Munson Begins

di Swan_Time_Traveller
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Winter of '65 ***
Capitolo 2: *** Meeting the Munson Family ***
Capitolo 3: *** Elizabeth the Banished ***
Capitolo 4: *** Here in Dallas ***
Capitolo 5: *** All my loving ***
Capitolo 6: *** It's all about the Kennedys ***
Capitolo 7: *** It was cold and there was you ***
Capitolo 8: *** The good, the bad and the caravan ***
Capitolo 9: *** For Whom the Bell Tolls ***
Capitolo 10: *** Dallas - Hawkins Hotline ***
Capitolo 11: *** His name is Edward ***
Capitolo 12: *** Dead to me ***
Capitolo 13: *** Dream a little dream of me ***
Capitolo 14: *** I just happened (parte uno) ***
Capitolo 15: *** I just happened (parte due) ***



Capitolo 1
*** Winter of '65 ***


Winter of '65

“One fine day, you'll look at me
And you will know our love was meant be
One fine day, you're gonna want me for your girl”


Alla tavola calda subito fuori i confini di Hawkins, nell’Indiana, Elizabeth Munson era seduta al bancone, fissando il milk-shake che aveva pagato con i pochi spicci che aveva in tasca. Il jukebox nell’angolo stava trasmettendo “One Fine Day” delle Chiffons: l’aveva scelta l’unica coppia di ragazzi presente nel locale, che stava ballando allegramente tra i tavoli, ignorando totalmente l’umore di chi era lì presente, ma totalmente su un altro universo. Non che a qualcuno dovesse importare minimamente dello sguardo vuoto e devastato di Liz, la quale ormai aveva capito quanto fosse necessario abituarsi al diventare invisibile.
Anzi, magari fosse stato da subito quello il punto, essere invisibile. A giudicare dalle ultime vicissitudini che l’avevano vista come sfortunata protagonista, Liz era diventata per Hawkins e per la sua famiglia qualcosa di cui parlare e, per la seconda, di cui vergognarsi: a scuola, in quelle passate settimane, non trascorreva un minuto tra i corridoi, davanti all’armadietto, in aula, senza sentire un vociferare divertito o scandalizzato, che finiva sempre per menzionare il suo nome.
Liz distolse lo sguardo dal suo frullato, per dare un’occhiata distratta all’esterno: il vento freddo che aveva piegato Hawkins nell’ultima settimana di dicembre sembrava essere cessato, ma le temperature erano ancora estremamente rigide. Poco male, perché a lei l’inverno non aveva mai turbato granché: eppure quel gennaio 1965 era iniziato davvero in modo catastrofico, così come si era concluso l’anno precedente … E con ogni probabilità, ogni mese sarebbe andata peggio, per far culminare il disastro a settembre.
Non c’era tempo per pensare ad un piano B. La soluzione, temporanea o definitiva che fosse per Liz, era una ed una soltanto.
Andarsene, in un posto lontano. Ovunque, purché i giudizi affilati della gente di Hawkins non la raggiungessero: nella mente di Liz però, quelle parole sarebbero risuonate ugualmente, a prescindere dal suo nuovo inizio.
E davvero si parlava di questo, di un capitolo da aprire ex novo? Era tutto nelle sue mani, e tutto dipendeva da lei, inclusa la vita che nove mesi dopo avrebbe cambiato la sua esistenza per sempre: forse era proprio quello il punto, settembre. Il momento in cui quella nascita sarebbe stata concreta, l'attimo in cui sarebbe diventata una madre.
Le incognite erano però troppe, così come la vergogna, le lacrime versate mentre suo padre, Christopher Munson, le ripeteva di non tornare a casa mai più. Aveva scelto il giorno di Capodanno per confessare alla sua famiglia di aspettare un figlio, da un ragazzo che tra l’altro aveva incontrato nuovamente ad una festa, e anche se ricordava il nome, per lei non era mai iniziato nulla, e nemmeno per lui. Era difficile spiegare, accettare, ammettere di aver compiuto un errore madornale davanti al padre, così rigidamente cattolico e dedito al suo nido familiare, e alla madre Ella, che mai si era sbilanciata a favore dei figli, lasciando sempre ampio margine e un intero palcoscenico al marito.
Quell’ultima sera del 1964 Liz dovette uscire di casa forzatamente, tra le lacrime che le rigavano il viso così velocemente che nemmeno le gelide temperature di Hawkins potevano bloccare: l’unica persona che aveva supplicato di fermarsi era stato suo fratello maggiore, Wayne. E lei non si era voltata nemmeno per guardarlo un’ultima volta: sapeva che separarsi da suo fratello avrebbe reso la scelta finale ancor più drammatica.
Ma alla fine, il dado era tratto, e Liz in quella tavola calda non sarebbe rimasta ancora per molto.
Tutto quel di cui era sicura era scappare. Fuggire, allontanarsi per sempre da una cittadina che le aveva voltato le spalle, assieme alla sua intera famiglia. E sperare per ciò che sarebbe nato nove mesi dopo, una vita migliore.

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Capitolo 2
*** Meeting the Munson Family ***


Meeting the Munson family 

 

L'orologio a pendolo segnava le cinque in punto quando Christopher Munson varcò la soglia, con la valigetta da lavoro blu che finiva sempre per essere parcheggiata a fianco all'entrata, vicino al portaombrelli: sin da bambini, i suoi figli avevano sempre insistito affinché lui svelasse il contenuto di quella borsa ma Christopher, da avvocato puntiglioso e devoto al lavoro che era, non aveva mai ceduto alle suppliche.

Qualche volta però, Elizabeth, la figlia minore dei Munson, era riuscita a osservare di nascosto il padre nel suo piccolo studio, e aveva notato nella valigetta una serie di fogli e cartelline tutte ben ordinate. Una sezione della valigia era dedicata alle penne, che Christopher Munson custodiva meglio della sua prole: erano tutti regali dei clienti che aveva difeso in plurime cause dal 1945, quando era tornato dal fronte dopo la vittoria americana nella Seconda guerra mondiale.

Si era arruolato nell'esercito da giovanissimo, Christopher Munson: aveva a malapena diciotto anni, e un grande senso del dovere e della patria. Aveva poi conseguito la laurea in legge a pieni voti, diventando immediatamente un avvocato brillante, conosciuto dai colleghi e nell'ambiente per essere un uomo intransigente: così era anche in famiglia.

 

“Ella? Dov'è il ragazzo?” Esclamò ancora prima di togliere le scarpe il capofamiglia, cercando con gli occhi marroni, grandi e tondeggianti, la moglie. Quest'ultima fece capolino dalla cucina e, sporgendosi distrattamente, rispose con un tono squillante: “Sta portando in rimessa il resto della legna che ha tagliato oggi, Chris. Non dovrebbe tardare.”

Christopher sbuffò, togliendosi controvoglia le scarpe e a malapena rivolgendo uno sguardo alla moglie, che era rientrata senza alcuna esitazione in cucina.

“Com'è andata in ufficio?” Chiesa Ella Munson al marito, mentre era intenta a tagliare le prime verdure per la cena di quella sera. Aveva sposato l'uomo col quale avrebbe avuto due figli nel 1945, poco dopo il suo rientro dalla guerra, ma Ella volendo avrebbe potuto ambire a qualcuno di meglio, o almeno così le avevano ripetuto per mesi e mesi le sue sorelle. Lei era sempre stata una ragazza ambita al liceo, brava nella ginnastica e in tutte le materie, dotata di una bellezza rara: aveva sempre deciso di tenere i suoi capelli neri lunghi, oltre le spalle, fregandosene delle mode che il momento imponeva. Con gli anni si erano leggermente arricciati, ma gli occhi verdi avevano mantenuto invece la brillantezza e quel fascino che molti ragazzi a scuola avevano notato sin dal suo arrivo ad Hawkins.

Ella non era originaria dell'Indiana, ma del Texas: i suoi genitori avevano deciso di trasferirsi lì sia per lavoro, sia perché quella cittadina americana, sebbene poco conosciuta, era considerata un vero e proprio paradiso, più per la popolazione tranquilla e i ritmi pacati che per altro.

Nonostante l'ampia gamma di giovani studenti che alla Hawkins High School aveva invitato Ella almeno ad un ballo di fine anno, lei era stata attirata da un ragazzo più o meno suo coetaneo, Christopher Munson, che però a scuola veniva a stento considerato. Era sempre stato un tipo solitario, dedito alla scuola e profondamente fedele alla religione cattolica, il che lo aveva reso ancora meno popolare: Ella se n'era invaghita proprio perché, tutto sommato, a lei la gente popolare faceva difetto, pur essendo parte in un certo senso di questa.

Christopher non era mai stato né un ragazzo affabile, né di piacevole aspetto: alto e magro come un'acciuga, persino ricurvo su se stesso, aveva sempre indossato degli occhiali da vista molto spessi, più per precauzione e per volere di una mamma troppo apprensiva, anziché per reale necessità. Non parlava tanto nemmeno coi pochi amici che si era ritagliato a scuola, e quasi nessuno era mai andato a casa sua.

La verità è che, anche dopo il matrimonio tra Ella e Christopher, nella famiglia della ragazza nessuno capì mai che cosa ci avesse visto lei di così interessante in quell'uomo.

In ogni caso la professione di Christopher e la sua dedizione lo avevano portato ad essere uno degli uomini più rispettati ad Hawkins: se prima pure i suoi vicini mostravano riserve nei suoi confronti, per via della sua fede cattolica, quando Kennedy venne eletto primo presidente cattolico degli States, nessuno aveva più nulla da dire su Christopher Munson. E lui, dalla sua parte, democratico convinto, sentiva di avere un debito col signor John F. Kennedy, per il quale nutriva profondo rispetto.

 

“Solito andirivieni di cause, fogli e colloqui con altri avvocati che non ti sto manco a menzionare.” Borbottò di rimando Christopher, mentre si avviava verso il corridoio. Nel mentre, dalla porta sul retro in cucina rientrò Wayne, il figlio più grande dei Munson: era nato nemmeno un anno dopo il matrimonio tra i due, ma Chris non aveva mai sfiorato Ella prima dell'unione sacra, per sicurezza. Non avevano comunque perso tempo, perché entrambi avevano desiderato una famiglia numerosa, ma anche dignitosamente benestante: il lavoro di Christopher dava abbastanza profitto per permettere ad Ella di badare esclusivamente alla casa e alla crescita della prole, e poi di mandare a scuola i figli, in vista di un futuro brillante per tutti i piccoli Munson.

Ma Wayne non era mai stato dello stesso avviso del padre: estremamente talentuoso nei lavori manuali, amante della natura e spirito libero, il ragazzo aveva a malapena accettato di finire gli studi base, per poi raggiungere un accordo col padre, il quale aveva accettato che suo figlio iniziasse a lavorare come tuttofare in un'officina di Hawkins.

Era però sempre stato un bambino genuino, sebbene avesse in comune col padre la difficoltà nel relazionarsi con i compagni di classe, e con la gente in generale: l'arrivo di una sorella minore, nel 1949, gli aveva permesso di dedicarsi totalmente ad almeno una persona che aveva in comune con lui una famiglia e alcuni tratti genetici.

Elizabeth, chiamata altrimenti Liz in famiglia, non c'entrava nulla con suo padre: non era molto alta e, dalla sua nascita, aveva mantenuto una chioma di capelli neri che ricordavano quelli della madre da giovane. Come Wayne, anche Liz aveva gli occhi scuri e profondi, ma di una forma allungata, vicina a quella dello sguardo della madre. A livello caratteriale, era sempre stata una bambina piuttosto spigliata, abituata a fare amicizia con tutti e ad avere ben pochi peli sulla lingua: per questo destava l'ammirazione del fratello maggiore, che a stento riusciva a farsi un cerchio di amici, e l'insofferenza del padre, che aveva sempre cercato di inculcarle modestia, sobrietà e, soprattutto, una fede cattolica che in Liz era rimasta pura apparenza (così come in Wayne).

“Ciao papà.” Salutò il più grande dei fratelli, buttando a terra gli scarponi infangati che aveva usato per la raccolta della legna di quel giorno. Ella sorrise, senza badare nemmeno alle tracce che il figlio stava lasciando in cucina: in fin dei conti, la donna si sentiva fortunata di avere almeno ancora un figlio sotto il suo stesso tetto. Paradossalmente, era quello più grande, mentre la figlia sedicenne era sparita dalla circolazione.

“Spero che tu abbia concluso con la legna, altrimenti si prospettano altri due mesi difficili qui a casa. Ma vi rendete conto del freddo che fa? Sembra ogni anno più rigido l'inverno ad Hawkins.” Replicò Christopher, senza nemmeno guardare i propri interlocutori e infilandosi in camera, per prendere il pigiama pulito e buttarsi subito in doccia.

“Ho quasi terminato, a occhio e croce direi che domani potremmo riuscire ad avere una riserva di legna che ci durerà anche il prossimo autunno.” Spiegò Wayne, con tono pacato ma anche piuttosto stanco. Suo padre sbuffò e, poco prima di chiudersi alle spalle la porta del bagno, concluse: “Sarà meglio per te! Non sei in ferie natalizie da lavoro per non combinare niente. In questa casa non posso essere l'unico uomo. Lo sono stato per anni, e guarda che risultati.”

Non attese repliche Christopher, perché mai ne aveva accettate e perché nessuno, nella sua famiglia costruita da zero con tanto impegno ma poco affetto, aveva mai osato contraddirlo: si chiuse la porta alle spalle e aprì l'acqua della vasca.

Wayne sospirò, sedendosi al tavolo e dando un'occhiata piuttosto attenta a sua madre: Ella aveva assunto un'espressione preoccupata, tesa, ma che cercava di mascherare concentrandosi sulla preparazione della cena.

Il silenzio in quella casa era diventato assordante, e a tratti insopportabile pure per Wayne che non era mai stato un tipo ciarliero: il 31 dicembre dell'anno appena trascorso, sua sorella minore Liz aveva chiuso la porta di casa e non aveva mai fatto rientro.

Ma era lei che in famiglia, da quando aveva imparato a parlare, insegnava agli altri quanto fosse bello ridere, parlare e mostrare le proprie emozioni: era un merito che a stento Ella aveva riconosciuto in sua figlia, perché troppo influenzata dal parere severo di Christopher, che già da anni rimproverava a Liz di essere troppo ribelle, amica di quelli che lui definiva negri

“La tua ingenuità sarà la tua rovina Elizabeth! Guarda che fine ha fatto Kennedy, l'unico cattolico in grado di piacere a questo Paese tanto da diventare presidente, che improvvisamente ha deciso di essere supporter dei negri. Assieme a quell'altro disadattato di suo fratello Robert. Come pensi che finirà, pure lui? Male. Perché è così che si finisce quando si passa dall'altra parte. E te cara mia devi ridimensionarti.” 

Era da almeno un anno e mezzo che Christopher Munson ripeteva queste parole a sua figlia, la quale però non aveva mai capito cos'avesse fatto di così spiacevole per guadagnarsi i rimproveri costanti del padre: era sempre stata piuttosto brava a scuola, nella media perlomeno, ed era riuscita a farsi una serie di amici, tra cui vi erano anche dei ragazzi di colore che, seppure frequentavano scuole differenti, si ritrovavano insieme a lei a studiare e a preparare i compiti di fine anno. 

 

“Una tragedia annunciata. E tu Ella manco te n'eri accorta! Io continuavo a parlare, e voi non mi avete mai ascoltato. Mai! E questi sono i risultati.” Christopher urlava a tavola almeno una volta ogni sera, da quando Liz se n'era andata dopo aver confessato di essere rimasta incinta a seguito di una festa durante la quale aveva incontrato un ragazzo poco più grande, con qualche amico in comune. 

E ripeteva sempre le stesse cose: non si fermava nemmeno quando la moglie Ella, talvolta presa dai sensi di colpa, singhiozzava rumorosamente sul piatto che dal 31 dicembre non era più riuscita a svuotare. 

Wayne invece aveva molta rabbia repressa: ogni giorno, lavorando o tagliando la legna vicino casa, rifletteva sulle parole terribili che il padre sciorinava a cena, sulle accuse che questo formulava verso la figlia, cacciata di casa e mai più cercata. E proprio in quei momenti Wayne Munson sognava di prendere a pugni suo padre, di infamarlo, se necessario. Di mostrargli quanto il suo spirito cattolico avesse rovinato la famiglia e allontanato per sempre Liz, un'anima rara, una ragazza talmente buona che in quella casa avrebbe solo portato respiro, e luce. 

Wayne si rifugiava in quegli scenari, immaginando ad occhi aperti come sarebbe stato se, per una volta, ad andarsene di casa fosse stato suo padre, con tutta la famiglia contro, persino la fedelissima Ella, che mai si era espressa contraria al marito, nemmeno quando questo aveva buttato fuori la figlia incinta. 

Ma poi, ogni sera e ad ogni cena, Wayne Munson inghiottiva i bocconi e con loro i magoni generati dall'ascolto di quelle parole terribili, ma non replicava mai al padre: e così continuò a fare per tutto l'inverno del 1965, nonostante a lui sua sorella mancasse da morire. 

 

Christopher Munson non nutriva sensi di colpa: aveva dormito bellamente anche la notte di Capodanno, pur avendo lasciato in mezzo al vento gelido in una Hawkins deserta, senza un soldo e senza un tetto, la figlia minore. Aveva continuato a lavorare come se nulla fosse, tornando a casa spesso seccato dalle occhiate dei colleghi che avevano subito saputo di sua figlia: a lui lo scandalo familiare non calzava, e non lo tollerava. Nonostante ciò però, aver mandato via la vergogna dei Munson, poteva essere un nuovo inizio per tutti. 

Ella, dal canto suo, viveva una lotta interiore costante: da una parte c'era il suo essere madre, e quindi il desiderio di aiutare i propri figli ad avere una vita felice e serena; dall'altra c'era il suo dovere di moglie, che era diventato sempre più forte e prepotente a contatto con Christopher, personalità così forte e totalizzante, che aveva lasciato poco spazio di espressione a chiunque in quella casa. Prevaleva sempre e comunque l'Ella coniugata Munson, per questo il pensiero rivolto a Liz rimaneva tale, radicato nella sua coscienza: la differenza che correva tra lei e il marito però, stava proprio nel sonno notturno. Se lui mai una sera aveva avuto difficoltà ad addormentarsi, lei da quel 31 dicembre non aveva più chiuso occhio e, segretamente, aveva già consultato il medico di famiglia affinché le prescrivesse dei sonniferi. 

Ma in un certo senso, almeno in apparenza, la famiglia Munson resisteva, e Christopher ne era ben felice, sicuro del fatto che, nel giro di qualche mese, tutta Hawkins si sarebbe dimenticata di Elizabeth Munson e dello scandalo che aveva portato in città. 

 

“Stasera mi vedo con i colleghi.” Disse Wayne al termine della cena, stimolando un sorriso genuino nella madre, e un bofonchio nel padre, che replicò: “Va bene, ma come sempre cerca di non fare casino quando rientri. Che io domani devo essere in ufficio presto, e tu sulla legna altrettanto.” . 

Wayne non aspettò un ripensamento del padre, e si dileguò dalla tavola una volta terminato il pasto, per infilarsi un maglione pulito e delle scarpe decenti che non richiamassero il costante fango nel quale lavorava, ferie o non ferie. 

Chiudendo la porta di casa, con lo sguardo rivolto al cielo di Hawkins che sembrava essere eccezionalmente sereno, con qualche stella brillante sullo sfondo, Wayne sospirò, come se si stesse scrollando, almeno temporaneamente, di un peso troppo grande da sopportare. 

Della fede cattolica lui ne aveva sempre fatto a meno, anche quando accompagnava da bambino suo padre in chiesa, fingendo di interessarsi all'omelia del sacerdote: per tale motivo quella sera, consapevole di aver mentito al padre, non si sentì nemmeno lontanamente in colpa. 

Del resto, i colleghi di Wayne Munson erano tutti signori di una certa età con famiglia a seguito, che lo avevano sempre considerato uno strano: suo padre lo poteva sapere, se avesse mai chiesto qualcosa al figlio, circa la sua vita o il suo lavoro. E di conseguenza, avrebbe capito subito dopo quella cena, che Wayne non stava certamente uscendo per andare a bere qualcosa coi suoi colleghi. 

 

Ma meglio così, in fin dei conti. Perché Wayne Munson stava per ricongiungersi alla sorellina Liz, e quella sera non poteva essere più serena di così.

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Capitolo 3
*** Elizabeth the Banished ***


Elizabeth the Banished

 
“Non mi sorprende che papà ti abbia creduto. Del resto, di noi, lui non ha mai saputo niente.” Commentò con un velo di amarezza Liz, che era riuscita a contattare il fratello per organizzare un incontro, seppur notturno, prima di cambiare la sua vita radicalmente.
I due erano riusciti, anche attraverso i mezzi di Wayne (che da lavoratore di un’officina sapeva a chi appellarsi, in caso di necessità e spostamenti) a trovarsi in una stazione di servizio a poche decine di chilometri da Hawkins, che disponeva anche di un piccolo bar e qualche camera: una di queste era provvisoriamente occupata da Liz, la quale si apprestava a dormire l’ultima notte nello stato dell’Indiana, dove aveva sempre vissuto.
Wayne sospirò, appoggiando entrambi i gomiti sul bancone, in attesa di quanto aveva appena ordinato alla cameriera in servizio. Si voltò verso la sorella e, abbozzando un sorriso nel modo più impacciato che potesse conoscere, andò dritto al punto: “Avrei dovuto fare qualcosa quella sera. Reagire. Fermare nostro padre. Qualsiasi cosa.” Liz scosse la testa, e replicò: “Non avresti avuto alcun successo, sai di che pasta è fatta l’avvocato Munson: quando pensa che una scelta sia legittima, nessuno può fargli cambiare idea. E lui non ha mai avuto dubbi su cosa ci fosse da fare con me. Sbaglio? Si è per caso pentito?” Le domande che la ragazza stava rivolgendo al fratello maggiore erano, ovviamente, retoriche: non nutriva alcun briciolo di speranza per un eventuale ripensamento del padre, e tollerava a malapena che in quella famiglia ci fosse ancora qualcuno che potesse anche solo pensare ad un ipotetico scenario nel quale Christopher Munson avesse speranza di redenzione. In realtà Wayne non era tra queste persone: il suo dubbio ruotava esclusivamente su se stesso, e sulle sue azioni.
La cameriera lasciò davanti ai due fratelli quanto chiesto nella comanda: Wayne afferrò immediatamente il bicchierino di whisky appena piazzato, mentre Liz iniziò a scartare la cannuccia che aveva chiesto per la sua Coca-Cola.

“Gli farà bene?” Borbottò Wayne indicando la bevanda che Liz aveva scelto, ignorando tuttavia quanto quest’ultima gli aveva appena chiesto, quasi con aria di sfida. Lo sguardo interrogativo della sorella lo fece divertire, ma Wayne non sorrise, almeno non esternamente: la faccenda era seria, e Liz non aveva nemmeno ancora compiuto diciassette anni.
“A chi?” Replicò confusa Elizabeth che, dopo aver notato il fratello posare gli occhi proprio sulla sua pancia, fece un sospiro e, con un timido sorriso, aggiunse: “Ah, chiaro. Beh non so, penso che una Coca-Cola non faccia male a nessuno. E poi gli? Chi ti dice che sia un maschio?” Wayne ridacchiò sotto i baffi che aveva iniziato a farsi crescere quasi per fare un dispetto al padre, che aveva già manifestato avversione nei confronti di quella moda. Fece spallucce e rispose: “Non può essere che un Munson. Qualcuno dovrà pure riscattare il genere maschile di questa famiglia, o no?” Anche Liz iniziò a ridere, ma la spensieratezza e l’allegria sembravano fare difetto in tutta quella vicenda, e in quel determinato momento. Ritornò immediatamente seria e, dopo aver risucchiato dalla cannuccia un po’ di Coca-Cola, rivolse uno sguardo grato al fratello e commentò: “Tu hai già riscattato i Munson, Wayne. Solo che non te ne sei ancora reso conto. Quanto a chi metterò al mondo a settembre …  Beh, chissà. Magari davvero avrà un futuro più brillante del mio.” Abbassò lo sguardo, e Wayne in quel momento lo distolse, per evitare di incrociare gli occhi lucidi della sorella, che tuttavia non  sembrava voler cedere. Tornò infatti a fissare suo fratello, con un sorriso amaro sul viso.

Dopo aver svuotato in un colpo il bicchiere di whisky, Wayne tornò sulla conversazione: “Settembre, quindi? Hai già trovato un medico?” Liz annuì, e rispose: “Sì, in realtà me lo hanno consigliato i Sinclair. Hai presente i genitori di Davina? Ecco. Sono andata da loro quella sera. Non c’è stato bisogno di spiegazioni o alcunché. La signora Sinclair mi ha subito messa in contatto con il dottor Edward Halliwell, che ha lasciato l’Indiana al momento e ha uno studio medico a Dallas.” Wayne strabuzzò gli occhi non appena sentì parlare del Texas: era lontano da lì, e pur essendo grato alla famiglia Sinclair per essere riuscita ad aiutare la sorella, non riusciva davvero a comprendere come Liz, nonostante fosse brillante per la sua età, potesse pensare a trasferirsi in un altro Stato.
“Scusa, te ne chiedo un altro.” Disse Wayne alla cameriera, indicando il bicchiere di whisky vuoto: probabilmente tutte quelle notizie, sommate alla principale, quella dello scandalo, non lo avrebbero aiutato a tornare a casa sobrio.
“So a cosa stai pensando.” Borbottò Liz, cercando di intercettare lo sguardo del fratello, e quegli occhi così simili ai suoi, che tuttavia in quel momento sembravano ancor più profondi del solito, dispersi in un groviglio di pensieri che sembrava avere sempre più le fattezze di una trappola senza via di uscita. Wayne sospirò e, con una smorfia sul viso, ribatté: “Cosa vuoi che dica? In Texas, sul serio Liz? Come pensi di fare? Hai mai … Considerato quanto sia difficile la vita adulta, e per di più in uno Stato lontano da casa?”

La giovane Munson spalancò gli occhi, quasi sorpresa dal tono incalzante del fratello, che comunque continuava a non guardarla negli occhi. “No Wayne, fino ad oggi non ho mai pensato a tutto questo. Ma adesso è giunto per me il momento di fare i conti con tutta questa storia, e andarmene. Cosa pensavi? Che sarei rimasta ad Hawkins, dopo tutto quel che è accaduto? Sotto gli occhi della gente, dei compagni di scuola che non hanno fatto altro che ridere, schernirmi, parlottare a bassa voce di quanto fossi una vergogna? Una disadattata?” Wayne interruppe la sorella e, guardandola finalmente negli occhi, puntò il dito e sbottò: “Non dico Hawkins, ma almeno rimanere nell’Indiana, merda! Così per me sarà sempre più difficile raggiungerti e aiutarti. Scappare non è sempre la soluzione Liz. Men che meno quando hai qualcuno che prima o poi nascerà e dipenderà da te.” La ragazza, con le mani visibilmente tremanti, si sciolse i capelli, iniziando a giocherellare con l’elastico che li aveva tenuti legati fino a quel momento.
Dopo un breve istante di silenzio, alzò le spalle e mormorò: “Quando vieni esiliata da chi ti ha dato la vita, non hai molte altre scelte se non scappare. Questo è quanto. E per ciò che riguarda Dallas … I Sinclair mi hanno fatto parlare col dottor Halliwell, ed è davvero una persona che sa aiutare. Ha detto che ha una vecchia zia che vive da sola proprio in città, e ha davvero una casa troppo grande, dove una persona in più farebbe comodo. Posso rimanere lì finché non nasce, dopodiché si vedrà. Tra l’altro ci sarebbe anche un lavoro temporaneo che mi aiuterebbe con le spese e … Insomma, il resto.” Wayne ascoltò la sorella e annuì, con un’espressione che certamente non esprimeva altro che dubbiosità. Alzò poi lo sguardo al cielo e, deglutendo, guardò Liz e replicò: “Pare che sia quindi tutto deciso, no?” Attese che la cameriera lasciasse il nuovo bicchiere di whisky sul bancone e poi lo portò al cielo e, rivolgendo un’occhiata malinconica alla sorella, esclamò: “Alla tua, Elizabeth Munson. Sperando che un giorno Hawkins sia di nuovo casa tua.”
 
Quando i due fratelli uscirono dal locale, l’aria si era fatta più pungente, ma le stelle in cielo sembravano brillare ancora di più rispetto a poche ore prima. Liz si infilò immediatamente nel maglione extra-large che i Sinclair le avevano lasciato, assieme ad altri vestiti che senz’altro l’avrebbero aiutata ad attraversare quelle giornate fredde, in attesa di avere le risorse per creare un guardaroba modesto. Wayne, dal canto suo, chiese a Liz di seguirlo fino all’auto, che aveva preso in prestito, con il benestare del suo capo, dall’officina: quando aprì il baule, Elizabeth non poté credere ai suoi occhi. Davanti a lei c’erano due sacchi dai quali sporgevano dei tessuti che conosceva molto bene: quelli erano i suoi vestiti! Era tutto ciò che aveva lasciato negli armadi della sua ormai vecchia casa, perché Christopher non le aveva dato nemmeno la possibilità di rimediarne alcuni, prima di uscire per sempre.

“Wayne! Io non so cosa dire …” Esclamò Liz, visibilmente commossa: guardò il fratello che, nascondendo un sorriso compiaciuto, alzò le spalle. Lei dal canto suo non riuscì a trattenersi e lo afferrò in un abbraccio che Wayne non poté far altro che ricambiare, seppur in modo impacciato. “Non devi dire nulla. Quel poco che mi è concesso fare per mia sorella … Lo farò, sempre.” Si sciolsero dall’abbraccio, mentre lui continuò a raccomandarsi con la sorella di essere prudente e di tornare ad Hawkins, qualora le cose si fossero messe male.

“Non preoccuparti Wayne. Starò bene. Sopravvivrò da esiliata. Inoltre non sarò mai sola, giusto?” E con quella frase, srotolata con apparente leggerezza e al contempo estrema sicurezza nel proprio futuro, Liz salutò il fratello, trascinando i sacchi ricolmi di vestiti verso la camera che aveva affittato, e che il giorno dopo avrebbe lasciato, alla volta di Dallas.
Wayne Munson salì in macchina e, prima di partire, guardò dal finestrino quella figura apparentemente fragile, nascosta in quel maglione enorme, che da un momento all’altro si sarebbe trovata a prendersi cura di una famiglia tutta sua, nemmeno un anno dopo dall’essere stata cacciata da quella d’origine. E un filo di magone, ricacciato faticosamente nel profondo, segnò la notte di Wayne Munson, che per la prima volta nella sua vita aveva davvero paura di non rivedere il volto di sua sorella.  Ma era una scommessa che il destino lo aveva costretto ad accettare.

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Capitolo 4
*** Here in Dallas ***


Here in Dallas

All’improvviso sembrava di essere in un altro universo, o semplicemente in una diversa stagione.
Elizabeth Munson era arrivata a Dallas nel gennaio 1965, dopo essere riuscita, a malincuore, a salutare i suoi affetti più stretti ad Hawkins: suo fratello Wayne, l’amica Davina Sinclair e il fratello che erano stati accoglienti, così come i genitori dei due, che addirittura le avevano indicato un amico e medico fidato sul quale contare in Texas. Purtroppo però, a nulla era servito lasciar trascorrere le settimane per avere un contatto di qualsiasi tipo coi genitori, che erano rimasti nell’ombra e chissà, forse nemmeno sapevano delle intenzioni di Liz. In ogni caso, nessuno dei due l’aveva più cercata.
Il viaggio per Dallas era stato lungo e pieno di pensieri, che venivano temporaneamente bloccati grazie a qualche ora di sonno, ad intervalli più o meno regolari: man mano che Liz si avvicinava alla città texana, il cielo si faceva sempre più terso e le temperature dal finestrino, apparivano molto più gradevoli di quelle di Hawkins.

Ecco perché nel marzo 1965, dopo nemmeno due mesi dal suo trasferimento, Elizabeth Munson aveva l’impressione di avere realmente cambiato vita, cominciando dal clima e dalle luci che illuminavano la città: non poteva trattarsi di una primavera anticipata, semmai di regolari temperature che i texani ormai davano per scontato. E Liz letteralmente fremeva per raccontare, a chi incrociava sul suo percorso, di quanto l’inverno di Hawkins fosse rigido, grigio e pungente: era stato proprio questo uno dei primi temi affrontati con il dottor Edward Halliwell, un signore gioviale che aveva su per giù l’età di suo padre Christopher. Ma con quest’ultimo il medico originario dell’Indiana aveva ben poco a che fare: aveva una capigliatura alla Kennedy, indossava persino gli stessi occhiali da sole, dei Ray-Ban Wayfarer che lo facevano sembrare più giovane. Gli occhi erano brillanti e pieni di vita, di colore verde, che avevano subito intercettato Liz quando era scesa dall’ultimo autobus che l’aveva accompagnata a Dallas.

“Benvenuta signorina Munson, sono il dottor Halliwell, Edward Halliwell.” Si presentò immediatamente, porgendole la mano e un sorriso genuino: appena ascoltate le prime parole, Liz fece un sospiro di sollievo, riconoscendo un accento senza dubbio più familiare di quello che le aveva tempestato le orecchie da quando aveva messo piede in Texas. Liz aveva ricambiato timidamente il sorriso, ma per la prima mezz’ora di viaggio, a bordo della Ford nera del dottor Halliwell, aveva dato l’impressione di essere estremamente taciturna.
“Gradevole il tempo qui a Dallas, eh? Scommetto che lei non è abituata a temperature così miti ad Hawkins.” Esclamò improvvisamente il medico, che non sembrava assolutamente in imbarazzo a causa del silenzio della ragazza: effettivamente quell’osservazione generò in Liz un entusiasmo genuino, generatosi proprio dalla sua sorpresa nel percepire l’aria, la luce e il colore del cielo in un modo totalmente diverso rispetto a pochi giorni prima. E fu così che i due cominciarono a parlare, ma senza menzionare il casus belli che aveva portato Liz in quella città: Edward Halliwell aveva avuto un colloquio telefonico molto lungo con i signori Sinclair, e aveva compreso la delicata situazione e, soprattutto, quanto quella ragazza dagli occhi vivaci, avesse bisogno di un aiuto e di un nuovo inizio.
La casa in cui Elizabeth entrò era poco distante da Dealey Plaza, che era assolutamente raggiungibile a piedi: non appena l’automobile del dottor Halliwell si fermò davanti alla dimora, Liz non riuscì a trattenere un’espressione di stupore. La casa era davvero enorme, in pieno stile vittoriano, e sembrava avere non solo un piano superiore ma addirittura una mansarda: molto probabilmente quella sarebbe stata la sua temporanea camera da letto, in modo da non dare disturbo alla vecchia zia di cui appunto le era stata fatta menzione.
In realtà ciò che accadde il giorno in cui Elizabeth Munson entrò a casa degli Halliwell fu una sorpresa dietro l’altra: la zia del medico era una donna di inizio secolo, che aveva sposato in giovanissima età un generale dell’esercito, il quale aveva perso la vita durante la Seconda guerra mondiale. Da quel giorno in poi Eleanor Halliwell era rimasta da sola, in una casa davvero troppo grande per se stessa: non aveva avuto figli, anche se così trattava il nipote, che aveva deciso di trasferirsi in Texas proprio per starle vicino in caso ne avesse avuto bisogno.

Eleanor Halliwell era sembrata a Liz, almeno inizialmente, una donna molto silenziosa e seria, attenta ai movimenti degli ospiti come una vecchia sentinella: per questo motivo la giovane si sentì subito in soggezione e timorosa di rivelare la sua scandalosa storia a quella signora con la quale avrebbe dovuto vivere per chissà quanto altro tempo. Senza dubbio fino a settembre, e l’anno era appena iniziato. In realtà le apparenze ingannano, contrariamente a quel che Christopher Munson aveva sempre cercato di inculcare ai figli, giudicando i ragazzini per strada vestiti in modo inconsueto, o le amicizie della figlia minore, per citarne un’altra: e fu così che ben presto la vecchia Eleanor si rivelò una vera sorpresa per Liz. Nonostante fosse una signora nata ad inizio secolo, era di ampie vedute: aveva votato i Democratici nelle elezioni di fine ’60, e non perché fosse spinta dalla passione cattolica (al contrario del capofamiglia Munson) ma perché credeva sul serio che i fratelli Kennedy avrebbero, in qualche modo, cambiato il volto degli Stati Uniti, arrivando a toccare quegli stati del Sud, come il Texas, dove vigeva ancora una forte discriminazione razziale.
Era un tratto di famiglia, questo venne rivelato a Liz prima dal dottor Halliwell, e poi dalla zia stessa: quest’ultima aveva rifiutato, dopo la morte del marito, di conservare il cognome di quest’ultimo, per riguadagnarsi fieramente quello della sua famiglia d’origine, di cui era sempre stata orgogliosa. La morte del suo compagno non l’aveva turbata nel profondo, perché da quando lo aveva sposato, quella casa dove finalmente poteva rimanere da sola o in compagnia del nipote, era stata teatro di violenze che Eleanor aveva dovuto subire senza protestare. Era una forma di gelosia genuina, spiegava il generale quando smetteva di picchiarla, in un raro momento di apparente calma. Invece no, per Eleanor non c’erano dubbi: quello era un uomo di merda.
L’esperienza l’aveva segnata sufficientemente da non desiderare più alcun marito, ma solo la genuina compagnia di persone straordinarie, come reputava suo nipote Edward, e come poi considerò Elizabeth, e anche in breve tempo.

“Cercherò di essere d’impiccio il meno possibile, signora Halliwell. Glielo giuro. Anzi, colga pure l’occasione per lasciarmi qualche compito casalingo: sono una discreta cuoca o meglio, ho cucinato pochissime volte per la mia famiglia ma molte di più a casa della mia amica Davina e … Beh, i pareri sono discordanti in effetti. Mio padre si è rifiutato di assaggiare la cena perché non era stata mia madre a prepararla, e quest’ultima non era così entusiasta di quanto mangiato ma … I Sinclair sembravano contenti la volta in cui ho preparato qualcosa per loro. Quindi chissà …” Elizabeth si bloccò: era davvero troppo presto per parlare a raffica con una signora anziana che probabilmente, almeno all’apparenza, non sembrava voler troppi impicci e men che meno sentire degli sproloqui da parte di una ragazzina che le era piombata in casa da un giorno all’altro. Inoltre Liz era così, si faceva spesso trascinare dall’entusiasmo del momento, dall’idea di un nuovo inizio, di un’avventura o un’esperienza da condividere con qualcuno; dopodiché, fermandosi a pensare un istante, era propensa a zittirsi, complice anche il fantasma del padre che, pur essendo vivo e vegeto, sembrava apparirle inconsciamente per ammonirla o screditarla.
“Sarà graditissimo qualsiasi aiuto tu voglia dare, cara Elizabeth. Ma non preoccuparti, ho una signora tanto gentile che è ormai la nostra governante: viene a fare le pulizie quotidianamente e, se ce n’è bisogno, cucina. Ma assaggerei volentieri anche ciò che prepari tu.” Replicò la signora Halliwell, che si era appena seduta sulla sua sdraio a dondolo, davanti alla grande finestra in vetro colorato e decorato che si affacciava sulla strada principale. Liz sbarrò gli occhi, sorpresa e, dopo aver realizzato, sfoderò un sorriso genuino ma anche carico di un’emozione rara, che difficilmente le capitava di provare in quegli ultimi mesi: la sensazione che potesse essere sinceramente ben voluta la faceva letteralmente andare in visibilio.
La camera da letto che le venne lasciata era in realtà ben lontana dalla mansarda: era una delle stanze più grandi della casa, con un bagno personale comunicante e un letto matrimoniale così grande che Liz non vedeva l’ora di provare, per immergersi dentro e dormire ore ed ore, per recuperare quelle perse nell’ostello dove aveva soggiornato a inizio gennaio. Anche la carta da parati della stanza non le dispiaceva: le tonalità erano delicate e ben si addicevano allo stile della casa; infine la finestra, che finestra! Era enorme e, grazie al divanetto posizionato proprio di fronte, Liz poteva sedersi e ammirare la vista che questa dava su Dallas: in più era un buon posto dove leggere un libro dopo cena. Tutto in quel momento sembrava destarle immagini, progetti, serate ideali da trascorrere in quelle mura: ma il pensiero di settembre e di ciò che stava crescendo in lei, in qualche modo sembrava riportarla violentemente a terra.




“Elizabeth qualsiasi preoccupazione tu abbia, fidati che non è necessaria. Il bambino sta bene.” Dichiarò il dottor Halliwell dopo la visita effettuata, nel marzo 1965: ce n’era stata una anche precedente a quella, ma il medico le aveva accennato che il primo trimestre sarebbe stato piuttosto complesso. Liz si sistemò la maglia e, sospirando, replicò: “Bambino? E’ un maschio quindi?!” Il medico sorrise e, scuotendo la testa, le rispose: “E’ ancora presto per dirlo. Staremo a vedere a maggio se ci sono novità.” Sistemò i documenti sotto lo sguardo vigile di Elizabeth che, mordendosi il labbro inferiore, era chiaramente pensierosa. Oramai, sebbene fossero passati solo pochi mesi, Edward Halliwell riusciva a capire quando la ragazza aveva qualche pensiero per la testa, ed anche in quel caso non se la fece scappare. Incrociò le braccia e, accomodandosi meglio sulla sedia dello studio, domandò: “Cosa ti preoccupa? Hai qualche domanda circa la gravidanza?” Liz scosse la testa e replicò: “No figurarsi, lei è stato chiarissimo dottor Halliwell. Mi chiedevo se non fossi di troppo al deposito libri, insomma … Al colloquio mi è sembrato di fare una buona impressione, ma io non sono abituata a fare una buona impressione, non so se mi sto spiegando. Cioè non sono una cattiva ragazza anzi, ormai l’avrà anche capito, ma faccio davvero fatica ad ispirare fiducia. Mio padre mi ha sempre detto che ci sarebbe stato da lavorare duramente su di me prima di effettuare un qualsiasi colloquio e quindi.” Si bloccò nuovamente, questa volta perché sul serio per lei il discorso era bello che concluso lì: non c’era molto altro da dire. Aveva svolto un colloquio al Book Depository in Dealey Plaza, tra l’altro molto vicino a casa Halliwell e comodo da raggiungere a piedi: la moglie e la figlia del direttore del luogo erano state pazienti del dottore, ed ecco perché era stato possibile per Liz accedere a quella candidatura. Nonostante la raccomandazione, Elizabeth si era recata all’ufficio con la sua gonna migliore, color rosa cipria, e una camicetta a sbuffo bianca che aveva stirato con cura la sera prima, sotto lo sguardo curioso della vecchia zia Eleanor. Il direttore le aveva rivolto qualche domanda, anche relativa all’interesse che Liz poteva avere per la lettura e per la cura dei libri: in quel campo, la giovane Munson non aveva qualcuno che potesse batterla. Era sempre stata un’avida divoratrice di libri, classici e non, di storia come di strategia politica: a Liz piaceva spaziare e viaggiare, almeno con la mente attraverso le righe che leggeva.
“Elizabeth.” La riportò alla realtà così il dottor Halliwell, chiamandola. Lei lo osservò in silenzio, in attesa di una reazione. “Ti devo dare un consiglio, come se fossi tuo padre, anche se ben diverso dal tuo.” Iniziò Edward Halliwell, alzandosi dalla sedia e appoggiando le mani sulla scrivania. “I genitori non hanno la ragione in tasca. Non sempre perlomeno, e avere dei figli non fa di loro persone onniscienti, o soggetti che ci conoscono abbastanza da poter dire con presunzione di cosa siamo capaci e di cosa, invece, manchiamo. Non funziona così.” Liz lo guardò negli occhi, tormentandosi le dita delle mani: era uno dei suoi piccoli tic che si azionava in un momento di tensione o nervosismo.
“A volte nemmeno noi stessi siamo in grado di sapere fin dove possiamo arrivare, e cosa siamo in grado di fare. Ma se ci sono le capacità – e credimi, in questo caso ci sono eccome – non dobbiamo dubitare di noi stessi. Nemmeno un secondo.” Continuò Edward Halliwell, sempre più serio, ma senza distogliere lo sguardo da Liz, che lo ascoltava con un velo di commozione.
“A settembre sarai a tua volta genitore, ed è necessario che tu inizi sul serio a credere in te stessa. Altrimenti come farai a trasmettere a tuo figlio cosa è importante fare per se stessi e per le persone a cui vogliamo bene?” Si fermò un istante e, accompagnandola alla porta, indossò la giacca e concluse: “Il direttore del Book Depository mi ha chiamato. Era entusiasta di te e del colloquio che hai fatto. Ma ne parliamo meglio a casa. Zia Eleanor ci aspetta per cena.”
Per quanto potesse essere stato un breve discorso, Elizabeth seguì il dottor Halliwell con lo sguardo di ammirazione e, forse per la prima volta nella sua vita, fiducioso: se al lavoro, davanti a persone totalmente sconosciute, lei era riuscita a fare una buona impressione, forse su qualcosa suo padre si sbagliava.
E Dallas probabilmente le stava dando davvero una seconda possibilità.

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Capitolo 5
*** All my loving ***


All my loving
 
Non c’era pace al deposito di libri in Dealey Plaza: vi era un continuo via vai di impiegati e operai, che viaggiavano su e giù dalle scale freneticamente, a volte facendo sembrare il tutto una marcia scatenata verso non si sa bene dove. Quando era stata assunta alla fine di marzo, Liz era stata affiancata da una signora prossima alla pensione, poco ciarliera ma molto desiderosa di insegnare le sue mansioni ad una giovane leva: sul finire della primavera 1965 la collega era al suo ultimo giorno di lavoro, e aveva deciso di aiutare Elizabeth a trasferire tutta la sua documentazione in una scrivania che sarebbe diventata ben presto sua. Alla giovane Munson tutto ciò sembrava difficile, se non impossibile, da elaborare.
Era chiaramente un lavoro archivistico e nulla più, ma che le permetteva non solo di sbirciare i vari libri e tomi in arrivo e in partenza, bensì anche di guadagnare abbastanza da potersi permettere, in vista della nascita, un corredo degno di essere chiamato tale. Dava anche un contributo agli Halliwell, sebbene né Eleanor, né Edward fossero particolarmente propensi ad accettarlo: la ragazza si dava da fare anche in casa, più che altro cucinando manicaretti sempre diversi e che nel tempo erano migliorati sempre di più. La sera, prima di andare a dormire, leggeva qualche libro preso in prestito, da accordi, al Book Depository, oppure scambiava qualche chiacchiera con la signora Halliwell e con Edward, le volte in cui rimaneva a cena e attendeva un po’ prima di tornare a casa.
Proprio sul finire di maggio, quando Elizabeth rientrò a casa Halliwell comunicando la notizia dell’ottenimento di una scrivania tutta sua, si levò un’ondata di emozione che a stento tratteneva Eleanor: passare del tempo con una persona giovane che le ricordava una nipote, era qualcosa di raro e che mai avrebbe sognato di avere. Per tale motivo, e anche per il buon cuore di Liz, era difficile non affezionarsi alla ragazza. Dopo aver fatto un brindisi con Edward, quest’ultimo ringraziò per la cena e diede a Liz l’appuntamento per la settimana successiva, per un controllo generale della gravidanza: tutto stava procedendo bene, sebbene la più piccola dei Munson iniziava a sentirsi sempre meno adolescente, e sempre più donna. Tutto sommato quel cambiamento, una volta all’interno del processo, sembrava spaventarla molto meno.

La finestra in salotto, anche dopo cena, era d’obbligo tenerla aperta: dall’esterno giungeva una brezza leggera e rinfrescante, che conciliava sia una lettura, sia qualche chiacchiera. E come di consueto, Elizabeth era seduta su una delle poltroncine soffici della casa, di fronte a Eleanor, che era come sempre sulla sdraio a dondolo, intenta a spegnere una delle sue tante sigarette.
“Mio marito ha sempre odiato il mio fumare.” Ammise la vecchia zia, interrompendo un momento di silenzio tra le due. Liz abbozzò un sorriso. “In realtà erano poche le cose che apprezzava di me, ma questa è un’altra storia. Passata, per fortuna.” Proseguì Eleanor, senza alcun tipo di rimpianto o malinconia. Liz annuì e replicò: “Capisco. Mio padre … Diciamo che non ha mai apprezzato nulla né di me, né di mio fratello. E adesso, pensandoci bene, da un’altra prospettiva … Credo che non ammiri nemmeno mia madre.” Non si sentì di esagerare in quel momento, anzi: raccontando qualcosa della sua famiglia, spinta dalla riflessione della zia Halliwell, improvvisamente le sembrò che il suo punto di vista fosse cambiato. Non c’era più nulla in lei che la riconducesse a quella ragazza solita ad alternarsi tra scuola, compiti, amici e festicciole, quindi troppo impegnata per rendersi conto di quel che traspariva nelle quattro mura di casa: al contrario, si sentiva diversa, in crescita. Consapevole dei limiti suoi come quelli di suo padre, che fino a quel momento era stato un fantasma imperante e costante.
“Le cose si scoprono col tempo, cara Elizabeth … Man mano che si cresce, ci si consapevolizza.” Dichiarò Eleanor e, dopo un breve momento di silenzio, guardò negli occhi la ragazza e le chiese: “Ti è capitato di trovare un ragazzo davvero d’oro? Una persona sulla quale potrai contare sempre?” Liz ricambiò lo sguardo e, sorridendo, annuì: “Mio fratello Wayne. E’ un ragazzo molto taciturno, sulle sue … A vederlo così è facile pensare che non sia affettuoso o particolarmente attento ma in realtà lo è. Anche se fa fatica ad abbracciarmi, ma ci penso io a rimediare.” Risero entrambe, mentre Eleanor, annuendo, replicò: “Beh, avere un fratello dà valore aggiunto alla propria vita. Il mio, nonché padre di Edward, era davvero una persona incredibile. Buona come poche, di rara gentilezza: purtroppo anche in questo caso, la guerra lo ha portato via. Mio marito è stato ritrovato, ma di mio fratello … Non si hanno più avuto notizie.” Liz sospirò: “Mi dispiace, signora Halliwell.”
Eleanor sorrise e disse: “E’ passato ormai del tempo, ma a mio fratello vorrò sempre bene. E invece, se non sono troppo inopportuna – ma sono una donna curiosa, lo sono sempre stata! – posso chiederti se hai più avuto modo di contattare quel ragazzo …?”
Liz restò per un attimo impietrita, sorpresa dal fatto che la signora Halliwell le avesse chiesto proprio di lui, quando nessun altro lo aveva fatto fino a quel momento. Anzi, a dirla tutta, proprio considerato che nessuno, nemmeno Wayne, le avesse mai chiesto con chi si fosse ritrovata quella sera – e nei pasticci – l’aveva portata a pensare a lui raramente, e a considerarlo quasi come un vecchio ricordo, più simile ad un sogno avuto in dormiveglia che altro. Iniziò a tormentarsi le dita delle mani e, tossicchiando, rispose: “No, non saprei nemmeno come e dove trovarlo. Era più grande di me, aveva già finito gli studi … Anzi, non li ha mai conclusi ora che ci penso. Era a quella festa, ma io l’ho notato qualche anno fa, quando ero ancora una bambina. Lui non mi aveva mai considerata, fino a quella sera. E per me è stato tutto così facile, così … Inevitabile.” Sospirò, lasciandosi cadere in un silenzio interrotto solo da una risata leggera di Eleanor, che commentò: “E’ sempre così. Anche io a suo tempo ricordo di aver avuto una cotta, un amore platonico forse … Non ho mai avuto il coraggio di avvicinarmi a lui, era figlio di amici di famiglia. Poi mi hanno presentato quello che sarebbe diventato mio marito e … I miei genitori hanno praticamente scelto per me.” Si interruppe anche lei, con una punta di amarezza. “Ma non parliamo delle mie vecchie vicissitudini, che appunto sono passate. Com’è lui?” Non c’era imbarazzo nel raccontare alla signora Halliwell di quel ragazzo che l’aveva lasciata nei guai, inconsapevolmente: forse anche perché la donna non sembrava interrogarla con lo sguardo accusatorio che invece in famiglia aveva incontrato. E poi perché, in fin dei conti, parlarne la faceva sentire più leggera e, paradossalmente, anche più a contatto con la sua vita, e la sua storia.

“Si chiama Robert. E’ un tipo particolare, disadattato se vogliamo usare i termini di alcuni della scuola ma … Io non ci ho mai visto in lui nulla di più straordinario: l’ho conosciuto che suonava in un locale alcuni brani dei Beatles, ma anche dei Rolling Stones … Insomma, un tizio interessante. Mi piaceva il modo che aveva di suonare il suo basso, anche se è uno strumento che molti giudicano stupidamente superfluo. Penso che ora abbia ventidue o ventitré anni, non ricordo … So solo che finalmente a quella festa mi ha notata. Non stava suonando, sebbene fosse invitata tutta la sua band: era il compleanno del fratello maggiore di Davina, la mia amica, che compie gli anni a inizio dicembre. C’era anche della birra buona, e a me piace tanto: proprio lì al banco ho trovato lui, che si stava già scolando la seconda della serata.” Scoppiò a ridere genuinamente, perché era bastato raccontare con parole semplici e fluide, per riportare un ricordo alla realtà concreta. E quella sera, nel narrare di Robert alla signora Halliwell, Liz ebbe la sensazione che del compleanno di William Sinclair non aveva più vergogna: non avrebbe mai più parlato della sera in cui rimase incinta con vergogna, o dispiacere, ma semplicemente con la consapevolezza che quella era parte della sua storia, e del suo bambino.

 

 
Erano quasi le undici e mezza quando, dopo quella chiacchierata cuore a cuore, Liz ed Eleanor decisero di andare a letto. La giovane Munson però era ancora bersagliata di emozioni ed immagini per le quali era difficile prendere sonno. Si sedette perciò sul suo divanetto davanti alla finestra della camera da letto, e continuò a pensare a Robert, ma senza nostalgia.
Il fatto che fosse sempre stato così misterioso, di poche parole persino coi suoi compagni di band, lo aveva reso ai coetanei di Hawkins un estraneo, qualcuno che non c’entrava proprio nulla con la cittadina e con gli equilibri di quel momento. Ma Robert, per ciò che aveva potuto apprendere in quegli anni di “cotta silenziosa” Liz, non era mai stato preoccupato di ciò che la gente raccontava di lui per sentito dire. Lavorava fuori città, nonostante ad Hawkins molti dei ragazzi del liceo lo conoscevano per la vendita illegale di fumo: forse anche quell’aspetto aveva convinto Liz a non lasciarlo perdere, e poi sempre dei sogni si stava parlando. La festa di Sinclair non era stata prevista: Elizabeth, secondo Christopher, nemmeno doveva andarci. Era stato poi Wayne, aiutato dalla madre Ella, a convincere il padre di lasciare andare la figlia minore almeno una volta in quell’inverno ad una festa innocente. E lì, lei aveva ritrovato Robert, che incredibilmente si ricordava di lei.
“Tu sei la piccola dei Munson! Quella che poco tempo fa veniva ai nostri concerti e stava seduta in un angolo fingendo di divertirsi!” Esclamò senza ritengo Robert, quando Liz si avvicinò a lui per prendere una birra. “Con la differenza che io mi divertivo davvero ai vostri concerti Bob. Mi sa che ti stai confondendo con quelle tizie che fingevano di amare quella musica solo per portarsi a letto uno di voi, ma dettagli.” Replicò lei, senza aspettare. E da lì tutto si era generato: il ragazzo era scoppiato a ridere di gusto, l’aveva guardata negli occhi realizzando che anche la piccola Munson era cresciuta, ed era diventata una bellissima ragazza. Certo, forse un po’ particolare, distaccata e diversa dalle altre, ma comunque degna di nota.
Elizabeth sospirò, guardando Dallas dalla finestra e ripensando un attimo a cosa sarebbe potuto succedere se fosse corsa da Robert, anziché dalla famiglia, a confessargli di essere incinta: probabilmente se ne sarebbe fregato o forse, se la sarebbe data a gambe. Avrebbe potuto biasimarlo? La vita non era semplice nemmeno per lui, nonostante si fosse lasciato alle spalle il liceo. La notizia di un figlio in arrivo poteva solo complicare ulteriormente la vita di un ragazzo che, in fin dei conti, lei aveva a stento conosciuto. Liz accantonò il pensiero di Bob e, alzandosi, decise di andare alla sua piccola scrivania: prese un foglio di carta e una busta, e decise di concludere la sua serata elaborando una lettera da inviare il mattino successivo a suo fratello Wayne, in officina, dove le era stato chiesto di mandare sue notizie (per evitare che tutto finisse nelle mani del padre).
 
 
 
“Caro Wayne,
qui a Dallas le cose sembrano andare finalmente nel verso giusto. In realtà, da quando sono qui, tutto appare migliore, e fluido. Certo non è facile alternare il lavoro al Book Depository alle visite di controllo che devo fare … Ma la famiglia del dottor Halliwell è un vero e proprio dono. Eleanor, la zia con la quale abito al momento, è una signora davvero moderna, al passo coi tempi. A papà verrebbe un infarto, sia a sapere di ciò, sia a conoscere il mio lavoro. Ci pensi che sono proprio dove Oswald ha sparato al presidente Kennedy nemmeno due anni fa? Anche per questo c’è un gran andirivieni di gente lì al Book Depository: stanno facendo ancora delle indagini, ma io finalmente ho un ufficio tutto mio, perché la collega è andata in pensione.
La gravidanza procede bene, anche se ancora non so esattamente il sesso del bambino. Sei ancora convinto che sia un maschio? Io non lo so, ma non ho preferenze. L’importante è che stia bene. A tal proposito, vorrei tanto che fossi qui con me, nel momento in cui nascerà. Per me è importante Wayne, perché sei mio fratello e tutto ciò che mi è rimasto nella vita. Mi manchi molto, ma non Hawkins, né papà. Mamma sì, ma il suo silenzio è qualcosa che forse non potrò mai dimenticare o perdonarle. Sono esagerata, secondo te?
Spero invece che tu stia bene, e che le cose in casa siano migliorate con la mia partenza. A proposito, come procede il tuo progetto di rimettere in sesto un caravan – o quel che è, non me ne intendo e lo sai – e andarci ad abitare? Magari riesci ad ultimarlo prima che io partorisca, anche se il pensiero di tornare ad Hawkins mi spaventa e non mi piace. Il lavoro che ho adesso mi garantisce un’entrata fissa mensile, anche dopo la nascita del bambino: vogliono che io rientri assolutamente in ufficio non appena mi sarò ripresa. L’idea di abitare insieme a te mi elettrizza però, quindi chissà? Al momento ciò che mi interessa è che tu sia in salute e che, quando sarà ora, verrai a vedere tuo (o tua?) nipote: ci tengo molto, anche perché assieme a me, tu sarai tutto ciò che è famiglia. E ne avrà bisogno, più che mai.
Ora vado a letto.
Con tutto il mio affetto,
Liz
 

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Capitolo 6
*** It's all about the Kennedys ***


It’s all about the Kennedys
 
Era una mattinata di lavoro intenso in officina ad Hawkins: dall’ufficio dello sceriffo erano arrivate due automobili che necessitavano di riparazioni abbastanza veloci, ma comunque da farsi in giornata. In  più, come al solito, qualche collega a casa che si dava per malato il giorno stesso non mancava mai. Wayne era arrivato in officina puntuale, sorprendendosi quasi del fatto che, pur essendo presto, l’aria ad Hawkins sembrava molto più mite rispetto a qualche giorno prima: evidentemente, anche in quella cittadina dimenticata da Dio la bella stagione stava timidamente facendo il suo arrivo.
“Munson è arrivata una lettera per te.” Bofonchiò il capo, già sudato e sporco di olio motore. “Mi spieghi perché il postino adesso ha il brutto vizio di venire qui al posto di casa tua?” Continuò, scuotendo la testa e proseguendo il suo lavoro. Wayne ormai conosceva il soggetto, e si risparmiò qualsiasi risposta o spiegazione, perché il suo capo non aveva voglia di ascoltare storie: faceva domande, poi tornava a smanettare nei cofani di qualche automobile.
Sulla scrivania, nell’ufficio accoglienza clienti, c’era effettivamente una busta: il timbro postale non sembrava dell’Indiana. Afferrandola, Wayne comprese subito il mittente e scartò immediatamente l’involucro, leggendo velocemente e promettendosi di prendere del tempo, verso sera, per godere a pieno del racconto della sorella. Al lavoro immediatamente su una delle due auto dello sceriffo, Wayne abbozzò un sorriso sotto i baffi, ripensando alle parole lette repentinamente che conteneva quella lettera: all’improvviso le preoccupazioni per la sorella si affievolirono un po’, pensando al fatto che avesse trovato un lavoro e una sorta di stabilità, ma soprattutto … Una casa in cui sembrava che Liz fosse accettata e benvoluta. Questo, non per colpa ovviamente di sua sorella, non era scontato.
Per tutta la giornata di lavoro Wayne Munson fu accompagnato dal pensiero di sua sorella e da ciò che in quella lettera era scritto; in realtà aveva già messo in conto di andarla a trovare, ma il suo capo non  gli aveva concesso nemmeno pochi giorni di riposo se non a settembre. Quel mese, teoricamente, doveva nascere suo nipote: sì, non c’era dubbio, Wayne era certo che sarebbe stato un maschio.

Il riscatto degli uomini della famiglia Munson.

Tutto sommato quindi settembre non sarebbe stato un brutto momento per lasciare la città per un paio di settimane, ma comunque era troppo presto per poter fare dei programmi e, ancora di più, alimentare le speranze di Elizabeth, che sicuramente non vedeva l’ora di rivedere suo fratello. Di rientro da lavoro, Wayne ebbe cura di nascondere bene la lettera arrivata in officina, con l’obiettivo di rispondere adeguatamente dopo cena, in camera, e lontano dagli occhi indiscreti di Christopher Munson. Quest’ultimo, quella sera, era non stranamente di pessimo umore: la causa che stava sostenendo assieme ad alcuni colleghi era più spinosa del previsto e lo lasciava insonne da ormai svariate notti. E proprio perché, per la prima volta da quando sua figlia era andata via di casa, Christopher non riusciva a dormire per nulla (e solo a causa del lavoro), ebbe finalmente modo di vedere sua moglie Ella nelle sue stesse condizioni. In genere si metteva a letto con  lui e poi, ad una cert’ora, usciva dalle lenzuola per sgattaiolare in cucina a fare non si sa bene cosa, secondo la testa di Christopher.


Finita la cena, svoltasi in un silenzio quasi da film, Ella iniziò a sparecchiare sotto l’occhio vigile di Christopher, che sembrava osservare entrambi i familiari con disappunto. “Mi spieghi cosa fai tutte le notti in cucina?” Chiese improvvisamente il capofamiglia, con un tono decisamente polemico. Ella lo guardò di sfuggita e, dopo aver riposto gli ultimi piatti nel lavello, fece spallucce. “Il dottore mi ha detto che devo prendere delle medicine, e sempre ad una cert’ora. Nulla di grave Christopher.” Replicò lei, quasi flebilmente. L’uomo si irrigidì e borbottò: “Ed io invece avevo l’impressione che l’orario l’avessi scelto tu per non farti vedere, non  il medico. Pensi sia scemo?” L’ultima parola aveva subìto un’inclinazione amareggiata, e i toni si stavano decisamente alzando. Wayne sospirò e disse: “Non penso ci sia da arrabbiarsi papà. La mamma sa certamente quello che fa, e pure il dottore.” Christopher Munson si voltò velocemente verso il figlio e, sgranando gli occhi esclamò: “Tua madre con ogni probabilità prende dei sonniferi alle mie spalle e secondo te è normale?! In questa famiglia è rimasto qualcuno con un po’ di sale in zucca o no?!” Le finestre potevano praticamente tremare, a giudicare dai toni che stavano aumentando a dismisura. Ella si era impietrita, e aveva la testa abbassata: non sembrava volesse replicare.
“Come può una madre dormire sonni tranquilli sapendo che sua figlia è chissà dove?” Inaspettatamente, dopo pochi minuti di silenzio, Ella alzò lo sguardo, rigato dalle lacrime e parlò: fissava negli occhi suo marito, probabilmente umiliata dall’ennesimo attacco rivoltole, insostenibile considerato il peso che quegli eventi stavano avendo su di lei. Wayne si voltò verso sua madre, quasi incredulo: ricordando le parole che Liz gli aveva rivolto nella lettera proprio circa Ella e il suo atteggiamento, certamente quella scena meritava di essere riferita nella risposta che le avrebbe inviato la mattina dopo.
Christopher Munson era ancora più sorpreso del figlio, e stava guardando sua moglie mentre il viso assumeva un colorito sempre più acceso: “Tua figlia è diventata lo zimbello di questa città e la vergogna di questa famiglia! Non devi nemmeno più considerarla parte dell’albero genealogico, e nemmeno un posto a tavola per le feste. Qui funziona così. Sonni tranquilli! Quelli non dovevi farli la volta in cui hai acconsentito a mandarla a quella maledetta festa! Di quei Sinclair che Robert Kennedy fra poco porta alla Casa Bianca con sé, alla faccia delle premesse!” Iniziò ad urlare, ma senza muoversi dalla sedia: era incredibile quanto potesse uscire dalla sua bocca, e quanto al contempo il suo corpo rimanesse fisso e apparentemente imperturbabile. “Sul serio, dove pensate che sia rimasta incinta quella dannata?! Eh? A quella festa schifosa, ecco dove! E la colpa sarebbe mia?!” Proseguì, senza nemmeno preoccuparsi di sua moglie, che stava piangendo sempre più rumorosamente.

Wayne sospirò e, stringendo entrambe le mani per rilasciare quella tensione che avrebbe voluto volentieri scaricare su suo padre, si girò verso quest’ultimo e ribatté, mantenendo il tono piatto: “Hai finito?” Di nuovo, il silenzio. Suo padre strabuzzò gli occhi, chiaramente fuori di sé per ciò che stava accadendo in quella casa, dove era sempre solito far regnare la tranquillità e il rigore. Wayne Munson non attese repliche, e decise di infierire un altro colpo al suo avversario: “Hai finito di straparlare, per una volta in questa vita? In questa famiglia che stai riducendo a brandelli?!” Christopher Munson aprì la bocca, ma Wayne non era intenzionato a farlo parlare, non ancora. A differenza di suo padre, si alzò dalla sedia e, avvicinandosi a sua mamma, le prese entrambe le mani e guardandola negli occhi, le disse: “Elizabeth sta bene, è al sicuro. E’ in buone mani.” Ella scoppiò nuovamente a piangere, stavolta rincuorata dalle parole che suo figlio aveva appena pronunciato, e che le davano speranza, almeno per sua figlia, alla quale non aveva avuto il coraggio di dare conforto.
Per Christopher Munson quello era l’apice dell’assurdo: continuò a guardare la scena esterrefatto e, dopo aver sentito suo figlio pronunciare tali parole, balbettò. “Come fai … Come fai a sapere dove si trova quella?!” Wayne lasciò le mani della madre e, tornando a guardare suo padre, con una smorfia di disprezzo, replicò: “Quella ha un nome. Elizabeth Munson, Cristo! Ed è mia sorella e tua figlia!” Tuonò, questa volta per dare una direzione definitiva a quella conversazione. Poi proseguì, abbassando la voce: “So benissimo che nessuno dei due utilizzerà queste informazioni a dovere, ma non voglio rimpianti. Mamma è tua succube e tu chiaramente hai fatto la tua misera scelta.” Si fermò un attimo, per poi riprendere il discorso: “Elizabeth è a Dallas. Accolta da una famiglia meritevole e seguita da un medico. Lavora al Book Depository  e ha appena ottenuto un ufficio tutto suo. Per la prima volta sento mia sorella felice, e meno critica nei confronti di se stessa. Qualcuno di questa famiglia doveva brillare, prima o poi.” Le ultime parole furono quasi sputate da Wayne, che era stato ascoltato attentamente da Ella, ma anche da Christopher, il quale era ormai del colore della lava.
 
“Non so se essere più disgustato dalle tue parole, dal fatto che lei si trovi a Dallas o dal suo lavoro. Quella l’ha fatto per indispettirmi, cosa credete? Va a lavorare dove hanno sparato al Presidente Kennedy! E’ talmente palese che quella ragazza voglia farmi morire di un colpo secco, che però a nessuno in questa famiglia importa.” Esclamò Christopher Munson, sbattendo sul finale la mano sul tavolo, e facendo trasalire Ella, che continuava a singhiozzare. “E comunque su una cosa hai ragione, ragazzo. Noi non andremo a Dallas. Non andremo in alcun luogo dove lei sarà. Mai. E se vuoi continuare a inseguire quell’anima, libero di farlo, ma non davanti al mio naso.” Concluse, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi al salotto.
Wayne guardò sua madre, la quale, a sguardo basso, aveva aperto il rubinetto per lavare le stoviglie della cena. Scosse la testa e, prima che suo padre si mettesse sul divano, replicò: “Non c’è pericolo. Ho raggiunto un accordo col mio capo e il caravan è quasi pronto. Toglierò il disturbo prima che voi ve ne accorgiate. E con me siete a quota due figli.” Prese il pacchetto di sigarette che aveva lasciato sulla mensola e, prima di uscire sul retro a fumare rivolse uno sguardo ancora ai suoi genitori: “Comunque papà, non tutto gira attorno ai Kennedy.”
Sbatté la porta e si appoggiò alla cancellata: mentre inspirava il fumo della sigaretta appena accesa, rivolse uno sguardo alle stelle, luminose quanto la sera in cui aveva salutato sua sorella. La lettera che avrebbe scritto prima di andare a letto sarebbe stata ricca di notizie: poteva finalmente dirle che il caravan era davvero quasi realtà, mancavano pochi aggiustamenti e anche lui sarebbe uscito di casa. Poteva addirittura pensare di recarsi a Dallas con quello a settembre, per farle una sorpresa. Ma quest’ultimo dettaglio Wayne l’avrebbe omesso.

Sorrise.
Forse, tutto sommato, il nuovo inizio non sarebbe stato solo di sua sorella.

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Capitolo 7
*** It was cold and there was you ***


It was cold and there was you 

“William si è intestardito, e non ha voluto sentire storie. Credici! A me sembra assurdo. E' l'unico della famiglia che compie gli anni in inverno, e si ostina a proporre tutti gli anni dei posti assurdi dove festeggiare. Che vuoi che ti dica, almeno c'è da bere.” 

Davina Sinclair aveva letteralmente estratto a forza dal suo armadio almeno dieci vestiti, senza averne trovato ancora uno che la convincesse del tutto: Elizabeth, che era la sua migliore amica, di quelle scene ormai ne aveva viste tante, e tutte a ridosso di qualche festa o compleanno. 

“Forse proprio perché è l'unico che compie gli anni in inverno si convince a scegliere posti generalmente estivi dove organizzare il tutto. E comunque che vuoi di più? E' pure una bella serata, il che è strano considerato che siamo al 5 di dicembre.” Elizabeth non credeva ancora all'idea che i suoi genitori avessero, per una volta, acconsentito a mandarla alla festa di William Sinclair, il fratello maggiore della sua migliore amica: tra l'altro si parlava del suo ventesimo compleanno, e sicuramente la maggior parte degli invitati sarebbe stata più grande di lei e di Davina. Probabilmente il giorno dopo avrebbe ringraziato sua madre, che era riuscita a convincere assieme al figlio più grande, Wayne, l'intransigente Christopher Munson a lasciare libera la figlia quella sera. 

La logica comunque quello voleva: era sabato in fin dei conti, ed era sempre stata abituata ad uscire, anche solo per una passeggiata. Quella festa però portava con sé chiara fibrillazione nell'aria, probabilmente perché per la prima volta nella sua vita, Liz Munson sarebbe stata ad un compleanno con fiumi di birra e ragazzi più grandi di lei. 

“Mi puoi svelare il tuo segreto? Come hai fatto a scegliere così velocemente cosa indossare stasera?” Chiese esasperata Davina all'amica, indicando la gonna nera a tubino che cingeva alla perfezione i fianchi di Elizabeth, e quella camicetta grigio scuro a pois neri che, pur essendo inserita all'interno della gonna, presentava qualche arriccio. 

Liz sorrise e replicò: “E' stato tutto merito del tuo prestito scarpe. Sai benissimo che se avessi indossato quelle che mi hanno comprato i miei poco tempo fa, questa gonna sarebbe ritornata diretta nell'armadio.” Mosse i piedi allegramente, mentre era ancora stesa sul letto di Davina. 

Non era tutto merito suo, alla fine: Christopher Munson aveva controllato ben bene cosa stava pensando di indossare sua figlia quella sera, e aveva subito incaricato la moglie Ella di proporle il paio di scarpe bianche, piuttosto sportive, che non aveva ancora mai utilizzato. 

Ma se da una parte il padre era intransigente e attento ai movimenti della sua famiglia, Elizabeth aveva imparato ad essere un passo avanti a lui: aveva già nascosto la sera prima, nello zaino di scuola, la gonna e la camicetta che già era convinta di indossare alla festa di William Sinclair, d'accordo con Davina, che le aveva immediatamente promesso un paio di scarpe col tacco nere, comprate col permesso della signora Sinclair. 

“Vero.” Ammise Davina, abbozzando una smorfia non appena il suo sguardo ritornò nell'armadio. “Temo che punterò sul trucco questa sera. Mentre tu già sai che non potrai tornare a casa senza aver conquistato qualcuno.” 

Entrambe scoppiarono a ridere, specialmente perché sapevano tutte e due che quella festa al lago di Hawkins, allestita debitamente da William e dagli amici con tanto impegno, sarebbe stata meravigliosa con o senza aspiranti fidanzati. 

Del resto, nessuna delle due aveva grandi progetti: chi mai li avrebbe avuti a quell'età? 

 

 

“Grazie signor Sinclair del passaggio.” Disse Elizabeth, uscendo dall'auto del padre di Davina, che aveva deciso quella sera di diventare l'autista ufficiale della famiglia: quest'ultimo ricambiò con un sorriso e salutò le ragazze, con le consuete raccomandazioni. Liz era davvero contenta, nonostante il freddo fosse quasi il protagonista principale di quella serata: aveva scelto un cerchietto bombato dello stesso colore della camicetta, e i quintali di lacca che erano stati spruzzati sui suoi capelli garantivano una tenuta perfetta di questi, a prova di qualsiasi ventata sgarbata dell'inverno. 

Davina invece aveva insistito per il trucco, che Liz non indossava praticamente mai, per paura di non sapersi agghindare bene e risultare ridicola: quindi quella sera si era affidata totalmente all'amica, che aveva provveduto a riempire le sue labbra, carnose e regolari nella loro forma, di un rossetto rosso acceso. Era stata poi sempre Davina a convertirla all'applicazione dell'eyeliner e del mascara, che rendeva gli occhi scuri e profondi di Elizabeth, magicamente più grandi ed intensi. 

 

“Per fortuna che le scarpe che ti ho dato hanno un tacco affrontabile. Stai comunque attenta che c'è fanghiglia in giro.” Borbottò con disappunto Davina, guardandosi attorno per cercare suo fratello, il quale iniziò a sbracciarsi dopo poco, rovesciando un po' della birra che aveva in mano. 

“Finalmente siete arrivate! Lì potete prendere da bere, dall'altra parte John ha allestito il tavolo degli stuzzichini. E per quanto riguarda la band...” Si interruppe un istante, perché dagli alberi si levò una voce: “... Non hai certo consultato noi, Sinclair!” 

Liz non riconobbe subito la voce ma, scrutando nel buio, non appena la sagoma si avvicinò ai lampioni, ebbe un sussulto: Robert Rossdale, il bassista disadattato più conosciuto ad Hawkins, e forse anche l'unico. Liz restò impietrita, a fissarlo: lo aveva ascoltato svariate volte, specialmente quando era più piccola. Lui ovviamente, addirittura poco più grande di William Sinclair, non l'aveva nemmeno mai considerata. 

“Sì è vero, piccolo dettaglio. Quest'anno ho dato una chance agli amici di John, che suonano dei brani inediti. Denunciami, Bob.” Ammise William, alzando gli occhi al cielo. Davina sogghignò, mentre Robert, abbozzando un sorriso, replicò: “Ci penserò, Sinclair. Ci penserò.” 

Dopo pochi secondi, sempre quel bassista aggiunse: “Fanculo al suonare stasera! Ho più scuse per bere birra e divertirmi. A proposito, ne vado a prendere subito una.” E squagliò, con un sorriso gigantesco sul viso. 

Elizabeth era rimasta zitta, ma per fortuna fu Davina a scuoterla da quell'incontro, invitandola al banco delle bevande. 

“Per me una birra grazie.” Mormorò con un sorriso quasi imbarazzato Liz, mentre uno dei compagni di William si era offerto a servire da bere agli invitati (e ad approfittarne quando non c'era nessuno al banco). 

Davina si era già volatilizzata, ma Elizabeth non aveva assolutamente nulla da dire: sapeva che la sua amica avrebbe colto qualsiasi occasione per conoscere gente, e probabilmente era già riuscita nel suo obiettivo. Quanto a lei, forse sarebbe rimasta per i fatti suoi tutta la serata, ma almeno non con il bicchiere vuoto. 

Lì a fianco al banco però, c'era ancora Bob Rossdale, che si era voltato verso di lei e, con sorpresa di Liz, l'aveva riconosciuta. 

La piccola Munson, così aveva esordito lui: tutto sommato però, anche lei era cresciuta e nessuno dei due poteva negarlo. 

Dopo una breve conversazione, basata perlopiù sulla nonchalance e sull'intenzione, da parte di Liz, di nascondere quella cotta assurda che aveva avuto per lui da ragazzina, fu Robert a rompere il ghiaccio: “Allora, visto che adesso hai quasi diciassette anni ... Non mi sento in colpa a invitarti a fumare un po'. Che dici Munson? Dall'altra parte del lago c'è un bello spot. Prendere o lasciare.”

L'offerta di Robert l'aveva lasciata perplessa, specialmente perché nemmeno si aspettava che la conversazione proseguisse, in un qualsiasi modo. 

Liz annuì, e assieme a lui si allontanò dalla festa e dalla musica di quella band che, a giudicare dalle espressioni di Robert, poteva fare decisamente di meglio. 

“Non ti vedevo ad Hawkins da un po'.” Esordì Elizabeth, dopo aver iniziato a camminare a fianco del ragazzo, che quella sera non sembrava affatto un musicista di una cover band dei Beatles, quanto più un rocker molto, molto all'avanguardia. Indossava però un pantalone nero e una camicia bianca, stropicciata e fuori dai pantaloni: qualche bottone non era nemmeno chiuso. 

Liz notò anche che i capelli di Bob, castani e leggermente più chiari dei suoi, si erano allungati a vista d'occhio dall'ultima volta che lo aveva intravisto per strada. 

Tutto sommato però, quel look trasandato gli donava. 

“Sai com'è, qui ormai tutti sanno chi sono e mi evitano. Per fortuna Sinclair ha ancora qualche simpatia e mi invita a quelle poche feste dove non sono bandito.” Ridacchiò e, rivolgendo uno sguardo interessato a Elizabeth, proseguì: “Ma dimmi di te. E' impressionante quanto tu sia cresciuta! Insomma ... Non avrei mai pensato di beccarti qui, e nemmeno di vederti indossare ...” Non proseguì il discorso, ma Liz non aveva intenzione di lasciare cadere la conversazione e, quasi indispettita, ribatté: “Cosa? Questa gonna? Ti sembra così assurdo?” Robert spalancò la bocca, decisamente divertito ma anche sorpreso del caratterino della ragazza e, scuotendo la testa si fermò e, guardandola negli occhi, rispose: “No. Questi abiti da donna. Sei molto affascinante, lo ammetto.” Elizabeth abbassò immediatamente lo sguardo, arrossendo e proseguendo la camminata, per non dare un'idea sbagliata a Bob. 

Quale idea, poi? Stavano andando a fumare una canna (precisamente la prima per Elizabeth, ma questo lui non l'avrebbe scoperto) e basta. Nulla di più. Ma quelle parole l'avevano lasciata sorpresa e piacevolmente sconvolta. Certo qualche anno prima, osservando quel ragazzo suonare il basso con così tanta energia e dedizione, non avrebbe mai immaginato uno scenario del genere, dove lui si sarebbe accorto della sua presenza. 

 

 

La panchina era davvero dall'altra parte del lago, e ormai la musica era così ovattata da essere nascosta dai rumori della natura: il fruscio degli alberi, che si erano fatti sempre più fitti, e il rumore dei loro passi sull'erba umidiccia. 

“Non riesco più a camminare su questi trampoli.” Esclamò sbuffando Elizabeth, appoggiandosi alla panchina e togliendosi con nonchalance entrambe le scarpe. Robert si era già seduto e aveva acceso la canna, senza però distogliere lo sguardo dai movimenti della ragazza, che inspiegabilmente sembravano averlo rapito. 

“Sei molto femminile, Elizabeth Munson.” Dichiarò lui, estremamente ironico. Dopo essersi seduta a fianco, Liz scoppiò a ridere e replicò: “Se mi conoscessi non saresti così sorpreso, fidati!” 

I due stettero in silenzio per un po', a passarsi la canna e a fumare: per fortuna, la giovane era riuscita a inspirare regolarmente senza tossire, cosa che avrebbe chiaramente fatto capire a Robert quanto fosse poco avvezza al fumo. 

“Accidenti, è forte.” Commentò lei, con un sorriso sornione sul volto. “Sì beh, mi tratto bene.” Replicò lui, a bassa voce. Guardando poi il cielo, continuò a parlare: “Non venivo qui da tempo, e mi ero dimenticato quanta pace mi trasmetta questo luogo.” 

Elizabeth sorrise e, osservandolo, ribatté: “Non pensavo che avessi bisogno di tranquillità. Mi sei sempre sembrato così energico ...” Non finì il discorso che Bob saltò su: “Disadattato è l'aggettivo giusto. Almeno, è quello che tutti qui ad Hawkins ormai usano per descrivermi. Ma va bene così, del resto so io come sono davvero.” 

Liz deglutì nervosamente e commentò: “Non avrei detto questo. E sentiamo Bob, chi sei realmente? Mi piacerebbe saperlo.” Lui diede un tiro alla canna e, dopo averla finita e picchiettata sul terreno, tornò a guardare la ragazza nei profondi occhi scuri. 

Lo stava ammettendo sempre più liberamente, si era fatta davvero carina e quella sera sembrava semplicemente perfetta ai suoi occhi. “Non avresti tempo nella tua vita per questo, Elizabeth Munson.” Rise, con un filo di amarezza. “Ho uno stile esistenziale tale che nessuno potrebbe corrermi dietro. Chiunque si stancherebbe.” 

Liz fece spallucce e, dopo aver dato un sorso di birra, replicò: “Mettimi alla prova.” 

Si guardarono negli occhi, nello stesso momento e Liz sentì un tuffo al cuore, quasi da non farla respirare per un istante. Robert abbozzò un sorriso e, avvicinandosi sempre più a lei, le sfiorò la mano e sussurrò: “Va bene.” 

Quello che successe dopo sembrò così veloce in quel momento da non permettere ad Elizabeth di reagire in altro modo, se non di farsi accompagnare, come un corpo in mezzo alle onde del mare, in balia di esse. Le mani di Robert presero il suo viso, dapprima dolcemente, per poi avvicinarlo al suo: quando le labbra sottili di lui si appoggiarono su quelle rosse di lei, entrambi ebbero un sussulto. Dopo il primo bacio però, il tocco di Robert si fece più deciso, e così le sue mani, che iniziarono a stringere i fianchi di Elizabeth così sicure di sé, che la ragazza pensò di morire letteralmente tra le sue braccia. 

Non c'era nulla in quel momento che potesse impedirle di seguire gli istinti, perché di quello si parlava: istinto e desiderio, curiosità di andare fino in fondo. Di avverare uno di quei sogni ad occhi aperti, del quale si era sempre un po' vergognata per la mancata purezza di questo, e farlo lì, quella sera, lontana da occhi indiscreti. 

Le loro lingue si intrecciarono più volte, mentre Elizabeth sembrava perdere sempre più il controllo di sé e affidarsi maggiormente a lui e alle sue mani, che ormai l'avevano trascinata su di lui. 

Tra i respiri affannati, Robert parlò: “Non voglio che tu ti senta ... Costretta.” Liz si fermò ad un centimetro dalle labbra di lui e, guardandolo negli occhi intensamente, scosse la testa e replicò: “Voglio questo, e ora.” 

Bob non se lo fece ripetere due volte e, rivolgendole un sorriso, tornò a premere le sue labbra su quelle carnose della ragazza che ormai sembrava davvero essere cresciuta. 

“Per favore, se fa troppo freddo dimmelo.” Sussurrò lui, mentre la sua mano destra sbottonava velocemente la camicetta di Liz. Quest'ultima ansimò e, dando uno sguardo al cielo, non rispose. Era freddo, ma in fin dei conti lì c'era Robert. E c'era lei. E niente poteva rovinare quel momento.

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Capitolo 8
*** The good, the bad and the caravan ***


The good, the bad and the caravan 

Nell'ultimo mese, dopo la discussione tagliente avuta in casa coi genitori, Wayne Munson aveva dedicato anima e corpo a rimettere in sesto il caravan che il suo datore di lavoro, con non pochi sforzi, era riuscito a rimediare grazie alcuni contatti del settore.

Erano state giornate letteralmente devastanti, che partivano in officina alle sette del mattino, per il consueto lavoro di manutenzione delle auto dei clienti, per proseguire più o meno tutto il giorno; dopodiché Wayne, sempre meno intenzionato a passare del tempo a casa, portava con sé dei panini o delle verdure già pronte, in modo da poter cenare direttamente in officina per rimettersi al lavoro sulla sua nuova dimora.

“Munson allora ci vediamo domattina. Ricordati di chiudere bene tutto ed il cancello principale, che l'altro giorno hai dimenticato aperto.” Blaterò il suo capo, spegnendo le luci in ufficio e infilandosi il cappotto buono che lasciava sempre piantato sull'attaccapanni: quella sera probabilmente doveva portare a cena sua moglie, ecco il motivo di tale scelta.

Wayne annuì, senza badare troppo al rimprovero che il capo gli aveva srotolato tra le righe: sapeva che gli stava concedendo l'officina a tempo illimitato, anche dopo la chiusura al pubblico di questa. E Wayne era consapevole del fatto che, senza un appoggio e degli strumenti del genere, il recupero del caravan sarebbe stato pressoché lontano e quasi impossibile, a partire dai costi.

Invece tutto sommato, nonostante i modi bruschi che il proprietario del luogo aveva, i favori li faceva volentieri a quei lavoratori che si impegnavano a sistemare le auto a regola d'arte: per quanto Wayne fosse considerato dai colleghi un po' strano, taciturno, poco incline ai commenti o ai pettegolezzi, tutti concordavano sul fatto che fosse un bravissimo meccanico e un attento operaio.

Il caravan era comunque a buon punto: era stato parcheggiato nella parte esterna dell'officina, viste le dimensioni, e dopo settimane di manutenzione sembrava davvero una casa mobile degna di nota. Persino i vetri sembravano nuovi, e con delle tende decenti al suo interno avrebbe certamente fatto ancora più bella figura: a Wayne però non interessava granché far vedere alla cittadina di Hawkins quanto si fosse ben sistemato (anche perché in quel caso avrebbe dovuto trasferirsi in una di quelle villette a schiera che stavano prendendo sempre più piede in zona), bensì lasciarsi alle spalle le quattro mura della casa dove era cresciuto e, se possibile, anche suo padre.

Rimaneva in sé un atteggiamento ambivalente nei confronti della mamma, esattamente come quello che animava Liz: Ella Munson non era mai stata una cattiva donna, anzi. Era in un certo senso l'opposto di suo marito, e ai figli non aveva fatto mai mancare l'affetto e un sorriso: questo però non bastava più, anzi. Con le ultime vicende, Ella non aveva fatto altro che confermare la sua posizione subalterna al marito, che non variava di una virgola nemmeno di fronte all'abbandono di una figlia e da quello prossimo del maggiore dei due.

Dispiaceva a Wayne lasciare sua mamma in balìa di quel maledetto avvocato? Certamente, ma dall'altra parte sapeva che Ella non avrebbe mai accettato di lasciare suo marito da solo, in quella casa. O di andarsene in generale.

 

Per fortuna la primavera ad Hawkins era ormai ben stabile, il che aveva garantito temperature miti anche la sera, permettendo a Wayne di terminare i lavori al caravan all'aperto, senza alcun impiccio metereologico: anzi, in alcuni momenti era necessario per lui fare una pausa, andare nel bagno adiacente all'officina e lavarsi un po' dal sudore che imperlava il viso.

E proprio quella sera, che poteva essere davvero una delle decisive per la realizzazione della sua nuova casa, nel giardino dell'officina fece capolino una sagoma, che Wayne riconobbe illuminata dal lampione principale: Davina Sinclair, accompagnata subito dopo da suo fratello, William.

Wayne salutò con un cenno e, dopo essersi ripulito le mani nell'asciugamano, si alzò e si avvicinò ai due.

“Ciao Munson.” Disse William, mentre Davina abbozzò un sorriso.

“A cosa devo la vostra visita?” Chiese Wayne, accennando un'espressione distesa, ma estremamente seria.

“Io ho accompagnato mia sorella.” Alzò le mani immediatamente William, mentre Davina, dopo averlo fulminato, replicò: “Pensavamo di andare a trovare Liz. Sono riuscita a mettermi in contatto con lei grazie al dottor Halliwell, abbiamo parlato al telefono anche l'altro giorno. Penso abbia bisogno di noi.”

Wayne sospirò e annuì.

“Mi chiedevo se volessi venire anche tu, del resto sei suo fratello e so che le manchi molto.” Aggiunse Davina, con un filo di preoccupazione. Il più grande dei Munson si schiarì la voce e, dopo aver invitato i due fratelli a entrare in ufficio per sedersi, scaldò un po' di caffè e offrendolo, iniziò a spiegare: “Purtroppo per me è fuori discussione, fino a settembre. Ho provato a convincere il capo, ma non c'è stato nulla da fare. In compenso, per la nascita del bambino dovrei essere a Dallas e rimanere un po'. Poi si vedrà.” Fece un respiro profondo, e sorseggiò un po' di caffè.

Davina Sinclair assunse un'espressione dispiaciuta, poi disse: “Certo, capisco. Che peccato però. La cosa buona è che se ci riusciamo ad organizzare, lei non sarà mai da sola. So che ha trovato un buon lavoro, e a casa Halliwell ha un buon rapporto con la signora Eleanor, ma non sono certa che possa essere una soluzione valida anche dopo ... Settembre.”

Wayne appoggiò il bicchiere di caffé e replicò: “Ovviamente no. Per questo sto sistemando il caravan. Non sarà lo spazio ideale per un bambino, ma è grande e possiamo seriamente considerare di trasferirci insieme lì. Elizabeth ancora non lo sa, gliene parlerò.”

William Sinclair commentò: “Considerato che mia mamma lavora nell'ufficio assistenziale, sai che potete confidare sul nostro aiuto. Una volta accertate le condizioni del caravan, e Liz permettendo, non penso sarà un problema far vivere il bambino lì, almeno provvisoriamente.”

Davina annuì ed esclamò: “Certo che io ancora non posso credere che se ne sia andata. Che ...” Si bloccò, dopo aver guardato Wayne negli occhi: non voleva certo puntare il dito contro le persone che, alla fine dei conti, erano comunque i genitori sia della sua migliore amica, sia del ragazzo che aveva davanti a sé. Wayne rise amareggiato e concluse: “Che i miei l'abbiano cacciata fuori come un animale? Già, non ci si può credere finché non si conosce abbastanza quella merda di mio padre.” Le ultime parole vennero quasi sputate da lui, e fecero cadere per qualche minuto il silenzio.

“Quando pensavate di andare a Dallas?” Incalzò Wayne, curioso.

William alzò le spalle e rispose: “Mio padre potrebbe riuscire ad aiutarci coi mezzi per questa estate, a giugno. Appena concludiamo la scuola, sarebbe perfetto. Mi stavo solo chiedendo ...” Davina lo fulminò con lo sguardo, come se avesse già capito cosa balenasse nella testa di quel balordo di suo fratello.

“Ah dacci un taglio Will.” Esclamò lei, con disapprovazione. Wayne continuava a guardare i fratelli Sinclair confuso, perché chiaramente non stava capendo bene la dinamica della conversazione.

Quando i due se ne accorsero, Davina alzò gli occhi al cielo e imprecò: “Dai, chiaramente non sai fare a startene zitto! Parla e spiega, santo cielo.”

“Non posso avere delle perplessità o dei dubbi, scusa?!” Lamentò William, che però decise di andare al sodo vedendo con la coda dell'occhio Munson spazientirsi (non era certo famoso per tollerare più di tanto i giri di parole).

“Da quando è successo... Il tutto, mi sono sentito in qualche modo responsabile. Insomma, la festa era mia e ... Sì dico, so chi ho invitato.”

Wayne aprì le braccia come per incitare Sinclair ad arrivare al punto della faccenda.

“Sta parlando del padre del bambino.” Saltò su Davina, quasi più esasperata di Wayne stesso. Quest'ultimo si richiuse subito in se stesso e, deglutendo, riuscì solo a commentare: “Ah.”

William sospirò e ribatté: “Sì, in senso ... Magari le cose potrebbero prendere una piega diversa se si coinvolgesse anche lui. Insomma, non sa assolutamente niente di quel che è accaduto, essendo anche poco in città non credo si sia accorto che Liz è andata via.”

Davina sbottò: “Ma dai! Quanto puoi essere ingenuo William?! In quale accidente di mondo secondo te sarebbe utile coinvolgere una persona che nemmeno ha un lavoro vero? E poi quello che conta è il volere di Elizabeth, e lei ha espresso chiaramente l'intenzione di non dire proprio un accidente a quello svitato!” 

Wayne sgranò gli occhi: non sapeva se essere più sconvolto dal fatto che i Sinclair sapessero chi fosse il ragazzo col quale sua sorella era stata quella notte, o dal commento che Davina aveva dedicato al tizio in questione. 

“Immagino tu voglia saperne di più.” Disse William, ignorando totalmente lo sfogo di sua sorella e guardando negli occhi Wayne, il quale scosse la testa e rispose: “Penso che meno ne so, meglio sto.” 

Si sentì un verso compiaciuto provenire dalla bocca di Davina, che incrociò le braccia sfoderando un sorriso beffardo che il fratello evitò di osservare, per non aumentare l'irritazione. 

“Però dall'altra parte mi chiedo se questo ... Questa persona, non meriti di sapere la verità. In fin dei conti, se siamo certi che è il padre ...” Ragionò ad alta voce Wayne Munson, cercando quasi istericamente una sigaretta nelle tasche, che trovò e appicciò immediatamente. 

Will abbozzò un sorriso soddisfatto, di rimando a quello sfoderato dalla sorella, la quale invece, totalmente indignata, esclamò: “Ah, ah, no way! Siete impazziti per caso?! A parte che certo che è quello il padre, con quanti altri pensi che sia andata tua sorella, esattamente?” Aspettò un istante per proseguire, ma Wayne non osò rispondere, anche perché non voleva nemmeno entrare nell'argomento, sebbene ci fosse già dentro fino al collo. 

“E comunque, non è questo il punto! Il punto è che il volere di Liz viene al primo posto, e lei ha espressamente detto che non vuole coinvolgerlo! Il primo di voi che prova a farsi venire un'idea diversa passerà le pene dell'inferno. E ve lo garantisco io.” 

 

I Sinclair non tardarono a lasciare l'officina e Wayne al proprio lavoro, ma quest'ultimo fu grato ai due di essere passati, anche se non glielo disse apertamente: il fatto che a giugno sua sorella avrebbe ricevuto una visita di qualcuno tra i suoi affetti più cari, chiaramente lo rendeva felice. 

La conversazione avuta con i Sinclair aveva però sollevato in lui alcune questioni, dubbi e pensieri ai quali difficilmente avrebbe dato pace quella sera: non aveva pensato, fino a quel giorno e quasi paradossalmente, al ragazzo che sua sorella aveva incontrato alla festa del 5 dicembre. Non aveva un volto nei pensieri di Wayne, e ancora nemmeno un nome, perché Davina se n'era guardata bene dal farselo sfuggire. 

Il fatto che però fosse stato definito uno svitato, forse era motivo di preoccupazione? No, nemmeno per sbaglio: quante volte anche Wayne si era sentito apostrofare in quel modo, specialmente a scuola? Innumerevoli. Eppure non si riteneva una brutta persona, anzi. Forse anche il tizio di quella sera non era male e forse ... Davvero avrebbe avuto il desiderio di sapere cos'aveva lasciato dietro sé, inconsapevolmente. 

Wayne cercò di scacciare quelle riflessioni rimettendosi al lavoro sul caravan, e spingendo tutte le sue energie nella realizzazione di quella che poteva davvero diventare il posto felice del nuovo ramo dei Munson. 

 

 

A centinaia di chilometri di distanza, quella sera Elizabeth Munson stava leggendo The Great Gatsby di Scott Fitzgerald: ne aveva sentito così tanto parlare che, nella sua vita di accanita lettrice, non aveva ancora avuto occasione di leggerlo. Le stava proprio piacendo, sebbene avesse qualche dubbio circa il protagonista della storia. 

“Devi dare una possibilità a Gatsby, Elizabeth.” Commentò Edward Halliwell, che quella sera era rimasto a cena dalla zia e aveva deciso di passare il dopo cena in salotto con la giovane ed Eleanor, che aveva già spento e acceso due sigarette, una dietro l'altra. 

Liz abbozzò un sorriso e, chiudendo il libro, replicò: “Non lo so, non riesco ad inquadrarlo. E' un tipo... Strano. Con mille misteri e punti d'ombra. Non mi era ancora capitato di avere a che fare con un soggetto del genere.” 

Eleanor rise e, con voce rauca, commentò: “Il mondo ne è pieno cara! Ne incontrerai parecchi sulla tua strada. E imparerai a conoscerli presto. L'esperienza aiuta.” Liz sogghignò e, con una punta di amarezza, replicò: “Diciamo che finora l'esperienza mi ha dato dei begli schiaffi in faccia ma... Suppongo che ho solo da imparare.” 

Edward scosse la testa e, dopo essersi riempito il bicchiere di whisky, disse: “Mi raccomando, per evitare errori e dimenticanze, ti ricordo la cosa più urgente: prossima settimana visita di controllo. E chissà...” 

Liz sgranò gli occhi ed esclamò: “Dice che finalmente sapremo il sesso del bambino?!” 

Del resto, tra una cosa e l'altra, era davvero arrivato maggio, e teoricamente il controllo prossimo poteva rivelare finalmente ciò che tutti stavano aspettando: Davina aveva litigato con suo fratello William, mentre era al telefono con Liz qualche sera prima, e aveva scommesso sul fatto che sarebbe stata femmina. 

“Mio fratello spera proprio che sia un maschio.” Proseguì Liz, dando voce ai suoi pensieri e generando sia in Eleanor che in Edward, un sorriso genuino. 

“Basta che stia bene, e al momento mi sembra che non ci si debba lamentare. Comunque, staremo a vedere cosa riserva questa visita.” Concluse Edward Halliwell, sorseggiando il whisky e rivolgendo un'occhiata paterna a Elizabeth, che annuì, con un filo di malinconia. 

 

Quando fu il momento di coricarsi, Liz chiuse la porta della camera dietro le spalle, senza tuttavia fare la stessa cosa coi pensieri: il fatto che di lì a poco avrebbe scoperto il sesso della creatura che stava crescendo in lei, stava in qualche modo dando forma a qualcosa che prima o poi sarebbe diventata concreta, e reale. 

Paradossalmente, pur essendo ben conscia di quel che stava accadendo (come non esserlo, dopo aver visto i genitori cacciarla di casa?), la nascita del bambino sembrava qualcosa di talmente lontano da rendere tutto più simile ad un sogno, ad una storia parallela che altro. 

Improvvisamente, infilandosi sotto la coperta, Liz si sentì spaventata: la mente viaggiava così veloce in quel momento da darle addirittura palpitazioni al cuore. 

Deglutì rumorosamente e, nel tentativo di riordinare i pensieri e le immagini, le balzò quella unica ed improvvisa di Robert: era ancora vestito con la sua camicia stropicciata, bianca, che lei gli aveva sfilato ad una velocità unica quella sera. 

Non potevano essere passati già cinque mesi, perché i contorni del 5 dicembre, sulla panchina del lago di Hawkins, erano nitidi e perfettamente fissi nella sua mente. 

Per un attimo, Liz sentì il bisogno di tornare in quel preciso istante, tra quelle braccia, sebbene non fosse amore, ma solo calore e sensazioni intense. 

Scosse la testa, così come per scrollarsi di dosso tutto ciò e, quando chiuse gli occhi, l'immagine di Robert scomparve in un battito di cuore.

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Capitolo 9
*** For Whom the Bell Tolls ***


For Whom the Bell Tolls

 

“Eleanor, è sicura di essere d'accordo nell'ospitare i miei amici? Si tratta di avere ben tre studenti in casa – o meglio, William è leggermente più grande ma è comunque inaffidabile – non penso sia qualcosa di sopportabile. Considerato inoltre che staranno qua due settimane!”

Sarà stata la terza volta nel giro di una settimana (iniziata peraltro due giorni prima) in cui Elizabeth Munson interrogava, seguendola nei vari corridoi della casa, Eleanor Halliwell: quest'ultima, pazientemente, non aveva fatto altro che ridacchiare e minimizzare, con un cenno della mano.

 

“Te l'ho già detto, non è un problema. I Sinclair tra l'altro sono amici tempo, mio nipote li considera praticamente della famiglia. E poi diciamocela tutta, questa casa è davvero troppo grande e qualche volta occorre sfruttarla.” Replicò il primo mercoledì del mese di giugno la signora Eleanor, mentre stava cercando disperatamente in casa il libro di ricette di sua madre, che ogni tanto perdeva in giro per gli scaffali e non era più in grado di ritrovarlo.

Liz, che la seguiva e dava un'occhiata un po' ovunque, vide con la coda dell'occhio un libro che sembrava non appartenere a quell'angolo di casa: era infatti sul tavolino del corridoio, vicino all'ingresso.

“Se sta cercando quelle ricette, sono lì.” Dichiarò abbozzando un sorriso Elizabeth, mentre Eleanor sorpresa si avvicinò e afferrò le ricette entusiasta.

“Vedrai, sarà un bel periodo. Penso che in fin dei conti qui a Dallas non ti sei fatta degli amici, ed è più che giusto e necessario che tu passi un po' di tempo con i fidati di Hawkins.” Proseguì la signora Halliwell, mentre andava in cucina. Liz, annuendo, si fermò sulla soglia della stanza e borbottò: “Beh, non sono mai stata molto brava a fare amicizia ... In più adesso con questa è tutto più complicato.” Indicò la sua pancia, che stava crescendo a vista d'occhio, sebbene fosse nella norma stando all'ultimo controllo col dottor Halliwell.

In un istante venne allontanata dall'immagine fallimentare di lei in cerca di nuove amicizie, per tornare su quanto era successo pochi giorni prima, alla visita in ambulatorio.

 

 

Edward Halliwell non era un medico che si esprimeva più di tanto durante le visite di routine, anzi: spesso le pazienti lo guardavano perplesse, talvolta anche spaventate perché lui, concentrato com'era nel suo lavoro, sembrava non sentire nemmeno le domande che gli venivano rivolte. 

“Dottore è sicuro che vada tutto bene?!” Ripetevano almeno una volta al giorno le donne che visitava in ambulatorio, finché lui al termine del controllo, realizzava di essersi perso i tre quarti delle questioni a lui rivolte, e cercava di rimettersi in pari. 

Elizabeth Munson però era cambiata nell'ultimo periodo: vicina al sesto mese di gravidanza, fidarsi del dottor Halliwell era per lei fondamentale. Aveva imparato a farlo, accantonando la preoccupazione e le paranoie che a volte facevano capolino: questo cambio di atteggiamento era stato notato da Edward Halliwell che, dentro di sé, non faceva altro che sentirsi grato e sulla strada giusta per far sì che quella ragazza potesse avere un nuovo inizio, segnato dalla nascita di settembre. 

 

“Non c'è nulla che non vada. Tuttavia rimane a mio avviso fondamentale che la pausa da lavoro inizi già verso la fine di luglio: su questo non credo ci siano grossi problemi, il Direttore del Book Depository aveva ben chiara la situazione e già a suo tempo mi garantì massima collaborazione e comprensione da parte sua.” Dichiarò il dottor Halliwell al termine della visita. 

Ad Elizabeth talvolta il tutto sembrava ancora surreale, a partire dal fatto di essere riuscita a trovare un lavoro (ovviamente grazie alle conoscenze di Edward Halliwell, il quale a sua volta era stato contattato dai Sinclair) che le avrebbe permesso non solo di partorire in tranquillità, ma anche eventualmente di rientrare operativa non appena le sarebbe stato possibile. 

Il fatto che a Dallas, almeno fino a quel momento, aveva incontrato sulla sua strada solo persone disponibili e comprensive (il che era una rarità da quando era nata), la convinceva sempre di più dell'idea che il suo futuro sarebbe stato lì, non ad Hawkins o chissà dove. E a tal proposito, forse sarebbe stato il caso di trovare una soluzione, magari assieme a suo fratello Wayne, che probabilmente non avrebbe visto di buon occhio la scelta di rimanere a Dallas: ma poi, alla fine, Liz si sarebbe decisa in tal senso? 

Tornò alla realtà più o meno nel momento in cui il dottor Halliwell si schiarì la voce e parlò: “Comunque, con quasi la totale certezza, potremmo essere arrivati ad un dunque.” La ragazza spalancò i suoi occhi grandi, brillanti e chiaramente estasiati: aveva già capito tutto, e non vedeva l'ora di sapere. 

“Davvero?!” Esclamò lei incredula. Il medico sorrise e, annuendo, replicò: “Sei sicura di volerlo sapere? Spesso alcune pazienti chiedono di non anticipare nulla... Del resto, non si parla di una certezza completa, anche se qui dubito ci siano delle sorprese sul finale.” Tornò a sorridere, genuino, mentre Elizabeth rispose prontamente: “Assolutamente dottor Halliwell, ho bisogno di sapere.” Anche perché, assieme a lei, c'erano altre persone ad Hawkins che attendevano impazienti (e qualcuno ci aveva già scommesso su). 

Edward Halliwell sospirò e, guardando Liz negli occhi, dichiarò: “Sarà con ogni probabilità un bel maschietto.” 

Elizabeth balzò dalla sedia, coprendosi la bocca con la mano, mentre i suoi occhi chiaramente commossi, esprimevano grande sorpresa e al contempo un'emozione difficile da descrivere. 

“Aveva ragione Wayne.” Riuscì solo a mormorare, ancora incredula e vicina alle lacrime. 

“Chissà quante campane a morto stanno suonando ultimamente in Vietnam.” 

“Ma ancora con questa storia? Will, possiamo parlare di qualcosa di meno drammatico?!” 

“Quanto pensi che ci resti prima di soccombere con Johnson, spiegami un po'.”

“Beh io questo non lo so, ma ho la vaga impressione che tu ci possa aggiornare in tempo reale, più o meno tutti i giorni, esattamente come stai facendo adesso per la questione del Vietnam.” 

“Questione? Davina, quella si chiama guerra. Guerra, capito?!” 

 

I due fratelli Sinclair non avevano fatto altro che discutere, più o meno ininterrottamente per tutta la prima parte del viaggio, mentre alla guida c'era il padre, il signor Sinclair, che stava seriamente pensando di lasciare i suoi figli all'aeroporto più vicino e troncare nell'immediato quel viaggio che sarebbe durato almeno altre dieci ore. 

“Io so solo una cosa, che stiamo andando a trovare la mia migliore amica. La quale, indovina un po'?! E' stata messa incinta da quel freak! Amico tuo, vorrei ricordarti.” Esclamò Davina, gesticolando come non mai. Dallo specchietto, il signor Sinclair borbottò: “Riuscite a terminare questa surreale discussione e farci arrivare sani e salvi al primo albergo? Grazie.” 

Davina alzò gli occhi al cielo, mentre William, ignorando il padre, replicò verso sua sorella: “Evidentemente alla tua migliore amica, il mio amico freak piace! E comunque ha un nome.” 

“Allora scusami, cambia proprio tutto!” Ribatté esapserata Davina, iniziando a guardare fuori dal finestrino. 

“E comunque ci penseranno in Vietnam a suonare le campane a morto.” Concluse lei, con aria imbronciata. 

Il viaggio sarebbe stato lungo, ma senza dubbio dopo una bella dormita nemmeno a metà strada, i Sinclair avrebbero ripreso il viaggio di prima mattina, per arrivare all'incirca per l'ora di cena a Dallas, a casa Halliwell, dove Eleanor, Edward ed Elizabeth li stavano aspettando. 

 

A Dallas, Liz non stava più nella pelle: aveva lavorato solo al mattino, dal momento che i suoi orari erano già stati ridotti dal Direttore che, dopo aver parlato col dottor Halliwell, aveva pensato che sarebbe stato giusto per la ragazza riposare un po' di più fino al giorno cruciale. 

“Se fossi stata al Book Depository anche dopo pranzo probabilmente questa attesa mi avrebbe uccisa un po' meno.” Si lamentò Liz, versandosi un bicchiere di thé freddo, sotto lo sguardo vigile di Eleanor che aveva senza dubbio molta pazienza per sopportare la frenesia della ragazza, che non le dava tregua. Ma in fin dei conti alla signora Halliwell, quella compagnia piaceva eccome: era stata per tanto tempo da sola e, in linea generale, tutte le persone conosciute tramite suo nipote le erano sempre risultate tutte gradevolissime. 

Elizabeth, del resto, stava crescendo in quella casa: non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. La gravidanza, un lavoro, la lontananza da casa la stavano rendendo una persona molto meno dubbiosa di sé, e più convinta delle proprie capacità: chiaramente i timori di non farcela, di essere troppo piccola per poter prendere in mano la sua vita, tornavano a farle visita la notte, poco prima di addormentarsi ... Ma l'importante era procedere su quella strada, e di accogliere le novità che la vita sarebbe stata pronta a donarle. 

“Inoltre ogni giorno di più mi sembra di essere in procinto di esplodere.” Sbuffò, appoggiando il bicchiere sul ripiano della cucina. Eleanor rise e replicò: “Vedrai, arriveremo a settembre in un batter d'occhio. Partorirai e ti troverai un bambino in braccio prima di potertene accorgere davvero.” Quella frase sapeva da una parte tranquillizzare, e dall'altra incutere vera e propria ansia, sebbene non fosse quello l'obiettivo di Eleanor che, comunque, era figlia della sua epoca (seppur molto più progressiva di tante altre sue coetanee): l'idea che un figlio potesse quasi automaticamente rendere la vita migliore e le cose in un certo senso più “affrontabili” per una donna, era qualcosa di cui Eleanor era convinta, forse anche perché la sua era stata una storia molto diversa da quella di Liz, ma non meno triste o difficile. 

Liz sospirò e, annuendo, commentò: “Immagino di sì.” 

Tornando verso il salotto e rivolgendo uno sguardo alla finestra più grande che illuminava quello spazio enorme, ritornò a pensare che, di lì a qualche ora, avrebbe finalmente abbracciato la sua migliore amica, che non vedeva da sei mesi, da quando la sua vita era cambiata per sempre: il fatto di poter rivedere delle facce ben più che familiari, era un modo per tenerle i piedi piantati a terra e, in un certo senso, al sicuro. Era come se viaggiasse ad una velocità allucinante, in preda a immagini ed emozioni troppo rapide per essere processate una alla volta: ritrovare tra queste, in un vortice costante, i volti di chi era stato fondamentale nella sua vita ad Hawkins (e sarebbe continuato ad esserlo) le dava stabilità. 

Sorrise, e ben presto l'immagine dei Sinclair in arrivo davanti a casa Halliwell divenne concreta. 

Come da previsioni, il signor Sinclair aveva raggiunto la destinazione per l'ora di cena: scese dalla macchina sbuffando, seriamente provato dalle continue discussioni dei suoi due figli che, anche quel giorno, non si erano affatto placate. 

Edward Halliwell dal canto suo, era pronto sul terrazzino di casa ad accogliere il vecchio amico: gli andò incontro e, abbracciandolo fraternamente gli diede il benvenuto. 

“E' stato un viaggio lungo, sicuro di non voler dormire almeno stanotte qui?” Gli chiese immediatamente il medico, spiegandogli che c'era davvero posto per tutti in quella casa. Il signor Sinclair sorrise e declinò l'invito: aveva già prenotato un albergo fuori città, dal momento che di rientro ad Hawkins avrebbe avuto una serie di fermate itineranti da effettuare per lavoro. 

“Senza i miei due figli in macchina il rientro sarà una passeggiata.” Disse, rivolgendo a Davina e a William uno sguardo severo ma, in un certo senso, anche divertito.

“Chissà che piacere che avrà Edward ad ascoltare le tue chiacchiere sul Vietnam!” Sparò una frecciatina la più giovane dei due Sinclair al fratello, il quale finse una risata divertita e replicò: “Sei sempre più divertente, te lo hanno mai detto?”

Le voci all'interno della casa erano assolutamente distinguibili: Elizabeth, che era seduta in poltrona assieme ad Eleanor, rivolse uno sguardo a quest'ultima e, illuminata, si alzò rapidamente ed esclamò: “Sono loro!”

Sotto lo sguardo entusiasta di Eleanor, che aveva sinceramente piacere di vedere la giovane rincongiunta a una parte della sua vita, Liz sgattaiolò velocemente fuori di casa e, correndo giù dalle quattro scale che separavano la casa dalla strada principale, percorse il vialetto altrettanto rapidamente, già con le braccia allargate. 

“Finalmente! Liz!” Esclamò Davina, correndo verso l'amica. 

Quando le due si abbracciarono, fu evidente che anche William, assieme al signor Sinclair e al dottor Halliwell, erano vicini alla commozione. 

Iniziò a piangere prima Elizabeth, la quale diede la colpa agli ormoni, seguita da Davina che, tra le lacrime, replicò ironica: “Non giocare la carta della gravidanza con me, Munson!” 

Risero entrambe. 

Non appena tutti i Sinclair erano a portata di mano, Elizabeth, ancora in preda ad un pianto di felicità, dichiarò: “E' un maschio!” 

Il signor Sinclair si congratulò, fermandosi un istante, prima di ripartire, a parlare col suo vecchio amico Edward Halliwell; dall'altra parte invece Davina e William, in visibilio per la notizia, stavano cercando di ricordare chi avesse scommesso cosa, a proposito del sesso del bambino. Si rivolsero uno sguardo di sfida, che venne però immediatamente travolto dalle emozioni che aleggiavano davanti quella casa, a inizio del giugno 1965.

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Capitolo 10
*** Dallas - Hawkins Hotline ***


Dallas - Hawkins Hotline 

 

La prima settimana in Texas dei Sinclair era praticamente volata: la seconda sera, a casa Halliwell, William era stato costretto a cimentarsi nella preparazione della cena, sulla quale aveva miseramente fallito ed era toccato rimediare a Davina, sotto gli sguardi divertiti di Eleanor, Edward e Liz, che sembrava praticamente rinata da quando erano arrivati i due fratelli. 

Certamente, dal punto di vista degli ospiti, Elizabeth non era mai stata così raggiante: sicuramente la loro presenza l'aveva aiutata molto, ma dalle parole che avevano scambiato fino a quel momento, la giovane Munson sembrava davvero aver trovato in un certo senso il proprio posto nel mondo. Era così bizzarro per una ragazza della sua età? 

La domenica che chiudeva la prima settimana di vacanza dei Sinclair, era stata trascorsa dai tre in giro per il centro di Dallas: naturalmente William aveva insistito affinché potessero passeggiare su Dealey Plaza, e di conseguenza si era sentito in dovere di blaterare un po' sul povero Presidente Kennedy, e un po' sul suo successore, che William praticamente odiava. 

“Non fosse stato per Johnson il Civil Rights Act ce lo saremmo visti col cavolo!” Troncò la riflessione di suo fratello così Davina, senza gran delicatezza o tatto: del resto, lei era lì per la sua amica e anche per accertarsi che lei stesse bene e, soprattutto, che non ci fosse nulla in più che eventualmente potesse fare per farla contenta. 

“C'è qualcosa che possiamo fare Liz? Intendo ... Di rientro ad Hawkins, o prima, o durante il nostro soggiorno. Qualsiasi cosa! Hai bisogno di vestiti? Quel bambino cresce a vista d'occhio.” Disse Davina, una volta che i tre si fermarono in centro città, su un muretto, a bere un thé che avevano comprato al locale poco più avanti. 

Liz sorrise e, scuotendo la testa, replicò: “No grazie. Già per me è moltissimo avervi qui. Non avrei mai pensato che prima di settembre potessi vedere voi o mio fratello. In più, al lavoro mi pagano discretamente bene e anche se mi secca, a casa Halliwell continuo ad essere praticamente un'ospite. A volte compenso facendo la spesa, ma mi costa un sacco di fatica far valere la mia volontà in quella casa.” Rise, pensando al fatto che la signora Eleanor fosse davvero molto più testarda di lei. 

William replicò: “Beh, qualcuno di noi doveva raggiungerti per il tuo compleanno.” 

In un istante Liz smise di sorridere: davvero era riuscita, in quel caos di vicende ed emozioni, a dimenticarsi del suo imminente compleanno? 

Stava per spegnere diciassette candeline, e lo avrebbe fatto pochi giorni più tardi, il ventidue di giugno: con lei effettivamente, e fu solo in quel momento che ne prese coscienza, ci sarebbero stati i fratelli Sinclair. 

Grazie al cielo, aggiunse tra sé e sé. Improvvisamente, l'idea che sarebbe stato il suo primo compleanno senza suo fratello Wayne, le fece avvertire una stretta al cuore, e poi allo stomaco. Inspirò profondamente, sperando di non dare nell'occhio. Fallimento totale, perché a Davina sfuggivano davvero poche reazioni della migliore amica. 

“Tutto a posto Liz?” Le chiese, avvicinandosi preoccupata. Elizabeth ingurgitò quella sorta di magone che stava salendo, e annuì, senza aggiungere altre parole. 

Quando i Sinclair, assieme a Liz rientrarono a casa Halliwell dopo cena, Eleanor si era già coricata, probabilmente per lasciare spazio ai tre giovani e il salotto a loro disposizione, per qualche chiacchierata notturna. 

Una volta lavati e cambiati, Davina e Liz si stravaccarono immediatamente tra il divano e le poltrone, mentre William aveva ricevuto il compito di portare al tavolo qualche bevanda fresca, visto il calore di quei giorni, che sembrava aumentare quotidianamente. 

“Hai un futuro come governante.” Davina apostrofò suo fratello con un'occhiata divertita, per poi osservare Liz, che sembrava ancora assorta nei suoi pensieri. 

Indossava una camicia da notte grigia scuro, insolita per la moda dell'epoca ma davvero tipica di Liz, che sembrava prediligere i colori scuri. Se ne stava con le gambe appoggiate al bracciolo della poltrona, supportata da un cuscino enorme che le manteneva la schiena il più dritta possibile: le mani, forse più per spontaneità che per volontà specifica, erano quasi sempre posizionate sopra la pancia, ma non si muovevano mai più di tanto. 

“Mi dispiace avervi intristito ragazzi.” Mormorò Elizabeth, prima ancora che qualcuno potesse chiederle qualcosa. I due Sinclair si rivolsero uno sguardo rapido e, prima che uno dei due replicasse, Liz continuò: “Purtroppo l'idea del mio compleanno, che paradossalmente nemmeno mi ha sfiorato fino a poche ore fa, mi riempie di tristezza e... Pensieri.” 

Davina annuì, e replicò: “Ti manca Wayne, giusto?” Liz annuì, trattenendo un sospiro pesante come un macigno. Dopo aver deglutito, afferrò un bicchiere, riempiendolo di acqua fresca, per berne un sorso. 

“Sì, e dire che mi manca è riduttivo. E' il primo compleanno che passerò in sua assenza. Non è tanto la festa mancata a turbarmi, figuriamoci... Alla fine a me è sempre importato avere voi tra gli invitati, e poca altra gente. Ma questo ... Questo compleanno è diverso. E' cambiato tutto, e l'assenza di Wayne è una conseguenza di tutto questo periodo caotico.” 

William commentò: “Beh, possiamo trovare una soluzione. Insomma, siamo negli anni Sessanta, qualcosa il progresso tecnologico riuscirà a combinare, o no?” Davina lo guardò perplessa e, senza dare adito a speranze che probabilmente sarebbero svanite in men che non si dica, tornò a osservare la sua amica e le disse: “Qualche tempo prima di venire qua, siamo andati a trovare tuo fratello. Ci ha spiegato che prima di settembre per lui sarebbe stato impossibile per via del lavoro raggiungerti. Ma a settembre ci sarà Liz, sarà qui per te.”

La giovane Munson abbozzò un sorriso e, annuendo, bevve un altro sorso d'acqua. 

“Ma ditemi un po' cosa mi sto perdendo in città. Come avete concluso l'anno scolastico? Ci sono nuovi pettegolezzi ad Hawkins?” Le domande che stava rivolgendo Elizabeth ai Sinclair erano genuine ma, sull'ultima relativa ai gossip, certamente si parlava più che altro di un diversivo adottato dalla ragazza, per evitare di tornare a parlare della sua situazione malinconica. Infatti Elizabeth Munson era allergica all'ipocrisia, apparentemente all'ananas (e lo aveva imparato pochi anni prima sulla sua pelle) e, in ultima analisi, ai pettegolezzi. 

Davina, che naturalmente conosceva quel tratto caratteriale dell'amica, decise di sorvolare e stette al gioco: “Siamo riusciti entrambi a concludere l'anno senza grossi problemi, nonostante ci siano stati momenti in cui William sembrava preferire le gonne alle interrogazioni.” Il più grande dei Sinclair, incassata l'ennesima frecciatina, spalancò la bocca e scuotendo la testa replicò: “Stronzate! Ho studiato dall'inizio dell'anno alla fine senza mai perdermi d'animo, e i risultati cara mia si vedono. 

In più perdonami, cosa c'è di così spiacevole nel voler mantenere i contatti con le donzelle che ho invitato al mio compleanno? Che fai? Le inviti, accettano, passi la serata con loro e poi ti dilegui?”

 

William Sinclair non era uno che rifletteva più di tanto prima di parlare. Pensava un istante, si convinceva della totale genuinità di ciò che aveva da dire, e sputava il rospo. A prescindere, a meno che non ci fosse qualcuno abbastanza veloce da comprendere l'importanza di bloccarlo nell'incipit. In quel momento, forse anche a causa della stanchezza che imperava nei tre dopo una giornata in giro per Dallas, Davina non era riuscita a fermare suo fratello in tempo, prima che potesse sviscerare la sua figuraccia. 

Calò il silenzio, mentre Willi sbarrò gli occhi, realizzando che forse della festa non si era più parlato per un motivo ben specifico, e nemmeno troppo celato. 

“Sei proprio un deficiente.” Esclamò Davina, scuotendo la testa. 

Liz scoppiò a ridere, dopo essere rimasta seria e muta per un istante: ma la sua era una risata davvero poco genuina, quasi iniziata per inerzia e cortesia, che altro. Il finale di questa fu comunque brusco e, in un certo senso, amaro. 

“Non preoccuparti William, prima o poi saremmo entrati in argomento.” Elizabeth anticipò le scuse del maggiore dei Sinclair, che stava davvero per inginocchiarsi imbarazzato. 

“A proposito...” Borbottò Liz, schiarendosi la voce. Tenendo lo sguardo basso, forse per impedire che le sue parole si bloccassero tra i denti incrociando le espressioni dei Sinclair, continuò: “Che combina adesso? Robert intendo.” 

In quel momento fu Davina ad irrigidirsi: rivolse uno sguardo severo al fratello, quasi per incitarlo a prendere parola. 

Incredibile, quando deve parlare non parla. Davina non poteva crederci, perciò passò ad una leggera gomitata, che destò suo fratello repentinamente. 

“Ah! Difficile dirsi. O meglio, l'ho visto poche volte dopo ... La festa. Passa molto tempo fuori città, ad Hawkins diciamo che meno ci sta, meglio sembra vivere.” Calò nuovamente il silenzio, ma William cercò di ripristinare un clima di tranquillità, e aggiunse: “Ma non ho dubbi sul fatto che stia bene. Insomma, è uno che sa come sopravvivere.” 

Elizabeth sospirò e, sbattendo le palpebre due o tre volte, annuì. “Sì, penso di sì.” Rispose lei, cercando di apparire meno pensierosa possibile. 

Dall'altro canto, Davina guardava la scena a braccia conserte, nascondendo con cura l'espressione contraria che avrebbe voluto esibire con nonchalance sulla faccia. Come poteva la sua migliore amica, in quello stato, davanti a mille preoccupazioni, rivolgere un pensiero ancora a quel disadattato? Era una domanda che decise di non farle, preferendo una buona notte di sonno a qualsiasi altra cosa. 

Pochi giorni prima del ventidue giugno, i fratelli Sinclair sembravano non avere pace: approfittando dei turni di lavoro di Liz, in assenza di quest'ultima avevano preso a girare il centro città in cerca di qualche regalo che potesse davvero rendere quel compleanno speciale. Fino a quel momento però, ogni ricerca era sembrata un vero e proprio buco nell'acqua. 

“Al diavolo! Io lo sapevo che dei texani non ci si può fidare, nemmeno per un regalo decente.” Si lamentò Davina, in uscita dall'ennesimo negozio di accessori e braccialetti. 

“Diciamo le cose come stanno: io qualche proposta l'ho fatta, sei tu che non ne hai accettata una. Hai solo avuto da ridire.” Replicò prontamente William, per essere poi subito rimbeccato da sua sorella: “Ti ricordo che Elizabeth è la mia migliore amica, e sta per sfornare un bambino! Capisci il senso di questo regalo o sei del tutto rincretinito?!” 

Riprendendo la marcia verso casa Halliwell, Davina iniziò a riflettere ad alta voce: “Per lei quest'anno vorrei davvero qualcosa che la possa far felice, magari temporaneamente o per regalarle un ricordo che valga la pena conservare per tutta la vita sai. 

Ma mi sembra che qualsiasi oggetto visto non sia nemmeno lontanamente all'altezza di tutto questo. Capisci cosa voglio dire?” 

William Sinclair annuì e, dopo aver riflettuto rapidamente sulle parole della sorella, si bloccò nel bel mezzo del marciapiede, con lo sguardo fisso in avanti. 

“Will, tutto bene?” Chiese Davina, avvicinandosi al fratello, ancora in quella posizione. 

“Stavo pensando.” Esordì lui dopo pochi istanti di silenzio. “Forse so cosa potrebbe aiutarla. Ho in mente un bel regalo per lei, ma dobbiamo fare rientro a casa Halliwell subito, e parlare con Edward prima che Elizabeth faccia rientro.” 

La prontezza del fratello sorprese Davina che, per la prima volta in vita sua, non fece altro che seguire il consiglio del maggiore, curiosa come non mai di scoprire cosa fosse balenato nella testa di quest'ultimo. 

 

 

“Temo di non seguirti.” Furono queste le parole del dottor Halliwell, una volta accolti i due Sinclair in casa e praticamente costretto a sedersi immediatamente al tavolo delle trattative, in salotto con loro. 

“E' molto più semplice di quel che pensate, davvero.” Disse William, guardando il dottor Halliwell e Davina, entrambi perplessi. 

“Nel 1963, con l'obiettivo di raggiungere una vera e propria distensione politica, John F. Kennedy e Khruscev per l'Unione Sovietica, decisero di inaugurare una linea telefonica diretta, una hotline tra Washington e il Cremlino.” 

Davina sospirò, ribattendo: “E fin qui.” 

William spalancò le braccia ed esclamò: “E' proprio questo il punto! Un filo diretto tra Dallas e Hawkins. Una sorta di hotline che permetta a Elizabeth di parlare con suo fratello, ed evitare per una volta tutto questo scambio di lettere che li sta facendo diventare matti.”

Edward e Davina spalancarono gli occhi, una volta compreso finalmente il punto sul quale si era andato a focalizzare William Sinclair. 

“Insomma, per il suo compleanno Elizabeth meriterebbe di poter parlare tutto il tempo che desidera al telefono con Wayne. Nessun intermezzo, solo le loro voci. Credete sia fattibile?” 

Dopo le ultime considerazioni del fratello, Davina alzò le spalle e replicò: “Non so Will, mi sembra un'idea perfetta ma... Come possiamo procurarci un telefono? Senza considerare che forse sarebbe giusto concedere loro un po' di spazio, e non una chiamata in mezzo alla strada qualunque.” 

Edward Halliwell si passò una mano tra i capelli e, abbozzando un sorriso, rivolse uno sguardo ad entrambi i fratelli Sinclair e dichiarò: “Forse abbiamo quel che fa al caso nostro.”

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Capitolo 11
*** His name is Edward ***


“His name is Edward”

Buongiorno Dallas! Oggi è martedì 22 giugno e pare proprio che il sole riscalderà tutta la giornata. Ma adesso le notizie del giorno.

La radio in salotto scoppiettava, e la voce dello speaker aveva invaso tutta casa Halliwell: erano le otto del mattino, ed Eleanor era già in piedi da un’ora o poco più, così come Davina Sinclair. Entrambe, indaffarate come non mai, viaggiavano freneticamente tra la cucina e il salotto con vassoi pieni di pasticcini e piccole ciambelle, caraffe con succhi di frutta di vario genere e il caffè fumante che non poteva certamente mancare. Il tavolo più grande della sala era stato allestito con una bella tovaglia color cipria, con qualche motivo floreale disegnato in nero; i tovaglioli erano abbinati perfettamente, bloccati solo dalle posate argentee che riflettevano la luce del sole, la quale sbucava non troppo timidamente dalle finestre.
“Buongiorno.” Esordì in uno sbadiglio William Sinclair che, con molta flemma, aveva percorso la scalinata dando un’occhiata qua e là, alla ricerca della sorella: quest’ultima, sbucando dalla cucina con le mani occupate, lanciò un’occhiata di fuoco al ragazzo. “Hai una vaga idea di che ora sia? E a quale ora ti avevo chiesto di svegliarti?!” Will si grattò la testa e replicò: “Ho presente tutto quello che hai detto, ma adesso sono ancora troppo addormentato per risponderti.” Dal canto suo, la signora Eleanor accolse William con un sorriso, invitandolo a bere una tazzina di caffè: il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e filò in cucina, ignorando palesemente sua sorella.
“Direi che ormai potremmo considerarci soddisfatte, non pensi?” Chiese soddisfatta Eleanor, guardando la tavola imbandita e rivolgendosi poi a Davina, la quale sorrise e rispose: “Sì, decisamente. Penso che Liz apprezzerà.” In quel momento, la porta di casa si aprì facendo comparire il dottor Halliwell che, prima di iniziare la sua giornata in ambulatorio, aveva promesso di rendersi in qualche modo utile per celebrare il compleanno di Elizabeth Munson. “Buongiorno! Direi che ho qualche novità.” Dichiarò entusiasta il medico, appoggiando immediatamente una scatola sul tavolino vicino all’ingresso, e destando la curiosità di entrambe le donne. “L’hai trovato?” Chiese Eleanor a occhi spalancati. Edward annuì, abbozzando un sorriso. Nel sentire quel vociferare, William uscì dalla cucina con gli occhi piantati sulla scatola, che osservava estremamente interessato.

“Ci è voluta una ricerca durata tutta la sera, ma ne è valsa la pena.” Spiegò il dottor Halliwell aprendo, tra le occhiate curiose, la scatola, rivelandone il contenuto: all’interno c’era un telefono di colore rosso, con la rotellina e i numeri che sbucavano in nero da ogni foro realizzato appositamente. C’era anche un cavo che non sembrava nuovissimo ma, al contempo, non presentava segni di usura. “Semplicemente fantastico.” Commentò incredulo William, provando subito a toccarlo con mani; sua sorella, prontamente, glielo sfilò appena in tempo. “Scusa Will, ma non penso che eventuali danni oggi siano contemplati. Dobbiamo fare in modo che Liz possa fare la sua chiamata.” Edward aggiunse: “Dopodiché in realtà mi servirebbe ancora. Non capisco perché avessi deciso di rimuoverlo totalmente dalla mia vista. Forse perché l’avvento democratico di inizi Sessanta aveva con sé uno spiccato ottimismo e una grande voglia di consumismo.” Scosse la testa, ma in realtà nella sua espressione si coglieva una sorta di malinconia e, al contempo, di felicità nell’aver rispolverato quel vecchio telefono.
Sebbene nemmeno Eleanor Halliwell avesse un aggeggio simile (specialmente perché non aveva conoscenti o amici da contattare, e suo nipote andava a salutarla almeno una volta al giorno), aveva saputo indicare prontamente ai Sinclair e a Edward dove il telefono poteva funzionare e raggiungere il suo obiettivo. William non attese un attimo e, sapendo che sua sorella di tecnologia e di telefoni ne capiva ben poco, approfittò della sua spiccata curiosità e abilità per preparare il dispositivo a cornetta.
“Siamo operativi.” Dichiarò dopo una quindicina di minuti Will, rivolgendo uno sguardo complice a tutti i presenti, che certamente non vedevano l’ora di presentare il loro regalo a Liz.


La finestra in camera si aprì leggermente, scricchiolando: il venticello che arrivava dall’esterno aveva mosso delicatamente le tende, lasciando trasparire un raggio di sole che si era indirizzato sul viso di Elizabeth Munson, ancora addormentato. La ragazza strinse gli occhi e, biascicando qualcosa, iniziò timidamente a guardarsi attorno: la luce che aveva illuminato la stanza le faceva intuire che ormai era mattina, e che una nuova giornata era alle porte.
Non una giornata qualsiasi comunque. Il 22 giugno. Elizabeth ci mise un attimo a realizzare, e lo fece quando era già seduta sul letto, dopo una stiracchiata generale. “Oh no.” Borbottò, assumendo una smorfia di disappunto e seccatura. Non era mai stata una di quelle persone che odiano il proprio compleanno, anzi. Aveva sempre organizzato delle feste, anche se i partecipanti bene o male si contavano sulle dita di una mano: le piaceva circondarsi di amici e affetti e trascorrere quell’evento in compagnia delle persone che appunto, a suo avviso, meritavano. Inoltre era sempre riuscita a liberarsi di suo padre, almeno quando il compleanno si organizzava in casa, o in giardino: solo qualche rara volta faceva la sua apparizione, e principalmente nei giorni di festa in cui lo studio legale era chiuso. Molto spesso, da qualche anno a quella parte, al termine del pomeriggio Davina e lei andavano a mangiare qualcosa fuori, o a guardare un film al drive-in.
Ma il 22 giugno 1965 era un compleanno diverso, insolito; una data da dimenticare forse, sebbene l’intento era già fallito dagli inizi con la presenza dei Sinclair a casa Halliwell. Se fossero state presenti Liz ed Eleanor, la ricorrenza sarebbe passata inosservata: forse solo il dottor Halliwell, grazie alla sua grande attenzione ai dettagli, avrebbe memorizzato la data di nascita di Elizabeth fornita nei documenti medici, e sicuramente non si sarebbe perso l’occasione per augurarle buon compleanno. In ogni caso, tale scenario era pura utopia, dal momento che le orecchie della ragazza avevano già captato un chiacchiericcio sospetto proveniente dal piano di sotto. “Forza e coraggio.” Sospirò, ripetendosi tra sé e sé che prima o poi anche quella giornata si sarebbe conclusa. Dall’altra parte però, mentre si cambiava i vestiti per scendere in sala, sapeva di non poter far trasparire il suo pessimo umore: era consapevole del fatto che Davina non aveva atteso altro che il compleanno della sua migliore amica, anche perché sarebbe stata una delle ultime occasioni per stare insieme, dal momento che di lì a poco i Sinclair avrebbero fatto ritorno ad Hawkins. Improvvisamente Liz sentì una fitta allo stomaco: non era il bambino, quello stava ben bene e nemmeno immaginava cosa stesse succedendo fuori, nel mondo di tutti i giorni. Era più che altro angoscia, agitazione, sentimenti che sembravano improvvisamente riempirla e travolgerla così tanto da mettere seriamente il dubbio la capacità di fare la sua apparizione fuori dalla camera. Potrei rimanere a letto, fingere di stare male. Così non posso deludere nessuno. Pensò velocemente, bloccandosi davanti allo specchio e fissando la sua figura: il viso era senz’altro più paffuto di qualche mese prima e la pancia … Beh, quella quasi non le dava nemmeno più danno. Mh ottima idea, Liz. Così il dottor Halliwell si preoccupa, ti visita, e capisce che non c’è nulla che non va, e che sei una gran bugiarda. Era quindi inutile inventarsi piani alternativi: Liz doveva scendere e festeggiare quella giornata.



Le grida di Davina e William facevano praticamente anche la parte di Edward Halliwell e di Eleanor, che invece si erano limitati ad applaudire Elizabeth, che aveva finalmente sceso le scale, rivolgendo un timido sorriso ad ognuno di loro. “Tanti auguri Elizabeth.” Le disse il dottor Halliwell, stringendole la mano e rivolgendole uno sguardo di conforto. Liz apprezzò, sebbene fosse travolta dagli abbracci calorosi della sua migliore amica e del continuo “Auguri!” ripetuto all’infinito da entrambi i Sinclair, che erano certamente più entusiasti della festeggiata. Quando Eleanor accompagnò per mano la ragazza al tavolo stracolmo di cibo e bevande, Liz scoppiò a ridere e, arrossendo, esclamò: “Non era necessario tutto questo! Siete stati … Non ho parole.” Ed effettivamente non le aveva, perché mai si sarebbe immaginata un’accoglienza simile: certo conosceva le manie festaiole della sua amica, ma non credeva che da parte della signora Eleanor ci fosse una partecipazione ed un entusiasmo così sentiti. Guardandola in viso, Liz capì quanto tutti, da William al dottor Halliwell, fossero contenti di aver fatto ciò che avevano fatto per celebrarla. Si sentì per un attimo mancare o meglio, avvertì qualche lacrima prepararsi giusto a bordo ciglia, per lanciarsi lungo il suo volto, e cercò di ricacciarla dentro. “Ah non ti commuovere Munson, che non hai ancora visto nulla!” Disse all’improvviso William, dando una leggera pacca sulla spalla alla ragazza, la quale lo guardò confusa. “Prima che rovini la sorpresa finale, forse sarebbe il caso di invitare la festeggiata a fare una bella colazione.” Lo rimbeccò Davina, accompagnando la migliore amica al tavolo. Elizabeth spostò la sua attenzione su tutto ciò che quella tavola offriva: si accomodò e, avendo già capito che non era autorizzata a muovere un dito, chiese gentilmente un succo alla pesca e una ciambellina. “Non puoi muovere un dito Elizabeth, oggi sono tutti a tua disposizione.” Dichiarò Edward Halliwell, rimanendo composto ma rivolgendo un sorriso genuino alla sua paziente, che lo ricambiò. “In tutto questo, mi secca dover fare il guastafeste, ma devo andare in ambulatorio. Per me oggi è una giornata di lavoro come un’altra. Questa sera però porto gli hamburger.” Aggiunse il dottor Halliwell, facendo nuovamente gli auguri a Liz e salutando tutti, per poi lasciare la casa.



“Mi potete dire ora cosa state complottando? E’ da quando sono scesa che non fate altro che dire cose tra le righe! E a rivolgervi occhiate che ormai boh, vi conosco oggettivamente troppo bene per non notarle.” Lamentò Elizabeth, una volta che la colazione fu conclusa e i fratelli Sinclair ebbero sparecchiato la tavola, con l’aiuto di Eleanor.
“Adesso sali le scale e vedrai.” La incalzò Davina, spingendola delicatamente sui gradini e seguendola, con William che chiudeva la fila con una frenesia e un’emozione tale che appunto erano difficili da nascondere. Una volta al primo piano, Will indicò a Liz quale corridoio seguire: “Adesso entra lì.” Spiegò Davina alla sua amica. Elizabeth guardò entrambi interdetta e replicò: “Ma questo mi sembra il vecchio ufficio del marito di Eleanor. O meglio, di qualcuno di questa famiglia, non so.” Era certamente dubbiosa e non capiva perché i fratelli Sinclair insistessero tanto a farla entrare in una stanza che lei non aveva mai visto, se non di sfuggita uno dei primi giorni, quando la signora Halliwell le aveva fatto vedere tutta la casa. A Liz non piaceva ficcanasare in giro, men che meno entrare in camere o stanze palesemente private, nelle case di persone che non erano della famiglia. In fin dei conti però, da qualche mese a quella parte, gli Halliwell erano davvero qualcosa di molto vicino a dei parenti. Will scosse la testa e, aprendo la porta, le fece strada. “Entra Munson, che non ti mangia nessuno.” Disse, ridacchiando. Elizabeth sospirò e, ormai arresa al volere dei Sinclair, obbedì. La stanza era illuminata, diversamente da quel che ricordava e, al centro della scrivania posta nell’angolo, spiccava un telefono rosso.        Liz sbatté le palpebre, ancor di più perplessa: le avevano regalato un telefono? Forse sì, ma perché Davina ricordava molto bene la diatriba che si era scatenata a casa dei Munson qualche tempo prima: sia Liz che Wayne avevano insistito coi genitori affinché acquistassero un telefono, di quelli che le vetrine dei negozi più al passo coi tempi esponevano fieramente. Come sempre, Ella era rimasta in silenzio, aspettando il responso del marito che non si era fatto attendere: Christopher Munson era stato ancora una volta categorico e inflessibile, declinando la proposta. Questo perché, a detta sua, una volta che lo studio legale aveva a disposizione una cornetta, così come le strade principali di Hawkins e l’officina del figlio, certamente in casa non c’era bisogno di un telefono: anche perché questo avrebbe significato pagare bollette salatissime, dal momento che sua figlia sarebbe stata incollata all’aggeggio per parlare coi suoi amici.

“In barba al vecchio signor Munson.” Commentò divertita Elizabeth, guardando Davina che, facendo spallucce, non nascose la sua espressione soddisfatta. “Sì, ma non è come sembra.” Replicò lei, concedendo al fratello una dimostrazione concreta di quello che era il vero regalo di compleanno. William Sinclair agitò velocemente le dita sulla rotella del telefono rosso: stava formulando un numero, ma Liz non lo riconobbe assolutamente. William alzò la cornetta e, dopo un breve istante di attesa, parlò: “Munson, sei operativo?” Ridacchiò, attendendo una risposta. Elizabeth non poteva credere a ciò che aveva sentito: Will non si era rivolto a lei, ma a qualcun altro. Qualcuno al di là della cornetta. Qualcuno per lei.
Davina rivolse uno sguardo a suo fratello, non per fulminarlo almeno una volta, ma quasi per ringraziarlo dell’impegno che aveva messo nella resa di quel regalo. William Sinclair ricambiò il sorriso e, dopo aver ricevuto la risposta che sperava, rivolse la cornetta a Liz, che iniziò a tremare. “E’ per te.” Le fece l’occhiolino e, non appena la ragazza afferrò il telefono, i Sinclair si dileguarono dalla stanza, chiudendo la porta alle spalle.
“Elizabeth?” La voce che la giovane Munson sentì al telefono la fece sussultare, e in quel momento non riuscì certamente a trattenere le lacrime, di emozione e felicità. “Oh mio Dio. Wayne, sei tu?!” Esclamò incredula lei: quella voce, quella di suo fratello, poteva riconoscerla ovunque, persino al telefono. Ci fu uno scambio di risate imbarazzate da parte di entrambi, poi Wayne specificò: “Diciamo che il mio capo mi ha gentilmente accordato una pausa telefono in officina. Ha capito la situazione speciale.” Attese un istante, e aggiunse: “Auguri Liz, davvero. Buon compleanno.” Elizabeth singhiozzò un attimo e poi, sospirando, rispose: “Oh Wayne! Grazie! E … Grazie ai Sinclair. Ma come avete fatto? Non mi sarei mai aspettata una cosa del genere.” Scosse la testa, e proseguì: “Mi manchi sai. A breve sarò nuovamente da sola, Davina e Will se ne vanno.” Wayne Munson replicò: “Non preoccuparti. Ho sentito abbastanza del dottor Halliwell e di sua zia da farmi pensare che tu sia assolutamente in ottime mani. Inoltre, non manca molto a settembre. Sarò lì, è una promessa. Ci sarò quando nascerà.”
Liz non era riuscita a realizzare che, essendo il 22 giugno, forse mancavano a stento tre mesi scarsi prima dell’arrivo del bambino: era così emozionata, tremante e grata in quel momento, che nulla le importava di più se non parlare con suo fratello. E, soprattutto, aggiornarlo. “Adesso però devo farti io un regalo.” Disse Elizabeth, con un filo di emozione: si portò una mano alla bocca, stringendola e attendendo una risposta dall’altra parte del telefono. “A me? Il giorno del tuo compleanno?” Wayne era perplesso, non si aspettava nulla e il suo tono lo faceva capire bene. Elizabeth sfoderò un sorriso ampio e brillante, come se avesse suo fratello davanti a lei, reduce da una giornata all’officina, con la tuta sporca e lo sguardo stanco, ma sempre attento.
“Il suo nome è Edward.” Bisbigliò lei al telefono. Seguì un istante di silenzio, poi Wayne replicò: “Del dottore?” Elizabeth rise e ribatté: “Anche, ma non solo.” Attese un attimo prima di parlare, volutamente, perché sapeva che avrebbe portato estrema gioia a suo fratello.

“E’ un maschio, Wayne. Il suo nome sarà Edward Munson.”

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Capitolo 12
*** Dead to me ***


Dead to me 
 

Il compleanno era trascorso in un baleno e, come promesso, il dottor Halliwell era tornato dalla sua giornata in ambulatorio fornitissimo di hamburger e patatine fritte, seguendo alla perfezione le preferenze che ogni ospite di casa Halliwell aveva elencato prima che lui andasse a lavoro quella mattina.

“Stavo morendo di fame!” Esclamò William Sinclair, intento a togliere con veemenza dall'involucro il suo panino. Davina, rivolgendo una delle sue solite occhiate al fratello, scosse la testa e si portò alla bocca una delle tante patatine fritte che erano sul tavolo: nel frattempo però, la sua attenzione era stata catturata da Elizabeth, che da quando era uscita dalla doccia, dopo una giornata trascorsa in giro per Dallas e la telefonata con suo fratello Wayne, sembrava totalmente fuori dal mondo. O comunque, certamente non a casa assieme ai suoi amici.

Gli occhi scuri e profondi della ragazza rivolgevano lo sguardo altrove, fuori dalla finestra, poi nuovamente attorno alla sala, per terra, sulle sue mani, che sembrava tormentarsi come mai prima: non aveva nemmeno preso il suo hamburger dalla borsa di cartone che aveva portato, ancora fumante, Edward Halliwell.

Il suo comportamento e il suo silenzio non erano certamente passati inosservati: la signora Eleanor le indirizzava qualche occhiata, attraverso i suoi occhiali da lettura, ma poi cercava di non farsi scoprire e ritornava concentrata sulla cena, con qualche sospiro in più del previsto. William era certamente troppo impegnato a sgranocchiare tutto ciò che gli passava davanti, ma le sue orecchie non erano abituate a quel tipo di silenzio; infine il dottor Halliwell, che nella sua indole aveva discrezione a palate, si era limitato a guardare prima Davina poi Liz, e ancora all'inverso, nella speranza di captare qualcosa. Non voleva farsi gli affari della sua paziente, men che meno quelli della figlia dei suoi amici, tuttavia aveva l'impressione che qualcosa fosse andato storto in quel compleanno che non si doveva festeggiare, a detta proprio della protagonista.

Forse era stato quello il problema? Essere andati contro la volontà di Elizabeth Munson? Edward sospirò, probabilmente senza nemmeno accorgersene e, abbozzando un sorriso, rivolse una domanda alla ragazza: “Allora Liz, che ne pensi della sorpresa che ti hanno fatto?” Come svegliata da un sonno profondo, la giovane Munson sobbalzò e, tornando alla realtà, annuì e replicò: “Moltissimo. Non me lo aspettavo.” Tutti restarono in attesa di un'altra parola, commento o impressione, perché così era Elizabeth: iniziava una frase con poche considerazioni, temendo di annoiare ... Poi proseguiva, non appena si rendeva conto di essere effettivamente ascoltata da persone realmente interessate a quel che aveva da dire.

Quella sera però non aggiunse altro, anzi: quasi consapevole di aver insospettito se non altro la sua migliore amica (che la conosceva da troppo tempo per non accorgersi di questo strano comportamento), cercò di sviare qualsiasi dubbio affondando le sue mani sull'hamburger rimasto nel sacchetto, che era effettivamente il suo.

Ne mangiò due bocconi, uno di fila all'altro, dopodiché si portò una mano sulla bocca e, deglutendo, sorrise e dichiarò: “Scusate, temo che stasera l'hamburger non sia di gradimento a qualcuno.” Aspettò un istante, ignorando volontariamente gli sguardi dei due Sinclair. Rivolgendosi poi a Eleanor e Edward, Elizabeth si alzò e concluse: “Grazie per la cena e... Per tutto. Se non vi dispiace esco a prendere una boccata d'aria.” 

Non attese alcuna reazione da parte degli altri commensali: abbandonò la tavolata e, afferrando di fretta la sua giacca, la indossò al volo e impacciatamente, per poi uscire dalla casa.

Le serate a Dallas sembravano ancora piuttosto fresche: mentre durante il giorno il caldo di giugno si faceva sempre più prepotente, quando il sole era ormai tramontato e la notte subentrava dolcemente sulla città, si alzava un venticello fresco che portava sollievo.

Liz inspirò profondamente, socchiudendo gli occhi: non c'era un'automobile che circolasse in quel momento, né una bicicletta, o qualche bambino di corsa sulla via di casa. Il silenzio la avvolse, e così anche i pensieri che aveva cercato di tenere a bada finché era in compagnia.

Una volta raggiunto il parchetto, che distava davvero pochi minuti da casa Halliwell, Liz si sedette su una panchina e, appoggiate le mani sulla pancia, ripercorse quella giornata che aveva assunto i contorni del compleanno più assurdo, insolito e, a tratti, terribilmente triste della sua intera esistenza.

La telefonata con Wayne era stata una vera e propria sorpresa, iniziata con un vortice di emozioni inspiegabile, e con la sua voce rotta dalla commozione, che dichiarava a suo fratello il sesso del bambino, ed il nome.

“Sai già che lo chiameremo solo Eddie in famiglia.” Aveva subito commentato Wayne, anch'egli in preda a una risata di contentezza e grande emozione. 

“Non importa, andrà bene Eddie. Purché sia felice.” Aveva poi replicato Elizabeth, iniziando seriamente a pensare ai contorni che avrebbe assunto il volto di suo figlio, a quanto sarebbe stato eventualmente simile a lei, al colore dei suoi occhi, che l'avrebbero guardata come riferimento, con gratitudine forse agli inizi. Poi magari, in fase adolescenziale, quegli stessi occhi avrebbero osservato sua mamma con insofferenza, ribellione. Chi poteva mai sapere come sarebbe stato il suo Eddie?

“A tal proposito Liz.” Poi suo fratello Wayne, dall'altra parte del telefono, l'aveva riportata alla realtà, con un tono diverso dal precedente: sembrava intenzionato a lasciare perdere per un attimo i festeggiamenti, il compleanno di sua sorella e l'annuncio, per concentrarsi su qualcosa di molto più importante. 

“Dovremo seriamente pensare al dopo.” Continuò, lasciando tuttavia un altro istante di totale silenzio: era inutile, suo fratello non riusciva mai ad arrivare al dunque subito. A differenza di Liz, che spesso e volentieri si faceva prendere dalle riflessioni srotolate ad alta voce, Wayne era un tipo più taciturno, enigmatico, in un certo senso. Faceva dichiarazioni a metà, iniziava un discorso e poi lo troncava così, ancor prima di dargli una vera forma. 

In quel momento, Elizabeth non riuscì però a tollerare quel tratto caratteriale di suo fratello, perché il tono era stato piuttosto esplicativo e perché, proprio per questo motivo, forse era necessario proseguire e andare dritto al punto. 

“Mancano forse tre mesi, o meno. Giusto? Il dottor Halliwell ti ha ... Non so, dato una stima di quando sarà pronto?” 

Altre domande per nulla rilevanti, che non facevano altro se non distogliere l'attenzione sul punto centrale della faccenda, al quale Wayne non sembrava voler arrivare in fretta. Considerato inoltre che stava utilizzando il telefono dell'officina, chissà quanto sarebbe durata la conversazione: probabilmente non abbastanza per far capire a Liz cosadiamine volesse davvero dire suo fratello. 

“Non è un prosciutto Wayne. E' un bambino. E no, non è così facile capire la data precisa. Probabilmente a inizio settembre comunque. Qual è il punto, ad ogni modo?” Elizabeth sembrava spazientita, perché quell'ultima domanda era stata sputata: Wayne lo notò, ma cercò di non dare adito a quel nervosismo che altrimenti avrebbe chiuso la telefonata prima del previsto. 

“Intendo dire che dobbiamo trovare un momento per fare il punto della situazione. Occorrerà programmare il rientro a Hawkins, preparare il caravan e contattare la signora Sinclair, che ha già detto che potrà darci una mano per constatare che la mia casa su ruote sarà un ambiente temporaneo adatto al bambino.” 

Liz aveva sgranato gli occhi e aveva spalancato la bocca, cercando ossigeno, perché improvvisamente le sembrava mancare aria sufficiente per sopravvivere a quell'ondata di parole che, sorprendentemente, era uscita da suo fratello. 

La conversazione era proseguita poco di più, con Elizabeth che aveva immediatamente alzato il tono, tutt'altro che spazientito in quel momento: era furibonda lei, era incredulo il suo timbro di voce. 

Wayne aveva già programmato tutto, ecco qual era il punto: glielo aveva esclamato al telefono, sconvolta da quanto le sue orecchie avevano appena sentito. 

“Chi ti dice che io voglia tornare ad Hawkins? A due passi da mamma e papà, tra l'altro?! Ed in una città che non ha davvero più nulla da offrirmi?!” Aveva proseguito, stavolta vicina alle lacrime. 

Non poteva seriamente credere a quel che stava accadendo, come la telefonata, piena di emozioni e commozione sull'incipit, si stesse trasformando in un incubo: ciò che sembrava turbare di più Liz era il fatto che suo fratello volesse dare un'altra possibilità alla cittadina che li aveva visti nascere e crescere. 

La stessa città, Hawkins, che l'aveva rinnegata assieme ai suoi genitori, alla scuola, a tutti coloro che fino a poco tempo prima sembravano essere la cornice naturale della vita di Elizabeth: a nessuno sembrava interessare l'assenza di lei, di una Munson. Né alla sua famiglia natale, né ai compagni di classe, agli insegnanti: i commenti che l'avevano spinta fuori da quei confini erano ancora incastrati tra le sue costole, e facevano male ogni volta che Elizabeth respirava. 

Cos'altro poteva dare Hawkins ad una come lei? 

“Sono scappata da quella città, Wayne. Fuggita, con tutte le forze e la determinazione che avevo con me in quel momento. Non puoi chiedermi davvero di tornare.” Mormorò lei, ricacciando dentro le lacrime. 

Wayne sospirò e replicò: “Non puoi nemmeno pensare che Dallas sia il tuo futuro, Liz. Io non potrò aiutarti a questa distanza, non potrò esserci sempre, lo capisci vero?”

Lei si irrigidì, contraendo la mascella quasi per non far uscire alcuna parola: il pensiero di vivere quei nove mesi per sempre, come quotidianità anziché eccezionalità, e quindi lontana da suo fratello, le aveva appena tolto il respiro. Ancora. 

Non sapeva cosa dire, come replicare. Immaginare una vita senza Wayne o meglio, con Wayne ma solo a tratti, come presenza incostante, fatta di chilometri e chilometri di distanza, di aerei costosi e strade a volte impraticabili, le rendeva tutto improvvisamente impossibile da vivere, da affrontare. 

“In più ... Quel ragazzo. Potrebbe seriamente meritare di sapere, una volta tornati a casa.” 

Su quella panchina, avvolta nel cappotto extra large che sembrava nascondere anche parte del viso, Elizabeth Munson non faceva altro che ripercorrere quella telefonata e, soprattutto, le ultime parole che aveva rivolto al fratello, dopo la sua osservazione conclusiva.

“Lascia fuori chiunque non sia te, me, Davina o Will. Non sono affari di nessuno, se non miei, e di Eddie.” 

Aveva poi riattaccato, con una furia talmente incontrollabile da non renderle nemmeno possibile processare quell'istinto: si era pentita il secondo successivo, quando i suoi occhi si erano posati sulla cornetta rossa, correttamente riposta.

Era stata talmente violenta in quell'atto, che Davina e Will avevano istintivamente aperto la porta, segno chiaro di quanto stessero origliando: Liz era talmente furibonda e al contempo presa dai sensi di colpa, che non aveva nemmeno commentato il fatto che i fratelli Sinclair fossero stati ad ascoltare la conversazione fino a quel momento.

Era poi uscita dallo studio spintonando leggermente William, e non aveva più parlato di quella conversazione per il resto della giornata.

 

Osservando il cielo scuro, illuminato da pochissime stelle, Liz si morse il labbro inferiore: era stata un'ingrata, una stupida a riattaccare e concludere così la telefonata a sorpresa con suo fratello. Un magone devastante sembrava attanagliare la sua stessa gola, e il dispiacere di non aver potuto semplicemente salutare suo fratello con affetto, era sempre più incontrollabile. Avrebbe dovuto rimediare, ma quando? Chissà.

L'unico aspetto positivo di quella discussione era nato dal fatto che, a tre mesi scarsi dalla nascita del bambino, Liz era riuscita finalmente a trattarlo come parte della sua nuova famiglia, come unica altra entità che avrebbe avuto voce in capitolo nella sua esistenza. 

Eddie Munson. 

Era un bel soprannome per suo figlio, sebbene Edward fosse certamente il principale. Così lo avrebbe chiamato probabilmente solo quando sarebbe stata davvero arrabbiata con lui.

Sorrise. Pensare alla sua vita da madre in quel momento non la spaventava così tanto, ma non poteva fare a meno di pensare alle idee che aveva Wayne in testa. Aveva menzionato non solo la madre dei Sinclair (chiaro segno del fatto che anche i suoi amici sembravano organizzare la sua vita post-parto senza interpellarla), ma ancheRobert. Lo conosceva? Wayne aveva avuto modo di scoprire l'identità del padre del bambino? 

In ogni caso erano tutte domande inutili, irrilevanti: Bob Rossdale, nell'ottica di Liz, avrebbe continuato a spacciare nelle città circostanti e a racimolare qualche soldo aggiunto suonando nei vari locali dell'Indiana, ignaro di aver lasciato sulla sua strada qualcuno con qualche suo gene.

Liz scosse la testa e pensò, tra sé e sé: “Speriamo meno geni possibili.”

 

Il rumore di passi che si avvicinavano nell'erbetta già piuttosto alta del parchetto, fece voltare Liz, che scorse la sagoma della sua migliore amica.

“Edward mi ha detto che saresti stata qui, con ogni probabilità.” Dichiarò Davina, sedendosi immediatamente a fianco dell'amica. Molto bene, adesso pure i suoi luoghi segreti a Dallas non erano così tanto segreti.

“Vuoi parlarne?” Chiese con determinazione e al contempo velata preoccupazione alla sua migliore amica, che non sembrò dispiaciuta di avere finalmente compagnia.

“Hai già sentito tutto, direi.” Replicò Elizabeth, rivolgendo però un sorriso alla ragazza, come per farle intendere che non era assolutamente arrabbiata per aver scoperto che aveva origliato, assieme al fratello, l'intera telefonata.

“Ehy, ho potuto solo sentire la tua voce. Il resto me lo sono dovuta immaginare.” Si scusò Davina, ridacchiando.

Elizabeth sospirò e le raccontò più o meno il succo della conversazione, aggiungendo che senza dubbio il futuro del bambino le stava a cuore, più di ogni altra cosa.

“Proprio per questo non so se Hawkins sia il posto giusto per lui.” Dichiarò Liz, scuotendo la testa. “Come pensi che verrà giudicato? Ancor prima di diventare un ragazzo, un adulto! Eddie Munson, figlio per un errore, che vive con sua madre e suo zio in un caravan.” Guardò a terra, chiaramente già in colpa nei confronti di suo figlio per quel che stava dicendo.

“Penso che ognuno di noi abbia diritto ad avere una possibilità. Incluso questo bambino, Edward. E credo sia giusto che venga circondato da quella parte di famiglia che davvero desidera conoscerlo e viverci assieme. Inoltre, non dimenticare la zia acquisita.” Replicò Davina, sfoderando un sorriso di conforto rivolto all'amica, la quale ridacchiò, quasi sollevata.

“Questo certamente potrebbe aiutare.” Commentò Elizabeth e, giocherellando con un pezzo d'erba che aveva strappato poco prima, aggiunse: “Wayne ha anche provato a mettere in mezzo Robert.” A quelle parole, Davina sbuffò ed esclamò: “Incredibile! Tuo fratello è veramente testardo, quasi quanto il mio. Quando lo abbiamo incontrato, poco prima di partire per Dallas, gli avevo ben spiegato quale fosse il tuo parere a riguardo.”

Liz spalancò gli occhi e ribatté allarmata: “Non gli avete detto chi è, vero?!” 

Davina scosse la testa, contenta del fatto che, per una volta, suo fratello Will fosse riuscirto a starsene zitto.

“Molto bene.” Disse sollevata Elizabeth.

“Perché per me Robert Rossdale è morto.”

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Capitolo 13
*** Dream a little dream of me ***


Dream a little dream of me


“Come puoi fare questo a me?! A noi! Alla famiglia!”
“Mi dispiace, io …”
“No, non esiste! Tu non esisti!”
“Vi prego! Mamma, per favore …”
“Non pregare tua madre! Non osare nemmeno lontanamente farlo! Devi andartene. Via, via dalla mia vista!”


Il buio improvviso.

Ella Munson spalancò gli occhi all’improvviso, in preda al fiato corto e con il cuore che batteva all’impazzata: si guardò un istante attorno, era in camera sua. Non si sentiva alcun rumore, nemmeno una voce, se non il suo respiro affannato; appoggiandosi una mano alla fronte, capì di aver sudato. Cercò maldestramente un fazzoletto sul comodino, per poi passarlo sopra agli occhi, ancora sbarrati, increduli.
Afferrò poi il bicchiere dell’acqua ancora pieno dalla sera prima, e un blister di piccole pillole che sembrava richiamare la sua attenzione in modo piuttosto prepotente: forse l’unico metodo per distrarla, visto il suo stato d’animo estremamente agitato ed in preda al panico.
Era l’ennesimo incubo quello che Ella aveva fatto, probabilmente tutta la notte, perché l’aveva accompagnata fino al mattino, quando ormai era impossibile sperare di riprendere un po’ il sonno, e nascondersi in sogni migliori. Sbattendo le palpebre ripetute volte, le sembrava addirittura di rivedere la figura poco nitida di sua figlia Elizabeth, sulla quale spiccavano solo le lacrime, che le rigavano il viso. Una volta alzatasi dal letto, con fatica, parve di sentire per un istante la supplica di sua figlia, che implorava il padre di restare a casa, di non cacciarla via.
Come tutti gli incubi relativi a quell’episodio che Ella faceva da più di sei mesi, la vicenda si concludeva sempre allo stesso modo: con Elizabeth che, disperata, rivolgeva un ultimo sguardo all’uscio di casa e ai volti della sua famiglia.
Era altrettanto chiara la voce del marito di Ella, Christopher Munson: era impossibile per lei ovattare quel tono, quelle parole, quella violenza. Non l’aiutava il fatto che ogni pomeriggio, alle cinque, suo marito faceva rientro e non c’era via di fuga: dopo l’accaduto, nulla di ciò che raccontava Christopher Munson interessava a Ella. Anzi, le sue orecchie quasi imploravano pietà, avrebbero sanguinato pur di far cessare quella voce nel suo blaterare costante. Era intollerabile. Nonostante ciò, se c’era una cosa che Ella Munson aveva imparato una volta sposato suo marito, era sopportare. Anche se questo significava morire dentro, impazzire, non dormire o farlo a fatica (e con l’aiuto dei medicinali prescritti).
Perciò anche quel giorno, Ella si alzò con il preciso obiettivo di seguire l’onda di emozioni soffocate, di parole non dette, e di ascolti non graditi.

Quello che però non si aspettava, era il fatto di aver dormito davvero più del previsto: quando uscì dalla camera, ancora buia perché ben tappata dalle tende lunghe sulle finestre, vide le scarpe di lavoro del marito al solito posto; spostando lo sguardo, notò anche la valigetta. Dopodiché, l’orologio disse la sua: erano le sei in punto.
Non del mattino però, era evidente anche dalla luce che invadeva tutto il salotto e la cucina, poco più avanti.
Ella sobbalzò quando qualcuno si schiarì la voce. Girandosi, a destra, vide Christopher Munson, seduto sulla poltrona, che la guardava impassibile.

“Non ti ho sentito rientrare. Io … Stavo riposando.” Mormorò lei, abbassando lo sguardo e lasciandosi immediatamente alle spalle la porta della camera, con l’intenzione di impegnarsi nelle faccende da subito, per non destare sospetti.
Suo marito la seguì con gli occhi, restando fisso sulla poltrona, nella stessa posizione: le sue mani erano ancorate ai due braccioli talmente forte che si potevano notare i nervi tesi, rigidi, che percorrevano persino le dita.
La signora Munson afferrò la scopa, volontariamente cercando di evitare gli occhi cupi del marito, che però sentiva su di sé, quasi come un cappotto troppo grande e pesante per quelle giornate estive. Soffocante, opprimente. Atroce.
“Non starai cercando di pigliarmi per il culo, vero Ella?” Esordì Christopher Munson, senza muoversi, con tono piatto, unico, senza inclinazioni.
La donna si bloccò in mezzo al salotto e, deglutendo, lo guardò per un istante negli occhi, per poi abbassare la testa e scuoterla.
“Io non …” Abbozzò Ella, con voce tremante, ma venne immediatamente interrotta: Christopher si alzò di scatto dalla poltrona, così velocemente e inaspettatamente che fece sobbalzare la moglie. Insieme a questa repentina azione, esclamò: “Non ti azzardare nemmeno a cercare una qualsiasi patetica scusa, perché non sarebbe utile, se non a peggiorare la tua situazione!” Si avvicinò a lei, puntandole l’indice destro addosso. Ella si portò le mani sul volto, tentando di coprirlo e nascondere la sua espressione spaventata e imbarazzata: non servì a nulla perché Christopher Munson gliele afferrò, staccandole subito dal viso e riportandole, con estrema arroganza, sui fianchi.
“Mi devi guardare in faccia quando provi a mentirmi!!” Tuonò: dalla sua bocca uscirono delle gocce di saliva, sputate così arrogantemente da raggiungere Ella, che iniziò a singhiozzare.
Prima che la discussione potesse degenerare – e Dio solo probabilmente sapeva in che modo – fece il suo ingresso in casa, dal retro della cucina come era suo solito fare, Wayne Munson, che aveva già sentito dall’esterno gli urli di suo padre, i quali lo avevano logicamente intimato a darsi una mossa ed entrare.

“Cosa succede?!” Esclamò, ancora prima di chiudere la porta dietro di sé.
“Oh eccolo, così ci diciamo le cose come stanno di fronte all’unico figlio rimasto!” Esplose, con un filo di amara ironia Christopher Munson, rimanendo piantato davanti a sua moglie, che aveva cominciato a piangere non appena suo figlio aveva varcato la soglia.
“Ho fatto una domanda.” Ribadì Wayne, avvicinandosi ai genitori, che sembravano due statue di marmo, anziché due persone: per quanto entrambi fossero agitati, le loro figure erano statiche, granitiche.
Christopher distolse lo sguardo da Ella e, guardando il figlio, rispose: “Succede che tua madre vuole far credere di aver riposato un po’, quando in realtà è andata a letto ieri sera, svegliandosi solo adesso!! Sono tornato a casa, ho fatto la doccia, ho avuto tempo persino di aprire e chiudere la porta della camera più volte ma niente, il sonno è proprio profondo a volte, eh?!” L’ultima parte di quel discorso gli uscì ancora una volta sputata, urlata, disprezzata.
Ella continuò a singhiozzare e, guardando suo figlio con le lacrime che le rigavano il viso, abbozzò una richiesta di perdono con le labbra, ma senza far uscire alcuna parola.


“La verità” ricominciò Christopher Munson, questa volta allontanandosi da sua moglie e iniziando a girovagare per la stanza, quasi come un investigatore privato che sta per svelare la risoluzione di un caso al pubblico. “E’ che tua madre sta continuando a prendere i sonniferi, e chissà quanta altra roba, visto che alle volte mi sembra di vedere delle scatole diverse da quelle delle settimane precedenti. E ne prende talmente tanti che non è nemmeno in grado di svegliarsi al mattino!” Tuonò, sbattendo la mano sul tavolino del salotto, facendo cadere le ultime foto rimaste della famiglia (ovviamente quelle senza Liz, perché le altre erano state buttate in un sacco da lui stesso, poco dopo aver cacciato di casa sua figlia).
Calò il silenzio: Wayne non sapeva cosa dire, come replicare. Aveva capito che la situazione di sua madre non era migliorata, ma il lavoro, occuparsi del suo caravan e organizzare tutto per raggiungere sua sorella, lo avevano tenuto talmente impegnato in quegli ultimi mesi da non fargli avere ben chiara la situazione in cui stava versando la sua famiglia. Sentì il calore divampare in faccia: provava vergogna, dispiacere. Era desolato all’idea di aver lasciato sua madre da sola, in balìa di quel folle, che non aveva mai capito nulla né dei suoi figli, né della moglie: figuriamoci poi in un contesto del genere, dopo ciò che era accaduto.
Christopher rivolse uno sguardo di disprezzo ad entrambi i parenti, poi rise amareggiato e commentò: “Incredibile. Anni e anni passati ad impegnarmi, sputando sangue e sacrificio, per rendere questa una famiglia degna di rispetto, di ammirazione. Di nota.” Si interruppe, rialzando con una mano una delle cornici cadute sul tavolo: la trattenne nelle mani un istante e, scuotendo la testa, la lanciò contro il muro, rompendola in mille pezzi.
Mentre i piccoli frammenti di vetro si andavano ad adagiare sulla moquette, Ella sobbalzò; Wayne, dal canto suo, non aveva smesso di fissare suo padre, impegnandosi in tutti i modi per non sbattere le palpebre, e per non distogliere lo sguardo da quell’uomo che non era mai stato un genitore affettuoso certo, ma che nell’ultimo periodo aveva fatto di tutto pur di destare l’odio che era assopito in suo figlio.
“Tutto per colpa di quella puttana.” Concluse, tornando ad un tono normale, ma sputando l’ultima parola, che fece scattare Wayne, il quale si avventò su suo padre, appiccicandolo al muro e tenendolo stretto con un braccio, premuto sul collo.

“Wayne!” Esclamò la madre, incredula e ancora in preda al pianto. Ma il primogenito dei Munson non era intenzionato a lasciar perdere, non arrivati a quel punto: i suoi occhi erano ben fissi sul padre, il quale per un istante aveva assunto un’espressione seria, rigida, ma aveva continuato a ricambiare lo sguardo.
“Se osi ancora una volta a parlare di Elizabeth in questo modo, papà, ti giuro che inizierò a pestarti così forte da non darti modo nemmeno di alzarti per chiedere aiuto.” Sibilò Wayne al padre, staccando subito dopo il braccio che lo teneva piantato al muro. Christopher Munson non aspettò altro che quella mossa, per divincolarsi e allontanarsi dal figlio: in quel momento però, abbassò lo sguardo.
Prima che uno dei genitori potesse in qualche modo reagire a quanto accaduto, Wayne osservò entrambi e disse: “Sono disgustato da voi. Anche da te, mamma.” Restò un istante in silenzio, consapevole del fatto che, a quel punto, Christopher non avrebbe replicato, né lo avrebbe interrotto: era rimasto incredulo, seppur non apertamente, del gesto che il figlio era stato capace di fare.
“Siete stati in grado di cacciare, senza alcun rimorso o pensiero, vostra figlia. Parte di voi, di questa famiglia. E lo avete fatto in un momento per lei, di grande difficoltà e paura.
Tu, papà, sempre attento a sembrare un gentiluomo, hai riempito Elizabeth delle peggiori parole, lasciandole di te solo il ricordo di un odio indescrivibile.
Tu dunque, mamma, sei sempre stata succube di papà e sempre lo sarai. Ma mai avrei pensato di assistere a una cosa del genere, di vedere te incapace di alzare un dito, di parlare, di difendere tua figlia. Nulla. L’hai lasciata andare, consapevole del fatto che sarebbe diventata madre anche lei!” Per un istante, Wayne Munson ebbe paura di piangere: il pensiero che aveva appena esternato, il fatto che una mamma non era stata in grado di difendere non solo la figlia, ma anche la madre che quest’ultima sarebbe diventata, lo svuotò di ogni speranza per il futuro.
Inspirò profondamente e riprese il discorso: “E adesso devi per forza drogarti perché i sensi di colpa non ti fanno dormire. Perché non riesci a vivere con te stessa, se non quando sei sedata. Ma vi assicuro, ad entrambi, che le cose per voi non miglioreranno mai, e che questa famiglia è stata distrutta da chi l’ha costruita.”
Christopher Munson aveva la mascella contratta, rigida: guardava suo figlio senza proferire parola, senza tradire alcuna espressione sul viso.
Ella si era fatta scivolare a terra, appoggiandosi al muro, ed era accovacciata sulle sue stesse gambe, singhiozzando e tenendo gli occhi chiusi: eppure, quelle parole taglienti ma veritiere più che mai, non era stata capace di tenerle fuori.
Il calendario in salotto ricordava lo scorrere del tempo: luglio era già alla sua conclusione.
Dopo averlo osservato un istante, Wayne sospirò e concluse: “Fra poco più di un mese Elizabeth partorirà. E io voglio esserci quando succederà. Deve sapere che una parte della sua famiglia non l’abbandonerà mai. Il mio caravan è quasi ultimato, e dopo questa pietosa sceneggiata, toglierò il disturbo il prima possibile anzi, già da questa sera.”
Ella supplicò il figlio di aspettare, ma lo fece senza alzarsi, restando appoggiata al muro, disperata; dal canto suo, Christopher Munson continuò a mantenere il suo sguardo fisso su un punto non specifico della sala, glaciale e rigido come era stato fino a quel momento.
Non avrebbe pregato nessuno, come sempre. Men che meno suo figlio, il secondo che era riuscito a deluderlo e a lasciare quella famiglia a brandelli.
E fu proprio sotto quegli sguardi, che Wayne Munson si diresse verso la propria stanza, trascinando fuori dall’armadio le valige e riempiendole freneticamente, con determinazione, di tutto ciò che era il suo guardaroba.
Diede uno sguardo fuori dalla finestra, cercando di memorizzare quale vista avrebbe abbandonato per sempre: quella che lo aveva accompagnato sin da bambino, e che lo stava lasciando andare.

Per sempre.
 
 

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Capitolo 14
*** I just happened (parte uno) ***


“I just happened”
Parte uno

“Non si faccia scrupoli a richiamarmi prima del tempo, se ha bisogno! Ci tengo!” Elizabeth Munson stava salutando il Direttore del Book Depository di Dallas alla sua maniera, insistendo un po’ con il timore che la sua temporanea assenza da lavoro avrebbe effettivamente dato qualche problema. Dal canto suo, il suo capo non faceva altro che ridere, perché era la terza volta nel giro di dieci minuti in cui la giovane aveva spiegato che sarebbe corsa in loro aiuto anche prima del termine della sua maternità. Era divertente perché, nel corso dei mesi, da quando aveva iniziato a lavorare lì, non si era mai mostrata stanca, svogliata o altro: e sinceramente il Direttore non si spiegava come fosse possibile, specie considerato che quella pancia, cresciuta a dismisura specialmente negli ultimi mesi, senz’altro un po’ di stanchezza la causava.
“Tu pensa solo a tuo figlio Elizabeth, e a riposarti. Ci rivedremo non appena sarai in grado di riprendere il lavoro.” Concluse il Direttore del Book Depository, salutandola all’ingresso; nel frattempo sul viale principale era sbucata l’automobile guidata dal dottor Halliwell, che come un orologio svizzero era arrivato puntualissimo per dare un passaggio alla ragazza verso casa.
Quando entrò in macchina, Elizabeth sospirò: era sollevata dal fatto che finalmente fosse seduta, ma al contempo era tormentata dall’idea che non c’era certezza nemmeno sul suo futuro lavorativo. E non certo perché il Direttore non la volesse più, anzi, era stato molto chiaro sul contrario; piuttosto perché sapeva altrettanto chiaramente l’idea che aveva suo fratello Wayne, la quale certamente non combaciava con eventuali progetti di vita a Dallas.
“Lo so a cosa stai pensando, e non credo che al momento valga la pena tormentarsi.” Esordì il dottor Halliwell, dopo aver esaminato rapidamente lo sguardo crucciato di Elizabeth, la quale lo osservò incuriosita e sorpresa. “Intendo dire che i piani per il futuro si costruiranno man mano. Adesso penso ci sia qualcosa di più urgente su cui dedicarsi, non credi?” Chiarì lui, mentre Liz annuì, ancora un po’ pensierosa.

Quando arrivarono a casa erano quasi le sette di sera: il caldo di agosto era però più pressante di quello dei mesi precedenti, e non faceva altro che peggiorare le condizioni fisiche della ragazza che non solo aveva chiaramente problemi di deambulazione (più che altro nel coordinare i movimenti, vista la pancia che sembrava non interrompere la crescita), ma si sentiva sempre meno tollerante nei confronti dell’afa, del sudore e del sole cocente che picchiava selvaggio tutto il giorno, anche quando ormai era vicino al tramonto.
“Penso che farò una doccia e dormirò, questo caldo mi uccide.” Borbottò Elizabeth una volta entrata in casa. Edward annuì e, salutando sua zia Eleanor, replicò: “Io stasera ho un congresso medico al quale ho promesso che avrei partecipato. Perciò non posso rimanere a cena. Vengo direttamente domattina, visto che abbiamo l’ultima visita di controllo, d’accordo?”
Elizabeth, che aveva salutato con un sorriso stanco la signora Halliwell, abbozzò un’espressione convinta e rispose: “Va bene. E grazie del passaggio.”



“L’ultimo mese dicono che sia il più impegnativo.” Commentò Eleanor Halliwell mentre versava un po’ di camomilla nella tazza di Elizabeth, che si era seduta dopo il bagno in cucina, in attesa di andare a riposare.
“Sì, beh … Più che altro mi sembra davvero tutto improvvisamente difficile da sopportare. Il caldo, ad esempio. Non mi ha mai dato troppo fastidio, anche se ho sempre preferito temperature più fresche. Ma adesso davvero, che rabbia! Tra l’altro manca poco meno di un mese alla nascita, non ho il lavoro che mi dia una distrazione e nemmeno un hobby. Credo che impazzirò, nell’attesa.” Brontolò Liz Munson, mantenendo un’espressione imbronciata più simile a quella delle bambine capricciose che ad una ragazza in procinto di diventare madre. Ma in quel momento apparire una donna cresciuta e matura non era certo una priorità, bensì uno sforzo che Elizabeth non voleva compiere, men che meno di fronte ad Eleanor Halliwell, che in quei mesi era diventata una presenza familiare per lei, così come la stessa casa, così intima che a momenti Liz sembrava non aver segreti per quei muri, né per le persone che la abitavano.
Eleanor sorseggiò un po’ di camomilla e, abbozzando un sorriso, rispose: “Sei stata molto brava Elizabeth, te lo volevo dire. Hai lavorato con tanto impegno, hai contribuito così tanto in questa casa che quasi hai reso inutili i miei lavori domestici! Penso che qualsiasi mancanza di sopportazione da parte tua sia tollerata.”
Le parole dolci che aveva riservato la zia del dottor Halliwell per Liz, le scaldarono il cuore: anche se faticava ad ammetterlo, in quell’ultimo periodo parole sincere, riconoscenti e affettuose sembravano alleviarle quel fastidio che stava caratterizzando l’ultima parte di gravidanza, e il suo umore in generale. Dall’altra parte inoltre, Elizabeth sapeva di aver bisogno ancora, nella sua vita, di qualcuno che le ricordasse quanto fosse valida e forte: caratteristiche che lei a volte dimenticava di avere, facendosi cogliere dallo sconforto.
“Sono io a doverla ringraziare, signora Halliwell. Non solo per queste parole ma … Per tutto. Mi ha accolto in casa sua come se fossi una di famiglia, pur non conoscendomi, pur essendo …” Si fermò per un istante, ma capì, per la prima volta in otto mesi, che palesare la propria condizione non era una vergogna. E nemmeno l’essere incinta. “In attesa.” Aggiunse, rivolgendo uno sguardo di riconoscenza verso la signora Eleanor, che le sorrise e, allungando il braccio verso la ragazza, le strinse la mano.


Entrando in camera, Elizabeth notò con sollievo che le finestre erano già spalancate e, il timido venticello che si era alzato in serata, rendeva il clima più piacevole e respirabile: probabilmente quella sarebbe stata una notte caratterizzata da un sonno tranquillo, o almeno Liz ci sperò, visto che la gravidanza aveva reso persino il sonnecchiare una missione quasi impossibile.
Eddie sembrava infatti non apprezzare i pisolini di sua madre, tanto da doverla riportare alla realtà con qualche calcio ben assestato. Sarebbe diventato uno sportivo? Senza dubbio pareva non avere pace, pure a otto mesi di gestazione.
“Cerca di dormire e farmi dormire, per cortesia.” Bofonchiò lei guardando con severità la sua pancia; dopodiché si appoggiò al cuscino e chiuse gli occhi, sprofondando nel sonno nel giro di pochissimo tempo.


 
Scrocchiano. Le foglie, sotto i miei piedi, scrocchiano.
Elizabeth sembrava essere tornata al mondo reale quando si accorse che le sue scarpe da ginnastica premevano su un manto di foglie cadute, ognuna delle quali presentava una sfumatura di marrone, giallo e arancione diversa dalle altre. Sollevò lo sguardo, esaminando la zona attorno a sé: gli alberi alti e robusti che circondavano quello che sembrava essere un parco, parevano proteggerla. I rami apparivano tutti rivolti verso di lei o meglio, verso una sorta di percorso naturale che sembrava dovesse essere seguito da Elizabeth, la quale decise di procedere nella sua marcia, con un filo di curiosità.
Il cielo sul quale i rami si frastagliavano, era coperto dalle nuvole, talmente scure che sembravano in procinto di esplodere, lasciando cadere sulla terra centinaia di gocce di pioggia al secondo: in quel momento però, sembravano intenzionate a trattenersi.
Seguendo un vialetto che sembrava emergere a fatica dal letto di foglie, Elizabeth continuò a guardare avanti, in attesa di scorgere qualcosa, o qualcuno che potesse aiutarla a tornare sulla strada di casa.
Pensandoci un attimo, realizzò di non ricordare affatto come fosse finita lì: per un istante si sentì il fiato mancare e, appoggiando entrambe le mani sulla pancia, che tolse immediatamente, più per stupore e incredulità che altro. Spostando lo sguardo proprio sotto al seno infatti, Elizabeth si accorse di non essere più gigantesca e, soprattutto, di non essere incinta. Restò scioccata: com’era potuto accadere? O meglio, quanto tempo era passato? Cos’era successo?
Prima che le domande diventassero più pressanti di qualsiasi altro pensiero, la ragazza decise di proseguire il suo cammino, nella speranza di trovare sulla sua strada una faccia familiare o un aiuto. Magari anche un telefono, col quale poter avvisare i soccorsi.

E dire cosa, poi? Che ero incinta e adesso non lo sono più? Penseranno che sia matta, e mi manderanno in un sanatorio.

Continuò a riflettere tra sé e sé, mentre la luce che traspariva dalle nuvole sembrava farsi soffocare da queste ultime sempre più: capì di avere poco tempo a disposizione per trovare un posto dove rifugiarsi prima che il temporale si scatenasse sulla sua testa.
Col naso all’insù, diede un’occhiata di nuovo al cielo, sperando vivamente di trovare uno sprazzo all’orizzonte che le facesse guadagnare qualche minuto in più: zero assoluto.
Un rumore di passi che infrangeva le foglie la fece tornare immediatamente con lo sguardo sul percorso: fu in quel momento che i suoi occhi intravidero una sagoma muoversi velocemente tra gli alberi. Era una figura alta e snella, in ombra.
“Ehy!” Chiamò Elizabeth, correndo verso l’albero dietro il quale l’individuo sembrava essersi nascosto.
Quando si avvicinò alla corteccia, Liz scoprì con suo stupore di aver evidentemente visto male, perché non c’era nessuno a nascondersi dietro a quell’albero. Sospirò.

Immagino le cose. Molto bene. Un passo più vicina al sanatorio.

Prima di poter commiserarsi ancora un po’, gli occhi di Elizabeth vennero nuovamente distratti da un altro movimento, che identificarono proveniente da una sagoma, la stessa che avevano visto poco prima; questa volta, sorprendentemente, la figura se ne stava indietro, dove Liz era rimasta fino a poco prima.
“Scusa, vorrei solo un aiuto!” Esclamò lei, esasperata da quello che sembrava essere un nascondino poco giustificato.

Faccio così tanta paura?

Poco prima che i suoi sensi potessero accorgersene, Elizabeth sentì una mano picchiettare sulla sua schiena. Si voltò, rapidamente, senza avere la minima idea di chi si sarebbe trovata davanti.    



 “Cristo!” Esclamò lei, spaventata e chiaramente colta di sorpresa da quel tocco: le sue mani assunsero la forma a pugno, e si avvicinarono alla faccia dell’individuo che le aveva chiaramente teso un agguato.
“Ritenta e sarai più fortunata.” Replicò l’aggressore che, guardandolo bene, tutto aveva fuorché l’aria minacciosa.
Elizabeth lo osservò, abbassando delicatamente le mani e aprendole, quasi per rilassarle un istante: davanti a sé aveva chiaramente la figura che sembrava essere apparsa e scomparsa nel giro di poco, perché il ragazzo che aveva di fronte era alto, magro, e aveva chiaramente l’espressione divertita di uno che è riuscito a spaventare per gioco qualcuno.
“Ma che diavolo …” Abbozzò lei, con l’aria confusa, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo. Quest’ultimo aveva i capelli lunghi, di un castano piuttosto scuro, sebbene con qualche striatura più chiara: forse era la strana luce del cielo a rendere così nitida tale distinzione. Indossava un giubbotto di jeans davvero bizzarro, sembrava agghindato appositamente con delle toppe, che a casa Munson negli anni Sessanta erano state bandite perché significavano “aggiustare” vestiti, e quindi povertà. Ovviamente tale divieto era stato imposto da Christopher Munson.
Quel tizio strano sembrava averle scelte apposta invece quelle toppe: il giubbotto aveva davvero dei bei buchi, allora. Gli occhi attenti di Liz, che stavano scrutando ogni singola parte di quel ragazzo, videro anche qualcosa di simile a delle borchie argentate, sebbene fossero minori rispetto alle toppe, che presentavano invece scritte strane, disegni altrettanto bizzarri e, guardando meglio, Liz sembrò scorgere anche una croce rovesciata.
“Nemmeno lui, sebbene qualcuno crede che io lo sia. Ritenta.” Rispose lui all’ultima imprecazione di Elizabeth, la quale tornò a guardarlo in viso, estremamente contrariata: nonostante ciò, i dettagli che i suoi occhi scorgevano sembravano molto più interessati di quello che lui aveva da dire o meglio, da ribattere. I suoi occhi, grandi e di un tono molto scuro, simile a quello della corteccia degli alberi attorno, avevano un che di familiare: così come l’espressione divertita, a tratti sprezzante.
Edward?” A Elizabeth quel nome uscì spontaneo, più come una domanda alla quale lei, inconsapevolmente, aveva già dato risposta, anziché un tentativo effettuato totalmente a caso.
Il ragazzo abbozzò un sorriso e, annuendo, disse: “E comunque non fai paura, mamma. Mi stavo soltanto divertendo un po’.” Spalancò le braccia, rivolgendosi a lei. Elizabeth alzò un sopracciglio, a tratti scettica e a tratti incredula: come poteva avere ragione?

Come fai a sapere …

“A cosa pensi? Saranno stati i nove mesi passati assieme a te che mi hanno dato una mano.” Il tizio strambo interruppe i suoi pensieri, sorprendendola ancora una volta. Continuava a tenere le braccia spalancate, verso di lei. Elizabeth sgranò gli occhi e, balbettando, insistette: “Eddie.”
“In carne e ossa, o quel che è.” Ribatté lui, con una certa fierezza.
Elizabeth non attese un altro momento e, istintivamente, si gettò tra le braccia di quello che, non certo a rigor di logica, sembrava davvero suo figlio, anche se certamente cresciuto e … Probabilmente pure più grande di lei.
Inspirò a fondo una volta stretta nell’abbraccio di Eddie, e riconobbe, nel profumo del giubbotto di jeans, anche quello dell’erba: tremò un istante, realizzando di non aver sentito quell’aroma da mesi, esattamente dal giorno in cui lei e Robert si erano ritrovati alla festa.
Edward Munson spostò leggermente Elizabeth, per poterla guardare negli occhi, e le chiese: “Tutto bene? Troppo assurdo anche per essere un sogno?”
Elizabeth sussultò: si spiegava improvvisamente tutto. Quello era un sogno, stava accadendo tutto nella sua testa, e grazie alla fervida immaginazione, evidentemente. All’improvviso, capì che le sue domande potevano aspettare, viste le circostanze, inclusa la ricerca di eventuali soccorsi.

“Stavo pensando che fumi esattamente come qualcun altro di mia conoscenza.” Esclamò con aria divertita e al contempo malinconica, Elizabeth Munson. Eddie alzò le spalle e replicò: “Scusami. Non posso farne a meno.” Sembrò giustificarsi, più che altro a causa del suo sguardo, che era diventato improvvisamente più cupo, ma allo stesso tempo consapevole del suo vizio.
“Certo, un classico.” Commentò Liz, ad alta voce. Si slegò dall’abbraccio di quello che evidentemente era suo figlio davvero e, guardandolo negli occhi, borbottò: “Gli assomigli un sacco, diamine.” Attese un istante, sotto lo sguardo interrogativo di Eddie, poi aggiunse: “Non so cosa dire. Se non che … Mi dispiace. Cioè, mi dispiace che tu sia dovuto accadere in questo momento, in queste circostanze, io …” Alzò le spalle e, abbassando gli occhi, nascose le prime lacrime che scendevano dalle guance.

Edward avvicinò la mano destra al volto di Elizabeth e, alzandolo dolcemente, scosse la testa e replicò: “Non devi dispiacerti, mamma. Sono semplicemente … Accaduto.”

 

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Capitolo 15
*** I just happened (parte due) ***


I just happened 
Parte due 

 

Le prime gocce di pioggia si erano adagiate con delicatezza sul manto di foglie cadute; quelle che seguirono invece, si dimostrarono più decise, dando il via ad uno scrosciante rumore che si infrangeva sul letto dalle mille calde sfumature. In lontananza, l'eco di un tuono. 

“Vieni, conosco un posto dove ripararci.” Elizabeth seguì istintivamente Eddie, che effettivamente sembrava viverci, all'interno di quel sogno: se poco prima Liz avrebbe giurato di non aver visto nulla all'orizzonte (e a stento il vialetto nascosto appunto dal fogliame), improvvisamente vide esattamente davanti a lei stagliarsi sull'orizzonte una sagoma di qualcosa che appariva simile ad una casa, sebbene il tetto avesse una forma estremamente inconsueta. 

Il passo dei due si fece più felpato, ed arrivarono quasi a correre pur di non infradiciarsi totalmente; Eddie continuava a fare strada, anche se ad Elizabeth non sembrava dispiacere più di tanto l'idea di inzupparsi di acqua piovana: anzitutto di un sogno si stava parlando, ed inoltre la marcia di suo figlio aveva assunto dei buffi connotati. Appariva impacciato, ma il suo modo di attaccar bottone dava l'impressione contraria; da dietro, Elizabeth aveva iniziato incuriosita ad esaminare meglio le toppe cucite sul giubbotto di jeans, continuando però a non capire assolutamente nulla di alcun disegno, o scritta. 

Ad un certo punto, gli alberi spogli iniziarono a diradarsi, lasciando spazio a una sorta di radura, o meglio, uno spiazzo in cui l'erba appariva di un verde tardivo, simile al grigiore del cielo: osservandola meglio, si capiva molto bene quanti interventi dell'essere umano erano stati imposti in quel territorio, perché a tratti vi era solo fango e poco più. 
In fondo a quella vasta area, gli occhi di Liz scorsero quella che sembrava una specie di ...

“Ecco sua maestà, il caravan!” Esclamò con le braccia nella direzione della casa su ruote Eddie Munson, con un velo di ironia. 
Elizabeth esordì in una risata impacciata e, cercando di asciugarsi dal viso la pioggia che stava aumentando sempre di più, corse sotto a una sorta di veranda, che anticipava l'entrata dentro al caravan. Era stata realizzata solo con il legno, e sebbene non fosse un tutt'uno con la “casa mobile”, tutto sommato non stonava granché ed anzi, dava l'idea di un posto quasi a sé, tagliato fuori dal resto del mondo. In effetti, per quanto ne sapeva Liz, quello era un posto isolato e sconosciuto. 
Eddie la fece accomodare sotto la tettoia, in una delle due sedie a dondolo che erano state lasciate lì, forse provvidenzialmente, da qualcuno.

“Nulla è lasciato al caso.” Commentò Eddie abbozzando un'espressione compiaciuta. Certo, il legame con sua mamma era evidentemente fortissimo: sapeva forse che sarebbe arrivata a fargli visita? 
 

Ma sul serio sto ragionando su un sogno? A momenti mi sveglio e finisce lì il mio problema. 

Eddie scoppiò a ridere e, scuotendo la testa, ignorò lo sguardo che Elizabeth gli aveva rivolto, estremamente contrariata. “Non ce la fai a goderti l'idea di essere in un sogno e basta? Ci deve essere per forza qualche assurdo motivo o qualche ragionamento da fare, altrimenti nulla ha senso?” 

Alle domande provocatorie del ragazzo, Elizabeth si voltò verso di lui e, rilassando l'espressione crucciata, replicò: “Penso sia normale farsi qualche domanda, no? In fondo ho davanti a me mio figlio, probabilmente pure più grande di me, con addosso degli abiti ... Assurdi, e non dovrei chiedermi qualcosa?” I suoi occhi si posarono sulla maglia che sporgeva dalle pieghe del giubbotto di jeans: spiccava il volto di qualcosa che assomigliava più a un demonio, o comunque ad un essere infernale che a qualcosa di... Confortante.
Elizabeth alzò un sopracciglio, scettica. Eddie tornò a ridere, di gusto. 

“Incredibile, mia mamma mi vede per la prima volta e tutto quello per cui mostra interesse è l'Hellfire club.” Liz strabuzzò gli occhi e, confusa, sbottò: “E che accidenti è questo club? La maglia che hai addosso ... Si tratta di un gruppo musicale?” Quell'ultima domanda era solo un azzardo, un'ipotesi basata sul fatto che tutto sommato, Edward Munson era anche figlio di suo padre, Robert Rossdale, e forse qualche tratto lo aveva ereditato da lui. 
Eddie scosse la testa e rispose: “Non proprio, ma ho anche una band.” Elizabeth spalancò la bocca e, dopo essersi accorta di aver mostrato la sua espressione più sorpresa di sempre, ritornò a camuffare tutto e, annuendo, aspettò una spiegazione più specifica. 

“Comunque ho vent'anni, per la precisione. Il che mi fa decisamente più grande di te.” Aggiunse lui, sviando dal discorso precedente. 

Elizabeth sorrise e, scuotendo la testa, commentò ad alta voce: “Penso che questo sia il sogno più assurdo che io abbia mai fatto.” Si interruppe, guardandosi meglio attorno e, unendo alcuni pezzi di un puzzle immaginario che stava cercando di formarsi davanti a lei, esclamò: “Un attimo! Se tu hai vent'anni... Questo significa che siamo nel 1985?” 
Eddie annuì, e specificò: “Hawkins, Indiana. 1985. E questa è casa mia.” 
Gli occhi di Liz sembrarono prendere consapevolezza: all'improvviso riconobbe alcuni frammenti di quel paesaggio, inclusi gli alberi che poco prima l'avevano avvolta in un apparente universo alternativo e sconosciuto. Tutto stava acquisendo senso. All'orizzonte poteva riconoscere uno dei primi edifici imponenti che era stato inaugurato ad Hawkins qualche anno prima, nel 1962.
Poi, sollevando gli occhi verso la tettoia e le finestrelle della dimora, i conti tornarono definitivamente: quello era il famoso caravan di suo fratello Wayne.

“Incredibile. Mio fratello ce l'ha fatta a ricavare una casa da questo aggeggio.” Commentò, genuinamente sorpresa. 
Eddie sospirò e, ridacchiando, replicò: “Zio Wayne è un tipo dalle mille risorse. Mi piacerebbe essere come lui ma ... Temo che la mia manualità riguardi solo la chitarra.” Elizabeth spalancò gli occhi e, guardando dritto il volto di suo figlio, per un attimo realizzò che la forma del viso, e alcune espressioni, erano esattamente parte di lei. Pensò di aver sussultato così evidentemente da preoccupare Eddie, ma lui non si mosse: evidentemente l'emozione era molto forte, ma dentro di lei. 
“Suoni la chitarra?” Chiese, incuriosita. Edward Munson assunse un'espressione estasiata, mista a fierezza e, annuendo, rispose: “Già. E penso di essere forte in quel che suono. Ma non credo tu sia pronta a questo.” 
Elizabeth scoppiò a ridere: effettivamente vent'anni di differenza potevano avere qualche risonanza anche da un punto di vista musicale, e chissà di che tipo. Probabilmente i Beatles sarebbero stati un ricordo lontano, e persino il vecchio Rossdale avrebbe dovuto reinventarsi: al contrario, quello che tutto sommato era suo figlio (nonostante Elizabeth non lo avrebbe mai reso pubblico, men che meno col diretto interessato), aveva intrapreso una carriera musicale suonando non il basso, ma una chitarra. 

Wow.

“Sono sinceramente ... Colpita. E confusa. Non capisco sul serio ... Beh, okay, non devo farmi domande e lo so. Ma non penso che accada tutti i giorni incontrare, anche solo per un breve istante, il proprio figlio, che ancora in realtà deve nascere.” Disse, ragionando ad alta voce lei. Dopodiché, tornando a fissare Eddie, esclamò: “A proposito, mi sai dire quando nascerai?! Visto che sembra impossibile azzeccare la data, ho un'occasione per svelare il mistero in anticipo.” 
Eddie sembrò improvvisamente più serio: il cambiamento era parso davvero troppo repentino anche per Elizabeth, che ancora decisamente non poteva dire di conoscere suo figlio. Però era stato così: un momento prima sul volto di Edward Munson compariva un sorriso compiaciuto, soddisfatto, e il secondo dopo la sua bocca aveva subito un'inclinazione verso il basso. E lo stesso sguardo, i suoi occhi profondi, erano concentrati a terra, quasi piantati lì, irremovibili. 
Scosse la testa e, simulando un sorriso ben poco convincente, rispose: “Nulla da fare, segreto di Stato.” Ma continuò a non guardare sua madre, almeno non immediatamente. 

“Vabbé, immagino che dovrò aspettare. Sei comunque di poche parole, Eddie Munson.” All'osservazione della ragazza, gli occhi di Edward parvero rianimarsi e tornarono a guardarla. 

“Ma no, so essere estremamente ciarliero. Solo che a volte mi piace anche ... Godermi il momento.” 
Per un attimo ad Elizabeth sembrò di sentire Bob Rossdale: anche lui non era mai parso un tizio molto chiacchierone, e lei aveva sempre pensato, scioccamente, che in parte il suo atteggiamento fosse causato dallo strumento che suonava. Il basso, piuttosto anonimo anche se a suonarlo era Paul McCartney no? Figuriamoci un Rossdale. 
Invece forse era un tratto caratteristico e basta. 
Sorrise, ripensando a certi momenti; per un istante un senso di colpa le afferrò lo stomaco, con così tanta violenza che Liz nemmeno se lo aspettava. 

“Mi fumerò una canna. Alla tua, mamma.” Spezzò il silenzio Eddie, sfoderando dal taschino del giubbotto una sigaretta piuttosto lunga, che appunto aveva tutto fuorché le caratteristiche di una normale paglia. 
La accese, e l'odore inebriante di erba che invase le narici di Elizabeth, parve sollevare anche il restante dei ricordi che la sua mente aveva provato a nascondere impacciatamente in un angolo del cervello. 

“Vuoi favorire?” Chiese lui gentilmente, porgendo la canna alla ragazza. Lei sorrise e, alzando le spalle replicò: “Perché no? In fondo non sono incinta e mio figlio ha tre anni in più di me. Penso di potermela sentire.” Afferrò la canna dalla mano del ragazzo e diede un tiro, profondo, durante il quale socchiuse gli occhi: ogni nervo del suo corpo sembrava rilassarsi automaticamente, sino ad arrivare alla punta delle dita dei piedi, che lei aveva il vizio di tenere sempre contratte. 

“Non fumavo da un po', ma è incredibile quanto sia meraviglioso riprovare trascorsi otto mesi.” Si interruppe e, facendo un breve calcolo, aggiustò: “Mh, anche se in realtà sembrano trascorsi vent'anni e otto mesi, dalla mia ultima canna.” 
Entrambi esplosero in una risata genuina, interrotta solamente da un curioso Eddie che, osservandola fumare, chiese: “Con chi hai fumato l'ultima volta?”
Elizabeth allontanò la canna dalla sua bocca e, porgendola al figlio, contrasse la bocca e la mascella, poi replicò: “Nessuno di particolarmente interessante.” 
Provò a far cadere la conversazione, ma con la coda dell'occhio capì che Eddie la stava fissando ancor più interessato di prima, e conoscendo un po' le sue origini, sapeva già che non avrebbe mollato la presa. 

Elizabeth sospirò e, alzando le mani in segno di resa, esclamò: “Va bene, hai vinto tu. Del resto, stiamo parlando di un sogno.”

Edward restò in silenzio, in attesa del seguito. 

“La verità è che ho fumato la notte stessa in cui sei ... Accaduto tu.” Inspirò profondamente e, chiedendo con un gesto la canna, fece un tiro altrettanto lungo e intenso e proseguì: “Io non giro con l'erba. Era tutto sacco di ... Beh, di tuo padre suppongo.” 

Eddie mormorò un ah di sincera sorpresa e, annuendo, continuò ad osservare sua madre, intenta a fumare quanto più poteva, probabilmente perché quell'argomento non era ancora molto facile da processare, men che meno da trattare. Con lui, per giunta. 

“Ah non fa niente mamma. Non sei obbligata a dirmi il suo nome. Del resto, sono vent'anni che sono abituato a questa situazione.” Lo disse con una leggera punta di amarezza, ma sembrò non rivolta certamente a sua madre: Elizabeth lo capì e, senza dire una parola, sentì di dover mostrare la sua gratitudine a quel ragazzo, così strano e al contempo così bello, che seriamente sembrava un insieme perfetto di piccoli particolari tutti al loro posto. 

Gli porse la canna e nel frattempo, l'altra mano strinse quella libera di Eddie, così forte che Liz si accorse di non aver mai concesso un momento così intenso a nessuno. E a chi altro, se non a suo figlio? 

 

In quel momento di silenzio e di complicità, i due si accorsero dell'incredibile silenzio che in un rapido istante aveva avvolto tutta la zona, sino agli alberi che, ancora più spogli di prima, sembravano finalmente in pace. 

La pioggia si era interrotta. 

Eddie distolse lo sguardo e, sospirando, con gli occhi rivolti al cielo, commentò: “E' ora che tu vada, mi sa.” Tornò a osservare sua mamma e, sorridendo timidamente, le disse: “Grazie per questa chiacchierata, mamma. Non la dimenticherò.” 

Elizabeth lo osservò dapprima confusa e poi, ricordandosi di essere all'interno di una cornice onirica, ricambiò il sorriso e, spinta dalla paura che da un momento all'altro si sarebbe risvegliata nel letto, si buttò tra le braccia del ragazzo e, stringendolo ancor più forte, mormorò: “Non cambiare mai, Edward.” 

 

 

In un istante, la luce grigiastra che avvolgeva l'ambiente sparì, lasciando il posto al buio totale, e ad un silenzio ancor più assordante. 

Elizabeth si alzò bruscamente dal letto, quasi in automatico, in preda a respiri intensi e affannati. 

Eddie.” Mormorò, istintivamente. Rivolgendo uno sguardo ai dintorni, realizzò di essere nella sua camera, a casa Halliwell. Era stato un sogno davvero molto realistico, nonostante tutti i dettagli fossero assurdi: ad un certo punto quasi, riflettendoci sopra, l'unico aspetto più credibile era il caravan di suo fratello Wayne. 

Accese la luce, ancora in affanno, cercando poi l'orologio per capire quanto avesse dormito: poco più di un'ora. 

Sospirò e, alzandosi dal letto, decise di rimanere un po' davanti alla finestra: probabilmente sarebbe finita per sgattaiolare in cucina a mangiare qualcosa perché, senza sorpresa, risultava ancora parecchio incinta e pure affamata. 

Si passò la mano destra sulla pancia, osservando con lo sguardo perso l'esterno, dal vetro: avrebbe potuto parlare con altre cento madri o donne in dolce attesa, ma già scommetteva dentro di sé che nessuna nelle sue condizioni poteva raccontare di aver fatto un sogno simile.
Al massimo qualcuna poteva dire di aver sognato il parto, certo: anzi, pensandoci bene, Liz non escludeva che fosse un tema piuttosto probabile per i suoi futuri sogni, visto che sarebbe stata senz'altro un'esperienza dolorosa. 
Ma addirittura trovarsi davanti al figlio di vent'anni? Con dei vestiti assurdi per giunta, impossibili da concepire per quanto lontani potessero essere dalla moda del momento?

Liz scosse la testa: non sapeva ancora comesentirsi davanti a quel sogno, ai ricordi che aveva portato con sé nel momento del risveglio. C'erano davvero delle istruzioni precise da seguire? 

Capì di non doverci ragionare troppo sopra: in fondo, quello era stato un sogno. Edward era una figura ben definita, ma probabilmente dall'immaginazione di una giovane madre ancora troppo spaventata di mettere al mondo un figlio, per poterlo ammettere davvero. 

Eppure, nonostante si trattasse di pura immaginazione, di qualcosa di inesistente, lontano, onirico, il volto di suo figlio, quegli occhi profondi e grandi, il suo profumo e la sua voce ... Erano tutti dettagli che sapeva che non avrebbe dimenticato, finché non si sarebbe fatto il momento di arrivare, insieme, alle porte del 1985. 

 

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