Il Profumo del Pino d'Inverno

di Iaiasdream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Vincenzo Gargano stava morendo.
La malattia gli aveva consumato il corpo, ma non l’anima. Quella era rimasta fedele alla ragione. Fino all’ultimo aveva lottato per i suoi valori, per reggere la sua terra, il suo lavoro, ma soprattutto per tenere alto il nome dei Gargano.
Nato da una povera famiglia di contadini, primo di sei figli, aveva vissuto la sua infanzia nei campi e in quelli era cresciuto e aveva fortificato il sogno di diventare un ricco proprietario terriero. Chi da sempre aveva vissuto nella povertà, agognava quel tipico sogno e viveva con la speranza che un giorno la ruota del destino si decidesse a girare.
A Murgella, piccolo paese sperduto della Puglia, in pochi erano riusciti a realizzarlo e Vincenzo Gargano era stato uno di quelli.
Durante la seconda guerra mondiale, aveva conosciuto, nei campi di battaglia un certo Francesco Guglielmi conte di Torremonte, uomo ricco. A lui, il soldato contadino, aveva salvato la vita e, per ricambiare il favore, l’aristocratico gli aveva promesso che se fossero riusciti vivi da quella maledetta guerra, lo avrebbe ricompensato.
Mai avrebbe potuto immaginare, Gargano, che quel giuramento lo avesse reso l’uomo più ricco della regione.
Tutto ciò che possedeva: masserie, terre, casali, ma soprattutto la rispettabilità, lo doveva al conte.
Era una grande famiglia quella dei Gargano; tutti dediti al lavoro e alle proprietà, ma all’oscuro di quello che sembrava limpido e luminoso, si celava il peccato. Uno, abominevole e logorante peccato, nascosto per lunghi anni nei meandri della coscienza di Vincenzo.
Come ogni uomo che giunge alla fine della propria vita e si ritrova costretto ad affrontare le conseguenze nella morte, anche al contadino arricchito si accese la fiammella del rimorso, la stessa che divampa nel disperato tentativo di rimediare ai propri errori.
Forse era troppo tardi per confessare il proprio peccato, o semplicemente Vincenzo aveva paura dell’odio che avrebbe acceso nei suoi cari, ma non per rimediare e Iddio gli aveva concesso un’ultima possibilità, dandogli la forza di firmare quel testamento che aveva deciso di cambiare agli sgoccioli.
Vincenzo aveva permesso solo al notaio di entrare in quella stanza che ormai da giorni custodiva le sue ultime ore, e aveva rifiutato l’estrema unzione del Prete.
“A che servono le parole di un pretonzolo quando non scamperò al giudizio di Dio?”, aveva detto a sua sorella Erminia, l’unica rimasta in vita degli altri quattro fratelli che invece erano morti tutti durante la guerra.
Nessuno aveva obbiettato. Tutti i componenti della famiglia erano rimasti nel grande salone a pregare e aspettare.
Erano presenti anche i Ferrara, figli e nipoti di Erminia, che da anni erano in società con i Gargano.
Quando il notaio Dedonno uscì dalla stanza, attirò l’attenzione dei presenti su di sé placando le litanie. L’uomo incrociò lo sguardo di Diomede Gargano, figlio del morente. Lo fissò per qualche istante con un’occhiata d’intesa per poi volgerlo verso Alberto Ferrara, cugino di Diomede e figlio di Erminia. Dedonno si avvicinò a questo e gli sussurrò: «Vuole vedere Arianna.»
Due occhi scuri, vispi, dalle ciglia lunghe si sollevarono puntando la bassa figura del notaio, accorgendosi che anche quelli rugosi di quest’ultimo li stavano fissando.
Arianna era seduta su una poltroncina dalla tappezzeria antica, accanto a una madia, tra le mani un rosario di legno scuro del quale scorreva nervosamente i grani.
Prima di alzarsi, volse lo sguardo afflitto verso Alberto, l’uomo che da dieci anni le faceva da padre, come ad aspettare un suo gesto o il permesso di assentire alla richiesta del notaio.
Suo padre le pose una mano sulla spalla regalandole un sorriso affettuoso. La giovane lo ricambiò e si alzò di scatto per avvicinarsi alla porta, ma a pochi passi di distanza, fu fermata da una donna di mezza età, alta, con capelli neri, corti che coronavano un viso affascinante dagli occhi scuri come la notte, la quale le artigliò il braccio, affiancandola e sussurrandole minacciosa ma con discrezione: «Non oserai varcare quella porta!»
Arianna serrò la mascella senza guardarla e con un leggero movimento del braccio riuscì a liberarsi da quella morsa. I grani del rosario scricchiolarono tra le sue dita, segno che stava raccogliendo tutta la buona volontà per non inveire contro quella donna che da sempre la odiava.
Arianna, o Aria, era stata cresciuta nella famiglia Ferrara, ma prediletta da Vincenzo Gargano. Non si sapeva chi fossero i suoi veri genitori, si sapeva soltanto che dieci anni addietro, Vincenzo Gargano si era presentato con lei quindicenne e senza dare alcuna spiegazione a nessuno l’aveva affidata alle cure di Alberto, unico componente della famiglia Ferrara che non aveva figli né tantomeno si era sposato. Quando i parenti, soprattutto Alberto, ne chiesero il motivo, Vincenzo li liquidò dicendo che fra tutti, solamente lui era in grado di accettare quella ragazzina come propria figlia, convinto che gli altri l’avrebbero esclusa. E così fu. Con il passare del tempo, la bellezza di Aria era fiorita insieme ai suoi anni, aveva coltivato un’intelligenza invidiabile e la maggior parte della famiglia la odiava, fra questa innalzava lo stendardo la donna che l’aveva trattenuta: Rita Ferrara, sorella di Alberto.
Fu Diomede a fermare le gesta della cugina, non appena la ragazza riprese a camminare verso la porta.
Rita lo fissò contrariata, ma l’uomo la calmò con sguardo autoritario.
La donna ritornò alla sua postazione, accanto a sua madre che piangeva in silenzio e, alzando il mento fiero, riprese le sue preghiere. Diomede, infilandosi le mani nelle tasche, si avvicinò a suo cugino Alberto e, poggiandogli una mano sulla spalla, sussurrò: «Tieni a bada tua sorella, non voglio scenate.»
Ferrara non fiatò, lanciò solo uno sguardo rammaricato verso la donna, mentre Diomede lasciava il salone ammiccando al notaio Dedonno di seguirlo.
Nessuno dei presenti fece caso a quell’assenza, e il figlio del morente ne approfittò per scoprire il motivo di tanta insistenza da parte del padre per vedere il notaio.
Entrò nel suo studio, lasciando la porta aperta per permettere all’uomo di raggiungerlo. Si avvicinò a una consolle e si servì dalla brocca di cristallo contenente un liquido dal color caramello. Non appena sentì il rumore della porta chiudersi, senza voltarsi, ordinò al presente di parlare.
«È come sospettava lei, signor Gargano.» esordì Dedonno accingendosi ad aprire la sua cartella foderata in pelle. «Suo padre ha cambiato il testamento» si fermò aspettando la reazione del suo cliente che si volse sgranando gli occhi e stringendo nervosamente il bicchiere ancora pieno. Poi, porgendogli la lettera, aggiunse «Completamente»
Diomede non ebbe alcuna esitazione nell’afferrare quel foglio che gli parve scottare più del fuoco, e lo lesse con la sua aria di superiorità sollevando un sopracciglio man mano che le parole scritte con quella calligrafia che conosceva da sempre scorrevano davanti ai suoi occhi.
Alla fine, dopo la firma di suo padre, si volse verso le vetrate che riflettevano la luce del sole di mezzogiorno e alzò lo sguardo dal colore del ghiaccio fissando il vuoto.
«Ci sono altre copie?» chiese con voce roca, ma che celava nervosismo e delusione.
«Fortunatamente no, signor Diomede.» rispose il notaio andandosi a sedere su una delle due sedie della scrivania. «Non ha avuto il tempo di potermelo permettere. L’ha scritto ieri.»
«Bene.» sussurrò Gargano rivelando un ghigno.
«Anche se il signor Vincenzo è convinto che in questo momento mi stia liberando del vecchio testamento.»
«Che creda ciò che vuole!» lo interruppe bruscamente Diomede estraendo un accendino dalla tasca dei pantaloni. «Gli alleggerirà il pensiero della morte.» aggiunse dando fuoco alla lettera.
I due uomini rimasero a guardare la fiamma divorare la carta bianca, poi fu il figlio del morente a spezzare il silenzio chiedendo che cosa volesse suo padre da Arianna.
«Non mi ha detto nient’altro, a parte che voleva parlarle.»
«Di sicuro vorrà informarla del contenuto della lettera.»
«Ma… non vuole fermarla?»
«Non ce n’è bisogno, amico mio. Non c’è alcuna testimonianza che sia esistito questo testamento, e per quanto riguarda quella puttana, nessuno le darà troppa importanza.»
Detto questo, Diomede si volse ancora una volta verso la finestra, e il suo ghigno scomparve al pensiero che suo padre l’aveva tradito.
Il poco interesse che aveva di perderlo si era trasformato in forte odio. Diomede sentì disprezzo per suo padre, perché quest’ultimo aveva dimenticato i sacrifici che lui aveva fatto per aiutarlo nel lavoro e da ingrato aveva lasciato, nel testamento bruciato, tutti i suoi averi a quella ragazza, senza un perché.
Non doveva finire in quella maniera. Il silenzio del notaio gli era costato molto, ma n’era valsa la pena.
Pregò Iddio che se lo chiamasse al più presto per mettere fine a quella storia e dare inizio a ciò che veramente doveva essere, per lui.
 
***
 
Anche se Alberto le aveva lanciato un’occhiata contraria, Rita non demorse e lasciò il salone per raggiungere suo cugino. Quell’assenza l’aveva messa all’erta e, conoscendo la natura di Diomede, era convinta che stava tramando qualcosa.
Quando arrivò davanti alla porta dello studio, percepì uno strano odore di bruciato, così, senza alcuna esitazione e senza avvisare la sua presenza, aprì la porta cogliendo il notaio mentre si apprestava a uscire con in mano una cartella nera e suo cugino a osservare l’esterno dalla finestra.
La donna aspettò di rimanere sola con Diomede prima di chiedergli se avesse bruciato qualcosa.
«Un Sigaro» rispose l’uomo senza voltarsi.
«Dall’odore non sembrerebbe.» insistette lei. A quel punto, suo cugino si girò ma non del tutto, il limite massimo per poterle volgere i suoi occhi glaciali. «È morto?» chiese con indifferenza.
Rita incrociò le braccia al petto e passò il peso da una gamba all’altra, sbuffando un sorriso beffardo, «Sei così impaziente?» chiese.
Diomede si allontanò dalla finestra condividendo lo stesso sorriso di sua cugina e andò a sedersi dietro la scrivania, accomodandosi contro la spalliera. «L’impazienza è dovuta a ciò che mi spetta.»
«Ci… spetta» lo corresse prontamente avvicinandosi a lui decisa. «Non dimenticare il nostro patto, Diomede.»
«Se ti riferisci al matrimonio tra Carmine e Marella, non l’ho dimenticato, in fin dei conti è stato il volere di mio padre, ma se intendi la parte di eredità, non è certo colpa mia se tua madre ha rinunciato.»
La donna lo interruppe alzando una mano, chiuse gli occhi e tirò un profondo respiro per reggere la calma e non far trapelare la sua stizza.
«Non farmelo ricordare, per favore.» mormorò con un filo di voce.
Le labbra di suo cugino si delinearono in un ghigno strafottente, si alzò dalla sua postazione, fece il giro della scrivania per ritrovarsi di fronte alla donna e, portandole una ciocca di frangia dietro alle orecchie, le accarezzò il viso, le sollevò il mento costringendola a guardarlo in faccia «Non preoccuparti, per questo. Io non dimentico mai chi mi è fedele, e tu lo sei, vero Rita?»
La donna si perse in quello sguardo glaciale, e la voce calda e profonda di lui l’avvolse come a volerla penetrare nell’intimo, tanto che le sfuggì un gemito di piacere. Saggiò quella lieve carezza come se fosse l’unica cosa che percepiva sul proprio corpo e senza rispondere gli afferrò il viso con tutte e due le mani, si sollevò sulle punte dei piedi e gli accarezzò le labbra sottili con le sue.
Diomede sorrise, «Brava» sibilò come un serpente incantatore e avvinghiandola dai fianchi la baciò con impeto.
Intanto nella stanza del morente, Arianna non seppe mai cosa volle dirle l’uomo a cui era affezionata, poiché dopo aver tentato di parlarle in preda a convulsioni, spirò.
La prima persona che la ragazza chiamò fu il suo padre adottivo, ma il suo pianto allertò tutti i presenti, che si fiondarono nella camera increduli dell’accaduto.
Vincenzo Gargano si spense alle dodici e mezza in punto, portando con sé quel segreto che celava un peccato troppo ingombrante per la sua anima. Si spense, forse, con la consapevolezza di non essersi potuto liberare del rimorso che si era portato appresso per tutto il resto della sua vita.
 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

TESTAMENTO
 
Io sottoscritto, Vincenzo Gargano nato a Murgella il 22 maggio 1922, nel pieno delle mie facoltà mentali, istituisco eredi mio figlio Diomede Gargano e i miei due dilettissimi nipoti Stefano e Carmine Gargano. A loro andranno tutti i miei beni divisi in parti uguali solo se nell’arco di un anno a partire dalla mia morte uno dei due fratelli prenda moglie. In caso di rifiuto o a scadenza del tempo prestabilito, lascio ogni mio bene alle Suore Salesiane di Don Bosco.
Mia sorella Erminia Gargano in Ferrara e tutti i componenti della sua famiglia dopo la mia morte continueranno ad abitare nella tenuta e a svolgere il loro lavoro con stipendio senza lasciare alcun compenso a chi otterrà la proprietà.
 
In Fede, Vincenzo Gargano
 
Murgella, 29 novembre 2011
 
***
 
La morte di Vincenzo Gargano aveva lasciato un vuoto incolmabile, almeno per chi veramente gli aveva voluto bene.
Tre mesi erano passati da quel triste giorno e l’estate entrò in scena alleata di Diomede che col caldo e la parte di eredità che, nonostante il testamento, quello che l’uomo aveva fatto spacciare per vero, riportasse la volontà di suo padre e cioè quella che per diventare proprietario a tutti gli effetti, suo figlio avrebbe dovuto sposarsi, si prodigò per realizzare quei progetti che per anni aveva tenuti ben nascosti al resto della famiglia. Suo padre non c’era più e oltre a lui e al notaio nessun altro era a conoscenza di ciò che era avvenuto quel giorno nel suo studio, così aveva deciso di portare a termine ciò che si era predisposto per rendere più vasta la proprietà.
Ma se il nuovo signore di Murgella era convinto della sua fortuna, oscurando la memoria di suo padre, qualcun altro reggeva vivido l’ultimo sprazzo di ricordo, rimirando il giorno della morte del vecchio.
E quel qualcuno era appunto Arianna. Era stata l’ultima a vederlo e sentirlo, e il pensiero che il “nonno” avesse tentato di rivelarle qualcosa non l’abbandonò nemmeno per un istante.
Eppure i suoi dubbi sarebbero dovuti passare in secondo piano, poiché l’odio che alcuni componenti della famiglia serbavano per lei era aumentato a vista d’occhio e se non fosse esistito quell’uomo che per lei era davvero come un padre, di sicuro la ragazza non sarebbe stata tanto forte da lottare e rialzarsi ogni qualvolta tentavano di schiacciarla.
Oltre che per amor di Alberto e per rispetto alla memoria di Vincenzo, Aria sentiva che qualcos’altro la legava a quelle terre, qualcosa di forte di indissolubile.
E poi c’era lui… l’amore.
Quella calda mattina di giugno, preparò Tempesta, un lipizzano bianco, e si diede al galoppo attraversando i vasti campi punteggiati da balle di fieno, scavalcò muretti a secco, zigzagò tra nodosi alberi di ulivo, salì per una collina e quando fu all’apice si fermò ammirando il panorama.
Sorrise eccitata, tirò verso destra le briglie e, colpendo energicamente i fianchi della sua più fedele amica, s’immerse in quel paradiso terrestre. Dopo qualche metro, rallentò l’andatura del cavallo per poi fermarlo e scendere dal suo dorso. Lo lasciò lì a briglie sciolte, mentre lei si inoltrava in un sentiero di pruni, che portavano in un piccolo chiostro naturale dove una cascatella le faceva da protagonista.
Senza esitare oltre, Aria si sbottonò la camicia a quadri e si sfilò le scarpe e le bermuda. Rimasta con indosso solo l’intimo, si tuffò nel lago le cui increspature scintillavano ai raggi del sole come piccoli diamanti.
L’acqua ghiacciata trafisse le sue membra, ma era un piacevole contrasto al caldo che soffocava l’aria. Quando riemerse gettò un gridolino, si passò le mani sul viso per liberarsi dell’acqua in eccesso e si tirò i capelli all’indietro.
«Sapevo di trovati qui», venne attratta da una voce. Si volse di scatto sorpresa, per poi tramutare la sua espressione in un sorriso di felicità.
Sulla roccia, accanto ai suoi indumenti, dritto in piedi con le braccia incrociate al petto un uomo giovane, dal volto gentile, gli occhi sereni, i capelli castani che svolazzavano al lieve vento, la guardava contento di averla sorpresa.
«Carmine» sibilò Arianna, smuovendo l’acqua per spingersi in avanti, come a volerlo raggiungere.
«Esci, o entro?» chiese il giovane sciogliendo la sua posizione e portando le mani al bordo della t-shirt.
«L’acqua è bellissima.» esclamò lei piroettando e spingendosi in su con le braccia per rimanere a galla.
Carmine non disse altro, si denudò mostrando il suo corpo perfetto e scolpito dal suo pesante lavoro e si tuffò.
Riemerse pochi istanti dopo sovrastando la figura della ragazza che, sentendosi afferrare per i fianchi, gettò all’aria un gridolino e iniziò a ridere divertita.
«È ghiacciata.» mormorò il giovane.
«Allora hai fatto bene a tuffarti. Ti posso riscaldare io» disse Aria avvolgendogli le braccia al collo. Si guardarono per qualche istante, come a voler aspettare uno la reazione dell’altro e Carmine, le mangiò le labbra con gli occhi, mentre lei chiudeva i suoi intenta a concederglielo. Ma il giovane non la sfiorò, mosse le gambe nell’acqua in tal modo da posizionarsi dietro di lei e la invitò a seguirlo.
Oltre il velo irrefrenabile della cascata, c’era una piccola e umida grotta, Carmine la portò lì, in quello che da tre anni era diventato il loro nascondiglio segreto, e da due il loro antro d’amore.
La stese sulla fredda pietra e le percorse con la mano la gamba per poi salire sulla coscia, il fianco e afferrarle il tondo seno coperto dalla lingerie. Aria non distolse gli occhi dai suoi nemmeno quando lo vide sovrastarla, divaricarle le gambe e poggiarle il membro sulla sua nudità.
Gli afferrò il viso con entrambe le mani e finalmente poté unire le labbra alle sue.
Carmine entrò in lei, ancheggiando lentamente per elargirle piacere. Come solo lui sapeva fare e come solo lui la conosceva, perché la sua prima volta e il suo unico amore.
Ma quel giorno, Aria non parve appagarsi. Non riusciva a muoversi per contribuire anch’essa a quell’atto piacevole e Carmine se ne accorse e si fermò chiedendole cosa avesse.
«È per il matrimonio» rispose la ragazza, e la voce le uscì strozzata.
Il giovane serrò le labbra e strinse gli occhi dispiaciuto. Uscì da lei e si stese di faccia all’aria al suo fianco. Fissò le piccole stalattiti appese al soffitto della grotta e si passò una mano sulla fronte sospirando amareggiato, consapevole che la ragazza lo stava guardando.
Ci fu un breve ma intenso silenzio, poi Arianna si mise a sedere dandogli le spalle e allungando i piedi verso la cascata attingendo la punta delle dita, formando un arco allo scorrere dell’acqua.
«Io non amo Marella.», Carmine spezzò il silenzio, e la sua voce vibrò nella grotta.
«Ma la sposerai.» ribatté Aria con voce atona.
«Non l’ho deciso io.»
«Ma sei stato d’accordo fin dall’inizio.»
Carmine si alzò di scatto e l’afferrò per le spalle volgendola verso di sé. In quel movimento, la gamba della ragazza scivolò intera contro la cascata alterando il suo corso e provocando degli schizzi. Sentì come se migliaia di aghi la stessero punzecchiando ma quel dolore era nulla in confronto a ciò che sentiva nel cuore, soprattutto quando Carmine la guardò con sguardo supplichevole.
«Quando mio padre e tua zia Rita proposero questa unione e il nonno diede loro il consenso, ricordi quella sera? Ti chiesi semmai avessi voluto scappare via con me. Tu però ti rifiutasti.»
«Marella non mi odia come mi odiano sua madre e sua sorella. – spiegò la ragazza ritirando la gamba per mettersi in ginocchio – lei ed io ci vogliamo bene ed io non le potrei mai fare una cosa del genere.»
«Ma io amo te.» esclamò Carmine stringendole le spalle.
«Carmine, non siamo più dei bambini. Sai che puoi opporti se solo lo volessi.»
«Mio padre non ti accetterà mai!»
Non erano una rivelazione quelle parole. Arianna lo sapeva benissimo ma ogni volta che le udiva, sentiva un pezzo della sua dignità frantumarsi.
Davvero la odiavano in quel modo solo perché non era una vera Ferrara?
Quando Vicenzo era ancora in vita, aveva da tempo espresso quello che poi in seguito avrebbe riportato nel testamento e cioè soltanto se uno dei suoi due nipoti avesse preso moglie avrebbe ceduto la sua proprietà e, poiché del primo genito non si avevano notizie ormai da dieci anni, Diomede in combutta con Rita, obbligò Carmine a unirsi in matrimonio con Marella.
Tutto quello era assurdo. L’uomo diceva che oltre a essere un favore che faceva ai suoi cugini per via della rinuncia che Ermina aveva fatta dopo la morte di suo fratello, i Gargano non potevano permettersi di perdere l’intera proprietà dopo tutti i sacrifici che avevano fatto per mandarla avanti. Ma c’era qualcos’altro e Carmine lo sapeva benissimo. La loro storia d’amore era segreta. Nessuno sapeva di loro due, tranne Diomede che aveva intuito qualcosa e perciò aveva minacciato suo figlio che se non avesse fatto ciò che gli ordinava, se la sarebbe presa con Arianna.
No, Carmine non poteva permetterglielo, ma allo stesso tempo non voleva lasciarla andare. Si trovava tra due fuochi e la fiamma dell’amore divampava ogni qualvolta si trovava con lei. Gli faceva perdere il senno, lo armava di coraggio e gli balenava nella mente l’idea di andare contro il padre e scappare via insieme.
«Ascoltami, amore mio – riprese stringendo la presa sulle sue spalle – Non c’è nulla tra me e Marella, a prescindere dalla decisione del matrimonio. E non ci sarà mai. Ma se dovessi sposarmi, tutto questo finirà.» la sua voce si fece sommessa, e gli occhi presero il posto delle parole, indicando la grotta, come se fosse il tesoro più grande che custodivano insieme.
Le labbra di Aria tremarono leggermente e dovette sbattere le palpebre più di una volta per cacciare le gocce d’acqua che le strisciavano sulla fronte per via dei capelli bagnati, oppure erano semplici, tristi lacrime?
Abbassò la testa sospirando.
«Io non voglio che finisca.» esclamò Carmine, «dimmi che non lo vuoi neanche tu!»
Aria alzò lo sguardo e lentamente scosse il capo. «Ti amo troppo per ammettere il contrario.»
Il giovane sorrise e la baciò abbracciandola, poi le sue labbra affondarono sull’incavo del collo e il calore che le diede la fece fremere.
«Andiamo via insieme.» soffiò sulla sua pelle.
A quel punto Aria annuì.
Perché non dovevano essere felici? Carmine aveva ragione, tra lui e Marella non c’era nulla. Al contrario, loro due erano legati dal magico filo dell’amore, perché allora non provare ad essere felici alla luce del sole invece che in una piccola grotta nascosta da una cascata? Cos’aveva da perdere? Tranne che con il suo patrigno e due suoi cugini gemelli, non aveva altri legami. Loro avrebbero compreso le sue scelte.
Cullata dal calore del suo amato, Aria si lasciò andare, si concedette e prese da lui il piacere di sentirlo dentro di sé.
 
***
 
La sera seguente ci sarebbe stata la cerimonia del matrimonio tra Carmine Gargano e Marella Franchi.
Diomede e Rita avevano pensato a tutto e anche in fretta.
Carmine, d’accordo con Arianna, aveva premeditato di non presentarsi e che prima della cerimonia, si sarebbero incontrati nelle scuderie, per poi andarsene.
All’inizio Arianna esitò, ancora un po’ dispiaciuta per il torto che avrebbe fatto a sua cugina, ma le ragioni del suo amato la fecero riflettere e così accettò senza obbiettare.
Dopo aver fatto l’amore, ripresero il loro cammino. Anche Carmine era giunto al lago col suo cavallo e si distanziarono solo quando raggiunsero la vetta della collina. Si scambiarono un’ultima occhiata carica di amore e fu il giovane ad allontanarsi per primo. Quando arrivò al recinto, scese da cavallo e portate avanti le redini lo accompagnò nelle scuderie. Vi trovò i gemelli, figli di Cristoforo Ferrara, terzo figlio di Ermina, che governavano le giumente. Lasciò il suo cavallo nel box e li raggiunse.
I gemelli, Enea e Paride, due quindicenni biondi e solari, fermarono il loro lavoro non appena lo videro e all’unisono esclamarono che avevano una bellissima notizia da dargli.
«Di che si tratta?» chiese Carmine indifferente, convinto che si trattasse di uno dei loro soliti scherzi usciti a meraviglia verso Mina, loro cugina, nonché terza figlia di Rita.
Nonostante la loro adolescenza erano rimasti due bambini, ma questo piaceva all’intera famiglia Ferrara, poiché riuscivano a distinguersi da tutti i loro coetanei che tentavano di intraprendere cattive strade e abitudini.
«Abbiamo sentito tuo padre che ne parlava con nostro zio Alberto.» disse Paride.
«Stefano ritornerà a Murgella!» concluse Enea tutto sorridente.
Carmine si sentì mancare un battito e la sua espressione attonita presto si trasformò in incredula felicità.
Erano anni che non vedeva suo fratello maggiore. Aveva perso il conto, dal giorno in cui si erano detti arrivederci.
Stefano Gargano era il primo genito di Diomede. A dispetto di quello che suo padre voleva per lui, il giovane si era impuntato dall’inizio della sua adolescenza di non voler avere niente a che fare con gli affari di famiglia. Era uscito tanto diverso dalle abitudini e dalle abilità dei Gargano che per un certo periodo la buon’anima di Vincenzo si era messo in testa che non fosse figlio di suo padre.
Il fotografo. Che cavolo di mestiere era: il fotografo?
Per quanto riguardava sua madre, Camilla Olivieri figlia del vecchio maresciallo di Murgella, era solo buona a cucinare e ricamare, oltre ad aver messo al mondo due figli maschi, così da aver garantito ai Gargano una discendenza.
Ma ‘sto figlio fotografo, da dov’era uscito?
Quand’era piccolo, se ne andava sulla collina e disegnava paesaggi, e non che non fosse bravo, anzi, la professoressa Bevilacqua una nanetta con la gobba, alla scuola media, lo aveva sempre elogiato, e soprannominato il Bel Caravaggio, perché sì, come Carmine, anche Stefano era bello e la sua bellezza fece presto cancellare i dubbi di suo nonno, perché somigliava tutto a lui quand’era giovane.
Con il passare degli anni, il ragazzo aveva fatta convinta l’intera famiglia che su di lui non avrebbero comandato e un pomeriggio piovoso di novembre all’età di vent’anni, proprio il giorno appresso a quello di tutti i defunti, senza dire nulla, Stefano aveva fatto i bagagli ed era andato via, l’unica cosa buona che aveva fatta per non tenere in pensiero sua madre e suo nonno, fu mandare una lettera a quest’ultimo dove spiegava le vere ragioni di quell’allontanamento. E Vincenzo, senza rivelare nulla a nessuno, s’era ben guardato dal far leggere quelle parole portandosi nella tomba quel segreto.
Ma il comportamento che ebbe dopo quell’evento non passò di certo inosservato agli occhi di suo figlio, poiché aveva percepita la freddezza che suo padre portò d’allora nei suoi confronti.
Tutto questo era estraneo al resto della famiglia che sapeva che Stefano si trovava a Firenze per studiare arte e fotografia, e in un certo qual modo era vero.
Erano trascorsi, per la precisione, dieci anni. In questi, poche erano state le chiamate, i messaggi. Sul suo profilo Facebook pubblicava solo e soltanto i suoi scatti artistici, dei paesaggi, e dei paesi che aveva visitato, ma di come era diventato… nulla.
Tant’è che in casa Ferrara, girava voce fosse un clochard, e per vergogna non si parlava tanto di lui. Perché in un certo senso la domanda usciva spontanea: come campava questo benedetto ragazzo? Chi gli aveva dato i soldi per studiare?
Diomede di certo no. Sembrava lo avesse diseredato per il suo comportamento; sua madre non aveva voce in capitolo e poi, era evidente il suo stato d’animo da quando se n’era andato il figlio, sembrava diventata scimunita.
Suo fratello Carmine percepiva regolarmente uno stipendio che bastava per mantenersi il cavallo e la macchina e per togliersi qualche sfizio.
La chiave di tutto era Vincenzo. Fino all’ora della sua morte aveva provveduto al sostentamento di suo nipote. Naturalmente, non che Stefano non fosse in grado di darsi a campare, infatti nell’ultima chiamata fatta a suo nonno, prima della sua morte, lo aveva pregato di non versare più bonifici perché aveva da tempo trovato lavoro come fotografo in un giornale locale, che Vincenzo non ricordò mai il nome né tantomeno il paese. Il vecchio aveva fatto orecchie da mercante, e mensilmente versava soldi come se il venti di ogni mese doveva sdebitarsi di un prestito fatto in quel lontano novembre. E quando Dio se lo chiamò, forse se avesse saputo che nessuno si era degnato di avvisare quel suo nipote, si sarebbe presentato in sonno a tutti quelli della famiglia per tirare loro i piedi e fargli prendere un colpo.
Ma Carmine, a differenza di tutti, aveva disobbedito agli ordini di suo padre e aveva cercato di contattare suo fratello per dargli la triste notizia, ahimè senza successo.
Stefano sembrava morto: né una chiamata né un messaggio neppure sui social riuscì ad avere sue notizie.
Ora, si presentava come qualcosa di inaspettato.
Perché?
L’unica cosa da fare per darsi delle risposte era ritornare a casa e chiedere spiegazioni.
Vi trovò davanti al possente portone sua madre che, con la sua solita coroncina tra le mani guardava con occhi sbrilluccicanti il cancello, come qualcuno che aspetta l’arrivo della persona amata.
Era la prima volta dopo dieci anni che Carmine la vedeva in piedi al di fuori di quelle mura. Dopo la partenza di Stefano si era chiusa in sé stessa, parlava poco e se ne stava perennemente rintanata nella sua camera, o alcune volte la trovavano supina sul letto del figlio, tant’è che in quelle occasioni i parenti gridavano di spavento credendola morta. Per quanto riguardava suo marito, non si curava di lei, un po’ per il lavoro, un po’ per carattere e un po’ perché non l’amava, anzi, non l’aveva mai amata. Lo aveva rivelato lei stessa una sera di tanti anni fa ai due figli, in preda al suo solito pianto melanconico.
Era evidente che quell’improvviso cambiamento era dovuto alla notizia dell’arrivo di Stefano.
«Mamma, che ci fai qui?» chiese Carmine affiancandola e cingendole le spalle. La guardò attentamente, prima non se n’era mai accorto, ma in quel momento alla luce del sole si capacitò che sua madre era invecchiata, esageratamente. Aveva cinquant’anni, ma ne dimostrava molti di più. I suoi capelli castani, lisci, che una volta portava lunghi e vaporosi, erano striati di grigio e bianco alla cute e legati in una coda scialba, la pelle mostrava segni dell’età avanzata; rughe che solcavano la fronte e la coda degli occhi, occhiaie e zigomi ossuti. Com’era dimagrita! Si disse suo figlio stringendo la presa come se impaurito che da un momento all’altro potesse crollare, come se tenesse fra le mani qualcosa di fragile.
«Carméne’… fratte ste a venéjé!», parlava in dialetto, e il giovane ricordò dalle poche volte che l’aveva sentita parlare nel corso di quei dieci anni che lo faceva solo quando voleva far dispetto a suo marito il quale odiava sentir parlare una donna in quel modo.
Ma Diomede non c’era in quel momento!
«O’ mà! Ritorniamo dentro. Oggi fa troppo caldo. Lo aspettiamo dentro.»
E mentre l’accompagnava, quella ripeteva “ste a venéje, ste a venéjé!”, sta arrivando, sta arrivando!
 
***
 
Arianna non aveva fatta la stessa strada di Carmine. Non voleva che qualcuno li vedesse insieme, anche perché a quell’ora il ragazzo doveva trovarsi a dirigere l’imballaggio del fieno, e l’oretta in cui si era allontanato per trascorrerla insieme con lei, sicuramente avrebbe destato sospetti, così decise di fermarsi nei pressi della cascata. Ricordandosi che non lontano da lì c’era un seminativo dove crescevano spontanei i tulipani, scese dal dorso della sua Tempesta e andò a raccoglierne qualcuno.
A Vincenzo piacevano i tulipani. Li avrebbe posati sulla sua lapide. Ci andava ogni mattina e oltre ai fiori di campo lasciava una preghiera.
Gli mancava, “nonno” Vincenzo. Era stato male per mesi a causa del suo cuore, ma vederselo morire davanti l’aveva talmente impressionata che non era passata notte in cui si svegliava di soprassalto, in preda ai tremiti e ai sudori.
Non che l’impressione fosse l’averlo visto contorcersi prima di spirare, tutt’altro; era stato quel suo modo di volerle parlare, era come se avesse lottato contro la morte per dirle qualcosa d’importante. “Perdonami” aveva soffiato tra un ansimo e l’altro, ma di cosa doveva perdonarlo? Forse per il ridicolo testamento che aveva lasciato, perché aveva intuito della storia d’amore tra lei e Carmine e quindi le chiedeva perdono per la sciocchezza che aveva fatto permettendo a Diomede di decidere del futuro di suo figlio?
Mentre staccava l’ultimo stelo, Tempesta, da lontano, attirò la sua attenzione, distraendola da un ricordo che le passò fugace nella mente e che dimenticò all’istante, poiché, sollevando il capo si accorse che accanto alla giumenta, c’era un uomo che la manteneva dalle briglie.
Senza riflettere, e convinta che lo sconosciuto la stesse portando via, Aria lasciò cadere il mazzo dei tulipani e si mise a correre verso di loro gridando allo sconosciuto di lasciare andare l’animale.
Più si avvicinava, più riusciva a vederlo meglio: si trattava di un giovane, sulla trentina che aveva capelli di un biondo scuro tirati indietro e legati in un mezzo codino, mentre il resto dei capelli lunghi, gli scivolavano sul collo poggiandosi sulle larghe e palestrate spalle. Aveva occhi penetranti, sorridenti, quasi beffardi, mentre il resto del viso era abbracciato da una ben curata barba che copriva delle labbra carnose.
Sembrava non essersi accorto di lei, perché continuava a guardare Tempesta con occhi sognanti e un sorriso serafico.
«Non hai sentito quello che ti ho detto?» esclamò ancora una volta la ragazza affannata per la corsa. Solo allora il giovane si volse a guardarla, e socchiuse le palpebre a causa dei forti raggi del sole. «Lasciala andare, altrimenti…» continuò Aria guardando per terra. Afferrò un sasso bello grosso e minacciò di volerglielo lanciare contro.
«Oh, oh! Calmati tempesta!» esclamò beffardo lo sconosciuto accennando due passi indietro, sollevando le mani in segno di resa ma senza lasciare le briglie.
A quel movimento, la vera Tempesta sollevò di scatto la testa strattonandolo.
«Non fare così! – lo rimproverò la ragazza avvicinandosi con cautela – la stai innervosendo.»
Ed infatti la giumenta iniziò a nitrire e a sbruffare fiato dalle narici dilatate. Cercava di indietreggiare, ma indecisa, ora guardava il giovane ora la sua padrona che tentava di quietarla e, fidandosi come sempre di lei, si lasciò avvicinare e accarezzare il dorso del muso.
«Buona, buona amica mia» le sussurrò mentre, lanciata un’occhiata fulminea allo sconosciuto, si faceva dare le redini.
«Non volevo rubarla, se è questo che hai creduto» si giustificò lui incrociando le braccia al petto gonfiandone così i muscoli.
Aria non rispose, ma gli indirizzò un’altra occhiataccia e solo allora si accorse che i suoi occhi erano azzurri come il cielo che imperava sopra alle loro teste.
«Sono un fotografo – riprese sciogliendo la sua posizione e prendendo la reflex che teneva appesa al collo. – ho visto la giumenta e non ho resistito a volerle fare degli scatti.»
«Se sei in cerca di modelle, hai sbagliato zona!» rispose acida Arianna, salendo sul dorso della cavalla.
«Ti sbagli. Io non…» lo sconosciuto provò a giustificarsi, ma la ragazza non gli diede il tempo di farlo, tirò a destra le redini e spronò la giumenta al galoppo.
Il fotografo rimase a bocca aperta, ma la scena che gli si stagliò davanti non lo lasciò offeso: quella giovane tempesta che si allontanava sul lipizzano bianco, con i capelli ondeggianti al vento, in quel paesaggio dalle sfumature estive lo ispirò. Prese la sua reflex e accostatala all’occhio destro scattò qualche foto. Alla fine guardò il risultato, sembrava una ninfa uscita da un bosco incantato a cavallo di un unicorno.
Sorrise soddisfatto.
 
***
 
I primi a veder arrivare Stefano oltre il cancello furono i gemelli.
Non che il suo arrivo fosse stato discreto, al contrario, il rombo del suo motociclo Yamaha nero e rosso, spaventò la natura e uno stormo di uccelli che si librarono in volo scuotendo le foglie dei pini che recintavano il casolare dei Gargano. Ma Paride ed Enea avevano la mania di prendersi il merito nell’avvisare tutti di tutto.
Camilla, sua madre, era stata fatta sedere al tavolino in ferro battuto dopo che si era rifiutata categoricamente di rincasare, costringendo l’altro suo figlio a stare con lei, preoccupato per quel comportamento che la donna non aveva mai avuto prima d’ora.
Seduta sulla sedia affianco, c’era anche Erminia che sorseggiava il suo caffè in silenzio, mentre Rita, Marella e Mina erano sedute sulle poltroncine di vimini sotto il porticato.
Il resto della famiglia era al lavoro nei campi, e Diomede rinchiuso nel suo studio non aveva accennato a voler scendere per accogliere anche lui suo figlio.
Erano trascorsi dieci anni, forse si sarebbe dovuto comportare meglio, non che Carmine si aspettasse uno sprazzo di felicità da parte di suo padre, sapeva che non ne era il tipo, ma almeno l’interesse. E forse il fratello sapeva che il comportamento di Stefano non era giustificabile.
Poi, rivedendo sua madre, ricordò che era stata anche colpa sua se la donna si era ridotta in quello stato e forse non c’era davvero nulla per cui essere felici del suo arrivo.
Ma fissando il volto di Camilla, Carmine si accorse che era più luminoso e sognante, quasi ringiovanito, così dissipò all’istante quei pensieri.
Distolse lo sguardo dalla donna quando sentì Enea che, a gran voce, faceva apprezzamenti sulla moto. Vide suo fratello scendere dal mezzo, sfilarsi il casco e scompigliare i lunghi capelli biondi legati da un mezzo codino.
Era davvero cambiato. Anche se si somigliavano, con la barba Stefano sembrava un’altra persona. Ed era davvero affascinante.
In lontananza sentì Mina dire qualcosa e sua madre che sorrideva con la sua solita risata maliziosa.
Dopo essersi liberato dei due cugini, la prima persona che Stefano puntò, fu proprio sua madre, la quale si alzò barcollando dalla sedia e gli corse incontro aprendo le braccia. Il giovane l’accolse sul suo petto avvolgendola con le sue braccia possenti. Essendo molto più alto di lei dovette chinare il capo di un bel po’ per poter affondare le labbra nell’incavo del suo collo. Carmine stette ad osservarli e sentì la madre piangere come una bambina, anche a lui venne da piangere, ma si trattenne ingoiando a fatica quel groppo che gli si era formato in gola.
«Sono qui, mamma» mormorava il giovane.
«Cattivo, cattivo Stefanuccio» diceva sua madre tra un singhiozzo e l’altro, poi lo allontanava per prendergli il viso tra le mani, che con le dita tentava di scostargli la barba per vederlo meglio, ma senza successo; allora prendeva a baciarlo sulle guance e ad abbracciarlo ancora.
«Così lo consumerai!» intervenne Erminia sbattendo il bastone sulle basole per attirare l’attenzione su di sé.
«Zia Erminia»
«Zia… – sbraitò la vecchia storcendo le labbra – ti sei ricordato di noi, finalmente! Dovrei cacciarti a pedate, se non fosse che ho paura di vedermi comparire tuo nonno nel sonno!»
Le labbra di Stefano si allargarono in una fresca risata, poi scostando dolcemente sua madre si precipitò verso Ermina, la prese in braccio, ignorando la sua protesta, fece qualche piroetta per poi stamparle un bacio sulla fronte e rimetterla giù.
La donna sentenziò ricomponendosi la crocchia che si era allentata nel movimento, poi finalmente toccò a Carmine. I due fratelli si guardarono per qualche istante, poi si strinsero la mano abbracciandosi. Non si dissero nulla e i saluti proseguirono col resto della famiglia. Rita si atteggiò a donna di classe, Marella con la sua solita goffaggine e timidezza, mentre Mina volle mostrare quel lato di sé che non era ancora fiorito poiché aveva sedici anni e chiamarla donna forse era un po’ troppo, fatto sta che aveva fatto intendere ai presenti che un certo interesse per quel giovane uomo dall’aspetto selvaggio e allo stesso tempo attraente lo aveva di sicuro.
Si parlò del più e del meno, ma l’attenzione del giovane calò subito sulla morte del nonno. A quel punto tutti si zittirono. «Comprendo che forse qualcuno non desiderava la mia presenza. Dato che non sono stato avvisato.»
«Ho cercato di contattarti» rivelò suo fratello. «Ma il tuo numero era irraggiungibile.»
«Ho cambiato numero da un anno, avevo avvisato il nonno di questo.»
«Lui non ci ha detto niente» intervenne Erminia.
Nessun altro proferì parola, e Stefano non accennò nulla su suo padre, non chiese dove fosse e chissà se ci avesse pensato.
Dopo un po’ annunciò di sentirsi stanco per il viaggio, sua madre, insieme con Carmine, volle accompagnarlo nella sua camera e il giovane promise che a cena avrebbe raccontato loro le sue avventure.
Accomodatosi nella sua stanza e dopo aver congedato Camilla che sembrava non volersi più staccare da lui, con la paura che ancora una volta potesse scomparire senza dare spiegazioni, andò in bagno a farsi una doccia. Non era cambiato nulla in quella casa a parte i volti dei suoi parenti.
Quando rientrò nella stanza da letto aprì il borsone ed estrasse la sua reflex. L’accese, mettendosi a guardare le ultime foto che aveva scattato, quelle che ritraevano la ragazza sulla giumenta bianca.
Sorrise al ricordo del loro incontro e si domandò se veramente avesse avuto l’intenzione di colpirlo con quel sasso, poi venne interrotto dall’entrata di suo fratello.
«Hai bisogno di qualcosa?» chiese quest’ultimo socchiudendo la porta e, appoggiandosi di spalle al muro, incrociò le braccia al petto.
«No, grazie. Ho già tutto.»
«Allora, se sei d’accordo, passiamo alle domande.»
Stefano sorrise scuotendo il capo e prendendo degli indumenti da indossare.
«In dieci anni ci siamo sentiti sì e no otto volte.»
«Nove.»
«Hai visto come si è ridotta la mamma?»
Stefano non rispose, gli volse le spalle infilandosi la maglia.
«Non l’hai mai chiamata, non le hai mai dato tue notizie. Parlavi solo col nonno e solo da lui riceveva delle risposte.» seguì un attimo di pausa «Dieci anni, Stefano. Perché?»
«Cambiamo discorso»
«No. Ho aspetto troppo tempo, non mi rispondesti allora…»
«E non sperare che lo faccia adesso.» lo ammonì il maggiore girandosi verso di lui, accigliato.
«E allora perché sei tornato e come hai fatto a sapere della morte del nonno?»
«Ho ancora qualcosa da fare qui, che lasciai in sospeso. Per quanto riguarda il nonno, lo scoprii sul necrologio del nostro paese. Ascolta, Carmine, so che pensi che il mio comportamento sia sbagliato e che io stesso sia egoista e insensibile, mi dispiace per come si sono messe le cose con mamma, ma tutto ciò che ho fatto non riguarda né lei né te.»
«È per papà, vero?»
I due si fissarono negli occhi per qualche istante, ma non proferirono più parola. A quel punto, Carmine, conscio di aver centrato in pieno, decise di non fare altre domane e di cambiare discorso. «Anche se siamo stati lontani per tanto tempo, ti conosco e… hai ragione tu. Tranquillo, sono paziente e so aspettare. Quando vorrai parlarmene, allora io sarò qui ad ascoltarti.»
Stefano gli indirizzò un sorriso di gratitudine, poi Carmine allontanandosi dal muro e mettendosi a sedere sul letto sospirò dicendo: «Anche se non penso di restare a lungo. – si fermò e dato lo sguardo interrogativo che suo fratello gli volse, aggiunse - Sai, durante tutto questo tempo, ti ho invidiato. Ho invidiato il tuo coraggio, hai saputo tener testa alle decisioni di questa famiglia, io invece mi sono fatto sottomettere.»
«Parli del matrimonio con Marella?»
«Come fai…»
«Me ne parlò il nonno prima della sua morte. Una delle tante stronzate di nostro padre.»
«Il nonno gli ha dato man forte. Ma questa non gliela lascerò fare.» lo interruppe convinto Carmine, mentre fissava il vuoto con occhi fiammeggianti. «Ho deciso di andarmene da Murgella.»
 
***
 
Non si era sbagliata. Aveva sentito bene: Carmine voleva andarsene da Murgella; l’aveva sentito con le sue orecchie. Il giovane non aveva intenzione di sposare sua sorella.
Malgrado si fosse accostata alla porta della camera di Stefano per spiarlo, perché aveva notato l’abbondanza che nascondeva sotto quella maglietta a mezze maniche e si era detta; “di sicuro dovrà cambiarsi” e quale momento migliore se non quello?
Ma mai avrebbe immaginato di ascoltare un ragionamento del genere! E menomale che aveva avuto quell’idea, altrimenti quel farabutto di Carmine se ne sarebbe andato lasciando, magari, sua sorella sull’altare.
Doveva fare qualcosa. Doveva raccontare a sua madre dell’accaduto, perché sapeva che se l’avesse detto a Marella, quella sbadata si sarebbe di sicuro lasciata alla disperazione piangendosi addosso come una lagna mortale.
Quando uscì dalla casa dei Gargano, non prestò attenzione ai gemelli che squadravano attentamente il motociclo e scommettevano sul possibile limite massimo di velocità. Al contrario, Paride si accorse di lei, e le fece una delle sue solite battute che la portavano sempre a inveire contro di loro e a maledirli, ma quella volta Mina non lo ascoltò, e con passo spedito fece il giro del casolare per raggiungere l’altra entrata, quella che conduceva a casa Ferrara.
Aveva il fiatone quando arrivò davanti alla camera di sua madre, e la trovò vuota. Allora si diede alla sua ricerca chiamandola a gran voce. Da una stanza, uscì Marella che reggeva in mano una spazzola e aveva i capelli neri sciolti.
«Perché gridi, Mina?» le chiese afferrandola da un braccio per fermarla.
«Hai visto mamma? Devo parlarle urgentemente.»
«Dovrebbe essere in cucina con zia Chelina e nonna Erminia. Stanno organizzando la cena per domani.»
«Non ci sarà nessuna cena, domani!» l’ammonì Mina scansandosi dalla presa e lasciando Marella interdetta, come se si fosse fermata a guardare un dipinto del quale non comprendeva il contenuto. Sua sorella alzò gli occhi al cielo poi le schioccò le dita davanti ai suoi per riportarla al presente e le disse di seguirla se voleva sapere la verità.
Quando entrarono in cucina e videro le donne alle prese con la merce che zio Cristoforo, il padre dei gemelli, aveva portato, i bollenti spiriti di Mina si spensero, decisa a non voler fare scenate.
Con una calma mal celata, disse a sua madre che doveva parlarle con urgenza, dietro di lei Marella se ne stava zitta e ancora spaesata.
Rita rispose che non era il momento, ma quando vide l’occhiata che le indirizzò Mina, comprese che era qualcosa di davvero importante e lasciando la lista in mano a sua madre si allontanò con le figlie.
Entrarono nel soggiorno e, dopo aver chiuso a chiave, Mina raccontò quello che aveva sentito dire a Carmine.
Rita, invece di chiedersi che cosa ci facesse sua figlia in casa Gargano e per di più accostata alla camera di un uomo, strabuzzò gli occhi e si sentì il sangue fiottarle nel cervello. Le uscì difficile chiedere a sua figlia se avesse sentito male. La consapevolezza che i suoi piani costruiti con estrema attenzione avessero delle fragili fondamenta e potessero crollare da un momento all’altro la gettarono nel panico più totale nonché in una rabbia irrefrenabile.
Si mise a camminare avanti e indietro, mormorando qualcosa di incomprensibile e passandosi ogni tanto una mano sulla fronte come a volersi detergere il sudore.
Marella a quel punto, non comprendendo quale fosse il problema, prese parola permettendosi di esternare i suoi innocenti pensieri: se Carmine non voleva sposarla, lei non se la sarebbe di certo presa. «Alla fine non ci amiamo, e poi non sembriamo neppure fidanzati…» aggiunse giocherellando con la spazzola che si era inconsapevolmente portata appresso.
A quelle parole, sua madre si fermò, si voltò a guardarla, poi guardò Mina che non aveva espressione sul volto, allora ritornò a guardare la più grande e scattata in avanti, senza darle nemmeno il tempo di reagire le strappò di mano la spazzola e la usò per colpirla in viso.
La testa di Marella si piegò a un lato, mentre le gambe slittarono facendola rovinare sul pavimento. Nell’aria echeggiò solo l’urlo sorpreso di Mina che si portò una mano sulla bocca e guardò attonita sua sorella.
Il colpo era stato forte, l’aveva colpita dalla parte dov’erano le setole di plastica, tant’è che la guancia si gonfiò e delle linee parallele, rosse si delinearono repentinamente sull’epidermide.
«Che cosa cazzo hai detto a quell’imbecille?» chiese sua madre con voce tremante di rabbia.
«Niente» balbettò sua figlia voltandosi per guardarla. Aveva gli occhi colmi di lacrime e gli angoli delle labbra carnose che tremolavano.
Mina lesse un indescrivibile paura nei suoi occhi. Non aveva mai assistito a una scena simile. Certo in tutti i suoi sedici anni di vita aveva capito che sua madre provava un certo disprezzo per Marella, anche se non ne aveva mai compreso il motivo. Tant’è che era giunta alla conclusione che era a causa del carattere troppo stupido della sorella.
«E allora perché non si vuole sposare?!». Mina sussultò ritornando al presente, vedendo sua madre mentre raccoglieva da terra Marella e la strattonava bruscamente.
«Io…io non lo so, te lo giuro.» piangeva disperata la figlia.
Rita l’allontanò da sé e riprese a camminare avanti e indietro nervosa. Poi ancora una volta si fermò, si volse verso l’altra figlia e le ordinò di uscire e di non dire niente a nessuno.
Mina annuì con la testa affondata nelle spalle, poi uscì, ma non si allontanò. Rimase a spiare l’interno attenta a non farsi scoprire. Vide sua madre avvicinarsi lentamente a Marella che continuava a piangere, sembrava un capretto minacciato dal lupo, e questa volta la donna l’afferrò dolcemente per le spalle, le sollevò il viso e le accarezzò la guancia.
«Non piangere, Marella. – le diceva con un tono di voce totalmente cambiato – la mamma ha sbagliato, ma tu non puoi dire che non ami Carmine. Lo ami, vero?»
«Ma io…»
«Sssh – fece ancora sua madre, questa volta abbracciandola e accarezzandole i lunghi capelli – se tu non lo sposi, rimani una minaccia per me. Capisci? Tu non vuoi vedere tua madre stare male a causa tua, vero?»
«No, mamma. Non voglio» rispose la sventurata tra un singhiozzo e l’altro.
«Allora farai come dico io, d’accordo?»
Mina non capì molto di quel ragionamento, ma si chiedeva come mai sua madre l’avesse fatta uscire per comportarsi poi in quella maniera. Che non volesse farla ingelosire, poiché quelle carezze le aveva serbate sempre per lei?
Rimase a fissarle per qualche istante prima di sentirsi chiamare a gran voce dalla donna. Aspettò per entrare, così da non farle capire che le stava spiando e quando riaprì la porta, vide sua sorella seduta sulla poltrona con le mani poggiate sul grembo e gli occhi persi nel vuoto, mentre Rita le stava difronte, in piedi con la sua solita aria da gran donna.
«Ho un piano e tutt’e due dovete seguirlo alla lettera. Quant’è vero che mi chiamo Rita Ferrara, Marella si sposerà – poi dando loro le spalle e avvicinatasi alla finestra, mormorò – deve sposarsi.»

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Ciò che accadde dieci anni addietro segnò per sempre il rapporto tra Stefano e tutta la sua famiglia. Non che tra lui e suo padre scorreva buon sangue e non era dovuto solo al fatto che preferiva l’arte ai campi, ma essendo più grande di Carmine, e avendo vissuto durante i suoi primi cinque anni in un'altra casa nel centro del paese, prima che nonno Vincenzo decidesse di formare una grande famiglia, Stefano era stato testimone di scene violente. Suo padre, infatti, aveva preso l’abitudine di sfogare la sua rabbia e i suoi fallimenti su quella povera moglie che da quando si era sposata aveva chinato la testa e fatto tutto ciò che voleva suo marito: cucinava, puliva casa, accudiva i figli e quando l’uomo aveva bisogno di dar sfogo ai suoi impulsi carnali, lei acconsentiva senza mai ribattere, anche quando non voleva. Doveva farlo perché era quello che aveva promesso davanti all’altare, ma si era mai chiesta se una donna doveva amare e rispettare il proprio sposo in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, perché lo sposo non teneva conto delle stesse promesse fatte alla sposa? Quella domanda se la pose un po’ troppo tardi. Quando dopo dieci anni dalla nascita di Stefano e cinque da quella di Carmine era rimasta di nuovo in cinta di una bambina che l’avrebbe chiamata Angelica, se solo fosse nata, poiché dopo essere stata picchiata ancora una volta da suo marito, quella bimba non vide mai la luce e di lei rimase solo il ricordo della mamma quando riconobbe la rotondità della pancia e la felicità di sapere che aspettava quella femminuccia che aveva tanto desiderato.
L’unico errore di Camilla, forse, fu l’essersi sfogata di questo col suo amato figlio Stefano il quale non capiva il motivo di tanto disprezzo del padre nei confronti della donna né perché quest’ultima continuava a rimanere al suo fianco.
All’età di quindici anni, in una fredda domenica di fine autunno, mentre con Carmine si erano recati a casa del nonno per la raccolta delle olive, Stefano fu comandato dal cugino del padre di rientrare per prendere delle damigiane d’acqua, caso volle che assistette all’ennesima scena di violenza e questa volta si intromise per difendere sua madre, beccandosi un pugno in pieno volto. Si portò per quasi un mese un livido sull’occhio e un piccolo taglio sullo zigomo. Quella cicatrice gli rimase per sempre come a volergli ricordare la cattiveria di suo padre. Stefano non disse mai la verità al resto della famiglia, nemmeno a suo fratello che sembrava essere l’unico fortunato a non aver visto mai sua madre picchiata e umiliata da quell’uomo vile, forse perché la donna sapeva nascondere bene i segni che le lasciava addosso e Diomede era esperto a non colpirla sulle parti più in vista.
Col passare degli anni Stefano aveva capito che il comportamento di suo padre non era dovuto a un impulso irrefrenabile, scoccato da quella scintilla chiamata rabbia, non era nemmeno dovuto al suo carattere, poiché era violento solo con sua moglie, bensì gli piaceva vederla soffrire, contorcersi dal dolore, piangere e soprattutto inginocchiarsi ai suoi piedi e pregarlo di finirla.
Fino a quando l’ultima delusione la ebbe prima di compiere vent’anni e prima di decidere di andarsene. Aveva serbato per suo padre uno sguardo pieno di disprezzo e rammarico, lo stesso che ebbe quando al suo ritorno, dopo dieci anni di lontananza, lo incontrò nel corridoio del casolare, essendo uscito dalla sua camera.
Si fissarono per qualche istante. Sul viso di Diomede non trapelava alcuna espressione, si portò alle labbra solo il suo toscano e socchiuse l’occhio destro infastidito dal fumo.
Stefano invece serrò la mascella, gli diede le spalle e senza dire nulla riprese il suo cammino.
«Cosa sei venuto a fare qui?». Risentire la voce autoritaria di suo padre gli diede un senso di nausea. Dovette raccogliere tutta la buona volontà per voltarsi e rispondergli: «Tranquillo, non sono qui per te!»
«Ma sei qui, in casa mia!»
«Mi dispiace per te, ma ho avuto l’onore di leggere in anteprima il testamento del nonno. E… - ci prese gusto a rispondergli in quella maniera. Voleva tenergli testa e fargli capire che non aveva più di fronte quel ragazzino di quindici anni - … a giudicare dal contenuto, questa casa è anche mia.»
Diomede strinse fra i denti il sigaro e lanciò una delle sue occhiate glaciali al figlio.
«Ma non si preoccupi, signore – continuò a schernirlo il giovane – non rimarrò a lungo. Solo il tempo di vedere come andrà a finire il suo ultimo piano.» detto questo accennò un saluto con la mano e se ne andò.
Quando lo vide svoltare l’angolo, Diomede afferrò il sigaro sgretolandolo in pugno, ignorando la cenere bollente che gli si spense sul palmo della mano.
 
***
 
Prima di lasciarlo alla sua toeletta, Carmine gli aveva parlato della nuova scuderia che con la collaborazione di Alberto e Cristoforo Ferrara avevano costruito. Stefano amava i cavalli e Carmine lo ricordava benissimo. Quando partì, dovette dire addio al suo frisone nero Perseo. Non avrebbe potuto di certo portarselo a Firenze, e prima di dividersi, Carmine gli aveva promesso che se ne sarebbe preso cura, ma non gli raccontò la verità e cioè che dopo la sua partenza, Diomede volle cancellare ogni minima traccia che avrebbe ricordato la sua esistenza e tenendo all’oscuro Vincenzo e facendosi ripromettere dal secondo genito di tenere la bocca chiusa, afferrò Perseo e lo vendette alla prima fiera di animali. Con quei soldi comprò un collier d’oro che regalò a Rita, ma almeno questo, Carmine non lo sapeva.
Quando Stefano chiese di Perseo, Carmine grattandosi la nuca, che si aspettava quella domanda, gli disse che il frisone era morto di vecchiaia, perché vecchio lo era, e magari era davvero morto. Così Stefano non disse altro.
Gli era stato riferito, sempre da suo fratello, che le scuderie contavano un numero invidiabile di stalloni e giumente, che avevano fondato una scuola di equitazione e che ogni domenica organizzavano delle gite a cavallo sulla Murgia.
Il giovane fotografo non vide l’ora di ammirare quello spettacolo e si recò nelle scuderie. Modo ideale di dimenticarsi per qualche istante di suo padre.
A quell’ora non c’era nessuno. Carmine era tornato nei campi per l’imballaggio del fieno, i gemelli erano ancora vicino alla moto a giocare come due piccoli infanti e intuì che Alberto e Cristoforo dovevano essere insieme a Carmine.
I box erano tutti pieni come gli era stato descritto. C’erano cavalli di varie razze, ma quella che lo colpì di più fu un lipizzano bianco che se ne stava attaccato a un palo proprio in mezzo al corridoio. Qualcuno doveva averlo lasciato lì da poco. Quando gli si avvicinò riconobbe subito la giumenta di quella mattina.
«Se tu sei qui, significa che quella piccola tempesta…», non fece in tempo a finire quel pensiero né a poggiare una mano sulla criniera della cavalla, che qualcuno alle sue spalle lo intimò a non toccarla. Riconobbe il tono di voce e sorrise sghembo, poi si volse atteggiandosi a innocente.
«Ancora tu?» chiese Aria stringendo in pugno il manico del secchio colmo di carote. «Che ci fai qui? Non hai capito che devi lasciare in pace la mia giumenta?» aggiunse avvicinandosi velocemente al lipizzano, lo slegò e lo rinchiuse nel suo box.
Stefano alzò le mani in segno di resa e poi appoggiò i gomiti al cancelletto di legno continuando a fissare la ragazza.
«Tu chi sei?» le chiese cercando di scrutarla da dietro il dorso della giumenta.
«Chi sono io? – replicò lei uscendo allo scoperto e guardandolo in malo modo, - dovrei farti io questa domanda! Se sei qui per la gita sulla Murgia, ti avviso che sei in anticipo di quattro giorni. Oggi non affittiamo cavalli.»
«Lavori qui?»
«Sì» rispose seccata la giovane riprendendo a governare Tempesta.
«Come ti chiami?»
Quell’intruso sembrava davvero insistente. Oltretutto si comportava come se fosse di casa e questo la infastidì parecchio.
«Non sono affari che ti riguardano, okay?» lo rimbeccò acida, ma quello non sembrò offendersi, al contrario, rimase a fissarla con un sorrisetto beffardo sulle labbra, poi dopo qualche istante furono interrotti dall’entrata improvvisa dei gemelli accompagnati da Mina.
«Stefano!» strillò quasi la ragazzina.
Il giovane si allontanò dalla cancellata allungando il collo per vedere di chi era quella voce.
«Ti avevo detto che era qui!» le disse uno dei gemelli, ma la cugina lo ignorò, corse verso il giovane e si appese al suo braccio muscoloso, solo dopo si accorse della presenza di Arianna e il suo eccitato entusiasmo si spense repentinamente, mentre Aria la ignorava del tutto.
«E tu che cavolo ci fai qui? – le chiese sprezzante, attirando solo l’attenzione di Stefano che la guardò non capendo il motivo di tale atteggiamento. – invece di aiutare in casa sei sempre qui a far niente.»
Aria continuava a ignorarla, anche se sapeva che era rivolta a lei, seguitava a spazzolare la folta criniera di Tempesta.
«Mi hai sentita, o no?»
«Ma perché non la lasci in pace?» intervenne Enea ormai infastidito da quel suo modo di fare.
«Tu non t’intromettere!» lo rimbeccò sua cugina.
«Lascia stare, Enea. – intervenne allora Aria uscendo dal box e richiudendolo, poi volgendosi verso la pestifera le disse – La padrona comanda, ha dimenticato di cambiare le lenzuola bagnate?»
Il viso di Mina diventò paonazzo, le labbra livide e gli occhi neri iniziarono a fiammeggiare per la rabbia, mentre i gemelli scoppiarono a ridere e Stefano dovette trattenere una risata celandola da un accenno di tosse.
Soddisfatta della sua frecciatina, Aria si allontanò senza dire altro.
Mina, al contrario, non resse quell’offesa e le urlò di fermarsi e chiederle scusa, ma inutilmente.
«Maledetta!» sbraitò pestando un piede sul pavimento cementato.
«Oh, non lamentarti! – esclamò Paride – l’hai voluto tu.»
«Dovresti deciderti a lasciarla in pace una buona volta!» continuò Enea.
«Chi è?» chiese allora Stefano ai gemelli.
«Ma come, non la conosci? È Aria, nostra cugina. La figlia di zio Alberto»
«Non sapevo che Alberto fosse sposato…» mormorò il fotografo.
«Tzé, figlia! È una sporca orfana!» intervenne Mina incrociando le braccia al petto e storcendo le labbra come se avesse in bocca qualcosa di disgustoso.
A quelle parole, Stefano trasalì e un ricordo fugace gli balenò nella mente. «Hai detto: orfana?»
«Sì, e capisco anche la tua espressione. Tuo nonno fece un grosso errore a portarla qui da noi, e quell’altro scemo di zio Alberto che accettò di prendersene cura. Ti conviene lasciarla perdere, è una poco di buono, falsa, bugiarda e anche frivola. Se chiedi di lei a Murgella, la conoscono tutti.»
«Stai descrivendo te stessa!» la rimproverarono i gemelli all’unisono. E così i cugini ripresero a bisticciare, ma Stefano li ignorò e si allontanò seguendo lo stesso percorso che aveva fatto la ragazza, quando a metà strada Mina lo richiamò a gran voce chiedendogli dove stesse andando, a quel punto il giovane si volse infastidito e in tal maniera le disse: «Non mi piace sentir parlar male degli assenti. So per certo che quando non ci sarò io, parlerai male anche di me, ed è una cosa che non sopporto.» detto questo se ne andò lasciando una Mina ormai livida di rabbia e due gemelli che non riuscivano più a trattenersi dalle risate.
 
***
 
Perché ritornare ora? Continuava a chiedersi Diomede mentre si girava e rigirava sulla poltrona dietro la scrivania nel suo studio. Se Stefano fosse tornato per la scomparsa del nonno, perché non si era presentato al funerale tre mesi fa?
Certo, lui stesso aveva espressamente vietato a Carmine di avvisarlo, ma era convinto che se non lui, almeno qualcun altro lo avesse fatto. C’era qualcosa che non quadrava in quel ritorno, per di più quello che gli aveva detto nel corridoio lo mise in allerta. Se fino a quel mattino era convinto che il testamento, quello vecchio, che aveva scritto suo padre prima di cambiare idea era stato letto dal notaio Dedonno davanti ai Gargano e cioè davanti a lui, a sua moglie e a Carmine i quali lo sentivano per la prima volta, in quel momento, e dato che i Ferrara per espresso volere di Erminia erano stati tagliati fuori, comprese che le cose non stavano andando come lui voleva. Suo padre non era mai stato uno sprovveduto, sapeva il fatto suo ed era stato più furbo di una volpe, inoltre prima di ammalarsi e di morire si sentiva quotidianamente con suo nipote. Che gli avesse parlato del secondo testamento? Quello che aveva consegnato a Dedonno, in punto di morte, preso da un inspiegabile attacco di pazzia?
No. Scosse il capo sussultando sulla poltrona e portandosi una mano sull’accenno di barba che gli cerchiava il mento. Ricordò che da quando si era ammalato non aveva più chiamato il giovane e il testamento lo aveva scritto magari il giorno prima di crepare. Non avrebbe avuto tempo di informarlo.
Ma allora cos’è che lo turbava?
Stefano era sempre stato un ragazzo tranquillo, silenzioso, però, ad essere sincero, non lo conosceva affatto caratterialmente. Chissà, forse in quelle poche parole che si erano scambiati, si celava qualche doppio senso: “Non sono qui per te” e “Non rimarrò a lungo. Solo il tempo di vedere come andrà a finire il tuo ultimo subdolo piano”.
Non si fidava, doveva tenerlo d’occhio, almeno fino a quando non se ne sarebbe ritornato da dove era venuto. E Stefano, se all’inizio avesse avuto l’intenzione di andarsene il più presto possibile da quella maledetta casa, in quel momento si convinse che quel giorno era ancora lontano.
Le parole dette da quella piccola viziata gli avevano destato un ricordo che fino a qualche tempo fa credeva non fosse tanto importante, ma che ora ne comprendeva l’intreccio col vero motivo per il quale era tornato.
Non era vero che l’aveva fatto dopo aver scoperto la morte di suo nonno nel necrologio online di Murgella, la verità era lì tra le maglie e i pantaloni ben piegati in valigia; la verità era chiusa in quel borsello che conteneva i suoi documenti; la verità era un foglio bianco, piegato in quattro, con il suo nome e indirizzo di Firenze e al suo contenuto una lettera anonima scritta al computer.
Stefano la rilesse avvicinandosi alla finestra. Era datata quattro giorni prima del suo ritorno.
 
                                    Murgella, 3 giugno 2012
 
                                    All’attenzione di Stefano Gargano.
  Tuo nonno Vincenzo Gargano è venuto a mancare lo scorso 12 marzo, per un infarto. Non chiederti chi ci sia dietro questa missiva, non ti rivelerò la mia identità. Quello che invece voglio rivelarti e qualcosa di molto più importante.
  Prima di morire, tuo nonno mi ha consegnato la chiave che troverai nella busta, dichiarando che è una cosa che ti appartiene. Per usarla devi cercare l’orfana perché tu hai la chiave, lei è lo scrigno.
 
PS. Semmai decidessi di ritornare qui, non fidarti di nessuno.
 
Non c’erano saluti né qualcosa che avesse potuto fargli intendere l’identità del mittente, ma col passare dei giorni ne aveva dissipato l’interesse. Quello che più gli premeva era il mistero che si celava dietro quella lettera.
Non sapeva cosa fosse quella chiave, non aveva idea di cosa potesse aprire. Suo nonno non aveva accennato a nulla nell’ultima chiamata avvenuta qualche settimana prima della sua morte. Perché spuntava proprio allora? Doveva fidarsi di quelle parole? E se fosse stato qualche piano architettato da qualche componente della famiglia? Però il post scriptum gli consigliava di non fidarsi di nessuno se avesse deciso di far ritorno. E poi c’era quell’altra frase: “Devi cercare l’orfana”. Almeno qualcosa che non sembrava surreale in quella lettera c’era e infatti, si era convinto che quest’orfana fosse un ago in un pagliaio o un rompicapo, scoprire invece di aver trovato uno degli indizi e con una facilità incredibile, gli mise in corpo uno strano senso di eccitazione.
Se quella piccola tempesta era lei l’orfana della lettera, allora doveva sapere e decise di dare un senso a quel mistero.
Ripiegò il foglio, lo rimise nel borsello e al suo posto estrasse una piccola chiave al cui occhiello aveva appeso un ciondolo con una X in stampa dorata. Rimase ad osservarla, quando a un tratto sentì un rumore provenire dalla camera affianco. Conservò la chiave e chiuse la valigia, poi si avvicinò alla parete e appoggiò l’orecchio per essere sicuro di non aver sentito male. Il rumore di un cassetto che si chiudeva gli diede conferma.
Si allontanò interdetto. Se la memoria non lo ingannava, quella doveva essere la camera di Vincenzo e, siccome Carmine gli aveva detto che dopo la morte del vecchio, zia Erminia si era presa il potere di vietarne l’entrata a chiunque, poiché ne voleva serbare il ricordo, qualcuno doveva essersi intrufolato nella stanza ignorando il volere della zia e, dato che sua madre stava riposando ed era improbabile che se ne andasse a rovistare nelle camere degli altri, l’unico doveva essere suo padre.
Che cosa stava facendo?
Preso da curiosità e dai cattivi pensieri, si fiondò fuori dalla sua camera e con cautela si accostò a quell’affianco. La porta era chiusa, abbassò lentamente la maniglia d’ottone e tirò a sé lasciando uno spiraglio per permettergli di scrutare all’interno. C’era penombra, ma un fascio di luce proveniente da una torcia illuminava un angolo della camera e chi la reggeva non era di certo suo padre.
Prima di entrare discretamente, Stefano lanciò un’occhiata a destra e a manca del corridoio per esser sicuro che non ci passasse nessuno e quando fu all’interno, con passo felpato si posizionò dietro all’intruso che continuava ad aprire e chiudere cassetti alla ricerca di solo Dio sa che cosa.
Per un istante il giovane sorrise divertito al pensiero di prenderlo di sorpresa, quindi lo afferrò per un polso tirandolo involontariamente a sé.
Un gridolino soffocato echeggiò nella stanza, apparteneva a una donna, alla quale cadde la torcia che si rivelò essere uno smartphone, il fascio di luce illuminò il soffitto proiettando le ombre dei due, dalla cui angolazione sembravano baciarsi, anche se in realtà mancava solo un palmo dallo sfiorarsi delle due bocche.
Stefano la riconobbe, nonostante le ombre le coprivano il viso, ma anche dall’odore di fieno, di campagna, del vento caldo che le aveva scompigliato i capelli durante la cavalcata. Era la piccola tempesta. Come l’avevano chiamata i gemelli? Ah, sì. Aria.
Ed in quel momento gli sembrò davvero di avere fra le mani quell’aria pura, strinse la presa come a sincerarsi che fosse reale, come a non volerla lasciar andare. Poi si sentì girare la testa, quando il fiato ansante di lei s’infranse sulle sue labbra, smuovendo i peli della barba.
«Che cosa ci fai qui?» le chiese e la sua voce gli uscì roca, quasi impercettibile, come quando ti senti soffocare dal desiderio.
Di scatto la ragazza riuscì a liberarsi da quella presa e si allontanò da lui uscendo dalla camera senza dire niente, dimenticandosi il cellulare sul pavimento con la torcia ancora accesa.
Stefano guardò la porta, chiedendosi per quale motivo non l’avesse fermata, poi si chinò a raccogliere l’oggetto e se lo rigirò tra le mani per spegnerlo, quando lo schermo si accese, la foto di suo fratello che abbracciava la ragazza sorridente e con i rispettivi indice e pollice che formavano un cuore, illuminò il suo volto allibito.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Buonasera. Prima di lasciarvi alla lettura di questo capitolo, vorrei ringraziare chi ha inserito la storia tra le seguite e chi ha recensito, spero di non deludere le vostre aspettative.
Questo capitolo contiene una parte a sfondo erotico, quindi, prego chi è impressionabile di non leggere. Non voglio cambiare rating, perchè non è un romanzo erotico, avrà solo delle piccole scene.
Buona lettura.

 
Capitolo 4

Arianna attraversò il corridoio con il cuore che le pulsava violento in gola. Per un istante aveva creduto che fosse Carmine e, se non fosse stata per la voce roca, profonda e sensuale, totalmente diversa da quella del suo amore, di sicuro lo avrebbe baciato.
Aveva inteso dalle chiacchiere che circolavano in casa Ferrara che il primo genito di Diomede era tornato da Firenze. Doveva di sicuro trattarsi di lui, e non volle immaginare, semmai avesse raccontato agli altri di averla trovata in camera di Vincenzo, cosa avrebbe dovuto subire.
Aveva approfittato del fatto che gli uomini erano ancora al lavoro per portare a termine le sue intenzioni.
Il giorno in cui Vincenzo morì, prima di spirare e nel mentre che le chiedeva perdono, aveva indicato l’armadio. E dopo tre mesi dalla sua scomparsa, solo quella mattina, ad Aria venne in mente quel particolare. Se non fosse stato per quell’intrusione, di sicuro avrebbe trovato qualcosa. Ma cosa? Non aveva indizi, che cosa voleva trovare?
Si pose mille domande, e solo qualcuna di esse le sembrò probabile. Magari il nonno voleva farle sapere le sue vere origini – e quanto aveva sperato in quello – oppure voleva donarle qualcosa come ricordo, o semplicemente le stava chiedendo aiuto indicandole qualche medicinale chiuso lì che avrebbe potuto allungargli le ore di vita.
Si fermò e si passò una mano sulla fronte ripensando a quell’intruso. Se non fosse stato per lui, si ripeté, poi come un fulmine ripensò alle sue labbra cerchiate dalla barba ben curata, che era riuscita a intravedere nella penombra, a quel punto ricordò di aver dimenticato il cellulare lì dentro.
Una vampata di calore salì sul petto fino alle guance, consapevole che stava affogando nella merda e che ci era caduta da sola. Sullo sfondo del cellulare c’era la foto di lei con Carmine, se qualcuno fosse entrato e l’avesse scoperto di sicuro sarebbe scoppiata l’apocalisse. Ma un qualcuno si trovava già lì, e sicuramente si era accorto dell’oggetto.
Doveva ritornare nella camera e cercare di rimediare al proprio sbaglio, ma non appena si volse e principiò ad incamminarsi alla svelta verso il posto, si vide davanti l’alta e austera figura di Diomede.
Aria indietreggiò come a volersi difendere da quella presenza. Quell’uomo, anche se padre del suo amato, non le era mai piaciuto, aveva un non so che di falso, per non parlare dell’inspiegabile odio che anche lui provava nei suoi confronti.
«Che ci fai qui?», era la seconda volta che se lo sentiva dire nel giro di pochi minuti, e udire quel tono di voce quasi simile a quello precedente, le elargì un brivido di terrore dietro la schiena. Fatto strano, poiché quello di prima le aveva fatto provare piacere, anche se apparteneva ad un’altra persona.
Doveva trovare una risposta e al più presto, la presenza di quell’uomo la metteva a disagio. «Ero venuta ad avvisare che stasera, Erminia vuole festeggiare il ritorno di tuo figlio.» ed era vero.
Diomede le scoccò un’occhiata circospetta, poi con i suoi occhi scese lungo le curve formose della ragazza, e si fermò sulla scollatura della camicia, rivelando un ghigno malizioso.
Aria si accorse che un’asola non era abbottonata e la scollatura faceva intravedere la rotondità del seno e un pezzo della lingerie, forse quando il figlio l’aveva tirata verso di sé le si era sbottonata. Si portò di scatto una mano per coprirsi e se ne andò a passo svelto, dimentica del cellulare. Voleva allontanarsi il più in fretta possibile da quello sguardo che se lo sentiva addosso come qualcosa di viscido e schifoso.
 
***
 
Il pranzo e la cena venivano consumati in casa Ferrara su un’unica tavolata che ogni giorno sembrava il cenone di Natale.
Da quando Camilla aveva iniziato a dare segni di squilibrio mentale, e non avendo altre donne nella famiglia Gargano, poiché Diomede era l’unico figlio che Vincenzo aveva messo al mondo a causa della morte precoce di sua moglie, Erminia si era da subito prodigata per non far mancare nulla ai suoi parenti.
Le sere d’estate, veniva apparecchiata la tavola nel giardino, illuminato da corde di lumini appese all’estremità di un grande albero e alla ringhiera del balcone centrale al primo piano, formando così una specie di tettoia. Arianna, Marella e Mina apparecchiavano e, mentre Rita e sua cognata preparavano le pietanze in cucina, Alberto e suo fratello Cristoforo accendevano la brace per il barbecue.
Marella era silenziosa e quasi assorta nei suoi pensieri, qualche ora pima, sua madre si era prodigata per coprirle i segni che le aveva lasciato sulla guancia, e in qualche maniera ci era riuscita, ma il gonfiore era evidente, fatto sta che nessuno ci fece caso. Aria, invece, aveva i nervi a fior di pelle ed era ansiosa a causa del telefono che non era riuscita a recuperare. Mina, infine, era ancora livida di rabbia, l’umiliazione che aveva subìto quella mattina nelle scuderie a causa di quella specie di cugina non l’aveva calmata, e mentre poggiava forchette e coltelli sul tavolo, linciava con lo sguardo la ragazza che sembrava ignorarla del tutto.
Voleva fargliela pagare per ciò che aveva fatto, voleva farle sentire un minimo dell’umiliazione che aveva sentito lei, ma non in quel momento, non c’era ancora nessuno e decise che lo avrebbe fatto in presenza di tutti, soprattutto di Stefano.
Dopo un po’ si presentarono Carmine con i gemelli i quali attirarono l’attenzione con la loro risata sincronizzata. Aria fu la prima ad accorgersi di loro, e quando vide il suo amato scattò in avanti senza riflettere, come a volerlo raggiungere, perché voleva fargli sapere del guaio che aveva combinato. Ma dovette fermarsi e non fu perché si era resa conto dell’errore che avrebbe commesso, bensì vide un’altra persona che seguiva il terzetto.
Che cosa ci faceva il fotografo lì? Non le ci volle molto per metabolizzare che il fratello di Carmine, nonché l’uomo che aveva quasi baciato nella camera di Vincenzo, scambiandolo per il suo amore, lo stesso che sicuramente teneva il suo cellulare e il fotografo che aveva conosciuto quella stessa mattina erano la stessa persona. Per un attimo la ragazza si sentì le ginocchia diventare molli, dovette appoggiarsi a una sedia quando lo vide alzare gli occhi e guardarla. Quella vampata di calore che l’aveva assalita nel sentire la sua voce ritornò vivida e se non fosse stato per lo strillo eccitato di Mina a scuoterla, credette che avrebbe di sicuro perso i sensi.
Vide la viziata saltellare come una lepre per raggiungere Stefano e avvinghiarlo per un braccio, poi ritornò a guardare Carmine che la fissava a sua volta regalandole un discreto sorriso. Lei non reagì, distolse solo lo sguardo e continuò il suo lavoro.  
Diomede fu l’ultimo a raggiungere il gruppo, si sedette all’estremità del tavolo, di fronte a lui c’era Erminia mentre su un lato presero posto gli uomini e sull’altro le donne.
Coincidenza volle che Aria si ritrovò di fronte Stefano seduto tra Cristoforo e Carmine. Gli occhi cristallini del giovane si posarono su di lei senza accennare a volersi spostare, al contrario Aria essendosene accorta, voleva a tutti i costi evitarlo, ma i suoi occhi non erano affatto d’accordo, sembravano catturati da una calamita e ogni tanto incrociavano quelli del fotografo. Allora, lei lottava contro il suo volere, cercando conforto e forza di volontà nella presenza del suo Carmine che parlava indisturbato con Enea e Paride, ignaro completamente di tutto.
«Stefano! – esordì a quel punto Erminia catturando l’attenzione di tutti e solo allora Aria tirò un sospiro di sollievo. – Vuoi raccontarci di questi dieci anni trascorsi lontano da casa? Dimmi, com’è Firenze?»
«Zia Ermina, anche se sono stato lontano per tanto tempo, dovresti sapere che non sono un bravo oratore.»
«Dicci almeno che cosa hai fatto.» intervenne Alberto chinando la testa in avanti per guardarlo.
«Beh, ho studiato arte e fotografia, e dopo la laurea ho girato l’Italia e visitato posti meravigliosi.» il giovane raccontò del suo lavoro di fotografo per un giornale locale, delle sue mostre, descrisse le città visitate, mise in risalto la loro bellezza e più parlava più le donne sembravano stregate da quella sua voce suadente, tra tutte Aria, che fissandolo attentamente si rese conto che aveva mentito su una cosa: era un ottimo oratore.
Arrivato il momento del dolce, Mina, che si era accorta delle occhiate che Stefano lanciava ad Arianna, imbestialendosi ancor di più, decise che era giunto il momento di mettere in atto il suo piano. Si alzò avvisando che sarebbe andata lei a prendere la torta, poi si volse verso la tanto odiata cugina e le ordinò di aiutarla.
All’inizio Aria esitò. Mina non si era mai comportata in quel modo.
«Ti sei incantata? – chiese allora lei lanciandole un’occhiata di sfida – Non hai fatto niente durante il tutto il giorno, non dirmi che ti sei stancata! Alzati, non posso prenderla da sola, è pesante!», alzò talmente la voce che tutti i presenti terminarono ciò che stavano facendo per voltarsi a guardarle.
Stefano inarcò le sopracciglia, Carmine si alzò dicendo che sarebbe andato lui a prendere il dolce, ma Aria lo interruppe scattando in piedi e dicendo: «Non preoccuparti – poi volgendosi verso la ragazzina, - allora, andiamo?» e si incamminarono verso l’entrata.
Stefano le guardò con la coda dell’occhio ma non si volse, si accorse, invece, che suo fratello non distoglieva gli occhi dall’entrata, poi involontariamente, lo sguardo cadde su suo padre, che guardava Rita con un’espressione enigmatica e a quel punto il giovane ricordò ciò che accadde il giorno in cui decise di allontanarsi da quella casa.
Avevano fatto domande sulla sua vita in Firenze, ma nessuno aveva avuto il coraggio di chiedergli perché se ne fosse andato. E forse era meglio così. Perché sarebbe stato costretto a ricordare tutto e a dire tutta la verità, cioè che l’uomo che se ne stava seduto in silenzio all’estremità del tavolo, picchiava la donna spaesata che gli era seduta affianco, e aveva una relazione segreta con l’altra donna seduta al fianco della moglie.
Guardare quella scena, in cui la vittima era seduta in mezzo ai due carnefici, gli provocò un senso di rabbia. Aveva voglia di alzarsi, prendere sua madre e portarla lontano da quell’uomo, ma si diede dell’ipocrita e dell’egoista. A cosa serviva quel senso di protezione tutto d’un botto se dieci anni fa aveva detestato anche sua madre per non aver mai reagito e per essere rimasta al fianco di quel mostro e se n’era andato senza nemmeno salutarla?
Le aveva viste bene le condizioni in cui si era ridotta la donna, anche nonno Vincenzo lo aveva avvisato e anche allora non aveva fatto niente per proteggerla.
Sentì il bisogno di allontanarsi e prendere una boccata d’aria, ma qualcosa lo riportò al presente. Fu un rumore e due grida. Il primo proveniva alle sue spalle, il secondo lo aveva gettato Rita che si era alzata di scatto chiamando a gran voce Mina.
Stefano si girò lentamente e vide la ragazzina stesa sul ciottolato tutta sporca della torta che le era caduta addosso, mentre Aria la guardava allibita.
«Perché mi hai spinta? – gridò la viziata – solo perché ti ho chiesto di darmi una mano?»
Aria non rispose, ma continuava a guardarla. A lei si avvicinò Alberto che volle mettere fine alla discussione. Purtroppo sua sorella Rita non parve essere d’accordo e con disprezzo iniziò a offendere la ragazza.
«Smettila Rita, non è successo nulla di grave!» la rimbeccò suo fratello.
«Non puoi difendertela sempre, Alberto! Lo vuoi capire o no che questa ci odia?»
«Ma falla finita!»
«Dillo a questa maledetta orfana!» strillò facendo piombare un silenzio assurdo tra i presenti.
Carmine strinse i pugni e digrignò la mascella, ma non fece altro. Stefano fu l’unico ad alzarsi in piedi, senza sapere cosa avesse intenzione di fare e Aria non gliene diede il tempo, poiché si allontanò correndo, ignorando i richiami di suo padre e della nonna.
L’unico indifferente all’accaduto fu Diomede che si appoggiò contro la spalliera della sedia e si portò il bicchiere di vino rosso alla bocca.
 
***
 
Era stanca. Stanca di assistere a quelle scene, stanca di vedere il suo amato patrigno doverla difendere costantemente, stanca di essere chiamata orfana, ma soprattutto stanca di dover sopportare l’odio che le lanciavano addosso come una raffica di frecce avvelenate.
Giunse alla cascata che aveva il fiatone e cadde in ginocchio stremata con le gambe che le tremolavano per la corsa.
Piangeva in silenzio, le lacrime le rigavano le guance e per cacciarle via, perché si era ripromessa di non versarne più, si avvicinò all’acqua e, raccoltane con tutt’e due le mani, se la gettò sul volto. Non contenta si immerse nel laghetto, vestita. Prese aria e ficcò sotto anche la testa. Rimase giù a lungo, resistette anche quando il fiato le mancò, poi si sentì chiamare «Aria! Amore!» e allora riemerse boccheggiando. Aprì gli occhi le cui lacrime si erano ormai mischiate con l’acqua e guardò verso la roccia.
Era Carmine.
Il ragazzo aprì le braccia come ad aspettarla e lei non si fece attendere. Usci velocemente e con l’acqua che le scorreva sul corpo piombò fra le braccia del ragazzo che la strinse a sé rassicurandola e chiedendole scusa.
«Avrei dovuto difenderti, invece non l’ho fatto» le sussurrò rabbrividendo al freddo del suo corpo ma cercando di ignorarlo, poi la sentì allontanarsi.
«Scusami… - gli disse – non dovevo bagnarti. Adesso cosa penseranno?»
Carmine la interruppe riprendendola a sé e stringendola più forte di prima. «Non me ne importa più nulla!» esclamò, poi le afferrò il viso e glielo sollevò per guardarla negli occhi, «Vorrei che fosse già domani, per portarti via da quella casa.»
Aria non rispose, si alzò in punta di piedi per raggiungere le sue labbra e lo baciò intensamente.
Il sapore di Carmine a poco a poco l’allontanò dalle sue pene e le lacrime scomparvero, lasciando una dolcezza nel suo cuore che solo il giovane sapeva donarle.
Quella notte fu testimone del loro bacio, come tutte le altre e dietro il salice piangente che custodiva la piccola cascata, Stefano ebbe conferma di quello che aveva visto sul telefono della ragazza.
Accennò un lieve sorriso, poi si volse inoltrandosi nel buio della notte, lasciando segreto il seguito.
 
***
 
L’orologio senza cornice, fatto solo di numeri, segnò l’una di notte. Nella stanza da letto illuminata dalla luce della luna che filtrava le vetrate, echeggiò un lungo, ma silenzioso gemito.
Con la testa appoggiata sulla toeletta e il sedere tra le mani di Diomede, Rita ansimò sentendosi le gambe cedere. Ma suo cugino non la lasciò: le strinse i fianchi e continuò i suoi movimenti rendendoli più forti, fino a che non raggiunse l’apice dell’eccitazione e riversò il seme tra le natiche della donna, la quale si sollevò guardandolo attraverso lo specchio.
«Potevi anche finire in bellezza – disse con voce impastata dal piacere e ancora ansante – ho raggiunto la menopausa da quasi un anno, ormai»
«Non si è mai troppo sicuri» rispose l’uomo afferrando la camicetta della donna e pulendosi il membro ancora ritto.
Rita cambiò umore, inarcò le sopracciglia, si alzò in piedi, si volse bruscamente e gli strappò l’indumento dalle mani.
«Cos’è, non ami più il mio profumo?» la schernì lui abituato al carattere altalenante della cugina, convinto che se la fosse presa per il gesto poco igienico.
«Avrei dovuto farti crepare, invece che concederti il mio culo!»
«Ho sempre una moglie, al contrario di te…»
Rita sbuffò beffarda, «Moglie! Non dirmi che quella ritardata riesce ancora a fartelo alzare?». Era diventata volgare, segno che c’era qualcosa che non andava e Diomede sapeva che non era dovuto al fatto di averle sottolineato che non aveva più un marito. Anzi, di averlo lo aveva, ma chissà dov’era finito quell’ubriacone pieno di debiti?
«Devi dirmi qualcosa?» le chiese, allora, non avendo voglia di cominciare un battibecco.
«Sì!» esclamò la donna voltandosi verso di lui e avvicinandosi velocemente gli puntò un dito sul petto e lo spinse senza riuscire a spostarlo di un millimetro. «Io il mio patto l’ho mantenuto, quindi cerca di farlo anche tu col tuo.» la sua voce era diventata minacciosa.
«Di che stai parlando?»
«Sto parlando di Carmine. Oggi, Mina gli ha sentito dire che ha intenzione di andare via da Murgella e questo significa che il matrimonio andrà a puttane!»
Diomede strinse la mascella e Rita poté percepire il digrignare dei denti.
«Potrei anche fregarmene, d’altronde, se tuo figlio non si sposa, gli unici a perdere sarete voi. Io potrò continuare a vivere qui indisturbata, ma voglio farlo da padrona, e non essere sottomessa da quattro consuma rosari. Quindi, mio caro cugino, non essere bravo soltanto a scoparmi. Tieni a bada tuo figlio, altrimenti, mi costringerai a fare la cattiva persona e sai che non ti conviene.»
L’uomo la interruppe afferrandola violentemente per i polsi, «Non minacciarmi, femmina.» e reggendo uno sguardo inquietante la baciò mordendole con violenza il labbro, poi la spinse sul letto, la voltò di spalle, l’afferrò per i fianchi cercando di tenerla ferma mentre lei si divincolava per non accontentarlo e la penetrò con violenza e in tal maniera si spinse in lei.
Sapeva perché suo figlio aveva preso quella decisione. Era per quella puttana.
Ricordò la camicetta sbottonata della ragazza e la rotondità di un seno accennare la sua presenza. A quel punto immaginò che la schiena ricurva di Rita fosse di Aria e un brivido di piacere si liberò dal suo stomaco diramandosi fin sulla punta del pene. Accelerò i movimenti, ignorando le suppliche della donna che sentiva dolore e che all’inizio affondò il viso sul materasso soffocando le sue urla poi si strusciò contro il suo membro eccitata.
Succedeva sempre così e Diomede sapeva che alla fine le sarebbe piaciuto.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Il cielo albeggiò, seguito dal sole che faceva capolino da dietro le colline della murgia, spazzando via l’oscurità della notte. Arianna ammirò quello spettacolo seduta sul davanzale della finestra nella sua camera. Aveva poggiato sulla fredda pietra il suo cuscino e se n’era stata seduta con le gambe raccolte al petto per tutta la notte. Dopo che erano ritornati alla tenuta, lei e Carmine, dopo essersi salutati con un breve ma intenso bacio, dopo essere rientrata in camera sua attenta a non svegliare nessuno, non era riuscita a chiudere occhio, per dirla tutta non si era nemmeno scomodata a disfare il letto. Si era seduta lì e aveva pensato a ciò che sarebbe accaduto l’indomani. Mille pensieri le erano passati per la mente, tra questi il problema dello smartphone dimenticato nella camera di Vincenzo. Come una stupida si era dimenticata di riferirlo a Carmine, di dirgli che secondo lei in quel momento era finito tra le mani di suo fratello e che aveva paura che semmai avesse acceso lo schermo e avesse scoperto la foto di loro due insieme, magari avrebbe spifferato tutto ai parenti.
Ma, alla fin fine, si disse, qual era il vero problema? Non era forse meglio se tutti scoprissero la loro storia? Carmine aveva intenzione di portarsela via da lì, quindi o prima, o dopo l’avrebbero saputo.
Anche se, ancora qualche ripensamento lo aveva, soprattutto dopo essersi messa in testa che nella camera della buon anima doveva esserci qualcosa che poteva darle delle risposte alle sue domande e queste erano sempre le stesse.
Perché suo nonno le aveva chiesto perdono e che cosa aveva voluto indicarle prima di morire? Si rese conto che non era stata una buona idea rovistare al buio, ma non poteva di certo girovagare in quella casa alla luce del sole. A quel pensiero si ricordò di Diomede, dei suoi occhi maliziosi che l’avevano squadrata attentamente dalla testa ai piedi e quel sorrisetto maligno che aveva accennato non appena si era accorto della camicetta sbottonata. Al ricordo, un brivido di terrore le si era delineato lungo la schiena.
E poi, era entrato in scena questo nuovo personaggio. Carmine le aveva spesso parlato di un fratello maggiore, ma oltre a raccontarle che se ne era andato di casa all’età di vent’anni senza dare una spiegazione, non aveva accennato ad altro né come fosse né tantomeno che carattere avesse.
Il pensiero su Diomede disparve, lasciando il posto a quello su Stefano. Si toccò le braccia sul punto esatto in cui l’aveva afferrata e poi quella forte presa, il suo respiro, il profumo di pini d’inverno e in fine quella voce così sensuale, travolgente. Il brivido percepito all’inizio lungo la schiena si era diramato sulla pelle cambiando direzione e concentrandosi come un getto d’acqua nel basso ventre tramutando sensazione.
La ragazza si riscosse subito scattando in piedi e girandosi intorno con aria smarrita.
Ma cosa stava facendo? Che razza di pensieri stava avendo?
«Oggi è il giorno decisivo Aria, devi concentrarti su questo» si ripeté per due o tre volte, ma alla fine il pensiero di poter dare un dispiacere ad Alberto e alla povera Marella la fece desistere.
Dopo essersi data una rinfrescata e cambiata gli abiti, corse nelle scuderie, preparò Tempesta e corse lontano.
Passò oltre i campi punteggiati da balle di fieno e a un tratto sentì un suono di clacson. Tirò a sé le redini, Tempesta si girò su se stessa un paio di volte, poi Aria vide in lontananza un John Deer color verde bottiglia. Capì subito che si trattava di suo padre. Sorrise e si diede al galoppo per raggiungerlo.
L’uomo spense il trattore e vi scese dirigendosi verso la figlia. «Aria, dove vai a quest’ora?»
La ragazza si fermò a pochi passi da lui e scese da Tempesta, reggendola dalle briglie. «Non sono riuscita a chiudere occhio. Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria.»
«È per ieri?» chiese il padre incrociando le braccia al petto.
Sua figlia si volse di scatto a guardarlo e lesse in quegli occhi neri solcati dall’età una tristezza, come se parlassero al posto della voce e le chiedessero scusa per non aver saputo difenderla, per non essere stato in grado di farla accettare dalla famiglia dopo dieci anni. Ad Aria le si spezzò il cuore nel vedere l’uomo in quello stato d’animo. Non era lui a doversi scusare, bensì lei a non essere stata una buona figlia ed ora aveva anche intenzione di abbandonarlo per seguire il suo sogno d’amore.
«Ti prego, papà. Non guardarmi così» disse allora con voce incrinata, chinando il capo in avanti per distoglierli lo sguardo, ma suo padre, al contrario, le pose la mano sporca di terra e polvere sotto il mento invitandola a sollevarla, la scrutò negli occhi e le chiese «Dimmi, cos’è che ti turba?»
L’aveva capito. «Nulla.» rispose lo stesso.
«Il nulla non rende il tuo viso così amareggiato.»
Adorava, Aria, quel suo modo di parlarle così poetico e quella pacatezza che aveva costantemente nei suoi confronti riusciva sempre a tranquillizzarla. Non ricordava un solo attimo in cui l’uomo poteva essersi adirato con lei, poiché non ce n’erano mai state occasioni e mai lo avrebbe fatto.
Alla fine, sapeva di riuscire a sciogliere quei nodi che si formava nel cuore per non farlo esplodere e poter esprimere i suoi pensieri.
«Io… non so cosa fare, papà – disse lasciando Tempesta e abbracciandolo, ignorando l’odore della nafta e la polvere del fieno. – Ho qualcosa che non ti ho mai detto e che mi pesa sul cuore. Ma ho paura a parlartene.»
«Stai parlando di te e di Carmine?»
Aria sussultò allontanando la testa dal suo petto. Lo guardò dal basso con occhi atterriti. «Come fai…»
«A saperlo? – rise l’uomo accarezzandole i capelli – Ma figlia mia, un padre certe cose le sente! E poi, non è che siete stati proprio discreti, eh?»
A quelle parole Arianna sentì il cuore gonfiarle la gola e renderle impossibile ogni maniera per ribattere.
«Non preoccuparti, sono convinto che nessun altro se ne sia accorto, altrimenti sai benissimo che ne avrebbero fatto una guerra.»
Il gonfiore parve scomparire a poco a poco e non ne seppe il motivo ma sentì il bisogno di scusarsi.
«Non farlo, Aria. In fin dei conti sei un essere umano. Hai un cuore e prima o poi si sarebbe venuto a sapere, ma…» e quel ma calò grave «Carmine deve sposarsi con Marella.»
«Non vuole farlo» rispose la ragazza scrollando le spalle sentendosi ancora una volta in colpa. «Lui… vuole scappare con me e vuole farlo stasera prima della cerimonia.» rivelò la verità tutta d’un fiato e per un momento ebbe paura della reazione dell’uomo.
Alberto, al contrario, non disse nulla. Fissava il vuoto e continuava ad accarezzarle i capelli.
«Sono combattuta, papà. Io amo molto Carmine, voglio essere felice con lui, ma… non voglio abbandonarti!» la voce le tremò e le scivolò una lacrima.
Dolcemente, l’uomo le fece segno di fare silenzio, poi la prese per le spalle e la costrinse a guardarlo negli occhi. «Aria. Feci una promessa a zio Vincenzo, che in qualunque modo ti avrei resa felice. Se la tua felicità sono Carmine e l’amore che provi per lui, non vedo perché tu debba dispiacerti per me, perché ascoltami, figlia mia, io sono contento per te. Hai il diritto di amare ed essere amata. Sappiamo benissimo che se rivelaste di amarvi, mio cugino e mia sorella non vi darebbero pace. Se vorrai andare via con Carmine, fallo, io ti sosterrò sempre.»
«Oh, papà!» tremò la ragazza. Gli occhi ormai gonfi per le lacrime le fecero traboccare e per l’ennesima volta premette la sua testa sul petto del padre facendo udire il suo pianto.
«Vai, figlia mia. Sii felice.» sussurrò Alberto baciandole il capo. Ed anche a lui tremarono le labbra e un rivolo di lacrima gli attraversò la guancia.
 
***
 
Le mani di Carmine tiravano la corda con forza, tant’è che sulla pelle erano evidenti le vene in rilievo. Con i piedi ben puntati sulla paglia, ordinava ai gemelli dietro di lui di non mollare che ce l’avevano quasi fatta.
«Forza ragazzi! Gli zoccoli sono già fuori!» urlò accorciando la distanza con la giumenta che nitriva e sbuffava stremata dallo sforzo. Con abilità il giovane si avvicinò al di dietro della cavalla e ficcò una mano nella vulva dilatata e livida, dalla quale fuoriuscivano due piccoli zoccoli. Cercò alla cieca di vedere se la testa del puledro fosse nella posizione giusta. Quando ebbe conferma che non c’erano altri problemi incitò i gemelli a tirare più forte. Si rimise di nuovo avanti a loro e li aiutò. In due tirate fuoriuscì anche la testa del puledro e, quando la mamma gettò all’aria un ultimo, lungo nitrito, il figlio scivolò via dal suo corpo allentando la presa della corda e facendo capitombolare i ragazzi che, stesi uno sull’altro, si misero a ridere per la contentezza.
Carmine si alzò subito andando a slegare il piccolo. Questo aveva il pelo unto ma si riusciva a vederne il colore: nero come la notte. La giumenta, ripreso fiato, e dopo aver buttato fuori la placenta, si diede due spinte, si alzò e giratasi verso il figlio, principiò a leccarlo.
Carmine si avvicinò accarezzandole il dorso. «Brava, Luna. Ottimo lavoro.»
«Che cos’è, maschio o femmina?» chiese Enea ancora a terra per la stanchezza.
«Femmina!» rispose il cugino.
«E ti pareva! Tutto ‘sto sforzo per niente!» si lamentò Paride andandosi a sedere su un bidone di alluminio. Di quelli che servono per contenere l’acqua.
«Non essere deficiente!» lo rimbeccò suo cugino. «Sii comprensivo. Qui c’è pur sempre qualcuno che ha sofferto più di tutti, e poi anche se è femmina è un essere vivente!»
«Sì, ma Fracchiolla fu chiaro all’ultima fiera: sette puledri maschi o non se ne fa niente!»
«E quello paga bene!» aggiunse Enea rimettendosi in piedi.
«Da quando in qua vi interessano i soldi?»
«Da quando nonna ha rinunciato alla sua parte di eredità e tuo padre ci tratta come semplici operai» rispose con noncuranza Enea tirando un calcio alla paglia. Carmine lo guardò ma non rispose. In fin dei conti cosa avrebbe dovuto dire? I gemelli avevano ragione. Dopo la morte del nonno, suo padre aveva iniziato a sciorinare un assurdo potere anche sui Ferrara senza rendersi conto che anche loro per tanti anni avevano fatto sacrifici per l’azienda e che, nonostante Erminia avesse rinunciato, erano pur sempre loro parenti, e se non fosse stato per l’allevamento dei cavalli forse non sarebbero durati a lungo in quella situazione. Per questo i gemelli puntavano tutto sulle vendite dei puledri maschi.
Ma a chi dare la colpa?
Osservò attentamente il nuovo nato che si era alzato in piedi e traballante era riuscito a raggiungere la mammella della madre e ora stava ciucciando il latte, affamato. Richiuse il box, andò a pulirsi le mani poi afferrò un forcone e riempì la mangiatoia della giumenta.
«Non preoccupatevi, ci sono ancora Andromeda e Castalia. Il veterinario ha detto che Andromeda ne aspetta due, e se il Signore ci farà la grazia, avremo tre maschi e con gli altri cinque già nati saranno otto.»
Prima di replicare, i gemelli si guardarono negli occhi, poi sollevando le spalle in sincronia, esclamarono: «Speriamo!»
Ripresero il loro lavoro, governando gli altri cavalli, fino a quando furono interrotti dalla brusca entrata di Diomede, il quale si avvicinò a passo spedito verso Carmine ordinando ai ragazzi di uscire immediatamente senza nemmeno guardarli.
Carmine aveva ancora il forcone tra le mani e guardava suo padre con curiosità. Quando l’uomo fu sicuro di essere rimasto solo con lui, gli sferrò uno schiaffo di traverso. Il forcone cadde e il rumore attirò l’attenzione degli animali, mentre il giovane si ritrovò con la testa piegata a un lato. Poi ritornò a guardare suo padre senza dire una parola.
«Che cazzo ci facevi stanotte con quella puttana?» gli chiese digrignando i denti.
Carmine rimase in silenzio ma era visibile la sua rabbia dopo aver sentito quell’ingiuria nei confronti della sua amata.
«Cos’è che non ti è chiaro di quello che ti dissi l’altra volta? Dove cazzo vuoi andartene, eh? E non fare quella faccia. Conosco le tue intenzioni. – si avvicinò a lui accostando la bocca al suo orecchio - Tu, a quella te la devi dimenticare! Te la sei scopata abbastanza, adesso basta! O ti sposi con Marella e non mi crei problemi, o io rovino la vita a quell’orfana maledetta. Ci siamo capiti?»
Carmine trattenne a stento la rabbia, ma ebbe il coraggio di non dire nulla e uscire da quel posto, ignorando i richiami del padre.
«Carmine, torna qui! Carmine! Carméné!» livido di rabbia, sputò per terra e sussurrò a denti stretti «Stu figghie dé puttoné!*»
 
*figlio di puttana
 
***
Irruppe nella stanza di Stefano che a quest’ultimo sembrò fosse entrato un uragano, tant’è che rimase talmente esterrefatto che interruppe quello che stava facendo rimanendo con il fisheye in una mano e il panno in un’altra.
Carmine sbatté i pugni sulla scrivania e lo guardò furibondo, non gli diede neanche il tempo di dire qualcosa che subito gli urlò contro: «Sei ritornato per rovinarmi la vita?»
Stefano aggrottò la fronte, ma non rispose.
«Avresti perso qualcosa se avessi tenuto la bocca chiusa? Che cazzo sei andato a dire a nostro padre?»
Alla parola padre, Stefano sbottò. Lasciò ciò che aveva in mano e si alzò di scatto. «Si può sapere di che cazzo parli?»
«Parlo di quello che ci siamo detti ieri! Del fatto che non ho intenzione di sposare Marella!»
«E cos’ha a che fare questo con me?»
«Non prendermi per il culo, Ste’. Sei l’unico a cui ho rivelato le mie intenzioni»
«Stai insinuando che sono stato io a spifferare tutto a tuo padre?»
«Non vedo altre persone, qui dentro.»
«Carmine, non farmi incazzare ed esci» disse il fratello con una calma apparente, sedendosi. Ma Carmine non volle sentir ragioni e sbattendo un’altra volta i pugni sul tavolo e facendo tremare il contenuto, riprese ad esternare i suoi cattivi pensieri. «Era questo quello che avevi lasciato in sospeso dieci anni fa, eh? E sì, c’è in ballo l’eredità, se non mi sposo, col cazzo l’avrete! Sei tornato solo per rovinarmi la vita! Non ti è bastato rovinarla a nostra madre…»
Un colpo secco echeggiò nella stanza. Per la seconda volta Carmine si ritrovò con la testa piegata a un lato e con un altro dolore appaiare quello ancora vivido provocatogli dal colpo di suo padre.
Il pugno che Stefano gli aveva sferrato in un guizzo di rabbia lo teneva ancora chiuso, serrato, tant’è che le nocche avevano perso colore. Per un istante, il giovane si sentì in colpa per il gesto, ma quando vide gli occhi di suo fratello puntare i suoi con la stessa cattiveria che si leggeva in quelli di suo padre, ebbe la voglia di picchiarlo ancora. Carmine era proprio convinto delle sue parole e a giudicare dal suo comportamento non sembrava voler cambiare pensiero. A quel punto il fotografo lo invitò per la seconda volta ad uscire, anche se con nervosismo, ma l’altro non accennò a volersi muovere. Allora sospirando come per liberarsi della rabbia, disse: «Io non ho detto nulla. Da quando sono tornato, non ci siamo neppure salutati, l’unica cosa che mi ha ricordato è che questa è casa sua, dopodiché non ci siamo neppure visti in faccia.»
A quelle parole, le ombre che avevano offuscato la mente di Carmine disparvero, lasciando un barlume di lucidità nel quale il ragazzo pensò al fatto che a suo fratello non aveva detto che se ne sarebbe andato via con Aria, ma solo che non aveva intenzione di non sposare Marella, al contrario erano state le parole di suo padre che forse aveva intuito perché sapeva che c’entrava di mezzo la ragazza. Senza aggiungere altro e senza scusarsi, uscì dalla stanza e se ne andò.
Stefano rimase a guardare la porta aperta, sospirò ancora una volta, poi riprese a pulire la lente dell’obbiettivo, ma non riuscì a distogliere la mente dalle offese che gli aveva lanciato suo fratello e pensò che non sarebbe dovuto prendersela in quella maniera, arrivando a picchiarlo, se l’intenzione di suo padre era quella di vederli uno contro l’altro, lui non doveva dargliela vinta. Si alzò, prese la sua reflex, montò il fisheye e uscì all’aria aperta.
Era una bellissima giornata e per non rovinarsi l’umore, decise che avrebbe scattato delle foto panoramiche nell’agro di Murgella.
Carmine, al contrario, per non rovinarsi il suo di umore, ritornò nelle scuderie per prendere Phobos, il suo Halfinger, recarsi alla cascatella e godersi la presenza di Aria, stringerla tra le sue braccia e assaporarne l’odore. Fortuna volle che la giovane, forse ascoltando il richiamo dell’amore, entrasse proprio in quell’istante tirandosi dietro il lipizzano bianco, e che i gemelli se ne fossero andati chissà dove.
Quando la ragazza alzò gli occhi e vide il suo amato a pochi metri davanti a sé, si fermò e sorrise a trentadue denti. Si guardò intorno per essere sicura che non ci fosse nessuno, poi lasciò Tempesta e corse in contro a Carmine abbracciandolo e baciandolo. Il giovane, invece di allontanarla per paura di essere scoperti, ricambiò quell’abbraccio e quel bacio.
«Amore mio, - disse la ragazza ansimando come se si fosse fermata dopo una lunga corsa – oggi è il giorno più bello della mia vita!»
Carmine la guardò curioso, la sera prima non sembrava così su di giri per la loro decisione. Cos’era accaduto? Cosa le aveva fatto cambiare idea?
Aria percepì quelle domande e rispose subito raccontandogli che Alberto supportava il loro amore e che li avrebbe aiutati in qualsiasi maniera.
Al giovane gli si cancellò quella tensione che gli aveva marchiato il viso da quando aveva avuto a che fare con suo padre quella mattina, e un sorriso di felicità e di sollievo ne prese il posto. Afferrò il viso dell’amata fra le mani e la baciò con ardore. Solo dopo qualche istante, Aria si accorse del gonfiore e del livido che aveva sullo zigomo e gli chiese, preoccupata, che cosa fosse accaduto.
«Nulla d’importante – rispose il giovane evitando i suoi occhi – stavo spazzolando Phobos, e… sai com’è fatto. Si è innervosito e questo è il risultato.» mentì sorridendo nervosamente.
Detestava raccontarle bugie, ma si ripromise che quella sarebbe stata l’ultima volta, perché da quella stessa sera, non avrebbe più avuto motivo per farlo. Non ci sarebbe stata più la minaccia di suo padre. Non aveva intenzione di piegare ancora la testa ai suoi ordini. Non questa volta. Se ne sarebbe andato lontano con lei al suo fianco. E al diavolo tutto e tutti.
 
***
 
Aveva scattato venti foto e tutt’e venti sembravano uguali. Non c’era proprio nulla da fare. Non si sentiva ispirato e per di più non gli era passata la stizza. S’era fatto mezzogiorno, decise di rincasare, anche se la voglia era poca. Non che avesse paura di rivedere suo fratello e di sentirsi ancora in colpa per quel pugno che gli aveva sferrato, ma perché la consapevolezza di dover affermare le parole della lettera anonima, sul non dover fidarsi di nessuno, si stava facendo alquanto esplicita. Suo fratello non si era fidato di lui, in un solo giorno. Comprese a quel punto che la diffidenza era un qualcosa che regnava in quella famiglia.
E pensando a questo si avvicinò nei pressi del campo dove aveva incontrato per la prima volta Aria. Subito, il pensiero della ragazza lo distolse da tutto e ricordò la scena nella stanza del nonno. Risentì il suo profumo, il suo respiro e immaginò di sfiorare quelle labbra che gli si erano avvicinate pericolosamente. Poi ricordò lo sfondo del suo cellulare e scosse il capo come a voler cancellare quell’immagine dalla mente.
Una domanda se la pose lo stesso. Aveva capito dalle parole di Carmine che suo padre gli aveva obbligato a sposare Marella, ma perché se amava Aria e se stavano insieme, anche segretamente, non si era battuto per difenderla la sera prima, a cena?
Al contrario, lui l’avrebbe fatto. Carmine, invece si era limitato a guardarla, a stringere i pugni e a serrare la mascella. Che avesse paura della reazione dei parenti?
Ma chi se ne fregava di quelli? Pensò Stefano tirando un calcio a un sasso che intralciava il suo cammino.
Al suo posto, l’avrebbe abbracciata davanti a tutti, fatta sentire al sicuro e portata via da quella fossa di serpenti.
Raggiunse il sasso e lo calciò ancora, ma questa volta la pietra andò a colpire qualcosa, o per meglio dire qualcuno, che si lamentò dal dolore.
Stefano strabuzzò gli occhi, guardando davanti a sé, vide Marella seduta sul prato con gli occhi pieni di lacrime. Per un istante, il giovane pensò che stesse piangendo a causa del colpo, ma guardando il rossore e il gonfiore degli occhi si persuase che la ragazza piangeva da molto più tempo. Le si avvicinò abbassandosi alla sua altezza e chiedendole che cosa avesse.
Lei si scostò impaurita, lasciando titubante il fotografo.
«Marella, stai male?» le chiese ancora.
Ma la giovane non rispose, continuava a singhiozzare e questa volta lo fissava con occhi spiritati. A quel punto, Stefano, con cautela, come se avesse a che fare con un animale impaurito, le afferrò la mano e gliela strinse tra le sue, forti. E quel contatto parve funzionare: Marella si calmò e dopo qualche secondo finì di singhiozzare.
«Vuoi che ti accompagni a casa?» le chiese. Lei scosse il capo. «Cos’è successo?»
«Se te lo dicessi non cambierebbe nulla.» rispose la giovane con voce impastata.
«Dipende – sorrise Stefano – magari potrei aiutarti.»
«Non puoi aiutarmi, Stefano. Nessuno può farlo.» e riprese a piangere.
«Ehi, Marella. Sta’ calma.» il giovane l’abbracciò sperando che quel contatto potesse esserle d’aiuto.
«Stefano? Tu credi in Dio?»
«Certo.»
«Credi che perdonerebbe qualsiasi peccato?»
«Credo che lo farebbe se anche il peccatore fosse davvero pentito.»
La ragazza si allontanò da quella presa e guardò ancora una volta il ragazzo negli occhi, questa volta sorridendo. «Allora, mi ha già perdonata.»
Di cosa? Volle chiederle il giovane, ma lei non gliene diede modo, poiché si alzò e salutandolo se ne andò lasciandolo lì da solo, pensieroso.
Ma qual era questo grave peccato che aveva fatto disperare così tanto Marella?
Prima di ritrovarsi nel campo di fiori in balìa delle lacrime, la ragazza si era recata in paese. La tenuta dei Gargano distava da Murgella cinque minuti d’auto e venti minuti a piedi. Marella era arrivata alla chiesa di Santa Lucia che erano quasi le dodici. A quell’ora di sicuro sua madre e sua nonna si sarebbero chieste che fine avesse fatto, ma a lei non era importato nulla, doveva assolutamente togliersi quel peso dal cuore.
Si era guardata intorno, non c’era nessuno a quell’ora, aveva lanciato uno sguardo al confessionale e aveva visto che era accesa la luce verde, mentre il panno purpureo copriva l’interno. Si era avvicinata, si era inginocchiata a un lato e aveva avvisato la sua presenza.
Dopo il segno della croce aveva detto il peccato che le artigliava il cuore da tempo, da quando sua madre l’aveva obbligata a dover sposare Carmine, pur sapendo che non poteva farlo. Purtroppo nessuno le rispose dall’altro lato della grata di legno, nessuno aveva potuto darle l’assoluzione, poiché il confessionale era vuoto.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

«È tornata!» esclamò Mina entrando come una furia nella sala dove ormai da minuti le due famiglie avevano finito di pranzare.
Erano rimaste le donne a pulire e tra loro c’era anche Aria, che sparecchiava tranquilla e in silenzio, forse col pensiero rivolto al suo amato e a quello che sarebbe avvenuto da lì a poche ore, ma quando vide sua cugina rientrare ed esclamare allarmata si scosse concentrando l’attenzione sui presenti.
Dopo Mina, entrò Marella la quale aveva uno strano sorriso sulle labbra, ma i suoi occhi sembravano spenti, privi di luce e gonfi, segno che aveva pianto. I lunghi capelli neri che teneva lontano dalla fronte con un frontino erano spettinati; aveva il fiatone.
Tutti, partendo da nonna Ermina e finendo alla silenziosa moglie di Cristoforo, fermarono le loro faccende per guardarla. Rita si avvicinò minacciosa, le afferrò il braccio ma mise tutta la buona volontà per non mostrare i veri atteggiamenti che aveva verso quella povera figlia, e le sussurrò in un orecchio «Dove cazzo sei stata?»
«Non avevo fame. Ho fatto una passeggiata nei campi» rispose la giovane affondando la testa nelle spalle.
«Lasciala stare, Rita – intervenne ignara sua madre – sicuramente sarà ansiosa per stasera. Non è vero, bella mia?»
Marella abbassò la testa e non disse nulla, allora sua nonna chiese ad Aria di accompagnarla nella sua camera, che magari dopo la passeggiata era stanca e voleva riposarsi. «Ti voglio sveglia, stasera, Marella. Non facciamo scherzi, eh?» disse ancora Erminia.
Intanto Aria si apprestava a finire le sue faccende per poi avvicinarsi alla cugina, ma venne fermata dalla zia che la linciò con un solo sguardo aggiungendo: «Credi che non sia capace di aiutare mia figlia? Continua il tuo lavoro, a Marella ci penso io.»
Si scambiarono un’occhiata carica di disprezzo, ma Aria non parlò, girò i tacchi e se ne andò in cucina. Rita, invece, da brava madre che si rispetti e accompagnata dalla terzogenita, prese sottobraccio la futura sposina e se la trascinò in camera sua. Quando furono lontani da occhi e orecchie indiscrete, la spinse bruscamente facendola finire contro la scrivania.
«Non farmi mai più degli scherzi simili!» urlò ma non troppo, non voleva di certo attirare l’attenzione. «Fino a stasera esigo che te ne stia rinchiusa qui dentro.»
«Ma, il parrucchiere?» replicò contrariata Mina.
«Ho cambiato idea. Lo faremo venire qui, così come l’estetista.»
Marella si volse sempre in silenzio, si sedette sul letto e incrociò le mani sul grembo abbassando lo sguardo e guardandole atona.
«Ma siamo sicuri che Carmine abbia cambiato idea?» chiese Mina appoggiandosi di spalle alla porta.
«Non c’è da preoccuparsi, sicuramente suo padre l’avrà messo al suo posto. Voi, invece, ricordate il piano?»
«Io sì. E a giudicare dall’ora, sarà meglio che mi prepari.» rispose Mina e dopo essersi data un’occhiata allo specchio, come se si stesse preparando per entrare in scena, se ne andò lasciando sole sua madre e sua sorella.
Il silenzio che piombò fu quasi assordante e a spezzarlo ci pensò Rita che si sedette accanto alla figlia, le passò una mano sulle spalle e la tirò a sé trovando però le sua resistenza.
«Che ti prende, Marella?»
«Io non posso sposare Carmine, e tu lo sai!» sbottò la ragazza all’apice della sopportazione. Si alzò strofinandosi le mani come se stesse cercando di liberarsi da qualcosa di appiccicoso.
«Non urlare.» l’avvisò la madre.
«Perché?! Perché vuoi farmi fare una cosa così abominevole?»
Rita alzò lo sguardo puntandole l’odio che sbroccava dai suoi occhi di onice nera.
«Vuoi sapere dove sono stata? – chiese la ragazza piangendo – sono stata in chiesa a pregare per le nostre anime! Ma la tua è così nera, mamma, che dubito Dio ti possa salvare!» aggiunse senza aspettare una risposta, ma la donna reagì male a quelle parole: si alzò di scatto e le sferrò uno schiaffo talmente forte che il rumore vibrò nell’aria.
«Mi sono macchiata l’anima a causa tua, non dimenticarlo! – sibilò con voce arrochita – A quest’ora doveva esserci Federica, al posto tuo! Ma lei non c’è più per colpa tua. Perciò prega quanto cazzo vuoi, ma ti sposerai con Carmine. Me lo devi!»
«Non è colpa mia se Federica non c’è più»
«Sì che lo è! – la interruppe bruscamente a un palmo dal suo viso, poi le puntò un dito sulla tempia e la spinse un paio di volte – mettitelo bene in testa. La colpa è solo tua. Come è tua la colpa di essere nata. Non dovevi nascere!» con quelle ultime, sprezzanti parole, la spinse sul letto, uscì e sbatté la porta.
Marella soffocò il suo pianto nel cuscino, e nella testa si fecero vive quelle voci che nei momenti come quello ritornavano a sussurrarle parole cupe, fino a quando non si delineava il volto tumefatto di una bambina dagli occhi spiritati e dalla carnagione bianca come un lenzuolo.
«Perdonami Fede, perdonami.»
 
***
 
Per capire chi è Federica e che cosa c’entra in questa storia, dovremmo andare a ritroso nel tempo, esattamente sedici anni prima.
La signora Rita Ferrara coniuge Franchi aveva già messo al mondo due bambine: Federica la primogenita e Marella. La prima l’amava indissolubilmente perché l’aveva resa mamma per la prima volta, la seconda, l’amava perché frutto di un amore segreto, e fin lì andava tutto liscio come l’olio; nessuno ne sapeva nulla, nemmeno il vero padre. Poi rimase in cinta della terza figlia, Mina, che per non dare nell’occhio l’aveva concepita con suo marito, l’ultima volta che erano stati a letto, poiché bisogna sapere che l’avvocato Biagio Franchi, descritto da Diomede come un ubriacone indebitato, si era ridotto così a causa del carattere aberrante della moglie, per poi finire, sempre per opera della sua consorte, in prigione per tentato stupro (a parer di lei) nei confronti delle figlie e magari su quel losco affare c’entrò lo zampino di Diomede. Dopodiché scattò il divorzio e il divieto assoluto per l’uomo di avvicinarsi alle figlie. Tutto questo nei mesi in cui il ventre della donna si gonfiava per la gravidanza.
Ora, accadde che un pomeriggio di primavera, le due sorelline se ne stavano tranquille a giocare alle principesse, nel giardino del casale e il Fato volle che avessero preso di nascosto i gioielli della nonna, perché se no, il gioco non aveva senso. Ma cosa successe, esattamente?
Vuoi per gelosia, vuoi per i soliti capricci che prendono le sorelle minori nei confronti di quelle grandi, a Marella saltò in testa di voler per forza la parure che si era scelta Federica. Se la contesero come fanno tutti i bambini quando afferrano entrambi la stessa cosa e principiano a tirarla fino a quando uno dei due non molla, fatto sta che dopo quel tira e molla a due passi dal pozzo artesiano che Vincenzo Gargano lasciava aperto per non si sa quale motivo, Marella lasciò la presa proprio mentre Federica decideva di tirare con più forza e in un battito di ciglia la bambina cadde nel pozzo pieno d’acqua. Naturalmente non era in grado di nuotare e morì affogata.
Marella, che aveva paura della reazione di sua madre, pensando che la sorella stesse scherzando e che non stesse correndo alcun pericolo, ignorò le sue grida d’aiuto e si andò a nascondere sotto le coperte del suo letto.
Il giorno seguente, dopo che tutti: sia i Gargano che i Ferrara avevano passato tutta la nottata a cercare Federica, invano, Marella decise di raccontare la verità.
La bambina fu trovata galleggiante di faccia in giù. Quando la tirarono fuori dal pozzo, Marella dietro le vetrate della finestra della sua camera vide in lontananza il volto bianco della sorella, con le labbra livide e i capelli bagnati appiccicati sulla fronte. Anche se surreale, a Marella, che all’epoca aveva sei anni, parve che la sorella la stesse guardando e con quegli occhi esanimi la stesse accusando. Quella visione fu un trauma per la bambina, che d’allora aveva perso il diritto di essere amata dalla propria madre, di essere disprezzata dalla stessa la quale col passare degli anni aveva usato lo shock di sua figlia come arma per sottometterla.
Ma cosa significavano le parole dette dalla giovane nei confronti della madre?
Dopo la morte della primogenita che si spense a soli sette anni, per qualche tempo non se ne parlò più fino a quando, una sera, Vincenzo Gargano e sua sorella Erminia, decisero di unire le due famiglie e ingrandire l’azienda, così fu che già d’allora Erminia ebbe la splendida idea di non voler nulla di tutto quel ben di Dio e di prendersi il giusto, semplicemente lavorando. Questo, come si è ben inteso, andò bene ai figli maschi della donna tranne che a Rita, la quale per carattere ambizioso sognava un trono tutto per sé.
Un giorno, accadde qualcosa che diede alla donna l’opportunità di far avverare i suoi sogni. Dopo che Vincenzo aveva parlato del suo testamento, Diomede, che da qualche tempo aveva affiancato suo padre nel mandare avanti la proprietà, si trovò immischiato in un losco affare e caso volle che Rita assistesse alla scena. Così, quale modo migliore per non afferrare quella palla al balzo?
Il giorno appresso, parlando del più e del meno, fece intendere a suo cugino che se voleva continuare a vivere la sua vita spensierato, avrebbe dovuto far sposare i loro figli. E per figli intendeva Carmine e Marella, giacché Stefano se n’era andato da qualche anno e sicuramente nessuno sarebbe riuscito nell’intento di obbligarlo a una cosa che non voleva.
Così facendo, Rita era sicura che avrebbe avuto la sua parte di eredità.
Diomede non si trovò costretto ad accettare, per lui non aveva importanza una cosa del genere, se per sua cugina bastava quello per tenerla a bada, perché non accontentarla?
Il “D’accordo” dell’uomo fece ravvivare le farfalle nello stomaco della donna la quale, quando rinsavì dalla forte emozione, si ricordò che non poteva succedere una cosa del genere poiché Mina era troppo piccola per il figlio del cugino e Marella Franchi in realtà era figlia di Diomede Gargano e quindi sorella di Carmine Gargano.
L’odio che le calò sugli occhi fu indescrivibile. La donna lo sfogò tutto sulla figlia picchiandola per la prima volta e, non curante dei suoi sentimenti, le rivelò il vero motivo per il quale l’aveva punita.
Non solo aveva ucciso quella che poteva essere la sua chiave per il paradiso, ma non poteva prendere nemmeno il suo posto. A che cosa serviva, allora, la sua misera esistenza?
Nonostante tutto, la donna non demorse. In fin dei conti, si disse, chi sapeva quel segreto? Nessuno a parte la diretta interessata, quindi la questione diventava semplice: far finta di nulla.
Ma Marella anche se con qualche rotella in meno nel cervello, sapeva che quello che stava facendo la madre era peccato e cercò di farla ragionare, ma in compenso ebbe il resto, e sua madre se ne liberò con una minaccia che avrebbe di sicuro intimorito la ragazza data la sua Fede dopo il suo errore: «O fai come ti dico, o Dio ti punirà.»
E quella frase, Marella se l’era trascinata appresso per molto tempo come una catena pesante da portare per scontare il suo peccato.
 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

A Murgella, come in ogni altro paese, le promesse si celebravano nello stabilimento comunale, o tutt’al più per chi non voleva celebrare il matrimonio religioso, il Sindaco metteva a disposizione il lussuoso palazzo Spadieri, che secoli addietro era stata la dimora dei Signori di Murgella, nonché i fondatori del piccolo paese.
Ma, appunto, erano passati alcuni secoli e degli Spadieri, a Murgella, non scorreva neppure una goccia di sangue nelle vene degli abitanti. Gli ultimi discendenti, dopo aver sperperato i loro averi, se n’erano andati al nord sperando di fare fortuna.
Ora i “padroni” di Murgella erano i Gargano e come è possibile immaginare, Diomede riuscì ad avere il permesso di celebrare il tanto atteso matrimonio tra Carmine e Marella nelle sue proprietà e a un orario che sicuramente non sarebbe consentito.
Quel pomeriggio inoltrato di giugno, casa Gargano era in subbuglio per il termine dei preparativi. I Ferrara dall’altra parte, sembravano essere stati morsi tutti quanti dalla stessa tarantola. Ma tra quel via vai di camerieri assunti per il catering, e gli ordini che impartiva Erminia, c’era chi aveva preso quel momento con non curanza e questi erano Carmine, Aria e finanche Stefano, quest’ultimo si era appena ritirato dalla sua passeggiata in compagnia della sua reflex e si era rinchiuso in camera per decidere cosa farne di quegli scatti che da venti erano diventati cento, dopo lo strano incontro con Marella, e non era ancora convinto di come fossero usciti.
Poggiando i suoi attrezzi del mestiere sulla scrivania, diede un’occhiata fugace al letto e si accorse che era stato adagiato il suo completo da cerimonia coperto dal cellofan e comprese che avrebbe dovuto indossarlo.
Fece una smorfia e poi sorrise beffardo. Quella doveva essere stata opera di zia Erminia. Ricordava i suoi modi da maniaca del controllo, ma anche se le voleva bene, non le avrebbe dato quella soddisfazione, anzi, per dirla tutta, non voleva nemmeno assistere a quella farsa. Per di più se suo fratello non aveva cambiato idea sulle sue intenzioni, malgrado fosse stato scoperto da suo padre, non vedeva la ragione per l’utilizzo.
Decise di farsi una doccia, quel giorno il caldo era asfissiante, ma prima che potesse entrare in bagno, sentì bussare alla porta. Esitò prima di dare il permesso, poi vide entrare suo fratello con aria imbarazzata. Quando notò il livido che gli aveva fatto sullo zigomo, sentì ancora una volta quella stretta al cuore che sapeva di pentimento.
«Io volevo scusarmi per le parole che ti ho detto stamani» esordì suo fratello tentando di reggere il suo sguardo curioso.
Stefano dapprima non lasciò trapelare alcuna espressione, suscitando nel pentito altro imbarazzo, poi, però allungò le sue labbra in un sorriso divertito e aprì le braccia invitandolo a quel gesto di riconciliazione.
Carmine non esitò, condivise l’abbraccio e si chiesero scusa all’unisono.
«Non dovevo parlarti in quel modo e avere dubbi su di te.» disse il più piccolo allontanandosi per guardarlo ancora negli occhi.
«Ed io non avrei dovuto colpirti» replicò il grande dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.
Carmine si volse verso lo specchio e si squadrò il viso, poi sorridendo fece una smorfia e disse: «Fa più uomo, non trovi?»
Stefano scoppiò a ridere e ritornò alla sua valigia per prendere la biancheria pulita.
«Ti stai preparando per dopo?» chiese a quel punto suo fratello accortosi del completo sul letto.
«Non lo indosserei nemmeno se tu avessi cambiato idea. – affermò sicuro, poi fermatosi, lo guardò sott’occhio chiedendo: - non hai cambiato idea, vero?»
Carmine scosse la testa, «No – aggiunse – ora sono più deciso che mai a volermene andare da qui.»
Stefano annuì, d’accordo con lui, poi parlarono del più e del meno, scherzarono sulla situazione, ma nessuno dei due accennò al vero motivo per cui lo “sposo” aveva preso quella decisione. Lui non parlò della sua relazione con Arianna e suo fratello maggiore non rivelò della sua scoperta tramite il cellulare della ragazza, e a giudicare dal silenzio che ne seguì aveva compreso che non gli aveva detto nulla del loro incontro al buio nella camera del nonno. Che non si era ancora resa conto di aver perso il telefono? Stefano non era del tutto convinto, rivelò comunque a Carmine che avrebbe assistito alla cerimonia perché non voleva perdersi il fallimento del loro padre.
Quando Carmine uscì dalla camera di suo fratello si apprestò a voler raggiungere le scuderie. Lì, nel pomeriggio, aveva nascosto il suo borsone, gli rimaneva solo aspettare la sua amata, avrebbero preso la sua auto e se ne sarebbero andati. Non avevano una meta ben precisa, non ci avevano neppure pensato, ma poco importava; si sarebbero messi d’accordo durante il viaggio.
Uscito dal casolare e incamminatosi verso le scuderie, si accorse di qualcosa di strano: sulla piattaforma in cemento del pozzo artesiano, se ne stava in piedi Marella, ferma, con lo sguardo rivolto verso la botola di ferro.
Si fermò per qualche istante a guardarla, ma vedendo che non accennava alcuna reazione, fece spallucce e riprese il suo cammino, non appena però giunse davanti al grande portone della stalla, si sentì chiamare e si vide correre in contro Mina, che sembrava sconvolta e con le lacrime agli occhi.
«Che succede?» le chiese preoccupato.
«Carmine, mia sorella… - balbettò in preda al fiatone per la corsa che aveva fatto – Marella ha avuto un incidente – a quelle parole, l’espressione del ragazzo tramutò, gli si spalancarono le palpebre e, quando la ragazzina disse “è caduta”, non le diede neppure il tempo di continuare che corse come un fulmine verso il pozzo artesiano.
Mina, allibita da quella reazione si ritrovò a terminare la frase con “dalle scale” che ormai il giovane non poteva sentirla. «Ma che cavolo gli è preso? Allora è proprio vero che dovrei pensare di fare l’attrice.» sorrise soddisfatta, convinta che il piano architettato con sua madre stesse andando a gonfie vele.
Intanto Carmine, attanagliato dalla paura, raggiunse il pozzo persuaso che Marella si fosse gettata proprio come era accaduto a sua sorella tanti anni fa. Aveva sentito parlare di quell’episodio da suo nonno, anche se non conosceva tutti i dettagli di quella tragica storia.
Tra gli ansimi, gettò un sospiro di sollievo quando la vide carponi sulla piattaforma, che piangeva, e a giudicare dalla pozza giallastra che si era formata sul cemento, capì che aveva vomitato. Si avvicinò a lei e l’afferrò dolcemente dalle spalle.
«Marella, ch’è successo?» le chiede tirandola a sé. La ragazza, quando si volse e lo vide, scoppiò in un pianto disperato e lo abbracciò affondando la testa sul suo petto come a cercare riparo tra quelle braccia sicure. «Io non volevo farlo! Perché nessuno mi crede?» diceva tra i singhiozzi, ma era talmente incomprensibile che il ragazzo non volle cercare di capire, sentiva solo il bisogno di stringerla forte a sé per proteggerla.
«Ti prego, Carmine, aiutami, almeno tu!» continuò lei sollevando le testa e guardandolo negli occhi. Si immerse in quelle pozze verdi, e volle convincersi che non le appartenevano, che quell’anima non avesse nulla a che fare con la sua. Volle convincersi che ciò che stava per fare non era incesto perché se non era riuscita a togliersi la vita, se era stata una codarda nel punirsi per quello che aveva fatto a Federica, valeva la pena scontare il suo peccato soccombendone a un altro; voleva convincersi proprio come aveva fatto sua madre, e cioè che Carmine non doveva essere suo fratello. Per farlo doveva abituarsi a quelle parole che non rispecchiavano la realtà, ma che l’alleviavano dal inquietante pensiero.
Così chiuse gli occhi, ripeté a se stessa “non devi essere mio fratello” e si allungò per baciarlo.
Ebbe la conferma alla domanda che una volta le aveva fatto sua madre: “Invece di piagnucolare, chiediti come può essere eccitante baciare il proprio fratello”.
In quel momento stava cercando di darsi delle risposte, di non pensare al gesto abominevole che aveva appena fatto, ma Carmine non l’aiutava, quel bacio lui l’aveva accettato e lo stava permettendo senza rifiutarla.
Ma lui non sapeva la verità, quindi lui non poteva essere colpevole tanto quanto lei. Non solo aveva peccato per la seconda volta, ma aveva indotto un innocente a peccare con lei. E per questo Marella si sentì morire.
 
***
 
Non voleva dare nell’occhio, così aveva messo un vestitino elegante, anche se non le sarebbe servito a molto dopo la loro “fuga”, inoltre, nonna Erminia le aveva chiesto di aiutarla con gli ultimi preparativi in giardino. Il matrimonio si sarebbe celebrato in quello dei Gargano e proprio sotto a una quercia era stato allestito un altarino di peonie bianche che formava un arco sotto al quale c’era un tavolo rettangolare coperto da un panno bianco e anche lì sopra trionfavano delle composizioni di splendidi fiori. Dirimpetto a quel bel vedere c’erano il commissario comunale e il parroco di Murgella che parlavano con Diomede il quale, a parer di Arianna, sembrava non volerle togliere lo sguardo di dosso.
All’inizio, la ragazza fece finta di nulla e lo ignorò, ma quando quegli sguardi si fecero più insistenti e quasi inappropriati, decise di recarsi nel luogo dell’appuntamento, anche se era ancora presto. Il sole illuminava ancora il cielo, e con Carmine avevano deciso di andarsene all’imbrunire, ma l’ansia iniziò a farsi sentire dandole segno della sua entrata in scena. Iniziarono a pruderle le mani, ma tentò con tutta se stessa di rimanere calma.
Si guardò intorno decisa a voler allontanarsi da quei pensieri. Lanciò uno sguardo sulla lunga tavolata imbandita. I Gargano avevano invitato mezza Murgella per quell’evento che agli occhi della ragazza sembrava alquanto esagerato e c’era qualcun altro che la pensava come lei: erano i gemelli che, appoggiati a un palo dal quale partivano le funi che aprivano il gazebo, prendevano in giro gli invitati che a poco a poco colmavano il giardino.
Aria sorrise sentendo quello che stavano dicendo su una donna grassa che si aggirava come un discreto avvoltoio attorno alla tavola analizzando i piatti sfiziosi che i camerieri del catering avevano appoggiato. Poi si volse verso suo padre che parlava con zio Cristoforo e gli lanciò un occhiolino non appena i loro sguardi si furono incrociati. Mancavano Rita e Mina, sicuramente erano con Marella, neanche Carmine si era ancora fatto vivo, che stesse completando i preparativi per la loro partenza?
Si volse ancora, questa volta verso il portone d’entrata e lì il suo cuore ebbe un sussulto. C’era Stefano, aggrappata al suo braccio Camilla vestita con un tailleur nero e rosa antico. Sembrava più felice del solito, i suoi occhi non erano spenti e tristi come sempre, mentre quelli del suo accompagnatore la stavano fissando. No, Aria non si era sbagliata, Stefano stava guardando proprio lei e sembrava incantato. La giovane distolse subito lo sguardo sentendosi avvampare le guance.
Perché le faceva quell’effetto? Si chiese prima di guardarsi ancora intorno e decidere che era ormai giunta l’ora di recarsi nelle scuderie. Passò d’avanti ai cugini che non appena si accorsero di lei le chiesero semmai volesse andare con loro a vedere come disponevano i fuochi d’artificio, ma lei li congedò con un diniego accennato col capo, poi continuò a camminare.
Per fortuna, togliendo i gemelli e Stefano, nessun altro si era accorto del suo allontanamento. Entrò nella stalla e chiuse il portone. C’era penombra e solo un fascio di luce ormai morente penetrava dal finestrone del portone e tagliava in due una parte dell’ambiente riflettendosi sul pavimento paglioso.
Gli sbruffi dei cavalli echeggiavano intermittenti nell’aria, ma oltre ad altri piccoli rumori, regnava una calma assoluta.
Aria si avvicinò al box di Tempesta che mangiava indisturbata il suo fieno. Si affacciò al recinto di legno e la chiamò. La giumenta si avvicinò a lei e si fece accarezzare il muso.
«Brava, Tempesta, brava» le sussurrò per poi poggiare la fronte alla sua. Al pensiero che quella sarebbe stata l’ultima volta insieme, ad Aria le venne un dolore al petto. Il legame che aveva col cavallo era da sempre indistruttibile. Tempesta non era un semplice cavallo, era la sua anima, il suo scrigno nel quale affidava i suoi pensieri e segreti e la giumenta la intendeva meglio di qualsiasi altro essere umano.
Si era fatta ripromettere da Alberto che dopo la sua partenza, si sarebbe occupato lui di tutto, che non le avrebbe fatto pesare la sua mancanza. Ma come poteva essere facile se Aria già sentiva la mancanza delle loro lunghe galoppate?
L’amore che provava per Carmine era più forte di qualsiasi altra cosa, e il pensiero di amarlo finalmente alla luce del sole cancellava tutto il resto.
Tempesta, però, fu come se avesse inteso qualcosa, che iniziò a inquietarsi, così Aria, per farla stare calma, la fece uscire dal box continuando ad accarezzarla, ma proprio in quell’istante entrò qualcuno nella scuderia. Aria si volse di scatto, ma il fascio di luce le impediva di distinguere la figura, si mise una mano sulla fronte per riparare gli occhi e lo vide, anche se in contro luce, era lui: Carmine. Lo avrebbe riconosciuto fra mille. Era arrivato, e da quel momento sarebbero stati felici.
Aria sorrise, si allontanò da Tempesta per avvicinarsi al suo amato. Non riusciva ancora a vederlo nella penombra, ma poco le importava, quando gli fu a pochissimi passi gli mormorò «Ti aspettavo» dopodiché eliminò la distanza avvolgendogli le braccia al collo, sollevandosi sulle punte e baciandolo con passione.
All’inizio, il giovane sembrò esitare, poi però le avvolse i fianchi con le sue possenti mani spostandole la stoffa di jersey che le copriva le forme e la tirò a sé. Dischiuse le labbra chiedendo alla ragazza di fare lo stesso con la punta della sua lingua. Si fece spazio fra i denti e incontrò quella di lei che l’accolse senza esitare. La barba le solleticava il mento e le narici, ma non era fastidiosa, al contrario, a quel contatto Aria si sentì travolgere dalla passione, poi quel profumo di pini d’inverno la riportò alla realtà. Fermò quelle veemenze.
Non era Carmine.
Aprì gli occhi cercando nella penombra quelli dell’uomo che stava stringendo a sé e che aveva accettato quel contatto così intimo.
Si allontanò dalle sue labbra e sentendosi venir meno si ritrovò a guardare il suo petto scolpito coperto da una camicia di jeans. Le braccia le diventarono tutt’a un tratto pesanti e non riuscì a tenerle così le fece scivolare sul suo petto.
Forse, conscio del suo stato, l’uomo aprì la sua mano a ventaglio premendogliela sulla schiena per non lasciarla cadere e Aria si ritrovò ad alzare la testa, permettendogli di infrangerle il respiro sul viso. Quell’odore cosi fresco le travolse ancora una volta i sensi. Le sembrò di sentire le sue labbra vicine, come se volessero assaggiarla ancora, e si chiese per quale motivo non lo respingeva. Aveva capito di chi si trattava, ma ebbe comunque conferma quando il cielo al tramonto si illuminò del bagliore colorato dei fuochi d’artificio, che ad intermittenza andarono a rischiarargli il volto.
La prima cosa che vide di lui furono gli occhi azzurri come il mare, che la guardavano con arcano desiderio, poi il boato che sopraggiunse poco dopo, finalmente, la fece sussultare. Si distaccò bruscamente da lui, indietreggiando, rimase a fissarlo. La figura di Stefano era ormai visibile, ma rimaneva fermo e non accennava a voler fare alcun movimento.
Aria si portò la mano alle labbra ormai conscia di quello che era accaduto, poi si volse di scatto, si avvicinò a Tempesta, salì sul suo dorso e uscì velocemente dalla parte opposta che era sempre aperta e che veniva chiusa solo quando si faceva sera.
Stefano stette lì e quando si accorse di essere rimasto solo lasciò fuoriuscire un lungo respiro come se lo avesse trattenuto da tempo, poi sorrise, si appoggiò a un palo che divideva due box, si sedette per terra e accarezzandosi le labbra, sussurrò: «Ti stai cacciando in un bel guaio, Ste’.»

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8
 
Ciò che era accaduto con Marella aveva scombussolato l’animo di Carmine e non perché era stato baciato da lei e lui non l’aveva rifiutata, si sentiva strano a causa dell’atteggiamento e delle parole della ragazza.
Che cosa l’era successo?
Quando la lasciò sul letto che ormai sembrava essersi calmata, rimase accanto a lei fino a che lo scoppio dei fuochi d’artificio lo riportò alla realtà facendogli ricordare di Aria e della loro “fuga”. Si assicurò che Marella stesse dormendo quieta e uscì. Per il corridoio incontrò Rita e Mina che sembravano essere state morse da una tarantola. Si avviò verso di loro con l’intento di sorpassarle senza dire nulla e permetterle di raggiungere la loro parente, ma proprio mentre si trovava alle loro spalle, Rita lo chiamò con voce stridula, di chi ha paura di qualcosa, e gli chiese che cosa gli avesse detto sua figlia.
Carmine colse subito lo strano atteggiamento e titubante ribatté chiedendo che cosa avrebbe dovuto dirgli, poi aggiunse voltandosi lentamente a guardarla: «È evidente che questo matrimonio l’abbia messa in agitazione. Conosciamo tutti l’emotività di Marella.»
Rita sospirò, scrollò le spalle e allargò le labbra carnose in un sorriso vittorioso. Incrociò le braccia al petto e disse: «In effetti hai ragione. Vado da lei, tra mezz’ora ci sarà la cerimonia e voi sposi non siete ancora pronti. Ti lascio andare a preparare».
Carmine la fissò, aveva sulla punta della lingua ciò che avrebbe dovuto dirle, ma pensò bene di tacere, voltarsi e andarsene per la sua strada.
Non ci sarebbe stato nessun matrimonio. Aria lo stava aspettando e l’unica cosa che si prefissò in quell’istante fu correre nelle scuderie e scappare via, coronando così il suo vero sogno d’amore.
Quando giunse all’aperto dove la festa stava aspettando, proseguì in modo discreto per non attirare l’attenzione dei presenti, si recò davanti alle scuderie e aprì. Al rumore che provocò il portone di ferro, i cavalli alzarono in sincronia la testa volgendola verso l’entrata.
Non c’era nessuno.
Entrò.
Si guardò intorno, magari Aria si era nascosta, forse nel box della sua Tempesta, ma nulla, mancava persino la giumenta.
Provò a chiamarla e, oltre al suo leggero eco, non udì altra voce.
Non era presto, si erano dati appuntamento alle venti ed ormai erano le venti e trenta. Le valige erano al posto dove le aveva nascoste e sembrava che nessuno le avesse toccate.
Allora dov’era?
Decise quindi di telefonarle, ma scattò la segreteria.
Non passò troppo tempo, che il giovane iniziò a sentirsi l’ansia addosso appaiata da un brutto pensiero che lo fece lottare per non fargli prendere il primo posto nella sua mente.
Gli mancò l’aria, allora uscì e principiò a guardarsi intorno ancora una volta, ma di Aria nemmeno l’ombra.
L’unica cosa da fare era chiedere a qualcuno se l’avesse vista, anche se sembrava una scelta un po’ troppo azzardata giacché a quell’ora doveva trovarsi davanti all’altarino ad aspettare la sua futura moglie; cercò comunque di non pensare al peggio. Le prime persone che vide furono i gemelli i quali sembravano intenti a bisticciare sui fuochi d’artificio: Enea incolpava Paride dello scoppio anticipato e, quando si videro venire avanti il giovane, si zittirono aspettandosi una sfuriata da parte dello sposo, giacché l’aria che aveva in volto preavvisava la tempesta.
«Ragazzi… - esordì Carmine appoggiando una mano sulla spalla di un Paride altamente spaventato – per caso avete visto Arianna?»
«Sì!», fu Enea a rispondere lasciando che suo fratello sospirasse di sollievo, attirando l’attenzione del procugino su di sé.
«E dove?»
«L’abbiamo vista uscire un quarto d’ora fa dalle scuderie, sembrava agitata. Ed è corsa via con Tempesta.»
«Corsa via…» ripeté Carmine scrollando le spalle e lasciando che le braccia cadessero ciondoloni lungo i fianchi «Perché?» sibilò. I gemelli non sentirono quell’ultima domanda e parlarono tra di loro esternando le loro opinioni, una delle quali diede conferma a Carmine che quel brutto pensiero stava diventando qualcosa di ovvio.
«Sicuramente avrà voluto non assistere alla cerimonia. In fondo, non prendertela Ca’, ma non penso che ad Aria freghi qualcosa del vostro matrimonio» disse Enea accennando un sorriso di circostanza.
«Già – aggiunse Paride che aveva lo stesso identico tono di voce del fratello – avrà pensato bene di approfittare della situazione per prendersi la serata libera.»
Carmine non sentì altro, perché stringendo i pugni, si era allontanato dai due fratelli e si era incamminato verso l’entrata di casa sua.
Un turbinio di pensieri si fece strada nella sua mente.
Era ovvio, ormai, che quella ragazza non aveva mai avuto intenzione di scappare con lui; era ovvio che fin dall’inizio per lei la loro relazione era stata solo qualcosa di passeggero, magari perché nessuno l’amava e per non sentirsi sola; era ovvio che lei non lo aveva amato veramente.
Carmine si sentiva uno stupido, possibile che in tre anni di relazione non l’avesse mai capito? Ora si spiegava il motivo per il quale tutti gli altri la odiavano: loro avevano visto ciò che lui si era prefissato di non vedere. E ormai era ovvio che doveva farla finita.
Entrando nella sua camera, si spogliò, si recò in bagno e si infilò sotto la doccia permettendo all’acqua di sovrastarlo.
Un altro pensiero gli balenò per la mente: Marella aveva agito così perché forse lo amava veramente; la donna che invece amava lui era scappata via. Marella era l’unica che meritava di essere protetta e lui l’avrebbe fatto, perciò l’unica soluzione era quella di sposarsi e mandare a fanculo tutto.
L’odio si era insinuato nel suo cuore, sapeva però che quello non gliel’avrebbe fatta dimenticare.
 
***
 
Quando arrivò alla piccola cascata, scese dal dorso di Tempesta. Anche se il lavoro più faticoso lo aveva fatto la giumenta, Aria si ritrovò ad ansimare come se avesse fatto una corsa infinita. Si sedette su una roccia per poi stendersi sull’erba fresca. Aprì le braccia e guardò il cielo. Il petto si alzava e si abbassava velocemente, il fiato non accennava a quietarsi e gli occhi non volevano cancellare l’immagine di Stefano. Lentamente si portò le dita della mano alle labbra che sentiva ancora pulsare e quell’odore inconfondibile, fresco, selvaggio, sembrava continuare a penetrarle le nari. Chiuse gli occhi lasciando che quella neonata emozione la travolgesse e immaginò per la prima volta le mani del giovane uomo su di lei, sui suoi fianchi, sul suo seno. Un gemito le scappò di bocca e riaprì gli occhi ritrovandosi a guardare il cielo stellato.
Perché quei pensieri, che cosa le stava succedendo? Lei amava Carmine!
Carmine.
Si mise a sedere di scatto.
Come aveva potuto dimenticarsi del suo amato?
Che cosa diavolo aveva combinato, perché era scappata in quella maniera?
Avrebbe dovuto respingere Stefano e aspettare l’arrivo di Carmine, perché lui doveva esserci andato all’appuntamento e sicuramente la stava aspettando.
Si alzò, non curandosi di Tempesta, iniziò a correre verso il casale e, mentre correva, pensò a come avrebbe cancellato dalla mente quell’increscioso equivoco. Quando giunse davanti ai cipressi si appoggiò al tronco intenta a riprendere fiato e quando si accinse a incamminarsi verso le scuderie, un fragoroso battito di mani catturò la sua attenzione. Si volse verso la quercia dov’era esposto l’altarino e vide quello che mai si sarebbe aspettata di vedere.
Carmine era lì, vestito di tutto punto, che baciava timidamente Marella vestita con un semplice abito da sposa bianco.
Erano lontani da dove si trovava lei, ma riuscì comunque a sentire le voci che gridavano: “Evviva gli sposi!”
Il ciottolato sotto ai suoi piedi sembrò dilatarsi in una voragine e risucchiarla al suo interno. Si sentì perdere l’equilibrio sulle gambe e si andò ad appoggiare al tronco per non rovinare a terra.
Come poteva essere accaduta una cosa del genere?
Perché Carmine si era sposato e non l’aveva aspettata? Che stesse sognando?
No, era troppo reale per essere un sogno.
Volle piangere ma non riuscì a farlo, così chiuse gli occhi e strinse un pugno al petto in reazione alla fitta che si era fatta strada nel suo cuore.
Poi d un tratto sentì una presenza alle sue spalle che le chiese: «Delusa?»
La giovane si volse di scatto, spaventata.
Diomede era davanti a lei e se ne stava ritto con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e sul viso aveva stampato uno sguardo che oscillava tra la malizia e la soddisfazione.
«Di cosa?» balbettò la ragazza tentando di non far trapelare il suo malessere, ma l’uomo non se la bevve e schioccando la lingua contro il palato e accorciando la distanza tra di loro continuò: «Andiamo, Arianna. Mi credi così stupido? Siete riusciti a nascondere la vostra tresca a quei quattro idioti dei miei parenti, ma non a me.»
Aria si sentì perdere un palpito e indietreggiò lentamente.
«Che cosa ti aspettavi? Che mio figlio avrebbe scelto una come te? Ne eri proprio convinta?»
A quelle parole la giovane si sentì il cuore batterle violentemente in gola e, il tremolio che la colse alle labbra, le fece intendere che presto avrebbe iniziato a piangere. Non aveva mai avuto un faccia a faccia come quello con il padre dell’uomo che fino a qualche momento fa era suo e sentirsi dire quelle parole così taglienti e offensive, la spinse a voler scappare via, lontano da tutto, ma quando si apprestò a volersi allontanare, Diomede scattò in avanti e le afferrò un polso, tirandola a sé e sbattendola di petto contro il tronco del cipresso. Si posizionò dietro di lei impedendole ogni via di fuga e spinse il busto contro la sua schiena facendole sentire quello che davvero cercava.
«Per Carmine sei solo stato un passatempo, un oggetto con cui sfogarsi.»
Preda allo spavento, Aria tentò di dimenarsi in tutti i modi, cercò anche di urlare, ma l’uomo le aveva tappato la bocca premendo le dita sulle labbra. «Non essere dispiaciuta – le sibilò in un orecchio – potrai sfogarti quanto vuoi con me.» e dopo quelle parole iniziò a baciarle la nuca lasciandone scie viscide e ripugnanti.
La ragazza strinse gli occhi e digrignò i denti al solo pensiero disgustoso che provò in quel preciso istante. E finalmente pianse. Pianse perché nessuno sarebbe andata ad aiutarla, pianse perché Carmine non era più con lei.
Ignorò persino le mani dell’uomo che volevano esplorarla intimamente. Il pensiero di aver perso la persona che amava l’attanagliò. Fu come se si fosse arresa a ciò che sarebbe stato il seguito. Poi però qualcuno arrivò in suo aiuto, fermando l’atto abominevole dell’uomo.
«Che cazzo stai facendo?» esclamò una voce alle loro spalle.
Aria aprì gli occhi e si sentì le labbra e il corpo liberi da quella stretta. Non si volse a guardare chi l’avesse salvata, scivolò sul ciottolato ormai conscia di non avere più controllo sulle gambe, mentre Diomede si girava sospirando nel constatare che era solo Rita. Vide nei suoi occhi un luccichio indescrivibile, si accorse che tremava e di sicuro non si trattava per il freddo.
«Che ci fai qui?» le domandò passandosi una mano tra i capelli per ricomporsi.
«Rispondi alla mia domanda! – ribatté furiosa la donna – che cazzo stavi facendo con quella lì?»
L’uomo decise di non rispondere; aggiustandosi i gemelli sorpassò sua cugina mormorando seccato: «Non sono affari che ti riguardano.»
Non contenta della risposta, Rita lo fermò per un braccio e lo voltò intenta a colpirlo in viso, ma il cugino fu più abile e le bloccò il gesto a mezz’aria, fissandola poi con occhi truci «Non azzardarti mai più» le disse con voce calma ma che celava intenzioni pericolose. «Hai avuto ciò che desideravi, accontentati e non immischiarti mai più nei miei affari, intesi?», poi la lasciò bruscamente e le voltò le spalle per andarsene.
La donna barcollò all’indietro per riprendere equilibrio. Non si era ancora arresa, così gli disse con voce cattiva: «Mi stai invitando a rovinarti l’esistenza?»
Diomede si fermò, ma non si volse.
«Ti avverto, pezzo di merda – aggiunse sua cugina affiancandosi a lui – non azzardarti mai più a trattarmi in questa maniera, se non vuoi che ti rovini. Non dimenticare che ti ho in pugno... affondo io, affondi tu.»
L’uomo girò il capo quel che bastava per poterle scoccare un’occhiata torva, la vide sorridere e cambiare totalmente espressione «Gli sposi stanno aspettando il brindisi con i genitori. Andiamo?», e detto questo, lo lasciò indietro esibendo la sua sensuale camminata.
Suo cugino rimase a guardarla per un po’ sfoggiando un sorriso beffardo di chi ignora la pericolosità della situazione, poi repentinamente le sue labbra si tramutarono in una linea dura e i suoi occhi fiammeggiarono di rabbia. Nonostante questo si incamminò lentamente verso la direzione che aveva preso la donna.
Intanto Arianna era rimasta lì, in ginocchio, sul freddo ciottolato, con le mani strinte a pugno e la testa abbassata.
Piangeva in silenzio e i lievi sussulti delle spalle facevano intendere che stava singhiozzando.
Si sentiva sporca per quello che aveva tentato di farle quell’uomo viscido, disperata, tradita e disprezzata, triste perché consapevole che aveva ormai perso l’amore.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9
 
A soli tre chilometri da Murgella, si estendeva la piccola frazione di Calenda; piccola, poiché comprendeva un ristrettissimo numero di abitanti, per lo più anziani, che dopo aver passato la propria vita lavorando la terra, avevano fatto costruire una serie di villette, almeno chi poteva permetterselo, e si erano ritirati per passare gli ultimi anni della loro vita in pace e tranquillità, saggiando in modo più riflessivo le bellezze della campagna.
Qui, in una delle prime ville costruite accanto al santuario della Madonna delle Grazie, viveva La Vedova. Era quel tipo di donna che dopo aver passato la settantina, inizia a diventare scorbutica ed egoista verso il prossimo, forse perché stanca della vita e speranzosa che il Buon Gesù, vedendola comportarsi in quella maniera, si decidesse di richiamarla a sé, proprio come quei bimbi in cerca di attenzioni.
Si chiamava Marinelli Valaria.
Esatto, Valaria e non Valeria.
Certo, chiunque si chiederebbe da dove provenisse questo nome e a spiegarlo sarebbe dovuto essere la buonanima di Umberto Olivieri, impiegato all’anagrafe di Murgella dal 1920, che in una fredda mattina di gennaio, si vide entrare un uomo basso, tarchiato e tutto sporco che gli disse con voce cavernosa: «Sono il padre di mia figlia.»
Accennando un leggero movimento con le spalle, il signor Umberto esclamò: «Embé?»
«Mia moglie mi ha detto che voi la dovete segnare.»
«A chi?»
«A mia figlia!»
E siccome Umberto aveva già capito che stava avendo a che fare con un ignorante ottuso, diventò scontroso tutto d’un botto. Afferrò il pennino dal calamaio ed estraendo un foglio bianco dallo scrittoio disse velocemente: «Nome e cognome e data di nascita.»
L’uomo esitò fissandolo sottocchio. Non ricevendo alcuna risposta, l’impiegato alzò lo sguardo rugoso e incrociò le mani picchiettando l’indice sul dorso.
«Di chi?» chiese allora l’uomo.
«Di tua figlia!»
«Ah! E di’ tutto! Valeria Marinelli, sedici settembre dell’anno scorso»
Il pennino scivolò dalle mani dell’impiegato che sussultò sulla sedia e spalancò la bocca incredulo «E mo’ vieni?»
Dopo quella domanda ci fu un battibecco che non finiva più e non solo per il fatto che il signor Marinelli si era presentato quattro mesi dopo la nascita della bambina, a causa del lavoro nei campi che gli occupava tutta la giornata, ma anche perché Umberto dovette fargli capire che per legge avrebbe dovuto segnarla quel giorno di gennaio.
Alla fine, esasperato, si era deciso ad agire come un detto antico diceva: ai fessi si dice sempre di sì.
Ma cos’ha a che fare questo con il nome storpiato?
Semplicemente perché Umberto, nel registrare i dati della bambina, sospirò un lungo AH! E fu proprio quella vocale a fargli sbagliare il nome.
Ora, non sto a raccontare cosa dovette sorbirsi il vecchio impiegato dell’anagrafe quando se ne accorse e dovette spiegare tutto alla famiglia.
Comunque, Valeria o Valaria non hanno importanza, anche perché tutti a Murgella e Calenda la conoscevano come La Vedova. Tale nomignolo, come si può immaginare, era dovuto al fatto che nella sua giovinezza aveva avuto ben quattro mariti, tutti morti chi per un motivo, chi per un altro, e tutti e quattro le avevano lasciato un’abbondante eredità, ma nessuno di loro le aveva dato un figlio.
Così La Vedova aveva trascorso il resto della sua vita in solitudine, imbruttendo il suo carattere. Di lei si prendeva cura una lontana cugina che si era avvicinata col solo scopo di accaparrarsi l’eredità, fino a quando non accadde che, uscendo dalla Chiesa, una domenica, Valeria scivolò e si fratturò una gamba. D’allora, la lontana cugina si capacitò che non avrebbe potuto più starle dietro, giacché anche lei avanzava negli anni. Così, convinse la sventurata ad assumere una badante. Ma col carattere che si trovava, La Vedova fece scappare via persino le extracomunitarie, fino a che, un giorno, non le fecero conoscere Arianna Ferrara.
Aria andava a farle compagnia tre giorni a settimana, prevalentemente di pomeriggio. Fosse perché aveva saputo che apparteneva a Vincenzo Gargano, del quale nutriva un forte rispetto, o perché era stata colpita dalla sua buona volontà, fatto sta che la vecchia l’accettò senza dire nulla, nel senso che quando si incontravano non proferivano parola.
E allora come faceva Aria a prestarle servizio? Semplicemente taceva e le faceva compagnia. Perché era quello che cercava donna Valeria. Il silenzio.
In poche parole: la pagava solo per avere una presenza umana in casa, del resto, se non per cose importanti, se ne stavano zitte entrambe.
«Il silenzio è una specie di attesa», le disse una volta mentre se ne stava seduta accanto al caminetto a sferragliare uno scialle di lana. Fu uno dei pochissimi giorni in cui si permetteva il lusso di far aleggiare dei suoni in quella grande casa.
«Sai perché?»
Aria scosse il capo, indecisa se proferir parola o meno.
«Perché dopo aver sentito chiasso per tutta la tua vita, solo alla fine capisci che per ricevere la risposta che cerchi, bisogna starsene ad aspettare in silenzio.»
E non aveva tutti i torti, perché col passare dei mesi a suo servizio, nel silenzio, Aria aveva imparato a conoscerla, semplicemente osservando i suoi movimenti e abitudini e così viceversa.
Il giorno dopo il matrimonio tra Carmine e Marella, Arianna si era presentata alla villa che era l’alba. Sembrava aver passato la notte in bianco e a piangere, che gli occhi erano gonfi e rossi. Quando la vecchia era andata ad aprirle, non le aveva posto alcuna domanda, l’aveva fatta entrare e aveva ignorato le sue spiegazioni. Non l’era sembrato strano vederla arrivare a quell’ora, poiché faceva le ore piccole.
La giovane, dal canto suo, essendo di casa, entrò nella stanza degli ospiti e si sdraiò sul letto premendo il viso sul cuscino e dando sfogo al suo dolore.
Verso mezzogiorno, raggiunse la padrona di casa nella sala da pranzo, dove la trovò alle prese con la potatura di una pianta. Quest’ultima le lanciò un’occhiata di sfuggita per poi ritornare alle sue occupazioni, allora la giovane prese quanta più aria possibile nei polmoni per parlare, ma quella la interruppe dicendo: «Puoi rimanere quanto vuoi, sai che non mi dai fastidio.»
«Grazie» rispose Aria con voce flebile, poi il silenzio ritornò sovrano.  
Era un sollievo per lei avere quella donna nella sua vita come ulteriore rifugio. Non aveva intenzione di ritornare in quella casa, non dopo tutto quello che era accaduto. Per tutta la notte si era domandata perché Carmine l’avesse tradita in quel modo. Era ritornata alla cascatella, speranzosa che il giovane l’avesse raggiunta, ma solo quando vide comparire le prime luci del sole nel cielo si era capacitata che non ci sarebbero mai più stati quegli incontri. Carmine non era più il suo. E poi, ciò che aveva tentato di farle Diomede non era qualcosa da meno. Sentiva che da quel momento in poi avrebbe corso un pericolo stando in quella casa. Malgrado tutto, la notte porta consiglio e si era detta che l’unica cosa da fare sarebbe stata allontanarsi per un po’. Aveva chiamato suo padre dicendogli che La Vedova aveva bisogno di compagnia anche durante la notte e che sarebbe tornata a casa solo per occuparsi delle scuderie.
Alberto non aveva detto nulla, non le aveva chiesto perché non era scappata con Carmine, come avevano programmato, nemmeno come stesse dopo aver visto l’amore della sua vita sposare un’altra. Solo verso pomeriggio chiamò sul telefono dell’anziana avvisando sua figlia che gli sposi stavano partendo per il viaggio di nozze.
Aria si sentì morire per la seconda volta.
 
***
 
Il sole era ancora alto nel cielo e il caldo soffocante. Le fronde erano immobili sembravano uno scatto di fotografia. In una stretta strada di campagna, si susseguivano in fila indiana dei castagni le cui ombre dividevano la via come tasti di pianoforte. Proprio lì, accompagnato da una musica con le cuffie alle orecchie, Stefano faceva una corsetta. Aveva indossato un completo sportivo: maglia larga sbracciata e pantaloncini.
Di solito non faceva jogging di pomeriggio, ma quel giorno aveva deciso di fare un’eccezione, l’aveva deciso perché non aveva alcuna intenzione di assistere alla partenza di suo fratello. Già dal giorno prima, dopo quello che era accaduto con Aria nelle scuderie, si era allontanato dal casale con la sua moto, perdendosi finanche la cerimonia di matrimonio. Nonostante si sentisse confuso per il bacio che lei gli aveva dato e che lui aveva volontariamente accettato, aveva creduto fino all’ultimo che Carmine e la sua amata sarebbero riusciti a scappare insieme e invece, quando quella mattina scoprì l’accaduto, rimase all’inizio sconcertato, ma non poté negare quel velo di sollievo che gli aveva coperto il cuore. Aveva accettato quel bacio perché l’aveva voluto. Certo, ad essere sincero, l’aveva seguita nelle scuderie perché avrebbe voluto parlarle di quello che stava cercando nella camera del nonno e magari scoprire il nesso che la legava alla lettera ricevuta.
Mai, il giovane, avrebbe potuto immaginarsi quello che sarebbe potuto accadere.
Era convinto che Aria lo avesse scambiato per Carmine, in fin dei conti avevano la stessa fisionomia. Si era sentito travolgere dalla passione e anche dopo, quando le loro labbra si erano divise, avrebbe voluto tenerla stretta tra le sue braccia; sentire tra le mani quelle forme morbide, sinuose.
Si fermò piegandosi in avanti, appoggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato e scosse energicamente la testa come a voler cancellare quell’immagine indelebile dalla mente.
Doveva dimenticare quel che era successo perché, anche se ormai suo fratello si era sposato con Marella, lui si sentiva di averlo tradito.
Si drizzò passandosi una mano tra la folta chioma dorata e poi l’avambraccio sulla fronte per detergersi il sudore, e dopo essersi riempito i polmoni di aria, riprese la sua corsa, ma dovette subito arrestarsi, poiché, in fondo al viale, veniva qualcuno ed era proprio Arianna.
Camminava lenta, mogia, col capo chino a guardarsi i passi che compiva.
Lì per lì Stefano non seppe cosa fare, ma poi decise di prendere la palla al balzo e si diresse verso di lei. Le fu a due passi che lei nemmeno se ne accorse e lo sorpassò. A quel punto il fotografo l’afferrò per un polso e la fermò.
Aria trasalì, alzò di scatto il capo e si volse a guardarlo. Rimase immobilizzata per qualche istante, il tempo di ricordarsi della sera prima, si sentì pervasa da quella sensazione che l’aveva avvolta precedentemente e, se fino a quell’istante non aleggiava nemmeno un soffio di vento, fu investita da una folata che le regalò quel profumo ormai familiare e travolgente. La ragazza si sentì venir meno, ma si riprese e tirò via la mano in modo brusco.
Stefano rimase sconcertato da quella reazione e chiuse la mano a pugno ritirandola e infilandosela nelle tasche dei pantaloncini.
Continuarono a guardarsi per qualche istante, poi Aria si volse accennando qualche passo per andarsene, confusa da quel vortice di sensazioni.
«Aspetta!» la fermò il fotografo, lei non si volse. «Ho bisogno di parlarti.» aggiunse cercando di mostrarsi indifferente, per farle intendere che, anche se non era vero, era lungi dal pensare alla sera prima.
«Non ne vedo la ragione» rispose lei balbettando, poi sentendolo avvicinarsi, si volse di scatto e lo intimò a fermarsi. «Non voglio!»
Stefano strabuzzò gli occhi nel vedere che i suoi erano atterriti e pieni di lacrime.
«Non voglio avere più niente a che fare con voi Gargano!» ripeté Aria per poi scappare via.
Il giovane fotografo non la seguì, rimase lì a guardarla mentre si allontanava.
Non ne era sicuro, ma intuì che quella reazione non era dovuta a ciò che era accaduto nelle scuderie.
 
***
 
Quando Alberto incrociò sua figlia sul vialetto che portava alle scuderie, era appena uscito dallo studio di suo cugino Diomede e, a giudicare dall’ombra che gli era calata sul viso, non avevano avuto una bella conversazione. Si era parlato dei cavalli e Diomede sembrava propenso a voler mandare in fumo gli anni di duro lavoro dell’intera famiglia Ferrara, in collaborazione con Carmine.
Da tempo, era risaputo che la vendita dei cavalli non andava e le escursioni e i corsi di equitazione, secondo Gargano, non bastavano come entrate. Ma agli occhi di Alberto pareva che suo cugino avesse aspettato il momento opportuno per togliersi di mezzo Carmine e sfruttare in tutto e per tutto l’obbligo testamentario.
L’uomo non era interessato all’eredità, ma in quel momento concluse che sua madre aveva fatto il più grande errore della sua vita ad aver rinunciato alla sua parte, e ad aver accettato che potessero vivere e lavorare come sempre, infatti, quella decisione stava portando l’intera famiglia Ferrara alla rovina. Se fosse vero che Diomede aveva intenzione di abbattere le scuderie, allora sarebbe stata la fine.
Vedendolo in quello stato, Aria dimenticò l’incontro con Stefano e si avvicinò a lui, preoccupata.
«Papà, che cosa ti è successo?» gli chiese.
Alberto sembrò ritornare alla realtà come se strattonato e, vedendo il volto afflitto di sua figlia, cambiò repentinamente espressione.
«Aria, sei tornata?» ribatté intento a voler deviare il discorso. Le posò le mani sulle spalle per poi accarezzarle il viso. «Come stai? Cos’è successo, perché non siete scappati insieme?». In verità, l’uomo non avrebbe voluto chiederle di Carmine, ma non aveva trovato altro modo per sviare la sua domanda.
Aria abbassò lo sguardo e sentì il cuore lacerarsi, abbracciò suo padre il quale non perse tempo a ricambiare il gesto. La strinse forte a sé e le accarezzò i lunghi capelli e a quel tocco la giovane iniziò a piangere. Rimasero così per qualche istante, ma non disse nulla, non diede alcuna risposta alla domanda postale, poi l’accompagnò nelle scuderie dicendole che sarebbe dovuto ritornare nei campi, che l’imballaggio del fieno portava tempo, data la partenza di Carmine e una mano in meno. Infine, dopo essersi convinto che la figlia stesse bene, la lasciò al suo lavoro.
Aria lo congedò sfoggiando un sorriso malinconico, aggiungendo che non doveva preoccuparsi perché, anche se era difficile negarlo, sentiva di poter riuscire a stare bene.
Ma non era vero.
Come poteva ritornare alla vita di sempre se Carmine non era più al suo fianco? Cosa le rimaneva se non gli amabili ricordi di loro due insieme, spensierati, innamorati e con il desiderio di condividere la loro vita? Ricordi dei quali, Aria sapeva bene che il tempo avrebbe cancellato.
Quando aprì il portone della scuderia e varcò l’entrata, il silenzio assordante e l’immagine del corridoio la ribaltò repentinamente al ricordo della sera prima.
Dimenticò subito l’amato e al suo posto si plasmò Stefano, insieme al suo tocco, alle sue labbra, al suo profumo, a quella stretta che l’aveva fatta sentire protetta e travolta da una passione che dovette ammettere di non aver mai provato con Carmine.
Scosse la testa energicamente volendo allontanarsi da quei pensieri, ripetendosi che era sbagliato e che, come aveva ben detto, non doveva avere più niente a che fare con la famiglia Gargano.
Si sarebbe dedicata al suo lavoro e la permanenza in casa de La Vedova l’avrebbe aiutata a stare lontana da tutto.
Ma se quelle erano le convinzioni che si era predisposta, sfortuna volle che non avesse fatto i conti con i guai che stavano lentamente insinuandosi nella famiglia di suo padre, per colpa dell’uomo che dalla sera precedente aveva rivelato la sua pericolosità.
A un tratto fu attratta da un chiacchiericcio che, man mano si faceva più vicino, diventò comprensibile. Aria si affacciò dal box di Tempesta e vide i due gemelli gesticolare nervosamente verso il loro padre, che si passava una mano sulla fronte, agitato.
Stette ad osservarli e ascoltarli senza dire nulla. Cercò di capire che cosa si stessero dicendo.
«Ma papà, che ne sarà della nostra famiglia?» chiedeva Enea.
«Per favore non vi mettete anche voi. Questa giornata non è iniziata proprio bene!» rispose Cristoforo.
«Io lo sapevo che dopo la partenza di Carmine, sarebbe andato tutto a puttane!» esclamò Paride calciando il secchio dell’acqua.
Suo padre lo rimproverò per la parolaccia, ma non disse altro e, dopo varie imprecazioni, uscì dalla scuderia lasciando soli i due gemelli.
A quel punto Aria decise di uscire allo scoperto e raggiungerli chiedendo loro che cosa fosse accaduto.
Quando la videro, il primo a prendere la parola fu Paride il quale le corse quasi in contro come se davanti avesse una luce di speranza.
«Aria! Hai saputo la notizia?»
La ragazza non rispose, scosse solo il capo.
«Diomede vuole abbattere la scuderia per farci un agriturismo!»
«Che cosa?!», la reazione della giovane fu più esagerata di quanto lei stessa si potesse aspettare. Che cosa significavano quelle parole? Perché quella notizia così a brucia pelo? Ma soprattutto, perché Diomede se n’era uscito con questa trovata?
«E… e i cavalli, il nostro lavoro?» balbettò guardandosi intorno smarrita.
«È la stessa cosa che gli hanno detto nostro padre e zio Alberto. Ma lui non vuole sentire ragione!» rispose Enea.
Arianna lo guardò atterrita. Era dovuto a questa notizia lo stato d’animo di suo padre. Era evidente che quell’uomo voleva rovinare la famiglia Ferrara, ma perché?
Mentre i gemelli continuavano a maledirlo, lei iniziò a pensare e i pensieri la portarono ad un’unica soluzione. Certo, non era delle migliori e non l’avrebbe tenuta lontano dall’uomo che aveva voluto abusare di lei, ma il pensiero di dover dire addio a tutto quello, di dover vedere il sangue dei Ferrara, il suo, gettato come immondizia, di dover separarsi da Tempesta, la fece reagire d’impulso: senza aggiungere altro, uscì dalla scuderia, ignorando i richiami dei gemelli e con passo spedito si recò nella tenuta dei Gargano.
Sapeva che a quell’ora Diomede se ne stava nel suo studio, come sempre, da quando era morto il nonno, a crogiolarsi sulla sua bella poltrona di pelle, comandando gli altri a comodo suo e a sciorinare quel potere che gli era giunto come un vero colpo di fortuna.
Quando si trovò davanti alla porta chiusa, esitò. Per un attimo ebbe il buon senso di voltarsi indietro e magari ritornare più tardi accompagnata da suo padre, ma l’istinto prevalse sulla ragione e, stringendo i pugni, bussò decisa.
L’attesa non fu lunga e dopo qualche secondo, la voce dell’uomo si udì in sottofondo, ordinando al visitatore di entrare.
Aria non se lo fece ripetere due volte e spalancò la porta. Varcò la soglia ma non chiuse né tantomeno si inoltrò nella stanza.
Diomede, come l’aveva ben immaginato la ragazza, se ne stava dietro alla sua scrivania con una cartella da registro tra le mani. Quando alzò il capo verso di lei rimase meravigliato nel vederla, poi mutò atteggiamento e riabbassò lo sguardo sui documenti.
«Che significa?» chiese allora Aria senza tergiversare.
«Che significa, cosa?» replicò lui reggendo lo sguardo sulle carte.
«La scuderia è il nostro lavoro! Non puoi togliercela in questo modo, non dopo che anche tu ne hai ricevuto compenso!»
Diomede si decise finalmente a guardarla e non per le parole che aveva dette, per dirla tutta le aveva ignorate, ma per il modo in cui quella ragazza si stava comportando. Aveva alzato la voce, sicura di se stessa, sembrava proprio che della paura della sera precedente non rimaneva nemmeno il ricordo, e da ciò che ricordava l’uomo, quella stupida orfana aveva sempre avuto paura di lui.
La situazione lo eccitò.
Allungò le labbra in un ghigno sghembo, lasciò la cartella sul piano della scrivania e, fatto il giro, andò a posizionarsi davanti a lei, incrociando le braccia al petto e accavallando una gamba sull’altra.
«Di’ la verità – esordì fissandola dalla testa ai piedi – che cosa sei venuta a fare qui?»
Aria si sentì presa in giro, ma cercò di non farlo intendere e ribatté sul fatto della scuderia, ma Diomede la interruppe e con voce sprezzante disse: «Mi credi così coglione da poter parlare di affari con te che non vali nemmeno lo sterco dei vostri stupidi equini? Sei solo una bastarda che ha trovato pietà agli occhi di un vecchio rincoglionito, come puoi pretendere di parlare con me di questo?»
Aria strinse ancora una volta i pugni sentendosi le nocche lacerarle la pelle. Gli angoli delle labbra tremavano e sentì il pianto solcargli la gola. Non disse nulla, ma piena di coraggio, continuò a fissarlo con ribrezzo, poi però decise di reagire, ormai, si disse, era arrivato quel tanto atteso momento del faccia a faccia con quell’uomo anche se non si aspettava che potesse essere così, tanto valeva continuare la discussione e, presa tutta l’aria possibile nei polmoni, esclamò: «Non ti basta aver rovinato la vita di tuo figlio? Me lo hai portato via e l’ho permesso perché, come hai ben detto, non valgo nulla. Ma giuro sul nonno che non ti permetterò di rovinare anche Alberto!» detto questo, si volse per andarsene, ma Diomede fu più veloce di lei, la tirò indietro chiudendo la porta e scaraventandola verso la scrivania.
Arianna gettò all’aria un urlo di sorpresa, appaiato dal dolore che l’angolo del tavolo le aveva arrecato ai glutei, poi alzò lo sguardo verso la figura di quell’uomo che si faceva imperiosa man mano che le si avvicinava e iniziò ad avere paura.
Con una mano, l’uomo l’afferrò per le guance e le alzò la testa puntandole gli occhi di ghiaccio che la giovane sentì come lame trafiggerle il cuore. Gli afferrò il polso e tentò di spingerlo con l’altra mano, ma senza riuscire a spostarlo. Voleva perfino gridare, sapeva benissimo che non l’avrebbe ascoltata nessuno e pur volendo non ci sarebbe riuscita, poiché la stretta le impediva ogni minimo movimento.
«Ascoltami bene, piccola sgualdrina – le sfiatò a pochi centimetri dalle labbra – non parlarmi mai più in questo modo e non azzardarti a nominare mio padre. L’unica cosa per la quale sarai buona, se lo vorrai, sarà accontentarmi come hai fatto per tutto questo tempo con mio figlio. Visto che vuoi tanto la salvezza della scuderia. Altrimenti…»
La ragazza aveva inteso bene il significato di quelle parole e anche le sue intenzioni. Catturata da un conato di vomito anche nel sentire quel fiato viscido che dava di fumo, trovò la forza di spingerlo via e quando l’uomo le liberò la bocca, lei non perse tempo a sputargli in un occhio, ma di conseguenza, Diomede le piantò un schiaffo facendola girare verso la scrivania.
Il dolore, oltre ad essere allucinante, le provocò un forte bruciore sullo zigomo, segno che l’aveva colpita forse con un anello e che sicuramente stava sanguinando.
Nonostante questo, lo sentì ancora dietro di sé e fu convinta che non si sarebbe fermato ma che soprattutto gli aveva dato possibilità di sottometterla.
Allora, come una preda che tenta disperatamente di salvarsi, cercò alla rinfusa qualcosa sulla scrivania, per difendersi e la trovò. Non appena si sentì afferrare violentemente per i fianchi, Aria afferrò un taglia carte d’argento, si volse di scatto verso l’aggressore e glielo puntò dritto alla gola.
Diomede si bloccò fissando l’arma, atterrito, poi puntò gli occhi della giovane e malgrado la paura che riflettevano, si accorse che tralasciavano un bagliore d’ira.
Che fosse l’istinto di proteggersi, o la rabbia che quell’uomo le faceva provare, Aria si sentì diversa, sicura di quello che faceva.
«Se t’azzardi a toccarmi un’altra volta – minacciò tra gli ansimi e i tremolii – te lo pianto in gola!»
Quella minaccia non fece vacillare l’uomo, nonostante questo, la lasciò, alzò le mani in segno di resa e sbuffò un sorriso sghembo, strafottente.
Non proferirono altre parole, nell’aria aleggiava solo il respiro affannoso della ragazza la quale dopo aver tentato di scorgere qualche significato nello sguardo maligno di quell’uomo, uscì velocemente dallo studio e in tal modo percorse il lungo corridoio con gli occhi puntati sul pavimento di marmo.
Aveva paura. Sentiva quel sentimento braccarla, credeva che l’artefice la stesse seguendo e a quel punto allungò il passò fino a scontrarsi con qualcuno.
Rischiò di rovinare a terra, ma forti mani la sorressero. Aria, trasalì alzando finalmente lo sguardo e strabuzzando gli occhi non appena questi incrociarono quelli di Stefano che la guardava allibito, spostando lo sguardo verso l’evidente taglio sullo zigomo.
La ragazza soffocò un grido, deglutendo quell’ansia che aveva lasciato il posto al sollievo.
Fissò a lungo quel giovane uomo e fu tentata dal volerlo stringere forte a sé, poiché la sensazione di aver trovato in lui un posto sicuro si era fatta strada nei meandri della sua mente.
Desistette, non appena si accorse che il giovane le stava osservando la parte precedentemente colpita da suo padre e, quando sentì un lieve tocco sulla sua pelle, indietreggiò e allontanò il suo gesto in maniera brusca, così le cadde il tagliacarte che si era, involontariamente, portata appresso.
Stefano rimase allibito, ma non si mosse, Aria, invece, lo sorpassò per andarsene.
Quando Stefano si accorse della presenza di suo padre, in lontananza, che li guardava, si volse verso di lei per fermarla, ma fu troppo lontana. Accennò qualche passo in avanti e si fermò sentendo qualcosa sotto al suo piede. Guardò il pavimento e si accorse del tagliacarte.
Mille pensieri gli invasero la mente, uno tra questi che fosse accaduto qualcosa tra la ragazza e suo padre. Raccolse l’oggetto, poi volse lo sguardo verso Diomede, che mantenendo un sigaro spento, gli sorrise maligno e scomparve dietro la porta del suo ufficio che si chiuse con un tonfo.
Non sapeva ancora cosa fosse accaduto, ma Stefano si convinse che il disprezzo provato per tanto tempo verso quell’uomo si stava repentinamente tramutando in odio.
 
 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

Mina si tinse le labbra con un rossetto dal colore rosso fuoco.
Si guardò allo specchio mandando un bacio verso la sua figura riflessa. Si vide bella, a parer suo perfetta e perché non farlo vedere agli altri, ai suoi compagni di scuola? Sicuramente Federico Olivieri, il tipico bulletto bello e dannato, l’avrebbe ricoperta di complimenti.
Sorrise al pensiero, ma non era da lui che voleva essere elogiata. L’oggetto dei suoi pensieri era un altro, molto più bello di quella massa di immaturi che frequentavano il liceo. Ed era stato esclusivamente per lui che si era agghindata in quella maniera.
Aveva indossato un abitino che dava molta libertà all’immaginazione, poi aveva raccolto anche i capelli in una coda alta. Si era abbellita solo per tentare di far colpo su Stefano.
Dopo la partenza di sua sorella con Carmine, a cui il fotografo non aveva degnato nessuno della sua presenza, Mina l’aveva visto uscire dal cancello con una tenuta da jogging e allontanarsi indifferente. A quel punto, si era immaginata cosa sarebbe potuto succedere tra di loro se, al suo ritorno, gli si fosse presentata in tutto il suo splendore. Per questo era corsa in bagno, per prepararsi.
Ogni tanto dava un’occhiata fuori dalla finestra per vedere se il giovane ritornasse, ma quando lo vide comparire davanti al cancello, si stava ancora truccando, così principiò ad accelerare i preparativi.
Cambiò piano; decise che sarebbe andata da lui, entrando direttamente in casa sua.
Purtroppo, quando fu pronta e si incamminò verso la tenuta dei Gargano, non avrebbe mai potuto pensare che nulla di quello che si era pianificata potesse avere seguito, infatti, non appena svoltò l’angolo, dovette fermare i suoi passi in seguito all’uscita fulminea di Arianna.
La vide correre verso il cancello, sembrava avere il diavolo alle calcagna e non volle sbagliarsi, ma era convinta che stesse anche piangendo.
La cosa, però, che la fece imbestialire non fu il vederla uscire dalla casa dei parenti, bensì la comparsa di Stefano che la raggiunse poco dopo, afferrandola per un braccio e voltandola verso di sé.
Mina, prontamente, si nascose dietro al muro, ma li spiò cercando di sentire cosa si stavano dicendo.
Fortuna volle che le loro voci furono udibili.
«Cos’è successo?» le chiese Stefano, tenendola per le spalle, mentre lei si dimenava.
«Lasciami andare! – gli urlò – ti ho detto che non voglio avere più nulla a che fare con voi!»
«Cos’è successo? – replicò il fotografo – è stato mio padre?»
Quell’ultima domanda, Mina non la comprese, vide solo che la ragazza riuscì a liberarsi dalla presa, tirò uno schiaffo al giovane, urlandogli contro di non azzardarsi mai più a toccarla, e poi se ne andò.
Si sentì la rabbia fiottargli nel cervello. Come si era permessa quella bastarda di alzare le mani verso quel giovane? Si chiese, ma soprattutto: che cosa ci faceva in quella casa e con lui?
L’istinto le consigliò di raggiungere Stefano, il quale se ne stava fermo lì a guardarla mentre si allontanava, e chiedergli spiegazioni, ma non appena accennò un passo, il fotografo si incamminò prendendo la stessa direzione di Arianna.
Mina era furiosa.
Strinse i pugni, affondando i denti sul labbro inferiore e, pestato un piede sul ciottolato, ritornò a casa sua.
Entrò furibonda nel boudoir di sua madre che se ne stava seduta sulla poltrona a sfogliare un giornale di moda, e si sdraiò sul triclinio, incrociando le braccia al petto e imprecando verso Arianna.
Rita, che l’aveva vista entrare, ma aveva subito rivolto lo sguardo verso il giornale, le chiese che cos’avesse senza però darle troppa importanza, conosceva a memoria i capricci di sua figlia e, di sentirla lamentarsi ogni santa volta di tutto ciò che la circondava o riguardava, non ne aveva voglia.
«Quella maledetta bastarda!» sbraitò a quel punto la ragazzina, per non farsi scappare l’occasione.
«Che cosa ti ha fatto, questa volta?» ribatté la madre dopo aver sospirato e dopo aver compreso con chi ce l’avesse.
«Entra ed esce dalla casa di tuo cugino come se fosse la padrona!»
A quelle parole, la pagina che Rita stava girando, scricchiolò tra le sue dita. La donna si alzò di scatto, in seguito al ricordo della sera precedente, lasciando che il giornale cadesse sul pavimento e, lanciando un sguardo truce verso la figlia, la intimò a ripetere ciò che aveva detto.
Lì per lì, Mina fu spaventata dall’improvviso atteggiamento di sua madre e le parole le morirono in gola, ma sapendo di non poter contraddire la donna, l’accontentò e ribadì ciò che aveva detto pocanzi.
Rita non le permise di finire la frase che, digrignando i denti e maledicendo la figliastra di suo fratello, uscì dal boudoir sbattendo la porta e lasciando sua figlia impietrita e confusa alla quale, malgrado tutto, bastarono una manciata di secondi per metabolizzare la situazione, così si alzò e seguì sua madre.
 
***
 
Quando Rita fece irruzione nello studio di suo cugino, quest’ultimo era davanti al lungo specchio a fissarsi la parte del collo che precedentemente Arianna gli aveva puntato col tagliacarte, minacciando insicura di affondarglielo nella carne, e ora se ne poteva scorgere un piccolo segno rosso.
L’uomo, ancora immerso nei suoi infimi e maliziosi pensieri rivolti alla ragazza, non fece nemmeno caso alla donna che continuava a urlargli alle spalle, fino a quando non la vide riflessa nello specchio, la quale tentava di avvicinarsi per farlo voltare.
Non le diede modo di toccarlo, che si volse di scatto, guardandola con freddezza.
«Che cosa non ti fu chiaro di quello che ti dissi ieri sera?!» urlò, forse ripetendo quello che Diomede non aveva ascoltato. Di fatti, egli, volgendo le sue sfere di ghiaccio verso la scrivania, sorpassò sua cugina con noncuranza.
A quell’atteggiamento, la donna ebbe la sua isterica reazione: riuscì appena ad afferrargli un lembo della manica della camicia, e le unghie ben curate gliela strapparono nel movimento, ma non per questo provò dispiacere e nemmeno l’occhiata truce che le scoccò il cugino riuscì a scalfirla. Continuava a fissarlo come a voler pretendere da lui il maggior rispetto perché, come aveva detto la sera precedente, lo teneva in pugno, almeno lei ne era convinta, ma non aveva calcolato la quantità di furbizia che riempiva la mente di Diomede Gargano, il quale, nonostante stesse perdendo la pazienza e vedesse ormai sua cugina come un gingillo inutile da scartare, sapeva che accontentandola sessualmente, sarebbe riuscito a tenerla a bada, così, invece di incavolarsi per quell’atteggiamento, tramutò espressione sorridendole con sensualità.
«Che ti prende?» le chiese poi, atteggiandosi a scettico.
«Non prendermi per il culo, Diomede! – rispose quella incrociando le braccia al petto – te lo dissi anche ieri. Che cazzo ci faceva quella puttana, qua dentro?»
«Chi?»
«Ti ho detto che non mi devi prendere per il culo! – ora, la voce della donna era incrinata e un angolo delle labbra tremava in un fastidioso tic – rispondimi!»
L’uomo, inscenando un atteggiamento calmo e comprensivo, le si avvicinò per poi accarezzarle la guancia e tranquillizzarla dicendo: «Ho un piano per il nostro futuro. Non farmi altre domande, ma soprattutto non essere gelosa.»
Rita conosceva benissimo il carattere di Diomede e sapeva che a ogni altra domanda che avesse posto, lui non avrebbe risposto, così, mordendosi il labbro inferiore, volle anch’ella inscenare qualcosa solo per il gusto di vedersi coccolata, così si rese ancora più gelosa e scansò bruscamente il gesto dell’uomo e si allontanò.
Quella carezza le aveva destato voglie peccaminose e tirarsela un po’ prima di arrivare al dunque la eccitava.
«Quella puttana! – urlò da brava attrice – vuole rovinarmi la vita! Ecco cosa vuole! E tu l’acconsenti!» e blaterando le scappò anche qualche lacrima, al ché, Diomede accettò il copione, le si riavvicinò abbracciandola, le sue mani scesero fino ai glutei e glieli strinsero strappandole un gridolino di sorpresa, poi la voltò di spalle insinuandole una mano nella gonna per raggiungere il monte di Venere e prima di concederle la sua virilità, la vide che ghignava soddisfatta riflessa nello specchio.
 
***
 
Non era del tutto convinta di aver compreso la discussione tra sua madre e Diomede. Nonostante questo, aveva sentito alla perfezione le parole di lei.
“Quella puttana! Vuole rovinarmi la vita!”
Certo, l’udito non l’aveva ingannata, e sapeva che quelle parole erano rivolte ad Arianna. Anche se non era sicura di aver capito il perché sua madre si fosse agitata in quel modo, la sola ragione per la quale quell’orfana metteva in subbuglio la vita dei parenti, a Mina bastava e avanzava per tentare con tutte le sue forze di fargliela pagare.
Che sua madre si fosse infuriata per lo stesso suo motivo, o per un altro accese, nella mente della ragazzina, la voglia di fargliela pagare.
Dopo quella frase e dopo il silenzio che ne seguì, Mina, per non farsi scoprire, si allontanò dalla porta dello studio e uscì dalla tenuta dei Gargano con passi che parevano voler crepare il pavimento. Nemmeno i forti raggi del sole la scalfirono quando si ritrovò in giardino. Sembrava avvolta da un’unica lingua di fuoco, talmente fiottava rabbia.
Si fermò per qualche istante a guardarsi intorno e, per sua sfortuna, non si accorse che dal cancello giungeva Stefano con passo lento. Quest’ultimo aveva le mani infilate nelle tasche e gli occhi puntati sul sentiero di ciottolato.
Aveva inseguito Aria, era riuscito a fermarla per farsi dire la verità, perché voleva la certezza dei suoi dubbi e cioè che suo padre le aveva messo le mani addosso. Ne era sicuro, d’altronde lo conosceva, ma lei non lo aveva aiutato, anzi, si era voltata bruscamente e per l’ennesima volta gli aveva intimato di lasciarla in pace.
Si erano fissati per poco, ma a lui era bastato quel lasso di tempo per leggere nei suoi occhi color nocciola la paura mischiata alla rabbia che le tingevano l’anima, quasi a volerla soffocare sotto forma di lacrime.
Ancora adesso si chiedeva perché non l’aveva fatto? Perché, malgrado avesse sentito il bisogno di abbracciarla e consolarla, non l’aveva fatto.
Ma poi, quando ormai lei era lontana, si era chiesto che cosa avrebbe realmente fatto se lei gli avesse dato la risposta che voleva?
Di certo avrebbe affrontato Diomede. Sì, ma poi?
Quei pensieri gli affollarono la mente con presunzione, tant’è che si sentì abbattuto e impotente. Si fermò alzando la testa al cielo sbuffando seccato, poi quando ritornò a guardare d’avanti a sé si accorse della figlia minore di Rita. All’iniziò la ignorò, ma vederla camminare come un soldato armato, lo incuriosì. La seguì con lo sguardo, fino a quando la vide sparire dietro l’angolo.
Non negò l’interesse di sapere dove fosse diretta vestita in quel modo, come dire… eccentrico, troppo esagerato per una ragazzina della sua età. Ma comunque non erano affari che lo riguardavano, così decise di ritornarsene in camera sua e distrarsi con la Reflex.
Da quando si era messo in viaggio da Firenze aveva pensato di fotografare il territorio millenario e raro dell’Alta Murgia, poiché alla sua ripartenza avrebbe voluto portare con sé il fascino della sua terra natia, plasmata di lunghi muri a secco, jazzi, neviere, chiese rupestri e necropoli. Anche se si era allontanato dal suo paese, anche se aveva preso una strada diversa da quella che la famiglia Gargano aveva tracciato per lui da quando era ancora in fasce, Stefano amava quella terra, ed era riuscito a nasconderlo agli altri, ma non a se stesso che aveva anelato il ritorno solo per rivederla.
La sua fermata nei ricordi, a un tratto, fu interrotta da un grido appaiato da un nitrito. Ritornato alla realtà scattò in avanti e raggiunse le scuderie, vide in lontananza il lipizzano bianco di Arianna galoppare via, e Mina stesa sul ciottolato che tentava a stento di rimettersi in piedi, ma le scarpe col tacco che indossava glielo impedivano, inoltre sembrava che si fosse slogata una caviglia.
Senza indugiare le si avvicinò per aiutarla, e non c’è bisogno di descrivere la reazione di lei quando lo vide chinarsi per prenderla in braccio. Se fino a quell’istante, si lamentava dai dolori alla gamba, la sola figura del fotografo le fu da antidolorifico. Gli occhi le si spalancarono dalla sorpresa e se solo Stefano avesse avuto un minimo d’interesse per lei, si sarebbe accorto anche che fremeva e il volto sembrava incendiare di passione. Invece, l’unica cosa di cui il ragazzo s’interessò fu sapere che cosa fosse accaduto e perché quella che doveva essere la giumenta di Arianna fosse scappata via.
Mina non ebbe il tempo di rispondere che al suo posto intervenne Enea, il quale le gridò contro maledicendola per ciò che aveva fatto!
A quel punto, il fotografo la lasciò scendere senza curarsi se riusciva a reggersi o aveva ancora bisogno di una mano e subito si rivolse al cugino chiedendogli di calmarsi e ripetere in italiano ciò che aveva detto, poiché fino a quel momento Enea aveva usato il dialetto stretto.
«Questa scellerata ha fatto scappare Tempesta! L’hai fatto apposta!»
«Non è vero! – si difese la ragazza – quello stupido cavallo mi ha spaventata!»
«Ma se ti ho vista mentre la uscivi dal suo box! Sai che Aria non vuole che si tocchi Tempesta!»
«E allora? Che cosa farà? Non è nemmeno padrona dell’aria che respira! Andasse a farsi fottere!»
A Stefano diedero fastidio le parole e l’atteggiamento di quella mocciosa, ma non volle reagire male, così sentendo che Enea continuava a preoccuparsi per la giumenta e per come l’avrebbe presa sua cugina scoprendo l’accaduto, si allontanò da loro, ignorandoli e s’incamminò alla ricerca di Tempesta seguendo le sue orme ben delineate sul terreno.
 
***
 
Si era lavata di nuovo la faccia con l’acqua della cascatella, e di nuovo il liquido cristallino aveva cancellato tracce della sua frustrazione. La ferita sullo zigomo aveva smesso di sanguinare e ormai si era formata la crosticina. Il dolore, però, non l’era ancora passato; non solo quello dello schiaffo ricevuto.
Aria sentiva come se da quella sera, da quando aveva avuto la consapevolezza di aver perduto per sempre l’uomo della sua vita, fosse stata strappata dalla sua reale esistenza per poi essere sbattuta in una che non sentiva sua. Voleva convincersi che quella che stava vivendo non era la sua vita, che forse si era addormentata ed era rimasta intrappolata in quel disgustoso incubo.
L’aver affrontato a testa alta quell’uomo viscido l’aveva resa orgogliosa per qualche istante, soprattutto di aver scoperto che, senza Carmine o suo padre, da sola era capace di far fuoriuscire quel coraggio che pareva non aver mai fatto parte del suo carattere. Ma non poteva negare la paura che continuava a sciorinare potere su di lei ogni volta che si trovava d’avanti Diomede, soprattutto dopo quello che aveva tentato ancora di farle.
E poi c’era Stefano.
Che ruolo aveva quel ragazzo in quel nuovo capitolo della sua vita? In quel capitolo che pareva lontano dal suo contesto.
Che cosa le aveva riservato il futuro? Non voleva porsi altre domande e per aiutarsi, chiuse gli occhi e si stese sul prato, purtroppo il buio non l’aiutò poiché il solo scroscio dell’acqua la riportò al ricordo di quell’amore che ormai pareva un fuoco fatuo.
Trattenne il respiro, si morse il labbro che intanto aveva iniziato a tremolare per il pianto che voleva ancora provare a fare la sua parte. Alla fine, stanca di quei sentimenti, riaprì gli occhi scattando in piedi.
Perché disperarsi così? Carmine non c’era e non ci sarebbe più stato per lei. Era inutile girarsi intorno alla ricerca della sua presenza, anche se si fosse buttata in acqua, lui non l’avrebbe raggiunta. Perché continuare a piangersi addosso?
Si passò il dorso della mano sugli occhi per cacciare le lacrime e, anche se ancora frustrata, prese una decisione: non sarebbe più andata alla cascatella.
Così facendo, avrebbe cancellato l’ultimo ricordo astratto che la legava a Carmine, ma non voleva più soffrire, giacché lui non aveva avuto problemi a lasciarla senza neanche una spiegazione.
Ma se fino a quel momento si stava quasi convincendo di essersi, se non del tutto almeno un po’, ripresa, quando tornò alle scuderie il suo cuore fu messo ancora una volta a dura prova.
Enea le raccontò della fuga improvvisa di Tempesta, però, per non mettere zizzania tra cugine, non le raccontò com’erano realmente andate le cose, si limitò solo a dirle che la giumenta era scappata.
Aria, che ci teneva molto all’animale, si ritrovò a precipitare nel baratro dell’ansia.
Iniziò a camminare avanti e indietro facendo domande alla rinfusa, alle quali il gemello non aveva tempo di rispondere che subito si sentiva chiedere altro, poi la ragazza, senza pensarci due volte, si avvicinò velocemente al box di Phobos e chiese a suo cugino di aiutarla a sellarlo.
Quando Enea tentò di dirle che non doveva preoccuparsi perché Stefano si era prodigato per cercarla, un nitrito e il rumore degli zoccoli invasero la stalla, catturando l’attenzione di entrambi i cugini.
Il lipizzano bianco attraversò il corridoio a testa alta, guidato da Stefano e si andò a fermare proprio davanti a loro.
Aria e il fotografo si fissarono negli occhi per qualche istante, mentre Enea tentava di spezzare quel pesante silenzio ringraziando il Cielo e Stefano, ma la giovane non fu contenta come suo cugino e, allontanatasi dal cancelletto del box, afferrò bruscamente le redini della giumenta e le strattonò per farle mollare dal fotografo, ignorando l’agitazione che iniziò a pervadere Tempesta.
«Scendi immediatamente!» strillò e la voce le tremava, tant’è che suo cugino Enea indietreggiò allibito, guardando ora lei, ora Stefano. Quest’ultimo sembrava impassibile, ma non se lo fece ripetere due volte e scese da cavallo mettendosi di fronte alla ragazza, la quale non esitò a mollargli un sonoro schiaffo sul viso, sorprendendo Enea che si portò una mano sulla sua guancia, forse intuendo il dolore che avrebbe dovuto sentire il giovane.
Stefano rimase col volto piegato a un lato, a guardare il cavallo di suo fratello e non ebbe alcuna reazione. A quel punto, Aria sbroccò: «Ti avevo detto di non avvicinarti mai più alla mia Tempesta! Che intenzioni avevi? Se volevi farti una passeggiata ci sono tanti altri cavalli!»
«Aria aspetta…» cercò di intervenire Enea per spiegarle il malinteso, ma il giovane accusato lo fermò dicendogli che non ce n’era bisogno e senza aggiungere nient’altro, volse i suoi occhi azzurri verso la ragazza e uscì dalle scuderie.
Aria lo vide allontanarsi. Aveva un groppo in gola e la mano che aveva usato per colpirlo le bruciava. Malgrado la sua rabbia si sentì in colpa per quello che aveva fatto, ma non volle sentir ragioni, nemmeno quando suo cugino riprese a parlarle deciso a dirle la verità.
 Rinchiuse Tempesta e uscì senza dire una parola, lasciando Enea amareggiato.
 
***
 
Se Diomede pensava che tenere a bada sua cugina bastasse solo appagarla sessualmente, non aveva fatto i conti con la sua furbizia, e come si sol dire a Murgella quando una persona “cammina con i vermi”, quelli di Rita erano lunghi abbastanza da farle mettere in moto quella mente che a parer di suo cugino era limitata.
Dopo aver avuto quel approccio consolatore, l’uomo si era recato in camera sua per lavarsi e aveva lasciato la donna sola nel suo studio. Al ché, la furba, si era subito data da fare per cercare tra le scartoffie del padrone di casa qualcosa per aggiornarsi sulle sue mosse, l’unica cosa che aveva catturato la sua attenzione era stato il cellulare che l’uomo aveva, forse sbadatamente, lasciato sulla scrivania ed era acceso per avvisare la notifica di una chiamata persa da parte del notaio Dedonno.
Una lampadina le si accese nella mente e, convinta di sfruttarla, uscì dallo studio con un sorriso sghembo stampato sulle labbra.
Quando entrò nel suo boudoir, non poté mettersi all’opera, poiché l’irruzione di sua figlia la distolse dai suoi pensieri.
Da quando Mina era nata, Rita non l’aveva mai vista in quelle condizioni: sporca di sterco, di paglia, con i capelli arruffati, e si chiese come si fosse ridotta in quella maniera soprattutto perché indossava ancora, quegli abiti alquanto succinti. Ma si era capito il suo disinteresse nel modo in cui vestiva sua figlia, ignorò finanche che zoppicava e che sicuramente avrebbe avuto bisogno di una fasciatura, anzi, per la seconda volta in quella giornata diede ascolto alle sue imprecazioni che coi nervi a fior di pelle era entrata scalciando ciò che restava delle sue scarpe col tacco. Malediceva dei cavalli, ingiuriava i suoi cugini e infine offese con parole volgari Arianna, mentre entrava in bagno. Al ché, Rita decise di seguirla e farsi spiegare che cosa stesse succedendo, poiché non era passata nemmeno un’ora dalla sua prima sfuriata.
«Non lo vedi?!» urlò la figlia quando glielo chiese, e dal gesto che fece col braccio innalzò un odore nauseabondo, tale da far indietreggiare sua madre. «Tutta colpa di quella maledetta puttana! Al diavolo lei e il suo cavallo!»
«È stata lei a conciarti in questa maniera?» chiese ancora Rita consapevole di chi stava parlando.
«È ovvio! – strillò furiosa sua figlia che a poco a poco tramutò la sua rabbia in pianto disperato non appena si accorse di sanguinare dalle mani – Guarda, mamma! Guarda che mi ha fatto! Voleva travolgermi col suo cavallo!»
Rita, conscia dell’esagerazione di sua figlia, non volle continuare le domande, con smielato affetto che si limitò a esprimere a voce, assicurò sua figlia che questa volta Arianna non l’avrebbe passata liscia e che avrebbe fatto di tutto per fargliela pagare.
Prima di uscire dal bagno e da casa sua, ordinò a Mina di lavarsi per bene e di far bruciare gli indumenti.
A malincuore Mina dovette dire addio al suo vestitino preferito.
Con passo deciso, Rita si recò ancora una volta a casa dei Gargano. Aveva fatto la sua parte per obbligare suo cugino a prendere provvedimenti verso quella opportunista, accettando malvolentieri di dare tempo al tempo, ma senza ragionarci su, convenne che mettere pressione sfruttando quello che era accaduto a sua figlia, l’avrebbe appagata e invece non fece i conti con i nervi tesi di Diomede, il quale se la vide rientrare nello studio come se un’ora prima non fosse accaduto niente tra loro, come se avesse dimenticato il patto che avevano sancito con una scopata.
Quando questo si accorse della sua presenza, mal celò un certo fastidio, ma con voce apparentemente calma chiese che cos’altro volesse.
«Quella puttana, la voglio fuori da casa mia!» rispose Rita senza esitare. A quelle parole Diomede lasciò cadere la biro sulla scrivania e sbatté un pugno facendo sobbalzare il contenuto, poi si volse verso sua cugina che dopo quel gesto aveva indietreggiato, spaventata.
«Mi hai rotto i coglioni! Non sai dire nient’altro? Ne abbiamo parlato poco fa! La tua ossessione mi ha stancato!»
«Non parlarmi in questa maniera, non te lo permetto!»
«E allora se non vuoi che ti parli in questa maniera, piantala una buona volta!»
«Ti avverto Gargano – Rita tentò di essere minacciosa, ma non poté nascondere quel leggero tremolio alla voce per la paura – non trattarmi così, non ti conviene.»
Diomede la interruppe scattando in avanti come un predatore, l’afferrò dal collo e la spinse contro la libreria noncurante di farle male.
Non era passato molto da quando si erano dati alla passione, che in quel momento parve avesse cancellato tutto. «Credi che mi farò minacciare all’infinito?» le sfiatò sul viso che le era diventato paonazzo per la mancanza d’aria.
«La-lasciami…» si sforzò la donna piantandogli dei pugni sulle braccia e tirandogli dei calci sugli stinchi.
«Mi basta stringere ancora un po’ questo tuo sottilissimo collo per farti tacere per sempre» e così dicendo gli diede un assaggio stringendo la presa. Gli occhi di Rita parvero voler uscire dalle orbite, mentre la parte soprastante la presa mortale si illividiva ancor di più e, quando pensò che ormai era tutto finito per lei, Diomede allentò la presa lasciandola cadere sul pavimento.
«Da ora in poi risparmia il fiato con le tue minacce.»
La donna tossiva boccheggiando disperata nel tentativo di riprendere aria. Passarono pochi minuti e quando il respiro ritornò normale, si rialzò a fatica massaggiandosi il collo. Nonostante avesse rischiato grosso, alzò la testa sfoggiando un’aria fiera e inespugnabile, poi si avvicinò lentamente a suo cugino che le dava le spalle e sussurrò con voce rauca: «Ti sei fatto plagiare da una sporca bastarda. Sei una nullità.»
A quell’offesa Diomede si voltò trucidandola con gli occhi, ma la donna non demorse, anzi sfoggiò un sorriso strafottente e con tal tono continuò «È ovvio che te la vuoi scopare. Non sono sciocca. A questo punto fa’ quello che vuoi.», poi si voltò e si incamminò verso la porta.
Malgrado la furia, Diomede sentì un brivido diramarsi lungo la schiena, e in quell’istante i cattivi pensieri s’impossessarono della sua mente.
L’aveva minacciata di morte, ma la conosceva benissimo, sapeva che non si sarebbe arresa e, giacché il sesso non era servito a molto, decise che avrebbe cambiato tattica, così istintivamente la fermò dicendo: «Se la vuoi fuori da qui, non preoccuparti, farò quello che mi dirai di fare.» l’ultima frase gli uscì come un tentativo di supplica, per convincerla delle sue intenzioni.
Rita si fermò e senza voltarsi, chiese: «Sicuro? Mi hai appena minacciata di morte.»
L’uomo sbuffò un sorriso «Sai che non lo avrei mai fatto. Allora, cosa desideri che faccia?»
Lentamente, sua cugina si voltò e guardandolo con occhi iniettati di odio rivelò convinta: «Toglile tutto, a partire dal suo cavallo. La voglio lontana da qui entro la fine del mese.»
Sul volto dell’uomo si delineò un ghigno malefico e senza esitare rispose: «Sarà fatto».
 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11
 
Quel sabato si era presentato con un sole splendente e il cielo era privo di nuvole. Era giorno di mercato a Murgella e, ormai da anni, Corso Cavour venne allestito da due file parallele di bancarelle.
I mercanti esponevano la loro merce, strillando all’aria ciò che offrivano per catturare l’attenzione dei passanti. Donne anziane, alcune a braccetto delle proprie figlie o nipoti, altre sole, trascinavano carrelli con borsoni per contenere i propri acquisti, che si limitavano solo a frutta e verdura; le ragazzine si nascondevano tra gli stand di abbigliamento per comprare o tutt’al più osservare la nuova moda estiva. Inoltre c’era chi passeggiava senza alcuna intenzione di spendere soldi, solo per il semplice gusto di godersi la bella giornata e chiacchierare. Tra questi ultimi c’era anche donna Valeria, accompagnata da Aria che la reggeva da un braccio per aiutarla a camminare.
Valeria non era tipo da perdersi in chiacchiere, come si era capito e non amava nemmeno la confusione, figuriamoci il mercato. Ma quella mattina si era incaponita di volerci andare insieme alla ragazza per non si sa quale motivo. Aria se l’era vista entrare in quella camera che la ospitava da parecchi giorni e le aveva ordinato di sbrigarsi perché voleva uscire.
Camminavano in silenzio senza nemmeno guardarsi, parevano due estranee. Chi le conosceva le salutava, ma Valeria non rispondeva perché non aveva intenzione di sprecare fiato per degli ipocriti e Aria… beh, Aria era immersa nei suoi pensieri.
La mente vagava ancora al ricordo del secondo schiaffo che aveva mollato a Stefano e, oltre a sentirsi ancora in colpa per quel gesto, rimuginava su quegli occhi limpidi che l’avevano guardata a lungo e in silenzio.
Perché mi guarda così? Si chiese sospirando profondamente dopo aver sentito qualcosa diramarsi nello stomaco. Doveva finirla di pensare a lui, non era altro che un viziato e poi non poteva dimenticare quello che aveva fatto a Tempesta, ma in fin dei conti che cosa aveva fatto di tanto grave?
La verità è che la sola assenza della giumenta la faceva cadere in uno stato di panico, la spaventava il pensiero di poterla perdere. Era questo il motivo per il quale si era arrabbiata in quella maniera anche se esagerata.
«Compriamo un’anguria!» la riportò al presente la voce dell’anziana. Aria si guardò intorno smarrita e quando metabolizzò dove si trovava la bancarella del fruttivendolo, Valeria ritornò a catturare la sua attenzione facendola trasalire quando nominò a gran voce Stefano Gargano.
La ragazza si volse di scatto e incrociò la figura alta e affascinante del giovane che era a pochi passi da loro in compagnia della sua reflex sempre pronta per essere usata.
Pur volendo ignorarlo, dovette assecondare i movimenti dell’anziana, che tentava, con piccoli e insicuri passetti, di avvicinarsi al fotografo.
Quest’ultimo, quando si accorse di loro, la prima persona a cui regalò il suo sguardo cristallino fu proprio Aria. Mollò la presa sulla Reflex che gli penzolò sul petto e si avvicinò volgendo lo sguardo alla donna che era in sua compagnia.
«Donna Valeria! Che piacere incontrarvi!» esclamò lasciandosi toccare il volto, poi si abbassò alla sua altezza per essere baciato sulle guance e, mentre veniva elogiato, permise ai suoi occhi di ricadere di tanto in tanto sulla giovane, la quale si volse da un’altra parte intenzionata a ignorarlo.
Malgrado tutto, Aria non poteva nascondere la sorpresa di vedere per la prima volta Valaria Marinelli, l’anziana più burbera e scorbutica di Calenda, comportarsi in maniera totalmente diversa con un giovane che da quel che aveva compreso doveva conoscere molto bene.
I due parlarono del più e del meno e, solo quando l’anziana si accorse della noncuranza della sua accompagnatrice, decise di intrometterla nei loro discorsi, dicendole: «Arianna! Ma come? È ritornato il figlio del cugino di tuo padre e non mi dici niente?»
Aria, che a sentirsi chiamare era trasalita per poi volgersi verso di loro, si sentì avvampare le guance nel guardare Stefano che a sua volta la fissava con sguardo enigmatico. Non seppe cosa rispondere e fu il giovane a farlo, prese tutt’e due le mani della donna e con voce suadente disse: «Ho detto io di non dire niente a nessuno, altrimenti non vi avrei preso di sorpresa, Donna Valeria.»
«Non sei cambiato affatto!» ribatté Valeria colpendolo affettuosamente sulla guancia. «Che ne dici di pranzare con me e Arianna a casa mia?»
A quelle parole, Aria le lanciò uno sguardo che si mescolava tra la sorpresa e il diniego.
Stefano si accorse del suo atteggiamento, ma volle comunque accontentare la donna. Accettò.
«Scusatemi Donna Valeria – mormorò la giovane con voce insicura – ma io ho da fare…»
«Non hai nulla da fare a quest’ora, Arianna. – la interruppe Valeria senza volgerle lo sguardo – quindi pranzerai con noi.» aggiunse autoritaria.
Anche se non era d’accordo, la giovane acconsentì tacendo.
 
***
 
Si avvicinò a lui lentamente, stringendo tra le mani le posate e in tal maniera gliele porse davanti, ma la mano le tremò e, nel momento in cui stava per ritrarla, fece cadere il coltello.
Aria si abbassò velocemente per raccoglierlo, ma in quello stesso istante si sentì toccare le dita da quelle del giovane. Alzò di scatto la testa e si ritrovò a pochi centimetri dal viso di lui e sentì il suo fiato infrangerle il volto.
Rimasero così per qualche istante, malgrado la ragazza sentisse ancora la rabbia invaderle i sensi per quello che era accaduto con la sua giumenta, l’altra sensazione che tentava di invaderle il cuore con coraggio, non poté ignorarla.
Gli occhi di Stefano, cromati da quel colore cristallino e puro, parvero ipnotizzarla tant’è che il ricordo di quello che era accaduto tra di loro nelle scuderie la travolse facendola arrossire violentemente. Spostò lo sguardo su quelle labbra invitanti, cerchiate dalla barba ben curata e udì una vocina dentro di lei che la tentava affinché le assaggiasse ancora una volta. A un tratto, però, il verso improvviso di donna Valeria che tossicchiò per catturare la loro attenzione, la riportò alla realtà facendola trasalire e rialzarsi di scatto, lasciando che fosse il giovane ad occuparsi del coltello.
Aria si allontanò avvisando che sarebbe andata in cucina per portare la teglia di riso patate e cozze che aveva preparato quella mattina, ma la padrona di casa la interruppe chiedendole di recarsi in cantina per prendere una delle bottiglie del buon vino che teneva conservato per le occasioni.
La giovane non disse nulla e si precipitò per eseguire la richiesta, contenta di allontanarsi da quel posto, anche se per poco, poiché il viso sembrava voler prendere fuoco e non voleva farsene accorgere.
Stefano, dal canto suo, non riuscì a tenere il suo sguardo lontano da lei e, nonostante Valeria cercasse di attirare la sua attenzione chiedendogli che cosa avesse fatto in tutti quei dieci anni di lontananza, il giovane le rivolse una domanda.
«Chi è Arianna?»
Domanda alquanto sciocca, giacché quella ragazza abitava nella sua stessa famiglia, ma Valeria non la ritenne tale, così, compreso l’interesse che il giovane provava, decise di rispondere lo stesso.
«Tuo nonno la portò qui, dieci anni fa, qualche mese dopo la tua partenza. Penso che te l’abbiano detto»
Stefano non rispose, ma con lo sguardo spronò la donna a continuare.
«È una ragazza d’oro. A parer mio, l’unica del paese. Una grande lavoratrice.»
Il giovane sbuffò un sorriso, «È ovvio che vi piace, ma queste cose le ho già constatate. Quello che voglio sapere è perché mio nonno l’ha portata nella nostra famiglia?»
Valeria lo guardò sott’occhio, «E credi che io ne sappia qualcosa?» chiese sorridendo.
«Lo credo, dato che la donna più discreta, silenziosa e diffidente di tutta Murgella e Calenda, si è fatta entrare una perfetta sconosciuta in casa, a meno che non sia stato mio nonno, l’uomo di cui lei si fidava di più, a convincerla.»
«Hai ragione. – tagliò corto l’anziana – È stato grazie al nome di tuo nonno se l’ho accettata. E credi bene quando dici che so il motivo per il quale tuo nonno si è spinto ad adottarla in un certo qual modo, ma… - fece una breve pausa seguita da una smorfia – non te lo dirò.»
Stefano sorrise ancora a quella schietta rivelazione.
«Ho promesso a tuo nonno di portarmi nella tomba il suo segreto, quindi, non farmi altre domande. Non penso di farmi sotterrare presto.»
Ci aveva provato, ma anche se non aveva ricevuto soddisfazione, Stefano aveva capito che quella donna non aveva nulla a che fare col telegramma inviatogli a Firenze.
Non volle insistere, ma tentò comunque di sviare il ragionamento, parlando sempre dell’assente e, quando Valeria si fece scappare qualcosa a proposito dell’allontanamento da casa dei Ferrara, a Stefano si accese un’altra lampadina d’interesse.
Perché Aria si era trasferita a casa de La Vedova?
In quello stesso istante, quest’ultima si ricordò che il vino richiesto si trovava in un punto un po’ alto, così chiese al fotografo di recarsi in cantina per aiutare la giovane.
Era ovvio che la donna volesse sviare anche quel ragionamento, così, senza aggiungere nulla, si fece indicare la strada per raggiungere la cantina e si allontanò.
Giunse in silenzio, in quel posto occupato da scaffali di legno, da sacchi di farina, da damigiane di olio, da salumi e ruote di formaggio appesi e da botti che contenevano vino.
Stefano trovò Aria alle prese con quella bottiglia richiesta dalla padrona di casa, che non riusciva a prendere, poiché come aveva ben detto La Vedova, si trovava in un punto abbastanza alto, così senza farsene accorgere si avvicinò a lei e, sfiorandole la spalla col suo petto, allungò il braccio per prendere l’oggetto in questione.
La sentì tremare, forse presa alla sprovvista, poi la vide girarsi verso di lui, appoggiarsi di schiena allo scaffale e guardarlo sorpresa.
Il giovane fotografo abbassò il volto per guardarla negli occhi e accorciò la distanza che lo divideva dal suo.
Aria si sentì mancare il fiato e il cuore le batteva freneticamente nel petto, tant’è che le parve voler fuoriuscire e ancora quella sensazione approfittarsi del momento, poi come un fulmine a ciel sereno, si ridestò da quello stato e lo spinse lontano da sé.
Stefano non fu sorpreso da quel gesto, ma dovette ammettere che quel comportamento lo stava stancando, soprattutto perché non ne capiva il motivo.
Non poteva essere per il bacio, in fin dei conti era stata lei a iniziare anche se aveva capito fin dall’inizio che si era sbagliata. C’era qualcos’altro sotto e lui voleva scoprirlo, ma nonostante questo, decise di ignorare il suo atteggiamento brusco. Barcollò all’indietro reggendo forte la bottiglia e, quando riacquistò l’equilibrio, le disse: «Donna Valeria mi ha mandato ad aiutarti.»
Aria, riprese a respirare e ora ansimava come se avesse corso. Scattò in avanti, gli tolse di mano la bottiglia e lo intimò ancora una volta a starle lontano. Tentò di andarsene, ma a quel punto Gargano l’afferrò per un polso, fermandola.
«Quant’altro ancora hai intenzione di trattarmi in questa maniera?»
«Lasciami!» cercò di sottrarsi lei senza voltarsi, ma tremava e non era per la paura, o per la rabbia. «Non voglio avere niente a che fare con te!»
Infastidito da quelle parole, Stefano la tirò a sé per farla voltare, poi infilò la mano libera nella tasca dei jeans, estrasse il cellulare e glielo porse sulla mano.
Aria lo guardò titubante, ma quando si accorse che si trattava del cellulare che aveva perso in camera del nonno, non seppe più come comportarsi.
«Volevo solo ridarti questo - si giustificò il ragazzo – è tuo.» e detto questo se ne andò.
Aria rimase sola e mille domande le vorticarono nella mente. Sapeva che il cellulare lo possedeva lui, quello che non riusciva a comprendere era il significato di quelle parole che allegò al bacio di quella sera nelle scuderie.
Ciò stava a significare che si era recato lì solo per consegnarglielo e non perché aveva voluto baciarla. Anche se era stata lei a prendere quell’iniziativa, anche se si era sbagliata, provò delusione.
Quando ritornò nella sala da pranzo, Stefano se n’era andato.
«Aveva da fare» avvisò Donna Valeria senza che le fosse stato chiesto e quella fu l’ultima frase del giorno che espresse, dopodiché calò il silenzio.
Ad Aria non andò più di pranzare, le si era chiuso lo stomaco.
 
***
 
Fortuna volle che tenesse, in casa della Vedova, un altro carica batterie e, anche se titubante, volle accendere il cellulare.
Quando apparve la sua foto con Carmine, si sentì una stretta al cuore, ma tentò comunque di non piangere e di non ricadere in amari ricordi.
Dopo qualche istante, il cellulare iniziò a vibrare mostrando le varie notifiche. Su WhatsApp c’era un messaggio vocale di Enea e qualche altro di Paride. Un messaggio della segreteria, la informava che Carmine aveva tentato di chiamarla proprio il giorno del matrimonio, ma oltre a quello nient’altro.
Aria aveva sperato fino all’ultimo, da quando Stefano glielo aveva riconsegnato, di trovare almeno un messaggio da parte del suo ex che poteva spiegarle il motivo delle sue gesta e invece nulla.
Sbuffò cacciando via le lacrime e scaraventando il cellulare sul letto della camera che la ospitava in casa di Donna Valeria. Si sedette di peso sul materasso e quel movimento fece sobbalzare il cellulare che cadde sul tappeto, accendendosi e mostrando ancora una volta la notifica dei messaggi vocali dei gemelli.
A quel punto, presa forse dalla voglia di sorridere, dato che Enea e Paride le portavano sempre il buon umore, decise di ascoltare.
Ascoltò quello di Enea.
“Ehi, Aria. Dove sei? Ti stiamo cercando. Volevamo dirti che sei stata un po’ ingiusta nei confronti di Stefano.”
«Ingiusta per cosa? – sussurrò la ragazza – Sapeva che non poteva toccare la mia Tempesta!»
“Lui è solo andato a cercarla. Tempesta è scappata e quando glielo abbiamo detto, Stefano si è subito prodigato per cercarla. Tutto qui.”
Tempesta era scappata? Cosa stava dicendo?
Non c’erano altri messaggi di Enea, allora passò a Paride la cui voce risuonò bassa.
“Ehi, Aria. So che non dovrei dirtelo. L’ho promesso a Enea, ma penso che questa volta non la possiamo coprire.”
Il primo messaggio terminava così. La curiosità era alle stesse così passò al seguente.
“Non dire a Enea che sono stato io a riferirtelo, ma non trovo giusto che Stefano abbia la parte peggiore in questa storia. È stata Mina a far scappare Tempesta. L’ha fatto per ripicca, ma non abbiamo capito per cosa. Stefano è solo andato a cercarla, fortunatamente l’ha trovata. Penso che tu debba chiedergli scusa.”
Aria strinse tra le mani il telefono fino a sentirsi lacerare la pelle delle dita. Erano risapute le ripicche che serbava Mina nei suoi confronti, ma fino a quel giorno non era arrivata a tanto, non si era mai permessa di toccare Tempesta. Cos’è che le aveva fatto di tanto brutto per farla agire in quella subdola, quanto malvagia maniera?
Ma la cosa che più la frustrava era la convinzione di aver sbagliato nei confronti di Stefano.
Lui voleva solo aiutarmi e io…
«Ah, Aria! Quanto sei stupida!» sbuffò rumorosamente stendendosi sul letto.
La rabbia che aveva provato fino a quel momento nei confronti del giovane era scomparsa all’istante e lei ne fu contenta perché era come se sperasse in un’occasione per liberarsi di quel peso, di cambiare idea su quel giovane. Pensava che per lei non fosse importante, ma sentiva il bisogno di vederlo e chiedergli scusa. In fin dei conti anche il fatto che gli aveva restituito il cellulare senza sputtanarla, era la prova evidente che Stefano non aveva nulla a che fare con Diomede e che di lui, forse, si poteva fidare.
Si rimise a sedere e prese una decisione.
 
***
 
La sera calò lentamente sulle campagne di Murgella, lasciando che l’odore del fieno continuasse a pervadere l’aria intiepidita. Alle spalle del casale dei Gargano, a distanza di qualche chilometro, si estendeva un seminativo, lo stesso nel quale avvenne il primo incontro tra Arianna e Stefano e quest’ultimo si trovava proprio lì. Non che si potesse ammirare qualcosa la sera in quel posto e per dirla tutta Stefano non vi si era recato per fotografare. Qualcosa lo aveva spinto lì, la consapevolezza che non riusciva a togliersi dalla mente Arianna. Si era steso sul prato e rifletteva su tutto quello che avrebbe voluto realmente dirle quel mezzogiorno nella cantina de La Vedova. Non voleva solamente restituirle il cellulare, voleva qualcosa che lui stesso aveva paura al solo pensarla.
Chiuse gli occhi come a voler cancellare quei pensieri, ma dovette subito aprirli dopo che ascoltò dei rumori farsi più vicini, erano zoccoli di un cavallo. Si sollevò da terra dandosi peso sui gomiti e si guardò intorno. Phobos, il cavallo di suo fratello che aveva preso per recarsi in quel posto, se ne stava a pochi passi da lui a brucare l’erba, volse lo sguardo da un’altra parte e si accorse che dalla via per ritornare a casa giungeva qualcuno a cavallo. Quando il manto dell’animale si fece più vivido, il desiderio di vedersi arrivare in contro Aria si avverò.
Era proprio lei e non c’erano dubbi: era lì per lui.
Quando la giumenta si accostò a Phobos, la sua padrona tirò le redini per fermarla e scese dal dorso.
Stefano, dal canto suo, non si mosse, ma continuava a guardarla e la vide avvicinarsi con passo incerto.
«Non me ne andrò da qui se è questo che vuoi.» le disse poi, stendendosi e volgendo gli occhi al cielo.
«Ti cercavo» lo contraddisse la giovane strofinandosi un braccio con una mano.
Il fotografo riaprì gli occhi, sorpreso e si volse ancora una volta a guardarla, ma vedendo che lei non accennava nient’altro si mise a sedere incrociando le gambe.
«I gemelli mi hanno detto che potevo trovarti qui.»
«Allora?» chiese il giovane sollevando le spalle.
Prima di continuare, Aria gli si avvicinò ancora di più. Voleva vederlo bene in volto e per fortuna la luna piena l’aiutò, illuminando l’intera area.
«Io… volevo chiederti scusa per il mio comportamento, per quello che accadde ieri con Tempesta.»
Stefano non rispose, ma continuava a guardarla.
«Sono molto affezionata a Tempesta e il solo pensiero che da un momento all’altro possa perderla, mi fa impazzire.»
«Non ho nessuna intenzione di far del male a qualcuno, soprattutto a te.»
A quelle parole, Aria trasalì, si sentì mancare un palpito. La voce del giovane l’era entrata nella mente come un fiume di miele e il tono che aveva usato le aveva fatto fremere il cuore. Imbarazzata, distolse lo sguardo dal suo e lo portò sul prato scuro.
«Dovevo capirlo dall’inizio – continuò – da quando hai preso il mio cellulare e non hai riferito a nessuno della foto…»
«Che cosa ci facevi nella camera di mio nonno?» la interruppe Gargano cercando di non pensare all’immagine di lei con suo fratello che sembrava infastidirlo e, dato il silenzio che ne seguì, si alzò accorciando la distanza che li divideva.
«Puoi fidarti.»
Certo che poteva. Aria lo sapeva benissimo, in fondo gliene aveva già dato prova, così, riempitasi quanta più aria possibile nei polmoni e fattasi coraggio iniziò a raccontare.
Gli parlò dell’ultimo istante di vita di Vincenzo e di quello che voleva dirle ma che la morte non gliel’aveva permesso.
«M’indicò qualcosa, il suo armadio. Io ero convinta che volesse dirmi qualcosa d’importante. Lo sono tutt’ora. Altrimenti nonno Vincenzo non avrebbe lottato così duramente contro la morte. Da quel giorno, mi sto tutt’ora chiedendo perché voleva parlami. Venivano i suoi famigliari prima di me, sua sorella, suo nipote… suo figlio…» e disse l’ultima parola con riluttanza.
«Forse, voleva informarti di questo» Stefano estrasse dalla sua tasca un foglio ripiegato. Aria fu guardinga, poi lo afferrò con sicurezza. Il giovane accese la torcia del cellulare per permetterle di leggere.
Quando arrivò al post scriptum la ragazza alzò lo sguardo verso di lui, confusa e a quel punto il fotografo spiegò.
«È per questo motivo che sono tornato qui. Ricevetti questa lettera che il nonno era già morto. All’inizio non volevo lasciare Firenze e far ritorno in quella casa, ma questa lettera e la chiave che ne era contenuta, mi incuriosirono a tal punto. Volevo sapere chi fosse l’orfana e che cosa avesse a che fare con me, ma soprattutto che cosa volesse da me questa persona. Perché io?»
«Quale chiave?» chiese Aria ancora confusa.
Stefano non esitò e prese dall’altra tasca l’oggetto in questione, porgendoglielo. Aria se la rigirò tra le mani, osservò con attenzione il ciondolo che riportava una X, ma non riusciva a connettere ancora cosa significasse.
«Non ho idea di cosa apra. È per questo che volevo parlarti. La lettera dice che sei lo scrigno, ma non c’ho capito poi molto.»
«Chi te l’ha inviata?»
«Non saprei»
«Che cos’ha a che fare tutto questo con me?»
«È la stessa cosa che mi chiedo anch’io. Forse questa persona si fida di me, o forse è stato mio nonno a fare il mio nome. L’unica cosa ovvia è che adesso che ti ho trovata, non ci rimane altro che scoprire questo mistero. Quindi, se tu sei convinta che Vincenzo volesse indicarti qualcosa che si trova nella sua stanza, ho deciso di aiutarti a entrare.»
Aria fissò intensamente quel ragazzo. Era come se avesse trovato in lui un alleato e questo non poté che alleggerirle il cuore.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


 
Capitolo 12
 
Aria ricordava poco quanto nulla della sua infanzia, almeno fino ai sette anni, quando un misterioso uomo, di cui non aveva memoria su chi fosse e nemmeno che volto avesse, la portò all’orfanotrofio dove rimase fino ai suoi quindici anni.
«Che cosa accadde ai tuoi genitori?» chiese Stefano, approfittando di quel momento di silenzio.
La campagna era completamente in balia della penombra e, se non fosse stato per la luna che imperava nel cielo, non avrebbe mai potuto vedere gli occhi della ragazza bagnarsi di lacrime.
«Mi è stato detto che ebbero un incidente stradale» rispose con voce sommessa. «Prima di conoscere nonno Vincenzo, sono passata da una famiglia all’altra, ma non duravo neanche un mese che mi riportavano all’orfanotrofio. Mi avevano etichettata come una bambina insopportabile e alla fine anche la direttrice si era arresa nel volermi trovare una madre e un padre. Il fatto è che mi comportavo apposta in quella maniera. Al centro c’erano dei bambini più piccoli di me, e vederli piangere ogni volta che andavo via, era una tortura.
Non venivamo trattati come ci si spetta. Né una coccola, non c’è mai stato un bacio della buonanotte, neanche quando ti sbucciavi un ginocchio. Ricordo solo urla, rimproveri e qualche volta volavano anche degli schiaffi.» quell’ultima frase, Aria la pronunciò con un sospiro, dandosi peso sui gomiti e volgendo il viso alla luna.
Le sue lacrime erano visibili e Stefano sentì il disperato bisogno di darle quelle carezze che non aveva mai ricevuto prima, invece, ingoiando a fatica quel groppo che sentiva in gola, chiese: «Vincenzo, come l’hai conosciuto? Sai perché ti portò via di lì?»
«Non gliel’ho mai chiesto e non mi sono posta neanche la domanda. Si presentò in orfanotrofio che avevo la bellezza di quindici anni. Ne erano passati cinque dall’ultimo tentativo di farmi adottare. Avevo capito che non potevo rimanere lì per sempre. L’istituto non poteva mantenere anche me, così mi dissi: o la va, o la spacca. Vincenzo lo conoscevano tutti e… – si fermò per dare spazio a una breve risata – sapere che avrei fatto parte della sua famiglia, che avrei vissuto in campagna, mi fece sentire come una vecchietta che non vede l’ora di ritirarsi dal suo lavoro.»
Anche il fotografo sbuffò un sorriso.
«Mi affidò ad Alberto. Ricordo ancora le sue parole: “Mi dispiace non poterti dare una mamma. Ho solo a portata di mano un papà e un nonno”. Alberto mi ha fatto da madre, da padre, da fratello, da tutto. È stato il primo a volermi veramente bene. Mi ha insegnato tutto quello che so. Mi ha cambiato radicalmente la vita, anche quando ci eravamo accorti che non ero simpatica a tutta la famiglia, che ogni giorno venivo trattata male da Rita, che m’impediva di stare insieme a Marella, che ha inculcato in Mina un inspiegabile odio nei miei confronti, Alberto mi ha sempre difesa, anzi, mi ha regalato Tempesta dicendomi che se volevo farmi veramente un’amica, dovevo optare per gli animali, perché loro sono più umani di noi. E poi, e poi ho conosciuto l’amore…», a quella parola si bloccò, come se avesse pronunciato qualcosa che non andava detta. Anche Stefano trasalì e la guardò come a volerle carpire quella sensazione che aveva subito dissipato.
Capì che stava parlando di Carmine e, nonostante la percepibile sofferenza, le vide brillare il volto, e non negò il fastidio che gli ribolliva nel cuore, ma cercò di non darlo a vedere, così schiarendosi la voce con qualche colpo di tosse, le domandò: «Come stai?»  
Aria si volse di scatto come se fosse stata strattonata, gli regalò uno sguardo carico di sorpresa che non si aspettava quella domanda fatta così a bruciapelo.
D’altronde Stefano conosceva la situazione e lei si era fatta trasportare dai sentimenti. In quel frangente si accorse che oltre a Carmine, non aveva mai avuto con nessun’altro la possibilità di parlare così apertamente di quello che provava o sentiva e lesse negli occhi cristallini di quel ragazzo, sconosciuto fino a quel momento, qualcosa di indescrivibile, qualcosa che le fece fremere il cuore come quando le loro labbra si erano unite per la prima volta. E fu lì che ripensò a quello che era accaduto nelle scuderie la sera del matrimonio tra Carmine e Marella.
A un tratto si accorse di aver smesso di respirare e deviò subito lo sguardo, alzandosi e pulendosi la parte posteriore dei pantaloncini.
Il giovane fotografo la imitò dopo qualche istante, aspettandosi una reazione del genere.
«Sarebbe meglio rincasare – balbettò la ragazza raggiungendo la giumenta – devo rinchiudere Tempesta e tornare da donna Valeria.»
«Perché non dormi a casa tua?»
«Donna Valeria ha bisogno di me» rispose Aria senza voltarsi.
«Ha a che fare con mio padre?»
Aria esitò, poi disse: «Non sono affari che ti riguardano.»
Non contento della risposta e sicuro di aver centrato in pieno, con un balzo, Stefano la raggiunse e, prima ancora che potesse salire su Tempesta, l’afferrò da un braccio voltandola verso di sé.
La sorpresa che ebbe la giovane, non aspettandosi una reazione del genere, la fece barcollare e ritrovarsi petto a petto con il ragazzo e a pochi centimetri dalla sua bocca.
Stefano la osservò a lungo tentato dal volerla baciare, ma chiuse gli occhi stringendoli come se qualcosa li avesse infastiditi e, quando li riaprì, li volse verso la piccola ferita che era ancora vivida sullo zigomo, l’accarezzò con delicatezza.
«So per certo che l’altro ieri è accaduto qualcosa con mio padre.»
«Non farmi domande, ti prego.» lo interruppe sicura di sé ma con voce incrinata dal sentirsi travolta da quella presa e dal profumo di pini d’inverno che aleggiava intorno a lui e che ormai sembrava non volerla abbandonare.
«Aria… – sospirò a quel punto mollando delicatamente la presa – Mio padre non è un uomo che puoi affrontare da sola. Qualunque cosa accada, fidati di me. Anche se non sono Carmine, io… se hai bisogno, vieni da me.»
Aria non seppe descrivere cosa sentì in quel preciso istante, sapeva solo che se non si fosse allontanata da quel ragazzo, avrebbe inferto una ferita al cuore, ancora una volta. E provò lo stesso dolore perché nonostante il ricordo di Carmine era ancora vivido, la sola presenza di Stefano riusciva a dissolverlo come nuvole al vento.
Senza aggiungere nulla salì su Tempesta e se ne andò.
Il fotografo rimase a guardarla, consapevole che l’interesse per lei si stava trasformando in qualcosa di più profondo.
 
***
 
Dalla sera dopo il matrimonio, Stefano si era rifiutato di pranzare e cenare con la famiglia e per non squilibrare la già provata mente di sua madre, le faceva visita prima di andarsi a coricare, ma per altro, non si faceva vedere in giro e non assisteva a quelle riunioni famigliari che lui solo riteneva ipocrite, soprattutto da parte di suo padre, poiché per zia Erminia dovevano essere sacre, tralasciando gli asti che serpeggiavano indisturbati tra gli altri.
La verità era che Stefano aveva programmato di stare lontano il più possibile dal campo visivo di suo padre e da quella sera, dopo aver parlato con Aria, convenne che aveva fatto bene ad agire in quella maniera, poiché per permettere alla ragazza di scoprire che cosa avesse voluto dirle il nonno, meno conoscevano i suoi movimenti e meglio era.
Quando ritornò al casolare però, non fece i conti con la stessa Erminia, la quale sembrava proprio che lo stesse aspettando, seduta sulla poltrona d’entrata.
All’inizio il giovane parve sorpreso di vederla lì, le chiese finanche che cosa ci facesse seduta in penombra e lei invece di rispondere, esordì dicendo: «Cenerai con noi.»
«Sono stanco, non ho fame.»
«Non te lo sto chiedendo.»
Stefano lo sapeva perfettamente, lo aveva sentito l’imperativo in quel tono, ma si limitò lo stesso a sorridere e a ripetere che si sentiva stanco e che voleva andare a coricarsi.
«Allora ritornatene a Firenze.»
Questa volta Stefano la guardò interdetto e non rispose.
«Sei qui da quattro giorni, ma è come se non fossi tornato. Tornatene da dove sei venuto, che cosa ci stai a fare qua? Non sei venuto per il funerale, non hai assistito neppure al matrimonio di tuo fratello. Se non hai motivo di essere qui, allora vattene.»
Sbuffando un sorriso di circostanza, il fotografo incrociò le braccia al petto, senza cambiare espressione: «Ho i miei motivi. Ma non preoccuparti, come ho già detto, non ho intenzione di rimanere qui a lungo.»
«L’hai fatto per l’eredità?»
«Se è questo che credi, ti lascerò il beneficio del dubbio.»
«No, non l’hai fatto per questo. Anche se sono passati dieci anni, non sei cambiato affatto, sei l’unico a essere diverso dai Gargano, diverso da tuo padre. Nei tuoi occhi leggo sfiducia e fai bene a non fidarti. Senti a me: continua così – dicendo questo si alzò, gli fu vicino e gli pose una mano sulla spalla – non fidarti di nessuno» quindi gli diede due pacche e se ne andò lasciandolo solo.
Solo quando si sentì ripetere quell’ultima frase, Stefano comprese. Strabuzzò gli occhi e si volse verso la direzione che aveva preso Erminia per andarsene.
Adesso gli era tutto più chiaro. Sapeva chi gli aveva inviato la lettera.
 
***
 
Mentre continuava a guardarsi allo specchio, le sembrò che il livido che le cerchiava il collo diventasse più scuro fino a sembrare insanguinato.
Gli occhi di Rita erano iniettati di odio e furia, si stava mordendo le labbra mentre si fissava e ignorò il rivolo di sangue che sorpassò il labbro inferiore.
Conosceva bene i livelli di malvagità di suo cugino, ma mai avrebbe immaginato che si sarebbe spinto oltre. Troppo oltre.
L’aveva minacciata di morte. Sì, non era stato un errore di comprensione. Dopo un giorno la prova evidente si era fatta padrona di quell’epidermide che, nonostante i cinquant’anni, era ancora diafana.
Si vide brutta, deturpata, stuprata della sua bellezza.
La furia si fece più intensa dopo quei pensieri, con un gesto secco del braccio scaraventò a terra il contenuto della specchiera, poi trattenendo tra i denti un urlo, si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza.
Quante volte mi sono umiliata davanti a lui per essergli fedele, pensò. Quante volte per avere quel che disideravo gli ho permesso che mi violasse come donna, ma adesso basta.
Sì, nonostante le avesse promesso che si sarebbe sbarazzato di quella bastarda e che avrebbe accontentato i suoi voleri, aveva perso la pazienza. Voleva fargliela pagare. Voleva fargli provare ciò che stava provando lei.
A un tratto si sentì mancare l’aria, fu come se la rabbia avesse combattuto contro il livido e questo si fosse trasformato in una stretta micidiale, capace di farla soffocare.
Si portò ancora una volta la mano al collo e se lo massaggiò con nervosismo, poi qualcosa attirò la sua attenzione: dal giardino, dove era stato apparecchiato il lungo tavolo per la cena, veniva sua madre accompagnata dal suo bastone e dietro di lei, intento ad allungare il passo per raggiungerla, c’era Stefano. A quel punto, come un fulmine a ciel sereno, le venne in mente un’idea a parer suo brillante. Un’idea che avrebbe portato alla rovina Diomede Gargano.
Non curante del dolore che le stava ancora arrecando il livido, aprì l’armadio e prese un foulard di tulle, bianco con dei fiori e ritornata davanti allo specchio se lo avvolse attorno al collo. Si alzò, ma catturata ancora dalla sua figura riflessa, si vide sciatta, così si prodigò per cancellare quei segni squallidi. Le bastò un velo di fard e una linea di eyeliner sugli occhi scuri.
Uscì.
 
***
 
Era vero che Stefano non aveva appetito, a prescindere dalla decisione che aveva preso due giorni prima, ma era anche vero che quella piccola discussione avuta con la sorella di suo nonno gli aveva accelerato la voglia di sapere, così, si era ritrovato a seguirla deciso a volere delle spiegazioni, ma non aveva fatto i conti con l’ora. Erminia, aveva iniziato a dare ordini a sua nuora e a Mina di curarsi delle portate e metteva loro fretta, dato che Arianna era sparita e quindi due mani in meno scombinavano la sua organizzazione. Si lamentò del comportamento della giovane e nello stesso istante chiese a sua nipote che fine avesse fatto sua madre.
Dopo aver lanciato un’offesa alla sua cuginastra, Mina non ebbe il tempo di dare spiegazioni su Rita che questa, spuntò dal corridoio annunciandosi con uno strano sorriso sulle labbra.
Solo Erminia diede peso alla sua entrata, le altre avevano da fare e Stefano cercava discretamente di attirare l’attenzione dell’anziana, senza successo.
Erminia si comportò come se il giovane non ci fosse, dopo aver fissato interdetta sua figlia e dopo averle ordinato di portare le bevande a tavola, uscì.
Era zoppa, si arrancava al suo bastone, ma fu come se stesse correndo una maratona senza ostacoli, al che il fotografo perse la pazienza e tentò di chiamarla, ma Rita prese la palla al balzo e lo invitò ad aiutarla.
Stefano dapprima cercò d’ignorarla, ma vedendo l’insistenza, acconsentì.
«Puoi preparare una limonata per mia madre?» gli chiese con voce smielata.
«Dove sono i limoni?»
Gli indicò il ripiano accanto al lavandino.
Il ragazzo si avvicinò prodigandosi per eseguire quella richiesta, mentre Rita gli si avvicinava come un cobra pronto per avvinghiare la sua preda e divorarla.
«È un peccato, sai?» riprese dopo qualche istante di silenzio.
«Che cosa?»
«Che tu sia stato lontano così tanto tempo. Sei diventato davvero un bell’uomo» e dicendo questo allungò la sua mano sull’avambraccio, accarezzandoglielo con sensualità.
Stefano, che aveva iniziato a tagliare i limoni, strinse il manico del coltello e volse lo sguardo verso le mattonelle, poi lo posò su quella mano dalle dita fredde e guardò la donna con ostilità.
Lei sorrideva maliziosa, desiderosa di farselo complice alle sue gesta, vogliosa e accattivante, ma lui lesse in quello sguardo la stessa malignità che riusciva a leggere in suo padre. Gli vennero subito in mente quei ricordi dolorosi dove la figura di donna nell’idea di lui bambino si divideva in due categorie: quella che subiva e soffriva in silenzio e quella che rideva sguaiata e godeva della disgrazia dell’altra.
Con uno scatto, senza però scomporsi, si divincolò da quella presa e, lasciati coltello e limoni, uscì dalla cucina senza aggiungere una parola.
Rita si aspettava una reazione del genere, ma non per questo decise di arrendersi. Ridendo, afferrò la metà del limone che il giovane aveva tagliato, alzò la testa, se lo portò sulla lingua e vi spremette il succo, assaporando quell’acidità senza repulsione, lasciando che il di più le fuoriuscisse dalla bocca e le scivolasse sul foulard.
Ormai fuori, Stefano decise comunque di non fermarsi a cena, prima di ritornarsene a casa sua, s’imbatté in Alberto, Cristoforo e Diomede, i quali, non lontani discutevano in maniera tale da non far capire alle donne le loro parole, ma il fotografo riuscì comunque a sentirli, era Cristoforo che parlava e lo faceva in dialetto e, anche se erano passati dieci anni, riuscì a capire cosa diceva.
«Meh Diome’! ma cos’è mo’ quest’idea? Non puoi di punto in bianco venirci a dire che hai fatto fare il preventivo da un geometra. Che cazzo faremo noi, adesso?»
«Lavorerete per me nei terreni che mio padre mi ha lasciato!»
«Ma il testamento…»
«Il testamento dice che voi non verrete mandati via ma continuerete ad essere stipendiati. E pensate che io vi dia i miei soldi senza che voi alziate un braccio?»
Seguì qualche secondo di silenzio dove i fratelli si guardarono come a lasciare il posto a uno dei due per parlare e quel posto lo prese Alberto che, con molta più calma di suo fratello e con un italiano perfetto, si difese dicendo: «Ma noi abbiamo sempre lavorato per voi Gargano. Non ci avete mai pagato senza lavoro, nemmeno quando era ancora in vita zio Vincenzo!»
«Chi semina il grano, chi va a raccogliere le olive? Quando avevate le vacche, chi si occupava di loro? – inveì ancora Cristoforo – io mando un giorno sì, un giorno no, i miei figli a scuola per avere un aiuto in più.»
Diomede era spazientito, anche se in penombra, suo figlio gli lesse in volto il fastidio che quella discussione gli stava dando. Lo vide incrociare le braccia al petto e, reggendo sempre quella sua aria di superiorità verso i suoi cugini, disse: «A questo punto, converrete che tenere i cavalli, che non portano guadagno, non conviene a nessuno. Non conviene a voi, a te Cristoforo, per il tempo che tolgono ai tuoi figli, non conviene a me dato che ho bisogno d’ingrandire l’azienda e trasformare le scuderie in agriturismo sarebbe un affare.»
Aveva sentito bene? Suo padre voleva distruggere quello che i figli di Erminia avevano costruito col loro sangue e sudore?
Stefano ricordò l’ultima telefonata di suo fratello, dove gli raccontava fiero la loro più grande impresa. Carmine gli aveva sempre detto che per i Ferrara e per lui, il maneggio era sempre stato il loro più grande orgoglio e ora, per non si sa quale motivo, suo padre voleva cancellare tutto.
«Il maneggio è anche di Carmine – disse allora Alberto – che cosa penserà…»
«Non penserà a niente!» tagliò corto suo cugino e ora la voce era più alta. «Carmine non conta un cazzo. Quando farà ritorno dal viaggio di nozze, avrà altro a cui badare. Dei cavalli se ne fotterà poco quanto niente!»
I due fratelli non seppero più come replicare, Alberto si passò una mano sulla fronte e scosse il capo, Cristoforo abbassò la testa come un cane bastonato e a quel punto, Stefano che si sentì ribollire il sangue nelle vene, decise d’intervenire dando man forte ai Ferrara.
«Se Carmine avrà altro a cui badare, penserò io al maneggio.» intervenne con una tale audacia, che i fratelli lo guardarono come se avessero avuto una visione, mentre suo padre s’irrigidì atterrito.
«Tu stanne fuori» lo intimò Diomede.
Stefano sorrise strafottente, «E no, mi dispiace. Ma fino a prova contraria, sul testamento c’è il mio nome con tanto di percentuale affianco. Quindi senza la mia approvazione, il maneggio non si tocca.»
Diomede fremette, sciolse la sua posizione, parve voler fare un passo verso quel figlio che aveva diseredato dieci anni fa e che in quel momento lo sbeffeggiava senza alcun rispetto.
Gli unici a sembrare estranei in quello sfondo carico di tensione furono i due Ferrara, che ora guardavano interdetti il cugino, ora volgevano uno sguardo di gratitudine e speranza verso il fotografo.
Forse, se la voce di Erminia non fosse risuonata autoritaria, Diomede e suo figlio, in quel momento, sarebbero arrivati ai ferri corti.
Fu Diomede il primo a muoversi, sorpassò Stefano dandogli una lieve spallata e andò a prendere posto a capotavola. Cristoforo lo seguì a ruota dopo aver dato una pacca sulla spalla del giovane, mentre Alberto gli si piazzò davanti e disse: «Se lo fai per ripicca verso tuo padre, lascia stare.»
Il fotografo tacque.
«Non illuderci. So che hai intenzione di andartene presto, quindi le cose non cambieranno.» e detto questo raggiunse anche lui la famiglia.
Stefano rimase lì, volse lo sguardo a quel cielo privo di nuvole e sorridendo pensò che forse non avrebbe voluto andarsene.
 
***
 
Durante la cena, Diomede ricevette una telefonata alquanto strana. Si alzò allontanandosi, ma la distanza non bastò a non far sentire i suoi strepitii.
A tavola, i presenti si zittirono all’istante. Alberto e Cristoforo si guardarono l’un l’altro per poi tentare di scorgere la figura del loro cugino che si nascondeva dietro gli alberi di ulivo.
Urlava maledizioni, bestemmiava morti, offendeva la persona con cui parlava chiamandolo imbecille buono a nulla, poi il silenzio.
Per non dare sospetti, i Ferrara ripresero chiacchiericci di circostanza, ma l’unica che era sembrata impassibile a quella scena era stata proprio Rita, anzi, sorrideva strafottente fissando il movimento del vino del calice di vetro, che lo faceva roteare in un vortice.
Quando Diomede ritornò a sedersi, la sua rabbia era ancora evidente, aveva l’affanno e tracannò il suo bicchiere di vino ignorando i presenti i quali erano ritornati a guardarlo.
«Qualcosa non va, Diomede?» esordì Erminia.
«Nulla di cui dobbiate preoccuparvi.» rispose secco e freddo, tale da far tacere anche sua zia. Quando ritornò seduto, si passò una mano sulla fronte madida e non appena alzò lo sguardo, involontariamente si ritrovò a guardare quello di Rita.
Le vide un ghigno malefico e gli occhi neri abbacinavano vittoriosi.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13
 
Gli occhi della signorina Palmulli, segretaria nello studio notarile Dedonno, donnetta scialba di mezza età, si muovevano a destra e a manca seguendo quell’andirivieni del notaio, il quale parlottava tra sé e sé torturandosi il labbro inferiore con l’indice e il pollice della mano destra.
L’aveva trovato nello studio che parlava nervosamente al telefono con qualcuno. Era stata rimproverata per essere entrata con la chiave, ma la donna di mezza età, non l’aveva fatto con qualche scopo, era il suo lavoro, dopotutto, aprire lo studio notarile alle nove, prima dell’arrivo del suo datore. Cosa ne sapeva che ci fosse già lui?
Aveva provato finanche a giustificarsi, ma l’uomo non aveva voluto sentir ragioni: con un urlo le aveva detto di uscire e di farsi gli affari suoi. La poveretta si era recata alla reception chiudendosi la porta alle spalle come se avesse visto il diavolo in persona.
Erano giorni che l’uomo aveva i nervi a fior di pelle, non che fosse un tipo tranquillo, ma vederlo in quello stato per lei era la prima volta.
Qualche giorno addietro, Dedonno aveva ricevuto la visita di un uomo, la segretaria era stata mandata fuori a prendere un caffè e il suo capo le aveva fatto capire che se quel caffè fosse durato parecchie ore, non gli avrebbe dato fastidio e quest’ultima aveva accettato senza chiedersi il perché di tanto mistero. Quando era ritornata, l’uomo misterioso non c’era più, in compenso aveva lasciato il Notaio che sembrava avesse il diavolo alle calcagna. Le aveva fatto chiudere lo studio in anticipo di un’ora, congedandosi con la scusa di un forte mal di testa.
Il giorno dopo, come sempre, era ritornata ad aprire e dopo aver dato una veloce rinfrescata all’ambiente, aveva preso posto alla scrivania della reception per portare avanti il lavoro arretrato, quello che il notaio lasciava sempre per mala volontà. Al ché, dopo qualche minuto si era presentata una donna con i capelli corti neri, vestita per bene e con un viso tanto affascinante quanto malizioso, si era avvicinata a lei dicendole che aveva bisogno di parlarle. La segretaria l’aveva avvisata che il notaio non si sarebbe presentato se non dopo le dieci, ma quella non le aveva nemmeno dato il tempo di finire la frase che aprendo il portafogli, le aveva allungato una rara banconota da cinquecento, aggiungendo che se le avesse fatto un favore, quella si sarebbe raddoppiata.
La segretaria, dal canto suo, fissando quel pezzo di carta viola da dietro le spesse lenti degli occhiali quadrati, fu tentata di rifiutare, poi però si ricordò del collier d’oro che era esposto nella vetrina della gioielleria accanto allo studio e che ogni giorno si posizionava davanti alla lastra di vetro, permettendo alla sua immagine riflessa di indossarlo. Le stava proprio a pennello e pensò che quella donna, chiunque l’avesse messa sulla sua strada e qualunque cosa volesse, era cascata a fagiolo.
Senza se e senza ma aveva accettato di aiutarla.
Si era fatta ripromettere di tenere la bocca chiusa, e si era fatta rifilare l’intero fascicolo con su scritto il nome dei Gargano.
Non era stato facile cercarlo, poiché mai avrebbe potuto immaginare che un semplice fascicolo di poche pagine sul testamento di un defunto, Dedonno lo avesse potuto rinchiudere in cassaforte.
La foga di potersi permettere di comprare quel pezzo d’oro le aveva finanche fatto passare dalla mente il perché quella donna aveva pagato una cifra così assurda per della scartoffia che andava solo archiviata.
Fatto sta, che accettò l’altra banconota gemella e si cucì la bocca fino a quel giorno. Ritornata al presente, solo in quel momento collegò tutto, ricordò ciò che aveva fatto e, vuoi per l’ansia, vuoi per la paura, le si plasmò in corpo come un istinto di sopravvivenza che la fece reagire, si alzò dalla sua postazione, afferrò un fazzoletto usa e getta, lo strinse tra le mani, si piazzò a pochi passi dall’uomo e fermandolo disse: «Dottore, io non mi sento tanto bene. Volevo dirle che mi prenderò qualche giorno di ferie», sapeva già che l’uomo non avrebbe avuto compassione, infatti fu mandata al diavolo senza tanti preamboli, ma solo dopo qualche ora dal suo allontanamento, a Dedonno gli si accese la lampadina del sospetto.
Il fascicolo che conteneva tutte le prove della sua combutta con Diomede Gargano, conservato nella cassaforte, era scomparso e l’unica che conosceva la combinazione, oltre a lui, era proprio la sua segretaria.
 
***
 
Dalla sera in cui Erminia aveva fatto intendere di essere stata l’artefice della lettera, Stefano non aveva avuto più modo di poterle chiedere spiegazioni. La donna si era inspiegabilmente rintanata nella sua camera e non permetteva a nessuno di oltrepassare la soglia: aveva mal di testa.
Era risaputo il problema alla cervicale che ogni tanto faceva la sua comparsa prendendola alla sprovvista e ogni volta che le veniva, il tempo cambiava. Giorni dopo, infatti, piovve, e quando pioveva nelle campagne di Murgella, la terra si allagava.
Caso volle che Diomede, quella mattina stessa, dovette recarsi in paese per degli affari da sbrigare ed, essendo che la strada principale che portava alla tenuta era inagibile per via dell’acquazzone, dovette ritardare il rientro. A quel punto, il fotografo non vide miglior occasione per indagare indisturbato nella stanza di suo nonno.
Prima però, di mettersi al lavoro, avvisò Aria con un messaggio, la quale, anche se mal volentieri, dovette far ritorno al casale, poiché nonna Erminia aveva chiesto la sua presenza, ciò nonostante fu contenta di leggere quel messaggio perché per l’ennesima volta aveva avuto la prova di come si poteva fidare del giovane. Gli lasciò campo libero, avvisandolo che lo avrebbe raggiunto non appena si fosse liberata dell’impegno con sua nonna.
Stefano non perse altro tempo. Accertatosi che sua madre dormisse e che effettivamente non c’era pericolo che suo padre potesse tornare da un momento all’altro, si recò davanti alla porta della camera di suo nonno, ma nel momento in cui andò per abbassare la maniglia, si accorse che era chiusa a chiave. Lì per lì rimase sconcertato. Com’era possibile? L’ultima volta era stato lui a chiuderla, proprio il giorno del suo ritorno. Sua madre non avrebbe avuto interesse di recarsi lì. Che fosse stato suo padre? Era ovvio che nascondesse qualcosa, lo aveva capito quella stessa mattina, quando aveva trovato anche la porta del suo studio chiusa a chiave.
Dopo aver avuto quel piccolo screzio con i cugini sul futuro delle scuderie, non si erano più incontrati, Diomede non aveva neanche avuto la briga di chiedere spiegazioni sulla sua intromissione e tantomeno il giovane se ne era preoccupato. Poi però un pensiero fugace gli balenò per la mente: e se Erminia centrasse qualcosa? In fondo era lei ad avere libero arbitrio in quella camera. Che l’avesse chiusa quella stessa sera che l’aveva incontrata in casa sua?
Se fosse così, perché l’avrebbe fatto?
Che motivo aveva di chiudere a chiave la camera se lei stessa aveva fatto capire al giovane di averlo attirato a Murgella con quel mistero?
Non c’era altra scelta se non quella di chiederglielo direttamente.
Si recò in casa sua, senza far caso a Mina che, quando lo vide comparire davanti alla porta, fu folgorata da un brivido di piacere che la bloccò senza lasciarle modo di reagire. Di lì passò anche sua madre la quale, vedendola impalata, le chiese che cosa le fosse preso.
«Ma quanto può essere bello?» sospirò sua figlia ancora intontita da tanto piacere.
«Chi?»
«Stefano, il figlio di tuo cugino.» specificò.
Nel sentire quel nome, Rita volse lo sguardo nella stessa direzione in cui erano puntati gli occhi della ragazza e, non vedendo nessuno, le chiese se si sentisse bene, al ché, Mina ritornò alla realtà, imbronciandosi e insistendo che il ragazzo era entrato e si era inoltrato nel corridoio che conduceva alle camere da letto.
Rita, presa dall’euforia, senza trapelare le sue emozioni, chiese alla figlia di andare in cucina e prepararle una tisana alle erbe. Non ci fu bisogno d’insistere, che la ragazza eseguì quell’ordine anche se controvoglia.
Con la via libera, Rita s’inoltrò anch’essa nel corridoio sperando che sua figlia non avesse preso un abbaglio. Si sbagliava. Mina aveva ragione, Stefano era proprio lì e camminava spedito, chissà dove.
Poco le interessava, alzò il passo per raggiungerlo e riuscire a fermarlo. Quando gli afferrò l’avambraccio, fu sorpresa di notare un sorriso affettuoso sulle sue labbra, sorriso che disparve non appena il giovane si accorse di lei.
Prima di divincolarsi dalla sua presa, Stefano le chiese con riluttanza che cosa volesse ancora.
Lei sorrise e con voce accattivante disse: «Abitiamo vicini, ma è impossibile incontrarci. Volendo restare soli…»
«Perché dovremmo restare soli, noi due?» la interruppe prontamente il giovane.
«Perché… penso che abbiamo molte cose da dirci» ribatté con voce smielata, accorciando la distanza che il giovane aveva imposto, per allungare la mano verso il suo braccio muscoloso e accarezzarglielo con le lunghe unghie pittate.
Stefano le permise quel contatto, irrigidendosi subito dopo.
«Non essere scortese con me – continuò la donna – so bene che tra te e tuo padre non scorre buon sangue. So anche che vuole togliere il lavoro ai miei fratelli. Io… potrei aiutarti se solo tu lo volessi.»
Le unghie avevano lasciato il posto alle dita e infine al palmo della mano. Il fotografo sentì quel tocco serpeggiare sulla sua pelle, minaccioso e beffardo. Sì, si sentì beffato da quella donna che era da sempre l’amante di suo padre e la rovina di sua madre, così rivedendo la figura di quest’ultima marchiata dalle botte del marito e paragonandola al viso ben curato e libero da segni d’età avanzata di quella donna che gli stava davanti, ebbe uno scatto d’ira istintivo: l’afferrò dalle spalle e, senza nemmeno darle il tempo di urlare per lo spavento, la spinse violentemente contro il muro, intimandole a poca distanza dal suo volto di lasciarlo in pace.
«Credi che sia uno stupido? – chiese tremando dalla rabbia – credi che non sappia quello che avete fatto a mia madre?»
Rita, invece di sorprendersi da quelle parole, allungò le labbra carnose e rosse in un sorriso di scherno, poi mordendosi la parte inferiore mormorò: «Adesso si spiega il perché del tuo allontanamento e dell’odio che tuo nonno ha provato verso tuo padre. Il diletto figlio sapeva tutto. Non sei stato poi tanto furbo, caro Diomede. E prendevamo per rincoglionita quella specie di moglie»
«Chiudi quella bocca! - esclamò il giovane scuotendola nervoso – che razza di donna sei? Come cazzo ha potuto preferire…»
«Me a tua madre? – concluse lei alzando il mento, fiera – posso darti una dimostrazione, se vuoi…» 
Sdegnato da quell’atteggiamento, il giovane lasciò la presa, accennò due passi indietro, mentre la donna con uno scatto gli afferrò il viso e si allungò verso di lui baciandolo.
Nonostante Stefano fosse più forte di lei, non riuscì ad allontanarla subito e caso volle che proprio in quell’istante passasse di lì proprio Aria che nel vedere la scena, rimase all’inizio sconcertata, poi man mano che metabolizzava la situazione si sentì delusa e arrabbiata.
Indietreggiò e senza volerlo andò a colpire con la gamba una sedia di vimini posta come abbellimento all’angolo del corridoio, catturando così l’attenzione dei due.
Stefano riuscì a liberarsi da quella morsa velenosa e quando si accorse della giovane, si sentì mancare un battito. Sussurrò il suo nome, mentre con gli occhi cristallini cercava disperatamente quali emozioni volessero rispecchiare i suoi.
L’unica ferma nella realtà parve essere proprio Rita, che non accortasi della figlia di suo fratello, continuava a guardare Stefano come un predatore affamato, leccandosi le labbra umide.
Aria non riusciva a poter dare una descrizione a quel che provava, oltre al miscuglio di rabbia e delusione, sentiva anche quel lieve ma intenso sprazzo di gelosia e proprio questa le bastò per reagire d’istinto, se ne andò via correndo.
Il giovane scattò in avanti, dimenticandosi delle mani di Rita che continuavano a tenerlo dalle braccia. Si volse a guardarla e fu come se rivedere quel volto tanto affascinante quanto malizioso, lo avesse riportato al presente. Con fare brusco, l’allontanò lanciandole un’occhiata torva, poi si pulì le labbra con il dorso del polso come a voler cancellare quel sapore amaro e corse via per raggiungere Aria.
La pioggia cadeva a dirotto colpendo qualsiasi cosa trovava sul proprio cammino. Aria tagliava il suo passaggio continuando a correre. Aveva il fiatone e non riuscì a capire se i rivoli che le si disegnavano copiosi sulle guance dipendessero dalla pioggia o dalle lacrime.
Sentiva l’impulso di piangere, ma per qualche strano motivo si rifiutò di farlo.
Perché mai doveva farlo per Stefano? Perché doveva essere gelosa? Lui non era Carmine. Lo conosceva da poco più di una settimana, cosa le importava a chi donava i suoi baci?
Un’altra vocina che strigliava i meandri della sua mente, tentò con tutte le forze di far valere la propria ragione e cioè che il bacio nelle scuderie, il vederlo ogni giorno e sapere che lui era dalla sua parte, stavano dissipando l’amore per Carmine e avevano acceso qualcosa di indescrivibile nel suo cuore. Perciò quella gelosia non era dovuta solo al fatto che quel giovane, di cui lei si poteva fidare, avesse baciato la donna che la odiava da sempre, bensì giustificava qualcosa di più forte.
Mentre correva e ripensava a questo, pregò la pioggia di cancellarle quegli assurdi pensieri, ma a un tratto, si sentì afferrare per una spalla e se chi la stava fermando, non l’avesse retta, sarebbe di sicuro caduta sul fango.
Era Stefano, bagnato dalla pioggia. Aveva i capelli appiccicati sulla fronte, mentre il mezzo codino che li reggeva si era allentato per il peso dell’acqua. Ansimava per la corsa, ma la guardava supplichevole.
«Perché stai scappando via?» le chiese.
«Non ti devo alcuna spiegazione, lasciami!»
«E allora non scappare!»
«Non sto scappando!»
«Stai fraintendendo. Non l’ho baciata io. È stata lei…»
Con una spallata Aria riuscì a liberarsi dalla presa, interrompendolo. «Ti stai giustificando? Cosa vuoi che me ne freghi di quello che c’è tra voi due? Rita è una donna molto affascinante – iniziò a balbettare, straparlando, forse nel tentativo di darsi delle risposte – è normale che tu possa provare dell’attrazione per lei…»
Stefano, a quelle parole, non le diede nemmeno il tempo di finire la frase che sentendo un impulso irrefrenabile di stringerla a sé, non volle più fermarsi, le afferrò il viso e la baciò con impeto.
All’inizio la ragazza fu sorpresa da quel gesto e rimase impietrita, poi però, vuoi per il calore di quelle labbra, vuoi per il profumo di pini che, malgrado la pioggia, reggeva la propria fragranza, si sentì travolgere dai sensi, dagli stessi che fino a quel momento l’avevano resa confusa. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dal momento che durò quanto un battito di ciglia, poiché il fotografo, forse, resosi conto di aver sbagliato, si allontanò di scatto scusandosi per l’accaduto.
Non seppe più come giustificarsi, d’altro canto come poteva farlo se, minuti prima aveva permesso lo stesso gesto a quella vipera? Era convinto di aver fatto un errore, che quella ragazza dal viso così dolce e innocente lo stesse giudicando un uomo frivolo e senza pietà, proprio come lo era suo padre. E si odiò per questo. Perché lui non era come quell’essere spregevole, anche se nelle sue vene scorreva il suo sangue.
Strinse i pugni, sospirò e con voce ferma si dispiacque «Io, quella sera, sapevo che mi scambiasti per Carmine, ma d’allora non riesco a toglierti dalla mente. Sei come un chiodo fisso e ogni volta che mi sei affianco… sento il bisogno di baciarti»
Dopo quelle parole, accadde qualcosa d’inaspettato: invece d’inveire contro di lui, magari schiaffeggiandolo, Aria poggiò le mani sul suo petto scolpito, puntò i piedi e lo baciò.
E in quel momento, il bacio durò a lungo. Non trovando resistenza, o ripensamenti da parte della ragazza, Stefano l’avvolse tra le sue braccia, dischiuse le labbra, aspettando che anche lei lo imitasse e le insinuò la lingua, trovando la sua disponibile.
Ignorarono la pioggia che continuava a precipitare sulle loro teste e scivolava sulla loro pelle elargendo brividi di piacere, ma di certo non lo stavano provando per lei.
Aria sentì le calde e grandi mani del giovane premerle la schiena per avvicinarla a sé, si ritrovò a premere i seni sul suo torace e per la prima volta in tutta la sua vita si sentì libera, senza aver timore che qualcuno la sorprendesse; libera di sentire un bacio completo; di sapere che non stesse facendo nulla di male; libera di perdersi nelle braccia di qualcuno senza pensare alle conseguenze. Libera di amare.
Quell’ultimo pensiero, però, la bloccò, riportandola bruscamente alla realtà, al ricordo di Carmine e al suo amore per lui. Aprì gli occhi fissando quelli chiusi del fotografo. Un brivido le si delineò lungo la schiena e fu come se i sensi si fossero amplificati dandole una sensazione avversa. Dal rumore della pioggia, al suo punzecchiarle la pelle, si sentì scossa e agitata tanto che si allontanò dalla stretta idilliaca lasciando il giovane confuso.
Si guardarono per qualche istante, poi fu lei a spezzare il silenzio. «Non posso farlo!» e detto questo si volse dal lato opposto del viale e riprese a correre.
Stefano, dal canto suo, scosso dalla situazione, provò a rincorrerla per fermarla, ma lo squillo copioso del cellulare lo interruppe. Prima di aprire la chiamata, non gli restò che guardare la figura della ragazza mentre veniva inghiottita dal velo di pioggia.
«Chi parla?» chiese dopo aver avvicinato l’aggeggio all’orecchio.
«Stefano, sono Cristoforo!» rispose allarmata, la voce dall’altro capo.
«Dimmi tutto» ribatté il fotografo sospirando, cercando di ritornare del tutto al presente e di certo non gli fu difficile farlo, giacché la notizia che diede l’uomo al telefono fu talmente dura da sconvolgere la situazione.
Diomede era scomparso.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14
 
Seduto sulla poltrona nel grande salone di casa Ferrara, Stefano fissava il vuoto, mentre quasi tutti i parenti che lo circondavano, parlottavano su quella, a parer loro, disgrazia.
Il giovane non aveva avuto il tempo di cambiarsi gli abiti bagnati che qualche ora prima, con Alberto e i gemelli si erano recati nel posto in cui, a detta di Cristoforo che si trovava lì, un contadino della zona aveva trovato la macchina nella scarpata. Stefano aveva notato il suo poco interesse nell’accaduto, come il suo, come quello di tutti gli altri presenti, non aveva detto nulla neppure a sua madre e aveva pregato tutti di non avvisare zia Erminia, almeno fino a quando non avessero avuto la certezza della scomparsa.
Immerso nei suoi pensieri, non riusciva a trovarne uno che potesse farlo preoccupare per quella situazione, che potesse, malgrado tutto, farlo sussultare per la paura che forse suo padre potesse esser morto.
A riportarlo alla realtà fu l’entrata di un ufficiale dei carabinieri. Si trattava di Rocco Mastrorilli, giovane appuntato, trentenne, dall’aspetto attraente, figlio del più importante gioielliere di Murgella, nonché amico d’infanzia dei fratelli Gargano. Non appena lo vide, Stefano si alzò dalla poltrona e, ignorando i presenti, andò ad accoglierlo. I due ritrovati amici si strinsero gli avambracci e abbreviarono i saluti per passare subito al vero motivo che lo aveva portato lì, in quelle vesti.
«A giudicare dal poco che siamo riusciti a trovare sull’asfalto bagnato e sul tratto di strada allagato, l’incidente non è avvenuto a causa di un’altra auto. Tuo padre andava alquanto veloce, la pozza d’acqua che ha sorpassato riempiva una buca dissestata, abbiamo trovato lo pneumatico anteriore sinistro forato, ha perso il controllo dell’auto ed è uscito fuoristrada per via del fango.»
«Nessuno l’ha visto, naturalmente.» aggiunse Alberto.
«A quanto pare, no. Nessuno si è presentato in caserma per denunciare l’accaduto. Voi stessi siete stati avvisati da un passante.»
«Rocco – intervenne Stefano – avete, per caso, scoperto a che ora può essere accaduto?»
«Per il momento non lo sappiamo. Se esporreste denuncia di scomparsa, allora potremmo indagare più a fondo. Ma devono passare almeno quarantotto ore. Questo è solo un favore d’amico che sono venuto a farvi.»
Il fotografo lo ringraziò e congedandolo gli disse che sarebbe passato in caserma quella mattina stessa. Prima però che l’appuntato potesse andar via, Rita, che fino a quel momento se n’era stata zitta in un cantuccio del salone, prese parola chiedendo: «Rocco, se dovessimo trovarlo morto, noi Ferrara potremmo far ricorso per l’eredità?»
Quella domanda alquanto fuori luogo impietrì tutti e tutti si voltarono a guardare la donna che sembrava fregarsene altamente della situazione. Chi le lanciava sguardi carichi di rimprovero, chi scuoteva il capo contrariato da quell’atteggiamento e solo Stefano la ignorò, prendendo sottobraccio l’amico per distrarlo. Quando i due uscirono dalla stanza, Alberto non aspettò che piombasse il silenzio per rimproverare sua sorella.
«Ma ti rendi conto di quello che dici?»
«Perché te la prendi tanto?» sorrise sorniona, avvicinandosi a una specchiera per aggiustarsi i capelli.
«Un membro della famiglia scompare nel nulla e il tuo primo pensiero è l’eredità?»
«Quel membro della famiglia ch’è scomparso – lo interruppe sua sorella, alzando la voce – è lo stesso che fino a oggi vi ha sfruttato come schiavi! Mi meraviglio di te, Alberto. L’unico della famiglia a essere sempre stato l’uomo giusto, sincero. Che ti è successo? Fai l’ipocrita, ora? Ditelo tutti quanti che la scomparsa di vostro cugino è una liberazione. Ammettete che sperate in un suo non ritorno.»
«Falla finita, Rita!»
«Ve lo leggo negli occhi, che la pensate come me. Fosse morto!», nel dire questo, piroettò come una bambina su di giri fino a fermarsi davanti a Stefano che la fissava con sguardo atono, mentre lei rideva strafottente.
Il giovane nonostante volesse sbatterla fuori dalla sua stessa casa, si trattenne dal farlo e, ignorandola, si rivolse al resto dei presenti avvisandoli che si sarebbe allontanato per sporre denuncia di scomparsa, che nel mentre avrebbe avvisato l’ospedale e chiese quando avrebbe fatto ritorno suo fratello dal viaggio di nozze.
«Dovevano trascorrere un mese in Egitto – rispose Albero – sono solo passati quindici giorni, penso che, avvisandolo ritornerebbe.»
«Lo avviserò io» concluse Stefano uscendo dal salone.
 
***
 
La tentazione di chiudere la chiamata prima che suo fratello potesse dar modo di rispondere, fu tanta. Ciò che lo salvò dal compiere un atto del genere fu la sua coscienza. Lui era diverso dal resto della famiglia, non era vile come suo padre, non aveva la furbizia mista alla malizia di suo nonno. Quindi aspettò, ma nessuno rispose. Tramite messaggio, chiese a uno dei due gemelli di condividergli il numero di Marella ma, mentre quello di Carmine squillava, quello di sua moglie non diede segni di vita.
Sospirando, decise che ci avrebbe provato più tardi. Così, infilandosi il casco, mise in moto la sua Yamaha nera e rossa e uscì dal casolare percorrendo il viale dei pruni. Si stava recando in caserma come aveva detto e per tutto il tragitto lo accompagnò un pensiero che man mano il tempo passava diventata parecchio fastidioso. Era ovvio che Aria non aveva dimenticato Carmine, ma per qualche motivo il solo pensiero che il fratello dovesse ritornare, lo mise in agitazione.
Sentì che la gelosia si stava facendo ancora più intensa, cosa che non l’era mai successa prima d’ora con nessuno, nemmeno con Gilda Alcimonte, la sua collega di lavoro.
Con lei aveva avuto una storia durata un annetto pieno, ma senza impegni, erano i tipici scopamici. Gilda era una giovane avvenente con le forme al posto giusto, amava scrivere per il giornale e per se stessa, inoltre aveva molte cose in comune con Stefano: come la passione per l’arte e le avventure per i boschi. Sostanzialmente aveva un carattere forte, esuberante ma allo stesso tempo genuino, sapeva incazzarsi in due secondi e allo stesso tempo trovare la soluzione a ogni problema.
Doveva ammetterlo, Arianna era completamente diversa da lei, eppure quella scintilla che gli si era accesa quando aveva conosciuto la giornalista, era altrettanto diversa da quella di quando aveva visto per la prima volta Arianna, quest’ultima era più abbacinante. Che all’inizio avesse pensato che la giovane fosse dolce, dall’aspetto innocente e questo suo modo di vederla gli avesse riacceso il cuore? Non seppe darsi una spiegazione e il pensiero di suo fratello con lei, presto, gli ritornò a bombardargli i pensieri.
Aveva finito di piovere da qualche ora, l’acquazzone aveva lasciato il tratto di strada melmosa. Il giovane dovette fermarsi perché gli fu impossibile proseguire.
Dopo vari tentativi di passare, decise che sarebbe tornato indietro e magari avrebbe chiesto un passaggio a Cristoforo con il fuoristrada.
Quando arrivò davanti al cancello del casolare, si accorse che Aria aveva appena svoltato il viale che portava a casa sua.
L’intenzione di recarsi in caserma fu subito scambiata col desiderio di parlarle. Lasciò la moto lì dov’era e, toltosi velocemente il casco, corse verso la direzione che aveva preso la ragazza. La trovò che parlava con Alberto e sentì quest’ultimo che l’avvertiva di quello che era successo a Diomede.
Per un istante, Stefano attese, cercando di scorgere in lei una qualunque reazione, ma Aria parve atona a quella notizia.
Si avvicinò ai due, salutando e, non appena la ragazza udì la sua voce, senza voltarsi, disse a suo padre che doveva andare dalla nonna.
Stefano voleva fermarla, ma non poté farlo, che subito l’uomo lo trattenne chiedendogli come mai fosse ritornato così presto.
«La strada è inagibile. Sono tornato per chiedere a Cristoforo un passaggio.» spiegò continuando a lanciare occhiate verso la via che aveva preso Arianna.
Non gli fu difficile congedare il cugino di suo padre, il quale dovette ritornare al proprio lavoro, così il fotografo non perse tempo a inoltrarsi in casa dei Ferrara con la speranza di trovare la giovane e poterle finalmente parlare. Purtroppo, per le sue aspettative, Aria sembrò essersi dileguata in un niente e, per non imbattersi in quella vipera di Rita o in sua figlia, decise di cercare Cristoforo, ma quando uscì dalla casa, la trovò seduta ai piedi della quercia al centro del giardino che guardava il cielo tra le foglie lobate.
«Aria…» mormorò senza rendersene conto, ma fu comunque udito, tant’è che la ragazza si volse di scatto a guardarlo. Si fissarono in silenzio per qualche secondo e, quando il fotografo decise di fare il primo passo, lei si alzò e scappò via.
Volendola inseguire, fu impedito dal padre dei gemelli.
Quel trovarla, cercare di parlarle ed essere ignorato da lei durò per tutta l’intera giornata.
Si era recato in caserma, aveva sporto denuncia, si era messo d’accordo col maresciallo che avrebbe collaborato con le indagini, poi era ritornato al casolare, con l’intenzione di riprendere le indagini sulla lettera, ma le sue aspettative non furono appagate.
Solo verso il tramonto si stufò di quel comportamento, così, convinto delle sue azioni si diresse verso le scuderie, sicuro di trovarvi la giovane e per la prima volta in quella lunga e asfissiante giornata, riuscirono a rimanere soli, senza esser interrotti da nessuno.
Aria stava governando il box di Tempesta quando se lo vide arrivare spedito.
«Dobbiamo parlare!» disse a pochi passi da lei.
Lì per lì fu tentata di lasciare tutto e andarsene, ma Stefano, intuendo che avesse potuto farlo, le bloccò la strada, puntandole uno sguardo severo.
«Non ti lascerò andare questa volta.»
Intimidita anche dal ricordo di quelle labbra sulle sue, Aria abbassò gli occhi e continuò il suo lavoro con lentezza.
«Perché mi eviti?»
«Non ti sto evitando. Ho molto da fare…»
«Io proprio non ti capisco! Ti ho baciata per primo e ti ho chiesto finanche scusa. Poi mi baci tu e dopo mi eviti?»
«Non avrei dovuto farlo!» si giustificò lei accarezzando nervosamente la criniera della giumenta.
«Per via di Carmine?» chiese lui livido in volto.
A quelle parole Aria lo guardò, sorpresa. Quell’affermazione, non negò, le aveva dato fastidio. «Non sono affari tuoi, va bene?» Uscì dal box sorpassandolo, ma venne subito fermata dalla sua presa che la volse e la scosse dalle spalle «Sono affari miei! Perché se trattieni i tuoi sentimenti per mio fratello, me lo devi dire!»
«Ma quali sentimenti?»
«Quelli che provi per me!» L’urlo che gettò all’aria il giovane fece nitrire parecchi cavalli, dopodiché calò il silenzio.
Aria rimase attonita e lo guardava con gli occhi che parevano voler uscire dalle orbite, mentre Stefano ansimava come se avesse corso una maratona.
«Non me la bevo la storiella che non puoi per mio fratello. – riprese abbassando la voce – se sei ancora innamorata di lui, allora perché guardi me?»
Aria scosse il capo. Stefano le afferrò delicatamente il mento e glielo sollevò per guardarla bene negli occhi.
«Sì che lo fai. Tu mi guardi, mi basta vedere il mio riflesso specchiato nei tuoi occhi lucidi. Ci sono io e non Carmine. Mi basta sentire il rumore che fa il tuo cuore quando è vicino al mio – passò il pollice ad accarezzarle la bocca – qui, sulle tue labbra c’è il mio sapore, non quello di Carmine.» e detto questo si chinò per baciarla, ma a quel punto la ragazza lo fermò sibilando: «Mi sento confusa. Ho bisogno di tempo per capire quello che mi sta succedendo.»
Le lacrime appaiarono quelle parole e a Stefano non gli restò che fermarsi e accontentarla.
«Ho capito. Mi stai dicendo che devo aspettare. Lo farò, non preoccuparti. – si stava convincendo che dissipare quello che provava per lei, per il momento era la cosa migliore, - c’è comunque una cosa che ho da dirti – aggiunse – ho intenzione di scoprire la verità sulla lettera, quindi ti chiedo di aiutarmi, senza altro a pretendere. Credo che ora sia più importante questo. So che non è il momento data la scomparsa di mio padre, ma voglio approfittare della situazione e iniziare a indagare senza che qualcuno ci sia d’intralcio. Sei d’accordo con me?»
Aria si asciugò le lacrime col dorso della mano e alzando lo sguardo verso di lui annuì aggiungendo che voleva scoprire tutto del suo passato.
 
***
 
«La stanza del nonno è stata chiusa a chiave» esordì Stefano appoggiato allo steccato del box di Phobos il quale, ignaro di tutto, si godeva le carote che Aria gli aveva messo nella mangiatoia.
Dopo quel breve sfogo per ammettere entrambi i loro sentimenti si erano prodigati per iniziare le indagini e Stefano le stava raccontando, appunto, quello che aveva scoperto quella stessa mattina.
«L’ultimo a entrare e a uscire da quella stanza, sono stato io e ho lasciato la porta aperta. Poi qualche sera fa trovai Erminia seduta nell’ingresso di casa, dopodiché stamattina l’ho trovata chiusa. Secondo me, c’entra tua nonna.»
«Credi che abbia scoperto le nostre intenzioni?»
«Non ne sono sicuro, ma mi ha fatto capire qualcosa.»
Calò il silenzio per qualche istante, poi Stefano stesso, allontanandosi dal box, si stiracchiò le braccia e riprese dicendo: «Andiamo nello studio di mio padre, magari troviamo un doppione.»
Non gli sfuggì il disagio che solcava l’espressione della ragazza nell’avvicinarsi a quella stanza. Anche se non lo disse non volle entrare e non varcò nemmeno la soglia, decise di aspettarlo fuori, mentre con la testa affondata nelle spalle, si guardava intorno forse spaventata dal fatto che da un momento all’altro potesse scoprirli qualcuno.
Stefano, ancora una volta, fu rapito da quel suo modo di essere così indifesa e fragile. Non le disse nulla e si prodigò per cercare il fatidico doppione.
Rovistò tra i cassetti della libreria e, oltre a vecchie scartoffie, confezioni di toscani e riviste di trattori, non trovò nulla, così passò alla scrivania e lì scoprì qualcosa di strano. I cassetti erano completamente vuoti. Tutto ciò gli parve alquanto strano e mille domande iniziarono a frullargli per la mente.
Aria, dalla sua posizione, vedendolo immobile, lo chiamò facendolo trasalire. «Le hai trovate?» gli chiese.
«No…» rispose il giovane e la sua voce parve indecisa.
«Adesso che ricordo, nonna Erminia conserva i doppioni di casa tua in un barattolo dei biscotti, in cucina. Andiamo?»
Invece di seguirla, il fotografo disse che avrebbe controllato ancora un po’ e quando la giovane fu lontana, volle togliersi un dubbio. Velocemente, si recò in camera di suo padre e, spedito, andò ad aprire l’armadio.
Non aveva pensato male, l’armadio era vuoto, proprio come i cassetti della scrivania. Era come se quella scomparsa non fosse altro che una partenza, un allontanamento. Mancavano finanche i documenti personali.
Che cosa poteva significare quella scoperta?
Decise, malgrado tutto di tenerla per sé, in fin dei conti non erano passate nemmeno dodici ore dall’assenza dell’uomo, magari sarebbe tornato il giorno appresso, o avrebbe avuto notizie dall’appuntato Rocco.
Scosse il capo. Una cosa per volta, si disse e nonostante la curiosità cercava di assalirlo, uscì dalla camera di suo padre e si recò in cucina dove trovò Aria alle prese col barattolo e come aveva ben detto il doppione era proprio lì. Contenti della riuscita si incamminarono velocemente verso la camera di Vincenzo, ma con loro sorpresa, trovarono la serratura sbloccata.
Si fissarono interdetti per qualche istante, scambiandosi domande invisibili, poi fu Aria ad abbassare la maniglia e ad aprire.
Del buio che imperava da tempo in quella camera, non c’era più traccia, al suo posto, la luce del tramonto colorava l’interno con le sue calde sfumature. Le due finestre erano state completamente spalancate. La mobilia e tutto il resto sembravano usciti da una natura morta del Caravaggio, le cui ombre davano la sensazione di osservare un dipinto, ma la cosa che li sorprese del tutto fu la persona che se ne stava seduta dietro lo scrittoio, con un sorriso soddisfatto a marcarle il volto.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15
 
«Erminia?», la voce di Aria, anche se flebile, riecheggiò nella stanza macchiata di tramonto.
L’anziana donna invitò Stefano a chiudere la porta, aggiungendo che li stava aspettando.
Il giovane, per nulla esterrefatto da quella sorpresa, si accinse a obbedire e, quando fu udibile il tonfo della porta, sorpassò la ragazza e, piazzatosi d’avanti alla zia, le chiese spiegazioni.
Erminia reggeva tra le mani dei fogli di carta che lentamente estraeva da una cassetta di sicurezza riposta sul piano dello scrittoio.
«Prima che parli io, ti voglio chiedere una cosa, Arianna. Il giorno prima del matrimonio, ti vidi entrare in questa casa come una ladra. E, giacché sono convinta che tu, ladra, non lo sei, spero che mi dia conferma che cercavi qualcosa, qui dentro» disse indicando la camera.
Aria si fece coraggio, malgrado con la nonna non avesse mai avuto la giusta confidenza per confrontarsi. Strinse i pugni e con voce ferma raccontò tutto quello che era successo il giorno della morte di Vincenzo, senza tralasciare particolari e, quando parlò dello sguardo rivolto all’armadio e del suo pensiero, Erminia la interruppe affermando le sue parole. «Non ti sei affatto sbagliata. Vincenzo ti stava indicando l’armadio, per farti vedere questa cassetta che contiene questi documenti» le allungò i fogli.
Aria titubò nell’afferrarli. Allungò la mano lentamente come se dovesse prendere qualcosa tra le fiamme e che quindi doveva stare attenta a non scottarsi. Fu il gesto insistente di sua nonna a farla scattare. Li prese e si mise a leggere.
Le parole stampate le parvero un miscuglio di scarabocchi e lì per lì fu tentata di restituire il tutto all’anziana donna. Ma era bloccata, non riusciva neanche a spostare lo sguardo su di lei e, solo quando riprese a parlare, si scosse guardandola fissa in volto.
«Se te lo stai ancora chiedendo, Stefano, ma penso che ormai l’abbia già capito, sono stata io a mandarti la lettera. Solo perché obbligata da tuo nonno, altrimenti, fosse stato per me, ti avrei lasciato nel dimenticatoio come hai fatto tu con noi. Ma non sono qui per parlare della tua fuga di dieci anni fa.»
Stefano sbuffò un sorriso, incrociò le braccia al petto, accavallò le gambe e si appoggiò al baldacchino del letto.
«Comunque – riprese Erminia – la chiave che hai trovato all’interno della busta apre una cassetta di sicurezza dell’ufficio postale, la x sta per dieci romano.»
«Perché tutti questi misteri?» chiese Stefano senza scomporsi.
«Perché, mi chiedi? Dovresti chiederlo a tuo nonno. Io so solo quello che è accaduto e quello a cui mio fratello mi ha fatto assistere, ma se sperate che io sappia tutto, vi sbagliate. – arrancandosi al bastone, cercò di alzarsi dalla sedia, Aria scattò in avanti per aiutarla, ma la donna glielo impedì dicendo che ce la faceva da sola. Per quello sforzo, le fu difficile continuare a parlare, ma non demorse e col fiatone aggiunse – Qualche giorno prima di morire, tuo nonno aveva tentato di mandarti una lettera, Stefano, per farti tornare. Da giorni era sospettoso, ma non ho mai capito il perché, e non gliel’ho mai chiesto. A quanto pare, però, la lettera non ti è mai giunta, dato che non ti sei neanche presentato al suo funerale.»
«Ho soltanto ricevuto la tua lettera – confermò il fotografo – l’ultima volta che mi sono sentito con nonno Vincenzo è stato a Natale dell’anno scorso, quando mi raccontò del testamento e dell’intenzione che avevano di far sposare Carmine con Marella. Non mi aveva nemmeno parlato della sua malattia. Credo che sia potuto essere un buon motivo per farmi ritornare, se voleva vedermi.»
«Non ti disse nulla per il semplice motivo che il medico gli aveva segretamente dato due anni di vita.» svelò decisa sua zia.
A quelle parole, sia Stefano che Arianna parvero vacillare e, se fino a quel momento, quest’ultima era combattuta tra il leggere quelle carte o ascoltare il racconto di sua nonna, l’interesse in quelle parole la catturarono del tutto.
«Che cosa stai dicendo?» chiese incredulo il fotografo sciogliendo la sua posizione.
«La verità. E cioè che tuo nonno, mio fratello, a quest’ora doveva ancora essere qui tra noi!» Erminia incrinò la voce, facendo forza per non piangere, «Perché non me la bevo la storia dell’infarto! Anche dopo la sua morte, il dottor Volpe non si spiega il perché.»
«Pensi che non sia morto per cause naturali?»
«Ne sono sicura. E sai cosa mi ha dato conferma? Il comportamento di tuo padre, quando chiesi un’autopsia. Diventò una bestia, vietandomelo categoricamente. Mi disse che non avrebbe permesso a nessuno di violare la salma di suo padre. Come se la sua morte gl’importasse qualcosa.»
«Zia Erminia, anche se sappiamo tutti che tra mio padre e mio nonno non correva buon sangue, le tue parole mi fanno intendere che la causa della sua morte sia dovuta…» a interrompere le parole del giovane, fu lo sguardo impassibile della donna.
Calò un breve silenzio e a quel punto, Aria prese la parola, chiedendo a sua nonna perché stesse svelando tutto solo in quel momento.
«Fosse stato per me, mi sarei portata tutto nella tomba – rispose risoluta l’anziana – mi ero detta: Stefano ha ricevuto la lettera, ma non se n’è fregato nulla, quindi non è un mio problema, poi però, un giorno, aiutando Alberto e Cristoforo nella contabilità, mi ritrovai tra le mani delle carte estranee, almeno agli affari dei miei due figli.»
«Di che si trattava?»
«Una certa somma di denaro era stata spostata dal conto dell’azienda Gargano, sul conto del notaio Dedonno… - si fermò per qualche istante, poi amareggiata, aggiunse - e su quello di mia figlia Rita.»
Quell’ultima frase rimbombò nella stanza come un tuono, tant’è che i muri parvero vibrare.
«È stato questo il motivo per cui ho deciso di finire quello che aveva iniziato mio fratello. E poi, c’è anche un’altra cosa.» e qui la voce le si fece più greve.
In silenzio, Aria e Stefano aspettarono che continuasse a parlare. Seguirono tutti i suoi movimenti.
L’anziana donna andò a sistemarsi sulla sedia dello scrittoio, puntò davanti a sé il bastone, vi appoggiò entrambe le mani e sospirando, rivelò: «Ho un tumore al cervello.»
Aria si sentì perdere un battito; Stefano, invece, esclamò un “cosa?”, incredulo.
Erminia sorrise malinconica, poi disse: «La morte sta chiamando anche me. L’ho scoperto negli ultimi esami. Siete i primi ai quali lo sto dicendo. Quindi, prima che possa perdere la ragione, ho voluto aiutarvi.»
 
***
 
Stefano e Arianna non riferirono a Erminia della scomparsa di Diomede e il silenzio dell’anziana li convinse del tutto che non era ancora a conoscenza dell’accaduto.
Manco a farlo apposta, il sacco pieno di verità ancora da scoprire che la donna aveva svuotato, aveva distolto i due da tutti gli altri pensieri.
Erano usciti dalla camera di Vincenzo subito dopo aver finito di ascoltarla. Erminia si sentiva stanca, voleva tornarsene in camera sua, le doleva la testa. Aria l’accompagnò sottobraccio seguita da Stefano che con le mani nelle tasche e lo sguardo fisso sulla prozia ripensava alle ultime parole che aveva detto, al male che la stava consumando.
Prima di uscire, si era fatta ripromettere di non accennare nulla al resto della famiglia e, malgrado sua nipote si fosse impuntata dicendo che doveva affidarsi alle cure di qualche ottimo medico, lei la rimbeccò, non avrebbe permesso a nessuno, oltre alla morte, di metterle le mani addosso. Aveva ottantasei anni, morire non le sarebbe dispiaciuto affatto.
Sapendo che non avrebbe vinto, Aria tacque per tutto il tragitto.
Arrivati davanti alla porta di casa Ferrara, Stefano si fermò lasciando che le due proseguissero il loro cammino. Sospirando, si guardò intorno, poi andò a sedersi al tavolo sotto la tenda di lumi e volgendo gli occhi ai punti luminosi, si mise a pensare a suo padre.
Perché aveva la sensazione che c’era un collegamento tra la sua scomparsa e quello che aveva detto Erminia sulla strana e precoce morte del nonno?
Strinse gli occhi e scosse la testa, non riusciva a credere che nel suo inconscio stava accusando suo padre di omicidio.
Quell’uomo era tutto, lo aveva visto con i suoi stessi occhi, tranne che un assassino e poi, se il cuore decide di smettere di funzionare, neanche il miglior luminare della medicina può indovinarlo.
Con quelle parole nella mente, volle convincersi che la zia si fosse costruita solo castelli in aria, che tra la vecchiaia e la malattia, stava diventando paranoica o tutt’al più non accettava che il medico non avesse azzeccato.
«Cenerai con noi, stasera?»
A riportarlo alla realtà fu Aria che gli si era avvicinata silenziosamente e gli si era seduta difronte.
Stefano si volse a guardala di scatto, rilasciò il respiro trattenuto per la sorpresa e accennando un lieve sorriso, scosse il capo, aggiungendo: «Non credo.»
Aria abbassò lo sguardo, indicando senza volerlo le carte che le aveva consegnato sua nonna.
«Che cosa c’è scritto?» le chiese poggiando e incrociando le braccia sul piano di legno.
«Ci sono dei dati. Erminia mi ha detto che servono per aprire la cassetta. Dovrei presentarli all’operatore postale.»
«Sembri perplessa»
«È che non riesco a capire perché dovrei presentare questo nome, invece del mio. Se la cassetta era del nonno, chi è questa Maria Anna Bonasforza?» dicendo questo allungò le carte al giovane per fargliele leggere.
Il fotografo guardò attentamente le parole stampate e nel mentre curvava le labbra verso il basso, ignaro anche lui di cosa volessero significare.
Dopo qualche istante di silenzio, le restituì i documenti e con un sorriso le disse che l’unica soluzione per scoprire la verità era recarsi all’ufficio postale e aprire la cassetta.
Aria fu d’accordo, poi si alzarono entrambi e il giovane le augurò buonanotte, ma prima di andarsene alzò involontariamente lo sguardo verso le finestre della tenuta e si bloccò non appena incrociò gli occhi neri di Rita che se ne stava a guardarlo da dietro le vetrate di quella che doveva essere la sua camera.
Si scusò con la ragazza e invece di prendere la direzione di casa sua entrò in casa Ferrara. Non voleva recarsi in camera di quella donna, non dopo quello che era accaduto quel pomeriggio, ma i dubbi lo stavano travolgendo ed era convinto ora più che mai che quell’arpia sapesse qualcosa. Per sua fortuna la trovò nel corridoio del primo piano. Camminava lentamente con la sua elegante e sensuale andatura. Lo guardava e sul volto aveva un sorriso beffardo, cattivo.
«Mi cercavi?» gli chiese.
«Dobbiamo parlare.»
«Di cosa? Del bacio? Ne vuoi ancora?» sghignazzò a poca distanza da lui. Il giovane la zittì catturandola per un braccio e trascinandola con sé.
Uscirono di casa e si fermarono in una parte del giardino lontana da occhi e orecchie indiscrete.
La donna rideva come se ubriaca e quando si fermarono si guardò intorno, poi si avvicinò al fotografo e strusciando le mani affusolate e ben curate sul petto disse con voce sdolcinata: «Non ti credevo così audace. Vuoi baciarmi qui, senza pensare alle conseguenze?»
«Vedi di piantarla!» la intimò allontanandola da sé bruscamente. «Devi dirmi tutto quello che sai sugli affari di mio padre e sulla sua scomparsa.»
Quelle parole delusero Rita che al solo sentir nominare suo cugino ebbe come una sensazione di rigetto. «E cosa ti rende convinto che io sappia degli affari di tuo padre?»
Stefano non poteva dirle quello che aveva rivelato la madre sulla questione dei soldi sul suo conto, allo stesso tempo non seppe cosa inventare per farle sputare il veleno.
«Io non ho da dirti nulla - riprese la donna diventata tutt’a un tratto seria – il solo sentir parlare di quell’uomo viscido, mi fa rivoltare lo stomaco. Ma se vuoi sapere qualcosa sui suoi loschi affari possiamo sempre trovare un accordo.»
«Arriva al dunque.»
Seguì un istante di silenzio, poi Rita, giocherellando con una ciocca di capelli, riprese il suo atteggiamento frivolo e beffardo. «Tutta la famiglia sa che fra poco te ne ritornerai alla tua vita da scappato di casa, quindi la tua parte di eredità non ti servirà a nulla.»
«Che cosa vuoi, Rita?» Era la prima volta che faceva quel nome e l’amaro che gli si formò in bocca non lo dimenticò mai. Ingoiò la saliva che gli si era tramutata in veleno. Strinse le labbra in una linea dura e fissò quegli occhi neri come gli abissi, maledicendosi per averle rivolto la parola e anche solo pensato di pretendere da lei delle risposte.
«Cedimi la tua parte di eredità e io ti rivelerò anche il più ignobile segreto di tuo padre.»
Anche se la donna odorava di pulito e di fiori freschi, il suo profumo diede al giovane il voltastomaco.
Si pentì ancora una volta di averla interpellata. Come poteva, una donna così affascinante, celare tutta quella malignità?
Era plausibile che non amava suo padre, allora perché era sempre stata la sua amante? Perché far soffrire una madre e moglie innocente?
Solo per la proprietà.
Stefano fu riluttante e senza aggiungere una parola, si volse indietro e se ne andò, portandosi appresso solo l’eco della risata sguaiata della strega.
 
***
 
La tazza di camomilla fumava da minuti sul comodino accanto al letto dove Camilla dormiva spensierata. Gliel’aveva preparata Stefano, senza che gli fosse stato chiesto. Le aveva solo augurato la buonanotte, dopo averle portato quella tazza si era seduto sulla poltrona per farle compagnia.
In verità era lui ad aver bisogno di tranquillizzarsi. In una sola giornata si era sentito trascinare negli aridi e austeri ricordi della sua infanzia. Risentire l’angoscia, l’ansia, la paura per sua madre fu straziante e si sentì messo a dura prova. Eppure, in quella camera da letto regnava la calma più assoluta. Il solo respiro regolare della donna ne era la prova.
Cos’è che lo inquietava? Forse la stessa sensazione che dieci anni addietro lo portò a tagliare i ponti con tutta la famiglia, anche con chi era innocente e indifesa.
Chissà quante ne aveva subite sua madre, durante la sua assenza, per ridursi in quello stato.
«Perdonami, mamma.» sibilò, poi portò il busto in avanti e, puntati i gomiti sulle ginocchia, affondò il viso sui palmi delle mani, sospirando profondamente.
Che brutta sensazione quella di rendersi conto di essere scappato come un codardo. Lui, che a Firenze aveva sempre difeso a spada tratta i più deboli, che non aveva mai tollerato la violenza.
In quel preciso istante, si vergognò per aver detestato quella povera donna che non aveva mai alzato la testa per dire basta a tutte le angherie che le faceva subire suo marito.
Si rese conto che il bene, che aveva sempre detto di provare verso sua madre, era falso tanto quanto quello che provava per suo padre, perché se solo fosse stato vero, non sarebbe mai andato via e l’avrebbe difesa con tutte le sue forze.
Fu un innocuo gemito della donna a riportarlo al presente. Si liberò la vista per guardarla: si era voltata sull’altro lato e aveva ripreso a dormire tranquilla.
Non le aveva parlato della presunta scomparsa di suo marito e chissà se gliel’avesse detto quale sarebbe stata la sua reazione. Stefano non volle nemmeno immaginarselo, anzi, per il momento era felice per lei.
Sospirando ancora si guardò intorno alla ricerca di un orologio, estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e lo accese. Le cifre digitali segnavano le ventuno e quaranta. A quell’ora i Ferrara avevano terminato di cenare e chissà se Aria fosse rimasta o se ne fosse ritornata a casa de la Vedova.
Si alzò dalla poltrona passandosi tutt’e due le mani sulla testa per portarsi indietro le ciocche ribelli che gli erano cadute sulla fronte, poi fece cadere le braccia ciondoloni lungo i fianchi e sentendosi tutt’a un tratto stanco, decise di andarsene a dormine. Prima di uscire dalla stanza di sua madre, le diede un bacio sulla fronte, augurandole ancora la buonanotte.
Arrivato davanti alla porta della camera del nonno, si accorse che non era stata chiusa, così principiò ad afferrare la maniglia, ma qualcosa nel buio, lo fece esitare. C’era una luce soffusa, proveniente dal pavimento. Stefano aprì e diede un’occhiata all’interno, accese il lampadario e si accorse che quella luce proveniva da un cellulare. Si abbassò per prenderlo e lo riconobbe dalla marca, era di Aria.
Rigirandoselo tra le mani, sorrise al pensiero che ritrovandolo per la seconda volta in quella camera, fosse proprio uno scherzo del destino. Lo sventolò dandogli dei colpetti con le dita e, volgendo lo sguardo verso la porta d’uscita, pensò se riportarglielo o aspettare l’indomani.
Involontariamente, in quel movimento, si accese la schermata e lo sfondo che comparve gli alleggerì il cuore da quel macigno di gelosia che si stava scolpendo da parecchi giorni.
Non c’era più la foto di lei con suo fratello. Aria aveva scambiato lo sfondo con il campo dove si erano conosciuti per la prima volta. Lo riconobbe dai papaveri e perché proprio il giorno del matrimonio vi aveva scattato un sacco di fotografie.
Il giovane non riuscì a capire se per lui, quello che sentì nel cuore, fosse l’inizio della felicità.
«L’hai trovato…», la timida voce della ragazza lo fece trasalire. Si volse a guardarla e la vide in imbarazzo. Le indicò l’oggetto sorridendo.
«È il destino. – sorrise – tu perdi le cose, io le ritrovo.» e glielo porse.
Aria lo afferrò rimettendoselo nella tasca dei pantaloncini poi, non sapendo cos’altro aggiungere gli augurò la buonanotte voltandosi per uscire, ma sulla soglia si fermò, si volse e incrociò il suo sguardo.
«Devi dirmi qualcosa?» chiese Stefano incrociando le braccia al petto.
«Quando ci siamo divisi, ti ho visto dopo un po’, mentre ti trascinavi Rita in giardino – disse con un lieve tremore nelle parole, - che cosa vi siete detti?»
Il fotografo fu sorpreso da quella domanda. Nei suoi occhi sfuggenti lesse l’evidenza della gelosia. Sbuffò un sorriso, mordendosi le labbra e invece di risponderle, volle fargliene un’altra di domanda. «Perché sei gelosa?»
Aria trasalì titubante, iniziò a balbettare che non si trattava di gelosia, ma che essendo che da quella mattina li aveva sorpresi mentre si baciavano, poi la sera stessa si era allontanato da lei per rincontrarsi con quella donna, voleva semplicemente sapere che cosa ci fosse tra di loro.
«Ti rendi conto che quello che stai dicendo conferma le mie supposizioni?» chiese ancora il giovane accorciando la loro distanza.
«Non è così» rispose la ragazza indietreggiando e nel mentre, cercava di trovare un appoggio per il suo sguardo, per non incrociare quegli occhi celestiali, perché sapeva che se solo li avesse incontrati ancora una volta, si sarebbe persa completamente in essi.
«E allora, com’è?»
A quella domanda, non si accorse che ormai era vicina al muro e che l’alta e possente figura del ragazzo non le dava via di fuga. Sentì il suo fiato, il suo profumo, infrangerle la pelle del viso, penetrarle le narici e farle girare la testa.
La piacevole sensazione che conosceva bene iniziò a diramarsi nel basso ventre e, contro la ragione, alzò lo sguardo per guardarlo negli occhi.
E lì, diede conferma alle sue convinzioni.
Si perse.
Chiuse le palpebre, offrendo le sue labbra. Sentendo la barba solleticargli il mento. Quell’attesa fu come una tortura, poi, all’improvviso, il calore della sua vicinanza svanì. Quando riaprì gli occhi, Aria si accorse che il giovane si era allontanato e si passava una mano tra i capelli come se pentito di quell’atto mai avvenuto. Nel vederlo in quello stato, si sentì delusa.
«Sarebbe meglio che tu vada.» disse Stefano, poggiando una mano sul fianco e lisciandosi nervosamente la barba con l’altra.
Ma Aria non voleva andare via. Non dopo quello che stava provando, non dopo che quel sentimento che aveva tentato con tutte le sue forze di dissipare alla fine l’aveva sottomessa.
Col cuore che le pulsava violento nel petto, tale da farle sentire le pareti dilatarsi e col fiato corto, strinse i pugni, si allontanò dal muro e con passi decisi si avvicinò a lui, gli afferrò il braccio, lo voltò verso di sé e, abbrancandogli il viso, non gli diede nemmeno il tempo di metabolizzare la situazione che lo baciò facendogli intendere che quella volta non si sarebbe tirata indietro.
E Stefano lo capì, lo sentì, selle sue labbra, sul suo petto accarezzato, avvinghiato da quelle piccole mani, lo sentì nella pancia che il desiderio gli faceva vibrare le viscere, lo sentì nel suo cuore che batteva all’impazzata, travolto da quella voluttà tramutata in uragano.
La strinse tra le sue braccia, la toccò senza avere un meta precisa, come spaventato che da un momento all’altro sarebbe potuta scomparire.
Ora il desiderio si faceva più forte. Stefano l’afferrò dai fianchi e la premette sul suo bacino.
Aria, nel sentire la vivida presenza, sospirò di piacere e si lasciò scappare un gemito dalla bocca che andò a infrangersi sulle labbra del giovane.
Lentamente e a tentoni, si diressero verso il letto. La ragazza si allontanò da lui fissandolo negli occhi, si sedette sul letto e con le mani andò ad accarezzargli la pancia scolpita e scese, lentamente, saggiando i movimenti del suo respiro che si faceva più profondo man mano che le mani scendevano giù fino a fermarsi sulla giuntura dei pantaloni. A quel punto, Aria abbassò lo sguardo sulla cinta e per un attimo esitò. Era giunta fin lì, senza ripensamenti e non ne stava avendo nemmeno in quel momento. Non esisteva più nessuno, erano solo lui e lei, soli, proprio come lo erano in quella stanza.
Sapeva, Aria, lo sentiva che se fosse andata fino in fondo, tutto sarebbe potuto cambiare. Con quel uomo si sentiva al sicuro, protetta come non si era mai sentita con Carmine.
Non pensò a lui, nemmeno per un istante, perché la libertà che riuscì a percepire in quel momento l’allontanò dalla realtà. Da tutto e da tutti, tranne che da lui, da quel nuovo sentimento che non l’avrebbe tradita. Da Stefano.
Con decisione sciolse la cinta dei pantaloni, poi passò al bottone e alla cerniera e man mano, la pelle del giovane si mostrava in tutto il suo splendore.
Fu lui a fermarla. Le afferrò le mani la sollevò per poi catturarle il viso per poterla guardare negli occhi.
«Sei sicura?» le chiese in un soffio di voce.
Aria annuì ansimante.
«Se non lo sei, fermati ora, perché io non riuscirei a farlo.»
Da risposta, la giovane gli prese le mani e se le portò sui seni tondi. Stefano li strinse sentendo sul palmo i capezzoli turgidi, la baciò ancora insinuandole la lingua e accarezzandole la sua con vemenza, mentre lei, presa dalla foga, principiò a spogliarsi e a far sì che anche lui la imitasse. Alla vista di quel corpo scolpito nel marmo, desiderò ardentemente baciarglielo. E quelle labbra, sulla sua pelle, Stefano le sentì come carboni ardenti che gli arrecavano piacere.
Non riuscendo più a resistere, la fece sdraiare sul letto, si posizionò su di lei, le divaricò le gambe e la penetrò con gentilezza.
Quando lo sentì dentro di sé Aria gemette e iniziò dei lenti movimenti del bacino per rendere più piacevole l’idilliaco atto.
Stefano le baciava il collo, il petto, i seni, le succhiò i capezzoli e a ogni suo gemito spingeva più a fondo, fino a quando l’apice del piacere non si fece sentire, allora i movimenti furono più veloci e i loro respiri più profondi.
Aria avvisò il suo orgasmo con un gemito più udibile. Stefano riversò il suo seme sul monte di Venere, affondando la bocca sull’incavo del suo collo.
Quando la magia si dissipò, i due tornarono a guardarsi, ansimanti e stanchi e, prima di concedersi al sonno, sorrisero e si baciarono.
 
***
 
Carmine lo guardava con odio, solo con gli occhi lo colpevolizzava. Lo aveva tradito, non riusciva più a sentirlo come suo fratello. Tutto, solo per Arianna.
Ma lui sentiva di provare qualcosa di profondo per lei, non riusciva a starle lontano. Dopo aver fatto l’amore sentiva che non avrebbe più potuto farne a meno. Ma era convinto che anche lei provasse le stesse cose?
E se quella sera si fosse concessa a lui solo per appagare un bisogno sessuale?
Allontanò lo sguardo da suo fratello e lo volse verso di lei che guardava Carmine con supplica. Gli chiedeva perdono.
Stefano sentì dentro di sé una sensazione spiacevole. L’ansia lo investì e la paura di poterla perdere gliene diede conferma.
Ora Aria guardava lui con rabbia come a volerlo incolpare di tutto e senza dirgli niente corse verso Carmine.
Il giovane fotografo provò a gridare un no, ma si sentì la gola strinta da una presa micidiale. Suo fratello lo stava soffocando.
Aprì gli occhi di scatto, ansimando come un forsennato.
Si guardò intorno, cercando di metabolizzare dove si trovasse, era ancora confuso tra l’inconscio e la realtà. Riconobbe la camera di suo nonno. Dalle persiane chiuse, penetravano i flebili raggi del sole, poi ricordò quello che era accaduto la sera precedente con Aria. Allora volse lo sguardo dall’altro lato del letto e lo trovò vuoto. Lo tastò, le lenzuola erano tiepide, segno che la ragazza era andata via da poco.
Non ne capì bene il motivo, ma quel sogno gli aveva scombussolato i sensi. Ebbe il bisogno di sentire la sua voce. Si alzò dal letto e andò alla ricerca dei suoi indumenti. S’infilò i boxer, poi prese il telefono dalla tasca del pantalone e provò a chiamarla.
Uno squillo, due, tre. Aria non rispondeva. Camminando avanti e indietro nella stanza, gli vennero alla mente mille dubbi.
E se si fosse pentita?
E se avessero commesso un grande errore?
Nervosamente, si passò la mano tra i capelli sciolti, spettinati, poi decise di andare a cercarla.
Prima però aveva bisogno di rinfrescarsi.
A distrarlo definitivamente dai suoi cattivi e angoscianti pensieri, fu la visita dell’appuntato Mastrorilli, il quale si presentò in casa Gargano con una novità sulla scomparsa di Diomede.
Stefano non aveva avuto il tempo di asciugarsi i capelli che se li era legati alla rinfusa e si era messo addosso la prima cosa che aveva trovato nella valigia, poiché fino a qualche giorno prima era stato convinto di volersene ripartire e aveva vietato a sua madre di disfarla.
Raggiunse l’amico nel salone e, dopo essersi salutati e avergli offerto un caffè, lo spronò ad arrivare al dunque.
«Ste’, abbiamo continuato a indagare. Il maresciallo è giunto alla conclusione che si tratti di rapimento.»
Stefano trasalì. «Da cosa l’ha dedotto?» chiese incerto.
«La mattina della scomparsa, tuo padre si è recato in banca per prelevare un’ingente somma di denaro. Nonostante sia ancora presto, ho voluto indagare personalmente. Ho controllato le telecamere del paese e, dopo la banca, è stato visto uscire fuori da Murgella. Il resto lo sai benissimo.»
«Ma è stato seguito da qualcuno?»
«Da quel che si presume no. Se è come pensiamo noi, i rapitori lo hanno assalito nell’agro.»
Stefano scosse il capo. «Rocco, riflettici bene. Se fosse come dite voi, perché rapirlo? Aveva i soldi con sé, si sarebbero dovuti accontentare di rapinarlo.»
«E allora come la spieghi la sua scomparsa? Non ci sono fiumi. La macchina è stata trovata in una scarpata. Purtroppo per il maltempo abbiamo supposto la ricostruzione della causa dell’incidente. La strada è completamente allagata.»
«Appunto. Quello che mi hai detto non torna! La strada che ha percorso non ha incroci o stradine secondarie per raggiungere Murgella. Chi la percorre può andare e venire, ma se inagibile poteva solo tronare indietro. Quindi avresti dovuto controllare di nuovo le telecamere e vedere se qualche auto sospetta fosse ritornata a Murgella.»
Quel ragionamento non faceva una piega. Rocco convenne che Stefano aveva ragione e si giustificò perché non aveva avuto tempo a sufficienza per indagare meglio.
«Lascia stare, non perdere tempo con l’idea del rapimento.»
«Perché dici questo?»
«Non farci caso – lo liquidò spiccio – Ascolta, voglio che tu mi faccia un favore, è di estrema urgenza.»
«Di che si tratta?» chiese l’amico allargando le braccia in segno di resa.
«Ho deciso di far riesumare la salma di mio nonno per un’autopsia. Vorrei che te ne occupassi tu per far abbreviare i tempi.»
«E potrei saperne la ragione?»
Il fotografo non proferì parola, fece il giro della stanza e andò ad affacciarsi al balcone, seguito dall’amico. L’aria del mattino era fresca. Le nubi cineree erano ancora presenti nel cielo e il pallido sole giocava a nascondino con loro.
«Stefano?» lo richiamò l’amico, ma il fotografo non rispose, non volle parlargli di quello che aveva rivelato zia Erminia. Decise che avrebbe taciuto, almeno per il momento. Poi, mentre l’appuntato spiegava che si era prodigato per aggiornarlo all’insaputa del suo superiore e che quindi agire per sua richiesta andava contro le regole della divisa che indossava e rischiava di avere il trasferimento, Stefano vide in lontananza, verso le scuderie, la figura di Aria che rientrava trascinandosi Tempesta dalle briglie.
A quel punto l’interesse per la misteriosa scomparsa di suo padre si alienò. Con pacata fretta, il fotografo si congedò dall’amico, dicendogli che aveva molto lavoro da sbrigare e senza aspettare che questo ribattesse uscirono insieme dal casale, si salutarono e si divisero.
Il fotografo corse verso le scuderie. Voleva parlare con Aria, voleva essere convinto che la notte trascorsa insieme non fosse stata un errore per lei, che l’ombra di suo fratello Carmine si fosse dissipata del tutto, che quello che aveva sognato non fosse altro che frutto delle sue inutili preoccupazioni.
Quando aprì il portone scorrevole in ferro, della stalla, la trovò davanti al box del lipizzano, alle prese con la toelettatura.
Aria si era accorta della sua entrata, ma non aveva fermato le sue faccende e ciò lo rese sospettoso.
Perché quella freddezza? Si chiese. Che le sue preoccupazioni fossero ovvie?
Anche se gli fu difficile, decise di mantenere la calma, si avvicinò a lei, la salutò e attese una sua reazione.
Dopo aver spazzolato la criniera della giumenta, Aria si volse verso di lui, ricambiando il saluto. Ma il suo sguardo fu sfuggente e Stefano non fece a meno di notare che le sue guance erano rosse forse per l’imbarazzo.
Per un istante fu sollevato, perciò rimase a fissarla con la speranza di leggerle in volto qualcosa che avesse potuto tranquillizzarlo del tutto.
Fu lei stessa a interrompere quel silenzio e a chiedergli se voleva accompagnarla all’ufficio postale quella stessa mattina per aprire la cassetta.
«Ho bisogno di sapere la verità. – spiegò rifiutandosi ancora di rivolgergli lo sguardo – Sono convinta che il nonno abbia voluto rivelarmi le mie vere origini. Questo pensiero non mi ha fatto chiudere occhio stanotte.»
A quelle parole, Stefano si sentì passare lungo la schiena una scudisciata dal tocco lacerante.
Che l’avesse detto involontariamente o intenzionalmente, la delusione che provò nel sentire quelle parole fu più forte di ogni altro sentimento.
Stefano doveva convincersi: non doveva farsi altre illusioni.
Tuttavia, non volle far trapelare le sue sensazioni, così accettò di dimenticare tutto e con un sorriso forzato, ma allo stesso tempo arreso, disse che era d’accordo, che l’avrebbe accompagnata.
Forse troppo tardi si sarebbe reso conto di essere stato uno sciocco. Forse, qualcun altro più sensato di lui avrebbe mandato a fanculo tutto, si sarebbe goduto il sesso e se ne sarebbe fregato del dopo. Cos’altro lo legava lì? A dirla tutta, se ne fregava altamente della scomparsa di suo padre. Zia Erminia aveva rivelato le vere intenzioni di Vincenzo. Il suo compito era finito, per quanto gli riguardava, nient’altro lo tratteneva dal ritornarsene a Firenze. Eppure, qualcosa, nascosta nel suo cuore lo allontanava da quelle intenzioni: l’amore che provava per quella ragazza.
 
***
 
Aria non era come Stefano l’aveva pensata in quel momento. Sì, era vero il fatto che da quando era entrato nella scuderia non gli aveva rivolto lo sguardo. Non era vero che per lei, quello che era accaduto la sera prima, non aveva avuto alcun valore, anzi, stava letteralmente lottando contro il suo imbarazzo che, anche se ormai avevano alienato ogni tipo di tabù, continuava a sfidarla facendola sentire come la prima volta che i loro cuori avevano pulsato all’unisono la sera di quel fatidico giorno, dove la sua vita era cambiata del tutto.
Quel “d’accordo” che era uscito dalla bocca del giovane, dopo la sua richiesta, lo sentì come una delusione per lui. E solo in quel momento si rese conto che aveva sbagliato tutto.
Perché continuava a trattarlo freddamente?
Avevano fatto l’amore. No, non era stato solo sesso. Lui era tornato a cercarla, allora perché lei si comportava così?
Quando decise di dissipare il suo insensato imbarazzo, si accorse che Stefano aveva lasciato la scuderia e a quel punto, decisa, si allontanò dal box di Tempesta per corrergli dietro.
Si ritrovarono nel cortile. Stefano si era fermato e le dava le spalle. Lo chiamò, ma lui non si volse, così gli andò in contro e solo quando stava per afferrargli la mano si accorse del perché si fosse fermato.
I suoi occhi puntavano il cancello, dal quale era entrata un Audi Q7 scura.
Aria la riconobbe e, solo quando vide uscire chi la guidava, credette di aver perso qualche battito.
Carmine e Marella erano tornati.
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


16.
 
I movimenti di Carmine si susseguirono come una moviola e Stefano e Arianna lo guardarono entrambi celando sentimenti confusi, diversi.
La giovane non seppe spiegare quello che realmente sentiva. Vederlo uscire dalla macchina, abbronzato, dimagrito dal giorno del suo matrimonio, le scombussolò l’animo. Indossava un paio di occhiali da sole scuri, ma Aria sapeva benissimo che i vetri celavano lo sguardo puntato su di lei. Se li sentiva addosso quegli occhi verdi e al solo pensarci percepì come una stilettata nel cuore, tanto da farle portare la mano sul petto e stringerlo come a voler fermare quell’atroce dolore.
Stefano, invece, guardava ora il fratello, ora la ragazza che gli stringeva il braccio e tremava, ansioso di carpirle le sensazioni che stava provando.
Anche Marella era uscita dall’auto, con la sua solita aria da spaesata e incerta, ma nessuno sembrò far caso alla sua presenza. Era come se in quel cortile, le uniche figure tangibili fossero Arianna e i due fratelli e che quel vento umido che si era alzato incorniciasse il triangolo.
A riportarli alla realtà furono le urla sorprese dei gemelli che corsero verso l’auto portandosi appresso tutta la schiera dei Ferrara, mancavano soltanto Rita e sua figlia Mina.
«Come mai siete di ritorno? – chiese Erminia appoggiata al braccio di suo figlio Alberto – il viaggio di nozze non è stato di vostro gradimento?»
«A quanto pare, non ero l’unico a essere all’oscuro di tutto» esordì Carmine, facendo il giro dell’auto per avvicinarsi agli altri e nel mentre si tolse gli occhiali da sole dando conferma ad Aria che la stava guardando.
Ma anche se la giovane non sperasse di poter leggervi qualche segno di malinconia o anche solo di felicità, quello che percepì fu deludente per lei e soprattutto angosciante. Carmine aveva stampata sul volto la stessa espressione cattiva di suo padre.
«Di che stai parlando?» chiese ancora Erminia scoccando occhiate a tutti gli altri che tentarono di ignorarla, imbarazzati.
«Perché non lo chiedi a mio fratello?» ribatté il ritornato volgendo lo stesso sguardo verso Stefano il quale, senza scomporsi rispose: «Stavo cercando di chiamarti, ma il tuo cellulare non prendeva.»
«Ma davvero?»
«Si può sapere di che state parlando?» esclamò l’anziana, spazientita.
«Mio padre è scomparso da ieri mattina! - rivelò Carmine, continuando a reggere quell’insensata sfida di sguardi verso suo fratello. – Hanno trovato la sua auto in una scarpata e di lui nessuna traccia!»
«Che diavolo stai dicendo?!»
«Scusaci mamma, se non te lo abbiamo detto prima, volevamo una conferma» intervenne Alberto stringendo la presa sul suo braccio per tenerla ferma, poiché quella notizia l’aveva messa in agitazione.
«Volevate la conferma, o volevate godervi la bella notizia?» quelle taglienti parole, che nessuno credeva potessero mai uscire dalla bocca di Carmine, fecero calare un agghiacciante silenzio. I presenti si guardarono tra loro sconcertati, mentre Stefano serrò la mascella convinto di aver d’avanti non più suo fratello ma qualcuno da cui sarebbe dovuto stare attento.
L’unica a sentirsi ancora confusa fu Aria che con la mente chiedeva al suo vecchio amore di rivolgerle ancora lo sguardo per convincersi che quell’orribile sensazione altro non fosse che una sua paranoia. E Carmine sembrò ascoltarla, la guardò freddo, insensibile, prima di afferrare la mano di Marella e chiedere a zia Erminia se la loro stanza fosse pronta per accoglierli. «Mia moglie è stanca per il viaggio.» aggiunse con un ghigno enfatizzando le prime parole.
Aria sentì in quel tono una punta di strafottenza nei suoi confronti, ma non ammise a se stessa che quella che finalmente riuscì a provare per quel ragazzo era rabbia. Mollò la presa su Stefano, attirando involontariamente la sua attenzione e si allontanò senza dire nulla.
Stefano lì per lì volle seguirla per essere certo che l’arrivo di suo fratello non avesse alimentato la piccola fiammella che fino alla sera prima sembrava stesse spegnendosi.
 
***
 
Carmine e Marella occuparono la stanza da letto che una volta era stata di lui da celibe. Prima di pranzo, dopo essersi sistemati, il giovane si recò nello studio di suo padre e chiamò a raccolta suo fratello e i fratelli Ferrara, perché, disse, aveva urgenza di parlargli.
Esordì col chiedergli che cosa fosse realmente accaduto a suo padre, inveendo poi contro Stefano per non averlo avvisato.
«Ti ho già detto che ho tentato di chiamarti, ma il tuo cellulare risultava spento.» spiegò il fotografo reggendo quella sua calma apparente.
«Avresti dovuto insistere! – lo ammonì alzando il tono di voce. – o, effettivamente devo pensare che eravate concentrati a godere della notizia?»
I fratelli Ferrara, offesi da quelle parole che il giovane si ostinò a ripetere, tentarono di replicare, ma Stefano li precedette, rimproverandolo e ordinandogli di tenere la bocca chiusa.
La tensione che calò tra i due fu evidente e l’aria si fece più pesante.
Per calmare i bollenti spiriti, Alberto prese parola, raccontando tutto ciò che fino a quel momento avevano scoperto sulla scomparsa di Diomede e cioè che oltre all’auto non avevano trovato nient’altro. Cristoforo aveva provato a chiamarlo al cellulare, ma nulla, e Stefano disse la sua, raccontando quel poco che l’appuntato era andato a riferirgli in mattinata.
«Oltre a non aver ricevuto ancora nessuna proposta di riscatto – aggiunse – escludo a priori il rapimento. Rocco ha detto che era andato a prelevare del denaro, se fosse così, si sarebbero limitati a rapinarlo. Stanno comunque continuando le indagini.»
«So che non sono affari nostri, ma – s’intromise Cristoforo – perché si è recato in banca per prelevare? Non siamo alla fine del mese e per quanto riguarda noi, ci paga con dei bonifici – e si fece scappare – per quello che ci dà…»
Quell’ultima frase fu ben udita dai fratelli Gargano e solo Carmine si volse a guardarlo in malo modo. Stefano ignorò il cugino mentre tentava di scorgere nel fratello qualche scorcio di verità in quel suo comportamento. «Non ci hai riuniti qui, solo per questo, vero?» gli chiese a quel punto.
«Infatti – Carmine si sedette al posto che era di Diomede. – Ad avvisarmi dell’accaduto è stata Mina. Ha chiamato sua sorella e gliel’ha detto. Per questo abbiamo interrotto il viaggio. Comunque, vista la situazione, mi vedo costretto ad aggiornarvi su alcune cose. – si fermò per qualche istante fissando la porta socchiusa, dal cui spiraglio scorse un’ombra che riconobbe. Sorrise ma non ci fece caso e con voce ferma, riprese alzando il tono di voce per far sì che chi stava origliando ascoltasse bene - Prima della mia partenza, mio padre mi ha affidato la gestione dei terreni e di tutti i suoi progetti.»
«Ha fatto bene…» balbettò Cristoforo, incerto, ma Alberto e Stefano tacquero, entrambi sospettosi.
«Per tutti i suoi progetti, intendo proprio tutti.»
E lì, il fotografo assottigliò gli occhi inarcando le sopracciglia, avendo intuito il seguito.
«Arriva al dunque» lo spronò Alberto.
«Sto parlando dell’agriturismo. Dell’idea di abbattere le scuderie.»
«Be’, naturalmente, ora ci sei tu e quindi possiamo anche lasciar perdere quest’idea insensata di tuo padre…» riprese Cristoforo, convinto delle sue parole, ma Carmine lo spiazzò, interrompendolo «Il progetto è in fase di visura. Fra qualche settimana inizieranno i lavori, non appena il comune ci darà il nullaosta. Quindi, iniziate a pensare a chi vendere i cavalli, o male che vada, portarli al mattatoio.»
L’unico ad esclamare il suo diniego fu Cristoforo, il quale scattò in avanti e sbatté i pugni sulla scrivania gridando in dialetto stretto che se le sue parole fossero uno scherzo, lo intimava di finirla all’istante.
Fu Alberto a trattenerlo e a tirarlo indietro, reggendo un’assurda calma, la stessa che imperava su Stefano, il quale, in silenzio, si limitava a studiare suo fratello.
Qualcosa non andava in lui, lo aveva capito benissimo.
«Abbassa i ragli, Cristo’!» esclamò Carmine alzando la voce ferma e impassibile. «E mo’ andatevene, non ho altro da dire.»
Cristoforo continuava a dimenarsi tra la stretta di suo fratello, ma alla fine, anche se livido di rabbia, uscì dallo studio bestemmiando tutti i morti di quella famiglia, augurando di ritrovare il corpo di suo cugino sventrato da qualche cinghiale.
Prima di uscire, Alberto si volse verso Carmine e gli disse: «Se la tua è una ripicca, non prendertela con chi non ha colpe.»
Non ebbe risposta e se ne andò salutando solo Stefano, il quale dopo essersi sincerato di essere rimasto da solo con suo fratello, prese finalmente parola chiedendogli: «Che cazzo ti prende?»
Carmine si alzò bruscamente, scalciando la sedia che andò a scontrarsi contro la libreria. «Che pensavate? Che mi sarei sacrificato per niente? Pensavate che il coglione di turno si sarebbe tolto dalle palle e che il nipote prediletto avrebbe avuto via libera?»
«Nessuno ti ha chiesto di farlo!»
«Non farmi la morale del cazzo! Dovresti ringraziarmi. Visto che sposandomi, ho salvato anche la tua parte di eredità!»
«Non me ne frega un cazzo della mia parte!» gridò Stefano facendo valere la sua posizione di fratello maggiore. «Se non ti fossi sposato, i Ferrara non avrebbero corso nessun rischio! Le mura di quelle scuderie grondano anche del tuo sangue, o te lo sei dimenticato?»
«Quel lavoro non frutta…»
«Per tuo padre! Ma per i Ferrara è tutta la loro vita!»
«Ma tu di che t’impicci? Non hai appena detto che della tua parte non te ne fotte niente? Allora stanne fuori. Non te ne saresti dovuto ritornare a Firenze? Vattene!»
Stefano rimase in silenzio, ma gli si avvicinò lentamente e quando gli fu a un palmo dal naso, fissandolo dritto negli occhi, senza nemmeno abbassare le palpebre, disse: «Fino a oggi era solo una la ragione per cui non volessi andarmene, ma ora ne sono diventate due.», poi girò i tacchi e raggiunse la porta, ma prima di uscire, senza voltarsi lo avvisò: «Le scuderie non si toccano, i Ferrara continueranno la loro vita senza avere problemi. Sacrificio o no, la proprietà è anche mia. Se è così che la vuoi mettere, allora farò anch’io la mia parte. Se proprio vuoi farti l’agriturismo, rimane sempre la tenuta di Torremonte – poi voltandosi sorrise – o hai anche tu paura dei fantasmi?» infine uscì, ma non appena aperta la porta incrociò lo sguardo di Aria.
Rimase sorpreso nel vederla lì, anche se, se lo sarebbe aspettato. La ragazza sembrava atona, le sorrise e se ne andò senza dirle nulla.
Arianna fino a quel momento se n’era stata in silenzio ad ascoltare la discussione.
Fin dall’inizio, nel tono di voce di Carmine aveva sentito qualcosa di mutato, era come se non fosse lui. Non era cambiato solo fisicamente, ma anche nei modi di fare.
Dov’era finito il ragazzo dolce e amorevole che era? Dal suo matrimonio erano solo passati sedici giorni, cos’è che lo aveva cambiato?
Nel sentirlo parlare in quel modo non aveva avuto più dubbi, il sentimento per lui si stava completamente dissipando. Aveva parlato dei cavalli come merce da macello, lui che aveva sempre amato quegli animali, che anche quando li aveva venduti si era sempre sincerato che fossero passati in mani sicure.
Perché si comportava in quel modo?
Quando Stefano le lasciò libero il campo visivo, si ritrovò di fronte il suo vecchio amore, che la guardava e i suoi occhi dal colore dei campi verdeggianti sprigionavano puro, inconfondibile disprezzo.
Lo vide avvicinarsi alla porta e chiudergliela lentamente in faccia.
Aria rimase immobile, incredula fino a quando il tonfo non la fece trasalire.
Era evidente: Carmine la odiava. Ma non si spiegava il perché, alla fine dei conti era stato lui a tradirla, ad abbandonarla. Si era piegato al volere assurdo del padre e tutto quello per cosa?
Ora lo capiva perfettamente: l’eredità.
Il pensiero di aver amato una persona rivelatasi subdola e opportunista la nauseò.
Che brutta sensazione sentirsi il voltastomaco per chi le aveva fatto passare tre anni di puro, idilliaco amore.
No, si disse mentre girava i tacchi, non gli avrebbe permesso di distruggere il lavoro di suo padre. Se voleva comportarsi come Diomede, allora lei non avrebbe fatto più distinzioni e il pensiero che Stefano, l’uomo a cui si era concessa, lo stesso che aveva ravvivato il suo cuore in una nuova e sublime emozione, fosse dalla sua parte, le alleviò quel peso che per tutta la mattinata si era portata dentro.
Quando giunse davanti alla porta della camera di suo nonno, il ricordo della sera precedente fece capolino tra tutti i suoi pensieri e quel famigliare formicolio al basso ventre si diramò in tutto il corpo facendola fremere di piacere. Prima di appostarsi alla porta dello studio di Diomede, si era prodigata per rifare il letto, ma il pensiero del ritorno di Carmine e la confusione che aveva sentito nel suo cuore, l’avevano distolta dal piacevole ricordo. In quel momento, però, fu tutto diverso. Chiuse gli occhi immaginando ancora il profumo inconfondibile di Stefano e lentamente senza accorgersene si allungò la mano verso la maniglia della porta, quando a un tratto fu fermata da qualcuno che la chiamava alle spalle.
Si volse di scatto sussultando per la sorpresa.
Era Marella.
Anche lei aveva il viso abbronzato, un po’ ustionato sugli zigomi, data la sua pelle chiara e i capelli scuri avevano striature chiare a causa della salsedine e dei raggi solari.
«Aria! – esordì abbracciandola, senza darle nemmeno il tempo di salutarla. – che bello rivederti.»
«Marella, come stai?» chiese sua cugina che, malgrado la situazione, condivise l’abbraccio.
Quando Marella si allontanò da lei, Aria si accorse che sullo zigomo purpureo, all’altezza dell’occhio, c’era una macchia più scura, un livido, sbiadito. Al ché la ragazza, d’istinto, le allungò la mano, per scostarle la ciocca di capelli che le copriva il viso e osservò perplessa. «Marella, che cosa…»
La cugina si scosse divincolandosi bruscamente urlandole di non toccarla e in quel momento Aria poté notare anche la fasciatura che le cerchiava il polso. Titubante, passò a fissarle il resto del corpo, ma non vide altro, così, cercando di essere il più tranquilla possibile, poiché conosceva le fragilità di quella ragazza, le chiese che cosa le fosse accaduto.
Marella, mosse gli occhi spaesata, come se stesse osservando un’ambiente sconosciuto, si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio allisciandosela nervosamente, mormorava qualcosa, ma non diede alcuna risposta. Poi si congedò dicendo che doveva disfare le valigie e se ne andò.
Arianna rimase a guardarla. I dubbi che l’assalirono non le diedero pace per tutto il resto della giornata.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17
 
Sul retro del casale, a pochi metri dalla casa dei Ferrara c’era un muretto a secco che si affacciava sull’immenso seminativo alla cui sommità era stata innalzata una piramide di balle di fieno, coperta da un telone impermeabile per non permettere alla pioggia di bagnarli e così rischiare di marcirli.
Stefano se ne stava seduto da ore a guardare il panorama su un punto fisso, senza espressione in volto.
Se ripensava al passato, alla sua fuga in Firenze, gli parve di essere stata un’altra persona: impavido, menefreghista, inespugnabile. Ora, invece, aveva deciso di restare, pronto a lottare per gli altri. Ciò che continuava a non spiegarsi era il perché avesse preso quella decisione, se fino a qualche tempo fa se n’era sempre fregato di tutto quello che riguardava gli affari della famiglia.
Era davvero per Arianna?
Chiuse gli occhi al pensiero di quella ragazza e sospirò profondamente, poi si distese sul muretto e poggiò sulla fronte il braccio per farsi ombra agli occhi. Li richiuse e dopo aver sentito uno scalpiccio li riaprì, davanti a lui c’era Aria.
La ragazza gli sorrideva malinconica, «Sei sparito» disse.
«Ero qui» ribatté lui mettendosi a sedere.
Aria non disse nulla, con i glutei e le mani andò ad appoggiarsi al bordo del muretto e volse lo sguardo verso il giardino del casale.
«Mi stavi cercando?» chiese il fotografo dopo averla osservata a lungo.
«Ho sentito il bisogno di vederti» rispose volgendosi verso di lui, ma senza guardarlo negli occhi.
Stefano sorrise. «Allora perché abbassi lo sguardo?» le sollevò il mento con una mano.
Quel lieve e quasi impercettibile tocco fece sussultare il cuore della giovane, che come se catturata da quelle pozze d’acqua cristalline, immerse i suoi occhi in esse e non riuscì più a proferir parola. Il ricordo della sera precedente si rifece vivido e tangibile. Aria fremette al ricordo dei suoi ansimi, al suo respiro che si infrangeva sul di lei collo, del profumo di pini d’inverno che le faceva girare la testa e in quell’instante sentì il bisogno di baciarlo, ma si trattenne dal farlo.
«Aria?», fu la calda voce del giovane a riportarla al presente. Scuotendola dal piacere che aveva provato.
Aria.
Sentirgli pronunciare il suo nome, parve liquefarsi.
«Perché volevi vedermi?»
Prima di rispondere la giovane vagò con lo sguardo prima su un occhio poi sull’altro del ragazzo, infine, mordendosi le labbra, mentì: «Vi ho sentiti discutere con Carmine. Io volevo sapere se sono vere le sue intenzioni?»
Per la seconda volta, in quella mattina, Stefano si sentì passare una scudisciata sulla schiena.
No, non lo aveva cercato perché aveva bisogno di vederlo per quello che era successo la sera prima. E questa verità faceva più male della sua freddezza perché l’oggetto in questione era Carmine.
Stefano fu tentato di alzarsi e lasciarla lì da sola, di gridarle che sentirle dire il nome di suo fratello gli dava fastidio, di ricordarle quello che c’era stato tra di loro, ma si limitò solo a scendere dal muretto, mettersi di fronte a lei e di spiegarle con sforzata tranquillità le intenzioni del novello sposo.
«Perché si comporta in questo modo? Lui non era mai stato così.»
«Io penso che sia stata la decisione di sposare Marella a cambiarlo. Mi guardava con odio, disprezzo e solo verso di me.» spiegò il fotografo.
«Se fosse così, allora perché l’ha sposata? Noi due dovevamo scappare insieme…», solo troppo tardi, Aria si rese conto di aver parlato troppo e Stefano non resse oltre quelle inflizioni. Stringendo i pugni, le voltò le spalle e se ne andò.
La giovane lo vide allontanarsi, col fiato sospeso. Che cosa aveva detto? E che cosa gli aveva fatto capire?
D’istinto si distaccò dal muretto e lo raggiunse, prima con passo incerto poi, come se spaventata che da un momento all’altro potesse perderlo, si mise a correre. Gli afferrò il polso con tutt’e due le mani e gli esclamò un “aspetta” ansimato.
A quel tocco, Stefano s’irrigidì, ma non si volse, «Che cosa vuoi?» il tono era freddo.
Aria esitò, non si aspettava un atteggiamento simile, provò a parlare, ma Stefano spazientito, si scostò dalla presa e spronandola a guardarlo negli occhi le disse: «Ascolta, è già frustrante per me vedere mio fratello avere gli stessi atteggiamenti di mio padre. Non completare il quadro, almeno tu, non farlo, non dopo quello che abbiamo passato ieri sera.»
Da quelle parole dette a raffica, Aria percepì il suo disagio. Da quando Carmine era tornato, si rese conto di non essersi mai chiesta che cosa provasse Stefano. Aveva solo cercato d’indagare i propri sentimenti. Era ovvio che il suo ex sarebbe tornato, prima o poi, ma fino a quel momento non si era mai chiesta come si sarebbe comportata in quel caso, poiché il turbinio di emozioni che le stava facendo provare quel uomo, l’aveva stravolta.
Era stata ingiusta con lui, ma come poteva spiegargli che quando si era svegliata e lo aveva visto al suo fianco, si era sentita un’altra, come se la voluttà che le aveva fatto provare le avesse rigenerato l’anima, come poteva dirgli che era talmente felice, da aver avuto paura del seguito, di quando lui avrebbe aperto gli occhi? Non sapeva come affrontarlo, perché lei, con il suo vecchio amore non aveva mai passato neanche un giorno così. Sempre all’erta, sempre in fretta e in furia, con la paura che qualcuno potesse scoprirli, come se ogni volta che si scambiavano anche solo un bacio, dovessero sprofondare in un baratro di vergogna.
Tutto ciò, con Stefano non l’aveva provato. Si era concessa, per la prima volta, in pura semplice tranquillità e per la prima volta aveva saggiato un orgasmo senza pentirsi in seguito.
Poteva dirglielo solo col cuore, con gli occhi che continuavano a fissare i suoi cristallini, che mettevano in contrasto quel viso attraente, con la barba e i capelli biondi.
«Se ti senti confusa, io lo capisco – aggiunse il fotografo senza far caso alla sua languida espressione – ma ti prego non mandare in confusione anche me.»
«Non voglio farlo» ribatté lei quasi con tono di supplica. «Non voglio confonderti perché io…» stava per dirglielo, quella parola semplice ma al contempo difficile, gliela stava per dire, ma si bloccò. Stefano non guardava più lei, ma qualcuno che le stava alle spalle.
Aria si volse lentamente e vide che a qualche metro da loro c’era Carmine, che li guardava fermo e circospetto.
Fu Stefano a fare il primo passo, scansò Aria senza toccarla e si avvicinò a suo fratello.
«Ti stavo cercando» disse quest’ultimo infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni.
Il fotografo non parlò.
«Dobbiamo recarci in caserma – aggiunse allora l’altro – il maresciallo ci ha mandati a chiamare. Ha delle novità sulla scomparsa di nostro padre.»
«Andiamo, allora.» e detto questo, i due si allontanarono, lasciando Aria sola e confusa più di prima.
 
***
 
Le candide tende svolazzavano al vento all’interno della stanza. Si dividevano al centro, lasciando spazio alla figura di Rita la quale se ne stava ritta sulla soglia a osservare la parte estrema del giardino.
Aveva stretto le labbra in una smorfia e sollevato le sopracciglia meravigliata, mentre osservava e cercava di sentire bene che cosa si stessero dicendo quella sciacquetta della figliastra di suo fratello e quel uomo arrogante, selvaggio, attraente.
Che significava: “Non dopo quello che abbiamo passato ieri sera?”
Che cosa stava succedendo tra quei due? Possibile che lei che era una telecamera vivente, non si fosse accorta di nulla?
Erano troppo vicini e lui aveva abbassato la voce. Non riusciva più a sentire quello che si stavano dicendo, poi a un tratto lo vide allontanarsi da lei e avvicinarsi a qualcuno.
Rita allungò il capo il giusto che bastava per vedere di chi si trattasse.
Suo genero.
Essendo molto più vicini, riuscì a sentire tutta la conversazione e quando Carmine rivelò che c’erano delle novità sulla scomparsa di Diomede, sussultò e decise di muoversi.
S’inoltrò nella stanza velocemente, ignorando le lamentele di Mina sull’umidità che rendeva l’aria più afosa.
Quando la ragazzina si accorse della foga di sua madre nel prepararsi, si ricompose e le chiese perché avesse tanta fretta.
«Devo andare in città! – rispose sbrigativa – invece di poltrire tutto il giorno, datti da fare!»
«E cosa dovrei fare? Ho una noia mortale.»
«Ascoltami bene: devi tenere d’occhio la sgualdrinella e il figlio maggiore di mio cugino. Ogni loro mossa, ogni cosa che gli sentirai uscire dalla bocca, devi venire a riferirmela, intesi?»
«Che cosa?! Ma mamma, non puoi chiedermi una cosa così. Meno la vedo quella lì, meglio è!»
Spazientita da quelle lagne, Rita afferrò per un braccio sua figlia e strattonandola le intimò di obbedire senza far polemiche.
Era furiosa, non era la prima volta che sua madre aveva quegli atteggiamenti, ma era la prima volta che si comportava così con lei.
Scossa dalla situazione, la ragazzina annuì tremante.
Senza aver dimenticato nient’altro, Rita uscì dalla stanza correndo verso l’esterno. Per fortuna trovò i due fratelli che si stavano infilando nell’auto di Carmine e li fermò al volo, chiedendogli se potevano darle un passaggio.
«Devo fare delle compere a Murgella, voi dove andate?» s’infilò in auto. Stefano la ignorò mentre Carmine le raccontò della chiamata del maresciallo.
«Ci sono novità?» domandò ancora, fingendo preoccupazione.
«Da quel che si presume, sì.»
«Speriamo in bene, allora. Ah! Povero Diomede!»
Stefano fu l’unico a percepire la falsità di quella donna. Fino al giorno prima pensava a come impadronirsi della parte di eredità di suo padre, lo aveva finanche chiamato schifoso, e ora si dispiaceva per quello che gli sarebbe potuto accadere?
Sbuffò silenzioso e scosse la testa volgendo lo sguardo verso il panorama in movimento, poi la vibrazione del suo cellulare richiamò la sua attenzione.
Era un messaggio da parte di Aria.
“So di averti fatto pensare il contrario, ma credimi, oggi sentivo davvero il bisogno di vederti. Se puoi, incontriamoci verso mezzogiorno a piazza Castello. Voglio scoprire che cosa nasconde quella cassetta.”
Stefano sorrise. Era bastato quel messaggio per liberarsi della rabbia.
 
***
 
Sua madre le aveva detto ogni movimento e Mina l’aveva presa in parola.
Dopo lo spavento che aveva avuto si era data subito da fare. Aveva iniziato a seguire la sua tanto odiata cugina e aveva notato che quel giorno non si era recata per nulla nelle scuderie, tantomeno aveva preso la sua stupida cavalla, anzi se ne stava appoggiata ai piedi della quercia e giocherellava nervosamente col cellulare. Guardava lo schermo scuro, lo accendeva, lo spegneva, lo sbloccava. Sembrava avesse preso la decisione di scrivere un messaggio, poi se lo rinfilava in tasca, incerta.
Mina perse subito la pazienza, voleva ritornarsene in camera sua e magari chiamare Federico, poi però, la voce trillante di sua sorella la fece desistere e fu una fortuna per lei, poiché nella foga di alzarsi e di rinchiudere il cellulare, Aria non si accorse di averlo fatto cadere sull’erba.
Quale modo migliore se non cercare le risposte che voleva sua madre, nel cellulare della diretta interessata?
Sicura che Aria fosse ben lontana, sgattaiolò via dal suo nascondiglio e si fiondò sull’oggetto. Lo raccolse. Per sua fortuna era ancora acceso sui messaggi, sul profilo di Stefano, e riuscì a leggere quello che gli aveva scritto, ma Marella la prese alla sprovvista e sussultando lo perse dalle mani. Si volse verso le due che si avvicinavano e cercò di ricomporsi.
«Mina! Sei qui? Ero venuta a trovarvi. Non ci avete accolti al ritorno.» esclamò sua sorella, ingenuamente.
«E noi cosa ne sapevamo che sareste tornati?» replicò indifferente.
«Ma, mancavate solo tu e la mamma.»
«Sì, va bene, tanto ci saremmo viste stasera.» fu sbrigativa, poi senza aggiungere nulla si allontanò.
«Mina?» la fermò ancora sua sorella.
«Che c’è?» chiese l’altra esasperata.
«Non ci sentiamo da quindici giorni, ed è questo il tuo comportamento?»
A quelle parole, Aria trasalì e il ricordo delle parole di Carmine ritornarono a rimbombarle nella mente.
Era sicura di avergli sentito dire che ad avvisarli della scomparsa di Diomede era stata proprio Mina. Ora, invece, Marella diceva il contrario?
Quando la più piccola se ne fu andata lasciando triste sua sorella, Aria si accorse del suo cellulare sull’erba e si rese conto che la cugina si era proprio fermata accanto. Lo raccolse con titubanza, lo accese, osservò la schermata di blocco, non c’era nulla di strano, ma quello che era appena accaduto, non la convinse.
 
***
 
Rita si fece lasciare alla cioccolateria, dicendo che avrebbe fatto compere e che li avrebbe raggiunti in caserma. Non voleva insospettire nessuno, così con estrema naturalezza si sedette a un tavolino vuoto, ordinò un caffè macchiato e poi, con la sua aria da nobildonna prese il cellulare e compose un numero.
L’attesa durò il tempo di tre squilli, poi una voce maschile si fece udire.
«Dottor Dedonno, come sta? Ma come chi sono, non mi riconosce? Ecco bravo. Signor notaio, volevo incontrarla perché penso proprio che noi due abbiamo tante cose da dirci. Incontriamoci, poi le dirò. Sono alla cioccolateria della piazzetta. L’aspetto. A presto.»
Chiusa la chiamata, la donna tirò un profondo respiro e volse i suoi occhi scuri verso la piazzetta quasi disabitata, poi qualcosa la mise in allerta. Un figuro, semi nascosto, la stava osservando. All’inizio non volle darne peso e si infilò anche gli occhiali da sole per non farsi accorgere che lo aveva adocchiato, poi vedendo la sua insistenza nel fissarla, si dimenticò dell’incontro col notaio, lasciò le monete sul tavolino e, senza aver consumato la sua ordinazione, se ne andò. Prese la via del corso, a quell’ora era la strada più affollata per via dei negozi, nonostante tutto, ebbe la convinzione di essere seguita.
Il losco individuo indossava un cappellino con la visiera e gli occhiali da sole, la barba malcurata, di un grigio scuro, impediva di rivelare i lineamenti del viso.
Rita ebbe paura e non appena fu sicura di averlo seminato, allungò il passo verso la strada che portava alla caserma dei carabinieri.
Vi giunse sana e salva, sembrava proprio che quel figuro avesse perso le sue tracce e solo quando varcò la soglia cercò di riprendere i suoi soliti atteggiamenti. Chiese a un carabiniere dove potesse trovare il maresciallo, spiegò che era la cugina di Diomede Gargano e che era venuta con i due fratelli. Dopo esserle stata indicata la strada, si recò a passo svelto, speranzosa di non essere arrivata troppo tardi, ma quando fu proprio davanti alla porta dell’ufficio, fermò la mano a mezz’aria che si era accinta a bussare.
Sentì una voce, quella del maresciallo che diceva ai due: «Abbiamo scoperto dalle telecamere pubbliche che vostro padre, prima della sua scomparsa, ha parlato con un uomo.»
«Saprebbe dirci chi è?» chiedeva Carmine.
Un breve silenzio, poi «Si tratta di un ex detenuto. Fu arrestato sedici anni fa, per molestie sessuali nei confronti delle sue figlie, ma è stato rilasciato per buona condotta. Si chiama… Biagio Franchi.»
A quelle parole Rita si sentì risucchiare da un vortice inspiegabile che le si era materializzato attorno. Incredula, fece qualche passo indietro, ma le parve che il pavimento si disintegrasse sotto ai suoi piedi, lasciandola precipitare in un baratro infinito.
Ora le era tutto chiaro. Sapeva chi l’aveva seguita e per la prima volta, dopo sedici anni, si sentì spacciata.

 

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