo dell’anno in cui la ragazza si sottoponeva alle routine mediche di controllo e ad altre procedure.
Maria aveva visto con i propri occhi Asahi combattere contro il dovere di restare e il desiderio di partire. Era stata Kaori ad insistere che restasse a casa, gliel’aveva chiesto in modo silenzioso, con una carezza sulla guancia e un bacio sulla fronte, Asahi non aveva saputo lottare oltre.
Prima di partire Kaori si era fatta promettere da Maria che si sarebbe presa cura di lui.
La ragazza aveva preso quella richiesta piuttosto sul serio: era del tutto intenzionata a fare in modo che Asahi non toccasse una porzione di ramen istantaneo nemmeno con lo sguardo.
Si era stancata davanti ai fornelli e la cipolla le aveva dato la nausea, ma era stata soddisfatta del risultato. Nel pomeriggio, Asahi le aveva proposto una passeggiata.
Avevano camminato a lungo, passeggiando mano nella mano, e poi avevano deciso di passare al cimitero da Hajime anticipando la visita settimanale della domenica, che Kaori si era tanto preoccupata di ricordare ad entrambi.
Pulirono la tomba, cambiarono i fiori e pregarono in silenzio.
Non rimasero lì a lungo, decisero presto di incamminarsi per un ulteriore passeggiata serale.
« Sei stanca? Vuoi che ti riaccompagni a casa? » le domandò ad un certo punto Asahi, mentre camminavano senza una meta precisa.
Faceva freddo ormai, nell’aria si respirava l’odore di una nevicata imminente, le cime delle montagne erano spruzzate di bianco; ma vi era qualcosa di piacevole nello starsene all’aria aperta, non tirava vento e le strade non erano nemmeno tanto affollate.
Maria si limitò a scuotere la testa e sorridere alla volta del ragazzo, sebbene la bocca fosse coperta da una pesante sciarpa colorata.
Passeggiavano mano nella mano, le dita intrecciate, che lasciavano oscillare nel vuoto.
« I tuoi nonni non si arrabbieranno se stai fuori tutto il giorno? ».
« Gli ho detto che sarei venuta a studiare da te. Finché si tratta di studiare mi danno il permesso per tutto! Certo, il nonno ha borbottato come suo solito, ma ultimamente non è più lo stesso … si è ammorbidito ». Maria commentò la frase facendo spallucce, pensierosa.
Asahi dubitava che Akio si fosse davvero ammorbidito, forse aveva semplicemente smesso di opporre resistenza perché aveva capito che la sua era una battaglia persa a priori.
Sorrise nell’immaginare il vecchio strepitare contrariato, probabilmente insultandolo con appellativi di ogni sorta, tutti a che fare con “delinquenza” e “yakuza”.
« Ma non abbiamo aperto libro oggi, Maria. Hai mentito ».
La provocò volutamente il ragazzo, sorridendo quando lei gli rivolse un’occhiataccia infantile.
« Ti ricordo che stamattina l’ho passata a prepararti da mangiare! ».
Asahi rise, una risata leggera e allegra a cui Maria rispose con un sorrisetto accennato, ma magistralmente nascosto dietro la sciarpa.
« Come procedono gli studi per fisioterapia? ».
Maria pose quella domanda con aria casuale, ma non era la prima volta che la faceva.
Ogni tanto, inaspettatamente, glielo chiedeva.
Non voleva darlo a vedere, ma era interessata al suo futuro; entrambi avevano cominciato a parlarne frequentemente nelle ultime settimane, ora che la cosa sembrava essere imminente.
Faceva paura ad entrambi, ma non si erano lasciati scoraggiare.
Avrebbero studiato vicino casa, preso il treno per muoversi ogni giorno … sarebbe stata una vita diversa, ma come per qualsiasi cambiamento vi avrebbero fatto presto l’abitudine.
« Procedono bene. A te, invece? ».
Maria aveva deciso fin da piccola che cosa avrebbe voluto fare da “grande”.
I libri e gli spartiti che si portava nella borsa ogni giorno ne erano la prova concreta.
La musica era la cosa che amava maggiormente, la passione della sua vita.
Stava per rispondere quando, inaspettatamente, nei pressi di un parco piuttosto affollato e rumoroso, una palla da calcio atterrò ai piedi di Asahi colpendolo non troppo duramente sulla caviglia. Dei bambini scalmanati, intorno ai nove - dieci anni, accorsero nella loro direzione allarmati, erano vestiti per l’inverno, ma avevano il viso sporco e le mani sbucciate.
Si stavano divertendo come solamente dei bambini sapevano fare all’aperto e quel piccolo incidente era stato decisamente inaspettato, fuori programma.
Asahi si chinò per afferrare la palla rovinata tra le mani.
Un bambino più coraggioso, quello che doveva essere il capo della combriccola, si avvicinò chinando immediatamente il capo. Aveva le orecchie rosse, mentre tutti gli altri facevano lo stesso standosene leggermente indietro, come per proteggersi dietro di lui.
« M-mi scusi signore ».
Nel sentire quell’appellativo ci mancò poco che Asahi non lasciasse cadere la palla a terra dallo shock, al suo fianco Maria scoppiò immediatamente a ridere, senza curarsi di simulare il suo divertimento o la risata spontanea che le era nata dal cuore.
« N – non sono un signore ».
Mormorò avvilito, mettendo immediatamente su quell’espressione che gli avrebbe fatto guadagnare una stangata nel fianco da parte di Suga.
Maria cercò di soffocare la risata appoggiando una mano sulla spalla di Asahi.
« É quella barba che ti fa sembrare un vecchietto » lo prese bonariamente in giro « Vero bambini? » Continuò poi rivolgendosi alle piccole pesti mortificate.
Alcuni bambini annuirono immediatamente, facendo sfoggio della loro immensa sincerità e ingenuità. Maria sorrise intenerita; era quella l’età dell’innocenza.
« Vecchietto? Io! Ma se sono agile come … come un … »
Asahi balbettò e non terminò mai la frase, sospirando afflitto quando si rese conto che avrebbe perso quella battaglia in partenza; guardò il bambino che aveva davanti e gli posò una delle sue grandi mani sulla testa, sul cappello di lana che stava indossando per la precisione, accarezzandolo affettuosamente.
« Non è successo nulla, ecco a voi la palla ».
Porse l’oggetto con entrambe le mani alla volta del suo proprietario e quando l’altro sollevò le proprie per afferrarlo, Asahi notò quanto fossero piccole rispetto alle proprie e si domandò se anche lui le avesse avute di quella dimensione quando aveva avuto quell’età.
Adesso aveva le mani grandi come quelle di Hajime, era un uomo.
E si rese conto con sgomento che aveva l’età anche per essere padre.
Si era sempre sentito bambino, figlio … non aveva mai pensato che agli occhi di quelle creature innocenti fosse invece un adulto, un adulto su cui poter contare …
Quel pensiero gli fece venire la pelle d’oca lungo la spina dorsale.
« Ah-ah, ma aspettate un attimino! ».
L’intervento inaspettato di Maria fece immobilizzare entrambi, che rimasero fermi con le mani strette sulla palla, voltando lo sguardo in direzione della ragazza.
Alcuni bambini la osservavano con curiosità a causa del colore atipico dei suoi occhi.
« Ho notato che siete pari ed io e questo vecchietto qui ci stavamo proprio annoiando … ».
Asahi aggrottò le sopracciglia e guardò Maria con una certa insistenza, una domanda muta scritta in faccia; lei si limitò a fargli l’occhiolino senza rassicurarlo minimamente.
« Allora giochiamo insieme! » Intervenne inaspettatamente il bambino, cogliendo immediatamente l’invito velato di Maria con gioia ed entusiasmo.
Asahi sorrise quando finalmente gli fu chiaro l’intento della sua fidanzata.
Si divisero in due squadre, una capeggiata da lui e l’altra capeggiata da Maria.
Fu una battaglia agguerrita all’ultimo sangue; i bambini non sapevano giocare davvero a calcio, ma Maria si sorprese a scoprire che nemmeno Asahi era portato per quello sport.
Si faceva dare volentieri numerosi calci negli stinchi che sembravano piuttosto dolorosi e i bambini lo aggredivano in massa per impedirgli di fare qualsiasi mossa.
Dovevano aver immaginato che quello fosse l’unico modo per fermarlo.
Maria invece correva indisturbata verso la porta, portando con se la palla senza davvero un criterio preciso, ma segnò diversi punti per il suo team, mentre i bambini della squadra avversaria erano intenti a liberare colui che avrebbe dovuto essere il loro asso.
La sconfitta fu inevitabile e bruciante.
« Siete degli imbroglioni! » Biascicò alla fine Asahi, senza fiato.
Se ne stava piegato a metà, con le mani sulle ginocchia, ciocche intere di capelli sfuggiti al codino e il colletto della camicia che spuntava dal giubbotto pesante tutto stropicciato.
Maria rise nel vederlo in quelle condizioni, lei non si era stancata nemmeno un po’.
»« Avete perso miseramente, accetta la sconfitta! » lo rimproverò bonariamente mentre si avvicinava, gli sistemò alcune ciocche di capelli dietro le orecchie e tentò invano di raddrizzargli il colletto della camicia.
« Comincio ad essere troppo grande per fare queste cose » mormorò lui afflitto, tirando un profondo sospiro di stanchezza, Maria sorrise e gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia, come per incoraggiarlo.
« Su, su, non fare il melodrammatico » Lo prese in giro con aria allegra.
Era da giorni che Asahi le vedeva quell’espressione radiosa sul viso, non sapeva spiegarsi il motivo, ma Maria gli appariva ancora più bella di quanto già non fosse ai suoi occhi.
« Signore, signore » Il richiamo inaspettato dei bambini, che ormai avevano preso l’abitudine di chiamarlo in quel modo, interruppe il loro contatto visivo « Vuoi giocare ancora con noi? » Asahi si morse immediatamente il labbro inferiore a quella proposta.
Era stanco e Maria glielo leggeva in faccia, ma sapeva che non avrebbe mai detto di no.
L’asso del Karasuno sospirò, ma infine annuì, sorridendo alla volta dei bambini.
« E tu signora? » Chiesero; per solidarietà nei confronti di Asahi, Maria aveva chiesto di essere chiamata in quel modo anche lei.
« Sono un po’ stanca » Spiegò gentilmente scuotendo la testa « Vi guardo dalla panchina, giuro » Promise infine prima che potessero protestare, indicando l’oggetto in questione.
Vi si mise seduta comodamente sopra, osservando con un sorriso sulle labbra la scena.
Asahi era davvero stanco, faceva fatica a stare dietro al pallone, ma non si scoraggiava.
Ad un certo punto, inaspettatamente, in una colluttazione involontaria uno dei bambini più piccoli venne malamente spinto all’indietro finendo rovinosamente sull’asfalto.
Maria sussultò, già pronta a scattare in piedi, si sentiva in dovere di farlo essendo lei l’adulta della situazione, ma prima che potesse anche solamente muovere un passo Asahi era già lì.
Si era inginocchiato davanti al bambino e gli aveva preso delicatamente i polsi tra le mani per esaminare le escoriazioni sui palmi, aveva un’espressione preoccupata ma al contempo rassicurante; Maria si rimise nuovamente seduta sulla panchina, voleva lasciarlo fare senza intervenire, non sapeva spiegarsi il perché ma era curiosa di vedere che cosa avrebbe fatto Asahi in quell’occasione, come si sarebbe comportato.
« Fa tanto male? » Domandò alla volta del bimbo, era mingherlino e ossuto, uno scricciolo con quel cappello di lana sulla testa e il viso pieno di lividure e graffi causati dai giochi scalmanati fatti insieme ai suoi amici; Maria provò una stretta alla bocca dello stomaco.
Sentiva il desiderio di alzarsi da quella panchina e abbracciare quel piccoletto farsi sempre più prepotente, come un istinto materno che non aveva mai saputo di possedere.
Ma si costrinse a rimanere seduta, perché quel bimbo non aveva bisogno di lei.
C’era già qualcuno lì per lui.
« Fa male » Mormorò, tentava inutilmente di trattenere le lacrime agli angoli degli occhi.
Asahi sorrise teneramente e cominciò a soffiare sulle mani del bambino, che lo osservò con ammirazione, come se avesse appena compiuto una magia.
« Va meglio, vero? » Domandò gentilmente, allungando una mano per asciugare le due uniche lacrime cadute sul viso emaciato del bimbo, che annuì immediatamente senza parlare.
« Sei molto coraggioso, lo sai? Queste ferite sono la prova del tuo impegno, quindi devi esserne orgoglioso, va bene? » Asahi sorrise nuovamente per incoraggiarlo.
« Sei proprio forte, signore » Commentò timidamente il bimbo caduto, arrossendo.
Asahi gli passò affettuosamente una mano sulla testa, con fare paterno, prima di essere circondato da tutti gli altri marmocchi che avevano trovato il coraggio di avvicinarsi.
Maria aveva osservato tutta la scena con una strana commozione nel petto, una mano posata distrattamente sul ventre, l’altra appoggiata al bordo della panchina, il corpo ancora inutilmente teso nella necessità di sollevarsi il prima possibile.
Si era ritrovata inaspettatamente a pensare che Asahi sarebbe stato un bravo papà.
Aveva immaginato, in un eccesso di fantasia, un bambino simile a loro, domandandosi se un giorno avrebbero potuto avere una famiglia, se avrebbe potuto essere lei la madre dei suoi figli … se ne era immediatamente vergognata, sentendosi incredibilmente infantile.
Era stata solamente la follia di un attimo, un istante.
Parlare di futuro doveva averle fatto perdere momentaneamente di vista il presente.
Le farfalle nello stomaco, era da giorni che le percepiva, non avevano smesso di muoversi nemmeno per un istante però.
Doveva avere una strana espressione sul viso quando Asahi sollevò lo sguardo per osservarla, perché si accigliò e piegò la testa di lato come per chiederle una spiegazione.
Maria si affrettò a scuotere il capo e sorridergli, cercando di calmare il suo cuore impazzito.
Era un futuro troppo lontano quello che aveva immaginato, era un futuro che l’aveva spaventata. E si chiese quando avesse cominciato a vedere Asahi in quel modo.
Era cambiato qualcosa durante il percorso, tra l’inizio incerto di quella storia e quella sera sull’isolotto; era cambiato qualcosa dentro di lei, anche se non sapeva spiegarsi cosa.
L’unica certezza che aveva era che i sentimenti che provava per Asahi, quei sentimenti a cui non sapeva dare nome, si erano intensificati al punto tale da fare male al petto.
Asahi ricambiò il sorriso e tornò a prestare attenzione ai bambini che lo circondavano.
Maria si massaggiò distrattamente il ventre, pensierosa.
Sorrise, l’unica certezza di cui aveva bisogno in quel momento era di essere felice, e lo era.


Yui non stava davvero guardando dove metteva i piedi.
Quella di leggere per strada era una pessima abitudine che le era stata spesso rimproverata.
I rimproveri non erano serviti, era un vizio di cui non era proprio riuscita a liberarsi.
Yui non amava leggere, amava la pallavolo, arrampicarsi sugli alberi, comprare talismani, passeggiare al tramonto, ma non leggere, no, non era mai stata una passione.
C’era solamente un libro nella sua vita, uno solo, e lo rileggeva almeno una volta al mese.
Lo portava sempre con se nella cartella, era vecchio di anni e aveva le orecchie; la copertina si era scolorita e i kanji del titolo si leggevano appena.
Yui tirava fuori quel pezzo di cuore ogni volta che si sentiva sul punto di soffocare o morire.
Se accarezzava il velluto consumato le sembrava di poter ricordare il sorriso impacciato del bambino che gliel’aveva regalato; se sfiorava accidentalmente la scritta con i polpastrelli le sembrava di poter ricordare la delicatezza con cui l’altro l’aveva aiutata a leggere il titolo dell’opera, le sue guance paffute ed infantili arrossate dall’imbarazzo.
Avrebbe dovuto avere paura di quei ricordi, scappare da loro, seppellirli, nasconderli, eliminarli dalla sua memoria come suo padre le aveva urlato di fare quel giorno che non avrebbe mai dimenticato … il giorno peggiore della sua vita, dove aveva perso ben più di quanto fosse in grado di comprendere.
Ma quei ricordi erano tutto ciò che Yui desiderava disperatamente, tutto ciò di cui aveva bisogno per ricominciare a respirare quando la realtà la soffocava.
Non aveva importanza quanto si sentisse impazzire dentro, morire, quanto avrebbe voluto digrignare i denti, sbattere i piedi a terra, gridare contro suo padre e contro il mondo.
Era una realtà che doveva accettare perché se l’era costruita da sola, con le sue mani.
Stava calando la sera ormai, gli allenamenti erano terminati prima del solito; Yui sapeva che avrebbe dovuto ritirarsi dal club, avevano perso anche quell’occasione e non ce ne sarebbero state altre per lei, ma continuare ad allenarsi era un ottimo modo per distrarsi.
Scostò lo sguardo dal libro e si accorse di essere quasi giunta a destinazione, vedeva in lontananza le querce secolari che delimitavano il perimetro della villa di famiglia.
Non voleva ancora rientrare in casa, sapeva che sua madre quel giorno aveva invitato Kaede per il tè, le due donne si intrattenevano sempre ore ed ore a parlare.
Yui provava un profondo affetto per la madre di Daichi.
Un tempo era stata come una seconda mamma per lei e Yui era stata come una figlia, ma Kaede aveva lo stesso sguardo del figlio, la stessa espressione gentile e non faceva altro che ricordarle che cosa Daichi aveva sacrificato per lei.
Quanto doveva aver sofferto in silenzio quel suo amico discreto, timido ma incredibilmente fermo nelle proprie decisioni e nella sua integrità morale; quanti sorrisi finti doveva averle rivolto, quante lacrime doveva aver versato di nascosto tra le lenzuola.
Yui era sicura che le sue non sarebbero mai state abbastanza numerose a confronto.
Si mise seduta sul muretto dell’aiuola che circondava l’albero di ciliegio posto all’incrocio della strada, era spoglio e terribilmente desolato in quel periodo dell’anno, ma a Yui piaceva passarvi le ore ad osservare le stelle o ad ascoltare il canto delle cicale nella stagione dell’amore durante l’estate.
Si mise seduta sul bordo per non sporcare la gonna di terra, le gambe lunghe distese davanti e le caviglie intrecciate, era arrivata alla scena del libro che preferiva di più.
Si schiarì la gola prima di leggere le battute ad alta voce, impostando il tono di voce:
Hai pensato spesso a me?” mi domandò.
Certo” risposi. Qui fece una voce cupa, caricatura di un tono maschile.
Yui si interruppe e sollevò lo sguardo, sorrise al ragazzo che le stava di fronte.
Il sorriso gentile sul viso squadrato, la divisa scolastica addosso e le mani intorno alla tracolla della cartella, i corti capelli sulla fronte sistemati tutti verso destra.
Anch’io ti ho pensato spesso. Quando attraversavo momenti difficili, pensavo sempre a te. Forse sei stato l’unico amico che abbia mai avuto”.
Era solamente il frutto della sua immaginazione, solamente una speranza velata.
Ma quelle parole che pronunciò con la sua voce, chiara e cristallina, erano le stesse che avrebbe voluto rivolgere a quella persona che poteva solamente immaginare.
Ricambiò il sorriso di Daichi, prima che una lacrima muta le solcasse la guancia.
Un battito di ciglia, la strada era deserta.
Yui si diede della stupida, diventare nostalgica non avrebbe fatto altro che farla piangere.
Tuttavia non asciugò la lacrima solitaria che le aveva solcato la guancia, non la asciugò perché era la prova dei sentimenti che provava.
Ricordava ancora il giorno in cui Daichi le aveva messo tra le mani quel volume, avevano entrambi tredici anni, forse erano troppo piccoli per poterlo leggere, troppo immaturi per comprenderne il reale significato, ma lui amava quello scrittore anche se non lo capiva.
Haruki Murakami, A sud del confine, a ovest del sole.
Yui ricordava di aver messo su una strana espressione, non le piacevano i libri e Daichi lo sapeva, ma lui le aveva raccontato la trama della storia con tale passione da farla immediatamente incuriosire.
Si erano messi seduti nello stesso identico posto dove si trovava lei in quel momento, all’epoca il ciliegio era in fiore, un petalo era caduto sulla copertina mentre Daichi l’aiutava a leggere i kanji del titolo. Avevano letto insieme le prime pagine, lui aveva una voce confortevole, accompagnata da quel pizzico di timidezza che fece sorridere Yui per tutto il tempo.
Daichi aveva avuto negli occhi la stessa passione che glieli illuminava quando ascoltava sua sorella Reira cantare una delle canzoni jazz che amava di più, la stessa luce che glieli illuminava quando le raccontava la trama di una delle mille storie della musica lirica di cui Yui proprio non riusciva a comprenderne il senso o quando giocava a pallavolo.
Yui ricordava che il sole stava tramontando, che tornavano dagli allenamenti per andare a mangiare da lei la solita merenda, non era stato un regalo che aveva fatto scalpore.
Yui l’aveva dimenticato per mesi sul comodino accanto al suo letto.
Lo aveva preso tra le mani solamente quando tutto era andato a rotoli; si era seduta sul bordo del letto, il viso bagnato dalle lacrime, le ginocchia doloranti a causa delle ore passate a terra a supplicare suo padre affinché capisse che non era colpa di Daichi, che era stata solamente colpa sua, che non poteva impedirle di vederlo ... il vuoto nello sguardo quando era giunta la consapevolezza di non poter più guardare l’amico negli occhi … Daichi non l’avrebbe sopportato, ne era certa.
Aveva posato lo sguardo sul volume per caso, lo aveva prima accarezzato e poi preso tra le mani ricordando tempi felici. Ci aveva messo tutta la notte per finire di leggerlo, in lacrime.
E l’aveva letto ancora e ancora e ancora e ancora.
Ogni pagina era Daichi, ogni pagina era una carezza, una menzogna in meno.
Yui aveva dato un bacio sulla guancia all’amico per ringraziarlo quel giorno lontano, ricordava ancora il rossore sulle sue gote a quel gesto, aveva riso, l’aveva trovato divertente e allora aveva riprovato sulle labbra … era stato uno sfiorarsi innocente, era stata anche l’unica volta.
Sarebbe stata l’unica ed ultima volta.
Yui tornò difficilmente al presente, sollevò le punta delle dita e si accarezzò le labbra.
Non aveva sentito nulla quel giorno, solamente una carezza leggera.
Avevano litigato lei e Daichi per quel gesto, lui non ne capiva il significato e nemmeno lei.
Erano ancora piccoli, erano solamente dei bambini.
Lei lo sarebbe stata ancora solamente per poco tempo.
« Se ti rubassi un altro bacio adesso ... Daichi-san … finiresti anche tu all’inferno con me ».
Furono parole che scapparono dalle sue labbra, sussurrate al vento.
Yui rise di se stessa e scosse la testa, chiuse il volume con delicatezza utilizzando il solito segnalibro, un talismano della buona sorte che non aveva avuto il coraggio di consegnare, e lo ripose con cura all’interno della borsa, facendo attenzione che non si stracciasse.
« Che cosa te ne stai a fare tutta sola soletta attorno a quest’albero spoglio? ».
Yui saltò dallo spavento quando quella voce conosciuta le sfiorò l’orecchio.
Si girò di scatto, una mano sul cuore, e il ragazzo fece un passettino all’indietro, mani alzate.
Yui lo riconobbe immediatamente, ma quel dettaglio non servì a tranquillizzarla, si domandava solamente se non avesse sentito quello che aveva detto ingenuamente ad alta voce, convintissima di essere ormai sola all’imbocco del viale per raggiungere casa.
Hayato Ikejiri la guardava con un’espressione serena, ma indecifrabile.
Indossava anche lui la divisa scolastica sotto il pesante giaccone invernale, segno che doveva aver finito da poco gli allenamenti del club. Come Yui, anche lui aveva continuato ad allenarsi nonostante il campionato fosse andato da parecchio tempo.
« Mi hai fatto venire un colpo! » Lo rimproverò lei, sebbene non troppo aspramente.
Hayato continuò a tenere le mani sollevate in segno di difesa, ma un sorriso disteso e leggermente birichino sulle labbra lo tradiva; si lasciò cadere sul muretto a qualche centimetro di distanza da Yui.
Lei aveva ancora la mano premuta sul petto, sul cuore rimbombante contro la cassa toracica.
« Non era mia intenzione, lo giuro » Replicò lui di rimando con la sua voce calma, intrecciò l’indice e il medio della mano destra che aveva tenuto sollevata fino ad alcuni istanti prima e se li portò alle labbra, baciandoli, come per rimarcare le sue parole con un giuramento.
Era un gesto ironico, esagerato, che Yui non aveva mai sopportato.
Hayato la guardava con la sua faccia pulita e un po’ anonima, la sua era sempre stata una bellezza discreta e non affatto appariscente, le lentiggini sul viso gli conferivano un’aria ancora infantile e innocente.
Anche se di innocente era rimasto ben poco anche in lui.
« Smettila » Lo rimbeccò lei spingendolo non troppo rudemente sulla spalla.
Hayato ridacchiò divertito da quella reazione, sciogliendo la posa ridicola delle sue mani.
Lui era un pezzo del passato che Yui non aveva dovuto buttare via.
Lei, Daichi e Hayato erano cresciuti insieme nello stesso quartiere, il quartiere delle famiglie benestanti. Erano solamente dei bambini quando le loro strade si erano incrociate durante una festa solamente meno noiosa delle altre.
Era stata Yui la prima a trovare Daichi.
Avevano quattro anni a testa; lei aveva sporcato il vestitino costoso che la mamma le aveva fatto indossare con tanta cura, si era messa a giocare con una palla sporca di fango.
Gli adulti erano troppo impegnati a parlare di lavoro o altre faccende simili per badare ai proprio figli e Yui non era mai stata una bambina eccessivamente timida, si era sentita immediatamente a suo agio in quel giardino costoso addobbato a sfarzo.
L’aveva reso subito suo quel posto, un luogo dove poter giocare e divertirsi.
Daichi l’aveva scovato nascosto nella cavità di un albero per puro caso.
Era vestito da damerino, di tutto punto, era un bimbo robusto e impacciato.
Si era nascosto in quel tronco quando farlo dietro la gonna della madre si era rivelato del tutto inefficace. Daichi era stato portato lì quella sera di controvoglia, aveva fatto i capricci prima di lasciare casa e non era un bambino solitamente capriccioso.
Takahiro lo aveva portato in giro come un trofeo, il suo bambino maschio tanto desiderato.
Daichi aveva odiato stare al centro dell’attenzione.
Erano diventati immediatamente amici loro due, trascinati dall’euforia di Yui.
Hayato si era unito al duo quella stessa sera, la sua villa di famiglia si trovava sullo stesso vialetto di quella dei Michimiya: Yui era stata il collante che li aveva uniti tutti e tre.
Da quella sera erano stati inseparabili, almeno fino alla fine delle scuole medie.
L’amicizia secolare che aveva unito i loro genitori ben prima delle loro nascite l’avrebbero scoperta solamente successivamente, nel corso del tempo, crescendo.
Poi un giorno si era rotto tutto, ma chi avesse cominciato era impossibile capirlo.
Hayato era stato presente tutto il tempo, silenziosamente.
Quando la catena di eventi che avrebbe portato alla loro separazione come trio si era manifestata, Hayato non ne era rimasto coinvolto in prima persona, ma lo tsunami si era abbattuto inesorabilmente anche su di lui, travolgendolo forse solo con meno impeto.
I suoi rapporti con Daichi si erano raffreddati, aveva cambiato liceo spinto dai genitori.
Quel mese qualcosa era cambiato però, alcuni dei cocci che avevano sparpagliato lungo la strada erano stati riparati con una colla che, però, non ne nascondeva i difetti.
La settimana in cui Daichi era andato in ritiro con la sua squadra, Yui era impazzita.
Non parlava con lui, lo allontanava come voleva suo padre, si vedevano di nascosto quando dovevano parlare di qualcosa, ma solamente se aveva a che fare con la scuola o la squadra …
dei loro sentimenti non parlavano mai e nemmeno chiedere un “come stai” sarebbe stato normale per loro due, ma anche se Yui non poteva dirgli quello che pensava, né poteva toccarlo come avrebbe voluto, Daichi era lì, sotto lo stesso cielo e respirava la sua stessa aria.
A Yui bastava almeno quello.
Erano solo a pochi chilometri di distanza, e a scuola le sarebbe bastato attraversare il corridoio per raggiungere la sua classe e trovarlo lì seduto al suo banco per ricominciare a respirare quando le mancava il fiato, senza farsi vedere certo, di nascosto.
Nascosto come quell’amore che non aveva mai confessato a nessuno.
Quando Daichi si allontanava fisicamente da lei, i suoi attacchi di panico peggioravano.
Hayato l’aveva ritrovata esattamente in uno dei suoi momenti peggiori e Yui ne aveva approfittato senza pensare alle conseguenze. Non avevano mai smesso di frequentarsi davvero, ma quella settimana l’avevano fatto intensamente.
E non avevano smesso di farlo nemmeno quando Daichi era rientrato.
« Il sole sta per tramontare, presto farà buio » Disse lui con aria casuale, aveva assunto inconsapevolmente la stessa posizione di Yui, gambe allungate in avanti e caviglie intrecciate.
La osservava con quel sorrisetto gentile sulle labbra, ma la sua espressione era illeggibile.
Hayato era sempre stato bravo a dispensare consigli, non era sicuro di se, ma Yui aveva sempre trovato quella sua particolare mitezza a volte pericolosa: era difficile capirlo davvero del tutto.
« Non dovresti startene qui da sola » Concluse lui, continuando a fissarla.
Yui ricambiò lo sguardo per secondi che parvero minuti interi prima di rivolgere la sua attenzione sul cielo rosato del crepuscolo, in cui capeggiavano pallide le prime stelle.
« Che cosa potrebbe mai succedermi? Nel viale mi conoscono tutti ».
Fu la sua replica secca, distratta, sembrava buttata lì solamente per fare conversazione.
Lei sembrava totalmente da tutt’altra parte e non di certo lì con lui.
« Forse dovrei tornare a casa tutto sommato … » Mormorò tra se e se, strinse forte la borsa a tracolla e si alzò in piedi; non si era preoccupata che Hayato potesse sentirla, si sarebbe alzato anche lui e l’avrebbe accompagnata silenziosamente senza domandarglielo.
Era quello che facevano da giorni, e le loro case erano una di fronte all’altra ad ogni modo.
Di fatto Hayato si tirò in piedi, Yui fece solamente la sciocca mossa di dargli le spalle.
« Io non ho paura di andare all’inferno sai? ».
Il passo le si fermò automaticamente, la schiena rigida e il respiro bloccato.
Era stata un’ingenua. Hayato l’aveva fatta sentire immediatamente a suo agio, facendole dimenticare il timore che potesse aver sentito quella sua confessione ingenua.
E lui l’aveva colpita nel momento di maggiore vulnerabilità.
« Non sei stanca di inseguirlo? ».
Yui non aveva bisogno di un soggetto, né di un nome.
No, non sarebbe mai stata stanca di inseguirlo, fosse stato anche solamente nei suoi sogni.
Fosse stato a chilometri di distanza, Yui non avrebbe smesso mai.
Non avrebbe smesso nemmeno quando ci sarebbe stata un’altra donna, altri amici e figli che non sarebbero mai cresciuti nel suo grembo, nemmeno in quel caso avrebbe smesso di inseguirlo. Inseguirlo mentre lo allontanava disperatamente.
L’ombra di Daichi sarebbe sempre stata ad un passo dalla sua.
« Daichi non può essere tuo Yui, lo capisci vero? ».
Era calmo il tono di voce di Hayato mentre pronunciava quelle parole sul suo migliore amico, quell’amico che aveva lasciato indietro un passo alla volta perché era stato facile scappare.
Era calmo solamente il tono di voce, la disperazione nelle parole era reale invece.
Yui continuava a dargli le spalle e non avrebbe osato girarsi, non in quel momento.
« Devi liberarti da questa ossessione! Devi farlo anche per lui ».
Yui scoppiò a ridere, una risata macabra che fece accapponare la pelle di Hayato.
« Non posso liberarmi di Daichi, Hayato » Aveva una voce spaventosa mentre pronunciava quelle parole, l’amico di sempre non rispose « Lui è quella metà che mi è stata strappata quando sono venuta in questo mondo ».
Hayato ricordò come in un flash una lezione d’arte alle medie, qualche anno prima.
Ricordò il sole caldo che penetrava dalle ampie vetrate inondando l’ambiente e i lunghi tavoli attorno a cui erano seduti, ricordò di essersi annoiato per la maggior parte del tempo mentre osservava il suo blocco di ceramica ancora deforme.
Ricordò di aver guardato fuori dalla finestra il cielo limpido d’estate, più attratto dallo schiamazzo che proveniva dal cortile esterno che dalle parole monotone dell’insegnante. Ricordò di essere diventato attento solamente nell’ultima parte del discorso, quando la donna aveva cominciato a raccontare di quel vecchio mito greco occidentale delle metà separate.
Ricordò le parole che la docente lesse direttamente dal Simposio di Platone:
Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all’antica perfezione…
Ricordò di come la donna li avesse incitati a modellare con la creta l’immagine che si erano fatti di quella leggenda, lui aveva fissato il suo blocco per tutto il resto della lezione senza riuscire a ricavarvi nulla. Ricordò invece la risata cristallina di Yui al suo fianco, ricordò di essersi girato ad osservare il suo lavoro, lei aveva il viso schizzato di creta, i guanti e il grembiule bianco tutti sporchi; il ripiano di legno era imbrattato e la boccetta dell’acqua con cui aveva modellato la creta aveva assunto una colorazione grigiastra.
Yui aveva modellato un uomo ed una donna avvinti in un abbraccio disperato.
Erano grezzi, il volto della donna non era definito come quello dell’uomo.
Hayato ricordò di non aver mai chiesto a Yui di chi fosse quel volto, non ne aveva avuto bisogno: conosceva quei tratti da tutta l’infanzia.
Hayato ricordò la delusione, la gelosia.
Yui aveva vinto un premio d’arte con quell’opera grezza.
Daichi non aveva mai visto quel lavoro e mai l’avrebbe fatto: era finito in pezzi per mano di Kijuro, il padre di Yui, alcuni mesi dopo, quando l’inevitabile era già accaduto.
« La tua metà strappata … » Mormorò, a voce talmente bassa che Yui non lo sentì.
Era amareggiato il suo tono di voce, era disperato, sul vertice delle lacrime.
Ma Hayato non aveva mai creduto a quella leggenda, era, appunto, solamente un mito.
« Non puoi ricongiungerti a lui, comunque » Quelle parole le pronunciò a voce alta e ferma, non vi era più traccia di alcuna disperazione nella sua voce « Sono solamente delle sciocchezze Yui. Tu e Daichi non potete stare insieme, perché non avreste nemmeno il coraggio di guardarvi negli occhi » Hayato non era mai stato cattivo, non volutamente.
Ma quando si trattava di Yui non aveva mai avuto freni, non ne aveva avuti nemmeno tre anni prima, quando aveva dovuto allontanarsi da una vita che amava e avrebbe voluto indietro disperatamente.
Le spalle di Yui vennero improvvisamente scosse dai singhiozzi, lei non si girava.
Doveva saperlo, Hayato non aveva avuto davvero bisogno di ricordarle qualcosa che lei sapeva meglio di chiunque altro. Qualcosa che era come un tormento eterno, una punizione.
Eppure l’aveva fatto, e adesso Yui stava piangendo.
Hayato fece tre passi in avanti e afferrò quelle spalle tremanti.
« Lo so che non possiamo stare insieme » Disse lei tra i singhiozzi, era da tempo che non si concedeva di piangere in quel modo, con il viso alzato verso il cielo ormai stellato. La strada era diventata presto buia mentre loro se ne stavano lì, si erano accesi i lampioni « Lo so che lui non può guardarmi negli occhi senza provare vergogna. Lo so che ha sofferto. Lo so che ha sacrificato l’amore di suo padre per me. Lo so, ma - » la voce le si strozzò in gola « ma- » un singhiozzo più forte degli altri ed Hayato la strinse forte a se da dietro, e il suo non era l’abbraccio di un amico né di un fratello.
« - ma io lo amo! » E scoppiò in un pianto disperato, mentre appoggiava la nuca sulla spalla di Hayato, che la sorreggeva per evitare che si lasciasse cadere in ginocchio sull’asfalto.
« Non posso amarlo lo stesso? ».
Hayato non rispose, non aveva motivo di farlo quando la risposta era chiara.
La lasciò piangere e singhiozzare come una bambina nel suo abbraccio finché volle, finché i tremori del pianto non cessarono, il respiro non tornò regolare e lei non si fu sfogata del tutto.
Hayato continuò a tenerla a se, al suo petto: erano arrivati ad un punto di svolta.
« Quello che provo per te lo hai sempre saputo » Le mormorò nell’orecchio.
Yui rimase in silenzio, il respiro le si era calmato del tutto, non disse nulla ma sollevò ugualmente una mano per accarezzare con la punta delle dita una guancia di Hayato, lo fece alla cieca perché non poteva vedere il suo volto, ma lui si lasciò andare a quella carezza.
« So a cosa vado incontro e non ti chiederò di amarmi immediatamente, ma - ».
« Tu puoi salvarmi? » Yui aveva la voce roca quando lo interruppe « Pensi di potermi salvare in questo modo? Di potermi aiutare? ».
Hayato non esitò.
« Si ».
Fu Yui a girarsi inaspettatamente nel suo abbraccio e baciarlo con impeto.
Era solamente un po’ più bassa di lui, ma si alzò ugualmente sulle punte, avvolse le braccia intorno al collo di Hayato e lo baciò rudemente.
All’inizio fu solamente labbra contro labbra.
Se non avesse chiuso gli occhi Hayato avrebbe visto l’ultima lacrima solitaria attraversare il viso di Yui. Se avesse potuto leggergli nella mente, invece, Yui avrebbe visto l’ultimo pensiero di Hayato, un ultimo ricordo dell’infanzia: lui che guardava Daichi con un profondo rancore e una profonda gelosia nel cuore.
Forse ne avrebbe avuto paura, Hayato ebbe paura di se stesso.
Ma aveva vinto lui almeno quella battaglia.
Si separarono con il fiatone e Yui lo abbracciò, appoggiandogli il mento sulla spalla.
Nel buio della strada illuminata dal lampione rivide l’immagine di Daichi che aveva proiettato nella sua mente, la divisa scolastica, il sorriso gentile, le mani attorno alla tracolla.
Addio.


Maria si sentiva particolarmente stanca quel pomeriggio.
Era una stanchezza che non sapeva spiegarsi, non la sentiva nelle ossa o nei muscoli, non era dovuta alla carenza di sonno né allo studio eccessivo a cui si stava sottoponendo, era una stanchezza sonnolenta che la coglieva all’improvviso nei momenti meno aspettati.
Faceva fatica a tenere gli occhi aperti mentre se ne stava seduta sugli spalti in compagnia di Hitoka e Shimizu. Avevano appena fatto una pausa di qualche minuto per spezzare i pressanti allenamenti prima della finale e Maria quasi se ne rammaricava.
Essere impegnata le impediva di cedere alla tentazione di stendersi a terra a fare un sonnellino; doveva essere l’arrivo dell’inverno a provocarle quella stranissima sensazione.
Scherzando, durante una delle loro passeggiate serali dopo gli allenamenti, Asahi l’aveva paragonata ad un ghiro pronto ad andare in letargo, Maria aveva riso in quell’occasione.
Ma quella sonnolenza stava diventando insistente e molesta.
Avrebbe dovuto cominciare a prendere qualche vitamina in vista degli esami, probabilmente.
Hitoka e Shimizu parlavano del più e del meno al suo fianco, Maria le ascoltava un po’ distrattamente, intervenendo ogni tanto nella conversazione, non le era totalmente indifferente ma non se ne sentiva coinvolta pienamente.
Aveva avuto, inoltre, l’opportunità di parlare ampiamente con Shimizu di quanto era successo al ritiro, risparmiando i dettagli piccanti della sua notte brava con Asahi, e si sentiva positivamente svuotata in quel momento, come se non avesse nulla da confessare.
Era stranamente serena e rilassata, nonostante la tensione del campionato.
Allontanò distrattamente lo sguardo dalle sue compagne e osservò senza reale interesse il gruppetto di primini che si refrigerava ai piedi del palco.
Fu un’occhiata casuale, ma Maria notò qualcosa che catturò immediatamente la sua attenzione, dissipando leggermente il suo stato di sonnolenza.
Hinata, tra una battuta e l’altra con Kageyama e Tsukishima, battibeccando, rivolgeva delle strane occhiate sugli spalti, nella loro direzione, verso Hitoka per la precisione.
Ogni volta che compiva quel gesto le guance gli si imporporavano di rosso e le sopracciglia si contraevano dubbiose, Maria lo trovò stranamente tenero.
Non aveva più parlato con Hitoka di quanto successo la sera del festino, di quando l’aveva trovata nella loro stanza a scambiarsi baci impacciati con il primino.
Aveva capito che per Hitoka era un argomento delicato, anche solo sfiorarlo rischiava di procurarle uno svenimento immediato causato dalle temperature elevate che raggiungeva il suo corpo. Maria aveva dunque evitato di farlo per tutto quel tempo, non voleva metterla in difficoltà, non erano davvero affari suoi e inoltre aveva altro a cui pensare.
Quello scambio fugace di sguardi frustrati da parte di Hinata le fecero cambiare idea.
« Hitoka-chan » La chiamò distrattamente, interrompendo la sua conversazione con Shimizu, lo sguardo ancora puntato sui primini.
« Si, Tani-chan? » Domandò educatamente Yachi, sia lei che Shimizu avevano lo sguardo puntato su Maria, che aveva interrotto la loro conversazione, ma lei non le stava fissando.
« É successo qualcosa con Hinata-kun dopo quella sera, per caso? ».
Lo domandò distrattamente, senza curarsi della reazione né di Hitoka né di Shimizu.
La prima si infiammò immediatamente nascondendo la faccia dietro le mani, la seconda sollevò le sopracciglia, ovviamente stupita dalla svolta che aveva preso la situazione.
« P-perché m-me lo d-domandi T-Tani-chan? » Balbettò Hitoka, il viso ancora nascosto tra le mani. Maria distolse finalmente lo sguardo dal gruppetto di primini e fissò Hitoka e Shimizu con un sorrisetto leggermente divertito sulle labbra, come se stesse per succedere qualcosa di estremamente divertente e interessante.
« Perché Hinata-kun sta venendo esattamente qui! ».
Hitoka non fece nemmeno in tempo ad andare in panico, che Hinata saltò a due a due gli scalini e fu immediatamente davanti a loro, con l’affanno, la borraccia gialla da cui stava bevendo tra le mani e i capelli rossicci scombinati ai massimi livelli.
Non salutò né Shimizu né Maria, aveva occhi solo per Hitoka.
« H-Hitoka-chan! » Strillò come un matto, facendo saltare tutte e tre le ragazze, la diretta interessata in particolar modo; Maria era sicura di poterne quasi sentire il battito cardiaco accelerato premente insistentemente sull’esile cassa toracica « Mi stavo domandando - » Hinata si interruppe di nuovo arrossendo violentemente, lottava convulsamente con la scelta delle parole esatte da pronunciare « Mi domandavo se non ti andasse di p-pranzare insieme oggi! ». Gli costò una fatica immensa porgere quella domanda, alla fine della quale Maria non sapeva dire chi fosse più rosso in faccia, se Yachi o Shouyou.
Osservò con aria incuriosita, insieme a Kiyoko, quale sarebbe stata la risposta della compagna. Yachi era una persona gentile per natura, timida ed insicura, ma per quanto potesse essere timida era evidente che avesse un interesse per il primino ingenuo e inesperto del Karasuno, l’incapacità di mentire o nascondere i suoi sentimenti era un altro suo pregio.
« N-non posso … » Balbettò impacciata, evitando lo sguardo di Hinata il più possibile.
« Ma perché no?! » Volle sapere immediatamente Shouyou, seguendola con gli occhi.
« P-perché d-devo pranzare con Tani-chan oggi! » Buttò lì di colpo.
Maria rimase sorpresa di essere stata tirata in causa, in realtà era da un bel po' di tempo che non pranzavano insieme, da quando aveva preso a passare quelle ore insieme agli altri del terzo anno per studiare; ad ogni modo non replicò nulla, senza intromettersi.
Hinata la guardò come per cercare una sorta di conferma, ma Maria non batté ciglio.
« É un’occasione speciale e- » Continuò Yachi, immediatamente interrotta dal primino.
« Ma sono sicuro che Tani-chan non se la prenderebbe, vero? » E dirottò nuovamente la domanda alla volta di Maria, che ancora una volta tacque per non tradire l’amica.
E poi era curiosa di scoprire in che modo Hitoka se la sarebbe cavata in quella situazione.
« Insomma Hinata-kun, ti ho detto che non posso! ».
La reazione di Hitoka fu del tutto inaspettata, fu come lo scoppio di una piccola botticella, una di quelle che non faceva molto rumore, ma era ugualmente fastidiosa.
Maria e Shimizu sollevarono le sopracciglia totalmente spiazzate e sorprese.
Yachi si portò una mano sulla bocca, sorpresa di se stessa, stava sudando.
Hinata rimase invece impalato sugli spalti con la bocca leggermente spalancata.
Fu comunque lui il primo a riprendersi da quella situazione insolita, avvampò completamente mortificato, si grattò con aria impacciata la nuca e distolse immediatamente lo sguardo.
Stava provando una vergogna tremenda e glielo si leggeva in faccia come un libro aperto.
« Ti chiedo scusa allora … ciao » Farfugliò, e lasciò velocemente gli spalti, abbattuto.
Maria, Shimizu e Hitoka rimasero in silenzio per minuti che parvero eterni.
La terza aveva rigorosamente nascosto il viso tra le mani, producendo dei mugugni incomprensibili di frustrazione e totale imbarazzo.
« É stato piuttosto impressionante » Commentò in fine Maria.
« Devo concordare » Le diede man forte Kiyoko, con il solito tono di voce tranquillo.
Yachi sollevò il viso e scoprì lentamente gli occhi, come se avesse paura che Hinata potesse ancora starsene lì impalato davanti a lei, per sbirciare le senpai con aria mortificata.
« Sono stata pessima! » Piagnucolò disperata.
Maria e Shimizu sorrisero intenerite contemporaneamente.
« Hitoka-chan, che cos’è successo esattamente tra te e Hinata-kun? ».
Domandò gentilmente Maria appoggiando teneramente una mano sulla schiena della primina, un gesto affettuoso per tranquillizzarla e convincerla ad aprirsi con loro.
Hitoka liberò immediatamente il suo viso, trasse un respiro profondo e la sua colorazione corporea tornò ad una sfumatura accettabile; cominciò a parlare con lo sguardo puntato sul primino, che aveva ripreso a fare stretching insieme agli altri.
« Io – io non lo so » Confessò timidamente, ma con un tono di voce frustrato « Q-quella sera della festa ci siamo scambiati un – un bacio » Bisbigliò alla volta di Shimizu per spiegarle brevemente la situazione, non senza una profonda difficoltà « E poi io sono scappata » Dichiarò « Ogni volta che Hinata si avvicina vado in panico e scappo ».
E nascose nuovamente la faccia dietro le mani.
Maria e Shimizu si scambiarono una rapida occhiata interrogativa.
« Hitoka-chan, ti sei forse pentita di averlo baciato e non riesci a dirglielo? ».
Domandò Maria sporgendosi verso la primina con un certo fare apprensivo.
« Nel caso, potremmo aiutarti noi a - ».
« No, no! Assolutamente no! » Le parole di Shimizu vennero immediatamente interrotte da una Hitoka piuttosto allarmata; avevano evidentemente frainteso la sua reazione e sembrava del tutto intenzionata a far si che il malinteso venisse subito chiarito.
« Ho paura che sia lui ad essersi pentito di quello che è successo! ».
Fu una frase che buttò fuori tutta d’un fiato, paonazza e con l’affanno come se avesse corso.
Shimizu e Maria rimasero in silenzio ancora per alcuni secondi, perplesse.
« Ogni volta che mi si avvicina ho paura che voglia dirmi qualcosa del genere … ».
Mormorò in fine Hitoka, con un tono di voce totalmente afflitto.
« E quali sono i tuoi sentimenti a riguardo Hitoka-chan? ».
La domanda di Kiyoko arrivò dritta e sincera, ma con nessuna inflessione accusatoria che potesse mettere in difficoltà Yachi, Maria gliel’avrebbe posta lei stessa se ne avesse avuto il tempo, magari, solo non in quel modo diretto tipico della sua migliore amica.
Hitoka aprì e chiuse la bocca un paio di volte prima di dare una risposta, la domanda l’aveva evidentemente colta di sorpresa, era evidente che non aveva mai pensato ai suoi sentimenti mentre scappava da Shouyou, quella volta lo stava facendo forse per la prima volta.
« Non lo so. » Concluse alla fine, frustrata. Aveva lasciato il rossore da parte mano a mano che confidarsi con le sue senpai e amiche aveva cominciato a diventare naturale per lei.
« Io – io provo qualcosa per Hinata-kun … ma non so che cosa con esattezza. Non credo di essere pronta per una r-relazione … ecco! » Maria e Shimizu sorrisero intenerite dalla scelta lessicale di Hitoka, che non poteva davvero conoscerne il peso semantico.
« Solo che non vorrei nemmeno allontanarmi da lui! Vorrei – vorrei che andassimo piano insomma, siamo ancora giovani dopotutto! ».
E una volta terminato di parlare Hitoka nascose nuovamente il viso sotto i palmi delle mani.
Maria sorrise teneramente e ancora una volta le accarezzò dolcemente la schiena, un gesto consolatorio che avrebbe voluto ricevere lei stessa in molteplici occasioni della sua vita.
« Fai solamente quello che senti Hitoka-chan » La sua voce era gentile, confortante « Non forzarti in nulla, non costringerti a fare nulla, mai! » Sull’ultima frase divenne molto più ferma, tanto da indurre Hitoka a sollevare lo sguardo per guardarla negli occhi sicuri e chiari.
« Ma non allontanare Hinata-kun senza prima averci parlato » Intervenne Shimizu, anche lei con un tono tranquillo e un sorriso accennato sulle labbra, aveva spostato la mano sulla spalla di Hitoka a sua volta, imitando il gesto della sua migliore amica.
« Potresti pentirtene » Concluse Maria « Non puoi davvero sapere che cosa lui abbia in testa. Magari non vuole dirti quello che pensi tu … se così fosse, vuoi davvero rimanere con il dubbio per il resto della tua vita? Vuoi davvero rimpiangerlo? ».
Quelle parole ebbero un effetto inaspettato sulla primina, avvampò tutta e sollevò la testa con aria fiera, come se improvvisamente tutto le fosse diventato immensamente chiaro.
« No che non voglio! » Dichiarò convinta « Grazie Tani-chan, Shimizu-san, vado! ».
E sotto lo sguardo sorpreso di Maria e Kiyoko si alzò in piedi, scese le scale e si diresse con passo frettoloso e impacciato alla volta di Hinata, che la guardava completante sorpreso.
Gli disse qualcosa ed entrambi arrossirono violentemente, lui si grattò la nuca, lei nascose il viso, erano teneri da guardare; le due senpai non poterono fare a meno di sorridere intenerite.
Maria guardava ancora la scena con aria sognante quando Shimizu le colpì dolcemente un braccio con il gomito, richiamando la sua attenzione.
« Non avrei mai detto che potessi diventare così saggia Maria-chan ».
Le disse, aveva un tono di voce divertito, chiunque l’avesse guardata da lontano non avrebbe colto quel particolare dall’espressione del suo viso, ma non Maria, che la conosceva da una vita intera. Si girò e ricambiò con un sorrisetto compiaciuto.
« Azumane-san ti ha fatto finalmente crescere vedo » la provocò Shimizu picchiettandola affettuosamente sulla spalla con l’indice.
Maria rise, ma non replicò, avrebbe mentito sicuramente se avesse detto che non era vero.
Serena come in quelle settimane non si era sentita da tantissimo tempo, o forse mai.
« Kiyoko-san » La chiamò, sembrava distratta mentre teneva lo sguardo fisso sul palco, ma l’amica sapeva perfettamente che era lì presente « Perché sei sempre stata più propensa alla mia relazione con Asahi? Perché Daichi non andava bene? » Riportò lo sguardo su quello di Shimizu, aveva un’espressione limpida « Ho sempre voluto domandartelo » Confessò alla fine, facendo spallucce. Shimizu non rispose immediatamente, si prese il suo tempo per raccogliere i pensieri e renderli parole, dopotutto non aveva mai parlato a sproposito una sola volta in vita sua.
« Azumane-san ti guardava con occhi diversi ».
Parlò all’improvviso, ma non sorprese Maria, almeno non quanto quella spiegazione.
« Ma non potevo di certo immaginare che ci saremmo trovate così oggi. Anche se … » Guardò Maria negli occhi, caricandola di aspettativa « Un po’ ci avevo sperato ».
Le confessò sorridendo, un sorriso visibile e spontaneo, raro per lei.
« E come mi guardava Asahi? » Domandò Maria timidamente, rapita da quelle parole.
« Come Suga guarda me, Maria-chan. Esattamente così ».
Completamente frastornata dalla verità di quelle parole, Maria allontanò lo sguardo dalla sua migliore amica per posarlo automaticamente sul giovane che le stava facendo battere il cuore nel petto in quel modo impazzito, quasi dandole la sensazione di star per morire.
Asahi scelse proprio quel momento per ricambiare quello sguardo.
Forse lo fece perché si era sentito osservato, o forse perché sentiva di volerlo fare e basta.
Le sorrise con affetto e Maria non poté fare a meno di pensare che fosse bello nonostante quei capelli scombinati e bagnati di sudore, era una bellezza gentile e genuina la sua.
Ricambiò quel sorriso automaticamente, senza rendersi conto di cosa realmente significasse.
Era talmente presa che non si meravigliò, Asahi non l’avrebbe mai fatto.
Non di certo se aveva paura di essere visto, eppure ….
Maria non ci pensò, ancora totalmente avvolta dalla consapevolezza delle parole di Kiyoko.
Fu solamente per caso che se ne accorse. Yamaguchi entrò distrattamente nel suo campo visivo, ma fu sufficiente perché Maria lo vedesse effettuare una battuta in salto dalla potenza eccessiva indirizzata indubbiamente verso la nuca scoperta di Asahi.
Lui non se ne accorse, troppo impegnato a guardare lei e sorriderle.
Fu la frazione di un secondo, ma a Maria sembrò una scena al rallentatore.
Si alzò in piedi di scatto, terrorizzata e gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
« ASAHI! » Non si controllò, non pensò a nulla se non a lui e alla sua sicurezza.
Sentì quel grido nascerle dalle viscere, dal ventre, come se qualcuno gliel’avesse tirato fuori dalla bocca spingendolo dal basso, sentì come se la sua voce fosse raddoppiata d’un colpo.
Asahi, che aveva intercettato l’arrivo della palla prima che Maria gridasse spaventata, si abbassò giusto in tempo per schivare il proiettile che, se malauguratamente l’avesse centrato, avrebbe potuto portare a delle conseguenze spiacevoli.
Fu la frazione di un secondo, ma non appena l’adrenalina e la paura svanirono, Maria fu colta da un violento capogiro e scivolò sugli spalti, non picchiò la testa solamente perché Shimizu, con una prontezza inaspettata, la prese per le spalle prima che potesse farsi male.
Si creò confusione sul campo, ma Asahi fu il primo a reagire e salire le scalette due a due.
La tolse dalle mani di Shimizu per prenderla lui tra le braccia, la scosse un po’ e le diede dei buffetti leggerissimi sulle guance, constatò con sollievo che Maria aveva gli occhi socchiusi e che quindi non aveva totalmente perso coscienza.
« Ehi, Maria sveglia, apri gli occhi! » Le mormorò, apprensivo, non sembrava affatto una persona appena scampata da una probabile decapitazione.
Maria fece qualcosa di totalmente inaspettato, proprio nel momento esatto in cui altre persone si riversarono sugli spalti, mise a fuoco il viso di Asahi e si sollevò sulla schiena per abbracciarlo forte a se, le braccia si erano mosse da sole per il sollievo, ma il cuore non ne voleva sapere di smettere di battere come un forsennato nel petto.
« Meno male, stai bene … » Mormorò, sentiva una strana emotività eccessiva che aveva a che fare con la sua condizione fisica di spossatezza e stanchezza, e non riuscì ad evitare che gli angoli degli occhi le si riempissero di lacrime di sollievo.
« S-sto bene Ma- Taniguchi-san » Balbettò Asahi confondendosi, sollevò le mani per non toccarla, ma non allontanò Maria da se, sentiva di non doverlo assolutamente fare.
« Forse è meglio portarla in infermeria » Intervenne prontamente Kiyoko, andando in aiuto ad Asahi, che aveva gli occhi di tutta la squadra puntati addosso in quel momento.
Quelli di Suga e Noya erano solo leggermente più insistenti degli altri.
Maria si sollevò con le sue sole gambe e si allontanò accompagnata da Shimizu, Hitoka e il professor Takeda, mentre il coach Ukai si affrettava a riportarli all’ordine.
Yamaguchi si scusò innumerevoli volte, colto da un attacco di panico di sensi di colpa.
Asahi tentò inutilmente e più volte di fargli capire che non era successo nulla di grave, ma non ci stava mettendo davvero tutto se stesso, il suo sguardo era puntato sulla porta della palestra.
Gli altri erano tornati presto ad allenarsi, Noya gli aveva fatto segno di voler assolutamente parlare con lui quella sera ma Asahi non se n’era preoccupato, a malapena gli aveva risposto.
La reazione di Maria gli era sembrata strana, eccessiva.
Si era spaventata, non vi erano dubbi, ma non era da lei essere così debole …
Asahi non riuscì affatto a concentrarsi durante la restante parte degli allenamenti.


Era servito solamente un messaggio inviato personalmente da parte di Maria per tranquillizzarlo. Asahi era diretto verso l’infermeria, non si era asciugato per bene i capelli dal sudore e li stava ancora legando mentre si affrettava a raggiungere il posto designato.
Era stato in quel momento che Maria l’aveva avvisato di essere rientrata a casa con Shimizu.
Gli aveva detto che stava bene e di non preoccuparsi, che avrebbe riposato quella notte.
Asahi si era svegliato con il cuore tranquillo, per quel motivo rimase piuttosto sorpreso la mattina seguente dall’assenza della fidanzata. Cominciò a pensare immediatamente a qualche catastrofe, a qualche virus contratto per il freddo, all’influenza o a cose peggiori.
Tuttavia, Maria doveva conoscerlo davvero bene, perché ancora una volta fu con un messaggio che riuscì a tranquillizzarlo, per lo meno riguardo la sua salute.
Lo informava che non sarebbe venuta per accompagnare il nonno Akio in ospedale a fare un check-up, in quanto non era stato bene nei giorni precedenti, lamentando un mal di schiena.
Asahi si era tranquillizzato, ma l’espressione corrucciata non era scomparsa del tutto.
Sospirò profondamente, riponendo il cellulare nella tasca interna della cartella, e pensò che dopotutto fosse un bene che Maria non fosse venuta a scuola quel giorno, avrebbe fatto ciò che aveva in mente senza ulteriori pensieri.
Doveva parlare con Daichi e Suga quel giorno e l’avrebbe fatto.
« Ieri sei riuscito a scappare Asahi-san, ma oggi giuro che ti placco per tutto il giorno! ».
Le parole di Nishinoya, che gli stava inveendo contro da quando aveva messo piede a scuola quella mattina, l’aveva aspettato appositamente fuori i cancelli, raggiunsero le orecchie di Asahi solamente in quel momento.
« Come? » Domandò distrattamente, beccandosi un’occhiataccia dall’altro.
« Cos’era quella cosa ieri eh? Quell’abbraccio appassionato? Ti sei dichiarato finalmente? ».
Lo incalzò immediatamente il libero, passando in un lampo dalla modalità arrabbiata di se stesso a quella maliziosa e curiosa, Asahi si sentì leggermente imbarazzato.
La sera precedente era riuscito a fuggire dal placcaggio di Noya solamente accampando scuse su sua sorella Hotaru e una visita medica che doveva fare, si era sentito in colpa tremendamente e sentiva dunque di dover qualcosa all’amico.
« F-forse » Balbettò, una risposta insoddisfacente, che fece immediatamente storcere la bocca a Yuu, ma Asahi continuò prima che potesse protestare « Ho deciso prima di raccontare la verità anche a Daichi e Suga! » Confessò immediatamente.
Noya smise di agitarsi e si fece improvvisamente serio, soddisfatto dell’informazione.
« Sei sicuro Asahi-san? » Domandò l’amico.
Asahi annuì distrattamente, era una decisione che aveva preso al ritiro e non sarebbe tornato indietro. Non voleva avere dubbi su Maria, non voleva più nascondersi e mentire, non voleva scappare e soprattutto non voleva sentirsi chiuso in una gabbia.
Voleva avere quel coraggio per Maria, almeno una volta.
Le lezioni della mattina passarono velocemente, Asahi fu distratto per tutto il tempo.
Quando raggiunse il corridoio semi appartato in cui aveva dato appuntamento a Suga e Daichi ebbe come la sensazione di essersi ritrovato catapultato a quel momento senza che avesse davvero il tempo di pensarci.
Non si era preparato un discorso e non sapeva cosa dire, immaginava che a quel punto avrebbe improvvisato.
Suga e Daichi erano già lì, il primo seduto sul davanzale e il secondo appoggiato al muro con le braccia conserte, parlavano allegramente di qualcosa e ridevano di gusto.
Spostarono entrambi lo sguardo su Asahi quando lo videro arrivare, erano sereni.
« Eccolo finalmente! » Lo canzonò Suga, scendendo con un agile saltello dal davanzale.
« Mi è quasi preso un colpo quando ho letto il suo messaggio! » scherzò Daichi con un sorrisetto dispettoso sulle labbra. In altre circostanze Asahi si sarebbe sentito imbarazzato e preso in giro, si sarebbe lamentato e Suga avrebbe finito per colpirlo al fianco con uno dei suoi colpi micidiali, Daichi avrebbe finito di tormentarlo con qualche altra battuta cattiva e alla fine avrebbero riso tutti e tre. Non successe nulla di tutto ciò, la sua espressione rimase seria e di conseguenza anche quella di Koushi e Daichi perse l’ilarità.
« É successo qualcosa Asahi? » Domandò immediatamente Suga, preoccupato.
Doveva aver pensato ad Hotaru, era evidente, Asahi scosse immediatamente la testa per tranquillizzarlo, ma faceva fatica a trovare le parole adatte o a guardarli negli occhi.
Si sforzò.
« Devo – devo parlarvi di qualcosa » Specificò, giocando con le dita delle mani.
Suga e Daichi tacquero, guardandolo, dandogli il tempo di parlare come preferiva.
Ormai conoscevano Asahi da una vita, sapevano che forzarlo non avrebbe avuto senso.
« Riguarda me e Ma- ».
« Ah, eccovi! Vi cercavo da ore ormai! ».
Le parole di Asahi vennero sovrastate dalla voce acuta del professor Takeda, arrivato inaspettatamente sulla scena, e né Suga né Daichi le sentirono.
Il professore non poteva arrivare in un momento peggiore ma sembrava agitato, eccitato, completamente fuori di se, i tre si spaventarono immediatamente.
« Il coach Ukai mi ha detto di aspettare in palestra, ma io non ho resistito! ».
La voce di Takeda era squillante e agitata il doppio del solito.
« Aspettare per cosa professore? » Volle sapere Daichi, che ritrovò la compostezza prima di Asahi, ancora stordito per l’interruzione, e Suga « É successo qualcosa? ».
L’uomo scosse freneticamente la testa, emozionatissimo.
« Nulla di grave, è una cosa bellissima, meravigliosa! Un’opportunità da non perdere! ».
I tre giovani si guardarono negli occhi aggrottando le sopracciglia.
L’entusiasmo del professore non riusciva a coinvolgere la loro evidente preoccupazione.
Ascoltarono attentamente le parole del professore, ma arrivarono a tutti e tre in maniera ovattata e differente.
Alla fine di quella conversazione, il loro mondo si ritrovò improvvisamente sottosopra.



 


Buon pomeriggio, miei prodi!
Flying_Lotus95 vi dà il benvenuto con questo nuovo capitolo. Vi confesso che, nonostante fosse in programma la pubblicazione, non credevo saremmo riuscite a pubblicarlo entro la fine di luglio, ma la mia socia ha avuto la capata :P ed eccoci qua, con un nuovo arco narrativo. Preparatevi, perché da qua in poi si piange…
Vi auguro una buona lettura, ci vediamo ad agosto con il prossimo!
Ps. Grazie socia per avermi dato la spinta a pubblicare!
Flying_Lotus95 & effe_95


 

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Capitolo 24
*** 23- Da sorella, da fratello ***


23. Da sorella, da fratello.

 
 
Le temperature scesero drasticamente nelle giornate successive.
Maria aveva cominciato ad abituarsi alla sonnolenza molesta arrivata insieme all’inoltrarsi dell’autunno, accompagnata da una fastidiosissima inappetenza.
Aveva dato la colpa di quei malesseri alle stagioni, ma Maria cominciava a domandarsi se non fosse a causa dell’eccessivo stress a cui si stava sottoponendo in quel periodo della sua vita.
La partita per le nazionali era sempre più vicina e in squadra si respirava un’aria tesa, si lavorava alacremente, la scuola inoltre richiedeva un’attenzione maggiore del solito con gli esami alle porte, e la salute del nonno era improvvisamente peggiorata, senza preavvisi.
Non erano passati che un paio di giorni da quando era quasi svenuta in palestra per lo spavento, ma a Maria sembravano passate settimane intere.
Negli ultimi due giorni inoltre, a causa di tutti quegli impegni imprevisti, si era dovuta allontanare da Asahi. Si erano scambiati alcuni messaggi di routine, ma non parlavano decentemente l’uno con l’altra da ore interminabili.
Maria lo trovava incredibilmente frustrante, soprattutto quando aveva cominciato ad abituarsi alla nuova piega che aveva preso la loro relazione.
Tentò di non pensarci troppo e di concentrarsi sui numerosi poster che Hitoka le aveva sistemato davanti, tutti lavori realizzati direttamente da lei per sponsorizzare la squadra.
La primina aveva inviato un messaggio a lei e Shimizu perché andassero a trovarla durante la pausa pranzo per aiutarla a scegliere il lavoro migliore da usare per le nazionali.
Non sapevano se avrebbero vinto, non sapevano nemmeno se avrebbero partecipato ovviamente, ma Hitoka aveva comunque voluto anticiparsi.
Aveva detto che cominciare positivamente avrebbe significato trovarsi già a metà strada.
Maria analizzava attentamente i disegni che l’amica le sottoponeva, ne aveva fatti una quindicina e nessuno sembrava uguale all’altro.
«Sono indecisa tra questi due Hitoka-chan» commentò Maria con le sopracciglia aggrottate, prelevando i due prescelti per passarli alla primina.
Yachi li esaminò anche lei con aria professionale, annuendo distrattamente.
«Anche secondo me sono i lavori migliori Tani-chan» confermò «Ma non sono sicura di questo sfondo nella prima immagine … e nella seconda forse Kageyama ha una posa strana».
Il tono di voce di Hitoka era serio e professionale, criticava ogni singolo lavoro che aveva portato a termine come se non ne fosse pienamente soddisfatta, dava come la sensazione di poter fare un lavoro migliore se solo si fosse impegnata ancora di più.
Maria ammirava tutta quella determinazione e attitudine.
«Non saprei, a me sembrano perfetti. Tu che ne dici, Kiyoko-san?».
Maria si rivolse alla sua migliore amica, ma fu come se Shimizu in realtà non l’avesse affatto sentita. Il suo bento era ancora pieno, non aveva guardato nessuno dei poster e continuava a fissare nervosamente lo schermo del cellulare che, Maria si rese conto in quel momento, continuava a fare rumore da quando avevano cominciato a pranzare.
Kiyoko tentava di ignorare i continui messaggi che arrivavano ad intermittenza.
Maria non lo fece con malizia, ma non poté evitare di lanciare un’occhiata al nome che continuava a comparire sul display del telefono.
«Kiyoko-san!» riprovò con maggior forza, ottenendo finalmente l’attenzione dell’amica, che la fissò sbattendo ripetutamente le palpebre, come se fosse caduta dalle nuvole.
«Si?» domandò la ragazza spaesata, Maria e Hitoka si rivolsero un’occhiata accigliata.
«Perché non rispondi ai messaggi di Sugawara-kun?».
Shimizu abbassò lo sguardo sul banco, sembrava incredibilmente a disagio.
Maria aveva percepito qualcosa di strano nella sua migliore amica nei giorni precedenti, non era stata molto presente a causa dell’improvvisa necessità di accompagnare il nonno in ospedale, e la scuola e il club l’avevano tenuta impegnata, ma Kiyoko aveva cominciato ad essere strana solamente da un paio di giorni.
Maria non aveva pensato che il motivo potesse essere Sugawara.
Non aveva mai davvero sentito Kiyoko lamentarsi una sola volta di Koushi, mai una volta li aveva visti litigare o tenere le distanze l’uno dall’altra. In realtà, Maria aveva sempre pensato che, da persone davvero mature, qualsiasi discussione avessero avuto nei loro due anni di relazione Kiyoko e Koushi avessero sempre risolto tutto istantaneamente, parlando.
Non erano i tipi da mettersi il muso per giorni interi, non come lei e Asahi ad ogni modo.
Era per quella serie di ragioni che Maria non aveva pensato che potesse essere Sugawara la causa del nervosismo e del malessere di Shimizu, ma dal modo in cui l’amica si ostinava ad ignorare i messaggi del suo fidanzato era evidente invece, e sorprendentemente, il contrario.
«Lo farò più tardi» decretò distrattamente Kiyoko «Concentriamoci sui poster».
Fu il suo scarso tentativo di eludere la questione, Maria decise di non insistere oltre, non era né il luogo, né il momento adatto per farlo. Hitoka dovette pensarla in egual modo.
«Sh-Shimizu- san, io e Tani-chan stavano discutendo su quale scegliere tra questi due poster, tu che cosa ne pensi?» si intromise, sottoponendo i lavori selezionati precedentemente alla sua senpai, in quel modo si allontanò abilmente dalla conversazione scottante e l’espressione tesa sul viso di Shimizu si appianò notevolmente.
«Credo che questo sarebbe meglio, nell’altro Kageyama-kun ha una strana posa» commentò, concentrandosi totalmente sui fogli che aveva davanti.
«Si, lo pensavo anche io» le diede man forte Hitoka, la primina stava per aggiungere qualcos’altro quando il telefono di Kiyoko prese a squillare con insistenza.
Si zittirono nuovamente, evidentemente distratte da quel suono.
Shimizu sospirò stancamente e decise finalmente di rispondere, doveva aver capito che anche silenziare il cellulare non sarebbe servito a nulla contro la testardaggine di Suga se era arrivato addirittura a chiamarla. Doveva essersi arreso con i messaggi. 
«Pronto?» Kiyoko aveva una voce esile quando rispose, atona.
Dall’altra parte del telefono si sentì immediatamente un gran vociare agitato, anche se né Maria né Hitoka riuscirono a comprendere una sola parola della conversazione a causa del tono basso di voce tipico dell’alzatore della Karasuno.
«No Sugawara-kun, non posso parlarne adesso» continuò impassibile, seria.
Altro vociferare affannato dall’altra parte della linea, Shimizu si alzò inaspettatamente in piedi sotto lo sguardo attento di Hitoka e Maria, fece cenno ad entrambe di scusarla con un piccolo inchino e si allontanò dal banco, lasciando la classe di Hitoka.
Maria credeva davvero di aver sentito male a causa della confusione, ma era sicura di aver sentito uscire dalle labbra di Shimizu il cognome di Asahi e quello di Daichi.
« So che è un enorme opportunità per te, Azumane-san e Sawamura-san …».
Era una frase strana, senza senso, Maria doveva aver sentito evidentemente male, forse Kiyoko e Koushi avevano litigato perché lui aveva preferito uscire con i suoi amici che con lei.
Si, doveva essere successo tutto per una sciocchezza simile, anche se …
Anche se non era affatto da loro una cosa simile. No, non era proprio da loro.
Maria cominciò a domandarsi se la faccenda non avesse a che fare con la preoccupazione che aveva letto negli occhi di Asahi quella mattina, gli era sembrato stranamente ansioso, ma non vi aveva dato troppo peso, aveva attributo quel malessere alla partita imminente.
Inoltre aveva potuto guardarlo negli occhi solamente per pochi istanti, poteva essersi sbagliata … non aveva tempo di pensarci in quel momento ad ogni modo.
«Direi di scegliere questo poster allora, Hitoka-chan» disse, tentando di riportare la conversazione e l’attenzione sull’argomento e il motivo principale del loro incontro.
Hitoka annuì con vigore, cominciò a raccogliere con cura gli altri poster scartati.
Maria le diede immediatamente una mano, ripose i bento in una borsa e ripose con estrema cura e delicatezza il lavoro prescelto all’interno di una cartellina di plastica trasparente.
Si annotò mentalmente di chiamare Kiyoko quella sera per parlare di tutta quella questione.
Sentiva lo stomaco sottosopra, mentre si affaccendava.
Aveva mangiato solamente la metà del suo bento, ad un certo punto una delle omelette aveva cominciato ad avere uno strano sapore, come di cibo avariato e non aveva voluto rischiare.
Sospirò stancamente e sperò vivamente che quella sera le tornasse l’appetito, perché la nonna aveva preparato uno dei suoi piatti preferiti e non sarebbe stata affatto contenta di ritrovarsi davanti agli occhi una cena ancora intoccata alla fine della serata.
«Tu sai se è successo qualcosa in questi giorni, Hitoka-chan?» domandò distrattamente, mentre si affaccendava a riporre le ultime cose.
Yachi fece spallucce, pensierosa, stava ritornando con la memoria ai giorni precedenti per trovare qualche indizio che potesse aiutarla a rispondere a quella domanda.
Lei stessa, inoltre, era curiosa di saperne qualcosa di più a riguardo, la prospettiva che Shimizu e Sugawara avessero litigato sembrava impossibile, il motivo doveva essere serio.
«Non lo so con certezza Tani-chan» disse pensierosa, poi fece un saltello, come se si fosse improvvisamente ricordata qualcosa di importantissimo «Anche se ripensandoci, stamattina mi è parso di vedere Sugawara-kun tentare di avvicinarsi a Shimizu-san, per essere bellamente ignorato da lei, come se non l’avesse visto».
Le due si fissarono con le sopracciglia aggrottate, poi lasciarono cadere l’argomento.
Era evidente che nessuna delle due ne sapesse nulla di più, ma era anche certo che Maria non avrebbe lasciato cadere l’argomento in quel modo, qualunque fosse il motivo lo sarebbe venuto a sapere, ci fossero voluti mesi interi per far parlare Kiyoko, cosa che Maria temeva.
«Come sono andate le cose con Hinata-kun alla fine?».
Quello di Maria fu il tentativo di cambiare argomento, un tentativo che Yachi accolse ben volentieri, anche se la riguardava direttamente non mostrò alcun segno di imbarazzo né di disagio, era evidente che voleva allontanarsi dalla questione “ Shimizu ” anche lei.
«Sono andate molto bene Tani-chan» dichiarò con un sorriso contento, mentre riponeva tutto il materiale che aveva tirato fuori con estrema cura all’interno della cartella.
Maria accolse quella notizia con allegria, appoggiò il mento sui palmi delle mani, i gomiti sul piano del banco e si avvicinò ad Hitoka, evidentemente curiosa di saperne di più.
«State insieme adesso?» domandò con l’espressione di un’esperta comare impicciona.
Hitoka arrossì lievemente e scosse ripetutamente la testa, smorzando notevolmente in quel modo la gioiosa aspettativa di Maria e la sua selvaggia fantasia romantica.
«Per ora no.» confessò la primina, timida «Ma in futuro non possiamo saperlo».
Fece un respiro profondo e sollevò lo sguardo per guardare Maria con fierezza.
«Mi impegnerò al massimo per scoprirlo Tani-chan!».
Maria sorrise affettuosamente nel ricevere quella risposta convinta, diede una pacca sulla spalla di Yachi e la incoraggiò impetuosamente, dichiarando che quello era lo spirito giusto.
Le due parlottarono ancora un po’ di quella faccenda, a Maria piaceva ascoltare i discorsi ancora infantili e fantasiosi della sua kohai e si mise seduta comoda ad assecondarla.
La fine della pausa pranzo era ancora lontana, ma la nausea non voleva passare e non aveva nulla di meglio da fare se non starsene seduta attorno a quel banco a rilassare un po’ la mente.
Fu per puro caso che lo sguardo, spostato distrattamente sulla finestra accanto, gli ricadde su una figura familiare, quella di un ragazzino imbronciato con taglienti occhi scuri.
Kageyama era evidentemente intenzionato a scambiare alcuni palleggi con Hinata a giudicare dalla palla che stringeva sotto il braccio e dal modo in cui si affrettava verso la palestra.
A Maria tornarono in mente solamente in quel momento la serie di piccoli dettagli che aveva colto da quando era finito il ritiro e a cui non aveva dato peso per mancanza di interesse.
Kageyama aveva cominciato ad evitarla, a parlare con lei il meno possibile e Maria sospettava di conoscere il motivo di quei comportamenti. Era successo qualcosa durante il ritiro a cui, forse, avrebbe dovuto dare importanza, ma per lei la situazione con Asahi aveva avuto la priorità in quei giorni. Poi c’era stato il rientro, la scuola, il nonno e non ci aveva più pensato.
Aveva sbagliato e improvvisamente sentì la necessità di risolvere quella situazione.
«Kageyama-kun mi sta ignorando in questi giorni» commentò distrattamente ad alta voce, senza farlo davvero apposta; Hitoka smise immediatamente di parlare e seguì lo sguardo distratto della senpai oltre il vetro della finestra, non si era accorta di non essere più ascoltata.
«Temo di aver fatto qualcosa di sbagliato al ritiro» concluse in fine alla volta di Hitoka per darle una spiegazione, le sorrise alla fine di quell’affermazione e trattenne a stento uno sbadiglio, la sonnolenza era tornata inaspettata e proprio in quel momento.
Hitoka si morse leggermente il labbro inferiore, come se stesse valutando se parlare o meno.
«Tani-chan tu … ti sei mai accorta dei sentimenti di Kageyama-kun per te?» disse infine, arrossendo immediatamente alla sua stessa audacia, forse pentendosi di aver aperto bocca dopotutto; Maria non se la prese, in un certo senso aspettava quella domanda.
«Me ne sono accorta Hitoka-chan» le confessò con estrema serenità, sorrideva.
Yachi sgranò gli occhi e questa volta toccò a lei farsi più vicina alla senpai, incuriosita.
«Io e Hinata-kun avevano solamente un sospetto Tani-chan! Kageyama-kun non ha mai detto nulla del genere, ma ogni volta che tu comparivi lui arrossiva come un matto!» bisbigliò la primina eccitata da tutto quel gossip inaspettato e Maria trovò buffo quell’entusiasmo, ci mancò poco che non scoppiasse a ridere a pieni polmoni per la reazione.
La conversazione cambiò nuovamente nel giro di pochi minuti, fu un’ora piacevole da trascorrere, spensierata e serena; ma in cuor suo Maria sapeva che era arrivato il momento di risolvere quella questione una volta per tutte.
 
 
Kageyama stava lottando selvaggiamente con il contenuto del suo armadietto quando Maria lo intercettò alla fine della giornata.
Gli allenamenti si erano tenuti la mattina presto, ben prima della sua conversazione con Hitoka, prima che le venisse in mente di fare qualcosa.
Aveva pensato tutto il pomeriggio a come fare per avvicinarlo senza che lui fuggisse.
Guardò la bevanda a base di latte che si rigirava tra le mani, era stata l’unica cosa che le era venuta in mente per tentare un approccio neutro e sereno. 
Fece un respiro profondo per darsi il coraggio necessario e la calma per affrontare quella conversazione, voleva che fosse una cosa pacifica e non traumatica, voleva che Kageyama non avesse un brutto ricordo di lei o di quella prima cotta non ricambiata.
Lo colse di sorpresa, alle spalle, appoggiò la bevanda ancora fredda di frigorifero sulla guancia spigolosa del primino che, colto alla sprovvista, si scostò con uno scatto violento.
Tobio la fissò per un istante come se fosse la reincarnazione del male assoluto da eliminare, aveva un’espressione terrificante sul volto - forse aveva creduto si trattasse di Hinata.
Maria ridacchiò divertita quando la vide trasformarsi totalmente in una di puro imbarazzo.
Kageyama aveva la pelle chiara, per cui il rossore risaltava notevolmente.
Maria, ovviamente, non gliel’avrebbe fatto notare.
Tobio si imbronciò, nascondendo metà del viso contro il palmo della mano quando si apprestò a strofinarsi la guancia, forse perché la sentiva accaldata; evitò immediatamente lo sguardo di Maria, ma non fuggì, non aveva una scusa valida per farlo quella volta.
«A te piace il latte, vero Kageyama-kun?» esordì la senpai con voce chiara e allegra, come se fosse del tutto intenzionata ad avere una conversazione amichevole e tranquilla.
Kageyama non era mai stato particolarmente intuitivo riguardo le cose comuni della vita di tutti i giorni, ma anche lui fu in grado di capire che genere di conversazione stava per avere luogo. E fu anche in grado di comprendere di non potervisi sottrarre.
«Mi è successa una cosa spiacevole prima alle macchinette» Maria continuò a parlare con serenità come se nulla fosse, voleva metterlo a suo agio «Volevo prendere un succo di mirtillo, ma ho sbagliato a digitare i numeri e alla fine mi è caduto questo» agitò ancora una volta la familiare confezione sotto gli occhi del kohai «All’inizio ci sono rimasta malissimo perché erano le uniche monete che avevo con me, ma poi mi sono ricordata che a te piace tanto questa bevanda» la guardò ancora una volta e poi gliela porse con un sorriso.
«E ho pensato quindi di portartela direttamente. La vuoi?».
Kageyama non reagì immediatamente a quell’offerta per lui inaspettata.
Una piccola parte del suo cervello doveva aver capito che quella era stata solamente una scusa per avvicinarlo e parlare con lui, dopotutto non aveva fatto altro che scappare ogni volta che Maria era nei paraggi da quando era terminato il ritiro, Tobio non le aveva lasciato molta altra scelta, ma il suo cuore aveva comunque perso qualche battito d’imbarazzo.
E poi, non poteva scappare per sempre. Pretendere che Maria avrebbe ignorato la faccenda era stato sciocco da parte sua, era ovvio che avrebbe voluto parlarne.
Allungò automaticamente una mano e prese la bevanda, facendo attenzione a non sfiorare, nemmeno accidentalmente, la pelle di Maria; non aveva bisogno di altro imbarazzo.
«G-grazie» balbettò in difficoltà, continuando a guardare tutto tranne che lei.
Maria sembrò incredibilmente soddisfatta della sua reazione, nonostante lui comunicasse un’evidente chiusura nei suoi confronti, sia fisica che emotiva.
«Ti va se ci sediamo sulle scale per parlare un po’?».
La domanda fatidica arrivò e Kageyama fu seriamente tentato di scappare a gambe levate.
Non era proprio bravo a socializzare e a capire le situazioni, non sapeva esprimere i suoi sentimenti né tanto meno era in grado di capirli, era stato ferito in passato a causa del suo caratteraccio e aveva paura che Maria non potesse comprenderlo, che potesse essere anche lei ferita dal suo comportamento non sempre chiaro e comprensibile per gli altri.
Ma non trovava una scusa valida per rifiutare e dunque accettò la proposta di Maria.
Si misero seduti uno affianco all’altro, con una distanza ragionevole a separarli.
Tobio era spaventato da quello che Maria avrebbe potuto dirgli, non aveva idea se volesse rimproverarlo per quello che aveva tentato di fare al ritiro, oppure se volesse rifiutarlo aspramente. La sola prospettiva gli sembrava assolutamente assurda considerato che non era nemmeno venuto a patti con i suoi stessi sentimenti, che non li avesse espressi ad alta voce mai nemmeno una volta e non fosse nemmeno in grado di classificarli o distinguerli.
Andò nel panico totale e giocò d’anticipo ancora prima che Maria potesse aprire bocca.
«Mi dispiace per quello che è successo al ritiro, non capiterà mai più. Ero ubriaco!».
Lo disse tutto d’un fiato e Maria rimase ovviamente interdetta, non se l’era aspettato.
Ma ritrovò velocemente la compostezza, intenerita dal rossore sulle guance del primino, sorvolò sul fatto che Kageyama non fosse ubriaco quella sera, ma solamente indisposto a causa del collutorio che aveva ingurgitato scambiandolo per una bevanda alcolica potente.
«Ma non è successo nulla di grave al ritiro Kageyama-kun».
Quella di Maria voleva essere senza ombra di dubbio una rassicurazione «Io non sono arrabbiata, e vorrei che tu non ti sentissi a disagio con me. Sono qui per ascoltare qualsiasi cosa tu abbia da dirmi».
Tobio rimase interdetto da quelle parole.
Sapeva che Maria le aveva pronunciare solamente per rassicurarlo, magari non le pensava veramente, ma Kageyama sentì ugualmente il cuore quietarsi all’improvviso.
Non avrebbe detto a Maria davvero tutto quello che provava, non ne era in grado.
Era sicuro che sarebbe esploso prima di comprendere per davvero cosa gli frullasse nella testa.
«Io ti avevo vista per prima, sugli spalti» biascicò, con una certa fatica.
Era vero, era stato lui il primo ad accorgersi di quella strana ragazza solitaria che, durante le ore dei loro allenamenti, si nascondeva sugli spalti in alto per non essere osservata.
Se ne stava sempre con qualche libro in mano, china a scribacchiare solo lei sapeva cosa.
Tobio aveva notato gli occhi chiari solamente in seguito, lo avevano colpito.
Stava parlando esattamente di quei momenti a Maria e, sebbene l’avesse fatto solamente con poche parole, lei fu assolutamente in grado di comprendere a cosa lui si stesse riferendo.
Ricordava quelle poche volte che aveva incrociato il suo sguardo.
Era stato l’unico della squadra a farlo, nonostante lei volesse evitarlo con tutta sé stessa.
Kageyama però, il coraggio di avvicinarsi e parlarle non lo aveva mai avuto.
Era stato facile lasciar cadere la cosa dunque, non aveva fatto notare a nessuno quella presenza silenziosa, nemmeno ad Hinata, si era limitato ad osservarla quando poteva.
«Quando sei entrata nel club sono rimasto sorpreso» confessò con un po’ più di sicurezza, come se nel parlare avesse cominciato a trovare confidenza «Tu mi interessavi Taniguchi-san» Qui arrossì furiosamente «Ma non capivo in che senso».
Si grattò la nuca, non la guardava in faccia ma era chiaro che si fosse sciolto almeno un po’.
Era quello che Maria voleva, voleva che Tobio cacciasse tutto fuori per non avere rimpianti.
Era ovvio ad entrambi che non poteva ricambiare quei sentimenti, né tanto meno aiutarlo a capirli, ma voleva fare almeno in modo che diventassero chiari per lui, un bel ricordo a cui aggrapparsi quanto sarebbe arrivato l’amore vero, quello serio.
Non di certo un’esperienza traumatica.
«E non lo capisci nemmeno adesso» concluse Maria per lui, con serenità.
Kageyama trovò un briciolo di coraggio per sollevare lo sguardo dalla punta delle sue scarpe e guardarla, sebbene anche solo di sottecchi, fu comunque un bel passo avanti.
«Sono strano, vero?» Bisbigliò, accigliandosi tutto.
Maria lo trovò un gesto molto tenero, avrebbe voluto accarezzargli la schiena per dargli coraggio, ma evitò di farlo, non sapeva come lui avrebbe potuto reagire ad un contatto fisico.
«Non sei strano. Hai quattordici anni e ti sei sentito attratto da una donna. Questo è normale alla tua età, sai? Non te ne devi vergognare».
Alle parole di Maria, Tobio arrossì ancora di più, doveva aver trovato vergognosa la parola “attratto”, una prova del fatto che fosse ancora un bambino.
«Io – io non pretendevo nulla Taniguchi-san» precisò Kageyama con una certa difficoltà, come se si fosse improvvisamente sentito in urgenza di chiarire quel punto «Sapevo che eri una senpai. Solo – solo mi incuriosivi, tutto … qui».
Maria comprese che quelle parole erano tutto ciò che avrebbe ascoltato da Tobio.
In un certo senso poteva dire di sentirsi quasi lusingata di essere stata la prima cotta di quel ragazzino così introverso e chiuso, che quanto meno aveva dimostrato di avere anche sentimenti di quella natura, oltre uno sfrenato interesse per la pallavolo.
«Ne sono lusingata Kageyama-kun, nessuno mi aveva trovata interessante prima di te» gli confessò.
Tobio sollevò la testa sorpreso da quelle parole, si dimenticò perfino dell’imbarazzo e di ostinarsi a non guardarla negli occhi; Maria gli sorrise quando finalmente se lo ritrovò viso a viso, in una vera espressione di confronto.
«Che tu sia arrivato a realizzare questo interesse è importante. Come è importante che tu sappia anche i limiti di questo tuo sentimento. Sei giovane Kageyama-kun, avrai tutto il tempo di innamorarti davvero. Ora pensa solamente a vivere i tuoi anni, uhm?».
Si fissarono finalmente negli occhi per alcuni istanti.
Maria aveva un animo sereno, anche Kageyama era molto più tranquillo e ne fu felice.
Sembrava essersi come rassegnato, aver accettato senza troppi drammi la verità che la sua prima cotta non era andata esattamente come sperato, ma tutto sommato fosse meglio così.
Per dimostrare ancora meglio quella verità, Tobio guardò la bevanda che aveva ancora tra le mani e decise di berla, staccò la cannuccia dal dorso della busta e la infilò nell’apposito buco.
Bevve una lunga sorsata sotto lo sguardo soddisfatto di Maria.
«Si sta facendo tardi, credo che dovremmo andare» commentò lei qualche istante dopo, osservando il cielo che stava mano a mano andando a scurirsi, le giornate cominciavano ad accorciarsi e la sera ad arrivare prima, inaspettata.
Tobio rischiò di strozzarsi per la fretta di ingoiare, aveva ancora una cosa da chiederle.
Una cosa soltanto e poi si sarebbe definitivamente messo l’anima in pace.
«Ma tu stai bene Taniguchi-san?».
Lo domandò frettolosamente, per poi vergognarsene.
Maria lo guardò leggermente sorpresa, si era già tirata in piedi per andare via e stava sistemando le pieghe della gonna, rimase con le mani ben piantate sul tessuto nel ricevere quella domanda inaspettata.
«Si, sto bene» replicò battendo le ciglia, perplessa.
Kageyama arrossì nuovamente alla prospettiva della nuova domanda che aveva in serbo per lei, si grattò nervosamente la nuca ma Maria aspettò con pazienza, era anche un po’ curiosa adesso. Inoltre, era andata così bene con Tobio che non voleva rovinare tutto all’ultimo.
«Insomma … con il capita-»
«Va tutto bene Kageyama-kun. Io sono felice, ho una persona al mio fianco».
Maria non si rese conto, nella fretta di rispondere, di non aver nemmeno lasciato a Kageyama l’opportunità di concludere la domanda.
Non sentì la fine della frase, e di conseguenza non fece altro che alimentare il presentimento di Kageyama che tra lei e Daichi le cose fossero inevitabilmente cambiate.
Lei aveva pensato ad Asahi mentre pronunciava quelle parole, Tobio non aveva fatto altro che figurarsi invece il capitano del Karasuno; ad ogni modo non erano affari suoi, non più.
L’unica cosa positiva di tutta quella storia era che Tsukishima forse avrebbe smesso di tormentarlo, sicuramente da quel momento in poi si sarebbe sentito meno imbarazzato nei confronti di Maria. Quel suo primo amore non corrisposto era finito senza drammi.
Kageyama annuì e non aggiunse altro alle parole di Maria.
La osservò mentre lo salutava e si allontanava da lui, che con una scusa banale le aveva riferito di aver ancora bisogno di trattenersi a scuola. In realtà, aveva solamente bisogno di tempo per metabolizzare quello che era appena successo, lui era fatto così dopotutto.
Maria si allontanò con passo sereno, la mente sgombra anche da quel pensiero.
Se l’era cavata bene tutto sommato, senza creare casini o melodrammi, era soddisfatta di sé stessa e aveva completamente dimenticato il malessere allo stomaco, che si ripresentò improvvisamente e con violenza non appena si riconcentrò su sé stessa.
Si portò una mano allo stomaco, nauseata, lottando contro un conato di vomito insistente.
Quella frittata doveva essere stata davvero avariata.
 
 
A casa Sawamura non si erano mai fatti festeggiamenti inutili.
Takahiro non era il tipo di persona a cui piaceva organizzare ricevimenti immotivati.
Partecipava a tutti quelli a cui veniva invitato per una questione di immagine, ma non si era mai visto un ricevimento in casa Sawamura che non avesse una motivazione precisa.
Takahiro era tradizionalista, e come tale amava trascorrere i momenti di festa esclusivamente in famiglia, tutto il resto era solamente mondanità e apparenza.
Quella sera si era presentata una di quelle rare occasioni: il compleanno di Kaede.
Daichi sapeva che, a differenza di suo padre, sua madre invece amava quegli eventi.
Amava organizzarli e amava parteciparvi.
Kaede era stata l’artefice delle migliori feste di compleanno che i suoi figli e nipoti avessero avuto. Perfino Takahiro non era mai riuscito a scappare da lei il giorno del loro anniversario.
Era stato una sorta di compromesso quello che avevano stabilito i due coniugi: niente ricevimenti sfarzosi e inutili in casa, ma molte cene in famiglia. 
Quel giorno, inoltre, vi era un ulteriore ragione per cui riunirsi.
Sua sorella secondogenita, Reira, che abitava a Berlino ormai da parecchi anni, era finalmente tornata a casa in Giappone con il marito e il suo unico figlio per trascorrere con la famiglia alcuni giorni di vacanza.
Daichi adorava Reira, e ad ogni partenza ne sentiva la mancanza irrimediabilmente.
Reira era solare, era allegra e la casa sembrava scoppiare di vita ogni volta che lei ne varcava la soglia, come se prendesse improvvisamente tutt’altro aspetto.
Lei era in grado di capirlo con un solo sguardo, e non solo perché l’aveva cresciuto.
Daichi aveva assistito impotente ai preparativi che avevano preceduto la cena.
Kaede e Reira, arrivata con la sua famiglia un paio di giorni prima dell’evento, avevano cominciato a cucinare ben prima che arrivasse il momento fatidico e vi era stato un andirivieni alla villa davvero insostenibile, a cui Sachi aveva partecipato nei momenti liberi dall’azienda.
Daichi si era chiuso nella sua stanza, perché come suo padre non capiva quelle cose e preferiva non restarne troppo immischiato. Certo, con Reira nei paraggi non era stato possibile restarne fuori del tutto, l’esuberante sorella l’aveva trascinato con sé in ben più di un’avventura.
Sarebbe stato un momento lieto per Daichi se non avesse avuto la testa altrove.
Non aveva detto ancora nulla alla sua famiglia, forse l’avrebbe fatto quella sera stessa.
Erano tutti riuniti per la prima volta dopo tanto tempo e si sarebbe risparmiato la fatica di doverlo comunicare ad ognuno singolarmente, ma il motivo principale per cui non aveva ancora parlato di quelle sue preoccupazioni, era perché non sapeva che cosa fare a riguardo.
Era cambiato tutto da quando il professor Takeda aveva intercettato lui, Asahi e Kōshi nel corridoio, quel fatidico pomeriggio.
Aveva ascoltato in silenzio, insieme ai suoi migliori amici, mentre il professore comunicava loro l’opportunità di una vita: una borsa di studio di tre anni in Brasile, a Belo Horizonte, dove avrebbero potuto studiare e giocare a livello professionale.
Una realtà che spalancava loro le porte del mondo intero. 
La partita contro l’Aoba Josei era stata ben più importante di quanto avevano pensato.
Sarebbero stati i ragazzi del terzo anno del Seijou ad andare in Brasile se avessero vinto.
Daichi aveva pensato, per un breve momento, che forse sarebbe stato meglio perdere.
Se ne era ovviamente pentito ripensando a tutti gli sforzi fatti, ma non aveva saputo che farsene di tutta la documentazione che aveva nella cartella di scuola, intoccata.
L’unica consolazione era venuta dal fatto che né Suga né Asahi avevano accettato immediatamente la proposta, come lui erano sconvolti e restii.
Ne avevano parlato e sapevano tutti e tre che si trattava di una decisione importante, per lui significava dover lasciare la squadra ad un passo dalle nazionali, lasciare la famiglia, il Giappone … Yui.
Aveva l’animo inquieto e non riusciva a farsi coinvolgere del tutto dall’atmosfera festosa.
L’enorme salone della villa, un vero e proprio cimelio che sua madre curava nei minimi dettagli, era stato trasformato in un diamante quella sera; Kaede, Sachi e Reira si erano date da fare, l’immensa tavola addobbata con bicchieri di cristallo e porcellane era stracolma di cibo, piatti raffinati e altri più semplici e caserecci.
Era raro vedere quell’ambiente così pieno di vita, con i bambini che correvano dappertutto.
Daichi era stato assalito dai suoi nipoti non appena avevano messo piede in casa, Kou e Akemi l’avevano costretto a giocare con loro per tutto il pomeriggio nel grande giardino sul retro.
Daichi si era stancato immediatamente, ma quando Renji, il figlioletto di Reira e Masafune di appena due anni, si era svegliato dal sonnellino pomeridiano per unirsi al gruppo la situazione si era fatta davvero impegnativa.
Aveva imparato un nuovo grado di pazienza quel giorno.
Almeno, tutto quello era servito a tenerlo lontano dai litigi tra le donne di casa o dai discorsi di politica e lavoro di suo padre e dei suoi cognati, e soprattutto lontano da pensieri molesti.
Si mise seduto al suo posto a tavola lasciando andare un sospiro pesantissimo.
«Non mi dire che sei stanco?» gli domandò immediatamente Reira.
Si era seduta al suo fianco, forse intenzionalmente, e stava cominciando a riempirgli il piatto di cibo senza nemmeno domandargli se o cosa volesse mangiare. Daichi non se ne preoccupava comunque, Reira non aveva bisogno di domandargli quelle cose, perché lo conosceva meglio di Kaede da quel punto di vista.
«Oppure sei semplicemente pensieroso?» ammiccò con lo sguardo vivace, sorridendo.
Il carattere spontaneo ed esuberante di Reira si rispecchiava benissimo nel suo aspetto.
Assomigliava a Kaede, ma anche a Takahiro, era magra, aveva forme piccole e aggraziate, ma era alta e slanciata. Portava i capelli corti, un caschetto nero stile anni trenta che la faceva assomigliare ad una di quelle soubrette d’epoca, li acconciava sempre all’antica e truccava gli occhi con una tale intensità da renderli profondi e difficili da guardare.
Anche nel modo di vestirsi era eccentrica, ma a suo padre piaceva dire che gli artisti erano tutti eccentrici per natura e Reira non poteva uscire fuori di categoria.
Era una cantante di musica lirica e jazz, sapeva suonare pianoforte, violino, arpa e chitarra, era in grado di leggere tutte e sette le chiavi musicali e di comporre brani; aveva studiato musica all’Università e aveva viaggiato per l’Europa, le Americhe, l’Asia, fino a quando, durante i mesi di studio a Berlino, in Germania, non aveva conosciuto Masafune, quel timido pianista giapponese, geniale sul palco e impacciato nella vita: era stato amore a prima vista.
Si erano sposati nel giro di un anno, dopo aver girato il mondo insieme cantando e suonando come coppia un po’ dappertutto: avevano trovato pianta stabile solo quando era arrivato Renji.
Ma nemmeno la maternità aveva smorzato la sua vena avventurosa e ribelle.
Takahiro aveva compreso ben presto che con lei qualsiasi argomentazione sarebbe stata inutile, Reira era la sua secondogenita e a differenza di Sachi era sempre stata libera di vivere la propria vita come desiderava; nessuna catena sarebbe stata in grado di trattenerla.
Né il senso di responsabilità, né sentimenti contrastanti verso suo padre, né altro,
Sachi e Reira erano come l’acqua e il fuoco.
E Daichi non poteva fare a meno di pensare a cosa potesse essere lui, come fratello minore.
Reira non aveva lasciato nemmeno un angolino vuoto nel piatto mentre Daichi la osservava, lasciandola fare, sorrideva e a lui era mancata terribilmente.
«Mi sei mancata» decise di dare voce a quel pensiero.
Reira non ne fu sorpresa, quelle manifestazioni d’affetto non erano rare tra loro due.
Incrociò le braccia sul tavolo e indicò con l’unghia smaltata di nero il piatto del fratello che aveva appena finito di riempire, un’espressione dolcissima sul bel viso.
«Sono tutte cose morbide e saporite che puoi mangiare con serenità. Purtroppo non sono riuscita a convincere la mamma a preparati lo shoyu ramen» sospirò afflitta con aria melodrammatica «Sachi si è lamentata che fosse troppo calorico!».
Alzò gli occhi al cielo e poi gli diede leggermente di gomito, come se Daichi fosse suo complice in un misfatto «Ma che ne dici se domani ce ne andiamo a pranzo dal signor Ichiro, solo io e te, come facevamo un tempo?».
Daichi sorrise all’entusiasmo complice di Reira.
Lei, come tutta la famiglia, era a conoscenza dei disturbi alimentari del fratello, dopotutto era stata la prima a rendersene conto e a riportare la faccenda all’attenzione dei genitori, ma era stata anche l’unica a non farglielo pesare mai.
Come quella volta, quando Kaede era scoppiata a piangere disperata dopo aver perso la pazienza con Daichi, la ciotola di riso spaccata a terra e quel piatto ancora pieno …
Lui si era sentito soffocare seduto su quella sedia mentre sua madre era in lacrime.
Reira era stata l’unica a non scomporsi di una virgola.
Si era messa a preparare lo shoyu ramen con immensa pazienza, nonostante non fosse affatto brava a cucinare, Kaede aveva asciugato le lacrime e si era alzata in piedi rimboccandosi le maniche. Daichi aveva mangiato tutto in silenzio, mentre le due donne lo osservavano compiaciute, Kaede non poteva fare a meno di accarezzargli la tempia ogni tanto.
Lui l’aveva lasciata fare perché sapeva che ne aveva bisogno.
Da quel giorno, lo shoyu ramen era diventato il suo piatto preferito.
«Andiamo» confermò, contento.
Reira gli prese una mano e gliela strinse forte, lei meglio di chiunque altro doveva aver capito che Daichi aveva qualcosa per la testa, qualche pensiero che non lo faceva stare tranquillo.
«Che cosa state confabulando voi due?» la domanda briosa di Kaede interruppe quel momento d’intimità fraterna, Reira lasciò la mano di Daichi e fece per rispondere.
«Lascialo mangiare Reira, ti prego. Altrimenti non ci alzeremo mai da questo tavolo!».
L’atmosfera festosa si fece immediatamente fredda, il commento di Sachi aveva attirato inevitabilmente l’attenzione di tutti gli adulti presenti nella stanza, i bambini invece continuavano a chiacchierare ridacchiando, completamente estranei alla situazione.
«Sachi» la richiamò gentilmente Nobuo, suo marito.
Era un uomo discreto, elegante, un gran lavoratore che Takahiro aveva scelto personalmente come direttore nella sua stessa azienda. La sua era una bellezza fredda, Daichi non aveva mai avuto un’alta considerazione di lui, non avevano lo stesso rapporto che era invece riuscito a costruire con Masafune, ma lo rispettava. Rispettava quell’uomo anche solo per essere riuscito a sposare quell’arpia inacidita di sua sorella e per avere il fegato di sopportarla tutti i giorni.
Senza contare che ci aveva fatto anche due figli.
Daichi strinse inconsapevolmente le bacchette nel pugno della mano, guardò il cibo che non aveva ancora cominciato a mangiare e che, ormai ne era certo, non avrebbe toccato se tutti avessero continuato ad avere gli occhi puntati su di lui.
Non gli piaceva ammetterlo, ma da quando era stato male al ritiro non aveva più smesso.
Quel disturbo si era ripresentato ogni tanto, nei momenti di sconforto soprattutto.
«Adesso -»
«Oggi sei proprio di ottimo umore, sorellona!».
Qualsiasi cosa Takahiro avesse voluto dire con il suo intervento pacato venne immediatamente interrotto dalla voce squillante e allegra di Reira, l’atmosfera fredda svanì come se lei avesse fatto un incantesimo. Renji inoltre, scelse proprio quel momento per produrre un verso squillante, deliziato dalla porzione di cibo che il padre gli aveva appena dato; aveva compiuto due anni solamente da poco tempo e cominciava a chiacchierare.
«Non sarai mica incinta, eh? Gli ormoni, sai … sei sempre stata di gran compagnia in quel periodo, proprio come adesso!» la prese bonariamente in giro Reira, alludendo alle crisi di nervi della sorella durante le precedenti gravidanze.
Gli altri scoppiarono a ridere, cominciando a ricordare, perfino Daichi sorrise.
Sachi invece ebbe una reazione del tutto inaspettata, sbatté le bacchette sul tavolo con violenza e guardò Reira con un’espressione del tutto avvilita sul viso.
«Non dire fesserie!» la rimproverò, era troppo arrabbiata per uno stupido scherzo.
«Sachi, calmati. Reira scherzava» la invitò gentilmente Kaede, era seduta accanto a lei e le mise delicatamente la piccola mano curata sul braccio «Non devi agitarti».
Il suo sembrava un vero avvertimento, Sachi fece un bel respiro profondo.
Daichi era abituato a tutti quei battibecchi, sapeva che Reira non se la sarebbe presa per la reazione di Sachi, nonostante insolita e inaspettata.
I bambini aiutarono con le loro risate allegre e ben presto la situazione tornò serena.
Daichi riuscì a mangiare tutto discretamente senza fastidi e senza che Sachi ci riprovasse.
Stava così bene che quasi gli dispiaceva dover rovinare tutto con il suo annuncio.
Ma doveva farlo prima che portassero i dolci a tavola e la famigerata torta di compleanno.
«Ho vinto una borsa di studio» buttò fuori all’improvviso, in un momento di silenzio.
Non era stato il modo migliore per cominciare quel discorso, ma servì quanto meno ad attirare l’attenzione degli altri su di sé e a scaricare un po’ la tensione che sentiva nelle ossa.
Kou e Akemi, stanchi di starsene seduti a tavola, giocavano ad una versione di mahjong per bambini sul costoso tappeto persiano, aspettando pazientemente che il loro zio preferito finisse di mangiare per unirsi a loro.
Le voci infantili e ignare facevano da contorno al silenzio calato attorno alla tavola.
«Potresti spiegarti meglio, Daichi?» la voce di Takahiro, inaspettata, era inflessibile e pacata.
L’uomo era seduto a capotavola, sul viso precedentemente rilassato aveva messo su l’espressione professionale che utilizzava a lavoro, l’espressione professionale che utilizzava con Daichi. Non lo stava guardando in faccia, aveva intrecciato le mani sotto il mento e fissava un punto imprecisato della costosa tovaglia di pizzo che ornava il tavolo.
Suo figlio era una questione d’affari, come un fastidio lavorativo di cui occuparsi.
Daichi avrebbe voluto mordersi il labbro inferiore, abbassare lo sguardo, sentirsi mortificato, ma non fece nemmeno una sola di quelle cose.
«L’ultima partita che ho giocato» cominciò a spiegare con voce serena «La vittoria ci ha fatto ottenere una borsa di studio in Brasile di tre anni, a Belo Horizonte. Si tratterebbe di poter studiare all’Università e contemporaneamente giocare a livello professionale».
Daichi non fornì molti dettagli, solamente quelli che ritenne essenziali.
Il silenzio si prolungò ancora per qualche istante.
«Tre anni?!» sbottò Sachi all’improvviso, anticipando tutti gli altri, Daichi si era domandato per quanto tempo ancora avrebbe tenuto la bocca chiusa «Vorresti allontanarti per tre anni dall’azienda di famiglia?» lo rimbeccò immediatamente. «Sono allibita! E sentiamo, che cosa mai andresti a studiare in Brasile? Spero almeno tu abbia pensato di studiare qualcosa che -».
«Ovviamente studierò per diventare insegnante» la interruppe immediatamente Daichi, impassibile «Come la mamma», aggiunse poi, guardando la diretta interessata.
Kaede aveva gli occhi lucidi, non aveva ancora proferito parola sulla notizia appena ricevuta.
«Oh ma questo è assurdo! Come puoi -»
«Ti starebbe bene?».
L’abbaio rabbioso di Sachi venne nuovamente interrotto da Daichi, che la ignorò per rivolgersi direttamente al padre, non aveva mai smesso di rivolgersi a lui durante quella conversazione. Takahiro decise finalmente di sollevare lo sguardo dalla tovaglia.
«É un’opportunità che non devi lasciarti scappare» decretò «Fa come preferisci».
Daichi rimase come impietrito nel sentire quelle parole.
Non se le era aspettate, non aveva pensato che potesse essere così facile.
Forse, nel profondo del suo cuore aveva sperato di dover lottare con il padre ancora per un po’, aveva sperato di poter avere una scusa per non accettare immediatamente quella proposta.
Ma ormai era fatta, cosa c’era ancora a trattenerlo ora che la sua famiglia aveva acconsentito?
Cosa c’era ancora di abbastanza forte da fargli dire di no?
Un paio di occhi nocciola invasero il suo campo visivo, scacciò subito via quell’immagine.
«Sono così orgogliosa di te figlio mio!» esclamò Kaede dando immediatamente sfogo alla sua gioia, un paio di lacrime le solcarono le guance mentre si alzava, prendeva il viso del figlio tra le mani e lo baciava sulla fronte.
«Il mio fratellino è proprio un genio!».
Reira rincarò la dose avvolgendogli le braccia attorno al collo da dietro, tirandolo verso di sé.
Daichi sorrise sommessamente, ma si sentiva stranamente stordito.
 
Fu un sollievo per lui, alcune ore dopo, ritrovarsi da solo nella sua stanza a respirare di nuovo.
Non aveva mangiato la torta di compleanno di sua madre, aveva ascoltato solamente distrattamente i complimenti dei suoi cognati, i lunghi discorsi di Nobuo sulle opportunità che aveva a disposizione. Aveva giocato distrattamente anche con i suoi nipotini e si era perso il momento in cui Kaede aveva aperto i suoi regali di compleanno.
Era lì, ma in realtà non c’era.
Aveva aspettato tutto il tempo qualcosa da Takahiro, ma quel qualcosa non aveva un nome e non era accaduto.
Suo padre non si era degnato di aggiungere altro dopo aver espresso il desiderio di voler controllare personalmente tutta la documentazione che gli era stata consegnata.
Daichi si lasciò cadere seduto sul letto a peso morto, sentiva lo stomaco pesante.
La sua era una camera anonima, non diceva molto sulla sua personalità.
La libreria a muro con i libri di Murakami e il poster del suo giocatore preferito erano gli unici dettagli che avrebbero potuto far intuire un minimo delle sue preferenze.
Quel poster Daichi avrebbe voluto strapparlo, e non capiva il perché.
Si era battuto con tutto sé stesso per la pallavolo, aveva scalciato, recalcitrato, sputato sangue per arrivare dove si trovava in quel momento, per farlo accettare a suo padre.
Era stata tutta la sua vita e la sua meta quando non aveva nulla.
Si sentiva disgustato da sé stesso per quella nausea, per tutta quell’esitazione.
Avrebbe dovuto accettare l’offerta e basta. Sarebbe stato da folli rifiutare.
Ma … Yui … Yui, Yui, Yui, YUI!
Quel nome gli rimbombava nella testa come lo scoppio di un cannone.
Si portò entrambe le mani sulle orecchie e si lasciò cadere con la schiena sul materasso morbido, un lamento soffocato di frustrazione lasciò le sue labbra.
Fu solamente perché aveva le orecchie coperte che non sentì il cigolio della porta.
Prima che se ne rendesse conto si ritrovò Renji, appena in grado di camminare, attaccato alla caviglia. Daichi spalancò gli occhi e si tirò immediatamente a sedere, sconcertato.
Il bambino, che aveva perso l’equilibrio, se ne stava stoicamente attaccato ai suoi jeans.
Sollevò il visetto paffuto sullo zio e gli sorrise deliziato, producendo un versetto stridulo.
L’espressione allibita di Daichi si trasformò presto in un sorriso intenerito.
Renji gli mostrava i dentini, sorridendo esattamente come sua madre.
«E tu come ci sei arrivato qui, eh?» domandò Daichi sollevando il bimbo sotto le braccia.
«Da-Da, con Da-Da» esclamò Renji deliziato, allungando immediatamente le manine per afferrare il mento squadrato dello zio; Daichi rise quando il bimbo lo morsicchiò.
«Va bene, va bene» allontanò il bimbo da se con un sospiro e se lo portò sulla testa, cominciando a farlo volare come un aeroplano. Era il gioco che Renji preferiva in assoluto, i suoi versetti deliziati e la sua risata innocente e cristallina erano acutissimi.
«Renji!».
Reira spalancò la porta della camera di Daichi senza troppi complimenti.
Sembrava allarmata, ma l’espressione preoccupata scivolò via, sostituita da un sorriso quando trovò il figlio in un momento di pura gioia tra le braccia di suo fratello minore.
Daichi rideva ancora quando si tirò nuovamente a sedere, tenendo il bambino ben stretto al petto, quella risata si trasformò in un sorriso leggermente nostalgico e amaro.
Reira incrociò le braccia al petto ed entrò nella camera, mettendosi seduta anche lei sul letto.
«Tu non hai la minima idea di che cosa vuoi fare, vero?».
La domanda di Reira fu diretta, esattamente come lei.
Daichi non se ne sorprese nemmeno, sapeva che gliel’avrebbe letta in faccia la sua titubanza.
Scosse la testa e fece spallucce, continuando a tenere Renji tra le braccia.
Il bambino si era accoccolato sul suo petto ampio, stanco per la giornata, presto si sarebbe addormentato cullato dalla familiarità delle loro voci.
«Vorrei andare. Vorrei andarci con tutto me stesso» confessò alla fine.
Una confessione che aveva un milione di “ma” non ancora pronunciati.
Reira sorrise mentre allungava una mano per accarezzare la schiena di suo figlio, il petto che si abbassava ritmicamente cullato dal sonno innocente, il respiro profondo e sereno.
«Come sono andate le cose mentre non c’ero?» domandò al fratello, e lo fece guardandolo con quegli occhi scuri carichi di matita che sapevano leggere anche l’anima più nera.
Daichi fece nuovamente spallucce.
«Ti raccontai della nuova manager nel nostro club» cominciò «Maria, ha la madre italiana. La ragazza degli spartiti» chiarì, Reira annuì immediatamente e lo osservò con un certo interesse, accavallando le gambe con grazia.
La gonna del vestito di seta nero che stava indossando scivolò con grazia sulla pelle.
Doveva ancora ricordare la conversazione avuta al telefono con Daichi alcuni mesi fa riguardo alcuni dei suoi vecchi spartiti che aveva ritrovato nella libreria del salone.
«Si è dichiarata!» esclamò poi battendo le mani con entusiasmo.
Renji, disturbato da quell’improvvisa euforia, aprì per un attimo gli occhi, ma tornò presto a dormire cullato dalla mano di Daichi, che da sola gli copriva tutta la schiena.
«Ma come fai a sapere sempre tutto?» domandò il ragazzo allibito, arrossendo.
Reira lo guardò compiaciuta, poi si fece vicina vicina con occhi brillanti, come una bambina.
«Il mio fratellino ha fatto conquiste. Sei fidanzato con lei?» volle subito sapere.
Daichi non ne aveva mai parlato con nessuno, si rendeva conto per la prima volta.
La squadra sapeva qualcosa, ma non si era mai sentito in dovere di dare più spiegazioni del necessario per rispetto nei confronti di Maria; a scuola giravano ancora delle voci su loro due, ma Takumi era stato di parola e non aveva dato fastidio come promesso.
Con Asahi e Suga non aveva aperto bocca e loro non avevano chiesto.
Forse avrebbe dovuto farlo, Daichi ricordava ancora la conversazione al ritiro con Asahi.
Se avesse parlato prima forse l’amico non l’avrebbe rimproverato in quel modo.
Gli venne da ridere al pensiero di essere stato rimproverato proprio da Asahi.
«No» disse infine «Sul principio l’ho respinta. Me ne sono pentito e sono tornato con la coda tra le gambe. Ma era troppo tardi e questa volta sono stato io ad essere respinto».
Ridacchiò all’espressione scioccata di Reira, aveva una mano sulla bocca come una diva indignata. Se solo avesse potuto dire anche tutto quello che non aveva detto nel mezzo.
«Chi osa respingere mio fratello? Voglio nome, cognome, indirizzo e fedina penale!» scherzò Reira schiaffandosi una mano sulla gamba con energia, sorrise.
«É stata solamente molto più saggia di me» concluse Daichi spostando lo sguardo sul bambino addormentato contro il suo petto, Renji gli stava sbavando sulla maglietta, esattamente come Reira sbavava sui cuscini.
«Si è accorta che i tuoi sentimenti non erano totali, ma solo delle buone intenzioni eh?».
Daichi non sapeva cosa replicare a quella verità, fece solamente spallucce.
Reira gli sorrise con un’intenzione diversa da quella di risollevargli semplicemente l’umore.
Era un sorriso gentile, ma anche severo e categorico, come se volesse rimproverarlo.
«Non devi mai costringerti ad amare qualcuno Daichi, mai».
Era categorica, gli mise le mani sulle spalle.
«Non l’ho fatto» mormorò Daichi, e non stava più parlando di Maria.
Reira sospirò leggermente, il sorriso che non aveva cambiato sfumature.
«Allora l’unica catena che hai è Yui-chan, non è vero?».
Daichi si morse il labbro inferiore, si sarebbe tappato le orecchie in maniera infantile
se non avesse avuto un bambino di appena due anni stretto tra le braccia.
«Voglio andare in Brasile con Suga e Asahi» confessò. «Me ne pentirò se non ci vado, ma – ma la situazione con Yui non mi lascerà dormire la notte».
Reira era l’unica persona con cui si azzardava ancora a pronunciare il nome di battesimo «Noi non abbiamo mai parlato di quello che è successo. Di quello che proviamo. Se me ne vado in Brasile così sembrerà che io stia scappando da lei» Daichi aveva il fiatone alla fine di quella tirata «E poi voglio sapere, voglio sapere che cosa prova per me». Tremava.
Reira gli fece gentilmente segno di consegnare a lei il figlioletto dormiente.
«Allora non darle quest’impressione, Daichi» disse diretta e seria per la prima volta.
Renji si attaccò al suo seno non appena sentì il calore materno, seguendo un istinto naturale.
«Raccogli il coraggio e parla con lei. Siete adulti ormai, nessuno può dirvi cosa fare o chi amare».
L’espressione severa, durata solamente alcuni attimi, si distese immediatamente in un sorriso gentile «E qualunque sia il risultato» Reira sollevò una mano e gli accarezzò il viso «Parti per il Brasile con il cuore sereno».
Prendi la tua vita in mano e vai avanti.
Era quello che Reira gli stava dicendo di fare, da sorella.
Daichi annuì, lo fece per lei, da fratello.
Quel momento venne inaspettatamente interrotto da Masafune, che si affacciò sull’uscio della porta timidamente, non voleva disturbare.
Reira si alzò in piedi facendo attenzione a non svegliare il figlio.
«Sta dormendo?» mormorò Masafune baciando il bimbo sui capelli; Reira glielo passò con delicatezza, non prima di averlo accarezzato sulla schiena ancora una volta.
«Portalo a letto, tra poco ti raggiungo» bisbigliò al marito guardandolo con amore.
Masafune annuì, salutando Daichi con un cenno del capo ricambiato prima di lasciare la stanza. Reira non si allontanò dall’uscio della porta, segno che sarebbe andata via anche lei molto presto, per lasciarlo da solo con i suoi pensieri.
«Domani allora andiamo dal signor Ichiro, siamo d’accordo?».
Daichi sorrise nel sentire quella domanda.
«D’accordo» replicò, Reira lo lasciò da solo nella stanza alcuni secondi dopo.
Daichi rimase seduto sul letto ancora per un po’, come appesantito dai suoi stessi pensieri.
Solamente quando fu stanco di sentire il ticchettio dell’orologio decise si tirarsi in piedi, si accostò alla cartella e tirò fuori la pesante documentazione nella busta di cartone.
Non stette a guardarla, il secondo successivo era fuori il corridoio diretto verso lo studio del padre.
 
 
Maria era stata male con lo stomaco tutta la giornata.
La situazione era peggiorata da quando aveva parlato con Kageyama, era peggiorata al punto tale che non era riuscita ad evitare di rimettere un paio di volte.
Nemmeno il farmaco naturale che le aveva dato l’infermiera della scuola aveva fatto effetto.
Era stato un bene che gli allenamenti si fossero tenuti la mattina presto, prima delle lezioni, quando non aveva ancora mangiato quella frittata avariata.
Maria non era andata immediatamente a casa alla fine della giornata come si era ripromessa.
Prima di lasciare scuola, quando aveva scoperto che Shimizu era andata via da un pezzo senza dirle assolutamente nulla - fatto che aveva aumentato i suoi sospetti - Asahi l’aveva intercettata.
Aveva terminato anche lui le lezioni pomeridiane, stava tornando a casa.
Maria non parlava con lui decentemente da ventiquattro ore e vederselo davanti le diede una pace che non seppe spiegarsi; lui sembrava sereno, portava la cartella come un sacco da viaggio, le spalle rilassate e i capelli tenuti fermi solamente da un minuscolo chignon.
Asahi aveva notato immediatamente la sua pessima cera, la faccia nauseata.
Avevano fatto un tratto di strada insieme, e quando Maria si era piegata in un cespuglio nei pressi di una pasticceria per vomitare la seconda volta, lui aveva deciso di portarla a casa sua.
Era vicina al punto in cui si trovavano, inoltre, il fattore discriminante era stato il venire a sapere che a casa Maria non avrebbe trovato nessuno a prendersi cura di lei.
Asahi non aveva voluto saperne, così nel tardo pomeriggio si era ritrovata a casa del suo fidanzato, in sola compagnia di sua suocera e sua cognata.
Maria adorava Kaori e Hotaru, erano quel genere di parenti acquisiti che chiunque avrebbe voluto. Non si era mai sentita fuori posto con loro, né di troppo.
Kaori aveva appena terminato di lavorare quando lei e Asahi erano rincasati, era stanca, la casa un disastro totale, ma non si era lamentata della presenza di Maria, né aveva dato segni di nervosismo o fastidio alcuno. Al contrario, l’aveva accolta con calore, come una figlia.
Hotaru era stata contenta di trovare una scusa per smettere di studiare.
Maria avrebbe voluto aiutarla a preparare la cena, ma non appena Kaori aveva saputo da Asahi che non era stata bene, le aveva intimato di starsene buona seduta e non muovere un dito.
Maria non era abituata a non fare nulla, ma se n’era stata tranquilla e buona.
Lei, Asahi e Hotaru avevano giocato per un’oretta a mahjong, Kaori aveva poi terminato di preparare la cena e si era presentata con delle tazze di tè fumanti.
Facevano particolarmente bene allo stomaco, aveva detto.
Maria si era sentita scaldare il cuore, come le capitava spesso quando passava del tempo con la famiglia di Asahi. Kaori le dava esattamente l’impressione di sua nonna, materna.
Asahi aveva bevuto la sua tazza frettolosamente, scottandosi la lingua, prima di uscire al gelo per andare in farmacia a ritirare dei farmaci per Hotaru, piuttosto urgenti.
Non era stato nei suoi programmi quella mattina, ma Maria si era così ritrovata in compagnia di Kaori e Hotaru, seduta nel loro modesto salottino, a parlare del più e del meno.
«Come va lo stomaco, cara?» le domandò ad un certo punto Kaori, in un momento di silenzio. Maria appoggiò la sua tazza ormai vuota sul piattino nel vassoio.
«Non ho alcun fastidio adesso» confessò con un sorriso accomodante sul viso.
Stava dicendo la verità, quando Kaori si era messa a cucinare l’odore delle spezie le aveva dato fastidio, ma nell’oretta che aveva passato a bisticciare con Hotaru e Asahi su chi avesse vinto la partita o su chi avesse imbrogliato, il fastidio e la nausea erano lentamente scivolati via.
Non la stanchezza però, quella era rimasta.
«Mangi a dovere Maria-san?» chiese la donna con un’attenzione e una preoccupazione del tutto materna che le ricordarono Mariko ancora una volta.
La donna sembrava contrastata dal desiderio di informarsi sulla sua salute, ma contemporaneamente frenata dalla loro estraneità.
«Non preoccuparti Kaori-san» era da poco che aveva fatto l’abitudine a chiamarla in quel modo «Mangio a dovere, sono solamente gli impegni e le preoccupazioni a stancarmi».
«Ah, le preoccupazioni!» intervenne inaspettatamente Hotaru, con la sua voce allegra e squillante, stava sbucciando il terzo mandarino nel giro di pochi minuti «A me le preoccupazioni fanno mangiare come un leone, vedi?» e infilò nella bocca almeno cinque spicchi contemporaneamente. Sembrava tutto tranne che preoccupata in quel momento.
Kaori si portò una mano sulla fronte rimproverando bonariamente la figlia, Maria rise.
Hotaru sembrava una gigantessa rannicchiata su quella poltrona, le gambe erano lunghe.
Aveva messo su qualche altro centimetro nelle settimane precedenti.
«L’unica preoccupazione che devi avere tu è quella di prendere un buon voto al compito di letteratura giapponese!» la rimbeccò la madre e Hotaru si affogò con i mandarini.
«Mamma, non attentare alla mia vita!».
Maria rise divertita da quella scena familiare, una scena che non aveva mai vissuto in prima persona e che le mancava terribilmente. Anche se non l’avrebbe mai ammesso a voce alta.
Kaori smise di tormentare la figlia e si concentrò nuovamente su di lei, sorridendole.
«Hai molte preoccupazioni Maria-san?» domandò con discrezione.
«Ultimamente ci sono un po’ di impegni con la scuola, il club … inoltre, la salute di mio nonno è leggermente peggiorata nell’ultimo periodo con l’arrivo del freddo».
Kaori ascoltò in silenzio, osservandola con le sopracciglia aggrottate dalla preoccupazione.
Era evidente che stesse combattendo con il desiderio di farle qualche domanda.
Alla fine optò per la parte dell’argomento meno spinosa.
«Anche tu sarai impegnatissima come Asahi per gli esami finali eh? Che cosa hai scelto di studiare una volta finito il liceo?».
La domanda di Kaori attirò anche l’attenzione di Hotaru, che stava sbucciando il terzo mandarino della serata, l’ultimo del piatto di frutta che la madre aveva preparato.
«Ho scelto di fare l’università di musica. La più vicina a casa, se possibile».
Hotaru sollevò d’urgenza un dito, come se volesse all’improvviso dire qualcosa di estremamente importante, ma nella fretta si affogò con il succo di uno spicchio e Kaori fu costretta ad intervenire dandole delle pacche sulla schiena, mentre la figlia batteva violentemente la mano sul bracciolo della poltrona.
Maria se ne stava seduta in bilico, senza sapere se intervenire o meno.
«Asahi vuol fare fisioterapia nella stessa università!» riuscì a biascicare infine Hotaru, con la voce mezzo strozzata, come se non avesse affatto rischiato di affogarsi.
Kaori si lasciò cadere sul divano con un sospiro esasperato. Era pallida.
Maria aveva come l’impressione che avrebbe voluto rimproverare Hotaru con asprezza, ma la preoccupazione che le si dipinse sul volto aveva una natura ben diversa dalla paura.
Doveva essere per le parole pronunciate dalla figlia.
Forse, Maria si rendeva conto per la prima volta, Kaori non era d’accordo con quella scelta.
La osservò con una certa insistenza mentre la donna si mordeva il labbro inferiore e stringeva le mani a pugni sulle ginocchia, all’altezza della gonna di stoffa grigia che indossava.
Forse Maria fu troppo insistente con lo sguardo, perché Kaori le sorrise.
«Oh, perdonami cara. In verità sono solamente un po’ preoccupata per il futuro di Asahi».
Si sentì in dovere di spiegarle, il viso ancora giovane era provato dalla fatica del lavoro e dalle preoccupazioni che si era dovuta sobbarcare sulle spalle da quando il marito era morto.
Kaori era una bella donna, ma non valorizzava affatto quella bellezza, non ne sentiva il bisogno né la necessità da quando non aveva più nessuno a cui regalarla.
Il sorriso che mostrava a Maria era tirato, lo stava mantenendo con fatica o per abitudine.
Senza rendersene conto la ragazza allungò una mano su quella della donna.
Aveva paura che quella preoccupazione avesse qualcosa a che fare con l’eccessiva distrazione che vedeva negli occhi del suo fidanzato da un paio di giorni a quella parte.
Il cuore le batteva nel petto come un fringuello impazzito.
«Perché mamma?» Hotaru pose la domanda che Maria non aveva il coraggio di fare.
Aveva smesso di mangiare mandarini, ed era per la prima volta seria, ed interessata.
Kaori strinse forte l’orlo della gonna nella mano libera e si schiarì la gola, imbarazzata.
«Io … io non sono sicura di riuscire a mantenerlo all’Università con il mio stipendio» confessò, e Maria riuscì a leggere nei suoi occhi la vergogna di dover ammettere una cosa simile, soprattutto di fronte la fidanzata di suo figlio.
«Le cure di Hotaru hanno un costo e … sarebbe fantastico se Asahi riuscisse a vincere una borsa di studio ma – ma so che è difficile» si morse il labbro inferiore, guardava a terra e una gocciolina di sudore le si era formata sulla tempia nonostante fuori si gelasse «E io non ho il cuore di dirgli che forse non potrà studiare – io – io non vorrei mai dirgli di dover scegliere tra lavorare e studiare». Si portò una mano sulla fronte e lasciò andare un risolino tremulo che suonò tremendo alle orecchie di Maria «Vorrei che studiasse e basta».
Kaori chiuse gli occhi, era rossa in faccia.
Era evidente che stesse parlando per la prima volta di quella preoccupazione con la figlia.
Forse l’aveva fatto con sua madre quando era andata a trovarla, ma non aveva nessun altro con cui condividere quel genere di preoccupazioni, doveva vedersela da sola.
«Mamma» intervenne inaspettatamente Hotaru «Tu conosci Asahi meglio di chiunque altro» disse sporgendosi verso la donna, che la fissava negli occhi con aspettativa, come se la figlia fosse in grado di aiutarla a cambiare quella verità che odiava «Lo sai che è in grado di farsi in quattro se vuole davvero una cosa. Se deve lavorare per poter studiare, lo farà! Lo farà e sarà anche in grado di portare a casa dei buoni risultati».
Hotaru mise la propria mano su quella della madre come aveva fatto Maria, che a differenza della figlia però non aveva e non avrebbe saputo trovare le parole adatte per consolare la donna. Kaori le sorrise, stringendo quella mano tra la sua.
«Lo so, ma come madre non voglio dare questo pensiero ad un figlio. Asahi rinuncerebbe ai suoi sogni in un momento se glielo chiedessi, si metterebbe a lavorare senza fare storie, in silenzio, come suo padre. Ma in quel caso come madre io avrei fallito su tutta la linea».
La spiegazione di Kaori commosse Hotaru, gli occhi le si fecero lucidi.
Commosse anche Maria, la forza di quella donna avrebbe voluto averla lei.
Le strinse forte la mano e trovò finalmente il coraggio di sorridere e rassicurarla.
«Sono sicura che andrà tutto bene Kaori-san».
Nel momento in cui terminò di parlare e la donna le sorrideva di rimando asciugandosi il viso da quell’unica lacrima commossa che le aveva rigato la guancia, sentirono il rumore della porta di casa che veniva aperta e la voce di Asahi che annunciava il suo ritorno.
Il ragazzo entrò nel salottino riscaldato stringendo tra le mani la busta dei farmaci.
«Sono riuscito a trovare tutte le medicine necessarie» annunciò sulla soglia.
Si fermò alcuni istanti osservando la scena che aveva di fronte, Hotaru e Maria che tenevano le mani a sua madre, le bucce di mandarino aperte sul tavolo, gli spicchi ancora non mangiati e le tazze di tè ormai vuote. L’atmosfera era strana e le tre donne lo fissavano.
«É successo qualcosa?» domandò con le sopracciglia aggrottate, preoccupato.
Maria e Kaori scossero la testa contemporaneamente, la prima si alzò in piedi.
«Stavo dicendo a tua madre che è ora di tornare a casa per me» decretò aggiustandosi la gonna della divisa scolastica, Asahi la guardò con le sopracciglia ancora più aggrottate, indossava un pullover a collo alto che metteva in mostra l’ampio petto allenato e tra i capelli gli erano rimasti incastrati i primi fiocchi di neve.
Maria si morsicchiò la lingua per impedirsi di passarvi la mano sopra.
«Resta a cena» disse lui «Ti riaccompagno io a casa».
«Si, resta Maria-san. Ho cucinato anche per te, sai? Tutte cose salutari».
Maria tentennò, un po’ imbarazzata, la conversazione con Kaori l’aveva scossa e non riusciva a fare a meno di guardare Asahi con occhi diversi. Non voleva provare pietà per lui, voleva che realizzasse i suoi sogni e stava già cominciando a lambiccarsi su come poterlo aiutare.
Decise di cominciare accettando di restare a cena.
Asahi le sorrise, fu una buona ricompensa.
 
 
La prima neve caduta si era sciolta immediatamente, ma per strada faceva freddo.
Era un freddo gelido che preannunciava l’inverno, anche se ancora lontano.
La prefettura era circondata dalle montagne, bianche e innevate dai primi di Ottobre, e a fine mese il freddo raggiungeva la valle. Maria aveva i guanti alle mani, ma continuava a strofinarle tra loro, al suo fianco, distratto, Asahi aveva dimenticato addirittura di indossarli.
Non che fosse una novità per lui, aveva avuto la testa da un’altra parte per giorni interi ormai.
Il freddo nemmeno lo sentiva, l’unica cosa che continuava ad affollare i suoi pensieri era il ricordo di quel pomeriggio, il pomeriggio in cui avrebbe dovuto finalmente parlare con Suga e Daichi di Maria, ma che aveva invece rivoluzionato totalmente la sua vita e il suo futuro.
Asahi non aveva fatto altro che pensarci e ripensarci fino a farsi venire il mal di testa.
Non ne aveva parlato a casa, non ne aveva parlato con Maria.
Aveva solamente Daichi e Suga, ma sentiva che con loro non ne sarebbe venuto fuori.
Tre anni in Brasile con una borsa di studio che copriva tutte le spese: il sogno di una vita.
Eppure si sentiva così angosciato al pensiero di partire.
La preoccupazione di dover comunicare la sua relazione con Maria ai suoi migliori amici gli sembrava così sciocca di fronte alla paura di doverne parlare con la sua fidanzata.
Asahi aveva il timore che Maria potesse reagire come Shimizu, decidere di ignorarlo.
Non sapeva cosa farsene di quella documentazione di carta chiusa nel cassetto della scrivania.
Le strade erano affollate quella sera, i lampioni accesi facevano condensa con l’aria gelida.
Lui aveva la testa persa nei pensieri e allora non parlavano, passeggiando in silenzio.
Asahi era certo che fosse il momento migliore per farlo, dirlo quando non era troppo tardi, farsi coraggio in quel momento e non lasciar scivolare via un’occasione.
«Maria» la chiamò, aveva la voce roca e dovette schiarirsela.
Lei lo guardò con quegli occhi brillanti carichi di aspettative, sembrava ancora stanca e pensierosa «Ho vinto una borsa di studio insieme a Suga e Daichi».
Si fermarono sul marciapiede, a metà strada, proprio sotto un lampione.
I fiocchi di neve cadevano sciogliendosi al suolo, non riuscivano ad attecchire.
Asahi aveva preso una mano di Maria come per trattenerla, ma lei lo fissava sorpresa, evidentemente del tutto impreparata da quella notizia, ma non arrabbiata o offesa.
«La partita contro il Seijou. A quanto pare era molto importante. La vittoria portava in palio una borsa di studio per gli allievi del terzo anno. Sorprendente, vero?».
Asahi ridacchiò alla fine, ma fu una risata che si spense immediatamente; non poté fare a meno di evitare di grattarsi la nuca imbarazzato quando vide l’espressione vuota di Maria posarsi sul marciapiede. Si tenevano per mano, ma era come se non lo stessero facendo.
Maria fissò il vuoto solamente per alcuni istanti, poi gli strinse la mano.
«É una cosa meravigliosa Asahi».
Aveva le guance arrossate dal gelo o dall’orgoglio, gli occhi lucidi.
Sembrava stranamente contenta, come se quella borsa di studio avesse improvvisamente risolto un problema di cui Asahi non era a conoscenza.
Ma lei non sapeva ancora la parte peggiore. Asahi non aveva finito di parlare.
«Maria» la richiamò nuovamente lui, le mani sempre ben strette.
Lei sollevò automaticamente lo sguardo febbricitante su di lui, era così piena di fiducia.
Asahi le sorrise tristemente.
«É in Brasile» confessò «A Belo Horizonte, per tre anni».
Si alzò un’improvvisa folata di vento.
Maria fissava Asahi come se non avesse compreso quello che lui le aveva detto.
Rimasero in silenzio talmente a lungo da potersi tramutare in statue di ghiaccio.
«Wow» mormorò Maria quando ebbe ritrovato la voce «É lontano eh?».
Asahi avvertì una morsa alla bocca dello stomaco quando lei gli rivolse un sorriso un po’ tirato, l’espressione ancora sconvolta che aveva sostituito quella gioiosa sui tratti del viso.
«E tu che cosa hai intenzione di fare?» domandò, guardandolo negli occhi.
Quella era la parte peggiore e Asahi lo sapeva, ma non le avrebbe mentito.
«Vorrei andare» confessò, con la voce spezzata come se fosse sul punto di rompersi.
Maria fece un passettino in avanti, lasciò la stretta di Asahi e gli prese il viso tra le mani, la barba ruvida sfregava contro la lana dei guanti rossi; gli sorrise tristemente, ma incoraggiante.
«E non dirlo con quella voce allora» mormorò, dolce.
Asahi le afferrò i polsi scuotendo la testa.
«É l’opportunità della vita, lo so. Ma Hotaru, la mamma …. Posso davvero lasciare tutto questo?» disse in un impeto di parole, la strinse ancora più forte «E tu Maria? E noi?».
Maria avrebbe voluto piangere, aveva gli occhi lucidi, era spaventata da quella novità.
Ma scosse la testa, con le mani fece pressione sul suo viso affinché lui la guardasse.
«Non devi pensare a queste cose Asahi, è il tuo futuro questo».
Lui scosse la testa, ma lei continuò a parlare facendo invece segno di sì con il capo.
«Noi in qualche modo faremo. Se tu non hai paura, allora non ne avrò nemmeno io».
Quelle parole furono come una lucina di speranza per Asahi, un lume nella tormenta.
Sentì una parte del pesante fardello che aveva portato sulla bocca dello stomaco fino a quel momento svanire nell’aria. Si era domandato perché fosse sbagliato provare quei sensi di colpa per voler semplicemente realizzare uno dei suoi sogni.
In realtà non era affatto sbagliato, era quella la verità.
«Ne veniamo fuori?» bisbigliò.
«Ne veniamo fuori.» mormorò di rimando Maria «Magari ti vengo a trovare».
Salì sulla punta dei piedi e gli regalò un bacio a timbro sulle labbra.
Si sentiva morire dentro, ma non l’avrebbe detto.
 sarebbe fantastico se Asahi riuscisse a vincere una borsa di studio
Il futuro di quel ragazzo era tutto ciò che contava.

 
 
 
 
 
Buongiorno a tutti 🤗🤗
La padrona di casa, ossia Flying_lotus95, vi dà il benvenuto e bentornat* ☕🫖🍩🍪
Non ricordavo quanto fosse bello questo capitolo, ho percepito durante la correzione un vago senso di protezione e casa, e non mi vergogno a confessarvi di essermi commossa in due punti specifici, quando Daichi parla dei suoi problemi con il cibo e di Kaori che espone le sue preoccupazioni finanziarie su Asahi. Sono parti che mi hanno molto toccata, forse adesso più di allora, e di questo ovviamente non posso non sottolineare la bravura della penna di effe_95, che ha saputo rendere perfettamente l'idea della situazione.
Piccola curiosità sulla borsa di studio vinta dai nostri ragazzi per il Brasile: quando entrambe abbiamo steso la trama, Furudate non aveva ancora raggiunto nel manga l'arco narrativo di São Paolo con Hinata e Oikawa... ci siamo trovate perfettamente in linea con il canon senza saperlo 🤭🤭 ancora ridiamo se ci pensiamo 😅😅
Ma detto questo, vi saluto e spero che questo capitolo addolcisca un po’ il rientro dalle vacanze.
Stateci bene, un saluto 👋
Flying_lotus95 & effe_95

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Capitolo 25
*** 24- Tamago kake gohan ***


24. Tamago kake gohan.

 
 
 
Maria era stesa sul letto, sotto le coperte. Faceva freddo.
Fuori dalla finestra il vetro condensato non permetteva di vedere il cielo scuro e nuvoloso.
Era tornata a casa con una strana sensazione febbricitante e si era messa a studiare sotto il pesante piumone sperando che un po’ di calore, insieme ad una posizione comoda, potessero farle passare quello strano malessere fisico.
Asahi l’aveva chiamata al cellulare proprio quando aveva cominciato ad appisolarsi.
Era stata un’ottima scusa per chiudere finalmente quei libri e rilassarsi sul comodo cuscino.
Anche quel pomeriggio non stava bene e cominciava a sospettare di un’influenza.
Una di quelle brutte, che arrivavano senza febbre e senza sfogare, durando settimane intere.
Asahi parlava a voce bassa, cullandola.
A Maria piaceva ascoltarlo, perché il suo tono era caldo e rassicurante, morbido.
Non aveva mai provato l’imbarazzo di sentire l’altro attraverso l’apparecchio telefonico, con la voce leggermente modificata e vicinissima all’orecchio, quasi stesse sussurrando.
«Sarò via per la prossima settimana» le stava spiegando Asahi «Il matrimonio si terrà in Hokkaido come ti avevo detto. Mamma darà una mano con le preparazioni».
Suo cugino si sposava, Asahi gliel’aveva detto qualche giorno prima.
Viveva in Hokkaido, non proprio a due passi.
Sarebbe stato fuori una settimana con Kaori e Hotaru.
Maria non ne era rimasta sorpresa, non ci era rimasta male, aveva sorriso immaginando Asahi bloccato in un completo elegante, o alle prese con parenti alla lontana rumorosi e fastidiosi.
Le sarebbe mancato, ma non gliel’avrebbe detto.
Cominciamo ad abituarci a tutta questa distanza.
E non gli avrebbe detto nemmeno quello.
«Come sta Akio-san?» le domandò Asahi, cambiando discorso.
Maria trattenne a stento uno sbadiglio e si strofinò gli occhi arrossati e lucidi, combattendo violentemente contro un’ondata di sonno che l’aveva colta all’improvviso, impreparata.
Stava cominciando a prendere calore sotto la coperta pesante.
«É peggiorato» comunicò «Da ieri non riesce nemmeno ad alzarsi dalla poltrona decentemente. Ha la schiena totalmente bloccata».
Aveva appena terminato di parlare ma non sentì la risposta di Asahi, solamente il ronzare caldo della sua voce di sottofondo. Erano stati gli improvvisi schiamazzi al piano di sotto a catturare la sua attenzione. Si scostò le pesanti coperte di dosso e, ignorando l’improvviso colpo di gelo nelle ossa e il capogiro, infilò le ciabatte e si alzò in piedi, diretta verso la porta.
«Possiamo sentirci più tardi?» domandò, cogliendo Asahi di sorpresa.
«Si, certo …» mormorò lui «É successo qualcosa?»
«Soliti bisticci tra papà e il nonno, nulla di grave. A più tardi allora»
«A più tardi».
Maria appoggiò il cellulare sul ripiano del comò nel corridoio, si massaggiò il collo e cominciò a scendere lentamente le scale, ogni gradino l’intensità della voce dei due uomini cresceva e anche la conversazione cominciava a diventare chiara e comprensibile.
«… seduto su quella sedia!» stava dicendo Fujio, con voce incredibilmente dura.
«Non trattarmi come un invalido!» replicò Akio con voce ancora più alta e rabbiosa.
Maria raggiunse finalmente la cucina per ritrovarsi davanti una scena surreale.
Akio era in piedi, con fatica, ma stringeva tra le mani una pentola piena di fagiolini, Fujio stava tentando inutilmente di sottrargliela, e alto com’era non ci avrebbe messo molto, mentre Mariko se ne stava tra i due tentando inutilmente di mettere pace.
«Ma se non riesci nemmeno a stare dritto!» rincarò la dose Fujio riuscendo, finalmente, a strappare la pentola dalle fragili mani del genitore. Akio si indignò e tentò inutilmente di riappropriarsi dell’oggetto.
«Come osi, figlio degenere!» sbraitò, puntando il dito «Sto dritto eccome, invece».
«Insomma, la volete piantare!» strillava invece nonna Mariko, tentanto inutilmente di frapporsi tra i due, forse sperava che in quel modo si sarebbero allontanati e l’avrebbero finita.
Maria fece un passetto in avanti e fu immediatamente sotto lo sguardo di tutti gli adulti.
Incrociò le braccia al petto e sistemò una ciocca di capelli neri sfuggita al codino dietro l’orecchio; l’ambiente della cucina era caldo e accogliente, ma la luce al neon la faceva apparire malaticcia, stanca e completamente nauseata.
«Si può sapere che cosa sta succedendo questa volta?» chiese con una punta di irritazione nella voce, tentando invano di non sbadigliare.
Era la trentesima volta che lo faceva da quando era tornata a casa.
«Tuo nonno!» sbottò inaspettatamente Fujio, perdendo la calma «É un mulo testardo. Non fa mai quello che gli si dice! Invece di riposare si mette a fare i servizi di casa» e per marcare il concetto agitò con violenza la pentola piena di fagiolini, alcuni caddero.
Akio assistette a quello spreco di cibo con un’espressione preoccupante sul viso.
«Chi hai chiamato mulo, sbarbatello?!» abbaiò agitando il dito contro il figlio «Guarda che te le do con la scopa come quando eri bambino eh!» Maria l’avrebbe trovava una scena divertente se non fosse stato per l’espressione di vero dolore sul viso del vecchio testardo.
Si stava agitando inutilmente e il suo corpo ne soffriva.
«Nessuno aiuta tua madre se non lo faccio io! Tu te ne stai sempre chiuso nell’ufficio!».
Fujio fece per replicare qualcosa che non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, troppo preso dal battibecco per rendersi conto della sofferenza nelle rughe del padre, allora Maria ne approfittò anticipandolo.
Si fece avanti e prese la pentola dalle mani di Fujio, cogliendolo di sorpresa.
L’uomo si zittì.
«Se la nonna ha bisogno di aiuto posso scendere io a darle una mano» disse con pacatezza, stava parlando con tutti in quella stanza, ma guardava il nonno «Tu non ti devi stancare. Sei ancora convalescente».
Appoggiò la pentola sul tavolo con un sospiro e non si accorse degli sguardi che i tre adulti si scambiarono alle sue spalle, mentre non poteva vederli.
La situazione si era acquietata.
«Tu devi studiare, Maria. Il resto lo faccio io» fu la replica definitiva di Akio.
Fujio sollevò le braccia in aria esasperato, incredulo.
«Basta, io non voglio saperne più nulla. Mi arrendo!» dichiarò, poi lasciò la stanza.
Sentirono in lontananza il rumore della porta dello studio chiusa con malagrazia.
Akio borbottò qualcosa che aveva a che fare con pusillanime, vittoria e altre sciocchezze.
Ma non lo fece ad alta voce perché aveva lo sguardo arrabbiato di Mariko addosso.
«Nonno, anche tu dovresti -» tentò Maria, ma venne subito zittita.
«Bazzecole!» esclamò l’uomo mettendosi seduto con enorme fatica «Ho sollevato tonnellate quando lavoravo al cantiere da ragazzo! E quella volta -»
«Adesso piantala Akio-san!» intervenne rudemente Mariko, sedendosi accanto a lui con un gran rumore e tra numerosi sbuffi «Ormai non sei più un ragazzino da un pezzo!».
Akio si imbronciò, incrociando le braccia al petto.
Rimase seduto accanto al tavolo, ma non si mise a sbucciare i fagiolini.
Lasciò che fossero Mariko e Maria ad occuparsene, facendo ogni tanto dei commenti sul modo grossolano e senza cura in cui la nipote si occupava della verdura.
Fu piacevole starsene seduti tutti e tre intorno al tavolo, a Maria ricordava tempi felici.
Quando era bambina il nonno se la metteva sulle gambe insegnandole tutto quello che aveva imparato da solo nella vita, senza l’aiuto di nessuno.
Maria era diventata troppo grande per stare sulle ginocchia del nonno ormai.
Le si strinse il cuore al pensiero di quanto fossero diventate fragili quelle gambe.
Aveva paura che momenti come quelli non sarebbero tornati, voleva goderne finché ne aveva ancora la possibilità.
«Oggi non ti vedi con quel tuo amico yakuza?» borbottò all’improvviso il nonno, cogliendo sia lei che Mariko di sorpresa.
Akio aveva incrociato le braccia al petto, le sopracciglia talmente aggrottate che quasi non gli si vedevano gli occhi, sulle labbra il broncio degno di un bambino capriccioso.
«Nonno, anche Asahi-san deve studiare, sai?» disse sospirando.
«Ah!» esclamò il vecchio «Da quando gli yakuza studiano eh?».
I due cominciarono immediatamente a battibeccare, Maria si domandò, ad un certo punto della discussione, se Asahi non si fosse sentito fischiare le orecchie per tutte le volte che il suo nome era stato tirato in causa in quella conversazione.
Stettero lì seduti delle ore a preparare la cena e a chiacchierare.
Quando Maria si tirò in piedi le facevano male le mani, aveva deciso di tornare in stanza per riprendere la lettura del testo di giapponese, non prima di essersi accertata che il nonno se ne stesse seduto buono sulla sua comoda poltrona a leggere il giornale e lamentarsi di tutto.
La stanchezza e la sensazione febbricitante erano passate quando se n’era stata affaccendata.
Mentre saliva le scale diretta verso la sua camera la sentì tornare lentamente.
Ebbe un violento capogiro proprio prima che riuscisse a raggiungere la porta della sua stanza, appoggiò una mano sul comò vicino e il cellulare che vi aveva appoggiato cadde a terra.
Fujio uscì dal bagno il tempo necessario per vedere la figlia aggrappata al mobile, con la faccia pallida e il corpo rigido, come se non volesse muoverlo per evitare di cadere a terra.
«Ohi Maria, che succede? Non ti senti bene?» intervenne immediatamente, afferrando la figlia per le spalle.
Maria scosse la testa, aggrappandosi alle braccia del padre, la sensazione di stordimento stava lentamente passando; aveva visto doppio per un attimo, ma ora ci vedeva bene.
Fujio non la lasciò andare, era allarmato, preoccupato.
«Sto bene, solo un giramento di testa. Credo di aver preso un virus o qualcosa di simile» gli spiegò, Fujio annuì distrattamente e le passò una mano sulla fronte.
Lo faceva sempre anche quando era bambina e si beccava la febbre alta.
Si metteva seduto accanto a lei nel futon tutta la notte e le accarezzava la fronte, le cambiava la pezza bagnata e si addormentava solamente se le si abbassava la temperatura.
Maria provò una stranissima fitta di nostalgia a quel ricordo inaspettato.
Fujio non era stato un padre di troppe parole o troppe regole, ma la amava.
E Maria lo sapeva. Lo sentiva.
«Stenditi a letto, uhm? Ti accompagno» disse l’uomo una volta che si fu accertato che non aveva linee di febbre.
Maria si lasciò accompagnare a letto, dove si stese con ubbidienza, aspettò che il padre le portasse un bicchiere d’acqua e lo bevve tutto quando glielo porse con insistenza.
Fujio non se ne andò immediatamente, chiuse il libro di letteratura giapponese aggrovigliato tra le lenzuola e il piumone e lo posò sulla scrivania della figlia.
«Riposa» le disse «Non succederà nulla se per una volta non sarai preparata».
Maria sorrise, quella sera il padre aveva un’aria ribelle, litigare con Akio gli aveva fatto bene.
«Ultimamente sei troppo spossata, non strafare. La tua salute è importante».
«Stenditi un po’ con me, papà».
Maria lo colse di sorpresa con quelle parole, nemmeno lei sapeva spiegarsi perché se le fosse lasciate scappare, ma sentiva lo strano bisogno di essere coccolata come quando era bambina.
Fujio rimase interdetto accanto alla porta, per un momento Maria temette che se ne sarebbe
andato, troppo imbarazzato per accontentare l’inaspettato desiderio della figlia.
Invece fu lui a sorprenderla quella volta, si accostò silenziosamente al letto e Maria si fece da parte lasciandogli lo spazio necessario per accomodarsi, chiuse gli occhi quando la mano calda di Fujio le si posò sul capo, rassicurante e familiare, paterna.
Si addormentò nel giro di alcuni secondi, una lacrima solitaria le bagnò la guancia.
 
 
Asahi detestava organizzare le valigie per partire.
Non sapeva mai cosa metterci, creava solamente un gran disordine nella sua stanza e alla fine dimenticava sempre qualcosa.
Inoltre, la storia del matrimonio di suo cugino non gli era andata giù.
Asahi aveva ben altro a cui pensare in quel momento, doveva ancora comunicare a Kaori e Hotaru della borsa di studio e non sapeva né quando né come farlo.
Inoltre, perdere una settimana in Hokkaido quando avrebbe potuto passare quel tempo con Maria … sospirò pesantemente e abbassò le braccia, lasciando cadere la maglietta che stringeva tra le mani sull’ammasso di abiti che aveva raccolto.
Nella valigia aveva sistemato solamente il completo elegante per il matrimonio.
Il campanello di casa suonò insistentemente, all’improvviso.
Asahi aggrottò le sopracciglia, guardò l’orologio appeso alla parete nella sua camera, erano le sette appena scoccate, non aspettavano nessuno quella sera; forse era la vicina di casa che, tornata da una settimana trascorsa al suo paese natale, aveva portato qualche regalo.
«Asahi, vai ad aprire?» la voce di Kaori lo colse impreparato dall’altra camera.
Asahi lasciò perdere il caos di vestiti che aveva lasciato sul letto e si precipitò giù per le scale mentre il campanello bussava insistentemente; capì chi era nascosto dietro la porta quando il trillo cominciò a rassomigliare sospettosamente ad una canzoncina molesta.
Noya aveva un sorriso a trentadue denti, le mani appoggiate sui fianchi.
«Sei lento Asahi-san!» gli diede il benvenuto entrando in casa.
Asahi non si sorprese, Noya era di famiglia, lui piuttosto era troppo occupato ad osservare con le sopracciglia sollevate la persona che il libero esuberante si era portato dietro.
«Ciao, Asahi» lo salutò educatamente Sugawara mentre entrava in casa.
Asahi lo osservò attentamente mentre si toglieva le scarpe e infilava le pantofole.
Le visite inaspettate di Noya erano risapute in casa Azumane, portavano allegria e tanta confusione e sia Kaori che Hotaru le aspettavano con entusiasmo; la visita di Suga invece era meno aspettata, anzi, del tutto inaspettata.
Doveva essere stata senza ombra di dubbio opera di Nishinoya.
«Ehi, Suga … è bello che tu sia passato» commentò Asahi grattandosi la nuca.
Koushi non aveva una bella cera nemmeno quella sera, era da giorni che non ci stava con la testa, aveva raccontato a lui e Daichi di come Shimizu avesse preso male la faccenda della borsa di studio.
Ormai anche tutta la squadra ne era venuta a conoscenza.
Motivo per cui Asahi avrebbe dovuto muoversi a parlarne con sua madre.
«Noya-san!» Nel frattempo, senza che se ne accorgessero, Hotaru aveva sceso le scale di corsa incuriosita da chi fosse venuto a fargli visita a quell’ora e aveva cominciato a strepitare come un’ossessa quando aveva visto il libero del Karasuno.
«Hotaru-chan!» replicò di rimando Noya con altrettanto entusiasmo.
I due si presero per mano cominciando a saltellare, Asahi e Suga si lasciarono scappare una risatina divertita alla vista di quell’articolo “il” male assortito.
Hotaru era troppo alta e non riuscivano a coordinarsi, saltellando scompostamente.
«Che cos’è questo chiasso?» domandò Kaori, scendendo le scale.
Il viso aggrottato le si colorò con un sorriso quando riconobbe i due ospiti.
«Noya-san, Suga-san, ma che bella sorpresa! Restate per cena?» domandò immediatamente alla volta dei due arrivati, Asahi vide immediatamente le gote di Koushi colorarsi di rosso, pronto a reclinare l’invito per non disturbare.
«Con molto piacere Kaori-san!» intervenne invece Noya senza scomporsi.
Hotaru si produsse in una serie di versi di gioia nel sapere che Yuu sarebbe rimasto per cena.
Asahi sospettava ormai da tempo che la sorella avesse una sorta di cotta per il libero del Karasuno, doveva essere sicuramente per via dei loro caratteri affini.
«Andiamo in stanza, nel frattempo» li invitò allora, indicando le scale.
Hotaru si imbronciò immediatamente.
«Ma non passate tutto il tempo escludendomi!» si lamentò «Vi do’ una mezz’oretta, poi voglio che Noya-san venga a giocare alla Wii con me!» dichiarò risoluta, mettendo le braccia a pugno sui fianchi con aria autoritaria.
Era buffa quella sera, indossava una salopette rosa che le stava corta sulle caviglie, sotto aveva una maglietta a maniche lunghe a strisce multicolore e i capelli raccolti in due codini storti al lato della testa. Non aspettava degli ospiti ed era vestita per casa, sembrava una bambina.
Era difficile in quel momento pensare che fosse invece una persona malata.
«Verremo tutti a giocare Hotaru, tranquilla» la rassicurò Asahi mentre cominciava ad avviarsi insieme a Suga e Noya verso le scale.
«E chi ti ha detto che voglio anche te?! Suga-san e Noya-san mi bastano!» lo rimbeccò Hotaru dall’ingresso, Asahi ridacchiò divertito, mentre sua madre chiamava insistentemente la sorella affinché le desse una mano a preparare la cena.
I tre salirono le scale fino al piano di sopra e solamente ad un passo dalla porta Asahi si ricordò del disordine che aveva lasciato sparpagliato un po’ dappertutto.
Esitò nel prendere il pomello tra le mani, mordendosi le labbra.
«Vi chiedo scusa per il disordine …» esordì imbarazzatissimo, aprendo l’uscio.
Suga non disse nulla, ma Noya fischiò sonoramente, buttandosi con un saltello nell’ammasso di vestiti che l’amico aveva lasciato sul letto come se nemmeno li avesse visti.
«Stai già preparando le valigie per il Brasile?».
Alla domanda inaspettata di Yuu, sia Asahi che Koushi si irrigidirono.
L’alzatore si era compostamente seduto sulla sedia girevole della scrivania, mentre Asahi aveva appoggiato la schiena sull’anta dell’armadio ancora chiusa.
«Ma no Noya-san, devo andare per una settimana in Hokkaido … mio cugino si sposa …».
Il tentativo di spiegare di Asahi venne accolto come se non avesse affatto parlato, d’altronde lui non era stato molto convincente con quel balbettio insicuro e blando.
Yuu si tirò improvvisamente su con la schiena e guardò i suoi senpai con occhi luccicanti.
«Io e Ryuu non possiamo ancora crederci!» continuò con entusiasmo.
Suga afferrò i braccioli della sedia su cui era seduto con entrambe le mani e cominciò a girare prima a destra e poi a sinistra, come se volesse estraniarsi da quella conversazione.
«Voi ci andrete, vero? Vero?».
Yuu alzò un po’ il tono di voce nel porgere quella domanda ingenua e Asahi ne approfittò per mettere le mani avanti e tentare di calmare il suo amico esaltato.
«Non urlare Noya-san, ti prego, mamma e Hotaru non sanno ancora nulla».
C’era un pizzico di disperazione nella sua voce, non voleva davvero che Kaori ed Hotaru venissero a sapere della borsa di studio in quel modo, ne sarebbe venuto su un casino.
Yuu ridacchiò divertito ed acconsentì ad abbassare il tono di voce e frenare l’entusiasmo.
Asahi non aveva preso a male quella reazione, d’altronde era un’occasione che nella squadra chiunque avrebbe pagato per poter avere; quando ne avevano parlato insieme al coach e ai professori le reazioni erano state molteplici, come c’era da aspettarsi.
Era subentrata prima l’insicurezza, la paura di dover affrontare le nazionali senza i senpai.
Poi c’era stata la comprensione, l’accettazione del fatto che rinunciare sarebbe stato folle.
Né Suga, né Asahi e né Daichi avevano accennato alle loro titubanze e alle loro insicurezze.
Nonostante si trattasse di una lontananza di tre anni e nel momento peggiore, era ovvio che Yuu non avesse potuto fare altro che pensare alle cose positive di tutta quella storia.
Era un’offerta che lui non avrebbe rifiutato, che nessuno nella squadra avrebbe rifiutato.
Il tempo per decidere stava scadendo e Asahi ne sentiva addosso la pressione.
Anche Suga non se l’era presa per l’entusiasmo eccessivo di Noya, d’altronde non aveva nulla da lasciarsi indietro, non aveva ancora nessuno da lasciarsi indietro.
«Aiutiamo Asahi a preparare la valigia» intervenne inaspettatamente Koushi tirandosi in piedi «In Hokkaido c’è la neve, quindi hai bisogno di abiti pesanti …» e si mise a sistemare le magliette dell’amico con l’aiuto immediato di Noya, che per lo più commentava ogni indumento come se fosse un critico della moda esperto.
Asahi si intromise immediatamente nella conversazione, ringraziando con uno sguardo Suga.
L’amico gli fece l’occhiolino, anche lui aveva bisogno di distrarsi e non pensare al Brasile.
Era evidente, o altrimenti non si sarebbe fatto trascinare lì dall’esuberanza di Yuu.
 
I tre se ne stettero per minuti interi a sistemare indumenti, ridere e scherzare, quando Hotaru spalancò la porta senza prima bussare la valigia era riempita quasi per metà, mancavano solamente alcuni indumenti e oggetti, quelli da sistemare all’ultimo minuto.
«É passata ben più di mezz’ora!» esordì con voce squillante e altera.
Suga sobbalzò spaventato, lasciandosi cadere di mano un pullover da riporre nei cassetti che aveva appena ripiegato con cura, Asahi inciampò sul bordo del letto, solo Yuu rimase composto a fare nulla.
«Hotaru!» la riprese Asahi con una mano sul cuore, poi si accigliò.
La sorella aveva sciolto i codini storti, si era pettinata i bei capelli castani vaporosi e li aveva tirati indietro con un elegante cerchietto, inoltre, il viso pulito aveva qualcosa di insolito …
«Ti sei truccata?» domandò Asahi totalmente allibito.
Hotaru incrociò le braccia al petto e le guance le si colorarono di rosso.
«No» disse come una bambina negando l’evidenza, perché non sapeva truccarsi, non lo faceva mai e si vedeva ogni volta che ci provava; almeno non aveva ecceduto con il blush.
Nishinoya si tirò in piedi del tutto disinteressato alla questione, non era mai stato attento a quel genere di cose, che Hotaru avesse i codini o i capelli ordinati era uguale per lui.
Asahi sospettava che la vedesse più come una sorella minore che come una donna.
Ma ovviamente di quello non ne avrebbe fatto parola con Hotaru.
«Noi andiamo a giocare alla Wii» chiarì accostandosi ad Hotaru, che immediatamente si sistemò i capelli in un gesto frivolo che fece sorridere sia Asahi che Suga.
«Cominciate ad andare» disse quest’ultimo facendo un cenno della mano «Noi finiamo di sistemare qui e vi raggiungiamo» Asahi aggrottò le sopracciglia, Suga voleva parlare da solo con lui, ne era certo perché non l’aveva guardato negli occhi.
Hotaru e Yuu li lasciarono da soli.
Rimasero in silenzio i primi minuti, Asahi non sapeva che tipo di conversazione intavolare.
Suga continuava a piegare ordinatamente tutti i suoi indumenti, sistemandoli in pile ordinate sulle lenzuola sfatte e spiegazzate del suo letto; nemmeno se si fosse messo di impegno Asahi sarebbe stato in grado di sistemare i suoi abiti in quel modo meticoloso.
Solamente quando non ebbe più nulla tra le mani Koushi si fermò.
«Dovremmo riporli nei cassetti e nell’armadio?» domandò.
Asahi decise fosse giunto il momento di intervenire, fece un passo verso Suga, gli afferrò un braccio e lo invitò ad accomodarsi sul letto, facendo attenzione che la pila di magliette appena ripiegate non cadesse.
«Suga, c’è qualcosa che vorresti dirmi?» Asahi fu diretto.
Koushi sospirò stancamente e fece uno dei suoi sorrisi gentili, ma preoccupati.
«Suppongo che dovremmo parlarne, vero?» disse con voce mesta «Del Brasile intendo. O del fatto che Shimizu non parli con me da una settimana intera ormai».
Asahi temeva che il motivo per cui Suga l’avesse trattenuto fosse quello.
Non era mai stato lui quello bravo a dare consigli, quel compito era sempre toccato a Daichi, inoltre erano rare le volte in cui Koushi aveva bisogno di loro, era sempre il contrario.
Ma Asahi avrebbe mentito a sé stesso se non avesse ammesso che, a volte, Suga era quello che parlava di meno, quello che sopportava meglio.
Asahi non sapeva come comportarsi quando Koushi cadeva.
Inoltre, loro tre non avevano più parlato del Brasile da quel pomeriggio fatidico, non avevano accennato di aver consegnato i moduli, né di aver accettato la proposta.
Non ne avevano parlato e avrebbero dovuto farlo, perché sarebbero stati insieme, loro tre ancora una volta, solo loro tre a prendersi cura l’uno dell’altro, a proteggersi.
«Noya mi ha portato qui perché voleva farmi distrarre … scusami per questo».
«Non devi scusarti, Suga. Noya viene spesso senza avvisare portando ospiti» replicò immediatamente Asahi, decidendo di mettersi seduto accanto all’amico.
«É di famiglia» concluse facendo spallucce, Suga sorrise.
«Tu pensi di accettare?» domandò, prendendo a giocare con le mani.
Asahi rimase a contemplare il pavimento per un po’, ma non diede una risposta.
«Io volevo farlo» continuò Suga «Ma se devo perdere Kiyoko per questo, allora non lo so. Esito. Ho paura. E quei documenti nessuno li firma».
Tacque, poi sollevò lo sguardo e Asahi sentì che stava guardando lui, con insistenza.
«Hai avuto anche tu lo stesso problema con Taniguchi-san?».
Asahi sentì tutto il corpo irrigidirsi come un masso; non aveva il coraggio di girarsi.
Forse avrebbe dovuto sospettarlo, forse avrebbe dovuto saperlo, Koushi era perspicace, attento, e Asahi non aveva mai saputo nascondere nulla.
Ancora una volta non rispose e non parlò, aveva perso la voce da qualche parte nella gola.
«Vi state frequentando, non è vero? É successo qualcosa, giusto?».
La voce di Suga non era accusatoria, e nemmeno arrabbiata, curiosa forse, rassicurante.
«Non è stata Kiyoko-san a dirmelo se è quello che stai pensando. É testarda su queste cose. L’altra volta era questo che volevi dirci, vero? Di te e Taniguchi-san. Era lei la ragazza di cui mi parlasti quella volta a casa mia, durante il pigiama party? Sai, me lo domandavo da un po’».
Le domande di Suga chiedevano una risposta, per quanto fossero gentili.
Asahi sapeva che non avrebbe potuto evitare di rispondere in eterno, inoltre, era nei suoi progetti di parlarne con Suga e Daichi quindi avrebbe dovuto approfittarne.
Ma era stato colto di sorpresa e le sorprese l’avevano sempre mandato nel panico.
Ingoiò a vuoto un paio di volte, non poteva credere che quel momento fosse arrivato.
«Si» biascicò infine «Io e Mar – Tanigu- Maria … ecco - Ci frequentiamo».
Avrebbe voluto mordersi la lingua per quanto si sentisse imbranato in quel momento.
«É successo un po’ di tempo fa … più o meno poco dopo quel party … ecco …» confessò infine, senza riuscire a negare nulla, ma senza riuscire ad aggiungere altro.
Sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe dovuto aggiungere dei dettagli, raccontare come erano andate le cose, come loro due si fossero avvicinati, ma in quel momento sentiva che non fosse necessario confessare proprio tutto.
Non era necessario che Suga sapesse che tutto aveva avuto inizio la stessa notte che Maria era stata rifiutata da Daichi, né di tutto quello che era venuto in seguito.
Asahi avrebbe preferito che Suga pensasse ad una cosa graduale e normale.
«L’avevo notato io, sai? Sono molto perspicace!».
Suga mise un pizzico di orgoglio nella voce nel pronunciare quelle parole, diede una spinta sul braccio ad Asahi, che ricambiò con un sorriso teso, ancora incapace di guardarlo.
«Sono anche molto discreto» continuò l’alzatore «E non parlerò con Daichi di questa cosa. D’altronde, spetta a te farlo».
Asahi non aveva mai temuto nemmeno per un istante quell’eventualità; avrebbe voluto dirlo a Suga in quello stesso istante, ma come sempre ci mise troppo tempo per trovare le parole giuste o il coraggio, e perse l’attimo per farlo.
«Quindi? Taniguchi-san sa del Brasile? Come l’ha presa?» volle immediatamente informarsi, senza fare altre domande che sarebbero arrivate con il tempo sicuramente; per il momento Asahi avrebbe avuto una tregua per abituarsi all’idea.
«Si, lo sa. L’ha presa bene … credo» tacque un istante «Sono sicuro che anche Shimizu ci ripenserà quando avrà riflettuto a dovere» disse, in un tentativo di consolazione.
Nel tentare di fare forza all’amico fu costretto a guardarlo negli occhi, Suga gli sorrise.
La porta della stanza si spalancò ancora una volta con violenza.
«Ci state mettendo troppo tempo!» La voce squillante di Noya fece tremare le pareti.
Suga e Asahi sapevano che la conversazione terminava lì per quel giorno.
L’asso aveva confessato a Yuu la sua intenzione di parlare della faccenda Maria, ma non ce n’era stata l’occasione alla fine e non voleva che il libero si lasciasse scappare qualcosa.
Si tirarono in piedi, trascinati da Noya, senza guardarsi negli occhi.
Asahi si sentiva ancora frastornato per aver ammesso una cosa di cui aveva avuto paura per mesi ad uno dei suoi migliori amici: certo, con Suga era molto più semplice ma …
Non ebbe modo di pensarci molto comunque. Noya, inconsapevolmente, non glielo permise.
Passarono il resto della serata, prima della cena, a giocare con la Wii.
Suga si tirò molto su di morale, capace finalmente di distrarsi e non pensare a nulla.
Fu una serata piacevole, allegra, divertente. Una cena in famiglia diversa.
 
 
Daichi si era arreso ad un certo punto.
Aveva provato a tradurre quella frase senza l’aiuto del dizionario, ma l’inglese non era mai stata la sua lingua preferita, il quaderno stava diventando un ammasso di scarabocchi e la frase continuava a peggiorare, non avendo il minimo senso logico.
Aveva bisogno di un vocabolario, c’era poco da fare.
Avrebbe dovuto alzare il sedere da quella comoda sedia e raggiungere lo studio, magari ignorare Takahiro, prendere il dizionario e filarsela via il prima possibile.
Sarebbe stato veloce e indolore se si fosse dato una mossa.
Attraversò il corridoio con passo pesante, la bella porta di mogano pregiato lì davanti ai suoi occhi, quasi volesse invitarlo a fare dietrofront immediatamente.
Il passo si arrestò di colpo, all’improvviso, quando un grido disperato spezzò il silenzio.
Daichi appoggiò una mano alla parete e rimase in attesa. Un altro strillo, voci concitate, una discussione che diventava accesa ad ogni parola pronunciata.
L’uscio della porta dello studio era socchiusa, non se n’era reso conto prima.
« - la scusa buona per tenermi fuori dall’azienda! ».
Era Sachi che stava gridando, Daichi pensò che stesse litigando con suo marito.
Non era un evento che capitava spesso, Nobuo aveva sempre portato Sachi sul palmo della sua mano come una regina fin dal primo giorno che avevano cominciato a frequentarsi.
Amava la moglie al punto tale da accettare di rinunciare al proprio cognome per entrare nella famiglia di lei e sottostare al suo carattere dispotico e alla pressione lavorativa di Takahiro.
Sachi alzava la voce con chiunque, doveva farlo ovviamente anche con Nobuo, ma il cognato doveva averla fatta davvero grossa per farla scatenare in quel modo violento.
« - la mia decisione definitiva, Sachi!».
Daichi, che rimuginando si era perso la prima parte della risposta, rimase di sasso quando si accorse che, contro tutte le aspettative, quella voce non era affatto di Nobuo.
Takahiro era sembrato impassibile e tranquillo, come sempre nel rispondere.
Come se la rabbia della figlia maggiore non l’avesse affatto toccato, o come se non fosse stato sorpreso nemmeno un po’ dal fatto che Sachi, sempre adorante e remissiva, avesse osato alzare in quel modo la voce con lui. E non l’aveva mai fatto prima di allora.
Almeno non che Daichi sapesse.
Colto alla sprovvista, ancora fermo accanto al muro con la mano sulla parete, sobbalzò leggermente quando la porta si aprì violentemente e ne uscì una Sachi sconvolta dai singhiozzi e totalmente fuori di sé dalla rabbia.
Daichi si aspettò che lo spintonasse, che si arrabbiasse con lui una volta beccato lì ad origliare, anche se non era stato nelle sue intenzioni farlo, ma Sachi era talmente fuori controllo che passandogli accanto nemmeno si accorse di lui, come se non l’avesse visto affatto.
Daichi era decisamente allibito.
Aveva momentaneamente messo da parte l’idea di prendere il dizionario quando entrò nello studio. Lo fece senza bussare e senza chiedere il permesso, ma con discrezione.
Takahiro indossava gli occhiali da lettura, aveva dei fogli in mano e leggeva attentamente.
Non sollevò lo sguardo dal suo lavoro quando Daichi si accostò alla scrivania, ma sospirò pesantemente come se fosse stanco al solo pensiero di parlare.
«Che cosa c’è Daichi? Ho da fare, fa’ in fretta» disse con un tocco di impazienza nella voce.
Takahiro aveva esaurito tutte le sue energie per Sachi, non ne aveva anche per Daichi.
Il ragazzo non parlò, fece piuttosto una cosa che non faceva da tempo, spostò una delle due belle poltrone sistemare davanti la sontuosa scrivania e si accomodò con compostezza.
Intrecciò addirittura le mani sullo stomaco, rilassato.
«Perché Sachi piangeva in quel modo? Non la vedevo così da quando le si ruppe l’unghia a quel famoso Natale» commentò invece, ignorando totalmente la fretta del padre.
Takahiro rimase immobile con i fogli sollevati per alcuni secondi, sguardo perso nel vuoto come per valutare qualcosa; poi sollevò finalmente gli occhi freddi e fissò Daichi da sopra gli occhiali come se volesse scrutarlo o mettergli soggezione, non era chiaro.
Alla fine si arrese, sospirando pesantemente. Posò i fogli e incrociò le braccia sulla scrivania.
Daichi aveva la sua totale attenzione adesso.
«Tua sorella è melodrammatica come suo solito» disse con voce incolore «Le ho solamente detto che per qualche tempo farò a meno di lei in azienda».
Daichi aggrottò le sopracciglia alla spiegazione del padre.
Era ovvio che la reazione di Sachi fosse legata all’azienda, era come un punto nevralgico.
«E perché? Che cos’ha fatto Sachi?» volle immediatamente sapere.
Takahiro sospirò pesantemente per l’ennesima volta e decise di rinunciare a quella posa rigida, rilassò la schiena contro la comoda poltrona alle sue spalle e si massaggiò la radice del naso con movimenti lenti e attenti; sembrava vecchio in quel momento.
Daichi l’aveva visto remissivo pochissime volte nella sua breve vita.
Nessuna di quelle volte era stata piacevole per lui. Ma ormai aveva smesso di sperare di ottenere l’amore di suo padre da quando aveva rischiato la vita nel processo.
Era stato inutile e sarebbe stato inutile anche in futuro.
Per Takahiro e Daichi non restava che quello, una conversazione sporadica tirata fuori con i pugni e con i denti, dei documenti da firmare e una testardaggine stoica.
«Ho scoperto che tua sorella aspetta un bambino» confessò infine «Ma ha pensato bene di non dirmelo per un tempo che ho ritenuto davvero irragionevole».
Daichi avrebbe mentito se non avesse detto di esserne rimasto totalmente scioccato.
Sachi non aveva desiderato una famiglia prima di conoscere Nobuo, e anche la loro storia d’amore era nata solamente perché era stato Takahiro ad insistere su quel punto.
Sachi avrebbe pensato solamente all’azienda e alla carriera se fosse dipeso da lei.
Si era sposata ed era stata una sorpresa, nessuno avrebbe detto che potesse fare la moglie.
Non voleva bambini eppure era rimasta incinta quasi subito, una vera tragedia.
Akemi non se l’era aspettata nessuno. Ma una terza gravidanza superava le aspettative.
Daichi aveva creduto che sarebbe stata Reira a regalargli un altro nipotino.
Si era sbagliato e non sapeva che cosa pensare a riguardo.
«Mi sembra normale che non te l’abbia detto» replicò infine, tentando di non far trapelare troppo tutti quei suoi pensieri a riguardo; Takahiro sollevò un sopracciglio.
Lo stava ascoltando con interesse e Daichi non era abituato a parlare così a lungo con lui.
Un tempo lo faceva, un tempo parlavano tantissimo e trascorrevano delle ore insieme.
Era stata un’altra vita, un’altra esistenza, lasciata dietro uno schiaffo e uno sguardo sprezzante.
«L’ultima volta che è rimasta incinta le hai praticamente vietato di lavorare».
«Sai bene perché» fu la replica lapidaria di Takahiro.
Era vero, Daichi capiva bene il motivo. La gravidanza di Kou era stata devastante per Sachi.
Aveva avuto un distacco di placenta, aveva rischiato di abortire.
Ma non aveva voluto saperne di smetterla di lavorare e quando era arrivata Akemi, per paura che si verificasse la stessa spiacevole situazione, Takahiro le aveva impedito l’accesso in azienda. Era stato un vero e proprio trauma per Sachi, un duro colpo.
«Ma non lo trovi esagerato?» intervenne Daichi ugualmente, testardo «Sachi non si occupa di mansioni stancanti. Non puoi pretendere che si faccia da parte».
Takahiro lo fissò dritto negli occhi.
«Tutto questo non sarebbe accaduto se tu ti fossi preso le tue responsabilità, Daichi».
Cadde il silenzio; Daichi non credeva che la conversazione sarebbe finita in quel modo.
Improvvisamente si pentì di essersi interessato alla faccenda, avrebbe dovuto prendere quel dizionario senza preoccuparsi né di Sachi né di suo padre, avrebbe dovuto evitare di lasciarsi intrappolare nella loro rete di risentimenti e rimpianti.
Ma era tardi ormai, ci era finito dentro fino al collo.
Forse, Takahiro aveva sperato di arrivare a quel punto fin dal principio.
Aveva sempre amato rinfacciargli qualcosa.
«Sono stanco di ripeterlo papà. A me dell’azienda non importa. Non è la mia strada. Non è quello che voglio. E tu non puoi impormi nulla» Daichi era stanco anche di ripetere quelle parole ormai «E poi, non capisco perché tu non voglia darla a Sachi, pensi che non sia capace? Pensi che il fatto che sia una donna la renda meno preparata o meritevole?».
Takahiro non rispose, ma aveva la mascella tesa, Daichi stava tirando la corda.
«Sei arrivato addirittura a farle nascondere un evento così lieto! A farle vivere questa gravidanza come un incubo, con la paura che non la guarderai mai come un padre fiero di lei, ma solamente come un capo d’ufficio con un qualsiasi dipendente!».
Ancora una volta Takahiro rimase in silenzio, totalmente e apparentemente indifferente.
Alla fine si aggiustò gli occhiali sul naso, riassunse una posizione rigida e riprese in mano i fogli che aveva momentaneamente appoggiato sulla scrivania.
«Hai finito? Ho molto da fare» liquidò così il figlio.
Daichi sospirò pesantemente e si alzò dalla comoda poltrona, il tempo concesso era finito.
Non aggiunse altro, si diresse solamente verso la porta.
«A proposito» lo interruppe inaspettatamente Takahiro «Dato che sei qui ne approfitto per dirti che ho revisionato tutta la documentazione. É una cosa seria. Ho firmato tutto».
I due si fissarono negli occhi.
«Ora spetta solamente a te accettare o meno. Sei libero».
Daichi si limitò ad annuire, voltò nuovamente le spalle, un altro passo e …
«Daichi» la voce di Takahiro era strana, tremava un po’ «Vuoi davvero andare in Brasile?». Daichi aggrottò le sopracciglia, perché il padre gli sembrava improvvisamente invecchiato? Non gli aveva mai visto tutte quelle rughe in viso.
«Si, penso di accettare» confessò, Takahiro annuì e tornò alle sue carte.
Non aggiunse altro.
Daichi uscì dallo studio con un sospiro pesante e senza vocabolario.
Non aveva importanza, avrebbe chiesto a Suga di aiutarlo, voleva bere, aveva la gola secca.
Scese le scale lentamente e una volta giunto in cucina trovò Sachi seduta sul divano bianco, rannicchiata come una bambina, con gli occhi arrossati e ancora scossa dai singhiozzi.
Daichi si rese conto che in casa non c’era nessun altro oltre loro tre.
Aveva dimenticato che Reira, Kaede, Nobuo, i bambini e Masafune sarebbero andati al luna park. Non erano certo le persone con cui Daichi avrebbe voluto passare il suo tempo ma, mentre osservava di sottecchi la sorella maggiore, provò ugualmente una gran pena per lei.
Non le disse nulla inizialmente, andò al frigo, prese l’acqua fredda e riempì il bicchiere con calma, poi appoggiò la schiena sul bordo di marmo del piano cucina, sorseggiando.
«E così hai fatto la tripletta eh?» esordì bonariamente, prendendola in giro.
Sachi si asciugò immediatamente il viso, con aria stizzita al massimo.
«Sta zitto! Ci manchi solamente tu con le tue battute di cattivo gusto!».
Daichi avrebbe voluto replicare che per le battute di cattivo gusto nessuno sarebbe stato in grado di batterla, ma lasciò perdere. Il pensiero di vendicarsi l’aveva sfiorato, ma non voleva fare il bambino, almeno, non quando la sorella maggiore versava in quello stato pietoso.
Sarebbe stato sleale e infantile.
Bevve il resto dell’acqua di colpo, appoggiando il bicchiere di cristallo sul marmo costoso.
«Perché stasera non andiamo a cena fuori io e te?».
Era una domanda strana, lui e Sachi non andavano mai soli da qualche parte.
Se l’avessero fatto quando era bambino, comunque non lo ricordava.
La donna smise immediatamente di piangere, fissando allibita il fratello minore.
Almeno, il suo tentativo di farla distrarre era riuscito.
«Ho visto che ha aperto un nuovo ristorante vicino casa» Daichi continuò a parlare ma le diede le spalle, affrettandosi a sciacquare il bicchiere con foga, giusto per essere occupato.
Si era pentito della sua proposta un millesimo di secondo dopo averla fatta.
Sachi l’avrebbe preso in giro, avrebbe risposto in maniera sarcastica, avrebbero litigato.
«Solo se fanno anche il tamago kake gohan» fu invece la risposta inaspettata.
Daichi si morse il labbro inferiore per impedirsi di scoppiare a ridere.
«Anche quando aspettavi Kou ne andavi matta … sarà un altro maschio?».
Domandò a voce bassa, forse parlando con sé stesso, non voleva girarsi e dare la soddisfazione a Sachi di vedere il sollievo dipinto sul suo volto, o l’incredulità di avere ottenuto una risposta positiva a quella domanda impulsiva di cui si era immediatamente pentito.
Appoggiò il bicchiere ormai splendente sul ripiano del lavabo e asciugò le mani con calma.
«Andiamo, allora? O vuoi farmi aspettare inutilmente?».
Daichi si girò con sorpresa, non se n’era accorto, ma Sachi si era alzata dal divano e con tutta la faccia sporca di trucco sbavato aveva messo la borsa a tracolla e lo aspettava davanti la porta in vetrata che dava sul giardino esterno. Braccia incrociate al petto e sguardo rabbioso.
«Ora?» si lasciò scappare Daichi, non era mentalmente preparato, anche se era stato lui il primo a proporre. Sachi sbuffò.
«Non dovremmo dirlo a papà?». Non fu una domanda saggia. Sachi si avvicinò a lui con impazienza e lo prese per un polso.
«Non mi interessa di quel vecchiaccio! Voglio mangiare fuori con il mio fratellino e a lui non deve interessare, per una volta che non ci vai con Reira non morirà nessuno!» disse esasperata, tirandolo verso la porta, Daichi credeva di aver creato un mostro inaspettatamente. Forse Sachi si era sentita meglio all’idea di prendere un po’ d’aria.
Forse era quello il motivo per cui desiderava uscire a tutti i costi, anche se con lui.
«Non ho preso il portafoglio!» si lamentò lui facendo una leggera resistenza.
«Pago io» disse Sachi, lapidaria.
Daichi non insistette oltre e si lasciò trascinare fino al cancello, la sorella continuò a mantenerlo per la manica della felpa anche quando attraversarono la strada, come se stesse scortando un bambino ancora piccolo.
Daichi non si lamentò, facendo attenzione mentre attraversavano.
Non aveva nemmeno indossato il cappotto e aveva freddo, la felpa non bastava a scaldarlo.
«Mi hai fatto proprio venire voglia di ingozzarmi, maledetto!» brontolò Sachi quando si ritrovarono all’interno del nuovo ristorante, piccolo, caldo e accogliente, rustico.
Daichi sorrise sotto i baffi mentre spulciava il vasto menù a disposizione.
Sachi aveva già deciso cosa mangiare e lo fissava dall’altro lato del tavolo con le braccia incrociate al petto, sopracciglia contratte ed espressione totalmente contrariata.
I lunghi capelli castani, solitamente legati, erano sciolti sulle spalle.
Daichi non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma era bella, naturale.
«Non hai paura che possa farti perdere tempo? Non ti piace mangiare con me, di solito» le domandò con nonchalance, ma c’era un pizzico di sarcasmo e cattiveria nella sua voce.
Sachi non arrossì e non si scompose, avrebbe significato farlo vincere e dargli ragione.
«No, nel menù c’è anche quello shoyu ramen che tanto ti piace» lo rimbeccò immediatamente, guardandolo con un sorrisetto di sfida.
Daichi sollevò un sopracciglio, aveva anche lui sulle labbra un sorriso cattivello.
«Allora siccome paghi tu ne prenderò doppia porzione»
«Diventerai grasso»
«Io faccio regolarmente sport».
Il battibecco venne interrotto dall’arrivo del cameriere.
Sachi aveva ordinato per un esercito intero, doveva essere davvero amareggiata per quanto accaduto con Takahiro, ma sapeva di non avere voce in capitolo, sarebbe stato inutile protestare. Avrebbe significato scontrarsi contro un muro d’acciaio.
Tanto valeva sfogarsi con il cibo a quel punto. Certo, facendo attenzione al bambino.
«Sono contento di avere un nuovo nipotino. Dovesti esserne contenta anche tu» le disse all’improvviso Daichi, non aveva senso continuare a girarci intorno «Papà si convincerà».
Si convincerà anche a darti l’azienda, era quello che le stava dicendo.
Sachi eliminò subito dal viso l’espressione sagace per metterne su una seria, rassegnata.
Cambiò discorso.
«Non ci sarai quando il bambino nascerà».
Il cameriere arrivò con le prime ordinazioni, sistemandole sul tavolino che avevano occupato.
Daichi osservò il suo shoyu ramen, aveva un bell’aspetto.
«Mandami delle foto» Commentò, separando le bacchette.
Sachi lo guardò, sembrava sul punto di rispondere qualcosa di sagace, ma poi non lo fece.
«Il tamago kake gohan sembra buono» disse invece, addentando una porzione.
Fu una cena pomeridiana piacevole.
 
 
A Maria sembrava passato un tempo infinito dall’ultima volta che lei e Shimizu si erano ritrovate da sole al di fuori della scuola, semplicemente per stare insieme a chiacchierare.
Era stata una sua idea, si era presentata sotto casa della sua migliore amica e l’aveva invitata a fare una passeggiata; avevano comprato della cioccolata calda e si erano sistemate al parco.
Non aveva ancora nevicato, ma l’aria era gelida, come in attesa.
Maria aveva sperato che in quel modo Shimizu potesse distrarsi un po’, inoltre, aveva come la sensazione di aver finalmente compreso il motivo dietro il malessere che aveva letto nei suoi occhi negli ultimi tempi e sentiva fosse arrivato il momento di parlarne.
Era da tanto che non lo facevano decentemente, prendendosi del tempo solo per loro.
Inoltre, avevano entrambe bisogno di uscire di casa, stare all’aria fresca e non per studiare.
Maria strinse entrambe le mani attorno al bicchiere di poliestere, era talmente caldo che riusciva a scottarsi le dita anche attraverso la lana dei guanti che indossava.
Il loro alito faceva condensa a contatto con l’aria, era una di quelle giornate dove si gelava.
«Tuo padre è rientrato a casa Kiyoko-san?» le domandò Maria, soffiando sulla cioccolata.
Shimizu, che ne aveva appena bevuto un sorso scottandosi le labbra, abbassò il bicchiere.
«Non ancora. Tornerà in settimana, la mamma è al settimo cielo» le spiegò.
Il padre di Shimizu lavorava all’estero per la maggior parte dell’anno, tornava a casa solamente per brevi periodi di tempo, momenti che per Kiyoko erano davvero preziosi.
Maria aveva pensato, in un primo momento, che a causare il malumore dell’amica, se non si trattava di Sugawara, fosse stato allora qualcosa legato al padre, forse un ritorno rimandato, o una telefonata mancata.
Shimizu non parlava quasi mai di quella situazione o del rapporto con il genitore.
Maria si era sentita in difficoltà quando le aveva domandato, qualche giorno prima, se andasse tutto bene; non voleva invadere la sua privacy proprio su quell’argomento, anche lei non parlava volentieri di Simona. Ma Kiyoko le aveva risposto con naturalezza che andava tutto bene e che il padre sarebbe rientrato per qualche giorno nelle prossime settimane.
Era stato solamente in seguito alla confessione di Asahi sul Brasile che aveva collegato i punti.
Si trattava, come aveva pensato fin dal principio, di Sugawara a tutti gli effetti.
«Kiyoko-san» la chiamò Maria «In realtà oggi ti ho chiesto di uscire perché sono un po’ preoccupata per te».
Shimizu la guardò con la solita espressione composta, ma sorpresa.
«É da una settimana che sei distratta, amareggiata, è successo qualcosa vero?».
Si, era successo qualcosa, era ovvio.
Kiyoko si prese il suo tempo per rispondere, sorseggiò ancora un po’ della sua cioccolata calda e seppellì la bocca nella stoffa calda della sciarpa gialla che indossava.
«Maria-chan, negli ultimi giorni hai parlato con Azumane-san?» le domandò allora l’amica, la voce attutita dalla lana, per Maria fu solamente una conferma.
Osservò con sguardo perso, ma consapevole, lo strato sottilissimo di schiuma formatosi sul bordo della sua cioccolata calda ancora intoccata, era troppo liquida per i suoi gusti.
«Se ti riferisci alla questione del Brasile, allora sì, ci ho parlato».
Shimizu non si scompose per la risposta della sua migliore amica, segno che anche lei doveva aver notato in qualche modo qualcosa di strano negli atteggiamenti di Maria.
Kiyoko smise di fissare dritto di fronte a sé e si voltò, aveva un’espressione strana, nuova.
«E come l’hai presa?» volle sapere, sembrava disperata «Perché io non l’ho presa bene per nulla Maria-chan» e sembrava vergognarsi enormemente di quella disperazione.
Shimizu perdeva difficilmente la compostezza, si emozionava come chiunque, ma solamente per qualcosa di serio. Era decisa, sicura, testarda, d’altronde anche lei aveva fatto sport nella vita, sapeva quando arrivava il momento di arrendersi e quando quello di proseguire.
Ma Maria non l’aveva mai vista in difficoltà come in quell’occasione.
«Maria-chan io … in un primo momento ho desiderato che Sugawara non accettasse».
Se non avesse avuto tra le mani un bicchiere ricolmo di un liquido incandescente, Maria era sicura che Shimizu si sarebbe stretta la stoffa del pesante vestito di lana che indossava con forza tra le mani. Era una confessione grossa, un pensiero che anche Maria aveva avuto.
Ed era inutile negarlo, avrebbe voluto dirglielo.
«Ma sono solamente un’egoista e quindi ho preferito allontanarmi da lui».
Lo sto facendo soffrire, lo so. Sono cattiva, perché non penso al suo futuro.
Shimizu stava pronunciando anche quelle parole con gli occhi feriti, ma in silenzio.
«Mi sono detta di volere del tempo per riflettere, ma questo tempo non finisce mai …».
Kiyoko tacque e Maria seppe che non avrebbe parlato oltre, toccava a lei farlo.
Decise di prendersi il suo tempo per rispondere, avrebbe voluto dirle che si sentiva allo stesso modo, che aveva desiderato anche lei egoisticamente che Asahi la mettesse al primo posto ma, saggiamente o per codardia, non aveva avuto il coraggio di dirlo e mai l’avrebbe fatto.
Avrebbe voluto dirle che aveva paura e che faceva bene a prendersi del tempo.
Ma tutte quelle parole erano solamente l’impulso della sua parte peggiore, quella spaventata e fragile che avrebbe parlato d’istinto se non avesse deciso di controllarla e rifletterci su.
Avrebbe fatto parlare solamente la sua parte razionale.
«Io ho detto ad Asahi che poteva partire con serenità» le confessò allora «Gli ho detto che l’avrei aspettato. Buffo, non trovi? Io, che non ho nemmeno un briciolo di pazienza … Credo che tu dovresti avere più fiducia in Sugawara-kun, Kiyoko-san. La vostra relazione è salda e solida, dura da due anni e non ha mai ceduto, quindi … se io posso pronunciare queste parole solamente dopo qualche mese, tu non dovresti nemmeno vacillare, ma farti forza».
Shimizu guardò Maria con gli occhi leggermente spalancati nel sentire quelle parole.
Era ovvio che non si era aspettata una risposta simile, forse in cuor suo avrebbe voluto che Maria le desse corda, che si lamentasse, così da avere una scusa per essere egoista.
Ma l’aveva spiazzata con quelle verità scomode che non poteva ignorare.
«Se vi amate davvero, Kiyoko-san, supererete tutto» continuò «Anche io ho paura di perdere Asahi ovviamente, e se deve essere sarà o altrimenti andrà bene. Fatti forza».
Alla fine le sorrise, in un tentativo di incoraggiamento fatto anche per sé stessa.
Kiyoko non rispose, ma rimase molto tempo in silenzio a contemplare il paesaggio.
Era il suo modo di riflettere sulla questione, sulle parole che aveva appena udito e su come avrebbe dovuto comportarsi da quel momento in poi; era qualcosa che Kiyoko faceva in silenzio, riflettere, ed era proprio perché Maria lo sapeva che non se la prese.
Shimizu le avrebbe comunicato la sua decisione quando sarebbe stato il momento.
Sorseggiarono in silenzio la loro cioccolata calda, a Maria riempì troppo lo stomaco perché si sentì improvvisamente gonfia e nauseata, il virus autunnale la stava tormentando.
Una volta finito di bere si alzarono in piedi per passeggiare ancora un po’ e scaldare così i piedi intirizziti dal freddo, nonostante ben coperti da scarpe invernali pesanti.
Riuscirono a muovere solamente due passi prima che Maria fu colta nuovamente da un capogiro, lo stesso violento e spossante che aveva allarmato suo padre a casa la sera precedente. Fu costretta a risedersi sulla panchina, aiutata da Shimizu che le teneva un braccio per aiutarla nel processo, davvero preoccupata per quella situazione.
«Maria-chan, che cosa ti senti?» domandò apprensiva.
Maria si portò una mano sulla fronte e chiuse gli occhi, traendo un respiro profondo.
«Non lo so Kiyoko-san, nausea, giramenti di testa, stanchezza … è da un po’ di giorni che ho queste spiacevoli sensazioni, avrò preso un virus davvero fastidioso …» commentò massaggiandosi la testa, tenere gli occhi chiusi non la faceva stare meglio; ad ogni modo, non poteva vedere Shimizu, per questo motivo non la vide ascoltare le sue parole con attenzione per poi riflettervi sopra in silenzio, guardando nel vuoto.
«Questo mese ti è venuto il ciclo Maria-chan?».       
Una domanda diretta, precisa, ferma e decisa.
Maria trasse un respiro brusco e spalancò gli occhi, osservando la sua migliore amica leggermente allibita, per ritrovarsi poi il suo sguardo indagatore addosso, insistente.
Aggrottò le sopracciglia e fece qualche calcolo veloce dei giorni.
«No, non ancora … ma non è regolare, non lo è mai stato, io -» si interruppe, cogliendo finalmente il senso implicito della domanda di Kiyoko e della sua preoccupazione, il cuore le saltò un battito nel petto quando continuò a parlare «Non penserai mica che io …».
Lasciò la frase in sospeso, era quasi sul punto di ridere al solo pensiero.
Era un’assurdità.
«Maria-chan, quand’è stata l’ultima volta che hai avuto un rapporto con Azumane-san?».
Shimizu non rideva però, e Maria cominciava a trovare insopportabili tutte quelle domande inutili che le stava porgendo, anche piuttosto intime a dire il vero.
Avrebbe voluto replicare in maniera un po’ acida che lei non se ne andava in giro chiedendole quand’era stata l’ultima volta che aveva avuto rapporti intimi con Sugawara.
Il ciclo le era sempre venuto irregolare e tutti quei sintomi erano solamente causati da un’influenza di stagione che stava girando in città, forse l’aveva presa al ritiro …
Il ritiro. L’ultima volta che lei e Asahi avevano …
Erano passate sei settimane da allora, non ricordava se avessero usato o meno …
«Maria-chan!» la richiamò con urgenza Shimizu, riportandola al presente.
Lei trasalì, improvvisamente stizzita da quel pensiero, strattonò malamente il braccio con cui Kiyoko la stava trattenendo e le rivolse un’occhiataccia contrariata.
«Non è quello che pensi tu Kiyoko-san!» le sbottò contro.
Shimizu rimase impassibile, severa, incrociò le braccia al petto.
«Allora non avrai nulla in contrario a fare un test di gravidanza vero?».
La stava sfidando, provocandola consapevolmente.
La conosceva abbastanza bene da sapere che non sapeva tenersele le provocazioni.
Maria strinse forte le mani attorno alla stoffa della gonna.
«No» replicò, altezzosa «Tanto è negativo di certo».
Shimizu non si scompose di fronte a quella testardaggine, ci aveva fatto i conti milioni di volte ormai, Maria non faceva mai quello che le diceva e se lo faceva era sempre controvoglia.
«Va bene, se è negativo avrai avuto ragione tu. Ma se è positivo …» minacciò «Andremo a fare una visita di controllo da mia madre, immediatamente!».
Maria digrignò i denti, ma non rifiutò la proposta dell’amica.
Era sicura che non fosse assolutamente quello che pensava Shimizu e gliel’avrebbe provato.
Anche se davvero non ricordava se Asahi avesse preso il portafoglio prima di …
Si forzò, ma non ricordò assolutamente nulla di quella notte, se non sensazioni, emozioni.
Shimizu la tirò per la manica del cappotto, costringendola ad alzarsi in piedi.
«Ora?!» domandò Maria incredula, inciampando nei suoi stessi passi.
«Ora» confermò Shimizu imperterrita, diretta verso la zona d’attraversamento per raggiungere il primo combini disponibile.
Maria alzò gli occhi al cielo, avrebbe rimproverato presto l’amica per quella perdita di tempo incredibile, e sarebbe stata davvero una bella soddisfazione per lei.
Non aveva motivo di pensare che potesse succedere proprio a lei una cosa simile. Assecondò così l’amica di sempre, senza porsi troppe domande o pensarci troppo su.
 
Siccome si trovavano vicino la scuola quando ebbero effettuato l’acquisto, un test di gravidanza di ultima generazione che la madre di Shimizu, ginecologa, consigliava a tutti, decisero di andare a provarlo nei bagni dell’edificio conosciuto.
Non indossavano la divisa scolastica, ma nessuno le fermò.
Era quasi sera, ma le attività di alcuni club ancora non erano terminate.
Maria provò una sorta di brivido di ribellione, intrufolarsi a scuola quando tutte le lezioni erano terminate per fare un test di gravidanza … nemmeno nei suoi sogni più sfrenati.
Ripensò a quei coetanei che fantasticavano di fare prove di coraggio nei corridoi bui nell’edificio in cui studiavano… Quella sera, Maria si ritrovava a fare una prova di coraggio davvero notevole.
Non entrarono all’interno, si fermarono nei bagni accanto alla palestra.
Maria volle fare tutto da sola, irritata dall’insistenza di Shimizu, pentita di averla invitata ad uscire; passò all’incirca dieci minuti a leggere il bugiardino per capire come utilizzare correttamente quell’arnese infernale, non voleva sbagliare per poi doverlo rifare.
Quando ebbe finito ed uscì dal bagno, stringeva la stecca nella mano destra avvolta in un sacchetto di plastica, la nascose nella tasca destra del cappotto prima che Shimizu potesse chiedergliela.
«Dice che devo aspettare dieci minuti e non oltre» disse con un tono di voce del tutto imbronciato, come una bambina capricciosa.
Maria non poteva credere di star facendo davvero una cosa simile, eppure …
«Metti una sveglia sul cellulare» la istruì Kiyoko, Maria lo trovò eccessivo ma ubbidì.
Sperava che quei dieci minuti passassero in fretta, rivelandosi un buco nell’acqua.
Erano appena uscite dal bagno quando, inaspettatamente, si imbatterono nel professor Takeda. Maria aveva il viso rosso dall’imbarazzo, quasi l’uomo fosse a conoscenza di quello che aveva appena fatto; fece alcune domande, a cui rispose prontamente Shimizu.
Poi, inaspettatamente, l’uomo domandò alla manager più esperta di aiutarlo con un servizio.
Maria si ritrovò spiazzata, completamente da sola mentre Shimizu si allontanava.
Le aveva intimato di aspettarla perché avrebbe fatto presto, ma Maria dubitava avrebbe fatto in tempo per vedere il risultato del test insieme a lei. Si imbronciò incredula.
Ci mancava solamente che il cuore le uscisse dal petto per la paura quella sera, non voleva pensare alla possibilità di una gravidanza, non era possibile, non quando Asahi stava per partire per il Brasile. No, si rifiutava di crederlo, era solamente un’influenza.
Rimase ferma dove si trovava per pochi secondi, poi si accorse che le luci della palestra erano accese e che dall’interno provenivano dei rumori di pallonate e voci e decise di incamminarsi verso l’edificio. Non sapeva che ci fossero degli allenamenti in corso, nemmeno Shimizu a quanto pareva e le sembrava strano che Asahi o Daichi non le avessero avvisate.
Si accostò alla porta pervasa dalla curiosità, dimentica del motivo del suo malumore.
La sua vista venne immediatamente ostruita da una figura apparsa dal nulla, Maria sobbalzò spaventata, ma non era uno dei suoi compagni che stava guardando, bensì una ragazza.
Una ragazza anche piuttosto arrabbiata tra l’altro, che la fissava dall’alto in basso.
Maria capì che doveva essere la squadra femminile di pallavolo ad occupare il campo quella sera, era stato sciocco da parte sua non pensarlo, soprattutto contato il fatto che il non essere stata convocata per quegli allenamenti serali aveva senso perché, appunto, non c’erano.
«Tu che cosa ci sei venuta a fare qui eh?» la aggredì verbalmente la tipa.
Era alta, allampanata e portava i capelli schiariti raccolti in una coda di cavallo.
Maria se ne sentì subito in soggezione, ma non si tirò indietro spaventata.
«Pensavo si stessero allenando i ragazzi» specificò, tranquilla.
La sconosciuta produsse un suono di stizza con le labbra, incrociando le braccia al petto.
«Non te l’ha detto il tuo amato capitano che la palestra oggi era nostra?».
Maria percepì una fortissima ironia mista a fastidio quando la pallavolista chiamò in causa Daichi, non doveva trovarlo affatto simpatico, anzi, doveva proprio avercela con lui.
Ad ogni modo, qualunque fosse la ragione di quel risentimento a Maria non interessava.
Stava per rispondere malamente, quando, inaspettatamente, si accostò Yui.
Inizialmente Maria non la riconobbe, indossava la divisa della squadra, i corti capelli erano attaccati alle tempie a causa del sudore e aveva un cenno di affanno dato dalla fatica.
«Non c’è bisogno di arrabbiarsi Aihara-san. Ci penso io, va’ pure» disse alla volta dell’amica, che se ne andò non prima di aver guardato male Maria un’ultima volta.
«Scusami, Taniguchi-san» Yui, richiamandola, fece in modo che tutta l’attenzione di Maria si concentrasse su di lei «Stasera ho chiesto a Sawamura-kun di prestarci la palestra per un ultimo allenamento tutte insieme. Aihara-san è triste e se la prende un po’ con tutti».
Le scuse di Michimiya erano banali e forzate e Maria dubitava fossero vere, ma non insistette.
Non le interessava davvero la reazione rabbiosa di quella sconosciuta.
Decise piuttosto di concentrarsi su Yui, avevano parlato poche volte, si erano anche viste poche volte e in quelle occasioni Maria non aveva mai fatto bella figura.
Si meravigliava perfino del fatto che Michimiya le stesse sorridendo.
In realtà era incuriosita, incuriosita dalla donna che Daichi amava, se un tempo ne era stata gelosa, stupidamente, ora non poteva fare a meno di voler capire che tipo fosse.
O che cosa fosse esattamente successo tra di loro di tanto misterioso.
Ovviamente però non avrebbe chiesto, si limitò solamente a confermare di aver capito.
«So che a breve avrete la partita di qualificazione alle nazionali. Verrò a vedervi» commentò Yui, in un blando tentativo di mantenere viva una sorta di conversazione.
Maria annuì distrattamente, ancora persa nei propri pensieri, forse fissandola con eccessivo interesse. Yui stringeva un pallone tra le braccia, come una difesa personale, un muro.
«Siete emozionati, vero? Soprattutto Sawamura-kun, Sugawara-kun e Azumane-kun immagino, è il loro ultimo anno dopotutto … io so bene cosa si prova … saranno anche preoccupati per il futuro …». La voce le si spense lentamente, come fosse sovrappensiero.
Maria pensò che Yui si stesse riferendo alla questione del Brasile.
Doveva essere venuta a sapere anche lei in qualche modo, dopotutto era nella squadra femminile di pallavolo e tra i professori i pettegolezzi dovevano essere girati fino ad arrivare anche a lei.
O forse gliene aveva parlato Daichi.
«Si, la borsa di studio di tre anni in Brasile è un’ottima opportunità di futuro» commentò, forse un po’ impudentemente, senza riflettere abbastanza.
Maria aveva dato per scontato che Yui sapesse, ma se avesse fatto davvero attenzione, avrebbe sentito il cuore della coetanea frantumarsi in mille pezzi da qualche parte dentro di lei.
Ma aveva la testa da un’altra parte quella sera, ed era distratta, per cui non se ne accorse.
Yui, inoltre, continuò a sorridere senza cambiare affatto espressione.
«Si, avevo saputo» mentì, la palla ancora ben stretta al petto «Adesso devo andare Taniguchi-san, gli allenamenti chiamano» aggiunse poi, congedandosi con un inchino.
Yui si allontanò ma Maria non rimase a fissarla, altrimenti si sarebbe resa conto che non stava affatto tornando in campo, ma al contrario lo stava lasciando con l’affanno.
Aveva appena messo piede fuori dalla palestra che il cellulare prese a squillare.
Come aveva temuto, Shimizu non era ancora tornata e i dieci minuti erano passati.
Estrasse distrattamente l’involucro di plastica dalla tasca del giubbotto con fare annoiato, si rese conto di quanto si fosse sbagliata solamente quando l’occhio le cadde sulle due lineette rosa, perfettamente allineate e ben visibili sullo sfondo bianco.
Il test era positivo.

 
 
 
Allora, bella gente... facciano il punto della situazione con Flying_Lotus95.
Aria di novità per i nostri corvetti del Karasuno: Daichi che diventa zio per la quarta volta, Koushi che deve risolvere le sue beghe sentimentali con Shimizu... e Asahi che a quanto pare ha lasciato un regalino inaspettato a Maria 🎁🧨
Con questo capitolo, diamo inizio al Dramma con la D maiuscola, non so se dire finalmente! o mannaggia la miseria! 😄
In ogni caso, da questo capitolo in poi non potrete più stare tranquilli, la pacchia è ufficialmente finita 😂😘
Con queste belle parole rassicuranti (🤭🤭) vi lascio un saluto, e un buon inizio di tutte le vostre attività.
Salutiiii 👋👋
Flying_Lotus95 & effe_95

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Capitolo 26
*** 25- "Amore perduto" ***


25. “Amore perduto”.
 

 
I walk this empty street
On the Boulevard of Broken Dreams
Where the city sleeps
And I'm the only one, and I walk alone
 
 
Maria non aveva aspettato Shimizu come aveva promesso.
Il cervello aveva smesso di funzionare, come se si fosse verificato un blackout improvviso.
Era durato qualche minuto, il tempo di metabolizzare quanto aveva visto e cominciare a correre fuori dall’edificio scolastico, in preda al panico.
Tuttavia, Maria non aveva completamente perso la lucidità.
Si era distratta mentre aspettava che il timer suonasse, erano passati dei minuti di troppo prima che controllasse, il test poteva anche essere sbagliato, aver fallito.
Era andata al primo conbini disponibile e ne aveva acquistati altri tre.
Aveva fatto i test in un bagno pubblico, da sola, con la puzza degli scarichi maleodoranti e il cuore martellante nel petto come unico suono percepibile, era talmente forte da rimbombarle perfino nel cervello.
Era rientrata a casa barcollante, non aveva cenato e si era infilata a letto con la scusa di essere stanca. Non era andata a scuola la mattina seguente e se n’era rimasta nel futon in cui aveva passato la notte, anche quando nonna Mariko le aveva portato la colazione in camera.
Maria non l’aveva toccata, la nausea era troppo forte e fastidiosa.
Alla nonna aveva detto che si trattava di un’influenza senza febbre, che le sarebbe passata.
Asahi era partito per l’Hokkaido quella mattina, avevano deciso di non salutarsi, si trattava solamente di una settimana dopotutto e non c’era bisogno che Maria andasse in stazione.
Era stato un bene.
Maria era sicura che non sarebbe stata in grado di guardarlo negli occhi.
Aveva spento il cellulare, non voleva immaginare le chiamate di Shimizu e i messaggi.
L’unica cosa che era stata capace di fare una volta rimasta a casa da sola - il nonno aveva una visita in ospedale proprio quella mattina - era stato di restarsene in quel futon pieno di ricordi, con quei quattro test positivi stretti nel pugno sbiancato della mano.
Non aveva dormito tra quelle trapunte da quando aveva fatto l’amore con Asahi quella prima volta.
Era rimasto chiuso nell’armadio una volta lavato, ma il loro odore era ancora percepibile nei ricordi di Maria, nonostante l’ammorbidente lo coprisse in parte.
Maria l’aveva tirato fuori quella sera, in stato catatonico.
Era l’unico modo che aveva per sentire Asahi vicino in qualche modo; se chiudeva gli occhi, le sembrava di poter percepire le sue braccia tenerla stretta e al caldo, e allora era grata del fatto che il suo odore fosse ancora così forte, perché la faceva sentire in pace nonostante la paura.
Non aveva osato toccarsi il ventre, non aveva osato guardarsi allo specchio.
Non aveva osato nemmeno contare il numero delle lacrime che aveva versato.
Non sapeva che cosa fare, non era nemmeno sicura di averlo accettato, come poteva essere stata sciocca in quel modo? Come avevano potuto dimenticare una cosa tanto importante? Perché era successo? Perché a loro, perché proprio in quel momento?
La nausea stava diventando insopportabile, aveva i crampi allo stomaco, doveva mangiare.
Si tirò a sedere sul futon con pesantezza, come se il corpo fosse improvvisamente diventato di piombo; la nonna le aveva lasciato un vassoio con della zuppa accanto.
Maria la mangiò controvoglia, ma il suo corpo ne aveva bisogno …
Chiuse gli occhi e scosse la testa, non voleva pensare all’altra vita. No. Non voleva.
Non aveva idea di che ore fossero, se fosse ancora pomeriggio o sera, ma rimase sorprendentemente colpita quando la porta della sua stanza si spalancò di colpo.
I nonni dovevano essere rientrati, ma lei non se n’era resa conto, forse si era addormentata ma, confusa come si sentiva, non ne era nemmeno sicura… aveva pianto tanto da stordirsi.
La stanza era buia perché non aveva mai alzato le tapparelle da quando era rientrata, probabilmente non aveva nemmeno un buon odore ed era in disordine, come la sua mente.
Era Shimizu quella che se ne stava sulla soglia della camera.
Indossava la divisa scolastica, segno che aveva appena lasciato l’edificio.
Doveva star venendo dagli allenamenti pomeridiani, quelli a cui Maria non aveva partecipato.
Shimizu non disse nulla, ma si limitò a buttare la cartella a terra ed inginocchiarsi accanto all’amica prendendola per le spalle con espressione seria e preoccupata.
Maria non parlò, aprì il palmo della mano in cui stringeva ancora i test e glieli fece vedere.
Shimizu non riuscì a nascondere il suo sgomento e la sua evidente preoccupazione.
«Sono incinta Kiyoko-san» mormorò allora Maria, scoppiando in lacrime.
Era la prima volta che lo diceva ad alta voce e quella verità la colpì come un masso.
Non aveva mai avuto tanta paura in vita sua.
Shimizu la strinse in un abbraccio protettivo, non lo faceva spesso, ma vederla in quello stato e non sapere come aiutarla doveva aver smosso qualcosa dentro di lei.
Rimproverarla di certo non sarebbe servito a nulla quando il feto cresceva già dentro di lei.
«Come – come posso dirlo ad Asahi» biascicò continuando a piangere sul suo petto, le spalle scosse dai singulti «Non posso – non posso rovinargli la vita in questo modo! Kaori – Kaori-san ha detto che non avrebbe studiato – i soldi – la borsa di studio – lui …».
Maria era ormai un fiume in piena che aveva rotto gli argini, Shimizu non riusciva a seguire del tutto il suo farneticare, ma comprendeva la sua paura e il suo timore.
Le accarezzò dolcemente la testa per tranquillizzarla, per farle comprendere che quanto meno non era da sola ad affrontare quel momento di puro sconforto.
«Adesso facciamo una cosa Maria-chan» le disse con voce pacata, serena, tono basso per non farla agitare ulteriormente, non faceva bene nelle sue condizioni «Ti fai una doccia calda e nel frattempo io chiamo mia madre. Andiamo da lei per degli accertamenti approfonditi».
Maria aveva gli occhioni azzurri spalancati alla sola prospettiva.
«Accertiamoci di come sia davvero la situazione e facciamo affidamento su un adulto. Lo sai che è una donna discreta, ti conosce da quando sei bambina e può aiutarci» la rassicurò con un’altra carezza ed un sorriso accennato.
«Non è detto che i test abbiano ragione».
Non voleva darle speranze false, ma sentiva di non poter nemmeno fare altrimenti.
Maria asciugò gli occhi e annuì sommessamente, allungando le braccia verso l’amica perché l’aiutasse ad alzarsi in piedi, se ne stava stesa dalla sera precedente e quasi non sentiva più le gambe. Shimizu l’aiutò a fare una doccia calda, le asciugò i capelli e la aiutò a vestirsi.
Prima che arrivasse la sera, si trovarono entrambe per strada dirette allo studio.

 
 
My shadow's the only one that walks beside me
My shallow heart's the only thing that's beating
 
 
La mostra era stata organizzata in un edificio maestoso, moderno.
Le vetrate sistemate ad angolo si sposavano alla perfezione con le facciate di mattoni bianchi.
Il posto era circondato da un parco verde e rigoglioso e tutto era pulito e organizzato.
Reira doveva ammettere che Ayaka Michimiya aveva fatto davvero un ottimo lavoro.
Era stata Kaede a riferirle che la donna era alle prese con quella mostra d’arte quando Reira aveva espresso il desiderio di andarla a trovare.
Ayaka l’aveva vista crescere, ed era stata in parte responsabile della sua scelta di cantare.
Reira si era lasciata coinvolgere dalla sua passione e aveva deciso di seguire la propria.
Kaede le aveva dato l’indirizzo dell’edificio, situato nella zona chic, suggerendole di andare a dargli un’occhiata, era l’unico modo per incontrare Ayaka in quel periodo frenetico.
Reira sarebbe rimasta ancora per poco tempo in Giappone, la prospettiva la rendeva triste ma, non era nemmeno mai stata il tipo da starsene ferma in un solo posto per troppo tempo.
Una volta conosciuto il mondo si sarebbe sentita soffocare.
Aveva accettato l’idea suggerita dalla madre ben volentieri, lei amava ogni forma d’arte.
Inoltre, Ayaka era un’artista dalle mille risorse.
Individuò immediatamente la donna, bella, alta ed elegante come suo solito.
Indossava un raffinato abito color crema di seta sul corpo snello, un tacco non troppo vertiginoso ma elegante, abbastanza da slanciarla a sufficienza e si muoveva con classe mentre parlava educatamente con alcuni dei visitatori della sua mostra.
Reira era accompagnata da suo marito, Masafune, che non aveva smesso di osservare con occhi innamorati l’enorme pianoforte della Bösendorfer sistemato proprio all’ingresso.
Ayaka l’aveva notata immediatamente, il vestito di satin rosso fuoco doveva aver attirato subito l’attenzione, insieme al cappellino con la vela stile anni ‘30 che indossava.
Si era aperta in un sorriso radioso e l’aveva raggiunta.
Si erano messe immediatamente a parlare come delle vecchie amiche che non si vedevano da lungo tempo, cosa effettivamente vera; Ayaka l’aveva lodata, rimembrando episodi della sua infanzia, degli studi in conservatorio e dei viaggi per il mondo.
Avevano parlato anche della mostra, di Renji, Kaede e dei loro progetti.
Ad un certo punto, Reira aveva visto con la coda dell’occhio una figura familiare.
Yui era appena entrata, indossava la divisa scolastica e fissava lo schermo del suo cellulare.
Non aveva una bella cera e, effettivamente, Reira non poteva sapere che non aveva chiuso occhio quella notte nemmeno per cinque minuti a causa di suo fratello.
Le parole di Maria non avevano fatto altro che tormentarla.
Fissava insistentemente lo schermo del cellulare e le sue stesse parole, la linea ad intermittenza sullo schermo che aveva smesso di muoversi, in attesa, il pollice sospeso in aria sul tasto d’invio ...

 
Come puoi pensare di volertene andare così lontano da me? Perché non mi hai detto niente?  Vuoi per caso farmi morire?
 
Yui non avrebbe mai inviato quel messaggio a Daichi, lo cancellò.
Non aveva idea di come chiedergli una cosa del genere, non ne aveva il minimo diritto.
Non aveva il diritto di andare da lui e pregarlo di restare perché non riusciva a respirare se si trovava a troppi chilometri di distanza da lei.
Non aveva il diritto di dirgli di rinunciare perché aveva bisogno di vederlo almeno una volta ogni tanto e sapere che stava bene. Era egoista, cattiva, senza speranze.
L’ultima volta che si erano ritrovati faccia a faccia l’aveva trattato con indifferenza.
E poi, c’era Hayato …
Daichi faceva bene ad allontanarsi da lei e a lasciarla affogare nelle sue bugie.
«Yui-chan! Yui-chan, vieni!».
Sentendosi chiamare in quel modo, sollevò la testa e rimase sorpresa di vedere quella donna dall’aspetto familiare accanto a sua madre.
Era eccentrica con quel lungo vestito di satin rosso addosso, con lo spacco profondo tra i seni e quelle vertiginose scarpe a zatteroni nere.
Sul capo portava un cappello a veletta stile anni ‘30 e aveva gli occhi perfettamente truccati.
Era bella a modo suo, particolare. E aveva gli stessi occhi di Daichi.
Yui riconobbe in lei Reira, la secondogenita di casa Sawamura che non vedeva da anni.
Si avvicinò riponendo il cellulare nella borsa, provava un po’ di imbarazzo e sorpresa.
«Yui cara, ti ricordi di Reira-san? La sorella di Daichi-kun …» la accolse immediatamente la madre, posandole con affetto una mano sulla schiena.
Yui fece un inchino di saluto, sperando che il rossore sulle gote non si notasse.
Sì, ricordava Reira. Ricordava quando si prendeva cura di lei e Daichi da bambini.
«É tornata in Giappone per qualche settimana. Ora vive a Berlino da qualche anno, ha avuto anche un bambino …» Ayaka continuò a spiegare educatamente, ma fu costretta ad interrompersi quando una delle collaboratrici della mostra le si avvicinò per comunicarle qualcosa di importante «Vogliate perdonarmi, ma devo allontanarmi un istante. Ci pensi tu a fare compagnia a Reira-san nel frattempo?».
Yui annuì distrattamente alla domanda della madre, fissava ancora Reira, che ricambiava lo sguardo indisturbata, con un sorriso gentile sulle belle labbra vermiglie.
Ayaka si allontanò di fretta, lasciandola presto da sola.
«Sei cresciuta dall’ultima volta che ti ho vista. Sei diventata proprio una donna».
Furono le prime parole che Reira le rivolse e, immediatamente, Yui si sentì a suo agio.
Aveva dimenticato che, tra le due sorelle di Daichi, Reira era quella gentile.
Yui non aveva avuto la possibilità di incontrarla quando si era allontanata dalla sua famiglia, quando Takahiro e Kijuro avevano litigato rompendo la loro amicizia e il loro sodalizio lavorativo, ma era sicura che Reira conoscesse ogni minimo dettaglio di tutta la faccenda.
Doveva sapere che cosa era successo tra lei e Daichi, che cosa avevano fatto.
Eppure non trapelava nulla di tutto quello dal suo sguardo birichino e malizioso e dal suo sorriso misterioso, ma incredibilmente gentile.
«Ti ringrazio Reira-san» replicò educatamente con un altro inchino di ringraziamento.
Reira sorrise ancora di più nel vederla compiere quel gesto un po’ imbarazzato.
«Ah! Lui è mio marito, Horibe Masafune».
L’uomo, che non si era evidentemente aspettato di essere chiamato in causa, ci mise un po’ di tempo a togliersi le mani dalle tasche dei pantaloni per fare un inchino di saluto.
«Piacere di conoscerti» la salutò educatamente, sembrava timido.
Yui ricambiò il saluto, e non fece nemmeno in tempo a sollevare la testa che l’uomo ricevette una telefonata inaspettata e, scusandosi con lei e con la moglie, si allontanò per rispondere.
Reira fissava Yui con occhi di puro interesse, ricordando la conversazione avuta con il fratello.
Forse la stava mettendo in imbarazzo, avrebbe dovuto rimediare.
«Mi accompagneresti a fare un giro della mostra Yui-chan?» le propose allora, la ragazza acconsentì.
Camminarono in silenzio per alcuni istanti, accostandosi ai quadri e alle sculture esposte.
«Ayaka-san mi ha detto che hai dato una mano ad organizzare tutto».
Si erano fermate davanti ad uno dei lavori preferiti di Yui, rappresentava un uomo, di spalle, completamente dipinto di nero ad eccezione delle due splendide ali bianche sulla schiena.
Sanguinavano e le gocce sporcavano di rosso i margini della tela bianca come petali di rose.
Era stata lei a disegnarlo e sua madre a colorarlo; ma non l’avrebbe detto.
«Mi piace dare una mano alla mamma quando posso» replicò, facendo spallucce.
Reira seguì il suo sguardo e si concentrò a sua volta sul dipinto, non lo commentò.
«Eri davvero una bambina l’ultima volta che ti ho vista».
Come Daichi, eri una bambina come Daichi.
Eravate solamente due bambini …
«É passato del tempo Reira-san. Molto tempo …».
«Hai compiuto diciotto anni, giusto? Sei prossima all’Università anche tu immagino, che cosa hai deciso di fare allora?».
Yui apprezzò l’intenzione di Reira di fare conversazione e cambiare discorso, non avevano detto nulla di compromettente, ma l’aria si era fatta improvvisamente pesante, pericolosa.
Si sarebbe sentita leggera se non ne avessero fatto parola.
«Mi sto preparando per l’Università di legge … per fare contento papà».
L’ultima parte della frase le scappò, non lo fece volontariamente, ma era evidente che con Reira aveva ritrovato immediatamente una confidenza che credeva perduta.
Aveva dimenticato che la sorella di Daichi aveva quel tipo di potere.
Reira ricordava bene Kijuro, dopotutto era stato il migliore amico di suo padre dai tempi dell’Università, avevano condiviso tutto insieme e quell’uomo severo l’aveva vista crescere, lei stessa l’aveva chiamato “zio” innumerevoli volte, si era fatta prendere sulle sue spalle …
Ayaka e Kijuro avevano dovuto aspettare anni e anni di matrimonio per avere Yui.
Non arrivava, non arrivava in nessun modo e, quando l’avevano finalmente stretta tra le braccia, avevano giurato entrambi che non le sarebbe successo mai nulla di male al mondo.
Kijuro era stato sempre eccessivamente protettivo con la figlia per quel motivo.
L’aveva oppressa, forzata, obbligata a fare tutto credendo di farlo per il suo bene.
Reira poteva comprenderlo in una certa misura, come poteva comprendere che, nel momento in cui era stata toccata la sua preziosa figlia, avrebbe avuto una reazione drastica e definitiva.
Ma anche se poteva comprendere, Reira lo trovava assolutamente ingiustificabile.
«Io credo tu sia più portata per l’arte Yui-chan» commentò con naturalezza, continuando ad osservare il disegno sulla tela che aveva di fronte, quasi fosse consapevole del fatto che fosse stata lei a disegnarlo.
Yui trasalì, ma senza scomporsi troppo; Reira si girò a guardarla con un sorriso misterioso sulle labbra, ma anche molto carico di ironia e un pizzico di ribellione.
Erano quegli aspetti del carattere che mancavano a Daichi.
Reira somigliava molto al fratello minore, e dopotutto non poteva essere diversamente dato che era stata lei stessa a crescerlo per quasi la metà della sua breve vita; ma Daichi mancava di quella vitalità, allegria e faccia tosta.
«Assomiglia a Daichi».
Yui gelò di colpo quando sentì quelle parole.
Per sua fortuna, Reira non la stava osservando, altrimenti si sarebbe accorta di qualcosa.
«L’uomo del dipinto» chiarì la donna «Assomiglia a Daichi, non trovi?».
Sì, assomigliava a lui. Era ovvio che assomigliasse a lui.
Qualsiasi cosa Yui disegnasse assomigliava a Daichi.
Non rispose.
«Ad ogni modo Yui-chan, se ami davvero l’arte, non escluderla dalla tua vita. Io ho rischiato con la musica e adesso giro il mondo e vivo la vita che voglio vivere liberamente».
Concluse il discorso Reira e passò oltre, al disegno successivo, lasciandosi alle spalle quell’uomo con le ali di un angelo sanguinanti ad appesantirgli la schiena.
Yui la seguì, le era improvvisamente venuta in mente un’idea, una speranza.
Si morsicchiò il labbro inferiore prima di trovare il coraggio di parlare.
«Sawamura-kun ha deciso cosa fare, vero?».
Non aveva fatto il nome di battesimo di Daichi, ma non ne aveva bisogno, Reira aveva capito.
Yui sperava solamente di non essere arrossita, di essere risultata naturale e neutra mentre porgeva quella domanda alla sorella dell’uomo che amava.
Sperava che quell’amore Reira non lo notasse, esattamente come non l’aveva notato Daichi.
Era l’unica scusa che aveva trovato per saperne qualcosa in più su quella borsa di studio.
L’unico modo che le era venuto in mente per non fare domande al diretto interessato.
Reira le rivolse un sorriso ed uno sguardo che non le piacquero affatto, erano consapevoli.
La donna aveva perfettamente capito a cosa Yui mirasse con quella domanda.
«Potresti domandarlo direttamente a lui, Yui-chan».
Ne ebbe la conferma con quella risposta maliziosa ed esplicita.
Era evidente che Reira volesse capire che tipo di rapporto ci fosse tra loro.
«N-Noi non parliamo tanto Reira-san; mi imbarazzerebbe domandarglielo».
Yui abbassò lo sguardo mentre balbettava quelle parole e Reira fece una cosa del tutto inaspettata, le mise una mano sotto il mento e le sollevò il viso per scrutarla negli occhi.
Forse lesse troppo, Yui non riuscì a nascondersi.
«Non siete nemmeno amici allora?».
«Si … ma non come prima».
Anche allora la seconda parte della frase Yui se la lasciò scappare.
Reira le lasciò andare delicatamente il viso e le sorrise, avanzò lungo l’ampio corridoio fingendo di scrutare con interesse le sculture e i dipinti moderni della mostra.
Yui la seguiva qualche passo indietro, improvvisamente scoperta e nuda.
«Daichi mi ha parlato di te» le confessò ad un certo punto la donna «Lui ti considera ancora una sua amica» si arrestò e si voltò a guardarla «Vorrebbe parlare con te».
Yui era come impietrita, non riusciva a muoversi, ma non voleva darlo a vedere.
«Lo sa che può parlare con me a scuola quando vuole e -».
«Lui vorrebbe parlare con te per davvero Yui-chan. Non ti sembra il caso di farlo? Di lasciar cadere qualsiasi malinteso tra di voi?».
Reira aveva immaginato di pronunciare quelle parole pensando al bene di suo fratello.
Aveva sperato che potessero spingere Yui verso di lui, verso un chiarimento.
Un avvicinamento.
Per Yui invece, non furono altro che l’ennesimo cappio al collo.
Si, avrebbe dovuto lasciar cadere qualsiasi malinteso, avrebbe dovuto farlo.
Avrebbe dovuto allontanare definitivamente Daichi dalla sua vita e farlo una volta per tutte, senza mezzi termini né lasciapassare, e avrebbe dovuto farlo per il suo futuro.
Per il suo bene. Poteva sopravvivere finché si trattava del suo bene.
Si sentì soffocare in quel momento, voleva lasciare l’edificio.
Trovò una scusa plausibile per lasciare Reira da sola, il messaggio di Hayato fu provvidenziale.
Se ne andò di fretta, una mano stretta sul cuore attorno alla stoffa del maglione.
Reira percorse la galleria a ritroso da sola, pensierosa, si fermò nuovamente quando ripassò accanto al disegno dell’uomo con le ali ferite, sorrise. Era ovvio che Yui non se ne fosse resa conto, non aveva fatto il minimo cenno, la donna allungò la mano curata e con l’unghia dell’indice smaltata di rosso sfiorò la minuscola targa informativa.
 
Disegnato da: Michimiya Yui.
Dipinto da: Michimiya Ayaka.
“Amore perduto”
 
Desiderò con tutta sé stessa che le cose andassero bene per suo fratello.
 
 
I'm walking down the line
That divides me somewhere in my mind
On the borderline of the edge,
and where I walk alone
 
 
 
A Maria tremavano le gambe in quella sala d’attesa, anche se era seduta.
Era un ambiente accogliente e allegro, tutte le donne che entravano nella stanza della madre di Shimizu non sembravano nemmeno lontanamente spaventate come lei. Erano donne adulte dopotutto, che portavano avanti gravidanze desiderate.
Maria stringeva tra le mani il cellulare, appena acceso, lo sfondo aperto sulla chat di Asahi.

Sono arrivato in Hokkaido. C’è la neve e si muore di freddo – 10: 45 
Recitava il primo messaggio, sotto vi era allegata la foto di un pupazzo di neve.
Hai pranzato? Io sto per scoppiare, zia Chizu ha cucinato per un esercito. Non ho potuto rifiutare nulla – 14:37
E sotto un’altra foto sfocata dove aveva tentato di immortalarsi con una faccia sconsolata.
Ho provato a telefonarti, ma hai il telefonino spento. Non sono finiti gli allenamenti? - 17:28
E un altro messaggio che le aveva mandato alcuni minuti prima.
Hotaru è al settimo cielo, io mi sento in imbarazzo tra tutti questi parenti. Stasera dormiremo tutti insieme nella stessa stanza, non lo facevamo da quando eravamo bambini. Prima ho provato l’abito tradizionale per il matrimonio, ti allego una foto – 19:20
Anche quella era sfocata, ma la sua espressione impacciata si vedeva chiaramente.
Maria rise tra le lacrime nel vederlo con quella mano dietro la nuca. Seduta al suo fianco Shimizu la guardò, ma non fece commenti dopo aver sbirciato lo schermo del cellulare.
Un rumore inaspettato annunciò l’arrivo di un altro messaggio, inviato in quel momento.

Maria, hai visualizzato i messaggi, ma non vedo risposte. Tutto bene? - 19:28
Maria chiuse immediatamente lo schermo del telefono, oscurandolo.
Non aveva il coraggio di rispondergli, non doveva rispondergli.
«Maria-chan» la richiamò all’attenzione Shimizu, appoggiandole una mano sul braccio, Maria la guardò come se fosse caduta dalle nuvole «Parlerai ad Azumane-san di questa cosa, vero? Se dovessimo confermarla, gliene parlerai, vero?».
C’era apprensione nella voce di Kiyoko, un’apprensione che Maria comprendeva.
Shimizu la conosceva bene, la conosceva da anni e sapeva tutto quello che le passava per la testa. Sapeva che nel tempo in cui se n’era stata seduta aveva continuato a rimuginare per risolvere quella situazione e a quali conclusioni doveva essere arrivata.
«Asahi non saprà mai di questa cosa» confessò, risoluta «Non posso fargli una cosa del genere, non posso stravolgergli la vita. Lui deve accettare quella borsa di studio».
Shimizu le lasciò andare il braccio, ma solamente per afferrarla per le spalle e girarla bruscamente verso di sé, senza curarsi se le avesse fatto male o meno.
«Ma questo bambino l’avete fatto insieme Maria-chan!» sbottò, aveva perso la compostezza «Non puoi tenerglielo nascosto per sempre, lo sai, no?».
No, Maria non lo sapeva, in realtà, non ne voleva sapere proprio nulla.
Non chiamarlo bambino. Non è un bambino. Non è il mio bambino.
Avrebbe voluto invece gridarle contro, scuotendo la testa ossessivamente per convincersene.
Non sentiva niente dentro di sé, e in effetti non c’era niente da sentire.
«E tuo padre Maria-chan, i tuoi nonni? Sai che almeno a loro dovrai dirlo, vero?».
Shimizu le lasciò andare le spalle evidentemente irritata, era una conversazione che non sarebbe affatto terminata in quel modo, Maria l’aveva scampata solamente per il momento.
Le faceva terribilmente male la testa anche solo il pensare alla sua famiglia.
Suo padre e nonno Akio … Maria temeva sarebbe stata la volta buona che l’uomo avrebbe spezzato per davvero le gambe ad Asahi. Tremava al solo pensiero.
«Kiyoko-san ti prego! Fammi pensare una cosa alla volta … altrimenti mi scoppia la testa».
E come prova di quanto detto si premette entrambe le mani sulle tempie, chiuse gli occhi.
Cominciò ad oscillare avanti e indietro sulla sedia, in tensione, non voleva pensare.
Voleva solamente svegliarsi da quell’incubo il prima possibile. Finirla.
Furono chiamate in quel preciso momento, Maria spalancò gli occhi di colpo e ancora prima di accorgersene era in piedi, la stretta alla bocca dello stomaco talmente forte da fare male.
Era come la spiacevole sensazione che provava prima di fare un esame, ma triplicata.
Kiyoko le strinse la mano quando entrarono nello studio di sua madre.
 
Nanako Shimizu le accolse con un sorriso radioso. Era una donna bella, alta, emanava eleganza da ogni movimento ed intelligenza da ogni sguardo, assomigliava alla figlia.
Maria l’aveva sempre guardata con il desiderio che anche sua madre fosse così amorevole.
Si era alzata in piedi, indossava il camice e aveva i capelli legati, doveva appena aver terminato il turno di lavoro, era tardi e Maria si sentì in colpa per averla trattenuta oltre orario.
Oltre a provare un profondo senso di vergogna nei confronti di una donna che l’aveva vista crescere sotto tutti i punti di vista possibile.
«Maria-chan» la salutò, prendendole immediatamente entrambe le mani con un tocco che comunicava tutta la sua dolcezza «Kiyoko mi ha accennato qualcosa».
La condusse lei stessa verso un lettino, su cui era stata sistemata della carta pulita, e la fece accomodare, non le chiese di stendersi con fare sbrigativo, né di fare altro, si mise semplicemente seduta accanto a lei come per fare solamente due chiacchiere.
Continuava a tenerle le mani tra le sue e a sorriderle rassicurante.
«Mi ha detto che pensi di essere incinta. Mi descriveresti un po’ i sintomi?».
Maria lo fece, con fatica, ma raccontò tutto.
Nanako era andata immediatamente al punto, non aveva aperto quella conversazione seguendo una linea indiretta, l’aveva fatto con l’esperienza e l’affetto.
Quando ebbe terminato di raccontare tutto quello che l’aveva fatta stare male nelle ultime settimane Nanako non le diede un responso, non espresse il suo pensiero di medico.
Continuò a tenerle le mani, guardandola con apprensione ben nascosta.
«Maria-chan, lo sai che per me sei come una figlia, vero?» esordì, facendosi inconsciamente ancora un po’ più vicina alla ragazza, che annuì «Sai anche che su di me puoi contare, altrimenti non sareste venute stasera» le sorrise, poi le lasciò andare una mano per aggiustarle dolcemente una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Quella mano la spostò sotto il suo mento, costringendola a guardarla negli occhi.
«Sei stata forzata? Qualcuno ti ha costretto ad avere rapporti completi?».
Una domanda diretta, carica di preoccupazione materna.
Maria non provò nessuna vergogna a riceverla, si sentiva al sicuro con Nanako.
Sentiva di poterle dire la verità senza avere imbarazzo per sé stessa.
«No, Nanako-san. L’ho fatto consapevolmente».
Anche se dimenticare il preservativo nel portafoglio non è stato consapevole.
Ovviamente, quel suo pensiero non lo espresse ad alta voce.
La donna trasse un respiro impercepibile che rivelava chiaramente tutto il suo sollievo, nonostante la situazione fosse ancora evidentemente complicata.
Il sorriso tremolante che le aveva rivolto divenne sicuro, la accarezzò nuovamente.
«Kiyoko non mi aveva detto che avevi il fidanzatino» la prese bonariamente in giro.
Servì quanto meno a stemperare momentaneamente la tensione, Maria arrossì, Kiyoko invece ne approfittò per avvicinarsi e mettersi seduta accanto alla madre, sulla sua sedia da studio.
Era una scena familiare per Maria, e nonostante quelle quattro mura in cui si trovava fossero estranee si sentì improvvisamente serena, al sicuro, protetta da persone che le volevano bene.
Le volevano bene anche se non vi erano legami di sangue.
Maria, che aveva desiderato per un brevissimo istante di avere Simona con lei in quella stanza, si domandò se anche sua madre si fosse sentita spaesata e spaventata come lei, sola in un paese straniero …  Maria aveva provato vergogna per quel suo stesso desiderio.
Simona era lontana chilometri e lì con lei c’era invece Shimizu, vicina.
«Kiyoko ti ha mai raccontato di quella volta che anche lei ha avuto bisogno di me Maria-chan?». La domanda di Nanako la distrasse totalmente dai suoi pensieri.
«Mamma!» scattò immediatamente la diretta interessata, arrossendo.
Era un altro tentativo della donna di allentare la tensione, ci era riuscita.
Maria guardò Shimizu con occhi spalancati, totalmente incredula di sentire una cosa del genere. Forse, se non fosse stata spaventata e scossa le avrebbe rivolto un’occhiataccia.
L’avrebbe accusata con fare infantile con un “perché non me l’hai mai detto?!”.
Ma ora Maria capiva perché non gliel’avesse detto.
«A giudicare dalla reazione non te l’ha raccontato, eh? Temevo davvero che lei e Sugawara-kun mi avrebbero dato un nipotino prima del tempo» continuò a scherzare la donna, come se all’epoca la cosa non le avesse mandato il cuore in iperventilazione «Non che mi sarebbe dispiaciuto, sia chiaro» concluse con aria compiaciuta, Kiyoko decise di finirla lì.
«É successo anni fa Maria-chan, te lo racconterò. Mamma ora basta, concentrati su di lei» sbottò indispettita, liquidando immediatamente tutta la faccenda.
Maria pensò che le sarebbe davvero piaciuto ascoltare quella bella storiella dalle labbra stesse della sua migliore amica, ma avvertì che quel momento di allegria era terminato.
Nanako continuava a sorridere, ma il suo sorriso era tornato quello professionale.
«Facciamo un’ecografia Maria-chan, va bene?».
Nanako la visitò con discrezione, Maria trovava tremendamente spaventosa quella sedia da tortura, con i ganci laterali su cui appoggiare le caviglie, restare esposta in quel modo.
Era una visita imbarazzante per una donna, ma Nanako fu bravissima a non farle provare nemmeno la metà della vergogna che avrebbe invece provato nelle mani di qualcun’altro.
Maria era talmente tesa che sussultò quando la donna la richiamò per catturare la sua attenzione.
Aveva attentamente evitato di guardare lo schermo nero alla sua sinistra.
«Maria-chan, vedi questo puntino?». Non poté più evitarlo a quel punto.
Voltò lo sguardo su quella massa nera e bianca di cui non capiva nulla e osservò con occhi spalancati e indifferenti il punto in cui Nanako indicava con il dito: era una sorta di fagiolo.
Aveva un fagiolo nella pancia.
«É effettivamente un bambino. L’embrione è circa all’inizio della sesta settimana da quello che vedo».
Nanako smise di osservare lo schermo e si voltò a guardare Maria.
Provò una profonda tenerezza nei confronti di quella giovane che avrebbe potuto essere sua figlia, mentre la vedeva con quell’espressione di puro terrore sul viso ipnotizzato dallo schermo, le mani strette talmente forte attorno alla stoffa del panno che le aveva dato per coprire le gambe alla vista di chiunque altro.
Detestò profondamente la madre di quella ragazza per non averle insegnato nulla nella vita.
Maria se l’era dovuta vedere da sola anche per le cose più delicate, quelle cose che si potevano sussurrare ad un orecchio solamente alla propria madre, con imbarazzo malcelato.
Fujio non sarebbe mai stato adatto, non era caratterialmente preparato e Maria era testarda quanto lui.
Nanako provò un profondo senso di colpa per non aver trovato lei stessa il coraggio.
«Ora ti stampo le ecografie. Il tuo bambino è in salute, Maria-chan» le spiegò con dolcezza, accarezzandole una mano tesa con la propria libera, quella che non stringeva l’aggeggio con cui le stava facendo quell’ecografia interna.
Maria si irrigidì tutta e scostò immediatamente lo sguardo dallo schermo.
Non è il mio bambino. Non è un bambino. Non è niente.
«Maria-chan, ora ti parlerò professionalmente» la avvertì Nanako «Sei ancora in tempo per effettuare un’interruzione di gravidanza nel caso fosse tuo desiderio».
«Ma mam-»
«Me ne prenderei io la responsabilità nel caso, ti seguirei in tutto
Nanako non si curò dell’interruzione di Shimizu e nemmeno della sua espressione basita.
«Ma devi comprendere che tale operazione richiede soldi e il consenso di un tutore. Se hai difficoltà a parlarne con Fujio-san, posso farlo io al posto tuo.»
Maria non replicò immediatamente, rimase con lo sguardo fisso e risoluto sul muro.
Un poster con l’immagine di una mamma in attesa che si accarezzava la pancia ricambiava la sua occhiata testarda, quasi a volerla sfidare e metterla alla prova.
Ma Maria aveva preso la sua decisione ben prima di entrare in quella stanza.
«Non è necessario Nanako-san, parlerò io con papà» le disse, la voce ferma.
«Bene, allora ti lascio qualche giorno di tempo per decidere, se vuoi parlarne anche con il padre del bamb-»
«Voglio interrompere la gravidanza».
Maria lo disse senza ripensamenti, senza che la voce le tremasse, senza scomporsi.
Incurante dell’espressione di sorpresa sul viso della donna e di quella arrabbiata e indignata di Kiyoko al suo fianco, imperterrita nella sua decisione che Asahi venisse interpellato.
Ma Asahi di quella storia non ne doveva sapere assolutamente nulla.
Non avrebbe sofferto se non l’avesse saputo, sarebbe andato per la sua strada serenamente.
E Kiyoko sapeva di non poter intervenire senza perdere l’amicizia di Maria.
Le aveva legato le mani in quel modo.
Lo studio rimase immerso nel silenzio per alcuni secondi, poi Nanako si schiarì la voce.
«Va bene Maria-chan, abbiamo finito … c’è solamente un’ultima cosa …».
Maria la vide con la coda dell’occhio mentre premeva dei tasti con la mano libera.
Fu un secondo, un increspare e poi … tutututututu, un rumore insistente, ritmico …
«Che cos’è?» domandò immediatamente Maria, terrorizzata.
Nanako guardava lo schermo, ma sorrideva, al suo fianco Kiyoko aveva le mani sulle labbra.
«É il suo cuore».  
Maria sentì qualcosa rompersi dentro di lei, da qualche parte.
Dovette lottare con tutte le sue forze per non portarsi una mano sul grembo e rendersi conto che, per quanto avesse voluto negarlo, quel cuore stava battendo ossessivamente dentro di lei.
Voglio vivere! Voglio vivere! Le stava gridando, con tutto sé stesso.
Maria chiuse gli occhi e si tappò le orecchie, scuotendo la testa.
«Fallo smettere Nanako-san!» strillò, la donna la accontentò immediatamente.
Non parlarono i minuti che Maria impiegò a ripulirsi e sistemarsi nel bagno, o forse Nanako e Kiyoko parlarono, ma a voce troppo bassa perché Maria potesse sentirle.
Avevano deciso che sarebbe andata a dormire a casa dell’amica per quella sera.
Nanako aveva un viaggio di lavoro e doveva partire per un paio di giorni, sarebbe ritornata insieme al marito, Maria era stata talmente agitata da notare le valigie sistemate accanto alla scrivania solamente nel momento in cui doveva andarsene.
«Queste sono le ecografie, Maria-chan» le disse Nanako sulla porta, consegnandole tra le mani una cartella con tutto quello che era necessario fare, la documentazione …
Maria la ripose nella borsa senza nemmeno guardarne il contenuto.
«Ci sentiamo per decidere il giorno dell’intervento, ma ricorda che non devi superare le tredici settimane … hai ancora un po’ di tempo per pensarci su. Per qualsiasi cosa sono qui per te, Maria-chan».
Nanako le sorrise, ma era evidentemente triste.
Maria la ringraziò, e con quel battito di cuore che continuava a risuonarle nel cervello come un grido straziante, lasciò l’edificio, ritrovandosi tra le fredde strade di metà Novembre.
 
 
 
Faceva freddo quella sera.
Daichi non riusciva a prendere calore nemmeno con quella felpa di plaid addosso e il cappuccio tirato in testa, ma era stato inutile tentare di convincere le pesti a rientrare in casa.
Non aveva ancora nevicato quell’anno, o almeno, non aveva ancora nevicato al punto tale che la neve attecchisse, non c’erano pupazzi né gare di palle di neve da fare, eppure i bambini avevano insistito di voler giocare a tutti i costi all’aperto.
Si erano sistemati nel giardino sul retro, quello con lo stagno artificiale delle carpe koi.
Daichi era appoggiato con la schiena ad una delle colonne portanti del portico, osservava con occhio distratto Akemi e Kou tentare di creare una montagnola di foglie, in cui avrebbero voluto saltare, inutilmente; il giardino era stato spazzato solamente il pomeriggio precedente.
I due bambini facevano chiasso, Kou dava ordini ad Akemi perché perlustrasse alcune zone e i due esultavano entusiasti ogni volta che una foglia veniva scovata da qualche parte, anche se ne avevano ammucchiate solamente una decina.
Renji, invece, se ne stava buono buono seduto accanto a lui assemblando dei pezzi di costruzioni grandi come mattoni, che scagliava puntualmente da qualche parte per il troppo entusiasmo; Daichi era abbastanza distratto da aver smesso di raccoglierli da un pezzo.
Uno era finito perfino nello stagno delle carpe koi, che avevano anche provato a mangiarlo prima di arrendersi al fatto che fosse di gomma e non commestibile.
Stava pensando alla documentazione che aveva firmato e al poco tempo che gli era rimasto.
Ripensava alla conversazione che aveva avuto con Reira, al voler parlare con Yui.
Pensava a Sachi e alla nuova gravidanza, annunciata a tutta la famiglia solamente quella mattina, pensava al coraggio che sentiva di aver lentamente perso da qualche parte.
Mentre pensava a tutte quelle cose Renji, annoiato di giocare con le costruzioni, aveva abbandonato i giocattoli per gattonare eccitato verso la pallina rossa che aveva intercettato. Daichi lo seguì con lo sguardo, riprendendosi dallo stato di catalessi.
Si rese conto tardi di cosa significasse lasciare un bambino di due anni con una pallina in mano, e del motivo per cui aveva tentato di nasconderla inutilmente alla vista del nipotino; Renji afferrò l’oggetto agognato, lo scagliò con tutte le forze lontano, oltre il cancello aperto che dava sulla strada, e vi si fiondò dietro con un gridolino deliziato sulle due gambette tozze.
Daichi impiegò alcuni secondi per riprendersi dallo shock.
Fece un salto oltre lo stagno delle carpe koi e si fiondò oltre i cancelli, il tempo necessario di vedere una persona estranea afferrare Renji e la pallina prima che finissero oltre il marciapiede. Un estraneo, che ad un’occhiata attenta non fu più tale.
«E tu da dove spunti piccoletto?» stava dicendo a Renji, che lo fissava diffidente.
«Hayato» disse invece Daichi, del tutto sorpreso da quell’incontro inaspettato.
Il diretto interessato, sentendosi chiamare, smise presto di dare la sua attenzione a Renji.
Non era cambiato molto dall’ultima volta che Daichi l’aveva visto, erano passati solamente pochi mesi dopotutto, quando si erano rincontrati su quel campo di battaglia.
Daichi aveva vinto quella volta.
Hayato sembrava stare bene, sembrava felice, senza pensieri e contento di vederlo.
«Daichi! Ma che sorpresa, non pensavo fossi a casa!».
La sua voce era piena di allegria, come se avesse rivisto un caro amico lasciato alle spalle per lontananza, non un amico che aveva volontariamente abbandonato e allontanato.
Daichi aveva creduto di essersi lasciato quella storia alle spalle.
Non era stato così evidentemente, almeno non per lui.
Tese le braccia verso l’amico perché gli passasse Renji e Hayato lo fece senza obiezioni.
«Chi è questo piccoletto?» domandò durante il passaggio, non appena Renji si ritrovò tra le braccia familiari dello zio nascose il faccino sulla sua spalla, senza smettere tuttavia di tener d’occhio quello sconosciuto. Sembrava quasi aver percepito l’insofferenza di Daichi.
«É il figlio di mia sorella … Reira … forse la ricordi …»
«Certo che la ricordo, non vive a Berlino adesso?».
Daichi annuì distrattamente, aggrottando le sopracciglia, si domandava come facesse a sapere che sua sorella Reira viveva a Berlino, non ricordava di avergliene mai parlato prima.
«Zio Daichi, dove sei?» Kou lo interruppe prima che potesse domandargli qualsiasi cosa.
Si era affacciato dal cancello spalancato e osservava la situazione con un’espressione diffidente e malevola, espressione che Daichi aveva visto solamente sul viso di sua sorella Sachi.
Gli sarebbe venuto da ridere per quella somiglianza se non fosse stato per il fatto che di ridere non ne aveva la minima voglia; provava una brutta sensazione alla bocca dello stomaco.
«Sono qui Kou, sta’ tranquillo» fece segno al bambino di avvicinarsi, che eseguì l’ordine continuando a fissare Hayato come se fosse un malintenzionato, o forse semplicemente perché aveva distratto lo zio Daichi dall’osservare la loro epica impresa con le foglie.
«Prendi un attimo Renji ed aspettatemi dentro, mi raccomando tienilo d’occhio. Io arrivo tra poco». Daichi passò Renji nelle piccole braccia di Kou, che fece fatica a tenerlo perché troppo pesante, sembrava che il bambino potesse sgusciare via da un momento all’altro.
Kou non si lamentò del compito che gli era stato affidato, ma ubbidì silenziosamente.
Anche se non smise di guardare lo zio fino a quando non oltrepassò i cancelli.
Daichi si sentiva più libero di affrontare la conversazione in quel modo.
«Suppongo tu non possa allontanarti per fare due passi» esordì Hayato quando si trovarono soli, l’espressione allegra non aveva mai abbandonato il suo viso ancora acerbo; a Daichi non piaceva quell’espressione, non piaceva per nulla.
Incrociò le braccia al petto e fece spallucce.
«Possiamo parlare qui senza problemi» liquidò la faccenda.
Hayato ridacchiò, per nulla impressionato da quella risposta poco amichevole.
Erano stati cortesi l’uno con l’altro l’ultima volta che si erano visti, da rivali sul campo, si erano anche scambiati delle belle parole, ma era finita essenzialmente lì.
Daichi sapeva che cosa realmente Hayato pensasse di lui, era stato chiaro quando aveva deciso di allontanarsi in seguito all’incidente che l’aveva visto coinvolto con Yui.
Io ti ho sempre odiato! Dovevi avere sempre tutto tu, vincere sempre tu!
Non posso perdonarti per aver preso anche Yui.
Daichi non era riuscito a spiegare ad Hayato che Yui non era proprietà di nessuno, tanto meno sua. Non era riuscito a spiegarsi con nessuno in quel periodo, era debole.
E quelle parole erano rimaste impresse nel suo cuore come marchiate a fuoco.
Ma l’espressione che aveva Hayato sul viso quel giorno non sembrava quella di un perdente, piuttosto quella di una persona che aveva vinto la gara della vita ed era andato dal suo nemico esattamente per sbattergli in faccia quell’assoluta verità.
Era una sensazione spiacevole che non sapeva spiegarsi.
«Non ricordavo di averti raccontato di mia sorella Reira» volle informarsi immediatamente Daichi, utilizzando il tono di voce più casuale e affabile del suo repertorio, non voleva che Hayato percepisse la sua ostilità, anche se forse ormai era davvero troppo tardi per nasconderla.
Hayato si produsse in un moto di sorpresa che puzzava di recita lontano un miglio.
«Ah, giusto» commentò grattandosi la nuca «In realtà me l’ha raccontato Yui-chan» alzò lo sguardo quando pronunciò quelle parole, lo fece intenzionalmente.
«L’ho incontrata oggi. Mi ha detto di aver visto tua sorella alla mostra di sua madre».
Daichi sapeva che Hayato non stava mentendo, Reira aveva annunciato alla famiglia che quel pomeriggio sarebbe andata a trovare Ayaka-san, era quello il motivo per cui lui si era dovuto prendere cura di Renji; ma non riusciva a spiegarsi quando Yui e Hayato avessero ripreso a frequentarsi, non ne sapeva nulla ed era certo non si trattasse di un bluff.
«Ah, forse non lo sai ancora, ma … io e Yui-chan stiamo insieme adesso».
Hayato fece in modo di guardarlo negli occhi mentre pronunciava quelle parole, continuava a grattarsi la nuca, ma non stava provando il minimo imbarazzo, lo stava sfidando invece.
Ho vinto io Daichi, sembrava dirgli con quegli occhi scintillanti di soddisfazione.
Daichi dovette lottare con tutto sé stesso per non cambiare l’espressione del suo viso, per non mostrare il minimo turbamento alla notizia, sebbene le parole non avessero ancora raggiunto davvero la sua mente o il suo cuore, procedevano come al rallentatore.
Avrebbe vomitato lì seduta stante sul marciapiede se non fosse stato per l’orgoglio.
Era arrivato tardi. Arrivava sempre troppo tardi.
Non era la prima volta che capitava, Daichi aveva impiegato tempo a capire che cosa provava per Yui, ci aveva messo anni e ci era voluto un incidente di mezzo, ed era già troppo tardi a quel punto. Non poteva confessarsi, non poteva toccarla, non poteva amarla.
Si era accontentato di quella relazione professionale e scolastica.
Gli era andata bene fin quando non era arrivata Maria, costringendolo ad uscire dal guscio.
Daichi avrebbe preferito non averlo fatto, forse, non sarebbero arrivati a quel punto allora.
Yui aveva avuto altri fidanzati anche nel periodo in cui Daichi fingeva con tutto sé stesso, portando avanti quella relazione professionale come un bravo studente e figlio; storie finite presto, senza reale fondamento, Daichi non ne aveva sofferto.
La confessione di Hayato non poteva sopportarla.
Perché Hayato sì e io no? Perché Hayato può e io no?
Erano le domande che continuavano ad urlargli ossessivamente in testa, sempre più forti.
Avrebbe dovuto parlare con Yui prima, non avrebbe dovuto aspettare tanto.
Non avrebbe dovuto avere paura di suo padre e nemmeno di un rifiuto, anche un rifiuto sarebbe stato meglio di quella situazione, meglio del provare quel desiderio bruciante di voler mettere le mani attorno al collo di quello che un tempo era stato un suo amico e farlo smettere di sorridere in quel modo vittorioso proprio davanti ai suoi occhi.
Daichi ebbe paura di quei suoi stessi pensieri.
Ma alla fine aveva perso la battaglia più importante.
«Non ti congratuli con me?» Hayato rigirò il coltello nella piaga «La nostra è una relazione seria, sai? Abbiamo un rapporto autentico … completo. Te lo dico perché so che lei è come una sorella per te, sei sempre stato molto protettivo … ma è in buone mani ora».
Daichi aveva perso il conto delle allusioni implicite presenti in quelle belle parole.
Doveva davvero vomitare, non ne poteva più di tutta quella merda.
Avevano scopato? Poteva accettarlo.
Gli stava rinfacciando quello che aveva fatto anni prima? Poteva accettarlo.
Voleva la sua benedizione? No, questo non poteva accettarlo.
Ma …
«Lo so che è in buone mani. Spero siate felici per lungo tempo insieme».
Quelle parole le pronunciò automaticamente, finte come il sorriso che aveva increspato le sue labbra nell’accompagnarle.
Gli sembrava di essere tornato a quando fingeva di vivere come un automa.
«State insieme da molto?» domandò, educatamente, non sentiva niente.
Non provava niente.
«No, ci siamo riavvicinati recentemente … mi pare tu fossi in ritiro in quel periodo. Non l’abbiamo programmato, è stato solamente più forte di noi … sai che io ho sempre voluto bene a Yui» Daichi non ricordava che Hayato sapesse essere subdolo e cattivo.
Doveva ammettere tuttavia che era colpa sua se le cose erano andate in quel modo.
Era lui ad averlo reso cattivo e arrogante, almeno nei suoi confronti.
«Oh, adesso devo andare» Hayato guardò l’orologio da polso.
Daichi era sicuro che non avesse davvero impegni, aveva semplicemente finito di fare quello che voleva, era soddisfatto di quello che vedeva e poteva tornarsene a casa.
Forse, la sua espressione non era impassibile come aveva sperato.
Era solamente una maschera di cera sul punto di squagliarsi da un momento all’altro.
«Ci si vede in giro». Daichi annuì, educatamente.
Non poteva certo dire ad Hayato che non si sarebbero rivisti per i prossimi tre anni.
Lo vide allontanarsi mentre prendeva la sua decisione finale, di chiudere quella storia.
Vomitò non appena oltrepassò il cancello, lo fece nella pianta preferita di sua madre.
Era scosso dagli spasmi e non riusciva nemmeno a respirare bene, gli sembrava di poter morire da un momento all’altro, soffocato … ah, non ricordava che gli attacchi di panico fossero tanto spaventosi. Kou e Akemi gli si avvicinarono immediatamente.
Avevano smesso di cercare le foglie, arresisi finalmente al fatto che non ce ne fossero abbastanza per il loro ambizioso progetto, e stavano giocando insieme a Renji con la pallina.
Daichi non avrebbe voluto farsi vedere in quelle condizioni da loro.
«Zio Daichi, tutto bene?» aveva domandato Akemi senza avvicinarsi oltre, spaventata.
Daichi aveva sorriso per rassicurarla, ma nel tentativo di rispondere aveva vomitato di nuovo.
Kou era stato molto più drastico, invece.
«Mamma! Mamma, lo zio Daichi sta morendo!».
Aveva gridato correndo dentro casa come un ossesso.
Come Daichi aveva temuto, Sachi si era precipitata fuori come una scalmanata.
Avrebbe voluto dirle che Kou aveva solamente esagerato, che non doveva spaventarsi.
Avrebbe fatto male al bambino nel suo grembo, ma non ce la fece a spiccicare parola.
Sachi gli si inginocchiò immediatamente accanto, gli prese il viso tra le mani.
«Daichi che cosa c’è?! Di nuovo? Respira, moccioso, respira!».
Era strano, ma guardare il viso preoccupato e contemporaneamente arrabbiato di Sachi lo tranquillizzò. Respirò piano, come gli era stato detto, e arrivarono i singhiozzi.
Si aggrappò alle braccia di Sachi e singhiozzò, mordendosi il labbro inferiore.
Sono arrivato troppo tardi Sachi, troppo tardi.
«Va tutto bene sciocco, non è niente» mormorò la sorella «E tu te ne vorresti andare in Brasile da solo per tre anni? Ma non farmi ridere» borbottò, ma lui non la sentì davvero.
Daichi non pianse, soffocò le lacrime che premevano agli angoli degli occhi.
Faceva male il petto, avrebbe voluto dirlo a Sachi ma non trovava le parole.
Faceva veramente male.

 
 
My shadow's the only one that walks beside me
My shallow heart's the only thing that's beating
 
 
Maria ebbe la testa annebbiata dai pensieri per tutto il tragitto verso casa di Shimizu.
Non parlarono, entrambe chiuse nel proprio mutismo.
Kiyoko era arrabbiata e delusa, ma a Maria non importava un granché in quel momento.
Era troppo impegnata a venire a patti con la paura che le stava mangiando anche le ossa.
Sentiva qualcosa dentro di sé a cui non voleva dar peso, sentiva di non avere più il controllo del suo corpo, sentiva di essere una cattiva persona, sentiva di non meritare Asahi.
Asahi … non aveva risposto ai suoi messaggi, ne erano arrivati altri durante la visita …
Maria riusciva ad immaginarlo seduto sul suo futon, impacciato, con le lunghe gambe coperte da un pesante pigiama accovacciate al petto, mentre rivangava ricordi del passato con quei cugini che non vedeva da mesi e mesi, magari fingendosi allegro … mentre invece pensava a lei, e al perché non avesse risposto.
Pensava a lei, che stava per uccidere suo figlio senza nemmeno dirglielo.
Ma non aveva scelta, Maria non aveva altra scelta che quella.
Quell’insana nostalgia che aveva provato nei confronti di Simona tornò improvvisamente a farsi prepotente, nonostante fosse arrabbiata, nonostante non si fossero affatto sentite negli ultimi mesi, Maria sentiva la necessità di porgere mille domande a quella donna ingrata.
Avrebbe voluto domandarle se anche lei si fosse sentita le viscere al contrario.
Se anche lei avesse avuto paura di parlarne con Fujio o con i suoi genitori.
Se anche per lei fosse stato difficile prendere la decisione di sbarazzarsi del feto.
Se anche lei avesse, dopo aver sentito il suo cuore battere, cominciato a provare qualcosa.
Se anche lei avesse cominciato a sentirsi irrequieta.
Avrebbe voluto farle tante di quelle domande che la testa cominciava a scoppiarle, ma dubitava enormemente che Simona si fosse sentita anche solamente un briciolo così.
Da quello che aveva capito, non ci aveva pensato due secondi a voler abortire.
Non aveva pensato a Fujio, non si era sentita in colpa, non l’aveva amata nemmeno un po’.
Maria, forse inconsapevolmente, strinse le dita della mano destra attorno alla stoffa pesante del giaccone all’altezza del ventre, in un gesto forse protettivo, forse di scuse.
Non lo sapeva, perché non sapeva esattamente che cosa provasse.
Nel suo cuore aveva preso quella decisione fermamente, l’aveva fatto perché non vedeva altre vie di fuga, perché non sapeva come fare a portare avanti quella storia senza che Asahi ne rimettesse, senza che lui rinunciasse a quel futuro a cui guardava con occhi brillanti.
Ma avrebbe mentito a sé stessa se non avesse ammesso di essersi strappata il cuore.
Non voleva quel bambino, voleva quasi negarne l’esistenza, fare come se non esistesse, ma …
Ma non sapeva spiegarsi perché quell’esitazione.
Ad ogni modo, Simona non era la persona adatta a cui parlare di tutta quella storia.
Lei sarebbe stata sicuramente una di quelle persone che non l’avrebbe mai saputo.
Maria avrebbe potuto contare solamente sull’aiuto di Nanako-san, che non era sua madre, ma non l’avrebbe giudicata né allontanata, sebbene l’espressione triste nei suoi occhi fosse ancora vivida nella memoria martoriata di Maria.
All’altra donna della sua vita, quella che l’aveva cresciuta con affetto, Maria non avrebbe trovato il coraggio di renderla partecipe di una simile situazione.
Mariko ne avrebbe sofferto immensamente; non era una donna severa, era stata comprensiva ben più di una volta e l’aveva cresciuta al meglio delle sue possibilità, ma restava pur sempre una donna anziana con i suoi principi e i suoi pensieri.
Magari non avrebbe fatto storie, magari si sarebbe messa a piangere una volta venuta a conoscenza della situazione, ma Maria le avrebbe ugualmente spezzato il cuore.
E la cosa spaventosa era esserne consapevole.
«Maria-chan tu non puoi assolutamente tenere fuori Azumane-san da questa storia».
Shimizu esplose all’improvviso, quando ormai erano quasi arrivate a casa.
Se n’erano state talmente in silenzio a rimuginare che Maria aveva quasi dimenticato di averla vicina. Kiyoko doveva aver pensato a quella storia con disappunto per tutto il tempo.
Alla fine, non doveva essere riuscita a trattenersi, folle di preoccupazione.
«Non ti sto dicendo che la tua decisione sia sbagliata, io non saprei nemmeno cosa fare se fossi al posto tuo. Ma è una decisione che non spetta solo a te, tutto qui».
Maria lo sapeva che non spettava solamente a lei.
Ma come poteva spiegare a Shimizu, che non conosceva Asahi come lei, che non ci sarebbe stata più nessuna decisione da prendere se lui fosse venuto a conoscenza della cosa?
Nessuna decisione né per lui e né per lei.
Maria non poteva accettarlo.
«Asahi non soffrirà di questa storia se non lo verrà mai a sapere. Starà bene … sicuramente … dopo qualche tempo … come chiunque altro».
I mormorii di Maria si persero nei pensieri, non stringeva più la mano all’altezza del ventre da quando Shimizu aveva cominciato a parlarle, il momento di confusione era passato.
Doveva essere lucida, molto più lucida di così se voleva andare avanti con quella storia.
«Maria-chan» la voce di Kiyoko sprizzava preoccupazione «Non avrai intenzione di lasciarlo così, su due piedi, senza un motivo … una valida ragione».
Maria non rispose, perché era esattamente quello che aveva pensato di fare.
Seppellì piuttosto la bocca nella sciarpa attorno al collo, le mani nelle tasche del giubbotto.
Che cosa sarebbe successo se avesse cominciato a correre su quella strada lastricata di ghiaccio e fosse scivolata … che cosa sarebbe successo?
Provò ribrezzo per sé stessa e per quel pensiero maligno.
«Maria-chan, no! É l’idea peggiore che tu -»
Shimizu si interruppe, Maria aveva rallentato il passo e guardava il cancello di casa dell’amica con occhi aggrottati. Kiyoko seguì la direzione del suo sguardo e notò che c’era qualcuno.
Una figura che, causa l’oscurità della sera, non si distingueva bene.
Era seduta a terra, rannicchiata a causa del freddo, immobile.
Si riscosse immediatamente non appena intravide le due ragazze, tirandosi in piedi con una certa rigidità causata dal freddo che doveva aver intirizzito tutte le sue ossa mentre stava ad aspettare. Bastò che la figura uscisse allo scoperto perché lo riconoscessero.
Koushi aveva il naso rosso, causa la carnagione bianca, indossava la tuta della palestra sotto un pesante piumino, le mani senza guanti erano infilate nelle tasche e una sciarpa di lana arancione era avvolta attorno al suo collo in due, tre giri.
Aveva una strana espressione da cane bastonato negli occhi.
Maria non sarebbe voluta tornare a casa quella sera ma, dal modo in cui l’aria si era fatta pesante di qualcosa che comprendeva bene, capì da sola di dover mettere da parte quella sua reticenza. Shimizu non parlava con Sugawara da un paio di settimane e, Maria lo percepiva chiaramente, entrambi ne avevano sofferto enormemente.
Doveva togliere il disturbo per lasciare che almeno loro non cadessero a pezzi.
Aveva la sensazione che avrebbe tolto loro un’opportunità se fosse rimasta.
«Io torno a casa Kiyoko-san» mormorò alla volta della sua migliore amica.
Shimizu fece perfino fatica a staccare lo sguardo da quello di Sugawara per ascoltarla.
«Ma Maria-chan tu -».
«Ne approfitterò per riflettere meglio Kiyoko-san».
Maria fu decisa e Shimizu non insistette oltre, non poteva farlo quando l’unica cosa a cui riuscisse davvero a prestare attenzione in quella strada era il ragazzo sotto il lampione.
Riuscì a seguire Maria che si allontanava con lo sguardo solamente per pochi istanti, rivolse la sua attenzione a Koushi prima che lei avesse svoltato l’angolo.
L’istinto o l’amore le suggerivano di afferrare quel viso gelido per scaldarlo, di avvicinarsi.
Era da giorni che Kiyoko era venuta a patti con sé stessa, era stata l’inaspettata conversazione con Maria a farle prendere la decisione definitiva ma, sorpresa di sé stessa, non aveva trovato il coraggio di comunicarla al fidanzato.
Non le era mai successo in quei due anni che avevano passato insieme.
Koushi non era mai stato ad un passo dallo sfuggirle tra le mani.
Ma non poteva permetterlo, non quando stava assistendo con i suoi occhi a quello che stava succedendo a Maria e ad Asahi; almeno lei avrebbe dovuto essere felice.
«Non sono venuto qui per costringerti Shimizu-san».
Lui parlò inaspettatamente, aveva un tono di voce roco ed insicuro, nonostante probabilmente avesse passato i minuti, o le ore, che aveva trascorso ad aspettarla ripetendosi mentalmente quali fossero le parole giuste da articolare, il discorso da farle.
Kiyoko pensò solamente che le era mancata la sua voce.
«Non dobbiamo stare per forza insieme, se non vuoi. Se non ce la fai, va bene, parto e non ti disturberò oltre» Suga aveva un tono di voce frenetico, agitato «Ma se invece mi ami e mi dici di non partire allora – allora va bene, non partirò».
Shimizu faceva fatica a sostenere il peso di tutto l’amore che portava con sé quella frase.
Non sapeva esprimere a parole tutto quello che avrebbe voluto dire a quell’angelo innocente.
Non sapeva come dirgli che, sì, aveva avuto paura di perderlo perché lo amava terribilmente.
Non sapeva come dirgli che quei due anni avevano significato tutto per lei.
E non sapeva nemmeno come dirgli che aveva fatto pace con sé stessa.
Fece l’unica cosa che le venne facile: accorciare le distanze tra di loro.
Gli accarezzò il viso, era gelido, lo sentiva anche attraverso gli spessi guanti di lana che indossava.
«Ti aspetterò Sugawara-kun» mormorò, risoluta.
Quelle parole dicevano cose che Koushi comprendeva senza bisogno di spiegazioni.
Shimizu si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò.
Voleva trascorrere quella notte tra le sue braccia calde.
 
 
Maria non voleva tornare a casa ma, paradossalmente, si sentì sollevata non appena vi mise piede dentro. Gli odori familiari, i rumori, tutto le comunicò immediata protezione.
Nonostante si sentisse estranea, come proiettata fuori da sé stessa.
Portava dentro di sé un segreto talmente grande da non essere sicura di poterlo nascondere.
Le sembrava che fosse sotto gli occhi di tutti, che potessero vederlo tutti quel fagiolino che se ne stava ostinatamente avvinghiato dentro di lei.
Perché non ti stanchi? Perché non te ne vai da solo?
Scosse la testa a quei pensieri terrorizzanti, orribili.
In cucina nonno Akio era seduto sulla sdraio che, negli ultimi giorni, era diventata l’unico luogo in cui trovasse un po’ di pace dal dolore; nonna Mariko stava togliendo di mezzo gli ultimi piatti lavati dalla cena che avevano consumato senza di lei.
Era una scena che le comunicò serenità e, al contempo, estraneità.
Era una scena della sua infanzia, ripetuta innumerevoli volte ma con elementi stonanti, lei non era più una bambina e suo nonno non era mai stato male in quel modo. Dormiva.
Maria entrò nell’ambiente caldo, non si era nemmeno tolta il giubbotto di dosso.
«Mari-chan!» la chiamò la nonna, si era appena accorta di lei «Stai bene?».
Si fermò a metà mentre asciugava un piatto, preoccupata dallo sguardo assente della nipote.
Maria annuì distrattamente, abbozzando un sorriso.
«Hai cenato? Ti preparo qualcosa da mangiare nel caso?».
Non aveva cenato affatto, ma Maria non aveva il minimo appetito, nonostante avesse vagamente letto sui documenti che le aveva dato Nanako, mentre tornava a casa, che nutrirsi era importante in gravidanza …
Non che le importasse o potesse servirle a qualcosa.
Voleva risolvere quella faccenda il prima possibile, cominciando con l’utilizzare il timbro di firma di suo padre su quei benedetti documenti senza che l’uomo lo sapesse.
«Ho cenato con Shimizu-san, nonna, sto bene. Sono ancora un po’ stanca quindi vado a dormire» le rispose, sperando che la voce non risultasse troppo fiacca.
Mariko annuì distrattamente, continuando ad osservarla, Maria si limitò ad aggiustare la coperta sulle spalle del nonno, caduta durante un movimento, e dargli un bacio sulla fronte.
Salì a passi lenti le scale, aveva lo stomaco nuovamente sottosopra.
Entrò nel bagno giusto in tempo per rimettere i succhi gastrici e l’acido, si portò una mano sullo stomaco, poi scese più in basso …
La stanza non era come l’aveva lasciata, la nonna l’aveva lavata da cima a fondo.
Era arieggiata, profumata e sistemata; Maria ringraziò solamente di aver infilato i quattro test di gravidanza nella borsa prima di uscire di casa e di non averli lasciati nel futon.
Tolse la giacca e la appoggiò sullo schienale della sedia, poi si lasciò cadere sul letto.
Sguardo vuoto, non sapeva nemmeno cosa pensare in quel momento.
Fu il tintinnio del cellulare a riscuoterla dai suoi pensieri, lo prese con una certa esitazione.

É successo qualcosa a casa, per questo non mi rispondi? - 19:30
Pensavo di chiamarti per sentire la tua voce – 19:40

Recitavano i primi messaggi, quelli che aveva ricevuto durante la visita.
L’ultimo era arrivato in quel momento.
Non insisterò oltre, sarai stanca. Chiamami domani, ti prego. Buonanotte – 22:16
Maria si portò il cellulare alla bocca e soffocò un singhiozzo, quasi potesse baciarlo con quelle labbra tremanti e umide di lacrime, a chilometri di distanza.
Un vibrare improvviso la fece sussultare, per un istante ebbe paura che potesse essere Asahi, che alla fine avesse cambiato idea, troppo preoccupato, e avesse deciso di telefonarle.
Invece era solamente Simona che la stava chiamando e, per la prima volta da quando si erano separate in quel modo barbaro mesi prima, Maria non le chiuse il telefono in faccia.
Lasciò squillare il cellulare un paio di volte prima di rispondere, fu un impulso.
«Maria?» la voce di Simona suonava sorpresa, ma spensierata come sempre.
Lei non rispose, non sapeva che cosa dirle ed era frastornata dalla sua stessa azione.
Era stata una scelta incontrollata quella di rispondere, viscerale quasi, ma sciocca, come se avesse mai potuto parlare con Simona di quella gravidanza …
«Non pensavo che mi avresti risposto … stai bene?».
Ancora una volta Maria non rispose, sentì il respiro dall’altra parte della cornetta farsi pesante, segno evidente che Simona stesse cominciando a perdere la pazienza.
Non ne aveva mai avuta molta, con Maria meno che mai.
Doveva pensare che la stesse prendendo in giro, che volesse farle perdere tempo, mentre Maria semplicemente non riusciva a trovare le parole adatte per dire a sua madre che aveva sentito il bisogno di essere trattata come una figlia per una sola volta nella sua breve vita.
«Maria, sono in pausa pranzo, non ho molto tempo da perdere con -».
«Che cosa hai provato quando hai scoperto di aspettarmi?».
Simona rimase evidentemente sorpresa da quella domanda inaspettata, perché quella volta toccò sicuramente a lei restare in silenzio. Maria rimase in attesa.
«Paura e terrore» replicò infine Simona.
«É per questo che hai pensato di togliermi di mezzo?».
Le domande erano cominciate da sole, senza che lei riuscisse a frenarle.
Che cosa volesse ottenere da quella conversazione non lo capiva.
«Volevo toglierti di mezzo perché non eri reale per me. Non ti sentivo».
Ma per me lui è reale. Io lo sento, ho sentito il suo cuore.
Fu un pensiero lapidario, fulmineo, un pensiero che marcava quel sottile confine tra l’amore e l’indifferenza: Simona non amava Fujio quando l’aveva avuta, Maria non poteva dire lo stesso.
Nel bene e nel male era l’amore di Asahi che stava uccidendo.
«Maria, ma perché mi fai queste doman-».
«Nulla, ci sentiamo».
Chiuse la comunicazione senza sentire cosa Simona le stesse dicendo dall’altro lato.
Si alzò in piedi e fece un passetto verso la porta, ma non vi arrivò mai, prima che se ne accorgesse si ritrovò inginocchiata a terra, appoggiata al letto, il viso inondato di lacrime e una mano spasmodicamente premuta sul ventre, l’altra sulla bocca.
Il cellulare sul tappeto illuminava la stanza, aperto su un messaggio.
Era arrivato mentre parlava al telefono con Simona, non se n’era accorta prima.

Ho dimenticato di dirti una cosa prima, ti ho sognata stamattina mentre ero in viaggio. Eri felice e c’era mio padre con te, sorrideva. Volevo solo che lo sapessi – 22:47.
 
 
 
Sometimes, I wish someone out there will find me
'Til then, I walk alone

(Green Day – Boulevard of broken dreams)
 
 
 
 
 
 
Buon pomeriggio signori e signore 🤗🍰☕
Il caffè post pranzo domenicale ve lo offre Flying_lotus95 😁
Perdonate l'assenza, ma entrambe abbiamo avuto il nostro bel da fare, ma state tranquilli che la storia non verrà abbandonata, non ne abbiamo nessuna intenzione. Resistiamo un po' per noi, che a questa storia abbiamo regalato un pezzo di cuore e un po' per i pochi lettori che hanno trovato in essa una ventata d'aria fresca 💘
Ecco, questo capitolo è abbastanza impegnativo, è decisamente l'inizio della fine dei momenti allegri... da adesso in poi le cose si faranno sempre più serie.
Ringrazio voi tutti per la pazienza di aver aspettato l'aggiornamento, e spero che questo capitolo abbia aumentato in voi la voglia di continuare questo cammino.
Godetevi la lettura, e arrivederci alla prossima! 😘
Flying_Lotus95 & effe_95

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Capitolo 27
*** 26- Love is a losing game ***


26. Love is a losing game.

 
 
 
Shimizu era sveglia da un pezzo, ma non si era ancora stancata di guardare Koushi.
Non ricordava una singola volta in cui avevano dormito insieme in cui non era stata lei la prima ad aprire gli occhi. Koushi aveva il sonno pesante, profondo, ma Kiyoko aveva pensato fosse un bene, considerate le ore intere che aveva passato ad osservarlo senza che lui sapesse.
Dormiva supino, con un braccio piegato dietro la testa e il viso solitamente rivolto nella sua direzione; non russava, ma aveva il respiro pesante.
Spesso la coperta gli scivolava fin sotto l’ombelico, sopra il pube, come in quell’occasione, e Kiyoko si ritrovava a sistemargliela addosso in modo che non prendesse freddo alla pancia e allo stomaco scoperti.
Qualche volta invece gli sistemava le ciocche di capelli sulla fronte, accarezzandolo.
O altre ancora aveva amato disegnare il profilo del suo viso con l’indice, sfiorandolo appena, a partire dalla fronte con le sopracciglia folte, al neo sotto l’occhio sinistro.
Koushi aveva il corpo caldo e, in particolare nelle notti di inverno come quelle, Kiyoko amava raggomitolarsi accanto a lui.
Avevano fatto l’amore nel futon quella sera, era stato diverso da tutte le altre volte.
Era stato intenso, intimo e travolgente.
Shimizu aveva ancora un ricordo vivido della loro prima volta, l’esitazione, il timore di sbagliare qualcosa, l’incertezza, ma anche l’eccitazione del proibito.
Era successo al secondo anno, durante un ritiro, era in corso una bufera di neve, la corrente era saltata nel fatiscente ostello economico in cui pernottavano. Kiyoko aveva paura di starsene da sola in quella stanza che le avevano assegnato, anche se non l’aveva detto.
Koushi era sgattaiolato da lei di nascosto, nel buio totale, facendosi male contro lo spigolo di qualche mobile durante il percorso; era stato naturale ritrovarsi in quel futon, nudi.
Kiyoko non era mai stata brava a mostrare le emozioni che provava, quelle forti non sapeva nemmeno gestirle; il giorno successivo a quell’episodio l’unica sensazione classificabile per lei era stato il tremendo bruciore tra le gambe, come prova tangibile di quanto accaduto.
Non ne aveva parlato con Koushi ovviamente, era una cosa normale, ma quella sua totale mancanza di qualsiasi reazione aveva fatto preoccupare a morte il poveretto.
Shimizu ricordava di come lui si fosse rifiutato di toccarla per settimane intere, convinto di averle fatto del male. Quando lei era semplicemente troppo felice per trovare le parole.
Chiarire non era stato facile, ma da quel momento Kiyoko si era ripromessa che con lui non avrebbe mai più nascosto nessuna delle sue emozioni, né quelle belle né quelle brutte.
Si era innamorata di lui lentamente, ogni giorno continuava ancora a farlo.
Per quella ragione aveva sentito lo stabile terreno sotto i suoi piedi vacillare all’improvviso quando Koushi le aveva parlato di quella borsa di studio in Brasile.
Shimizu non aveva avuto paura di un possibile tradimento o di un possibile allontanamento, Shimizu aveva avuto paura di sé stessa, e di quello che avrebbe potuto diventare senza quel porto sicuro nella sua vita che era Koushi.
Temeva di non essere più in grado di amare nessun altro oltre lui, ormai.
Avrebbe voluto spiegargli che non era scappata da lui quelle settimane, ma da quella verità che aveva a che fare con sé stessa e che davvero non riusciva ad accettare.
Le era bastata la sofferenza di Maria a farla venire a patti con sé stessa definitivamente.
Maria, che aveva accettato la partenza di Asahi a cuore aperto e senza ripensamenti, a differenza sua. Maria, quell’amica testarda che non la stava mai a sentire, orgogliosa, superba.
Maria, che avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa anche se non voleva farlo.
Shimizu aveva compreso di essere fortunata, invece.
Non doveva lasciare Koushi, non era obbligata a farlo, non doveva pensare di rovinare il suo futuro con una gravidanza indesiderata, non doveva fare nulla di tutto quello.
Era fortunata e avrebbe rovinato tutto con le sue stesse mani se non si fosse fermata.
Non sarebbero stati anni facili quelli che li aspettavano, ma da quella notte Shimizu aveva cominciato ad aspettarli con maggior speranza, per affrontarli a testa alta.
Con coraggio.
Quando riabbassò nuovamente lo sguardo su Koushi, dopo essere stata sovrastata da tutti quei pensieri, lui la stava osservando con un’espressione ancora assonnata, ma rilassata.
Shimizu non sussultò, ma non si era resa conto di averlo svegliato.
Non provava la minima vergogna di essersi fatta scoprire a contemplarlo.
Le bastava pensare che quella sarebbe stata una delle ultime volte in cui avrebbe visto quegli occhi fissarla in quel modo, con amore, per mettere da parte qualsiasi esitazione.
Ci sarebbero state altre notti, altre carezze, altre stelle, certo, ma erano lontane.
Koushi sollevò pigramente una mano e le accarezzò il viso con il pollice ruvido di calli.
L’aveva amata con un tale trasporto da avere avuto paura di spezzarla tre le sue braccia.
Kiyoko si lasciò accarezzare da quei palmi bollenti, familiari, ruvidi.
Occhi negli occhi.
Se non avesse saputo che avevano scuola quella mattina, che i suoi genitori sarebbero rientrati in tarda mattinata, Shimizu non avrebbe esitato a lasciarsi amare nuovamente.
Avevano tutto il tempo del mondo davanti, eppure le sembrava così poco in quel momento.
Il futuro era incerto e oscuro, una massa nebulosa contro cui non sapeva come lottare.
«Kiyoko» Koushi aveva la voce roca, trasfigurata, la chiamava per nome solamente in quelle occasioni, nei loro momenti di intimità, quando le loro anime si toccavano.
Quella mano ruvida continuava ad accarezzarle il volto con venerazione.
Si erano detti tante cose quella notte senza parlare, ne avrebbero dette altre nei giorni a seguire.
In quel momento però, Koushi sentiva la necessità di fare solamente una cosa.
Cancellare con un colpo di mano quel futuro nebuloso.
«Kiyoko» la chiamò nuovamente, con maggior dolcezza, la voce nuovamente simile a quella abituale «Tre anni, saranno tre minuti, te lo prometto». Il pollice si fermò, ma la mano rimase ferma, calda e rassicurante, solo il palmo sufficientemente grande da ricoprirla.
«Perciò, quando torno dal Brasile, sposiamoci. Voglio sposarti».
Anche in quell’occasione Shimizu non sussultò, ma sentiva il sangue nelle vene ribollire.
Appoggiò la propria mano su quella di Koushi e la scostò dal suo viso con delicatezza.
Si mise seduta, rannicchiando le ginocchia al petto sotto il piumino caldo del futon.
Fissò un punto qualsiasi di fronte a sé di quella stanza non familiare alle prime luci dell’alba.
«Non dire sciocchezze» Mormorò con voce flebile «Siamo solo dei bambini».
Non voleva essere davvero razionale in quel momento, ma doveva.
Era una promessa davvero troppo grossa quella che si stavano facendo.
Se avesse accettato … se avesse accettato e poi …
Koushi si mise a sedere a sua volta, Kiyoko se ne rese conto non perché lo guardò, ma perché sentì il piumino sulle sue gambe tirare verso sinistra, dove si trovava il ragazzo.
Se avesse guardato meglio si sarebbe resa conto che Koushi era nuovamente a petto nudo nella stanza fredda, avrebbe notato i capelli scombinati dietro la nuca e gli occhi stanchi.
Shimizu voleva quella sicurezza, quelle promesse, ma ne aveva anche paura.
«Non scappare di nuovo da me» c’era supplica nel tono di voce di Koushi.
«Puoi anche dirmi di no, non creare promesse, ma per me non cambierà le cose, Kiyoko. Tu sei la donna della mia vita e l’ho deciso da tempo. Quindi è con te, ma se non è con te, allora non è con nessuno».
Shimizu non rispose, seppellì piuttosto la bocca tra le braccia e le ginocchia, rannicchiata.
Calde lacrime silenziose le bagnavano le guance, coperte dai capelli.
Koushi le accarezzò la testa, nonostante la voce ferma gli tremavano le dita.
Doveva aver paura anche lui di un rifiuto, della distanza, della diversità.
Doveva aver paura, si, e le stava domandando sicurezza e fiducia e forza e coraggio.
Kiyoko annuì solamente, un movimento impercettibile alla vista, ma percettibile al tocco della mano che ancora le accarezzava i capelli con dolcezza e affetto.
«Va bene Koushi» Sussurrò in fine «Ti sposerò».
Furono boccioli di speranza quelli che esplosero in quegli occhi magnetici come l’ambra, due gioielli nel buio della stanza, incastonati nel viso di un angelo.
Koushi si protese in avanti verso di lei, le loro labbra si sfiorarono.
Sapevano di sale, speranza e promesse.
 
 
 
Yui era ancora frastornata all’uscita da scuola, ferma fuori i cancelli ad aspettare.
Nella testa stava ancora litigando con sé stessa, avrebbe dovuto andarsene e non stare lì ferma ad aspettarlo; ma non era riuscita a dire di no a quegli occhi risoluti e penetranti ...
Era successo all’improvviso, durante la pausa pranzo.
Yui aveva lasciato l’aula per andare a prendere qualcosa da mangiare in mensa, era stata una questione di pochi minuti, una fila modesta e scorrevole.
Aveva lasciato la sua compagna di banco e cara amica, Mao, a giocare distrattamente con il cellulare ... non riusciva dunque a spiegarsi come fosse possibile che, nel giro di pochi minuti, la scena si fosse evoluta in quel modo.
Mao teneva Daichi per il bavero della giacca nera della divisa, scuotendolo furiosamente.
Yui doveva ammettere che il suo primo pensiero non era stato quello di fermare quella situazione assurda, il suo pensiero era andato a Daichi, e al motivo per cui si trovasse lì.
Il cuore le aveva fatto un balzo nel petto senza che potesse controllarlo, era passato troppo tempo dall’ultima volta che erano stati vicini in quel modo, nella stessa stanza, viso a viso.
Yui non ricordava nemmeno quando fosse stata esattamente l’ultima volta.
«Che cosa vuoi nella nostra classe eh?!» stava gridando l’amica scuotendolo inutilmente.
Daichi non era alto, ma aveva una stazza imponente, Mao non riusciva davvero a smuoverlo.
La ragione di quel comportamento avverso era colpa di Yui e lei lo sapeva bene, se avesse spiegato a Mao, con cui aveva frequentato le medie, come erano andate davvero le cose quando si era verificato quel tremendo incidente, lei non avrebbe mai reagito in quel modo.
Yui aveva fatto un passo avanti per intervenire, ma non era servito.
Daichi si era liberato velocemente della ragazza, con un colpo diretto le aveva scostato le braccia e si era fermato davanti a Yui, sovrastandola totalmente con la sua mole.
Il suo odore l’aveva immediatamente investita, frastornandola, era vicino.
«All’uscita della scuola, al cancello. Dobbiamo parlare, non ammetto un “no”» le aveva detto risoluto, e non aveva nemmeno aspettato una risposta.
Yui si era ritrovata da sola in un secondo, con una Mao urlante nelle orecchie, frastornata e senza fiato come se avesse corso una maratona infinita.
Ci aveva pensato durante le lezioni restanti, durante gli allenamenti; aveva pensato di non aspettarlo, di andarsene via prima, di non fare nulla di quello che lui le aveva detto di fare.
Non si frequentavano apertamente fuori da scuola, non lo facevano.
L’ultima volta era stato mesi e mesi prima, quando Maria le aveva accidentalmente rovesciato addosso due bicchieri di frappè, ed era stato solamente per faccende riguardanti i club.
Yui era stata fortemente tentata dall’idea di non incontrarlo. 
Ma alla fine si era ritrovava fuori al cancello ad aspettarlo, e avrebbe mentito a sé stessa se avesse detto di averlo fatto solamente per mettere definitivamente fine a quella storia.
Si sentiva elettrizzata come se fosse ad un primo appuntamento, ed era sbagliato.
Yui guardò l’orologio da polso e aggrottò le sopracciglia, Daichi era in ritardo.
Non fece nemmeno in tempo a formulare quel pensiero e abbassare il braccio, che si sentì afferrare improvvisamente il polso e trascinare con impeto verso l’uscita, lungo la strada alberata che in primavera si riempiva di petali di ciliegio.
Daichi non le aveva dato nemmeno il tempo di prendere fiato, di capacitarsi.
«Sawamura!» L’aveva richiamato Yui, ma inutilmente «Sawamura-kun!» aveva riprovato con l’affanno, il tono di voce spezzato «Daichi!» aveva sbottato infine.
L’unico effetto che era riuscita ad ottenere, tuttavia, era stato che lui la guardasse.
Non aveva interrotto la camminata frenetica, né le aveva lasciato andare il polso.
Daichi aveva una strana espressione, arrabbiata, ribelle, allegra … Yui non sapeva dirlo.
E la spaventava non sapere o capire che cosa stesse pensando.
Nonostante fosse passato da un pezzo il tempo in cui poteva vantarsi di averne il diritto.
«Dove mi stai portando? Devi lasciarmi andare, lo sai che -»
«Usciamo» Fu la replica immediata del ragazzo, che si voltò nuovamente, ignorandola.
Yui rimase in silenzio, incredula, con la testa che le girava a lasciarsi trascinare.
Era sorpresa dalla varietà di significati che poteva avere quella parola.
Nella testa le passarono in mente tutti i motivi per cui avrebbe dovuto strattonare quel braccio e inveire con forza contro Daichi: Hayato, la gente che parlava, suo padre, Takahiro, il passato e la sua decisione di parlare con lui per farla finita una volta per tutte ...
Yui li mise tutti da parte, e pensò erroneamente che andasse bene.
Pensò che solamente per un pomeriggio, solamente per qualche ora potesse andare bene.
Non era molto, non stava chiedendo molto …
Qualche ora, una volta soltanto, non avrebbe fatto male a nessuno.
Si sarebbe resa conto di quanto si era sbagliata alla fine di quella serata. 
Fu per quel motivo che si lasciò trascinare ovunque Daichi volesse portarla.
Partirà per il Brasile, forse non lo rivedrai più. Forse vuole dirti addio, forse vuole dirtelo.
Quel pensiero era costante nella sua mente, un chiodo fisso che le suggeriva di potersi lasciare andare anche solo per un secondo, anche solo per un minuto, un’ora, un pomeriggio …
Prima che se ne rendesse conto stava intrecciando la sua mano a quella di Daichi, era calda.
Come quando erano bambini.
Come quando tornavano insieme dai rispettivi allenamenti, raccontandosi le loro giornate.
Lei saltellava, contenta, lui la imitava dopo qualche tempo, contagiato … erano felici. 
Lui la condusse al cinema, ma non ad un cinema comune.
Era uno di quei posti in cui si mandavano in produzione solamente re-watch di vecchi film. L’entrata era nascosta, un sottoscala tra due palazzi che sarebbe passato inosservato per chiunque, dato che nessun cartello ne annunciava la presenza.
Yui si domandò come facesse Daichi a conoscere quel posto.
Le pareti di mattoni a destra e sinistra erano tappezzate di volantini originali di film d’epoca.
Vicino l’entrata c’era il cartello a due piedi che annunciava il film riproposto del giorno.
Daichi andò ad acquistare i biglietti, scambiando parole amichevoli con l’anziano signore seduto dietro il botteghino, talmente vecchio da avere il volto totalmente ricoperto di rughe.
Yui osservò il titolo del film in produzione aggrottando le sopracciglia: Norwegian Wood.
Le bastò leggere la scritta: ”Tratto dal grande successo del maestro Murakami”, per comprendere il desiderio ardente di Daichi di trovarsi lì, in quel luogo.
Non conosceva quel capolavoro, non l’aveva mai letto.
«Possiamo entrare» la richiamò Daichi, sventolando i biglietti appena acquistati.
Lo sguardo di Yui indugiò ancora un po’ sul cartello arrugginito, poi guardò il ragazzo, che la aspettava tenendo sollevata la tenda rossa che faceva da separé all’entrata.
Daichi sembrava euforico, ma aveva ancora quell’espressione incomprensibile per lei.
Era come se stesse aspettando qualcosa, come se si aspettasse qualcosa da lei.
Una confessione, qualche verità.
Yui lo seguì l’istante successivo.
«Come conosci questo posto?» Gli domandò mentre entravano.
L’ambiente era minuscolo, esattamente come se l’era aspettato; in realtà, si rese conto Yui, si trovavano dentro una stanza quadrata singola, nel quale erano state sistemate quattro file di sedie scomode a destra e a sinistra. Un vecchio proiettore intralciava la strada e uno schermo macchiato di giallo occupava l’intera parete, nascondendo quello che sembrava un vecchio palco, su cui un tempo probabilmente veniva recitato del rakugo.
Vi era una sola porta d’emergenza, che portava sul retro della strada.
La stanza era vuota, ad eccezione di un signore di mezza età e un’altra coppia di liceali, due amiche probabilmente interessate ai lavori di Murakami.
«Mi ci ha portato mia sorella Reira anni fa» le spiegò Daichi a voce bassa, mentre la conduceva nella fila di mezzo del lato destro, quella da cui la visuale era decisamente migliore «Doveva essere per un re-watch di Via col vento, o del Dottor Zivago, ma non ricordo con precisione … avevo undici anni».
Yui ascoltò in silenzio, colpita da quel dettaglio del passato di Daichi che non conosceva.
Quante cose si era persa di lui in quegli anni in cui si erano frequentati per finta?
Quanto era cambiato? Quanti interessi diversi aveva sviluppato nel frattempo?
Che movenze nuove aveva assunto e quali gesti non faceva più da tempo?
Erano tutte cose che Yui non avrebbe mai saputo, e in quei tre anni lontano da lei Daichi sarebbe cambiato ancora, diventando un adulto che lei non conosceva affatto.
La morsa del Brasile le afferrò immediatamente lo stomaco, Yui strinse forte la stoffa della gonna nel pugno della mano destra mentre se ne stava seduta su quella rigida sedia di legno.
Avrebbe voluto parlare a Daichi del Brasile, ma non sapeva come affrontare l’argomento.
Voleva lasciarlo andare, ma contemporaneamente non voleva sentire che sarebbe partito …
Quei pensieri, quella morsa violenta, vennero bruscamente interrotti dal ronzare rumoroso del proiettore, che aveva cominciato a funzionare, proiettando il film sullo schermo macchiato.
Fu un inizio pacato, lento, ma interessante.
Lo stomaco le si rivoltò inaspettatamente, da qualche parte tra il suicidio di Kizuki e il momento in cui Tooru e Naoko si ritrovano a fare l’amore in quel modo disperato, innaturale.
Yui fu improvvisamente e dolorosamente conscia della presenza di Daichi al suo fianco.
Lo sentiva, sentiva che le sarebbe bastato allungare il mignolo della mano destra per sfiorargli la gamba, sentiva che nel modo che avevano Tooru e Naoko di amarsi avrebbe rivisto sé stessa.
Yui non provò mai più nella vita una tale vergogna per sé stessa.
Infilò entrambe le mani tra le cosce, chiudendole strette, combattendo convulsamente con la violenza fisica che la presenza di Daichi al suo fianco le provocava e la crudezza della scena che si stava consumando davanti ai suoi occhi.
Una scena che le sembrava familiare … le sudavano i palmi delle mani.
Ogni schiocco, ogni gemito, ogni respiro o lamento le risuonavano alle orecchie come se il suo stesso corpo fosse diventato corde di violino pizzicate, uno strumento.
Non si era mai sentita in quel modo.
Toccami, toccami, toccami sembrava stesse gridando al ragazzo al suo fianco.
Yui si mosse irrequieta sulla sedia, non guardò Daichi, ma se l’avesse fatto l’avrebbe trovato a ricambiare quello sguardo, e forse non avrebbe avuto il coraggio di lasciar perdere.
Il film andò avanti, lasciandola infiammata, confusa. Arrivò Midori nella vita confusionaria di Tooru, con i tumulti Universitari; e un altro incontro con Naoko e quel tentativo fallito …
Yui cominciò a provare malessere.
Tooru che la baciava dappertutto e lei che non riusciva a provare nulla, il corpo non collaborava … faceva male probabilmente, doveva fare male.
Doveva fare male anche il senso di colpa di Tooru nei confronti di Kizuki, quell’amico che si era tolto la vita troppo presto, i sentimenti verso Naoko, con cui aveva fatto l’amore senza rimpianti …
Le mancò il respiro ad un certo punto, si strinse la mano attorno alla camicia all’altezza del cuore, lo fece spasmodicamente, fu tentata di aggrapparsi al braccio di Daichi.
Non ce la faceva a continuare, voleva uscire da quella sala.
Ma poi la scena terminò, così come era cominciata.
E poi ci fu quella della neve, quella della neve con Midori.
Lei non è innamorata di te? ” Domandava lei, un cappello azzurro sulla testa, la neve dietro.
Era tutto bianco.
É difficile dirlo. É davvero complicato ” Le rispondeva lui, una sciarpa chiara attorno al collo.
Altre parole, sulla responsabilità, sul fatto di non poter abbandonare Naoko e poi …
Va bene. Aspetterò, perché mi fido di te ” Le parole di Midori.
Yui si rese conto che avrebbe voluto essere lei a pronunciarle.
Ma quando mi prenderai con te, dovrai prendere solo me. Quando mi abbraccerai, dovrai pensare solo a me, capisci? ”.
“ Molto bene ”.
“ E … puoi fare quello che vuoi di me, ma non ferirmi. Sono già stata ferita abbastanza nella vita, non voglio soffrire ancora. Voglio essere felice ”.
Il film andò avanti e finì, ma Yui rimase ferma a quella frase, a quella scena.
Nella minuscola sala da teatro si percepiva il ronzio del vecchio proiettore, i singhiozzi di una delle due amiche venute a vedere il film, si sentiva l’odore del sigaro che l’uomo di mezza età aveva acceso verso il finale e la musica che accompagnava lo scorrere dei titoli di coda sbiaditi dalla luce accesa.
Yui si riscosse quando Daichi le appoggiò una mano sulla spalla.
Si era alzato, stava stiracchiando le braccia, anche lui doveva avere le spalle rigide a causa della scomoda sedia di legno su cui erano stati seduti all’incirca due ore o forse anche più.
Sembrava rilassato, contento, mentre Yui avrebbe voluto alzarsi e colpirlo in faccia con le stesse mani che le dolevano per aver tenuto stretti i pugni con troppa forza.
L’aveva fatto apposta? Daichi l’aveva davvero fatto apposta?
«Andiamo a mangiare?» domandò lui quando furono all’aperto.
Era sera, nevicava e i fiocchi attecchivano.
Yui si strinse nelle spalle, tremava, ma non solo per il freddo.
«Voglio tornare a casa» disse risoluta, mentre lo superava per salire gli scalini.
Daichi la affiancò immediatamente, incurante delle sue parole ancora una volta.
«Ma io ho fame, perciò mangiamo» non la trascinò quella volta, si vide bene dal toccarla ma, come se lei non avesse nemmeno aperto bocca, entrò nel primo ristorante disponibile.
Yui avrebbe potuto andarsene ma, anche se era arrabbiata, non si sentiva pronta a dire addio in quel modo, in realtà, avrebbe voluto che il tempo si fermasse quella sera.
Avrebbe voluto catturare un’immagine per l’eternità, una qualsiasi.
Era un ristorante fatiscente, minuscolo, avrebbe potuto definirlo squallido.
Ma a Yui sembrò un posto intimo, meraviglioso, solamente perché Daichi occupava tutta la prospettiva del suo sguardo, del suo mondo.
Il ristorante era un corridoio lungo, ma largo al massimo due, tre metri.
Sulla sinistra vi erano i tavoli a due, ammassati in linea sulla parete, a destra invece il bancone, la porta che conduceva alla cucina e una scala che portava a degli appartamenti.
Le pareti bianche, tappezzate di mattonelle dello stesso colore, rendevano l’ambiente asettico, nessuno era seduto a quei tavoli, solamente Daichi, che l’aspettava.
Yui indugiò fuori dalla porta di vetro solo alcuni secondi, lui dava colore a tutto.
La divisa nera, la sciarpa rossa, il colletto bianco della camicia, i capelli scuri …
A distanza di anni, nella memoria non avrebbe avuto altro che quell’immagine, tra i mille ricordi che avrebbero potuto affollare la sua mente quello sarebbe stato il primo: Daichi seduto a quel tavolo, in un ristorante che ricordava la sala d’attesa di un ospedale con quelle luci al neon sul soffitto e le piastrelle bianche, con il menù aperto davanti al viso, ma che guardava lei, evidentemente arrabbiato, sebbene le sorridesse.
Yui gli si mise seduta davanti, arrabbiata a sua volta.
«Prendiamo il sushi?» le domandò Daichi, come se nemmeno la vedesse quella rabbia.
Un cameriere, che non era nient’altro che il cuoco stesso, si avvicinò per sistemare una bottiglia d’acqua al centro del tavolo, Daichi l’aveva richiesta prima che lei entrasse.
«Il sushi non mi va» lo sfidò lei, capricciosa.
Yui non poteva fare a meno di provare un pizzico di divertimento nel comportarsi in quel modo, era passato troppo tempo dall’ultima volta che avevano bisticciato, troppo tempo dall’ultima volta che avevano mostrato dei sentimenti anche solo lontanamente così sinceri.
Daichi ricambiò il suo sguardo per un istante, con quel sorriso sereno, prima di ordinare un’intera portata di sushi di vario genere, l’offerta del giorno.
Ma Daichi non era mai stato tanto capriccioso quando erano bambini, stava vincendo lui a quel gioco di rabbia repressa che avevano intrapreso forse volutamente.
«Ti è piaciuto il film?» Le domandò all’improvviso lui, cambiando argomento.
O forse no, forse voleva ancora provocarla, toccarla sui nervi scoperti, continuando quel gioco che, inaspettatamente, aveva scoperto di saper condurre piuttosto bene.
«L’ho trovato pesante» Fu il suo unico commento, abbassando lo sguardo mentre si impegnava a separare le bacchette, giusto per non doverlo guardare negli occhi.
Altrimenti Daichi si sarebbe reso conto che stava mentendo, l’avrebbe fatto no?
O anche lei aveva sviluppato pensieri e modi di fare che lui non riconosceva?
O anche lei di lì a tre anni sarebbe cambiata tanto da diventare per lui irriconoscibile?
Il solo pensarlo le dava la nausea.
«La recitazione era sublime» La rimbeccò Daichi, quasi immediatamente.
Arrivò il sushi, ne era una quantità industriale, avrebbero pagato per lasciarlo nel piatto.
Yui si servì per prima, in modo tale da riempirsi la bocca per non dover rispondere.
«Kiko Mizuhara ha reso Midori reale» Daichi non si lasciò scoraggiare dal suo ingozzarsi improvviso per non dover parlare con lui «Midori è sincera con i suoi sentimenti, non credi anche tu? Tutti dovremmo avere il suo coraggio» Le stava dicendo che avrebbe potuto parlare anche da solo per tutto il tempo, d’altronde, aveva ordinato quel sushi ma non lo stava mangiando, non ne aveva toccato nemmeno un pezzo. Le bacchette erano ancora attaccate.
Yui sentì un cattivo sapore in bocca, mandò giù il boccone con un sorso d’acqua, appoggiò le bacchette nel piatto.
«Rinko Kikuchi ha reso Naoko reale!» Ribatté «Naoko non ha sbagliato. E scegliere non era un’opzione per lei, non credi anche tu?» Lo scimmiottò, ma non con ilarità.
Io e te non abbiamo avuto il tempo di scegliere, Daichi. Di sceglierci.
Daichi lasciò andare la morsa, l’aveva portata a vedere quel film perché voleva scuoterla, voleva che lei capisse che cosa non era in grado di dirle a parole, ci era riuscito.
Yui si pentì di aver replicato in quel modo, riportando a galla schegge di vetro sepolte.
«Qual è il senso?» Domandò allora con voce leggermente più gentile.
Daichi prese il primo roll di sushi tra le bacchette, non lo infilò in bocca, gli diede un piccolo morso e lo appoggiò sul piatto, giocando con la foglia d’alga nera, la trovava amara.
Yui gli stava chiedendo il senso del film, il senso del libro, o il senso di qualcos’altro?
«Che la morte non è l’antitesi della vita, ma solamente una sua parte intrinseca».
Fu una replica monotona, come se fosse stata ripetuta numerose volte «O almeno, questo è quello che ho capito io» Concluse alla fine Daichi, sospirando.
Fuori dal vetro la neve continuava a cadere, i fiocchi scomparivano a contatto con la luce dei lampioni, il cielo era nero come la pece e non vi si scorgeva una sola stella quella sera.
Era una notte che entrambi avrebbero ricordato per sempre.
Con il tempo, Yui avrebbe dimenticato i dettagli, avrebbe dimenticato che Daichi indossava una sciarpa rossa, avrebbe dimenticato il colore cianotico delle sue mani infreddolite, la linea delle vene violacee sul dorso, l’odore di cucinato, il roll di sushi mangiucchiato a metà e la posizione degli oggetti sul tavolo, ma le parole che si erano detti non le avrebbe dimenticate.
Anche quel ricordo non sarebbe stato l’antitesi del loro rapporto, ma solo una parte intrinseca di esso.
«La finiamo qui, Daichi?».
Non aveva usato il suo nome a caso, e non aveva pronunciato quelle parole nel momento sbagliato. Yui voleva ricordarlo in quel modo, voleva finirla lì, nel migliore dei modi.
Non le importava nemmeno più sapere se sarebbe partito o meno …
No, tutto sommato era meglio che partisse, doveva farlo per il suo futuro.
Non aveva messo in conto che Daichi potesse pensarla diversamente.
«Tre minuti, Yui. Ti do tre minuti. Se in tre minuti non mi dici che mi am-».
Si alzò di scatto, di botto, senza dargli il tempo di pronunciare la vocale di quell’unica parola che avrebbe rovinato tutto. Yui era furente, lo guardava ferita, con gli occhi infiammati.
Strinse forte i pugni lungo i fianchi, si morse il labbro inferiore, fremette, poi si calmò.
Afferrò di fretta la cartella, arrotolò la sciarpa e uscì dal locale, nell’aria gelida.
Daichi lasciò un mucchio di banconote sul tavolo e le fu immediatamente dietro.
Yui non aveva davvero sperato che lasciasse perdere, ma non ce la faceva.
Ad oltrepassare quella linea non ci sarebbe stato ritorno, e Hayato le era improvvisamente tornato in mente, investendola con una secchiata di sensi di colpa ghiacciati e soffocanti.
«Yui, non devi scappare!» le gridò immediatamente dietro Daichi, aveva l’affanno.
Lei continuò a camminare imperterrita, diretta verso casa nell’aria gelida di fine Novembre.
Avresti dovuto lasciarmi dire addio senza aggiungere altro, Daichi!
Avrebbe voluto gridargli contro, prendendolo a pugni sul petto.
«Non dobbiamo scappare! Siamo degli adulti ormai, non – Oh, mi scusi!».
Daichi aveva l’affanno ma continuava a parlare, sbatteva contro i pedoni e si scusava, ogni tanto si interrompeva per scansare qualcuno, facendo contemporaneamente attenzione a stare dietro di lei per non perderla di vista.
E Yui continuava a sperare che non lo facesse.
Continuava a sperare che sarebbero rimasti divisi da un semaforo rosso, due metri di strisce bianche tra loro. Continuava a sperare di potersi finalmente fermare, di poterlo guardare un’ultima volta, sotto la neve che scendeva, la luce rossa e quella gialla dei fari delle macchine, tra il traffico e il gelo e dirgli addio senza aggiungere parole o verità taciute.
Non fu accontentata, il semaforo rimase verde e Daichi continuò a seguirla.
La città venne presto sostituita dalla familiarità del quartiere in cui vivevano entrambi.
Fu solamente quando Yui raggiunse casa sua, e fu costretta a fermarsi per infilare le chiavi nel cancello pedonale, che Daichi si fermò a sua volta, ma solamente per afferrarle il polso ed impedirle di compiere quel gesto. Yui guardò impotente le chiavi che tintinnavano per terra.
Il petto di entrambi si alzava ed abbassava frenetico, faceva male per l’aria fredda che avevano ingerito nella corsa.
«Daichi ti prego … non possiamo» Rassegnazione «Non posso».
Due parole che Yui mormorò, era stanca e non aveva nemmeno provato a liberarsi il polso dalla sua stretta, si guardavano per la prima volta davvero negli occhi ed erano vicini come forse non lo erano mai stati davvero. Daichi le strattonò il polso, avvicinandola a sé.
Yui trattenne automaticamente il respiro, i muscoli del braccio tesi nello sforzo.
«Non puoi perché te la fai con Hayato alle mie spalle?!».
Daichi esplose, lasciando andare finalmente quella strana rabbia silenziosa che aveva fatto da compagna alla loro uscita, e Yui comprese finalmente, la confessione che lui aveva aspettato tutta la sera e che non era mai arrivata.
Strattonò violentemente il braccio, provava vergogna ora che era consapevole che lui sapesse.
Daichi non mollò la presa e le fece male, in ben più di un senso.
«E tu che cosa vuoi da me, quando devi andartene in Brasile per tre anni?!» sbottò furiosa, aveva smesso di cercare di liberarsi, si era avvicinata ancora di più a lui.
Avevano l’affanno, i petti che quasi si toccavano con quei cuori galoppanti di rabbia e adrenalina, tanto valeva vomitarsi tutto addosso ad un passo dalla fine o dalla salvezza.
Daichi non mostrò alcun segno di turbamento a quella confessione sputata in faccia.
«Si, esatto, io me ne parto per il Brasile! Non abbiamo più tempo per fingere».
Non sembrava voler cedere di un solo passo.
Daichi si stava giocando tutto con lei quella sera, era l’ultima mano per lui.
O vinceva o perdeva, ma finiva lì, qualsiasi cosa fosse.
A Yui toccava solamente il compito di imbrogliare le carte.
«Basta menzogne, basta imposizioni, basta bugie, non mi è rimasto il tempo per questo!»
Daichi la scosse ancora, e no, Yui non lo riconosceva.
Non conosceva quella determinazione, ma solo un bambino piagnucolone.
Avrebbe venduto il cuore per conoscere invece l’uomo.
«Daichi, smettila! Non ho -».
«Quindi va bene fare la puttana con tutti finché non sono io?».
Yui aveva i capelli corti scombinati sulla fronte dalla violenza con cui Daichi l’aveva scossa, sollevò il mento e puntò lo sguardo fisso in quello di lui.
«Si, io sono così Daichi» Gli disse e non scostò lo sguardo «E non capisco come tu possa pensare che io sia davvero ancora la bambina di un tempo».
Aveva gli occhi lucidi, ma non una lacrima era caduta, le belle labbra a forma di cuore si incrinarono in un sorriso spezzato e ironico, che sapeva di amarezza come la risata che seguì.
«Quella bambina è morta con quel bambino ... quel giorno infame ...».
Smise di lottare e lasciò che Daichi, quel bambino che ora era cresciuto, la sorreggesse per le spalle. Lui appoggiò la fronte alla sua, chiuse gli occhi e scosse la testa, pelle contro pelle.
«Quel bambino era uno sciocco».
Rimasero in silenzio per secondi, minuti o ore, non importava.
«Voglio restare con Hayato, Daichi. Lasciami andare».
Daichi fremette e le mani che le avevano tenute ferme le spalle salirono sulla sua gola, per fermarsi sulla mascella, con una tale veemenza da dare l’impressione che volesse plasmarla come creta, come Yui aveva fatto innumerevoli volte con l’immagine di lui.
«Se mi dici che mi ami non me ne vado» le sussurrò, le labbra si sfiorarono «Se ammetti di essere stanca delle bugie, allora non me ne vado».
Sei sleale, Daichi.
Prima che se ne rendessero conto furono avvolti in un bacio senza respiro.
Le labbra si divoravano, i denti mordevano, le lingue lottavano furiosamente.
Daichi la spinse verso un muretto e la aiutò a sedervisi sopra, Yui gli avvolse le braccia attorno alle spalle, fu scossa da un brivido lungo tutta la spina dorsale e le accadde una cosa che non aveva mai provato prima in vita sua, qualcosa che avrebbe dovuto provare come tutte le altre donne, ma che per lei non funzionava.
Una scossa all’altezza del pube, una sensazione di bagnato.
Si rese conto che si sarebbe lasciata prendere su quel muretto senza pudore.
Fu un pensiero talmente sconvolgente che servì a farle riprendere i sensi. Allontanò Daichi con una spinta e lo colpì sulla guancia a pugno chiuso, facendogli parecchio male.
Scese dal muretto e si aggiustò la gonna con mani tremanti, terrorizzata.
«Non ti amo!» Sibilò stringendosi le mani al petto «Anzi, non sopporto la vista della tua faccia perché mi ricorda quel maledetto giorno!» Il veleno le scorreva nelle vene insieme al dolore e alla menzogna.
«Hayato è la salvezza per me!». Ma mentire era facile in quello stato febbrile.
«Non rovinare anche questo, ti prego!».
Yui ripensò alla loro conversazione nel ristorante. Lei non era affatto Midori.
Non aveva un briciolo di coraggio, non era in grado di aspettare.
Non era nemmeno in grado di affrontare quello che sarebbe venuto come Daichi.
Non aveva quella fiducia in sé stessa e quella forza.
«Mi dispiace, io … volevo solo essere gentile con te!».
Stava mentendo, ma non sapeva che cosa dire, che cosa inventare dopo quel bacio.
Avresti davvero dovuto lasciare che ti dicessi addio a quel semaforo, stupido!
Avresti dovuto lasciarmi con un sorriso, allora non mi avresti odiata …
Non voglio che mi odi … non voglio che ti dimentichi di me.
«Vai in Brasile e sparisci dalla mia vita! Non voglio rivederti, mai più!».
L’ultima frase la gridò, ma Daichi non si era mosso da dove si era beccato lo schiaffo.
Aveva il viso ancora voltato verso sinistra, l’ematoma rosso che si allargava sulla guancia squadrata, il petto che si abbassava e alzava frenetico, ma aveva compreso ogni singola parola, ogni singola bugia, e sebbene sapesse di avere a che fare solo con menzogne, lo accettò.
Ma morire sarebbe stato di certo meno doloroso.
Inaspettatamente, fuori contesto e totalmente inaspettato, una macchina si fermò davanti la casa, sul marciapiede accanto al luogo dove si trovavano, ancora immobili.
Era una Mercedes Benz Classe C, uno degli ultimi modelli, lucida e curata.
Daichi e Yui la guardarono, lui aveva le mani davanti agli occhi per la luce accecante dei fari, che venne spenta nel momento in cui la macchina smise di rombare, ormai immobile.
Ne scese un uomo distinto, in suite ed elegante, che si abbottonava la giacca con una mano sola. Daichi non lo incontrava da anni, ed era ironico dovesse farlo nel momento peggiore, quello in cui il suo cuore era totalmente in frantumi su quello stesso asfalto.
«Papà?» mormorò Yui, sperava di non avere un’espressione sconvolta sul viso.
Sperava di aver visto male, sperando invano.
Kijuro aveva un sopracciglio sollevato, evidentemente sorpreso di vederli insieme.
Lui, molto più di Takahiro, aveva sostenuto la campagna del loro allontanamento.
Non sembrava particolarmente arrabbiato, ma a Daichi non piacque il modo in cui si infilò le mani nelle tasche del pantalone elegante e accennò un sorriso storto, beffardo.
«Ma guarda chi abbiamo qui!» esordì avvicinandosi, aveva un intenso profumo di colonia su tutti i vestiti, i capelli tirati indietro erano diventati ribelli dopo un’intera giornata di lavoro. «Sei cresciuto parecchio moccioso!» commentò con voce squillante, tolse una mano dalla tasca e diede dei buffetti sulla guancia di Daichi.
La stessa dove l’impronta delle cinque dita di Yui si stava allargando.
Se se ne accorse, Kijuro non ne diede il minimo sentore.
«É un piacere rivederla, signore» mormorò invece Daichi, facendo un inchino rigido.
Kijuro rise, gli diede qualche altro buffetto, mettendoci decisamente più forza.
«L’ultima volta eri un mocciosetto incapace di fare l’uomo! Vedo che le cose non sono cambiate un granché» la risata dell’uomo si fece un pelino aspra, acida.
Daichi aveva pensato che non potesse far male peggio di così, ma si era sbagliato.
Sapeva esattamente a cosa Kijuro stesse facendo riferimento.
«Papà …» mormorò Yui, sull’orlo delle lacrime.
Kijuro lasciò andare il viso di Daichi solamente dopo avergli dato un altro pizzicotto e avvolse le spalle della figlia con un braccio, come se volesse proteggerla da lui.
«Entriamo dentro, Yui-chan. Saluta Sawamura-kun, coraggio».
No papà, l’ho ferito.
L’ho ferito troppo, fammi raccogliere qualche pezzo … fammi raccogliere qualche pezzo del suo cuore, solo qualche pezzo ...
Yui avrebbe voluto gridare, ma rimase muta, quelle parole strozzate in gola.
Il cancelletto di casa si aprì proprio in quel momento, rivelando la figura avvolta in una vestaglia di seta di Ayaka, scesa perché insospettita dal baccano di voci che aveva sentito.
Alla donna, evidentemente sorpresa, bastò un secondo per mettere a fuoco la scena.
«Daichi-san!» esclamò entusiasta, completamente l’opposto del marito.
Si fece largo tra Yui e Kijuro e raggiunse l’oggetto del suo interesse, prendendolo per un braccio; gli accarezzò la guancia che il marito aveva schiaffeggiato.
«Ciao Ayaka-san» mormorò lui con voce flebile.
«Hai accompagnato la mia Yui a casa?» gli domandò piena di speranza, per poi rivolgere un’occhiata speranzosa alla volta della figlia, ignorando l’alzata al cielo di occhi del marito.
«Dovevamo solo parlare di faccende per scuola, mamma» intervenne prontamente Yui, era ancora bloccata e protetta dal braccio del padre.
Qualsiasi altra cosa avrebbe voluto dire a Daichi ne aveva ormai perso l’opportunità, che si fosse pentita delle parole pronunciate, sarebbe stato troppo tardi ormai.
Quelle sarebbero state le ultime parole che avrebbe detto a Daichi prima che partisse.
Le sembrava di star già perdendo la testa al pensiero.
«Ti fermi a cena, vero? É da così tanto tempo che non -».
«Ayaka-san» la interruppe Daichi evidentemente a disagio, aveva fatto un passetto all’indietro per allontanarsi dalla donna «Ti ringrazio, ma non è il caso». Non provò nemmeno dispiacere alla delusione che vide dipingersi sul viso di Ayaka.
«A casa mi aspettano, e poi sono pieno, ho mangiato troppo a pranzo oggi».
E accompagnò quella bugia ridacchiando, mentre si portava una mano sullo stomaco vuoto.
Yui lo fissò con insistenza, disperata, lui non ricambiò lo sguardo.
«Capisco» mormorò Ayaka, delusa «La prossima volta ti aspetto però».
Non ci saranno prossime volte, mamma.
Daichi sorrise e annuì, sistemò la cartella sulla spalla e sollevò il viso.
Sembrava fiero, come se non fosse stato affatto ferito.
«Beh, sayonara».
E se Kijuro non l’avesse tenuta per le spalle, Yui era certa che l’avrebbe inseguito.
Sayonara, Yui.
Era a lei che aveva detto addio.
 
 
Daichi camminò verso casa con la mente sgombra dai pensieri.
Non provava nulla, era talmente vuoto che non riusciva nemmeno a pensare.
Si era fatto tardi, qualcuno lo aveva chiamato al cellulare, ma aveva dimenticato di rispondere.
Passò davanti un piano bar, niente riusciva ad attirare il suo interesse, ma qualcosa lì lo fece.
Non era una voce morbida, ma graffiante, roca, sebbene fosse una donna a cantare.
Una donna sola su quel palco stipato che lui vedeva da fuori, solo pochi tavoli occupati.
Un lungo vestito rosso, lunghi capelli tinti di biondo e un tatuaggio sul braccio … un fiore?
Memories mar my mind, love is a fate resigned.
Cantava con gli occhi chiusi, seduta solamente a metà su uno sgabello.
Daichi si fermò automaticamente, le macchine sulla strada sfrecciavano, la luce dei lampioni e quella dei semafori fendevano l’aria gelida della notte, il suo respiro formava condensa.
Over futile odds and laughed at by the gods.  
Dal locale si sentiva puzza di fumo e alcool, corpi caldi ammassati.
L’insegna “Broken Rose” era illuminata ad intermittenza sulla lettera “s”.
Daichi alzò il viso al cielo e respirò l’aria gelida di fine Novembre, era stata una dura sconfitta.
Rise, si morse il labbro inferiore, spuntarono le prime lacrime agli angoli degli occhi.
Pensò a come e che cosa avrebbe detto a Reira, che aveva tifato per lui.
Trasse un profondo respiro, l’orologio scattò sulle ventidue.
And now the final frame.
Cantava la voce straziante.
Daichi riprese a camminare, sul viso un sorriso spezzato.
Love is a losing game.
 
 
 
 
Le nausee si erano fatte insopportabili nel corso della settimana.
Maria non aveva mai avuto tanta fame, ma tutto quello che ingeriva finiva nel gabinetto l’istante successivo. Cominciava a domandarsi se il fagiolo nel suo ventre lo facesse apposta.
Se volesse farla morire di fame per dispetto.
Se non mi nutro io non ti nutri nemmeno tu, idiota.
Si era ritrovata a gridargli contro un pomeriggio al colmo dell’esasperazione.
Non era servito a granché, la situazione non era cambiata di una virgola. 
Ma era stata un’ottima scusa per non andare a scuola tutti quei giorni.
In casa aveva finto di avere delle mestruazioni molto violente; a scuola non aveva dato spiegazioni, come non ne aveva date al club o ad Asahi.
In realtà, quella volta non riusciva davvero a trovare un briciolo di coraggio per affrontarlo.
Maria sapeva che farlo avrebbe significato la fine di tutto e non voleva.
Erano arrivati messaggi tutta la settimana che Asahi aveva trascorso in Hokkaido a cui Maria non aveva dato risposta. Erano arrivate telefonate che aveva ignorato bellamente.
Solamente quella mattina, considerato che Asahi non si era arreso nemmeno quando Maria aveva mandato Shimizu affinché gli dicesse una bugia innocente, aveva risposto con un laconico e freddo: “Sto bene. Smettila di assillare Kiyoko-san”.
Era una bugia e non avrebbe rassicurato nessuno, ma Asahi aveva smesso di chiamarla.
Maria pensò che sarebbe stato bello se si fosse arreso in quel modo, senza che lei dovesse dargli spiegazioni; aveva desiderato infantilmente di poter possedere uno di quegli aggeggi magici che usavano i protagonisti degli anime, uno strumento da usare su Asahi affinché si dimenticasse di lei, senza soffrire, senza stare male.
Oppure aveva desiderato che Asahi fosse come una bambola di carta delle leggende giapponesi, che una volta tornata al suo stato originale e rinata a nuova vita non avrebbe portato con sé i ricordi della sua vita precedente, un nuovo cuore con nuovi sentimenti e nessun ricordo del passato.
Era sciocco desiderare quelle cose, ma era sempre meglio della sua realtà.
Sospirò pesantemente e con pesantezza osservò lo schermo illuminato del computer portatile, si era distratta per l’ennesima volta e ora doveva tornare indietro con il cursore.
Non era mai successo che si distraesse guardando una rappresentazione della Traviata.
Ma forse si rese conto troppo tardi di avere scelto semplicemente l’opera sbagliata.
Alfredo e Violetta, un amore sincero compromesso dall’intrusione del padre di lui.
Violetta non poteva amare Alfredo a causa del suo passato vissuto, costretta a rinunciare a lui e morire di dolore nel processo. Era estremo, ma Maria aveva pensato di fare la stessa fine.
Ovviamente non sarebbe morta, ma qualcosa dentro di lei sarebbe cambiato per sempre.
Le venne da sorridere quando si rese conto a che punto della trama si fosse fermata, tornare indietro con il cursore forse non era stata una buona idea, premere play ancora meno.
Violetta discuteva alacremente con Germont, il padre di Alfredo, pregandolo affinché non le imponesse di lasciare il figlio, ma inutilmente.
Maria si ritrovò inevitabilmente a pensare a Kaori e alle parole che aveva pronunciato.
... sarebbe fantastico se Asahi riuscisse a vincere una borsa di studio …
Asahi rinuncerebbe ai suoi sogni in un momento se glielo chiedessi ... ma in quel caso come madre io avrei fallito su tutta la linea …
Kaori non era Germont, ma Maria era sicura avrebbe provato gli stessi sentimenti se avesse saputo. Non avrebbe voluto che suo figlio rinunciasse al suo futuro per mettersi a lavorare, per affaticarsi a portare lo stipendio a casa per crescere un figlio non desiderato, ma capitato.
Maria stessa non lo avrebbe sopportato e loro avrebbero finito con l’odiarsi.
Non voleva, non voleva affatto quel tipo di vita.
Non sapete che colpita d’altro morbo è la mia vita?
Che già presso il fin ne vedo?
Ch’io mi separi da Alfredo?
Ah, il supplizio è sì spietato, che morir preferirò!

Era concentrata nell’ascoltare quelle parole, lasciare che le facessero male al cuore, e ci mise quindi qualche tempo a registrare quell’altro rumore, totalmente inaspettato.
Non era forte, ma un ticchettio leggero, nemmeno ritmato.
Maria si sfilò l’unica cuffia che indossava e guardò la finestra con le sopracciglia aggrottate, in allerta, si era tirata leggermente su, come se fosse pronta a scattare.
Non accadde nulla nei secondi successivi e per alcuni istanti pensò di essersi sbagliata.
Tuk tuk.
Scattò immediatamente a sedere, no, non si era sbagliata affatto, qualcuno stava tirando dei sassolini sul vetro della sua finestra, non erano grossi e quindi facevano poco rumore.
Interruppe la visione della Traviata sulle parole disperate di Violetta e si avvicinò cautamente alla finestra appannata dalla condensa, le braccia strette al petto sotto il seno, il cuore folle.
Come aveva temuto, Asahi se ne stava sotto la sua finestra, infreddolito.
Indossava un giubbotto imbottito pesante, i guanti e una sciarpa, ma aveva ugualmente il naso arrossato mentre lo teneva puntato all’insù verso la sua finestra.
Maria non lo vedeva da due settimane e il suo cuore aveva cominciato immediatamente a fare le bizze nel petto, incredibilmente emozionato.
Calma i bollenti spiriti, non hai nulla da rallegrarti.
Asahi aveva ancora dei sassolini stretti nel pugno della mano sinistra, si accorse immediatamente di lei, forse a causa dello sgargiante pullover giallo canarino che stava indossando. Le fece immediatamente segno di scendere, era evidente che voleva parlare.
Maria si strinse maggiormente nelle spalle, avrebbe voluto nascondersi dietro la tenda e ignorarlo totalmente, far finta che non ci fosse nessuno sotto la finestra di casa sua.
Ovviamente, se avesse fatto una cosa simile, Asahi sarebbe rimasto lì tutta la notte ad aspettarla se necessario. Era una battaglia che doveva perdere a priori.
E poi … non poteva scappare da quella situazione ancora a lungo.
Lei non possedeva alcun tipo di oggetto magico e Asahi non era una bambola di carta.
Era ovvio che pretendesse una spiegazione e lei doveva dargliela, anche mentendo.
Gli avrebbe fatto male, si sarebbe fatta male, ma poi sarebbe passata …
Dicevano tutti che con il tempo anche i dolori maggiori venivano addomesticati.
Fece segno ad Asahi si aspettarla, lui lasciò immediatamente cadere i sassolini a terra e infilò le mani nelle tasche del giubbotto pesante, quel pomeriggio aveva nevicato nuovamente.
Maria scese le scale lentamente, senza fare rumore.
Erano solamente le nove, ma avevano cenato ore prima e si erano tutti ritirati per la notte.
Passò silenziosamente accanto alla cucina, da cui proveniva il ronzio rumoroso della televisione accesa a volume basso, quella dello schermo era l’unica fonte di luce della stanza; nonno Akio se ne stava seduto sulla poltrona che ormai era diventata le sue gambe e dormiva profondamente, russando, la coperta di lana che aveva addosso gli era caduta dalle spalle.
Al suo fianco, nonna Mariko si apprestò immediatamente ad aggiustargliela, distraendosi dalla visione del film che stavano trasmettendo.
Maria sorrise a quella scena di tenerezza, di amore duraturo e fedele.
Infilò il pesante giubbotto, la sciarpa e le scarpe senza fare rumore, come fece attenzione anche quando si richiuse la porta alle spalle. Fu immediatamente investita da un brivido.
La neve era attecchita ancora di più sul terreno aumentando di volume, il vialetto del giardino non era stato ancora spalato da Fujio e Maria fece una certa fatica per non scivolare o affondare in cumuli di neve nascosta dietro ogni angolo.
Lo faceva inconsciamente, con una mano premuta sul ventre protetto e al caldo.
Asahi la aspettava dove l’aveva lasciato, appoggiato con la schiena al bordo di un muretto, le braccia incrociate al petto e le sopracciglia aggrottate in quell’espressione che lo faceva tanto sembrare spaventoso e un poco di buono.
Maria l’aveva conosciuto con quell’espressione e le sembrava ironico che dovesse dirgli addio esattamente nello stesso modo.
Quei mesi erano sembrati il sogno di una vita.
Come ci erano arrivati fino a quel punto?
Come erano arrivati a volersi tanto bene?
Come aveva fatto ad accorgersi di amarlo solamente a quel punto?
Perché non gliel’aveva detto prima? Perché aveva pensato di provare qualcosa per Daichi?
Quel tempo che aveva perso non lo avrebbe riavuto indietro mai più, ed era troppo tardi.
Asahi si staccò immediatamente dal muro non appena la vide avvicinarsi, apprensivo.
Maria, che stava lottando con il desiderio di correre tra le sue braccia, infilò le mani nelle tasche del giubbotto e scostò lo sguardo, fissando un punto qualsiasi con indifferenza.
Era buio, un lampione era rotto, mentre il gemello aveva una luce fioca, intermittente, nel cielo si vedevano solamente poche stelle, ma la neve bianca feriva gli occhi anche nella notte.
«Maria?!» la sovrastò immediatamente lui, afferrandola per le braccia.
Aveva una stretta forte, nulla che lei non si fosse aspettata; aveva le mani calde e lo sentiva anche attraverso tutta la stoffa di vestiti che aveva addosso, erano rassicuranti.
Come se avesse riconosciuto la voce di quello sconosciuto o il suo tocco protettivo, il fagiolo nella sua pancia si agitò e Maria fu colta da una violenta scossa di dolore, una fitta.
Scansò malamente le mani di Asahi dalle sue braccia e fece un passetto indietro, stringendosi ulteriormente le braccia al petto, il dolore cessò immediatamente, ma era stato forte.
Continuava a non guardarlo negli occhi, ma era sicura che se l’avesse fatto avrebbe trovato dipinto su quel viso stupore, delusione e preoccupazione, ma non rabbia, non ancora.
«Maria … ma che cosa è successo?» mormorò lui incredulo, incerto «Sono due settimane che non ti fai sentire … ero preoccupatissimo! Stavo per perdere la testa in Hokkaido. Ho pensato che ti fosse successo qualcosa, se non avessi scritto a Shimizu-san … come puoi uscirtene stamattina con un messaggio come quello e -».
«Ho capito di non poterlo fare Asahi, ecco cosa è successo!».
Maria alzò la voce immediatamente per farlo smettere di parlare, urlò quasi.
Buttò fuori le prime parole che le vennero in mente, ma che aveva preparato numerose volte ripetendole davanti uno specchio, mentre tentava di esercitarsi su come lasciarlo …
Non voleva sentire Asahi con quel tono di voce preoccupato, non voleva sentirlo apprensivo quando sapeva benissimo che la causa dei suoi tormenti era stato il suo silenzio e disinteresse.
Era avvenuto tutto velocemente, mentre lui era lontano e non poteva capirlo.
Era ovvio che Asahi non potesse accettarlo.
«Cosa – cosa intendi? Cos’è che non puoi fare?».
C’era urgenza nella voce di Asahi, un pizzico di impazienza.
Maria fece spallucce e trovò finalmente il coraggio di fissarlo negli occhi senza mostrare nulla, il minimo turbamento, doveva essere risoluta e suonare davvero convincente.
Non era un lavoro difficile per lei, prima di entrare in squadra aveva imparato a mentire bene.
«Sono arrivata ad un punto di non ritorno Asahi» disse, sguardo fisso in quegli occhi gentili che amava con tutta sé stessa «Mi sono resa conto che non mi sei mancato affatto questa settimana che siamo stati lontani» Maria poteva sentire il suo stesso cuore accartocciarsi come se fosse fatto di metallo, le stava venendo la nausea, ma non mollò.
«Ho provato dell’affetto per te, non amore» Asahi continuava a fissarla come se stesse parlando in un’altra lingua, come se non capisse «Per quell’affetto ho capito che non possiamo costringerci a stare insieme. Parti per il Brasile. Non sono l’amore della tua vita» concluse, e come se quella spiegazione fosse stata sufficiente diede le spalle ad Asahi.
Come se avesse potuto semplicemente andarsene in quel modo, mosse un primo passo.
«Stai mentendo, vero? Stai scherzando, no?» sbottò lui incredulo, la voce incrinata, l’aveva afferrata per un polso senza complimenti.
Maria tentò di liberarsi da quella stretta, ma inutilmente, Asahi la girò verso di sé malamente.
Asahi ti prego, no, non rendermi le cose complicate. Tuo figlio mi farà impazzire se fai così.
Maria sentiva le fitte al ventre farsi insistenti, fastidiose, si domandò se non l’avrebbe perso lì, su due piedi, mentre tentava in tutti i modi di ferire a morte suo padre.
Sarebbe stata la giusta punizione.
«É successo qualcosa che non vuoi dirmi, vero? Mentre non c’ero deve essere successo qualcosa che non vuoi dirmi. Non puoi aver cambiato idea in pochi giorni. Eri d’accordo perfino che andassi in Brasile, forse te ne sei pentita? Se è così possiamo parlarne, ma –».
Asahi si interruppe da solo, senza che Maria avesse il bisogno di ferirlo con altre parole.
Fissò lo sguardo nel vuoto per un istante, stava pensando, stava riflettendo su qualcosa.
Era un incubo ricorrente che l’aveva tormentato durante tutti i mesi della loro storia.
Era convinto che Maria non gli stesse dicendo la verità, che nascondesse qualcosa.
Lei non gli aveva mai detto quel ti amo tanto desiderato, ma Asahi quell’amore l’aveva sentito, l’aveva percepito, ed era certo che i sentimenti delle persone non potessero cambiare facilmente… Serviva tempo, cura e pazienza per una cosa del genere.
A meno che … a meno che quei sentimenti non fossero stati presenti dall’inizio.
É successo qualcosa con Daichi e non vuole dirmelo … possibile che …
Asahi venne immediatamente colto dal panico e senza rendersene conto la strinse forte.
«Maria, se è successo qualcosa di cui ti vergogni e non riesci a parlarmene, sappi che io capirò. Se qualcuno ti ha fatto qualcosa … mi conosci, io -».
Non riusciva a fare il nome di Daichi, era evidente, si domandava se Maria avesse compreso.
Lei invece si limitò a zittirlo immediatamente con uno strattone violento, stufa.
«Mi stai facendo male!» sbottò per prima cosa «Nessuno mi ha fatto niente!» dichiarò risoluta, massaggiandosi il polso.
Doveva chiudere quella conversazione o non sarebbe stata in grado di trattenere le lacrime.
Che cosa poteva fare? Che cosa poteva dire per convincerlo a lasciarla andare?
Per farlo partire senza rimpianti e senza guardarsi indietro, senza pensare a lei.
«Avevamo detto che era una prova fin dall’inizio!» strillò, risultando esasperata da tutta quella situazione e dalla stessa insistenza di Asahi «Beh, non ha funzionato!». Era sempre stata brava a perdere il controllo delle parole quando si trattava di ferire.
«Non voglio aspettarti per tre anni. Voglio fare nuove esperienze».
Voglio intraprendere una storia con qualcun’altro, ad Asahi quelle parole suonarono in quel modo e furono come una sorta di conferma velata, una condanna a morte.
Maria aveva l’affanno quando smise di agitarsi e sprizzare veleno.
Era pronta ad affrontare un altro attacco da parte di Asahi, ma a quel punto lui fece qualcosa di inaspettato, qualcosa che le spezzò definitivamente il cuore, lasciandola senza respiro.
Non urlò più, non si agitò oltre, smise perfino di cercare un motivo per il suo cambiamento.
«Avrei dovuto immaginarlo» mormorò invece, arrendendosi.
Maria sgranò gli occhi, nel ventre una fitta violenta da piegarla quasi in due.
«Avrei dovuto saperlo fin dall’inizio che sarebbe andata a finire così».
Si guardarono negli occhi e quella volta toccò ad Asahi non avere alcuna pietà «Avrei dovuto saperlo che mi avresti spezzato il cuore».
Ma Maria non aveva nulla da aggiungere a quella verità.
Nessuna consolazione, non aveva nemmeno il diritto di arrabbiarsi con lui.
Rimase ferma a fissarlo con quell’espressione altezzosa e priva di sentimenti, emozioni.
Asahi mantenne il suo sguardo per altri secondi, sembrava aver trovato già una pace interiore, una realizzazione; Maria faticava a sopportare la delusione che leggeva in quegli occhi.
Ma non meritava l’amore di Asahi, che se ne stava lì davanti a lei ignaro del fatto che aspettasse suo figlio, un figlio che aveva intenzione di uccidere il prima possibile.
Un figlio che stava gridando la sua protesta con tutte le sue forze.
Asahi non meritava una donna simile al suo fianco e poi, Maria non sarebbe stata in grado di sopportare il peso di quella decisione restando accanto a lui, ignaro di tutto.
«Va bene» mormorò infine, infilando le mani nelle tasche del giubbotto.
Le diede immediatamente le spalle, brusco e Maria dovette ferirsi i palmi delle mani per non afferrargli quel cappotto e affondare la faccia nella sua schiena, confessandogli la verità.
A farle forza, era stato il pensiero che con il tempo avrebbe avuto la certezza di aver fatto la cosa giusta a lasciarlo andare, a lasciarlo libero di intraprendere la sua strada, e non incatenato lì con lei in una vita che non l’avrebbe mai soddisfatto, né reso felice.
«Fai nuove esperienze con chiunque tu voglia. Noi abbiamo chiuso».
Asahi se ne andò immediatamente in seguito a quelle parole, con la schiena curva.
Maria sentì il rumore dei suoi scarponi invernali affondare nella neve, fino a sparire.
Rimase da sola sul retro di casa sua, sotto quel lampione intermittente, a congelare.
Mosse un solo passo prima di inginocchiarsi sulla neve, i jeans immediatamente bagnati, ma incurante del gelo che le stava perforando le ossa; era scossa dai singhiozzi, voleva urlare.
Voleva urlare, ma aveva paura che Asahi non fosse ancora abbastanza lontano.
Si ritrovò piegata in due a vomitare sotto il muretto l’istante successivo, non aveva molto nello stomaco, ma sicuramente insieme al poco cibo appena cacciato c’era anche della bile.
Strinse forte la mano attorno alla maglietta, sul ventre, dove le fitte aumentavano.
«Ho capito, mi dispiace …» mormorò piegandosi in due «Mi dispiace …».
E non era sicura di sapere a chi stesse chiedendo scusa.
Avrei solamente voluto che non ti arrendessi così facilmente.
 
 
Asahi aveva aspettato prima di piangere, ma non era stato un pianto vigoroso.
Si era morso il labbro inferiore, e solamente gli angoli degli occhi si erano riempiti di lacrime.
Erano state due settimane infernali quelle che aveva trascorso.
In Hokkaido non era riuscito a godersi appieno il tempo trascorso insieme alla famiglia che non vedeva da mesi, e quando era rientrato Maria si era rinchiusa in casa per una “indisposizione”. Gli era sembrato assurdo, una patetica scusa per non vederlo.
Si sentiva impazzire, non aveva senso che Maria lo evitasse, che cosa poteva mai essere successo in due settimane da farle avere quel genere di comportamento?
Era ovvio che qualcosa dovesse essere accaduto. Qualcosa che non voleva dirgli.
Asahi era finalmente arrivato alla conclusione che aveva temuto dall’inizio.
Maria doveva essersi pentita all’ultimo minuto, la sua partenza per il Brasile doveva averla spaventata, si era davvero resa conto di non amarlo, o forse era successo qualcosa con Daichi.
Non aveva importanza, alla fine di tutto non aveva importanza.
Camminò sotto la neve a passo spedito finché non gli fecero male i polmoni.
Aveva ingerito troppa aria fredda e faceva fatica a respirare.
Non si trovava su una strada affollata, si inginocchiò davanti il retro di un locale, l’orologio segnava le ventidue esatte, dall’interno proveniva della musica soffocata, struggente.
Cantava una donna probabilmente, ma con quella voce roca era difficile dirlo.
Asahi trasse un respiro profondo e si strinse la mano attorno al petto, che male che faceva.
Ma era un male che in cuor suo si era aspettato.
Ho sognato di volare troppo in alto. Icaro si è bruciato le ali.
Sollevò il viso arrossato dallo sforzo di trattenere il pianto verso il cielo nero e nuvoloso, alcuni fiocchi di neve gli offuscarono gli occhi, dalla bocca uscì un nugolo di condensa.
Dall’altra parte del muro, nel locale, la voce malinconica cantava …
Love is a losing game.
… l’ultimo frammento di una storia d’estate finita in inverno.
 
 
 
Daichi ci aveva messo un paio di giorni per fingere che andasse tutto bene.
Immergersi nella preparazione di quell’ultima partita era stato l’unico modo per salvarsi.
Usciva la mattina di casa che i suoi genitori ancora dormivano e tornava la sera tarda, quando ormai avevano cenato tutti da un pezzo, e non voleva dare spiegazioni a nessuno.
Impegnarsi, allenarsi fino a sentirsi male, studiare fino a sentire la testa scoppiare e non passare nemmeno un minuto, nemmeno per errore davanti quella classe lo aiutava a non pensare. Lo aiutava ad andare avanti con quella nuova realtà, con quel nuovo futuro.
Anche quel terzo giorno le cose non erano andate diversamente, si stavano allenando da ore.
Lui era stanco, sudato, stremato, ma voleva continuare, continuare fino a svenire.
Tuttavia, quel giorno c’era qualcuno ancora più nervoso di lui: Asahi.
Sembrava il solito Asahi, ma a Daichi bastarono piccoli dettagli per comprendere che il suo migliore amico non era davvero sé stesso; scattava per delle sciocchezze, era distratto, non riusciva ad entrare in partita e a mala pena si scusava quando una palla schizzava fuori.
Stava sudando anche lui, ma non era lì presente, nonostante lo sforzo fisico.
Daichi aveva come la sensazione che volesse farsi del male, in qualche modo.
Ne ebbe la prova quando, inaspettatamente, Hinata gli finì addosso spingendolo oltre rete.
«E vuoi stare attento?!» gli gridò contro, con un’aggressività che non gli apparteneva.
Lasciò tutti senza parole, compreso il diretto interessato di quella sfuriata, scioccato.
«Oh, calmati Asahi-san!» era immediatamente intervenuto Noya, osservando l’amico con espressione contrariata, gli si era avvicinato anche Suga, offrendogli dell’acqua.
No, Asahi non era sé stesso e Daichi cominciava a domandarsi se non fosse per il Brasile.
Era arrossito immediatamente quando si era reso conto di aver gridato per una sciocchezza, aveva tentato di scusarsi, un tentativo immediatamente abortito da un farfugliare atono.
Si staccò dal gruppo alcuni secondi dopo, andandosi a sedere su una panchina a parte.
Bevve metà bottiglia d’acqua in un sorso, e poi la gettò malamente in un angolo.
A quel gesto, Daichi decise di staccare dal ritmo massacrante a cui si era sottoposto, per mettersi seduto accanto al suo migliore amico, che non stava bene in quel momento ed era evidente. Si domandò se anche Asahi avesse percepito qualcosa di anomalo in lui.
«Che cos’è successo, Asahi? Qualcosa a casa che non va?» domandò immediatamente con fare diretto, mentre si asciugava la fronte con il bordo della maglietta già fradicia di sudore, aveva anche lui una gran sete da placare.
«No, va tutto bene» disse immediatamente Asahi, per poi sfregarsi freneticamente la fronte con entrambi i palmi delle mani «Sono solamente io che non so cosa fare».
E Daichi poteva capirlo, aveva passato i giorni precedenti al rifiuto di Yui a dannarsi.
Ma non aveva ancora detto ai suoi migliori amici di aver consegnato i documenti e i moduli.
Era ovvio che dovesse allontanarsi dal Giappone per staccare finalmente la spina a quella relazione i cui battiti cardiaci erano stati attaccati ad una macchina troppo a lungo.
Una bella metafora per lasciarla morire.
«Ne hai parlato con tua madre, Asahi?».
Asahi chiuse gli occhi e cominciò ad oscillare avanti e indietro, come se tutti quei pensieri e quelle preoccupazioni stessero per fargli scoppiare la testa da un momento all’altro.
«Volevo dirglielo mentre ero in Hokkaido … lo farò sicuramente oggi o domani …».
Daichi non aggiunse altro e rimasero in silenzio per un po’.
Asahi continuava ad oscillare avanti e indietro su quella panchina, come se volesse cullare qualsiasi dolore stesse provando in quel momento per farlo calmare.
Daichi, che aveva convissuto con dolori diversi per parecchio tempo, avrebbe voluto confessare ad Asahi che non serviva a niente, che avrebbe continuato a fare male.
Qualunque cosa fosse avrebbe continuato a fare male.
«Qualche giorno fa sono uscito con Yui» confessò per la prima volta ad alta voce, nel momento del silenzio si era avvicinato discretamente anche Suga, sedendosi dall’altro lato.
Non aveva aperto bocca, si era semplicemente accomodato accanto ai suoi amici.
E Daichi aveva sentito la necessità di confidarsi con loro, loro che avrebbero compreso.
«Ero arrabbiato. No, ero incazzato … perché ho scoperto che si è fidanzata con Hayato».
Daichi rise di fronte le espressioni improvvisamente costernate di Asahi e Suga.
Era una risata amara la sua, ancora arrabbiata.
«Non ve la faccio lunga. Abbiamo litigato, l’ho baciata e mi ha respinto. Fine».
Era una frase davvero troppo breve per descrivere una storia di attese come la loro.
Asahi e Koushi conoscevano meglio di chiunque altro i sentimenti di Daichi.
L’ultimo anno di torture passato alle medie, il rapporto rovinato con Takahiro, i problemi con il mangiare, seppellire tutti quei sentimenti nel cuore fino a scoppiare, fino a convincersi di non provarli affatto, ritirarli fuori tutti sporchi di terra quando ormai era troppo tardi …
Era davvero una frase troppo breve quella.
«Perciò ho messo un punto a questa storia. Ho consegnato i moduli ieri. Parto».
Daichi fece un respiro profondo e guardò Suga e Asahi negli occhi, con un sorriso accennato.
«Voglio fare nuove esperienze».
Ad Asahi quella frase non piacque, quelle parole non piacquero.
Lo riportarono indietro alla sera precedente e fu percorso immediatamente da un dolore acuto, perché Daichi aveva pronunciato esattamente le stesse parole di Maria.
Scacciò dalla mente i suoi presentimenti, i suoi sospetti.
Doveva essere solamente un caso, uno scherzo subdolo della sua mente.
«Beh, a questo punto dovrei dirlo, no?» intervenne inaspettatamente anche Suga, distraendolo dall’oscurità di quelle supposizioni che gli stavano mangiando l’anima.
«Anche io ho consegnato i moduli questa mattina. Ho chiarito con Shimizu-san».
Sorrise incoraggiante e Asahi pensò che fosse arrivato anche per lui il tempo di parlarne per davvero finalmente con Hotaru e Kaori, l’avrebbe fatto stesso quella sera probabilmente.
E il giorno successivo anche lui avrebbe messo un muro di cemento tra sé e Maria.
Insieme ad infiniti chilometri di distanza.
«Ho portato i bento» annunciò ad un certo punto Suga, sporgendosi oltre la panca per prendere la busta con il pranzo acquistato quella stessa mattina.
Avevano deciso di trascorrere la pausa in palestra per non sprecare tempo e tutti gli altri avevano cominciato a mangiare da alcuni minuti, mentre loro parlavano.
Koushi ne consegnò uno a Daichi e uno ad Asahi senza fare complimenti.
Li aprirono in silenzio e cominciarono a mangiucchiare, ancora assorti nei propri pensieri; Daichi era l’unico ad aver avvicinato le bacchette alla bocca più di una volta senza davvero riuscire a buttare giù niente. Se non era solo non riusciva davvero a mangiare nulla.
Sembrava terrorizzato, come se avesse tra le mani un mostro e non un semplice gamberetto.
Suga smise di mangiare e appoggiò le bacchette sul suo bento, non sapeva che cosa dirgli. Asahi lo imitò, ma a differenza sua si dimostrò decisamente molto più sicuro di sé.
«Lo sapevate che le proteine del pesce sono chiamate nobili?» intervenne inaspettatamente, a voce alta e un fare professionale, tentando in tutti i modi di risultare casuale, come se non stesse parlando per Daichi «Hanno un elevato potere nutritivo e sono anche facilmente digeribili! E ho letto anche che contengono tutti gli amminoacidi essenziali, quelli che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare» afferrò un filetto di merluzzo tra le bacchette e lo appoggiò sul riso intoccato di Daichi «É anche ricco di omega 3 che serve a prevenire l’ipercolesterolemia e l’arteriosclerosi» gli sorrise, nonostante non ne avesse davvero la forza. «Inoltre è ricco di fosforo, calcio e iodio. É consigliato anche per chi soffre di una forma di diabete. Insomma … ti fa campare cent’anni!».
E pronunciate quelle parole, per dare l’esempio, infilò in bocca un bel filetto saporito.
«Dovremo mangiarne parecchio ora che andiamo in Brasile allora!» intervenne Suga dandogli man forte, anche lui riprese a mangiare di gusto.
Daichi osservò il suo bento e lo strinse tra le mani, voleva davvero mangiare quel filetto ora che aveva sentito le parole di Asahi, ma aveva paura di non esserne in grado.
«Temo di non riuscirci» confessò, ridacchiando con aria nervosa.
«Ci riesci Daichi» replicò Suga con convinzione, offrendo all’amico una frittata.
Il cibo nel suo pranzo intoccato stava lentamente aumentando.
«Abbiamo solo noi tre in Brasile, dobbiamo contare l’uno sull’altro da adesso in poi».
Koushi sorrise ad entrambi dopo aver pronunciato quelle parole, sia Asahi che Daichi si sentirono improvvisamente molto più leggeri, come se non ci avessero pensato prima.
Daichi guardò le sue bacchette, esitò solamente un istante e infilò in bocca il filetto.
Ingoiò, sorrise.
«Come ai vecchi tempi» mormorò.
Asahi annuì, mangiando distrattamente, perso nei suoi pensieri.
Sollevò il viso solamente casualmente, lo fece l’istante esatto in cui Shimizu, Hitoka e Maria entrarono in palestra stringendo tra le braccia una pila di casacche appena lavate.
Non aveva avuto intenzione di guardarla, né di incrociare il suo sguardo.
Ma era stato sorprendente come fosse bastato semplicemente dire che tutto fosse finito per diventare esattamente due estranei, tutta la loro intimità e quell’amore che gli era parso di sentire e provare, lavato via con una semplice passata di spugna.
Lei aveva uno sguardo sereno, tranquillo, come se non fosse assolutamente successo nulla.
Non doveva nemmeno aver sofferto, forse solo provato dispiacere per lui, che ci aveva creduto.
Asahi distolse lo sguardo.
L’amore è davvero un gioco a perdere.

 



 
Buon pomeriggio lettori, spero abbiate passato tutti delle buone e serene vacanze di Pasqua!
Non vi trattengo molto, vi lascio giusto qualche curiosità veloce veloce:
il film Norwegian Wood (ahimé) esiste davvero, e il dialogo sopra riportato è proprio il dialogo ufficiale del film, tratto dai sottotitoli in inglese che effe_95 ha provveduto a tradurre e riportare nel capitolo. Volevo lasciarvi il link Youtube, ma non ho più trovato la scena in questione. Considerate che comunque è un film che ormai avrà i suoi annetti!
(Il mio ahimé di cui sopra era riferito al fatto che il film non mi è piaciuto per niente, mentre il libro è stata tutt’altra esperienza, qualcosa di imparagonabile <3 )
Per quanto riguarda invece la scena della cantante, per chi conosce Nana di Ai Yazawa probabilmente avrà colto dei piccoli riferimenti, come il nome del locale e la descrizione della cantante stessa… non è un vero e proprio cameo, ma siete liberi di sognare, se volete 😉
Love is a losing game è inutile che ve lo rimembri, una delle canzoni più belle e struggenti di Amy Winehouse, che ha accompagnato lo stato d’animo di Daichi e Asahi verso le loro infelici realizzazioni.
Continuate a seguirci e magari lasciateci dei feedback. Grazie come sempre.
Flying_lotus95 & effe_95

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