Il Talismano - Isabel

di nydrali
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


Il fatto che avesse deciso di piovere proprio quella mattina, dopo due mesi della più caparbia siccità, era una ineluttabile prova che il mondo non voleva che lei uscisse con la gonna. Ma quando Isabel fece per ritornare in casa, determinata a levarsi di dosso quello svolazzante abominio della moda, si trovò faccia a faccia con lo sguardo finalmente soddisfatto ed orgoglioso di sua madre, e di colpo perse la parola. Riuscì solamente a borbottare qualcosa su un ombrello che aveva lasciato all’ingresso, prima di tornare ad affrontare le intemperie.
Nemmeno a dirlo, nel breve tragitto che la separava dalla scuola riuscì ad infradiciarsi fino al midollo, con quegli urticanti strumenti di tortura che sua madre chiamava collant che le aderivano addosso come una sorta di pelle morta. Pelle di pesce, per la precisione. Isabel avrebbe giurato che nemmeno Moby Dick era mai stata zuppa quanto lei in quel momento. La vista dei suoi compagni altrettanto bagnati ed altrettanto infastiditi la rallegrò solo un po’, perché il suo sguardo attento colse immediatamente un non-irrilevante dettaglio: il novanta per cento della popolazione femminile della St.George School portava i jeans. Sbuffò, imprecò contro gli occhioni luccicanti di sua madre e contro il mefistofelico inventore del nylon, quindi si diresse a passo di marcia verso il suo armadietto.
Joseph la intercettò un attimo prima che riuscisse a ricordare quella maledetta combinazione.
« 1-5-6-3 », le disse, appoggiandosi all’armadietto accanto e sorridendole divertito.
Isabel sospirò. « Grazie ». Aprì l’anta e frugò tra le migliaia di cianfrusaglie che infestavano l’antro abbastanza minaccioso del mobiletto, finché non riuscì a trovare un asciugamano che probabilmente doveva essere lì da qualche decennio. Controllò che non ospitasse muffe o funghi particolarmente nocivi, dopodiché se lo passò sui capelli fradici.
« Come mai oggi con la gonna? ».
Eccola, la domanda tanto temuta. Isabel roteò gli occhi e scrollò il capo. « Mia mamma me l’ha regalata per Natale e ieri sera mi ha fatto quasi una crisi di pianto perché non l’avevo ancora messa », spiegò, « Non ce l’ho fatta proprio a dirle di no un’altra volta ».
Jo le diede un’occhiata integrale. « Non ti sta male », commentò, « Anzi, direi che ti sta proprio bene ».
« Non è questo il punto », sbuffò Isabel richiudendo quasi con ira il povero armadietto, « Il punto è che pizzica da morire ».
« Be’, dovrai abituartici ».
« No, affatto! », protestò animatamente Isabel.
« Oh, sì, invece. Se vuoi diventare avvocato dovrai portare il tailleur, e per portare il tailleur dovrai avere le calze. Quindi … », concluse Joseph con un largo sorriso, « … se vuoi fare l’avvocato devi portare le calze ».
Isabel gli fece pat-pat sulla testa riccioluta. « Sì, certo … continua a dormire, Jo, fai la nanna ».
« Guarda che dico sul serio! », protestò il ragazzo, ma per sua fortuna la campanella lo salvò dalla risposta, certamente caustica, della sua migliore amica.
I due ragazzi presero i libri e si avviarono verso l’aula della professoressa Madisons, mescolandosi allo sciame piuttosto composito degli studenti della St.George. Joseph, in mezzo a quella calca, scompariva: era alto poco meno di un metro e sessantacinque, ed in mezzo a tanti campioni di rugby sembrava un pulcino in un serraglio di struzzi, impressione amplificata dal suo ridicolo ed amatissimo maglione giallo limone, che si toglieva solo quando era strettamente indispensabile. La sorella maggiore di Isabel, Dawn, amava ripetere che Jo era diventato suo amico perché lei era l’unica ragazza della scuola che non lo facesse sentire il nipote olivastro di Grande Puffo. Il che era una carognata bella e buona, visto che i due erano amici fin da bambini, quando Joseph non era né più alto né più basso della maggior parte dei suoi coetanei. E del resto, che colpa ne aveva lui se i suddetti suoi coetanei avevano preso la bizzarra abitudine di allungarsi, fatica che il piccolo Jo non aveva proprio voluto intraprendere? D’altro canto, Isabel doveva ammettere che Joseph sembrava davvero sentirsi maggiormente a suo agio con le ragazze più piccole di lui, che – a parte le bambine di dieci anni – non erano certo moltissime. Isabel, dal basso del suo metro e cinquantasette, costituiva una gradita eccezione.
« Buon giorno », squillò la Madisons entrando, puntuale come un orologio svizzero, al suo solito. L’anziana insegnante si diede appena il tempo di controllare i presenti che subito iniziò a sproloquiare di anacoluti e metonimie, lasciando gran parte dei suoi studenti immersi in un sobbollente brodo di noia totale. Del canto suo, Isabel poteva onestamente affermare di non essersi mai annoiata durante le lezioni della professoressa Madisons. E la ragione di tanto entusiasmo poteva essere riassunta in due, meravigliose parole: Edward Lars. La versione macho di Leonardo di Caprio. Il Dio della St.George. Il più magnifico diciottenne che l‘America avesse mai avuto l’onore di allevare. O almeno questa era la personale opinione di Isabel, che però sembrava condivisa da una buona fetta delle sue compagne di scuola, ed in particolar modo da Julia Peters.
Istintivamente, lo sguardo di Isabel passò alla sempiterna fidanzata di Edward. Oh, se solo si fosse trattata di una cheerleader dal trucco rosato, la risata oca e il davanzale rifatto! Avrebbe potuto togliersi il sano sfizio di odiarla con tutte le sue forze! Ebbene no, anche quel minuscolo piacere le era negato: Julia era semplicemente adorabile. Non particolarmente bella, era dotata però di una grazia e di una dolcezza che la rendevano immediatamente desiderabile: aveva occhi grandi, azzurri, lunghi capelli d’un caldo castano dorato sempre sobriamente raccolti, un sorriso luminoso, caldo, dolcissimo, ed uno stile modesto, da brava ragazza, che la spingeva a sfoggiare completini nei colori pastello e cappelli di maglia fatti a mano dalla nonna novantenne. Era una delle più brave delle classe, senza però essere così concentrata nello studio da poter essere classificata come una “secchiona “, e d’altro canto non aveva mai riscontrato particolari difficoltà nello sport. Era sempre gentile e disponibile con tutti, Isabel compresa, al punto che persino quella vipera di Dawn non faceva che parlar bene di lei.
« Signorina Nelson », chiamò la Madisons strappandola alle sue lugubre riflessioni, « Potrebbe gentilmente farmi un esempio di metonimia? ».
Isabel dovette scavare nella propria memoria per un paio di minuti, prima di scovare un esempio quanto meno passabile, che l’arcigna professoressa accolse con una storta di bocca. « Se lo dice lei, signorina Nelson », commentò, prima di voltarsi verso Joseph e ripetergli la domanda.
Grazie al Cielo e agli Déi benevoli che lo abitano, ben presto quella tortura ebbe fine, e Isabel poté ammirare la sublime visione di Edward che si alzava, stirava i muscoli e si avviava a passo felino verso l’uscita. Il dettaglio di Julia che lo raggiungeva sulla soglia non la disturbò più di tanto, anche perché nel frattempo Jo le su piazzò davanti ricordandole che avevano subito un’altra lezione.
« Dammi solo un attimo, Jo », ribatté lei, « Devo proprio cambiarmi, altrimenti ammattisco ».
« Come vuoi, ci vediamo in classe », le gridò dietro Joseph, mentre lei già schizzava in direzione del suo armadietto. Le occorse un minuto intero per poter ricordare quella stramaledettissima combinazione, ed altri cinque per riuscire a far ricomparire i pantaloni della tuta che aveva abbandonato lì … bah, forse un paio di mesi prima, ma chi poteva dirlo? Corse in bagno, chiudendosi in una toilette meno lercia delle altre e con un immenso sospiro di sollievo si levò le collant. Accolse come una manna dal cielo il tessuto morbido e caldo della tuta e andò a darsi un’occhiata allo specchio. Certo, la camicetta bianca ed il gilet porpora stonavano disgraziatamente con il grigio tortora della tuta, ma Isabel decise che avrebbe affrontato le critiche modaiole delle sue compagne, piuttosto che costringersi di nuovo dentro quei terribili reticolati di nylon. Tanto che c’era si diede anche una ravvivata ai capelli scuri, senza però ottenere alcun risultato, soddisfacente o meno: sebbene fossero appena mossi – e quindi in teoria domabili – i suoi capelli sembravano dotati di una volontà propria, che li spingeva a ribellarsi a qualsiasi acconciatura che non fosse la coda da cavallo o, in mancanza d’un solido nastrino, una cascata folta e indocile di ciocche nere, ognuna cresciuta in una direzione diversa.
Tanto valeva lasciar stare, così Isabel corse a seppellire gonna e collant nelle profondità del suo armadietto e raggiunse gli altri in classe, dove la professoressa Greenside stava già distribuendo degli amabili test a sorpresa. Grazie al cielo il buon Jo aveva dei bigini belli e pronti, che si offrì cavallerescamente di condividere con lei, salvandola da una cocente e sicura insufficienza.
Il suono della campanella fu accolto da un coro di disperazione e sollievo: disperazione perché il tempo era assolutamente troppo poco per terminare il compito, sollievo perché potevano passare oltre.
All’uscita, Peter Nunn le si avvicinò, stringendosi al petto il poco coraggio che aveva assieme ad una montagna di libri. Peter era un ragazzo alto, magrissimo, con un gran naso foruncoloso e stopposi capelli rossi e, fin dal primo giorno di scuola, era follemente innamorato di Isabel.
« Co… co… come t… t… ti è and… and… andato il com… com… », balbettò.
« Il compito? Non male », rispose distrattamente lei, cercando con lo sguardo la sagoma di Jo fra la calca dei ragazzi che sciamava fuori dall’aula. Voleva ringraziarlo per i bigini, ma il piccoletto sembrava svanito nel nulla.
« Non ce l… l… l’asp… asp… aspet… aspettavamo, eh? », continuò Peter. Solitamente lui non balbettava così tanto, ma Isabel - coi suoi grandi occhi scuri, il suo viso dai tratti fini ed i suoi lunghi capelli neri - riusciva sempre a metterlo in agitazione. Quando era con lei, Peter non poteva a fare a meno di sembrare un perfetto idiota. « Mag… mag… magari do… dopo… ».
In quel momento Isabel scorse il maglione giallo dell’amico fra la selva di t-shirt sbiadite e divise da football. Jo le fece cenno di raggiungerla e lei annuì.
« Ci vediamo, Peter », salutò in fretta, allontanandosi. Il povero ragazzo, piantato in asso, riuscì a mala pena ad alzare una mano in un cenno di saluto di cui la ragazza non si accorse minimamente.
« Come è andata? », le chiese Jo non appena lo raggiunse.
« Ti amo. Ecco come è andata », sorrise Isabel seguendolo verso il fondo del corridoio.
Il resto della giornata trascorse pigramente e grigiamente, com’è giusto che sia una giornata di pioggia in aprile, e quando infine Isabel si riavviò verso casa sembrava passata un’eternità. Joseph la accompagnò per un tratto, raccontandole l’ultima puntata di “ Smallville “, che lei si era persa per colpa di quella peste di sua sorella.
A riprova che il tempo era decisamente contro di lei, le nuvole si diradarono e comparve un tiepido sole proprio mentre stava imboccando il vialetto di casa. Sua madre per fortuna era al lavoro, così non scoprì il suo tradimento e non vide la figliola nascondere in bagno la gonna e le calze ancora zuppe. Con un sospiro di sollievo Isabel si liberò anche della camicetta e si infilò una tuta comoda e parecchio informe che usava in casa. Agguantò un pacchetto di biscotti salati e si lanciò sul divano, atterrando con un una certa grazia proprio accanto al tavolino con l’abatjour e il telecomando. « Dio sia lodato! », esclamò, stirandosi come un gatto davanti al camino ed accendendo il televisore. Capo a dieci minuti si stava annoiando: non era mai stata il tipo da zapping, e per di più quel pomeriggio sembrava che i programmi di qualità si fossero organizzati per scioperare in massa. Sbuffando, spense lo schermo e si sdraiò a pancia in su fissando il soffitto candidamente intonacato.
« Che pizza », sospirò. In una giornata normale sarebbe corsa al parco, per giocare con Kik, il suo golden retriever, oppure si sarebbe spalmata sul divano a chiacchierare al telefono con Maria, la sua migliore amica che l’anno prima si era trasferita a Miami. Però quel giorno aveva piovuto, perciò il parco era una specie di campo minato con subdole sabbie mobili e pozzanghere profonde quanto il Triangolo delle Bermuda, mentre Maria aveva gli allenamenti di atletica, perciò non sarebbe ritornata a casa prima di sera.
Sospirando, Isabel si alzò e si trascinò fino alla libreria più vicina, dove sua sorella amava ammucchiare libri che di rado sfogliava. Lasciò scorrere lo sguardo sui titoli, sempre più depressa man mano che l’elenco di “amori ribelli” e “passioni infuocate” si allungava. Alla fine, stabilì che doveva urgentemente trovare un ragazzo a Dawn e abbandonò l’idea di leggere un libro.
Di aprire il libro di Economia non se ne parlava nemmeno – piuttosto la morte – perciò Isabel si approntò a fare quello che faceva di solito in situazioni simili: infilò il cappotto e le scarpe ed andò da Zia Dag.
Superare il giardino avrebbe richiesto un’attrezzatura subacquea, perciò Isabel fece la strada più lunga, passando dalla strada, ma in ogni caso non le occorsero più di due minuti per raggiungere l’amato rifugio. Bussò un paio di volte e subito le rispose un abbaiare potente. « Buono, Zanna, sono io », esclamò la ragazza, e immediatamente il latrato si zittì. Un istante ancora e la porta si spalancò.
« Ciao, piccola. Che succede? », esclamò Zia Dag, appoggiandosi allo stipite della porta.
« Noia », sospirò la ragazza.
« Oh, numi del cielo! Rimediamo subito, non temere! Entra, entra! », esclamò, premurosa, la donna.
Isabel non aveva mai conosciuto nessuno come Zia Dag. Ovviamente quell’amabile signora non era davvero sua zia, ma visto che persino il pastore la chiamava così, lei aveva sempre trovato naturale quel titolo. Zia Dag aveva qualcosa come ottant’anni, ma nessuno – nemmeno il più cinico dei farabutti – avrebbe mai potuto azzardarlo. Tanto per cominciare era alta, dritta e forte, con un fisico snello e, per quanto fosse incredibile, atletico. Una volta era venuta a prendere Isabel a scuola in sella alla sua Ducati, chiusa in una tuta da motociclista e con il casco abbassato, e alcuni dei ragazzi le avevano fischiato dietro ammirati. Poi Zia Dag si era tolta il casco e a quei poveretti allupati era venuto un infarto. Perché, certo, aveva ancora i capelli rosso fuoco, però si vedeva che non era una ventenne. A guardarla, in effetti, sembrava una bella donna di cinquantacinque anni. Sessanta, se proprio si era bastardi.
« Allora, piccola mia, come mai tanto tedio? », le domandò, andando a preparare la sua spettacolare cioccolata. Isabel accarezzò distrattamente Zanna, un Rottweiller docile come un agnellino, e si abbarbicò sulla sponda del grande divano che troneggiava in salotto. « Maria è ad atletica e oggi ha piovuto », riassunse.
« Tragico! Davvero tragico! », commentò Zia Dag, seria. « E perché non sei fuggita da Jo? ».
« Perché è mercoledì », spiegò la ragazza, certa che la donna comprendesse: era universalmente noto che la madre di Jo il mercoledì lavorava fino a tardi, per cui il piccolo ragazzo doveva occuparsi dei tre, pestiferi, fratellini.
« Ah, già! È vero! E così l’hai abbandonato in mano al nemico, eh? Crudele, piccola mia. Saggio, ma crudele », commentò la donna, allungandole una tazza fumante di densa cioccolata calda.
« Lo so. Mi dispiace », rispose istintivamente Isabel.
« Ti dispiace? E perché? », esclamò Zia Dag, « È assolutamente magnifico! ».
Isabel ridacchiò ed iniziò a sorseggiare la sua cioccolata. « Bene, Zia Dag. Che cosa mi proponi per oggi? ».
L’anziana signora rifletté un momento, mentre – apparentemente non visto – Zanna approfittava della sua cioccolata abbandonata incautamente su un tavolino del salotto. « Credo che oggi ti farò vedere una cosa che tengo in soffitta ».
Il sorriso di Isabel si allargò a dismisura: la soffitta di Zia Dag era il posto più incredibile del pianeta. Ci si trovava di tutto, dai paraventi giapponesi ai siluri tedeschi della seconda guerra mondiale, dai sesterzi Romani ai volantini del Moulin Rouge. Che diamine! C’era persino una statua a grandezza naturale della Regina Vittoria! « Su, avanti, vieni con me! », la incitò la donna, avviandosi su per le scale.
« Dove metto questa? », domandò Isabel alludendo alla tazza.
« Appoggiala per terra: ci penserà Zanna e finirla », tagliò corto Zia Dag, scomparendo al piano superiore. Isabel non esitò un attimo ad obbedirle e a raggiungerla. La donna stava aprendo una botola che portava al solaio, riempiendosi di polvere che cadeva dal soffitto. Tossì un poco, si spolverò appena e chiese alla ragazza di passarle la scala a pioli che teneva provvidenzialmente a portata di mano.
Salirono, senza badare alla poca stabilità del loro sostegno, giungendo in un ampio locale dal soffitto basso e dalle imposte chiuse. Avanzando a tentoni, Zia Dag spalancò la più vicina, illuminando la soffitta, ingombra d’oggetti d’ogni genere praticamente fino al soffitto.
« Molto bene », esordì, « Vediamo dove l’ho messo ». Era la frase di rito, e subito Isabel si illuminò, ben sapendo che stava per seguire una lunga ricerca che probabilmente si sarebbe protratta per tutta la serata. Ma con sua grande delusione, questa volta Zia Dag scovò quasi subito l’oggetto in questione, sepolto sotto una bandiera australiana ed un paio di volumi settecenteschi del Kamasutra.
« Eccolo qui! », esclamò la donna, e si bloccò. Per un attimo parve esitare, come soprafatta da un qualche ricordo lontano. Isabel la vide accarezzare qualcosa che teneva nel palmo della mano con malinconia, quasi tristezza. Fu però solo un momento: Zia Dag rizzò la testa, annuì come per convincersi di qualcosa e si voltò di scatto per mostrare alla sua giovane vicina la sua scoperta.
Si trattava di un ciondolo d’argento lucente, filigranato con infinita grazia a forma di stella, con al centro una grande pietra ovale d’un blu intenso. Era a dir poco magnifico, elegante oltre ogni dire, nonostante fosse di dimensioni piuttosto ragguardevoli: in effetti, era grande quanto il palmo della donna.
« Bellissimo! », esclamò, sbalordita, Isabel.
« Aspetta di vederlo alla luce. Vieni », la invitò Zia Dag, portandosi sotto la finestra. Isabel rimase a bocca aperta, quando si rese conto che l’anziana donna aveva ragione: la pietra al sole pareva prendere vita, rilucendo come se al suo interno fosse stato racchiusa una scheggia di cielo notturno, con miriadi di stelle che ammiccavano perfette e splendenti.
« Incredibile! », riuscì solo a mormorare.
« Che ti dicevo? », sorrise Zia Dag. Ancora una volta esitò, ma subito allargò un luminoso sorriso, « Me l’ha regalato un mio ammiratore quando ancora vivevo al Cairo », si affrettò a spiegare, senza curarsi di ricordarle che lavoro facesse lì. In effetti, era stata una spia, ed una di quelle brave, almeno a sentir lei. « A proposito del Cairo! Devo avere da qualche parte l’uniforme di quel colonnello inglese? Come si chiamava? », borbottò, iniziando a frugare fra i bauli.
Trovata l’uniforme, Zia Dag decise che doveva assolutamente farle vedere il sasso con incisioni che aveva trovato sotto le piramidi, dopodiché le venne in mente di quel fucile che aveva rubato a quel tenente nazista di cui – nemmeno a dirlo – non si ricordava il nome, sebbene avesse ben chiaro in mente quanto fosse abile sotto le lenzuola. Non riuscì a trovare l’arma in questione, ma in compenso scovò una maschera tribale africana, che le fece venire in mente la copia cinquecentesca della Divina Commedia che doveva proprio avere lì da qualche parte ( con un collegamento logico tra le due cose che sfuggì completamente alla povera Isabel ), ma che non riuscì a rinvenire, anche se nel cercarla scovò l’abito da sposa che aveva indossato al suo terzo matrimonio, e che era convinta di aver perso a Rio de Janeiro qualcosa come cinquant’anni prima. Quando Isabel si azzardò a chiederle cosa ci facesse a Rio, Zia Dag si lanciò in una complessa spiegazione che comprendeva un elefante, cinque uova di Pasqua andate a male ed un triciclo di legno ( che, per altro, doveva essere lì da qualche parte ). Non del tutto convinta, Isabel preferì lasciar perdere, e quando infine diede un’occhiata all’orologio, scoprì che era ora di cena.
« Dio! Ce l’abbiamo fatta! Abbiamo superato il pomeriggio! », esclamò, raggiante.
« Visto, che ti avevo detto? Dai, su, scendiamo, prima che tua madre mi denunci alla protezione civile per rapimento ». Uscire dalla soffitta di Zia Dag era sempre un po’ doloroso, ma quella volta Isabel non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene, perché l’anziana donna le mise in mano qualcosa non appena raggiunsero il pian terreno. Con sua grande meraviglia, Isabel si rese conto che si trattava del ciondolo d’argento.
« Non posso! È tuo! », protestò Isabel.
La donna aveva un’aria seria e grave. « No, tienilo tu. È tempo che me ne sbarazzi », disse semplicemente.
Isabel tentò ancora in ogni modo di rifiutare, ma Zia Dag fu irremovibile, così che infine la ragazza dovette cedere e accettò di metterselo al collo, scoprendo inoltre che – nonostante la mole – era incredibilmente leggero. Promise a Zia Dag di tornare a trovarla al più presto e si affrettò a casa, dove sua sorella Dawn la accolse con un mugugno non meglio traducibile, immersa com’era in una delle sue letture preferite. Isabel tentò di sbirciare il titolo del volume, ma quando colse le parole “giovane segretaria” tra le molte che affollavano la copertina, si sentì di colpo indisposta e corse in cucina.
Sua madre era intenta a preparare la cena. « Apparecchia la tavola », le ordinò brevemente dopo averle allungato un bacio da dietro una spalla. Alice Nelson era una donna alta, elegante, con una grande passione per le scarpe: ne aveva decine e decine, accuratamente riposte in una enorme scarpiera della sua cabina armadio. Quel giorno portava un paio di decolleté color panna con un sottilissimo tacco di sette centimetri.
« Ma Dawn sta leggendo! Perché non l’hai chiesto a lei! », protestò automaticamente Isabel, mettendosi in bocca un boccone del ripieno che Alice stava frullando.
« Dawn ha steso i panni », rispose Alice, ed in quel momento la voce di suo marito, Frank, risuonò dal salotto.
« Sono a casa ».
« La porta! », gridarono in coro Dawn, Alice e Isabel, ma inutilmente: uno schianto sonoro riverberò per tutta la casa.
« Ops », si scusò, come ogni santissimo giorno, Frank.
Isabel saltellò in salotto. « Papà, c’è da apparecchiare la tavola », informò.
« Va bene, tesoro », sorrise innocentemente lui.
« Isabel! », la sgridò Alice dalla cucina, ma la ragazza sgattaiolò via prima che il padre capisse di essere stato beffato. Dawn le fece l’occhiolino dal divano e le lanciò una caramella che Isabel scartò ed ingoiò mentre si chiudeva in camera sua.
Fece appena in tempo a lanciarsi sul letto che il suo cellulare prese ad intonare la marcia di Radetzky.
« Pronto », esclamò
« Oh, finalmente! », l’accolse la voce di Joseph, « È tutto il giorno che provo a chiamarti. Ma dove sei finita? ».
« Da Zia Dag », rispose Isabel, prendendo in mano il magnifico ciondolo ed ammirandolo, ancora incredula che ora appartenesse davvero a lei, « Avevi bisogno di qualcosa? ».
« Una corda solida ».
« Hai deciso di legare i tuoi fratelli? ».
« No, ho deciso di impiccarmi », sospirò il ragazzo, apparentemente disperato, « Tu non hai idea di che cosa è successo questo pomeriggio ».
« Non dirmi che Anthony si è dato di nuovo fuoco ai capelli! ».
« No, peggio! Migliaia di migliaia di volte peggio! ».
Isabel saltò sul letto. « Non dirmelo! È tornata! », esclamò, disperata.
« Sì! », gemette Joseph. « Proprio oggi! E mia mamma non mi ha detto niente! ».
« Che donna subdola e crudele! », commentò Isabel, che ben comprendeva la disperazione del suo amico: il ritorno di sua nonna era una catastrofe seconda solo alle cavallette. Aveva sessantacinque anni ed era profondamente convinta che in pratica ogni azione umana fosse un peccato capitale contro Dio. Andavi all’università? Ecco che peccavi di superbia, volendo indagare i misteri della natura imposti dal Signore. Compravi del pane? Ebbene, saresti bruciato all’Inferno, perché soccombevi ai piaceri della carne! Osavi guardare la tv? Ma non sapevi che è il veicolo del Demonio?
« Vuoi che ti ospiti? », si offrì Isabel, preoccupatissima per la salute mentale del povero Jo.
« No, grazie, mi sono già organizzato », la rassicurò lui, « Volevo solo avere qualcuno con cui sfogarmi ».
Isabel sospirò e si lasciò scivolare a pancia in su tra le coperte. « Okay, sono pronta, sfogati », gemette.
Joseph non se lo fece ripetere due volte e per la mezz’ora successiva elencò con puntigliosità quasi maniacale le singole battute – acide e morbosamente pie – della sua santissima nonna, arrivando a definirla il “ Quinto Cavaliere dell’Apocalisse “.
Isabel ci provò davvero, con tutto l’impegno di cui era capace, ad ascoltarlo, ma dopo i primi dieci minuti di sproloqui su maledizioni e punizioni divine, semplicemente non riuscì ad impedire alla sua mente di volarsene da tutt’altra parte. In particolare, volò da Zia Dag. Non aveva mai conosciuto nessuno come lei. Prendeva terribilmente sul serio sciocchezze come la noia di un pomeriggio o la tragedia di un orsetto investito da una bicicletta, ed era capace di ridere fragorosamente o di sorvolare su tragedie vere e proprie e questioni importanti come guerre o crimini perpetrati a dieci metri da casa sua.
Fece dondolare il ciondolo, ammirandone rapita la lucentezza incredibile: non aveva mai sentito parlare di una pietra simile ad una scheggia di cielo stellato.
Assalita da un’improvvisa fitta di curiosità, si alzò e corse al computer. Mentre Joseph continuava a sproloquiarle in un orecchio di come sua nonna avesse condannato le sue letture ( i fumetti di Spiderman ) perché lo portavano ad adorare un falso dio, Isabel si diede da fare per trovare un qualche accenno su una pietra simile su internet. Ma per quanto cercasse riusciva ad imbattersi solo in multinazionali cinesi che producevano mobili e monili decorati con piccole stelle. Niente di vagamente simile all’oggetto che reggeva in mano, comunque.
« Non capisco … ».
« Cosa? Te l’ho detto! Stavo andando in bagno e lei … ».
« No, non sto parlando di tua nonna, Jo. Parlo di questo », scosse il capo la ragazza, raccontando all’amico del regalo di Zia Dag e del fatto che non trovasse nessun riferimento ad una gemma simile.
« Può darsi che siano semplicemente impurità. Forse è un opale o qualcosa del genere con dei cristalli di sabbia all’interno. O forse è solo della plastica con della polverina dorata ».
« Non è plastica! », protestò subito Isabel, « E non sono nemmeno cristalli di sabbia. È la pietra che è fatta così. Solo che non so che cosa sia », commentò, assorta, avvicinando il ciondolo alla lampada. Lo osservò più da vicino, scorrendo col dito lungo la filigrana argentea. I suoi occhi furono nuovamente catturati dall’ammagliante bellezza della gemma, blu come la notte, con quel bagliore di minuscole stelle che la rendevano quasi palpitante, quasi viva.
« Dio, Jo, giurerei che stanno barbagliando, come le stelle vere. Ammiccano, rilucono, guizzano ».
« Va bene, Isabel, che cosa ti sei bevuta da Zia Dag? », ridacchiò Joseph all’altro capo del telefono.
Ma Isabel non lo ascoltava. Era come se quelle schegge di stelle la stessero ipnotizzando: si sentiva lontana, distante, quasi osservasse la vita da dietro uno schermo. Tutto ciò di cui era certamente conscia erano quelle piccole stelle, quel cielo non più grande del pugno d’un bimbo, e quel loro baluginio ammagliante di costellazioni che proprio non riusciva a riconoscere…
 
La porta sussultava, tanta era la violenza con cui qualcuno stava bussando. Zia Dag avanzò nel buio della sala, Zanna che scivolava silenzioso al suo fianco, gli occhi fissi sull’uscio scosso con forza. Allungò la sinistra sulla maniglia. Nella destra reggeva la rivoltella con cui aveva sparato al leone che aveva ucciso Gabriel, il suo primogenito. Fece scattare silenziosamente il cane. Si appoggiò al legno tempestato di colpi e domandò a voce stentorea: « Chi diavolo è? ».
« Jospeh! Sono Joseph! Mi apra! Presto! ».
Zia Dag lasciò sfuggire di colpo il fiato che aveva involontariamente trattenuto. Sorrise di sollievo, nascose la rivoltella in un cassetto del mobiletto d’ingresso ed aprì la porta. Joseph entrò come un tornado, quasi travolgendola.
« Che diamine ha fatto, eh? Lei lo sa, vero? Me lo dica, avanti? Non capisce che non può farlo? Sono tutti preoccupati! Persino Dawn! Ma lei non è scappata, giusto? Anch’io lo so! Ero al telefono! Quelle stelle, giusto? Avanti, me lo dica! Lei non aveva il diritto di … ».
« Ehi! », lo interruppe lei, gridando con tanta forza che Zanna si spaventò e corse a nascondersi in cucina. Joseph arretrò come se fosse stato schiaffeggiato e per un attimo rimase a fissarla a bocca aperta, senza fiato. « Che cazzo stai blaterando? Fai una frase completa, che cavolo! Non ci si capisce niente! ».
« Io … io … io … ».
« Eh, buona notte! », sospirò lei, richiudendo la porta, « Su, siediti ». Il ragazzo non si mosse. « È un ordine! Siediti! », ripeté con veemenza ed il ragazzo si lasciò cadere sul divano, come un automa, senza staccarle gli occhi di dosso. « Molto bene, Jo », annuì lei, accomodandosi sulla poltrona di fronte a lui, « E adesso spiegami cosa è successo ».
Joseph dovette trarre un paio di respiri profondi prima di riuscire a calmarsi quel tanto che bastava per comporre una frase di senso compiuto. « Isabel è scomparsa ».

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


Isabel non era mai stato un asso in scienze, ma del resto sapeva che non sarebbe mai andata a lavorare in un osservatorio astronomico o tanto meno avrebbe mai vinto un Nobel per la chimica, eppure c’era una cosa di cui era assolutamente certa: nel cielo che stava osservando non c’era il Grande Carro. Lo stava fissando da quasi dieci minuti, scorrendo con lo sguardo in lungo ed in largo, e sebbene le costellazioni fossero chiarissime, come se nessuna nube o luce artificiale le offuscasse, il Grande Carro proprio non si vedeva.
Fu soltanto in un secondo momento che si rese conto di un altro, quanto meno inquietante, dettaglio: come diamine faceva a vedere il cielo? Non era forse in camera sua, sotto un solido tetto? Isabel rifletté un attimo sulle varie alternative, ed infine decise che era proprio il caso di alzarsi e guardarsi attorno.
« Oh … merda … ». Di solito Isabel non era volgare, ma quella volta l’unica affermazione logica e pertinente era proprio “ oh, merda “: qualsiasi altra cosa sarebbe suonata riduttiva. Del resto, che altro si poteva dire di fronte ad una campagna verde, perfetta, mossa da dolcissime colline e con un piccolo villaggio medioevale in lontananza?
 
« Il trucco sta tutto nell’espirare con calma. Così: inspirare, espirareeeee, inspirare, espirareeeee … ». Era quasi mezz’ora che Isabel tentava di calmarsi. Aveva pianto, strillato, tremato, chiamato aiuto e poi pianto ancora; al momento aveva deciso che fare l’isterica non serviva ad un bel niente e stava provando a vincere il panico che le attanagliava la base dello stomaco.
« … inspirare, espirareeeee … okay, sono calma », concluse infine, anche se sapeva perfettamente che non era vero. Del resto, aveva smesso di piangere e di strillare e probabilmente per quella sera era quanto di meglio potesse pretendere da sé stessa.
« Vediamo di ragionare », si impose, sedendosi sull’erba, le spalle a quel dannatissimo villaggio che – non c’era altra spiegazione – doveva per forza essere un frutto della sua malata fantasia. « Allora, che cosa stavo facendo? », provò a ricordare: dovette concentrarsi per un momento, ma alla fine riuscì a rammentare sé stessa al telefono con Jo, mentre assorta esaminava il ciondolo. « Il ciondolo! », esclamò, portando una mano al collo: il pendente era lì, leggero come una piuma nonostante la mole. Isabel se lo sfilò e lo osservò al fioco chiarore delle stelle.
« Non dirmi che … », mormorò, alzando si scatto gli occhi al cielo. Controllò decine di volte, dandosi della pazza, dell’isterica e della credulona, ma alla fine dovette arrendersi al fatto che le stelle racchiuse in quella pietra erano identiche alle costellazioni aliene che le brillavano sulla testa. « No, andiamo, Isabel, non essere ridicola. Si tratta soltanto di una banale coincidenza! », si disse, ma senza riuscire a convincersene del tutto.
Dopo un attimo, sospirò, arrendendosi. « Okay, non è una coincidenza. Ma allora? Che cosa diavolo mi è successo? », si domandò, senza curarsi di parlare ad alta voce: non c’era nessuno nel raggio di miglia, e se anche gli abitanti del villaggio l’avessero sentita, non le importava. Dopotutto, il villaggio era un frutto della sua fantasia.
« Oh, cacchio! », sbottò, crollando a pancia in su sull’erba fresca e folta. Chiuse gli occhi, imponendosi di pensare. Allora, che cosa sapeva? Sapeva che stava osservando il ciondolo, che di colpo si era sentita strana, come lontana, distante, e che subito dopo si era addormentata. Quando aveva aperto gli occhi era in compagnia dei frutti malati della sua fantasia e di un cielo che a rigor di logica non doveva esistere.
Senza accorgersene riprese a piangere: che cosa cavolo le era successo? Voleva la sua mamma, voleva suo papà, le bastava persino sua sorella, qualcuno maledizione! Qualcuno che la riportasse indietro! Non pretendeva Edward, anche Julia o Joseph sarebbero andati più che bene! Diamine, anche la Madisons sarebbe andata più che bene! Che diavolo era successo?
« Non ci credo, non è possibile … », mormorò tra i singhiozzi: dove cavolo era finita? « Certe cose non succedono. Non può essere vero. Certe cose non succedono. Non succedono e basta e tutto questo non è vero », prese a ripetere ossessivamente, rifiutando di accettare l’idea balzana ed improbabile che fosse finita da qualche altra parte, particolarmente lontano da casa. Un “ qualche parte “ dove le stelle erano diverse e il tempo si era fermato qualche centinaio di anni prima.
Strinse forse le palpebre e si tappò le orecchie. « No, no, no! Non è vero, non è possibile! », gridò, il più forte possibile. Gridò finché ebbe aria nei polmoni, e poi continuò comunque a gridare. Puntini rossi le apparvero davanti agli occhi, le gambe si fecero molli e lei cadde in avanti, bocconi, senza forze, senza smettere di gridare. Perché a lei? Perché? E, soprattutto, com’era possibile? Che cosa le era successo?
Isabel si raggomitolò su sé stessa e, per quanto si vergognasse e cercasse di fermarsi, scoppiò in un pianto dirotto. Le stelle ancora ammiccavano lucenti in cielo, quando infine – stremata e tremante – crollò in un sonno senza sogni.
 
Si svegliò all’alba, rimanendo per un istante a fissare il sole che sorgeva da dietro le colline. Le occorse un minuto prima di ricordare dove si trovava e quello che era accaduto, ma fortunatamente non ricadde nel panico isterico della sera prima. Doveva rimanere tranquilla: le era successo qualcosa di completamente assurdo, incredibile persino, e il panico non sarebbe certo servito a renderlo più comprensibile. Ma del resto… sua mamma, suo papà, Dawn, Jo… il loro semplice pensiero le faceva pungere le lacrime agli occhi e lei dovette lottare a lungo per non ripiombare in un pianto disperato. Si levò a sedere e si impose di riflettere razionalmente.
« Bene … allora, innanzitutto devo di capire dove sono », stabilì, anche se il problema poteva anche essere non dove ma quando. Le balzò infatti alla mente che potesse semplicemente essere finita indietro nel tempo e che le stelle aliene fossero quelle dell’altro emisfero terrestre.
« C’è un solo modo per scoprirlo ». Si alzò in piedi e si mise a camminare verso il villaggio. La campagna era bella da mozzare il fiato, coi prati di un verde perfetto ed i boschi fitti, dagli alberi alti, secolari, evidentemente frutto del caso di natura e non del lavoro dell’uomo. Era un posto vergine, o almeno quella era l’impressione che dava. Ad un certo punto uno scoiattolo le attraversò la strada, scomparendo in cima ad una quercia. Isabel rimase sbalordita: non sembrava minimamente spaventato da lei!
Scese una collina particolarmente ripida e finalmente giunse nelle vicinanze del villaggio. La prima cosa che la colpì fu che non si trattava di un villaggio medioevale. Certo, lei non era una storica o un’archeologa, però quello non era medioevale. Le case erano di legno, bianche di calce, coi tetti alti e… le si mozzò il fiato in gola. Un uomo era uscito da una delle case e si stava avviando verso uno dei campi coltivati dietro il villaggio con una zappa in mano. E, che le venisse un colpo, quell’uomo era vestito da antico Romano.
 
« Va tutto bene. Va davvero tutto bene ». Per quanto lo ripetesse, Isabel non riusciva proprio a convincersene. Si era lasciata cadere seduta sull’erba, incapace di proseguire d’un altro passo, e stava da quasi mezzora cercando di dare un senso a quella situazione che di senso non ne aveva proprio.
Era finita nell’Antica Roma. E che cavolo! Non era possibile! La gente non finiva nell’Antica Roma così, per caso. Anzi, la gente non finiva nell’Antica Roma punto e basta! Certe cose accadevano solamente nei film di Hollywood e nei libri che leggeva Dawn. E magari nemmeno in quelli.
Si passò una mano tra i capelli perfino più scompigliati e ribelli del solito e sentì le lacrime pungerle nuovamente gli occhi. Le ricacciò orgogliosamente in gola: no, aveva pianto fin troppo. Certo, era sotto shock, ma se cedeva di nuovo al panico non avrebbe ottenuto un bel niente. Doveva rimanere lucida e cercare una soluzione.
« Guardiamo il lato positivo: ora so dove e quando sono. È già qualcosa. Adesso devo solo scoprire come tornare indietro, e presto ». Prese in mano il ciondolo e lo esaminò ancora una volta. Le stelle incastonate nella pietra continuavano ad ammiccarle maliziose, ma per quanto le fissasse non riuscì a provare niente di simile a quel senso di torpore e lontananza che aveva sentito quando era stata scaraventata laggiù.
« Quando torno devo proprio dirne quattro a Zia Dag », stabilì, rimettendosi in piedi. Ora si trovava di fronte ad un bivio: o si dirigeva al villaggio e vedeva cosa poteva ricavarne, oppure… già, oppure cosa? Cosa poteva fare?
« Rifletti, Isabel, rifletti », si impose. Che cosa le serviva? Sì, a parte la mamma e un caffè forte, che cosa le serviva?
« Il modo per tornare a casa », rispose a sé stessa. Bene, e come poteva trovare questo modo? Lei non ne aveva idea, quindi doveva chiedere. Ma a chi? Chi poteva saperne qualcosa in proposito? Non voleva finire nelle mani di qualche stregone che le suggerisse un salasso per spurgarsi simili idee balzane dal sangue! No, aveva bisogno di qualcosa di meglio, qualcosa di più obiettivo… come un libro! « Sì, libri! », esclamò. Un trattato sulle gemme o leggende o cose del genere.
Sì, eccole allora le due possibilità: o il villaggio o mettersi in marcia nella speranza di incappare in una grande città dove consultare una biblioteca o qualcosa del genere in merito alle proprietà magiche delle pietre con le stelle.
« E vada per la grande città », concluse, voltando le spalle a quel villaggio che proprio le stava antipatico e mettendosi in marcia. Ben presto le scarpe pratiche da casa che ancora indossava si rivelarono inadatte su quel terreno erboso e fangoso, bagnato di rugiada, ma quanto meno indossava una tuta comoda e calda. Certo, non era precisamente il must della stagione, ma era sempre meglio della gonna e dei collant. Con quelli non sarebbe sopravissuta un’ora. Anche se, a dire il vero, forse sarebbero passati più inosservati dei pantaloni e della felpa col cappuccio.
« Eh, già. E poi come lo spiegavo il nylon? », commentò ad alta voce Isabel. Forse la tuta era un pugno in un occhio, in mezzo a tante toghe, ma quanto meno era di puro cotone. Non che fosse una gran consolazione, certo, ma Isabel si sforzava con ogni briciola del suo essere di guardare il bicchiere mezzo pieno.
« Diciamo così: meglio se non incontro nessuno finché non ho trovato il modo di cambiarmi », sentenziò alla fine, imponendosi di non pensare più al suo abbigliamento.
Del resto, non era certo quello il suo problema maggiore. Escludendo il dettaglio di essere finita nell’Antica Roma e di non avere la minima idea di come tornarsene a casa, al momento si trovava nei guai fino al collo: non aveva il becco di un quattrino – qualcosa le diceva che lì non accettavano i dollari – non sapeva dove si trovava e non parlava una parola di latino. In effetti, a voler essere ottimiste, era nei liquami fino al collo.
« Quando torno a casa, credo che Zia Dag mi dovrà qualche piccola spiegazione », ripeté ansimando, proseguendo lungo il crinale di una dolce collina.
Cercava di non pensare alla sua famiglia e alla sua situazione: aveva l’impressione che se si fosse soffermata a riflettere su tutta quella storia, si sarebbe seduta a terra ed avrebbe cominciato a gridare senza più riuscire a smettere.
Stringendo i denti, aumentò il passo. Doveva arrivare in città il prima possibile. Finalmente arrivò sulla vetta e si guardò attorno. Lo spettacolo le mozzò il fiato in gola. Era la campagna più grande, verde e intatta che avesse mai visto. Nessun documentario, nessun film, nessun libro l’aveva preparata ad una simile visione di purezza, con gli alberi secolari, i prati d’un verde brillante, l’erba alta e folta, i fiori che coloravano sezioni intere d’orizzonte, il piccolo torrente che lambiva dolcemente le colline, i conigli selvatici che brucavano il trifoglio, un branco di cerbiatti o caprioli o quello che erano che si muoveva tranquilli appena oltre la linea degli alberi. Era tutto così vero, così intatto, così puro.
« Mio Dio … », riuscì soltanto a mormorare, quando da dietro un’altra collina comparve un piccolo branco di cavalli selvatici. Erano una dozzina di animali, per lo più bai e sauri, anche se Isabel distinse subito un magnifico cavallo bianco come la neve ed un altro scuro come la notte. Anzi no, un’altra, si corresse subito la ragazza, quando vide la pancia rigonfia della morella. Era chiaramente incinta, ma si muoveva con la grazia di una ballerina.
« Magnifico », sorrise Isabel, lasciandosi cadere sull’erba soffice, in mezzo ai fiori bianchi che innevavano quel fianco della collina. Rimase a lungo ad osservare il branco muoversi pacifico, brucare l’erba tenera ed ancora fresca di rugiada, osservando come ipnotizzata i loro movimenti fluidi, eleganti, perfetti. In qualche modo la calmavano, quietavano le sue ansie, come se la loro semplice presenza la facesse sentire un po’ di più a casa.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase lì, seduta ed immobile, senza pensare a niente, senza preoccuparsi del denaro, della lingua o del fatto che non era per niente logico che lei in quel momento non si trovasse nella sua cameretta al telefono con Jo.
Si riscosse solamente quando il cavallo bianco le si avvicinò incuriosito. Rimase talmente sbalordita da una simile audacia da non riuscire a muoversi, osservando estatica il magnifico animale che si faceva sempre più vicino.
Isabel non era mai stata una grande esperta di cavalli, però da bambina aveva imparato a montare ed aveva sfogliato piena di meraviglia un’enciclopedia delle razze equine che sua nonna le aveva regalato per Natale. L’animale che aveva di fronte aveva tutto meno il pedigree, ma non di meno era obiettivamente splendido: aveva la criniera lunga, dai crini sottili, splendenti come seta. Gli occhi erano grandi, neri come ossidiana e profondamente intelligenti. Forse troppo intelligenti per essere definiti buoni o gentili. Sembravano scrutarla attentamente e – notò Isabel con un mezzo brivido – capire. Di certo aveva forme perfette, possenti ed aggraziate, con le gambe lunghe e forti di un corridore ed il petto solido dai muscoli guizzanti. Sottili ciuffi di pelo ricoprivano gli zoccoli duri, mentre i crini della lunga coda bianca sfioravano i ciuffi d’erba.
« Ciao », mormorò piano Isabel quando il cavallo giunse a meno di un metro da lei. L’animale non parve minimamente infastidito dal suono della voce umana. Allungò invece il muso e le annusò una spalla. Poi le sfiorò il capo e mosse la bocca come per mangiarle i capelli. Ridendo, Isabel si ritrasse, ma ancora una volta il cavallo non si spaventò.
« Siamo coraggiosi, eh? », esclamò la ragazza, chinandosi sul terreno per sbirciare il ventre dell’animale, « E, decisamente, siamo dei maschietti ». Strappò un ciuffo d’erba e lo tese allo stallone. Questi annusò prima le sue dita, sbuffò e mangiò il trifoglio fresco dalla sua mano, come se non avesse fatto altro per tutta la vita. Quindi, con noncuranza, si mise a brucare accanto a lei. Isabel rimase ad osservarlo a lungo, poi però si ricordò che aveva ben altro da fare che sognare ad occhi aperti. Doveva raggiungere una città prima che facesse buio, perché non aveva nessuna voglia di passare la notte all’aperto. Se di giorno quelle colline brulicavano di dolci coniglietti e timidi caprioli, non aveva davvero nessuna voglia di scoprire di cosa brulicavano non appena tramontava il sole.
Perciò si alzò, lentamente per non spaventare lo stallone bianco, che però si limitò a gettarle un’occhiata curiosa senza smettere di brucare. Incoraggiata da tanto ardimento, Isabel gli diede una pacca sul collo muscoloso. « Arrivederci, amico mio. Buona fortuna coi lupi », lo salutò, riprendendo il suo cammino.
Discese la collina verso il ruscello, del quale assaggiò le acque ricordandosi che era un bel pezzo che non beveva e non mangiava un bel niente. A parte il trifoglio, però, non c’era nulla nelle vicinanze che potesse essere mangiato senza spargimento di sangue, perciò Isabel decise di rimandare il pranzo ad un momento migliore. « Mi sa che quando torno potrò fare la modella », commentò la ragazza quando il suo stomaco prese a brontolare. Cercava di essere ottimista, ma si rendeva conto di esserlo forzatamente, al punto da non ingannare nemmeno sé stessa.
Sospirò e, superando il torrente d’un balzo, riprese a camminare. Nel giro di dieci minuti si era lasciata alle spalle la valle ed il branco di cavalli, giungendo in una campagna meno ondulata sulla quale spiccava, come una ferita su un bel volto, un sentiero di terra battuta.
« Be’, da qualche parte condurrà », commentò Isabel, più decisa che mai a giungere in un grosso centro abitato e munito di una biblioteca o santone o maga che fosse. Le andava bene persino uno sciamano, basta che le spiegasse cosa diavolo era quella pietra e come cavolo aveva fatto a trasportarla lì. Probabilmente era una follia sperare di avere una qualche spiegazione, ma al momento non le veniva in mente niente di meglio. E comunque, non poteva passare il resto dei suoi giorni in campagna con i conigli.
Prese dunque il ramo del sentiero che portava a sinistra e si incamminò di buon passo. Notò subito i solchi nel terreno e le molte impronte, di cavallo e di uomo, deducendone che si trattava di una strada molto trafficata. Il che era un bene, perché significava che conduceva in una città piuttosto importante; ma allo stesso tempo era un male, perché significava che presto o tardi avrebbe incontrato qualche Antico Romano che di certo avrebbe notato la sua mise fuori moda ed il suo strano accento.
« Oh, be’, non potevo mica sperare che non accadesse mai. Prima o poi si incontra per forza qualcuno », cercò di tranquillizzarsi Isabel, ma la realtà era che si sentiva paralizzata dal terrore.
Le gambe quasi le cedettero quando alle sue spalle udì rumore di zoccoli. Si voltò lentamente, come se si aspettasse di veder comparire un fantasma da un momento all’altro, ed ebbe un colpo quando una sagoma famigliare si stagliò sul sentiero.
« Tu? Che cavolo ci fai qui? », esclamò Isabel.
Lo stallone bianco ignorò il suo stupore e le venne incontro. Andò a strusciarle la testa contro la spalla, come un gatto che reclama le coccole. Incredula, la ragazza gli accarezzò il manto vellutato. « Non dirmi: hai deciso di andar in cerca di fortuna e vedere il mondo », ridacchiò Isabel, senza sapere cosa pensare. Cosa gli prendeva, a quel benedetto animale? Perché si era messo a seguirla?
« Credo che dovresti tornare indietro », gli ordinò con voce dura ed un movimento brusco del braccio. Lo stallone, irritato, arretrò d’un passo, ma poi nuovamente prese a strusciare il muso contro di lei. Isabel, sospirando, lo accarezzò.
« Sei un pazzo. Vattene! », stava per spingerlo via, quando le venne in mente che in fondo la strada per la città poteva essere più lunga del previsto. Prese la testa del cavallo tra due mani e la sollevò in modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza. L’animale ricambiò con decisione il suo sguardo. « Siamo due cretini », sentenziò Isabel, depositando un bacio sulla fronte dell’animale. « Avanti, andiamo ». Lasciò andare il capo dello stallone e afferrò un ciuffo di crini della sua serica criniera, rimettendosi in cammino. L’animale, senza minimamente protestare, la seguì con passo cadenzato ed elegante.
Isabel sapeva che sarebbe stato più logico montargli in groppa, però non cavalcava dall’età di undici anni e per di più non aveva mai provato a montare a pelo. Avrebbe tentato solamente quando i suoi piedi avrebbero iniziato a gridare pietà.
Dopo un po’ Isabel iniziò a sentirsi vagamente stupida, camminando al fianco di uno stallone come se fosse un cane, e suo malgrado scoppiò in una sonora risata. « Oh … santo cielo … », esclamò scuotendo il capo. Il cavallo la fissò incuriosito.
« Be’, amico mio, eccoci qua. Che coppia, eh? I due più scemi delle nostre razze », esclamò lei, « Non ho capito come ti chiami ». Il cavallo continuò a fissarla, « Ah, sei timido. Be’, io sono Isabel. Isabel Nelson, piacere. Ho sedici anni e soltanto ieri vivevo nel ventunesimo secolo. E tu? ».
Il cavallo si limitò a camminare tranquillo. « Come dici? Sei scappato di casa? Ma è terribile, amico mio, davvero terribile! Sei un vero furfante! ». Sorrise, « Be’, piccolo, dovremo trovarti un nome. Che ne dici di … emh… che ne so, Sansone? », azzardò, ma il cavallo non la degnò di uno sguardo. « No, hai ragione, è più un nome da vecchio ronzino grasso. Ci vuole qualcosa di più pimpante. Fulmine, forse? ».
Il cavallo scrollò la criniera, infastidito da una mosca di passaggio. « Oh, scusami tanto! Non volevo offenderti! », fece Isabel, « E comunque sì, hai ragione, è troppo banale. Allora lasciami pensare… però pensa anche tu, d’accordo? ». Per un po’ proseguì in silenzio, prima di avere un’illuminazione. « Ci sono! Che ne pensi di Furia, come il cavallo del west? ».
Lo stallone continuò ad ignorarla. Si limitava a camminare al suo stesso passo, osservando pigramente la campagna attorno a loro. « Oh, capisco! Sei bianco, non nero. Hai ragione, hai ragione. È un aspetto da non trascurare. Be’, ma allora sono rimasta senza idee. E che cavolo! ».
Stava per riprendere a riflettere, quando l’occhio le cadde su qualcosa. « Oh … che mi venga un colpo! », esclamò: a meno di cento metri sulla destra del sentiero sorgeva un alto albero di mele, grosse e rosse come quelle che si disegnano da bambini.
« Pancia mia, fatti capanna! », rise, uscendo dal sentiero e correndo sotto la pianta. Lo stallone, senza esitare un solo momento, le venne dietro passando al piccolo trotto. Isabel provò ad arrampicarsi sul grosso tronco nodoso dell’albero, per arrivare ai rami più bassi, ma a parte scorticarsi i palmi delle mani non ottenne alcun risultato. Tentò persino di saltare ed afferrare una mela al volo, ma persino il ramo più carico e piegato era fuori dalla sua portata.
Si voltò verso lo stallone. « Ehi, amico, vieni un po’ qui ».
Afferrò il cavallo per la criniera e lo condusse sotto la chioma del melo. Dopo un paio di tentativi riuscì a montargli faticosamente in groppa: era davvero un animale magnifico, ma al garrese era alto almeno una decina di centimetri più di lei e non fu un’impresa semplice per la piccola Isabel. Dall’alto del dorso del cavallo, però, le mele erano molto più vicine. Bastò allungarsi un poco e riuscì a coglierne una dozzina abbondante. Ne assaggiò una: era dolce e succosa. Isabel socchiuse gli occhi, deliziata: non aveva mai mangiato un pomo dal gusto anche solo vagamente simile. Riconoscente, ne tese una allo stallone, che lo divorò in un paio di morsi.
« Be’, amico mio senza nome, eccoci qua », esclamò Isabel, guardandosi attorno. Era una magnifica sensazione, starsene in groppa a quell’animale magnifico, le gambe a penzoloni ed il sapore divino di quella mela a stuzzicarle il palato. Decise che non valeva davvero la pena di continuare a piedi. « Su, forza, piccolo mio, proseguiamo », esclamò, sfiorando appena i fianchi dell’animale coi talloni. Obbediente, il cavallo si mise in cammino, tornando sul sentiero e riprendendo a percorrerlo con passo lento e cadenzato.
Isabel, completamente rilassata, divorò una mela dietro l’altra, faticando a costringersi a lasciarne qualcuna per quella sera. Cacciò i pomi sopravissuti nelle ampie tasche della felpa e si pulì le mani sui pantaloni della tuta, guardandosi attorno senza più alcun angoscia. La campagna era magnifica, il sole tiepido, la pancia piena ed il cavallo faceva la strada per lei: cosa poteva chiedere di più dalla vita?
« Tornare a casa? », si rispose da sola, acida. « Grazie alla formula magica trovata in un libro, magari! », aggiunse, in preda allo sconforto: ma che cosa stava facendo? Davvero credeva che avrebbe trovato un volume rilegato in pelle umana con su scritto “come tornare nel ventunesimo secolo in cinque mosse”? « Dannazione! ».
Innervosito dal suo tono irritato, lo stallone bianco sbuffò, scrollando il capo. « Scusa, amico mio. Stavo solo parlando ad alta voce », sospirò lei, accarezzandogli il collo per calmarlo.
« Ehi, sai che forse ho avuto un’idea? Visto che in fondo qui siamo a Roma e che tu sei un cavallo Romano, potrei darti un nome adeguato: che ne dici di Elisium? Come i Campi Elisi, il paradiso dei Romani. Perché, ti giuro, amico mio, che mi sei apparso proprio come un angelo dal paradiso ».
Lo stallone nitrì, aumentando il passo al piccolo trotto. Ridendo, Isabel decise di interpretare quell’improvvisa vivacità come un sì. « Ed Elisium sia, quindi! Piacere di conoscerti, amico mio! », esclamò.
 
Il sole sfiorò le colline alla loro sinistra e Isabel capì che non avrebbero raggiunto nemmeno l’ombra di una città in tempo. Davanti e dietro di loro, fino all’orizzonte, non c’era altro che verde campagna e la linea sinuosa di quel sentiero che si perdeva a vista d’occhio. Sconfortata, Isabel si arrese all’idea di dover dormire all’aperto anche quella notte. Si guardò attentamente attorno finché non scorse un albero dalla folta chioma e vi diresse Elisium.
Quel cavallo era a dir poco straordinario. Bastava il suo minimo tocco e lui faceva esattamente quello che la ragazza aveva in mente. A volte tanta perspicacia le faceva quasi paura, ma per lo più era confortante l’idea di avere al fianco qualcuno che la capisse così bene. Si sentiva non solo meno sola, ma – sebbene fosse assurdo – anche molto più al sicuro.
Le prime stelle già illuminavano la volta celeste quando Isabel ed Elisium consumarono le loro ultime mele, all’ombra del grande albero. Lo stallone poi si mise a brucare dei brutti fiori gialli e Isabel si appoggiò contro il tronco certa di star per passare la peggior notte della sua vita. Invece, vinta dalla stanchezza, si addormentò quasi subito.
 
Fu un rumore indistinto a svegliarla. Allarmata, spalancò gli occhi, guardandosi attorno prima un po’ confusa – che diamine ci faceva in aperta campagna? – poi, non appena ricordò quanto le era accaduto, decisamente allarmata: da dove veniva quel rumore? Notò che era giorno ed il sole già piuttosto alto le disse che l’alba era passata da un pezzo, e vide Elisium poco distante che, ritto e fremente, fissava nervoso un punto indistinto alle sue spalle.
Lentamente, spaventata, Isabel si voltò. Fu subito chiaro che cos’era e da dove veniva quel rumore: una colonna di carri trainati da enormi buoi avanzava lungo il sentiero nella sua direzione. Non erano carri di contadini: anche all’occhio inesperto di Isabel era evidente che erano ben costruiti – delle specie di Rolls Royce dell’antichità –, che i buoi erano pasciuti e possenti, che le tende che li ricoprivano erano di stoffa costosa e pesante e che il seguito era troppo numeroso e ben vestito per essere quello di un venditore di grano o di un mugnaio. In particolare, c’era un uomo a cavallo che precedeva il convoglio. Un uomo armato.
Isabel sentì un brivido correrle giù per la spina dorsale ed istintivamente allungò una mano per chiamare Elisium. Il cavallo, pronto ed intuitivo come sempre, le fu subito accanto. Isabel afferrò con forza la criniera e si issò rapidamente in groppa, pronta e decisa a fuggire il più lontano possibile da quegli estranei.
« Ferma! », gridò l’uomo armato.
Isabel rimase paralizzata. E non certo per l’ordine.
Il fatto era che l’aveva capito. Quell’uomo aveva parlato in latino e lei l’aveva capito alla perfezione.
« Oh, mio Dio … », mormorò impallidendo. E si rese conto soltanto allora che anche lei stava parlando in latino.
Un improvviso, acuto senso di nausea la assalì. Faticò parecchio a non dare di stomaco e quando finalmente riuscì a riprendere il controllo l’uomo armato, che aveva spinto il cavallo al trotto, l’aveva raggiunta.
« Ferma, ragazza! », le gridò ancora l’uomo, sebbene lei non avesse mosso un muscolo. « Quanto manca ancora al mare? ».
Isabel aggrottò le sopraciglia: mare? Quale mare? Dove diamine si trovava?
« Io … io non lo so. Sono straniera e mi sono persa », esclamò, rabbrividendo d’orrore ad ogni sillaba in latino che le sue labbra pronunciavano.
« Sì, avevo intuito che fossi straniera », commentò l’uomo adocchiando la sua tuta, « Davvero non sai quanto dista il mare? ».
Isabel scosse il capo. « Non so nemmeno da che parte è ».
L’uomo sospirò. « Ah, magnifico! », gemette, voltandosi e facendo un segnale agli altri del convoglio. Isabel vide parecchi sollevare le braccia al cielo, esasperati.
« È molto che viaggiamo », spiegò l’uomo armato, seguendo il suo sguardo, « Mi chiamo Manio Umbrio ». Era un bell’uomo sulla soglia della quarantina, con un fisico da soldato, capelli tagliati molto corti ed un’ombra di barba color del ferro che gli induriva le guance e la mascella dal taglio duro e risolto. Non ci voleva una laurea in storia per capire che era un Romano.
« Io sono … », Isabel si morse la lingua. Non poteva presentarsi come Isabel Nelson! Arrancò nei meandri della sua mente alla ricerca di un nome Romano, ma più che Giulia o Cornelia non riuscì a rammentare, e quelli erano nomi troppo importanti ( o almeno, così ricordava dalle lezioni di storia ), che davano decisamente nell’occhio e avrebbero scatenato un fiume di domande. Per di più, rammentò, aveva detto di essere straniera. Non poteva dare un nome così Romano. Ci voleva qualcosa che suonasse plausibile ma allo stesso tempo non patrizio. Un attimo dopo ebbe un’idea. « Io sono Marta Alessandra », rispose, soddisfatta. Suonava un po’ greco, un po’ giudeo ed un po’ Romano e di certo non avrebbe suscitato la curiosità dell’uomo armato.
« Onorato, Marta Alessandra », esclamò infatti Umbrio, senza lasciar trasparire il minimo sospetto o perplessità. « Posso chiederti cosa ci fai … emh … qui? », le domandò, rivolgendole un’occhiata eloquente. Isabel comprese subito che cosa intendesse: era una ragazza sola, vestita con pantaloni ed una strana tunica corta con cappuccio, in sella ad un magnifico stallone bianco senza sella né briglia, straniera e a suo dire sperduta. Era una storia che faceva più acqua di un colabrodo. Isabel inspirò e si preparò a raccontare una delle bugie meglio costruite della sua vita.
« Io vengo dall’est », cominciò, rimanendo volutamente sul vago, « E circa un anno fa i miei sono morti … aah… per una strana epidemia che ha colpito la nostra regione. Il fratello di mio zio vive da queste parti … ».
« È un Gallo? », la interruppe Umbrio, sorpreso.
Isabel nascose ogni emozione: e così erano in Gallia, ossia la Francia dell’epoca. Bene, quanto meno era un inizio.
« No, è semplicemente immigrato qui per affari ».
« Tratta affari coi Galli? ».
Isabel annuì. « Sì, emh… non hai mai sentito parlare di lui? È piuttosto famoso, col suo allevamento di … emh… cavalli… si chiama … Dagmaro Alessandro », inventò. Dagmar era un nome da donna – il vero nome di Zia Dag, ad essere precisi – ma Umbrio non poteva certo saperlo, né tanto meno notare l’orribile storpiatura latineggiante di quel nome tedesco.
« Dagmaro Alessandro? No, mai sentito nominare. Però la Gallia è talmente grande e noi qui siamo solo di passaggio », ammise Umbrio, facendo sospirare la ragazza di sollievo.
« Oh, be’, questo spiega tutto. Comunque… ah… sì, stavo dicendo: Dagmaro Alessandro è il solo parente rimastomi in vita, così ho deciso di raggiungerlo. Ho preso con me la mia serva ed un paio di uomini ed ho attraversato … be’… foreste e campagne, per arrivare qui ».
« Siete passati per la Germania? », esclamò Umbrio, a dir poco allibito ed incredulo.
« Cosa? No, no, certo che no! », escusse il capo Isabel, annaspando alla ricerca di una soluzione, « Ovviamente abbiamo deviato per l’Italia! ».
« Ah! Capisco … più lungo ma più sicuro, giusto? ».
« Infatti, infatti », annuì Isabel, sentendosi stanca e sudata come dopo una lunga maratona, « E così sono arrivata fin qui … cioè, voglio dire, ... sono arrivata… arrivata… sì, scusami, mi ero persa », sorrise forzatamente lei, « …sono arrivata a casa di mio zio, ma purtroppo … », si interruppe, fingendo di sospirare, in maniera da prendere tempo alla ricerca di una soluzione.
« Lasciami indovinare », la prevenne però Umbrio, « L’hai trovata in fiamme », scosse il capo, « Questi barbari! Saccheggiano e depredano e nessuno può fermarli! ».
« Infatti! Proprio così », annuì Isabel, fingendosi addolorata, « Il problema è che a quel punto i miei servi hanno capito che non sarebbero stati pagati e così sono fuggiti via, prendendo anche tutto il mio bagaglio », proseguì, grata a Dio e tutti i santi per quell’improvviso colpo di genio, « Ed io non ho potuto fare altro che prendere l’unico cavallo scampato alla razzia e mettermi in cammino, sperando di riuscire a trovare la strada di casa… anche se a questo punto non credo più di averne una », concluse, con un tono mesto che di certo le sarebbe valso l’Oscar.
« Per Giove, che storia! Ragazza mia, sei stata incredibilmente sfortunata! Ma molto coraggiosa, te ne do atto, davvero molto coraggiosa. Ah, ecco i miei compagni », esclamò, voltandosi verso il resto del convoglio che nel frattempo li aveva raggiunti.
Isabel, un po’ nervosa, si mosse a disagio, cercando affannosamente una scusa per dileguarsi. Umbrio, nel frattempo, si avviò verso il più ricco e grande dei carri – una specie di casa su ruote – e scostò la tenda scambiando qualche parola con un uomo all’interno. Un attimo dopo uno degli schiavi del convoglio – Isabel lo riconobbe come tale dalla targhetta che gli pendeva al collo, come aveva imparato guardando Discovery Channel – si affrettò a sistemare una specie di sgabello accanto al carro. Un uomo ne discese usando lo sgabello come scaletta e voltandosi subito verso di lei. Era molto anziano, sui settant’anni almeno, magro come uno spaventapasseri, piccolo e curvo, ma con una folta capigliatura bianca, una barba ben curata ed un fuoco ardente nello sguardo blu come il mare.
« Marta Alessandra, giusto? », le domandò in un latino dallo strano accento.
Isabel annuì. « Sì, dominus, sono io ». Smontò da cavallo e gli si avvicinò trattenendo Elisium per la criniera. Non che ve ne fosse bisogno: lo stallone la seguiva come un fedele cagnolino.
Il vecchio le sorrise come un nonno benevolo. « Manio Umbrio mi ha raccontato la tua storia. Povera piccola, sarai spaventata e smarrita! ».
Isabel fece spallucce. « Me la cavo, dominus. Ammetto di essere stata a lungo spaventata e smarrita, ma alla fine bisogna pur reagire in qualche modo, non credete? ».
Il vecchio allargò un sorriso. « Sagge parole. Mi sorprende udirle da una bocca così giovane ».
Isabel chinò il capo, accettando il complimento. Le piaceva, quel vecchietto dall’aria gentile. Le dava l’impressione di nascondere una mente alla Churchill ed una volontà alla Rommel. In politica avrebbe spopolato.
« Il mio nome è Nicandro. Sono un umile mercante », si presentò, facendo sorridere tutti i presenti. Isabel ebbe la certezza che fosse tutto tranne che umile.
« Mercante? Mercante di cosa? », domandò.
Nicandro allargò il suo sorriso sdentato. « Oh, in molte cose, in effetti. Qui in Gallia, comunque, sono giunto per via di un giacimento di ferro purissimo ».
« Ah, capisco. Per le spade ».
« Tra le tante cose », annuì il vecchio, « Ed ora, figliola, pensi che sarebbe onorevole per te proseguire in nostra compagnia? Siamo tutti uomini, temo, ma armati solamente delle migliori intenzioni ».
Isabel rifletté per un attimo sulla questione. Cosa doveva fare? Unirsi a loro o proseguire da sola?
Scosse il capo: no, la vera domanda non era quella. Doveva essere sincera con sé stessa: la vera domanda era se voleva continuare a cercare una biblioteca o meno. Riflettendoci a mente fredda sapeva che non avrebbe potuto trovare nessuna informazione utile su come far funzionare quella dannatissima pietra, ma del resto a mente fredda avrebbe anche escluso la possibilità che un uomo potesse viaggiare nel tempo.
D’altronde, si disse poi, aveva più possibilità di sopravvivere ed arrivare in città rimanendo con loro, piuttosto che proseguendo da sola alla cieca. Doveva fare un passo alla volta: prima trovare una città, mettersi al sicuro, poi pensare a come tornare a casa. Se metteva il carro davanti ai buoi sarebbe finita in pasto ai lupi in meno di una settimana.
« Accetto molto volentieri », esclamò infine.
Nicandro sollevò le folte sopraciglia bianche. « Non temi per la tua reputazione? ».
Isabel fece spallucce. « Ho due scelte: o vengo con voi e metto a repentaglio la mia reputazione, o rimango da sola e metto a repentaglio la mia pelle. Sinceramente, viste le possibilità di scelta, la mia reputazione può anche finire al diavolo ».
« Al diavolo? », ripeté Nicandro, confuso.
« A ‘fanculo, se preferite », spiegò lei con un largo sorriso.
Il vecchio rimase per un momento interdetto, poi scoppiò in una sonora risata, imitato subito da tutti i suoi uomini.
« Ecco una ragazza di spirito! », commentò Nicandro. « Or bene, se tu non ti curi di quello che dice la gente, non vedo perché dovrei farlo io che sono così vecchio! Avanti, quindi, andiamo! », rimise un piede sullo sgabello e le fece cenno di seguirla.
« Io … », lo fermò lei, « … se per voi fa lo stesso preferisco cavalcare ». Aveva notato quanto traballassero quei carri sul sentieri accidentato e preferiva di gran lunga proseguire in groppa ad Elisium che farsi sbatacchiare come una fragola in un frullatore dentro uno di quei cosi.
Nicandro annuì. « Capisco. Ah, la gioventù! Affiancati però al mio carro, così potremo parlare ».
Isabel spinse in avanti lo stallone e raggiunse il grande carro del vecchio mercante proprio mentre il convoglio si rimetteva in marcia. Manio Umbrio riprese la sua posizione in testa e iniziò a dare ordini agli schiavi perché facessero aumentare il passo ai buoi: sembrava impaziente di raggiungere il mare.
« Dove state andando, se posso domandarlo? », esclamò, incuriosita, Isabel.
« Torniamo a casa », rispose Nicandro con un sorriso stanco, « Io vengo dalla Paflagonia, anche se ormai manco da molto tempo. Un mercante come me trascorre gran parte della sua vita in viaggio ma adesso, se gli Dei lo vorranno, potrò riposarmi e godere dei frutti di una vita di sacrifici ».
Isabel gli sorrise. « Sono sinceramente contenta per voi, dominus ».
« Chiamami Nicandro, te ne prego », le sorrise il vecchio, « E parlami di te ».
Isabel deglutì a vuoto: perfetto! E adesso che cosa diamine gli raccontava? « Io … non c’è molto da dire, in effetti. Sono una ragazza piuttosto normale ».
« Una ragazza piuttosto normale che ha attraversato distanze smisurate solo per ritrovarsi con una manciata di cenere e non si è persa d’animo », osservò Nicandro con una sfumatura d’ammirazione nella voce.
Isabel scosse il capo. « No, affatto. Mi dipingete come non sono. Al momento tutto quello che chiedo è tornare a casa », ricacciò a fatica le lacrime in gola, « Voglio solo che tutto torni com’era ».
Nicandro le sorrise dolcemente. « Ma non si può amica mia, non si può. Il tempo scorre sempre in avanti, mai indietro, come un torrente di montagna. Ciò che è stato non può essere cambiato ».
Isabel sollevò le sopraciglia. « Oddio… io avrei qualcosa da obiettare, ma comunque… », borbottò a mezza voce, e per fortuna il vecchio non parve averla udita.
« Dominus, guardate! », esclamò in quel momento Umbrio dalla testa della colonna. Isabel seguì il suo braccio teso e notò che l’erba alla sinistra del sentiero era tutta smossa e calpestata. « Un accampamento Romano, mi ci gioco la testa. Non più tardi di ieri », spiegò Umbrio.
« Soldati di Cesare? », domandò Nicandro, facendo sussultare Isabel. Che cosa? Giulio Cesare? Oh, madonnina santissima…
« Può essere. Ma se lui è qui significa che la zona non è sicura. Sarà meglio sbrigarsi: non voglio fare da antipasto ai Galli», esclamò Umbrio, facendo un cenno agli schiavi che frustarono i buoi. Con un muggito, gli animali presero quasi a trottare.
Isabel lasciò che Elisium si adattasse alla nuova andatura, persa nei suoi pensieri. Che le venisse un colpo! Giulio Cesare! Non aveva pensato di poterlo incontrare! Il capo le girò per l’emozione. Diamine! Quanta gente avrebbe pagato oro per poter avere quell’occasione? E che diamine, persino lei – che tutto voleva tranne essere lì – non poteva non tremare da capo a piedi per l’eccitazione ed il turbamento. Giulio Cesare! Sembrava incredibile…
In effetti, rifletté Isabel, era incredibile, ma non più dell’essere catapultata nell’Antica Roma.
« Sei nervosa », osservò Nicandro.
Isabel scrollò il capo, riprendendosi. « È solo che ho tanto sentito parlare di Giulio Cesare … », rispose, vaga.
« Ti capisco. Ma non aver paura: non abbiamo nulla da temere dai Romani. Vogliono i Biturgi, non noi », le mormorò il vecchio, credendo che il suo tono allusivo nascondesse il timore di essere attaccata dai soldati di Cesare. Isabel decise di non correggerlo.
« Posso farvi una domanda, Nicandro? ».
« Ma certo », annuì il vecchio.
Isabel raccolse il coraggio e le idee. Conosceva quell’uomo da meno di mezzora, ma le sembrava un tipo sveglio ed acuto. E Dio solo sapeva quanto lei avesse bisogno di un consiglio sveglio ed acuto, in quel momento.
« Non so cosa fare. Voglio tornare a casa, ma non so come né se sia possibile. Era mia intenzione raggiungere una grande città per … be’, per trovare un modo, perché il mio cuore si rifiuta di perdere le speranze, ma la mia mente mi dice implacabile che sono soltanto sogni ».
« Perché dici così, figliola? È tanto lontana la tua patria? Più lontana della Paflagonia? ».
Isabel chinò il capo. Ci aveva pensato per tutta la mattina. In effetti, ci aveva pensato da quando si era messa in cammino. Doveva tentare di trovare il modo di tornare, ma la ragione le diceva che non esisteva. O che – quanto meno – se c’era non l’avrebbe trovato in una biblioteca. Probabilmente, si era detta, sarebbe bastato fissare nuovamente il ciondolo in una notte stellata, scivolare in quel caldo torpore e lasciarsi trasportare lontano, esattamente come la prima volta, ma non ne era certa. Ad ogni buon conto, quella sera ci avrebbe provato. Se avesse funzionato, tutto bene; se invece non fosse successo nulla… be’, a quel punto rimaneva poco da fare.
Del resto, non poteva mica presentarsi da un sedicente stregone e dirgli “ ehi, ciao! Io vengo dal ventunesimo secolo! “. Insomma, soltanto a pensarlo lei stessa si prendeva per una pazza!
« Marta Alessandra? », la richiamò Nicandro, facendola riemergere dalle sue riflessioni.
« Scusate », mormorò lei, « Sì, la mia patria è molto, molto lontana. Così lontana che se ve ne parlassi non mi credereste mai ».
Nicandro annuì. « Capisco. Be’, io posso darti uomini e provviste, se è questo che vuoi ».
Isabel scosse il capo. « No, non è questo. Il punto è che non credo di poter più tornare ».
« Non ricordi la strada? ».
« In tutta sincerità, amico mio, non so nemmeno come ho fatto ad arrivare fin qui! », esclamò lei, sbottando in una risatina triste e nervosa.
Nicandro si passò una mano sulla folta barba. « In questo caso, figliola, non so che dirti. Potresti tentare, ma temo che finiresti per perderti ».
« Potrei provare a cercare qualcuno che conosce la strada… ma non so dove cercare. In effetti, la logica mi dice che un uomo simile non esiste ».
« Non puoi dirlo con certezza ».
« Fidatevi, Nicandro, posso », lo contraddisse lei con forza.
« Dunque non puoi tornare indietro », concluse il vecchio, con una semplicità che fu per Isabel come una stilettata al cuore. « Vuoi tentare ugualmente? ».
Isabel sentì una lacrima rigarle il volto. « Voglio, sì. Io … io devo tornare a casa. Altrimenti sento che ammattirei ».
« Allora prova così: tenta per tre volte. Se alla terza fallirai, rinuncia. Quando gli Dèi si oppongono al nostro ritorno, è inutile sfidarli. Si finisce solo col farsi del male ».
« Siete molto fatalista », osservò, cupa, Isabel.
« Sono un vecchio! », si limitò a ribattere lui.
La ragazza annuì. Forse Nicandro aveva ragione: doveva provare, ma se avesse fallito … be’, a quel punto avrebbe dovuto mettere il cuore in pace. Rifletté sulla questione: quella sera stessa avrebbe provato a fissare di nuovo la pietra. In caso di fallimento avrebbe chiesto a Nicandro di indicarle la più ricca biblioteca esistente e vi si sarebbe recata, spulciandone i libri alla ricerca di qualche notizia utile. Se non avesse trovato nulla, avrebbe aspettato un anno, in modo da riprovare a fissare la pietra esattamente nella stessa  notte dell’andata. Chissà, forse era solo una questione di posizione degli astri e roba simile.
« E se anche così non funziona … », mormorò piano Isabel. Be’, in quel caso si sarebbe arresa. Avrebbe pianto le dovute lacrime, avrebbe abbandonato il suo nome di battesimo e sarebbe davvero diventata Marta Alessandra. Del resto, si disse, poteva fare diversamente?
Isabel non era mai stato un asso in scienze, ma del resto sapeva che non sarebbe mai andata a lavorare in un osservatorio astronomico o tanto meno avrebbe mai vinto un Nobel per la chimica, eppure c’era una cosa di cui era assolutamente certa: nel cielo che stava osservando non c’era il Grande Carro. Lo stava fissando da quasi dieci minuti, scorrendo con lo sguardo in lungo ed in largo, e sebbene le costellazioni fossero chiarissime, come se nessuna nube o luce artificiale le offuscasse, il Grande Carro proprio non si vedeva.
Fu soltanto in un secondo momento che si rese conto di un altro, quanto meno inquietante, dettaglio: come diamine faceva a vedere il cielo? Non era forse in camera sua, sotto un solido tetto? Isabel rifletté un attimo sulle varie alternative, ed infine decise che era proprio il caso di alzarsi e guardarsi attorno.
« Oh … merda … ». Di solito Isabel non era volgare, ma quella volta l’unica affermazione logica e pertinente era proprio “ oh, merda “: qualsiasi altra cosa sarebbe suonata riduttiva. Del resto, che altro si poteva dire di fronte ad una campagna verde, perfetta, mossa da dolcissime colline e con un piccolo villaggio medioevale in lontananza?
 
« Il trucco sta tutto nell’espirare con calma. Così: inspirare, espirareeeee, inspirare, espirareeeee … ». Era quasi mezz’ora che Isabel tentava di calmarsi. Aveva pianto, strillato, tremato, chiamato aiuto e poi pianto ancora; al momento aveva deciso che fare l’isterica non serviva ad un bel niente e stava provando a vincere il panico che le attanagliava la base dello stomaco.
« … inspirare, espirareeeee … okay, sono calma », concluse infine, anche se sapeva perfettamente che non era vero. Del resto, aveva smesso di piangere e di strillare e probabilmente per quella sera era quanto di meglio potesse pretendere da sé stessa.
« Vediamo di ragionare », si impose, sedendosi sull’erba, le spalle a quel dannatissimo villaggio che – non c’era altra spiegazione – doveva per forza essere un frutto della sua malata fantasia. « Allora, che cosa stavo facendo? », provò a ricordare: dovette concentrarsi per un momento, ma alla fine riuscì a rammentare sé stessa al telefono con Jo, mentre assorta esaminava il ciondolo. « Il ciondolo! », esclamò, portando una mano al collo: il pendente era lì, leggero come una piuma nonostante la mole. Isabel se lo sfilò e lo osservò al fioco chiarore delle stelle.
« Non dirmi che … », mormorò, alzando si scatto gli occhi al cielo. Controllò decine di volte, dandosi della pazza, dell’isterica e della credulona, ma alla fine dovette arrendersi al fatto che le stelle racchiuse in quella pietra erano identiche alle costellazioni aliene che le brillavano sulla testa. « No, andiamo, Isabel, non essere ridicola. Si tratta soltanto di una banale coincidenza! », si disse, ma senza riuscire a convincersene del tutto.
Dopo un attimo, sospirò, arrendendosi. « Okay, non è una coincidenza. Ma allora? Che cosa diavolo mi è successo? », si domandò, senza curarsi di parlare ad alta voce: non c’era nessuno nel raggio di miglia, e se anche gli abitanti del villaggio l’avessero sentita, non le importava. Dopotutto, il villaggio era un frutto della sua fantasia.
« Oh, cacchio! », sbottò, crollando a pancia in su sull’erba fresca e folta. Chiuse gli occhi, imponendosi di pensare. Allora, che cosa sapeva? Sapeva che stava osservando il ciondolo, che di colpo si era sentita strana, come lontana, distante, e che subito dopo si era addormentata. Quando aveva aperto gli occhi era in compagnia dei frutti malati della sua fantasia e di un cielo che a rigor di logica non doveva esistere.
Senza accorgersene riprese a piangere: che cosa cavolo le era successo? Voleva la sua mamma, voleva suo papà, le bastava persino sua sorella, qualcuno maledizione! Qualcuno che la riportasse indietro! Non pretendeva Edward, anche Julia o Joseph sarebbero andati più che bene! Diamine, anche la Madisons sarebbe andata più che bene! Che diavolo era successo?
« Non ci credo, non è possibile … », mormorò tra i singhiozzi: dove cavolo era finita? « Certe cose non succedono. Non può essere vero. Certe cose non succedono. Non succedono e basta e tutto questo non è vero », prese a ripetere ossessivamente, rifiutando di accettare l’idea balzana ed improbabile che fosse finita da qualche altra parte, particolarmente lontano da casa. Un “ qualche parte “ dove le stelle erano diverse e il tempo si era fermato qualche centinaio di anni prima.
Strinse forse le palpebre e si tappò le orecchie. « No, no, no! Non è vero, non è possibile! », gridò, il più forte possibile. Gridò finché ebbe aria nei polmoni, e poi continuò comunque a gridare. Puntini rossi le apparvero davanti agli occhi, le gambe si fecero molli e lei cadde in avanti, bocconi, senza forze, senza smettere di gridare. Perché a lei? Perché? E, soprattutto, com’era possibile? Che cosa le era successo?
Isabel si raggomitolò su sé stessa e, per quanto si vergognasse e cercasse di fermarsi, scoppiò in un pianto dirotto. Le stelle ancora ammiccavano lucenti in cielo, quando infine – stremata e tremante – crollò in un sonno senza sogni.
 
Si svegliò all’alba, rimanendo per un istante a fissare il sole che sorgeva da dietro le colline. Le occorse un minuto prima di ricordare dove si trovava e quello che era accaduto, ma fortunatamente non ricadde nel panico isterico della sera prima. Doveva rimanere tranquilla: le era successo qualcosa di completamente assurdo, incredibile persino, e il panico non sarebbe certo servito a renderlo più comprensibile. Ma del resto… sua mamma, suo papà, Dawn, Jo… il loro semplice pensiero le faceva pungere le lacrime agli occhi e lei dovette lottare a lungo per non ripiombare in un pianto disperato. Si levò a sedere e si impose di riflettere razionalmente.
« Bene … allora, innanzitutto devo di capire dove sono », stabilì, anche se il problema poteva anche essere non dove ma quando. Le balzò infatti alla mente che potesse semplicemente essere finita indietro nel tempo e che le stelle aliene fossero quelle dell’altro emisfero terrestre.
« C’è un solo modo per scoprirlo ». Si alzò in piedi e si mise a camminare verso il villaggio. La campagna era bella da mozzare il fiato, coi prati di un verde perfetto ed i boschi fitti, dagli alberi alti, secolari, evidentemente frutto del caso di natura e non del lavoro dell’uomo. Era un posto vergine, o almeno quella era l’impressione che dava. Ad un certo punto uno scoiattolo le attraversò la strada, scomparendo in cima ad una quercia. Isabel rimase sbalordita: non sembrava minimamente spaventato da lei!
Scese una collina particolarmente ripida e finalmente giunse nelle vicinanze del villaggio. La prima cosa che la colpì fu che non si trattava di un villaggio medioevale. Certo, lei non era una storica o un’archeologa, però quello non era medioevale. Le case erano di legno, bianche di calce, coi tetti alti e… le si mozzò il fiato in gola. Un uomo era uscito da una delle case e si stava avviando verso uno dei campi coltivati dietro il villaggio con una zappa in mano. E, che le venisse un colpo, quell’uomo era vestito da antico Romano.
 
« Va tutto bene. Va davvero tutto bene ». Per quanto lo ripetesse, Isabel non riusciva proprio a convincersene. Si era lasciata cadere seduta sull’erba, incapace di proseguire d’un altro passo, e stava da quasi mezzora cercando di dare un senso a quella situazione che di senso non ne aveva proprio.
Era finita nell’Antica Roma. E che cavolo! Non era possibile! La gente non finiva nell’Antica Roma così, per caso. Anzi, la gente non finiva nell’Antica Roma punto e basta! Certe cose accadevano solamente nei film di Hollywood e nei libri che leggeva Dawn. E magari nemmeno in quelli.
Si passò una mano tra i capelli perfino più scompigliati e ribelli del solito e sentì le lacrime pungerle nuovamente gli occhi. Le ricacciò orgogliosamente in gola: no, aveva pianto fin troppo. Certo, era sotto shock, ma se cedeva di nuovo al panico non avrebbe ottenuto un bel niente. Doveva rimanere lucida e cercare una soluzione.
« Guardiamo il lato positivo: ora so dove e quando sono. È già qualcosa. Adesso devo solo scoprire come tornare indietro, e presto ». Prese in mano il ciondolo e lo esaminò ancora una volta. Le stelle incastonate nella pietra continuavano ad ammiccarle maliziose, ma per quanto le fissasse non riuscì a provare niente di simile a quel senso di torpore e lontananza che aveva sentito quando era stata scaraventata laggiù.
« Quando torno devo proprio dirne quattro a Zia Dag », stabilì, rimettendosi in piedi. Ora si trovava di fronte ad un bivio: o si dirigeva al villaggio e vedeva cosa poteva ricavarne, oppure… già, oppure cosa? Cosa poteva fare?
« Rifletti, Isabel, rifletti », si impose. Che cosa le serviva? Sì, a parte la mamma e un caffè forte, che cosa le serviva?
« Il modo per tornare a casa », rispose a sé stessa. Bene, e come poteva trovare questo modo? Lei non ne aveva idea, quindi doveva chiedere. Ma a chi? Chi poteva saperne qualcosa in proposito? Non voleva finire nelle mani di qualche stregone che le suggerisse un salasso per spurgarsi simili idee balzane dal sangue! No, aveva bisogno di qualcosa di meglio, qualcosa di più obiettivo… come un libro! « Sì, libri! », esclamò. Un trattato sulle gemme o leggende o cose del genere.
Sì, eccole allora le due possibilità: o il villaggio o mettersi in marcia nella speranza di incappare in una grande città dove consultare una biblioteca o qualcosa del genere in merito alle proprietà magiche delle pietre con le stelle.
« E vada per la grande città », concluse, voltando le spalle a quel villaggio che proprio le stava antipatico e mettendosi in marcia. Ben presto le scarpe pratiche da casa che ancora indossava si rivelarono inadatte su quel terreno erboso e fangoso, bagnato di rugiada, ma quanto meno indossava una tuta comoda e calda. Certo, non era precisamente il must della stagione, ma era sempre meglio della gonna e dei collant. Con quelli non sarebbe sopravissuta un’ora. Anche se, a dire il vero, forse sarebbero passati più inosservati dei pantaloni e della felpa col cappuccio.
« Eh, già. E poi come lo spiegavo il nylon? », commentò ad alta voce Isabel. Forse la tuta era un pugno in un occhio, in mezzo a tante toghe, ma quanto meno era di puro cotone. Non che fosse una gran consolazione, certo, ma Isabel si sforzava con ogni briciola del suo essere di guardare il bicchiere mezzo pieno.
« Diciamo così: meglio se non incontro nessuno finché non ho trovato il modo di cambiarmi », sentenziò alla fine, imponendosi di non pensare più al suo abbigliamento.
Del resto, non era certo quello il suo problema maggiore. Escludendo il dettaglio di essere finita nell’Antica Roma e di non avere la minima idea di come tornarsene a casa, al momento si trovava nei guai fino al collo: non aveva il becco di un quattrino – qualcosa le diceva che lì non accettavano i dollari – non sapeva dove si trovava e non parlava una parola di latino. In effetti, a voler essere ottimiste, era nei liquami fino al collo.
« Quando torno a casa, credo che Zia Dag mi dovrà qualche piccola spiegazione », ripeté ansimando, proseguendo lungo il crinale di una dolce collina.
Cercava di non pensare alla sua famiglia e alla sua situazione: aveva l’impressione che se si fosse soffermata a riflettere su tutta quella storia, si sarebbe seduta a terra ed avrebbe cominciato a gridare senza più riuscire a smettere.
Stringendo i denti, aumentò il passo. Doveva arrivare in città il prima possibile. Finalmente arrivò sulla vetta e si guardò attorno. Lo spettacolo le mozzò il fiato in gola. Era la campagna più grande, verde e intatta che avesse mai visto. Nessun documentario, nessun film, nessun libro l’aveva preparata ad una simile visione di purezza, con gli alberi secolari, i prati d’un verde brillante, l’erba alta e folta, i fiori che coloravano sezioni intere d’orizzonte, il piccolo torrente che lambiva dolcemente le colline, i conigli selvatici che brucavano il trifoglio, un branco di cerbiatti o caprioli o quello che erano che si muoveva tranquilli appena oltre la linea degli alberi. Era tutto così vero, così intatto, così puro.
« Mio Dio … », riuscì soltanto a mormorare, quando da dietro un’altra collina comparve un piccolo branco di cavalli selvatici. Erano una dozzina di animali, per lo più bai e sauri, anche se Isabel distinse subito un magnifico cavallo bianco come la neve ed un altro scuro come la notte. Anzi no, un’altra, si corresse subito la ragazza, quando vide la pancia rigonfia della morella. Era chiaramente incinta, ma si muoveva con la grazia di una ballerina.
« Magnifico », sorrise Isabel, lasciandosi cadere sull’erba soffice, in mezzo ai fiori bianchi che innevavano quel fianco della collina. Rimase a lungo ad osservare il branco muoversi pacifico, brucare l’erba tenera ed ancora fresca di rugiada, osservando come ipnotizzata i loro movimenti fluidi, eleganti, perfetti. In qualche modo la calmavano, quietavano le sue ansie, come se la loro semplice presenza la facesse sentire un po’ di più a casa.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase lì, seduta ed immobile, senza pensare a niente, senza preoccuparsi del denaro, della lingua o del fatto che non era per niente logico che lei in quel momento non si trovasse nella sua cameretta al telefono con Jo.
Si riscosse solamente quando il cavallo bianco le si avvicinò incuriosito. Rimase talmente sbalordita da una simile audacia da non riuscire a muoversi, osservando estatica il magnifico animale che si faceva sempre più vicino.
Isabel non era mai stata una grande esperta di cavalli, però da bambina aveva imparato a montare ed aveva sfogliato piena di meraviglia un’enciclopedia delle razze equine che sua nonna le aveva regalato per Natale. L’animale che aveva di fronte aveva tutto meno il pedigree, ma non di meno era obiettivamente splendido: aveva la criniera lunga, dai crini sottili, splendenti come seta. Gli occhi erano grandi, neri come ossidiana e profondamente intelligenti. Forse troppo intelligenti per essere definiti buoni o gentili. Sembravano scrutarla attentamente e – notò Isabel con un mezzo brivido – capire. Di certo aveva forme perfette, possenti ed aggraziate, con le gambe lunghe e forti di un corridore ed il petto solido dai muscoli guizzanti. Sottili ciuffi di pelo ricoprivano gli zoccoli duri, mentre i crini della lunga coda bianca sfioravano i ciuffi d’erba.
« Ciao », mormorò piano Isabel quando il cavallo giunse a meno di un metro da lei. L’animale non parve minimamente infastidito dal suono della voce umana. Allungò invece il muso e le annusò una spalla. Poi le sfiorò il capo e mosse la bocca come per mangiarle i capelli. Ridendo, Isabel si ritrasse, ma ancora una volta il cavallo non si spaventò.
« Siamo coraggiosi, eh? », esclamò la ragazza, chinandosi sul terreno per sbirciare il ventre dell’animale, « E, decisamente, siamo dei maschietti ». Strappò un ciuffo d’erba e lo tese allo stallone. Questi annusò prima le sue dita, sbuffò e mangiò il trifoglio fresco dalla sua mano, come se non avesse fatto altro per tutta la vita. Quindi, con noncuranza, si mise a brucare accanto a lei. Isabel rimase ad osservarlo a lungo, poi però si ricordò che aveva ben altro da fare che sognare ad occhi aperti. Doveva raggiungere una città prima che facesse buio, perché non aveva nessuna voglia di passare la notte all’aperto. Se di giorno quelle colline brulicavano di dolci coniglietti e timidi caprioli, non aveva davvero nessuna voglia di scoprire di cosa brulicavano non appena tramontava il sole.
Perciò si alzò, lentamente per non spaventare lo stallone bianco, che però si limitò a gettarle un’occhiata curiosa senza smettere di brucare. Incoraggiata da tanto ardimento, Isabel gli diede una pacca sul collo muscoloso. « Arrivederci, amico mio. Buona fortuna coi lupi », lo salutò, riprendendo il suo cammino.
Discese la collina verso il ruscello, del quale assaggiò le acque ricordandosi che era un bel pezzo che non beveva e non mangiava un bel niente. A parte il trifoglio, però, non c’era nulla nelle vicinanze che potesse essere mangiato senza spargimento di sangue, perciò Isabel decise di rimandare il pranzo ad un momento migliore. « Mi sa che quando torno potrò fare la modella », commentò la ragazza quando il suo stomaco prese a brontolare. Cercava di essere ottimista, ma si rendeva conto di esserlo forzatamente, al punto da non ingannare nemmeno sé stessa.
Sospirò e, superando il torrente d’un balzo, riprese a camminare. Nel giro di dieci minuti si era lasciata alle spalle la valle ed il branco di cavalli, giungendo in una campagna meno ondulata sulla quale spiccava, come una ferita su un bel volto, un sentiero di terra battuta.
« Be’, da qualche parte condurrà », commentò Isabel, più decisa che mai a giungere in un grosso centro abitato e munito di una biblioteca o santone o maga che fosse. Le andava bene persino uno sciamano, basta che le spiegasse cosa diavolo era quella pietra e come cavolo aveva fatto a trasportarla lì. Probabilmente era una follia sperare di avere una qualche spiegazione, ma al momento non le veniva in mente niente di meglio. E comunque, non poteva passare il resto dei suoi giorni in campagna con i conigli.
Prese dunque il ramo del sentiero che portava a sinistra e si incamminò di buon passo. Notò subito i solchi nel terreno e le molte impronte, di cavallo e di uomo, deducendone che si trattava di una strada molto trafficata. Il che era un bene, perché significava che conduceva in una città piuttosto importante; ma allo stesso tempo era un male, perché significava che presto o tardi avrebbe incontrato qualche Antico Romano che di certo avrebbe notato la sua mise fuori moda ed il suo strano accento.
« Oh, be’, non potevo mica sperare che non accadesse mai. Prima o poi si incontra per forza qualcuno », cercò di tranquillizzarsi Isabel, ma la realtà era che si sentiva paralizzata dal terrore.
Le gambe quasi le cedettero quando alle sue spalle udì rumore di zoccoli. Si voltò lentamente, come se si aspettasse di veder comparire un fantasma da un momento all’altro, ed ebbe un colpo quando una sagoma famigliare si stagliò sul sentiero.
« Tu? Che cavolo ci fai qui? », esclamò Isabel.
Lo stallone bianco ignorò il suo stupore e le venne incontro. Andò a strusciarle la testa contro la spalla, come un gatto che reclama le coccole. Incredula, la ragazza gli accarezzò il manto vellutato. « Non dirmi: hai deciso di andar in cerca di fortuna e vedere il mondo », ridacchiò Isabel, senza sapere cosa pensare. Cosa gli prendeva, a quel benedetto animale? Perché si era messo a seguirla?
« Credo che dovresti tornare indietro », gli ordinò con voce dura ed un movimento brusco del braccio. Lo stallone, irritato, arretrò d’un passo, ma poi nuovamente prese a strusciare il muso contro di lei. Isabel, sospirando, lo accarezzò.
« Sei un pazzo. Vattene! », stava per spingerlo via, quando le venne in mente che in fondo la strada per la città poteva essere più lunga del previsto. Prese la testa del cavallo tra due mani e la sollevò in modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza. L’animale ricambiò con decisione il suo sguardo. « Siamo due cretini », sentenziò Isabel, depositando un bacio sulla fronte dell’animale. « Avanti, andiamo ». Lasciò andare il capo dello stallone e afferrò un ciuffo di crini della sua serica criniera, rimettendosi in cammino. L’animale, senza minimamente protestare, la seguì con passo cadenzato ed elegante.
Isabel sapeva che sarebbe stato più logico montargli in groppa, però non cavalcava dall’età di undici anni e per di più non aveva mai provato a montare a pelo. Avrebbe tentato solamente quando i suoi piedi avrebbero iniziato a gridare pietà.
Dopo un po’ Isabel iniziò a sentirsi vagamente stupida, camminando al fianco di uno stallone come se fosse un cane, e suo malgrado scoppiò in una sonora risata. « Oh … santo cielo … », esclamò scuotendo il capo. Il cavallo la fissò incuriosito.
« Be’, amico mio, eccoci qua. Che coppia, eh? I due più scemi delle nostre razze », esclamò lei, « Non ho capito come ti chiami ». Il cavallo continuò a fissarla, « Ah, sei timido. Be’, io sono Isabel. Isabel Nelson, piacere. Ho sedici anni e soltanto ieri vivevo nel ventunesimo secolo. E tu? ».
Il cavallo si limitò a camminare tranquillo. « Come dici? Sei scappato di casa? Ma è terribile, amico mio, davvero terribile! Sei un vero furfante! ». Sorrise, « Be’, piccolo, dovremo trovarti un nome. Che ne dici di … emh… che ne so, Sansone? », azzardò, ma il cavallo non la degnò di uno sguardo. « No, hai ragione, è più un nome da vecchio ronzino grasso. Ci vuole qualcosa di più pimpante. Fulmine, forse? ».
Il cavallo scrollò la criniera, infastidito da una mosca di passaggio. « Oh, scusami tanto! Non volevo offenderti! », fece Isabel, « E comunque sì, hai ragione, è troppo banale. Allora lasciami pensare… però pensa anche tu, d’accordo? ». Per un po’ proseguì in silenzio, prima di avere un’illuminazione. « Ci sono! Che ne pensi di Furia, come il cavallo del west? ».
Lo stallone continuò ad ignorarla. Si limitava a camminare al suo stesso passo, osservando pigramente la campagna attorno a loro. « Oh, capisco! Sei bianco, non nero. Hai ragione, hai ragione. È un aspetto da non trascurare. Be’, ma allora sono rimasta senza idee. E che cavolo! ».
Stava per riprendere a riflettere, quando l’occhio le cadde su qualcosa. « Oh … che mi venga un colpo! », esclamò: a meno di cento metri sulla destra del sentiero sorgeva un alto albero di mele, grosse e rosse come quelle che si disegnano da bambini.
« Pancia mia, fatti capanna! », rise, uscendo dal sentiero e correndo sotto la pianta. Lo stallone, senza esitare un solo momento, le venne dietro passando al piccolo trotto. Isabel provò ad arrampicarsi sul grosso tronco nodoso dell’albero, per arrivare ai rami più bassi, ma a parte scorticarsi i palmi delle mani non ottenne alcun risultato. Tentò persino di saltare ed afferrare una mela al volo, ma persino il ramo più carico e piegato era fuori dalla sua portata.
Si voltò verso lo stallone. « Ehi, amico, vieni un po’ qui ».
Afferrò il cavallo per la criniera e lo condusse sotto la chioma del melo. Dopo un paio di tentativi riuscì a montargli faticosamente in groppa: era davvero un animale magnifico, ma al garrese era alto almeno una decina di centimetri più di lei e non fu un’impresa semplice per la piccola Isabel. Dall’alto del dorso del cavallo, però, le mele erano molto più vicine. Bastò allungarsi un poco e riuscì a coglierne una dozzina abbondante. Ne assaggiò una: era dolce e succosa. Isabel socchiuse gli occhi, deliziata: non aveva mai mangiato un pomo dal gusto anche solo vagamente simile. Riconoscente, ne tese una allo stallone, che lo divorò in un paio di morsi.
« Be’, amico mio senza nome, eccoci qua », esclamò Isabel, guardandosi attorno. Era una magnifica sensazione, starsene in groppa a quell’animale magnifico, le gambe a penzoloni ed il sapore divino di quella mela a stuzzicarle il palato. Decise che non valeva davvero la pena di continuare a piedi. « Su, forza, piccolo mio, proseguiamo », esclamò, sfiorando appena i fianchi dell’animale coi talloni. Obbediente, il cavallo si mise in cammino, tornando sul sentiero e riprendendo a percorrerlo con passo lento e cadenzato.
Isabel, completamente rilassata, divorò una mela dietro l’altra, faticando a costringersi a lasciarne qualcuna per quella sera. Cacciò i pomi sopravissuti nelle ampie tasche della felpa e si pulì le mani sui pantaloni della tuta, guardandosi attorno senza più alcun angoscia. La campagna era magnifica, il sole tiepido, la pancia piena ed il cavallo faceva la strada per lei: cosa poteva chiedere di più dalla vita?
« Tornare a casa? », si rispose da sola, acida. « Grazie alla formula magica trovata in un libro, magari! », aggiunse, in preda allo sconforto: ma che cosa stava facendo? Davvero credeva che avrebbe trovato un volume rilegato in pelle umana con su scritto “come tornare nel ventunesimo secolo in cinque mosse”? « Dannazione! ».
Innervosito dal suo tono irritato, lo stallone bianco sbuffò, scrollando il capo. « Scusa, amico mio. Stavo solo parlando ad alta voce », sospirò lei, accarezzandogli il collo per calmarlo.
« Ehi, sai che forse ho avuto un’idea? Visto che in fondo qui siamo a Roma e che tu sei un cavallo Romano, potrei darti un nome adeguato: che ne dici di Elisium? Come i Campi Elisi, il paradiso dei Romani. Perché, ti giuro, amico mio, che mi sei apparso proprio come un angelo dal paradiso ».
Lo stallone nitrì, aumentando il passo al piccolo trotto. Ridendo, Isabel decise di interpretare quell’improvvisa vivacità come un sì. « Ed Elisium sia, quindi! Piacere di conoscerti, amico mio! », esclamò.
 
Il sole sfiorò le colline alla loro sinistra e Isabel capì che non avrebbero raggiunto nemmeno l’ombra di una città in tempo. Davanti e dietro di loro, fino all’orizzonte, non c’era altro che verde campagna e la linea sinuosa di quel sentiero che si perdeva a vista d’occhio. Sconfortata, Isabel si arrese all’idea di dover dormire all’aperto anche quella notte. Si guardò attentamente attorno finché non scorse un albero dalla folta chioma e vi diresse Elisium.
Quel cavallo era a dir poco straordinario. Bastava il suo minimo tocco e lui faceva esattamente quello che la ragazza aveva in mente. A volte tanta perspicacia le faceva quasi paura, ma per lo più era confortante l’idea di avere al fianco qualcuno che la capisse così bene. Si sentiva non solo meno sola, ma – sebbene fosse assurdo – anche molto più al sicuro.
Le prime stelle già illuminavano la volta celeste quando Isabel ed Elisium consumarono le loro ultime mele, all’ombra del grande albero. Lo stallone poi si mise a brucare dei brutti fiori gialli e Isabel si appoggiò contro il tronco certa di star per passare la peggior notte della sua vita. Invece, vinta dalla stanchezza, si addormentò quasi subito.
 
Fu un rumore indistinto a svegliarla. Allarmata, spalancò gli occhi, guardandosi attorno prima un po’ confusa – che diamine ci faceva in aperta campagna? – poi, non appena ricordò quanto le era accaduto, decisamente allarmata: da dove veniva quel rumore? Notò che era giorno ed il sole già piuttosto alto le disse che l’alba era passata da un pezzo, e vide Elisium poco distante che, ritto e fremente, fissava nervoso un punto indistinto alle sue spalle.
Lentamente, spaventata, Isabel si voltò. Fu subito chiaro che cos’era e da dove veniva quel rumore: una colonna di carri trainati da enormi buoi avanzava lungo il sentiero nella sua direzione. Non erano carri di contadini: anche all’occhio inesperto di Isabel era evidente che erano ben costruiti – delle specie di Rolls Royce dell’antichità –, che i buoi erano pasciuti e possenti, che le tende che li ricoprivano erano di stoffa costosa e pesante e che il seguito era troppo numeroso e ben vestito per essere quello di un venditore di grano o di un mugnaio. In particolare, c’era un uomo a cavallo che precedeva il convoglio. Un uomo armato.
Isabel sentì un brivido correrle giù per la spina dorsale ed istintivamente allungò una mano per chiamare Elisium. Il cavallo, pronto ed intuitivo come sempre, le fu subito accanto. Isabel afferrò con forza la criniera e si issò rapidamente in groppa, pronta e decisa a fuggire il più lontano possibile da quegli estranei.
« Ferma! », gridò l’uomo armato.
Isabel rimase paralizzata. E non certo per l’ordine.
Il fatto era che l’aveva capito. Quell’uomo aveva parlato in latino e lei l’aveva capito alla perfezione.
« Oh, mio Dio … », mormorò impallidendo. E si rese conto soltanto allora che anche lei stava parlando in latino.
Un improvviso, acuto senso di nausea la assalì. Faticò parecchio a non dare di stomaco e quando finalmente riuscì a riprendere il controllo l’uomo armato, che aveva spinto il cavallo al trotto, l’aveva raggiunta.
« Ferma, ragazza! », le gridò ancora l’uomo, sebbene lei non avesse mosso un muscolo. « Quanto manca ancora al mare? ».
Isabel aggrottò le sopraciglia: mare? Quale mare? Dove diamine si trovava?
« Io … io non lo so. Sono straniera e mi sono persa », esclamò, rabbrividendo d’orrore ad ogni sillaba in latino che le sue labbra pronunciavano.
« Sì, avevo intuito che fossi straniera », commentò l’uomo adocchiando la sua tuta, « Davvero non sai quanto dista il mare? ».
Isabel scosse il capo. « Non so nemmeno da che parte è ».
L’uomo sospirò. « Ah, magnifico! », gemette, voltandosi e facendo un segnale agli altri del convoglio. Isabel vide parecchi sollevare le braccia al cielo, esasperati.
« È molto che viaggiamo », spiegò l’uomo armato, seguendo il suo sguardo, « Mi chiamo Manio Umbrio ». Era un bell’uomo sulla soglia della quarantina, con un fisico da soldato, capelli tagliati molto corti ed un’ombra di barba color del ferro che gli induriva le guance e la mascella dal taglio duro e risolto. Non ci voleva una laurea in storia per capire che era un Romano.
« Io sono … », Isabel si morse la lingua. Non poteva presentarsi come Isabel Nelson! Arrancò nei meandri della sua mente alla ricerca di un nome Romano, ma più che Giulia o Cornelia non riuscì a rammentare, e quelli erano nomi troppo importanti ( o almeno, così ricordava dalle lezioni di storia ), che davano decisamente nell’occhio e avrebbero scatenato un fiume di domande. Per di più, rammentò, aveva detto di essere straniera. Non poteva dare un nome così Romano. Ci voleva qualcosa che suonasse plausibile ma allo stesso tempo non patrizio. Un attimo dopo ebbe un’idea. « Io sono Marta Alessandra », rispose, soddisfatta. Suonava un po’ greco, un po’ giudeo ed un po’ Romano e di certo non avrebbe suscitato la curiosità dell’uomo armato.
« Onorato, Marta Alessandra », esclamò infatti Umbrio, senza lasciar trasparire il minimo sospetto o perplessità. « Posso chiederti cosa ci fai … emh … qui? », le domandò, rivolgendole un’occhiata eloquente. Isabel comprese subito che cosa intendesse: era una ragazza sola, vestita con pantaloni ed una strana tunica corta con cappuccio, in sella ad un magnifico stallone bianco senza sella né briglia, straniera e a suo dire sperduta. Era una storia che faceva più acqua di un colabrodo. Isabel inspirò e si preparò a raccontare una delle bugie meglio costruite della sua vita.
« Io vengo dall’est », cominciò, rimanendo volutamente sul vago, « E circa un anno fa i miei sono morti … aah… per una strana epidemia che ha colpito la nostra regione. Il fratello di mio zio vive da queste parti … ».
« È un Gallo? », la interruppe Umbrio, sorpreso.
Isabel nascose ogni emozione: e così erano in Gallia, ossia la Francia dell’epoca. Bene, quanto meno era un inizio.
« No, è semplicemente immigrato qui per affari ».
« Tratta affari coi Galli? ».
Isabel annuì. « Sì, emh… non hai mai sentito parlare di lui? È piuttosto famoso, col suo allevamento di … emh… cavalli… si chiama … Dagmaro Alessandro », inventò. Dagmar era un nome da donna – il vero nome di Zia Dag, ad essere precisi – ma Umbrio non poteva certo saperlo, né tanto meno notare l’orribile storpiatura latineggiante di quel nome tedesco.
« Dagmaro Alessandro? No, mai sentito nominare. Però la Gallia è talmente grande e noi qui siamo solo di passaggio », ammise Umbrio, facendo sospirare la ragazza di sollievo.
« Oh, be’, questo spiega tutto. Comunque… ah… sì, stavo dicendo: Dagmaro Alessandro è il solo parente rimastomi in vita, così ho deciso di raggiungerlo. Ho preso con me la mia serva ed un paio di uomini ed ho attraversato … be’… foreste e campagne, per arrivare qui ».
« Siete passati per la Germania? », esclamò Umbrio, a dir poco allibito ed incredulo.
« Cosa? No, no, certo che no! », escusse il capo Isabel, annaspando alla ricerca di una soluzione, « Ovviamente abbiamo deviato per l’Italia! ».
« Ah! Capisco … più lungo ma più sicuro, giusto? ».
« Infatti, infatti », annuì Isabel, sentendosi stanca e sudata come dopo una lunga maratona, « E così sono arrivata fin qui … cioè, voglio dire, ... sono arrivata… arrivata… sì, scusami, mi ero persa », sorrise forzatamente lei, « …sono arrivata a casa di mio zio, ma purtroppo … », si interruppe, fingendo di sospirare, in maniera da prendere tempo alla ricerca di una soluzione.
« Lasciami indovinare », la prevenne però Umbrio, « L’hai trovata in fiamme », scosse il capo, « Questi barbari! Saccheggiano e depredano e nessuno può fermarli! ».
« Infatti! Proprio così », annuì Isabel, fingendosi addolorata, « Il problema è che a quel punto i miei servi hanno capito che non sarebbero stati pagati e così sono fuggiti via, prendendo anche tutto il mio bagaglio », proseguì, grata a Dio e tutti i santi per quell’improvviso colpo di genio, « Ed io non ho potuto fare altro che prendere l’unico cavallo scampato alla razzia e mettermi in cammino, sperando di riuscire a trovare la strada di casa… anche se a questo punto non credo più di averne una », concluse, con un tono mesto che di certo le sarebbe valso l’Oscar.
« Per Giove, che storia! Ragazza mia, sei stata incredibilmente sfortunata! Ma molto coraggiosa, te ne do atto, davvero molto coraggiosa. Ah, ecco i miei compagni », esclamò, voltandosi verso il resto del convoglio che nel frattempo li aveva raggiunti.
Isabel, un po’ nervosa, si mosse a disagio, cercando affannosamente una scusa per dileguarsi. Umbrio, nel frattempo, si avviò verso il più ricco e grande dei carri – una specie di casa su ruote – e scostò la tenda scambiando qualche parola con un uomo all’interno. Un attimo dopo uno degli schiavi del convoglio – Isabel lo riconobbe come tale dalla targhetta che gli pendeva al collo, come aveva imparato guardando Discovery Channel – si affrettò a sistemare una specie di sgabello accanto al carro. Un uomo ne discese usando lo sgabello come scaletta e voltandosi subito verso di lei. Era molto anziano, sui settant’anni almeno, magro come uno spaventapasseri, piccolo e curvo, ma con una folta capigliatura bianca, una barba ben curata ed un fuoco ardente nello sguardo blu come il mare.
« Marta Alessandra, giusto? », le domandò in un latino dallo strano accento.
Isabel annuì. « Sì, dominus, sono io ». Smontò da cavallo e gli si avvicinò trattenendo Elisium per la criniera. Non che ve ne fosse bisogno: lo stallone la seguiva come un fedele cagnolino.
Il vecchio le sorrise come un nonno benevolo. « Manio Umbrio mi ha raccontato la tua storia. Povera piccola, sarai spaventata e smarrita! ».
Isabel fece spallucce. « Me la cavo, dominus. Ammetto di essere stata a lungo spaventata e smarrita, ma alla fine bisogna pur reagire in qualche modo, non credete? ».
Il vecchio allargò un sorriso. « Sagge parole. Mi sorprende udirle da una bocca così giovane ».
Isabel chinò il capo, accettando il complimento. Le piaceva, quel vecchietto dall’aria gentile. Le dava l’impressione di nascondere una mente alla Churchill ed una volontà alla Rommel. In politica avrebbe spopolato.
« Il mio nome è Nicandro. Sono un umile mercante », si presentò, facendo sorridere tutti i presenti. Isabel ebbe la certezza che fosse tutto tranne che umile.
« Mercante? Mercante di cosa? », domandò.
Nicandro allargò il suo sorriso sdentato. « Oh, in molte cose, in effetti. Qui in Gallia, comunque, sono giunto per via di un giacimento di ferro purissimo ».
« Ah, capisco. Per le spade ».
« Tra le tante cose », annuì il vecchio, « Ed ora, figliola, pensi che sarebbe onorevole per te proseguire in nostra compagnia? Siamo tutti uomini, temo, ma armati solamente delle migliori intenzioni ».
Isabel rifletté per un attimo sulla questione. Cosa doveva fare? Unirsi a loro o proseguire da sola?
Scosse il capo: no, la vera domanda non era quella. Doveva essere sincera con sé stessa: la vera domanda era se voleva continuare a cercare una biblioteca o meno. Riflettendoci a mente fredda sapeva che non avrebbe potuto trovare nessuna informazione utile su come far funzionare quella dannatissima pietra, ma del resto a mente fredda avrebbe anche escluso la possibilità che un uomo potesse viaggiare nel tempo.
D’altronde, si disse poi, aveva più possibilità di sopravvivere ed arrivare in città rimanendo con loro, piuttosto che proseguendo da sola alla cieca. Doveva fare un passo alla volta: prima trovare una città, mettersi al sicuro, poi pensare a come tornare a casa. Se metteva il carro davanti ai buoi sarebbe finita in pasto ai lupi in meno di una settimana.
« Accetto molto volentieri », esclamò infine.
Nicandro sollevò le folte sopraciglia bianche. « Non temi per la tua reputazione? ».
Isabel fece spallucce. « Ho due scelte: o vengo con voi e metto a repentaglio la mia reputazione, o rimango da sola e metto a repentaglio la mia pelle. Sinceramente, viste le possibilità di scelta, la mia reputazione può anche finire al diavolo ».
« Al diavolo? », ripeté Nicandro, confuso.
« A ‘fanculo, se preferite », spiegò lei con un largo sorriso.
Il vecchio rimase per un momento interdetto, poi scoppiò in una sonora risata, imitato subito da tutti i suoi uomini.
« Ecco una ragazza di spirito! », commentò Nicandro. « Or bene, se tu non ti curi di quello che dice la gente, non vedo perché dovrei farlo io che sono così vecchio! Avanti, quindi, andiamo! », rimise un piede sullo sgabello e le fece cenno di seguirla.
« Io … », lo fermò lei, « … se per voi fa lo stesso preferisco cavalcare ». Aveva notato quanto traballassero quei carri sul sentieri accidentato e preferiva di gran lunga proseguire in groppa ad Elisium che farsi sbatacchiare come una fragola in un frullatore dentro uno di quei cosi.
Nicandro annuì. « Capisco. Ah, la gioventù! Affiancati però al mio carro, così potremo parlare ».
Isabel spinse in avanti lo stallone e raggiunse il grande carro del vecchio mercante proprio mentre il convoglio si rimetteva in marcia. Manio Umbrio riprese la sua posizione in testa e iniziò a dare ordini agli schiavi perché facessero aumentare il passo ai buoi: sembrava impaziente di raggiungere il mare.
« Dove state andando, se posso domandarlo? », esclamò, incuriosita, Isabel.
« Torniamo a casa », rispose Nicandro con un sorriso stanco, « Io vengo dalla Paflagonia, anche se ormai manco da molto tempo. Un mercante come me trascorre gran parte della sua vita in viaggio ma adesso, se gli Dei lo vorranno, potrò riposarmi e godere dei frutti di una vita di sacrifici ».
Isabel gli sorrise. « Sono sinceramente contenta per voi, dominus ».
« Chiamami Nicandro, te ne prego », le sorrise il vecchio, « E parlami di te ».
Isabel deglutì a vuoto: perfetto! E adesso che cosa diamine gli raccontava? « Io … non c’è molto da dire, in effetti. Sono una ragazza piuttosto normale ».
« Una ragazza piuttosto normale che ha attraversato distanze smisurate solo per ritrovarsi con una manciata di cenere e non si è persa d’animo », osservò Nicandro con una sfumatura d’ammirazione nella voce.
Isabel scosse il capo. « No, affatto. Mi dipingete come non sono. Al momento tutto quello che chiedo è tornare a casa », ricacciò a fatica le lacrime in gola, « Voglio solo che tutto torni com’era ».
Nicandro le sorrise dolcemente. « Ma non si può amica mia, non si può. Il tempo scorre sempre in avanti, mai indietro, come un torrente di montagna. Ciò che è stato non può essere cambiato ».
Isabel sollevò le sopraciglia. « Oddio… io avrei qualcosa da obiettare, ma comunque… », borbottò a mezza voce, e per fortuna il vecchio non parve averla udita.
« Dominus, guardate! », esclamò in quel momento Umbrio dalla testa della colonna. Isabel seguì il suo braccio teso e notò che l’erba alla sinistra del sentiero era tutta smossa e calpestata. « Un accampamento Romano, mi ci gioco la testa. Non più tardi di ieri », spiegò Umbrio.
« Soldati di Cesare? », domandò Nicandro, facendo sussultare Isabel. Che cosa? Giulio Cesare? Oh, madonnina santissima…
« Può essere. Ma se lui è qui significa che la zona non è sicura. Sarà meglio sbrigarsi: non voglio fare da antipasto ai Galli», esclamò Umbrio, facendo un cenno agli schiavi che frustarono i buoi. Con un muggito, gli animali presero quasi a trottare.
Isabel lasciò che Elisium si adattasse alla nuova andatura, persa nei suoi pensieri. Che le venisse un colpo! Giulio Cesare! Non aveva pensato di poterlo incontrare! Il capo le girò per l’emozione. Diamine! Quanta gente avrebbe pagato oro per poter avere quell’occasione? E che diamine, persino lei – che tutto voleva tranne essere lì – non poteva non tremare da capo a piedi per l’eccitazione ed il turbamento. Giulio Cesare! Sembrava incredibile…
In effetti, rifletté Isabel, era incredibile, ma non più dell’essere catapultata nell’Antica Roma.
« Sei nervosa », osservò Nicandro.
Isabel scrollò il capo, riprendendosi. « È solo che ho tanto sentito parlare di Giulio Cesare … », rispose, vaga.
« Ti capisco. Ma non aver paura: non abbiamo nulla da temere dai Romani. Vogliono i Biturgi, non noi », le mormorò il vecchio, credendo che il suo tono allusivo nascondesse il timore di essere attaccata dai soldati di Cesare. Isabel decise di non correggerlo.
« Posso farvi una domanda, Nicandro? ».
« Ma certo », annuì il vecchio.
Isabel raccolse il coraggio e le idee. Conosceva quell’uomo da meno di mezzora, ma le sembrava un tipo sveglio ed acuto. E Dio solo sapeva quanto lei avesse bisogno di un consiglio sveglio ed acuto, in quel momento.
« Non so cosa fare. Voglio tornare a casa, ma non so come né se sia possibile. Era mia intenzione raggiungere una grande città per … be’, per trovare un modo, perché il mio cuore si rifiuta di perdere le speranze, ma la mia mente mi dice implacabile che sono soltanto sogni ».
« Perché dici così, figliola? È tanto lontana la tua patria? Più lontana della Paflagonia? ».
Isabel chinò il capo. Ci aveva pensato per tutta la mattina. In effetti, ci aveva pensato da quando si era messa in cammino. Doveva tentare di trovare il modo di tornare, ma la ragione le diceva che non esisteva. O che – quanto meno – se c’era non l’avrebbe trovato in una biblioteca. Probabilmente, si era detta, sarebbe bastato fissare nuovamente il ciondolo in una notte stellata, scivolare in quel caldo torpore e lasciarsi trasportare lontano, esattamente come la prima volta, ma non ne era certa. Ad ogni buon conto, quella sera ci avrebbe provato. Se avesse funzionato, tutto bene; se invece non fosse successo nulla… be’, a quel punto rimaneva poco da fare.
Del resto, non poteva mica presentarsi da un sedicente stregone e dirgli “ ehi, ciao! Io vengo dal ventunesimo secolo! “. Insomma, soltanto a pensarlo lei stessa si prendeva per una pazza!
« Marta Alessandra? », la richiamò Nicandro, facendola riemergere dalle sue riflessioni.
« Scusate », mormorò lei, « Sì, la mia patria è molto, molto lontana. Così lontana che se ve ne parlassi non mi credereste mai ».
Nicandro annuì. « Capisco. Be’, io posso darti uomini e provviste, se è questo che vuoi ».
Isabel scosse il capo. « No, non è questo. Il punto è che non credo di poter più tornare ».
« Non ricordi la strada? ».
« In tutta sincerità, amico mio, non so nemmeno come ho fatto ad arrivare fin qui! », esclamò lei, sbottando in una risatina triste e nervosa.
Nicandro si passò una mano sulla folta barba. « In questo caso, figliola, non so che dirti. Potresti tentare, ma temo che finiresti per perderti ».
« Potrei provare a cercare qualcuno che conosce la strada… ma non so dove cercare. In effetti, la logica mi dice che un uomo simile non esiste ».
« Non puoi dirlo con certezza ».
« Fidatevi, Nicandro, posso », lo contraddisse lei con forza.
« Dunque non puoi tornare indietro », concluse il vecchio, con una semplicità che fu per Isabel come una stilettata al cuore. « Vuoi tentare ugualmente? ».
Isabel sentì una lacrima rigarle il volto. « Voglio, sì. Io … io devo tornare a casa. Altrimenti sento che ammattirei ».
« Allora prova così: tenta per tre volte. Se alla terza fallirai, rinuncia. Quando gli Dèi si oppongono al nostro ritorno, è inutile sfidarli. Si finisce solo col farsi del male ».
« Siete molto fatalista », osservò, cupa, Isabel.
« Sono un vecchio! », si limitò a ribattere lui.
La ragazza annuì. Forse Nicandro aveva ragione: doveva provare, ma se avesse fallito … be’, a quel punto avrebbe dovuto mettere il cuore in pace. Rifletté sulla questione: quella sera stessa avrebbe provato a fissare di nuovo la pietra. In caso di fallimento avrebbe chiesto a Nicandro di indicarle la più ricca biblioteca esistente e vi si sarebbe recata, spulciandone i libri alla ricerca di qualche notizia utile. Se non avesse trovato nulla, avrebbe aspettato un anno, in modo da riprovare a fissare la pietra esattamente nella stessa  notte dell’andata. Chissà, forse era solo una questione di posizione degli astri e roba simile.
« E se anche così non funziona … », mormorò piano Isabel. Be’, in quel caso si sarebbe arresa. Avrebbe pianto le dovute lacrime, avrebbe abbandonato il suo nome di battesimo e sarebbe davvero diventata Marta Alessandra. Del resto, si disse, poteva fare diversamente?

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


Quella notte, quando tutti ormai nel convoglio erano a letto, addormentati o quasi – fatta eccezione per Manio Umbrio che montava la guardia poco lontano – Isabel afferrò il ciondolo e si portò alla luce del fuoco. Elisium, fedele come sempre, la seguì incuriosito.
Il comportamento del cavallo aveva scatenato un’ondata di ilarità e di curiosità in tutti quanti, quel pomeriggio, quando durante una pausa uno degli schiavi si era reso conto che l’animale seguiva Isabel come un cagnolino. In breve, era diventato una specie di beniamino del gruppo. Isabel perciò non si sentiva troppo in colpa all’idea di lasciarlo lì: sapeva che quella gente l’avrebbe trattato bene.
Si sedette accanto al fuoco morente del bivacco e, con un profondo respiro, si concentrò sul talismano di Zia Dag. Era bellissimo, anche ora che lo odiava con tutte le sue forze non poteva non ammetterlo. La pietra liscia, perfetta, scura e lucente di stelle non mancava di ammaliarla. Era davvero come un frammento di cielo notturno.
« Avanti, forza … », mormorò Isabel, concentrandosi ancor di più. Rimase a guardare quella stramaledettissima pietra per un’eternità, ma non accadde nulla che non fosse causato dal sonno e dalla stanchezza.
Alla fine, dopo quelle che le parvero ore, Isabel rinunciò. Per un attimo fu lì lì per scaraventare quel dannatissimo ciondolo nel fuoco, ma poi si trattenne, ricordando che doveva fare un altro tentativo tra un anno esatto. Sospirò e se lo rimise al collo, sotto lo sguardo perennemente incuriosito di Elisium.
« Be’, spero che sarai contento: adesso non me ne vado proprio », borbottò, allungando una mano per accarezzare una gamba del grande stallone bianco. Elisium chinò il capo e strofinò il muso contro la sua testa, reclamando coccole. Isabel lo accontentò, decidendo che più che un cavallo quell’animale assomigliava ad un grosso gatto.
« Ci manca solo che ti metti a fare le fusa », mormorò, stiracchiandosi, « E ora a nanna. Domani ci aspetta un’altra lunghissima giornata ».
 
« Ma che domande, ragazza mia. La più grande biblioteca del mondo è quella di Alessandria! ».
Isabel si diede subito della stupida per non averci pensato lei stessa.
Era mattina e gli uomini del convoglio di Nicandro stavano facendo colazione davanti ai resti del falò della notte precedente. Isabel non aveva voluto perdere tempo ed aveva subito chiesto al vecchio quale fosse la biblioteca più fornita al mondo, ricevendone una risposta così ovvia da temere di passare per una stupida.
« Ma certo. Che sciocca sono! », esclamò, battendosi una mano sulla fronte.
« Come mai ti interessa? Speri di trovarvi una mappa che ti indichi la strada di casa? », le domandò il vecchio, incuriosito.
« Qualcosa del genere, sì ».
Nicandro le sorrise. « Appena arriveremo al mare, allora, affitterò per te una nave e organizzerò tutto in modo che tu possa giungere in Egitto sana e salva ».
Isabel sgranò gli occhi. « Oh … ma non dovete! Non potrei mai chiedervi tanto! ».
Il vecchio rise. « Tanto? Amica mia, è così poco! », protestò, e ne sembrava davvero convinto. Isabel, però, sapeva per averlo studiato a scuola che al tempo dell’Antica Roma i viaggi erano non solo lunghi e pericolosi, ma anche molto costosi. Forse Nicandro era un ricco mercante, ma lei non poteva davvero permettergli di sprecare il suo denaro tanto faticosamente guadagnato per lei!
« No, davvero, non voglio che voi lo facciate. Sarebbe pretendere troppo », insistette.
« Amica mia, non è davvero di alcun disturbo », le garantì lui con un sorriso.
« Io … io non saprei come ripagarvi ».
« Non serve certo che tu mi ripaghi ».
« Ma … il denaro del viaggio … ».
Nicandro scoppiò in una sonora risata. « Ah, ti preoccupi per i miei soldi! », esclamò, e di colpo tutto il convoglio si unì alle sue risa. Isabel si guardò attorno, più confusa che mai: sembravano tutti divertirsi un mondo, ma la ragione di tanta ilarità proprio le sfuggiva.
« Che cosa ho detto di male? ».
« Niente, amica mia, niente », le rispose Nicandro, cercando di riprendersi, « Ma, vedi … io sono … be’, diciamo che sono abbastanza ricco da poterti pagare non uno, ma mille viaggi per Alessandria e ritorno senza nemmeno accorgermene! ».
Isabel sgranò gli occhi: ma in chi cavolo era incappata? In Creso? Bill Gates ante littera ? Ad ogni modo, non poteva accettare. Certo, era messa malissimo. Male che più male non si può, però non avrebbe accettato la carità da nessuno, nemmeno da chi – come Nicandro – poteva ampiamente permettersela. Glielo disse senza ulteriori giri di parole ed il vecchio parve impressionato.
« Io… io credevo di farti un favore, amica mia ».
« E sarebbe davvero un enorme favore, Nicandro, se l’onore mi permettesse di accettarlo. Ma temo di essere troppo orgogliosa », ammise.
Il vecchio le sorrise benevolo. « Sei davvero una ragazza straordinaria », mormorò, « In questo caso mettiamoci in marcia: ti accompagnerò fino ad un porto e ti troverò una buona nave. Pagherai come potrai. Nel caso, ti darò io un lavoro, se vorrai accettarlo », aggiunse, come se si aspettasse che lei rifiutasse anche questo.
« Un lavoro è sempre gradito, soprattutto in situazioni come la mia », rispose però la ragazza, « Specie se onesto », aggiunse subito dopo, strappando una nuova risata al vecchio mercante.
 
Quella sera si accamparono vicino ad un corso d’acqua, sebbene Manio Umbrio protestasse che non era prudente.
« I predatori vengono qui a bere, di notte », esclamò, quando Nicandro gli chiese il motivo delle sue rimostranze.
« Oh, saremo ben in grado di respingere qualche vecchio lupo », ridacchiò il mercante.
« Non stavo parlando solo dei lupi », borbottò Umbrio, ma nessuno gli diede veramente retta. Isabel, spaventata dalle sue parole, chiese ad uno degli schiavi di Nicandro, un giovanotto vivace di nome Chrysio , di prestarle un’arma. Chrysio  le scovò un grosso coltello affilato – dal manico d’avorio intarsiato a forma di lupo – che sarebbe stato la gioia di Rambo e di qualsiasi altro super-marine della televisione. Sentendosi molto più calma, Isabel andò a stendersi all’ombra di un grosso albero, portando Elisium con sé.
Umbrio, tutt’altro che tranquillo, dispose un serrato avvicendarsi di guardie, costringendo gli schiavi ad una notte di veglia. Egli stesso montò in sella al suo stallone e prese a perlustrare la zona. Sembrava incredibilmente teso e la cosa non piaceva affatto a Isabel. Quello era un soldato, non ci voleva un genio per capirlo, e se lui diceva che era pericoloso allora bisognava credergli. Perché diamine Nicandro non aveva voluto ascoltarlo?
Faticò a trovare la serenità necessaria per assopirsi, nonostante la stanchezza acculata in una giornata di marce forzate, e quando finalmente chiuse gli occhi era notte fonda.
Sognò sua madre. Sognò di essere tornata a casa e di rivedere Jo, Zia Dag, Edward e persino Julia, di tornare a scuola, di litigare con Dawn per il film da vedere la sera e con sua madre per quei benedettissimi collant.
Si svegliò ansante, sudata, quando ormai il cielo si stava già schiarendo. Umbrio stava sussurrando ordini agli schiavi che, lesti, smontavano il campo, facendo attenzione a non svegliare Nicandro che ancora dormiva. Grazie a Dio, le pessimistiche previsioni del soldato si erano rivelate prive di fondamento, ma questo non sembrava averlo tranquillizzato minimamente: si muoveva a scatti, nervoso, guardandosi costantemente attorno come se si aspettasse di vedere comparire dei Sioux da un momento all’altro. Be’, oddio, magari non proprio dei Sioux, però l’idea era quella.
Isabel si guardò attorno alla ricerca di Elisium: il cavallo stava brucando poco lontano, tranquillo come un pesce nello stagno. Isabel gli sorrise e, stiracchiandosi come un gatto, si alzò. Umbrio la vide e le andò incontro.
« Avresti dovuto dormire sul carro », esclamò, in tono di rimprovero.
Isabel scosse il capo. « No, va bene così, grazie », rispose, sebbene nemmeno lei avrebbe saputo dire perché preferiva passare le notti all’addiaccio. Probabilmente per non dimenticare la sua situazione. O forse, semplicemente, per una istintiva avversione per quei cosi traballanti su ruote.
Umbrio sospirò, i pugni sui fianchi e lo sguardo che vagava tutto attorno. Era indubbiamente preoccupato. Isabel, però, notò che era anche piuttosto bello. Strano, prima non ci aveva fatto caso. Eppure con quel volto deciso, quei profondi occhi scuri e quel fisico da gladiatore era innegabilmente molto affascinante. Di colpo, Isabel arrossì fino alla radice dei capelli.
« Non mi piace. Ho visto troppe impronte qui in giro. Mi sentirò più tranquillo quando ci saremo allontanati », stava dicendo intanto il Romano, « Sarà meglio svegliare quel vecchiaccio », concluse, in tono affettuoso. Sembrava sinceramente affezionato a Nicandro e Isabel sospettò che i due fossero amici di lunga data.
« Ci penso io, se vuoi », si offrì lei, avviandosi verso il carrozzone del mercante. Scostò le tende e lo sorprese già in piedi, intento a fare alcuni conti alla luce di candela.
« Oh, mi dispiace… Umbrio mi ha detto di venire a svegliarvi … », si scusò, imbarazzata, Isabel.
« Non c’è niente di cui dispiacerti, Marta Alessandra », sorrise il vecchio, mettendo da parte la pergamena sulla quale stava lavorando, « Anzi, ero proprio impaziente di parlarti ».
« Davvero? », fece lei, sorpresa, « E a che proposito? ».
« A proposito di quello che ci siamo detti ieri, naturalmente. Ho riflettuto a lungo, stanotte. E sai a che conclusione sono giunto? », aspettò che Isabel scuotesse il capo, « Che probabilmente non puoi tornare indietro perché non devi. Hai uno scopo qui. Gli Dèi vogliono che tu rimanga per fare qualcosa ».
Isabel sorrise. « No, non credo », mormorò, cercando di nascondere il divertimento per le parole del vecchio: era un po’ troppo … moderna, per credere a certe panzane. Gli Dèi non esistevano, il destino nemmeno. Se si trovava lì, era solo per una enorme, implacabile sfiga. Punto e basta.
« Io invece penso di sì », riprese il vecchio, « Tu almeno riflettici ».
« Lo farò », mentì, non volendo offendere quel vecchietto tanto gentile. Con un ultimo saluto, uscì dal carro ed annunciò ad Umbrio che erano pronti per rimettersi in marcia.
 
Umbrio li fece marciare ad una velocità tale che prima di sera i buoi avevano la faccia stravolta di un maratoneta dopo le olimpiadi. Persino Elisium, che pure era il miglior cavallo della carovana, aveva perso la sua andatura baldanzosa. Nicandro ci litigò un paio di volte, ma Umbrio non ne volle sapere di rallentare: disse al mercante che era stato assunto per mantenerli vivi, e che quello era proprio ciò che stava facendo. Disse che non poteva aspettarsi che lui provvedesse alla sua incolumità se continuava a dargli ordini non solo insensati, ma persino pericolosi. Nicandro provò a farlo ragionare per una buona metà del pomeriggio, ma alla fine sbottò in un bah di sconfitta e lasciò perdere.
Isabel, che si era divertita moltissimo a sentirli battibeccare come una coppia di vecchi coniugi, rimase quasi delusa quando il vecchio rinunciò alla lotta. Colse comunque l’occasione per affiancarsi ad Umbrio e trascorrere un po’ di tempo in sua compagnia.
Più guardava il Romano, più scopriva di essere attratta da lui. Non era solo una questione di aspetto fisico: era il modo di fare. Umbrio sembrava sempre concentrato, attento, vigile, e le dava una calda sensazione di sicurezza. Inoltre, aveva un modo di guardarla che le metteva i brividi: fissava il suo sguardo su di lei come se per lui non esistesse nient’altro al mondo, dandole tutta l’attenzione di cui era capace e facendola sentire nuda, come se i suoi occhi potessero vedere attraverso i vestiti.
In un primo momento era rimasta imbarazzata da quelle sensazioni, ma col tempo era arrivata a trovarle addirittura piacevoli. Anche Umbrio, del resto, non sembrava trovarla indifferente. Le sorrideva di continuo e la incoraggiava a parlargli del suo passato, della sua casa, del suo fantomatico viaggio attraverso l’Europa e persino delle più piccole ed insignificanti cose, come quale fosse il suo fiore preferito o perché non avesse mai imparato a tessere.
Quando giunse la sera, Isabel provò quasi una fitta al cuore, nel vedere il Romano scostarsi da lei per occuparsi dell’allestimento dell’accampamento. Si avviò mogia mogia verso uno spiazzo d’erba particolarmente accogliente e si lasciò cadere a terra. Si rialzò solo dopo un attimo per andare ad abbracciare Elisium come se fosse un orsacchiotto morbido, sentendosi di colpo sola e triste.
I servi di Nicandro servirono una cena sobria a base di carne secca e formaggio, il tutto abbondantemente annaffiato con un corposo e forte vino rosso. Isabel si premurò di allungarlo con l’acqua, ma l’effetto fu comunque che giunse al suo giaciglio un po’ malferma sulle gambe.
Il cuore le si fermò in petto quando vide Umbrio raggiungerla con un pezzo di quella che Chrysio  aveva definito la torta, ma che in realtà era une specie di impasto di frammenti di gallette, latte e miele.
« Assaggia. È buona », le disse il Romano tendendole la fetta. Isabel obbedì e lui si lasciò cadere al suo fianco. Con circospezione, Isabel scrutò il suo profilo. Era forte, nobile, coi tratti duri e decisi, inequivocabilmente Romano.  E lei lo trovava irresistibilmente bello.
« Mi ha fatto piacere cavalcare con te, oggi », esordì lui ad un tratto.
Isabel per poco non si strozzò con un boccone di torta. Deglutì a fatica, riprese fiato e rispose, il più innocentemente possibile: « Anche a me, molto ».
Umbrio si passò una mano sulle guance ruvide di barba.
« Bah, dovrò sembrarti un barbaro », sbottò.
« Un barbaro? No, perché? Ti dona », ribatté lei prima di rendersene conto. Si morse subito la lingua, ma ormai era fatta.
Umbrio, grazie al cielo, scoppiò a ridere. « Ti ringrazio per la tua sincerità! ».
Isabel, sollevata, rise con lui.
Quando le loro risate si spensero, scese tra i due un lungo ed imbarazzante silenzio. Umbrio fissava un punto indefinito sul terreno ai suoi piedi, e Isabel notò che si tormentava le mani come se fosse in preda ad un indicibile imbarazzo. Imbarazzo? Lui?
Arrossendo come poche altre volte nella sua vita, Isabel si costrinse a voltare lo sguardo: per quelle che parvero ore osservò gli schiavi di Nicandro sistemare le loro cose, disporsi per i turni di guardia o andare a dormire. In breve, sulla campagna scese un silenzio perfetto, appena modulato da una lieve brezza che faceva stormire le fronde degli alberi.
Isabel annaspava alla ricerca di qualcosa di intelligente e saggio da dire, ma con Umbrio a meno di dieci centimetri dal suo fianco proprio non le veniva in mente niente.
Pensò di parlargli del cammino che rimaneva ancora da fare e si voltò verso di lui. Rimase di sasso quando Umbrio fece altrettanto e la baciò. Dapprima gentilmente, quasi timidamente, poi – quando si accorse che lei non sembrava affatto disgustata – con maggior ardore.
Isabel ebbe fugacemente il pensiero che quello era un uomo fatto e che, a differenza di Thomas – il suo ex fidanzato –, non si sarebbe accontentato di un semplice bacio. Rifletté se protestare o meno, ma poi lui le infilò una mano sotto la felpa ed ogni pensiero razionale si sciolse come neve al sole.
 
Isabel non si sentiva una cattiva ragazza. Certo, aveva fatto sesso con un uomo che – ne era certa – non si sarebbe svegliato chiedendo la sua mano, ma non si sentiva una cattiva ragazza. Si sentiva felice. Serena. Si sentiva bene.
Sorrise nel buio. Soltanto tre giorni prima, se qualcuno le avesse detto che avrebbe perso la verginità con un Antico Romano non solo si sarebbe messa a ridere come una pazza, ma probabilmente avrebbe anche chiamato la neuro per quel poveretto squilibrato. Ed invece, eccola lì. Tra le braccia di un soldato dell’Urbs, un po’ intorpidita ma decisamente felice.
In quel momento Umbrio aprì gli occhi. I loro volti erano a pochi centimetri l’uno dall’altro e per un istante Isabel si sentì imbarazzata. Ma poi lui le sorrise.
« Ciao ».
Isabel rispose al suo sorriso. Dio, era così bello! Sembrava incredibile che lei avesse avuto un uomo così bello! « Ciao ».
« Ah… come ti senti? ».
« Bene », ammise lei, stiracchiandosi come una gatta davanti al fuoco.
« Ti ho fatto male? ».
« No », rispose lei, colpita dal fatto che lui si preoccupasse tanto. In fondo, allora, sotto quella scorza dura del soldato batteva un cuore dolce. Isabel ne fu sinceramente colpita.
« Ah… bene. Bene. Molto bene », annuì lui, mettendosi a sedere. Era nudo sotto il mantello che avevano usato come coperta e Isabel intravide al chiarore della luna il suo fisico da soldato, forte ed allenato. Si accoccolò meglio sotto il mantello, sorridendo tra sé e sé. Fosse stata una gatta, in quel momento avrebbe fatto le fusa.
« Io … io credo di dover… », Umbrio sembrava perfino più imbarazzato di lei.
« Vai, tranquillo. Hai un lavoro da svolgere », lo tranquillizzò lei. Umbrio annuì, sollevato ma ancora imbarazzato, e si rivestì in fretta, per poi allontanarsi continuando a voltarsi indietro.
Isabel lo seguì con lo sguardo finché non scomparve dietro un carro per dare ordini ad una delle sentinelle. Un attimo dopo lo vide allontanarsi a cavallo per il suo solito giro di ispezione e di colpo si sentì di nuovo sola. Avrebbe voluto che rimanesse con lei tutta la notte, ma sapeva che non era possibile.
« Avanti, Isabel, non fare la bambina! », si rimproverò. Sapeva perfettamente che la sua relazione con Umbrio non era del genere e vissero per sempre felici e contenti, e del resto non voleva che diventasse così. Era stata l’avventura di una notte, bella quanto vuoi, ma soltanto l’avventura di una notte. O forse di due o tre, chissà, sorrise Isabel nel buio, ma in ogni caso la cosa sarebbe finita lì. Perciò tanto valeva che si abituasse all’idea di non averlo al fianco come un fidanzato.
Del resto, si disse, presto avrebbe lasciato quel posto. O alla volta di Alessandria o alla volta del ventunesimo secolo, ma comunque se ne sarebbe andata. Perciò era meglio non affezionarsi troppo alle persone che incontrava.
« Ah, già… più facile a dirsi che a farsi! », borbottò, prima di chiudere gli occhi e di scivolare finalmente nel sonno.
 
Se anche Nicandro si fosse accorto di quanto era accaduto tra lei ed Umbrio, non lo diede minimamente a vedere. E così fecero anche i suoi servi, con immenso sollievo di Isabel.
Il viaggio riprese tranquillo e monotono. Ogni giorno Isabel viaggiava col vecchio mercante, chiacchierando di ogni genere di sciocchezza, ridendo per gran parte del tempo e dribblando domande sul suo passato per la restante parte. Nicandro era un vecchietto gentile ma testardo e sembrava deciso a scoprire quanto più possibile sul suo conto. Isabel si sforzava di accontentarlo, ma certi dettagli proprio non poteva rivelarli e non le piaceva mentire di continuo ad un uomo tanto gentile.
La notte si trovava un angolino un po’ in disparte dove stendere le sue coperte, si coricava e attendeva che Umbrio venisse a trovarla. E lui non la deludeva mai. Dopo l’amore rimanevano a lungo abbracciati, chiacchierando piano di piccole cose, come il colore della farfalla che aveva riposato per più di mezzora fra le orecchie d’uno dei buoi o il modo sbilenco di sorridere d’uno degli schiavi del vecchio mercante. Verso mezzanotte il Romano si alzava, le dava un ultimo bacio e tornava ai suoi doveri di capitano della guardia. Soltanto allora lei si addormentava, piombando spesso in un sonno popolato di strani sogni. Grazie a Dio, non le capitò più di sognare sua madre o il ventunesimo secolo, ma quando si svegliava era sudata e tremante e – sebbene non riuscisse a rammentare precisamente i suoi incubi – aveva la certezza di aver sognato qualcosa di veramente terribile.
Il quinto giorno di cammino dopo la sua prima notte con Umbrio videro il mare. Il Romano mandò uno degli schiavi con un cavallo a cercare qualcuno cui chiedere informazioni e quello tornò dopo qualche ora dicendo di aver incontrato un piccolo villaggio di pescatori. Scoprirono così di essere a circa una settimana di viaggio da Marsiglia, la città dove Nicandro intendeva imbarcarsi, e che per raggiungerla bastava seguire una comoda strada nell’entroterra.
Svoltarono nuovamente verso nord e dopo un’oretta di ricerche trovarono il sentiero di cui avevano parlato i pescatori: era immerso nella brulla macchia mediterranea, fra pini marittimi, rocce bianche calcaree e immense distese di timo ed erbe aromatiche. Non era niente di più che una striscia di terra battuta, ma si snodava attraverso il paesaggio aspro e magnifico della Provenza e il portò ad attraversare grigie pinete ed intere foreste di rosmarino. Isabel era estasiata dalla mescolanza dei profumi di quella terra ed Umbrio, accorgendosene, raccolse per lei un mazzetto di erbe aromatiche, che la ragazza guardò come se fosse il più prezioso dei gioielli.
Il sentiero, dopo poche centinaia di metri, virava verso nord, allontanandosi dalla costa, ed il cammino si faceva ripido. Il terreno sassoso e friabile faceva scivolare gli zoccoli dei buoi, rendendo le cose assai poco facili per i servi e i conducenti dei carri. Quel giorno riuscirono a percorrere soltanto un’ora di tragitto prima che li sorprendesse il tramonto.
Umbrio li fece accampare in una radura riparata a trecento metri dalla strada, organizzò i turni di guardia e raggiunse Nicandro e Isabel attorno al falò acceso per la notte.
« Sentiamo Umbrio che ne pensa … », esclamò il vecchio mercante vedendolo arrivare, « Umbrio, amico mio! Cosa permette agli uccelli migratori di ritrovare la strada di casa ogni anno? ».
Umbrio rimase per un attimo interdetto dalla domanda. Rifletté un poco, ma alla fine scosse il capo. « Non ne ho proprio idea », rispose, « E del resto nemmeno mi interessa: è una questione di nessuna utilità ».
« Come sarebbe a dire “di nessuna utilità”? Non esistono questioni “di nessuna utilità”! Tutto è interessante e ha uno scopo », protestò Nicandro, « Non è vero, mia cara? ».
Isabel annuì. « Penso di sì. Però credo che Umbrio intendesse dire che non è utile a noi in questo momento ».
« Proprio così », confermò il Romano.
« Umh, capisco… », borbottò Nicandro come per lasciar cadere la questione, « Bene, allora parliamo di cose utili », sbuffò, « Questi Romani! Non sono capaci della minima digressione filosofica! Se qualcosa non ha utilità pratica allora non vale la pena di considerarla! ».
« Se qualcosa è inutile non vedo perché sprecarci tempo », ribatté Umbrio, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
« Perché potrebbe essere bella o di nutrimento per la tua mente! », replicò Nicandro.
« I fiori sono belli, ma non si mangiano né mi coprono nelle notti fredde. La poesia nutre la mia mente ma non è utile in battaglia né in pace, se è per questo. Io vivo una vita sola: dovrei passarla ad occuparmi di fiori e poesia o di pane, spade e mattoni? ».
« Senza fiori né poesia, che cosa vivi a fare? ».
« Oh, tranquillo, Nicandro. Vivo benissimo anche senza fiori e poesia », gli garantì Umbrio ridacchiando. Isabel, istintivamente, arrossì fino alla radice dei capelli.
« Voi Romani siete così testardi. Testardi e privi di fantasia! Gli Dèi solo sanno come avete fatto a non impazzire tutti quanti! Niente poesia… niente arte… ».
« Ogni popolo è diverso », intervenne Isabel, « E prezioso per quello che è ».
« Un’idea piuttosto interessante », commentò Nicandro, aggrottando la fronte assai poco convinto.
Isabel si morse la lingua: aveva parlato da ragazza del ventunesimo secolo ed ora i due uomini la fissavano con la medesima espressione perplessa.
 « Prendiamo i Galli, ad esempio… alcune loro usanze sono molto interessanti… », cercò di sbrogliarsi lei.
« Sì, vallo a dire a Giulio Cesare » sbottò Nicandro, cogliendo al volo l’occasione di cambiare argomento: le osservazioni della ragazza l’avevano lasciato un po’ sconcertato, « Quando avrà finito non rimarrà più nulla dei Galli… o della Gallia »,
« Oh, io non credo », sorrise Isabel, « Credo anzi che la Gallia abbia un lungo e prospero futuro, davanti a sé ».
« Ah, tu credi? », sbuffò il mercante.
« Cesare non sta muovendo una guerra per annientare un popolo », si intromise Umbrio, « Sta difendendo … ».
« Signore! », gridò uno degli schiavi, la voce rotta dalla paura e dall’allarme. Umbrio scattò in piedi, sfoderando il gladio che portava sempre appeso alla cinta. Un istante dopo, una freccia si conficcò sibilando nel tronco caduto sul quale il Romano sedeva fino ad un attimo prima.
« Ma cosa … », mormorò Nicandro, confuso, prima che un'altra freccia passasse accanto a loro fendendo l’aria tersa della notte. Un attimo ancora e le frecce divennero tante da far sembrare che piovessero dal cielo.
Umbrio si mise a gridare ordini, urlò a Nicandro e Isabel di mettersi al sicuro e si gettò nella mischia. Un gruppo di uomini vestiti di pelle, infatti, era sbucata dal bosco alle loro spalle.
Isabel, terrorizzata, afferrò Nicandro per un braccio e lo spinse rudemente verso i carri. Alcune frecce si conficcarono nel terreno a pochi passi da loro, mentre altre uccisero un paio dei buoi che trascinavano i pesanti carrozzoni. Isabel condusse il vecchio al riparo tra le ruote di un carro, ancora incredula di fronte a quello che stava accadendo.
Osservò attonita e terrorizzata altri uomini spuntare dalla notte e slanciarsi gridando in una lingua gutturale contro i servi di Nicandro. Erano poco più che ombre, essere scuri nella notte, di cui distingueva i capelli lunghi - quasi incolti - e le lunghe armi acuminate. Travolsero alcuni schiavi  ancora confusi ed Isabel si ritrasse, coprendosi le orecchie con le mani, quando le grida dei servi feriti squarciarono la notte.
Proprio quando sembrava che gli aggressori stessero per avere la meglio, Umbrio li sorprese alle spalle, spingendo in mezzo a loro il suo cavallo lanciato al galoppo, e investendo quelli che non erano stati abbastanza lesti da scostarsi. Falciò con il gladio i barbari – ormai Isabel li aveva riconosciuti come tali – come se fossero spighe di grano, incitando i suoi uomini a resistere.
La sua voce parve infondere nuova speranza - se non proprio coraggio - nei servi che, serrati i ranghi, presero a rispondere all’assalto nemico. Erano armati alla buona, ma Umbrio dava ordini secchi e precisi ed ognuno di loro aveva l’impressione di sapere esattamente cosa fare e quindi di potersela in qualche modo cavare. Grazie ad Umbrio, i servi spaventati e presi alla sprovvista cedettero per un momento di essere in grado d’affrontare quel problema, tanta era la fiducia e la sicurezza che parevano irradiare dal Romano. Anche Nicandro se ne convinse.
« Andrà tutto bene », sussurrò a Isabel, sfiorandole una mano, « Umbrio sa cosa fare ».
Altre frecce caddero dal cielo, ronzando e fischiando, e tre schiavi rimasero a terra. Le urla dei feriti riecheggiarono nella notte silenziosa, appena soffocate dalle grida della battaglia e dal rumore del ferro che cozzava contro il ferro.
D’un tratto un ululato giunse da dietro i carri, alle spalle di Isabel, che si voltò giusto in tempo per vedere una ventina di barbari comparire come dal nulla e gettarsi, famelici, sui carri abbandonati.
Un uomo grosso, seminudo e con la barba bionda ed irsuta la vide e gettò un grido rauco. Terrorizzata, Isabel afferrò Nicandro per un braccio e gli urlò di mettersi a correre.
Attraversarono la radura divenuta un campo di battaglia, schivando i colpi e gli uomini, guizzando tra le frecce che di tanto in tanto qualche invisibile arciere ancora scagliava.
Nicandro, dopo il fatuo sollievo, era piombato in uno stato molto simile al panico. « Che cosa facciamo? », le domandò spaventato, urlando per farsi sentire sopra il clamore della battaglia.
« Prendiamo i cavalli e ce ne andiamo! », rispose prontamente Isabel. Era l’unica scelta possibile: rimanere lì significava la morte. Nicandro annuì e si diresse all’albero al quale erano impastoiati i pochi cavalli del convoglio.
Isabel lo seguì per un tratto, per poi voltarsi e cercare Umbrio con lo sguardo. Non voleva andarsene senza di lui. Era suo amico e non l’avrebbe abbandonato.
Lo vide dopo un attimo, impegnato in un duello contro un barbaro appiedato, sudato e sporco ma apparentemente illeso nonostante i colpi precisi e vigorosi che il Romano gli rovesciava addosso. Isabel trattenne il fiato, quando finalmente Umbrio schivò la spada del barbaro, spaccandogli il cuore con un affondo fulmineo. Un altro nemico si fece sotto e Umbrio si voltò per fronteggiarlo.
Isabel stava per andare da lui quando un muggito la distrasse. Si voltò appena in tempo per vedere l’uomo dalla barba irsuta correrle incontro con una spada levata. Gridò e saltò di lato un attimo prima che il biondo menasse il colpo. Istintivamente sguainò il coltello che Chrysio  le aveva dato; il barbaro la caricò come un toro infuriato, mancandola d’un soffio, ma lasciando per un istante il fianco scoperto. Isabel, senza riflettere, vi affondò la lama del pugnale.
Il barbaro gridò, lasciò cadere la spada e crollò a terra, premendo le mani sulla ferita. Guardò la ragazza con occhi carichi d’odio ed ira e lei gli rispose con uno sguardo disperato: era incredula di quello che aveva fatto.
Poi il barbaro cadde in ginocchio ed emise una specie di gorgoglio: Isabel si voltò di scatto, preda d’un terribile conato di vomito, ma riuscì a dominarsi e si allontanò in fretta. Aveva appena ucciso un uomo – o almeno quasi ucciso – ma non era quello il momento di pensarci, si impose con forza.
Riprese a correre verso Umbrio, solo che si trovò la strada tagliata da un gruppo di barbari e schiavi che lottavano furiosamente tra loro. Ansante ed angosciata, Isabel si guardò attorno in cerca di un’intuizione. Un lampo bianco le ricordò che non era sola.
« Elisium! », chiamò a gran voce. Un attimo dopo il lampo bianco sfrecciò nel bel mezzo della battaglia. Lo stallone aveva le orecchie piatte sulla testa e le froge dilatate dal terrore, però non aveva esitato un solo istante ad accorrere alla sua chiamata. Isabel gli montò in groppa e lo spronò verso Umbrio, che ancora combatteva non molto lontano.
Un barbaro le si fece sotto urlando ed agitando una specie di mazza di legno, ma Elisium si impennò furiosamente ed abbatté i suoi duri zoccoli sul cranio dell’uomo, aprendolo come un melone maturo. Isabel si sporse di lato e vomitò, inorridita, mentre lo stallone riprendeva la sua corsa.
« Marta Alessandra! », sentì chiamare in lontananza. Si voltò e vide Nicandro ai margini del bosco in sella ad un cavallo. Il vecchio le faceva ampi segni di raggiungerlo, ma Isabel non poteva abbandonare Umbrio, non poteva proprio. Diede le spalle al mercante e spronò Elisium.
Il Romano era ormai a meno di una decina di metri da lei quando piovvero altre frecce. Istintivamente la ragazza si chinò sul collo del cavallo, chiudendo gli occhi ed aspettando il colpo. Ma il dolore non venne e lei seppe di essere stata risparmiata. Si rizzò nuovamente e si guardò attorno.
« Oh, mio Dio … oh, Dio, no! », gridò.
Manio Umbrio era riverso sulla sella del suo cavallo con due dardi che gli spuntavano dalla schiena. Uno dei barbari lo afferrò per una gamba e lo gettò a terra. Umbrio cadde pesantemente e non si mosse più, gli occhi sbarrati e rivolti al cielo che iniziava ad imbiondire per l’alba.
Isabel era immobile, occhi sbarrati, corpo tremante, fiato mozzo. Una lenta lacrima le rigò il volto: non era… possibile! Umbrio era… morto… No, no, non era possibile, scrollò il capo lei, non era possibile!
Incapace di arrendersi all’atroce idea, spinse avanti Elisium, ma un alto barbaro le tagliò la strada e cercò di afferrare lo stallone per le redini. Sopraffatta dal dolore, Isabel appena se ne accorse. Fu Chrysio  a salvarle la vita, trafiggendo il barbaro alle spalle con la sua daga lorda di sangue fino all’elsa.
« Mia signora! Presto! Fuggite! », le gridò, riscuotendola, prima di voltarsi per affrontare un nuovo avversario.
Elisium, come se fosse stato d’accordo con le parole del giovane schiavo, si voltò e prese a galoppare verso il bosco. Isabel, sotto shock, lo lasciò fare. Il cavallo si allontanava dalla battaglia e lei non staccava gli occhi dal corpo immobile di Umbrio, ancora incapace di credere che fosse davvero accaduto, che il Romano fosse sul serio morto. Era accaduto tutto così in fretta: era stato un attimo, l’istante prima Umbrio era vivo e forte e l’attimo dopo…
Isabel scosse il capo. Avrebbe voluto gridare, ma qualcosa glielo impediva. Aveva un peso gelido al petto che le serrava la gola, rendendo difficile persino respirare. Si sentiva svuotata, come se qualche cosa dentro di lei si fosse rotto trascinandola in un baratro freddo, deserto e nero.
Lasciò che fosse lo stallone bianco a scegliere la strada, gli occhi ciechi per le lacrime e le mani che le tremavano convulsamente. Non poteva credere che Umbrio fosse davvero morto. Non poteva crederci. Non voleva crederci.
Fu un urlo a ridestarla.
« Giove Misericordioso, Marta Alessandra! Muoviti, dobbiamo allontanarci il più possibile da qui! ». Era Nicandro, comparso dal folto del bosco.
Isabel si riscosse ed annuì piano. Gettò un ultimo sguardo in direzione del loro accampamento. Le grida della battaglia iniziavano a scemare. Isabel pianse un’ultima lacrima per Umbrio.
« Addio, amico mio », mormorò. Avrebbe voluto rimanere lì e piangere tutto il suo dolore, ma sapeva di non potere. Se voleva sopravvivere, doveva proseguire e soffocare le lacrime e la sofferenza. Avrebbe portato Umbrio nel suo cuore, ma doveva andare avanti.
Voltò Elisium e seguì Nicandro nel cuore della foresta.
 
Fu ben presto chiaro che qualcuno li stava braccando. Probabilmente uno dei barbari infuriato perché lei aveva ucciso un suo amico, oppure semplicemente desideroso di mettere le mani su una così bella preda. In ogni caso, non era davvero il momento di fermarsi a ragionare.
Cavalcarono a rotta di collo attraverso il bosco, gettando di tanto in tanto occhiate ansiose alle loro spalle. Le grida ed il rumore di zoccoli dietro di loro non accennavano a scemare: il loro inseguitore doveva essere davvero determinato.
« Forse avremmo più possibilità separandoci », propose Nicandro ad un certo punto.
Isabel scosse il capo. « Non vi lascio solo ».                              
Il vecchio sorrise, anche se faticosamente: quella cavalcata stava rapidamente esaurendo le sue poche forze.
« Sei una brava ragazza, Marta Alessandra, ma hai più cuore che cervello », commentò.
« Forse, ma non vi lascio solo », ribatté lei, più decisa che mai. Aveva già perso Umbrio: non aveva nessuna intenzione di perdere anche Nicandro.
Galopparono senza mai fermarsi finché il castrone di Nicandro non iniziò a schiumare dalla bocca, quindi rallentarono fino ad un passo veloce. Dietro di loro, in lontananza, si udivano ancora le grida di incitamento del loro inseguitore. « È vicino. Dobbiamo muoverci », disse Isabel, angosciata.
« Il mio cavallo non ce la fa più. E nemmeno io », mormorò con voce spenta il vecchio. Isabel gli gettò un’occhiata preoccupata: Nicandro era pallido, ansante e sembrava reggersi in sella solo per forza di volontà.
« Montate dietro di me », esclamò.
« Cosa? ».
« Manderemo il vostro cavallo da solo in un’altra direzione. Questo dovrebbe confondergli le idee », disse, alludendo al barbaro che li tallonava, « Elisium non avrà difficoltà a portarci entrambi. Su, avanti, fate presto! ».
Nicandro smontò da sella, stringendo i denti ad ogni movimento, come se gli causassero un gran dolore. Una volta a terra diede una sonora pacca sul posteriore del castrone che scattò in avanti e scomparve nella macchia. Ancor più faticosamente riuscì a montare su Elisium, alle spalle di Isabel, che abbracciò saldamente per non cadere.
« E ora muoviamoci. Su bello, portaci via! », gridò, sfiorando coi talloni i fianchi dello stallone bianco. Elisium nitrì e partì al trotto. Ben presto assunse un’andatura non eccessivamente rapida ma costante e regolare, che mantenne fin quando il sole non sfiorò le colline alla loro sinistra.
« Stiamo andando verso nord », commentò allora Nicandro.
« Non va bene? », chiese Isabel, avvertendo una sfumatura preoccupata nella voce del vecchio.
« Avrei preferito andare verso il mare. Avremmo potuto imbatterci in un altro villaggio di pescatori », rispose lui.
Isabel annuì. « Giusto », commentò, guardandosi attorno, « Adesso giriamo attorno a quella collina », disse, indicando un’altura scoscesa di terreno rosso e brullo dal quale, qua e là, spuntavano rocce calcaree bianche come ossa, « E poi prendiamo la via per il mare ».
Nicandro chiuse gli occhi, abbandonandosi contro la schiena della ragazza. « Vorrei solo riposarmi per un po’ ».
Isabel annuì: anche lei. Non desiderava altro che sdraiarsi, piangere e gridare per Umbrio e dormire una settimana, magari per svegliarsi nel suo letto, a casa sua. Ma sapeva che non era possibile. Non ancora almeno. Dovevano prima sfuggire all’uomo che li inseguiva.
« Credete che sia vicino? », mormorò.
Nicandro sospirò. « Non lo so. È un po’ che non lo sentiamo, però. Forse siamo riusciti a fargli smarrire le nostre tracce ».
Isabel annuì, ma non era troppo convinta. « Non credo però che sia saggio fermarsi per la notte ».
Nicandro sospirò, sconsolato. « No, nemmeno io, purtroppo », gemette.
La ragazza sbadigliò: Dio, com’era stanca. Sentì le palpebre che si abbassavano sugli occhi stanchi e brucianti e si costrinse a spalancarle.
« Tra poco mi addormento sulla sella », commentò.
« Solo che non abbiamo una sella! », rise Nicandro.
Suo malgrado, Isabel si unì alle sue risa.
D’un tratto, qualcosa la colpì. « Ehi, un momento! Cos’è quest’odore? Sembra… sembra carne alla griglia! », esclamò.
Nicandro annusò l’aria. « Marte Divino! Hai ragione! Da dove viene? ».
Isabel fiutò per bene prima di rispondere: l’odore si era fatto più pungente, al punto da essere rapidamente diventato fastidioso anche perché, più che di barbecue, ora sembrava la puzza della sua tenda dopo quindici giorni di campeggio.
« Da lì », distinse infine, indicando un punto alla loro destra, « Dite che è un villaggio? », domandò, voltando Elisium in quella direzione. Il vecchio fece spallucce.
Dopo un minuto di cammino, scorsero alte colonne di fumo al di sopra della linea degli alberi. Nicandro le osservava affascinato, come un naufrago osserva la spiaggia.
« Ercole! No! Non è un villaggio! Che Giove mi fulmini se quello non è un accampamento Romano! ».
« I Romani! Oh, cavolo… », esclamò Isabel, allibita.
Nicandro la abbracciò forte, gettò la testa all’indietro e prese a ridere fragorosamente: erano salvi!
Isabel diede di sprone ed Elisium, raccolte le forze, partì al galoppo. La luna illuminava fiocamente il loro cammino, ma il cavallo non sembrava minimamente disturbato dalla penombra. Isabel immaginò che vedesse meglio di un umano al buio. Perciò, quando d’un tratto il cavallo sbuffò e nitrì infastidito, si allarmò e lo fece fermare di colpo.
« Cosa c’è? », le domandò Nicandro, preoccupato.
« Elisium … », cominciò lei. Si udì però un sibilo, un tonfo, ed il vecchio mercante lanciò un grido, accasciandosi pesantemente contro la sua schiena. Qualcuno lanciò un grido acuto nella notte ed un cavallo fu lanciato al galoppo nella loro direzione.
« Cazzo! Ci ha raggiunti! », comprese Isabel, urlando ad Elisium di correre.
Lo stallone gonfiò il petto e mise le ali. Isabel, che con una mano si reggeva alla criniera e con l’altra teneva fermo Nicandro, rimase senza fiato per la velocità del cavallo. Sembrava davvero volare sul terreno, sfrecciando tra gli alberi rapido come un falco in picchiata. Era praticamente come stare in moto, se non che – in tutta sincerità – lei non era mai salita su una moto: a sua madre sarebbe venuto un infarto.
Elisium divorò la distanza che li separava dall’accampamento Romano, giungendo sempre al galoppo nell’ampia radura al centro della quale i soldati avevano eretto una specie di fortino quadrato di grossi pali di legno, al centro della quale erano state montate – in file incredibilmente regolari – parecchie decine, o forse centinaia, di tende.
Non appena giunsero in vista del campo, Isabel si mise a gridare aiuto, mentre il barbaro – infervorato dalla caccia – non accennava minimamente a rallentare il passo.
Fu soltanto quando Elisium giunse davanti all’ingresso dell’accampamento che l’uomo esitò e tirò con forza le redini del suo cavallo, facendolo voltare con una giravolta. Lo spronò nella direzione opposta, fuggendo, ma non aveva fatto che pochi passi quando una lancia lo raggiunse e lo trapassò da parte a parte, sbalzandolo dalla sella.
In quel momento una dozzina di soldati vennero incontro a Isabel che, smontata da cavallo, stava cercando di mettere a terra Nicandro, privo di sensi.
« Chi siete? », esclamò un Romano dal buffo elmo piumato, col tono che usava la sua prof di chimica quando sorprendeva due studenti a passarsi un bigino.
« Dannazione a te, idiota! Non vedi che è ferito? Dammi una mano! », gli gridò di rimando Isabel, ansimando sotto il peso del vecchio. Il Romano fece una smorfia, ma ordinò comunque ad uno dei suoi uomini di aiutarla. Un soldato vestito di rosso le prese Nicandro dalle mani e lo appoggiò delicatamente sulla terra smossa.
« È ancora vivo », sospirò sollevata Isabel, dopo aver tastato il polso del vecchio, « Gli serve un medico ».
« Prima ditemi chi siete », insistette il Romano dal buffo pennacchio.
« Nicandro… », mormorò piano il vecchio, socchiudendo in quel momento gli occhi, « Nicandro da Sinope ».
« Ssssh, amico mio », gli fece Isabel, chinandosi su di lui, ed accarezzandogli la fronte, « Non parlate. Conservate le forze ».
« Nicandro? Quel Nicandro? », esclamò il Romano dal buffo elmo, apparentemente allibito. Aveva l’espressione di chi ha appena intravisto il presidente degli Stati Uniti tra la gente che fa la spesa nel suo supermercato.
« Sì », annuì, con gran fatica, il vecchio.
« Ma vuoi smetterla di fargli domande? Non vedi che è ferito? Fai chiamare un medico, presto! », lo rimproverò Isabel.
All’uomo, attonito, occorsero alcuni secondi prima di registrare le sue parole ed annuire. « Ma sì… ma sì, certo… certo… Mucio, forza, corri. Desio, vai ad avvisare il generale che qui c’è Nicandro da Sinope ».
« Sissignore », esclamò il soldato, rivolgendogli il rigido saluto militare Romano e schizzando via.
Isabel annuì, grata.
« E voi, domina? Chi siete? ».
« Il mio nome è Marta Alessandra. Accompagno Nicandro », rispose lei, volutamente vaga. Il soldato dal buffo pennacchio, però, parve soddisfatto.
« Io sono il centurione Caio Arrio », si presentò, « Della Decima Legione ».
Isabel sorrise, confusa: per quel che ne sapeva lei di gradi militari Romani, avrebbe anche potuto dirle che era membro dell’equipaggio dell’Enterprise.
« Io … emh… sono onorata di fare la vostra conoscenza, centurione. E lo sarei ancor di più se mi deste una mano a portare quest’uomo in un posto caldo e asciutto ».
« Non ancora: il medico potrebbe arrabbiarsi se lo spostassimo senza alcuna precauzione », ribatté il centurione e Isabel dovette ammettere che aveva ragione. Esaminò la ferita: la freccia era penetrata nella schiena all’altezza dei reni e lo squarcio sanguinava copiosamente, ma non avrebbe saputo dire se era mortale o semplicemente doloroso.
Sedette sul terreno fangoso accanto a Nicandro, di colpo svuotata di ogni energia.
Possibile che non potesse avere un solo momento di pace? Prima veniva scaraventata da un maledettissimo talismano luccicoso nell’Antica Roma, che non era precisamente il suo massimo ideale di vacanza rilassante, poi incontrava un cavallo che si credeva la reincarnazione di Lessie. Quando finalmente le cose iniziavano a girarle bene e lei si faceva un amico ed un amante, ecco che dei bastardi armati di arco e frecce devastavano la sua vita. Ed ammazzavano Umbrio.
« Ed ora anche Nicandro », mormorò piano, passandosi una mano sugli occhi stanchi. Dio, cosa avrebbe dato per una vasca ad idromassaggio ed un letto morbido! E soprattutto, che cosa non avrebbe dato per aprire gli occhi e scoprire d’aver fatto solamente un brutto sogno…
« Domina, ecco Euristeo. È il nostro medico. È greco », aggiunse infine Arrio come se questa fosse una grande qualità. Isabel si limitò ad annuire e sorridere, sentendosi stupida, confusa e irrimediabilmente fuori posto.
Un uomo magro e pelato si chinò su Nicandro iniziando a tastargli il corpo, esaminando la ferita e stabilendo infine che doveva essere al più presto portato in un luogo caldo ed asciutto. Isabel – che nel frattempo aveva intuito che quello era il medico – non ebbe nemmeno la forza di far notare ad Arrio che lei lo aveva detto. Si limitò ad alzarsi a fatica ed allungare una mano per prendere la criniera di Elisium.
« Domina », la chiamò però il centurione, « Lasciate il vostro cavallo. Se ne occuperanno i miei uomini ».
Isabel stava per annuire, quando notò che uno dei soldati stava già suggerendo al suo compagno di andare a prendere una corda. Scosse quindi il capo. « Non fa niente. Elisium non si allontanerà », esclamò, facendo cenno allo stallone di andare. Intuitivo, il cavallo galoppò via, in cerca di un prato risparmiato dai pesanti calzari chiodati dei soldati Romani.
« Non lo troverete più, domina », le disse Arrio in tono di rimprovero.
« Non ti preoccupate, centurione. Elisium torna sempre, quando lo chiamo », sbadigliò Isabel, « Ed ora, ti supplico, indicami un punto dove posso mettermi a dormire ».
Il centurione sospirò. « È un bel problema, domina. Siete la sola donna, qui, e questo – credetemi – non è un bene. Non dopo tanti anni di guerre in questo posto dimenticato dagli Dei. Ma vi farò liberare una tenda », concluse, facendo un cenno imperioso ad uno dei soldati che corse via.
Isabel sbadigliò ancora. Le emozioni di quelle ultime ore erano state molte, ma lei era semplicemente troppo stanca per rimanere sveglia e vigile ancora a lungo. « Ti sono debitrice, centurione. Tu non hai idea di quanto abbia bisogno di un buon sonno ».

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


Publio Licinio Crasso non riusciva a credere nemmeno ai suoi occhi. Quante volte suo padre gli aveva parlato di Nicandro di Sinope? Quante? Forse migliaia e migliaia. Ricordava alla perfezione ciascuno dei racconti che fin da bambino gli aveva narrato; avrebbe persino potuto imitare quella sua intonazione a metà tra l’invidia e l’ammirazione.
Ed ora eccolo lì, quell’uomo tanto vagheggiato, steso su un letto da campo proprio sotto i suoi occhi. Ancora incredulo, Publio si sedette su uno sgabello che spinse accanto al letto. Disturbato dal rumore, Nicandro aprì gli occhi.
« Chi siete? », domandò, con voce così flebile che per un attimo Publio dubitò che avesse davvero parlato.
« Mi chiamo Publio Licinio Crasso, figlio di Marco », si presentò lui.
« Marco … conoscevo … tuo padre », ansimò il vecchio, faticando ad ogni parola, « Devo… testamento ».
« Oh… certamente », esclamò Publio, preso alla sprovvista. « Faccio subito chiamare qualcuno », gli assicurò, alzandosi ed uscendo dalla tenda per ordinare al soldato di guardia di far chiamare Prax, il suo servo greco che svolgeva anche funzioni da scrivano.
Tornò poi dal vecchio, aiutandolo a bere un sorso d’acqua. « Mio padre mi ha parlato molto di voi », ammise.
Nicandro, con uno sforzo, sorrise. « Bene, spero ».
« Molto bene », annuì Publio.
« Mi … dispiace … ho pianto quando mi hanno … detto di lui », mormorò, e sembrava davvero sinceramente addolorato. Publio annuì. « È passato tanto tempo ».
Nicandro chiuse gli occhi. « Tanto ».
 
Isabel fu svegliata da qualcuno che la chiamava col nome di Marta Alessandra. Sbatté a lungo le palpebre, cercando di cacciar via il sonno, prima di riuscire a mettere a fuoco chi fosse il padrone di quella voce così insistente. Era Arrio, il centurione dal buffo pennacchio.
« Domina, porto brutte notizie ».
 
Cremarono il corpo di Nicandro già quella mattina. Il dottore disse che nemmeno un uomo giovane e robusto avrebbe potuto sopravvivere a quel genere di ferita, il che non consolò minimante Isabel. Col vecchio mercante non solo moriva il suo ultimo amico in quella terra, ma anche tutte le sue speranze di arrivare ad Alessandria, consultare i testi della famosa biblioteca e vedere se esisteva un modo per tornarsene a casa.
Ad ogni modo, non lo pianse perché con lui erano andati in frantumi i sogni di arrivare ad Alessandria; lo pianse perché era un uomo buono ed era morto praticamente tra le sue braccia.
Stava asciugandosi le lacrime quando una mano si posò delicatamente sulla sua spalla. Si voltò, sorpresa, e si trovò di fronte ad un giovane uomo dal vestito elegante ed il viso allungato e volpino.
« Domina, mi dispiace moltissimo per la vostra perdita », le mormorò, « Io sono il legato Publio Licinio Crasso ».
Isabel sgranò gli occhi: Crasso? Crasso come il triumviro? L’amico ricchissimo di Cesare e Pompeo? Un ricordo della scuola le tornò alla mente: ma quello non era Marco Licinio Crasso? « Marco? », balbettò.
Il Romano scosse il capo. « Marco era mio padre, domina », disse, e non pareva minimamente offeso: doveva essere un errore comune. « Le mie condoglianze », ripeté.
Chissà come, le parole dell’uomo fecero riaffiorare nella memoria di Isabel una pagina del suo libro di storia: Publio Licinio Crasso era il figlio del più famoso triumviro, nonché legato di Cesare in Gallia.
Gli sorrise amichevolmente. « Grazie ».
Crasso annuì. « Manderò i miei uomini a cercare i vostri compagni. Uccideranno i responsabili di questo … massacro, e vi riporteranno i sopravissuti ed i corpi ».
« I… corpi? ». Isabel ebbe una stretta al cuore. Umbrio… non voleva vederlo morto, freddo e grigio, non voleva dover ammettere l’ineluttabilità di ciò che già sapeva per certo, ossia che il magnifico Romano con cui aveva fatto l’amore non avrebbe mai più camminato, riso, socchiuso gli occhi incontro al sole. Umbrio era morto e l’ammetterlo era già abbastanza doloroso: non credeva d’avere la forza per toccarlo con mano. D’altro canto, non c’era nulla di intelligente che lei potesse obiettare, perciò si limitò ad annuire e ringraziare il legato.
« Io … », cominciò Crasso, cercando le parole più adatte. Sembrava imbarazzato. « Noi siamo in marcia per ricongiungersi con Cesare. Non siamo in ritardo, ma … ».
« Ma perderete un giorno per recuperare i miei compagni e vendicare la loro morte », intuì Isabel, « E di questo vi ringrazio, generale, e state pur tranquillo che non vi chiederò di tentare più a lungo ».
Crasso accennò un inchino. « La vostra gentilezza e saggezza è pari alla vostra bellezza, domina », le disse, con un sorriso malandrino.
Isabel rispose con una smorfia tirata. Non era davvero in vena di complimenti, soprattutto non di così gratuiti. Voleva solo andare a dormire e restarci per una settimana, senza più dover respirare l’odore del fumo che si levava dalla pira di Nicandro - fumo, per Dio! Lo stavano bruciando! - e pensare che non avrebbe mai più rivisto Umbrio passarsi il dorso della mano sulla barba abbastanza lunga da farlo sembrare un “barbaro”.
In quel momento un uomo anziano si affiancò al legato e gli sussurrò qualche parola all’orecchio. Crasso annuì e tese una mano, nella quale il vecchio depose una pergamena sigillata.
« Domina, comprendo il vostro dolore, ma è bene che siate subito messa al corrente di alcune questioni », esordì.
Isabel era troppo stanca persino per accampare scuse: inspirò sonoramente. « Come volete, generale. Ditemi pure ».
« Prima di … prima di… ».
« Morire », disse lei, sorridendo per mostrargli d’aver apprezzato la sua esitazione.
« Sì, esatto. Prima di morire, il nobile Nicandro ha voluto fare testamento ».
Isabel scosse il capo. « Capisco, ma temo di non potervi essere d’aiuto. Non conosco nessuno dei suoi parenti. Mi sono unita al convoglio di Nicandro solamente da una settimana ».
Crasso inarcò le folte sopraciglia. « Be’, deve essere stata una settimana splendida, perché Nicandro vi ha lasciato tutto quanto ».
Isabel sgranò gli occhi, mentre il fiato le si mozzava in gola. « Cosa? », strillò, incredula.
« Nicandro ha lasciato … ».
« Sì, ho sentito », lo interruppe lei, « Ma non riesco a crederci! Non è possibile! Perché? Lo conoscevo appena! Certo, stavo imparando a volergli bene, ma da qui a lasciarmi tutti i suoi soldi… ».
« Evidentemente il povero Nicandro deve aver letto nel vostro cuore, perché non solo ha lasciato tutto a voi, domina, ma vi ha persino adottata ».
Quello era veramente troppo. Isabel sentì che la testa iniziava a girarle e afferrò il braccio di Crasso per non cadere.
Il generale le passò una mano attorno alla vita, sorreggendola, e la condusse rapidamente verso una tenda particolarmente ampia e lussuosa. L’interno era accogliente, dotato di ogni genere di confort – naturalmente confort dell’Antica Roma – anche se manteneva decisamente un’aria spartana e militare.
Crasso la fece accomodare su uno sgabello apribile e con un cenno ordinò ad uno schiavo silenzioso sul fondo di servirle da bere. L’uomo si affrettò a versarle un boccale di vino caldo e speziato che Isabel vuotò d’un sorso.
« Dio … Dèi », si corresse subito, « È tutto così assurdo… così incredibile… io devo ancora abituarmi ad essere qua ».
« Qua? », ripeté Crasso, confuso.
Isabel si morse la lingua e gli ripeté la storia inventata del suo viaggio attraverso metà del mondo conosciuto. Publio parve impressionato, ma grazie a Dio non insistette troppo nel volerne conoscere i dettagli. Le chiese semplicemente il nome del suo villaggio d’origine e, ottenuto un mugugno in risposta, non domandò altro.
« Generale… », si sentì in dovere di dire Isabel dopo un lungo momento di silenzio, « … devo ringraziarvi, dal profondo del cuore, per tutto quello che avete fatto per me … per noi », puntualizzò, scuotendo la testa. Si sentiva stordita, come se avesse appena avuto un incidente in macchina. Le fischiavano persino le orecchie. « Non so come farò a sdebitarmi. Non solo non ho un soldo, al momento, ma … ».
« Che cosa? », la interruppe Crasso, trattenendo a stento una risata, « Ma che cosa dite? ».
« Come? Cosa dico? », domandò Isabel, confusa.
« Voi non siete senza soldi! Ma non mi avete sentito? Nicandro vi ha lasciato tutto! ».
« Sì, be’, capisco, ma … ».
« No, voi non capite, evidentemente, domina », la interruppe ancora Crasso, « Davvero non sapete chi fosse Nicandro? ».
Isabel scrollò le spalle. « No, mi dispiace. Sono appena arrivata qui da… molto, molto lontano, ricordate? ».
« Oh, giusto », esclamò Crasso, « Be’, in tal caso lasciate che ve lo dica, domina. Questo … », disse, agitando il testamento di Nicandro, « … non solo vi rende la donna più ricca del mondo, ma… con tutta probabilità… anche la persona più ricca del mondo ».
 
Isabel se ne stava sdraiata sulla branda nella tenda che Arrio aveva fatto preparare apposta per lei e fissava il sole attraverso la stoffa tesa. Da più di due ore giaceva lì nel vano tentativo di porre ordine tra i suoi pensieri o in quello ancor più vano di dare un senso a tutto quello che le era capitato da quella maledetta notte in cui le era venuta la brillante idea di guardare in quel fottutissimo talismano.
Soltanto pochi giorni prima aveva in mente Edward, la verifica di biologia e poco altro, ed ora si ritrovava catapultata nell’Antica Roma, inseguita ai Galli, salvata dai Romani, adottata da un uomo semisconosciuto ed infine era diventata l’essere umano più ricco al mondo. Notizia entusiasmante, certo, ma solamente se poteva servire a farle trovare il modo di ritornarsene nel ventunesimo secolo. Il problema era che dubitava bastasse pagare il biglietto di ritorno.
Sospirando, Isabel chiuse gli occhi e cercò almeno di dormire. Violente, le tornarono alla mente le scene della battaglia di due giorni prima, la morte di Umbrio e la cremazione di Nicandro. Con un sussulto, riaprì gli occhi.
« Sono proprio in un bel casino », sospirò, massaggiandosi le tempie con la punta delle dita.
Il problema era che non aveva la minima idea di cosa fare. Rimanere coi Romani forse era più sicuro, ma non poteva certo bivaccare al seguito di Crasso per il resto della campagna in Gallia! Lasciarli però significava attraversare un territorio non troppo tranquillo fino a Marsiglia e – sebbene Crasso le avesse offerto di fornirle un’adeguata scorta – l’idea proprio non l’allettava. Dormire all’addiaccio per chissà quante altre notti, cavalcare fino a non sentire più il sedere e continuare a guardarsi le spalle per paura dei barbari non era proprio l’ideale per riprendersi dallo shock che Isabel sentiva di aver subito.
O forse sì? Ricordò quanto si era sentita bene in sella ad Elisium, quanto fosse stata piacevole la monotonia del viaggio, la compagnia dei servi di Nicandro e quanto si fosse sentita serena per buona parte del viaggio. Forse avere qualcosa da fare, un posto dove andare, una meta insomma, era proprio quello che le ci voleva. Tenere la mente occupata: ecco cosa doveva fare.
« Sì, una meta! », esclamò. D’un tratto risoluta, si alzò di scatto dal letto da campo ed uscì dalla tenda. Si diresse a rapidi passi verso l’alloggio di Crasso, riflettendo sulle parole più adatte da dirgli per accettare la sua proposta di una scorta. Non voleva sembrare impaziente di andarsene, ma voleva fargli capire che lì non aveva più niente da fare o da aspettare.
Era quasi arrivata alla tenda del legato quando un movimento ad una delle porte dell’accampamento la distrasse. Da alcune parole di un soldato di passaggio capì che erano tornati gli uomini mandati da Crasso a cercare i sopravissuti del suo convoglio. Ansiosa, corse all’ingresso.
Vi trovò Arrio e Crasso che discutevano con un soldato tutto impolverato. Quando la vide, il generale le fece gentilmente cenno di avvicinarsi.
« Hanno trovato le tracce dei Galli che vi hanno attaccati, ma si dirigevano verso l’interno ed erano già piuttosto vecchie, così hanno dovuto lasciar perdere », le spiegò Crasso, « Hanno raccolto i corpi dei tuoi compagni, sono su quel carro, ma purtroppo non hanno trovato sopravissuti. Probabilmente i Galli li hanno presi come schiavi ».
Isabel annuì. Si era fatta pallida e tirata in volto. « Io … io non so se posso … ».
« Non è necessario che voi li vediate », comprese Crasso, sorridendole con fare amichevole, « Penseremo noi ai riti funebri ».
Isabel rispose al suo sorriso, senza riuscire - o cercare - di nascondere il sollievo, di cui si sentiva in parte imbarazzata: era forse una codarda a non voler nemmeno gettare un’occhiata al cadavere di Umbrio? Forse, si disse, ma ciò non cambiava il fatto che semplicemente non riusciva a farlo.
Sorrise di nuovo a Crasso. « Grazie, davvero ».
 
Alla fine, non assistette alla cremazione di Umbrio né a quella degli altri del convoglio. Nonostante le sue remore, sarebbe stato davvero troppo. Si chiuse nella sua tenda fino a sera, quando cenò con Crasso rivelandogli le sue intenzioni. Il generale non lasciò trapelare alcuna emozione a quella notizia, anche se sembrò per un istante combattuto tra il sollievo e la delusione. Le promise comunque una scorta militare di venti uomini e la congedò con un abbraccio fraterno.
Il mattino dopo, Isabel fu gentilmente svegliata da un soldato che la informava che la sua tenda era l’ultima cosa che rimaneva da smontare. Ancora mezza addormentata, Isabel uscì all’aperto, rimanendo senza fiato quando si rese conto che in effetti l’accampamento era letteralmente scomparso nel nulla. Alcuni soldati ridacchiarono nel cogliere la sua sorpresa, ma i più erano troppo indaffarati per prestarle attenzione.
Il centurione Arrio le si fece incontro. « I vostri uomini vi attendono, domina, e ho già scelto un cavallo per voi ».
Isabel scosse il capo. « Vi ringrazio, centurione, ma non ve n’è bisogno », esclamò, avviandosi verso il punto che il Romano le aveva indicato alludendo alla sua scorta. Una ventina di soldati scattarono sull’attenti al suo passaggio, rigidi come tanti manichini. Isabel li salutò cordialmente e fece loro segno di rilassarsi. Quelli non si mossero d’un millimetro.
« Riposo, soldati! », esclamò allora Arrio.
Isabel sospirò: possibile che dovessero essere così solenni, quei benedetti militari?
« Salve a tutti. Sono Marta Alessandra », si presentò.
« Ave, domina! », risposero in coro i venti Romani.
Isabel roteò gli occhi: molto bene. Avrebbe pensato più tardi a riscaldare la loro rigida formalità. Si voltò verso la campagna aperta e chiamò a gran voce Elisium.
« Domina, che fate? Invocate i Campi Elisi? », le domandò, confuso e vagamente preoccupato, Arrio.
Isabel scosse il capo. « No, aspettate un momento e vedrete, amico mio ».
Il centurione sgranò gli occhi nel sentirsi chiamare amico mio, ma si affrettò a nascondere la sua sorpresa. Cosa che non gli riuscì affatto quando vide lo stallone bianco dirigersi verso di loro al galoppo.
« Che Giove mi strafulmini! », esclamò, a dir poco allibito. Isabel ridacchiò e tese una mano, che Elisium venne docilmente ad annusare. Sorridendo, la ragazza abbracciò il collo muscoloso del cavallo, che le poggiò il capo sulla schiena godendosi le coccole.
« Parola mia, domina, siete baciata da Nettuno, signore dei cavalli! », le assicurò il centurione. Isabel rise: chissà, magari era davvero così! Chi poteva dire che cosa era possibile e cosa no, in fondo? Di certo non lei, studentessa della St.George School impegnata in un dialogo con un centurione Romano.
Crasso giunse in quel momento a salutarla. Isabel, istintivamente, gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò affettuosamente, gettando nello scompiglio il povero Romano che tutt’al più si era aspettato un caloroso arrivederci. Impacciato, si limito a sfiorarle la schiena in un paio di amichevoli pacche, prima di schiarirsi sonoramente la gola come a dire che doveva andare. Isabel lo mollò e gli augurò sinceramente di raggiungere Cesare senza ulteriori imprevisti, quindi montò in sella ad Elisium, afferrò il sacco con le provviste che Arrio le tendeva e partì al trotto, tallonata dai suoi venti soldati a cavallo.
Per tre giorni proseguirono verso sud, seguendo una pista che soltanto Nivio, il più anziano della sua scorta, sembrava vedere. Isabel trascorse i primi due giorni tentando di far ridere almeno uno dei Romani, ma fu ben presto chiaro che Crasso aveva scelto quegli uomini per la loro serietà e formalità. Scattavano sull’attenti ogni volta che la vedevano arrivare e non si rilassavano nemmeno un poco finché lei non pronunciava la parolina magica: riposo.
Alla fine si arrese: se volevano fare i seri, tanto peggio per loro. Lei ci aveva provato. Quanto meno il viaggio le dava modo di pensare a qualcosa che non fosse la sua situazione, la morte di Umbrio o quanto lontano fosse da casa.
La sera del quarto giorno Nivio le annunciò ossequiosamente che avrebbe svoltato leggermente verso sud-est, in modo da giungere sulla costa non molto lontano da Marsiglia. Isabel lo ringraziò e quello le rivolse un rigido saluto militare, prima di allontanarsi col suo passo deciso da soldato.
Stanca per la giornata trascorsa in sella, Isabel cenò frettolosamente consumando ciò che rimaneva del suo formaggio e si addormentò tra le zampe di Elisium, che sembrava montarle la guardia come un grosso cane senza zanne. Si sentiva tranquilla, serena, ma anche disperatamente sola.
All’alba ripresero il cammino – sempre lungo piste che probabilmente esistevano soltanto nella testa di Nivio – e in meno di una settimana giunsero a Marsiglia.
Isabel ricordava vagamente che la città era antica, greca, e si era aspettata un grosso centro, perciò rimase molto delusa quando vi giunse. Il porto era animato e pieno di navi, il perimetro della città fortificato da spesse mura e le case erano di pietra a più piani, ma nel complesso Marsiglia non sembrava assolutamente una metropoli. Più che altro aveva le dimensione della frazione di qualche cittadina moderna.
Isabel fece spallucce: oh, be’, non era certo lì per fare la turista. Fosse stata anche grande come uno sputo, ciò che contava era che ci fosse una nave che accettasse di potarla ad Alessandria. Per prima cosa, però, doveva trovare i soldi.
Crasso le aveva consigliato di provare presso un banchiere giudeo di nome Simone. A quanto pareva, era il maggior prestatore di denaro di tutta Marsiglia ed aveva affari anche col padre del generale. Non sapeva se aveva un deposito di denaro anche da parte di Nicandro, ma di certo Simone le avrebbe potuto indicare quale banchiere lo avesse.
« Dobbiamo trovare un banchiere giudeo di nome Simone », disse Isabel a Nivio, mentre entravano in città.
Il soldato annuì. « Proviamo nel quartiere ebreo. Se non è lì, di certo troveremo qualcuno che possa indicarci dove trovarlo ».
Il quartiere ebreo era un intrico di vicoli ciechi e viuzze tanto strette che i cavalli faticavano a passarci. Le case erano a più piani, con grandi finestre ariose e tende colorate, ma non avevano un aspetto particolarmente festoso. Mano a mano che si avvicinavano alla zona più ricca del quartiere, però, l’altezza degli edifici si abbassava, mentre aumentava la loro grandezza. Alla fine, si ritrovarono in un’ampia di via di grandi ville finemente decorate. Dai giardini giungevano profumi che avevano un ché di paradisiaco, mentre da alcune finestre aperte sulla strada si udivano risate e canti.
Isabel si scoprì suo malgrado a sorridere, estasiata da quella vista così variegata ed aliena. Niente di ciò che aveva studiato sui libri di storia o visto in televisione l’aveva preparata a quell’esperienza.
« Ecco: un giudeo », esclamò Nivio notando un uomo che avanzava nella loro direzione. Aveva una barba lunga e curata e portava una tunica scura, « Proviamo a chiedergli indicazioni ».
Il pover’uomo, quando si rese conto di essere osservato da venti Romani armati e a cavallo, impallidì di colpo e si voltò come per scappare. Isabel, però, lo fermò gridandogli che erano amici e volevano solo domandargli una cosa.
Titubante, più per paura che per altro, l’ebreo rallentò il passo e si fece raggiungere.
« Che cosa volete sapere? », domandò, nervoso.
Isabel si accorse che non riusciva a staccare gli occhi dalla spada di Nivio, come un topo che fissa incantato un cobra. A peggiorare le cose, il soldato appoggiò distrattamente la mano sull’elsa del gladio. Al povero giudeo per poco non venne un colpo.
Isabel sospirò, alzò gli occhi al cielo e si affrettò a chiedergli di Simone.
« Sì, certo, lo conosco. Abita in una villa in fondo alla via. Non potete sbagliarvi: è quella dipinta di rosso », si affrettò a rispondere l’uomo.
« Grazie mille », sorrise Isabel, spronando Elisium.
La casa di Simone era veramente enorme, anche più grande di quelle che Isabel ed i Romani avevano appena superato, con un alto muro a proteggerla e parecchi uomini di guardia. Come il passante aveva detto, era dipinta di rosse, con sottili greche bianche che correvano lungo i bordi.
Fu Nivio ad ordinare ad una delle guardie della casa di andare a chiamare il suo padrone, annunciando che alla porta attendeva Marta Alessandra, figlia di Nicandro da Sinope. Attesero appena un minuto e la porta della grande villa si spalancò.
Un uomo grasso, sorridente e riccamente vestito venne loro incontro.
« Mia signora, mia signora! Quale onore conoscervi! Prego, prego, entrate! », esclamò, facendosi da parte come per farla passare, « Io sono Simone di Tarso ».
« L’onore è tutto mio, amico, ma temo di non aver tempo per godere della tua generosa ospitalità. Sto cercando l’uomo cui mio padre ha affidato il suo denaro qui in Gallia ».
« Ho questo privilegio, domina », ribatté lui con un inchino.
Isabel sospirò, come sgravata da un peso: bene. Finalmente le cose iniziavano ad andare per il verso giusto. Smontò da cavallo e disse a Nivio di occuparsi degli uomini e di Elisium. Quindi seguì Simone all’interno, attraversando un giardino che sembrava la riproduzione di una foresta pluviale e decine di sale, una più affrescata e ricca dell’altra. Infine, giunsero in un grande salone dal pavimento coperto di tappeti, le pareti nascoste da grandi statue e con grandi e morbidi triclini al centro.
« Prego, domina, sedete. Cosa posso offrirvi? ».
Isabel avrebbe pagato qualunque somma per una coca-cola, ma dubitava che il banchiere ne tenesse una in frigo. Perciò sorrise e chiese dell’acqua e limone. Simone batté le mani ed una schiava sgusciò via nell’ombra.
« Ed ora ditemi, amico mio, mio padre era solito lasciarvi in custodia il suo denaro? », esordì lei dopo alcuni convenevoli sulla sua identità e la sua favolosa storia.
« I nostri rapporti durano da anni, sì », annuì lui, « Io amministro alcuni beni che Nicandro possedeva qui in Gallia e mi occupavo anche di alcuni traffici ».
« Che genere di traffici? ».
« Più che altro vino, olio, olive e schiavi », rispose il banchiere con un sorriso, « Qualche volta oro o metallo ».
Isabel annuì. « Capisco. E al momento, di quanto denaro di mio padre disponete? ».
« In totale? ».
Lei scosse il capo. « Non mi interessa la cifra esatta, in effetti. Ciò che voglio è semplicemente prendere un po’ di soldi per raggiungere Alessandria. Ho … alcuni affari da sbrigare, laggiù ».
Simone fece spallucce. « Ditemi una cifra ed io ve la farò avere al più presto ».
« Non voglio debiti con voi, amico mio. Per questo vi chiedevo quanto denaro di mio padre fosse disponibile ».
« Voi state parlando di denaro liquido, naturalmente ».
« Temo di non seguirvi », ammise Isabel.
« Ma, domina, ve l’ho appena detto: vostro padre qui in Gallia aveva molte ricchezze. Vigne, uliveti, miniere, navi, botteghe e molto altro ancora. Certo, presso di me aveva depositato anche oro, argento e denaro contante, perciò io vi chiedo: voi vi state riferendo a delle monete, giusto? ».
« Sì, sì, esatto. Moneta. Ecco cosa mi serve. Non voglio toccare né le vigne né le miniere e nemmeno l’oro o l’argento. Mi serve soltanto della moneta. Quanta ne avete qui? ».
Il banchiere fece spallucce. « Be’, domina, temo che per buona parte sia investita », cominciò, ed Isabel si sentì come se stesse sprofondando sottoterra, « Ma credo di averne nei miei forzieri forse … non so … due, tre milioni di denari ».
Isabel sgranò gli occhi: non era un’esperta di storia antica, ma da quel poco che aveva colto in quelle due settimane sapeva che si trattava di una cifra veramente enorme. Eppure Simone ne parlava come se si trattasse di spiccioli. Era davvero così smisurato il patrimonio di suo padre?
« Mio buon amico, posso farti una domanda? ».
Il banchiere annuì, apparentemente estasiato. « Ma certo, ma certo! », esclamò. Sembrava impaziente di compiacerla. Isabel ridacchiò tra sé: ma certo! Con due o tre suoi milioni di denari in garage, come potrebbe non esserlo? Doveva essere terrorizzato dall’idea che lei cambiasse banchiere! Di colpo le tornò in mente la prodigalità e la gentilezza di Crasso ed iniziò a chiedersi quanto fosse effettivamente sincera. Scocciata, Isabel sbuffò: certo che la ricchezza poteva essere una bella scocciatura.
« Vedi, io non conosco il reale ammontare della ricchezza di mio padre, e mi chiedevo se tu, invece… ? ».
Il giudeo scosse il capo. « Temo di non potervi aiutare, domina. Io curo … cioè, curavo soltanto gli affari in Gallia del vostro amato padre. Del resto, non so. Però posso dirvi questo: quando Marco Licinio Crasso è morto, a Carre … l’avrete sentito nominare, nevvero? ».
Isabel annuì. « Si dice fosse l’uomo più ricco di Roma ».
« E probabilmente lo era. Be’, quando è morto ha lasciato un patrimonio di … stando a quel che si dice … quarantaduemilioni di denari », sussurrò, come se si trattasse di un gran segreto, e finalmente i suoi occhi si illuminarono, nel pronunciare quella cifra. Doveva essere una somma incredibile persino per lui.
« Cavolo! », si sentì in dovere di esclamare Isabel, che pure non riusciva a farsi un’idea di quanto fosse realmente l’ammontare di quella cifra. Chissà quant’era il cambio denaro-dollaro?
« Già, infatti », annuì lui, sebbene un po’ sorpreso dalla sua esclamazione, « Ma vi assicuro che questa somma non era niente, se paragonata a quella accumulata da vostro padre ».
Isabel fece una smorfia: dannazione! Allora era davvero la donna più ricca del mondo. Be’, del mondo conosciuto, naturalmente. Scrollò il capo: era una cosa così assurda che ancora stentava a credervi.
« Vi ringrazio. Inizio a farmi un’idea », si sfregò le mani, prendendo a riflettere rapidamente, « Bene… emh… sì… sentite, amico mio, facciamo così: datemi, che so, un milione e mezzo di denari e trovatemi un capitano onesto con una buona barca che accetti di portarmi ad Alessandria senza derubarmi lungo la strada. Sono disposta a viaggiare sotto falso nome, se necessario, ma trovatemelo. Ve ne sarò per sempre grata ».
A quelle parole il banchiere allargò un radioso sorriso: pareva intenzionato a prenderla alla lettera. « Oh, non c’è problema ».
 
Simone le anticipò di tasca sua un paio di migliaia di denari per le piccole spese e le diede un nome di una buona locanda, seppur rattristato dal fatto che lei avesse declinato il suo invito ad alloggiare presso la sua casa. Isabel recuperò Elisium ed i Romani e si avviò verso il centro città, sgranando gli occhi di meraviglia ad ogni angolo che svoltavano. Forse non era grande come New York, ma di certo la Marsiglia del primo secolo avanti Cristo era una gran bella città, ricca di sorprese. Le botteghe erano numerose e si aprivano direttamente sulle strade, lastricate e dotate di marciapiedi ingombri non solo di persone, ma anche di merci: carne appena macellata, mucchi di cesti di vimini, anfore colme di cereali, tavoli, sedie e rotoli di stoffa dallo strano odore. Gli onnipresenti venditori ambulanti, con le loro chincaglierie che sembravano destinate a non cambiare da lì al ventunesimo secolo - al punto che Isabel non si sarebbe stupita nel leggere made in China su qualcuno di quei ciondoli o borselli -, strillavano ed agguantavano i passanti, ma si tenevano prudentemente alla larga da quella ragazzina circondata da venti soldati armati fino ai denti.
Dopo un po’ di vagabondaggio, Isabel e i Romani di Nivio giunsero in una larga piazza occupata da ogni sorta di bancarelle, dove la vita era particolarmente animata. In un angolo si vendevano frutta e verdura, nell’altro piatti e boccali, nell’altro ancora animali d’ogni sorta, ed in un altro abiti ed oggetti di cuoio. Qui una donna sbraitava la freschezza del suo pane, là un uomo decantava la perfezione dei suoi strumenti musicali, dall’altra parte invece un tizio bieco vendeva gioielli ed una donna cercava di appioppare a chiunque passasse delle piume di pavone piuttosto spennacchiate.
E proprio di fronte ad Isabel, su di un palco un grassone stava cercando di vendere Chrysio .
« Oh, mio Dio! », gridò lei, smontando da cavallo e correndo sotto la pedana.
« Settecento, chi offre di più? », gridò in quel momento il grassone.
Senza riflettere, Isabel alzò una mano.
« Settecentocinquanta dalla nobile signora. Ci sono altre offerte? », il grassone attese qualche momento prima di gridare venduto a voce così stentorea che un bambino, spaventato, scoppiò a piangere.
Soddisfatto, l’uomo prese le monete che Isabel gli tendeva dopo averle frettolosamente contate, controllò che fossero tutte di buona lega assaggiandole fra i denti, le intascò e le tese un documento, spingendo avanti il povero Chrysio .
« Complimenti per il vostro acquisto, domina! », esclamò distrattamente, ridendo ed allontanandosi per decantare le qualità di un altro schiavo.
Isabel, senza fiato, abbracciò il giovane servo che si abbandonò contro la sua spalla come se non avesse più forze.
« Oh, domina, credevo che non vi avrei più rivisto », mormorò piano.
Con le lacrime agli occhi, Isabel lo scostò da sé quel tanto che bastava per controllare che non fosse ferito. A parte qualche livido e delle brutte occhiaie, però, sembrava stare bene. « Mi sono preoccupata tanto per te, amico mio. Ma viene, sarai stanco morto. Conosco una buona locanda. O meglio, la conoscerò quando riuscirò a trovarla », esclamò, ridendo nervosamente, guidandolo tra la folla fino a Nivio ed i Romani che la attendevano impazienti con Elisium.
« Domina, i nostri ordini sono di accompagnarvi fino al vostro alloggio a Marsiglia e quindi tornare indietro », le ricordò Nivio per qualcosa come la trentesima volta.
« Sì, amico mio, lo so. Andiamo », sospirò lei, esasperata, montando in groppa ad Elisium ed aiutando Chrysio  a fare altrettanto. Mentre cavalcavano attraverso le vie affollate della città, Isabel raccontò al ragazzo quanto era accaduto a lei e a Nicandro in quel lasso di tempo. Chrysio, da parte sua, fu piuttosto laconico, ma disse quel tanto per farle capire che non doveva aver vissuto una gran bella esperienza.
Riuscirono infine a scovare la tanto cercata locanda e perfino a strappare un buon prezzo dall’oste per dieci camere. Isabel, infatti, aveva decretato che i Romani dovessero passare lì la notte, per poi ripartire freschi e riposati il mattino seguenti. Nivio protestò per un po’, ma alla fine dovette cedere alle insistenze della sua domina.
Dopo essersi rinfrescata nella sua stanza, Isabel scese nella grande sala comune al pianterreno per cenare con Chrysio, che le si affaccendava attorno cercando in ogni modo di prevenire i suoi seppur minimi desideri. Per la maggior parte delle volte steccava in maniera clamorosa, ma Isabel si limitava a sorridergli e ringraziarlo di tutto cuore, sebbene le premure del giovane la stessero portando a bere troppo vino e mangiare decisamente troppa carne.
Quando finalmente riuscì a convincere il giovane schiavo a sedere con lei, questi le confessò che non era il solo sopravissuto del convoglio.
« Anche Oreste e Melite sono stati presi ». Isabel li rammentava vagamente: Oreste era un giovane basso e magro che non osava mai guardala negli occhi, mentre Melite era un trace che rideva fragorosamente ed una volta l’aveva chiamata paperottina, facendola sentire come un’amata sorellina minore.
« Dobbiamo trovarli », esclamò, risoluta.
« Temo che non sia possibile: i barbari li hanno tenuti con loro. Credo che vogliano venderli più al nord », mormorò Chrysio , sconsolato.
Isabel si alzò in piedi con tanta furia da rovesciare la sedia all’indietro. Allarmati, i venti Romani scattarono in piedi portando la mano al gladio, per poi rimanere basiti e confusi quando si resero conto che non c’era alcun pericolo.
« E noi allora andremo a cercarli », mormorò piano Isabel, gli occhi piantati in quelli di Chrysio .

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


A Nivio per poco non vene un colpo, quando Isabel gli disse che cosa intendeva fare. Protestò per il resto della serata, ma alla fine lei gli gridò di tacere con tono da ufficiale superiore, e lui quasi scattò all’istante sull’attenti gridando: « Sissignora, come volete voi, signora ».
Per la prima volta, Isabel apprezzò la rigidità militare Romana. Con un largo sorriso di soddisfazione, gli ordinò di far pervenire un messaggio a Simone, nel quale gli chiedeva di affrettare la consegna del denaro al mattino seguente, quindi mandò Chrysio  alla ricerca di un sarto: non poteva continuare a sgambettare per l’Antica Roma vestita nike.
Il giovane schiavo non ebbe difficoltà a reperire un buon modellista e a farlo venire alla locanda quella sera stessa. L’uomo prese rapidamente le misure di Isabel e le disse di avere proprio quello che faceva per lei. Iniziò a mostrarle abiti uno più ricco e sontuoso dell’altro, finché la ragazza non perse la pazienza. Soltanto a quel punto le mostrò un paio di comodi calzoni ed una corta tunica con una cintura che la tratteneva in vita. Era un completo semplice ma di buon gusto, adatto ad ogni genere di lavoro all’aperto e soprattutto all’equitazione, le spiegò, ed Isabel per una volta fu d’accordo con lui.
Lasciò che fosse Chrysio  a tirare sul prezzo e corse a cambiarsi. I nuovi abiti le andavano a pennello. Soddisfatta, si occupò di comandare all’oste delle provviste, che voleva trovare alla locanda il mattino seguente, quindi riprese a litigare con Nivio.
L’alba la sorprese dopo poche ore di sonno, ma quanto meno tutti i preparativi erano stati fatti: Simone aveva mandato il denaro, l’oste aveva procurato due bardotti carichi di ogni genere di cibaria e lei indossava degli abiti caldi, comodi e Romani. Infine, miracolo supremo, Nivio era stato convinto. I suoi ordini erano quelli di condurla al sicuro: finché lei non fosse stata fuori pericolo, doveva rimanere al suo fianco a proteggerla. E aggirarsi per la Gallia era per l’appunto quel genere di pericolo dal quale lui doveva preservarla.
Perciò, al povero Romano non restò altro da fare che montare in sella e seguirla. Determinata come poche altre volte nella sua vita, Isabel si avviò verso l’interno.
Superarono colline morbide e vallate lussureggianti, dalla terra così grassa da essere nera e dalle foreste così fitte da dare l’impressione di non avere una fine. Era un mondo enorme, pulito e incontaminato, dove l’uomo non aveva ancora avuto il completo sopravvento sulla natura e dove i boschi avevano ancora il dominio delle terre. Sfilarono accanto a piccoli villaggi rannicchiati attorno a corsi d’acqua e case sparse di coloni coraggiosi, ma senza incontrare alcuna traccia dei barbari che li avevano assaliti.
Sconfortata, Isabel stava quasi per gettare la spugna, quando un mattino Chrysio  esclamò che riconosceva la forma di una montagna. Disse che si erano accampati proprio all’ombra di quell’altura, poco prima che fosse condotto e venduto a Marsiglia. Isabel non si trattenne dall’abbracciarlo con affetto, gridando di gioia: forse li avevano trovati!
 
Tesero loro un agguato.
Nivio aveva mandato un uomo in avanscoperta e quello era tornato dicendo che c’erano circa una trentina di Galli accampati sotto lo stesso sperone rocciose che aveva permesso a Chrysio  di riconoscere quella montagna. Imprecando, Nivio aveva stabilito che erano troppi per loro, a meno di non organizzare una qualche trappola.
Sempre borbottando, il legionario ordinò ad Isabel e al giovane schiavo di restarsene fuori dai piedi, perché – dal momento che non erano addestrati alla battaglia – se avessero cercato di dare una mano avrebbero finito per fare più casino che altro. Non poi così rattristata, Isabel rimontò in sella ad Elisium e si portò con Chrysio  a distanza di sicurezza.
Si acquattarono tra gli alberi, osservando da lontano i movimenti esperti e precisi dei legionari di Nivio.
« Quelli sì che sono Uomini », commentò a mezza voce Isabel, ammirata: non avevano niente a che fare con gli essere umani di sesso maschile che aveva conosciuto fino a quel momento, preoccupati solamente del conto in banca, della pressione nelle gomme dell’auto e di quanto il loro dopobarba attirasse le femmine. Questi qui, si disse Isabel senza riuscire a staccare gli occhi dai Romani, sono veramente uomini. Sono capaci di difendere con la vita una donna che appena conoscono, semplicemente per obbedire a degli ordini, per rendere onore alla loro Patria. Non sanno nemmeno che cos’è un dopobarba, ma stanno per affrontare trenta barbari pesantemente armati e sono calmi come una tazza d’acqua. Isabel scosse il capo: roba da non credere.
« Mi dispiace di non poter dare una mano », mormorò ad un tratto Chrysio  al suo fianco.
Isabel fece spallucce. « Non riusciremmo comunque a combinare niente a parte farci ammazzare ».
« Io so combattere », le ricordò Chrysio. In effetti, rammentò Isabel, era stato lui a salvarla durante l’attacco dei barbari, e si era anche dimostrato un combattente niente male, in quell’occasione.
« Hai ragione, ma Nivio ha detto no. Ti toccherà rimanere qui e difendere questa piccola, indifesa fanciulla! », esclamò con un mezzo sorriso.
Chrysio  ridacchiò. « Non siete affatto indifesa, domina. Anzi, siete molto coraggiosa ».
Isabel scoppiò a ridere. « Coraggiosa io? Andiamo! », la sola idea era da sbellicarsi dalle risate. Coraggiosa! Questa poi! Ma se era rimasta sotto shock per giorni, dopo essersi risvegliata lì, aveva gridato e chiamato la mamma come una bambina, e poi non era nemmeno riuscita a guardare il cadavere di Umbrio. Anzi, ancora si rifiutava di pensare a lui. All’idea di dover affrontare la realtà della sua morte aveva preferito la negazione: si era tirata indietro, aveva distolto il pensiero e rimandato ad un fumoso domani. Era scappata, invece di accettare l’accaduto. No, decisamente, era tutto meno che coraggiosa!
« Be’, domina, questa non mi sembra un’impresa da pusillanimi. Non molte donne rischierebbero la loro vita per salvare due schiavi », le fece notare, apparentemente ammirato, il giovane.
Isabel scosse il capo. « Sono persone! Miei amici! Non potevo lasciarli in mano a questi … questi … barbari! Andiamo: cos’altro potevo fare? Ero con le spalle al muro », protestò lei, « È soltanto allora che tiro fuori le palle: quando non ho altra scelta. E questa non è precisamente la definizione di coraggio ».
Chrysio  scosse il capo e lasciò perdere. Anche perché in quel momento un Gallo sbucò dalla foresta davanti a loro e cadde dritto dritto nella trappola di Nivio e dei suoi uomini.
 
« No, spiegami … mi stai dicendo che Isabel non si trova più … nel ventunesimo secolo? ».
Zia Dag sospirò, rigirando la tazza di cioccolata calda tra le mani. Lei e Jo sedevano nel suo salotto, l’uno di fronte all’altra, e da quasi due ore la donna stava cercando di spiegare al ragazzo quello che era accaduto alla sua migliore amica.
« Non è così semplice ».
« Be’, allora vedi di non tirarla alla lunga! Non ci sto capendo più niente, con tutti questi tuoi giri di parole! », protestò lui, al colmo della frustrazione.
« Se continui ad interrompermi non riuscirò mai a spiegarti un bel niente! », ribatté lei.
« Ooooh.. cazzo! E va bene! Parla, starò zitto! », sbottò infine, esasperato.
Zia Dag inspirò profondamente. « Io non sono nata nel millenovecentoventisette ».
« Ah… e quando sei nata? », le domandò Joseph, per nulla interessato alla questione, ma confuso dal brusco cambiamento di argomento.
« Sono nata nel centotrentadue avanti Cristo ».
Jo per un attimo non afferrò le parole della donna poi, gettando all’indietro il capo, scoppiò in una sonora risata.
« Non è uno scherzo, Jo! Sono nata nel centotrentadue avanti Crsito! », protestò Zia Dag.
« Sì, certo come no, e io sono Napoleone », sbottò il ragazzo, alzandosi, « Senti, se hai deciso di prendermi per il culo, basta così: io me ne vado. Devo cercare Isabel ».
« Non la troverai. Te l’ho detto: non è più qui », gridò Zia Dag, disperata.
« No, tu non mi hai detto un bel niente! Tu hai blaterato di pietre con le stelle e viaggi nel tempo! Ed ora te ne esci con questa storia del duecento prima di Cristo … ».
« Centotrentadue », lo corresse lei, istintivamente, « E non ti sto prendendo per il culo. Ti prego, ti supplico: siediti e lascia che ti spieghi », mormorò la donna, a mani giunte, fissandolo con occhi imploranti.
Joseph sospirò e si guardò attorno. Sembrava terribilmente scocciato dai vaneggiamenti della vecchia. Eppure, alla fine ricadde sul divano, puntando sulla vecchia due occhi freddi ed accusatori. « Sentiamo », sbuffò, con un tono che era tutto meno che amichevole.
« Il mio nome è Tullia Maior. Sono la figlia di Tiberius Tullius Vala, un uomo di nessuna importanza. Quando ho trovato quel ciondolo non avevo che quindici anni. Mi ero appena sposata e stavo iniziando a farmi una vita mia, ma di colpo fui scaraventata in questa specie … di bolgia caleidoscopica e furiosa … era il millenovecentoquarantadue e c’era la guerra… io ho fatto il mio dovere, che altro devo dire? Mi sono affezionata a questo mondo senza senso e non ho più voluto tornare indietro ».
« Intendi … indietro … nel tempo? », azzardò Jo, ancora totalmente incredulo.
« Be’, non proprio », ammise Zia Dag, riluttante.
« Come: non proprio? Vieni dall’Antica Roma o no? ».
« Sì, ma non dalla tua ».
« Eh? ».
Zia Dag prese fiato. « Da quello che ho potuto capire, io vengo da un’altra dimensione ».

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


Isabel strattonò le corde, ma era tutto inutile: erano strette ed i nodi sembravano opera di un provetto scout. Non sarebbe riuscita a scioglierli in meno di cinquant’anni. Tempo che proprio non aveva, a giudicare da come l’aveva adocchiata quel Gallo che – se non si era sbagliata – si chiamava Vrittakos: come una succulenta bistecca.
Tentò di liberarsi almeno del bavaglio - che era tanto stretto da inciderle i lati della bocca - ma non le riuscì nemmeno quello.
Sospirò, sconfortata, e per un momento si abbandonò al pianto: che stupida era stata! Davvero aveva pensato di poter liberare quei due poveretti? Lei, che non era mai stata capace nemmeno di affrontare uno scarafaggio? Lei, che non era riuscita neppure a rimanersene nel suo secolo, dannazione!
Picchiò più volte il piede contro il pavimento di terra battuta, con rabbia, ripetendosi che era stata una stupida una stupida, una stupida! Anzi no, non era solo idiota, era pericolosa. Quindici dei Romani erano morti per la sua bravata, Nivio compreso, ed ora lei si ritrovava prigioniera dei Galli, legata come un salame dentro una tenda e con un pazzo di barbaro che non vedeva l’ora di approfittare della sua inoffensività.
Chiuse gli occhi e nella mente le si affollarono le immagini del giorno prima: Nivio ed i Romani che organizzavano la trappola, il Gallo che gridava dando l’allarme, i barbari che caricavano a cavallo i legionari appiedati, la terribile carneficina che ne era seguita. Lei era rimasta paralizzata – a riprova che tutto era, meno che coraggiosa – mentre Chrysio  si era lanciato in soccorso dei soldati, brandendo un corto pugnale. Un Gallo l’aveva stordito con un colpo di piatto e poi, scorgendola tra la foresta, l’aveva inseguita. Isabel non aveva nemmeno fatto in tempo a montare in sella ad Elisium, che era fuggito lontano quando il barbaro, raggiungendola, l’aveva presa per i capelli ed issata di traverso davanti a sé. Era stata sballottata a cavallo come un sacco di patate per Dio solo sapeva quanto tempo, prima di arrivare a quell’accampamento nascosto nel folto della foresta provenzale.
Era stato allora che quel tizio, quel Vrittakos, le si era avvicinato e, senza troppi convenevoli, le aveva strizzato un seno, ridendo fragorosamente. Grazie al Cielo un altro barbaro si era fatto avanti, gli aveva urlato qualcosa in quella loro lingua graffiante, l’aveva legata e gettata in una tenda. A quel punto sembravano tutti essersi dimenticati di lei. Era calata la sera, erano spuntate le stelle in cielo ed era sorto nuovamente il sole del mattino, ma non si era visto nessuno. Non che Isabel si lamentasse della cosa, ma iniziava ad avere una certa sete e poi voleva sapere cosa ne era stato di Chrysio  e dei Romani sopravissuti.
Faticosamente, riuscì a mettersi seduta, sebbene le braccia – legate saldamente dietro la schiena – le dessero terribili fitte di dolore. Ora aveva un nuovo problema: doveva assolutamente andare in bagno. Tentò di mettersi in piedi, appoggiandosi contro il rozzo baule che – da solo – arredava la tenda di pelle, quando ad un tratto un uomo entrò. Era lo stesso barbaro alto e biondo che aveva trattenuto Vrittakos e che le sarebbe stato anche simpatico, se non fosse stato anche l’assassino di Nivio.
Nivio … il ricordo del Romano le serrò la gola. Era stato buono con lei, l’aveva protetta, l’aveva assecondata … ed ora era morto. Per colpa sua. Il pensiero le strozzò la gola, ma Isabel si impose di non piangere: non ancora, non adesso, non con quel barbaro alto e biondo che la fissava.
L’uomo grugnì qualcosa nel vederla mezza in piedi, la afferrò rudemente e le sciolse le mani, i piedi ed il bavaglio. Grata, Isabel sospirò di sollievo, si massaggiò delicatamente i polsi martoriati ed incisi in profondità dalla ruvida corda e si tastò la bocca dolorante, scoprendo dei piccoli tagli ai lati.
Il Gallo la lasciò fare, limitandosi ad appoggiare un boccale d’acqua sul baule e a tenderle un pezzo di pane scuro. Famelica, Isabel divorò il pane e trangugiò l’acqua, iniziando a pensare ad un modo per comunicare coll’uomo. Stava per fare un tentativo quando il barbaro, vedendo che aveva finito di pranzare, le si avvicinò nuovamente con la corda. Isabel fu lesta a tirarsi indietro e, prima che l’uomo si infuriasse, si accovacciò in un angolo della tenda e liberò la vescica.
Era l’esperienza più umiliante della sua vita, ma l’affrontò fissando il Gallo negli occhi e sforzandosi di non lasciar trasparire il minimo disagio: non gli avrebbe concesso anche quella soddisfazione, e che diamine!
Infine, si rivestì e lasciò che lui la legasse di nuovo. Per un attimo aveva sperato che – impietosito dallo stato dei suoi polsi – allentasse un poco la corda, ma si era sbagliata, e di grosso. Dovette mordersi le labbra quando il barbaro strinse i nodi e la corda tornò ad reciderle la pelle. Con uno strattone, l’uomo finì di imbavagliarla ed uscì.
Improvvisamente senza forze, Isabel si accasciò in avanti ed iniziò a piangere.
 
Si risvegliò che mancava poco al tramonto.
La luce che traspariva dalle pelli che formavano la tenda era rossa e fioca, appena sufficiente a delineare le sagome e a gettare lunghe ombre sul pavimento. Isabel rimase a lungo ad osservarne una che aveva decisamente la forma dell’ Empire State Building. Si concentrò più a lungo possibile su quella forma tanto famigliare, sforzandosi con ogni fibra del suo essere di non pensare alle corde che le spezzavano le braccia, al bavaglio che le tagliava la bocca, all’umiliazione di quella mattina e a quanto disperata fosse la sua situazione. E a Nivio, soprattutto. Ai Romani morti perché lei si era messa in mente di giocare a fare Rambo, quando invece avrebbe dovuto starsene buona e zitta e lasciarsi accompagnare per mano come la dannata imbecille che era! Stupida! Pericolosa! Assassina!
Isabel ricominciò a piangere. Cosa aveva fatto? Oh, Dio, che cosa aveva fatto?
Alla fine, chiuse gli occhi e si lasciò scivolare in uno stato di febbricitante dormiveglia nel quale non le era ben chiaro dove fosse né cosa le stesse accadendo. I ricordi svanivano come dietro una cortina di fumo, i sensi la abbandonavano ed il mondo veniva soffocato sotto un velo di semi-incoscienza. Se si lasciava abbastanza andare, quasi poteva ingannarsi e convincersi di essere tornata a casa.
Furono le grida a svegliarla. Spalancò di colpo gli occhi e balzò seduta, quando le giunse all’orecchio il clangore del ferro contro ferro: una battaglia!
D’un tratto eccitata, si tese in ascolto. Chi era? Quasi ebbe un colpo quando tra le grida della battaglia distinse chiaramente un “ legionari, a me! “ decisamente in latino. Che Crasso avesse inviato rinforzi? No, non era possibile: nessuno sapeva dove si trovavano!
Eppure … eppure erano Romani, su quello non poteva ingannarsi. Forse la salvavano, era tutto ciò cui riusciva a pensare, forse la salvavano. Per un momento si sentì meschina: dov’era finito il suo dolore per Nivio? Dov’era finito il suo senso di colpa? Che diritto aveva lei di essere salvata, proprio lei, la causa di tutto? Però poi tornò ad eccitarsi, a tendere l’orecchio e a trattenere il respiro: semplicemente, nonostante tutto, nonostante ciò che aveva fatto e ciò che non sapeva di meritare, non riusciva ad impedirsi di sperare. Aveva sedici anni e voleva vivere. Punto e basta. Era troppo giovane per aver già perso l’istinto di sopravvivenza, e quello era molto più forte di qualunque senso di colpa. Forse mi salvano, si ripeteva, forse mi salvano.
La battaglia si trascinò a lungo: il giorno trascorse fra urla e fragore, ed Isabel fremeva e scalpitava chiedendosi cosa stesse succedendo, chi stesse vincendo. Tutto ciò che riusciva a cogliere erano le grida dei barbari e dei Romani e le sagome dei Galli che correvano come impazzite fuori dalla tenda. Sembravano oscene ombre cinesi, guizzavano di qua e di là senza senso, urlavano ed imprecavano, morivano ed uccidevano ed Isabel non riusciva a credere che un combattimento potesse durare tanto a lungo. Sembrava non finire mai. Lei era abituata alle battaglie dei film, quando l’orrore aveva fine nel giro di dieci minuti, mezzora, un’ora al massimo, e già dopo venti minuti lei chiudeva gli occhi o tirava avanti, nauseata da tanto sangue e tanta violenza.
Invece adesso le grida la straziavano ancora. Uomini feriti o morenti che strillavano con voce da mozzarle il fiato e che poi urlavano, ed urlavano ancora, oltre ogni limite di sopportazione. Non per dieci minuti, mezzora, un’ora, ma per ore, per un giorno intero.
Ben presto Isabel, semplicemente, non riuscì più a sopportarlo. Nemmeno la speranza riuscì più a sostenerla e lei, vittima delle emozioni e della stanchezza – più mentale che fisica – scivolò in un sonno spezzato e tormentato, dal quale si risvegliava ogni pochi minuti per tendere nuovamente l’orecchio e cogliere una qualche novità.
Non mancava molto all’alba quando le grida cambiarono, ed anche i movimenti dei Galli si fecero più frenetici. Ben presto persino per Isabel fu chiaro che i Romani avevano spezzato le resistenze dei barbari. Di colpo, lei tornò a sperare: adesso mi salvano, si diceva ogni volta che una voce latina risuonava più vicina. Gli spostamenti delle ombre al di là della sua tenda erano sempre più confusi, le grida più disperate. Isabel seguiva ogni cambiamento con apprensione, sobbalzando ogni volta che un uomo o un cavaliere passava nelle vicinanze della tenda.
Ad un certo punto un Gallo lanciò un terribile grido di guerra ed un ufficiale Romano ordinò ad i suoi uomini di formare la testudo. Isabel udì il fragore degli scudi che cozzavano contro gli scudi e quindi i tonfi metallici delle frecce che rimbalzavano contro la testuggine compatta dei Romani.
Le grida della battaglia si fecero ancora più vicine ed intense: i Galli, a quanto poteva capire la ragazza, non avevano nessuna intenzione di arrendersi.
Il lembo della tenda che fungeva d’ingresso fu scostato di colpo. Isabel sobbalzò, nel veder entrare il Gallo che l’aveva palpata, Vrittakos. L’uomo, sorridendole ferocemente, le si avvicinò a grandi passi, stringendo in una mano una spada lorda di sangue e nell’altra – Isabel la vide ed ebbe un conato di vomito che minacciò di soffocarla, stretta com’era dal bavaglio – la testa di un soldato Romano.
Con un gesto distratto, Vrittakos gettò da una parte la testa mozzata, che rotolò via con un rumore sordo, ed afferrò Isabel per la tunica, costringendola rudemente ad alzarsi. La scagliò contro il grosso palo di sostegno che reggeva la tenda e con uno strattone le tolse a cintura che le chiudeva in vita la tunica.
Silenziosamente, Isabel si mise a piangere. Avrebbe voluto dirsi che era solo un incubo, ma sapeva che non era così. Era vero e stava succedendo proprio a lei. E, cosa ancora più terribile, lei non poteva in alcun modo impedirselo. Fu lo schiacciante senso di impotenza, più ancora della durezza delle mani di Vrittakos, a farla scoppiare in singhiozzi disperati, soffocati dallo stretto bavaglio.
Il barbaro, ridendo, le leccò avidamente le lacrime, come un leone che lecca il sangue della vittima, e lei – inorridendo – ingoiò con un moto d’orgoglio quelle che ancora le pungevano gli occhi. No, non avrebbe dato a quel pazzo sadico la soddisfazione di vederla frignare ed implorare pietà, si disse alzando il mento. Quello almeno no.
Il fruscio fu così lieve che Isabel non lo udì nemmeno, ma Vrittakos si voltò di scatto: un Romano era entrato nella tenda. Il Gallo spinse rudemente a terra Isabel, che per poco non batté la testa contro il baule, e si gettò sul legionario senza esitare un solo istante, landicando un feroce grido di battaglia.
Il Gallo menò un ampio fendente, ma il Romano lo parò facilmente e si preparò al duello, piegandosi in avanti come un pugile pronto a scattare.
Isabel si rimise faticosamente a sedere e lanciò loro un’occhiata Vrittakos era possente, certo, ma il Romano sembrava molto più allenato. Era alto, specie per la media del tempo, probabilmente sul metro e ottantacinque; aveva spalle larghe, vita stretta ed un fisico forte e scattante. Portava un’armatura dorata sopra la tunica color sangue, ed un elmo dal folto cimiero rosso. Sembrava quello che era: un soldato.
E per di più un soldato dannatamente bravo, giudicò Isabel nel vederlo danzare attorno al Gallo senza sforzo apparente, e se persino lei se ne rendeva conto, la cosa doveva essere ancora più chiara per Vrittakos, che in effetti sembrava sempre più nervoso. Il Romano parava con grazia tutti i suoi colpi, vibrando di tanto in tanto affondi o sciabolate di inaudita potenza: poteva anche essere meno massiccio del Gallo, ma a quanto pareva era addirittura più forte.
Alla fine, furibondo ed esasperato, il barbaro caricò a testa bassa il Romano, il quale si limitò a scartare di lato e a trapassarlo da parte a parte col suo corto gladio. Vrittakos, senza un grido, crollò a terra e non si mosse più.
Il Romano rilassò le spalle, riprendendo fiato, ed infine si tolse l’elmo piumato. Aveva i capelli corti, neri, bagnati come se fosse appena uscito dalla doccia, ed un viso particolare, veramente piacevole, con un sorriso mascalzone e sensuale e occhi a goccia, dolci, maliziosi. Era bellissimo, fu costretta a notare, ma la stava fissando in un modo che non prometteva niente di buono.
L’uomo rinfoderò la spada e la raggiunse in un paio di rapidi passi. La sollevò, con delicatezza ma fermamente, e la appoggiò contro il palo di sostegno.
« Salve, Venere », la sussurrò, accarezzandole i capelli. Scivolò contro di lei, giocherellando col bordo della sua tunica. Isabel, senza fiato, non riusciva a far altro che fissarlo spaventata mentre lui insinuava una mano sotto la sua tunica. « Certo che i barbari hanno proprio buon gusto, in fatto di schiave », ridacchiò lui, abbassandosi a baciarle il collo. Isabel si ritrasse di scatto, ma lui le poggiò le mani sulla schiena – sulla pelle della sua schiena! – e la spinse con forza contro il suo corpo, impedendole qualsiasi movimento.
Tenendola sollevata con una sola mano – e apparentemente senza alcuno sforzo – il Romano lasciò scivolare la destra sul suo corpo. Isabel rabbrividì, cercò di scalciare, ma non poteva ritrarsi.
L’uomo aveva mani grandi, ruvide e callose, ma il suo tocco era leggero e delicato. « Tranquilla, dolcezza. Non voglio farti male », le sussurrò all’orecchio, col tono più malizioso che lei avesse mai udito.
Abbandonò la sua pelle per scostarle i capelli da davanti al viso. « Sei spaventata, mia Venere? Non devi … », le garantì, col tono di chi sta cercando di tranquillizzare un cavallo bizzoso.
Con uno strappo, le lacerò la tunica. Isabel gridò nel bavaglio, tentando con tutte le sue forze di sgusciare via, ma il Romano era forte e la tratteneva in una morsa ferrea. Senza che lei potesse impedirlo, lui la adagiò a terra, sdraiandosi sopra di lei. Isabel rabbrividì, non tanto per il contatto con l’armatura gelida, quanto per l’orrore. Una lacrima le rigò il volto, ma la ragazza si affrettò a dominarsi: non avrebbe pianto. Qualunque cosa fosse successa, dannazione, lei non avrebbe pianto!
Il Romano, nel frattempo, aveva preso ad accarezzarle e baciarle il seno. Isabel serrò la mascella, cercando di pensare ad altro, ma era difficile anche solo non gridare con quell’uomo che giocherellava coi suoi capezzoli. Grazie a Dio, dovette ammettere, non le stava facendo male. Anzi, sembrava deciso a darle piacere, ma questo non migliorava la situazione. Brutale o delicato, quel bastardo la stava comunque violentando! Il pensiero le spezzò il fiato e lei cercò ancora di scalciare, ma il peso del Romano la schiacciava, ostacolandole i movimenti.
« Dammi un bacio, mia Venere », disse ad un tratto lui, sciogliendo con mano esperta il nodo del bavaglio. Si chinò su di lei, ma Isabel voltò dall’altra parte il viso, gridando con quanta forza aveva in corpo: « Non sono una schiava! Sono una prigioniera! ».
Il Romano si immobilizzò di colpo. Le prese il volto tra le mani e lo obbligò a guardarlo negli occhi. « Che cosa? Tu parli il latino! ».
Isabel, dando finalmente sfogo alle lacrime, annuì.
Era fatta, di disse, era salva. « Sono Marta Alessandra, figlia di Nicandro da Sinope ».
L’uomo sgranò gli occhi. « Oh, Déi! ».
 
Quando tutto fu finito, uno dei legionari Romani le tese una specie di mantella che si usava indossare sopra la tunica.  L’uomo era sul metro e settanta, perciò la mantella le faceva praticamente da vestito, il che era per l’appunto l’ideale.
Il Romano che per poco non l’aveva violentata sembrava essere il comandante di quella pattuglia, anche se si comportava più come un legionario qualunque. Un soldato lo chiamò generale e soltanto allora Isabel notò quanto fosse riccamente sbalzata la sua armatura e quanto morbida la stoffa della sua tonica rossa.
Scosse il capo: no, basta. Non voleva più pensare a lui quanto meno per i prossimi duecento anni! Si concentrò invece su sé stessa, sui suoi tagli e lividi, chiedendo al legionario gentile che le aveva prestato la mantella di cercarle un po’ d’acqua pulita. L’uomo, che si era presentato come Caio Rufrio, si affrettò a trovarle una bacinella d’acqua di fonte ed anche un po’ di vino con cui disinfettare le ferite.
« Ecco qua », esclamò, poggiando la brocca col vino e sedendosi a terra accanto a lei, che – a gambe incrociate – si lavava i polsi nell’acqua fresca; « E ora lasciate che vi aiuti », si offrì, sollevando la brocca.
Isabel esitò un momento: l’idea che un altro uomo potesse toccarla le dava la nausea. Poi però colse l’espressione dolce del Romano e si diede della stupida: quell’uomo non aveva alcuna intenzione di farle del male, anzi. Alla fine gli rivolse un caldo sorriso e si lasciò aiutare. Rufrio le pulì le ferite ai polsi e glieli fasciò con delle bende ricavate da una tunica trovata nell’accampamento e decisamente meno lercia delle altre. Poi intinse un altro brandello di stoffa nel vino e glielo tese perché potesse medicarsi i tagli ai lati della bocca.
« Certo che siete finita ben lontana da casa, domina: Sinope è molto lontana », commentò Rufrio, mentre lei finiva di disinfettarsi la bocca.
« Sì, casa mia è lontana. Non hai idea di quanto », annuì lei, cupa, « E la tua, Rufrio? ».
« Ah, anche la mia », sospirò il soldato, levandosi l’elmo e massaggiandosi il volto, « È in Italia, a sud di Roma. Avete mai visto Roma? ».
Isabel scosse il capo. « No, mai ».
« Uomini, basta con le chiacchiere! Voglio essere in marcia prima di mezzogiorno! », gridò ad un tratto il Romano che l’aveva quasi stuprata. Rufrio sospirò, si rimise l’elmo e si alzò in piedi, allungandole una mano per aiutarla ad alzarsi.
Riconoscente, Isabel la afferrò. Solo che la mano del soldato era dura e callosa come quella del suo generale, e per poco non rabbrividì a quel contatto. Cercando di non mostrargli il suo turbamento, Isabel finse di guardarsi attorno. Un pensiero la colpì: Chrysio!
« Devo trovare degli amici! », strillò a mo’ di spiegazione in direzione  di Rufrio, allontanandosi quasi di corsa. « Chrysio! Chrysio! Oreste! Melite! Ragazzi! C’è nessuno? ».
« Siamo qui ».
Isabel si voltò di scatto e vide Chrysio , Melite, Oreste e cinque Romani legati ad un albero non meno saldamente di quanto non lo fosse lei. A parte qualche livido, sembravano sostanzialmente illesi.
Lei afferrò per il braccio un soldato di passaggio, gli prese il gladio direttamente dal fodero e corse a tagliare le corde che costringevano i suoi compagni prima che il poveretto potesse anche solo chiederle cosa stesse facendo.
Abbracciò quasi con disperazione Chrysio che, confuso, rispose con imbarazzo, mentre tutt’intorno i soldati Romani sghignazzavano senza ritegno. Isabel non badò loro e, anzi, abbracciò anche Oreste e Melite e persino i cinque soldati Romani che, liberandosi con una certa perplessità dalla sua stretta, corsero a fare rapporto al generale.
« Ercole Vincitore, domina, non credevo che saremmo sopravissuti, questa volta! », esclamò Chrysio, ridendo istericamente di sollievo.
« Nemmeno io », ammise Isabel, sforzandosi però di non ripensarci più. Era fatta, era passata. Per Nivio avrebbe pianto più tardi, ora dovevano solo pensare ad andarsene di lì e non tornare mai più indietro. « Ma adesso basta: ritroviamo i nostri cavalli e andiamo all’accampamento Romano ».
Si voltò in direzione della foresta. « Elisium! Elisium! ».
Udì il rumore di zoccoli dietro di sé e si voltò con un largo sorriso, credendo di vedere lo stallone bianco. Ma purtroppo si trattava solamente del generale in sella ad un maestoso cavallo nero, riccamente bardato di oro e pelle di leopardo.
« Chi chiamate, domina? », le domandò, esitando un momento prima di quell’ultima parola, come se per un istante avesse pensato di chiamarla ancora Venere.
« Non credo siano affari vostri », rispose lei, brusca, voltandogli le spalle. « Elisium! ».
Il generale non insistette e stava per voltare il cavallo, ma si bloccò di colpo. « Déi miei… è una visione! ».
Isabel sorrise e seppe che Elisium era arrivato.
 
L’accampamento Romano era enorme. Dieci volte più grande di quello di Crasso, o almeno così parve ad Isabel quando vi giunsero. Delle sentinelle gridarono il loro arrivo, i cancelli si aprirono ed una mezza dozzina di legionari vennero loro incontro, correndo ad occuparsi dei feriti.
Isabel, che cavalcava Elisium tra Chrysio  ed Oreste, attirò non pochi sguardi, ma grazie al Cielo nessuno fece domande. Era troppo stanca per dare risposte.
Avevano viaggiato per due giorni prima di arrivare in vista dei quartieri Romani, una cavalcata non lunga o dura ma terribilmente snervante. Ogni minuto si sentiva addosso gli occhi del generale, anche quando lui stava in realtà guardando da tutt’altra parte, e la cosa stava finendo per logorarla.
Non ne poteva davvero più: quella sera si era seduta davanti al fuoco e aveva ricapitolato le sue ultime disavventure, cercando di dar loro un senso. Solo che un senso non c’era: prima era finita nell’Antica Roma, poi era stata attaccata dai barbari, era scappata e Nicandro era morto, era arrivata a Marsiglia, aveva comprato Chrysio  – comprato! – e si era messa in cammino attraverso mezza Gallia. Era stata attaccata di nuovo, catturata questa volta, quasi violentata da un barbaro pazzo con in mano la testa di un soldato morto, poi era arrivato questo dannato Romano che prima l’aveva salvata, poi aveva cercato di violentarla a sua volta ed ora doveva pure convincerci!
Alla fine di quella storia, già lo sapeva, avrebbe passato anni in analisi  …
« Finalmente! Un pasto caldo! », esclamò, sognante, Chrysio.
Isabel rise e smontò da cavallo per entrare nell’accampamento. Un soldato riccamente vestito e dall’aria felice venne loro incontro. « Era ora! Stavamo iniziando a preoccuparci! », esclamò.
Il generale smontò dal suo imponente stallone nero ed andò ad abbracciare il nuovo venuto. « È andato tutto bene. Lui dov’è? ».
« Nella sua tenda. Chi è lei? », domandò l’uomo, rivolgendole un’occhiata in tralice, e con tono decisamente non bendisposto.
« La figlia di Nicandro da Sinope », rispose pronto il generale, come se quello spiegasse tutto.
L’altro sgranò gli occhi. « Lui deve essere avvisato », stabilì, e lo disse come se si trattasse della notizia di una improvvisa e virulenta pestilenza.
« Glielo dirò io. Nel frattempo, trova per favore un posto per lei », esclamò il generale allontanandosi. Isabel non trattenne un sospiro di sollievo, nel vederlo andar via. Si sentiva come se finalmente le avessero tolto un peso dalle spalle. Uno dei tanti.
Anche l’altro Romano sospirò - anche se decisamente non di sollievo - e si poggiò le mani sui fianchi, come se fosse estremamente stanco. « Mi sembra giusto … domina, vi prego, seguitemi », le disse, ma più che una preghiera suonava come un ordine. Senza aspettarla, si incamminò.
Isabel fece cenno ad Elisium di andare e lo stallone si allontanò al galoppo nel folto del bosco. « Chrysio , occupati degli altri », gli disse, prima di seguire l’uomo lungo la via principalis, che attraversava l’accampamento da parte a parte.
« Emh.. io sono Marta Alessandra », si presentò, un po’ imbarazzata dal brusco comportamento dell’uomo. Isabel non era mai stata troppo empatica, ma non le riusciva difficile capire quando qualcuno la disprezzava, e quell’uomo, in particolare, sembrava trattenersi a stento dallo sbatterla fuori a calci.
Per un lungo momento il Romano tacque ed Isabel iniziò a pensare che non avrebbe mai detto niente, se non che ad un tratto lui esclamò, secco: « Lucio Cornelio Cetego ».
Be’, era già un inizio …
« Amico Cornelio, ti prego, credimi, io non voglio essere di alcun fastidio … », cominciò lei, ma lui la interruppe con un ah! molto amaro.
« Una donna in un accampamento militare! La vostra semplice presenza è un fastidio », sibilò, fermandosi di fronte ad un gruppo di cinque legionari, « Uomini, liberate una tenda per questa nostra ospite », ordinò in un sibilo, prima di voltare i tacchi ed allontanarsi senza rivolgerle un’occhiata. Isabel fu comunque certa di averlo sentito borbottare qualcosa a proposito di una scandalo e di una puttana.
Sospirando, inarcò lo sopraciglia. « Oh, che simpatico ragazzo! ». I soldati ridacchiarono e le garantirono che le avrebbero trovato la più comoda sistemazione possibile.
 
Quella sera un uomo venne a dirle che avrebbe incontrato Giulio Cesare ed Isabel fu certa di essere lì lì per avere il primo infarto della sua vita.
E così, ecco chi era il famoso lui di cui il generale e Cornelio avevano parlato. Giulio Cesare. Soltanto a pronunciare quel nome si sentiva fremere sottopelle. Sembrava assurdo: incontrare … no, era ridicolo anche solo pensarlo … incontrare Giulio Cesare. Il solo pensiero la faceva sentire ubriaca o molto più prosaicamente pazza. E poi, come ci si preparava ad incontrare uno dei più grandi uomini della storia antica? Isabel era quasi del tutto certa che nessun settimanale femminile avesse mai affrontato l’argomento. “ Dieci modi per farsi belle se dovete uscire a cena con Alessandro Magno “. “ Trucchi e consigli per il primo appuntamento con re Leonida “. “L’etichetta dell’antica Babilonia: noi l’abbiamo provata “. “ I segreti per fare una figurone agli happy hour di Cleopatra “.
Ad ogni modo, non è che avesse un gran ché da prepararsi: non possedeva altri abiti che quelli che indossava, non aveva trucco né profumo e nemmeno uno specchio. Perciò alla fine si limitò a togliersi di dosso la polvere della cavalcata, pettinarsi i capelli con le dita, cambiarsi le fasciature ai polsi e rimpiangere di non avere una boccetta da un chilo di valium.
Incontrare Giulio Cesare … seeeee, e poi? Nient’altro?
Infine, un legionario giunse a chiamarla. Isabel si lasciò scortare da lui alla grande tenda che aveva intravisto arrivando e, una volta giunta davanti all’ingresso, si fermò a prendere fiato.
Perfetto, era arrivata. Ancora un passo ed avrebbe conosciuto – ancora stentava a crederlo – Caio “ho-fatto-la-storia” Giulio Cesare. Cercò rapidamente di richiamare alla mente tutto quello che sapeva di lui e di colpo sentì la testa pulsarle e girarle.
« Forse, in effetti, è meglio non pensare », giudicò, prendendo fiato. Alzò il lembo della tenda ed entrò.
L’interno era sontuoso e spartano allo stesso tempo, proprio come quello della tenda di Crasso, con varie tende tirate a separare gli spazi. L’impressione era quella di trovarsi in una casa vera, anche se decisamente mancava un tocco femminile.
Un gruppo di uomini era chino sul tavolo centrale e stava studiando una grande carta, borbottando di tanto in tanto qualcosa. L’uomo più alto del gruppo le era tristemente famigliare: era il generale. Reprimendo una smorfia, Isabel fece un passo avanti. I Romani si voltarono tutti verso di lei.
Isabel li contò d’un lampo: erano cinque, più il generale, e soltanto uno di loro le dava ancora le spalle. Senza sapere come, Isabel era certa che quello fosse Cesare.
« Emh… buona sera », mormorò, avvampando d’imbarazzo.
Infine, anche l’ultimo Romano si voltò verso di lei ed Isabel trattenne il fiato: aveva passato tutta la serata a prepararsi a quel momento, ed infine era arrivata a credere di essere pronta a tutto.
Si sbagliava.
Che Cesare fosse bello, lo aveva sempre saputo, ed in effetti non si era ingannata: aveva un bellezza straordinaria, un po’ indolente, alla Jude Law, che da sola sarebbe bastata a far perdere la testa alla maggior parte delle donne. Rimase solamente un po’ sorpresa dalla sua capigliatura: gli antichi avevano sempre deriso Cesare per la sua calvizie, ma l’uomo che aveva davanti non aveva ancora seri problemi di caduta di capelli. Bruce Willis, per intenderci, alla sua età era messo molto peggio. Certo, non aveva una folta criniera, ma questo gli dava un aspetto ancora più magnetico. Per di più aveva una chioma d’un colore straordinario, un biondo inclassificabile che, pur essendo meravigliosamente dorato, dava l’impressione d’essere estremamente cupo. Un po’ come gli occhi troppo chiari che visti da lontano sembrano neri. Era un effetto sconvolgente.
Ma lei si era preparata a tutto questo. Esattamente come si era preparata al suo sguardo, azzurro metallo, inquisitore e penetrante. Aveva sempre saputo che Cesare doveva avere degli occhi straordinari. In quel momento la stava fissando e sembrava che per lui non esistesse nient’altro al mondo, che riuscisse a spogliarla della sua anima e leggere i segreti più reconditi del suo essere. Era una sensazione che metteva i brividi, ma non era fastidiosa, al contrario. Era affascinante. Forse perché, in fondo, quello di Cesare era lo sguardo d’un predatore, un felino pronto per la caccia, e come tutti i felini era quanto di più misterioso e seducente esistesse al mondo.
Poi, ovviamente, c’era il carisma. Quell’aurea di nobiltà che sembrava irradiare da lui come la luce dal sole, accecante, palpabile, travolgente. Era in una stanza e non la riempiva, la soverchiava. Possedeva una sorta di alone indefinito che lo faceva sembrare un gigante circondato da nani, e il fatto che fosse effettivamente piuttosto alto - per la media dei Romani, ovviamente - non c’entrava affatto. Si chinava il capo, davanti ad un uomo simile, si piegava il ginocchio e ci si abbassava a terra. I sovrani del duemila al suo confronto sembravano scaricatori di porto vagamente ingobbiti.
Ma anche questo non era una sorpresa, così come non lo era il suo sorriso ammagliante, la sua eleganza semplice ma ricercata, il suo fisico sottile ma militare, la sua tranquilla posa di superiorità. Un uomo sicuro di sé, e con tutte le ragioni d’esserlo.
Ma c’era qualcosa a cui non era preparata. Qualcosa che non aveva mai immaginato di dover affrontare: Cesare era sexy. Sensuale come nessun’altro al mondo. Al suo confronto Sean Connery sembrava un burino dei bassifondi di Honk Kong e George Clooney una specie di Homer Simpson col moccolo al naso. Rimase senza fiato nel vederlo venire verso di lei, le gambe iniziarono a tremarle e il sangue a scorrerle molto più velocemente nelle vene, mentre vampate di calore la attraversarono come scariche elettriche. Perché diavolo nessuno l’aveva mai scritto che Cesare era dannatamente sexy? Dallo sguardo ammagliante al sorriso seduttore, dalla piega indolente del collo alla posa da dandy, dal passo militare ai movimenti carezzevoli delle mani, tutto in lui tradiva una sensualità viscerale, innata, radicata. Lo fissava ipnotizzata, come si fissa una pantera che si muove sinuosa verso la preda, incapace di distogliere lo sguardo o di pensare, incatenata con la mente alla passione che la sua semplice presenza sapeva suscitare. Se solo l’avesse sfiorata, probabilmente si sarebbe messa a gridare di piacere.
« Voi dovete essere Marta Alessandra, figlia di Nicandro di Sinope »; le sorrise, incantandola definitivamente. Dio! Aveva un sorriso che avrebbe spinto una donna a strappare per lui la luna dal cielo!
« Figlia adottiva », riuscì a mormorare dopo qualche istante. Dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà per riuscire a smettere di fissarlo come una tredicenne guarda Leonardo di Caprio. Anzi, probabilmente peggio.
« Figlia, suona meglio », ridacchiò lui, offrendole il braccio. Con un fremito, Isabel vi appoggiò la mano e lasciò che lui la guidasse verso una delle tende che fungevano da paravento. Cesare la scostò e rivelò un angolo molto confortevole, con un grande tavolo imbandito di ogni ben di Dio precolombiano: niente patate, pomodori, granturco…
« Immagino che siate affamata, amica mia ».
Isabel annuì.
« In tal caso, vi prego, onorateci della vostra presenza: siamo tutti rozzi soldati, e spero non giudichiate sconveniente … ».
« Al contrario, generale », lo interruppe lei, sfoderando il più caldo dei suoi sorrisi, « Ne sarò onorata ».
Cesare le sorrise e si voltò verso i cinque uomini rimasti attorno al tavolo con le mappe.
« Prego amici miei, ceniamo », esclamò, sedendo a capotavola e facendo accomodare Isabel alla sua destra.
Uno alla volta, gli uomini si sedettero al tavolo. Subito uno schiavo si affrettò a portare del vino, del pane ed alcune ciotole con delle olive marinate in svariati modi.
« Credevo che voi Romani desinaste soltanto su triclini », osservò Isabel, confusa.
« Un tavolo è più comodo da trasportare », le fece notare Cesare con un sorriso, « Ma vi prego, amica mia, parlatemi di voi. So che avete avuto una terribile disavventura ».
Istintivamente, Isabel si voltò verso il generale. Lui la stava fissando sorridendo in quella sua maniera mascalzona e sensuale e, cogliendo il suo sguardo, alzò appena un po’ il calice, come per accennare un brindisi in suo onore. Disgustata, Isabel si affrettò a tornare a guardare Cesare.
Inspirando profondamente, iniziò il suo racconto, partendo dalla favola del suo viaggio per poi scendere nei dettagli quando passò a narrare di Nicandro, Umbrio, i barbari, Simone e quant’altro. Omise solamente la sua relazione con Umbrio e la mancata violenza di Vrittakos e soprattutto del generale. Stava finendo la sua storia, quando la tenda fu di nuovo scostata e Cornelio entrò, andando a sedersi accanto al generale che l’aveva quasi stuprata.
I due discussero sottovoce, poi scoppiarono a ridere e fecero tintinnare i loro calici. Isabel si sforzò di ignorarli e terminò lodando il coraggio dei soldati che l’avevano salvata, in special modo quello di Rufrio.
« Sì, lo conosco », esclamò Cesare, sorprendendola: come poteva? Aveva talmente tanti uomini ai suoi ordini che era impossibile che li conoscesse tutti! « È un brav’uomo. Viene da Capua. Conoscete Capua? ».
Isabel scosse il capo e lasciò che Cesare le narrasse quanto fosse magnifica quella città. Aveva un modo di parlare che la incantava, una voce ora delicata ora quasi feroce, che usava come un pennello per dipingere con pochi tratti estremamente efficaci anche i dettagli più pittoreschi.
La cena volò come in un sogno. Isabel si rendeva vagamente conto degli uomini attorno a sé, del vino che scorreva a fiumi e del cibo esotico che stava mangiando – ad ogni modo si rifiutò categoricamente di assaggiare il ghiro. L’unica cosa cui riusciva a pensare era lui, Cesare. Bellissimo, sensuale ed appassionato. Faceva vibrare le parole, le rendeva vive, e la portava a chiedersi come fosse possibile che un uomo riuscisse anche solo a concepire la possibilità di opporglisi.
« Alla Decima! », gridò ad un certo punto uno degli invitati e tutti, Cesare compreso, si unirono al brindisi. Isabel sorrise: sembrava quasi di essere tornata a casa, alle cene in famiglia, quelle coi parenti strani che sembrano sbucare dal nulla per le feste ed immancabilmente si ubriacano fino a perdere i sensi.
« Allora anche alla mia Dodicesima! », propose il generale, alzando il calice. Ancora una volta, tutti brindarono.
« A tutti gli uomini di Cesare e facciamo prima! », propose ridendo un altro uomo, proprio mentre uno schiavo sgusciava dentro e sussurrava qualche parola all’orecchio di Cesare. Questi fece una smorfia come a dire di scusarlo e si alzò, allontanandosi con passo elastico e marziale.
« Agli uomini di Cesare! », gridarono nel frattempo, in coro, gli uomini, vuotando i calici.
« Agli uomini e alle puttane di Cesare! », biascicò, sguaiato, Cornelio. Un paio dei convitati ridacchiò.
« Sei volgare, amico mio. Non esserlo », mormorò il giovane generale, finendo il suo vino.
« Volgare, io? Amico mio, questo è un commento che – venendo da te – non ha proprio nessun peso! ».
Tutti risero, compreso il generale che fece una smorfia, bevve dell’altro vino e commentò: « Verissimo ».
Isabel avrebbe avuto qualcosa da aggiungere, sull’argomento, ma lo tenne per sé. Meglio seppellirli, certi segreti.
« E così… verso nord, giusto? », domandò ad un tratto l’uomo dirimpetto ad Isabel, che se non si sbagliava doveva chiamarsi Fabio.
« Non tutti. Solo la tredicesima », rispose un altro.
« Più che sufficiente mi sembra: cinquemila ottimi soldati », commentò un terzo.
« Cinquemila ottimi soldati e una donna », farfugliò ubriaco Cornelio, puntando i suoi piccoli occhi grigi su di lei. « Non dimentichiamoci della donna, eh, domina? ».
« Vi ringrazio di tanta premura », si limitò a sorridere lei. Cos’altro si poteva dire ad un uomo che, evidentemente, l’aveva odiata fin dal primo momento?
« Oh, non c’è di che, domina », ribatté lui, acido, « Ehi, ragazzi, lo sapete? In realtà … », proseguì, abbassandosi sul tavolo con aria esageratamente cospiratrice, « … in realtà non si tratta affatto di una domina. È soltanto una straniera! ».
« Ma lo sappiamo, Cornelio. Ce l’ha appena detto », gli fece notare Fabio.
« Non siete stato attento, amico mio », sorrise Isabel, soddisfatta di quella piccola vittoria.
« Tu stai zitta, puttana! », le gridò contro Cornelio, balzando in piedi. Prima che lei potesse ritirarsi, lui la afferrò per il polso e la costrinse ad alzarsi. « Una puttana! Una puttana nel mio accampamento! Una puttana straniera! ».
Isabel gridò, cercando di divincolarsi, ma era chiaro che Cornelio – anche ubriaco fradicio com’era – era comunque molto più forte di lei. D’un tratto, però, una lama si posò contro la gola dell’uomo che, al contatto col freddo metallo, si immobilizzò. Isabel si guardò attorno, confusa, e sgranò gli occhi, allibita, quando si accorse che era il generale ad essersi alzato e a puntare un grosso coltello da carne contro la gola del suo amico.
« Basta così, Cornelio, lasciala andare ».
Lentamente, controvoglia, Cornelio le mollò il polso. Un fruscio annunciò il ritorno di Cesare.
« Che diamine succede qui? », esclamò, imperioso.
Il generale allontanò il coltello dalla gola di Cornelio e lo poggiò sul tavolo. « Niente. Troppo vino », spiegò, prendendo l’amico per un gomito e trascinandolo fuori.
Isabel, tremante, si accasciò sulla sua sedia. Doveva apparire davvero sconvolta, perché Cesare – preoccupato – si affrettò a congedare i suoi commensali, eccezion fatta per un certo Rufo con cui voleva studiare un documento.
Sentendosi debole come poche altre volte nella sua vita – poche volte che per lo più si trovavano concentrate nelle ultime tre settimane – Isabel si avviò a passi malfermi verso la sua tenda.
Una volta fuori si sentì immediatamente meglio. La notte era fresca, l’aria pulita e frizzante, e le stelle in cielo brillavano con un’intensità che non credeva possibile. Sembrava quasi che, allungando una mano, si potesse coglierne una come una mela da un albero.
Sospirando, Isabel riprese a camminare. Era a metà percorso quando una figura comparve dalle file regolari di tende, facendola sobbalzare.
Nemmeno a dirlo, si trattava del suo generale.
« Oh, salve », mormorò lei, aggirandolo in fretta: non aveva proprio nessuna voglia di rimanere di nuovo sola con lui.
L’uomo ruotò su sé stesso per seguirla con lo sguardo ed allargò le braccia. « Non ti voglio mangiare! », ridacchiò.
« No, ora non più », ribatté lei, lasciandoselo velocemente alle spalle. Cercando di non mettersi a correre, raggiunse la sua tenda e vi si nascose dentro, scoprendo con sollievo che Chrysio  le aveva già preparato un comodo letto. Vi si gettò sopra, chiudendo finalmente gli occhi.
Nonostante il turbamento, non faticò molto ad addormentarsi.
 
Il mattino seguente, per prima cosa, uscì dall’accampamento e andò a cercare Elisium. Il cavallo accorse non appena lei lo chiamò con un fischio e si lasciò docilmente cavalcare. Isabel, voltando le spalle all’acquartieramento, lo spronò al galoppo. In un attimo, si lasciarono alle spalle i Romani e si immersero nel fitto bosco secolare, spaventando lepri, caprioli e scoiattoli.
Proseguirono muovendosi a caso per la foresta per buona parte della mattinata, finché non incapparono in un piccolo lago. Isabel ne rimase ammagliata: si trattava di uno specchio d’acqua non più grande di una piscina olimpionica, con una cascatella leggera ed un ruscelletto che nasceva dalla sua sponda meridionale.
Senza esitare un solo momento, Isabel balzò a terra, si tolse la tunica ed i sandali e si tuffò in acqua.
Acqua che per altro era a dir poco gelida, ma Isabel la accolse con un sorriso, iniziando a sguazzare felice come una bambina. Si immerse più volte, spingendosi sul fondo per ammirare sbalordita la perfezione dei piccoli sassi bianchi che ricoprivano il letto del lago, e terrorizzando un branco di piccoli pesci che guizzò via in un lampo argenteo.
Quando riemerse, vide che Elisium si era sdraiato pigramente sull’erba folta attorno al lago e aveva chiuso gli occhi, come se stesse per cedere al sonno. Ridendo, Isabel si immerse nuovamente, nuotando ad ampie bracciate, percorrendo il lago in lungo e in largo.
Era quasi mezzogiorno quando decise di tornare indietro. Nuotò sottacqua verso la riva e riemerse solamente dove si toccava: il lago poteva anche essere piccolo, ma le sue acque in certi punti erano davvero fonde.
Isabel, tornando in superficie, strizzò gli occhi e si scrollò i capelli, per poi cercare con lo sguardo Elisium. Il grande stallone bianco, però, ora era in piedi e stava fissando fremente e nervoso un punto imprecisato della foresta alle sue spalle.
Allarmata, Isabel si abbassò sul pelo dell’acqua e scrutò tremante la boscaglia fitta e scura. Attese per quelle che parvero ore, quando finalmente un rumore di passi le giunse all’orecchio. Stava ancora riflettendo su cosa fare quando intravide una sagoma tra il sottobosco: chiunque fosse, stava decisamente venendo da quella parte.
Isabel capì che ormai non avrebbe più fatto in tempo a rimontare a cavallo, perciò fece cenno ad Elisium di fuggire e si rituffò sottacqua, nuotando velocemente verso la piccola cascata. Riemerse solamente dall’altra parte, di modo che l’acqua che cadeva la schermasse agli occhi di chiunque passasse di lì.
Infine, la sagoma inconfondibile di un uomo si profilò sul bordo del lago. Per un attimo Isabel temette che si stesse per tuffare, ma grazie a Dio l’uomo si limitò a sedersi su una roccia e lanciare qualcosa nell’acqua. Allibita, Isabel comprese che stava pescando.
Sospirò: perfetto! Adesso avrebbe dovuto rimanere lì per delle ore! Cosa che proprio non poteva permettersi, a meno di non voler condannare Chrysio  all’infarto. Cautamente, si sporse da dietro la cascata. Lanciò una fugace occhiata all’uomo, prima di tornare sottacqua.
Laggiù, imprecò ferocemente nella sua mente. Com’era quella frase che diceva sempre sua sorella? La fortuna è cieca la sfiga ci vede benissimo? Be’, ecco una massima che sembrava scritta appositamente per lei! Perché, ovviamente, chi altri mai poteva essere a sedere, tranquillo come un pascià, pescando a meno di quindici metri da lei? Chi? Chi!
Il generale … Che il diavolo se lo portasse!
Isabel tornò dietro la cascata e prese a riflettere: doveva trovare un modo di andarsene di lì il più presto possibile, prima che lui si accorgesse della sua presenza.
Un fruscio la strappò ai suoi pensieri. Si sporse di nuovo da dietro l’acqua ed il cuore le mancò un colpo quando vide che il generale si stava slacciando il cinturone col gladio e si chinava per togliersi i calzari.
Ah, perfetto! Ci mancava solo che quel bastardo entrasse in acqua! Magnifico! Adesso l’avrebbe vista e poi … e poi … Be’, il problema stava tutto lì: che cosa sarebbe accaduto poi?
Isabel fece due calcoli, sforzandosi di essere il più razionale possibile: era improbabile che lui cercasse di violentarla di nuovo, non ora che sapeva il suo nome e che Cesare l’aveva accolta tanto bene. Del resto, poteva sempre essere sgradevole in migliaia di altri modi e lei non era davvero impaziente di sperimentarli.
D’altro canto, si disse, aveva forse qualche alternativa?
Sospirò, prese fiato e si immerse. Nuotò fin quasi alla riva opposta, riemergendo non appena i suoi piedi toccarono il fondo. Incrociò le braccia sul seno scoperto ed emerse soltanto fino alla gola.
Il generale, immobile sulla roccia, la stava fissando apparentemente sbalordito. Ed Isabel lo ricambiò, perché nel frattempo lui si era denudato fino alla cintola, rivelando un fisico incredibilmente atletico e forte. Non che le importasse, del suo fisico, ma semplicemente non poteva non essere notate: era un corpo troppo diverso a quello degli uomini del suo tempo perché lei non gli gettasse almeno un’occhiata incuriosita. In effetti, non aveva niente a che fare con gli uomini che Isabel aveva visto fin’ora alla televisione o nei film: gente che bivacca in palestra dalla mattina alla sera e che esibisce muscoli d’acciaio creati praticamente in laboratorio. Quel Romano non aveva mai visto una palestra in vita sua. Eppure eccolo là, perfetto in ogni dettaglio, dalle spalle solide alle braccia dure e forti, fino ai pettorali ampi e definiti e allo stomaco piatto. Ancora una volta, sembrava quello che era: un soldato. Probabilmente, se avesse dato un pugno ad uno di quei wrestler grandi e grossi come montagne, l’avrebbe reso scemo. Oddio … forse era meglio dire più scemo…
« Ma tu guarda … ciao », la salutò, allargando quel suo sorriso da perfetto mascalzone che gli socchiudeva gli occhi. Isabel ne fu sorpresa: una volta aveva letto un libro su come i nostri comportamenti e gesti istintivi rivelino molto più delle parole sulle nostre intenzioni, e quindi sapeva che chi sorride solo con la bocca è menzognero, mentre chi sorride anche con gli occhi è sincero. Per quanto incredibile fosse, l’uomo sembrava sinceramente felice di rivederla.
Ma certo! Si disse poi: anche uno squalo è felice di rivedere il cucciolo di foca che si è scelto per pranzo!
Ad ogni modo, squalo o non squalo, non poteva lasciarlo lì così in eterno, in piedi su quel masso con le mani piantate sui fianchi ed il sorriso soddisfatto ad illuminargli il volto. Probabilmente era una pazza masochista, ma le era stato insegnato a rispondere ad un saluto.
« Ciao a te, rompicoglioni », sbuffò quindi, abbassandosi sul pelo dell’acqua.
« Siamo un po’ acidine, oggi, eh? », commentò lui, per nulla turbato dalla sua palese ostilità.
« Ti aspettavi un altro genere di benvenuto? », sibilò Isabel, cercando di nascondere il suo sconcerto di fronte a tanta sfacciataggine.
Il generale ridacchiò e scese agilmente dal masso, avanzando nell’acqua finché non ne fu immerso fino alle ginocchia. Istintivamente, Isabel si ritrasse, tornando al centro del lago e fissandolo con paura.
L’uomo allargò le braccia. « Non voglio farti del male ».
« Sì, questa frase me l’hai già detta », puntualizzò lei, rabbrividendo al solo ricordo.
« Ti credevo una schiava », si difese lui, ma smise di camminare.
« E se lo fossi stata? Questo non ti avrebbe dato il diritto di … di … di toccarmi! », gridò lei, furibonda.
« Al contrario. In effetti, sarebbe stato mio diritto anche se tu fossi stata semplicemente una donna gallica o una prigioniera straniera », sorrise, « È stato il nome di tuo padre a… », esitò un attimo sull’ultima parola ed Isabel ne approfittò.
« A salvarmi? ».
L’uomo rise. « Non intendevo quello, ma se credi… ».
Isabel si guardò attorno: quella conversazione non le piaceva nemmeno un po’. Doveva recuperare la sua tunica ed andarsene, il più presto possibile.
« Voltati », gli ordinò.
« Che cosa? », esclamò lui, ridendo.
« Hai sentito benissimo: voltati. Devo uscire ».
« Amica mia, forse non ricordi ma io ho già … ».
« Non osare », sibilò Isabel, furente, caricando la voce di tutto l’odio che le bruciava in petto e riducendo gli occhi a due fessure maligne, « Non osare nemmeno chiamarmi “amica “ ».
Finalmente, il generale parve colpito. Arretrò d’un passo, chinò il capo e, sospirando, si voltò, tenendo le braccia aperte come per mostrare di essere disarmato.
Isabel uscì rapidamente dal lago, correndo ad infilarsi la lunga tunica e a stringerla saldamente con la cintura. Non perse di vista per un solo attimo il Romano, che però rimase immobile a fissare la foresta davanti a sé.
Suo malgrado, Isabel notò che aveva una bella schiena, ampia e forte, con delle spalle muscolose ed una orribile cicatrice che gli percorreva la scapola sinistra. Un'altra linea chiara gli deturpava il dorso all’altezza del rene destro, mentre il segno di un’ustione spiccava pallido appena sopra i suoi glutei. Tutta la schiena, poi, era percorsa da piccoli segni dritti e sottili leggermente in rilievo, che Isabel non riuscì a definire.
Scuotendo il capo come per schiarirsi le idee, Isabel lasciò perdere il Romano e si affrettò a finire di allacciarsi i calzari. Quindi fischiò per chiamare Elisium, allontanandosi intanto dall’uomo che – prendendo quel richiamo come un segnale – si era voltato di nuovo verso di lei.
Isabel si affrettò a mettere il lago tra loro due, gettando di tanto in tanto occhiate impaurite all’uomo e ansiose verso il bosco. Quando finalmente lo stallone bianco comparve, gli montò in groppa d’un balzo e lo voltò verso il folto della foresta. Diede un’ultima occhiata all’uomo, che la fissava in una maniera strana, che la colpì.
Spronò Elisium allontanandosi con la mente confusa, cercando di mettere più spazio possibile tra sé ed il generale. Un turbinio di pensieri, però, la tormentava. Soprattutto quell’ultimo sguardo dell’uomo continuava a tornarle alla mente. Le sfuggiva la parola più adatta per definirlo.
Isabel ci stava ancora pensando quando giunse all’accampamento, dove trovò Chrysio  in allarme che già stava per organizzare una spedizione per cercarla. Isabel lo tranquillizzò, liberò Elisium e chiese di poter pranzare nella sua tenda. Quando un soldato inviato da Cesare gliene chiese il motivo, Isabel mentì, dicendo di essere indisposta. La verità era che non avrebbe sopportato la vista del giovane generale per altri dieci minuti senza mettersi a gridare.

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***


« Domina … il generale vuole vedervi ».
Isabel balzò a sedere sul letto. Era sera, praticamente notte, e lei si stava già preparando per andare a dormire dopo una giornata chiusa in tenda a fingere di essere malata.
« Il generale? Quale generale? ».
« Caio Giulio Cesare, domina », rispose Chrysio , come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Isabel sospirò di sollievo: per un momento aveva temuto che si trattasse di quell’altro. Sarebbe stata una vera persecuzione!
« Ditegli che arriverò tra un minuto ».
« Domina … il generale è già qui ».
Isabel sgranò gli occhi: Cesare? Nella sua tenda?
« Fatelo entrare, naturalmente ».
Chrysio  aggrottò la fronte. « Domina, non sta bene che una fanciulla sola … ».
« Chrysio , mi preoccuperò della mia reputazione quando sarà una vecchia comare. Adesso fai entrare Cesare », tagliò corto lei. Il giovane schiavo chinò il capo ed uscì. Isabel si affrettò a rassettare il letto e lisciare alcune pieghe della sua tunica, prima che Cesare comparisse sulla soglia della sua tenda.
« Spero che vi sentiate meglio, amica mia. Ci siete molto mancata questa sera », esclamò lui, prendendole le mani e banciandone il dorso.
Isabel arrossì fino alla radice dei capelli. « Era un po’ indisposta, generale ».
« Capisco », mormorò lui, col tono di chi capiva davvero. Si sedette su uno sgabello pieghevole da campo, lasciandole la sedia più comoda. Con un sorriso di ringraziamento, Isabel sedette di fronte a lui, mentre Chrysio  si avvicinava con un vassoio porgendo loro del vino, che entrambi rifiutarono.
« Cosa vi porta qui, generale? », domandò Isabel, « E, vi prego, non rispondetevi il timore per la mia salute: sappiamo entrambi che sto benissimo ».
Cesare rise. « Siete acuta, ragazza mia », esclamò, come se la cosa lo riempisse di soddisfazione. Isabel si fece ancora più curiosa. « No, in effetti non sono qui per sentirvi mentire su quanto mal di testa abbiate avuto oggi pomeriggio. Sono qui per parlarvi di affari, se per voi va bene ».
« Per me, possiamo parlare di tutto quello che volete, generale », rispose istintivamente Isabel, soggiogata dalla presenza immane dell’uomo. Subito si morse la lingua, ma ormai era fatta e lei riuscì in qualche modo ad impedirsi di arrossire: come diceva sempre zia Dag, non c’è maniera migliore per mettersi in imbarazzo da sola che arrossire.
« Vi ringrazio. In tal caso andrò dritto al sodo: a Roma ho molti nemici ».
Isabel annuì, mentre alla mente le ritornava qualche vago ricordo delle lezioni di storia Romana. « Capisco ».
« Pompeo, Catone e gli optimates stanno facendo fronte comune contro di me. Non appena il mio mandato come proconsole scadrà - e non manca molto - mi salteranno alla gola come tanti lupi feroci ».
« Avete bisogno di amici, quindi ».
Cesare le sorrise. « Sapevo che avreste capito subito. Siete una donna straordinaria, Marta Alessandra! », esclamò, facendola infine arrossire sul serio, « E comunque sì, mi servono amici fidati a Roma. Non che non ne abbia già, ma ho bisogno di qualcuno come voi, amica mia ».
« Qualcuno come me? Una donna? », fece lei, stupita: da quel poco che sapeva di Roma Antica, le donne non godevano precisamente di uguali diritti, rispetto agli uomini.
« Una donna, esattamente », annuì però Cesare, « Voi non avete idea di quanto potere ci sia nel pettegolezzo e nelle feste dell’alta società ». Il volto del bellissimo generale si rabbuiò, facendosi mortalmente serio, « Voi non mi conoscete. Non sapete nulla della mia politica e dei miei intenti, e perciò capisco che le mie richieste vi possano sembrare … ».
« Accetto », lo zittì lei, « Di tutto cuore, accetto ».
Le sue parole stupirono persino lei stessa. Certo, aveva trovato Cesare assurdamente sensuale ed incredibilmente bello e affascinante, ma non avrebbe mai immaginato che sarebbe finita col diventare una sua alleata, e soprattutto una sua alleata politica. E che diamine! Non sapeva un bel niente di politica, lei! Tanto meno di quella Romana…
Sarebbe stata un pesce fuor d’acqua ma - e che cavolo! - sentiva con ogni fibra del suo essere che ne sarebbe valsa la pena. Avrebbe aiutato Cesare: sapeva che era un uomo grande, valoroso, che aveva ottimi piani per Roma, e che una volta sconfitti i suoi nemici si sarebbe dimostrato pietoso e ragionevole. Avrebbe portato la pace e la prosperità a Roma, anche se solo per pochissimo tempo.
Poi si ricordò di Alessandria: merda! Se n’era completamente scordata! Dimenticata! Com’era possibile? Com’era umanamente possibile che in così poco tempo lei si fosse dimenticata dell’unica cosa veramente importante: ritornare a casa. Era assurdo: certo, Cesare era una meraviglia, ma a rigor di logica nemmeno il viso più bello del mondo avrebbe dovuto farle dimenticare casa in così poco tempo!
Scrollando il capo, cercò le parole più adatte per rimangiarsi quello che aveva detto. Ma Cesare in quel momento si alzò, la sollevò di peso e la abbracciò stretta, con affetto e gratitudine, e lei si sentì catapultata in paradiso.
« Ragazza… che tu sia benedetta! », esclamò, depositandole un sonoro bacio sulla fronte.
Letteralmente senza fiato, quasi incapace di pensare di fronte al sorriso del Romano, Isabel gli sorrise di rimando. Al diavolo Alessandria! Per tornare a casa c’era sempre tempo. Ora Cesare aveva bisogno di lei.
 
Il generale che aveva quasi stuprato Isabel attendeva assieme ad un uomo basso e tarchiato che Cesare uscisse dalla tenda. Se ne stava in silenzio, un po’ in disparte rispetto al suo compagno, e probabilmente per la prima volta in vita sua non faceva baccano coi soldati che di tanto in tanto passavano da quelle parti, diretti ai turni di guardia o alla latrina.
Finalmente, Cesare uscì.
Pythes, lo schiavo basso e tarchiato che seguiva Cesare ovunque, gli domandò: « Allora? ».
« Ha accettato », sorrise Cesare, trionfante: non era stato difficile convincerla. Fin da subito aveva capito che quella ragazza aveva un debole per lui e si era affrettato a sfruttarlo: aveva un disperato bisogno del suo aiuto a Roma.
« Magnifico. Ora andiamo », disse, piatto, il giovane generale, voltandosi. Cesare lo fermò appoggiandogli una mano sulla spalla.
« Che cosa c’è? Disapprovi forse? », gli domandò Cesare, voltandolo per guardarlo negli occhi. « Abbiamo davvero bisogno di qualcuno che muova i fili segreti della società e lei è perfetta: giovane, bella, apparentemente innocente. Ha una mente pronta ed è piuttosto intuitiva. Piacerà da morire alle matrone dell’Urbs: penseranno di potersela sbranare in un sol boccone. Ed invece rimarranno a bocca asciutta! ».
« Non la state sopravvalutando? », domandò Pythes. « È molto giovane, praticamente un’adolescente ».
Cesare scosse il capo. « Quell’adolescente ha preso venti uomini ed ha attraversato mezza Gallia per salvare due schiavi. E quando le ho chiesto il motivo lei mi ha risposto che non poteva lasciarli nelle mani dei barbari. Tutto qui: semplicemente non poteva. Due schiavi, capite? », scosse il capo, « È un cosino piccolo e grazioso, non più pericoloso di un pulcino, ma ha rischiato la vita per due schiavi. No, Pythes, non la sto sopravvalutando », garantì infine. Si voltò ancora verso il giovane generale. « Ma dimmi cosa pensi, Marco. Parla: sei stranamente silenzioso da stamattina ».
Marco Antonio fece una smorfia e scosse il capo. « No, Cesare, non ho niente. Anzi, credo che lei sia perfetta per questo compito: ha delle zanne niente male, per essere soltanto un pulcino ».
Cesare rise e gli passò un braccio attorno alle spalle. « Bene! Magnifico! Allora, amici miei, andiamo a festeggiare! ».
 
Isabel fece il calcolo e scoprì che quella era la trentasettesima alba Romana che vedeva. Ebbe un tuffo al cuore, ma si impose di riscuotersi e in fretta vestì: non aveva tempo di pensare a casa. Non adesso. Adesso doveva sbrigarsi a partire.
Chiese a Chrysio  di occuparsi di quanto rimaneva del loro bagaglio – ben poco – e di svegliare Melite ed Oreste che ancora dormivano, dopodiché si affrettò alla tenda di Cesare.
Il generale era già sveglio – un soldato le aveva detto che in realtà non dormiva mai più di tre o quattro ore a notte – e stava diramando ordini ad alcuni centurioni. Vedendola arrivare, allargò un sorriso mozzafiato e le venne incontro, baciandole i palmi delle mani e guardandola come se fosse l’unica cosa esistente al mondo.
« Amica mia, buongiorno. Non vi aspettavo così presto ».
« Se devo partire voglio farlo per tempo », rispose lei.
« Partire? Per dove? », le domandò Cesare, confuso.
« Ma per Roma, naturalmente! », esclamò Isabel.
Cesare sbatté le palpebre, meravigliato. « State… state dicendo che intendete mettervi in marcia per Roma … oggi stesso? ».
Isabel annuì. « Stamani », confermò.
Cesare la fissò per un altro momento, allibito, poi gettò la testa indietro e scoppiò in una sonora risata. « Che gli Déi mi siano testimoni, siete impareggiabile! », esclamò.
« Perché? », fece lei, imbarazzata.
« Perché? Mia cara, come potete chiedermi perché? », rise lui, « Siete la sola donna di mia conoscenza disposta a partire da un momento all’altro per un viaggio così lungo, senza alcun bagaglio né una casa ad attendervi ».
Isabel fece spallucce. « In realtà pensavo di passare da Marsiglia, prendere del denaro di mio padre da Simone l’Ebreo, imbarcarmi su una nave e affrontare così il viaggio fino ad Ostia », spiegò: ci aveva pensato tutta la notte, e quella le era sembrata la scelta più comoda e veloce, « Una volta a Roma, alloggerò in una locanda, finché non avrò trovato una casa adatta ».
« Amica mia, potreste sempre alloggiare nella mia casa. Sono sicuro che Calpurnia … ».
Isabel scosse il capo. « Vi ringrazio generale, ma dormire nella vostra casa sarebbe come mettere un grosso cartello luminoso con su scritto “sono una alleata di Cesare “ e questo non lo voglio ».
« Non lo volete? », ripeté lui, confuso.
La ragazza annuì. Quella mattina, svegliandosi, prima di riflettere su quanti giorni avesse trascorso nell’Antica Roma, aveva messo insieme un piano. Forse non se ne intendeva di politica, ma – per Dio! – era un’adolescente del Maine e quanto a pettegolezzi e sotterfugi non la batteva nessuno. « No, non lo voglio. Ho intenzione di fingermi neutrale, per un po’ di tempo, anzi, magari addirittura blandamente filo-ottimate », si riferiva alla fazione degli optimates, i nemici giurati di Cesare, « Questo mi aprirà molte porte, almeno credo, e mi porterà ad ascoltare discorsi molto più interessanti. Col tempo, farò credere di interessarmi alle vostre posizioni, generale: questo mi permetterà di raggiungere accordi in nome vostro senza destare alcun sospetto ».
Cesare scoppiò di nuovo a ridere, le prese il volto tra le mani e le baciò le guance. « Ragazza mia! Atena vi ha benedetta con l’astuzia di Ulisse! Ah, Giove, che grande alleata ho trovato! ».
Isabel fece spallucce. « Semplicemente, generale, avete trovato una donna ».
 
Non appena Cesare le ebbe spiegato che cosa si aspettava da lei nei dettagli, Isabel lo salutò con un lungo abbraccio - ma mai abbastanza lungo, per i suoi gusti – e si diresse all’uscita dell’accampamento.
Lungo la strada incrociò il suo giovane generale, il quale si affrettò a voltare lo sguardo dall’altra parte e la superò senza dire una parola. Negli occhi, però, gli brillava la stessa espressione di quella mattina al lago. Isabel rimase un momento ferma in mezzo alla via principalis, tentando di decifrarla e quando finalmente riuscì a trovare la parola che più la descriveva, rimase senza fiato.
« Triste. È la parla giusta: triste », mormorò, allibita: com’era possibile?
« Domina! », la chiamò un soldato, distraendola. Isabel si riscosse e si voltò verso di lui. « Dimmi, legionario ».
L’uomo le indicò il bardotto carico di provviste che stava conducendo. « Queste sono per il viaggio, domina », e le allungò una ricevuta da firmare. Quanto ad organizzazione, i Romani non avevano proprio da nulla da invidiare agli eserciti più moderni.
Isabel gli sorrise. « Ti ringrazio, soldato », corrugò la fronte, « Posso farti una domanda? ».
L’uomo annuì, « Ma certo, domina ».
« L’ufficiale che è appena passato. Quello vestito dell’armatura dorata … ».
« Il generale Marco Antonio? ».
Isabel sgranò gli occhi. « Quello era Marc’Antonio? », domandò, incredula.
Il soldato annuì. Non sembrava sorpresa che lei lo conoscesse. « Il solo ed unico, domina; perché lo chiedete? ».
 
Joseph rigirava tra le mani, totalmente allibito, la tunica di stoffa chiara e lisa che Zia Dag aveva tirato fuori da un baule polveroso. Sebbene non fosse mai stato un asso in storia, Jo non aveva dubbi sulla fattura di quell’abito: era Romano. E che Dio lo aiutasse, non sembrava decisamente un vestito di Halloween. Tanto per cominciare non era cucito a macchina e poi – osservò lui rabbrividendo – era sporco di sangue. Sangue vero.
« Questo … questo da dove arriva? », domandò a Zia Dag, indicandole una macchia scura.
« Ah, quello. Mi hanno sparato », spiegò lei, distrattamente, come se fosse una cosa di poco conto, « Te l’ho già detto: sono apparsa in Francia nel millenovecentoquarantadue. Cosa credi che abbia incontrato, eh? La guerra! ».
Jo le tese la veste. « Va bene. Diciamo per puro amore della conversazione che io ti credo. Dove si trova ora Isabel? ».
Zia Dag sospirò, levando le braccia e gli occhi al cielo. « Ma mi ascolti, ragazzo? L’ho già ripetuto duemila volte: si trova a Roma. L’Antica Roma. Hai mi visto Ben Hur? ».
« Una Roma parallela alla nostra », mormorò Jo.
« Esatto. Una Roma parallela alla vostra », confermò Zia Dag.
« E tu … tu come fai a dirlo? Cioè… ne sembri certa … ».
Zia Dag sospirò e andò ad aprire un altro baule, rivelando una montagna di libri gettati all’interno senza alcuna cura. Ne prese in mano uno, borbottò qualcosa e lo lanciò alle sue spalle. Ne prese un secondo e gli fece fare la stessa fine. Scorse in quel modo forse una ventina di volumi, prima di trovare quello che stava cercando con un grido di trionfo. Ne soffiò via la polvere e fece cenno a Joseph di avvicinarsi.
« Guarda: questo è un ritratto di Gaio Mario ».
Jo osservò il busto: raffigurava un uomo dalle folte sopraciglia e con una profonda stempiatura, un po’ rozzo nei lineamenti e decisamente poco attraente.
« Magnifico », commentò, ironico.
« Gaio Mario era identico a Brad Pitt ».
« Che cosa? ».
Zia Dag annuì. « Ti giuro. Quando ho visto Intervista col Vampiro per poco non ho avuto un colpo: si assomigliano come due gocce d’acqua. Se non gemelli, li si può tranquillamente dire fratelli. Ora dimmi, quest’uomo ti sembra Brad Pitt? ».
Jo fece una smorfia.
« Per l’appunto. Ed ora guarda questo », disse, voltando alcune pagine. Joseph guardò e lesse una cronologia di date che andavano dal duecento al cento avanti Cristo.
« Che cosa dovrei notare? », domandò, confuso.
« Qui dice che Gaio Gracco morì suicida nel centoventuno avanti Cristo. Io invece di dico che ho saputo della sua morte quando avevo otto anni, ossia nel centoventiquattro ».
« Cambia poco », commentò Jo.
« Però cambia », puntualizzò la donna, richiudendo il libro, « Potrei andare avanti per ore: tra la Roma che conosco io – quella in cui è finita Isabel – e la tua Antica Roma ci sono un sacco di piccole differenze, imprecisioni, date che non coincidono, nomi che cambiano, occhi azzurri invece che scuri … un milione di incongruenze che hanno una sola spiegazione possibile … ».
« Non è la stessa Antica Roma », mormorò Joseph, lasciandosi cadere sul pavimento, di colpo senza forze, « Oh, mio Dio … Isabel! Come facciamo a riportarla indietro? ».
Zia Dag scosse mestamente il capo. « È proprio questo il punto, Jo. Non si può tornare indietro ».

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