Drive By

di smarsties
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Zero ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***
Capitolo 4: *** Tre ***
Capitolo 5: *** Quattro ***
Capitolo 6: *** Cinque ***
Capitolo 7: *** Sei ***



Capitolo 1
*** Zero ***


Alcune veloci considerazioni prima di addentrarci nella narrazione:

  • buona parte della storia si svolge negli Stati Uniti, quindi citerò spesso le miglia (1 chilometro = 0,621 miglia). Tuttavia, in Canada si usano le nostre stesse unità di misura, quindi i personaggi per parlare fra di loro faranno riferimento a quelle

  • distanze e luoghi sono reali, il resto è frutto della mia fantasia

  • la storia segue il punto di vista dei soli protagonisti, ma ci saranno diversi camei – e, non me ne vogliate, potrei sfociare nell’ooc

  • siccome ho un problema con le playlist di Spotify, questa fic ne avrà una – ma ve la linkerò più avanti, quando ci sarà un certo numero di canzoni









Prologo





[ Mercoledì 21 aprile – Filadelfia, Pennsylvania ]



Lo scrosciare della pioggia contro i vetri dell’auto era talmente forte da coprire per buona parte la voce squillante dello speaker radiofonico, tutto preso a raccontare stupidi aneddoti su chissà che. Ulteriore toccasana per il suo mal di testa post-sbornia, che, nonostante l’aspirina, proprio non voleva saperne di diminuire, erano i clacson suonati ad intervalli irregolari – cos’avevano da suonare, poi? Il traffico non si sarebbe magicamente sbloccato.

Da dietro le lenti scure degli occhiali da sole, che teneva su per coprire il suo pessimo aspetto, Duncan osservava Bridgette per cercare di capire quando sarebbe partito l’interrogatorio. E, a giudicare da quanto avesse insistito per accompagnarlo, trascinandolo in strada prima ancora che potesse finire di consumare la sua porzione di cereali, sarebbe anche stato particolarmente lungo.

Di certo non avrebbe aperto la bocca per primo, perché l’ultima cosa che voleva era intrattenere una conversazione, che aveva come scopo far uscire fuori i suoi sentimenti più reconditi. Avrebbe atteso che l’amica prendesse l’iniziativa, per poi evitare alla meglio tutte le domande più scomode.

Bridgette gli lanciò uno sguardo attraverso lo specchietto retrovisore e, appena fu certa che fosse sveglio, gli sorrise candidamente. Il segnale che attendeva.

«Mi fa piacere che tu ti sia divertito ieri sera. Forse fin troppo, viste le condizioni in cui Geoff ti ha ritrovato a fine serata, nel bagno degli uomini.»

Aveva pochi, pochissimi ricordi lucidi della sera precedente. Ciò che era successo nel bagno di quel locale di periferia, che Geoff aveva scelto per festeggiare il suo trentesimo compleanno, era uno di quelli.

«Ti prego, dimmi che non è entrato mentre–»

«Mentre vomitavi l’anima.»

Duncan schiuse le labbra, probabilmente per tirare un sospiro di sollievo, e fu in quel momento che aggiunse: «Anche perché non c’era bisogno che entrasse durante l’altra cosa: con tutti i dettagli che ci hai fornito, mentre tornavamo a casa, non abbiamo faticato troppo a immaginare la scena.»

Il traffico cominciò a smuoversi proprio in quel momento. Quando anche l’ultima macchina era avanzata, Bridgette portò il cambio su drive e ripartì; subito dopo, riprese il discorso.

«Comunque, ho saputo che ti stai dando un gran da fare per elaborare la rottura. Sessioni di prove infinite, road trip notturni, ubriacature varie e adesso anche un ménage à trois. Hai avuto anche il tempo di dormire e prenderti cura di te?»

Confessarsi con Geoff era stata una mossa idiota. Avrebbe dovuto prevedere che, non appena finito di parlare con lui, sarebbe andato a spifferare tutto alla moglie. Tra di loro non c’erano segreti che tenessero – nemmeno quelli degli altri.

«Non ho dormito granché, ma non puoi dire che non mi sia preso cura di me» ridacchiò.

«Hai passato una notte in centrale!»

«Sono cose che capitano.»

L’ultima affermazione la lasciò sconvolta.

«Diciamo che mi sono preso cura di me per la maggior parte del tempo» puntualizzò Duncan, alzando le mani. «Però, tutto quello che hai elencato faceva parte di un piano ben preciso».

«Quale piano, quello di comportarti come l’adolescente che non sei più? Perché, in tal caso, ha funzionato alla grande.»

«Risparmiami la paternale, Brì» sbottò seccamente, alzando un po’ troppo il tono.

«Scusa se ci preoccupiamo per te

Calò il silenzio. L’attenzione di Bridgette era nuovamente tutta rivolta verso la strada davanti a sé; Duncan, intanto, s’era incantato a guardare le gocce d’acqua scivolare veloci sul finestrino.

Non era la prima volta che si comportava in maniera irresponsabile, e che qualche conoscente glielo faceva notare, urlandogli contro quelle precise parole. Non l’avevano mai toccato.

Purtroppo, sortivano un effetto completamente diverso quando venivano pronunciate da due specifiche persone: sua madre e Bridgette. Quelle due donne erano capaci di farlo sentire quasi in colpa. Quasi.

«Non ci ho pensato» mormorò a mo’ di scusa, massaggiandosi una tempia – il mal di testa non sarebbe mai passato. «Ero troppo impegnato a cercare il modo migliore per distrarmi, ed è evidente che ho superato i limiti. Però, prometto che non vi farò più preoccupare. È stata una settimana estrema e sono a pezzi, dubito che ci sarà presto un secondo round.»

L’ultima affermazione riuscì a strapparle un riso. Contemporaneamente, staccò una mano dal volante e gli carezzò la spalla sinistra.

«Quindi, la prossima volta ci chiamerai ed esternerai tutti i tuoi sentimenti?»

Duncan poggiò la mano sopra la sua.

«Un passo per volta.»

Era certo che la conversazione si fosse chiusa lì. La tensione s’era allentata, avevano preso a parlare di argomenti più leggeri e a cimentarsi nel karaoke di Semptember degli Earth, Wind & Fire, che lo speaker aveva introdotto con un velo di nostalgia.

L’arrivo della domanda che più temeva – quando ormai erano già davanti al terminal aeroportuale e stavano scaricando il bagagliaio – fu peggio di una doccia gelida.

«L’hai più sentita?» si fece scappare Bridgette, mentre lo aiutava a sistemare la custodia della chitarra elettrica sulle spalle.

S’incupì di colpo. Per lo meno, non aveva detto il suo nome.

«Perdonami!» squittì subito, portandosi una mano davanti alla bocca. «Non avrei dovuto chiedertelo.»

«Non fa niente, davvero» la tranquillizzò, facendo del suo meglio per non risultare freddo. «E comunque no, ma meglio così.»

Si tuffò su di lui per abbracciarlo.

«Fai buon viaggio» mormorò lei ad un soffio dal suo orecchio. «E spacca tutto sabato. Di nuovo, ci dispiace non poter essere presenti fisicamente.»

Le passò la mano libera dietro la schiena – con l’altra, reggeva il borsone rosso, in cui aveva infilato alla rinfusa due cambi ed altri effetti personali.

«Se sabato andrà tutto secondo i piani, avrete mille concerti per rifarvi.»



* * *



Nelle ultime ventiquattro ore, aveva abilmente vinto il processo più importante della sua carriera, si era guadagnata il rispetto di tutti i suoi colleghi più anziani, e il suo capo le aveva promesso una gratifica. Per giunta, fra quattro giorni sarebbe convolata a nozze.

Di certo non immaginava che, a darle la prima brutta notizia della settimana, sarebbe stato il tabellone delle partenze del Philadelphia International Airport.



Volo K45372 – ore 11:20 – Toronto: CANCELLATO



Courtney si concesse qualche secondo per dei respiri profondi. Dopotutto, non c’era nessuna ragione per dare di matto. Non appena ci sarebbero state le condizioni per decollare, l’avrebbero messa sul primo volo per Toronto.

Sì, si ripeté mentre camminava verso l’infopoint, non c’era assolutamente nessuna ragione per dare di matto.

Non vi era coda. Dietro al bancone, una ragazza dai capelli rossi, abilmente attorcigliati in uno chignon, riordinava alcune pratiche in una cartella. Richiamò la sua attenzione.

«Buongiorno!» la salutò lei cordiale, girando la sedia in sua direzione e sistemandosi gli occhiali da vista. «Come posso aiutarla?»

«Sì, buongiorno. Il mio volo per Toronto è stato cancellato e volevo sapere se c’è ancora posto per il prossimo».

«Devo controllare, ma la informo subito che è stata dichiarata allerta meteo e probabilmente saremo costretti a cancellare tutti i voli di oggi.»

Nemmeno quello era un problema. Tornare con un giorno di ritardo significava rimandare diverse commissioni, ma avrebbe potuto giostrarle a distanza, oppure chiedere a Scott di darle una mano – a tal proposito, doveva assolutamente chiamarlo.

Una voce maschile alle sue spalle interruppe i suoi ragionamenti.

«Davvero non c’è nessun volo per Toronto in giornata?»

Courtney si voltò di scatto, senza nascondere un velo di irritazione, e si ritrovò davanti un ragazzo che la superava in altezza di un paio di centimetri. Gran parte della faccia era coperta dagli occhiali da sole, ma il buzz cut verde, i piercing e l’aspetto trasandato non passavano di certo inosservati.

«Non le hanno mai insegnato che è maleducazione intromettersi nelle conversazioni degli altri?» sputò acida.

Scoppiò a riderle in faccia.

«Cos’è tutta questa formalità, dolcezza? Probabilmente abbiamo la stessa età.»

Aveva proferito una sola frase e già era bastata per farle saltare il sistema nervoso. Lo fissava come se volesse incenerirlo – l’altro però, a giudicare dal sorrisetto beffardo, era più divertito che spaventato – e, se la hostess non fosse intervenuta, avrebbe finito col cantargliene quattro.

«Se non ho compreso male, siete entrambi diretti a Toronto» commentò in maniera tale che entrambi la sentissero. «E, se avete l’urgenza di partire in giornata, forse ho una soluzione.»

I due smisero di squadrarsi.

«Stiamo dirottando diversi aerei negli aeroporti più vicini, dove le condizioni atmosferiche sono più favorevoli. Se volete, posso rimborsarvi i biglietti e potete provare a recarvi al JFK di New York, a due ore da qui. L’aeroporto è enorme e sicuramente riuscirete a trovare qualche volo last minute.»

Cinque minuti e duecento cinquanta dollari in più sulla carta dopo, Courtney sedeva su una panca all’ingresso e cercava sul suo iPhone il numero dell’agenzia di trasporti di Filadelfia. Batteva freneticamente il piede sinistro sul pavimento, nemmeno ci provava più a nascondere il crescente nervosismo. Non solo stava per spendere una cifra esorbitante per spostarsi da uno stato all’altro, ma avrebbe dovuto ripianificare il calendario dei successivi tre giorni – e lei odiava organizzarsi con così poco preavviso.

Cominciava ad intravedere diverse ragioni per dare di matto.

In cima allo schermo spuntò una notifica. Heather aveva letto il messaggio in cui le raccontava dettagliatamente della mattinata piuttosto movimentata, e aveva risposto con una sola sentenza: “Questo perché hai deciso di mettere avanti il lavoro e non festeggiare l’addio al nubilato”. Aveva proprio deciso di farglielo pesare fino alla fine.

«Ma guarda chi si rivede! Certo che il mondo è proprio piccolo!»

A tre passi di distanza, lo sconosciuto di poco fa la fissava, con la testa leggermente inclinata e gli angoli della bocca tesi verso l’alto. C’era qualcosa in quel mezzo sorriso che le faceva prudere le mani.

«Di nuovo tu, che gioia!» esclamò con quanto più sarcasmo possibile, mettendo via il telefono. «Comincio a pensare che tu sia uno stalker.»

«Non lo sono, però ammetto che ti stavo seguendo.»

Si accomodò di fianco a lei, accasciandosi sullo schienale e portando il piede destro sopra la coscia sinistra.

«So che non si dovrebbe fare, ma ho visto cosa stavi cercando e non conviene raggiungere New York coi mezzi» la informò, indicando la borsa dove aveva riposto il cellulare con un cenno del capo. «I prezzi sono esageratissimi.»

La sua voce era bassa, strascicata, come se fosse sveglio da poco. Un altro piccolo dettaglio che glielo faceva apparire fastidioso.

«E come dovrei arrivarci, a piedi?»

«In treno, ma dovremmo tornare in città e ci impiegheremmo un’eternità. Oppure, possiamo affittare una macchina qui in aeroporto».

Il modo in cui aveva marcato la prima persona plurale non le piaceva affatto.

«Possiamo?»

«Io vado a New York, tu vai a New York. Non vedo perché non andare assieme.»

«Piuttosto spendo duecento dollari di taxi.»

Fece per alzarsi, ma lui fu più veloce: si allungò per afferrarla per la spalla, costringendola a stare ferma.

«Ascolta, so che- ouch!», si bloccò per ritirare la mano che la ragazza le aveva schiaffeggiato con poca delicatezza, «So che non ci conosciamo e, a giudicare dai segnali che mi stai lanciando, non penso di starti troppo simpatico, ma ho tre buoni motivi che ti convinceranno a venire con me.»

Era vagamente interessata.

«Spara.»

«Numero uno, la convenienza economica: spartendo il prezzo della macchina e del carburante, spenderemo una miseria. Numero due, sono un ottimo compagno di viaggio e ti assicuro che con me il tempo volerà.»

Lei simulò un colpo di tosse per nascondere un “certo, come no” uscitole in maniera spontanea. Lui non ci fece caso.

«Numero tre, ti sto offrendo la possibilità di un’ultima avventura prima del grande giorno.»

Non poteva dirlo con certezza per via degli occhiali, ma avvertiva che il suo sguardo fosse puntato sull’anello che portava sull’anulare sinistro. Lo guardò anche lei. Era piccolo, sottile, con una pietruzza sbrilluccicante di forma circolare. Non doveva essere costato troppo, probabilmente non era nemmeno fatto di argento puro. E presto sarebbe stato sostituito da una fede dorata, con il nome del suo partner inciso nella parte interna.

Non era mai stata un tipo impulsivo, Courtney. Ogni sera, prima di chiudere gli occhi, pianificava mentalmente e in ogni minimo dettaglio la giornata successiva. In quel modo, avrebbe saputo esattamente cosa fare e non avrebbe sprecato preziosi secondi in dettagli futili, come, per esempio, scegliere cosa e dove mangiare durante la pausa pranzo.

Ed era proprio per questo che l’idea di intraprendere quella sottospecie di road trip con un estraneo le stuzzicava la mente.

«Chi mi dice che tu non sia un truffatore? O un predatore sessuale?» domandò dubbiosa, ma era ormai chiaro che stesse per cedere.

«E chi mi dice che non lo sia tu

Scosse la testa, esasperata. Aveva la dialettica di un lattante.

Eppure, si prese un po’ di tempo per analizzare lui e la sua proposta; poi, tornò a guardare l’anello per un’ultima volta. Emanava sicurezza, le prometteva tutto quello che aveva sempre desiderato. Ma avrebbe avuto tutta la vita per continuare a percorrere strade comode – e per soddisfare le aspettative che gli altri avevano di lei.

Si alzò, invitandolo a fare lo stesso.

«Andiamo, prima che cambi idea.»

Non se lo fece ripetere due volte.

«Sapevo che avresti detto di sì» esultò, scattando in piedi e recuperando i bagagli che aveva poggiato per terra. Allungò la mano destra in sua direzione e si presentò: «E comunque, io sono Duncan.»

Lei lasciò la maniglia del trolley per potergliela stringere.

«Io sono Courtney.»













Angolo dell’autrice

Ogni tanto torno a farmi viva su questo fandom.

Sto provando a scrivere una long da eoni, ma tutti gli incipit che partorivo non mi convincevano. Ho deciso di metterli assieme ed è venuta fuori questa roba qui – che non dovrebbe avere più di dieci capitoli, quindi la definirei più una mini-long.

Prima di pubblicare il prologo, mi sono portata avanti col lavoro per capire se questa idea fosse valida ho meno. Ho già pronti altri due capitoli e li pubblicherò nelle prossime due settimane – dopodiché, per via dell’università, gli aggiornamenti saranno più sporadici. L’intento è comunque quello di portarla a termine.

Scusate se la qualità è quella che è, non scrivevo da un po’ e sono ancora arrugginita. Ci sto riprendendo la mano giusto adesso.

A prescindere dalla gente che mi leggerà, farò del mio meglio per portarla a termine. Sarà la mia sfida personale.


(Però, se qualcuno mi legge e vuole darmi un feedback, è il benvenuto)

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Capitolo 2
*** Uno ***


Uno





[ Mercoledì 21 aprile – Filadelfia, Pennsylvania ]



Alla terza chiamata senza risposta, si ricordò che, di mercoledì, Scott lavorava di mattina. Gli inviò, quindi, una nota vocale.

«Ehi Scott, sono io. Volevo dirti che non so a che ora torno, perché hanno bloccato tutti i voli per maltempo, e ho bisogno che tu vada all’appuntamento col fioraio da solo – ti ricordi le nostre scelte, sì? Per sicurezza, ti mando tutto. Comunque, ora sto andando a New York, forse riesco a partire da lì. Ti tengo aggiornato.»

Quindici secondi. Breve e coincisa come sempre.

Allegò gli screenshot, in cui vi erano dettagli su molteplici varietà di fiori, e attese che tutti i messaggi risultassero spediti, prima di chiudere la chat.

«Sei sempre così fredda col tuo fidanzato?»

Courtney girò lentamente la testa verso sinistra, sbuffando.

Sembrava di vedere il protagonista di una pellicola hollywoodiana. Duncan portava la macchina con una sola mano, la sinistra – la destra era poggiata sopra il cambio. Si era tirato su le maniche della felpa, mettendo in bella mostra i numerosi bracciali e tatuaggi, e non s’era ancora levato gli occhiali da sole, nonostante fuori continuasse ad impazzare il diluvio universale.

«Puoi smetterla di farti gli affari miei?» domandò con tono scocciato. «E la mia non è freddezza. Se ti scrivo è per una ragione ben precisa, perciò arrivo subito al dunque.»

La Prius che avevano affittato in aeroporto era dotata di navigatore satellitare. Secondo quello, avevano percorso solamente otto miglia. Ne mancavano centonove all’arrivo. C’erano ottime probabilità che avrebbe smesso di tollerarlo molto prima.

«Ti chiederei se arrivi subito al dunque anche in altri contesti, ma ci siamo appena conosciuti e ci sono ottime possibilità che tu possa offenderti.»

«Mi stai dando della permalosa?»

«Non oserei mai!» esclamò lui, iniziando a trafficare con la radio. «Diciamo che sei sempre sulla difensiva. Sarà già la quarta volta che rispondi a tono alle mie provocazioni, come se dovessi giustificarti per ogni cosa. Per quanto mi diverta a far saltare i nervi alle persone come te, se dovessimo andare avanti così fino ad oggi pomeriggio, potrebbe diventare un tantino ridondante e- wow, non c’è mezza canzone decente!»

Si fermò solo dopo aver cambiato frequenza almeno dieci volte, commentando il brano – When you were young dei The Killers – con un cenno d’assenso.

«Comunque, non accetto critiche da chi porta gli occhiali da sole quando fuori piove» borbottò lei, rivolta verso la sua immagine riflessa nello specchietto laterale.

Poteva coprire le occhiaie col trucco, ma era comunque evidente che nell’ultima settimana aveva dormito poco e niente. Aveva un’aria a dir poco stravolta. Accettare un lavoro di tale portata nel bel mezzo dei preparativi delle nozze era stata – come Heather non aveva mancato di sottolineare più volte – una follia bella e buona.

«Nemmeno mi ero accorto di averli ancora» mormorò, tastandosi la faccia. Lasciò per una frazione di secondo il volante e se li portò sulla testa. Sotto le lenti scure, si celavano due iridi azzurrissime.

La ragazza si soffermò a guardarle con attenzione – come i capelli verdi fluo, era impossibile non notarle. Erano chiare, di un colore che le ricordava il ghiaccio, con qualche pagliuzza acquamarina. Non aveva mai visto niente di simile.

«Mi piacciono i tuoi occhi, sono molto particolari.»

Di primo acchito, Duncan parve spiazzato da quel complimento. Si ricompose in fretta.

«Ho fatto capitolare diverse persone con questi» si pavoneggiò. «Ma se sono riusciti ad ammaliare anche un osso duro come te, devono essere proprio magici.»

«Sei proprio un pallone gonfiato.»

«Giusto un po’» asserì, lasciandosi scappare una mezza risata.

Si spostò sulla corsia di destra, per sorpassare tre macchine che procedevano con una lentezza disarmante.

«Anche a me piacciono i tuoi occhi» disse con voce bassa, guardando un punto fisso davanti a sé. «Sono talmente scuri che sembra che le pupille ci affoghino dentro. Li rende particolari.»

Gli sorrise per la prima volta.

«Grazie. E… Duncan?»

«Dimmi pure, dolcezza.»

«Se stacchi un’altra volta le mani dal volante, non ti faccio più guidare.»



* * *



«Macchina gialla!»

«Cosa?»

Duncan le fece cenno con la testa. Una station wagon gialla li aveva appena passati.

«Non vale.»

«E per quale motivo, di grazia?»

«Non mi hai detto che stavamo giocando.»

«Pensavo fosse scontato! Chiunque gioca a “macchina gialla” durante i lunghi viaggi.»

Gli lanciò un’occhiata che non ammetteva repliche.

«D’accordo, non vale. Il gioco inizia da adesso.»

Entrambi tacquero per diversi minuti, pienamente concentrati a portare a casa il primo punto.

«Macchina gialla!» strillò Courtney, indicando un punto ben preciso dall’altro lato della carreggiata. «Uno a zero per me.»

«I taxi non contano.»

«Certo che contano! Non azzardarti ad inventare regole a caso solo perché vuoi vincere.»

«Sei tu quella che mi ha annullato un punto guadagnato in maniera onesta!»

«Te l’ho annullato perché non stavamo giocando!»



* * *



«Che scrivi?»

«Modi per sbarazzarmi di te facendolo passare per uno spiacevole incidente.»

«Che coincidenza, due serial killer nella stessa macchina!» esclamò con finto stupore Duncan, premendo fino in fondo il pedale del freno. «È da un’ora che progetto un metodo per farti fuori in maniera rapida, per poi abbandonare il tuo corpo tra le sterpaglie.»

La coda in ingresso in New Jersey procedeva a fatica, specie a causa delle condizioni meteo sempre più avverse.

«Puoi anche smettere di sforzare i quattro neuroni nel tuo cervello, perché non riusciresti ad uccidermi nemmeno nel sonno» lo avvertì Courtney, continuando a digitare sulla tastiera. «Sono troppo intelligente per te.»

Sul volto di lui comparve un ghigno.

«Ho passato metà della mia vita a guardare thriller ed horror e, oltre ad aver appreso qualche trucchetto, mi hanno insegnato a notare anche il minimo dei dettagli. Infatti,» le picchiettò la spalla, invitandola a guardare nello specchietto retrovisore, «macchina gialla. Uno pari. Non avresti dovuto distrarti col telefono. In altre circostanze, questo avrebbe potuto costarti la vita.»

Ottantotto miglia all’arrivo.









[ Da qualche parte nei pressi di East Windsor, New Jersey ]



«Un bel sorriso per Instagram!»

Sentì scattare nel momento in cui alzò la testa dal suo piatto. La sua immagine nel display era sfocata, aveva gli occhi semichiusi e la bocca leggermente aperta. In primo piano, Duncan sorrideva coi denti in bella mostra e con l’indice e il medio sollevati nel segno della pace.

«Non ti azzardare a pubblicarla.»

«Perché? Io trovo che sia perfetta» commentò lui, scorrendo fra i vari filtri alla ricerca di quello che meglio si adattasse alla foto. «Ha un non so che di artistico.»

Courtney si sporse in avanti, nel vano tentativo di strappargli il telefono dalle grinfie. Bastò spostarlo di qualche centimetro per far sì che fosse fuori dalla sua portata.

«Va bene, se proprio ci tieni possiamo farne un’altra» le concesse, ma non prima di aver salvato l’immagine in cui era venuta male in galleria.

Stavolta, erano entrambi perfettamente a fuoco. Duncan era nella stessa identica posa di prima; Courtney teneva poggiato il volto sul palmo della mano sinistra e guardava in camera, sorridendo in maniera quasi impacciata. A separarli, c’era il tavolo su cui erano poggiati i vassoi coi loro pranzi – un’insalata e una mela per lei, alette di pollo e patate al forno per lui. Sembravano due amici di vecchia data.

La sala buffet dell’autogrill era semivuota – oltre a loro, vi erano dei camionisti e una coppia di anziani – e pregna di odore di fritto proveniente dalla cucina. La tv era accesa sul canale di qualche stazione radio della zona e stava trasmettendo il videoclip di Stupid Love di Lady Gaga.

«Toglimi un dubbio» disse Duncan, masticando rumorosamente. «Che lavoro fai per poterti permettere dei vestiti del genere?»

Il completo ottanio che stava indossando non era nuovo, né l’aveva comprato coi suoi soldi. Gliel’aveva spedito sua madre direttamente dal Messico, affinché potesse metterlo alla laureaprima della classe ad Harvard, non di certo un traguardo da poco. Negli anni aveva messo su un paio di chili ed era rimasto nell’armadio a prendere polvere, ma adesso, grazie alla ferrea dieta prematrimoniale, le calzava nuovamente a pennello.

«Sono un avvocato penalista. Ero a Filadelfia per lavoro, ho dovuto sostituire un collega in un processo piuttosto delicato – giro di soldi illecito fra un’azienda statunitense e una canadese, non andrò nei dettagli.»

«E hai vinto?»

«In maniera schiacciante, oserei dire» rispose con una punta d’orgoglio, prima di mandare giù un sorso d’acqua. «E tu che ci facevi a Filadelfia?»

«Toccata e fuga per il compleanno di un mio amico. Sono arrivato ieri pomeriggio e sarei dovuto ripartire stamattina. Sabato ho un concerto importantissimo e io e i miei ragazzi abbiamo bisogno di provare fino allo sfinimento.»

«Suoni in una band?»

«Hai davanti a te il cantante e chitarrista dei Der Schnitzle Kickers» annunciò con tono solenne, sotto lo sguardo confuso di lei. «Abbiamo già pubblico abbastanza cospicuo e un album autoprodotto, ma siamo praticamente degli emergenti. Sabato ci esibiamo davanti al discografico di una major e, se tutto va bene, avremo la possibilità di firmare un vero e proprio contratto.»

Un trillo la dissuase dal commentare il nome del gruppo. Il display del suo cellulare si era illuminato di colpo, segno che erano arrivati nuovi messaggi. Due erano di Scott: il primo era un semplice pollice in su, segno che avesse recepito la sua richiesta; nel secondo le chiedeva come stesse e cosa stesse facendo. Il terzo, il più lungo, era del suo capo. Lesse velocemente l’anteprima, ricordandosi solo dopo dell’appuntamento che avevano quello stesso pomeriggio, per parlare del suo futuro all’interno dello studio legale.

«È il tuo futuro marito quello?» le domandò Duncan, che aveva smesso di ingozzarsi per poter lanciare un’occhiata alla foto che teneva come blocco schermo.

Era stata scattata lo scorso Capodanno, nel salone della villa di suo padre e della sua compagna. Lei era elegantissima nel suo lungo abito rosso carminio, impreziosito da gioielli dorati; lui faceva la sua bella figura con una semplice camicia bianca, un pantalone nero e un papillon dello stesso colore, ma era chiaro che avesse raccattato il tutto in qualche outlet. Le cingeva la vita da dietro con entrambe le braccia e si guardavano intensamente negli occhi, più radianti che mai. Nessuno, vedendo quell’immagine, avrebbe mai potuto dire che, una manciata di ore prima, avessero discusso in maniera piuttosto accesa.

«Me lo immaginavo diverso» ammise, guardandola prendere il cellulare e digitare rapidamente sulla tastiera. «Qualcuno di più… sofisticato.»

«Mi sembra di sentire Heather, la mia damigella d’onore e non la più grande fan di Scott» mormorò, rimembrando le parole con cui l’aveva descritto subito dopo averglielo presentato – rozzo, povero e nemmeno lontanamente alla tua altezza. La sua opinione non era mai cambiata.

«Quand’è che vi sposate?» le domandò Duncan dopo un minuto abbondante. Nel frattempo aveva ripulito quasi del tutto il piatto; la ciotola con la sua insalata, invece, era ancora mezza piena.

«Domenica mattina, ma sabato sera c’è la cena prematrimoniale.»

«Dovremmo brindare a questo weekend importante, ma farlo con l’acqua porta sfortuna», sollevò la sua bottiglietta da mezzo litro e fece un sorso, «e sono abbastanza certo che qui gli alcolici facciano schifo. Vorrà dire che ti inviterò a bere qualcosa una di queste sere.»

«Rivederti ancora una volta dopo averti sopportato per più di mezza giornata? No grazie, penso proprio che passerò.»









[ Staten Island, New York ]



«Comunque puoi anche ammetterlo, adesso.»

«Cosa?»

«Che ti sei divertita» disse Duncan, continuando a seguire le indicazioni per l’aeroporto. «E che non sono poi così terribile come credevi.»

Da East Windsor fino al Goethals Bridge non avevano incontrato grosse difficoltà, ma, nell’esatto momento in cui le ampie distese verdi avevano lasciato spazio agli alti grattacieli, si erano ritrovati imbottigliati nel traffico newyorkese. Quel viaggio non ne voleva sapere proprio di volgere al termine.

«Penso ancora che tu sia un grosso pallone gonfiato» puntualizzò Courtney. «Però, mi trovo costretta ad ammettere che la tua compagnia è stata meno tremenda di quanto mi aspettassi.»

Sul suo volto comparve per l’ennesima volta quel mezzo sorriso fastidiosissimo, ma non provò l’istinto di schiaffeggiarlo fino a farglielo sparire.

«Mi aspettavo qualche commento sarcastico, quindi mi accontenterò. Per ora. Ho ancora un paio di chilometri e tutto il viaggio di ritorno per rendere la tua opinione di me positiva al cento per cento.»

«Non ci riusciresti nemmeno se fossimo costretti a viaggiare assieme fino a Toronto.»

Proprio in quel momento sentì il cellulare vibrare nella sua borsa.

«È di nuovo il lavoro?» le chiese il ragazzo, notando come aveva inarcato le sopracciglia.

«Non esattamente.»

Qualcuno aveva risposto alla sua ultima storia Instagram – il selfie con Duncan, che era riuscito ad ottenere il suo nome utente dopo diverse suppliche. Si trattava di Alejandro.

Non era sorprendente che la stesse cercando, Heather l’aveva di sicuro messo al corrente – e per di più era il suo migliore amico.

Erano subito andati d’accordo, sin da quando i Burromuerto avevano comprato la villetta accanto a quella della sua famiglia e, per conoscerli meglio, avevano invitato lei e suo padre a cena. Erano coetanei, entrambi madrelingua spagnoli, con ambizioni e valori molto simili. Era stato naturale trovarsi e legare così tanto, così in fretta.

Perciò no, il messaggio di per sé non la sorprendeva affatto. Non poteva dire lo stesso del suo contenuto.





2.51 pm

Che ci fai in compagnia di Duncan Nelson?

2.52 pm

Lo conosci?

2.52 pm

Vagamente. Abbiamo degli amici in comune e qualche volta ci sono uscito assieme.

Tu come l’hai incontrato?

2.52 pm

In aeroporto a Filadelfia. Abbiamo deciso di guidare assieme verso New York solo per risparmiare.

2.53 pm

Perché?

2.56 pm

A quanto ne so, non ha una buona reputazione, ma immagino che con gli anni abbia messo un po’ la testa a posto.

E poi ti conosco, so che non accetteresti mai un passaggio da tipi loschi.

Però non dargli troppa confidenza, va bene hermana?





«Oh, bella questa!» esclamò Duncan d’un tratto, alzando il volume della radio.

Courtney sobbalzò, mentre Drive By dei Train veniva sparata con tono spacca timpani dall’impianto stereo, e il suo compagno di viaggio ci cantava sopra – aveva il tipico timbro da rockstar, pieno e graffiato di natura; era senz’ombra di dubbio baritono.

Intrattenuta com’era da quel teatrino, rinchiuse le parole di Alejandro in un angolino del suo cervello. Era inutile starci a rimuginare, fra poco si sarebbero salutati e non ci avrebbe avuto più nulla a che fare.

Lui le diede una lieve scrollata e le fece cenno di venirgli dietro.

«Assolutamente no» disse lei, scuotendo la testa. «Non so nemmeno le parole.»

«Impossibile, questa canzone è stra famosa. Di sicuro conosci almeno il ritornello» commentò, prima di riprendere il suo concerto. «Oh, I was overwhelmed and frankly scared as hell, because I really fell for you. Oh, I swear to you-» e qui la indicò.

«I’ll be there for you» intonò lei in modo riluttante. Poi, le loro voci si mischiarono in un improbabile duetto e quella poca sicurezza iniziale sparì di colpo.

Poche volte si era sentita così spensierata come in quel momento, lontana da casa, in macchina con un uomo conosciuto poche ore prima, a cantare a squarciagola una vecchia canzone. Avrebbe conservato gelosamente quel ricordo, una volta tornata alla sua comoda routine.

«Sono anche riuscito a farti ridere!» gongolò lui alla fine del ritornello. «Un’altra vittoria per me!»

Non s’era nemmeno accorta di star sorridendo – e in modo talmente smagliante che faceva fatica a scovare qualsivoglia cenno di stanchezza che, quella mattina, le erano subito saltati all’occhio.

«Hai una gran bella voce» aggiunse poco dopo, inumidendosi le labbra con la punta della lingua. «Hai preso lezioni?»

«Per un paio di anni, tra le medie e il liceo. Ho abbandonato quando gli impegni scolastici hanno iniziato ad accumularsi.»

«È un po’ un peccato, però. Hai più talento di alcuni pseudo-cantanti che ho avuto la sfortuna di conoscere.»

Lentamente, Staten Island lasciò posto ai quartieri periferici di Brooklyn. E, mentre si avvicinavano sempre più alle battute finali di quella folle avventura, Courtney ammise a se stessa di essersi divertita.











[ JFK International Airport, Queens, New York ]



In piedi davanti al tabellone delle partenze, non riusciva a distinguere fra déjà-vu o scherzo di pessimo gusto.

Aveva percorso la bellezza di centodiciassette miglia soltanto per vedersi cancellare tutti i voli davanti ai suoi occhi. E, ad ogni nuovo “cancellato”, percepiva il panico e la rabbia ribollire nelle sue vene.

Alla sua destra, con una mano poggiata sul fianco e l’altra a reggere la maniglia del trolley, nemmeno Duncan sapeva come reagire alla situazione.

«Beh, principessa, a quanto pare ho più tempo del previsto per rendere totalmente positiva l’opinione che hai di me».















Angolo dell’autrice

Probabilmente voi starete leggendo questo capitolo a pochi giorni di distanza dal prologo, ma in realtà la stesura è stata l’equivalente di un parto: ho allungato, poi accorciato, ho modificato paragrafi interi e non sono ancora soddisfatta – probabilmente non lo sarò mai, quindi tanto vale pubblicarlo. Vi dico solo che la primissima versione aveva di uguale solo gli avvenimenti, il modo in cui li ho raccontati sono variati di volta in volta.

Date la lunghezze e la rapidità, questo sembra più un prosieguo del prologo che un capitolo vero e proprio. Dal prossimo aggiornamento si entra nel vivo nella storia – e i capitoli diventeranno più densi, mi scuso già da adesso se diventeranno troppo prolissi. E si alzerà il rating della storia, anche se non conto di andare oltre il giallo.

E per quanto riguarda la famosa playlist, ve la linkerò la prossima volta.

Ci aggiorniamo con secondo capitolo – o forse un pochino prima.

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Capitolo 3
*** Due ***


Come promesso, eccovi la playlist della fanfiction. La aggiornerò con le altre canzoni mano a mano che pubblicherò i prossimi capitoli.




Due


[ Mercoledì 21 aprile – Coney Island, New York ]



Il motel in cui avrebbero passato la notte era a pochi minuti a piedi da Coney Island – prima di arrivarvi, avevano scorto da lontano il famoso luna park, con le luci spente e le serrande degli stand abbassate. Il quartiere era normalmente piuttosto frequentato ma, con quel tempaccio, erano pochissimi i temerari che s’azzardavano a stare fuori.

Uscito dalla doccia, Duncan si avvolse attorno alla vita uno degli asciugamani in dotazione. Buttò uno sguardo prima fuori dalla finestra – nient’altro che pioggia e nebbia – e poi al suo cellulare, poggiato accanto al lavandino. Segnava le sei e quarantacinque; la cena non sarebbe arrivata prima delle sette e un quarto.

Prese a rivestirsi con tranquillità, mentre cercava di processare le ultime trentasei ore – la festa, il road trip, le forse due ore di sonno fra le due cose e tutto ciò che era successo durante esse. Sembrava quasi impossibile che tanti eventi si fossero accumulati in un arco temporale ben circoscritto.

Sbadigliò, al pensiero che l’indomani sarebbe stato altrettanto pregno di avvenimenti. I voli continuavano ad essere rimandati all’infinito a causa dell’allerta meteo e, per non rischiare di perdere un altro giorno, guidare fino a Toronto pareva la scelta più saggia. Si trattava di un viaggio lungo otto ore e mezza, ma, limitando quanto più possibile le soste, sarebbero riusciti ad arrivare in serata.

Fu disturbato dalla vibrazione del telefono. Lesse il nome del contatto e accettò la chiamata; contemporaneamente, s’infilò i pantaloni della tuta.

«Sei in vivavoce e dubito che le pareti siano insonorizzate, quindi non dire porcate» si sbrigò a puntualizzare, recuperando schiuma da barba e lametta dal borsellino in cui teneva tutti gli articoli da bagno.

«Hai paura che la tua ultima conquista possa sentire i nostri commenti?» sghignazzò Geoff. «Quindi è più seria di quanto pensassi! Hai persino pubblicato una foto con lei!»

«La mia ultima conquista è prossima al matrimonio.»

«Quindi immagino che sia nella stanza affianco per motivi non affiliati al sesso.»

Il sarcasmo era palpabile.

«Che tu ci creda o no, è proprio così» affermò, osservando il suo riflesso spargersi la schiuma sul viso e sotto il mento. «Ci hanno cancellato di nuovo il volo, e questo vuol dire che siamo bloccati assieme per un altro po’.»

«Potrebbe essere l’inizio di una commedia romantica o di un por-»

Un leggero bip gli notificò un’altra chiamata in arrivo.

«Starei volentieri ad ascoltare altre speculazioni sulla mia vita sessuale, ma purtroppo devo lasciarti» lo informò, dopo aver visto chi fosse a cercarlo. «Ci sentiamo in un altro momento, ok?»

«Certo, fratello. Buon divertimento!»

Mise giù, con la speranza che la chiacchierata con Chase, il bassista del suo gruppo, avrebbe trattato argomenti di diverso tipo.

«Ehi amico, come sta andando la luna di miele?»

Roteò gli occhi, annoiato. Come non detto.

«Eccone un altro che chiama per farsi i cazzi miei» borbottò, riprendendo a tagliarsi la barba. «Spero non sia solo questo il motivo per cui mi hai chiamato.»

«Certo che no, per chi mi hai preso?» chiese lui fintamente stizzito. «Volevo anche sapere se domani ci degnerai della tua presenza.»

«A meno che non inventino il teletrasporto in una notte, direi di no. Sono ancora a New York per cause di forza maggiore.»

«Grandioso, un’altra prova senza cantante a settantadue ore dal concerto!»

Gli sembrò di percepire una nota accusatoria nella sua voce, ma di sicuro era un’impressione sbagliata – insomma, non dipendeva mica da lui!

«Sì, nemmeno io sono troppo entusiasta» scandì per bene, affinché potesse sentirlo anche mentre si sciacquava la faccia. «Ma, salvo imprevisti, domani sera sono lì e, per quanto mi riguarda, possiamo anche chiuderci in saletta fino al minuto prima del concerto.»

Controllò con l’ausilio dello specchio che il poco di peluria che aveva lasciato fosse uniforme.

«D’accordo, allora» affermò dopo alcuni secondi di riflessione. «Goditi il resto del viaggio e salutami la tua nuova ragazza.»

Riattaccò senza nemmeno degnarlo di una risposta. Dopodiché, una volta data una veloce ripulita al box doccia e al lavandino, si infilò la felpa e uscì.

Courtney era seduta sul suo letto, col portatile poggiato sulle sue gambe, e stava rispondendo ad alcune email. Giacca e pantaloni erano stati sostituiti da abiti più pratici e i capelli castani erano raccolti in una mezza coda.

«Sono da vista?» le chiese, riferendosi agli occhiali tondi poggiati sul naso.

Ora che era completamente struccata, si rese conto di quante lentiggini avesse realmente sul volto: non solo le poche che le aveva contato attorno al setto nasale, ma anche su tutte le gote e qualcuna sulla mandibola.

«Sono per le luci blu» mormorò, tutta presa dal suo lavoro.

«Quindi se io faccio questo», con una mossa svelta, le tolse gli occhiali e, allontanatosi quanto bastava per non farglieli raggiungere, guardò attraverso le lenti, «ci vedi ancora perché non sono graduati.»

«Esatto. Ora posso riaverli?» sbuffò, allungando una mano in sua direzione.

Si posizionò di fronte a lei. Reggendo entrambe le stecche, la aiutò ad inforcarli. Indugiò per diversi millesimi di secondo, incuriosito da quegli occhi nerissimi che, per tutta la durata dell’azione, non avevano rotto il contatto visivo coi suoi.

«Questa è l’ennesima informazione che hai acquisito su di me» fece notare lei, richiudendo il computer e spostandolo di lato. «Al contrario, io di te so poco e niente.»

«Ennesima? Quali sarebbero tutte queste informazioni che avrei?»

«Diversi dettagli sulla mia vita sentimentale e lavorativa, oltre ai dati personali che hai dedotto dopo aver spulciato il mio profilo Instagram da cima a fondo.»

«Quindi niente di che» concluse lui. «Non so comunque nulla sulle tue ideologie o sui tuoi gusti. Per esempio, non ho idea di quale sia il tuo colore preferito.»

«Terra di Siena bruciata.»

«Che razza di colore è terra di Siena bruciata?»

«La tua ignoranza mi lascia basita, ma non è questo il punto.»

«Vuoi sapere il mio colore preferito? Pensavo fosse abbastanza chiaro dai miei capelli.»

«Non è proprio quello che intendevo, ma è comunque un inizio.»

Lo guardava incuriosita, in attesa che aggiungesse altro.

Duncan odiava parlare di sé, e si trovava sempre in difficoltà quando gli chiedevano di farlo. Non raccontava mai più dello stretto necessario, perché aveva paura di mostrarsi vulnerabile agli occhi del suo interlocutore. Nemmeno nella sua musica, con cui comunque esorcizzava parecchie sensazioni negative, riusciva ad aprirsi troppo, motivo per cui la stragrande maggioranza di ciò che scriveva non gli sembrava completamente onesta.

Finì per cedere. In fondo, erano poco più che sconosciuti. Nulla sarebbe mai uscito da quelle quattro mura.

«D’accordo, cos’altro vuoi sapere?»

Il display del suo cellulare si illuminò di colpo. Abbassò lo sguardo verso di esso e subito gli si chiuse la bocca dello stomaco. Aveva dimenticato di cancellare quel numero.

Uno, due, tre squilli. Lui rimase immobile, le labbra ben serrate, senza sapere come comportarsi, fino a che non smise di squillare.

Fu allora che Courtney prese la parola.

«Potresti cominciare dicendomi chi è Gwen.»









[ Dieci giorni prima – Gravenhurst, Ontario ]



Duncan se ne stava seduto con la testa fra le mani e lo sguardo perso nel vuoto. Poteva sentire indistintamente il profumo delle camelie, posate al centro del tavolo – camelie per cui aveva guidato per due ore, da Toronto a Gravenhurst, soltanto per sorprenderla; camelie che Gwen, in piedi dietro alla sedia, si rifiutava categoricamente di guardare.

Teneva le dita strette attorno allo schienale e la testa bassa, mortificata come non mai. C’era talmente tanto silenzio che poteva sentirla inspirare ed espirare a fondo, forse per darsi il tempo di cercare parole adatte, o forse solo per non scoppiare in lacrime.

L’elefante nella stanza non era altri che un uomo sulla trentina, dai capelli scuri e gli occhi verdi. Stava due passi più in là, con le braccia conserte e l’attenzione fissa sulle mattonelle. Se i diversi centimetri in più non glielo avessero impedito, avrebbe provato a contorcersi su se stesso, fino a sparire dietro l’esile figura di Gwen.

Almeno, notò Duncan, aveva avuto la decenza di coprirsi il petto.

«Da quanto va avanti?»

Le sue parole suonarono gravi, aspre.

Alzò il capo quanto bastasse per intravederli, immobili come statue di cera. Allora sbatté le mani contro il tavolo, forse in maniera un po’ troppo violenta.

Saltarono entrambi.

«Allora? Da quanto cazzo va avanti questa cosa?»

Calibrò per bene il tono, ma senza urlare – perché non era arrabbiato. Era deluso, schifato, ferito, ma non arrabbiato.

«Tre mesi» balbettò Gwen.

S’era trasferita dopo Capodanno per lavoro, quindi voleva dire che, mentre lui si faceva il mazzo per mantenere una relazione a distanza, lei si era lanciata in fretta e furia fra le braccia del primo aitante sconosciuto. Realizzarlo fu una batosta.

Si alzò di scatto, rovesciando la sedia, e si sbrigò ad uscire da lì.

Aveva sprecato gli ultimi tre mesi della sua vita.

Delle loro patetiche giustificazioni non ne voleva sapere nulla.

Aveva bisogno di bere.

I singulti di lei furono l’ultimo rumore che percepì prima che la porta si chiudesse.









[ Giovedì 22 aprile – Route 80, New Jersey ]



Non erano nemmeno le otto del mattino, eppure, con la nebbia a velare la strada e i lampioni accesi, pareva che fosse il crepuscolo.

Courtney avanzava cautamente, nonostante la via davanti a sé fosse sgombra. L’asfalto era bagnato e le gomme non vi aderivano perfettamente, di certo l’unica cosa che voleva era far slittare la macchina e andare a schiantarsi contro il guard rail.

Diede una rapida controllata alla sua destra. Duncan ronfava beatamente con la testa premuta contro il finestrino.

Non gli era stato di grande compagnia, quella mattina. S’era alzato a fatica mugugnando e lamentandosi, le aveva rivolto un totale di quattro parole, e poi era crollato appena entrati in New Jersey, lasciandola sola con la musica e gli aggiornamenti meteo – e sperava che fosse almeno per un’altra ora, perché c’era una pace che non percepiva ormai da settimane.

Non fece in tempo a pensarlo che il silenzio fu rotto dalla suoneria del suo cellulare.

Mimò con le labbra una maledizione. Non c’era un’area di sosta nemmeno a pagare e nel frattempo aveva perso altre due chiamate. Duncan, almeno lui, non fece una piega.

Si fermò solo una manciata di minuti dopo, alla prima piazzola disponibile. Rapidamente, portò il cambio su parking, si slacciò la cintura e recuperò dal sedile posteriore la sua borsa con dentro il telefono. Diede una veloce controllata alle notifiche, giusto per essere certa che fosse stato Scott a cercare di contattarla, probabilmente in pensiero perché non aveva sue notizie dalla sera prima.

Abbassò il volume della radio finché la voce di Mitski in Washing machine heart non scemò del tutto, e lo richiamò.

«Scott? Ehi, buongiorno! Scusa se non ti ho risposto subito, ma sono in autostrada e-»

«Perché non mi hai detto che stai viaggiando con un altro?»

Si morse il labbro inferiore.

Il suo ragazzo aveva Instagram, ma lo usava di rado e solo per mettere mi piace a qualche meme. Era quindi fiduciosa del fatto che non avrebbe mai visto la foto – non perché avesse qualcosa da nascondergli!

Sin dagli albori della loro relazione, era sempre stato convinto di non essere alla sua altezza e, non appena se ne fosse accorta pure lei, lo avrebbe scaricato senza troppe cerimonie.

La sua insicurezza sfociava in scenate di gelosia inutili e, se all’inizio si sentiva lusingata, a lungo andare Courtney aveva cominciato a trovare quel suo atteggiamento fastidioso, a tratti vagamente tossico.

«Perché non era rilevante» rispose con tono piatto. «Siamo entrambi diretti a Toronto e stiamo viaggiando assieme solo per risparmiare.»

«Ok, allora perché non dirmelo subito?» incalzò lui. «C’è forse dell’altro?»

«Intendi a parte aver occultato una microscopica parte di racconto, perché sapevo che avresti reagito in maniera esagerata e volevo evitare questa conversazione?» ribatté, cercando di controllare la sempre più crescente irritazione. «Direi di no.»

«Oh, perdonami! Quindi è solo una mia impressione e questa situazione non sembra una grande ultima fuga romantica, prima di incatenarti a me finché morte non ci separi!»

Non lo pensava davvero, erano parole dettate da una serie di fattori – i turni allucinanti in fabbrica, lo stress prematrimoniale, le discussioni accese degli ultimi periodi. Eppure, l’ironia pungente con cui le aveva sputate fu abbastanza per farle saltare i nervi.

«Esatto, e vuoi sapere il motivo? Mentre la tua più grande preoccupazione era capire se ti avessi messo le corna, io sono stata impegnata a vincere la causa più importante della mia vita e a definire gli ultimi dettagli per domenica – perché sia mai fare affidamento su di te! No, deve pensarci la povera scema bloccata in un altro Stato, a ottocento chilometri da casa!»

Gli riattaccò in faccia, trattenendosi dall’urlare per la frustrazione. Invece, poggiò la fronte sul volante e si concesse qualche attimo per fare respiri profondi e processare quella discussione a dir poco surreale – e che non avrebbe portato conseguenze. Una volta stemperata la rabbia, Scott sarebbe tornato a chiedere scusa con la coda tra le gambe. Era il suo modus operandi, a prescindere che avesse torto o ragione.

Distratta com’era, ci mise un po’ a rendersi conto che Duncan s’era svegliato e, adagiata la testa sulle sue cosce, la scrutava dal basso.

«Tutto bene?» domandò con voce ancora impastata dal sonno.

Sussultò, portandosi una mano in petto.

«Ma sei idiota?»

Sotto le occhiatacce feroci di lei, si sbrigò a strisciare indietro nel suo angolino.

«Scusa, non pensavo che la prendessi così male» si giustificò, trattenendo una risata di fronte al suo viso livido per la rabbia. «Volevo solo sapere perché siamo fermi qui.»

Lei s’era già riallacciata la cinta ed era ripartita, dando le giuste precedenze prima di immettersi nella corsia.

«Non sono affari tuoi» sbottò acida. «E adesso ti pregherei di fare silenzio, non voglio sentirti fiatare fino a quando non saremo in Pennsylvania.»

Ovvero, a detta del navigatore, fra meno di dieci minuti. Erano comunque abbastanza per liberare il cervello da sentimenti negativi.

Ne trascorsero solo quattro prima di essere costretta a fermarsi di nuovo, stavolta a causa del traffico. Aguzzando la vista, ne comprese la causa: la carreggiata era chiusa e gli ausiliari al traffico stavano facendo sgomberare i mezzi verso l’uscita più vicina.

Abbassò il finestrino, richiamando l’attenzione di un vigile distante solo un paio di passi, impegnato a segnalare con le proprie braccia la nuova traiettoria.

«Mi scusi, a cosa è dovuta questa deviazione?» chiese a voce alta, sovrastando il rombare dei motori.

«Il fiume Delaware è esondato» gli spiegò lui, continuando a svolgere il suo lavoro. «Nulla di anomalo, ma le strade sono piene d’acqua e al momento è impossibile proseguire.»

Percepiva sempre più vicina una crisi di nervi dalla portata epocale. Iniziò a contare mentalmente fino a dieci nel tentativo di ritardarla ulteriormente.

«A questo punto, potremmo fermarci a fare colazione» propose Duncan. «Non volevo dire nulla per lasciarti sbollire la palese incazzatura, però io avrei un po’ di fame.»

Strinse con forza il volante, tanto che le nocche si arrossarono. Era riuscita ad arrivare solo al tre.









[ Knowlton, New Jersey ]



8.29 am

Sappi che in questa faccenda sono totalmente dalla tua parte.

Anche se questa dovesse essere una “grande ultima fuga romantica”.

8.30 am

Avresti potuto fermarti al primo messaggio, ma grazie del supporto.





Lamentarsi di Scott con Heather era sempre un toccasana, specie in momenti come quelli, in cui non sono era ancora alterata per il litigio, ma si doveva pure assumere l’incarico di rimediare ai danni creati da lui.

Oltre ad iMessage, teneva aperta l’applicazione della posta elettronica. Era stata contatta dalla venue del matrimonio, che le chiedeva di rivedere l’assegnazione dei posti. Quell’imbecille del suo fidanzato aveva deciso di inviare all’ultimo una ventina di parenti, senza nemmeno curarsi di far aggiungere delle sedie per loro.

«Non hai toccato quasi nulla» le fece notare Duncan, puntando con la forchetta i pancake ricoperti di sciroppo d’acero e il cappuccino.

«Non ora» farfugliò.

Spartirli era una soluzione da escludere, le tavolate sarebbero state troppo affollate.

«Se non hai fame, posso mangiarli io.»

Doveva per forza aggiungere tre tavoli – ed era tentata di metterli fuori dalla porta, giusto per fare un dispetto a Scott.

«Insomma, sarebbe un peccato rimandarli indietro.»

«Oh mio Dio!» sbraitò Courtney, esasperata. «Ce la fai a non fiatare per più di mezzo minuto? Non vedi che sono impegnata?»

Divenne subito il centro dell’attenzione delle persone sedute ai tavoli più vicini.

«Ok, direi che è abbastanza» si accigliò lui, sfilandole il cellulare dalle mani. «Non sei l’unica che sta attraversando un periodo particolarmente stressante, quindi che ne dici di darti una calmata? Anche perché stai riversando le tue frustrazioni su di me – che, vorrei ricordartelo, non c’entro nulla – e al momento l’ultima cosa di cui ho bisogno è farmi sgridare da una primadonna isterica.»

Ora gli sguardi erano tutti puntati su di lui, compreso quello di Courtney, che aveva spalancato gli occhi e aggrottato la fronte in una maniera quasi innaturale. Poi sospirò e i muscoli facciali tornarono rilassati.

«Scusa, hai ragione.»

«Non credevo che questa frase facesse parte del tuo vocabolario!»

«Ho avuto una discussione allucinante con Scott e sono ancora turbata – ma tu non c’entri nulla.»

Lui esitò, come se stesse meditando su come portare avanti la conversazione.

«Beh, forse c’entro un po’ anch’io» le sorrise, tenendo pollice ed indice così vicini da sfiorarsi.

Aveva sentito tutto.

Si concesse un lungo, lento sorso del suo cappuccino, dandosi il tempo di trovare l’appiglio per cambiare discorso – che avrebbe dovuto fare altrimenti? Non avevano confidenza , sarebbe stato fin troppo strano parlarne. No, era meglio non approfondire troppo le proprie vite amorose – già cavargli qualche informazione sulla sua ex, ieri sera, aveva creato un certo imbarazzo – e continuare con i loro casuali battibecchi.

«Comunque sia», si allungò in avanti per riprendersi il telefono, fermandosi ad un paio di palmi di distanza dal suo volto, «dammi un’altra volta dell’isterica e potrei casualmente abbandonarti al prossimo autogrill.»

La sua minaccia lo fece ghignare.

«È difficile prenderti sul serio con quel baffo di schiuma.»

Sotto lo sguardo divertito di Duncan, si ritirò imbronciata, e si sbrigò a ripulirsi con un tovagliolo di carta. Decise di lasciarlo perdere; si concentrò, invece, nel mettere qualcosa sotto i denti.

Dopo nemmeno tre bocconi, quasi si strozzò nel leggere la risposta di Heather. Rimase a fissarla, incredula, sperando che le sue guance non si fossero tinte di rosso.





8.41 am

Quindi vorresti farmi credere che l’idea di una sveltina col tuo nuovo amico non ti è minimamente passata per l’anticamera del cervello.





Istintivamente, rivolse un rapido sguardo al ragazzo di fronte a lei. Stava masticando del bacon a bocca aperta.





8.43 am

No, affatto!





«Queste le offre la casa.»

La cameriera, che aveva messo sotto i loro nasi due fette di torta alle mele, era diversa da quella che li aveva serviti prima. Era più bassa e in carne, con dei lineamenti più delicati. Doveva avere pochi anni in meno di lei e tutto – la pelle liscia e ben curata, gli sfarzosi orecchini circolari, la sua postura – lasciava presagire che lei, con quel minuscolo bar di periferia, non aveva granché a che fare.

«Grazie!»

«Non c’è di che, bella.»

Si girò, poi, in direzione di Duncan, senza riuscire a nascondere la fibrillazione.

«Piacere, sono Leshawna» si presentò, allungandogli la mano destra. «Una grande fan della tua musica.»

Era genuinamente sorpreso e per assurdo, a giudicare dal modo vigoroso in cui ricambiò la stretta, anche più felice di lei.

«Il piacere è tutto mio» esclamò allegramente. «Ehi, Court, guarda!», si girò verso di lei, raggiante come un bimbo in un negozio di giocattoli. «Ho dei fan anche a centinaia di chilometri da casa!»

Quella sua reazione così spontanea le fece spuntare un sorriso.

«Possiamo farci una foto?» domandò Leshawna. «Quando hai finito di mangiare, ovviamente! E poi, qui di solito organizziamo serate a microfono aperto, quindi, se poi ti andasse di suonarci qualcosa…»

Sembrava che non attendesse altro.

«Assolutamente sì!» saltò su. «Dammi venti minuti e sono da te.»



* * *



Dal momento in cui aveva finito di consumare il suo pasto e scattato un paio di selfie con la cameriera, a quello in cui era corso a recuperare la chitarra dalla macchina, l’aveva accordata e collegata all’amplificatore, erano passati esattamente venti minuti.

Aveva da subito catturato l’attenzione di tutti i presenti; qualcuno aveva persino smesso di mangiare.

«Salve a tutti, io sono Duncan e nella vita faccio il musicista» si introdusse lui per rompere il ghiaccio. «Su richiesta di quella bella fanciulla», indicò Leshawna, che ridacchiò imbarazzata, mentre riprendeva la scena col suo cellulare, «vorrei suonarvi un mio pezzo.»

Da un tipo eccentrico come lui, non poteva aspettarsi altro che musica rock. Courtney non era una grande fan del genere, ma la versione stripped che stava proponendo non era davvero niente male. Era merito della sua abilità nel suonare, unita alla voce sporca – ora che poteva ascoltarla meglio, senza nessuna traccia registrata sotto, ne era rimasta a dir poco stregata. E, a giudicare dai bisbiglii che colse, non era l’unica a pensarla così.

Era magnetico, era riuscita ad ipnotizzarla senza l’uso di una band o di effetti speciali. Aveva verve e un’innata padronanza del palcoscenico. Sarebbe riuscito a risaltare senza fatica alcuna anche in mezzo ad una folla.

Più la trasportava nel suo mondo, più si rendeva conto di aver finalmente trovato una sua parte che apprezzava – quella estasiata dal suo lavoro, che dava il meglio di sé ad ogni esibizione e che rimaneva sbigottita quando qualcuno si complimentava con lui per la sua arte.

Fu la prima a battere le mani, facendo partire un coro scrosciante di applausi e richieste di bis, cui reagì con un sorriso quasi impacciato.

Si ritrovò a suonare altre due canzoni. Alla fine della seconda, annunciò: «Questa è davvero l’ultima, poi giuro che vi lascio in pace.»

Fu interrotto da qualche risata.

«Per il gran finale, vorrei chiedere ad una persona di raggiungermi qui.»

Courtney ci mise un po’ ad accorgersi che gli occhi di tutti fossero poggiati su di lei. Si sentì pervasa dallo stesso nervosismo che aveva avuto durante la sua primissima udienza – quella per cui, a seguito della sentenza a suo favore, aveva sfogato due mesi di ansie, ripensamenti e insicurezze nel bagno del tribunale.

Scosse energicamente la testa: un conto era cantare in macchina, un altro davanti a degli sconosciuti.

«Dai Courtney, non farti pregare» la richiamò, prima di far intonare alla clientela il suo nome.

Si mosse titubante, con quel coro che le rimbombava nelle orecchie, fermandosi ai piedi del palco. Duncan si chinò verso di lei.

«Non salgo. Non ho intenzione di umiliarmi.»

«Non succederà» la rassicurò. «E anche se fosse, non rivedrai mai più queste persone.»

«Non so che cantare» aggiunse con un pizzico di imbarazzo.

«La tua canzone preferita, ne hai sicuramente una.»

In tutta onestà, non ne aveva. Non ascoltava tantissima musica, se non colonne sonore di film, componimenti classici e un paio di brani pop.

E Fly me to the moon di Frank Sinatra.

Era stato il brano del primo ballo da marito e moglie dei suoi genitori, e probabilmente il primo che le avevano fatto ascoltare. Era il loro brano.

Da piccola, la sentiva risuonare di continuo, dal vecchio stereo o dalle loro voci non propriamente intonate, tanto che era arrivata a non sopportarla. Ironicamente, le aveva fatto compagnia nei momenti in cui quei ricordi spensierati le erano sembrati più lontani del solito – il divorzio, il trasferimento di mamma a Guadalajara, il secondo matrimonio di papà e la nascita del suo fratellastro.

Cantarono quella. Duncan le lasciò tutta la prima strofa, limitandosi ad accompagnarla con la chitarra; subentrò con naturalezza nella seconda, limitandosi ad armonizzare. Nonostante i loro timbri fossero completamente diversi – il suo era molto più pulito e acuto – trovava che si sposassero piuttosto bene.

Stavano in piedi l’uno accanto all’altra, con solo un microfono a dividerli, e i loro corpi si sfiorarono più di una volta. La vicinanza non era solo fisica, ma anche, e soprattutto, fatta di gesti e sguardi fugaci. Era palese che fosse tutto improvvisato – lei aveva leggermente stonato nell’attacco, lui aveva confuso uno o due accordi – ma erano comunque riusciti a creare la giusta sinergia.

Gli ultimi versi li cantarono con ancora più intensità, tuffandosi l’uno negli occhi dell’altra. All’improvviso era tutto così intimo – troppo intimo, precisò una vocina nella testa di Courtney, che non riusciva a trovare una spiegazione razionale alla sensazione di vuoto nel suo stomaco. Odiava l’ambigua sintonia che stavano tessendo, eppure non aveva le forze di disfarla.

Non si ruppe nemmeno quando l’ultimo accordo risuonò nell’aria, diversi secondi in più degli altri. Lo percepirono distante ed ovattato, così come lo scrosciare degli applausi. Poi, il contatto visivo si spezzò, la bolla scoppiò e i rumori del mondo esterno li investirono.



* * *



«Volevo scusarmi per stamattina, ho avuto una reazione esagerata ed ingiustificabile.»

«È anche colpa mia, avrei dovuto dirti da subito che non ero sola.»

«La colpa è mia e del mio carattere di merda. Imparerò a gestire la mia gelosia, te lo prometto.»

Silenzio.

«Ehi, stai bene?»

«Sì, sto… stiamo per ripartire. Tornerò più tardi del previsto, non aspettarmi sveglio.»

«D’accordo, però tienimi aggiornato. Ok?»

«Ok.»

«Allora ci vediamo domattina. Fate attenzione per strada, mi raccomando. Ti amo.»

Tentennò.

«Ti amo anch’io.»

La telefonata terminò.

Courtney si strinse nelle spalle, scivolando con la schiena lungo la parete del bagno pubblico. Rimase accovacciata, in equilibrio sulle punte dei piedi. Respirava piano.

In una mano teneva una confezione di plastica. Se la portava appresso da ormai due giorni e non aveva ancora avuto il coraggio di tirar fuori il contenuto. Non l’avrebbe aperta nemmeno quella volta.

Aveva troppa paura che il test risultasse positivo.











Angolo dell’autrice

Ebbene, eccoci qua col cliffhanger finale. Dovrete aspettare un po’ per scoprire cosa succederà, perché questo era l’ultimo dei capitoli già pronti. Da adesso, gli aggiornamenti saranno più sporadici.

Ma non temete, perché non ho nessuna intenzione di finire qua.

Ho previsto altri 2/3 capitoli + l’epilogo, quindi non siamo ancora al giro di boa, ma cominciamo già ad intravedere un piccolo evolversi della relazione fra i nostri protagonisti. Spero che risulti il più naturale possibile. Il mio timore è che, siccome la storia si spalma nell’arco di pochi giorni, il tutto possa risultare affrettato e forzato.

Ad ogni modo, sono felice del supporto che state mostrando alla fanfiction. Mi aspettavo molte meno interazioni – un po’ perché il fandom è morto, un po’ perché avevo dubbi sulla qualità – e invece posso ritenermi più che soddisfatta. È anche questo che mi spinge a continuare.

E grazie anche a chi ha letto la one-shot natalizia, sono contenta che abbiate apprezzato pure quella.

Detto ciò, torno a lavorare al terzo capitolo – che sarà un bel po’ carico di emozioni.

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Capitolo 4
*** Tre ***


Tre





[ giovedì 22 aprile – Knowlton, New Jersey ]



Gwen aveva avuto la faccia tosta di provare a ricontattarlo.

Il suo messaggio giaceva in alto a tutte le altre notifiche – centinaia di commenti entusiasti sulla sua performance; Leshawna ne aveva caricato i punti salienti nelle storie, che erano state presto scovate dai suoi fan.

Il serbatoio della Prius si riempiva velocemente. La puzza di cherosene gli invase le narici.

Duncan guardava con un occhio il contatore, con l’altro l’anteprima di qualunque cosa la sua ex avesse l’urgenza di dirgli. Qualche scusa patetica, gli suggerì la sua coscienza.

Ci rimuginò su, ma alla fine sbloccò il display e aprì la chat.




1:22 pm

So che non vuoi sentirmi e hai tutto il diritto di odiarmi. Mi sentivo troppo in colpa, quindi ho deciso di troncare con Trent. Nel weekend sarò a Toronto da mia mamma e pensavo di passare a vederti, magari di scambiare due chiacchiere dopo. Non ti chiederò di riprovarci, penso che sia troppo tardi per questo. Vorrei solo chiarire faccia a faccia.




Rilesse quelle righe per tre volte, prima di bloccare numero e profili social.

Voleva venire a sentirlo suonare? Nessun problema. Ma non avrebbe passato il post-concerto a sentire i suoi piagnistei, perché non c’era assolutamente nulla da chiarire. Il tradimento aveva frantumato la fiducia che nutriva nei suoi confronti e rimettere assieme i pezzi era impossibile.

Si rese conto di star stringendo con troppa foga la pompa solo quando capì di essersi scheggiato un’unghia, ovviamente una della mano destra su cui le portava più lunghe per via della chitarra.

Il serbatoio era pieno. Rimise tutto a posto e, cacciato il portafoglio dalla tasca, si diresse verso la cassa automatica.

Eppure, c’era una parte di lui che voleva rivederla, che voleva star a sentire quello che aveva da dirgli. La parte che pretendeva una degna conclusione per quel capitolo durato un anno. La parte che, nonostante tutto, teneva ancora a Gwen.

Non l’avrebbe assecondata. Non aveva passato l’ultima settimana e mezzo a distrarsi e sopprimere il dolore, salvo poi strisciare di nuovo ai suoi piedi. Non importava quanto bella e importante fosse stata la loro relazione, meritava di portarle rancore per come aveva demolito ciò che avevano costruito.

Le porte automatiche del bar del distributore si spalancarono. Vide Courtney uscire fuori, stretta nel suo cappotto marrone. Quando fu più vicina, notò una rughetta fra le sue sopracciglia e lo sguardo pensieroso.

«Cos’è quella faccia grigia, principessa?» le domandò, inclinandosi di lato per poter cogliere degli indizi dai suoi occhi onice.

«Nulla» affermò, tremando a causa del vento freddo. «Stavo parlando con Scott.»

«E vi siete chiariti, immagino.»

Annuì, ma tutto lasciava presagire che ci fosse dell’altro.

«Hai un’unghia rotta, lo saigli domandò poi d’un tratto.

Se la guardò. Era tranciata a metà, non poteva fare altro che tagliarla e limarla a dovere.

«Devo essermela graffiata su una mattonella in bagno» mentì lui.

Ritirò dalla macchinetta lo scontrino fresco d’inchiostro. Lo ripiegò e lo infilò nel portafoglio.

«Allora, vogliamo rimetterci in viaggio?»









[ Route 81, Pennsylvania ]



«Non capisco perché privare i migliori pub della città del nostro sodalizio.»

Courtney sospirò: non ne voleva proprio sapere di demordere.

Se ne stava col naso su delle mappe geografiche, trovate nello scomparto anteriore assieme alla carta d’immatricolazione dell’auto. Probabilmente erano appartenute a vecchi affittuari che le avevano scordate. Ve n’era anche una della Pennsylvania e lei s’intratteneva seguendo col dito la strada che stavano percorrendo.

«Già abbiamo spaccato con un’esibizione improvvisata» le fece notare Duncan, trafficando con l’aria condizionata. «Immagina cosa potremmo fare con una piccola setlist ben studiata!»

Era il primo pomeriggio e s’erano rimessi in viaggio da circa un’ora e mezza. Avevano percorso ottantacinque miglia, ne mancavano una ventina per raggiungere lo stato di New York. Nella migliore delle ipotesi, sarebbero arrivati a Toronto attorno all’una di notte.

«Smettila di trovare modi per rivedermi una volta tornati a casa» sorrise lei, guardandolo di sbieco. «Non credi che ti abbia già sopportato a sufficienza?»

Le ammiccò.

«Lo dici come se non mi amassi.»

Non mancò di rispondergli a tono – «No, nemmeno un po’» – ma l’uso di quel particolare verbo smosse qualcosa dentro di lei. Era evidente che fosse una frase ironica, buttata lì senza nemmeno rifletterci troppo. Ciononostante, si ritrovò a darle fin troppa importanza.

La connessione che s’era creata quella mattina, durante il duetto, era simile a quella che aveva percepito con una sola persona, Alejandro – e aveva senso che fosse stato così: erano due metà perfettamente complementari, capaci di comprendersi al volo. Era suo fratello.

Duncan, al contrario, era poco più che uno sconosciuto.

Aveva dunque provato ad imputare la colpa all’atmosfera, alla canzone, alla vicinanza. Poi la sua mente era volata al motel a Coney Island, alle chiacchiere e alle domande sempre più personali – non che si fossero raccontati granché, ma normalmente ci impiegava settimane, se non addirittura mesi, per aprirsi.

Aveva trovato una giustificazione piuttosto soddisfacente anche per quello. Parlare come due persone civili, anziché discutere per ogni piccolezza, avrebbe reso meno sfiancante la loro convivenza forzata, oltre ad aiutarli a individuare punti d’incontro. Era stata un po’ una terapia di coppia.

Le era servito, inoltre, a togliersi dalla testa il tarlo che Alejandro le aveva ficcato coi messaggi del pomeriggio precedente.

«Così mi spezzi il cuore» esclamò Duncan fintamente offeso, tamburellando le dita sul volante a tempo di Since U been gone di Kelly Clarkson.

Nel profondo, sapeva perché quella piega inaspettatamente intima la turbava, e aveva a che fare col suo fidanzato.

Il dare priorità alla sua carriera aveva mandato a monte le poche storie serie che aveva avuto. Era abituata alla solitudine e, a dirla tutta, non aveva proprio tempo materiale da poter dedicare ad un’altra persona.

Aveva cominciato a pesarle solo negli ultimi due anni: più partecipava a matrimoni di amici e conoscenti, più era palese che l’unica zitella acida rimasta fosse proprio lei.

Per questo, quando aveva conosciuto Scott, s’era sbrigata a bruciare le tappe, prima che anche lui avesse potuto vederla per quello che era: un’isterica primadonna malata di lavoro. Poi, che lui l’avrebbe venerata anche se avesse avuto tre braccia e cinque occhi era un’altra cosa!

La fatidica scintilla, però, non era mai scoccata. Si era accorta in fretta di non amarlo – o almeno, non quanto lui amava lei – ma, tutto sommato, stargli affianco le dava la sensazione di comfort e stabilità cui aveva sempre aspirato. Avrebbe potuto conviverci per tutta la vita senza troppe cerimonie. Meglio quello che essere umiliata ad ogni evento pubblico.

E andava tutto bene, fino a quando l’universo non gli aveva messo Duncan in mezzo ai piedi, e le aveva fatto capire che forse di fare sforzi e scendere a compromessi non le andava più.

«Non stai andando un po’ troppo veloce?» domandò qualche minuto più tardi, più che altro per mettere a tacere quel folle flusso di coscienza.

«Rilassati, bambolina» biascicò lui, combinando due dei termini che più le urtavano il sistema nervoso. «Il massimo è novanta e io sto andando ad ottantacinque.»

Aveva decisamente sforato il limite, ma non ci fu bisogno di controbattere perché, un miglio più avanti, i lampeggianti di una volante li abbagliarono. Sul ciglio della strada, al riparo di un grosso ombrello nero, un’agente faceva loro segno di accostare.

Duncan trattenne un’imprecazione, ignorando l’espressione compiaciuta di Courtney che celava un sonoro “te l’avevo detto”.

«Buonasera, agente» la salutò con voce vagamente filtrante, mettendo su un sorrisetto mellifluo e sbattendo le ciglia più volte del necessario.

La sua adorabile compagna di viaggiò gli tirò uno scappellotto sulla nuca.

«Patente e libretto, per favore» ordinò quella, che nemmeno si era accorta dei suoi patetici tentativi di liberarsi con una semplice ammonizione.

Mentre lui le stendeva i documenti, l’occhio vigile di Courtney cadde sul distintivo dorato che l’agente portava appuntato al petto – il suo cognome era Sanders.

«Hai proprio una bella faccia tosta» borbottò, nel momento in cui quella si allontanò, in merito al tono che aveva utilizzato con un’ufficiale. «E smettila di guardarle il fondoschiena dallo specchietto!»

«Stavo solo controllando perché ci stesse mettendo così tanto» si giustificò lui, senza smettere di fissare. «Non c’è motivo di essere gelosa, principessa.»

Lo colpì una seconda volta.

Effettivamente, ci stava impiegando più del previsto. Non sembrava in procinto di fargli una multa. Erano, però, almeno una manciata di minuti che, china sul finestrino, si consultava con la sua collega, seduta al posto di guida. Questa teneva in mano la patente di Duncan e bofonchiava qualcosa al suo walkie talkie. Finalmente lo mise via e fece un cenno d’assenso a Sanders, che tornò da loro.

«Signor Nelson?»

«Dica pure» le sorrise lui, cortese.

«Deve seguirci in commissariato. I suoi dati anagrafici combaciano con quelli di una persona che stiamo attualmente ricercando.»









[ Commissariato di New Milford, Pennsylvania ]



L’ultima mezz’ora l’aveva passata a ripetere di non essere il Duncan Nelson che aveva rapinato una banca tre notti fa, che non teneva in ostaggio nessuna signora Wilkins, che non aveva mai messo piede a New Milford e che nemmeno sarebbe stato in grado di localizzarla su una cartina.

Se ne stava seduto in silenzio al tavolo degli interrogatori, con gli avambracci poggiati sulla superficie e le mani congiunte. Il suo sguardo, scocciato, vagava da una parte all’altra della stanza asettica. Era passato un altro quarto d’ora dalla fine dell’interrogatorio e, se inizialmente aveva trovato il tutto divertente, quel teatrino cominciava ad essere quasi patetico.

L’orologio sopra la porta segnava le cinque del pomeriggio. Avevano ormai perso quasi due ore di viaggio. Sarebbero riusciti ad arrivare in nottata solo se avessero guidato ad una velocità sostenuta, senza fare alcuna sosta.

Dalle finestrelle aveva visto passare più volte il sergente che l’aveva interrogato. Si sarebbe volentieri affacciato per gridargli se potesse finalmente togliere il disturbo, ma si contenne.

Fu solo dopo altri dieci minuti che parvero ricordarsi della sua presenza. Fece capolino da dietro l’uscio la seconda delle poliziotte che l’avevano fermato, il cui cognome aveva scoperto essere MacArthur.

«Ehi, bel ragazzone, puoi andare» lo richiamò, facendogli segno con la mano di uscire.

Scattò in piedi come una molla, sbrigandosi a seguirla prima che potessero incolparlo di qualcos’altro e trattenerlo lì per un’altra ora.

«Ci dispiace averti fatto perdere tempo prezioso, ma purtroppo questa è la procedura» gli spiegò, riconducendolo nella stanza principale. «Per di più, ci sono alcuni fascicoli incompleti e-»

«Duncan!»

Alla sua sinistra, Courtney si era appena alzata dalla scrivania di Sanders – verosimilmente, anche a lei erano state fatte alcune domande – e si faceva strada attraverso gli agenti in divisa.

«Come mai ci hai messo così tanto? È successo qualcosa? Ti serve un avvocato?»

Non era sua intenzione risultare apprensiva, così come non lo era cercare un contatto fisico con lui. Eppure, il suo primo istinto era stato quello di corrergli incontro, con un velo di preoccupazione dipinto in volto, e di allungargli una mano sul braccio.

Lui la scrutò, confuso e vagamente lusingato nello stesso momento. Nell’attimo in cui i loro occhi si incontrarono, la ragazza si rese conto di aver violato il suo spazio. Si ritrasse di scatto, come se avesse toccato una superficie bollente.

MacArthur spiegò brevemente il malinteso e a scusarsi più volte per il disagio causato. Fu allora che Duncan comprese quanto fosse realmente durato il momento precedente: un paio di istanti. Era la seconda volta in nemmeno dodici ore che un attimo di vicinanza con lei si propagandava nel suo inconscio.

«Da questa esperienza abbiamo imparato una cosa» proferì più tardi, una volta fuori dal commissariato.

L’intensità della pioggia era finalmente diminuita, tanto che non era più necessario ripararsi con l’ombrello. Tuttavia, il cielo era ancora coperto e il vento freddo non accennava a calmarsi. Gli ululava nelle orecchie e gli sferzava le guance.

«Che bisogna rispettare sempre i limiti di velocità?» domandò lei, sistemando il colletto del cappotto.

«Che di me ti importa, e pure tanto» ghignò, tirandole una leggera spallata. «Eri pure pronta a difendermi in tribunale!»

Rispose alla sua spinta con una decisamente più forte.

«È il mio lavoro» gli disse, asciutta. «E, in fondo, non ti detesto a tal punto da lasciarti alla mercé della giustizia americana.»

«Potrei quasi arrossire di fronte a cotanta misericordia!»

Soffocò una risata.

«Ho parlato col centralino dell’aeroporto di Filadelfia» gli annunciò Courtney, aprendo lo sportello e infilandosi dentro. «Non possiamo guidare questa macchina fino in Canada, ma ci permettono di sostituirla a Rochester e di pagare tutto lì.»

Duncan impostò il navigatore. Dalla posizione attuale, Rochester distava centoottantuno miglia che, a causa di qualche rallentamento per dei lavori in corso, avrebbero percorso in poco meno di tre ore e un quarto. Se non si fossero fermati nemmeno una volta, sarebbero arrivati per le nove di sera. Da lì, Toronto non era distante.

Al pensiero che il finale si avvicinasse sempre più, provò un improvviso ed ingiustificabile moto di tristezza. Le ultime due settimane erano state sì estreme, ma anche a dir poco imprevedibili e tornare alla quotidianità, dopo tutte le avventure vissute, si stava rivelando più difficile del previsto. Da qualche parte nel suo cervello, una vocina perentoria – che somigliava fastidiosamente a quella di Bridgette – gli urlò di riprendersi, ‘ché era adulto e, come tale, aveva delle responsabilità.

«È stata una lunga giornata» sospirò, allacciandosi la cintura e mettendo in moto. «Pensavo che potremmo fermarci in un’area di camping per riposare qualche ora. Possiamo viaggiare di notte e arrivare a Rochester domattina all’alba. Così evitiamo anche una buona porzione di traffico.»

«Sì, sono d’accordo» lo colse in contropiede lei. «Tornare con qualche ora di ritardo non farà di certo la differenza. Insomma, saremo comunque a casa prima di pranzo!»

Lui non rispose. Alzò il volume della radio e lasciò che fosse Bless this acid house dei Kasabian a riempire il silenzio.

«Ad ogni modo, se avessi rispettato i limiti, non ti avrebbero fermato e adesso saremmo già a Rochester» gli fece notare una volta entrati in autostrada. «Ergo, è tutta colpa tua.»

Non l’avrebbe mai ammesso, ma un altro motivo per cui non voleva ancora concludere quell’avventura era Courtney.









[ Lighthouse Landing Campground, Marathon, New York ]



Duncan non riusciva a capire quando avesse cominciato a vederla sotto una luce diversa. Un secondo prima era una signora di mezz’età intrappolata nel corpo di una giovane, che lo rimproverava per piccolezze come intromettersi in conversazioni altrui, o staccare per mezzo istante le mani dal volante durante la guida; un secondo dopo era una bellissima donna dal carattere forte ed indipendente, capace di tenergli testa come nessun altro era mai riuscito a fare.

Con un orecchio teneva il filo delle storie assurde che Izzy ed Eva gli stavano raccontando, annuendo ed interagendo quando necessario; con l’altro origliava la disquisizione che Courtney e Noah stavano avendo sulla produzione letteraria del primo Novecento – ogni singola parola che usciva dalle loro bocche era aramaico, ma avrebbe potuto ascoltarla dibattere animatamente di argomenti che la appassionavano per ore.

«E quindi abbiamo aiutato Eva a bucare le ruote del motorino della sua ex» ridacchiò Izzy, in conclusione di una storia di cui aveva a malapena capito l’incipit.

«Ci hanno beccato con le mani nel sacco» aggiunse l’altra donna, spostando le fette di pane abbrustolite dalla griglia ad un piatto di plastica, e cospargendole d’olio. «Ma è stato allora che la nostra amicizia si è consacrata.»

Spostò la sua attenzione sul trio, il più insolito che aveva avuto modo di conoscere. Izzy, Noah ed Eva, rispettivamente una cartomante, un insegnante di letteratura inglese e una personal trainer, si erano conosciuti ai tempi del liceo e non avevano mai perso i contatti. Almeno una volta l’anno, impegni personali permettendo, si ritrovavano e guidavano per un intero weekend ovunque la macchina li avrebbe condotti.

Dovevano aver notato che anche la loro accoppiata era parecchio peculiare, perché non avevano nemmeno fatto in tempo a parcheggiare affianco al loro furgoncino, che subito li avevano invitati a cenare con loro.

«Voi due, invece?» chiese Izzy, spostando lo sguardo da lui ad un punto poco più dietro – gli altri due si erano riavvicinati, richiamati dal profumo della cena ormai pronta. «Come vi siete incontrati?»

Duncan allungò un braccio verso la borsa frigo e vi cacciò una lattina di birra. Strappò via la linguetta e bevve un sorso.

«In aeroporto a Filadelfia, nemmeno quarantotto ore fa. E mi ha subito urlato contro.»

«Se lo meritava» precisò prontamente Courtney, che s’era accomodata alla sua sinistra, addentando una fetta di pane ed olio. «Si è comportato da maleducato.»

«Per buona parte della giornata di ieri mi ha apostrofato anche con altri epiteti poco carini, come irresponsabile, incosciente, pervertito, idiota, pallone gonfiato…»

«Tutti termini che lo descrivono alla perfezione».

«E poi è caduta sotto il mio incantesimo» terminò, poggiandole una mano sulla spalla – in un gesto del tutto amichevole, ma una voce nella sua testa gli chiese se non stesse attraversando, ancora una volta, qualche confine immaginario. «Adesso mi adora.»

«Non è così, ma lasciamoglielo credere» ribatté lei, girandosi in sua direzione, senza reagire a quel tocco.

A quanto pare, no.



* * *



Avevano mangiato e bevuto, e continuato a scambiarsi racconti più o meno divertenti, mentre il cielo diventava sempre più scuro, senza nessun astro ad illuminarlo – erano tutti nascosti dietro i nuvoloni grigi. Dopo cena, avevano fatto qualche partita a carte, fermandosi prima che il clima potesse diventare esageratamente competitivo.

Poi, verso le nove e mezza, il simpatico terzetto aveva cominciato a smontare baracche e burattini – volevano arrivare a Rhode Island prima dell’alba, avevano spiegato – e Duncan si era trovato nuovamente solo con Courtney e un mucchio di pensieri che stava facendo il possibile per sopprimere.

In piedi in riva al laghetto, con una sigaretta ormai consumata per metà fra le labbra, la guardava passeggiare avanti e indietro qualche metro più in là, nel frattempo che parlava al telefono con un’amica. Sorrideva genuinamente.

E lui non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.

Coi tratti latini e le curve sinuose che si ritrovava, non poteva negare di esserne rimasto fisicamente attratto da subito. Quello che avrebbe continuato a negare fino alla nausea era che non c’era nulla di più.

La morsa allo stomaco ogni qualvolta era nei paraggi era uno stupido scherzo del suo inconscio.

Non provava alcun tipo di sentimento romantico per Courtney.

E, anche se fosse, lei era praticamente sposata.

Finalmente distolse lo sguardo e incominciò a passeggiare, evitando i pantani di fango. L’ululare del vento fra gli alberi della foresta circostante si mischiava al chiacchiericcio degli accampamenti più vicini. Nonostante avesse smesso di piovere da un paio d’ore, il petricore impregnava ancora l’aria.

Ci mise un po’ a distinguere i passi, prima affrettati e poi sempre più regolari, alla sua sinistra. Courtney l’aveva affiancato e camminava in silenzio, le mani in tasca a ripararle dal freddo e la chioma color cioccolato leggermente spettinata.

Le allungò la sigaretta, come tacito invito a favorire.

«No, grazie» rispose lei con tono piatto.

«Puoi andare a riposare, se vuoi» sentenziò, prima di riavvicinarla alla bocca e concedersi un tiro. «Posso guidare io fino a Rochester, tanto non ho sonno.»

«Sono a malapena le dieci di sera» gli fece notare. «Nemmeno io ho sonno.»

«Beh, qui non c’è granché da fare. Hai qualche idea?»

«Camminare, parlare.»

Proprio quello che stava cercando di evitare.

«Ci siamo alzati all’alba, come fai ad aver voglia di parlare?»

La cartina s’era ormai consumata.

«L’hai detto tu, non ci sono molte opzioni» ribatté lei, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «A meno che tu non voglia – che so – gettarti nel lago ghiacciato.»

«Potremmo limonare» buttò lì, accompagnando alla proposta un sorrisetto pervertito.

La sua mente non smetteva mai di meravigliarlo, andava in fretta e furia verso le soluzioni più sconce e indecenti – e lui, da bravo impulsivo, non filtrava i suoi pensieri prima di dar loro voce.

Per fortuna, Courtney colse l’ironia dietro le sue parole e rise di gusto. Peccato che lui non fosse completamente certo di star scherzando.

«Ok, hai vinto. Parliamo.»



* * *



Parlarono talmente tanto che percorsero il bagnasciuga avanti e indietro un paio di volte – Duncan, nel frattempo, aveva fumato altre due sigarette. Poi, stanchi, si erano riavviati verso la macchina, aprendo il bagagliaio e accomodandosi sul bordo, nell’unico spazio non occupato dalle valige.

Il vento s’era acquietato, ma la temperatura era sempre più ghiacciata – ben sotto la media stagionale, non sembrava di stare in primavera – e molti si erano ficcati nei propri autoveicoli per riscaldarsi. La maggior parte di questi doveva star già dormendo; il resto si intratteneva in svariati modi – come la coppia nella Ford parcheggiata tre o quattro metri più indietro: i finestrini erano coperti con fogli di giornale e indumenti, e l’autoradio trasmetteva ballate romantiche ad un volume adeguatamente alto da coprire altri tipi di rumori, ma anche da non dar fastidio al circondario.

«Ma come si fa a scopare con I don’t wanna miss a thing in sottofondo?» proruppe ad un certo punto Duncan, distratto dalle note che provenivano da quella direzione.

«Immagino tu sia uno di quelli con una playlist per certe situazioni» commentò distrattamente Courtney, lo sguardo fisso sullo schermo del cellulare. L’aveva preso solo per controllare i social ed eventuali notifiche prima di spegnerlo, così da non consumare inutilmente la batteria.

«Ho una playlist per ogni situazione» specificò. «È ovvio che ne abbia anche una da mettere durante il sesso – e di certo non contiene brani completamente inadeguati come quella loro.»

Si accese la quarta sigaretta della serata sotto lo sguardo contrariato della ragazza.

«Questo tuo vizio finirà per ammazzarti.»

Rispose avvicinandosi alla sua faccia e cacciando una piccola nuvoletta di fumo passivo dalla bocca; lei si voltò di scatto, tossendo una maledizione e svariati insulti.

«Avremmo potuto essere noi due, Court» proferì con tono amaro, indicando con un gesto fugace della mano la Ford. «Ma tu hai preferito parlare.»

Gli tirò un pugno sull’avambraccio.

«Sto per sposarmi» gli ricordò poi, ma con la voce ridotta ad un bisbiglio, come se in realtà volesse rimembrarlo a se stessa.

Duncan era lì lì per chiederle se ci fosse qualcosa che non andava, ma, se l’avesse fatto, avrebbe finito col saltare a piè pari il confine immaginario. Un conto erano i flirt innocenti e i contatti casuali, che davano un semplice assaggio di cosa ci fosse al di là; un altro era condividere i propri sentimenti, essere brutalmente onesti l’uno con l’altra e mutare definitivamente la loro relazione – perché, e questo lo sapevano entrambi, era indubbio che la conclusione sarebbe stata quella. E non poteva essere quella.

«Posso farti una domanda?» cominciò Courtney, un po’ titubante. «Non serve andare nel dettaglio, se non vuoi.»

Stava per arrivare una domanda parecchio personale, era palese dal modo in cui aveva tastato subito il terreno. Pareva avessero stipulato un tacito accordo: incamminarsi lungo il sentiero, senza però inoltrarsi troppo.

«C’è qualcosa che ti penti di aver fatto?»

La sua mente corse subito ad un particolare evento – a distanza di quattordici anni, la vergogna e la rabbia per se stesso erano sentimenti non ancora estinti, motivo per cui i fatti per filo e per segno li conoscevano in pochi. Eppure, nonostante si fosse concesso qualche attimo per pensare ad altro, le parole cominciarono ad uscire fuori come un fiume in piena.

«Quando avevo quindici anni, c’era questo ragazzo più grande che era il sogno erotico di metà scuola – punk, teppista, pieno di piercing e tatuaggi, ribelle, probabilmente comunista… insomma, il tuo tipoammiccò in direzione di Courtney, che alzò gli occhi al cielo – e sfortunatamente pure il mio. Avevo un buon rapporto col fratello, quindi non fu difficile avvicinarmi a lui. Presto ho scoperto che faceva parte di alcuni circoli viziosi, e questo lo fece apparire ancora più succulento ai miei occhi – non giudicarmi, ero un ragazzino!

«Finii per caderci anch’io, solo per potermi far vedere da lui sotto una luce diversa. Ci volle un po’, ma alla fine ottenni quello che volevo. Era una relazione puramente carnale, dubito che abbia mai provato quello che io provavo per lui. Ma – di nuovo – ero solo un ragazzino, non mi interessava sapere se fosse innamorato o se mi usava solo per svuotarsi le palle. Ero comunque felice.»

Si distrasse a guardare la cartina della sigaretta bruciare rapidamente fra le dita, mentre tirava via coi denti una pellicina dal labbro inferiore. Era arrivato il momento clou e stava cercando il modo migliore per narrarlo; Courtney lo comprese e lo guardò, incoraggiante.

«Una domenica sera mi ha portato in una concessionaria di West Hill, dicendo che solo io potevo aiutarlo, ma che non potevo fare domande di alcun tipo. Abbiamo scavalcato il cancello, mi ha fatto forzare la serratura di una decapottabile e mi ha chiesto se fossi in grado di metterla in moto senza chiave. I vicini avranno avvertito il trambusto, perché mezzo secondo dopo esserci immessi in strada ci siamo trovati gli sbirri alle costole. Abbiamo tentato di seminarli, ma un’altra volante ci ha tagliato la strada e ci hanno circondati. Lui ha fatto un annetto di carcere, io un paio di mesi in riformatorio.»

Provò a leggere l’espressione sul volto di lei, ma era completamente impassibile. Non sembrava sul punto di volerlo giudicare, né di commiserarlo – aveva anzi la sensazione che una minuscola parte del suo cervello stesse pensando ad altro.

«In conclusione, sono stato un enorme coglione» disse con tono asciutto, schiacciando la punta della paglia sul bordo del bagagliaio e alzandosi per poterla gettare nel portacenere dell’auto. Era posizionato fra i sedili anteriori, proprio davanti al cambio. «Ma, alla fine, meglio il rimorso che il rimpianto» aggiunse poi a voce alta, richiudendo lo sportello e tornando ad accomodarsi accanto a Courtney, che aveva seguito i suoi movimenti con lo sguardo. «La mia filosofia di vita è non tirarsi mai indietro. Mal che vada, toccherà mettere qualche pezza in futuro. Meglio quello, che pentirsi per tutta la vita di non aver colto l’attimo.»

«Ogni azione ha delle conseguenze» gli fece notare, come se avesse tralasciato il più importante dei dettagli. «Non sempre si può mettere una pezza.»

«Vero, in alcuni casi è necessario qualcosa di più ampio. Una benda, un tendone–»

«Tu non sai proprio cosa voglia dire assumersi le proprie responsabilità, non è vero?»

La frecciatina lo colpì appieno. A ferirlo fu la consapevolezza che, dietro ad una frase dettata dall’impulsività, ci fosse un alone di verità.

La guardò dritto negli occhi, che riflettevano un certo disagio. Si era pentita di quel giudizio nell’istante in cui aveva lasciato la sua bocca. Era inoltre turbata, e non per la visione di pensiero differente dalla sua, ma perché la sua mente era vagata verso differenti lidi. Non si premurava nemmeno di nasconderlo.

Per tutto il tempo le loro braccia non avevano fatto altro che sfiorarsi, costretti entrambi in uno spazio ristretto. Duncan sembrò notarlo solo allora. Ne approfittò per muovere la mano verso la sua e poggiare le dita sul dorso.

«Duncan…»

Le sue labbra vibravano in maniera quasi impercepibile, lasciavano presagire che era sul punto di aggiungere dell’altro. Poi, però, scosse la testa e la lasciò scivolare sulla spalla di lui, sospirando.

Egli rimase paralizzato, ignorando il cuore che aveva preso a battere un po’ più in fretta. Solo dopo un minuto buono si azzardò a far scivolare la punta delle dita lungo tutto il braccio, risalendo fino alla scapola ossuta. Appoggiò la mano sulla parte alta della schiena, continuando a carezzargliela e sentendola rilassarsi sotto il suo tocco.

Provò l’impulso di volerla attirare ancor più verso sé, di stringerla contro il suo fianco e immergere la guancia fra i suoi capelli. Durò giusto il tempo di ricordare che era praticamente sposata.

«Forse dovremmo provare a dormire un po’» constatò, picchiettandole gentilmente la spalla per farla alzare.

Il suo battito cardiaco tornò regolare.



* * *



Sette minuti a mezzanotte.

Duncan cambiò nuovamente posizione, stavolta accomodandosi per bene contro il poggiatesta, alzando appena il mento. Chiuse gli occhi.

I pensieri presero a vorticare nella sua scatola cranica.

Era a circa cinquecento chilometri da casa.

Sabato sera si sarebbe esibito davanti ad un discografico.

Gwen sarebbe stata lì.

Courtney.

Li riaprì trenta secondi dopo, più frustrato che mai.

Recuperò il cellulare dal portaoggetti e prese a scorrere la bacheca di Instagram. Sperava che la noia lo colpisse in fretta, e con essa anche il sonno. A meno che non avrebbe trovato l’interruttore per spegnere il suo cervello, non sarebbe successo presto.

Buttò uno sguardo allo lo specchietto retrovisore. Rannicchiata sui sedili posteriori, Courtney dormiva beatamente, il petto che si alzava e abbassava ad intervalli regolari. Non aveva tolto il cappotto e teneva attorno alle spalle una sua vecchia felpa, che le aveva lanciato senza troppe cerimonie quando s’era accorta che stava battendo i denti.

Attento a non far il minimo rumore, si infilò le scarpe da tennis consunte e scese dalla macchina. Di camminare non aveva voglia e aveva già assunto fin troppa nicotina. Si appoggiò mollemente alla carrozzeria, desiderando di potersi scaldare con dell’alcol.

O col calore del corpo di lei contro il suo.

La vibrazione del telefono lo richiamò prima che l’immagine potesse tingersi di erotismo.

Non si premurò di leggere il nome del contatto.

«Pronto?»

«Pensi che tutto questo sia un gioco?»

La voce di Chase suonò come un sibilo velenoso. Lo colse di sorpresa, a tal punto che aveva allontanato il ricevitore dall’orecchio.

«Dopodomani sera ci giochiamo un contratto discografico e tu, invece di muovere il culo e portarlo qui alla velocità della luce, stai cazzeggiando in un altro Stato.»

«Non sto cazzeggiando.»

«E allora come lo spieghi il concertino di stamattina? O il picnic? Noi qui a sputare sangue e tu in vacanza!»

Si sentì montare dalla collera.

«In vacanza! È da ieri che guido sotto un cazzo di diluvio universale! E, come se non bastasse, il destino ha deciso di trasformare il tutto in una commedia degli equivoci – mi ha fermato la polizia credendo che fossi un rapinatore della zona!»

«Quindi è per questo che in due giorni sei stato capace di fare solo metà strada? Non c’è nient’altro – o nessun altro – che ti distrae?»

Era palese a chi si stesse riferendo e quale implicazione avesse il verbo distrarre.

Cominciò ad alterarsi sul serio.

«Cosa staresti insinuando?» tuonò minaccioso. «Dillo ad alta voce, se hai il coraggio.»

Chase sbuffò. Quando riprese la parola, si era tranquillizzato.

«In questi giorni Ziggy ha provato anche le tue parti» lo informò con lo stesso tono che avrebbe usato per raccontargli un pettegolezzo. «Non è di certo te, però all’occorrenza potrebbe essere una buona alternativa.»

Duncan si fece scappare una risata di scherno.

«Non starete mica pensando di sostituirmi con lui!»

Ziggy – che per qualche motivo arcano nessuno chiamava col vero nome – era il fondatore dei Der Schnitzle Kickers e, prima che arrivasse lui, ne era stato anche il cantante. Non era male, ma era poco più che mediocre e troppo simile ad altri timbri già presenti sul mercato, quindi era stato confinato ai cori e alla chitarra ritmica – e lì sì che era un mostro!

«Nessuno vuole sostituirti, D. Sarebbe solo per sabato, nel caso in cui tu non faccia in tempo a tornare.»

«Allora sarebbe meglio rimandare tutto» sentenziò glaciale. «Senza di me ci sono ottime possibilità che non firmiate nulla.»

Sapeva già che, a mente lucida, si sarebbe pentito di quell’ultima dichiarazione.

«Vola basso, rockstar» lo riprese il suo bassista, accigliandosi nuovamente. «Non sei indispensabile.»

«Ne riparliamo domenica mattina.»

Riattaccò senza dargli possibilità di replicare, borbottando una bestemmia a denti stretti.

Non riusciva a scacciare di mente la sensazione soffocante di essere stato pugnalato alle spalle per la seconda volta in meno di due settimane. Probabilmente, l’indomani sarebbe risultata essere solo una crudele e distorta visione dettata dalla rabbia. Fino a quel momento, si sarebbe sentito tradito.

Guardò Courtney attraverso il finestrino, per accertarsi che stesse ancora dormendo. Successivamente, voltò le spalle all’auto e s’incamminò in direzione dell’uscita.

Aveva bisogno di liberarsi di quei grattacapi.

Aveva bisogno di bere.









[ La notte fra il 22 e il 23 aprile – Marathon, New York ]



Il bottino della serata: un occhio pesto, un labbro spaccato e le nocche sbucciate. Aggiunta bonus: era ubriaco fracido.

Non doveva andare così, i piani erano prendere una leggera sbronza e tornare indietro. Ma, un drink aveva tirato l’altro e delle sequenze successive aveva solo fotografie sbiadite – Warning dei Green Day cantata in coro con il barman e un altro tizio, la lingua di uno dei due nella sua bocca, il suo pugno sulla mascella di un brutto ceffo.

Duncan trascinava il suo corpo devastato lungo un viale residenziale, convinto che l’avesse percorso all’andata. O forse non c’era mai passato prima. Dopotutto, non ricordava minimamente come fosse arrivato in città – però ricordava una moto. Che si fosse fatto dare un passaggio?

Non importava, perché erano le due e mezza del mattino e non avrebbe avuto la stessa fortuna per il ritorno.

Cercò l’app delle mappe sul suo cellulare, sforzandosi per ricordare il nome del campeggio. Distava quattro miglia dalla sua posizione, il che significava un’ora e mezza di cammino. Per di più, la batteria era al dieci percento; si sarebbe scaricata prima di arrivare.

Fu colto da un giramento di testa.

Si accasciò contro un muretto. Si sedette con le gambe contro il petto e si massaggiò le tempie, ricordando cosa dovesse fare.

Doveva tornare indietro.

Avvicinò due dita alla bocca, intenzionato a vomitare per evitare di sentirsi troppo male durante il tragitto.

Lasciò ricadere il braccio lungo il fianco, troppo stremato per farlo.

Le ferite bruciavano.

Il sangue secco gli macchiava metà mento.

Gli arti erano intorpiditi.

Doveva riposare un po’.

Lasciò che le palpebre si chiudessero, facendosi cullare dal silenzio tombale della città addormentata.

All’improvviso, gli si accese un campanello d’allarme.

Era a circa cinquecento chilometri da casa.

Era ubriaco e semi cosciente.

Se non si fosse alzato, avrebbe finito col collassare.

Courtney.

In un attimo di improvvisa lucidità, si fiondò alla ricerca del suo numero nella rubrica. La chiamò, ma dopo nemmeno uno squillo partì la segreteria telefonica. Provò con un messaggio, ma la sua vista era annebbiata e non riusciva a distinguere le lettere sulla tastiera. Quindi, pigiò in basso a destra il tondino azzurro col microfono.

«Court» cominciò, con tono di voce strascicato. «Ho bisogno di aiuto».












Angolo dell’autrice

Ricordate quando ho detto che il primo capitolo era stato un parto? Ecco, mi rimangio tutto: scrivere questo è stato mille volte peggio.

E volete sapere la parte divertente? Nella mia testa, era già pronto dai tempi del prologo. Il problema è stato mettere nero su bianco le mille idee che avevo, ed erano talmente tante che ho dovuto pure tagliare le scene superflue. L’unica sequenza cui non avevo pensato è quella in commissariato, nata a seguito di un aneddoto raccontato a lezione dal mio prof di letteratura anglo-americana.

Però, adesso siamo qui e ce l’abbiamo fatta.

Ci tenevo a dedicare un po’ di spazio a Duncan, perché le mie fanfiction sono sempre molto più Courtney-centric, e c’erano un paio di dettagli che volevo delineare – in origine avevo pensato a molte più cose, magari vedrò di inserire quelle meno inutili prossimamente.

A tal proposito, ho già cominciato a mettere mano al capitolo quattro e potrebbe volerci più del previsto – ancora una volta, ho un sacco di spunti da rimettere in ordine. Certamente, questi due continueranno a negare l’ovvio fino alla fine.

Ah, e l’audio di Duncan avrete modo di “sentirlo” tutto più avanti nel racconto.

Detto ciò, alla prossima! xx

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Capitolo 5
*** Quattro ***


Quattro







«Voglio un bambino.»

Courtney per poco non si strozzò.

«Con i nostri geni assieme, non solo verrebbe fuori una meraviglia, ma sarebbe anche intelligentissimo» continuò a farfugliare Scott. «Io potrei insegnargli a intagliare, mentre tu a suonare il violino. Già ci vedo, noi tre in un bel cottage fuori città.»

I suoi erano deliri dettati dalla febbre alta, ma era consapevole che dietro essi si celava davvero il desiderio di metter su famiglia.

Onde evitare di morire soffocata, poggiò il bicchiere d’acqua sul comò e si girò dalla sua parte per rimboccargli le coperte.

«Un passo per volta» sussurrò lei, sfiorandogli le guance bollenti col dorso della mano. «Prima pensiamo a sposarci, poi ne riparliamo.»

Avrebbe fatto in modo che non ci sarebbe stato nessun poi.

Perché lei non voleva un bambino.









[ Venerdì 23 aprile – Lighthouse Landing Campground, Marathon, New York ]



Avrebbe potuto essere un risveglio bucolico, tra il cinguettio degli uccelli e i pallidi raggi del sole a bagnarla. Peccato solo per la posizione non proprio ottimale, che aveva finito con l’intorpidirle i muscoli. Nonostante ciò, avrebbe dormito volentieri per un altro quarto d’ora.

Si stiracchiò lentamente, sbattendo più volte le palpebre e mettendo a fuoco lo schienale del sedile anteriore. Intanto che le immagini della giornata precedente si facevano spazio nella sua memoria, le sue iridi si mossero verso il posto di guida, ma non vi trovò nessuno. Dovevano già essere giunti a destinazione. Quando si ridestò, però, comprese che c’era qualcosa che le sfuggiva: era nello stesso posto in cui s’era addormentata – stessi alberi, stesso lago, meno macchine e roulotte parcheggiate – e di Duncan non si vedeva nemmeno l’ombra.

Courtney si scrollò da dosso la sua felpa – ignorò che fosse impregnata del suo odore – e si fiondò fuori dalla Prius, cominciando a ispezionare i dintorni. E più non scovava la sua figura da nessuna parte, più sentiva un peso attanagliarle il petto – rabbia, si disse, perché quell’imbecille era sparito senza lasciare tracce.

Si ricordò di aver spento il cellulare. Magari aveva provato a contattarla.

Strabuzzò gli occhi quando lesse l’orario: le nove e cinque. La crisi di nervi era ormai prossima.

In rubrica, c’erano una chiamata persa alle due e trentatré e un messaggio vocale inviato tre minuti più tardi. Nient’altro. Ed erano passate la bellezza di sei ore e mezza.

Il peso in petto si era intensificato e tenere a bada la tachicardia era sempre più arduo. L’immagine di Duncan, privo di sensi e gravemente ferito, s’era infiltrata nella sua mente e non riusciva a cancellarla. Doveva ascoltare l’audio, ma era paralizzata dal terrore che quel sentore potesse tramutarsi in realtà.

Avrebbe voluto ammazzarlo a mani nude, perché non aveva nessun diritto di portarla ad un passo da un attacco di panico – perché era uno sconosciuto e tale doveva rimanere.

Il rumore di quattro pneumatici che avanzavano a fatica sullo sterrato le fecero rendere conto di trovarsi in mezzo ai piedi, immobile al centro della strada. La macchina inchiodò di colpo, alzando breccia e terra, e Courtney si voltò nello stesso istante in cui fece capolino dall’abitacolo un ragazzo dai capelli castani, schiacciati contro il cranio e il collo da un berretto rosso, e gli occhi del medesimo colore, contornati da pesanti occhiaie.

La salutò con la mano.

«Ciao! Per caso è tuo?»

Si aspettava di veder saltare fuori un animaletto domestico smarrito; invece, si trattava di una testa verde che aveva imparato a conoscere bene.

Si muoveva con passo lento, quasi strisciato. Aveva delle contusioni in faccia e in generale era messo uno schifo; perlomeno respirava ancora.

«¡Maldito idiota!» sbraitò Courtney, fiondandosi addosso a lui e colpendolo ripetutamente sulle braccia e sul petto. «¿Quieres llevarme a mi muerte?» (1)

Lui aprì la bocca, forse per chiedere la traduzione di qualunque improperio gli avesse gridato, ma riuscì ad emettere solo suoni stizziti, poiché impegnato a schivare l’uragano di pugni e sberle.

«Si può sapere dove diamine sei stato?»

«L’ho trovato mezzo svenuto davanti casa mia» intervenne il ragazzo sconosciuto. «Puzzava come un pub e ha vomitato sul mio vialetto, quindi provo ad azzardare l’ipotesi che ieri sera abbia bevuto un po’ troppo.»

Non aveva mai sentito così impellente l’urgenza di rimproverare qualcuno. Non solo non aveva mantenuto fede alla promessa data, ma aveva anche ben pensato di abbandonarla nel cuore della notte per sbronzarsi a tal punto da crollare tra i vicoli di una città sconosciuta.

«Comunque, l’ho rianimato con due ceffoni e, dopo aver perso altro tempo prezioso ad aspettare che gli si riattivassero le sinapsi, sono riuscito a scucigli delle informazioni» parlò nuovamente l’anonimo benefattore, con aria quasi scocciata. «E nulla, eccoci qua.»

«Grazie mille-»

«John» la interruppe, presentandosi. «E ringrazia il tuo amichetto perché, se non avesse sganciato cinque dollari, avrebbe dovuto trovarsi un altro passaggio. Purtroppo, io non scorrazzo in giro brutti loschi gratuitamente.»

«Ehi, John! Te l’avevo detto che era reale» esclamò Duncan con tono canzonatorio, inclinando il capo in direzione della ragazza.

Quello si limitò ad una smorfia.

«Ora tolgo il disturbo» si congedò. «Immagino che abbiate molto da raccontarvi.»

Courtney attese che la macchina ripartì, con un colpo di frizione e un rumore che non prometteva nulla di buono, prima di esordire con una minuziosa e intensa filippica, che minacciava di propagarsi per minuti interi. Duncan si era già accorto, dal modo in cui aveva gonfiato le guance, che stesse per esplodere e aveva provveduto ad allontanarsi di qualche passo.

«Sei il re dei deficienti! Mi spieghi quale fra i tuoi neuroni fulminati ti ha suggerito che fosse una buona idea farti Dio solo quanti chilometri a piedi e ubriacarti fino a perdere i sensi? E nemmeno hai avuto la decenza di avvertirmi! Mi hai fatta preoccupare da morire! E come hai fatto a ridurti la faccia in quel modo?»

Per la seconda volta in pochi minuti, provò a prendere la parola, ma ci ripensò quando incrociò i suoi occhi che, se avessero potuto, l’avrebbero ridotto in cenere seduta stante.

«Non solo sei un incosciente, ma pure un bugiardo! Mi hai mandata a dormire con la promessa che avresti guidato fino a Rochester durante la notte. E indovina dove siamo la mattina dopo? Nello stesso campeggio sperduto in qualche zona remota della Pennsylvania! Domani sera devo presenziare una cena con cinquanta invitati e per colpa tua sono ancora bloccata in un altro Stato!»

«Courtney-»

«Courtney un corno!» gridò istericamente, attirando su di sé l’attenzione di qualche curioso. «Non voglio sentire un solo fiato uscire dalla tua bocca! Ora, fila in macchina! Non ho intenzione di sprecare un secondo di più».









[ Cortland, New York ]



Lo spiacevole compito di rimproverarlo per il suo comportamento ingestibile era toccato spesso e volentieri a suo padre, ma erano le strigliate di sua madre che avevano sempre sortito più effetto. Erano sì più rade, ma capaci di farlo rimanere senza parole e, talvolta, persino di mortificarlo. Seguivano lunghi ed estenuanti silenzi, fino a quando non tracollava e strisciava a chiederle scusa.

Duncan non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi, un giorno, al cospetto della degna avversaria della sua genitrice.

Nei venti minuti che separavano Marathon da Cortland, Courtney non aveva staccato gli occhi dalla strada e non gli aveva rivolto né sgridate, né insulti. La tensione s’era gradualmente allentata, così come s’erano rilassate le sue labbra, e non teneva più la fronte corrugata. Aveva acconsentito ad una breve pausa per comprare qualcosa da sgranocchiare durante il viaggio e, di ritorno dal discount, si era persino procurata il necessario per medicargli le ferite – «Non voglio che qualcuno pensi che sia stata io a ridurti così» aveva subito tagliato a corto.

Era conscio, tuttavia, che la guerra fredda sarebbe terminata solo nel momento in cui avrebbe pronunciato la fatidica parolina magica.

«È solo acqua ossigenata» sbottò lei, notando come aveva stretto i denti quando gli aveva passato il batuffolo di cotone imbevuto sulle nocche.

«Lo so, ma brucia» si lamentò esattamente come avrebbe potuto fare un bambino. «E tu non hai esattamente una mano delicata.»

Premette più a fondo su una ferita, solo per vederlo trattenere un verso di dolore.

L’aveva fatto accomodare su una panchina poco distante dal parcheggio, per poter operare più comodamente, e aveva riempito il posto vuoto con una busta contenente gli attrezzi del caso. Gli aveva persino offerto una bottiglietta d’acqua ghiacciata, da appoggiare sopra l’occhio pesto.

Finito con le mani, si spostò a disinfettargli il labbro e a ripulirlo dalle tracce residue di sangue. Ricurva sul suo volto, gli faceva da parasole e si muoveva veloce e precisa, come se compiesse quelle azioni con cadenza quotidiana.

«L’ideale sarebbe fare dei risciacqui con l’acqua salata» spiegò, recuperando una pomata antidolorifica dalla pila. Svitò il tappo e ne applicò una goccia sull’indice sinistro. «Ma questo offre la casa. E dovresti anche tenere la testa elevata, per evitare che il labbro si gonfi ulteriormente».

«Fra i mille corsi che hai frequentato, ce n’era pure uno di primo soccorso?» domandò lui, curioso.

«Sono stata capogruppo in un campo estivo» raccontò, richiudendo il tubetto. «Ho dovuto imparare questo e molto altro – per citarne una, sarei in grado di usare un defibrillatore».

Il labbro smise di pulsare non appena gli spalmò la crema fresca sulla spaccatura.

«Dovevi proprio scegliere il giorno prima del concerto per ridurti la faccia in queste condizioni» borbottò Courtney, infilando una mano all’interno di una pochette nera e tastandone l’interno.

Accompagnata ad una fitta di dolore, gli ritornò alla mente la discussione accesa avuta con Chase e la convinzione con cui aveva affermato che, senza di lui, la band non sarebbe andata da nessuna parte. La lista di persone cui doveva delle scuse stava diventando un tantino lunga.

Assieme, sebbene non avesse diritto di sentirsi così, tornò anche la bruciante sensazione di aver un coltello conficcato fra le spalle.

«Ci sono buone probabilità che domani non mi esibisca» constatò con tono amaro, appoggiando di lato la bottiglia. «Vogliono sostituirmi anche loro.»

Lei interruppe la sua ricerca per guardarlo dritto negli occhi, con le sopracciglia inarcate e una tacita richiesta a spiegarsi meglio.

«Ricordi Gwen? Non ci siamo lasciati di comune accordo, ma ho scoperto che mi faceva le corna. Ho guidato fino a Gravenhurst per passare una giornata con lei e, ad aprirmi la porta, è stato l’amante» le narrò, il volto deformato da una smorfia. «E, siccome si sono convinti che io stia ritardando di proposito il rientro a Toronto, i ragazzi hanno trovato un rimpiazzo per il concerto di domani. Due situazioni diverse, ma la morale della storia è che sono stato tradito da fidanzata e amici nel giro di nemmeno due settimane». Esitò prima di aggiungere: «Certo, mi sarei potuto risparmiare l’uscita poco simpatica secondo cui, se il gruppo funziona, è soprattutto merito mio, ma-»

«Chi ti credi di essere?» tuonò Courtney, scioccata. «Fossi in loro, ti caccerei a calci in culo seduta stante! Il gruppo funziona perché lavorate in squadra, ognuno con le proprie idee e i propri punti di forza. Se avete ricevuto una proposta di contratto, non è solo per le tue doti, ma per quelle di tutti. Altrimenti, visto che sei tanto sicuro di te, scaricali e continua come solista.»

Duncan distolse lo sguardo, sentendo le guance scottargli per la vergogna. Gli aveva sbattuto in faccia la realtà dei fatti, e anche lui s’era accorto di aver esagerato, ma ascoltare quanto fosse stato superbo dalla voce di altri era una sensazione poco piacevole.

Non sarebbe andato da nessuna parte senza i suoi ragazzi. Suonavano insieme da quasi dieci anni, avevano condiviso sconfitte e successi ed erano cresciuti assieme, sia come artisti che come persone. Erano una famiglia.

Intanto che si appuntava a mente il discorso di scuse, Courtney era tornata con le mani dentro alla pochette e aveva tirato fuori una boccettina di vetro, con del fondotinta giallo al suo interno, e una spugnetta.

«Il giallo annulla il viola del livido» spiegò, applicando un po’ di prodotto sul dorso della sua mano. Picchiettò la chiazza con la spugnetta e, con cura maniacale, prese a coprirgli la ferita. «Già così va meglio, ma domani sera, per coprirlo del tutto, puoi completare con fondotinta del colore del tuo incarnato e cipria per fissare».

«Grazie» rispose. «Per tutto».

Gli sorrise timidamente.

«Quasi come nuovo» commentò poi, dando un’ultima controllata e riponendo gli attrezzi. «Mentre rimetto tutto a posto, puoi chiamare i tuoi colleghi e chiedere umilmente perdono lontano dalle mie orecchie poco discrete, così da non rovinare gli ultimi rimasugli della tua personalità da duro.»

«Che è quella che ti ha fatta innamorare di me, ammettilo» ammiccò Duncan, alzandosi dalla panchina e avvicinandosi a pochi centimetri dal suo viso. Resistette all’impulso di prenderglielo fra le mani, per constatare se fosse più piccolo di esse.

Lei gli diede un rapido buffetto sulla guancia, a mo’ di bonaria presa in giro.

«Non avrei dovuto allontanarmi dal campeggio» cominciò lui, con tono mesto. «Mi dispiace di averti fatta preoccupare.»

«Acqua passata, ma non lo fare mai più» lo ammonì, allungandosi di lato per afferrare i manici della busta. Prima di girare i tacchi, constatò con certezza disarmante: «E non conosco la situazione, ma se la tua ex ha ben pensato di tradirti, vuol dire che non ti ha mai meritato.»









[ Route 90, New York ]



Da quando si era lasciata Syracuse alle spalle e aveva imboccato la ramificazione in direzione di Buffalo, Courtney aveva iniziato a percepire un sempre più crescente senso di nausea.

Doveva essere stata colpa del sandwich di tonno, addentato in fretta e furia mentre conduceva l’automobile lungo l’autostrada. Evidentemente, il retrogusto strano non era una sua peculiarità, né era dovuto a delle spezie, ma era soltanto andato a male e, come risultato, il bolo alimentare le aveva provocato un bruciore insopportabile allo stomaco, minacciando di risalire l’esofago da un momento all’altro.

Aveva ancora quarantacinque minuti di strada davanti. Per fortuna, il diluvio delle due giornate precedenti sembrava essere un brutto ricordo e le condizioni atmosferiche che le si prostravano dinanzi – un sole raggiante e qualche adorabile nuvoletta bianca – erano finalmente consone alla primavera. Poteva vincere la battaglia, doveva solo stringere i denti e accelerare il passo.

L’immagine del test di gravidanza, abbandonato nella sua borsa assieme a portafoglio, fazzoletti e cianfrusaglie varie, la colpì come un fulmine a ciel sereno e il suo cervello le fece notare che, nell’ultima settimana, disturbi simili erano stati frequenti.

Un esempio era martedì mattina, quando solo il paracetamolo era stato in grado di lenire la forte emicrania con cui si era alzata – non gliel’avevano provocato il viaggio in aereo e l’imminente processo. O, almeno, non solo quelli.

Ancora, ieri dopo la colazione. Di certo, dopo un mese di dieta a base di fiocchi d’avena, ingurgitare un intero piatto di pancake ricoperti di sciroppo d’acero non era stata un’idea brillante, e, come se non bastasse, a scombussolarla ci avevano pensato anche i nascenti sentimenti per un tipo conosciuto ventiquattro ore prima. Non potevano, però, essere abbastanza da farla rinchiudere in un cubicolo a vomitare l’anima.

Doveva riempire la quiete assordante prima che l’avrebbero fatto le sue paranoie. Tese l’orecchio destro: con una gamba poggiata sul cruscotto e il cellulare tenuto in modo tale da riprendere tutta la faccia, Duncan era in videochiamata con il resto della band. Indossava le airpods, quindi poteva captare solo il cinquanta percento della conversazione: i consigli, le istruzioni, i “puoi suonarmelo ancora una volta?”, i versi intonati a bassa voce.

Era incredibile, notò Courtney, come in quel contesto avverso, senza uno strumento in mano, ping e connessione ballerina che rendevano difficile la comunicazione, e la batteria che si scaricava veloce, stesse facendo il possibile per ottenere risultati fruttuosi. E non c’era il minimo cenno di noia o frustrazione sul suo volto, solo il luccichio che gli illuminava lo sguardo ogni qualvolta nominava il suo lavoro.

Gli aveva raccontato come avesse faticato a trovare il proprio posto nel mondo, e come metà della sua famiglia non avesse mancato di farglielo pesare. Constatare quanto lo appassionasse il ruolo che s’era cucito addosso la riempiva di immotivato orgoglio.

Gli angolo della sua bocca erano curvi verso l’alto. Avvampò quando realizzò il motivo per cui stava sorridendo: era l’ingenua protagonista di un teen drama e si era presa una cotta per il bulletto dal passato tenebroso e l’animo tenero.

Si sforzò di cacciare fuori un motivo per avercela con lui – perché, ad un tratto, ha deciso di diventare attraente? Non poteva rimanere un rozzo cavernicolo? – ma era con se stessa che era arrabbiata – ti sposi dopodomani! Non dovresti nemmeno guardarlo!

Avrebbe voluto schiaffeggiarsi fino a smettere di formulare desideri totalmente irrazionali.

Fra poche ore sarebbe rincasata, non avrebbe più visto la sua faccia piena di piercing e, così com’erano apparsi, i sentimenti sarebbero annegati in qualche angolino remoto del suo cuore.

O non c’era nessuna cotta e a parlare erano gli ormoni impazziti a causa della gravidanza.

La sua bocca si era riempita di saliva. Presto o tardi, avrebbe rimesso.

«Ti senti bene? Sei pallidissima!»

Percepì una scarica elettrica propagandarsi per tutto il corpo dal punto in cui Duncan aveva poggiato la mano sinistra – sulla sua coscia, poco più sopra del ginocchio.

La persona che le restituì lo sguardo dallo specchietto retrovisore aveva, effettivamente, una brutta cera – le guance bianche, gli occhi spalancati e le labbra tese e ben sigillate. Non solo: dall’espressione stralunata, si poteva evincere con chiarezza che la sua mente era scossa da turbe e pensieri di ogni tipo.

Anche davanti al suo palese malessere, trovò le forze di mentire senza ritegno alcuno.

«Sto bene, non preoccuparti.»

Aveva dovuto deglutire prima di aprire bocca, perché nel frattempo la sua cavità orale si era trasformata in una piscina.

A giudicare dall’aria apprensiva con cui non l’aveva smessa di scrutare nemmeno per un secondo, non se l’era bevuta. Era sul punto di aggiungere altro, era palese dal modo in cui aveva fatto schioccare la lingua contro il palato.

«Sul serio», gli scostò delicatamente la mano dalla coscia, sfiorandone il dorso con le unghia solo per bearsi di quel contatto per un’altra manciata di istanti, «sto bene.»

Sospirò, segno che si era arreso alla sua testardaggine. Il nuovo centro dell’attenzione divenne l’autoradio; pigiava ogni tasto distrattamente, vagando da una stazione all’altra.

«Quindi, tu e gli altri avete fatto pace» osservò Courtney, non tanto per curiosità, quanto più per ignorare lo stomaco sempre più in subbuglio.

«Non ce la fanno a tenermi il broncio per più di mezza giornata» ghignò lui, alzando il volume per ascoltare meglio la voce di Florence Welch in Never let me go. «Mi vogliono troppo bene, tanto da rendermi partecipe alle prove via Skype. A proposito, posso usare il tuo caricabatterie?» chiese, indicando il cavetto bianco nel portaoggetti. «Il mio è nel borsone dentro al bagagliaio.»

Annuì.

«Da piccolo, avrei preferito tagliarmi un braccio piuttosto che ammettere i miei errori, oppure farmi aiutare da qualcuno» spiegò Duncan, attaccando il telefono alla presa della macchina. «Oggi, ho chiesto una mano ad uno sconosciuto e scusa a più di una persona. Ed è solo mezzogiorno! Sono fiero dei miei progressi.»

Nel parlare, non s’era scrollato di dosso il sorrisetto mellifluo nemmeno per un secondo, e Courtney comprese dove volesse andare a parare con quella pillola di saggezza.

«Bella mossa» ammise. «Peccato che non abbia bisogno di aiuto.»

Il suo organismo ritenne che quello fosse il momento migliore per contraddirla.

«Sei bianca come un lenzuolo!»

«Quindi?»

Il sapore acro era sempre più forte, scalava spietatamente il tubo esofageo.

«Quindi è chiaro che qualcosa non vada!» esclamò lui, come se la sua fosse la realtà assoluta. «E non capisco perché ti sia incaponita di voler guidare fino a Rochester.»

«Perché era tutto sotto controllo fino a cinque minuti fa!» gridò talmente forte da sovrastare la canzone alla radio. «Poi hai iniziato ad assillarmi, mi sono innervosita e- non ce la faccio più, devo vomitare!»









[ Lunedì 19 aprile – Toronto, Ontario ]



Ripeté a mente lo stesso calcolo per la terza volta. Il risultato fu lo stesso delle precedenti due volte: improbabile, ma non impossibile.

Seduta sul bordo del letto, Courtney teneva fra le mani il calendario e sfogliava avanti e indietro le pagine di marzo e aprile, controllando che non avesse saltato nemmeno un giorno – invano, perché le aveva fissate fino a memorizzarle.

Sette, quattordici, ventuno, ventotto. Trentadue.

Quattro giorni di ritardo.

L’ultimo rapporto doveva essere stato tra la seconda e la terza settimana, quindi in periodo di ovulazione.

Appoggiò il mento su una mano. Gli occhi erano ancora incollati su quei numeretti, ma aveva smesso di osservarli da un po’. Il cervello, al contrario, era perfettamente funzionante e le proponeva una serie di ragionamenti sconnessi.

Non poteva essere incinta, avevano usato le giuste precauzioni – ma ci sono microscopiche percentuali che non funzionino. Sì, ma non poteva essere quello il caso – non doveva essere quello il caso. Era il suo organismo che la ringraziava per le condizioni estreme e ansiogene cui l’aveva sottoposto nelle ultime due settimane. C’era da dire, però, che la pressione costante era sua compagna sin dalla tenera età, e questa non le aveva mai scombussolato il ciclo mestruale. E adesso era al quarto giorno di ritardo. Ma non poteva essere incinta. O sì?

«Ho caricato la valigia in macchina» le annunciò una testa rossa, facendo capolino dal corridoio. «Possiamo andare?»

Sollevò lo sguardo. Scott era spettinato, indossava una consunta tuta verde petrolio e sventolava avanti e indietro un mazzo di chiavi. Gli occhi grigi erano incollati su di lei e studiavano ogni suo microscopico movimento.

«Che guardi?»

«Controllavo le scadenze per un lavoro» rispose prontamente, come se quella bugia se la fosse preparata con largo anticipo, riponendo il calendario al proprio posto sul comodino.

Si rizzò, ma non lasciò la stanza fino a che non vi fosse più una singola pieghetta sulle coperte – «Ora possiamo andare». Il suo fidanzato scosse la testa, interdetto, nel frattempo che la seguiva lungo il corridoio.

«Non c’era bisogno che ti alzassi solo per accompagnarmi in aeroporto» gli ricordò, recuperando la borsa dall’attaccapanni e infilandoci dentro il naso, per accertarsi che non mancasse nulla. «È il tuo giorno libero, dopotutto. Avrei potuto prendere la navetta» aggiunse ad alta voce, quando era già sul pianerottolo e aveva pigiato il tasto dell’ascensore.

«Fino a venerdì ci vedremo molto poco» disse lui, chiudendosi alle spalle la porta e girando la chiave nella toppa, due volte in senso antiorario. La raggiunse e gli schioccò un bacio tra i capelli. «Voglio approfittare di ogni momento per stare assieme.»

Durante uno dei loro primi appuntamenti, Scott le aveva parlato dei suoi nipoti, due gemellini in età prescolare dai suoi stessi capelli rosso carota. Il padre non si era assunto alcuna responsabilità, quindi si era sentito in dovere di aiutare sua sorella Alberta a crescerli. Il rapporto che aveva con loro era speciale, aveva imparato ad amarli più della sua stessa vita.

L’esperienza, come Courtney aveva avuto occasione di constatare, l’aveva portato a coltivare un forte senso paterno – che aveva fatto breccia anche in Thomas, il suo fratellastro di dieci anni e il bimbo più timido e riservato sulla faccia della Terra. La sera in cui l’aveva presentato alla famiglia, l’aveva chiamata in disparte e, allargando quanto più possibile le braccia corte, le aveva detto che il suo ragazzo gli piaceva “tanto così”.

Non aveva mai nascosto il desiderio di voler, un giorno, diventare padre, e non aveva dubbi che sarebbe stato eccellente nel compito. Peccato, però, che si fosse scelto una compagna che, a mettere su famiglia, proprio non ci pensava.

Nonostante fosse stata figlia unica fino a poco prima dell’età adulta, Courtney proveniva da una famiglia numerosa ed era sempre stata circondata da cugini, alcuni anche molto più piccoli di lei, cui s’era talvolta trovata a far da babysitter. Sebbene se la cavasse egregiamente – come con qualsiasi attività, del resto – aveva presto capito di non avere la premura e la pazienza adatte ad essere una buona madre, né di volersi impegnare a svilupparle, perché non avrebbe mai avuto dei figli.

La minima possibilità che, in quel preciso istante, ci fosse un pulsante ammasso di cellule all’interno del suo utero, quindi, la spaventava a morte.

Aveva tenuto la bocca chiusa da quando erano usciti dall’ascensore. Con la testa ostinatamente voltata verso il finestrino, era rimasta a fissare i palazzi di North York scorrere velocemente davanti alle sue retine. Le sue orecchie erano comunque vigili e captavano ogni singolo suono – al momento, Scott fischiettava le note di un pezzo alla radio, Two princes degli Spin Doctors. Si era svegliato di ottimo umore e voleva esternarlo quanto più possibile.

Non riusciva a mantenere il contatto visivo con lui per più di dieci secondi. Nella sua testa si riproduceva in un loop infinito lo stesso video: loro due che aspettavano l’esito del test, due lineette rosse, lui che urlava di gioia e l’abbracciava, lei che si stampava un sorriso falsissimo in volto mentre tentava di non scoppiare a piangere. Lui aveva già cominciato a pensare a dei nomi per il bimbo, lei a come sbarazzarsene.

«Ti ricordi il villino a Nobleton?» domandò Scott, col tono di chi si fosse appena ricordato di dover dare un’importante notizia. Aspettò un suo cenno di assenso prima di continuare: «L’agenzia ha abbassato il prezzo e, se mettiamo insieme i nostri risparmi, possiamo permettercelo. Mi hanno chiesto un deposito per bloccare tutto, ma ovviamente volevo prima parlartene».

Il villino unifamiliare che il suo fidanzato aveva individuato era poco più grande dell’appartamento in cui abitavano. Si trovava su un viale di case tutte uguali, in una contrada scomodissima da raggiungere, fuori dall’area metropolitana di Toronto e a circa quarantacinque minuti dallo studio legale – che, vista l’inesistenza dei mezzi pubblici, avrebbe dovuto raggiungere con la macchina, svegliandosi all’alba per evitare di rimanere imbottigliata nel traffico mattutino. Ciliegina sulla torta era che la fattoria della famiglia di Scott era a tre chilometri da lì, il che significava che sarebbe stata costretta a vederla più spesso.

Aveva arricciato il naso ed era pronta a controbattere, ma lui, che aveva rapidamente stilato una lista mentale con i pro e i contro, fu più svelto: «Lo so che avevamo deciso di rimanere in città, ma siamo realisti! I prezzi degli affitti sono alle stelle, finiremmo in bancarotta ancor prima di firmare il contratto. Sarà uno stress fare avanti e indietro, ma, guardando ad un domani, è un’ottima scelta: la casa ha tutto quello che desideriamo, la mia famiglia è vicina e potrà darci una mano, e potremo crescere i nostri bambini in un luogo sicuro e lontano dallo smog.»

«Hai detto bene, avevamo deciso di rimanere in città» tagliò corto lei, l’attenzione ancora rivolta all’esterno. «Quindi il verdetto è no.»

«Solo nell’ultimo mese hai bocciato tre opzioni» borbottò lui, senza nascondere un pizzico di delusione. «Comincio a pensare che tu non voglia trasferirti.»

Sbuffò.

«Non essere sciocco!»

La reazione fu immediata.

«E allora dimostramelo! Smettila di remarmi contro e proponi una soluzione!»

Courtney fu costretta a guardarlo. La collera nella sua voce era gemella a quella stampata sulla faccia lentigginosa – le sopracciglia erano curvate verso il basso e le labbra increspate in una smorfia.

Tanto bastò per innervosirla.

Non trovava alcun appiglio per confutare la sua tesi – d’accordo, aveva ragione! Ma, data la sua professione, era un paradosso piuttosto ironico. Per di più, non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per riportare luce sulla questione.

A dire il vero, concepiva tutto ciò che veniva dopo domenica come un futuro remoto, tanto da non essere ancora oggetto delle sue preoccupazioni. Quella mattina era stato come svegliarsi da un bel sogno e più riacquisiva conoscenza del mondo circostante, più si rendeva conto di non essere pronta, e più voleva tornare a dormire.

Rimbalzò contro il sedile. Scott aveva inchiodato di colpo davanti ad un semaforo rosso, a pochi centimetri dalla striscia dello stop. Quella banalità fu la goccia che fece traboccare il vaso.

«Siamo nel bel mezzo dei preparativi di un matrimonio, per pagare le spese stiamo lavorando come muli da mesi, e la tua priorità è di spendere altri soldi e trasferirti in mezzo al nulla? Ti sembra davvero il momento giusto anche solo per valutare questa possibilità? Non so se l’hai notato, ma viviamo già in un appartamento più che dignitoso – e, nella peggiore delle ipotesi, non vedo perché non potremmo viverci fino alla fine dei nostri giorni!»

La sua reazione l’aveva colto impreparato, ma non seppe definire se fosse più sbigottito o irato.

Non disse nulla; si limitò a dare gas e ripartire alla volta dell’aeroporto, mantenendo un religioso silenzio.

La canzone era terminata da un pezzo; alla radio stavano dando le notizie dell’ultima ora. I grattacieli cominciavano a lasciar posto ai palazzi e ai parchi della periferia.

«Devo fermarmi un secondo in farmacia» riferì Courtney, incrociando le braccia al petto e fissando un punto davanti a sé. «Ho dimenticato le pastiglie per la nausea.»

Lui alzò il mento, segno che avesse recepito, e cacciò la freccia per svoltare a sinistra.

Fu allora che realizzò: lei quelle cose – una bella casa, una famiglia felice – in fondo le desiderava. Ma non con Scott.









[ Venerdì 23 aprile – Greater Rochester International Airport, New York ]



«Pronto?»

«Stai lavorando? Hai cinque minuti liberi?»

«È successo qualcosa? Mi sembri triste.»

Triste non era il termine più adatto a descrivere la sua condizione. Era a dir poco terrorizzata.

Chiusa dentro uno dei bagni, Courtney era dritta in piedi e respirava piano. Guardava senza battere ciglio la stecca bianca che reggeva fra il pollice e l’indice della mano destra.

Fuori da lì, due ragazzine ridacchiavano e schiamazzavano.

«Non sono triste, sono-»

Le scappò un verso strozzato. La gola era stretta in un nodo e, se avesse alzato troppo la voce, sarebbe esplosa in un pianto disperato.

Inspirò e ricominciò da capo.

«Ho una settimana di ritardo, ho appena fatto un test di gravidanza e», deglutì a fatica, «ho paura che possa essere positivo.»

Dall’altro capo della cornetta, Alejandro mugugnò qualcosa a denti stretti.

«Puoi farmi compagnia mentre aspetto?» chiese lei in un soffio.

La prima linea aveva cominciato a colorarsi. Dovevano essere passati due minuti. Ne mancavano tre.

«Sì, certo.»

Seguirono trenta secondi di silenzio.

«Court, stai vivendo un periodo di stress intenso» provò a rassicurarla lui, che forse aveva già messo assieme buona parte dei pezzi. «Sono mesi che ti stai spingendo fino al limite per conciliare tutti i tuoi impegni, e nelle ultime settimane hai dato il meglio di te. Per di più, sei bloccata a centinaia di chilometri da casa e dubito che tu stia viaggiando in maniera confortevole. Ci sono ottime probabilità che tu non sia incinta.»

In circostanze normali, ascoltare le sue paranoie tradotte in parole l’avrebbe aiutata a comprenderne l’assurdità. Il suo cervello era, però, annebbiato dal panico e mantenere un minimo di lucidità si stava rivelando più arduo del previsto.

«Sono costantemente sotto stress, eppure questo non ha mai influito sul mio ciclo mestruale.»

«Magari questo è il segno che dovresti allentare i ritmi.»

«Non sei d’aiuto.»

La prima linea era sempre più rossa. Della seconda ancora nessuna traccia. Ma i cinque minuti non erano ancora passati.

Non sentiva più le ragazzine, dovevano essersi finalmente allontanate – oppure i loro gridolini erano stati coperti dal suo cuore. Batteva all’impazzata, lo sentiva rimbombare in gola e cresceva di intensità ad ogni secondo. Provò a domarlo con una serie di respiri profondi.

«Perché non ne hai parlato con Scott?»

La domanda era genuina, non aveva l’intento di giudicare le sue scelte.

«Lui vorrebbe dei figli, io no.»

«A prescindere da quello che vuole lui, la scelta finale spetterebbe solo a te.»

«Lo so.»

«Portare avanti una gravidanza indesiderata finirebbe col distruggerti.»

«Lo so.»

Eppure, la sola idea di interromperla la faceva sentire in colpa.

Si ricordò di aver impostato il timer solo quando il telefono vibrò. I cinque minuti erano passati.

«Ci siamo.»

Trattenendo il fiato, abbassò lo sguardo sul test.



* * *



Duncan avrebbe volentieri abolito la sezione ricordi di Instagram.

Nella storia condivisa trecento sessantacinque giorni prima, Gwen era seduta a gambe incrociate su una panchina di Music Garden, e scarabocchiava sull’album da disegno la natura attorno a sé. Il basco nero impediva che le ciocche nere e blu le finissero davanti agli occhi, oltre a conferirle una stereotipica aria da artista. Consapevole di essere ripresa, le sue labbra erano piegate in un sorrisetto compiaciuto. A completare l’opera, vi era l’emoji di un cuore nero in alto a destra.

Erano ancora nel pieno della fase “luna di miele”, quando sorrideva come un ebete solo a nominarla. Erano stati i mesi delle passeggiate infinite, delle maratone di film horror e delle chiamate a tarda notte. Richiamarli alla memoria gli provocava mancanza.

Non era la sua ex a mancargli – teneva un messaggio pieno di insulti nelle note del cellulare; non gliel’avrebbe mai mandato. Era, bensì, la sensazione di ebrezza tipica degli innamorati.

Non rifiutava mai dell’adrenalinico sesso occasionale, ma ciò che più gli donava serotonina era la fase iniziale di una relazione, quella fatta di conoscenza e di sentimenti intensi. Forse era colpa del poco affetto ricevuto da bambino, sicuramente il se stesso adolescente perennemente incazzato col mondo gli avrebbe sputato in faccia, se l’avesse sentito articolare quell’affermazione a voce alta, ma la verità è che gli piaceva amare e, altrettanto, gli piaceva essere amato.

Purtroppo, finiva sempre per innamorarsi della persona sbagliata.

Chiuse l’applicazione e ripose il telefono nella tasca dei jeans. Si stropicciò gli occhi e li puntò verso l’ingresso del bagno delle donne, dentro cui Courtney era sparita almeno da dieci minuti. Doveva stare peggio di quanto traspariva, eppure, anche dopo aver rimesso l’intero pranzo sul ciglio della strada, aveva ugualmente insistito per guidare fino a destinazione.

Due bimbette spalancarono di scatto la porta, mandandola a sbattere contro il muro. Ne approfittò per lanciare uno sguardo discreto, ma di lei non c’era nemmeno l’ombra.

E quella non era l’eccezione.

La lunga chiacchierata della sera precedente aveva cambiato le carte in tavola. Non era più un semplice interesse quello che nutriva, piuttosto era un desiderio impellente di passare intere giornate a scoprire ogni suo singolo dettaglio, e contemporaneamente di mettersi a nudo, ‘ché in qualche modo essere sincero con lei gli veniva spontaneo. Non gli era capitato in nessun’altra relazione.

Aveva anche fantasticato su come sarebbe stato bello farlo sui sedili posteriori dell’auto, ma quello era un di più.

Il nocciolo della questione era un altro: le loro strade erano destinate a separarsi. Magari l’avrebbe rivista, ma in circostanze diverse e con una fede nuziale al dito. Era l’unico finale contemplabile.

La porta si aprì una seconda volta. Fu in piedi ancora prima di accertarsi che fosse lei.

«Ehi, ho parlato col tipo dell’infopoint e mi ha detto che può metterci sul prossimo volo per-»

Si interruppe nell’istante in cui incrociò il suo sguardo. I suoi occhi erano velati dalle lacrime e, nel tentativo di trattenerle, si mordeva il labbro inferiore. Reggeva qualcosa fra le mani; quando Duncan capì cosa fosse, cominciò a boccheggiare.

«È…?»

«È negativo.»

Il secondo dopo stava ridendo. Era una risata forzata, innaturale, quasi macabra se si aggiungevano le lacrime, scure per via del mascara, che avevano iniziato a rigarle le guance.

La sua reazione l’aveva colto alla sprovvista. Non sapeva cosa dire, se provare a consolarla o chiedere spiegazioni. Decise di appoggiare le mani sulle sue braccia e lei tacque di colpo. Nel avvicinarsi, non interruppe il contatto visivo nemmeno una volta, resistendo all’istinto di stringerla forte contro il petto.

«Sono un mostro» pronunciò Courtney a fatica, tirando su col naso. «Sai a cosa ho pensato un secondo prima di guardare il risultato? “Se viene fuori positivo, corro ad abortire.”»

«Non sei un mostro» ribatté, con una serietà e una convinzione che non pensava di possedere. «È il tuo corpo e, se non ti senti pronta, nessuno avrebbe potuto – e dovuto – contestare la tua scelta.»

Di tutta risposta, lei si aggrappò alla sua schiena, crollando con la testa sulla sua spalla. Ricambiò l’abbraccio, lasciando che il naso sprofondasse fra la sua chioma castana, e portandosela talmente vicino da poter sentire i suoi singhiozzi ad un passo dal cuore. Non aveva idea che, fra essi, si celava una domanda cui Courtney non avrebbe dato voce.

Se avessi abortito senza dirlo a Scott, sarei stata un mostro?









[ Alle porte di Niagara Falls, Ontario ]



In un’ipotetica classifica delle pensate idiote che aveva avuto nelle ultime due settimane, quella sarebbe entrata di diritto nel podio. Eppure, nemmeno quella consapevolezza aveva dissuaso Duncan dall’affittare una nuova auto e guidare verso il confine di Stato, dapprima senza una meta precisa e poi seguendo le indicazioni per Niagara Falls.

«Non c’è bisogno che tu lo faccia» gli aveva detto Courtney, prima di accasciarsi, sfinita, contro il sedile. Era crollata poco dopo, trovando finalmente la pace.

L’iniziativa era nata con puro scopo altruistico, ovvero distrarla dagli avvenimenti tumultuosi della giornata e regalarle un paio d’ore di spensieratezza. A mano a mano che aveva macinato chilometri, era venuto a galla un intento a dir poco egoista, completamente opposto al primo: non era pronto a salutarla.

Nella quiete del viaggio, col finestrino abbassato per metà e l’aria fresca del pomeriggio che gli pizzicava il cranio, si era ritrovato ad immaginare una realtà parallela, in cui, dopo una folle serata fra bar e sale giochi, lui le rovesciava addosso i suoi sentimenti e lei buttava all’aria il piano di una vita per dargli una possibilità.

Uno scenario talmente surreale che quasi si vergognava ad esserselo figurato. Nei rapidi istanti in cui l’irrazionalità aveva preso il sopravvento, e aveva sperato che si realizzasse, più che vergogna aveva provato imbarazzo. Si era comunque concesso il lusso di perdersi ancora un po’ nei meandri della sua immaginazione, mentre l’ammirava sorridere nel sonno; distolto lo sguardo, si premurò di chiudere il tutto sotto chiave.

Il cartello di benvenuto lo riaccolse in Canada. Avanzava l’ora del tramonto e il cielo su Rainbow Bridge aveva assunto le tipiche sfumature rosa e arancioni. Alla radio, tenuta a basso volume, il conduttore annunciò il nuovo singolo di una band emergente, Cheer up baby degli Inhaler.

Courtney si era svegliata da qualche minuto, ma lui se ne accorse solo quando si girò e gli toccò una spalla, per richiamare la sua attenzione.

«Manca ancora tanto?»

«No, siamo praticamente arrivati.»

Guardò fuori dal finestrino. Riconobbe le cascate e la cittadina al di là del fiume, abbellite dal crepuscolo. Sull’area pedonale, i turisti immortalavano il paesaggio suggestivo coi propri telefoni.

«Non dovevi» fu l’unica cosa che riuscì a sillabare.

«E invece dovevo» la contraddisse. «Insomma, quale miglior modo per concludere questo viaggio?»















(1) letteralmente “vuoi portarmi alla morte?”, l’equivalente italiano potrebbe essere “vuoi forse uccidermi?”. Ho controllato e dovrebbe essere giusta, ma, siccome fra le lingue che studio non c’è lo spagnolo, correggetemi se sbaglio, o se è più corretto usare un’altra espressione







Angolo dell’autrice

Ormai gli aggiornamenti stanno diventando un appuntamento mensile, ma purtroppo mi è impossibile fare più veloce di così. Spero che i miei pochi lettori – sempre che siano rimasti – non me ne vogliano.

Il mistero sul test di gravidanza è stato risolto e immagino che abbiate tirato un sospiro di sollievo. Ammetto che ero quasi tentata di cambiare tutto e renderlo positivo, ma non mi sembrava il caso di mettere tutto questo angst in quella che nasce come una commedia – ma magari questo e altri trope tragici me li lascio per un’altra storia :)

Il personaggio che compare nel primo paragrafo se lo ricorderà bene chi ha letto La Storia Inversa. John è il mio marchio di fabbrica, probabilmente il motivo per cui sono più conosciuta nel fandom, e dovevo omaggiarlo in qualche modo.

(per voi che mi leggete su Wattpad, potete trovare entrambe le parti su Efp. Vi avverto, però, che la prima è stata scritta nel 2013, quindi è parecchio cringe).

La digressione centrale doveva essere più breve, ma la voglia di approfondire il rapporto con Scott ha avuto la meglio. Mi dispiaceva farlo sbucare fuori solo per l’epilogo. E, nonostante il suo sia un cameo più breve, stesso dicasi per Alejandro, visto che ho sottolineato più volte la sua amicizia con Courtney.

Il prossimo è l’ultimo capitolo prima dell’epilogo – che in realtà, per come l’ho progettato, avrà più o meno la stessa lunghezza di un capitolo canonico. I nostri protagonisti sono più o meno venuti a capo dei loro sentimenti, quindi aspettatevi di tutto – e intendo proprio di tutto, perché ho in mente un bel po’ di cose e non so ancora verso che direzione virerò. Vi assicuro che, comunque andrà, ci saranno interazioni romantiche.

E anche questo l’abbiamo portato a casa! Ci sentiamo al prossimo aggiornamento. xx



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Capitolo 6
*** Cinque ***


Cinque







Nel sogno era vestita di bianco.

Non era l’abito che aveva scelto in origine. Era meno aderente e decisamente più pomposo, con le maniche a sbuffo e la gonna composta da diversi strati di tulle.

Non poteva specchiarsi, ma si sentiva stupenda – si sentiva una principessa. Se la sala fosse stata piena, gli occhi dei presenti sarebbero incollati su di lei.

A pensarci bene, era strano che i suoi cari non fossero lì a celebrare. Altrettanto insolita era la totale assenza di illuminazione sulla navata, tranne che per un cuneo di luce puntato sul fondo.

Al centro, Duncan indossava un semplice smoking nero, adornato da un giglio sull’occhiello. Teneva le braccia lungo i fianchi e il sorriso, il più bello e spontaneo tra quelli che le aveva rivolto, lo rendeva a dir poco splendido.

Era abbastanza certa che egli non fosse il suo sposo, ma non riusciva a rammentare chi altri avesse dovuto occupare quel posto. Vedere lui ad attenderla le sembrava così giusto.

Era pronta a giurargli amore eterno.

Si concesse un attimo per chiudere gli occhi e inspirare.

Quando li riaprì, Duncan era seduto al posto di guida. Le mani erano salde sul volante e gli occhi non si staccavano dal parabrezza. Non sorrideva.

Il ritorno alla realtà le portò via quel pizzico di buonumore che le era stato concesso durante la fase rem.

Nel sogno era tutto così giusto.









[ Venerdì 23 aprile – Niagara Falls, Ontario ]



Si bloccò col braccio a mezz’aria e le dita a pochi centimetri dal suo obiettivo. Lo ritrasse immediatamente, quasi imbarazzato. Quella che gli era appena saltata in mente era un’idiozia bella e buona.

In cima alla borsa, il cellulare di Courtney aveva preso a squillare e, senza che potesse frenarla, la curiosità di Duncan era caduta sul nome del contatto. Scott doveva essere uno dei pochi, se non l’unico, ad essere stato registrato in rubrica senza il cognome. Il suo nome non era seguito da nulla, nemmeno da un classico cuore rosso – non che la cosa lo sorprendesse.

Distolse lo sguardo. Davanti a sé, dieci birilli attendevano solo di essere abbattuti. L’allegra famigliola, che stava giocando nella pista alla sua destra, era talmente rumorosa da impedirgli quasi di riconoscere le note della canzone agli altoparlanti – Low di Lenny Kravitz, indovinò quando giunse il ritornello.

La scenata di gelosia che aveva origliato gli era rimasta impressa, per quanto esagerata e fuori luogo gli fosse sembrata. Nemmeno ventiquattro ore più avanti, era lui ad essere geloso di uno sconosciuto e quella sensazione gli provocava disagio.

Aveva urgenza di associare una voce alla persona di cui aveva sentito tanto parlare. Voleva un quadro più preciso di colui che aveva il privilegio di starle affianco nel bene e nel male, di conoscerla in ogni sua sfaccettatura, di accarezzarla, di baciarla, di farla gemere. Allora, forse, avrebbe potuto reprimere una volta per tutte i suoi sentimenti.

La suoneria si interruppe di colpo; lo schermo rimase acceso un paio di secondi, notificando la chiamata persa. Nel giro di mezzo minuto, ripartì a tutto volume e stavolta Duncan non seppe controllare l’impulso: premette il tasto verde ancor prima di valutare le conseguenze di quell’azione.

«Pronto?»

«Pronto?» domandò di rimando Scott, parecchio confuso. «Credo di aver sbagliato numero.»

Il tono della sua voce era profondo, vagamente gracchiante.

«Non hai sbagliato numero» gli assicurò. «Sono il ragazzo che sta viaggiando con Courtney. Lei è… in bagno. Si è sentita poco bene.»

«È qualcosa di grave? Posso parlarci?»

«No, niente di preoccupante! Deve essere stato qualcosa che ha mangiato. È solo che-»

Sforzò i neuroni per partorire in fretta una scusa plausibile.

«È ancora debole e molto scossa, non è nelle condizioni di rimettersi in viaggio ora – e siamo ancora abbastanza lontani da Toronto. Dubito che riusciremo a tornare prima di stanotte.»

Si sbatté una mano sulla fronte. Non solo era stato tremendamente vago, ma le informazioni sommarie circa il suo stato di salute avrebbero finito col farlo allarmare.

«In tal caso, sono felice che non sia da sola. Mi fa sentire più tranquillo.»

Gli si contorsero le viscere, in un moto improvviso di quelli che parevano dei sensi di colpa.

Non era quella la risposta che si aspettava.

«Devo scappare.»

Riattaccò e, accertatosi che Courtney non fosse nei paraggi, trascinò l’indice sul display. L’intento era cancellare ogni prova di quella telefonata; avrebbe dovuto immaginarsi, però, che il cellulare fosse protetto da una password numerica. Digitò una sequenza a caso, ma naturalmente non successe nulla.

Poté solo far scomparire le notifiche dalla home, prima di riporlo nella medesima posizione in cui l’aveva trovato, pregando affinché se ne accorgesse il più tardi possibile.

Aveva tradito la sua fiducia, di nuovo.

Inoltre, scambiare quattro chiacchiere con Scott non aveva cambiato un bel niente.

Così com’erano apparsi, i sensi di colpa si erano dileguati.

Era ancora cotto di lei. Era ancora geloso di lui.

Sbuffò, frustrato. Era proprio un imbecille.

Quando fu di ritorno, Duncan si premurò di farsi trovare in piedi, lontano dai suoi effetti personali.

«Se non ricordo male, eravamo rimasti che ti stavo stracciando» annunciò lei, le labbra stese in un ghigno compiaciuto. «E toccava a te tirare.»

«Non so te, ma io comincio ad annoiarmi» le disse, recuperando il giubbotto di pelle gettato alla rinfusa sullo schienale del divanetto. «Vogliamo andare a berci qualcosa?»

Aveva sfiorato il coma etilico giusto la scorsa notte, introdurre altro alcol nel suo organismo era tra le ultime posizioni nella lista di idee per trascorrere la serata. Si trattava, piuttosto, del tentativo disperato di distrarla e tenerla lontana dal telefono.

«Non puoi abbandonare ora che sto vincendo io

Protestare non servì a nulla, poiché le aveva già dato le spalle e si stava dirigendo verso la cassa. Fu obbligata a cedere: si lasciò sfuggire un grugnito e gli corse appresso.

Restituite le scarpe e pagata la quota, si ritrovarono per le viuzze piuttosto gremite di Niagara Falls. La sera era calata e, a giudicare dalle code fuori dai ristoranti, doveva essere l’ora di cena.

Duncan procedeva con passo spedito lungo il marciapiede, alla ricerca di un pub in cui potessero entrare senza aspettare più di un quarto d’ora al freddo. Poco più indietro, Courtney arrancava per stargli appresso, schivando gruppetti di ragazzi che venivano dalla direzione opposta.

«Dal momento che stavi brutalmente perdendo, mi aspetto come minimo che sia tu ad offrire!» gli urlò fra un respiro e l’altro.

Individuò dal lato opposto della strada ciò che stava cercando. Il bar per karaoke era incastrato fra due edifici più possenti e passava facilmente inosservato. Nei pressi dell’ingresso, tre uomini stavano fumando degli spinelli.

«Nessuno di noi due caccerà un centesimo» le assicurò. «Ma avrò bisogno del tuo anello.»

«Perché?»

L’espressione malefica parlò al suo posto. Aveva in mente qualcosa di parecchio stupido.

«Dimmi, principessa: quanto sono credibili le tue doti attoriali?»



* * *



Gliel’aveva spiegato per filo e per segno con aria fiera, e Courtney aveva trovato conferma alla sua sensazione: era davvero un piano scemo.

«Non funzionerà.»

«Funzionerà eccome! La gente va pazza per questi sentimentalismi patetici.»

Normalmente, non aveva alcun tipo di problema a stare al centro dell’attenzione, ma solo quando era una situazione di potere e non risultava vulnerabile agli occhi altrui. Non era quello il caso.

A renderla ancora più restia, ci pensava la prospettiva di Duncan inginocchiato davanti a lei, a proclamare una serie di frasi fatte stracolme di nauseabonda dolcezza, concludendo il tutto chiedendole la mano.

Poco importava che si trattasse di un’enorme pagliacciata con una finalità tutt’altro che nobile. Solo ad immaginarselo, il suo cuore mancava un battito.

«Quante volte hai usato questa tattica?»

«Solo una volta. A farmi da complice è stata mia cugina.»

Soffocò una risata.

«Comunque, ricorda che se ti commuovi sono drink extra.»

Si focalizzò su quell’ultimo consiglio – lei che non aveva mai pianto in pubblico, nemmeno ai matrimoni e ai funerali, e che ora stava prendendo in considerazione l’idea soltanto per sbronzarsi.

Duncan era dall’altro lato del locale. Era chinato verso il dj e gli stava bisbigliando qualcosa nell’orecchio. Ad un tratto, la cassa in quarti sfumò per lasciare spazio ad una traccia di pianoforte.

Lo vide farsi spazio fra la folla, stranita dal cambio improvviso di atmosfera, per raggiungerla ed afferrarle entrambe le mani, trascinandola a centro pista.

Come se fossero il fenomeno da baraccone di turno, le teste di tutti si girarono in loro direzione. Alcuni facevano congetture, molti altri dovevano avere già capito ed erano a dir poco elettrizzati.

Si fermarono. Lui le ammiccò e si chinò. Dovette distogliere un attimo lo sguardo, perché le boccate d’aria che aveva preso per tranquillizzarsi si erano rivelate inutili. Si sentiva avvampare.

Abbassò lentamente gli occhi scuri sull’anello di fidanzamento, stretto fra le sue dita, e si accorse che erano velati dalle lacrime.

Scott le aveva fatto la proposta durante le celebrazioni per la notte di mezza estate. I suoi genitori li avevano invitati in fattoria per la tradizionale grigliata e, mentre venivano sparati in cielo i fuochi d’artificio, lui aveva cacciato fuori una scatoletta blu e le aveva posto la fatidica domanda. Circondata dai suoi parenti, pronti a giudicarla e a lanciare sprezzanti sentenze, si era vista costretta ad accettare. Più tardi, chiusa nell’angusto bagno degli ospiti, aveva avuto un attacco di panico.

Stava rivivendo le stesse sensazioni di allora, nonostante fosse tutta un’enorme recita. Era circondata da gente che non la conosceva, che non avrebbe potuto dire nessuna cattiveria sul suo conto in caso di risposta negativa. Tra l’altro, non c’è ne sarebbe stata alcuna, perché il piano prevedeva che lei dicesse di sì – e non aveva il benché minimo senso, ma lei avrebbe davvero voluto dirgli di sì. Ciononostante, la sua mente aveva creato un’immediata analogia fra i due momenti, e adesso voleva solo pregarlo di rialzarsi e portarla via da lì.

Poi, Duncan cominciò il suo monologo.

«Le prime parole che mi hai rivolto erano rimproveri. Mi hai urlato contro per averti interrotta e ho subito pensato che fossi un palo in culo – avevo ragione, ma quello era solo uno dei tuoi tanti strati. Andando più a fondo, ho trovato una ragazza pungente, difficile da trattare, con un discutibile senso dell’umorismo, ma tremendamente intelligente e con un fascino innegabile. Era chiaro che non avessi alcuna possibilità.»

Si era interrotto solamente per prendere fiato. Si chiese quanto di quel discorso fosse improvvisato, se stesse rielaborando lo stesso copione utilizzato l’unica volta prima di questa – o, ancora, se ci fosse un fondo di verità. Era alquanto improbabile, ma la minima possibilità che si stesse dichiarando senza mezzi termini la riempiva di un’incontrollabile gioia. Nello stesso istante, l’ansia andò ad affievolirsi.

«Invece, mi hai dato la possibilità di scoprirti strato per strato. Mi sono ritrovato dinanzi all’unica persona con cui passerei nottate intere a scambiarci storie, personali o no che siano – e sai quanto io odi parlare di me. Dopo la serata in quel campeggio, sapevo di essere fottuto. Ci conoscevamo da un paio di giorno ed ero già innamorato di tutti gli strati che ti compongono – sì, anche quelli più insopportabili. I passi successivi sono venuti naturali e penso sia arrivata l’ora di compierne un altro.»

Le sue guance erano bagnate dalle lacrime. Stava piangendo perché, per quanto finta potesse essere la situazione, nessuno le aveva mai dedicato un discorso del genere, perché era più di una semplice cotta, perché non voleva sposare Scott. Stava piangendo perché era un’abnorme idiota e aveva sbagliato tutto.

Gli altri clienti la fissavano con la stessa tenerezza che avrebbero rivolto ad un cucciolo. Avrebbe voluto gridare fino a farli allontanare.

Strofinò le dita sulle palpebre inferiori, ripulendosi e cercando di darsi un contegno. Quando si rispecchiò in quelle due pozze azzurre, esse le rivolsero uno sguardo carico d’amore. Persa com’era, ci mise un attimo ad accorgersi che le aveva avvicinato l’anello, come tacito invito ad accettarlo.

«Allora?» le domandò in un soffio. «Vuoi sposarmi?»

Il nodo alla gola le impediva di esprimersi. Annuì vigorosamente, sfoggiando un sorriso smagliante.

Mezzo secondo dopo fu fra le sue braccia, mentre l’intera sala scoppiò in un’ovazione gioiosa. Si ancorò a lui con tutte le sue forze e, nella foga generale, osò stampargli un bacio sulla mandibola, proprio sotto l’orecchio.

Avrebbe davvero voluto dirgli di sì.

«I miei complimenti per il pianto disperato» si congratulò più tardi Duncan, davanti a due pinte di birra artigianale. «Mi hai fatto spaventare, credevo fosse reale.»

Perché lo era, avrebbe dovuto confidargli. Si limitò, invece, a piegare le labbra in un sorrisetto sarcastico.

«Merito della tua dichiarazione smielata. Mi ha aiutata ad entrare nel ruolo.»

Si inumidì le labbra con la punta della lingua. Poté giurare di averlo visto rabbuiarsi, ma forse era l’ennesimo tiro mancino del suo cervello esausto, perché l’istante dopo gli stava restituendo una smorfia gemella alla sua.

«Diciamo che siamo entrambi degli attori eccellenti.»

Un ragliato sferzò l’aria. Un tizio al karaoke stava devastando The Chain dei Fleetwood Mac.

«Direi di brindare alla scaltrezza e alla disonestà, che stasera ci permetteranno di ubriacarci a costo zero» propose lui, alzando il suo calice.

«Sono un avvocato, brindare alla disonestà andrebbe contro i miei principi.»

«Ma se mentite in tribunale per difendere i colpevoli!»

«Mentire in tribunale è reato. Quello che facciamo noi è usare le prove a nostro vantaggio.»

«D’accordo» si arrese. «Allora brindiamo a questa serata e al piacere dell’alcol gratis.»

I calici si scontrarono in un leggero tintinnio di vetri.

Bevvero un lungo sorso. Courtney pensò che non aveva mai assaggiato una birra così buona, ma forse erano l’atmosfera e la compagnia a fargliela apparire così deliziosa. A giudicare dalla velocità con cui la ingurgitò, Duncan doveva essere del suo stesso parere.

Un po’ di schiuma gli macchiava i baffetti. Le venne da ridere. Lui era confuso.

Avrebbe voluto baciarlo. Avrebbe voluto allungarsi, arpionargli il viso e far scontrare le loro labbra. Si ingiuriò: non poteva permettersi di cedere ai suoi istinti, né tanto meno immaginarseli.

Tacque nell’istante in cui si accorse che non erano soli. In piedi alle spalle di Duncan, una tizia sulla trentina, dagli occhioni blu e i capelli tinti di biondo, la fissava con la testa inclinata di lato. L’aveva già vista da qualche parte, si sforzò di ricordare dove.

«Sì, sei proprio tu!» squittì quella tutta soddisfatta.

Il ragazzo, colto di sorpresa, saltò in aria, facendo del suo meglio per trattenere una sonora bestemmia.

«Avevo qualche dubbio per via dei capelli più corti, ma ora che ti guardo da vicino non ne ho più. Eri la secchiona che interveniva sempre a lezione di diritto!»

Ricollegò immediatamente la sua voce trillante e acuta a quella del capo cheerleader del suo vecchio liceo. Era impossibile dimenticare gli stonati cori di incitamento per la squadra di football, talvolta gridati a pieni polmoni con un megafono.

«Lindsay Mills?»

«Mi hai riconosciuta anche tu! Le mie amiche,» segnò un punto indefinito con un gesto della mano, le cui unghie erano laccate di un rosso acceso, in pendant col tubino, «hanno cercato di convincermi a lasciar perdere, ‘ché probabilmente nemmeno avevi idea di chi fossi e vi avrei solo importunati, ma dovevo assolutamente accertarmi di aver ragione. È tipo la prima volta che la mia memoria da pesce rosso non mi inganna!»

C’erano ottime probabilità che non sapesse nemmeno il suo nome, ma Courtney decise di sorvolare su quel dettaglio, limitandosi a mantenere un’espressione cortese.

«Comunque, sono venuta a congratularmi per le nozze – e per il futuro sposo. Te lo sei scelto proprio figo! Guarda che pezzo di manzo!»

Gli tastò un bicipite senza pudore alcuno. Duncan, girato di tre quarti sulla sua sedia per avere una visuale migliore, non si premurò di nascondere quanto fosse lusingato e intrattenuto dalla situazione.

«Beh, nemmeno tu scherzi. Non credevo che la mia donna avesse conoscenze di cotanta bella presenza.»

Lei ridacchiò.

Courtney strinse i pugni. Avrebbe voluto strozzare entrambi.

«Grazie del pensiero, Lindsay.»

Nonostante avesse l’intelligenza di un palo della luce, colse dal tono fermo e vagamente inacidito l’invito a togliere il disturbo. Prima di dar loro le spalle, li lasciò con un ultimo commento: «Sono sorpresa. Pensavo che solo nelle serie tv la secchiona si innamorasse del cattivo ragazzo.»

Lo pensava pure lei, ma ultimamente il destino si stava divertendo a giocarle un tiro mancino dietro l’altro.

«Che tipetto delizioso!» esclamò Duncan, permettendosi di sbirciare un’ultima volta. Quando tornò finalmente a prestarle attenzione, lei lo guardava con le braccia conserte e gli occhi ridotti a due fessure.

«Hai finito di farle i raggi x?»

«Qual è il problema? Non mi pare che io e te stiamo insieme per davvero!»

Il calcio che gli tirò sotto il tavolo non fece sparire quel ghigno fastidioso.

Con la – dolorosa? – consapevolezza che ciò fosse la realtà dei fatti, si concesse un altro sorso. Nel frattempo, colse un microscopico dettaglio: si era riferita a lei chiamandola “la mia donna”.

La birra le andò di traverso.



* * *



Presto, un drink tirò l’altro – perché non approfittarne? Era tutto offerto!

Come se non bastasse, un camionista piuttosto corpulento sfidò Duncan a tracannare quanti più shottini di vodka in trenta secondi, e chi era lui per rinunciare ad un gioco alcolico – specie se c’era Courtney a fare il tifo per lui?

Entrambi potevano affermare con certezza, però, di non essere ubriachi. Forse erano un po’ brilli, di sicuro euforici, ma erano ancora in grado di intendere e di volere.

A dimostrazione della tesi, smisero di bere prima che potessero prenderci gusto e si tuffarono nella mischia, fra luci psichedeliche e sudore. Dalla postazione karaoke, una voce femminile intonava I Wanna Dance With Somebody di Whitney Houston; se la cantarono addosso, saltando e volteggiando, senza lasciarsi le mani nemmeno per un attimo. Sebbene non fossero più l’occhio del ciclone e non c’era alcun motivo per portare avanti la farsa, non si separarono nemmeno con le canzoni successive – perché avrebbero dovuto? Stavano così bene l’uno fra le braccia dell’altra!

E poi, si disse Courtney, non stava tradendo Scott. Non era scritto da nessuna parte che ballare con un altro, portargli le braccia attorno alle spalle, e guardargli con insistenza le labbra, equivalessero a tradire.

Non ne poterono più e, poco più tardi, erano in strada. Tirava vento, ma avevano talmente tanto alcol e adrenalina in corpo da non sentire freddo. Non avevano una meta precisa, si limitavano a correre e a gridare, come avrebbero potuto fare degli adolescenti qualunque – in effetti, erano spensierati come tali.

Si ritrovarono a seguire la folla in ingresso al casinò più importante della città. Non erano lì per scommettere, ma il tavolo della roulette attrasse la loro attenzione.

Vinsero la prima partita. Durante la seconda, Duncan strinse la presa attorno ai suoi fianchi – le aveva spiegato che era il suo portafortuna.

«Se esce otto, ti sposo stanotte» annunciò a lei e a tutti quelli che stavano giocando.

Tirò i dadi: uscì il sette. Seguì un boato generale.

Per fortuna avevano puntato poco.

«Sarà per la prossima volta.»



* * *



La lunga passeggiata affacciava sul fiume, donando alle orecchie il sottofondo musicale dell’incessante scorrere dell’acqua, ed era popolata da coppiette, che si godevano la quiete del luogo. Loro, fastidiosamente rumorosi e a tratti molesti, erano le pecore nere e, come tali, non ci misero molto a guadagnarsi gli sguardi sdegnosi di tutti. Non potevano proprio fare a meno di ironizzare su qualsiasi cosa, galeotto anche l’alcol che avevano ingerito.

Era evidente che la sfida personale di Duncan fosse farla ridere a più non posso, perché s’era innamorato del suo suono cristallino, e perché la trovava a dir poco adorabile quando lo faceva, con gli occhi semichiusi e il naso lentigginoso arricciato. Avrebbe voluto scattarle una foto.

In quei giorni gliene aveva fatte un paio, la maggior parte a tradimento, dapprima per il gusto perverso di innervosirla, e in seguito per catturare la sua bellezza nella spontaneità e conservarla non soltanto nella memoria.

Non voleva pensare al momento dei saluti, non quando Courtney era aggrappata al suo braccio e le battute che gli uscivano di bocca erano la causa della sua ilarità. Erano ancora nella loro bolla paradisiaca, dove scadenze e impegni non esistevano, e intendeva impiegare al meglio il poco tempo che restava.

«A che pensi?»

Le rivolse un’espressione interrogativa.

«Hai lo sguardo vacuo. A che pensi?» gli ripeté.

«Penso che questa serata sia memorabile.»

Ed è merito tuo, aggiunse nella sua testa. Erano entrambi troppo poco brilli per permettersi di farlo ad alta voce.

Lei sbatté le palpebre ed annuì, stringendo un po’ più forte la presa.

Più avanti lungo la via, si estendevano schiere di bancarelle in legno, che esponevano gadget di ogni tipo. Gli venne in mente di prendere una felpa in ricordo di quei tre giorni folli, o magari di comprarle un regalo. Fu la trovata successiva ad attizzarlo.

«Hai già “qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo”?» le chiese a bruciapelo. «Per il matrimonio, intendo».

«Il mio abito da sposa è nuovo» rispose, non convinta di dove volesse andare a parare. «E indosserò un medaglione che abuela mi regalò per la quinceañera. Mi mancano qualcosa di blu e di prestato, magari chiederò a mamá o a Heather.»

«E se prendessi in prestito per te qualcosa di blu?»

Inarcò un sopracciglio.

«Si chiama rubare.»

«Solo se ti beccano.»

Passarono i primi stand. Duncan lanciava occhiate furtive, nell’intento di individuare il miglior luogo del delitto. Courtney gli camminava a fianco controvoglia, ma al contempo non abbastanza lucida per dibattere od opporsi.

«Va’ a parlare con quel venditore» le ordinò, indicando con un veloce gesto un anziano signore mezzo addormentato, seduto dietro il bancone alla loro sinistra. Non c’era alcun curioso a osservare gli oggetti esposti, il che poteva rivelarsi un enorme vantaggio.

«E poi?»

«E poi niente, devi solo intontirlo di chiacchiere. Io vedo di sgraffignare qualcosa.»

Non si mosse.

«Dai Court, andrà tutto bene! Fidati di me.»

Sottolineò per bene le ultime tre parole e queste la fecero capitolare.

«Se ti becca, io non ti conosco» sibilò a denti stretti, prima di incamminarsi in direzione della povera vittima.

Ancora una volta, Courtney si rivelò essere la complice perfetta. Lo bombardò di domande, alle quali egli faceva fatica a stare al passo, mischiando inglese e spagnolo per finire a confondergli le idee, e costringendolo a mantenere l’attenzione fissa su di lei.

Mentre si avvicinava furtivamente, si incantò ad ascoltarla. Aveva invidiabili proprietà di linguaggio e capacità di appigliarsi al più insignificante dei dettagli. Non potevano essere solo frutto di studio ed esperienza, c’era nata con quelle attitudini. Già dai suoi racconti non aveva dubbi che fosse eccellente nel suo lavoro, adesso ne aveva la conferma.

Si costrinse a concentrarsi. Da vicino, l’operazione non gli parve più così semplice. Tutta la roba più interessante era in bella vista e, per quanto il venditore ispirasse scarsa fiducia, dubitava che fosse talmente poco sveglio da non accorgersi di un furto compiuto proprio sotto al suo naso.

Sull’estremità più lontana erano affisse decine e decine di calamite, tutte di diverse forme, raffiguranti le cascate da ogni postazione possibile e immaginabile. Nessuno avrebbe mai notato che ne mancava una.

Indietreggiò di qualche passo, fin quasi a toccare con le spalle il pannello espositivo. Con una mano dietro la schiena, staccò una calamita quadrata e la fece scivolare nella tasca dei jeans. Non si curò di sceglierne una in particolare, tanto erano tutte blu.

Quando le camminò a fianco, richiamando la sua attenzione con un colpetto tra le scapole, Courtney stava decantando ad alta voce le differenze fra due t-shirt perfettamente identiche, sotto lo sguardo attonito dell’anziano oramai ammutolito. Chiuse la sceneggiata lanciandole in aria e borbottando qualche maledizione intanto che si allontanava; Duncan dovette trattenere le risa.

Accelerò il passo, e un metro più indietro la ragazza fece lo stesso, ma sempre in modo tale da non risultare sospetto. Si fermò in un punto poco illuminato – sotto un albero, lontano da indiscrezioni di qualsiasi tipo – e attese che fosse vicina per lanciarle il bottino, che lei afferrò al volo.

«E come dovrei indossarla una calamita?»

La smorfia divertita tradiva la serietà con cui aveva pronunciato la domanda.

«Non avevi fatto nessuna richiesta, quindi ho preso il primo oggetto blu che mi è capitato sotto tiro» si giustificò lui. «E poi, non deve per forza essere in bella vista. Puoi sempre incastrarla nella giarrettiera, o infilarla nel reggiseno!»

La reazione di Courtney fu spontanea. Rideva talmente forte da tenersi la pancia con le braccia, il che suscitò ilarità anche in lui.

Fu come avere di nuovo vent’anni. Fare il giro dei bar inventando stratagemmi creativi per pagare di meno, ballare e cantare ammassati in uno spazio di pochi metri quadrati, passeggiare in lungo e in largo per ore, scherzare di qualsiasi stronzata. Essere liberi di fare nuove esperienze.

In quel clima spensierato, Duncan si mosse in avanti e le prese il viso fra le mani, portandosela talmente vicino da far sfiorare le loro fronti.

Tacquero entrambi. Courtney lo fissava senza battere ciglio, gli occhioni neri che luccicavano. Anche da quella distanza faceva fatica a scovare le pupille, e di certo la penombra non aiutava. Al contrario, ebbe l’occasione di studiare meglio gli altri piccoli dettagli – il neo sotto l’occhio destro che si confondeva con le lentiggini color caffè, le lunghe ciglia, l’arco di Cupido ben pronunciato. Era irreale quanto fosse splendida.

Un altro passo e avrebbe potuto scoprire anche il suo sapore. Bastò il solo pensiero ad elettrizzarlo.

Piombò tutto d’un colpo nella realtà.

L’aveva portata lì con l’inganno per un suo capriccio. Aveva proposto attività su attività per appropriarsi in maniera illecita di altro tempo. Stava quasi per baciarla, pur sapendo che a casa l’aspettava il futuro marito – che, per quel poco che ci aveva parlato, sembrava pure una bellissima persona.

Si era invaghito di lei e, non solo non era in grado di sopprimere i sentimenti, ma si era pure concesso il lusso di provare gelosia.

La lasciò andare.

«Scusami.»

«Non fa niente.»

E lo intendeva sul serio. Questo lo sollevò.

«Vogliamo fare qualche foto prima di andare via?»



* * *



11:57 pm

Ehi Geoff, ricordi quando hai conosciuto Bridgette e mi hai raccontato che è stato amore a prima vista?

E io ti ho preso per il culo per settimane?



11:58 pm

Potrei aver trovato la mia Bridgette.

Però c’è un problema bello grosso.



00:01 am

Stai parlando della tua “conquista prossima al matrimonio”?



00:03 am

Sì.

Porca puttana.



* * *



11:57 pm

Heather, ho un’emergenza!

Provo dei sentimenti per una persona.

Sentimenti romantici.

E domenica mi sposo con Scott.



11:58 pm

Come posso farmeli passare in fretta?



11:59 pm

RISPONDI!

Per favore.



00:00 am

Heather, sul serio, ho bisogno di aiuto.

Non ignorarmi.

Sono disperata.



00:03 am

SMETTILA DI VISUALIZZARE SENZA RISPONDERE!



00:05 am

Ti odio.



* * *



«Non abbiamo bevuto abbastanza per stasera?»

«Una birra in più non ci ucciderà» affermò Duncan con una scrollata di spalle, di ritorno dal minimarket con due Heineken.

Forzò i tappi col coltellino svizzero che teneva in una tasca della giacca, e gliene allungò una.

«E ti avevo promesso che avremmo brindato a questo weekend importante per entrambi.»

Courtney corrugò la fronte, stupita dal fatto che se ne fosse ricordato.

Poggiati contro il cofano, consumarono in silenzio le birre, restando ad ascoltare il vociare lontano e la musica ovattata che sferzavano la notte. Nel frattempo, Duncan decise di accompagnare la bevanda ghiacciata ad una sigaretta, che si ritrovò a dover smezzare.

«Mi hai rotto le palle per tre giorni, mi hai ripetuto fino alla nausea quanto facesse male, e adesso vuoi fumare?»

«Io fumerò forse quattro volte l’anno, e solo quando sono particolarmente stressata, mentre la tua è una dipendenza. Ergo, passami quella cazzo di sigaretta!»

Non si dissero nient’altro finché la cartina non si fu consumata.

«Devo farti una domanda» affermò poi lei.

«Spara.»

«Perché continui a chiamarmi principessa?»

Mandò giù un sorso prima di risponderle.

«Perché sei sempre tesa, ligia alle regole e talvolta – forse inconsapevolmente – hai un atteggiamento di superiorità verso tutto e tutti. E poi perché sei raffinata ed elegante come tale. È un nomignolo che ti si addice alla perfezione, insomma.»

«Mio nonno mi chiamava così. Mi faceva sentire speciale» gli spiegò. «Purtroppo, ho pochi ricordi di lui. È morto che avevo otto anni.»

«Mi dispiace. Vuoi che smetta?»

Scosse il capo.

Presto non rimase granché da fare. Era pur sempre mezzanotte passata e si trovavano nel parcheggio deserto di un Depanneur. Non restava che spararsi gli ultimi centotrenta chilometri e concludere finalmente quel folle road trip.

«Non voglio andare a casa.»

La sua mano era già attorno alla maniglia dello sportello, quando Courtney lo colse in contropiede.

Era rimasta impassibile, ma la sua voce s’era tinta di malinconia, gemella di quella che aveva soppresso circa ventiquattr’ore prima. Stavolta, però, non si sarebbe accasciata su di lui, attendendo che quell’attimo di debolezza se ne andasse via da solo.

Stavano per sorpassare il confine immaginario che avevano tracciato di tacito accordo, e da lì non potevano tornare indietro, ma solo fare in modo di limitare i danni. Ne era consapevole Courtney, che si stava prendendo del tempo per valutare cosa dire e come dirlo, e ne era consapevole Duncan, che non intendeva metterle fretta.

«Non sono mai stata così presa», puntò lo sguardo verso l’asfalto per nascondere le lacrime, «ma credevo che sarei stata quantomeno serena, con lui. Poi, mi sono ritrovata coinvolta in tutto questo, e…»

Si asciugò le gote. Quando tornò a guardarlo, con le sopracciglia piegate verso il basso, non c’era più alcuna traccia di pianto.

«È colpa tua» lo accusò, marciando verso di lui per fronteggiarlo. «Non avevi alcun diritto di farmi capire che si può essere davvero felici, che di accontentarmi ed adattarmi non mi va più.»

All’improvviso, tutto acquisì un senso – i non detti, l’espressione turbata con cui aveva sottolineato che non tutti gli errori potevano essere coperti, la reazione spropositata al test di gravidanza. Al contempo, quel discorso lo mandò in confusione – era piuttosto certo che ci fosse un’altra chiave di lettura, ma non riusciva a coglierla.

«Casomai, è merito mio. Ti ho salvata da un eventuale matrimonio disastroso» ribatté, senza celare una certa confusione. «Non c’è di che.»

«Non capisci! Sposare Scott mi darebbe la stabilità che ho sempre cercato!»

Lo lasciò attonito.

«Non mi sono mai innamorata» confessò Courtney in un sussurro. «Ho avuto diversi ragazzi, più che altro per dimostrare che fossi in grado di stare in una relazione. Scott avrebbe dovuto essere uno dei tanti, ma è stato in grado di farmi sentire apprezzata come mai prima di allora, e ho pensato che non potesse capitarmi di meglio. In fondo, non sono altro che una stronza cinica dedita solo a me stessa e al mio lavoro. Mostrare affetto ad altri esseri umani non è nel mio DNA. Ma chissà, magari col tempo sarei stata in grado di restituirgli un decimo dell’amore che mi dà ogni giorno!»

Avrebbe voluto abbracciarla, dirle che nulla di ciò era vero – ma come avrebbe potuto, se pure lui percepiva di essere incapace di amare e di essere un buon amante?

Per anni aveva vagato di anima in anima, risucchiando quanto esse avessero da offrirgli, per poi abbandonarle quando si sentiva sazio a sufficienza. Perché poteva vivere in loop la fase iniziale di una nuova relazione, ma era altrettanto vero che non sapeva affrontare quanto proseguiva. Difatti, le rare volte in cui provava a portare il tutto ad un livello successivo, si procurava nuove ferite e bruciature.

I parassiti come lui non erano destinati ad un lieto fine.

«Non ho mai messo in conto il suo benessere, poco importava se fosse contento o meno: l’importante era che fossi apposto per una vita intera. Voglio lasciarlo non perché ho realizzato tutte queste cose, ma perché sono un’egoista. Ho cominciato a provare qualcosa per una persona conosciuta tre giorni fa e, al contempo, a credere che forse non sono allergica all’amore e merito di cogliere quest’occasione.»

Eccola lì, l’altra chiave di lettura.

Quella mossa scombinava le carte in tavola. L’unica ragione per cui Duncan aveva tenuto la bocca chiusa era l’anello sul suo anulare sinistro – perché era un’abnorme testa di cazzo, ma non fino a quel punto. Adesso che Courtney aveva fatto venire a galla l’intenzione di cancellare le nozze, e soprattutto aveva velatamente confessato un certo interesse nei suoi confronti, non c’era più nulla a bloccarlo – nemmeno la sua coscienza con la voce di Bridgette, che gli ricordava quanto poco fosse lucida, che era stato l’alcol a parlare e che probabilmente se ne sarebbe pentita l’indomani.

Meritava anche lui di cogliere quell’occasione.

Fece un passo in avanti, annullando quasi del tutto la distanza fra di loro. Non la toccò, voleva che fosse lei a prendere eventuali iniziative.

«Per quel che vale, non c’era nulla di finto nella mia dichiarazione. Dire che sono innamorato è prematuro, ma per il resto intendevo ogni singola lettera. Sono attratto da ogni tuo singolo strato.»

In un battibaleno, le labbra di Courtney furono sulle sue e la lingua spingeva con insistenza contro i suoi molari. Schiuse la bocca, permettendole di approfondire il bacio, e immediatamente fu scosso da una serie di scariche elettriche lungo la colonna vertebrale. Nonostante il disgustoso retrogusto di birra, baciarla era tutt’altro tipo di adrenalina. Faticava a ricordare una situazione in cui s’era sentito tanto euforico, con la testa leggera e il battito cardiaco a mille.

Sempre cingendogli le spalle con le braccia, Courtney lasciò scivolare le dita della mano destra sotto il colletto della giacca di pelle, massaggiandogli la nuca coi polpastrelli. Di tutta risposta, lui se la portò ancora più vicina, facendo aderire perfettamente i loro corpi, e inclinò il capo in avanti. Ciò gli permise di infilare la lingua più a fondo nella cavità orale, strappandole un sospiro mozzato. Bastò quello per mandarlo su di giri.

Senza staccarsi da lei, Duncan cercò con una mano la maniglia dello sportello posteriore. Lo aprì e la spinse senza troppe cerimonie sui sedili, liberandosi finalmente della giacca; lei lo emulò.

Si sistemò su di lei in modo tale da non schiacciarla, incuneando un ginocchio fra le sue gambe, e si tuffò nuovamente sulle sue labbra, prendendosi il tempo di assaporarla per bene. Le mani erano scivolate verso il lembo del suo maglioncino beige; lo alzò fino all’altezza del seno e, intanto che lui le lasciava una scia di baci umidi sulla pancia, Courtney colse l’invito a liberarsene.

Quando cominciò a leccare e succhiare la pelle del collo e del petto, lei non riuscì più a celare la crescente eccitazione, lasciandosi andare a sospiri e gemiti, e strusciandosi contro la sua gamba. Duncan era già consapevole che quell’immagine sarebbe tornato a trovarlo nelle notti in cui la solitudine si faceva sentire più forte. Sfortunatamente, fu anche l’attimo in cui realizzò quello che stava realmente succedendo.

Si fermò ad ammirarla. Era ancora più bella distesa sotto di lui, tutta spettinata e accaldata, con un’espressione trasognante in volto e le pupille ricolme di desiderio che lo supplicavano di andare avanti. Il problema era che teneva troppo a lei, tanto da non voler approfittare di un suo momento di debolezza per scoparsela in una macchina non sua, parcheggiata all’interno di uno squallido parcheggio, mentre erano entrambi sbronzi.

«Dobbiamo fermarci.»

«Non voglio» si lamentò lei, mettendosi a sedere e stampandogli un bacio, col tentativo di dissuaderlo.

«Nemmeno io» rispose, afferrandola per le braccia. «Ma non voglio nemmeno fare qualcosa di cui tu possa pentirti da sobria. Se domani avrai ancora voglia di stare con me, vienimi a cercare. Ok?»

Annuì, mentre i suoi occhi si riempirono di lacrime.

Le diede un veloce bacio sulla fronte e si allontanò, lasciando che si rivestisse.

Aveva fatto la cosa giusta. Eppure, quando la sentì tirare su col naso, il suo cuore si spezzò un po’.









[ Sabato 24 aprile – Toronto, Ontario ]



Avevano bevuto dell’acqua e preso un’aspirina. Miracolosamente, la sbornia si era attenuata in fretta, ma nessuno dei due fu in grado di riposare per tutti i centoventotto chilometri che separavano Niagara Falls da Toronto – chilometri che parvero il doppio, visto che, dopo quello che era accaduto, avevano ritenuto che fosse opportuno non parlarsi.

Courtney aveva guidato fino ad Oakville, superando i limiti di velocità dove era certa che non ci fossero autovelox. Prima il viaggio sarebbe finito, meglio sarebbe stato per entrambi.

Per gli ultimi quaranta chilometri, Duncan le diede il cambio.

Con la musica alla radio a fare da atmosfera, si mise a guardare le luci della notte scorrere rapide fuori dal finestrino, come chiazze chiare su una tela nera. Era l’unico modo per tenere a bada i pensieri.

Dire che era mortificata era usare un eufemismo. Non si pentiva delle sue azioni, ma allo stesso tempo si sentiva uno schifo per aver tradito Scott. Qualsiasi fossero i suoi sentimenti, lui non meritava un trattamento del genere.

L’indomani la spaventava da morire. Avrebbe dovuto lasciare il suo ragazzo libero di trovare qualcuna che lo amasse davvero, con la consapevolezza di star rinunciando alla possibilità di un’eterna stabilità emotiva. Non sapeva, però, se avrebbe trovato il coraggio di farlo.

Per quanto l’attrazione fosse reciproca, per quanto meritasse di stare bene, lei e Duncan erano agli antipodi e, una volta che se ne sarebbe accorto pure lui, non ci avrebbe pensato due volte a piantarla in asso. Nella realtà di tutti i giorni, dove non c’erano road trip su veicoli che sapevano di nuovo, non sarebbero durati più di due mesi – ma, Dio se sarebbero stati i due mesi più felici e spensierati della sua vita!

«Beh, direi che ci siamo.»

Erano le tre e cinquanta del mattino ed erano parcheggiati sotto il suo condominio. Erano giunti a destinazione e, ironia della sorte, in radio era appena partita Begin Again di Taylor Swift.

«Hai bisogno di una mano coi bagagli?»

Si girò verso di lui. Contornati da pesanti occhiaie nere, le iridi azzurre brillavano più del solito. Ci aveva familiarizzato abbastanza, eppure continuava a trovarle tremendamente magnetiche.

«No, faccio da sola.»

Lui annuì.

Rimasero immobili per un paio di secondi, prima di gettarsi l’uno fra le braccia dell’altra, come nella più scontata delle commedie romantiche.

«Grazie» mormorò Courtney, con la guancia appoggiata sulla sua spalla. «Sei stato davvero il miglior compagno di viaggio che potessi desiderare.»

«Non mi dire!» esclamò, sarcastico. «Mi hai finalmente rivalutato?»

Risero entrambi.

Fu lei a sciogliere l’abbraccio e, per l’ennesima volta dall’inizio della serata, dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non baciarlo sulle labbra. Col suo profumo ancora addosso, scese dalla macchina e la fiancheggiò fino al bagagliaio.

«Courtney?»

Duncan si era sporto dal finestrino e la fissava con un’intensità tale da farle tremare le ginocchia.

«Non sparire.»

Gli angoli della sua bocca si piegarono spontaneamente verso l’alto.

«Non ho nessuna intenzione di farlo.»

Non si girò a salutarlo un’ultima volta, ma attese che il rombare del motore fosse lontano, prima di girare la chiave nella toppa e varcare a grandi passi l’ingresso.

Nel pianerottolo si respirava un’atmosfera da film dell’orrore. Nel silenzio martellante, lo strisciare delle ruote del trolley sul pavimento suonava amplificato. Fu quasi un sollievo entrare in casa ed essere accolta dal russare di Scott.

Poggiò la borsa, si sfilò la giacca e fu colta dallo sconforto. Non sapeva che fare, si sentiva una straniera nel suo stesso appartamento. Non era lo stesso che aveva lasciato lunedì mattina.

Con la speranza che, con le prime luci dell’alba, si sarebbe sentita meno scombussolata, e sarebbe finalmente stata in grado di prendere una decisione, si trascinò fino al divano in soggiorno e si sdraiò con la testa contro il bracciolo. Non avrebbe potuto dormire nemmeno se avesse voluto, quindi sbloccò lo schermo del cellulare e aprì iMessage. La prima chat non era più quella con Heather, che non ancora si era degnata di risponderle, ma quella con Duncan.

Le aveva mandato ogni singolo ricordo di quel viaggio, dal primo selfie sfocato in autogrill, ai video girati in compagnia dello sgangherato terzetto conosciuto in campeggio, fino ad una serie di foto più o meno serie a Niagara Falls. Appena avrebbe avuto un attimo libero, avrebbe caricato tutto sul computer.

Intanto che gli inviava quel poco che aveva lei, gli tornò alla mente l’audio che non aveva mai ascoltato.

Risalì la chat fino a ritrovarlo. Data la quantità di alcol che aveva mandato giù, c’erano ottime probabilità che fosse composto da parole strascicate e blateramenti vari, ma voleva ascoltarlo lo stesso per chiudere il cerchio.

Respirò a fondo. Poi, schiacciò il tasto play e portò il ricevitore all’orecchio.


«Court, ho bisogno di aiuto. Ti manderei la posizione, ma la batteria del telefono sta per morire. Credo di essere a Marathon, ci sono un sacco di case bianche e la luce del lampione qui di fronte sta per fulminarsi. È tutto quello che posso dirti, sono troppo ubriaco per darti informazioni più precise. Sì, mi trovo in questa situazione di merda perché pensavo che, bevendo, avrei smesso di dare corda alle paranoie che ho in testa da due settimane. Faccio sempre così. Piuttosto che aprirmi ed esprimere in maniera onesta i miei sentimenti, mi autodistruggo. E adesso ho solo voglia di vomitare. Semmai ascolterai questo audio, puoi venire a prendermi? Sono buttato proprio affianco ad un cassonetto. E, siccome ho la sensazione che non riuscirò a dirtelo di persona, voglio che tu sappia che mi piaci tantissimo, che stasera avrei voluto baciarti più e più volte, e che avrei voluto conoscerti in altre circostanze. In questo periodo ho la testa che è un casino, ma avrei cercato di rimettere in ordine solo per provare a stare con te. Ma non importa, perché tu stai per sposarti. E forse è giusto così. Ti avrei comunque cacciata in un mare di guai.»












Angolo dell’autrice

Beh, è successa un bel po’ di roba. A mia discolpa, vi avevo detto di aspettarvi di tutto.

Sono sorpresa anch’io di quello che è uscito fuori – devo ancora capire se in positivo o in negativo. La scaletta ce l’avevo già abbozzata, ma ad un certo punto il delirio ha avuto la meglio. Per dirne una, la scena lime non era premeditata. Doveva essere molto più soft, sono io che mi sono lasciata prendere la mano. Ma immagino che vi avrà fatto piacere, quindi passiamo oltre.

Come avevo promesso, il famoso audio è finalmente stato “ascoltato” – spero di non aver deluso le aspettative di chi lo attendeva. E spero che siate riusciti a raccapezzarvi in questo flusso di scene caotiche e ragionamenti sconnessi che conta circa settemila parole. Di nuovo, mi sono lasciata prendere la mano.

La piccola digressione sul casinò e la battuta di Duncan sono un omaggio al finale della quinta stagione di Friends – se capite a quale scena, possiamo essere amici.

Altro piccolo dettaglio: “qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo” sono i primi versi di una filastrocca inglese. Secondo la tradizione, nel giorno del proprio matrimonio, è buon auspicio che le spose indossino qualcosa di vecchio, di nuovo, di prestato e di blu – e anche una monetina d’argento in una scarpa, ma ho glissato su quest’ultimo dettaglio.

Il prossimo capitolo, ahimè, è l’ultimo e compariranno quei personaggi che sono stati più o meno presenti per tutto il racconto, ma – quasi – mai di persona. Altrimenti, che razza di gran finale sarebbe?

Per i saluti e i ringraziamenti se ne parla fra un po’. Adesso posso solo augurarmi che abbiate gradito e invitarvi a lasciare feedback di qualsiasi tipo, dalla recensione ad una semplice lettura silenziosa.

Ci vediamo con l’epilogo! xx

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Capitolo 7
*** Sei ***


Sei







Si appoggiò allo stipite della porta, attenta a non fare alcun rumore.

Sua madre falciava a grandi passi lo spazio fra l’armadio il letto matrimoniale, e poi all’inverso, e intanto borbottava improperi in spagnolo. Ad ogni viaggio, l’enorme valigia rossa si riempiva di nuovi effetti personali.

«Mamá?»

La chiamò e lei si bloccò a metà strada, con un carico di camicie di seta tra le sue braccia. Anche con gli occhi arrossati dal pianto, era la donna più bella che Courtney avesse mai visto.

«Stai andando via?»

Non era la prima volta che lei e papà litigavano. Il copione era sempre lo stesso: si accusavano a vicenda di cose terribili, si riempivano di insulti fino a perdere la voce, e infine lui andava via per un paio d’ore, premurandosi di sbattere per bene la porta, mentre lei si chiudeva in camera a preparare i bagagli. Non appena calava la sera, era come se nulla fosse mai successo.

Stavolta, Courtney sapeva già che la risposta alla sua domanda sarebbe stata affermativa. C’erano state parole più pesanti del normale e suo padre aveva alzato le mani – aveva sbirciato la scena dalle scale, trattenendo un urlo di terrore nell’istante in cui l’aveva colpita sulla guancia.

«Sì, mi vida» mormorò, sistemando i panni in un angolo della valigia.

«Voglio venire con te.»

La guardò teneramente, prima di avvicinarsi e di chinarsi verso il suo volto.

«Non ora. Qui hai la scuola, i corsi extracurricolari, e sia io che papà vogliamo che termini gli studi. Un domani, sarai libera di scegliere.»

Poi, la abbracciò.

«Olvidame, mi vida» le disse fra un singhiozzo e l’altro. «Sei l’unica ragiona per cui non sono andata via anni fa, e mi spezza il cuore abbandonarti, ma non riesco più a stringere i denti e subire.»

Dal lato opposto, non ci fu nemmeno una lacrima. Avrebbe capito quella scelta solo da adulta, ma allora non poté fare a meno di serbarle rancore. Non riusciva a credere che volesse davvero lasciarla lì.

«Mi fai una promessa?» le domandò all’orecchio. «Mi prometti che non ti accontenterai mai? Che farai sempre il possibile per essere felice e stare in pace con te stessa? Non voglio che tu finisca come me.»

«Sì, mamá» affermò, senza avere una chiara idea di cosa le avesse realmente promesso.

Anche quelle parole le avrebbe capite solo da adulta.









[ Sabato 24 aprile – Toronto, Ontario ]



«Allora? Quand’è che avresti intenzione di parlarmene?»

«Parlarti di cosa?»

Il riflesso di Heather nella specchiera teneva la piastra in una mano e una ciocca dei suoi capelli nell’altra; le stava lanciando uno sguardo piuttosto eloquente, non riusciva a capire se stesse scherzando o meno.

«Della sfilza di messaggi disperati che mi hai mandato stanotte, naturalmente!» esclamò, prima di riprendere il suo compito. «Ricordi? Quelli in cui ammetti di provare qualcosa per lo scappato di casa con cui hai viaggiato? O vogliamo far finta che nulla di questo sia mai successo?»

Era proprio ciò che Courtney intendeva fare.

Quella mattina era stata svegliata da un invitante odore di uova strapazzate, che Scott le aveva preparato con tanto amore assieme ad una spremuta di arance. Avevano fatto colazione, seduti l’uno affianco all’altra sul divano, e lei gli aveva raccontato le avventure degli ultimi giorni, glissando completamente sugli avvenimenti di Niagara Falls.

Non aveva pensato a Duncan nemmeno per un secondo. Non aveva riguardato per l’ennesima volta le loro foto, né aveva riascoltato il vocale in cui le confessava i suoi sentimenti. Non gli aveva dato il buongiorno e non lo aveva chiamato per fargli l’in bocca al lupo. Avrebbe voluto fare ognuna di quelle cose, ma si era imposta di non cedere – non le era nemmeno risultato troppo difficile. In fondo, aveva passato quasi tutta la sua vita a non cedere alle tentazioni.

Così com’era entrato, doveva uscire dalla sua vita: all’improvviso e il più in fretta possibile.

Con gli anni aveva imparato quanto fosse fondamentale il tempismo, e loro si erano conosciuti nel peggiore dei momenti. Gli ultimi mesi avevano messo a dura prova la sua salute mentale, aveva faticato a tenere assieme i pezzi, e ciò di cui aveva bisogno era equilibrio. Non l’avrebbe mai trovato in lui, avevano esigenze troppo diverse, che nemmeno i sentimenti avrebbero potuto annullare.

Doveva andare così.

«Non c’è nulla da dire. Ero ubriaca, non intendevo nessuna delle cose che ho scritto.»

«Sicura? Perché, se hai dei ripensamenti, questo è il momento di esternarli.»

Non c’era stato un solo attimo in cui avrebbe voluto giurare amore incondizionato ed eterna fedeltà a Scott. Ma, nella costante lotta con se stessa, ad avere la meglio era sempre l’urgenza di apparire perfetta, crogiolandosi nella zona di comfort che si era creata con duro lavoro e sacrifici, a discapito della sua felicità.

Avrebbe voluto continuare a prendere lezioni di canto, avrebbe voluto lasciare giurisprudenza per andarsene oltreoceano a studiare criminologia, avrebbe voluto dare una chance a lei e Duncan. Quello, però, non era il sentiero più comodo, non era la via che gli altri si sarebbero aspettati che percorresse.

Dunque, aveva stretto i denti e continuato a soddisfare le loro aspettative, nella ricerca costante di quei valori che le erano stati presentati come ideali, con la speranza che un domani avrebbe potuto dirsi appagata al cento per cento.

Doveva andare così.

«Ne sono sicura.»

Heather annuì.

Non si parlarono per i minuti successivi.

Courtney ne approfittò per constatare quanto la sua amica stesse facendo un ottimo lavoro. I capelli, che spesso teneva raccolti per comodità o perché non aveva abbastanza tempo per lavarli, avevano assunto una forma ben definita e le ricadevano morbidamente sulle spalle. Il trucco leggero le accentuava in maniera naturale i connotati, alimentando l’illusione che la sua pelle fosse priva di imperfezioni, quando in realtà era servito più correttore del necessario per nascondere le borse sotto gli occhi. A farla sentire ancora più bella, ci pensava il vestito color champagne, semplice ma impreziosito da gioielli dorati, e che metteva in risalto i risultati della sua dieta.

Un raggio di sole le squarciò il viso. Mancava poco al tramonto e, fuori, il cielo si era tinto di rosa pallido.

La camera d’albergo ridava sul lago. Non c’erano nuvole all’orizzonte, cosa inusuale per essere fine aprile, e, se avesse aguzzato lo sguardo, avrebbe potuto scorgere le spiagge di Centre Island, dove l’indomani si sarebbe tenuta la cerimonia.

L’ansia le strinse la bocca dello stomaco. Non dovette nemmeno applicarsi per ignorarla.

Qualcuno bussò. Heather spense la piastra, quasi la lanciò sulla specchiera e, mentre uno sbuffo lasciava le sue labbra, varcò l’anticamera a grandi passi, aprendo la porta quanto bastava per affacciarsi sul corridoio.

«Non siamo ancora pronte» sbottò in direzione di una figura più alta di lei.

«Sono passato a salutare la futura sposa» si scusò una voce maschile dall’inconfondibile accento latino. «Due minuti e tolgo il disturbo.»

Courtney allungò il collo al di là della lunga chioma corvina dell’amica, alla ricerca degli occhi smeraldo di Alejandro. Li trovò, e in essi erano riflessi un sorriso che sapeva di sicurezza.

S’incontrarono a metà strada; lei si alzò sulle punte per abbracciarlo meglio.

«Eres muy hermosa» le sussurrò all’orecchio.

«Gracias» mormorò in risposta.

Sarebbe stato bello se si fosse sentita pure felice.



* * *



«Quello sarebbe il discografico? Sul serio?»

Duncan ritirò il braccio dietro le quinte del minuscolo palcoscenico, e rigirò il tablet in modo tale da riprendere la sua faccia.

Dall’altra parte dello schermo, Geoff e Bridgette erano seduti sul divano del loro appartamento, stretti l’uno affianco all’altra per entrare meglio nell’inquadratura. Non era di certo un metodo ottimale, ma almeno avrebbero potuto assistere al concerto da ottocento chilometri di distanza.

«A quanto pare» rispose con una scrollata di spalle.

Dalla voce profonda con cui aveva parlato al telefono, si era figurato un uomo di mezza età in giacca e cravatta, che nella sua carriera decennale doveva aver sentito ed esaminato migliaia di band come la loro. Invece, a presentarsi e stringergli la mano con vigore, era stato un suo coetaneo dai capelli castani raccolti in un codino, la barba incolta e abiti oversize.

In un’ipotetica folla accalcata sotto a un suo palco, di individui del genere avrebbe potuto scorgerne a bizzeffe; ciò, anziché rassicurarlo, l’aveva mandato in paranoia.

Nello stanzino adibito a camerino, la tensione era palpabile. Chase era immobile nel suo angolino e teneva la testa ricurva sulla punta delle scarpe; la zazzera di ricci scuri gli impediva di scorgere la sua espressione. Nell’angolo opposto, Ziggy giocherellava con uno dei tanti braccialetti sul suo polso sinistro, e borbottava a denti stretti la stessa litania – forse una preghiera, forse una scarica di bestemmie – da circa un quarto d’ora. A pochi passi di distanza, Cole, il batterista, ripassava freneticamente le partiture con delle bacchette immaginarie, senza curarsi dei ciuffi biondi sfuggiti dalla bandana e incollati col sudore sulla sua fronte.

Avevano suonato assieme centinaia di volte, ma non li aveva mai visti così agitati. Pure loro sentivano la schiacciante pressione di dover convincere qualcuno che, con ogni probabilità, usufruiva di quel genere di musica un giorno sì e l’altro pure, e che per forza di cose sarebbe stato più esigente del normale.

Si sentì in dovere di intervenire, di improvvisare un discorso di incoraggiamento. Rimase con la bocca spalancata per qualche secondo, prima di richiuderla e assottigliare le labbra in una smorfia.

«C’è qualcosa che non va?»

Il tono preoccupato di Bridgette gli rimembrò di essere ancora in videochiamata.

«È tutto a posto» rispose, puntando gli occhi sullo schermo e incurvando gli angoli della bocca in un sorriso poco convincente. «Solo un po’ d’ansia da prestazione.»

A dire la verità, Duncan non ci stava con la testa. Fisicamente era lì, dietro le quinte di un palco, consapevole che quella serata avrebbe potuto svoltare le sorti della sua carriera, ed intenzionato a dare il massimo. Mentalmente, però, non si era smosso dall’istante in cui Courtney aveva appoggiato le labbra sulle sue.

Quando le aveva detto di cercarlo, semmai l’indomani non avesse cambiato idea, il suo cervello era annebbiato dall’alcol e dal desiderio, eppure intendeva ogni singola parola di quella frase, a tal punto da convincersi che, anziché dai soliti sintomi post-sbornia, sarebbe stato svegliato da una sua chiamata.

La giornata era trascorsa veloce, il cellulare aveva suonato più volte, ma mai per annunciare un cenno da parte sua. Minuto dopo minuto, era divenuto sempre più chiaro che aveva fatto la sua scelta e avrebbe dovuto rassegnarsi – e ciò fece più male del previsto.

Non aveva mai provato tutte quelle sensazioni contrastanti. Si era illuso che potesse essere l’inizio di una bella storia, sebbene le possibilità che essa avesse potuto realizzarsi erano sempre state esigue, se non pari a zero. Eppure, il pensiero che l’indomani lei avrebbe sposato un altro uomo lo infastidiva, gli provocava un moto di quella che era a tutti gli effetti gelosia – ma, ehi! Che diritto aveva lui di essere geloso?

A dir la verità, non sapeva nemmeno cosa provasse realmente per Courtney – o meglio, non voleva accettarlo, perché aveva provato qualcosa del genere solo per un’altra persona, e quella non s’era fatta scrupoli a rimpiazzarlo alla prima occasione buona.

E, se non poteva averla, tanto valeva reprimere quel sentimento senza sforzarsi di dargli un nome. Non era sua intenzione aggiungere un’altra cicatrice alla collezione, non quando l’ultima non s’era nemmeno rimarginata del tutto.

«Beh, ci credo!» intervenne Geoff. «Ti stai per giocare il tutto per tutto!»

La gomitata che gli assestò Bridgette sullo stomaco lo fece rantolare per un po’.

La porta del camerino si aprì con un cigolio; quattro paia di occhi si mossero di scatto.

Il loro manager li guardò uno per uno, con un sorriso che voleva indurre conforto, prima di aprire bocca.

«Dieci minuti e siamo pronti. Forse i tuoi amici vogliono lasciarti il tempo di prepararti a dovere?» chiese in direzione di Duncan, indicando il tablet con un cenno del capo. Dopodiché, sollevò il braccio destro, in cui teneva un enorme mazzo di fiori, e aggiunse: «E questi sono per te.»

Non prestò attenzione alle ultime rassicurazioni di Geoff e Bridgette, né al breve discorso motivazionale del manager. Si era incantato a guardare le camelie, incartate in un foglio di tessuto blu notte. Incastrati nel fiocco che le teneva assieme, vi erano una singola sigaretta e un talloncino di carta, su cui era scritto il suo nome in un corsivo elegante.

Una risata gli rimase incastrata fra le corde vocali. Fra tutti i momenti, Gwen aveva deciso di farglieli recapitare nel peggiore di tutti – o nel migliore. Dipendeva dai punti di vista.

Aspettò che la stanza ripiombasse nel silenzio. Poi, accertatosi che i suoi colleghi non stessero ficcanasando, sfilò il biglietto dalla sua busta e cominciò a leggere.



Una Marlboro rossa e un mazzo di camelie – simbolicamente, l’inizio e la fine della nostra relazione. Mi sembrava il modo più adatto per darle una degna conclusione.

Non c’è molto altro da dire, se non che mi dispiace. Spero che un giorno tu possa perdonarmi.

Buona fortuna per stasera e buona vita.


Gwen



* * *



Tutto era come se l’era immaginato.

La sala era piccolina, asettica, ed elegante. Il pavimento lucido, le tovaglie, ogni singola decorazione – tutto era fra i toni del banco e del beige, il che a lungo andare avrebbe potuto nauseare. A dar colore, ci pensavano le splendide composizioni floreali posizionate al centro di ogni tavolata. Dulcis in fundo, l’atmosfera era animata dal complesso di musica leggera messo in dotazione dal hotel.

Talmente perfetto da sembrare un sogno. Il sogno di qualcun altro.

La serata era a malapena alle battute iniziali e Courtney aveva già dovuto salutare e ringraziare gli invitati uno per uno, tenendo la mano sudaticcia di Scott, che di tanto in tanto si chinava per farle un complimento o per stamparle un bacio sulla guancia. Aveva dovuto sopportare le lacrime di commozione e le reazioni esagerate dei parenti messicani, girare su se stessa svariate volte per farsi ammirare in tutto il suo splendore, ed evitare di rispondere a tono alle provocazioni della suocera, che non l’aveva mai vista di buon grado per via della sua classe sociale.

Heather, che non l’aveva persa di vista nemmeno per un secondo, sottolineò con un sorrisetto mellifluo che nemmeno erano stati serviti gli antipasti, e la sua reazione spontanea fu di vuotare il bicchiere di spumante di fronte a sé con un solo sorso, sotto lo sguardo attonito degli altri seduti a quel tavolo – Alberta coi suoi bambini, Alejandro, e naturalmente il suo futuro sposo. Il cameriere passò di nuovo a riempirle il bicchiere qualche istante più tardi, intimandole con voce sottile e vago imbarazzo che fosse per il brindisi.

Si girò immediatamente verso il suo testimone, con l’intento di dissuaderlo dal pronunciare le parole che gli aveva chiesto di scrivere per l’occasione – era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, sentirlo mentre millantava idiozie sulla sua splendida e purissima storia d’amore.

Egli era in piedi e, prima che avesse potuto tirarlo per la manica della giacca e costringerlo a risedersi, aveva richiamato l’attenzione dei presenti battendo il lato della forchetta sul calice di vetro.

Colse solo i punti salienti del bel discorso, che stava facendo emozionare anche i cuori di pietra – due persone all’apparenza opposte ma complementari, una relazione idilliaca basata su sentimenti genuini e fiducia reciproca, Courtney non è mai stata così serena come nei due anni passati al fianco di Scott. Tutte stronzate, insomma.

Ebbe come la sensazione che l’anello attorno all’anulare, più stretto e opprimente del solito, le stesse bloccando la circolazione sanguigna. Con la coda dell’occhio, controllò che non ci fosse nulla di anomalo; successivamente, si diede della stupida per aver assecondato quel frangente di irrazionalità.

Due cose erano ormai lapalissiane. Uno, se era riuscita ad ingannare anche coloro che la conoscevano come le proprie tasche, doveva essere una bugiarda da far invidia al migliore degli attori. Due, mentire era sfiancante, e non era sicura che sarebbe stata in grado di farlo “finché morte non vi separi”.

Alejandro non aveva ancora chiamato il brindisi, quando si alzò in piedi. La sala rimase coi bicchieri sospesi a mezz’aria, nell’attesa che aggiungesse qualcosa. Ma, le sue labbra rimasero sigillate, il silenzio stava diventando schiacciante e qualcuno cominciò a comprendere che non sarebbe seguito nulla di buono.

Se si fosse guardata attorno, si sarebbe accorta degli sguardi carichi d’astio che i genitori, la sorella e svariati parenti di Scott le stavano rivolgendo; non parevano troppo sorpresi, era esattamente ciò che si aspettavano da una come lei. Pure suo padre e la sua matrigna non le staccavano gli occhi di dosso, confusi dalla situazione e a tratti preoccupati. Avrebbe trovato più conforto in Heather e Alejandro, entrambi incapaci di indorare la pillola, ma che mai l’avrebbero giudicata per le sue scelte, e non avrebbero osato nemmeno in un momento tanto critico.

Courtney, però, non considero nessuno di loro. Rivolta verso un tavolo alla sua destra, guardava con insistenza sua madre – incredibile, pensò: pure con qualche capello bianco e le rughe d’espressione era la donna più bella che avesse mai visto.

Anche lei la stava guardando, con un timido sorriso di incoraggiamento dipinto sul volto, e seppe subito che anche la sua mente era corsa a quello specifico ricordo, a ciò che le aveva promesso il pomeriggio in cui era andata via di casa.

Mi prometti che non ti accontenterai mai?

Fu allora che qualcosa scattò.

Nessuno aveva chissà quali aspettative su di lei, se non lei stessa. Ergo, non doveva dimostrar loro di avere costantemente in mano le redini della sua vita.

Il successo e la perfezione non erano tutto ciò che importava, né le uniche strade verso la tanto ambita stabilità.

Gli ultimi tre giorni erano stati un’avventura memorabile, e non immaginava che a quasi trent’anni, con un bel fardello di responsabilità gravante sulle sue spalle, fosse ancora possibile provare cotanta spensieratezza – e non voleva più privarsene.

Fece un respiro profondo e abbassò il capo, individuando il proprio riflesso negli occhi grigi di Scott. Non vi colse nessun tipo di reazione.

«Mi dispiace.»

Lui non proferì parola, né si mosse, permettendole di recuperare la borsa e il cappotto appesi allo schienale della sedia, e di precipitarsi fuori di lì, sotto i versi stizziti e i commenti borbottati a denti stretti, facendo attenzione a schivare l’orda di camerieri che stava portando gli antipasti.

Courtney non si voltò fino a che non fu nel parcheggio del hotel e la voce di Scott non le giunse alle spalle, distante, quasi fosse un’allucinazione.

Era davvero lì, qualche metro più indietro, nel completo nero che gli aveva regalato per il loro primo anniversario. Non aveva alcuna intenzione di fare una sceneggiata, o di supplicarla a tornare dentro. Era stoico, oserebbe dire rassegnato.

«Cos’è cambiato?»

Tutto, fu la risposta immediata.

«Nulla», fu quello che disse. «Ho solo realizzato un po’ di cose in queste ultime settimane.»

«Hai realizzato che non mi ami.»

Scosse il capo.

«Non quanto tu ami me.»

Lui schioccò la lingua contro il palato.

«Capisco.»

L’evidente delusione sul suo volto la mise a disagio. Avrebbe volentieri girato i tacchi e messo fine a quella sofferenza, ma sapeva che gli doveva una spiegazione più esaustiva, una degna conclusione per quegli anni in cui l’aveva posta davanti a tutto e tutti.

«Ho provato a restituirti, fin dove il mio carattere cinico me lo permetteva, almeno un decimo di quanto mi hai dato. Mi sono sforzata perché ero consapevole che me ne sarei pentita, se ti avessi fatto scappare. Mi dispiace di non esserci riuscita.»

Si avvicinò di qualche passo, sotto lo sguardo vigile di Scott, il cui guscio di indifferenza stava crollando di secondo in secondo.

«Sarebbe da egoisti obbligarti a stare con me. Mi troverei in un perenne stato di insoddisfazione e, a lungo andare, contagerei pure te. Meriti qualcuno che possa renderti davvero felice.»

Con lentezza disarmante, si tolse l’anello di fidanzamento e, tenendolo fra il pollice e l’indice, glielo stese.

Egli, titubante, lo prese e lo porse in uno dei taschini interni della giacca, quello destro. Boccheggiò diverse volte, prendendosi il tempo di formulare una risposta adeguata – non era mai stato un tipo di molte parole, lui.

«Non sei cinica» affermò, dopo un silenzio che parve infinito. «E anche tu meriti di essere felice. Mi dispiace che non possa essere con me, ma imparerò a farmene una ragione.»

Venne spontaneo colmare i pochi centimetri fra di loro e, stretti in un abbraccio, concedersi un altro minuto per dirsi addio. Courtney inspirò a fondo, inalando il forte odore del suo dopobarba che aveva sempre detestato, ma che forse un po’ le sarebbe mancato.

«Sei stato davvero il partner perfetto» mormorò, con il mento poggiato sul suo omero sinistro.

«Buona fortuna per tutto» le augurò Scott, prima di lasciarla andare.

L’attimo dopo era accasciata sul sedile della sua macchina, ancora stordita dall’accaduto e con l’adrenalina le pompava nelle sue vene.

Buttò fuori tutta l’aria che aveva incanalato nei polmoni, come se fosse stata in apnea per tutto quel tempo, di preciso da quando aveva deliberatamente mandato a monte le sue nozze. Non riusciva a credere di aver trovato il coraggio di farlo sul serio.

Neanche il tempo di realizzare, che l’adrenalina aveva già lasciato spazio al panico. Non riusciva a credere di aver trovato il coraggio di farlo sul serio!

Rimase pietrificata, con le mani stette attorno al volante e lo sguardo vacuo. Non aveva preventivato nulla di tutto ciò – seguire il suo istinto e un consiglio che le era stato dato quasi due decadi fa – e adesso la sua gola era raschiata da centomila piccoli spini, stretta in un groppo che era frutto non solo di un totale senso di smarrimento, ma anche della consapevolezza che era troppo tardi per pensare a finali alternativi, perché non poteva comunque cancellare le sue azioni.

Sentì gli angoli degli occhi pizzicare, ma non voleva che le lacrime rovinassero lo splendido lavoro di Heather, e nemmeno poteva permettere ai pensieri negativi di approfittare della quiete per prendere il sopravvento, di sgusciare fuori dal loro angolino e minacciare di intaccare il suo ultimo briciolo di autocontrollo. Se avesse ceduto, sarebbe seguito un attacco d’ansia di proporzioni epocali, che non avrebbe portato altro se non ulteriore stress.

Le sue dita corsero alla manopola della radio, che rispose alla chiamata d’aiuto nel modo più beffardo, più bastardo, e più efficace possibile.

Intanto che le note di Drive By riempivano l’abitacolo, fu catapultata a New York, al traffico e alla pioggia incessante, all’improbabile duetto e alla prima, vera risata dopo settimane. Alla libertà, all’allegria, e a come si era sentita a casa in un contesto che, di familiare, aveva nulla.

Al motivo per cui quella fosse la scelta più sensata che avesse mai preso.

Recuperata la lucidità, si fiondò sulla sua borsa e tirò fuori il cellulare. Lo sbloccò, aprì Instagram e digitò il nome di Duncan nella barra di ricerca. Bastò scorrere le sue storie, per recuperare il nome del locale in cui si stava esibendo proprio in quel momento.

Impostò il navigatore. La destinazione era a otto chilometri da lì.

Tenendo a bada il cuore che rimbombava all’impazzata nella cassa toracica, Courtney sbloccò il freno a mano.



* * *



Il Pin Up era un club situato nella periferia sud-ovest della città, zona frequentata da persone con stili di vita totalmente opposti al suo, e dove quindi l’elegantissimo outfit che indossava non passava di certo inosservato. A malapena fece caso ai curiosi che la squadrarono dalla testa ai piedi, indugiando un po’ troppo a lungo sullo scollo, tanto ch’era stata al centro dell’attenzione sin dall’inizio della serata. Si pentì, d’altro canto, di non aver portato delle scarpe di riserva, perché i tacchi a spillo le stavano massacrando i piedi.

Lasciato il cappotto al guardaroba, Courtney lasciò che ad orientarla verso la pista fosse la musica, dapprima ovattata e confusa, e poi sempre più distinta – il rullante della batteria, i bassi stordenti, le chitarre distorte, e la voce rauca per cui aveva scoperto di avere un debole.

Non aveva mai messo piede ad un concerto rock, ma immaginò che non dovessero essere troppo diversi da quello. La folla sotto il palco era infervorata, c’era chi ballava, chi saltava, chi spingeva, e ognuno di loro si stava divertendo da matti. Anche chi era rimasto indietro era totalmente investito da ciò che stava accadendo, e si godeva lo spettacolo sorseggiando un drink e muovendo il corpo a tempo, magari facendo qualche video o commentando l’esibizione con chi era di fianco. Si respirava un’aria rilassata, il che era quasi un ossimoro, e non poté fare altro che piegarsi a quell’energia positiva.

L’attenzione era tutta rivolta verso una certa testa verde. Aggrappato all’asta del microfono, Duncan cantava con un’intensità che avrebbe potuto far tremare l’intero locale. Gli abiti di scena non erano diversi da quelli che gli aveva visto addosso nei giorni precedenti, eccezion fatta per la canottiera sbrindellata che, oltre a garantirgli maggiore mobilità, gli lasciava scoperte le braccia toniche e tatuate. Anche la matita nera attorno agli occhi era una novità, un’aggiunta che gli accentuava le splendide iridi azzurre – e non c’era traccia del livido, notò Courtney. Doveva aver seguito alla lettera le sue istruzioni.

Aveva avuto un assaggio del suo carisma in quel bar del New Jersey, osservarlo nel suo habitat naturale confermò la sua prima impressione: era nato per fare la rockstar. Lo dimostravano le movenze, l’attitudine da spaccone, la continue interazioni con la band e col pubblico. Era uno spettacolo, in tutti i sensi.

Scacciò dalla mente le implicazioni di quell’ultima considerazione.

Si incamminò in direzione del bar, senza la minima intenzione di ordinare da bere, e si accomodò sullo sgabello più distante. Voleva solo godersi il concerto, là dove le luci erano più soffuse e nessuno l’avrebbe notata, e nel frattempo pensare a come comportarsi poi.

La giovane donna che prese posto al suo fianco le rovinò i piani.

«Due birre, per favore» gridò per richiamare l’attenzione del barista, indicando prima lei e poi se stessa. Successivamente, si girò a guardarla e, con un le labbra piegate in un sorrisetto compiaciuto, aggiunse: «Ora capisco perché Duncan ti abbia notata subito. Insomma, chi si vestirebbe così bene per venire in un postaccio del genere? E poi, beh, sei a dir poco deliziosa

Se non avesse avuto una minima idea della sua identità, Courtney avrebbe azzardato a dire che stesse flirtando con lei.

Gwen era identica alle pochissime foto che aveva trovato sul profilo Instagram di Duncan: stessi capelli blu e neri, stesso trucco pesante, stesso vestiario eccentrico. E, per qualche motivo, ritrovarsela davanti in carne e ossa la metteva a disagio – era pur sempre l’ex fidanzata dell’uomo per cui, disgraziatamente, si era presa una bella cotta, e avevano avuto una storia che, definirla intensa, era usare un eufemismo.

La sua espressione doveva essere l’equivalente di un libro aperto, perché quella si lasciò scappare una mezza risata.

«A quanto pare ti ha raccontato di me.»

«Non so chi tu sia» mentì, e dal suo cipiglio divertito seppe in fretta di non averla convinta.

Il ragazzetto dietro al bancone si presentò con due bottiglie di birra ghiacciate. Gwen gli allungò una banconota e si concesse un lungo sorso. Courtney, invece, non toccò la sua.

«Guarda che è un peccato.»

«Perché sei qui?» saltò su, ignorando il suo commento. «Per vederlo? Per chiarire con lui? Per-»

Trovò più opportuno fissare le unghie fresche di manicure, piuttosto che continuare quella frase.

Non avrebbe voluto reagire così, prima di tutto perché era oltremodo maleducato, e in secondo luogo perché non era nessuno per mettere bocca nella questione. Però, la sola ipotesi che fosse lì per scusarsi e lottare per una seconda possibilità, e che magari l’avrebbe persuaso a concedergliela, le fece contorcere le viscere.

Ottimo, adesso era pure gelosa!

«Aspetta, pensi davvero che-» e scoppiò di nuovo a ridere, stavolta senza controllarsi – ciò mandò Courtney in bestia. «Sono qui per il concerto. La mia occasione l’ho sprecata. Ho sbagliato e ne sto accettando le conseguenze. E comunque», fece un altro sorso, «non avrei alcuna possibilità di competere.»

«Che intendi dire?»

Gwen inarcò le sopracciglia, interdetta.

«Quando sei arrivata?»

«Qualche minuto fa. Perché?»

«Perché ti ha letteralmente dedicato il concerto!» esclamò. «Ora, non so che cosa sia successo fra di voi al di fuori di ciò che ha messo nelle storie, ma so per certo che non l’avrebbe mai fatto, se non fosse innamorato pazzo di te.»

Aggiunse qualcosa circa il fatto che fosse molto più riservato di quanto sembrasse, specie sulla sua vita sentimentale. Courtney percepì a malapena l’informazione, perché aveva smesso di prestare attenzione quando il termine “innamorato” aveva raggiunto le sue orecchie, riempendole il petto di uno strano, ma tutt’altro che sgradito, calore.

Attese che l’anonimo regista della sua vita urlasse: «Stop! Buona la prima!». Ma non era sul set di un film, né in un sogno ad occhi aperti, per quanto surreale potesse sembrarle.

Ad essere onesta, percepiva come surreali tutti gli avvenimenti successivi a Filadelfia, come troppo inusuali per essere parte di una vita ordinaria come la sua.

Se era vero che esisteva la predestinazione, a lei non spettava nulla di eclatante, giusto un lavoro d’ufficio ben retribuito e una piccola famigliola più o meno felice. Per fortuna, si trattava di un’invenzione della mente umana, altrimenti non le sarebbe mai stata concessa l’occasione di rompere la monotonia, e di trovare qualcuno con cui farlo – e quel qualcuno si era innamorato di lei.

«Non era quello che volevi sentirti dire?» le chiese Gwen.

Il pubblico esplose in un boato. Dritto al centro del palco, Duncan si godette le ovazioni con un sorriso riconoscente in volto, prima di far cenno al resto della band di attaccare con la prossima canzone.

A vederlo così soddisfatto, sorrise di rimando. Non credeva fosse possibile sentirsi tanto fieri di qualcuno che non fosse se stessa. E allora, Courtney comprese che non era una semplice cotta, che pure lei si era innamorata – ed era una sensazione bellissima, amare per davvero.

«È esattamente quello che volevo sentirmi dire.»

Finalmente, bevve la sua birra.



* * *



Non c’erano dubbi che quello fosse un contratto, uno vero, con scritte di ogni dimensione che si estendevano per due pagine, e postille a specificare i vari cavilli legale. Il contenuto era inequivocabile, nonostante avesse dovuto leggere più volte ogni singolo paragrafo, perché era convinto che fosse uno scherzo.

«Se non siete convinti, potete sempre rifiutare» disse il discografico, burlandosi delle loro facce incredule.

«È troppo tardi per ritirare l’offerta, amico» ridacchiò Chase, e afferrò la penna nera rimasta abbandonata in un angolo del tavolino. «Adesso vi toccherà sopportarci almeno per un paio d’anni.»

Duncan fu l’ultimo a firmare, la mano che tremolava per l’emozione.

I risparmi dilaniati per pagare la sala prove, le porte in faccia, le litigate sul futuro coi suoi genitori avevano acquisito uno scopo. Ce l’aveva fatta – ce l’avevano fatta, si corresse immediatamente, alzando lo sguardo verso i suoi amici.

Li attendeva una nottata di celebrazioni. Avevano lasciato una bottiglia di spumante al fresco, che attendeva solo di essere aperta e consumata. E poi un altro giro di bevute, e un altro, e un altro ancora. Una volta ubriachi, sarebbero andati altrove, a festeggiare con perfetti sconosciuti, e magari a spassarsela con qualcheduno di quelli. Se lo meritavano, dopo aver faticato tanto per arrivare a quel traguardo.

Eppure, Duncan non era in vena di festeggiare. Voleva soltanto andare a dormire e risvegliarsi direttamente lunedì mattina, all’interno di un nuovo capitolo in cui le ultime settimane – più nello specifico, gli ultimi tre giorni – rappresentavano un lontano ricordo.

Si era imposto di non pensarla, di concentrarsi soltanto sull’esibizione, ma era durato giusto il tempo di salire sul palco. La dedica gli era scivolata dai denti prima che potesse trattenerla, e dopodiché non il suo ricordo non l’aveva lasciato in pace per un secondo. Ad un certo punto, se l’era figurata in mezzo al pubblico, e ciò l’aveva portato a sbagliare un paio d’accordi – Ziggy se n’era accorto, ma aveva continuato a suonare con nonchalance.

Alla fine, l’aveva trovato un nome a ciò che provava per lei – o meglio, aveva accettato di chiamarlo col nome corretto. Tanto, che differenza faceva? Per lunedì mattina, Courtney sarebbe già stata la moglie di un altro e lui avrebbe voltato pagina.

Doveva voltare pagina.

Avrebbe voluto che fosse più semplice, voltare pagina.

Divertente, pensò mentre una smorfia gli deformava il volto. Fino a una settimana fa non la conosceva nemmeno, e ora il suo spettro lo tormentava in quella che avrebbe dovuto essere la sua notte trionfale.

Furono interrotti da tre colpi sulla porta. Il proprietario del locale entrò senza che nessuno lo invitasse a farlo.

«Scusate l’interruzione, ma c’è una ragazza che sta cercando lui.» annunciò, e indicò proprio Duncan.

«Se è per gli autografi, dille che escono fra un po’» rispose il manager del gruppo al suo posto, tentando di liquidarlo con un gesto della mano. «Il tempo di definire gli ultimi dettagli qua.»

«Non è una fan, ha detto di conoscerlo molto bene. A dire la verità, penso che sia abbastanza ubriaca, perché ha urlato più volte di essere un'avvocata e che tenterà il possibile per far chiudere il posto, se non-»

«Dov’è?»

Non riuscì a mascherare la fibrillazione nella sua voce.

«Fuori, sul retro. È-»

Ma Duncan era già lungo il corridoio, e camminava svelto verso l’uscita antincendio. Tirò giù il maniglione antipanico e fu investito da un venticello freddo. Avrebbe pure potuto beccarsi qualche malanno, poco importava in quel momento.

Courtney era talmente meravigliosa da mozzare il fiato. Non che normalmente non lo fosse, ma ritrovarsela davanti vestita, truccata e pettinata di tutto punto gliela faceva apparire ancora di più come un miraggio – incantevole, eterea, irraggiungibile. Eppure, era proprio lì. Per lui.

«Hai visto?» esordì con un filo di voce. «Non sono sparita.»

Avanzò cauto, come avrebbe fatto per attraversare un campo minato, e si fermò a diversi palmi dal suo volto. Coi tacchi era alta quanto lui, se non più alta di qualche centimetro, e questo gli permise di osservare per bene i suoi occhi scuri luccicanti di gioia. Erano splendidi, avrebbe potuto restare a fissarli per ore.

Fece scivolare le mani sui suoi fianchi, stringendo la presa – non che fosse necessario, perché lei non aveva alcuna intenzione di andare via. Era, piuttosto, per accertarsi che fosse reale, che non sarebbe arrivata nessuna metaforica secchiata d’acqua gelida a ridestarlo.

«Sei qui.»

«Sono qui.»

«Hai lasciato Scott.»

«Sì.»

«Ed eri al mio concerto.»

«Ho visto solo una parte. Sei stato incredibile.»

«Lo so. Infatti ci hanno fatto firmare seduta stante. Non serviva che me lo dicessi tu.»

Lei ridacchiò sommessamente, prendendogli il viso fra le mani.

«Certo che sei proprio un cretino!»

Il bacio fu meno passionale e vorace di quello della sera precedente, ma altrettanto intenso e, senza il retrogusto di alcol, persino più piacevole.

Si prese il tempo di esplorare la sua bocca, di assaporarla per bene. E lei rispondeva altrettanto lentamente, con altrettanta dedizione, ed era tutto così naturale, come non lo era mai stato prima di allora.

C’erano centinaia di parole fra le loro labbra che danzavano insieme, si separavano quanto bastava per riprendere fiato, e poi si ritrovavano con un piccolo sospiro – sono felice che tu sia qui. Resta, per favore. Voglio provare a farla funzionare.

Duncan si disse che avrebbe potuto cogliere la palla al balzo, e suggellare la scena degna di una commedia romantica con una dichiarazione passionale. Avrebbe potuto chiamare per nome i sentimenti che, fino a qualche minuto fa, l’avevano reso miserabile. Bastava una semplice frase vecchia quanto il mondo.

«Courtney?»

«Mhh?»

Ci ripensò. Dopotutto, che fretta c’era?

«Domattina dovrei riportare la macchina a Rochester. Vuoi venire con me?»
















Angolo dell’autrice

Anzitutto, chiedo scusa alla gente – semmai ci fosse ancora qualcuno interessato – che ha atteso per quattro mesi questo epilogo. Mi dispiace avervi fatto penare così a lungo, non era mia intenzione, ma sono davvero stati mesi intensi.

Comunque, è strano mettere un punto fermo. Ho iniziato a scrivere i primi due capitoli durante quello che, senza troppi giri di parole, è stato uno dei periodi peggiori della mia vita, e portare avanti questo piccolo progetto era tra le pochissime cose per cui mi svegliavo la mattina.

Più andavo avanti, più mi ponevo obiettivi, e più cominciavo a vedere la cosiddetta luce in fondo al tunnel. Se oggi va meglio – non benissimo, ma sicuramente meglio – è anche grazie a questa storia, che mi ha aiutata a non lasciarmi andare. E sapere che, dall’altra parte dello schermo, c’era qualcuno a leggere e ad apprezzare è stato doppiamente importante, e mi ha spronata ancora di più a fare meglio. Quindi, grazie. Davvero.

Non so cosa succederà poi, sto imparando a vivere giorno per giorno e non pormi troppi obiettivi a lungo termine. So solo che sono passati anni, ma questo fandom ha sempre rappresentato una zona di comfort, e tornarci dopo lunghi periodi di inattività è un po’ come tornare a casa.

Magari avrete presto nuove notizie della sottoscritta, magari no.

Fino ad allora, vi ringrazio nuovamente per avermi seguita fino a qui! xx

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