La ballata dell'amore cieco

di Sofifi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Urban blues ***
Capitolo 2: *** Scratched soul ***
Capitolo 3: *** Farewell swing ***



Capitolo 1
*** Urban blues ***



Questa one-shot è stata scritta per il contest “Cos’è, una specie di magia?” indetto da Iamamorgenstern sul Forum di EFP, al quale ho partecipato col prompt “Take what you want”.
 
Una menzione speciale va alle seguenti canzoni: One Headlight dei The Wallflowers e Runaway Train dei Soul Asylum, che mi hanno aiutato a ritrovare l’ispirazione nei momenti di magra.
 
La storia è ambientata a Torino e nel corso della narrazione si possono notare più riferimenti alla città. Non è comunque necessario conoscerne la planimetria per poter godere appieno della trama. L’unico appunto che vorrei fare infatti riguarda i Murazzi che, per chi non lo sapesse, è il termine che viene utilizzato per indicare la sponda ovest del Po, in prossimità del centro storico di Torino.
 

 
 
 
 


Urban blues
 
 

Arrivo ai Murazzi assieme al crepuscolo e mi siedo sulla Nostra panchina.

Passo minuti, forse ore, a fissare la ringhiera davanti a me, senza la forza di alzare lo sguardo, senza la voglia di alzare lo sguardo, mentre il Po infuria poco distante.

Un brivido mi attraversa la spina dorsale quando avvicino la sigaretta alle labbra: sono uscito in maniche corte, di nuovo.

L’odore acre del fumo si fonde a quello pungente di sudore che mi porto dietro da giorni, creando un nuovo aroma che sa di morte e non fa altro che ricordarmi di te. Te che mi raggiungevi, spettinato, nel mio appartamento a San Salvario e che mi chiedevi di poter essere accolto: nella mia casa, tra le mie braccia, nel mio letto, dentro di me. Te che guardavi fuori dalla finestra e incolpavi la luna, quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti1, prima di baciarmi con foga.

In quei giorni ci spogliavamo e chiudevamo fuori dalla porta le strade, i cani, i giardini, le statue, la morte2.

Quei giorni ansimando mormoravi frasi che credevo insensate.

Mi supplicavi: – Dammi tutto, tutto quello che hai. –

Lo ripetevi, come una cantilena.

– Dammi tutto. –

Prendi tutto quello che vuoi – rispondevo per abitudine, senza capire a cosa ti riferissi davvero.

Mi graffiavi la schiena mentre ti muovevi brusco dentro di me, più veloce del necessario, e assaporavi ogni mio gemito, di piacere o di dolore. Te ne riempivi le orecchie.

Ti abbandonavi completamente a quelle sensazioni e quando finalmente venivi mi guardavi, reclamando con gli occhi ancora lucidi un bacio.

Ti accontentavo, ti accontentavo sempre.

Prendi tutto quello che vuoi. –

Quando veniva l’ora di tornare a casa cominciavi a temporeggiare, e io non riuscivo ad afferrarne il perché.

Solo ora capisco: quando uscivi dal mio appartamento tutto quello che ci eravamo lasciati alle spalle tornava a farti compagnia. La morte, vecchia compagna di viaggio, ti aspettava sul pianerottolo, pronta a riprenderti per mano.

Io non riuscivo a vederla, quella belva nera3 che si nutriva di emozioni. Viveva accanto a te, assieme a te, dentro di te… ma si nascondeva bene.

Si era innestata, inizialmente, da qualche parte nel bassoventre, e fin da subito si era dimostrata rapace, famelica, ingorda. Ti aveva corroso, lasciandoti vuoto, in pochissimo tempo.

E allora mi pregavi, mi supplicavi di darti tutto. Avevi bisogno di emozioni, avevi bisogno di provare qualcosa per sopravvivere.

Per un po’ ti sono bastati i baci e le carezze. Per un po’ ti sono bastati i brividi, le docce gelate… Per un po’…

A volte chiedevi che ci incontrassimo su questa panchina di pietra. Quando finivano le lezioni all’università ti raggiungevo e ci smezzavamo uno spinello.

Mi rilassavo, cullato dal suono della tua voce, stranamente espressiva durante i tuoi deliri.

Ti ascoltavo passivamente, non realmente interessato a dare un senso alle parole che fuggivano dalla tua gola e che talvolta riuscivano a mettermi addosso uno strano senso d’angoscia.

Farneticavi, dopotutto. Perché mai avrei dovuto darti retta?

Serro le labbra e faccio uscire il fumo della sigaretta dal naso.

Già, perché mai?

Socchiudo le palpebre stanche sugli occhi irritati che reclamano ore di sonno. Basta un movimento leggero, appena accennato, e le ciglia si scontrano.

 

– Ieri notte non riuscivo a dormire, quindi sono sceso al fiume e ho inseguito un sentimento4. –

Mi fissi con quei tuoi occhi sbiaditi, mentre un sorriso timido e quasi ironico si fa strada sul tuo volto tremante.

Strizzata tra l’indice e il medio, una sigaretta continua la sua combustione. Scrolli la cenere accumulatasi con un gesto deciso del polso, poi con urgenza avvicini nuovamente l’oggetto ai denti ed inspiri.

– Come diavolo ho fatto a diventare così stanco? La storia della mia vita sembra così sbiadita...5

Mediti, reclinando appena il capo all’indietro, e schiudi le labbra appassite… viola cornice di un quadro ingiallito e ricoperto di placca.

– Sembra che nessuno possa aiutarmi adesso. Ho toccato il fondo, non c’è via d’uscita6. –

Il tuo volto si contrae, e una smorfia cresce sul tuo viso.

– Cosa intendi? –

Fai cadere il mozzicone a terra e lo spegni col tacco delle tue Oxford usate. Sghignazzi, freddo, poi porti due dita sulla tempia sinistra.

– Questo posto è sempre un tal casino, a volte penso che mi piacerebbe vederlo bruciare7. –

Ti alzi, barcollando leggermente, e con estrema lentezza ti avvicini alla ringhiera che dà sul Po. Hai tutta l’aria di trasportare il peso dell’intera volta celeste, oltre al tuo.

Resti completamente immobile per qualche istante, e io non riesco a staccare lo sguardo dalla tua schiena: da quando è così curva?

– Si sta facendo tardi… Devo andare. –

Interrompi il silenzio e torni verso di me, una strana, flebile luce ad illuminarti lo sguardo. Speranza? Serri con urgenza le palpebre mentre annulli la distanza tra i nostri visi freddi, e finalmente poggi le tue labbra secche sulle mie.

Ci scambiamo un bacio arido, senza sentimento, una sentenza di morte...

 

Sbatto le palpebre e lascio che i miei occhi asciutti si abituino nuovamente alla luce dei lampioni.

Simone, Simone, Simone.

Sono intrappolato in un loop di ricordi, e tutti mi parlan di te.

Il nostro ultimo incontro, lo rivivo ogni volta che abbasso le palpebre. Il tuo viso secco e rugoso, i tuoi capelli arruffati, la tua barba ispida e incolta, le tue parole, le tue ultime parole… Non riesco a pensare a nient’altro.

Ebbene, ci siamo scambiati un bacio arido, Simone, un bacio disperato, e quando ci siamo allontanati non c’era più alcuna luce ad illuminare quello sguardo nel quale ero solito specchiarmi.

Tu hai fatto un passo indietro, mordendoti il labbro, prima di incurvare gli angoli della bocca verso l’alto in un sorriso appena accennato, un sorriso sereno e rassegnato.

Prendi tutto quello che vuoi. – Te l’avevo detto mille volte, ma di cosa può appropriarsi un ladro che entra in una casa vuota?

Mi hai guardato, il vuoto si è riflesso nel vuoto, e tutto è parso fermarsi per un istante.

La belva che silenziosamente era cresciuta dentro di te si è leccata le labbra, cominciando a salivare al pensiero del pasto ormai prossimo.

Il tuo fantasma8 invece ha continuato a fissarmi, immobile.

– Grazie –, un’ultima parola prima di voltarmi le spalle per sempre.

– Grazie –, un addio che allora non ero riuscito a comprendere.

Un rintocco metallico e grezzo da lontano si eleva e si espande nell’aria. Le campane si apprestano ad annunciare la mezzanotte.

Lascio cadere la sigaretta consunta sull’asfalto nero e con uno sforzo mi alzo dalla panchina, ignorando le gambe intorpidite, pesanti.

La luce dei lampioni gioca con la mia ombra, la allarga, la allunga, le dona una forma innaturale, inumana. Sorrido ironicamente, una smorfia mi deturpa il viso già altrimenti segnato: sembra l’ombra di una fiera affamata.

Arranco, infetto, e comincio a scalare la gradinata che porta in Piazza Vittorio, ancora affollata e festosa.

Ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino9.

Mi volto un’ultima volta verso il fiume, inconsciamente attratto dal richiamo della corrente. Appoggiato alla ringhiera, un fantasma10 pallido mi sorride quieto.

Apri la bocca: – Don, don, don… – è la tua suadente chiamata.

Don, don, don… che aleggia nel vento.

Don, don, don… che mi circonda tutto.

Per chi suonano, stasera, le campane?11

Don

Non per te, Simone. Per te hanno già smesso.

 
Don... Don12... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.13










 
Note:
 
1 “È tutta colpa della luna, quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti.”
W. Shakespeare
 
2 “Ci spogliammo.
Chiudemmo fuori dalla porta
le case, i cani,
i giardini, le statue,
la morte.”
G. Ritsos
 
3 Belva nera: personaggio immaginario presente in alcune mie poesie risalenti al periodo della scuola secondaria di primo grado. Rappresenta la depressione.
 
4 Mi sono ispirata alla frase “Down by the creek, I couldn't sleep so I followed a feelin'” della canzone Wild Roses della band Of Monsters and Men
 
5-6 Traduzione da Runaway Train dei Soul Asylum
 
7 Traduzione da One Headlight dei The Wallflowers
 
8 La parola fantasma appare per la prima volta. Simone è effettivamente lì immobile a fissare Andrea (nome del protagonista svelato!) ma la belva ha già preso il sopravvento su di lui.
 
9 Da Ho sceso, dandoti il braccio di Eugenio Montale
 
10 Ritorna il fantasma. Questa volta però l’immagine di Simone è soltanto un’allucinazione.
L’Apri la bocca, scritto alla seconda persona singolare, non è un refuso ma vuole rappresentare la confusione di Andrea di fronte alla belv… ops! Al fantasma.
 
11 For Whom the Bell Tolls (in italiano Per chi suona la campana) è il titolo di un romanzo di H. Hemingway
 
12 Un piccolo sfizio: dodici don perché le campane annunciano la mezzanotte.
 
13 Estratto da La mia sera di G. Pascoli
 
 
 

 

ANGOLO AUTRICE:
 
3/12/2019
Ciao a tutti e grazie per essere arrivati fin qui.
Devo ammettere che la stesura di questa one-shot è stata piuttosto lunga e impegnativa. I temi che ho scelto di trattare sono delicati e spero di essere riuscita a parlarne in modo maturo.
Le frasi utilizzate sono principalmente brevi, questa scelta stilistica è stata fatta per dare al testo un maggiore senso di aridità, allo stesso tempo però ho provato ad inserire alcuni simboli che spero siano stati colti e apprezzati.
Per me scrivere introspettive è sempre una sfida. È difficile, davvero difficile, immedesimarsi in certi personaggi ed in certe situazioni… Ho passato giorni e giorni a cancellare e riscrivere frasi… Giorni e giorni ferma davanti a un foglio bianco a pensare…
In ogni caso, alla fine ce l’ho fatta, sono riuscita a finirla, e questo per me è già un grande traguardo!
Spero che la storia vi abbia colpito. In caso abbiate suggerimenti per migliorarla (o per migliorare il mio stile), potete lasciare un commento.
Auguro a tutti una buona serata.
 
Un bacione,
 
Sofifi
 
 
 
9/04/2022
Storia rimpaginata, espressioni evidenziate in corsivo ridotte per aumentare il senso di aridità del testo. Titolo della raccolta aggiornato – preso in prestito da una canzone di De André.
Grazie a tutti coloro che mi avevano lasciato consigli e pareri sul testo!

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Capitolo 2
*** Scratched soul ***


 




 

Scratched soul

 

 

Chi me l’ha fatto fare di alzare il culo da questa panchina? Non ho ragioni per rincasare, forse è stata solo la forza dell’abitudine.

Dio! Se ancora credessi in un dio qualunque… almeno avrei qualcuno da raggiungere: il fiume è sempre lì, pronto ad accogliermi, ma io –

Da quando te ne sei andato la città ha perso il suo ritmo e io questa melodia non la riesco a sopportare. È zoppa, goffa; è come se le mancasse una gamba, e invece manchi solo tu.

Granuli di unghie sminuzzate mi scartavetrano la lingua; sputo a terra una poltiglia di cheratina, catarro e saliva.

La notte dà il via a un assolo di campane.

I primi don mi ammaliano sulla sponda, sussurrano giù, giù, giù. Il sesto cambia idea e mi ordina di attraversare la strada. Ruote sull’asfalto – il loro stridere mi fa girare la testa, il loro puzzo m’appesta i polmoni. Qualcuno sbatte una portiera e lancia un boja fauss ma io continuo a camminare. Quel pezzo di merda non mi ha messo sotto e dato che non muoio io a sfumare è il mio desiderio, al dodicesimo rintocco.

La luce dei lampioni non mi dà un attimo di tregua. Non possono riposare in pace neppure i miei occhi, questa sera, nonostante in questa città non ci sia più nulla da guardare.

Rimaniamo noi, i brutti – io e i piccioni –, in una Torino che avvelena e toglie il sonno. Restano i vivi, scompaiono i morti.

Non mi sono mai sentito così disgiunto dalla vita.

Sono infetto. I piccioni lo sanno e mi evitano anche loro – volano via.

Non mi sono mai sentito così solo.

Accelero non appena comincio a distinguere la sagoma massiccia e fredda di Palazzo Nuovo. Troppi ricordi felici: io che aspetto con della birra in mano pronto a fingere di averla fregata al mini e tu che ci caschi e bevi senza sensi di colpa, noi che percorriamo questo percorso a ritroso e – Basta! Le cosce cominciano a dolermi. Ora che sono sudato il vento mi fa tremare tutto.

C’è il verde in via Po. Bene. Non mi fermo. Non mi fermo… sino al marciapiede e poi riprendo il fiato.

Cazzo, non sono più abituato a correre.

Passa una vecchia con un brachicefalo al guinzaglio. Il cane respira a fatica, proprio come me. Oh, Simone! Se esistesse un paradiso, se potessi vedermi in questo momento… odieresti questa scena con tutto il cuore! Sputeresti in faccia alla signora da lassù – ma che ne sai? Magari l’ha adottato, magari –

A volte avrei voluto tirarti un pugno in faccia.

Com’è amaro il sapore della mancanza… Simone, oh, vaffanculo… Via Giolitti è poco più avanti.

Cosa mi avevi detto, già, su Giolitti? Che era nato nell’Ottocento? Boh, non mi ricordo, comunque dev’essere stato una persona di un certo tipo. Manco a dirlo, non ti piaceva. Ma la tua soglia di sopportazione è sempre stata bassa.

Ecco, questo è il bar dove mi hai chiesto scusa quando –

Dio! Perché non riesco a pensare ad altro!?

Eri scappato dalla festa dopo avermi baciato.

Sei sempre stato… impossibile? Malato? Mi facevi ridere.

Basta, basta, non ne posso più! Voglio smettere di pensare, per un momento… per solo un istante. Mi blocco con le dita incastrate fra i capelli e stringo forte il cranio. Poggio la spalla alla fiancata fredda e granulosa di un palazzo.

Forse dovrei riprendere in mano Kurose e Ross… tentare l’esonero di Programmazione o chiedere a Zambini alcune dritte per Analisi. Focalizzare tutta la mia attenzione sullo studio potrebbe rivelarsi utile. Ma non so se ce la faccio. Non so se voglio farlo. E poi da quando in qua si usa la logica in amore?

Sbuffo, raddrizzo il busto e riprendo ad avanzare.

Ho voglia di perdere la testa, di dimenticarmela per strada. Quasi quasi devio e vado a svegliare Lorenzo. Ho soldi in tasca? Gli devo ancora dieci euro.

Chiavi… accendino… un pacchetto grinzoso di Marlboro… Niente portafoglio.

Meglio non farlo arrabbiare.

Supero un gruppo di ragazze che schiamazzano; traballano a braccetto, ubriache, ma nonostante tutto si sostengono. Bei tempi, quelli delle prime uscite con gli amici ad Alessandria. Giulio, Roberta, Franca. Eppure, nonostante la tecnologia, alla fine ci siamo allontanati.

Attraverso il corso; ormai sono quasi a casa.

Sono stanco ma da quando sei morto dormo sempre male. Vorrei solo mettermi a letto e cadere in un sonno profondo, non m’importa neanche più di raggiungere il mattino.

Vivo al quarto piano, mal che vada posso sempre cadere dal balcone – eccolo lì, completo di sacchetti di plastica. Domani devo buttare l’immondizia.

Accanto al portone – legno marcio, in perfetto stile popolare – c’è una figura imbacuccata. Batte i piedi, infreddolita; guarda a terra. Sembra viva in un suo mondo.

Fa bene. Non importa.

Mi rigiro il mazzo di chiavi tra le dita, poi avvicino il polso alla serratura.

“Andrea!”

Mi volto di scatto.

La figura ha alzato la testa: è Susanna ma indossa vestiti sformati, forse di sua mamma o di Laura. Sembra invecchiata di almeno dieci anni dal tuo funerale e per un momento mi chiedo se sia stata l’unica a farlo.

Apro la bocca ma mi accorgo di non avere nulla da dire, e allora la richiudo e affondo le mani nelle tasche dei jeans.

“Avevo paura che non tornassi…” Si stringe nel cappotto nero. “Ti stavo aspettando ma continuava a suonare la campana e io…”

Sputo per terra. Il mio cervello è davvero così scontato? Tiro fuori Marlboro e accendino e nascondo la mia angoscia nel fumo.

“Da quanto sei qui?”

Susanna alza le spalle oltre la coltre. “Non avevo il coraggio di andarmene…”

Da ore, per forza. “Susy, sto bene. Sul serio.”

Lei arriccia le labbra in una smorfia, poi abbozza un sorriso tirato. “E io non avevo davvero il coraggio di andarmene, ma non soltanto… Insomma, Andrea, avevo paura che potessero inghiottire anche me, le campa—” No!

Afferro un lembo della sua giacca e la tiro verso di me.

Cazzo, Simone. Guarda in che stato ci hai lasciato.

Susanna è immobile, ad occhi sgranati. Mi stacco dal suo cappotto ed indietreggio di un passo.

Mi esplode la testa, non ce la faccio. Lascio cadere la sigaretta e la spengo con un calcio sull’asfalto.

Non riesco a lasciarti andare. Parlo da solo. Ti amo. Amo un cazzo di morto, un oggetto senz’anima. Cazzo, quanto sono coglione…

Susanna comincia ad andare avanti e indietro al mio fianco.

Si ferma, sbuffa, si copre gli occhi con i palmi. “Scusami, sto impazzendo.”

“No, scusami te.”

Le affiderei il mio cuore, in ogni sua piega asfissiante, ma non sarebbe giusto. Lei non ha ancora perso tutto quanto. Ha ancora una possibilità in questa vita… Ha l’amore. “Chiamo Laura.”

S’irrigidisce. “No, le ho detto che sono da mamma.”

Una bugia? Susanna? “Ma sei venuta da me…”

“Pensavo saresti stato l’unico in grado di capire.”

Reagisco d’impulso. “Lo sono.”

Sbaglio?

Forse, quando mi accusavi di essere egoista, avevi ragione.

 

 

 

Eccoci qui, orizzontali. Come in una tomba.

Le mie dita affondano nell’imbottitura della sua giacca; le sue riposano sulle mie coste.

La stringo forte, Simone, non la lascio più. Sarei persino disposto a immobilizzarla con tutta la poca forza che ho. Dovesse mai giungere il momento sarei io il primo ad andare.

È un abbraccio egoista, il mio. E il suo, invece?

La tua assenza è una punizione che va condivisa – e non importa che le mie guance siano rosse per la rabbia, per i ricordi, per altro… Il buio nasconde illusioni e peccati.

Il materasso è tiepido, ora che non devo più scaldarlo da solo; sussurra resta. Susanna sussurra resta, anche se è casa mia.

E allora restiamo entrambi, a Laura non ci pensiamo più.

 

(A te tutto il tempo.)

 

 

 

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Capitolo 3
*** Farewell swing ***




Grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui.❤️



 
Farewell swing
 
 
Pelle contro pelle – è un errore.
O forse è solo una preghiera, la preghiera di due ragazzi che non vanno a messa da un pezzo e non ricordano neppure il Padre Nostro. Una preghiera disperata in cui io ripeto il tuo nome – Simone, Simone, Simone – e lei qualche frase di circostanza alla cazzo, manco fossimo davvero in un corteo funebre e non nudi sul mio letto a una piazza.
Sopra al suo seno lo sussurro – Simone – e lei risponde tra i miei capelli – Mi manca.
Piangiamo insieme lacrime amare e, già che ci siamo, scopiamo. In tuo onore, Simone. Lo facciamo in tuo onore.
Laura non ne sa nulla, dorme tranquilla nell’appartamento che affitta assieme a Susanna. Non c’è neppure bisogno di mentire: lei si fida quando la sua ragazza le dice che viene da me, si fida e basta.
Abbiamo imparato ad approfittarcene, a non farci scrupoli – come hai fatto tu con noi, lasciandoci soli. Abbiamo imparato a ritrovarti – sì, senza il tuo consenso – nelle ombre, nei ricordi, negli odori… Pur di non farti fuggire abbiamo dimenticato noi stessi e, la morale, l’abbiamo gettata nel cesso.
Siamo cambiati, Simone, e in fondo lo sappiamo. Adesso siamo due persone che non avresti mai amato.
Pelle contro pelle – è sbagliato.
O forse è solo un modo per affondare o affrontare assieme la tua mancanza. Annego tra le sue cosce morbide ma il suo sapore non mi piace – è così diverso da te.
Solo quando ci baciamo mi pare di ritrovare per un momento una parte di noi, Simone, ma l’unica parte rimasta sono io stesso e allora mi viene da vomitare – eppure resto. Resto appiccicato a quel corpo sudato, riconfermandomi carnefice e vittima nel nostro imprudente gioco d’azzardo. Macchio e rimango macchiato.
È tradimento, Simone, una colpa oscena. E sapere che non hai mai sopportato Laura non ci conforta per nulla; dopotutto siamo consapevoli che saresti stato dalla sua parte, questa volta. Saresti stato dalla parte giusta, come sempre, al contrario di me. Non ho fatto altro che ballare sull’orlo di un precipizio, per tutta la vita, e adesso – Adesso sono in caduta libera.
Pelle contro pelle – è peccato.
O forse è solo il modo in cui proviamo a posticipare l’inevitabile, perché in fondo il rispetto e gli ideali non sono nulla quando sei a una finestra di distanza dalla morte.
Quando ti penso vorrei soffocare ma… Vivo al quarto piano, potrei fare un ultimo tuffo di testa. Basta che lei non si ammazzi per prima, basta che non lo faccia da sola come un’egoista.
Guardaci, ci distruggiamo assieme su questo letto sudato.

 
 
*

 
 
Pelle contro pelle, mano nella mano.
Saltiamo.










 

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