La Via Smarrita

di Dira_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


1.
 
 
L’Uomo venuto da fuori aveva avvolto Lietta in un abbraccio e l’aveva baciata sulla bocca alla luce della luna calante.
L’aria era immobile, densa come melassa e i grilli avevano smesso di frinire.
 
La mattina dopo Bice aveva atteso che suo padre se ne andasse ai campi e quando Lietta aveva fatto per uscire, si era frapposta tra lei, la porta e qualunque pericolo si annidasse al di là della soglia.
L’Uomo venuto da fuori, principalmente.
“Che fai?” le aveva domandato Lietta perplessa. “Devo uscire!”
“Ti ho visto ieri notte con quell’uomo.” aveva risposto senza girarci attorno, perché tra loro non c’erano mai stati segreti, né sotterfugi, non fino a quel momento almeno.
Lietta era impallidita, stringendo tra le mani il secchio dell’acqua. “L’avrai sognato come fai tu. Non ero con nessuno ieri notte!”
“Dove siete stati?”
Lietta le aveva rivolto un’occhiata rabbiosa perché indossava le proprie emozioni a fiori di pelle, senza mai preoccuparsi di mediare. “Non sono affari tuoi!”
“Lo sai che è pericoloso, non appartiene al Chiaro.”
“Neppure noi,” le aveva ritorto contro, “ma non siamo cattive! Lo hai mal giudicato, non conosci Benedetto come lo conosco io. Mi vuol bene, mi capisce … nessuno qui mi capisce! Non posso dire a nessuno quel che sono, quello che sento e so fare. A lui queste cose posso dirle!” le era tremato un sorriso incerto sulle labbra, una richiesta di comprensione. “È tanto bello quando qualcuno non ha paura di quel che sei, no? Non è lo stesso con il tuo soldato?”
“Di che stai parlando?”
Lietta aveva scrollato le spalle con una risata. “Non dire bugie, tu e Fortunato siete innamorati! Come me e Benedetto!”
Quel paragone osceno le aveva fatto ribollire il sangue nelle vene. La felicità sciocca e pericolosa di sua sorella l’aveva atterrita. “Chi te lo ha detto?”
“Benedetto, vi ha visti baciarvi nel bosco.”
“Ci stava spiando?!” Li doveva aver seguiti dopo che l’avevano lasciato alle fonti. Doveva averli tallonati mentre Fortunato le aveva mostrato quelle strane strisce bianche sulle foglie del bosco.
Non erano al sicuro.
Lietta aveva messo il broncio. “Mi ha avvertita che l’avresti detto! Sei malfidata. Vive nel castello adesso, e lavora nelle cucine … vi ha incrociato per caso mentre scendeva al paese!”
“Lietta, non devi più incontrarlo.”
“Perché?” era sbottata prevedibilmente. Mai che le avesse dato retta, e soprattutto non con quelle gote rosse e lo sguardo sognante.
L’Uomo venuto da lontano aveva rubato il cuore di sua sorella e il desiderio di farlo scomparire era stato così forte in Bice da farle venir voglia di urlare.
“Perché sei una ragazzina, e lui non è innamorato di te. Vuole qualcosa da noi, dalla nostra comunità … e io e Fortunato abbiamo intenzione di scoprirlo.”
Lietta a quello era impallidita e le sue più fosche previsioni avevano trovato conferma. “Dove siete stati?” aveva ripetuto.
“Non facciamo niente di male! Stiamo assieme, come te e Fortunato.”
“Due uomini sono morti, Lietta.”
“Non c’entriamo niente.” l’aveva sorpassata, aprendo la porta e dandole quasi una spinta per farlo. “Lasciami andare alla fonte, è già tardi.”
“Cosa fate di notte?”
Lietta le aveva rivolto un’occhiata piena di rabbia e sfiducia, quella che avrebbe dovuto rivolgere al maledetto Benedetto, non a lei, sua sorella, sangue del suo sangue. Poi era corsa via e non aveva potuto andarle dietro, non con la gente che le avrebbe viste.
Comunque, non aveva bisogno di una risposta, perché già la conosceva.
Andavano di certo nel bosco.
 
***
 
 
Il prodigio e il mostro hanno le stesse radici.
(Victor Hugo)
 
Non avrebbero dovuto essere nel bosco.
Maddalena ne era conscia, ma la realtà a conti fatti era un po’ diversa.
C’erano, e stavano correndo a rotta di collo verso il rumore di uno sparo. “Cate!” urlò. “Cate, per favore, fermati!”
Caterina la ignorò continuando a saltare come un maledetto stambecco tra un sasso scivoloso e l’altro.
Maddalena era troppo sbalordita da quell’affastellarsi di eventi per poter far altro che andarle dietro ed evitare che entrambe morissero male.
Caterina alla fine si fermò alla fine della scala che univa il sentiero al castello. “Veniva da qua…” ansimò passandosi una mano tra i capelli per toglierseli dal viso, “Veniva da qua sotto, vero?”
“Sì,” confermò raggiungendola, “nun vulissimu davvero iri verso qualcuno chi avi sparato?”
Cate batté le palpebre realizzando forse per la prima volta cosa stavano per fare. “Mia sorella…” le lanciò un’occhiata spaventata, “quell’urlo era suo, sicura!”
Maddalena inspirò, cercando di regolarizzare il respiro e non rischiare un infarto. “Va bene, andiamo, ma stai dietro a me.”
“Perché, sei antiproiettile?”
Dovette frenare una risata un po’ disperata perché no, certo che non lo era, ma di sicuro aveva i riflessi più pronti di una persona normale.
… anche se in effetti, non era antiproiettile.
Cate le rivolse un sorriso divertito. “Va’ che dei due se c’è qualcuno che deve stà dietro, quella sei te.”
“In base a cosa?”
“Ti sei quasi ammazzata a scendere!” e prima che potesse protestare le prese la mano, intrecciando le dita alle sue. “Andiamo assieme.”
Anche stavolta Maddalena si trovò a corto di parole; forse avrebbe dovuto dire qualcosa, anzi, doveva dire qualcosa.
Ci siamo baciate.
Però non era il momento, non per il modo in cui l’altra le stringeva la mano: parlava più di desiderio di rassicurazione che mossa per conquistarla. Ricambiò la stretta ed insieme si avventurarono per il sentiero, un tunnel verde smeraldo in cui le gocce d’acqua risplendevano dei primi raggi di sole che avevano bucato le nuvole in quella lunghissima giornata.
Era il tramonto e aveva smesso di piovere.
 
***
 
Era morta.
Era di certo così, perché quando un mostro partorito da un incubo ti attaccava cos’altro c’era da aspettarsi?
Roísín pensava che morire sarebbe stato diverso: aveva immaginato di andar verso una luce, non di trovarsi al buio, soffocata dalla stoffa e con le narici piene di un odore familiare.
L’odore di bosco e sudore di Tobia.
Aprì gli occhi e realizzò di essere stretta nell’abbraccio dell’uomo, che era viva e che qualcuno aveva appena sparato. Si staccò la distanza sufficiente per guardarsi attorno e razionalizzare la situazione: alberi, rumore d’acqua, il ponte, le braccia che la stringevano, il rumore dei suoi respiri rotti e il quieto gocciolare degli ultimi sprazzi di pioggia sui rami.
Il mostro non c’era.
Come in un sogno realizzò cos’era accaduto: Tobia l’aveva afferrata poco prima che quella cosa le piombasse addosso e l’aveva tolta dalla sua mortifera traiettoria. Non c’era stato tempo per scappare, né per buttarsi nel ruscello, ingrossato dalla corrente vorticante.
Si divincolò per staccarsi. Tobia al primo cenno di insofferenza la lasciò libera e le restituì uno sguardo velato di terrore. “Stai bene?” le domandò e ad un cenno affermativo fece un passo indietro e cercò Ettore; era dall’altra parte del ponte, la pistola spianata in direzione del castello, un muro invisibile tra sé e l’orrore.
Ha sparato. Gli ha sparato contro!
La creatura era scomparsa e per un attimo Rosi si cullò nell’idea fosse stato solo uno scherzo del suo cervello malato … o che Ettore l’avesse uccisa.
Un serpente.
La Montagnola era piena di bisce: biacchi, colobri e ovviamente vipere, ma non era quelli ad aver visto; non con quelle dimensioni, quel corpo gargantuesco, coperto da fitte scaglie che alla luce splendevano d’argento … e il muso, che non era tale perché volto di uomo, con narici, bocca, occhi obliqui e sbarrati, umano eppure non umano perché completamente privo di espressione.
Rosi cominciò a tremare.
“Lo sparo deve averlo spaventato.” disse Tobia raggiungendo Ettore. Esitò. “Potresti abbassare la pistola per favore?”
L’altro la abbassò con una smorfia imbarazzata. “Scusatemi, è che …”
Già.
Non servì che concludesse il pensiero perché lo condividevano tutti.
I due uomini si misero a controllare il ponte e Tobia si sporse per esaminare le acque tumultuose. “È caduto, sono sicuro … ma non credo che tu l’abbia colpito.”
“Tracce di sangue non ce ne stanno.”
Tobia tornò da lei, posandole una mano sulla spalla e Rosi non poté impedirsi di sobbalzare. C’era un mostro nel suo bosco, nella sua Montagnola, un mostro dal volto d’uomo e il corpo di serpente, grande come un cavallo e rumoroso come una macchina infernale.
E pericoloso …? Quant’è pericoloso?
Qual’era il termine di paragone?
“Cosa facciamo?” mormorò.
I due uomini si scambiarono un’occhiata, ma prima che uno dei due potesse parlare un rumore dal sentiero li mise in allarme. Tobia la tirò dietro di sé ed Ettore si piazzò davanti, sfoderando la pistola come in una pellicola americana.
Era tutto così ridicolo da essere terrificante.
“Chi c’è?!” urlò Ettore. “Sono armato, meglio che ti fai sentire!”
Un’sparà! Siamo Cate e Maddalena!”
La voce di sua sorella fu come un pugno nello stomaco: sollievo e paura si mescolarono mentre svicolava di nuovo dalla presa di Tobia. Caterina intanto, la sua insopportabile, meravigliosamente incolume sorellina, uscì dalla boscaglia seguita dalla siciliana.
Sta bene.
Le corse incontro e venne omaggiata da un’occhiata intimorita – aveva paura l’avrebbe sgridata? Oh, quanto avrebbe voluto farlo per averla fatta spaventare!
La tirò a sé in un abbraccio e la strinse forte, sentendosi, dopo una breve esitazione, ricambiata con altrettanta intensità.
“Hai urlato … e poi c’è stato quello sparo!” borbottò Cate contro la stoffa della sua maglietta. “Che è successo?”
Cosa avrebbe potuto dirle che avesse un senso anche nel Chiaro?
Dio, sto parlando come mamma.
Era però inevitabile, considerando che sua sorella nulla sapeva e nulla avrebbe dovuto conoscere. Neppure la siciliana che era con lei. Erano due ragazzine normali; non dovevano essere trascinate in quell’incubo.
“Un cinghiale,” intervenne pacato Tobia, “siamo stati attaccati da una mamma con i cuccioli. Ettore ha sparato per spaventarla.”
Cate aggrottò le sopracciglia mentre valutava con tipica diffidenza adolescenziale l’attendibilità di quella teoria. Ettore non aveva credibilità, era abbastanza ovvio, ma Bia, il grande, buono e affidabile Bia …
“Ah.” Cate le servì un sorrisetto mangiandosi la foglia. “E ti se’ cacata per un cinghiale?”
Rosi sbuffò, sciogliendola dalla morsa del suo abbraccio, dato che la voglia di darle un calcio nel sedere stava tornando prepotente. “Sono pericolosi.”
“Si vede che è parecchio che un’vieni nel bosco.” continuò, schivando stavolta uno scapaccione. “Perché t’arrabbi? Sei tu che m’hai fatto spaventà con quel bercio, non viceversa!”
Rosi si morse la lingua. “Siete tutti al castello?” domandò mentre Ettore rinfoderava l’arma per la seconda volta. Il napoletano era pallido come un cencio ma riuscì a tirar fuori l’ombra di un sorriso.
Non ebbe cuore di dirgli che la Manolonga si era sporta per giocare con i lacci dei suoi anfibi di servizio.
“Sì, tutti dentro” rispose Cate voltandosi verso Maddalena, “tranne noi due, palese. Gli altri non credo abbiano sentito nulla, te che dici Malù?”
La ragazza confermò con un cenno della testa. Si guardava attorno e per un attimo a Rosi parve stesse annusando. “Vi avevo detto di non entrare.”
“Tiravano certi lampi che pareva ci dovesse cascà addosso il castello! Ci preferivi morti per elettrocuzione o per crollo?”
“Va bene, lasciamo perdere” tagliò corto. “Andiamo su, siamo venuti a prendervi.”
“Non possiamo restare alla radura.” esordì Maddalena stavolta con gli occhi puntati al cespuglio da cui era uscita la bestia.
… è tornata?
Si voltò con il cuore in gola ma non c’era più niente, il bosco era tranquillo e carico dei rumori che doveva avere: richiami di uccelli e, dato che erano sul ponte, il ticchettio delle unghie della manolonga appesa sotto. Ettore inciampò.
“Hai ragione, non credo sia il caso” confermò, “stanotte dormite da noi.”
Cate mentre tornavano su si affiancò di nuovo a Maddalena, sfiorando timidamente le dita con le sue; l’altra le afferrò la mano e sua sorella sorrise da un orecchio all’altro. “Possono stare da noi finché la radura non si asciuga?” domandò con palesissimo tono speranzoso.
Non la faccio di certo dormire in camera tua, bischerella.
“Poi ci pensiamo.”
“Tra poco il sole tramonterà dietro la collina,” disse Tobia, “conviene sbrigarsi.”
Alla luce di quanto era accaduto, più che conveniente era tassativo.
 
***
 
Roísín aveva tirato un sospiro di sollievo solo quando erano tornati in paese ed avevano frapposto le mura tra loro e qualsiasi cosa si annidasse nel bosco.
“Dobbiamo parlare.” disse ad Ettore e Tobia una volta lasciati i ragazzi in casa.
Aveva smesso di piovere ed era una serata calda e mite, simile a quelle dei suoi ricordi d’infanzia. In un certo senso era così, rifletté amara: era spaventata come una bambina.
“Possiamo andare a casa mia.” suggerì Tobia.
“Non se ne parla.” sbottò aggressiva. Quando notò notò la sorpresa sul volto di entrambi sospirò. “Finché c’è quel mostro in giro è meglio non entrare nel bosco a meno che non sia indispensabile.”
“Possiamo andare da me allora” propose Ettore. Era ancora pallido e le dita correvano in continuazione alla fondina della pistola, ma si fermavano sempre un po’ prima. Quando notò che lo stava guardando fece una smorfia imbarazzata e si infilò le mani in tasca. “Non è ‘na reggia, ma meglio di niente.” continuò. “Direi la Stazione, ma ha lo stesso problema del cimitero.”
Erano circondati dal bosco, rabbrividì Rosi mentre si infilavano nelle vie strette e bagnate dal paese; un immenso oceano di alberi dove quella creatura raccapricciante poteva muoversi indisturbata.
Rosi entrò in casa della vedova Brandi come in trance. Fu riscossa solo dal forte odore dolciastro di casa di donna anziana, un odore di cose vecchie, caramelle stantie e ricordi. Era tanto che non andava a trovare la cugina Irma: c’era stato un tempo, quando suo nonno era ancora vivo, che le visite erano all’ordine del giorno. Non duravano mai troppo però. Suo nonno non apprezzavano lo stile di vita di quella lontana parente e rimaneva giusto il tempo necessario per sistemarle qualche tubo o potarle qualche siepe, mentre lei si riempiva le guance di caramelle al rabarbaro.
Ormai era una tema di quella giornata, tornare indietro nel tempo.
E persino senza dormire …
Ettore li guidò lungo la scala che portava alla sua porzione di casa, che consisteva in una stanza raccolta, una cucina che fungeva anche da salotto e un bagno, il tutto ordinato con precisione militare. Il napoletano spalancò le finestre della cucina e il vento che profumava di terra e bosco entrò ovunque.
“Facciamo ‘nu caffé?”
“Sarebbe meglio un the.” suggerì Tobia sedendosi al tavolo nel punto dove, con la sua mole, avrebbe potuto dare meno ingombro possibile.
Ettore posò loro davanti due tazze con dentro a mollo bustine di the della COOP, per la quale i suoi geni irlandesi protestarono violentemente. Li tacitò e lo bevve come se fosse una medicina, mentre sprofondavano tutti in un silenzio denso come inchiostro, immersi nei ricordi di neanche un’ora prima.
Tobia fu il primo a parlare: “Come stai?” lo chiese a lei, ma poteva tranquillamente volgerlo al plurale.
“Di merda.” dichiarò strappandogli un sorriso. “Che cos’era?”
“Un grosso serpente con la faccia da uomo?” ribatté Ettore giocherellando con la propria tazza senza berne un sorso. Era sicuramente in dotazione alla casa perché aveva l’aria di aver vissuto ben più del suo attuale proprietario. Sopra la porcellana smaltata vi erano dipinti degli gnomi intenti ad annusare fiori. Assomigliavano al Beffardello e quindi Rosi distolse prontamente lo sguardo.
“Non c’è mai stato niente di simile qui … non che io ricordi.” rifletté Tobia.
Di tutti e tre sembrava il più calmo. Forse perché ormai si era abituato a pensare al bosco come un posto pericoloso oppure perché finalmente aveva avuto conferma dei suoi sospetti. Rosi avrebbe voluto prenderlo alternativamente a pugni o aggrapparglisi addosso come una roccia in un mare in tempesta.
Rimase seduta imponendosi di non muovere neanche la punta delle dita.
“Che sia nuovo o meno, è chiaro che sarà un problema … grosso.” Ettore fece una smorfia all’involontaria battuta. “Come si ammazza una roba del genere?”
“Perché dovrebbe toccare a noi?” domandò incredula. “Ci sono delle persone che se ne occupano, i Sorveglianti!”
I due uomini si scambiarono una nuova occhiata e Rosi per un momento fu punzecchiata dalla gelosia; in quelle settimane avevano evidentemente sviluppato una sorta di codice tra gentiluomini.
La cosa la fece sentire in due modi: tagliata fuori e stupida per averlo pensato.
“Rosì … tu tieni ragione.” disse Ettore con l’aria di chi stava prendendo misura di ogni singola virgola. “Sono un carabiniere, mi dà fastidio la gente che vuole fare il giustiziere della domenica …” fece un sospiro. “… ma ci sta un problema. Non possiamo chiedere a loro. Dobbiamo occuparcene per conto nostro.”
Fece una mezza risata, un suono secco che non piacque neppure a lei. “Siamo diventati Sorveglianti e nessuno me l’ha detto? Perché c’è mia madre, il Sindaco e quel prete. O è cambiato qualcosa?”
“Non è cambiato niente.” si inserì Tobia. “Il problema è che tra i Sorveglianti c’è qualcuno che nasconde la presenza di Creature pericolose.”
Rosi aprì la bocca per parlare ma si fermò; il suo istinto era di mandare al diavolo entrambi, che i complotti stavano bene su un post Facebook, non certo in quel paesino di trecento anime e trecento gatti. Però.
Era davvero sicura fossero solo complotti? Era tagliata fuori dall’Altrove da anni, aveva chiuso occhi, orecchie e cuore ad un mondo spaventoso e vasto.
E se avessero avuto ragione? Perché fino a quel momento tutto ciò che le avevano detto aveva avuto riscontro nella realtà.
Ettore parve quasi leggerle nel pensiero. “Non stiamo facendo affermazioni campate per aria, Rosì. C’è chi ci ha confermato che un lupomanaio si aggira in queste zone … e ora che visto quella cosa, credi davvero che Tobia si sia inventato tutto?”
Rosi continuò a rimanere in silenzio; avrebbe voluto scappare di lì, tornare alla sua vita di prima e fregarsene, ma non poteva ed era inutile continuare a sperarlo: perché la verità le era stata sbandierata davanti e sua sorella era in pericolo.
“No, non più.”
Non volle dar peso a quelle parole; non volle neanche controllare la reazione di Tobia. Poteva continuare a tener chiusi gli occhi di fronte a certe cose, almeno per un po’.
“Chi è che vi ha confermato la presenza del lupomanaio?”
Non poteva però impedirsi di formulare ipotesi e di giungere a delle conclusioni.
Se è vero quello che dicono, chi è il Sorvegliante che non fa il suo dovere?
Ce n’erano tre: e uno di questi era sua madre.
Tobia si mosse sulla sedia, Rosi poté intuirlo dal rumore che fece strisciando sul pavimento di mattonelle. “Se te lo diciamo ci devi promettere che non lo dirai a Marina.”
“Pensate che sia lei a nascondere le Creature?”
Volle non aver detto quella frase nel momento stesso in cui la pronunciò; perché Marina era sua madre, quella che l’aveva protetta dall’Altrove, che si era presa l’onere di continuare a rimanere una Sorvegliante in attività quando lei si era rifiutata.
Era questo l’amore materno, si era detta: nonostante tutto, nonostante tutte le assenza e le responsabilità lasciate sulle sue spalle da adolescente, Marina aveva fatto almeno quello per lei.
Era il modo in cui faceva la madre … o era convenienza?
“Non lo sappiamo.” rispose Ettore. “Potrebbe essere un unico Sorvegliante che agisce alle spalle degli altri e tua madre potrebbe non essere coinvolta … quello che è sicuro, è che il lupomanaio è andato nell’accampamento dei siciliani ed ha devastato una tenda lo scorso plenilunio. Qualcuno l’ha sostituita cercando di farla passare come quella distrutta.”
“Come sapete tutte queste cose?”
“Devi promettere di rimanere in silenzio.” ripeté Tobia. “Non sappiamo ancora di chi possiamo fidarci …” esitò. “Per questo non puoi dirlo a Marina. Non credo sia coinvolta, ma potrebbe avvertire chi invece lo è.”
“Ho capito…” rispose passandosi una mano tra i capelli. Il the era finito e così il calore che l’aveva momentaneamente scaldata. Era estate, c’era afa, eppure non riusciva a sentire altro che freddo. Le aveva raggiunto le ossa e continuava a mordere. “Quindi qual è il piano? Come ci liberiamo di quella cosa?”
“Capendo cos’è prima di tutto.” le rispose Tobia.
Rosi cercò di riportare alla mente le tante storie che sua madre le aveva raccontato da ragazzina: era così che i Sorveglianti venivano iniziati al loro compito. Con le storie.
Non ce n’era però nessun racconto nei suoi ricordi che parlava di serpenti con il volto umano. Forse Marina gliel’aveva risparmiato per non farle avere incubi, ma dubitava. Da bambina adorava quel genere di storie, e chiedeva sempre quelle più oscure e spaventose, con la certezza di sapersi protetta da mura spesse e genitori che la amavano.
Non era più quella bambina da tanto tempo. “Non credo ci sia sempre stato … o qualcuno se ne sarebbe accorto. La gente caccia nella Montagnola, va’ per funghi.” disse mentre Ettore si alzava e toglieva le tazze dal tavolo. Dal modo nervoso con cui si muoveva era chiaro che non condividesse la stessa tranquillità di Tobia.
Non è casa sua questa, non è nato vicino ad un bosco. Ha paura. Eppure si è messo in prima linea.
Non era un codardo come lei. “Ci sono dei … libri … dove sono descritte le creature, credo si chiamino bestiari.” rammentò. “Potrei cercarlo.”
Tobia annuì. “Tua madre ha ancora i suoi in casa?”
“Credo di sì, ma non nella libreria, quando Cate ha imparato a leggere li ha spostati. Potrebbe averli messi in camera sua.”
“Puoi cercarli?” non lo stava guardando eppure era certa che gli occhi del Nero cercassero i suoi. Li incontrò per un breve attimo ma non riuscì a sostenerli.
Non ti ho creduto. Non ti ho mai creduto e avevi ragione tu.
“Sì. Se è solo per qualche giorno posso anche prenderli, non se ne accorgerà.”
Tobia annuì. “Noi intanto torneremo nel bosco e seguiremo le tracce … dobbiamo capire come si muove e se ha un territorio di caccia.” Ettore aprì la bocca per protestare, salvo stringerla e assumere l’aria di un condannato al patibolo. “Riesci a procurarceli per domani?”
“Mia madre è di turno, posso entrare in camera sua e cercare.”
Era entrata a far parte del gruppo. Non gliel’avevano proposto e non aveva deciso ma ma non poteva andare in nessun altro modo: se voleva chiudere quella storia doveva farne parte.
 
Le scale di legno scuro, che scendevano lungo il corridoio per arrivare all’ingresso, passavano prima dal salottino della vecchia Irma: la trovarono a ricamare vicino alla finestra mentre alla radio trasmettevano una registrazione gracchiante di un vecchio successo di Claudio Villa.
 
Non vedi che il mio amore
fugge via lontano mentre io lo inseguo invano …
 
Quando la donna li notò non si mostrò sorpresa. “Ah, eccovi.” li apostrofò. “Prendete una caramella.”
“No, grazie.” mormorò Rosi a denti stretti: ci mancava solo che la cugina Irma li bloccasse per uno dei suoi monologhi da stramboide per rendere quella giornata ancora più surreale. “Bia, andiamo.”
“Via, non farti pregà, ti piacevano tanto, prendetene una …” insistette la donna, arrivando ad alzarsi e porgerle la vecchia ciotola di vetro smaltato da dove aveva attinto tante volte da ragazzina. Le sorrideva e l’occhio strabico guardava da qualche parte oltre la sua testa.
Tobia ringraziò e ne prese una e a lei non restò che fare lo stesso. Se la infilò in tasca uscendo con la massima velocità consentita dall’educazione.
Fuori la sera aveva già cominciato a dare i suoi contorni azzurri alle cose mentre le cicale erano state sostituite dai grilli. Rosi avrebbe dovuto dire qualcosa. Qualsiasi cosa per rompere il silenzio e Tobia sembrò intuire il suo disagio, perché le sorrise. “Domani andrà meglio.”
“Non credo.”
L’altro a quello non ribatté e Rosi fu tentata di scusarsi. Per cosa però? Per quell’ennesimo rimbrotto o per tutto quanto?
Doveva resistere fino a che non sarebbe tornata a casa e avesse chiuso la porta di camera. Solo allora avrebbe potuto fare i conti con l’enormità delle rivelazioni che l’avevano raggiunta.
Non ti ho creduto. E avevi ragione.
“Non è facile da digerire.” disse Tobia. “Però è tutto vero.”
“Non ho mai smesso di credere che lo fosse.” mormorò. La casa della vecchia Brandi sorgeva di fronte alla pista ciclabile e appena fuori le mura; dopo il giardino della vedova iniziava una terra di nessuno dove la vegetazione del bosco era costantemente tenuta a bada da oculate potature ad opera del Comune. Camminavano quindi tra l’erba e la gomma sintetica della pista con la consapevolezza, almeno da parte sua, di non essere al sicuro.
E se ci avesse seguito?
Rosi non voleva rimanere sola, ma non le servì trovare una scusa per farsi accompagnare perché Tobia la seguì in paese con la naturalezza di un tempo.
Non era il silenzio confortevole di quando erano ragazzi e forse non lo sarebbe stato mai più, ma Rosi sentì di avere meno freddo.
Fece per parlare, ma l’altro la precedette. “Cosa pensi di fare con i siciliani?”
“Impacchettarli e spedirli al mittente?” ironizzò strappandogli una risata sommessa. Quant’era che non scherzavano assieme? La parte peggiore di tornare nell’Altrove era quello: ricordare.
“Per il momento attorno al castello è un pantano e per quel che mi hanno detto le loro tende sono state danneggiate …” gli spiegò. “Non vorranno subito tornare alla radura. Almeno spero.”
Dai frammenti di conversazione che aveva origliato mentre li riportava in paese era Michele quello meno contento di lasciare l’accampamento. Fortunatamente gli altri due le erano parsi ben contenti di avere un tetto sopra la testa quella notte così come quelle successive.
Specialmente Maddalena: l’aveva beccata più di una volta a guardare indietro, verso il bosco e ogni volta le era parso camminasse più veloce.
“Il terreno attorno al castello impiegherà qualche giorno ad asciugarsi.” concordò Tobia. “Però alla loro partenza mancano due settimane … non potrai tenerteli in casa così a lungo.”
“Mi inventerò qualcosa.” erano arrivati in Piazza Saracini, che all’ora di cena era già vuota di movimento e persone. Non c’erano neppure i gatti, che con le strade ancora bagnate preferivano rifugiarsi dentro le mura domestiche.
Le luci di casa erano accese e dalla finestra aperta di camera di sua sorella risuonava a tutto volume una canzone che conosceva, ma di cui aveva dimenticato le parole tanto tempo prima.
 
Are we getting closer,
or are we just getting more lost?
 
Tobia la accompagnò fino alla porta di casa, come quando erano ragazzini ed era il momento di cenare ma non avevano voglia di separarsi dopo una giornata di giochi ed esplorazioni nel bosco. Di solito a quel punto sua madre si affacciava dalla finestra e lo invitava a cenare con loro; ma quella sera Marina era di turno e Tobia non sedeva più alla loro tavola.
“Forse ho un’idea per impedire ai vostri siciliani di tornare al castello.” la distolse da quella vagonata di ricordi.
“A parte legarli?”
“A parte legarli.” le sorrise ancora. “Dammi qualche giorno e non varcheranno più il ponte della Manolonga.”
“Grazie.” buttò fuori senza riflettere. Però aveva il pregio di essere l’unica cosa che avesse senso dire in quel momento. “Grazie … anche per prima.”
“Quando?”
Una scintilla dell’antica rabbia le si riaccese nello stomaco ricordando come l’altro non ci avesse pensato due volte nel farle da scudo contro il mostro. “Ti sei messo in mezzo, se Ettore non l’avesse spaventato avrebbe preso te!”
Tobia le restituì un’espressione blandamente sorpresa. “Cosa ti aspettavi facessi?”
Già … cosa mi aspettavo.
Da una persona normale che rimanesse congelata dall’orrore, o che se la desse a gambe. Dal Nero, dal ragazzo che conversava amabilmente con i morti non avrebbe dovuto aspettarsi nulla di diverso. Perché non era mai scappato di fronte all’Altrove e perché, anche con tutto quello che gli aveva fatto, il primo istinto di quel meraviglioso idiota era stato quello di mettersi tra lei e il pericolo.
Aveva ragione e tu l’hai abbandonato.
Tobia, dato che lo stava omaggiando di un lungo silenzio privo di reazioni, fece un passo indietro e un cenno di commiato. “Buonanotte Roísín.”
Avrebbe voluto trattenerlo, ma a cosa sarebbe servito se non trovava le parole giuste da rivolgergli? “Sta’ attento mentre torni a casa.” mormorò.
L’altro annuì e le voltò le spalle, sparendo tra le ombre della sera.
Non si voltò a guardarla ma non se ne stupì.
Cosa si aspettava che facesse?
 
***
 
Maddalena era stata sistemata nel vecchio studio del padre di Cate.
Il che le andava benissimo; per la prima volta da due settimane aveva un soffitto sopra la testa, non era mangiata viva dai tafani e soprattutto non aveva un coretto di voci sovrannaturali a cullarla nel sonno.
Era felicissima.
… e ovviamente non lo era perché quella era solo una pausa; dentro Castiglioscuro vi era acquattato qualcosa, pronto ad accoglierla quando sarebbe tornata.
Non pensarci adesso.
Si sedette sul divano-letto della stanza; il materasso era bitorzoluto, e odorava di polvere e naftalina, ma era asciutto e dunque un grato cambiamento.
Si stese chiudendo gli occhi; era stata una giornata lunghissima ed era così stanca che neppure la fame le dava fastidio.
… un motivo forse c’è.
Si passò un dito sulle labbra, ricordando il modo in cui quelle di Caterina si erano posate sulle sue.
Non si era nutrita di lei. Da come la toscana era saltata su come una molla al rumore dello sparo dubitava di averlo fatto.
Per fortuna la vânător non era con loro perché non solo aveva completamente ignorato i suoi avvertimenti ma ci aveva anche aggiunto il carico da venti.
E adesso?
Lei e Caterina erano state separate nel momento in cui erano tornate al castello; la toscana era stata requisita dalla sorella maggiore e lei stessa era stata distratta dalle lamentele di Michele – che babbo com’era, si era detto disposto a dormire nel fango pur di non lasciare l’accampamento. E poi l’aveva distratta lo strano odore che aveva percepito lungo il sentiero che portava al paese.
Odore di uova marce … fa questo odore il bosco quando piove?
E adesso Caterina era sparita chissà dove; l’aveva sentita chiacchierare con Stefano e Michele, che invece avevano occupato la vecchia stanza del nonno, ma ora la casa era immersa nella quiete che precedeva la cena.
Doveva andare a cercarla?
Per dirle cosa non ne aveva idea: tutto quello che il suo stupido cervello da bestia continuava ad elaborare era un loop delle sensazioni che aveva provato quando si erano baciate.
Non le piaceva granché baciare la gente con cui andava a letto, ma con Cate era stato diverso; la toscana le aveva preso il viso tra le mani e lei si era sciolta. Aveva sentito le sue ossa, i suoi muscoli e le sue remore diventare liquide e non aveva potuto far altro che ricambiare.
 
Nell’attesa si infilò le cuffie e cercò di dormicchiare; fu quindi con gli occhi chiusi che percepì il profumo dell’altra riempire la stanza.
Difficilmente ormai avrebbe potuto confonderlo con quello di qualcun altro, persino con quello di Rosi, che pur era tanto simile.
“Scusa, non volevo svegliarti!” le disse quando aprì gli occhi. “Ti ho preso degli asciugamani in più.”
Maddalena fece una smorfia; non le importava affatto degli asciugamani, le interessava molto di più capire perché ci avesse messo così tanto a venire da lei. A meno che non avesse voluto evitarla, ma non aveva senso.
Mi hai baciata tu!
“Non stavo dormendo, tranquilla.”
Caterina posò gli asciugamani sulla scrivania di fronte al divano letto evitando il suo sguardo. “Appena torna Rosi ceniamo … anzi, vado già a preparare. Tu riposati pure, ti vengo a chiamare quando è pronto.”
Maddalena era sempre più confusa.
Mi hai baciato tu!
“Mi stai evitando?” le uscì fuori senza riflettere e da come l’altra avvampò ferocemente intuì di averci preso in pieno. “Perché?”
Razionalmente avrebbe dovuto esser contenta. Così sarebbe stato più semplice far finta che non fosse successo niente … però non lo era, affatto. Non voleva che Caterina la ignorasse e cercasse di scappare da lei.
L’altra spostò il peso da un piede all’altro. “Mi dispiace.” borbottò.
“Ma chi minchia stai ricennu?” sbottò esasperata. Dopo quel bacio avrebbe dovuto lanciarlesi addosso chiedendogliene mille altri, avrebbe dovuto desiderarli. Avrebbe dovuto pregarla di non allontanarla.
Non era quello che le vittime di una succuba dovevano fare?
Perché, per l’amor della Madonna, la stava evitando?
“Mi dispiace per prima!” sbottò Cate. “Mi dispiace se ti ho baciato senza chiederti … cioè, senza darti neanche il tempo di dirmi se volevi o meno. Ci ho pensato e … è stato sbagliato, quindi ti chiedo scusa. Va bene?”
È pazza.
Altrimenti non si spiegava quello sproloquio insensato.
“Lo so che sei arrabbiata.”
Nun sugnu arraggiata!” quasi lo urlò, invalidando l’affermazione. Fece quindi un respiro profondo. “Avà, non sono arraggiata con te, non capisco neanche perché dovrei esserlo.”
“Perché ti ho…”
“Ti baciai macari io o mi ricordo male?”
A questo Caterina distolse di nuovo lo sguardo.
Perché si comporta così?
Per quanto razionalmente avrebbe dovuto lasciar cadere quell’argomento, una parte di sé era sempre più confusa … e ferita. Caterina si stava comportando come se quel bacio fosse stato qualcosa di vergognoso, un errore per cui scusarsi e andare oltre. Forse si era pentita di essersi lasciata guidare dall’attrazione per lei? Possibile, eppure si rifiutava di pensare che quel bacio fosse stato solo un attacco intempestivo di ormoni. Non quando le aveva chiesto di rimanere.
Non poteva continuare a farsi mille castelli in aria, e per quando la cosa le mettesse ansia, era necessario che si chiarissero: ormai aveva capito che per quanto per tante cose lei e Cate fossero simili, per altre parlavano due lingue diverse. “Resta, per favore. Parliamo.”
Caterina le obbedì, sedendosi accanto a lei sul letto, rigida come una tavola di legno, le mani in grembo e neppure un centimetro di pelle che toccava la sua.
Non le piacque per niente. “Ti ho baciato anche io” esordì, “quindi non credo che ti preoccupi il fatto di non avermi chiesto il permesso … è qualcos’altro, ma non capisco cosa. Me lo devi spiegare tu.”
Caterina si morse un labbro con l’aria di chi avrebbe preferito buttarsi dalla finestra piuttosto che risponderle. “È che … non voglio rovinare tutto.” mormorò dopo qualche attimo di silenzio. “Perché mi faccio dei film, mi immagino che le persone che mi piacciono mi ricambino … tipo, pensavo di piacere a Gioia Sclavi, ma se mi fossi fermata a ragionare avrei capito che…”
Maddalena sbuffò: la natura non l’aveva dotata di particolare pazienza e non le importava un accidente di chi fosse Gioia Sclavi.
Però adesso almeno aveva capito quale fosse il nocciolo del problema. E un’enorme ondata di sollievo la travolse e dovette frenarsi per ridere, che l’altra avrebbe potuto interpretarlo come una presa in giro. “Non ti sei immaginata niente.”
Cate finalmente, per la prima volta in quel lunghissimi minuti di disagio, parve connettere i neuroni. La contemplò sbalordita. “Allora … ti garbo?”
Maddalena stavolta sorrise: il vernacolo toscano era già di per sé buffo, ma in quelle situazioni aveva il meraviglioso potere di stemperare la tensione, o forse era solo il modo in cui lo usava Caterina. Le sfiorò le dita con le proprie, e Cate fu svelta a prenderle la mano.
Le piaceva quando le prendeva per mano. Era un gesto che parlava di innocenza, di una tenerezza che pensava potesse esser solo rivolta ad un familiare o, al massimo, ad un amico. Le piaceva non fosse solo quello.
“Sì, mi garbi.”
Avrebbe voluto che finisse lì. Avrebbe dovuto finire con lei che si dichiarava e Cate che la baciava senza aver paura di essersi immaginata che ci fosse qualcosa tra di loro.
Perché c’era.
Però non funzionava così: lei era una succuba e la Confraternita era stata chiara, nessun donatore ricorrente, nessun fidanzatino, nessuna ragazza. Solo volti anonimi e prelievi una tantum.
Maddalena aveva sulle labbra quel “ma” tanto voluto dai Sorveglianti, ma non riuscì a pronunciarlo perché Cate la baciò, e quella particella odiosa si dissolse nel nulla mentre la ricambiava, tirandosela addosso e annullando una distanza che aveva sofferto dal momento stesso in cui l’altra aveva deciso di sedersi lontano da lei.
Cate si staccò con il fiato corto – era colpa sua? Forse. Non riusciva a capirlo quando la testa le ronzava a quel modo – e le rivolse un sorriso enorme. “Mi piaci anche tu. Anche se mi pigli in giro e il tuo accento toscano fa schifo.”
Maddalena sbuffò una risatina frenandosi dal riacciuffarla. Non poteva, doveva pensare e quando ce l’aveva tra le braccia non ci riusciva.
La vuoi. Non puoi averla. Ma la vuoi.
Doveva trovare una soluzione.
Il primo passo era fare in modo che la vânător, ma anche i Sorveglianti, non le scoprissero. Le avrebbero allontanate mettendola su un’areo per Catania nella migliore delle ipotesi, mentre nella peggiore …
Non voleva morire per stare con una ragazza, ma la sola idea di separarsi da Cate era insostenibile.
Può funzionare se non lo scopre nessuno … e se non perdo il controllo e non la ammalio non lo scoprirà nessuno.
L’unico modo era continuare a cacciare e nutrirsi altrove. Sua madre era finita com’era finita perché prima di arrendersi alla fame aveva tentato di nutrirsi solo di suo padre per rimanergli fedele, glielo aveva raccontato Carmine.
Non deve succedere anche a me. Non deve succedere a lei.
Se avesse cacciato la notte e fosse stata con Cate durante il giorno non sarebbe successo niente. I due mondi non si sarebbero mai incontrati.
Poteva funzionare.
“A che pensi?” le domandò l’altra. “Non te lo vorrei perché ti piglia male, ma hai di nuovo la faccia incazzata.”
Maddalena abbozzò un sorriso. “Non sarà facile.” che non era una bugia dopotutto.
Cate annuì. “… è la prima volta che ti piace una ragazza?”
“Più o meno.” anche quello era vero, anche se l’unico motivo per cui aveva deciso di non nutrirsi della sua stessa metà del cielo non era stata la mancanza di attrazione, ma piuttosto il contrario. Solo, all’epoca, aveva pensato che sarebbe stato più semplice concentrarsi sugli uomini. Aveva pensato che così almeno avrebbe avuto delle amiche.
Che poi non fosse mai riuscita a farsene di durature quello era un altro paio di maniche.
“Non è facile …” convenne Cate. “… cioè, per me non è stato tanto male. La mia famiglia l’ha capito da prima di me, i miei amici pure, ma non glien’è mai importato nulla. Però non è così per tutti. Non voglio costringerti a fare coming out se non te la senti.”
“Sarebbe un problema?” non era quello il motivo per cui voleva rimanere sottotraccia, ma era un alibi perfetto. “Se non lo dicessimo in giro intendo. Se fosse una cosa solo tra me e te.”
Caterina le sorrise. “Va bene.”
C’era qualcosa nel tono di voce dell’altra che non la convinceva del tutto, ma non poteva permettersi il lusso di farsene un problema. Poteva farlo funzionare; per due settimane poteva nascondere ciò che provava per un abitante del Chiaro.
 
***
 
Marina era tornata a casa che ormai la pioggia era un ricordo lontano.
Solo l’odore che impregnava il bosco e la strada bagnata le avevano segnalato che acqua era scesa, e copiosamente.
Parcheggiò la macchina sotto casa e ne uscì con uno sbuffo dolorante; ogni volta che pioveva le sue ginocchia cominciavano a dolere, segno dell’età ma anche di un’empatia tutta Silvani per l’umore di cui era tinta la Montagnola. Sulla soglia di casa quasi inciampò su Ariele, che non si disturbò a spostarsi obbligandola così a scavalcarlo.
“Gattaccio pigro!” lo apostrofò, pur consapevole non fosse vero; Ariele assolveva ad un compito non dissimile da quello dei suoi colleghi più campagnoli.
Tiene lontano da casa le bestie indesiderate …
Anche se non erano topi o scarafaggi quello che lui e i fratelli cacciavano, relegandoli ai confini delle mura.
Come fosse arrivato il primo gatto a Malacena nessuno lo ricordava, neppure i Sorveglianti più edotti, ma una cosa era certa: era arrivato con una M sulla fronte e un compito preciso.
 
Trovò Caterina e i suoi siciliani stravaccati nel salotto di casa, assorbiti da una puntata di qualche show dai paesaggi scuri e bambini dall’aria ansiosa. Nella stanza aleggiava profumo di fritto e pomarola e a terra c’era una fitta selva di lattine di Coca Cola e pacchi di patatine.
Marina sorrise a quella fotografia adolescenziale. “Buonasera bimbi!”
“Ciao mamma!” la salutò Cate, infossata nel divano assieme ai due fratelli Russo. Maddalena le sorrise nervosa e si premurò di allontanarsi da Cate, mascherando il movimento come un casuale cambio di posizione.
Cittina intelligente …
“Meno male siete tutti qui … con l’acqua che ha fatto ero preoccupata!”
“Siamo saliti a smontare le tende, ma le abbiamo dovute lasciare su. È un pantano, stanotte dormono qui!”
Non era una domanda, era una notifica, ma a Marina non interessava. Dopotutto l’idea di avere la succuba sotto il suo tetto, dove poteva tenerla sott’occhio, non le dispiaceva affatto, così come quella di conoscere in tempo reale gli spostamenti del giovane e zelante Sorvegliante catanese che però, al momento, mancava all’appello. “Dov’è Stefano?”
“In cucina, si è offerto di lavare i piatti.”
Marina diede un’occhiata alla luce accesa del cucinino e chiuse così quel piccolo appello mentale. “Pietro è tornato a casa?”
“Sì, lui Stranger Things l’ha già visto, ha detto di salutarti.”
“Le abbiamo lasciato un paio di arancini in forno!” si inserì Michele con un sorriso che era una palese captatio benevolentiae. “Per ringraziarla dell’ospitalità!” soggiunse imbarazzato. “Non era dovuta. Vero Malù?”
“Vero, grazie,” borbottò questa, “appena si asciuga torniamo su.”
“Non c’è nessun problema … di spazio ne abbiamo quanto volete.” rispose tranquilla. Era un bene averli lì, invece che vicini a Castiglioscuro.
Inoltre averli a disposizione le avrebbe permesso di capire meglio alcune cose.
Perché se Elia è attirato dalla porta … Forse lo è anche Maddalena.
Però, a differenza del figlio di Carlo, la siciliana lo sarebbe stata in maniera cosciente e chiedendole lumi forse avrebbe capito perché, da un anno a quella parte, la porta suscitava così tanto interesse. Non era però il momento di fare domande; avrebbe dovuto trovarla da sola, anche se non sarebbe stato facile considerando che sua figlia sembrava letteralmente incollata all’altra con il cemento a presa rapida.
Avrebbe trovato un modo.
Salutò i ragazzi e passò dalla cucina, dove Stefano le rivolse un cenno cortese, completamente assorto nell’asciugare con precisione millimetrica l’ennesimo piatto.
Scambiarono qualche convenevole ma il ragazzo non le sembrò in vena di chiacchiere e lo lasciò dunque alle sue corveé andando a controllare l’ultima inquilina della casa.
 
Rosi era seduta sul letto ma, a differenza del solito, non aveva un libro in mano.
Non stava neppure ascoltando musica, ma era invece distesa con gli occhi rivolti al soffitto e si mosse solo quando la udì entrare.
“Oh, sei tu.” mormorò. “Sei tornata…”
“Sì, con quei nuvoloni ho preferito aspettare un po’, non volevo finire in qualche fosso mentre tornavo su!”
“Hai fatto bene.” disse alzandosi a sedere di scatto sul letto. Aveva le guance rosse e questo le ricordò quando da ragazzina rimaneva ferma troppo a lungo, a leggere o a fantasticare. Senza preavviso Rosi era capace di saltare su e correre fuori di casa, come una molla tenuta in tensione troppo a lungo.
Aveva un’indole più contemplativa della sua, ma il sangue rimaneva Silvani; erano fatte per correre nel bosco assieme alle sue creature, e solo la modernità le aveva costrette in altri panni.
“Hai mangiato? I ragazzi credo ti abbiano lasciato qualcosa …”
“Sì, me l’hanno detto, ma il fritto a quest’ora mi rimane sullo stomaco, magari me lo porto domani per pranzo.” l’altra diede a malapena segno di ascoltarla, alzandosi dal letto e dirigendosi verso la finestra, dove rimase a guardar fuori. Stavolta Marina si chiese se più che reprimere energia Rosi non fosse invece infastidita dalla sua presenza. “Tutto bene?”
“Sì … a parte gli ospiti inaspettati.”
Marina si strinse nelle spalle: c’era da immaginarselo che la sua misantropa figliola avesse accolto i giovani campeggiatori a collo torto. “Sarà solo per qualche giorno, porta pazienza, non hanno mica fatto piover loro.”
“No, loro no.” Prima che potesse chiederle chi altro avrebbe potuto far piovere, Rosi fece una smorfia. “Ti dispiace? Mi stavo riposando.”
La stava cacciando di camera? Decisamente, da come Marina si ritrovò in pochi attimi fuori da una porta chiusa.
Pensavo che con lei avessimo passato il periodo dell’adolescenza ombrosa!
E invece pareva proprio di no.
 
Qualche ora dopo la casa era tranquilla.
Marina, in bagno, finì di prepararsi per la notte, catalogando i piccoli rumori che segnalavano la presenza di altre persone sotto lo stesso tetto; il russare regolare di uno dei due ragazzi e, quando uscì in corridoio, una lama di luce che filtrava dallo studio di Dermot – Maddalena doveva essere ancora alzata.
Rifletté se andarle a bussare, ma poi decise altrimenti, che la ragazza doveva ancora acclimatarsi e sarebbe stata troppo sul chi vive per rispondere alle sue domande.
Non c’era fretta, il bosco non si sarebbe asciugato prima di qualche giorno; quando pioveva a quel modo rimaneva umido a lungo.
Chissà cos’è successo per scatenare tutta quella pioggia …
I siciliani campeggiavano da due settimane ed erano stati giorni di sole splendido.
Forse avevano deciso di avvicinarsi troppo alla porta e il bosco aveva usato l’unica difesa che conosceva. Era già capitato con Elia, l’ultima volta a Luglio.
Tornò in camera, andando alla finestra per socchiudere le persiane e non far entrare così troppa luce dal lampione di fronte. Nel farlo, notò qualcuno muoversi nella piazza. Pensò a Tobia, ma rimase stupita quando riconobbe la figura magrolina di Stefano. Cosa ci faceva fuori a quell’ora antelucana?
Il ragazzo tagliò la piazza in diagonale per poi infilarsi in uno dei vicoli che salivano lungo il paese. Sparì velocemente nelle ombre.
 
***
 

Note:
Inizia la seconda parte! Considerando che stiamo probabilmente andando verso un lockdown 2.0 credo che ci siano buoni auspici per aggiornarla spesso. *risata che si trasforma in pianto*
Le canzoni presenti nel capitolo:
Il binario, di Claudio Villa.
Swing Life Away, Rise Against.

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.
 
 
 
Ci sono dei confini al di là dei quali non è permesso andare.
Dio ha voluto che su certe carte fosse scritto: hic sunt leones
(Il Nome della Rosa, Umberto Eco)
 
 
Roísín non aveva dormito: era una conseguenza piuttosto ovvia quando il proprio mondo finiva a testa in giù.
Dopo che Tobia l’aveva lasciata sulla soglia di casa aveva dribblato le domande di sua sorella, così come le vocianti richieste di mangiare assieme di Michele Russo e si era infilata in camera di sua madre; era lì infatti che Marina teneva i Bestiari.
Rosi li ricordava; così come ricordava le tante agende impilate nella libreria, all’apparenza anonime ma che invece nascondevano formule per creare quelle sue tisane tanto buone, ma anche un bel po’ magiche.
L’odore di erba medica in camera di sua madre era quasi asfissiante, forse per i tanti mazzetti di fiori e pianticelle appese alle travi nude del soffitto; non aveva mai trovato strano quell’odore, come non lo trovava Caterina, ma quale madre teneva un’erboristeria appesa al soffitto?
Una madre che trafficava con erbe che solitamente venivano lasciate a bordo dei campi, o dei fossi, o a marcire nella terra del bosco, ecco quale.
Sua madre quando usava la frase “lo sai che son strega”, lo intendeva sul serio.
Sua madre era una strega. Lo erano state tutte le donne Silvani prima di lei, ognuna con le sue capacità, ognuna nata inesorabilmente in un’assolata giornata di Domenica.
Rosi aveva trovato i Bestiari nella libreria, accanto alle agende: avevano copertine foderate di carta colorata come si faceva una volta. Un’ulteriore misura contro la curiosità di Cate, che comunque non era mai stata una gran lettrice.
Le pagine erano ingiallite e la rilegatura a colla aveva lasciato qualche foglio libero, che Marina aveva re-incollato con un po’ di scotch; i Bestiari erano testi di apprendimento, ma potevano trascorrere diverse generazioni prima che venissero aggiornati. L’ultima volta doveva essere stato al tempo di suo nonno Virgilio. Quei libri sarebbero dovuti appartenere a lui, ma dovevano essere stati sfogliati unicamente da sua madre. Odoravano di bosco esattamente come il resto della camera.
 
Aveva passato tutta la notte a leggere, e come un fiume straripato dagli argini, i ricordi dell’addestramento erano tornati ad ogni pagina che sfogliava e ad ogni disegno ingiallito di qualche Creatura che riconosceva.
Non ricordava il giorno esatto in cui aveva deciso che non voleva diventare una Sorvegliante, ma non era accaduto subito; prima c’era stata la magia del bosco, le storie di veglia sussurrate da sua madre per farla addormentare e le notti passate a Castiglioscuro ad ascoltare gli alberi con Tobia.
In tutto quel tempo aveva voluto esser Sorvegliante.
Poi però era arrivata la morte di suo nonno, il dover crescere una Caterina sempre più ribelle e infine – il vero motivo – voler sembrare normale agli occhi di una Malacena talmente immersa nel Chiaro da quasi non credere ai santi, figurarsi ai diavoli.
Abbandonare Tobia era stata solo la summa finale di quella decisione.
Tobia che però non era impazzito. Aveva avuto soltanto paura, la stessa paura che quel pomeriggio l’aveva bloccata sul ponte della Manolonga e l’aveva quasi fatta ingollare dal serpente con il volto umano.
Rosi aveva passato tutta la notte a leggere, interrompendosi solo per guardare il soffitto, ma per pochi attimi; quelli necessari a ricordare che rinunciare a quel ruolo l’aveva resa cieca e sorda e per poco non l’aveva uccisa.
 
L’alba illuminava i tetti di Malacena, posando una luce rosata su ogni cosa; Malacena, era un paese delle fiabe dimenticato, il luogo dove era nata, cresciuta e dove sarebbe un giorno stata seppellita. Era come se ogni pietra, tegola o interstizio le appartenesse, come se ogni persona fosse un po’ sotto la sua responsabilità.
Non poteva più limitarsi a servire caffè, doveva tornare ad aprire gli occhi e fare quello che la sua famiglia aveva fatto per generazioni.
Sorvegliare.
Proteggendo così la sua gente e, più nell’immediato, impedendo a Caterina e i suoi siciliani di salire al castello.
Finché il terreno non si fosse asciugato sarebbe stato facile dissuaderli; a nessuno piaceva dormire nel fango, ma se il sole avesse continuato a splendere senza una nuvola come quella mattina, sarebbe stata questione di un paio di giorni, non di più.
Tobia ha detto che troverà un modo …
Avrebbe dovuto fidarsi? Doveva, non aveva scelta, era a corto di idee che non fosse metterli in una collettiva punizione, cosa che avrebbe fermato a malapena sua sorella, figuriamoci tre estranei maggiorenni.
Rosi si accese l’ennesima sigaretta mentre la mattina entrava gloriosamente dalla finestra. Il posacenere accanto al comodino ormai traboccava di mozziconi e sentiva la gola secca come se ci avesse strofinato della carta vetrata.
Era spaventata. Spaventata, ma non terrorizzata, perché  aveva un obiettivo e leggere quei libri le dava l’illusione di poterlo raggiungere. Forse.
Lo schermo del suo cellulare si illuminò.
 
 
Rosi lo anticipò e non dovette attendere che uno squillo perché le venisse risposto. “Buongiorno,” sospirò Ettore. “Neanche tu hai dormito, eh?”
“Per me è normale, non lo è per te caro il mio Brigadiè.” ribatté ironica. “A quanto mi ricordo, tocchi il cuscino e dormi.”
“Lascia fare, se dormivo facevo solo incubi.” borbottò. “I Bestiari?”
“Li ho letti, ma preferisco parlarvene a voce.”
“Hai trovato qualcosa?”
Rosi diede un tiro alla sigaretta, ringraziando il pugno di nicotina che le colpì la gola e le diede il tempo di concentrarsi su altro che non il nodo di panico che le stringeva le viscere. Aveva trovato qualcosa? Aveva passato tutta la notte a leggere, incerta se fosse meglio avere conferme terribili oppure rimanere nell’incertezza data dall’ignoranza. Nell’ora più buia aveva avuto la sua risposta. “Sì,” disse, “ma non è una buona notizia.”
Ettore rimase in silenzio, senza tempestarla di domanda come si sarebbe aspettata. Forse era così che diventava sul lavoro. “Aspettiamo che ci stia anche Tobia allora.” disse infine.
“Va bene.”
Il momento professionale durò poco. “’Sta cosa che non tiene manco ‘nu cellulare scrauso per poterlo avvisare è assurdo!” sbottò lamentoso. “Potremo fare una chat di gruppo degli Investigatori dell’Altrove, ma no, lui deve fare quello fuori dalla rete!”
“Degli investigatori di che…?” decise di glissare per la sua stessa sanità mentale. “Abita nel bosco,” gli fece invece notare, “lì dentro non prende.”
“Ah … già.” Rosi se lo immaginò a passarsi una mano tra i capelli corti e abbozzò un sorriso. “Sto un poco preoccupato per lui, tu no?”
Sempre, pensò, ma ripeterlo per l’ennesima volta le parse trito. “Vive accanto al cimitero,” rispose invece, “le Creature lì non entrano.”
“E perché?”
Perché il Mondo Altro aveva le sue regole per quanto ad un abitante del mondo normale risultassero prive di senso. Una di esse, e Rosi lo ricordava dalle parole di Bruno Neri, l’uomo dei morti prima che lo diventasse Tobia, era che i morti non andavano disturbati. Il regno delle Creature era un regno vivo, fatto della stessa linfa che scorreva nei tronchi degli alberi, e non si mischiava bene con l’Oltretomba. E infatti, gli alberi del bosco si fermavano alle mura del cimitero: solo l’edera selvatica e il cipresso avevano il permesso di crescervi.
Tutto il resto, semplicemente, moriva.
Quando finì la spiegazione dall’altra parte del telefono Ettore rimase in silenzio.
“Ci credi che mi sono venuti i brividi, Rosì?” mormorò. “Io ci sono stato, quando c’erano … insomma, quando ci stavano pure i fuochi fatui! Non è che mo’ se la prendono con me?”
Rosi sorrise. “È stato Tobia a farti entrare, e chiunque porti con sé è al sicuro. Cosa diversa è se entri per conto tuo, soprattutto di notte o magari il trentuno d’Ottobre.”
Ca’ succèd o' trentun d’Ottobre?” fece un brevissimo respiro. “No, ja, lascia fare, non dirmelo!”
Rosi sbuffò una risata; per quanto Tobia le avesse detto che Ettore era come loro, era palese che non fosse abituato all’Altrove. Le sue reazioni genuine paradossalmente la rassicuravano, rendendo quella faccenda un po’ meno fuori di testa. 
“Il cimitero protegge il suo custode, come il custode protegge il cimitero. È sempre stato così, basta che non vada a passeggiare nel bosco e non dovrebbe correre rischi.”
Conoscendolo, non era del tutto sicura che il Nero se ne sarebbe stato con le mani in mano a lungo. Confidava però che non fosse diventato completamente scemo e che li avrebbe chiamati prima di agire. O almeno, avrebbe chiamato il buon Brigadiere.
Di certo non te. Con te non vuole avere più niente a che fare.
“Quindi di cose ne sai…” la riportò all’ordine Ettore.
Era un’affermazione tranciante e Rosi vi percepì accusa, ma anche sollievo. Non era male avere un alleato in più in quella faccenda; questo lo poteva capire.
“Avrei dovuto prendere il posto di mia madre come Sorvegliante … le ho studiate.” confermò suo malgrado. “Però finita questa storia torno alla mia vita. Torno al Chiaro.”
“Puoi davvero farlo?” domandò Ettore perplesso.
Rosi non rispose. 
 
***
 
“Dov’è Cate?” 
Maddalena aveva da ore quella domanda insensata in testa. Insensata perché quando era tornata dalla sua caccia, a Malacena erano le quattro del mattino, e Caterina era presumibilmente in camera sua a dormire. Non aveva quindi potuto pronunciarla ad alta voce quando aveva dato la buonanotte ad un assonnatissimo Stefano. Si era invece fatta qualche scarna ora di sonno in attesa che fosse un’ora decente per scendere al Bar e sperare di trovarla a far colazione con gli altri.
Caterina non era al Bar.
“Starà ancora dormendo.” le rispose Rosi affaccendata a servire caffè e cappuccini. Stefano, Michele e Pietro stavano facendo colazione ad uno dei tavoli fuori. Ridevano, scherzavano e avevano lasciato due sedie libere al tavolo già ingombro di tazze e rimasugli di cornetti. Maddalena si permise un piccolo sospiro di sollievo: la vânător non c’era.
“Pensavo fosse scesa. Allora vado a svegliarla.” propose e Rosi le rivolse un cenno distratto. 
“Se ci riesci, ti offro la colazione.”
“Non era già offerta?”
Il tono ironico non sfuggì all’altra, che le restituì un ghignetto divertito. “Direi di no. Ci manca solo che cominciate a costarmi.”
Maddalena ridacchiò: Rosi le piaceva. Non era il suo tipo, era troppo magra e puzzava di sigaretta, ma le era simpatica con quei suoi modi bruschi ma franchi. In entrambe le Silvani, seppure in modo diverso, si percepiva un’aria sincera, di quelle che capivi al volo che non ti avrebbero mai fatto una cattiveria per il gusto di farla. 
Marina, la madre, invece non l’aveva ancora inquadrata. L’aveva sentita rientrare la sera prima, ma non era ancora uscita dalla propria camera. 
Meglio così. Rimane pur sempre una Sorvegliante.
Perché da Sorvegliante si sarebbe di certo allarmata se una succuba fosse entrata di soppiatto nella camera di sua figlia minore; stesa sul letto come una stella marina, con le coperte aggrovigliate attorno ai piedi, Cate non dava segno di aver notato il suo ingresso, continuando invece a ronfare nonostante avesse il sole in faccia. Maddalena si sedette in fondo al letto non potendo fare a meno di spendere qualche istante a contemplarla.
Cate non era solo bella, era interessante. Aveva gli occhi pieni di luce, i lineamenti gentili, e una pelle liscia dal buonissimo profumo. Girava conciata con roba di almeno una o due taglie più grande, ma era una dichiarazione pensata, un modo di presentarsi al mondo. Anche i capelli lo erano, lasciati al naturale, ma curatissimi; nel bagno erano disseminate oli e balsami per capelli in ogni angolo, e dubitava fossero di Rosi, dato che la donna portava una crocchia strettissima e perenne.  
Cate era la ragazza più bella e interessante – fuori e dentro – che avesse mai conosciuto e non aveva la minima idea di come gestire quello che provava per lei.
Il buonsenso le diceva di rimangiarsi baci che si erano scambiate; ma era facile farlo parlare quando era lontana da Caterina. Quando era così vicina e quando questa, peraltro, cominciava a svegliarsi, Maddalena non udiva che un brusio di sottofondo.
Il suo buon senso diceva qualcosa? Non ne aveva idea. 
“Buongiorno,” la salutò Cate con un sorriso pigro, “ è tardi, eh?”
“Sono le dieci. Più che altro le dieci e mezzo … quasi le undici in realtà.” rispose un po’ stupidamente, rimediando un sorrisetto divertito.
“Precisissima.” si stiracchiò, posandole i piedi in grembo con pestifera intenzione. Maddalena, rapida, gliene afferrò uno per farle il solletico sotto la pianta dei piedi.
Caterina scoppiò nella risata che aveva sperato facesse, tirandosi indietro. “Diobono, no, m’ammazzi! Lo soffro da morì!”
“E allora non mettermi i piedi in faccia.” rispose divertita. Poi tornò seria, perché se era venuta a svegliarla, non era per rimanere sole.
Cioè, non soltanto per quello. 
Dormisti bono?” le chiese in tono discorsivo, ma la domanda le metteva ansia; se aveva cominciato ad ammaliarla, Caterina avrebbe già esibito i primi sintomi.
Il fatto che non le si fosse infilata nel letto la notte prima era confortante, ma doveva fare attenzione ad ogni piccolo dettaglio.
Aivoglia!” le rispose mettendosi seduta. “Un’so’ mica la mi’ sorella … dormo appena tocco cuscino, io. Poi d’estate non devo svegliarmi presto … quindi figurati.” concluse togliendosi l’elastico che le legava i capelli per ravvivarli con attenti colpi di dita. Un meraviglioso mare color cioccolato fondente le oscurò il viso per un attimo.
“Che c’è?” le domandò, probabilmente notando la sua aria imbambolata. 
“Sei ossessionata dai tuoi capelli.” borbottò per darsi un contegno.
Caterina scrollò le spalle. “Devo, se un’li curo diventano ingestibili … da piccina parevano un nido d’uccelli.” 
“Sono bellissimi.” mormorò e Cate le restituì un’espressione sorpresa. “Te li invidio, davvero,” ed era sincera. Poteva sembrare un controsenso, ma nulla del suo aspetto fisico era frutto di cura da parte sua. Il suo aspetto era come quello di un fiore velenoso; viveva con un unico compito, quello di attirare prede. 
Non c’era molto orgoglio nell’essere bella a quella maniera.
Cate sorrise imbarazzata.  “Che c’hai da invidiammi te?” 
“Il carattere?” 
Cate sogghignò. “Vorrei ditti di no, ma su questo hai proprio ragione!”
“Anche sul resto.”
Caterina decise di gattonare fino a lei per mettere il viso all’altezza del suo. “Quando non ti girano in realtà sei abbastanza simpatica.”
Babba…”
Cate la baciò. La cosa che la stupiva era, non tanto che l’altra prendesse l’iniziativa – c’era abituata, era difficile che le sue prede se ne stessero buone ad attendere il primo bacio. Era stupita dal fatto che aspettasse sempre un momento, un secondo in cui le prendeva il viso tra le mani, ma senza trattenerla. Se avesse voluto, Maddalena lo intuiva, avrebbe potuto tirarsi indietro.
Non che avesse intenzione di farlo. Ricambiò il bacio e cercò di farlo rimanere in superficie, di non approfondirlo come avrebbe voluto. Erano su un letto, era un rischio che non poteva permettersi, neppure se era mattina e i suoi bisogni erano stati soddisfatti la sera prima.
E verranno soddisfatti anche stasera. Portali altrove, lontani da lei.
Strinse Caterina a sé, spostando il viso per seppellirlo nei suoi capelli. Erano morbidi e profumavano di cocco. 
Accussì vogghiu murìri …
“Dobbiamo scendere.” disse con pochissima convinzione. 
Cate sospirò di rimando. “Purtroppo sì. Se non lo facciamo, Rosi trova il modo di sgridarmi. Già che non mi abbia messo in punizione per essere entrati nel castello iersera è grassa…”
Maddalena si scostò preoccupata. “Non può farlo, non potevamo rimanere a prenderci l’acqua, né scinniri!”
Se Rosi avesse deciso di metterla in punizione, non avrebbe potuto stare con loro … e con lei.
Mancavano due settimane alla partenza. Erano poche, soprattutto se ci fosse stata una punizione di mezzo.
Cate scosse la testa. “Un’credo che lo farà. Però non vi lascerà tornare su a breve. Magari ha paura che scivoliate, battiate il capo e v’ammazzate, boh. Comunque ha ragione, su sarà pieno di fango.”
Maddalena si strinse nelle spalle. “A me non dispiace rimanere in paese, a te?”
Caterina si avvicinò di nuovo, strofinandole la punta del naso contro la sua. Bacio da eschimese, così si chiamava, una roba sdolcinata che avrebbe odiato se glielo avesse rifilato chiunque altro.
“Per niente!”
Non lo odiava affatto. 
 
***
 
“È un serpe regolo.”
Ettore quando Rosi parlò rimase in silenzio, aspettando di vedere la reazione di Tobia per capire quanto quella rivelazione fosse grave.
L’uomo però aveva la brutta abitudine di far trapelare pochissime emozioni, e quindi tutto quello che fece fu stringere le labbra, rimanendo seduto immobile sul divano.
“… e cosa sarebbe?” si arrischiò, vinto, a domandare. “Un serpente, va bene, ma regolo che vuol dire?”
Rosi era in piedi di fronte a loro e dava le spalle alla cartina della Montagnola che avevano appeso al muro del salotto della casina nel bosco, assieme alla lavagna e alle decine di post-it. Quando era entrata Rosi non aveva detto niente, ma non era servito lo facesse.
Era arrivata all’appuntamento come un fascio di nervi e continuava ad essere un fascio di nervi. “Regolo in questo caso viene dalla radice regulus, piccolo re.” rispose. “Il nome è dovuto alle dimensioni.”
“Una specie di re dei serpenti.” commentò Tobia. “Ha senso, non credevo ne esistessero di così grossi nell’Altrove.”
“Non è esattamente un serpente …” Rosi si voltò, andando al tavolo da pranzo ed afferrando uno dei libri che si era portata dietro, sfogliandolo rapida per aprirlo ad una pagina, che mostrò loro. Raffigurava un disegno medievale, che a Ettore parve quello di un grosso serpente dotato di due arti superiori.
“Così è come nel Medioevo raffiguravano i draghi.” spiegò la ragazza. “I draghi nelle tradizioni germaniche venivano chiamati anche lindworm. Ormr è la radice protonorrena della parola serpente. Quindi… usiamo nomi del Chiaro diversi per intendere la stessa Creatura dell’Altrove.”
“È un drago?!” esclamò incredulo. “Abbiamo a che fare con nu’ drago?!”
“Classificarlo non serve a molto, ma sì, la famiglia è quella dei draghi, sottogenere serpentiforme.” gli rispose con piglio sicuro.
Per aver abbandonato il suo compito di Sorvegliante da anni, Rosi se la cavava decisamente bene in quella faccenda delle ricerche.
“Non aveva le zampe però,” osservò Tobia. “Almeno io non le ho notate.”
Ettore sbuffò: “Sì, perché noti le zampe in un serpente gigante con la faccia da cristiano!”
Rosi li ignorò, pescando un altro libro dalla grossa borsa informe che si era portata dietro, facendola sembrare come se non pesasse nulla. Era il quarto libro che vi tirava fuori, spesso e dalla copertina rigida di quelle di una volta. “Sì, è vero … perché quello che abbiamo incontrato è una variante della specie appenninica, vive soprattutto dentro le grotte di origine carsica, dove si sposta più agevolmente strisciando. Le zampe non gli servono.”
Rosi sfogliò il libro ed Ettore non si sbagliò, esitò e trattenne un brivido quando trovò quel che cercava. “Ditemi voi se non è lo stesso.” e parlato, girò le pagine nella loro direzione.
Anche stavolta era un’illustrazione: in bianco e nero, sgranata e resa quasi indecifrabile da una scannerizzazione fatta in tempi dove la tecnologia era agli esordi, ma gli elementi erano comunque chiari. Illustrava un serpente coperto da fitte scaglie di colore chiaro, ma dove la testa sarebbe dovuta finire piatta e lunga si storceva invece in una forma umana. Il volto d’uomo era una maschera da teatro greco deformata in una smorfia di dolore.
Era repellente ed era esattamente ciò che li aveva attaccati il giorno prima.
“Potrebbero essercene altri?” sussurrò terrificato, e stavolta non riuscì a nascondere la paura.
I due toscani si scambiarono un’occhiata, poi Rosi scosse la testa. “In teoria è una Creatura classificata come estinta. L’ultimo avvistamento, almeno a quanto scritto qui, è stato nell’Alto Medioevo. E non in queste zone.”
“Però adesso è vivo, vegeto e decisamente in queste zone! Come la mettiamo?”
Tobia si alzò, facendosi passare il libro da Rosi e scorrendo qualche riga. “La mettiamo che c’è, e tornerebbe con quanto abbiamo letto nel diario di Matilde.”
“Cosa avete letto?”
“Non te lo ricordi?” le domandò. 
“Me lo leggeva mia madre prima di andare a letto, tu ricordi le fiabe che ti raccontava tuo nonno prima di dormire?” il tono con cui la rossa si rivolse a Tobia era la rappresentazione vocale di un morso.
Ettore intuì che c’era molto più sottotesto che dichiarato in quello scambio di battute, ma essendo un tipo intelligente, decise che non erano affari suoi. “C’è scritto che nel milleduecento una tua antenata, credo, si scontrò con un mostro che veniva da sotto il castello!” intervenne “Ammazzò un bel po’ di persone prima che questa Bice riuscisse a fermarlo.”
Rosi voltò bruscamente la testa nella sua direzione, mentre prima era completamente assorta nel compito di fulminare Tobia. “Bice?” domandò brusca. “Si chiamava Bice?”
“La conosci?”
“Come faccio a conoscerla, è morta secoli fa…” mormorò a mezza bocca, voltandosi verso la propria borsa per prendere un pacchetto di sigarette e accendersene una. “Non la conosco.” ripeté. “Però l’ho sognata.”
“Cioè?”
Rosi non gli rispose, andando alla finestra per soffiare fuori il fumo. Tobia, dopo essersi forse assicurato che l’altra non avesse intenzione di dare spiegazioni, continuò per lei. “È quello che Rosi è in grado di fare. Sogna il passato accaduto e il futuro che deve ancora accadere. È una chiaroveggente.”
“Ma per favore…” mormorò questa dando un altro tiro secco alla propria sigaretta. “Non chiamarmi a quel modo.”
“Però è quello che sei.” ribatté pacato. Attese un altro momento, poi continuò. “In questo caso hai visioni dal passato … sulla strega che è riuscita a avere la meglio sul mostro di allora, no? Pensi che possa essere lo stesso mostro?”
L’altra scrollò le spalle. “Dubito. Però…” e qui esitò, “le regole dell’Altrove sono diverse da quello del Chiaro … anche il tempo scorre in modo diverso. Non c’è una sola roba normale.” 
Parla Vanna Marchi …
Ettore, che ormai prendeva quelle rivelazioni allucinanti con una serenità di cui lui stesso era il primo a preoccuparsi, decise di andare sul pratico: “Bice non lo aveva ucciso?” 
“Sì, ma nel diario di Matilde non viene spiegato come.” disse Tobia. “Credo che non sia riuscita a scoprirlo.” ci rifletté qualche attimo. “Lo chiamiamo diario, ma era più una ricerca abbozzata. Ti ricordi come un mostro o un avvistamento entrano nei Bestiari Rosi?”
Questa si strinse nelle spalle. “Portando le prove di fronte ad una Confraternita immagino.”
Tobia annuì. “Matilde forse non riuscì a farla accettare come ufficiale, quindi la pubblicò privatamente e ne tenne una copia a casa e una in biblioteca. Anche se credo fosse vietato metterle a disposizione del pubblico …”
Rosi suo malgrado stiracchiò un sorriso. “Per quello che mio nonno mi raccontava, penso che non le sarebbe importato di cosa era vietato e cosa no.” Sospirò “Quindi zia Matilde dice che Bice era una nostra antenata?” domandò quasi parlasse tra sé e sé. “Forse è per questo che la sogno…”
“Forse è per questo che la sogni adesso, che il pericolo è tornato nella Montagnola.” intervenne Tobia. “Puoi dirci cosa sogni?”
Rosi ciccò fuori dalla finestra con un colpetto nervoso. L’altra mano tamburellava sul davanzale. Sembrava che l’ansia che la attraversava come una corrente elettrica aumentasse di voltaggio ogni minuto che passava.
Però non li aveva ancora mandati al diavolo e non era scappata; era un passo avanti rispetto ai giorni precedenti.
“Ho scelta?”
“Ce l’hai sempre,” commentò piano Tobia. “Cosa farai stavolta?”
Ettore trattenne il respiro mentre tra i due correva tanta di quella tensione che avrebbero potuto illuminare mezzo paese. O forse tutto.
Rosi sbuffò. “Dammi un posacenere o ti riempio il davanzale di mozziconi. Ne avremo per un po’.”
Tobia annuì e si diresse in cucina. Rosi non poteva vederlo, perché era voltata verso il cimitero, ma un lento, inesorabile, enorme sorriso si stampò sul volto del Nero.
 
***
 
Elia era strano.
Dalla sera prima per essere precisi: da quando aveva avuto la stupidissima idea di portarsi dietro Maddalena Russo.
Selene non era stata d’accordo, ovviamente, ma come al solito suo cugino l’aveva ignorata, e quei due scemi di Filippo e Vanni si erano comportati nello stesso modo non appena il culo tornito della siciliana si era posato sui sedili della macchina di zio Carlo.
Selene era consapevole che avrebbe potuto imporsi ed evitare così che venisse con loro: ma era rimasta così infastidita che aveva preferito sparire nella folla della festa che controllare che Elia non si cacciasse nei guai.
Zio Carlo aveva detto di non farci amicizia …
Ma quando mai suo cugino ubbidiva ad un ordine diretto?
L’aveva ritrovato a sera inoltrata, senza la siciliana: aveva cercato di parlargli ma l’altro era parso più interessato a vincere una gara di bevute che a darle spiegazioni. Si era ubriacato così tanto che avevano dovuto dormire lì.
Erano tornati quella mattina, e da allora Elia era chiuso in camera propria.
Non aveva ancora allertato gli zii perché forse l’altro era semplicemente in dopo sbronza, tuttavia non era sicura fosse soltanto quello.
Selene stava giocando con i cani; plurale perché una delle passioni in cui Carlo la lasciava indulgere, oltre all’equitazione, era curare due bellissimi levrieri irlandesi, dal pelo ispido ma dalla fedeltà incontrastata, tanto che alla fine persino zia Giulia, che li riteneva troppo grandi e puzzolenti, aveva finito per trovarli utili, almeno come guardiani della villa.
Specialmente quando Elia vuole uscire durante il plenilunio … cioè sempre.
Spesso le due imponenti bestie riuscivano a tenerlo confinato in giardino, ma quando diventava troppo esuberante, Selene era costretta a richiamarli per evitare che li uccidesse. A quel punto, era lei a doverlo seguire nel bosco.
A Selene piacevano gli animali, quelli veri: erano affidabili, a differenza delle persone.
Furono infatti i cani ad accorgersi per primi dell’arrivo di un visitatore. Alzarono i testoni lanciando lunghi latrati e, ignorando la palla che stava loro lanciando, scattarono all’ingresso, facendo zig zag tra i cespugli di ginestre.
Qualche attimo dopo risuonò il trillo sgraziato del campanello del cancello. Selene attese, ma quando fu chiaro che dalla villa nessuno aveva sentito, andò di malavoglia a controllare.
Le telecamere di sorveglianza non avevano registrato una macchina, ecco perché solo i cani se ne erano accorti; Alina Radu era arrivata a piedi dalla grande strada sterrata che collegava villa Ghini al paese. Nonostante il caldo torrido di quel pomeriggio la rumena non aveva una goccia di sudore addosso, né il suo orrido vestito color tortora era impolverato.
Era arrivata lì volando?
“Ciao,” la salutò ignorando l’abbaiare feroce. “Tuo zio è in casa?”
Era una domanda stupida; se era venuta fin lì era ovvio che conoscesse già la risposta. “Sei venuta a piedi?”
“Avevo voglia di camminare.” fece una pausa e poi come un robot, ripeté: “Tuo zio è in casa?”
“Sì, sì … c’è.” A Selene non restò che ordinare ai cani di stare buoni e premere il pulsante di apertura del grande cancello; non c’era un passaggio pedonale, nessuno sano di mente percorreva quella lunga strada a piedi. 
Tranne la Radu.
“Ti potevi prendere un’insolazione.” disse tanto per spezzare il silenzio mentre l’accompagnava lungo il giardino.
L’altra non rispose, guardandosi invece attorno, soffermandosi sui fitti cespugli di ginestre per poi passare alla fila di cipressi che, snelli, costeggiavano i muri perimetrali.
“Sono passata dal bosco.” le rispose mentre salivano una delle due scalinate che portavano al portoncino d’ingresso. “Usate qualche barriera per tenerlo fuori?”
Selene ci mise qualche attimo a capire la domanda; era la prima volta che Alina le parlava come vânător e non come semplice coetanea. 
E non è che come compaesane si fossero fatte delle gran chiacchierate.
“Dovresti chiedere a zio Carlo.” rispose confusa, ma si infastidì quando l’altra le sorrise con l’indulgenza riservata ad una ragazzina ignorante. 
“I muri servono per i ladri,” le disse, “ma anche per il bosco.”
Selene si morse un labbro, incerta se risponderle male o capitolare di fronte all’evidenza che avrebbe al massimo potuto insultarla. “Sì, lo sapevo.” mentì aprendo il portone ed entrando in casa. I cani si sdraiarono docili sul pianerottolo, gli occhi attenti che tenevano d’occhio la figura della Radu.
Nessuna bestia entra in casa mia, diceva sempre zia Giulia, e Selene non poteva fare a meno di trovare quell’affermazione piuttosto ironica.
La Radu la seguì, continuando nell’analisi disagiante di ogni singolo dettaglio della villa. Non commentò gli affreschi ormai deboli di colore sui soffitti, né i quadri, invece brillanti e ben tenuti alle pareti del corridoio – sembravano non interessarle – ma si soffermò a gettare un’occhiata ad ogni stanza aperta.
E considerando che la villa ne aveva parecchie e zia Giulia amava tenere le finestre aperte d’estate, il percorso fu più lungo del previsto.
“Se devi mandare un messaggio ad un bosco dell’Altrove, devi farlo nella sua lingua,” continuò. “Il tuo giardino è a forma pentagonale e circonda tutta la casa. Non ti sei mai chiesta perché?”
“No…”
Non sono tanto le mura che tengono fuori il bosco, è la forma con cui sono state costruite. Anche la pianta di Malacena è pentagonale. Un poliedro di cinque lati nell’esoterismo ha funzione di forza che può essere usata sia per l’attacco che per la difesa. In questo caso, difesa.”
“Grazie per la lezioncina.” non poté fare a meno di ironizzare. Zio Carlo aveva detto a e lei ed Elia detto di non andarci in conflitto e di evitarla quanto più possibile, ed era forse l’unica raccomandazione che anche suo cugino aveva seguito alla lettera.
Però non le piaceva essere trattata come una cittina scema.
“Mi sorprende che tu non lo sappia.” ribatté inarcando le sopracciglia in falsissima sorpresa. Era una gara a chi era più stronza?
In quel caso poteva vincere a mani basse.
La Radu non le diede però il tempo di ribattere: “Un giorno dovrai sostituire tuo zio nel compito di Sorvegliante. Dovresti cominciare a studiare.”
“Quando finirò il Liceo.” rintuzzò irritata. “È così per tutti i Sorveglianti, non te l’hanno detto?”
“Entrare in una Confraternita non è come frequentare l’Università. Non c’è un’età per accedere. E forse, tu dovrai iniziare prima del previsto.”
“In che senso?”
La Radu non le rispose, sfilandole accanto in direzione delle voci di zio Carlo e zia Giulia. “Da qui posso proseguire da sola, grazie.”
Selene aprì bocca per ribattere, ma ancora una volta si trovò a corto di parole; Alina l’aveva sempre messa in soggezione, anche se era sicura di fare un pregevole lavoro nel non mostrarlo. Stavolta però era diverso: era come se stesse interagendo con una persona la cui vitalità era stata succhiata via in favore di qualcosa di freddo e determinato.
In che senso dovrò iniziare prima del previsto?
Non riuscì a chiederglielo, quindi non le restò che seguirla mentre entrava nel salotto centrale dove gli zii stavano prendendo il caffè del dopopranzo.
Zio Carlo fu il primo ad accorgersi del loro ingresso; il sorriso che stava rivolgendo a zia Giulia si spense, sostituito da un’espressione guardinga.
“Alina,” la salutò, “buon pomeriggio.” spostò l’attenzione su di lei, cercando forse di trovare un senso alla presenza della vânător che esulasse da motivi di lavoro.
Non poteva, perché Alina non era sua amica e non era venuta a trovare lei, né tantomeno Elia.
“Buonasera,” rispose questa di rimando. “Mi dispiace arrivare non annunciata, ma avrei bisogno di parlare con lei Sindaco.” E Selene non poteva sbagliarsi, su quel titolo la voce di Alina si indurì, come se contenesse un implicito rimprovero.
Zio Carlo serrò appena le labbra. Fu però zia Giulia a parlare: “Forse non sei stata informata tesoro, ma mio marito ha degli orari d’ufficio.”
Zia Giulia era come sempre seduta in punta di sedia, un ritratto mediterraneo e ingioiellato dell’inquietudine, persino in una pigra domenica d’Agosto passata in seno alla propria famiglia.
Selene supponeva che se non ci nascevi, finivi per diventare così, specialmente quando avevi un figlio che era braccato in un mondo che non prevedeva processo, ma soltanto una rapida esecuzione.
Per mano tra l’altro di una come la Radu.
Alina le rivolse un sorriso in cui mancava completamente emozione. “Mi dispiace disturbarvi fuori orario, ma è una questione che non può essere rimandata.”
“Non capisco perché…”
Zio Carlo sfiorò la mano serrata della zia per fermarla. L’espressione si ammorbidì quanto bastava per rivolgerle un sorriso, ma poi tornò serio. “Alina ha la fretta dei ragazzi,” scherzò, “ma ha ragione. Il lavoro di un Sindaco non si ferma tra le quattro mura del Comune. Amore, perché non vai a vedere dove si è cacciato Elia? Non vorrei fosse uscito prendendo la macchina senza dircelo come l’ultima volta.”
La zia inspirò leggermente, ma ubbidì e in poche magre falcate fu fuori dalla stanza.
A quel punto zio Carlo fece per rivolgersi a lei con una scusa simile, ma Alina lo precedette: “Vorrei che Selene restasse.” disse. “Devo chiedere delle cose ad entrambi.”
Zio Carlo serrò di nuovo le labbra, in quel modo tutto suo di segnalare che non era affatto contento della situazione. “Sedetevi allora,” indicò loro le poltroncine di fronte a sé. “Un caffè?”
“Grazie, no.” Alina si sedette con la rigidità di un soldatino di stagno e a Selene non restò che imitarla.
Avrebbe preferito esser congedata come zia Giulia.
Il silenzio calò nel salottino, tutto tappeti marocchini, quadri dalle cornici bordate di scuro e arazzi che appartenevano ai Ghini da generazioni; Selene non amava particolarmente quella stanza, la trovava troppo cupa. Le sembrava di essere perennemente osservata poi, forse per le tante fotografie d’epoca incorniciate d’argento sui pesanti mobili scuri, che raffiguravano una sfilza di membri della famiglia passati a miglior vita.
Osservata, soppesata e infine giudicata.
Essere una Ghini era un pacchetto di onore e onori, diceva sempre lo zio. Mai come in quel momento Selene pensò che avesse ragione.
“Allora Alina, come possiamo aiutarti?” domandò l’uomo stampandosi un sorriso da pubbliche relazioni in faccia.
“Lo scorso plenilunio sono stata aggredita nel bosco.”
“Aggredita? Non sei scivolata e ti sei fatta male?”
“No. Non ricordo nulla del mio incidente, ma mentre ero priva di sensi sembra che qualcosa sia entrato nell’accampamento dei siciliani e abbia distrutto una tenda … qualcosa che ha lasciato un forte odore ferino. Una Creatura.”
“Quindi pensi che il lupomanaio ti abbia attaccato?” domandò zio Carlo con quel tono stupito, come se non credesse ad una sola parola.
La Radu dovette accorgersene perché indurì l’espressione. “Se fosse stato un lupomanaio ad attaccarmi non sarei qui a raccontarlo.”
“Certamente.” convenne ragionevole. “È solo che non mi torna la progressione degli eventi. Qualcuno ti ha attaccato mentre stavi cacciando nel bosco e poi il lupomanaio è entrato nell’accampamento dei siciliani?”
“Piuttosto direi il contrario. Il Mannaro è entrato nell’accampamento e qualcuno mi ha impedito di raggiungerlo mettendomi fuori gioco.”
“E perché avrebbe dovuto farlo?”
Alina sorrise e Selene intuì che l’altra aveva appena teso una trappola in cui suo zio era caduto con tutte le scarpe. “Perché non voleva farmelo uccidere. Un lupomanaio non si limita a dare botte in testa e lasciare una persona esanime, Signor Sindaco. Quello lo fanno le persone.”
La mascella di zio Carlo si tese mentre taceva per qualche attimo. “Fammi capire. Pensi che sia una persona del paese?”
“Sì, e non ho molti posti dove guardare per trovare i colpevoli. Ho iniziato da quelli più ovvi. Dai Sorveglianti.”
Selene serrò le mani in grembo; avrebbe voluto alzarsi, urlare, oppure andare a cercare Elia e avvertirlo. Metterlo al sicuro.
Nessuna di quelle opzione era però fattibile. Doveva invece rimanere il più ferma possibile … limitandosi a respirare e pregare che suo zio sapesse come farli uscire da quella situazione.
Alina Radu aveva scoperto tutto; o se non l’aveva fatto, c’era maledettamente vicina.
Non è possibile. La tenda è stata sostituita! Marina le ha fatto bere uno dei suoi intrugli per dimenticare! Perché è qui? Perché ha capito tutto?
Zio Carlo inspirò, passandosi una mano sul viso. “È un’accusa molto pesante quella che stai facendo.”
“Non sono qui per fare accuse. Sono qui per avere risposte e poi riportarle a mio padre. Sarà lui a farne, nel caso.”
“E allora che venga lui e non mandi sua figlia! Perché per ora tutto quello che ho sentito sono solo fantasie di una ragazzina!” sbottò zio Carlo, alzandosi in piedi. Un errore dare sfogo all’emozione? Selene non ne aveva idea: dopotutto, quell’esplosione di rabbia poteva anche essere indignazione giustificata. 
Alina sorrise di nuovo. “Forse.” ammise. “Ma ho parlato con la succuba, e lei l’odore di bestia l’ha sentito davvero. Sostiene che qualcuno le abbia sostituito la tenda perché non vi ha sentito neanche il suo, di odore che invece avrebbe dovuto esserci dopo ben due settimane di campeggio… e, ancora una volta, un Mannaro non ha certo la lucidità mentale per fare una cosa del genere, neppure il giorno dopo.”
La succuba?
Selene realizzò che stavano parlando della siciliana. 
… è un demone. La siciliana è un demone dell’Altrove e ce la siamo portata ad una festa piena di gente?!
“Non sono demoni della lussuria?” domandò piano, ottenendo l’attenzione della Radu. Avrebbe preferito evitarlo, ma zio Carlo era paonazzo e aveva paura che quella rivelazione fosse stata troppo per i suoi nervi.
Elia non era figlio naturale di suo zio, ma condividevano la stessa mancanza di controllo quando erano sotto pressione.
“Sì, vengono descritte solitamente come tali.”
“E tu credi alle parole di un mostro piuttosto che a quelle di un Sorvegliante?”
Alina la soppesò con attenzione prima di rispondere. “Non avrebbe motivo di mentirmi.”
“Passano il loro tempo ad accoppiarsi con qualunque cosa respiri e amano seminare scompiglio nella comunità in cui entrano … io mi chiederei invece se ha motivo di dirti qualcosa di vero.”
Alina aggrottò le sopracciglia, incrinando per un attimo la maschera da bambola assassina. Zio Carlo lo notò come lei, perché intervenne rapido. “La nostra famiglia sorveglia questa comunità da secoli, e con ottimi risultati considerando che la Montagnola è un luogo di pace e serena convivenza con le Creature. La sola accusa di coprire la presenza di una Creatura pericolosa è un insulto che potrei portare all’attenzione della Confraternita Maggiore di Siena. Sei sicura di voler continuare questa conversazione?”
Alina fece una smorfia. “Come ho detto, sto soltanto facendo domande.”
“Suonano molto come accuse.”
“Sto facendo il mio lavoro, Signor Sindaco. Mio padre ed io siamo stati chiamati qui per trovare il lupomanaio, e per garantire la sicurezza di questa comunità.”
“Allora forse dovreste pensare ad una vostra incapacità nel trovarlo, piuttosto che ad una nostra slealtà nel nasconderlo.”
L’intero corpo della Radu si irrigidì e Selene per un attimo ebbe paura che si sarebbe alzata per aggredire suo zio. Elia aveva paura della rumena e per un attimo, ne ebbe anche lei.
“Quindi non sapete nulla della tenda sostituita?” disse invece.
“Nulla. Come ha detto mia nipote, probabilmente la succuba vuole seminare zizzania.” Zio Carlo era rimasto in piedi e fece un chiaro cenno nell’invitarla ad uscire dalla stanza. “Mia moglie aveva ragione. Oggi è domenica e sorbirmi un interrogatorio non è il modo in cui voglio passarla. Tuo padre è il benvenuto se vuole tornare e fare queste domande in via ufficiale.”
Alina avvampò di rabbia e Selene trattenne un sorriso; era piacevole assistere a quella plateale umiliazione.
“Bene.” disse alzandosi in piedi. “Tolgo il disturbo allora. Mi saluti sua moglie ed Elia.”
Zio Carlo fece un rigido cenno di assenso. “Selene, accompagnala.”
Selene non avrebbe voluto, ma ubbidì comunque, sperando che l’altra fosse troppo furiosa con suo zio per concentrarsi su di lei.
Alina fortunatamente non le rivolse la parola. Almeno, fino a che non furono al cancello.
“Non sei digiuna dall’Altrove come pensavo.” le disse in tono neutro. “Conosci le succubi.”
“Qualche storia zio me l’ha raccontata.” non si sbilanciò. “Qualcuna me la sono cercata io.”
Alina annuì. “Tu non hai niente da dirmi?” le domandò.
“Cosa dovrei dirti?”
“La verità. Se state nascondendo un lupomanaio … ed ho le mie idee su chi potrebbe essere, non accuseranno te se ti farai avanti. Non sei ancora una Sorvegliante.”
Posso salvarmi?
Era quello che stava cercando di dirle? Forse la pensava l’elemento debole, una cittina spaventata che avrebbe sacrificato la famiglia per salvarsi dall’accusa di aver occultato una Creatura mortifera.
Selene sorrise. “La verità te l’ha già detta mio zio. Tu e tuo padre non siete capaci.”
Alina fece per dire qualcosa, ma decise altrimenti, anche se Selene poteva immaginarsi cosa fosse da quanto era diventata paonazza.
Abbiamo vinto. Fattene una ragione.
Alina le voltò le spalle e varcò il cancello senza voltarsi indietro.
Avevano vinto, certo, ma era una vittoria di breve durata. Mentre il cancello si chiudeva sferragliando, la figura della vânător diventava sempre più piccola e sfuocata nella calura estiva, ma non c’era da farsi illusioni: sarebbe tornata e per allora dovevano trovare qualcosa di meglio dell’indignazione per difendersi.
Quando tornò indietro, notò Elia affacciato alla finestra di camera sua; come l’altro capì che l’aveva beccato tirò le tende con un gesto secco.
Selene sospirò.
Una succuba … e una vânător che sospetta di noi.
Doveva parlare al più presto con quell’idiota di suo cugino.
 
***
 
 
Note:
 
Pubblicare il giorno del proprio compleanno è sempre speciale. <3
 
Comunque. Per la figura del “serpe regolo” devo ringraziare la trilogia di libri sul folklore del senese, purtroppo difficilmente reperibili fuori dal territorio, di Massimo Biliorsi.
In particolare “Al di là di Siena” di M. Biliorsi, Ist. Fotocromo Italiano, 1991
Le informazioni sul Serpe Regolo sono reperibili anche su internet.
Qui una fonte o qui la voce di Wikipedia che ne parla.
 
 
 

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.
 
 
Camminare nel bosco aveva sempre rilassato Bice.
Era riempirsi di una quieta energia che profumava d’erba e terra. Era ascoltare rumori, voci e suoni in una lingua che comprendeva. Era tornare a casa.
In quei giorni però, il bosco non era per lei motivo di gaiezza, semmai di angoscia. Era infatti con quel sentimento che si era diretta all’appuntamento con Fortunato sotto la grande quercia. La quercia era, come lasciava intuire il nome, la più imponente del bosco. Era nata ben prima degli uomini poiché svettava oltre le chiome degli altri alberi, un gigante che la salutava ogni volta con bassa voce profonda di anziano. Bice ne aveva toccato il tronco rugoso, appoggiandovi la fronte, traendone calma. Sua madre quando era bambina le aveva raccontato di come la prima Silvani fosse nata dal cavo di una quercia e avesse vagato nel bosco finché non si era imbattuta in un uomo, innamorandosene e decidendo di seguirlo nel Clarus. Da bambina l’aveva ritenuta una scelta piuttosto stupida, ma non la pensava più così. Specialmente da quando poteva udire la voce di Fortunato chiamarla.
Il senese, scostando le grandi felci del sottobosco, le si era avvicinato, tendendo le mani per attirarla a sé. Bice aveva lasciato l’albero per farsi avvolgere dalle braccia dell’uomo, ispirando il suo odore, percependo la sua stretta come miele profumato in una fredda giornata d’inverno.
Forse la sua antenata non era stata così stupida. I figli del Clarus avevano dei pregi. “Bice,” l’aveva apostrofata con dolcezza, “mi dispiace per il ritardo, ma ho trovato qualcosa che volevo mostrarvi.” L’aveva sciolta dall’abbraccio, frugando nella scarsella che portava attaccata al cinturone, dall’altro lato rispetto al fodero della spada. Ne aveva tratto un panno ripiegato con cura più volte, che aveva dispiegato, mostrandole, tra le mani, quello che era …
“È la pelle di un serpente,” aveva detto Bice prendendola con la punta dell’indice e del pollice. Era uno scheletro fragilissimo, una porzione di pelle di rettile, ma grande quanto il palmo della sua mano. 
“Di queste dimensioni?” aveva domandato stupefatto. “Lo pensavo anch’io, ma…”
“Fortunato,” l’aveva interrotto, “abbiamo appena trovato il mostro.”
 
***
 
Se uscissero dalla caverna e vedessero le cose alla luce del sole
si renderebbero conto di aver vissuto in un mondo di apparenze.
(Platone, Il mito della caverna)
 
 
“E quindi dobbiamo entrare lì dentro…”
I due toscani stavano aspettando Ettore accanto allo squarcio tra le rocce che segnalava uno degli ingressi delle Porte per l’Inferno. Il buon carabiniere rimpianse di non aver portato con sé neppure uno dello sterminato esercito di santini che sua nonna gli infilava nelle tasche ad ogni festa comandata. Magari non sarebbero comunque serviti a nulla, ma almeno non si sarebbe sentito disarmato di fronte ad un buco nero da cui spirava aria gelida e che odorava di cose morte. “Non ci dovremo entrare attrezzati?”
Tobia si strinse nelle spalle. “Il percorso è accidentato, ma non più del sentiero che ci ha portato qui.”
Ettore accese la torcia – fiera dotazione dell’Arma – e inspirò. “Vabbuò. Fatemi andare per primo. Se esce qualcosa, son l’unico armato.”
“Il serpe regolo non caccia di giorno,” ribatté Rosi lasciandolo però passare. “Ieri qualcosa deve averlo disturbato. Secondo i bestiari di giorno non corriamo rischi. Quindi cerchiamo di trovare tracce e capire dov’è la tana, scattiamo delle foto e portiamole ai Sorveglianti,” snocciolò quell’affastellarsi di eventi con tono spiccio, quasi volesse farli avverare solo pronunciandoli.
 
La grotta li inglobò in un enorme abbraccio scuro, che spense la luminosità di quella giornata di mezzo Agosto. Anche la temperatura calò ed Ettore si trovò le mani gelate in pochi attimi. L’aria era stantia, umida, e l’odore di uova marce era così forte da nausearlo. “… ma ‘sto odore?” domandò.
“L’ho sentito anche al ponte della manolonga,” osservò Tobia, che chiudeva la fila e teneva la propria torcia abbastanza in alto per illuminare le pareti irregolari della grotta. L’acqua le impregnava, disegnando lunghe gocce che finivano a terra, rendendo il pavimento denso di fango scivoloso. 
Rosi si arrestò. “Non ho trovato nulla riguardo all’odore che dovrebbe emanare un serpe regolo … ma potrebbe essere lui.”
“Odore di zolfo, l’odore del Diavolo,” mormorò Tobia e Ettore avrebbe voluto tirargli un pugno perché non era il momento di sussurrare robe lugubri … o forse sì ed era proprio quello il problema. “Ti ricordi la leggenda Roísín?”
L’interpellata sospirò. “La leggenda delle Sette Porte per l’Inferno … Ce l’avranno raccontata mille volte,” e poi, a suo evidente beneficio, cominciò: “Il Diavolo uscì dall’Inferno e trovandosi solo, scavò sette porte nella Montagnola, per poter portare i diavoli sulla terra. Seminò panico e terrore finché un prete virtuoso riuscì a ricacciarlo da dove era venuto. Fine,” fece una smorfia che riassumeva cosa ne pensasse di quel racconto, “classica storiella medievale per terrorizzare il popolino.”  
“Nel Medioevo si pensava che le Creature dell’Altrove fossero demoni … la leggenda potrebbe essere frutto di qualche avvistamento,” disse Tobia. Poi parve colpito da un’idea improvvisa: “E se il Diavolo fosse in realtà la Creatura che fu uccisa da Bice? Le due storie dovrebbero essere coeve … Forse è per questo che la ricerca della tua prozia non è stata mai inserita in un Bestiario,” continuò, “avrebbe invalidato la leggenda delle Sette Porte.”
“Ti stupisce che quei baciapile di Siena abbiamo preferito un prete come eroe ad una strega?” commentò ironica l’altra. “Comunque, non importa. Quello che ci deve interessare adesso è il presente.” 
 
“Non riesco a capire da dove sia uscito il mostro.”
Rosi lo disse mentre la stretta galleria che stavano percorrendo sfociava in uno spazio circolare: era una caverna, di quelle che si poteva ammirare a volte nei documentari, traboccante di pinnacoli di roccia che si alzavano da terra o scendevano dal soffitto. Era una foresta di pietra sommersa, e le torce riflettevano colori caldi, quasi dorati. Sarebbe stato uno spettacolo affascinante, se non fosse stato per il motivo per cui erano lì. “L’Altrove della Montagnola si sta depauperando … il serpe regolo, inoltre, ovunque leggo risulta come estinto,” continuò Rosi, la cui voce echeggiava rimbalzando tra parete e parete. Forse la teneva bassa per quel motivo. “Quindi da dove viene?”
“Magari da una di queste porte.” 
Ettore aveva buttato sul tavolo quella supposizione senza pensarci troppo, ma il silenzio che ne conseguì fu piuttosto pesante. “Agg’e detto ‘na strunzata?” si informò perplesso.
“No…” disse Tobia. “… ma in teoria le Porte per l’Inferno non sono davvero porte per l’Inferno. Sono state scavate dall’uomo, sono accessi alle miniere. L’unica vera porta, se così si può chiamare …”
“Quella è chiusa,” lo interruppe Rosi bruscamente, “non la può aprire nessuno.”
Ettore si trovò per l’ennesima volta nella scomoda posizione di non capirci niente. “Uagliù se vi mettete pure a parlare per non-detti io qua non ci capisco cchiù nulla. Di che porta state parlando? Ce ne sta n’ottava?”
Tobia aspettò che fosse Rosi a rispondergli, ma quando fu evidente ad entrambi che la ragazza si era chiusa in uno dei suoi mutismi, parlò: “Ti ho raccontato che dove ci troviamo, l’Altrove, è una terra di confine…”
“Me lo ricordo,” confermò. “Siamo in una terra di mezzo tra il Chiaro e il mondo da cui provengono tutte le Creature, o almeno, i loro antenati,” recitò, “un altro mondo … ho detto bene?”
“Il Mondo Altro,” lo corresse Rosi con un sospiro, “ma ripeto, la porta per l’altra parte è invalicabile e sopra c’è un castello.”
“Abbiamo una porta che dà su un mondo dove quel serpentone è l’amichevole biscia di quartiere e vi chiedete ancora da dove sia uscito?!” la voce gli salì di un’ottava e se di norma la cosa gli avrebbe provocato imbarazzo e conseguente schiarirsi di gola, stavolta se ne fregò. “Perché non me l’avete detto prima?”
I due per tutta risposta si scambiarono un’occhiata incerta ed Ettore provò l’impulso di sbattergli la testa l’uno contro l’altra. L’aria stagnante di quel posto gli aveva fatto perder neuroni?
Rosi serrò le labbra: “Perché non è possibile. Se si fosse aperta sarebbe una cosa gravissima.”
Comm ave’ nu’ serpènt gigànt cu’ a’ faccia d’omm in giro ppe o' bosco?!”
“Se fosse aperta non sarebbe passato soltanto quello!” esclamò con l’aria di chi stava per tirargli qualcosa addosso. “Sarebbe … un incubo,” e si fermò, passandosi una mano sulle labbra, quasi volesse strofinarsi via le parole di bocca.
“Non esistono molti ingressi al Mondo Altro, e ormai sono quasi tutti chiusi,” spiegò Tobia, una roccia di calma surreale considerate le contingenze. “Quando erano aperti però hanno creato l’Altrove, e tutto quello che c’è di strano nel mondo. È per questo che il Sindaco vuole demolire Castiglioscuro. Anche se la porta della Montagnola è chiusa da tempi immemori lui non si fida che resterà per sempre così. Sono anni che sostiene che le vecchie protezioni non siano più sufficienti e che siano da adeguare...”
“Sì, adeguare, come quella bella pensata della pista ciclabile,” sputò Rosi sarcastica. “Ha succhiato migliaia di euro dalle casse del Comune e non serve a niente, manco al Chiaro.”
Ettore aggrottò le sopracciglia. Si era sempre chiesto qual’era l’idea dietro quella pista, larga e spaziosa e che girava attorno alle mura ma non era collegata a nient’altro, neppure all’interno del paese. Ogni tanto qualche paesano ci portava a spasso il cane o uno sparuto ragazzino ci andava in bici, ma era pressoché inutilizzata, seppur mantenuta alla perfezione. Aveva pensato fosse la classica opera civile dettata da giochi politici, più che dalla funzionalità, ma a quanto pareva, era ad uso e consumo dell’Altrove.
Come tutto, qui, pare …
Malacena non era inquietante, non aveva le atmosfere da telefilm horror; ma se andavi a scavare oltre la patina da solare paesino toscano, vi scoprivi una fitta rete di stratagemmi per mantenere quell’esatta idea di innocuità.
Tobia si strinse nelle spalle. “Un pentagono perimetrale in più per evitare che il bosco entri in casa non fa danno. Almeno non ha buttato giù niente …”
“Peccato che per il castello abbia deciso per un approccio più radicale,” osservò Rosi con rabbia e Tobia, che le era vicino, le strinse una spalla. Ettore si sarebbe aspettato uno scatto da parte dell’altra, ma non accadde. Rosi si limitò a serrare le labbra ed inspirare. “Quell’idiota ragiona come se fosse la porta fosse qualcosa di tangibile, che può essere distrutta e sostituita con mezzi mondani …  ma non lo è.”
Nella grotta calò il silenzio, interrotto solo dal gocciolare di acqua, lontano e ininterrotto. Non avendo più nulla da dirsi, cominciarono a cercare.
 
Ettore non ci mise molto ad individuare delle tracce, ma erano umane: nel fango sotto di loro c’erano impronte di scarpe. “C’è stato qualcuno qui di recente,” richiamò la loro attenzione.
“Michele e Stefano …” annuì Rosi, “ce li avrà portati Gianni. È una fortuna che non si siano imbattuti nel mostro.” 
Seguirono le orme fino ad una rientranza franata della grotta. Apparentemente non aveva sfogo ma, avvicinandosi, c’era una spaccatura da cui si poteva passare: dava su un corridoio che continuava nel buio impenetrabile. “Qui si continua. Che facciamo?”
“Andiamo avanti.”
Dall’altra parte l’odore di zolfo era ancora più soffocante, tanto che Ettore diede un paio di vigorosi colpi di tosse. Puntò la torcia in basso e notò con stupore che le scarpe si erano ricoperte di un sottile strato bianco, che a contatto con l’umidità era diventato una densa pasta bianca e appiccicosa. “Che roba è?”
Rosi serrò le labbra e non c’erano dubbi, per lei voleva dire qualcosa, perché si chinò e cominciò ad esaminare a terra. Ettore la imitò: le impronte dei ragazzi si fermavano all’imbocco del nuovo tunnel. “Non hanno continuato, meno male,” disse Rosi. In un angolo, più asciutto degli altri, scorsero delle croste aride che spuntavano dal terreno come improbabili denti aguzzi. Rosi ne raccolse una tra le dita, “fatemi luce,” comandò. Era un pezzo grande come il palmo di una mano, composto da tante scaglie che brillavano argentate alla luce delle torce.
“Sono i resti della muta del regolo,” disse Tobia, “sta crescendo.”
“Come sta crescendo?!” domandò atterrito. 
Rosi alzò lo sguardo su di loro, con un’espressione che Ettore non riuscì a collocare: era angosciata, ma vi era anche una scintilla di qualcosa di duro, e trionfante, “e allora dobbiamo sbrigarci a trovarlo.”
 
***
 
Per la prima volta in vita sua Caterina era contenta di essere stata lasciata a badare al Bar. Poteva infatti sfoggiare le sue doti da padrona della baracca di fronte a Maddalena. La quale certo, era seduta ad uno dei tavoli fuori con Michele e Stefano, ma lanciava continue occhiate dentro. E le sorrideva.
Cate fluttuava ad un metro dal cielo; Maddalena era la sua ragazza ed era una sensazione così esilarante che se non fosse stata per l’odore di caffè, il chiacchiericcio dei vecchi e il caldo colloso del pomeriggio, avrebbe davvero pensato di star sognando. Però di solito nei suoi sogni appariva un mucchio di roba assurda, come gatti che parlavano e quella volta che aveva sognato che la Montagnola era cava e dentro ci viveva una colonia di Demogorgoni.
Troppo rewatch di Stranger Things …
Rispose all’ennesimo sorriso di Maddalena chiedendosi se potesse mollare tutto a Tea per imboscarsi nel retro con l’altra.
“Cate, quanto hai detto che viene il caffè freddo?”
… o forse no. Rosi non aveva tutti i torti quando sosteneva che, in mano a Tea, il Bar sarebbe andato a fuoco. Sbagliava alla grande quando pensava che sarebbe accaduto lo stesso con lei. “Due euro e cinquanta, se ci vogliono la panna è un altro euro in più, e se ti chiedono perché, digli che la facciamo noi. È artigianale,” scandì rivolta alla faccia vacua dell’altra. 
La sua voglia di imboscarsi non avrebbe dunque avuto sfogo. Maddalena, d’altro canto, era stata requisita da Michele, che quel giorno le aveva chiesto a gran voce di disegnare una “mappa con licenza artistica e mie personali direttive” della Montagnola. Potevano solo scambiarsi sorrisi e anche se non era granché, era abbastanza per farle trovare nuovo senso alle canzoni che passavano nella sua playlist di Spotify, oculatamente sparata dalle casse del Bar.
Gestisco io? Musica mia!
Un senso tutto nuovo, perché era innamorata e, per la prima volta in vita sua, era pure ricambiata.
 
Candy, she's sweet like candy in my veins
Baby, I'm dying for another taste

 
Per questo non si accorse subito che Pietro era entrato nel Bar, ciondolante e imbuzzito come suo solito. “O’bischera,” la apostrofò dando una manata sul bancone per attirare la sua attenzione, “dammi una birretta.” Notando la sua espressione perplessa, aggiunse di malavoglia: “Gnamo, che unn’è giornata.”
“Che è successo?”
“Ho litigato col mi’ babbo. Quando gli ho detto che s’era andati a ripiglià le tende s’è incazzato. Poi ha scoperto che siamo entrati nel castello e ciao…”
“Che palle,” rispose partecipe aprendogli una birra e porgendogliela. Pietro l’afferrò scolandone lunghi sorsi con l’aria di un assetato nel deserto e Cate ricordò che il motorino non l’aveva ancora riottenuto. Probabile dunque se la fosse fatta a piedi dal podere fino al paese; questo almeno spiegava l’esacerbato cattivo umore. “Chi gliel’ha detto?”
“Viviamo in un paesino di merda, Silva. Lo sapranno pure le pietre ormai.” Si appoggiò coi gomiti al bancone e lasciò andare un lungo sospiro. “Però non ha tutti i torti … scorsa settimana è salito al castello per capire come cominciare a lavorare ed è messo … male,” concluse con una piccola smorfia di scuse.
Cate percepì la familiare stretta al cuore a pensare alle sorti di Castiglioscuro, ma la sciacquò via con un sorriso. Stavano tutti facendo il possibile: continuare ad arrovellarsi le avrebbe solo peggiorato l’umore, e quella era troppo una bella giornata perché succedesse.
Passarono qualche minuto in silenzio, lei a preparare ciotole su ciotole di aperitivi e l’altro a scorrere il telefono con colpi annoiati delle dita. Moriva dalla voglia di aggiornarlo sugli ultimi sviluppi con Maddalena ma non poteva; l’aveva promesso. Rimasero in quella stasi a lungo, con Spotify che snocciolava canzoni d’amore, con Malù che cercava il suo sguardo oltre la vetrina e lei che si mordeva le mani.
“Lin?” domandò Pietro, del tutto ignaro del suo conflitto interiore. “È mica passata?”
Scosse la testa. “Non la vedo da giorni,” e si sentiva un po’ in colpa. C’erano periodi in cui la loro amica si assentava per badare a Marian, quindi supponeva fosse quello il motivo per cui era sparita, tuttavia era consapevole di non averla cercata attivamente come faceva di solito.
“Manco io,” disse Pietro esitante, “da quando s’è fatta male è fuori fase. Non risponde più ai messaggi sul gruppo … e ier sera doveva venire da me ma m’ha dato buca.”
Anche lei aveva notato un’insolita rigidità nell’amica ma l’aveva attribuita alla poca simpatia che nutriva per i siciliani. In particolare, verso Maddalena. Era chiaro non le piacesse, ma non riusciva a capire se si trattasse di semplice invidia tra donne o qualcos’altro. Nel dubbio, preferiva evitare di sollevare l’argomento.
Tanto tra poco torneremo noi tre.
Ignorò anche quel pensiero. Si rifiutava di farsi mandare di traverso la giornata. “La sento stasera,” promise. “Te invece che fai oggi?”
“Un tubo, come al solito. Sentirò che fanno i siciliani.”
Cate sogghignò: “Ti piacciono eh?”
Pietro arrossì imbarazzato. “Un’pensà cose da lesbica! A quella maniera garbano a te,” e indicò con un cenno della testa Maddalena.
Cate si morse le labbra ricordando per l’ennesima volta, e con immenso dolore, la promessa. “Sì, beh, certo… quindi?” balbettò.
Pietro, che fingeva soltanto di avere l’empatia di un comodino, affilò lo sguardo. “È successo qualcosa?” la stanò subito.
“No-o…” deglutì voltandosi verso la macchina del caffè per pulirla da macchie inesistenti. “Che voi che sia successo?”
“Boh, Michele m’ha detto che Maddalena non parte più.”
“Bene, no?”
“Te la sei falcata?”
“No!” sbottò e per la foga di mentire sbatté la mano contro uno dei filtri della macchina, che si sganciò e seminò caffè esausto ovunque. Imprecò.
“Te la sei falcata,” stabilì Pietro gongolante. “Ebbrava Silva, sei diventata una bimba grande!”
Cate, una volta assicuratasi di non essersi rotta una mano, continuò a pulire la macchina dal caffè che si era sparso ovunque, anche in mezzo alle guarnizioni; aveva promesso di star zitta, certo, ma ormai la frittata era fatta … “Va bene, sì, ci siamo baciate ... e stiamo insieme,” sussurrò mentre un sorriso premeva per uscire, “ma un’dirlo a nessuno. Maddalena un’vole, non è dichiarata.”
Pietro rimase in silenzio, tanto che fu costretta a voltarsi per capire se era ancora lì. C’era, e aveva riacquistato l’aria arrabbiata di prima. “Cioè, ti tiene nello sgabuzzino?”
“Nell’armadio, ma comunque no! È una sua scelta dire che le piacciono anche le ragazze, mica posso obbligarla.”
“Sì però è te che nasconde.”
Gnamo,” sbuffò con la bruttissima sensazione di aver torto, “non potresti essere semplicemente contento per me?!” il tono le uscì più aspro di quanto avrebbe voluto. “Se sei contenta te.”
“Lo sono!”
“Bene,” Pietro sancì la conclusione del discorso lanciandole il tappo di metallo della bottiglia in testa. Cate lo districò tra i capelli, guardandolo male e rimediandosi un sorrisetto storto che non poté fare a meno di ricambiare. “Vo dai siciliani, magari han voglia di far qualcosa.” Pietro le rivolse un cenno di saluto e si portò via la birra più un sacchetto di patatine che era piuttosto sicura non avrebbe pagato. Cate sospirò e lanciò un’occhiata a Maddalena. Stavolta l’altra non ricambiò.
 
***
 
Avevano fatto delle foto alla scaglia di pelle, che poi Rosi aveva ripiegato in un fazzoletto e si era infilata in tasca. “Non basta,” aveva detto, “dobbiamo trovare la tana, quella è la prova definitiva.”
Tobia era d’accordo con lei, ma raccogliere le prove per portarle ai Sorveglianti e poi lavarsene le mani non gli piaceva: avevano già insabbiato il lupomanaio, perché con il serpe regolo avrebbe dovuto essere diverso?
Quella domanda inespressa aleggiava tra di loro come il disgustoso odore di zolfo nel  tortuoso cunicolo che stavano percorrendo. Ettore rimaneva in testa, ma i passi erano sempre più lenti e incerti. “Uagliù, qua ci perdiamo, mi manca pure l’aria” disse. Preoccupazione legittima. Lui stesso conosceva poco quelle grotte e Rosi si orientava nel bosco, ma quello bosco non era. Era sottosuolo, e aveva leggi tutte sue. “Sto segnando il percorso,” lo rassicurò mostrandogli il gesso che si era portato da casa, uno dei vecchi lasciti della nonna, maestra elementare, “comunque è meglio non andare avanti per molto, potrebbero esserci stati dei crolli dall’ultima volta che ci siamo stati.”
“Lo so,” rispose Rosi contrariata, “ma siamo vicini al castello.”
“Vuoi uscire da là?” era sorpreso; aveva suggerito di recarcisi poco prima, ma non si era aspettato che l’altra volesse arrivarci da sotto.
“L’uscita dovrebbe essere nelle cantine. E il serpe è chiaramente passato da qui… forse ha fatto la tana lì sotto.” 
“Fatemi capire, gli stiamo andando in bocca?” Ettore si piantò in mezzo al cunicolo, voltandosi incredulo verso di loro. 
“Dobbiamo portare delle prove ai Sorveglianti,” ripeté Rosi, “Se lo troviamo, sarà addormentato. Basterà fare una foto e…”
Tu sì pazza!” Tobia non poteva dargli tutti i torti: nel giro di ventiquattro ore Roísín da scettica si era tramutata in una persona capace di buttarsi in bocca all’Altrove – letteralmente. C’era da immaginarselo però: l’amica era sempre stata animata da una sorta di corrente nervosa che la portava a volere tutto e subito, in modo da non doverci pensare più. “
È proprio per esser creduti da loro che dobbiamo farlo.”
“Quindi davvero credi che i Sorveglianti se ne occuperanno?” le domandò.
“Ancora con ‘sta storia dell’insabbiamento del lupomanaio?” lo apostrofò esasperata. “Non hai prove che siano loro a nasconderlo!”
“Quindi pensi che abbia mentito.”
“No, io…” lo guardò con aperta rabbia. “Non sto dicendo questo! Ma se posso dare il beneficio del dubbio a te, devo darlo anche a loro!”
Rosi ormai stava urlando e lui teneva la voce bassa unicamente perché non era bravo ad alzarla, neppure quando aveva voglia di tirare un pugno a qualcosa. Ne aveva tirati parecchi, cinque anni prima: non erano serviti a molto, se non a scrostare l’intonaco di camera sua e farlo sentire ancora più solo e abbandonato di prima.
Roísín era tornata, ma non aspettava altro che di andarsene; tornare al suo bar, alla sua grigia vita nel Chiaro. E, probabilmente, a non rivolgergli più la parola.
“C’è stato un avvistamento recente,” ribatté.
“Già, il vostro informatore misterioso!” lo derise, facendo un paio di passi fino ad essergli a pochi centimetri dalla faccia. “Chi è? Un mostriciattolo della foresta?”
Rosi non era mai stata intimidita dalla sua stazza. Neanche quella sciagurata notte, quando per poco non si era beccata anche lei un pugno nel tentativo di fermarlo. Era stata Marina a trattenerla e ad evitare che le facesse male. Male, che poi le aveva fatto comunque. “Cambia qualcosa per te saperlo?”
“Certo! Come faccio a fidarmi di voi se mi nascondete le cose?!”
Ja, la finite di urlare?!” sbottò Ettore esasperato. “È Maddalena, la siciliana!”
 
Ettore era stufo. Erano immersi in un posto da incubo e con un serpentone che poteva svegliarsi e decidere di far merenda con loro. Non aveva voglia di rimanere impalato ad aspettare che il serpentone li trovasse, due imbecilli con palesissime tensioni sessuali e lui come terzo incomodo. “È stata Maddalena a dircelo,” continuò, “ha annusato la presenza del mannaro, no Tobì?” domandò conferma all’altro che nonostante l’aria contrariata annuì.
“Come annusare?” 
“Eh, sì, è una Creatura dell’Altrove pure lei. Una succuba, no?”
Gli occhi di Rosi si sgranarono in pieno, puro, chiarissimo orrore.
Ah, non gliel’aveva detto nessuno?
“Mi sto tenendo in casa una succuba?” 
Vabbuò, siete tutte ragazze…”
“Mia sorella è lesbica, Ettore.” Il sussurro che ne conseguì era la palese anticamera di un attacco di panico. “A mia sorella piacciono le ragazze e dorme sotto lo stesso tetto di un demone della lussuria. Perché non me lo avete detto subito?!”
“Io … beh, pensavo che lo sapessi,” balbettò. “Che te l’avesse detto tua madre …” 
“Mia madre lo sa?” Pareva stare per scoppiarle una vena, avere un infarto o forse entrambi. Ettore, avendo già fatto danno, decise di rimanere in saggio silenzio.
“Sì, ma non dev’essere poi così pericolosa se Marina ha acconsentito ad averla in casa. O mi sbaglio?” intervenne Tobia con chiari aneliti suicidi. Non gli era bastato rischiare una testata sul setto nasale poco prima? 
Rosi si passò una mano sul viso, e la lasciò lì per qualche attimo, espirando ed inspirando lentamente. “Una cosa per volta,” disse piano, quasi rivolta a sé stessa. “Cerchiamo la tana. Troviamola. Chiudiamo questa storia,” enumerò come un automa, “poi mi occuperò anche di questo.”
“Saresti stata un’ottima sorvegliante.”
Tobia voleva davvero morire, da come Rosi serrò le dita sulla torcia come se fosse una mazza pronta da sferrare. “E tu una grandissima rottura di palle,” fu l’irosa risposta, fortunatamente priva di successivo lancio di oggetti contundenti. Rosi li piantò lì senza aggiungere altro, sparendo nel buio.
Tobia fece spallucce. “Pensavo già di esserlo.”
Ettore sospirò: gli mancavano davvero tanto i Quartieri.
 
***
 
Quando Caterina le aveva chiesto di darle una mano in magazzino Maddalena aveva pensato fosse la scusa più scema di sempre e che non ci sarebbe cascato nessuno.
… a meno di non chiamarsi Michele Russo e Stefano Greco. I due erano talmente assorbiti dalla mappa che le avevano chiesto, confrontandola con i loro appunti e le indicazioni date da Gianni, che a malapena avevano registrato il suo alzarsi. E di certo non si sarebbero accorti che mancava da ormai dieci minuti, di cui nove e mezzo passati a baciarsi con Cate dietro i frigo del magazzino.
Sarebbero dovute tornare, Stefano avrebbe potuto accorgersi di qualcosa, ma non voleva rinunciare al modo tenero e dolce con cui Caterina la stava toccando. Anche se era un esercizio di controllo incredibile non far scivolare le labbra lungo il collo profumato dell’altra, succhiarlo fino a farla gemere e…
Si staccò inspirando e udì Cate ridacchiare. “Ti faccio mancare il fiato?”
Babba…”  brontolò, e ormai era consuetudine apostrofarla così. “Non hai un bar di cui occuparti?”
“Finché non ci sono esplosioni o odore di fumo Tea se la sta cavando alla grande.” Le passò una mano lungo le braccia, posandole poi sulle sue spalle. Fece il broncio. “Non vuoi restare qui co’ me?”
“Voglio, ma…” esitò, perché era ormai era ovvio che delle due fosse lei a fare la parte della cattiva. O mantenere una parvenza di controllo, che era un po’ la stessa cosa.
“Se tua sorella arriva e non ti trova dietro al bancone?”
Cate alzò gli occhi al cielo, ma lasciò la presa, appoggiandosi sconfitta al muro. “Chissà dove se n’è andata poi … pare ci sia incatenata a ‘sto posto ed è da ieri che è in giro. Con l’Intruso e Bia, tra l’altro. Va’ a capì che le passa pe’l capo…” concluse, incamminandosi vinta verso le scalette che portavano al retro del bancone.
Maddalena, di colpo, non ebbe più tanta voglia di fare il poliziotto cattivo. “Hai ragione, non sta esplodendo niente, rimaniamo,” ribatté prima di tirarla contro di sé e catturare di nuovo le labbra con le sue. Era tutto così strano: durante la caccia il bacio era la parte meno importante, ma con Cate era diverso. Era rimanere sull’orlo del precipizio, guardare giù e accontentarsi di quell’ebrezza, senza desiderare cadere.
Aveva pensato ad averla tra le braccia a quel modo tutto il giorno, così tanto che le era parso di diventar scema dalla frustrazione quando Michele l’aveva obbligata a disegnare per ore
Cate si staccò, con un sorrisetto sognante. “Se pigliasse fuoco tutto ora come ora non lo noterei. Te?”
“Direi di sì, e mi toccherebbe pure salvarti quindi.”
“Ah, che cavaliera dall’armatura lucente…” si portò una mano alla fronte, cedendo tra le sue braccia con piglio teatrale e facendola ridere.
“Si dice cavaliere, non c’è il femminile.”
“Madonna, che secchia che se-…” le tappò la bocca con un altro bacio, sentendo una piccola risata esploderle contro le labbra. Era così semplice, così pulito, così …
 
“Oh, piantatela di flanellà che Tea ha di nuovo bloccato la macchina del caffè!”
 
Fu come essere investita da una doccia gelida. Maddalena si staccò da Caterina per trovarsi di fronte Pietro, appoggiato mollemente allo stipite della porta che dava sul bancone. Caterina, paonazza, schizzò indietro. “Ma i cazzi tuoi?”
“Se me li facessi tu saresti nei guai i’doppio. Moviti,” e richiuse la porta con un tonfo.
Le tremavano le gambe. Era consapevole di non potersi mettere a iperventilare come un’idiota ma erano state scoperte.
Pietro è amico della Radu. Pietro è amico della vânător. Andrà a dirglielo.
“Malù…” il tocco di Cate la riportò bruscamente coi piedi per terra. Non doveva offrire un bello spettacolo nel suo respirare da persona in apnea, ma poteva farci poco. Il peso del pericolo le sedeva come un macigno sul petto. “Non sembra ma è bravo a tenere i segreti, davvero, gliel’ho fatto promettere!”
Il sottotesto di quella frase la colpì come uno schiaffo. “Gliel’hai detto?!”
Non avrebbe dovuto urlare. Lo capì quando Cate aggrottò le sopracciglia, serrando le labbra. “È il mio migliore amico.”
“E Alina?”
Cate fece una smorfia: ovvio, naturale, era una stramaledetta logorroica, come aveva fatto a pensare che sarebbe riuscita a tenere la bocca chiusa? “No, a lei no.”
Maddalena continuò a concentrarsi sulla respirazione. Andava tutto bene; Cate l’aveva detto a Pietro ma non l’aveva ancora detto alla vânător.
 
Sta’ lontana da Caterina. Ricordati quello che succede a quelle come te.
 
Nun u devi diri a nuddu,” mormorò, “pi’ favori, Cate.”
Caterina aveva pronta una rispostaccia sulla punta della lingua, ma alla sua supplica esitò. “Ohi …” le prese le mani e Maddalena avrebbe voluto ritrarsi, scappare, sparire dalla faccia della terra, ma erano in uno stupido magazzino che puzzava di vino inacidito e polvere e a cui mancavano pure le finestre. Non poteva andare da nessuna parte e si sentiva soffocare. “Va bene, non lo dico più a nessuno,” continuò sorpresa, “non ti spaventà così, dai...”
Facile a dirsi: era come chiederle di smettere di respirare. Le strinse le mani di rimando, e probabilmente lo fece pure un po’ troppo. L’altra però non mollò la presa. Ed era un contatto, un’ancora che impediva al terrore di sommergerla come un’onda.
Dopo un tempo che le sembrò infinito, il mondo tornò a fuoco.
… e meno male che non dovevi farti venire una crisi…
M’hai scusari,” la liberò ma l’altra non se la diede a gambe come si era aspettata, ma rimase ferma, forse ad attendere qualcosa: il ritorno della solita Maddalena e non quell’essere tremebondo e patetico in cui si era trasformata?
“No, scusami tu.” Cate le scostò una ciocca di capelli sudata che si era liberata dall’acconciatura per spiaccicarsi poco cerimoniosamente sul viso. “Non avevo idea fosse così importante, m’è pigliato l’entusiasmo e…”
“Va bene,” la interruppe, “non importa, tanto Pietro ci avrebbe beccato comunque.”
“Qual è il problema? Quello vero intendo.”
A Maddalena venne da ridere ma nel tentativo le uscì una specie di gemito. “La mia famiglia,” mentì, “Loro sugnu genti all’antica. Nun vogghiu chi mi riportino a Catania, voglio restare qui. Vogghiu stari cu ttìa.” … e quella era l’unica parte vera di quel doloroso sproloquio.
Cate la abbracciò e Maddalena si abbandonò a quel contatto facendo rotolare un paio di lacrime, che per fortuna si persero sulla stoffa della maglietta dell’altra. Cate poi le prese il viso tra le mani baciandola e, con la punta delle dita, le asciugò altre maledette lacrime traditrici. “Se vuoi restiamo qui finché un’ti senti meglio. La macchina si blocca sempre, ce l’ha con Tea,” scherzò. “Ci metto niente a falla ripartì.”
Non se lo meritava. Non si meritava la comprensione e la gentilezza di Caterina eppure non riusciva a farne a meno. Non voleva farne a meno.
Questo non significava però che dovesse tenerla in un magazzino polveroso a vita. “No, usciamo … sto bene.”
Cate annuì, e ligia, le lasciò la mano quando entrarono nel Bar. Maddalena non fece in tempo a rimpiangere quel contatto che si trovò di fronte Marina. Che era dietro al bancone con l’aria più sorpresa del mondo. “Io … devo uscire,” si sentì dire come da molto lontano, mentre il cuore le tornava in gola e così il peso sul petto. Doveva recuperare lucidità o a Marina sarebbe sembrato esattamente quello che era successo: ovvero che aveva appena beccato sua figlia imboscata con una succuba.
La donna aveva in mano un piatto di salatini e un calice di spritz e forse era lì solo per mangiare qualcosa, ma non aveva importanza. Non era quello che rappresentava in quel momento, ma quello che poteva essere. “Oh … certo!” disse aprendo la porzione mobile del bancone. “Che ci facevate là dietro?”
Maddalena fu risparmiata dal terrore di dover rispondere, perché Caterina si mise praticamente in mezzo. “Mi dava una mano a spostare tutto il ciarpame dietro cui Rosi aveva nascosto l’acqua minerale,” e riuscì anche a produrre una cassa d’acqua dal nulla. L’aveva presa uscendo? “A proposito, non è ancora tornata?”
Marina si strinse nelle spalle; sembrava tranquilla e molto più concentrata su sua figlia che su di lei. “No, perché, dov’è andata?”
“Boh! Stamattina Bia e il carramba sono venuti al Bar ed è uscita con loro.”
“Con Tobia e il Brigadiere Mangiola?” l’attenzione della Sorvegliante era completamente assorbita dalla conversazione. Era il momento giusto di darsela a gambe.
“Dove vai?” … ma non per Caterina, apparentemente. Continuava a guardarla con aria preoccupata e poteva anche darle ragione, non doveva avere una bella cera.
“A farmi un giro,” rispose con tutta la tranquillità di cui era capace. “Ho bisogno di sgranchirmi le gambe, da sola,” specificò perché poteva immaginarsi l’obiezione dell’altra. “Torno per cena.”
“Ah, va bene …” Cate non era contenta, tuttavia Maddalena non poteva farci niente. Non poteva reggere un altro minuto. Salutò le due donne e raggiunse Michele e Stefano per recuperare lo zainetto.
Unni…”
“A farmi un giro!” ribadì frustrata, perché non c’era mai un momento in cui le fosse concesso di non essere tempestata di domande o, genericamente, di sospetto. Incrociò lo sguardo di Stefano ma l’altro, fortunatamente, a parte un lieve corrugarsi di sopracciglia non diede cenno di aver bisogno di spiegazioni. La lasciò andare.
Maddalena prese telefono e infilò le cuffie nelle orecchie, sparendo tra i vicoli arancioni di sole pomeridiano; non voleva però rimanere in paese, con il rischio di incrociare Elia com’era successo l’ultima volta. Prese a salire, in direzione della Chiesa, poi delle mura … e infine del bosco.
 
***
 
Stavano succedendo cose al di fuori della sua sfera di controllo.
… e questo a Marina non piaceva. Per quanto si fregiasse del titolo di “persona più rilassata del paese”, la cruda verità è che era più simile a sua figlia maggiorr di quanto non volesse. Quando non riusciva a capire qualcosa voleva dire che quella cosa poteva essere un pericolo e lei poteva non rendersene conto.
Maddalena, per esempio. Erano giorni che voleva parlarle, e continuava a rimandare perché la considerava un problema collaterale … ma era così? Avrebbe dovuto porre maggiore attenzione al fatto che trascorresse tanto tempo con sua figlia?
Forse. Perché l’espressione atterrita che le aveva rivolto, quando lei e Caterina erano uscite dal retro, poteva essere indicativa del fatto che la siciliana stava ammaliando Cate.
Però la paura poteva anche essere scatenata dall’essersi trovata di fronte una Sorvegliante che, l’ultima volta che aveva incontrato, l’aveva velatamente minacciata con l’aiuto di una vânător. Tutto poteva essere. Quindi si rivolse a Cate, l’unica persona che potesse far luce su quella faccenda. “Maddalena sta bene?” le domandò bevendo un sorso di spritz con tutta la noncuranza di cui era capace. “Non aveva una bella cera”, concluse, facendo scivolare nel tono un po’ di materna preoccupazione, che dopotutto, era famosa anche per quella.
Cate, persa in pensieri tutti suoi, continuava a preparare cocktail col pilota automatico. “Sì … credo,” ammise incerta. “Ogni tanto ha dei momenti in cui deve stare per conto suo,” fece una smorfia, “ad essere oneste ne ha parecchi … ma ogni persona c’ha le sue, no?”
“Verissimo,” convenne placida, andando dalla parte opposta del bancone e imitando così un cliente in vena di confidenze. “Mi fa piacere abbiate fatto amicizia comunque. Sembra una tipetta un po’ introversa …”
Cate roteò gli occhi al cielo. “Per eufemizzà!” fece poi un piccolo sorriso. “Se riesci andare oltre al suo mutismo, però, capisci che è in gamba.”
Non sembrava consumata dal desiderio, ossessionata. La sua cotta per Maddalena non appariva diversa dalle tante infatuazioni che l’avevano colta nel corso della sua giovane vita.
La sua bambina si innamorava facilmente; bastava un incontro e uno scambio di parole per gettarla nello stato d’animo in cui cominciava a comporre canzoni che parlavano di anime gemelle. Aveva il cuore di Dermot, incostante come una nuvola, ma fortunatamente un po’ più ancorato quando si trattava di affetti familiari. “Sembra piacerle stare in tua compagnia,” osservò leggera.
A questo l’altra arrossì. “Lo sai, fo amicizia anche coi pali della luce.”
“Che facevate nel retro bischerelle?” domandò mettendo giù le carte.
Cate rimase per un attimo bloccata nel mettere una fetta di limone in bilico su un’acqua tonica. Poi inaspettatamente ridacchiò. “Ma che, pensi che ci siamo imboscate? Mi dava una mano a piglià l’acqua, così le davo una scusa per staccare dal lavoraccio che l’hanno messa a Michi e Ste!”
Suonava genuinamente sorpresa, se non imbarazzata, all’idea che sua madre sospettasse che andava a sbaciucchiarsi con l’ospite nel retro. Cate per tante cose era la copia sputata di Dermot: aveva il suo sorriso, i suoi occhi e il suo carisma … ma fortunatamente, non la sua faccia di bronzo. Non sarebbe mai stata capace di mentirle spudoratamente a quel modo. “Scusami, se sono impicciona …” fece il gesto di scacciare l’ipotesi precedente con una mano. “Non sono fattacci miei.”
Cate si strinse nelle spalle. “Possono anche esserlo, solo che non c’è niente di cui impicciassi … a Malù non piacciono le citte. E poi che ci farei co’ na siciliana? Tra dieci giorni se ne torna a casa.”
Già, c’era anche quello; Cate aveva una vera e propria avversione ai rapporti a distanza e temeva che la loro disastrata situazione familiare fosse la causa. L’assenza perenne di suo marito dal tetto coniugale aveva delle conseguenze, tra le quali c’era l’insofferenza che sua figlia provava nel mantenere rapporti con persone lontane. 
Non voglio un padre da remoto – le aveva detto una volta, quando aveva cercato di spingerla a rispondere ai tentativi di contatto telematici dell’uomo. 
Immaginava che, a quelle condizioni, non volesse neppure una fidanzata. “Spero che continuerai a sentirti con ‘sti ragazzi però ... È nata una bella amicizia, no?”
“Sì, davvero …” Cate annuì, finendo di preparare il vassoio di aperitivi che Tea, sollecita, prelevò prima di uscire fuori, lasciandole di nuovo sole. D’estate, a parte la mattina, era difficile che qualcuno volesse consumare all’interno del locale e questo permetteva ad entrambe le sorelle di mettere la propria musica a volumi a malapena tollerabili.
In più, Cate spesso ci cantava sopra, come in quel momento: almeno era una ballata quieta e non la roba rumorosa di Rosi.
 
E la voglia di, voglia di, voglia di andarmene via da qui
Per non vederti più dentro gli occhi blu
di una sconosciuta che sta al posto tuo e che non sei tu …

 
Mentre Rosi era affezionata al rock anglofono del Nord Europa - l’unica parte delle sue radici straniere che apprezzasse - Cate amava il cantautorato italiano. Marina a volte si soffermava a pensare a quanto, anche in questo, le due sorelle fossero diverse eppure dolorosamente simili. Nutrivano infatti lo stesso amore assoluto per la musica.
E in questo, c’è Dermot.
Dermot che, come Cate, aveva una canzone sulle labbra per ogni stato d’animo ed era in grado di passare serate intere in compagnia di un unico disco come Roísín. Veder crescere le sue bambine era averlo davanti agli occhi senza poterlo toccare; era una sensazione dolce mischiata all’amaro.
“Se Rosi un’si sbriga a tornà mi tocca fa’ chiusura di cassa…” borbottò Cate distraendola dalle parole della canzone, “manco mi ricordo come si fa!”
“La faccio io,” la rassicurò. La menzione dell’altra figlia le fece venire in mente che non aveva ancora capito quella singolare faccenda che la vedeva assente dal Bar per la prima volta da anni. “Dove hai detto che è andata con Tobia ed Ettore?”
Per anni Rosi si era tenuta ben lontana dal Nero, ma aveva cambiato idea. Senza motivo apparente, peraltro, considerando che fino alla settimana prima reagiva malissimo se solo il poverino si azzardava ad entrare nel suo territorio – dicasi il Bar. Cos’era cambiato?
“Boh,” le rispose Cate, “non ha lasciato detto dove andava,” fece una pausa. “Di ‘sti tempi è un po’ strana …”
“Strana come?”
“Fa delle cose che non fa mai! Va’ nel bosco, ci tiene che io e gli altri si stia qua per cena … ce la offre pure! E poi ha fatto pace con Tobia. Per me ‘sta cosa del castello la sta tirando scema.”
Marina rifletté: che Tobia fosse riuscito a tirar dentro Rosi nei suoi complotti? Le pareva impossibile. E cosa c’entrava il Brigadiere Mangiola?
Probabilmente stava cercando collegamenti con l’Altrove quando in realtà non ce n’erano. Rosi non aveva nessun amico della sua età rimasto a Malacena; forse, per solitudine, stava cercando di ricucire i rapporti con il Nero ed Ettore poteva aver fatto da ponte. In paese era fatto noto che i due uomini fossero diventati amici.
C’era ben altro a cui doveva dare priorità di pensiero; per esempio ad Alina, che aveva subodorato di essere stata tratta in inganno. Doveva essere stata la paranoia di Marian – addizionata purtroppo ad un buon istinto - ad averle fatto cambiare idea sul suo incidente, al punto da recarsi da Carlo e interrogarlo come un criminale. Continuava a non ricordare nulla, quindi aveva lanciato poco più che accuse senza prove, ma aveva comunque lasciato la famiglia Ghini con i nervi a fior di pelle.   
Era solo questione di tempo prima che tornasse a batter chiodo anche da lei.
Tutto questo guaio perché Maddalena ha annusato l’odore di Elia …
Doveva davvero parlarci; anche per capire come convincerla di essersi sbagliata e farla ritrattare … dopotutto, i suoi sensi da succuba erano ottusi da una mancata formazione materna. Poteva giocare su quello.
Marina era stanca. Percepiva la tensione di tutta quella rete di bugie e manipolazioni avvilupparla come una coperta soffocante. Non poteva rilassarsi neppure un momento, e questo non la rendeva lucida, tanto che aveva passato un’intera nottata a chiedersi perché il giovane Greco andasse in giro a notte fonda … salvo realizzare, alle prime luci dell’alba, che doveva semplicemente essere andato a prendere un mezzo di trasporto per condurre la succuba a cacciare fuori paese.
L’arrivo dei siciliani aveva alterato gli equilibri e Marina non poteva far altro che contare i giorni alla loro partenza.
Finì il suo drink e passò il bicchiere vuoto a Cate, che lo prese con un mezzo sorriso inquisitorio. “Alla goccia mami?” la canzonò, “Te ne preparo un altro?”
Ridacchiò. “Figurati … me ne basta uno e mi gira subito il capo. No … vado un attimo a piglià fresco fuori. Qui ti servo?”
“Vai tranquilla, basto io a regge il forte!” 
 
Andò quindi a sedersi ad uno dei tavolini fuori, perdendosi nell’oziosa sorveglianza della Piazza: il capannello dei vecchietti che presidiava le Poste, i turisti seduti al Bar o intenti a far foto … i pochi negozi aperti con la merce esposta nelle vetrine stinte dagli anni e la vecchia edicola, ormai chiusa, la cui saracinesca era la porta per un’ardita partita di calcio tra bambini. Infine, il palazzo del Comune sulle cui scale i gatti erano assopiti al sole. Era per quella pace che lavorava ogni giorno.
Era stanca sì, ma non poteva tirare i remi in barca; aveva sempre pensato che essere un Sorvegliante non fosse soltanto tenere a bada le forze dell’Altrove …per lei era anche sinonimo di proteggere. Proteggere la Montagnola e il suo bosco dall’avanzata del Chiaro, proteggere Castiglioscuro e la sua porta dal desiderio di annichilirli del Sindaco … e, infine, proteggere tutte le persone che le erano state affidate, malacenesi e Creature assieme. Il suo lavoro, il suo vero lavoro era mantenere quell’equilibrio fragile. Ed era più importante di tutto quanto. Anche di sé stessa.
 
***
 
Alina sostava di fronte alle porte della Chiesa. Per lei le grandi strutture ecclesiastiche avevano sempre esercitato una funzione di conforto, di rifugio … e al tempo stesso di angoscia, per i tanti ricordi che ospitavano. Premette il campanello della canonica e da lontano udì i passi di Don Doriano avvicinarsi.
Se l’uomo fu sorpresa di vederla, non lo mostrò. Difficilmente un prete, per giunta Sorvegliante, lasciava trasparire quello che davvero pensava, almeno nei suoi ricordi.
“Alina,” la apostrofò con un sorriso da pastore di pecorelle, “che piacere! Che ti porta quassù n’cima?”
Sorrise di rimando, consapevole che da giorni quell’espressione non le saliva agli occhi. “Delle domande, padre. Ha tempo per me?”
 
***
 
 
Note:
 
questo capitolo può anche chiamarsi "Marina non capisce un cavolo, ma anche Rosi non è messa benissimo". Volevo pubblicare per la Befana, ma … real fucking life.
Comunque, ecco le canzoni del capitolo. A ‘sto giro, la playlist di Cate fa da padrona:
Electric Love, di BØRNS.
Non sei tu, di Gazzelle.
Potete trovare la playlist qui.

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.
 
 
Gnamo, sbrigati che piove!”
Scalpiccio concitato, risate e due ragazzini che stavano correndo nel bosco. Avrebbe potuto essere l’inizio di una grande avventura …
… o la vita di tutti i giorni, aveva pensato Roísín – Rosi per gli amici – mentre gli stivali di gomma affondavano nel fango, schivando radici e ciottoli aguzzi. Erano fuori dal sentiero, ed era una cosa che lei e Tobia non avrebbero dovuto fare. Ne erano consapevoli, ma fuori c’erano cose molto più divertenti, come i caramogi che li avevano seguiti schiamazzando fino a poco prima o i folletti del cavo degli alberi, che tiravano i capelli e davano i pizzicotti sulle braccia. A lei e Tobia non succedeva, ovviamente, perché loro erano Bambini Nati di Domenica. Potevano interagirci, potevano fargli i dispetti di rimando. Ai folletti piaceva.
“Non torniamo a casa?” le aveva domandato l’amico notando che stavano addentrandosi nel bosco, invece che uscirne.
“Non ho voglia,” aveva ribattuto, perché a casa non c’era nessuno e nonno Virgilio aveva sempre troppo da fare per dirle altro che stare seduta buona a leggersi un libro ai tavolini del Bar. Il che le andava benissimo, ma era tutta l’estate che non faceva altro. “Andiamo al castello.”
Tobia aveva annuito contento, perché tornare a casa per lui era forse persino più penoso che per lei; i suoi litigavano tutto il tempo.
Castiglioscuro li aveva accolti imponente come sempre, e avevano percorso le sale dove i loro passi echeggiavano tra polvere e rumore di gocce di pioggia lontane. Aveva tirato fuori un pacchetto di morositas e l’aveva diviso con l’amico, seduti sul grande tavolo della cucina. “Che facciamo?” le aveva chiesto mentre dondolavano i piedi nel vuoto.
Rosi aveva sorriso. “Si va giù? L’ultima volta ho visto degli scaffali che se guardiamo bene ci troviamo sicuro qualcosa … magari una spada!”
“Non ci abbiamo trovato lo scheletro di un topo l’ultima volta?” l’aveva presa in giro rimediandosi una gomitata. “Sei tu che hai strillato!”

“Ero sorpresa,” aveva replicato arrossendo e rifilandogli un’altra gomitata, “stavolta me lo aspetto, quindi possiamo continuare!”
“Però tua mamma dice che non dovremo …”
“Chissenefrega!” era sbottata. La mamma era al lavoro e il babbo era di nuovo partito per uno di quei suoi viaggi lunghissimi da cui arrivavano solo lettere piene di francobolli. Non doveva loro niente, tantomeno obbedienza. E poi, non era più una bambina. Aveva undici anni. Una decade vissuta tutta intera.

Erano scesi e il buio come sempre era stato così corposo da far dubitare ad entrambi di aver caricato bene le pile delle torce … ma era così nelle cantine. Era come essere avvolti in un abbraccio umido, che ti si infilava dentro e ti pareva che tutto quel nero ti entrasse anche nella bocca e nel naso. Respiravi, ma l’aria era densa, come la gelatina di frutta che faceva la nonna di Tobia. Rosi andò avanti senza curarsene, la torcia che illuminava fioca il pavimento. Arrivarono fino agli scaffali, ma ce ne dovevano essere altri, e chissà che non avrebbero davvero trovato una spada come quella che era conficcata nella roccia all’eremo di San Galgano.  
La mano dell’amico l’aveva afferrata bruscamente, e altrettanta violenta era stata la luce che le aveva sparato in faccia. “Ehi!” si era lamentata schermandosi con una mano. “Mi vuoi accecà!?”
Tobia aveva indicato qualcosa con la torcia, che stava sfarfallando. Andando avanti il corridoio delle cantine si biforcava, e da una parte smetteva il pavimento di cotto per tornare terra. “Oh questo?” aveva esclamato sorpresa, “continua?”
“Credo siano le grotte degli etruschi,” aveva ribattuto l’amico, “esploriamo?”
Aivoglia!” aveva esclamato e Tobia, stranamente, le era parso molto sollevato.
Forse perché andando avanti le torce avevano ripreso a funzionare.
 
***
 
 
Per quanto veloce viaggi, la luce scopre che l’oscurità arriva sempre prima,
ed è lì che l’aspetta.
(Terry Pratchett)
 
Rosi ricordava di aver scoperto il passaggio che collegava il castello alle Porte quando era bambina, durante una delle tante scorribande estive con Tobia.  
Quasi vent’anni prima, e se li sentiva tutti addosso. Chissà se era lo stesso per il Nero, che in quel momento chiudeva la fila del loro trio scalcagnato. Tobia che quel giorno era andato più volte vicino al farle saltare definitivamente i nervi.
Non poteva aver dimenticato cosa la faceva incazzare; l’aveva fatto apposta. Per ripicca? Non lo credeva capace, eppure in quegli anni di lontananza se lei era cambiata, diventando più cinica, spaventata e dura, poteva essere cambiato anche lui.
Rinunciare a Tobia aveva significato perdere la magia.
Chissà cosa aveva significato per lui perdere lei. Probabilmente niente; aveva sempre preferito il popolo dell’Altrove e quello del Chiaro … se l’aveva lasciata avvicinarsi, era solo perché di quel popolo una volta aveva fatto parte.
 
Rosi si rese conto che erano arrivati sotto Castiglioscuro perché il cunicolo che stavano percorrendo cominciò a mostrare segni di fondamenta. Roccia dura, della Montagnola, scolpita per mano dell’uomo in blocchi ocra venati di grigio. Vi passò una mano, percependone sulla punta delle dita i secoli di storia.
Come un’onda si infrangeva sulla riva, immagini antiche le si agitarono davanti alle palpebre chiuse: uomini chini di fatica che portavano grandi blocchi di roccia lungo la strada della Quercia. L’odore di legna che bruciava nei grandi camini, il brulicare di gente, il clangore delle spade e il muggito delle bestie. Sulla torre più alta, ora crollata, sventolava il vessillo dei Malavolti assieme alla balzana di Siena.
“Rosì?” la richiamò Ettore distogliendola dal flusso di ricordi che la pietra le stava restituendo. Entrambi gli uomini erano andati avanti lasciandola indietro.
Si schiarì la gola e li raggiunse. “Ci sono, scusate.”
Tobia inarcò un sopracciglio. “Momento psicometrico?”
Rosi trattenne il sorriso che le stava affiorando sulle labbra. “Sono arrugginita, non ho percepito granché.”
“Parli del tuo potere?” domandò Ettore incuriosito. Da quando avevano cominciato quelle indagini balorde non faceva che fare domande. Avrebbe pensato ad una deformazione da guardia – come l’avrebbe definito Cate – ma il giovane napoletano sembrava genuinamente interessato.
Ettore era un Bambino Nato di Domenica, ma faceva parte dello sterminato esercito degli inconsapevoli, persone o creature versipelle mai scoperti dalle Confraternite. Per un inconsapevole, supponeva, era una fortuna incontrare persone come loro: tutte le stranezze che lo circondavano avevano finalmente un senso.
Rosi però non era tanto sicura che nel caso di Ettore fosse stato un incontro positivo. “Se tocco certi oggetti posso vedere il loro passato,” gli spiegò. “Le persone che li hanno toccati o, come nel caso delle fondamenta, quelli che sono passati di qui.”
Wa, ma verament?” esclamò. “Ma chisto allora cangia tutto, no? Basta che tocchi dov’è passato e si’ttu la prova per i Sorveglianti! Basta che ti alleni un po’!”
“Non basta che mi alleni,” ribatté brusca. “Una creatura non può caricare a sufficienza la roccia perché lasci una traccia … serve qualcosa di più. Serve che tante persone vivano qui, ed è disabitato da secoli. Non è rimasto molto…” sfiorò ancora una volta i muri.
“… ma se è rimasto,” le fece eco Tobia, “è perché Castiglioscuro è speciale.”
Rosi ricordava: ricordava come il loro castello fosse ben più di un ammasso di pietre, ma bensì parte del sistema difensivo che teneva chiuso l’ingresso per il Mondo Altro.  Tutto partiva da una singola pietra, quella fondante. Era stata modellata per integrarsi alle fondamenta, ma all’origine era stata altro: una grande lastra marmorea a guisa pentagonale, posata da chi prima di loro aveva abitato lì, gli etruschi.
Si teorizzava che fosse stato quel popolo di infaticabili lavoratori del metallo ad aver accidentalmente scoperto una breccia tra l’Altro e il Normale mentre scavavano le miniere. In quell’epoca più vicina alla preistoria che alla storia, dove l’uomo era in balia della Natura, non dovevano essere passati solo folletti e fatine e per questo, gli etruschi ci avevano letteralmente messe una pietra sopra, abbandonando le miniere e la Montagnola.
Secoli dopo, quando i senesi erano arrivati, di quella grande lastra ne avevano fatto la pietra fondante del castello. Non dovevano averla usata conoscendone la reale funzione: forse nella fretta di tirar su il castello l’avevano usata assieme ad altro materiale presente in zona. Fortunatamente il potere della pietra rimaneva tutt’ora, sigillando la porta, anche se, a detta del Sindaco, una vecchia roccia consunta prima o poi esauriva la sua funzione. “Carlo Ghini è un imbecille,” commentò a chiusa della spiegazione di Tobia. “Questo sistema tiene da secoli e continuerà a farlo.” 
“Pensa che, siccome Castiglioscuro è in rovina, lo siano anche le sue difese,” aggiunse Tobia e fu bello percepire la stessa vibrazione indignata nelle sue parole.
Senza rifletterci gli sorrise e Tobia ricambiò. Fu lesta però a distogliere lo sguardo. Momenti, frammenti di passato, ecco cosa stavano vivendo. Non doveva dimenticarlo. “Se c’è un rischio è che l’Altrove muoia, non che venga ripopolato,” disse. “La porta non è aperta.”
Ettore puntò la torcia in alto, illuminando l’ambiente. La roccia naturale della grotta era ormai stata sostituita dalle fondamenta e il pavimento, da puro fango si era tramutato in pietre scivolose ma regolari e quindi più stabili sotto i piedi.
Erano nelle cantine. L’odore di uova marce non si era attenuato, ma ormai, supponeva, si erano abituati, anche se il povero Ettore continuava ad avere la faccia verdastra. “Uagliò, io a credervi vi credo pure,” disse. “Però chistu serpe aro’o caz è asciuto?”
“È una delle cose che dobbiamo scoprire,” disse Tobia. 
Svoltarono un angolo, dove c’erano pezzi di legno franati l’uno sull’altro. Vecchie scaffalature per quello che ricordava, che una volta erano state parte della dispensa.  Di colpo una delle torce si spense. Non la sua, ma quella di Ettore, che era in cima alla fila. “Ma che…” lo sentì borbottare dandogli colpetti contro la parete. “No, ja…” mormorò con una stilla di inquietudine nella voce. “Ho cambiato le batterie da poco!”
Rosi fece per rispondere, ma dopo un breve sfarfallamento di luce, anche la sua e quella di Tobia fecero la stessa fine.
“No. Ja,” ripeté Ettore, stavolta spaventato, “veramente?!”
“Sta’ tranquillo,” disse Tobia, un assurdo ritratto di serenità date la contingenze. “Si spegne perché siamo vicini alla porta. Riprende appena ci allontaniamo.”
“Questo particolare non me lo ricordavo,” mormorò suo malgrado. “Comunque, non c’è nessun pericolo, se non quello di inciampare.”
“E o’ mostro?! Ce lo siamo dimenticati?!” ringhiò Ettore e lo sentì sganciare la pistola dalla fondina. “Ma come avete fatto a sopravvivere a questo posto voi due?!”
“Incoscienza infantile.” Persino nel buio totale Tobia stava chiaramente sorridendo. “E mancanza di serpenti antropofagi, anche.”
Rosi stavolta sogghignò, che dopotutto non poteva vederla nessuno. Prese l’accendino dalla borsa e fece per accenderlo, ma un’improvvisa, violenta folata di vento gelido glielo spense ancor prima che potesse rischiarare l’ambiente.
Odorava di marcio con una forza che le ricacciò il respiro in gola. Per un momento non le sembrò di ingoiare ossigeno, ma una densa nebbia vischiosa. La testa prese a girarle e dovette appoggiarsi al muro. E vi trovò una mano. Era quella di Tobia, che la tirò in piedi. Si era accovacciata? “Andiamocene,” le disse, ogni traccia di sorriso scomparsa nella voce, “adesso.”
 
***
 
Il bosco accolse Maddalena privo di suoni mentre le cuffie urlavano musica in grado di calmarla, di riportarla a terra. Privi delle voci delle Creature, era nient’altro che verde rilassante in cui immergersi e così fece, camminando lungo il sentiero che portava al castello. Il fango morbido le sporcava gli anfibi ma non ci badò. Dentro la foresta non ci sarebbero stati esseri umani ed era quello a cui puntava.
Non sarebbe arrivata al castello, ovviamente, non con la voce peggiore di tutte che la attendeva, ma poteva camminare finché non le si fosse schiarita la mente dagli ultimi strascichi dell’attacco di panico.
Abituatici. Ogni momento passato con Cate è un rischio.
Ne valeva la pena?
Fino a qualche minuto prima, tra le braccia dell’altra, avrebbe detto di sì senza esitazioni … ma adesso? La ragione le diceva di no, che il gioco non valeva la candela. Però appena Cate le sorrideva, o prendeva le sue difese come poco prima con sua madre, qualcosa dentro di lei si ribellava. Era stufa di allontanare le persone perché un mucchio di vecchi tomi sosteneva che fosse pericolosa.
Non voglio fare del male a nessuno. La mia volontà non dovrebbe contare?
Non contava neanche per Stefano: da ragazzini era stato lui a scoprirla mentre si nutriva inconsapevolmente di un compagno di scuola, e sempre lui aveva dovuto chiamare l’ambulanza dopo che le era collassato tra le braccia. Ormai quel ragazzino non era che un volto sfuocato nei suoi ricordi di tredicenne, ma ricordava il bianco degli occhi mentre, riverso sul suo letto, non rispondeva alle sue urla.
Non sarebbe successo di nuovo, perché adesso conosceva la sua natura. Con Caterina l’avrebbe controllata cacciando altrove. Non desiderava rovinare una persona a cui voleva bene. Non era cattiva.
Si fermò di fronte al ponte della Manolonga; non perché volesse, ma perché non aveva scelta. C’erano delle transenne ed erano avvolte in più giri in nastro bianco e rosso, un chiaro segnale che la strada era interrotta.
Che minchia è successo?
Forse la pioggia torrenziale di qualche giorno prima aveva danneggiato il ponte? Non l’avrebbe stupita, tuttavia quella notizia dava un’ovvia conseguenza: non potevano tornare all’accampamento. Michele ci sarebbe rimasto malissimo.
Quindi staremo a pensione dalle Silvani?
Questo significava passare più tempo con Cate, ma rendeva anche più difficile filarsela la notte per andare a caccia. Avrebbe dovuto parlarne con Stefano.
Maddalena, non potendo proseguire, ma non volendo neppure tornare in paese, tentennò sul da farsi. Non voleva abbandonare il sentiero, ma rimanere lì come uno stoccafisso non calmava il ritmo ancora concitato del suo cuore.
Se le cose potevano andare male, potevano andare peggio, perché da sotto il ponte spuntò la mano verdastra e ungulata della Manolonga. Fece un salto indietro, pronta a darsela a gambe. Poi, un sussurro. “… mella?”
Era un sussurro da vecchina, ed era terrificante perché apparteneva al mostro che si arrampicò sul ponte, accovacciandosi a neanche un metro di distanza da lei.
Era altissima: gli arti lunghi, sproporzionati spuntavano da un corpo magro e dalla pelle cadente color del fango. I capelli lunghi e ricoperti di limo le nascondevano il viso e forse era meglio così. “Mella?” ripeté gracchiante e Maddalena indietreggiò, pronta a fare lo scatto che l’avrebbe, sperava, portata a distanza di sicurezza. “Cara … mella?” finì di formulare.
Vuole una caramella?
Quella rivelazione la fermò sui suoi passi. “Caramella?” il tono era supplichevole. 
Maddalena afferrò lo zainetto da dietro la schiena e frugò, finché non trovò un tubetto vetusto di gelèe alla frutta. “Mella!” esclamò la manolonga con uno raspìo entusiasta. “Mella e basta,” precisò.
“Ah, vuoi macari che te la scarto?” sbuffò. La creatura non si era mossa dalla sua posizione accovacciata, le braccia lunghe che riposavano tra le gambe e solo la testa ben dritta, a seguire ogni suo movimento. Maddalena scartò la caramella, gettandola ai suoi piedi. La Creatura la afferrò, infilandosela svelta in bocca. Cominciò a succhiarla in modo piuttosto rivoltante ma da quel particolare Maddalena intuì perché Stefano avesse ribadito più volte la sua non-pericolosità.
È senza denti! Allora è davvero una vecchietta …
Gliene gettò un'altra. “Non tutte assieme,” disse notando che cercava la terza per terra, “manca solo che ti ci strozzi…”
Vecchia com’è, minimo è Creatura protetta. 
Non avendo niente di meglio da fare, e temendo che l’avrebbe seguita in paese se non le avesse dato tutte le caramelle di cui disponeva, decise di rimanere, allungandogliene una ogni volta che smetteva di ruminare.
L’aspetto era spaventoso, rifletté, con quelle membra sproporzionate e la pelle bitorzoluta come un rospo, tesa su costole e ossa sporgenti. Faceva paura, sì, ma era solo una vecchietta rattrappita golosa di dolci.
Maddalena percepì piano piano il cuore rallentare il suo ritmo e il respiro normalizzarsi. La presenza della Manolonga l’aveva preoccupata a lungo, ma ora che l’aveva conosciuta, era una paura che poteva permettersi di accantonare.
Facendo attenzione a come si muoveva, salì sulla porzione non transennata del ponte, arrivando a neanche un braccio di distanza dall’orchessa, che però, a parte voltare per un attimo la testa, non diede segno di averla notata.
Maddalena si sedette sulla nuda pietra, facendo penzolare le gambe sopra l’acqua cristallina del ruscello. Avrebbe pensato che l’odore di una Creatura del genere fosse rivoltante come il suo aspetto: invece odorava di terra bagnata e caramelle alla frutta. “Spero che il tuo ponte non crolli,” le disse, “è casa tua no? Là sotto nessuno ti dà fastidio.”
Le allungò l’ennesima gelèe sovrappensiero ma prima che potesse ritirare la mano, questa la prese delicatamente tra le unghie lunghe, sfiorandola appena.  “Non vuoi far male a nessuno, tu …” realizzò.
Ad essere onesti, nulla in quel bosco le aveva mai fatto del male. Spaventata e esasperata sì, ma c’era più malizia che cattiveria negli scherzi dei folletti, o nel ciarlare del Beffardello. C’era più curiosità che aggressività nella Manolonga, o nelle strane fatine – quelle che gli altri chiamavano falene - che ronzavano attorno a lei e a Cate ogni sera attorno al falò. Nei riflessi dell’acqua sotto di sé, quando passavano dal ponte per andare in paese o tornare al castello, a volte aveva scorto dei lineamenti femminili, e quei riflessi, ad un occhio attento o forse dell’Altrove, si tramutavano in lunghi capelli dorati di bellissime ninfe dell’acqua che ridevano e cercavano ogni volta di bagnarla con degli schizzi improvvisi.
L’uomo chiamato Nero aveva ragione: non c’era niente di cattivo nel bosco.
 L’unico punto interrogativo rimaneva la voce sotto il castello.
 
“Buongiorno bella citta!”
 
Parli del Diavolo …
Quel proverbio poteva applicarsi anche al beffardello: l’omino apparve, rossovestito e ghignante al di là del ponte e tra, un balzello e un trotterellare, lo attraversò raggiungendola. “Vedo che t’hai fatto amicizia con la bellezza de’i bosco!” 
“Non è aria, vattene,” lo apostrofò mentre la manolonga cacciava dalla gola quello che era chiaramente un borbottare offeso. 
Il folletto esibì una chiostra di denti aguzzi. “Non vorrei interrompere du’ belle figliole a chiacchiera, ma a te, succuba, non mangi gli esseri umani?”
“No!” protestò prima di realizzare che, in un certo senso … “Non è che li mangio, prendo la loro … ma cosa vuoi?”
“Se so’ roba tua, devi andà a ripiglialli perché so’ andati dove non dovevano andare, che poi, è una cosa che fan sempre, passano i secoli e lo fan sempre! E io dico, ci credo che la loro razza dura poco, sale in zucca non ne hanno!”
Se aveva capito qualcosa dalle conversazioni che aveva avuto con il beffardello, era che doveva andare oltre l’incessante blaterare per concentrarsi su poche parole chiave. “Chi vuole mangiare chi?”
“Il nero, quella rossa e quello basso!” fece un saltello. “Quello sotto se-li-ingolla!” canticchiò.   
Maddalena cercò di fare mente locale: il folletto parlava di Rosi, del bestione di nome Tobia e del carabiniere, dato che quella mattina erano andati via dal Bar assieme. Il Beffardello era arrivato da Castiglioscuro quindi dovevano trovarsi lì. E rischiavano di esser mangiati.
Fantastico.
Considerando che la bestia affamata non poteva che essere il mostro da cui Elena l’aveva avvertita, quello capace di ipnotizzarla ogni qual volta si avvicinava alla sua tana. D’istinto cercò il cellulare, ma non poteva chiamare Stefano. Tra gli alberi non c’era mai linea. “Che è successo?” domandò alzandosi in piedi mentre la Manolonga, disturbata dal trambusto, si infilava di nuovo sotto il ponte portandosi via quello che restava del tubetto delle caramelle.
Voi fà domande o voi ripiglialli interi?”
Aiu capitu … ma io che posso fare?”
Non era una sorvegliante, non era una vânător. Era soltanto una succuba coi sensi di colpa … e con una preoccupante incapacità di farsi gli affari propri, perché comunque andò dietro al folletto, attraversando il ponte in direzione dell’ultimo tratto del sentiero. “Non sono una sorvegliante!” reiterò ad alta voce.
Il Beffardello fece una smorfietta. “Boh, ci sei te, l’ho detto a te. Se un’ti interessa, poi tornà ‘ndreò. Io la mi’ promessa l’ho mantenuta!”
Prima che potesse chiedersi a che promessa l’ometto facesse riferimento, questo la distanziò saltellando di pietra in pietra. “Gnamo!” la incitò. Maddalena imprecò e lo seguì.
 
***
 
“Di cosa volevi parlarmi?”
L’accoglienza di Don Doriano era stata ben diversa da quella della famiglia Ghini, Alina doveva ammetterlo. Il prete era parso sinceramente contento della sua visita, da come l’aveva sollecitata ad entrare e l’aveva portata negli uffici della canonica, offrendole una vasta pletora di beveraggi e persino una fetta di torta “che m’han portato la cara Demiris, dovessi sentire che mani che ha!”.
Alina si era sempre trovata bene con gli uomini di Chiesa. A Roma erano soprattutto loro ad ingrossare le file delle Confraternite: preti, frati e qualche occasionale diacono nei ruoli di supporto, una schiera tonacata dove poteva dire di esser cresciuta … ne conosceva i modi di fare. Don Doriano le ricordava quei confratelli romani: eloquio mite, sorriso misurato … emozioni ben serrate dietro una facciata di cortesia. Era ciò a cui era abituata, quindi si era sempre trovata bene con lui.  “Volevo parlarle di quello che mi è successo nel bosco qualche sera fa,” esordì.
“Ah, certo … la notte del plenilunio,” annuì sedendosi di fronte a lei e asciugandosi la fronte sudata con un fazzoletto. La sua stazza, abbinata ad un abbigliamento non particolarmente traspirante, non gli permetteva di godere della frescura di quei locali. “Come stai a proposito, ti sei ripresa?”
“Sì,” rispose preferendo non soffermarsi su quell’argomento, che ancora l’umiliazione bruciava. “Io e mio padre abbiamo una teoria su quello che potrebbe essere accaduto.”
E gliela espose. L’uomo la ascoltò attentamente, la postura rilassata ma i lineamenti del viso tesi nella concentrazione.
Dopo che ebbe finito di parlare Don Doriano rimase in silenzio ed Alina attese paziente. Preferiva le persone che riflettevano a quelle che le parlavano addosso nel tentativo di quietare le proprie emozioni concitate. Come Carlo Ghini, ad esempio. Nell’attesa bevve un sorso della bevanda gasata che l’uomo l’aveva praticamente costretta ad accettare.
Era zuccherina e appiccicosa e non la gradì, ma la finì comunque.
L’uomo poi si alzò, passeggiando per la stanza; era un ambiente fresco anche d’estate, pieno di scaffali di metallo scuro a malapena illuminati dalla finestra che dava sul cortile, chiusa da una pesante grata di ghisa. Non tirava neanche un alito di vento, eppure l’uomo vi si piazzò di fronte come se trovasse refrigerio. “Ti ho mai raccontato perché mi hanno trasferito qui?”
Alina scosse la testa; non c’era mai stata sufficiente confidenza per avere una conversazione a tu per tu.
“Sono in età da pensione, e questo sicuramente è stato un motivo…” iniziò scoccandole un sorrisetto complice, a cui rispose per inerzia, “ma fu anche una punizione.” Fece una pausa, e quando capì che non gli avrebbe chiesto chiarimenti, continuò: “Sei di Roma, quindi conoscerai il monte dei cocci, al Testaccio.”
“Sì, è una sacca di Altrove,” confermò.
“Una zona relativamente tranquilla, tanto che era amministrata da una Confraternita che poneva più attenzione ad apporre cartelli e mettere palizzate, che ad andarla a controllare sul serio … pensa che avevano anche permesso di organizzarci dei tour turistici!” Fece un sospiro. “Era la mia Confraternita, sai. Ero assegnato lì, officiavo a Santa Maria Liberatrice e i miei confratelli erano anche il mio gregge. Brave persone, lavoratori onesti … ma è vero a volte quello che si dice dei romani. Pigri.”
Alina non commentò: era lì per fare delle domande e si era ritrovata ad ascoltare le storie di una vecchia gloria. Si mosse sulla sedia impaziente e l’uomo ridacchiò.
“Alla vostra età avete il fuoco dentro …” commentò divertito, “ma non è una critica! È bello che la nuova generazione sia già pronta a prendere il nostro posto …” fece un gesto, come a scacciare una mosca. “Comunque, ero contrario all’apertura, al lasciare che il Chiaro si confondesse con l’Altrove. Certo, il monte era aperto pochi giorni l’anno e solo di giorno, ma sai com’è con il Chiaro … si prende un braccio quando tu vuoi dargli solo il mignolo. Dei ragazzi scalarono l’ingresso e ci andarono di notte.”
“Non credevo ci fossero Creature pericolose in quella zona…”
“No,” convenne, “ma vi sono alcune presenze. Spettri, più che altro, e forse è ciò che quei ragazzi cercavano. Il brivido dell’avventura … uno di loro si imbatté in qualcosa e si spaventò, mettendo il piede in fallo. Cadde dalla parte più scoscesa della collina. Una disgrazia, poteva solo farsi un bernoccolo ma picchiò male la testa.”
Alina aggrottò le sopracciglia. “Essere stato trasferito qui è stata la sua punizione? Ma lei aveva avvertito…”
“Avevo avvertito, ma non avevo fatto nulla di concreto. Ero il Don di quella parrocchia, ero il Sorvegliante più anziano, ma non intervenni abbastanza vigorosamente.” Si voltò verso di lei, con una sorriso triste, “… e un ragazzo è morto per questo.”
“Non è colpa sua,” argomentò ma consapevole che non sarebbe servito a molto. Dopotutto, la loro religione sulla colpa aveva costruito le fondamenta. “Mi dispiace per quello che le è accaduto, però…”
“… cosa c’entra con quello che sta succedendo qui?” finì per lei. “Forse niente. Forse tutto … perché io so che la Montagnola ha un mannaro. Ho parlato con il povero Tobia, ed è un uomo senz'altro turbato … ma quello che mi ha descritto, era un lupomanaio, non ho dubbi. Tanto che sono stato io a chiamarvi da Roma, e non mi sono fermato ad un no superficiale stavolta. Ho insistito e ho avuto te e tuo padre, Alina.” Tornò al tavolo, ma lo circumnavigò per starle accanto. In piedi, la sua mole lo faceva simile a quelle grandi statue in marmo delle cattedrali, parate a festa e imponenti. Gli occhi chiari, circondati da rughe, brillavano duri, come quelli di suo padre. Una vecchia generazione di guerrieri, forse infiacchiti dal peso degli anni, ma non ancora pronti a cedere il testimone.
“Se mi dici che qualcuno ti ha aggredito la notte del plenilunio, io ti credo. Se mi dici che pensi che qualcuno stia aiutando quella bestia empia a nascondersi, io ti credo. E sono a tua disposizione per portare alla luce tutto ciò che è nascosto.”
Alina non poté frenare un sorriso di sollievo. Sospettare di tutti i Sorveglianti era un suo dovere, ma la storia personale di Don Doriano le permetteva un concreto beneficio del dubbio. Se li aveva chiamati lui, non poteva essere la stessa persona che nascondeva la bestia, questo anche suo padre avrebbe dovuto ammetterlo.
“Non dovremo cercare lontano, padre … può immaginare di chi sto parlando.”
“I miei confratelli,” l’uomo annuì grave. “Carlo e Marina sono brave persone … Marina, poi, a dispetto di ciò in cui crede, è un’amica.” Increspò le labbra in una smorfia dolente. “Ho sempre pensato che fossero come i miei confratelli romani, buone intenzioni ma pigrizia mentale. Tu invece vi vedi dolo?”
“Chi avrebbe la possibilità di nasconderlo a me e mio padre se non qualcuno che conosce l’Altrove?”
“La bestia potrebbe avere una famiglia.”
“Una famiglia in cui non ci siamo mai imbattuti e di cui nessuno sa niente? Le Confraternite si occupano anche di catalogare gli informati.”
“È così, e a Malacena vi sono solo tre famiglie, i Silvani, i Neri e i Ghini,” ammise con un sospiro. “Avete prove? Perché ai Chiaroscuri di Siena dovremo portare un caso solido.”
“Ho chi può testimoniare la presenza del lupomanaio. La succuba.”
L’uomo fece una smorfia poco convinta. “Temo non sia sfruttabile, data la nomea della sua razza. No, è meglio non coinvolgerla.” Si accarezzò il mento, coperto dalla folta barba che gli copriva persino il collarino ecclesiastico. “E quelle tisane che Marina ti ha dato? La sua famiglia ha avuto streghe … e lei stessa traffica con le erbe, non è un segreto.”
“Ne ho ancora qualche bustina.”
“Potremo farle analizzare, ma ci vorrà del tempo.”
“Io e mio padre non ce ne andremo finché questa storia non sarà conclusa.”
Don Doriano sorrise. “Allora portamele, e farò qualche telefonata a dei vecchi amici.”
Alina ricambiò alzandosi. “Grazie, padre.”
L’uomo le prese una mano tra le sue. Le aveva sudate, ma Alina tollerò quel contatto, perché sarebbe stato scortese far altro. “Non devi ringraziarmi, mi stai regalando un’ultima occasione per ripulire una comunità da una minaccia dell’Altrove. Sono io che devo ringraziare te e tuo padre per non aver rinunciato.”
“Siamo Radu, non lo facciamo mai."
 
***
 
Non sarebbero mai riusciti ad arrivare alle scale.
Per Tobia quella consapevolezza aveva il sapore di un sogno … o di un incubo: la testa gli girava come se l’avessero colpito forte e con le torce che non funzionavano era cieco in quel cunicolo.
Era la Creatura, quell’odore nauseabondo non poteva essere prodotto che dal regolo. Nel bosco non li aveva colpiti, ma in uno spazio chiuso con pochissimo ricambio d’aria li stava stordendo.
Afferrò il braccio di Roísín, tirandola su: la ragazza obbedì ma il movimento brusco fu troppo e le cedettero di nuovo le gambe. La riacchiappò a volo. “Ettore,” annaspò cercando l’amico, “Ettore, usciamo…”
Le orecchie gli ronzavano, ma non aveva idea se fosse per la poca mancanza di ossigeno o perché il regolo fosse lì. Non udiva rumori, se non i loro respiri spezzati e un improvviso conato di vomito.
Aveva trovato Ettore. Lo raggiunse mentre stava vomitando l’anima, appoggiato dall’altra parte della parete qualche passo più indietro. “Dobbiamo uscire subito.”
“Non ce la faccio…” tossì convulso. “Non respiro…”
Tobia, che si era premuto il fazzoletto di stoffa sulla faccia, lo afferrò per una spalla e lo costrinse a staccarsi dal muro spingendolo in avanti, verso la figura semi-accasciata di Rosi. Di loro tre sembrava quella messa peggio. “Roísín,” la chiamò, “appoggiati a me, dobbiamo salire...”
Questa mormorò qualcosa di non intellegibile. Era ad un passo dallo svenire e non c’era tempo da perdere. Tobia, ignorando il pavimento che sembrava ondeggiare come se fossero in mare, se la caricò sulle spalle.
Moriremo soffocati se non usciamo.
Tolse il fazzoletto dalla faccia, che gli servivano entrambe le mani, e con Rosi sulla schiena ed Ettore a fianco, tenuto per la cintura dei pantaloni per aiutarlo a non inciampare, si diresse verso l’uscita. Da lontano vedeva il chiarore delle cucine. Se fossero andati oltre la pietra di fondazione sperava che la magia del castello li avrebbe protetti. Sperava.
E poi Rosi smise di respirare.
Lo sentì come se qualcuno gli avesse tirato un cazzotto nello stomaco. Rosi era sulla sua schiena ed era un peso immobile. Nel panico accelerò e i suoi piedi incespicarono nei gradini, erano arrivati, doveva solo salire una rampa di scale …
Gli cedettero le gambe. Tobia crollò, trascinandosi dietro Ettore, mentre il peso di Rosi lo schiacciava a terra impedendogli di rialzarsi: era troppo debole.
I Neri non avevano paura di morire; la morte era l’altra faccia della vita e chi meglio di loro era consapevole del fatto che era necessaria? Sarebbe stato un sollievo se fosse arrivata, aveva pensato a volte.
A Tobia venne da urlare perché non voleva morire lì, e far morire i suoi amici con lui.
E poi una luce; forte, violenta, e non poteva essere il chiarore del piano di sopra perché lo abbacinò. “Tobia!” era il suo nome, pronunciato però da una voce di ragazza che non riconobbe. Sentì dei passi e poi una mano che gli afferrò il braccio, strattonandolo. “Che minchia avete?! Sùsati!
Quell’accento … Tobia abbinò la voce al nome: alla luce della torcia di un cellulare era Maddalena Russo che gli stava parlando. “Che è successo?” continuò strattonandolo di nuovo, quasi gli intimasse di rimanere sveglio, “Dov’è il mostro?” e lanciò un’occhiata angosciata oltre a loro.
“Non lo so…” si staccò dal palato. “… qualcosa ci sta facendo male …dobbiamo allontanarci, dobbiamo salire.”
Maddalena annusò l’aria e poi irrigidì i lineamenti. “Amunì,” disse, prendendo Rosi da sotto le braccia facendola rotolare al suo fianco. Tobia riuscì così a tirarsi su e anche Ettore, sentendoli parlare, cercò di tirarsi in ginocchio con un gemito. “Amunì,” ripeté, “vi do una mano io, forza!”
Fece alzare Ettore, passandosi poi un braccio attorno alle spalle; Tobia riprese Rosi sulla schiena e lentamente, come se fosse una scalinata da mille gradini, presero a salire. Maddalena teneva la torcia davanti a sé, e Tobia notò come camminasse svelta, ingombro di Ettore a parte, e come non apparisse colpita dal miasma del regolo. Lanciava rapide occhiate alle sue spalle di tanto in tanto e nel farlo, gli occhi venivano illuminati dalla luce artificiale del cellulare, riflettendo come quelli dei gatti.
La salita durò meno di un minuto, ma a Tobia parvero ore. Rosi, sulla sua schiena non si spostava, non si lamentava, non faceva niente ... come se fosse morta.
Doveva rimanere calmo, se si fosse lasciato andare al panico avrebbe rischiato di cadere trascinandosela dietro come aveva fatto prima.
Dopo la pietra, come aveva sperato, l’odore cominciò a diminuire. Maddalena, che era in testa, fu la prima ad arrivare alle cucine, portando Ettore al grande tavolaccio rustico che vi campeggiava al centro. Ce lo appoggiò contro e poi corse a recuperare anche lui, passandosi un braccio attorno alle spalle come aveva fatto con il carabiniere. Strinse i denti per la quantità di carico che fu costretta a subire, ma non si lamentò e gli ultimi metri per Tobia furono molto più leggeri.
Ettore, che stava respirando ad ampie boccate come se fosse appena riemerso dall’acqua li aiutò a stendere Rosi sul tavolo. Appena notò le condizioni dell’altra lasciò andare un’imprecazione, scattando a controllarle il polso. Imprecò di nuovo e a Tobia sembrò che una voragine gli si fosse aperta sotto i piedi.
Non c’è battito. Non respira.
Si dovette appoggiare al tavolo perché gli girava di nuovo la testa e no, non erano i miasmi del regolo. Dietro una cortina di panico vide l’amico sbottonare la camicia di Rosi, e dare istruzioni concitate a Maddalena. La ragazza le reclinò la testa e le aprì la bocca, avvicinando il viso al suo e certo, era la respirazione bocca a bocca, mentre Ettore, tra un colpo di tosse e l’altro, le stava facendo un massaggio cardiaco. Stavano cercando di rianimarla.  
Salvatela. Salvatela, vi prego, non lasciatela morire …  
Gli pareva che il mondo si fosse fatto lento, come fotogrammi che andavano a scatti e e non era previsto che lui si muovesse. Doveva rimanere fermo e aspettare un segno, una speranza, un suono.
E poi Rosi tossì.
Il mondo riprese a girare a velocità normale mentre Rosi si voltava di lato e respirava e tossiva, e strabuzzava gli occhi paonazza ed era viva … solo allora Tobia si appoggiò con la schiena contro il tavolo, premendo i palmi delle mani contro il legno, talmente forte che qualche scheggia gli si infilò nella pelle, ma non importava, non importava assolutamente. Rosi era viva.
 
C’erano diverse ragioni per cui aveva deciso di abbandonare l’Altrove.
Una delle tante è che nel Chiaro non rischiava di morire due volte in due giorni.
Rosi contò i polmoni in fiamme, nausea e miliardi di puntini che le oscuravano il campo visivo … e rimase stesa sul tavolo delle cucine, a fissare il soffitto pericolante.
 “Marò … Rosì, m’agge fatto morì di spavento…” mormorò Ettore da qualche parte vicino alla sua spalla destra. “Pensavamo fossi morta!”
Lo aveva pensato anche lei; quando ogni respiro si era fatto impossibile aveva realizzato di essere vicina ad incontrare il Creatore. Si portò le mani tremanti al viso. “Sì …” mormorò roca dando un colpo di tosse, “me ne sono resa conto.”
Il silenzio calò nel grande ambiente, illuminato da lame di luce brillante di mezzo dì. Doveva essere ora di pranzo nel mondo normale, e si chiese se Caterina si fosse ricordata di tirare fuori l’insalata di riso dal frigo per non servirla gelata ai clienti. Quella riflessione le appariva aliena, come se la normalità fosse talmente lontana da far fatica a percepirla come tale. Tutto il suo mondo era finito a testa in giù mentre soffocava in quel budello di roccia e fango.
Aveva bisogno di bere qualcosa di forte.
Prima però c’era da fare la conta: voltò il viso per incontrare Ettore, che si strofinava un po’ troppo frequentemente gli occhi, tossendo a ritmo sostenuto. C’era Tobia che fissava un punto di fronte a sé e aveva l’aria di chi era stato appena investito da un tir e non si era accorto di essere sopravvissuto. Rosi non fece in tempo a chiamarlo che l’ultima persona si palesò nel suo campo visivo …
“… e tu che ci fai qui?” domandò alla siciliana che sentendosi rivolgere la parola trasalì sorpresa. Prima che potesse ripetere la domanda, Ettore le parlò praticamente addosso.
“Le domande dopo, ora che sei viva dobbiamo andarcene! Quella roba è là sotto!”
“Si chiama serpe regolo … e non salirà, la pietra fondante non lascia passare le Creature.” Rosi tentò di alzarsi a sedere sul tavolo e Tobia si scrollò dalla sua stasi per aiutarla. Continuava a guardare ovunque tranne che nella sua direzione e fu seriamente tentata di afferrarlo per i capelli e costringerlo a voltarsi.  
“Ne sei sicura?” il tono sarcastico, ma anche spaventato di Maddalena li fece voltare tutti verso di lei.
Da dove è spuntata fuori?
Interruzioni napoletane permettendo, era il momento di far chiarezza. “Sì. Con tutto il baccano che abbiamo fatto ci sarebbe di sicuro andato dietro, ma non l’ha fatto e non lo farà,” disse spiccia. “Piuttosto, che ci fai qui?”  
Incontravano il regolo e casualmente la Russo era nei paraggi? Non aveva mai creduto granché nelle coincidenze. Maddalena serrò le labbra, lo sguardo che saettava dall’imbocco delle cantine alle scale dei piani superiori dove c’era l’unico punto di accesso e uscita al castello. Voleva scappare? “Passavo di qui…” disse debolmente.
“Per caso?”
Tobia si schiarì la voce. “Maddalena mi ha dato una mano a portarvi su … se non ci fosse stata lei saremo ancora là sotto,” fece una pausa, “tu saresti ancora là sotto.” 
A questo Rosi accusò il colpo anche se cercò di mascherarlo: non dimenticava la grande rivelazione che le avevano fatto solo poche ore prima. Maddalena era una stramaledetta succuba, non una simpatica fatina del folklore siciliano. “Intendevo come sapevi che eravamo là sotto.”
“Ve l’ho detto, passavo per caso e…” aprì e chiuse la bocca un paio di volte, finendo per tacere. Se non altro era del tutto incapace di inventarsi una palla.
“… e ci hai salvato la vita,” reiterò Tobia, “grazie,” e poi inarcò un sopracciglio nella sua direzione e Rosi ebbe l’irritante sensazione di essere nel torto. Arrossì.
“Già, meno male che passavi di qui!  Ma a te chilla puzza nun agge fatto niente?” le domandò Ettore.
Maddalena esitò ancora e di colpo Rosi realizzò il perché di quella titubanza.
Non ha idea che sono a conoscenza della sua natura. Se ci ha trovato coi mezzi dell’Altrove penserà di non potermelo dire …
Avrebbe dovuto pensarci e si sentì un’idiota per non averlo fatto. “Mi hanno detto cosa sei. Quindi ripeto la domanda … come hai fatto a trovarci là sotto?”  
L’altra impallidì come se l’avesse accusata di qualcosa e no, non l’aveva fatto anche se i due deficienti con cui si accompagnava avevano assunto l’aria da santi protettori di fanciulle fragili.
“Il beffardello,” mormorò di malavoglia, “quando sono nel bosco mi sta sempre rintra i piedi. Mi vinni a circari e mi disse che eravate nei guai … ho girato tutto il castello e alle fine erano rimaste solo le cantine.”
Era frustrante da ammettere, ma aveva senso. Quel folletto era attratto dalle belle ragazze e Maddalena ne era l’epitome. Che si fosse preoccupato per loro era insolito, ma i folletti non erano creature maligne. Dimostravano di affezionarsi agli umani e di sicuro si era affezionato a Tobia, che lo rimpinzava di caramelle da quando erano cittini. “E che ci facevi nel bosco?”
“Una passeggiata,” ribadì. Era spaventata, ma il tono cominciava a mostrare esasperazione. “Aora chi sugnu succuba non mi è permesso? Non c’è anima viva ccà, pì cchi dovrei essere un pericolo?!” 
“Non sto dicendo…”
“Certo che puoi, il bosco è di tutti, umani e creature,” rispose Tobia interrompendola. “Quello che Rosi sta cercando di dire è che siamo molto contenti che il beffardello ti abbia trovato e che tu abbia trovato noi.”
Rosi capì che doveva farla finita: incongruenze spiegata, la realtà era che Maddalena aveva davvero loro salvato la vita. “Sì … esatto, grazie,” concesse a mezza bocca.  
La ragazza non sembrò trovare conforto nelle sue parole da come buttò fuori un “prego” piuttosto antipatico.
Dio, quanto odiava gli adolescenti.  
A quel punto Ettore, cavalier servente #2, si sentì in dovere di dire la sua. “Tranquilla, Rosi fa così con tutti!” esclamò gioviale. “Non le piace ringraziare.”
Aprì la bocca per rispondergli a tono, ma Tobia la batté di nuovo sul tempo. “È vero, gliel’avrò sentito dire due volte. Questa è la seconda.”
“La fate finita?” brontolò. “Comunque ho un’altra domanda … ed è solo curiosità,” aggiunse di fronte all’occhiataccia combinata dei due uomini, “noi siamo quasi collassati in pochi minuti, e stiamo ancora tossendo l’anima, ma tu ne sei uscita senza strascichi. Non hai sentito quell’odore nauseabondo? Sei immune?”
“L’ho sentito, ma non mi ha dato fastidio,” rispose, “comunque non direi che sono immune.”
Rosi aggrottò le sopracciglia. “Cioè?”
Maddalena si massaggiò un braccio, voltando di nuovo la testa in direzione delle cantine. “Sento la sua voce,” mormorò, “se entro qui dentro mi chiama … e mi dice di scendere. Non adesso … ma è successo già due volte.”
“Per far che?”
“Non ne ho idea … ma non mi piace,” inspirò, “mi scanta, mi fa paura… perché mi verrebbe voglia di dargli retta e scendere giù.”
Rosi le si avvicinò. “Ascolta…” iniziò, ma Maddalena fu lesta ad indietreggiare mentre un lampo preoccupato le balenava in volto.  
Ha paura di me … da quando?  
Da quando era a conoscenza della sua natura, ovviamente.
Racimolando ricordi dei suoi studi realizzò il perché e d’un tratto non ebbe più tanta voglia di fare la Sorvegliante cattiva. E poi, magari ci aveva già pensato sua madre a coprire quel ruolo. Dubitava, purtroppo, dato quanto Caterina le ronzava attorno.
Una cosa per volta.
“Non credo sia la Creatura a chiamarti,” le spiegò con un sospiro, “potresti essere attirata dalla porta.” All’espressione confusa che le venne restituita scosse la testa: era un discorso troppo lungo da fare e non avevano tempo. “Piuttosto, sei assolutamente sicura che non ti fa male andare laggiù? Stai bene?”
Maddalena scrollò le spalle. “Se quello è il suo modo di cacciare o di difendersi, non sono io la sua preda.”
Rosi era consapevole che le seguenti parole avrebbero causato più di una reazione avversa, ma aveva un obiettivo che non poteva raggiungere e una soluzione a portata di mano. Non aveva scelta. “Ti devo chiedere un favore … scenderesti giù a scattare delle foto?”
 
***
 
Note:
 
Da lettrice odio i cliff-hanger. Da scrittrice, li adoro. Sorry not sorry. :P

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Capitolo 5
*** 5 ***


5.
 
 
“È la pelle di un serpente,” aveva detto Bice prendendola tra la punta dell’indice e del pollice. Era uno scheletro fragilissimo, una porzione di pelle del rettile grande quanto il palmo della sua mano.
“Di queste dimensioni?” aveva domandato stupefatto. “Lo pensavo anch’io, ma…”
“Fortunato,” l’aveva interrotto, “abbiamo appena trovato il mostro.”
 
Ne siete sicura?” aveva domandato il ragazzo chinandosi per studiare quella porzione di scaglie dai riflessi d’argento. “… non pare cosa di questo mondo,” aveva ammesso con un brivido palpabile.
Perché appartiene all' Orbis Alias, al mondo oltre al nostro,” aveva risposto Bice riponendo il frammento di pelle dentro la scarsella, premurandosi di coprirlo con una pezza di stoffa perché non si rovinasse.
A cosa appartiene?”
Bice aveva scosso la testa, “pur come voi, una cosa simile non l’ho vista mai. Dovrò scoprirlo.”
Vi aiuterò allora” aveva detto Fortunato. Notando la sua esitazione aveva incalzato, “ve l’ho già detto, non comprendo molto, ma voglio…”
Devo dormire,” Aveva sorriso della sua confusione. “Intendo dire che mi devo addormentare per poterlo capire … attraverso i sogni, io ricordo. Anche cose che ho dimenticato con gli anni. Le rivivo, in un certo senso.”
Capita a tutti,” aveva convenuto l’altro, “pensate di averlo già incontrato?”
Non io, ma potrebbe averlo fatto chi è venuto prima di me. Questo bosco è antico,” aveva abbracciato con lo sguardo i fusti degli alberi, il sottobosco nodoso e verde, i tanti rumori e odori. “E se sai ascoltarlo, ti parla.”
 
***
 

Quando guardi a lungo nell'abisso l'abisso ti guarda dentro.
(Friedrich Nietzsche)


“Scendere là sotto?” mormorò Maddalena. Si erano tutti congelati nell’attendere la sua risposta. Rosi, che aveva aggrottato le sopracciglia come se si aspettasse di venir schiaffeggiata e il Nero e il carabiniere, che guardavano la rossa come se si fosse bevuta il cervello.
“Assolutamente no,” sbottò quest’ultimo con tono duro, “stai pazziando Rosì? Ci abbiamo quasi rimesso la pelle e ce la vuoi rimandare?!”
“L’ha detto lei stessa, non è stata male,” ribatté, “si tratta solo di scattare delle foto e tornare su.”
“Se il serpe regolo è là sotto potrebbe attaccarla,” disse il Nero. L’inflessione non conteneva particolari emozioni, ma si staccò dal tavolo per frapporsi tra lei e Rosi. Maddalena lo trovò un metodo piuttosto stupido per far capire la sua posizione nella faccenda … ma anche stranamente confortante.
Rosi sospirò. “Me ne rendo conto … ma non ha attaccato noi. Quindi sono due le cose. O sta dormendo, come vi ho ripetuto più volte, ed una persona non può riuscire a svegliarlo dove tre quasi agonizzanti non l’hanno fatto, o non è lì.”
Maddalena percepiva il cuore battere talmente forte che si stupì che nessun altro se ne fosse accorto. Deglutì. “Dimentichi un’altra cosa,” le disse, “la voce da sotto.”
“Giù non c’è niente,” rispose Rosi, “qualsiasi cosa ti stia chiamando, non potrà far altro che farti sbattere contro un muro di roccia.” Fece una pausa, poi sorpassò il Nero e le si mise davanti. Non assomigliava per niente a Caterina, sia nei modi di fare, che nella voce … per non parlare del carattere. Però aveva gli stessi occhi: azzurri, puliti e senza ombre. Quegli occhi, realizzò, erano in grado di renderla debole. “Non sei obbligata a farlo se non vuoi,” esordì a bassa voce, dando poi un colpo di tosse. “Con quello che abbiamo passato lì sotto hai ragione a non voler scendere … ma di noi quattro sei l’unica che può farlo. Ci servono delle prove della presenza del regolo. Se le abbiamo, potremo portarle ai Sorveglianti e farlo eliminare.”
“Non basta l’effetto che vi ha fatto scendere là sotto?”
Rosi serrò le labbra e si scambiò un’occhiata indecifrabile con il Nero. “Non basta la nostra parola. Le cose con la Confraternita si sono un po’ … complicate.”
“Tua madre è una Sorvegliante, lo sono anche con lei?”
Ormai le labbra di Rosi erano ridotte ad una linea sottilissima. “Soprattutto con lei,” rispose.
Avrebbero potuto chiedere a Stefano, pensò, Ste le avrebbe creduto.
Come ha creduto quando gli hai raccontato della tenda?
Inoltre l’amico non era lì. Era in paese, a star dietro alle stupide idee di Micheluzzo, che avrebbe potuto scegliersi anche un posto meno inquietante dove far le vacanze.
Però non ci sarebbe stata Caterina.
Inspirò. “Siete sicuri che non sia là sotto?”
“No,” ammise Rosi, “ma se non c’è, le prove della sua presenza non rimarranno a lungo. Abbiamo trovato delle tracce di muta nelle caverne … si deteriora rapidamente e quell’odore potrebbe essere parte del processo.”
Maddalena serrò le dita attorno al cellulare, dove non aveva ancora tolto la funzione torcia. La spense con un tocco delle dita. “Mi date qualcosa per far luce? O le foto con non verranno.”
“Non se ne parla pro…” iniziò il carabiniere.
“Se quella cosa può far male a qualcuno voglio che sparisca,” lo interruppe. Parlare, non pensare. Perché se avesse riflettuto su quello che stava per fare, avrebbe voluto solo darsela a gambe. “Mio fratello e Ste sono sempre in mezzo al bosco … che succede se il mostro li trova?”
E poi c’era Caterina.
Noi ce ne andremo, ma lei rimarrà.
Dando una mano a quei tre sorveglianti improvvisati poteva risparmiare a Caterina un pericolo mortale. Quindi con che coraggio poteva tirarsi indietro? “Non ho capito una minchia di quel che sta succedendo con la confraternita e con i vânători,” disse, “ma non stanno facendo niente, voi sì. Voglio aiutare voi allora,” concluse e ignorò l’espressione meravigliata di Rosi.
Sempre sorpresi quando la malvagia succuba si comporta da persona decente …
Si voltò verso l’imbocco delle cantine. La luce del giorno non ci arrivava manco per sbaglio, facendole apparire come una bocca spalancata nel vuoto profondo.
La voce quel giorno taceva ed era dunque meglio approfittarne. “Rimarremo qui,” le disse Tobia affiancandolesi. “E se c’è qualche problema…”
Rimanete qui, non voglio dovervi trascinare di nuovo su per le scale,” ribatté con una smorfia. “… però grazie,” concluse.
Tobia le fece una carezza sulla testa per la quale avrebbe voluto protestare oltraggiata ma la verità è che la fece sentire un po’ meno terrorizzata e sola.
“Scatta le foto e poi torna subito su,” disse Rosi.
Ma va’? Pensavo di andarmi a fare una passeggiata invece.
Maddalena si frenò dal risponderle a tono e poi, cellulare in una mano e la torcia nell’altra, scese.
 
***
 
Alina non si aspettava di imbattersi in Stefano uscendo dalla canonica e per questo per poco non gli finì addosso. Fecero entrambi un passo indietro. “Alina!” la salutò il ragazzo con tono sorpreso.
“Ti ho spaventato,” attestò senza sapere bene cosa dire. Probabilmente era la cosa sbagliata da come le venne rivolta un’occhiata perplessa.
Stefano le fece comunque la gentilezza di soprassedere. “Don Doriano è dentro?”
Quando annuì l’altro la ringraziò con un cenno della testa, premendo poi il campanello. Avrebbe dovuto interrogare anche lui? No, decise: Greco era un sorvegliante, ma apparteneva ad un’altra Confraternita. Inoltre, era lì da poche settimane, non avrebbe di certo potuto essere invischiato nell'occultamento del lupomanaio.
Dato che Don Doriano tardava ad aprire il ragazzo le rivolse un sorriso di circostanza; forse si stava chiedendo perché non se ne fosse ancora andata, ma la verità è che concluso il colloquio con il prete, non aveva molto da fare se non tornare a casa e riferire a suo padre.
Non voleva tornare a casa.
“In questi giorni ti abbiamo vista poco, tutto bene?” le domandò riscuotendola dai suoi pensieri.
“Mio padre aveva bisogno di me.”
“Spero niente di grave…”
Doveva ammetterlo: Greco era … gradevole. I ragazzi della sua età di solito avevano nei suoi confronti un atteggiamento ambivalente, o gonfiavano il petto cercando di approcciarla maldestramente, oppure le giravano a largo intimoriti. Pietro era un’eccezione, ma lo era in modo ispido. Non emanava l’aria di serena gentilezza di Stefano.
“Soltanto i soliti acciacchi,” rispose. “Mi hanno detto che adesso alloggiate dalle Silvani,” cosa che non le era piaciuta per niente. Poteva però farci poco perché il bosco era un pantano e i siciliani da qualche parte dovevano pur dormire.
E in paese non ci sono alberghi …
“Sì, al castello è inagibile … ti dirò, non mi dispiace dormire in un letto vero dopo due settimane!” Si passò una mano dietro il collo, stiracchiandosi. “E non preoccuparti per Maddalena. È sotto controllo,” aggiunse quasi le avesse letto nel pensiero.
Prima che potesse rispondergli la porta della canonica si aprì, rivelando Don Doriano. L’uomo scoccò un’occhiata confusa ad entrambi, prima di aprirsi nel classico sorriso da pastore di anime. “Oh, Stefano!” lo salutò con una pacca sulla spalla che gli fece fare una smorfia. Non era un mistero che il sacerdote non fosse bravo a dosare la propria forza. “Sei venuto a prendere il pulmino?”
“Sì padre,” convenne compito come solo chi aveva passato una vita in mezzo alle tonache riusciva a fare.
L’uomo scambiò qualche convenevole con il siciliano prima di porgergli le chiavi. “E ora accompagna questa bella signorina, su!”
Stefano tradì sorpresa. “Non avete bisogno di me?”
L’uomo scosse la testa. “Domani magari, oggi mi si sono accumulate un po’ di faccende … torna domani.”
Stefano annuì. Sembrava deluso, ma quando si voltò verso di lei il sorriso era tornato quello di prima. “Sembra che debba darti un passaggio allora. Andiamo?”
Alina avrebbe preferito camminare, la aiutava a pensare, ma rifiutare sarebbe stato scortese, specialmente considerando che l’offerta era partita da Don Doriano. Salutato il prete, seguì il siciliano fino alla fine della piazza dove era parcheggiato il pulmino.
“Lo prendo per portare Maddalena fuori dal paese,” le spiegò avviando il motore, “Avrei preferito avere una macchina, sarebbe stata meno appariscente, soprattutto dato che usciamo di notte… ma Don Doriano dice che i malacenesi alle stranezze non badano. O danno una spiegazione tutta loro,” concluse accendendo la radio, forse per riempire il silenzio di cui lo stava omaggiando.
 
Oh, Father tell me,
do we get what we deserve?
 
“Pensi che esageri?” la domanda le uscì quasi senza riflettere. Il sedile del pulmino era caldo di sole e le scottò le gambe nude. Forse avrebbero dovuto chiedergli di accendere l’aria condizionata, ma non lo disse, era solo una passeggera e c’erano cose più importanti che le premeva discutere. “Intendo … con Maddalena.”
Stefano rimase in silenzio per qualche attimo. Si aggiustò la montatura che gli scivolava fin troppo spesso sul naso, ma era un movimento così rapido che probabilmente l’altro non doveva neanche accorgersi di farlo. “No, non lo penso,” disse infine. “Caterina è tua amica, è normale che tu sia preoccupata . E di sicuro un po’ le piace … ma sarebbe strano il contrario, non credi? Maddalena è molto attraente.”
“Immagino di sì,” ammise, “non noto queste cose.”
“Non noti che è attraente?”
Alina arrossì presa in contropiede. Quei discorsi non le erano mai piaciuti, e con l’adolescenza erano solo aumentati in volume, coinvolgendola spesso e volentieri come soggetto riluttante. L’attrazione, il sesso, le relazioni … per lei erano un mucchio di sciocchezze senza senso. Poteva fingere di capirle, poteva persino far finta di interessarsi quando Cate le raccontava dei suoi patemi d’amore, ma dentro di sé aveva paura che prima o poi qualcuno avrebbe scoperto quanto in realtà fosse completamente manchevole su quel fronte.
“Lo noto,” mentì giocherellando con la tracolla della borsa, “È solo che non è attraente per me.”
“Sì, capisco che intendi … conosci la sua natura e vedi oltre l’inganno.”
Alina aggrottò la fronte. Non aveva voluto dir quello, ma era una buona via di fuga dalla realtà dei fatti. “Sì … esatto,” esitò, “per te è lo stesso?”
Stefano si strinse nelle spalle. “Conosco Maddalena da quando ha tredici anni … sono stato io a scoprire che era una succuba, sai? Forse averla conosciuta prima me l’ha fatta mettere sotto un’altra luce…”
“Per questo ti fidi così tanto di lei?”
“Mi fido della mia capacità di giudizio,” ribatté. “Inoltre, la volontà di ribellione di Maddalena è stata annientata dal suo precedente Sorvegliante. Carmine…” fece una smorfia, “io non sono di quella scuola. Se temo che i miei sorvegliati violino le regole preferisco parlarci, non mettergli le mani addosso.”
“Quindi Maddalena le ha violate?”
“Non che io sappia.”
“Allora…”
“Carmine era pessimo. Per questo Maddalena ora è sotto le mie cure.”
Alina si mosse a disagio sul sedile. E lei? Era stata una pessima vânător?
La rabbia che l’aveva colta alla radura l’aveva fatta esplodere contro Maddalena. L’aveva aggredita e anche se non ci sarebbero state ripercussioni – se la succuba fosse andata a lamentarsi, chi si sarebbe mosso contro una vânător? – a mente fredda si rendeva conto di aver esagerato; Maddalena non era coinvolta nella storia del lupomanaio e i continui, smorzanti fallimenti che incontrava sulla sua strada non erano colpa sua.
Non ha neanche tentato di difendersi …
“Maddalena non ha scelto di nascere succuba,” continuò Stefano, “come noi, che non abbiamo scelto di nascere in famiglie che hanno il compito di sorvegliare l’Altrove. Nessuno di noi ha colpa di ciò che è.”
Alina serrò le dita attorno alla tracolla. Era di cuoio finto, e con quel caldo era appiccicosa sotto i polpastrelli. Plastica che si fingeva pelle. “La mia non è una colpa, è un privilegio,” ribatté ma le parole avevano un sapore amaro sul palato, come se non fossero davvero quelle che voleva pronunciare.
Stefano guidava con incertezza per le stradine strette, e quindi teneva l’attenzione rivolta alla strada. Non aveva però smesso di ascoltarla perché, dopo una curva particolarmente a gomito, le rispose: “Un privilegio che però ha un costo. Vivendo in bilico tra i due mondi a volte mi chiedo a quale appartengo. A te non capita mai?”
Alina esitò. Quel discorso stava deviando su terreni che non era sicura fosse opportuno esplorare con un ragazzo conosciuto da poco. Tata le avrebbe detto di tener chiuso il becco e farlo chiudere anche all’altro.
“A volte…” ammise. “... il mondo normale per me non ha alcun senso.”
Stefano distolse lo sguardo dalla strada per incrociare il suo. “Ed ecco il prezzo da pagare,” le sorrise. “È così per tutti. Siamo un po’ incasinati … ma facciamo del nostro meglio, no?”
Alina gli sorrise di rimando. “Facciamo del nostro meglio.”
 
***
 
Maddalena aveva sceso le scale.
Aveva fatto quello che si era ripromessa di evitare da quando per la prima volta Michele le aveva proposto di seguirlo in Toscana.
Era un idiota.
Realizzarlo non era granché utile, quando l’abbraccio umido e maleodorante delle cantine la avvolse. Il fascio le faceva ancora compagnia, forse per poco, ma dandole comunque il coraggio necessario per continuare a camminare.
Non c’era nessuna voce stavolta. Il che avrebbe dovuto tranquillizzarla, ma aveva invece il potere di suscitarle un’angoscia maggiore, perché cosa voleva dire? Cosa rimaneva in silenzio al di là delle ombre?
Arrivò alla base della scala e la torcia sfarfallò, ma con un colpo secco della mano per fortuna tornò a brillare.
Fai foto e vattene.
Il piano era semplice, il compito rapido e la luce alle sue spalle le segnalava che c’era una via di fuga. Solo pochi metri sopra c’erano tre persone, non era da sola.
Allora perché le sembrava di essere appena entrata in un mondo lontanissimo? Continuò a camminare, attenta a tenere la torcia puntata sui propri piedi.
Se c’è davvero qualcosa e lo sveglio?
Rosi era sicura di no, ma poteva davvero affidarsi ad una barista che fino a qualche ora prima le era sembrata completamente avulsa da quella realtà?
Era una stupida.
Il corridoio continuava, roccia attorno a sé e fango sotto i suoi anfibi. L’odore di uova marce si intensificava a tratti, stemperato però da refoli d’aria la cui provenienza non riusciva a stabilire … forse di fronte a sé? Pochi attimi dopo però di fronte trovò una parete di roccia, a cui lati si biforcavano due strade. Illuminando quella di destra notò che il fango era stato calpestato da orme confuse, ma chiaramente di scarpa.
Se i tre venivano da là, di certo non era quella la strada che doveva prendere. Deviò quindi a sinistra. L’odore non era più forte, non ai suoi sensi ormai eccitati da quell’ambiente alieno, ma poteva comunque essere quella la strada presa dal regolo.
O dove si trova la sua tana.
Prima che potesse per l’ennesima volta darsi della stupida, la torcia senza preavviso, senza intermittenze, si spense. Se l’era aspettato, tuttavia il panico le strinse la gola in una morsa. Il buio, quasi fosse rimasto acquattato negli angoli, le si avvolse addosso come un’asciugamano fradicio. Chiuse gli occhi, regolarizzando il respiro.
Non ho paura. Non mi fai paura.
In quel buio le sue antenate erano nate. In quell’oscurità avevano prosperato, infiltrandosi nei sogni e nei desideri degli uomini del Chiaro. Poteva non essere che una versione edulcorata di quei demoni, ma era abbastanza da non farsi sopraffare. Riaprì gli occhi; non poteva distinguere che sagome grigiastre ma i contorni della grotta presero forma, dandole percezione dei confini entro cui si poteva muovere senza inciampare. Fece qualche metro e non era una sua impressione era come se l’oscurità si fosse fatta più densa, vischiosa. Poi quella sensazione passò, e fu rapido come accendere un interruttore. Tale, perché la torcia riprese a funzionare, quasi accecandola. Con un’imprecazione soffocata distolse lo sguardo e la puntò in basso. Ci volle qualche attimo perché i suoi occhi smettessero di bruciare. Quando riuscì ad aprirli si trovò di fronte all’ennesimo corridoio naturale.
ma quanto minchia sono profonde queste grotte?
A terra c’erano delle forme e non era roccia. Si bloccò, il cuore in gola mentre realizzava che si trattava di qualcosa composto da pelliccia, ossa e dall’intenso odore marcescente. Soffocò un conato quando si accorse che era la carcassa di un animale. Un cinghiale, forse. E non era la sola; c’erano segni di un banchetto a base di vari animali del bosco. Maddalena tirò fuori il cellulare e scattò delle foto, che sperò non fossero troppo sfuocate dato che le tremava la mano, ma non si fermò a controllare.
È una tana. Questa è chiaramente una tana.
Priva però del suo abitante. Il corridoio infatti proseguiva nel buio, ma le spoglie animali si interrompevano ben prima. Su tutto aleggiava una strana polverina biancastra, che a Maddalena sembrò un deposito di qualcosa. Scattò foto anche a quello.
La tana era vuota, Roísín aveva ragione. O il mostro era andato a caccia, o se n’era andato per non tornare. Maddalena non aveva idea di quale delle due ipotesi fosse veritiera, ma non aveva intenzione di rimanere lì per scoprirlo.
Fece retro-front, preparandosi di nuovo all’oscurità, quella diversa, quella che non le lasciava scelta se non affidarsi ai suoi sensi di succuba.
 
Tornando indietro, la torcia la abbandonò com'era successo prima. Cominciò quindi a camminare nell’oscurità che i suoi sensi da succuba le restituivano come grigia e frastagliata da migliaia di puntini bianchi.
Michi la chiamerebbe scurovisione …
Procedette per quello che le parvero minuti interi, ma non era possibile, non ci aveva messo che una manciata di attimi ad imboccare la biforcazione di sinistra, avrebbe già dovuto trovare il bivio. Invece quel corridoio sembrava estendersi all’infinito, e poi curvare, all’improvviso, e non c’era mai stata una curva …
Come non le era mai sembrato di cominciare a scendere, mentre il soffitto si faceva sempre più basso.
Maddalena percepiva il sudore scivolarle lungo la schiena. Si era persa, ma com’era possibile se la strada che aveva percorso era solo una?
Aveva mancato il bivio?
Faceva freddo, tanto che percepiva l’aria che aveva in bocca più calda di quella che respirava … Doveva continuare a muoversi, perché prima o poi avrebbe trovato lo snodo. Prima o poi. Poi.
Lo squillo del cellulare irruppe nel buio.
Letteralmente, perché teneva il telefono in mano e lo schermo si illuminò mentre risuonava la suoneria. Maddalena strizzò gli occhi abbacinati per identificare il nome sul display; era Caterina …Cate la stava chiamando! Contemplò stupefatta il nome della toscana brillare sul display mentre il buio strisciava negli angoli, cacciato da artificiale luce azzurrina.
Com’era arrivata la chiamata cessò, forse perché Cate si era stufata di ascoltare squilli a vuoto o forse perché il segnale era venuto meno. Non c’era linea … ma c’era mai stata? Maddalena non ne aveva idea, ma non che avesse importanza quando c’era qualcosa di molto più sconcertante da considerare … si trovava di nuovo di fronte al bivio.
Come minchia ci sono arrivata?
Tornando sui suoi passi naturalmente, eppure fino ad un attimo prima era come se si fosse trovata in tutt’altro posto, lontana chilometri da dove si supponeva dovesse essere. Maddalena lanciò di nuovo un’occhiata al cellulare; la batteria era quasi del tutto scarica. Diede una botta alla torcia, che si riaccese … e corse verso le scale senza voltarsi indietro.
 
***
 
Caterina stava cominciando a preoccuparsi.
Se la sparizione di Rosi all’inizio era stata più che altro un evento bizzarro, con il passare delle ore quella defezione aveva assunto contorni inquietanti. Un’intera giornata lontana dal suo amatissimo Bar per Rosi era un evento raro quanto un'eclisse di sole. La pazza era capace di lavorare anche con quaranta di febbre, e una volta l’aveva pure fatto con il rischio concreto di cenciare per terra, se sua madre non fosse intervenuta
Marina era forse persino più in pensiero di lei; era rimasta al bancone come promesso, ma lanciava occhiate fuori a intervalli regolari.
Cate radunò cartacce e bicchieri vuoti da uno dei tavolini, precedentemente occupato dai muratori di Ghigo, in grado di fare un porcile anche con un sacchetto di patatine e due spritz a testa.
“T’ha mica chiamato?” domandò a Michele che stava giocando ad Uno con uno scornatissimo e ancora pieno di carte Pietro.
Questo scosse la testa. “E tu, sei riuscita a sentirla?”
Nope.”
Caterina non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di storto in quella giornata; da come sua sorella era sparita con Bia e il carramba, da come Maddalena si era comportata nel retro del negozio ...
Ha flippato totale.
Quando Pietro le aveva sorprese era diventata dello stesso colore della parete dietro di lei: bianca, coprendosi per giunta di sudore. Era però l'espressione ad averla preoccupata … o meglio, la sua mancanza. Maddalena si era svuotata completamente, come se un interruttore l'avesse spenta. Non aveva risposto neanche quando l'aveva chiamata per nome!
Tutto per paura che qualcuno scoprisse che le piacevano le ragazze?
ma che famiglia c’ha?
Michele non pareva la tipologia di fratello omofobo e violento. Non solo perché con lei si comportava benissimo, ma perché dai discorsi che faceva e dalle idee che sosteneva aveva testa e cuore nel posto giusto.
I suoi genitori? Zii-genitori? Sono davvero così retrogradi?
Avrebbe voluto chiedere, ma non aveva fatto in tempo; Maddalena era scappata e non era ancora tornata, esattamente come Rosi.
Il pulmino della parrocchia entrò rumoreggiando nella Piazza, posteggiandosi poco distante dal Bar. Con sua sorpresa ne scesero Alina e Stefano. “Lin!” la chiamò contenta; erano giorni che non si incontravano e ovviamente c'era anche lei nel suo flusso costante di preoccupazioni. Tuttavia sembrava essere tornata la solita Lin. L’amica le rivolse un cenno di saluto avvicinandosi. “Buonasera,” salutò lei e gli altri due ragazzi, “com’è?”
“C'è che ora a 'sto stronzo gli tiro un cazzotto,” borbottò Pietro mostrando il medio ad uno sghignazzante e vittorioso Michele, “’ndo eri finita?”
Tata aveva bisogno di me,” scrollò le spalle mentre Stefano li raggiungeva. Una ben strana coppia, ma Caterina non fece in tempo a farlo notare che l’altra svelò il mistero, “Ci siamo incontrati in parrocchia e mi ha offerto un passaggio.”
“Forse avrebbe fatto meglio ad andare a piedi, sono un disastro a guidare qui in paese … con queste stradine pensavo mi sarebbero partiti gli specchietti,” ironizzò il siciliano. “Maddalena non è ancora tornata?”
Michele si strinse nelle spalle. “Sarà andata a fissare l’orizzonte malinconica da qualche parte, a disegnare … o a fare entrambe le cose,” poi rivolse un cenno in direzione del pulmino. “Quindi domani gita?”
Stefano sorrise. “L’ho preso per quello. Si era parlato di visitare San Galgano, no?”
“Dove c’è la spada nella roccia? Avaja!” esclamò Michele. “Siete dei nostri?” domandò a tutti e a nessuno.
Pietro borbottò un assenso – il suo modo di fingere di non esser contento di esser stato incluso – mentre Alina, con sua grande gioia, assentì rapida. “Domani sono libera. Devo tornare a casa per cena però…”
“Dico a Rosi di preparacci il pranzo al sacco!”
“Stasera mi studio bene i dintorni,” disse Michele con piglio da guida turistica un po’ buffo, considerato che non era lui l’autoctono. Si fregò le mani. “Amunì che ci divertiamo!”
Passarono così un’oretta stretti in un paio di tavolini a chiacchierare, aiutati anche da una dose extra di patatine appena uscite dalla friggitrice – cortesia di sua madre che era molto più umana di Rosi e le aveva lasciato il piacere di stare con i suoi amici invece che obbligarla a pulire.
Quando il sole si tuffò dietro i tetti della piazza il rumore della musica che usciva dal locale fu soffocato dal solito concerto dei gatti, accompagnato dal serrarsi di tante porte.
Per lei era poco più che un rumore di fondo, ma ai siciliani dava fastidio. Michele fermò infatti il monologo che aveva in corso e Stefano alzò il viso per individuarne la fonte; un esercizio sterile dato che era ovunque.
“Certo che ne avete davvero tanti di gatti qua…” osservò Michele quando l’ultimo miagolio si fu spento. Era quello di Ariele, che Cate notò in cima al tetto della casa, sentinella paziente con la testolina rivolta oltre le mura.
Il cielo aveva preso la colorazione che precedeva la notte, una tinta fredda in cui gli alberi oltre le mura diventavano neri come inchiostro. I lampioni comunali non erano ancora accesi e il paese era sprofondato in una penombra in cui l'umido del bosco cominciava a filtrare.
Quello era il momento dell'imbrunire, del rientrare nel tepore casalingo e a Cate scatenava sempre una sorta di tenue tristezza che non sapeva spiegare, una nostalgia per qualcosa che un giorno sarebbe finito.
Come l'estate, ad esempio.
“Uno per ogni malacenese, o così si dice,” rispose bevendo tiepido di Sprite. “Mio nonno mi raccontava che quando era giovane servivano per cacciare i topi dalle cantine o dalle soffitte.”
“E adesso?” domandò Stefano.
Pietro si ficcò in bocca una doppietta di patatine. “E adesso so’ tutti gattari,” intervenne. “Dentro il paese tutti ne hanno uno … a casa mia un’li teniamo. La mi’ mamma è allergica.”
“Non lo avete perché non siete dentro le mura, sennò la tu' mamma avrebbe dovuto far pace con l'idea! Scelgono una casa e diventa loro. Anche Lin ne ha trovato uno appena è arrivata!”
“Non mi sembrava giusto cacciarlo… e poi fa compagnia a mio padre.”
“Sono i gatti che ci adottano, non viceversa,” spiegò ai due incuriositi siciliani. “Anche Ariele è con la mia famiglia da tipo, sempre …”
“I custodi di Malacena,” disse Stefano guardando verso Alina. Questa gli scoccò un’occhiata divertita di rimando ... e da quando c’era complicità tra di loro?
Si garbano?
Cate si appuntò di far luce sulla cosa, dato che sarebbe stata la prima volta che Alina dimostrava interesse per un ragazzo, ma quei pensieri furono interrotti dal ritorno di Rosi. Bia ed Ettore non erano con lei, ma c’era invece Maddalena.
ma che è, la giornata delle accoppiate improbabili?
Le due parlavano a bassa voce ma quando arrivarono a portata d’orecchio smisero; sua sorella era persino più pallida del solito, un improbabile fantasma diurno.
“Ohi, dov’eri finita?” l’apostrofò mentre Maddalena si accomodò senza una parola sulla sedia che le aveva recuperato al volo Michele.
“Nel bosco, è crollato un pezzo del ponte della manolonga,” le rispose. “Tobia se n’è accorto e Ettore è venuto a darci una mano a transennarlo.”
“Sei seria?” Quel ponticello era lì da secoli e non aveva mai emesso calcinaccio. Forse era colpa della pioggia del giorno prima? Il ruscello si era ingrossato molto e quando erano passati l’acqua era parsa in procinto di sommergerlo. “Ma il castello?” domandò preoccupata.
“Nei prossimi giorni ci torno con Ghigo per capire se ci sono danni,” le rispose spiccia. “Il ponte comunque è inagibile, non credo riuscirete a tornare a campeggiare alla radura.”
Avà, no!” esclamò Michele. “E quindi?”
“Dormirete da noi … non è sicuro andar lassù adesso,” tacitò con una mano i tentativi di protesta. “Se volete indietro parte dei soldi…”
“Non è per quello,” disse Stefano posando una mano sulla spalla dell’amico, che aveva assunto un broncio da bambino a cui era stato negato un regalo. “Tra l’altro se ci ospitate a casa vostra direi che non sarebbe giusto chiedervi indietro alcunché.”
“Infatti,” intervenne Maddalena. Lanciò un’occhiata nella sua direzione, ma fu rapidissima e Cate non ne fu per niente soddisfatta.
“Non possiamo mica farvi dormire in piazza, no?” ribatté Rosi con un sorriso inaspettato. Anche il tono parve addolcirsi quando si rivolse alla siciliana. “Mi dispiace ragazzi, ma è meglio se nel bosco non andate più.”
“In tutto il bosco?” domandò Stefano sorpreso.
Rosi annuì. “Il terreno da queste parti è soggetto a smottamenti … non dico che ci sia il rischio che crolli la collina, le radici fanno il loro lavoro, ma se mettete il piede dove non lo fanno, rischiate di farvi male.”
Cate si scambiò una smorfia perplessa con Pietro; era vero che la pioggia del giorno prima era stata tanta, ma era la prima volta che sentiva parlare di pericolo frane nella Montagnola!
Pur vero che i siciliani erano tecnicamente inesperti del bosco – forse era semplicemente una scusa per evitare che trampellassero da qualche parte.
“Vabbeh, dai,” cercò di tirare su il morale a Michele,. “Intanto domani andiamo a San Galgano … e poi si vedrà!”
“Non ci annoieremo,” convenne Maddalena lanciandole stavolta un’occhiata un filino più duratura. Cate tentò un sorriso e fu enormemente sollevata quando venne ricambiata.
“Michelù, amunì, non hai raccolto abbastanza materiale per il progetto? Le grotte le hai pure visitate tutte.”
“Massì,” ammise l’altro, “è solo che mi dispiace non dormire più in tenda! Mi mancheranno fare falò tutti assieme …”
“Non ve ne posso far accendere uno in paese, ma la sera potete stare qui fuori … fino a quanto volete,” disse Rosi con l’aria di chi faceva una grandissima concessione, e in parte lo era. Sua sorella chiudeva il Bar con precisione svizzera e deviare da quel programma doveva piacerle poco se non zero spaccato.
Preoccupata che fosse un afflato di empatia passeggero, Cate le rivolse il suo sorriso più paraculo. “Grazie, accettiamo volentieri!”
“Aspetta a ringraziarmi. Il Bar lo chiuderai tu.”
E ti pareva.
Alzò gli occhi al cielo. “Non mettevo in dubbio che sarei stata io a sgobbare, e infatti adesso immagino di dover ricominciare …”
“Non ho neanche dovuto chiedertelo, sono stupita.”
“Perché ormai ti leggo nel pensiero,” sbuffò alzandosi in piedi per recuperare scopa e paletta. Riprese a lavorare e nel farlo stette ben attenta a ignorare Maddalena, nonostante avesse una voglia matta di attirare la sua attenzione, fosse anche solo sfiorandola mentre puliva attorno al tavolo. L’altra era apparentemente concentrata nell’ascoltare l’effluvio di idee di Michele su dove avrebbero potuto passare quelle ultime settimane, ma quando rientrò per svuotare cartacce e spazzatura le arrivò un messaggio sul cellulare.
 

 
Cate si morse le labbra per nascondere un sorriso, ma alla fine neanche servì dato che Rosi e sua madre erano assorbite in una conversazione fatta di preoccupazioni, inagibilità e ponti crollati.
Avrebbe voluto origliare o almeno provaci, ma per una volta era bello avere qualcos’altro a cui pensare. Innamorarsi aveva i suoi lati positivi.
 
***
 
Rosi era sempre stata una pessima bugiarda.
A differenza di Dermot la figlia maggiore era incapace di sparare balle e risultare credibile; forse era l'ansia che le correva addosso come elettricità, o forse era la sua onestà a remarle contro… anche contro il suo stesso bene a volte.
Per questo quando era tornata al Bar, dopo una giornata intera fuori, Marina aveva capito subito che la spiegazione che le aveva fornito era falsa.
“Inagibile?” domandò mentre la figlia passava dietro il bancone e si metteva a trafficare con la macchina del caffè. Si fece un the sparando dentro la tazza acqua bollente che avrebbe messo minuti a raffreddarsi. Non attese, soffiando e saggiandolo con la punta della lingua.
“Si è staccato un pezzo sotto, non ho capito bene,” borbottò, “Tobia se n'è accorto ed è venuto ad avvertirmi. Lo abbiamo transennato.”
“Dovremo farlo vedere a Ghigo,” ribatté mentre studiava il pallore dell'altra, i capelli arruffati racchiusi in una coda che aveva da quella mattina e da cui ormai sfuggivano intere ciocche.
“Ghigo non credo capisca nulla di ponti,” diede un ennesimo sorso cauto, “appena il ruscello è tornato di dimensioni normali ci torno … magari facciamo venire qualcuno da Sovicille.”
“Chi?”
“Boh, qualcuno,” non si sbilanciò, “è ancora in piedi, probabilmente non è niente, ma ho preferito non rischiare.”
“Hai fatto bene.” Rosi le stava nascondendo qualcosa e la chiave era il fatto che si fosse vista con Tobia. Dopo averlo evitato per anni, improvvisamente l'idea di andare con lui nel bosco, che tanti ricordi dolorosi doveva scatenarle, era stata una cosa da fare senza un pensiero.
Non era normale.
“Sei andata al castello?” le domandò.
“No,” disse troppo alla svelta.
Marina serrò le labbra; spingere finché l'altra non fosse inciampata nella sua stessa onestà oppure lasciar perdere? Non voleva litigare, ma la linea tesa delle spalle della figlia puntava proprio verso quell'eventualità.
Eppure c'era troppo che non le tornava in Rosi; quella pervicace insonnia, l'interessarsi all'Altrove, i silenzi e l'improvviso desiderio di compagnia … di una specifica e problematica compagnia per giunta.
Cosa le aveva raccontato il Nero?
Rosi teneva tra le mani la tazza di the con la forza di chi voleva trarre conforto da quel calore, pur essendo piena estate. “Va tutto bene?” fu inevitabile domandarle.
“Come al solito,” mormorò appoggiandosi al ripiano del bancone. Fissava di fronte a sé ma aveva gli occhi fuori fuoco, persa in un ragionamento a cui non poteva accedere.
A Marina non piaceva non capire le cose. Non le era mai piaciuto in generale, ma nel suo lavoro in particolare era pericoloso. E lei si sentiva in pericolo da un bel po'.
Rosi aprì la bocca per parlare, poi la richiuse.
“Che c'è tesoro? Ti vedo pensierosa...”
“Sapevi che Maddalena è una succuba?”
Quella era l'ultima domanda che si era aspettata. “Sì,” ammise. “O meglio, non ne avevo idea prima che venisse qui, ma poi Stefano ce l'ha detto … è il suo sorvegliante.”
“Non avrebbe dovuto informarvi prima del suo arrivo?”
“Sì, ma c'è stato un problema nelle comunicazioni con la Confraternita di Catania. Stefano ce l'ha detto appena arrivato però.”
Rosi registrò quelle informazioni con uno scatto teso della mascella. “Se te l'avessero detto prima avresti fatto qualcosa?”
Marina si prese un attimo di tempo, vagliando quale risposta avrebbe funzionato meglio per tranquillizzare l'altra. “Come impedirle di venire?” chiese di rimando. “Forse sì … forse avrei cercato di evitarlo, ma non sarebbe stato giusto. Le succubi non hanno l'obbligo di fissa dimora, se notificano lo spostamento in anticipo. Cosa che è stata fatta, c'è stato solo un errore amministrativo.”
Rosi diede un altro sorso al the. “Non sto dicendo che non può stare qui. Volevo solo capire cosa ne pensavi tu.”
“Fin'ora non ha fatto danno, no? Stefano la porta a cacciare a Siena o a Firenze quasi ogni sera e non ha ammaliato nessuno … o ce ne saremo accorti.”
“Non pensi che sia pericolosa per Cate?”
Marina sospirò. Forse era quello che la angustiava tanto; il che aveva senso, considerando il modo ispido con cui Rosi amava Caterina. Non era sorella da grandi slanci d'affetto ma era ferocemente protettiva. “Ho tenuto d'occhio Cate e non esibisce nessuno dei sintomi di ammaliamento che mostrerebbe se Maddalena l'avesse presa di mira.”
“Bene,” Rosi fece un cenno secco di assenso. Le unghie mangiate non avevano perso presa sulla tazza neppure per un attimo … era ancora nervosa.
“C'è qualcos'altro che ti preoccupa? Il castello?”
Rosi serrò le labbra, quasi tentasse di frenare le parole che volevano uscire. “E quando mai non mi preoccupa?” ironizzò. “Dovrò tornarci con Ghigo per un sopralluogo … anche se non mi vuole mai tra i piedi quando lavora.”
“Sempre stato rustico, da quand'era cittino,” tentò di scherzare ma Rosi non reagì, ancora quella stupida tazza in mano e l'aria di chi si trovava sui carboni ardenti. “Tobia,” disse Marina, e se possibile l'altra si irrigidì ancora di più.
Avevo ragione allora.
In quel particolare contesto non c'era molta soddisfazione nel constatarlo. “Meno male si è accorto del ponte,” aggiunse.
“Già,” fu la risposta asciutta. “Bazzica sempre da quelle parti, se poteva accorgersene qualcuno, quello era lui.”
“Come l'hai trovato?” chiese leggera sottolineando quel calcolato disinteresse riprendendo a scaricare la lavastoviglie dai tanti piatti e tazzine della giornata e riponendoli con cura sotto il bancone.
“Parla ancora del lupomanaio.”
Poro citto,” sospirò mentre il cuore le accelerava. “È diventata un'ossessione ormai.”
“È davvero convinto di averlo incontrato,” continuò Rosi. “Adesso ha questa teoria che il mannaro c'è ancora, ma qualcuno in paese lo sta nascondendo...”
Marina non fece l'errore di fermarsi mentre svuotava la lavastoviglie. Continuò con lena tranquilla mentre il sangue le defluiva dal viso; dando però le spalle alla figlia per fortuna doveva concentrarsi solo sul tono di voce. “Ma te pensa... e chi lo starebbe nascondendo secondo lui?”
Ci fu una pausa anche da parte di Rosi. “Non lo sa, ma dice che è per questo che non l'ha più trovato nessuno.”
“Certo che se ne inventa...”
“E se avesse ragione?”
Marina si fermò. Non potè impedirsi di farlo e dopotutto non era una reazione improbabile considerando che Rosi, fino a quella mattina, era stata la più strenua sostenitrice della teoria contraria. Si voltò e l'altra continuava a fissare corrucciata un punto vicino al camino come se fosse il suo interlocutore. Si portò una mano alle labbra e prese ad aggredirsi le unghie.
Non anche tu, amore, non ti ci mettere anche tu …
“Non ha ragione,” rispose gentile. “Perché questo supposto mannaro lo abbiamo cercato per tutta la Montagnola e anche oltre. Abbiamo svolto il nostro lavoro, e l'abbiamo fatto scrupolosamente, data la pericolosità di una creatura del genere. Don Doriano ha persino chiamato dei vânători...”
Rosi si riscosse. “Dei vânători?” esclamò stupefatta. “Quando?”
“Due anni fa. Sono ancora qui se è per questo.”
Non ci mise molto a fare due più due, “I Radu.” mormorò. “Perché non mi hai detto che Alina è...”
“Non me l'hai mai chiesto,” ribatté tranquilla e di quello no, non si sentiva in colpa.
Quando Rosi aveva rinunciato al suo ruolo nell'Altrove le era dispiaciuto, ma da un lato aveva reso le cose molto più semplici. “Comunque, che c'è di male? Almeno Cate è sempre con qualcuno che può proteggerla quando è in giro per il bosco … casomai questo lupomanaio ci fosse davvero, no?”
“Perché non me l'hai detto?” ripeté e Marina percepì la pazienza scivolare via.
“Perché te ne sei andata!” Alzare la voce non era quello che aveva intenzione di fare data la delicatezza dell'argomento e lo stato d'animo della figlia, ma non poté frenarsi dal farlo. “Perché ogni volta che tiro fuori un argomento che anche solo sfiora l'Altrove fai muro. Ho accettato la tua scelta, tesoro, credimi, l'ho fatto … ma non puoi avere la botte piena e la moglie ubriaca.”
“E questo cosa vorrebbe dire?”
“Non puoi avercela con me per non averti informato se hai deciso di chiudere gli occhi. È la strada che ti sei scelta.”
Rosi le scoccò un'occhiata furibonda, ma non ribatté. Posò invece la tazza sul bancone, ormai vuota di the. “E se volessi tornare?”
Marina sostenne lo sguardo, forzando le labbra a piegarsi in un sorriso.
Non adesso. Non adesso che scopriresti tutto.
Rosi era troppo diffidente per non farlo; non sarebbe stata in grado di manipolarla com'era riuscita a fare con il povero Tobia.
L'ho fatto per salvare Elia, solo per salvare un bambino …
Sarebbe bastato questo a giustificarla? Probabilmente no. Rosi viveva in un mondo fatto di bianchi e neri, assoluti morali a cui lei stessa si forzava … non l'avrebbe mai perdonata di averle tenuto nascosto un segreto del genere.
Perché non sarebbe mai riuscita a perdonare sé stessa in prima battuta.
“Saresti accolta a braccia aperte, bimba mia, sei una Silvani,” rispose.
Rosi le sorrise di rimando. Era un sorriso amaro però, tinto di una rabbia che non capiva, perché non aveva senso. Con Carlo avevano passato gli ultimi anni a lavorare perché l'intero paese rimanesse nell'ignoranza.
Avevano condannato Tobia ad una vita di solitudine per quello. Non poteva essere stato tutto in vano.
“Davvero?” domandò. “Non penso che saresti contenta.”
“Non essere sciocca … perché non dovrei esser contenta che tu voglia tornare?”
Rosi si strinse nelle spalle e attese, perché Caterina era arrivata a portata d'orecchio, ma quando la ragazzina uscì di nuovo fuori dal locale, continuò. “Comunque è solo un'idea.”
“Beh, quando hai preso una decisione, dimmelo...”
Rosi sorrise. Di nuovo quell'espressione amara, un nuovo muro messo tra di loro che non capiva e che per questo la preoccupava terribilmente. “Sarai la prima a saperlo.”
Rimasero a lavorare gomito a gomito, immerse in un silenzio che Marina era consapevole avrebbe potuto rompere in qualsiasi attimo; ma per dire cosa?
Era davvero possibile che adesso sua figlia credesse al Nero?
Se l'aveva fatto era perché Tobia doveva averle portato qualcosa di concreto, qualcosa che neppure la sua diffidente figliola avrebbe potuto contestare.
Marina accolse l'ultimo vassoio ricolmo di bicchieri sporchi da Caterina, che per fortuna quella sera era troppo distratta dai suoi coetanei per annusare la tensione che si respirava all'interno del locale; era straordinariamente empatica data l'età, ma aveva la testa altrove e infatti quando si fu assicurata di aver finito i suoi compiti per la serata corse dagli amici senza voltarsi indietro.
Cosa aveva trovato il Nero che aveva convinto Rosi a rivalutare le sue posizioni?
Immersa in quelle riflessioni e nella voglia cocente di trovare la domanda giusta non si accorse che le stava squillando il telefono. Fu Rosi a farlo, porgendoglielo con una strana espressione.
“Ti sta chiamando il Sindaco,” disse come fosse in attesa, come se studiasse la sua prossima mossa.
Come erano arrivate a quella diffidenza? Cosa aveva combinato il Nero?
“Grazie,” disse prendendolo e allontanandosi dal bancone. Sentiva gli occhi di Rosi puntati sulla schiena e per questo arrivò fino all'ingresso, dove il rumore delle chiacchiere dei ragazzi avrebbe coperto le sue. “Carlo, buonasera.”
“Abbiamo un problema,” esordì ignorando le più elementari norme di educazione ma il tono dell'uomo le impedì di protestare. Dietro la voce impostata, dietro tutta l'affettazione di una nobiltà ormai perduta, vi percepì paura.
Carlo era spaventato.
“Cos'è successo?”
I Radu ci hanno scoperti?
Il cerchio in cui avevano nascosto il giovane Ghini si faceva sempre più stretto. Piuttosto che ad un rifugio, assomigliava sempre di più ad una prigione … e non solo per lui.
“La succuba sa di Elia.”
Marina guardò verso il gruppetto di adolescenti. Maddalena era lì in mezzo e chiacchierava con gli altri mangiando patatine, senza un problema al mondo, come una ragazzina qualsiasi.
Una ragazzina che poteva condannarli tutti.
Non poteva più rimandare la loro chiacchierata.
 
***
Note:
C'è ovviamente una parte due, ma qua siamo già a 14 pagine e quindi …
La canzone presente nel capitolo è “Way down we go”, dei Kaleo.

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.
 
Striscia …
Nel buio della notte striscia. Schiaccia l'erba, la sua mole calpesta fiori e lascia lunghi solchi nella terra umida.
Striscia.
Gli alberi dicono che è pericoloso, ma gli alberi ricordano anche che tutto prima o poi passa. Nulla rimane sé stesso nel bosco. Nulla rimane, se non gli alberi.
Però intanto striscia…
La notte è il suo terreno di caccia.  
C'è qualcuno che gli dice cosa fare. È una voce che non può permettersi di ignorare perché parla la sua lingua e ordina. Deve obbedire perché una magia antica lo obbliga a farlo, quella parte di coscienza che lo rende simile a loro.
Sono i figli del Chiaro che deve cacciare, gli ordina la voce. Loro che deve uccidere perché la paura è ciò di cui la voce si nutre. 
Striscia fino a che la luna fa seguito al sole, ma durante il giorno è debole, esposto come appena uscito dall'uovo. Non può cacciare con la luce che gli arroventa le scaglie, e quindi aspetta. È umido dove aspetta, e buio come piace a lui.
Aspetta … e poi.
Striscia.
Fuori dalla grotta, tra le fronde del sottobosco e nel farlo si specchia nelle acque cristalline di un ruscello. Le sue scaglie brillano alla luce della luna, mortifere come lame. 
Il terrore ha il suo nome quando si dipinge sul volto della preda di quella notte.
 
Bice si era alzata a sedere di soprassalto. La veste sudata le si era attaccata al corpo come un sudario mentre il mondo tornava reale e si sfilacciavano gli ultimi brandelli di sogno. 
Aveva sognato il mostro attaccare un uomo. 
La ragazza si era presa il viso tra le mani, premendo le dita sulle palpebre, come a voler scacciare quella visione di morte. Presa dall’angoscia, si era voltata per controllare i propri cari; il russare robusto di suo padre le aveva dato misura di quanto inoltrata fosse la notte. Sua sorella invece dormiva dandole la schiena, il respiro regolare e profondo.
Bice tirò un respiro di sollievo mentre si alzava per andare a versarsi un po' d'acqua dalla brocca in fondo alla stanza. L'acqua era calda e aveva il sapore terroso della polvere; non pioveva da giorni e tutto il comunello era secco come erba bruciata dal sole. Ne bevve qualche sorso, spostandosi alla finestra. Un gufo lanciò il suo richiamo dal bosco, le cui chiome sotto la luce della luna parevano quasi trasparenti, come la crisalide di una farfalla. 
Tutto pareva tranquillo e addormentato.
Eppure. 
Un uomo era appena stato ucciso … o sarebbe stato ucciso. Aveva visto il mostro attaccarlo, specchiandosi nelle acque del ruscello sotto il ponte della manolonga.
Non aveva modo di sapere se fosse passato o futuro; avrebbe dovuto attendere il sorgere del sole per avere la sua risposta. 
Bice bevve ancora, la gola riarsa da quell’estate senza pioggia. L’arrivo del mattino le appariva irreale come un sogno. 
 
*** 
 
Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo.
(George Santayana)
 
Roísín non aveva mangiato molto a cena.
Non era riuscita, non con lo stomaco stretto in una morsa. 
Fortunatamente i ragazzi avevano sopperito alla sua mancanza di appetito mangiando anche la sua parte e distraendo sua madre con chiacchiere e richieste.
Aveva bisogno di stare da sola. 
“Faccio io,” disse quando Michele e Stefano cominciarono a sparecchiare. “Non c'è problema, andate pure,” reiterò e alla seconda volta non trovò molta resistenza. Caterina prese in consegna la tribù adolescenziale e poco dopo sciamarono in Piazza in una cacofonia vivace.  
“Sicura di non volere una mano?” le domandò sua madre ed era evidente che volesse restare per parlare, ma non era il momento e dubitava lo sarebbe stato per un po'.
“Oggi non ho mosso dito in casa, fammi fare almeno questo,” disse impilando i piatti sporchi e portandoli in cucina. “Buonanotte.”
Sua madre esitò ma uscì dalla cucina, diretta in camera sua a far chissà cosa. Fino a quella mattina avrebbe risposto senza esitazioni che andava a leggere uno dei libri della infinita e auto-generante pila accanto al comodino … ma non ne era più tanto convinta.
Non era più convinta di niente.
Mentre infilava il primo piatto sotto l'acqua calda ricapitolò quella giornata allucinante … le pareva fosse durata settimane.
Maddalena era tornata su dopo qualche minuto e per questo si era preparata a domandarle perché ci fosse stata così poco; poi aveva notato quanto pallida e scossa fosse e a quel punto, aveva preferito chiederle altro.
 
“Le foto?”
Maddalena le aveva passato il telefono senza una parola. Strizzava le palpebre come se la luce le desse fastidio e, considerando che il sole era appena scomparso sotto la linea degli alberi e il castello era umbratile, era un gesto piuttosto bizzarro. Non aveva indagato, preferendo scorrere la galleria foto.
“Non si vede niente,” aveva realizzato frustrata mentre scorreva una carrellata di riquadri neri, la cui unica diversità consisteva nella quantità di strani flare biancastri che li riempivano. 
“Ho usato il flash, qualcosa dovrebbe esser uscito” aveva ribattuto Maddalena avvicinandosi. Aveva aggrottato la fronte. “... avrebbe dovuto ...”
“Che cosa hai visto?” le aveva domandato Ettore facendosi passare il telefono. “Il regolo?”
“No, ma c'erano delle carcasse di animali … Credo davvero sia la sua tana.”
“Da una parte meglio, almeno nun te o' si trovàt nnanze,” aveva commentato Ettore schioccando la lingua. 
“Mi dispiace,” Si rendeva conto di aver mandato quella ragazzina a rischiare la vita per nulla e questo la faceva sentire stupida … e impotente. “Dovevo immaginare che non avrebbe funzionato.”
“Non potevamo esserne sicuri, ” aveva obiettato pacato Tobia. “Cos'altro c'era a parte i resti di animali?”
Maddalena si era stretta nelle spalle. “Non molto … una strana polverina bianca copriva tutto.”
“La muta,” era intervenuta. “Quella polvere la lascia la muta.”
“Qualunque cosa fosse …  nessuno dovrebbe scendere più la sotto,” aveva detto Maddalena. Si era stretta le braccia al petto, in una palese posa difensiva.
Le succubi, se ricordava bene, erano le Creature più simili agli esseri umani e per questo venivano classificate come versipelle. 
Versipelle, parola di derivazione latina che significava “capacità di mutare la propria natura” … e le succubi nel fingersi umane non avevano rivali. Anche a loro discapito. Non avevano particolari resistenze genetiche date dall'Altrove; si ammalavano, se le ferivi sanguinavano e non guarivano con la rapidità di un Mannaro.  
Forse non erano umane, ma ci si avvicinavano parecchio. “Non dovrai più andarci, non preoccuparti,” l'aveva rassicurata. 
“Non dicevo per me. C'è qualcosa che non va là sotto … con gli spazi.”
“Gli spazi?”
“Sono andata avanti per un po' … ma avevo paura di perdermi o trovare il mostro, così ad un certo punto sono tornata indietro … tanto avevo le foto. Solo che ci ho messo più tempo di quanto pensassi e per un momento ho pensato di aver imboccato la strada sbagliata.”
“Forse sei entrata nell'altro cunicolo, quello da cui siamo venuti noi,” aveva suggerito Ettore. 
Maddalena aveva scosso la testa. “Sarei dovuta passare dal bivio ma non l'ho fatto. Ho sempre percorso la stessa strada, che ha cominciato a scendere … e sono stata là sotto parecchio. Più di quanto dice l'orologio.”
Rosi aveva esitato, scambiandosi un'occhiata con Tobia. L'altro si era stretto nelle spalle e poteva dire di condividere  la confusione, anche se condita da una buona dose di inquietudine extra.
“Eri  spaventata, forse ti è parso che passasse più tempo...” 
Maddalena le aveva scoccato un'occhiataccia. “Non me lo inventai!”
“Non sto dicendo questo,” anni a gestire la coda di paglia di Caterina l'avevano dotata di una capacità di ritrattare niente male, ma doveva ammettere che la sorellina a confronto con l’ombrosa  siciliana era una passeggiata. “Forse il buio ti ha disorientato. Capita.”
Maddalena aveva alzato il mento in segno di sfida. “Sugnu succuba, nta scuru nun mi disoriento.  Ci vedo bono.”
“Come i gatti!” aveva esclamato Ettore. “Comodo!”
“Non come i gatti, i gatti vedono in condizioni di scarsa luminosità, ma hanno comunque bisogno di una fonte di luce,” aveva obiettato con un sospiro. “Va bene … non credo che nessuno dovrebbe andar là sotto comunque dato che potrebbe esserci la tana.”
Maddalena aveva annuito sollevata. “Quindi adesso che farete?” 
 
Adesso che facciamo. 
Non ne aveva idea. Avevano abbastanza prove per i Sorveglianti?
Asciugò un piatto per l'ennesima volta perché non riusciva a concentrarsi neppure sul lavoro più semplice quando la testa le ronzava di ipotesi, congetture e generica frustrazione.
No, sii onesta. Il problema non è questo.
Tobia nella sua galoppante paranoia aveva ragione; anche portando le prove ai Sorveglianti che certezza avevano che avrebbero fatto qualcosa?
Era questa la verità: stavano aspettando a gridare al lupo perché non erano sicuri che il cacciatore avrebbe imbracciato il fucile. Ed era assurdo, orribile da pensare … ma quel pensiero non se ne andava.
Dovremo scavalcarli … andare direttamente dai Chiaroscuri di Siena?
Rosi posò il piatto asciutto nello scolapiatti, stringendo lo strofinaccio fino a farsi diventare le nocche bianche. 
Marina non poteva essere coinvolta nell’occultamento del mostro. Era sua madre, una brava persona, non avrebbe mai messo in pericolo la sua comunità.
Allora chi?
Cui prodest, avrebbe detto l'Abate, la sua vecchia professoressa di latino. A chi avrebbe giovato?
Finì di lavare i piatti, mentre le voci fuori dalla finestra scoppiarono in una risata. I ragazzi si erano parcheggiati nei tavolini in Piazza e sua sorella si era portata dietro l'immancabile chitarra le cui corde aveva cominciato a pizzicare. Dopo qualche minuto infatti la sua voce si levò sopra le altre.
 
Un filo d'acqua bagnava la strada
Camminavano insieme in direzione del ponte
Da un portone una tromba suonava
 
Sua madre non avrebbe mai messo a rischio Caterina. 
I Silvani si prendevano cura l'uno dell'altro, era un monito famigliare che le era sempre stato chiaro, e da quel che sognava ogni notte, veniva da molto lontano.
Bice che cerca di salvare sua sorella Lietta. Lei che cercava di proteggere Cate.
Entrambe due ragazzine scervellate, pensò con un mezzo sorriso affacciandosi alla finestra per ascoltarla cantare. La sua voce limpida stava arrangiando una vecchia canzone dei Modena City Ramblers. 
Gliela aveva fatta ascoltare lei quella canzone. Era la sua preferita e lo era anche di Tobia.
 
Era tutto scritto da sempre sai
Era racchiuso nel mazzo di carte
Che la donna rossa si incontra col fante
Ma alla fine il giro riparte
 
Era tornato persino il mostro nel bosco.
È tornato …
La realizzazione la colpì come uno schiaffo, tanto che indietreggiò e andò a sbattere contro il tavolo di cucina. 
Ma alla fine il giro riparte … 
I suoi sogni avevano sempre un motivo per manifestarsi, che fosse banale come evitare di scottarsi con la macchina del caffè il giorno dopo o importante come proteggere Cate dal male che poteva annidarsi nell'Altrove.
C’era sempre un motivo, e invece lei aveva scelto di antagonizzati, ignorandoli, trivializzandoli … 
E nel farlo, non aveva capito cosa stava sognando. Fino a quel momento, fino a quella canzone.
Afferrò il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e compose a memoria il numero di Tobia. Non ci pensò, le sue dita andavano in automatico perché il numero di casa Neri non era mai cambiato da quando era bambina.
L'altro ci mise un po' a rispondere e quando alzò la cornetta la voce conteneva una traccia di  stupore. “Pronto...?”
“Il regolo non è comparso dal nulla,” sbottò, “è sempre stato qui.” 
 
***
 
Passare la serata dentro le mura di Malacena era stato un cambiamento piacevole.
Maddalena osservò Michele caricarsi una pila di sedie sotto braccio, con la solita voglia di farsi bello agli occhi degli altri, ma se non altro con il lodevole intento di aiutare le Silvani a chiudere per la notte.
Era stato un fine serata fatto di birre fresche, chiacchiere e generica, pigra estate. La rossa era così preoccupata dell’eventualità che scappassero nel bosco che aveva lasciato loro utilizzare l’impianto stereo del Bar, quando Caterina si era stancata di fare il jukebox.
Era stato bello perché era stato contraltare al pomeriggio passato sotto il castello, a cercar mostri e a non farsi trovare da essi.
Alina non c’era, e aveva potuto godere della voce, dei sorrisi e delle dita di Caterina che, sotto il tavolino, si erano strette alle sue tante volte.
Era un rubare momenti, ne era consapevole, ed era farlo sotto gli occhi di Stefano. 
Che una volta rientrati al piano superiore le si avvicinò, impedendole di proseguire per camera sua. “Com’è andata la passeggiata?”
“Bene.” 
“Comincia a piacerti stare nel bosco?” le domandò con un sorriso, che però non poteva nascondere il tono inquisitorio.
Maddalena si trattenne dal rispondergli male; dopotutto Ste stava soltanto facendo il suo lavoro e peraltro con un certo lassismo.
Uno come Carmine non l’avrebbe neanche fatta allontanare. “Non saprei dove altro andare … non ho la macchina.”
Stefano annuì. “Quando si sono addormentati tutti prendiamo il pulmino e andiamo…”
Una morsa le strinse lo stomaco. Non aveva ancora aperto le solite app di incontro per cercarsi la conquista della sera, anche se aveva una mezza dozzina di contatti che aspettavano solo un suo messaggio … che avrebbe però dovuto mandare già all’ora di cena, cosa che invece non aveva fatto.
Non ho avuto tempo. Tra la caccia al mostro e Cate … 
“Va tutto bene?”
Maddalena alzò lo sguardo mentre nella penombra del corridoio la silhouette dell’amico, illuminata solo dalla luce ambrata proveniente dalle scale, era in attesa. 
Stefano non era scemo; prima o poi si sarebbe accorto di quello che c’era tra lei e Caterina. 
Se l’avesse scoperto l’avrebbe protetta? Pensava di sì. Si sarebbe arrabbiato forse, avrebbe impostato tutto quel suo contegno da professorino deluso, ma non l’avrebbe mai data in pasto ad Alina o alla Confraternita di Malacena. 
Allora perché non confessava?
Se fossero stati davvero due semplici amici sarebbe stata la cosa più naturale del mondo.
Ehi, Ste … io e Cate ci siamo baciate, e lei mi piace, assai. Ed è bello, bellissimo, ma mi fa anche scanto. Se rovino tutto? Perché con il carattere che ho è facilissimo, ma lei ha tanta pazienza con me … Mi fa stare bene. Che male c’è?
Tutto quello del mondo, a sentire i sorveglianti. 
“Sì, tutto bene,” rispose scrollando le spalle, “picchì?” 
“Controllavo,” ribatté con una scrollata di spalle. “Comunque hai sentito Rosi… è meglio se d’ora in poi resti in paese.”
“Lo so,” non che avesse intenzione di tornare in mezzo alle frasche, né far di nuovo visita a Castiglion Scuro. Aveva fatto quello che la rossa e i suoi amici le avevano chiesto, ora stava a loro risolvere il problema.
Non doveva più immischiarsi … così come doveva tenere la bocca chiusa.
 
“Va bene che sospettate della vostra Confraternita, ma Ste è pulito! Perché non dovrei dirglielo?”
Rosi le aveva rivolto l’ennesima smorfia. Più che parlare si esprimeva ad occhiate ed era fastidioso. Come si supponeva le dovesse interpretare? “Preferiamo non coinvolgere altre persone,” aveva spiegato. “Già abbiamo coinvolto te, e la cosa non mi piace…”
“Vi ho salvato la vita.”
“E ti ho già ringraziato,” aveva ribattuto spiccia. “Lo so da me che Greco non ha niente a che fare con questa storia, ma rimane pur sempre un sorvegliante, e finché resterete qui sarà a servizio della Confraternita di Malacena.” 
“Se lo mettiamo in mezzo potrebbe trovarsi in una posizione scomoda,” aveva aggiunto Tobia senza voltarsi, mentre si affaticavano per un esile viottolo che si inoltrava nel folto del bosco. L’uomo li stava guidando con sicurezza, pur essendo lontani da ogni possibile coordinata.
Sarà per evitare il regolo? È di certo per il regolo. 
“In che senso?”
“Come tutti i sorveglianti vorrà proteggere questa comunità, ma non dovrebbe farlo fuori dalla Confraternita, a cui deve riferire.” le aveva spiegato l’uomo.“Se lo coinvolgessimo dovrebbe scegliere tra mentire ai suoi confratelli, o metterli a parte e rischiare di avvertire il traditore.” 
“Forse è meglio se rimane all’oscuro di tutto, non ti pare?” aveva concluso Rosi.  
 
Ste si sarebbe di certo arrabbiato se avesse scoperto che gli stava nascondendo il serpe regolo, il motivo principale delle loro preoccupazioni. 
Però Tobia aveva ragione, lo avrebbero messo in una brutta posizione. Non capiva quasi niente di politica interna alle Confraternite, ma di certo avere a che fare con un traditore - come l'avevano chiamato i tre - era una cosa che avrebbe sporcato chiunque.
Tu mi proteggi sempre. Stavolta ti proteggo io.
Maddalena gli diede una pacca sulla spalla. “Per quanto possiamo tenere il pulmino? Perché per distrarre Michi sarebbe comodo assai.” 
“Don Doriano non me l’ha detto, quindi finché ne abbiamo bisogno suppongo … ormai i campi estivi sono finiti.” Spostò il peso da un piede all’altro, come se stesse trattenendosi dal aggiungere altro. Alla fine sospirò. “Dai, abbi pazienza … alla fin fine mancano due settimane alla partenza.”
Solo due settimane.
Maddalena fece una smorfia. “Conterò i giorni.”
Ma non per il motivo che pensava Stefano. 
Si augurarono la buonanotte e Maddalena aspettò che l’amico chiudesse la porta di camera propria per infilarsi nella sua. 
Caterina la aspettava seduta sul lettino con il suo più bel sorriso. “N’dò eri finita? Mi stavo preoccupando!”
Maddalena le sorrise di rimando. Avrebbe contato i giorni ...  sperando che durassero anni.
 
***
 
Doveva parlare con la giovane Russo, e stavolta per davvero. 
Marina attese che i rumori nelle varie camere scemassero, poi uscì. Camera sua si trovava al piano inferiore, dove c’era la cucina. Con passo leggero salì le vecchie scale scricchiolanti e quando un refolo di vento che non aveva ragion d’essere le scompigliò i capelli sorrise. 
“Buonanotte anche a te babbo,” mormorò. Tobia le aveva detto, anni prima, che di Virgilio qualcosa era rimasto, una presenza, un profumo che rimaneva in una stanza anche dopo che la persona che lo portava se n’era andata. 
Così l’aveva descritto e Marina l’aveva trovata un’immagine calzante per descrivere un’ombra che socchiudeva porte e camminava nel cuore della notte lungo le scale, sentinella silenziosa che vegliava sul sonno delle su’bimbe
Continui a preoccuparti per noi anche da morto.
Lo studio di Dermot si trovava in cima alla scala; una stanzuccia priva di sole che suo marito aveva requisito per stipare ciò che non poteva portarsi in viaggio. Adesso era occupata dalla giovane siciliana e, a giudicare dai rumori, anche da qualcun’altro.
“... sì, ogni tanto scrivo roba mia, ma non è granché…” 
“E picchì non me lo fai sentire accussì giudico io?” 
“No, gnamo …”
“Io ti fici vedere i miei disegni, no?”
“Sì, ma te sei brava, io …”
“Sei brava anche tu. Amunì, cantami qualcosa di tuo.” 
Marina non poteva permettersi di attendere ancora. Quindi bussò e non aspettò risposta, entrò.
“Scusate,” abbozzò un sorriso, “sto cercando un libro e non lo trovo in camera, forse l’ho messo qui.”
Se avesse dovuto basarsi solo sull’espressione di Maddalena, non avrebbe avuto dubbi di aver appena interrotto qualcosa, e non del genere che avrebbe fatto piacere ad una sorvegliante. Tuttavia, come quel pomeriggio, Caterina le diede l’impressione opposta; era seduta ai piedi della brandina, con le gambe di Maddalena in grembo e tutto quello che le restituì fu il ritratto stesso dell’innocenza “Che libro?” le domandò. 
“L’ultimo di Cognetti … è qui per caso?”
“Boh, non metto mai piede qui dentro, un’ti so dì,” rispose dando un colpetto alle ginocchia dell’altra che fu lesta a liberarla. “Vuoi che t’aiuti a cercarlo?”
Ci mancava solo che Caterina rimanesse lì invalidando la sua scusa. “No, faccio da me, grazie tesoro.”
“Va bene,” si alzò in piedi. “Allora me ne vo a letto, che è tardi  … buonanotte Malù!”
“Notte,” fu il conseguente bofonchio. 
Quando rimasero sole Marina rifletté brevemente su come aprire la conversazione. Mentre esaminava gli scaffali della libreria percepiva lo sguardo della siciliana bruciarle sulla schiena, come se studiasse ogni sua mossa in attesa di …
Era meglio iniziare mettendo le cose in chiaro. “Tesoro, puoi passare del tempo con mia figlia, non te lo proibisce nessuno.”
Il silenzio che seguì la sua affermazione le rese palese che quella conversazione sarebbe stato tutto fuorché facile: Maddalena la temeva e considerando che l’unica volta in cui si erano parlate era partita anche una mezza minaccia, non poteva darle tutti i torti.
Si voltò con la sua migliore espressione da mamma. “Sono contenta che tu sia diventata amica di Cate, e mi è chiaro che non la stai ammaliando.”
“Dillo alla vostra vânător allora,” le uscì e se ne pentì subito da come un lampo preoccupato le attraversò il viso. 
Marina sospirò. “Mi spiace per Alina … è giovane e un po’ rigida, ma non ti farebbe mai del male.”
A questo Maddalena emise una mezza risata, un suono strozzato che non le piacque per nulla, perché era simile alle smorfie rabbiose e disperate di Elia. “Ti ha fatto del male?” intuì. 
“A chi importa?”
“A me!” sbottò incredula. Quindi era quello che la Radu aveva inteso quando aveva detto che aveva “rimesso a posto” Maddalena. 
Aveva sottovalutato quanto Alina fosse ormai fuori controllo … ed era sicura che Marian, invece che farla rientrare nei ranghi, soffiasse ad ampi polmoni per alimentare quella rabbia. “Lo capisco che non ti fidi. Avevo i miei preconcetti verso le succubi … e ho lasciato che prendessero il sopravvento l’ultima volta. Ti chiedo scusa.”
Maddalena esitò, poi si strinse nelle spalle. Un atteggiamento da normalissima ragazzina che al intenerì e la tranquillizzò in ugual misura. “Mi importa davvero che tu stia bene qui,” aggiunse. “Sono una sorvegliante, il mio compito è prendermi cura della mia comunità … che sia del Chiaro o dell’Altrove il succo non cambia. Se hai qualche problema puoi parlarmene.”
“Non ho nessun problema.”
“Ma Alina …”
“Ci siamo chiarite, è tutto a posto,” il tono frettoloso le fece capire che non lo era per niente ma non insistette. Non voleva farla chiudere a riccio e, dopotutto, c’era altro che le premeva esplorare. 
“Posso sedermi qui vicino a te?”
Maddalena si addossò alla parete su cui era appoggiato il divano-letto. Un movimento istintivo, come una bestiola presa in gabbia. 
Dio mio, ma che le han fatto in Sicilia? 
Picchì?” le domandò, la voce che grondava sospetto.
“Sono successe un po’ di cose in cui tuo malgrado sei stata coinvolta … no, non sto parlando di Alina,” aggiunse quando si irrigidì. “Non hai fatto niente di male,” aggiunse a buona misura. “Hai cinque minuti?”  
Maddalena, dopo una breve esitazione, annuì. Era quanto di meglio si potesse ottenere quindi Marina scelse l’angolo più lontano della brandina e si sedette. “Mi hanno detto che hai conosciuto quasi tutti qui in paese … i pochi che rimangono ad Agosto almeno,” esordì prendendola alla larga. “A Settembre un po’ di gente torna, ma d’estate rimangono una decina di famiglia massimo, e molte temo non siano di vostri coetanei. Un paese deserto, vero?”
Maddalena si strinse nelle spalle. “Mio fratello è venuto qui per il castello.”
“E tu sei venuta per badare a lui.”
“Lui non sente l’Altrove, io sì. Lo devo proteggere.”
Già. Se solo non mi fossi fatta distrarre … 
Solo quando Carlo gliel’aveva sbattuto in faccia aveva capito quando Maddalena, con il suo compito pur nobile, potesse essere pericolosa per tutti loro.
“Intendi dal lupomanaio?”
Maddalena avvampò; dietro la pelle abbronzata si notava poco, ma il mordicchiare delle labbra era un’indicazione bastevole. “Alina mi ha raccontato che pensi che ti abbia rovinato la tenda...”
“Non lo penso, sono sicura,” il tono in cui lo disse lo stupì, perché non aveva ombre di dubbio o del timore mostrato poco prima.  
A quel punto tanto valeva giocare a carte scoperte. “Perché te l’ha confermato lui stesso, vero?” 
“Chi?” 
“Il lupomanaio. Non siamo che poche famiglie e l’hai conosciuto … e riconosciuto. Mi sbaglio?” 
Maddalena prese a giocherellare con un braccialetto che aveva al polso; era fatto di fili intrecciati tutti colorati, di quelli che si acquistavano in spiaggia a pochi euro. Una macchia di colore in un abbigliamento monocromo che attirò brevemente la sua attenzione. 
“... quindi la Confraternita lo sa,” mormorò. “Sapete tutti chi è.”
“Non tutti, solo io e i suoi genitori,” la corresse. “Proteggiamo il suo segreto da quando è arrivato qui. È nato a Roma, ma lì non era al sicuro. Carlo, che è il suo patrigno, l’ha portato a Malacena per nasconderlo. Un paesino, una Confraternita piccola … e tanto bosco in cui correre e sfogarsi.”
Una delle poche, buone pensate di Carlo. Forse l’unica che ha avuto in tutta la sua vita.
“Nel bosco non ci va solo lui.”
“E infatti al plenilunio eravate altrove, o mi sbaglio? Se non ci avreste pensato voi, avremo fatto in modo di suggerirvelo. Nessuno va nel bosco di notte.”
Maddalena aggrottò le sopracciglia. “Elia…” iniziò. “... i vânători sono qui per lui, vero?”
“Li ha chiamati Don Doriano dopo che Tobia Neri lo incontrò per sbaglio una notte mentre camminava nel bosco. Scese a dirlo in paese … nel Chiaro venne interpretato in un modo, e purtroppo non a suo favore, ma nell’Altrove, Don Doriano pensò che fosse opportuno indagare, e si fece mandare i Radu.” 
A quel punto raccontare la verità era l’unica strategia che poteva farla collaborare. Marina ci aveva pensato e ripensato, e Carlo ovviamente si era detto contrario …
Però che alternative abbiamo?
Maddalena, da quello che le aveva raccontato Caterina, era dotata di un forte istinto protettivo verso gli altri, tanto che appena conosciute si era frapposta tra lei e una Creatura senza pensarci due volte.
L’ha protetta dalla manolonga. Comunque la si interpreti, è un dettaglio che dice molto di lei. 
Per quanto le lodi di Cate tendessero talvolta all’iperbole, difficilmente la sua bambina si sbagliava sulle persone; se Maddalena era una succuba con l’insolita capacità di empatizzare l’unica strada era farle empatizzare con Elia. L’unica possibile per fermare la furia investigativa dei Radu.
“Se fin’ora non sono riusciti a trovarlo è perché io e la sua famiglia l’abbiamo nascosto. Ad ogni plenilunio c’è qualcuno con lui e il mattino dopo le sue tracce vengono coperte. I Radu devono comunicare la loro posizione quando sono in caccia, per la loro stessa sicurezza, qualora venissero attaccati. Questa procedura ci permette di mandare Elia da tutt’altra parte.”
Maddalena continuava a giocherellare con il braccialetto. La stava ascoltando ma non voleva guardarla in faccia; decise di calcare la mano. “Elia è poco più piccolo di te, e quando è venuto qui era un bambino di dieci anni. Non meritava di morire allora e non lo merita adesso.”
“Nessuno di noi lo merita …” 
“Hai ragione, però raccontando ad Alina della tenda sostituita gli hai fatto un brutto servizio. Adesso i vânători sono sulle sue tracce.”
Maddalena alzò di colpo lo sguardo, impallidendo. Bene, aveva realizzato l’impatto delle sue azioni. 
Marina le prese una mano nelle sue. “Hai fatto la cosa che ritenevi giusta …  sei qui per proteggere tuo fratello, è normale che tu abbia pensato soltanto a lui.”
Nun avìa capito fussi Elia!” esclamò.  “Io … volevo solo che Michi fosse al sicuro, la donni di fuora ha sognato qualcosa che lo attaccava da sotto il castello …” Deglutì. “Alina sa che è lui?” 
Tenendo la mano della ragazza percepiva le pulsazioni del polso; il cuore le batteva velocissimo. 
Elia ha rubato un altro cuore?
Le sorrise, dandole una pacchetta sul dorso. “Non ancora … ma non ci sono molti posti in cui può cercare, soprattutto ora che sospetta che qualcuno in paese lo stia aiutando.”
“... che è la verità…”
“Lo è ma ora sai perché lo facciamo. Elia non è un pericolo. In sei anni non ci sono state vittime, tranne qualche coniglio selvatico. Con l’età diventerà più tranquillo … ed ormai ha fatto pace con il fatto che dovrà trascorrere la sua vita in questi boschi. Lo teniamo sotto controllo. Chi non possiamo controllare purtroppo sono i vânători.”
“Mi dispiace… so cosa significa … non rischio come lui, ma … non volevo metterlo nei guai.”
“Ti credo, sei una brava cittina.” Attese un lieve incresparsi delle labbra, un sorriso, un guizzo di intesa che le avrebbe permesso la frase seguente. E quello, puntuale, arrivò. 
“Non penso…” e cercò il suo sguardo per essere smentita.
Marina non la disattese. “Non dire strullate, lo sei! Sei qui per proteggere tuo fratello e Cate ha tanta stima di te.” 
“Sono una succuba.”
“E io sono un essere umano. Questo non dice se siamo buone o cattive. Le nostre azioni lo fanno,” le teneva ancora le mani tra le sue ma la ragazza non si era ritratta. Sembrava trarne conforto e Marina non glielo negò. Anche perché ne aveva bisogno lei stessa. “Per questo devi parlare con Alina,” continuò, “... per questo devi ritrattare di fronte a lei e suo padre.”
 
***
 
“... cosa significa che è sempre stato qui?”
“Quello che ho detto,” rispose spiccia Rosi. Stava cominciando a pentirsi di aver chiamato Tobia, ma nell’agitazione era la prima persona che le era venuta in mente. Non Ettore, che non ci avrebbe capito niente e l’avrebbe tempestata di domande …
In realtà, il buon napoletano neanche le era passato per la mente. 
Tobia rimase in silenzio per qualche momento al di là del filo. “Quindi secondo te è la stessa creatura di secoli fa?”
“Non secondo me, è quello che sogno che me l’ha … rivelato,” la parola era un po’ ridicola in bocca ad una come lei. Cos’altro era però, se non quello?
Una rivelazione. 
I suoi sogni, quei sogni, avevano sempre uno scopo e ora finalmente l’aveva trovato.
“Sto rivivendo quello che ha vissuto Bice quando il regolo è stato portato qui per la prima volta, giorno per giorno,” spiegò. Udì il rumore dei ragazzi che rientravano e si affrettò ad uscire sul balconcino. “Lei e un soldato senese di stanza al castello si erano accorti che qualcosa non andava … proprio come avete fatto tu ed Ettore. Il regolo non ci è arrivato tra capo e collo, è sempre stato qui, era lui il mostro di cui parlava mia zia!”
“Quindi Bice non lo uccise … magari ha solo pensato di averlo fatto.” Tobia sospirò. “Se è lo stesso, perché si è fatto vivo soltanto adesso? Otto secoli di letargo sono un po’ tanti …” 
“Potrebbe essere per lo stesso motivo per cui ha cominciato a girare per il bosco la prima volta. Nel sogno Bice riusciva a sentire i suoi pensieri. Diceva che qualcuno lo controllava.”
Quella conversazione era allucinante; la pareva di recitare un copione scritto da qualche ragazzino con l’immaginazione troppo fervida e con brutte serie tv horror alle spalle. 
Percepire però l’attenzione di Tobia all’altro capo le impediva di fermarsi. Non aveva idea se fosse una cosa buona o meno, ma aveva bisogno di un orecchio in grado di ascoltare. E in questo, il Nero non aveva mai avuto rivali. Non per lei. 
“Nei miei sogni c’è anche un altro uomo ...” aggiunse incerta, perché quello non era territorio di fatti, ma congetture. “Si chiamava Benedetto ed apparteneva all’Altrove, ma non era una brava persona e Bice non si fidava di lui.”
“Credi che sia ancora vivo?”
Diobono, pure lui? No!” esclamò esterrefatta e la conseguenza fu che Tobia sbuffò una mezza risata.
Nonostante tutto, nonostante la situazione, era bello sentirlo ridere. Le scappò un sorriso.  
“Se era un uomo, per quanto forse un bambino nato di Domenica, dubito sia campato otto secoli,” convenne l’altro. “Una creatura posso crederci, ma un uomo come e me e te? No.”
“Vero…” ammise. “I miei sogni andranno avanti, e scopriremo forse quello che hanno scoperto Bice e Fortunato … ben oltre le ricerche di mia zia.”
“Fortunato?”
“L’uomo che dava una mano a Bice. Per quel che ho capito veniva da Siena ed era una guardia del castello. Era una persona normale … e il suo promesso sposo,” o sperato tale, aggiunse mentalmente. Ti somiglia anche un po’, pensò sentendosi inspiegabilmente in imbarazzo.
Corsi e ricorsi storici …
“Me lo descriveresti?” le domandò a sorpresa.
Rosi si appoggiò alla balaustra del balcone; aveva una voglia incredibile di fumare, ma nella fretta di distanziarsi da possibili ascoltatori indesiderati era uscita senza sigarette. “Sui vent’anni … alto, con i capelli scuri tagliati a scodella, naso imponente … ben piazzato. Aveva gli occhi azzurri,” e un sorriso gentile e un cuore gentile come il tuo, pensò di nuovo, senza riuscire a frenarsi. Quella sera passato e presente le davano l’impressione di sovrapporsi. 
Tobia non disse niente per un po’, tanto che non fu sicura che fosse ancora in linea.
“Bia, se hai annuito ti ricordo che non ti vedo,” ribatté prendendoci in pieno da come l’altro mugugnò qualcosa.
“Scusa, è che me ne dimentico.”
“Va bene essere avverso alla modernità, ma il telefono è stato inventato nel milleottocento.”
Tobia rise di nuovo e Rosi serrò le labbra per non imitarlo. Non le riuscì tanto bene; uno dei grandissimi pregi del Nero era sempre stato deflettere il suo sarcasmo, spuntandole così le armi.
“Stavo riflettendo,” le rispose. “Ho incontrato un fantasma nel bosco, e corrisponde grossomodo alla tua descrizione.”
“Un fantasma…?” se Fortunato era rimasto lì non era una bella notizia. Per niente. 
Vuol dire che gli è successo qualcosa di brutto.
Tobia dovette indovinare il suo turbamento perché si schiarì la voce. “Non è detto che sia lui …”
“Se lo vedessi potrei riconoscerlo?”
“Forse. Vuoi provare?”
“È un’idea,” anche se una volta trovato, che cosa ci avrebbe fatto? Forse anche quella era una pista senza sfogo. “Va bene, andiamo domani.”
“E con le prove per i sorveglianti come facciamo?”
“Per ora abbiamo la nostra parola, quella di una succuba, dei frammenti di pelle di serpente e delle foto completamente nere. Non ‘sto granché.”
“Sei ancora dell’idea di andare a cercarlo?”
“... no,” ammise, ricordando quello che avevano passato in solo ventiquattro ore. Rischiare di essere mangiata viva come summa finale non rientrava nei suoi piani. “No, in realtà non ho nessuna idea.” 
Perché c’era un altro pensiero fisso che le frullava in testa e più ci pensava più aveva senso. “Il regolo non si è risvegliato, qualcuno lo ha svegliato,” mormorò. “Sono convinta che qualcuno lo stia di nuovo usando. Per fare cosa non ne idea … e perché, soprattutto, quando ci sono così tante persone che possono farsi male. Che possono morire.”
Cui prodest,” disse Tobia e Rosi fu investita da una subitanea, paralizzante voglia di averlo lì. Accanto, e non dietro al filo di un telefono, ed era una sensazione così estranea, eppure familiare che la spiazzò. Le fece male. 
“Non ti ho ancora ringraziato per oggi,” le sfuggì dalla labbra. “Non ho capito molto di quello che è successo, ero svenuta ma non credo sia partito tutto da Maddalena … mi ricordo che mi hai portato tu, e per un bel pezzo.”
“Non potevo lasciarvi morire,” ribatté Tobia dopo l’ennesimo silenzio. Non poterlo avere davanti era tremendo, perché tutto quello a cui poteva affidarsi era la voce, e il maledetto aveva il tono più monocorde mai usato da un essere umano. 
Lasciarvi, poi. Plurale. Mette sempre in mezzo Ettore. 
Era una gelosia stupida. Lo aveva abbandonato, non poteva arrogarsi nessun primato sulle preoccupazioni o sull’affetto di Tobia Neri. Nessun speciale dispaccio, come era stato un tempo, dove era la sua persona preferita e non vi era nessun dubbio su quello.
“E pigliateli, ‘sti ringraziamenti,” sbottò irritata. 
“Prego..”
Avrebbero dovuto chiarirsi, Ettore non faceva che alludere, più o meno velatamente, alla cosa da settimane, e quella lingua-lunga partenopea aveva ragione, dovevano parlare dell’elefante nella stanza, quei dolorosi e inevitabili cinque anni prima. C’erano delle parole da dirsi, delle scuse da fare …. 
E forse, con un po’ di fortuna, anche da accettare.
Però il mare tra di loro era ancora profondo. Forse il mare neanche era un paragone calzante; era come se fossero su due sentieri paralleli nella foresta. Potevano vedersi, sarebbe bastato abbandonare la terra battuta per incontrarsi a metà.
Nessuno di loro due voleva fare quel passo, e Rosi era consapevole che stavolta, probabilmente, toccava a lei. “Tobia, io…”
“È stata una lunga giornata, dovremo dormirci su. Domani ci vediamo a casa mia per fare il punto della situazione con Ettore. Riesci a staccarti dal Bar?”
Fu come ricevere una doccia fredda. Tobia l’aveva fermata, gli aveva parlato sopra quando non lo aveva mai fatto. Non voleva ascoltarla. Meglio vedersi con Ettore domani mattina.
“Mattina no, primo pomeriggio sì, Cate dovrebbe tornare dopo pranzo,” rispose asciutta, perché arrabbiarsi era il metodo migliore per gestire il groppo che le aveva afferrato la gola. 
Non vuoi parlarmi? Non vuoi chiarire? Va bene. Evidentemente non te ne importa nulla. 
Una volta conclusa quella storia  - perché si sarebbe conclusa - sarebbero tornati ad ignorarsi. “Bene,” rispose Tobia. “Allora buonano...”
Gli riattaccò in faccia senza lasciarlo finire. La soddisfazione ebbe breve durata perché spingere giù il groppo alla gola non era servito a molto. A niente, a dirla tutta. Continuava a venirle da piangere e finì per farlo, in silenzio, senza neanche l’ausilio di una sigaretta tra i denti.
Di cosa ti lamenti? Hai fatto al tua scelta, come dice sempre mamma.
Conviverci è anche questo.
 
Tobia ascoltò il segnale intermittente del telefono, segno che Rosi gli aveva poco cerimoniosamente attaccato in faccia.
Non che si fosse aspettato qualcosa di diverso; anzi, per gli standard che ricordava avrebbe dovuto parlargli sopra, ignorando il suo maldestro tentativo di deflettere la conversazione.
Si era spaventato.
Era andato nel panico quando aveva percepito il tono di Rosi mutare, farsi incerto … fragile.
Voleva parlare di quei cinque anni prima. Dove tutto era cambiato e lui aveva preso la decisione più stupida della sua vita.
Perché non ho suonato a loro?
Uscì dalla porta di casa nel cortile interno, che accedeva direttamente al cimitero. I suoi amici lo attendevano. Un paio di fuochi fatui lo seguirono, posandosi sulle sue spalle, impalpabili ma luminosi, come se tentassero di allungargli una pacca consolatoria.
“Va tutto bene,” disse, “sto bene.”
Chiunque si sarebbe comportato come lui di fronte ad un mannaro. Chiunque forse, ma del Chiaro. 
Sarei dovuto diventare un sorvegliante. Potevo fare di meglio.
Avrebbe potuto, ma non l’aveva fatto perché non aveva avuto lucidità sufficiente: suo nonno era appena morto e Rosi …
Rosi stava per abbandonarlo.
In quel periodo, che coincideva con i loro vent’anni, l’amica aveva cominciato a mostrare tiepido, ma costante interesse verso il mondo fuori dalle mura. 
 
“Magari invece che dai Chiaroscuri potrei formarmi in una grande città. Mamma dice che si può fare. Mi piacerebbe andare a Roma prima di prendere servizio. Tu che ne pensi?” 
 
… che non voglio che tu te ne vada.Dove te ne vai, Roisin? Senza di me?
Quella domanda gli si era arrovellata così tante volte in testa, diventando un pantano da cui non era riuscito ad uscire, da cui non era riuscito a tirar fuori mezza sillaba. 
Lo so che se te ne vai, poi non torni. 
Tobia si sedette davanti alla tomba di Bruno, a gambe incrociate, spazzando polvere dalla lapide. Avrebbe dovuto cambiare i fiori, non si stavano comportando bene.
Andare via da Malacena era un patto chiaro, un patto stretto con l’Altrove. Una volta andata via, non tornavi. E in fondo, perché farlo una volta assaggiato il morso di un mondo tanto più vasto?
Forse Rosi faceva bene ad andarsene, aveva pensato all’epoca. Era troppo intelligente, splendeva troppo per restare tumulata in paesino. 
Se la ricordava, sempre la stessa ragazzina spavalda e con le idee chiare di un tempo, ma anche con una nuova, timida voglia di assaggiare il mondo oltre il bosco: luoghi, persone, nuovo Altrove. 
Malacena cominciava ad andarle stretta, come era successo a suo padre prima di lei: per quanto lo detestasse, aveva inevitabilmente il suo sangue errante nelle vene, proprio come la piccola Caterina.
Come amico era stato pronto a lasciarla andare, e l’aveva fatto nell’unico modo che conosceva: si era chiuso a riccio aspettando il colpo. Si era rintanato nella casina, nel bosco, aveva cominciato a vivere col buio; in quel periodo Rosi l’aveva cercato, ma lui non si era fatto trovare.
Non mi piacciono gli addii, mai piaciuti. Troppo definitivi. È un po’ come morire, solo che rimani vivo e ti devi abituare ad un’assenza. 
Invece era arrivata quella notte, era arrivato il mostro e aveva cambiato le carte in tavola. 
Rosi non era partita e la colpa era stata sua. Forse le aveva fatto così male da spegnere in lei ogni desiderio di cambiamento.
Rosi non reagiva bene ai cambiamenti che non poteva progettare lei stessa. E di certo, quello non l’aveva fatto.
Per questo quando aveva capito che l’altra voleva parlarne, aveva svicolato. Se cercando un chiarimento avessero peggiorato le cose?
Almeno adesso ci parliamo di nuovo. 
E quel giorno era stato così vicino a perderla, che non voleva rivivere l’esperienza per l’ennesima volta.
“Ciao nino, che è quella faccia buia?” gli domandò il fantasma di suo nonno mentre appariva in un balenare di quiete fiamme senza calore. 
“Pensieri…”
“Che rumini?”
Starle di nuovo vicino, poterle parlare senza essere contemplato come un alieno, scherzare … non era come una volta. Era il fantasma di un vecchio sentimento, che non si era mai esplicitato, e che era morto come un fiore in un armadio. Però era meglio di niente.
Era meglio di quei cinque anni lontano dall’unica donna che avesse mai amato, e che amava ancora con la stessa granitica immutabilità delle radici del bosco.
“Mal d’amore?” suggerì il fantasma non percependo lo stimolo di una risposta. Forse non gliene fornito una neppure in passato. “Prima o poi glielo dovrai dire, o voi diventacci vecchio? Diglielo che le’voi bene. Che ti ci vole? I diciott'anni e la patente?”
“Quando troverò il momento giusto lo farò,” disse come tanto tempo prima. 
Quel momento non l’aveva mai trovato.
 
***  
 
Caterina era nel sonno dei giusti da un bel pezzo quando si accorse che qualcuno la stava osservando.
Stava sognando roba a caso quindi ci mise un po’ a realizzare che il fautore di quella sensazione non era lo strano omicciolo tutto vestito di rosso che le danzava tra i piedi - sognare gnomi, un grande classico - ma qualcosa che veniva da fuori.
Qualcosa di reale. Aprì gli occhi voltandosi verso la porta; chiusa. Verso la finestra. Sobbalzò quando riconobbe la sagoma tigrata di Ariele stagliarsi contro di essa. “O’ te?!” bofonchiò assonnata ma parimenti preoccupata perché la sua finestra non dava sul balcone come quella di sua sorella, ma nel vuoto. “Come ci se’ arrivato…” si alzò per andare ad aprire e il gatto balzò sul pavimento, rivolgendole un breve e laconico miagolio per poi puntare verso la porta. “... eh, certo, ora voi anche uscì… una fettina di culo?”  
Che Ariele fosse diventato spiderman? No, più probabile che fosse rimasto in camera sua tutto la sera uscendo sul davanzale senza che se ne accorgesse. Doveva esser rimasto fuori quando aveva chiuso per la notte. 
Andò ad aprire la porta insonnolita. “Vai, rompicoglio…” si bloccò quando si ritrovò di fronte Maddalena. Per la sorpresa fece anche un passo indietro. 
Ariele sgusciò tra le loro gambe con un trillo soddisfatto, sparendo nel buio del corridoio. 
“Ciao … io …” balbettò questa. Erano le tre del mattino ed era ancora vestita di tutto punto? Caterina aprì la bocca per la sequela di domande che le stavano affiorando alle labbra quando l’altra gliela tappò con un bacio.
Sarebbe stata cretina a lamentarsi di quello tuttavia la progressione degli eventi la sconcertava un po’. Ricambiò comunque per buona misura, sperando di non avere un tremendo alito notturno. Da come Maddalena le ficcò la lingua in bocca con gusto comunque poteva star tranquilla. 
“... e buongiorno anche a te, Malù!”
“Buonanotte?” suggerì l’altra con un sorriso. “Non riesco a dormire,” spiegò finalmente.
“Eh, lo vedo … e vieni a molestare la povera me?” 
Maddalena sbuffò una risatina ma abbassò lo sguardo. “Scusami, stavi dormendo.”
“Ma va’, scherzavo, ero già sveglia, Ariele si era chiuso fuori dalla mia finestra e … “ e non era quello che interessava all’altra da come occhieggiava oltre le sue spalle. “Vuoi entrare?” le domandò.
Maddalena si stava praticamente lucidando le scarpe con gli occhi e Caterina la trovava una cosa super-tenera. Lo era, niente da fare: era sempre incredibile notare come dietro l’aria da stronza ciclopica dell’altra si nascondesse in realtà un’abissale timidezza.
È una tsundere.
“Stavi dormendo…”
“E vabbeh, posso tornare a dormire.” Notò l’espressione delusa dell’altra e si diede uno scappellotto mentale. “Non voglio cacciarti, ma dobbiamo svegliacci presto per andare a San Galgano …”
“Quindi è meglio se vado,” fraintese alla grande.
“Oppure potremo dormire assieme,” le uscì senza riflettere e si sarebbe mozzata la lingua perché Maddalena la omaggiò di nuovo di una delle sue occhiate sconcertate. 
“No, volevo …” 
Prima che potesse tirare una capocciata allo stipite della porta per porre fine alle sue sofferenze, l’altra, a sorpresa, si illuminò tutta contenta. “Va bene.” 
“Non è che devi farlo se non vuoi, mi è uscita…”
“No, voglio.” Deglutì. “Soltanto dormire giusto?”
“Oddio certo!” Caterina ringraziò la sua pelle scura che un po’ schermava le cinquanta sfumature di rosso che si sentiva bruciare addosso. “No, ti pare, non stavo … sono una ragazza seria!” si passò una mano sul viso, affranta. “... e ti prego di dimenticare questa conversazione per sempre.” 
Maddalena si morse un labbro per evitare di scoppiarle a ridere in faccia, si notava benissimo pur nella penombra del corridoio. “Vado a mettermi il pigiama,” disse ed ebbe il buon cuore di sgombrare la scena.
Caterina tornò in camera, buttandosi sul letto e soffocando un grido nel cuscino. 
 
Quando Maddalena tornò e si infilò sotto le coperte, Cate sbirciò da sopra la spalla, a luce spenta: grazie a tutti i Santi incolonnati l’altra indossava un castissima combinata di pantaloncini e maglietta, e non quello che a volte compariva nelle sue fantasie arrapate. 
Che idea del cazzo che mi è venuta … 
Maddalena si mosse cercando la posizione giusta. Emanava il calore di una stufa. “Il tuo letto è più comodo del mio,” stabilì. 
Cate apprezzò il tentativo di distensione. “Non è per questo che ti ci sei infilata?” 
La battuta non era delle migliori ma Maddalena ridacchiò. Sentiva il suo respiro sul collo e strizzò gli occhi sentendo il cuore schizzarle in gola. Non era la prima volta che dormiva nello stesso letto con una ragazza, ma era la prima volta che ci dormiva con la sua ragazza.
Bella differenza.
“E scommetto che hai anche fatto piovere! Tutto per rubarmi il materasso!” rincarò guadagnandosi una nuova dose di risatine. Stava dicendo un sacco di cavolate, ma era nervosa e forse ne rese conto anche l’altra perché si spostò di nuovo e il suo respiro profumato di arancio e cose buone sparì. 
“In realtà sono contenta che hai aperto …” mormorò. “Non mi andava di dormire sola. Di solito riesco sempre a sentire Michele russare, ma qui le nostre stanze sono troppo lontane.”
“E non è una cosa buona? Pare un trattore…”
“Sì, ma mi tiene compagnia. Di notte non mi piace il silenzio.”
Un’affermazione del genere valeva perlomeno una domanda, ma Cate già doveva fargliene tante e non le sembrava il momento adatto. Si voltò e Maddalena fece lo stesso. Si trovarono così faccia a faccia. “A me non dà fastidio dormire con qualcuno,” le disse. “Rosi lo odia, quando ero piccola in vacanza minacciava sempre di dormire nella vasca da bagno se doveva dividere il letto con me o i nostri genitori … però secondo me è piacevole avere qualcuno accanto.” 
“Sì…” convenne Maddalena con tono lento. Si stava già addormentando? “In tempi antichi gli esseri umani dormivano in gruppo e non solo per scaldarsi …”
“Grazie Piero Angela,” motteggiò. 
“... in questo avete ragione voi.”
… avete? Avete chi?  
Cate inarcò le sopracciglia, ma Maddalena si era già addormentata.
Vederla dormire era anche notare come smettesse finalmente di aggrottare le sopracciglia in un perenne corruccio, distendendo i lineamenti in un’espressione … vulnerabile, da bambina piccola.
A quella distanza Caterina poteva contarle le imperfezioni, come la piccola cicatrice che aveva sul labbro inferiore o il neo vicino alla sella del naso, ma non era quello il punto, Maddalena di difetti ne aveva pochi. È che da quella distanza forse per la prima volta le sembrava davvero umana, così come era molto umano il ronfare che stava montando.
Michi mi sa che unn’è l’unico che russa… 
Maddalena era sempre sul chi vive e non dovevano esserci tante persone a poter contemplare quel lato di lei. 
Ma a me l’ha lasciato fare. 
Le baciò d’istinto la fronte e sfiorandole i capelli fu investita da un profumo inaspettato.
Non ci avrebbe fatto caso se non si fossero pomiciate in lungo e largo. I capelli di Maddalena odoravano - forte - di shampoo maschile. 
E non era quello che usavano Michele e Stefano, l’avrebbe riconosciuto beccandoselo ogni volta che si faceva la doccia dopo uno dei due. Era un odore completamente diverso.
Caterina si ritrasse confusa, ma non potendole chiedere lumi di quella - seppur piccola - incongruenza - non potè far altro che stendersi e cercare di dormire. 
 
***
 
Note: 
 
Qualcosina si sta muovendo, e Cate è molto meno scema di quanto non pensi Malù. 
Rosi invece sì, è esattamente scema come pensi, ma pure Tobia.
Ettore concorda. 
La canzone citata è “Qualche splendido giorno”, dei Modena City Ramblers, dall’album “Terra e libertà” del 2007. 
Tsundere è un termine che conosce sicuramente chi è una giappominchia come la sottoscritta, ma nel caso, ecco la spiegazione qui.
Maddalena è *la* tsundere indiscussa di questa storia. 

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Capitolo 7
*** 7. ***


7.
 
È morto un garzone del castello.
La voce si è sparsa anche nei comunelli vicini e la gente preferisce viaggiare di giorno.
Quella mattina il borgo è gremito di chiacchiere. Lungo la via principale Bice ode mezze frasi, parole mozzate che parlano di “lupo” e puzzano di paura, ma anche di confusione. I suoi vicini non conoscono l'Orbis Alius, ma non sono stupidi e vivono in quelle terre quanto lei: i lupi ci sono, ma nessun lupo attacca da solo e a quel modo, peraltro senza poi nutrirsi del cadavere. Uccidere per il gusto di farlo è cosa da cristiani, dice il vecchio Ciacco che siede sempre di fronte alla taverna, e gli amici accanto a lui assentono, perché Ciacco ha militato tra le fila dell'esercito di Siena e di certe cose è esperto.
Ciacco non si sbaglia, pensa Bice, chi ha affondato i denti nel povero garzone sarà anche bestia, ma il mandante è uomo. È Benedetto.
Bice non può permettersi di formulare quel pensiero ad alta voce. Non ha prove. E inoltre Lietta potrebbe venir coinvolta.
Vanno assieme nel bosco, di notte.
Sua sorella quella mattina si è piegata insolitamente docile alle sue richieste, acconsentendo ad accompagnarla nel bosco a far erbe. Bice spera di farne una bella scorta per non dover tornare di nuovo.
Si aggiusta una ciocca di capelli che le è sfuggita dalla cuffia; il sudore le scivola lungo la schiena e il caldo la rende irritabile. Non vede l'ora di tuffarsi nella fresca ombra del bosco, la via del paese è un sentiero battuto e secco, pieno di polvere che le brucia la gola.
Lietta accanto a lei è silenziosa, forse intuendo il suo stato d'animo. O forse no, forse pensa al maledetto Benedetto.
Deve fare qualcosa per quell'oscena tresca, ma cosa? Se racconterà tutto a suo padre, come dovrebbe, Lietta verrà punita duramente e poi chiusa in casa. Si seccherebbe come una pianta priva di acqua, la sua sorellina che vive e respira le piante e gli alberi come lei. Può davvero rovinarle la vita a quel modo?
Per proteggerla, sì.
Ma la gente, per dritto o per rovescio, verrebbe a sapere e Lietta verrebbe rovinata per sempre, nessun uomo vorrebbe più sposarla … Forse, allora, ne dovrebbe parlare con Fortunato; il suo bel soldato potrebbe minacciare Benedetto, intimargli di lasciarla in pace.
Presa da quei pensieri non si accorge di chi le sta attorno; neppure le interessa, ma quando Lietta si ferma bruscamente, capisce di dover fare altrettanto per non andare addosso a qualcuno.
Quel qualcuno è il parroco.
Bice non lo vede dall'ultima messa. Non le è mai piaciuto, sempre arroccato nella pieve, il suo piccolo regno da cui amministra la sua oncia di potere; ricorda come al funerale per la sua povera mamma abbia parlato più di dannazione e Inferno, che salvezza e Paradiso.
Non gliel'ha mai perdonata. È un uomo piccino, con gli occhi troppo vicini e il ventre sporgente che lo fa sembrare un rospo ben pasciuto. “Beatrice e Lietta!” le saluta. La tonaca è nera, immacolata, come se la polvere sulla strada non lo toccasse. “Dove andate figliole?”
 
***
 
Studia il passato, se vuoi prevedere il futuro
- Confucio.
 
“Esco, vado a fare delle commissioni,” disse Rosi rivolta alle due donne della sua vita.
Cate, che era dietro al bancone, le rivolse a malapena un cenno di saluto, concentrata sul preparare la colazione ai suoi siciliani. Marina, che era di fretta perché in ritardo a lavoro, le lanciò invece un'occhiata più lunga, ma si limitò comunque ad un cenno disimpegnato.
“A stasera tesoro!”
Rosi come al solito aveva dormito poco; i sogni, forse perché adesso non li rifiutava, erano più vividi e questo la immergeva in una strana atmosfera lontana, come se si trovasse dentro un acquario.
Per questo quando si incamminò per le vie del paese non si accorse subito di essere seguita. Avere le cuffie nelle orecchie – un suo vecchio vezzo adolescenziale – probabilmente non contribuiva a renderla attenta. All'altezza del vicolo dove c'era la casa dei genitori di Silvia si accorse però di non essere sola. A quell'ora poteva incontrare solo qualche arzillo compaesano uscito per la sua passeggiata di salute.
Con la coda dell'occhio realizzò però che chi la stava pedinando … era sua madre.
Che cavolo sta facendo?!
Non poteva fare la sua stessa strada per andare al lavoro; per uscire dal paese doveva andare in macchina … e non poteva aver deciso di imitarla nelle sue commissioni, perché allora l'avrebbe chiamata e raggiunta.
Rosi spense la musica con un colpo di dita sullo schermo del telefono e deglutì; avrebbe dovuto voltarsi e chiamarla. Per dirle cosa però?
Se la stava seguendo c'era un motivo e doveva avere a che fare con l'Altrove.
Le hai detto che stai pensando di riprendere la carriera da Sorvegliante, no? Si sarà fatta delle domande … e data delle risposte.
Aveva scoperto le indagini parallele di Ettore e Tobia? L'affabile Marina Silvani aveva occhi e orecchie ovunque. Se c'era qualcuno che poteva scoprire quello che stavano combinando, era lei.
Rosi rallentò per accendersi una sigaretta e la donna, lesta, si infilò in un vicolo.
Non ci posso credere!
Quella storia aveva del ridicolo eppure al tempo stesso era angosciante.
Forse è stata davvero lei a nascondere il lupomanaio … e a risvegliare il serpe regolo.
Non era pronta ad affrontare una verità del genere. Dubitava lo sarebbe stata mai. Perché se Marina si fosse rivelata il cattivo di quella storia lei sarebbe stata sua complice.
Hai chiuso gli occhi … e il regolo è arrivato. Hai chiuso gli occhi e hai condannato Tobia.
È anche colpa tua.
Accelerò, mentre udiva i passi dell'altra seguirla. Li ignorò finché non fu di fronte alla Stazione dei Carabinieri. Infilò l'androne senza voltarsi indietro.
 
***
 
“Brigadiere, c'è una visita pe'lei, l'ho fatta accomodà nel su' ufficio!” annunciò Ferruzzi quando Ettore entrò nel Comando Stazione con uno sbadiglio e pochissima voglia di prender servizio.
Meditò se chiedere un caffè prima di iniziare la giornata. “Già a quest'ora?” sospirò.
L'appuntato scelto gli strizzò l'occhio. “Sì, ma badi che è gradita!”
Oddio, sarà mica quel gattaccio …
Tra i suoi uomini si era ormai consolidata la voce che fosse uno stramaledetto gattaro e adesso, di fronte all'ingresso, campeggiava una grande ciotola di croccantini appaiata ad una d'acqua. Per i su' gatti, aveva commentato Ferruzzi e purtroppo il plurale aveva ben donde d'esserci.
Dopo la prima sciagurata visita di Ariele, una piccola truppa di felini sostava infatti di fronte alla stazione e anche quella mattina avevano dovuto fare una gimcana per evitare che le maledette bestiacce gli riempissero di pelo i pantaloni dell'uniforme.
Entrò in ufficio, dove Binella lo accolse con un rigido saluto militare: da quando l'aveva strapazzato in Piazza era diventato il modello del perfetto carabiniere.
Soffocò un sorrisetto. “Riposo,” impostò la voce per sembrare ancora una volta in collera e funzionò, da come l'altro deglutì nervoso. “Almeno tu mi sai dire chi mi aspetta in ufficio?”
“La Rosina!”
Ah, già, che ci dovevamo incontrare per andare nel bosco a parlare con il fantasma del soldato medievale …
Storie di ordinaria amministrazione per il Brigadiere Mangiola, carabiniere dell'Altrove.
 
Rosi era in piedi di fronte alla finestra del suo ufficio, a fumare. Stava guardando giù ma si voltò quando lo udì arrivare. “... ma tutti 'sti gatti?” domandò con una sfumatura canzonatoria nella voce. “Avete cominciato a sfamarli?”
“Lo fa Ferruzzi,” borbottò sedendosi dietro la scrivania e massaggiandosi la sella del naso. “Son qui per farmi la posta, credo...” notando l'espressione perplessa dell'altra realizzò di colpo che no, di quello non avevano mai parlato. “E' … la mia … capacità, no, si dice così? Parlo coi gatti.”
Le sopracciglia di Rosi schizzarono praticamente all'attaccatura dei capelli. “Ma tu detesti i gatti.”
“Pensa comm'song fortunato...”
Rosi serrò le labbra per non scoppiare a ridere e ciccò l'ultima cenere della sigaretta prima di spegnerla sul davanzale. “Sono stati loro a far partire tutto,” aggiunse Ettore di malavoglia, “sono stati loro a cercarmi e dirmi che qualcosa si stava risvegliando.”
Rosi si sedette di fronte a lui facendo una smorfia. “Una volta si diceva che ce n'erano così tanti perché cacciavano i topi, ma sono sempre stati qui per tenere le nostre case pulite da altro.”
“Dalle creature?”
“Di topi ne abbiamo sempre avuti pochi...”
Ettore sospirò. “Non è che siano molto d'aiuto. Non è come parlare con nu'cristiano.”
“Immagino...”
“Davvero?”
“Io sogno il passato, quello quanto pensi che sia chiaro?”
“Mezze allusioni e sogni … ecco come conduciamo le indagini,” Ettore aveva un perenne mal di testa da quando Ariele gli aveva parlato per la prima volta. Pescò un blister di anti-infiammatori da un cassetto e ingoiò una pasticca senza acqua. Rosi non disse niente per qualche attimo, giocherellando con l'accendino.
“Mia madre mi pedina,” buttò fuori di colpo.
Ettore batté le palpebre preso in contropiede. “In che senso?”
“Nel senso che mi ha seguito dal Bar fino a qui, nascondendosi non appena facevo tanto di voltarmi, ecco in che senso!” rispose rabbiosa. Rosi era così: un grumo di emozioni talmente stretto che solo la rabbia riusciva ad uscire.
E doversi occupare di un mostro pericoloso e di madri fedifraghe eccome se la faceva incazzare.
“Perché l'avrebbe fatto?”
“Non gliel'ho chiesto … vogliamo vedè se è qui fuori a fammi ancora la posta?”
“Direi di no,” non raccolse la provocazione. “Potrebbero esserci due possibili spiegazioni comunque … o si preoccupa di chi frequenti nel Chiaro o cerca di capire che stai facendo nell'Altrove.”
“Direi la seconda.”
“Oppure la prima,” osservò. “Non stiamo facendo mistero di frequentare Tobia, e Tobia non è considerato bene in paese.”
“Mia madre va da lui, da sola, almeno una volta a settimana, non è quello!”
Ettore sospirò; non voleva dar corda alla rabbia di Rosi, ma non era neppure San Tobia, che prendeva schiaffi in faccia senza fare una piega. “Allora è ufficiale, ci ha scoperti?”
“Che altra spiegazione potrebbe esserci?”
“Potevi chiederglielo.”
Rosi deglutì fissando lo sguardo sull'accendino che spegneva e riaccendeva a scatti. Doveva essere bollente, ma non pareva farci caso. “Avevo paura della risposta,” mormorò.
Ettore avrebbe voluto abbracciarla. Quel compito però non spettava più a lui, se mai l'aveva fatto. Il cuore di Rosi era incandescente proprio come quell'accendino, un tizzone che non andava toccato se non si avevano gli strumenti adatti. C'era chi li aveva, ma al momento era a prendersi cura dei suoi morti in mezzo al bosco.
“Non è detto che sia tua madre il sorvegliante che ha fatto tutto 'sto macello,” ribatté quieto. “Potrebbe aver scoperto che stiamo indagando, ed è preoccupata che tu possa metterti nei guai con la Confraternita. È una mamma, dopotutto... Non abbiamo prove che sia coinvolta, e una persona è innocente fino a prova contraria.”
Rosi sbuffò una risatina. “Ha ragione Cate, sei proprio una guardia.”
“Fiero di esserlo,” ribatté con un sorriso.
Rosi gli scoccò un'occhiata esitante. “Grazie...” prima che potesse chiederle il motivo, aggiunse, “per esserti invischiato in questa storia … pensi che sia il tuo dovere, ma non sei un sorvegliante come lo dovevamo essere io e Tobia. Sei un buon amico per Tobia … e per me.”
Quelle poche parole erano il chiodo definitivo su quello che era stata la loro relazione, ma Ettore, nonostante gli sarebbe mancato il sesso da fuoco d'artificio, ne fu sollevato. I triangoli stavano bene in geometria, non tra le persone … e poi avevano decisamente altre gatte da pelare. “Marò, Rosì, mo' mi fai commuovere,” motteggiò mettendosi una mano sul cuore. “Se vi lascio soli finite male, che amico sarei?”
Rosi stiracchiò un sorriso. “Uno pessimo, suppongo.”
“Esatto!” Si alzò in piedi facendole cenno di fare altrettanto mentre calcava il cappello e recuperava la pistola dal cassetto. “Dai, andiamo dal Nero. Si va a caccia di fantasmi!”
 
***
 
Quella mattina Caterina si era svegliata da sola.
Era stupido esserci rimasta male, se ne rendeva conto; Maddalena le aveva detto chiaro e tondo che voleva mantenere la loro relazione segreta, e svegliarsi con l'altra parte del materasso fredda e vuota era parte di quell'accordo …
Però.
Caterina morse il proprio panino mentre accanto a lei gli altri rumoreggiavano, ingozzandosi di manicaretti preparati da Rosi la sera precedente.
Smettila di pensarci.
Erano nel prato antistante l'abbazia di San Galgano e un sole cocente scottava pietre e mattoni della costruzione. Nell'aria si spandeva, intenso e dolcissimo, profumo di erba e fiori. Era una bella giornata, non c'era spazio per i pensieri tristi.
Tutto attorno a loro piccoli gruppi di turisti passeggiavano all'ombra imponente della costruzione, un gigante gotico il cui tetto era crollato secoli prima, si raccontava durante un violento temporale. L'abbazia era rimasta intatta soltanto nelle mura, assomigliando al grande scheletro, immerso in campi di grano dorati. Avevano passato la mattinata esplorando le navate, e Michele si era fatto un intero set fotografico approfittando della presenza di Pietro, che aveva eletto suo fotografo personale nonostante le proteste di quest'ultimo.
Erano arrivati anche al piccolo eremo in cima al colle vicino, che ospitava il fulcro di quella gita, ovvero la spada nella roccia italiana.
Cate l'aveva sempre considerata non all'altezza delle aspettative; non era che un'elsa arrugginita conficcata nella fenditura naturale di due rocce, ma Michele e Stefano l'avevano pensata diversamente, dal numero di foto che le avevano scattato dai propri smartphone.
Se Pietro era il fotografo ufficiale della vacanza, lei ne era il Cicerone; così aveva raccontato con dovizia di particolari, per cui doveva ringraziare Wikipedia, la storia di San Galgano, prima soldato feroce e poi uomo di chiesa, e di come avesse abbandonato una vita sregolata sancendo quel gesto conficcando la propria spada in una delle rocce della collina.
“Al contrario rispetto al mito arturiano,” aveva considerato Stefano. “Artù la estrasse, Galgano la inflisse nella roccia.”
“Qualcuno dice che San Galgano in realtà era invischiato nei cavalieri della tavola rotonda,” aveva convenuto Caterina, “c'è questa storia secondo cui non fosse italiano, ma francese, e fosse in realtà
un re … alla cui corte c'era stato l'autore del mito del Sacro Graal, quindi...”
Non si era studiata bene la faccenda, lo aveva realizzato mentre Stefano le rivolgeva un sorriso indulgente, provvedendo poi ad integrare il suo traballante racconto con fatti e date.
È che so' un po' distratta, sai com'è!
Da Maddalena, che per tutta la mattina era rimasta incollata al proprio telefono, distanziando più volte la comitiva.
E in silenzio era rimasta anche durante il pranzo.
 
“Che facciamo adesso?” domandò Michele appallottolando la stagnola del suo panino per lanciarla a Pietro, che era sbracato sul prato con uno spinello tra le labbra. “Direi che qui abbiamo finito!”
“Andiamo a Siena? Abbiamo la macchina,” propose Caterina.
“Dai,” concordò Pietro. “Volevo giusto fa' un salto in fumetteria.”
“Io devo tornare a casa purtroppo,” si inserì Alina. C'era un intero capitolo da aprire anche sulla sua amica, che quel giorno le era stata a fianco come una presenza taciturna e obiettivamente un po' inquietante. Non che Alina fosse la persona più loquace del pianeta, ma di solito si sforzava di ingaggiare qualche conversazione. Durante tutta la mattinata aveva sì e no pronunciato due sillabe.
Come Malù.
“Per tuo babbo?” spiò.
“Gli ho promesso che sarei tornata, mi dispiace.”
“Ma va', figurati, ce l'avevi detto.”
Finirono quello che restava del loro pranzo in sommario silenzio; Cate aveva la percezione – e l'aveva da quando si erano incontrati in Piazza parecchie ore prima - che vi fosse qualcosa che non andava quel giorno; Michele e Pietro facevano casino come al solito ma non appena si quietavano, si posava nell'aria una sorta di inquietudine sospesa, come tra estranei che non avevano idea di come interagire gli uni con gli altri. E quel disagio non l'aveva mai sentito, neppure il primo giorno di arrivo dei siciliani, quando estranei lo erano davvero.
A Cate non piaceva; come avrebbe potuto però raccogliere in parole, in domande quell'impressione? Non poteva, e quindi rimase zitta, mentre raccoglievano cartacce e bottigliette e salutavano San Galgano.
 
Una volta tornati al pulmino Cate si sedette nella seconda fila di sedili. Era il suo posto durante quelle gite e di solito Maddalena le sedeva accanto. Quella mattina non l'aveva fatto ma ora, con un sorriso timido, si apprestava finalmente a darle un po' d'attenzione. Cate la ricambiò sollevata.
Solo che la strada le fu letteralmente sbarrata da Alina.
Maddalena si bloccò. “Vuoi sederti tu?” le domandò Alina.
Maddalena scosse la testa e si infilò nella terza e ultima fila accanto al fratello senza aggiungere altro.
Che cavolo è successo?
L'amica le si sedette accanto aggiustandosi la gonna sulle gambe. “Davvero non è un problema portarmi in paese?” si riallacciò al discorso di prima come se nulla fosse.
“No, figurati ...” Il cervello di Cate andava a mille, cercando una spiegazione per il siparietto a cui aveva appena assistito. Maddalena si era letteralmente congelata quando Alina le aveva tagliato la strada.
Perché è spaventata da Lin?
E sopratutto perché la sua migliore amica le faceva da scudo non voluto?
“Perché non hai fatto salire Malù?”
Alina batté le palpebre sorpresa. “Preferivi aver accanto lei?” domandò. La scrutava come se volesse spiare le sue reazioni, oltre che le sue parole.
Cate istintivamente si ritrasse sullo schienale, a disagio. “Sì … no, è uguale,” balbettò, “solo, mi chiedevo, ecco … se non avessi qualche problema con lei.”
“Con Maddalena? Nessuno.” Lo disse troppo in fretta, con troppa durezza. Cate conosceva abbastanza gente che le aveva mentito durante la sua breve vita e quello era un segnale bello grosso.
 
Quando torni babbo?”
Presto darling, prestissimo!”
 
Un paio di palle.
“Guarda che rimani te la mia migliore amica,” buttò fuori un po' a caso perché davvero non aveva idea del perché Alina detestasse Maddalena e sentisse il bisogno di difenderla da lei. Però era così, ed era palese come il sole che splendeva sul tettuccio del pulmino che arrancava rumoroso su e giù per le colline in direzione di Siena. Pietro, seduto accanto a Stefano che guidava, aumentò il volume della radio.
 
Two years gone, came back as some bones and so cynical
This skin don't feel like home
 
Alina sorrise brevemente. “Lo so. Non è per quello...” lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore. Stava controllando Maddalena, ma l'altra aveva le cuffie nelle orecchie e aveva chiuso gli occhi. “Lei ti piace, e non voglio che tu ti faccia male.”
Cate avrebbe voluto ribattere che per quello era un filo troppo tardi. “Unn'è mica la mi' prima giostra,” scherzò invece. “E poi, porina, non ha fatto niente... non lo sa neanche, che mi garba.”
Non aveva mai detto una bugia alla sua migliore amica. Eppure le era scivolata sulla punta della lingua, con facilità estrema. Le lasciò un'impressione di sporco, che non le piacque per niente.
Alina strinse le labbra, quasi stesse trattenendosi dal rispondere. “Voglio solo che tu stia attenta,” ripeté. “Voglio solo che tu non ti faccia male.”
Ancora.
Di che male parlava? Alina l'aveva già vista invaghirsi di una ragazza … più di una, ad essere oneste. Non aveva mai messo su quella pantomima da mamma orsa ansiosa.
Cosa sa di Maddalena che io non so?
E quella era la conseguente e inevitabile domanda. Cosa conosceva di Maddalena da preoccuparsi al punto di frapporsi fisicamente tra di loro?
Niente. Si conoscono appena.
“Perché dovrei fammi male?” esitò. “Maddalena t'ha detto qualcosa … di me?”
Alina scosse la testa. “No, è solo che è già successo con altre ragazze, tutto qui.”
Non le avrebbe cavato fuori di bocca altro. Caterina, sconfitta e frustrata, abbozzò un sorriso e cambiò discorso.
 
I know it’s so wrong but I’m so far gone
Don’t need you to tell me
 
Cosa sa di Maddalena che io non so?
 
***
 
Il bosco aveva un modo tutto suo di farti sentire insignificante.
Ettore era un ragazzo di città e forse era per questo che lo percepiva con particolare chiarezza.
I boschi toscani non erano luoghi lontani ed esotici, di quelli che potevi solo immaginare dietro alle pagine di un libro o su uno schermo. Erano familiari; ma camminarci attraverso ti dava comunque l'idea di disturbare qualcosa di solenne, e misterioso, che sarebbe rimasto ben dopo la tua morte.
Se c'era qualcosa di simile all'eternità, potevi trovarlo lì, tra quei canopi smeraldo.
Camminando dalla stazione fino alla casina del cimitero, Ettore si percepiva spogliato da tutti gli orpelli che il progresso gli aveva dato per rimanere, intimidito, di fronte alla forza della natura e dell'Altrove combinati assieme.
Tirò un sospiro e si asciugò il sudore dal collo con un fazzoletto; Rosi, accanto a lui gli rivolse un sorriso.
La toscana non sembrava turbata dai suoi stessi ragionamenti, né più prosaicamente sudata come lui. Se le sue scarpe da tennis non avesse fatto rumore mentre camminavano l'avrebbe pensata uno dei fantasmi di Tobia.
Trasparente e impalpabile, perfettamente parte alla foresta.
non mi aveva detto che una sua antenata era uscita dal cavo di una quercia?
Ci poteva credere senza problemi.
Il Nero li aspettava seduto sulla soglia di casa, con Ermione in grembo, che si godeva sole e carezze. Vedendolo, la bestiaccia gli rivolse che scoprì i canini.
I gatti non avrebbero mai dovuto sorridere.
“Ohi,” lo salutò sbrigativa Rosi. Tobia le rispose con un cenno della testa e poi posò a terra Ermione, non senza qualche difficoltà da come l'animale tentò di aggrapparglisi ai pantaloni.
Tobia abbozzò un sorriso paziente nonostante probabilmente lo stesse artigliando a sangue e riuscì a districarsi, rimediandosi comunque una corposa strusciata tra le gambe. “Non mi lascia solo da quando abbiamo incontrato il regolo,” disse lanciandogli un'occhiata interrogativa.
“Magari è preoccupata per te,” suggerì stringendosi nelle spalle. Anche l'assembramento di gatti attorno alla Stazione gli aveva dato da pensare.
Che i gatti volessero proteggerli? Non che avesse bisogno di un picchetto d'onore felino, e di certo Ermione, tutta ossa e pelliccia, nulla avrebbe potuto contro un mostro come il Regolo …
… però la cosa, in qualche bizzarro modo, lo rassicurava.
“Certo che sono preoccupata,” ribatté Ermione trasudando irritazione. “E' lui che custodisco, e voi lo portate in mezzo ai guai!”
“Veramente è partito tutto da Tobia,” obiettò guadagnandosi un'occhiata perplessa dai due toscani. “Niente … sto … la tua gatta mi ha rinfacciato una cosa non vera!” borbottò. “E' peggio di mia madre!”
“Quando hai finito di litigare col gatto direi che possiamo andare,” ribatté Rosi con uno sbuffo impaziente. “Non mi fido a lasciare il Bar a Tea.”
Tobia annuì, chiudendosi la porta di casa alle spalle – senza manco dare un giro di chiave, ma nessuno lo faceva mai in quel paese di strambi – e poi si avviò lungo il sentiero.
Lo seguirono.
 
Rimasero in silenzio per gran parte del tragitto, guidati da Tobia che scostava frasche e seguiva percorsi che ad Ettore, ogni volta, sembravano casuali. Era consapevole non fosse così, ma non aveva punti di riferimento e dubitava li avrebbe avuti mai.
Ettore si tamponò il viso con il fazzoletto per l'ennesima volta, sospirando. “Uagliù, non saremo arrivati troppo presto?”
Era mattina inoltrata e il sole splendeva, rovente e immutabile. “L'ultima volta ci siamo stati al tramonto … non sarebbe stato meglio venire più tardi? Pure cchiù fresco...”
Tobia scosse la testa. “Qualunque ora del giorno va bene. L'importante è stabilire una connessione.”
Rosi incrociò le braccia al petto; un'espressione inquieta le si era dipinta in viso. “Un'offerta,” mormorò. “Cosa possiamo offrire ad un fantasma medievale?”
“Qualcosa che gli ricordi che una volta era vivo come noi,” rispose Tobia, per poi frugare nel tascapane che aveva a tracolla. Ne estrasse una bottiglia colma di un liquido ambrato che a Ettore ricordò il Vin Santo che l'amico aveva sparso nel cimitero per richiamare la presenza di suo nonno. Quando lo stappò e glielo avvicinò al viso annusò una punta di spezie che la volta prima mancava.
“Ippocrasso, l'ho preparato ieri sera,” spiegò Tobia. “Era un vino molto conosciuto nel Medioevo. Con il Vin Santo non ha funzionato, magari con questo … e con te e Rosi presenti, magari sì. Più siamo, più energia portiamo.”
Tobia versò il vino vicino al tronco e nell'aria si spanse un profumo invernale, intenso. Dava quasi il capogiro.
Ricordando l'apparizione, Ettore fu svelto ad allontanarsi dall'albero, onde evitare di essere di nuovo affettato spiritualmente. Si affiancò a Rosi, che era rimasta in disparte accendendosi la decima sigaretta di quella mattina.
Non dovettero attendere molto. Lentamente, una nebbiolina avviluppò la quercia e l'apparizione si manifestò. I contorni di una figura maschile si materializzarono dalla bruma, e come la volta precedente, lo spettro apparve vestito come se dovesse scendere in guerra. Giaco di maglia, di metallo scuro e ossidato, le gambe muscolose fasciate da una stoffa grezza e parimenti scura. Il volto era abbozzato, ma era giovane, con poca barba e un naso importante.
Rosi accanto a lui sussultò. “Fortunato,” mormorò con una nota di dolore palpabile nella voce.
“Chi?” le domandò prima di realizzare che era il fantasma che aveva apostrofato. Lo aveva riconosciuto.
Fortunato, come la volta precedente, si spaventò e levò la spada di fronte a sé. Non era a loro che stava guardando, ma a qualcosa che lo aveva attaccato in passato. E anche stavolta, quel qualcosa o quel qualcuno, riuscì a ferirlo da come una macchina scura si spanse sul suo stomaco e da come cercò di tamponarla, per poi incespicare privo di forze, finché non fece cadere la spada e crollò a terra, picchiando la schiena contro il tronco della grande quercia. Un rivolo di sangue gli sgorgò dalla bocca mentre tossiva.
Era vedere un uomo morire, ed Ettore nonostante fossero passati secoli, si trovò a distogliere lo sguardo. L'altra volta il fantasma non era riuscito a mostrar loro gli ultimi attimi della sua vita, ma forse Tobia aveva ragione, la loro energia e quel vino dolciastro, il cui odore pareva esserglisi appiccicato in gola e nelle narici, erano riusciti a compiere la magia.
Avrebbe preferito non l'avessero fatto. Non per come Rosi soffocò un singhiozzo vicino al pianto.
“Rosì...?” domandò Ettore, “lo conosci?”
“Zitto,” mormorò l'altra. “Lascialo finire, ha ancora qualcosa da mostrarci.”
Ettore si costrinse a dare nuovamente attenzione al fantasma. Quello aprì gli occhi e poi fece una cosa inaspettata; sorrise.
Sta morendo, che ha da esser contento?
Si sforzò di parlare, ma qualcosa glielo impediva. Allora levò la mano, come l'avevano visto fare l'altra volta. Indicò il castello e poi la lasciò ricadere lungo il fianco. Non si mosse più.
Rosi diede loro le spalle e scoppiò a piangere, mentre la nebbia si ritirava e la visione spariva. Ettore fece cenno a Tobia di muoversi a raggiungerli e l'altro obbedì, ma poi rimase a qualche passo di distanza, continuando a guardare Rosi come se fosse il punto focale dell'intera faccenda e non lo era, ma Ettore capiva il sentimento.
Se la vuoi consolare però dovresti abbracciarla. Le basi, proprio.
Rosì, lo hai riconosciuto?” domandò di nuovo.
“Sì,” disse l'altra schiarendosi la voce. “E' il ragazzo che sogno ogni notte, Fortunato. Era una delle guardie del castello e il promesso sposo di Beatrice...”
“Cosa gli è successo?”
“Non l'ho ancora sognato, ma non mi serve farlo. Qualcuno l'ha ammazzato, è evidente.” Si voltò, gli occhi rossi ma l'espressione furibonda. “Fortunato e Beatrice credevano che qualcuno avesse portato qui il regolo, che lo stesse controllando. Un essere umano.”
“Qualcuno controlla il regolo...” mormorò. Quella non era una bella notizia, affatto. Una cosa era un predatore gigante che seguiva il suo istinto. Un'altra era un predatore gigante che faceva ciò che una persona gli diceva di fare. Un essere umano con la capacità di discernere il bene dal male e una netta propensione per quest'ultimo, se liberava una roba del genere in giro per un bosco frequentato da ragazzini e fatine.
“Non aveva senso che si fosse risvegliato da solo,” disse Tobia avvicinandosi al tronco della quercia e posandovi una mano, proprio dove il ragazzo era morto. Aveva un'espressione distante, assorta. “Non dopo secoli di letargo … ed è successo a Castiglioscuro,” terminò, imitando il gesto del cavaliere. Rosi fece una smorfia, come se qualcuno l'avesse schiaffeggiata.
Sotto Castiglioscuro,” lo corresse l'altra. “E forse ho capito dove … anche se non il come.”
“Quindi se capiamo 'sto come possiamo ripeterlo?” ipotizzò speranzoso. “Rimetterlo a nanna?”
Rosi annuì. “Devo prima sognarlo, ma sì. C'è un altro problema però … non basta liberarci del regolo, dobbiamo capire chi lo ha svegliato, e perché. Se non fermiamo il mandante abbiamo solo compiuto metà dell'opera.”
“Di solito in un'indagine canonica trovi il prima il colpevole, e poi il movente,” considerò Ettore voltandosi verso il castello. Da lontano luccicava al sole, rudere di un'epoca passata … dove la gente veniva ammazzata in mezzo al bosco.
Rabbrividì. “Però in questo caso trovare il perché, ci permetterebbe di capire chi. Anche perché nel mondo normale il movente di solito ruota sempre alle stesse cose: soldi, potere o gelosia … ma nell'Altrove magari è diverso.”
“No,” ribatté Rosi. “Il male è sempre fatto per gli stessi motivi.”
“Soldi, potere o amore...” disse Tobia e il cambio di parole non sfuggì a nessuno. Non a Rosi che lo misurò con uno sguardo che fece sentire Ettore un gran bel pezzo di incomodo.
O moccolo, come dicono qua.
“Al regolo tutto questo però non interessa,” continuò Tobia. “A lui interessa cacciare.”
“Sta cacciando soltanto animali però,” ribatté Rosi. “Non mi piace, ma finché si limita a quelli credo sia più importante concentrarci sul trovare chi lo controlla… una persona del genere è pericolosa.”
Tobia aggrottò la fronte. “Sta crescendo, ha già fatto la muta più volte. Tra poco non gli basteranno più gli animali. Cercherà prede più grandi … oppure diverse.”
“Sì, persone ...”
“Sto parlando delle creature,” la fermò. “Noi abbiamo il paese, abbiamo le mura. Le creature no. Il Beffardello è rintanato nella sua tana, non trovo più i cappelletti su nessun sentiero … e sono giorni che non vengo seguito dai caramogi.”
Rosi si morse un labbro. “Si sono messi al sicuro?”
“Lo spero.”
“Non posso passare la giornata addormentata, Bia ...” si passò una mano tra i capelli, chiudendo gli occhi. “Ho smesso coi sonniferi. Ho smesso con le veglie fino all'alba. Non so cos'altro fare.”
Rimasero in silenzio, interrotto solo dall'incessante frinire delle cicale.
“Scusami,” disse Tobia e le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla. “Lo so che non è facile.”
“Non lo è, ma è quello che devo fare,” Rosi fece un gesto che parve, per un momento, voler esser quello di posare la mano su quella dell'uomo. Lasciò cadere il braccio lungo il fianco e si voltò invece verso Ettore.
“Fatti una chiacchierata con la tua scorta armata ,” disse asciutta, “magari avranno qualcosa da miagolarti.” controllò l'orologio con un movimenti di polso, di nuovo chiusa a doppia mandata. “Devo tornare al Bar prima che Tea lo faccia esplodere. Ci aggiorniamo domani mattina,” e senza dar loro tempo di ribattere, si addentrò nel folto degli alberi, direzione Castiglioscuro.
“Non dovremo seguirla?” domandò a Tobia. “Non dovresti seguirla?” si corresse esasperato.
“Non credo...”
“Io devo tornare in stazione,” lo fermò bruscamente, “tu valle dietro,” e gli indicò la direzione con un cenno imperioso della testa.
Tobia sospirò, ma non fece troppe storie: sparì nella boscaglia.
Una statua dovreste farmi. O chiamare il vostro primogenito con il mio nome. Almeno.
Ettore si chiese se avesse fatto bene a lasciare i due idioti da soli in mezzo ad un posto che necessitava di una pistola e di una buona dose di fortuna … ma poi ritenne che erano in due, erano adulti e vaccinati e forse, dopotutto, era lui quello ad essere nei guai.
e mo' come torno indietro?
Un lontano miagolio gli segnalò la risposta.
Con un'imprecazione tra le labbra e la fronte imperlata di sudore si apprestò a tornare alla civiltà.
 
***
 
Castiglioscuro c'era sempre stato.
Da quando per la prima volta aveva aperto gli occhi al mondo, il castello aveva fatto parte del panorama. Lontano eppure vicino, imponente eppure fragile. Un coacervo di contraddizioni che aveva sempre reso chiaro a Rosi come lei e quel rudere si somigliassero.
Terminò di percorrere gli ultimi metri della scala costruita dal padre di suo nonno e se lo trovò davanti, una parete verticale di roccia e mattoni, spaccata in più punti dalla vegetazione che era riuscita ad infilarsi tra gli interstizi.
Il Sindaco lo voleva buttar giù e da quello era partito tutto. L'arrivo dei siciliani, il suo coinvolgimento, lo strano temporale e poi il serpe regolo.
Rosi si sedette su una pietra rovente di sole e si accese l'ennesima sigaretta; mentre il tabacco le bruciava il petto pensò che tutto era collegato. Doveva essere collegato in qualche modo, solo non sapeva come.
Non era quello il suo lavoro, non era più quello il suo mondo. Eppure doveva andare avanti.
Doveva proteggere non solo il castello, ma sua sorella, il bosco, le sue creature … e nel farlo, era certa che non sarebbe riuscita a proteggere anche sé stessa.
Di certo, non il suo cuore.
Bruciava, e non era il tabacco: era la morte di Fortunato ad averla scossa.
Bice ancora non lo sa.
Era una affermazione insensata, dato che Bice era vissuta secoli prima e di certo aveva saputo che l'amore della sua vita era morto come un cane, da solo, nel bosco. Eppure Bice in qualche modo era lei e quel lutto l'aveva colta di sorpresa, come un pugno secco al petto, togliendole il fiato.
Non voglio sognarlo. Non voglio sognare tutto quel dolore.
“Rosi.”
La voce di Tobia la fece quasi saltare in piedi; una connessione umana, reale, quando era così dentro dai suoi pensieri non aveva mai un effetto piacevole.
Si voltò e l'amico era lì, arrivato silenzioso come suo solito, una macchia scura in mezzo a tutto quello smeraldo.
Il passato e il presente si confondevano ancora dentro la sua testa, e per un attimo, Rosi vide Fortunato; per un attimo fu Beatrice e chissà cosa avrebbe fatto, la sua antenata, per poterlo avere ancora accanto. Chissà com'era stato scoprire che non sarebbero invecchiati assieme.
Che l'unico uomo che avesse mai amato al mondo se n'era andato per sempre in buio infinito in cui non poteva raggiungerlo.
 
Tobia capì subito che c'era qualcosa che non andava in Rosi.
L'espressione con cui l'aveva accolto, dopo esser sobbalzata quando aveva chiamato il suo nome, era fuori fuoco, come se non riuscisse a riconoscerlo.
Assistere alla morte di Fortunato l'aveva scossa e Tobia poteva intuire il perché: doveva aver sognato quel ragazzo, vivo, tante volte ed esser testimone della sua fine doveva essere stato tremendo.
Lui con i suoi fantasmi almeno arrivava a cosa finite, quando qualsiasi cosa fosse successa prima, ormai non era che un distante ricordo per lui, e una cosa mai accaduta per loro.
Ma le morti violente, funzionavano in modo diverso.
“Roísín,” la chiamò di nuovo perché l'amica gli si stava avvicinando, ma era come se non l'avesse ancora notato. Poi con la punta delle dita gli sfiorò una guancia.
Rosi non era lì; era in qualche angolo della sua mente dove la realtà si confondeva col sogno. Le aveva già visto quell'espressione addosso … quando, da ragazzini, si svegliava da un sonnellino pomeridiano dentro al castello e ci metteva un po' ad uscire da una delle sue visioni.
Allora bastava chiamarla per farla tornare alla realtà, ma non stava funzionando. Rosi non stava tornando.
Avrebbe dovuto scuoterla? Non fece in tempo ad agire che l'altra gli passò una mano dietro la nuca e lo tirò giù. Fu talmente rapida che Tobia non ebbe modo di reagire quando gli premette le labbra contro le sue, in un bacio screpolato e asciutto.
Rosi non l'avrebbe mai baciato.
E quindi quella non era Rosi, decise forzandosi a non rispondere, costringendo ogni singolo muscolo del suo corpo a rimanere immobile. Il suo rifiuto dovette smuovere qualcosa nell'altra, un'incongruenza con ciò che si era aspettata. Si staccò aggrottando le sopracciglia e no, quell'espressione confusa e ferita non era la sua. Non poteva essere la sua.
Rosi non l'avrebbe mai baciato. No?
“Rosi...” la chiamò di nuovo, percependo la sua voce rauca come se avesse urlato.
Stavolta funzionò; l'altra batté rapidamente le palpebre e fece un passo indietro. Chiuse e le riaprì un altro paio di volte e poi prese un profondo respiro. E lo guardò male.
È tornata.
“... stai bene?” le domandò sforzandosi di suonare normale anche se il cuore gli rimbombava talmente forte nelle orecchie che si stupiva non superasse il frinire delle cicale.
Rosi si passò una mano tra i capelli e scosse la testa. “Non tornavo indietro?” domandò in tono esitante.
“Sì … ci hai messo un po',” le spiegò. “Forse non sei più abituata.”
Era una spiegazione logica a quanto appena accaduto, a quel bacio tra Beatrice e Fortunato, in cui loro non c'entravano niente.
Gli bruciava ancora sulle labbra. “Non dovevi tornare al Bar?” le domandò ancorando quella conversazione al presente per il suo stesso bene. “Come mai sei venuta quassù?”
“Mi ci hanno portata i piedi, avevo bisogno di pensare … ma la cosa è un po' degenerata,” borbottò. La solita rossa incavolata con il mondo, ma sopratutto con sé stessa e i suoi poteri.
Tobia abbozzò nonostante tutto un sorriso. “Meno male che Ettore mi ha chiesto di seguirti.”
Rosi fece una smorfia. “Non sono una bambina, ed era lui quello a cui dovevi badare. Si sarà perso di sicuro!”
“Se la sa cavare meglio di me e te messi assieme,” scrollò le spalle. Lo pensava sul serio ma al tempo stesso si appuntò di passare in Stazione per chiedere di lui una volta riportata Rosi in paese. “Torniamo o hai qualcosa da fare qui?”
“Torniamo,” gli confermò asciutta sorpassandolo con piglio deciso. Tobia sentì un sospiro montare nel petto e la seguì.
Si accorse presto però che la baldanza dell'altra era tutta scena; quando scese la scala che collegava il sentiero al castello rallentò notevolmente, aggrappandosi al corrimano come se avesse paura che i piedi la tradissero.
“Non stai bene,” affermò stavolta, invece che chiedere.
“Mi tremano le gambe,” ammise finalmente.
Tobia la superò e le si mise davanti e la pendenza li poneva alla stessa altezza. “Nessuno si aspetta che tu risolva le cose nel giro di una giornata … o che tu ti faccia male per portare a casa un risultato. Non è per questo che io ed Ettore abbiamo chiesto il tuo aiuto.”
Rosi non era poi cambiata molto da quando erano ragazzini: era ancora pronta caricarsi tutto sulle sue spalle perché così dimostrava di meritarsi il proprio posto nel mondo. Soltanto che adesso lo faceva abbaiando ordini e buttandosi nei problemi a testa china, ma alla cieca. “Non sei sola,” disse, “risolveremo questa cosa tutti assieme.”
Qualcosa fremette sulle labbra dell'altra. Delle parole, ma non riuscirono ad uscire. Non si aspettava che lo facessero. Rosi si limitò ad annuire. “... mi aiuti a scendere?” riuscì infine a decidersi.
Tobia sorrise porgendole la mano che l'altra afferrò. Era fredda, al contrario della sua, ma gli era sempre piaciuto quel contatto. Durante le estati roventi della Montagnola, dove gli pareva di andare a fuoco, il tocco dell'amica era riposante come dormire sotto l'ombra di un albero.
L'aiutò a scendere le scale ma quando fece per liberare la mano, Rosi gliela strinse più forte. “Hai paura di inciampare nelle radici?” non poté trattenersi e un giorno il suo stupido sarcasmo sarebbe stato la sua rovina.
Si sarebbe aspettato una risposta salace e che gli schiaffeggiasse via la mano, invece l'altra lo sorprese ancora una volta. “Ho appena guardato morire un uomo,” mormorò, “forse ho paura che sia tu ad inciampare e ammazzarti.”
C'era una pennellata di ironia in quell'affermazione ma Tobia vi lesse – o sperò di farlo – anche altro. Sorrise, stringendo la presa. “Non ho intenzione di andare a far compagnia ai morti così presto... ci sono ancora parecchie cose che voglio fare.”
Come proteggere il paese … e proteggere te. Ora che me lo lasci fare.
“Sarà meglio,” sbottò l'altra. “Gnamo, o Tea davvero mi fa esplodere il Bar.”
Tobia ridacchiò; bacio o non bacio … parole bloccate in gola o meno, c'era della brace sotto la cenere. Ed era bello scoprire come, nonostante tutto, non si era davvero mai spenta.
Nonostante tutto, continuava a brillare.
 
***

Note:
La canzone citata è "What's wrong" dei PVRIS dall'album "All We Know of Heaven, All We Need of Hell", 2017

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Capitolo 8
*** 8 ***


8.
 
 
“Beatrice e Lietta!” le saluta il parroco. La tonaca è nera, immacolata, come se la polvere sulla strada non lo toccasse. “Dove andate di bello figliole?”
 
Bice sa che quella non è una domanda innocente. “Nel bosco,” risponde comunque, forzando le labbra in un sorriso.
“Non vorrete incontrare il lupo, spero,” il prete lo dice ridendo, ma non vi è gioia in quel suono. Le odia, perché sono una macchia nella sua tonica immacolata, una minaccia al suo piccolo potere di vita e di morte. Se nel comunello c'è qualcuno che salva il corpo, lui non può vendere altrettanto bene la salvezza dell'anima … e alla fine dei salmi, nessuno vuole davvero morire.
“I lupi cacciano di notte,” ribatte Lietta con tono di sfida. Bice le afferra il polso e stringe, in silenzio, per farle capire. Il parroco ha scelto la strada maestra per interrogarle e non vi è occhio che non si sia posato su di loro, seppur fingendo di far altro.
Non ha prove che siamo streghe, ma oh, come vorrebbe averle …
“Non andiamo lontano e torneremo prima del tramonto, ma grazie per la vostra premura,” mormora Bice. Con un cenno della testa si accomiatano. Gli occhi del parroco e del resto del paese le seguono, bruciando loro addosso.
 
“Mica penserà che siamo noi il lupo?” esclama divertita Lietta mentre l'abbraccio smeraldo del bosco le accoglie, con i suoi profumi e la sua quiete. Le risate lontane dei folletti solleticano loro le orecchie e le invitano al gioco.
Quant'è che Bice non parla più con i folletti del bosco? Non se lo ricorda. “Non capisci? Cerca un pretesto per rivoltarci contro il paese,” risponde amara. “Non c'è riuscito con nostra madre, potrebbe riuscirci con noi … devi smetterla di incontrare Benedetto di notte!”
Lietta serra le labbra e si massaggia il polso dove sono apparsi cinque segni rossi. Bice non voleva stringere, ma è spaventata, come mai lo è stata.
“Io e Benedetto non facciamo niente di male! Passeggiamo, parliamo … mi chiede dei mostri del bosco, e mi racconta di quelli che ha incontrato lui. Ha girato, ha visto cose incredibili e...”
“E pericolose. Come lui,” la ferma e poi le prende le mani. “Lietta,” la chiama, la implora. La sorellina si blocca nel tentativo di sgusciare via. “Ascoltami, se vi scoprono a lui non faranno niente. Dirà che ce l'hai portato tu, che gli hai fatto un maleficio … e a te invece ti porteranno in prigione. Diranno che hai ammazzato tu quella povera gente perché eri nel bosco quand'è successo!”
“Ma non sono stata io!” grida Lietta sconvolta. “Non ho fatto niente di male!” quando scoppia a piangere Bice la stringe in un abbraccio. La sente tremare e vorrebbe dirle che ha ragione, che non è giusto, che sono brave donne che hanno dedicato la loro vita ad aiutare gente che alla meglio le usa, alla peggio aspetta solo un errore per dar loro tutte le colpe del mondo.
“Ti credo,” la rassicura asciugandole le lacrime. A Lietta cola il naso come una bambina, e un'ondata di rabbia e tenerezza travolge Bice.
Vorrebbe uccidere Benedetto.
“Non sono cattiva!”
“Lo so. Non importa quello che penso io, però … ma quello che deciderà il parroco, o il signore, o chiunque altro conta più di noi. Mi devi promettere di non andarci più.”
Lietta si morde le labbra. Non è mai stata brava a mentire, ha il cuore appuntato sul petto come un trofeo e non come qualcosa da proteggere. “Voglio stare con Benedetto …”
“Se Benedetto ha intenzioni serie può cominciare a frequentare la nostra casa. Lo chiederò al babbo, non mi opporrò.”
“Davvero?” Lietta si illumina, la abbraccia e Bice ricambia con il cuore pesante. Non vi è altra soluzione però. Non vuole quel mostro in casa sua, ma almeno potrà tenerlo d'occhio.
E, cosa più importante, sua sorella non andrà più nel bosco.
 
“Dovresti far venire anche Fortunato a casa nostra. Lui non ha intenzioni serie?” le domanda mentre sono chine a raccogliere menta selvatica.
“Non aspetta altro in effetti,” ammette imbarazzata mentre Lietta ride. “Sono io a dirgli di no.”
“Perché?”
Perché sarebbe meglio non fosse associato a una come me, pensa, ma non lo dice. “Come fa Benedetto ad uscire dal castello?” chiede invece, cambiando discorso, “Di notte non faranno entrare o uscir gente.”
Lietta esita, e in quell'esitazione Bice vi legge senso di colpa. Attende però, con la schiena china e le mani piene di erbe che le profumano le dita. “... Gli ho detto delle grotte,” confessa. “Arrivano fin sotto le cantine del castello, sai? Se n'è accorto quando ha cominciato a lavorare nelle cucine e le ha percorse per un po' … ma poi si è perso. Così mi ha chiesto aiuto … e adesso per incontrarmi esce così.”
Usa le grotte degli etruschi per spostarsi. Corrono lungo tutto il bosco, hanno entrate ed uscite sconosciute ai più. E arrivano fin sotto al castello.
Bice ha capito: è così che Benedetto ha portato il mostro nel Clarus.
 
***
 
Tobia era preoccupato.
Che era un po' una condizione naturale della sua esistenza da qualche settimana a quella parte.
Sebbene fosse consapevole che c'era qualcosa di buono nel tenere la mente attiva su problemi reali, d'altro canto ciò che stava accadendo nella Montagnola aumentava la sua ansia.
Neppure l'amato bosco, con i suoi richiami di uccelli, con il suo profumo antico, riusciva a dargli pace … specialmente perché era nella macchia che stava cercando, dall'alba, i suoi amici caramogi. Di loro nessuna traccia da giorni.
Nè di loro né del beffardello, l'unica altra creatura in grado di comunicare con lui. Aveva provato ad attirare il folletto con dolci e vin santo, ma a parte trovare le cartacce vuote nei posti in cui aveva lasciato le sue offerte, di lui nessuna traccia.
Tobia tornò indietro dall'ennesimo giro infruttuoso al castello. Attraversando il ponte della manolonga si tranquillizzò solo quando udì il familiare ticchiettio delle sue unghie. Posò a terra una manciata di caramelle scartate e continuò il tragitto; nel ruscello le ondine non diedero segno di voler giocare. Era quieto e torbido e nessuno spruzzo gli bagnò le scarpe.
Si stanno nascondendo.
Era la natura delle criptidi, tuttavia nel bosco non avevano mai avuto bisogno di farlo. Era casa loro, il loro regno … che però adesso aveva un altro re.
Il serpe regolo.
Il regolo però non cacciava di giorno e quindi non si era aspettato quel silenzio. Il grido degli uccelli era più quieto, il ronzio delle cicale meno pressante … ed era una sua impressione, di certo, ma il verde e il marrone erano meno vividi. Spenti. Era come trovarsi in una qualsiasi macchia della Toscana.
Tobia continuò in direzione di casa propria. Non andava bene: il Chiaro non aveva posto nella Montagnola, si era già preso il paese e il resto del mondo … non poteva prendersi anche quell'ultimo luogo incantato.
Almeno è tornata Rosi.
Era un pensiero egoista e volle non averlo fatto, ma gli scivolò dentro come l'olio avrebbe fatto in una bottiglia.
Per questo non si accorse subito di aver lasciato il sentiero; fu sorpreso quando, alzando la testa, non riconobbe il luogo in cui si trovava.
Non si era perso, ma era in una parte del bosco che non frequentava. Il silenzio che vi regnava era ancora più intenso, tale da fargli percepire il battito del proprio cuore.
Anche le cicale avevano smesso di cantare.
Siamo vicini alla terza porta …
Uno degli ingressi alle grotte ormai inagibile, nascosta dal sottobosco. Tobia si era distratto e i piedi lo avevano condotto lì. Nel bosco nulla accadeva senza ragione quindi individuò la porta e si arrampicò lungo il pendio in cui era celata.
Non aveva con sé nessuna arma, fatto salvo per un vecchio coltello che teneva in tasca più per abitudine che per uso, e si chiese se non stesse facendo una bischerata. Il regolo si spostava tramite le grotte e usciva da esse per cacciare … e lui ci stava per entrare.
Nonostante questo continuò fino all'ingresso … e lì vi trovò quello che gli alberi avevano voluto fargli scoprire.
Lunghi solchi nella terra, foglie schiacciate il cui colore da marrone si era tramutato in bianco gesso e che scricchiolavano sotto i suoi scarponi. Odore di zolfo, lieve ma inequivocabile.
E poi, il cadavere in decomposizione di un mulinello. Il mulinello della porta della chiesa, lo riconobbe perché era un esemplare forte, dalle lucide ali nere e il muso screziato di grigio che aveva scorto tante volte, prima di essere investito da una raffica di vento e polvere. Quello che rimaneva di lui erano solo le cartilagini delle ali e ciuffi di pelo che si mischiavano al sangue, sporcando le foglie. Mosche e tafani gli ronzavano intorno in un tetro concerto di morte.
Come c'è arrivato?
Erano lontani dalla porta. Quella criptide, poi, non si sarebbe mai spostata per una distanza così grande, non ne avrebbe avuto motivo.
Questo poteva solo voler dire che qualcuno ce l'aveva portato.
Non era solo precauzione ciò che aveva spinto le criptidi del bosco a nascondersi, realizzò: era certezza di essere braccate.
Un rumore proveniente dalla grotta lo allertò; dentro il buio, qualcosa si stava muovendo. Tobia non si fermò a controllare; corse via, verso casa e verso il primo telefono disponibile.
 
***
 
Caterina quella mattina si svegliò con Maddalena nel letto.
La sorpresa per poco non la fece cadere dal materasso, e il sussulto sarebbe bastato a svegliare chiunque, ma l'altra continuò a dormire come se nulla fosse, con i piedi incastrati tra i suoi e i lunghi capelli corvini sparsi ovunque tra i due cuscini.
Caterina ricordava di essere andata a letto da sola, dopo aver passato la solita serata di chiacchiere con tutti. Maddalena le aveva dato la buonanotte ed erano riuscite a scambiarsi un bacio prima che Rosi uscisse dalla sua stanza per andare in bagno. Non aveva fatto cenno di voler dormire con lei … eppure quella mattina era lì.
Fu inevitabile farle una carezza sul viso. L'altra si limitò ad un profondo sospiro e si avvicinò.
Assomiglia a un gatto.
Era bastato invitarla una volta perché si impossessasse del suo letto una seconda … e aveva come l'impressione che non sarebbe stata l'ultima.
Cate si spostò per riposare la testa sullo stesso cuscino, passandole un braccio attorno alla vita. Dalla finestra aperta spirava il vento già tiepido di una sicura giornata rovente, ma non le importava di sudare se poteva tenere tra le braccia la ragazza più bella del mondo. Si riaddormentò.
 
Qualche minuto o ora dopo, il trillo della sveglia arrivò impietoso come una condanna a morte. Maddalena stavolta si svegliò, aggrottando le sopracciglia nell'espressione con cui si mostrava al mondo. Cate afferrò il cellulare e lo spense, gettandolo da qualche parte sul materasso. “Buongiorno,” la salutò, “e scusa per la sveglia.”
L'altra le sbadigliò in faccia per tutta risposta, scoccandole un'occhiataccia. “... 'giorno. Che ore sono?”
“Tardi, le dieci.”
“Non è tardi allora.”
“Il tuo ritmo sonno-veglia è un po' preoccupante.”
Maddalena si alzò a sedere, stiracchiandosi con gusto, cosa che portò Cate a distogliere lo sguardo. Maddalena andava a dormire vestita, ma dall'elenco mancavano decisamente dei pezzi, come ad esempio il reggiseno. E non che l'alta fosse un amante dei pigiami oversize come lei …
“Ieri notte non sono riuscita a dormire,” le spiegò, ignara del suo turbamento, “sono andata a letto all'alba.”
“Nel mio letto,” ribatté ironica rimediandosi un sorrisetto imbarazzato. “No, va bene … anzi, mi fa piacere che ci sei! Solo m'hai fatto piglià un po' un infarto stamattina...”
“Scusa, non volevo scantarti... spaventarti...”
“Mica spaventata, sorpresa!” la corresse perché non voleva passasse il messaggio che non era benvenuta nel suo letto. Per quanto la riguardava, poteva metterci le tende. “Puoi dormire con me quanto ti pare,” chiarì ulteriormente facendo finalmente sbocciare un sorriso sulle labbra dell'altra.
Maddalena si chinò su di lei per baciarla entusiasta. La bocca le sapeva di dentifricio e come cavolo era possibile dopo ore di sonno e bocca presumibilmente impastata?
Forse non ore e ore …
Perché Maddalena profumava di doccia recente, e ancora una volta un forte odore di bagnoschiuma maschile buttò Cate fuori asse, facendola irrigidire. La cosa non sfuggì all'altra da come si scostò, scoccandole un'occhiata sorpresa. “Tutto bene?”
“Sì… ehm,” non aveva modo di fare domande senza apparire una pazza. Però ce n'erano sempre più, di quelle, piccole incongruenze che necessitavano di una spiegazione.
Cate cercò di non pensarci: non doveva pensarci, avevano così poco tempo rimasto assieme e passarlo a farsi seghe mentali era da deficienti. Rispose ai baci e alle carezze e socchiuse gli occhi per abbeverarsi di lei e …
Gli occhi di Maddalena non erano come dovevano essere. Non erano neri nella pupilla e scuri nell'iride.
Erano completamente neri.
Un gioco di luce, pensò mentre un grumo di ghiaccio le serrava lo stomaco. Un gioco di luce e la fantasia troppo galoppante che le avevano sempre detto avesse, quella che le faceva blaterare di fantasmi nel cimitero e voci incorporee nel bosco quand'era bambina, finché non aveva smesso di farlo perché o la guardavano storta o la prendevano in giro.
Razionalizzare era ovvio, meno facile era aver ragione dell'istinto che le fece irrigidire i muscoli.
“Cate ..?” le domandò l'altra. I capelli, che lasciava sciolti quando dormiva, creavano una cortina attorno a lei, come una pesante tenda color inchiostro. Era per quello che gli occhi le sembravano pezzi di carbone senza neanche un'oncia di bianco?
Dov'era il bianco?
Cate le piazzò le mani sulle spalle e la fermò dal baciarla di nuovo senza che quasi se ne rendesse conto.
Maddalena al gesto si fermò, confusa. Quando batté le palpebre tornò il bianco della sclera, tornò la pupilla, tornò tutto. E c'era sempre stato, no?
Che cazzo, Cate.
“Credo che gli altri si stiano chiedendo perché un'siamo ancora scese ...” si udì mormorare, “forse dovremo scendere.”
Te lo sei solo immaginato!
Maddalena si scostò. “Va bene...” disse sedendosi lontana da lei.
Caterina non trovò di meglio che togliersi elastico e forcine con cui teneva fermi i capelli mentre dormiva. Le esplosero un po' ovunque, anche in faccia e fu un buon modo per evitare di guardare l'altra. “Vado in bagno, ci vediamo giù?”
“Cate … ho fatto qualcosa di sbagliato?”
A quel tono ansioso dovette voltarsi; Maddalena si era spostata ai piedi del letto con una faccia così contrita, così normale che si sentì immediatamente un'idiota. Non era colpa sua se aveva avuto uno svarione e le era sembrato di vedere cose che non c'erano.
Devo smettere di fumare prima di andare a letto.
“No, niente!” Le si sedette accanto prendendole una mano. Da come Maddalena era sempre svelta ad intrecciarla alla sua aveva capito che le faceva piacere, e quindi lo faceva il più possibile. “Ma non voglio fare tardi al lavoro, perché altrimenti Rosi si lamenta e poi non mi fa uscire con voi!”
Non era una bugia dopotutto. Era sul serio stupita che Rosi non fosse ancora venuta a buttarla giù dal letto a suon di berci. Glielo disse, facendola ridacchiare ed era … di nuovo Maddalena. Era la sua Maddalena, la sua ragazza per l'estate.
Era stupido, ma per quanto fosse consapevole di essersi semplicemente suggestionata, quegli occhi che le erano parsi una voragine in cui cadere le avevano tolto il respiro di bocca.
Aveva ancora il cuore in gola ed era una fortuna che l'altra non potesse sentirlo. L'avrebbe considerata una scema totale. “A dopo?”
Maddalena annuì e si sporse per darle un bacio. “Ci vediamo giù.”
Cate, una volta in bagno, si sciacquò il viso: una, due volte, per togliersi l'impressione appiccicosa e sgradevole di trovarsi nell'irrealtà di un incubo. Aveva dormito troppo.
Lanciò un grido quando qualcosa le sfiorò la caviglia; era Ariele che le rivolse fusa rumorose e ulteriori strusciamenti contro le gambe.
“... stamattina mi volete fa' piglià un infarto pe' davvero,” borbottò prendendolo in braccio e strofinando il viso contro la pelliccia calda. Il ronzio delle fusa e l'odore familiare della sua pelliccia la calmò mentre si sedeva a terra.
Doveva smettere di fumare prima di andare a dormire.
 
***

“Non va bene per niente!”
Rosi marciava avanti e indietro nel piccolo salotto di casa Neri e ci avrebbe probabilmente scavato un fosso se avesse continuato.
Ettore non disse niente, limitandosi a spostarsi accanto alla finestra spalancata e in favore di corrente, perché l'uniforme era bella, ma di certo non leggera e benché fosse solo metà mattina il sudore già gli bagnava la schiena.
“I mulinelli sono stanziali, non vanno a farsi passeggiate nel bosco,” continuò la toscana. Tobia, tornato in quel momento con i caffè, li posò sul tavolino accanto al divano senza una parola.
“Quindi secondo te il regolo l'ha cacciato e portato fin lì?” domandò Ettore.
“No, le criptidi non entrano nel paese, non possono!” ribatté Rosi con un lampo allarmato negli occhi. “Anche il mulinello viveva sulla porta … non entrano per via della protezione delle mura.”
“E dei gatti,” aggiunse Tobia.
“Li voglio proprio vedere, a cacciare chillu serpe...” ribatté ironico Ettore controllando rapido di non essere a portata di eventuali unghie feline. Per fortuna quel giorno Ermione non era lì a dargli il tormento.
“Basteranno le mura. Sono sempre bastate,” stabilì Rosi con convinzione. “E comunque no, il regolo non ha fatto tutto da solo. Qualcuno ha portato lì il mulinello per farglielo mangiare. La stessa persona che l'ha risvegliato, di sicuro.”
Tobia si sedette sul divano stringendo una tazzina tra le mani, assorto. “Il beffardello è scomparso,” mormorò, “e non trovo più i caramogi. Anche i folletti si stanno nascondendo. Il bosco è silenzioso.”
“Avranno paura … è normale,” considerò Rosi con una smorfia. “Chiamali scemi.”
“Credo che il regolo sia qui per ucciderli. Tutti.”
L'affermazione risuonò nella stanza come uno sparo. “Ma che stai dicendo?” mormorò Rosi.
“L'obiettivo di chi ha portato qui il regolo è liberare la Montagnola da tutte le sue criptidi,” rispose Tobia. “Farla diventare Chiaro.” Fissava la tazzina come se stesse vedendoci dentro qualcosa, invece che semplice caffè e neppure fatto troppo bene. “Non puoi uccidere una criptide se non la vedi. Non puoi ucciderla se non sai cos'è … alcune di esse, poi, sono predatori, non prede, come la manolonga. Ti serve qualcosa di più grosso. Come quando usi un cane da caccia per stanare una volpe.”
Rosi si passò una mano tra i capelli, scuotendo la testa. “Perché qualcuno dovrebbe volere sterminare tutta la fauna soprannaturale della Montagnola?”
“Questo non lo so … non me lo posso immaginare perché qualcuno voglia fare una cosa del genere. Però so chi sarebbe in grado di farlo.”
“I sorveglianti,” lo anticipò Ettore. “Sono gli unici, a parte noi, a conoscere la verità … quindi sono gli unici che potrebbero volerlo fare, è questo che stai dicendo?”
“I sorveglianti sono qui per proteggere l'Altrove, non distruggerlo!” esclamò Rosi inorridita. A questo giro Ettore pensò davvero avrebbe avuto un mancamento. Sudava e il viso le si era acceso di un rossore violento, rabbioso. “Non è quello che ci hanno sempre detto, quello che ci hanno sempre insegnato?” e si voltò verso Tobia mentre il tono sfumava inequivocabilmente nella supplica.
Tobia serrò le labbra. “Sì,” ammise, “ma è anche vero che tra di loro potrebbe esserci qualcuno che pensa che il compito sia un fastidio, o una condanna...”
“Non mia madre,” era lì che Rosi aveva voluto andare a parare, era chiaro da come le mani le andarono subito al pacchetto di sigarette, come fossero una poco salutare coperta di Linus. “Mia madre non farebbe mai una cosa del genere.”
“Marina no,” convenne Tobia, “ma non è la sola che amministra l'Altrove a Malacena...”
“Il Sindaco, anche, giusto?” intervenne Ettore, lieto di poter contribuire a quella conversazione che pareva escluderlo sempre di più. “Quello che vuole demolire il castello e l'accesso alle grotte.”
“Il Ghini è un idiota...” Rosi soffiò il fumo di sigaretta fuori dalla finestra, guardando qualcosa nel cimitero e aggrottando le sopracciglia, prima di riscuotersi e voltarsi di nuovo verso di loro. “Detesta essere un Sorvegliante, è terrorizzato dalle criptidi. Non sarebbe in grado di gestire un mostro del genere … Però sì,” ammise, “sicuramente le vorrebbe tutte lontane dal suo Comune.”
“E poi c'è Don Doriano,” aggiunse Tobia ed Ettore non fu stupito dall'apprendere che il prete fosse parte della Confraternita, data l'insolita conoscenza delle leggende locali che aveva dimostrato quando qualche settimana prima gli aveva chiesto indicazioni per il castello.
Di solito gli uomini di chiesa facevano di tutto per dimostrarsi superiori alle superstizioni, ma lui ne aveva parlato spontaneamente.
“Che tipo è? Se ne sta sempre rintanato nella sua chiesetta ...”
“Viene da Roma, è un prete,” si strinse nelle spalle Rosi. “Non ci ho parlato tanto, e non dell'Altrove … se mia madre non mi avesse detto che è parte della Confraternita non l'avrei mai sospettato.”
“Don Doriano stato l'unico a credermi quando ho raccontato del lupomanaio … o almeno, a non pensare me lo fossi inventato,” aggiunse Tobia e a questo Rosi avvampò di nuovo. Se avesse potuto si sarebbe accesa un'altra sigaretta ma già ne aveva una in mano, su cui concentrò tutte le proprie attenzioni.
“Beh, questo è positivo,” disse Ettore per interrompere la pausa disagiante che si era creata, “vuol dire che potrebbe non essere invischiato nell'insabbiamento … e che tiene alla sicurezza della Montagnola. Potrebbe tenerci troppo? Tanto da voler fare piazza pulita di tutto lo strano?”
Tobia ci rifletté ma poi scosse la testa. “Non lo conosco abbastanza.”
“Stiamo facendo congetture,” aggiunse Rosi, di nuovo con l'aria di chi si stava arrabbiando, e rapidamente. “Siamo ancora ad un punto morto.”
“Non del tutto,” obiettò, staccandosi dall'amata finestra e dalla sua brezza salvifica. Andò alla lavagna appesa alla parete di fronte al divano, prendendo uno dei pennarelli e cominciando a scrivere, ignorando l'espressione esasperata dell'amica. “Ecco quello che sappiamo,” esordì. “Secoli fa una criptide pericolosa arrivò nella Montagnola, chiamata da qualcuno … un uomo venuto da fuori, secondo quello che ha vissuto la tua trisavola Beatrice. Dopo aver ucciso delle persone, fu resa inoffensiva da Beatrice, anche se alla storia passò che fu combattuta vittoriosamente dal prete del paese.” Appuntò i concetti salienti e poi scrisse, poco sotto PRESENTE a lettere capitali. “Ad oggi, qualcuno ha pensato bene di risvegliarla. Non sappiamo come, ma supponiamo il perché. Vuole usarla come tritarifiuti per le criptidi. Gliele dà di fatto in pasto.”
“E in qualche modo riesce anche a controllarla,” aggiunse Tobia. “Forse riesce a farsi capire.”
“Forse,” annuì appuntandolo la nota a lato dello schema. “L'obiettivo è svuotare l'Altrove della Montagnola e farlo diventare Chiaro.”
“Il Chiaro,” lo corresse Rosi ma almeno lo stava seguendo con aria meno infuriata di prima. “E potrebbe essere uno dei sorveglianti … o uno dei vânători.”
“Chi?”
I due toscani si scambiarono l'ennesima occhiata di chi tutto sapeva e si sentiva in imbarazzo a realizzare di essere l'eccezione. Ettore sbuffò. “Uagliù, la piantiamo di dirmi le cose a pezzi? Mo' chi sono questi?”
“Sono stati chiamati per trovare il lupomanaio … ” spiegò Rosi prima di notare la sua assoluta confusione ed aggiungere. “Sono dei cacciatori di criptidi. Quando c'è una creatura pericolosa non se ne occupano i sorveglianti, ma loro … sono una specie di squadra specializzata.”
“E non abbiamo chiesto il loro aiuto perché..?”
“Perché in due anni non sono riusciti a trovare il mannaro,” intervenne Tobia cupo. “O sono incapaci, o non vogliono trovarlo.”
“O forse non sono in grado, se qualcuno glielo nasconde,” obiettò Rosi. “Forse li hanno ingannati per non farli arrivare alla verità.”
… stiamo parlando ancora di 'sti vânători?
Ettore lanciò un'occhiata verso Tobia che non aveva mutato espressione, ma in compenso fissava Rosi come se fosse l'esatto centro e senso della stanza.
No, non stiamo parlando di loro.
Si chiese per l'ennesima volta se dovesse lasciarli soli, ma c'erano cose un filo più importanti da affrontare. “Lo ripeto. Perché non stiamo chiedendo il loro aiuto?”
“Perché potrebbero benissimo essere loro ad aver risvegliato il regolo,” obiettò Tobia dandogli finalmente attenzione. “Ne avrebbero il motivo. Potrebbero volerlo usare per cacciare qualcosa di altrettanto grosso, come un mannaro. Oppure usarlo per giustificare la loro presenza, dato che in due anni non hanno portato un risultato.”
“Mi sembra una follia ...”
“Quante volte nella storia la gente ha fatto cose folli pensando avessero senso o fossero necessarie? La bomba atomica ad esempio,” ribatté Tobia pacato. “Il regolo è la nostra bomba atomica.”
Mo'...” borbottò Ettore per quanto non fosse completamente in disaccordo con l'amico. “Va bene, niente vânători. Giusto per regolarmi però, chi sono?”
“Alina e suo padre,” gli rispose Rosi.
“L'amica di tua sorella?! Ma è una ragazzina!”
“Marian credo sia la testa, e Alina semplicemente le braccia … una volta le ho chiesto di aiutarmi a spostare degli scatoloni in magazzino e ti assicuro che è un piccolo carro armato.”
Ettore inspirò, appuntando i due alla lista dei possibili sospetti. “Mo' stiamo in Teen Wolf ...” borbottò glissando sulle espressioni confuse degli altri due, che ormai era appurato fossero cresciuti in una bolla dove i media moderni non erano mai arrivati. “Quindi abbiamo trovato un plausibile perché, abbiamo una lista di sospettati, il dove direi che è dentro le grotte della Montagnola, il quando è adesso ...”
“Cos'è, un articolo di giornale?” lo prese in giro Rosi, ma alla sua faccia irritata alzò le mani. “Hai ragione. Ci manca il come però.”
“Com'è stato risvegliato il regolo,” convenne conciliante Tobia. “Non credo esistano tante persone che sono a conoscenza della sua esistenza … o di come trattarlo. Noi lo abbiamo scoperto dalla ricerca di Matilde.”
“La ricerca … il libro!” esclamò voltandosi verso gli altri due. “Maddalena ha detto che lo aveva preso in prestito e mancavano delle pagine! Le pagine che parlavano proprio del castello e del serpe!”
“Sì, ma le abbiamo recuperate e non raccontano come Benedetto lo risvegliò,” osservò Rosi con un sospiro. “Chiunque stia agendo ora non può averlo scoperto leggendo Matilde.”
Rimasero in silenzio, mentre da fuori il rumore delle cicale si mischiava ad un forte vento che però non dava cenno di spostare, neppure per sbaglio, le nuvole che sostavano sopra la Montagnola. Forse avrebbe piovuto anche quel giorno?
“Devo sognarlo,” mormorò Rosi. “Se non abbiamo modo di capirlo, devo viverlo … ma non sarà una cosa veloce,” ammise con una smorfia. “Non decido cosa sogno, stanotte per esempio ho sognato una cosa inutile … non posso arrivare alla conclusione della storia saltando dei passaggi, neanche se lo voglio.”
“Forse sognare di più velocizzerebbe il finale?” suggerì Ettore. “Riposino pomeridiano? Il Bar puoi affidarlo a Cate o a Tea nel pomeriggio.”
“E con quale scusa?”
“Hai la faccia di chi ha bisogno di dormire da un bel po' Rosì...” Ettore si voltò verso Tobia che gli diede man forte annuendo. “Se non lavorassi dodici ore al giorno d'Agosto, e ti prendessi qualche pomeriggio di ferie non credo avrebbe da ridire nessuno. Anzi.”
“Posso provare, ma non vi assicuro niente.”
“Il tuo potere...” disse Tobia con l'aria di camminare su gusci d'uovo. Da come Rosi si era irrigidita probabilmente era così. “... diventa più forte più ti avvicini al luogo da cui provengono le tue visioni. Potresti provare a dormire altrove, non in paese … forse lì ci sono più interferenze.”
“Non credo sia il caso mi metta a dormire al castello, dato quello che ci striscia sotto.”
“Non parlavo del castello, ma di qui, di casa mia,” suggerì, sempre con quel tono cauto, “siamo nel bosco dopotutto.”
Rosi aprì bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse con un profondo sospiro. “Sì,” ammise, “è una buona idea. Se non è un fastidio...”
“Non lo è … non lo è mai stato.”
Ettore immaginò un enorme “terzo incomodo” in lettere luccicanti disegnarglisi sulla fronte e quindi fu lesto a schiarirsi la voce. “Bene, direi che siamo d'accordo! Ed io ti chiederei in prestito la ricerca di Matilde … voglio provare a darci un'altra letta, magari esce qualcosa di nuovo.”
“Posso dartela anche subito se mi riaccompagni al Bar,” Rosi consultò l'orologio con un gesto rapido e nervoso del polso. “Devo rientrare, la mia spesa non può durare tre ore.”
“Andiamo allora.”
 
Quando si accomiatarono da casa del Nero rimasero per un attimo sulla soglia, mentre Rosi si accendeva l'ennesima sigaretta. Sovrappensiero gli soffiò il fumo in faccia facendogli storcere il naso. “Scusa,” borbottò.
“A Tobia il fumo addosso non lo mandi mai però, eh?” ironizzò, ma notando l'espressione imbarazzata dell'altra, sorrise. “Ti sto prendendo in giro, dai. Non ero geloso manco quando andavamo a letto assieme, figurariamoci mo'.”
“Non c'è nulla di cui essere gelosi.”
Rosì, va bene tutto, ma fesso no.”
Rosi rimase in silenzio a fissare la strada bianca di fronte a loro, calda, polverosa e poco invitante; l'idea di dover tornare a piedi con quel caldo allucinante era un pensiero doloroso come un pugno in faccia, quindi Ettore preferì distrarsi con altro.
Impicciandomi di fatti non miei, per esempio.
“Lo vuoi un consiglio da amico?” domandò, “Se non riesci e parlargli, agisci. Fa' qualcosa, perché Tobia è te che aspetta.”
“... e se fosse troppo tardi?”
“Siete sottoterra? E allora non è troppo tardi.” Le diede una pacca sulla spalla, “Ja, torniamo alla civiltà prima che il regolo ci mangi.”
Rosi abbozzò un sorriso e gli fece strada.
 
***
 
Dentro l'ufficio del Sindaco faceva caldissimo.
Il sudore scivolava lungo la schiena di Maddalena, bagnandole la maglietta. Le finestre socchiuse non lasciavano passare che un refolo d'aria, però orientato da tutt'altra parte rispetto a dove era seduta lei.
Stretta tra Stefano e Marina stava soffocando.
“Quindi pensi di esserti sbagliata?” il tono del Sindaco era sgarbato, denso di fretta di chiudere quella faccenda e Maddalena – ora che conosceva la verità – non poteva dire di non capirlo.
Lo detestava comunque.
Perché era anche ammantato della tipica sufficienza che tutti i sorveglianti le rivolgevano da quando era diventata una loro responsabilità.
Non vi è nulla di affidabile nelle parole di una succuba …
Avrebbe voluto dirgli che lo faceva per quell'idiota di suo figlio, perché nessuno meritava di morire anche se non era un granché decente come persona. Avrebbe voluto che le mostrasse un po' di riconoscenza, ma non funzionava così. Non ne avrebbe ricevuta, perché bisognava fare tìatro, e lei in quel momento, era una delle comparse più importanti.
Il ventilatore puntato sulla scrivania del Sindaco sembrava succhiare aria della stanza mentre l'umidità le si attaccava addosso come una seconda pelle. Lontano, ma onnipresente, il frinire delle cicale.
“Credevo di aver riconosciuto l'odore di una criptide … ma mi sono sbagliata,” confermò piatta. “Era quello di un cinghiale, Caterina mi ha mostrato delle tracce e avevano lo stesso odore. Mi sono sbagliata,” ripeté, “non era il lupomanaio.”
Aveva gli occhi di tutti addosso; Stefano, che non diceva niente ma probabilmente l'avrebbe tempestata di domande una volta fuori. Marina, che le aveva chiesto di mentire e stava controllando quanto lo stesse facendo bene. Il Sindaco, il prete …
… e infine i vânători. Non voleva guardare nella loro direzione perché poteva immaginarsi benissimo le loro espressioni. I loro pensieri.
Strinse le mani in grembo, attendendo la prossima domanda.
“E la tenda?” domandò il Sindaco, “hai detto che pensavi che qualcuno te l'avesse sostituita.”
“Mi sono fatta suggestionare …”
Era umiliante. Stava affastellando una serie di scuse patetiche che potevano riflettere due cose; o che stesse mentendo, oppure che stesse dicendo la verità dopo aver mentito per causare scompiglio.
Proprio quello che accusano sempre la mia razza di fare. Solo che io non l'ho fatto mai.
“Quindi hai mentito?” stimò il sindaco compiaciuto.
Mai, lo feci.
Maddalena aveva un brutto carattere. Glielo avevano sempre rinfacciato ed era vero, era una cosa che doveva controllare come controllava la fame.
Di solito, però, ci riusciva molto peggio.
“Non haiu mentito!” sbottò. La presenza di Marina, a pochi centimetri da lei, le ricordò la promessa. Non servì che dicesse nulla, le bastò spostarsi sulla sedia mentre il suo profumo la investiva. Il suo odore, per associazione mnemonica, le ricordò cosa c'era in bilico.
“Io … credevo a quello che ho detto,” balbettò, “ma mi suggestionai per il plenilunio, e da quello che mi è stato raccontato del mannaro … poi ci pìnzai… e sono venuta a dirvi che mi sono sbagliata. E la tenda … la tenda putissi macari esseri mia.” Esitò e poi, con la bocca amara, concluse: “Mi dispiace avervi fatto perdere tempo.”
Il Sindaco fece una smorfia. “Delle tue scuse ce ne facciamo poco, hai messo in subbuglio un'intera Confraternita per una suggestione. Spero ti renderai conto della gravità...”
“Sono sicura che se ne renda conto, Carlo,” lo interruppe Marina rivolgendole un sorriso; avrebbe voluto ricambiare, ma l'ansia le fece a malapena tirare le labbra in una smorfia.
“Maddalena è venuta qui anche per scusarsi, no? E per dire che ha preso un abbaglio. Penso che sia comunque un gesto da apprezzare.”
L'uomo sbuffò come un ragazzino redarguito, per poi voltarsi verso i due rumeni. “Avete domande?”
Maddalena continuò a concentrarsi sul ventilatore alle spalle del Sindaco. Non c'era proprio verso che il maledetto affare si girasse nella sua direzione per darle refrigerio ... o per quanto valeva, in qualsiasi direzione che non fosse quella del suo proprietario.
E tuo figlio non è meglio. Siete due stronzi … ma non meritate i vânători. Nessuno se li merita.
“Una, in effetti,” disse il più anziano, che a giudicare dai colori slavati che condivideva con Alina, doveva essere il famoso tata che tante volte le aveva impedito di unirsi al gruppo.
Dovrei quasi ringraziarlo, se non volesse ammazzarmi.
Si voltò verso di lui e deglutì perché pur in sedia a rotelle l'uomo emanava un'aria di pericolo. Non poteva alzarsi in piedi e aggredirla, ma la sua espressione la suggeriva come una possibilità concreta. “Chi ti ha fatto cambiare idea?”
“In che senso?”
“Eri talmente convinta che il lupomanaio avesse devastato il vostro campeggio che l'hai raccontato a mia figlia, una vânător," in bocca a lui, con l'accento che doveva avere, quel nome suonava aspro, cupo. Era il suono che probabilmente doveva avere, e le mise i brividi. "O non hai idea di cosa succede a mentire a quelli come noi, o sei incredibilmente stupida.”
La paura le strinse lo stomaco; avrebbero davvero potuto ucciderla per una bugia? Istintivamente si voltò verso Stefano.
“Non ha detto una bugia,” osservò l'amico accigliandosi. “Un cinghiale è entrato nel nostro campo proprio durante il plenilunio, è normale supporre che potesse trattarsi di qualcosa di soprannaturale, dato il numero di criptidi presenti nel bosco. Come ha detto la Signora Silvani, Maddalena si è anche corretta.”
“Oppure qualcuno l'ha fatta ritrattare,” ribatté il vânător.
L'accusa era stata lanciata e un denso silenzio, interrotto solo dal ronzare del ventilatore, filtrò nella stanza.
Marina si spostò ancora e una nuova ondata di profumo assalì le narici di Maddalena: era dolciastro, floreale, troppo forte. Le diede la nausea.
“Se vuoi lanciare delle accuse, Marian, fallo apertamente,” disse la donna, “ma dacci anche un nome.”
“Non ho un nome. Ho delle ipotesi,” ribatté l'uomo con un sorriso che non raggiunse il resto del volto, “Il mio compito è di trovare il mannaro e liberare il vostro territorio, ma anche quello di catturare un eventuale complice umano di quella bestia.”
“Non mi ha fatto ritrattare nessuno...” mormorò Maddalena, che a quel punto voleva solo che finisse il prima possibile, “l'ho già detto, mi sbagliai.”
Il sindaco batté una mano sulla scrivania, come a sancire un suo nuovo intervento: “Direi che questo chiude la questione,” disse, “a meno che non abbiate ancora domande … o ipotesi.”
“No, per ora nessuna.” Il tono ironico non dovette notarlo soltanto lei.
La riunione si concluse rapidamente, e tutti, ad eccezione del Sindaco, sciamarono lungo le scale del Comune. Stefano le si affiancò. “Dovresti spiegarmi un po' meglio quello che è successo qui ...” esordì, serio e rigido come aveva previsto. “Perché non mi avevi detto di aver parlato con Alina, né che avevi deciso di ritrattare.”
Era una richiesta sensata, tuttavia in quel momento Maddalena voleva perdersi in qualche vicolo del paese e dimenticarsi dell'umano creato. “Ho bisogno di stare da sola, Ste … stasera, magari?” propose. “Dobbiamo comunque uscire, avremo tempo per parlare.”
L'altro sospirò, ma fece anche un cenno di assenso. “Non ti allontanare troppo però, dovrebbe piovere.”
Si separarono di fronte al Bar e Maddalena fu contenta che Caterina non fosse in vista; forse stava servendo i tavoli all'interno. Era un bene, perché se se la fosse trovata davanti l'avrebbe portata via con sé, lontano da tutti e dove potevano essere soltanto loro due.
Caterina era l'unica persona che non strabordava nei suoi spazi; si accomodava e diventava parte della soluzione.
Quando in realtà era un problema, perché presto non sarebbero più state assieme.
Maddalena si infilò le cuffie nelle orecchie e non controllò dove gli altri partecipanti alla riunione si fossero diretti. Non le interessava, era finalmente sola. Si inerpicò per le strette stradine che portavano nella parte alta del paese, mentre il grigio delle nuvole si tramutava in piombo. Più saliva verso Castiglioscuro, più le nuvole diventavano scure.
 
Down in the forest with the devil in me
I remember the looks on their faces
through the sycamore trees
 
Era così concentrata nella fatica della salita e nella canzone che stava ascoltando che non sentì che qualcuno le arrivava alle spalle.
Fu strattonata per una spalla e quando si voltò, Alina era lì. “Io e te adesso parliamo.”
La spinse in un vicolo. Oltre a loro non c'era nessuno, solo il cielo pumbleo e il frinire delle cicale.
 
***
 
Note:
 
So che sono passati due mesi, e non ho scuse, se non come al solito che da adulti, si fa davvero fatica a sta dietro a quello che davvero ti piace.
Per chi ancora mi legge nonostante tutto: grazie.
La canzone citata è “Hellfire” di Barns Courtney.

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.
 
 
Benedetto ha accettato l'invito.
Così le dice Lietta, eccitata come una bambina la notte prima del suo compleanno mentre preparano la cena che lo introdurrà nella loro famiglia.
Il babbo ha accolto con soddisfazione la notizia che l'uomo venuto da fuori stia facendo la corte alla più giovane delle sue figlie. È un matrimonio conveniente, quello, con un lavoro sicuro al castello e la benevolenza del Malavolti in persona, che a volte chiama Benedetto alla sua tavola.
Bice si morde la lingua mentre stende la tovaglia delle grande occasioni, quella che la mamma ha cucito con le sue mani e su cui adesso mangerà quel mostro.
 
Benedetto quella sera è brillante come non mai. Intrattiene, sforna lazzi e strega suo padre, che gli versa più volte il vino, e ne beve altrettanto. Lietta pende dalle sue labbra e lei vorrebbe soltanto urlare.
Quella mattina è arrivata la notizia che è morto un altro armigero. Il cuore di Bice si è stretto in una morsa finché non hanno detto il nome. Solo allora, non riconoscendolo, ha tirato un sospiro di sollievo.
Il castello è sul piede di guerra e il comunello è silenzioso oltre le finestre lasciate aperte per far entrare l'aria fresca della sera. Sono tutti chiusi in casa, e le risate di Benedetto e suo padre si fanno beffe della paura che serpeggia lungo la collina.
Dovete restare a dormire qui,” gli dice il babbo, “è troppo pericoloso passare per il bosco con quel lupo maledetto.
Rimanete!” lo supplica Lietta. “Bice, diglielo anche tu che è pericoloso … lo dici sempre!”
Il pericolo ce l'hanno in casa, pensa Bice. Guarda la bella tovaglia della mamma, sozza di macchie di vino e di brodo. “Potete dormire da noi,” mastica tra i denti come fosse una radice amara, “se vi accontentate del fienile.”
 
Bice non vuole che Lietta rimanga sola con il mostro, quindi le ordina senza mezzi termini di aiutare il babbo, ormai ubriaco, a salire al piano di sopra.
Venite,” dice a Benedetto che la segue fuori. Nell'aia, i lumi alle finestre dei vicini sono spenti e non vola una mosca. Persino gli animali sono quieti.
Il respiro di Benedetto dietro di lei la spaventa; paiono le uniche creature vive sulla terra mentre entrano nella baracca che odora di fieno ed erba. Benedetto, appena sono dentro, le si avvicina rapido come una serpe e Bice indietreggia fino a sbattere contro la parete. Vorrebbe ucciderlo. Vorrebbe avere la forza di mille uomini per liberare la sua famiglia dalla sua presenza.
Perché avete tanta paura di me?” le domanda posandole una mano sulla spalla, facendo scivolare le dita oltre la veste, e sulla pelle nuda. “Siamo simili, dovremo essere amici.”
Statemi lontano!”
Non credo sia possibile ora che sono parte della vostra bella famiglia … a proposito, vi ringrazio dell'invito, Lietta mi ha detto che è partito da voi.”
Solo perché non voglio che vi segua nel bosco!”
Benedetto sorride, ma ha gli occhi vuoti, come quelli di un rapace. La terrorizzano. “È soltanto questo quello di cui avete paura?”
Bice serra le labbra, tenta di non far scappare le parole, ma quelle escono inarrestabili come acqua di fiume. “Il mostro che avete portato qui … non vi permetterò di fare del male ad altra gente!”
Come mi fermerete, Beatrice?” le domanda, inclinando la testa in una caricatura grottesca di bimbo curioso. “Siete una donna e tutti pensano che siate una strega … vi tollerano perché hanno bisogno di voi, ma vi disprezzano. Il prete vi vorrebbe sotto una pila di sassi. Non potete fare niente. Io, invece, posso sempre incolpare voi o vostra sorella delle mie azioni ora che mi avete accolto in famiglia. Posso fare quello che voglio.”
Il sangue le si gela nelle vene mentre Benedetto ride. La voglia di ucciderlo è così forte che si volta verso il forcone appoggiato all'ingresso. Anche Benedetto segue la direzione del suo sguardo e ride più forte mentre la afferra per un braccio e la bacia.
La sua lingua umida le si infila in bocca e Bice, nel panico, lo morde. Benedetto non smette di ridere con il sangue alle labbra mentre Bice si divincola e scappa dal fienile con le lacrime agli occhi.
 
***
 
 
Devi avere paura degli uomini, non dei mostri.
- tratto dal film “Io non ho paura” di G. Salvadores
 
 
Maddalena sbatté contro la parete del vicolo dove l'aveva Alina l'aveva trascinata e poi spinta.
Avrebbe voluto reagire, ma la testa aveva preso a ronzarle come se vi fossero dentro migliaia di mosche impazzite.
“Hai ritrattato,” disse Alina, “Chi ti ha fatto cambiare idea?”
“Mi sbagli...”
Alina non le diede il tempo di finire. Tutto diventò bianco, quello del dolore accecante che le esplose in faccia.
Alina l’aveva colpita con un pugno. La sorpresa fu tale che il sapore del sangue arrivò dopo. Un secolo dopo Maddalena si passò una mano sulle labbra e questa si sporcò di rosso.
“Non ti sei sbagliata, hai mentito perché te l'ha chiesto qualcuno,” rispose Alina e l'accento rendeva le parole distorte, quasi incomprensibili. Puzzava orribilmente di adrenalina e le sue pupille erano dilatate di rabbia incontrollata. “Smettila di mentire,” sibilò.
In quella parte di paese, in pieno pomeriggio, non passava nessuno. Maddalena tante volte si era persa per quei vicolini dove le persiane erano chiuse, e rotte, e le case disabitate. Non aveva mai incrociato anima viva.
Un'ombra si disegnò su un balcone, ma fu rapida, scattante e Maddalena realizzò che non era umana. Era appena passato un gatto e, purtroppo, un animale non poteva aiutarla.
“Chi ti ha detto di ritrattare?”
 
Puttana! Non sei nient'altro che una puttana! Te ne esci la notte per scopare e lasci qui me e tua figlia!”
 
Non mi lascerà scappare.
Alina le sbarrava l'uscita del vicolo, che dall’altra parte finiva in un vecchio giardino abbandonato e reso selvaggio dalle erbacce. Era chiuso da un cancello: l'aveva spinta lì perché doveva già aver calcolato un suo possibile tentativo di fuga.
Non posso scappare.
Il sangue le colava dal mento, sporcandole la maglietta.
“Chi ti ha chiesto di ritrattare?”
Si avvicinò di nuovo e Maddalena istintivamente – ricordava bene la lezione – mise le braccia attorno al viso, incassa la testa nelle spalle. Aspettò.
 
Alina, che stai facendo?!”
 
Era la voce di Marina Silvani. La donna entrò nel vicolo e di nuovo, un'ombra piccola e scura le sfrecciò a fianco, infilandosi tra le sbarre del cancello; era il gatto di prima, riconobbe il manto tigrato prima che si tuffasse tra l'erba alta del giardino.
Alina si voltò. “Non sono affari tuoi Marina,” disse ma la voce non era come prima. Tradiva paura.
“Non direi proprio!” sbottò la donna e piccola, tonda e fuori forma com'era scostò la rumena come se fosse stato un fuscello. Impallidì. “Che le hai fatto?!”
“La stavo interrogando.”
“La stavi massacrando!” ritorse. “Vattene subito!”
“Sono una vânător, posso fare quello che voglio con una criptide sospettata di attività illecite.” Alina era furiosa. Era avvampata e stringeva i pugni. Stava avendo una crisi di nervi in piena regola ed era forse più pericolosa di prima. Maddalena avrebbe voluto avvertire Marina, ma non le usciva la voce.
“Non fai quello che vuoi a casa mia,” ritorse Marina. Le si rivolgeva quietamente, come una madre delusa. “Maddalena è sotto la mia responsabilità. Questi metodi da torturatori portali altrove, e dillo a tuo padre. Ti ha mandato lui a cercarla, vero?”
Alina fece un passo indietro e Maddalena, che controllava ogni suo gesto e conosceva il linguaggio corporeo dei violenti, tirò un sospiro di sollievo
“Stiamo facendo il nostro lavoro,” disse con voce rotta. Quasi la implorò. “Spostati e fammi interrogare la succuba … le farò dire la verità.”
“E se non mi sposto cosa farai? Picchierai anche me?”
Il colore sul viso di Alina se ne andò del tutto. “Io...” aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “L'hai fatta ritrattare tu,” sussurrò e Maddalena non riuscì a capire se fosse una domanda o un'attestazione, o entrambe le cose. “Perché?”
“Si è corretta, non ha ritrattato.”
“Non è vero!”
“Allora dimostralo.” Marina era una donnina da niente, persino più bassa di sua madre, ma in quel momento aveva la statura di una quercia che non si sarebbe mossa neppure di fronte alla furia della tempesta. “Lascia stare Maddalena, lei non c'entra niente.”
“Lo scopriremo,” disse Alina facendo un altro passo indietro, “lo scopriremo e finirete tutti nei guai.”
Avrebbe probabilmente dovuto essere una minaccia ma ancora una volta aveva il suono di una supplica.
“Torna a casa Alina,” ripeté Marina con voce stanca. “Tu e tuo padre avete oltrepassato il limite.”
Alina ne andò com'era arrivata. I suoi passi risuonarono a lungo, amplificati dai vicoli deserti.
Marina si voltò e quella che era stata una roccia di delusione genitoriale si sgretolò in un'espressione ansiosa. “Tesoro mio, mi dispiace tanto...” mormorò, afferrando la borsa e rovesciandone a terra mezzo contenuto per trovare un fazzoletto pulito che le premette tra le mani. “Tamponati il sangue, su, non è niente...”
Maddalena cercò di non piangere, ma fallì miseramente finendo per crollare sulla spalla della donna, che nonostante il sangue, le lacrime e il probabile moccio non si scostò, carezzandole la schiena con la sicurezza di chi lo faceva da una vita.
“Va tutto bene,” le mormorò gentile, “sei al sicuro adesso … ci sono qui io.”
Le lasciò il tempo di calmarsi, poi la sciolse dall'abbraccio regalandole l'intero pacchetto di fazzoletti. “Su … adesso andiamo a sciacquare la faccia e mettere un po' di disinfettante.”
“Come hai fatto a capire che ero qui?” le chiese continuando a tamponare il naso e la bocca con il fazzoletto. Il sangue si era già arrestato, ma non il dolore né tantomeno la paura. Aveva il cuore che le rimbombava nelle orecchie. Doveva distrarsi e quella era una domanda come un'altra.
“Ho avuto un piccolo aiuto, ma ti stavo già seguendo. Avevo notato che Alina ti stava venendo dietro. Mi dispiace, non pensavo ti avrebbe aggredita così!”
“Sto bene,” minimizzò. “L'importante è che il segreto di Elia sia al sicuro.”
“Sei davvero una brava cittina … Elia è fortunato ad averti come amica.”
Maddalena volle obbiettare che non era certo per amicizia verso quel cretino omofobo che si era cacciata in quel guaio, ma era inutile perdersi in tanti discorsi.
L'ho fatto perché non sono quello che dite. Sono molto meglio.
Una piccola scintilla di orgoglio le si accese in petto. Il Sindaco l'aveva trattata in modo orribile, il vânător in sedia a rotelle l'aveva minacciata e infine Alina l'aveva aggredita …
Però ho resistito. Ho fatto la cosa giusta.
 
Marina la accompagnò in Piazza, controllando ogni suo passo manco avesse paura che le svenisse in braccio. La piazza era come sempre piena di gente che non risparmiò occhiate e parole a mezza voce, come in ogni tipico paesino. Per fortuna con lei c'era Marina, che evase le domande dei più curiosi con rassicurazioni e sorrisi. “È caduta e si è fatta male, ora ci mettiamo un cerotto!” scherzò, gettando un'occhiata dentro il Bar da cui usciva musica italiana a tutto volume.
 
Avrei bisogno di parlare con qualcuno di gentile
Perché non passi qui?
 
A giudicare dalla selezione musicale Rosi non c'era. C'era Caterina, e Maddalena fu lesta ad infilare l'ingresso secondario di casa Silvani prima che la ragazza uscisse. Se le fosse andata incontro, orgoglio o non orgoglio, sarebbe di nuovo scoppiata a piangere.
 
Marina la portò in camera propria e la fece sedere sul letto. Controllò con accuratezza lo stato del suo naso, decretandolo fortunatamente come contuso. Poi, occhiali a mezzaluna ben inforcati, disinfettò il taglio sul labbro con qualcosa che bruciava e odorava di erba. Che era un po' l'odore dominante in quella stanza di vecchi mobili scuri e tende di pizzo. Alzando la testa per farsi medicare Maddalena notò decine di mazzi di erbe appesi alle travi del soffitto. La libreria, oltre a volumi che non sarebbero sfigurati sugli scaffali di un mercatino dell'usato, ospitava anche boccettine e vasetti pieni di sostanze scure e foglie, frutti e persino un serpente.
Siamo in Harry Potter?
“Che roba mi stai mettendo?”
“Una mistura di erbe. Centella asiatica, sedum e un po' di stregona gialla. ” La sua espressione diffidente fece ridacchiare la donna. “Che c'è, non ti fidi? Sono rimedi naturali, ma molto efficaci.”
“No, è che mi sarei aspettata qualcosa di più … ospedaliero.”
“Perché sono un’infermiera?” Marina sorrise. “La medicina moderna non va necessariamente in conflitto con quella delle nostre nonne e, nel mio caso, quella della mia famiglia.
Noi Silvani abbiamo sempre trovato tutto ciò che ci serviva nel bosco. Le erbe e i fiori della Montagnola, colti nel giusto momento e trattati correttamente, sono perfetti per curare voi criptidi. Naturalmente, per i mali più seri, sarei la prima a dirti di andare in ospedale!”
Maddalena annuì distratta. Stava pensando al poi.
Come spiegherò 'sta faccia a Michi e Cate? E a Ste …? Ste non crederà manco per sbaglio che sono inciampata.
Avrebbe dovuto dirgli la verità e l'idea di sostenere quella conversazione con quello che di fatto rimaneva il suo sorvegliante le stringeva lo stomaco in una morsa.
Gli ho nascosto troppe cose.
Non avrebbe potuto evitare di dirgli dell'aggressione … ce l'aveva letteralmente stampata in faccia.
“Mi dispiace,” mormorò Marina fraintendendo il suo silenzio, “deve farti molto male, vero?”
“Sto bene,” ribadì, “ho passato di peggio.”
“Non lo metto in dubbio...” sospirò, “ti lascio la boccetta. È anche un cicatrizzante, se il taglio si riapre mettine qualche goccina, va bene?”
Maddalena annuì, alzandosi dal letto. Voleva solo andare a sdraiarsi e dormire mille anni.
“Ti fa male da qualche altra parte?”
“No. Grazie a te non ha fatto in tempo a farmi dire la verità come voleva.”
“Non devi ringraziarmi,” ribatté la donna con una smorfia. “Quello che ha fatto Alina avrà delle conseguenze. Parlerò con la Confraternita Maggiore di Siena. Lei e suo padre non possono diventare un pericolo. Li farò rimuovere.”
“Puoi farlo?”
“Siamo stati noi ad averli chiamati, possiamo anche mandarli via,” esitò. “Non sarà facile, come puoi intuire, dato che hanno i loro sospetti … ma con te hanno oltrepassato il limite. Dopo quello che ti ha fatto Alina sarà più facile allontanarli.”
“Cosa racconterò a Stefano invece?”
Marina rimase un attimo in silenzio. “La verità,” rispose poi, “Alina ti ha aggredito perché suo padre pensa che qualcuno ti abbia fatto cambiare la versione dei fatti. Questo puoi dirglielo … non metterà nei guai Elia.”
Maddalena annuì. Marina era ancora seduta sul letto a rimuginare quando la lasciò, salutandola e chiudendo la porta. Era davvero stanca; salì a piano di sopra e si buttò sul letto chiudendo gli occhi.
Si addormentò quasi subito, ma non sognò. Per fortuna.
 
***
 
“Ho capito che stai preoccupato per i tuoi folletti, ma non puoi andare nel bosco da solo!”
Tobia sospirò; la voce di Ettore dall'altro capo del telefono era quella della ragione.
Non poteva fare a meno di pensare di non stare facendo comunque abbastanza. “Il regolo non caccia di giorno.”
“Però noi l'abbiamo incontrato quando?”
“Di giorno,” ammise, “ma anche Rosi pensa che fosse un caso, che fosse stato disturbato da qualcosa.”
“Un po' troppo conveniente,” ribatté Ettore, “fammi un favore, Tobì, fa' stare Ettore tuo col cuore sereno. Stattene nel cimitero finché non troviamo il modo per liberarci di quel serpentone.”
Tobia sospirò di nuovo. “Hai parlato coi gatti?”
“Buoni quelli!” sbottò, tanto che dovette allontanare la cornetta. “Mi fanno il picchetto d'onore, ma non fiatano … manco na sillaba! Per poco stamattina Ferruzzi non mi ha beccato che ci ragionavo come se fossero cristiani.”
“Beh, per te un po' lo sono.”
Vaffamocc'
“Ti farei parlare con Ermione ma non andate molto d'accordo.”
“La tua gatta è 'na chiattilla,” brontolò Ettore, “comunque non sono rimasto con le mani in mano. Mi sono fatto dare la ricerca di Matilde.”
“Hai trovato qualcosa di nuovo?”
“No, però mi è venuto 'nu pensiero.” Esitò per qualche attimo poi mugugnò qualcosa che non riuscì a capire.
“Come?”
“... il fantasma.”
“Quale?”
“Quale … chello e’ Matilde!” Sbottò esasperato “Non ci possiamo andare a scambiare qualche parola?”
“Cosa vorresti chiederle?”
Tobia udì il rumore di una sedia che veniva spostata bruscamente. Ettore si era alzato e poi, dopo qualche passo, chiuse una porta a vetri con gran rumore. Era quella del suo ufficio. “Magari si ricorda qualcos'altro del regolo. E poi qualcuno ha strappato le pagine della copia in biblioteca. Forse ha visto chi è stato.”
“Non funziona così con i fantasmi, non li puoi interrogare come se fossero vivi,” gli fece notare.
Vabbuò, agg’è capito, è un'idea stupida...”
“No,” sorrise Tobia, “non costa niente e potrebbe aiutarci a capire chi muove il regolo.”
“Bene!” esclamò soddisfatto. “Ja, ti saluto che vado a fare il lavoro mio … e ah, per Rosi,” disse con un tono che sfumava in evidente, terrificante malizia, “bel colpo invitarla a dormire da te, Casanova!”
“Non l'ho invitata con secondi fini...” mormorò mentre gli scottava la faccia come ad un ragazzino del liceo. Forse da quella fase non era mai uscito, almeno per quanto riguardava le donne.
Ettore sbuffò. “Adesso capisco perché ci avete messo cinque anni a riavvicinarvi! Siete due fessi!” e riattaccò senza dargli la possibilità di ribattere.
Non fece in tempo a riflettere sulla fine di quella telefonata che un rumore arrivò dalla cucina. Non era Ermione, che sonnecchiava sul davanzale e che alzò la testa vigile. Fu anche la prima a correre nella direzione del suono, costringendolo a seguirla.
La cucina era immersa nella penombra azzurrina del tardo pomeriggio e appariva deserta. Tobia afferrò uno degli scalpelli e diede un’occhiata in giro; era tutto perfettamente in ordine, ma poi notò che uno degli sportelli della credenza, quello più basso, era aperto. Non ricordava di aver preso niente da lì dentro.
Un soffio rabbioso da Ermione catturò la sua attenzione. La gatta era con metà del corpo sotto il tavolo, il pelo gonfio e la coda raddoppiata di volume; stava puntando qualcosa.
Tobia strinse lo scalpello e si chinò. “Chi c'è?”
“C'è!” gracchiò una vocetta. “C'è! C'è!”
Era Nasone. Riconobbe la nappa bitorzoluta prima di tutto il resto. Il caramogio era acquattato sotto le sedie, in compagnia di Gobbo, che piagnucolava dietro il fratello.
Tobia afferrò la gatta per la collottola, tirandola indietro. “Sono amici, non fargli male.”
Questa lanciò un altro soffio di avvertimento, poi, con un guizzo si liberò dalla presa e saltò sul ripiano del lavello, da dove continuò a controllare i due folletti con grandi e sospettosi occhi gialli.
“Ragazzi adesso mi rubate il pane?” si accovacciò, felice di vederli, “Bastava chiedere, non dovete avere paura.”
I due, che avevano le manine adunche artigliate su due tozzi di pane vecchio, piagnucolarono in coro. “Chiedere!” disse Nasone, “Chiedere, paura!” e indicò Ermione che per tutta risposta prese a fare le fusa soddisfatta.
“Fa' soltanto il suo lavoro … non dovreste entrare nelle case custodite dai gatti, conoscete il patto,” sospirò divertito suo malgrado da quella scenetta. “Gnamo, uscite fuori che vi do qualcosa di più buono,” poi notò che mancava uno dei tre all'appello. “Dov'è Bascula?”
I due caramogi ripresero a piagnucolare. E Tobia capì. “Dov'è?” domandò con il cuore pesante. “Perché non è con voi?”
“Non noi!” disse Nasone mentre grosse lacrime gli rotolavano lungo le guance grinzose.
“Perché siete venuti qui? Siete scappati dal serpe regolo?”
“Serpe!” convenne tremante Gobbo da dietro la spalla del fratello, “Scappati serpe!”
“Bascula è rimasto indietro...” concluse per loro. Il terzo caramogio era zoppo e più lento rispetto agli altri due. Una preda perfetta. Tobia si alzò in piedi. “Restate qui. Non vi muovete da casa mia, avete capito?”
Rovistò nei cassetti della cucina finché non trovò la vecchia torcia dinamo di suo nonno, intascò il coltello e si chiuse la porta di casa dietro a doppia mandata.
Il sole era appena tramontato dietro la collina.
 
***
 
Ettore salutò i suoi sottoposti, raccomandando a Ferruzzi, di guardia quella notte, di tenere gli occhi aperti.
Era già una settimana che gli faceva quella raccomandazione e il buon uomo gli rivolse un'occhiata perplessa, ma si limitò al solito ed efficiente: “Comandi!”
Mentre usciva dalla stazione passò accanto al picchetto felino – ormai ribattezzato così anche dagli altri carabinieri; i gatti lo salutarono con beffardi occhiolini e qualche strusciamenti. “Ja, lasciatemi stare che non è aria...” sbuffò avendo troppo cuore per tirare un calcio al micetto che gli si stava rotolando tra le scarpe. “Dov'è la vostra dignità?”
“È un cucciolo randagio quello,” gli rispose Ariele sdraiato sul muretto che circondava lo stabile. “Spera di avere del cibo.”
“Chiedetelo a Ferruzzi,” ribatté afferrando il gattino e portandolo all'altezza del viso. “Agg'è capito picciriè?”
La pulce ricambiò con fusa rumorosissime. “Mamma,” miagolò con suo sommo orrore. Lo mollò a terra tra un coro di risate feline.
Tenete qualcosa da dirmi o state a strunzià?”
“Perché non entrambi?” ribatté Ariele senza scomporsi.
“Allora datemi qualche informazione! Tipo … come si elimina quel mostro e soprattutto chi ha fatto ‘sto bùrdell?”
“Gliel’ho già detto, di entrambe le domande non conosciamo la risposta. Io e gli altri Custodi non eravamo presenti quando il serpe regolo si è svegliato la prima volta.”
“E vabbuò, ma non avete chessò …”
“Della letteratura in merito come la ricerca di Matilde Silvani?” suggerì beffardo Ariele, “Trovandoci privi di pollici opponibili temo che questo non sia possibile.”
“Hai capito chill cà volevo dire! Non vi tramandate nessuna storia?”
“Ci accomuna troppo facilmente a voi Bipedi, Maresciallo. È la vostra razza che si tramandata ricordi da persona a persona. Da avi ad eredi … alcune famiglie, del resto, vivono qui da secoli.”
“Tipo quella della Rosina ...”
“Non solo e non solamente,” disse Ariele socchiudendo gli occhi color giada. Attorno agli altri gatti appariva come un dignitoso monarca circondato da sodali. Doveva ammetterlo, faceva un certo effetto, specialmente nel lento digradare verso la notte.
“Ti dispiacerebbe essere 'nu poco più chiaro?”
“Prima di noi non c’erano soltanto gli esseri umani,” fu l'annoiata risposta. “All'epoca del primo risveglio vivevano anche le creature che respingiamo ogni notte dai confini del paese. Alcune di loro sono ancora vive.”
“Il regolo vuoi dire.”
“Il regolo non è l'unica criptide presente al primo e secondo risveglio,” stavolta Ariele suonò un po' esasperato ed Ettore sogghignò; forse aveva trovato un modo per scalfire quel vezzo di vaticinare tipico dei gatti.
Fare lo scemo.
“Quindi state parlando delle altre criptidi della Montagnola … Ja, e chi sarebbero 'sti matusalemme? Ci passano secoli!”
“Noi ci limitiamo a cacciarli, Maresciallo, non è nostro dovere conoscere i loro nomi o la loro aspettativa di vita. Immagino che queste informazioni possano essere reperite da un sorvegliante però.”
“Sì, probabile...” dovette ammettere.
Ariele socchiuse gli occhi soddisfatto. “Se le siamo stati d'aiuto, si ricordi di noi domani mattina. Del tonno in scatola andrà benissimo.”
Ettore sbuffò, ma dovette riconoscere che quei sacchi di pulci ambigui qualcosa se l'erano pur meritato. “Vabbuò ... se avete altro da dirmi, sapete dove trovarmi.”
“Sempre, Maresciallo. Buona serata.”
Li salutò con un tocco del cappello – che sperò vivamente non fosse visto da nessun essere umano nel raggio di chilometri – e si incamminò verso casa.
Devo chiamare subito Tobia e Rosi. Magari sanno di che criptide si sta parlando!
Chiamò prima Tobia ma il telefono di casa squillò a lungo. Un brutto presentimento gli strisciò addosso come una febbre. Il Nero aveva imparato a rispondere dopo pochi squilli ormai.
I suoi passi, quasi senza che se ne accorgesse, deviarono verso la porta del paese.
I lampioni erano già accesi e i malacenesi stavano rincasando, tra il lento incedere degli anziani e il fare frettoloso di madri e padri di famiglia. I pochi bambini rimasti in paese per l’estate erano già rincasati portandosi dietro palloni e schiamazzi. Come sempre, a quell’ora, non incrociò molte persone: tutti sembravano avere una gran voglia di chiudersi in casa, tra i solidi mattoni rustici e le vecchie persiane smeraldo. In seno alla propria normalità, lontani dal buio che lambiva le mura.
Dopo il terzo tentativo di chiamata andato a vuoto varcò la soglia del Bar. Rosi stava cominciando a preparare la chiusura e ad un tavolo, sotto un enorme ventilatore sferragliante, i siciliani e Caterina stavano giocando ad una vivacissima partita ad Uno. Mancava Maddalena.
“Ohi,” l'apostrofò Rosi da dietro il bancone, concentrata a impilare una serie di tazze e piattini per la colazione del giorno dopo. “Non ti aspettavo stasera.”
“Tobia è passato di qui?”
“No, perché me lo chiedi?”
“Non risponde al telefono di casa. Magari è al cimitero e mi sto facendo troppi film...”
La sempiterna ruga tra le sopracciglia dell'altra si fece più profonda. “No, è ora di cena, è troppo presto.” Esitò, scoccando un'occhiata verso la sorella.
“Posso andare a controllare da solo. È uno scrupolo mio, non credo sia andato nel bosco.”
Rosi si passò una mano tra i capelli. “È qui che ti sbagli … Tobia è stato solo a lungo … a volte fa delle cose...” notò la sua espressione perché arrossì. “L'ha sempre fatto, sin da quando era bambino, di sparire senza dire niente a nessuno. Non sto insinuando niente.”
“Quindi che si fa?”
Rosi, dopo un breve momento di silenzio, recuperò la borsa da sotto il bancone, in cui infilò rapida un mazzo di chiavi e una torcia. “Vengo con te. Se è davvero in mezzo al bosco avrai bisogno di me per orientarti.”
“Ci vedi al buio come Maddalena?”
“No, faccio di meglio. Conosco il terreno come lo conosce Tobia,” ribatté con espressione determinata, quella che l'aveva fatto invaghire di lei e che adesso gliela rendeva un'amica su cui contare.
E bentornata, Rosì. Era ora.
Ettore sorrise. “Andiamo!”
Rosi annuì, voltandosi poi verso Caterina. “Io esco, non torno a cena, pensa tu a chiudere.”
“Che è successo?”
“Niente, fa' quello che ti dico,” e prima che potesse formulare domande o commenti Rosi le diede le spalle uscendo dal bar.
Ettore la seguì invidiando l'aria smarrita della ragazzina.
A volte l'ignoranza è una benedizione.
Se non altro, ti teneva al sicuro.
 
***
 
A Pietro piacevano i siciliani; al tempo stesso non aspettava altro che se ne andassero.
Lo pensava mentre scendeva con il motorino lungo il ripido e scuro nastro di asfalto che dal paese portava a casa sua.
Era estate e lui, Cate e Alina avrebbero dovuto passarla insieme. A rompersi coglioni magari, ma insieme, con Cate che ne inventava una più del diavolo, lui che faceva il bastian contrario e infine Alina che sceglieva scientemente di andar dietro alla più pericolosa, pazza e divertente delle idee proposte.
Invece Cate era persa dietro la siciliana e Alina era più le volte che tirava buca che quelle in cui si presentava.
I siciliani avevano diviso il gruppo. Per questo, quando se ne sarebbero andati, Pietro avrebbe tirato un sospiro di sollievo. Le cose sarebbero tornate come prima: loro tre, un paese addormentato e il resto del mondo che non li capiva, ma in fondo andava bene uguale.
Pietro parcheggiò il motorino nell'aia di casa notando che a fianco della macchina dei genitori c'era anche quello di Alina.
È venuta a trovarmi?
Non se lo aspettava; di solito l'amica si preannunciava con un messaggio whatsapp e attendeva conferma per scendere al podere.
C'eravamo accordati e me ne so' scordato?
Entrò dalla porta finestra del giardino, direttamente in cucina, dove sua madre si affaccendava per la cena, mentre al tavolo sua sorella Margherita disegnava con ampie volute su una serie di fogli e, probabilmente, anche su metà tovaglia. Era la cronaca di un disastro annunciato, e per evitare di assistere ad un particolare set di urla materne, fu lesto a domandare: “C'è Lin?”
“Buongiorno e buonasera,” lo salutò ironica sua madre. “Sì, è venuta mezz'ora fa, è in camera tua. Non vi eravate messi d'accordo?”
“Palese,” mentì in scioltezza, “rimane anche a cena,” aggiunse e senza aspettare risposta salì al piano di sopra. Era stranito, ma contento: i suoi adoravano Alina, e averla a cena assicurava che non gli stessero addosso come avvoltoi e che Marghe, che la idolatrava manco fosse una Barbie a grandezza naturale, rimanesse a tavola invece di andarsene in giro come una bertuccia particolarmente maleducata innescando ulteriore caos.
Alina era effettivamente in camera sua, seduta sul letto e fissava la tv, che in quel momento trasmetteva rumore statico; se non c'era la console collegata, era tutto quello che restituiva, da sempre.
Manco il satellitare funziona in questo buco di culo.
“Ohi,” la salutò, “ciao eh.”
Alina si voltò. “Ciao,” rispose neutra. “Ciao Pietro,” ripeté in modo un po' inquietante.
Durante i loro primi mesi di conoscenza, scherzando, le aveva dato dell’aliena che doveva ancora imparare usi e costumi degli esseri umani. L'amica aveva sorriso a quella battuta, ma qualcosa nei suoi occhi gli aveva fatto capire di aver morso un po' troppo a fondo. Non gliel'aveva più detto.
Non che avesse smesso di sembrarlo però.
Pietro collegò lo smartphone all'impianto stereo e alzò il volume della musica. Un po' per riempire il silenzio, un po' per tener fuori orecchie indesiderate dalla conversazione in arrivo.
 
Iniziare non vuol dire che dovrai finire
Non mi dire che tu sai predire l'avvenire
 
Alla donne piace parlare. E parliamo.
Pietro si stravaccò sulla sedia della scrivania. “Che hai?” andò dritto al punto.
“Niente.”
Seh, lallero. È successo qualcosa col' tu babbo?”
“Con tata va tutto bene. Se sei occupato me ne vado.”
Aridaie,” Alina stava mettendo alla prova la poca voglia che aveva di fare un discorso a cuore aperto. “Dai, chiamo Cate.”
“Non chiamarla.”
Il modo secco con cui lo disse lo preoccupò. Era quindi con la Silva che Alina aveva problemi? Non era possibile; le due amiche non discutevano mai.
Non aveva idea di cosa dire per tirarla su di morale o farla sfogare, o entrambe le cose. “Che c'è che non va...?” domandò piano. “Se un'm'aiuti io non un'sò che ditti.”
“Presto dovrò tornare a Roma,” buttò fuori e Pietro volle quasi non l'avesse fatto.
“Te ne vai? Quando?”
“Presto. Non potrò rimanere qui a lungo.”
“Ma che vor dì? Il tu'babbo vuole tornare a Roma? Spiegami!” esclamò alzandosi in piedi, confuso e con una gran voglia di prendere a pugni qualcosa.
Quindi non era solo un'impressione: il loro trio si stava sciogliendo.
Alina scosse la testa. “Non c'è molto da spiegare … siamo venuti qui per lavoro e tra poco quel lavoro, nel bene o nel male, non ci sarà più.”
“Un c'ho capito niente...” le crollò accanto sul materasso, sentendosi più inutile e confuso di prima. Il trasferimento di Alina e suo padre a Malacena aveva sempre avuto poco senso, considerando che non avevano parenti in zona e Marian non era lì per lavorare. Almeno, aveva pensato che Marian non fosse lì per lavorare, ma ora Alina sosteneva il contrario.
Di che lavoro parla?
Non erano però le prime persone ad arrivare, o andarsene, senza dare spiegazioni; all’epoca aveva preso atto della cosa e aveva ringraziato silenziosamente che una come Alina fosse venuta a rendere meno vuoto il paese.
E ora se ne va. Prima o poi se ne vanno tutti.
Alina continuava a guardare la tv vuota e Pietro capì che stava cercando di non piangere. Aveva le labbra serratissime e le guance pallide. “Mi dispiace,” mormorò, “è anche colpa mia...”
“Ma di che? Sei il tu babbo ha perso il lavoro te che c’entri? Comunque possiamo cercargliene un altro, chiedere al Comune, e anche i miei conoscono tanta gente ...”
“No, dobbiamo tornare a Roma, non possiamo restare,” rispose, mentre due lacrime le tremavano sulle ciglia senza dar segno di scendere. Era come se le trattenesse per pura forza di volontà.
Pietro premette la spalla contro la sua. “Un'ti posso proprio aiutà co' niente?”
Alina gli rivolse un sorriso. “Lo stai già facendo... è per questo che sono venuta qui.”
Non ci avrebbe capito nulla, però, forse non era quello il punto. Forse non era il motivo per cui l'amica era lì. Così le rimase accanto in silenzio, fissando una tv che non trasmetteva altro che statico.
Fuori i grilli avevano cominciato a frinire.
 
***
 
Note:
 
Le canzoni del capitolo
1. Il posto più freddo, dei Cani, dall'album “Aurora”, 2016
2. S.U.N.S.H.I.N.E., di Rancore, dall'omonimo EP, 2015
Ricordo che per chi vuole ascoltare le canzoni (sono belle!) c'è la playlist su Spotify.
Oppure anche su Youtube.
Sono entrambe sempre aggiornate!

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Capitolo 10
*** 10. ***


10.
 
Tobia ha tredici anni. È in quell'età scomoda in cui si cerca diventare adulti, ma tutto cospira per ricordarti che l'infanzia è ancora ad un soffio di distanza.
La notte si rigira nel letto, mentre il cimitero lo chiama, gli chiede conto, e lui invece deve dormire perché il giorno dopo deve andare a scuola.
Non gli piace andare a scuola; non gli piace lasciare il paese, neppure per andare a Siena a trovare sua madre, che si è risposata ed ha un nuovo marito e dei figli normali, che non parlano al vuoto e dicono di aver visto la nonna morta.
Il nonno gli dice che ha dei doveri, e la sera chiude finestre e porte di casa a doppia mandata, e tutte le mattine lo sveglia con una tazza di caffellatte e lo accompagna a prendere l'autobus. Il sabato invece lo porta fino a Siena e gli ripete che la mamma lo aspetta.
Non è vero, e Tobia l'ha capito da un pezzo. Per questo, un qualunque sabato mattina autunnale, il primo di tanti, infila nello zaino qualcosa da mangiare, un libro e scappa nel bosco. 
 
Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunciò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione...” 
Il tronco della quercia della strega è grande come il portone di casa, rugoso e caldo di sole ed è il miglior rifugio del mondo per nascondersi dal Chiaro. La sua voce si spande sicura nella radura, come mai accade in un'aula di scuola o a casa di sua madre. I caramogi sono un pubblico che non giudica, anche se Tobia sospetta che non capiscano granché, non come il Beffardello, che lo osserva dal fitto dei cespugli per non dargli ad intendere che il racconto gli interessi. 
Tobia si sente tirare i capelli; sono i folletti degli alberi, che capiscono ancora meno, ma apprezzano poterlo avere alla loro mercé. Scaccia le manine invisibili come farebbe con una mosca, e continua:“Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant'anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea...” 
Quando è nel bosco non si sente fuori posto come una forchetta nel cassetto dei cucchiai.  
Nel bosco può essere sé stesso perché il Chiaro non viene a rompere le scatole. Non ne ha il coraggio.
 
“Guarda che il tu' nonno ti cerca.”
 
Tobia alza la testa dal libro e incontra l'espressione esasperata di Rosi. Rosi che quell'anno si è tagliata i capelli cortissimi, indossa solo vestiti neri, ascolta gruppi punk politicamente impegnati e ce l'ha con il mondo intero.
Dato quello che è successo, tra sorelline spuntate fuori dal nulla e padri fedifraghi, non la biasima.
“Gli hai detto dove sono?”  
Rosi si stringe nelle spalle. “Dalla tu' mamma proprio non ci vuoi andare, eh?” domanda invece.
“È il compleanno di uno dei figli di suo marito,” lo dice distaccato e vorrebbe che la sua espressione lo fosse altrettanto. Probabilmente no, da come l'amica si siede accanto a lui. “St'albero è strano … mezzo secco e mezzo a posto,” commenta vaga.
“Come noi.”
“Che depressione!”
“Disse quella che si vestiva tutta di nero.” Le porge il tubetto di caramelle. “Rimani? Stiamo leggendo Il Signore degli Anelli.”
“Già letto,” sbuffa Rosi, ma mastica la caramella e gli poggia la testa sulla spalla. “Dove siete arrivati?”
Tobia sorride e ricomincia a leggere.
 
*** 
 
So poco della notte
ma la notte sembra conoscere di me,
- Alejandra Pizarnik
 
 
Tobia era consapevole di stare commettendo una cazzata potenzialmente fatale.
Nonostante questo, andava avanti a testa bassa; era il motto della sua vita anche se non poteva dire che gli avesse mai portato particolare fortuna.
Camminava nel folto ormai indistinguibile del bosco, aiutato soltanto dalla sua conoscenza del terreno e dalla torcia. Aveva frugato con accuratezza tutti i posti preferiti dai caramogi; gli anfratti tra rocce e cespugli di pungitopo, le scarpate che digradavano in pendii erbosi dove amavano rotolarsi … 
Nel bosco il silenzio era pesante, interrotto solo dai gridi improvvisi di qualche uccello che cacciava all'imbrunire … e dalla pioggia. Più si avvicinava alla sommità del colle più le nuvole intensificavano la loro attività: il bosco non lo voleva vicino al castello. 
“Bascula!” chiamò più volte, sperando che il caramogio comparisse dal sottobosco. Non gli rispose nessuno.
Non sarebbe passato dal castello, decise, non con il rischio di provocare una bufera sulla Montagnola, ma avrebbe invece perlustrato le grotte, partendo da una delle porte dell'inferno, quella da cui lui, Rosi ed Ettore erano entrati.
Forse Bascula si era nascosto lí. 
 
Arrivato alla porta, fradicio di sudore e pioggia, si schiacciò e contorse per entrare nell’ingresso asfittico; pareva di essere ingoiato lentamente dalla gola di un mostro, lunga, stretta e umida. L'odore di uova marce non se n'era andato.
Il regolo passa spesso di qui.
Dopo una decina di metri calpestò qualcosa che si ruppe con un rumore simile a ghiaia; erano ossa, carcasse di piccoli animali spolpate fino a renderle lucide e giallastre. 
Il regolo ha mangiato qui.
Era armato di un coltello da caccia contro un mostro grosso quanto un'utilitaria in grado di stordirlo con il suo fiato. Buonsenso avrebbe voluto che se ne andasse di lì, e alla svelta...
Bascula però poteva essere ancora vivo.
Arrivò alla grande grotta circolare da cui iniziava il cunicolo che portava direttamente sotto al castello. “Bascula!” sussurrò con rabbia e disperazione. Non poteva tornare indietro, non poteva abbandonare quella creaturina innocente e di certo spaventata a morte. 
Non poteva lasciarla sola. 
Calpestò ancora una volta qualcosa che non era semplice terra battuta; crocchiava come plastica e lo era, era la confezione di una Goleador. La raccolse, con lo stomaco stretto in una morsa. Erano le ultime caramelle che aveva regalato ai caramogi. A differenza della manolonga i tre folletti amavano collezionare gli involucri nei loro nascondigli come piccoli tesori insieme a tappi di bottiglia e spazzatura che gli umani seminavano per la Montagnola.
Ci poteva essere un unico motivo per cui era lì. 
Una rabbia infinita lo invase; cieca, stupida … persino folle. Estrasse il coltello, facendo scattare la lama e dirigendosi verso il cunicolo che portava a Castiglioscuro, verso la tana del regolo, verso il mostro che stava uccidendo lentamente la Montagnola. 
E poi arrivò il ronzio. Forte e metallico rimbalzò lungo le pareti della grotta, facendola vibrare come una cosa viva. Tobia puntò il fascio di luce della torcia nel cunicolo, e nel buio, a malapena bucato dalla luce, qualcosa si mosse. 
Tobia indietreggiò, ma era troppo tardi. Era buio e il regolo era nel suo habitat naturale. Lui no.
Scivolò sul fango del pavimento e cadde a terra mentre il regolo si ergeva per metà della sua altezza, sovrastandolo; l'orrido volto umano, privo di espressione, non lo vedeva davvero. Capì che era cieco perché la pupilla non reagì alla luce che gli stava puntando contro.
Il regolo aprì la bocca e urlò. Un urlo umano che gli esplose in testa, tanto che si tappò le orecchie e con quello arrivò anche la difficoltà a respirare. La torcia gli era caduta dalle mani finendo per spegnersi. Sull'orlo di perdere coscienza, Tobia percepì la criptide avvilupparglisi attorno alle gambe …
A quel punto perse i sensi.
 
***
 
Qualcosa di strano stava accadendo a Malacena, Cate si sentiva esclusa … e la cosa non le piaceva manco un po'.
Rosi mollava il Bar per andare chissà dove in compagnia della guardia un giorno sì e l'altro pure. Tobia era tornato a frequentare casa loro come se nulla fosse … e come dimenticare i continui pacchi di Alina e il suo mutismo minaccioso verso chiunque! 
Infine, Elia e Selene erano spariti dalla faccia della terra, e in Piazza ormai beccava solo Vanni e Filippo con l'aria mogia di cagnetti mordaci senza padrone. 
Era come una versione gigante e paesana di Un, Due, Tre … Stella; la gente faceva roba ma ogni volta che cercava di coglierli sul fatto, pareva tutto a posto. 
“Stasera uscite?” domandò a Michele tornando al tavolo, dove lui e Stefano stavano sistemando i detriti dalla loro merenda.
“No,” rispose Michele mogio, “volevamo andare a cena in quel posto con le torri … San Gimignano? Malù però non si sente bene, quindi magari facciamo domani.”
“Già,” concordò; Maddalena aveva mandato un messaggio scusandosi per l'assenza pomeridiana. Temeva di aver preso un colpo di sole e per questo era andata a riposarsi.
Era ora di cena e non era ancora scesa. “Vado a controllà?” 
“Vado io,” disse Stefano, “tu pensa a chiudere.” 
Non aspettò la sua risposta per salire le scale, lasciandola con un palmo di naso.
La sua espressione contrariata non sfuggì a Michele, che le si avvicinò dandole una pacca sulla spalla. “Ste si agita quando Malù sta poco bene … le fa da crocerossino da quando eravamo nicarieddi.” 
“Ah, vabbeh,” non riuscì nuovamente a nascondere il disappunto e stavolta il sorriso di Michele si fece divertito. 
“Ci volevi andare macari tu a svegliarla?” 
Cate avvampò senza rispondere, dirigendosi verso il bancone per riprendere il lavoro interrotto da Rosi. “Ma va',” borbottò, “ solo preoccupata per lei. Sparisce in continuazione 'sti giorni …”
E non solo lei. 
Michele si accomodò ad uno degli sgabelli di fronte. “Fa sempre accussì … ogni tanto se ne va per i fatti suoi però torna sempre. L’importante è che torni, no?”
“Se lo dici te...” rispose fingendo di esaminare nel dettaglio la Cimbali alla ricerca di macchie inesistenti. 
Non le andava di parlare di Maddalena senza che questa fosse presente.
Però.
L'odore di shampoo maschile, il fatto che due sere prima fosse sembrata di ritorno da una serata fuori … e poi il suo costante desiderio di andarsene in giro per conto proprio. 
Cosa faceva Maddalena quando non era con lei?
“Senti Cate, ma mia sorella ti piace?”
La domanda le cadde sulla testa come un'incudine. Si voltò di scatto ma non riuscì a dissimulare, non da come Michele non smetteva di sorridere con l'aria di chi aveva capito tutto.
Speriamo non proprio tutto. 
“Beh,” emise debolmente, “a chi non piacerebbe?”
Michele assunse un'aria seria. “Ti posso dare un consiglio da amico? Non dovresti fare troppo affidamento su Malù.”
Sentì il peso dell’incudine sprofondare nello stomaco. Anche Michele, suo fratello, la stava mettendo in guardia. Proprio come Alina. “In che senso? Perché non dovrei fidarmi di lei?”
“Ti puoi fidare!” la corresse rapido. “Come amica è fantastica … e anche come sorella, gli affiderei la mia vita ad occhi chiusi,” si passò una mano tra i capelli con improvviso imbarazzo. “Magari sbaglio, ma secondo me non ti piace solo come amica.”
Caterina si morse le labbra. Qualsiasi cosa avrebbe potuto essere interpretata male e Maddalena le aveva fatto promettere di non dire niente a Michele e Stefano … sopratutto a loro due.
“Malù è molto … libera … per quanto riguarda le relazioni,” continuò Michele, “e non la giudico! Ognuno fa quello che vuole della propria vita. Però non è tipa da storia seria. Era questo che intendevo.” 
Il peso nello stomaco era diventato un masso degli Appennini, ed era stupido perché quella tra lei e Maddalena era una storiella estiva. Se l'era ripetuta migliaia di volte e l'altra non le aveva mai fatto credere niente di diverso. Non l'aveva illusa. 
Perché allora le faceva così male?  
Perché continuo a credere nelle favole. Nonostante tutto. So' proprio scema. 
Michele, fraintendendo o forse comprendendo alla perfezione il suo silenzio, le strinse una mano al di là del bancone. “Ehi,” disse piano, “sono sicuro che un giorno troverà la persona in grado di farle cambiare idea … e magari fossi tu!”
Come?
“Non ti dispiacerebbe?” gli domandò cercando di suonare il più casuale possibile. 
Babbiasti? Mi stai super simpatica, e i miei ti adorerebbero!” esclamò e Michi era come lei: era incapace di fingere. L'entusiasmo che le rivolse era genuino.
Allora perché mi ha raccontato che i suoi non vorrebbero che stesse con una ragazza?
Maddalena le aveva rifilato una palla.
Michele le diede una seconda pacchetta sulla mano. “Se c'è qualcosa tra di voi sono contento … dico sul serio. Però prendila con leggerezza.” 
“Grazie per il consiglio,” mormorò mentre Stefano scendeva le scale, quieto e pensieroso quasi quanto lei. 
“Ehi, come sta l'insolata?” domandò Michele, l'attenzione di nuovo rivolta altrove. 
“Sta ancora dormendo, non ho voluto svegliarla. Come ci organizziamo per cena?” 
“Mia mamma e Rosi non ci sono, ma c'è un mucchio di roba in frigo. Se vi basta un piatto di pasta, siamo a posto.” 
Non ci furono obiezioni e Cate si affrettò a chiudere il Bar per la sera. I due vollero aiutarla a ritirare i tavoli e le sedie fuori, così come a spazzare e questo accorciò i tempi, facendoli salire al piano di sopra dopo neanche mezz'ora. 
“Vado in bagno, intanto apparecchiate la tavola?” Stefano alla richiesta le lanciò un'occhiata penetrante, ma lo ignorò, perché di quello che aveva capito Stefano Greco le importava il giusto.
Salì al piano di sopra e si diresse verso la camera di Maddalena.  
 
Maddalena aveva passato tutto il pomeriggio a dormire ed era quanto di meglio potesse desiderare dopo un pestaggio che, ne era certa, avrebbe accresciuto il suo già pingue bagaglio di traumi.
Si era accorta che Stefano era entrato, ma aveva seppellito la parte offesa del viso nel cuscino – nonostante il fastidio – volendo rimandare quella conversazione per almeno un'altra manciata di ore. Stefano dopo una breve, ma snervante esitazione, l’aveva lasciata stare. 
Dello stesso parere però non era Caterina. La sentì entrare, perché ormai conosceva il suo odore e il suo passo.“Ohi, sei sveglia?”
Non poteva nascondersi per sempre – anche se avrebbe voluto. Sospirò: “Ora sì.” 
Caterina si sedette sulla sponda del letto, ammutolendosi. Maddalena aveva la testa che le scoppiava, per non parlare del dolore sordo alla faccia. Non era dell'umore di essere paziente. “Hai bisogno di qualcosa?” brontolò. 
Sapè se ci onori della tua presenza a cena,” le rispose insolitamente sgarbata. Alzò il viso sorpresa, ma prima che potesse chiederle qual era il problema, Cate sgranò gli occhi.
“Che hai fatto alla faccia?!”
Si sono riaperte le ferite?
Si toccò il labbro, ma si era già formata la crosta. Probabilmente però le erano usciti i lividi. Forse anche sotto gli occhi, dato che quella stronza della Radu l'aveva colpita dritta in faccia.
Sciddicai...sono inciampata,” spiegò, “Sto bene, sembra peggio di quello che è. Non mi sono neanche rotta il naso.”
“Mi stai dicendo la verità?”
Quella domanda proprio non se l'aspettava, quindi le ci volle un attimo per raggruppare le idee. “Pensavo ai fatti miei e sono inciampata… è la verità.” 
Cate fece una smorfia. “È la verità come il fatto che hai i genitori omofobi? Perché Michi mi ha raccontato una roba diversa.”
“Gli hai detto di noi?!” si alzò in piedi ma dovette appoggiarsi alla libreria dietro di sé perché la testa prese a girarle come una trottola. Chiuse gli occhi, mentre Caterina la afferrava per un braccio. Si scostò. “Minchia Cate, ti dissi ri nun dirlo a nuddu! Vuoi mettere i manifesti?!”
“No!” sbottò e quando Maddalena riaprì gli occhi l’altra le stava a pochi centimetri, paonazza e furiosa quanto lei. “Ho mantenuto la promessa, non ho detto a nessun’altro di noi, ma tu mi hai detto una bugia! I tuoi non omofobi!”
“Cate...”
“Dimmi la verità!” 
Avrebbe voluto farlo. Anche se non poteva, anche se tra poco sarebbero diventate due estranee, separate da chilometri di terra e mare. 
Vorrei dirti la verità e vorrei che non contasse niente, e che ti piacessi esattamente per quello che sono. 
Vorrei mostrarti entrambi i due i lati della mia luna, Cate. 
“Non ti dissi una bugia… Michi è un ottimista. Sarebbe un casino, e io … non me la sento di infilarmici.”
“Non te la senti di infilartici per una storiella estiva voi dì.”
“No!” le uscì di getto. Non aveva idea se fosse la cosa giusta da dire: non aveva mai avuto una ragazza, e non aveva mai voluto bene così tanto a qualcuno, e in così breve tempo. “No … io … ho un paccu di casini,” balbettò ormai completamente a casaccio, “Voglio solo stare con te senza che nessuno si metta in mezzo. Quando siamo assieme sto bene, e non sono mai stata bene accussì con qualcuno. È … è come se potesse essere estate per sempre. Vulissi chi fussi pi sempri.”
Quella era la verità. Sperò che guardare in quegli occhi onesti e puliti denudando il suo cuore bastasse.
È la verità. È l'unica che posso darti, ma è vera. 
Prima che potesse pentirsi e chiedersi se quel vomitare parole senza filtri bastasse, Cate la baciò. 
Un bacio con tutti i crismi, come quelli dei film. Ricambiò sperando di riversare addosso all'altra tutta la gratitudine che provava in quel momento. 
Purtroppo cuore e sentimenti poco valevano di fronte all'evidenza dei suoi lividi, perché dopo qualche attimo si dovette staccare con un sussulto. 
“Oddio, scusa! Ti fa male?”
Maddalena ingoiò una rispostaccia, scuotendo la testa. “No,” bofonchiò, nascondendo dietro una mano il labbro di nuovo sanguinante. “Non è niente.” 
Cate prese un fazzoletto di carta e le tamponò amorevolmente la parte offesa. “Hai preso 'na bella tronata, eh...”
Scosse di nuovo la testa cocciuta. Fosse mai che l'altra decidesse di astenersi dai baci. “Sembra peggio di quello che è.”
“No, no, è proprio peggio!” Quando le scoccò un'occhiataccia l'altra sorrise sbarazzina. “Sei bella uguale, tranquilla.”  
Non le restò che ridacchiare. “Meno male. Senti... se stasera andassimo da qualche parte solo io e te?”
Cate inarcò le sopracciglia sorpresa. “Avoglia, ma dove?”
“Qui in paese, in un posto che ti piace.” 
“Non è che ci sia granché e s’è pure messo a piove ...” Si fermò, come colta da un'idea perché poi le sorrise a trentadue denti. “Ti piacciono le lucciole?”
“Assai,” mentì perché non ne aveva mai vista una dal vivo. Non che avesse importanza; Cate le stava di nuovo sorridendo e tutto si era risolto. Per il momento.
 
***
 
“Le orme portano dentro la grotta, Tobia è entrato.” 
Ettore si passò una mano sulla faccia mentre il volto di pietra di Rosi, pallido e lucido di pioggia, gli dava la misura di quanto non ci fosse scampo: quella notte sarebbero morti male.
“Non potrebbero essere orme vecchie?”
“Ha piovuto tutte le sere da quando siamo stati qui. Sono fresche.”
Non me ne potevo rimanere a Napoli?  
Invece aveva pensato bene di rivolgere la parola ad un gatto ed era finito in mezzo alle frasche a rischiare la vita peggio che nei Quartieri Spagnoli. E tra parentesi, un altro gatto, ovvero l’insopportabile Ermione, li aveva indirizzati verso morte certa, anche se per una nobile causa come cercare quell’idiota del Nero.
Andato a cercar folletti! Esplicitamente quello che gli avevo detto di non fare! 
Gli avrebbe tirato una testata se ce l’avesse avuto davanti. 
“Tobia è lì dentro” continuò imperterrita Rosi, “se non vuoi venire, vado da sola.”
“Eccerto, t'ho accompagnato e mo' non entro!” sbottò sganciando la pistola dalla fondina e incrociando i polsi per far sì che la torcia seguisse la direzione della canna. “Qualsiasi cosa si muova, gli sparo,” aggiunse, “Fosse pure quella cap'e cazzo del Nero!”
“Soprattutto se è lui,” ribatté Rosi cupa e nonostante tutto, su quello furono d'accordo. 
Jamm'ja...”
Entrarono. La grotta era asfittica, umida e disgustosa come l'ultima volta che c'erano entrati – e che ingenuamente aveva pensato sarebbe stata anche l'ultima. In più, pareva ancora più scura e puzzolente. Quando calpestò quello che, alla luce della torcia, si rivelò essere un allegro tappeto di ossa e rimasugli di pelliccia fu seriamente sul punto di girare i tacchi e tornare a incendi di fascine e galline rubate.
“Io lo ammazzo...”  
Piglia o' numerino.” 
Arrivarono alla grotta piena di stalattiti della volta precedente e subito notarono una sagoma scura a terra. Ettore prese la mira prima che il grido di Rosi lo fermasse. 
“Tobia!”
L'uomo era riverso a terra e quando si precipitarono su di lui la prima cosa che controllarono fu se c'era del sangue. Non dovettero neanche parlarsi, cercarono evidentemente la stessa cosa. Tobia però non era ferito e pareva addormentato. O morto.
“Bia!” Rosi si accovacciò per scuoterlo una, due volte, finché questo si svegliò con un sussulto e una fitta di tosse. 
Ettore lasciò andare un'imprecazione per cui sua madre lo avrebbe riempito di ciabattate. Gli venne anche un po' da piangere, ma per fortuna quello fu nascosto dal buio. “Strunz!” ringhiò con virilissimo tono arrochito. “Si' 'nu 'strunz fatto e finito!”
Tobia si alzò a sedere instupidito e a quel punto Rosi gli gettò le braccia al collo stringendolo talmente forte che l’uomo ebbe una seconda fitta di tosse. 
“Che ti è saltato in quella capa di cazzo?” lo apostrofò continuando a tenere d'occhio il budello da cui si accedeva alle fondamenta di Castiglioscuro e, collateralmente, alla tana del regolo. L'odore di uova marce era forte come sempre e nauseante uguale. Il fatto che però non fossero svenuti come pere cotte significava che il regolo non era lì o che c'era sufficiente areazione. 
Sperava nella prima ipotesi.  
“L'ho incontrato ...” mormorò mentre Rosi continuava a non dare segno di sciogliere l'abbraccio. Non che Tobia trovasse la presa particolarmente scomoda da come le passò con naturalezza un braccio attorno alle spalle. “Non mi ha attaccato.”
“Che cavolo stai dicendo?” Rosi si scostò e il tono di voce lasciava presagire uno dei suoi celeberrimi attacchi di rabbia incontrollata. 
Non era il tempo né il luogo adatto. “Prima di tutto andiamo via da qui,” propose spiccio, “poi parliamo. Riesci ad alzarti?”
“Credo di sì,” Tobia guardò Rosi interrogativo e questa saltò in piedi come una cavalletta. Il buio non permetteva di riconoscere granché i colori, ma l'incarnato dell'altra era insolitamente simile al colore dei capelli. 
Tobia, pur con qualche esitazione, si tirò in piedi e uscirono dalla grotta in una manciata di minuti.
Ettore si guardò alle spalle tutto il tempo.
 
La pioggia si era tramutata in aghi gelati quando uscirono. Non si dissero più di qualche parola mentre tornavano indietro verso la casina del cimitero. Una volta arrivati Tobia li fece entrare e poi sbarrò la porta alle sue spalle. Li fece aspettare all’ingresso e recuperò degli asciugamani con cui si asciugarono sommariamente.
“Andiamo in salotto, accendo la stufa.”
Solo quando furono nella stanza, con la stufa che andava a tutto spiano e con le persiane ermeticamente chiuse, Tobia inspirò. 
“Mi dispiace.” 
Prima che Ettore potesse aprire bocca, prevedibilmente lo fece Rosi. “Potevi morire,” stressò l'ultima sillaba e la mancanza di insulti e il tono incrinato in cui lo disse fece più impressione che se l'avesse preso a schiaffi. “Perché non ci hai chiamato? Perché non chiami mai nessuno?”
“I caramogi si sono rifugiati qui, e mancava Bascula … pensavo di non avere tempo, che avrei dovuto agire subito... ma non c'è mai stato tempo,” finì in un soffio. “Non sono riuscito a salvarlo.”
“Il regolo ha preso Bascula?”
“Dev'essere rimasto indietro per via della gamba … Ho trovato delle tracce nella grotta.” Tobia serrò le labbra e inspirò, strofinandosi la faccia. Ettore pensò che era proprio una merda, a volte, essere uomini. Se ti veniva da piangere l'istinto era di reprimere tutto, di spingerlo giù e far finta che non fosse mai esistito. 
Uagliù, saremo venuti con te...”
“Lo so,” ma non aveva l'aria di chi era illuminato da quella consapevolezza. Lo recitò in modo meccanico “mi dispiace.”
Ettore si scambiò un'occhiata con Rosi, e l'altra si schiarì la voce. “Cos'è questa storia che il regolo non ti ha attaccato?”
“Mi ha trovato…  e mentre cercavo di scappare sono scivolato ” Fece una pausa. “Credo sia cieco ma mi ha sentito lo stesso … avrebbe dovuto attaccarmi, ma non l’ha fatto, si è limitato a stordirmi.” 
“Magari aveva mangiato da poco, comm e' squali cà nun attaccano i surfisti,” suggerì Ettore ricordandosi in quel momento che aveva ancora la pistola in mano. La rinfoderò, sebbene non fosse particolarmente convinto dell'idea. 
Cosa diavolo si acquattava nelle ombre, fuori dal cono di luce del lampadario del salotto?
“Chi lo controlla deve avergli detto di non attaccare gli esseri umani,” rifletté Rosi. “ Se cominciassero a sparire delle persone attirerebbe l’attenzione del Chiaro. Forze di polizia, giornalisti … se vuole fare le cose alla zitta, deve evitarlo.” 
“Allora è vero...” mormorò Tobia sedendosi sul divano come se fosse improvvisamente sfinito, “l'obiettivo è uccidere l'Altrove.” Seppellì il viso tra le mani e non disse più una parola.
Ettore a quel punto trovò sensato prendere Rosi da parte, “Ascolta, per stasera abbiamo avuto abbastanza emozioni. Volevo parlarvi di una cosa che mi hanno detto i gatti, ma può aspettare domani.”
“Sì, hai ragione,” convenne l'altra. Poi scoccò un'occhiata al Nero, “Riesci a tornare in paese da solo?” 
Tengo 'na pistola e correrò come se avessi nu' regolo 'ncuoll,” scherzò, “tranquilla Rosì. Pensa a Tobia.”
Si salutarono sulla soglia di casa e Ettore ascoltò la serratura della porta scattare più volte prima di voltarsi verso la strada fangosa che l'avrebbe portato in paese; era costeggiata dalle sagome scure degli alberi e sotto la pioggia sembrava infinita. Gli mise i brividi, che sarebbero rimasti a lungo se non avesse notato una forma piccola e sinuosa stagliarsi sul muro del cimitero.
“Facciamo alla svelta,” sibilò Ermione, “ho la pelliccia tutta bagnata.”
Ettore aspettò che la gatta saltasse giù dal muro per affiancarglisi. “Se fai scherzi ti sparo.”
“Prima deve prendermi,” flautò questa scattando in avanti. Ettore la seguì con un mezzo sorriso. 
 
*** 
 
“Vieni, gnamo, dammi la mano se hai paura!”
Cate affrontava le altezze in modo un po' bizzarro; si era immobilizzata di fronte a un metro di salto sul fiume mentre adesso si inerpicava come uno stambecco su delle scale di pietra sbeccate e scivolose d’umidità che davano letteralmente sul vuoto abissale.
Maddalena era consapevole che non fosse proprio abissale, ma le mura di Malacena erano comunque alte una dozzina di metri e il buio che le avvolgeva non faceva che accentuare la sua ansia.
Strinse la mano che Caterina le stava porgendo. “Amunì, acchiana,” borbottò ringraziando le sue doti succubesche. L'altra illuminava gli scalini con al torcia del cellulare ma sommariamente: era ai suoi sensi che si stava affidando per non rompersi l'osso del collo.
Non aveva mai usato così tanto le sue capacità come da quando era a Malacena e queste, di rimando, si erano affinate. Percepiva sempre più dettagli anche nel buio completo, e anche il suo olfatto e il suo udito erano migliorati, tanto da riuscire a capire chi le arrivava alle spalle o lo stato d'animo di una persona solo dall'odore.
Fino a un mese prima avrebbe sepolto quella considerazione nel disgusto, ma doveva ammettere che essere succuba le aveva salvato la vita un paio di volte … e l'aveva salvata anche ad altri.
Chissà come sta andando la ricerca del mostro?
“Chiudi gli occhi!” la esortò di colpo Caterina.
“Sei matta? Inciampo!”
Gnamo, ti voglio fà una sorpresa! Chiudili!”
Maddalena aveva molto da farsi perdonare. Troppo perché perdesse tempo in considerazioni oziose sulla sua salute fisica. Chiuse gli occhi e strinse forte la mano dell'altra, tanto che la udì ridacchiare. “Piantala di ridere.”
“Sono serissima!”
Caterina, prese per il culo a parte, la guidò con perizia, segnalandole gli scalini o eventuali mancanza degli stessi. 
Dopo un tempo infinito si trovarono alla stessa altezza, segno che la salita si era finalmente conclusa. Cate le fece fare ancora qualche passo, portandole poi la mano a toccare la pietra ancora umida dalla pioggia caduta. “Ci siamo, apri gli occhi.” 
Maddalena ubbidì e subito dopo sorrise. Sotto di loro si stendeva il panorama notturno della Montagnola; strano, oscuro e bellissimo.
Le ricordò il mare di Catania di notte, quando le luci dei locali si spegnevano e rimanevano accesi soltanto i lampioni.
Gli alberi erano come il mare e, ogni tanto, come piccole navi, si intravedevano le luci dei paesi vicini o di qualche singolo podere. Le nuvole si erano aperte e la luna spandeva luce argentea. 
Maddalena percepì la tensione della giornata sciogliersi.
Cate si appoggiò sul parapetto accanto a lei. “È bello, vero? Meno male che ha smesso di piovere!”
“Meno male,” si chinò a stamparle un bacio sulle labbra. “Grazie, è bellissimo. Ne avevo bisogno.”
Cate le sorrise contenta e poi, dopo aver asciugato con uno straccio portato da casa il parapetto, vi si issò con agilità, facendo penzolare le gambe. “Siediti, l’ho asciugato ….  è come galleggià nel vuoto!”
“Ti fa scanto saltare nel fiume ma dieci metri di morte sicura no?” la prese in giro imitandola con maggiore cautela. Nei suoi super-poteri non era previsto il volo.
“Non mi piace cadere, mi piace stare in alto … sentire il vento in faccia, guardare lontano, roba così!”
Cate era sempre così aperta nel raccontarsi … Maddalena si chiese se sarebbe mai stata capace di fare altrettanto. 
Probabilmente no. Non con tutti almeno. Con Caterina invece avrebbe potuto, e di fatto, lo stava facendo … perché non l'aveva mai giudicata, neppure una volta. Aveva cercato di capirla invece. 
Le sarebbe mancata da morire.
“Dove sono le lucciole?” domandò cercando di distrarsi. “Forse con la pioggia non sono uscite…”
“Tranquilla, so’ laggiù!” Cate indicò sotto di loro, la lunga siepe che divideva le mura dalla pista ciclabile. Nei coni d'ombra, aguzzando lo sguardo su indicazione dell'altra, notò piccole luci intermittenti. A quell'altezza si distinguevano a malapena, ma più che spegnersi e accendersi – come le lucciole – sembravano illuminarsi di improvvisi bagliori. 
“Purtroppo appena ti avvicini scappano. Da qui invece non si accorgono di noi. Ormai in posti come Sovicille e Siena non si incontrano più a causa dell'inquinamento, ma qui ce ne sono ancora tante!”
Quelle non sono lucciole.
Presero a svolazzare in verticale lungo le mura prendendo la forma di una lunga e sfavillante colonna. Potendole finalmente vedere più da vicino Maddalena le riconobbe: erano le fatine del falò che più volte le si erano infilate anche in tenda. 
Dovrebbero essere innocue? Bedda matri, fa’ che siano innocue. 
Cate in compenso era mesmerizzata, tanto che dovette acchiapparla per il retro della felpa, notando che si stava sporgendo un po' troppo. “Stanno venendo qui!” esclamò quando arrivarono alla loro altezza riempiendo il camminamento di bagliori dorati. “Ma che gli piglia?”
“Non lo so,” d'istinto aprì la mano e una di esse vi si posò sopra. Concentrandosi intravide le fattezze umanoidi, il corpicino snello dotato di più braccia e i tratti abbozzati di viso.  
“Sono carine, non fanno niente,” incoraggiò Cate, insolitamente silenziosa. Le porse quella che aveva in mano, facendola scivolare nella sua. “Non pungono.”
Cate posò una mano sotto l'altra. “Che lucciole strane,” mormorò, quasi avesse paura di farla scappare facendo rumore, “... c'è una storia sulle lucciole della Montagnola. Si dice che in realtà siano fate. Qua i vecchi le chiamano farfalle della fortuna, e dicono che ti si posano addosso quando ...” e si fermò, mordendosi le labbra.
“Quando?” le fece eco preoccupata. Sperava vivamente non fossero l'ennesimo, oscuro presagio.
“Quando ti innamori.” 
Maddalena percepì il cuore saltare un battito per poi riprendere velocissimo. Il maledetto insetto le si era posato addosso, e i vecchi non mentivano.
Mi sono proprio innamorata di te.
… però, aggiunse una vocina che suonava come quella di Michele, la fatina impicciona non si era posata solo su di lei. 
Stava proprio comoda tra le mani di Caterina, sfavillando come non mai. “Quindi sei innamorata?” le domandò con il cuore in gola. 
Cate distolse lo sguardo tentando malissimo di non sorridere. “... lo dice la fata, mica io.” 
“Allora lo dice anche di me.”
Baciarsi con una ragazza sul ciglio di mura a strapiombo mentre centinaia di fatine stranamore ronzavano loro attorno era l'ultima cosa che si sarebbe aspettata di fare in quell'assurda e non voluta vacanza.
Era anche l'ultima che avrebbe dimenticato, se fosse mai arrivata a morire vecchia e con troppi rimpianti. Tranne quello. Confessare a Caterina che si era innamorata di lei non sarebbe mai stato un rimpianto.
Liberarono la creaturina per potersi abbracciare guardando il panorama in confortevole silenzio.
“Sono contenta che non te ne sei andata,” mormorò Cate con la testa posata sulla sua spalla. “Cioè, te ne andrai lo stesso alla fine, però …”
Maddalena le baciò la testa, affondando il viso nei capelli che profumavano di cocco, e sole e un mucchio di cose buone. D'estate, principalmente. Cate profumava d'estate. “Devo tornare a Catania,” ammise, “... ma tu verrai a trovarmi, vero?”
Anche se Stefano avrebbe voluto spiegazioni che non gli sarebbero piaciute. Anche se avrebbe dovuto supplicarlo di non dire nulla alla Confraternita. Anche se prima o poi la sua ragazza si sarebbe fatta le domande giuste, dandosi le risposte sbagliate ...  
Non voleva che finisse lì. Non poteva.
Avoglia!” esclamò l’altra, bloccando quel flusso di pensieri perniciosi. “Anche per le vacanze di Natale! Cioè … se vuoi, se non è troppo presto...” concluse imbarazzata.
Vogghiu, assai,” le assicurò con un altro bacio. “Catania d'inverno ti piacerebbe. Ci sono le luminarie, i mercatini di Natale ... e il mare, ovviamente.”
“Il mare è importante?” la prese in giro con gli occhi che brillavano. Doveva essere per la luce emessa dalle farfalle. 
Quanto erano belli, però.
“Fondamentale.” Cate la strinse in un abbraccio che ricambiò senza pensieri, cullata da quel momento e da quella luce magica …
In un attimo tutto si ruppe. Un grido, violento, straziante, arrivò dal bosco. Cate, per lo spavento sobbalzò, guardando agitata da tutte le parti. Maddalena la tenne stretta mentre il sangue le si gelava nelle vene.
Le farfalle si dispersero rapide, precipitando giù dalle mura e infilandosi nei cespugli. Tornò il silenzio ma fu pure peggio.
Fu come essere in attesa di qualcosa di molto peggiore di un urlo. 
“Ma cosa...” sussurrò Cate, “che bestia è?”
Il regolo. È stato il regolo. Che altro potrebbe essere?
Anche se avevano metri di pietra a separarle dall'orrore, Maddalena rabbrividì. “Torniamo a casa,” disse. Cate stranamente le obbedì senza ribattere, scendendo dal parapetto e dandole una mano a fare altrettanto. 
Aveva ripreso a piovere. 
“Non hai mai sentito un verso del genere,” le disse mentre scendevano le scale, mano nella mano. Quella di Cate era sudata ma lo era anche la sua. “Forse era un cinghiale? O un lupo, mamma ha detto che sono tornati nella Montagnola … ma non dovrebbero ululare? Sembrava una persona e un animale assieme. Era stranissimo.”
“Sì ...” convenne, “lo era.”
Arrivate in strada Maddalena si voltò. Davanti a loro c'era una delle porte del paese; oltre la luce artificiale dei lampioni non c’era altro che buio profondo. 
“Andiamo a casa,” stavolta fu Cate a dirlo stringendole più forte la mano. 
Corsero sotto la pioggia, verso la luce della piazza centrale. 
 
***
 
Rosi aveva preparato una cena tarda, che Tobia aveva palesemente consumato per dovere, non per voglia. Avevano cenato in silenzio, e l’altro aveva reagito all’ambiente circostante solo quando avevano udito l'urlo del regolo dal bosco. Si erano fissati, pallidi, senza una parola, e poi Tobia era corso a controllare che Ermione e i caramogi fossero in casa. 
Quando era tornato si era limitato ad un cenno per tranquillizzarla e poi era di nuovo sprofondato in sé stesso. 
Dopo il caffè Rosi decise che se non arrivava il momento per parlare, doveva trovarlo lei. Afferrò la sedia e si sedette di fianco a Tobia.“Dobbiamo parlare di 'sta cosa che te ne vai per conto tuo a rischiare la vita,” esordì senza mezzi termini, “non va bene.” 
Tobia per tutta risposta le scoccò un'occhiata blandamente colpevole. “Lo so.”
“Saperlo non basta,” sbottò, già con la pazienza ai minimi termini. Averlo tra le braccia esanime era stato un cazzotto nello stomaco. Erano stati separati per cinque anni, e si erano considerati morti l'un l'altra, ma non lo erano stati sul serio. Tobia era stato sì lontano da lei, ma nella sua casetta nel cimitero, vivo e vegeto. 
Non c'era niente di più definitivo della morte, e Tobia l'aveva corteggiata con un po' troppa insistenza quella sera. “C'è gente che tiene a te,” continuò mettendogli una mano sul braccio. Era caldo, solido. Il sangue vi scorreva perché c'era un cuore a battere.
Se il regolo avesse deciso di ucciderti, io come avrei fatto?
Come avrei fatto se non ci fossi stato più?
Tobia fece una smorfia, e poi si scostò. “Non volevo farvi preoccupare, ma la mia priorità era salvare Bascula. Se vi avessi aspettato...”
“Non è soltanto la tua priorità! Pensi che non volessi salvarlo anche io? Sono cresciuta nel bosco, lo conoscevo!” Esitò. “Non credi sarei venuta?”
Tobia distolse lo sguardo e la risposta era ovvia. Non ci credeva e poteva dargli torto?
“Guardami...”
Tobia dopo una breve esitazione si voltò verso di lei. Aveva un'espressione neutra ma gli occhi gli bruciavano; non di odio, uno come lui non sarebbe mai stato capace di odiare, buono fino al midollo, fino alla stupidità. 
Di dolore però sì. Eccome. “Cinque anni fa ti ho fatto un torto … mi hai chiesto di darti una mano e io sono stata zitta,” mormorò Rosi. “Ho lasciato che ti portassero via e dicessero che eri matto. Ti ho tradito e poi ti ho abbandonato.” 
Avrebbe preferito ingoiare veleno che dire quelle cose ad alta voce. Perché erano vere. Aveva provato a riempirsi la bocca di giustificazioni, di rabbia ma la realtà era molto più semplice. 
Non aveva creduto al suo migliore amico, l’unico che aveva sempre creduto in lei.
“Ho avuto paura. Avrei potuto fare o dire mille cose per farti uscire da quel casino … e invece ho avuto paura.” La voce, che aveva tentato sino quel momento di tenere ferma, si ruppe, “Ho preferito che tutti mi credessero estranea all’Altrove, a quello che ti stava succedendo, una persona normale. Sono stata una vigliacca...” lacrime di rabbia le riempirono gli occhi e le lasciò uscire. “Se potessi tornare nel passato, invece che sognarlo, lo farei, ma non posso … posso solo dirti che non lo farò più. 
Quindi, per favore, chiamami. Vieni a chiamarmi la prossima volta.”
Tobia non aveva distolto lo sguardo neppure per un attimo, e la sua espressione non era cambiata. La sua postura però sì; si voltò verso di lei, posandole una mano sulla sua.  “Anch'io ti ho fatto un torto,” mormorò, “quella sera avrei dovuto suonare al tuo di campanello. Invece ho perso il controllo. Il Chiaro è convinto che io i mostri li immagini … ma quella notte ho fatto di peggio. Mi sono immaginato di essere solo a combattere contro di loro.”
“Bia…”
“Non lo sono mai stato … ci sei sempre stata tu con me.” 
Rosi lo abbracciò di slancio e quando l'altro ricambiò, sentì il sollievo sciogliersi nelle vene. Si tennero stretti e non seppe quante volte gli chiese scusa e quante Tobia le rispose che aveva capito, che si scusava anche lui. Il tempo passò scandito dalla pendola del salotto, i cui sordi rintocchi sembravano il battito del cuore della casa stessa. 
Suonò la mezzanotte. 
“Quindi la farai finita con le idee idiote?” borbottò per darsi un tono, sciogliendo a malincuore il contatto. 
Tobia sorrise. “Se ne avrò altre ne parlerò prima con voi … anche perché ho paura che al prossimo giro Ettore mi spari.”
“Te l'ha giurata in effetti.”
“Mi spiace avervi fatto preoccupare. Siete miei amici, non ve lo meritavate.”
Amici.
Era una conquista. Tobia l'aveva perdonata e potevano riprendere da dove avevano lasciato.
Eppure …
Eppure stare così vicini non parlava esattamente di amicizia. Sin da ragazzini non era mai stato un problema abbracciarsi o tenersi per mano, persino nell'adolescenza dove tutto era spinoso o fraintendibile. 
Quei cinque anni però avevano messo in discussione tutto. Lei era diversa e lo era anche Tobia. La rottura del loro rapporto aveva azzerato la naturalezza con cui si toccavano.
Si schiarì la voce, alzandosi in piedi. “Dai, spicciamo e poi andiamo a letto.”
Il silenzio con cui Tobia accolse quella frase le fece capire quanto fosse stata fraintesa. Nonostante trent'anni e più di un partner occasionale, avvampò come una ragazzina. “Intendevo che uso il letto di tuo nonno. Per dormire.”
“Te lo devo ancora preparare.” 
“Allora vai, qui ci penso io,” ribatté brusca prendendo i piatti sporchi e dandogli le spalle. L'altro uscì dalla cucina senza aggiungere altro. 
Rosi si diresse verso il lavello, ma invece di aprire l'acqua per le stoviglie, si sciacquò il viso; un po' per rinfrescare gli occhi rossi … e un po' perché era un'idiota. 
 
***
 
Note:
 
Dico che questa non è una storia romance, ma poi ci casco con tutti i piedi. 
Maddalena è sincera nei suoi intenti; il problema è che ha diciannove anni e non capisce una fava.
Rosi e Tobia, infine, si son spiegati. Ci sono solo voluti mille capitoli. 
Grazie a chi ancora mi segue!
 
 

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Capitolo 11
*** 11 ***


11.
 
 
Bice non vuole incontrare Fortunato.
Non con i lividi che le ha lasciato addosso Benedetto. Lo conosce abbastanza, il suo soldato dal cuore gentile ma facile alla fiamma, per sapere che laverebbe l'offesa nel sangue. Non può rischiare che si metta nei guai.
Per questo in quei giorni prende la scarsella e si rifugia nel bosco appena può, fino a che il sole non tramonta. Poi il bosco diventa il terreno di caccia di Benedetto e del suo mostro e Bice scappa, con la paura che le sale addosso come una brutta febbre invernale.
 
Quel giorno si è rifugiata presso un'insenatura del ruscello che corre lungo la collina. Il prato è pieno di sgargianti iris, e pasciuti cistus rosa e bianchi, ed è incorniciato da cespugli di biancospino che gettano ombra sufficiente perché il sole non bruci quell'angolo di paradiso. Bice immerge i piedi nudi nella corrente fredda del ruscello, lasciando che il fresco e la tranquillità le diano pace.
Ha sempre amato la solitudine, ma da quando c'è Fortunato ha anche imparato a soffrirla.
Vorrebbe averlo con sé la notte, quando gli incubi le mangiano il sonno.
Sono notti che sogna l'enorme serpe, notti che assiste alla caccia e alla morte.
Vorrebbe non sognare più.
Un fruscio alle sue spalle la fa irrigidire; ha paura che sia qualcuno venuto dal castello ma no, la pelle le pizzica e l'odore d'erba si fa più forte: è lo spirito del bosco, i cui occhi scuri e curiosi appaiono da un cespuglio di biancospino.
Sono anni che non lo vede. La sorpresa per un attimo non la fa parlare.
Un lupo ti ha mangiato la lingua?
No … no. Vieni, te ne prego, lo invita riscuotendosi, vieni a sederti accanto a me.” Dalla scarsella tira fuori una mela e un po' di pane scuro e lo mostra alla creatura.
Ah, un incontro piacevole non solo alla vista, ma anche al palato! esclama il folletto uscendo dal cespuglio.
Il prete penserebbe ad un diavolo, piccolo e storto com'è, con la pelle verdastra come limo e quel ghigno pieno di denti aguzzi. Bice non ne ha paura invece, perché le donne della sua famiglia e quella creatura son sempre stati in amicizia. Gli porge la mela, che l'omicciolo addenta con gusto. Ti ricordi di me? gli domanda.
Non ho bisogno di ricordare, ti vedo tutti i giorni! risponde con una risatina. Sei tu che non ti ricordi di me. Eri una bambina con la candela al naso l'ultima volta che abbiamo giocato assieme … ora invece sei donna fatta. Hai già un bello? le domanda con occhi neri e densi come la notte profonda, ma animati da una scintilla di malizia che pare tutta umana.
Bice sorride appena. Se mi vedi tutti i giorni hai già la tua risposta.
Che peccato! Ti avrei sposato io e ti avrei reso regina di questa collina!” divora anche la pagnotta e poi rutta, divertito come ad una gran burla.
È imprevedibile come un bambino, e antico e saggio come il mondo stesso. Questo le raccontava la mamma e dunque quell'incontro è benedetto. “Hai incontrato il grande serpe?” Bice non ci gira attorno.
Lo spirito scrolla le spalle come se la cosa non lo riguardasse. Vanno e vengono, bestie a quel modo …
Sta uccidendo delle persone!
Voi uomini vi ammazzate sempre tra di voi. Che c'è di diverso?
Bice si morde le labbra. “Devi aiutarmi… non so a quale santo rivolgermi.
Lascia stare i tuoi santi. Cosa mi dai in cambio?
Non ho niente se non me stessa.
Andrà bene!esclama soddisfatto. Voi donne delle querce siete sempre così serie … stai tranquilla, bimba bella, ti aiuterò. Cosa devo fare?
Dirmi come si uccide quel mostro.”

 
***
 
Rosi si svegliò immersa nel verde; l'edera che ricopriva la casina del cimitero creava una cortina impenetrabile di colore smeraldo.
Svegliarsi a quel modo era un piacere che aveva dimenticato. Si stiracchiò, allungando i muscoli con calma e attenzione.
Il vecchio letto dei nonni di Tobia aveva la testata in ferro battuto e il materasso di lana e cigolò sotto il suo peso mentre si alzava. Camminò a piedi nudi sulle mattonelle in cotto della stanza, gelide persino in estate.
Era tanto che non dormiva a casa Neri, e quella camera, come il resto della casa, era rimasta identica a come la ricordava. Il vecchio armadio di legno grezzo chiuso da un chiavistello come nei castelli, l'intonaco delle pareti mangiato dall'umidità e il soffitto di travi a vista … e poi c'era l'odore: muffa, naftalina e un lieve sentore di acqua di colonia, quella che usava Bruno.
Prese in mano una delle tante foto che riempivano il canterano. Ritraeva Tobia bambino in braccio a suo padre Claudio; si somigliavano come due gocce d'acqua, tranne i colori, che l'amico aveva ereditato dalla madre, posizionata al bordo della foto con l'espressione perenne di chi aveva morso un limone.
Appena ha potuto Anna se n'è andata … prima a Siena, e poi quando hanno trasferito il marito direttamente a Milano.
Chissà da quanto Tobia non la sentiva; ormai dubitava si facessero persino gli auguri di Natale.
Il Nero era rimasto solo, e questa era la radice da cui erano scaturiti tutti gli altri problemi.
Ora però non lo è più. Non lo sarà mai più.
La sera prima aveva fatto una promessa, seppur implicita; aveva intenzione di mantenerla.
Un rumore la fece voltare di scatto. La porta della camera si era aperta di pochi centimetri lasciando intravedere un'ombra dell'altezza di un bambino, ma sproporzionata come mai un ragazzino sarebbe stato. I caramogi erano folletti famosi per imitare gli esseri umani, ma mancava sempre qualcosa; in quel caso, le corrette proporzioni del naso.
“Ciao Nasone…” mormorò. Era ancora capace di vedere le criptidi, ma interagirci? Tutt'altro paio di maniche. “Sei venuto a chiamarmi?”
Il caramogio aveva perso suo fratello da neppure un giorno ma aveva la solita espressione felice di sempre. Chissà se riusciva a capire tutte le implicazioni di quella sparizione. Chissà se riusciva a concepire la morte come lo facevano gli esseri umani.
“Arrivo.” Si infilò jeans e maglietta e seguì il folletto in cucina. Tobia era seduto al tavolo, completamente concentrato su una chitarra. Vi stava stendendo una mano di lacca e l'odore penetrante riempiva l'ambiente. Ai suoi piedi Gobbo masticava un plumcake, controllato a vista da Ermione, sdraiata sul davanzale della finestra. Non batté le palpebre neppure per un momento.
Un tranquillo, inquietante quadretto di Altrove.
Tobia alzò la testa e le sorrise. “Buongiorno,” la salutò “Scusami, mi sono messo a lavorare e ho dimenticato di preparare la colazione.”
“Faccio io,” rispose dirigendosi verso il lavello. A colpo sicuro – perché davvero niente era cambiato in quella casa – trovò caffè, pane e marmellata. Strinse la moka con decisione, che ricordava avesse un problema alla valvola, affettò il pane e stese uno spesso strato di marmellata su due fette.
“Quella di prugne è di tua mamma,” le disse Tobia cominciando a sgombrare il tavolo.
“Dell'anno scorso?”
“Mi ha portato diversi barattoli.”
Movimenti oliati, discorsi leggeri … la routine a cui erano tornati era naturale come respirare e Rosi si chiese se davvero andasse bene. Se non dovesse fare di più dopo tutto quello che aveva combinato.
Tobia parve leggere nella sua espressione combattuta, perché le sorrise di nuovo. “È bello averti di nuovo qui. Hai dormito bene?”
Rosi sentì la faccia avvampare e si voltò per mettere la moka sul fuoco. “Ho sognato,” ma non si era svegliata con il cuore in gola e la rabbia che le incendiava le vene.
Era il bosco a tenerla tranquilla. Era la presenza di Tobia.
“Qualcosa di interessante?”
“Il beffardello. O meglio, Bice che incontrava il beffardello, anche se lo chiamava spirito della foresta e pareva trattarlo come una specie di nume tutelare. Assurdo.”
Tobia aggrottò la fronte pensieroso. “Non tanto … adesso abbiamo una conoscenza più approfondita delle criptidi, di cosa sono e dei loro poteri. All'epoca invece erano considerate diavoli o angeli, con netta preponderanza dei primi … Ci sta che lo considerasse a quel modo.”
Rosi annuì: quello almeno avrebbe spiegato perché Bice fosse così convita di poter ricevere aiuto, e che lei avesse sognato quel preciso episodio. “Strinsero un patto...” un patto che prevedeva l’intera persona di Bice. Rosi cercò di non pensare a quali fossero le implicazioni. Tanto le avrebbe sognate, pensò con un brivido. “La mia antenata chiese il suo aiuto per liberarsi del serpe regolo, ma mi sono svegliata prima che le rispondesse. Provo a dormire di nuovo questo pomeriggio.”
“Ti aspetto.”
Rosi annuì mentre il borbottare della moka la avvertiva che era il momento di voltarsi e piantare il lungo piano sequenza di sguardi con l'altro.
Mentre si sedevano per bere il caffè il campanello di casa squillò. Tobia fece cenno di star tranquilli ai caramogi, ai gatti e persino a lei e andò a controllare. Fu con sollievo che Rosi vide entrare Ettore. Non era ancora pronta ad affrontare sua madre, l'unica altra visitatrice regolare della casa, e per un po', solo per qualche ora almeno, non voleva render conto a nessuno.
“Buongiorno toscanacci!” li salutò il carabiniere agitando una busta, “Sono passato al bar a prendere qualche cornetto e controllare la situazione. La sorellina tiene il forte, ascolta i vecchietti, e rampogna … la tua copia carbone Rosì!”
Rosi sorrise. “Le ho insegnato bene. I siciliani?”
“Stavano ad un tavolino con un sacco di fogli e dadi … han provato anche a spiegarmi, è quel gioco da tavolo con i draghi.”
“Finché son draghi di fantasia va tutto bene,” sospirò mentre Ettore si toglieva il cappello e si stravaccava sulla sedia pescando dal sacchetto un cornetto a cui staccò un morso soddisfatto.
Cacciò un urlo quando Nasone spuntò da sotto il tavolo per rubarglielo.
Tobia afferrò il folletto e lo tirò su, a distanza dai cornetti ma anche dalla pistola di Ettore.
“Lui è Nasone, uno dei tre folletti caramogi. Sono innocui,” si affrettò a spiegare.
Ettore spalancò gli occhi mentre Gobbo tentava di imitare la bravata del fratello. Tirò il sacchetto in alto e scostò la sedia di un paio di centimetri. “Sicuri che non vogliano mangiare me?”
“Non fanno niente,” ribadì Rosi, “ma fossi in te metterei il sacchetto al sicuro,” e allungò la sua fetta di pane a Gobbo, che si rintanò soddisfatto sotto il tavolo.
“Sta casa mo' è diventata il rifugio delle criptidi?” si informò Ettore inquieto, “ce ne stanno altre in giro?”
“Per ora soltanto loro, ma dobbiamo trovare il beffardello,” rispose Tobia con Nasone ancora comodamente accoccolato contro di lui tutto preso a pettinargli la barba. “C'era all'epoca del primo risveglio. È a lui che Bice chiese consiglio per neutralizzare il regolo.”
Ettore brandì il cornetto verso l'altro. “Questo volevo dirvi ieri sera! Ho parlato con i gatti, con il tuo gatto per la precisione …” le si rivolse ironico. “Lo sai che o' capo rione qua attorno?”
“No,” disse Rosi trattenendo un sorriso, “ma non mi stupisce.”
“Mi ha detto che dobbiamo cercare la criptide più vecchia del bosco.”
“Il beffardello,” concordòTobia, “Però con il regolo a piede libero si è nascosto e quando lo fa è impossibile trovarlo … è in grado di trasformarsi in diversi animali e di mimetizzarsi nel sottobosco. L'unico modo è che sia lui stesso a volerlo.”
“Quindi?”
Tobia si voltò verso di lei e fece un sorriso che poteva unicamente essere classificato come stronzo. Quella parte della loro amicizia non le era mancata per niente.
“Andiamo nel bosco e gli tendiamo una trappola … tanto abbiamo l'esca perfetta.”
Rosi strappò un pezzo dal cornetto che stava sbocconcellando e glielo tirò addosso.
 
***
 
Maddalena si svegliò che Stefano era già nella sua stanza. Da come stava leggendo un libro completamente assorto e da come gli occhiali che gli erano scivolati sul naso doveva essere lì da un po'.
“Ma che minchia …” mormorò con gli occhi ancora impastati di sonno. La notte prima aveva fatto fatica ad addormentarsi, dopo che lei e Cate avevano ascoltato quell'urlo allucinante provenire dalla foresta. La toscana le aveva chiesto di dormire assieme e aveva acconsentito, attendendo che l'altra scivolasse tra le braccia di Morfeo prima di ritirarsi in camera sua. Da lì non era più riuscita a prendere sonno, almeno fino alle prime luci dell’alba.
“Che ci fai qui?”
“Aspettavo che ti svegliassi,” rispose con un sorriso mite. “Buongiorno.”
“Che ore sono?”
“Non troppo tardi, le nove. Ieri sera sei uscita?”
Non le aveva manco dato il tempo di sciacquarsi la faccia che già la riempiva di domande. Si rendeva conto che l'amico stesse semplicemente facendo il suo dovere; interrogarla sui suoi spostamenti era un po' il nocciolo stesso dell'essere un sorvegliante, tuttavia era opprimente.
Ti ha sempre fatto ‘ste domande …
Però era la prima volta che gli nascondeva la verità e questa era una novità.
“Sono rimasta in paese. Io e Cate siamo andate a vedere le lucciole,” rispose sedendosi sul letto. Fuori il cielo era grigio piombo, segno dell'ennesima giornataccia. Chissà cosa si sarebbero inventati per passare il tempo.
Maddalena sperava che sarebbe usciti da Malacena, magari per fare una capatina in qualche borgo pittoresco pieno di viuzze dove imboscarsi. Avrebbe così potuto prendere Caterina e rifugiarsi tra qualche palazzo alto e stretto per baciarsi.
“Siete andate da sole?”
L'espressione di Stefano era illeggibile ma manco quella era una novità; una delle sue capacità da succuba era quella di poter sondare i desideri altrui, così come le debolezze … ma in Stefano non aveva mai letto altro che sentimenti tiepidi dietro una patina di timidezza.
“Eravate presi dal progetto e a me andava di prendere un po' d'aria.”
Stefano posò il libro sulla scrivania. “Cate è lesbica.”
Un'affermazione apparentemente casuale, ma Maddalena conosceva Stefano. Non diceva mai le cose direttamente, faceva in modo che la persona con cui stava parlando ci arrivasse da sola. Era un atteggiamento snervante, e gli aveva inimicato più di un coetaneo, dato che a nessuno faceva piacere esser trattato da ragazzino tonto. Lei per prima.
“Quindi? Non posso esserci amica?”
“Caterina ha una cotta per te, penso se ne siano accorti pure i muri. Devi stare attenta.”
“Non sto facendo niente!” ribatté svelta, troppo svelta da come l'espressione di Stefano mutò in un lampo di consapevolezza.
“La stai ammaliando?”
“No!” e quello era vero. Vero al cento per cento, tanto che si nutriva regolarmente tutte le sere, in modo che quando era con Cate poteva tenerla tra le braccia senza che la fame le mordesse alla gola.
Non le farei mai del male. Mai. Non se lo merita nessuno, ma lei meno di chiunque altro.
“Cate è … siamo soltanto amiche,” disse alzandosi in piedi e fronteggiandolo. Stefano era uno dei suoi più cari amici, forse l'unico. Era però anche il suo sorvegliante ed era lui che stava parlando in quel momento. “Faccio le mie cose altrove. Se ha una cotta per me non è perché l'ho ammaliata è perché…”
Perché?
Scosse la testa. “Non sacciu picchì.”
Stefano le sorrise. “Forse perché sei una bella ragazza che le dà corda,” alla sua faccia arrabbiata ampliò il sorriso. “Non ti sto giudicando. A tutti piacciono le attenzioni e Cate è adorabile.”
Non sto con lei perché voglio attenzioni.
Stava con lei perché si era innamorata come un'idiota e non ricordava di essersi mai sentita così felice e spaventata. Ne avrebbe voluto parlare con qualcuno, ma l'unico che le veniva in mente le stava davanti e non ne avrebbe mai dovuto saperlo per il bene di entrambi.
Stefano si alzò dalla scrivania, libro sottobraccio, dandole una pacca sulla spalla. “Mi dispiace averti fatto arrabbiare, ma te lo dovevo chiedere.”
U' sacciu.”
“Sono dalla tua parte, lo sarò sempre,” strinse appena la presa, guardandola negli occhi. Per un attimo, solo per un attimo, oltre la gentilezza e la preoccupazione, Maddalena lesse altro.
Leggere però non era il verbo giusto. Essere colpita lo era; da uno schiaffo di sensazioni troppo rapide perché potesse riconoscerle, ma che le chiusero lo stomaco e le fecero male fisico, tanto che d'istinto si scostò.
“Che minchia c'hai?” sbottò confusa.
“Niente?” Stefano era impallidito e le stava mentendo. I suoi stupidi poteri sonda-desideri si erano attivati a casaccio ma non sbagliavano. Aveva sondato il cuore del suo migliore amico e vi aveva trovato qualcosa.
Cosa però non ne aveva idea.
“Perché hai tentato di leggermi?”
“Non l'ho fatto apposta!” si difese. Non le piaceva dove stava andando quella conversazione e Stefano aveva un'aria strana. Gli era sparito il colore dal viso e stringeva il libro fino a farsi sbiancare le nocche.
Era arrabbiato e lì non ci volevano i suoi poteri per capirlo. “Mi hai fatto il terzo grado e poi mi hai toccato,” si giustificò. “Non me ne frega niente di cosa desideri, sono fatti tuoi!”
Forse non era il modo più gentile per rassicurarlo, ma non aveva idea di come chiudere quella conversazione. Per fortuna bastò.
“Scusami … sono un po' nervoso in questo periodo.”
“Perché?”
Stefano fece un gesto evasivo. “In tutta franchezza, voglio solo che questa vacanza finisca. Non sono mai stato così tanto a contatto con l'Altrove. Qui di cose strane ce ne sono tante... fin troppe.”
E pensa che ne sai soltanto la metà.
Chissà se l'urlo dal bosco l'aveva sentito anche lui, la notte prima. Non fece in tempo a domandarglielo che l'altro si diresse verso la porta. “Ti lascio preparare, ti aspettiamo giù.”
“Va bene, arrivo.”
Gli aveva mentito certo, e avrebbe continuato a farlo. Di questo Maddalena si sentiva in colpa. La sensazione però era smorzata dal fatto che fosse certa, senza il minimo dubbio, che l'altro la stesse ricambiando con la stessa moneta.
 
***
 
“Non ho capito perché devo essere io a fare l'esca.”
Tobia si scambiò un sogghigno con Ettore. Rosi marciava di fronte a loro, la schiena impettita. Ce la stava mettendo tutta per lasciarli indietro lungo il viottolo che portava al castello.
“Perché io e il maresciallo siamo due uomini e il beffardello ha un debole per le donne,” le fece notare paziente. “E poi ha sempre avuto un rapporto particolare con la tua famiglia … con Bice, e poi con Matilde … e anche tu se non ricordo male l'hai incontrato.”
“Quando era bambina, sì. Si divertiva a spaventarmi sbucando dai cespugli, urlando,” rispose lanciandogli un'occhiataccia da sopra la spalla. Voltò subito la testa però e non era la prima volta che evitava il suo sguardo.
Se prima lo faceva con l'intento di tenerlo fuori dalla sua vita, ora la ragione doveva essere un'altra, ma Tobia non riusciva a capire quale.
“E poi sei 'na bella uagliona, Rosì,” disse Ettore con una franchezza di cui mai sarebbe stato capace. “Vero Tobì?” e gli rifilò una pacca sulla spalla.
Tobia sentì la faccia scottare e provò l'impulso di far ruzzolare il ghignante napoletano giù per il pendio della collina.
Lui e Rosi si erano chiariti. Eppure c'era ancora un muro. Da parte sua sapeva benissimo cosa lo componeva: sentimenti che non se ne sarebbero mai andati, manco da morto.
(Letteralmente).
Da parte della vecchia amica però nebbia completa. La schiena dell'altra era rigida e irraggiungibile. “Arriviamo al castello e poi ti lasciamo sola. Magari viene.”
“Magari viene ...” convenne Rosi e sprofondarono di nuovo nel silenzio. Per fortuna, i rumori del bosco sopperivano alla loro poca voglia di chiacchierare. Più si avvicinavano al castello però, più Tobia notò che i richiami degli uccelli e il ronzio degli insetti si facevano attuti e lontani.
Cominciò a piovere, una pioggerella fastidiosa e gelida che si infilava negli occhi e faceva scivolare la suola delle scarpe.
“Ci risiamo!” Sbuffò Ettore calcandosi il cappello d'ordinanza sulla fronte. “Pioverà ogni volta che proviamo ad avvicinarci?”
“Funziona così,” rispose Rosi. “Non possiamo farci niente.”
Andate via. Non è sicuro.
Quello sussurrava la pioggia, quello ammonivano le foglie. Non potevano però dar retta ai moniti del bosco; non potevano permettere che la Montagnola perdesse un'altra criptide.
Siamo stati i bambini del bosco. Saremo dovuti essere sorveglianti. Rimane compito nostro.
Rosi si voltò verso di lui, quasi avesse captato quel pensiero. Il modo in cui increspò le labbra, in cui piegò appena la testa in un cenno d'assenso fece capire a Tobia che la pensavano allo stesso modo.
Continuarono a camminare mentre la pioggia si faceva più fitta, cattiva. Avevano tutti portato un impermeabile per tenere i vestiti asciutti, ma dagli orli sgocciolava acqua fin dentro le scarpe e lungo il collo. L'estate era un ricordo lontano.
Arrivarono al ponte. Il ruscello era gonfio d'acqua e i due argini in cui di solito si poteva scendere erano sommersi. L'arco del ponte era lambito in maniera pericolosa.
“La Manolonga?” domandò Rosi preoccupata. Tobia annuì e salì, chinandosi per controllare che l'orchessa fosse ancorata come suo solito al di sotto. Non c'era.
La sua espressione dovette parlare per lui perché Rosi impallidì. Lo raggiunse. “Non può essere stata trascinata via, vero?”
“Non è la prima volta che il ruscello si alza così, è abituata...”
“State parlando dell'orca … orchessa?” domandò Ettore raggiungendoli. “Forse è scesa ed è andata a rifugiarsi altrove.”
Rosi scosse la testa. “E' una criptide dei ponti, deve rimanere a contatto con una risorsa d'acqua o la sua pelle si secca. Respira con quella, rischierebbe di morire.”
“Con 'sta pioggia magari non le serve.”
Scesero dal ponte cominciando a controllare nella bassa vegetazione lungo l'argine.
Il regolo non può aver preso anche lei.
Tobia aveva lo stomaco stretto in una morsa, quando un grido di Rosi gli gelò il sangue nelle vene. Corse verso di lei tallonato da Ettore, che aveva già estratto la pistola.
Trovarono la ragazza in mezzo ad un gruppo di enormi felci, alte quasi quanto lei. Era chinata a terra sopra un fagotto di fango e stracci.
Era la Manolonga. Era rannicchiata tra il sottobosco, sporca di sangue che la pioggia non era riuscita a lavare via.
“Non ha senso...” sussurrò Rosi. “È una predatrice, non è parte della sua dieta, perché l'ha attaccata?”
Tobia si chinò accanto a lei, osservando con attenzione. “Respira,” realizzò. “È ferita ma respira ancora.”
Rosi si riscosse e assieme la voltarono. Il petto scheletrico si abbassava e alzava con un lieve e frammentato raschio. “Portiamola al ruscello!”
Tobia non se lo fece ripetere due volte; la pelle della manolonga era però scivolosa di fango e i quasi due metri di altezza la rendevano pesante, difficile da trasportare da solo. Arrivò Ettore: il carabiniere sussultò quando la vide, mormorando subito dopo qualcosa in dialetto. “Dammi una mano!” lo pregò.
Ettore era grigio in volto e parve non ascoltarlo, gli occhi sbarrati e la pistola stretta in pugno. “Per favore,” lo incalzò mentre Rosi si allontanava rapida in mezzo al sottobosco. “Dobbiamo portarla al ruscello!”
“Nu' cazzo di incubo...” lo sentì bofonchiare. Poi però infoderò la pistola e gli si affiancò. “È troppo alta perché ce la carichiamo sulle spalle,” disse sbrigativo. “Tu prendila da sotto le ascelle e io dai piedi, e la portiamo così. Va buono?”
Tobia annuì, grato che l'altro, oltre l'orrore che palesemente provava, fosse un uomo portato all'azione. Trascinarono così la manolonga, tra sudore e pioggia, verso il ruscello. La adagiarono inerte sull'argine. Tobia attese, sperando che il fango e la vicinanza con la fonte d'acqua l'aiutassero a riprendersi.
Non bastava da come la ferita ad un fianco continuava a perdere sangue vischioso.
Ja, è rosso...” commentò Ettore. “Ha il sangue rosso.”
“Respira ossigeno come noi, di che altro colore dovrebbe averlo?” gli domandò prendendole una mano, lunga, disarticolata e con aguzze unghie nerastre, capaci di dilaniare in un solo fendente.
Non le aveva mai usate. Alla Manolonga piacevano le caramelle, i rospi e si divertiva a giocare con le ondine del fiume. Amava slacciare le scarpe dei malcapitati che passavano sul ponte, e un paio di volte si era mostrata anche a qualche cacciatore ignaro, diventando una storia attribuita al troppo vino.
C'era una leggenda che raccontava mangiasse i bambini che non ascoltavano i moniti genitoriali, ma non era vero, la divertivano e questo, nel linguaggio del popolo fatato, significava che era solo più prona a far loro scherzi. Spaventarli era anche un rimedio per non farli sporgere troppo dal ponte con il rischio che annegassero.
Non aveva mai fatto male ad una mosca. Le criptidi del bosco erano mostruose e amavano spaventare, ma erano innocue come bambini selvaggi. Erano la linfa vitale della Montagnola, i suoi abitanti e custodi. Se fossero morte, la magia si sarebbe seccata come una pianta in un appartamento di città.
Il regolo sta uccidendo tutto.
Strinse la mano della Manolonga tra le sue, serrando le labbra fino a sentire il sapore del sangue.
“Dov'è la Rosina?” domandò Ettore. Lo aveva aiutato ma continuava a contemplare la criptide come se fosse un mostro uscito dall'inferno.
Forse era questa la fiducia. Come quella che lui provava per Rosi, che ricomparve dall'altra parte del ponte per poi correre verso di loro con una manciata di erbe in pugno.
“Ce l'avete un fazzoletto? Meglio se di stoffa,” specificò chinandosi con il fiatone. “E mi serve anche un coltello.”
Tra lui ed Ettore furono rapidi a fornirle quanto richiesto. Rosi distese a terra il pezzo di stoffa e con il suo serramanico tagliuzzò con minuzia le erbe, per poi mischiarle ad una manciata di fango che prese dal ciglio del fiume. Richiuse tutto e lo applicò con forza sulla ferita, strappando un ringhio alla Manolonga.
Ettore fece un rapido passo indietro. “Mo' non è che si sveglia e ci attacca?”
“È troppo debole persino per tornare sotto il ponte,” ribatté Rosi senza degnarlo di un'occhiata. La sua attenzione era tutta rivolta a premere l'impacco sulla ferita. Aveva le labbra tirate in una smorfia e gli occhi che lampeggiavano di rabbia e determinazione.
A Tobia non era mai sembrata tanto bella.
“È l'erba del pastore?” domandò.
Rosi annuì. “Nata dentro un cerchio di funghi e dai tre fusti. Dovrebbe aiutare. Però è un rimedio temporaneo, mi servirà comunque attingere alle scorte di mamma.” Esitò. “Non possiamo lasciarla qui … stanotte potrebbe tornare il regolo e finire il lavoro.”
“La portiamo a casa mia. Il bagno ha la vasca, posso tenerla idratata.”
“Ottima idea.”
Si voltarono entrambi verso Ettore che restituì loro un'occhiata incredula. “La volete davvero...” non finì la frase perché la risposta era implicita.
“Davvero,” disse comunque Rosi. “Ci dai una mano o no?”
Ettore si passò una mano sulla faccia. Sospirò un altro effluvio di dialetto. “Nella Polizia dovevo entrare. Così almeno non mi spedivano tra voi matti!”
“Ma se ti lamentavi che ti stavi annoiando e volevi tornare ad essere il protagonista del tuo personale film d'azione?” sogghignò Rosi con l'aria di ripetere una citazione.
Ettore avvampò, accompagnando una parolaccia al correlato gesto esplicativo. “Nu' film d'azione volevo, non un horror! Jamm', portiamo giù sta cosa!”
 
***
 
Marina tornò dal suo turno d'ospedale che aveva appena smesso di piovere. Avrebbe dovuto esserne contenta, perché guidare per le tortuose strade che portavano al paese in mezzo all'acqua era pericoloso, ma quella sensazione era smorzata dalla certezza di essersi persa qualcosa.
E non sto parlando della pioggia.
Parcheggiò davanti al Bar, illuminato diagonalmente dalla luce che filtrava da nuvole che si stavano diradando. Tea non aveva ancora riportato i tavoli fuori, come le abbaiava Rosi ogni volta che finiva di cadere l'ultima goccia, ma capì subito il motivo.
La cameriera era sola nel bar; Rosi non era dietro il bancone, nume tutelare imprescindibile e infatti, la tv era accesa su un canale di musica che trasmetteva terribile reggaeton.
Non c'era molta gente nel locale; mancavano all'appello anche Caterina e i suoi siciliani.
“Dove sono tutti?” chiese raggiungendo la ragazza che si affaccendava a preparare – con scarsi risultati – uno spritz ad una coppia di turisti.
Tea le lanciò un'occhiata inviperita, quasi fosse lei la causa della defezione della figlia. “A sapello!” esclamò. “Cate se n'è andata fuori paese con i suoi amici e Rosi è arrivata dopo pranzo ed è andata subito su!”
“E' ancora in casa?”
“A scende non è scesa!” rispose infilando senza troppa grazia una gigantesca fetta di arancia in uno dei bicchieri. Il contenuto tracimò sul bancone con smorfie di gemello disappunto da parte dei due stranieri. Marina si segnò per persi quei due clienti, ma non aveva tempo per fare pubbliche relazioni.
Non era da Rosi lasciare il Bar nelle mani di Tea; non era da sua figlia ignorare qualcosa che riteneva sua responsabilità … dunque c'era qualcosa di più importante che occupava i suoi pensieri, e si trovava in casa.
Marina salì le scale, il cuore in gola non solo per la fatica. Ispezionò la cucina, in ordine e priva di odori, e le stanze delle figlie. La porta di entrambi i bagni di casa era spalancata per far girare l'aria e di Rosi non sembrava esserci traccia.
Un rumore proveniente dalla sua camera da letto la allertò. Incredula Marina scese le scale e si diresse verso il suono. Rosi le dava le spalle, così assorta nel cercare qualcosa nella sua libreria che non l'udì entrare.
Stava frugando tra le sue pozioni e le sue scorte di erbe. “Hai bisogno di qualcosa?” le domandò. Rosi si voltò: arrossì, come una bambina colta con le mani nel sacco, ma l'imbarazzo durò poco. Lo sguardo le si indurì.
“Cerco il decotto di erba cavallina, dove lo tieni?”
“Secondo scaffale in alto,” rispose meccanicamente. “Chi si è fatto male?”
Rosi non le rispose prendendo il vasetto e stringendolo in una mano, guardandolo come se cercasse di capire qualcosa … o di evitare il suo sguardo.
“Cosa sta succedendo?”
Non c'era modo di evitare quella conversazione. Lo sapeva sua figlia e lo sapeva lei. Eppure le parole facevano fatica a formarsi, rimanevano sospese tra di loro come fili di ragnatele.
“Rosi, parlami per favore.”
“Potrei chiederti lo stesso,” ritorse con una smorfia. “Ma mi diresti la verità?”
“Di che stai parlando per l'amor del Cielo?” sbottò incredula. A che punto erano arrivati del loro rapporto per cui sua figlia non si fidava di lei? Quel tono, quegli occhi sfuggenti puzzavano di sfiducia lontano chilometri.
Ha tutti i torti, forse? Ha capito qualcosa. Non tutto, ma qualcosa. E le basta.
La conosci.
Da quando aveva cominciato a muoversi nella sua pancia, dal suo primo vagito, alla sua prima caduta la fiducia di Rosi era una lastra di ghiaccio sottile, inscalfibile finché non veniva messa alla prova. A quel punto, si rompeva in mille incredibili pezzi.
E Marina in quel momento si stava specchiando in uno di quei frammenti.
“La Manolonga è ferita, il rimedio serve a lei.”
La mente le andò automaticamente ad Elia, alla caccia che lo animava durante le notti di luna piena … quel pensiero passò in fretta, perché la luna era ormai lontana e non aveva mai attaccato altre criptidi. La Manolonga poi era troppo grossa e pericolosa, non l'avrebbe affrontata neppure in forma animale.
“Com'è successo?”
Rosi la superò facendo per uscire dalla stanza, ma Marina la afferrò per un braccio. “Rosi, dimmi com'è successo. Andiamo assieme.”
Non la stupì sentirla divincolarsi. La stupì il modo brusco in cui lo fece, quasi spingendola via.
“Rosi, falla finita!” esclamò sconcertata, cercando di infondere autorità nel tono. Fallì da come la figlia non mutò espressione. “Non puoi occupartene tu, devo farlo io, non sei una Sorvegliante.”
“Perché, tu lo sei?”
“Che stai dicendo?”
Rosi distolse di nuovo lo sguardo e Marina avrebbe voluto schiaffeggiarle il viso, anche solo per farla voltare verso di lei, farsi guardare.
“Dovresti sorvegliare il bosco, ma non lo stai facendo.”
“Non posso avere occhi ovunque!” ribatté incredula. “Se c'è un problema a volte lo posso affrontare solo a posteriori.”
Rosi stringeva così forte il barattolo da farsi sbiancare le nocche. Era una corda tesa allo spasimo, che voleva parlare, ma che restava in silenzio.
“Non stai facendo il tuo lavoro,” ripeté. “E non riesco a capire se è perché non ne sei in grado, o perché non vuoi, ma non mi interessa … d'ora in poi ci penso io.”
“Vuoi tornare a studiare da Sorvegliante?” Non poteva aver scoperto di lupo manaio … a meno che non avesse parlato con Alina.
La Radu però non veniva al Bar da giorni e non era mai parsa interessata alla più grande delle sue figlie, neppure sapeva che aveva studiato da Sorvegliante. Non avrebbe avuto senso per lei cercare il suo aiuto.
Forse c'entrava il Nero?
“Voglio prendere il tuo posto,” la ghiacciò. “È arrivato il momento.”
“Non puoi deciderlo tu.” Non voleva mettersi sulla difensiva perché in condizioni normali quella notizia avrebbe dovuto riempirla di sollievo. Finalmente poteva passare il testimone.
Solo che non era il momento giusto. Forse una volta andati via i siciliani e allontanati i Radu da Malacena … forse a quel punto avrebbe potuto spiegarle tutto e chiedere complicità.
Rosi poteva essere intransigente, ma non avrebbe condannato a morte un ragazzo.
“Non ho nulla in contrario, anzi, ne sono felice,” disse con il sapore amaro della menzogna sulle labbra. “Però ne dobbiamo prima parlare a livello di Confraternita, non è una cosa immediata.”
“Dovrebbe esserlo invece, perché è evidente che le cose non stiano funzionando. Il bosco è in pericolo.” Rosi aveva un'espressione terribile addosso. Furiosa, determinata, come se si trovasse di fronte un nemico.
Era lei il nemico ma non era giusto; si era rotta la schiena per anni per tenere in piedi l'equilibrio fragile della loro famiglia, del Chiaro e dell'Altrove, di Elia … di tutto mentre sua figlia rimaneva rintanata nel Chiaro, tra i suoi libri e il suo lavoro. Non meritava quell'odio.
Inspirò per calmare la rabbia che la agitava. Se si fossero urlate addosso non avrebbero risolto niente. “Perché pensi che il bosco sia in pericolo?”
“Ti rendi conto di che sta succedendo o no?” sbottò Rosi.
Parla di Elia. Parla sicuramente di Elia.
Solo non riusciva a collocare la Manolonga in quel puzzle. Era come un pezzo dentro una scatola che sembrava non coincidere con nient'altro. Eppure era lì.
“Tesoro...” voleva prenderla tra le braccia e rassicurarla. Avrebbe voluto dirle che non c'era bisogno di preoccuparsi che, come sempre, ci avrebbe pensato lei perché aveva imparato che era meglio così.
Rosi però non era dello stesso avviso, non più; era fatta del sangue suo e di Dermot, di concretezza e ideali e questo aveva generato un ibrido fatto di assoluti. Si scostò quando tentò di carezzarle un braccio.
Marina sospirò. “Ci sono fatti che non conosci,” ammise, “sei stata lontana per tanto tempo. Per tua volontà ...” le ricordò, “... ci sono cose che non ti sono state dette. A tempo debito, se vuoi tornare nella Confraternita, ti dirò tutto. Adesso però...”
“Devo chiudere gli occhi? Come volete che faccia Tobia?”
Ovvio che c'entrasse il Nero. In qualche modo i due si erano rappacificati e l'uomo era riuscito a portarla dalla sua parte.
Rosi le rivolse un sorriso sarcastico. “Non funziona più. Il bosco lo proteggeremo noi.”
Non le diede il tempo di ribattere; rabbiosa come il vento la superò scendendo le scale di corsa.
Marina non la seguì; si sedette sul letto. Non avrebbe mai potuto raggiungere sua figlia con il suo fiatone, con i suoi anni e con le sue colpe. Rimase a guardare la borsa per lungo tempo, forse dieci minuti o forse un secolo. Poi prese il cellulare e compose il numero che ormai, che volesse o meno, conosceva a memoria.
“Carlo? Abbiamo un problema.”
 
***
 
Note:
 
le ferie si avvicina e con esse, spero, finalmente un po' di tempo in più!

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Capitolo 12
*** 12 ***


12. 
 
Bice aspetta Fortunato di fronte alla quercia. Non riesce a rimanere ferma quindi va avanti e indietro, alza la testa ad ogni piccolo rumore e aspetta. Aspetta e odia quell'attesa perché nell'attesa c'è un mondo di possibilità, una più spaventosa dell'altra.
“Beatrice...”
La voce del suo soldato calma la sua ansia. Beatrice quasi gli si getta addosso,e viene rincuorata dall'abbraccio saldo dell'uomo, che la bacia con dolcezza. 
Se solo potesse rimanere tra quelle braccia per sempre …
“Che succede?” gli domanda Fortunato scrutandola in viso. È intelligente, ma non è capace di leggerle il cuore. Per fortuna.
“Nulla … sono solo contenta di vederti.” Gli sorride, accarezzandogli una guancia ombreggiata di barba. Non gliene cresce molta, facendolo apparire un eterno ragazzo. “Hai avuto problemi a lasciare il castello?”
“Ho trovato un modo facile per uscire.”
“Quale?” 
Fortunato esita e in quella esitazione Bice legge il tentativo di mentirle.
“Non mentirmi,” sbotta dura. “Come esci dal castello?”
“Ho seguito Benedetto,” ammette e alla sua espressione sbalordita aggiunge: “Mi tengo a distanza … Benedetto usa i sotterranei del castello per uscire, credo siano collegati a delle grotte.”
“La montagna è cava, c'è modo di attraversarla da sottoterra” conferma Bice. “Non devi più seguirlo però, è troppo pericoloso!”
“L'ho fatto solo una volta e non ho incontrato il mostro,” ribatte Fortunato. “Forse lo incontra altrove. Da allora uso questo sistema, ma non lo seguo più. Non sono più riuscito a coglierlo in flagrante.” Si rabbuia. “Anche quella volta, quando sono uscito, ne ho subito perso le tracce...”
“E così dev'essere. Non abbiamo ancora modo di affrontare il mostro!”
“Mi avevi detto che potevi sognare un modo per farlo...” 
Bice esita. Non ha modo di raccontargli la conversazione con lo spirito del bosco senza che Fortunato si metta in agitazione. Ancora non ha imparato a distinguere spiriti da diavoli. Forse non lo imparerà mai e va bene così. “Ho interrogato il bosco … il bosco mi risponderà, ma ha i suoi tempi.”
Fortunato fa una smorfia. Non è contento. “Della gente sta morendo, Bice … non che non mi fidi dei tuoi metodi, ma io credo a questi,” e tocca l'elsa della spada. “E la gente del castello altrettanto. Stiamo organizzando una nuova caccia, al calare del sole.”
“Stanotte? Non devi andare! Hai visto le tracce, è un mostro, non una creatura di questo mondo!” Gli prende le mani tra le sue, e Fortunato non scioglie la presa, ma si irrigidisce.
“E' mio compito difendere questa comunità. Non mi tirerò indietro. Non chiedermelo.”
Bice vorrebbe dargli uno schiaffo. La paura le attanaglia le viscere, perché sa che Fortunato non la ascolterà. Non con la sua spada e la sua testardaggine. “Promettimi che non ti separerai dai tuoi compagni … e che avrete sempre luce con voi.”
Fortunato abbozza un sorriso. “Nel bosco di notte non andremo mai alla cieca. Saremo pur senesi, ma non siamo gente stupida.”
“Allora portatene molte. Qui il buio è fitto.”
Fortunato annuisce, prendendole il viso tra le mani. Si china, e sfiora la fronte con la sua. “Quando sarà tutto finito, Beatrice De' Silvani, andrò da tuo padre e ti chiederò in moglie.”
Bice sorride e preme la fronte contro la sua. Sente il suo respiro, caldo. Una lieve pioggerellina comincia a bagnare le fronde degli alberi e i loro corpi intrecciati, ma non importa a nessuno dei due, mentre si baciano, accarezzano e si spogliano dai vestiti diventati ormai inutili. 
“Non metterci troppo...” mormora Bice stringendo Fortunato a sé, inspirando profondamente l'odore, imprimendoselo nella memoria. “Torna presto da me.”  
 
*** 
 
“Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, 
esiste l’amore finché dura e la città finché non crolla.”
  • Erri De Luca
 
Alina percorreva la tortuosa stradina in salita che portava alla Chiesa di San Giovanni. I primi giorni che era arrivata a Malacena si era chiesta se ve ne fossero altri, di edifici ecclesiastici in quel paesino tanto raccolto. L'Italia era famosa per due cose dopotutto: cibo e chiese. 
Aveva scoperto che ve n'erano state; una vicino alla porta Sud, e piccole cappelle negli incroci tra due strade, ma che per mancanza di persone che se ne occupassero erano state chiuse e sconsacrate. La chiesa di San Giovanni era rimasta l'ultima ancora in funzione. E neanche troppo prosaicamente, ospitava tutte le risposte che cercava.
Alina suonò il campanello della sacrestia; fuori, qualche goccia di pioggia bagnava rapida la strada ma subito evaporava. Un lieve velo di sudore le bagnava il viso. Non era stata la salita, né l'umidità. 
Era altro.
Don Doriano aprì la porta e la accolse con il sempiterno sorriso benevolo. “Eccoti qua … sei stata velocissima!”
“Sono a sua disposizione.”
“Entra, entra...” l'uomo si scostò per lasciarla passare. Odorava di sudore e incenso. Odore di stantio.
Assieme percorsero il breve corridoio che portava alla saletta letture. L'uomo le fece cenno di accomodarsi. “Qualcosa di fresco? C'è un caldo asfissiante, eh?”
“No, grazie.”
“Allora lo prendo per me. Aspettami qui,” e scomparve dietro una fila di scansie diretto probabilmente verso i suoi appartamenti privati. Alina udì una porta aprirsi e poi un rumore di passi allontanarsi. Sembravano quelli di una persona che aveva molta fretta. 
Non vi diede peso; la sacrestia era un territorio franco dove molti malacenesi si rifugiavano per un consiglio o, nel caso fossero anziani, per un po' di compagnia: e poi, era troppo occupata a tenere a freno il proprio nervosismo.
I risultati da Roma erano arrivati; la tisana di Marina era stata analizzata e presto avrebbe saputo cosa conteneva.
Alina era divisa: se una parte di sé sperava che la donna avesse davvero cospirato con il Ghini per nascondere il lupomanaio, così da avere finalmente qualcosa su cui lavorare, dall'altra … detestava quella svolta. Con tutte le sue forze.  
Mi fidavo di Marina. 
Se aveva riposto male la sua fiducia, quante volte l'aveva fatto, e con chi?
Aveva ragione suo padre: era ancora un'immatura che necessitava di una guida.
Il rumore dei passi di Don Doriano la riscosse. L'uomo tornò reggendo un plico di fogli in una mano e un bicchier d'acqua nell'altra.
“Con questo caldo devi bere, figlia mia,” la apostrofò gentile. “Che poi è un attimo cenciare per terra, come dicono qui!”
Alina bevve ubbidiente un grosso sorso d'acqua, l’attenzione rivolta verso il plico. Era una cartelletta verde. L'uomo si sedette pesantemente su una sedia e la voltò con due dita. “Io di queste cose … numeri e chimica, mi intendo poco. Niente, anzi. Così me la son fatta spiegare.”
La spinse nella sua direzione e Alina la afferrò, aprendola: i fogli riportavano in alto il timbro di un laboratorio chimico di Roma. Alzò lo sguardo interrogativa e l'uomo scrollò le spalle.
“Te l'ho detto, ho ancora qualche buon amico laggiù … o come direbbe qualcuno, persone a cui chiedere favori che son ben contenti di farmeli. È così che funziona in Italia, no?”
Alina non commentò scorrendo le righe stampate, fatte da numeri e grafici che non capì. “Che cosa le hanno detto?”
“Un sacco di paroloni, ma di base la tisana che ti ha dato Marina non contiene sostanze allucinogene o che possano alterare lo stato mentale. Sono erbe, tra cui menta e timo, calendula … e anche radice di genziana. La nostra Marina è un’erborista vecchia maniera. Me lo disse, che è una cosa che si passa nella sua famiglia da generazioni.”
“Cate non sa nulla di questa roba,” la difesa le venne in automatico.
“Caterina è stata adottata,” fece un cenno distratto. “In ogni caso, Marina non ti ha drogato.”
Alina serrò le labbra: non avrebbe dovuto provare sollievo. Non doveva. La provava lo stesso.
“Però...”
Alina alzò la testa di scatto e Don Doriano, fraintendendo la sua espressione, le rivolse un gran sorriso. “Questo vecchio è testardo, e non si arrende facilmente,” frugò in una delle tasche dell'abito, cavandone fuori un libricino senza copertina, consumato dagli anni. Alina notò che aveva un adesivo sulla costola, quello della biblioteca comunale. Don Doriano inforcò gli occhiali e aggrottò le sopracciglia scorrendo con un dito inumidito di saliva le pagine. “Ho cercato queste erbe … e di per sé le analisi di laboratorio hanno ragione. Sono innocue per l'uomo. Però una in particolare la Catiorà, viene chiamata negli erbari medievali anche erba della paura, e serve per superare gli affanni che albergano nel cuore e nella mente.”
“Hanno l'effetto di un antidolorifico?”
“Sì, ma se interpretiamo quanto scritto qui, aiutano anche a dimenticare.”
Alina rimase in silenzio. Non era convinta e l'uomo se ne accorse.
“Sì, è un po' tirato per i capelli, ma è qualcosa su cui dobbiamo riflettere,” la avvertì. “Marina è un'infermiera, avrebbe potuto darti delle medicine, e invece ha scelto la strada delle erbe. È vero, è una cosa che fa abitualmente … va a coglierle nel bosco e poi le prepara in casa, e mi è giunta voce che le usi anche per le sue figlie e De Miris me ne parla un gran bene. Però si tratta di erbe colte nell'Altrove.”
“Questo cambia le cose immagino...”
“Vi è una robusta tradizione, qui in Toscana, di donne che trafficano con le erbe, e non si limitano a coglierle come si fa con i funghi … ma con riti complessi, in certi momenti del giorno o dell'anno. Le hanno chiamate in tanti modi … guaritrici, segnatrici … streghe, e con la Chiesa hanno sempre avuto un rapporto ambiguo … lungi da me dire che Marina voli in sella ad una scopa!” Don Doriano rise ma Alina non lo seguì, continuando a guardare quella sfilza di dati e grafici. “Però ha un arsenale potente al suo fianco. Un arsenale sconosciuto e che ad analisi chimiche non è rilevabile.”
“Pensate davvero che mi abbia fatto dimenticare la sera della caccia? ”
“È una possibilità che non possiamo escludere.”
"È reversibile?"
Don Doriano scosse la testa. “Non dobbiamo concentrarci su questo. Un sospetto così è sufficiente per far aprire un'inquisizione ai Chiaroscuri di Siena.” Si accarezzò la barba corta. “A questo però penserò io.”
Alina si mosse inquieta sulla sedia. “Io cosa devo fare?”
“Testimoniare quando sarà necessario.” Don Doriano si alzò in piedi andando alla finestra. Neppure quel giorno volava un filo di vento e l'uomo sospirò insoddisfatto. “Scuoteremo questo paese dalle fondamenta, Alina … devi essere pronta per quello che accadrà, e devi essere al mio fianco.”
“Io e mio padre lo saremo.” 
Don Doriano esitò. “Comprendo il tuo desiderio di informare Marian. Però voglio darti un consiglio, da amico e da padre, anche se di Chiesa ...”
Alina aggrottò le sopracciglia. “Dovrei nascondergli quello che abbiamo scoperto?”
L'uomo la fermò con una mano. “Certo che no, tuo padre è il tuo diretto superiore, non puoi e non devi farlo.” La raggiunse mettendole una mano sulla spalla. “Però sei una ragazza intelligente e capace, Alina, e farai grandi cose. Tuo padre purtroppo, per la sua condizione, non può più servire. Non limitarti ad essere le sue braccia, bambina mia … o finirai per essere nient'altro che la stampella di uno storpio per il resto della vita. È un compito nobile, certo, ma non il compito che Dio ha voluto per te.”
Alina esitò, confusa. Don Doriano non aveva ancora tolto la mano, ed era calda e pesante sulla sua spalla. Non la tratteneva, eppure non riusciva a muoversi.
“Mi state consigliando di abbandonare mio padre?”
Don Doriano fece una faccia sorpresa. “Assolutamente no. Non ti sto dicendo di abdicare al giustissimo compito di una figlia di rispettare i genitori e prendersi cura di loro  … ma parlo alla giovane vânător qui. Una volta finito tutto sarai richiamata a Roma.”
“È così.”
“E se riusciremo a liberarci del lupomanaio questo sarà un successo per te, non per tuo padre.”
“Il compito lo ha accettato lui...”
“Però a portarlo a termine sarai tu. Mi assicurerò che questo sia chiaro a tutti,” soggiunse gentile. “Se si scoprisse che la Confraternita di Malacena è corrotta verremo tutti rimossi dai nostri incarichi, e nel mio caso, verrei riassegnato. Con un po' di fortuna, qualche merito verrebbe riconosciuto anche a me … e forse potrei finalmente tornare a Roma, a casa.”
Alina annuì. “Lo spero per lei, Padre.”
Don Doriano le fece una carezza sulla testa, allontanandosi di nuovo verso la finestra. Si asciugò il sudore dalla fronte. “Se Dio vorrà potremo lavorare ancora assieme.”
“Sarebbe un onore,” ribatté pronta, perché certe risposte le venivano senza pensarci. Erano quelle che ci si aspettava da lei dopotutto. 
Don Doriano le rivolse infatti un sorriso di approvazione. “Nel frattempo, pensiamo al presente. Ti chiamerò presto. Non ti trattengo. Puoi andare.”
Quando Alina uscì dalla canonica aveva cominciato a piovere. Scese in paese con le parole di Don Doriano che le risuonavano  in testa: a differenza dell'uomo non riusciva a vedere così in là nel tempo. Però un'immagine nitida in testa la aveva, perché apparteneva al passato, anche se sarebbe presto diventata futuro: un appartamento silenzioso e il caos di una metropoli che ignorava la sua esistenza.
 
***
 
Verde ovunque.
Maddalena avrebbe ricordato quella vacanza attraverso i colori: il verde brillante delle foglie delle querce e l'oro giallo dei campi di grano. Le braccia abbronzate attorno alla vita di Caterina fasciata in una maglietta dei colori dell’arcobaleno mentre il motorino rosso sfrecciava nella lunga discesa che dal bosco arrivava fino alla città.
Fino a Sovicille, per essere più precisi. 
Quel pomeriggio aveva accampato la scusa di aver finito nuovamente i blocchi da disegno per potersi ritagliare del tempo sola con la sua ragazza. Michele e Stefano avevano deciso invece di fare un giro, ma vicino al paese, nel caso fosse ripreso a piovere. Pietro aveva deciso di accompagnarli.
La cortina d'acciaio che era il cielo non faceva presupporre nulla di buono ma a lei e Cate non importava; non finché potevano rubare quegli attimi di solitudine perfetta.
I primi gruppi di case e il cimitero nuovo di Sovicille salutarono il loro ingresso nella civiltà. Cate mise le frecce e si immise in una strada più larga, dove il traffico era vero e i rumori non giungevano attutiti. “Andiamo a parcheggiare in Piazza e ci si fa una passeggiata?” le propose oltre il rumore del motore.
Maddalena le batté una pacca sulla spalla per segnalare il suo assenso e Cate sfrecciò via. 
Sovicille era una città non tanto più grande di Malacena, almeno dal punto di vista geografico; cambiavano però il numero dei negozi e l'età media delle persone. Maddalena ebbe modo di notarlo mentre Caterina parcheggiava accanto ad un nutrito gruppetto di motorini. L'unico bar della piazza – era tipicamente toscano avere un unico esercizio servente alcolici per nucleo di ritrovo? - era gremito di ragazzi della loro età. Cate si sganciò il casco e gettò un'occhiata in quella direzione. “Cominciano a tornare dalle vacanze finalmente!” commentò contenta.
“Li conosci?” 
“A Sovicille conosco un po' tutti … che vuoi, fino alle Medie abbiamo frequentato le stesse scuole. Del paese eravamo quattro gatti.”
“Quindi della vostra età a Malacena, a parte il gruppo di Elia e te e Pietro...”
“Ed Alina,” aggiunse Cate. “No, a parte noi non c'è nessuno … ci sono un po' di cittini ma d'Agosto son quasi tutti fuori.”
Maddalena annuì, ascoltando a metà quello che l'altra le stava raccontando; pensava invece alla vânător
Erano giorni che non metteva piede nel Bar delle Silvani: era sparita da quando l'aveva aggredita. 
Meglio così.
A meno che non fosse l'ennesima mossa per studiarla, magari da lontano? Oppure davvero Marina era riuscita ad allontanarla definitivamente?
“A proposito di Alina, che fine ha fatto?”
Caterina mise a posto il casco dentro il sellino e si fece dare il suo, studiando come incastrarli. “Per messaggio m'ha detto che c'ha da fare con suo babbo.” Fece una smorfia. “Ma per me non è vero.”
“Pensi le sia successo qualcosa?”
“Perché?”
Maddalena si irrigidì. L'espressione dell'altra era un po' troppo attenta, quasi quella frase non le tornasse.
“Come perché? Era sempre con noi ed è sparita. L'ha fatto anche la settimana scorsa, no? Si era fatta male...”
Cate si strinse nelle spalle, rinunciando a mettere entrambi i caschi nella sella e agganciando il suo nell'incavo del gomito. “È per via del suo babbo, col fatto che è in carrozzina ed ha un botto di problemi di salute gli deve sta dietro.”
“Però non sei convinta...”
Cate esitò. “È strana in sto periodo … anche Pietro lo ha notato. È sempre incazzata e poi...” si mordicchiò un labbro. “Io un'idea me la sono fatta ma magari è una minchiata.”
“Una minchiata eh?”  
Cate le mostrò la lingua. “Sì, mi sta cuntando un sacco di minchiate,” la imitò. “Secondo me è un po' gelosa di tutto il tempo che io e Pietro passiamo con voi.”
Non era esattamente quello il motivo per cui la rumena era sul piede di guerra, ma Cate, pur nella sua inconsapevolezza, le aveva dato una chiave di lettura che le dava da pensare.
Non ce l'ha con me solo perché sono una succuba … ma perché le ho rubato le attenzioni della sua migliore amica?
“Non è che le piaci?” domandò mentre si incamminavano verso il baretto in fondo alla piazza.
“Ma va', ad Alina non piacciono le citte! Non credo le piaccia nessuno, ad essere onesti,” rispose l’altra con una scrollata di spalle. Ne era così convinta, e così serena a riguardo, che Maddalena le credette subito.
“È … asessuata? Si dice accussì?”
“Asessuale,” la corresse Cate con un sorrisetto saputo, schivando un conseguente pizzicotto. “Mica è colpa mia se sei ignorante!”
“Sentila ...” sbuffò. “Comunque, lo è?”
“Non me l'ha mai detto chiaramente, quindi boh … è una tipa un po' intricata, questo è sicuro.”
Per eufemizzare, ciatu meu. 
Maddalena sorrise, passandole un braccio attorno alle spalle. “Quindi non aiu a preoccuparmi?”
Cate le scoccò un'occhiata sorpresa; Maddalena non capì perché, ma non venendo respinta si chinò e le scoccò un bacio  sulle labbra. Quando si staccò Cate continuava a fissarla come se le fossero cresciute un paio di corna sopra la testa. “Cà sì?” domandò perplessa.
“No, no … niente,” incespicò e finalmente a Maddalena fu chiaro quel comportamento bizzarro. Erano davanti al bar e un gruppetto di ragazzi parlottava fissandole con aperta curiosità.
Ah … abbiamo fatto tìatro.
“Non dovevo farlo?” si informò preoccupata. Cate le aveva detto che non nascondeva la sua omosessualità, ma magari non l'aveva detto agli ex compagni di scuola.
“Scherzi?” esclamò l'altra con un sorriso smagliante, smentendo così quella teoria. “Ti dispiace se saluto un paio di persone? Poi si va in cartoleria, giuro...”
Maddalena scrollò le spalle, seguendola. Cate si avvicinò al gruppetto e venne salutata rumorosamente, segno che c'era confidenza tra di loro. Era una dozzina eterogenea di ragazzi e ragazzi in età da liceo, ma a differenza del gruppetto di Elia, davano l'idea di non annoiarsi e di apprezzare la reciproca compagnia pur essendo limitata ad un paio di tavolini, parecchie lattine di Monster e una cassa bluetooth che sparava musica da radio. 
 
Sognami adesso
Parlami d'amore che domani non sarò lo stesso
 
Maddalena fece un cenno di saluto generale quando Cate fece le presentazioni.
“Oh Silva, ma ti sei fatta la citta?” esclamò un ragazzo cicciottello in tuta da ginnastica. 
Cate la guardò nel pallone e Maddalena capì. E stavolta sul serio.
Le ho detto di tenerlo per noi. Però l'ho baciata di fronte ai suoi amici.
L'ho mandata in tilt.
Analizzò rapidamente la situazione: però non è che ci fosse molto da smentire in quel caso. Si era limonata l'altra in pubblica piazza.
“Dai Leo, non metterle in imbarazzo!” intervenne una moretta pesantemente truccata e con una maglietta di Shigenki no Kyojin, l’anime dell’anno. “Magari no?” 
Il modo in cui lo disse non piacque a Maddalena. Non che fosse maligno o aggressivo, anzi. Pareva però cercare conferma e proprio da Caterina che avvampò senza rispondere.
Chi minchia è questa? Le piace Cate?
“E invece sì,” le uscì sgarbato. Quelli erano amici di Caterina, si ricordò, non doveva difenderla. Doveva invece evitare di farle fare figuracce. 
Si sforzò di sorridere. “Sono la sua ragazza,” disse rivolta al tipo che aveva posto la domanda. 
La notizia fu accolta con tranquillità, segno che fortunatamente non tutti i compaesani di Cate erano dei completi stronzi. Rimasero qualche minuto a chiacchierare e Maddalena, fatta la sua buona azione, gioì dell'aria da cane bastonato della ragazza degli anime. 
“Si deve andà, magari n'altra volta...” disse Cate quando furono invitate ad accomodarsi per l'ennesima volta. “Pigliamo una roba da bere e via, ma magari ci si becca dopo!”
Dopo aver preso due lattine di tè dal bar si allontanarono lungo le stradine della città. Quando Cate le sfiorò la mano, Maddalena gliela prese e la intrecciò alla sua.
Cate ghignò. “Oggi sei di buonumore. Parecchio di buonumore!"
“Sono sempre di buonumore."
Sìee...” cantilenò divertita. “Devo ringraziare Gioia invece!”
“Chi?”
“Gioia, la ragazza che ha zittito Leonardo.” Cate le lanciò un'occhiata in tralice. “T'ha fatto mica ingelosì?”
“No,” mentì malissimo da come l'altra ampliò il sorriso. “Forse …” ammise con uno sbuffo. “C'è stato qualcosa? Perché ha palesemente le scalmane per te.”
Cate si strinse nelle spalle. “Un'penso proprio … ero io che le avevo per lei quando stavamo in classe assieme. Mi diede il due di picche!”
“Ah.”
Troppo tardi, gioia bedda. Prova a competere con una succuba. Prova.
Cate aveva l'aria di chi stava per mettersi a ridere, ma scelse saggiamente di dissetarsi con un sorso della propria lattina. “Anche se fosse, sò occupata ...” disse e poi portando la sua mano alle labbra, ci posò un bacio.
Maddalena si sarebbe squagliata in una pozza di commozione ma si dominò. Aveva una reputazione da mantenere. Bevve tè e tossicchiò. “Spero di non averti messo in difficoltà con i tuoi amici...”
“Ma di che? Adesso sarò quella che s'è trovata la citta fotomodella, sarò la più ganza del baccellaio!”
“Del che?” Scosse la testa perché si sentiva leggera ed era felice. In quel momento non pensava ai vânători, alla voce sotto al castello e al mostro che girava indisturbato per il bosco. Stava camminando per un grazioso borgo toscano mano nella mano con la persona di cui era innamorata, e non c'erano Sorveglianti o Confraternite a giudicarla. C'erano soltanto lei e Caterina e le prime gocce di pioggia della giornata. Era la felicità. 
 
Non se l'era proprio aspettato.
Maddalena l'aveva sorpresa, pensò Cate mentre entravano nella cartoleria con le labbra gonfie di baci scambiati da portone e portone per non bagnarsi di pioggia. 
Mentre l'altra si diresse a colpo sicuro verso gli scaffali che ospitavano blocchi e carta, Cate si mise vicino al bancone fingendo di guardare uno stand di gomme da cancellare dalle forme buffe.
Aveva detto che non voleva fare coming out con nessuno, e invece …
L'aveva baciata davanti ad una dozzina di sconosciuti e non solo: aveva detto a tutti che stavano assieme!
Era felice, ma anche confusa. Che senso aveva nascondersi a Malacena se poi non lo facevano altrove?
Caterina prese una gomma giocherellandoci, sotto lo sguardo vigile della proprietaria. Le restituì un sorriso falso perché non era la prima volta che l'anziana la seguiva come un falco temendo che si intascasse qualcosa.
Se fossi bionda e con gli occhi azzurri scommetto me la lasceresti masticà come una chewingum. 
Mise a posto la gomma con un sospiro, andando a cercare Maddalena. L'altra era in mezzo a tonnellate di carta e aveva già riempito il cestino di diversi blocchi. Quando le si avvicinò le rivolse un sorriso distratto.
Non ti capisco.
C'erano lati di Maddalena che le erano chiari come il sole; la sua difficile storia familiare, la timidezza mascherata da aggressività … persino i suoi disegni, criptici e scuri, erano più chiari del suo atteggiamento verso la loro relazione.
Vuoi nascondermi oppure no?
Forse non doveva farsi tutte quelle pare mentali per una storia che sarebbe durata un estate, ma anche lì: Maddalena l'aveva invitata a Catania per Natale. Le aveva detto che voleva durasse per sempre.
Non ti capisco.  
La sua espressione doveva essersi rabbuiata perché l'altra alzò la testa. “Cà succede?” 
Cate scosse la testa, prendendole il cestino. Le fece un sorriso e le prese la mano. Maddalena, senza esitazioni, intrecciò di nuovo la dita alle sue.
Non ti capisco. E non mi piace. 
Gnamo, andiamo a pagare … hai preso tutto?” 
“Siamo in ritardo?” 
“Tranquilla … Tea stacca tra un'ora, abbiamo tutto il tempo.” 
Cate non aveva idea di come risolvere quel dubbio che le pesava sullo stomaco. Perché magari aveva una spiegazione semplicissima, e lei era una stupida che si faceva un mucchio di seghe mentali. Però non c'era una domanda che riassumesse quel grumo di incoerenze che proveniva da Maddalena Russo. E questo non le piaceva.
“Quando siamo in paese … non vuoi che ti tenga per mano, vero?”
Non era quella la domanda giusta. O forse lo era, da come Maddalena si irrigidì. “Se non ti dispiace preferirei di no.”
“Figurati,” ma quando Maddalena sciolse la presa per prendere il portafogli e pagare non le venne di offrirle di nuovo la mano. 
Se le infilò in tasca, scortandola fuori dal negozio.
Maddalena si era accorta del cambio di atmosfera ma non disse niente. Corsero rapide verso la piazza, e si rifugiarono sotto una tettoia prima dell'ultimo scatto verso il motorino.  
“Vuoi che andiamo a salutare i tuoi amici? Abbiamo tempo, e poi piove... forse non è il caso di mettersi in strada.”
“No, meglio andare. Potrebbe peggiorare.”
Salirono sul motorino in fretta e furia. Al di là del suo stato d'animo la pioggia si stava intensificando e dovevano sbrigarsi. Dal bar sentì gli amici gridarle qualcosa ma sgasò e diede giusto il tempo all'altra di aggrapparlesi alla vita prima di partire. 
La strada della Montagnola era un nastro lucido e scuro e non avendo montato il parapioggia sul manubrio l'acqua le arrivava a scroscio direttamente sulla visiera chiusa. Maddalena era stretta a lei ma era silenziosa. Da come la stringeva però Caterina capì che si stava spaventando. 
Fece per rallentare quando qualcosa di scuro, veloce e grosso attraversò la carreggiata. Veniva dal bosco e Cate sterzò bruscamente, cercando di frenare. La ruota posteriore del motorino slittò e perse il controllo.
Sentì Maddalena urlare e poi, in una lunga allucinante manciata di secondi, il motorino si piegò e scivolando cadde a terra si diresse verso la massa scura, che si era immobilizzata in mezzo alla carreggiata.
Nel panico Cate la guardò; e l’animale le restituì lo sguardo.
Aveva occhi umani.
Arrivò il fracasso assordante dell'impatto e Cate perse i sensi.
 
“Cate! Cate, ciatu meu, svegliati! Parlami!” 
La voce che la chiamava veniva da lontano e Caterina ci mise qualche attimo a capire cosa le stava dicendo e perché. Spalancò gli occhi e si ritrovò stesa al lato della strada, sull'erba e sulla ghiaia. Maddalena era accovacciata di fianco a lei, senza casco, e la guardava terrorizzata.
Avevano avuto un incidente. Qualcosa aveva attraversato la strada, e per evitarlo aveva perso il controllo del motorino. Cate guardò a lato e lo vide tra asfalto e ghiaia, ancora acceso con una ruota che girava a vuoto.
“Cosa ...” balbettò e Maddalena, alla sua voce, si mise le mani sul viso mormorando un ringraziamento a qualche santo. 
Si alzò a sedere e non era possibile; non tanto la caduta, quella era possibilissima,.
Non ci siamo fatte niente.
Erano cadute male, questo lo ricordava. Erano cadute nel modo peggiore possibile, ma a parte una gamba e un gomito che le bruciavano – graffi e un po’ di sangue, ma niente di rotto – stava bene. E anche Maddalena, che stava dietro di lei, pareva non essersi fatta un graffio. Cate si tolse il casco ed era integro. 
Realizzò con orrore che c’era una cosa ben più importante. “Chi … chi abbiamo investito?!” balbettò tirandosi in piedi. 
“Non ti alzare!” esclamò l'altra ma Cate la ignorò per raggiungere il motorino e tirarlo su. Aveva la vernice della fiancata completamente grattata via, e il pedale del passeggero era piegato come buona parte della carrozzeria posteriore. Era il segno di un impatto.
Però non vedeva nessuno. Nessun corpo, neanche una traccia di sangue. 
“... Abbiamo investito qualcuno” mormorò. Maddalena, ancora seduta a terra, si alzò incerta. 
“Come?”
“Abbiamo investito qualcuno! Ha attraversato dal bosco e gli siamo finite addosso!” 
“Chi?”
“Come chi?!” le uscì rabbioso. “Non puoi non averlo visto, era grosso quanto una persona … aveva la faccia di una persona!” 
Maddalena la guardò in silenzio. 
Che sta succedendo?!
“Non me lo sono immaginato!” gridò. “Era … sembrava una persona ma era … a quattro zampe e…” gesticolò, frustrata. “Come hai fatto a non vederla?!”
Maddalena si avvicinò e a Cate venne istintivo fare un passo indietro.  
Sua sorella che non era mai al Bar. L'urlo agghiacciante nel bosco. Maddalena che spariva per ore intere e aveva paura di Alina. Alina che sembrava esser stata inghiottita da un buco nero e le consigliava di stare lontana da Maddalena. Gli occhi senza iride di Maddalena. L’urlo nel bosco.
E ora quell’animale con la faccia da uomo che avevano tirato sotto, ma era sparito nel nulla.
Singolarmente erano dettagli strani, ma spiegabili. Insieme la confondevano, e spaventavano, perché non li capiva. 
Stava diventando matta?
“Io … non ho visto niente.” disse Maddalena, ma non tentò di avvicinarsi stavolta. “Però se mi dici che c’era qualcosa sulla strada ti credo. Magari era un cinghiale. Siamo state fortunate. Devi farti controllare in Pronto Soccorso però ...”
Cate esitò. Le parole di Maddalena avevano senso, ma erano comunque una nota di un pianoforte che aveva perso l'accordatura. In teoria il tasto premuto era giusto, ma il suono che ne usciva era tutt'altra storia.
“Cate … sei svenuta… ” ribatté l'altra e tentò un passo. Cate stavolta non si mosse e si lasciò raggiungere. “Pi' favori … ciatu meu, chiamiamo qualcuno e facciamoci venire a prendere. Non ho campo sul telefono, o avrei già chiamato un'ambulanza.”
Cate controllò il proprio sfilandolo dalla tasca posteriore dei pantaloni. Aveva lo schermo tagliato a metà da una crepa ma funzionava. Come al solito non c’era campo.
Non me lo sò immaginata. 
Si passò una mano sul volto per tirare indietro i capelli fradici. “Se il motorino funziona è meglio tornare in paese … qua passano poche macchine, facciamo prima a salire da sole. Mi farò vedere dalla mamma. È infermiera, se devo andare in ospedale me lo dirà lei.” 
Maddalena fece una smorfia. “Sei sicura di riuscire a guidare?”
Cate annuì, inforcando il motorino e facendole cenno di sedersi dietro di lei.  “Non mi sò fatta niente, no?”
“Lo dici come se fosse una cosa brutta! È da quando eravamo in cartoleria che sei di umore nivùro, che ti prende?”
A me? Che cavolo prende alla realtà!
“Niente,” borbottò dando gas e rimettendosi in strada. La pioggia era sfumata in una condensa sottile e fastidiosa. Il bosco, vuoi per la botta, vuoi per il contrasto con il cielo stinto, aveva i colori di un televisore a cui era stata messa al massimo la saturazione.
Dava il mal di testa. Caterina non provò neanche a chiudere gli occhi: era pericoloso e forse, a chiuderli, li avrebbe riaperti su qualcosa di ancora più illogico. E spaventoso.
 
***
 
“Non ho capito perché dobbiamo stà fuori co’ sta pioggia!”
Michele servì un gran sorriso a Pietro, che fradicio e inferocito, stava camminando dietro di lui. Stavano percorrendo il viottolo che fiancheggiava le mura del paese. Oltre le chiome degli alberi si potevano intravedere infatti gli orli di pietra e mattoni. 
“L’esercizio fisico fa bene!”
“Rompermi una gamba scivolando sul fango però no!”
Michele ridacchiò, ottenendo in cambio un flusso di insulti. Apprezzava comunque che Pietro fosse lì, perché i suoi borbottii rendevano meno silenziosa quella passeggiata. 
La schiena di Stefano, che apriva la fila, segnalava che l’amico era lì con loro, ma la sua presenza iniziava e finiva lì: aveva la testa da tutt’altra parte.
Che succede Ste?
Aveva provato a chiedere, ma le sue domande erano rimbalzate contro una porta chiusa. Era persino arrivato a chiamare i suoi, chiedendogli se i nonni dell’altro stessero bene. Sua madre, che della nonna era buona amica, lo aveva tranquillizzato. I due arzilli vecchietti si stavano godendo l’estate catanese, tra mare e passeggiate. 
Forse avrebbe potuto chiedere a Maddalena di investigare.
“Che stiamo cercando oggi?” domandò Pietro.
“Stiamo controllando che tutti i viottoli segnati da Gianni siano agibili. Se vogliamo usarli l’anno prossimo dobbiamo controllare ci siano ancora … Gianni non ha assicurato che siano mantenuti.” 
Pietro sbuffò: “In un anno il bosco se li può ingoià.” Indicò verso le mura. “Al Comune passano tutto il tempo a potà attorno alla ciclabile … un anno fa ci furono problemi di permessi e per sei mesi gli operai non lavorarono. Stava pure crescendo l’edera sulle mura. Ci misero settimane per ripulire tutto … e dovettero pure aggiustare la ciclabile, le radici degli alberi avevano rotto il manto.”
Michele aggrottò le sopracciglia. “Tanto accusì? Come mai allora nel bosco il sentiero è sempre libero?”
“Di quello se ne occupa la famiglia di Cate. ”
“Cate lo pulisce?”
Pietro fece una smorfia divertita. “Macché … penso lo faccia Marina. E forse le dà una mano anche il Nero, il custode del cimitero.” 
“O magari hanno fatto un patto col bosco,” suggerì affascinato Michele. “Magari gli alberi non lo invadono e i Silvani in cambio li proteggono?”
Pietro alzò gli occhi al cielo. “C’hai una bella fantasia, vai …”
Michele rise. “Mbare, vivete in un paesino dove se non stai attento gli alberi ti mangiano casa, avete un castello diroccato e piove sempre. E avete sette porte che collegano all’Inferno! Non mi invento niente!” 
Pietro fece per dire qualcosa ma Stefano si fermò, obbligandoli a fare lo stesso. “Cà succede?” domandò Michele avvicinandosi. 
Stefano gli rivolse a malapena un’occhiata, tirando invece fuori il telefonino. “Ci sono di nuovo quelle strane tracce bianche,” e indicò una lunga striscia color gesso che attraversava il viottolo. In quel passaggio pallido le foglie risultavano schiacciate e morte.
“Qualche malattia?” domandò preoccupato a Pietro, che però scosse la testa.
“Non chiedete a me, di ste cose non ci chiappo…” esitò. “Però un mi sembra una cosa regolare.”
“Dovremo parlarne con Gianni?”
Stefano si accovacciò, scattando una serie di foto. “Potrebbe essere anche qualcosa che ha fatto la forestale stessa, magari proprio per curare il bosco,” suggerì. “Dubito comunque che ce ne siamo accorti solo noi se è così vicino al paese.”
“Allora è meglio se ne parliamo con Gianni no? Ci lavorava!”
Stefano fece una smorfia spazientita e si alzò seguendo la scia a ritroso, allontanandosi dal viottolo. “Unni vai?” lo chiamò parimenti irritato.
Perché è arrabbiato con me, che minchia gli ho fatto?
Se Michele fosse stato un’altra persona, magari con meno pazienza, magari decisamente meno pacifista, avrebbe preso Stefano da una parte e l’avrebbe scrollato finché non gli fosse passata la voglia di fare lo stronzo. O almeno finché non gli avesse fornito una spiegazione sul perché pareva trovare irritante persino dividere la stessa aria.
Sono il tuo migliore amico!
Si erano sempre raccontati tutto. Anche se, ad onor di cronaca, Stefano non parlava mai di quello che gli si agitava dentro. Poteva vomitarti addosso un’intera trama per una giocata, o ascoltarti parlare delle tue pene d’amore fino all’alba, ma di quello che provava lui non amava tanto parlare.
Era fatto così, e Michele c’era venuto a patti, avendo un altro fulgido esempio di costipazione emotiva nella sua vita.
Per certi versi lui e Malù sono uguali!
Però le cose stavano peggiorando. Stefano era più introverso del solito e anche sua sorella era preda di un assurdo umore altalenante. E poi, entrambi sparivano per ore per fare lunghe passeggiate in solitaria.
Temeva che il prossimo anno sarebbe stato il solo a tornare a Malacena. “Mbare sarebbe meglio non allontanarci!” chiamò di nuovo Stefano, che stava seguendo il sentiero con il telefono davanti a sé. Stava facendo un video. “Hai sentito cosa ha detto Rosi, ci sono degli smottamenti nel terreno!”
“Io un’sò capace a riportavvi indietro!” gli fece eco Pietro. “Ste, gnamo, così ci perdiamo come tre coglioni!”
“Soltanto un attimo…” Stefano fece qualche altro passo e poi finalmente si fermò. Si chinò di nuovo a fotografare qualcosa e anche stavolta Michele si sporse per capire cosa ci fosse di tanto interessante. Stefano di solito non aveva la foto facile, a differenza sua, ma erano giorni che scattava a destra e a manca per il bosco. Sarebbe stata una cosa positiva se non avesse avuto una punta maniacale che l’amico non aveva mai esibito prima.
Che stai cercando?
Anche quella domanda era caduta nel vuoto; l’altro gli aveva semplicemente detto che stava facendo archivio per quanto sarebbero tornati a Catania a scrivere il gioco.
L’amico scostò delle fronde e un tanfo di marcio colpì le narici di entrambi. Michele soffocò un conato di vomito.
Stefano si era portato la maglietta davanti al naso e stava scattando come un ossesso, una mitragliata di scatti. Quando si avvicinò a quella che a conti fatti era una carcassa di animale, Michele istintivamente gli mise una mano sulla spalla e lo tirò indietro. “Che minchia fai?”
“Non voglio toccarla, voglio solo avvicinarmi per scattare delle foto.”
“Picchì?” gli venne naturale e sconcertato chiedere.
“Ma che troiaio è?” sbottò Pietro avvicinandosi, diviso tra il disgusto e la curiosità. “E’ una carcassa di cinghiale?” 
Michele non aveva idea se quello fosse stato un cinghiale o meno; sapeva solo che quella poltiglia di ossa, pezzi di carne grigiastra e pelo era nauseante. Ed emanava un fortissimo odore di zolfo.
Come nelle porte?
Le avevano mappate tutte, lì non ce ne doveva essere nessuna. Non udiva neanche scorrere acqua quindi non poteva essere una sorgente di acqua sulfurea come Gianni gli aveva detto ce ne fossero parecchie nel territorio.
“Cosa l’ha ridotto così?” domandò Michele inquieto. “Non dovrebbe essere l’animale più grosso che avete qui?”
Pietro si passò una mano sulla testa. Aveva l’espressione preoccupata. “Ci sono stati degli avvistamenti di lupi in zona, quindi ci sono pure loro … e i lupi li cacciano, ma non si avvicinano così tanto al paese.”
“Forse un cacciatore?”
“Non è stagione e comunque nessuno farebbe sto schifo nel bosco. Se lo porterebbe a casa per scuoiarlo.” Pietro lanciò uno sguardo verso le mura. O dove avrebbero dovuto essere le mura. 
Si erano inoltrati così tanto nel bosco che non erano più visibili. Deglutì. “Torniamo indietro adesso?”
Stefano infilò il telefono in tasca e annuì. “Ho finito. Andiamo.”
Finalmente!
Michele aveva una gran voglia di scrollarlo. Tirargli anche un cazzotto se necessario; non sarebbe di sicuro servito a niente ma l’avrebbe fatto sentire meglio. 
Magari gli avrebbe tolto anche quella strana paura che pareva esserglisi incollata addosso come l’umido della pioggia.
 
*** 

Note:

La canzone del capitolo è "Riccione" dei The Giornalisti.

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Capitolo 13
*** 13. ***


13.
 
Bice non riesce a dormire.
Vorrebbe, perché sa che il sonno porta risposte, ma rimane con gli occhi sbarrati a fissare le travi del soffitto. Accanto a lei, la figura immobile di Lietta, preme sudata contro la sua.
Per fortuna suo padre non è andato al castello a caccia della bestia; è andato in osteria a far l'alba, per essere il primo, assieme agli altri uomini troppo vecchi, a ricevere notizie. Bice vorrebbe essere uno di loro per poter ricevere per prima notizie. 
Un brutto presagio le bagna la pelle come febbre e alla fine irrequieta si alza e va alla finestra.
Quella notte è luna nuova e il cielo è scuro e ostile. Bice si getta uno scialle sulla camicia da notte. Deve andare.  
“... Dove vai?”
Lietta, da in cima alle scale, la chiama insonnolita e confusa.
“Torna a dormire.”
Lietta scende le scale di corsa e le si getta addosso, all'improvviso, stringendola in un abbraccio serrato.“Non andare!” le sussurra contro il collo parole calde d'ansia. “È pericoloso … non l'hai sentito il bosco?”
Bice le passa una mano tra i lunghi capelli castani e vorrebbe tenerla contro di sé, calda di sonno e posto sicuro. Non può. 
Fortunato è fuori quella notte, con solo una spada contro un mostro. Non basteranno tutte le guardie del signore del castello per fermare l'Altrove. 
Gli uomini del Chiaro pensano di essere i cacciatori, ma è tutto il contrario. Di notte l'ordine del bosco è rovesciato.
“Cosa devo aspettarmi?” le domanda piano. “Che ti ha raccontato Benedetto?”
Lietta la stringe con più forza. “Non lo so...” dice dopo qualche attimo. “Lui esce di notte, ma non mi dice dove va'. Mi lascia indietro e io … non lo seguo.”
“Hai visto il mostro?”
Lietta scuote la testa, testardamente fedele all'uomo che dice di amarla. Bice non ha tempo per cercare di convincerla del contrario, di scuoterla e farla tornare in sé. Si stacca con forza dall'abbraccio e corre fuori nell'aia. La luce della luna non può guidarla quella notte ma non le serve. 
Bice è figlia degli alberi ed a loro che chiede aiuto, gettandosi nella boscaglia a piedi nudi.
“Fatemi trovare Fortunato...” mormora al tronco di una quercia, posandoci la fronte contro, e premendo le labbra contro un nodo. “Fatemi trovare il mio uomo.”
Lo stormire delle foglie le risponde e di fronte a sé una fiammella pallida e lattiginosa si accende. È un lumicino.
 
volta le spalle e scappa, bambina … 
Torna indietro …
Chi entra è perduto …
 
Bice si tappa le orecchie. “Portami da lui,” chiede al lumicino che riappare qualche metro più avanti, fuori dal sentiero. 
Bice vorrebbe invocare lo spirito del bosco, ma non verrà se chiamato. Conosce le regole, quando potrà darle ciò che le ha promesso si paleserà. Non prima, non dopo.
Adesso il suo obiettivo non è sconfiggere il grande serpe. È trovare Fortunato e portarlo via di lì, perché ha capito che quella notte non deve sognare, deve agire.
Il lumicino pulsa di luce lattiginosa, apparendo e scomparendo tra le felci e il sottobosco. Bice si graffia le gambe nude, le braccia, ma lo segue senza esitazioni e, in un certo senso, senza scelta.
Il lumicino poi, di colpo appare fluttuando a mezz'aria e Bice incespica cercando di capire cosa vuole che faccia. Poi una luce, più intensa e calda le abbacina gli occhi. È la luce di una torcia e con gli ultimi passi fuori da un cespuglio, Bice si trova di fronte alla radura della grande quercia, quella dove lei e Fortunato si incontrano e dove quel pomeriggio hanno fatto l'amore.
La luce della torcia per un attimo fa ritrarre Bice, che al buio ormai si è abituata, ma poi riconosce i vestiti e l'armatura.
“Fortunato!” esclama con il cuore gonfio di sollievo. Il ragazzo si volta, a spada sguainata, ma riconosce la voce e la tensione fa spazio alla sorpresa, e ad un sorriso.  
Quello sciocco sta cercando il mostro da solo! Ha infranto la loro promessa! Bice fa per raggiungerlo quando un rumore assordante la blocca come un cervo di fronte ad un cacciatore.
Dal sottobosco, rapida come un fulmine, un'ombra cala su Fortunato. Bice grida mentre il giovane viene strattonato così violentemente da perdere la presa sulla torcia, che cade a terra, smorzando il cono di luce.
La bestia ha preso Fortunato e Bice lo sente urlare mentre cerca di divincolarsi, il rumore del ferro e della colluttazione riempiono la radura. 
Con la forza della disperazione Bice si lancia nella direzione dello scontro.
Bice prende la torcia da terra, ancora miracolosamente accesa e si scaglia sulla massa d'ombra che è il mostro. Con un urlo abbatte la torcia, che sembra bruciare divorata dalle fiamme, sul corpo gargantuesco della grande serpe. Questa lancia un grido raccapricciante, d'uomo e di belva assieme. Il fuoco la ferisce, capisce Bice, o la spaventa abbastanza perché si stacchi da Fortunato, che crolla a terra come una bambola di stracci.
La serpe ha il volto d'uomo. Alla luce della torcia che sfavilla in modo quasi innaturale il volto dagli occhi ciechi si volta nella sua direzione. Bice ringhia, ferina, mentre il sangue del bosco le si incendia nelle vene. Invoca gli alberi, e mostra i denti al serpe. 
Gli occhi obliqui non restituiscono luce e forse è cieca, ma il calore della torcia e i suoni lo fanno ritrarre.
“Va' via! Qui nulla ti appartiene!” ruggisce Bice. Il mostro si incurva, tenta di attaccarla ma Bice brandisce la torcia, mettendosi davanti al corpo esanime di Fortunato. 
È solo una ragazza con una torcia, oppure è uno spirito di quei luoghi antichi che sta difendendo il proprio territorio. Forse è entrambe le cose. 
Il mostro esita. A Bice sembra che il tempo rallenti, fino a quasi fermarsi. Poi il grande serpe scompare nelle ombre mentre l'odore di marcio si affievolisce.
Se n'è andato.
Bice non perde tempo. Conficca la torcia nel terreno morbido e si china su Fortunato. Un'enorme chiazza scura si allarga sul fianco, sullo stomaco e l'odore del sangue le rivolta lo stomaco. Il mostro è riuscito a penetrare nella cotta di maglia del ragazzo come se fosse fatta di stoffa. 
“Fortunato...” singhiozza prendendogli il viso tra le mani. Il ragazzo apre gli occhi e bisbiglia qualcosa. Ha le labbra sporche di sangue e Bice è consapevole di cosa significhi. Quando il sangue esce dalla bocca  a quella maniera, scuro e copioso, non c'è più niente da fare.
Lo stringe al petto e singhiozza. Avrebbe dovuto avvertirlo, avrebbe dovuto impedirglielo, non sarebbe dovuta rimanere a casa. Doveva darle retta, non doveva separarsi dai compagni, perché l'ha fatto?
Perché la vuole lasciare sola? 
Lo singhiozza disperata e si ferma con quella cantilena solo quando la mano fredda del senese le accarezza una guancia, obbligandola ad alzare la testa.
Si guardano negli occhi solo per pochi secondi o centinaia di anni. Fortunato le muore tra le braccia.
 
“Stanno arrivando gli uomini...” sente una voce. È lo spirito del bosco che parla attraverso gli alberi. “Scappa prima che ti trovino, che a quelli come noi non chiedon mai spiegazioni.”
Beatrice non vorrebbe separarsi dal suo Fortunato e se la passeranno a filo di spada credendola colpevole, dandole della strega, tanto meglio. 
Bice però sa che non può rimanere, non quando la bestia è in giro e può uccidere ancora.
Deve vivere, e ucciderla. 
Quindi bacia le labbra ancora tiepide dell'uomo che aveva promesso di amarla e, sporca del suo sangue, scappa nel buio del bosco.
 
*** 
 

I die when our nights end, 
but I only stay dead til I see you again
- Louisa, Lord Huron
 

Rosi si svegliò con un sussulto, le guance bagnate di lacrime, il dolore che le premeva al centro del petto: quello che provava non era suo, ma era come se lo fosse.
Aveva sognato la morte di Fortunato.
Si asciugò le lacrime strofinando con rabbia le guance, cercando di tornare alla realtà: era pomeriggio, non notte ed era a casa di Tobia, non in un bosco buio e spaventoso. 
Però potrebbe succedere ancora. 
Si abbracciò le ginocchia, seppellendoci il viso. La sensazione del cotone grezzo dei jeans sul viso le impediva a malapena di tuffarsi di nuovo in quel mare di dolore e ricordi.
Non era facile tornare indietro. Non era facile tornare alla realtà senza un'ancora, senza qualcuno in grado di ricordarle chi era.
La porta si aprì e Tobia apparve sullo stipite. “Tutto bene? Ti ho sentita gridare…”
Scosse la testa e l'altro le fu subito accanto. “Cos'hai sognato?”
Le pareva di sentire ancora le urla di Beatrice graffiarle le orecchie e l'odore del sangue di Fortunato. 
“Il regolo ha paura del fuoco ...” mormorò perché era quella la parte importante. Tutto il resto, era contorno che doveva sorbirsi lei. Non aveva senso ammorbare qualcun altro. “Non lo vede, ma ne percepisce il calore.”
“Cos'hai sognato?” ripeté Tobia e Rosi alzò la testa di scatto per rispondergli a tono, ma trovò solo l'espressione preoccupata e attenta dell'altro. La disarmò.
Non voglio che quel sogno diventi realtà. Non voglio che tu muoia. 
“Non riesci a tornare indietro?” 
Io non sono forte come Beatrice. Se tu muori, io che faccio?
Rosi scosse di nuovo la testa e Tobia, interpretando il gesto come una risposta, si sedette sul letto accanto a lei, passandole un braccio attorno alle spalle. 
“Sei a casa, Roísín...” le mormorò. “Sei a casa e sei al sicuro.”
Adorava il modo in cui diceva il suo nome: Tobia Neri era l'unico che si fosse mai sforzato di  pronunciarlo correttamente.  
Rosi ricambiò l'abbraccio, incastrando il volto nell'incavo del collo, respirando l'odore di bosco. Di casa.
“Stringimi più forte,” lo istruì. “Più forte...” ripeté quando lo sentì esitare. Fu contenta solo nel sentirsi schiacciata contro il petto dell'altro, tra stoffa e pelle, mentre ascoltava il cuore battergli con forza.
“La manolonga sta meglio...” disse Tobia rompendo il silenzio. “Anche la ferita ha smesso di sanguinare. Si è svegliata ed ha mangiato.”
“Bene...” 
“Non mi vuoi parlare del tuo sogno?” le domandò: quel giorno era insolitamente ciarliero. “Tua mamma diceva sempre...”
“Mia madre dice un sacco di cazzate.”
Parlarne avrebbe probabilmente aiutato, ma l'essere stretta fino a quasi far fatica a capire dove iniziava l'uno e finiva l'altro era meglio. Molto meglio, ma come avrebbe potuto spiegarglielo senza dirgli tutta la verità?
Vorrei altro. Vorrei che mi toccassi, e mi spogliassi. Vorrei che facessi l'amore con me. 
Quel treno era passato, però. E non sapeva dove cercarne un altro, o come, checché ne dicesse quel cretino di Ettore.
Rosi avrebbe voluto rimanere in quel modo per sempre, lasciare che il tempo passasse e il resto del mondo scomparisse oltre le fronde delle querce. Però non poteva trattenere Tobia, che era troppo gentile per sciogliere l'abbraccio anche quando era palese che fosse a disagio, almeno per come stava tamburellando un piede per terra.
Lo faceva sempre da bambino, quando era nervoso.
“Se ti sei stufato puoi smettere ...” 
Tobia non rispose e Rosi si arrischiò a lanciargli un'occhiata. Come al solito, il viso non lasciava trapelare nulla.
“Non mi sono stufato, non è quello...” tirò un respiro profondo. “Solo che non siamo più bambini.”
Rosi si sentì avvampare, e sciolse in fretta la presa. “Scusami. Non volevo metterti a disagio, avevo soltanto bisogno di...”
“... di un'ancora per tornare indietro, me lo ricordo,” la anticipò guardando ovunque tranne che nella sua direzione. Le fece male. 
“Esatto,” mentì spudoratamente, “tranquillo, non te lo chiederò più.”
“Non è quello.”
“Allora cos'è?!” sbuffò esasperata.
“Non è disagio,” ripeté testardo e con gli occhi incollati alla coperta. “Non è importante adesso. Non lo è,” ripeté. “Non preoccuparti.”
Rosi accantonò lo stramaledetto mostro fuori dalla porta e si concentrò sull'uomo che le stava davanti. Tobia, l'altra metà dei bambini nati di Domenica di Malacena, il suo migliore amico e la persona che si era accorta decisamente troppo tardi di amare. 
Non era a disagio, aveva ragione. C'era però qualcosa che lo stava facendo soffrire, come se un'urgenza gli agitasse il corpo senza riuscire ad uscire. Tobia non era una persona irrequieta; la sua flemma era famosa in tutto il paese.
In quel momento sembrava seduto su un cuscino irto di spilli.  
Rosi avrebbe potuto ignorare la cosa, lasciarlo uscire dalla stanza, ma se c'era una cosa che aveva capito da quell'orribile separazione, era che non parlare era quello che li aveva davvero allontanati. 
“Dimmi che c'è che non va...” mormorò prendendogli le mani tra le sue. “Mi rendo conto che non è facile parlare con me. Ti ho ignorato e trattato male per anni … e ora ti invado casa e ti ho chiesto un gesto che forse non volevi fare e...”
“Volevo farlo,” la interruppe. “Volevo farlo da tanto tempo.”
“Parlarmi?”  
“No. Abbracciarti. Toccarti.” 
Rosi inspirò, mentre il cuore dava una brusca accelerata. Le dita di Tobia si incastrarono tra le sue. Notando forse la sua agitazione, le sorrise. “E non è perché sono diventato un eremita avulso dal contatto umano … almeno, non solo.”
“Dubito che mia madre ti abbia risparmiato in questi anni i suoi famosi abbracci da chioccia ansiosa...”
“Non è la stessa cosa.”
Se non fosse stata troppo assorbita nei suoi patemi personali, se ne sarebbe accorta molto prima. Questo le sembrava ripetere a nastro una vocetta dentro la testa; se non fosse stata un'idiota completa si sarebbe accorta che il modo in cui la guardava Tobia non era la stessa cosa.
Non lo era mai stata.
“Perché non siamo più bambini, vero?” mormorò sfiorandogli la guancia con una mano. Tobia si irrigidì, guardingo come un animale selvatico. 
Vacci piano. La parte sull'eremitaggio non è lontano dalla realtà. Non c'è più abituato. Ed è pure colpa tua.
“Sì...” rispose continuando a fissarla come se volesse metterle a nudo l'anima. Ma Rosi non si sentiva spaventa, aveva idea del perché l'altro lo stesse facendo. Voleva capirla. Voleva leggerle nel pensiero ed essere rassicurato.
Peccato che non sia questo il tuo dono, ragazzo del Cimitero.
“C'è qualcos'altro che vorresti fare con me?” gli domandò, passandogli le dita tra i capelli. Tobia chiuse gli occhi come un gatto a cui era stata fatta la carezza giusta, poi annuì. 
Forse non avevano mai trovato il momento giusto. Forse era troppo tardi ...
… O forse, come diceva Ettore, era tardi soltanto da morti.
Rosi si sporse e posò le labbra su quelle dell'altro, sperando, pregando di aver capito bene ma non dovette attendere molto; Tobia se la tirò addosso come se non pesasse nulla e la strinse, regalandole un bacio appassionato, goffo e meraviglioso. 
Un bacio che ci aveva messo cinque anni per arrivare. O dieci. O venti. O una vita.
Rosi non sentì più il bisogno di essere stretta fino a sentir male. Stava bene lì, in braccio al suo gigante buono, che le seppellì il viso tra i capelli con un profondo respiro soddisfatto.
Rosi sentì un sorriso premere sulle labbra. “Beh … se ci tenevi tanto potevi farlo prima,” non riuscì a trattenersi.
“Dimmi un prima in cui non mi sarei beccato un pugno.”
“Vero...” ammise. “Solo per la sorpresa però.”
Tobia alzò la testa e Rosi lo baciò di nuovo. Farlo fu così naturale che si chiese perché non fosse successo prima. Molto prima.
Perché avevi paura di rovinare tutto e l'hai rovinato comunque. Quindi, tanto vale almeno provarci, ad essere felici. 
“Bia...” si staccò, perché avrebbero dovuto mettere un punto. Discutere. Cercare di capire dove sarebbero andati a parare, perché non erano due ragazzini, erano adulti in mezzo ad un guaio di proporzioni epiche e …
… e un telefono prese a squillare. Il suo cellulare per la precisione. Rosi imprecò a bassa voce, cercandolo a tastoni tra le lenzuola. 
Tobia si sporse sul comodino e glielo porse. “È tua madre, è meglio se rispondi.”
“Sarebbe meglio se la mandassi a quel paese ...” borbottò di rimando e non riuscì a trattenere l'ennesimo sorriso quando Tobia sbuffò una mezza risata e non pensò di liberarla dal suo abbraccio. “Mamma, che c'è?” 
 
“Vieni a casa, Cate ha fatto un incidente in motorino.”
 
***
 
“Sto bene!”
Cate aveva voglia di darsela a gambe; non facilissimo però quando eri reduce da un incidente e lo sapeva tutto il paese.
Lei e Maddalena erano riuscite ad arrivare senza problemi a Malacena; però quando aveva parcheggiato il motorino, la cui carrozzeria ormai era un ammasso spigoloso di lamiere e plastica, aveva attirato l'attenzione di metà piazza, sua madre compresa, che in quel momento stava servendo fuori ai tavoli. Senza che potesse protestare era stata presa di peso e portata in processione fino dentro casa, in una coda di siciliani, sua madre, Tea e una mezza dozzina di malacena a caso.
Marina aveva scacciato tutti alla svelta, istruendo Michele di portarla fino al divano del salotto dove era stata rivoltata come un calzino, tra domande, luce sparata in faccia e palpeggiamenti in punti assai dolenti.
Alla fine se l'era cavata con una fasciatura alla gamba che puzzava di erbe di campo e due dita della mano sinistra steccate perché sospettate di slogatura. 
E ora come faccio a suonare?!
La peggiore comunque era e rimaneva Maddalena; appoggiata al muro dietro di lei la fissava come un falco ansioso. “E' caduta di motorino ed è svenuta... non dovremo portarla in ospedale?” ripeté per la centesima volta.
Sua madre, per fortuna, aveva la pazienza di un bonzo tibetano. “Caterina sta bene …” ripeté. “Dobbiamo solo stare attenti che non le venga sonno. Mal di testa tesoro?” 
Non ho mal di testa!” ribadì esasperata. “Il motorino è messo peggio...” l'idea di dover dire a Rosi di averlo sfasciato le metteva ansia. Sua sorella aveva un rapporto morboso con le sue cose, e si era raccomandata miliardi di volte di tenerlo alla perfezione.
“Sei stata fortunata,” osservò Stefano, l'unico a parte sua madre che non aveva l'aria di partecipare ad una veglia funebre. 
“Lo siamo state entrambe,” fece notare, “anche Malù non s'è fatta niente.”
Maddalena fece una smorfia ma non disse niente.
Lei ne è uscita illesa! Perché non parliamo di questo?
Michele passò un braccio sulle spalle della sorella. “Figurati, chista ccà ha nove vite come i gatti!”
“Come no...” 
Oppure … perché non parliamo della roba che abbiamo investito?
Perché probabilmente avrebbe rischiato l'ospedale. Le allucinazioni non erano un bel biglietto da visita per rassicurare gli altri che non aveva un trauma cranico.
Però l'ho vista, e prima di cadere … 
Sua madre le accarezzò un braccio. “Ora pensa a riposarti. Guarda un po' di tv e fatti servire da questo baldo giovanotto...” e indicò Michele che annuì energico. “Per un paio di giorni, con quella gamba lì, te ne devi stare tranquilla...”
“Ma riesco a camminare!”
“Mica tanto,” borbottò Maddalena incassando la testa nelle spalle quando la fulminò. “Michi ha dovuto darti una mano a fare le scale...”
“La fate più lunga della messa cantata,” borbottò, ma prima che potesse lamentarsi ulteriormente il rumore di qualcuno che saliva le scale di corsa fece voltare tutti. 
Rosi si precipitò  nella stanza, con gli occhi sgranati e i capelli che volavano da tutte le parti, privi della solita crocchia in cui erano costretti.
“Mi spiace per il motorino!” esclamò Cate, maledicendo il fatto che non potesse andare da nessuna parte, bloccata sul divano in parte da sua madre e in parte dalla sua stupidissima gamba dolorante.
“Che c'entra il motorino?” ribatté Rosi senza fiato. Poi in due falcate le fu davanti e si chinò, stritolandola in un abbraccio.
Caterina ricambiò sbalordita.
Niente urla? 
“Rosi … te l'ho detto che non era grave,” commentò Marina con un sospiro divertito. “Ti preoccupi sempre troppo.”
Eh, non è l'unica …
Cate evitò di commentare, godendosi quell'abbraccio insperato. Rosi poi si staccò, esaminandola con minuzia un po' inquietante. “Si può sapere come hai fatto?”  
“Pioveva ed è scivolata la ruota davanti … ho perso il controllo.” 
“Andavi troppo forte,” non chiese, attestò, mentre il cipiglio da accusa, giudice e giuria tornava in tutto il suo splendore. “Te l'ho detto mille volte di far piano per quella strada!”
Cate abbozzò. Non c’era molto da contestare su quel punto. “Mi dispiace, hai ragione … ho distrutto il motorino, ma te lo ripago.”
“Ma che me ne frega del motorino!” sbottò rabbiosa. “Potevi morire!”
“Che esagerata!” esclamò, ma l'espressione di Rosi non mutò: era pallida come un cencio e si stava martoriando le labbra. Era spaventata sul serio.
A Cate venne voglia di abbracciarla. L'avrebbe fatto ma l’altra si era di nuovo chiusa nel guscio, rialzandosi e stringendo le braccia al petto. 
“Non mi sono fatta niente, sta tranquilla...” Si voltò verso Marina. “Diglielo mamma!”
“Ha qualche graffio e una brutta contusione alla gamba, ma non ha bisogno dell'ospedale. Lei e Maddalena sono state fortunate.”
Rosi si voltò verso la siciliana. “C'eri anche tu? E come stai?”
Maddalena per un attimo sembrò quasi non capire la domanda, come se non se la fosse aspettata. “Bene sto … nenti mi feci.” 
“Niente di grave,” concluse sua madre. “Non ti ho chiamato per farti preoccupare.”
“E per cosa lo avresti fatto esattamente?” sbottò Rosi con un veleno incomprensibile. Almeno per Cate; sua mamma invece che prenderla da parte e chiedere spiegazioni come suo solito, si limitò a controllare di nuovo la fasciatura alla gamba. 
Rosi dopo qualche secondo di indecisione, annunciò che sarebbe scesa al Bar e, dopo un saluto borbottato generale, levò le tende. 
Ma hanno litigato?
Decise che non era affar suo. La gamba cominciava a farle davvero male, ma non aveva voglia di rimanere in salotto vegliata dalle premure non richieste di Michele e lo sguardo ansioso di Maddalena.
“Michi mi dai una mano ad andare in camera? Mi stendo un attimo … senza dormire,” aggiunse mettendo le mani avanti. “Metto un po' di musica e mi rilasso.” 
“Sarebbe meglio se qualcuno stesse con te tesoro...” Sua madre lanciò un'occhiata all'orologio da polso. “Tra poco devo essere in ospedale, ma se vuoi...”
Maddalena si staccò dal muro. “Posso...”
“Chiamo Alina,” la anticipò. Fu istintivo e ne pentì subito, soprattutto da come Maddalena si afflosciò. Però non ritrattò.
Sono ancora arrabbiata con te. Credi che mi sia immaginata tutto! 
Aveva bisogno di qualcuno che le facesse passare il malumore. Neppure Pietro sarebbe andato bene perché si sarebbe agitato troppo. 
Speriamo che Alina mi risponda stavolta.  
Sua mamma annuì. “Va bene tesoro, chiamala … e dille che se vuole restare a cena non c'è problema. Assicurati però che non abbia impicci con suo padre.”
“Sì, sì … Michi?”
Il ragazzo le fu subito accanto, tendendole le mani. “Agli ordini!” 
Passando zoppicante di fronte a Maddalena evitò con tutte le forze di guardarla; non fu facile per niente. 
Si lasciò guidare da un insolitamente delicato Michele lungo le scale e poi manovrare fino al letto. “Eccoci qua principessa!” annunciò soddisfatto. “Ti serve qualcos'altro?”
“Che cringe,” ribatté al nomignolo, scambiandosi un ghigno con l’altro. “No, grazie … ho tutto a portata di mano.”
Michele annuì. “Se Alina non può, ci stiamo noi con te … Maddalena si è proprio offerta!” rise. “Ma mi sa che non hai voglia di averla tra i piedi.”
“Si è notato tanto?”
“Beh, l'hai trattata da cani da quando siamo entrati...” le fece notare pacato. “Avete litigato?”
“No … cioè, non proprio,” si strinse nelle spalle, recuperando il cellulare e le cuffiette. “Non ho molta voglia di parlarne, scusa.” 
Con te che sei suo fratello e l'ultima volta m'hai detto di lasciarla stare proprio no.
Non le piaceva avere quell'umore “nivùro”, ma non aveva idea di come scrollarselo di dosso. “Ti spiace se chiamo Alina e...”
“Capito, levo le tende.” Michele le sorrise, dandole una pacca sulla spalla. “Quando hai bisogno, grida!” e dopo un saluto le chiuse la porta alle spalle.
Caterina sospirò, reclinando la testa sul cuscino. 
Forse a Lin potrei dire quello che ho visto …
Sospirò e compose il numero dell'amica, che miracolosamente rispose al primo squillo.
“Ciao!” esclamò contenta. “Ti disturbo?”
“No,” la voce di Alina era nervosa, ma dopo una breve esitazione continuò, “che succede?”
“Succede che mi manchi,” ammise sincera. “Mi manchi e mi sono sfracellata in motorino ed ho bisogno che qualcuno stia con me perché se mi addormento potrei avere un trauma cranico.”
“Cosa … come scusa?” balbettò Alina. “Dove sei?” 
Caterina raccontò tutto per sommi capi, evitando accuratamente di nominare Maddalena. Non che l’altra avesse colpe dell'incidente ma aveva imparato a tenerla fuori dai discorsi quando parlava con l'amica. “... e quindi mi serve una babysitter,” concluse. “Solo se puoi, eh.”
“Arrivo. Dammi il tempo di salire in paese.”
“Puoi lasciare solo tuo babbo?”
“Sì, non preoccuparti. Arrivo,” e chiuse la chiamata senza darle il tempo di ringraziarla.
C'è qualcuno che si comporta in modo normale?
Forse Ariele. Che a giudicare dai miagolii strazianti fuori dalla porta tentava come al solito di entrare per scroccare la sua quotidiana dose di grattini. Cate sbuffò, ma conosceva la bestiola e non si sarebbe rassegnata finché non gli avesse aperto la porta. Si issò a sedere e poi saltellò fino alla maniglia.
Aprì e Ariele era in braccio a Maddalena La quale avvampò con aria colpevole. “Mi è saltato in braccio e ha cominciato a miagolare...” 
“E ti ha chiesto a miagolii di portarlo fin qui?” le domandò non riuscendo a reprimere un sorriso. Era arrabbiata e confusa … ma Maddalena era Maddalena. La sua ragazza bellissima e impacciata che si fissava le scarpe.
“No … ero qui fuori da un po',” ammise abbassando inevitabilmente lo sguardo. “U' sacciu che non vuoi parlarmi anche se non capisco perché … però … Alina ha risposto? Viene?”
“Sì, tra poco,” sospirò sorridendole e togliendole Ariele dalle braccia. Questo, calato a terra, zompettò via, lontano dalla camera.
“Mi aiuti a tornare a letto?”
Maddalena si illuminò. “Avaja.”  
Hai i super poteri, ecco cosa. Non riesco proprio a rimanere arrabbiata con te. 
 
***
 
“Ah, ma ci sei allora!”
Rosi fece una smorfia in direzione di Tea, aprendo il bancone per mettersi di fianco alla cameriera. “Va’ a servire ai tavoli, qua sto io,” ribatté. “Vai,” ripetè notando che l’altra aveva la faccia di chi stava per tempestarla di domande. 
“Mamma mia, t’ha morso una vipera anche oggi!" esclamò Tea e poi marciò via stizzita.
Rosi sospirò; a causa delle sue defezioni in quei giorni l’altra stava lavorando per due. Avrebbe dovuto farsi perdonare.
Appena questa storia si sarà risolta magari le propongo dei giorni di ferie extra. E’ da mesi che dice che vuole andare in Salento …
Forse avrebbe dovuto prenderli anche lei. 
Quel pensiero era così assurdo che per un attimo rimase ferma con un bicchiere da spritz vuoto in mano. Che cavolo le stava succedendo?
Tante cose, indubbiamente. La faccenda del serpe regolo, sua madre invischiata in un possibile complotto, sua sorella che del farla preoccupare ne aveva fatto un mestiere … e infine Tobia.
Già. Tobia.
Si voltò di scatto per afferrare una bottiglia di Aperol ed evitare così che qualche cliente notasse la sua faccia andare in fiamme.
Lei e Tobia avevano scelto il momento peggiore per chiarire i sentimenti che provavano l’uno per l’altra … o forse l’unico possibile. Senza quel sogno orribile, scatenato dalla presenza del regolo, non sarebbe mai riuscita a fare quello che aveva fatto.
Sì, però adesso?
Riempì la ciotola di patatine e servì lo spritz a Nello che, all’angolo del bancone, aveva gomiti saldamente piantati sul giornale ma l’attenzione tutta rivolta a lei. “Che c’è?” gli domandò brusca.
Il vecchietto prese il bicchiere e se lo mise davanti al naso, regalandole un sorrisetto divertito. “T’avevo chiesto un bianchino bimba.”
“Scusa … te lo rifaccio,” imprecò sottovoce e svuotò il drink nel lavandino, sbrigandosi a preparare l’ordine giusto. 
“Qualcuna qui ha la testa tra le nuvole!” commentò Gianni facendo un cenno in direzione della porta. “C’entra mica qualcuno?”
Decisamente non lui.
Ettore era entrato nel Bar facendosi aria con il cappello dell’uniforme: per fortuna non era scortato dai suoi irritanti sottoposti.  “Rosì! Proprio te cercavo!”
“Mi hai trovato. Una birra come al solito?” 
“No, non posso, una Coca andrà benissimo…” Ettore si accomodò su uno degli sgabelli con un sospiro, continuando a sventolarsi di gran lena. “Quando finisce l’estate?”  
“St’umido più che altro … bubbola ma poi manco una goccia! Che sta aspettando la Montagnola non si sa,” si intromise Nello dando un vigoroso sorso al suo bianchino. “Ah, a proposito Maresciallo … forse non lo devo dì a lei, ma hanno trovato una carcassa di cinghiale vicino alle mura.”
Gianni aggrottò le sopracciglia. “L’ho trovata io facendo i mi’ soliti giri pel bosco. Quella roba va spostata o tra la puzza e gli animali…”
Ettore inarcò le sopracciglia. “E come è finita lì?”
“I cinghiali si spingono fino al paese quando hanno fame,” gli spiegò Gianni. “Anche se in effetti con la rete è un po’ che non si vedevano. So’ animali furbi, hanno capito che da lì non si passa.”
“Ultimamente però di tracce ce ne son parecchie attorno alle mura, no?” intervenne Nello. “Chissà che gl’è preso.”
“Cercheranno cibo,” suppose Gianni con aria poco convinta.
“Avete fatto bene a dirmelo, contatto i colleghi della Forestale.” 
Ettore chiacchierò amabilmente con i due anziani, finché i due decisero che all’interno del locale faceva troppo caldo per le loro coppole, e raggiunsero i compagni al solito tavolino.
A quel punto il napoletano si voltò verso di lei con espressione seria. “Non abbiamo lupi in queste zone, vero?”
“Non li abbiamo,” confermò preoccupata. “Dev’essere stato il serpe regolo.”
“Che si avvicini tanto alle mura non è un buon segno … dobbiamo fare qualcosa.”
Rosi si passò una mano tra i capelli. Ci aveva rimuginato ogni momento libero e una soluzione l’aveva trovata, anche se non ideale. “Potremo andare direttamente a denunciare la cosa alla Confraternita di Siena con le prove che abbiamo. Non darà un bel messaggio di come gestiamo le cose a Malacena, ma non credo che abbiamo alternative a questo punto. Attacca indiscriminatamente animali e cripiti…”
Ettore annuì. “Non possiamo gestirla da soli, mi è bastata trovarmi di fronte la manolonga per capirlo. In capo ad un mese avrà fatto una strage. Tobia ha ragione, chiunque lo controlli vuol fare danno e vuole farlo rapidamente.”
Alla menzione del Nero, Rosi non poté fare a meno di avvampare ed Ettore, che era curioso come una scimmia, lo notò subito.
“Stamattina eri da lui, vero?” domandò con un sorrisetto pescando una patatina dalla ciotola e lanciandosela in bocca. “Come sta andando?
“Non sono affari tuoi.”
“Invece sì,” ribatté disinvolto. “Da vero gentiluomo ho fatto un passo indietro per lasciarvi risolvere le vostre cose decennali … mi merito almeno un aggiornamento!” 
“... Ci siamo baciati.”
Ettore si sporse comicamente sul bancone, portando una mano all’orecchio. “Come? Non borbottare Rosina, che con l’accento che tieni non si capisce niente…”
Rosi meditò se tirargli un cazzotto in un occhio, ma lo stronzo era ancora in servizio e avrebbe rischiato un arresto. “Ci siamo baciati,” ripeté ad alta voce mentre pelle e capelli assumevano la stessa sfumatura di rosso.
“Finalmente!” esclamò Ettore alzando il bicchiere in segno di vittoria.  
“C’è ancora tanto da chiarire…”
“Però almeno quello l’avete chiarito, no?”
Rosi suo malgrado sorrise. “Quello sì … abbastanza.”
“Sono fieri di voi, miei piccoli disadattati.”
“Siamo più grandi di te, entrambi!”
“Di testa no. Comunque … sono contento, davvero.” 
Rosi si strinse nelle spalle, lanciandogli un’occhiata di sottecchi. Il napoletano aveva un sorriso sincero stampato in faccia e questo le scaldò il cuore: se le cose con Tobia fossero andate avanti non molte persone in paese avrebbero accolto la loro ritrovata unione con quella gioia sincera.
Avere un amico dalla loro parte avrebbe sicuramente aiutato. “Grazie. Quei discorsi che mi hai fatto … sono serviti.”
“Te l’ho detto che sono un pessimo fidanzato ma un ottimo amico,” ribatté con un ghigno. “Però mo’ mi aspetto di essere invitato al matrimonio!”
Rosi alzò gli occhi al cielo. “Prima sistemiamo questo casino … per il resto c’è tempo.”
“Sì, ma se devo calcolare i vostri tempi, non vorrei ricevere l’invito quando sarò in ospizio.” 
Rosi fece per tirargli una sberla sul braccio, quando notò con la coda dell’occhio la porta dietro il bancone aprirsi. Sua madre era scesa. 
Era incredibile pensare che quel donnino rotondo, con l’espressione fanciullesca e i vestiti colorati potesse essere colpevole di qualcosa, men che meno dell’incolumità dei suoi compaesani.
Però davvero, quanto lascia trasparire tua madre di quello che davvero pensa, da quando la conosci?
“Ah, Maresciallo, speravo di trovarla qui!”
“Signora Silvani,” ribatté Ettore mettendosi leggermente sull’attenti,  “la trovo bene.”
“Si tira avanti… in realtà cercavo entrambi,” li contemplò indecifrabile per qualche momento, poi fece un sospiro. “Siete stati convocati.”
“Da chi?” sbottò Rosi anche se aveva già capito. Il sudore le ghiacciò la schiena.
“Dalla Confraternita tesoro. Tu, il Maresciallo Mangiola e Tobia. Siamo attesi tra mezz’ora nell’ufficio del Sindaco.” 
 
*** 
 
Ormai casa Silvani era diventata il quartier generale dei siciliani; Alina passando dal salotto incrociò Michele e Stefano, chini sul tavolo a spizzicare patatine da una busta mentre lavoravano in sincrono su un tablet e un mucchio di fogli sciolti.
Stefano le rivolse un sorriso amichevole ma prima che potesse aprire bocca Michele lo anticipò:  “Unni vai Lin? Non ci vediamo da un paccu! Come stai, tutto bene a casa? Tra poco viene Pietro, rimani per cena?”
“Sì, grazie tutto bene, no, posso stare poco,” rispose spazientita. Non aveva voglia di rimanere a chiacchierare quando desiderava soltanto andare dalla sua migliore amica e assicurarsi che stesse bene. 
Stefano sembrò notare il suo stato d’animo perché diede una pacca sulla spalla dell’amico. “Credo che non sia qui per noi, Miché, lascia fare. Caterina è in camera sua.”
Alina gli rivolse un sorriso grato e se ne andò mentre alle sue spalle i due cominciarono a battibeccare, probabilmente su di lei. Non le interessava.
Caterina si è fatta male. Se fossimo state assieme non sarebbe successo. Se ci fossi stata io non l’avrei mai fatta guidare con la pioggia.
Alina salì le scale con il cuore pesante: aveva sempre pensato di poter gestire i due mondi, ma non era vero, e presto l’Altrove l’avrebbe richiamata definitivamente a sé. 
Non l’aveva ancora detto a Caterina e aveva fatto promettere a Pietro di fare lo stesso.
 
“Sì, però glielo devi dì che torni a Roma… non è che lo deve scoprì da qualcun altro. Lo sai come le piglia male se vien fori che le nascondi le cose. Diglielo alla svelta!”
 
Il corridoio che ospitava le camere delle due sorelle era già immerso nell’ombra della sera. La porta di Rosi era chiusa, mentre da quella di Cate filtrava uno spiraglio di luce arancione, segno che il tramonto stava cominciando a tingere le case del paese. 
Alina si avvicinò e udì una risata e due voci. Caterina non era sola, era con Maddalena.
Che ci fa qui?  
Serrò le labbra mentre un fiotto di rabbia le annebbiava la vista. 
Si frenò dallo spalancare la porta e precipitarsi dentro, ma la aprì comunque con una certa veemenza da come Caterina alzò la testa di scatto e la succuba sobbalzò; erano sedute vicine sul letto, il computer sulle gambe. 
“Lin! Mia salvatrice! Eccoti!” 
Cate le rivolse un sorriso contento. Maddalena invece diventò terrea.
Comprensibile. L’ultima volta che vi siete incontrate le hai dato un pugno in faccia. 
“Sei stata velocissima!” continuò Caterina. “Hai volato?”
“No, sono venuta in motorino… Come stai?”
“La gamba mi fa un male cane e anche le dita non sono messe benissimo,” l’amica le mostrò la fasciatura. “Mamma dice che sono solo contusioni però e che mi passeranno alla svelta.”
“Meno male…” Cercava di tenere l’attenzione su Cate, perché era l’unica che di fatto le stesse parlando, ma non voleva perdere di vista la succube. 
La quale si alzò in piedi come un animale circospetto. “Ora che c’è Alina io andrei,” mormorò. “Se avete bisogno siamo al piano di sotto.”
“Non credo ne avremo,” le rispose. Maddalena fu svelta ad andarsene anche se Cate tentò una debole protesta. Si chiuse la porta alle spalle e rimasero finalmente sole.
Alina si permise di rilassarsi, sedendosi sul ciglio del letto. “Come hai fatto a cadere?”
“La pioggia…” Che continuava a fissare la porta con le sopracciglia aggrottate. “Senti, però una cosa me la devi spiegà. Che problema hai con Malù?” 
“Non ho nessun…”
“Non mi raccontare cazzate,” la fermò spazientita. “Ogni volta che state nella stessa stanza ha la faccia di una che si aspetta di prendere botte e tu quella di chi gliene vorrebbe dare una sporta. Perché?”
Alina deglutì a disagio. Cate ovviamente non aveva idea di cos’era accaduto, ma con la sua maledetta empatia era riuscita ad arrivare molto vicina alla verità.
“Perché non mi piace,” mormorò. “Non è una brava persona.”
Non è neanche una persona se vogliamo essere onesti.
“Perché mi ha trattato male?” domandò Cate perplessa. “Si è scusata e da allora … Okay, ogni tanto le pigliano i cinque minuti, ma di solito è gentile , e ti assicuro che con me è super carina. È rimasta a badarmi e si è pure sorbita due puntate di Bojack Horseman che aveva già visto!” 
Alina fece una smorfia, spianando una piega inesistente del leggero vestito estivo. Non voleva parlare della succuba, voleva prendersi cura della sua migliore amica, ascoltarla ciarlare di tutto e niente e poi, forse, trovare il coraggio di dirle la verità sulla sua prossima partenza.
“Come vuoi. Se ci tieni tanto me la farò andare a genio,” disse per chiudere la conversazione.
“Non è che te la devi fa garbà per forza … anche perché rimarremo in contatto anche dopo che sarà finita la vacanza, sicché …”
“Come anche dopo?” sbottò incredula. “Che vuol dire?”
Cate sbuffò. “Vuol dire che magari vado a trovarla in Sicilia o lei torna a trovare me. Rimanere in contatto vuol dire questo. Scusa, ma ti crea problemi questa cosa?”
“Sì!” non riuscì a frenarsi e saltò anche in piedi. Caterina la contemplò come se si fosse bevuta il cervello e ovvio, non aveva idea del perché. Non poteva dirle il perché.
Però poteva farcela arrivare.
“Te l’ho detto che non è una brava persona!”
“Ma non è vero! Ti sta antipatica, va bene, ma sta antipatica a te …  a me piace!” 
“Se sapessi la verità non ti piacerebbe più.”
Cate stavolta rimase in silenzio. Si sistemò meglio sui cuscini.  “Di che verità parli?” domandò a bassa voce. 
Alina esitò; doveva dirle quanto bastava per rivelare la vera natura di quel mostro a due facce, ma senza menzionare l’Altrove. Come poteva rompere la fiducia granitica che l’altra nutriva per Maddalena?
 
Lo sai come le piglia male se vien fori che le nascondi le cose. 
 
“Maddalena esce dal paese quando dormi.”
“Esce dal paese per fare che? Come fa poi … non ha la macchina.”
“La accompagna Stefano e stanno fuori tutta la notte.” 
Alina aveva vinto, aveva finalmente trovato il modo di allontanare la principessa dal mostro, ma non si sentì vittoriosa.
Cate aveva l’espressione persa e frastornata, come se qualcuno le avesse tirato via il terreno sotto i piedi. “Tutta la notte? Per fare che?”
Improvvisamente Alina non ebbe più voglia di continuare a parlare. Era orribile notare come ogni parola fosse letteralmente uno schiaffo sul viso dell’amica … ma ormai non poteva più fermarsi. “Non ne ho idea, dovresti chiedere a loro … però, Cate, Maddalena non è la persona che pensi che sia. Ti nasconde delle cose importanti su di sé. Non voglio che ti faccia soffrire.”
Cate fece un sorrisetto che le strinse il cuore. Era espressiva e le si leggeva tutto in faccia. Ed Alina potè quasi anticipare la frase successiva: “Troppo tardi.” 
“Mi dispiace…” Quella non era una vittoria, era una sconfitta, realizzò. Alina tentò di sedersi di nuovo sul letto e allungò le mani per prendere quelle dell’altra. 
Cate si ritrasse. “Mi puoi lasciare sola per favore?”
“Non puoi restare da sola.”
“Sto bene, e ci sono gli altri di sotto. Scusami per averti fatto venire fin qui, ma non ho voglia di compagnia adesso.”
“Ma…”
Il viso di Caterina si contorse di colpo in una smorfia di rabbia. “Vattene!” le urlò addosso e Alina realizzò con sgomento che si sarebbe alzata in piedi e l’avrebbe spinta via se non fosse stato per la gamba. Si puntellò infatti sul materasso, ma fu costretta a crollare con un’imprecazione. Si nascose il viso tra le mani e rimase in silenzio.  
Non si era mai comportata così.  
Alina si alzò in piedi non sapendo cosa fare di sé stessa. “Mi dispiace… non volevo…”
“E allora perché mi hai detto quelle cose?” domandò Caterina con il tono di chi stava per piangere. “Lasciami in pace.” 
Ad Alina non restò che obbedire. Mormorò un mezzo saluto ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Vi rimase di fronte per quelli che le parvero minuti interi, ma da dietro la porta non udì un rumore. Neppure un singhiozzo.
Si voltò e scese le scale: suo padre sarebbe stato contento di vederla tornare prima.
 
***

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


Capitolo 14.
 
Piedi nudi calpestano terra, foglie morte e spine.
Lietta non dovrebbe seguire Beatrice; la sorella si infurierebbe a saperla in mezzo al bosco, di notte, con quella cosa che mangia uomini e bestie.
La figura minuta si muove con l'esperienza di una vita e gli occhi di un gatto nel bosco buio e pieno di rumori; ad ascoltare quelli giusti, a trovarci dentro le parole, non si ha bisogno della luce del sole per orientarsi. 
“Portami da mia sorella,” sussurra in una preghiera. “Portami da lei, fammela portare a casa.”
Un lumicino le compare ai piedi, giocando tra le sue vesti, e Lietta si china a sfiorarlo con le punta delle dita, che diventano gelide e formicolanti. “Portami da mia sorella,” lo istruisce.  
Il folletto lanterna svolazza sopra la sua testa e poi prende a guidarla. Da lontano una civetta lancia un grido. Lietta rabbrividisce: quella notte gli uomini stanno battendo il bosco nel versante del castello. Non può farsi scoprire. Neanche Benedetto potrebbe aiutarla a quel punto.
Segue la luce lattiginosa del folletto, ignorando le radici, e i rami, che sembrano volerla trattenere.
 
Torna indietro bambina ...
Scappa.
Non nel bosco, bambina …
 
Poi sente un lamento. È appena percepibile e Lietta pensa ad un animale ferito, catturato in una delle trappole che gli uomini del castello lasciano in giro e che lei e sua sorella rompono.
Lo sente di nuovo, tra i cespugli di fronte a lei, e il lumicino ci svolazza sopra, illuminandoli. Lietta capisce di aver trovato sua sorella. “Bice!” si getta a carponi per raggiungerla. “Sei ferita, stai bene?”
Sua sorella è rannicchiata in quel rifugio di fortuna, con le braccia avvolte attorno alle ginocchia e il viso nascosto da una cortina di capelli arruffati. Non sembra averla notata. “Bice!” la chiama di nuovo spaventata.  
“... è morto.” Le risponde con voce roca e distante. “Il grande serpe l'ha ucciso.”
“Chi è morto? Che è successo?” Alla luce aliena del folletto lanterna Lietta si accorge che Bice è sporca. Ne riconosce l'odore; è sangue. “Sei ferita!”
“Non io.” 
Lieta ispira. “Torniamo a casa, ti prego. Non possiamo stare qua.”
“Non posso tornare a casa,” le risponde scostando il viso dalle ginocchia. Gli occhi sono gonfi e il viso è stravolto dal dolore. “Non ho più una casa.”
È morto Fortunato.
Quella realizzazione colpisce Lietta come uno schiaffo. “Che stai dicendo?” la prende per un braccio e prova a tirarla in piedi, ma Bice pesa come cento sacchi di farina, immobile, piantata nella terra. “Dobbiamo tornare prima che qualcuno si accorga che siamo sparite!”
Beatrice si passa il dorso della mano sugli occhi. Scuote la testa. “Tu devi tornare, io devo rimanere qui. Devo attendere la risposta dello Spirito del Bosco.”
“Lo spirito … che sta succedendo Beatrice?” le domanda angosciata. “È per il mostro?” 
“Qualcuno deve fermare il grande serpe, e non saranno gli uomini del castello, né quelli del villaggio a farlo. Il bosco ha bisogno di qualcuno per combatterlo. Lo farò io.”
Lietta sente le lacrime premerle all'angolo degli occhi. “Che cosa pensi di fare da sola … sei solo una donna.”
“Non più,” ribatte Bice mentre il volto si svuota da ogni emozione. “Dì a Benedetto che se non verrà lui, verremo a prenderlo noi.”
Lietta si scosta. “Benedetto...”
Bice la interrompe: “Né lui né quello che ha portato appartiene a questo mondo. Ci sono delle regole e lui le ha infrante, ma nel farlo ha commesso un errore. Ha ucciso l'uomo che amavo e ora non c'è nulla che mi trattenga nel Clarus. Digli questo … e digli di aver paura.” 
Poi l'espressione terribile e vuota fa spazio ad un'emozione. Bice le sfiora la guancia con la punta delle dita. “Torna a casa, bambina...” mormora.
Lietta incespica alzandosi. Vuole dire e fare mille cose, ma il bosco sembra chiudersi attorno a lei, soffocarla. 
Lietta si volta e scappa via. 
 
*** 
 
When I run through the deep dark forest long
After this begun
Where the sun would set
The trees were dead
And the rivers were none
(Wolf, First Aid Kit)
 
Ettore e Rosi avevano seguito Marina. Mille pensieri si erano affastellati nella testa di Rosi mentre uscivano dal Bar. Quel flusso costante di ansia non si era interrotto neppure quando Tobia era spuntato da uno dei vicoli che sfociavano nella piazza. Li aveva seguiti senza una parola.
“Bene, siamo tutti … possiamo andare!” proclamò Marina in tono gioviale. Sempre di buonumore, persino di fronte alla situazione più spiacevole. 
Se di norma Rosi lo considerava un pregio utile dietro cui nascondersi in caso di situazioni sociali, in quel momento le diede terribilmente ai nervi.
 
Salirono le scale di marmo del comune mentre il rumore dei loro passi echeggiava tra le pareti scrostate: se fuori l'edificio era stato completamente ristrutturato, dentro non nascondeva i suoi anni.
L'importante è che da fuori sia perfetto.   
Tobia prese la mano di Rosi, che si voltò cercando di sorridergli. 
“Quanto siamo nei guai uagliù?” mormorò Ettore togliendosi il cappello e passandosi le dita tra i capelli sudati. 
“Non ne ho idea,” ammise Rosi sottovoce. “Io e Tobia abbiamo fatto tutto alle spalle della nostra Confraternita, ma per te è diverso. Non penso neppure si siano resi conto che sei un Nato di Domenica.”
“Son stato convocato pure io Rosì, penso che di me sappiano assai,” ribatté Ettore con un sospiro. “Ja, facciamola finita. Non è la prima volta che mi caccio nei guai per colpa di un gatto chiacchierone … non sarà l'ultima.”
Entrarono così nell'ufficio del Sindaco; furono accolti dal Ghini stesso che li fece entrare sbrigativamente, chiudendosi la porta dietro. Il saluto scarno e nervoso con cui li accolse non era una novità, ma lo era il viso tirato, come di chi stava dormendo poco e male.
Persino Marina  di fronte all’uomo abbandonò la maschera gioviale per far spazio ad un’espressione preoccupata.
… C'è qualcosa che non va. 
Rosi non fece in tempo a riflettere su quella sensazione perché entrando nell’ufficio personale del Sindaco furono aggrediti da una temperatura artica, frutto di un sovradimensionato condizionatore portatile vicino alla finestra. Le tende erano tirate e l'atmosfera era immersa nella luce artificiale. Non sembrava che fosse un tardo pomeriggio di Agosto.
La stanza era piena di gente; su una sedia di fronte alla scrivania era seduto Don Doriano – che per una volta non stava sudando. Accanto a lui c'era Stefano, che fu l'unico ad alzarsi al loro arrivo … subito imitato da Alina, seduta dal lato opposto, accanto al padre.
Due ragazzini.
Una delle cose che Rosi non capiva del sistema delle Confraternite era il modo disinvolto con cui si impiegavano ragazzi appena usciti dal liceo come forza lavoro. 
Se non direttamente ancora, a scuola …
Il volto ancora paffuto di infanzia di Alina la metteva a disagio. Aveva l'età di sua sorella ed era una cacciatrice di criptidi. Era un lavoro pericoloso, persino mortale.
Nessuno lo trova sbagliato?
Il Ghini si accomodò dietro la scrivania, allargando il colletto della camicia. “Direi che ci siamo tutti. Credo possiate immaginarvi il motivo della vostra convocazione.”
Rosi avrebbe voluto mostrare la maturità dei suoi trent'anni, ma tutto quello che le uscì di fronte a quel tono supponente, fu: “Siamo nei guai?”
Tobia, che era dietro di lei, sbuffò per mascherare una mezza risata e persino nel volto teso di Ettore guizzò un sogghigno.
Il Ghini invece serrò le labbra. “Sì, lo siete, e farci sopra una battuta è fuori luogo.”
“La mia non era una battuta.”
Marina tossicchiò, attirando l'attenzione. Si era spostata vicino a Don Doriano, ma non si era messa a sedere, nonostante Stefano avesse tentato di cederle il posto. “Siamo soltanto preoccupati, tesoro. Tu, Tobia e il Maresciallo Mangiola siete spesso nel bosco, e in luoghi dell'Altrove qui in paese … ci chiediamo semplicemente cosa stiate facendo.”
“Non mi risulta che camminare nel bosco e andare in biblioteca sia proibito.”
“Non lo è, ma ti abbiamo fatto una domanda.”
“No, mi avete convocato qui con i miei amici e mi state facendo un interrogatorio,” ribatté dura guardandola negli occhi. L'espressione pacata di sua madre non vacillò e, ancora una volta, Rosi non vi lesse nulla oltre. Preoccupazione, forse, ma dubitava fosse per lei.
Cosa mi stai nascondendo?
“Facciamola corta, Silvani,” si inserì sbrigativo il Sindaco. “Tu e i tuoi amichetti state giocando a fare i Sorveglianti e non lo siete. Smettetela.”
“Stiamo giocando a fare i Sorveglianti perché chi dovrebbe farlo sul serio non lo sta facendo,” rispose Rosi. “Ci sono delle criptidi pericolose nei boschi di Malacena e non se ne sta occupando nessuno.” 
“Dell'avvistamento del Mannaro ce ne stiamo occupando, tesoro...” intervenne conciliante Marina. “I vânători sono qui per questo. Anche solo il sospetto sta venendo gestito.”
Rosi fece per rispondere che non era vero, quando con la coda dell'occhio notò che Ettore le stava facendo cenno di aspettare. Sorpresa annuì, e il carabiniere si fece avanti.
“Con tutto il rispetto per la vostra funzione, Marina … e per il lavoro che finora avete svolto, nessuno qui sta giocando. Io qui sto lavorando,” fece una pausa in cui nessuno si azzardò ad aprire bocca. Il fatto che indossasse un uniforme e il tono fosse – come avrebbe detto Cate – da guardia, metteva istintivamente in soggezione. 
“Sono nuovo a questa faccenda dell'Altrove, ma nel Chiaro le forze dell'ordine di solito collaborano quando ci sta un problema di ordine pubblico. E questo lo è. Ritengo che dovrei essere coinvolto, sia per la mia funzione, sia per il fatto che come Rosi e Tobia, sono un Nato di Domenica.”
“Con tutto il rispetto Maresciallo,” intervenne Marian con un sorrisetto borioso stampato sulla faccia squadrata. “Lei dovrebbe occuparsi delle cose sue, come noi ci occupiamo delle nostre. È meglio che la polizia lasci fare ai professionisti. Il Mannaro non è roba per voi.”
“L'Arma dei Carabinieri,” lo corresse Ettore con una tranquillità disarmante, probabilmente forgiata da anni di rapporto con il pubblico. “E ne prendo atto, Signor Radu, ma non sto parlando del Mannaro. Sto parlando del serpe regolo.”
A quella frase cadde il silenzio e Rosi notò un'emozione predominante sul volto di tutti, ma in particolare in quello di sua madre: totale confusione.
“Del cosa?” domandò il Sindaco. 
“Serpe regolo,” ripeté Ettore. “È un grosso serpente con il volto umano, l'alito in grado di stordire  un uomo adulto e coperto da scaglie argentate. Credo un parente dei draghi? Ha fatto la tana, o una delle tane, sotto Castiglioscuro.”
Marina batté le palpebre un paio di volte; era chiaramente il ritratto della sorpresa e sua madre sì, era in grado di fingere come un'attrice consumata, ma non fino a quel punto. 
“Avete … avete prove?” balbettò.
“Lo abbiamo visto con tre paia d'occhi Signora Silvani,” rispose Ettore. “Io, sua figlia e Tobia. Tobia è anche stato attaccato … ma non soltanto lui. Il cibo preferito del serpe regolo sono altre criptidi ma, data la stazza, temo non avrebbe problemi a mangiarsi vivo un uomo.”
Rosi si costrinse a distogliere l'attenzione da sua madre per analizzare le reazioni degli altri.
Qui in mezzo potrebbe esserci chi lo controlla.
Difficilmente poteva essere il Sindaco; il Ghini aveva assunto lo stesso colore della calce. Si passò una mano sul volto, aprì la bocca, ma la richiuse subito. 
I due vânători erano invece diventati di pietra; Alina abbassò lo sguardo verso il padre tradendo un'espressione spaesata da ragazzina, cercando conferme, ma l'uomo fissava Ettore come se volesse scoperchiargli la testa per esaminare l'interno. Rimase così qualche attimo, poi emise un sorso rumore di gola e qualche parola in rumeno. 
Alina tradusse. “Marina ha ragione. Avete delle prove a parte quello che dite?”
Ettore inarcò le sopracciglia. “Dovrebbe bastare la nostra testimonianza, ma sembra che nell'Altrove le cose vadano in modo diverso. Abbiamo raccolto delle scaglie della muta. Le hai tu vero Rosì?”  
“Sono a casa.”
Ettore si voltò di nuovo verso i due vânători. “Colleghi,” li apostrofò con palpabile ironia, “basta per aprire un'indagine direi.”
“Sì,” ribatté Marian con un leggero sorriso. Sembrava in qualche modo aver rivalutato Ettore perché gli fece un cenno della testa e poi si rivolse al Sindaco. “Ne sapevate niente?”
“No,” rispose per lui Marina. “Pensavamo … pensavamo stessero cercando il lupomanaio.” 
E ancora una volta Rosi percepì troppo sgomento perché fosse simulato. 
“Questo non cambia comunque il fatto che non dovete occuparvene voi, Maresciallo,”  si riprese il Ghini schiarendosi la voce. “Naturalmente vi siamo grati per essere stati così vigili da aver notato una criptide sfuggita a noi e ai vânători … però continuate a non essere Sorveglianti e a non appartenere alla Confraternita di Malacena.”
“E io ripeto il mio invito alla collaborazione,” ribadì Ettore  e Rosi, trascorsi e sentimenti a parte, l'avrebbe baciato.
Ecco cosa mancava l'altra volta. Un'autorità dalla nostra parte.  
Ed Ettore in quel momento non era l'amico scanzonato e affidabile, era un militare, era il Maresciallo dei Carabinieri di Malacena. 
Si scambiò un'occhiata con Tobia che quasi sembrò leggerle nel pensiero, perché le sorrise.
Il Ghini avvampò di stizza. Il fatto di non riuscire a ridurre al silenzio Ettore lo mandava su tutte le furie.
“La collaborazione tra una forza dell'ordine del Chiaro e una forza dell'Ordine dell'Altrove non è pensabile!” sbottò. “Mi è stato detto il motivo del suo trasferimento, il vero motivo. L'Altrove non è qualcosa in cui si può entrare pestando i piedi. Ha quasi perso il suo incarico a Napoli, non vorrei succedesse qui.”
Ettore non fece in tempo a ribattere; Tobia, rimasto defilato fino a quel momento, scattò in avanti, infilandosi nel varco tra le sedie di fronte alla scrivania e, afferrando il Sindaco per la camicia, lo tirò in piedi come un pupazzo di stracci.
“Bia, no!” gridò Rosi in unisono con Marina.  
“Non insabbierai un'altra volta le cose!” ringhiò Tobia strattonando l'uomo alla sua altezza. “Non rovinerete più la vita a nessuno!” 
Bia!” ripeté Rosi afferrandolo per un braccio. Tobia le rivolse un'occhiata bruciante di rabbia, ma dietro c’era il terrore di dover ripetere tutto da capo. 
La presa con cui lo stava trattenendo si tramutò in una carezza. “Non succederà stavolta, te lo prometto.”
Stavolta hai me. Hai Ettore. Non ti lasceremo da solo in questa ragnatela di bugie.
Non lascerò che nessuno ti faccia del male. Mai più.
“Tobia, cumpà, è tutto a posto ...”  Ettore gli si affiancò, sempre con quella calma surreale. Con un cenno della mano fermò Alina, che aveva ben pensato di avvicinarsi e peggiorare chiaramente la situazione. “Nessuno insabbierà niente,” poi si rivolse al Sindaco, “ed eviti le minacce per cortesia.” 
Tobia inspirò e poi lasciò di colpo il Ghini, che incespicò sedendosi pesantemente sulla sedia. L’uomo si sistemò la camicia spiegazzata, paonazzo. “Non era una minaccia … volevo solo...”
“Facciamo finta che non abbia sentito e chiudiamola qui,” lo interruppe Ettore. “Possiamo continuare a parlarne come persone civili?”
“Sono d'accordo con lei, Maresciallo,” intervenne per la prima volta Don Doriano. 
Non aveva aperto bocca per tutta la durata della conversazione e adesso, con uno sbuffo, si alzò in piedi. “Invece che minacciarvi, dovremo ringraziarvi. I vostri occhi hanno visto dove i nostri sono rimasti chiusi … anche se non per tutti nello stesso modo.” Fece un cenno a Stefano, che si alzò prontamente in piedi. “Da un po' ritengo che vi siano pericoli sottovalutati qui a Malacena … volutamente, temo.”
“Volutamente?” esclamò il Sindaco. “Di cosa diavolo state parlando?”
“Il Mannaro è stato l'inizio,” continuò Don Doriano ignorandolo. “Il seguito è il regolus. Queste creature sono qui perché qualcuno non solo non le ha eliminate, ma le ha fatte prosperare.”
Rosi si voltò verso sua madre. Aveva le mani strette alla borsetta e le labbra ridotte ad una linea sottile. Non aprì bocca.
“Stefano, che è un Sorvegliante giovane, ma promettente...” Don Doriano diede una pacca sulla spalla del ragazzo, che chinò la testa come ad accettare il complimento, “... mi ha aiutato a condurre un'indagine parallela, e abbiamo ottenuto le stesse conclusioni che voi graziosamente avete scelto di non dire pubblicamente. Tuttavia la verità ha necessità di uscire. 
La Confraternita di Malacena sta mettendo in pericolo il territorio che la ospita. Inettitudine o colpa verrà deciso altrove. D'ora in poi la Confraternita è sciolta, e io stesso, assieme ai vânători, prenderò le redini della caccia al serpe regolo.” 
Il Ghini si alzò di scatto dalla sedia. “Non potete farlo!” ruggì come una belva presa in trappola. “Non è una cosa che può essere decisa da te, prete!”
“Infatti non è stata decisa da me,” ribatté l'uomo frugando nella tasca della tonaca e tirando fuori una lettera, che estrasse dalla busta e aprì sulla scrivania. “Questa viene direttamente dai Chiaroscuri di Siena.” Estrasse gli occhiali con calma e poi lesse: “A fronte delle prove fotografiche portate dal Sorvegliante Stefano Greco, e dalle indagini fatte circa l'aggressione alla vânător Alina Radu, si sospetta che i membri originari della Confraternita di Malacena Marina Silvani e Carlo Ghini stiano occultando attivamente criptidi pericolose. Per questo motivo si affida la temporanea gestione della Confraternita a Don Doriano De Santis, con le sorveglianza diretta e poteri di pronto intervento ai vânător Marian e Alina Radu...” 
Nell’ufficio il silenzio poteva tagliarsi solo con un’accetta tanto era denso e spiacevole.
Don Doriano si schiarì la voce: “È tutto scritto Carlo, puoi controllare tu stesso, se non ti fidi della mia parola … Però temo che il punto sia la veridicità della vostra.”
 
L'intervento di Don Doriano aveva chiuso la convocazione. 
Rosi non aveva tolto gli occhi di dosso a sua madre: si era aspettata che proclamasse la sua innocenza. Invece Marina Silvani si era svuotata e aveva lasciato il Ghini a strepitare a briglia sciolta. 
Non che fosse servito a molto: Marian Radu aveva preso le redini della situazione in mano intimando a tutti di lasciare l'ufficio del Sindaco, dato che non era più un luogo sicuro per continuare quella conversazione, richiedendo poi a Don Doriano di eleggere la parrocchia a nuovo luogo di ritrovo della Confraternita. Il prete aveva acconsentito di buon grado e i vânători e Greco lo avevano seguito. Si erano separati sulle scale del Comune.
 
“Vi ringraziamo per quello che avete fatto finora. Dovete consegnare la scaglia della muta del regolo, ma senza fretta. Possiamo trovarci domani mattina in Chiesa, dopo la messa.”
 
Don Doriano era stato efficiente e gentile, ma non aveva dato loro modo di obiettare. Era chiaro il messaggio dietro le sua richiesta: lasciate fare a noi.
Rosi, Tobia ed Ettore si accomiatarono così dalla nuova confraternita, lasciando il Ghini nel suo gelido ufficio. Marina li seguì.
“Così è finita? Perché non credo proprio ci vogliano ancora tra i piedi,” considerò Ettore quando scesero in strada. Il caldo della sera li avvolse, ricoprendoli di sudore e dello straniamento di trovarsi di nuovo, in un certo qual modo, nella realtà. 
“No, non vogliono,” gli fece eco Tobia.  
“Meglio, almeno posso tornare a fare il lavoro mio.” sospirò Ettore. “Però...”
“Però non ti fidi?” concluse per lui Rosi.  
Ettore si tolse il cappello per passarsi una mano tra i capelli. Quel gesto lo calmava sempre. “Non è quello Rosì … Se non ci stanno accordi tra l'Arma e le Confraternite, la mia richiesta vale quanto un due di picche a briscola. Abbiamo fatto le indagini senza autorizzazione e abbiamo ricevuto per l'impegno una pacca sulla spalla. Fine. Se continuiamo ci mettiamo nei guai.”
“Non hai risposto alla domanda di Rosi,” gli fece notare Tobia. “Ti fidi?”
Ettore fece una smorfia. “Non abbiamo alternative.”
“Continuare ad indagare per conto nostro è un’alternativa.”
Ettore si voltò verso l'altro uomo. Era mortalmente serio. “No. Quello che abbiamo fatto può essere considerato come l’iniziativa di tre cittadini preoccupati … una forza dell'ordine su una cosa del genere può chiudere un occhio, ma una volta sola … e no,” fermò un'obiezione che si formava sulle labbra dell'altro, “non me ne voglio lavare le mani. Chiederò di esser informato. Tu e la Rosina però siete fuori. Sul serio.”
Tobia si voltò verso di lei con aria incerta, e Rosi annuì. “Hanno riconosciuto che c'è un problema e l'hanno fatto di fronte a dei testimoni. Non possono insabbiare le cose.”
Stavolta.
“Ci terrai aggiornati?” gli domandò però.
Ettore sorrise. “Come se potessi evitarlo.”
Si fermarono di fronte al Bar. Quel giorno Tea si era portata dietro la sorella, che stava servendo ai tavoli con l'aria di chi si stava divertendo un mondo: doveva trattarsi di una bella differenza rispetto a rimanere ad annoiarsi nell'ufficio del Sindaco per tutta la giornata.
Rosi le salutò con un cenno distratto della testa. Sua madre in compenso continuava a non dar segno di voler interagire con l'ambiente circostante. 
Dobbiamo parlare. Non possiamo più rimandare.
Tobia, dopo aver lanciato un’occhiata alla donna più anziana, si schiarì la voce. “Io torno a casa … facciamo un pezzo di strada assieme?” domandò ad Ettore, che fu altrettanto rapido a captare l'atmosfera.
“Come no!” gli allungò una pacca sulla spalla. “Anzi, perché non ceniamo assieme? Ci sono un po’ di cose su cui mi devi aggiornare…” e rivolse ad entrambi un ghigno, a cui Rosi rispose con un’alzata di occhi al cielo.
Buona fortuna, Bia. Stasera sarai sulla graticola. 
Una volta che i due uomini se ne furono andati Rosi racimolò tutto il coraggio che possedeva per affrontare sua madre. “Mamma, dobbiamo parlare.”
Marina si riscosse. “Sì,” ammise, “ma non in Piazza. Facciamoci una passeggiata.”
 
*** 
 
La meta finale della passeggiata erano state le mura del paese. A quell’ora, di poco precedente la cena, il camminatoio che permetteva di percorrerle per tutta la loro pentagonale lunghezza era vuoto, sia di occasionali paesani che di turisti. Senza mettersi d’accordo avevano scelto quello come posto per chiarirsi. 
Una volta affacciate al parapetto in muratura in una direzione qualsiasi rimasero qualche momento a contemplare l’oceano di alberi che si stendeva di fronte a loro. Pii Marina sospirò. “Non mi sono mai immaginata di vivere altrove, se non qui… Chissà, forse è il sangue di driade che scorre nella nostra famiglia.”
“Potrebbe essere,” ammise Rosi accendendosi una sigaretta. “O forse non abbiamo mai avuto abbastanza coraggio per andarcene.”
Marina abbozzò un sorriso, ma non ribatté e Rosi intuì che doveva essere lei a fare la prima domanda. “Sapevi del regolo?” 
“No.” Il tono era definitivo. “Non avevo idea che ci fosse un serpe regolo nei nostri boschi … non ho neppure capito come siate riusciti a scoprirlo voi.”
“È una storia lunga. Abbiamo avuto aiuto.”
“I gatti,” realizzò Marina voltandosi meravigliata verso di lei. “Il Maresciallo … ho sentito la sua battuta sui gatti chiacchieroni. Riesce a capirli?”
Rosi annuì. “Pare sia una cosa di famiglia.”
Marina annuì, pensierosa. “Ci sono tante cose che non ho notato … troppe, forse.”
“Il Mannaro però l’hai notato,” ritorse Rosi. Non aveva mai avuto un carattere indulgente, non era mai riuscita ad essere comprensiva dei peccati altrui. Neppure se erano quelli di una delle persone più importanti della sua vita. “Il lupomanaio esiste e tu e il Ghini lo state nascondendo.”
Marina serrò le labbra, posando le mani sul parapetto, quasi a trarre conforto dalla frescura della pietra.
“Mamma, dimmi la verità,” non voleva far tremare la voce, ma non servì desiderarlo. “Per favore.”
“Il lupomanaio è un versipelle, Rosi, vive come un essere umano per la maggior parte della sua vita… è un essere umano. Eppure ci insegnano ad ucciderlo come se fosse una bestia pericolosa priva di raziocinio. Pensi che sia giusto?”
Rosi ispirò un pugno di nicotina, incolpando quella quando le salirono le lacrime agli occhi. 
“Non importa se lo sia o meno, importa che stiate mettendo in pericolo tutti!”
Marina esitò. “Lo abbiamo sempre tenuto sotto controllo. In questi anni non ci sono stati attacchi ad esseri umani o ad animali domestici … abbiamo fatto il nostro lavoro, Rosi, anche se non come ci è stato insegnato.”
Rosi non ebbe il coraggio di voltarsi verso sua madre. Se lo avesse fatto l’avrebbe perdonata. E non voleva.
“Chi è?”
“Non posso dirtelo.”
“Lo scoprirò, dato che in paese ci sarà presto una morte tragica, no?”
“Se dipende da me e da Carlo no.” 
“Mamma stai sbagliando!” Si voltò per urlarglielo addosso. Ignorò il volto pallido e la lacrime della persona che l’aveva sempre amata e protetta, mai abbandonata, nonostante i suoi mille difetti e le sue scelte sbagliate. 
Fu incredibilmente difficile. 
Marina scosse la testa. “Non secondo coscienza, Rosi.”
“Hai condannato Tobia ad essere etichettato il pazzo del villaggio secondo coscienza?” 
A questo Marina si ritrasse come se l’avesse schiaffeggiata. “Tobia si è comportato in modo irragionevole, se gli avessi dato retta un ragazzo sarebbe morto.” Si voltò verso il panorama, estraendo dalla borsetta un fazzoletto per asciugarsi gli occhi. “Non c’è giorno che questa cosa non mi pesi … ma nella vita bisogna compiere delle scelte, e a volte la scelta non è tra cosa è giusto e cos'è sbagliato, ma tra chi salvare.”
“Quindi ti sei eletta a giudice.”
“Non voleva farlo nessun altro.” 
Era un’accusa velata, e Rosi ebbe l’impulso di reagire. Di afferrare sua madre e schiaffeggiarla. Serrò i pugni e schiacciò con forza la sigaretta sul parapetto.  
“Non l’avrei lasciato fare a nessun altro… ” aggiunse Marina ammorbidendo il tono. “Non ti avrei mai chiesto di condannare il tuo migliore amico.”
“Se mi avessi coinvolta fin dal principio avremo trovato una soluzione diversa. Avrei salvato sia questo misterioso ragazzo sia Tobia.”
Marina rimase in silenzio, poi lasciò andare un sospiro. “Forse io e Carlo abbiamo sbagliato tutto.”
“È arrivato il momento dell’auto-commiserazione?”
Marina ridacchiò. Una risata priva di gioia però. “Sto diventando vecchia, tesoro mio, e sono stanca. Sono disposta ad ammettere di essere fallibile.”
“Allora lascia fare a me.” Rosi si voltò per fronteggiarla. Non era facile ammettere di sbagliare, o ammettere che la tua figura d’autorità primigenia aveva fatto lo stesso. 
Era però possibile venirci a patti. Era possibile rimediare e quell’idea glielo aveva piantata in testa Ettore, e glielo aveva fatto sbocciare Tobia. 
Non è mai troppo tardi.
Rosi posò una mano sul braccio di sua madre. “Anche io ho sbagliato cinque anni fa…” mormorò.  “Fammi prendere il posto che mi spetta. Fammi tornare ad essere una Sorvegliante.” 
Marina coprì la mano con la sua. Una mano piccola e paffuta, che aveva asciugato innumerevoli lacrime ed elargito carezze. Rosi notò come si stesse punteggiando di macchie dell’età. 
Era la prima volta che realizzava quanto sua madre fosse invecchiata. La qual cosa la riempì di un sentimento contrastante: paura, ma anche decisione.
Non posso più tirarmi indietro. È ora di tornare ad aprire gli occhi. È ora di crescere. 
“Devi salvare il lupomanaio,” disse Marina. “Non importa cosa ci insegnano, è solo un ragazzino con una maledizione addosso. Inoltre, chi pensi che dovrà ucciderlo tra Marian ed Alina?”
“Un ragazzino ammazzato da un’altra ragazzina…” l’idea le rivoltava lo stomaco. “Chi è?”
“È Elia.”
“Il figlio di Carlo?” Rosi sgranò gli occhi. Quel bulletto arrogante, sempre irrequieto, sempre pronto alla rissa o al vociare … era il lupomanaio?
“Quando è arrivato qui era un bambino spaventato, come lo era sua madre … io e Carlo li abbiamo accolti proteggendo il loro segreto. Don Doriano e i vânători non devono scoprirlo.”
“Don Doriano…”
“È un uomo di Chiesa e vive di dicotomie. Per lui i Mannari non sono uomini degni di perdono, ma lupi che minacciano le proprie pecorelle. Non si farà scrupoli.”
Rosi annuì. “Lo dirò anche a Tobia ed Ettore,” prima che sua madre potesse protestare, aggiunse, “avrò bisogno del loro aiuto. Non si proteggere l’Altrove da soli, o non avrebbero inventato le Confraternite.”
Sua madre sorrise. “Così Bia e il carabiniere sono la tua Confraternita?”
“Sì,” le uscì prima che potesse pensarci, ma poi realizzò che era vero. 
Tobia ed Ettore non erano soltanto suoi amici - e nel caso di Bia, ormai qualcosa di più - erano i suoi compagni. La sua banda contro i misteri e i pericoli dell’Altrove. “Sì, lo sono.”
“Bene…” Marina si voltò di nuovo verso il panorama, verso quell’infinita distesa di onde smeraldo che componeva la Montagnola e la geografia della loro famiglia. La contemplò a lungo, prima di continuare: “Io e Carlo abbiamo fatto troppi errori. Forse voi imparerete da essi.”
Rosi avrebbe voluto abbracciarla. Pur furiosa e amareggiata per quello che lei e il Sindaco avevano fatto a Tobia per un supposto bene superiore, il tono sconfitto di sua madre se non ispirava perdono, ispirava perlomeno comprensione.
Non riuscì però a tramutare quel pensiero nel conforto di cui la donna aveva bisogno.  
Non ancora almeno. 
“Questi sono i nostri boschi, Rosi. Siamo noi donne della selva a doverli proteggere. Anche da chi dice di voler fare la stessa cosa.”
“Stai parlando di Don Doriano e dei vânători?”
Marina si prese di nuovo del tempo per rispondere. Il fresco vento serale che saliva dalla pianura fino alla collina le scompigliò i capelli. In quel momento a Rosi apparì come una quercia piccola, ma salda, che non si sarebbe spostata per nulla al mondo, nonostante tutto. 
Le ombre confondevano le loro figure, e le rendevano simili. 
Siamo entrambe figlie delle querce. Non possiamo essere altro. E va bene così. 
“Il serpe regolo non è autoctono,” disse Marina. “Qualcuno l’ha portato qui, e non siamo stati né io né Carlo. Cerca nell’Altrove … ma ricordati che il male alberga nel cuore degli uomini.” 
“Un po’ meno criptica del solito no, eh?”
Marina ridacchiò. “Il lupo perde il pelo ma non il vizio, non si dice così?”  
Rosi sbuffò, pescando dal pacchetto un’altra sigaretta. “Infatti. Alla fine mi fai fare sempre quello che vuoi tu … compreso salvare un Mannaro.”
Marina le rivolse un sorriso carico di affetto. "Non sono mai riuscita a farti fare qualcosa che non volevi, e lo stesso vale per Cate. Siete due donne forti, tesoro mio, molto più forti di me…” sospirò, staccandosi dal parapetto e imbracciando la sempiterna borsetta. “Torniamo a casa? Tua sorella si starà chiedendo dove siamo finite. E con quella povera gamba…”
“Vai pure, io rimango qui ancora un po’.” 
Marina tentennò, quasi facesse fatica a trovare il modo di accomiatarsi. “Mi dispiace, tesoro, per tutto,” disse infine. “Dillo anche a Bia.” 
Rosi abbozzò un sorriso. “Glielo dirò.” 
Una volta sola, fumò una sigaretta mentre l’ultima luce del sole spariva oltre la cima della collina. Si accesero i lampioni inondando il paese di luce aranciata che, mescolata ai colori caldi delle case, lo facevano assomigliare ad un eterno presepe. 
Fuori il bosco combatteva tra l’azzurro del crepuscolo e il buio della sera. 
Paese e bosco. Castello e sotterranei. Un eterno conflitto.
Siete due donne forti, tesoro mio, molto più forti di me…
"Speriamo basti,” mormorò. 
 
***
 
Note:
Canzone del capitolo qui
Cominciamo a contare, perché abbiamo quasi finito. 
Grazie per chi ancora mi segue, nonostante gli aggiornamenti rari come fresco ad Agosto. ;)

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Capitolo 15
*** 15 ***


15.
 
La morte di Fortunato il giorno dopo è sulla bocca di tutto il comunello.
Lietta, invece, la bocca non la apre proprio.
Suo padre quella mattina le ha chiesto dove fosse Beatrice. L'assenza di sua sorella maggiore è come una ferita aperta e Lietta gli ha detto che non lo sa, ma negli occhi del padre vi ha letto paura e consapevolezza.
Non hanno parlato, hanno preferito rimanere in silenzio e ripartirsi i compiti della giornata. Suo padre nei campi, lei in casa.
 
Lietta ha lo stomaco chiuso in una morsa e non mangia neanche a pranzo. Il suo corpo si muove per inerzia, copre il ruolo di sua sorella, ma la mente è come foderata di paglia.
Quando passa di fronte alla stalla del mulo si sente afferrare e tirare dentro. Fa per gridare, ma una mano morbida e calda le copre la bocca.
Shh, amore, sono io,” le dice Benedetto. Lietta d'istinto accoglie il conseguente bacio. Ne ha bisogno come l'aria.
Benedetto le prende il viso tra le mani, gli occhi chiari che la guardano con brama. “Non posso stare molto, al castello sono agitati … spogliati, bambina mia.”
Lietta scuote la testa. “Non … non posso. Bice non c'è e devo fare tutto io oggi.”
“E dov'è?”
Nel bosco.”
Certo, sarà distrutta per la morte di quella guardia … come si chiamava, Fortunato?” L'espressione dispiaciuta sembra sincera ma le parole di Bice ronzano nella testa di Lietta, come tafani. Cerca di scacciarli, ma quelli ritornano.
Sì … lei … lei non vuole tornare a casa.”
Benedetto sospira. “Oh, Lietta … non deve rimanere lì, o penseranno che è stata lei.” Esita. “Non sarà stata lei ad ucciderlo?”
È stato il lupo!” Lietta si scosta. I tafani ronzano nelle orecchie, non le permettono di pensare ad altro che alle accuse di Bice.
 
“Digli di aver paura.”
 
Come puoi pensare una cosa così orribile?”
Perché è come me e te … e parla con il bosco. E il mostro è parte del bosco.”
Mia sorella dice che non lo è, che qualcuno l'ha portato da fuori.”
Il sorriso di Benedetto si amplia. “Una bella teoria.”
Lietta fa un passo indietro. Non ha idea del perché lo faccia: si fida di Benedetto, è il suo amore che la capisce ed è come lei. La porterà via da quella vita e le farà protagonista delle storie che le racconta mentre sono nudi e abbracciati.
Però. Le parole di sua sorella non la lasciano in pace.
Mi devi aiutare a portarla a casa!” Benedetto ha detto che farebbe di tutto per lei, no? Quello sarà prova che Bice dice sciocchezze. “Non mi dà retta, dice cose assurde, dice che vuole uccidere lei il mostro!”
Davvero?” Benedetto ha un tono sorpreso. “E come pensa di fare? È solo una donna.”
“È quello che le ho detto anche io! La morte di Fortunato l'ha sconvolta, ma sono sicura che se siamo in due possiamo farla ragionare … sei bravo con le parole, tu.”
Benedetto le bacia le mani. “Lo sono, ma tua sorella è perduta.”
Che dici?”
Tutti si accorgeranno che oggi non c'è, e che ieri notte è morto il suo amante.”
La paura gela le viscere di Lietta. Vorrebbe sfilare le mani da quelle di Benedetto, ma l'uomo gliele trattiene. Ci prova, ma quello stringe la presa.
Sanno tutti che Beatrice va' nel bosco di notte. Dicono che incontri e fornichi con il diavolo. Lo stesso diavolo che prende la forma di lupo e ammazza tutti quei poveri uomini.”
Chi … chi lo dice?”
Tutti. Ma in testa l'idea gliel'ho messa io.”
Lietta si paralizza. Benedetto continua a sorridere e tenerla stretta. Le sembra di non poter muovere neanche un dito. “Perché?” riesce solo a mormorare.
Benedetto scuote la testa. “Non avere paura, a te non succederà niente. Ti ho promesso che ti avrei portato via, e sono un uomo di parola. Ma devi avere pazienza, succederà solo dopo che tutto sarà finito.”
Liettasente la lacrime che le rotolano lungo le guance. Benedetto gliele bacia e lei trema.
Tutto... tutto cosa?” domanda. “Che vuoi fare?”
Voglio vedere cosa c'è dall'Altra parte, tu no?”
No!” Lietta non sa se lo dice per rispondere a Benedetto, o perché è la sua intera anima che si ribella a quella rivelazione agghiacciante.
Sua sorella aveva ragione. Lietta tira uno spintone all'uomo che non aspettandoselo incespica indietro, cercando di non perdere l'equilibrio. Tenta di afferrarla di nuovo, ma Lietta è agile come una donnola e corre nell'aia, nel sole cocente della mattina. Ha il fiato corto e la veste in disordine, ma per fortuna in quel momento c'è solo Duccio, il figlio del ciabattino, che sta uscendo dalla porcilaia.
Lietta gli si lancia addosso. “Nascondimi!” lo prega. “Nascondimi da qualche parte. Non voglio che mi trovi.”
Duccio è cresciuto con lei ed è ancora un ragazzo, ma non è mai stato stupido. Parla poco, ma ha il cervello fino. Infatti la prende per un braccio e le fa segno di far silenzio. La conduce nella porcilaia e serra la porta dietro di sé. I grugniti dei maiali coprono i suoi respiri spezzati mentre Benedetto esce dalla stalla dell'asino alla sua ricerca. Sorride, di quel suo bel sorriso gentile che ora le sembra orribile.
Non ha mai smesso di sorridere.
Benedetto è il mostro.
Non trovandola alla fine si rassegna e se ne va. Duccio, rimasto di vedetta dietro le assi della porcilaia, si volta verso di lei con un'espressione interrogativa.
Lietta si sistema i capelli dentro la cuffia e controlla di avere tutto in ordine. “Non raccontare a nessuno quello che hai visto. Me lo prometti?”
Duccio annuisce ma non riesce a tenere a freno la curiosità. “C'entra con la sparizione di tua sorella? Dicono tutti delle cose orribili su di voi. Che sta succedendo?”
Non te lo posso dire.”
“Lietta, quello straniero … ti ha fatto qualcosa?”
Lietta lo abbraccia. Il ragazzo ammutolisce sorpreso ed è la reazione su cui la ragazza contava. “Promettimi che non penserai mai che io e mia sorella siamo cattive.”
Non penso che siate cattive,” le fa eco, schiarendosi la voce. “Siete sempre state gentili con la mia famiglia e Bice mi ha guarito dalla febbre l'inverno scorso...” Esita. “Non c'è niente che possa fare per voi?”
Lietta si scosta, asciugandosi le lacrime con un mezzo sorriso. “Grazie … ma no.” Non gli dà il tempo di rispondere che è fuori e con pochi passi rapidi è in casa. Si chiude dentro.
Finalmente è libera di piangere.
 
***
 
The answer to the riddle before your eyes
is in dead leaves and fleeting skies
(Elan, Nightwish)
 
Marina era rimasta tutta la notte a vegliare Caterina.
Era riuscita a scambiare il turno con una collega e aveva passato quelle lunghe ore a prendersi cura dell'unica cosa su cui aveva ancora controllo.
L'amore per le sue figlie.
Quello che ho fatto, l'ho fatto per amore.
Serviva a qualcosa convincersene però se le sue azioni avevano inconsapevolmente occultato un pericolo nella Montagnola?
Marina non era più sicura di niente; aveva così ignorato le decine di chiamate di Carlo e non si era mossa dalla sedia della scrivania della figlia minore.
Quando era tornata dalla riunione nell'ufficio del Sindaco lei e Caterina si erano rivolte una manciata di parole prima che la ragazza si addormentasse. Era stata monosillabica, ma Marina aveva attribuito la cosa al dolore per la gamba contusa.
Quella mattina però, nonostante sembrasse stare meglio, Caterina non aveva abbandonato l'espressione miseranda.
“Direi che la commozione cerebrale l'abbiamo scampata,” cercò di tirarle su il morale. “Se te la senti puoi scendere giù al Bar … così non ti annoi,” concluse porgendole il vassoio della colazione. Rosi lo aveva riempito di ben tre cornetti con farcitura diversa, un cappuccino fumante e una spremuta d'arancia. Aveva esagerato, forse per lenire il senso di colpa di non essere lì.
“Preferisco star qua,” rispose Cate spiluzzicando un cornetto con aria assente.
“Come mai?”
Cate si strinse nelle spalle e Marina sospirò, sedendosi ai piedi del letto.
“Che c'è che non va?”
Di fronte al muro di silenzio della figlia minore dovette ammettere che ultimamente le aveva rivolto poche attenzioni. Non che ne avesse particolare motivo, dato che Cate era il ritratto dell'adolescenza spensierata.
Tranne oggi.
“Niente...”
“Dev'essere piuttosto importante se ti fa evitare i tuoi amici. Giusto ier sera sberciacchiavi che stavi benissimo e non avevi bisogno di riposo.”
Cate si morse un labbro mentre gli occhi le si riempirono di lacrime. Marina, stavolta davvero preoccupata, fu rapida a metterlesi affianco cingendole le spalle con un braccio.
“Amore mio, che c'è?”
“Non te lo posso dire...”
“Alla mamma si può dire sempre tutto.”
“Questo … questo no.”
In che pasticcio si era cacciata?
Caterina, al di là delle sue occasionali bravate, era una ragazzina giudiziosa. Non aveva mai combinato nulla di così serio da farla rintanare nella propria stanza ed evitare il mondo.
“Ho promesso ad una persona di stare zitta … anche se non se lo merita.”
Marina capì che doveva tentare un approccio meno diretto. Caterina era leale con i suoi amici e difficilmente avrebbe tradito una promessa di quel genere. “Pensi che dicendomelo la metterai nei guai?”
“Non lo so … cioè, non credo. Se non parli con i suoi genitori.”
“Questa persona ha fatto qualcosa che non doveva?”
“No, non è quel genere di guaio … è che i suoi genitori non devono sapere che le piacciono le ragazze.”
“Capisco,” Marina tirò un sospiro di sollievo. Dunque era meramente una questione di cuore.
Le sorrise. “Giuro solennemente che rimarrà tra me e te. Su queste cose non si scherza, giusto?”
Caterina le rivolse un micro-sorriso. “No, infatti … è che … è Maddalena. Io e lei stiamo assieme.”
Ah.
Non era solo una questione di cuore.
Marina si impose di non lasciar trapelare altro che quieto interesse. Andare in agitazione non avrebbe tirato acqua al mulino della fragile confidenza che si era instaurata.
“Non immaginavo le piacessero le ragazze...”
“Manco io! Però poi ci siamo baciate il giorno che è venuto giù quel temporale pazzesco e … ci siamo messe assieme. Però non lo sa nessuno, a parte Pietro, ma perché c'ha beccate.”
“Quindi mi hai detto una bugia quando vi ho chiesto che facevate nel retro.”
Caterina avvampò, muovendosi a disagio nel suo abbraccio. “Ha avuto una mezza crisi di panico quando Pietro è entrato … mi ha pregato di non farne parola con nessuno, e io … insomma, non è che facevo qualcosa di male a non dirtelo, no?”
In realtà sì.
Ma non era colpa di sua figlia, che nulla sapeva del vero motivo per cui Maddalena le aveva imposto il silenzio.
Non può avere una relazione fissa. Non deve.
Le succubi che decidevano di frequentare un unico donatore andavano incontro ad un primo ammonimento, e poi se perduravano in quel comportamento, venivano spostate nel territorio di un'altra Confraternita.
Sempre che prima non avessero affascinato a tal punto la propria vittima da rendere tale condizione irreversibile.
A quel punto era necessario rimuoverle in maniera definitiva. Sempre che prima non fosse la stessa vittima, ossessionata a tal punto dal cedere ai più bassi istinti di gelosia e possesso, ad agire, come era successo probabilmente nel caso dei genitori di Maddalena.
La siciliana conosceva le regole, al punto da esserne costantemente terrorizzata. Allora perché aveva disobbedito?
Perché è un'adolescente!
Maddalena non aveva una madre, mentore della sua stessa razza, a tenerla sotto controllo. Solo un Sorvegliante permissivo perché suo amico d'infanzia … e non ultimo, era sotto la custodia momentanea di una Confraternita che non si era neppure accorta che un serpe regolo cacciava nel proprio territorio. La tempesta perfetta.
Marina si rifiutò di lasciarsi prendere dal panico: dopotutto Caterina non soffriva dei classici sintomi dell'affascinato. Aveva rifiutato l'aiuto di Maddalena il giorno prima e quella notte non l'aveva cercata, dormendo un sonno tranquillo e riposato.
Ad analizzare il suo comportamento pareva inoltre volerla evitare.
“Perché piangi? Avete litigato?”
Caterina scosse la testa. “Alina mi ha detto delle cose su di lei. Se ne va fuori dal paese con Stefano la notte. Ci sono tante cose che non mi dice ... e a volte è strana. Credo mi racconti un sacco di balle.”
Marina strinse la figlia nell'abbraccio, sorridendo quando la ragazzina vi si rannicchiò dentro come un gattino. “Tesoro mio … mi dispiace.”
Caterina non aveva l'intelligenza acuta di Rosi, ma era più empatica. Non era strano che avesse notato delle incongruenze in Maddalena, forse ben prima di chiunque altro.
“Hai provato a chiederle spiegazioni?”
Cate tirò su con il naso. “Vorrei prima capire perché non me l'ha detto … perché non mi ha chiesto di andare con lei. Facciamo sempre tutto assieme, ma questo … no. E allora...”
Marina le diede un bacio sulla tempia. “Forse una spiegazione c'è … ma in ogni caso Maddalena se andrà presto. Tornerà in Sicilia. Mi hai sempre detto che non ti piacciono le relazioni a distanza. Hai cambiato idea?”
Doveva farle lasciare. Le dispiaceva dare un dolore a sua figlia, ma era meglio della concreta possibilità di trovarsela affascinata e con una succuba da dover far uccidere.
Nessuna delle due ne sarebbe uscita indenne. Letteralmente.
“Non lo so...” Cate venne scossa da un singhiozzo. “Vorrei solo capire perché mi mente, ma ho paura che se ci parlo poi … poi non mi piaccia quello che ascolto.”
“Aiuterebbe se ci parlassi prima io?”
“Sìe!” Cate si scostò scandalizzata. “Non voglio che la mi' mamma parli alla mi' citta perché io non ho le palle! Mi farò dire la verità! È che non ho ancora capito come.”
Marina sbuffò una risata. Se non altro, quella reazione era segno che la mestizia stava facendo spazio ad una più sana arrabbiatura. “Sono sicura che troverai il modo. Però finché non ti senti pronta, nessuno ti giudicherà se te ne starai un po' sulle tue.”
“Dici?”
“Dico,” confermò. “Prenditi questa giornata per radunare le idee. Un po' di riposo male continua a non fartene. Hai preso una bella botta.”
Caterina annuì. “Mi aiuti con gli altri? Magari ad inventare qualche scusa medica perché non vengano a ficcanasare... mi stanno già tempestando di messaggi.”
Marina si alzò in piedi. “Lascia fare a me. A che servono le mamme, altrimenti?”
 
***
 
“Grazie mille per il vostro aiuto,” disse Alina.
“Ma di che, bimba, quando avete bisogno mi chiamate, lo fo volentieri!” rispose Nello salutandola con un cenno mentre metteva in moto il vecchio doblò.
Sul sagrato della chiesa di Sant'Andrea tirava un vento umido e fresco, e la ragazza abbassò il vestito che le sbatteva sulle gambe. Accanto a lei Marian Radu finì di sistemarsi sulla sedia a rotelle, rivolgendo un cenno brusco all'anziano, la massima dimostrazione di gratitudine che gli avesse mai mostrato.
L'omino scoccò loro un sorriso divertito, e con un ultimo cenno di saluto, guidò via.
“Nello è molto gentile a darci un passaggio ogni volta,” osservò Alina.
Il padre emise uno sbuffo, prendendo a spingere con vigore la carrozzina sull'acciottolato della piazza. “Sì, e ci pensi tu a riempirlo di salamelecchi. Non serve che lo faccia anche io.”
Alina sospirò ma lasciò perdere. Il passaggio di consegne nella Confraternita non aveva avuto un effetto positivo sull'umore del padre.
Non che lei stessa facesse nulla per migliorarlo. Era difficile tirar su di morale qualcuno quando il tuo stato d'animo non era dissimile. La ragazza remette il campanello della sacrestia, alzando gli occhi verso il cielo pumbleo. “Oggi potrebbe piovere di nuovo.”
Marian fece una smorfia, forse infastidito per essere stato interrotto nel suo flusso di pensieri.
“Tata, a che pensi?”
“Che non capisco cosa sta succedendo. E questo non mi piace.”
“Marina e il Sindaco non hanno fatto il loro lavoro, e ora Don Doriano si occuperà di sistemare le cose. Non andrà così?”
Marian scacciò quell'idea come se fosse una mosca, con un cenno della mano. “Se fosse così semplice, saremo già su un treno per Roma.”
Alina sentì una morsa allo stomaco. Se fosse stato davvero così semplice presto se ne sarebbe andata a Malacena. E ancora non l'aveva detto a Caterina.
Cate, che l'aveva cacciata da camera sua e che non rispondeva ai suoi messaggi, né privati, né sulla chat di Whatsapp che avevano con Pietro.
Era tutta colpa della succuba.
Ne sei sicura?
La porta della sacrestia si aprì, distogliendo la ragazza da quei pensieri poco piacevoli.
Stefano li accolse con un sorriso. “Benvenuti, avete fatto presto!”
“Un amico ci ha dato un passaggio,” spiegò Alina. Stefano si scostò per far passare la carrozzina e le si affiancò nel corridoio.
“Un bel cambiamento eh?”
Alina annuì. “È una fortuna che sia stata scoperta la verità … e un pericolo così grande.”
“Non hai mai incontrato tracce del regolo nelle tue cacce?”
La domanda spiazzò Alina. Non era posta con tono inquisitorio, tuttavia dietro le lenti degli occhiali lo sguardo del siciliano era acuto, in attesa.
Prima che potesse rispondere, il padre la anticipò. “Se mia figlia avesse trovato qualcosa ce ne staremo già occupando.”
“Naturalmente,” rispose Stefano senza scomporsi. “Lui e il lupomanaio non devono neanche condividere lo stesso territorio in effetti.”
“No,” ricordò Alina dai suoi studi. “Inoltre riteniamo sia un arrivo recente. Se fosse qui da molto, territorio in comune o meno, mi sarei imbattuta in qualche sua traccia.”
“Allora ti faremo fare gli straordinari,” scherzò Stefano e Alina si trovò a sorridere con lui. Era raro che nel suo lavoro avesse a che fare con dei coetanei o, genericamente, gente che non la trattasse dall'alto in basso in quanto giovane e donna.
Era piacevole.
“Non sono straordinari, è lavoro ordinario.”
Stefano annuì con l'aria di ritenerla una risposta ragionevole. “Hai mai avuto a che fare con draghi serpentiformi?”
“No, sopratutto con Mannari.”
Il ragazzo le scoccò un'occhiata preoccupata, e fece per dire qualcosa. Ci ripensò però, perché aprì loro la porta dello studio di Don Doriano senza dire altro.
Posso comunque occuparmene. Posso comunque ucciderlo.
Alina avrebbe voluto rispondergli così, ma sarebbe sembrata una difesa. E se c'era una cosa che suo padre le aveva insegnato era a non mostrare mai il fianco. Anche ad un alleato.
 
Era la prima volta che Alina e Marian entravano nell'ufficio di Don Doriano. Non era poi molto diverso dal resto della canonica: era una stanza dipinta a calce ormai scrostata, schedari metallici ai muri e una grande scrivania in legno di mogano che aveva visto giorni migliori e diverse successioni ecclesiastiche. Alle pareti vi erano appese diverse icone scurite dal tempo e una foto gigantesca del papa; nella cornice però si era insinuato dell'umido perché la carta era scolorita e in alcuni punti il volto del padre della Chiesa risultava deformato.
Alina si distrasse ad osservarla mentre il prete si alzava dalla lettura di un plico di documenti. Aveva la fronte imperlata come al solito di sudore nonostante un grande ventilatore metallico si muovesse a scatti nella sua direzione. “Sedetevi carissimi. Stefano, ci porti un caffè? Ormai sai come muoverti in cucina.”
“Subito padre,” rispose il siciliano prima di sparire dietro la porta.
Alina manovrò la sedia di Marian di fronte alla scrivania, mentre Don Doriano si sedeva di nuovo con un sospiro. “Un bravo giovane ...” considerò. “Dovrebbe essere in vacanza con i suoi amici ma si fa in quattro per colmare il vuoto lasciato da Marina e Carlo. Farà strada, come la nostra Alina.”
“Parliamo dei prossimi passi,” tagliò corto Marian. “Perché adesso ne abbiamo due di criptidi da eliminare.”
 
La riunione durò tutto il pomeriggio. A loro si era unito Stefano, che aveva mostrato foto scattate da cellulare ma stampate e ingrandite: ritraevano le impronte del regolo, le tracce della muta, le prede uccise. Aveva fatto un lavoro completo, segnalando su una mappa della Pro Loco dove ciascuna di essa fosse stata scattata, con tanto di data e ora. Alina si era chiesta quanto tempo avesse passato in mezzo agli alberi, chino tra la boscaglia, per una ricerca così meticolosa.
Era una fortuna che un sorvegliante si fosse unito alla spedizione della succuba e di suo fratello.
Quello se non altro aveva risparmiato loro giorni di appostamenti e ricerca.
Don Doriano poi aveva mostrato loro la scaglia della muta della criptide portata da Rosi Silvani. Era argentea e fragile come la crisalide di una cicala. Il prete l'aveva identificata senza ombra di dubbio come la pelle di muta di un serpe regolo, dopo confronti incrociati con i bestiari in suo possesso.
Avevano tracce, avevano prove e non restava loro che iniziare la caccia.
 
“E del lupomanaio che ne facciamo?” domandò Marian. “Quando andremo a torchiare quei due? Sanno chi è.”
Don Doriano assunse un'espressione pensierosa, passandosi le dita sulla corta barba del mento. “Dobbiamo procedere per priorità. Al plenilunio manca quasi un mese. Il serpe regolo invece è attivo adesso.”
“Questo è ininfluente!” ribatté Marian con durezza. “Sarà anche attivo una volta al mese, ma rimane un mostro trecentosessantacinque giorni l'anno. Adesso ha la forza di un essere umano e sarà più facile eliminarlo.”
Alina si mosse a disagio sulla sedia. Aveva sempre ucciso i Mannari in forma animale, nel picco della loro bestialità. L'idea di togliere la vita a un uomo o una donna che avrebbe dovuto probabilmente incrociare in paese non le piaceva.
 
Stefano chiuse i bestiari e li ripose su una delle scansie dell'ufficio. Radunò le foto e le inserì in una cartellina, con gesti metodici e sicuri. A differenza di Don Doriano non aveva una goccia di sudore addosso, nonostante indossasse una camicia e pantaloni lunghi. Gli cadevano con la perfezione di una stiratura ben fatta e non assomigliava in nulla ai ventenni che Alina conosceva.
Assomigliava a lei, e questo la riportava continuamente con gli occhi verso il ragazzo.
Si costrinse a dare attenzione alla conversazione.
“È vero che non è vietato uccidere un versipelle quando è nella sua forma umana,” disse Don Doriano. “Tuttavia dobbiamo fare attenzione a come procediamo. Un'eliminazione alla luce del sole potrebbe allertare le forze di polizia locale.”
“Chi, quel ragazzetto che pende dalle labbra della Silvani? Avrà un uniforme e saprà troppe cose, ma non mi preoccupa. Non se voi Sorveglianti farete il vostro lavoro … non saremo io e mia figlia a trovare una spiegazione alla morte di un mostro. Questo è compito delle tonache come te, prete.”
Don Doriano serrò appena le labbra. “Ed è quello che farò. Tuttavia, la priorità rimane il regolo.”
Marian sbatté un pugno sul bracciolo della sedia. “Ti ricordo chi comanda qui! Io e mia figlia!”
Stefano fece per intervenire, ma Don Doriano fece un leggero cenno al siciliano. “Marian, ho piena fiducia nel vostro operato … ma ti ricordo che la Confraternita Maggiore di Siena ha affidato a me questo territorio. Questo sorpassa anche il vostro potere. Ci occuperemo del Mannaro, ma è una questione che può essere affrontata in seguito. Adesso voglio che Alina si concentri sul serpe regolo … Stefano le farà da supporto.”
Alina trattenne il respiro perché il padre era ormai paonazzo e stringeva i pugni come se volesse mettere le mani al collo dell'altro uomo: l'ultima oncia di controllo che aveva gli era appena stata contestata.
Preoccupata, decise di intervenire. “Ho sempre lavorato da sola.”
Don Doriano le sorrise. “Le Confraternite in cui operate vengono sempre invitate alla collaborazione. Noi ve la stiamo offrendo. Stefano ha vissuto i questi boschi per settimane. Ritengo che ti sarà utile.”
Stefano chinò la testa come ad accettare il complimento. “Sono a tua disposizione Alina.”
Alina si voltò verso il padre. Aveva il volto di pietra. “Bene. Siamo d'accordo prete.”
Quella resa repentina stupì la ragazza, ma il padre non aggiunse altro. Si scambiarono le ultime battute e poi si accomiatarono. Stefano li prese di nuovo in consegna e li accompagnò alla porta.
“Sono sicuro che lavoreremo bene assieme,” la salutò.
Alina ricambiò con un cenno della testa, non sapendo bene cosa pensare. Avevano una nuova caccia, e questo era bene. Però Don Doriano li aveva deposti dal loro ruolo assoluto, e questo era un male.
Il padre rifiutò il suo aiuto e spinse con rabbia la carrozzina il più lontano possibile dalla chiesa, quasi al limita della piazza.
“Chiamo Nello per farci venire a prendere...” Alina tirò fuori il cellulare per comporre il numero dell'anziano.
Marian nel frattempo si accese una sigaretta: aveva gli occhi persi nel nulla e una profonda ruga che gli solcava le sopracciglia.
“Don Doriano ti ha messo quel ragazzetto tra i piedi per controllarti,” decretò dopo qualche minuto. Alina, che aveva aperto l'ombrello sopra di loro perché stava cadendo qualche goccia stanca, sospirò. “Allora cosa dovrei fare?”
“Quel che ti dicono di fare. Li hai sentiti. Siamo i loro cani da caccia,” ribatté sarcastico. “Io nel frattempo farò qualche chiamata a Roma. Non mi sono mai interessato granché del prete, mi sembrava il classico vaso di coccio tra vasi di ferro ...”
“Don Abbondio,” citò Alina. “Non credo che lo sia.”
“No, non lo è,” confermò il padre. “Per questo voglio capirci di più. Si incastra tutto troppo bene.”
“In che senso?”
Marian scosse la testa. “Tu fa' il tuo lavoro. Ci devono credere collaborativi ed è su di te che concentreranno le loro attenzioni. Allo storpio non si pensa mai … come se la storpiatura l'avessi nel cervello.”
“Non è così tata.”
“Va bene che lo pensino invece,” Marian gettò la sigaretta a terra. “Così è più facile scoprire la verità.”
 
***
 
Non era mai facile raccontare la verità.
La verità aveva raramente un risvolto piacevole, almeno nella personale esperienza di Roisin. Non era stato piacevole quando aveva scoperto la natura inaffidabile di suo padre, non era stato piacevole scoprire che sua madre condivideva con lui la tendenza a mentire per non coinvolgerla.
Peccato che per dritto o per rovescio la verità venga a galla. Sempre.
Stavolta era stata lei ad avere l'ingrato compito di aprire bocca. E aveva dovuto farlo con l'uomo che amava.
Era corsa all'appuntamento pomeridiano nella casina del cimitero; quella manciata di ore in cui il Bar chiudeva prima dell'ora dell'aperitivo e lei sognava nel verde screziato degli alberi. Tobia quando le aveva aperto la porta era rimasto sorpreso dal suo fiatone, ma non aveva fatto domande .
Non aveva continuato a farne quando gli aveva rivelato perché, cinque anni prima, aveva perso tutto.
Erano seduti al tavolo della cucina, con i due caramogi che facevano baccano sotto le sedie, tenuti in riga dall'occasionale soffio o zampata di Ermione. Da lontano si udiva lo sgocciolio del rubinetto rotto del bagno, dove la manolonga sonnecchiava nella vasca, coperta da un pesante strato d'acqua, fango ed erba.
Il bosco era diventato la casa, e la casa era diventata il bosco. Era un rifugio sicuro eppure in quel momento il silenzio soffocava Rosi, che si accese una sigaretta.
Tobia sospirò. “Marina ha fatto quello che doveva.”
“Sei impazzito?” sbottò pentendosene subito. “Intendevo dire...”
L'uomo le rivolse un'espressione blandamente divertita. “Beh, secondo l'opinione pubblica lo sono. Almeno adesso so perché è stato necessario farglielo credere...” fece una pausa, tamburellando con le dita sulla superficie del tavolo. “Non sono pazzo.”
“Certo che no!”
“Ho visto davvero un lupomanaio.”
“Sì, ma il punto ...”
“Il punto è che avevo ragione. Che quello che ho incontrato nel bosco era un mannaro, e che non è stato frutto della mia immaginazione.” Le sorrise di nuovo. “Questo mi fa sentire meglio.”
“Ma mia madre...”
“Non è stata Marina a mettermi nei guai. Sono io che sono corso in paese gridando la verità ai quattro venti … Marina semplicemente non mi ha aiutato.”
“E questo ti sembra giusto?!”
“Era divisa tra due fuochi. Se avesse validato le mie parole e non avesse cercato di occultare le tracce di Elia in questi anni, Elia sarebbe già morto.”
Rosi aprì la bocca per protestare, ma la richiuse. Era vero.
“Quindi secondo te ha fatto bene?”
Tobia sospirò, guardandole con quei suoi occhi buoni, calmi e del colore delle querce anziane. “Marina aveva una scelta da prendere. Ha preso quella che non ha ucciso nessuno … non la biasimo per averlo fatto.”
Rosi serrò le labbra. Non si sarebbe aspettata rabbia e recriminazioni da Tobia, tuttavia la pacatezza surreale con cui aveva accolto la notizia del suo sacrificio la frustrava. Aveva voglia di prendere spaccare qualcosa, ma si limitò ad un tiro secco di sigaretta.
Tobia allungò la mano sul tavolo per posarla sulla sua, contratta in un pugno. “Non sto dicendo che la perdono,” disse piano. “Sto dicendo che la capisco … e che sono contento di non avere la morte di un ragazzino sulla coscienza.”
“Ringraziamola allora,” si staccò malmostosa dal palato. “L'eminenza grigia di Malacena.”
“Dopo ieri pomeriggio non lo è più,” argomentò Tobia tirandosi su e schivando una capriola di Gobbo, che pareva trarre grande diletto dal cercare di farlo inciampare. “Adesso abbiamo Don Doriano.”
“Lui e Marian Radu. Non la vedo bene per Elia. Carlo farebbe meglio a farlo andare in vacanza a Roma o in qualche altro posto ancora più lontano...”
“Non potrà nasconderlo per sempre, le mani delle Confraternite arrivano ovunque,” osservò Tobia svitando la moka e cominciando a riempirla con attenzione. “Non ci vorrà molto perché si scopra la verità, ora che Carlo e Marina hanno le mani legate.”
Rosi guardò fuori dalla finestra; quella giornata si preannunciava come al solito grigia e afosa. La Montagnola non sembrava aver intenzione di scaricare altra acqua sulle loro teste, non per il momento ...
Era in attesa però.
“Secondo te Elia è pericoloso?” domandò giocherellando con il pacchetto di sigarette.
Tobia accese il gas con un cerino, raddrizzandosi e imitandola nelle sua contemplazione del bosco. “La bestia che ho incontrato cinque anni fa era spaventosa …” mormorò. “A volte me la sogno ancora la notte. Però in questi anni non ci sono state vittime. Ogni tanto ho incontrato qualche carcasse di cinghiale, ma in fondo dicono tutti che i lupi sono ritornati nel senese.”
“Non solo quelli a quanto pare.”
Tobia si strinse nelle spalle. “In qualche modo comunque l'hanno gestito fin'ora, e quando Elia non è trasformato, è poco più che un bulletto di paese, no?”
Rosi si allungò sul tavolo, seppellendo la testa tra le braccia. “Abbiamo fatto un casino?” domandò. Udì Tobia muoversi di fianco a lei, e poi le sue dita lunghe e forti le sfiorarono i capelli in una carezza.
“No,” rispose. “Il serpe regolo è controllato da un essere umano, è molto più pericoloso. Se non ce ne fossimo accorti a quest'ora poteva esserci scappato il morto.”
“Continuo ad avere l'impressione che stiamo giocando un gioco di cui non conosciamo le regole...”
“Per questo dobbiamo insistere nell'essere coinvolti.”
Rosi alzò la testa ed incontrò l'espressione determinata del vecchio amico. Si accorse che le era mancata da morire e la cosa venne notata, da come Tobia, dopo una lieve esitazione, si chinò per baciarla.
Rosi ricambiò prendendogli il viso tra le mani, sentendo pizzicare i polpastrelli per la barba.
Era bello.
“Giusto per essere chiari … puoi baciarmi tutte le volte che vuoi.”
“Lo farò,” sorrise Tobia. “Sei d'accordo con me allora?”
“Sulla parte del baciarci?”
“Anche,” rispose divertito. “E sull'essere coinvolti.”
Rosi sospirò. “Va bene… solo come? Don Doriano e Radu sono stati chiari nel volerci fuori dai piedi, ed Ettore concorda con loro.”
Tobia andò a spegnere il fornello, dato che la moka gorgogliava segnalando che il caffè era pronto. “Ad Ettore basterà raccontare di Elia … non lo vorrà morto più di quanto non lo vogliamo noi.”
“Però le regole sono chiare. I Mannari vanno eliminati.”
“E i serpi regoli non vanno portati in un territorio abitato. Qui nulla viene fatto secondo le regole, Roisin... tanto vale cominciare a farne di nostre.”
Rosi suo malgrado sentì un ghigno premere sulle labbra. “Hai qualche idea?”
“Salva l'essere umano che viene creduto un mostro pericoloso, trova l'essere umano che è, di fatto, il vero pericolo. Che dici?”
Rosi prese la tazzina bollente che l'altro le porgeva. Non amava particolarmente il caffè, ma quello di Tobia l'aveva sempre bevuto volentieri. Era l'unico che lo preparasse come piaceva a lei.
“Mi piacciono queste regole.”
 
***
 
 

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Capitolo 16
*** 16 ***


16.
 
Bice de' Silvani vive nel bosco. La società l'ha abbandonata, e lei ha abbandonato la società.
Le vesti sono stracciate, i suoi capelli sono pieni di foglie e polvere. È tornata quella che avrebbe dovuto essere: una figlia del bosco. 
Sua madre è vissuta a cavallo dei due mondi, ed ha preteso che le sue figlie facessero come lei, ma ora Bice conosce la verità: non c'è altra strada per estirpare il mostro alieno che occupa il suo territorio se non quella di perdersi tra gli alberi.
Bice arriva fino alle grotte: sono i lumicini a guidarla nel buio della notte. Le galleggiano attorno in una danza lunare.
Il mostro non c'è: non ne sente la puzza e quindi Bice si infila in uno dei pertugi, che sgocciola acqua e odora di zolfo. Passa le mani lungo le pareti della grotta, e sparisce nel buio ancora più denso della collina, mentre i lumicini rimangono fuori. Loro non possono proseguire. Lei è fatta di carne e volontà, ed è anche figlia degli uomini … lei può farlo.
Bice si addentra seguendo il cieco istinto. Sa che la tana del mostro è vicino al castello, vicino al padrone.
Benedetto.
Dovrà uccidere anche lui. È Benedetto ad aver chiamato lì il grande serpe, ad averlo invitato a passare dall'Altra Parte.
L’Orbis Alius è terra di demoni e angeli, non è fatta per i cristiani. Aderisce al loro mondo come una seconda pelle e in alcuni punti vi sono ferite che, una volta sanguinanti possono far fuoriuscire … prodigi. I lumicini, le processioni di anime bianche, lo spirito del bosco: vengono tutti da lì. 
Anche il grande serpe, ma il grande serpe non si è abituato al loro mondo. È stato violentemente portato lì e altrettanto violentemente dovrà andarsene.
Bice striscia nelle profondità della collina e le spalle nude vengono graffiate dalla pietra. Il passaggio è stretto, il petto le si comprime, ma va avanti. 
Deve trovare il mostro e ucciderlo. Non trova una falla nel suo piano, perché falle non ve ne sono. Alternative, non ve ne sono.
Arriva ad un grande spiazzo. Il cunicolo si allarga, fino a quasi diventare una stanza. Pinnacoli di pietra si innalzano dal basso verso l'alto e viceversa, e Bice vi sbatte contro con un sussulto di dolore.
In quel buio non vede.
Poi un bagliore alle sue spalle. Bice si acquatta in quella foresta di pietra, tanto simile eppure diversa dal suo bosco.
Potrebbe essere la gente del castello venuta a cercarla. Potrebbe essere Benedetto. La ragazza  ha con sé la scarsella, presa di fretta quando è uscita a cercare Fortunato. Dentro vi è il coltello con cui taglia erbe e radici: non è molto affilato ma può conficcarsi nel punto più tenero della gola di un uomo.
Qualcuno è entrato nella grotta; forse l'ha seguita, ma ha camminato più spedito perché ha con sé una fiaccola, i cui bagliori arancioni illuminano l’ambiente, allungando le ombre, confondendole.
Bice si sposta per evitare di essere scoperta. Non ha una buona visuale, gli occhi le dolgono per la luce improvvisa, e sa solo che deve mettere la persona fuori gioco prima che ricambi il favore.
Si getta sull’intruso con un grido e quella cade come un sacco. La fiaccola cade a terra e rotola vicino a loro. L’intruso emette un verso di dolore. E’ una donna. 
Ha aggredito sua sorella Lietta. Bice si specchia nelle iridi scure e spaventate della ragazzina.
“Beatrice! Sono io! Fermati!” 
Beatrice si rialza di scatto, stringendo il coltello in pugno. Scuote la testa, si schiarisce la mente e le tende la mano, che l'altra afferra tirandosi in piedi. “Pensavo fossi Benedetto.”
“Non lo sono,” risponde Lietta chinandosi a prendere la fiaccola. “Stavo cercando te!” 
“Non tornerò a casa.”
Lietta alla luce della fiaccola ha il viso stanco. Sembrava aver pianto. “Lo so, non sono qui per convincerti a tornare.”
“Allora perché?”
“Avevi ragione... Benedetto è dietro a tutto.” La voce di Lietta trema. “Ha ammesso di aver portato qui il mostro e di aver ucciso Fortunato. Rideva … rideva mentre lo diceva. Perdonami, avrei dovuto darti retta!”
Bice abbraccia il corpo magro della sorella scosso dai singhiozzi, e ne respira l'odore familiare. Controlla il pianto, perché non è il momento. “Sono felice che tu abbia finalmente aperto gli occhi, ma devi tornare a casa… penserò io a sistemare lui e il grande serpe.”
“Come?”
“Ancora non lo so. Devo prima trovarli.”
“Forse dobbiamo capirlo e poi trovarli,” suggerisce Lietta incerta. Si stacca. “Vuoi vendicarti, ma questo non basta. Abbiamo bisogno di capire come.”
“Il bosco è con me.”
“Il bosco non può aiutarci se lo cerchiamo qui sotto. Io ti darò una mano, ma dobbiamo uscire di qui. Qui siamo solo due donne e siamo in pericolo.”
Quello che dice Lietta raggiunge le orecchie di Beatrice. La sua sorellina ha ragione. “Da quando hai cervello?”
Lietta sorride tra le lacrime. “Ne ho sempre avuto più di te. Lo diceva anche la mamma.”
“Questa cosa non me la ricordo.” Bice si guarda attorno. “Usciamo e ragioniamo sul da farsi.”
Mentre tornano indietro si prendono per mano. 
 
All'ingresso, gli occhi di Bice vengono catturati da un simbolo scavato nella parete. La fiaccola lo illumina, portandone in evidenza le scanalature anomale. Senza la luce di una fiaccola non avrebbe potuto notarlo.
Bice si ferma e lo traccia con le dita. Ritrae una porta, al cui interno vi è la raffigurazione cruda di un occhio spalancato. Sembra fatto di recente. 
“Cosa stai guardando?” domanda Lietta avvicinando la luce. 
“Un simbolo. Forse l'ha inciso Benedetto. L'hai mai visto?”
Lietta cerca di ricordare e poi annuisce. “Sì! Nei libri che legge. Io non so leggere, ma questo simbolo me lo ricordo. Che vuol dire?”
Bice fa una smorfia. “Non ne ho idea, ma non importa. Non dobbiamo preoccuparci dei simboli, ma delle cose vere.”
 
***
 
I went down to the river to wash away the things I've done
And all the names I've traced into my skin since you've been gone
(Hangman hands – Flower Face)
 
“Assolutamente no.”
Rosi e Tobia si scambiarono un'occhiata che la diceva lunga su quanto poco credessero alla presa di posizione del Maresciallo Mangiola. 
I tre amici erano seduti ad uno dei tavolini esterni del Bar,  e stavano facendo colazione in un mattino umido e pesante. Il napoletano bevve un sorso di caffè lasciando passare qualche attimo, prima di ribadire: “Non se ne parla.”
“Non vogliamo tornare nel bosco, vogliamo solo capire che sta succedendo!” argomentò Rosi.  
“Possiamo farlo rimanendo in paese, al sicuro,” le diede man forte Tobia. Ora che i due si erano riconciliati erano una macchina da guerra, allineata persino nel darsi il turno a parlare.
Doveva essere stato un incubo per le forze di polizia locale averli tra i piedi quando erano ragazzini, pensò Ettore, passandosi una mano tra i capelli. 
Sapeva di aver già perso in partenza, ma doveva quantomeno mantenere una parvenza di ragionevolezza. Almeno lui. “E che domande volete fare?”
“Vogliamo,” lo corresse Rosi. “O vuoi abbandonare l’indagine?”
Ettore esitò. Una parte di sé conosceva la risposta; ora che era stato messo in panchina da un'altra forza dell'Ordine non c'era molto che potesse fare, a parte sperare che i colleghi chiudessero rapidamente quella storia.
Un adolescente, un uomo in carrozzina e un prete. I miei colleghi. Come no. 
Ettore si mosse a disagio sulla sedia di plastica calda di sole. Un'altra parte di sé fremeva di insoddisfazione. Era quella parte che non gli aveva fatto chiudere occhio la notte precedente, e quelle ancora prima. Se il serpe regolo era controllato da una persona, chi era quella persona?
E la Confraternita l'avrebbe attivamente cercata o si sarebbe limitata ad eliminare il problema senza risalire alla fonte?
Così non avrebbe funzionato. Potevi mettere dentro uno spacciatore, ma se non trovavi i suoi capi ne sarebbe arrivato un altro subito dopo e poi un altro ancora. 
“Ettore ha le mani legate,” intervenne Tobia. “La minaccia del Sindaco non era campata in aria, vero?”
“Temo di no. A Napoli … ho usato le mie capacità e forse nel farlo ho pestato i piedi a qualcuno.”
“Eri un inconsapevole, e stavi comunque facendo del bene!” ribatté Rosi indignata. “Se non conosci le regole non ha senso punirti per averle infrante.”
“Non penso funzioni proprio così, Rosina...” sorrise Ettore, commosso da quell'afflato di genuina indignazione. “Però avete ragione, non mi è mai piaciuto abbandonare un'indagine a metà.”
Tobia gli rivolse un'occhiata soddisfatta. “Dobbiamo ripartire da dove ci eravamo fermati allora. Dalla ricerca di Matilde. Hanno strappato le pagine che parlavano del serpe regolo e del sistema di grotte in cui si spostava. Sono convinto che lo abbiano fatto per studiarle, per ripetere la storia.”
Ettore ci rifletté. “Già, a proposito della copia in biblioteca … non sarebbe bastato tenersi il libro?”
Rosi fece un sorrisetto, gemello con quello di Tobia. “Non si può. Una volta scaduto il termine di prestito il libro torna in biblioteca, che la persona che l'ha preso voglia o meno. Se lo riprende.”
“Chi se lo ... ah, il fantasma,” Ettore ispirò, “In che senso scusate?”
“Nel senso che il libro da casa tua torna alla biblioteca.”
Tobia annuì come se fosse una considerazione perfettamente normale. “Poteva funzionare solo separando le pagine dal libro. Matilde non può fisicamente controllare l’integrità dei libri, può solo riprenderne possesso. Sono le regole.”
“Non bastava allora fare delle fotocopie?”
“Forse nell'intenzione di chi l'ha preso c'era quella di rendere inaccessibile quelle informazioni a chiunque tranne che a lui,” osservò Rosi. “Non poteva sapere che c'erano altre copie in giro.”
“Quindi questo esclude tua madre,” disse Ettore. Rosi, dopo essersi irrigidita alla menzione della donna, sciolse in un'espressione di sollievo.
“Sì, direi di sì.” Tobia le mise una mano sulla spalla e la ragazza la strinse nella sua.
“Lei sa delle copie che abbiamo in casa. Non avrebbe avuto senso per lei vandalizzare quella in biblioteca.” 
“Dobbiamo guardare il registro dei prestiti con più attenzione allora. Maddalena è stata l'ultima a prendere la ricerca, e noi l'abbiamo avuta da lei, ma qualcun’altro l’ha presa prima di lei,” ragionò ad alta voce Ettore. Si passò una mano sul mento ben rasato. “Che ne pensate di Maddalena?”
Rosi asciugò con lo straccio che aveva sempre legato in vita una macchia sul tavolino. “Non penso che sia coinvolta…” commentò con aria meditabonda. “È sempre nel posto sbagliato nel momento sbagliato, ma … non lo so, non credo c’entri qualcosa con questa storia.” Aggrottò le sopracciglia, colta da un dubbio. “Pensate che ci stia ammaliando per non farci sospettare di lei?”
Tobia si strinse nelle spalle. “Se lo fa, sta facendo un lavoro pessimo. Perché non passo la giornata a pensare a lei…” e le rivolse un’occhiata che dava ad intendere come volesse continuare la frase.
… ma a pensare a te.
A Rosi scottarono le guance e rifilò una gomitata all’uomo, mentre Ettore ridacchiava.
“Quanto siete carini…” li prese per il culo, “ Però, scherzi a parte, teniamola comunque d'occhio finché non abbiamo altri sospetti.”
Sospetti?” gli fece eco Rosi imitando il suo tono da presa in giro. “Quindi stiamo di nuovo indagando?”
Ettore alzò gli occhi al cielo mentre Tobia ridacchiava. “Ja, Rosì, sei tremenda! Non stiamo indagando, ci stiamo tenendo informati.”
“Come no. Piuttosto, non abbiamo tempo da perdere. Chi va in biblioteca?”
Tobia si alzò in piedi. “Quello che vede i fantasmi direi.” 
 
***
 
Caterina ce l'aveva con lei.
Quel pensiero si era posato come un panno umido e soffocante nella testa di Maddalena. La toscana era chiusa nella propria stanza dalla sera prima e non rispondeva ai suoi messaggi.
“Scusa, ma perché non vai a bussarle?” le domandò Michele. 
Maddalena fece una smorfia. “Perché magari sta arriposando e le scasso la minchia?”
Erano seduti all’interno del Bar, con le pale del ventilatore sopra le loro teste che tentavano sferragliando di dare refrigerio. Stefano era andato a fare una passeggiata e loro stavano facendo colazione. O meglio, Michele si stava ingozzando, lei non era riuscita a toccare nulla. Aveva lo stomaco serrato.
Michele si strinse nelle spalle. “Se dorme non ti risponde e la finisci lì. Se invece è sveglia e ti sei messa in testa che è arrabbiata cu'tìa le potrai chiedere se è vero.”
Maddalena lanciò un’occhiata fuori dal locale: nuvole scure, cariche di pioggia, stazionavano sul paese senza dar segno di spostarsi.
La Montagnola ti avverte quando c'è un pericolo. 
Michele le posò una mano sulla sua, distogliendola da quei pensieri. “Malù... Cate ti piace assai, vero?”
Maddalena avvampò incapace di smentire. Sarebbe comunque servito a poco.  “Sì,” mormorò, “non mi sono mai sentita accussì … ho scanto di sbagliare tutto.”
“Succede quando ci si innamora,” annuì Michele con una meravigliosa, noncurante scrollata di spalle. “Però basta essere onesti. Così non si sbaglia mai.”
Allora sbaglio sempre.
Maddalena percepì un peso affondare nello stomaco: stava nascondendo a Cate tante cose. La sua natura, il modo in cui doveva nutrirsi … e il giorno prima aveva visto anche lei l'ombra uscire dal bosco, quella che avevano investito. Era il serpe regolo. 
Non avrebbe mai potuto essere sincera con lei. 
Cercò di allontanare quel pensiero, concentrandosi su urgenze più pressanti. “Stefano sa che Caterina mi piace?”  
“No,” Michele appoggiò la tazza di cappuccino che tracimò parte del contenuto sul tavolo. Schioccò la lingua scontento, pulendosi le mani con un fazzolettino. “... minchia se si sente la mancanza di Rosi. Tea proprio non ha la mano!”
“Ste davvero non lo sa?” lo incalzò. 
“Io non gli ho detto niente … e manco tu a quanto pare,” Michele occhieggiò il suo cornetto alla crema appena toccato e dopo un suo cenno di assenso se lo ficcò in bocca soddisfatto. “Queste cose tue sono, Malù … tu ce le devi dire, non te lo dobbiamo tirare fuori noi.”
“Veramente è quello che hai appena fatto.”
“Picchì ne avevi bisogno!” rise Michele. “Tu e Cate vi dovete chiare, altrimenti vi guasterete gli ultimi giorni di vacanza… e sarebbe un peccato, no?”
Maddalena sentì di nuovo una vampata di calore salirle fino al viso. Si alzò. “Vado a parlarle,” borbottò mentre l'altro allargava il sorriso. “Pulisciti la maglietta, che hai fatto un casino,” e lo piantò lì nel continuo rombo dei tuoni. 
 
Maddalena salì le scale ma si fermò di fronte alla porta di Caterina; dall'interno proveniva della musica, segno che la ragazza era sveglia. 
 
Amore mio la logica non è sincera
Chissà se amare è una cosa vera 
 
Attese, sperando che il gatto dell'altra volta si presentasse dandole così una scusa per entrare, ma questo non arrivò. Era da sola stavolta. 
Aspirando aria e coraggio bussò. “Cate, Malù sono … posso entrare?”
Ci fu una lunga pausa dall'altra parte: poi la musica venne spenta e la voce di Caterina la invitò ad entrare.
 
Caterina era stesa a letto, la gamba offesa sollevata da un paio di cuscini. Quando la vide entrare distolse lo sguardo dallo schermo del telefono e abbozzò un sorriso, una pallida imitazione di quelli che le rivolgeva di solito. “Ohi,” la salutò.
“Ehi…” Maddalena, non avendo avuto indicazioni contrarie, si avvicinò e notò che la gamba aveva una fasciatura diversa dalla sera prima. Fatta sempre di garze, ma più spessa ed emanava un forte odore d’erba e alcool. “Come va?”
“Mamma m’ha messo uno dei suoi intrugli. Il dolore è quasi andato via e mi sembra che sia anche meno gonfia.”
Caterina non le sorrideva e questa era solo l’ennesima riprova che qualcosa non andava tra di loro. Avevamo risolto, ma poi è arrivata la Radu e dopo non ha più voluto avere nessuno in camera per tutta la sera.
“Sì, sembra anche a me che la gamba stia meglio…” disse per non rimanere in silenzio, giocherellando con il braccialetto che aveva al polso. Glielo aveva regalato l’altra ragazza, quando erano andate al mare, togliendolo all’infinita collezione che aveva ai polsi. “Pensi di scendere?”
Caterina abbassò lo sguardo sul telefono, come se da esso potesse provenire una risposta. “Boh … forse.”
“Stai ancora male?”
“No, no … è che non ho molta voglia di compagnia, tutto qua.”
“Allora … se vuoi … posso stare io qui con te.”
Caterina di nuovo non rispose e il peso che Maddalena sentiva nello stomaco si fece ancora più tangibile. 
“Cate, che succede?” 
L’altra si mosse a disagio sui cuscini. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, ma poi rimase in ostinato silenzio.
“Non ti leggo nella mente!” sbottò Maddalena, mentre l’ansia si tramutava in irritazione. “Ho capito che c’è qualcosa che non va, e che non mi vuoi qui, ma non capisco picchì!” 
Cate le scoccò un’occhiata infastidita. “Davvero non lo sai?”
“No!” 
Maddalena si sedette sul ciglio del letto, mettendole una mano sulla gamba sana, sentendola tiepida al tatto. Le mancava toccare Caterina, da morire: essere abbracciata da lei, tenerla per mano, baciarla. Era come quando sentiva i morsi di quella fame … era un’urgenza meno pressante, certo, ma comunque dolorosa. “Ciatu meu…” mormorò. “Pi’ favori parlami. Se ho sbagliato qualcosa posso rimediare.”
“Perché esci di notte con Stefano?”
Maddalena ritirò la mano. Le venne da vomitare.
Sa tutto. Sa che esco. Non posso rimediare a questo.
“Alina mi ha detto che uscite e andate fuori dal paese … da soli.” Il tono di Caterina era incerto. Dietro la rabbia, c’era anche confusione. Forse speranza che vi fosse una spiegazione innocente.
Non c’era, e Maddalena non poteva inventarsene una. “Andiamo in città,” rispose monocorde. “A Siena o a Firenze. Facciamo un giro.”
“E perché non invitate me e gli altri?” 
“E’ una cosa nostra.”
Caterina si morse le labbra. “Perché non me l’hai detto?”
“Perché non è importante,” la caccia, i suoi donatori, quel sesso sterile e utilitario non era importante. Era necessario, ma non era importante. Caterina lo era, più di qualunque altra persona avesse conosciuto. 
Però non serviva comunque a niente dirselo. 
“Sono la tua ragazza! Se non mi dici dove vai…”
“Quello che faccio quando non sono con te sono fatti miei.”
A questo Caterina sgranò gli occhi, quasi l’avesse pugnalata. Era la cosa sbagliata da dire, quella peggiore dalla reazione e Maddalena volle essersi mangiata la lingua.
“Non voglio stare con una persona che mi nasconde parti della sua vita!” 
Come pensavi potesse andare a finire? 
Era stata un’idiota a pensare che Caterina non avrebbe mai scoperto la sua doppia vita. Ancora non sapeva tutto, ma bastava il sospetto. Bastava sempre il sospetto per quelle come lei.
“Mi vuoi lasciare?” Maddalena si odiò per il tono tremante che le uscì, per le lacrime impotenti che le tremavano sulle ciglia. 
Potresti ammaliarla. Potresti convincerla a rimanere con te.
Alzò lo sguardo: sarebbe stato facile, perché Caterina non voleva davvero lasciarla, no? Era semplicemente arrabbiata. 
Sarebbe stato semplice e avrebbe risolto tutto … 
Appena lo ebbe pensato Maddalena si sentì un mostro: non poteva fare una cosa del genere alla ragazza che amava! Non poteva costringerla a stare con lei.
Caterina si asciugò due lacrime che le erano rotolate lungo le guance. “Non … non lo so. Cosa fai quando sei con Ste?”
Maddalena chinò la testa, inspirando ed espirando. “Non te lo posso dire.”
“Perché?!”
“Perché non ti piacerebbe.”
“Allora non voglio stare con te!”
Maddalena inghiottì il fiotto di dolore che le stringeva il petto come una morsa. L’ultima cosa che voleva era avere un attacco di panico di fronte all’altra. Non in quel momento, non quando Caterina la guardava con rabbia e dolore stampati in viso.
La odiava e aveva tutte le ragioni del mondo per farlo. 
Come pensavi potesse andare a finire? Sei una succuba. Non hai diritto a innamorarti e non lo avrai mai. 
Maddalena si alzò in piedi. “Va bene,” si udì dire da molto lontano. “Come vuoi…” ignorò l’espressione incredula dell’altra: forse si era aspettata che provasse a contestare quella decisione, a lottare.
Non poteva lottare quando non riusciva a respirare. Maddalena uscì fuori dalla stanza lasciando la porta spalancata, ignorando Caterina che le stava gridando di tornare indietro. Corse giù dalle scale, nella piazza e poi si infilò nei vicoli ombrosi del paese. Si fermò solo quando fu sola, quando fu assolutamente sicura che non c’era nessuno nei paraggi e che non era stata seguita. 
Si accasciò a terra e scoppiò a piangere.
 
***
 
La biblioteca accolse Tobia in un silenzio denso di polvere e lame di luce proiettate dalle persiane.
Tobia aveva passato infinite ore in quel piccolo mondo recluso. Assieme a Rosi e poi da solo. Non l’avevano mai spaventato gli improvvisi refoli d’aria, le ombre femminili che danzavano sulle pareti o il rumore costante di passi. Gli sarebbe piaciuto conoscere Matilde da viva.
Tobia si aggirò tra le scansie alte fino al soffitto, sfiorando con le dita le costole dei libri, scolorite dal tempo ma ben tenute. Sfilò un volume panciuto e dalla copertina celeste, raffigurante un drago scarlatto steso su una pila di monete d’oro.
“Lo hai preso in prestito tante volte…” disse la voce della bibliotecaria solleticandogli le orecchie.
Tobia sorrise. "Perché è il mio preferito.”
Si voltò e Matilde era lì, una ragazza snella dai capelli color fuoco stretti in una crocchia severa, vispi occhi celesti e vestiti anni ‘50. Non era un ricordo sbiadito come i fantasmi del cimitero: bibliotecaria e biblioteca erano un’unica entità. Un luogo infestato che aveva scelto il proprio guardiano e lo manifestava ogni qual volta ve n’era bisogno.
Principalmente, di giovedì.
“Vuoi prenderlo in prestito?” gli domandò.
“Lo rileggerò volentieri, dov’è il registro?”
Matilde indicò con un cenno la saletta d’ingresso e nel momento in cui gli occhi di Tobia seguirono la direzione indicata dalla mano, la ragazza scomparve. 
Tobia la trovò dietro il bancone dell’accettazione con un grande quaderno aperto davanti, in attesa silenziosa. Si avvicinò e prese la penna per appuntare i dati del prestito. Nel farlo scorse la lista dei nomi prima del suo: Maddalena Russo e poi …
Tobia notò una sequela di prestiti tutti richiesti dalla stessa persona e per i libri più svariati: dalla cucina alla narrativa. Si firmava con una sigla: B.S.
“Ci si può firmare così?” chiese. 
Matilde sorrise. “Sembra di sì.”
“Chi è?”
“Non lo so.” 
Non aveva senso: l’entità che una volta era stata Matilde Silvani aveva il compito di sorvegliare i libri. Avrebbe dovuto conoscere il nome completo.
“Non sai chi è venuto qui prima di Maddalena?”
“Esatto. Il registro però dice che è venuto più volte e tutti i libri sono stati restituiti. Vuoi vederli?”
“Sì, grazie.”
Matilde snocciolò le posizioni della mezza dozzina di titoli che il misterioso lettore aveva selezionato e Tobia si appuntò mentalmente le informazioni. Tornò indietro, tra gli scaffali, e trovò il primo. Era un libro di cucina regionale; lo sfogliò … mancavano delle pagine. Erano strappate, come quelle della ricerca di Matilde. Trovò il secondo, un romanzo d’amore: stessa cosa.
Non poteva essere una coincidenza: B.S. era la persona che aveva vandalizzato la ricerca di Matilde e si era presa i capitoli sul castello e sul regolo. 
Centro.
Tobia passò al terzo libro e anche lì, una consistente manciata di pagine era stata rimossa. Un refolo di aria fredda lo avvertì che Matilde era dietro di lui. “Da quanto sta andando avanti?” le domandò.  
“Da due anni,” rispose lo spirito passandogli a fianco, in un frusciare di cotone e polvere. Gli occhi azzurri riflettevano una luce incuriosita. “Non si trattano così i libri, specialmente se non appartengono a te, ma alla comunità … non credi?”
“Hai ragione,” convenne Tobia. “Mancano intere pagine …”
E sembravano strappate senza un criterio logico.
… una prova. Stava facendo una prova usando libri qualunque.
“Ci ha anche scritto sopra se è per questo.”
“Dove?” Tobia sfogliò rapidamente il terzo libro, una vetusta versione di Gian Burrasca dalla copertina verde opaca. Non c’erano segni di penna o matita. 
“In fondo,” gli suggerì Matilde e le pagine vennero voltate in un fruscio inanimato. Tobia portò il libro sotto una lama di luce per guardarlo meglio e finalmente lo notò: nel retro copertina c’era qualcosa, ma non era scritto con l’inchiostro … era come se qualcuno avesse preso una penna scarica e avesse provato a scrivere premendo sulla carta. Era un simbolo: una porta ad arco quadrato, al cui interno vi era la raffigurazione stilizzata di un occhio.
Tobia lo mostrò allo spirito, che annuì. “E’ questo a non farmi ricordare. Ne sono sicura.”
Magia? Ha usato la magia?
Tobia chiuse il libro di scatto, come se scottasse. L’Altrove era un mondo soprannaturale, ma la magia non era come quella che si immaginava il Chiaro. Non erano scintille e palle di fuoco, non era energia … Erano piuttosto mutazioni silenziose che davano effetti lenti e a volte impercettibili. Era una tisana che ti guariva da una polmonite pervicace, era il Beffardello che si mutava in fringuello librandosi in aria con una risata. Era un sussurro, non un pugno.
La magia generata dall’Altrove aveva le sue regole. E una di quelle era che non si violava ciò che apparteneva ai morti. Mai. 
Quella magia era opera umana. 
“Posso prendere in prestito anche questo?”
 
Tobia percorse la strada che dal paese portava al cimitero con una paura strisciante che lo fece voltare ad ogni rumore alle sue spalle, per quanto familiare.
C’era il regolo, che sovvertiva l’ordine della fauna del luogo. C’era qualcuno in grado di sovvertire le regole di una biblioteca infestata.
Non andava bene. Per niente. Aprì la porta di casa e se la chiuse dietro a doppia mandata. Si precipitò nella sua stanza; dovette però frenare l’agitazione quando vide la figura di Rosi stesa nel letto. 
Giusto … è venuta a sognare.
La ragazza dormiva supina, il petto che si alzava ed abbassava a ritmo regolare, un leggero velo di sudore, segnale che quel sogno era impegnativo.
Sta ricordando.
Le fece una carezza sulla fronte. Poi si sedette alla scrivania, tirando fuori da un cassetto la ricerca di Matilde, la copia dalle pagine strappate. In fondo, sul retro della copertina, c’era lo stesso simbolo. Non l’aveva notato finché non era stato lo spirito della biblioteca ad indicarglielo. 
… L’ha tracciato un mago? Abbiamo a che fare con un mago?
Li aveva studiati sui Bestiari, ma sapeva che si riunivano in congreghe ormai sparute, e non ve n’era nessuna a Malacena.  
Un leggero movimento dal letto segnalò che Rosi si era svegliata. La ragazza si tirò a sedere stropicciandosi gli occhi. “Che è quella faccia?” gli domandò.
Tobia non sapeva come spiegarlo in modo che avesse senso. Così decise di mostrarlo: prese un foglio di carta da uno dei cassetti, una matita, e disegnò il simbolo a tutta pagina. Poi lo girò verso Rosi. “Questo era su tutti i libri che un certo B.S. ha preso in prestito … l’ultimo era la ricerca di Matilde. A tutti mancano delle pagine.”
La ragazza, invece che fare domande, sbiancò. Fu subito in piedi e gli strappò il foglio di mano. “L’ho già visto,” disse.
“Dove?”
“Adesso. In sogno. Benedetto l’aveva scolpito su una delle porte per l’Inferno.”
Si guardarono muti: fuori le cicale frinivano impazzite e un lontano rombo di tuono minacciava pioggia. Non pioveva da giorni e l’aria era elettrica di attesa e frustrazione. 
“B.S … Benedetto?” disse Rosi interpretando il pensiero di entrambi. “Benedetto è ancora vivo?” 
 
***

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Capitolo 17
*** 17. ***


17.
 
Bice ha un appuntamento con Lietta alle fonti. All’ora terza le fonti sono deserte, bruciate dal sole, l’acqua che si riflette in mille bagliori.
Bice beve dal rocchio d’acqua a piene mani, bagnandosi le vesti ormai ridotte a stracci. E’ bastata una settimana perché il bosco l’abbia ridotta in una creatura selvatica.
Non le interessa. Se è tornata nel Clarus è solo per sua sorella: per chiederle degli spostamenti di Benedetto e per assicurarsi che stia bene.
Attende, ma Lietta non arriva. Il sole continua la sua corsa nel cielo e presto le donne torneranno alla fonte. 
Beatrice non può attendere, ma l’ansia le rode lo stomaco come un topo farebbe con un sacco di grano. 
Perché Lietta non è venuta all’appuntamento? 
Bice si decide; si allontana dalle fonti e scivola tra le ombre degli alberi, al limitare della linea del bosco. Entra in paese.
La prima cosa che nota è che il paese è … vuoto. Non vi sono persone lungo la via principale, la polvere data dai tanti passaggi di uomini e bestie non è sollevata, tutto è immobile.
Per un attimo Beatrice si chiede se non stia sognando. Si nasconde tra le case, perché non vuole farsi vedere, ma non serve. Non c’è nessuno.
Arriva all’aia di casa senza aver incontrato un cristiano; le finestre sono sbarrate. Da dentro le case sente il vociare sommesso, rumori. Sente i versi delle bestie nelle stalle. Il paese non è abbandonato, ma si è nascosto dietro mura, recinti, granai. 
Bice entra nell’aia, in cui si allungano la penombra del pomeriggio.  
Cosa sta accadendo?
È un rumore forte alla sua destra a riscuoterla. Un movimento dentro la porcilaia le fa capire che c’è qualcuno. Spera in Lietta, ma quando apre la porticina incrostata di fango e paglia è Duccio che trova.
Il ragazzo ha la pala sollevata di fronte a sé, pronto a colpire. Quando la vede sgrana gli occhi e abbassa subito l’arma improvvisata.
“Beatrice!” esclama. “Che spavento! Non pensavo fossi tu!” 
“Che sta succedendo?” dice alzando le mani, ma non serve, Duccio non è spaventato da lei. Sembra anzi sollevato.
Considerando che non è esattamente nelle grazie dei suoi compaesani si chiede di cosa allora abbia paura il ragazzo.
“Il lupo demonio ha colpito ancora,” mormora Duccio, come se avesse paura di svegliare qualcosa. “Ormai non si esce neppure il giorno.”
“Ha colpito col sole?”
Duccio scuote la testa. “No, ma stanno sparendo persone dalle case. Viene a prenderti,” dice con gli occhi enormi di paura. “Chi non è in chiesa a pregare è chiuso dentro casa, ma io … i maiali hanno bisogno di mangiare e gli altri han troppa paura per uscire.”
Bice fa un passo in avanti e mettendogli una mano sulla spalla. Il ragazzo non si scosta. Tira un sospiro e si rilassa.
“Pensavo fossi il lupo…”
Non è lei il problema del paese adesso.
“Aspettavo Lietta alle fonti. Non è venuta. Sai dov’è?”
Duccio alle sue parole impallidisce. Ha realizzato qualcosa e il cuore di Bice si stringe in una morsa.
“Non lo sai?” le dice con un filo di voce. “Lietta è una delle persone che sono state prese.” 
 
*** 
 
Non avrai quel che cerchi, in mani d’uomo non deve andar. 
Ai noi spiriti appartiene, dilaniato tu finirai.
(Frammento di Oscurità, Barad Guldur) 

 
Rosi tornò in paese all’alba. Non era riuscita a lasciare casa di Tobia dopo la rivelazione trovata nel libro di Matilde. 
Benedetto è ancora vivo?
Non era possibile. Per quanto sembrasse appartenere all’Altrove era comunque umano, e doveva essere morto. Come tutti.
Secondo Tobia però l’uomo era qualcosa di più. Era un mago.
 
“... lo sai quanto sono rari? Quelli veri intendo, non i ciarlatani da televendita!”
“Quello che è stato fatto su questo libro va oltre il soprannaturale che conosciamo. Ha mandato in confusione lo spirito della biblioteca. Matilde sa sempre chi tocca i suoi libri, ma non ha idea di chi ha disegnato questo simbolo.”
 
Róisín non sapeva cosa fare: avrebbe voluto parlare con sua madre, ma Marina era stata allontanata dalla Confraternita. Non poteva rischiare di trascinare una persona già compromessa in una situazione che avrebbe potuto definitivamente metterla nei guai.
Era sua madre. Doveva proteggerla.
La donna si fermò di fronte alla porta nord del paese. “Grazie per avermi accompagnato,” disse voltandosi verso il compagno che era qualche passo dietro a lei.
Tobia si strinse nelle spalle. “Non ti lascio andare in giro da sola.”
“Il regolo di giorno non è un problema…”
“Forse avevo solo voglia di rimanere ancora con te.”
Róisín arrossì. Il paese alle loro spalle era ancora addormentato, tranne qualche gatto che lesto attraversava la strada per rientrare in casa dopo le sue avventure notturne. Era il momento che preferiva: appena lontano dalla notte, non ancora vicino al giorno. Malacena in quel momento respirava quieta come un gigante di pietra addormentato.
Róisín annullò la distanza tra lei e Tobia per baciarlo. L’altro la strinse a sé, con un sospiro contento. “Prima o poi dovremo aggiornare il resto del paese…” mormorò passandogli le dita tra i capelli. “Su di noi, intendo.” 
Tobia socchiuse gli occhi, come un gatto a cui era stata fatta una carezza particolarmente azzeccata. “Cerchiamo prima di sopravvivere a questo guaio.”
Róisín sospirò. In quella terra di mezzo che era l’alba i suoi poteri erano ancora più acuti e le sensazioni che aveva provato sognando tornavano come onde avrebbero fatto sulla spiaggia. 
Tobia si scostò, guardandola negli occhi. “Non me ne vado da nessuna parte,” disse, quasi avesse indovinato i suoi pensieri. Da ragazzino l’aveva fatto spesso, forse ne era ancora capace. “Sarò sempre qui, nel cimitero. Per il paese. Per te.”
"Senza offesa Bia, ma è una frase un po’ inquietante…”
Tobia ridacchiò, tirandosela contro e baciandole la testa. “Non intendevo dire che il cimitero ti aspetta da morta, ma da viva,” spiegò divertito. “È anche casa tua.”
Róisín sbuffò. “Sembra quasi che tu mi stia offrendo di convivere.”
“Forse.”
Róisín gli mollò un pugno sulla spalla, un po’ per gioco un po’ per nascondere il fiotto di ansia, gioia e confusione che la investì. Non era il momento. Non ancora. Sentirsi felici in quella situazione era inadeguato. “Vado ad aprire il Bar. Sta’ attento mentre torni a casa.”
Tobia indicò con un cenno della testa dietro di sé. All’ingresso delle mura c'era Ermione, la gatta del cimitero.
“Non preoccuparti, ho la scorta.” la salutò con un ultimo bacio, un cenno della mano e poi si avviò verso casa tallonato dalla gatta. 
Róisín rimase lì finché non furono più in vista. Poi, con un sospiro, varcò la porta delle mura ed entrò a Malacena.
 
***
 
Il letto era diventato per Caterina un’isola avulsa da ogni contatto con la realtà. 
Non che volesse entrarci in contatto, con la realtà: era uno schiaffo in faccia, era realizzare che aveva avuto una ragazza e che era tutto finito in una bolla di sapone.
L’adolescente sentì gli occhi riempirsi di lacrime e seppellì il viso nel cuscino per fermarle … o lasciarle scorrere senza che le imbrattassero la faccia.
Maddalena non le aveva detto su cosa le avesse mentito, ma poteva immaginarsi benissimo cosa fosse.
 
Non ti piacerebbe sapere cosa faccio quando esco di notte.
 
Caterina udì la porta di camera aprirsi e fece per voltarsi e mandare al diavolo l’intruso, ma quando realizzò che era sua sorella esitò. Non aveva voglia di mettersi anche a litigare.
“Che vuoi?” borbottò.
Róisín fece una smorfia. “Non sono io quella di cattivo umore di solito?”
“Mica hai l’esclusiva,” ribatté. Poi notò che l’altra aveva un sacchetto di carta in mano e un bicchiere di plastica che reggeva con la punta delle dita, segno che scottava. “Sei venuta a portarmi la colazione?” domandò perplessa.
Non lo faceva mai.
“Sono venuta a controllare che fossi ancora viva. Non scendi da due giorni e la porta è sempre chiusa. Come va la gamba?”
Caterina tirò su con il naso e si mise a sedere, mostrando finalmente l’inglorioso stato della sua faccia.
Róisín aggrottò le sopracciglia. “Ti fa così tanto male?”
Caterina si strinse nelle spalle mentre l’altra non proponeva, attestava la sua presenza sedendosi accanto a lei sul letto. Le passò il bicchiere, da cui proveniva un delizioso odore di caffè latte caldo.
Caterina ne diede un sorso. “La gamba sta bene, ma è una storia lunga e te non hai mai tempo.”
Róisín rimase un attimo in silenzio, come se stesse valutando cosa rispondere. “Adesso ce l’ho,” decise infine. “C’è mamma ad aprire il Bar oggi.”
“Ultimamente fa un sacco di aperture…”
“Mi vuoi dire che hai?” 
Róisín era l’ultima persona con cui si sarebbe confidata. Sua sorella le voleva bene, ma non era il genere di persona a cui aprivi il cuore sperando in un saggio consiglio. Manco un abbraccio ad essere onesti, a meno di non essere fan di braccia legnose e imbarazzate pacchette sulla schiena.
Ma se quello passava il convento … “Io e Maddalena ci eravamo messe assieme, ma credo che lei mi abbia messo un palco di corna da qui a Catania… e quindi l’ho lasciata. E ci sto di merda. Perché mi sono innamorata sul serio.”
Róisín fissò la busta di carta contenente un probabile cornetto come se dovesse essere quello ad avere una reazione, e non lei. “Mi dispiace,” partì bene, allungando una mano per toccarle una spalla. “Non l’avevo capito.”
“Lo tenevamo nascosto perché lei non è dichiarata con la sua famiglia. Non hanno idea che le piacciono le ragazze. A parte Michi, credo. Ma vabbè, è Michi.” 
“Mamma lo sa? Di te e Maddalena?”
“Sì, gliel’ho detto.”
Róisín riprese a contemplare la busta di carta. Sembrava arrabbiata.
“Non volevo dirlo prima a mamma, ma lei ci è arrivata da sola, e Maddalena…”
“Mamma che dice di questa storia?” la interruppe brusca.
“Che vuoi che dica … non sa che ci siamo mollate, solo che stavamo assieme e che pensavo mi nascondesse qualcosa. Mi ha detto di parlarci … l’ho scoperto così.”
“Mamma ti ha detto di parlare con lei?” 
Quella conversazione stava prendendo una piega surreale. “Sì? È stato un buon consiglio, conseguenze a parte…”
“Forse è meglio così.”
“... è meglio che io e Maddalena ci siamo mollate?”
I ruoli si erano rovesciati: per la prima volta in diciassette anni fu sua sorella maggiore a mordersi la lingua per aver straparlato. “Hai sempre detto che non avresti mai voluto una relazione a distanza come quella di mamma e babbo,” obiettò cauta. “E lei non si è comportata bene.”
Caterina si mosse a disagio: nonostante la rabbia, non poteva dimenticare l’espressione di genuino dolore che aveva scorto nel volto della siciliana. “Non ho la certezza che mi metta le corna … è solo che esce di notte per andare a Firenze con Stefano, e non credo se la faccia con lui, ma…”
“Io penso tu abbia ragione,” disse Rosi con tono definitivo. “Fidati, è meglio così.”
Caterina percepì una fiamma di rabbia accendersi nello stomaco. Erano le stesse parole che le aveva detto Alina. Quella sicurezza granitica che Maddalena fosse una cattiva persona.
“Ma sai qualcosa?” le venne naturale chiedere. “Di Maddalena … sapevi che mi metteva le corna?”
Rosi la guardò e per un attimo, solo per un’attimo, la sua espressione fu colpevole. “Come? Manco mi avevi detto che stavate assieme!”
“E di Firenze?”
Rosi distolse lo sguardo. “Sì,” ammise, “ma cosa fa nel tempo libero una maggiorenne non è affar mio.”
“Perché mi nascondete le cose?!” 
Caterina non voleva urlare, ma non riuscì a frenarsi. Non c’era nessuno che si prendesse la briga di svolgere quel gomitolo confuso che era diventato la sua vita da un mese a quella parte. Aveva l’impressione che ci fosse una grande verità di cui non era stata messa a parte, ed era ridicolo, ma non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione. E tutti, ma proprio tutti, contribuivano a renderla più tangibile.
Rosi le lanciò un’occhiata sbalordita. “Quali cose?”
“Dimmelo tu!” 
Róisín si alzò in piedi, lanciando il sacchetto sul letto. “Stai diventando assurda. Nessuno ti nasconde niente. Fai colazione.”
In poche falcate fu alla porta. Voleva mostrarsi arrabbiata ma a Caterina sembrò più che altro che se la stesse dando a gambe per non affrontare quella conversazione.
Ho ragione io. Non capisco ancora su cosa, ma ho ragione.
“Mangia la colazione,” ripeté Róisín, prima di aprire la porta e uscire dalla stanza lasciandola sola.
 
***


 
“Che c’è che un’va?”
Pietro ne aveva le scatole piene di quell’Agosto. Era arrivato senza che nessuno l’avesse chiesto, era veramente troppo vicino all’inizio della scuola e per giunta erano successi solo casini da quando i siciliani erano arrivati in paese.
Caterina, l’interpellata, non rispose, zoppicando verso la portiera aperta della sua macchina, malamente posteggiata vicino all’ingresso del Bar. I siciliani non erano da nessuna parte e l’amica si infilò al posto del passeggero, chiusa in un mutismo che non era da lei.
Il ragazzo sospirò e accese il motore; l’auto era un prestito di sua madre e per convincerla a lasciargliela usare aveva dovuto inventare di Caterina quasi paralizzata e necessitante di una roba a Sovicille.
L’amica non stava rendendo quell’operazione valevole del rischio.
Mentre la piccola utilitaria scendeva per le vie del paese l’unico gesto di Caterina fu accendere la radio, per poi piantare lo sguardo fuori dal finestrino.
 
I'll give you something to believe in
Put out the basement full of demons
Realize you're a slave to your mind, break free
Now give me something to believe in
 
E poi perché dobbiamo essere solo io e te?”
“Perché non ho voglia di vedere nessun’altro,” rispose finalmente Caterina. Aveva la voce bassa, senza il perenne sorriso infilato tra le parole.
A Pietro la cosa non piacque.
“Manco Alina?”
“No.”
La faccenda era grave. 
“Che cazzo è successo?” domandò mentre oltrepassavano le mura. Il bosco li accolse con le fronde ombrose dei suoi alberi e qualche goccia di pioggia. 
Erano giorni che una coltre spessa e impenetrabile di nuvole stazionava sulla Montagnola e questo rendeva peggiorava l’umore a chiunque.
Figuriamoci ad uno come lui, che del cattivo umore ne aveva fatto bandiera e scudo.
“Oh, guarda che ti mollo pe’ strada se non mi spieghi perché hai ‘sto muso appeso.”
Caterina si morse un labbro. “Mi stanno riempiendo di cazzate,” mormorò.
“Chi?”
“La mia famiglia, Alina … anche Maddalena. Soprattutto Maddalena,” mormorò, gli occhi lucidi piantati sul bosco. 
“Quindi hai litigato con Malù … è per questo che stai così?”
“Ci siamo lasciate.”
Che c’era da dire in quei casi? Doveva esserci una formula che funzionava quando alla tua migliore amica crollava il mondo addosso.
Solo che lui non la conosceva. Quindi disse la prima cosa che pensava, che almeno aveva il pregio di essere vera. “Che merda.”
Caterina ridacchiò. “Già.”
“E che cazzate ti ha detto Lin?”
“Boh … è strana in questo periodo. Non sta mai con noi … e secondo me non è vero che sta dietro a suo padre. Nello ha detto che la vede in giro spesso da sola.”
Pietro schioccò la lingua. “In effetti è strano.”
“È come…” Caterina esitò. “Se ti dico una cosa non mi pigli pe’ scema vero?”
“Te sei scema, Silva. Che c’entra.”
Caterina gli scoccò un sorriso sincero e Pietro lo ricambiò. Fu una frazione di secondo, quella bastevole per distrarsi dalla strada che qualcosa invase la carreggiata. 
Caterina gridò e Pietro inchiodò mentre qualcosa di scuro, veloce e piccolo attraversò l’asfalto per poi tuffarsi tra i cespugli al lato della strada.
Quel qualcosa era su due gambe.
“... che cazzo…” Pietro rimase con le mani serrate sul volante e il piede sul freno, mentre tutte le spie della macchina si accendevano come un albero di Natale. “Che cazzo,” ripetè prima di notare che l’altra si era sganciata rapida la cintura di sicurezza e stava uscendo. “Ohi! Dove vai?!”
La ragazza zoppicò di fronte al muso dell’auto, diretta come un piccolo panzer pazzo verso il folto degli alberi. “Cate!” Pietro le corse dietro. Le afferrò un braccio,impedendole di gettarsi nel bosco. “Dove vai?”
“L’hai visto?!” Caterina si girò con un’espressione che Pietro non le aveva mai visto fare.
Era terrorizzata.
Il ragazzo sentì il panico appiccicarsi addosso come uno straccio bagnato. Deglutì, guardando verso la boscaglia. Annuì. “Sì…” 
“Non era un animale!”
“No.”
“Che cos’era?”
Pietro sentiva come se nella gola gli ci avessero versato direttamente della sabbia. “Roba del bosco,” mormorò. “Robe che raccontano i vecchi.” 
C’era troppo silenzio: forse era la macchina che si era spenta per l’inchiodata: niente motore, niente radio accesa.
… ma anche dal bosco non veniva un rumore. Era quello il problema.
“Quello che dicono … che ci sia tra gli alberi, a parte gli animali.”
“Ma che, i folletti e il lupo mannaro? So’ storie inventate!” Caterina si guardò attorno, come una bambina che aveva perso la mamma in un supermercato. “Non so’ mica vere …”
“Rientriamo in macchina,” rispose sbrigativo. Caterina fece un po’ di resistenza, ma poi gli obbedì.
Si allacciarono le cinture in silenzio e l’amica stavolta non accese la radio. “Mi volevi fà paura, eh?” disse con un sorriso tremulo.
“Che mi volevi dire prima?” 
Caterina si morse un labbro. “... io penso che stia succedendo qualcosa … in paese, alla gente,” mormorò dopo una lunga pausa. “Si comportano tutti in modo strano. Rosi che non bada più al Bar, la mamma che si prende un sacco di ferie dal lavoro … hanno litigato, ne sono sicura, ma non riesco a capire per cosa. E poi anche i siciliani non stanno tanto in bolla. Stanno sempre a confabulare tra di loro.” 
Pietro schioccò la lingua ma non disse niente.
“Pensi che stia diventando matta?” gli domandò Caterina, di colpo aggressiva. “Perché non lo sono! Mi … mi sono successe delle cose. Quella roba che ci ha tagliato la strada … mi è già successa, con Maddalena, quando abbiamo fatto l’incidente. Però lei ha detto di non averla vista, e mamma e Rosi dicono che è stato lo shock della botta,” scosse la testa con forza, “ma l’ho vista prima di cadere. Mi ha fatto perdere il controllo del motorino! Ma è come se tutti si fossero messi d’accordo per dirmi che me la so’ inventata!” 
“Quella cosa … era a due zampe?”
Caterina annuì concitata. “E poi qualche sera fa qualcosa ha gridato nel bosco mentre io e Maddalena eravamo sulle mura. Credevo fosse un lupo, ma non era un ululato … Maddalena si è spaventata parecchio come se avesse capito cosa l’aveva fatto. Siamo tornate a casa alla svelta.”
Pietro si accese un’altra sigaretta, mentre la sabbia in gola non accennava ad andarsene. Minacciava di soffocarlo. “Alina viene a dormire da me ogni tanto… Esce di notte ogni volta. Dice che non riesce a dormire e poi se ne va nel bosco. Quando si è fatta male … ha detto che era caduta, ma io non ci credo.”
“Pensi che qualcuno le abbia fatto del male?”
Pietro annuì, mentre il contachilometri saliva e la macchina rombava. Non voleva rimanere sotto le fronde delle querce un secondo di più: in quel momento era come se incombessero su di loro, pronte a ghermire la macchina come un giocattolo. 
“O qualcosa,” mormorò. 
Caterina fece una risatina nervosa. “Ora mi stai spaventando sul serio…”
“Chiamiamo Alina. Se le diciamo che è importante verrà.”
Caterina fece una smorfia poco convinta. “Dobbiamo proprio? Ci ho mezzo litigato…”
Pietro fece una curva azzardata e l’amica esclamò sorpresa. La ignorò, accelerando ancora un po’. Solo qualche attimo e sarebbero usciti dagli alberi: solo qualche altro minuto e sarebbero stati al podere. Al sicuro.
“Alina ci dirà che succede.” 
Oppure li avrebbe rassicurati con parole misurate e intelligenti. Andava bene uguale; tutto pur di non avere l’impressione che qualcosa di orrendo e fuori dalla loro comprensione stesse per accadere.
Caterina prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni. “Va bene. Chiamiamola.” 
 
***
 
“La richiesta che mi ha fatto è molto strana amico mio.”
Marian premette il vetro del telefono contro la guancia, sentendolo caldo e spiacevole. La voce di Don Baldassarre proveniva gracchiante dall’altro capo del metaforico filo che univa quella chiamata.
“Te ne ho mai fatte di normali?”
Fra’ Baldassarre rise. “Neppure gli auguri di Natale, in effetti. Non sei mai stato tipo … no, mi riferivo alla natura della tua richiesta. Mi hai chiesto di indagare sul vostro prelato di riferimento.”
“Don Doriano non è il mio riferimento. È quello di Malacena.”
“E tu non fai parte di quella Confraternita, sì, l’hai reso chiaro…” il frate sospirò. “Eppure potrebbe essere una buona idea, no? Cercare di farti una vita lì. Alina si trova bene?”
“Questa non è casa nostra. Roma lo è e quando ci saremo occupati del Mannaro ci torneremo,” ribatté brusco. “Abbiamo finito con i convenevoli e possiamo passare alle cose serie?”
Ci fu un’altra scossa di statica, che fece imprecare Marian; la ricezione in quel paesino inzuppato nell’Altrove era sempre stata pessima, ma in quei giorni era persino peggiorata. Fare una chiamata fuori dal perimetro malacenese era un calvario.
“Ci sei ancora?” domandò all’altro capo della chiamata, lanciando un’occhiata malmostosa fuori dalla finestra. Si spinse con la carrozzina proprio sotto di essa, aprendo la finestra: grossi cumulonembi stazionavano sul bosco, talmente bassi da far pensare che fosse nebbia.
Era inquietante.
“... ho trovato qualcosa…” riuscì finalmente a dire Fra’ Baldassarre. “Ha avuto una vita tumultuosa, il vostro Don Doriano.”
“Cioè?”
“Si è formato alla Confraternita dei Beati Paoli a Catania, da giovanissimo.”
“È siciliano?”
“I suoi lo erano. Erano membri laici della Confraternita di Catania, ma lui ha avuto la vocazione che non aveva neanche finito il liceo. Si è trasferito a Roma anche se io non l’ho conosciuto personalmente. Circoli diversi.”
“Com’è finito a servire in questo buco di culo?”
Fra’ Baldassarre ridacchiò alla sua esplosione di stizza. A differenza di molti confratelli aveva sempre trovato divertente la sua mancanza di filtri. Il fraticello aveva un senso dell’umorismo tutto suo, e anche se non l’aveva mai apertamente appoggiato, gli aveva sempre mostrato una certa predilezione. 
 “Ha una storia non dissimile dalla tua, in realtà … lo hanno spostato in un luogo più tranquillo dopo i fatti accaduti nel suo territorio di competenza. Una brutta storia,” osservò. “Sorvegliavano il Monte de’Cocci, e lì ci sono apparizioni spiritiche di una certa entità. Niente di violento o particolarmente interagente, ma per la gente del Chiaro è roba da perderci il sonno … due ragazzi sono entrati, sono venuti in contatto con qualcosa e, mentre se la davano a gambe, uno di loro è caduto dalla scarpata ed è morto sul colpo.”
“Come diavolo hanno fatto ad entrare? Avrebbero dovuto esserci dei sorveglianti di ronda!” 
Avrebbero dovuto, hai detto bene,” confermò Fra’ Baldassare. “Invece ci fu un problema sulla turnazione e quella notte rimase scoperta. Le forze dell’Ordine non furono allertate dell’effrazione. Una leggerezza che costò la vita ad un povero ragazzo e a Don Doriano la carriera.”
“Tutto qui?” borbottò Marian di malumore. Si accese una sigaretta mentre da lontano rimbombava un tuono. Il calore e l’umido gli si appiccicavano addosso come una seconda pelle e lo rendevano nervoso.
L’intero paese aveva il potere di farlo sentire a quel modo: nervoso e impotente.
Voleva andarsene.
“Di ufficiale non c’è altro.”
Marian notò il cambio di tono. Soffiò fuori il fumo, radunando le idee: Fra’ Baldassarre era un amico, ma era anche un tunicato. Della politica, quelli come lui, ne facevano un’arte e non gli avrebbe dato facilmente informazioni non ufficiali.
“Cos’altro si dice di lui?” domandò cauto.
“Voci, naturalmente.”
“Voci, sì…” sbuffò spazientito. “Che vociferate nelle sacrestie?”
Sentì il sorriso di Baldassarre raggiungerlo. “Si dice che sia un tipo ambizioso. Doriano non ha mai fatto mistero di voler arrivare al Vaticano, ma tutto quello che è riuscito ad avere a Roma è stata una parrocchia. Grande, ma di poca importanza per l’Altrove. E vi ha servito per molto tempo … senza essere un giorno più vicino a San Pietro.”
“A me non sembra che gli sia andata meglio qua. È ancora più lontano, no?”
“Qualcuno dice che la sua presenza a Malacena fu il risultato di…” si fermò, cercando la parola. “... un errore di valutazione.”
Marian sgranò gli occhi. “Il prete ha causato la morte di quel ragazzo?”
“Certo che no! Fu il primo ad arrivare sulla scena e l’ultimo ad andarsene, e testimoni riferiscono che sembrava sincero nel suo dolore per quanto accaduto.”
“Allora non capisco…”
“Una mia personale considerazione, amico mio, è che a volte chi vuole fare il santo, finisce per diventare diavolo. Capisci cosa intendo?”
Dannati prelati e le loro metafore. “... ma anche se fosse riuscito a salvare quel ragazzo sarebbe comunque stato colpevole di averlo lasciato entrare dove non doveva.”
“Forse un bambino non combina una marachella per attirare l’attenzione?”
“Il prete non è un bambino.”
“Però è un uomo ambizioso. Se nel suo territorio il Chiaro e l’Altrove cominciano ad entrare in conflitto i riflettori si sposteranno su chi risolverà il problema. E a nessuno importerà di una leggerezza, se vi rimedi. Nel caso del Monte de’ Cocci il problema ci fu … ma non venne risolto.” Fece una pausa calcolata. “Sono stato più chiaro?”
Marian ciccò la sigaretta sul posacenere sul davanzale. “È stato il prete a chiamarci qui,” disse soltanto. “Però il Mannaro c’era già.” 
“Allora forse al buon Doriano le cose non sono andate così male,” disse Fra’ Baldassarre. “Spero di averti aiutato amico mio. Più che voci, però, non posso darti … e naturalmente abbiamo solo chiacchierato del più e del meno.”
“Naturalmente.”
“Mi ha fatto piacere sentirti, Marian … salutami tanto Alina.”
Marian chiuse la chiamata senza rammentare di aver salutato o meno il frate. Non aveva importanza: aveva troppo a cui pensare, che ad una manciata di convenevoli.
 
*** 
 
Note:
 
La storia procede a rilento, ne sono consapevole! Ma giuro che procede, e che arriverà alla fine. Indicativamente, mancano forse quattro capitoli. ;)
La canzone che apre il capitolo è di un bravissimo gruppo metal delle zone in cui vivo, che mischia testi di folklore lombardo con melodie celtiche e medievaleggianti. Potete ascoltare il pezzo qui. Valgono tutto il vostro amore, se siete fan del genere.
La canzone ascoltata in macchina da Cate e Pietro invece è questa.

 

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