Tsuki no Hikari

di drisinil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quattrocentosette chilometri ***
Capitolo 2: *** Notturno ***
Capitolo 3: *** Non te lo dirò mai ***
Capitolo 4: *** Cinque punti ***
Capitolo 5: *** Golden Week ***
Capitolo 6: *** Un problema enorme ***
Capitolo 7: *** Beccati! ***
Capitolo 8: *** Dimostrazioni ***
Capitolo 9: *** Sumimasen ***
Capitolo 10: *** Segreti ***
Capitolo 11: *** Haiku ***
Capitolo 12: *** Vecchie tradizioni, nuove promesse ***
Capitolo 13: *** MVP ***
Capitolo 14: *** Fuori controllo ***
Capitolo 15: *** Stupidi e bugiardi ***
Capitolo 16: *** Nausea ***
Capitolo 17: *** Al telefono ***
Capitolo 18: *** Fantastico ***
Capitolo 19: *** Messaggi vocali e decisioni impulsive ***
Capitolo 20: *** Conforto morale ***
Capitolo 21: *** Profondo blu ***
Capitolo 22: *** Fantasmi ***
Capitolo 23: *** Lacrime di coccodrillo ***
Capitolo 24: *** Riportami il guanto ***
Capitolo 25: *** Il nido del mondo ***
Capitolo 26: *** Tramonti ***
Capitolo 27: *** Sette ore filate ***
Capitolo 28: *** Grazie per questa partita ***
Capitolo 29: *** Vecchi semi, nuovi fiori ***
Capitolo 30: *** I baffi del gatto ***
Capitolo 31: *** Dire, fare, baciare ***
Capitolo 32: *** La vita è dura ***
Capitolo 33: *** Caduta libera ***
Capitolo 34: *** Numero dodici ***
Capitolo 35: *** L'aggettivo giusto 🔞 ***
Capitolo 36: *** Buon Natale ***
Capitolo 37: *** Coincidenze ***
Capitolo 38: *** Amare 🔞 ***
Capitolo 39: *** Hatsumōde ***
Capitolo 40: *** Sempre ***
Capitolo 41: *** EPILOGO - Le cose che Tetsurou adora ***
Capitolo 42: *** Ringraziamenti ***
Capitolo 43: *** Contenuto speciale ***
Capitolo 44: *** Speciale San Valentino - Kamei Arena ***
Capitolo 45: *** Speciale Tsukki's Bday - Dorayaki ***



Capitolo 1
*** Quattrocentosette chilometri ***


1 - Quattrocentosette chilometri


6 Ottobre 2012

«Kei, scendi! C'è un tuo amico, qui di sotto!»

La voce arriva attutita dalle scale oltre lo spiraglio della porta socchiusa. Kei si solleva a sedere e abbassa le cuffie intorno al collo. Nell'istante in cui la musica tace, il suo cervello reinizia a girare a pieno ritmo, senza tregua, come sempre.

Un tuo amico. Chi si permette di disturbare il sabato sera a quest'ora? Tadashi avrebbe chiamato, sa perfettamente quanto Kei odi le improvvisate. Bakeyama e Mandarino preferirebbero una pallonata sulla nuca che passare a trovarlo a casa. I senpai non sanno neanche dove abita. I compagni di classe hanno capito già dal primo giorno che devono tenersi alla larga. Dunque chi c'è di sotto?

Mentre si alza in piedi, Kei esplora con la mente gli avvenimenti degli ultimi giorni, ipotizzando conseguenze, mosse e contromosse che avrebbero potuto condurre guai alla porta di casa. Una fulminea partita a shogi con se stesso, del tutto inutile vista la monotonia della sua vita. Niente. Nessun indizio.

Nel frattempo si è ravviato i capelli con la mano e ha indossato un'enorme felpa grigia sopra quella che aveva già addosso. Tira su la zip e si affaccia dal ballatoio.

Sua madre è già sparita dalla circolazione, se possibile ancora più misantropa di lui. In piedi di fronte all'ingresso, ostentando la sua sovrana noncuranza, c'è Kuroo.

Kuroo Tetsurou. In carne e ossa. A... quattrocento chilometri da casa propria.

Quattrocentosette, dice una voce odiosa dal fondo della sua mente. Da stazione a stazione.

Kei ciondola svogliatamente sui gradini.

«Ciao» dice Kuroo, come se non si vedessero da due giorni. Come se fossero vecchi amici. Come se il loro rapporto giustificasse una visita senza preavviso. Come se...

«Ciao?» risponde Kei interrogativo. «Ti sei perso mentre facevi una corsetta? Pessimo senso dell'orientamento...»

Kuroo sorride, sollevando un angolo delle labbra.

«Si può sapere che ci fai qui?» insiste Kei, diffidente.

«A Osaki? Turismo. Passeggiata di salute. Spionaggio del Karasuno. Scegli tu.»

«A casa mia.»

«Hai battuto la testa, Tsukki? Sono venuto a trovarti, non è ovvio?»

«Non chiamarmi Tsukki!»

«E tu non fare domande idiote.»

Kei deve concentrarsi per evitare di lasciarsi sfuggire un sorrisetto. Scruta il capitano del Nekoma da dietro le lenti spesse, in cerca di cambiamenti che non ci sono. La solita imperturbabilità, il solito sguardo affilato, la solita pettinatura da disadattato.

E anche Kuroo lo sta scrutando a sua volta, da capo a piedi. All'improvviso, gli si allargano gli occhi e si riempiono di luce. Dura un attimo, giusto il tempo per Kei di notare la cosa, senza riuscire a decifrarla.

«Allora? dentro o fuori?» incalza Kuroo.

«Io dentro, tu fuori da casa mia» risponde Kei, acido. Se ne pente un secondo dopo.

Ma Kuroo sta ridendo. «Decisamente, ne valeva la pena.»

«Cosa?» Kei lo ha capito, ma vuole sentirlo.

«Venire fin qui» risponde Testurou, deprivando le parole della loro importanza con un tono di banale casualità. E' bravissimo a usare il tono della voce per comunicare emozioni che contrastano con il senso delle parole. E' una trovata efficace e terribilmente irritante.

«Posso insultarti anche per telefono, se ti fa stare bene» ribatte Kei.

«Buono a sapersi, Tsukki. Mi farò meno scrupoli a chiamarti.»

Touche.

«Ti ho detto di non...»

Kuroo alza subito le mani in segno di resa. «Okay, va bene, va bene. Tsukishima. Ti chiamo Tsukishima.»

«Magari puoi evitare direttamente di chiamarmi.»

«No, non credo.»

«Io dico di sì, sei bravino se ti impegni.»

«No, non mi va, è troppo faticoso. A meno che tu non legga nel pensiero. Dovresti provarci: sei bravino, se ti impegni. Ma forse... in questo caso non ti conviene!» Kuroo ride, socchiudendo gli occhi, come un cretino. Un cretino capace di imporsi in modo ingombrante. Ma sempre cretino.

«Coraggio, scegli: dentro o fuori?» insiste Kuroo.

«Fuori» risponde subito Kei. Molte meno insidie.

Testurou annuisce «Perfetto. Metti una giacca e andiamo. Mi piacciono le piccole città. Finisce sempre che si incontrano i vecchi amici...»

Nella mente di Kei si compone la scena da film horror di quel pettegolo di Nishinoya, o quel tonto dell'asso, o Bakeyama e Mandarino, o il coach Ukai, che entrano in un negozio qualsiasi e li beccano lì insieme: Tsukishima Kei e il capitano del Nekoma, che dovrebbe trovarsi a quattrocentosette chilometri di distanza, in un qualche locale di Nerima a fare da balia al nano con la ricrescita.

«Che nei hai fatto del tuo alzatore? Non ce l'hai attaccato alle sottane come al solito?»

«Mai portato sottane. Tu sì?» replica Kuroo, sollevando un sopracciglio.

Keì alza il dito medio con sussiego.

«Comunque, sei gentile a preoccuparti per lui: Kenma se la cava benissimo senza di me» dice Kuroo.

«Ma davvero! E da quando?»

«Da quando...» Kuroo richiude la bocca, lasciando la frase a metà. «E' sabato sera, a quest'ora applepi starà giocando a non-mi-ricordo-più-cosa con la sua squadra di fenomeni della playstation. Non mi vuole mai fra i piedi quando gioca seriamente

«Lui non ti vuole fra i piedi e quindi tu ne approfitti per fare un giretto a quattrocento chilometri di distanza. Una relazione sana, non c'è che dire.»

«Senti chi parla, Yama-qualcosa ti segue anche al cesso. Anzi, mi meraviglio che non sia qui. Dai, sono stanco. Ho voglia di sedermi, bere una cosa calda e fare quattro chiacchiere.»

«E io come rientro in questo piano epicureo?»

Kuroo non è uno che si lasci impressionare dagli aggettivi, per quanto altisonanti. «Vuoi che parli col muro? Neanche gli epicurei lo fanno. Su, muoviti: dentro o fuori?»

«Dentro» sospira Kei.

«Molto saggio. Sapevo che prima o poi ci saresti arrivato.»

«A quanto sei stronzo? Inizio a pensare che dovrei buttarti fuori..»

«Fallo.»

Sanno entrambi che, se Kei avesse voluto cacciarlo, Kuroo si sarebbe trovato la porta sbattuta in faccia dopo quindici secondi.

Kei si volta e si avvia per le scale, senza una parola. Sente i passi di Kuroo che lo seguono.

«Stai uscendo?» la voce di donna proviene da una stanza oltre l'ingresso.

«No, mamma. Saliamo in camera mia» risponde, come se lo stesse facendo di malavoglia.

Nello spazio degli ultimi gradini, Kei fa mente locale a tutto quello che Kuroo Testurou non dovrebbe vedere in camera sua. Passa in rassegna i poster, gli oggetti sulle mensole, le fotografie, i fogli che ha lasciato sparsi sulla scrivania. Tutto a posto, niente di compromettente. Tranne il telefono, che è rimasto sul comodino, ma c'è una password inespugnabile a proteggerlo.

«La metti spesso?» chiede Tetsurou, all'improvviso.

«Cosa?» risponde Kei, voltandosi, con la mano già sulla maniglia della porta.

Kuroo alza le sopracciglia e tira giù la zip della felpa di Kei, con uno strappo secco.

Kei si ribella al gesto e alla prossimità, con una manata violenta. «Vuoi morire? Tieni giù le mani!» Si rende conto troppo tardi che il danno è fatto.

La felpa grigia è aperta fino a metà del torso. Si vede benissimo, sotto, l'altra che indossa. E' rossa. Sulla schiena c'è scritto in caratteri enormi NEKOMA; all'interno, vicino al collo, c'è un'etichetta sbiadita dai lavaggi, dove ancora si legge ancora il nome del proprietario Kuroo Tetsurou.

Non che Kuroo possa vedere il retro della felpa o l'etichetta. Non che ne abbia bisogno.

Tsukishima Kei è indisponente, irritante, malfidente, provocatorio. E' bravo a mentire e a bluffare, bravissimo a non mostrare nulla, o quasi, di se stesso. Ma non è un codardo. Alza lo sguardo e fissa Kuroo dritto negli occhi, attraverso le lenti, mentre tira di nuovo la zip verso l'altro, lentamente. «La metto sempre. E' solo una felpa.»

 

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Capitolo 2
*** Notturno ***


2 - Notturno


19 Luglio 2012

«Ehi, sei qui.»

«No, è un ologramma. Sono comodamente a casa mia, senza lividi, senza acido lattico e senza gente che mi assilla.»

Testurou sorride e si siede sull'erba umida accanto al quattrocchi della Karasuno. La persona meno incline a una conversazione è quella con cui ha più interesse a conversare, senza neanche sapere perché. Forse per il fatto che la sua chiusura è un invito a trovare delle falle ed entrare di prepotenza. Un rompicapo. Una sfida. Lo ha cercato ovunque  per venti minuti buoni, con un'ostinazione che va contro la stanchezza e sicuramente contro il buon senso, visto che in mensa staranno accaparrandosi tutto il meglio.

«Ho una fame da lupi» esclama Testurou, seguendo quel pensiero.

«E perché lo dici a me?»

«Sei troppo magro.»

Il fisico di Kuroo Tetsurou invece è perfetto. Comunque lo si guardi. Come proporzioni, forma, estetica, prestazione atletica. E' esattamente il genere di persona che può permettersi di muovere critiche al personale altrui.

«Per fortuna non è un concorso di bellezza» risponde asciutto Kei.

Kuroo inclina il viso a scrutare il suo interlocutore: nella penombra, riesce a vedere solo il profilo netto e qualche vago riflesso delle lenti squadrate. «In un concorso di bellezza, avresti qualche possibilità. Se devi murare Bokuto in partita, invece, direi che la magrezza è un problema.»

«Un problema non tuo.»

«Neanche tuo. Un problema della tua squadra.»

«E tu sei un'anima nobile che ci tiene tanto a veder migliorare i suoi avversari?»

«Dovresti tenerci tu. Ma è chiaro che te ne importa troppo poco. Ed è un vero peccato.»

Kei non è abituato a sentirsi ribattere così in fretta. Di solito, ha sempre l'ultima parola. Di solito, gli altri tacciono risentiti o indignati. Questo tizio passa dal sarcasmo alla serietà senza soluzione di continuità e non perde mai il ritmo.

«E quindi che volevi da me, Kuroo-san? Cosa posso fare per te, a parte farmi fare la ramanzina?»

«Sono venuto a scusarmi.»

Spiazzante. Il capitano del Nekoma è spiazzante. In partita come in allenamento, come seduto sull'erba. Porta la felpa rossa della squadra slacciata, refoli di vento ne fanno svolazzare i lembi all'indietro.

«Per cosa?»

«Ho esagerato, prima. Non volevo costringerti ad allenarti con noi. Non volevo darti sui nervi chiamandoti Tsukki. E non volevo che ci rimanessi male per quello che ho detto. Anche se è la verità.»

«Di solito è per le cose vere che ci si rimane male.»

«Sì. Anche se è una reazione piuttosto irrazionale, per uno come te.»

«Come me, come?»

«Oh, per favore. Lo sai benissimo. Intelligente. Lucido. Non uno che sa solo saltare, stupirsi e fare casino.»

«A parte il fatto che ci sono molti modi di dire la stessa verità, comunque puoi metterti l'anima in pace: non mi sono offeso.»

«A me sembrava proprio di sì. Hai fatto una faccia...» ghigna Kuroo.

«Non ero offeso» ribatte Kei tranquillamente.

«E allora cos'eri?»

«Devo dirtelo per forza?»

«Non per forza, no. Tiro a indovinare?»

«No, grazie» risponde Kei, alzando una mano, per mettere un freno alla conversazione. Poi torna in silenzio, cercando di dissimulare un brivido. Ha freddo e ha così fame che presto lo stomaco inizierà a bruciare e non ci sarà più verso di ingoiare neanche un boccone. Non mangia niente da ora di pranzo, perché odia stare in campo a stomaco pieno e odia doversi disturbare a procurarsi cibo fuori dai pasti. Nutrirsi, salvo rare eccezioni, è tendenzialmente una seccatura.

Kei chiude gli occhi e poggia la fronte sulle ginocchia piegate. Sta cercando di scoraggiare ulteriori tentativi di conversazione, di solito è un metodo efficace.

Finché avverte qualcosa di leggero, come un tocco sulla schiena; quando solleva le palpebre, le maniche rosse della felpa del Nekoma gli oscillano sul petto.

«Stai tremando. Ti verrà un colpo e Sawamura-san vorrà il mio scalpo» spiega Kuroo.

Si guardano, anche se è già troppo scuro per i dettagli. Sanno entrambi che Daichi non c'entra niente.

Kei si sente troppo stanco per protestare. Sarebbe una discussione faticosa, contro un tizio impossibile da mettere a disagio. E poi è veramente confortevole quel po' di calore guadagnato.

Kei riabbassa lo sguardo. «Posso farti io una domanda, Kuroo-san?»

«Senpai. Kuroo-senpai. Vai, spara!»

«Quei capelli da demente te li fai apposta?»

Kuroo ride sommessamente. «Apposta per farmi notare. A quanto pare funziona. Non ti credevo interessato.»

Anche per uno che non si stupisce facilmente, come Kei, Kuroo Testurou è veramente incredibile: il cinismo non lo scalfisce, il sarcasmo non lo irrita, le provocazioni te le rispedisce addosso schiacciando con violenza da sotto rete.

«Più che altro turbato.»

«Addirittura? Sono naturali, scemo» ribatte, passandosi la mano nei capelli. La mente di Kei è attraversata da un pensiero che non va per niente bene. «A dire il vero, non c'è verso di metterli in altro modo. Ti giuro che mi farebbe piacere avere qualche opzione» sospira Kuroo. «Comunque, bel tentativo, Tsukki»

«Non eri qui per scusarti di avermi chiamato Tsukki?»

«Oya. Hai ragione. Scusa. Bel tentativo, Tsukishima! Di dimostrarmi che la verità fa male. Diciamo che devi sforzarti un pochino di più se vuoi andare sul personale.»

«Troppa fatica» risponde subito Kei. Ma per qualche motivo il tono non è affatto convincente. Ed è troppo sperare che Kuroo non se ne accorga.

Infatti, nel buio brilla il sorrisetto compiaciuto del capitano.

«Vado a mangiare. Non ci avranno lasciato niente. Tu vieni?»

Kei scuote il capo. Kuroo si alza senza discutere. Anche le sue braccia, che spuntano dalle maniche corte della maglietta, sono perfette: ad ogni movimento, la muscolatura si muove sottopelle e si ridisegna in una forma diversa, tutte ugualmente belle da guardare.

Kei distoglie lo sguardo, si leva la felpa dalle spalle e la porge al legittimo proprietario.

«Tienila» dice Kuroo con noncuranza.

«Okay. Te la rendo più tardi, o domattina.»

«Non ridarmela. Tienila» ripete Kuroo, avviandosi, con la mano alzata a mo' di saluto. «E' solo una felpa.» 

 

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Capitolo 3
*** Non te lo dirò mai ***


3 - Non te lo dirò mai



6 Ottobre 2012
 

«Dove stiamo andando?» chiede Tetsurou, svagato. Cammina con le mani in tasca e la testa alta, guardandosi intorno con curiosità.

«Hai detto che volevi una cosa calda» risponde Kei. La sua voce arriva filtrata da una grossa sciarpa verde, girata più volte intorno al collo.

E' inizio ottobre, ma il freddo è già sceso dalle montagne e da un paio di giorni l'autunno assomiglia all'inverno, con il fiato che si condensa in nuvole spesse.

Alla fine, hanno deciso di uscire. La stanza di Kei faticava a contenerli.

Kuroo, entrando, l'ha esplorata con lo sguardo, prestando attenzione ai dettagli. I suoi occhi si sono posati ovunque, sornioni ma attenti. Sempre con noncuranza, come se entrasse lì ogni giorno e tutti quegli oggetti gli fossero già familiari.

A Kei ha fatto uno strano effetto vederlo lì, in mezzo alle sue cose.

Kuroo ha preso in mano una foto di una decina di anni prima, in cui Akiteru e Kei si stringono su un'altalena rossa. E poi un'altra in cui Kei tredicenne fa il segno di vittoria con le dita, abbracciato a una ragazzina bruna, forse un anno più grande, decisamente carina.

«Tua sorella? Cugina?»

«Vicina di casa.»

«Ti piaceva?»

E' morta in un deragliamento. Ma Kei non lo dice. E no, non gli piaceva. Lui piaceva a lei. «Sono affari tuoi?»

Kuroo alza le spalle. «No, in effetti. Comunque hai risposto.»

«Prego?»

«No. Non ti piaceva. Se ti fosse piaciuta avresti detto subito di no. Se ti piacesse ancora adesso, avresti tolto la foto dalla mensola.»

Maledetto. La stanza inizia a sembrare a Kei molto stretta, molto claustrofobica.

«Pensi di conoscermi?»

«Non abbastanza. Altrimenti non avrei guidato quattro ore per venire qui.» Di nuovo, quel tono ordinario, come se parlasse di compiti di scuola e le sue parole fossero prive di importanza.

Kuroo scorre le dita sulle coste di una fila di libri. Si sofferma sui titoli, inclinando la testa. A Kei sembra un qualche tipo di esame e odia sentirsi ansioso per il voto finale.

«Tua madre è occidentale?»

«La tua lo è?»

Kuroo si volta di scatto, allarga gli occhi e ride, inquadrando con le dita la propria faccia, in cui si concentra il meglio dei lineamenti tipicamente giapponesi. Compresi quegli occhi magnifici, allungati e felini, pieni di ironia. «Che domanda idiota, Tsukki!»

Non chiamarmi Tsukki. Questa volta, la reazione mentale è ritardata. Si sta abituando alla sua voce, a come batte quelle due sillabe fra i denti e le labbra.

Si sta anche abituando a rispondergli. «Occidentale per un quarto mia madre, per metà mio padre.»

«E due figli così. Un jackpot alla lotteria genetica.»

«Così come?»

Kuroo sporge in avanti la testa, come se dovesse analizzare da vicino ciascuno dei tratti del viso di Kei. Alza gli occhi, cercando un aggettivo in particolare. «Esotici» scandisce. Per un attimo è sembrato che stesse per dire qualcos'altro.

«Comunque, non è affatto una lotteria. Non c'è molto di casuale.» osserva Kei con saccenza. Si è seduto e ha incrociato le gambe; sta assistendo a quella perlustrazione con la svagatezza di uno spettatore annoiato. La noia è l'ultima delle emozioni che prova.

Kuroo è tornato a guardare la libreria e risponde senza voltarsi. «E' un calcolo di probabilità, quindi una lotteria.»

«Ci sono delle regole precise.»

«Sì, ma ci sono anche molte variabili complesse. Mi riferivo a quelle. Ai fenomeni di codominanza nelle mescolanze etniche. All'allelia multipla di alcuni fenotipi, per esempio quegli occhi impressionanti che hai lì, e che infatti tuo fratello non ha. Non siamo piselli di Mendel, non è un calcolo aritmetico banale. E tu, più ancora di tuo fratello, sei il risultato eugenico di una probabilità molto ridotta.»

Risultato eugenico. Kei registra l'espressione, il cui significato è piuttosto chiaro e somiglia abbastanza a un complimento.

«Ti interessi di genetica?» la voce di Kei suona molto più stupita di quanto non vorrebbe.

«Mi piace.»

«Perché?»

«Perché mi piacciono i cani. E prima o poi, più poi che prima, vorrei provare ad allevarli, come hobby. E a farlo con cognizione di causa.»

Kei è perplesso, ma anche incuriosito. Avrebbe altre domande. Un sacco di domande. Ripetere a se stesso che non dovrebbe fregargliene niente è inutile e anche un po' ridicolo.

Kuroo si sposta, dedica un'occhiata distratta al piano della scrivania e poi solleva lo sguardo. Prende in mano un modellino di dinosauro dalla mensola in alto. Uno in particolare fra la quarantina esposti.

«Che ha di speciale?» chiede a Kei, mostrandoglielo.

«Niente. Mi piace la paleontologia.»

«Perché?»

«Perché penso che senza umani questo pianeta fosse un gran bel posto.»

Kuroo ride, ma non è uno che si distragga facilmente. Fa oscillare fra due dita il giocattolo. «Questo qui. Che ha di speciale?»

Non te lo dirò mai, pensa Kei. E intanto si chiede se invece un giorno lo farà. Se gli racconterà tutta la storia. Sente un desiderio strisciante di farlo, e di farlo subito; la cosa lo spaventa e lo innervosisce.

«Perché pensi sia speciale?»

«Mi prendi in giro? E' ammaccato sulla coda e consumato, qui, e anche qui, si vede benissimo. E poi è posizionato sulla mensola esattamente davanti a dove tieni la sedia. E' uno dei pochi che puoi afferrare da seduto, solo allungando il braccio.»

Continua a essere spiazzante. Sarebbe più facile farsi scivolare tutto addosso, se fosse molto più stupido.

«Hai guidato quattro ore per giocare a Sherlock Holmes, Kuroo-senpai? Perché io non mi sto divertendo. E la mia voglia di buttarti fuori casa aumenta ogni minuto.»

«Davvero?»

«Sì» risponde Kei. Ma è vero solo per metà. L'altra metà boccheggia in cerca d'aria.

«Mi piace molto questa stanza» dice Kuroo, sorridendo mentre rimette a posto il modellino.

«A me piace quando ci sto dentro da solo» bofonchia Kei.

Kuroo lo guarda negli occhi. Sembra sia sul punto di dire qualcosa. Invece sfodera l'ennesimo sorrisetto. «Allora usciamo. Tenerti sulle spine mi diverte, metterti in tensione per niente.»

«Cosa ti fa pensare che io sia teso?»

«Vuoi saperlo davvero, Watson?»

«Stupiscimi.»

«Tamburelli con le dita. Poco, ma si vede» risponde Kuroo, accennando alle mani di Kei seminascoste dalle maniche della felpa. «Lo fai anche in campo. Prima di servire, per esempio. Fai un po' schifo a servire, in effetti. Oppure quando sei in panchina e vuoi che nessuno si accorga della voglia che hai di giocare, oppure...»

«Mi guardi parecchio.»

Kuroo solleva un angolo delle labbra. «E' il mio lavoro studiare gli avversari. E mi diverte farlo. Comunque sì, è vero, ti guardo parecchio. Quindi? Usciamo?»

Kei si alza, guardando per terra. Toglie la felpa rossa sotto, chiude fino alla gola quella grigia e si butta addosso un giaccone e una sciarpa.

La scritta bianca NEKOMA trionfa sullo sfondo rosso, giusto in mezzo al letto. L'immagine ha qualcosa di lascivo, e Kuroo ne scatta un'istantanea mentale.

Due minuti dopo sono in strada. Resta, fra loro, come una barriera invisibile, che impedisce di avvicinarsi oltre una certa distanza; un solco dalle spalle ai piedi, pieno d'aria che spinge sui lati, per separarli.

 

 

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Capitolo 4
*** Cinque punti ***


4- Cinque punti
 

6 Ottobre 2012

Camminano fianco a fianco, a passo svelto verso il quartiere commerciale. Kei si è rifiutato anche solo di avvicinarsi alla moto.

«Ma è chibi-chan!» esclama Kuroo, indicando un manifesto attaccato a una vetrina. E' una foto di Hinata preso di spalle, all'apice dell'elevazione, subito prima di schiacciare. Un'idea di Yachi per la raccolta fondi trasferte del Karasuno. «Quando salta fa paura. Salta più di te?»

«No!» risponde Kei piccato. Che la differenza è di un solo centimetro, non lo dice.

Kuroo sorride. E' divertito, rilassato, sembra che niente al mondo possa toccarlo in profondità. Kei pagherebbe per sapere cosa gli passa per la testa. Pensa che debba essere rilassante vivere così, guardando alle cose senza sovrastrutture e senza neanche debolezze. Lanciandosi senza paura del vuoto.

«Entriamo qui» dice Kei, fermandosi davanti all'ingresso di una specie di caffetteria e aprendo la porta. E' il tipo di posto un po' fuori mano, di cui probabilmente il resto della squadra ignora l'esistenza. Yama lo conosce bene, a dire il vero, ma non ci viene mai da solo. E' il posto preferito di Kei.

«E' carino» commenta Kuroo. «Ti si addice.»

«E' un posto a caso» mente Kei, mentre si siede al suo solito tavolo, nell'angolo. «Dove è improbabile che incontriamo qualcuno che conosci.»

«Sarebbe un così gran problema?»

«Fanculo.»

«E' un sì?»

Per tutta risposta, Kei mette su le cuffie e sposta il viso di lato. Kuroo sorride di più, scorrendo col dito la lista del menù. Ordinano in fretta.

«Senti un po', Nekoma, non vorrai tornare indietro fino a Tokyo stasera?» chiede Kei, abbassando le cuffie intorno al collo.

«Non lo so ancora.»

«Sei più scemo di quanto pensassi.»

«Vuoi invitarmi da te? La tua stanza è enorme.»

«Crepa!»

La cameriera, che arriva in quel momento, sobbalza con il vassoio in mano. Kuroo ride.

«Non voglio infastidirti per davvero, Tsukk..ishima. Ho la moto apposta per tornare quando voglio.»

Kei alza le spalle, fingendo che non gliene importi. «Vedi di non schiantarti. Tokyo è troppo lontana per un funerale.»

«Significa che sei preoccupato per me?»

«Significa che guidare una moto otto ore nello stesso giorno è troppo stupido anche per la tua testa da carciofo.»

«Ho diciott'anni, ho il diritto di essere stupido.»

«Diciassette. Ancora per qualche settimana.»

Kuroo solleva lo sguardo dalla tazza. «Sono colpito» dice. E sembra lo sia veramente.

«Non ti esaltare. La tua data di nascita era su Monthly Volleyball e io ho un'ottima memoria. Scorso maggio: "Giovani promesse: I nuovi capitani" »

«E ti ricordi quella di Sawamura?»

«Impossibile dimenticarla: 31 dicembre.»

«E Bokuto?»

«20 settembre, me l'ha ripetuta settecento volte.»

E' proprio una cosa da lui. «Oikawa?»

Kei sospira. «Qualcosa verso fine luglio.»

«Daishou?»

«Chi è?»

«Nohebi.»

«Non ne ho idea.»

«Neanche io. Ushijima?»

«Era in copertina. Agosto?»

«Può essere, ma non ce lo vedo a soffiare sulle candeline. Noto con piacere che ti ricordi solo quelli veramente fighi» osserva Kuroo, passandosi la mano fra i capelli e ammiccando.

«Coglione.»

Kuroo ride. Ha ordinato un caffé nero e lo trangugia allegramente. Anche la sua posa è distesa: le gambe allungate, la schiena rilassata, il braccio sinistro poggiato sulla spalliera della sedia a fianco.

Kei è composto, ginocchia unite, gomiti sotto il bordo del tavolo, chiuso nel suo spazio personale che nessuno, nessuno deve invadere. Ha ordinato un tè nero, come sempre.

«Che altro prendi, di solito?»

«In che senso?»

«La cameriera. Ti ha chiesto "prendi il solito?" e tu hai risposto "solo il tè". Quindi che altro prendi di solito?»

«Un dolce alle fragole.»

«In ottobre?»

«Non l'ho preso, infatti. E comunque, a Tokyo non avete serre?»

«La roba coltivata in serra non sa di un cazzo, Tsukki. Ricordami di portarti a mangiare qualche fragola vera, quando vieni a Tokyo a trovarmi.»

«Tokyo, la patria dell'agricoltura tradizionale. Cosa ti fa supporre che verrò a Tokyo a trovarti, comunque?»

«Tokyo è piena di cose interessanti: il torneo nazionale, la Todai, il sottoscritto» Tetsurou conta rapido sulla dita. «Non c'è verso che tu possa evitare la capitale nel prossimo futuro.»

Kei scuote la testa e beve ancora un sorso. La Todai è fuori portata. Al momento anche il torneo nazionale. Il resto è da escludere.

«E tu cosa ordini di solito?»

Kuroo sorride. «Dopo cena? Questo. Caffé nero e sandwich con le uova. Ne vuoi un po'?»

Kei rifiuta con tanta convinzione che Kuroo tira il piatto verso di sé. Nel suo volto non c'è il minimo moto di delusione. E' allegro e sfacciato, come sempre.

«Perché non ti piace che ti chiamino Tsukki? E' carino.»

«Carino vallo a dire al tuo alzatore.»

Kuroo sorride: «Di' la verità, dai. Yama-coso è geloso? Gli hai concesso l'esclusiva?»

Kei alza gli occhi al cielo. «Tadashi mi chiama così da quando aveva sei anni. Non posso certo farlo smettere adesso.»

«Non mi piace chiamarti Tsukishima. Sembra il nome di un vecchio zio.»

«Non deve piacerti. Devi usarlo con parsimonia.»

«Parsimonia un corno. Posso chiamarti Kei?»

Certo. Fallo. Adesso. «Non se ne parla. Non so davvero perché me ne sto qui a farmi importunare da te.»

«Perché non vuoi che riprenda la moto subito.»

«Crepa.»

«E tre. A dieci vinco un premio?»

«Un calcio in culo.»

«A cento?»

«Non ti allargare.»

«Mi sto allargando?»

Si sta allargando. E a Kei piace che lo faccia. Anche a Kuroo piace allargarsi, piano piano, stiracchiando i confini della loro distanza.

«Come va il tuo muro?» chiede Kuroo, mordendo il sandwich con voluttà. «Buono» bofonchia masticando.

«E' spionaggio?» Kei si toglie dal collo la cuffia. Lo fa inconsapevolmente, se ne accorge solo quando vede la propria mano poggiarla sul tavolo.

«E' amicizia.»

Questa volta neanche Kei riesce a trattenere un sorrisetto. «Va meglio. Vorrei essere più veloce.»

«Di gambe o di cervello?»

«Entrambi.»

Kuroo ci riflette, con la tazza in mano. Mentre la solleva, Kei nota che la maglietta nera, che porta sotto la felpa slacciata, ha una luna crescente gialla disegnata sul fianco e la scritta Tsuki no Hikari, Moonlight.

«Bella, vero? Ti piace?» chiede Kuroo compiaciuto, contorcendosi per guardarsi il fianco.

Gli piace molto. E in fondo vorrebbe che non fosse una scelta casuale. «Fa differenza se mi piace o no?»

«Certo. Altrimenti non te l'avrei chiesto»

«Mi piace.»

Kuroo liscia il disegno con la mano e poi si appoggia con i gomiti sul tavolo, sporgendosi verso Kei. «Dimmi ancora del muro.»

«A volte sono troppo lento a reagire, per un muro in lettura. Però ultimamente sto cercando di lavorare sulla posizione a terra, per scattare. E sto anche cercando di guardare le cose da una prospettiva più ampia.»

Kuroo annuisce, Kei si aggiusta gli occhiali sul naso e prosegue: «Non serve bloccarle tutte, non è nemmeno possibile. In qualche caso, ti si ritorce contro. Ho preso non so quanti mani-e-fuori da quel mostro di Kageyama.»

«Sinceramente, non so se puoi riuscirci già adesso, ma dall'atteggiamento dello schiacciatore, dovresti poter intuire se sta cercando di portarti a un mani-e-fuori.»

«E se lo intuisco?»

«Allarghi le mani ed eviti il tocco. Nove su dieci andrà fuori comunque.»

Kei si spinge gli occhiali sull'arco nasale. Sta tentando di proiettare le parole di Kuroo sulla posizione di Kageyama, nel momento in cui carica il colpo. Gli sembra che il tempo a disposizione sia troppo poco per una valutazione e una reazione.

«Contro chi è la prossima partita?» domanda Kuroo, distogliendolo dalle sue proiezioni.

«Johzenji»

Kuroo storce le labbra, si gratta un lato del naso e poi scuote la testa «Non me li ricordo. Magari nei prossimi giorni mi informo e se mi viene in mente qualcosa ti chiamo. Però ascolta, in generale, cerca di tenere le braccia più in avanti e ben distese. E prova a rilassare un po' le spalle. Hai preso la brutta abitudine di saltare con i dorsali completamente contratti. Secondo me il più delle volte il problema non è tanto che sei in ritardo, quanto che non riesci a ruotare le braccia quel tanto che basterebbe per allargare il tuo raggio d'azione.»

Kuroo mima la posizione del muro, slittando indietro con la sedia. E poi ruota leggermente la spalla destra, aprendo di lato. «Capito?»

Kei annuisce con la testa, concentrato.

«E poi... » prosegue Kuroo, con il suo migliore sorrisetto sghembo, «col fisico che hai, puoi saltare molto, molto più di così, almeno dieci centimetri... devi farti un po' di gambe.»

Kei non gli offre la minima soddisfazione, ma ovviamente Kuroo ha ragione.

«Invece come tempismo e come lettura sei migliorato molto, sono sicuro che il tuo cervello non ha bisogno di andare più veloce. Mi è anche sembrato di intravedere delle tattiche a lungo termine, costruite durante tutta la partita. Una cosa interessante, che ti si addice molto» conclude Kuroo soddisfatto, come se fosse tutto merito suo.

Kei sente insinuarsi sottopelle il piacere per quella lode e lo nasconde sotto l'ennesimo sguardo sarcastico. «Che sbruffone. Praticamente non mi conosci. E non mi vedi giocare da due mesi.»

Kuroo risponde scuotendo il capo, con una serie di piccoli schiocchi delle labbra, dinieghi ripetuti. «Ho visto le partite di agosto. Tutte e due.»

Le sopracciglia di Kei schizzano così in alto che paiono voler superare la fronte. Lui era lì? A Sendai a vedere le partite del Karasuno?

«No, non c'ero. Le ho viste in video.» spiega Kuroo, con un'aria di malizia che gli fa brillare gli occhi. Evidentemente legge nel pensiero.

«Riprese da chi?»

«Lo vuoi sapere?»

«No, in effetti non me ne frega niente» mente Kei, spudoratamente.

Kuroo sorride. E' un intenditore di menzogne.

«C'è anche un'altra cosa che si vede benissimo da quei video. Una cosa che non ti piacerà per niente. Vuoi saperla?»

«Sei tu che vuoi dirmela.»

«Esatto. Perché è molto divertente guardare le falle che si aprono nella tua bella corazza.»

«Di che parli?» risponde Kei, che sta fingendo tutta la noncuranza e il disinteresse che non prova.

«Del fatto che non sei più così bravo a fingere di essere lì controvoglia, di sentirti superiore.»

«Dici un sacco di cazzate, Kuroo-senpai.»

«Inizia a bruciare parecchio la panchina sotto le chiappe, eh?»

«Crepa!» sibila Kei, mentre, in contemporanea, Kuroo segna con la mano il numero quattro.

Poi aggiunge il quinto dito: «E' solo un club...» recita con voce strascicata, facendo il verso al tono tagliente e irritante di Kei.

«Crepa!»

Il calore della risata di Kuroo riempie il silenzio. Anche quello dentro Kei.

 

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Capitolo 5
*** Golden Week ***


5 - Golden Week


5 maggio 2012

Di fronte a Hinata, Kei trova sempre da stupirsi. E non è uno stupore piacevole. A parte la capacità di fare cose incredibili e inquietanti, tipo saltare più del doppio della propria altezza o schiacciare con gli occhi chiusi una palla che potrebbe arrivarti in faccia anziché sulla mano, è la sua personalità a lasciarlo sconcertato.

L'ottimismo ingiustificato dovrebbe avere dei limiti. Limiti naturali, imposti dalla realtà dei fatti, tipo non arrivare a un metro e sessantacinque. Oppure da una semplice (im)probabilità statistica, ad esempio essere indecente in ricezione e restare comunque convinto di arrivare ai nazionali. Che le evidenze, concrete o matematiche, non smentiscano le convinzioni di Hinata, per Kei è il fatto più incredibile.

Al momento, finita l'amichevole, Mandarino sta parlando, se parlare può considerarsi il verbo giusto, con il centrale del primo anno del Nekoma, tale Inuoka, un altro che schiaccia e mura senza pensare e riceve da cani, ma almeno non è un nano. La conversazione, interamente basata su onomatopee di colpi alla palla, smorfie demenziali ed esplosioni gestuali incontrollate, è del tutto incomprensibile.

«Che diamine stanno dicendo? Come faranno a capirsi?» si lascia scappare Kei, rivolto più che altro a se stesso. In realtà, anche se non del tutto consapevolmente, il suo tono basso contiene una minima intenzione di farsi udire dall'unica persona a portata d'orecchio, il capitano del Nekoma, che sta guardando la stessa scena.

Kuroo Tetsurou è un tizio che Kei non è ancora riuscito a classificare ma che, a dispetto di un taglio di capelli incommentabile, possiede il minimo di requisiti necessari per rientrare nel novero degli umani: non è psicopatico e non è cretino. Non è neanche brutto. Per niente brutto.

«Hai ragione. Sono molto infantili per essere dei liceali» risponde Kuroo indulgente.

A quanto pare è attento.

«Però forse tu hai il problema opposto: magari potresti lasciarti andare un po' e comportarti come un adolescente ogni tanto» aggiunge Kuroo, con un sorrisetto che potrebbe essere tanto di sfida quanto di sarcasmo.

Touché. E' anche perspicace.

«Non fa proprio per me» replica Kei, con il migliore sguardo impassibile del suo arsenale. 

E' il colmo che un perfetto sconosciuto pretenda di dargli lezioni di psicologia spicciola mentre pulisce il pavimento di una palestra. E' anche il colmo che in qualche misura colga nel segno.

«Hai intenzione di fingere di essere già vecchio finché non sarai vecchio?» lo provoca Kuroo.

«Ho intenzione di essere esattamente come mi pare, a qualsiasi età» ribatte Kei.

Finora, ha evitato di guardarlo in faccia, ma a questo punto non si può più rimandare. Kuroo gli offre un sorriso smagliante e un po' sghembo, i suoi occhi dicono che è quasi impossibile farlo vacillare. Sono arroganti, brillanti e curiosi. Troppo curiosi.

Dietro le lenti degli occhiali, Kei cerca di rendersi impenetrabile. E' un maestro, in questo. Sguardo fisso e diretto, spalle rilassate, una specie di sorrisetto che può tramutarsi in fastidio o in insolenza solo arcuando un po' la piega delle labbra. Gli mancano le cuffie, deve trattenere il gesto automatico di portarle dal collo alla testa.

Kuroo scoppia a ridere. «Ah i giovani d'oggi!» commenta sospirando, come se avesse cent'anni più di lui anziché appena un paio. «Sei un tipo strano, lo sai?»

E' ovvio che non si aspetta una risposta; sarebbe il momento perfetto per defilarsi senza conseguenze, ma le parole scivolano fuori dalle labbra di Kei contro la sua volontà. «Perché sarei strano? In che senso?»

«Com'è che ti chiami?»

«Tsukishima Kei». 

Kuroo lo scruta da capo a piedi, lo analizza come una radiografia. «Tsukishima-kun, quanti anni hai? Quindici? Sei alto. Hai il fisico migliore della tua squadra, puoi ancora modellare la struttura muscolare sulla pallavolo... »

Kuroo si sporge per tastare sulla maglietta i bicipiti ben poco in rilievo di Kei, che si sottrae al tocco socchiudendo gli occhi, visibilmente infastidito.

«Eppure ci tieni che tutti pensino che tu sia qui per punizione» conclude Kuroo, alzando le spalle.

«Credi che l'entusiasmo sia direttamente proporzionale al comportarsi da decerebrati come quei tre?» chiede Kei, accennando con lo sguardo a Inuoka e Hinata, ai quali si è unito Nishinoya. Continuano a saltellare, urlare e dimenarsi.

«Entusiasmo. Addirittura. Sei entusiasta di giocare?»

Kei sbuffa, lanciando con forza nel cesto, le ultime due palle che ha raccolto. «Fra l'essere entusiasta e essere qui per punizione esistono parecchie sfumature. Ma forse non sei il tipo che dà importanza alle sfumature.»

E' la prima volta che Kei non riesce semplicemente a chiudere di netto una conversazione priva di utilità come quella. Per qualche motivo, e suo malgrado, sta collaborando attivamente a mandarla avanti.

Il sorriso di Kuroo si accende. «Ti interessa che tipo sono?» 

«Per niente» risponde Kei di getto, e intanto si rende conto che è una mezza bugia. Anche più di mezza.

«Avete perso, anzi, la vittoria vi è sfuggita di mano, e tu sei l'unico corvo che non è nemmeno un po' frustrato.»

Kei allarga gli occhi. «Ti sembrano frustrati?» domanda, indicando i suoi compagni di squadra che ridono sguaiatamente insieme agli avversari.

«Lo erano, al momento del fischio. Gamberetto avrebbe giocato altri cento set, pur di vincerne uno. Al pupillo di Oikawa sembrava avessero ucciso il gatto. Il vostro asso era a un passo dalle lacrime. Sawamura-san tratteneva stoicamente un torrente di imprecazioni. Non lo hai notato? Credevo fossi un tipo attento alle sfumature.»

«E' solo un club» risponde Kei fra i denti.

«Davvero?» chiede Kuroo provocatorio, sporgendosi verso Kei, col peso appoggiato al manico dello spazzolone di feltro.

Kei si fa indietro col busto istintivamente. Si aggiusta gli occhiali sul naso, si stringe nelle spalle. Vorrebbe che fosse la verità, se la ripeterà abbastanza volte finirà per diventarlo. «Credi che tutti qui dentro siano dei fenomeni? Per favore! Due terzi dei presenti fra qualche anno finirà chiuso in qualche squallido ufficio, a qualcuno andrà magari un po' meglio, ma pensi davvero che i futuri campioni olimpici di pallavolo siano fra noi? Pensi che sbattersi tanto abbia uno scopo? Che allenarsi ore e ore ogni giorno, rinunciando a tutto il resto, valga la pena? Che porti a qualcosa?»

Kuroo alza un angolo delle labbra: «Quale resto? Ti manca il tempo per una ragazza? Allora dopotutto è vero che hai quindici anni.»

Quel tizio è incredibile. Incredibilmente sfacciato, incredibilmente sicuro di sé. E Kei non riesce proprio a spiegarsi perché se ne stia ancora lì ad ascoltarlo.

«Te lo ripeto, Kuroo-san, pensa quello che ti pare, ma per me questo è solo un club. E sono convinto che sarebbe più sano se anche gli altri la pensassero così.»

«Significa che giocare non ti piace?»

«Significa che è un modo come un altro per passare il tempo.»

«Non ho ancora capito se fingi o fai sul serio. E' meglio essere idioti e pieni di entusiasmo che avere cervello in abbondanza e usarlo solo per ripetere frasi fatte. Oppure hai dei motivi personali per fingerti lassista?»

Anche questa freccia colpisce il bersaglio, e con violenza, ma Kei si stringe nelle spalle, imperturbabile. L'unica emozione che gli arriva fino agli occhi è un sarcasmo insolente che copre la collera. «Deve essere bello sapere tutto di tutti, capire ogni cosa. Praticamente onnisciente. Sei anche ubiquitario?»

«A volte» ride Kuroo, per niente impressionato.

Kei scuote il capo con un'efficace imitazione di disinteresse  e poi  volta le spalle al capitano del Nekoma e al campo di gioco, imboccando la direzione degli spogliatoi. 

Kuroo è più veloce. Lo raggiunge in due passi e lo blocca per una spalla, avvicinandosi per parlargli all'orecchio: «Tsukishima-kun, lo vuoi sapere un segreto? A te piace molto giocare a pallavolo. Scommettiamo che prima o poi te lo faccio ammettere?»

Kei scatta di lato, per sottrarsi. Risponde con un ringhio e allunga il passo per andarsene. 

Mentre cammina a testa alta, può sentire lo sguardo di Kuroo dritto in mezzo alle scapole. L'eco della risata del Capitano è la prova che, alla fine, questo scontro lo ha vinto lui.

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Capitolo 6
*** Un problema enorme ***


6 - Un problema enorme


6 ottobre 2012

 

«Dovevi lasciarmi offrire!» si lamenta Kuroo, mentre tiene la porta della caffetteria aperta, per far uscire Kei.

«Sono io che ti ho portato qui.»

«Ti ho praticamente costretto.»

«Nessuno può costringermi» dice Kei. 

Dev'essere vero. Sembra impermeabile alle costrizioni, pronto a opporre resistenza anche contro il proprio vantaggio, se serve a non farlo sentire messo all'angolo. 

A Tetsurou, però, l'affermazione in qualche modo fa tenerezza. Come gli fa tenerezza quello sguardo scostante che spunta dal bordo della sciarpa, con le lenti che si appannano ogni momento. Una tenerezza subdola, ai confini del desiderio.  In quel preciso momento, Kuroo Tetsurou guadagna una nuova consapevolezza su se stesso, una di quelle da adulti: non è la fragilità esibita che sollecita il suo naturale istinto di protezione, ma, al contrario, la pretesa di indipendenza. Diventare il bisogno di chi si rifiuta di aver bisogno di qualcuno.

«Dove vuoi andare?» domanda Kei.

«Forse dovrei riportarti a casa, fa un cazzo di freddo a ottobre, da queste parti» risponde Kuroo strofinandosi le mani.

Si è fatto buio. Le loro sagome affiancate appaiono e spariscono nei coni d'ombra di ogni lampione. Kei reprime un sorriso, guardando le ombre tremolare sull'asfalto.

«Tu dove vai? Non sarai così pazzo da tornare davvero a Tokyo adesso.» Il tono vorrebbe essere neutro, ma fra le sillabe si affacciano note di preoccupazione autentica.

Kuroo sorride, ma non risponde. Anche Kei tace. Al gioco del silenzio è un campione.

Passano davanti casa di Yamaguchi, Kei getta uno sguardo alla finestra illuminata al secondo piano. A quest'ora, Tadashi starà leggendo qualche manga sdolcinato. Avrà anche già chiamato un paio di volte, ma Kei ha silenziato il telefono. Superano altri due edifici e poi passano oltre la villetta di Kei, senza fermarsi.

«Non è casa tua quella?» chiede Kuroo puntando il dito dietro le spalle.

«Non mi va di rientrare subito» risponde Kei. Per una volta si prende il lusso di dire esattamente la verità.

«Non hai freddo?»

«Che c'è, hai un'altra felpa di cui liberarti?»

«La prima l'hai già consumata?» risponde Kuroo, provocatorio. In realtà, per un attimo ha pensato di dargli la sua giacca, ma sarebbe un gesto eccessivo, persino per  lui.

Kei si accorge di avere un vero sorriso stampato in faccia, nascosto dalla sciarpa.

Hanno svoltato e ora salgono per un pendio dolce, in cima al quale un ultimo lampione getta una pallida luce sul parco di quartiere, con le giostrine di metallo per  bambini. A Kuroo sembra di riconoscere l'altalena rossa della fotografia di prima.

E' proprio all'altalena che si dirige Kei. Si siede, si dà una spinta.

Che sia capace di gesti come questo, che non pretendono di difendere una posa da adulto, è un fatto che stupisce. E che innamora. Come se ce ne fosse bisogno.

Kuroo siede sull'altalena accanto, che risponde al suo peso con un cigolio infastidito.

«La prima volta che ho giocato a pallavolo, o una specie di pallavolo, è stato lì» racconta Kei, indicando un perimetro erboso delimitato da bandierine di plastica colorate. «A cinque anni.»

«Anche io me la ricordo bene, la prima volta. Con mio nonno, in cortile. Di anni ne avevo compiuti sei da poco. Ci eravamo appena trasferiti da loro e io.... beh, diciamo che non ero un bambino facile. I nonni mi avevano regalato per il compleanno una Mikasa bellissima - ce l'ho ancora - sperando che mi aiutasse a farmi degli amici. Ma finivo sempre per trovarmi da solo. E non mi dispiaceva.»

Immaginare Kuroo al di fuori di una ricca e movimentata vita sociale è difficile. Sembra fatto per essere l'anima della festa, il punto cardinale verso cui tutti finiscono per essere orientati. Come in campo, dove la sua squadra è sempre, in ogni momento, protesa verso il suo capitano:  occhi, orecchie, piedi, mani rivolti verso di lui. 

Pensarlo bambino, timido e schivo, è più che altro un esercizio di fantasia. 

«E poi? La pallavolo ti ha cambiato la vita?»

«Ovvio. Ma quello è stato dopo. La cosa importante che è successa è che ho conosciuto Kenma. E ho scoperto che stare da soli non è male, ma in compagnia quasi tutto è molto meglio.»

«Opinabile.»

«Non direi. Per me è una certezza. Con una fondamentale condizione.»

«Poter mandare tutti a fanculo?»

«Quello fa parte dei diritti umani.»

«Meno male che lo sai.»

«La vuoi sapere la fondamentale condizione?»

«Tanto me la dici lo stesso.»

«Vero. E' questa: la compagnia che ti scegli deve rispettare te e le cose che ti fanno stare bene, e anche la tua personale idea di divertimento, che poi quasi sempre cambia nel tempo. Con Kenma ha funzionato alla grande proprio perché da bambini ci siamo trovati nel voler stare soli insieme. E poi crescendo siamo cambiati tantissimo, ma senza smettere di essere vicini. Alla fin fine, tutto gira intorno al rispetto, anche lo sport, anche l'amicizia. Ha senso per te?»

Kei si dondola e non risponde. Ma il discorso ha senso. Ne ha molto.

Maledetto testa a carciofo. E' anche profondo. E adesso l'idea che fra Kuroo e Kozume abbia funzionato alla grande è una spina sottile che si infila sottopelle e crea un piccolo attrito interno, sordo e persistente. Perché vuoi davvero che Kozume non sia abbacinato dall'avere sempre accanto una fonte di luce di quella portata?

Kuroo si dà qualche spinta più forte e l'altalena vola, cigolando senza pietà. «E tu com'eri da bambino?»

Kei affonda il viso nella sciarpa: «Diverso.»

«Senza occhiali?»

«Quelli c'erano già. Li portavo anche all'asilo. Ero un bambino molto dolce.» Un'altra verità sfuggita senza controllo, di cui Kei si pente all'istante. Se ora Kuroo ridesse... 

Kuroo non ride affatto. Si è quasi fermato e il suo sguardo è piuttosto di gratitudine.

Kei avverte l'urgenza di spezzare il silenzio: «Anche a mio fratello avevano regalato una Mikasa. In prima media, quando era appena entrato nel club della scuola. Ero invidiosissimo. Così ogni tanto mi portava qui e mi faceva giocare.»

«Siete molto legati?»

E' una domanda difficile. Mentre l'altalena lo proietta verso l'alto, Kei guarda la falce di luna calante sopra i tetti delle case. Da bambino tendeva sempre la mano verso la luna e gli sembrava di poterla raggiungere, quando Akiteru lo spingeva forte. Il suono delle risate di un tempo è rimasto fra i nervi sensibili della memoria.

 «Non lo so» risponde Kei sinceramente. Non ha più voglia di mentire. «Credo di sì. In qualche modo. Ma è diverso da quando è andato a Tokyo»

«Anche a me manca mia sorella.»

Bingo. Kuroo Tetsurou ha un vero talento per leggere fra le righe tutte le parole che Kei non pronuncerebbe mai. 

«Non abita a Tokyo?» chiede Kei, cercando di non mostrarsi colpito.

Kuroo scuote il capo, con lo sguardo rivolto al panorama rassicurante del quartiere residenziale in provincia, tutto villette ordinate, muri imbiancati, giardini minuscoli. E un silenzio meraviglioso e  irreale che in città non esiste. 

«E' andata via quando si è sposata, un paio di anni fa.»

«Quanti anni di differenza ci sono fra di voi?»

«Otto. Yu-chan è più grande di otto anni.»

«E dove abita adesso?»

Se Kuroo è infastidito dal terzo grado, non lo dà a vedere. Come se rispondere a domande personali, morendo di freddo su una vecchia altalena che cigola, fosse la sua massima aspirazione. «In Francia.»

«Così lontano?»

Kuroo mugola un assenso. «E' una lunga storia, Tsukki. Sicuro di volerla sentire?» 

«Sicuro di volerla raccontare?»

«Non oggi» risponde Kuroo, sorridendo. «Ma prima o poi lo farò. Ci sono un sacco di cose che mi piacerebbe raccontarti.» 

La sincerità cristallina di Kuroo va in risonanza con le reticenze di Kei, creando una rete di crepe profonde, da cui le parole premono per uscire.

«Seriamente, dove conti di andare stanotte?» Kei ha frenato l'altalena con i piedi e sta fissando Kuroo.

«Da mia zia, a Tomiya.»

«Che ci fa a Tomiya tua zia?» domanda Kei dubbioso.

«Secondo te?»

«Che cazzo ne so?»

«E' in un giro clandestino di ballerine di lapdance.»

«Cosa?»

Kuroo ride. «Ci abita, Tsukki. Con mio zio, mio cugino e due gatti molto antipatici.»

«E tutta questa gente sa che vai lì a dormire?»

«Hai paura che mi caccino e mi ritrovi sotto un ponte?»

«Il ponte mi va benissimo. Ho paura che ti presenti qui in piena notte.»

Kuroo si sporge verso Kei, afferrando la fune della sua altalena; il tono è quello di uno scherzo, ma lo sguardo lo smentisce. «Ti dispiacerebbe?»

I suoi occhi sono di un nero profondo con punti di luce catturati chissà dove. Kei si aggrappa più forte alle funi, per contrastare la vertigine. «Fanculo.»

Kuroo ride. Kei gli assesta uno spintone che lo manda quasi gambe all'aria e lo fa ridere ancora più forte. 

Anche Kei si trova a ridere, suo malgrado. E a chiedersi quand'è stata l'ultima volta in cui si è trovato così bene con qualcuno da non avere alcuna voglia di opporre resistenza, di isolarsi, di andare via.

«Dammi la mano e chiudi gli occhi» dice Kuroo, all'improvviso.

«Cosa?» Le orecchie di Kei sono paonazze, ma il buio le occulta.

«La mano» ripete Kuroo, offrendo la propria. Aperta, distesa, invitante.

«Non se ne parla.»

«Quanto sei difficile, Tsukki.»

Sbuffando, Kuroo estrae qualcosa dalla tasca della giacca e lo spinge nella mano di Kei forzandolo ad aprirla. I tentativi di resistenza vanno a vuoto, il confronto è chiaramente impari. L'idea di essere sopraffatto fisicamente da Kuroo Tetsurou vaga per la mente di Kei come una meteora, con una scia ghiacciata di terrore e desiderio.

«Che diavolo è?» domanda Kei, contrariato, senza prendersi il disturbo di guardare.

«Esattamente quello che sembra, una chiavetta USB»

«Cosa c'è dentro?»

«Un dizionario di ugro finnico. Cosa vuoi che ci sia, Tsukki? E' una playlist. Visto che stai sempre con le cuffie nelle orecchie, mi pareva il regalo adatto.»

«Perché?»

«Perché hai compiuto gli anni? Perché ti piace la musica? Anche se qualche volta penso che tu metta le cuffie solo per isolarti e non ascolti un bel niente...»

«Perché lo fai?»

«Perché faccio cosa? Essere gentile? E' la mia natura, non posso trattenermi. Sono fantastico, no? Non te lo avevo già detto al ritiro?»

«Perché farmi un regalo di compleanno. Perché venire fin qui a consegnarmelo di persona. Perché venirci due settimane in ritardo.»

«Sono un bel po' di domande.»

«Se non ti va di rispondere...» Kei tende il braccio, tenendo la chiavetta fra pollice e indice. Kuroo, afferra la mano e la richiude, spingendola indietro. Le sue dita sono caldissime intorno a quelle gelide di Kei. Sottrarsi al conforto di quel tocco richiede un certo sforzo di volontà.

«Chi dice che non voglio rispondere? Che poi la risposta è molto semplice. Mi andava di vederti e mi andava di farti un regalo. Ecco tutto.  Riguardo alla data, beh,  il piano era di arrivare la settimana giusta, ma le circostanze mi sono andate contro. E' un'altra di quelle cose che prima o poi ti racconterò, se ti va.»

A Kei va. Gli va tantissimo. Vorrebbe trascinare Kuroo in camera sua e restare a guardarlo e ad ascoltarlo tutta la notte. Tutte le notti.

«Ti andava di vedermi?»

«Esatto.»

«Perché?»

Kuroo sorride. Un sorriso intelligente e predatorio, come se sapesse tante cose che Kei ignora, come se avesse tutte le risposte e però le tenesse per sé. Un sorriso sghembo, fascinoso e sfrontato. «Sicuro di volerlo sapere? Io non mento quasi mai, Tsukki.»

In quel sorriso, nelle parole di Kuroo, nei suoi gesti, si intravede la forma del pericolo latente che lui stesso rappresenta e che spinge Kei a mettersi subito sulla difensiva.  «Come ti pare» biascica.

Kuroo sorride ancora, e di più. «Non te ne frega niente, giusto?»

«Giusto.»

«Allora me la riprendo!» Kuroo allunga la mano verso la chiavetta nel palmo di Kei, che subito richiude le dita con forza.

«Non ci provare! E' mia!»

Il gesto di Kuroo, fermato a metà, diventa un tocco gentile, con le dita sulla mano chiusa. Una specie di carezza, così evanescente e breve da lasciare il dubbio se sia mai avvenuta. 

«Ci sarebbe anche un'altra cosa» dice Kuroo, mostrando due scatoline di cartone piatte e quadrate, pescate sempre dalla tasca della giacca. 

Kei le guarda, cercando invano di leggere le scritte e poi sporgendosi  per afferrarla. «Che roba è?»

«Sei penoso a ricevere regali. Guardaci e scoprilo da solo! E poi impegnati a fare una faccia grata e stupita.»

Kei esamina le scatole, fingendo sia di malavoglia. «Cerotto per le dita?» 

«Vedi che ci puoi arrivare? Però sulla faccia grata e stupita devi lavorarci. E' un nastro di una marca molto buona, non so se si trova da queste parti.»

«Siamo a Miyagi, mica nel deserto del Gobi» ribatte Kei, armeggiando per aprire la scatola con dita avide e gelate. E' vero che quella marca, in giro a Osaki, non l'ha mai vista.

Kuroo non lo sta ascoltando.  Nel suo campo visivo ci sono solo le sue mani.  Ha comprato il cerotto pensando che fosse un gran peccato che quelle dita così belle, lunghe, eleganti, debbano riempirsi di tagli e di lividi ogni volta. Ora che le vede così da vicino, però, è costretto ad ammettere che segnate gli piacciono persino di più. I pensieri che evocano sono di quelli da tenere strettamente privati e lo fanno sentire anche un po' in colpa.

«E che avrebbe di speciale?» chiede Kei rigirandosi il rocchetto fra le mani.

«E' il migliore sulla piazza:  resistente, traspirante, robusto, di vero cotone... »

Kei aggrotta la fronte. «Ma chi sei? Uno del marketing dei cerotti?»

«Sarei fantastico nel settore marketing, vero? Sono già piuttosto fantastico di mio,  conto sulla facoltà di economia per tutto il resto.»  Lo dice ridendo di sé, ma ci crede quel tanto che basta per fare in modo che la simpatia diventi fiducia immotivata in chi lo ascolta. 

Kei sorride. Kuroo Tetsurou è una droga: impossibile metterlo in difficoltà, smussare il suo ottimismo, offuscare la sua energia. Impossibile coglierlo impreparato, metterlo al muro. Impossibile non farsi contagiare, non restare soggiogati, non scaldarsi al suo calore, non finire per dipendere da lui. Come Kozume.

«Usalo, capito? E vedi di farlo con un po' di criterio. Di solito te le fasci a caso, le dita. Sembra tu abbia imparato su internet.»

Ovviamente, è così. La tendenza fastidiosa di Kuroo ad avere ragione va ad aggiungersi alla lista dei suoi difetti. «Vorresti insegnarmi tu, fantastico senpai?»

Kuroo ammicca, lasciandosi scivolare addosso il sarcasmo. «Ora sì che ragioniamo! Comincio subito. Lezione numero uno: se hai davanti uno potente come il vecchio gufo oppure Ushiwaka, fasciati le dita prima che te le rompano.»

«Ma...»

Kuroo afferra la mano di Kei e gliela mette sotto il naso. «Niente ma. Guarda che dita lunghe hai, e che mani sottili. Specie quando scegli di andare soltanto in tocco, e ci metti meno forza, la possibilità che ti arrivi una botta pesante a carico di un solo dito è alta. Prima o poi te lo spezzano.»

Kei si divincola, borbottando qualcosa, ma Kuroo gli tiene bloccato il polso in una morsa. «Dammi qua!»  ordina, indicando il cerotto.

«Dunque, prima gli ancoraggi» spiega Kuroo, staccando una prima striscia. «Rimetti subito qui quella mano!»

Kei obbedisce con un grugnito. Kuroo applica il cerotto con gentilezza, due strisce orizzontali alla base dell'indice e intorno all'ultima falange.

«Lo metto così anch'io» brontola Kei.

«Infatti l'errore lo fai a questo punto: metti i tiranti crociati prima delle staffe verticali.»

Kuroo applica due strisce verticali ai lati del dito.

«Sono molli» obietta Kei, scettico. 

«Non devono tirare. Devi poter piegare e distendere. Tu tiri sempre troppo e poi a servire sei fregato. Stai fermo! Ecco qui, ora puoi mettere i tiranti crociati, sempre dal basso verso l'alto e senza tirare troppo. Quanti ne metti di solito?»

«Quattro, due interni e due esterni» risponde Kei, borbottando fra le maglie della sciarpa. Il tocco di Kuroo è pratico ed efficiente, ma si sente ugualmente in imbarazzo.

«Quattro va bene, ma non devi tirare troppo e i secondi ti consiglio di farli tagliando la striscia in due nel senso della lunghezza, in modo che i pezzi siano alti la metà» risponde Kuroo senza smettere di attaccare il cerotto.  «Adesso cosa viene?»

«Ancoraggi di chiusura?»

«Bravo. Questi li devi fare alti e se il dito ti fa male, perché sei stato stupido e ti stai fasciando dopo aver preso una botta, puoi anche tirarli un po'. Non troppo, ma un po' sì.»

Kuroo applica le ultime strisce e poi gira la mano da tutte le angolazioni, per ammirare il risultato.  «Prova a flettere il dito.»

Kei esegue. Effettivamente, riesce ad arrivare in fondo al movimento, senza perdere il sostegno delle fasce.

«Se vuoi chiudere anche la nocca?» chiede Kuroo, con il tono di un'interrogazione alla cattedra.

Kei esita. «Mummia?»

Kuroo risponde con un buffetto sulla nuca. «Mummia mai! Tubolare. Tagli un pezzo lungo unico lungo tutto il dito, e lo avvolgi tipo cilindro, con un solo giro. Così. » Kuroo controlla bene che non ci siano grinze e spinge con i polpastrelli perché il nastro aderisca bene, infine piazza la mano davanti alla faccia di Kei. «Guarda che bel lavoro...»

Kei annuisce, in apparenza distratto. Sta combattendo contro il dispiacere che la lezione sia già finita. E contro il senso di colpa di provare quel dispiacere. E il disappunto per il senso di colpa. Si infila in fretta le mani in tasca, insieme al cerotto. 

Quando alza lo sguardo, trova Kuroo in piedi di fronte a sé, aggrappato alle funi della sua altalena. Il modo in cui lo guarda dall'alto è ubriacante: gli confonde i pensieri, aumenta i suoi tempi di reazione. Comprime lo stomaco. E fa venire sete.

«Non voglio essere costretto a picchiare qualcuno perché ti ha rotto la mano» sussurra Kuroo, questa volta senza fingere che sia uno scherzo, o che non abbia importanza.

«Quante cazzate!» ribatte Kei, sussurrando a sua volta. Non ha la forza di interrompere il contatto degli sguardi.

Kuroo scoppia a ridere.

Kei lo scosta con un braccio per alzarsi. «E' tardi, Nekoma. Mi hai seccato abbastanza e per Tomiya ci vuole almeno mezz'ora.» Spera che la strafottenza basti a coprire il rumore del battito del cuore.

Le strade di ritorno sembrano sempre più corte dell'andata, come se i passi mantenessero la memoria del percorso e il tempo si contraesse seguendo una mappa già nota. Nonostante si impegnino entrambi a rallentare, e Kei scelga di proposito il percorso più lungo, arrivano alla moto in un tempo troppo breve.

A quel punto, restano in silenzio a guardarsi. Mani bloccate in tasca, spalle basse, nuvole di fiato condensato che non trasportano parole, ma intenzioni.  O forse illusioni.

Kei è determinato a tacere. Avrebbe voglia di dire mille cose e nessuna è adeguata, nessuna è ragionevole. Sono tutte banali, ingenue, inverosimili, assurde. L'unica realtà riconosciuta è una nausea opprimente, che parte dallo stomaco e arriva fino in gola.

Neanche Kuroo sembra ansioso di riempire i silenzi. Cerca di cogliere la poesia del momento: la falce di luna, un ricamo di nuvole, un alito di vento. Un lampione che sfarfalla, un cane che abbaia in lontananza, la luce di una stanza che si spegne all'improvviso nella casa di fronte. E Kei, al centro di tutto. Kuroo non può fare altro che restare lì fissarlo con il casco in mano, immobile, sospeso.

«Allora, te ne vai o no?» sbuffa Kei, guardandosi le scarpe.

«Me ne vado» risponde Kuroo. Ma non accade nulla. Non si infila il casco, non sale sul sellino. «Posso portarti a casa?»

Kei allarga gli occhi e indica casa sua, alla fine dell'isolato. «Sei serio? Abito lì, saranno cento metri.»

«Non ti ho chiesto quanto è distante. Ti ho chiesto se posso accompagnarti.»

«Va bene» concede Kei. Sa che si tratta di una grandissima idiozia, ma se non cede almeno a questa, potrebbe ritrovarsi, per eccesso di pressione interna, a fare qualcosa di molto più stupido.

«Allora questo prendilo tu» dice Kuroo, consegnando il casco a Kei.

Il tragitto è una breve, rischiosa apnea, che dura insieme un attimo e un secolo. Il profumo di Kuroo, che passa attraverso i suoi vestiti e sa di aria aperta, di giornate estive e di una qualche colonia fuori moda, si imprime a fuoco nella memoria di Kei. Non può saperlo, ma il ricordo durerà per sempre.

Si fermano di fronte al cancello, la villetta è immersa nel buio.

«Tsukki, io... sono stato bene. Davvero. Non che avessi dubbi, ma... quel che cerco di dire è...»

«Shhh. Basta cazzate, Kuroo-senpai. Fai più bella figura quando taci» sussurra Kei, mentre infila il casco sulla testa di Kuroo. «E grazie per i regali.»

«E' un vero sorriso quello?» 

«Neanche per sogno. E' uno spasmo.»

«Buonanotte, Tsukki.»

«Non guidare come uno scemo. Non ti ammazzare. Non chiamarmi Tsukki.»

Kuroo mette in moto.

«Mandami un messaggio» dice Kei all'ultimo momento. Ha provato a trattenersi, ma sarebbe esploso se non lo avesse detto. «Per dirmi che sei vivo.»

Kuroo sorride, ma si vedono solo gli occhi, che sono più che abbastanza per desiderare di non vederlo partire. Invece parte rombando. In pochi secondi è sparito.

Il messaggio arriva circa un'ora dopo.

Sono vivo. In parecchi sensi.

Kei non risponde. Guarda il soffitto con gli occhi spalancati e le cuffie nelle orecchie, quasi fino al mattino. Ogni tanto piega l'indice sinistro solo per assicurarsi che le fasce siano ancora lì.

La cosa brutta di essere lucidi, intelligenti,  empatici e spietatamente onesti con se stessi è che i sentimenti li riconosci subito, anche quelli che rappresentano un problema. Essere mezzo innamorato di Kuroo Tetsurou è un grosso problema.

Immaginarsi di avere una speranza, è un problema enorme.

 

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Capitolo 7
*** Beccati! ***


7 - Beccati!


7 Ottobre 2012


[Line group chat - Karasuno Volley Team]

09:25 Suga Koushi @Tsukishima Kei ci sei? Ma... era Kuroo Tetsurou con te ieri pomeriggio? O_O

09:31 Suga Koushi @Tsukishima Kei ???

09:32 Yama Tsukki sta studiando. Domani verifica di chimica. Kuroo-san non abita a Tokyo?

09:32 Suga Koushi Per questo è strano! E' lì con te Tsukishima? Chiediglielo!

09:33 Yama E' a casa sua. Che ci faceva qui Kuroo-san??

09:33 RollingThunder Cooossaaaa? Con chi era Tsukishima? @Tsukishima Kei dicceloooooo!!!!

09:34 RollingThunder @Tsukishima Kei ???

09:35 RollingThunder @Tsukishima Kei ?????????

09:35 RollingThunder @Tsukishima Kei ???????????????

09:36 RollingThunder @Tsukishima Kei ?????????????????????????

09:37 KageyamaT @RollingThunder piantala! Altrimenti vi metto in muto, poi non vi lamentate.

09:38 TheAce Che succede? Che roba è TheAce? Noya, mi hai di nuovo incasinato il telefono?

09:38 RollingThunder Così è più figo. Hai capito che succede? Tsukishima era in giro con Kuroo Tetsurou ieri.

09:39 TheAce Il Capitano del Nekoma? Che ci faceva Tsukishima a Tokyo?

09:39 KageyamaT Ti rendi conto che è impossibile che fosse a Tokyo? E' stato con noi all'allenamento fino alle cinque. Mica vola.

09:41 Sawamura94 State facendo un sacco di storie. Sarà uno che gli somiglia.

09:41 TheAce A Tsukishima?

09:41 Sawamura94 A Kuroo. Ieri sera Suga ha visto Tsukishima da qualche parte con un tizio che somiglia a Kuroo.

09:42 RollingThunder Voglio saperlo da @Tsukishima Kei

09:42 Suga Koushi Che fine ha fatto Tanaka? Di solito è il primo quando c'è da fare i pettegoli.

09:42 KageyamaT Dice Boke che ieri il Nekoma non si allenava. Quindi in linea teorica è possibile che Kuroo non fosse a Tokyo ieri sera.

09:43 RollingThunder Shoyo è lì? Perché non scrive lui? Che ne sa degli allenamenti del Nekoma?

09:43 KageyamaT Ha un telefono preistorico. E' amico di Kozume. Ora basta, non rompete.

09:44 RollingThunder Vi state allenando? Dove siete? Vi raggiungo!

09:44 Sawamura94 @KageyamaT Non vi dovete allenare di domenica!

09:45 KageyamaT Non è "allenamento". Sono "due palleggi". @RollingThunder siamo al parco, vicino all'imbocco della 347.

09:45 RollingThunder Arrivo!!!

09:46 Sawamura94 Cosa non è chiaro di "Non vi dovete allenare di domenica!"?

09:46 RollingThunder @Sawamura94 "NON" :D

09:47 RollingThunder Però non mi sono dimenticato del fatto di Kuroo. Voglio sapere che è successo! @Tsukishima Kei !!!

09:47 KageyamaT Dice Boke che se vogliamo possiamo buttare dentro la chat Kozume-san. Ha il numero. Lui lo sa sicuro che faceva Kuroo ieri. Chiediamoglielo e facciamola finita, altrimenti Boke non si concentra e fa più schifo del solito.

09:48 Suga Koushi Lo faccio entrare? Daichi?

09:48 Sawamura94 NO!!!!!!! Ma siete scemi? Vi pare che disturbiamo un tizio che conosciamo appena, alle 9 di mattina di domenica, per farci dire dov'era il suo capitano ieri sera? Ma vi sembra normale? Koushi, almeno tu... 

09:48 Suga Koushi Ok, Daichi ha ragione. Non se ne fa niente. Fate i bravi.

09:50 RollingThunder Sto uscendo. Prendo la bici. Ho chiamato Tanaka. Ha il telefono a secco, per questo non rispondeva. Dice di dire a Shoyo di chiamare Kozume e chiederglielo! Oppure di dire a Yama di andare a casa di Tsukishima e chiederlo a lui!

09:53 Yama Sono fuori con i miei. Quando torno passo da Tsukki per gli appunti di chimica. Magari glielo chiedo.

09:57 KageyamaT Sono Shoyo. Il telefono di Scemoyama è fighissimo. Ho sentito Kenma. Dice che è vero che Kuroo-san è venuto a Miyagi ieri e torna oggi. Dice che ha una zia da queste parti. Dice che, a parte ieri, si stanno allenando di brutto! Oddio non vedo l'ora di giocare!

09:57 RollingThunder Mi ha chiamato Tanaka, Ca@@o mi sono quasi schiantato. Il mistero si infittisce: dice Tanaka che ha sentito Yamamoto, che dice che Kuroo esce con un'alzatrice di un'altra squadra. O forse una centrale. Non è sicuro. Ma non è di Tokyo. Sarà una che abita qui?

09:58 TheAce La ragazza di Kuroo-san è del Karasuno femminile?

09:58 Sawamura94 Impossibile!

09:58 Suga Koushi Ma va', lo sapremmo!

09:59 Tsukishima Kei 41 messaggi? E' domenica mattina, com'è che non vi state tutti allenando?

10:00 Sawamura94 NO ALLENAMENTI DOMENICA!!!!!

10:01 Suga Koushi Ohhh Tsukishima! Finalmente! Eri con Kuroo Tetsurou ieri? A me sembrava proprio lui.

10:03 Tsukishima Kei Sì.

10:04 Sawamura94 Come sì? Davvero? Era lui?

10:04 Suga Koushi O________O

10:05 RollingThunder Ma quanto ca@@o è lontano questo parco?!? Tsukishima racconta! Che ci faceva Kuroo qui? E' vero che ha una ragazza di Osaki? Oppure è una zia? E tu che ci facevi in giro con lui?

10:06 Tsukishima Kei Perché sarebbero fatti tuoi?

10:06 RollingThunder In che senso? E' il capitano del Nekoma!

10:06 Tsukishima Kei E quindi?

10:06 RollingThunder @Suga Koushi @Sawamura94 ditegli qualcosa!

10:07 Sawamura94 Tsukishima, abbi pietà, rispondigli. Così chiudiamo questa faccenda.

10:07 Suga Koushi Tsukishima, hai qualcosa da nascondere?

10:09 Tsukishima Kei No. Non mi piace raccontare i fatti degli altri. Neanche i miei. Soprattutto a voi. Comunque, mi avete seccato. Kuroo-senpai ha una zia che abita da queste parti. Non so se ha una ragazza. Ci siamo incontrati e abbiamo mangiato qualcosa. Contenti? Ora vi metto in muto.

10:09 RollingThunder Sei tutto scemo Tsukishima! Kuroo Tesurou viene a Osaki, tu vai a spasso con lui e non ci dici niente! Potrebbe avere una ragazza che conosciamo! Una zia che conosciamo! E poi che vi siete detti? Sembra che per te sia normale incontrare uno di Tokyo sotto casa...

10:10 KageyamaT Vi siete allenati?

10:10 Tsukishima Kei Secondo te?

10:10 KageyamaT Io se incontrassi Kuroo-san mi ci allenerei. Dice Boke: pure lui.

10:11 Tsukishima Kei Fanatici! Muto. Ciao.

10:13 TheAce Mi fate un riassunto?

10:17 RollingThunder Tsukishima è un metro e novanta di inutilità sociale. Ha incontrato Kuroo Tetsurou e non sa nulla di cosa ci faceva qui, se ha una ragazza e in che ruolo gioca (la ragazza). Sa solo di sua zia che abita qui, forse. E non ci vuole dire cosa si sono detti.

10:17 RollingThunder Ora però chiudo, Kageyama mi fa la faccia assassina. Ci stiamo allenando al parco vicino all'autostrada per Kami. Vieni Asahi?

10:18 Sawamura94 NO ALLENAMENTI! NO ALLENAMENTI! NO ALLENAMENTI! Come ve lo devo dire? Vado a correre. Passo di là, se vi vedo allenarvi, vi concio per le feste.

10:19 TheAce Vengo, ma no allenamenti. Vi guardo :(
 


***

 

[Line chat - Kuroo Tetsurou/Tsukishima Kei]

15:21 TetsuKNeko Non so bene come è successo ma qualcuno dei tuoi ci ha visto ieri. Kenma mi ha detto che chibi-chan lo ha chiamato per chiedergli dov'ero.

15:24 Tsukishima Kei Ci ha visti Sugawara. Sei arrivato a casa?

15:24 TetsuKNeko Dieci minuti fa. Cazzo, vista da falco, Sugawara. Poi si saranno impicciati tutti quelli della squadra. Da me fanno così.

15:27 Tsukishima Kei Esatto.

15:27 TetsuKNeko Mi dispiace. Davvero. Non volevo crearti problemi.

15:28 Tsukishima Kei Che problemi?

15:28 TetsuKNeko Non lo so, dimmelo tu. Ieri sembrava cadesse il mondo se qualcuno ci vedeva. Ti avranno fatto il terzo grado. Che gli hai detto?

15:29 Tsukishima Kei La verità, che altro?

15:29 TetsuKNeko Tutta la verità?

15:30 Tsukishima Kei Tutta quella che serviva. Gliene avrei detta ancora meno, se il nostro nano arancione non avesse chiamato il vostro nano con la ricrescita e non fosse spuntata fuori tua zia.

15:30 TetsuKNeko Vado a dirne quattro a Kenma.

15:31 Tsukishima Kei Non che me ne freghi qualcosa, ma dovresti dirne quattro al teppista. Come si chiama? Yamamoto?

15:32 TetsuKNeko Che c'entra Tora?

15:37 Tsukishima Kei Chiedilo a lui. Vado a studiare.

15:37 Tsukishima Kei Saluta la tua ragazza.

15:38 TetsuKNeko Che ragazza?

15:39 TetsuKNeko Tsukki, che ragazza?

15:39 TetsuKNeko Tsukki??

16:03 TetsuKNeko  ...

17:10 TetsuKNeko ...

19:02 TetsuKNeko ...

21:06 TetsuKNeko  :(

 

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Capitolo 8
*** Dimostrazioni ***


8 - Dimostrazioni


17 settembre 2012

«Spostati testa-a-budino. Mi stai facendo male. Ma quanto cavolo ti pesa il cervello!» si lamenta Kuroo.

Kemna continua incurante la sua partita, muovendo dita agilissime sui tasti.

«Almeno fammi cambiare posizione! Non sono il tuo cuscino!»

Kenma alza la testa dalla pancia di Kuroo, che lo spinge via e poi si mette a sedere, stiracchiandosi e tentando di allungare la colonna vertebrale. Si gira, da supino a prono, e si rimette giù. Poco dopo la testa bionda di Kenma si riposiziona soddisfatta sulla curva lombare di Kuroo.

«Che succede?» chiede Kenma, senza smettere di fissare lo schermo e muovere le dita.

«Niente.»

«Sei irrequieto.»

Tetsurou non si prende il disturbo di negare l'evidenza. Lancia di lato il libro che aveva in mano e prende in mano il tablet.

«Hai voglia di parlarne?» insiste Kenma. Il tono è quello di uno concentratissimo a fare altro, ma Kuroo non si lascia ingannare. E' l'inizio di un terzo grado.

«Di che dovremmo parlare?»

«Del fatto che ti sei preso una sbandata per Tsukishima Kei.» Lo dice senza mostrare un minimo di emotività e continuando a digitare freneticamente.

«E' un maschio» osserva Kuroo, lapalissiano.

«L'ho notato.»

«A volte tendi a non prestare attenzione ai dettagli...»

«Un metro e novanta di dettagli è dura ignorarli. Resta il fatto che hai una cotta per lui.»

Kuroo scuote il capo, con rassegnazione. «Kenma, da quanto ci conosciamo?»

«Dieci anni e qualche mese?»

«E in dieci anni non hai notato che mi piacciono le ragazze? Pensavo che quella volta che sei entrato qui spalancando la porta e ci hai trovato Yuji Chiyoko, mezza nuda, seduta addosso a me, avesse chiarito il concetto.»

«Che ragazza rumorosa! Ha fatto un casino per niente. Ho richiuso subito.»

Kuroo sogghigna, ripensando alla scena. E' passato più di un anno, ormai. Chiyoko non gli rivolge più la parola. Non si può dire sia una grossa perdita. Però senza vestiti era un gran bello spettacolo.

«Quindi che farai con Tsukishima?»

«Da quando sei esperto di relazioni sentimentali?»

«Non so un tubo di relazioni sentimentali. Sono esperto di Kuroo Tetsurou.»

Kuroo sbuffa dal naso. «E quindi le dovresti conoscere le sei regole d'oro di Kuroo Tetsurou: gambe lunghe, capelli lunghi, culo tondo, tette grandi, sportiva, con più di mezzo neurone.»

«Yuji Chiyoko non ci arrivava a mezzo neurone. Quando ti imboccava dal bento con quei versi da minorata...»

«Però sua madre cucinava bene.»

«Tsukishima di neuroni ne ha quanti ne vuoi, anche se li usa quasi tutti per rendersi antipatico. Ti concedo che sia carente sulle tette, anzi proprio a zero. Per i capelli, se ci tieni, c'è rimedio. Le gambe sono lunghe sei metri. Sul culo non ho le competenze per esprimere un'opinione, ma secondo me non è male.»

«Ed è un maschio. Perché dici che è antipatico?»

Kenma ridacchia.

«Lasciamo perdere. Quando ti fissi sulle cose, è impossibile farti ragionare» borbotta Kuroo, tornando a guardare il tablet.

«Vuoi che te lo dimostri?» propone Kenma.

«Vai, sentiamo.»

Per un secondo, Tetsurou accarezza l'idea che il cervello bacato di Kenma ha partorito. Ma è una faccenda del tutto impossibile. Vuole aiutare Tsukishima. Vuole fargli da mentore. Lo prenderebbe in squadra volentieri. Vorrebbe anche conoscerlo meglio, fare amicizia, ma da qui addirittura a ...

«Quante ragazze hai avuto negli ultimi due anni?»

«Boh... quattro?»

«Andiamo bene. Cinque.»

Kuroo conta sulle dita, ma si ferma a quattro. «Cinque?»

«Hai contato la fanatica del judo?»

Kuroo rabbrividisce e scuote la testa con una smorfia di disperazione.

«Va bene. Facciamo quattro. A quante di loro hai prestato la tua felpa?»

Kuroo si blocca improvvisamente. Davanti agli occhi rivede il crepuscolo, le cime degli alberi, le prime stelle. L'odore della terra umida, il fresco della sera. La mano bianca di Tsukki sull'erba, le dita lunghe, diafane, eleganti, il livido sul polso, un piccolo taglio rimarginato sul medio. Rivede quel gesto, di chiudersi a riccio su se stesso, con il viso incassato fra le ginocchia. Fragile. Duro. Lontano. Vicino. Un mistero da svelare. Il cuore accelera, oggi come allora.

«Kuro? Ci sei?»

Kuroo si riscuote. «Sì. Che c'è?»

«A quante delle tue ragazze hai prestato la tua felpa?»

«A Mami, due volte.»

«Gliel'hai data o te l'ha chiesta?»

Kuroo sospira: Mami-chan, l'asso del Fukurodani femminile, lo ha assillato per settimane con questa storia della felpa per andare a fare il tifo. La felpa, i portachiavi abbinati, il bottone della divisa scolastica e una marea di altre scempiaggini, una più assurda dell'altra. Sono durati insieme cinque mesi, perché Mami-chan è veramente carina e veramente brava a giocare e, scempiaggini a parte, è una ragazza intelligente. «Mi ha praticamente costretto.»

«E dopo te la sei fatta ridare?» domanda Kenma, mellifluo.

«Certo. Gliel'ho data per venire a vedere le nostre partite, non per tenersela. Odio le tute scompagnate.»

«Per questo Tsukishima ha la tua felpa da due mesi.»

«Abita sulla luna! Come faccio a farmela restituire?»

«Sulla luna» ripete pensieroso Kenma, guardando fisso il muro. Tsuki ni.

«Piantala Kenma. Sembri psicopatico quando fai così.»

Kenma sorride e torna a concentrarsi sul suo gioco. Non ha mai voglia, né bisogno, di imporre le sue idee. Le semina, piuttosto, con quel tono monocorde che dà la sensazione che sia sempre troppo poco interessato per giudicarti. E mettono sempre radici, perché Kuroo si fida di lui ciecamente.

Adesso infatti Testurou si sta chiedendo se la rivorrebbe, quella felpa. Se Tsukki abitasse a cinque minuti da casa... l'ipotesi gli confonde le idee. Si passa la mano sulla faccia e poi lascia andare un lungo sospiro carico di dubbi.

Vorrebbe poter dire che si è completamente dimenticato della felpa. Che l'ha data a Tsukishima quella sera senza pensarci e lui non l'ha restituita, e la distanza ha fatto il resto. Ma non è affatto così. Voleva dargliela, fin dal principio. E fin dal principio sperava che se la tenesse. E ci ha ripensato, alla sua felpa addosso a Tsukki. Più di una volta.

E la verità è che no, maledizione, non la rivorrebbe affatto. E'... gratificante, in un qualche modo strano, e difficile da spiegare, l'idea che ce l'abbia lui.

«Kuro, vuoi un'altra dimostrazione?»

Testurou non lo sa se vuole altre dimostrazioni. Forse non ce n'è neanche bisogno, è già un sacco di roba da metabolizzare. Ma tanto Kenma fa sempre come gli pare.

«Passami il tablet!» dice Kenma, facendo segno con le dita. Kuroo glielo porge.

Kenma armeggia con i tasti per qualche secondo, poi si gira dal lato di Kuroo, distendendosi prono al suo fianco, e allunga il braccio, in modo da tenere lo schermo di fronte a entrambi.

«Okay. Questo è uno dei video che hai fatto tu al ritiro, l'ultimo giorno. Dimmi cosa vedi.»

Kenma preme play e parte un video, nella palestra due, Fukurodani contro Shinzen, Bokuto sta schiacciando una parallela impressionante. Dovrebbe giocare nella nazionale.

«Allora, cosa vedi?» chiede Kenma.

«Bokuto che distrugge il muro di Chigaya.»

«Bell'alzata Akaashi-kun» osserva Kenma interessato. Kuroo annuisce.

Kuroo sta aspettando una qualche grande rivelazione da parte di Kozume, che invece continua placidamente a guardare la partita. «Quindi, Kenma?»

«Ah giusto. Scusa. Noti qualcosa di particolare?»

«No.»

«Inquadri spesso Bokuto.»

«Perché le sue azioni sono le più interessanti.»

«Esatto. Ora guarda questo.»

Kenma seleziona un altro video e lo fa partire: palestra tre, Fukurodani contro Karasuno. C'è un bel servizio di Kageyama, ben inquadrato rispetto all'assetto del salto, una discreta ricezione di Komi, la solita alzata impeccabile di Akaashi, la bomba di Bokuto giusto sulla linea e il recupero al millimetro di Nishinoya Yuu, che deve essere tutto polmoni, visto quanto urla. Un'alzata improbabile sempre di Kageyama e la veloce del piccoletto del Karasuno, che lascia sbalorditi.

«A me pare identico all'altro» commenta Kuroo.

«Per ora sì. Aspetta un attimo.»

Kenma va avanti veloce, la partita si svolge accelerata sullo schermo, fino a una sostituzione del Karasuno. Tsukishima al posto di Hinata sulla seconda linea. Kenma lascia che il video scorra alla velocità normale. La telecamera si sposta verso la panchina del Karasuno, segue la schiena di Hinata, e poi l'ingresso in campo del numero 11, fino a che arriva in posizione.

Si sente il fischio e solo dopo, in fretta, l'obiettivo si sposta sul servizio del Fukurodani. Da quel momento in poi la visuale resta ampia, in modo da far entrare nello schermo praticamente tutto il campo. Bokuto e Azumane schiacciano, Kageyama fa dei numeri da circo, eppure non ci sono più inquadrature strette, niente più dettagli.

Fino a quando Tsukishima non arriva in prima linea e allora l'obiettivo resta praticamente concentrato sui suoi muri, non tutti memorabili, strappando a destra e a manca sulle altre azioni, sempre un po' in ritardo.

«Le sue azioni sono le più interessanti?» chiede Kenma, senza la minima malizia.

Kuroo allunga la mano per fermare il video. «Ho afferrato il concetto.»

«E che hai intenzione di fare?»

«Trovarmi una ragazza.»

«Per curiosità, che cosa mi risponderesti se ti dicessi che mi piace una persona e perciò voglio farmi qualcun altro?»

«Farei una festa se mi dicessi che ti piace qualcuno.»

«Baka.»

«Farei una festa anche se mi dicessi che vuoi farti qualcuno.»

Kenma risponde con una smorfia disgustata.

«E' un maschio» dice ancora Kuroo, molto piano.

«E per te è un problema?» domanda Kenma atono.

«Cazzo, sì!»

«Sul serio?» 

Kuroo si sente addosso gli occhi indagatori di Kenma. Non lo sa se è un problema. O fino a che punto. Non ci ha mai pensato sul serio.

«Ti dico come la vedo io, Kuro. A te quel tizio piace molto, o addirittura sei un po' innamorato. E secondo me ti stai facendo parecchi problemi inutili. Fai solo quello che ti va di fare. Punto. Se a qualcuno non va giù, se ne farà una ragione. A me l'idea di scambiare liquidi corporei con altri umani fa parecchio schifo, lo sai. Ma se un giorno mi interessasse un uomo, una donna, un robot, un alieno coi pallini, stai tranquillo che non starei su a rimuginarci. O a chiedere il permesso a qualcuno. A volte l'unica buona ragione per fare qualcosa è che ti va di farla e non danneggi nessuno.»

«Magari è un problema per lui

«Questo è possibile. Ma non lo scoprirai finché non glielo chiedi.»

«Perfetto. Guarda, ora vado a fare un salto a Osaki, gli busso sotto casa e gli chiedo se ha voglia di farselo mettere nel... »

«Non con queste parole» lo interrompe Kenma, serafico. «Ma il concetto è quello.»

«Sei un idiota.»

Kenma incassa l'insulto senza reazioni apparenti. Rimette il tablet fra le mani di Kuroo e si alza. 

«Dove vai?» chiede Kuroo, mettendosi a sedere a gambe incrociate.

«A casa mia. A meno che non ti serva aiuto qui.»

«No, sono a posto. Negli ultimi giorni è abbastanza tranquillo. Non fare troppo tardi stanotte.»

«Mn.»

Arrivato sulla soglia della stanza, Kenma si gira e si produce in uno dei suoi rari sorrisi. «Non fai altro che dire che la nostra è l'età buona per fare cazzate. Fra dieci giorni è il compleanno di Tsukishima: mi pare un'ottima occasione per una cazzata di livello...»

Kuroo come risposta gli lancia un cuscino. Kenma schiva con agilità, saluta con la mano e scompare nel corridoio. In lontananza si spegne l'eco dei suoni digitali della playstation.

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Avviso di servizio ^__^
A chi sta seguendo questa mia storia, grazie di cuore. Volevo avvisare che la prossima settimana non sarò online (causa pausa annuale di disintossicazione da internet), quindi questo sabato pubblicherò due capitoli e poi ci rivedremo mercoledì 7 settembre.

 

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Capitolo 9
*** Sumimasen ***


9 - Sumimasen


12 ottobre 2012

L'inquadratura è quella di un cellulare montato sul cavalletto.

Di fronte, Yamamoto Taketora, in estremo imbarazzo, sposta il peso da un piede all'altro. Alle sue spalle, lo sfondo dei muri chiari della palestra, i riflessi dei tubi a led, l'orologio con la griglia per proteggerlo dalle pallonate, una pila di logori materassini blu accatastati vicino alla porta del magazzino. L'ultima luce del pomeriggio piove in diagonale da un finestrone laterale, di cui è inquadrato solo un angolo.

«Devo proprio?» sussurra Yamamoto, come se parlare a bassa voce potesse eludere l'occhio della telecamera.

«Devi. Subito» replica una voce dura, fuori campo e lontana rispetto al microfono.

Taketora si schiarisce la voce, si gratta il mento glabro, si passa entrambe le mani sui capelli, ai lati della cresta colorata.

Prende un grande respiro e poi si inchina. «Sumimasen!» esclama, con piglio militare.

«Io... » si strofina la nuca, storce la bocca. Poi inizia a sparare parole a raffica: «Io chiedo scusa a tutti i miei compagni di squadra, per aver approfittato della loro fiducia e riferito informazioni che dovevano restare private.»

Si interrompe, imbarazzato, vaga con lo sguardo oltre la telecamera, come se qualcuno stesse dandogli informazioni. Annuisce. Poi torna a guardare l'obiettivo. «Davvero, mi dispiace. Per giunta, non ho capito nulla di quello che ho sentito e quello che ho riferito era falso e tutto sbagliato. Sono stato un pessimo esempio per i miei kohai. Chiedo scusa anche al Capitano, che non ha nessuna ragazza e ci tiene che lo sappiano tutti...» si interrompe, sempre guardando oltre la telecamera.

Si sentono dei rumori di fondo, un cigolio, una serie di passi ritmati, fruscii nei pressi del microfono.

«Hey, hey, hey! Sei pronto Kuroo? Ma che succede? Che state facendo? » la voce fuori campo è riconoscibilissima. Anche la risata che segue.

«Shhhh» lo zittisce qualcuno. Un mugolio soffocato fa pensare a una bocca tappata con la mano.

Taketora arrossisce visibilmente davanti alla telecamera, in profondo imbarazzo per via di quell'imprevisto ampliamento della sua platea.

«Ma devo continuare davanti a loro?» bisbiglia, sospirando.

«Tanto lo vedrà mezzo mondo. Te lo sei meritato!» è la risposta bisbigliata da fuori campo. Risate soffocate, fruscii vari.

Taketora esita. «Almeno tagliate questi pezzi»

«Muoviti!» lo incitano sottovoce.

«Non succederà più» riprende Tora. «Mi sforzerò di essere discreto e rispettoso della privacy degli altri. Se qualcuno è stato offeso dalle mie parole, o ne ha sofferto, mi dispiace tanto, non volevo.»

Una breve pausa, parole sussurrate che non si riescono ad afferrare.

«Chiedo scusa!» conclude Taketora, scattando in un altro inchino formale.

Il video si chiude all'improvviso, lo schermo nero del tablet restituisce a Kei il proprio riflesso, il viso magro, le labbra sottili, gli occhiali.

Il link è stato postato un'ora prima da Tanaka, sulla chat della squadra. Kei lo ha guardato almeno dieci volte, per cogliere tutti i dettagli.

E' la nuova mossa di Kuroo, un tentativo creativo, visto che dal giorno dopo la sua visita, Kei ha smesso di rispondere ai suoi messaggi. Ha cancellato undici mail senza leggerle. Ha bloccato il numero sul telefono. Eppure, adesso, sta guardando quel video al rallentatore per l'ennesima volta. Ingrandendo molto, sulla finestra si coglie il riflesso del cavalletto e due figure sgranate: Kuroo e Kozume. Le tocca con le dita sullo schermo.

L'intromissione di Bokuto lo fa sorridere tutte le volte. Può immaginarsi, come se lo vedesse, Kuroo che gli tappa la bocca e lui che mugola interdetto in cerca di spiegazioni, che poi gli darà Akaashi. 

Per un attimo, Kei allenta il controllo e il suo cervello gli propone a tradimento un ricordo del ritiro, così netto da poterne sentire i contorni con tutti i sensi: loro quattro insieme, sulla soglia della palestra tre, che bevono litri d'acqua e sali minerali dopo l'allenamento. Kei è esausto, seduto sul gradino d'ingresso ascolta gli altri che chiacchierano. Non gli va di ammetterlo ma sono uno spasso, una compagnia piacevole e incredibilmente rilassante. Avverte la presenza di Kuroo in piedi dietro di sé, solido, ingombrante, protettivo. Si sente avvolto dal suo sguardo, stupidamente al sicuro, stupidamente contento.  Bokuto parla a vanvera, come sempre. Akaashi finge che sopportarlo sia uno sforzo, ma è abbastanza ovvio chi sia a far girare il suo mondo. E' una scena calda, che odora di sudore e asciugamani puliti e che Kei può rigirarsi nella mente da tutte le angolazioni, crogiolandosi nella dolcezza tossica dei piccoli dettagli. E' durata pochi minuti nella realtà, ma potrebbe star lì a contemplarla per ore.

Si sorprende a proiettare quel ricordo in un futuro immaginario in cui escono tutti insieme, loro quattro: ascoltano musica, bevono, ridono, parlano, guardano un film; in cui sono amici. Ma non lui e Kuroo, loro non sono amici. Non solo amici.

Fa male. Un dolore acuto e interno che toglie il respiro.

Kei scaglia il tablet in fondo al letto e tira su le cuffie. L'unica concessione a se stesso, assolutamente necessaria per sopravvivere al rigore delle proprie scelte, è il regalo di compleanno. Quattro ore di musica assortita senza alcun criterio, se non l'entusiasmo di Kuroo, sparata nelle orecchie per migliaia di volte, di continuo. Una sorta di veleno a lento rilascio, uno di quei farmaci palliativi, con effetti collaterali letali, da somministrare a pazienti già condannati.

Al fatto che Kuroo abbia una ragazza, Kei non ci ha mai creduto. Non ha idea da dove Yamamoto possa aver tirato fuori le sciocchezze che ha riferito a Tanaka, ma era sicuro che fosse un fraintendimento di qualche tipo. Yamamoto, proprio come Tanaka, non è lucido in tema di femmine.

Non è per quello che ha chiuso le comunicazioni, che sta cercando di tagliare i ponti. Cosa che poi è molto difficile quando dall'altra parte c'è un ottimismo sfrenato, una determinazione incrollabile. Ma quanto a testardaggine, Kei sa di essere in vantaggio.

Kuroo non ha una ragazza, va bene. Ma le parole dello stupido Yamamoto hanno ribadito a Kei una verità che non si può ignorare: a Kuroo le ragazze piacciono (che lui piaccia a loro è una penosa ovvietà). Kei lo sapeva, lo ha sempre saputo, ma lo stordimento di quel sabato sera glielo ha fatto dimenticare per una manciata di ore.

Gli piacciono le ragazze. Non smetteranno mai di piacergli. E se c'è una cosa che Kei ha imparato a sue spese, è che combattere le proprie inclinazioni è una guerra di logoramento senza vittoria, una causa persa dal principio. 

Va a riprendersi il tablet e cancella il video. Andato. Anche quello.

Sa che non è finita, però. Kuroo non si arrenderà così facilmente.

Ciò che si sono concessi sabato, ovvero all'atto pratico nulla, ha messo radici velocissime e tenaci e adesso sradicarlo è un'impresa tutt'altro che indolore. Ma necessaria.

Solo la distanza è un valido alleato. E anche il cattivo tempismo. Prima o poi Kuroo mollerà la presa. Si offenderà. Penserà male di lui. Troverà altri svaghi. Allora non avranno più nulla da dirsi. E potranno affrontarsi sul campo come rivali, separati da dieci metri di rete. 

Le ferite di Kei saranno più dure a guarire: pagherà a lungo averci creduto, anche solo per poche ore. Si formeranno cicatrici chiare, di quelle che restano silenti, e poi si fanno sentire all'improvviso, bruciando quando cambia il tempo: la nostalgia per un futuro impossibile.

A Bokuto, tutta la faccenda dovrà spiegarla Akaashi. E a pensarci, fa un po' piangere e un po' ridere.

 

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Capitolo 10
*** Segreti ***


10 - Segreti


21 agosto 2011

Tadashi corre verso il parco a perdifiato, tenendo in mano il telefono. Sono secoli che Tsukki non gli chiede di uscire, di vedersi da qualche parte e non è un'occasione che si possa sprecare.

Arriva sfiatato e si ferma a comprimersi la milza con la mano.

Tsukki sta volando sull'altalena. Era certo che lo avrebbe trovato lì.

Lo raggiunge ansimando, lui saluta con la mano senza smettere di dondolarsi. Tadashi coglie il messaggio: sarà una faccenda lunga. Ma non importa, ha tempo. Siede sull'altalena accanto e inizia a dondolarsi anche lui.

A un certo punto, senza preavviso, Kei frena con i piedi. «Ti devo parlare» dice.

Tadashi frena a sua volta e lo osserva. Sembra che niente sia mutato in lui, che stia solo crescendo a vista d'occhio, come sempre. Bisogna conoscerlo in profondità per notare il cambiamento, sottile ma permanente.

«Come stai, Tsukki?»

E' una domanda non tanto intelligente, ma tutto sommato lecita.

«Tu come credi che stia?»

«Male.» Come potrebbe stare bene? Non sono passati neanche due mesi.

«Quindi?»

«Quindi niente» Tadashi abbassa gli occhi. «Se posso fare qualcosa... »

Kei osserva una a una le reazioni del suo migliore amico: la timidezza che dopo tanti anni ancora lo fa arrossire di disagio ogni volta che Kei lo provoca; la gentilezza che gli illumina gli occhi; una bontà d'animo sincera e profonda che accetta ogni rimprovero; una lealtà assoluta. Ha già fatto tantissimo e neanche se ne rende conto.

«Non è di questo che volevo parlare.»

«Okay. Ti ascolto.»  E' così che bisogna prendere Tsukki: lasciandogli il controllo della situazione. Altrimenti si mette sulla difensiva e la corazza di sarcasmo diventa impenetrabile.

Kei si imbroncia, riflette, si dà una singola spinta e aspetta che l'inerzia la smorzi, dondolando piano. «Credo che non mi interessino le ragazze» dice, asciutto.

Tadashi allarga gli occhi. Si morde le labbra, strofina le dita, incerto su quale sia la risposta giusta. Come se ce ne dovesse per forza essere una.

Kei è certo che in questo momento stia esaminando freneticamente tutte le possibili interpretazioni della sua affermazione, per essere sicuro oltre ogni dubbio di non aver tratto conclusioni sbagliate. E' un processo che può metterlo in crisi per ore.

«Yama, mi piacciono i maschi» chiarisce Kei.

«Certo. Va bene. Okay» approva Tadashi, annuendo con la testa. E' arrossito fino alle orecchie e i suoi occhi vagano intorno a quelli di Kei, evitando di incrociarli.

«Volevo essere io a dirtelo, prima che ti arrivasse, che ne so, qualche pettegolezzo. Sei il mio migliore amico.»

Migliore amico. Parole rare e preziose, da parte di uno come Tsukki. Tadashi le accoglie con gratitudine, gustandone il calore fino in fondo. «Grazie» dice semplicemente.

Nella mente di Kei è già partito il conto alla rovescia. Dopo la prima reazione, la natura complessa di Tadashi si rivela pienamente: è curioso, profondo, ansioso di sviscerare i problemi, di scomporli in pezzi più piccoli. Da grande potrebbe fare il chirurgo, oppure l'ingegnere.

3...2...1

«Fra noi non cambia niente, vero?» E' una preoccupazione autentica, intensa e vibrante. Ma Kei l'aveva prevista.

«Perché dovrebbe?»

«Non lo so...»

«Non mi piaci per niente, Yama. Non in quel senso.»

«Ah.» Non si capisce bene se sia deluso o sollevato.

Kei è sicuro che a Yama piacciano le ragazze. E' un sentimentale, ma non un asceta, e la sua collezione segreta di manga, quella sotto chiave, parla abbastanza chiaro. Eppure, Kei ha il sospetto che, se fosse l'unica alternativa per non perdere la loro amicizia, Yamaguchi si piegherebbe ad avere una relazione con lui. L'idea di stare con Yama è francamente assurda. Inoltre, superare il confine fra fascinazione e dipendenza è qualcosa che Kei è determinato da sempre a evitare. Yama è già abbastanza appiccicoso così.

«E' tutto identico a prima» ribadisce Kei, tranquillo. «E la prova è che ti sto dicendo questa cosa. Pensi che la direi a chiunque?»

Tadashi abbozza un sorriso. Messe al sicuro le cose importanti, la curiosità è pronta a rompere gli argini.

«E quindi, se non ti piaccio io, ti piace qualcun altro? Sennò come facevi a esserne così sicuro?»

«Un buon indizio è già che i tuoi fumetti sconci mi facciano sbadigliare.»

Tadashi arrossisce, Kei sfoggia il suo consueto sorrisetto sardonico.

«E... da quanto lo sai? Come hai fatto a capirlo?»

«Tu come lo sai che ti piacciono le ragazze?»

Tadashi non si è mai posto la domanda. Prova a pensarci, si dondola piano. «Beh, credo sia perché...» si ferma. Ha sulle labbra la parola normale, ma sarebbe una pessima scelta. Ci riflette meglio. «Credo sia per come ti fanno sentire, quando le guardi, quando le hai vicino, quando ci pensi... in un certo modo.»

«Come ti fanno sentire in che senso?» domanda Kei. Con Yama l'approccio maieutico paga sempre.

«Non lo. Come ti fanno sentire dentro. In senso emotivo.»

«Solo emotivo?»

«Anche fisico» concede Tadashi a malincuore.

Kei annuisce. «Esatto. Ecco come lo so.»

«Quindi ti piace qualcuno?»

«Penso di sì» ammette Kei, riluttante.

«E chi?» Il vizio di Kei di centellinare le informazioni farebbe perdere la pazienza a un monaco.

«Te lo dico. Ma se te lo lasci sfuggire ti strangolo.»

Yamaguchi si adombra. «In sei anni quanti segreti mi sono sfuggiti?»

«Parli sempre troppo» borbotta Kei. E' vero che non violerebbe mai una confidenza, ma quando è nervoso, quando è sotto pressione, o al contrario quando è molto rilassato e abbassa le difese, Tadashi tende a non avere del tutto il controllo su quello che gli esce di bocca.

«Scusa, Tsukki.» 

«Lascia perdere. Comunque, è Shinoyama Shuto, il capitano della squadra di nuoto» confessa Kei.

«Ma è uno stronzo!» esclama Yamaguchi, incredulo.

«Lo so.»

«Uno un po' meno odioso no?»

«Non ho detto che sono innamorato. Ho detto che mi piace. Intendevo: fisicamente

Per Kei l'idea di innamorarsi è abbastanza aliena. A parte il fatto che non gli è mai successo, è contrario per principio al concetto di legarsi a un'altra persona, come se non si dovesse bastare a se stessi. Dopotutto, è sufficiente l'amicizia per evitare di restare troppo soli. E magari, visto che fra poche settimane avrà quindici anni,  un po' di sesso non guasterebbe.

«Non è che vorresti un manga yaoi?» si informa premuroso Tadashi. «Dovrei averne un paio.»

Kei lo guarda scettico. «E cosa dovrei farci?»

«Leggerli? Magari possono essere... istruttivi. Voglio dire, per quella parte della faccenda che... insomma, dai, hai capito.»

Kei sa perfettamente cosa ha in mente Yama, e sa anche dei suoi fumetti yaoi, anzi, in realtà li ha già letti mesi fa. Nel frattempo ha raccolto da fonti più attendibili - per lo più su internet - tutte le informazioni del caso. Ormai è abbastanza certo di essere ben preparato. Almeno per quanto riguarda la teoria.

«Va bene Yama, speravo di poter evitare la parte triviale di questo discorso, ma a quanto pare non è possibile. Dai, tira fuori tutte le domande, così la facciamo finita.»

Tadashi arrossisce fino alle orecchie ma sa benissimo che con Kei bisogna cogliere l'attimo. «Shinoyama lo sa?»

«No.»

«Pensi di dirglielo?»

«Forse. Non lo so.»

«Quindi tu faresti...? Cioè, vorresti...? Hai in mente di...»

«Sì, Yama. Farei sesso con lui volentieri, se capitasse l'occasione.»

«Anche se è stronzo?»

«Yama: "scopare". Non: "sposare".»

Tadashi deglutisce. E' il discorso più imbarazzante della sua vita. Ma non riesce comunque a fermarsi. «E pensi che lui sia...cioè, che anche lui sia come te?»

«Sì, credo di sì. Ma non sono proprio sicuro.»

«E... beh... tu...come... ti poni?»

«In che senso?»

Le orecchie di Tadashi sono ormai virate al viola. «Seme o Uke?»

Kei sospira rassegnato. «Ti sembro uno che ha voglia di sforzarsi tanto?»

Tadashi scuote il capo.  Ha senso, conoscendolo, perché nessuno più di Tsukki è contrario al dispendio di energie fine a se stesso. Eppure, l'idea di qualcuno che letteralmente lo metta sotto e si imponga fisicamente su di lui, gli riesce incredibile. Vorrebbe conoscerlo un fenomeno capace di tanto; lo stronzo di Shinoyama non ce la farà mai, Tsukki lo farà a pezzi. In qualche modo, è un pensiero confortante.

«Anzi, sai che ti dico?» continua Kei, pensieroso. «E' uno dei motivi per cui non mi è mai piaciuta l'idea di farlo con una ragazza. Doversi impegnare molto per gratificare se stessi e ancora di più per l'altra persona. Non fa proprio per me.»

Tadashi è perplesso anche di questo: la sua visione romantica della vita prevede un grande amore che unisca la passione fisica ai sentimenti più elevati. Non che abbia qualche esperienza di ragazze vere,  ma quando fantastica sul sesso, gli sembra tutto, meno che faticoso. Del resto, Tsukki è fatto a modo suo.

«Abbiamo finito? Sei soddisfatto?» domanda Kei.

«Posso chiederti ancora una cosa?» dice Tadashi, guardandosi i piedi.

Kei sbuffa, calciando un sassolino. «Dai, muoviti però.»

«Non hai paura?»

«Di cosa?»

«Che... faccia male. Io... penso che insomma... sì, beh, faccia male.  Shinoyama non mi pare uno tanto delicato. E tu... non tanto arrendevole.»

Kei arrossisce suo malgrado. Ha paura, ovviamente, ma nessuna intenzione di ammetterlo. E poi... e poi, arrendevole o meno, non è del tutto convinto che un po' di dolore fisico non faccia parte del gioco.  «Il mondo è pieno di gay e nessuno di loro è mai morto facendo sesso. Presumo che sopravviverò» dice, stringendosi nelle spalle e simulando una noncuranza che non prova. Crescere è una faccenda scomoda.

Lo sguardo di Tadashi però è ammirato. Anche nelle circostanze più sfavorevoli, come questa spinosa confessione, Tsukki riesce a essere il più figo del mondo.

Restano per un po' sulle altalene, a farsi cullare lanciati verso il sole del pomeriggio. L'infanzia è già alle loro spalle, ma un po' della sua luce li raggiunge ancora.

 


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Avviso di servizio ^__^
Come promesso i capitoli di oggi sono due, perché la prossima settimana non sarò online (causa pausa annuale di disintossicazione da internet). Auguro a tutti un ottimo weekend e una settimana serena, ci rivediamo mercoledì 7 settembre.

 

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Capitolo 11
*** Haiku ***


11 - Haiku


15 ottobre 2012 

[Line group chat - Karasuno Team]

 

21:40 Shoyo

Luna fredda 
nel rumore del ponte
Io vado solo.

21:42 Sawamura94 Hinata? Stai bene? Che significa?

21:43 Suga Koushi è un haiku?

21:43 RollingThunder @Shoyo finalmente ti sei comprato un telefono decente? Che roba è la luna fredda?

21:44 Shoyo @RollingThunder Sììììì!!! Anche se non è che l'ho proprio comprato. Kageyama ha cambiato telefono e mi ha passato il suo vecchio :D

21:44 Tanaka!5! Ma il telefono di Kageyama non era nuovo?

21:45 KageyamaT Hinata boke! Chiudi quella boccaccia. Non devi sempre raccontare tutto a tutti!

21:45 RollingThunder @KageyamaT allora era nuovo! :P

21:45 KageyamaT Dovevo cambiarlo. Boke, rispondi! Che è quella roba di poesia? Hai bevuto?

21:46 Shoyo Ma che ne so! Kenma mi ha chiesto di postarla.

21:46 Suga Koushi Kozume Kenma? Del Nekoma? Ti ha chiesto di postare un haiku nella chat del Karasuno? O_O

21:46 Sawamura94 Okay. Hinata è impazzito. Definitivamente. @KageyamaT ha preso una pallonata?

21:47 KageyamaT No! Credo...

21:47 Tsukishima Kei Se sei mono-neurone come Hinata, un haiku di Tan Taigi basta e avanza a mandarti in pappa il cervello.

21:47 KageyamaT E' Kozume lo psicopatico che gli manda in pappa il cervello a furia di giochini idioti.

21:48 Shoyo Non è psicopatico, è mio amico!

21:48 Tsukishima Kei Non vedo come le due cose si escludano...

21: 49 Tanaka5! E quindi che c'entra Kozume con l'haiku?

21:49 TheAce Che succede? Mi fate un riassunto?

21:49 RollingThunder @TheAce Kozume del Nekoma ha chiesto a Hinata di postare un haiku sulla nostra chat. Ma non sappiamo perché.

21:50 TheAce E' bello! L'ha scritto lui?

21:50 Tsukishima Kei Sì, mentre era al cesso, sulla carta igienica.

21:50 TheAce Davvero?

21:50 Tsukishima Kei No! Ma qualche volta state svegli in classe? E' un haiku famoso!

21:50 TheAce Ecco perché sembrava familiare. Qual è Kozume Kenma?

21:51 RollingThunder Quello con la playstation.

21:51 Tsukishima Kei Il palleggiatore. Non lo avrai notato perché ti arriva all'ombelico.

21:51 Tanaka!5! Il biondino.

21:51 Tsukishima Kei E' biondo quanto Hinata è furbo.

21:52 Shoyo Ehi!!!

21:52 Tsukishima Kei Nano, capelli tinti di giallo, ricrescita sciatta, autismo pronunciato. Una cosa c'è da dire: a Tokyo i barbieri fanno schifo. A capelli non se ne salva uno del Nekoma.

21:53 Yama Bello l'haiku! Non è uno dei tuoi preferiti, Tsukki?

21:53 Tsukishima Kei Zitto, Yamaguchi.

21:53 Yama Scusa, Tsukki. Non ho capito che c'entra Kozume. E che c'entriamo noi.

21:53 Tsukishima Kei Non l'ha capito nessuno. Hinata non lo sa neanche lui. A quanto pare non si è posto  il problema. O è innamorato di Kozume o è stupido.

21:54 KageyamaT Stupido!

21:54 RollingThunder Stupido! :)

21:54 Tsukishima Kei Stupido anche per me.

21:54 Shoyo Ehi!!!!!!!!!!!!

21:54 Sawamura94 Va bene, io devo andare. I miei fratelli fanno anche più casino di voi. Koushi qui pensaci tu. NIENTE IDIOZIE! Vedete di andare a letto presto. E non fate tardi agli allenamenti domani. Dico a te Nishinoya! Se ti presenti in ritardo un'altra volta le prendi.

21:55 RollingThunder ... 

21:55 Suga Koushi Tranquillo, Daichi. Li tengo a bada io! A domani!

21:55 RollingThunder Ma secondo voi che gli è preso al Nekoma? Prima Kuroo che va a spasso con Tsukishima per Osaki, ora Kozume e gli haiku...

21:55 Suga Koushi ...e anche quel video incomprensibile di Yamamoto che chiede scusa non si sa di cosa...

21:55 Tanaka!5! Vero! Mi sa che devo fare due chiacchiere con Tora...

21:56 Suga Koushi Quindi @Shoyo? Si può sapere che significa questo benedetto haiku?

21:56 Shoyo Non ne ho idea!

21:56 Suga Koushi Chiama Kozume e fattelo spiegare!

21:57 Shoyo Ci ho provato, non mi risponde. Ma la state facendo troppo lunga: mi ha chiesto di postare tre versi e io l'ho fatto. Tutto qui.

21:57 KageyamaT Kozume ti chiede di buttarti giù da un ponte e tu lo fai? Ha ragione Tsukishima che sei stupido.

21:57 Tsukishima Kei Ogni tanto una soddisfazione...

21:58 Suga Koushi @Tsukishima Kei non è che è un messaggio per te? L'haiku, intendo.

21:58 Tsukishima Kei Per me? Da parte di Tan Taigi dall'oltretomba? Sono onorato! Mi fa strano che scelga un analfabeta come Hinata come araldo... Perché poi dovrebbe essere per me?

21:59 Suga Koushi Beh, parla della luna... 

21:59 Tsukishima Kei Argomento super originale per un haiku!

21:59 Suga Koushi Non fare lo stronzo.

21:59 KageyamaT Non è che lo fa, lo è proprio.

21:59 Tsukishima Kei Ditemi qualcosa che non so.

22:01 Tanaka!5! Gente! Ho sentito Tora al volo. Questa cosa degli haiku è una roba EPICA!!

22:01 RollingThunder Vai! Racconta!

22:01 Tanaka!5! Avete presente l'asso del Fukurodani? Quello che tira quelle parallele micidiali...

22:01 RollingThunder Imprendibili!

22:02 Shoyo Bokuto-san!! E' super-fantastico! 

22:02 Tanaka!5! Okay, proprio lui! Sabato si è presentato nella palestra del Nekoma alla fine degli allenamenti insieme al suo alzatore. Come si chiama? Quello che gli sta sempre appiccicato.

22:02 Suga Koushi  Akaashi-san. Molto bravo pure lui. Al Fukurodani scarsi non ne hanno manco uno.

22:02 RollingThunder E quindi? che hanno fatto?

22:03 Tanaka!5! Se smettete di interrompermi... quindi, Bokuto-san e Akaashi-san si sono presentati all'improvviso e così, senza motivo, hanno lanciato a Kuroo-san una sfida di servizi saltati.

22:03 Shoyo Wooooooooooow!! I servizi saltati sono fighissimi!

22:04 KageyamaT Non è che li sanno fare solo loro.

22:04 Shoyo Vero! Anche Yamaguchi è diventato forte!! Yama al torneo devi piazzare dieci ace contro Ushiwaka!

22:04 Yama Come no...

22:04 Tsukishima Kei Hinata, guarda che Sua Maestà si riferiva a se stesso.

22:04 Shoyo ??

22:05 Tsukishima Kei Anche Kageyama sa fare i servizi saltati...

22:05 Shoyo Beh, certo. Ma non vale. Lui fa tutto meglio di tutti.

22:05 Tsukishima Kei @KageyamaT contento adesso?

22:05 KageyamaT Hinata Boke, piantala!

22:06 Suga Koushi Ci riuscite a stare zitti tre secondi? Tanaka racconta di questa storia dei servizi e dell'haiku.

22:06 Yama Ma perché Bokuto-san dovrebbe sfidare Kuroo-san? Non sono grandi amici? 

22:07 Suga Koushi Basta! Fate parlare Tanaka o domani vi faccio cento servizi saltati dritti sulla nuca.

22:07 Shoyo Anche tu sai fare il servizio saltato, Sugawara-senpai? Mi insegni?

22:08 Tsukishima Kei A te non serve mica saltare per servire sulla nuca...

22:08 Suga Koushi STATE TUTTI ZITTI! Tranne Tanaka.

22:09 Tanaka!5! Tora non lo sa perché Bokuto ha sfidato Kuroo, è vero che sono molto amici. Comunque, lo ha sfidato. Davanti a tutti. Una cosa seria, da perderci la faccia a tirarsi indietro. Tipo che è entrato puntandogli contro il dito. Praticamente è arrivata mezza scuola a vedere, dal casino che facevano. La sfida era su venti servizi, chi riusciva a piazzare più ace.

22:09 KageyamaT Contro chi? Chi c'era in ricezione?

22:10 Tanaka!5! il libero del Nekoma. Ovviamente Akaashi ha scommesso sul suo asso, ma... anche Kozume ha scommesso su Bokuto :D

22:10 KageyamaT Anch'io avrei scommesso su Bokuto-san.

22:11 Suga Koushi Ma no! Che traditore! Sia chiaro: se qualcuno sfida Sawamura, noi scommettiamo su di lui. TUTTI.

22:11 RollingThunder Ma davvero Kozume ha scommesso CONTRO il suo capitano? LMAO!!

22:12 Tanaka!5! Ahahahahahahah! Avranno litigato!

22:12 RollingThunder Trouble in paradise...

22:12 Tanaka!5! Ma infatti Noya, sai che Tora dice che Kuroo si è incazzato di brutto per quella storia della fidanzata, che NON ha, proprio perché Kozume...no... non posso dirlo!!!

22:13 RollingThunder Dillo subito!!

22:13 Tanaka!5! No, ho giurato!

22:13 Shoyo Non mi frega delle fidanzate. Voglio sapere chi ha vinto!

22:13 KageyamaT Kuroo-san. Altrimenti Kozume non farebbe una penitenza!

22:13 Tanaka!5! Esatto! Kuroo ha vinto 12 a 11!

22:14 RollingThunder Yaku è riuscito a ricevere 9 servizi di Bokuto e 8 di Kuroo ???

22:14 KageyamaT Per me Yaku-san è il miglior giocatore del Nekoma.

22:14 Tsukishima Kei Sua Maestà ha un debole per i nani.

22:15 Shoyo Tsukishima domani servo sulla tua, di nuca! Giuro!

22:15 RollingThunder @Tsukishima Kei ripetilo davanti a me e ti spezzo le ginocchia, così ti abbassi quindici centimetri...

22:16 Tsukishima Kei Anche in quel caso, sarei parecchio più alto di voi...

22:15 RollingThunder  Saluta tua mamma e di' una preghiera ché domani muori.

22:16 Tsukishima Kei Ara ara, gomen.

22:17 Suga Koushi Ma l'haiku che cavolo c'entra in tutto ciò? @Tanaka!5! Kuroo-san ha vinto, e come si arriva da qui all'haiku sulla nostra chat?

22:17 Tanaka!5! Questo è un mistero! Nel senso:  Kuroo-san ha deciso le penitenze. Akaashi-san deve andare al Nekoma dopo gli allenamenti e alzare per Kuroo almeno un'ora, tutte le sere, per una settimana. E Kozume-san... deve postare un haiku al giorno nella nostra chat, sempre per una settimana.

22:17 Suga Koushi Ma non ha senso! Un haiku a caso? Perché nella nostra chat?

22:18 Tanaka!5! Questo non si è capito. Kozume non mi pare uno esperto di poesia.

22:18 Suga Koushi Appunto. E' assurdo. @Tsukishima Kei tu che conosci Kuroo-san, ha un senso per te questa penitenza?

22:19 Tsukishima Kei Non sono esattamente circondato da persone sensate... che vuoi che ne sappia cosa passa nella testa a carciofo di Kuroo?

22:19 Tanaka!5! Tsukishima, non è che è un codice segreto? O_O

22:20 Tsukishima Kei Sì. Il messaggio nascosto è: "fanculo a tutti"! Ora me ne vado a studiare. Se viene fuori che la stupidità è contagiosa, ho un problema serio. 

***

Kei spegne il telefono, per non rileggere l'haiku. Che non serve a niente, perché lo conosce a memoria. Ovviamente, è destinato a lui. La fantasia di Kuroo nell'inventarsi nuovi modi di comunicare senza il consenso del suo interlocutore è illimitata, ma se continua così rischia di mandarlo al manicomio. E' creativo. E' tenace. E' fottutamente brillante. Maledetto.

La storia della sfida è chiaramente una montatura. Comica, se vogliamo. Kei avrebbe voluto esserci: si immagina Bokuto che spalanca la porta della palestra e avanza urlando Hey Hey Hey  e puntando il dito contro il capitano del Nekoma, davanti alla squadra allibita. Il tutto mentre Akaashi lo segue a testa bassa e Kuroo si finge irritato. Che scena madre.

Tra l'altro, Bokuto non perderebbe mai contro Kuroo ai servizi. Come non se ne rendano conto almeno quelli del Nekoma è un mistero. Va bene che sono tutti mezzi scemi, tranne Yaku che magari era era d'accordo con loro. Anzi, sicuramente è andata così.

E poi chi se ne frega come è andata. Kei sa di non doverci pensare.

E' difficile non pensare all'haiku, però, perché è vero che è uno dei suoi preferiti. Che stupido, stupido idiota! Andare a raccontargli della sua collezione. Come gli è venuto in mente? Come ha fatto testa a carciofo a fargli abbassare la guardia così tanto? 

Ora in quell'haiku magnifico, che ha trecento anni e non è invecchiato un giorno, Kuroo si è infiltrato per sempre. La sua ombra ingombrante è entrata nel tessuto dei versi. Basta ripeterli per sentirlo: un retrogusto salato in un boccone dolce. 

Per quanto gli secchi ammetterlo, le massime di suo padre restano sempre valide: chi agisce con stupidità, paga il conto in conseguenze. 

La conseguenza è un'altra ferita aperta. Non tanto profonda, non molto grave. Ma un'altra.

 

 


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Rieccomi! Si riprende il mercoledì e il sabato ^_^

 

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Capitolo 12
*** Vecchie tradizioni, nuove promesse ***


12 - Vecchie tradizioni, nuove promesse


21 luglio 2012

L'orologio sul muro segna le 23:19, nella stanza risuona una sinfonia di respiri regolari, che scandiscono il sonno profondo e il meritato riposo di tutta la squadra.

Solo Kei è sveglio. Scavalca il futon di Yama, rannicchiato in posizione fetale e passa di fianco a quelli di Hinata, supino con braccia e gambe allargate, e di Kageyama sdraiato sul fianco, con le gambe arrotolate nelle lenzuola.

Si tira su la zip della felpa e guadagna l'uscita, scivolando nel buio dei corridoi deserti della Shinzen, che ospita il ritiro.

La notte è tersa e profumata, ma il clima è molto meno frizzante delle sere precedenti. Un po' dell'afa del giorno è rimasta intrappolata dal cemento e ora vaga fra le palestre e il bosco.

Kei ha deciso di aspettare ancora un paio di minuti prima di incamminarsi anche lui su per la collinetta delle penitenze. Negli ultimi quattro giorni, i giocatori del Karasuno hanno fatto almeno cinquanta scatti di velocità su per quel pendio, visto che hanno perso tutti gli scontri, quindi non è una sorpresa quello che c'è in cima: una striscia di umida di prato che s'inerpica fino alle pendici di un boschetto di larici, prima radi e poi sempre più fitti. Le luminarie della periferia di Tokyo sono sorprendentemente vicine, come una cesura fra due mondi, una linea netta fra il buio e la luce, che attraversa la scuola e fa da barriera alla città.

A guidarlo nell'oscurità, la luce bianca di una torcia elettrica che balugina fra gli alberi e, man mano che si avvicina, bisbigli portati dal vento.

«C'è un intruso!» esclama Bokuto sorridendo, quando il lungo e allampanato profilo di Kei emerge dall'ombra frusciando. Anche se crede di parlare a bassa voce, l'asso del Fukurodani è praticamente una fanfara.

«Ciao Tsukki» saluta Kuroo, sollevando la bottiglia che ha in mano. La torcia in mezzo a loro getta ombre spezzate tutt'intorno.

Akaashi solleva il braccio.

«Ciao» risponde Kei, con le mani sprofondate nelle tasche e l'aria dimessa di uno che sia passato di lì per caso.

«Che ci fai sveglio a quest'ora?» domanda Kuroo.

Bokuto gli fa segno di sedersi, battendo per terra con la mano aperta. 

«Non riesco mai a dormire quando mangio troppo» risponde Kei.

«Non riesco a immaginarti che mangi troppo» commenta pacato Akaashi.

Kei si siede in mezzo fra Bokuto e Kuroo, abbracciando le ginocchia piegate. «Stasera i senpai mi sono stati addosso e mi hanno riempito il piatto tre volte. Sembra che qualcuno li abbia fatti sentire in colpa per il fatto che mi trascurano. Il discorso salutistico che sempre lo stesso qualcuno ha fatto a Daichi-san mi farà digerire fra due mesi.»

Kuroo sorride, guardando per aria.

«Parla di te?» chiede Bokuto, tirando per la felpa il Capitano del Nekoma.

«Potrei aver esagerato un pochino, ma era per una buona causa... »

«Farmi girare le palle?» suggerisce Kei.

«Farti crescere bene»

«Sono già altino, mi pare.»

Kuroo solleva un angolo delle labbra, in un sorriso asimmetrico, che è sia ironico che divertito. «Sono giovane, sto crescendo. La mia forza e altezza si stanno ancora sviluppando» cantilena, rifacendo il verso a Kei, con notevole talento.

Bokuto sghignazza, Akaashi ride, Kei solleva il dito medio, ma viene da ridere anche a lui.

«Come facevi a sapere che eravamo qui?» chiede Bokuto.

«Ci ha seguiti» indovina Akaashi.

«Ci hai seguiti?»

La mancanza di malizia dell'asso del Fukurodani è spiazzante e mentirgli insolitamente difficile, per Kei. «Vi ho visto passare davanti alla finestra. Ero curioso.»

«Hai fatto bene a venire, Tsukki» commenta Kuroo, con il solito tono neutro.

«Sì hai fatto bene» ripete Akaashi. «Almeno a fine serata non sarò l'unico sobrio.»

«Io non mi ubriaco mai!» si difende Bokuto. «Mai seriamente» rettifica, incrociando lo sguardo scettico di Akaashi.

«Di solito crolla a mezzanotte, anche se ha bevuto solo acqua» spiega Kuroo.

La mano di Bokuto scatta verso il collo di Kuroo, che però ha i riflessi più veloci e la schiva con una gomitata.

«Quindi che ci fate qui? Bevete?»

«Brindiamo» risponde Kuroo.

«Per avere fortuna ai Nazionali» spiega Bokuto. «E' una specie di tradizione ormai.»

«La parola giusta per me è scaramanzia» interviene Akaashi, impegnato a ridurre fili d'erba in striscioline minuscole.

«Chiamala come ti pare Akaashi, ma tutte le volte che al ritiro estivo siamo venuti qui a brindare, poi ai nazionali spacchiamo!»

«Solo due volte» rimarca Akaashi.

«Appunto, tutte» ribadisce Bokuto sorridendo. Akaashi alza le mani in segno di resa.

«Cos'è?» chiede Kei, accennando alla bottiglia.

«Vino» risponde Kuroo, passandogliela.

Kei la esamina e si trova senza parole: Cheval Noir Saint-Émilion 2007. L'etichetta con il cavallo nero è inconfondibile.

«Lo conosci?» domanda Akaashi, a cui non è sfuggita l'espressione di sincero stupore.

«Mn» annuisce Kei. «Ne abbiamo qualche bottiglia a casa.»

«Di vino francese?»

«Di questo vino. La stessa etichetta.»

«Davvero?» Kuroo riprende la bottiglia e se la rigira fra le mani, incredulo.

Tutto quello che Tsukishima Kei sfiora, guadagna un alone di mistero. Funziona come una lente deformante: passando attraverso di lui, anche le cose più ordinarie si arricchiscono di significati, gradi di libertà, profondità, spessore. Con incredibile naturalezza piega il mondo intorno a sé, rendendolo diverso interessante, come è lui. Complesso, enigmatico, difficile da decifrare, pericoloso, conturbante.

Kei, intanto, si sforza resistere alla tentazione di continuare a fissare Kuroo per studiare l'anomalia che rappresenta. In un mondo governato da probabilità facili da calcolare, gremito di individui prevedibili, quel tizio è una singolarità a densità infinita. Dove c'è lui, anche per una semplice bottiglia di vino, smettono di valere le regole della matematica e della statistica. E' un essere umano atipico, irregolare, immune alle estrapolazioni. Eppure, in un modo tutto suo, è sorprendentemente esatto.

«E' destino» esclama allegro Bokuto, interrompendo i pensieri di entrambi. «Il vino, dico. Significa che devi brindare per forza!»

«Significa che ci fa molto piacere se brindi con noi» corregge il tiro Akaashi, che detesta le costrizioni più di chiunque.

Kei rilassa le spalle e borbotta qualcosa che somiglia a un assenso.

«Kuro!» esclama Bokuto, folgorato da un'idea. Ha le sopracciglia sollevate, gli occhi pieni di entusiasmo, persino i capelli puntano con più decisione verso l'alto. «Ci hai pensato? Il primo anno eravamo noi due soli, l'anno scorso si è aggiunto Akaashi, quest'anno Tsukki. Anche questa è una tradizione!»

Meno di un attimo dopo, Bokuto si spegne. Le sue spalle si abbassano in un sospiro, si affloscia, lancia nel nulla uno svogliato sassolino. «L'anno prossimo, però, noi non ci saremo. Starà a voi trovarvi qualcun altro per brindare» dice, affranto, rivolto ad Akaashi.

Kei e Akaashi si guardano per un attimo, leggendosi a vicenda negli occhi una verità ovvia: non cercheranno proprio nessuno, perché senza quei due stupidi esaltati non avrebbe alcun senso essere lì.

Kuroo tira un calcio violento sulla gamba di Bokuto: «Sai che ti dico, vecchio gufo? Invece che una nuova tradizione, ora ci facciamo una bella promessa. L'anno prossimo, all'ultima sera del ritiro, torniamo a importunare questi due pivelli per brindare con loro, così non avranno bisogno di reclutare nessuno.»

«Chissà dove saremo l'anno prossimo...» sospira Bokuto, massaggiandosi il polpaccio.

«Che importa? Prendi un aereo, un treno, un gommone, una bici e vieni qui. E lo farò anch'io» risponde Kuroo, con totale convinzione. Kei lo guarda e gli sembra che, fra le sue mani da prestigiatore, anche il futuro debba mostrare solo le carte che lui vuole.

Bokuto abbozza un sorriso: «Non è per niente una brutta idea. Vero, Akaashi?»

«Mi sembra ottima, Bokuto-san.»

Kuroo si batte il petto: «E' un'idea fantastica. Del resto, l'ho avuta io. E poi, senza di noi, questi qui finirebbero a brindare con le bevande energetiche... Dai, gufaccio, prometti!»

«Prometto che fra un anno tornerò qui per brindare tutti insieme!» esclama Bokuto tendendo la mano a Kuroo, che la afferra e la stritola. «Promesso!» 

Bokuto scoppia a ridere d'entusiasmo. «E' proprio un'idea grandiosa!»

Akaashi annuisce con la testa: «Fra un anno Bokuto-san verrà a raccontarci cosa si prova a giocare in una squadra della prima divisione. E a schiacciare le alzate di un professionista... »

«Nessuno al mondo alza come te» risponde Bokuto senza esitazioni. Non si capisce se sia triste o allegro. «Dopo il diploma verrai ad alzare nella mia squadra.»

«Dopo il diploma andrò all'università.»

«Certo! E intanto alzerai per me» insiste, battendosi il petto. «Lo sai, Tsukki, che Akaashi è entrato al Fukurodani con una borsa di studio?»

«Davvero?»

«Sì. E' abbastanza frequente al Fukurodani, viste le rette» spiega Kuroo.

«Anche Bokuto-san è entrato come borsista» specifica Akaashi tranquillo.

«Ma la mia è solo una borsa di studio sportiva. Non vale. La tua è una di quelle per merito, saranno tipo tre l'anno. Significa che oltre a essere il mio alzatore sei un sacco intelligente. In effetti, sai sempre tutto, Akaashi. Vedi Tsukki, qualsiasi domanda, se non so la risposta, vado a chiederla a lui. Credo che sia perfino più intelligente di te» conclude Bokuto pensieroso.

Akaashi, imbarazzato, scuote il capo, mimando a Kei la parola "scusa" con le labbra.

«Non ci credi, Tsukki? Vuoi provare? Fagli una domanda, dai!»

«Bokuto-san, è piena notte. Non fare il bambino» interviene Akaashi.

Tsukki alza lo sguardo su Akaashi, con un sorrisetto provocatorio: «Akaashi-san, credi nel destino?»

«Wow!» commenta ammirato Bokuto, grattandosi la fronte.

Ad Akaashi scappa un sorriso, a quella reazione. Sposta lo sguardo in alto, verso le poche stelle che osano ribellarsi all'inquinamento luminoso della capitale. «Sono sempre stato un rigido determinista, Tsukishima-kun. Come te, probabilmente. Ma credo che solo gli imbecilli non si mettano mai in discussione.»

«E' un sì o un no?»

«E' un no per principio che sta diventando sì all'atto pratico...» si inserisce Kuroo, sorridendo tra sé, mentre cerca qualcosa nelle tasche della felpa. Estrae un cavatappi compatto, di legno e acciaio.

«Esatto» conferma Akaashi. «Qualche volta gli eventi, o più spesso le persone, sono capaci di smentire la filosofia e le convinzioni personali.»

«Perfino la fisica e le leggi delle probabilità» commenta Kei, pensieroso.

Non è una domanda, ma Akaashi la interpreta così e annuisce, guardando Bokuto, che intanto sta perdendo la sua battaglia contro la cerniera lampo. Non ha agganciato bene i fermi inferiori e continua a tirare su la linguetta a vuoto, senza riuscire a far combaciare i dentini.

«Allora? Questi brindisi li vogliamo fare o no?» propone Kuroo, mentre infila nel sughero il ricciolo di metallo del cavatappi. «Vai, gufo, spiega a Tsukki come funziona.»

Bokuto lascia perdere la cerniera e si sfrega le mani, entusiasta. «Dunque sono due giri di brindisi. Nel primo si brinda alla pallavolo, per avere fortuna al torneo. Il secondo è in onore delle cose belle della vita. Chiaro?»

Kei annuisce. E' tutto totalmente assurdo, ma l'idea che avrebbe potuto perderselo se fosse andato a letto presto è stranamente triste.

Bokuto continua: «Parto io che sono il più vecchio e poi andiamo in senso orario, quindi tu sei ultimo. Quando arriva il tuo turno, proponi il tuo brindisi e bevi. Tutto qui. Una figata, vero Akaashi?»

«Vero.»

«Verissimo» conferma Kuroo, subito dopo lo stappo. «Vai, Bokuto!» lo esorta, passandogli la bottiglia.

Bokuto si alza in piedi, sollevandola col braccio teso «Alle schiacciate perfette, che ti fanno sentire il re del mondo!» urla, ridendo. Subito dopo manda giù un grande sorso. «Oya, Kuro. E' spaziale questa roba francese!»

«Vero? Yu-chan è un portento per queste cose» risponde fiero Kuroo.

Kei ha registrato il nome femminile e ci ha già appiccicato l'etichetta fidanzata. Una fidanzata ricca e sofisticata, che regala vino francese e ha un armadio che trabocca di felpe del Nekoma.

«Yu-chan è un portento per tutte le cose» risponde Bokuto, passando la bottiglia ad Akaashi, alla sua sinistra. «Con una sorella così, ti sei fatto degli standard troppo alti. Ci credo che poi molli subito tutte le ragazze! Mami è ancora lì che si dispera!»

Sorella. Il cervello di Kei si adagia su quella parola rassicurante. Anche la disperazione di questa Mami è piuttosto confortevole.

«Lo sapevi, Tsukki, che Kuro stava con l'asso della nostra squadra femminile?» chiarisce pettegolo Bokuto.

Kei scuote il capo.

«L'ha mollata due mesi fa di punto in bianco. E lei non l'ha presa molto bene.»

Kuroo chiude il discorso con un altro calcio diretto a Bokuto.

Akaashi si schiarisce la voce; non si alza, ma allunga il braccio, tenendo la bottiglia di fronte a sé. «Alla vittoria leale, che arride ai forti, agli audaci e ai puri di cuore!» declama, prima di bere il suo sorso.

Tocca a Kuroo e neanche lui si alza. Getta a Kei uno sguardo traverso, che cattura un frammento di luce della torcia: «Alla passione e al piacere, che rendono il gioco (e la vita) favolosi e indimenticabili!»

Kuroo beve e si pulisce la bocca col dorso della mano.

Kei resta qualche istante a fissare la bottiglia che il capitano del Nekoma gli ha passato.

«Signor è-solo-un-club sei senza parole? Nemmeno un'emozione piccina piccina per la pallavolo?» lo provoca Kuroo. Bokuto ride, ebbro di un singolo sorso. 

«Vuoi che brindi io per te? Però poi bevi tu!» propone Kuroo.

«Okay, ma solo se il brindisi mi soddisfa» risponde Kei, spingendosi su gli occhiali sul naso.

Kuroo storce le labbra e si riprende la bottiglia, strappandola a Kei. «E' una sfida?»

«Se vuoi...»

Bokuto si percuote le cosce con la mano, solo per fare rumore. Akaashi si rilassa all'indietro, contro un tronco, e accavalla le gambe, per godersi lo spettacolo.

Kuroo distende lentamente il braccio verso Kei, con la bottiglia in mano. Si schiarisce la voce e tenta di soffiarsi via dalla fronte il ciuffo di capelli, che però ricade subito al suo posto. «Al muro perfetto, che ferma la palla, la devia, la smorza o la costringe. Obbliga le traiettorie, demolisce le sicurezze, crea pressione e controlla il gioco.»

Maledetto parolaio. Kei sorride apertamente, gli strappa la bottiglia e beve d'impeto. E' il vino più buono che ha mai bevuto, forse il più buono che berrà mai.

«Secondo giro! Cose belle della vita!» esclama Bokuto, infervorato, saltando in piedi. «All'amicizia!» urla. La parola gli esce dalle labbra luminosa, potente e ricolma di emozioni. «All'amicizia vera, che colora ogni giornata!»

Da come Akaashi sorride, mentre guarda in basso, si capisce chi possieda l'esclusiva sulla sua tavolozza. Però quando solleva la bottiglia, torna serio, quasi triste. «Alla Libertà!» dice, e beve un sorso molto lungo.

«E' lo stesso brindisi dell'anno scorso» osserva Bokuto.

«Già.»

Kei coglie un frammento di dolore in quel monosillabo, ma non riesce a dargli un senso.

Kuroo non solo si alza in piedi, ma sale su un tronco caduto e solleva la bottiglia più in alto che può.

Le linee del suo corpo, sotto la felpa rossa slacciata, sono talmente perfette che Kei deve fare uno sforzo per distogliere lo sguardo.

«Alle risate!» declama Kuroo, e poi subito beve. «Specialmente quelle difficili da suscitare, quelle involontarie e quelle private.»

«Agli haiku!» brinda Kei, con un certo entusiasmo, bevendo anche lui un lungo sorso, che gli brucia in gola.

«Gli haiku?» ripete Bokuto, perplesso. «Non sono poesie?» Akaashi annuisce.

«Haiku?» ripete anche Kuroo.

«Haiku» conferma Kei. «Adoro gli haiku. Specialmente quelli dell'epoca Edo. Li colleziono.»

Kuroo lo sta guardando come se fosse un alieno. Bokuto non ha mai sentito parlare di epoca Edo. Akaashi annuisce incoraggiante.

Kei sa di essere stato inutilmente sincero. Probabilmente è per via dell'alcool, a cui non è abituato. E' assolutamente vero che tra le cose belle della sua vita gli haiku occupano un posto di rilievo. Il fatto che lo sappiano solo Akiteru e Yamaguchi è un trascurabile dettaglio. Adesso sono in cinque a saperlo, perché poi gli sia venuta voglia di raccontarlo proprio a questi tre sconosciuti non ne ha proprio idea. E ormai è tardi per ripensarci.

Nella bottiglia è rimasto un fondo di vino; Kei la scuote, producendo un leggero sciabordio. Kuroo gliela sfila dalle mani e la rovescia con un gesto secco: il liquido gorgoglia e subito sparisce, inghiottito dal terreno. Qualche goccia rossa resta in bilico sugli steli d'erba, prima di scivolare verso il suo destino. «A quelli che non sono qui, ma sono comunque qui.»

E' un colpo mancino. Kei sente che un fiotto di lacrime pronto a traboccare, quindi tossisce, si toglie gli occhiali, li pulisce con l'orlo della maglietta e li infila nuovamente, dopo essersi strofinato le mani sugli occhi.

Su tutti e quattro scende un silenzio benevolo, senza imbarazzo, che dura un paio di minuti e in cui ognuno è libero di inseguire i propri pensieri.

E' Kuroo a parlare per primo: «Adesso è meglio se torniamo, il nostro bimbo è bello stanco.»

Kei protesta subito: «Io non...»

«Shhhh» sibila Kuroo facendogli segno di tacere, col dito sulle labbra. Poi indica Bokuto, che si è assopito con la testa all'indietro e la bocca aperta. «Va a finire così tutti gli anni. La prima volta l'ho praticamente portato in spalla fino ai dormitori» bisbiglia, ridendo.

Anche Akaashi ride. «Andate avanti, fra cinque minuti lo sveglio e lo convinco a tornare giù» mormora a bassa voce.

«Vieni, dai, Tsukki!» sussurra impaziente Kuroo.

«Arrivo. Non chiamarmi Tsukki!»

«Basta che ti muovi!»

Camminano in silenzio, la discesa dura un attimo. 

 «Sul serio adori gli haiku?»

«Sì, sul serio. Perché?»

«Perché di tutti i quindicenni giapponesi, credo che tu sia l'unico.»

«Non mi dispiace essere unico» ribatte Kei.

Kuroo sorride. Non un ghigno, un sorrisetto o una risatina. Un vero sorriso, caldo e gentile. «Neanche a me dispiace. Proprio per niente.»

Kei si sente arrossire e pretende di dare la colpa al vino. Per fortuna, sono già arrivati  all'ingresso dei dormitori. Le stanze delle loro squadre si trovano ai capi opposti del piano. 

Kei saluta con la mano e fa per voltarsi, ma Kuroo lo blocca e si sporge verso di lui. «Ti sei reso conto che la strada più veloce per arrivare al boschetto non passa davanti alla vostra finestra?» gli sussurra all'orecchio.

Kei aggrotta la fronte, spiazzato. Kuroo gli strizza l'occhio e poi si incammina. Prima di sparire dietro l'angolo, solleva la mano per salutare, senza voltarsi.

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Capitolo 13
*** MVP ***


13 - MVP


27 ottobre 2012

Quinto set 15/15. Deuce.

Nel corpo di Kei, ovunque è dolore. Dai muscoli dei polpacci che bruciano, fino alla punta delle dita. Il mignolo destro è dislocato. Ogni minimo movimento della mano genera una fitta rovente che si irradia come una scossa elettrica fino al gomito.

Mentre solleva la paletta con il numero 8, soffre fin quasi alle lacrime.

Ha mentito, per tornare in campo. Ha detto che il dolore era sopportabile. E tutti hanno fatto finta di crederci. Doveva mentire.

Ha mentito per Akiteru, che è piombato in infermeria preoccupato, ansioso e fiero. Per Yachi-san, che ha pianto appena ha visto una goccia di sangue e sta continuando anche adesso sugli spalti. Per il fastidioso Hinata, che a muro non vale quasi niente.

Ha mentito per la squadra, che non può rinunciare a giocare tutte le sue carte, in questa finale incredibile, che non vuole finire.

Soprattutto, ha mentito per Kuroo Tetsurou, che da qualche parte, sugli spalti, lo sta guardando. E che non si arrende. Continua a scrivere messaggi, a mandare mail e vocali. Ha spedito persino una lettera cartacea, che è finita a pezzi ancora imbustata. Per non dire degli haiku, uno più bello dell'altro. E oggi si è presentato di persona.

Baka! Si è fatto più di quattrocento chilometri per venire nello stadio di Sendai a vedere la partita di un kohai strafottente e maldisposto, che si rifiuta di rivolgergli la parola.

Baka! Quattrocento chilometri solo perché in questo momento non ha una ragazza da scoparsi ed è troppo stupido e troppo testardo per riconoscere un'infatuazione passeggera, una sbandata, l'emozione effimera di una novità e di una sfida.

Kei non può permettersi niente di tutto questo. Si è già avvicinato al fuoco fin troppo: ancora un po' e non sarebbe più questione di bruciarsi, ma di consumarsi.

Ci ha pensato tanto. Ha esaminato la situazione da ogni punto di vista. Ha calcolato i possibili sviluppi, le conseguenze, i cambi di variabile. Ma la conclusione è sempre la stessa: a nessuno deve essere concesso tanto potere su Tsukishima Kei, a nessuno al mondo. Motivo per cui, non importa cosa Kuroo dice o fa, o quanti stupidi chilometri è disposto a macinare, ma non riuscirà mai a fargli cambiare idea, a farlo tornare indietro. 

Tutto quello che Kei può concedersi sono una manciata di bei ricordi estivi, una chiavetta USB piena di musica discutibile e la sensazione irripetibile del cuore che batte alle porte dell'anima, ed è lì lì per sfondarle. Il genere di cosa che era certo non avrebbe mai provato e, anzi, era convinto che esistesse solo nei cattivi romanzi e nei manga idioti di Yamaguchi. E che purtroppo è dannosa.

Come l'eccesso di zuccherì, come lo sforzo di un'articolazione infortunata.

Kei ha mentito per tornare in campo, ma è Kuroo che gliel'ha permesso. Alla fin fine, è sempre tutto colpa sua, o merito suo, o entrambe le cose insieme.

Baka! Baka Tetsurou!

***

Nascosto nell'ombra del corridoio male illuminato, Tetsurou tiene d'occhio la porta chiusa dell'infermeria.

Quando vede uscire la manager del Karasuno e un tizio biondastro che è la brutta copia di Kei, meno alto e molto meno bello, li raggiunge.

«Come sta Tsukki?» domanda alla ragazza.

Lei lo riconosce, naturalmente, ma è abbastanza intelligente da non fare commenti.

«Dislocazione del mignolo.»

«Totale o parziale?» Purtroppo, Tetsurou è esperto di lussazioni delle dita.

«Totale.»

«Quindi è fuori? Non rientra in campo?»

La ragazza annuisce, lo sguardo serio dietro gli occhiali. 

Il fratello di Tsukki si limita a uno sguardo torvo.

Forse Tetsurou dovrebbe chiedere il permesso, bussare educatamente e presentarsi. Forse quello che sta per fare è solo una micidiale cazzata e se ne pentirà amaramente. Ma l'idea che, dopo aver giocato in quel modo, Kei non debba essere in campo al fischio finale, è insopportabile.

Apre la porta di slancio, senza bussare, si fionda all'interno e se la richiude alle spalle.

Gli occhi di Kei si sollevano stupiti e astiosi, più incredibili che mai, ma lui li ignora. 

E' in quelli anonimi dell'infermiere che si appunta lo sguardo di Tetsurou ed è solo a lui che si rivolge. Il tono è quello di un consulto medico: «Lussazione dorsale, vero? Non laterale, nemmeno volare?»

Colto alla sprovvista, l'infermiere risponde in automatico: «Dorsale, da iperestensione.»

«L'emorragia si è fermata?»

Il suo interlocutore, nel frattempo, ha rilevato la stranezza della situazione: «Scusi, ma lei...»

«Sì.» risponde Kei, sollevando la mano bendata, senza macchie di sangue.

E' ridotto male. Kuroo respira profondamente, per calmarsi: abrasione, contusione, dislocazione totale. Deve proprio ammazzarlo, Ushiwaka.

«Danni ai tendini?»

«La prego, se ne vada» ordina l'infermiere pacatamente, indicando la porta. «Ho già fatto un'eccezione per i familiari. Questa è un'infermeria non...»

«Sono io che la prego» lo interrompe Tetsurou, fermo, educato, serio. «Mi è successo cinque volte. Una volta è servita anche la riduzione chirurgica. Se  il mignolo glielo fascia stretto insieme all'anulare, se lo immobilizza, non può peggiorare in pochi minuti di gioco...»

«Siete tutti degli incoscienti, voi ragazzi. Senza una lastra, senza un'esatta valutazione dei danni ai tendini...»

«La riduzione gliel'ha fatta con l'anestesia?»

Kei scuote il capo con decisione. Ha sentito un male cane.

«Allora è chiaro che non ci sono danni seri ai tendini, o lo avremmo sentito urlare dagli spalti» prosegue Kuroo. Sa perfettamente che Kei si butterebbe dalla finestra piuttosto che gridare in un ambulatorio medico, ma sa anche, per esperienza diretta, che con i legamenti strappati quella faccia da poker è impossibile tenerla.

«Scala del dolore, Tsukki?» 

«Fra sei e sette. Sopportabile» mente Kei, senza esitare, con un tono atono che fa spavento. Kuroo lo guarda e pensa che sia piuttosto un otto.

«Questo ragazzo non deve giocare. Deve tenersi la fasciatura e andare a farsi visitare da un ortopedico» interviene l'infermiere. E' un uomo paziente e di scene come questa, lavorando allo stadio, ne ha viste a dozzine.

«Lo farà. Andrà a farsi visitare oggi stesso. Vero?»

«Certo» conferma Kei. «Appena finisce la partita.»

«Se lo immobilizziamo stretto insieme all'anulare, se lo fissiamo in modo rigido, potrebbe giocare. Mancano solo pochi minuti» riprova Tetsurou. E' uno che non si arrende, ce l'ha scritto in faccia. Non sta usando un tono insolente e neppure supplichevole. Convinto, semmai. Un'emanazione abbagliante della sua stessa sicurezza.

Infatti, l'infermiere esita. «Forse potrebbe. Ma se fosse figlio mio, non glielo permetterei» dice, battendo la mano con gentilezza sul ginocchio di Kei, ancora seduto sul lettino.

Kuroo Tetsurou non demorde: «Davvero? Se fosse suo figlio e fosse la finale provinciale? Se fosse suo figlio e si allenasse quattro ore al giorno, sei giorni su sette? Se fosse suo figlio e facesse la differenza per la squadra? Se fosse suo figlio e per lui fosse importante, davvero gli negherebbe di essere in campo nel momento cruciale?»

L'infermiere sospira, Kei trattiene il fiato.

«E' l'MVP di oggi. Il migliore in campo» dice ancora Tetsurou, scandendo lentamente le parole. E' evidente che ci crede . «Non gli tolga il privilegio di restare  in partita fino all'ultimo fischio. Se lo è meritato. Se lo è anche guadagnato.»

«Dovresti fare l'avvocato» sbuffa l'infermiere. «Facciamo così. Lo fascio stretto, gli blocco il dito, ma niente antidolorifico, così se ne rende conto da solo che non è il caso di giocare.»

«Per me va bene» dice subito Kei. Neppure si rende conto della passione che ci ha messo, in quelle quattro parole. «Basta che facciamo presto.»

Tetsurou annuisce.

L'infermiere scuote il capo e inizia a togliere la fasciatura, per rifarla daccapo. Non ha responsabilità dirette, deve solo fare medicazioni e demandare a un medico. Cosa che ha fatto. Sono i genitori del ragazzo, o l'allenatore, che hanno l'ultima parola. E dovrebbero impedirgli di essere così avventato.

«Però alla signorina lì fuori, che riferisce all'allenatore, diciamo le cose come stanno» aggiunge l'infermiere, severo.

«Certo. La faccio entrare. Tsukki, ricordami come si chiama?»

«Shimizu Kiyoko»

Kiyoko si inchina brevemente. Non fa neanche finta di nascondere il fastidio che prova per l'intromissione di Kuroo. E' ovviamente una sua mancanza non essere riuscita ad evitarla. In altre circostanze, avrebbe chiamato il coach o il professor Takeda, ma durante la partita, era sua responsabilità districarsi. E invece si è fatta cogliere di sorpresa, come una ragazzina.

«Shimizu-san, stiamo modifcando la fasciatura di Tsukishima, per immobilizzare il mignolo con l'anulare» comunica Tetsurou, parlando come se fosse lui a farlo. «La lussazione è stata ridotta e Tsukishima è d'accordo a non prendere antidolorifici.»

L'espressione di Kyoko è perplessa.

«Se non sentisse dolore, potrebbe essere troppo imprudente» spiega Tetsurou.

«Quindi può tornare in campo?»

«Quindi appena finita la partita deve andare da un ortopedico» risponde Tetsurou.

«Significa che può giocare?» insiste Kyoko.

L'infermiere scuote il capo. «Non dovrebbe» commenta. E tira forte le fasce, strappando a Kei un sospiro e una singola lacrima, che viene subito asciugata col dorso della mano buona.

«Significa che la situazione non peggiorerà per pochi minuti in campo, facendo attenzione. Giusto?»

L'infermiere borbotta qualcosa di incomprensibile, ma non lo contraddice.

Tetsurou ha vinto ed è una vittoria di Pirro. Ha assecondato i desideri di Kei, ma non è affatto sicuro di aver agito nel suo migliore interesse. L'espressione di sofferenza e insieme di trionfo che gli illumina lo sguardo è l'ennesima istantanea mentale che Tetsurou scatta col proposito malsano di passare notti insonni a ripensarci. Non esattamente pensieri casti.

Dietro quello sguardo, però, Kei è calmo, concentrato, già proiettato in campo, già di nuovo in partita.

E' solo un club, vero, Tsukki?

Non c'è niente che Tetsurou potrebbe dirgli ora, davanti alla manager, all'infermiere, al fratello ansioso che si è affacciato nello spiraglio della porta. Quindi si volta e se ne va, senza salutare.

***

La linea bianca che delimita il campo sembra il confine di una zona di guerra: una volta superata, cambia tutto.

Kei lascia spazio ai sensi solo per pochi secondi: l'odore di plastica e sudore dritto nelle narici, il biancore artificiale della luce che piove dall'alto, la resistenza del pavimento sotto la suola delle scarpe, le scariche di dolore nella mano destra, il brusio del pubblico che sta guardando lui, il sapore acido del reflusso gastrico sul palato.

Conta fino a cinque, poi spegne tutto, e trattiene solo le informazioni utili ad alimentare un circuito di calcolo a cui, in questo momento, serve la massima potenza.

Mentre si avvicina ai compagni, per condividere la strategia che ha in mente, si rende conto di una cosa fondamentale: che poco fa si sbagliava.

Esiste un'unica persona per la quale ha mentito e per la quale ha voluto disperatamente tornare in campo. E questa persona è Tsukishima Kei.

E' solo per se stesso che lo ha fatto. Il se stesso che ha murato Ushijima Wakatoshi al terzo set.

Solo un muro. Solo un punto su venticinque. Solo un club.

Ma forse è tutto quello che gli resta e per cui valga la pena di metterci l'anima. L'istante luminoso in cui l'universo si è contratto nella sfera perfetta della palla. L'istante in cui il candore di Bokuto è diventato verità assoluta: la pallavolo ti cattura.

Non ti cattura soltanto, ti attraversa. Ti definisce completamente, anche solo per un attimo. Non è solo vincere, mettere a segno il punto, impressionare qualcuno. E' bruciare in quel singolo momento con tutto il corpo e tutto il cuore, essere lì e soltanto lì, vivere il presente come un'eternità.

Un momento assoluto.

L'istante che ha tenuto insieme Akiteru nei tempi più bui. Quello che le persone ottimiste come Yama cercano invano per puro orgoglio, che i mostri come Kageyama ricreano con precisione scientifica, che i folli come Hinata inseguono con furore.

Ora che anche Kei ha avuto il proprio assaggio di infinito, deve farselo bastare.

Tutto il resto, compreso Kuroo Tetsurou, può andare a fanculo.

Perché adesso lui non conta niente.

Adesso conta una cosa sola.

Vincere.

 

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Capitolo 14
*** Fuori controllo ***


14 - Fuori controllo


27 ottobre 2012

Yamaguchi se n'è appena andato dal bagno. Kei è ancora sbalordito: il suo devoto, mansueto, adorante migliore amico gli ha appena dato dell'idiota. Sta davvero cambiando, Yama, o piuttosto sta crescendo: prende coraggio più facilmente, esercita un senso critico inedito anche sulle persone a cui vuole bene e, visto che è onesto e intelligente, non lo fa a vuoto. L'insulto, questa volta, Kei se lo meritava tutto.

Quando alza gli occhi, lo specchio riflette i suoi tratti, vaghi e opachi per la miopia. Un mondo ovattato, senza contorni, in cui niente è reale, neppure il proprio viso.

Anche Kuroo vestito di nero, fermo sulla soglia del bagno, è solo un grumo di oscurità indefinito nell'angolo del riflesso. Eppure, non ha nemmeno un dubbio sul fatto che sia lui.

Kei rilascia la tensione del collo e la sua testa crolla in avanti. Il getto dell'acqua che si infrange contro la porcellana bianca gli spruzza la faccia di stille ghiacciate.

«Vattene!» ordina Kei, senza neanche accertarsi che Kuroo sia a portata d'orecchio.

Finché sente la sua presenza alle spalle. E' inspiegabile, ma persino l'aria che sposta occupando gli spazi brucia.

«Come va la mano?»

Kei chiude il rubinetto, senza alzare la testa. «Bene. Ora vattene» ripete, aggrappato al bordo del lavandino.

«Sei stato fantastico, in campo» prosegue Kuroo, imperturbabile. Manca, nelle sue parole, la solita abilità nel piegare il tono alle emozioni che vuole comunicare. Si sente soltanto l'amarezza, vicina a diventare collera.

Kei prende un respiro e solleva lo sguardo. Il riflesso degli occhi di Kuroo che incontra nello specchio è sfocato, ma non abbastanza. «Grazie. Sono lusingato. Grazie anche per prima. Però adesso fammi il favore di andartene.»

«No» risponde Kuroo. «Non finché non mi spieghi che cazzo succede.»

Kei solleva la testa, distende la schiena, scioglie le spalle. Dal ritiro sono passati tre mesi e ora è più alto di Kuroo. Solo di qualche millimetro, ma l'imparzialità dello specchio lo rivela chiaramente. Ha l'istinto di indossare subito gli occhiali, ma gli viene il dubbio se una visione debole costituisca davvero uno svantaggio. Decide di no, non in questo caso.

«Non lo so. Che succede?»

«Almeno guardami in faccia, mentre spari stronzate. Mi stai ignorando da quando sono venuto a Osaki e non sono riuscito a capire che fottutissimo problema hai.»

Kei si volta e lo fissa, anzi, lo trapassa con il suo migliore sguardo insofferente, senza in realtà vederlo davvero. «Senti, ho giocato cinque set e mi sono anche infortunato: sono molto stanco. Possiamo rimandare questa conversazione? Vorrei lavarmi e cambiarmi, mi stanno aspettando.»

Lo sguardo ferito di Kuroo, Kei lo intuisce soltanto. 

«Vuoi rimandare la conversazione? Benissimo. Quando? A cena?»

Kei scrolla le spalle, scocciato. «Vado a cena con la squadra, ovviamente

«Ovviamente. Prima di cena: ti accompagno a fare la lastra.»

«Mi accompagna mio fratello.»

«Okay. Allora quando? Stanotte? Domattina?»

«Ascoltati, quando parli. Sembri uno stalker. Forse dovrei denunciarti» ribatte Kei. Le sillabe sono così acide che gli corrodono il palato.

La collera incisa nella mascella indurita di Kuroo, nel pugno chiuso, nelle labbra tese, a Kei sfugge quasi del tutto. Senza occhiali, coglie con molto ritardo anche il movimento delle mani che tentano di afferrargli le braccia. Prova a scostarsi bruscamente, ma sbatte le dita bendate contro il lavabo. Una nuova scarica di dolore gli strappa un gemito.

«Cazzo! Cazzo, Tsukki, come stai? Ti sei fatto male?» adesso, Kuroo è soltanto preoccupato. «Maledizione, scusami.» Tenta di avvicinarsi, per controllare la mano, ma Kei glielo impedisce.

«Cosa vuoi, Kuroo?» La voce di Kei è ancora spezzata. «Cosa diavolo vuoi da me?»

«Che mi parli» risponde Kuroo, di getto. E' solo la prima delle cose che vuole. Perché la verità è che ne vuole parecchie. La natura di Kuroo Tetsurou è ingorda e avida e lui non abituato a frenarla.

«Okay. Ecco: ti sto parlando. Contento? Ora però vattene.»

Gli occhi ambrati di Kei, che brillano di sfida e fiammeggiano insolenti in quel corpo nevrile, fragile e stremato, sono una sollecitazione troppo potente per Kuroo. 

«No.»

«Che altro c'è? Che altro vuoi?»

«Io voglio tutto» proclama Tetsurou con forza. E intende tutto. Tutto quello che ha davanti, dietro e di lato. Il passato, il futuro, l'attimo fuggente di adesso. Un'orgia di sensi e sentimenti, una bufera, un ciclone, nel cui occhio immobile c'è il centro di gravità del mondo, ridisegnato sul corpo magro di Tsukishima Kei. «Voglio tutto, Kei» ripete, a voce più bassa e più dura, afferrando la spalla di Kei, con una presa d'acciaio.

E' troppo. Essere toccato è troppo. Non vedere con chiarezza può allontanare molti demoni, ma la voce, il tocco, la pressione, il calore sono un'altra cosa. Quelli, Kei li sente. Fino in fondo. Fino alle ombre più scure. Fino a dove le catene tirano e stringono.

L'estremo controllo è un'arma a doppio taglio: rende freddi, calcolatori, attenti, pronti a reagire. Ma sopprimere le valvole di sfogo richiede di gestire una pressione interna enorme. E' qualcosa che si sente nello stomaco, si accumula, si addensa, spinge contro le viscere. Kei conosce bene la sensazione. E sa per esperienza che esiste comunque un limite. Una volta sola nella sua vita l'ha superato e adesso sente di essere di nuovo sospeso su quella soglia.

La mano di Kuroo che stringe la sua spalla tenta di esercitare una trazione, per avvicinarlo.

«Kei...»

Kei oppone resistenza e solleva gli occhi. Anche da così vicino, i contorni del viso di Kuroo non sono nitidi. Gli arriva però il suo odore: piena estate, aria aperta, colonia fuori moda. E gli risuona nel cervello, a intermittenza, il suono del respiro di lui. L'eco del proprio nome pronunciato con desiderio che si infrange come un ariete sulle muraglie di insofferenza e di esasperazione.

Kei.

Basta quella parola di una sola sillaba, l'errore di guardare le labbra che la pronunciano e Kei è già un passo oltre il limite. Sente la pressione che sta per esplodere, in circolo col sangue, nel battito furioso alle tempie.

Tsukishima Kei non potrebbe mai prevalere per forza fisica su Kuroo Tetsurou, ma ha dalla sua l'imprevedibilità del gesto, la pressione interna fuori scala, la forza nervosa. Lo spinge con il peso del proprio corpo contro la porta basculante di uno dei vani, che si apre di schianto, catapultandoli all'interno.

L'ha voluto lui. Vuole tutto, no?

Non c'è alcuna premeditazione, alcuna razionalità. E' un gesto del tutto impulsivo, la naturale conseguenza dell'evento distruttivo del superamento del limite.

Quando il tramezzo blocca la schiena di Kuroo, Kei gli afferra il viso con entrambe le mani e lo bacia. Gli schiude la labbra, gli invade la bocca senza permesso, senza riguardo e senza tenerezza. Un bacio di lussuria, profondo, crudele e aggressivo.

Dura un'eternità: come tutti i gesti estremi ha il potere di dilatare il tempo. E lascia entrambi senza fiato.

«Era questo che volevi?» sussurra la voce tagliente di Kei, direttamente nell'orecchio di Kuroo. «Sai una cosa? Tu credi di conoscermi, di sapere tutto, di capire tutto. E invece non sai un cazzo. Ora vatti a scopare qualche femmina e lasciami in pace. Ho una vittoria da festeggiare.»

Kuroo è allibito. Sconvolto. Si asciuga le labbra, si strofina la fronte. Si ferma a osservare la propria mano che trema e poi alza gli occhi su Kei.

Se Kei avesse addosso le lenti, se lo vedesse distintamente, quello sguardo gli farebbe paura: è un misto di fame atavica, brama di possesso, concupiscenza. Ma non lo vede, e crede che sia finita lì. Crede di aver vinto la battaglia. Di averlo nauseato. Di essersi fatto odiare. E di aver imparato la lezione, dura ma giusta.

E' finita. Passata. Addio Kuroo.

Proprio mentre le spalle di Kei si rilassano e lui inizia a ritrarsi, Kuroo scatta, gli serra i polsi fra le dita e li costringe dietro la schiena, stretti, incrociati, bloccandolo petto contro petto.

«Neanche tu sai un cazzo di niente, Tsukki» mormora sulle labbra di Kei, che tenta inutilmente di divincolarsi. Sta per rispondere qualcosa, ma Tetsurou gli chiude la bocca con la propria e restituisce il bacio. La lussuria è la stessa, l'aggressività anche maggiore, ma cambia del tutto l'intenzione.

Se Kei non fosse così giovane, forse capirebbe molto, da quel bacio. Invece lo subisce, si lascia stordire e infiammare, ma non lo comprende.

Neanche Tetsurou lo comprende a pieno. E' in balia di se stesso, alla deriva. La sua mente è vuota, la ragione e la lucidità spazzate via dall'odore e dal sapore di Kei.

Sottobosco. Miele di Castagno. Sesso. 

Non molla la presa sui polsi, lo spinge e lo schiaccia contro il tramezzo, che scricchiola, minacciando di crollare.

E lo bacia. Lo bacia ancora, lo assaggia, lo esplora, gli ruba dalla gola i respiri per respirarli lui, fino in fondo al cuore. Continua e continua, vorace e spietato, finché non sente cedere il corpo di Kei fra le sue braccia, e allora se lo stringe addosso, per tenerlo in piedi.

Anche Tetsurou è troppo giovane per affrontare questa ordalia dei sensi, per darle una definizione e un significato, per riuscire a trattenersi. Si stacca dalla bocca di Kei solo per lasciarlo respirare, gli libera i polsi, ma vuole di più. Vuole cose a cui non sa dare un nome. Vuole tutto.

Kei è sopraffatto. La sua ragione si dibatte da qualche parte, inascoltata e inutile. Sta solo sentendo, con tutto se stesso. Un abbandono totale per il quale, fra poco, si odierà e si darà delle colpe.

E' il contatto con i denti di Kuroo sul collo, un brivido di piacere e di dolore, che lo riscuote all'improvviso. Apre gli occhi, sbatte le palpebre. Lo squallore della scena lo colpisce allo stomaco: le scritte oscene sulla porta, la vernice scrostata della parete, l'odore soffocante, la sensazione viscida di un residuo di gel nei capelli in cui sta affondando le dita, l'erezione inopportuna che si sente premere sul ventre, e la propria, anche più imbarazzante.

Il cuore fuori controllo, il corpo fuori controllo, tutto il mondo fuori controllo.

Trova le forze per spingersi via di dosso Kuroo, che reagisce aprendo gli occhi a sua volta, completamente disorientato.

«Stammi lontano» gli ordina Kei, mentre indietreggia fino alla porta, con le braccia tese, per difendersi.

Quel gesto spontaneo spacca il cuore di Tetsurou, mostrandogli la realtà in tutta la sua crudezza: ha appena assalito un kohai del primo anno in un bagno pubblico, come un maniaco. E' la cosa più stupida, più vile, più assurda e più orribile che abbia fatto in quasi diciott'anni di vita. Negli occhi di Kei sono scritti tutto il terrore e il disgusto che si merita.

Schiacciato dal senso di colpa, Tetsurou sferra un calcio a piena potenza contro il tramezzo, che vibra senza pietà e si spacca in due punti. Sul suo viso si dipingono in sequenza confusione, vergogna, rimorso, paura. Vorrebbe dire qualcosa, ma ha la mente troppo in subbuglio per mettere insieme una frase di senso compiuto.

Però una cosa la afferra con spaventosa chiarezza: è innamorato perso, fottuto fino al cervello.

Mentre si odia, si compiange e si condanna, non può smettere di pensare alla sensazione della bocca di Kei sulla propria, ai contorni del suo corpo sotto le dita. Vuole ancora tutto. «Aspetta...» balbetta, senza speranza e senza convinzione. «Per favore.»

Kei non risponde e spalanca la porta con impeto, guadagnandosi l'ennesima fitta di dolore. Se non altro, è un buon pretesto per smettere di trattenere le lacrime. Esce dal vano, afferra gli occhiali sul bordo del lavabo e fugge via. Da se stesso.

 

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Capitolo 15
*** Stupidi e bugiardi ***


15 - Stupidi e bugiardi


25 settembre 2006 

«No, non c'è» sta dicendo Akiteru al telefono.

Kei, mentre legge disteso sul tappeto in camera sua, sente distintamente la voce del fratello dal piano di sotto. Mamma e Aki non si sono mai accorti che il posto in cui si trova la basetta di ricarica del telefono, una specie di nicchia fra le scale e la cucina, ha uno strano effetto acustico: se parli da lì, si sente in tutta la casa.

Papà lo sa, invece. Evita sempre di fermarsi lì quando è al telefono, o quando parla con mamma. Non può essere per caso: papà non fa mai niente per caso.

«Sul serio? Ma gli avevi detto...»

A Kei piace cercare di indovinare chi c'è dall'altra parte e cosa dice. Si immagina che sia qualche compagno di scuola, magari qualcuno della nuova squadra di pallavolo. Vorrebbe sapere di più di quello che fa Aki quando non è a casa. Prima gli raccontava tutto e giocava con lui molto spesso.

Adesso non ha tempo. Passa a scuola tutto il giorno e la sera deve studiare. Ma Kei è sicuro che, alle superiori, succedano cose fantastiche da grandi e Aki non abbia voglia di condividerle con un bambino. Un po' lo capisce, ma gli dispiace lo stesso.

Kei adora il fratello. Spesso si trova a pensare che vorrebbe essere un po' più Aki e un po' meno Kei. Aki fa subito amicizia, è bravissimo nello sport, piace a tutti, sempre, senza doversi sforzare di tenere la bocca chiusa o di sorridere. E' come se sapesse sempre cosa dire agli altri per piacergli. Certo per le cose di scuola è meglio essere Kei, che Aki.

«No! Non glielo voglio dire io!» protesta Aki nel microfono.

Fa ridere, come parla. La voce ultimamente gli è diventata gracchiante. Perfetta per la scuola superiore dove si è iscritto: Karasuno, i corvi.

«Non è giusto! No! Non lo faccio e basta! Lo fai tu!» Sta urlando, ma con la voce soffocata, come se non volesse farsi sentire. Il che è inutile, perché da dove si trova si sentirebbe anche se stesse bisbigliando.

«Kei! Scendi!» urla, a piena potenza dei polmoni. «C'è papà al telefono che ti vuole parlare.»

Regola numero uno: non bisogna mai fare aspettare papà, visto che è molto occupato. Kei si precipita giù per le scale e strappa al fratello il telefono.

«Ciao papà.»

«Ciao, Kei. Come va, piccolo?»

«Non sono piccolo!» protesta. «Sono alto centocinquantadue centimetri. E mezzo. E sto per compiere dieci anni.»

«Quanti mesi? Quanti giorni? Quante ore?»

E' il loro gioco. A Kei piace fare calcoli a mente e a papà piace che lui li faccia.

«Centoventi mesi. Tremilaseicentocinquanta giorni. E...Ottantasettemilaseicento ore! Col dieci è facile!»

«Troppo facile! Non hai pensato abbastanza e sei caduto in pieno nel mio tranello, Keicchin.»

Kei riflette, ricalcola le moltiplicazioni, che sono facilissime, e non trova nessun errore. Purtroppo, è impossibile che si sbagli papà.

«Pensaci bene. Vuoi un aiutino?»

«No, aspetta... faccio da solo»

Kei riflette febbrilmente, ma non ci arriva.

«Ti stai agitando, Kei. Le emozioni non aiutano mai. Pensaci con calma.»

Kei prende un respiro, cerca di svuotare la mente e concentrarsi. Ma è difficile, con papà che aspetta dall'altra parte del telefono.

«Quanti giorni ha febbraio, Keicchin?»

«Ventott...» Kei allarga gli occhi. La risposta è una folgorazione attorno alla quale il suo cervello lavora alla velocità della luce. «Sempre centoventi mesi, ma Tremilaseicentocinquantadue giorni. E...Ottantasettemilaseicentoquarantotto ore! »

«Bravissimo!» Papà ride. A Kei piace sentirlo ridere, perché non succede tanto spesso. «E un ragazzo così alto e così intelligente non mangia le zucchine?»

Mamma deve aver fatto la spia. Kei ha capito di recente una cosa, del mondo dei grandi, che quando i discorsi si fanno spinosi, bisogna cambiare subito argomento. «Senti, papà, quando arrivi domani? Mattina o sera? Ce la fai a venire a vedere la mia partita? E' alle cinque.»

Kei è molto fiero di giocare a pallavolo. Un po' perché è lo sport che fa anche Aki, un po' perché gli piace molto essere alto e fare qualcosa che solo la gente alta può fare bene, tipo saltare a muro e schiacciare. Yama è un tappo e non riflette mai abbastanza prima di fare le cose, ma forse prima o poi crescerà, perché ha dei piedoni enormi. 

Domani, in partita, giocheranno entrambi come titolari.

«Non posso venire domani, Keicchin. Mi dispiace.»

Kei fa un respiro, per ingoiare la delusione. «Allora ci vediamo direttamente a Sendai dopodomani?» Nella sua voce bianca brilla ancora una fiammella di speranza.

«Non ce la faccio proprio. Mi dispiace tanto, davvero piccolo. Tornerò fra una decina di giorni, magari ci andiamo allora, a Sendai.»

«Ma papà... »

«Niente ma, Kei. Ho un buon motivo. Non credi? Non credi che dispiaccia anche a me?» La voce di papà è diventata fredda e dura. Sembra una superficie di ghiaccio su cui scivolare è facilissimo.

«Ci credo. Ma... » la vocina di Kei ora suona lamentosa.

«Ancora un ma? Vuoi farmi sentire in colpa? E' poco nobile, da parte tua, Keicchin.»

«No! Ma...»

Si sente il suono di un lungo sospiro rassegnato. «Coraggio, dai. Sentiamo questo ma... »

«Ma lo avevi promesso! E' il mio compleanno!»

«Non posso rispettare la promessa, perché sono cambiate le condizioni al contorno, Kei. Lo sai, vero, cosa significa?»

«Che non te ne importa del mio compleanno.»

«Non essere illogico come tua madre e tuo fratello. Significa che il calcolo che avevo fatto quando ho promesso non vale più, perché le premesse sono cambiate. Quindi il risultato è cambiato.»

E' una faccenda strana, ma quando le cose lo colpiscono, Kei prova una bizzarra sensazione, come di distacco. Più duro è il colpo, più lui si ritrova lontano, a rifletterci sopra senza farsi davvero toccare, o almeno senza darlo a vedere. E quindi, anche se sente dolore o paura, invece di disperarsi (come Yama), o di estraniarsi(come mamma), o di spaccarsi le mani prendendo a pugni le porte (come Aki) gli sembra di riuscire a pensare più velocemente. Di essere più lucido.

«Se ragioni così, otosan, nessuna promessa vale mai. Perché le cose possono sempre cambiare. E' questo il senso delle promesse, che quando le fai tieni conto anche degli imprevisti.» Anche la voce infantile di Kei ora è fredda. Non si rende conto di quanto il tono somigli a quello del padre.

«E' un buon ragionamento Kei, te lo concedo. Ma alcune cose hanno un peso maggiore di altre.»

«Che vuoi dire?»

«Che se devo tenere conto degli imprevisti, devo mettere nel mio calcolo una variabile che li rappresenta e dargli un valore ipotetico. Mi segui?»

«Sì. Visto che sono imprevisti, non li prevedo e devo indovinarli.»

«Esatto. E più il valore che gli do nel mio modello è piccolo... »

«Meno imprevisti sto considerando» borbotta Kei fra i denti, assestando piccoli calci ritmici al tavolino che ha di fronte.

«Bravo. Oppure ne considero molti, ma di piccola entità. Che pesano poco sul risultato.»

«Mn» Kei sta seguendo. Però quello che davvero pensa è che tutti i suoi piani per il compleanno sono distrutti. Niente museo di storia naturale di Sendai. Niente negozio di modellini. Niente parco della scienza, che mercoledì prossimo chiude e chissà se torna l'anno prossimo.

«Io ho avuto un solo imprevisto, che però pesa tantissimo. Se dovessi metterlo tutte le volte nel calcolo, non riuscirei mai a fare una promessa. Mi capisci?»

«Capisco benissimo. Quello che stai dicendo, in pratica, è che il mio compleanno vale meno del tuo imprevisto» conclude Kei. 

Dall'altra parte, si sente un lungo silenzio. Che vale come assenso. Kei dà al tavolino un calcio più forte e lo rovescia, insieme a una statuetta di legno a forma di elefante, a una candela profumata e a una pianta grassa. La terra si spande sul pavimento e sui calzini bianchi di Kei.

«Il tuo regalo lo ha la mamma.»

«Il mio regalo era andare a Sendai dopodomani. Con te.»

«Mi dispiace molto, Kei. Però ho un'altissima stima di te e penso che tu sia abbastanza maturo da capire.»

«Ho solo nove anni. E forse sono troppo stupido, perché invece non capisco. Ho capito solo che le tue promesse non valgono...» Kei esita, «... un cazzo.»  Papà odia le parolacce. Neanche a Kei piacciono, ma ha già imparato che come arma funzionano benissimo.

«Linguaggio, Kei.» Non si arrabbia mai. Diventa solo più freddo.

Anche Kei sta imparando. «Che c'è? L'ho pronunciato benissimo: cazzo.»

«Detesto quando ti comporti da stupido. Non voglio parlare con gli stupidi.»

«Io non voglio parlare con i bugiardi. Quindi forse è meglio se non parliamo.»

«Parliamone, invece, ma quando ti sarai calmato.»

«Sono calmissimo. Ma tu resti bugiardo.»

«Smettila, Kei.»

«Altrimenti che mi fai? Vieni a mettermi in punizione? Ah, già, non vieni. Che peccato.»

«Kei, smettila subito.»

«La smetto. Vado a giocare. Ciao.»

Kei chiude il telefono prima di sentire la risposta. Si asciuga una lacrima traditrice. Non lo capisce bene, ma è di rabbia, più che di tristezza.

«Mi dispiace tanto, piccolo» dice Akiteru, alle sue spalle, allargando le braccia.

Kei guarda quel gesto come se non lo capisse, finché le braccia del fratello non si abbassano, lentamente.

«Perché ti dispiace? E' il mio compleanno, non il tuo.»

«Ti ci porto io, a Sendai. Prendiamo il treno. Magari chiediamo a Yama se vuole venire con noi, che ne dici?» propone Aki, scompigliandogli i capelli.

Kei sospira. «Portare Yama al museo di storia naturale è come portare mamma a vedere un film di fantascienza. O te a lezione di ballo.»

Akiteru ride di gusto. «Sei uno spasso, Keicchin.»

«Papà mi ha appena dato dello stupido.»

«Con me non lo fa mai, lo sai perché?»

«Perché tu piaci a tutti più di me. Anche a nostro padre.»

«Perché pensa che io lo sia veramente.»

In un'intuizione superiore alla sua età, Kei capisce che quel che dice suo fratello è vero. Aki non è stupido, per niente. Ma non è intelligente nel modo in cui papà intende la parola.

«Credo che non gli interessi niente di noi, Aki.»

«Credo che faccia un lavoro molto importante.»

Akiteru odia difendere il loro padre, ma più ancora odia che Kei si senta poco amato, o si dia delle colpe. E detesta vederlo triste. Kei è la bella copia di papà e Akiteru è determinato a fare in modo che le somiglianze si fermino all'aspetto e al quoziente di intelligenza. Per tutto il resto, Kei è diverso: è sensibile, è onesto, sa essere affettuoso, anche se non sarà mai estroverso.

«Sai, Aki? Non me ne frega niente se lui viene o non viene» mente Kei, spavaldo.

«Per questo il cactus di mamma è in agonia sul pavimento?»

«Si è suicidato» risponde Kei. «Se sei cactus non ti resta neanche l'onore del seppuku, puoi solo buttarti di sotto» risponde, mentre torna dallo sgabuzzino con la scopa in mano.

Akiteru dubita che Kei si renda conto di quanto è divertente sentirgli dire certe cose con quel tono serio e l'espressione indisponente dietro gli occhiali colorati. Però è anche un po' inquietante quanto riesca a essere cinico alla sua età.

«Hai bisogno di aiuto?»

«Posso fare da solo.»

Sembra ieri che non riusciva a scollarselo di dosso e l'altro ieri che lo portava in braccio e gli cambiava il pannolino. Quello che ci vuole, più tardi, è un'intensa sessione di solletico, prima che decida di essere diventato troppo grande.

***

Kei non si è assicurato che anche dall'altra parte avessero chiuso la comunicazione. Seduto alla scrivania del suo ufficio, Tsukishima Leon ascolta la conversazione fra i suoi figli, che arriva lontana, come fossero su un altro pianeta. E forse è così.

Si toglie gli occhiali e si soffia il naso.

Qualcuno entra e gli chiede come è andata, se il figlio l'ha presa molto male.

Naturalmente l'ha presa molto male, ma invece Leon risponde che è andata bene, che Kei è molto maturo per la sua età. 

Mentre chiama l'ascensore per raggiungere la sala riunioni per le emergenze meteo, al primo piano, Tsukishima Leon si chiede come è potuto succedergli di essere diventato identico al proprio padre, quando aveva giurato a se stesso che non lo avrebbe mai permesso.

«Leon, se fossi davanti a uno scambio ferroviario e da una parte ci fossimo io e la tua mamma e dall'altra tutto il resto della città, chi salveresti?»

«Mamma e papà!»

«Pensaci bene, Leon. Te lo chiedo in un altro modo. Manderesti il treno a uccidere due persone soltanto o molte migliaia?»

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Capitolo 16
*** Nausea ***


16 - Nausea


1 novembre 2012

La festa di compleanno di Yama è un tributo annuale che Kei paga alla loro amicizia.

Quest'anno, Yama l'ha organizzata al club, dopo l'allenamento. Oltre alla squadra al gran completo, comprese le manager, ci sono tre o quattro dei loro compagni di classe, un tizio molto in gamba del basket che ha un debole inspiegabile per Hinata, due primine che seguono Kageyama ovunque vada e le pallavoliste del Karasuno femminile, invitate da Sawamura, che ha una cotta per il capitano e l'unico a non saperlo è lui stesso.

Nel complesso, Kei preferirebbe un anno di monacato in Tibet a dieci minuti di danze sfrenate in palestra con quella gente. Il bene che vuole a Yama si può misurare dal fatto che sia disposto a starsene lì buono per un paio d'ore senza le cuffie in testa. Che si metta a ballare, possono sognarselo.

Al momento, Kei sta osservando il tizio del basket che ascolta rapito i deliri di Hinata a base di onomatopee. E' chiaro che non ci stia capendo un tubo, ma finge il contrario. Kageyama li sta guardando malissimo, ma anche lui finge. Finge che non gliene importi niente e finge di interessarsi alle moine delle sue ammiratrici.

E' interessante che, a prescindere dall'età, dal genere, dal censo, dal contesto, la simulazione sia saldamente alla base delle interazioni sociali, specie di quelle di matrice sentimentale. L'ennesimo eccellente motivo per evitarle.

Kei si accorge che Yama lo ha raggiunto solo quando se lo trova davanti, sorridente, con in mano un vassoio colmo di cibo. «Non c'è niente che ti vada?» chiede Yama, guardando il piatto di plastica colorata di Kei, mezzo vuoto. «Una volta gli onigiri di mia mamma li adoravi.»

E' la verità: la Signora Yamaguchi è un portento in cucina. Ma stasera Kei non è dell'umore giusto per onorare un banchetto.

«Sei il festeggiato, Yama, non hai niente di meglio da fare che spiare il mio piatto?»

«Sono anche il tuo migliore amico e sono preoccupato: ultimamente stai mangiando ancora meno del solito, che già è poco.»

«Piantala. Non è vero. Non si preoccupa mia madre, devi andare in ansia tu? Sto benissimo.»

«Se stai benissimo non lo so, ma che non mangi è vero. E guarda che non me ne sono accorto solo io. Anche Suga-senpai lo ha notato, lo ha detto a Daichi-san che poi è venuto a chiedermelo.»

«E tu che gli hai detto?»

Yama non ha paura di fissare Kei negli occhi. Li conosce come fossero i propri. «Secondo te che gli ho detto?»

«Ti assicuro che anche col tutore sono in grado di darti un pugno in faccia.»

La risatina tipica di Yama, un po' divertita e un po' seccata, è un suono tutto sommato rassicurante. «Gli ho detto che si sbagliavano. Che non avevo notato niente.»

«Ottima risposta. Quindi, qual è il problema?»

«Va bene, Tsukki, ho capito, lasciamo perdere. Ma se continui così, finisci male. Almeno facci caso, sarebbe proprio da te ridurti da ricovero e non essertene nemmeno reso conto.»

«Che idiozia!» si ribella Kei, ma intanto gli torna in mente l'attimo di dubbio che ha avuto quella stessa mattina, quando non ricordava più se il buco solito della cintura fosse l'ultimo o il penultimo.

«Se lo dici tu... » risponde Yama, stringendosi nelle spalle. «Però ricordati che il mondo sulle spalle non lo devi portare da solo.»

«Fanculo Yama. Smetti di sparare a caso frasi prese dai giornaletti di tua sorella e torna lì in mezzo a quegli scemi a ballare e a divertirti. Perdere tempo con me lo fai tutti i giorni, sedici anni li compi solo oggi: vai a festeggiarli!»

«Non dico di ballare, ma almeno di divertirti un po' e di mangiare qualcosa potresti sforzarti anche tu...»

Kei si sente vagamente in colpa. «Senti: la festa è bella. Dico sul serio. Sono io che non sono proprio dell'umore giusto. Per questo, per favore, lasciami perdere. Non pensare a me e spassatela!»

Yama sospira e fa per andarsene, poi si volta e inclina la testa, segno premonitore di una qualche domanda particolarmente indiscreta. «Ehi, Tsukki. Kuroo Tetsurou non c'entra niente con questa storia, vero?»

Yama è capace di coglierlo di sorpresa. Non succede spesso, ma è uno dei motivi per cui Kei, anche da bambino, lo ha sempre trovato interessante. Sembra docile, pacato, qualche volta anche poco furbo e invece poi se ne esce con queste domande a effetto, imprevedibili e precise come proiettili, che rovesciano all'improvviso i loro rapporti di forza.

«Che cazzo dici? Come ti viene in mente?» risponde Kei, sforzandosi di suonare naturale.

«Guarda che lo so che porti la sua felpa, dentro casa.»

«Cosa?» Kei si guarda intorno. «Abbassa la voce, comunque.»

«Ti ho visto già al ritiro, che la portavi quando sei rientrato la prima sera. Pensavo che l'avresti restituita il giorno dopo, poi invece l'ho vista nel tuo borsone. Chi pensi che l'abbia spinta sul fondo? Noya-san l'aveva già adocchiata...»

«Sono circondato da impiccioni molesti.»

«Non c'è di che.»

Kei alza il dito medio. Yama sfoggia un sorrisetto compiaciuto, sa benissimo di aver fatto punto. Ace.

«Comunque, Tsukki, stai evitando di rispondermi. Un tizio molto intelligente una volta mi ha detto che le omissioni sono ammissioni.»

Quella di ritorcergli contro le sue stesse battute è un'altra inveterata abitudine. La velocità mentale di Yama non è eccelsa, ma la sua memoria è sempre stata prodigiosa.

«E' solo una felpa» risponde Kei, con insofferenza. Mentre lo dice, sente sul palato il sapore della bocca di Kuroo.

«Certo. Come no.»

«Stai per caso dicendo che le due magliette tue che sono nel mio armadio significano che andiamo a letto insieme?»

«Tutto il contrario. Significano che non ti piace prestarmi le tue cose, anche se siamo amici da quando eravamo alti così.» Yama fa segno all'altezza delle cosce.

«Tu a dire il vero eri alto così» Kei segna una distanza di pochi centimetri fra pollice e indice.

Yama arriccia le labbra. «Stai di nuovo cambiando discorso.»

«Non mi tormentare, Yama. E' una faccenda complicata.»

«Questo l'ho capito da solo. Kuroo che compare prima a Osaki e poi a Sendai all'improvviso? Haiku dell'epoca Edo sulla chat del Karasuno? E Yamamoto che ci informa sulla situazione sentimentale del suo capitano... puzza di corteggiamento lontano un miglio.»

Il discorso è serio, ma Yama si sta anche un po' divertendo. In effetti unire i puntini non era difficile. Il resto della squadra non ci è arrivato solo perché tutti insieme non fanno un QI a tre cifre.

«Il corteggiamento te lo do io sui denti, se non la pianti.»

«State insieme?»

«No!»

«E il problema è questo?»

Oltre alla memoria da elefante, Yama ha anche il dono della sintesi.

Kei si sente improvvisamente molto stanco. «Il problema è che non ci può essere niente di niente fra noi. E io me lo devo dimenticare: lui, i suoi haiku e le sue cazzate. Solo che ci sto riuscendo meno bene del previsto.»

«Perché non ci può essere niente? Tu quindi vorresti che ci fosse? Sei innamorato? Magari se mi racconti che succede...»

Innamorato. Forse Yama ha davvero bisogno di un pugno in faccia. «Quale parte di dimenticare non è chiara?»

Yama sospira di resa. «Va bene, Tsukki. Scusami. Non voglio tormentarti. Ma non voglio nemmeno che ti ci ammali. Tieniti d'occhio, okay?»

«Ti sembro il tipo che si ammala per una cosa del genere?»

«Sinceramente? Secondo me sì.»

Kei allarga gli occhi, ma Yama risponde stringendosi nelle spalle e infilandosi in bocca un onigiri.

Ecco cosa succede a essere davvero in confidenza con qualcuno: che ti conosce troppo bene. Figuriamoci un tipo di relazione ancora più intima.

Kuroo il suo sapore può tenerselo. Anche il suo profumo. I suoi addominali, i suoi bicipiti, gli occhi felini, i capelli da demente e tutto il resto. Ce ne sono un milione di ragazzi belli in giro. Anche più belli di lui. E meno impegnativi, meno intelligenti, meno ingombranti, meno testardi, meno esigenti. Più superficiali, più ordinari, più rispettosi quantomeno delle leggi della fisica. E magari più omosessuali, che ci vuole pochissimo.

Kei getta un'occhiata al piatto che ha in mano e solo la vista del gambero triste e solitario che nuota nella salsa gli produce un'ondata violenta di nausea. Altro che mangiare; tenersi dentro quello che ha mandato giù tre ore fa è un obiettivo già abbastanza sfidante.

 

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Capitolo 17
*** Al telefono ***


17 - Al telefono


4 novembre 2012


«Pronto?»

«Tsukishima-kun! Sei tu?»

«Akaashi-senpai?»

«Tsukishima-kun! Ascolta! Ti devo assolutamente chiedere una cosa importantissima. Fondamentale. E se non lo faccio stasera...»

Il finale della frase è incomprensibile, come se non stesse parlando nel microfono.

«Akaashi-san? Cos'hai detto? Sei ancora lì?»

«Sì, sì, ci sono, ci sono. Dicevo, Tsukki... ti piacciono le ragazze?»

«Eh?»

«No, no, no, aspetta. Scusa, scusa. Non è mica questa la cosa che ti devo chiedere. Mi sono confuso di brutto. E' che ho un bruttissimo mal di testa, proprio qui...»

La voce è lenta, strascicata, le sillabe un po' impastate una con l'altra, come se la strada dal pensiero alla parola fosse molto lunga.

«Sei ubriaco, Akaashi-san?»

«MMnnnooo... solo un pochino. Ma non tanto, eh. Sono molto, molto, molto meno ubriaco di loro.»

«Meno male. Si può sapere chi sono loro?» 

In realtà, non è difficile da immaginare.

«Bokuto-san e Kuroo-san. Ahhh, però....sono ubriachi, loro. Parecchio.»

Un singhiozzo passa nel microfono. Kei dovrebbe chiudere questa conversazione, ma non ci riesce. Perché se Akaashi è quello messo meglio, chissà come sono conciati gli altri due. L'immagine degli occhi di Kuroo dietro la visiera del casco integrale si disegna nella mente di Kei con dolorosa precisione.

«Ascoltami, Akaashi-senpai. E' importante: Kuroo-san non deve guidare. Anche se ha preso la moto. Non farlo guidare. Per nessun motivo. Dove siete?»

E' una domanda del tutto inutile: ovunque siano, a Tokyo, non c'è nulla che Kei possa fare. Se lo ripete, e intanto riflette: in caso di emergenza, potrebbe sempre chiedere aiuto ad Akiteru.

«Perché dovrebbe prendere la moto per venire proprio a casa sua?» Akaashi ride. «Ma che domande fai, Tsukki? E' sera, no?»

«E quindi?»

«Kuroo-san non esce, di sera.»

Al sollievo subentra la curiosità. «In che senso non esce?»

«In che senso in che senso? Che deve fare le notti.»

«Quali notti?»

«Ma che, sei ubriaco pure tu, Tsukki? Sua nonna è malata. Kuroo-san resta a casa sempre, di sera, per aiutare il nonno.»

Affettuoso. Generoso. Devoto. E' troppo.

Kei è tentato di riattaccare e ubriacarsi anche lui. Il suo ultimo baluardo è una solida armatura di sarcasmo. «Sta a casa a fare le notti e poi si ubriaca? Molto responsabile.»

«Ma quanto sei stronzo, Tsukki. Tu non sai niente, dovresti tenere chiusa quella boccaccia. Sono stronzo pure io che ti racconto queste cose.»

Sono le prime parole scurrili che Kei abbia mai sentito uscire dalla bocca di Akaashi.

«Siamo un po' stronzi tutti e due, Akaashi-senpai, hai ragione. Raccontami come mai questo festino alcolico.»

Un altro singhiozzo, evidentemente riflessivo. «Stiamo festeggiando, no? Andiamo tutti ai nazionali! Anche tu ci vieni!»

Kei sospira. Ha passato metà del pomeriggio a costringersi a non cercare su internet i risultati delle partite delle qualifiche interliceali del girone di Tokyo.

Intanto Akaashi continua, spinto dall'entusiasmo «Oggi abbiamo perso, ma ieri la partita contro il Nekoma è stata beeeellissima. Abbiamo vinto due a zero. Capito? Due. A zero. Bokuto-san era...pfff... lui era... ahh... sì. Sai che certe volte, quando Bokuto-san salta sotto rete, io...io mi sento... io mi trovo a pensare che... Ci credi che, a un certo punto, quel diavolo di Kenma ha iniziato a chiudergli tutte le parallele. Tutte! E Anche Kuroo-san faceva dei muri che... e mi hanno messo Bokuto-san sotto pressione,  non si ricordava come si schiacciavano le diagonali e allora io ho dovuto... ba... pa...be...»

«Akaashi-senpai, ma quanto avete bevuto?»

«Mmmmnn chissà... fammici pensare. Dunque: per prima la birra, qualche bottiglia, ma non tante. Poi quel fantastico vino francese di Kuroo-san. Dopo... ah sì, la vodka di Haiba-kun. E alla fine anche sakè. Ma a quel punto Bokuto-san già vomitava e Kuroo non smetteva di piangere.»

«Piangeva? Kuroo-san? Perché hanno perso?»

«Quanto sei scemo, Tsukki. Piangeva perché era ubriaco marcio. E' ancora ubriaco marcio. E io penso che piangeva pure per quello che è successo a Sendai, anche se non ce lo vuole dire. Non lo dice neanche a Kenma.»

Ovviamente, se ne vergogna. E non potrebbe essere altrimenti.

«E come sta il tuo lunghiiiissimo, belliiiissimo dito?»

«Il mio cosa?»

«Dito. Il tuo. Kuro-san ci ripete fino alla nausea che mani belle hai, e che dita lunghe, e che...»

«Che idiota!»

«Sì, certe volte sì. Insomma, come sta il tuo dito?»

«Bene. Grazie. Devo portare il tutore ancora per due settimane.»

Akaashi tira su col naso e poi ridacchia «Stai a vedere che ti è andata meglio di Ushiwaka!»

«In che senso? Che gli è successo?»

«Non lo sai? La sua faccia si è scontrata contro il pugno di Kuroo-san» dice Akaashi, serafico.

«Cos'hai detto? Akaashi-san, ho capito bene? Kuroo ha picchiato Ushijima? Ushijima Wakatoshi, il capitano della Shiratorizawa? Akaashi-san, sei sicuro?»

Nella testa di Kei si compongono tutti gli scenari possibili. Nella maggioranza di questi, Kuroo viene espulso dal torneo, in numerosi altri anche da scuola. E si rovina la media. Si rovina la reputaizone. E addio università. Baka! Baka Tetsurou!

«Sì che sono sicuro, Tsukki. Quanti pensi che ce ne siano di robot come quello? Un solo Ushiwaka. Che pensa di essere molto meglio di Bokuto-san, e invece ha solo due braccione piene di muscoli. E poi, diciamocelo... Sendai? Pfiiiu. Sendai è dove Tokyo si pulisce le scarpe.»

Kei sta ancora pensando febbrilmente: Ushijima non vuole che si sappia in giro, evidentemente. Si sarà inventato qualche scusa e nessuno ci tiene a smentirlo, altrimenti nella chat della squadra avrebbero messo i manifesti, per una cosa del genere. Per fortuna, Kuroo lo ha colpito in faccia, che è il posto migliore per non impedirgli di giocare.

«Non mi rispondi Tsukki-kun? Ti sei offeso per Sendai? Dai, non ti offendere! Altrimenti va a finire che mi prendo un pugno pure io!»

«Che è successo dopo il pugno?»

«Niente. Penso. Dice Kuroo che Ushiwaka aveva gli occhi grandi come due ciotole da riso per lo stupore. E quindi non ha fatto proprio niente, a parte guardarlo male. Mi sa che, tonto com'è, non l'ha neanche capito, perché si è preso un pugno.»

«Neanch'io l'ho capito, se è per questo.»

«Come neanche tu? Ti ha fatto male, no? Ushiwaka ti ha rotto il dito.»

«Lussato.»

«E' uguale. Ushiwaka ti ha rotto il dito e nessuno può toccare Kei.  Ma penso che a Kuroo-san sia un po' sfuggita di mano la situazione. Era anche molto arrabbiato per le altre cose. Quelle che non ci vuole dire.»

«E' arrabbiato con me. Ha le sue ragioni.»

Akaashi schiocca le labbra ripetutamente «Con te? No! Figuriamoci! E' arrabbiato e basta. Se fosse arrabbiato con te non ci avrebbe costretto a guardare sei milioni di volte il video della tua partita. Kenma glielo voleva cancellare, per quanto non ne poteva più... »

Figuriamoci, l'amichevole Kozume, che sarà geloso fradicio.

«Che poi della partita non si capisce nulla, perché ci sei solo tu nel video. Però si vedono molto bene i muri. Sei migliorato tanto! Lo dice anche Bokuto-san. E poi, beh, c'è quello, che è stato grandioso!»

«Il punto su Ushijima?»

«Ah, che bel momento! Soprattutto la faccia che fa Ushiwaka!» Akaashi ride. «Bokuto-san vuole stampare il fotogramma per incorniciarlo e mandarglielo. Ma la parte che ci piace di più non è quella. E' dopo. Dopo, quando hai esultato in quel modo. Era... aspetta, come ha detto Bokuto-san? Ecco, sì liberatorio, ha detto. Lui trova sempre la parola migliore, se non ci pensa troppo. Ha dentro tutte le parole giuste, lui. Sai, era liberatorio veramente, Tsukki. Quella parte la guardiamo sempre.»

Servirebbe una risposta tagliente, ma Kei non ha la forza di cercarla. Tutto quello che vorrebbe, adesso, è ritrovarsi al culmine di quel bacio, con le mani affondate nei capelli assurdi di Kuroo, i pensieri sconvolti, il cuore in fiamme. Un attimo prima che diventi tutto sbagliato.

«Tsukki-kun, lo sai che ci manchi? E' stato bello, al ritiro.»

«Anche per me.»

Rimangono zitti per un po', ognuno aggrappato alla sua versione privata degli stessi ricordi.

«Akaashi-senpai, perché non controlli come stanno Bokuto-san e Kuroo-san? Sono messi molto peggio di te? Magari potresti chiamare qualcuno...»

«Loro sono... molto ubriachi. E moooolto rumorosi: fanno un casino che... però no, aspetta. Ora non li sento più. Forse sono morti.»

Kei prende un respiro. «Non è il caso di andare a vedere?»

«Sì, bravo, bravo Tsukki, buona idea, ora andiamo a vedere come sta Bokuto-san.»

Passi felpati, fruscii, un urto, un'imprecazione trattenuta.

«Shhht, Tsukkii» sibila Akaashi direttamente nel microfono. «Si sono addormentati.»

 «Accendi la telecamera, Akaashi-senpai, fammi vedere.»

Questo è giocare sporco. L'opposto di tagliare i ponti, di dimenticarsi, di lasciar perdere. Ma Kei non ce la fa più: vuole vederlo. Anche solo per tre secondi.

«Sei un guardone, Tsukki-kun?»

Akaashi ride del proprio umorismo (discutibile, ma molto acuto), e intanto armeggia con la telecamera. In primo piano è inquadrato il suo viso, arrossato, con i capelli scombinati, gli occhi lucidi. Ci mette un po' a capire che tasto schiacciare per invertire la direzione dell'obiettivo, ma poi compare una stanza.

Akaashi si muove a scatti e la telecamera fugge fra i dettagli. E' un ambiente grande: una scrivania ingombra in una nicchia, con la parete coperta di fogli attaccati; scaffali lungo tutto il muro, una finestra alta, in un angolo qualcosa che sembra un tavolino basso su una stuoia, un armadio con le ante dipinte, e finalmente un divanetto su cui è riversa una figura umana: la versione inanimata di Bokuto. Giusto di fronte, steso di fianco su un puff rosso, e altrettanto inanimato, Kuroo.

Lo stomaco di Kei si stringe, il battito del cuore accelera. Kuroo è distrutto: pallido, sudato, con i capelli a ciuffi scomposti in tutte le direzioni e il muco che esce dal naso. Sembra che respiri, se non altro. Come ci si possa ridurre così, è incomprensibile per Kei. E' altrettanto incomprensibile come possa provare qualcosa per lui, dopo averlo visto ridotto così.

La videocamera si sposta di nuovo su Bokuto, anche lui messo molto male. La mano di Akaashi entra nell'obiettivo e gli sposta i capelli dalla fronte.

Akaashi sussurra, come se quei due fossero in grado di svegliarsi : «Guarda Bokuto-san. Lo vedi? Sorride mentre dorme. Quanta gente conosci, Tsukki-kun che sorride anche mentre dorme? Capisci? Ha vomitato l'anima fino a cinque minuti fa. Ha consolato Kuroo per tre ore. E però ora sorride. Lo sai perché?»

Adesso Kei si sente un guardone. Di sentimenti, più che di immagini. «Akaash-san, dovresti stare zitto. Domani potresti pentirti di... »

«Lo sai perché?» ripete Akaashi, interrompendolo senza riguardi.

«No, non lo so.»

«Perché tutta quella luce deve uscire, da qualche parte. Sono le reazioni termonucleari, Tsukki. La catena protone-protone e il decadimento beta. Cose che succedono dentro le stelle...»

Kei non sa cosa proprio cosa dire. Lo consola il fatto che domani potranno fingere entrambi che la telefonata non sia mai avvenuta.

Per qualche istante la telecamera si sposta di nuovo su Kuroo, che si è voltato supino. Ha addosso una maglietta tutta macchiata, con la scritta "Shoot for the Moon", Punta alla Luna.  Kei sente un fiotto traditore di tenerezza entrargli in circolo nel sangue.

E' una sensazione di calore dolce e infida, che però dura pochissimo, finché la messa a fuoco automatica si regola su una foto incorniciata, appoggiata a una mensola: Kuroo abbracciato a una ragazza alta e bellissima. Un'occidentale: capelli biondi, occhi verdi. A Kei sfugge una specie di gemito di frustrazione, basso e breve.

La telecamera piomba verso il basso e Akaashi la volta verso di sé. «Che rumore era quello? Fatti vedere anche tu, Tsukki-kun.»

Kei vorrebbe negarsi, ma è un momento strano e si trova proiettato sullo schermo quasi senza accorgersene.

«Sembri dimagrito. E triste. Lo sai, Tsukki-kun? Io sono tanto stanco. Stanchissimo. Prima hai detto che me ne pentirò... »

«Akaashi-senpai, ti assicuro che questa conversazione resterà riservata, quello che volevo dire è che...»

«Lo so cosa volevi dire. Quello che voglio dire io è che me ne pento tutti i giorni. E non chiedermi di cosa.»

Kei tace. Si guardano attraverso lo schermo e si riconoscono, vedono tutt'a un tratto le loro somiglianze. Non lo sanno, ma è il momento esatto dell'inizio di un'amicizia solida e duratura.

«Lo sai cosa mi pesa più di tutto?»

«Cosa?»

«No. Non te lo dico. Non dico cosa mi pesa più di tutto. Ti dico la seconda cosa, che mi pesa tanto e secondo me tu la capisci. E' sbagliare agli esami. Come se fossi un cretino qualunque...»

«Akaashi-senpai, ma tu hai una borsa di studio completa, giusto? Devi andare bene a scuola per mantenerla. Non puoi sbagliare così tanto...»

Akaashi sospira «Non hai capito. Io sbaglio apposta.»

Non ha il minimo senso logico, del resto è ubriaco. Anzi, sta bevendo ancora, dalla bottiglia di vodka, davanti allo schermo. 

«Che vuoi dire, Akaashi-kun? Come ti sei classificato al primo semestre?»

«Quarantesimo.»

«In tutta la scuola? Beh, sì, puoi fare di meglio ma... »

«Nel gruppo Fukurodani.»

«Quindi su quattro scuole? Allora è una posizione ottima! Cioè, non so da voi, ma qui in squadra c'è gente praticamente analfabeta. Come fai a dire che stai sbagliando

«Ancora non hai capito: io potrei arrivare primo. Sarebbe... beh, facile

Non suona come un vanto. Sembra, anzi, una strana specie di rammarico. «Potrei entrare alla Todai, Tsukki-kun. L'università imperiale. Cazzo, me la sogno da quando ero piccolo. Ma invece non ci vado. Non ci vado neanche morto. Può sognarselo, il figlio alla Todai. Può sognarsi tutti i suoi fottutissimi progetti fatti con la pelle degli altri. Anzi, con il culo degli altri. Col mio culo.»

Akaashi ride. E' una risata strana, sguaiata, non si capisce se sia più o meno ubriaca di prima. «Ma io ti volevo sempre chiedere quella cosa, Tsukki-kun. E ora, eh beh, va a finire che me la sono ricordata...»

«Dimmela.»

«Hai un carattere di merda.»

«Non è una domanda.»

Una risatina «No, ma è vero. Solo che quando parlo con te, mi sembra sempre che tu capisca più degli altri. La domanda è questa: non è che anche tuo padre è un cane dell'esercito? Un tiranno. Un rompicazzo. Un rovinavita.»

C'è un lungo silenzio. Kei mette delle crocette immaginarie. Rompicazzo: sì. Rovinavita: senz'altro. Due su quattro, non c'è male.

«Mio padre è morto.» Da quando è successo, sono pochissime le volte che Kei lo ha detto così, chiaramente, semplicemente.

«Beato te.»

La videocamera ora inquadra il pavimento e si sente piangere. Un pianto discreto e sommesso, intervallato dallo sciabordio del liquido nella bottiglia. Dopo qualche minuto, solo silenzio.

«Buonanotte Akaashi-senpai» sussurra Kei, prima di chiudere la chiamata. 

Ma nessuno gli risponde.

 

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Capitolo 18
*** Fantastico ***


18 - Fantastico


17 febbraio 2001


Di fronte alla grande finestra che dà sul cortile innevato, un uomo anziano e un bambino siedono uno di fronte all'altro.

Il vecchio porge una tazza di tè al bimbo, con un gesto gentile, che porta qualche eco della complessa ritualità della cerimonia cha no yu. Aspetta che il nipote abbia bevuto almeno un paio di sorsi, prima di parlare.

«Va tutto meglio di fronte a una tazza di tè, vero Te-chan?»

Tetsurou annuisce senza parlare. Il suo corpo avrebbe bisogno di muoversi, e invece restare inginocchiato di fronte al tavolino basso lo costringe a una relativa immobilità. Per questo, le sue mani irrequiete stropicciano i vestiti, grattano il tatami, si infilano fra i capelli.

«Ho saputo che hai litigato con la nonna.»

«Mi ha sgridato.» Ingiustamente, pensa Tetsurou, ma non ha il coraggio di dirlo.

«Vuoi raccontarmi come mai? Lei mi ha già dato la sua versione, ma vorrei sentire anche la tua.»

Tetsurou scuote la testa risolutamente. Non crede molto nel dialogo, perché mamma non li ascolta mai. Va bene anche che non ascolti lui che è piccolo, ma non sta a sentire neanche Yu-chan, che invece è grande e dice sempre cose giuste.

«La nonna mi ha riferito che hai detto una cosa brutta. E quando ha cercato di farti ragionare tu le hai tirato addosso i tuoi pennarelli. E' la verità?»

Tetsurou sospira. La nonna è scaltra: il riassunto è accurato, ma non tanto completo.

«Lei...»

«Coraggio Te-chan, vai avanti!» lo sprona il nonno, sorbendo un sorso di tè dalla propria tazza.

Tetsurou si imbroncia, incrocia le braccia al petto e scuote la testa risolutamente. Che il nonno stia sorridendo non può vederlo, perché si ostina a fissarsi i calzini.

«Ti dico cosa penso io. Penso che tu abbia frainteso il motivo per cui la nonna ti ha sgridato. La cosa che hai detto è che odi la tua mamma, è così?»

«E' la verità! La odio!» Tetsurou non ne può più di stare seduto composto. Si alza sulle ginocchia, stringe i pugni. I suoi occhi sfidano quelli del nonno, identici, a parte l'inclemenza del tempo.

«L'odio è un sentimento molto velenoso Te-chan. Tua nonna non vuole che tu ti avveleni. Neanche io. E nemmeno tuo padre o Yu-chan.»

«Lei se n'è andata e ci ha lasciati qui!» urla Tetsurou, paonazzo, sporgendosi verso il nonno attraverso il tavolo. La tazzina si rovescia, il tè caldo crea una larga chiazza che si muove sul tavolo e comincia a gocciolare sul tatami. Nessuno dei due se ne preoccupa.

«Questo non è vero, Te-chan. Siete qui perché tuo padre pensa che sia il posto migliore per voi. E io sono d'accordo con lui. Pensaci: se foste rimasti a Osaka, per tutto il tempo in cui papà è in mare, a te avrebbe dovuto badare un estraneo. Non è meglio stare con i nonni?»

«Potevo stare con Yu-chan. Sarei stato buonissimo!» grida Tetsurou. Non sta ragionando. E' solo arrabbiato.

«E quindi tua sorella, che ha solo quattordici anni, si sarebbe dovuta sacrificare per te? Non vuoi che lei frequenti una bella scuola? Che si diverta con i suoi amici? Che vada a lezione di violino?»

I pugni di Tetsurou si aprono. Ama la sorella più di chiunque altro e vuole che sia contenta. Che suoni il violino. Che vada in una bella scuola. Se però avrà troppi amici non giocherà più con lui. Tetsurou si affloscia sul tatami con un lungo sospiro.

«Ti trovi male qui con noi? C'è qualcosa che io e tua nonna possiamo fare per farti stare meglio?»

La ragionevolezza del nonno è allo stesso tempo irritante e confortante. Tetsurou non risponde. Spinge un polpastrello sulla chiazza di tè rovesciato.

«Io voglio sperare, Te-chan, che tu non pensi che quello che ha fatto la tua mamma sia colpa tua, o di Yu-chan.»

«Onee-chan non ha fatto niente di male!» Tetsurou difenderebbe Ayumi da chiunque.

«Proprio niente di male. E neanche Te-chan ha fatto niente di male, lo sai, vero?»

Tetsurou sospira e appoggia tutta la mano sul tavolo bagnato.

«Lei è andata a stare in una casa più bella. Con dentro un altro bambino, perché questo bambino non le va più bene... »

La madre di Tetsurou ha abbandonato la famiglia per un altro matrimonio: è una verità che non può essere negata.  Kuroo Tomo vorrebbe poterla alleggerire per suo nipote, ma pensa che l'onestà su ciò che ci riguarda sia dovuta a tutti, a qualsiasi età. E se mentisse ora su questo, come potrebbe sperare che si fidi più avanti? Come potrà crescere forte, se gli si parano i colpi, anziché insegnargli a cadere?

«La tua mamma ha fatto delle scelte che non riusciamo a comprendere. Purtroppo non possiamo sempre capire il cuore degli altri e non possiamo giudicarlo. Però se provi odio per lei, l'odio farà del male soprattutto a te. Funziona come un pennarello rotto.»

Tetsurou è un bambino curioso e molto sveglio, è ancora di cattivo umore, ma quel paragone colpisce la sua fantasia «Un pennarello rotto?»

«Proprio così, Te-chan. Ti ricordi che è successo la settimana scorsa a Kenkoku kinenbi quando ti sei messo a colorare con quel pennarello che non ci eravamo accorti avesse un buchino sul retro?»

«Mi sono sporcato tutto.»

«Alla fine c'era più verde sulle mani di Te-chan che sul foglio, giusto?»

Tetsurou annuisce.

«Il cuore delle persone è fatto per amare. Quando odi, è come se lo rompessi un po', come se si creasse un forellino sul retro. E' piccolo, non te ne accorgi nemmeno, ma alla fine ti sporchi tutto. L'odio fa tanto male, Te-chan. E' molto meglio l'amore.»

E' un discorso difficile. Ma Tetsurou lo trova anche interessante. Si guarda le mani, che ora sono pulite. Più o meno.

«Ora ti voglio fare un discorso da grandi, Tetsurou.»

Tetsurou alza gli occhi stupito, il nonno non lo chiama mai con il nome completo.

«Ti capiterà tante volte nella vita che le cose non andranno come vuoi tu. Che le persone faranno cose che non capisci. Che ti sentirai deluso. Sai che vuol dire deluso?»

Tetsurou si morde le labbra e scuote la testa.

«Significa che eri sicuro di qualcosa, che ci speravi, e invece non succede.»

«Come quando la nave di papà deve tornare un giorno e invece torna la settimana dopo perché nell'oceano ci sono le tempeste?»

Il nonno sorride. «Bravo. Esattamente. Sei davvero un bambino molto intelligente. Quindi, Te-chan, le persone potranno deluderti, le cose potranno andare in un modo che non ti piace. Ma ci sarà sempre una persona che farà quello che vuoi tu. Sempre.»

Tetsurou aggrotta le sopracciglia in un moto di riflessione «Yu-chan?»

Il nonno ride. «Non credo che Yu-chan ti deluderà mai, ma tu non puoi obbligarla a fare quello che vuoi. Non puoi comandarla.»

«E' lei che comanda me! Lo fa sempre! Dice sempre fai questo, fai quello...»

«E tu le obbedisci sempre?»

Tetsurou annuisce.

«Davvero? Anche quando litigate?»

«Qualche volta lei è molto prepotente. E le cose che vuole che faccio, io non le voglio fare.»

«Quindi chi è l'unica persona che farà sempre e solo quello che vuoi tu?»

Tetsurou si asciuga la mano sui pantaloni e sporge il labbro inferiore e poi scuote la testa.

«Sei tu, Te-chan.»

«Io?» chiede Tetsurou perplesso, puntandosi l'indice contro il petto.

«Proprio tu. Solo tu comandi su te stesso. Non te lo dimenticare mai. Quando ti comporti bene e quando ti comporti male, dipende da te. Anche quando pensi che stai facendo qualcosa per colpa di qualcun altro, non è la vera verità. Sei sempre tu che scegli. E' chiaro? Oppure vuoi che il nonno ti faccia un esempio.»

«Esempio.»

«Facciamo finta che un bambino più grande, uno prepotente, venga da te e ti dia una spinta. Tu cosa fai?»

Tetsurou tace. Si vede che avrebbe una risposta pronta sulle labbra, ma sceglie di non dirla.

Il nonno continua: «Esaminiamo le varie possibilità. Potresti metterti a piangere. Oppure potresti dargli anche tu una spinta. O ancora, potresti fare finta di niente. Quale pensi che sia giusta?»

Tetsurou ci riflette. Mettersi a piangere non gli piace, però qualche volta succede anche se non vuoi. Fare finta di niente è difficile e comunque una spinta non è niente. Forse gliela ridarebbe, ma dipende da...

«Quanto è grosso quello mi dà la spinta? E' uno di sesta?»

Il nonno ride. «Diciamo che è uno di terza e che tu gli ridai la spinta. La maestra vede la tua spinta e non ha visto la sua. Quindi sgrida te. Cosa le dici?»

«Le dico che ha iniziato lui! Che io l'ho spinto perché lui ha spinto me. Che è colpa sua.»

«Ma è davvero colpa sua? Chi ti ha detto di spingerlo? Potevi metterti a piangere. Potevi lasciar perdere. Lui ha la colpa di averti spinto e questa non gliela toglie nessuno, ma cosa fare dopo che ti ha spinto, lo hai deciso tu. Sei d'accordo?»

Tetsurou fa un lungo sospiro, è un discorso difficile. «Dovevo piangere? Oppure dovevo lasciare perdere?»

«Non c'è una scelta giusta sempre, Te-chan. Dipende da come ti senti. Dipende dalla situazione, per esempio da chi è l'altro bambino, da quanto sei arrabbiato con lui, dal perché ti ha dato una spinta. Dipende da te, in tanti modi. Io, la tua nonna, il tuo papà, e Yu-chan ti vogliamo bene e saremo sempre pronti a darti dei consigli se li vorrai, ma non potremo mai scegliere al posto tuo. Non potremo mai decidere cosa è giusto o sbagliato per te

«Lavarsi i denti?»

«Quello è giusto. E' una cosa che ti spingiamo a fare per la tua salute, finché sei troppo giovane per occupartene da solo. Se quando sarai grande vorrai smettere di lavarti i denti potrai farlo.»

«Davvero?» Tetsurou è speranzoso.

«Certo. Però ti cadranno tutti e avrai un alito puzzolentissimo! Nessuno vorrà avvicinarsi» dice il nonno, storcendo il naso disgustato.

Il nonno è bravo a far ridere gli altri. «Però, nonno, lo vedi che delle cose sbagliate sbagliate o giuste giuste esistono!»

«Certo che esistono, ma se farle o meno, se sbagliare o fare giusto, indovina chi lo decide?»

«Sempre io?»

«Esatto! E visto che tu sei un bambino fantastico, e sarai un ragazzo fantastico e un giorno un uomo fantastico, sono sicuro che sceglierai bene. Che ti comporterai bene. Forse non tutte tutte le volte, ma molte volte.»

A Tetsurou piace come il nonno dice la parola "fantastico". La fa sembrare colorata, brillante, festosa, come palloncini che volano. Gli piace molto essere fantastico.

«Come sono le persone fantastiche, nonno? »

«Beh, ci sono tanti tipi di persone fantastiche. A me piacciono le persone oneste, coraggiose, gentili e allegre. E a te? Tu che persona fantastica vuoi essere?»

«Mmnnn coraggioso mi piace. E anche onesto.»

«Gentile no?»

«Anche gentile.»

«E allegro? Preferisci essere timido? E stare per conto tuo?»

Tetsurou si muove a disagio e non risponde.

«Io penso che tu non sia per niente timido e neanche solitario, ma che in questo momento, per tanti motivi, tu voglia essere così. E non è sbagliato. Non è sbagliato mai come ti senti. Non è sbagliato sentirsi tristi Te-chan. Anche le persone allegre si sentono tristi e piangono.»

«Lei ha fatto piangere anche papà.» Lo dice come fosse un crimine di lesa maestà, un'eresia inaccettabile. Si vede che solo dirlo gli fa male.

Il nonno sospira. Qualche settimana prima, Te-chan ha spiato dalla porta una conversazione privata fra padre e figlio. Ha visto suo padre in lacrime, ha sentito molte cose che non avrebbe dovuto sentire, anche se forse non le ha comprese tutte.

«Tutti hanno il diritto di sentirsi tristi. E di piangere.»

«Anche i maschi?»

«Se non dovessimo piangere perché siamo maschi, se fosse per natura, non avremmo le lacrime. Invece piangiamo tutti, Te-chan, tutti gli umani: maschi, femmine, grandi e piccoli. Il fatto che tu pianga quando sei triste non ti rende meno fantastico. Sai cosa ti rende meno fantastico?»

Tetsurou serra le labbra e scuote il capo, il nonno gli scompiglia i capelli.

«Piangere quando fai i capricci. O tirare i pennarelli alla nonna perché sei arrabbiato con lei.»

«Ma è stato per colpa sua che... » Tetsu si interrompe. Sta pensando al discorso di poco fa. Dopotutto è stato lui, che ha tirato i pennarelli. Forse poteva fare qualcos'altro.

Il nonno gli accarezza la guancia. «Capita di sbagliare Te-chan. E' il modo in cui si imparano le cose. L'importante è che uno se sbaglia lo ammette e ci pensa su, come stai facendo tu adesso. Questo è un altro modo in cui sei fantastico.»

«Nonno, posso essere fantastico anche in altri modi?»

«In tutti quelli che vuoi. Chi è che sceglie?»

«Io!» esclama Tetsurou, soddisfatto, battendosi la manina sul petto. «Io voglio essere super-fantastico, che significa onesto, gentile, coraggioso, allegro e anche... come si dice quando non smetti mai mai mai di volere bene a qualcuno? Quando se hai già un bambino poi non ne cerchi un altro da un'altra parte?»

«Si dice... costante. Costante negli affetti» risponde il nonno, sforzandosi di non far trapelare neppure un briciolo della tristezza profonda che prova per quelle parole.

«Costante negli affetti! Voglio essere così!»

«Ottima scelta, Te-chan! il nonno è sicurissimo che ci riuscirai. Il nonno è sicuro che riuscirai a fare tutto quello che vorrai. Perché sei un bambino molto volitivo.»

«Che vuol dire volitivo?»

«Che hai tanta forza di volontà. Che quando decidi di fare una cosa poi la fai.»

Tetsurou gonfia il petto: «Sì! mi piace volitivo! E poi voglio anche essere... bello? Posso essere bello da grande, nonno?»

Il nonno ride, gettando la testa all'indietro e con le spalle che sobbalzano. Ride esattamente come Tetsurou, e anche com Ayumi. Ridono con tutto il corpo e con un riso sonoro e trascinante. «Sei già bellissimo, Te-chan, somigli tutto a me! E adesso vieni qui e fammi vedere quanto vuoi bene al nonno!»

Il nonno allarga le braccia e Tetsurou ci si getta contro. E' il primo vero abbraccio, da quando è andato a vivere lì ed è un abbraccio perfetto: stretto stretto e caldo. Un calore che entra dentro i vestiti, che supera il freddo che c'è fuori e anche quello che c'è dentro, che si può quasi respirare. Tetsurou affonda il viso nel maglione del nonno e ne aspira l'odore.

«Odori di buono, nonno. Cos'è?» chiede Tetsurou, parlando con la bocca premuta contro la lana azzurra.

«E' acqua di colonia.»

«Posso metterla anch'io?»

«Sei un po' troppo giovane, Te-chan» risponde il nonno, con una carezza. Si sente benissimo che sorride, mentre parla. «Quando sarai più grande, potrai.»

Tetsurou si scosta dal nonno quel tanto che basta per guardarlo negli occhi: «Quando nonno? A dieci anni? A dodici?»

«Facciamo a sedici. Se quando avrai sedici anni ti piacerà ancora la colonia del tuo vecchio nonno, ti prometto che te ne regalerò una bottigliona enorme. Che ne dici? Affare fatto?» propone il nonno tendendogli la mano.

Sedici anni sono un'enormità. Per Tetsurou è l'età in cui "si diventa grandi". Però tutto sommato è accettabile, perché le cose importanti - uno slittino, una bici e una Mikasa nuovissima - le ha già. Per il profumo, si può anche aspettare.

«Affare fatto!» esclama Tetsurou infilando la sua mano piccola in quella grande del nonno e scuotendola forte. 

E' l'inizio di qualcosa di fantastico, destinato a durare una vita.


*****
NdA - Confesso che questo capitolo, in cui compare per la prima volta Kuroo Tomo, il nonno di Tetsu, è uno dei miei preferiti, spero davvero che piaccia anche a voi. 

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Capitolo 19
*** Messaggi vocali e decisioni impulsive ***


19 - Messaggi vocali e decisioni impulsive


15 novembre 2012 
 


[Line Chat Kozume Kenma/Tsukishima Kei]


13:51 KKapplepi Vocal Message 01:09

Ciao. Sono Kenma. Per favore, ascolta il messaggio fino in fondo.

Il tuo numero me l'ha dato Shoyo, ma se ti vuoi incazzare con qualcuno, prenditela con me visto che l'ho quasi costretto. Sai che io, se fossi in te, un po' mi incazzerei.

Comunque, quello che ti volevo dire è che ieri pomeriggio è morta la nonna di Kuro. La cremazione non so quando la fanno. Domani, o dopodomani, appena arrivano suo padre e sua sorella dall'estero.

Il vero punto non è questo, però. Il punto è che Tomo-sama, il nonno di Kuro, l'ha presa molto male e stamattina gli è venuta una specie di infarto. Lo hanno portato in ospedale, Kuro è lì. L'ospedale è il Juntendo, a Nerima, reparto di cardiologia. Non so come sta e quanto è grave.

Beh, l'hai capito quello che voglio dire. E' davvero un brutto momento. E lui è solo.

Io sto andando in ospedale con Bokuto e Akaashi. Ma... non è la stessa cosa, penso.

Ascolta: io di quello che è successo fra voi due non so niente e voglio restarne fuori, ma ho pensato che questo dovessi saperlo.

Non c'è altro. Ovviamente, Kuro non c'entra niente con questo messaggio, mi vorrà ammazzare quando lo scoprirà.

Però dovevo dirtelo. Vabbè. Ciao.

14:06 Tsukishima Kei: Grazie.

 

***

 

[Line Chat Yamaguchi Tadashi/Tsukishima Kei]


14:43 Yama: Tsukki, ma dove sei finito? Ti ho aspettato a mensa per mezz'ora, non dovevamo vederci alle due? Lo hai tolto il tutore? E' andato tutto bene?

14:51 Yama: Tsukki? Qui sono arrivati tutti, persino Noya si è già cambiato.

14:57 Yama: Daichi-senpai ti ucciderà se arrivi dopo le tre! Già fai gli allenamenti ridotti per via della mano...

15:15 Yama: Tsukki mi sto preoccupando. Non solo io.

15:46 Yama 1 chiamata persa

15:58 Tsukishima Kei Vocal Message 00:02

Yama, metti su le cuffie prima di ascoltare il prossimo messaggio.

16:04 Tsukishima Kei Vocal Message 01:33

Yama, forse avrei dovuto chiamarti, ma mi avresti tenuto un sacco di tempo al telefono e invece ho molta fretta. Ho bisogno che mi aiuti, provo a essere sintetico, ti dico tutto in tre punti.

Primo: Devo andare a Tokyo. Adesso, subito. Quanto torno ti spiego. Però non so esattamente quando torno. In un momento imprecisato fra domani e... boh, diciamo sabato. A mia madre rifilerò una scusa. Vedrai che non verrà a seccarti, ma se lo fa, tu dille solo che sai che sono andato a Tokyo e nient'altro. Se succede qualcosa del genere, avvertimi subito.

Secondo: mi devi coprire con la scuola e con la squadra. Ci ho pensato, la cosa migliore da dire alla squadra è che sono andato a fare fisioterapia a Tokyo, per il dito. E' un'idiozia cosmica, ma tanto la dobbiamo propinare a una manica di idioti, quindi sono quasi sicuro che se la bevano. Se non se la bevono, fa lo stesso, tu non cambiare versione, poi quando torno me la vedo io. Invece in classe devi essere più generico. Di' una cosa tipo "visite mediche fuori città", lasciali pensare che sono in fin di vita, così poi ci rimangono male quando torno.

Terzo: Batti un servizio addosso a Hinata, da parte mia. Forte. Se Sua Maestà minaccia di gonfiarti, tu diglielo che è da parte mia. Dopodiché, offrigli qualcosa, sempre a Hinata. Tipo quella roba schifosa piena di coloranti che beve sempre. Oppure non lo so, quello che gli pare. Non dirgli che è da parte mia. Poi quando torno ti rendo i soldi.

Ultima cosa, molto importante: chiamami solo per le emergenze. Ma se un'emergenza c'è, chiama subito! E scrivi anche, che per lo più il telefono lo terrò muto.

Sì, Yama, sì, va bene: c'entra Kuroo. E sì, sono uno stupido fatto e finito. Quindi, fammi il favore: cancella immediatamente questo messaggio.

Ah, Yama... grazie.

16:31 Yama: Siamo in pausa. Ho ascoltato ora. Più che stupido sei pazzo. Ti meriteresti un vocale di 600 minuti, ma non voglio che mi sentano. La cosa della fisioterapia la sparo adesso, dico che mi hai chiamato. Manda un messaggio quando arrivi. E non ti dimenticare di mangiare.

16:33 Yama: Mi sfugge cosa c'entra Hinata. E non ho alcuna intenzione di servirgli sulla nuca, più che altro perché odio sbagliare i servizi davanti a tutti. Invece gli offro qualcosa, però poi tu mi spieghi perché.

16:35 Yama: Giura che quando torni mi racconti!

16:35 Yama: Buona fortuna, Tsukki.

16:36 Yama: Salutami Kuroo-san ;P

17:40 Tsukishima Kei: Prima o poi avrai una ragazza. E io ho almeno un milione di foto compromettenti, tipo una in cui hai quattro anni e sei sul water. Pensaci.

17:44 Yama: Va bene, non salutarmelo. Non c'è bisogno di essere gelosi. Salutalo solo tu.

17:48 Tsukishima Kei: Ne ho anche una in cui cavalchi un'anguria e sei nudo.

17:51 Yama: E' carina, quella. Io ne ho una in cui giochi con mia sorella al tè delle principesse. Hai pure la coroncina di fiori in testa. E non hai quattro anni.

17:53 Tsukishima Kei: Vuoi morire? Dillo Yama, che mi piace tanto farti contento.

17:54 Yama: No, dai, muoio con calma fra qualche anno. Sei in treno? Quando arrivi?

17:56 Tsukishima Kei: Sì, treno. Fra Shikansen, trenino locale e metro, arriverò verso le otto.

17:56 Yama: Okay. Fai attenzione. Buon viaggio.

 

***

 

[Line Chat Tsukishima Akiteru/Tsukishima Kei]


18:03 Tsukishima Kei Vocal Message 01:41

Ciao Aki.

Lo sai, non mi piace mentire, costa troppa fatica farlo bene. Ma questa volta, per un po' di motivi, è necessario. Troppe spiegazioni complicate. Un altro po' faccio fatica a spiegare a me stesso, figuriamoci ad altri.

Comunque, sto venendo a Tokyo, sono già in treno, ma non è questa la bugia.

Ho mentito sul perché ci vengo e visto che a te non mi va proprio di mentire, preferisco non dirtelo.

A mamma ho raccontato che è per qualcosa che riguarda la squadra e il torneo. Le ho fatto capire che ha a che fare con il ruolo in cui gioco e per questo Yama non è con me. Se ci pensasse su tre secondi ci arriverebbe che è una panzana, ma sai com'è fatta lei.

A coprirmi a scuola e con la squadra ci pensa Yama.

Però mamma si aspetterà che ci vediamo, visto che vengo a Tokyo. Non credo che ti chiamerà apposta, ma può capitare che te lo chieda, e allora dille che ci siamo visti, inventati quello che ti pare ma tieniti sul vago, possibilmente plausibile. Poi ridimmelo, così almeno diamo la stessa versione.

So cosa stai pensando. Che ti sto mettendo davanti a un fatto compiuto, che non ti sto dando né scelta né diritto di replica. Hai ragione, è così. E so anche che lo detesti, ma, davvero, ho un buon motivo. Il fatto che non abbia la minima intenzione di condividerlo è incidentale. Però sono sicuro che anche tu lo troveresti un buon motivo.

In tutto ciò è anche possibile - possibile, ma non lo so per certo - che io mi trovi nella grande metropoli senza un tetto sulla testa. Nel caso, posso venire da te? Giuro che non ti accorgerai neanche che esisto. La combinazione è cambiata?

Se non posso, tipo che hai una ragazza, o una cosa simile, basta che me lo dici chiaro e tondo, e mi organizzo in un altro modo. Non devi darmi spiegazioni. E non ti devi preoccupare.

Adesso ti starai chiedendo perché ti mando un vocale lunghissimo anziché chiamarti, ma sono sicuro che ti stai anche dando la risposta. E' quella giusta: non ho voglia di parlarne a voce, di stare a sentire le tue domande, di risponderti. Finirei col dirti qualche stupida bugia, di cui mi pentirei.

Torno a casa entro domenica, in ogni caso, forse anche prima.

Anticipando la tua prossima domanda, non lo so proprio come sto, e non so neanche come va, mi sento molto confuso negli ultimi tempi. Ma nel senso generale in cui intendi la domanda, la risposta è che sto bene e va tutto bene.

Non mi faccio di coca, Aki, tanto per rassicurarti, e nemmeno di acidi. Non sono depresso, non mi butterò dal terrazzino di casa tua. Dal quarto piano, poi, finirei paraplegico anziché morto.

Quindi, stai tranquillo. E' solo una generica cazzata da sedicenne.

Ciao.


18:19 TsukiAki Vocal Message 00:43

Kei, sedici anni e non hai ancora capito che puoi venire a casa mia quando vuoi? Sul serio, quando ti pare. Anche senza avvertire. Non importa se c'è una ragazza. Magari bussa prima di imboccare nella mia stanza.

La combinazione non è cambiata.

Per tua grande gioia, però domani dovrei partire per una gita a Nikko, a vedere l'autunno, torno domenica tardo pomeriggio. Neanche ti chiedo se vuoi che resti, anche se sai che lo farei volentieri. Mi sembra di non vederti mai.

Però hai ragione che odio essere messo davanti al fatto compiuto e odio quando mi dai la pappa scodellata e mi metti all'angolo. Mi fai sentire più cretino di quanto non sia già.

 Ma per stavolta evito di rompere, più che altro perché sono contento di sentirti. Sono contento che non mi racconti stronzate e sono molto contento che conti su di me. Che sai che puoi chiamarmi se ti serve qualsiasi cosa, anche se sei cento volte più bravo di me a organizzarti. E anche se la cosa che ti serve è mentire a mamma.

Comunque, se lei chiama - ma sappiamo entrambi che non lo farà - mi invento qualcosa.

Quindi, vieni pure qui. Prendi quello che vuoi in cucina, usa le mie cose, la roba nell'armadio è tutta pulita. La bici è nel cortile, ti lascio la chiave del lucchetto sul comodino. Nel cassetto del comodino ci trovi... altre cose, beh... puoi usare anche quelli. Insomma, fai come se fossi a casa tua.

Divertiti a Tokyo. Ma stai attento, metti in funzione quel bel testone che hai: una cazzata generica va bene, vedi di non fare cazzate serie.

Se hai bisogno chiama, tengo il telefono acceso.

Ti voglio bene, stupido sedicenne. Sul serio.

 

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Capitolo 20
*** Conforto morale ***


20 - Conforto morale


15 novembre 2012


L'ospedale Juntendo ha l'aria di una struttura vecchia rimodernata più volte. Dentro, è come tutti gli ospedali: pareti verdastre, puzza di disinfettante, gente che va e viene senza guardare nessuno in faccia. Telefoni che vibrano, tutta un'umanità che lascia fuori dalle porte vetrate la vita quotidiana, i problemi che sembravano vitali diventano trascurabili di fronte al foglio stampato di un'analisi clinica.

Kei nella sua vita ne ha visti ben pochi di ospedali, ma li detesta comunque.

Per tutto il tragitto, scendendo da un treno e salendo sull'altro, camminando per le vie ventose e affollate di Tokyo, ha sospeso il lavorio del cervello. Ha semplicemente smesso di pensare, per evitare di dover fare i conti con le proprie incoerenze, con la parte di sé che non riesce a dominare.

Ma sono le 20:02 ed è già nell'ascensore C, diretto al quinto piano. Lo specchio un po' macchiato agli angoli gli restituisce la propria immagine: un adolescente occhialuto, alto e magro, avvolto in un cappotto grigio a doppio petto, col viso arrossato dal freddo seminascosto dalla sciarpa. In quel riflesso, Kei si vede molto più giovane di come si senta. E' davvero una cazzata da sedicenne, quella che sta facendo.

Per questo deve far ripartire il cervello. Ha imparato da ragazzino a bloccare e sbloccare il meccanismo, per puro istinto di sopravvivenza. E' come aprire una diga, bisogna farlo con calma, gradualmente, lasciando fluire i pensieri senza farsi travolgere.

Mentre il cicalino dell'ascensore annuncia l'arrivo a destinazione e si aprono le porte, Kei ha già riconsiderato tutta la faccenda e definito la propria posizione: conforto morale. La parola amico, nel contesto, gli dà la nausea, quindi è meglio evitarla. Anche perché di amici Kuroo ne ha già parecchi.

Adesso, prima di arrivare al secondo corridoio e svoltare a sinistra, Kei si sente nervoso. Non è stato invitato. Non è stato neppure messo a parte degli eventi dal diretto interessato. A tutti gli effetti, il suo è un atto di prepotenza mascherato da buone intenzioni. Sotto la facciata del buon samaritano, c'è un rammollito in ostaggio dei propri sentimenti, che si venderebbe l'anima per dieci minuti vicino a Kuroo Tetsurou.

E lui è lì, insieme ai suoi veri amici. Kei li scorge da lontano, in fila sulle sedie di plastica blu del corridoio. Per primo Kozume, con le gambe ripiegate e i talloni sul bordo della seduta, intento a giocare alla playstation. Accanto a lui Kuroo, seduto,  piegato in avanti, i gomiti puntellati sulle ginocchia e il viso fra le mani. A ogni respiro la sua schiena si alza e si abbassa. L'istinto di correre a inginocchiarsi lì davanti e abbracciarlo fa venire a Kei voglia di prendersi a schiaffi. Respira a fondo e riapre gli occhi.  Bokuto è per terra, con la testa all'indietro poggiata contro la seduta di plastica e il corpo inclinato verso Kuroo, a contatto con la sua gamba. E' una forma di empatia fisica, perché in Bokuto un po' tutto è fisico. Ogni tanto tira sul col naso e si strofina la faccia, il suo piede sinistro, come il suo senso della realtà, restano saldamente ancorati alla caviglia di Akaashi, che siede composto, le mani affondate nelle tasche del giaccone, gli occhi socchiusi. Sembra stia meditando.

Kei si fa indietro un paio di passi e tira fuori il telefono.

Sono quiAlza lo sguardo.

Sente il trillo del messaggio consegnato, e si sporge dall'angolo quel poco che basta per incrociare gli occhi di Akaashi, allargati per la sorpresa.

Puoi darmi cinque minuti?

E' una frase criptica, ma sa che Akaashi capirà.

Poco dopo, infatti, si sente la voce impastata di sonno di Bokuto che si lamenta di doversi alzare.

«Dove andate?» chiede Kozume.

«Ho fame» risponde Akaashi. «Sono le otto passate e se Bokuto-san non mangia, gli verrà mal di stomaco. Dovreste mandare giù qualcosa anche voi due.»

La voce di Kuroo, stanca, strascicata, bassa arriva nel cervello di Kei come una droga da cui non sapeva di essere in astinenza. Non riesce a distinguere le parole, ma nel giro di un minuto gli altri lo hanno lasciato solo. E' rimasto nella stessa posizione di prima, ripiegato su se stesso, compresso dal dolore.

Kei si avvicina senza rumore e tende il braccio. Nel campo visivo di Kuroo entra una busta di carta bianca, con il logo di una rosticceria di Osaki.

Tetsurou fa per allontanare la busta con un gesto stanco di rifiuto. Solleva gli occhi e poi li sgrana. In un attimo si riempiono di lacrime.

«Sandwich all'uovo e caffè» dichiara Kei, facendo oscillare la busta. «Ormai sarà tutto molliccio, freddo e schifoso, ma te lo farai andare bene lo stesso.»

Kuroo allunga una mano, però esita, come se avesse paura che, toccandolo, Kei potesse sparire. «Che ci fai qui?»

«Catering. Ti ho portato lo spuntino.»

«Da Osaki?»

«Ti era piaciuto il sandwich all'uovo...»

Quattrocento chilometri non sono mai sembrati così insignificanti.

Il viso pallido e stremato di Kuroo, in quel momento, è la mappa di tutti i desideri di Kei. Vorrebbe lasciar scorrere le dita sui suoi tratti uno a uno, esplorarli, baciarli, impararli a memoria.

Tetsurou sorride e piange contemporaneamente, strappa la busta dalle mani di Kei e la getta sul sedile, lo afferra alla vita e lo stringe forte. Piange senza pudore, con lunghi singhiozzi, il viso abbandonato sul cappotto di Kei, le braccia che lo circondano.

Kei non prova neppure a trattenersi, con un braccio gli avvolge le spalle, l'altra mano, protettiva e consolatoria, gli accarezza il viso e i capelli.

«Va tutto bene, Kuroo-san» sussurra Kei.

«Non lo so» risponde Tetsurou, senza smettere di piangere e stringendolo più forte.

«Lo so io.»

Quando Akaashi compare oltre l'angolo, li trova in quella stessa posizione. Con Kei si scambiano un lungo sguardo, significativo e silenzioso.

Noi andiamo via - mima Akaashi a gesti.

Kei annuisce, le braccia serrate intorno a Kuroo, che lo difendono dalla realtà.

***

«Ancora non ci credo, che sei qui» dice Kuroo, asciugandosi la faccia con il dorso della mano. Sono seduti di fianco, vicinissimi, a un soffio uno dall'altro, ma senza davvero toccarsi. L'ospedale è una terra di confine dove i formalismi perdono di valore, ma non scompaiono: estranei vagano fra i corridoi, luci impietose segnano ogni gesto, si può abbassare la guardia ma non è come essere soli. E forse, in questo momento, è persino meglio non essere soli.

«Come hai fatto a scoprirlo? Chi te l'ha detto?» domanda Kuroo, fissando l'attaccatura dei capelli di Kei alla tempia, dove sono sottilissimi e così biondi da sembrare quasi bianchi.

«E' importante?»

Kuroo scuote il capo: «In realtà non me ne frega niente. Piuttosto... com'è che hai deciso di venire?»

«E' un terzo grado? Vuoi che me ne vada?»

Kuroo si aggrappa a una manica del cappotto di Kei «Non ci provare.»

Kei si divincola. «Allora smetti di fare domande inutili. Raccontami con calma che è successo, invece.»

«Non è che sia una gran bella storia, Tsukki. Mia nonna se n'è andata ieri. Non si può dire che non fossimo preparati, era malata da un sacco di tempo. Ma uno a queste cose non è mai preparato davvero. Anche se negli ultimi tempi era davvero tanto stanca.»

«Mi dispiace molto. E' successo qui in ospedale?»

«No, a casa. Era tornata a casa da un paio di mesi, per le cure palliative.»

In quelle poche parole si apre un abisso di dolore familiare, di fatica e di rassegnazione che investe Kei in pieno. E' l'ennesimo effetto collaterale che Kuroo ha su di lui: come un cuneo, gli impedisce di chiudere le porte stagne che tengono fuori le emozioni altrui.

«E  tuo nonno?»

«Mio nonno è andato in pezzi. Letteralmente, purtroppo. Ti presento Kuroo Tomo, l'unico ottantenne al mondo che ha ancora voglia di giocare all'innamorato» declama Tetsurou, indicando con gesto teatrale la porta della stanza ventisette. Lo dice con amore e con risentimento, in parti uguali.

«Si è messo in testa che doveva restare a vegliare nonna fino alla cerimonia funebre. E lo sapeva benissimo che sarebbero passati almeno due giorni, se non tre. Ma niente, irremovibile: in ginocchio, a digiuno, in una stanza con la finestra aperta tutta la notte. Ho provato a spiegargli che era una pessima idea, che lui non è più un ragazzino. Gli ho detto che lo avrei fatto io al suo posto, che non mi sarei mosso da lì. Che almeno poteva mangiare, o dormire un paio d'ore. Ci ho provato con le buone e le meno buone. Ma indovina qual è il superpotere dei Kuroo? Testardi come muli! Tutti quanti!»

«Ah. Ma dai! Pensavo essere molto intelligenti e super scemi contemporaneamente.»

«Non eri qui per consolarmi, Kei-chan?»

«Chiamami così un'altra volta e vedi come occupiamo subito il letto a fianco a quello di tuo nonno.»

«Siamo in cardiologia. Potresti impegnarti per farmi venire un infarto, per esempio se tu mi...»

La gomitata di Kei entra con precisione militare nel fianco di Kuroo, che la incassa con un lamento e si piega di lato.

«Ahia! Ma che cavolo era? Ti porti dietro un kunai

«Le persone magre hanno i gomiti appuntiti»

«Vedo.»

«Te la sei cercata. Basta cazzate. Torna al discorso principale.»

Kuroo sorride. Non proprio il suo solito sorriso spavaldo e abbagliante, ma comunque sufficiente a offuscare la lucidità di Kei per un paio di secondi.

«Non c'è tanto altro da dire, purtroppo. Avrei preferito avere torto e invece ho avuto ragione: stamattina, dopo colazione, nonno si è sentito male. Per fortuna ero in casa. Per fortuna l'ambulanza è arrivata in meno di dieci minuti. E lo hanno riacchiappato per i capelli. O almeno così pare.»

«Ti sei spaventato?»

«Da morire. Un mondo senza mio nonno è un posto troppo difficile per viverci.»

Ecco come è fatta una persona veramente forte, veramente sicura di sé. Uno che ammette di aver avuto paura da morire e di averne ancora. Che ammette di essere stanco, di essere fallibile, di aver bisogno di qualcuno. Kei guarda Kuroo. E guarda dentro Kuroo. E tutto quello che vede gli toglie il respiro. Ma non è roba sua.

«E come sta adesso?»

Kuroo si stringe nelle spalle e scuote la testa, fissando la porta chiusa. «Non l'ho capito.»

«Mi stai dicendo che sei stato qui tutto il giorno e non sei riuscito a parlare con nessun medico?»

«Sì. Ma non ho capito lo stesso. Vediamo... sono arrivato al pronto soccorso verso le undici e mezzo. Lì ho aspettato per... boh, sarà stata un'ora o qualcosa di più. Poi una dottoressa mi ha spiegato che lo avevano rianimato, che sembrava rispondere bene ai farmaci e lo avrebbero portato in cardiologia. Cosa che hanno fatto, peccato che si sono dimenticati di dirmelo e l'ho scoperto più di un'ora dopo.»

«Ti hanno detto se ha bisogno di qualcosa?» chiede Kei, pratico.

«Cosa? Sangue? Organi di ricambio? Mica è un incidente stradale.»

«Lo vedi? Brillante e idiota allo stesso tempo. Un pigiama pulito, Kuroo-san. Mutande, calzini, pantofole. Un pettine. Una dentiera. Più avanti magari un libro o due monete per la macchinetta automatica. Che ne so!»

Kuroo si strofina la faccia. E' lì da nove ore e una cosa del genere non gli è venuta in mente.

Kei gli rifila un calcetto col piede contro la scarpa. «Dai, poi ci pensiamo. Finisci di raccontarmi. Sei arrivato qui, a questo punto dopo le due. E non hai più parlato con nessuno?»

«Ho parlato con la caposala, che mi ha detto degli orari di visita e mi ha fatto un discorso che non ho capito sui cucchiaini.»

«Cucchiaini? Sei sicuro?»

«Mn, sì. Però non me ne fregava niente dei suoi cucchiaini. Poi sono arrivati Kenma e gli altri. Akaashi è riuscito a farsi dar retta da un tizio in camice. Che però sembrava uscito ieri dall'università.»

«Se ti fosse sfuggito, questo è un ospedale universitario.»

«Ho capito, ma quel tale la laurea l'ha presa online. Ha detto un mare di cose che non si capivano e poi se l'è presa con Bokuto, solo perché continuava a chiedergli spiegazioni. Gli ha risposto molto male. A quel punto è intervenuto Akaashi e in tre domande l'ha messo KO.»

«In che senso?»

«La prossima volta che capita chiedo ad Akaashi di torchiarti su un argomento qualunque. Tipo: haiku dell'epoca Edo. Poi vedrai che capisci cosa intendo. Aka-kun quando decide di mettere qualcuno sotto pressione è un osso veramente duro, non hai idea quanto.»

«In realtà me lo immagino.»

«Chissà perché a scuola questo suo lato non viene mai fuori.»

Chissà. «Quindi il tizio se l'è data a gambe. E poi? Che è successo?»

«Non molto. Verso le quattro mi hanno detto che potevo entrare a vedere il nonno, ma era ancora sotto sedativi, quindi tutto quello che ho potuto fare è stato sedermi lì una mezz'ora e stare un po' con lui. Akaashi, intanto, era riuscito a parlare con non so chi: quello che gli hanno detto è che il nonno ha avuto un infarto miocardico - cosa a cui persino io ero arrivato - e adesso è stazionario, quindi in pratica bisogna aspettare e vedere come va, non si sa ancora se avrà bisogno di un bypass. Quando sono passati con i vassoi della cena, verso le sei, mi hanno detto che al cambio del turno di notte avrei potuto saperne di più.»

«A che ora sarà il cambio turno?»

Kuroo guarda l'orologio appeso al muro che segna le 20:49. «Tra poco.»

«Da quanto non mangi?»

«Mi hanno portato qualcosa i ragazzi verso le due.»

«Facciamo così: adesso fai il bravo e mandi giù il sandwich molliccio. Poi aspettiamo questo fantomatico cambio turno e cerchiamo di capirci qualcosa. Dopodiché andiamo a fare una cena seria e poi ti fai qualche ora di sonno. Domattina presto torniamo con un po' di cose di prima necessità. Che dici?»

«Non posso lasciarlo qui da solo» obietta Kuroo. E' ancora spaventato. Subisce la situazione anziché prenderla in mano, come farebbe di solito.

«Perché?»

«Te lo devo spiegare?»

«Sì, dai, spiegamelo. Tuo nonno è sedato in una stanza di ospedale, guardato a vista e attaccato ai sensori. Cosa pensi che potresti fare qui, a parte sentirti male anche tu? Che contributo daresti se succedesse qualcosa? Pensi di fare meglio del personale di questo ospedale? E poi credi che a lui farebbe piacere sapere che digiuni e resti qui a farti venire il mal di schiena sulle sedie di plastica pur di stare a fissare la sua porta tutta la notte? Ma per favore!»

Il cinismo di Kei, basato su una logica ferrea, è una provocazione che fa leva sullo strato più profondo degli affetti di Kuroo.

«Piantala Tsukki!»

Kei sbuffa da sopra la sciarpa. «Piantala tu! Ho fatto quattrocento chilometri perché credevo che ti servisse un po' di supporto morale, o una mano sul versante pratico. Se avessi saputo che avrei trovato un coglione annichilito dall'impotenza che si mette a fare l'eroe, anziché affrontare la realtà, me ne sarei rimasto a casa.»

Kuroo si alza di scatto e si avvia lungo il corridoio, con falcate marziali.

Kei sorride internamente: è riuscito a scollarlo dalla sedia e a cancellargli dalla faccia quell'aria sconfitta e indifesa, che proprio non gli si addice. Gli tira dietro il sacchetto della rosticceria, colpendolo sulla spalla.

Kuroo si volta, raccoglie il sacchetto e solleva lo sguardo. E' feroce e collerico, ma affonda nella palude degli occhi liquidi di Kei, enormi dietro le lenti, per una volta senza ombra di sarcasmo e insofferenza. Fermi, intelligenti, caldi.

«Mangia, scemo» gli ordina Kei.

Tetsurou non risponde, apre il sacchetto e dà un morso al sandwich, masticando rabbiosamente. Beve anche un sorso di caffè.

«Fa schifo» commenta, disgustato.

«Te lo meriti.»

«Tu da quant'è che non mangi?»

«Da mensa.»

«Cioè da scuola? E mi fai pure la predica! Sei uno stronzo, Tsukki»

«Se mangio quando viaggio, vomito come i tizi posseduti dei film horror.»

«Adesso non stai viaggiando» abbaia Kuroo e piazza il sandiwich morsicato a un centimetro dalla faccia di Kei. «Mangia!»

«Non ci penso proprio.»

«Mangia o ti obbligherò con la forza e non ti piacerà.»

«Sembri un maniaco quando fai così.»

A entrambi torna in mente il bagno di Sendai e una sequenza di ricordi che esercita allo stesso tempo una potente attrazione e una totale ripugnanza.

Kuroo abbassa il braccio lentamente. «Scusami.»

Dovranno parlarne, prima o poi. Ma non adesso. Kei blocca il braccio di Kuroo e lo solleva di nuovo, per dare anche lui un morso al sandwich.

«Bleah!»

«Grazie di aver condiviso con me le prelibatezze di Miyagi, Tsukishima-san» si inchina Kuroo, beffardo.

«Crepa! Condividiamo una cena come si deve, piuttosto.»

Kuroo esita, si rimette a sedere, scruta le lancette dell'orologio che avanzano.

Kei si sporge per parlargli all'orecchio. «Per favore, Tetsurou. Sii ragionevole. Non ho voglia di cenare da solo. E passare la notte qui è un'idiozia.»

«Ridillo.»

«Idiozia.»

«No. Il mio nome.»

«Idiozia ti sta bene.»

«Il mio nome proprio.»

«Quale nome proprio? Te lo sei sognato.»

Kei è un grande attore. Ha almeno dieci anni di pratica nel reprimere e controllare le emozioni. Può simulare a comando superiorità, fastidio, noncuranza, indifferenza e molte altre sfumature di antipatia.

In questo momento, per esempio, muore dalla voglia di pronunciare il nome di Tetsurou un milione di volte. Invece si limita a guardarlo male, da sopra le lenti, con le braccia conserte e le gambe accavallate.

A Kuroo viene il dubbio di esserselo davvero sognato, finché non coglie una specifica espressione, una crepa sottilissima nella maschera di Kei: una leggera asimmetria nella piega delle labbra, una piccola ruga curva al lato del naso, un punto di luce all'angolo dello sguardo.

Di quell'espressione rivelatrice, che smaschera ogni finzione, Tetsurou si innamora a prima vista. Ancora non lo sa, ma la amerà per sempre.



***
NdA - Con questo capitolo ci troviamo esattamente a metà percorso: la strada è ancora lunga, ma io voglio approfittarne per ringraziare chi è arrivato fin qui e sta facendo con me questo viaggio.
Vi sono davvero grata, è una gioia condividere la mia storia e sapere che stiamo viaggiando insieme. 

 

 

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Capitolo 21
*** Profondo blu ***


21 - Profondo blu


8 agosto 2010 


A Kei la casa al mare è sempre piaciuta. Così come gli piace il mare, in un modo molto privato, però. Lo ama come un ammiratore, uno spasimante, uno spettatore affascinato dalla mutevolezza, dalla crudeltà, dalla quiete degli abissi. Gli piace camminare sulla riva, lasciando impronte leggere che si cancellano alla prima onda che le lambisce. Gli piace nuotare fino al largo e poi immergersi, fluttuando nella più totale solitudine che si possa sperimentare sul pianeta. Quella dei sensi attutiti e del respiro compresso nei polmoni: una rotonda bolla d'ossigeno a cui è appesa la vita e che deve bastare a se stessa.

Le grand bleu lo chiama suo padre, che gli ha mostrato quel mondo e a cui piace altrettanto, ed è molto di più di un colore, un luogo o una sensazione. E' uno stato d'animo, un sentimento. Che ha la pregevole e rara caratteristica di essere totalmente neutro: né positivo né negativo. E' la percezione di sé nella vastità, uno stato di equilibrio fra l'immenso e l'insignificante.

Kei sta nuotando a larghe bracciate verso il confine della scogliera, per arrivare al mare aperto. Akiteru è uscito di casa ieri in piena notte, ha preso l'auto e non è ancora tornato.

Come se fuggire dalla realtà potesse cambiarla. Come se le persone si potessero cambiare. Come se fosse lecito aspettarsi qualcosa dagli altri solo perché si condivide una porzione di DNA. Ne condividiamo parecchio con i maiali, ma non ci aspettiamo granché, da loro.

Forse è perché Aki ha il suo mondo: la scuola, la pallavolo, gli amici e magari, più che fuggire, ha un posto dove rifugiarsi, per schiarirsi le idee e passare oltre. Per Kei, invece, c'è solo quel blu profondo e freddo, a suo modo accogliente.

***

«Il divorzio è fra me e vostra madre, non fra me e voi, spero che questo sia chiaro.»

Papà parla sempre come se si rivolgesse a un'immaginaria platea di studenti o di collaboratori. Gente ansiosa di stare ad ascoltarlo, che prende appunti e pende dalle sue labbra. Kei per un attimo si è chiesto se non stesse aspettando un applauso.

Anziché applaudire, mamma ha annuito, guardando fisso i pezzi di tofu annegati nella zuppa di miso.

Aki ha sospirato. «Mamma?»

«Sì?»

«Non hai niente da dire?»

«Cosa dovrei dire, tesoro? E' una decisione ponderata.»

Ponderata. Come una media statistica, come una funzione matematica. Uno degli aggettivi preferiti di papà, ripetuto così tante volte da essere un caposaldo del lessico familiare.

Aki affonda il cucchiaio nella ciotola e ingurgita zuppa bollente, per obbligarsi a tenere chiusa la bocca.

«Posso fare una domanda?» chiede Kei, esattamente con il tono cortese e interessato di uno studente al primo banco.

«Certo» risponde il padre, incoraggiante.

«Che bisogno c'era?»

Papà si prende qualche attimo per confezionare una risposta che, evidentemente, viene da qualche rivista di psicologia da quattro soldi "Divorzio: 10 consigli per comunicarlo ai figli adolescenti nel modo giusto". «Certe volte, Keicchin, i matrimoni... »

«Non chiamarmi così, per favore, non ho più cinque anni.»

Leon sospira, ma ci tiene ad assecondare il figlio. «Hai ragione, Kei. Dicevo che certe volte i matrimoni finiscono e basta e in questi casi è opportuno... »

«Vuoi dirmi che il vostro matrimonio è finito adesso?» c'è un'inflessione di sarcasmo nella domanda.

Kei incrocia gli occhi di sua madre. Sono, come al solito, opachi e lontani e contengono una preghiera di noncuranza: lascia perdere, non è importante. Mamma non è mai veramente presente. Vive in un mondo suo, popolato di umani il meno possibile. Un mondo in cui poche cose sono realmente importanti e in cui ci si può permettere di essere dolci e accomodanti, di badare ai figli con ammirata svagatezza, perché tanto sono così indipendenti. Senza mai chiedersi se indipendenti lo sono diventati per mancanza di scelta.

Akiteru ha la stessa natura tenera di mamma e ha preso da lei anche un certo talento per affrontare la vita senza curarsi troppo delle cose pratiche. Il che si ritorcerebbe contro di loro, se non fossero entrambi campioni di accettazione passiva della vita. Kei non potrebbe vivere così nemmeno mezz'ora. Papà impazzirebbe in cinque minuti.

«In che modo ritieni che sia un problema di tempistiche, Kei?»

«Ho solo fatto una domanda. Alla quale evidentemente non vuoi rispondere.»

«Non esiste una risposta articolata. Quello che intendevo è che adesso è diventato opportuno formalizzare questa chiusura.»

«Perché?» insiste Kei.

L'ostinazione lucida dei figli non è prevista nei 10 consigli, quindi papà deve uscire dalla sceneggiatura. «Per tutta una serie di motivi che non ti riguardano.»

«Che ne dici se usiamo un approccio scientifico, papà? Negli ultimi diciotto mesi sei tornato a casa ventuno volte, per un totale complessivo di cinquantanove giorni su cinquecentoquarantasette» Kei fissa gli occhi in quelli del padre. E' uno sguardo di sfida, bellicoso e aggressivo. «Sono millequattrocentosedici ore ore (all'incirca, ti sto dando il beneficio di arrivi e partenze arrotondati) su tredicimilacentoventotto. Non si arriva all'undici per cento. A me pare chiaro che non hai bisogno di un divorzio per evitare di passare del tempo con i tuoi figli.»

Aki stringe il cucchiaino fino a sbiancarsi le nocche, mamma tossisce nel tovagliolo. Messa in numeri e frazioni, la loro vita familiare è di una pochezza deprimente. Una disfunzione sentimentale, una cancrena che richiede un'amputazione.

Per un attimo, si sente solo il rumore della risacca che entra dalle finestre aperte; nelle sere d'estate suona così vicina che sembra che la schiuma debba arrivare sulla tavola.

«Non voglio dare peso a queste stupide provocazioni, Kei. Hai tutto il diritto di essere contrariato.»

«Ma...?»

«Nessun ma. Hai solo quattordici anni e stai elaborando una situazione emotivamente difficile a modo tuo. L'indulgenza è dovuta.»

L'indulgenza è dovuta. Solo una generica indulgenza, ecco tutto quello che si meritano. Una cosa che va bene per gli stupidi, per i pazzi, per i bambini piccoli. Niente rimorso, niente dispiacere, neppure un cenno di pentimento. 

Delusione, collera,  frustrazione, disincanto, angoscia rimbalzano come bilie impazzite nella testa di Kei e fanno sponda in territori molto oscuri, dove l'ammirazione totale che ha sempre nutrito per suo padre ha generato una bestia in agonia.

Kei la sente che si agita dentro di lui, che ruggisce, che graffia, che morde. Che spinge, che preme, che brucia, che cresce senza che lui possa controllarla e si espande, fin dentro ai sensi: si annebbia la vista, si attutisce l'udito, si spande in bocca un sapore acido, le vene pulsano sul collo e  rimbombano nelle orecchie, sui polsi, dietro gli occhi, nel cervello. 

Le grida escono dal suo corpo senza controllo.  «Tredici! Tredici! Tredici! Ho ancora tredici anni, ma già lo sapevo che dei miei compleanni non ti frega un cazzo. Che me ne faccio della tua indulgenza? Se pensi che mi importi qualcosa se torni o non torni, sei  un illuso. Sono solo curioso di sapere perché ci prendi tutti per il culo. Sempre. E se mamma e Aki hanno paura di te, beh, io non ce l'ho. Quindi ora dimmelo. Dimmelo e basta. Perché? Perché questa farsa? E' per via della Dottoressa Kosuke? Si è stancata di scopare e basta?»

Akiteru riemerge dalla zuppa con gli occhi sgranati, Leon guarda suo figlio con un'espressione dura e indecifrabile. Solo la madre continua tranquilla a masticare tofu, palesemente disinteressata a una conversazione senza scopo.

Kei si lascia cadere sulla sedia. Aspetta uno schiaffo, che però non arriva. Tsukishima Leon non batte ciglio e, prima di rispondere, ritiene opportuno terminare le ultime tre foglie di insalata rimaste nel suo piatto. «A parte il linguaggio da portuali, Kei, che davvero non ti si addice, preferirei che non parlassi di argomenti di cui non sai nulla.»

Kei sorride, sembra calmo. Gli occhi di Leon restano fermi dietro le lenti, ma quel sorriso beffardo lo fa rabbrividire. «Sai, per l'inizio dell'anno scolastico siamo venuti a visitare la centrale. Non so perché mi era venuta la fantasia di farti una sorpresa. Ogni tanto, anch'io sono davvero un idiota. Comunque, sono venuto a bussare al tuo ufficio, ma tu eri... diciamo, occupato. Non ti preoccupare, non stavi... aspetta, cerco di essere meno portuale,... copulando. Ma mi è sembrato che la situazione non fosse esattamente professionale e ho preferito non disturbare. Devo dire che sono rimasto molto deluso. Non da te. Dalla Kosuke: non la facevo così puttana. Mi piaceva, persino.»

«Questo assolutamente non te lo permetto, Kei!»

Il sorriso di Kei diventa di trionfo. E' una vittoria insperata: il tono di Tsukishima Leon si è alzato di volume abbastanza per poterla considerare una sgridata. Una perdita del controllo. Un punto debole.

«Tsukishima Kei, chiedi subito scusa!» ripete.

«A chi? Alla Kosuke? O a te? Ci è capitata per caso la sua lingua nella tua bocca?»

«Kei! Basta!» Leon si è alzato di scatto, facendo leva sulle mani aperte contro il piano del tavolo. Torreggia sulla famiglia, dal suo metro e novantatré di statura.  «Lasciala stare! Questa cosa riguarda solo noi tre!»

Kei alza il viso e continua a sorridere. «No. Non basta. Mi sto divertendo. Che fai, la difendi? Sarai mica innamorato?» 

«Chiedi scusa!» ripete Leon, trattenendo la collera.

«Chiedi scusa, Kei» interviene atona sua moglie, rinvenendo dal torpore.

Anche Kei si alza, e si sporge verso il padre attraverso il tavolo, nella stessa identica posizione di lui. «Col cazzo che ti chiedo scusa!  Non lo farò mai più. Mai nella vita. Tu devi chiedere scusa! A me! A lui! E a lei!»  urla, indicando il fratello e la madre.

Leon crolla seduto, i pugni stretti sul tavolo, le spalle schiacciate non tanto da quegli sfoghi da adolescente, quanto dalla improvvisa presa di coscienza di non essere più capace in alcun modo di comunicare con suo figlio. Sulla calma e sulla lucidità di Kei, sulla sua ragionevolezza, sulle mille somiglianze fra loro, aveva creduto di poter sempre contare, pensava che fossero i pilastri del loro rapporto, solidi ponti gettati fra due caratteri difficili, cementati dalla stima reciproca, da un affetto difficile da dimostrare, ma con radici forti. Quand'è che la situazione gli è sfuggita di mano? Quando è andato alla deriva, Kei? Quale partita mancata, o compleanno dimenticato, o promessa rimangiata glielo ha strappato senza che se ne accorgesse?

«Non hai niente da dire?» Kei incalza, urlando ancora più forte. «Bene! Perché neanche io ho niente da dirti. Né adesso, né domani, né mai. Non sei significativo Tsukishima Leon. Non vali niente come padre. E non sei il gran genio che credi di essere. Vattene, togliti di mezzo e lasciami vivere.»

Kei attraversa il soggiorno con i pugni serrati e si proietta in corridoio con lunghe falcate delle sue gambe magre.

Il rumore della porta che sbatte rimbomba nel cuore di Leon Si sta ripetendo, identico, quello che è successo a lui trent'anni prima. Una nuova messa in scena di un vecchio copione, con un finale triste: suo padre è morto senza che si rivolgessero la parola per decenni, senza aver mai conosciuto i nipoti.

Guardare Kei è come guardare in uno specchio. Assistere impotente allo spettacolo del figlio che commette i suoi stessi identici errori è un fallimento assoluto. Esserne la causa, una dannazione. Leon si toglie gli occhiali, si strofina il naso, si asciuga una lacrima.  Gli finisce fra le mani un modellino di dinosauro, che Kei ha abbandonato sul tavolo. Ne percorre i volumi col pollice, cercando il contatto con le dita lisce di Kei sulla superficie di legno ruvido. Quando si alza da tavola, se lo infila in tasca.

***

Un altro vantaggio del profondo blu è che assorbe le lacrime. Scivolano via, salate nell'acqua salata, e si disperdono senza dolore. Quando si riemerge si può dire senza mentire di non aver pianto affatto. Kei lascia andare fra le labbra una piccola bolla che risale, i suoi polmoni sono un po' più vuoti.

La scenata che ha fatto ieri è stata umiliante. Mettere in mostra quello che hai dentro non serve a niente, se non a farti apparire debole, a rendere concrete e visibili le tue paure, a offrire il fianco al nemico. Non succederà più, non perderà mai più il controllo.

Bisogna imparare a gestire la pressione interna, a sfiatarla piano piano, come aria da una valvola. Bisogna creare grandi porte a tenuta stagna, che tengano dentro le proprie emozioni e fuori quelle altrui, una barriera di lucida consapevolezza, un baluardo impenetrabile alle aggressioni esterne.

Se non dai a vedere che qualcosa ti ha colpito, allora non ti ha davvero colpito. Dopotutto, come dice sempre papà, per il mondo, siamo quello che il mondo vede. E come sempre, ha ragione. E' così che si vince, restando al margine delle cose, guardandole dall'alto, senza farsi toccare.

Forse ogni tanto si può lasciar entrare qualcuno in punta di piedi, ma devono essere persone fidate, che rispondano a due fondamentali requisiti: essere leali ed essere docili. Come Yama, come Aki, che stanno alle sue regole e sono disposti a subirle senza ribellarsi, senza farsi troppe domande. Perché gli vogliono più bene di quanto dovrebbero.

E comunque, bisogna tenerli a una certa distanza. Da troppo vicino, l'inganno si vedrebbe. E chi scopre l'inganno ha in pugno Tsukishima Kei. Ma Tsukishima Kei non appartiene a nessuno e non ha bisogno di nessuno, se non di se stesso.

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Capitolo 22
*** Fantasmi ***


22 - Fantasmi


16 novembre 2012
 

Quando Kei riapre gli occhi è notte fonda. 

Dalla finestra si vede la strada immersa nel buio. I lampioni sono spenti, qualche luce lontana arriva da altri quartieri, dove le gente vive altre vite, indifferenti ed estranee.

Quando era piccolo, per Kei era un tormento quest'idea balzana che nello spazio di una vita si potessero incontrare solo un numero finito, e molto piccolo, di altri umani e solo con pochi di loro intrecciare relazioni. Per una mera questione statistica, si rischiava di vivere e morire senza aver conosciuto nessuna persona realmente significativa. Nessuna davvero compatibile.

Aveva posto questo problema a tutti e la risposta più convincente, nella sua totale assurdità, era stata quella di Aki: siamo in mano al destino. Significava che i calcoli di Kei erano giusti, ma che forse non era tutto lì, in poche brutali righe di algebra su un foglio. Dopotutto c'era la Bellezza al mondo, che non si quantificava facilmente: si poteva oggettivare in qualche misura, ma non ridurre in cifre. C'era la fede, per quanto poco gli interessasse, al livello personale. Esistevano tutta una serie di istanze umane sfuggenti, riluttanti a essere rappresentate da una formula e capaci di ribaltarne il risultato.

Forse, pensa Kei, è una di queste che lo ha portato esattamente dove si trova ora, a infilarsi gli occhiali alla cieca nel buio, cercando di distinguere i volumi di una stanza sconosciuta, in una casa sconosciuta, in una città ancora più sconosciuta.

Una cosa sola non è sconosciuta, anche se dovrebbe esserlo, ed è il respiro regolare di Tetsurou, immerso nel sonno più profondo.

Dorme prono, con la faccia incastrata fra la seduta e lo schienale del divano e la testa premuta contro le cosce di Kei. Se si muovesse, finirebbe per svegliarlo. Allunga il braccio e tasta la superficie del tavolino a fianco del divano, in cerca del telefono. Lo trova e controlla l'ora: 05:08. La sveglia è puntata alle sei e un quarto.

Kei non è uno che dorma molto: sei ore per notte al massimo, qualche volta di meno. Stanotte ne avrà dormite quattro scarse. Cerca di stiracchiare le spalle intorpidite con la massima economia di movimenti. Si è addormentato da seduto, rannicchiato nell'angolo e, nel sonno, è crollato di lato, tutto storto, con la testa contro i cuscini dello schienale, un braccio ripiegato sotto il viso e l'altro abbandonato. Nel momento in cui ha ripreso coscienza, la mano attaccata in fondo a quel braccio vagante era posata sul dorso di Kuroo.

Kei si massaggia il collo e si concede di non pensare per qualche minuto ancora. Di non fare assolutamente nulla, se non chiudere gli occhi e ascoltare il respiro di Kuroo nel silenzio.

E' un mistero come possa riuscire a respirare in quella posizione, eppure sembra sereno. Domani, o meglio oggi, sarà una giornata dura per lui e il giorno successivo anche di più, dovrebbe accumulare più ore di sonno possibile.

Kei non ha ancora deciso cosa farà: vorrebbe presenziare alla cerimonia funebre, ma non ha alcuna intenzione di restare ospite lì quando la casa si riempirà di gente. La soluzione più sensata è andare a dormire a casa di Akiteru la notte successiva e ripartire sabato, subito dopo il rito. Condoglianze. Buon compleanno. Addio.

E' piuttosto chiaro che  tutta questa faccenda sia una forma particolarmente infida di sadomasochismo, nutrito dallo scemo che russa lì a fianco, che si è messo in mente di voler esplorare i confini del proprio orientamento sessuale proprio adesso. Con la persona sbagliata.

A monito di come stanno le cose, la foto sulla mensola, di Kuroo con la ragazza bionda. Kei iesce a distinguere solo la cornice, ma è più che sufficiente: prima ha avuto modo di studiarla attentamente. Lei sembra sulla ventina, forse anche ventidue o ventitré, ma sarebbe proprio da Kuroo cercarsi una più grande. La cosa che fa impazzire Kei è che, guardandola bene, in qualche modo... beh, occhiali a parte...

«A cosa pensi?» il sussurro di Kuroo lo raggiunge a bruciapelo.

Al fatto che ti scopi una che mi somiglia. Che all'università ne troverai chissà quante altre. E prima o poi te ne sposerai una.

«Dovresti dormire.»

Tetsurou si è voltato, ora è rivolto verso l'esterno, ma la sua testa è sempre premuta contro Kei.

«Ho sognato che il telefono squillava, vedevo il numero dell'ospedale e... »

«Non ha squillato. Sei andato a dormire vestito sul divano, per niente. Come se a infilarti un paio di pantaloni e un maglione ci volesse chissà quanto tempo... »

«Ma che ore sono?»

«Le cinque.»

«Cosa? Le cinque?» Tetsurou scatta a sedere come un pupazzo a molla. «Le cinque è troppo tardi. Non avevamo messo la sveglia? Cazzo! Che ore saranno a Tar..Tas..quel cacchio di posto in Uzbekistan?»

«Tashkent. A Tashkent è circa... l'una di notte.»

«Cazzo! Non posso chiamare all'una di notte.»

«Per questo ho chiamato io.»  Kei riesce a dirlo con voce perfettamente naturale, come se quella telefonata non gli avesse fatto venire i sudori freddi.

«Dici sul serio? Quando?»

«Verso mezzanotte e mezzo. Ossia le otto e mezzo di sera in Uzbekistan, all'incirca.»

«E io?»

«Russavi. Dormi in una posizione, assurda, a proposito. Non so come fai a respirare.»

Che avrebbe voluto dormirgli addosso, che forse non sarebbe riuscito a trattenersi dal farlo, se fossero stati su un futon anziché su un divano  stretto e scomodo, Kei non lo dice.

«Davvero hai chiamato mia zia?» Tetsurou sta ancora elaborando l'informazione principale. Si gira sul divano, rivolto verso Kei, le gambe incrociate sotto la coperta.

«Non tua zia, tuo cugino.»

«E dove hai preso il numero?»

«Sul frigo, di sotto. Avevo visto un foglio attaccato con tutti i numeri di famiglia.»

«Sei incredibile...» l'ammirazione vibra incontrollata, insieme a una nota più profonda. Kei immerge lo sguardo nel buio.

«Ho solo fatto una telefonata. Comunque, il loro aereo arriva alle diciannove. Vengono qui a casa direttamente.»

«Mi piace che la chiami casa...»

«Casa tua. Non fare il cretino. Ha detto che ti chiamerà appena si farà un'ora decente. Intanto ti ringrazia.»

«Mi ringrazia?»

«Di avergli lasciato giocare la finale, prima di chiamarlo.»

«E' stato nonno a insistere per aspettare. Io sono l'idiota che ha fatto casino con il fuso orario.»

«Eri stravolto. Senti, io di tuo nonno non gliel'ho detto. Dovresti dirglielo tu. Era già molto strano che fosse un perfetto estraneo a comunicargli un lutto in famiglia. Ho pensato che...»

«Non sei un perfetto estraneo.»

E cosa sono?

«Non dire idiozie. Sai cosa intendo.»

Kuroo scuote il capo e allunga una mano verso il braccio di Kei. Lo tocca con delicatezza, solo per un attimo. «Kei. Grazie.»

Pronuncia quelle due parole con un trasporto che neppure la lucidità di Kei riesce a mettere in discussione, e che gli fa tremare il cuore.

«Hai freddo?» chiede premuroso Kuroo.

Purtroppo, non ha tremato solo il cuore.

«Un po'.»

«Mi spiace, le finestre aperte tutto ieri non hanno aiutato.»

Tetsurou si alza, accende la luce e raggiunge l'armadio.

La stanza, riscattata dal buio, torna a esistere all'improvviso, insieme a loro due. L'immagine di Kuroo che cammina a piedi nudi, con i capelli scarmigliati, mentre sbadiglia e si gratta la base della schiena sotto la maglietta, diventa familiare in meno di un secondo. Mentre la coglie, Kei inizia a sentirne la mancanza.

«Metti questa!» gli ordina Kuroo, lanciandogli una felpa grigia, ben piegata fino a un momento prima. Sa di pulito.

«E' ghiacciata» obietta Kei. E' una scusa stupida, per ottenere uno stupido scopo. E fare la figura dello stupido.

«Allora la metto io, prendi questo qui.» Tetsurou si spoglia del maglione che ha indosso e lo porge a Kei, che lo indossa insieme al migliore sguardo disinteressato e algido che ha in arsenale.

E' da ieri che Kei ha puntato quel maglione: si tratta del sottogiacca nero della divisa scolastica del Nekoma, forse uno dello scorso anno, perché la fascia in basso e i polsi sono leggermente sformati dall'uso. Sul petto, a sinistra, è ricamato il nome di Kuroo, in rosso. E' tiepido del suo calore e ha l'odore giusto: estate, aria aperta, colonia fuori moda; lo stesso profumo che emana, sottile e persistente come un'eco, da tutta la casa.

«Si vede che vai in una scuola seria. Avete i maglioni di vera lana. Il nostro, a parte essere color vomito, è una roba sintetica che portarlo o non portarlo è lo stesso, si gela comunque.»

«Puoi tenerlo.»

«Vuoi rifarmi il guardaroba?»

«Voglio che non senti freddo» risponde Tetsurou, parlando all'anta ancora aperta dell'armadio. Voglio che porti le mie cose. Voglio sentirti addosso il mio odore. Voglio... 

«Vado a preparare qualcosa da mangiare, che ne dici?» propone Kuroo, che si è messo a scrutare le foto sulle mensole come non fossero le proprie e le vedesse per la prima volta.

Kei lo osserva perplesso. «Okay. Non devi andare al bagno? Posso usarlo io?»

La vescica gli sta scoppiando, ma Tetsurou sorride amabilmente: «Certo. Sai dov'è. Allora intanto vado, fai con calma, ti aspetto di sotto.»

Si chiude la porta alle spalle e si dà alla fuga per la scale. Altri venti secondi a guardare Kei seduto sul suo divano, sotto la sua coperta, con addosso i suoi vestiti e neanche una doccia ghiacciata basterebbe a farlo ragionare.

Però qualcosa deve essere vero, del fatto che è super-scemo, perché se solo ci avesse pensato un attimo, sarebbe fuggito a chiudersi in bagno a doppia mandata. Invece si ritrova in cortile, all'alba, a pisciare di nascosto contro il vecchio acero rosso, come quando aveva dieci anni, e Yu-chan ci metteva una vita a prepararsi. Se non altro, il gelo polare delle prime ore del mattino, in certi casi aiuta.

***

«Tamagoyaki va bene?» chiede Kuroo rivolto al suono dei passi di Kei sulle scale.

«Non ho molto appetito, a quest'ora.»

Dopo pochi attimi, Kei appare sulla porta della cucina, dopo aver depositato la borsa vicino all'ingresso. Kuroo guarda a quel gesto con sospetto.

«A quale ora hai appetito?»

«Quella in cui non mi rompono le palle.»

Tetsurou ha già realizzato che adora quel sarcasmo strafottente. Gli piace guardarci attraverso. Gli piace farselo scivolare addosso e ribattere cercando di pungerlo o di stupirlo. 

«E' tamagoyaki dolce, visto che non ti piace il salato a colazione.»

«Cosa te lo fa pensare, Holmes?»

«Elementare, Watson: ho guardato il tuo vassoio a tutti i pasti, quando eravamo al ritiro. A colazione solo frutta, tè, panini dolci. Chi pensi che abbia bacchettato tutti quelli che prendevano più di un anpan, per fare in modo che non finissero subito?»

Evitare del tutto di sorridere è impossibile. Il meglio che Kei riesce a fare è trasformare il compiacimento in provocazione. «Stai mendicando un grazie a quattro mesi di distanza? Carenza di affetto? Il tuo alzatore non ti coccola abbastanza?»

Kei inizia ad apparecchiare. Si muove in cucina con la confidenza relativa di uno che l'ha esplorata il giorno prima. Tira fuori tazze, piatti, bacchette, cucchiaini.

«Parli di Kenma? Mi dispiace deluderti, Tsukki, ma è negato per questo genere di cose.»

«Ma come? Kozume non è innamorato di te da quando aveva cinque anni?»

Tetsurou ride, quella risata franca e rumorosa, che gli fa sussultare le spalle. E' bello sentirlo ridere così, dopo averlo visto così avvilito ieri.

«Fammi un favore, Tsukki, apri l'anta vetrata del pensile a destra. Quello, esatto. Prendi la scatola dei dorayaki. E' quella di latta azzurra.»

Kei esegue. «Dove la metto? Comunque, non hai risposto.»

«A tavola, aprila se vuoi. Siamo un po' gelosi, Tsukishima-kun? Attenzione, potrebbe piacermi.»

«Non sono mica tua moglie, per me puoi farti tutti gli alzatori che vuoi. Io partirei da Oikawa, che ha un bel culo.»

«Ecco perché perdete tutte le partite con il Seijoh: Kageyama se la fa sotto appena vede il capitano e tu passi il tempo a guardargli il culo. Ma devo insegnarti proprio tutto, Tsukki? I culi si guardano dagli spalti, non dal campo!»

A Kei scappa una risata. Kuroo è divertente, un aggettivo che Kei usa con estrema parsimonia. Di solito, la gente lo annoia o lo infastidisce. Ma lui è divertente, punto e basta.

«Era una risata, quella?»

«No. Un borborigmo. Quanto ci mettono queste frittate a cuocere?»

«Il tempo che serve. Tanto non hai appetito. Hai fretta, invece? Ho visto che hai rifatto la borsa da viaggio.»

Kei toglierà le tende subito dopo colazione. Ma non vuole farne argomento di conversazione. Quello che vuole è provocarlo ancora un po'.

«A proposito, Toshiro si è qualificato, al torneo. Te l'avevo detto, prima, Kuroo-san? Forse no. Piuttosto impressionante, non trovi?»

«E' un mezzo genio. Se zia Mirai non avesse litigato con nonna cent'anni fa, forse ora Shiro-chan sarebbe un campione di sho... »

Tetsurou si interrompe e si volta di scatto, con la paletta di plastica a mezz'aria che gocciola olio caldo. «Aspetta un attimo, Tsukki, perché chiami per nome mio cugino?»

Kei alza le sopracciglia e indica il frigo con un cenno del capo «Sul foglio lì c'era scritto Toshiro, il cognome non lo sapevo. Mi sono scusato, ma lui ha insistito che andava bene Toshiro. E' stato molto gentile. E non mi pare abbia il marchio dei Kuroo.»

«Mn?»

«Mi pare molto intelligente, ma non super-scemo.»

«Te l'ho detto: è un mezzo genio. Un po' autistico.»

Tetsurou torna a dedicare la sua attenzione al Tamagoyaki che sfrigola. Tsukishima Kei appoggiato al pensile della cucina, che ti fissa da dentro il tuo maglione, con le braccia conserte, e il sorrisetto tracotante, dovrebbe essere illegale. Guardarlo e concentrarsi su un botta e risposta senza fare la figura del deficiente è irrealizzabile.

«Se ti qualifichi a un mondiale di scacchi juniores puoi permetterti di essere un po' autistico» osserva Kei, indulgente.

«Arriva a un metro e settantacinque scarso.»

«Non devo ballarci il valzer.»

«E cosa ci devi fare?»

«Non lo so, due chiacchiere.»

«Sei la persona più taciturna che conosco.»

«Magari dipende dall'interlocutore.»

Chiunque altro si offenderebbe, o sarebbe almeno un po' irritato. Ma Kuroo Tetsurou è fatto di un materiale diverso, che non si scalfisce, che accoglie anche i proiettili, semplicemente rimodellandosi. Scolpisce il mondo a immagine delle sue certezze.

«Allora non ho di che preoccuparmi. Sono fantastico, no?» commenta con un sorriso disarmante e uno schiocco di lingua, mentre mette a tavola il piatto con le rondelle di tamagoyaki disposte in fila.  «Fidati, non incontrerai mai di meglio» aggiunge, ammiccando. 

Autoironia al servizio dell'autostima, una formula magica.

Kei scuote la testa e sbuffa, ma è intimamente convinto che sia la verità. Che non incontrerà mai di meglio. E gli viene un po' di tristezza per se stesso, che il meglio lo può sfiorare, ma non afferrarlo. E una certa insofferenza, perché quanto deve essere cotto un ragazzo intelligente, per pensare una stronzata del genere?

Alla fine, si mette in bocca un pezzo di tamagoyaki rovente, per tenere occupate le mani e scottarsi la lingua.

«Ti piace?» chiede Kuroo.

«E' buono. Ma non serviva che ti mettessi a cucinare.»

«Non potevo rischiare la vita come ieri sera. Ma come si fa a far venire così schifoso un ramen già pronto? Era... boh, acido.»

«Crepa. La prossima volta me ne resto a casa.»

Kei sottolinea l'invito con il dito medio e poi si infila in bocca uno spicchio di mela.

«Non so come avrei fatto senza di te» dice Tetsurou, giocherellando con le bacchette nel tessuto cedevole della frittata.

«Dall'insulto alla lusinga in meno di un boccone. Un po' border-line, Kuroo-san. Datti una regolata.»

«Non importa cosa rispondi. Non cambia la verità dei fatti: non so come avrei fatto senza di te. Per questo non mi piace quel borsone all'ingresso.»

Il rumore della tazza di Kei sul piattino è l'unico segno di un nervosismo che non trapela nella voce. «Fattelo piacere. Sono venuto a darti una mano, perché pensavo ne avessi bisogno. Oggi avrai tutto il supporto che serve, dalle persone più giuste. Tuo padre arriva fra sei ore, tua zia fra dodici e tua sorella dovrebbe essere qui in meno di un'ora. E' un lutto privato. Che senso ha che rimanga qui a occupare spazio in casa tua?»

«Dovresti ascoltarti, quando parli.»

«Lo faccio. E mi trovo molto sensato.»

«Lo sei. E da quello che dici, è chiaro che qui hai fatto tutto tu. Mi hai quasi ucciso con la cena, questo è vero, ma senza di te adesso sarei con la schiena a pezzi sulle sedie di cardiologia, senza sapere chi arriva a che ora, senza aver avvertito mia zia, senza aver organizzato un bel niente.»

«Guarda che il grosso lo hanno fatto i Kozume, ieri. Ringrazia loro.»

«Lo farò. Ma...»

«Niente ma. A proposito: immagino che appena arriva tua sorella andrete in ospedale. Però ricordati che dev'esserci in casa qualcuno oggi alle tre, quando il tanatoprattore riporterà a casa tua nonna. E domani la cerimonia è alle undici. Undici. Capito? Ti ho mandato due messaggi sul calendario del telefono.»

«Oggi alle tre! Domani alle undici!» ripete marziale Kuroo, con un accenno di saluto militare.

Kei sorbisce l'ultimo sorso di tè verde con soddisfazione. E' raro trovare tè così buono in una casa privata.

«Vorrei che non te ne andassi» dice Kuroo. 

Sta usando il suo vero super-potere, quello di smentire il contenuto di una frase con  il tono della voce. Le parole di una supplica pronunciate con la cadenza di un ordine, una cosa potente che fa venire a Kei una voglia matta sia di accogliere la prima che di obbedire al secondo. Ma non può farlo.

Si pulisce la bocca con calma, ripiega il tovagliolo, si alza con altrettanta calma. Sta per parlare quando suona il campanello.

Kuroo sfodera il suo sorriso asimmetrico. «Che peccato Tsukki-kun! Non posso proprio stare a sentire le tue scuse, adesso. Devo aprire» dice, avviandosi alla porta.

Kei lo segue, afferrando il cappotto e la borsa. Il piano è approfittare dei convenevoli, per svignarsela alla chetichella, con un mezzo saluto. I doveri di ospitalità impediranno a Kuroo di seguirlo.

Tetsurou non fa in tempo ad aprire che si ritrova nell'abbraccio stretto e caldo di Yu-chan. Della famosa sorella, Kei riesce a intravedere solo la notevole statura, e una massa di capelli neri in un'acconciatura bizzarra, che non si capisce se sia disordinata a bella posta o realmente scompigliata. Forse entrambe le cose.

«Te-chan, stai soffocando tuo nipote!» si lamenta Ayumi.

«Se non sopravvive a un abbraccio come si deve, non è mio nipote.» 

Kuroo le schiocca un bacio sulla guancia, prima di lasciarla andare. Quando si separano, e Tetsurou si fa da parte per permetterle entrare, diventa evidente, sulla figura snella di lei, il ventre arrotondato e prominente di una gravidanza avanzata.

Poi il tempo rallenta, fin quasi a fermarsi,  nell'attimo in cui Tsukishima Kei e Okamoto Ayumi incrociano lo sguardo. Le loro espressioni diventano lo specchio una dell'altra: il riconoscimento reciproco, un muto stupore, gli occhi sgranati, il respiro sonoro, la bocca aperta.

«Tsukishima Kei...» sussurra Ayumi. Le sillabe scivolano via dalle sue labbra scandite una a una, al rallentatore.

Kei impallidisce, stordito, portandosi una mano al viso, l'altra si aggrappa intorno alla cinghia della borsa, così stretta che le unghie penetrano la carne.

Tenendosi il ventre con la mano, Ayumi si inchina. E' un saikeirei  formale di profondo rispetto: la schiena incurvata, il busto quasi parallelo al pavimento, lo sguardo inchiodato ai piedi.

Tetsurou non riesce a decifrare nulla di ciò che accade. Resta a bocca aperta, paralizzato dallo sconcerto, anche lui parte di quell'incomprensibile quadro vivente in stasi.

Finché Kei scappa, sbloccando il tempo. Si guadagna l'esterno con una spallata che fa finire Ayumi addosso al fratello. Via, fuori di casa, fuori dal vialetto, in strada. Kei corre a perdifiato, alla cieca, con le lenti appannate dalla condensa e il cappotto in mano, svoltando a caso nei vicoli di Nerima, senza alcuna idea di dove stia andando.

Corre e basta, come se fosse inseguito da un fantasma.

Ed è così.

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Capitolo 23
*** Lacrime di coccodrillo ***


23 - Lacrime di coccodrillo


11 marzo 2011
 

La cosa più spaventosa di un terremoto è il boato. Anche per uno razionale come Tsukishima Kei, il rombo della terra che si scuote è un suono che vibra delle armoniche più profonde della paura. Un terrore ancestrale, viscerale, da uomini primitivi in balia della furia degli elementi.

Quando la terra trema, gli studenti del club di pallavolo della scuola media Amemaru hanno da poco finito il riscaldamento e stanno allenandosi nel servizio.

Il boato sorprende Kei in fila, in attesa del suo turno. La palla gli sfugge di mano e rimbalza in modo scomposto, attraversando la palestra con lentezza irreale.

La terra trema. Si scuote, si torce, sobbalza e intanto lancia quel suo cupo ruggito da bestia mostruosa.

Le ceste a rotelle iniziano a vagare per la palestra spinte con violenza da mani invisibili, l'orologio si stacca dal muro in uno schianto di vetri in frantumi, i pali della rete oscillano sulle bussole di fissaggio, urlando con uno spaventoso clangore metallico.

E continua. Continua. Continua. L'adrenalina rallenta il tempo, il panico si diffonde, in molti piangono, ma non Kei. Kei è spaventato, ma lucido. Ha avuto la presenza di spirito di guardare l'orologio prima che cadesse e segnava uno o due minuti dopo le due e tre quarti. Ora il cellulare indica tre meno dieci e la terra trema ancora. Anche tutte le finestre della palestra tremano, vibrando nelle cornici.

Yamaguchi è fra quelli che piangono; non è isterico, ma terrorizzato. Accovacciato in un angolo, respira troppo velocemente.

«Non frignare, Yama. Respira come si deve!» gli ordina Kei, spazientito.

Tadashi non gli risponde, forse non lo ha nemmeno sentito.

Kei si inginocchia e gli stringe la spalla. «Yama! Respira. Lentamente. Così: dentro.... fuori...» Kei offre il modello di una respirazione lenta e regolare. «Così, Yama. Dai, respira piano e riprenditi. Dobbiamo andarcene.»

Gli occhi di Tadashi tornano presenti e si guardano intorno. Kei lo afferra per la maglietta costringendolo ad alzarsi. «Usciamo, seguimi.»

Benché evacuare i locali al piano terra sia esattamente quanto previsto dalle esercitazioni antisismiche, nessuno lo sta facendo.

«Usciamo tutti! Andiamo al punto di raccolta» ripete Kei a voce più alta, indicando la porta con gesti ampi. «Muovetevi, ma non correte.»

Sarebbero le battute del coach, il quale, però, sembra aver dimenticato il piano di evacuazione e anche di essere l'unico adulto.

La paura ti deve solo attraversare, Kei, non permetterle di comandarti gli sussurra nella mente la voce saccente di suo padre.

«State lontani dalle finestre e dai faretti del soffitto!» intima Kei.

Come in risposta, un faretto si stacca e si infrange sul pavimento. Uno dei primini grida, Kei lo prende per un braccio e lo trascina, insieme a Yama, verso la porta. Lo seguono tutti, come un branco di pecore.

Sono quasi arrivati al punto di raccolta esterno, quando la scossa finisce. E' stata fortissima oltre che molto lunga, questo Kei l'ha capito. La scuola ha l'aspetto terrificante e desolato di un manicomio, in cui si aggirano spaesati adulti incapaci di fingersi tranquilli e ragazzini atterriti.

Una cosa che Kei non dimenticherà di quel giorno è il fatto che il primo a pensare alla centrale nucleare sia stato Yama, mentre aspettavano che sua madre venisse a prenderli in auto, per riportarli a casa.

«Pensi che tuo padre...» Yama, fulminato dallo sguardo astioso di Kei, si morde la lingua. «che lì a Fukushima sia tutto a posto?»

«La centrale ha il sistema SCRAM attaccato ai sismografi, te lo ricordi? Quello con le barre di controllo che entrano tutte insieme nel nucleo e spengono i reattori.» Kei mima, con le mani che spingono l'aria verso l'alto, il movimento di inserimento delle barre. «Con un terremoto così, lo SCRAM sarà già bello che scattato.»

Yama annuisce, gli hanno spiegato questa faccenda quando hanno visitato la centrale all'inizio dell'anno scolastico. Non si ricorda bene i dettagli, ma conta di più il fatto che Tsukki sia così tranquillo.

«In questo momento staranno funzionando i generatori elettrici a diesel, per continuare il raffreddamento, che serve per le reazioni residue» prosegue Kei con sicurezza. Le procedure d'emergenza della centrale, il loro oliato meccanismo che non ammette imperfezioni e garantisce la sicurezza della popolazione, sono state le favole della sua infanzia. Papà gliele raccontava pieno di orgoglio, tenendolo in braccio davanti al bellissimo plastico in scala 1:50 di Fukushima Dai-chi, che aveva costruito a casa. Un oggetto meraviglioso e proibito, che né Kei né Aki avevano il permesso di toccare. Ovviamente, è una delle prime cose che si è portato via, la scorsa estate.

Il resto di quella giornata è frammentario e confuso. Altre scosse forti, le notizie tragiche e incredibili dello tsunami e della devastazione di Sendai, le reti telefoniche e internet impazziti e inutilizzabili. Più di tutto, Kei ricorda l'espressione determinata di sua madre, costretta dagli eventi a tornare nel mondo reale. Sotto la facciata di disinteresse e svagatezza si nasconde una donna molto intelligente.

La televisione offre informazioni confuse, la TEPCO non rilascia dichiarazioni. Tsukishima Leon non telefona ai suoi figli.

Kei inizia a sospettare che qualcosa non vada quando, verso sera, internet ritorna a funzionare e sui siti americani e cinesi si vedono le immagini di Sendai dopo il maremoto. Strade, case, automobili, treni travolti e spazzati via dalla furia delle onde anomale, la cui altezza non è mai la stessa ad ognuno che dà la notizia. Kei è sicuro che le barriere anti-tsunami della centrale siano alte dieci metri. E se le onde fossero state più alte? Gli è chiaro cosa accada a un generatore diesel se si trova sommerso in acqua di mare: smette di funzionare. Quindi le domande sono due.

Primo: come andranno avanti gli impianti di raffreddamento se i generatori sono fuori uso?

Secondo: il calore delle reazioni residue può accumularsi fino a diventare pericoloso?

La prima domanda ha una risposta semplice e amara: in nessun modo. Per la seconda Kei non ha certezze. Non conosce la formula, non ricorda i parametri della centrale, se anche li sapesse, forse non vorrebbe davvero fare il calcolo. Mettere la testa sotto la sabbia: una delle cose che papà detesta di più al mondo. Neanche a Kei piace, ma questa volta ne comprende le attrattive.

«E se esplodessero i reattori? E se il personale fosse esposto alla radiazione? E se la TEPCO volesse lasciarli lì dentro, pur di recuperare la centrale?» chiede ad Akiteru, steso accanto a lui sul letto, in una raffica di dubbi spaventosi.

Aki si finge tranquillo, ma continua a palleggiare contro il muro da disteso, uno dei suoi gesti più tipici di auto-rassicurazione. «Kei, se fosse così grave ce lo direbbero. Evacuerebbero le città e i villaggi lì intorno. E anche il personale, no?»

Kei annuisce, ma non è affatto convinto che qualcuno si prenderebbe la responsabilità di diffondere il panico prospettando la probabilità aleatoria di un incidente nucleare grave come la fusione di un reattore. Lo direbbero all'ultimo momento, se l'esplosione diventasse una certezza e l'evacuazione immediata una necessità.

«Sei preoccupato per papà, Keicchin?» gli domanda Aki, interrompendo il palleggio e allungando una mano per accarezzargli i capelli.

Kei interrompe il gesto con una manata infastidita. «Non chiamarmi così! Non me ne frega un cazzo di lui» mente Kei. «Sono preoccupato perché se scoppiano i reattori, siamo tutti fottuti.»

«Papà non permetterebbe a nessun maremoto di fare esplodere i suoi preziosi reattori. Sono come...» Aki si interrompe e lancia forte il pallone contro il muro. L'angolo di rimbalzo lo proietta contro la libreria, sulla scrivania e poi per terra.

«Volevi dire: figli? Quelli che vengono prima di tutti,  a cui si dedica tempo e a cui non si dice mai di no?» Kei, a quattordici anni, padroneggia il sarcasmo come un adulto. «I reattori saranno anche figli suoi, ma, sai com'è, lui ancora non comanda gli elementi, anche se  forse è convinto di sì. Certo che poteva almeno alzare il telefono per sapere se siamo ancora vivi.»

«Lo ha fatto, Kei. Ha chiamato. Due volte. Sei tu che gli hai bloccato il numero.»

E' la verità. Kei si ricorda all'improvviso di averlo fatto davvero, mesi fa. Mamma ha addirittura inscenato un blando tentativo di sgridarlo. «Tu ci hai parlato, Aki? Che ti ha detto?»

«Che sta bene. Che dobbiamo stare tranquilli. Che è tutto sotto controllo, alla centrale. Che dobbiamo rispondere al panico altrui con la massima lucidità e cercare di essere d'aiuto qui a Osaki.»

Sembrano proprio le parole che papà direbbe ad Akiteru, per questo Kei pensa che non sia affatto la verità.
I giorni successivi gli daranno ragione.

***

La visita degli Okamoto arriva tre mesi dopo. Si presentano senza preavviso, sette giorni dopo la morte di Tsukishima Leon, per una leucemia fulminante che le fonti ufficiali TEPCO negano essere legata alla radioattività a cui è stato esposto nei giorni del disastro.

Quando suona il campanello, è mamma ad aprire la porta. E' strano vederla ancora così presente a se stessa; il tributo d'attenzione che la realtà ha pretesto da ciascuno si misura in decine di migliaia di morti, famiglie distrutte e un incidente nucleare secondo solo a Chernobyl. C'è voluto tutto questo per farla riscuotere, anche se sta già pian piano scivolando nella sua normale inconsapevolezza.

Kei sente i convenevoli e tenta la fuga verso la propria stanza, ma Akiteru, che sta scendendo le scale, lo trascina giù di forza per la collottola, insensibile alle minacce di morte.

I visitatori sono un uomo e una donna giovani, in abiti da lutto: Okamoto Tetsuya e Okamoto Ayumi. Lui è un tipo comune, lei invece attira l'attenzione: è piuttosto alta per una donna, con un bel fisico e un viso volitivo i cui tratti, forse, si adatterebbero di più al volto di un uomo. Al contrario del marito, occupa lo spazio come se le appartenesse, ed è una cosa che a Kei piace.

Gli piace di meno quando si inchina di fronte all'altare commemorativo del padre. Addirittura si prostra. In ginocchio, con la faccia sul pavimento e le punta delle dita unite. E piange. Un pianto quieto e silenzioso, ma vero, come se fosse disperata. Versa più lacrime lei di quante non ne hanno versate Kei, Aki e la mamma, tutti insieme. Eppure, non ha per niente l'aria di una frignona.

«Non posso nemmeno esprimere quanto ha fatto per noi il Professor Leon» dice, dopo essersi ricomposta, di fronte a una tazza di tè. «È un debito di gratitudine che non si può saldare. Io... quando noi, voglio dire, quando è successo, a marzo... »

Il marito le tocca la spalla, lei annuisce. «Vi chiedo perdono, sono qui per onorare il vostro lutto e la memoria di un eroe, non per annoiarvi con i miei fatti privati» dice Ayumi, asciugandosi il viso dalle lacrime e tirando su col naso.

La parola eroe esercita una frizione dolorosa sulle parti esposte dell'anima di Kei, rinnovando una collera, che, anche postuma, continua a divorarlo.

Mamma mormora qualche parola di vago ringraziamento. Akiteru guarda la visitatrice con simpatia e con ammirazione: «Lei lavorava alla centrale con mio padre, Okamoto-san? Sembra molto giovane.»

Ayumi annuisce. Sorride con occhi nerissimi, dal taglio vagamente felino: «Sono stata sua tesista, e poi mi ha offerto di continuare lavorare con lui, poco meno di un paio di anni fa. E' stato un grandissimo e immeritato onore.»

«Dev'essere molto in gamba» si complimenta mamma. E' una formalità, ma Kei pensa che debba esserci del vero: selettivo è un pallido eufemismo per descrivere l'atteggiamento di papà verso i collaboratori.

«E' mio marito il genio» risponde lei, posando la mano su quelle di lui. «Ma, ancora, chiedo scusa. Non siamo qui per parlare di noi» si schernisce.

«Tsukishima Kei» lo chiama, all'improvviso, voltandosi verso di lui. «Tuo padre diceva sempre che gli somigliavi, ma finora non sapevo quanto. Giochi a pallavolo, vero?»

Facile dedurlo dalle scritte sulla felpa. Kei odia quando gli adulti si rivolgono ai ragazzi con domande fuori contesto, solo per tentare di ingraziarseli. 

«Mn» risponde Kei, senza nascondere l'irritazione.

«Anche mio fratello» dice lei, con un sorriso. «Ha iniziato da poco il secondo anno di liceo. In che posizione giochi?»

Kei la trapassa con uno sguardo ostile e non risponde.

«Vedo che le somiglianze con il professore non si limitano al fisico» commenta Ayumi, con una specie di addolorata nostalgia, che non ha alcun diritto di provare. «Quella faccia oltraggiata è proprio identica.»

E' una stronza fastidiosa, ma brava a leggere le espressioni.

«Lo deve scusare» si intromette subito Aki. «Kei è... »

Ayumi lo interrompe subito e si rivolge ancora a Kei: «Sono io che devo chiedere scusa. Tsukishima-kun, mi sto prendendo delle libertà perché sei più giovane di mio fratello, e per la stima che provavo per tuo padre, non certo per mancanza di rispetto. Spero che vorrai perdonarmi.»

Kei sfoggia uno sguardo annoiato e continua a non dire una parola.

Ayumi abbozza un sorriso e inizia a frugare nella propria borsa, estraendo un pezzo di carta. «Tuo padre mi ha incaricato di darti questa lettera» aggiunge, chinando il capo. La porge a Kei con due mani, trattenendola agli angoli fra le dita.

Kei impallidisce. Respira sonoramente, si aggiusta gli occhiali, quindi afferra con malgarbo la busta dalle mani di Ayumi. Si concede il tempo di riconoscere la grafia fin troppo precisa di suo padre e poi strappa la lettera. Così, davanti a tutti, senza aprirla, senza commenti, riduce la carta in coriandoli, una nevicata fuori stagione che si deposita volteggiando sul tappeto.

«Con permesso» dice poi, alzandosi, seguito da un coro di balbettii, parole spezzate e scuse offerte al suo posto.

Kei non ha nemmeno l'ombra di un rimpianto per la lettera in sé o per le lacrime di coccodrillo di un padre ormai morto e sepolto. L'unico vero fastidio è lo sguardo di Okamoto Ayumi piantato in mezzo alla schiena mentre si guadagna le scale: non è rimasta scandalizzata dal gesto, non è sconvolta, non è neppure un po' risentita. Dall'eleganza con cui ha incassato il colpo, sembra che si aspettasse esattamente quella reazione. Purtroppo, non ha l'aria di una che molli facilmente la presa.




***
NdA - Quando, la prima volta che ho visto Haikyuu, ho realizzato che le vicende si svolgono nel 2012 a Miyagi, nel Tohoku, non ho potuto fare a meno di pensare che tutti i personaggi, nessuno escluso, solo un anno prima dell'inizio della storia avevano vissuto direttamente la tragedia del terremoto e maremoto del Tohoku e la catastrofe nucleare di Fukushima. Nel manga e nell'anime non se ne parla mai, ma tutti questi genitori mancanti nelle vite dei personaggi mi hanno subito fatto pensare ai quindicimila morti del disastro e all'incredibile vuoto che devono aver lasciato.
Per fortuna la vita va sempre avanti.

 

 

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Capitolo 24
*** Riportami il guanto ***


24 - Riportami il guanto



16 novembre 2012
 

Il telefono squilla e Kei lo osserva muoversi da solo sul piano del tavolo della caffetteria; si sposta qualche millimetro ad ogni successiva vibrazione, mentre la suoneria aumenta di volume. Il nome del chiamante è in caratteri cubitali sullo schermo.

«Rispondi o no? Almeno zittiscilo!» abbaia il tizio seduto al tavolo accanto, di fronte a una ragazza con la gonna troppo corta e il naso troppo lungo. Kei lo guarda senza reagire, l'altro risponde con un gesto osceno, la ragazza sbuffa, il telefono smette di squillare.

Mentre cerca di mettere in ordine i pensieri, Kei continua a grondare acqua dai capelli e dai vestiti. L'addetto alle pulizie lo sta guardando in cagnesco da quando ha varcato la soglia, disseminando di impronte il pavimento lucido.

Ha appena ripulito gli occhiali dalla condensa e mandato giù il primo sorso di caffè quando il telefono riprende a squillare. Il tizio si volta di scatto e lo fulmina con uno sguardo assassino, Kei gli mostra il dito medio mentre risponde.

«Tsukki-kun, stai bene? Dove sei?» domanda la voce di Akaashi. Preoccupato, ma non ansioso.

«Non so come sto e al momento non so neanche esattamente dove sono. Lui è lì con te? Sta ascoltando?»

«Kuroo-san? No, non è qui. Ma ha chiamato centomila volte nell'ultima ora.»

«Ti ha raccontato tutto?»

«Quasi niente. Ha detto che è successo qualcosa che ti ha fatto scappare via da casa sua e non riesce a trovarti. Ti sta cercando dappertutto.»

«Dovrebbe smetterla di fare il buffone e pensare a suo nonno.»

«E' quello che gli ho detto io.»

Tacciono entrambi, per un tempo molto lungo, finché Akaashi non rompe il silenzio: «Ne vuoi parlare?»

«Non più di quanto tu voglia parlare con me di Bokuto.»

Dall'altra parte di nuovo silenzio, per diversi secondi. Poi una voce educata, formale e fermissima: «San. Bokuto-san, non è tuo fratello.»

«Okay. Scusami.»

«Hai un carattere di merda, Tsukki-kun. Credo di avertelo già detto» risponde Akaashi con encomiabile tranquillità.

«Stiamo dicendo che non faremo finta che quella telefonata ubriaca non sia mai avvenuta?»

«Vorrei poter dire che faccio schifo a fingere, ma non è vero. Sono un esperto. La verità è che con te preferirei evitare. E' uno spreco di energie.»

Nel linguaggio di Akaashi è praticamente un'offerta di amicizia. La prima che Kei abbia mai ricevuto, escluso l'attaccamento infantile di Yama.

«Concordo sul limitare gli sforzi non necessari. Quindi, sarò diretto: Kuroo. Non voglio vederlo. Non so se voglio parlarci. Sicuramente non voglio adesso

Akaashi esita. «Allora non andare alla stazione Omiya. Credo che ti stia cercando lì. Pensa che tu voglia tornartene a casa.»

Era il piano iniziale di Kei, correre a Osaki a leccarsi le ferite: seppellirsi in casa, leggere haiku fino a star male, studiare finché non bruciano gli occhi. Giocare a pallavolo. Murare tutte le veloci dei due idioti e rompersi un altro paio di dita. Un ottimo piano.

«Grazie.»

«Dimmi la verità: ti ha fatto qualcosa?»

«No» è la risposta istintiva. «Non direttamente. Non volontariamente. Almeno credo.»

«Va bene. Hai un posto dove stare? Posso fare qualcosa?»

Kei si sente così grato per queste domande, che all'improvviso vorrebbe vuotare il sacco con Akaashi. Raccontargli tutto, per filo e per segno, da marzo dell'anno scorso ad adesso. Ma è un'idea molto stupida.

«Non preoccuparti. Sono a posto.»

«Mn. Posso dirti una cosa?»

«Puoi.»

«Quando dico che ti sta cercando dappertutto, intendo letteralmente. Per tutta Nerima. A tutte le fermate d'autobus. In tutte le sale da tè. A quanto pare non hai portato l'ombrello, questo dettaglio lo fa impazzire. Ha persino litigato seriamente con Kozume-san, cosa che non succedeva da un sacco di tempo.»

«Hanno litigato? E perché?»

«Voleva che Kozume-san mettesse in campo le sue... diciamo amicizie virtuali, per hackerare la posizione del tuo telefono.»

«Stronzo maniaco.»

«Esattamente le parole che gli ha detto Kozume-san. E da qui è degenerato in lite. In realtà, penso che sappia di aver esagerato.»

«E' sempre eccessivo. Sempre sopra le righe. Così fottutamente... ingombrante.» commenta Kei. E mentre lo dice si rende conto che questi difetti li adora. Detesta ammetterlo a se stesso, ma essere oggetto di attenzioni così esplicite, così violente, così smodate lo fa incazzare di brutto e allo stesso tempo gli toglie il respiro.

«Già. Non so quanto bene lo conosci. Kuroo-san è la persona più determinata che mai incontrerai e una delle più irruente. Per questo qualche volta perde il senso del limite, come adesso. Personalmente, la cosa mi dà parecchio sui nervi. Il che non significa che non lo apprezzi o che non lo consideri un amico. In realtà è un ottimo amico.»

Per motivi che non riesce a decifrare con esattezza, le parole di Akaashi lo infastidiscono. «Che encomio, Akaashi-san. Non saranno troppe parole tutte insieme?»

«Sto sprecando fiato per te. Speravo lo apprezzassi. Vuoi lasciarmi finire o ti piace ascoltare solo la tua voce?»

«La mia voce mi piace molto, in effetti.»

«Allora la mia è superflua. Stammi bene.» dice Akaashi, inespressivo. Non è in collera, né innervosito. Sta usando il tono pacato dei dati di fatto.

«No, aspetta. Scusami. Vai avanti, per favore.»

Kei conta mentalmente le volte che ha chiesto scusa ad Akaashi da quando lo conosce. E' un record.

«Dicevo che il suo atteggiamento, spesso, mi dà sui nervi per la totale mancanza di umiltà e di... semplicità, diciamo. Non è la parola esatta, ma è la migliore che mi venga in mente. Kuroo-san sembra impulsivo ma la sua è piuttosto risolutezza, perché secondo me la sua vera natura è calcolatrice e in qualche modo avida, anche se non in senso materiale. E' uno che ottiene sempre quello che vuole, in un modo o nell'altro.»

Anche Kei lo pensa, e non riesce a considerarlo un difetto. Considera difetti la perenne mancanza di senso di opportunità di Bokuto, la sua energia sparsa senza misura, la sua ingenuità che confina con una stupidità gioiosa. Ma Akaashi manderebbe dei ninja a ucciderlo nel sonno, se dicesse ad alta voce una cosa del genere.

Akaashi prosegue: «Però una dote bisogna riconoscergli sopra tutte: è costante. In tutto quello che fa. Comprese le sue prestazioni, come studente o come atleta. Non è mai in balia dei suoi umori, mai volubile, risente pochissimo della pressione esterna. Io credo che sia costante anche nei sentimenti. Nell'amicizia lo è senz'altro.»

Kei sbuffa dal naso, infastidito. «Costante. Suvvia, circolano leggende metropolitane su quante ragazze ha avuto e poi mollato negli ultimi due anni.»

«Mn. E' vero. Ma per nessuna di loro...» Akaashi si interrompe. Qualsiasi cosa volesse dire, la ingoia. Riprende a parlare dopo una pausa, palesemente cambiando linea di pensiero. «Senti,  i dettagli della sua vita amorosa non li conosco e non sono qui per convincerti di niente: sei liberissimo di pensarla come credi.»

Kei non ha le energie per una replica salace. «Credo di essere una specie di animale esotico per lui. E non mi sono mai piaciuti gli zoo.»

Akaashi non risponde. Kei riprende, stancamente: «Come sta suo nonno? Lo sai?»

«Sua sorella è andata in ospedale, non so altro.»

«Okay.»

«Ora devo andare Tsukki-kun. Pensaci su. Comunque, tagliare i ponti non funzionerà, questa volta.»

«In che senso?»

«Che finché giocavi a distanza era un discorso. Ma ieri sei venuto da Osaki. Sei venuto tu. Significherà qualcosa. O meglio, cosa significa per te lo sai solo tu, ma per lui significa qualcosa. Ed è una persona determinata, lo abbiamo già detto.»

«Mi perseguiterà» deduce Kei.

«Qualcosa del genere, almeno finché non gli dici chiaramente e direttamente di smetterla. Ecco, io credo che si meriti almeno un chiarimento. Anche lui crede di meritarlo, e soprattutto crede che te lo meriti tu. Quindi pretenderà di dartelo.»

Kei non vuole chiarire proprio niente. Non c'è niente da chiarire in realtà. Se non che non ha intenzione di avere a che fare con Okamoto Ayumi. Se c'era bisogno di un segno del destino per tenerlo lontano da Kuroo, ebbene, il destino si è espresso molto chiaramente.

***

L'appartamento di Akiteru è piccolo, ma pieno di luce. Il sole gira fra le due finestre, le ombre si muovono trovando Kei seduto per terra, con la schiena appoggiata al muro, per ore nella stessa posizione, con le cuffie sulle orecchie e nessuna musica.

Alle tre meno un quarto del pomeriggio, la sveglia del cellulare suona. E' il memo che ha messo per ricordarsi del ritorno della salma ricomposta. A quest'ora anche il padre di Kuroo sarà di nuovo a casa.

Kei vorrebbe essere a casa propria pure lui. Così, schioccando le dita. Senza metropolitana, senza treno, senza autobus. Un teletrasporto direttamente nella sua stanza, possibilmente anche indietro nel tempo, all'altro ieri, a un mese fa, a prima dell'estate. A una decina di anni fa, grazie.

Per quanto ci rifletta, chiudere questa storia definitivamente è l'unica soluzione praticabile. L'unica che non lo costringa a penose spiegazioni e a tirare fuori ricordi che aspettano di morire di ipossia, chiusi a tripla mandata in qualche angolo remoto della mente.

Si addormenta esausto verso le cinque e si risveglia un'ora dopo sdraiato sul pavimento, infreddolito, con gli occhiali storti sul naso e con lo stomaco talmente vuoto che brucia come se avesse ingerito braci accese.

Quando abbassa lo sguardo e legge il nome ricamato sul maglione il cervello gli manda a tradimento una sequenza di quel mattino: la schiena di Kuroo inarcata, di profilo, mentre si leva di dosso il maglione, la maglietta sotto che si solleva a scoprire un lembo di pelle dorata sopra l'elastico dei pantaloni della tuta, sul fianco. Si intravede l'inizio dell'incavo degli addominali bassi, che poi prosegue da qualche parte sotto la stoffa. Il cuore accelera, il sangue gli arriva in mezzo alle gambe. Si sente così stupido che prenderebbe a testate il muro.

Il treno delle otto e mezza, a quello deve pensare. Ma Akaashi ha ragione: Kuroo non desisterà, se è convinto di dover dimostrare qualcosa, o di aver diritto a una spiegazione. 

Un messaggio vocale è la cosa migliore. Uno conciso, sintetico, che comunichi il concetto fondamentale: non ce l'ho con te, non è colpa tua, grazie, ma no grazie. Niente amicizia, niente visite di cortesia, niente tifo alle partite, assolutamente niente bagni degli stadi.

Kei impiega dieci minuti per scrivere un testo di tre righe, poi sblocca il numero di Kuroo.

In una sinfonia di trilli piovono tutti insieme  i messaggi dell'ultimo mese e mezzo: ottantacinque. Quarantantuno  solo oggi. Più due vocali, che Kei non ha la minima intenzione di ascoltare.

Vorrebbe evitare anche i messaggi. Li scorre rapidamente, cercando di non soffermarsi sui caratteri. Impossibile fare a meno di leggere gli ultimi.


15:10 TetsuKNeko

Hanno riportato la nonna. Vorrei che ci fossi. Vorrei vederti.


15: 43 TetsuKNeko

Hai lasciato qui un guanto.

Kei lo sa. Lo ha fatto di proposito. Un gesto stupido e infantile, ma voleva che qualcosa di proprio restasse lì a fare le sue veci.


16:01 TetsuKNeko

Sei già arrivato a casa?

C'è un ultimo messaggio vocale. Vorrebbe ignorarlo, ma le sue dita non obbediscono e premono sui tasti senza che possa fermarle.


16:16 TetsuKNeko Vocal Message 00:19

Senti Tsukki, volevo dirti che ci ho pensato e hai ragione tu. Non mi devi spiegare niente. Non mi devi raccontare per forza i fatti tuoi. E non voglio essere quello da cui scappi (sotto la pioggia, senza ombrello). Cazzo, vorrei l'esatto contrario! Ho capito che posso fare una sola cosa: aspettare. E quindi, beh, da ora smetto di romperti le palle e mi metto ad aspettare. Tu prenditela comoda: un mese, un anno, un secolo. Il tempo che ci vuole. Sono paziente . No, per niente. Ma questa volta sì. Ti aspetto, Tsukki, okay?

Altro che paziente. Chissà quanto resisterebbe ad aspettare.

Kei rilegge il testo che ha scritto per il proprio vocale e gli sembra che non vada più bene, che sia tutto sbagliato, una manifestazione di vigliaccheria sentimentale.

In realtà, con la coerenza di una banderuola al vento, Kei negli ultimi due minuti si è convinto che una spiegazione Kuroo se la meriti. Dopotutto, è vero che è stato lui a piombare a Tokyo senza preavviso. A essere fin troppo amichevole. Ed è anche vero che la reazione di stamattina era sproporzionata e teatrale.
 

18: 19 Tsukishima Kei

Ciao.

18: 21 TetsuKNeko

Tsukki! Cavolo!


18: 21 TetsuKNeko

Stai bene? E' tutto okay?


18: 21 TetsuKNeko

Sei a casa? Hai mangiato?


18: 22 TetsuKNeko

Hai preso tanta pioggia?


18: 22 TetsuKNeko

SCUSAMI! Scusami. Davvero. Parliamone.


18: 23TetsuKNeko

Okay. Sto zitto. Dimmi solo che stai bene.


18: 25 Tsukishima Kei

Sto bene.


18: 26 TetsuKNeko

Okay.


18: 34 Tsukishima Kei

Vorrei parlare.

18: 34 TetsuKNeko

Ti chiamo?

18: 35 Tsukishima Kei

No.


18: 37 Tsukishima Kei

Ho delle condizioni.

18: 38 TetsuKNeko

Tutte quelle che vuoi. Spara.

18: 39 Tsukishima Kei

Spararti potrebbe essere la soluzione più efficace.

18: 39 TetsuKNeko

Credo nella diplomazia.

18: 41 Tsukishima Kei

Per questo hai spaccato la faccia a Ushijima?

18: 41 TetsuKNeko

Come lo sai?

18: 42 Tsukishima Kei

So tutto.


18: 43 Tsukishima Kei

Condizioni: solo cinque minuti.

E mi dai la tua parola che dopo la smetti di fare lo stalker.

18: 43 TetsuKNeko

Va bene. Hai la mia parola. Ti chiamo?

18: 44 Tsukishima Kei

No.


18: 49 Tsukishima Kei

Di persona.

18: 53 TetsuKNeko

Okay, ho guardato i treni: posso essere a Osaki domani pomeriggio, se parto subito dopo la cerimonia.


19:00 TetsuKNeko

Va bene? Prendo il biglietto?

19:02 Tsukishima Kei

No.


19:31 Tsukishima Kei ha condiviso la sua posizione

19:31 Tsukishima Kei

Riportami il guanto.




***
NdA - Giuro che i prossimi tre capitoli NON sono flashback :D
 

 

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Capitolo 25
*** Il nido del mondo ***


25 - Il nido del mondo



16 novembre 2012 


Dallo spioncino, Kei vede la trama fitta del guanto di lana verde. Apre la porta, facendosi da parte. Kuroo lascia le scarpe sull'uscio e scivola all'interno; la stanza sembra improvvisamente molto più stretta.

«Ciao» saluta Kei svogliato, mentre richiude la porta. Gli manca il coraggio di guardarlo negli occhi.

«Ciao» risponde Kuroo tranquillo. E tende entrambe  le braccia in avanti: in una mano stringe il guanto, nell'altra tiene una busta di carta, con il logo di una pasticceria di Nerima.  «Doni d'ingresso» spiega.

Kei afferra il guanto e guarda sospettoso la busta. «Cos'è?»

«Non hai ancora imparato come funzionano i regali? Guardaci da solo!»

Sembrano passati cent'anni da quella sera sull'altalena.

Kei estrae una scatoletta trasparente che contiene un monoporzione di meringa e fragola. «Una pavlova? E tutte quelle chiacchiere sulle fragole fuori stagione?»

«Così ora sai che anche a Tokyo esistono le serre. Ma in primavera ti farò assaggiare qualche fragola vera.»

Finalmente Kei solleva lo sguardo. Quello di Kuroo è attento, diretto, ma non sfrontato. Ha gli occhi concentrati di un acrobata che stia camminando sospeso nel vuoto.

«Come sta tuo nonno?» Kei apre il frigo e ci infila il dolce.

«Ho solo cinque minuti, vorrei usarli per parlare di noi» risponde Tetsurou, togliendosi il giubbotto. «Dove lo metto? E' un po' bagnato.»

«Lì» Kei indica un attaccapanni vicino all'ingresso.

«Siamo a casa di tuo fratello, giusto?»

«Sì. Lui non c'è. E non esiste nessun noi, Kuroo-san. Mettitelo bene in testa. Comunque, tuo nonno non è nel conteggio dei minuti. Dimmi come sta.»

Kuroo sorride. Uno tipo di sorriso che Kei non ha ancora mai visto: sfacciatamente sicuro, ma in qualche modo anche dolce. «Molto meglio. Grazie. E non intendo grazie come formula di cortesia. Intendo che ti sono grato.»

Kei riesce a trattenere il compiacimento, ma non può nascondere il sollievo. «Che significa meglio?»

«Che si è svegliato stamattina. Che ci sta con la testa. Che il bypass probabilmente non servirà. Ho passato con lui tutto il tempo che potevo, oggi.»

«A parte le ore che hai sprecato cercando me in giro per Tokyo.»

«Ero preoccupato.»

«Sei uno stalker.»

«Sono...» innamorato. Tetsurou trattiene le parole e le soffia via con una lunga espirazione. «Lasciamo perdere. Piuttosto: adesso come funziona? Fai partire il cronometro? Posso sedermi?»

«Certo, dove vuoi.»

Fra lo snack della cucina all'americana e il tavolo basso del soggiorno, Tetsurou sceglie la terza opzione. Va a sedersi per terra, davanti alla porta finestra chiusa, che dà su un finto balconcino, solo una ringhiera aggettante pochi centimetri dal muro.

L'ennesimo tratto della personalità di Kuroo che Kei adora: la capacità di guardare il mondo fuori dagli schemi, di vedere, e di scegliere, il percorso meno ovvio. Quello imprevedibile, inaspettato, alternativo.  Va a sedersi al suo fianco. «Sei affascinato dai muri scrostati delle periferie industriali?»

«Punta alla luna, mal che vada avrai vagato fra le stelle... »

«A parte l'assurdità scientifica della frase, date le distanze astronomiche... stai citando la tua maglietta? Seriamente?»

«Conosci a memoria le mie magliette?»

«Credo che tu ti sia giocato un intero minuto.»

«Mi piace l'idea di guardare le stelle con te.»

La notte è tersa e lui ha ragione: la cosa migliore di quel panorama è il largo spicchio di cielo ritagliato fra i palazzi.

Kei soffia fra dita. «Altri quindici secondi sprecati.»

«Mi ero preparato un discorso di quattro minuti e sei secondi, nel caso volessi dire la tua qui e lì. Ma... tutto sommato penso che sia inutile. Preferisco godermi cinque minuti con te che sprecarli a dirti cose che non vuoi sentire. Però almeno adesso ha un senso il fatto che tu conoscessi l'etichetta del vino che avevo portato al ritiro.»

«Già. Tua sorella deve averne mandata una cassa anche a mia madre. Io però ho solo visto le bottiglie in casa, non avevo idea da dove venissero. Credevo da qualche parente francese.»

Kuroo sorride alle stelle: «E in effetti è così. Quei vigneti sono della tua famiglia. Davvero non lo sapevi?»

«Che cazzo dici?»

«E' la verità.»

«Come lo sai?»

«Beh, è una lunga storia, molto più di cinque minuti...»

La voce di Kei si fa tagliente. «Ora basta stronzate. Voglio che rispondi sinceramente a una domanda importante: non lo sapevi, vero? Di mio padre. Se lo sapevi, abbiamo chiuso: qui, adesso. I cinque minuti sono già finiti e ti butto fuori a calci.»

«Oya, Tsukki, ma per chi mi hai preso? E' chiaro che non lo sapevo!»

Kei gli crede. Ha un milione di dubbi su tutto, ma non sulla sincerità di Kuroo. Gli crede e basta.

Tetsurou prosegue: «Ti parrà assurdo, ma il cognome del suo professore Yu-chan non lo diceva mai, anche se parlava di lui continuamente. Lo avrà forse detto una o due volte, all'inizio, ma non me lo ricordavo per niente. Lo chiamava sempre Professor Leon.»

Il vizio di papà di fare il simpatico, facendosi chiamare per nome.

«Non avevo la minima idea che fosse tuo padre. Ma so quello che ha fatto. Per mia sorella, e in generale, per questo paese.»

Abbandonare casa e figli? Farsi i cazzi suoi tutta la vita? Morire chiuso nel suo studio per pura ostinazione?

Kei prende un respiro profondo e si chiude su se stesso, il viso incassato fra le ginocchia, in un silenzio doloroso e ostinato.

E' la stessa posa di quella sera d'estate, che accende l'istinto di protezione di Tetsurou in una vampa di tenerezza. «Tsukki, Io... non lo so. Mi dispiace tanto. Stamattina quando sei scappato in quel modo... Voglio dire, è un lutto terribile. Capisco se non ne vuoi parlare...»

«E invece non capisci un cazzo» la voce di Kei è livorosa, le dita delle mani si strofinano irrequiete. «Sai solo quello che dice la tv e te lo sei bevuto. La stessa tv che ha ripetuto fino alla nausea che alla centrale andava tutto benissimo, fino a dopo la prima esplosione.»

Tetsurou cerca di inquadrare quella reazione e ci riesce molto male. «Va bene, la tv ha mentito. E io tuo padre non lo conoscevo. Ma lo so quello che ha fatto!»

«E che ha fatto? E' rimasto lì per giorni a corrodere i reattori buttandoci acqua di mare e a prendersi radiazioni fino a farsi marcire il sangue? Bell'eroe!»

La tensione è palpabile, Tetsurou la avverte quando inizia a fare pressione su una serie di punti sensibili. «Sai che ti dico? Io abito a Tokyo. Per me poteva anche crepare un po' di gente a Miyagi. Non me ne frega niente dei massimi sistemi, dei reattori e dell'acqua di mare, Tsukki. Sono un fottuto egoista. A me importa delle persone che amo. E tuo padre ha salvato mia sorella! Ecco che ha fatto! Li ha mandati via tutti e due, Yu-chan e Oka-chan, anche se si erano offerti volontari per restare. Ma sapeva che Yu-chan era incinta. E dopo, quando ha perso il bambino ed è quasi uscita di testa, il Professore l'ha aiutata ad andarsene in Europa, per ricominciare. Era già molto malato, ma si è fatto in quattro: li ha raccomandati a mezzo mondo, li ha quasi costretti a fare le valigie, gli ha trovato una casa. Mia sorella era annientata dal disonore e dalla perdita, ma tuo padre l'ha costretta a ragionare, l'ha convinta a smettere di darsi colpe inutili, a partire, a rifarsi una vita. Scusa se è poco. Hai perso un genitore. E' una brutta cosa, ma forse un genitore che muore da eroe, salvando qualche decina di migliaia di persone da un disastro nucleare, è meglio di uno che un bel giorno esce dalla porta e se ne va a vivere con un'altra famiglia. E di te non gliene sbatte un cazzo.»

«Hai centrato il punto! Di me non gliene è mai sbattuto un cazzo!» sibila Kei fra le ginocchia. «Faceva l'eroe in tv, ha salvato tua sorella, che bravo! Ma io non gli parlavo da sei mesi e pensi che gliene fregasse qualcosa? No! Meno di zero! Non contavo niente per lui. Né io, né mio fratello. Chiunque altro, compresa la ferraglia della centrale, veniva prima di noi.»

«Non ci credo. Per niente. Forse in quella lettera...»

«Una lettera! Che me ne faccio di una lettera? Gli ho offerto l'occasione di lasciarci tutto alle spalle. Ho giurato che gli avrei parlato se se ne fosse andato da lì, se avesse smesso di starsene seduto alla scrivania di un ufficio vuoto a ingurgitare tonnellate di radiazioni inutilmente. Ma no! Lui ha preferito crepare in silenzio, piuttosto che avere a che fare con me. Col cazzo che la leggo, la sua lettera! Non lo farò mai!»

Adesso Tetsurou ha capito. Ha sentito il dolore nascosto fra una parola e l'altra. Quello che vive compresso nel cuore e prima o poi lo buca, filtrando veleno a tradimento, come un pennarello rotto. Va a sedersi di fronte a Kei, la schiena premuta contro il vetro della portafinestra, le gambe divaricate, le ginocchia piegate. Così vicino che non toccarsi è un'arte.

«Perché sei così arrabbiato?»

«Lasciami stare!»

«Dimmelo Tsukki, dimmi perché sei così arrabbiato. Lui è morto, ormai.»

La risposta è una catena di imprecazioni biascicate senza alzare la testa. Lo sforzo di trattenere le lacrime è evidente. 

Kei somiglia a Yu-chan nel tenersi tutto dentro. Nel credere che, a furia di seppellirli, i dolori si riassorbano come ematomi. Funziona per quelli ordinari, superficiali, ma i dolori profondi finiscono per andare in suppurazione.

«Allora te lo dico io: non sei riuscito a dirgli addio. Non hai voluto, ti sei ostinato e ora il rimorso ti sta uccidendo.»

Mentre supera gli ultimi centimetri, Tetsurou pensa che questo gesto lo pagherà caro. Che probabilmente si beccherà un calcio nelle palle, o una gomitata nel diaframma. Che finirà chiuso fuori dalla porta, a bussare per ore. Che se ne pentirà. 

Ma non può più trattenersi e lo abbraccia. Forte. Stretto. Kei è così compresso su se stesso, così sottile, che Tetsurou riesce a contenerlo tutto fra le braccia e le gambe.

La resistenza che Kei oppone è debolissima. Resta lo scudo delle sue braccia che circondano le ginocchia, i pugni serrati contro lo sterno di Kuroo come ultima barriera.

«Non faceva altro che vantarsi di te con Yu-chan» dice Tetsurou con voce bassa e calma, la tempia poggiata ai capelli di Kei. «Diceva che eri la versione migliore di lui. Forse non vi parlavate, ma... »

Un attimo dopo esplodono i singhiozzi; Kei cerca ancora di trattenerli e gli escono dal petto spezzati, intervallati da ansiti pietosi.

«Va bene se piangi, Tsukki. Piangere non ti rende meno fantastico. Non mi viene in mente proprio niente che può renderti meno fantastico.»

«Fanculo!» singhiozza Kei, in un torrente di lacrime. 

E' spiazzato. Tsukishima Kei, che calcola tutte le variabili della sua vita, è spiazzato dalla situazione, dai propri sentimenti e dallo stupido di fronte a lui che lo sta abbracciando. Il tipo di abbraccio che chiude fuori la realtà, che promette salvezza. Un abbraccio sicuro e caldo, come un rifugio, come una casa. Solido come un'armatura.

Kei sa che dovrebbe andarsene, per non spezzarsi il cuore definitivamente. Perché domani, fra una settimana, fra un mese, quell'abbraccio sarà di qualcun altro. Kuroo andrà avanti, mentre lui rimarrà qui per sempre, davanti alla finestra di casa di Aki, perduto in questo momento,  punito per averci creduto.

Dovrebbe fuggire, invece si leva gli occhiali e li lancia via, lasciandoli pattinare sul pavimento. Si asciuga le lacrime con la manica del maglione del Liceo Nekoma e si aggrappa alla schiena di Kuroo, le mani che gli artigliano la felpa, rannicchiato contro di lui, con il viso affondato nel suo collo, le lacrime che scendono ancora, le spalle scosse dai singhiozzi, il naso che cola senza pietà. Una mano calda e forte gli si posa sui capelli, un tallone gli si pianta alla base della schiena, per avvolgerlo ancora più stretto, con tutto il corpo. Le braccia di Kuroo sono un nido che contiene il mondo. E stasera sono solo sue.

Quando il pianto, infine, si placa, restano abbracciati. Staccarsi è difficile. Tornare a far finta di niente è imbarazzante. E poi nessuno dei due vuole davvero che quel momento finisca. Ma deve finire, prima o poi.

«Mi stai soffocando» si lamenta acido Kei, senza però allentare la presa delle mani.

Kuroo ride contro il suo orecchio. «Sei adorabile quando sei in imbarazzo, Tsukki.»

«Crepa.»

«Uccidimi.»

«Stronzo.»

«Ora ti bacio.»

Il cuore di Kei si ferma. Che peccato morire d'infarto proprio adesso.

«Ti bacio per bene, con calma» prosegue Kuroo mentre gli solleva il viso e gli accarezza i capelli. «Devo approfittare delle tue debolezze, quando capita l'occasione.»

Sono così vicini che l'odore d'estate e di colonia arriva ai bordi dell'anima di Kei e anche un po' oltre. «Sei capace solo di parlare... »

Kuroo sorride: la notte nei suoi occhi incombe, le sue labbra sono sempre più vicine. L'ultimo centimetro è Kei a superarlo, perché ormai la distanza è un male fisico.

Tetsurou è determinato a limitarsi a un bacio intenso, ma delicato. Uno che esprima buone intenzioni, rispetto, desiderio temperato dalla tenerezza. E tiene fede al proposito. Per circa due secondi. Dopodiché Kei lo travolge completamente. E quel bacio cresce, in tutte le dimensioni: supera le vette, sprofonda oltre gli oceani, scardina l'orizzonte, sfiora le stelle. 

Nei suoi sensi, dove tutto va a fuoco, si scolpisce la memoria fisica dell'istante in cui ha toccato il paradiso con le labbra e la punta della lingua: ha l'odore e il sapore di Kei e la forma esatta della sua bocca.

Dentro Tetsurou iniziano a muoversi degli ingranaggi segreti, che ruotano lentamente, finché non trovano un incastro perfetto. Il rumore che fanno è di uno scatto sonoro e secco, con un'eco profonda, che va a spegnersi in un sospiro contro il collo di Kei.

E' il suono dell'universo dentro di te, che ridisegna le sue mappe, Te-chan.

Kei ha spento il pensiero e abbassato tutte le difese, in quel bacio si scioglie e si consuma fino all'anima. Neppure si rende conto che sta sorridendo sulle labbra di Kuroo, che fra un ansito e l'altro gli escono risolini di gioia misti a gemiti, una combinazione che sta portando Kuroo oltre il punto di non ritorno.

Mi devo fermare adesso o, altro che universo, lo inchiodo per terra e lo scopo fino a domattina pensa Tetsurou. E si scosta all'improvviso, con un sospiro frustrato, tenendo fermo fra le mani il viso di Kei.

«Eh? Universo?» Kei solleva le palpebre, interdetto.

«Cazzo. L'ho detto a voce alta?»

«Sì, idiota.»

Tetsurou serra gli occhi e si copre la faccia con le mani, sperando che la terra si apra e lo inghiotta. «...proprio tutta, tutta la frase?»

Kei annuisce e ride. Di gusto, con la testa gettata all'indietro e gli occhi socchiusi, le mani ancora appoggiate alle spalle di Kuroo. Ride senza riuscire a fermarsi.

Tutti hanno bisogno di uno scopo esistenziale e Kuroo Tetsurou sceglie il proprio in quel momento: riempirsi la vita di quella risata. 

«Sai una cosa, scemo?» sussurra Kei, spostandogli una ciocca dalla fronte. «Ho fame.»

«Fame vera? Di cibo?» domanda Kuroo con gli occhi pieni di malizia.

Kei resta un attimo in dubbio. Un gioco di luce, mentre Kuroo si muove, fa risplendere una traccia umida di saliva, fra il collo e la gola. «Di cibo» conferma, mordendosi le labbra.

«Peccato...» commenta Tetsurou, ma intanto decide che è ora di alzarsi e si avvia dinoccolato verso la cucina. 

Gli occhi di Kei, di nuovo acuti dietro le lenti, lo seguono come aghi magnetici.

«Posso dare un'occhiata?» domanda Kuroo, indicando il frigo.

«Fai pure, ma... »

«... è vuoto» conferma deluso, richiudendo lo sportello. «Vi fanno con lo stampino voi Tsukishima? Tutti inappetenti?»

«Aki mangia anche troppo, ma è bravo a cucinare quanto me.»

«Dovresti imparare.»

«Non se ne parla. Pratico una forma estetica di disinteresse per tutte le cose volgari» spiega Kei con sussiego.

«Si chiama pigrizia» ghigna Kuroo.

Kei gli lancia addosso la prima cosa che trova sottomano: un paraspifferi a forma di ranocchio, che lo colpisce gentilmente sul petto e poi ricade per terra.

«C'è la pavlova» si ricorda Kei.

«E' solo zucchero. Non è una cena.»

«Per me lo è.»

«Quindi tu mangi e io guardo?»

«Perché no...»

«Perché ho fame anch'io» risponde Tetsurou, guardando Kei dritto negli occhi. «Di cibo» aggiunge, dopo una lunghissima pausa.

Kei solleva il dito medio, Kuroo sorride sornione.

«Dai, Tsukki, se non sono morto di vergogna, non voglio morire neanche di fame. Cosa ti va? Onigiri? Pizza?» domanda, dando uno sguardo ai volantini dei take away, attaccati al frigo con una serie di calamite colorate.

Kei si stringe nelle spalle «Scegli tu.»

«Dentro o fuori?» Uscendo, ci sarebbe molta più scelta.

«Dentro» risponde subito Kei. La prontezza e l'intensità della risposta, uniti a un tono vagamente distratto, inducono Tetsurou a voltarsi a guardarlo. 

Lo coglie di profilo, con lo sguardo lanciato nel cielo oltre la finestra. Le dita dei piedi si arricciano nei calzini, seguendo il filo di chissà quali pensieri.

Dentro è la risposta giusta. In ogni senso possibile.

 

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Capitolo 26
*** Tramonti ***


26 - Tramonti



16 novembre 2012 
 

Una cosa che piace a Bokuto è guardare il tramonto. Anzi, il tramonto in sé gli mette sempre un po' di tristezza, perché, che cavolo, con la luce il mondo è bellissimo. Ma gli piace quel momento sospeso quando l'aria è trasparente e il chiarore non è ancora scomparso, ma già brillano le prime stelle. E tutte le cose iniziano ad affondare piano piano nella notte.

Non è facile spiegare tutto questo a parole. Con Akaashi non ce n'è stato bisogno. Lo ha capito subito. Del resto, Akaashi capisce sempre tutto. E anche a lui piace il tramonto. Quindi lo guardano insieme quasi tutti i giorni.

Quando proprio non è possibile, per esempio quando Keiji è in vacanza con i suoi in qualche posto dall'altra parte del mondo, Bokuto il tramonto lo guarda comunque, e manda a Keiji un sacco di fotografie, ma non è per niente la stessa cosa. Anche perché come fotografo fa pena.

I tramonti migliori sono quelli che Bokuto pensava di dover guardare da solo, e invece poi Akaashi arriva all'ultimo momento. Giusto in tempo.

Come oggi, che c'era di mezzo il dentista. Ma l'appuntamento è finito presto e Akaashi è arrivato di corsa e lo ha trovato sul tetto della scuola, con il naso per aria.

Sta anche piovendo.

Prima di Keiji, si è materializzato l'ombrello. Ne ha comprato uno enorme, grandissimo, blu. Dice che gli piacciono gli ombrelli grandi. Che è un'ottima cosa, visto che Bokuto dimentica sempre il proprio.

Il sorriso lanciato contro Akaashi è di quelli che creano nuovi elementi chimici e bruciano la retina. «Akaashi! Sei qui! Temevo che ti saresti perso lo spettacolo e ti avevo già mandato un po' di foto.»

A dire il vero, lo spettacolo non è un granché: il cielo trabocca di nubi grigiastre e il tramonto bisogna più che altro immaginarselo. Ma lo guardano lo stesso, appoggiati alla ringhiera, il sole è solo un vago alone dietro una cortina di pioggia.

«Da quanto sei qui fuori, Bokuto-san?»

«Da un po', ma non mi sono bagnato tanto. Vedi? Ho il cappuccio.»

Ciocche scomposte di capelli un po' chiari e un po' scuri grondano acqua sulle spalle. La felpa bianca della squadra è così inzuppata che ha cambiato colore.

«Non è impermeabile.»

«Già. Che seccatura. Dovrebbero farle impermeabili.»

«E' meglio se rientriamo» suggerisce Akaashi.

«Ma il tramonto non è ancora finito.»

Se sia finito o meno è impossibile dirlo. Non è ancora notte, ma l'orizzonte è di un grigio uniforme, senza indizi di dove sia il sole. Bokuto scatta un'altra foto.

«Ti ammalerai, Bokuto-san, per favore, rientriamo.»

Una volta, Kuroo ha raccontato a Bokuto di un certo film di fantascienza molto incasinato, in cui una setta di streghe usava la voce tipo condizionamento mentale, per far fare agli altri quello che volevano. Akaashi non è una strega, ma più o meno ha lo stesso potere, perché quando usa quel tono, Bokuto perde ogni velleità di discussione: obbedisce e basta. È persino contento di obbedire.

Non che Akaashi voglia comandare le persone (è gentile con tutti), ma alla fin fine, sa sempre cosa è meglio fare. E adesso è meglio andare di sotto, fare una doccia calda e asciugarsi.

Prima che arrivino allo spogliatoio, Akaashi ha già allungato a Bokuto un asciugamano pulito e una caramella al miele, per evitare il mal di gola.

«Akaashi, senti, posso chiederti una cosa?»

Bokuto parla da dentro al vano della doccia. L'acqua scroscia, ma la sua voce la supera senza difficoltà.

«Certo, Bokuto-san. Ma non serve che urli, sono proprio qui fuori.»

«Non sto urlando!» urla, stentoreo.

Akaashi sorride. «Così ti sentirà tutta la scuola.»

«Allora te la chiedo dopo! E' una faccenda personale!»

Mezzo minuto dopo, Bokuto esce dalla doccia, con l'asciugamano arrotolato intorno alla vita e i capelli appiccicati alla fronte.

«Asciugati bene.»

«Mn mn» Bokuto annuisce, strofinandosi forte la testa.

«Cosa mi volevi chiedere Bokuto-san?»

Bokuto si siede, dondola un piede, si gratta la tempia. «Non è proprio una cosa che ti volevo chiedere, più che altro vorrei la tua opinione.»

Akaashi riconosce tutti i segnali dell'imbarazzo. E mentalmente si prepara a qualche domanda a cui non vuole rispondere.

Come sempre, Bokuto lo sorprende. «Penso che a Kuroo piaccia Tsukki» dice, con un gran sospiro.

«E' possibile» concede Akaashi. Come volevasi dimostrare non possono più nasconderlo. Sarà meglio dirlo a Tsukki.

«Davvero? Lo credi anche tu Akaashi? E' un po' che ci penso. Forse anche a Tsukki piace Kuroo.»

Manca il solito entusiasmo. Nelle faccende sentimentali, di norma Bokuto scoppia di voglia di partecipare alla felicità altrui, di organizzare appuntamenti, di supportare incontri segreti. «La cosa ti mette a disagio, Bokuto-san?»

Bokuto sgrana gli occhi. Un'istantanea del centro pulsante della galassia che sfiora il viso di Akaashi e poi si ritrae subito, lasciandolo stordito. «No. Nessun disagio. Ma... beh, io avevo capito che gli piacevano le ragazze, a Kuroo. Stava con Mami-chan, no? E, insomma, stavano proprio insieme-insieme. Insieme. Hai capito, no?»

Akaashi ha capito benissimo. Hanno fatto sesso rumorosamente in tutti i club della scuola. Se avevano una cosa in comune quei due, era il totale disinteresse per il minimo sindacale di decenza. «Forse dovresti chiederlo a lui. Siete amici dalle medie, no?»

«Ci ho provato. Ma mi ha risposto che la questione del genere, in amore, è sopravvalutata.»

«Mi pare una buona risposta» osserva Akaashi.

Bokuto si stringe nelle spalle. «Non sono sicuro di aver capito che intendeva.» Abbassa di scatto la testa, guardandosi fra le gambe, dove l'asciugamano copre tutto quello che c'è da coprire. «A me non sembra così irrilevante. Cioè, lo saprà cosa ha Tsukki nelle mutande. Alto com'è, poi... voglio dire, sarà tutto in proporzione, no?»

Akaashi vorrebbe piangere di frustrazione, e invece ride. Bokuto-san riesce a farlo ridere praticamente sempre. «Credo che lo sappia. E che non gli importi. O meglio, che gli importi di più dei sentimenti che delle mutande.»

«A volte il confine fra mutande e sentimenti è molto sottile» sentenzia Bokuto, riflessivo, mentre si leva di dosso l'asciugamano e si riveste.

Akaashi pensa che dovrebbero scrivere questa cosa sui dizionari, accanto alla definizione di orientamento sessuale. Accanto a quella di sadomasochismo dovrebbero scrivere: Akaashi Keiji.
Accanto alla definizione di sezione aurea ci andrebbe una foto di quel corpo nudo.

«Credi che stiano insieme? Kuroo e Tsukki» domanda Bokuto restituendo il phon ad Akaashi.

«Credo di no. Almeno per adesso. La cosa ti dispiace?»

«Non lo so» risponde sinceramente Koutarou, infilandosi la maglietta. «Odio i cambiamenti» ammette.

«Quali cambiamenti?»

«Tutti. Per esempio io che mi diplomo e tu no. Oppure tu, Akaashi...»

«Io cosa?»

Bokuto esita. «Sarei più contento se tu avessi una ragazza.»

Akaashi abbassa lo sguardo, cercando chissà cosa nel linoleum scrostato dello spogliatoio.

«Hai perso qualcosa?» si interessa premuroso Bokuto, inginocchiandosi e scrutando anche lui il pavimento.

«No. Sono solo un po' stanco.»

«Meno male. Cioè: meno male che non hai perso niente. Mi dispiace che sei stanco. Allora andiamo a casa, ti accompagno.»

Indossano i cappotti, prendono le borse, Akaashi chiude a chiave lo spogliatoio e la palestra.

«Perché vorresti che avessi una ragazza?»

«Perché così sarei già sicuro che, anche con una ragazza in mezzo, avresti comunque tempo per me. Per gli allenamenti extra. Per i tramonti. Per le ripetizioni. Invece così ho paura che all'improvviso spunti fuori una fidanzata e... mi porti via tutto.»

Ha le spalle basse, la testa piegata, i suoi respiri sono sbuffi. Calcia tutti i sassi che incontra. «O magari un fidanzato. Come la pensi sulla faccenda delle mutande? Come Kuroo?»

Akaashi apre l'ombrello con calma. «Più che altro come Tsukki.»

«E lui come la pensa?»

«Le mutande tutto sommato contano qualcosa.»

Bokuto si acciglia, immerso nei suoi pensieri. «Akaashi?»

«Sì, Bokuto-san?»

«Mutande a parte. Sono importante per te?»

La domanda rasenta l'assurdo. Keiji si maledice in tutte le lingue che conosce. Diverse. «Certo» risponde, con la scioltezza di una statua di marmo.

«Quando avrai una ragazza, troverai lo stesso un po' di tempo per me? Prometti?»

«Fossi in te non me ne preoccuperei troppo, Bokuto-san.»

«Non vuoi promettermelo?» l'ansia è incisa nel suo viso su tutti i tratti. Gli occhi sono sgranati, le narici dilatate, le sopracciglia sfiorano la fronte.

«Non c'è bisogno di promettere. Avrò sempre tempo per te, Bokuto-san. Sarai tu a non averlo, quando giocherai da professionista.» E io continuerò a baciare la terra dove cammini.

«Promettimelo lo stesso!»

«Promesso.»

Bokuto si rilassa. Il suo sorriso torna a scoppiettare di reazioni termonucleari. «Non credo di poter vivere senza di te» esclama serenamente, saltando le caselle di una campana disegnata per terra da qualche bambino. Nel farlo, si bagna tutto. «Quindi il tempo lo troverò. Allungherò i giorni se serve.»

Akaashi non risponde. Sta praticando l'arte di governare i battiti del cuore. Di controllare i muscoli facciali. Di stritolare l'anima fra quattro pareti molto anguste. Se negare le evidenze fosse una disciplina olimpica, Akaashi Keiji passerebbe alla storia.

 

[Line Chat Akaashi Keiji/Tsukishima Kei]
 

20:36 Tsukki Akaashi-senpai, avrei bisogno di un favore. Hai il necessario per lo shodou? Potresti prestarmelo?


20:37 Akaashi Non lo pratico da mesi, gli inchiostri saranno mezzi secchi. Cosa devi farci?


20:37 Tsukki Alimentare il mio già imponente autolesionismo. Ti mando un vocale più tardi e ti spiego.
 


20:38 Akaashi Kuroo-san ha appena pubblicato la foto di una portafinestra. Il piede nel calzino a righe è il tuo?


20:38 Tsukki Bokuto-san ha pubblicato un paio di ore fa la foto di non si sa cosa, tutta sfocata e priva di senso. La mano sulla ringhiera è la tua?
 

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Capitolo 27
*** Sette ore filate ***


27 - Sette ore filate



16 novembre 2012 
 

«Ti sembra normale che io debba dormire scomodo a casa mia?»

«Non è esattamente casa tua.»

«Più mia che tua, in ogni caso. Che senso ha questo affare?» Kei spinge con le ginocchia contro il cuscino che Kuroo ha posizionato per lungo in mezzo a loro, sul letto di Aki.

«Grazie Kami! Si è dimenticato quello che ho detto prima!» esclama Tetsurou ispirato.

Kei sbotta a ridere di nuovo, ripensandoci, e tira un calcio sulle ginocchia di Kuroo, subito sotto il limite del cuscino «Vattene per terra, o sul divano, se sei così animale.»

«Ahia! Ma quanto sei violento?»

«Te lo meriti. Odio stare scomodo. Ma poi, sul serio pensi che ti lascerei fare quello che ti pare?»

No. Sì. Si guardano e nessuno dei due sa la risposta. In più, pensarci non aiuta. Tetsurou si passa una mano sulla faccia, per dissimulare l'imbarazzo e ringrazia mentalmente la presenza del cuscino.

Improvvisamente, la stanza piomba nell'oscurità. L'illuminazione del soggiorno che, con la porta aperta, aveva creato una penombra amichevole, è temporizzata. Kei lo aveva dimenticato. Dalle tende non filtra neanche un filo di luce, perché ad Aki è sempre piaciuto dormire nel buio assoluto. 

Resta solo il suono dei respiri.  E per un po' è più che abbastanza. 

Persino troppo.  Tetsurou si smarrisce nei contorni di Kei che emergono dall'oscurità, lungo il profilo della sua mano poggiata sotto il viso, fra le ombre che disegnano i volumi del suo corpo. Altroché, quel cuscino è un baluardo di sanità mentale.

E' Kei a spezzare il silenzio. «Dimmi dei vigneti.»

«Quindi i cinque minuti non sono ancora finiti?» lo provoca Tetsurou.

«Finiscono quando lo decido io.»

«E quando?»

«Quando mi avrai stancato.»

«Io non ti stancherò mai» replica Tetsurou. Lo dice con scioltezza, come fosse una verità semplice e assodata.

Kei deve concentrarsi per mettere insieme la strafottenza necessaria. «Fuori da questo letto!» intima, tirando un'altra pedata; stavolta Tetsurou reagisce in fretta e gli blocca la caviglia, imprigionandola fra le proprie. 

Kei si divincola il minimo necessario per non perdere la faccia.  «Lasciami, scemo.»

«Come si dice?»

«Crepa... »  lo pronuncia con l'intonazione leziosa di un per favore.

Tetsurou ride e gli libera la gamba. «Siamo a ventidue: non ho perso il conto. Sai che c'è? Potrei stare qui a provocarti fino alla fine dei tempi.»

«Io invece potrei buttarti fuori casa anche subito. Adesso basta cazzate, Kuroo-san: vigneti!»

«Vigneti» ripete Tetsurou. Prende fiato per parlare, ma poi ci ripensa. «Non crederai che sia gratis... »

«Cosa?»

«Le informazioni. Hanno un valore. E un prezzo» sussurra, cospiratorio.

«In denaro o in natura?»

«In natura è un'idea...»

«Guarda che il cuscino lo hai messo tu» lo sfida Kei, con la massima arroganza. E' tutta apparenza, naturalmente. In realtà sta annaspando in un oceano di contraddizioni. Quasi non respira per la violenza del desiderio che sente di buttare nel cesso sedici anni di pretese di indipendenza insieme al maledetto cuscino.

«Tsukki-kun! Non dirmi che vuoi attentare alla mia virtù?» risponde Kuroo, scandalizzato.

«A dire il vero pensavo di prenderti a calci negli stinchi...hai la virtù negli stinchi?»

«Tu nemmeno le conosci le mie virtù... » si vanta Kuroo, in un sussurro allusivo. «Vuoi scoprirle?»

Kei non riesce a vederlo, con quel buio, ma ha chiarissima in mente l'espressione insolente con cui lo sta dicendo. Non ridere, impone a se stesso. E incredibilmente funziona.

«Piantala! Sei più fastidioso del solito. Dimmi di questi stramaledetti vigneti!»

«Va bene, va bene: vigneti. Dunque, Yu-chan ha fatto la tesi con tuo padre, prima di andare a lavorare per lui, questo forse lo sapevi. Durante la tesi, lui le ha proposto di seguire un ciclo di seminari a Parigi, per un trimestre. Ci siamo fatti due conti e non potevamo proprio permettercelo. Hai una vaga idea di quanto cazzo costa una stanza a Parigi?»

«No, quanto?»

«Tanto!» esclama Kuroo, spiazzato. Solo Kei riesce a metterlo all'angolo così facilmente.

«Ma sul serio? Fai lo splendido e poi neanche sai la cifra?»

Kuroo ride. «Eddai Tsukki! Chissenefrega di quanti yen sono, tanto non ce li avevamo. Era una domanda retorica. Dovevi solo stupirti. Su questa cosa di stupirti fai pena.»

«Lo vedi che sei super-scemo? Dai, vai avanti! C'è andata o no a Parigi?»

«C'è andata, ma solo perché tuo padre le ha trovato una sistemazione. In casa di certi vostri parenti, come coinquilina della loro figlia, che all'epoca era studentessa anche lei.»

Kei non può fare a meno di pensare al fatto che quello stesso padre non è mai voluto tornare in Francia, né lo ha mai sfiorato l'idea di di portarci la famiglia. Da piccolo, era convinto che questi fantomatici parenti francesi fossero tutti morti, tipo un'epidemia selettiva. E ora eccoli qui, riportati in vita da Kuroo Tetsurou, l'uomo che se ne frega delle leggi della fisica e gioca con la vita e la morte.

«E quindi?»

«E quindi ci puoi arrivare, Watson. La famiglia di questa ragazza, Elaine Perrault, possiede due vigneti vicino a Bordeaux, che è la città dove poi è andata ad abitare Yu-chan quando si è trasferita l'anno scorso. Beh, è la tua famiglia. Più o meno.»

«Il cognome della mia nonna paterna era Valier. »

Per un attimo, smarrito fra le pieghe di tutte queste coincidenze improbabili, Kei viene assalito dalla paura. Un terrore irrazionale che Kuroo lo stia prendendo in giro. Che tutto quello che gli ha raccontato, quello che hanno vissuto, compreso il momento presente, sia un inganno. Un'illusione. Una bugia. Si sente precipitare in caduta libera.

In quello stesso istante, Tetsurou sta pensando che con Kei vorrebbe girare il mondo, imparare cento lingue, navigare tutti i mari, assaggiare tutti i sapori, guardare un milione di tramonti. E come sempre, mentre desidera qualcosa, ha già deciso che farà di tutto per averla. E che la avrà.

«Sicuro che sia Perrault il nome?» dubita Kei.

«Sicuro. Se ho capito bene - sulle faccende di parentele faccio pena - la nonna di Elaine e la tua nonna francese erano sorelle.»

«Quindi Perrault è il nome del tizio che la sorella di mia nonna ha sposato.»

 «Boh. Penso di sì. E' importante?» risponde Tetsurou con un mugolio dubbioso.

Improvvisamente, i pezzi di un puzzle combaciano nella mente di Kei, con il rumore che fanno i calcoli esatti. E' difficile da spiegare, ma Kei sa sempre a pelle quando un risultato è giusto. Può non sapere dove e come ha sbagliato, e metterci un secolo a capirlo. Ma la sensazione di consapevolezza di un risultato corretto è una specie di scintillio interiore, una piccola esplosione di luce.

«E' la ragazza della foto in camera tua, vero? Quella bionda.»

Tetsurou sta pensando a tutt'altro. Ha appena colto nel buio il profilo in rilievo della clavicola di Kei che sporge dallo scollo allargato della maglietta. E ora vorrebbe passare le dita su quel punto e poi... «Come?»

Kei gli assesta una manata in fronte. «Se sei qui per non ascoltarmi, vattene!»

«Ahia! Che foto?»

«In camera tua. Seconda mensola sulla scrivania. Una tizia bionda.»

«Ah. Sì. Certo, bravo, è proprio lei. La foto è di Natale scorso, siamo andati tutti lì. Ehi Tsukki, ma sai che... a pensarci bene, un po' Elly ti somiglia... »

Elly. Pure il vezzeggiativo. Che stronzo.

«Ci sei andato a letto?»

«Cosa?»

«E' bella. Ci sei andato a letto?»

«Sì, ma... »

«Sì?» Lo stronzo si scopa sua cugina, come volevasi dimostrare.

«Stop. Fermi tutti.» Kuroo si solleva su un gomito e scandisce le parole nel buio: «Sì, è bella. No, non ci sono andato a letto. Ma ti pare? E' un'amica intima di mia sorella. E' fidanzata. E poi è vecchia!»

«Vecchia?»

«Ventisette anni. Vecchia. Eddai, Tsukki! Se fai così sembri geloso...»

Geloso fradicio. Di tutte quelle che ti sei scopato. Di quelle che ti scoperai. Di chiunque respiri e ti sia vicino: di Bokuto, di Akaashi e di Kozume. Soprattutto di Kozume.

«Geloso un cazzo.»

Tetsurou si sporge verso Kei, la sua voce è velluto, anche se fa venire voglia di prenderlo a ceffoni. «Sicuro, sicuro, Kei? Neanche un pochino geloso?»

Il gomito di Kei colpisce quello di Kuroo puntato sul materasso, togliendogli l'appoggio. La testa di Tetsurou ricade pesantemente sul cuscino. «E che cavolo! Sei un pericolo pubblico, con quei gomiti!»

«Te la sei cercata. Ora basta, le tue cazzate mi hanno sfinito. Dormiamo.»

«Non ci pensare proprio. Altro che dormire, ora è il mio turno, devo vendicarmi!»

«Che turno?»

«Quello di farti una domanda. Te l'avevo detto, che non era gratis. Avevamo un accordo.»

«Tu sogni. Io non ho fatto nessun accordo con te» risponde Kei, con tutta l'indifferenza che non prova.

«Lo sai che ultimamente la parte dell'antipatico ti riesce meno bene?»  La domanda è niente più che un sussurro, un alito d'estate e di colonia sparato nei sensi di Kei, che chiude gli occhi.

«Eddai, Tsukki! Un paio di domande, che vuoi che siano? Solo un paio, giuro.»

«Non se ne parla. Mettiti a dormire.»

«Se avessi voluto dormire sarei tornato a casa mia.»

«Mi chiedo perché tu non l'abbia fatto.»

«Vuoi saperlo?»

«No! Voglio che dormi.»

«E io che mi rispondi.»

Kei sbuffa. «Mentirò.»

«Non lo farai.»

«Come lo sai?»

«Non sprecherei mai il mio tempo con una persona senza onore.»

Touché.  Tsukishima Kei ha una fissazione per l'onore. E' un concetto fuori moda, talvolta inapplicabile al presente. Ma non ha senso essere eredi di una cultura millenaria e tralasciarne la parte migliore, vale a dire gli haiku e il concetto superiore e intimo del Meiyo, l'Onore personale. Come possa averlo capito Kuroo, tanto da usarlo contro di lui, è un mistero. Fa parte dell'imponderabile che è la sua essenza, la materia di cui è fatto.

«Sei un fottuto parolaio.»

«E' un complimento?»

«Muoviti, fammi queste domande.»

I movimenti di Kuroo sono fruscii di lenzuola nel buio. Piega il gomito, si avvicina qualche centimetro col viso, la sua gamba sbatte contro il cuscino. «Perché sei scappato? Dopo che sono venuto a trovarti a Osaki.»

Kei impreca mentalmente. Gli ci vogliono diversi secondi per confezionare una risposta ragionevole e non bugiarda. «Perché non ho tempo e non ho voglia di giocare al gatto e al topo con te»

«Che vuol dire?»

«Che io non posso essere tuo amico. E non credo che tu voglia essere mio amico. E perciò...»

«No no, ti sbagli. Io voglio essere tuo amico» lo interrompe Tetsurou.

E' un pugno nel diaframma, che spezza il respiro di Kei.

«Io voglio essere anche tuo amico. Io voglio tutto, Kei. Tutto. Te l'ho già detto, a Sendai. Ho combinato un casino quel giorno e non ne voglio parlare adesso, ma quella cosa era vera. E' ancora vera.»

Kei riemerge dall'apnea con una lunga espirazione. «Non ti azzardare  a chiamarmi per nome. E la risposta è sempre no. Non funzionerà. Che poi è il motivo per cui c'è questo cazzo di cuscino qui in mezzo.»

«Il cuscino ce l'ho messo io. E decisamente non per quel motivo. Comunque, perché non dovrebbe funzionare?»

«Perché? Non ci arrivi?» sbotta Kei, esasperato. «Perché siamo due mocciosi, ecco perché. Io ho davanti due anni di liceo e poi? E poi boh. Tu ne hai almeno quattro di università. E poi? Un boh ancora più grande. Perché abitiamo a quattrocento chilometri di distanza e nessuno di noi due è milionario, nessuno di noi due è paziente. Perché sono uno stronzo. E tu un rompicazzo. Perché se adesso scopassimo, domattina ti sentiresti di merda. E sai perché? Perché sei il tizio meno gay del pianeta! Devo continuare?»

Kuroo tace per qualche secondo, come se dovesse raccogliere le idee. «Il tizio meno gay del pianeta è Yamamoto Taketora» osserva, in tono compassato. «Ma è un grosso problema, perché non troverà mai una che gliela dà.»

Kei risponde con un calcio. Uno forte,  perché stavolta non c'è niente da ridere.

«Ahia! Mi vuoi spezzare le gambe?» Testurou si massaggia il ginocchio. «Cosa ci posso fare se spari un sacco di cazzate, Tsukki? »

Kei si volta, dandogli le spalle. Si rannicchia in posizione fetale e si copre anche la testa col lenzuolo, abbracciandosi le ginocchia al petto. Ha il cuore in tumulto e lo stomaco sconvolto. E si sta chiedendo se quelle cose gliele ha dette davvero. E come gli è saltato in mente di farlo.

«Però del tuo discorso assurdo, una cosa che si salva c'è: ho notato con piacere che anche tu vedi il nostro rapporto su una prospettiva temporale molto lunga» dice Kuroo, con invidiabile tranquillità. «Ma, come immaginavo, ti preoccupi troppo dei dettagli. A farlo funzionare ci penso io. Fidati!» conclude, con uno di quei sorrisi impudenti che, anche se non si vedono, si sentono distintamente. 

Ma certo, la questione è risolta. Zero problemi, zero difficoltà. Ci pensa lui.  «No.»

«No, non ti fidi?»

«No, non funzionerà. E non ci voglio neanche provare.»  Farebbe un male cane.

«Okay. Allora ci provo io.»

«A fare che?»

«A farti innamorare.»

«Fanculo.»

«Tsukki, davvero, lascia fare a me. Tu basta che non mi blocchi il numero. E non sparisci.»

Kei non risponde. L'ultima cosa che vorrebbe è tagliare i ponti un'altra volta. Sa perfettamente di essere innamorato. Perso. Da un sacco di tempo. Ma sa per certo che non funzionerà mai. E che ne uscirà devastato; Yama e Aki dovranno raccoglierlo col cucchiaino.

«Tocca a me» dice Kei, con convincente indifferenza e senza voltarsi.

«Cosa?»

«Una domanda personale.»

«Vai!»

«La tua prima volta. Quando? Come? Con chi?»

«Sono tre domande.»

«Non pontificare, rispondi.»

«Sissignore. Quando: in prima liceo. Come...» Kuroo ridacchia. «Beh, molto, molto, molto velocemente.»

Kei sorride suo malgrado, nascosto nel bozzolo di coperte. Quanto bisogna essere sicuri di se stessi, per ammettere una cosa del genere?

«Con chi?»

«Nagatomo Yuki. Era la manager dello Shinzen, del terzo anno.»

«A un ritiro?»

«Il mio primo ritiro. Ho fatto schifo in campo tutti e quattro i giorni, chissà perché.»

«Eri innamorato?»

«Beh certo. O almeno, credevo di esserlo. Lo ero dalla cintura in giù, diciamo. Ma naturalmente, lei mi stava usando. Penso che volesse fare un po' di esperienza, con uno a caso, prima di trovarsi a fare sul serio con qualcuno di cui le importasse.»

Uno a caso. Pessima scelta, Nagatomo. O magari ottima.

«E come è finita?»

«Che l'ultima sera mi ha detto che le piaceva un amico di suo fratello. Mi ha dato un bacio in fronte, mi ha ringraziato e mi ha detto che ero stato carino

«Un giudizio di merito alle tue prestazioni?» ghigna Kei.

Kuroo gli piazza un pugno in mezzo alle scapole. Robusto, ma non violento. «Che fai, ti allarghi?»

«Ci sei rimasto così male?»

«Beh, carino non è esattamente l'aggettivo che uno vuole sentirsi dire in quella circostanza. Ho pianto un paio d'ore. Ho rotto le scatole a mio nonno sul senso della vita per altre due ore. E poi mi sono accorto che il mondo era pieno di ragazze carine

«E ragazzi?»

«Mai presi in considerazione, in quel senso» risponde sinceramente Tetsurou.

Kei si morde il labbro fino a sentire sulla lingua il sapore del sangue, ma non emette neanche un suono.

«Con te è diverso» aggiunge Tetsurou, pensieroso. «Mi piaci e basta. In un modo che... appunto, è diverso.  Diverso proprio come qualità. Ci ho riflettuto. E ho deciso che non me ne sbatte niente se sei maschio o femmina. E' solo un dettaglio.»

«Ma per favore! Questa è una cazzata galattica. L'attrazione fisica non passa tutta per il cervello. Non è una cosa che decidi. E non è  affatto un dettaglio.»

«No, infatti. La mancanza di attrazione fisica fra noi è un problema. Il bacio di prima era tutto cervello, una cosina proprio platonica, vero?»

«Crepa.»

«Ventitré. Tocca a me. Tu? Sei vergine?»

Se qualcuno avesse detto a Kei che un giorno si sarebbe trovato steso nel letto di suo fratello, a fianco a un tizio che conosce da pochi mesi, a rispondergli senza filtri a una domanda diretta sulla propria verginità, avrebbe riso fino a farsi scoppiare la pancia.

«No.»

Kuroo accoglie la risposta con un silenzio di un paio di secondi. «Quando? Come? Con chi?»

«Quando: il giorno dei diplomi lo scorso marzo. Con Shinoyama Shuto, uno della squadra di nuoto.»

«Eri innamorato.»

«No, decisamente.»

«E allora perché?»

«Ma chi sei? L'ultimo romantico? Perché mi andava. Perché lui era bellissimo.»

«Bellissimo. Addirittura.»

Kei si volta di nuovo e si avvicina oltre la soglia della prudenza, faccia a faccia, premuto contro il cuscino che li divide. «Alto. Capelli neri. Occhi scuri, allungati, taglienti. Spalle larghe, vita stretta. Braccia forti. Mani grandi. Culo favoloso. Ti ricorda qualcuno?»

«E' stato fantastico farlo con lui?»

«Per niente.»

«Allora no, non mi ricorda nessuno.»

Kei gli concede un vero sorriso. Maledetto, è una risposta magnifica. Come lui. Fastidioso, testardo, ingombrante e magnifico. E fanculo a tutto, la prospettiva temporale che Kei vorrebbe non è lunga, è lunghissima. Tipo per sempre. E mentre lo pensa, si rende conto che è una stronzata sentimentale da sedicenne con gli ormoni al collasso. Ma non gliene importa un bel niente .

In quel momento, dal soggiorno arriva il trillo attutito di un telefono.

Kei non dice una parola, prende il viso di Kuroo fra le mani e gli bacia le labbra. Senza insistere, senza provocare, senza avidità, senza lussuria. Un bacio breve, fragile e innamorato. Così dolce e leggero che arriva in un secondo dalle labbra al cuore di Tetsurou.

«Buon compleanno, scemo. Ora dormiamo. E tu levati dalla testa l'idea di stare con me. Non funzionerà mai.»

«Quindi così è quando non funziona? Vuoi che togliamo di mezzo il cuscino e vediamo di farlo funzionare ancora meno?»  La malizia cade nel silenzio e subito dopo scivola in una risata limpida, più bassa e meno fragorosa del solito. Una risata da letto, da momenti privati. Kei non lo sa, ma è il primo che l'abbia mai sentita. E l'unico che la sentirà. «Non è che ti va di darmi un'altra dimostrazione di malfunzionamento?»

«Crepa!»  Kei si sente leggero come non mai.

«Ventiquattro: anche se ridi, vale lo stesso.  Senti, Tsukki, posso chiederti ancora una cosa?»

«No! Basta. Dormi!»

«Eddai, aspetta, è una cosa seria. Per favore...»

Kei sospira. «Sei insopportabile. Sentiamo.»

«Domani alle undici. Saremo tutti alla cerimonia.»

«Vuoi che venga?»

«No, in realtà.»

Kei tace, perplesso, aveva già deciso di andarci, preferibilmente evitando di rivolgere la parola a Okamoto Ayumi.

Kuroo continua: «Mio nonno sarà da solo in ospedale, a quell'ora. E insomma, sarà dura per lui. Tu... andresti a fargli compagnia?»

«Io? Sei sicuro? Non credi che preferirebbe...»

«Sono sicuro. Per favore. Tu giochi a shogi giusto?»

«Sì. Beh, sono un dilettante.»

«Mio nonno adora lo shogi. Domattina passiamo da casa e prendiamo la scacchiera portatile. Tu fagli fare una partita. Fallo distrarre. Giuro che appena finisce la cerimonia vengo a salvarti.»

Kei esita. Ma in realtà ha già deciso. Può solo sperare che Kuroo non abbia capito quanto sia diventato difficile negargli qualcosa.  «Okay, se proprio ci tieni.»

«Davvero lo farai?»

«Davvero. Adesso mettiti giù e dormi! Sei il diciottenne più rompipalle del pianeta.»

«Ma non il meno gay.»

Kei sbuffa aria dalle labbra per non scoppiare a ridere. «Dormi, ho detto!»

«Ara ara, gomen» dice Kuroo, imitando la cadenza strafottente di Kei.

Si guadagna l'ennesima pedata. Poi Kei si volta di spalle. E chiude gli occhi. E sorride. E arriccia le dita dei piedi. Sentirsi così stupidi e così felici è praticamente una garanzia di disperazione futura. Ed è bellissimo.

Passano solo pochi minuti prima che il respiro di Tetsurou diventi pesante e regolare. Kei si gira a guardarlo. Ci pensa su qualche minuto e poi dice a se stesso che un momento così non gli ricapiterà tanto presto. Che è una ridicola scusa, ma, considerato il contesto, bisogna farsela andare bene. Toglie di soppiatto il cuscino divisorio e gli scivola fra le braccia, nel silenzio più assoluto.  Tetsurou si muove appena, ridisegnando l'assetto sul corpo di Kei contro il proprio, senza svegliarsi.  E' il regno dell'ignoto, quell'abbraccio, il luogo dove si spengono i dubbi, si sgretolano le paure. Lì dentro, al sicuro, Kei scivola in un sonno senza sogni, senza risvegli improvvisi, senza interruzioni. Un sonno disteso e profondo, che dura sette ore filate. 

Quando apre gli occhi, dalla porta del soggiorno piove la luce tenue del primo mattino, lucida e bianca.  Kuroo sta dormendo nella solita posizione assurda, prono e con la testa infilata nel cuscino. Ma una delle sue braccia circonda Kei e lo stringe, una delle sue gambe gli blocca il ginocchio. 

Una mano grande e calda riposa aperta sul suo cuore. 

 

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Capitolo 28
*** Grazie per questa partita ***


28 - Grazie per questa partita



25 luglio 2010
 

Fuori piove. Un temporale estivo scrosciante che promette di liberare la città dalla morsa del caldo, almeno per qualche ora. Dalle finestre aperte entra un odore pungente di ozono, di terra umida e di asfalto bagnato. Ogni tanto Tetsurou getta uno sguardo sconsolato ai goccioloni che rimbalzano nelle pozzanghere del cortile. 

«Tocca a te, Te-chan, non ti distrarre» lo riprende il nonno, con il tono di una pazienza sovrumana che però si sta esaurendo.

Siedono uno davanti all'altro, inginocchiati di fronte allo shogiban, come ogni domenica pomeriggio.

Il ventilatore acceso muove i capelli di Tetsurou in tutte le direzioni; ogni tanto lui se li riavvia con la mano. E' un gesto inutile, ma ormai quasi automatico, mutuato da uno spudorato, e comico, dizionario di atteggiamenti disinvolti di cui Te-chan si è armato per affrontare il liceo. Il nonno lo spia di sottecchi, diviso fra il divertimento e il rammarico per la rapidità di tutti quei cambiamenti.

Tetsurou muove una delle sue lance.

Il nonno scuote il capo e risponde con una mossa semplice, che però lo porta subito in vantaggio. Una cosa di cui Kuroo Tomo non si capacita, è di non essere riuscito a tirare su, in due generazioni, neanche un giocatore decente.

Ayumi, con la sua intelligenza analitica, unita a un carattere granitico, è un'avversaria determinata ed estremamente affidabile. Come dire terribilmente noiosa. Ogni tanto vince.

Tetsurou tutto il contrario: perde regolarmente, perché non riesce a concentrarsi abbastanza da anticipare le mosse altrui. Pianifica con cura e intelligenza gli attacchi, è temerario, è fantasioso, ma è troppo abituato all'idea di piegare gli altri alla sua volontà e finisce per convincersi che l'avversario gli farà il favore di muovere come pare a lui. La cosa buffa è che ci resta male, quando poi non succede.

Se non altro, giocare con lui di solito è divertente. Sempre che decida di accendere il cervello.

«Kuroo Tetsurou, se stacchi le dita da quella tessera te le taglio!» sibila il nonno, insofferente.

Tetsurou stringe convulsamente la presa intorno al suo generale argento e lo riporta lentamente nella casella di partenza. In effetti, era una mossa cretina.

«Che ti prende, Te-chan?»

«Niente. Era solo un errore di valutazione» si giustifica, fingendo indifferenza, mentre sposta un pedone in avanti, praticamente a caso.

Il nonno sospira e fa la sua mossa. «Dai, concentrati!»

Tetsurou guarda la scacchiera. Ma quello che vede in realtà sono le labbra rosa di Nagatomo Yuki, la curva della sua spalla nuda. Serra le palpebre e cerca di pensare ai pezzi nelle caselle. Se adesso muovesse il cavallo, allora il nonno sicuramente sposterebbe il generale oro a sinistra, e poi... di nuovo le labbra rosa di Yuki, strette intorno a...

«Non ci riesco!» sbuffa, sbattendo la tessera di punta sulla scacchiera. Una cosa che suo nonno detesta. «Scusa, nonno. Possiamo giocare un altro giorno?»

«Dichiara la tua sconfitta, allora.»

«Giochiamo domani, riprendiamo da qui... »

«La partita è adesso, non un altro giorno, non quando pare a te. Se ti tiri indietro, hai perso, non importa il motivo. Dichiara la tua sconfitta, Te-chan» ribadisce accigliato.

Quando il nonno fa così è insopportabile. Come se a qualcuno, a parte lui, fregasse qualcosa di vincere o perdere a una stupida partita di shogi. E' incredibile che non abbia ancora capito che sia lui che Yu-chan ci giocano solo per fargli piacere.

«E va bene!» sbotta Tetsurou, irritato. «Makemashita!» grugnisce, sbattendo la mano sul komadai ancora vuoto. Si alza in piedi di scatto, muove qualche passo verso la finestra e si mette a braccia conserte a guardare la pioggia che cade sui fiori di caprifoglio e sull'ardesia del vialetto.

Il nonno lo sta fissando, Tetsurou sente il suo sguardo che gli pungola la schiena. «Non guardarmi così!»

«Così come?»

«Come se avessi fatto chissà cosa. E' solo una stupida partita.»

«Stupida senz'altro, grazie al tuo valido contributo.» La voce del nonno ha cento timbri e mille declinazioni, non si capisce mai se, dietro l'ironia, si nasconda qualcos'altro. Bisogna guardarlo in faccia, per esserne sicuri: con gli occhi, il nonno non mente mai.

Ma Tetsurou non vuole voltarsi, non vuole mostrarsi. E' ancora offeso, ancora arrabbiato, pronto a litigare. «Sai quanto me ne frega!» 

«E' bella?» chiede il nonno. Le sue parole vagano casuali nel picchiettio delle tessere che vengono rimesse nel sacchetto, rigorosamente due a due, come comanda la tradizione.

Tetsurou non risponde.

«Te-chan, le conosco le tue facce.»

«Non ti sto guardando in faccia.»

«Conosco anche la tua schiena» ghigna il nonno. «Allora, dai, è bella questa ragazza?»

«Che ragazza?»

«Quella del ritiro»

«Tu che ne sai?» Tetsurou si volta con gli occhi sgranati.

«Suvvia, Te-chan, perché sei stordito tu, non dobbiamo per forza esserlo tutti. Sei appena tornato da un ritiro di pallavolo con lo sguardo da pesce lesso, l'umore nero e le occhiaie. Direi che le probabilità che c'entri una ragazza, e che qualcosa sia andato storto, sono alte. Allora, me lo dici se è bella? Come si chiama?»

«Nagatomo Yuki. E' molto bella» ammette seccato Tetsurou. Yuki è bellissima. Forse non nel senso canonico del termine. Ma è bellissima la sua pelle bianca, sono bellissime le sue braccia, i polsi e le caviglie sottili, il sorriso che fa abbassando gli occhi, il modo in cui si scioglie i capelli con un unico gesto.

«E... ?»

«E cosa?»

«Che altro? Non sarà la prima bella ragazza che incontri. Cosa ha di speciale?»

Di speciale. Tetsurou si gratta la testa, con una smorfia corrucciata. Non è facile trovare gli aggettivi giusti, così di botto. L'espressione del suo viso è sulla soglia che separa la prima adolescenza da quello che c'è dopo, anzi, un passo oltre. Ed è turbata.

«Qual è il problema, Te-chan?»

«Il problema è che non ci capisco niente» esala, crollando a sedere sul posto, a gambe incrociate.

Se sapesse quanto suo nonno si stia sforzando di non sorridere, Tetsurou si offenderebbe a morte. «Cosa non capisci?»

«Niente di niente. Di lei, di com'è andata. E' tutto incasinato e non ha il minimo senso!» si lamenta, strofinandosi i capelli ai lati della testa, come se potesse scuotere i pensieri che ci sono dentro e rimetterli in ordine. «Solo una cosa ho capito: che fa un male cane.»

Kuroo Tomo vorrebbe abbracciarlo stretto e accarezzarlo, come quando era bambino, ma sarebbe una pessima mossa. Si limita a restare fermo dietro la scacchiera, alla distanza che Te-chan ha voluto marcare. E sceglie anche di non parlare. Continua a riporre i pezzi nel sacchetto, con calma. Allaccia i cordoncini, poi lo infila nella scatola di legno e la chiude. Solo a quel punto alza lo sguardo.

«E soprattutto non è giusto!» esclama Tetsurou. E'  risentito, addolorato,  deluso, un maelstrom di emozioni indistricabili aggrovigliate nei lacci dei suoi quindici anni.

«Cose giuste nella vita ne incontrerai poche, Te-chan, gratis nessuna. Meglio che ti ci abitui.»

«Non è giusto» ripete Tetsurou lamentoso, guardando in basso. «E' stata lei che mi ha... è stata lei a cominciare. Ha fatto tutto lei. E le piaceva. Un sacco. E poi, come se niente fosse, ha detto che non le importava. Di me. Di noi. A me importa, però.»

Il discorso è poco chiaro, ma la sostanza di una grossa delusione emerge nitida dal garbuglio di quei mozziconi di frase.

«Ha detto anche che non significava niente. Ma non è vero. Quello che abbiamo fatto non è niente» continua Tetsurou, grattando con le dita le fibre un po' lise del tatami. E' uno di quei gesti che lo hanno seguito dall'infanzia e gli anni che corrono non sono ancora riusciti a cancellare. E sta arrossendo come un tizzone acceso.

Adesso, Kuroo Tomo pensa di aver capito. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato. Era li lì per succedere, come una di quelle tempeste che si fanno annunciare da venti forti e schicchere di elettricità nell'aria.

«E' stato bello, almeno?»

«Cosa?» Tetsurou tenta di fare il vago, con esiti molto scadenti.

«Quella cosa che avete fatto, di cui non ti va di parlare, e che ti sta facendo venire la faccia e le orecchie del colore della maglietta della squadra.»

«E' stato incredibile» confessa Tetsurou, a voce così bassa che lo scroscio della pioggia la copre quasi completamente. In effetti, se ci ripensa, fatica a crederci.

«Dimmi una cosa importante, Te-chan: sei stato attento? Ci hai messo un po' di cervello?»

Tetsurou decodifica il senso di quelle parole con un po' di ritardo. E' ancora paonazzo. «Certo» mugola. La faccenda del preservativo gliel'hanno ripetuta così tante volte negli ultimi due o tre anni, fra scuola e casa, che non gli è neanche passata per la mente l'idea di farlo senza.

La goffaggine con cui il nipote si sforza di gestire l'imbarazzo di quella situazione è così tenera che al nonno sfugge un sorriso.

«Non c'è un cazzo da ridere.»

«Scusa, Te-chan. Hai ragione. E' che mi piace vederti diventare grande. Anche se sta succedendo molto in fretta.»

Tetsurou si alza e raggiunge il nonno, ciondolando avvilito, si inginocchia accanto a lui e gli appoggia la fronte sulla spalla. «Nonno... e ora come faccio?» E' una sorta di rito, una richiesta di aiuto che non cambia mai la sua formula, da dieci anni a questa parte, qualsiasi sia il guaio in cui si trova. Il nonno ha sempre una risposta.

«Dipende da te, Te-chan. Cosa vuoi fare?»

«Sono innamorato» confessa, parlando alla manica della polo del nonno. «Tanto innamorato.»

«Sei sicuro? A me questo non sembra amore.»

Tetsurou alza la testa di scatto. «E come fai a dirlo?»

«Amore non è quando si passano bei momenti dentro a un letto. O non so dove ci si possa nascondere durante un ritiro di pallavolo. Quelli sono, appunto, bei momenti. E vanno benissimo. Anzi, alla tua età ci vogliono.»

La voce del nonno è calda e confortante, ma Tetsurou non riesce a nascondere la delusione per quella risposta. «Dici le stesse cose assurde di Kenma. Però almeno lui è un moccioso e invece tu... »

«Io sono un geronte. Grazie, caro. Però sai che l'ho sempre pensato che è un ragazzino in gamba, il piccolo Kozume. Che ti ha detto?»

«Che sono innamorato dalle mutande in giù. Idiota.»

Kuroo Tomo non può più trattenersi e scoppia a ridere. «Non elegante, ma molto acuto. Io avrei detto che sei innamorato con gli occhi.»

«Gli ho tirato un pugno.»

«Lo ha schivato?»

«Certo. Se continui, ne do uno anche a te.»

Il nonno si passa la mano sulla faccia, per ricomporsi. Ha confinato la risata negli occhi. Tetsurou può vederla ancora benissimo, ma vede anche un mare di affetto e alla fine non riesce mai davvero ad avercela con lui.

«Come lo sai che non è amore? Che ne sai di come mi sento! Io penso a lei di continuo. Per questo non riesco a giocare» si lamenta, guardando lo shogiban vuoto in mezzo al tavolo.

«Pensi a lei come

«Che cavolo di domanda è?» si ribella Tetsurou, piccato e imbarazzato.

«Pensi a quello che vorresti fare con lei, o a quello che vorresti fare per lei? Pensi a quello che vi siete detti o a quello che avete fatto? Fai dei progetti a breve o a lungo termine? Pensi a come renderla felice o a come divertirti insieme a lei?»

Tetsurou è onesto. Lo è per natura, nelle azioni come nei sentimenti, a maggior ragione lo è con suo nonno. «Lei mi piace. Vorrei che fosse la mia ragazza. Per fare... cose. Ma anche per passare del tempo insieme.»

«E fin qui va tutto benissimo, Te-chan. Mi preoccuperei se tu non pensassi a fare cose alla tua età. E non saresti il ragazzo fantastico che sei se avessi accettato le... attenzioni, diciamo così, di questa signorina solo per il tuo divertimento, senza che lei ti interessasse.»

«Quello che non va benissimo è che lei non voglia stare con me.»

«Ti ha detto perché?»

«Le piace uno più grande.»

«Sedotto e abbandonato, mio povero Te-chan» commenta il nonno, con un buffetto. «Però almeno è stata sincera con te all'ultimo. Non ti ha fatto fare la figura dello scemo. Non ti ha fatto perdere tempo a rincorrerla.»

Tetsurou si scosta, imbronciato. «Quindi dovrei mollare e basta? Non mi piace mollare le cose. Penso che dovrei insistere, provare a riprendermela.»

«Riprendertela? Non è una cosa.»

«Conquistarla» corregge Tetsurou. 

Il nonno annuisce. «Dipende solo da te. Devi fare quello che pensi sia giusto, Te-chan. La differenza fra mollare rispettare le decisioni altrui puoi impararla solo con la pratica.»

«Ma tu che ne pensi?»

«Penso che lei si sia approfittata della tua inesperienza. E che però in cambio ti abbia regalato dei bei ricordi, di quelli preziosi. Forse non è la ragazza giusta, ma sono piuttosto sicuro che ti riprenderai molto presto.»

«Non lo so» sospira afflitto Tetsurou. «Mi sento a pezzi. Nonno, come sai quando è amore?»

La domanda è seria, Kuroo Tomo lo ha capito. Ma pensa che suo nipote sia veramente troppo giovane, per un discorso di questo genere. «Per prima cosa, sono sicuro che quando sarai innamorato sul serio e ti chiederò cosa ha di speciale la persona che ami, non farai scena muta, come prima. Mi inonderai di parole.»

E' vero che Tetsurou è giovane, ma è anche testardo, non si lascia distrarre e mira sempre dritto al cuore dei problemi. Tutte cose che ha imparato da suo nonno. «Sono serio. Rispondimi. Come sai quando è amore?»

Kuroo Tomo si volta per guardare Tetsurou negli occhi, che ormai sono alla stessa altezza dei suoi. Ritrovarsi giovane nei suoi tratti e specchiarsi in quegli occhi così innocenti e insieme così avidi, non smette mai di commuoverlo. Te-chan si merita sempre una risposta onesta, la migliore che suo nonno può dargli.  

«Non credo che tutti amino allo stesso modo. L'amore ha molte forme, non tutte lineari, non tutte sane. Ma penso che una cosa sia vera sempre, Te-chan: l'amore ti cambia» dice, toccando il petto del nipote con due dita, di punta, all'altezza del cuore. «Ti cambia dentro, in profondità. Ed è un cambiamento irreversibile.»

Tetsurou è confuso. «Che tipo di cambiamento?»

Il nonno fa una smorfia di riflessione e guarda per aria, come se i concetti fossero attaccati alle pareti. Tetsurou ha sempre bisogno di esempi concreti, al contrario di Ayumi che vive nel mondo delle idee e spesso però fa fatica a scendere sulla terra. «E' come... una specie di riassetto interiore. Non sei più solo. Non sei più l'unico sole del tuo personale universo. E' come se diventassi un sistema binario e quindi cambiasse tutto: il centro di gravità, la rotazione, il moto. L'altra persona diventa te stesso. Non una parte di te, ma proprio te stesso. Una nuova versione.»

Gli occhi di Tetsurou sono attenti. «Così, all'improvviso?»

Sembra una domanda sciocca, ma non lo è affatto. «Immagino che sia diverso per ognuno. Ci sono amori che evolvono nel tempo, con cambiamenti graduali. Ad esempio quelli che nascono dall'amicizia. E poi ci sono folgorazioni potenti e improvvise, che ti sconvolgono da cima a fondo in un momento. E forse esistono anche tutte le vie di mezzo fra questi due estremi.»

Tetsurou tace. Avrebbe sulle labbra una domanda, ma non osa farla. Il nonno però guarda dentro di lui come se fosse trasparente. Perché anche quello fra loro due è, a suo modo, un grande amore. «Vuoi sapere come andrà per te? Non posso giurarci, ma ho l'impressione che noi due ci somigliamo parecchio. Quindi, se dovessi scommetterci, punterei su un evento improvviso. Un cataclisma di quelli che ti rimescolano tutto e ti mandano in pappa il cervello. E non solo. Io ancora oggi giurerei di aver sentito proprio il rumore.»

«In che senso il rumore?»

«Un rumore secco, come uno scatto, un ingranaggio, qualcosa del genere. Il mio universo che ridisegnava le sue mappe giusto in quel momento, dentro al mio povero cuore. Sconvolgente e magnifico. Anche un po' distruttivo.»

«A volte penso che tu mi prenda in giro» mormora Tetsurou scettico, sbufffando aria dal naso. Ma ha gli occhi illuminati di chi ci crede, suo malgrado.

«Chissà, magari è così... è molto divertente prenderti in giro.» Il nonno tira fuori il suo sorriso irritante, quello di chi sa un sacco di cose e non te le vuole dire. «Devi correre il rischio. Un giorno mi saprai ridire. Fra qualche anno»

Tetsurou sbuffa ancora, il nonno ride e gli assesta una bella pacca sulla spalla «Per adesso, Te-chan, mi concentrerei sul trovare una ragazza carina, intelligente e simpatica, per fare cose» dice, imitando il tono allusivo e impacciato di Tetsurou. «Cose divertenti, cose romantiche. Tutte quelle che ti va di fare. Fai esperienza, Te-chan. Tieni la testa sulle spalle, conserva il tuo onore, ma vivi la vita, goditela, assaggia tutto, tocca tutto, prova tutto. L'amore arriverà quando non te lo aspetti. Di solito non ha il buon gusto di avvertire» conclude strizzando l'occhio, mentre si alza, con un piccolo gemito di insofferenza quando sposta il peso sul ginocchio sinistro. «Metteresti a posto tu la scacchiera, Te-chan, per favore?»

Tetsurou annuisce. «Tu dove vai?» domanda, infilando i komadai all'interno della shogiban prima di richiuderla a metà.

«A convincere il grande amore della mia vita che non abbiamo bisogno di un estraneo pagato a peso d'oro, per organizzare il matrimonio di tua sorella. Credo di aver già perso. Ma vale la pena provarci.»

Tetsurou ridacchia. Non ha la minima possibilità di spuntarla, se la nonna ha già deciso. «Ehi, nonno!»

Kuroo Tomo è già alla porta, si volta con la mano appoggiata allo stipite, per sgravare un po' le articolazioni, che non sono più quelle di una volta.

«Arigatou gozaimashita» recita Tetsurou, con un breve inchino, tenendo fra le mani la scacchiera. La voce, molto più del gesto, è colma di rispetto. «Grazie per questa partita.»

Il nonno risponde con un cenno del capo e un sorriso. Poi si avvia per il corridoio col cuore che trabocca di orgoglio. Perché quel ragazzo fantastico è proprio il suo ragazzo.

 

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Capitolo 29
*** Vecchi semi, nuovi fiori ***


29 - Vecchi semi, nuovi fiori



17 novembre 2012

Con la logistica, Kuroo Tetsurou è pessimo. Sottostima i tempi e non considera nessun imprevisto, come se l'intera popolazione di Tokyo, semafori compresi, fosse ansiosa di aprire un varco al suo passaggio, solo per il piacere di dare a lui la precedenza. Il risultato è un continuo affannarsi, per poi arrivare comunque in ritardo. Mentre sfrecciano sulla moto in mezzo al traffico, Kei decide che le prossime volte, la tabella di marcia la farà lui.

Se ci saranno delle prossime volte.

Di buono c'è che Akaashi è stato puntualissimo e Kei è riuscito a finire tutto prima che arrivasse Kuroo ed è anche moderatamente soddisfatto del risultato. Ad Aki farà uno squillo più tardi, dal treno. Intanto, gli ha lasciato un post-it attaccato al frigorifero.

Quando inchiodano di fronte all'ospedale sono le undici meno un quarto: Kuroo è in ritardo clamoroso per la cerimonia; abbandona il suo passeggero all'ingresso e riparte subito, blaterando inutili scuse.

Nel giro di pochi minuti Kei si trova di nuovo nel corridoio del reparto di cardiologia, di fronte alla stanza ventisette, con in mano una scacchiera portatile. Le sedie di plastica blu oggi sono vuote. 

Quello che è certo, è che deve essersi rimbecillito del tutto per aver accettato un tête-à-tête con il nonno di Kuroo senza neanche la decenza di essere presentato come si deve. Mentre si toglie il cappotto e le scarpe, si sente come un rappresentante di aspirapolveri, o quei tizi delle sette religiose: gente che uno non è mai contento di avere alla porta e che non vede l'ora di buttare fuori.

Per tirarsi indietro, però, è tardi. Bussa. Dall'interno una voce bassa lo invita ad entrare.

«Buongiorno» saluta Kei, inchinandosi. Keirei: inclinazione di trenta gradi esatti; il rispetto della forma è un faro nella nebbia di quel disagio. Anche poter contare su una faccia impassibile aiuta.

«Vieni avanti» lo invita Kuroo Tomo, in un colpo di tosse. E' seduto su un sedia imbottita, accanto al letto, con la flebo attaccata al braccio. «Tu devi essere il famoso Tsukishima Kei.»

«Famoso non direi, ma sono io» obietta Kei cortesemente, avvicinandosi.

«Famoso in casa nostra: entrambi i miei nipoti hanno  parecchio da dire sul tuo conto.»

Su quella scelta di parole ambigua, Kei manda giù qualche gallone di saliva, evitando accuratamente lo sguardo del suo interlocutore. Iniziare facendosi mettere in imbarazzo non è quello che sperava. Chissà che cazzo gli è andato a raccontare Tetsurou, a suo nonno. Scemo com'è, potrebbe avergli detto qualsiasi cosa.

«Perché non ti prendi una rivincita e mi parli un po' tu, di loro?» suggerisce il vecchio, con leggerezza. «Certo che sei davvero alto. Non vorresti sederti? Mi verrà il torcicollo, altrimenti.»

Sedersi sul letto di una persona anziana che non conosce affatto è ben oltre il limite della familiarità che Kei è disposto a concedere. Mentre entrava, ha scandagliato la stanza: un letto, un comodino, un armadietto di metallo all'ingresso, un portascarpe, un tavolino quadrato con due sedie, una vecchia televisione attaccata al muro.

Va a prendere il tavolo e lo sistema senza sforzo di fronte alla poltrona occupata da Kuroo; all'altro capo posiziona per sé una delle sedie.

Ora che sono separati da un solido piano di formica verdina, Kei prende coraggio e solleva lo sguardo, ritrovandosi a fissare Kuroo Tomo con gli occhi sgranati. E' praticamente una macchina del tempo puntata sul futuro: sta guardando Tetsurou come sarà fra qualche decennio. Deglutisce ancora, si sistema gli occhiali.

«Geni dominanti» commenta Tomo-sama, con un sorriso divertito.

Ecco da chi ha imparato lo scemo a leggere nel pensiero.

«Tetsurou sostiene che sei un eccellente giocatore» continua il vecchio, indicando la scacchiera.

 Kei la spinge verso di lui sul piano del tavolo, accompagnandola con tutte e due le mani. «Per la verità, non abbiamo mai giocato. Lui è bravo?»

«Secondo te?»

«Se è vero che lo shogi è uno specchio del carattere di chi gioca, allora Kuroo-senpai deve essere un avversario che pensa in modo pericoloso, ma poi agisce con troppa irruenza, senza valutare bene tutte le conseguenze. Potrebbe peccare di eccesso di fiducia.»

«Preciso e affilato come un bisturi» commenta il vecchio. Lo dice in un modo tutto particolare, che lascia il dubbio se sia o meno complimento. «Sembra che tu lo conosca bene.»

Lo sguardo di Tomo-sama è una radiografia e Kei prova la sensazione di essersi fatto cogliere in flagranza, non è chiaro di quale reato. «E' un tipo molto estroverso» chiarisce, con una smorfia noncurante.

«Vero anche questo» replica Kuroo, facendo scattare la chiusura metallica della scacchiera.

Kei ha la netta impressione che gli stia dando ragione come si fa con i matti, o con i bambini.

«Abiti a Miyagi, Tsukishima, vero? Dove, di preciso?»

E' un'inquisizione in piena regola, camuffata da conversazione banale. Qualcosa contro cui Kei opporrebbe, normalmente, una strenua resistenza, fatta di silenzi insolenti e monosillabi astiosi. Ma non c'è niente di normale in quella situazione, nessuna regola di facile applicazione, nessun precedente. Bisogna improvvisare: Kei si appoggia allo schienale della sedia, incrociando le gambe, come se fosse perfettamente a suo agio, anziché su una graticola.

«Osaki.»

«Non proprio a due passi da Tokyo.»

«Un paio d'ore di Shinkansen.»

«Il che non diminuisce la distanza» osserva Kuroo Tomo.

Kei si sente all'angolo. «Se ci fosse il teletrasporto le distanze non conterebbero. E' il tempo che ci vuole a coprirle che le definisce.»

Il vecchio appoggia gomiti e avambracci sul tavolo e fa leva per sporgersi un po' in avanti. «Davvero molto filosofico. Ma quello che cercavo di dirti, ragazzo, è: grazie. Il tuo è stato un gesto di vero affetto verso mio nipote, nel momento del bisogno. Lui ti è molto grato, ma volevo sapessi che non è il solo.»

Kei si stringe nelle spalle, come se quelle parole non contassero niente. «Siamo buoni amici» mente spudoratamente.

«Lo so» risponde Kuroo Tomo, con un sorrisetto indecifrabile.

Kei cerca di leggergli nello sguardo cosa esattamente sa. Cosa crede di sapere. Cosa intuisce. Il sorrisetto non aiuta. Neppure sentirsi le orecchie bollenti.

Nel frattempo, Kuroo ha estratto dalla scacchiera il sacchetto delle tessere. E' di seta turchese, ricamato.  Accarezza la stoffa, indugiando con i polpastrelli sui rilievi dei ricami.

A un certo punto le sue mani si bloccano. «Che ore sono?» domanda, dopo il gesto vano di guardarsi il polso nudo sotto la manica del pigiama.

«Le undici e tre minuti» risponde Kei, con una rapida occhiata al cellulare.

Al vecchio sfugge un sospiro lungo e profondo, abbassa la testa, come se qualcosa la schiacciasse dall'alto, le mani abbandonano il sacchetto e gli si posano in grembo.

Kei si alza in piedi e si inchina. «Sono imperdonabile. Non le ho espresso le mie condoglianze.» Recita le frasi di prammatica, il cui senso, in questi casi, non ha alcuna importanza.

Kuroo Tomo mormora qualche parola di risposta, ugualmente poco importante, passandosi una mano sugli occhi. Sembra improvvisamente fragile e stanco e dimostra tutti i suoi anni.

E tutto questo non va affatto bene.

«Mi farebbe l'onore di una partita, Kuroo-sama?» chiede Kei, rimettendosi a sedere. Nel suo tono c'è tutto, tranne che la compassione.

«Fra un po', ragazzo, fra un po'» risponde il vecchio, sempre con gli occhi chiusi, teso nello sforzo di dominare le lacrime.

Kei allunga le braccia attraverso il tavolo e afferra la scacchiera. La piazza in mezzo al tavolo, dispone i komadai, scioglie i cordoni del sacchetto e rovescia  giù una pioggia di tessere. Prende il Re bianco fra indice e medio e lo sistema nella sua casella di partenza, con uno schiocco da manuale.

Kuroo Tomo non muove un muscolo. Si sta chiedendo se un'infrazione così marchiana dell'etichetta - disporre i pezzi tocca sempre al giocatore più anziano o più esperto - sia sintomo di arroganza o semplice ignoranza del galateo di base. Non saprebbe quale preferire.

Seguono altri quattro schiocchi sonori, per i generali oro e argento, a sinistra e a destra del re; a ognuno, l'irritazione di Kuroo Tomo cresce.

«Ho detto che giochiamo dopo» ribadisce, scandendo le sillabe.

Un tono perentorio che, pur privato delle note aggressive, Kei riconosce benissimo. Si chiede fino a che punto somigli a Tetsurou, fin dove possa spingersi. «Certamente» risponde, condiscendente al limite dell'insolenza. E intanto continua imperterrito a far schioccare i pezzi, uno a uno: i cavalli, tutti i pedoni, le lance, infine l'alfiere e la torre.

Kuroo Tomo riconosce lo stile itoh, il che fa escludere la possibilità che il ragazzo manchi di conoscenze di base.

Kei ruota la scacchiera di centottanta gradi e sistema anche l'altro campo, uno schiocco via l'altro, con irritante regolarità di ritmo.

Quando anche l'ultima tessera è al suo posto, Tomo-sama apre gli occhi e trapassa quelli giovani del suo avversario. Spera di trovarli sfrontati e arroganti dietro le lenti, per poterlo rimettere al suo posto senza tanti complimenti. E invece si scontra con uno sguardo intelligente e rispettoso, perfino affettuoso.

«Eviterei il furigoma, Kuroo-sama. Penso sia corretto darmi almeno il vantaggio del sente, in considerazione della sua lunga esperienza» propone Kei. «Quando vorrà giocare, naturalmente» aggiunge con garbo.

Kuroo Tomo si trova disarmato, a chiedersi di che strano materiale sia fatto, quel ragazzino. Come ragioni. Cosa gli passi per la mente. Come possano convivere quell'aura brillante di sfida e quel grumo di ombre che si porta addosso.

«Sei davvero molto insistente» prova a redarguirlo.

«Chiedo scusa. La prego di attribuire tutta l'intemperanza alla mia giovane età e di perdonarla» risponde Kei, senza scomporsi.

E' il sedicenne meno intemperante che Kuroo Tomo abbia mai visto e per questo, in qualche modo, quella risposta formale è brillante.

Forse la partita era già iniziata con lo schiocco della prima tessera. 

«Nekoma» dice Kuroo Tomo, seguendo quella linea di pensiero. «Il rumore dello schiocco della tessera. Credo sia il motivo per cui tanti anni fa iscrissi Ayumi in quel liceo: il fatto che si chiamasse così.»

«E' un suono che mi è sempre piaciuto» commenta Kei. «Lo trovo... solenne. Una cosa che manca del tutto agli scacchi occidentali.»

«Giochi anche a scacchi?»

«No.»

«Perché?»

«Perché sono giapponese» risponde Kei, come fosse un'ovvietà.

E' una risposta semplice e bellissima, magari un po' straniante, da parte di un ragazzo biondo, alto due metri, con occhi come quelli. Ma Kuroo Tomo non dubita neanche per un attimo della sua sincerità.

«Davvero pensi di aver bisogno di un vantaggio, Tsukishima?»

«Ne sono sicuro.»

Kuroo Tomo annuisce, la scacchiera è già rivolta in modo che sente, il nero, spetti a Kei e gote al suo avversario.

«Allora va bene. Giochiamo» concede Tomo-sama.

Kei si lascia sfuggire un sorrisetto compiaciuto. «Yoroshiku onegai shimasu» recita, con l'inchino dovuto.

«Onegai shimasu» risponde Kuroo Tomo.

La partita inizia con lo schiocco del settimo pedone di Kei, che avanza di una casella, seguito dal terzo pedone del bianco. Kei risponde rapidamente con il generale argento, Kuroo Tomo sposta un altro pedone.

«Non ci avevo pensato» dice Kei, spostando il quarto pedone. «17 novembre: Kuroo-senpai è nato nel giorno dello shogi.»

Tomo-sama fa schioccare il proprio generale argento. «Non è il giorno dello shogi. E' il giorno di Kuroo Tetsurou. Lo shogi è molto fortunato a condividerlo con lui» commenta, allargando il sorriso.

Dispensare con naturalezza risposte magnifiche deve essere un vizio di famiglia. Kei solleva gli occhi e resta vagamente abbagliato anche da quella versione anziana di Tetsurou, con le mani macchiate dall'età e la pelle sottile e tesa sugli zigomi. Intanto, fa avanzare il generale argento di un'altra traversa, occupando lo spazio lasciato libero dal pedone.

Anche l'argento di Kuroo Tomo si muove in avanti, ma a Kei non sfugge la smorfia di disgusto, o forse di dolore, che passa sul viso del suo avversario.

«Tutto bene? Qualcosa non va?»

«Tutto bene. Non preoccuparti, muovi pure.» Kuroo-sama alza uno sguardo ostile verso il sacchetto della flebo e solleva il braccio, cercando di raggiungere la rotella di plastica. Dovrebbe alzarsi, per arrivarci.

«Posso aiutarla?»

«Vorrei chiudere quella maledetta cosa» borbotta il vecchio. L'espressione contrariata è identica spiccicata a quella di Tetsurou.

«Cos'è?»

«Non ne ho idea. Una porcheria chimica che ti torce le budella e ti fa scoppiare la testa. Pare che in questo posto ci si divertano a rendere le persone deboli e inutili come uccellini.»

Ecco anche l'irragionevolezza di Tetsurou, quando si sente con le mani legate. Kei trova la cosa tutto sommato divertente. Come unica risposta, fa schioccare il terzo pedone.

Kuroo Tomo lo guarda con le sopracciglia sollevate «Beh? Allora? Me la dai o no una mano?»

Kei si aggiusta le lenti, cercando di leggere l'adesivo sulla sacca della flebo. «Trinitrina. Forse dovremmo chiedere alle infermiere.»

«E' solo una rotella di plastica.»

«E' solo un reparto di cardiologia.»

«E' solo un favore.»

«Va bene» si arrende Kei. «Ma lo dirò a Kuroo-senpai» aggiunge, con un sorrisetto da schiaffi.

Tomo-sama sospira accigliato, facendogli segno di sedersi. «Non mi sono mai piaciuti i delatori. E non sono sicuro che ti convenga una sincerità così sconsiderata con mio nipote» grugnisce, facendo schioccare rabbiosamente la torre in quarta fila.

Il sorriso sarcastico di Kei risale fino agli occhi, come un'onda di marea. «Non mi conviene di certo. Non sempre, non in generale. Ma in questo caso sì. Se la salute di suo nonno peggiorasse, Kuroo-senpai diventerebbe insopportabile.»

«Addirittura insopportabile?»

Kei alza lo sguardo. «Avvilito. Insicuro. Smarrito. Irragionevole. Come lui non è.»

Come non sopporto di vederlo. In quella risposta non è riuscito a evitare di metterci premura, trasporto, sentimento. Mentre se ne accorge, sa già che il suo avversario ha registrato tutto.

Kuroo Tomo scuote il capo e torna a fissare la scacchiera, dove la torre di Tsukishima Kei schiocca troppo forte.

Per un po', giocano in silenzio. Una volta completati i castelli difensivi, la partita entra nel mediogioco: ogni mossa richiede più tempo e più studio. Arrivano in breve a una sorta di stallo, un precario equilibrio fra difesa e offesa.

«Mi sto già pentendo di averti dato un vantaggio» sbuffa il Kuroo-sama, serrando la sua fila di pedoni.

«Avrei dovuto chiederne uno maggiore» risponde Kei, spingendosi gli occhiali sul naso. E' sicuro che Kuroo-sama vincerà. L'esperienza perde contro la strategia solo quando lo stratega è geniale o l'esperto poco lucido. Kei sa di non essere geniale e sa anche che il vecchio è molto lucido. Ma per un po' forse può ancora tenergli testa.

A un certo punto, però, Kei si blocca: la testa inclinata, la mano che si massaggia il collo sovrappensiero. E' l'atteggiamento tipico di quando studia le partite di pallavolo dalla panchina e qualcosa non gli torna.

Si aspettava che Kuroo-sama muovesse il pedone in terza colonna. Lui lo avrebbe mangiato e subito dopo paracadutato e si sarebbe arrivati, nella peggiore delle ipotesi, a una torre galleggiante, fastidiosa ma affrontabile. Nell'ipotesi migliore, avrebbe potuto muovere lui per primo la torre e provare ad aprirsi la via per un attacco laterale.

Perché continua a stare arroccato in difesa?

Si guardano. Kei cerca negli occhi di Tomo-sama la strategia delle prossime mosse. Tomo invece sta cercando Kei. Un'anima giovane e sfuggente, con un pensiero diretto e uno laterale, una parola parlata e mille nascoste fra le righe, un'emozione mostrata e una pira in fiamme alle spalle. Per non dire del cervello di primissima categoria, dietro quegli occhi prodigiosi. Niente da stupirsi che Te-chan sia rimasto abbagliato. Fino a che punto, Kuroo Tomo non è ancora riuscito a capirlo.

Kei si decide a spostare un pedone. Sta seguendo una nuova linea di pensiero, che diventa manifesta al suo avversario poche mosse dopo.

Quando Kuroo Tomo fa schioccare il suo alfiere, a Kei sfugge una smorfia di disappunto.

«Non te la prendere, era davvero una bella trappola. Soprattutto, montata molto in fretta. Sei entrato nella shoureikai?*» 

[*NdA è la scuola legata all'associazione nazionale giapponese di shogi. Riuscire a entrarci e salire di livello è difficile ma è l'unica via per il circuito dei professionisti]

Kei annuisce. «Tre anni fa ero quarto kyu, ma è da allora che non competo in un torneo ufficiale. Suppongo di essere stato retrocesso.»

«Hai in mente di ricominciare?»

«No» risponde secco Kei, quasi in contemporanea con lo schiocco della tessera.

«Perché?» incalza Kuroo, paracadutando un pedone in una posizione pericolosamente avanzata.

E' una domanda molto indiscreta, sebbene posta in tono casuale. E poi gli occhi di Kuroo-sama guardano attraverso la superficie delle cose.

«Perché lo shogi al livello agonistico è una cosa seria» risponde Kei, continuando a studiare la scacchiera. «E io non sono abbastanza bravo.»

«Lo shogi è una cosa seria a qualsiasi livello» ribatte Kuroo Tomo. «A pallavolo sei abbastanza bravo, invece?»

Tetsurou ha preso anche questo, da lui. Questo modo di provocare che ritorce le parole senza pietà contro chi le ha pronunciate, solleva dubbi, stuzzica le insicurezze, evidenzia i punti deboli.

«Magari sì» risponde Kei, ma la voce gli esce fuori meno spavalda di quello che voleva. Prova a compensare con uno schiocco dell'alfiere, in posizione di minaccia esplicita.

Nel frattempo, Kuroo Tomo ha deciso che quel ragazzo strano e interessante si merita l'onore di un attacco senza sconti, a piena potenza di fuoco. E inizia a fare sul serio.

Kei, arretra, subisce, difende, si accorge di aver sottostimato l'avversario e ne prende atto senza perdere la lucidità. Sei mosse dopo si è già riorganizzato e parte in contrattacco, con una certa imprevedibile ferocia e un'eleganza tattica innegabile.

La concentrazione diventa profonda, le parole si spengono, il tempo rallenta, il mondo si riduce a ottantuno caselle. Resta solo quella guerra e l'ambizione di vincerla, distruggendo l'avversario, sul campo e nel morale. Cosa non facile, perché nessuno dei due è remissivo, nessuno dei due è debole o sprovveduto, nessuno dei due è compassionevole, né disposto alla resa.

Nessuno dei due si accorge che stanno entrambi sorridendo, chini sulla scacchiera.

Né si sono accorti di Tetsurou, che è scivolato nella stanza di soppiatto, per non disturbarli, e ora si sta godendo lo spettacolo, appoggiato di schiena allo stipite della porta.

 

L'ultima ora è stata durissima: dire addio alla nonna, lasciarla andare, comporre la sua urna con quelle piccole, esili ossa bianche. E poi sentirsi in colpa, per le felicità effimere e ingiuste degli ultimi giorni, come se avessero contaminato la profondità di quel lutto.

L'ultima ora è stata durissima: lasciarsi attraversare dal dolore soffocante di papà, dai rimpianti taglienti di zia Mirai, dalla pena addensata nel cuore di Ayumi, tanto più evidente quanto più tenta di coprirla di sorrisi. Pentirsi di ogni momento sprecato, di ogni capriccio, di ogni piccolo dolore inflitto, di ogni parola sgarbata. E lasciar scorrere i ricordi all'ombra delle fiamme che divorano la bara.

L'ultima ora è stata durissima: l'assenza del nonno è stata un peso sul cuore. Senza lui accanto, Te-chan si è sentito giovane e solo, in un mondo troppo grande e troppo triste. 

Solo Kei c'è stato sempre, per tutto il tempo, in trasparenza sullo sfondo dei suoi pensieri, senza mai svanire del tutto, appena oltre la coscienza, poco sotto la superficie del dolore.

L'ultima ora è stata durissima, ma adesso è diverso.

Perché sono entrambi lì davanti a lui, il nonno e Kei. In carne e ossa, seduti uno di fronte all'altro. Adesso l'aria si può di nuovo respirare, il cuore può osare un battito e un battito ancora, la vita può arrancare in avanti un altro passo. 

Niente di più che un vecchio in pigiama con la flebo al braccio e un ragazzo magro, con gli occhiali e un maglione giallo, eppure, se fossero in montsuki in una sala d'oro, non potrebbero sembrare a Tetsurou più perfetti di come sono ora. Perché il mondo di Kuroo Tetsurou è tutto lì, nel palmo della sua mano, attorno a quel tavolo di plastica, nei pochi metri quadri di una stanza che odora di disinfettante. Tutto quello che vuole, tutto quello che gli serve, tutto quello che gli basta.

Li guarda e gli sembra meraviglioso e incredibile quello che vede. Le dita di Kei tamburellano le une sulle altre, il nonno si gratta il collo, dietro l'orecchio, i piedi di Kei si arricciano nei calzini, quelli del nonno oscillano sulle punte: si stanno divertendo.

 

«Makemashita» dichiara Kei in un sospiro, coprendo con un gesto elegante della mano il komadai.

Kuroo Tomo annuisce, scrutando la scacchiera.

Kei si alza in piedi e si inchina. «Grazie per il suo tempo prezioso, Kuroo-sama» dice, compito. Era un esito inevitabile, ma la sconfitta brucia ugualmente. «E chiedo anche scusa per il mio pessimo inizio.»

Il nonno agita la mano davanti alla faccia, per scacciare quelle ultime parole. «Grazie a te, Tsukishima-kun. E' stata davvero una bella partita. Era molto tempo che non me ne capitava una così. Vorresti trattenerti per il kansou-sen? Discutiamo il nostro gioco? In alcuni punti mi è parso che forzassi dei cambi di strategia improvvisi, mi piacerebbe sapere cosa avevi in mente.»

Non è la voce pacata di Kei che gli risponde. 

«Sì, dai, nonno! Trattienilo un'altra oretta. Così anziché portarlo alla stazione, gli offro il pranzo e poi lo trascino alla mia festa a sorpresa, di cui ovviamente non sappiamo nulla. E a Miyagi, il nostro Tsukki ce lo rimandiamo domattina.»

Tetsurou che irrompe nella stanza ha l'effetto di una finestra spalancata all'improvviso: un'ubriacatura di ossigeno e di luce. Si voltano entrambi verso di lui, per riempirsi gli occhi.

«Oya, nonno, mi sembri in gran forma, oggi» dice ancora Tetsurou, sedendosi con un saltello sul bordo del letto e stringendo la mano del nonno fra le proprie.

«Grazie, Te-chan. Tu invece sembri uno che è stato allevato dai selvaggi. Entri senza bussare, interrompi una partita non ancora finita...»

Testurou ghigna compiaciuto, come fosse un complimento. «A me sembra bella che finita. Tsukki ha perso di brutto, guarda qui» commenta con irriverenza, scrutando la scacchiera. «Quanto hai resistito, Tsukki?»

«Più di te» ribatte acido il nonno.

«Più di quanto pensavi tu» risponde contemporaneamente Tsukki.

«Sono già in minoranza dopo solo un paio d'ore?» si stupisce Tetsurou, alzando le mani in segno di resa. Intanto sorride e i suoi occhi brillano.

E' un bel momento. Bello in modo diverso per ognuno dei tre. Un giorno ci ripenseranno e scopriranno di ricordarselo benissimo.

«Allora, Tsukki-kun? Non vorrai deludere il nonno! Resta per il kansou-sen, scopriamo come ti sei fatto fregare...» lo provoca Tetsurou, guadagnandosi un buffetto non troppo gentile sul collo, da parte del nonno.

«Sono spiacente, vorrei davvero trattenermi, ma non posso perdere il treno» spiega Kei, rivolto a Kuroo Tomo, con un breve inchino. Nello sguardo che lancia a Tetsurou c'è la promessa di una futura regolazione dei conti.

Kuroo reagisce con una smorfia di finta paura e il suo sguardo è una miscela irresistibile di strafottenza e bramosia. Kei vorrebbe sia baciarlo che picchiarlo.

Non appena si congeda e si incammina verso la porta, però, Tetsurou lo segue a ruota.

«Non importa che mi accompagni, in metro ci metterò lo stesso tempo» sussurra Kei, infilandosi il cappotto. «Resta con tuo nonno. Avrete molto da dirvi. Non lasciarlo solo.»

Tetsurou sospira, guardandosi alle spalle. Vorrebbe potersi dividere a metà.

E' Kuroo Tomo a sbloccare la situazione. «Tsukishima-kun, per favore, portati via mio nipote. E' qui da cinque minuti e già non lo sopporto più. Vorrei riposarmi.»

Kei sospira, si sente pressato da ogni parte da Kuroo ingombranti e difficili da gestire, tutti capaci di metterlo alle corde.

«Almeno salutalo come si deve!» ordina sottovoce a Tetsurou, con una gomitata. «Ti aspetto qui fuori.»

 

La porta della stanza ha un inserto di vetro lungo e sottile, giusto al centro. Da lì, Kei può vedere la scena all'interno, come lo spezzone di un film muto. Kuroo che aiuta il nonno a spostarsi nel letto, gli sistema i cuscini perché stia comodo e poi si siede sul bordo e gli appoggia la fronte sulla spalla. Parlano per un paio di minuti, restando in quella posizione.

La carezza affettuosa sui capelli di Tetsurou, Kei se la sente scivolare addosso come l'avesse ricevuta lui, il calore e la dolcezza di quel gesto gli saturano i sensi. Quando è successo, che le porte stagne si siano spalancate, non saprebbe dirlo. Quello che sa è che tenersi a distanza non funziona più, perché non esiste più una distanza: il giorno che quello scemo si farà male, sanguinerà anche lui.

E il risultato netto è che adesso Kei non vorrebbe più andarsene. Che tutti quei chilometri, indifeso com'è, gli fanno una paura fottuta. E forse Tokyo è un'isola: quando Kei salperà dalla stazione, tutto quello che è accaduto negli ultimi giorni smetterà di essere reale, e allora gli si spaccherà il cuore in mille pezzi.

 

Disteso nel suo letto d'ospedale, Kuroo Tomo abbassa le palpebre e segue suo nipote con la mente. Lo immagina lungo il corridoio, nell'ascensore, lo può quasi vedere mentre attraversa l'atrio gremito, a passo svelto, e poi esce, mischiandosi alla folla che c'è fuori. Li vede entrambi. Due ragazzi alti e allampanati, così simili nelle pastoie di quell'età bellissima e ingrata, eppure così diversi. Soprattutto diversi.

Gli viene da pensare che sua moglie, se fosse viva, faticherebbe ad accettarla una novità così strana. Lui stesso non sa ancora bene cosa ne pensa. E tutto sommato ha ben poca importanza.

Il guaio di tirare su dei ragazzi fantastici, è che non si limitano ad ascoltarti: di tutto quello che gli insegni si appropriano in modo profondo e personale, lo rielaborano secondo la loro natura, lo mettono alla prova, lo scompongono per coglierne l'essenza. E va a finire che dai semi che hai piantato, sbocciano fiori nuovi e sconosciuti.

E forse è proprio questo il modo giusto per mantenere vivi i principi in un mondo che gira così in fretta: accettare di vederli mutare forma senza cambiare sostanza, accettare che si evolvano fin quasi a non poterli riconoscere.

Non giudicare dalle apparenze.

Mantieni indipendente e critica la tua coscienza.

Non vergognarti mai dei sentimenti.

Questo gli hanno insegnato.

Non si può dire che non lo abbia imparato bene.

 

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Capitolo 30
*** I baffi del gatto ***


30 - I baffi del gatto



17 novembre 2012


Il primissimo piano di metà faccia di Bokuto occupa quasi tutto lo schermo del cellulare.

«Hai già iniziato a resgistrare, Akaashi?»

«Sì sì, ma tu non te ne preoccupare Bokuto-san, fai finta di niente, vai avanti.»

«Okay!» risponde Bokuto gioioso, ma ancora un po' impacciato.

La telecamera segue la schiena di Bokuto lungo un corridoio anonimo.

«In fondo a sinistra» suggerisce Akaashi sottovoce.

Bokuto accelera e apre la porta scorrevole con uno strattone potente, che rischia di farla uscire dalle guide.

«Hey hey hey!» urla, catapultandosi all'interno, ormai dimentico della videocamera.

Diverse paia d'occhi si voltano verso gli ultimi arrivati e parte un coro di saluti, sorrisi, mani alzate. La stanza è semplice e spaziosa, dipinta di bianco, con due divanetti lungo le pareti, tavoli e sedie sparsi. In un angolo, due ragazze, una molto alta e l'altra molto bassa, stanno sistemando dei vassoi pieni di cibo. 

L'obiettivo si sposta su Haiba Lev, in equilibrio precario su un panchetto traballante, che tenta di attaccare uno striscione sull'architrave; poi passa su Yamamoto che si strofina i capelli e oscilla da un piede all'altro, nel disperato tentativo di fare conversazione con due ragazze carine; scivola su Inuoka e Fukunaga che parlano fra loro e infine si ferma su Yaku Morisuke, che sta guardando dubbioso lo schermo di un portatile.

«Va bene così, Yaku-senpai?» grida Lev dal suo panchetto.

«Se cadi da quel coso, giuro che... » gli grida Kai, che sta entrando in quel momento nella stanza.

«Tanto non può diventare più stupido di così» completa la frase Yaku, scocciato. «Scendi subito, o ti prendo a calci, Lev!»

Lev interpreta la minaccia come un completo assenso e scende tutto soddisfatto. La scritta "Happy Birhtday Capitain!", a parte la disastrosa ortografia, pende tutta storta da una parte.

«Ma come lo avete scritto!» Una delle ragazze si è staccata dal gruppetto di Yamamoto ed è entrata nell'obiettivo, rivolta di schiena. Ha lo sguardo alzato verso lo striscione e ride, con la mano appoggiata sul fianco. E' una bella ragazza, alta e ben fatta, che comunica un'impressione immediata di femminilità appena sbocciata e di gioventù sana e felice. «Qualcuno ha un pennarello?» chiede ad alta voce.

Nessuno le risponde.

«Yaku-san? Kai-san?» I due interpellati scuotono la testa. «Nessuno?»

La ragazza si volta, in un turbinio di lunghi capelli neri sciolti. «Kouta-san tu ce l'hai un pennarello per Mami-chan?» domanda, rivolta a Bokuto, con un gran sorriso e una malizia negli occhi più naturale che volontaria.

Akaashi vorrebbe spararle, ma ha in mano il telefono. La punisce con un primissimo piano crudele, che mette in mostra il correttore accumulato su un brufolo al lato del mento.

«Akaashi, abbiamo un pennarello?» L'inventario della vita di Bokuto ha una sola fonte. 

«No, Mami-san, mi dispiace, niente pennarelli» risponde Akaashi cortese.

Mami sbuffa. Possibile che a una festa nessuno pensi di portare un pennarello? «Fumi-chan, mi passi la mia borsa?» chiede alla sua amica, con una bella zazzera di capelli tagliati ad arte.

Fumi si guarda intorno e poi lancia verso Mami una borsetta rosa rotonda, che le atterra fra le mani in una parabola perfetta. «Nice serve» commenta Mami con il pollice rivolto in alto. Fumi ride, avvicinandosi.

Mami fruga un po' ed estrae qualcosa dalla borsa, poi la sbatte in mano alla sua amica. L'obiettivo cattura un mazzetto di pendenti di metallo che tintinnano: una mikasa, un numero 4 dorato, un numero 1 nero, un piccolo gufo, un gattino, cuoricini di varie fogge e dimensioni.

Mami sale sul panchetto e protende le braccia verso l'alto, in punta di piedi. «Non ci arrivo! Kouta-san mi aiuti?»

Yamamoto guarda con invidia Bokuto che accorre a prendere Mami sulle spalle. Non è un fuscello, Mami, sarà poco meno di un metro e ottanta, magra ma muscolosa, eppure Bokuto la solleva senza fatica.

Akaashi riprende in considerazione l'idea di spararle.

«Mami-chan, ma no! E' il tuo rossetto, quello? E' nuovo!» interviene Fumi inorridita.

«Suvvia, non posso lasciare che Kute-chan veda la scritta così» risponde Mami, mentre corregge gli strafalcioni con larghi tratti di costoso rossetto color corallo. Aggiunge qualche cuoricino, raddrizza il tutto e poi salta giù con estrema agilità. «Meglio, no?»

Bokuto approva con ampi cenni del capo, Kai applaude. 

Akaashi spegne la videocamera e preme il tasto invio.

«Quando arriva Kuroo-san?» chiede Akaashi.

Yaku continua a guardare lo schermo, digita qualche tasto «Fra poco. Aveva appuntamento con Kenma dieci minuti fa.»

«Dove li metto i regali?»

«Li abbiamo accatastati laggiù» risponde Yaku, indicando un punto generico accanto al tavolo dei rinfreschi, dove Bokuto e Lev stanno spizzicando korokke con dubbia furtività.

Su un tavolino tondo di plastica bianca sono stati disposti una serie di pacchetti. Akaashi aggiunge una busta da lettere lunga e stretta e un pacchettino cilindrico incartato con carta washi e chiuso da un nastro di rafia.

«Ma è vero che più tardi giochiamo?» chiede Bokuto a Yamamoto, senza smettere di masticare con disinvoltura.

«Sì! Certo!» risponde Tora, riscuotendosi dalla conteplazione di Haiba Alisa, che sta schiaffeggiando la mano del fratello lanciata verso il vassoio.

«Sul serio?» Bokuto si sta già entusiasmando. Se potesse, si strapperebbe i jeans, si infilerebbe una tuta e correrebbe a giocare anche subito.

«Sì» conferma Yamamoto. «C'è un campo, nell'altra palazzina. Organizziamo sempre le feste qui per questo.»

Bokuto si guarda intorno come se la rete dovesse comparire in mezzo alla stanza.

«Che posto è, a proposito?» si informa Akaashi.

«La sala condominiale dello sciccoso complesso dove abita il vice-capitano. Peccato che si diplomi, l'anno prossimo dovremo trovarci un altro posto.»

La musica parte a tradimento: qualcosa di ritmato, allegro e confuso, che però riscuote un certo apprezzamento generale.


Line Chat Tsukishima Kei/Akaashi Keiji

Tsukishima Kei 17:42

Tutto qui? Solo cinque minuti di video con la tizia pedante?

Akaashi Keiji 17:43

Hai capito chi è, vero?

Tsukishima Kei 17:43

Certo. Di' la verità, quanti pennarelli hai in borsa?

Akaashi Keiji 17:44

Un paio.

Tsukishima Kei 17:44

Poi dici che il carattere di merda ce l'ho io. Gentile Kouta-san a prestare le sue forti spalle.

Akaashi Keiji 17:45

Chissà cosa vuole che le presti Kute-chan...

Tsukishima Kei 17:45

Fanculo.

Akaashi Keiji 17:45

Tregua?

Tsukishima Kei 17:46

Tregua. Hanno rotto prima del ritiro, vero?

Akaashi Keiji 17:47

Sì, molto prima. Poco dopo la golden week. Per un po' ce la siamo trovata in mezzo ai piedi a tutti gli allenamenti, che cercava di convincere Bokuto-san a farle da spalla per riprenderselo. E' agguerrita. E non è stupida.

Tsukishima Kei 17:48

Che vuoi che me ne freghi? Se non è lei stasera, sarà un'altra un altro giorno.

Tsukishima Kei 17:48

Lui è arrivato?

Akaashi Keiji 17:48

Non ancora. Tu sei a casa?

Tsukishima Kei 17:49

Sì, da poco. Che musica avete messo?

Akaashi Keiji 17:51

Ci pensa Yaku-san. Per ora fa abbastanza pena.

Tsukishima Kei 17:52

Tipo?

17:52 Messaggio vocale Akaashi Keiji 00:06

*musica da discoteca di sottofondo*

Tsukishima Kei 17:52

Rumore, praticamente. Vado a studiare. Quando lui arriva poi mandami qualche altro video. Possibilmente senza la stronza.

Akaashi Keiji 17:53

Sarà dura.

Tsukishima Kei 17:53

Perché?

Akaashi Keiji 17:53

Lo vedrai.

***

Tetsurou ha lasciato Kei alla stazione tre ore prima e gli sembra che sia passato un secolo. Non è esattamente triste. Anzi. Si sente però sospeso, come se ci fosse un margine di assoluta imprevedibilità in tutto quello che circonda Kei e che lo riguarda. Ed è una cosa che lo tiene sulle spine e contemporaneamente lo manda alle stelle.

Al binario, si sono salutati come due normali amici. Kei portava scritta negli occhi la ribellione a qualsiasi prossimità. Fosse stato per Tetsurou, l'avrebbe baciato sulla banchina, davanti a tutti,  fino a farsi denunciare da qualche vecchietta. E sarebbe finita molto male. Quindi gli ha rifilato una specie di pacca sulla spalla, ottenendo in cambio un mugolio infastidito.

«Ci vediamo, scemo» lo ha salutato Kei, con uno scatto in alto del mento.

«Quando?»

«Chi lo sa. In campo, ai nazionali.»

«Risposta sbagliata: presto. Ci vediamo presto, Tsukki.»

E' comparso il sorrisetto sarcastico di Kei. «Non ci contare.»

«Tu invece contaci.»

«Basta cazzate. Bada a tuo nonno, piuttosto. E ringrazialo di nuovo per me.»

«Hai visto? I Kuroo sono tutti irresistibili» gli ha risposto, passandosi la mano nei capelli. E lo ha visto, per la miseria, lo ha visto benissimo il guizzo di luce negli occhi di Kei.

«Sei proprio super-scemo» ha detto Kei, salendo i tre gradini per entrare nel vagone. Nel voltarsi le sue dita hanno sfiorato quelle di Tetsurou per meno di un secondo.

«Mi manchi già» ha detto Tetsurou con il fischio della partenza in sottofondo. «Non ho ancora capito perché non stiamo insieme.»

«Crepa!» ha risposto Kei mentre la porta si chiudeva.

«Trentacinque» ha mimato con le labbra, mostrando un tre e un cinque con le dita. E Kei ha riso. Un riso breve, che il treno si è portato via in un attimo.

Adesso, mentre cammina verso casa di Kai, fingendo di non sapere che lì si tengono quasi tutte le feste di compleanno della squadra, Tetsurou sta immaginando Kei seduto nel vagone. Può quasi vederlo, con le cuffie sulle orecchie e il cellulare sul tavolino, la testa appoggiata al sedile, gli occhi socchiusi. E invece di dormire, o di giocare con il cellulare, o di leggere, come farebbe qualsiasi persona normale, Kei sta pensando. Rimugina, riflette, analizza, ripercorre. E Tetsurou vuole rubare tutti questi pensieri, e vuole essere in ognuno.

«Kuro?» Kenma gli sta sventolando una mano davanti alla faccia.

«Sì?»

«Torna fra noi. Siamo arrivati» gli dice, indicando il cancello di accesso al complesso condominiale.

***

Akaashi riaccende la videocamera quando Kuroo entra nella stanza e tutti gridano "Sorpresa!". Nessuno pretende che sia davvero sorpreso, ma solo che si sforzi di esserlo. Kuroo recita bene la sua parte.

Piovono auguri, risate, pacche sulle spalle e Mami-chan gli corre incontro, come se dovesse saltargli in braccio. Poi la timidezza la coglie all'improvviso, arrossisce e si inchina come un'educanda. Anche lei recita bene.

Da quel momento, gli si appiccica addosso. Sorridente, pimpante, kawaii come non mai. Gli sussurra all'orecchio, gli si appoggia addosso, gli indica questo e quello, gli chiede opinioni, non smette un secondo di chiacchierare. Se Kuroo è infastidito da quel comportamento non lo dà a vedere, certo però non lo incoraggia.

Akaashi continua a filmare per qualche minuto e poi, appena il baricentro della festa si sposta verso il rinfresco, chiude la ripresa e la invia. Non è sicuro se Tsukki abbia fatto bene o male a non venire. Forse, tutto sommato, ha fatto bene. Con Mami in mezzo ai piedi in modalità seduzione, tenere un profilo basso sarebbe stato quasi impossibile.

«Oya, ma che ci fa Mami qui?» chiede Tetsurou a Bokuto, mentre si riempie il piatto. E' appena riuscito a scollarsela di dosso. Ora lei sta chiacchierando fitto con Fumi vicino alla finestra.

Bokuto si stringe nelle spalle «Non ne ho idea, non l'ho portata io. E' carina come sempre, però.»

«Accomodati. E' tutta tua» commenta Kuroo, con una gomitata allusiva, ignorando lo sguardo assassino di Akaashi.

Bokuto ride imbarazzato, ma non riesce a mettere insieme una risposta.

«Mi sa che è colpa mia» interviene Tora, con la testa bassa.

«Tua? Dopo ti uccido!» Kuroo minaccia di morte Yamamoto con un largo sorriso, mentre saluta con la mano Mami che si sta sbracciando da lontano. «Non ti è bastato il mese scorso? Vuoi fare un altro video di scuse? Questa volta te lo faccio girare in mutande!»

Yaku si mette in bocca un onigiri e tira uno scappellotto sulla nuca di Yamamoto. «Sei un cretino. Devi tenerla chiusa quella boccaccia larga.»

«Ma che potevo dirgli? Sono venute lei e la sua amica a parlarmi ieri dopo scuola, per chiedermi se festeggiavamo. Mi è andato un po' in corto il cervello. Non mi parlano tanto spesso, le ragazze.»

«Ce l'hai nelle mutande, il cervello!» sbuffa Kuroo.

«Dai, ma mica potevo mentire. E se vedevano le foto online da qualche parte?»

«Potevi dire che non ne sapevi niente. Che avremmo organizzato all'ultimo momento...» risponde Yaku.

«Io le avrei chiesto il numero con la scusa di richiamarla per darle i dettagli. E poi domani l'avrei chiamata per scusarmi di non averlo fatto. Così ci guadagnavi sia il numero che un buon motivo per chiamarla» suggerisce il proprietario di un braccio che s'intromette per afferrare un korokke.

Tutti si voltano a guardarlo. E' un ragazzo non troppo alto, con qualche chilo di troppo e un paio di occhiali neri rotondi.

«Chi cazzo sei?» domanda Yaku diplomatico.

«E' un genio!» risponde Yamamoto, ammirato.

«E' mio cugino» spiega Kuroo, mettendogli una mano sulla spalla.

«Hachimura Toshiro» risponde il diretto interessato, con un inchino.

«Quello degli scacchi» chiarisce Bokuto, con la bocca piena. «Lo abbiamo conosciuto ieri. Ha promesso che farà una partita con Akaashi. Vero Akaashi?»

Akaashi sorride, Kuroo completa le presentazioni. Toshiro è incredibilmente a suo agio per essere l'intruso che nessuno conosce. I suoi occhi attenti registrano tutto.

«E' dov'è il famoso Tsukishima Kei?» domanda Toshiro al cugino. «Volevo conoscerlo!»

«Famoso?» Yamamoto aggrotta le sopracciglia. «Ma chi è?» 

«Eddai, Tsukishima, il quattrocchi del Karasuno» risponde Yaku.

 «Come chi è?» Bokuto interviene scandalizzato. «Tsukki!  E' venuto per...»  Akaashi stringe il braccio di Bokuto, che tace.

Toshiro tiene gli occhi fissi sul cugino, che ha abbassato lo sguardo e gioca con il cibo che ha nel piatto.  «E' partito» risponde a Toshiro, in tono quasi casuale. 

Yaku coglie quella risposta e si acciglia, dubbioso. 

Yamamoto si è già disinteressato, preso da Mami che si sta avvicinando a Kuroo, con il suo passo elastico e il suo sorriso luminoso.

«Kute-chan, ma in questa festa non si balla? Che ci sta a fare la musica?» domanda Mami.

«Devi proprio chiamarmi con questo nome stupido?»

«Una volta ti faceva un certo effetto.... » sussurra Mami.

«Perché non prendi un taiyaki? Sono i tuoi preferiti!» risponde Kuroo, piazzandole in mano un grosso pesce di cialda. Sta cercando di ricordarsi com'era stare insieme a lei. Cosa esattamente gli piacesse. E non ci riesce un granché.

«Ma sono a dieta!»

«Che sciocchezza, sei in gran forma» risponde Kuroo, sincero.

Mami sorride compiaciuta. «Quindi pensi ancora che Mami-chan sia carina?»

«Carina, sì» conferma Kuroo, masticando.

Mami gongola.

«Solo carina» aggiunge Kuroo.

Mami incassa con eleganza. «E' un ottimo inizio.»

«Non direi» osserva Kuroo, contraddicendo la risolutezza dell'affermazione con un tono leggero.

«Lo vedremo» dichiara Mami, trascinandolo per un braccio verso il centro della stanza, dove Fumi sta saltando forsennatamente sul ritmo dei bassi, insieme a Lev.

Il lento che Mami aspetta, Yaku ha giurato di non metterlo.

Akaashi, seduto in disparte, gira venti secondi di video. Ci riflette e poi li cancella.

Toshiro ha il piatto pieno di dorayaki e li divora spensierato, mentre fissa Akaashi: sta studiando le dinamiche di quel gruppo. Anche Bokuto, accanto a lui, ha il piatto pieno di dorayaki, e anche lui guarda Akaashi, ma con uno sguardo tutto diverso.

***

Kei preme il tasto play.

L'obiettivo è centrato su Tetsurou, in piedi accanto al tavolo pieno di regali, circondato dagli invitati e con Mami (ce l'avrà un cognome, la stronza?) appiccicata addosso.

Kuroo apre i pacchetti, strappando la carta con foga e lanciando via i nastrini. Dedica a ogni regalo il tempo di stupirsi e di ammirarlo e poi ringrazia come sa fare lui, lasciando negli altri la vivida impressione di essere speciali e che lui lo sia ancora di più. Ci sono ginocchiere, un berretto di lana rossa, un romanzo, una sciarpa, una scatola di latta per il tè, un bento colorato.

«E tu Kenma?» chiede Mami, sperando di metterlo in difficoltà.

La gelosia per Kozume è la seconda delle due cose che Kei ha in comune con lei.

Kenma scuote la testa. «Ho mandato a Kuro il mio regalo stamattina.»

«E' un segreto solo fra voi due?» lo provoca Mami.

Kuroo ridacchia.

Kenma alza gli occhi dalla playstation e la guarda con una smorfia di compassione che è un capolavoro e si merita un fermo-immagine da parte di Kei. «Tanto se te lo dico non lo capisci.»

«Scommettiamo?» lo sfida Mami.

«Criptovaluta» risponde Kenma, che è tornato a fissare lo schermo.

«Cosa?»

«Bitcoin.»

Mami si guarda intorno cercando sostegno. Kuroo scuote la testa: «Non ci ho capito granché neanche io. Sono una specie di... soldi finti...»

«Valuta virtuale» precisa Kenma.

«Sarebbe?» domanda Mami scettica.

Kenma sospira. «Non ho voglia di spiegartelo.»

«Sì, ma che ci devi fare?» chiede Mami, direttamente a Kuroo.

«Li tengo da parte finché non varranno un sacco di soldi veri, giusto testa-a-budino?»

«Esatto. Fra qualche anno.»

Che sia un regalo assurdo lo pensano tutti, compreso Kei. Del resto, Kozume non è normale. Ma che non sia saggio sottovalutarlo, Kei lo ha imparato sul campo di pallavolo. Un giorno ci ripenserà: alcuni fra i momenti più memorabili della sua vita futura saranno possibili proprio per merito di quel regalo assurdo.

Quando Kuroo scarta il pacchetto di Mami, lei è così rossa in faccia ed eccitata che sembra debba esplodere come una pentola a pressione. Dalla scatola piena di cuoricini e disegnini stupidi spunta fuori una maglietta tecnica, di una marca famosa e costosa: semplice, nera, aderente, senza maniche. La stronza dev'essere piena di soldi e ha anche buon gusto: Kuroo Tetsurou dentro quella maglietta farà voltare la gente per strada.

Il dono riscuote l'apprezzamento generale, mentre Mami lo sminuisce in modo molto convincente.

«Perché non te la provi?» cinguetta all'orecchio di Tetsurou, ma a voce abbastanza alta perché tutti possano sentirlo.

«Adesso?»

Mami annuisce con la testa.

«Ma ti pare il caso? Fa un freddo cane!»

«Per favore...» supplica lei, sbattendo le ciglia. Ha due occhi magnifici. «Kute-chan, perfavore. Fammi vedere come ti sta...»

«Non se ne parla» sorride Kuroo, scostandole la testa con due dita sulla fronte e ripiegando la maglietta.

Mami mette il broncio. «Ma dopo giochiamo, ti scalderai...»

«Allora se ne parla dopo» dice Kuroo, in tono conclusivo. La fine della discussione è sancita dalla ricerca del prossimo regalo da scartare.

«Gufaccio, è la tua questa?» esclama Kuroo sventolando la busta lunga e stretta contro il braccio di Bokuto. «Cos'è, una lettera d'amore?» ghigna, ammiccando.

Bokuto ride. «Beh, in un certo senso, ma...»

«Aprila» lo interrompe Akaashi, sorridendo. «E' da parte di entrambi.»

Dalla busta escono fuori due cartoncini verdi, lunghi e stretti e uno più piccolo, azzurrino, che è facile riconoscere a occhio: un biglietto dello shinkansen.

Il sorriso di Kuroo, in primo piano, si allarga a dismisura quando legge le scritte.

«Beh? Cosa sono? Biglietti per una partita?» chiede Lev, rubandone uno dalle mani di Kuroo.

Yaku se ne appropria tirando al kohai un pugno sul braccio. «Maleducato!».

«Frogs contro Elephant il 14 febbraio a Sendai» recita Yaku ad alta voce. Guarda Akaashi e Bokuto perplesso. «E' pieno di partite della prima divisione a Tokyo. Perché dovrebbe andare fino a Sendai a vedere la seconda divisione?»

Kuroo gli sfila il biglietto di mano, dall'alto. «Sono tifoso dei Frogs» dice, con un sorrisetto impudente, del tipo che Kei ha inserito nella categoria "pensieri impuri e schiaffoni".

«Davvero? E da quando?»

«Da adesso» risponde Kuroo, rimettendo a posto i biglietti nella busta. Prima di richiuderla scatta una foto.

«Ci andiamo insieme?» azzarda Mami. 

«Non credo proprio» risponde ridendo Kuroo, prima di saltare addosso a Bokuto in un abbraccio orsino di gratitudine. Finiscono quasi per terra. Bokuto sta per dire qualcosa, ma Kuroo gli tappa la bocca e ridono entrambi.

«Cosa manca?» chiede Kuroo, ravanando con la mano fra i brandelli di carta da regalo.

«Questo» risponde Akaashi, mettendogli in mano il pacchetto cilindrico.

«E' sempre vostro?»

Akaashi non risponde, Kuroo ha già sciolto il nastro e sta strappando la carta washi.

E' un'altra maglietta, arrotolata con cura. Una maglietta semplice e anonima, di cotone bianco, a mezze maniche. Sul davanti, a sinistra, c'è una scritta calligrafica, in verticale, evidentemente fatta a mano: tre versi di un haiku.

L'amore del gatto

indifferente anche al riso

rimasto sui baffi.

 

Sull'angolo in basso, al posto del sigillo del calligrafo, c'è una minuscola falce di luna calante.

Tetsurou solleva verso la videocamera uno sguardo emozionato e confuso e poi lo rivolge a destra e a manca, cercando con gli occhi l'autore di quel dono, come se si nascondesse da qualche parte nella stanza. Poi, senza pensarci, si sfila maglione e camicia (tre splendidi secondi da slow motion), per indossare la maglietta nuova.

L'espressione offesa di Mami, i suoi tentativi di attirare l'attenzione, Kei non li nota nemmeno. Tutto quello che vede è il sorriso di Tetsurou, gli occhi accesi di gioia, quel nero così profondo che cattura la luce non si sa da dove. Anche con addosso una normalissima maglietta bianca rubata dall'armadio di Akiteru, lo scemo farà voltare la gente per strada.

L'inedito abbinamento fra Kuroo Tetsurou e Tan Taigi procura a Kei una vertigine di compiacimento e un rimescolamento interiore mai sperimentato, a cui non sente alcun bisogno di appiccicare un'etichetta.

Senza che se ne sia reso conto, le cose importanti della sua vita iniziano a convergere.

Kei si accorge in quel momento che la musica che Yaku ha scelto è anche il brano di apertura della playlist che Kuroo gli ha regalato. Una canzone difficile, scura e oscura, che cerca redenzione senza puntare alla luce. Kei ne subisce più il potere che il fascino. Non è il suo genere, eppure, in qualche modo, è perfetta.

Perfetta per Tetsurou. E quindi, per quella bizzarra proprietà transitiva delle emozioni, che è diventata realtà negli ultimi giorni, perfetta anche per Kei.

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Capitolo 31
*** Dire, fare, baciare ***


31 - Dire, fare, baciare



20 novembre 2012
 

«Allora Yamaguchi-kun, non hai niente da dire al tuo senpai?» la voce di Sugawara è suadente mentre arriva da dietro e circonda con il braccio le spalle di Tadashi, infilandosi fra lui e Kei che camminano in discesa. Dietro di loro, un bel tramonto rosato inizia a scivolare giù dalle cime dei monti.

Stanno andando via da scuola insieme al resto della squadra, diretti al Sakanoshita, dove Daichi-san, che ha perso l'ennesima scommessa contro Suga-san, comprerà i nikuman per tutti.

«No, Suga-senpai... niente...cosa devo dirti?» 

Yama è sulla difensiva, Kei lo sente chiaramente nell'eccesso di convinzione che ha messo in quella risposta, tuttavia, continua a guardare davanti a sé, fingendosi disinteressato.

Gli altri camminano in gruppetti sparsi, più avanti o più indietro di loro.

«Ti do un indizio» prosegue Sugawara, piegandosi verso Tadashi, come se dovesse parlargli all'orecchio. «Venerdì scorso, dopo gli allenamenti...»

Il telefono di Kei vibra: sullo schermo compaiono una serie di foto dell'allenamento del Nekoma, due selfie di Kuroo, un dettaglio inutile delle sue scarpe nere e un'inquadratura, altrettanto inutile ma bellissima, della sua mano che tiene la palla rivolta verso il basso, con l'indice teso in avanti.

Tadashi sta scuotendo la testa. «Non so proprio di cosa parli Suga-senpai.» Le parole suonano evidentemente false.

Anche Sugawara se ne accorge e reagisce con una pacca sulla schiena che fa tossire Tadashi. «Ho capito: vuoi fare il misterioso» sorride. «Ma guarda che i senpai servono anche per questo genere di cose... sicuro sicuro di non volermi raccontare niente?»

«Sicurissimo.»

«Vuol dire che mi toccherà mettere sotto torchio Tsukki...»

Quando Kei mette a fuoco il proprio nome, si accorge di stare sorridendo come un cretino di fronte all'ultima foto. Coglie il movimento del braccio di Suga, pronto a sfilargli di mano il telefono, all'ultimo momento utile per premere il tasto di blocco ed evitare il peggio. Copre il sollievo con un'espressione infastidita. 

«Sugawara-san, meglio per te se non ci riprovi» ringhia, infilandosi il cellulare in tasca.

Il vice-capitano sbuffa, ma riparte subito all'attacco. «Quindi ci sono dei veri segreti lì dentro. Lo sai, Tsukishima-kun, che da un paio di giorni a questa parte non fai che guardare il telefono e sorridere?»

Kei reagisce con una smorfia annoiata, ma dentro di sé vorrebbe dare un paio di testate contro il muro più vicino. Come ha potuto essere così incauto, con quei pettegoli molesti sempre intorno?

«Cosa significherà mai?» continua Suga, rivolto a Yamaguchi, rimettendo il braccio intorno alle sue spalle.

Yama si infila le mani in tasca e affonda il viso nella sciarpa.

«Che persino lo spam del telefono è meglio che dare retta a voi» risponde Kei, col mento in alto e la solita espressione tagliente.

Per fortuna, sono già arrivati in fondo alla discesa. Tanaka sta armeggiando alla macchinetta delle bibite, Hinata e Nishinoya gli saltellano intorno, Kageyama regge con una mano la bicicletta di Hinata e con l'altra il telefono. Ennoshita e Kinoshita stanno entrando nel negozio.

Daichi e Azumane sono gli unici rimasti indietro. Guardano insieme un quaderno aperto e intanto parlano animatamente, indicando le pagine mentre camminano.

«Si sanno già le date del Senta*?» chiede Kei a Koushi.

[* NdA i Daigaku Nyūshi Sentā Shiken sono gli esami nazionali per l'ammissione all'università, che vengono somministrati ai diplomandi nelle stesse date in tutto il paese. A seconda del prestigio dell'università a cui si aspira si devono sostenere un certo numero di Senta di materie specifiche, superati i quali le università più prestigiose richiedono anche saggi, colloqui o esami interni. Non è possibile frequentare alcuna università se si falliscono i Senta.]

«Sono uscite giusto ieri: 14 e 15 gennaio.»

Cazzo. «La settimana subito dopo i nazionali?»

«Già. Speravamo nel weekend successivo. Ma hanno paura delle nevicate di fine mese, dopo quello che è successo l'anno scorso. Ma tu di che ti preoccupi? Ne hai di tempo prima dei Senta...»

Kei si stringe nelle spalle, ma intanto nella sua testa frullano due domande.

Primo: fra tante cose assurde, inutili e imbarazzanti che lo scemo scrive di continuo, possibile che non gli abbia detto le date dei Senta? Baka!

Secondo: si sarà organizzato con un programma di studi serio e calibrato con gli allenamenti e gli impegni del torneo? Avrà pensato di delegare almeno qualcosa a quelli del secondo anno? Figuriamoci.

No, le domande sono tre: come gestire la totale incompatibilità di questa linea di pensiero con il fondamentale proposito di non farsi coinvolgere troppo? Sul troppo gli viene da ridere, e anche da piangere.

«... Tsukki?» il gomito di Yama gli si pianta fra le costole.

Kei alza la testa di scatto «Sì?»

«Tsukishima, cosa vuoi da bere?» chiede Tanaka con gli occhi al cielo. Ha l'aria di uno che ha ripetuto già un paio di volte la domanda.

«Guarda che così se ne accorgono tutti...» sussurra Yama a bassa voce.

«Zitto Yama!»

Le solite scuse di Yama non arrivano, perché stavolta ha ragione.

«Allora, Tsukishima?» insiste Tanaka spazientito.

«Yogurt.»

«Perché non sei acido abbastanza» commenta Noya.

«Di sicuro è abbastanza distratto» chiosa Sugawara.

«Kageyama latte, giusto? Hinata?»

«Aranciata» risponde Kageyama. Hinata annuisce e si riprende la bici.

«Lasciala, la tengo io» ordina Kageyama, strattonando il manubrio. E' una gentilezza, ovviamente, ma ci tiene che sembri prepotenza.

«Okay» risponde Hinata, strofinandosi le mani e sorridendo non si sa bene di cosa. Mezzo secondo dopo sta di nuovo saltellando in giro.

«Capitano, Asahi, voi cosa volete da bere?»

«Caffè» risponde Daichi, mentre ripone il quaderno nella borsa.

«Tè» risponde Asahi. «Senza zucchero» aggiunge sottovoce. Sta cercando di perdere un paio di chili, ma non c'è bisogno che....

«Qualcuno si è messo a dieta!» urla Noya impietoso. Tanaka ride sguaiato.

Ennoshita e Kinoshita escono in quel momento, con i sacchetti di nikuman ancora caldi fra le mani. Per un minuto scarso si sente solo un riposante lavorio di mascelle.

«Ehi guardate qui che...» urla Nishinoya all'improvviso, sventolando il telefono di Hinata. Ha le guance gonfie e non sa se inghiottire o sputare fuori la parola mancante, insieme al ripieno dei panini.

Tanaka afferra il telefono e i suoi occhi diventano enormi. «Chi è? E' scesa dal cielo!»

«Boh!» ride Noya. «Chi è Shoyou? Perché hai la foto di questa strafiga nel telefono?»

Kageyama molla la bici contro il muro e afferra il telefono strappandolo a Tanaka. Inclina la testa. «Ha una mikasa come pendaglio sulla borsa. Gioca?»

Tanaka e Nishinoya lo guardano come fosse appena sceso da un ufo. «Kageyama, con quelle tette in primo piano, tu guardi la borsa... Chissenefrega se gioca!»

«E' un'amica di Kenma» risponde Hinata, con la bocca piena, riprendendosi il telefono.

«Dai qua!» Sugawara si fa passare il cellulare, con un gesto della mano aperta. «Bella ragazza davvero! Anche se a vedere la foto sembra più amica di Kuroo che di Kozume. Gli sta spiaccicata addosso» commenta, mostrandola a Daichi, la cui opinione si sintetizza in un fischio da carrettiere.

Kei alza la testa e ingoia a fatica il boccone.

«Sarà la famosa fidanzata che Kuroo-san non ha...» suggerisce Tanaka, calcando l'ultima parola. Nishinoya ride. 

La verità è che sono entrambi frustrati a morte e mostruosamente invidiosi. Kei lo sa benissimo, ma li prenderebbe comunque a calci volentieri.

«Fatemi vedere un po'» Kinoshita si avvicina. «Ah ma la conosco! E' Yosuke Mamimi. L'asso del Fukurodani femminile» spiega. «Tira delle bombe sulle diagonali che fanno paura. E' fortissima. E pare che sia anche brava a scuola e simpatica: si fa chiamare da tutti Mami-chan.»

Kinoshita è un esperto di volley liceale femminile, un hobby che coltiva con passione da quando è diventato abbastanza grande da apprezzare i vantaggi di stare a guardare dagli spalti dodici ragazze che saltano e corrono in calzoncini aderenti. 

«Tsukishima, sai se questa Mami è la ragazza di Kuroo?» domanda Sugawara, innocente, voltando lo schermo verso di lui.

«Ex» borbotta Kei, dando appena uno sguardo alla foto. Era meglio non rispondere affatto, ma temeva di fare una faccia troppo strana.

Koushi gli passa il telefono e Kei e guarda meglio: Kuroo è in mezzo fra Kozume e Mami, che gli poggia la testa sulla spalla e fa con entrambe le mani il segno di vittoria ai lati del viso.

Chissà cosa pensa di aver vinto, la stronza. Kei passa il cellulare a Yama, che si limita a una sbirciatina prima di restituirlo a Hinata.

«Ma è una festa?» si informa Kinoshita.

«La data è di tre giorni fa» osserva Ennoshita.

«Allora vedrai che è il famoso compleanno» dice Tanaka.

«Famoso?» Sugawara porge a Hinata un tovagliolo di carta e poi prende il sacchetto vuoto dalle mani di Ennoshita, iniziando a raccogliere le cartacce. «Perché famoso?»

«Kuroo-san compiva gli anni venerdì, o forse sabato. Ma fino all'ultimo non erano sicuri di fare la festa» risponde Tanaka.

«Come mai?»

«Credo che sia morta sua nonna qualche giorno fa.»

«Oh poveretto!» reagisce subito Nishinoya, che è attaccatissimo al nonno.

Kageyama tira un debole calcio col tallone al distributore di sigarette alle sue spalle. Hinata gli sfila dalle mani il cartone vuoto del latte con un gesto che somiglia a una carezza. Succede spesso, Kei lo nota tutte le volte.

«Però a quanto pare la festa l'hanno fatta, alla fine» osserva Azumane, che in tutto quel casino non è riuscito neanche a dare un'occhiatina a questa portentosa schiacciatrice del Fukurodani.

«Strano in effetti» commenta Daichi.

«Un po' di cattivo gusto» rincara Sugawara.

«Forse non erano così legati...» ipotizza Ennoshita.

«A me lui sembra il tipo che pensa solo a divertirsi» insinua Tanaka, ammiccando con le sopracciglia.

«...in buona compagnia, tra l'altro...» aggiunge Kinoshita, disegnando con le mani le curve di un corpo femminile.

Tutti gli altri imbecilli ridacchiano.

Kei respira molto lentamente. Ha i pugni stretti, le labbra livide per lo sforzo di tenerle chiuse, le orecchie paonazze che spuntano dal bordo della sciarpa.

«Non penso che possiamo giudicare i dolori degli altri» osserva pacato Yamaguchi.

Cala un silenzio improvviso e tutti si voltano a guardarlo stupiti: non è il tipo che si metta a sparare sentenze morali, specie se suonano come rimproveri. 

Lui continua placidamente a bere il suo frullato di banana. «Tra l'altro, mi pare di ricordare che Kuroo-san abiti con i nonni. Probabilmente è molto addolorato, ma non vuole farlo pesare alla sua squadra.»

Kei lascia andare il respiro e la tensione delle mani. Yama evita di guardare nella sua direzione.

«Yamaguchi ha ragione» decide Daichi, dando una sberla sulla nuca di Tanaka. «Basta fare gli idioti.»

Anche Suga annuisce. Nessuno si azzarda a contestare.

«Anzi, è meglio che ora ce ne andiamo tutti a casa» continua il capitano. «Si è fatto buio. Dai, via tutti» ordina, scacciandoli con le braccia come pollame. «Ci vediamo domani. Puntuali!»

Si salutano in fretta. Hinata e Kageyama imboccano di nuovo la salita verso la scuola. Lo sanno tutti dove stanno andando: in un parchetto vicino all'imbocco della provinciale, dove giocheranno almeno altre due ore.

Tutti quelli del secondo anno svoltano a sinistra al primo incrocio, per andare a casa di Tanaka, a studiare letteratura, perché il nuovo professore è un demonio.

Azumane risponde a una chiamata, mentre cammina spedito verso casa propria, che è poco distante. Sawamura e Sugawara lo seguono, perché la loro fermata dell'autobus è nella stessa direzione.

Kei si ritrova con Yama, a camminare con calma, tanto la prossima corsa per il quartiere dove abitano è fra mezz'ora.

«Grazie» dice Kei, abbassandosi le cuffie e rompendo il silenzio. Non c'è bisogno di specificare per cosa.

«Di niente. Lo sai che non le pensano, quelle cose. Sono solo un po' stupidi.»

«Non è che non pensano quelle cose. Non pensano e basta. Sono senza cervello.»

Yama si concede una risatina. «Senti un po', parliamo di cose serie: ho visto che ti sei dato allo shodou, a Tokyo.»

Nella foto di prima, la maglietta con l'haiku si vedeva benissimo.

«E' venuta piuttosto bene, non ti pare?» Mentire non avrebbe alcun senso. E poi vuole concedere a Yama qualcosa, perché si sente un po' in colpa di non avergli ancora detto niente, da quando è tornato da Tokyo.

«Dov'è finito il tizio che una volta mi ha detto... com'era? Aspetta...ah, sì, ecco: "lo shodou è un'arte troppo nobile per farne stupide magliette"?» recita Yama, ispirato.

«E' finito male.»

«Lo sospettavo. Però potevi almeno rispondermi al telefono, ieri sera e l'altroieri.»

«Sapevo che saremmo finiti a parlare di questo e non ne avevo voglia, Yama.»

«Pensa che invece volevo parlarti di tutt'altro» 

Si guardano nella luce giallastra del lampione sotto cui stanno passando.

«Che volevi dirmi?»

«Quello che era curioso di scoprire Suga-senpai. Quello che è successo venerdì, dopo l'allenamento...»

Il senso di colpa si trasforma in una specie di irritazione. Non che sia strano il fatto che Yama voglia raccontargli ciò che gli succede. Anzi. Però stavolta l'anomalia della sua fuga a Tokyo, con tutte le implicazioni del caso, è talmente enorme che questa improvvisa piega egocentrica dell'interesse di Yama è vagamente offensiva. Specie perché era sicuro che avrebbe avuto il problema opposto. Cosa potrebbe esserci di più importante?

«Ho baciato una ragazza» dice Yama.

Se una mina fosse esplosa nell'asfalto sotto i loro piedi avrebbe fatto meno rumore del silenzio assordante che segue quella frase.

«Cosa?»

«Hai capito benissimo» risponde Yama imbarazzato.

«E chi?»

«Koganegawa Hayame.»

«Chi cavolo è?»

Yama sorride, senza alzare lo sguardo. «Hai presente Koganegawa Kanji, l'alzatore del Dateko? E' sua sorella, un anno più piccola.»

Koganegawa è quello con le sopracciglia enormi e il ciuffo sparato in alto, che lo fa assomigliare a un gallinaccio. Non molto promettente. «Spero per te che sia stata adottata.»

«Non gli somiglia per niente» replica subito Yama.

«Meno male. E come la conosci? Da quanto tempo?»

«Praticamente non la conosco. Mi sa che sono stato un po' impulsivo.»

Impulsivo. Yamaguchi. In soli tre giorni a Tokyo, l'ordine del mondo di Kei sembra essersi sovvertito.

«Yama, se devi raccontare, racconta!»

«Beh, me la sono trovata davanti giovedì, poco prima di andare a pranzo. Non l'ho riconosciuta. Si è presentata lei e voleva sapere...  di te. Ha detto che ti aveva visto alla partita e... beh, niente di nuovo: sei alto, sei biondo, sei bello... A dire il vero lei ha detto una cosa un po' diversa: ha detto che le eri sembrato un bell'esemplare. Ha detto proprio così. Mi ha fatto ridere.»

Kei fa una smorfia insofferente, ma non parla.

Yama continua, con le mani sprofondate in tasca e lo sguardo rivolto verso l'alto. «Comunque, le ho rifilato la solita minestra, che non hai tempo per le ragazze, che sei concentrato sulla scuola, le solite cazzate, insomma.»

E' un copione collaudato. Sono almeno due anni che si ripete questo teatrino: le ragazze abbordano Tadashi per avere informazioni su Kei.

«E lei?»

«Lei mi ha sorpreso. Ha detto che non ti cercava perché voleva diventare la tua ragazza o per infastidirti. Ti cercava perché voleva sapere se ti interessava baciarla. Anche una volta sola.»

«E' pazza?»

«No, credo di no» Yama sorride fra sé. «E' piena di vita, divertente. Penso sia... un qualche tipo di suo esperimento sociale prima di andare al liceo.»

«Sei pazzo tu, mi sa. Dai, vai avanti. Questo era giovedì, giusto?»

«Sì, giovedì. Mi ha spiazzato, le ho risposto che una cosa del genere era meglio se la chiedeva direttamente a te. E lei ha detto che preferiva se te lo chiedevo io.  Che sarebbe tornata il giorno dopo per la risposta.»

«Ha più buon senso di te. Io che pensavi che dicessi? Lo sai che non mi interessano le ragazze.»

«E dovevo dirglielo io?»

Kei sospira.

«Comunque, te ne avrei parlato a mensa, ma poi sei sparito e qualche ora dopo eri a Tokyo.»

«E meno male. E quindi?»

«Quindi è tornata venerdì e io le ho detto che tu non c'eri, ma che se voleva, l'avrei baciata io.»

Kei si ferma. «Sul serio? Le hai detto così?»

Anche Yama si ferma, qualche passo più avanti e si volta. «Sì. Non so che mi è preso. Mi è uscito proprio così. Lei ci ha pensato su qualche momento e poi ha detto che andava bene.»

«E...?»

«E niente. L'ho baciata.»

«Lì, così. In quel momento.»

«Già.»

«Dove?»

«In cortile. Dietro la centralina elettrica.»

Kei si passa la mano sulla faccia, per restare serio. «L'hai baciata sul serio? Con la lingua?»

L'imbarazzo di Tadashi si può quasi respirare. «Circa...»

Kei invece ci sta prendendo gusto. E per un po' non è male staccare il cervello dai suoi problemi. «Che significa circa? O è sì o è no. Con la lingua?»

«Sì.»

«Sto via tre giorni e tu praticamente perdi la verginità senza preavviso.»

Parte un pugno diretto al braccio di Kei, che non lo schiva e invece ride, massaggiandosi il punto dell'impatto. «Non pensare di cavartela così, Yama. Vieni, muoviti, sediamoci. Mi devi raccontare bene.»  dice, Kei strattonando Tadashi per il polso fino alla pensilina, dall'altra parte della strada.

«Cosa vuoi sapere?»

«Tutto. Il bacio. La lingua. Com'è stato?»

Tadashi ha il viso così rosso che quasi non si vedono le lentiggini. «E' stato... non lo so. Bello. Ma non ci ho capito molto. Ero... confuso, diciamo.»

«Il tipo di confusione che richiede di chiudersi in bagno un quarto d'ora?» ghigna Kei.

«Più o meno» ammette Tadashi, con gli occhi serrati e una smorfia di tremendo disagio.

Kei gli rifila una pacca sulla spalla. «Benvenuto nel mondo del grandi!»

Tadashi risponde con un calcio gamba contro gamba. «Non fare lo stronzo!»

Il silenzio che segue è complice, confortevole, serve per rigirarsi fra le mani qualche istante la preziosa certezza della loro amicizia.

«E quindi, come è andata a finire?»

«Che lei ha aperto gli occhi e ha sorriso. Ha un bel sorriso, sai. Forse non è una ragazza bellissima, ma è allegra, è coraggiosa e il sorriso mi piace davvero un sacco. Mi ha ringraziato ed è scappata via.»

«Non ti ha dato neanche il suo numero?»

Tadashi scuote la testa, ma non sembra affatto giù di morale.

«Non riesco a capire se ci sei rimasto male.»

«Neanche io» ammette Tadashi. «Pensavo di sì, ma invece no. E non so perché.»

«E le tue teorie sul grande amore?»

Tadashi sorride. «Sono ancora lì. Ma ho deciso che andavano rivisitate un tantino.»

«Cioè?»

«Cioè sono ancora convinto che prima o poi troverò l'Amore con la A maiuscola. Ma chissà, magari fra dieci anni. Posso mai arrivarci senza aver baciato nemmeno una ragazza? Se la donna della mia vita la incontro a trent'anni, si aspetterà che sappia almeno baciarla.»

«E una scopatina? Dammi retta, si aspetterà anche che tu sappia cosa fare a letto.»

Yama storce le labbra. «Non lo so. Di questa cosa di fare sesso così, tanto per fare, non sono tanto convinto.»

«Yama, sedici anni li hai adesso. Vivi il presente. Se incontri la donna della tua vita a trent'anni, pensi davvero di trovarla vergine? Io un po' mi preoccuperei, se succedesse davvero. Il sesso è sesso, punto e basta. Una cosa fisica.»

Una cosa fisica. Mentre Kei pronuncia queste parole, il cervello gli ripropone la sensazione della mano di Tetsurou sul suo collo, mentre lo bacia. Il contatto dei polpastrelli, il pollice che gli sfiora i capelli, la presa solida, continua, non come se temesse di vederlo scappare, ma come se non fossero vicini abbastanza. Gli si aggroviglia lo stomaco all'istante e si trova smarrito a chiedersi quando, e dove, finiscano le cose fisiche e inizi tutto quello che c'è oltre.

«Sarà pure una cosa fisica, ma almeno deve farti stare bene» obietta Yama.

«E' fatto apposta per farti stare bene. E' biologia di base, Yama.»

«Sarà, ma tu non eri tanto contento il giorno dei diplomi. O mi sbaglio?»

Preciso come il fucile di un cecchino, Yama ha centrato un bersaglio nascosto. Kei non risponde: com'è andata con Shinoyama non intende raccontarlo mai a nessuno.

Il suono di un clacson urta contro la pensilina e sbalza via i pensieri di entrambi, riportandoli alla realtà.

«Che ore sono, Tsukki?»

«Mancano dieci minuti.»

Yama si sbilancia da una parte, con l'effetto di una leggera spallata. «Dai, tocca a te, raccontami come  è andata nella grande città. Tre notti di sesso selvaggio? Ora state insieme?»

«In realtà no» ammette Kei.

Lo sguardo di Yama è perplesso. «No alla prima o alla seconda domanda?»

«Entrambe.»

Gli occhi di Tadashi brillano di malizia. «Quindi predichi bene e razzoli male...»

«Stronzo. C'era suo nonno in ospedale e sua nonna cadavere, mi concederai che per una scopata non era proprio l'atmosfera giusta.»

Yama abbassa lo sguardo, contrito. «Oddio. Scusa, Tsukki. Mi dispiace tantissimo. Sono un cretino.»

Kei gli restituisce la spallata, senza parlare.

«Giuro, non ci avevo pensato. Non avevo capito. Ecco perché tutto all'improvviso.»

«I suoi erano all'estero e non volevo lasciarlo solo in una situazione del genere.»

Il sorriso di Yama è pieno di affetto. «E' proprio una cosa da te.»

«Comportarmi da rimbecillito?»

«Sapere quando le persone hanno bisogno di aiuto. E darglielo.»

«Sono un vero filantropo. Chiedi un po' in giro a scuola e vedrai che ti rispondono.»

«Non mi serve chiederlo. Io lo so che sei una bellissima persona.»

Kei scaccia quelle parole con una spinta, storcendo il naso. «Piantala di essere melenso. E comunque adesso è un bel casino.»

«In che senso? »

L'unica risposta è uno sbuffo. Kei appoggia la testa all'indietro, contro la parete di plexiglas, e allunga le gambe. Nella sua tasca, il telefono continua a vibrare senza pietà.

«Sei innamorato?» domanda Tadashi.

«Yama, basta! Non sono il personaggio di un fumetto. Che cazzo significa innamorato?»

E' una domanda retorica, ovviamente, ma Yama ci pensa su lo stesso.  «A dire il vero non lo so. Penso significhi sentirsi presi da qualcuno con tutti i sensi, in tutti i modi. Mettersi a nudo. E sentire nel profondo che ne vale la pena.»

Fanculo a Yama, ai suoi manga e alla sua precisione lessicale.

«Io so solo una cosa, Yama: fra me e Kuroo Tetsurou non può funzionare. Punto e basta. Magari c'è anche qualcosa, ma...»

«Dici qualcosa tipo guidare quattro ore per venirti a dare un regalo di compleanno? Inondare di haiku la nostra chat? Venire fino a Sendai a vedere la nostra partita? Fare carte false per farti tornare in campo con un dito rotto? O più qualcosa tipo mettersi i suoi vestiti? Ascoltare la sua musica anche se non ti piace? Saltare sul primo treno? Preoccuparsi per le date dei suoi esami? Addirittura sprecare Tan Taigi e il tuo shodou per la sua maglietta...»

«Quanto sei melodrammatico!»

«Io? Sei tu che vai dicendo che una cosa volgare come una maglietta dentro cui la gente suda non dovrebbe mai mischiarsi con le sublimi vette dell'estetica nipponica...»

In realtà, Kei la pensa ancora così. Il punto è che gli haiku e lo shodou li ha mischiati con Tetsurou, non con la maglietta. E continua a sembrargli un abbinamento magnifico.

«Okay qualcosa c'è. Anche più di qualcosa. Ma dobbiamo metterci una grossa pietra sopra. Io ci sto provando.»

Tadashi ghigna. «Per questo sembra che tu abbia in tasca un vibratore acceso?»

A Kei scappa un sorrisetto, mentre minaccia un ceffone con la mano aperta. «Purtroppo ho a che fare con un rompipalle che non si arrende facilmente.»

«Anche per questo ti piace così tanto.»

«Perché è mezzo scemo e mezzo stalker? Non direi proprio.»

«Perché non sta al tuo gioco. Non segue le tue regole. Non fa come vuoi tu. Non ti lascia tutto il controllo.»

Touché. 

«Yama che lui mi piaccia era già chiaro. Ma non funzionerà ugualmente. Prima di tutto, è un rapporto a distanza. E a sedici anni un rapporto a distanza è una stronzata bella e buona. E poi, un bel giorno lui si sveglierà e scoprirà che ha voglia di tette, di riccioli, di smorfie e di infilarlo nel buco giusto

Tadashi gli tira una pedata. «Cioè in pratica mi stai dicendo che ci sei rimasto così tanto sotto che per paura che lui ti molli non ci vuoi neanche provare?»

«Fanculo Yama!.»

Quello non è Yamaguchi. Qualcuno ha preso possesso del suo corpo. Eppure, è proprio il suo sguardo mite che Kei incontra, la sua espressione sospesa fra il nervosismo e la gentilezza. Si sta mordendo le guance e oscilla i piedi, senza neanche provare a rispondere all'insulto. La collera di Kei si spegne subito.

«Quello che ti sto dicendo è che questa storia io non la voglio. Perché lui è troppo. Se gli dai un dito, si prende tutto il braccio. E' molesto, insistente, testardo, impegnativo. E io non ho voglia di impegnarmi, sono già stanco solo a pensarci. E non ho voglia di trovarmi a dipendere da qualcuno. Alla nostra età, ma forse a qualsiasi età, la cosa migliore è una scopata e via.»

Verità, bugie, paure, cinismo e negazioni sono fili aggrovigliati nella matassa di quella risposta. Neanche Kei saprebbe districarli e questa consapevolezza è deprimente. Nel pasticcio dei pezzi che Kuroo ha mischiato, non gli è rimasta neppure la chiarezza su se stesso su cui ha sempre potuto contare.

Yama intanto è sprofondato in un silenzio di valutazione, rotto solo dal tocco ritmico della suola della sua scarpa contro il poggiapiedi della panchina. «Questo discorso mi sta anche bene, da uno come te, Tsukki. Ma dovevi farlo prima.»

«Prima di rendermi ridicolo? Non hai torto.»

«Prima di dargli tutto il braccio. Adesso secondo me è tardi per una scopata e via.»

«Lo so. Niente scopate, infatti. Quello che posso fare adesso è trovare il modo di darci un taglio.»

A prendersi gioco di quell'affermazione interviene insolente la suoneria del telefono. 

«Vivi il presente...» sussurra Tadashi, con un sorrisetto ironico. 

Kei chiude la chiamata e mentre lo fa si odia, perché muore dalla voglia di sentire la voce dello scemo che straparla di cose a caso, che implora considerazione, che prende in giro, che duella a colpi di sarcasmo, che respinge gli insulti, che circuisce, provoca, e poi, alla fine, ottiene sempre quello che vuole.

C'è un solo vero motivo per cui Kei non ha voluto fare sesso, l'altra notte: superato quel confine, tenerlo fuori sarebbe stato impossibile. E invece lui è passato da qualche altra via e si è infiltrato lo stesso dove non doveva.

E ora Kei non ha la minima idea di cosa farà. O di cosa vuole davvero fare. O di cosa gli convenga. Delle sue convinzioni non sono rimaste che poche briciole sparse. L'intelligenza ha avuto un attacco di panico e si è defilata. La chiarezza mentale è andata a farsi fottere. Almeno lei.

L'autobus si materializza in quel momento con una lunga frenata stridente, offrendo il conforto della semplicità del quotidiano: basta salirci per tornare a casa. Si salutano nel solito punto, con le solite parole. Sembra tutto identico, e invece è tutto diverso.

A volte le cose cambiano in profondità proprio quando sembra che nulla stia cambiando. 




***
NdA - Con questo capitolo entriamo nell'ultimo quarto della storia. La fine mi sembra allo stesso tempo vicinissima e lontana :)
 

 

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Capitolo 32
*** La vita è dura ***


32 - La vita è dura



30 novembre 2012


Esattamente alle 20:29 il telefono di Kei inizia a vibrare. In pochi giorni, la videochiamata della sera è diventata un rito. Il marchio di Kuroo è nell'orario, perché uno meno scemo avrebbe scelto cifra tonda.

Il copione prevede una certa reticenza di Kei nel rispondere. Non prima del sesto o settimo squillo. Qualche volta non risponde affatto, e lo obbliga a una seconda chiamata, ma ogni giorno che passa diventa più difficile anche solo contare fino a dieci.

Gli fa una gran paura la voglia che ha di parlare con lui. Di ascoltarlo. Di vederlo. E nonostante ne intuisca gli svantaggi e i pericoli, non sa proprio come metterci un freno. Può provare a resistere, e lo fa, ma è chiaro che lottare contro una tentazione non equivalga affatto a liberarsene.

Che Kuroo ne sia o meno consapevole (Kei suppone, e spera, che non lo sia), quello che sta mettendo in atto è un addestramento pavloviano in piena regola, compreso il banale stratagemma di non cambiare mai orario. La cavia, Tsukishima Kei, inizia a sbavare non appena suona il campanello, ossia l'orologio segna le otto, e poi si logora nell'attesa di quei ventinove lunghissimi minuti. Sempre sbavando.

Il ruolo della cavia a Kei piace pochissimo.

Il telefono vibra ancora, sullo schermo compare il suo numero. Ormai Kei lo sa a memoria e tuttavia non ha voluto salvarlo nel telefono. Per evitare che qualcuno possa impicciarsi, ma soprattutto per avere la sensazione che sia tutto ancora provvisorio. Prendere in giro se stesso, sapendo di farlo, è uno degli apici di demenzialità che quella storia gli ha fatto raggiungere.

Cinque squilli. Sei. Sette. Oggi si merita di aspettare ancora. Otto. Nove. Inizia ad avere paura che riattacchi. Dieci. Undici. Al dodicesimo squillo Kei risponde. Si sente come il perdente di una di quelle gare di trattori nei film americani, a chi frena per ultimo. Lui è il tizio spiaccicato nel fosso.

«Ciao Tsukki!»

L'immagine si forma con mezzo secondo di ritardo e trema leggermente. Di solito fa un sorriso particolare, quando lo saluta, all'inizio di quelle telefonate. Uno con gli occhi allargati e il naso un po' arricciato. Un sorriso che Kei si sta abituando a considerare di sua proprietà esclusiva. Ma oggi no, quello che ha di fronte è il suo sorriso ordinario.

«Ciao scemo.»

«Puoi aspettare un attimo?»

Kei annuisce e intanto tira fuori i libri. Il patto è quello: la telefonata serve a studiare. Tutti e due. Studiare sul serio. Ci riescono abbastanza.

Kuroo è uscito dall'inquadratura, che ora mostra la sua scrivania. Kei si rende conto che conosce quegli oggetti uno per uno: un portapenne di bambù intrecciato pieno di matite colorate e pennarelli che probabilmente non usa da un secolo, un cane di pezza che ha visto tempi migliori, un evidenziatore giallo (Kei gli ha promesso una morte violenta se oserà usarlo su un libro di testo), un vecchio mappamondo, un piatto coperto con un altro piatto, che contiene una mela sbucciata e tagliata a spicchi. Si è crogiolato tante volte nell'idea di Tetsurou che sbuccia e taglia a spicchi una mela anche per lui. 

A interrompere queste fantasie domestiche di bassa lega, intervengono da fuori campo dei rumori incomprensibili.

«Che succede?» domanda Kei.

«Niente! Sto buttando fuori Kenma. Arrivo subito!»

Il primo istinto di Kei è quello di tirare su la zip della felpa, per non mettere in mostra il maglione con il nome di Kuroo ricamato sopra.

«Saluta Tsukki, Kenma!»

«Ciao» biascica la voce monocorde di Kozume. Sullo sfondo si sente uno scalpiccio e uno scambio verbale di cui Kei afferra solo tre o quattro parole slegate. Una di queste è "disturbare".

«Ciao Kozume» risponde Kei con identico entusiasmo. «E ciao Kuroo» aggiunge in tono seccato e conclusivo.

«No!» Un pezzo del viso di Kuroo appare nello schermo. «No, aspetta, Tsukki. Solo tre secondi, giuro. Aspettami. Per favore.»

Kei chiude con un gesto stizzito la chiamata.

Se ne pente subito, mentre ancora ha il dito premuto sullo schermo del telefono. Se ne pente, ma allo stesso tempo quello che ha visto non lo sopporta.

Che non vadano a letto insieme, quei due, lo ha capito. Non è ancora del tutto sicuro che Kozume non sia innamorato perso (più che altro non arriva a capire come possa non esserlo), ma non è neanche questo il problema.

Il problema è che Kozume è lì.

E' lì, nella stanza dove vorrebbe stare lui. Ha le chiavi di casa. E' per una questione pratica, è ovvio. Ma le ha comunque. Entra e esce come gli pare. Ha dei vestiti in quell'armadio, delle pantofole nella scarpiera all'ingresso, un'orrida tazza gialla sul lavello. Si ferma a dormire quando vuole. E si mangia tutte le mele del Kento. Probabilmente, anzi, sicuramente, lui gliele sbuccia.

Ecco, sono le mele il problema.

E quella dozzina d'anni di amicizia, confidenza, complicità. Che Kei non potrà mai recuperare, che terranno Kozume sempre in mezzo ai piedi e un passo avanti. Un passo lungo dodici anni.

Intanto, Kuroo non sta richiamando.

Kei fissa lo schermo nero, su cui si staglia l'orario 20:37. E guarda il foglio che ha sotto il naso. Proprio oggi che voleva dirgli qualcosa di importante. 

Il telefono vibra alle 20:42. Kei risponde al primo squillo.

«Ciao» saluta Kuroo asciutto. Non ha acceso la telecamera.

«Ciao» risponde Kei offeso.

«Mi hai chiuso il telefono in faccia. Ti avevo chiesto per favore di aspettare un attimo.»

«Mi hai tenuto in vivavoce con un estraneo senza avvertirmi. Non ti azzardare mai più a farlo.»

«Kenma non è un estraneo.»

La peggiore risposta che potesse dargli.

«Forse non per te» sibila Kei. «Per me è uno stronzo qualsiasi. Con una tinta del cazzo sui capelli e un evidente problema di autismo.»

Dall'altra parte del telefono si sente un respiro che arriva dal diaframma. Un respiro lungo, sonoro, controllato, di uno che stia lottando per non cedere alla collera.

«Se il fatto che Kozume non mi piaccia ti fa incazzare così tanto, forse dovresti farti qualche domanda.»

«Vaffanculo, Kei. Non ti permettere mai più.»

«Non ho bisogno del tuo permesso per farmi stare sul cazzo qualcuno. Tu invece hai bisogno del mio per chiamarmi per nome.»

«Te lo dico meglio, allora: vaffanculo Tsukishima! Sei solo geloso. A sproposito. E stai facendo il coglione! Odio vederti fare il coglione!» dice Tetsurou, con la voce che crepita di collera.

Kei chiude la comunicazione e lancia via il telefono sul piano della scrivania. Lo stronzo difende comunque  Kozume, come volevasi dimostrare.

Il cellulare torna a vibrare dopo un paio di minuti. Kei risponde subito, ma resta in silenzio ad ascoltare.

«Basta chiudermi in faccia il telefono! Non voglio passare la vita a richiamarti ogni volta che mi fai incazzare.»

Passare la vita. La frase scivola fra un nervo scoperto e l'altro di Kei e gli esplode in testa con un piccolo fuoco d'artificio.

«Io invece non voglio incazzarmi. Mi ha già stancato. Lo vedi che non funziona? Lasciami perdere e basta.»

«Non ci penso proprio. Ma chiariamo questo punto: non puoi mancare di rispetto ai miei amici.»

«Sei forse mio padre? Ho mandato affanculo lui per anni e pensi che ora mi lasci dire da te cosa posso o non posso fare?» Il ricordo di Tsukishima Leon aleggia nella mente di Kei. La sua lunga ombra proietta i silenzi e le distanze con cui ha sempre nutrito le ribellioni dei figli.

«Penso solo che ci debbano essere dei limiti, Tsukki» protesta Kuroo amareggiato.

«Dettati da te, scommetto!»

«Dettati dal tuo rispetto per i miei affetti. Che c'è? Vuoi insultare anche mia sorella? Mio nonno? Vuoi che mi metta a offendere tuo fratello?»

«Neanche lo conosci.»

«Lo hai detto tu che Kenma per te è un estraneo.»

Fregato. Con la logica. Ecco fino a che punto lo scemo gli sta fottendo il cervello.

«Tsukki, eddai, tu sei meglio di così.»

Una presunzione del genere è oltre ogni soglia di accettabilità. «E chi lo dice? Io sono esattamente così. Ho un carattere di merda e mi piace moltissimo. Mi sa che ti devi accontentare.»

«Io non mi accontento mai. E poi tu sei fantastico, persino troppo per me. Per questo ci resto male quando fai il coglione. E' così difficile portarmi rispetto? Io lo faccio.»

Kei vaglia in un istante cento possibili repliche. E non ce n'è neanche una che non lo faccia sembrare meschino o infantile. Ed è persino vero che lui gli porta rispetto. Sempre.

Dev'essere così che ci si sente, a ricevere uno schiaffo meritato: improvvisamente dalla parte del torto, ancora in collera e con la guancia dolente, ma in fondo consapevoli di aver esagerato. E in qualche modo perfino rassicurati.

«Hey, Tsukki, ci sei ancora?»

«Sì.»

«Sei arrabbiato?»

«Sì.»

«Pure io. Ma mi va lo stesso di vederti.»

Segue un silenzio sospeso, che sembra a entrambi troppo lungo.

«Dai, accendi la telecamera, scemo.»

Inquadrato in primo piano, appare sul telefono di Tetsurou il dito medio di Kei.

«Quella è la tua espressione tenera?»

«Crepa!»

«Cinquantatré. Scuse accettate, Tsukki-chan» tuba Kuroo, mostrando a sua volta il dito medio. E gli si legge già negli occhi la luce di un sorriso.

Kei nasconde il proprio fra le pagine del quaderno di matematica. «Sei una perdita di tempo vivente. Muoviti. Mettiti a studiare!»

Tetsurou si siede alla scrivania e sistema il telefono inclinato contro il cane di pezza.

Così, riesce a vedere Kei anche con la coda dell'occhio. Di tre quarti, chino sul libro, così vicino e definito che gli sembra di poter allungare la mano e toccarlo. 

In questo momento ha la fronte aggrottata e sta disegnando rapidamente un grafico. Con l'indice spinge in alto gli occhiali, uno dei suoi gesti tipici di concentrazione.

«Hai mai portato le lenti a contatto?»

«Qualche volta» mormora Kei, senza smettere di scrivere una lunga formula, sotto il disegno di prima. Arriccia la bocca, tamburella con la matita contro il mento. Ha l'incarnato così diafano che dietro l'orecchio serpeggiano vene azzurrine come fiumi su una mappa: territori che Tetsurou non vede l'ora di esplorare.

«Per fare colpo su qualcuno?» 

«Solo un idiota sarebbe colpito da una cosa del genere» mugugna Kei, storcendo le labbra.

«Forse sì. Ma non ti danno fastidio? Tipo che si appannano... »

«Sono abituato» sussurra Kei pensoso, guardando la pagina.

Sbatte le ciglia due volte. Sono chiare e così lunghe che sfiorano le lenti.

«Sei abituato o sono una forma di difesa?»

«Cosa?»

«Gli occhiali, Tsukki»

«Eh?»

Tetsurou adora infastidirlo, anche solo per vedere quell'espressione sperduta e un po' irritata, con cui ritorna alla realtà.

«Mi stai rompendo le palle.»

Adora anche quella piega delle labbra scocciata, con un piccolo broncio, pronto a far affiorare il sarcasmo. E' una bocca bellissima, incredibilmente espressiva.

«Devi studiare. Che stai fissando?» aggiunge Kei.

Ed è morbida. E umida. E sa di miele di castagno, dolce e aspra insieme.

«Kuroo! Che stai fissando?»

«Niente!» Tetsurou scuote il capo. «Proprio niente. Pensavo.»

«A cosa?»

«Ai moduli per l'università» mente, con un sorrisetto tirato.

«Quand'è la scadenza?»

«Dieci gennaio. C'è tempo.»

«Pero'...?» Kei ha individuato qualcosa di sfuggente nelle ultime parole.

«Nessun però. Ci stavo pensando e basta.»

Kei spinge via il quaderno, si stira la schiena, si appoggia alla spalliera della sedia, accavalla le gambe.

«Allora dai, parliamone.»

«Di cosa?» Kuroo si sporge verso il telefono.

Kei si toglie con calma gli occhiali e li inclina contro la luce della lampada per valutarne la pulizia. «Stasera sei più stordito di Azumane. Dell'università, di cosa sennò? Hai scelto?»

«Mn. Sì. Credo di sì.»

«Perché anche io ci ho pensato un po'... »

Un po'. La nuova frontiera dell'eufemismo. Kei non ha pensato quasi a nient'altro negli ultimi giorni. A un certo punto, gli è venuta un'idea, si è fatto in quattro per raccogliere tutte le informazioni del caso e in realtà non vedeva l'ora di parlagliene.

«A cosa hai pensato? Alla tua università o alla mia?»

«Faccio il primo anno, genio.»

«Quindi alla mia? Sono lusingato» dice. E sembra lo sia veramente.

«Non ti lusingare, resta concentrato: dimmi le tue scelte.» Kei ha preso dal cassetto una pezzuola di cotone e sta ripulendo meticolosamente le lenti.

«Beh, avevo da sempre in mente la Kayo e la Sodai, e avevo anche pensato di osare con l'Handai, visto che sono nato a Osaka, e abbiamo ancora un appartamento lì.»

Kei annuisce e inforca di nuovo gli occhiali, con sguardo neutro. Intanto sta calcolando mentalmente la cazzo di distanza di Osaka da Sendai. E sta imprecando: saranno sei ore di treno e un miliardo di yen.

«Non è meglio Tokyo?» si lascia sfuggire. L'idea era restare impassibile. Come no.

«Però ci ho pensato su. E ho deciso che non ha senso disperdere le energie su tre università con ammissioni tutte diverse.»

«Insolitamente razionale, da parte tua.»

«Quindi farò domanda solo alla Tohoku.»

«La Tohoku?» gli occhi di Kei schizzano fuori dalle orbite, mentre si sporge verso il telefono che le dita aggrappate al bordo del tavolo. Kuroo lo guarda sornione, godendosi quella reazione.

«Che c'è? Lo sai che adoro Sendai. Sono tifoso dei Frogs, no?»

«Ma che cazzo dici? Ti droghi?»

«No!»

«Sei ubriaco?»

«Ma no, Tsukki,... »

«Ti fai troppe poche seghe e ti si è intasato il cervello?»

«Beh, a dire il vero... »

«Perché se non è nessuna di queste, allora resta solo la demenza. Grave. Tutto il Giappone si vende il culo per studiare a Tokyo e tu che sei già lì, vieni a Sendai? E' una cosa così stupida che... »

«Okay, fermati un attimo. Supponevo che avresti potuto mostrare un certo disappunto... »

«Disappunto un cazzo. E' l'idea più mentecatta che potevi farti venire in mente!»

«Ti dispiacerebbe così tanto vedermi più spesso?»

«Sì!»

Kei si sforza di cancellare immediatamente dalla sua testa le sei tonnellate di immagini di possibili futuri in cui la distanza fra loro è di venti minuti scarsi di treno.

«Non è vero.»

«E' una cosa da veri stupidi pensare solo ai vantaggi a breve termine. E' il tuo futuro, che cazzo!»

«Nostro.»

«Smettila di dire idiozie una dietro l'altra!»

«Lo sapevo che non l'avresti presa bene, quindi mi sono documentato.» Kuroo apre lo schermo del portatile, lo riattiva (ha il bruttissimo vizio di non spegnerlo mai, ma di chiudere solo il coperchio) e digita qualcosa sul browser. «Guarda qui: quinta università del Giappone per le facoltà di ingegneria e di economia. Fra le migliori duecento in tutto il mondo.»

«Da dove vengono queste statistiche? Dal konbini sotto casa?»

Kuroo volta lo sguardo verso la telecamera. I suoi occhi sono seri e pieni di luce. «QS World University Rankings.»

«Non li ho mai sentiti.»

«Tu quale guarderesti?»

«Il SIR, per esempio.»

Tetsurou inclina la testa, con un sorriso diabolico. «Per loro è quarta.»

«Di tutto il Giappone?»

«Già. E per il THE? Lo vuoi sapere? No? Te lo dico comunque: per il THE è terza. Terza, capito? Del Giappone.»

[NdA Il SIR è lo SCImago Institutions Rankings e il THE è il Times Higher Education World University Rankings. Si tratta di istituti  internazionali che stilano classifiche comparative delle università e degli istituti di alta formazione basate su varie metodologie. In estremo oriente, dove la scelta dell'università è una tematica sentita con molta serietà, queste classifiche sono considerate un elemento importante di valutazione.]

«Okay. La Tohoku non è male. Bravo, hai fatto bene i compiti. Ma non ti affezionare troppo all' idea» commenta Kei, sbuffando.

«Che vuoi dire?» Kuroo chiude il portatile con una manata e si volta verso la telecamera.

«Che tanto non studierai alla Tohoku.»

«E perché?» Tetsurou si lancia in bocca uno spicchio di mela. Per quanto lo riguarda, è una decisione presa.

«Perché ti voglio alla Todai»

Le parole ti voglio mandano in confusione il cervello di Kuroo fino alla compromissione degli atti vitali involontari. La mela sbaglia percorso e lui si ritrova ad annaspare tossendo e sputacchiando.

Il ghigno di Kei è talmente largo che gli divide la faccia a metà.

«La Todai? Ho capito bene?» ripete Tetsurou non appena riesce a garantirsi la sopravvivenza.

«Esatto.»

Tetsurou sgrana gli occhi, stupito: «Oddio Tsukki... non dirmi che ti piaccio per la mia intelligenza?»

Kei aggrotta le sopracciglia. «Quale intelligenza?»

«E quindi la Todai?»

«Lo sanno tutti che le commissioni sono piene di milf. Frustrate e con standard bassissimi.»

Kuroo scoppia a ridere. 

Kei si gode la reazione. «Guarda che non sto scherzando, scemo.»

«Sulle milf?»

«Sulla Todai.»

«La mia media non è da Todai.»

«La tua media basta per fare domanda.»

«Tsukki, giuro, mi fa gongolare il fatto che tu lo creda possibile. Ma la Todai è inondata di domande di gente che è prima in classifica nella sua scuola. Tipo... dei fottuti geni.»

«Appunto.»

Kei ci ha pensato all'infinito. E si è convinto che sia possibile. Non scontato e nemmeno facile, ma possibile. Assolutamente possibile.

«Che vuoi dire?»

«Che ne hanno piene le palle di secchioni tutti identici. Quelli vogliono farsi stupire. E tu, scemo, sei uno che stupisce. Sei un atleta di livello. Sei un maledetto parolaio. Sei stranamente perspicace. Sai come piacere alla gente. Sei bello da guardare. E sei convincente quando fingi di non essere cretino.» E violi di continuo le leggi della fisica, manipoli il futuro, calpesti la statistica. L'ultima frase, Kei riesce a non dirla ad alta voce.

«Sono bello?»

Kei alza gli occhi al cielo. «Sicuramente più di quanto sei intelligente. Ma faremo in modo che non se ne accorgano.»

«Kei.»

«Sì?»

«Scusa ma... davvero? Fai sul serio?»

«Ti sembro uno che scherza su queste cose?»

«Ma Sendai... »

«Sendai un cazzo, se puoi avere la Todai.»

«Credo che tu sia l'unico a pensarlo, che posso avere la Todai.»

«Significa che gli altri si sbagliano.»

«Meno male che resti umile.»

«L'umiltà è sopravvalutata.»

«Tsukkiiii... ma io voglio studiare a Sendai! E' un'università ottima. Ed è a venti minuti da te. Insieme, queste due cose valgono più della Todai»

Il tono di Kuroo è lamentoso, Kei si spazientisce subito. «Smetti di piagnucolare e di fare il coglione. E poi io che c'entro? Non stiamo insieme. Lo hai visto prima, che non funzionerebbe mai. Piantala di pensare che ci sia qualcosa fra noi.»

«Non vuoi che ci sia qualcosa fra noi?»

«Quattrocento chilometri. Almeno.» E' la bugia più enorme e sconsiderata che abbia mai pronunciato.

«Per questo stai cercando di organizzarmi la vita?»

«Odio gli sprechi.»

«Di cosa?»

«Di talento. Ora vedi di smetterla di dire stronzate.»

«Voglio studiare a Sendai, non è una stronzata.»

«Okay. Facciamo un patto.»

Kei sembra rilassato, come uno che ha in pugno la situazione, che aveva già previsto tutto e sta seguendo un copione. Tetsurou lo guarda. Prova la sensazione, non saprebbe dire se gradevole o sgradevole, di essere completamente nelle sue mani.

«Ascoltami bene, scemo. Prima di tutto: se superi i Senta della Todai, per la Tohoku saranno più che abbastanza. Secondo: qualsiasi saggio di ammissione, puoi usarlo per entrambe le università. Terzo: fino all'ultimo giorno puoi cambiare idea. Quindi: ti sbatti per la Todai e se non va, ripieghi sulla Tohoku. Non hai niente da perdere.»

«Salvo farmi un culo enorme, probabilmente per niente.»

«Sono solo quattro mesi di enorme culo. Pochino, rispetto a tutto il resto della vita. Allora, ci stai?»

Tetsurou si infila in bocca un altro spicchio di mela. Ha le ginocchia piegate e i piedi appoggiati al bordo della seduta, una posizione tipica di Kenma.

«Non ho capito il patto.» obietta, senza smettere di masticare. La verità è che non ha neanche bisogno di pensarci. Che non gli è neanche passata per la testa l'idea di non farsi coinvolgere nei progetti di Kei. I progetti che Kei ha fatto apposta per lui.

«Il patto è che ti impegni al massimo. E fai quello che dico.»

«E in cambio tu che fai?»

«Ti faccio entrare nella migliore università del Giappone.»

«Non basta.»

«Se non entri alla Todai, ti iscrivi alla Tohoku e ti prometto che non romperò le palle.»

«E' troppo poco. Non mi conviene.»

«Stai contrattando con me?»

«Ovvio. Devo entrare a economia alla Todai, no?»

«Crepa.»

«Cinquantaquattro. Ci sto se mi presenti tuo fratello.»

«Cosa?»

«Mi faccio il culo, seguo il tuo programma. E in cambio mi presenti tuo fratello. Ma non di fretta, per bene. Tipo a cena.»

«Okay. Se segui il mio programma senza discutere su niente e se entri alla Todai, ti... »

«No, Tsukki. Me lo presenti in ogni caso. Anche se alla Todai non ci entro.»

Kei si rende conto in quel momento che saranno cinque minuti buoni che non interrompono il contatto visivo. C'è qualcosa di perverso nel guardarsi così intensamente a una distanza ridotta che però è illusoria, mediata dallo schermo di un telefono. Che succederebbe, se fossero davvero uno di fronte all'altro? Non sa rispondere ma sa di aver perso: quale esaminatore sarebbe così stupido da farsi scappare un Kuroo Tetsurou, con quello sguardo, con quel piglio, con quell'aura di dominanza?

Kei deglutisce. Sbatte le palpebre. E si arrende. «Okay.»

«Okay. Parola d'onore?»

«Piantala. Ho detto che va bene. Ma solo dopo che sarai stato ammesso, non importa dove.» Almeno, qualche mese di respiro.

«Va bene. Affare fatto.»

«Il programma di studio nuovo te lo mando in mail domani. Zero discussioni, zero lamentele. Zero, capito?  Dovrò ridimensionare gli impegni con la squadra.»

«Non salto gli allenamenti, questo lo sai.»

«Non gli allenamenti. Ma le altre cose: visioni collettive delle partite pro, serate pizza, film idioti con Bokuto, giochini con Kozume, ripetizioni del cazzo ad Haiba Lev a tutte le ore... »

Kuroo ghigna: «Sei geloso anche di Lev?»

«Non lo includo nemmeno fra gli umani» replica Kei annoiato. «Tutti i venerdì, dopo l'allenamento, Akaashi ti aspetta al Fukurodani.»

«Per fare cosa?»

«Simulazioni d'esame. Mi ha giurato che sarà implacabile.»

Negli occhi di Kuroo passa un lampo di terrore.

«Fai bene a fartela sotto. E vedi di non sbagliare, non ti conviene...»

«Figuriamoci, Akaashi è un amico» mente Kuroo, spavaldo. «Che succede se sbaglio?»

L'espressione di Kei diventa provocatoria e beffarda. «Se sbagli, niente Tsukishima Kei. Mi dicono sia la tua fissazione del momento.»

«Cosa?»

«Fissazione. Purtroppo ci vai soggetto. Per fortuna, durano poco.»

«Che cazzo dici, Tsukki?»

«Vedila così: se sbagli tutte le domande, non ti lascio avvicinare a più di un metro di distanza la prossima volta che ci vediamo. Forse nemmeno ti rispondo al telefono.»

«Cazzo! Questo dovevi dirlo prima! Se ne sbaglio la metà?»

«Mezzo metro. Telefonate molto corte.»

«Ma è uno schifoso ricatto!»

«Esatto. La vita è dura, Kuroo.»

«E se rispondo a tutte le domande, Tsukki? Distanza zero? Zero, zero?»

Kei abbassa lo sguardo, sente le orecchie andare a fuoco. «Vedremo. Tanto non esiste che rispondi a tutte. E' impossibile.»

Kuroo non lo degna di una replica. Ha la testa infilata nel libro di storia, la matita incastrata fra il naso e il labbro superiore e in mano uno spicchio di mela, che sta già diventando nero.

Kei lo guarda. E pensa che quelli della Todai dovrebbero supplicarlo in ginocchio di studiare da loro. Perché neanche fra cent'anni troveranno di meglio.

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Capitolo 33
*** Caduta libera ***


33 - Caduta libera



15 dicembre 2012
 

Gli occhi di Kei sono fissi su un punto fuori dalla finestra. E' nella stanza del club, ha le cuffie sulle orecchie, la sua espressione è concentrata.

«Tsukishima-kun, non sapevo ti piacessero le arciere... »

Ennoshita è un po' meno idiota degli altri, ma ogni tanto se lo dimentica. Kei si volta a guardarlo rassegnato, abbassando le cuffie.

«Le arciere?»

Chikara indica, oltre il vetro, le ragazze del club di kyudo che si avviano verso la palestra, con le custodie degli archi in spalla. Ammicca e poi urla ridendo: «Scrivi, Noya: Tsukishima ama le spalle muscolose.»

«Che stronzata» commenta Kei, rassegnato. La cosa comica è che è persino vero.

Nishinoya annuisce con una specie di verso belluino. La sua idea di spasso del sabato pomeriggio, senza la supervisione di quelli di terza,  consiste nell'attaccare post-it con commenti idioti sulle tette delle ragazze del poster dietro gli armadietti. Ha già scritto che Tanaka è un pervertito (vero), che Narita è un mezzo pedofilo (forse vero), che a Daichi piacciono le tettone (sicuramente vero) e a Suga le tardone (falso: Kei si giocherebbe una mano sul fatto che a Suga-senpai piaccia tutt'altro).

Combattere contro la stupidità è fatica sprecata, Kei lascia che Nishinoya scriva il post-it e lo appiccichi al poster; più tardi lo tirerà via, tanto, fra tutti, hanno meno memoria di una covata di galline, entro mezz'ora se ne saranno dimenticati.

Kei getta uno sguardo distratto alla stanza: Tanaka, mezzo nudo, si esibisce in una serie di pose da culturista, con relativi versi gutturali; Kinoshita sfoglia il programma del torneo nazionale femminile; Hinata si sta cambiando, saltella in giro in mutande senza smettere un secondo di ridere e di parlare a Kageyama, che risponde a monosillabi e insulti mentre si fa le unghie. Impugna la limetta con una faccia truce da serial killer, paonazzo per lo sforzo di non guardare il corpo nudo di Hinata, come se ci fosse qualcosa da vedere in quel mucchietto pallido di ossa e nervi.

Neanche Yama dà il meglio di sé: ha indossato la maglietta a metà e si contorce continuando a fissare il telefono con gli occhi sgranati, come se dovesse arrivargli un nullaosta formale per infilarsi l'altra manica. Koganegawa Hayame e il suo sorriso, o meglio il suo gigantesco apparecchio per i denti, lo stanno trasformando in un'ameba.

Volendo essere onesto con se stesso, probabilmente le facce che fa lui quando guarda il telefono non sono meno idiote, però almeno si impegna a evitare che succeda in pubblico.

Kei torna a guardare fuori con un mezzo sospiro. Non riesce a togliersi dalla testa qualcosa che ha detto Hinata ieri. Gli ha risposto male a prescindere, ma il dubbio che avesse ragione è rimasto. Prova a rievocare con esattezza il ricordo di un preciso momento del ritiro: Koganegawa del Dateko sta alzando sotto rete per lui, che avanza dalla seconda linea e salta, staccando consapevolmente con la massima potenza, espirando in elevazione, contraendo gli addominali, cercando di sentire sotto la pianta del piede lo spostamento istantaneo del peso dal tallone alla punta.

Perché ha saltato così?

Perché l'alzata era troppo alta e se n'era accorto già mentre prendeva la rincorsa. Per questo, per arrivarci, è riuscito a saltare più del solito. Lo ha fatto davvero. Quindi, dopotutto, Hinata non si sbagliava. Sulla pallavolo non si sbaglia mai, ha una specie di infallibile istinto naturale, da animale selvatico.

Ogni tanto, in mezzo a questi pensieri tecnici, si insinua la voce di Kuroo, che gli spiega come, alternando allungamenti e accorciamenti muscolari, ovvero con un allenamento pliometrico, si riesca ad allenare la potenza esplosiva nel salto. Quando pronuncia esplosiva, strascica leggermente l'ultima sillaba, come per trattenerla in bocca più a lungo, per gustarne il sapore sul palato. E' una cosa che fa tutte le volte che una parola gli piace particolarmente. Kei ne va matto.

Potenza esplosiva, dice Kuroo nella sua mente, con quella cadenza involontariamente languida. E Kei la ascolta, a ripetizione, sopra la musica di sottofondo che esce dalle cuffie. Nell'ultima settimana, per via del ritiro, si sono sentiti pochissimo.

«Tsukishima! Ehi!»

A riportarlo alla realtà, più che la voce stentorea di Tanaka, è il tocco discreto di Yamaguchi, sul braccio.

«Allora? Chi di voi è Tsukishima Kei?» E' una voce acuta e impaziente, che viene dall'esterno.

Tranne Kageyama e Yamaguchi, sono tutti accalcati alla porta.

«Tsukishima-kun chiedono di te...» cinguetta Kinoshita.

Hinata ha gli occhi fuori dalle orbite. Tanaka è praticamente in ginocchio. L'impennata di testosterone nella stanza è quasi tangibile.

Kei si alza e abbassa le cuffie intorno al collo. A nascondere l'insofferenza, nemmeno ci prova.

Alla porta, si trova di fronte una ragazza. Alta, ben fatta, capelli di un rossiccio artificiale, occhi grigi decisamente particolari, orlo della gonna troppo corto per mettere in mostra due gambe lunghissime. Non è carina, è bella. E sa di esserlo.

«Allora? Sei tu Tsukishima?»

«Sono io» risponde Kei, con studiata indifferenza. «E tu saresti... ?»

«Furukawa Rika, secondo anno, terza sezione» risponde lei, senza scomporsi. E gli porge una busta di carta, bianca e spessa. «Mi hanno chiesto di darti questa.»

Kei lancia uno sguardo distratto alla busta e uno ancora meno attento al viso della ragazza. Sembra annoiato anche dall'aria che respira. Non fa neanche il gesto di allungare la mano.

Gli arriva uno schiaffo robusto sulla nuca: «Tsukishima e che cavolo! Sii più gentile con Furukawa-san!» lo rimprovera Nishinoya, senza staccare gli occhi dalla scollatura di lei. Nano com'è, ce l'ha proprio di fronte.

«No, grazie» rifiuta Kei, con forzosa gentilezza, addirittura accennando un inchino. «Contento così, Noya-senpai?»

«No cosa?» Furukawa è confusa.

«No, non m'interessa. Portati via questa lettera. Perché dovrebbe interessarmi una ragazza che non ha nemmeno il coraggio di venire di persona a... »

«Guarda che non è stata una ragazza» spiega Furukawa, spingendogli la busta sul petto.

«In che senso?» Kei si decide a prenderla in mano.

«Nell'unico senso di queste parole in giapponese. Non me l'ha data una ragazza.»

Gli allarmi interni di Kei entrano in funzione tutti insieme. Improvvisamente, avverte come un fastidio gli occhi e le orecchie di tutti gli impiccioni alle sue spalle.

Afferra la ragazza per il polso e la tira giù per le scale. Un coro di fischi, risate e ululati li segue. In mezzo secondo, sono tutti alla ringhiera a guardare di sotto. A Kei non interessa, basta siano fuori portata di udito.

«Ecco, ora puoi parlare: chi ti ha dato la lettera?» la incita, mollando la presa.

«Ahia!» protesta Furukawa. «Sei un vero cafone!»

«La lettera.»

«Me l'ha data un ragazzo. Un bel tipo. Anzi, direi uno proprio figo. Di un'altra scuola. O forse più grande.»

Kei si spinge gli occhiali sul naso, con due dita. Dietro le lenti, i suoi occhi si spalancano e diventano attenti, fissi in quelli di Furukawa. La voce con cui parla è carica di urgenza repressa: «Alto, moro, fisico da atleta, capelli come se ci fosse esploso in mezzo un petardo?»

Furukawa sorride maliziosa e annuisce. «Sì, è proprio lui. Lo conosci bene?»

La domanda è oltraggiosa. Kei deglutisce, sbatte le palpebre, sente il rimbombo del cuore nello sterno e l'eco dei pensieri che viaggiano alla massima potenza. «Sei sicura?»

«Sì che sono sicura. Mi piacciono molto, quei capelli. Fanno proprio venire voglia di...»

Kei non la sta ascoltando; una corrente lo attraversa tutto: mani, piedi, gambe, braccia, petto, fino al cervello. «Quando?» domanda, mentre strappa la carta con dita nervose e avide. «Quando è successo? Dove?»

La busta contiene tre fogli ripiegati, pieni di scritte stampate e di crocette. Kei riconosce subito le simulazioni dei test della Todai. Sopra c'è la data di sabato scorso e, con un pennarello blu è segnato il punteggio: ottantasei su cento.

«Mah, sarà stato dieci minuti fa, forse un quarto d'ora. All'entrata est. Stavo passando lì davanti, dopo l'ora di... »

Furukawa lascia cadere la frase perché il suo interlocutore è svanito. Senza cappotto, senza riflettere, Kei si è avviato con i fogli in mano.

«Ehi! Ehi, Tsukishima, aspetta!» grida Furukawa, inseguendolo.

«Che vuoi?» sbotta, girando solo la testa.

«Devi darmi il numero.»

«Di che parli? Quale numero?»

«Quello del tuo amico. Ha detto che se ti consegnavo la lettera, mi avresti dato in cambio il suo numero. Ora devi darmelo. Mi spiace, sai, ma io non faccio mai niente per niente, è la mia regola.»

«Una donna d'affari» commenta Kei, velenoso, scorrendo lo sguardo sulla figura tornita di lei. Quando rialza gli occhi, dietro il riflesso delle lenti, brilla una luce di condiscendenza malevola. «Sei del secondo anno, vero Furukawa-san? Si fa economia nella terza sezione, mi pare... »

«Sì, certo. Ma dobbiamo parlare di scuola adesso? Sei uno proprio strano. Muoviti, dai: dammi questo numero e facciamola finita.»

Kei le offre un sorriso di sufficienza. «Non te lo posso dare, il numero. Mi spiace, sai, ma io non do mai corda agli stupidi, è la mia regola.»

«Eh? Ma che dici?» Furukawa aggrotta le sopracciglia stizzita.

«Se dopo due anni di economia non hai ancora capito che è una gran cazzata fare affari con qualcuno e pretendere che a pagarti sia un altro, sei davvero molto, ma molto stupida.»

Furukawa allarga gli occhi, le sue labbra dipinte di rosa si arrotondano in una smorfia furibonda. «Stronzo!»

Kei non si scompone. Anzi, allarga il sorriso: da sprezzante diventa sarcastico solo sbilanciando un po' la simmetria. «Ah, comunque, il numero non ti serve, lui è già impegnato» dichiara, voltandole le spalle. Un attimo dopo sta attraversando di corsa il cortile.

«Stronzo!» ripete Furukawa, urlandogli dietro a pieni polmoni.

La sentono anche dalla stanza del club e, tutto sommato, nessuno si stupisce più di tanto. Fra i caratteri di merda, quello di Tsukishima si distingue. Su quanto è successo di sotto fioriscono nell'invidia le ipotesi più esotiche. Yamaguchi crede di aver capito, per questo ne azzarda un paio pure lui, particolarmente fantasiose, per confondere le acque.

L'unico abbastanza coraggioso e folle da andare a chiedere direttamente a Tsukishima sarà Hinata. Succederà domani, davanti alla macchinetta delle bibite. Tsukishima gli risponderà di andare a farsi fottere da Kageyama. 

E un giorno Hinata ci ripenserà. Sulle debolezze degli altri Tsukishima non si sbaglia mai, ha una specie di infallibile istinto naturale, da vero stronzo.

***

Kuroo sta aspettando accanto al cancello dell'entrata est. Appoggiato di schiena contro il muro, con il ginocchio piegato e il telefono in mano. Ha la sciarpa annodata male, l'inizio della giacca a vento sbottonato, le orecchie arrossate dal freddo.

Ed è lì, a pochi passi. Per un attimo Kei teme che sia un'allucinazione. Del resto, il cervello gli si è scombinato così tanto che una deriva allucinatoria delineerebbe per lo meno un quadro clinico comprensibile. E un roseo destino di psicofarmaci.

Invece Kuroo c'è davvero. Lo psicofarmaco è lui. E' venuto fin lì in un giorno di scuola, senza motivo, come solo un vero scemo farebbe.

Nel momento in cui Tetsurou alza gli occhi, incontra quelli di Kei, che lo stanno fissando oltre le sbarre del cancello.

«Ciao» lo saluta Tetsurou, come se non si vedessero da pochi minuti. Gli si scioglie nello sguardo un sorriso esplosivo, di quelli che tolgono il respiro.

«Ciao» risponde Kei, dopo una lunga pausa, che sembra studiata e invece è il tempo minimo che gli ci è voluto per riprendere fiato.

Tetsurou allunga una mano oltre il cancello, poi la ritrae e stringe una delle sbarre verticali. «Sei pallido. Ti stai congelando, Tsukki.»

La tuta da ginnastica di cotone non è esattamente un indumento invernale. E a dispetto della giornata tersa, che scolpisce i profili dei monti tutt'intorno, l'aria è gelida; cumuli di neve ghiacciata sono ammonticchiati ai bordi della strada.

Ma in questo momento Kei non sente freddo. Non sente niente. Sta solo pensando che eliminare le sbarre di ferro che li dividono sarà una pessima mossa.

«Vuoi la mia giacca?» propone Kuroo e sta già tirando giù la lampo.

Kei alza gli occhi al cielo, apre il cancello gli afferra un braccio e lo tira dentro. Gli riallaccia la giacca, dopodiché inizia a camminare con passo marziale. Kuroo gli corre dietro.

«Tu sei pazzo!» sbuffa Kei, voltandosi a guardarlo, senza rallentare. E' molto, molto più bello di come se lo ricordava. La settimana di ritiro senza neanche mezza videochiamata, è stata lunghissima.

«Credevo scemo... »

«Piantala! Non sto scherzando. Sono incazzato nero. Come ti è venuto in mente di presentarti qui? Giuro che se ti beccano e ti giochi la Todai con una sospensione ti ammazzo.» Bugia. Bugia. Sono tutte bugie, tranne l'ultima, che è vera in parte. Se lo beccassero, Kei si prenderebbe la colpa pur di non mettere a rischio la Todai, però di sicuro poi vorrebbe ammazzarlo.

«Guarda che io ero fuori dal cancello, in modo perfettamente legale. Sei tu che mi hai tirato dentro. E...a proposito, Tsukki, dove mi stai portando?»

Purtroppo, lo scemo ha ragione: avrebbe fatto meglio a uscire lui. La consapevolezza che stare vicino a Kuroo lo renda più idiota di Hinata nei giorni meno buoni non è di grande conforto.

«Quel cancello si vede da mezza scuola, non potevamo restare lì» brontola Kei, rinunciando alla logica e alla coerenza in un solo colpo. Peccato, erano vecchie amiche. «Seguimi, stai zitto e cerca di non dare nell'occhio.»

E' una raccomandazione utopistica: attirare l'attenzione fa parte della formula matematica che definisce Kuroo Tetsurou, il quale, appunto, si fa trascinare in giro con un'espressione disinvolta, occhi curiosi che si posano su ogni cosa, sorrisi seminati a caso, e una giacca a vento rossa che si vede fino a Sendai.

Davanti a un edificio anonimo, Kei spalanca con il fianco una porta tagliafuoco, lascia passare Kuroo, quindi la richiude e lo precede su per due rampe di scale; imbocca un corridoio male illuminato, in cui larghe scaffalature piene di libri si alternano a postazioni computer e aperture verso sale laterali ariose, e infine apre una porta chiusa a chiave.

L'etichetta sul portachiavi di plastica viola, Tetsurou non riesce a leggerla. Due mani sbrigative lo spingono all'interno e poi sente il rumore della chiusura a doppia mandata. La stanza è in penombra, ingombra di scaffali. Odora di polvere e di carta invecchiata.

«Dove siamo?»

«Shhh, scemo, parla piano» gli sibila Kei nell'orecchio. «Siamo nel magazzino della biblioteca.»

«Non l'ho mai fatto in una biblioteca.»

«Il che fa di te un essere umano con il minimo sindacale di decenza. Ma sul serio vai in giro scopando a scuola?»

«Beh...»

La gomitata di Kei sul fianco, accompagnata da uno sguardo feroce, arriva prima che Tetsurou possa schivarla. «Ahia!»

«Shhhh!»

«Basta infilzarmi con quelle cacchio di giunture appuntite che hai!» sussurra Tetsurou, massaggiandosi.

«Te le cerchi sempre!» bisbiglia Kei offeso.

«Come fai ad avere le chiavi di questo posto?»

«Sono il responsabile della sezione classici occidentali

«Davvero? E non è troppo faticoso?» provoca beffardo.

«Neanche te lo immagini. Chilometri di fila per accaparrarsi l'ultima copia di Henry James.»

«Chi cavolo è?»

«Appunto.»

«Comodo però» commenta Tetsurou, con la voce appena più bassa, appena più roca.

Kei sbatte gli occhi. «Cosa?»

«Avere un rifugio così a scuola, dove chiudersi dentro a doppia mandata.»

Quando il superpotere lo usa consapevolmente, è distruttivo. Nello spazio di una frase, l'immaginario di Kei si è rimodellato completamente attorno al suono della chiave che gira due volte nella toppa, marcando un dentro e un fuori traboccanti di allusioni. Il cervello gli si è ridotto a una poltiglia acquosa di pensieri lascivi, fra cui galleggia qualche patetico relitto di dignità.

Tetsurou, intanto, si sta togliendo la giacca. E lo fa continuando a fissarlo dritto negli occhi, senza sorridere, mentre trattiene tra i denti l'angolo del colletto e tira giù la zip in un unico movimento fluido, fino a sganciarla. Un gesto di seduzione consapevole e sfacciato.

Adesso Kei ha la bocca secca, le orecchie in fiamme. Addio relitti di dignità.

Deve appoggiarsi al muro per contrastare la vertigine. «Che cazzo fai?»

«Mi spoglio. Fa caldo, qui dentro.»

La biblioteca è riscaldata, come tutta la scuola, ma forse farebbe caldo anche senza termosifoni. Tetsurou appoggia la giacca a vento sulla spalliera di una sedia e si guarda intorno. «E com'è che ti hanno fatto responsabile al primo anno?»

«Quanta gente conosci che parla passabilmente due lingue straniere?»

Tetsurou ci riflette un attimo. «Solo Akaashi.»

«... che non viene a scuola qui. E comunque lui non vale.»

«No, non vale» concede Tetsurou, soffiando la risposta all'orecchio di Kei.

Sono troppo vicini. Kei sente il crepitio delle scintille e riconosce tutti i segni di un incendio imminente. Evitare il contatto, pensare a qualsiasi altra cosa che non sia mettergli le mani addosso, è già diventata un'impresa estrema.

Si fa indietro con uno sbuffo e un sorrisetto insolente. «Solo ottantasei su cento, che peccato» commenta, sprezzante, battendogli contro il petto i fogli del test. «Conosci le regole: ti devi allontanare.»

Tetsurou incassa con una tranquillità sospetta, scostandosi senza esitazioni; nei suoi occhi c'è tutto, tranne la resa. Inizia a vagare per la stanza, si accosta ai libri, sfiora gli adesivi in rilievo sulle coste sbiadite. Kei lo segue: fra quattro mura è impossibile sfuggire alla smisurata gravità che lo scemo esercita soltanto esistendo.

Su fronti opposti dello scaffale, si cercano negli spiragli fra un libro e l'altro, sbirciandosi con un'indifferenza pretestuosa e inconsistente.

«Ne hai almeno letto qualcuno?» lo provoca Tetsurou.

Kei schiocca la lingua con sdegno.

«Questo?» Tetsurou spinge il libro dalla parte di Kei, che gli getta un'occhiata distratta.

«Arrampicatrice sociale diabolicamente cretina rovina la vita a se stessa e a tutti quelli che ha intorno. Per fortuna alla fine tira le cuoia» recita compassato.

«Sembra un mattone.»

«Meno peggio di altri.»

«E questo?»

«Istitutrice frigida e in miseria vorrebbe farsi il padrone del maniero, ma è inibita dalla moglie pazza di lui nascosta in soffitta. Pur di levarseli di torno, la pazza si dà fuoco e si butta di sotto.»

Tetsurou mugola di apprezzamento. Raggiunge Kei alle spalle e gli sfila il libro dalle mani. «Promettente. E come finisce?»

«Scopano.»

«Happy Ending» commenta Tetsurou in falsetto, facendo con le dita il segno di vittoria.

A Kei scappa una mezza risata.

«Questo qui?» Tetsurou estrae un libretto azzurro dallo scaffale in alto. Sulla copertina c'è un pettirosso.

Kei prende in mano il volume, accarezza la copertina e lo rimette a posto con cura. «Questo lo lasci stare.»

Tetsurou allunga di nuovo la mano, Kei apre la propria a difesa del libro.

«Emily Dickinson lasciala stare.»

Tetsurou si fa indietro senza discussioni. Il rapporto di Kei con la poesia, a quanto pare, è viscerale e complicato in tutti i continenti.

«Questo così piccolo?»

«Giovane e perfida disadattata manda a monte i sogni di gloria della madre deficiente e del padre stronzo. Un po' disturbante, ma scritto da dio.»

«Quest'altro? Sembra bello.»

«Bah. Due ussari del cazzo continuano a sfidarsi a duello per vent'anni, quando è chiaro da pagina due che vorrebbero andare a letto insieme.»

Tetsurou ridacchia. Non ha idea di cosa sia esattamente un ussaro del cazzo e non è mai stato un gran lettore, ma gli sta venendo voglia di leggerli tutti. Anzi, ha appena deciso che lo farà.

«Questo invece? E' rovinato, lo hanno letto in tanti.»

«Quello è bello.»

«E di che parla?»

«Di un tale che risale in barca il fiume Congo per cercare un altro tale, poi lo trova mezzo pazzo e mezzo morto e...» Kei si ferma a pensarci un attimo. «In effetti, penso che parli del fatto che la vita è una merda, le persone sono una merda ed evitare di fare a pezzi le illusioni degli altri è il meglio che possiamo fare per stare al mondo.»

«Lo pensi davvero?»

«Cosa?»

«Che la vita è una merda.»

«Qualche volta.»

«E adesso?»

Kei vorrebbe mentire. O glissare. O barricarsi nella sua confortevole armatura di sarcasmo. Ma non ci riesce. «Adesso no» ammette, abbassando lo sguardo, atterrito dalla propria sincerità.

Tetsurou sorride, gli solleva il mento con le dita. «Ehi! Adesso è fantastica» sussurra. La sua voce accarezza ogni parola. Kei le sente spingere con fermezza contro i bordi delle proprie resistenze.

Sono di nuovo troppo vicini. L'odore d'estate e di colonia lo ubriaca in un attimo.

«Allora, si può sapere che cazzo sei venuto a fare?» dovrebbe essere una provocazione, ma ha il suono di un lamento.

«Non ti vedo da otto giorni, non ti tocco da un mese. Stavo uscendo di testa.»

A quella nostalgia travolgente, Kei vorrebbe solamente abbandonarsi. Chiude gli occhi, tentando di opporre resistenza.

«Kei... » Lo pronuncia con un languore che uccide.

«Sì... ?»

«Glielo hai dato poi il mio numero?»

Kei apre gli occhi di scatto. «Cosa?»

«Alla tizia che ho mandato a cercarti. Le hai dato il mio numero?»

«Ma che cazzo dici?»

«Era carina...»

«Crepa!» tuona, collerico.

Il sorriso di Tetsurou si spalanca, brillante e spavaldo più che mai. «Novantanove!» annuncia gongolando.

Kei rinuncia a restare serio, i sorrisi Kuroo glieli strappa di forza. «Sei uno scemo galattico. E sei di nuovo troppo vicino» lo spinge via con tre dita sullo sterno.

«Davvero?»

«Solo ottantasei su cento. Dovresti impegnarti di più... »

«Quello però era della settimana scorsa» lo interrompe Tetsurou, con una luce pericolosa nello sguardo. Estrae dalla tasca tre fogli ripiegati e li sventola sotto gli occhi di Kei, che si sgranano.

Novantasette su cento.

Kei non è sicuro di aver letto bene. Afferra il foglio e si spinge in su gli occhiali: c'è scritto proprio novantasette.

Da settantadue a novantasette in quattro settimane. Un violatore seriale di statistiche. 

«Ma guarda un po'! Va a finire che te la cavi bene a fingere di non essere cretino... »

L'orgoglio sul viso di Kei è così ovvio, smisurato e sincero che il cuore di Tetsurou si stringe in una morsa. Gli gira la testa per quanto si sente stupidamente innamorato. Una sbornia colossale e meravigliosa.

«Kei...?»

«No, non gliel'ho dato il tuo numero, alla stronza.»

«Tsukishima Kei... » snocciola le sillabe facendole rimbalzare una a una fra la lingua e il palato e lasciandole sfiorire in un bisbiglio.

«Che vuoi?»

«I miei tre centimetri» dice, affondando una mano fra i capelli di Kei.

Tre centimetri. Giusto la distanza che serve per riuscire a guardarsi ancora negli occhi, mentre ci si respira addosso, e poter dire di non essersi baciati.

«Quanto pensi che resisterai?» mormora sulla tempia di Kei.

«E' una sfida?»

«Con te un po' tutto è una sfida.»

Kei sfodera un sorrisetto, resiste in apnea per qualche secondo. Ma ha perso. Ha perso dal momento che l'ha visto al cancello. Anzi no, niente cancello: dal momento che l'ha visto.

«Crepa» gli appoggia l'insulto sulle labbra, e lo sta già baciando.

Si stringono convulsi, in un bacio e un abbraccio che continuano a sconfinare uno nell'altro, disegnando lo spazio umido e segreto di un contatto profondo. Di un bisogno sfrenato, di una resa totale, di una nostalgia già disperata.

Tetsurou si stacca all'improvviso, si fa indietro il poco che riesce, con il braccio di Kei avvinghiato al collo.

Kei apre gli occhi perplesso. Non sa bene come è successo, ma ha la schiena premuta contro il muro, una mano di Tetsurou che gli tiene il viso e l'altra stretta alla propria, le dita intrecciate, il pollice di lui che continua ad accarezzargli il polso e allo stesso tempo lo inchioda alla parete.

«Cento. Siamo a cento... che succedeva a cento?» domanda Tetsurou in un bisbiglio.

«Chissenefrega» biascica Kei, a corto di fiato. Con la lingua accarezza un polpastrello che ha sconfinato sulle sue labbra.

«Tsukki, rispondimi: che succede a cento?»

Kei lo guarda da dietro le lenti, arrogante e sfrontato.

Tetsurou stringe la presa sul polso, bloccandolo con tutto il peso.

L'eccitazione è una scossa elettrica nel corpo di Kei. Un sussulto potente, dalle caviglie ai polsi, nelle ossa, nei muscoli, lungo le vene, nei meandri dei nervi fino alla base del collo, nelle orecchie, sotto le palpebre,  fra le gambe. Il bacino spinto contro quello di Kuroo è un messaggio di lampante chiarezza.

«Succede che sei sfacciatamente fortunato, come tutti gli scemi» replica Kei, con falsissima noncuranza.

Tetsurou sbatte gli occhi. «Eh?»

«Sei uno scemo fortunato, dicevo. Il tuo ragazzo è mille volte meglio del mio.»

Tetsurou resta interdetto per un attimo e poi scoppia a ridere. Una risata emozionata e liberatoria, che in meno di un attimo va a scavarsi un posto fra le memorie indelebili.

Imparano insieme che ci si può baciare ridendo, con il cuore impazzito e i respiri spezzati per l'ossigeno che manca. E che non è male per niente.

Quindi ridono e si baciano e sospirano. Accarezzano tutte le forme del futuro.

Quando Tetsurou gli toglie gli occhiali, con un gesto di una tenerezza immorale, Kei si sente proiettato nel vuoto, in caduta libera, da altezze incredibili e vertiginose.

Si aggrappa all'unica certezza del momento, quella schiena ampia e magnifica, le cui corde tese si possono sentire sotto le dita anche attraverso i vestiti. E adesso è sua.

 

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Capitolo 34
*** Numero dodici ***


34 - Numero dodici



18 dicembre 2012


Tadashi sta volando giù per la discesa della scuola in sella alla bici di Hinata.

Prima che inizi l'allenamento ha esattamente un'ora e tre quarti, devono bastargli per andare e tornare. Schiva una pozzanghera, salta su un cordolo e resiste alla tentazione di tirare fuori il telefono, che vibra forsennato nella tasca della giacca.

Il cielo è bianchissimo e il meteo dava neve.  Può solo sperare che il tempo regga ancora un po'.

La scuola di Koganegawa Hayame è a Misato; da Osaki, pedalando molto in fretta, ci vogliono una ventina di minuti abbondanti. Ieri sera con Tsukki hanno studiato il percorso: proprio dietro al Sakanoshita si imbocca una ciclabile che corre parallela ai binari della linea regionale. Prima di arrivare in paese si piega a sinistra, in salita e si arriva in un attimo a destinazione.

Il coach Ukai sta fumando fuori dal negozio, Tadashi lo saluta con la mano.  Gli sembra sempre che sia un po' triste, tranne che in palestra. Una delle grandi e inconfessabili paure di Yamaguchi Tadashi è diventare così anche lui: un adulto solo e un po' spento, svogliato, che compie gesti ripetitivi e mastica giornate senza sapore, mentre il tempo gli sfugge fra le dita.

Non pensa di essere speciale e neppure di voler cambiare il mondo, o che i fatti suoi possano interessare qualcun altro; ma per se stesso, vorrebbe vivere una vita significativa. Quale dovrebbe essere questo significato, non ne ha la minima idea.

Svolta in una curva stretta intorno allo stabile e si immette nella ciclabile deserta.

Gli sembra incredibile quello che sta facendo, e che sia proprio lui a farlo. E' una sensazione strana guardarsi dall'esterno mentre compie scelte impulsive, come essere sia dentro che fuori da se stesso, spettatore attonito della propria irrazionalità.

Tsukki dice che, come al solito, la sta facendo troppo lunga: ha una banale cotta per Koganegawa Hayame, tutto qui. Incasinarsi più del dovuto non serve.

Tadashi non lo sa, se ha una cotta per Hayame.

Non ne è sicuro, non lo ha capito bene, non sa neppure se a piacergli sia lei o la bizzarra sensazione (bizzarra, ma per niente banale) che si sente addosso anche adesso: di essere a mille, con il vento in faccia, il sole negli occhi e non avere la più pallida idea di dove stia andando. Ma di volerci andare.

Al momento il sole manca, ma il vento in faccia c'è davvero. Gelido, anche.

Hayame gli ha scritto cinque giorni fa, giovedì pomeriggio.

Un messaggio semplice e diretto, in cui gli comunicava che la sua ricerca scientifica era conclusa e lo ringraziava molto per aver collaborato. Si chiedeva se potesse interessargli sapere i risultati.

Tadashi le ha risposto che sì, gli interessava.

Ecco: le ha risposto subito, senza stare tanto a pensarci, senza stare per dieci minuti a fissare il testo prima di inviarlo: la paura di non fare in tempo a rispondere (come se poi ci fosse una scadenza) è stata superiore a quella di pentirsi della risposta. Una cosa che non gli era mai successa prima; di solito esita, rilegge, cancella e riscrive mille volte persino i messaggi che manda a Tsukki.

Anche Hayame ha risposto subito.

Gli ha spiegato che, dei dodici soggetti, lui era il numero nove. E, pur essendo uno di quelli che partivano svantaggiati (in che senso? questo Tadashi non ha avuto il coraggio di chiederlo) alla fine la sua è stata la prestazione migliore.

A Tadashi è venuta la pelle d'oca e ha ingoiato un groppo enorme di saliva.

- Migliore in che senso?  Ha chiuso gli occhi quando ha premuto invio. Li ha riaperti solo quando ha sentito il cicalino della risposta.

- Che dopo non avevo più tanta voglia di baciare gli altri tre.

- E lo hai fatto comunque?

- Sì, certo. Arrivo sempre in fondo a tutte le cose.

Tadashi ha deciso che quella risposta gli piaceva (immotivatamente) moltissimo.

Così tanto che, senza rifletterci neanche un secondo, le ha proposto di offrirle qualcosa, per ricambiare la gentilezza di aver condiviso i risultati della sua ricerca e magari anche per parlarne meglio. Sempre che le facesse piacere.

Ad Hayame faceva piacere.

Potevano vedersi martedì al konbini vicino alla sua scuola, a ora di pranzo, se a lui andava bene. Non gli avrebbe rubato molto tempo.

A Tadashi andava bene.

E non c'era bisogno di rubarglielo, il tempo, era contento di condividerlo con lei.

Hayame ha deciso che quella risposta le piaceva (per diverse ragioni) moltissimo.

Così tanto che ha copiato la frase in un quadernino verde, che tiene nel cassetto del comodino.

E insomma adesso Tadashi sta pedalando sulla bici di Hinata per andare a quell'appuntamento, che poi non è neanche un vero appuntamento.

La pista ciclabile è tutta dritta. Una strada noiosa, un po' come la sua vita: qualche volta gli sembra di viaggiare su un binario e di avere intorno quelle barriere insonorizzate altissime e opache, per cui del paesaggio si vedono solo ombre vaghe e nessun contorno definito. Poi ogni tanto ti stupiscono il volo di un uccello, un petalo di ciliegio, un raggio di sole. Forse, a sedici anni, si sentono un po' tutti in gabbia, ma a lui pare che nel suo caso sia oggettivo.

Tranne oggi. Oggi la strada è noiosa, ma la sua vita no.

***

Hayame gli ha mandato una foto del konbini, quindi Tadashi sa di essere nel posto giusto. Lei però non c'è. 

E' un piccolo quartiere commerciale di periferia dominato dall'alto dal complesso della scuola, che è un edificio grande e probabilmente comprende sia medie che superiori.

Sei minuti di ritardo. Non sa nemmeno se siano pochi o molti: Tsukki rompe le scatole da sempre con la puntualità, quindi Tadashi non sgarra mai.

Nove minuti.

Stranamente, non pensa affatto che lei lo abbia preso in giro. Immagina piuttosto che sia stata trattenuta o se ne sia dimenticata. Una dimenticanza è l'ipotesi più probabile; dopotutto, per lei, quell'appuntamento che non è un appuntamento dev'essere ordinaria amministrazione.

Non riesce a smettere di fissare lo schermo, e sta pensando a cosa direbbe Tsukki di uno che staziona davanti a un posto guardando una foto del posto stesso, quando un calpestio di passi ritmati sull'asfalto gli fa alzare lo sguardo.

Il sorriso di Hayame la precede. Sta correndo a perdifiato giù per la discesa e intanto lo saluta con la mano.

Porta la tuta da ginnastica gialla e grigia della scuola sotto un cappotto slacciato e molti giri di una sciarpa rosa; i capelli raccolti a coda di cavallo le svolazzano intorno, e indossa un paio di occhiali rotondi, che l'altra volta non aveva.

A metà strada devia nel prato, in pendenza ancora maggiore. Corre come sorride, senza trattenersi, a piena potenza.

Alla fine della discesa, supera il muretto con un balzo e atterra giusto di fronte a lui, frenando in un paio di passi.

Senza fiato, si piega in avanti, con le mani appoggiate alle ginocchia. «Ciao» ansima. «Scusami tanto, Yamaguchi-kun. Non mi ricordavo che avevo il turno di pulizie.»

Tadashi non sa bene cosa dirle. Ha il cervello bloccato sul pensiero, in realtà piuttosto ovvio, che lei è lì. Che è venuta veramente. Che si era dimenticata delle pulizie, ma non di lui.

«Ehi! Ti sei incantato? Yama-kun?» lo guarda perplessa. «Posso chiamarti Yama-kun?»

Tadashi riesce solo ad annuire, muovendo il collo in avanti con un gesto troppo ampio, come un pupazzo.

Hayame intanto sta stringendosi la coda, per far risalire l'elastico, le ciocche di capelli più corte sono tutte sfuggite e il vento le agita. Si raddrizza il cappotto, si toglie gli occhiali e ripulisce le lenti. Ogni suo gesto è deciso, pulito, mirato a uno scopo.

«Sei miope?» le domanda. In una competizione di domande idiote, questa sbaraglierebbe ogni avversario. E' precisamente questo l'effetto di Koganegawa su Yamaguchi: parole senza controllo. A quanto pare, anche dal vivo.

Lei, comunque, non si scompone. «Astigmatica. Non tanto, però. Preferirei le lenti, ma mamma non vuole che le porti sempre. Dice che rovinano il fondo dell'occhio. Quindi le posso mettere solo per fare sport e per uscire con gli amici. O per andare in giro a baciare la gente... »

Hayame ride. Yama si trova ammutolito a fissare quegli occhiali rotondi e gli occhi castani dietro le lenti.

«Sono brutti, vero? Beh, pazienza, da grande farò il laser» dichiara lei, spingendoseli sul naso. E' lo stesso gesto di Tsukki, ma lei lo fa in modo del tutto diverso, con un dito solo e con un movimento rapido, efficace.

«In realtà penso che siano carini» risponde Tadashi. Ed è la verità, ma ancora una volta si tratta di parole senza controllo, di cui si pente mentre gli scivolano fra le labbra.

Hayame sorride, scomodando metafore poetiche scontate. «Allora? Parliamo dell'esperimento? Hai domande?»

Tadashi domande ne ha molte, e troppo poco coraggio per farle, così senza preavviso. «Prima di tutto, se me lo permetti, vorrei offrirti qualcosa.»

Hayame sceglie un umaibo al formaggio e un pacchetto di caramelle al limone. Tadashi decide che mangiare roba solida è un rischio inaccettabile (potrebbe affogarsi, vomitare, avere un attacco di diarrea, o anche le tre cose insieme), così si limita a una lattina di melon soda.

Si siedono sul muretto, vicini, ma non troppo. Una distanza marcata da sguardi sfuggenti, che si sfiorano soltanto. Per un po' è molto più facile fingere di avere fame e sete.

Hayame smette di masticare all'improvviso. «Dai, Yama-kun, dimmi che idea ti sei fatto del mio esperimento. Penserai che vada in giro a baciare chiunque.»

Tadashi manda giù un sorso di soda e scuote la testa. «Non ci sarebbe niente di male... »

«No, è vero. Ma insomma... non è così.»

Tadashi si volta a guardarla negli occhi. Hanno un colore caldo, pieno di sfumature, in cui risalta, più di ogni altra cosa, una fierezza naturale.  «Sull'esperimento non mi hai detto molto, non mi sono fatto un'idea precisa. Ma una cosa la penso: che tu sia molto coraggiosa.»

Hayame sorride, guarda verso quel cielo bianchissimo e dondola le gambe, facendo rimbalzare i talloni contro il muretto. «Cosa vuoi fare da grande Yama-kun?»

E' la domanda meno originale del mondo, secondo Tsukki anche una delle più stupide. Gli adulti la fanno di continuo, senza nemmeno pretendere una vera risposta: basta sparare una scemata qualsiasi, meglio se altisonante, con un minimo di convinzione, anche fasulla.

Ma questa volta è diverso.

Attenta, seria, protesa verso di lui, Koganegawa Hayame non è una a cui si possano rifilare idiozie passandola liscia. E più di tutto, Tadashi non la vuole deludere. 

«Credo che vorrei fare... qualcosa di utile. Non so ancora cosa. Ma vorrei vivere per qualcosa di più che fare soldi, o farli fare a qualcun altro.»

«E' una bella risposta» approva lei. Si scosta una ciocca di capelli dietro la stanghetta degli occhiali. «Anche io vorrei sentirmi utile, come dici tu. Ma vorrei fare qualcosa che riguarda le persone. Mi interessano le persone. Come sono fatte, come ragionano... »

«Come baciano... » aggiunge Tadashi, con un sorrisetto tirato e un'ombra di provocazione. Le parole gli escono di bocca mentre le pensa, prima che entrino in funzione quella tonnellata di freni, filtri e barriere che si porta nel cervello.

Hayame ridacchia senza smettere di masticare e si protegge la bocca con la mano. Il sorriso le lampeggia negli occhi ed è proprio uno dei suoi: colmo di luce e con tutta una scia di altri colori, che Tadashi non è ancora riuscito a distinguere, ma che gli entrano dentro comunque.

Su questo Tsukki si sbaglia di grosso: l'apparecchio per i denti sarà pure evidente, ma con quel sorriso non c'entra proprio niente.

Hayame finisce di masticare e si scrolla via le briciole dal cappotto e dalla felpa.

«Grazie Yama-kun. Questi al formaggio sono buonissimi» commenta, appallottolando l'incarto colorato. Fa leva sulle mani per scendere dal muretto, diretta al cestino dei rifiuti di fronte al negozio.

Tadashi le porge la mano aperta: «Lascia. Dalla a me, la butto via io dopo.»

Hayame esita solo un attimo, poi accetta e si rimette a sedere.

«Me la levi una curiosità sul tuo esperimento?» chiede Tadashi, mentre si infila in tasca la plastica appallottolata.

«Certo.»

«Come li hai scelti i dodici candidati?»

«Maschi e tutti del primo anno» risponde lei, stringendosi nelle spalle. «Beh, questo è quello che hanno in comune. In realtà ho cercato un campione statistico assortito, con dei fattori che si potessero incrociare, perché avesse un po' di senso. Per esempio tre ragazzi molto carini, tre decisamente non attraenti e sei nella media. Altezza e corporatura variabili. Qualcuno che aveva l'aria di venire da famiglie ricche e qualcuno al contrario. Qualcuno bravo a scuola e qualcuno meno. Metà che fanno sport e metà che fanno attività creative. Cose così. Poi ho fatto una specie di griglia.»

«Per arrivare al liceo con l'identikit del fidanzato perfetto?» E' sorprendentemente divertente parlare senza pensarci troppo, almeno tanto quanto è imprudente. 

«Ma no! Sarebbe troppo soggettivo, non credi? E poi io i miei gusti li conosco già. Quello che volevo provare a capire è se i ragazzi baciano come sono. Cioè, voglio dire, se il carattere che hai influenza il linguaggio del corpo più di quello verbale. Mentire a parole è troppo facile. Baciarsi è qualcosa più che saliva ed eccitazione sessuale, è comunicare, no?»

Tadashi sente la melon soda percorrergli l'esofago in un fiotto gelido e depositarsi giusto in mezzo allo stomaco. 

Nelle parole di lei, invece, abitano solo certezze, che diventano bianchi sbuffi di fiato e piovono al suolo in goccioline minuscole. 

«Quindi erano tutti ragazzi che non conoscevi?»

«Esatto!» Hayame sorride. «Era essenziale, che non li conoscessi. Ho evitato anche la squadra di mio fratello, per lo stesso motivo. Perché a furia di sentirne parlare - e mio fratello è uno che chiacchiera un sacco - alla fine le persone è come se un po' le conoscessi. Per esempio, del Karasuno non avrei potuto scegliere il piccoletto con i capelli rossi e neppure il palleggiatore carino e sempre incavolato, perché Kenji ne parla sempre.»

«E che idea ti sei fatta di loro?» Tadashi se lo chiede sempre, come li vedono gli altri. Come vedono la squadra.

Hayame storce le labbra pensandoci, mentre scarta una caramella. Ha le dita arrossate per il freddo e il mento affondato nella lana rosa della sciarpa. «Due affamati di adrenalina. Quello molto carino penso che sia un introverso pazzesco, però del genere che non la vive per niente bene. L'altro a mio fratello piace tantissimo, e lui ha un debole per gente espansiva, che fa casino. In realtà Hinata - si chiama così, giusto? -  piace anche a me, forse avrei scelto lui, se appunto non fosse amico di Kenji.»

E' un'analisi sommaria, ma piuttosto esatta. Però l'idea che Hayame avrebbe potuto chiedere a Hinata di baciarla produce un piccolo, netto bruciore interno, come un taglietto sul dito fatto con la carta di una pagina.

«Stanno insieme?» domanda Hayame tranquilla, infilandosi in bocca la caramella.

Tadashi tossisce convulso. «Chi?»

«Il palleggiatore e il piccoletto. Mio fratello dice di no, ma lui non ci capisce niente di queste cose.»

«No... io... penso di no» balbetta. E per la prima volta se lo chiede: Hinata e Kageyama stanno insieme? Non lo sa. Ma la domanda non è affatto assurda.

Di sicuro non sono amici. C'è fra loro come una tensione continua, un rapporto di causa-effetto, una connessione, nel campo di pallavolo e anche fuori. Si esprime in tutti i modi tranne che con le parole. A parole, sono avari e confusi. Però è evidente che gli occhi di Kageyama siano sempre puntati su Hinata; sembra sia per cogliere le sue mancanze e lamentarsene, ma è di fatto un'attenzione continua che mal si distingue da una fascinazione assoluta. Hinata invece non nasconde nulla: è incapace di fingere, la sua ammirazione è senza limiti e senza ombre. Invincibile. Esplicita, esagerata e compulsiva, proprio come lui. E fra loro comunicano. In qualche modo strano e misterioso, ma sono sempre consapevoli della posizione, dei desideri, delle debolezze uno dell'altro.

Ormai tutti li considerano un duo esclusivo e affiatato, con una dinamica complessa di supporto e di rivalità che si esprime pienamente solo in campo, ma non svanisce dopo l'ultimo fischio. Anzi, cresce e si evolve. Non potrebbe essere un modo strambo di amarsi?

Dopotutto, di modi ne esistono innumerevoli. Tanti quanti i manga che Tadashi ha letto, le storie che ha immaginato. Tanti quante le persone al mondo e i loro diversi bisogni.

Il modo di Tsukki, per esempio, che è sconcertante per uno come lui. Affamato. Appassionato. Travolgente. Fa quasi paura pensare a quanto innamorarsi lo abbia cambiato e lo stia cambiando. A quando sia disposto a cedere. A quanto si conceda di sentire. A quanto ci tenga. Fa paura e disorienta. E prelude a tanti altri cambiamenti, che forse non sono ancora così vicini, ma di certo arriveranno.

Hayame non disturba nessuno di quei pensieri, assorta nei propri.  La sua presenza è marcata, ma anche discreta. Il silenzio che li avvolge è ovattato come il cielo sopra le loro teste. 

Il tempo però sta passando. Tadashi guarda l'ora sullo schermo del cellulare. Per sperare di arrivare in tempo, doveva essere ripartito dieci minuti fa.

«Mi dispiace se fai tardi, Yama-kun» si preoccupa Hayame. «Dai, prendi una caramella e avviati!»  Gli porge il sacchetto, lui rifiuta con garbo.

«Fra un minuto vado.»

Hayame si mette in bocca un'altra caramella, socchiude gli occhi, si sbilancia all'indietro, reggendosi sulle mani aperte. Mentre riflette, si rigira la caramella sulla lingua, con un rumore involontario e umido di suzione, che penetra la guardia abbassata di Tadashi, dando la stura a tutta una serie di pensieri molto inappropriati.

«Yama-kun?»

«....eh?»

«Tutto bene?»

«Sì. Sì, benissimo.» 

«Hai le orecchie scarlatte» osserva lei, con piglio scientifico, sporgendosi un po' per guardarle meglio da dietro le lenti.

«Sarà il freddo.»

Tadashi si fa indietro. Hayame si sporge ancora un po'.

«Hai anche un sacco di lentiggini.»

Tutto qui. Non aggiunge altro. Le ridono gli occhi e ogni altra parte del viso, tranne le labbra.

Tadashi si schiarisce la voce, si passa una mano fra i capelli. C'è qualcosa che deve assolutamente dirle. Qualcosa che un po' lo tormenta, che gli torna su, mal digerito, ogni volta che ci ripensa. 

«Sai, Kogane-chan, ci ho pensato e credo proprio che dovrei chiederti scusa.»

Hayame piega le gambe e le abbraccia, i talloni puntati sul muretto, la guancia appoggiata alle ginocchia. «E di cosa?»

«Il tuo esperimento. Ecco, io... non posso fare a meno di pensare che avresti preferito Tsukki.»

Hayame allarga gli occhi, interrogativa.

«Tsukishima Kei» spiega Tadashi. «Il mio amico. Quello alto, con gli occhiali. Eri venuta a chiedere di lui.»

«Ah. Beh no, sei meglio tu» risponde lei, senza l'ombra di un'esitazione, senza un briciolo di malizia.

Yama è più che altro perplesso. «In che senso?»

Hayame si prende il tempo per pensarci, alza lo sguardo, poi punta gli occhi su Tadashi. «In tutti i sensi, direi. Tranne forse che lui è più bello.»

Forse.

«Ma bello è una qualità inflazionata» prosegue, tranquilla. «E' pieno di ragazzi belli in giro. E non è che sia merito loro.»

Difendere Tsukki è il primo istinto di Tadashi. «Guarda che non è solo bello. E' molto intelligente. Molto, davvero. E' un amico leale. Ed è anche molto figo, sempre, in tutte le cose. Lo è proprio per natura

Hayame non sembra colpita. «A me pare che se la tiri un bel po', il che non è figo per niente. Anche tu sei intelligente. E poi sei gentile. Ecco: essere gentili è molto figo. Perché non è facile, uno si deve impegnare e la gente non ti aiuta.»

Tadashi si sente rimescolare tutto e forse fa una qualche faccia strana, perché Hayame arriccia le labbra e lo guarda scettica. «Ma sul serio pensi che sia meglio di te?»

Tadashi apre la bocca, poi la richiude. E' una domanda assurda.

Lei non si aspetta una risposta. Sorride e salta giù dal muretto. «Devi scusarmi Yama-kun. Ma per me è tardi. Il che significa che per te è tardissimo!»

Anche Tadashi salta giù. In piedi di fronte a lei, gli sembra che quelle due mani che si ritrova attaccate alle braccia, siano appendici ingombranti e troppo difficili da governare, quindi se le infila in tasca.

Lei si congeda con un accenno di inchino. «Scusa ancora se ti ho trattenuto tanto. E grazie mille per lo spuntino.»

Tadashi biascica una qualche risposta.

Hayame saluta ancora con la mano e si volta. Fa un passo, solo un passo, prima di girarsi. «Ah, già volevo farti vedere una cosa» esclama, mentre tira giù la zip della felpa. Fra i lembi scostati del cappotto, compare la maglietta gialla di un club sportivo, con un enorme numero 12. «Non sei anche tu il dodici?»

Tadashi annuisce sorridendo, stupidamente contento. «E' la squadra di pallavolo?»

«No, per carità! Faccio pena a pallavolo, le prendo tutte in faccia. E' la squadra di calcio. Mi piacciono gli sport di contatto!» A quanto pare, Koganegawa Hayame ha nel suo arsenale anche un sorriso pericoloso, a cui è difficile rimanere insensibili.

«Ciao Yama-Kun!» saluta, ed è già su per la salita.

Tadashi inforca la bici, ma resta a guardarla correre.

A metà Hayame si volta di nuovo  e di nuovo agita la mano. «Vattene! Fai tardi!» urla, ridendo. «Ci sentiamo presto!»

Non si volta più, e sparisce oltre il cancello. La macchia rosa della sciarpa è l'ultima cosa che Tadashi riesce a distinguere.

Un attimo dopo, sta nevicando.

 

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Capitolo 35
*** L'aggettivo giusto 🔞 ***


35 - L'aggettivo giusto


 

24 marzo 2012 

[NdA l'anno scolastico giapponese inizia ad aprile e finisce a marzo.]

La cosa che Tsukishima Kei odia di più al mondo è trovarsi costretto, in tutti i sensi più o meno lati che la parola può assumere: chiuso, messo all'angolo, legato, coatto. 

Soffocato è l'aggettivo giusto. Talmente giusto che è una causa di morte.

Eppure, Kei ama gli spazi ristretti. Li ha sempre amati.

A sei anni si infilava negli armadi, si nascondeva in quell'angolino buio del sottoscala della casa al mare, la sera nel letto si tirava le coperte fin sopra la testa e poi accendeva una lucina da lettura minuscola (un regalo di Aki per il primo giorno di scuola) e giocava ancora un po' con i modellini, in quel bozzolo caldo in cui l'unico respiro e l'unico odore erano i suoi.

E' l'idea confortevole, soffice, pulita di un posto che sia allo stesso tempo luogo e non-luogo e che coincida con la forma della propria solitudine, o, più esattamente, con quella della compagnia di se stessi.

A papà piace la precisione lessicale e quindi Kei ci ha pensato su un bel po', a quale fosse l'aggettivo giusto. E l'aggettivo giusto era: intimo.

Crescendo, intimo è diventato un concetto incerto, a tratti confuso. E per niente giusto. Ha qualcosa a che vedere con quel corpo indisciplinato, che si permette di cambiare così tanto senza preavviso, senza regole, senza un chiaro foglio di istruzioni. Cambia da un giorno all'altro, mentre tutto quello che c'è intorno resta identico. Si allunga, come se lo tirassero dall'alto. E va a finire che il pavimento, i suoi stessi piedi, il centro del mondo e tutti quei miliardi di abitanti diventano sempre più lontani.

Per uno che è miope - parecchio miope - rischia di essere un problema. Perché si perdono i contorni e la gente diventa una massa unica di preconcetti, prevenzioni, ridicole fissazioni, mode incomprensibili, gerarchie insensate, regole così stupide che obbedire è un insulto.

Se cerca di abbassarsi, per guardare qualcuno da vicino, va a finire che diventa troppo vicino e l'eccesso di prossimità è un rischio inaccettabile. La via di mezzo, la giusta distanza non la trova mai. Forse non esiste, oppure è una linea così sottile che si smarrisce tra una risposta scorbutica e l'altra, tra una canzone e l'altra sparate nelle cuffie mentre qualcuno ti parla, tra una sferzata di sarcasmo e un insulto velato, infierendo sulle debolezze degli altri per non mostrare le proprie.

Un paio di occhiali per guardare negli occhi la realtà e una cuffia in testa per tenere la giusta distanza: a Kei non serve altro, non serve nessuno. Neppure un padre.

Indipendente è l'aggettivo giusto. E in prima media si è già infiltrato sottopelle, come un tatuaggio enorme, che tutti riescono a vedere anche se non con gli occhi.
 

Indipendente. Kei se lo ripete come un mantra, mentre si abbraccia le ginocchia e ci nasconde in mezzo la faccia, raccolto su se stesso, compresso.  Indossa la solitudine come un guscio di lumaca e continua a ripetersi quella parola.  Indipendente. Indipendente. Indipendente. 

Le cose, a furia di dirle, diventano vere.


A dodici anni compiuti, gli spazi ristretti gli piacciono ancora. Non più perché sono intimi, ma perché sono privati, e quindi sono sicuri.

Sicuro è mille volte più importante di intimo ed è senza il minimo dubbio l'aggettivo giusto.

Dodici anni è l'età in cui ha capito una cosa importante: che comunque te la raccontino, la vita è uno di quei giochi d'azzardo in cui conta molto il culo e pochissimo la strategia.

Kei, sarà perché è così magro, di culo ne ha sempre avuto troppo poco; deve puntare tutto su quel po' di strategia.

Per esempio: se ci tieni a sopravvivere ogni giorno all'ordalia sociale che chiamano scuola, devi trovarti un rifugio. Uno spazio qualsiasi nel complesso scolastico che possa diventare privato, in cui chiudersi dentro e stare da soli. Sfogarsi, se serve. Piangere a dirotto. Incazzarsi fino a diventare viola. Tutte le reazioni emotive che nessuno deve vedere, e neanche sospettare, ma che, a negarsele, si finisce per non controllare più la pressione interna.

Il rifugio di Kei all'Amemaru è uno sgabuzzino nel seminterrato, poco più grande di un ripostiglio e ingombro di tutti gli scarti polverosi dei club scolastici aboliti e dimenticati.


Chiuso nel suo rifugio, Kei sta piangendo. E non sa bene per cosa; questa volta ha l'imbarazzo della scelta. Forse è per la tristezza disumana che gli affonda piano piano in gola, ostacolando i respiri, o per quella ruvida autocommiserazione che irrita i nervi infiammati e tende ancora di più tutti quei lacci gettati a caso fra il cuore e la nuca, fra l'anima e la pelle. 

Sprovveduto è l'aggettivo giusto, ma anche idiota andrebbe benissimo.


Fino a poco tempo prima, Kei si guardava nudo allo specchio ogni mattina, prima di asciugarsi. A un certo punto quel riflesso ostinato ha iniziato a infastidirlo.

Non è una questione estetica, no. E' proprio un problema di convivenza.

Chi è quel tizio indisponente, con le costole in evidenza, le braccia scarne, gli occhi inquisitori? Che vuole? Che ne sa di quanto è dura là fuori?

Kei cerca se stesso tra le gocce di condensa che gli rigano il viso e mostra il dito medio al frignone dall'altra parte, che subito gli restituisce la cortesia.

«Ti capita mai di non riconoscerti?»

Lo ha chiesto ad Akiteru una domenica d'agosto, con il ronzio del ventilatore a fare da basso a un'acuta sinfonia di cicale. Quando è a casa in vacanza dall'università, Aki si sveglia prima del solito e prepara la colazione per il fratello. Kei finge di non capirlo e il più delle volte neanche si siede a tavola.

Quel giorno si è seduto.

Dopo la domanda di Kei, Akiteru ha abbassato le bacchette e ha sollevato gli occhi, a guardarlo. Ha sbattuto le palpebre due volte, ha piegato la testa di lato, come un piccione. E poi ha fatto quella faccia.

Quella faccia preoccupata, affettuosa, vagamente amareggiata, con due piccole rughe ai lati degli occhi e le labbra strette. E' l'espressione di chi vorrebbe disperatamente capire, e aiutare, e abbracciare e chissà che altro verbo che implica violazione di spazi personali. L'espressione di chi vorrebbe ma non riesce, vorrebbe ma non osa.

Kei ha distolto lo sguardo. «Lascia perdere» ha concluso, senza la minima inflessione di disappunto.

«No. Aspetta. Aspetta, Kei. Che intendi?»

Kei si è stretto nelle spalle. «Non lo so nemmeno io» ha risposto, senza mentire. «Qualche volta al mattino mi guardo allo specchio e siamo già in troppi.»

Akiteru ha solo accennato al gesto di sporgersi a scompigliargli i capelli, ma si è bloccato subito, con la mano a mezz'aria; invece ha riso. Ha detto a Kei che quattordici anni sono troppo pochi per diventare un misantropo.

Kei si è domandato se misantropi si nasca o si diventi. E comunque, fra un mese sono quindici.

«C'entra il sesso?» ha chiesto Akiteru subito dopo, fissando il motivo shippo ricamato sulla tovaglia, i sette gioielli del buddismo finiti sotto le loro macchie di unto e di salsa di soia.

«Davvero, lascia stare, non è importante» ha risposto Kei svogliato.

Però, come al solito, sparando a caso, Aki ha colto il bersaglio, anche se stavolta solo ai margini. Perché quello che Kei avrebbe voluto chiedere esattamente è: come si tiene a bada questo corpo indisciplinato? Come lo si soddisfa senza che diventi troppo esigente? Come si fa a farci entrare dentro, letteralmente, un altro essere umano e poi essere sicuri di non avergli trasmesso niente? O che non ci lasci qualcosa e ti contamini, ti cambi?

Ma non sono domande che si senta di rivolgere a suo fratello. A parte l'imbarazzo, lo metterebbe in crisi: Aki penserebbe subito alle malattie veneree, ai preservativi, al bullismo e solo dopo arriverebbe al reale significato di "farci entrare dentro qualcuno" e lì gli si incepperebbe il cervello definitivamente. Kei non se la sente di fargli una cosa del genere. E non ha nessuna voglia di starsene lì buono a subire un'inquisizione.

Un giorno, prima o poi, gli dirà tutto.

Akiteru intanto è rimasto a fissarlo. «Ce l'hai scritto in faccia che è importante. E sai una cosa? A quattordici anni il sesso c'entra sempre.»

«Che c'è? Vuoi farmi una lezioncina? L'ape e il fiore?»

«Se servisse, Kei...se volessi chiedermi qualsiasi cosa, sai che io... da quando papà...voglio dire, io per te...»

Kei ha interrotto quello sproloquio con uno sbuffo sonoro e si è alzato da tavola. La sua ciotola di macedonia è ancora quasi piena, al pane tostato ha dato solo un morso, i pancake sono intonsi e ormai freddi. «Grazie per la colazione, onii-chan» ha detto.

«Quale? Quella che non hai mangiato?»

Kei non ha risposto, invece si è messo a infilare gli avanzi in un contenitore di plastica. Il rimorso e il senso di colpa sono scattati dentro di lui come le alette di plastica di quel coperchio, e gli hanno intrappolato la voce. Lontano è l'aggettivo giusto.


Sette mesi dopo Kei ancora non si riconosce, ma nudo allo specchio non si guarda più. 

E adesso è lui a piangere. Forse da qualche parte c'è uno specchio appannato e un altro se stesso che guarda le gocce di condensa che gli scorrono sul viso e lo deride.


Negli ultimi sette mesi sono successe tante cose: la Amemaru è arrivata ai quarti di finale del torneo di pallavolo della prefettura; Tsukishima Kei si è classificato quinto nella graduatoria di merito della scuola (Yamaguchi Tadashi undicesimo); le scarpe da pallavolo comprate lo scorso aprile sono diventate troppo piccole di quasi due misure; Kei ha imparato a fare la lavatrice. E Shinoyama Shuto non è più un estraneo. Le ultime due sono collegate.

Tanto per cominciare, Shinoyama è uno stronzo. Kei l'ha sempre saputo ma, poiché qualche volta lo pensa anche di se stesso, ha deciso che una certa indulgenza fosse dovuta.

Come sia iniziata fra loro è difficile a dirsi. A un certo punto, in un momento imprecisato dopo il ritorno dalle vacanze estive, si sono adocchiati a vicenda.

Kei ha iniziato a sentirsi lo sguardo di Shinoyama sulla nuca, durante la fila per la mensa. Un giorno si è voltato e lo ha visto spiccare sopra un mare di teste, tutte molto più in basso. Shinoyama gli ha mostrato il dito medio. Kei ha sbadigliato, con gli occhi socchiusi e la mano educatamente davanti alla bocca.

A fine ottobre, Kei è capitato a una gara di nuoto: l'unica cosa che ha guardato per due ore è stato il corpo seminudo e bagnato di Shinoyama, il modo in cui il torace si allarga a partire da una vita stretta quasi quanto la sua, il profilo delle braccia, le mani grandi, i rilievi degli addominali, la curva della nuca, la linea delle spalle, il movimento ipnotico dei dorsali durante lo stretching prima di entrare in vasca.

Tutto materiale per le squallide seghe del mattino, il tributo quotidiano che Kei paga alla sua adolescenza inquieta. E' sempre quel corpo che ha in mente, mentre soddisfa il proprio. Un corpo perfetto, senza una faccia sopra, perché le fantasie erotiche di Kei sono semplici, pratiche, finalizzate al banale scopo di venire, magari senza combinare un casino sul materasso. La complicazione di una faccia, ancorché bella, non serve.

Qualche volta, Kei si sente schizofrenico: il tizio triviale che si masturba furiosamente tra le lenzuola o sotto il getto d'acqua calda della doccia non può essere lo studente modello che colleziona haiku, legge romanzi francesi e riflette sui massimi sistemi. Eppure quei due convivono, con un fragile accordo di non belligeranza basato su orgasmi privati e su un mondo onirico sfrenato e lubrico, di cui Kei non parlerebbe nemmeno sotto tortura.

A quella gara di nuoto, Shinoyama è arrivato primo.

«Complimenti» gli ha detto Kei, con scarsa convinzione.

«Grazie... Tsukishima, vero?»

Rispondere non serviva, era ovvio che sapesse perfettamente il suo nome.

«Ti è piaciuta la gara?»

Kei si è spinto su gli occhiali sul naso con due dita. Ha infilato la mano in tasca. E poi ha guardato Shinoyama. Tutto Shinoyama, risalendo lentamente con lo sguardo dai piedi, alle gambe, al costume che non lascia molto all'immaginazione, fino alle labbra e agli occhi.

«Sì» ha risposto.

Shinoyama ha sfoderato un sorrisetto, i suoi occhi allungati e nerissimi si sono fatti affilati, ma non ha detto una parola. Kei si è tirato su le cuffie sulle orecchie e se n'è andato.

A gennaio Shinoyama si è presentato ai quarti di finale dell'interscolastico di pallavolo. Ci è venuto con una ragazza carina, che per tutto il tempo gli è rimasta spalmata addosso, come fosse fluida, mentre le mani di lui raggiungevano ogni lembo di pelle nuda con un'avidità così ostentata da risultare ben poco credibile. Era un'imitazione scadente di passionalità, fatta apposta perché il messaggio arrivasse a Tsukishima forte e chiaro: certe cose solo di nascosto.

Kei lo ha pensato esattamente in questi termini, nella sua testa: certe cose. Poi ha pensato che si sarebbe meritato uno schiaffo. Certe cose. Quali cose?

Tsukishima Kei detesta mettere in piazza la sua vita privata. E non ha la minima intenzione di avere una relazione di lunga durata con Shinoyama Shuto. Ma neppure gli piace questo modo subdolo di dissimulare: tenere riservati i propri fatti di letto è sacrosanto, ma nascondere se stessi dietro un dito, o dietro due tette enormi nel caso specifico, è insieme una fatica inutile e una vigliaccheria.

Forse doveva capirlo lì. Quando, dal campo, ha visto chiaramente le dita di Shinoyama fare pressione sul ginocchio nudo della ragazza e il sorriso di lei ghiacciarsi per un attimo. Ha letto il disagio nell'ombra di quei gesti, e lo ha consapevolmente ignorato. Che a Shinoyama stesse benissimo il nuovo taglio di capelli, un po' scompigliato, è l'unica cosa che ha voluto notare quel giorno.

La Amemaru ha perso ai quarti di finale. Shinoyama non gli ha rivolto la parola, la ragazza lo ha salutato dagli spalti con la mano, come se lo conoscesse.

A febbraio ha nevicato forte e Shinoyama è andato a sedersi al tavolo di Kei in mensa.

Di solito, pranza con la squadra. Anzi, tutto quello che fa lo fa con la squadra: ha sempre un paio di sgherri alle calcagna. Kei si è chiesto se ci scopi ma si è risposto di no o non avrebbe quell'aria perennemente affamata.

Il giorno che si è seduto al tavolo di Kei, comunque, Shuto era solo. Fuori c'era mezzo metro di neve, ma lui portava la tuta della scuola con la felpa slacciata. Tenendo il vassoio con una mano sola, con l'altra ha scostato la sedia, all'improvviso, in uno stridio molesto che ha fatto sobbalzare Yamaguchi.

«Ciao» ha esordito, strafottente, sedendosi. Si è rivolto a Tadashi, chinandosi verso di lui e ignorando Kei. «Sei la sua ragazza?»

Yama è arrossito fino alle orecchie. Ha annaspato, cercando un appiglio inesistente nello sguardo piatto di Kei dietro le lenti.

«Allora?» ha incalzato Shinoyama. Ha ridacchiato, ma non c'era niente di simpatico nella sua espressione.

«No! Io...no! Certo che no! Io non... »

«Tu cosa?»

«Io non... »

«Te ne frega qualcosa?» è intervenuto Kei, prima di lanciarsi in bocca una rondella di carota bollita, come se nulla fosse.

Shinoyama ha accennato un sorrisetto. «Magari sì.»

«Ma io e Tsukki non... »

«Urusai Yamaguchi!»

«Gomen, Tsukki.» Tadashi ha abbassato lo sguardo e si è ammutolito.

«Ma che cagnolino obbediente. Vediamo se funziona anche con me: levati dalle palle, Yamaguchi!» gli ha ordinato, con il tono categorico di un addestratore.

Kei ha tirato un respiro sommesso e ha continuato a masticare, evitando di proposito di guardare verso Yama, anche se la mano di lui che tremava aggrappata al bordo del vassoio non ha potuto fare a meno di vederla. Ha scelto l'egoismo, però. Ha scelto il silenzio.

A parlare ci ha pensato Shinoyama: «No, non funziona. Peccato. E' uno di quei cagnolini fedeli che obbediscono solo al padrone. Allora diglielo tu, Tsukki, di lasciarci in pace.»

«Mi chiamo Tsukishima» ha chiarito Kei, acido.

E in quel momento, si è sentito spaccato a metà. Perché se è vero che Shinoyama sta facendo lo stronzo più di quanto sia tollerabile e si meriterebbe di essere rimesso al suo posto, è anche vero che lo sta facendo per mettersi in mostra. Per mettersi in mostra con lui. E non si può dire che la cosa gli dispiaccia. Gli dispiace semmai che a farne le spese debba essere il suo migliore amico.

Quando ha alzato gli occhi, ha incrociato quelli amareggiati di Yama. «Potresti andare avanti? Ti raggiungo in classe. Per favore, Yama.»

Yama si è morso il labbro e poi ha esalato un lungo respiro sonoro. Ha appoggiato le bacchette sul piatto, dal bicchiere d'acqua trasferito di colpo sul vassoio sono piovuti spruzzi tutt'intorno. Infine, si è alzato di scatto, voltando loro le spalle.

«Ciao ciao, Yamaguchi!» ha salutato Shinoyama in un falsetto derisorio.

Kei sa benissimo che chiunque altro per una condotta così meschina gliela farebbe pagare cara, ma la gentilezza di Tadashi non conosce rancore e il suo affetto supera l'amor proprio. Mentre si allontanava con il vassoio in mano, anziché offeso, deluso o incazzato nero, come avrebbe avuto tutto il diritto di essere, Yama gli ha lanciato uno sguardo sinceramente preoccupato.

«Sei uno stronzo» ha comunicato Kei a Shinoyama.

«Lo so.» Shuto ha sorriso come fosse un complimento.

«E quindi? Ora che mi hai importunato mentre mangio e hai costretto Yamaguchi ad andarsene, te ne stai zitto come un idiota?»

Shinoyama, per tutta risposta, ha allungato le bacchette verso il bento di Kei, la cui reazione fulminea è stata spostarlo fuori portata. 

«Non ti azzardare.»

«Permaloso» ha osservato Shuto, critico.

«Anche pericoloso e molto irritabile» ha rincarato Kei.

«Quindi quali sarebbero le tue qualità, Tsukishima?»

Il sarcasmo di Kei è affiorato dal disappunto, più affilato che mai. «Avere un bel culo? Non fai altro che tenerci sopra gli occhi.»

Lo ha detto a voce alta e Shinoyama si è guardato intorno preoccupato, anche se nessuno prestava attenzione a loro due. Si è sporto verso Kei, attraverso il tavolo, con i gomiti premuti sul ripiano di formica. «Se lo dici a qualcuno ti ammazzo.»

«Cosa?»

Sono rimasti a guardarsi: Kei a braccia conserte, appoggiato allo schienale, armato del solito sorrisetto odioso e Shinoyama proteso verso di lui, le mani aperte ai lati del vassoio.

Kei si è sentito improvvisamente in vantaggio. Con la stessa chiarezza con cui avverte i risultati esatti e i conti che tornano, ha compreso che il rapporto di forza fra loro due è sbilanciato a suo favore. Non se lo aspettava.

Shinoyama non è stupido, ma i suoi punti deboli sono esposti come marchi visibili sulla pelle, come bersagli, tessuti molli sui quali basterà esercitare anche solo una piccola pressione per averlo in pugno.

In tutta onestà, Kei aveva sperato l'esatto contrario. Nell'ammetterlo a se stesso si è reso conto che era una speranza stupida e rischiosa, eppure è una punta acida di rammarico quella che manda giù prendendo atto di come stanno le cose.

Se non altro, è bello da far schifo. Così, da vicino, con gli occhi aggrottati, la tensione scolpita nella mascella squadrata, le labbra socchiuse, una vena del collo in rilievo, gli è parsa la materializzazione di tutte le più sconce fantasie erotiche del repertorio Tsukishima.

«Rilassati» ha intimato Kei, in un sussurro perentorio.

Shinoyama si è fatto indietro ed è tornato a sedere composto. Si è infilato in bocca un pezzo di cotoletta e ha preso a masticare con foga.

Anche le sue mani sono belle, strette sulle bacchette con forza visibile e sproporzionata. All'improvviso ha sollevato su Kei due occhi feroci, forse anche eccitati. «Non ho ancora capito se ti va o no che scopiamo.»

«Romanticismo come se piovesse... »

«Che cazzo vuoi, Tsukishima? Un anello?»

Kei ha scosso la testa, con un broncio annoiato. «Okay» ha concesso, appoggiando le bacchette sul vassoio. «Scopiamo. Ma devi stare alle mie regole.»

Shinoyama ha sgranato gli occhi come piattini da tè, perché sul serio quel biondino attizzacazzi è una mina vagante. E anche se è vero che ha un culo da infarto e che non vede l'ora di sfondarglielo, quello che Shuto desidera più di tutto è cancellargli dalla faccia il ghigno di sfida, l'aria di superiorità, la piega strafottente delle labbra. Lo sa bene lui cosa ci va messo, in quella bocca, per riempirla e tenerla occupata come si deve.

«Me ne fotto delle tue regole!»

«Allora stai a vedere che ti fotti solo quelle... »

Shinoyama ha tracannato acqua come se fosse alcol e servisse a calmarlo. Gli occhi lucidi, le guance arrossate, sta tentando di opporre ancora un po' di resistenza, ma Kei sa che presto cederà e che alla fine sarà lui ad avere il controllo.

Dominante, è l'aggettivo giusto, e Kei non capisce se gli piaccia o meno.


Kei sprofonda la faccia fra le ginocchia. Sente le lacrime scivolargli lungo le gambe. Sono lacrime di frustrazione e di rabbia, ma anche stupide lacrime di delusione. Perché in fondo, se l'è proprio cercata. Perché ha commesso un errore di valutazione dietro l'altro.

Davvero, avrebbe dovuto capirlo alla partita. O al tavolo della mensa. O in libreria. O l'altroieri, alla fermata dell'autobus. E invece ha pensato di poter passare sopra al suono degli allarmi interni, alla voce della ragione. Ha dato a quel suo corpo avido e irragionevole così poca importanza da credere che non servisse difenderlo. Che non gli occorresse null'altro che essere strofinato, leccato, succhiato, soddisfatto. Come se la pelle, la carne e i nervi non fossero collegati a tutto il resto, come se potesse separarli dal cervello. 

Ingenuo è l'aggettivo giusto, e fa discretamente male.


Che dovesse succedere il giorno dei diplomi, lo ha deciso Kei. E' l'unico giorno in cui tutti si fanno trascinare come pecore da una cerimonia priva di senso a un'altra: dall'aula, al cortile, al piazzale, alle sedie ben disposte in palestra.

L'unico giorno in cui i campi da gioco, gli edifici secondari, la piscina sono vuoti.

E gli spogliatoi della piscina, di cui Shinoyama ha la chiave, gli erano sembrati un posto perfetto.

Kei sentiva di avere tutto sotto controllo, imprevisti compresi. Persino l'aspetto meramente fisico della faccenda. Si era organizzato, ci aveva pensato su, aveva studiato la meccanica fin nei minimi dettagli, aveva stabilito con precisione assoluta quali fossero i limiti. Aveva analizzato così tanti possibili copioni (tutti con pochissima sceneggiatura verbale) pche ormai, fra farlo con Shinoyama e masturbarsi nella doccia immaginandosi di farlo con Shinoyama, la differenza era minima.

Questo pensava Kei, mentre Shuto lo tirava per il polso oltre la soglia, fingendo che fosse un'iniziativa propria.

Pensava ancora a questo quando la chiave ha girato nella toppa e si è sentito addosso le mani dell'altro e le sue labbra, quando ha iniziato a scaldarsi, a eccitarsi e a tremare di anticipazione.

E però, allo stesso tempo, gli sembrava di riuscire a guardarsi dall'esterno.

Si è persino detto, mentre Shinoyama gli sfilava il blazer dell'uniforme dalle spalle e le sue mani gli si infilavano un po' ovunque sotto la camicia, che visti dall'esterno, come coppia, dovevano essere uno spettacolo estetico notevole.

«Niente segni!» ha sibilato, ribellandosi alla fitta di piacere dei denti di Shinoyama affondati nella spalla. Niente segni: è una delle regole.

«Fanculo Tsukishima» ha reagito Shuto. Ma ha obbedito, si è scostato e ha iniziato a spogliarsi, con mani ansiose e occhi impazienti.

Kei si è tolto pigramente la camicia e la maglietta e si è preso il tempo di guardare Shinoyama. Sotto i boxer aderenti, il profilo del sesso indurito forma una curva lasciva. Una macchia umida più scura disegna la punta, il cui contorno si intuisce in rilievo sotto la stoffa. Kei adesso vuole toccarlo, più di quanto abbia mai desiderato qualsiasi cosa.

Toccarlo, essere toccato. Venire. Come nella doccia, ma meglio, di più. E' bastarda la potenza di questa biologia, che non fa sconti a nessuno, nemmeno a chi le cose finisce per farle contro natura. Kei è sempre più convinto che la natura non abbia affatto una direzione.

Shinoyama smette di ragionare quando vede Kei leccarsi le labbra, la lussuria gli colora le guance e gli accorcia il respiro.

«Che ne hai fatto degli occhiali?» domanda, mentre lo ghermisce alla vita.

«Lenti a contatto. Dobbiamo fare conversazione?»

«Ah vuoi essere scopato e basta?»

«Perché, tu che cazzo vuoi, Shinoyama? Un anello?»

E' indisponente Tsukishima Kei. E' fastidioso, sempre un passo avanti. Ma ormai Shuto riesce a pensare solo al suo culo, alle natiche tonde, al solco lì in mezzo. A quella schiena bianchissima, che non vede l'ora di coprire.

Gli assalta le labbra, gli infila la lingua in bocca, lo tocca dovunque le mani possano arrivare.

Kei lo lascia fare, e intanto pensa. Non c'è un cazzo da fare, i suoi pensieri non si fermano mai, neppure in mezzo alla saliva, ai risucchi, al calore di quello che, a tutti gli effetti, è il suo primo bacio.

Kei è convinto che la gente normale in questi casi si lasci andare e perda il controllo.

E si stupisce, davvero, si stupisce, che il suo sesso stia per scoppiare fra le dita di Shinoyama, che gli escano respiri strozzati e miagolii ridicoli dalla gola, e in tutto ciò possa stare lì a ragionarci sopra. A chiedersi se e quanto farà male. Se è normale che la saliva di qualcuno sia così densa e così calda. Se dovrebbe sapere di qualcosa di buono, perché, a dire il vero, non sa di niente.

Shinoyama, almeno, sembra perduto. Ha gli occhi chiusi, mugola e intanto gli spinge il bacino addosso, ripetutamente. Quando Kei gli sfiora il sesso con la punta delle dita, da sopra i boxer, trema tutto, geme senza ritegno e gli blocca il polso, per trattenerlo, per forzare il contatto, per sfregare il palmo aperto su tutta la lunghezza. Praticamente si masturba con una mano presa in prestito, a ogni tocco il suo sesso pulsa e si contrae.

«Se vieni adesso ti ammazzo» ringhia Kei, divincolandosi.

E forse esagera, perché gli occhi di Shinoyama si accendono, si libera in un attimo dei boxer e lo afferra da dietro, strofinandogli il cazzo duro contro la schiena, senza ritegno.

Kei sente uno spasmo orribilmente piacevole in mezzo alle gambe, e quell'ossimoro si amplifica nel suo cervello mentre due mani calde lo denudano. Orribilmente piacevole.

Cosa manca? si chiede mentre Shinoyama gli stringe e gli separa le natiche e una voce che non sembra la sua articola suoni a caso.

Cosa cazzo manca? continua a chiedersi mentre un fiume di lubrificante freddo gli cola lungo le cosce e le dita di Shinoyama, prima una sola e poi due, gli incendiano il corpo dall'interno, con uno sciacquio liquido e indecente.

E fa male. E' proprio dolore. Eppure al suo corpo non dispiace. Eppure gli va incontro con il bacino, una fitta bruciante dopo l'altra. Eppure vorrebbe di più, eppure il sesso pulsa e si contrae, gonfio di sangue. E' tutto giusto, ma in qualche modo perverso è anche tutto sbagliato.

E Kei vorrebbe solo che finisse. Come sotto la doccia, con un bell'orgasmo riparatore, fiotti di sperma denso sul metallo lucido degli armadietti e ognuno via per la sua strada, che poi è l'ultima regola: una volta sola.

Kei volta il viso, Shinoyama ha uno sguardo da idiota, sembra incantato a godersi lo spettacolo del suo culo e delle dita che ci spariscono dentro.

«Muoviti!» gli ordina Kei. Spettinato, sudato, le maledette lenti a contatto che gli navigano nelle pupille, perché in una situazione del genere doversi togliere gli occhiali e non vederci un cazzo era inammissibile. Lo vuole proprio vedere un cazzo stavolta. Ne vede due. E gli sembrano così simili che per un attimo tutto perde di senso e l'unica mossa possibile gli sembra quella rassicurante di darsi piacere da solo.

«Muoviti» biascica, di nuovo, mentre si tocca e cerca di ignorare il dolore.

Shinoyama reagisce a quella visione con un suono che sembra un ansito di disperazione. Si afferra il sesso e lo stringe forte alla base, per impedirsi di venire, poi lo allinea con quell'apertura piccola e contratta e cerca di fare esattamente ciò che sogna di fare da sei mesi. Spaccare, sfondare, riempire.

Ma anche per lui è la prima volta. E non ha tempo. Non resisterà molto. Non ragiona, non ha un solo pensiero in testa né un grammo di ossigeno fra le sinapsi: tutto il sangue che ha in corpo è confluito fra le gambe; nel suo cervello c'è un biancore accecante e insensato.

Vorrebbe entrare e spingere ma non ci riesce. Il maledetto buco del maledetto Tsukishima è scivoloso e lo respinge. Shuto afferra i fianchi di Kei per tenerlo fermo e prova ancora, con frenesia e con disperazione. Gli sembra di esserci quasi, ma di nuovo scivola fuori e il sospiro di frustrazione che esce dalla gola di Kei lo incattivisce. Perché lui stesso è frustrato e anche duro come il marmo e se non si dà una mossa, gli verrà sulla schiena come uno stupido dodicenne.

Per un attimo pensa di tirarsi indietro. Di scopargli le cosce e finire in dieci secondi scarsi. E poi imboccare la porta e fuggire. Ma quello continua a voltare la testa e guardarlo con un'arroganza insopportabile.

E allora Shuto vede nero. Lo copre, letteralmente, gli afferra tutto il torso con un braccio e l'altro gli finisce intorno alla gola, la mano aggrappata alla spalla, le unghie nella pelle; inizia a spingere a caso, facendo forza, senza curarsi di quale sia l'ostacolo.

Gli ansima nei capelli, gli preme il petto contro la schiena, spinge con le braccia finché la fronte di Tsukishima non sbatte contro l'armadietto numero sedici...

«Lasciami!» abbaia Kei all'improvviso.

«Zitto...» mugugna Shuto continuando a muoversi.

«Lasciami adesso!»

Shuto non si fermerebbe neppure se entrasse sua madre dalla porta. Sente di esserci vicino, che la punta sta entrando, che l'attrito del preservativo contro la carne, dentro quella fessura rovente, è una delle cose più erotiche mai provate.

Finché lo stronzo di Tsukishima non lo morde. Forte, sul braccio. E poi un gomito incredibilmente appuntito gli arriva dritto fra le costole, facendolo guaire e piegare in due.

«Ti ho detto di lasciarmi!» sibila Tsukishima, con gli occhi fiammeggianti. Si volta e lo spinge via a due mani, con una violenza sproporzionata a un corpo così esile.

«Sei uno stronzo incapace» gli sputa addosso Kei, infilandosi i boxer sopra un'erezione enorme e insoddisfatta.

Shinoyama, nella più assoluta confusione mentale, balbetta insulti e ripiega su una sega frenetica. Tsukishima si riveste in fretta dandogli la schiena, che è un pasticcio umido di saliva e lubrificante.

Quando la porta sbatte, Shinoyama viene schizzando sperma contro il battente. Congratulazioni per il tuo diploma, Shinoyama Shuto. Grazie per il tuo duro lavoro.

Mentre si chiude dentro il suo sgabuzzino e si accascia nel buio, strappandosi le lenti dagli occhi e i vestiti sporchi di dosso, Kei vede con chiarezza la verità. Non più coperta di lussuria, di narcisismo e di arroganza è tutto sommato ovvia: farselo mettere nel culo, in qualche modo significa fidarsi. E quindi non si può scegliere un tizio a caso, solo perché te lo fa venire duro strizzato in un costume da bagno. Perciò, dopotutto, aveva ragione Yamaguchi: ci voleva uno meno stronzo.

All'amore Kei non ci crede. Crede alla biochimica, capace di tenere in ostaggio per mesi un cervello inondandolo a fasi alterne di dopamina e adrenalina, un genere di tossicodipendenza che non ci tiene a sperimentare.

Non crede all'amore, ma al rispetto ci crede. E in questo caso, non ne ha avuto abbastanza per se stesso. E in fondo l'errore è tutto qui.
Tsukishima Kei sbaglia, ma mai due volte nello stesso modo. Sbaglia, ma va avanti sempre.

Le lacrime arrivano quando si rende conto che non sa più neanche se debba considerarsi vergine o meno. Esiste una mezza misura? Inculata parziale per sopravvenuto disgusto e manifesta incapacità. Sembra una diagnosi.

La malattia è l'adolescenza. Che fa davvero schifo.

Merdoso, è l'aggettivo giusto, realizzato fra un singhiozzo e l'altro.


Alla fine passa. Passa come un'onda di maremoto, che lascia dietro di sé rottami e cadaveri, ma a un certo punto si ritira e l'oceano non è mai stato così calmo.

Passa. E Kei può soffiarsi il naso con la camicia bianca dell'uniforme di una scuola che sta per lasciare. Può infilarsi gli occhiali. Indossare la tuta di ricambio. Ravviarsi i capelli con la mano. Può alzarsi e rimettersi addosso la sua solita faccia scontrosa.

Passa. E Kei scopre di aver imparato qualcosa di nuovo, di aver fatto un lungo, faticoso passo avanti. Di essere più forte. 
Strappa via la coccarda del diploma dal risvolto della giacca e se la getta alle spalle; finisce nella polvere insieme alla verginità, accanto a una mazza da croquet scrostata e un vecchio ferro da calza.

Cresciuto è l'aggettivo giusto.

 

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Capitolo 36
*** Buon Natale ***


36 - Buon Natale


24 dicembre 2012

Festeggiare Natale in un'orgia di addobbi, regali e buonismo è il tipo di stupida deriva occidentalista che Tsukishima Kei, dall'alto dei suoi arroganti sedici anni, giudica esecrabile. Di solito trascorre la vigilia a spegnere gli entusiasmi altrui, a sbuffare e a studiare con accanimento, sforzandosi di renderla una serata qualsiasi.

La parola qualsiasi, però, da quando c'è di mezzo Kuroo, è stata bandita per sempre.

E' un buco nero, Kuroo, una singolarità quadridimensionale che esercita su ogni cosa un'attrazione invincibile; tutto ciò che lo attraversa si trova inevitabilmente costretto al mutamento. Si gonfia, si deforma, acquista significati profondi e insospettabili, esplode di colori nuovi. E questo senso di metamorforsi continua, di irripetibilità che lo scemo infonde a ogni singolo momento, riesce a tenere le corde di Kei in perenne vibrazione, sempre al confine fra la difensiva e lo stupore, fra la negazione e il desiderio.

Voce del verbo sentirsi vivi.

Kei si sente vivo. VIVO, maiuscolo, grassetto.

Più vivo che mai quando sono insieme, anche in due continenti diversi, nelle immagini sempre troppo sgranate di uno schermo, mentre tutt'intorno il mondo palpita e sussurra. Vivo quanto basta il resto del tempo, in un fremito sottile, a bassissima frequenza, che scandisce la misura dell'attesa.

E in questa vigilia di Natale, diversa da ogni altra prima, Kei sta appunto fremendo nell'attesa, frequenza bassa, ma non bassissima. Seduto alla scrivania, con le cuffie in testa e un libro aperto di fronte, sgrana i minuti e lascia passare le ore, un po' studiando e un po' gettando lunghi sguardi obliqui al telefono e ai tre pacchetti infiocchettati lì accanto. Ogni tanto si sorprende a fluttuare in un limbo di immagini melense a metà fra il sogno e il ricordo e allora sbatte la fronte contro la scrivania e si insulta a mezza voce. Ridicolo. Patetico.

Lo scemo è in Francia: con sette ore di fuso, i suoi orari si sono fatti imprevedibili, ma ormai la cavia Tsukishima è perfettamente addestrata: sbava senza pietà, per tutto il tempo.

Il telefono vibra alle 23:16 e Kei risponde al secondo squillo, solo perché al primo gli tremava troppo la mano.

«Ciao Tsukki!»

«Ciao scemo.»

Si guardano, qualche attimo, fingendo che sia per stabilizzare l'immagine, e invece è per godersi i dettagli, scoprire mutamenti impercettibili, sorridere del sorriso dell'altro più che del proprio. E' il volto gentile della nostalgia, l'unico che ancora conoscono.

Tetsurou occhieggia la stanza alle spalle di Kei: solo la luce sulla scrivania è accesa, tutto il resto è scivolato nel buio e nel silenzio. «Movida dalle tue parti, vedo. Facciamo in fretta così poi vai a spassartela!»

Kei mostra il dito medio. Kuroo risponde con una faccia cretina e cuoricini fatti con i pollici e gli indici.

«Come stai, Kei?»

Quando lo chiede lui non è mai una domanda banale. Perché ha tanti livelli e il più profondo non passa dalle parole.

«Come uno che è stato tirato giù dal letto alle otto di mattina in un giorno di vacanza. Per colpa tua.»

Il sorriso obliquo di Tetsurou fa sponda negli occhi e va in buca dritto nello stomaco di Kei. «Mio cugino è mattiniero, forse mi ero dimenticato di dirtelo... vuoi ancora farci amicizia?»

«Ci tieni che faccia amicizia con uno che ha il cellulare pieno di foto del mio culo prese dagli spalti?»

Nello sguardo di Kuroo le emozioni si mischiano come correnti oceaniche, a diversa temperatura. «Cazzo! Non le ha cancellate?»

Kei scuote il capo schioccando la lingua. «Vuole ricattarti. Finalmente ora so chi era lo stalker che hai mandato alle partite di agosto, per poi venire da me a ottobre a fare lo splendido... foto molto tecniche, non c'è che dire...»

«Okay, lo ammazzo. Scusa, Tsukki. Davvero. Aveva promesso di cancellarle.»

«E tu le hai cancellate?»

«Devo farlo?»

La falsa noncuranza è un abito comodo, Kei fa spallucce. «Perché dovrebbe fregarmene qualcosa, è solo un culo. Dentro ai pantaloni della divisa, tra l'altro.»

«Quindi posso metterlo come sfondo sul telefono?»

«Crepa!»

Tetsurou ride, gettando indietro la testa. «Culi a parte, almeno ha fatto il suo dovere, mio cugino?»

Kei orienta la telecamera verso i pacchetti e intanto respira la risata di Kuroo, che è più leggera dell'aria e ha un sapore che in natura non esiste.

«Ci tenevo che ti arrivassero il giorno giusto.»

«Perché sei un consumista filoccidentale?»

«Perché non avresti mai resistito dieci giorni senza aprirli, come ho dovuto fare io. E poi... »

«E poi...?»

«E poi...fra poco lo scopri. Lo vedi che sei pessimo ad aspettare?»

«Vedo solo che sei scemo più del solito. Sei anche vestito da scemo, oggi... »

Nessun altro al mondo potrebbe portare quel maglione natalizio da sfigato e riempire comunque il cervello di Kei di pensieri sconci. Stanotte gli torneranno in mente e sarà un casino come al solito.

«Ti piace?»

«E' orrendo.»

«E questa?» chiede, sollevando maglione e camicia e lasciando intravedere la maglietta con l'haiku.

Un sorriso sovversivo, emozionato e un po' timido, sfugge al controllo di Keì. Se Tetsurou non fosse innamorato da un pezzo, si innamorerebbe in quel momento. Allunga la mano verso lo schermo e Kei si avvicina impercettibilmente, per ricevere quel tocco e lì i diecimila chilometri fanno molto male.

«Stai studiando?» domanda Kei, per allentare la tensione.

«Tsukki...rilassati, è Natale!»

«Natale un cazzo. Stai studiando?»

«Guarda che le felpe della Todai te le puoi comprare anche su internet.»

«E il tizio dentro la felpa che ha passato l'ammissione? Sempre su internet? Perché se non l'hai capito ho voglia di scopare con uno che va alla Todai.»

«Io con uno del Karasuno.»

«Mn. Va bene. Facciamo così: io cerco su internet nel negozio delle felpe, tu puoi provare con Suga-san; per me ci sta, se glielo chiedi a modo.»

E chi mai non ci starebbe? 

Tetsurou solleva un angolo delle labbra. «Tsukishima Kei: sei troppo insolente, per essere un mio kohai. Ti devo insegnare un po' di rispetto.»

Il terreno è minato, Kei se lo sente franare sotto i piedi mentre si rifugia nel sarcasmo. «E come pensi di fare, fantastico senpai?»

«Lo vuoi davvero sapere? Adesso?»

Kei frena la deriva di quella conversazione sbattendo le palpebre e ingoiando saliva. «Piantala di fare il deficiente. Vedi di studiare!»

Tetsurou si avvicina alla videocamera, il suo viso enorme e un po' deformato dalla prospettiva è l'unica cosa che Kei vede. Esiste altro?

«Kei.»

«Sì..?»

«Se non passo la cazzo di ammissione...»

«Ti lascio.»

«Davvero?» La nota d'ansia è debolissima, ma presente.

«No. Scemo.»

«Kei...»

«Che cazzo vuoi?»

«Dimmi una cosa carina... »

Vivo appoggiato ai tuoi occhi.  «Fanculo.»

«Anch'io» replica Tetsurou con un sorriso che uccide.

Per fortuna non ha capito un cazzo. Se davvero gli leggesse nel pensiero, lo scemo annegherebbe in un indegno, pietoso sbraco di sentimenti. E lo mollerebbe per quello, se non per l'inesauribile, variegato repertorio pornografico monotematico sulla sua persona. Kei sospira di compassione per se stesso. E un po' di disgusto.

«Sai una cosa? Mi piace da matti questo fatto che stiamo insieme» prosegue Tetsurou, soddisfatto, passandosi la mano fra i capelli e peggiorando la situazione.

«Almeno a uno di noi piace. A proposito, tuo cugino stamattina me l'ha chiesto due volte se stiamo insieme.»

«E tu che gli hai detto?»

«Secondo te?»

«Di andare a farsi fottere?»

«La prima volta. La seconda di chiedere a te. Ma a quanto pare tu gli avevi detto di chiedere a me. Così ha concluso che siamo due imbecilli e stiamo insieme.»

«Un po' è vero.»

«Sei tu che mi rimbecillisci» sbuffa Kei.

Kuroo non riesce a replicare, perché la porta alle sue spalle si apre. Che qualcuno avesse bussato, non se n'erano neppure accorti. Se crollasse il mondo se ne accorgerebbero? Probabilmente no, si troverebbero lì in mezzo alle macerie a chiedersi che cazzo è successo.

Nel frattempo, si è materializzata intorno a Kuroo una stanza che prima non c'era. E' una specie di studiolo rustico: mobili antichi, boiserie, stampe botaniche alle pareti, una vetrinetta carica di porcellane. La luce dorata del pomeriggio si diffonde da un qualche punto dietro lo schermo. Sull'uscio compare controluce una figura un po' curva; sullo sfondo rumori di risate e di vita.

«Te-chan, sei qui?»

«Nonno! Vieni, c'è Tsukki al telefono!»

Kuroo Tomo si avvicina. Ha il passo incerto di chi non ha ancora fatto pace con l'idea di usare un bastone. Aggrotta le sopracciglia e strizza gli occhi nel fissare lo schermo. «Ma che ore sono a Tokyo?»

«Le undici e quaranta di sera» risponde Kei. «Buonasera Kuroo-sama» aggiunge, con un mezzo inchino.

«Ciao Tsukishima-kun. Come stai? Che stanza buia! Mio nipote continua a infastidirti anche in piena notte, vedo. Sarà perché tu glielo lasci fare?»

Tetsurou sorride abbassando lo sguardo. Kei arrossisce. Arrossisce di botto, come non gli capitava da un secolo. La risata spavalda di Tomo è una replica talmente esatta di quella di Tetsurou, che l'istinto di Kei è quello di uscirsene con una sgradevolezza a caso. Si contiene a fatica.

«Buon Natale, Tsukishima-kun» continua Tomo, sorridendo. Si avvicina ancora di più allo schermo. «Fai gli auguri anche alla tua famiglia.»

«Grazie Kuroo-sama. Tanti auguri a lei, da parte mia» risponde, compito.

«Hai già scartato i tuoi regali?» Sembra una domanda interessata.

«Non ancora. Non prima di mezzanotte» interviene Tetsurou, circondando con il braccio le spalle del nonno. «Vuoi che ti chiami quando li scartiamo? Non manca molto... »

Il nonno si volta a guardarlo. Se l'affetto profondo avesse occhi, sarebbero quelli di Tomo sul nipote, allagati di tenerezza. Il riverbero di quello sguardo investe Kei come un'onda di piena, che travolge gli ostacoli e riempie tutte le crepe; una piena che nutre e che ripara.

«Sono sicuro che potete cavarvela senza di me, Te-chan» risponde Tomo, con un buffetto. «Spero che ti piacerà il mio regalo» aggiunge, rivolto a Kei, con una strizzatina d'occhio assai poco confortante.

Kei fulmina Tetsurou con lo sguardo: un regalo di Kuroo Tomo è un'evenienza del tutto imprevista. «Grazie Kuroo-sama. Non doveva disturbarsi» dice, inchinandosi davanti alla videocamera. «Io non avevo idea...Kuroo-senpai non mi aveva detto...»

«Non lo sapevo neanch'io!» si difende subito Tetsurou, alzando le mani. «Ha dato a Toshiro il suo pacchetto senza dire una parola. L'ho scoperto solo oggi, giuro!»

Tomo ride soddisfatto. «Non ti piacciono le sorprese, Tsukishima-kun? Forse no... beh, mi perdonerai.»

Kei risponde con un sorrisetto nervoso e scontento: le sorprese le odia. E odia sentirsi imbarazzato. E non avere una replica pronta. 

E invece ama vedere quei due vicini e riscoprire le somiglianze, quelle ovvie e quelle molto sottili.

«Te-chan, gli hai detto dove siamo?»

Testurou scuote il capo, con un vago broncio di colpevolezza.

«Siamo a casa dei Perrault, da Elly-chan, i tuoi parenti» spiega Tomo. «Piccolo il mondo, vero?»

Kei si irrigidisce e non apre bocca.

Tetsurou appoggia una mano sulla spalla del nonno, in una stretta leggerissima. Tomo sorride e a quella mano ansiosa dà un colpetto rassicurante. «In questa casa ti vogliono tutti molto bene, Tsukishima-kun» prosegue. «Vorrebbero conoscerti. Te-chan mi ha detto che il tuo francese è eccellente.»

«Decente» corregge Kei, glaciale.

«Meglio o peggio dello shogi?» provoca Tomo.

Un Kuroo è già un cattivo affare, due coalizzati sono un maledetto problema.

«Non devi dire di sì per forza» suggerisce Tetsurou, visibilmente sulle spine.

«Te-chan, smettila: Tsukishima-kun non ha bisogno di un avvocato difensore» interviene Tomo. «Più che altro perché questo non è un processo.»

Kei si sente al muro, una cosa che detesta. Ma non è un codardo e non è uno sfigato e quindi lo sguardo di Kuroo Tomo lo regge. Se non fosse così paterno, sarebbe più facile.

«Sapevi che la nonna di Elly-chan e la tua erano gemelle? Gemelle identiche, ci sono diverse foto di là in salotto» prosegue Tomo.

Gemelle.  Kei non lo sapeva. Non sa praticamente nulla. Una crepa lunga e sottile attraversa la sua indifferenza. «No» dice. La voce però non riesce a tenerla ferma come vorrebbe e non si sa bene cosa stia negando.

La mano di Tetsurou rinforza la stretta sulla spalla del nonno.

«Non vuoi neanche salutarli?»

«No, grazie» ripete Kei, spingendosi in su gli occhiali.

«Va bene» concede Tomo, con un sorriso. Le spalle di Tetsurou si abbassano, rilasciando la tensione. Anche lo sguardo di Kei si abbassa, i pugni serrati, con le nocche bianche per lo sforzo, dallo schermo non si vedono.

«Li saluterò io per te. Che ne pensi?»

Kei annuisce con la testa. Sotto lo sguardo di Kuroo-sama si riscopre adolescente, fragile, bisognoso di riconoscimenti e il desiderio latente che avverte, di essere guidato e approvato, gli fa una paura tremenda.

«Okay, adesso è meglio che torni di là oppure Yu-chan, ansiosa com'è, manderà una squadra di ricerca con i cani» ridacchia, battendo la mano sulla spalla di Tetsurou. «Certo è vero che questa casa è immensa... »

Si volta dopo qualche passo, per rivolgersi a Kei: «Ricordatelo quello che ti ho detto prima, Tsukishima-kun. Qui tutti, proprio tutti, ti vogliono molto bene.»

Le parole si posano piano sul tappeto. Kei rifiuta di raccoglierle.

Tetsurou  va a chiudere la porta alle spalle del nonno; mentre cammina, la videocamera inquadra dettagli casuali in movimento, che si fissano nella memoria di Kei suo malgrado: uno stucco rovinato sul soffitto, la nappa dorata attaccata alla chiave di un cassetto, una bambola kokeshi, completamente fuori contesto.  Kei non vuole vedere altro.

«Kei? Si è spento il video. Lo riaccendi?»

«No.»

«Sei arrabbiato con il nonno?»

«No.»

«Sono sicuro che non voleva... »

«Ho detto che non sono arrabbiato» ringhia Kei.

«Non sembra.»

«Non con lui.»

«Con me? E che cazzo ho fatto?»

Non se ne rende neppure conto. Non ci arriva.  «Che cosa non hai fatto. Non hai tenuto chiusa la bocca. Con quella gente non mi dovevi nemmeno nominare! I cazzi miei devi per forza dirli a chiunque? Digli i tuoi, se ci tieni tanto!»

«Kei! Tu sei i cazzi miei. Più cazzi miei di così non si può. Non so più come fartelo capire!»

In mezzo al turpiloquio, Kei ha colto l'innocenza di una dichiarazione d'amore e lì sotto due felpe, una maglietta e dodici paia di costole, il cuore gli si è stretto in una morsa.
Non risponde. Continua a respirare nel microfono.

Neanche Tetsurou ha voglia di parlare. 

Passano almeno cinque minuti di nulla, in cui, di nuovo, Kei si sente a una gara di trattori americani. E si rende conto che perderà. Questa volta. La prossima. Perderà tutte le volte, tutta la vita.

«Ehi» azzarda Tetsurou.

«Che c'è, scemo?»

«Li apriamo i regali? Mancano sette minuti a mezzanotte.»

«Da te sono le quattro del pomeriggio.»

«Il mio orologio fa sempre la tua ora. Io sono dove sei tu.»

Lo dice così, con naturalezza, lasciando scivolare via le parole senza peso. 

«Piantala di fare il buffone!» risponde acido Kei. Ma è troppo tardi.

«Quindi quello non era un vero sospiro?»

«Crepa!»

Tetsurou ride a briglia sciolta, facendo più rumore possibile, per coprire il battito del cuore.

«Li apriamo o no questi regali, Tsukki?»

«Accendi la videocamera, scemo»

L'immagine di Kuroo si ricompone sullo schermo: i capelli gli piovono sulla fronte, gli occhi brillano, una minuscola fossetta, quasi invisibile si apre all'angolo delle labbra. Kei lo detesta e lo adora con uguale intensità. E' una bugia: lo adora e basta.

«Dai prendi i tuoi» propone entusiasta Tetsurou. «I miei eccoli qui» prosegue, inquadrando due pacchetti. Uno è di forma tubolare, incartato con carta washi piegata su un motivo origami a ventaglio, senza neppure un piccolissimo pezzo di adesivo. L'altro è una busta rossa sottilissima, delle dimensioni di una pagina di quaderno.

Quelli di Kei sono colorati e un po' raffazzonati, pieni di adesivi stupidi. Anche lui ha una busta rossa sottile.

«La busta è del nonno» spiega Tetsurou, lisciandola con le dita. «A quanto pare ci ha fatto lo stesso regalo. Dice che gli chiederemo spiegazioni e forse, se facciamo i bravi, ce le darà. Sto citando testualmente.»

«Inutile che mi chieda da chi hai preso.»

Tetsurou sorride come fosse un complimento. E lo è.

«Inizia tu, Tsukki. Parti da quello piccolo. Sappi però che non è un regalo. Tanto coi regali lo sappiamo che fai schifo.»

«In che senso non è un regalo? Lo incarti, mandi  qui il fotografo di culi a portarmelo e non è un regalo?» protesta Kei, mentre inizia a sciogliere il nastro. Tetsurou lo sta guardando esattamente come faceva Akiteru da bambini: colmo di aspettativa, deliziato.

Dentro il pacco c'è la maglia rossa del capitano nel Nekoma, con il numero uno sottolineato. Kei accarezza la stoffa con i polpastrelli e non sa dove guardare.

«E' un prestito. Fino ai nazionali.»

«E che me ne faccio?» protesta Kei, senza trovare il coraggio di guardare la videocamera.

«Te la infili sotto i vestiti, ci vai a dormire, te la tieni addosso quando sei solo in camera e poi magari mi mandi qualche foto.»

«Quindi è un regalo per te» brontola, sforzandosi di dissimulare l'emozione. Non ci sta riuscendo.

«Guardami negli occhi, Tsukishima Kei, e dimmi che non ti piace portare le mie cose.»

Kei solleva lo sguardo, il riflesso delle lenti nasconde qualcosa della luce di sfida. «Non mi piace... » poi le labbra si incurvano, si spinge in su gli occhiali. «Non farmi dire cazzate. Senti, scemo: i regali sono regali. Questa adesso è mia. Te la presto per i nazionali, finché non vi facciamo il culo, dopodiché te la levi e me la ridai.»

Tetsurou ghigna: «In mezzo al campo? Davanti a tutto lo stadio? Attento a quello che desideri, Tsukishima Kei: potresti ottenerlo.»

Intanto, lui ha ottenuto esattamente la reazione che voleva: il broncio, l'aria offesa, due dita a spingere gli occhiali sull'arcata, un'ombra di rossore sul collo. «Cioè vorresti rifilarmi una schifosa maglietta sudata?»

«...pensaci, Kei, davanti a tutto lo stadio...» sussurra, avvicinandosi all'obiettivo.

«Non ti azzardare... »

Le labbra di Kei sono rosse, curve in una piega indignata che Tetsurou vorrebbe disperatamente baciare. Lo desidera così tanto e così forte che non poterlo fare è un tormento. Ride per non pensarci. Ride perché così è più facile. E gli si posano sul cuore tutti insieme i mille addii che li aspettano, i binari e le sale d'attesa, le mani che si sfiorano sulle maniglie dei trolley, i baci mancati, le spalle piegate dal peso enorme di amarsi, così tanto e così forte, a distanza. E' un'eco del futuro, un'intuizione dolorosa che dura solo un attimo, il tempo di strappare a Kei un mezzo sorriso, di vederlo spogliarsi borbottando, pudico suo malgrado, per infilarsi la maglietta rossa. Sotto la pelle bianca, fra i rilievi di ossa e muscoli, Tsukishima Kei conserva intatti i suoi misteri. Una sola vita per svelarli sembra troppo poco.

***

La sveglia di Kei, puntata alle sette meno dieci, lo sorprende aggrovigliato nelle lenzuola, le braccia che spuntano dalla maglietta del Nekoma, gli occhiali storti sul naso. E' abbracciato a una piantina di fragola in vaso, che ha sversato terriccio sul cuscino. Nel pacco giallo ce n'erano tre, di piantine, altrettante sono già interrate a Tokyo, nel giardino di Tetsurou, fra le peonie della nonna e le fresie profumate di Yu-chan.

Sarebbe un pessimo regalo, per uno che non ha mai amato le piante e non sa come prendersene cura. Ma c'è di mezzo Kuroo Tetsurou, il buco nero. Così adesso quelle piantine spelacchiate contengono il messaggio potente di una fioritura, una crescita, un rinnovamento. Una cosa viva che dura. Come quel fragile plurale che stanno costruendo, a cui Kei riesce a credere a stento con il cuore e con il cervello ancora no.

Tetsurou, invece, è tornato fra i suoi ospiti con una tazza in mano: viola, con una falce gialla di luna calante. E' la tazza di Kei, da tenere a Tokyo, a casa. Non una tazza nuova, comprata apposta per essere un doppione; proprio la tazza di Kei, la sua personale, quella con cui fa colazione da una vita, con una crepa scura sul fondo e una minuscola sbeccatura sulla curva del manico. Come dire che la distanza fra Tokyo e Osaki è provvisoria e insignificante, una cosa sbagliata da correggere, perché uno con la propria tazza deve farci colazione tutti i giorni (e fanculo quella gialla di Kozume!).

Dentro la tazza, c'era un rettangolo di plastica verde e oro: la tessera della tifoseria dei Frogs per la stagione 2013. Prevendita scontata dei biglietti e accesso vip a un assurdo negozio online, dove comprare gadget di pessimo gusto, sciarpe e calzini verde smeraldo e magliette sgargianti di giocatori sconosciuti. Il nome di Kuroo sul retro della tessera è stato scritto a mano da Kei, con un pennarello calligrafico. 

Ma il regalo preferito di Tetsurou era nascosto sul fondo della tazza, un minuscolo foglietto arrotolato, con sopra due parole: le credenziali dell'account di una app, da cui passa tutta la musica che finisce nelle cuffie di Kei, scrupolosamente organizzata in decine di playlist. Non l'aveva mai condivisa con nessuno e Tetsurou lo sa benissimo. Non la condividerà mai con nessun altro, e questo invece Tetsurou non lo sa ancora. Ma già un po' ci spera.

Il cellulare gli vibra in tasca mentre Yu-chan e la sua pancia enorme ballano un lento con il nonno in mezzo alla stanza e gli altri ridono, e mangiano la Galette des Rois cercando il fagiolo nascosto, raccontandosi con la bocca piena cose che già sanno tutti e che vale comunque la pena ascoltare.

E' mezzanotte.

Sullo schermo compare l'immagine di un biglietto dello shinkansen, andata e ritorno Sendai-Tokyo. Un biglietto aperto.

2012/12/25 00:00 [07:00]

Dimmi che date devo scriverci.

Buon Natale, scemo.

La risposta è la foto di un biglietto aereo, partenza da Bordeaux-Merignac il 30 dicembre ore 12:30, arrivo a Tokyo Haneda il 31 dicembre ore 15:50.

2012/12/25 00:00

Scrivici:

Andata 31 dicembre 2012.

Ritorno mai.

Buon Natale, Kei.
 

2012/12/25 00:01

❤️❤️❤️

2012/12/25 00:01 [07:01]

Che cazzo sono quelli?

2012/12/25 00:01

Cuoricini?

Una rappresentazione simbolica dei miei profondi sentimenti per te?

Culi rovesciati? 

Scegli tu...

❤️❤️❤️❤️❤️❤️

2012/12/25 00:02 [07:02]

Mettine un altro e ti lascio

2012/12/25 00:02

Davvero? ❤️
 

2012/12/25 00:03

Kei?
 

2012/12/25 00:05

Kei?
 

2012/12/25 00:09

Kei!!!
 

2012/12/25 00:17

No! Dai Ti prego! Non metto più neanche un ❤️prometto!
 

2012/12/25 00:54

Kei  😢

2012/12/25 00:56 [07:56]

Vai a dormire, scemo! E domani studia!

E abbraccia tuo nonno da parte mia. Digli grazie. 

 

Le buste rosse di Kuroo Tomo le hanno aperte insieme. E insieme sono rimasti sbalorditi, a fissarsi senza parole. Kei è crollato a sedere sul letto, Tetsurou è scoppiato a ridere senza speranza di fermarsi.

C'era, in entrambe le buste, la stessa foto stampata: un po' sfocata, scattata con una vecchia macchina digitale, forse una delle prime in circolazione vista la risoluzione scadente. In primo piano un Tetsurou particolarmente spettinato sfoggia un sorriso enorme. Avrà otto o nove anni, abiti estivi, le mani sui fianchi e la Mikasa ben stretta sotto il gomito sinistro. Sullo sfondo, una stanza ingombra di vetrine e anonimi passanti.

In secondo piano, fuori fuoco ma ben riconoscibile, il profilo corrucciato di un bambino biondo appoggiato di schiena a una parete poco distante. I piedi incrociati che spuntano da due gambette magre e lunghissime. Una maglietta azzurra, un paio di occhiali colorati.

La dedica è sul retro, in larghi caratteri regolari:

Le coincidenze non esistono.

Buon Natale, ragazzi.

 

 

**************
Poiché il prossimo capitolo è breve e strettamente legato a questo, in via del tutto eccezionale uscirà questo weekend :)
Ci avviciniamo alla fine della storia, siete pronti?

 

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Capitolo 37
*** Coincidenze ***


37 - Coincidenze


11 agosto 2003


«Non lo sai che non si gioca con la palla qui?»

La parole arrivano alle orecchie di Te-chan scandite severamente da una voce infantile.

«La sto tenendo, non ci sto giocando» risponde, mentre si volta. Ad avergli rivolto la parola è un bambino magro e alto, della sua età o forse un po' più piccolo, con gli occhiali spessi e i capelli più strani che Tetsurou abbia mai visto: chiarissimi, dorati.

«E' uguale. Se ti scappa di mano... »

«E' una Mikasa» si vanta Tetsurou con un gran sorriso, porgendola a due mani al bambino, perché la ammiri.

Quello si aggiusta gli occhiali sul naso e lo guarda male. «Lo so. Ne ha una anche mio fratello. Ma qui non va bene che... »

«Come sei noioso» sbuffa Tetsurou e lancia la palla in alto, solo per provocazione. «Ma chi sei? Un custode nano?»

«Non sono nano! Sono alto quanto te!» protesta vivacemente il quattrocchi, punto sul vivo. «Anzi forse un po' di più... »

«Ma io sono un bambino» risponde Tetsurou strafottente.

«Anch'io sono un bambino!» reclama l'altro, offeso. «Faccio sette anni il mese prossimo.»

«Ah. Sei proprio piccolo. Allora se non sei un nano, sei solo noioso come i grandi.»

«Non sono noioso, sono...» si spinge gli occhiali sul naso con due dita, alza il mento, sembra uno abituato a pensare bene alle parole che dice. «Sono molto maturo per la mia età.»

Tetsurou scoppia a ridere, con la testa all'indietro e le spalle che sussultano. «Secondo me fai ridere. Come ti chiami?»

«Non te lo dico.»

«Perché?»

«Perché non parlo con gli sconosciuti.»

«Se non mi dici come ti chiami non ci possiamo conoscere.»

«Esatto» risponde il quattrocchi, compiaciuto.

Tetsurou si avvicina e lo squadra, inclinando la testa, con la faccia a un palmo da quella dell'altro. Fa una smorfia e la palla, stavolta, gliela fa volare sotto il naso. «Sai giocare a pallavolo o sei capace solo di vantarti del tuo fratello fantasma che secondo me non esiste?»

«Piantala con questa palla! Siamo nel museo!»

Tetsurou riprende al volo la Mikasa e se la caccia di nuovo sotto braccio. «Sai una cosa? Secondo me sei proprio un nano. I bambini veri non li fanno entrare al museo da soli.»

«Non sono da solo!»

«Ah no? Io sono con mio nonno, eccolo lì! E' quello alto.» Tetsurou si volta e indica un signore imponente, con i capelli grigi e un ingombrante aggeggio al collo, che lo saluta con la mano. «Guarda! Abbiamo appena comprato una macchina fotografica nuovissima, quelle senza rullino. Ci stiamo facendo un sacco di foto! Mio nonno è fantastico a fare le foto» si vanta, tronfio d'orgoglio.

«E' una Nikon, vero? Mio papà ce l'ha già da un anno» risponde l'altro con noncuranza, stringendosi nelle spalle magre. «Ed è molto più alto di tuo nonno.»

«Davvero? E dov'è? Non lo vedo da nessuna parte» provoca Te-chan, voltandosi teatralmente da una parte e dall'altra. La sala è mezza vuota.

Il bambino biondo aggrotta le sopracciglia, stringe i pugni, si morde il labbro, pare stia per piangere. 

Tetsurou è sul punto di scusarsi, è pur sempre un bambino piccolo.

Invece quello fa due respiri profondi e quando rialza lo sguardo sembra tranquillissimo. Dietro le lenti brillano due grandi occhi ambrati, freddi e scostanti. 

«Mio padre fa un lavoro molto importante, per questo non c'è. Sono qui con mia mamma e mio fratello, che sono andati al bagno e tornano subito. Se non ci credi è un problema tuo. E se con quella palla spacchi qualcosa... »

«Che succede? Mi portano in prigione?»

Il bambino biondo inorridisce. «No! Ma avrai rovinato il patrimonio scientifico del Tohoku!»

«Ed è come andare in prigione?»

«Molto peggio!»

Te-chan ride e fa spallucce «Chisseneimporta del Tohoku. Tanto io abito a Tokyo, sono venuto qui solo a trovare mia zia. Tu ci sei mai stato a Tokyo? Sendai è piiiiccola così rispetto a Tokyo» Te-chan stringe fra pollice e indice una minuscola Sendai, grande come una caramella. «E poi in questa stanza ci sono solo pietre, non le posso mica rompere.»

«Non sono pietre, sono fossili!» replica il bambino biondo, scandalizzato.

«E quindi?» A Tetsurou i fossili piacciono e sa benissimo cosa sono. Solo che qui sono troppi e un po' tutti uguali. E poi fare arrabbiare il quattrocchi è diventata una missione.

«I fossili sono impronte di cose vive dentro le pietre. Un'importantissima testimonianza evolutiva!» recita, citando a memoria la scritta sulla parete alle sue spalle.

Tetsurou ghigna. «Lo sai che quando parli fai la faccia da pesce e sembri un libro di scuola?»

«E tu lo sai che con quei capelli sembri uno scemo? Metti via la palla!»

La risposta di Tetsurou è uno sguardo di sfida e subito dopo un palleggio violento e altissimo: la mikasa sfiora il soffitto e urta l'angolo di un neon, deviando la propria traiettoria con un cupo suono metallico. Te-chan è costretto a inseguirne i rimbalzi fra le teche.
La acchiappa al volo giusto un attimo prima che si abbatta contro il sederone di una signora vestita di rosa.  
Il suono acuto del fischietto del custode, risvegliato dal torpore, lo fa scattare sull'attenti.

Mentre viene redarguito, dal custode, dalla signora e anche dal nonno, Te-chan coglie lo sguardo impertinente del bambino biondo, all'altro capo della sala. Lo sta scrutando da sopra le lenti, con un sorrisetto irritante e le braccia conserte. Tetsurou muore dalla voglia di farci a botte, o forse di fare amicizia, o una confusa e urgente miscela delle due istanze. Quando solleva la testa dall'ennesimo inchino di scuse, però, il bambino è sparito.

Tetsurou ci metterà un bel po' a dimenticarsene, ma poi succederà, perché, in fondo, anche se era interessante, il quattrocchi era proprio antipatico.
Kei ci metterà ancora di più a dimenticarsene, ma poi succederà, perché, in fondo, anche se era divertente, il tizio con la palla era proprio uno scemo.

 

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Capitolo 38
*** Amare 🔞 ***


38 - Amare


31 dicembre 2012

Anche nelle terre del sogno Tsukishima Kei ha sempre camminato con gli occhi bene aperti. Il suo mondo onirico è vivido, colorato, incredibilmente realistico. Da bambino si svegliava di soprassalto, confuso, pretendendo che Akiteru gli dimostrasse (perché dirlo e basta non era abbastanza) quale fosse la realtà "reale".

A sedici anni, Kei sogna ancora a quel modo, senza abbandono, come se anche nel suo subconscio valessero le leggi della fisica e gli effetti dovessero per forza seguire le cause. Si tratta di sogni di intensi, spossanti perfino, esatti come formule matematiche e densi di emozioni e stimoli sensoriali. Solo la scansione del tempo sfugge a un rigido realismo: accelera per dare risalto ai momenti che contano e lascia svanire nel nulla i passaggi fra una scena e l'altra, gli intermezzi di ordinarietà, tutto quello che non è abbastanza forte o significativo; nei sogni di Kei, la noia non esiste.

Quello che sta vivendo dev'essere per forza un sogno. Perché sono le sei di pomeriggio dell'ultimo giorno dell'anno ed è seduto, con tutta evidenza, sugli sgabelli di legno chiaro dello Zanmai Sushi di Nerima e non riesce proprio a capire come ci sia arrivato, quando solo poche ore prima era in camera sua.

Soprattutto, c'è Kuroo lì di fronte. In carne e ossa. Vivo, vero, che non smette di sorridere come se avesse il mondo in tasca, non smette di guardarlo, continua a parlare e Kei non sa di preciso cosa stia dicendo. La presenza di lui, il suo modo di occupare lo spazio ben oltre i confini del corpo, parlano molto più forte delle parole e gli incasinano i pensieri.

Le ore del giorno si sono sgretolate nelle ombre di pochi momenti luminosi. Come quando l'ha visto in aeroporto (contro ogni pigrizia, Kei è partito di mattina apposta per poterlo andare a prendere a Haneda), che camminava spedito trascinandosi appresso un vecchio trolley fucsia e un'aura di dominanza capace di sciogliere identità e lineamenti di chiunque gli si avvicinasse. In quel momento Kei si è chiesto se non si sarebbe sciolto anche lui, se, dopotutto, non fosse quello il destino cui stava correndo incontro: di consumarsi lì accanto, come una torcia accesa.

Una manciata di secondi dopo, si è trovato le braccia di Tetsu avvinghiate attorno, la sua mano nei capelli, il viso di lui affondato nel collo, le sue parole articolate sulla pelle e il mondo intanto girava impazzito al quadruplo della velocità di crociera.

E allora Kei si è staccato, lo ha respinto, facendo leva su due braccia e un cuore che pretendeva di restare lì per sempre.

Forse è di questo che Tetsurou sta parlando.

«Anche gli amici si abbracciano quando si rivedono dopo un sacco di tempo» sta dicendo, mentre immerge il tonno nella soia.

«Solo quindici giorni»

Solo.

«Sedici» corregge Kuroo, con la bocca piena.

E quattro ore e ventidue minuti.

«Comunque noi non siamo amici» ribatte Kei, pescando singoli chicchi di riso e portandoli alle labbra uno a uno.

«Siamo anche amici, te l'ho già detto.»

Kei solleva gli occhi, si spinge in su gli occhiali, lo guarda. «E' una fesseria.»

«Per niente!» Tetsurou mastica beato. Pesca con le bacchette un chutoro, quello meno grasso del piatto da portata, e lo appoggia con delicatezza al centro della ciotola di Kei.

Kei osserva stupito quel gesto. E' di se stesso che si sta stupendo e di tutto il fastidio che non prova. Vorrebbe sussurrargli all'orecchio di farlo ancora, ché solo lui può. Cos'è che non può Kuroo Tetsurou?

«Non farlo più» dice Kei risoluto, prima di mettersi in bocca quel pezzo di tonno.

«Cosa? Servirti il sushi? Abbracciarti stretto? Perché no?»

«La seconda. Non farlo più in pubblico. Non lo sopporto.»

Le bacchette di Kuroo si fermano a mezz'aria.

«Faccio fatica anche a guardarti» prosegue Kei, con lo sguardo nel piatto.

«Che cazzo significa?»

«Arrivaci da solo.»

«Kei...»

«Sì?»

Tetsurou scuote la testa e riprende a mangiare. Ha lo sguardo amareggiato, ma nessuna intenzione di far andare storta la serata.

«Dai. Vai avanti. Che c'è? Non hai niente da dire? Io non lo capisco come fai a essere così tranquillo» riprende Kei, inasprito. «Forse è perché alla fin fine non te ne frega proprio un cazzo.» Le sue stesse parole, mentre le pronuncia, gli franano addosso.

«Traduci» replica Tetsurou, senza scomporsi.

«Eh?»

«Quando spari stronzate inutili così a raffica è perché non stai dicendo quello che davvero vorresti dire. Quindi dai, traduci.»

«Crepa.»

«Molto meglio» sorride Kuroo, appoggiando nel piatto di Kei un nighiri al pesce spada. «Ti piace, questo?»

Kei annuisce e se lo infila in bocca. Tacere è senz'altro meglio che recitare così male un ruolo che non gli si adatta più.

«Il problema è che non vuoi che ti abbracci in pubblico?» domanda Kuroo. «E perché? Non mi sembra poi questa gran cosa... »

«Dio, quanto sei scemo. Non è che non voglio, non posso.»

«Non puoi?»

«No. Non posso» sibila Kei. «Se mi abbracci in quel modo, ti finisco con la lingua in bocca nel giro di dieci secondi. E se penso al fatto che la cosa non è reciproca... »

«Certo che è reciproca! Se non mi avessi praticamente sparato via, ti sarei finito con la lingua in bocca molto prima di dieci secondi. Speravo di farti dimenticare che eravamo in mezzo all'aeroporto, ma niente, cazzo, te ne sei ricordato lo stesso. Sai che significa?»

Kei sospira e non risponde.

Tetsurou appoggia due dita tese sulla fronte di Kei e spinge leggermente. «Che qui dentro l'autocontrollo supera la lussuria» si risponde da solo. «Vale a dire che non sono abbastanza irresistibile... ancora

«Di sicuro sei abbastanza cretino. Più che abbastanza. La prossima volta te la faccio vedere io la lussuria.»

«Davvero?» si sporge Tetsurou, occhieggiando speranzoso.

«No. Ma un gomito nello sterno vedrai che lo rimedi... »

«Mnn. Mi piaci quando fai il cattivo...»

Kei gli tira un calcetto col piede e ride. Ride suo malgrado, senza poterci fare niente, e intanto fissa le increspature della salsa di soia a ogni sottile vibrazione del piano del tavolo. E' del tutto assurdo che si stiano sussurrando cose del genere al bancone di un sushi bar affollato, la sera di capodanno. Anche se, maledizione, fra l'aeroporto, la metro e il sushi, dopo tre ore non lo ha ancora baciato. La risata si spegne in uno sguardo corrucciato.

«A cosa pensi?»

«Mi chiedo perché cazzo stiamo perdendo tempo qui» brontola Kei.

Tetsurou solleva solo un angolo delle labbra. «Hai pranzato, Tsukki?»

Figuriamoci. Pranzare sul treno, in una giornata come quella, con lo stomaco completamente sconvolto già prima di salire a bordo. «Te l'ho detto: se mangio quando viaggio... »

Il viso di Kuroo si avvicina, a pochi centimetri. Ha gli occhi così neri che affondarci dentro è inevitabile. «Credi che a casa ci preoccuperemmo di mangiare?»

Nella mente di Kei lampeggia vivida la fantasia evocata da quelle parole e il salmone gli si incastra in gola, facendolo annaspare senza pietà.

Tetsurou gli versa acqua con un mezzo ghigno «Quindi un po' ci stai pensando... »

Un po': eufemismi in libertà. Lo sguardo di Kei impreca con eloquenza da sopra l'orlo del bicchiere.

«Meno male, perché io sono giorni e giorni che non riesco a pensare ad altro... » aggiunge Tetsurou, serissimo. Le parole esplodono come granate sul bancone; a Kei viene da tapparsi le orecchie e serrare gli occhi: il maledetto Kuroo Tetsurou è una zona di guerra. L'invasione del corpo è l'unica cosa che gli manca, il cuore se l'è già preso secoli fa, il cervello è perduto, l'anima si è arresa senza fiato.


Dal ristorante a casa, la camminata è solo un pressante accumulo di aspettativa. Un'aspettativa concreta, che significa orecchie rosse e pelle d'oca, un nodo dello stomaco, respiri troppo profondi, passi affrettati, sguardi vaghi che cercano di cogliere i particolari. 

Tetsurou si scopre avido di particolari: un centimetro di pelle bianca di Kei che spunta dalla sciarpa, la mancanza delle onnipresenti cuffie, le grinze dei jeans intorno alle ginocchia, il modo, per niente casuale, con cui le loro spalle si sfiorano, come le braccia e i dorsi delle mani, continuando a cercarsi fra la folla, negli spazi angusti fra una negazione e l'altra.

In strada è pieno di gente. Si respira l'euforia un po' fasulla dei giorni di festa, la ricerca di un divertimento sopra le righe che abbia la forma (e quasi mai la sostanza) della libertà. Per loro non ci sono eccessi, né feste comandate, c'è solo quella troppo lenta, troppo veloce camminata verso casa. 

A Tetsurou sembra di poter vedere con gli occhi la bolla che li avvolge e tiene fuori il resto del mondo. Luminosa, traslucida, lì in mezzo al freddo di Tokyo, con i passanti che si aprono al loro passaggio e scivolano intorno, respinti senza accorgersene da quelle pareti invisibili e sottili. Di cosa sono fatte? Sentimenti? Speranze? Desideri impazziti? Tetsurou non lo sa e nemmeno gliene importa. 

Quello che gli importa, e un po' gli fa paura, è che non si è mai sentito così prima d'ora. Mai nella vita. E il sesso, benché muoia dalla voglia di farlo, non c'entra (quasi) niente. C'entrano un sacco di altre cose che è difficile mettere in fila.

C'entra Kei. Anzi centra Kei, perché tutto, alla fin fine, gira intorno a lui.  Al suo corpo, ai suoi occhi, a come muove quelle mani eleganti, come cammina a falcate lunghe e regolari, senza esitare, a come storna lo sguardo. Come sospira senza accorgersene. Come guarda l'orologio, quasi volesse accertarsi di restare in sincrono con la propria vita, sempre sul filo di un programma che forse neanche esiste. Come pensa, senza sosta, lasciando che di tanto in tanto quei pensieri arrivino in superficie, nei rossori, nei moti impercettibili del viso e delle labbra, nelle dita che tamburellano, nel gesto inconsapevole di ruotare i polsi per scioglierli.

Tetsurou li vorrebbe per sé, quei pensieri. E vorrebbe anche tutto il resto. Forse fare l'amore sarà proprio questo: violare i confini di quel corpo meraviglioso e prendersi tutto quanto, piantandogli salde nel cuore tre metri di radici.

Però non lo sa se sia normale, se sia davvero normale, sentirsi così. Così scombinati, così perduti, così eccitati. Ecco, eccitato da dentro a fuori, in un unico blocco. Un'enorme erezione inquieta, dall'inguine al cervello. Il pensiero (di essere un grande cazzone, in effetti) lo fa ridere e un po' però lo emoziona. Anche l'emozione lo fa ridere.


Kei si chiede come faccia lo scemo a ridere  a quel modo, mentre camminano verso casa, come se tutto fosse sempre facile e naturale e le cose cadessero una nell'altra senza sforzo e senza rumore. Lui, altro che ridere, sta trattenendo il fiato da sei ore. 

No di più. Giorni. Mesi. Kei trattiene il fiato da ottobre, da quando Kuroo ha abbassato la visiera del casco e lo ha lasciato in piedi davanti al vialetto di casa, confuso come un moccioso, a chiedersi come funzionava quella cosa di respirare, che prima sembrava tanto semplice. 

Trattiene il fiato più forte quando varca con il piede la soglia e sente il rumore metallico della porta alle sue spalle, pesante come il blindato di un bunker che chiude il mondo fuori.

E invece no, invece il mondo è tutto dentro. E fanculo i rifugi antiatomici: con Kuroo, le bombe esplodono comunque sotto i piedi e non esistono difese. C'è solo l'urgenza assoluta di toccarlo.

Kei apre la mano e lascia cadere lo zaino nell'ingresso. Il tonfo lo sente dopo, molto dopo, quando già ha le labbra incollate a quelle di Tetsurou e il corpo premuto su quello di lui, una delle sue mani intorno al collo e l'altra giusto al centro della schiena.

«Okaeri, bentornato» sussurra Kei, senza controllare bene i pensieri. Lo dice come se lo avesse aspettato lì, tutto quel tempo. E la tenerezza nella sua voce è più forte di qualsiasi sarcasmo. 

La risposta è un abbraccio più stretto, le schiena sbattuta contro la porta, un bacio più profondo.

«Soggiorno» ansima Tetsurou, staccandosi a fatica. «Soggiorno prima che ti strappi i vestiti.»

«Non ti azzardare. E non ti azzardare a smettere.»

«Cosa?»

Il bacio di Kei  diventa languido. «Questo, brutto scemo.»

Tetsurou lo allontana tenendogli il viso fra le mani. «Soggiorno, Kei.»

«Letto... » rilancia Kei, il tono di una supplica.

«Ma come siamo diventati vogliosi, Tsukki-kun... ti faccio questo brutto effetto?»

«Crepa!» sbuffa Kei, spingendolo via. Si toglie le scarpe e il cappotto e si dirige a lunghe falcate in soggiorno.

Mezzo secondo dopo si sporge con la testa dalla soglia: «Comunque non sono io quello così infoiato che ha lasciato di fuori la valigia...»

«La valigia? Cazzo!»

Quando Tetsurou compare in soggiorno trova Kei rannicchiato in una poltrona bassa e comoda, lo sguardo vagamente riottoso.

«Portato in salvo il trolley? Che colore del cazzo, fucsia.»

«Era di Ayumi.»

«E dovevi per forza tenertelo?»

«Fra un trolley nuovo e un biglietto per Sendai a metà dicembre indovina cosa ho scelto?»

Come contrappeso alla soddisfazione del sorriso che non è riuscito a frenare, Kei alza il dito medio.

Tetsurou è ancora sulla soglia e gli sorride a sua volta, perso nella contemplazione della familiarità di quella scena. Vedere Kei in casa propria, a suo agio fra le cose di ogni giorno, gli stringe lo stomaco e gli scalda il cuore. Si rende conto che non fa che immaginarlo lì, disteso fra i cuscini, affacciato al balcone, seduto per terra, o, come adesso, accoccolato nella poltrona preferita della nonna.

O chino su di lui, a cavalcioni delle sue cosce, mezzo nudo magari.

Invece Kei è vestito, completamente. E tirarselo addosso su quella stessa poltrona, dopo averlo preso in giro, è meno facile del previsto. Alla fine Kei cede, un po' accaldato, un po' reticente, parecchio eccitato. Le mani fresche di Tetsurou ai lati del viso, il pollici che gli accarezzano il collo, lo fanno tremare. I baci di Kei sono piccoli, brevi, fugaci, seguono mappe sul viso di Kuroo che solo lui conosce.

«Allora, mio prezioso kohai. Dimmi un po': quali sono le regole?» domanda, senza smettere di accarezzargli le guance.

Kei s'interrompe e alza le sopracciglia, interrogativo.

Tetsurou risponde afferrandogli i fianchi e tirandolo più vicino. E' un conforto sapere che non è l'unico che sta scoppiando dentro i jeans.

«Hai regole per ogni singola cosa al mondo. Non ci posso credere che non ne hai qualcuna per me... per stanotte, intendo. Vorrei davvero... cioè, ci tengo che... anzi no, voglio...» Tetsurou esita, rilasciando il respiro.

«Beh? Completare una cazzo di frase è contro la tua religione? Cos'è che vuoi?»

Le cose che Tetsurou vuole sono così tante che non riesce ad esprimerle. «Voglio farlo con te. Non sai neanche quanto. E voglio che sia fantastico

A Kei passa per la testa che l'unico motivo per cui potrebbe non essere fantastico è che, se lo scemo non la smette di fare quella faccia e di muovere i fianchi, si verranno entrambi nelle mutande nei prossimi quindici secondi. Ancora meno fantastico se sarà solo lui a finire così.

«Voglio davvero che sia fantastico, Kei. Per te. Per tutti e due. E poi...» continua Kuroo, circondandolo con le braccia, «... non lo so.... voglio farti stare bene. Benissimo. Solo bene, capisci? Non voglio farti male... »

«Cioè, te la stai facendo sotto? Puoi sempre tornare a scoparti le  femmine, così fila tutto facile, liscio e umido al punto giusto... »

«Piantala! Io sono serio! Davvero, ho paura che... » Tetsurou non prosegue, ma irrobustisce l'abbraccio, nascondendo la fronte contro la spalla di Kei.

«Ehi» Kei si allontana col busto. Quando raddrizza la schiena è veramente alto. Torreggia sul compagno, gli stringe le spalle con entrambe le mani, forte.

Kuroo alza lo sguardo, ha gli occhi liquidi, scuri, dolci.

Forse per la prima volta, Kei lo vede improvvisamente giovane quanto lui, insicuro quanto lui, forse persino innamorato quanto lui, il che è praticamente impossibile. Ma in quel momento sembra vero.

«Piantala tu, di dire cazzate. E non ti azzardare a trattarmi come una femmina. Non sono una femmina, non sono fatto di vetro, odio le moine. E sai che c'è? Mi devi aprire il culo: farà male di sicuro, meglio che ti abitui all'idea e te la fai piacere.»

Tetsurou sta per ribattere, ma Kei gli appoggia un dito sulle labbra. «Sarà fantastico, scemo. Anche se farà un male cane, sarà fantastico lo stesso. Però se continui così, di sopra neanche ci arriviamo.»

Di sopra, è impossibile arrivarci. Appena le mani di Tetsurou si insinuano sotto la camicia di Kei e lui geme e boccheggia, appena le labbra di Kei raggiungono le dita  di Tetsurou e la lingua le avvolge, si trovano entrambi affannati, vicini al limite, a guardarsi negli occhi da molto vicino.

«Facciamo a chi resiste di più?» propone Tetsurou, soffiando le parole sulla gola di Kei.

«Da pisciasotto a sbruffone in trenta secondi netti. Sul serio, non sei credibile... »

«Non devo essere credibile per farti venire.»

«Ci tieni tanto a ridurre uno schifo questa poltrona?»

«La poltrona è la mia priorità. Non ti slaccerò nemmeno la cintura... »

Purtroppo, lo scemo può farcela. «Te l'ho mai detto che detesto gli sbruffoni?»

«La posta in gioco la lascio scegliere a te...»

«Non ho detto che ci sto.»

«Hai qualcosa da perdere?»

Dignità per esempio? Autostima? Un minimo di decenza? Tutto a farsi fottere alla prima carezza, alla prima immagine erotica dipinta dalle parole di Kuroo, al primo sguardo predace.

E' il gemito di Kei, la scia lucida di saliva fra le labbra il mento, il modo in cui gli si inarca fra le braccia con la testa gettata all'indietro, la grazia superiore con cui abita il mondo, intatta anche in un momento triviale come un orgasmo nelle mutande, a portare Tetsurou a sua volta oltre il limite. Finiscono così, ansanti e appiccicosi a guardarsi male per finta e a ridersi addosso l'adolescenza e l'imbarazzo e la tensione e tutto quello che c'è lì fra loro e brilla così tanto che bisogna chiudere gli occhi per non farsi travolgere dall'emozione.


Ma è sempre un sogno e come alla fine ci arrivino, di sopra, Kei non lo sa più.

C'è stata di mezzo una doccia, un pungolarsi per qualcosa, una quantità di baci che non si conta più e comunque non è neanche lontanamente abbastanza.

Il tempo scorre spezzato, scattando istantanee che immortalano sensazioni e attimi discreti.

Gli accappatoi sulla pelle umida, gli occhiali sfilati delicatamente dalle mani di Tetsurou (ti starò così tanto vicino che mi vedrai per forza), i piedi nudi sul tatami, l'odore di colonia che filtra da ogni parte. La notte che striscia nella stanza dopo un tramonto pallido, la luce lontana di un paio di stelle, i telefoni spenti (se Kozume si presenta in piena notte giuro che lo faccio fuori). La folla fuori che si insegue, la televisione che ride e che canta a voce troppo alta nelle case degli altri. Tra loro solo bisbigli soffiati sulle labbra e fruscii di  lenzuola.

Kei è nudo. Del tutto. In ogni modo in cui si può essere nudi di fronte a un altro essere umano. Spogliato di tutte le sue regole, le convinzioni, i principi, le ostinazioni e i pregiudizi. 

Kei è nudo e tutto il suo corpo vibra, insieme a un'anima così giovane e ardente che stenta a riconoscerla per propria. E se la strapperebbe di dosso per mettersela sulla pelle e  farsela succhiare via, un bacio dopo l'altro.

Kei è nudo e Tetsurou pensa, guardandolo nella penombra della propria stanza, che è la cosa più preziosa e più bella su cui abbia mai posato lo sguardo. Una bellezza stordente che fa girare la testa e brucia sotto le dita, mentre le carezze gli scivolano addosso languide, sul profilo del collo, lungo il torace, al centro del ventre.

Inizia ad amarlo con le dita e con gli occhi, saziandosi dei dettagli, come quel neo minuscolo sul collo, fra una vena azzurra e l'attaccatura dei capelli. Oppure l'incavo che dal fianco arriva all'inguine, un'insenatura lunga e profonda da percorrere lentamente con la punta della lingua, fino a fargli inarcare la schiena come un gatto, mugolando e spingendo in alto un sesso gonfio e congestionato, che gli pulsa fra le mani quando lo percorre dalla punta alla base con i polpastrelli.

Tetsurou ha la testa leggera e i sensi riarsi. Non sa più niente, se non che impazzirà solo a guardare quegli occhi ambrati, quelle cosce bianche fra le sue ginocchia, quella gola esposta, quei capezzoli di un rosa pastoso e tenero, come fossero dipinti e così sensibili e duri che fanno venire voglia di morderli troppo forte. Vuole divorarlo e adorarlo insieme ed è quello che fa, sfiorandolo con devozione e poi subito leccando, succhiando e lasciando segni ovunque senza permesso.

Il corpo di Kei è un tempio di lussuria e al contempo un sentimento puro, il più alto, il più profondo che Tetsurou abbia mai provato. In qualche modo perverso, persino strofinargli il cazzo addosso è una forma di adorazione.

E poi baciarlo, baciarlo, baciarlo su quella bocca dolce e calda, come nei sogni più bagnati. Sulla sua lingua gli odori diventano sapori e si sciolgono sul palato.

Sottobosco: il profumo dei frutti nascosti, freschi, pungenti, seppelliti fra il muschio e le foglie, fra la gola e il palato.

Miele di castagno: il gusto dolceamaro della pelle, da succhiare con avidità, l'oro dell'autunno che filtra tra le palpebre abbassate, tracce di luce in tutti i punti dove arriva la lingua e la pelle è caldisima.

Sesso: l'essenza di Kei, carnale fino al cervello, fino ai battiti del cuore, fino a dove muoiono i respiri, fino a dovunque si possa toccare e assaggiare.

Dio, cos'è Tsukishima Kei che sospira desideri inarticolati, che si lascia spingere due dita in bocca e le succhia e poi si solleva a sedere e si china e gli posa le labbra sulla punta del cazzo e si mette a succhiare anche quello. Piano, pianissimo mentre la bocca scende fino alla base, con studiata lentezza. Solleva gli occhi e, insieme al rumore liquido del risucchio, quello sguardo porta Tetsurou a un passo dal venirgli in gola. Lo ferma bloccandogli i polsi, costringendolo disteso, tornando a torturargli i capezzoli, a ridisegnarlo a furia di carezze a sussurrargli frasi scomposte negli incavi dei muscoli e all'angolo della bocca.

Adesso deve entrargli dentro. Subito, perché resisterà ancora poco.

Kei gli avvinghia le cosce ai fianchi ed è ben più che un invito. Gocce fredde di lubrificante sfuggite al flacone gli fanno vibrare gli addominali sottopelle. Quel culo esposto è più erotico di qualsiasi sogno, di qualsiasi fantasia.

Ed è diabolicamente stretto. Si richiude attorno al dito che lo viola come se ne avesse la forma esatta. Il sesso di Tetsurou risponde a quello stimolo indurendosi ancora, Kei sorride mentre ansima e trattiene il fiato. E prova dolore. Ma è lui stesso a spingere, sollevando la schiena.

Due dita spariscono nel corpo di Kei, lo esplorano, premendo ovunque; la sua espressione non ha più nulla del sarcasmo e dell'arroganza: è contratta, lasciva, aggrottata nello sforzo di accogliere l'intrusione, disfatta di desiderio. Tetsurou sa che dovrebbe continuare con un terzo dito e dargli tempo. Sa che dovrebbe prenderla con calma, farlo abituare, dargli piacere per fargli scordare il dolore. Ma non può, non riesce. Vuole solo, disperatamente, possederlo.

«Apriti» sussurra. «Ti prego. Per me.» Una supplica con il tono di un comando. E ormai Kei non è più capace di negargli nulla, neanche con il corpo.

Tetsturou inizia a spingere, duro, lucido di lubrificante, teso come non mai. Sente il muscolo cedere piano intorno alla punta, aprirsi e poi richiudersi, stretto come le porte del paradiso. E rovente. La carne di Kei è viva, si tende, lo cerca, gli si serra intorno, come le dita affusolate e forti, le unghie che si sente conficcate addosso.

Kei ha gli occhi chiusi, la schiena inarcata, le dita dei piedi contratte, il sesso eretto e curvo, con la punta che sfiora l'addome. E' bellissimo. Bello da piangergli addosso mentre lo sfonda. Perché dovrebbe aspettare ma di nuovo, non riesce. Vuole entrargli dentro e perdersi. Vuole sentirlo urlare. 

In un momento di suprema confusione, Tetsurou pensa che, se urlasse di dolore, gli andrebbe bene lo stesso e quindi spinge senza riguardi. E tutto si riduce a quel nodo di carne e di pelle che sono diventati, saliva, sudore e qualche lacrima nascosta fra le costole di Kei mentre intreccia le sue dita fra le proprie e stringe tanto forte da fermare il sangue. E finalmente arriva in fondo, in fondo fino all'anima.

Kei soffre. E gode, senza riuscire più a distinguere una cosa dall'altra. Ed è l'esperienza più dolorosa e sublime che gli sia mai capitata e forse che gli capiterà mai.

Si sente strappare a brandelli, lacerare e, mentre sopporta e annaspa, mentre si sforza di rilassarsi e le lacrime gli si aggrappano alle ciglia, accoglie una semplice e spaventosa verità: che da lì, da dentro di lui, Kuroo Tetsurou non se ne andrà mai più. Neanche quando i loro corpi saranno disgiunti, quando spunterà il mattino e un treno lo porterà via, quando un oceano, un continente, una galassia, oseranno mettersi fra loro. Neanche se un giorno dovesse lasciarlo, tradirlo, o morire. E che questo, precisamente questo, è amare.

E tutto di Kei sta amando, alla massima potenza, consumato nell'incendio di una passione smisurata: non esiste parte di lui che non sia in fiamme e non frema per la voglia di essere riempita. Di sperma, di sospiri, di saliva, di parole, di carezze, di baci.

Il piacere nasce furtivo dal dolore, in sordina, da quel ritmico e spezzarsi e rimettersi insieme una spinta dopo l'altra. Un piacere bruciante e crudele, come oro fuso colato fra quelle fratture. Tutto il corpo di Kei è kintsugi, un'opera d'arte di lussuria, ferita e fremente, pronta a traboccare.

Trabocca sugli addominali di Tetsurou, con un lamento soffocato nel cuscino e gli occhi pieni di lacrime. Nella macchia umida che si allarga sulla stoffa sono scritti i caratteri di una confessione, una resa, una speranza, la somma sconclusionata delle mille parole d'amore che impiegherà una vita a pronunciare, ma che sono già tutte lì, impastate nei sussulti del suo corpo soddisfatto, negli spasmi che arrivano dritti intorno al sesso di Kuroo come scariche elettriche.

Tetsurou è al limite ma continua a spingere con frenesia, a toccare punti nascosti, provocando gemiti sfrenati e sillabe senza senso che lo fanno impazzire.

E mentre sprofonda dentro il suo amante, violando il confine fra amore e piacere, si domanda, attonito, se non sia sempre stata casa sua quella, se quel corpo non sia il proprio più della carne che ha sulle sue stesse ossa. Se non abbia vissuto (quante vite?) per trovarsi lì, in quel momento, a svuotarsi l'anima dentro Kei e a riempirlo di sé.

Tutto Kei, riempito con tutto se stesso. L'intuizione formidabile di un sempre e di un per sempre che dura solo un attimo. E forse sono solo gli ormoni, o i sensi troppo saturi di piacere o l'erotismo insostenibile di quel momento.

Al culmine dell'orgasmo, quando tutto il suo corpo trema e le tensioni si sciolgono nel piacere, il nome di Kei è l'unica verità che Tetsurou ha in testa, un monosillabo luminoso che emerge da un plasma bianco di pensieri sciolti e fuochi d'artificio.

Fuochi d'artificio anche fuori dalle finestre, che esplodono e baluginano contro un cielo ridicolmente piccolo e lontano. Insignificante rispetto a quella stanza e alle sue ampiezze smisurate, colme di sesso e di sudore e del pasticcio appiccicoso e umido che sono loro due.

La prima parola di Kuroo Tetsurou per l'anno 2013, pochi secondi dopo la mezzanotte, è Kei. Subito dopo, Tetsurou dice ti amo. Lo dichiara in un sussurro sgomento, tenendo Kei stretto fino al parossismo, inchiodato al futon, rimodellato intorno al proprio corpo, il volto abbandonato sul suo petto.

«Ti amo» ripete, ancora più piano, ancora più intenso. Il cuore di Kei quasi esplode e Tetsurou sente quel battito sotto le labbra così chiaramente che gli viene da piangere, di beatitudine e di gratitudine e di altre cose splendide che non hanno nomi.

La prima parola di Tsukishima Kei per l'anno 2013 arriva nella luce del mattino. Per tutte quelle ore dense avviluppate nel buio, la voce di Kei è rimasta intrappolata fra le lenzuola e i bordi dell'anima, sopraffatta dalle esigenze del corpo, dalla potenza dei sentimenti, da tutto quel dolore e quel piacere, quel mordere e succhiare, che stanno sbocciando in fiori delicati, gialli e azzurrini sulla sua pelle diafana, sottili tralci di rampicanti rossi che gli risalgono le cosce fino ai fianchi.

Quando solleva le palpebre, la prima cosa che Kei vede sono gli occhi neri di Tetsurou, enormi, smarriti di gioia. Disteso sul fianco, lo sta contemplando in silenzio da chissà quanto tempo. La luce attraversa la stanza, piovendo di traverso fra le persiane in lunghe strisce che si spezzano sugli angoli dei mobili e sulle curve dei loro corpi nudi aggrovigliati alle lenzuola.

Kei sorride. Gli sfugge un sorriso tenero e innocente, di felicità e di appagamento. Fra due secondi si sentirà un idiota e i dubbi e le incertezze torneranno, ma adesso no, adesso ogni cosa è trasparente, lambita dalla luce dell'alba. Perfetta.

Negli occhi innamorati di Tetsurou vede accendersi una piccola, ma chiarissima, scintilla di trionfo. 

E' allora che gli si libera la voce e  la prima parola del nuovo anno è: scemo.  La seconda parola, languida e pigra, scivola nello spazio fra le braccia tese: ancora.

 

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Capitolo 39
*** Hatsumōde ***


39 - Hatsumōde


[NdA Hatsumōde è la prima visita dell'anno al tempio buddista o al santuario scintoista]

1 Gennaio 2013

Nella classifica delle assurdità che Tsukishima Kei avrebbe potuto giurare che non gli sarebbero mai capitate nella vita, c'è ai primi posti una corsa in moto per le vie di Tokyo, in abiti tradizionali e con un sorriso ebete nascosto dal casco integrale.

Il livello di squilibrio mentale successivo al mettersi addosso i vestiti dello scemo per cui si è perso il raziocinio è indossare quelli di suo nonno. 

E invece eccolo lì, il giorno di capodanno, le braccia serrate intorno a Tetsurou, avvinghiato alle sue vertebre, mentre fiotti di pensieri sconclusionati gli si agitano fra lo stomaco in subbuglio e quello che una volta era un cervello affidabile. Intorno alle gambe gli svolazzano lembi di seta dei kimono awase della famiglia Kuroo. 

E' tutto folle e sopra le righe, a tratti demenziale, ma non è questo il problema.

Il problema è che si sta innamorando.

Il che è grave. Perché Kei era convinto, certissimo, di essere già innamorato da un pezzo e poter solo risalire la china. Dopo la fuga, dopo la resa, dopo aver appiccicato un'etichetta alla relazione, dopo essersi spogliato nudo e ridotto il culo a pezzi, si poteva solo migliorare.

E invece no. Si sta innamorando. Ancora di più.

Gli sembra di avere le tasche piene di sassi e continuare ad affondare. Così tanto e così in fretta da non sapere più neanche in quale direzione dovrebbe nuotare per salvarsi: ascensione e caduta si sono mischiate, aggrovigliate, confuse una nell'altra e a lui non resta che trattenere il fiato e lasciarsi trasportare dalla corrente, fino alla grande soluzione salina (sudore, lacrime, sperma e stupide metafore marine) dove vanno a finire le emozioni profonde quando non si riesce a reprimerle (né a esprimerle).

C'è poco da fare: si sta innamorando.

Anche adesso, con il freddo che si insinua fra la sciarpa e il bordo del casco, qualche foglia secca che ancora volteggia, in mezzo ai rumori del traffico, nel ventre di un'immensa metropoli pulsante, Kei sente solo il cuore che batte troppo forte nel suo nido di ossa bianche. E la schiena di Tetsurou, e quel calore che trapassa i vestiti.

Si sta innamorando. Continua a innamorarsi. A cadere.

Arriverà in fondo a un certo punto? Così innamorato che di più non è possibile? Così rimescolato da non riconoscersi, da non avere più senso? E che succederà dopo?

Quando gli mancheranno le forze per opporsi, quando le distanze disegneranno vuoti da colmare di ossessioni. Quando...

«Tutto bene lì dietro?» lo scemo si è voltato, la sua voce è flebile oltre la doppia barriera di carbonio, e tuttavia risuona chiarissima, distinta dal brusio di fondo, dai motori delle auto, dai fischi del vento. Kei non è sicuro di averla udita con le orecchie.

«Bene» risponde Kei. Lo dice piano, eppure in qualche modo, le sue parole arrivano. Lui lo sente sempre: quando sussurra, rimugina, si ostina, si perde.

Prima, hanno discusso. O forse, il verbo giusto è litigato. O una strana via di mezzo, fatta di spingere, cedere e tirare. Di incalzare e ritrarsi, come una danza, come una marea. E' successo davanti allo specchio, di fronte alle scatole di cartone dei kimono, fra sbuffi di carta velina, seta foderata e ricordi di famiglia che non gli appartengono.


****

«L' Hadajuban è biancheria intima, Tsukki, si porta senza niente sotto...»

«Puoi scordartelo, che mi levi le mutande!»

«Dici in generale, o proprio nel caso specifico? Perché se è in generale... »

Il gomito di Kei manca il bersaglio fra le costole di Tetsurou. Guardarlo ridere nel riflesso dello specchio è talmente liberatorio da fare paura.

Spiarlo mentre si denuda, con pochi gesti semplici, è un livello superiore di perdizione.

Kei abbassa lo sguardo sulle proprie ginocchia ossute, che spuntano dai calzoncini di cotone bianco: l'insieme è ridicolo e lui si sente fuori dai contorni. Fra gli effetti collaterali di Kuroo Tetsurou c'è l'allarmante facilità con cui riesce a smarginarlo.

«Dai, su, non t'incantare, apri le braccia!»

Kei si trova a eseguire meccanicamente. Quando solleva gli occhi, lo specchio gli rimanda l'immagine dello scemo che, da dietro, gli sta infilando le maniche di un nagajuban azzurro polvere. La seta fresca sulla pelle lo fa rabbrividire, ma non tanto quanto l'intimità e la naturalezza di quel gesto. Oltre a smarginarlo, Tetsurou lo tramuta, lo fa uscire dal perimetro e gli ricostruisce intorno sagome sempre nuove.

«Tiralo bene sui lati» raccomanda Tetsurou, che sta mettendo in pratica il proprio consiglio: dopo un paio di leggeri strattoni, i due lembi di seta scura del suo colletto ricadono perfettamente simmetrici.

Kei tenta di imitarlo, con scarsi risultati. «Devo proprio?» sbuffa.

«Cosa? Vestirti come si deve? Direi di sì... »

«Vestirmi così.»

«In kimono? Beh, è capodanno.»

«E quindi?»

«Come ci vuoi andare al santuario? In jeans e felpa?»

«Perché no?»

Tetsurou si arrende subito, alzando le mani. «Okay. Come ti pare. Però ora chiamiamo il nonno e glielo dici tu, che non hai voluto metterti il kimono che ha scelto per te.»

«In che senso scelto

«Nel senso che mi ha telefonato apposta per dirmi esattamente quale dovevo darti» risponde Tetsurou, mentre fruga fra la stoffa, in cerca del cellulare. Lo solleva in alto appena lo trova. «Allora? Chiamo?»

Kei alza il dito medio e intanto pensa che Kuroo Tomo, da un altro continente, si è preso il disturbo di pensare a lui, di offrirgli un kimono di famiglia, persino di sceglierne uno. E la cosa lo porta a un livello di commozione che la dice lunghissima sullo stato di isteria in cui versa da giorni.

«Vieni qui, fa' vedere: lo hai allacciato bene?» Tetsurou stringe meglio i nodi del koshihimo sui fianchi di Kei e poi gli gira intorno, per controllare la geometria delle pieghe.

Kei lo blocca per il braccio, attratto da qualcosa. «Aspetta un attimo: fammi vedere il dietro!»

Sulla schiena di Tetsurou, coperta di seta grigia, due carpe koi, una bianca e una nera, si inseguono nel ciclo perpetuo del tao. E' un disegno splendido, la stoffa cangiante crea l'illusione del movimento; l'ammirazione di Kei  buca lo specchio.

«Bello vero? L'ha dipinto mia nonna. Li ha dipinti tutti lei, negli anni.» L'orgoglio nella voce ha una nota di dolcezza e anche una di tristezza.

«Anche il mio? Cosa c'è?» dice Kei, storcendo il collo per guardarsi la schiena.

«Ashi no hotaru, lucciole nel canneto.»

«Davvero?»

Kuroo annuisce compiaciuto, Kei , incredulo, si sfila in fretta il nadajuban per guardare il retro: contro un cielo polveroso si stagliano canne lunghe e sottili, piegate da una brezza invisibile; fra le foglie si nascondono quattro lucciole scure, con la testa rossa e gialli globi di luce dorata.

«Perfetto, vero?» commenta Tetsurou, togliendoglielo con gentilezza dalle mani, per rimetterglielo addosso. «Su queste cose il nonno non si sbaglia mai.»

Su quali cose si sbaglia, Kuroo Tomo? E' capace di sbagliare?

Tetsurou passa la cintura intorno alla vita di Kei, stringendo bene. «Sei davvero magro. Dobbiamo fermarlo meglio» dice, porgendogli una korin elastica, con le clip di metallo un po' arrugginite. Ormai, si trovano in giro solo quelle di plastica.

«La sai mettere?»

Kei sbuffa di disagio, cercando invano un punto buono dove agganciare la clip.

«Vieni qui, ci penso io.»

La clip viene fissata sul risvolto interno del colletto e l'elastico, da un piccolo foro ascellare passa ben teso dietro la schiena di Kei. Si sta lasciando vestire come un bambino e, maledizione, la cosa un po' gli piace.

«Sono pregiati?» domanda, gettando uno sguardo alle scatole aperte dei kimono.

Tetsurou si stringe nelle spalle e risponde senza smettere di stringere lacci e stirare pieghe. «Mah, no, direi di no. Sono vecchi e molto usati. Diciamo che il valore affettivo supera di molto quello economico.»

«Quindi sono pregiati.»

Tetsurou si ferma e alza gli occhi in quelli di Kei. Non sorride, non parla, lo guarda soltanto. E sembra che voglia dire qualcosa, invece trasforma le parole in una carezza: breve, delicata. «Quindi ora la smetti di perdere tempo e ti vesti?» sussurra.

«Facciamo che quindi ora vai a fare in culo» sussurra Kei di rimando, con finta dolcezza. Vorrebbe essere sarcastico, ma il sorriso ebete è già lì in agguato.

Il kimono che Tetsurou gli consegna è blu, con una fodera pesante e tre kamon rotondi, al centro del colletto e sulle spalle.

«Addirittura tre kamon? Mica è un matrimonio!»

[NdA i kamon sono sigilli familiari ricamati sui kimono. Più è alto il numero di kamon, più formale è l'occasione]

«Li abbiamo tutti a tre.»

«Ma... sono diversi?» Kei avvicina la stoffa alle lenti, per guardare bene i sigilli. I due laterali rappresentano le virgole circolari del tomoe, quello al centro è a forma di reticolo.

«Strano, vero? Il nostro è il tomoe.»

«E quindi il meyui?»

«E' una lunga storia. E tu, Tsukishima-kun, sei troppo curioso» commenta Tetsurou, annodando bene l'obi sul proprio kimono nero e voltandosi, per ammirare l'effetto allo specchio. Si crogiola in quello che vede.

«Sai di essere patologicamente vanitoso, Kuroo-senpai?»

Tetsurou ghigna. «E tu lo sai che con il kitsuke fai proprio pena? Tutte quelle storie sugli haiku e lo shodou, e l'estetica nipponica e poi mi cadi sulle basi... »

[NdA kitsuke è l'arte di indossare il kimono]

«Crepa!»

«Però, cavoli se ti sta bene! Mezza Tokyo vorrà levartelo di dosso, e invece sarò solo io a farlo, stasera.» 

Kei salterebbe volentieri direttamente al programma serale. «Smetti di dire cazzate e dammi una mano con quest'affare! Sarà lungo sei metri!» brontola Kei, sbattendo la cintura sul petto di Tetsurou.

«Solo quattro. Alza le braccia, impedito!»

Kei esegue, e Tetsurou annoda rapidamente l'obi e poi lo strattona fino a portare il nodo sulla schiena. E' tutto un tirare, spostare, piegare, soprattutto toccare.

Toccare Kei, più che il kimono. Tetusrou lo tocca molto di più di quanto sarebbe necessario: gli stringe i fianchi premendo forte con le dita, tasta la stoffa cercando i rilievi delle ossa del bacino e la pienezza dei glutei sotto tre strati di vestiti. Tsukishima Kei, nella sua forma corporea e concreta, ha i connotati e i pericoli di una dipendenza.

«Da dove viene questo kimono, quindi?»

«Te l'ho detto: è una lunga storia. Era di un tizio che si chiamava Tetsurou.»

Le mani di Tetsurou improvvisamente si fermano; nell'aria cambia qualcosa, uno spiffero freddo, arrivato da chissà dove, attraversa la stanza e loro due. «...a questo proposito, Kei, c'è una cosa di cui dobbiamo parlare.»

«A quale proposito?»

«Nomi.» Il tono è indecifrabile, tutt'a un tratto serio.

Kei reagisce indurendosi, la tensione gli scolpisce la linea della mascella, gli occhi si adombrano; il volto di Tetsurou è nascosto dietro la sua schiena, invisibile allo specchio.

«Nomi? Quali nomi?»

«I nomi di famiglia, intendevo...  quello che sto cercando di dire... sempre se vogliamo discuterne ora... »

«Tetsurou: o parli o stai zitto, la via di mezzo mi fa incazzare.»

«Lo vedi? Non so mai come dirti le cose senza che t'incazzi.»

«Mi sto già incazzando. Dillo e basta.»

«Yu-chan... mia sorella...cioè, mia sorella e suo marito avrebbero pensato di chiamare il bambino... Leon.» La frase scivola fuori in un'unica espirazione, come un'ostruzione di cui liberarsi.

Kei non risponde, non muove un muscolo. Ha gli occhi puntati di lato, e in basso, su un punto del tatami un po' logoro, con una vecchia macchia che anni di lavaggi non sono riusciti a stingere.

Dalla prospettiva di Tetsurou, si vede solo la tensione dei muscoli del collo e lo sguardo obliquo, nascosto nel riflesso delle lenti.

«Non dici niente?»

«Cosa devo dire? Gli serve il mio permesso? Una benedizione? Un cazzo di applauso?»

«No, ma... »

Kei si allontana dallo specchio, non ne può più di vedersi dipinte in faccia tutte le maschere delle proprie debolezze. Si spinge in su gli occhiali, si sistema i capelli dietro la stanghetta, liscia le pieghe della stoffa con mani nervose.

«Non è una questione di permesso... » prosegue Tetsurou.

«Non è proprio una questione. E' figlio loro, possono anche dargli un nome del cazzo.»

«Non è una questione di permesso» ritenta Tetsurou, sforzandosi di mantenere il tono calmo. «E' una questione di affetto. Di rispetto.»

«Per chi?»

«Per tuo padre. Non vogliono onorare la sua memoria facendo un torto al figlio.»

Le spalle di Kei crollano in basso, le mani si stringono. E non esce neanche mezza parola. Eppure, quella posa parla. E non è un discorso che a Tetsurou piaccia udire.

«Tu sei importante, Kei. Lo sei per me, sono certo che lo fossi per tuo padre, anche loro ci tengono molto che... »

«Smettila di dire cazzate! Ma quale rispetto per me! Se avessero rispetto per me, la pianterebbero di farsi i cazzi miei e mi lascerebbero in pace. Comunque, non facciamola troppo lunga: mio padre è morto. La vita è loro, il figlio è loro, non me ne frega un cazzo che nome gli mettono.»

«A me sì!»

«Il mondo non gira intorno a te!»

Kei strattona la stoffa con dita febbrili, per strapparsi di dosso l'obi e tre strati di vestiti, e tutta quella farsa, da cui non può uscire altro che a pezzi, frantumi minuscoli impossibili da ricomporre.

Riesce a sciogliere la cintura e la scaglia via.

Ma il kimono non può toglierlo. Al posto dell'obi, le braccia di Tetsurou lo circondano, da dietro, un laccio intorno alle costole che, invece di annodare, scioglie.

«Kei: è mio nipote, è la mia famiglia. E voglio che sia anche la tua. Che è un discorso del cazzo, lo so. Perché siamo giovani, per il rapporto a distanza, perché sono un cazzone egoista, per tutti i motivi che vuoi. Ma non me ne frega niente. Il tempo passerà e diventeremo meno giovani e io forse sarò sempre scemo. Non me ne frega, Kei. Me ne frega solo che resti nella mia vita per almeno due secoli, che ti prendi tutto lo spazio. E allora vedi che è molto importante che gli vuoi bene anche tu a mio nipote...»

Kei fa forza con le braccia, per liberarsi. La voce dello scemo all'orecchio è un lento, ostinato gocciolare e scavare fessure, trasformare in sabbia bagnata il cemento delle sue certezze. Nel giro di poche sillabe e due respiri sul collo, quel cazzo di neonato lo vuole conoscere e lo vuole amare, e non sa nemmeno perché. E se non è questo un pericolo da cui fuggire...

Testurou allenta la presa all'improvviso. Ora che nulla lo trattiene, Kei non muove un passo, il tempo è fermo, gli tremano i polsi, la seta blu gli pende addosso come un cielo notturno.

«Se non sopporti che gli diano quel nome, per favore dimmelo.»

«Cioè decido io? Se non va bene a me non se ne fa niente?»

«Non lo so, ma ci tengono a saperlo. E ci tengo a saperlo io. E se serve mi ostinerò per fargli cambiare idea.»

«Perché?»

«Perché voglio che le persone che amo si amino.» E' quasi un lamento, la fronte poggiata sulla spalla di Kei.

Lui vuole. Vuole e la sua volontà è insaziabile e sfrenata, ha la forza dei moti tellurici, apre squarci di luce, abbaglia così tanto che lascia al buio i dolori, toglie loro l'ossigeno, li spegne nell'ombra.

Kei s'innamora. Ed è terrificante, oscuro, irresistibile e fatale, innamorarsi in questo modo.

«Va bene.»

«Cosa?»

«Tutto, brutto scemo. Soprattutto il fatto che sei un cazzone egoista.»

«Anche i due secoli?»

«Vedremo.»

«Anche Leo-chan?»

Kei sospira e pensa che dovrebbe prendersi tempo, pesare le parole, ripetersi nella mente quel nome, definire cosa prova. Purtroppo, il tizio lucido, analitico e affidabile è sparito nel nulla. E' rimasto solo il coglione che non sa fare altro che cadere e innamorarsi.

«Anche Leo-chan. Speriamo prenda tutto dal padre.»

****


Tsukishima Kei ha sempre odiato le imposizioni, i sentimentalismi, le feste comandate, gli abiti scomodi. Detesta le banalità, le scelte scontate, i luoghi comuni mascherati da pensieri profondi. Non sopporta i luoghi affollati, i sorrisi facili, gli entusiasmi ingiustificati. Tsukishima Kei odia tutte queste cose e moltissime altre, ma ama Kuroo Tetsurou.

E il fatto di trovarsi lì, in kimono, in mezzo al caos di Akasaka, sulla gradinata posteriore di Hie-jinja il primo dell'anno è la prova materiale del fatto che l'amore per una persona sola ha superato l'odio per il resto del mondo. Del resto, il confronto è impari.

Kei tace imbronciato mentre tutto questo gli passa in mente e intanto, di fronte a lui, Bokuto sta trascinando Kuroo su per le scale del santuario, a ritmo sostenuto. Gli ha passato un braccio intorno alle spalle e lo sta stritolando con gioia. Gli parla all'orecchio e tutto il dialogo è un contrappunto di smorfie, spinte, cazzotti nei fianchi, persino testate.

Bokuto Koutaro e il kimono sono chiaramente incompatibili. Il verde gli dona, in realtà, diverse gradazioni fra il color palude e un cinabro intenso. Però la sua energia non può essere contenuta e straripa dalle cuciture, dai nodi, dai gesti eccessivi. 

I capelli puntano in alto come il suo morale, i movimenti ignorano l'ingombro degli abiti ed esplodono di vita, mostrando pieghe, spaccature, lembi di stoffa, persino le braccia nude sotto le maniche.

Akaashi, al contrario, sembra uscito da una miniatura meiji: il suo kitsuke è perfetto, così come la sua condotta, sempre pronta a prendere forma dal contesto e dal momento. Un maestro di mimesi, guidato da un infallibile senso dell'opportunità e un'efficacissima combinazione di diversi tipi di intelligenza.

Mimesi anche emotiva, pensa Kei, osservandolo di sottecchi.

Il kimono ad Akaashi dona molto, ma mai quanto allo scemo, che, letteralmente, fa voltare i passanti. Se dessero a Kei 5 yen per ognuno che lo segue con lo sguardo dopo averlo incrociato e 10 per ogni sussurro e risatina femminile, arriverebbe ricco in cima alla gradinata. La gelosia è un maglione irsuto di lana grossa, portato a nudo sui sentimenti esposti.

Kei e Keiji salgono le scale con calma, dietro gli altri due, pensando entrambi che questo che stanno condividendo, questo procedere affiancati, passando sotto i tori dipinti di rosso, sia la metafora di qualcosa di importante, che li accomuna. E forse è meglio non sapere esattamente cosa. Così entrano nel nuovo anno insieme, in sintonia, senza fretta. Non parlano, ed è un silenzio lieve, consapevole e riposante. Non lo sanno ancora, ma resterà una delle cifre della loro lunghissima amicizia.

Poi Keiji si schiarisce la voce, inclina la testa e solleva le sopracciglia; non ha bisogno di domandare.

Kei sorride; un sorrisetto sardonico, che non riesce a coprire tutta la luce che gli staziona ancora negli occhi, dietro le lenti.

Anche Keiji sorride, e distoglie lo sguardo, per discrezione. «Kuroo-san sta facendo un ottimo lavoro, per i senta» commenta, accarezzando con la mano i kanji incisi in uno dei tori.

«Quando vuole è meno cretino di quello che sembra.»

«E' sempre stato interessante.»

Kei scocca un'occhiata verso l'alto. Interessante è un aggettivo tragicamente riduttivo per uno che gioca a cambiare le vite degli altri.

Keiji stira le labbra in un moto di condiscendenza. «E' il tipo di persona determinata i cui risultati dipendono dalla motivazione. E in questo caso qualcuno è riuscito a motivarlo.»

L'orgoglio appoggia sul viso di Kei una vecchia maschera di arroganza, alla quale Keiji non abbocca neanche per un attimo; anzi, la trapassa senza fatica con lo sguardo.

«Che dici, può farcela?» il tono di Kei ha abbandonato di colpo tutta la sicurezza.

«A dire il vero, pensavo di no, quando me l'hai detto la prima volta. E invece, sinceramente, ora credo che, se se la gioca bene, abbia qualche possibilità. E' ingombrante, resta impresso, che è il genere di cosa che a un colloquio ti aiuta.»

Ingombrante lo è di certo. Impresso, invece, non è la parola giusta. Le impressioni sbiadiscono col tempo e non superano la superficie. Tetsurou ti apre e ti arriva dentro senza preavviso, marchia il territorio, scava solchi, semina, si insedia. Corpo o anima, per lui non fa differenza.

Kei si aggiusta gli occhiali sul naso e nasconde il mento nella sciarpa. «Ti ringrazio Akaashi-senpai» dice, formale quanto basta per farsi prendere sul serio. «Di tutto quello che stai facendo per...» La pausa è molto lunga, ma poi il pronome viene fuori rotondo, definito, denso: «... noi.»

«Noi.» Akaashi ripete la parola e sottolinea il non detto con un'espressione allusiva.

Kei risponde con una leggera spallata.

«Sei felice?» domanda Akaashi, scoccando un'occhiata ai due che li precedono.

Kei se lo domanda onestamente. E' felice? Era felice stanotte? Stamattina? E dieci minuti fa in sella alla moto? Gli viene il dubbio di non sapere affatto cosa sia la felicità, né cosa dovrebbe essere. Quello che sa è che Kuroo Tetsurou, senza il minimo sforzo, gli ha rimodellato la vita sulla sua forma. E non è che sia qualcosa di cui essere o meno felici. E' così e basta, bisogna prenderne atto e conviverci, magari senza farsi spazzare via.

«Non lo so. Forse. E tu, Akaashi-senpai?»

«Sai che non lo sono.»

«E conti di farci qualcosa?»

Keiji scuote il capo, le mani nascoste nelle maniche. «Domanda di biologia elementare, Tsukishima-kun: cosa fa un organismo aerobico in carenza di ossigeno?»

Kei aggrotta le sopracciglia. «Cerca di rallentare il metabolismo e razionare l'aria?»

«Esatto. Affannarsi a respirare tutto e poi morire è la scelta più stupida. Deve bastarmi quello che ho, non posso essere avido. Non a tre mesi dai diplomi.»

«Akaashi-senpai, perdonami, ma è un discorso del cazzo. Non sei un organismo aerobico, sei una persona. Una persona complicata. Dovresti semplificarti la vita, non incasinartela: diglielo e basta.»

«Come hai fatto tu? Deciso, disinvolto e intraprendente?»

«Sono stato un coglione.»

«Un coglione molto fortunato. Credi sia così facile per tutti? Ti facevo più realista: il mondo è pieno di gente a cui piace essere normale. La normalità è confortante, facile, se ci pensi bene, è persino giusta.»

«La normalità è sopravvalutata. Forse neanche esiste.»

Kei lo dice, e lo pensa, ma in fondo al cuore sente agitarsi i tentacoli di una paura nuova: quella di stare portando via qualcosa a Tetsurou. Opportunità, sicurezze, approvazione, consenso sociale. Una vita più semplice.

La mano di Keiji scatta fulminea in uno scapaccione sul collo.

«Ahia!»

«Stai pensando cose idiote.»

«Leggi nel pensiero?»

«No. Ma conosco il meccanismo. Quello che ho detto non vale per te, mi sembra ovvio.E comunque, si vede a occhio.»

«Cosa?»

«Tu e Kuroo-san. Si vede che è cambiato qualcosa.»

«Non dire cazzate.»

«Non dico mai cazzate. Fidati: si vede. E' come... una corrente sotterranea. Qualcosa fra voi due che prima non c'era e adesso sì. Tipo... come ti guarda...»

«Come mi guarda?»

«Come se dovesse impararti a memoria. E anche... come se il resto del mondo non ti meritasse.»

«Ma che idiozie! Quando mi avrebbe guardato così?»

«Adesso, per esempio.»

Kei alza lo sguardo e incontra gli occhi di Tetsurou, che lo osservano dall'alto. Uno sguardo innamorato, soddisfatto e anche un po' possessivo.

Kei non lo sa, ma Tetsurou, mentre lo guarda, si sente carico, elettrico, invincibile. Gli trema il cuore dalla meraviglia e dal desiderio,  la lingua è ancora impastata dei sapori dolci e forti di stanotte. Tetsurou guarda Kei e impreca di gioia in silenzio. Lo guarda e assapora il dolore di lasciarlo partire domani. Lo guarda e si cuce addosso i suoi contorni, scatta foto mentali di tutti i suoi sguardi, dei movimenti e delle pieghe del kimono che li seguono, eleganti e docili.

Intanto Bokuto continua imperterrito a parlargli, gli tira le maniche, gli rifila amichevoli cazzotti sul costato, lo costringe a voltarsi e pretende attenzione.

«Che si staranno dicendo?» domanda Kei.

Keiji sorride di sbieco e gonfia le guance: «Oya Kuro! Lo sai che hai la faccia da pesce lesso? Allora? Eh? Mi dici com'è andata?» esclama, imitando alla perfezione le cadenze di voce sincopate e la pronuncia gutturale di Bokuto.

«Che vuoi sapere, gufo impiccione?» chiede, passando all'intonazione spavalda di Tetsurou, alla sua voce profonda e mutevole.

«Tutto! Lo avete fatto? Quante volte? Com'è stato? Difficile? Meglio o peggio delle ragazze? Non è stato un sacco strano? Cioè, tipo, se ce l'ha più grosso di te, magari ti viene il complesso... ti si ammoscia... Stai arrossendo? Ti si è ammosciato?»

«Oya Bo! Che cazzo dici? Non mi si ammoscia mai! Mai, capito?»

Kei scoppia a ridere. Forte, davanti a tutti. Un cretino in kimono che ride a crepapelle in mezzo alla scalinata di un tempio. Come se avesse davvero i sedici anni che ha.

Anche Keiji sta ridendo, di sé stesso, dei suoi casini, della tortura che si infligge. E anche del bisogno inedito, improvviso, irrefrenabile, di parlarne con uno che conosce da pochi mesi.

Tetsurou e Koutarou li sentono ridere e si voltano perplessi a guardarli dalla cima della salita, sotto l'ultimo tori. Ed è come se li vedessero per la prima volta.

***

Le spalle spioventi di Bokuto e la sua aria afflitta dicono molto di più delle parole mangiucchiate che sta borbottando.

Grande maledizione proclama il suo omikuji. E poi specifica che si tratta di delusioni di "affari e lavoro".

Seduto sul muretto di pietra, Bokuto si guarda i piedi che dondolano, fra un sospirone e l'altro.

«Hai capito perché non li volevo prendere?» sta recriminando a bassa voce Akaashi con Kuroo, che ride come una iena impazzita, senza riuscire a fermarsi.

«Bo! Grande maledizione! Ti verrà il cagotto a tutti i provini della prima divisione!»

Kei si sforza di mantenersi impassibile, ma viene da ridere anche a lui.

Keiji li ucciderebbe volentieri entrambi.

«Bokuto-san, davvero credi ancora agli omikuji alla tua età?» interviene Kei, con il suo tono più irritante.

Bokuto scuote il capo, ma continua a guardare in basso e mordersi le labbra. Le maniche del kimono gli pendono flosce dai polsi.

«Eddai Bo! Fanculo gli oracoli!» lo conforta Tetsurou con una pacca così forte da spostarlo.

«Allora butta via il tuo!» lo sfida Bokuto, mugugnando.

«Non ci penso proprio: media benedizione, successi nello studio» gongola, mostrando il foglietto. Bokuto cerca di afferrarlo, ma Kuroo è più svelto e se lo infila in tasca.

Kei accartoccia il suo e lo infila in mano a Bokuto. «Puoi avere il mio.»

«Piccola benedizione, fortuna per una nascita?» legge Bokuto. Per un attimo ha l'espressione confusa. «Tsukki, guarda, fra le cose che proprio sono impossibili è che tu... »

Kei allarga gli occhi inorridito e si riprende il foglietto, Kuroo ride ancora più forte.

«E tu Akaashi?» chiede Bokuto, ancora depresso.

Keiji mostra il foglietto ancora ben piegato. «Non l'ho aperto e non lo voglio aprire. Bokuto-san, sai cosa penso: il destino è nelle nostre mani, nelle scelte che facciamo. Non sta scritto sui foglietti, non si compra con tre monete.»

Bokuto annuisce a labbra serrate, ma si vede che è ancora depresso. Nella sua mente, nella culla di affetto caldo in cui è cresciuto e vive, la felicità è quasi dovuta e le maledizioni fanno paura.

«Sai cosa penso io, gufaccio?» interviene Tetsurou, sedendosi accanto a Bokuto.

«Cosa?»

«Che l'omikuji andiamo a legarlo a un albero e questa maledizione la lasciamo qui. E poi quello che conta davvero sono le preghiere. Quelle valgono molto più degli oracoli. Vero Akaashi?»

«Vero.» conferma Keiji e si siede anche lui vicino a Bokuto, dall'altro lato.

Kei crede agli dei quanto crede agli oracoli e alle previsioni del tempo: zero. Eppure poco prima, di fronte al chouzuya, mentre Tetsurou gli versava acqua fredda sulle mani con il mestolo, e dopo, in fila per arrivare di fronte alla campana, Kei ha sentito qualcosa. Qualcosa di potente e dolce, ineffabile, impossibile da catturare, come un respiro che attraversava la folla e poi si alzava, sciogliendosi nell'aria gelida. Qualcosa di cui sentirsi parte per un attimo, anche senza volerlo, anche senza crederci.

«Perché non scriviamo un ema?» Si ascolta dall'esterno, mentre formula questa proposta assurda, che però trova un consenso entusiasta, e già lo sguardo di Bokuto si sta rialzando di qualche centimetro.

E' Kei a comprare le tavolette di legno per tutti, al banchetto affollato. Costano pochi yen e sembra non possano esimersi dall'essere decorate in modo terribilmente pacchiano. Gli dei, se esistono, hanno un pessimo gusto.

Qualche minuto dopo, tutti e quattro stanno scrivendo, ciascuno curvo sulla propria tavoletta, con i pennarelli usciti per magia dal kinchaku di Keiji (una borsa minuscola, intonata al kimono, con la proprietà di estendersi al suo interno in molte più di tre dimensioni, su topologie sconosciute).

Agganciano gli ema in quattro punti diversi del gigantesco espositore, i loro desideri sussurrati al cielo in mezzo a quelli di tutti gli altri, confusi in un'unica voce assordante, perfino molesta, nel caso i superni abbiano debole l'udito, o la volontà.

«Che ci hai scritto sulla tua, Kuro?» domanda allegro Bokuto, divorando uno spiedino di takoyaki. «Caffo, quanto scotta!» grugnisce, cercando di inspirare aria fredda dai lati della bocca. Akaashi subito gli porge una bottiglietta d'acqua già stappata.

Tetsurou ha il palato d'amianto e si ingozza indisturbato. «Sei un gufaccio indiscreto. Dimmi prima tu che ci hai scritto!»

Bokuto sta ancora bevendo. «Ho chiesto che... »

«Non devi mica dirglielo per forza, Bokuto-san» interviene Akaashi. «I tuoi desideri riguardano solo te e gli dei, non Kuroo-san.»

Bokuto annuisce, infilandosi in bocca un altro takoyaki e facendo smorfie a Kuroo mentre mastica. Ha già due macchie d'unto sull'haori, che hanno notato tutti tranne lui.

«Allora indoviniamo! Vai, Tsukki, inizia tu: cosa ha chiesto agli dei il gufaccio?»

«Vincere i nazionali?» azzarda Kei, soffiando sul suo spiedino.

«Naaa! Troppo poco. Questo qui» obietta Kuroo, mettendo un braccio intorno alle spalle di Bokuto «è uno che desidera in grande!»

Bokuto sorride, come fosse un grandissimo complimento. Anche Akaashi sorride; di cosa lo sa solo lui.

«Le olimpiadi?» ritenta Kei.

Kuroo scuote la testa con convinzione. «Per me sono gli Schweiden Adlers.»

Kei storce la bocca, fra le squadre della prima divisione gli adlers sono quelli che gli stanno più antipatici.

Bokuto intanto ha inghiottito il boccone tutto insieme e sta ingollando acqua.

Il sorriso di Tetsurou si allarga a quella reazione. «Ci ho preso, eh?»

«Secondo me no» commenta tranquillo Keiji.

«Beh...» Bokuto si gratta la nuca, con un gran fruscio di seta. «A dire il vero stavo per scrivere proprio quello. Poi però...» guarda per aria e sorride a un gruppetto di uccellini appollaiati su un ramo basso. «Poi però ho pensato che fosse un desiderio molto egoista. E anche che... beh, sì, c'era qualcos'altro che desideravo di più.»

«Cosa?» domanda Kuroo, la cui invadenza è ammantata di sincero interesse.

Bokuto arrossisce leggermente. «Che rimaniamo sempre amici. Noi quattro. Come oggi, che per me è l'hatsumode migliore di sempre.»

Parla con tranquillità, con uno di quei sorrisi che gli partono da dentro e si estendono a tutti i lineamenti e poi oltre il viso, fino all'aria che ha intorno. Per questo sono irresistibilmente contagiosi. Perfino Kei sorride; anche per lui è l'hatsumode migliore di sempre.

L'appropriata reazione di Tetsurou è saltare sulla schiena del capitano del Fukurodani e subissarlo di cazzotti bonari e prese in giro. Si scambiano anche qualche parola sottovoce.

«Ho scritto anche un'altra cosa» dichiara Bokuto, rivolto ad Akaashi, cercando di scrollarsi di dosso Kuroo.

«Cosa?» il sorriso di Akaashi è velato di una tristezza sottile che sembra compostezza.

«E' un segreto» risponde, misterioso. E gli sorride: le stelle crepitano nei suoi occhi e si accendono delle parole che ha inciso nel legno con la forza del suo desiderio. Che si avvererà.

Anche il desiderio di Akaashi si avvererà ma, come per tutte le cose che lo riguardano, sarà più una conquista che un merito. Ci vorrà tempo, fatica, volontà, determinazione. Del resto, si porta sulle spalle un destino lungo molte vite e che, finalmente, si scioglierà in questa. O almeno, questo fu ciò che vide l'astrologo interpellato per la sua nascita. Lo vide e lo tenne per sé;  ai clienti paganti disse, come sempre, esattamente ciò che volevano sentire.

Il desiderio di Tetsurou riguarda l'amore. E' grandioso e appassionato, ma non si avvererà. Perché la realtà sarà molto più prepotente, irrequieta e imprevedibile di quanto sia in grado di immaginarla adesso che ha diciott'anni, gli ormoni impazziti e troppo sole addosso. Non lo sa, ma il tempo di una sola esistenza per amare non gli basterà.

Quando si salutano in fondo alla discesa, è già il tramonto. Akaashi e Bokuto se ne vanno verso la fermata della metro, Kei e Tetsurou restano a guardarli allontanarsi.

«Secondo te Bokuto-san se ne rende conto?» domanda Kei sottovoce.

«Che Akaashi è più di un amico?»

«Che così gli fa del male.»

«No, non credo. Non credo che se ne renda conto. E non credo neanche che gli stia facendo del male.»

Kei scuote la testa in un moto di disapprovazione.

«Akaashi-kun è complicato e sicuramente non indifeso» continua Tetsurou, pensieroso. «Bo è semplice, sincero, perfino fragile. Il male Akaashi se lo fa da solo.»

Kei si stringe nelle spalle, la sua voce è seria. «Non siamo in un film americano, i semplici e gli indifesi non sono per forza i buoni. Qualche volta, l'ingenuità ferisce, proprio perché è priva di calcolo.»

Tetsurou lo guarda in silenzio, rapito dal gioco di luci e di ombre che i lampioni gli proiettano sul viso, da come gli cade addosso il kimono, dalla piega preoccupata delle labbra. Pensa che sia meraviglioso. E lo colpisce l'idea che sia unico. E che il modo in cui guarda le cose e il mondo abbia una dimensione di profondità sconosciuta a chiunque altro. L'ammirazione scivola nell'amore con una facilità sorprendente. «E quindi fra noi due chi è il buono?» domanda, sedendosi sul muretto di fianco al primo tori.

«Io, ovviamente» risponde Kei rassegnato. «Non eravamo d'accordo che tu sei un cazzone egoista?»

Tetsurou ride e il mondo gli appartiene.

Kei gli siede accanto. Così vicino che i loro kimono si accarezzano. Così vicino che le mani si sfiorano sulla pietra ruvida. Così vicino che sembra di poter ascoltare i pensieri dell'altro. Così vicino che il cuore accelera e si accende, e visto che ormai è calato il buio, forse anche le lucciole sulla sua schiena stanno brillando.

Sull'ema di Kei, che dondola al vento, è scritto soltanto: Arigato gozaimasu.

 

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Capitolo 40
*** Sempre ***


40 -Sempre


8 gennaio 2013


Essere a Tokyo e non poter vedere Tetsurou è una nuova, perversa forma di tortura. Da quando il Karasuno è approdato alla capitale per i nazionali, fra l'euforia dei lercioni e le manie di controllo dei senpai, defilarsi è impossibile. La nuova specialità sportiva di Tsukishima Kei è il conteggio delle fermate di metro fra dovunque si trovi e Nerima.

Nove fermate e un cambio: irraggiungibile, quasi come essere a Miyagi.

Cinque fermate: in un'oretta scarsa si potrebbe fare andata e ritorno e farci stare in mezzo un tè, un battibecco e un bacio molto lungo.

Due fermate: pochi minuti, la tentazione fortissima di sparire oltre i tornelli e infilarsi fra le porte scorrevoli del primo treno, fanculo la squadra e il torneo. Arrivare davanti casa, suonare il campanello, fare una faccia seccata per coprire quella trepidante e poi entrare e chiudere fuori il mondo. Anche solo per dieci minuti, o cinque, o trenta secondi.

Il tempo è relativo. Lo diceva Einstein quasi un secolo fa, ma è Kuroo Tetsurou che lo ha dimostrato, con un'evidenza schiacciante e senza bisogno neanche di mezza formula matematica.  Fra eternità e istante, il tempo non fa distinzioni.

 

 

«Quanto dura per sempre?»  

Papà solleva gli occhi dalla pagina in quel punto, e poi rivolge a Kei la domanda, con un grande sorriso.

Kei ride per il solletico di quello sguardo, perché è emozionato, e anche perché ormai conosce benissimo la risposta del libro.

«A volte, solo un secondo.»

 

 

«Non sarà ora di ridarmela?»

Kei scuote la testa, schioccando le labbra con un'espressione di finta malignità.

«Fa un freddo cane... »

«Sei così moscio?»

«Non sono moscio!» Tetsurou trattiene il fiato e gonfia un po' gli addominali, tanto per rimarcare il concetto.

«Allora resisti e non rompere.»

E' vero che fa freddo, ma non al Metropolitan Gymnasium di Sendagaya, dove anche i bagni e gli sgabuzzini sono riscaldati (magari non proprio benissimo).  Dalle finestre, si vedono galleggiare le luci abbaglianti di Shibuya, un oceano colorato e tremulo contro un cielo senza luna.

Tetsurou è in piedi, a torso nudo, con un rotolo di cerotto in mano; la sua maglietta rossa e la sua felpa sono addosso Kei, seduto sul lavabo di fronte a lui. E' l'intimità complice e provvisoria di un bagno pubblico deserto, dove aleggia un vago odore di disinfettante industriale, che riporta alla mente di entrambi il ricordo di un momento preciso e materializza un disagio che fino a un attimo prima non c'era.

«Non avrei dovuto farlo, quel giorno, a Sendai. Non ti ho mai chiesto scusa» dice Tetsurou all'improvviso, interrompendo il gesto meccanico di grattare con l'unghia sul rotolo, per trovare l'estremità libera.

«Neanch'io avrei dovuto farlo. Ma sei un rompipalle cocciuto, continuavi a farmi pressione e non sono riuscito a trattenermi.»

«Farti perdere il controllo è la mia vocazione... »

E' una verità talmente scontata da essere irritante, in più, lo scemo sta usando il superpotere e la sua voce bussa con la grazia di un ariete alla sezione lussuria del cervello di Kei, dove tutte le perdite di controllo sono altamente desiderabili. Deglutisce e si allontana di qualche centimetro, spingendosi in su gli occhiali sul naso. 

«E queste per te sarebbero delle scuse?»

Il rumore del cerotto strappato riempie il silenzio.

«No. Hai ragione. Scusami, Kei, davvero. L'unica cosa che posso dire a mia difesa è che non volevo.»

Kei non risponde, contempla le proprie dita magre e  irrequiete strette fra quelle di Tetsurou, la cui loquela, a quanto pare, è inarrestabile. «Non volevo spaventarti. Approfittarmi di te. Fare lo stronzo. Tutte queste cose. Sono andato nel panico e sono stato molto stupido.»

«Addirittura nel panico?» Il potere di mandare nel panico uno come Kuroo è afrodisiaco.

«Beh certo, ero innamorato perso. E in fondo lo avevo anche capito, ma scusa, che dovevo pensare? Tu non facevi che sfuggirmi, non mi parlavi da settimane e poi all'improvviso mi salti addosso e mi baci in quel modo... » si passa la mano libera sulla faccia e sorride fra le dita. «Eddai, cazzo... era troppo. Ho perso la testa del tutto. Che non è una giustificazione, ma... »

Anche la facilità con cui lo scemo parla delle proprie emozioni è afrodisiaca e Kei perde l'ennesima battaglia, quando è costretto a stornare lo sguardo, per manifesta incapacità di controllare il respiro.

«Ma... niente. Mi sa che già a luglio, al ritiro, ero un bel po' innamorato, ma lì davvero non ci avevo capito un tubo» prosegue tranquillo Tetsurou, continuando a fasciare con cura il mignolo di Kei. «Sai che a pensarci adesso, non mi viene in mente neanche un momento in cui posso dire con certezza che tu mi fossi indifferente.»

«Quanto sei melodrammatico! Se fino a maggio neanche sapevi della mia esistenza...»

Tetsurou stacca un pezzo di cerotto con i denti, scuotendo il capo: «Sbagliato. Ci siamo conosciuti molto prima e tu lo sai. Ogni volta che riguardo quella foto assurda che il nonno ha tirato fuori dal cilindro mi sembra più ovvio.»

«Cosa?»

«Che era destino. E quindi è per forza un per sempre. Dai Tsukki, non fare quella faccia e collabora: apri bene questa mano!»

Kei obbedisce, allarga le dita e seppellisce il tracollo emotivo fra il collo e la spalla di Testurou, premendo forte il viso nell'incavo.

Lo scemo, imperterrito continua ad appiccicare strisce di cerotto e a parlare: «Sono convinto che i per sempre debbano essere retroattivi. Sempre è sempre, non può valere solo in una direzione, altrimenti che sempre sarebbe?»

Kei vorrebbe evitare di rispondere: la concupiscenza fra la fisica quantistica e l'amore è già abbastanza immorale senza aggravarla con le parole, che però gli escono di bocca suo malgrado, bassissime e turbate. «Quanto dura per sempre?»

Tetsurou appoggia la guancia contro quella di Kei: «A volte, solo un secondo.»

Il fiato caldo nell'orecchio si trasforma in un brivido lungo tutta la schiena di Kei; le orecchie e le guance prendono fuoco, il cuore raddoppia i battiti.

«Non ti eccitare troppo, Kei-chan. Non l'ho mica letto, il libro.»

«Non chiamarmi così!» bofonchia Kei, paonazzo, tentando invano di mettere a segno una gomitata. «Che cazzo significa che non l'hai letto?»

Tetsurou si crogiola in quella reazione, in quel magnifico rossore, in quella sontuosa debolezza esposta per lui. «Akaashi-kun pensa che un po' di citazioni di roba occidentale famosa, sparate al momento giusto, mi faranno comodo al colloquio con le milf.»

«Se ci vai a torso nudo e con quella faccia da scemo, le milf ti faranno rettore senza che tu apra bocca.»

«Sono così bello?»  domanda, deliziato.

«Sei pornografico.»

«E' un complimento?»

«No!»

Bugia.

«Peccato. Coraggio, da' qua l'altra mano!»

«Devi per forza fasciarmele tutte e due?» protesta Kei, querulo.  «La sinistra non mi ha mai dato mezzo problema... »

«E' la battaglia della discarica, Tsukki, vi dobbiamo fare a pezzi. Se devo schiacciarti addosso - e lo farò - voglio almeno essere sicuro di non romperti le dita. E poi c'è Tora, che anche lui non ci va mica piano. E nemmeno gli posso spaccare la faccia.»

«Quanto sei stato stupido con Ushiwaka! Mi aveva pure chiesto scusa... » In tutta onestà, Kei non è ancora riuscito a definire cosa prova, quando pensa a Testurou che colpisce Ushijima.

«Ero fuori di me, l'abbiamo già detto.»

«Sei super-scemo, abbiamo detto anche questo.»

La mano sinistra di Kei, Tetsurou se la prende da solo e se la porta alle labbra, baciando prima il dorso e poi il palmo, dopodiché inizia a fasciarla.

Kei sospira, sazio di sentimenti fino a scoppiare, e gli appoggia di nuovo la guancia sulla spalla, con un abbandono di cui è il primo a stupirsi. «Posso farti una domanda scomoda?»

«Se te la senti di beccarti una risposta scomoda... »

Kei esita, raccoglie i pensieri e, prima di parlare, chiude gli occhi. «Come fai a crederci? A cose tipo "per sempre", dopo... quello che ti ha fatto tua madre.»

Le mani di Tetsurou si fermano. La terra gli trema sotto i piedi. Sente la guancia di Kei che preme più forte sul collo, il metallo freddo degli occhiali contro la pelle. Batte le palpebre.

 

 

Batte le palpebre e il freddo è quello delle piastrelle della cucina sotto le gambe nude. Ha cinque anni ed è seduto in lacrime sul pavimento, tutto bagnato perché se l'è fatta addosso e non sa come sia successo.

Di fronte a lui Ayumi, in uniforme scolastica, ha aperto il frigorifero e sta tirando fuori tutto quello che c'è dentro. Con metodo, estrae un piatto alla volta e lo scaglia contro il muro. I vetri e le ceramiche esplodono in frantumi, le confezioni si aprono e il cibo piove fuori.

A ogni impatto, Ayumi urla con tutto il fiato che ha in gola e senza una lacrima. A ognuna di quelle urla, Tetsurou trasale e singhiozza, il muco gli cola dal naso sulla maglietta e sulle mani, mentre il suo mondo, e il suo giovanissimo cuore, si incrinano.

Papà è chiuso in un angolo, spezzato, incapace di reagire. Non ci riuscirà mai.

Quando il frigo sarà vuoto, invece, Ayumi si fermerà. Si laverà le mani, soffierà il naso a suo fratello e lo aiuterà a cambiarsi, lo terrà stretto e gli dirà che va tutto bene, che andrà bene anche dopo. E, stranamente, non sarà affatto una bugia.

Ci penserà il nonno ad aggiustare ogni cosa; con pazienza e con cura, recupererà i brandelli sfilacciati di ognuno e li ricucirà di nuovo al posto giusto, con il filo d'oro irriducibile della sua presenza, rammendando gli strappi con amore, ricamandoci sopra motivi di fiducia, di serenità, di forza.

Qualcuno su cui contare che ti insegna l'affidabilità. Qualcuno che vale e che ti insegna il tuo valore.

 

 

«Scusami... » sussurra Kei, accarezzando con le labbra la spalla nuda e quel silenzio troppo lungo e troppo amaro. Chiede di nuovo scusa con un bacio leggero sullo zigomo e un altro fra la mandibola e l'orecchio.

Della tenerezza segreta di Kei, quella che affiora solo quando non te l'aspetti e quando hai smesso di cercarla, è impossibile smettere di innamorarsi. La mano di Tetsurou gli scivola sulla nuca, per trattenerlo ancora in quella posizione, e parlargli fra i capelli: «Lei è lei e io sono io. E tu sei tu, e non c'è nessun altro uguale a noi.»

Non è una grande spiegazione, ma in quel momento soddisfa a pieno sia la logica che la coerenza di Kei, entrambe piuttosto arrugginite.

«Lei non era capace di amare, non lo so se poi abbia imparato. Ma non era capace. Io invece lo sono. Io lo sono, Kei.  Lo sono, vero? »

«Lo sei» conferma Kei.

Non è sicuro che l'abbia detto a voce, ma a Tetsurou basta e avanza per andare avanti. «Le cose e le persone che contano uno le deve coltivare, ci deve mettere del suo: tempo, passione, energia. L'amore è impegno. La felicità si costruisce, non si va a cercarla in giro dove capita. Quelli che pensano che sia nascosta da qualche parte, già bella e pronta, si illudono e basta e poi finiscono per rovinarsi la vita e fanno del male anche agli altri.»

Lo stringe forte, mentre parla, come se le parole dovessero entrargli dentro dalla pelle. «E lei era proprio così, un'illusa: la felicità la cercava in casa nostra e quando ha capito che non c'era, si è chiusa la porta alle spalle e se n'è andata a cercarla da un'altra parte, lasciandosi indietro i cocci. Io non sono così. Non voglio mai essere così. Quando dico per sempre, intendo che sarò io a fare in modo che duri, a prendermene la responsabilità. Io, in prima persona, cazzone, testardo, egoista e tutto il resto. Perché le cose che ci succedono dipendono quasi sempre da noi, anche quando sembra il contrario.»

Kei ingoia quelle parole con una fame mai conosciuta prima. Si sente fragile e leggero, ma ancorato al corpo e all'anima di Tetsurou, alle sue convinzioni incrollabili, alle verità profonde che la sua voce gli riversa nel cuore. «E il destino? Non ci credevi, al destino?»

«Ci credo. Ci credo, al destino. Ma non penso che sia come un libro tutto già scritto, penso che sia parte di noi. La somma delle conseguenze di tutte le nostre azioni. Non possiamo evitare le tempeste, ma possiamo orientare le vele.»

Kei solleva la testa e lo guarda scettico, ma ancora con gli occhi umidi. «Guarda che non sei al colloquio con le milf, piantala di fare lo splendido. Chi cazzo è? Conrad? Melville?»

Tetsurou sorride sull'orecchio di Kei. «Kuroo Tomo.»

[NdA E anche un po' Seneca, ma Tetsu non lo sa e Tomo non ci tiene che lo sappia.]

Kei scopre in quel momento di amare tutti i Kuroo, presenti, passati e forse anche futuri. Generazioni di gente spavalda con i capelli scombinati, il cui DNA converge verso quel fantastico, irresistibile, fatidico esemplare di scemo.  Lo abbraccia con foga, cingendogli il collo, mentre il cerotto gli pende dalle dita. Lo stringe e continua a stringerlo al parossismo, finché quell'abbraccio passa da fuori a dentro, diventa enorme e profondo e già contiene un frammento di per sempre. 

Peccato che gli idilli non durino; del resto, il tempo è relativo.

 

 

L'ansia pre-partita di cui soffre Hinata Shoyou ha la sgradevole tendenza a somatizzare in modi imbarazzanti. Qualsiasi colazione faccia, dal katsudon (che non è poi così pesante) a un semplicissimo natto (che per saziarti devi mangiarne un quintale), all'idea di entrare in campo l'intestino di Shoyou si ribella, rendendo comica e improrogabile l'urgenza di raggiungere un bagno.

Il vero problema è che nei bagni degli stadi si fanno incontri pessimi. A parte il fastidio di dover espletare doveri sociali quando vorrebbe espletare tutt'altro; di tutti quelli che uno può incontrare davanti a un wc, Shoyou finisce sempre per trovarsi di fronte i più spaventosi.

Questa volta, per questa partita cruciale, Hinata Shoyou ha un asso nella manica.

Tenendosi la pancia, che lamenta sonoramente il suo malessere, sale di corsa due rampe di scale, corre lungo i corridoi che danno sugli spalti, svolta in un angolo, sotto l'indicazione verde di un'uscita di emergenza e finalmente, raggiunge la sua destinazione. Un bagno minuscolo, che sarebbe riservato agli spettatori, ma così ben nascosto rispetto a quelli segnalati dai cartelli, che in pochi ne conoscono l'esistenza. 

Hinata apre la porta con entusiasmo e si ritrova proiettato all'interno.

Poi si blocca, gli si spalanca la bocca, gli occhi si sgranano e lui li strofina, perché deve essere per forza un'allucinazione.

Davanti a lui, Tsukishima è seduto sul piano di uno dei lavabi, con addosso la maglia numero uno del Nekoma. Potrebbe averla rubata - Tsukishima è capace di cose che uno non s'immagina - senonché il legittimo proprietario è proprio lì di fronte che lo abbraccia, mezzo nudo. Tsukishima ha la guancia spiaccicata contro la sua spalla e gli sorride.

Shoyou deglutisce. Tsukishima che sorride è più inquietante di Japan che fa la cacca nel cubicolo accanto al tuo, più di Kageyama quando ti fa i complimenti, più dei commenti imbarazzanti di Suga-san sugli avversari quando si asciugano la faccia con la maglietta. Non c'è niente al mondo di più inquietante di Tsukishima che sorride a qualcuno in quel modo.

Nel frattempo, per fortuna, ha smesso di sorridere. Ha tirato su la testa e sta fissando Shoyou come se non riuscisse a scegliere il modo più atroce per farlo fuori.

«Qualche problema?» sibila.

Shoyou scuote il capo freneticamente, e vorrebbe dire di no, ma non gli escono le parole, non riesce neanche a chiudere la bocca.

Anche Kuroo si volta a guardarlo, sorpreso, più che altro. «Ciao chibi-chan. Che cavolo ci fai qui?»

Shoyou è ancora paralizzato: non ha la minima idea di cosa significhi quello e comunque non riesce a guardare nient'altro. 

«Ha il torcibudella, come sempre» commenta seccato Tsukishima. «E rompe le palle, come sempre. La combinazione delle due cose è insopportabile.»

Kuroo ridacchia, con la mano sul fianco. «Un po' in effetti rompe le palle, ma mi è simpatico. Piuttosto, Kei, mi dispiace, ero sicuro di essere l'unico a conoscere questo posto... »

Kei si sistema gli occhiali, le sue labbra si storcono. «Se lo ha fatto apposta, giuro che lo accoppo. E non me ne frega niente se è amico tuo.»

«Eh?»

«E' stato Kozume, vero?» domanda Kei a Hinata. «A dirti di venire qui.»

Shoyou annuisce, ammirato da tanta perspicacia..

Tsukishima esala un verso di disprezzo e la sua faccia è tutta un grande lo sapevo. A Kuroo viene da ridere. «Devi piacergli proprio tanto, a Kenma» commenta allegro.

«Anche a me lui piace. Ha sempre un sacco di cose interessanti da dire.»

La stima di Kei è che Hinata capisca sì e no il 15% di quello che gli dice Kozume, forse meno. Alla fin fine, tutto concorre a confermare la sua già radicata convinzione che il nano con la ricrescita sarebbe meglio buttarlo dalla finestra, checché ne pensi Tetsurou, che non è affatto lucido, quando si parla di lui.

«Boke! Sei qui?» urla una voce scura e contrariata, dall'esterno. Un attimo dopo, la porta sbatte contro il muro e compare la faccia imbronciata di Kageyama. «Come va la pancia? L'hai fatta o no? E' tardi, devi muovere il culo.»

«In tutti i sensi» aggiunge Tsukishima a labbra strette. Kuroo ride.

Come al solito, il Re del campo vive solo per le cose di cui gli importa: la pallavolo e Hinata Shoyou, non è chiaro in quale ordine. Il resto del mondo viene molto dopo, in secondo piano, quasi sullo sfondo. 

Quando solleva gli occhi e coglie la scena accanto al lavabo, la sua unica reazione è un'alzata di sopracciglia. «Ah» commenta.

Kuroo alza la mano in segno di saluto, Kei offre un sorrisetto odioso, che promette ferri corti e vendette trasversali. Ma Kageyama li ignora entrambi; sta pensando unicamente alla partita e all'intestino debole di quel grandissimo boke.

«Allora? Che ci stai a fare qui? Hai cagato o non hai cagato?» domanda spazientito.

Shoyou risponde con una manata. «Baka! Perché devi sempre essere volgare! C'è gente!»

«Come ti senti?» continua Kageyama, mentre lo scruta, valutando il pallore e il velo di sudore sulla fronte. Lo tira dal colletto per farlo avvicinare e gli piazza una mano aperta sulla fronte.

Hinata si divincola. «Devo ancora farla» ammette, con le mani sulla pancia e l'aria afflitta. «Ma c'era qui Tsukishima che ... »

«Che c'entra Tsukishima? Non è un compito in classe, devi solo cagare! Dai, andiamocene! Se qui non ci riesci, c'è un bagno anche di sotto, forse è vuoto.»

«Ma Tsukishima... »

«Muoviti!»

«Ma... »

L'intestino di Shoyou si palesa con un roboante borborigma, che lo fa piegare in due. Kageyama lo tira per un braccio, apre la porta e lo spinge all'esterno.

Prima di chiudere, rimette dentro la testa. «Tu!» dice perentorio, rivolto a Kuroo. «Per favore mettiti la maglietta, senza non ti fanno giocare.»

Tetsurou sgrana gli occhi divertito.

«E tu invece,» prosegue Tobio, guardando male Kei «mettiti quella giusta e vedi di darti una mossa. Se fai tardi ti picchio!»

L'ultima frase arriva dall'esterno, mentre la porta ammortizzata si richiude lentamente. «Ti picchio anche se a quello lì non gli fai il culo a strisce.»

 

 

Sono di nuovo soli, ma l'atmosfera è irrimediabilmente cambiata, grazie ai due prodigiosi idioti e alle loro turbe.  Restano a fissarsi, incerti se commentare o meno l'assurdità dell'accaduto e le ovvie conseguenze, che un po', comunque, fanno paura a tutti e due. Meglio stare zitti perché le paure, come le speranze, una volta dette a voce, diventano vere.

E' Kei, maestro di finta noncuranza, a reagire per primo. «Hai sentito? Sua maestà ha detto che devo farti il culo a strisce.» 

«Non vedo l'ora» risponde Kuroo, con un largo sorriso. E' il sorriso pericoloso, che prelude a qualcosa di brusco e sleale, tipo un bacio a tradimento. 

Tetsurou adora baciarlo così, rubandogli le labbra all'improvviso, la mano salda dietro al collo, il pollice che segue la forma della stanghetta degli occhiali, sulla pelle morbida sopra l'orecchio. Se lo fa bene, ottiene in premio un sospiro, l'inizio soffocato di un gemito.

Questa volta, lo fa molto bene.

La sveglia sul cellulare di Kei , implacabile e molesta, sorprende entrambe le mani di Testurou mentre vagano sulla schiena nuda di Kei, corteggiando l'elastico dei boxer.

«E' ora di andare» mugugna Kei, spingendosi a due mani giù dal lavabo. Sostituisce in fretta la maglia del Nekoma con la propria.

«Non mi va di andare... » si lagna Kuroo, infilandosi la sua svogliatamente.

«Fottiti.»

«Hai detto fottimi? No, dai, non è il caso, subito prima di giocare... »

Kei alza il dito medio.

Testurou ammicca con le sopracciglia, mentre mantiene aperta la porta, per farlo passare. «Sai? Non vedo l'ora di vederlo... »

«Cosa?»

«Il tuo culo a strisce. Non che non sia uno spettacolo anche tinta unita...»

«Crepa!»

«Centosettantadue!»

L'espressione stupita di Kei è un enorme punto a favore di Kuroo.

«Com'è malfido il mio Tsukki! Quindi credevi che avessi smesso di contarli... » lo accusa Tetsurou, schioccando la lingua canzonatorio, mentre si avvia nel corridoio.

Kei lo guarda e gli brillano gli occhi. Lo guarda così, mentre si allontana con quel grande numero uno sulla schiena e la felpa che gli oscilla dietro la spalla, appesa alle dita. Lo guarda e s'innamora. Lo guarda e vuole continuare a guardarlo, da ogni prospettiva e ogni distanza, di fronte, di schiena e di profilo. Vorrebbe aprirlo, per sgusciare all'interno e guardarlo anche dentro, dove i muscoli si annodano alle ossa, scivolando in silenzio fra i pensieri, nuotando fin dove non si tocca.

E' guardandolo che la realtà si accende e si colora; dove gli occhi di lui si posano le cose prendono vita e iniziano a splendere.

Kei guarda Tetsurou e Tetsurou se ne accorge e lo guarda a sua volta. Si avvicina finché le loro braccia nude non si sfiorano e sorride uno di quei sorrisi inafferrabili, che tracciano coordinate di spazi sconosciuti e disegnano nuove rotte per lo stesso viaggio.

La valigia di Kei è già pronta. In fondo, chi l'avrebbe mai detto, questo fatto di amare gli riesce benissimo.

La parola giusta è ikigai, il senso e lo scopo di esistere.

Qui e ora. E domani. E sempre.



*****
NdA TnH finisce qui con un sempre e un per sempre, poco prima del fischio d'inizio della battaglia della discarica. Ma è presto per salutarsi: ci sono ancora due uscite, quindi staremo insieme fino a mercoledì prossimo, per le ultime scintille di questa storia.

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Capitolo 41
*** EPILOGO - Le cose che Tetsurou adora ***


EPILOGO - Le cose che Tetsurou adora


20 luglio 2014


«Ehi quattrocchi, perché non vieni a fare qualche muro?»

Kei solleva la testa di scatto e i suoi occhi frugano il buio da dietro le lenti; prima che possa rendersene conto sta già sorridendo. La scena è diversa da due anni prima: oggi il quattrocchi del Karasuno è sulla soglia della palestra tre e l'ex capitano del Nekoma si trova all'esterno, sotto le pensiline che collegano gli edifici, ma quelle parole lanciate nel buio non hanno perso il loro potere magico.

Tsukishima Kei continua a sorridere (contro la propria volontà) e freme di anticipazione mentre alza il dito medio; i tre del primo anno che sono alle sue spalle si accalcano alla porta per capire cosa stia succedendo.

«Fuori! Sloggiate!» intima Kei, tirandone all'esterno uno a caso, per la collottola.

«Ma senpai... » protesta quello.

«Senpai...» si lagnano gli altri.

Tsukishima sbuffa «Niente piagnistei, è tardi: tra poco chiude la mensa.»

«Dobbiamo finire di pulire la palestra...»

«Ci penso io. Voi andate.»

«Ma che ore sono?»

«E' ora di muovere il culo e andare a mangiare.»

I primini si guardano fra loro, cercando di trovare qualche obiezione sensata e più che altro di mettere insieme il coraggio per esprimerla: dei senpai del terzo anno, Tsukishima-san è quello che fa più paura, anche se non alza mai la voce.

«Ma Shouyou-kun ci aveva detto che potevamo restare fino... »

«Ti sembro per caso Hinata? Ho qualcosa in comune con lui?» Kei, le mani appese alle estremità dell'asciugamano passato dietro al collo, si sporge leggermente verso il suo interlocutore. Incombe dall'alto, in realtà, visto che la differenza è di venti centimetri buoni.

Il ragazzino scuote la testa freneticamente.

Dopodiché si sente la risata. Una risata chiassosa e aperta, che viene da qualche parte verso la pensilina.

«Kei-chan! Piantala di fare il gradasso, non ci crede nessuno!»

I primini sgranano gli occhi. Kei-chan. Gradasso. Il tizio con i capelli scombinati dev'essere uno che vuole morire.

Invece Tsukishima-senpai sorride e poi abbassa lo sguardo e si sistema le lenti con due dita. «Crepa!» tuona.

Lo sconosciuto entra ridendo nel cono di luce del faretto, che disegna un bel fisico infilato in un paio di jeans e una maglietta nera con il logo del doppio ginko d'oro: uno studente della Todai, che a quanto pare ci tiene davvero a morire, visto che ha la brillante idea di mettersi a fare cuoricini con le dita all'indirizzo di Tsukishima-senpai, che è paonazzo (di collera, ovviamente).

Forse esploderà e verranno alle mani. Forse qualcuno dovrebbe correre a chiamare il capitano Yama.

In quel momento, gli occhi di uno dei primini si sgranano per un'improvvisa illuminazione; il suo sussurro concitato ai compagni genera meraviglia e una pioggia di bisbigli.

«Kuroo-san?» azzarda il ragazzino a voce alta.

Kei lo fulmina con lo sguardo.

«In carne e ossa» conferma compiaciuto Tetsurou, avvicinandosi e squadrando il soggetto che ha parlato.

«Com'è che hai un'aria familiare?» gli domanda, con una pacca gentile sulla spalla.

Kei sospira: «E' il fratello di Sawamura Daichi.»

«Sawamura Douji» si presenta lui, compito. Ha quello sguardo pulito e onesto che dev'essere il marchio di famiglia. «E' un onore conoscerti di persona» balbetta, con un accenno di inchino che mette in evidenza le orecchie molto rosse sotto il riverbero dei faretti. «Kuroo-san era il capitano del Nekoma, ai tempi di mio fratello» spiega agli altri.

Tetsurou stringe loro la mano e sorride spavaldo, come una celebrità assediata dai fan. Kei sospira rassegnato, mentre si abbassa le ginocchiere.

A mandarli via impiegano un quarto d'ora buono, in cui Kuroo resta al centro dell'attenzione: chiacchiera, sghignazza, dispensa consigli tecnici, racconta aneddoti, fa la ruota come un pavone sotto gli occhi esasperati di Kei.

Però è chiaro che ci sa fare con i ragazzini. In realtà ci sa fare con chiunque.

«Dovresti fare questo, di mestiere.»

«Cosa?» Tetsurou si volta a guardare Kei mentre ancora saluta i primini con la mano.

«L'affabulatore, l'imbonitore, il circuitore di innocenti.»

«E tu saresti l'innocente?» 

E' ammiccante, subdolo, indisponente alla massima potenza. Kei lo colpisce con l'asciugamano sul braccio. «Ogni volta che non ti vedo per un po' va a finire che mi dimentico quanto sei scemo. Che ci facevi lì al buio?»

«Ti aspettavo.»

Suona convincente, ma è una mezza bugia, perché prima di mettersi lì ad aspettarlo, ha passato mezz'ora a guardarlo giocare.

Tetsurou adora guardare Kei. Il problema è che guardalo non basta mai.

Ha dovuto resistere alla tentazione di fiondarsi dentro la palestra, interrompere la partita e, senza dare spiegazioni, senza salutare nessuno, prenderlo di peso e portarselo via. Era una cosa incredibilmente stupida, che lo avrebbe reso single in trenta secondi, ma l'avrebbe fatta. Stava per farla. C'è voluto molto, moltissimo autocontrollo. Kei nemmeno se lo immagina quanta disciplina mentale richieda questo cavolo di rapporto a distanza.

«Beh? Ti sei incantato?» gli occhi ambrati lo scrutano da dietro le lenti e si fanno seri in un attimo.

E' attento, Kei. Un'attenzione completa, tenace, orientata su tutte le frequenze, sensibile fino alle più invisibili sfumature. Non è premura, né riguardo, è una tensione profonda, totale, toccante e intima. Un modo di essere amati che produce esaltazione e crea dipendenza.

Assuefottuto, come dice Kenma.

Tetsurou allunga una mano verso il viso di Kei, ma lui si fa indietro: niente contatti in pubblico. E' una delle regole. Tetsurou si è convinto che esistano al solo scopo di essere scalzate via da lui, una a una, con tenacia e con dedizione, fino alla più completa anarchia dei sentimenti che prima o poi li travolgerà entrambi. E non vede l'ora.

«Qualcosa non va?» incalza Kei, con gli occhi socchiusi. Attenzione vivida, color oro colato, più le ombre della sera.

«Va tutto bene, Kei. Anzi, adesso va proprio benissimo.»

«E quindi perché te ne stavi al buio come un maniaco?»

Tetsurou ammicca, schioccando le labbra. «Non posso mica farmi vedere da chiunque, come se niente fosse. Sai che succede se si sparge la voce che c'è in giro il fantastico Kuroo-san, la leggenda del Nekoma?»

Arriva un'altra frustata con l'asciugamano, forte stavolta, e diretta al fianco.

«Ahia! Che ho fatto? E' colpa mia se sono famoso?»

«Sei insopportabile. Peggio di Oikawa Tooru. Vuoi prendere il suo posto, visto che è scappato?»

Tetsurou finge di pensarci un attimo e si torce all'indietro dubbioso. «Dici che il mio culo è all'altezza?»

Kei ride, gli getta l'asciugamano intorno al collo e lo trascina dentro la palestra; chiudendosi alle spalle la porta (e l'inutile resto del mondo).

E poi lo bacia, spingendolo contro quella stessa porta e realizzando una fantasia che due anni prima, per tutto il ritiro e anche dopo, aveva popolato i suoi sogni meno casti. Si svegliava in condizioni pietose, negando a se stesso di aver riconosciuto il soggetto di quel sogno.

Ora il sogno è lì, con le mani molto poeticamente posate sul suo sedere, che a dire il vero è proprio il posto migliore dove metterle. Ma non è lussuria: l'attrazione fisica ha sconfinato da tempo nel territorio inesplorato dei sentimenti assoluti ed è ancora lì che vaga ubriaca, fra un sospiro di appagamento e l'altro.

Iniziano a parlarsi sulle labbra mentre ancora si stanno baciando.

Succede sempre così, quando si rivedono: prima viene il contatto fisico, l'ansia di azzerare la distanza, di placare sulle dita e sulla lingua la fame del cuore. 

Dopo, vengono le parole. Cascate di parole in tutte le lingue del desiderio e della nostalgia, un lessico privato di dichiarazioni d'amore travestite da insolenze e provocazioni di cui solo loro comprendono veramente il senso e che li lega sempre più strettamente.

E quindi parlano e mangiano e le loro ginocchia si sfiorano nella palestra vuota, sui materassini logori dove sono seduti, circondati dai ricordi e dal chiarore tenue di una catena di lucine led, che Tetsurou si porta sempre dietro per i pic-nic improvvisati. Perché se c'è una cosa che ha capito di Kei negli ultimi due anni, è che da qualche parte, nascosta in quel metro e novantadue di insofferenza e mania di controllo, c'è un'anima romantica che lui adora nutrire. Di stupore, di gesti esagerati, di premure sopra le righe.

Adora nutrire anche il corpo.

La cena fredda che ha portato è la curiosa progenie dell'unione fra i capisaldi di un nutrizionista sportivo e i capricci di una primadonna.

Verdure cotte e crude rigorosamente colorate, riso integrale, salmone, uova sode, fettine di pane tostato ritagliate a forma di ranocchio, maionese con tutti i grassi saturi possibili, formaggio francese, cioccolatini, torta alle fragole in vasetto, di quella pasticceria di Nerima dove Kei si ferma sempre a guardare le vetrine, senza accorgersi di avere gli occhi spalancati.

Adesso, invece, si sta mordendo le labbra incerto, con le bacchette impugnate e sospese sui contenitori, in cerca del migliore criterio (estetico, sensoriale, filosofico...) per assortire il pasto. Kei non fa mai nulla per caso e Tetsurou adora anche questo.

«Ti hanno risposto per la sessione di settembre? Ce la fai per la partita?»

«Sì, l'esame è il 13, ho già preso i biglietti. I soliti posti, ormai praticamente ce li tengono da parte.»

«Mi sa che questa la perdiamo. I maledetti Jaguars sono diventati forti.»

«Eddai, Tsukki, non portare sfiga!»

«Non è questione di sfiga. Gli stronzi della prima divisione ci hanno fregato due giocatori. Non uno: due! E va a finire che siamo mosci in difesa, sia a muro che dietro.»

Tetsurou ingoia contrariato il suo boccone: è vero che i Frogs sono mosci, questa stagione. «Cazzo, che voglia di giocare che mi viene quando siamo lì. Prima o poi scendo dagli spalti, mi levo il maglione e vado a dargli una mano.»

«Leggenda del Nekoma, ti faccio notare che non ti alleni come si deve da due anni. Ti sta venendo anche la pancia... »

Gli occhi di Tetsurou scattano in basso, dove incontrano il solito, rassicurante fisico scolpito. Quando rialza lo sguardo, ottiene in premio un sorrisetto vagamente derisorio.

«Tu sei allenato. Sai cosa? Dovresti andarci tu.»

«Non dire cazzate.»

«Non è una cazzata. A muro, ora come ora, faresti meglio di Yamato-senshu.»

Kei finisce di masticare, deglutisce, beve un sorso d'acqua e intanto ci pensa.

Tetsurou lo vede che ci sta pensando sul serio: probabilmente sta confrontando le sue ultime prestazioni con quelle (un po' scadenti) del numero sette dei Frogs; senza che se ne accorga, gli sfugge un altro sorrisetto, stavolta criptico, nascosto fra gli occhi e le labbra.

Tetsurou li adora questi sorrisetti; non li conosce ancora tutti, ma li sta catalogando minuziosamente e spera di non finire mai.

«Perché non ti presenti ai provini?»

«Che provini?»

«Dei Frogs. A gennaio.»

«Lo stesso gennaio dei nazionali, dei senta e dei saggi di ammissione?»

«Stai dicendo che è solo questione di trovare il tempo?»

Kei solleva gli occhi e cerca quelli di Tetsurou, che non gli dà la soddisfazione di decifrare se si tratta di una presa in giro o meno. Forse stavolta non ne è sicuro neanche lui.

«Le tue cazzate sono estenuanti. Parliamo di cose serie: Ayumi-san è ripartita?»

«Sì, nel primo pomeriggio. Avevano il volo alle sedici.»

«Leo-chan era tranquillo?»

«Abbastanza.»

«Mandami un messaggio quando arrivano.»

«Se vedessi come usa il telefono con quei ditini cicciotti. Mi sa che te lo manda lui il messaggio.»

«E' davvero intelligente. E anche molto precoce. E ha una verbalità impressionante.»

«Impressionante è quando non si capisce un tubo di quello che dici? Perché allora anche chibi-chan ha una verbalità impressionante... »

L'espressione di disgusto di Kei è comica. «Non paragonarli neanche. Leon sta crescendo bilingue, ti rendi conto di che significa al livello neurologico? Praticamente incamera tutte le informazioni sul linguaggio nella stessa zona del cervello, senza distinzioni. Impara troppo in fretta per riuscire a capire in quale lingua sta pensando o parlando, è una sensazione... strana, la capisci solo se l'hai provata. E quando parla gli esce un miscuglio di giapponese e francese, anche qualche parola inventata metà e metà, però è piuttosto chiaro.»

E' un fiume di parole, per uno come Kei. Dentro di lui scorrono miliardi di pensieri, ma solo pochi raggiungono le labbra, spesso irriconoscibili e distorti. Solo qualche volta le dighe si alzano e le parole traboccano dagli argini; succede quando l'argomento lo fa bruciare di entusiasmo (roba tipo era giurassica, Tan Taigi, Levi Ackerman), oppure quando è rilassato, quando si sente al sicuro, quando è felice. Come adesso.

Tetsurou adora vederlo felice.

«Non solo è chiaro, ma anche logico nei ragionamenti» prosegue intanto Kei, con piglio un po' da scienziato, un po' da ammiratore.

«Quali ragionamenti? Kei: Leon ha un anno e mezzo.»

«Invece ragiona. Per questo dico che è precoce.»

«Non ragiona; sbava, sputacchia e smocciola ovunque. Se la fa addosso di continuo. Piange senza motivo nelle orecchie del nonno. E ti tiene al telefono per ore sillabando a caso... »

Kei smette di masticare e alza lo sguardo sopra le bacchette. «Sei geloso di tuo nipote, Tetsurou?»

«Parli francese più con lui che con me.»

«Tu il francese non lo sai.»

«Ma mi piace ascoltarti. Quel coso vi manipola tutti. Quando c'è lui neanche mio nonno mi considera, praticamente nelle ultime due settimane sono stato invisibile

«Hai un anno e mezzo anche tu?» Kei ridacchia, mentre manda giù un sorso di tè nero dal thermos.

«Almeno sono coerente.»

«Cioè?»

«Non me ne frega un cazzo di come lo chiamano. La vita è loro. Il figlio è loro. Io con questa gente non voglio averci niente a che fare... » La cantilena che imita l'insofferenza arrogante di Kei è perfezionata da due anni di esperienza.

«Crepa!» il fagiolino arriva dritto sul naso di Tetsurou, che se lo infila in bocca.

«Ammetti che gli vuoi bene!»

Kei sbuffa aria dal naso. Prende tempo dando un morso al pane tostato e masticandolo vistosamente. «Gli voglio bene» bofonchia poi, risoluto.

«Cazzo, ci hai messo tre secondi. Per farti dire che vuoi bene a me ci sono voluti otto mesi.»

Kei sorride di sbiego e si sistema gli occhiali. «Uno a zero per Leo-chan.»

Tetsurou sbuffa, fa la faccia offesa per finta e poi distoglie lo sguardo.

Il bacio lo sorprende mentre richiude le alette di plastica del bento. E' un bacio gentile, quelli che vengono prima della lussuria e dopo il bisogno disperato, una categoria a parte nella scala delle manifestazioni sentimentali di Kei, una delle preferite di Tetsurou, forse la più vicina all'amore.

In realtà, che Kei prenda l'iniziativa è sempre meno raro. Che si scopra, che lasci cadere le maschere succede sempre più spesso e Tetsurou si sta abituando. Tutto, di Kei, dai sorrisi taglienti, ai sospiri del cuore, fino ai marchi sulla pelle, sta diventando familiare. Ed è molto egoistica, e un po' infantile, la sensazione che prova, di voler tenere tutta quella meraviglia solo per sé, al sicuro. Dentro.


Anche il boschetto a ridosso della scuola è familiare. Almeno quanto la sensazione delle loro mani che si cercano (e si trovano), appena il buio li avvolge. A dispetto di qualsiasi abitudine, a Tetsurou vengono ancora la pelle d'oca sulle braccia e il batticuore.

«Hai sentito gli altri?» sussurra Kei, scrutando le ombre del bosco.

«Siamo arrivati insieme.»

«Come insieme? Non sei venuto in moto?»

«No, mi ha dato un passaggio in auto Akaashi.»

«E Bokuto?»

«Ci siamo visti tutti e tre a Shinagawa, Bo arrivava con il treno delle cinque e mezzo.»

«Che amico orrendo che sei. Non si vedono da un mese e tu ti metti in mezzo e praticamente fai il terzo incomodo.»

«Finalmente faccio il terzo incomodo.»

Ridono. All'idea che Bo e Keiji si siano messi insieme, cosa che è accaduta solo pochi mesi prima, nessuno si è ancora abituato, forse neppure i due diretti interessati.

«E dove sono finiti?»

«Secondo te?» Tetsurou ammicca disinvolto a un palmo dal naso di Kei, che gli spinge via la faccia con la mano aperta.

«Sei proprio uno scemo. Ma davvero tu pensi che Akaashi si metterebbe a fare sesso nei cespugli?»

«Penso che abbiano almeno tre anni di arretrati. E Bo... beh, lo sai come è fatto Bo.»

«Ma per favore! Keiji non lo farebbe mai.»

«Cosa non farei mai?» La voce pacata di Keiji li sorprende alle spalle, preceduta da un leggero fruscio. Un secondo dopo, Bokuto li travolge, scoppiettante come un fuoco d'artificio e altrettanto rumoroso. «Cosa non faremmo mai?» Per Bokuto, tutto ciò che riguarda Akaashi è diventato un gioioso plurale, che comprende anche se stesso.

«Sesso nel bosco» spiega asciutto Kei.

«Kei!» lo rimprovera Tetsurou, sghignazzando.

«Bokuto-san non voleva» risponde sereno Akaashi.

«E' scomodo» chiarisce Bokuto. «Non voglio che Keiji stia scomodo.»

Lo sguardo che Keiji scambia con Kei è di quelli che escludono gli altri due: Kei alza un sopracciglio, Keiji sorride come se avesse segnato un punto.

«A marzo Tsukki si diploma. Quindi questa è l'ultima volta che veniamo qui» osserva Bokuto, quando raggiungono la radura. La tranquillità con cui ha parlato è del tutto inedita, per lui.

«Non sei triste, Bokuto-san?» gli domanda Akaashi con una carezza.

Bokuto sorride, le stelle nei suoi occhi scintillano. «No. Per niente. Perché non ci serve più una promessa o una tradizione o un giorno segnato sul calendario per essere sicuri di vederci tutti e quattro e di volerci bene.»

E' una buona risposta, persino Kei lo pensa. Bo si merita una strizzata convulsa dal suo migliore amico e un bacio sullo zigomo dal suo fidanzato.

La radura li accoglie, profumata di mentuccia e ancora tiepida del calore del giorno. Dallo zaino di Kuroo esce la solita bottiglia di vino francese; ormai l'etichetta con il cavallo nero ha perso i suoi misteri, ma non il suo carico di significati.

Quest'anno non sono seduti in cerchio, ma disposti secondo una geometria degli affetti che delinea le due coppie e anche la complicità collettiva. Kei è disteso, con la testa e le spalle sulle gambe di Tetsorou, che appoggia la schiena a un tronco, e Bokuto seduto per terra, avvinghiato ad Akaashi con tutto il corpo e con tutto il cuore.

«Allora, gufaccio, raccontaci di questi Jackals!»

Bokuto storce le labbra e lancia lontano un sassolino. «Non c'è tantissimo da raccontare. Sono sempre bloccato in panchina... »

«Devi avere pazienza, sei lì solo da due mesi... » lo consola Akaashi.

L'anno di crisi di Bokuto, respinto in tutti i provini della prima divisione, è ancora molto vivido nella memoria di tutti loro. Come poi si sia sbloccata la faccenda, e Bo sia finito nei Jackals, è una storia da romanzo, commovente e anche divertente e assurda e un po' magica, come tutto quello che riguarda Bo.

La manata di Tetsurou sulla nuca è tutto meno che consolatoria «Bo! Che è quel muso lungo? Hai fatto un colpaccio. Li ho visti giocare, sono forti sul serio. E uno che schiaccia le pipe come te ancora non ce l'hanno.»

Bokuto si riaccende. «Sì, sono forti. E' una bella squadra, ci vanno giù duro con gli allenamenti e Meian-senshu è veramente figo.»

«E invece come se la cava Miya-san?» domanda Kei, curioso.

«Alla grande! Fa degli onigiri meravigliosi, vero 'Kaashi? Il locale è un po' piccolo, ma c'è sempre un sacco di gente... »

«L'altro Miya, Bo!» rintuzza Tetsurou, ridendo.

«Ah Tsum-tsum: beh, siamo arrivati insieme, per adesso è in panchina pure lui. E' più simpatico di quando eravamo al liceo.»

«Davvero?» Sulla simpatia di Miya Atsumu, Tsukishima ha le sue personali riserve.

«Mn mn» Bokuto annuisce avvinghiandosi ancora di più ad Akaashi. «E'... diverso. Sempre un po' matto, ma meno prepotente. E vedessi le facce che fa quando sbaglia, sembra voglia buttarsi di sotto, che non avrebbe per niente senso perché la palestra è al piano terra. Non lo so perché, ma mi viene voglia di essere gentile con lui.»

«Per me è borderline» diagnostica Kei.

«Ride troppo» obietta Akaashi impietoso.

«Maniaco depressivo, allora.»

«Però a giocare è bravo» osserva Kuroo. «Era già bravo al liceo.»

«E' diventato anche più bravo, secondo me si è allenato come un matto. Io però preferirei le alzate di Keiji» si lagna Bokuto, affondandogli il viso nel collo. «E preferirei abitare a Tokyo.»

«I rapporti a distanza sono una bella merda: benvenuto nel club» ribatte Kei, irritato, tirandogli un pugno sul ginocchio.

Akaashi risponde schiaffeggiando quella mano.

Tetsurou si abbassa a baciargli la tempia, Kei lo asseconda e neppure finge di essere infastidito. Le barriere fra loro quattro sono tutte cadute da un pezzo e lì, nell'alone bianco delle torce, al riparo dei sussurri del bosco, possono concedersi il lusso di essere soltanto se stessi.

«Ho sentito dire che Suna Rintaro ha passato il provino con i Raijin, per il rotto della cuffia» dichiara Bokuto.

Kei sgrana gli occhi. «Suna Rintaro? Lo snob dell'Inarizaki?»

Bokuto mugola un assenso, Tetsurou reagisce con un'espressione disgustata. «Con i Raijin? Ma siamo sicuri?»

«Tsum-tsum è sicurissimo. Dice che il rotto della cuffia è perché sta anche studiando.»

Tsukishima incamera quell'ultima informazione socchiudendo gli occhi e sistemandosi l'assetto delle lenti. «Può anche vincere un nobel e giocare in nazionale, ma non penso che diventerà umano finché si ostinerà a pettinarsi in quel modo.»

«A me è sempre sembrato carino» commenta Akaashi placido. Bokuto, allacciato a lui da dietro, si sporge per guardarlo con la paura dipinta negli occhi. «'Kaashi! Come carino? Carino quanto

«Neanche la metà di te. E comunque era detestabile.»

«L'Inarizaki era piena di gente tremenda» conferma Bokuto.

«Kita-san forse si salvava» concede Akaashi.

Kei alza un sopracciglio. «Peccato che non sapesse neanche a cosa stavamo giocando.»

«Serpe!» lo redarguisce Kuroo, mentre però ride. «Erano orrendi un po' tutti, davvero. Ma vi ricordate quella cosa di Miya per zittire gli spalti?» Alza il braccio e stringe il pugno di scatto, con una smorfia superba. «Gliel'avrei mozzata, quella mano!»

«Adesso non la farebbe mai una cosa così, non offenderebbe mai i suoi tifosi... » ribadisce Bokuto.

«Però continua a offendere il buon gusto con quella oscena tinta gialla. O almeno, Hinata dice che la porta ancora.»

«Sì, è sempre biondo. Ma Tsukki! Anche tu sei biondo!»

Lo sguardo di Kei è oltraggiato, si solleva bellicosamente sul gomito per rispondere: «Io sono biondo. Lui ha i capelli pitturati. Color piscio, come Kozume.»

«Ma almeno senza ricrescita» rincara pettegolo Akaashi.

«Che c'entra adesso Kenma?»

«Che ne sa Hinata dei capelli di Miya Atsumu?»

«Come sta chibi-chan?»

«Come al solito. Esaltato. Analfabeta. Innamorato di Kageyama. Vaneggia di andarsene in Brasile dopo il diploma.»

«In che senso innamorato di Kageyama?»

«In che senso in Brasile?»

«Avete sentito che a Ushiwaka è arrivata la convocazione in nazionale? Se lo portano dietro ai mondiali.»

«E bravo il robottone!»

«Maddai, era scontato.»

«Dove li fanno stavolta?»

«I mondiali? In Polonia. Fra un mese. Magari ai polacchi gli piace e se lo tengono.»

«Speriamo. E Kageyama?»

«Sua maestà è nella giovanile dall'anno scorso. Stanno solo aspettando che faccia diciott'anni.»

«Tobio-kun è un mostro.»

«Mostruosamente stupido, come sempre.»

«Sei per caso invidioso, Kei-chan?»

Così fioriscono i loro discorsi, incrociati, intrecciati e sovrapposti in un dialogo serrato a quattro che si alterna alle risate, alle smorfie, alle provocazioni, alle tenerezze, a una leggerezza che porta in alto lo spirito ed è, anche se adesso lo ignorano, il vero marchio della giovinezza.

Insieme sono liberi: possono essere sinceri, melensi, collerici, espliciti, volgari, persino crudeli, perché anche esagerare fa parte di quel legame a nodo quadruplo, solido come un cerchio di mura, dalle quali non esce mai nessun segreto. Le amicizie che durano una vita migliorano invecchiando, come i vini buoni.

Bo, però, non brinda più all'amicizia, perché non riesce a pensare di averne più di così. E nemmeno all'amore, perché, anche di quello, si sente il cuore pieno da scoppiare. Bokuto Koutarou brinda ai cambiamenti, perché ha imparato che fanno male, sono scomodi, ma rendono più forti e fanno raggiungere traguardi nuovi e bellissimi, proprio come gli allenamenti duri. Tanto le cose importanti, quelle che hanno radici profonde, resistono a tutte le tempeste. E Bokuto ormai le cose importanti se le porta scolpite nel cuore.

Keiji non brinda più alla libertà, perché ora sa che, senza Koutarou, ne aveva decisamente troppa e per anni è rimasto chiuso in una gabbia di cui aveva in mano le chiavi. Quello che ha scelto di lasciarsi alle spalle non fa più così tanto male, quello che ha di fronte ha smesso di fargli paura. Akaashi Keiji brinda al presente, al diventare adulti con le proprie forze, perché sono tutti lì su quella soglia e sente d'istinto che sarà lui stesso il primo a varcarla davvero.

Kei non brinda più agli haiku, perché ha scoperto che nella vita esistono cose altrettanto potenti e altrettanto meravigliose che si possono toccare con i sensi. Anzi, a dirla tutta, fanculo Tan Taigi: fare l'amore con Tetsu è centomila volte meglio. Tsukishima Kei brinda al coraggio che ci vuole per essere felici, perché gliene è servito parecchio per arrivare lì, ma se non lo avesse avuto sarebbe stato davvero uno stronzo. Lo ha capito, ormai, che la sua vita sarà un continuo lottare contro la tentazione di chiudersi dentro se stesso a doppia mandata (come quando si è deciso a leggere la lettera di suo padre), però ha capito anche che il coraggio si può prendere in prestito e che se hai qualcuno che ti ama con abbastanza violenza, puoi consegnare le tue debolezze alla sua forza. Per questo stanotte, con le braccia dello scemo strette intorno e il suo profumo addosso, si sente invincibile.

Per ultimo, tocca a Tetsurou, Kei gli passa la bottiglia.

Tetsu si guarda intorno e gli sembra che la vita non sia mai stata più generosa: il respiro dell'estate, le risate degli amici, il profumo del vino, le dita calde di Kei intrecciate alle proprie. Si sente fin troppo avido e si sorprende a chiedersi se davvero le meriti tutte queste immense fortune, se sia all'altezza del destino che gliele ha procurate. Non ha una risposta, ma sa per certo che farà di tutto per tenersele strette, per esserne degno, per farle durare tutto il tempo del mondo. 

Stringe più forte la mano di Kei e poi solleva la bottiglia: «A tutto quello che noi quattro abbiamo già: l'amicizia vera e l'amore della vita!»

Beve un sorso molto lungo, che sa di tutte le cose buone del mondo, meno una. Appoggiato sulle labbra di Kei, sciolto sulla sua lingua, quel sapore diventa completo. Tutto coincide e combacia. Ogni cosa nell'universo occupa esattamente il suo posto.

Dura solo un secondo, ma quel secondo è perfetto.

Quanto dura per sempre?
A volte, soltanto un secondo

Tetsurou adora le cose perfette.




 

***

NdA - A questa storia manca ancora un piccolo tassello, prima che prenda il largo e diventi invisibile dalle banchine.
Arriverà mercoledì prossimo, e sarà un modo per chiudere davvero il cerchio.

 

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Capitolo 42
*** Ringraziamenti ***


Ringraziamenti


La parola fine non mi è mai piaciuta. Decisamente, non è la parola giusta. 

In occidente, quest'idea del compimento e della perfezione non ci lasciano mai scampo, e viviamo con la sensazione di dover sempre concludere, un verbo oppressivo, che porta sé la radice semantica della chiusura e della stasi.

In oriente, dove la perfezione è sempre una tensione e mai uno scopo, la fine e l'inizio di ogni cosa sono dinamiche e circolari, come le carpe koi sul nagajuban di Tetsurou.

Quindi, questa storia finisce, ma non nel senso occidentale, perché il mondo che ha narrato continua a girare. Chi ci vive continua a vivere. E chi si ama continua ad amarsi, magari per sempre. Quello che nasce deve morire per rinascere e ciò vale per le stagioni, i sentimenti, anche per le persone.

E vale a maggior ragione per le storie. Quindi bisogna lasciarle andare per farle crescere, fiorire e riseminare, per farne vivere altre. Ognuna ti regala qualcosa, ognuna ti spinge in avanti, o in alto, almeno di un passo. 

Lasciamola andare insieme, questa storia, con tutti quelli che sono arrivati in fondo e che io ringrazio dal profondo del cuore per aver voluto e saputo condividere con me le emozioni.

Ecco, condividere. Questa è la parola giusta. Il motivo per cui ho scritto questa storia. Che era mia e adesso è anche vostra. E ora che la lasciamo andare, come una lanterna, ne possiamo seguire insieme il volo.

A Elisa va un grazie speciale, perché sognare gli stessi sogni è una gioia e anche un privilegio.
A @LaTuM un abbraccio, perché la sua recensione a ogni singolo capitolo non mi ha fatto sentire mai sola.

A Furudate sensei la mia stima più profonda. Tutto quello che è in queste pagine è solo un omaggio modesto ai personaggi più belli che abbia mai incontrato e al genio di chi li ha creati.

A chiunque sia arrivato fin qui, grazie. Davvero.

ありがとうございます



***

La notte di primavera è finita.
Sui ciliegi
sorge l'alba.


Matsuo Basho

 

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Capitolo 43
*** Contenuto speciale ***


2 maggio 2011

Ciao Kei,

è la terza volta che ricopio questa lettera senza sapere se la leggerai.

Ho deciso di farne sei copie manoscritte e ho incaricato una persona di fiducia di consegnartele, facendo un tentativo ogni due anni. Mi aspetto che almeno le prime tre facciano una brutta fine.

Per sicurezza, poiché non mi sento di escludere che le farai a pezzi tutte quante, alla stessa persona ho lasciato anche una copia digitale e le indicazioni perché tu possa trovare la password.

Mi piace pensare che, prima o poi, in una natura analitica com'è la tua, la curiosità supererà il risentimento e il dolore che ti ho inflitto sarà solo un'ombra del passato, scalzato via, io spero, dalle felicità future.

A quel punto, forse, avrò di nuovo la mia occasione di parlarti.

Ho bisogno di crederci.

Credere è un verbo che, nella vita, ho utilizzato troppo poco; implica un tipo di convinzione radicata e incrollabile che ho sempre faticato a trovare in me stesso e, di conseguenza, a offrire agli altri. Sono un pessimo comunicatore, anche se in molti pensano il contrario. Tu invece, che sono pessimo, lo sai benissimo.

In questa stanza di ospedale spendo molto tempo a immaginarvi adulti, te e Aki.

E' un esercizio mentale che mi porta a un livello di serenità insperato, considerata la situazione. Ho scoperto che è facile fantasticare a occhi aperti, che viene naturale, che dà persino soddisfazione, con in più il vantaggio di non doversi spendere di persona, di non dover affrontare nulla. La verità è che non ci avevo mai provato a fare sforzi d'immaginazione, prima d'ora. Il che mi rende, in effetti, una persona triste, come mi hai detto tu quando avevi dieci anni.

Dieci? Così pochi? Sei sempre stato precoce. Hai anche detto meschino, nella stessa occasione, e io non trovai di meglio che complimentarmi per il tuo lessico.

La cosa triste e meschina è che, in quel momento, pensavo che l'ampiezza del tuo vocabolario fosse realmente più importante dell'opinione che avevi di tuo padre. Quella l'avresti cambiata col tempo, mi dicevo. E' la fase della ribellione, il complesso edipico, la preadolescenza. Una gran quantità di scuse, per nascondere la paura che avevo di non riuscire a mostrarti il mio affetto.

E indovina? Non ci sono riuscito.

Non ho mai avuto un vocabolario di emozioni sufficiente. Non ho mai saputo come costruirlo, le rare volte che ne ho avuto l'occasione ho pensato di passare oltre, perché c'era sempre qualcosa che sembrava più importante, più urgente.

E' paradossale che abbia tempo per rifletterci proprio adesso che il mio tempo sta scadendo. In effetti, non ho memoria di un altro periodo nella vita in cui avessi così poco da fare; anche la mia infanzia era piena di incombenze.

E invece qui dentro le ore e i minuti mi appartengono e non so più dire se siano troppo veloci o troppo lente. Troppo veloci per uno che sta morendo, troppo lente per uno che sa di stare morendo.

La verità, Kei, è che con la mia morte ho fatto pace. L'ho sentita arrivare, l'ho guardata in faccia. Ho scoperto che ha un volto gentile, che non mi fa paura.

Kei, mi fa paura la vita. Non è un'iperbole drammatica, sai che odio gli eccessi e anche di più il dramma. E' una pura constatazione: mi fa paura la vita che ho vissuto molto più della morte che ho scelto.

E forse questa è la prima delle cose di cui dobbiamo parlare.

Come si fa a non sprecare una vita?

Una volta mi hai fatto una domanda del genere. Eri piccolo: sette anni, forse otto. Mi chiedesti come si dovesse convivere con il fatto che ogni secondo che passava eravamo tutti un secondo più vicini alla nostra morte. Non era un pensiero tanatico, ma scientifico e io lo capivo. Ti risposi che il tempo è relativo: usarlo bene lo dilata, sprecarlo lo riduce.

Pessima risposta. Non so se lo pensasti anche tu, forse no, eri troppo giovane e troppo accecato dall'affetto che a quel tempo provavi per me, per mettermi in dubbio. Hai imparato poco dopo.

Ecco, Kei, questo è importante: voglio che tu sappia che io l'ho sempre apprezzata la tua coscienza critica, anche a mie spese, anche quando sei stato sgraziato, cinico o malmostoso.

Vederti lucido e critico mi ha sempre dato un'incredibile soddisfazione. Non sono mai riuscito a dirtelo, purtroppo. Sembrava che il tempismo fosse sempre sbagliato: non potevo certo applaudirti mentre mi gridavi contro e nei momenti di quiete sarebbero sembrate lodi futili e decontestualizzate, un'odiosa captatio benevolentiae.

Neppure ho saputo mai punirti, credevo (o volevo credere) che lasciare ai miei figli la libertà di giudicare da soli la propria condotta, e correggerla, fosse un atto illuminato. Invece era una banale vigliaccheria, perché - così mi ha detto chi mi ha aperto gli occhi in merito - i confini da non superare, per un figlio, diventano certezze: che qualcuno vegli su di te, che qualcuno ci tenga a guidarti, che gli importi abbastanza da tenerti al sicuro dietro un muro di regole da abbassare piano piano e un giorno da varcare.

A me importava Kei, ma costruivo mura che ci separavano, anziché tenerci al sicuro.Purtroppo non sapevo fare diversamente e quando poi mi sono deciso a imparare, il destino ha riso di me.

Sto divagando. Il tema era: come si fa a non sprecare una vita.

Se mi rifacessi oggi quella domanda, ti risponderei, Kei, che il segreto è rendere ogni secondo un per sempre. Ti ricordi quando leggevamo Alice in Wonderland?

Leggilo di nuovo. Leggilo più volte. Se un giorno avrai dei figli, leggilo anche a loro: in quel libro ci sono tante risposte ai fatti della vita che io non ho saputo darti.

Usare il tempo bene o male è un concetto sbagliato per principio, perché il tempo non si usa, Kei, il tempo si vive. E quello che rende eterno un istante è la felicità che riesci a metterci dentro.

E' molto occidentale l'idea che il tempo sia moneta. Perché è prezioso, ovviamente, e questo è vero, ma la moneta è un oggetto fisico che rappresenta un valore, una quantità finita, una merce di scambio a numerabilità discreta, il che, credimi, è riduttivo.

E' la felicità l'unica misura del tempo, la qualità che fa perdere di senso alla quantità. Non ci sono tante cose che ho capito della vita, ma questa sì: come esseri umani noi abbiamo il dovere - dobbiamo, imperativo morale - sforzarci di essere felici.

Non a spese degli altri, certamente, ma neppure coltivando l'illusione di inseguire vane perfezioni; neppure sacrificandosi a se stessi sull'altare della solitudine, chiusi in una torre troppo alta, affannandosi a cercare in tutte le cose significati nascosti, pericoli invisibili, spie di futuri dolori.

Qualche volta un sigaro è soltanto un sigaro.

Il problema è che ci vuole coraggio per chiamare le cose con il loro vero nome.

E questo, del coraggio, è il nodo di tutto. Abbi coraggio, Kei. Impara ad averlo, accompagnati con amici impavidi, concedi a te stesso di osare.

Me ne sto qui a fare il moralista da quattro soldi, il dispensatore di frasi fatte e e consigli tardivi e non riesco ad andare al sodo.

Ti meriti una spiegazione, Kei, per questo padre che non ha saputo - per superbia, dirai tu - tornare indietro e salvarsi, salvarti, parlare con te.

Perché l'ho fatto? Perché dopo aver buttato via la vita, e aver capito che ormai era sprecata, solo una cosa mi restava: la coerenza. E purtroppo, ne hai pagato tu il prezzo, perché lo scontro delle nostre ostinazioni non può che produrre ferite.

Però, Kei, voglio che tu capisca che non è stata una forma tardiva e vanitosa di eroismo, solo un cercare, disperatamente, di dare un senso a una catena di errori lunga una vita.

Non sono mai riuscito a farmi capire da voi, riesco a spiegarmi solo davanti a una lavagna, di fronte a una stanza piena di estranei; fra le quattro mura di casa mia sono più impenetrabile di una lastra di piombo.

Mi ricordo bene la tua espressione lo scorso agosto, un momento che fra noi è stato uno spartiacque e forse rappresenta il punto più basso della mia esperienza di padre. So bene che le mie azioni ti sono state incomprensibili.

Quello che volevo, che ho cercato di fare, era smettere di infliggervi pena con la mia assenza, eliminando l'aspettativa quotidiana di una presenza. Suona assurdo, forse, ma è ciò che ho sempre avuto in mente: farvi meno male, in qualche modo, e vivere tutti più sereni. In quel periodo stavo cercando di ricominciare, il che rende ancora più paradossale l'atto del divorzio.
Eppure una logica c'è e sono certo che tu possa vederla. Avevo sbagliato con tua madre in tutti i modi possibili: togliere il disturbo era l'azione più decente, darle modo di attribuire a me ogni colpa la più dignitosa.

E anche verso di voi, credevo fosse nel vostro interesse evitarvi la disfunzione sentimentale della nostra famiglia sempre davanti agli occhi. Esisteva un'incrinatura irreparabile fra me e voi tre, che minacciava l'equilibrio di tutti, ritenevo più sano farla diventare una spaccatura vera e propria e diminuire il tormento.

Quanto a me, il piano era punirmi con la solitudine che meritavo e pian piano avrei cercato, con voi figli, di ricucire gli strappi. Avrei coltivato delle doti che non avevo, avrei frequentato chi potesse insegnarmele. Avevo persino deciso di andare da uno psicologo e un consulente familiare. Pensavo che avrei potuto appoggiarmi ad Akiteru per raggiungere anche te. Pensavo di poterlo fare con calma, di avere tutto il tempo del mondo. Che sciocco.

Sotto quella muraglia di dieci metri d'acqua che c'è franata addosso due mesi fa, con lo scricchiolio dei contatori geiger nelle orecchie, di fronte all'idea concreta di vivere solo poche settimane o pochi mesi, mi sono chiesto cosa dovessi fare.

Avrebbe avuto senso, Kei, dopo avervi trascurato per anni in nome di qualcosa, rinnegalo a quel punto, buttarlo via, per voltarsi indietro? Non avrebbe dovuto essere parte integrante delle mie scelte sbagliate assumermi la responsabilità delle stesse? Non sarebbe stata solo viltà di fronte alla morte la mia fuga, anche addolcita dalla tua clemenza?

Ci ho pensato, tanto a lungo quanto mi era concesso di pensarci, e ho deciso che mi restava solo una cosa da onorare nella vita, visto che avevo calpestato tutto il resto: la coerenza.

E così ho scelto.

Nelle ultime settimane ho riesaminato la mia vita attentamente, riga per riga, come il codice di un software, in cerca delle mie anomalie. In cerca del momento in cui il legame fra noi ha superato il punto di rottura, di quello in cui la delusione che ho inflitto a tua madre l'ha fatta chiudere nel suo guscio, di quello in cui Akiteru ha deciso di sottomettersi senza domande, perché di fare altro, con me, non valeva la pena.
Una drammatica serie di fallimenti.

Che però iniziava prima.

Prima che voi nasceste, prima di sposarmi, prima di tagliare i ponti con mio padre.

Così indietro che i ricordi sono tutti sbiaditi, ma hanno ancora quel  tossico potere di illusione che me li rende cari.

Da ragazzo ero ancora capace di amare con trasporto. Mi accadde la prima volta che venni in Giappone a conoscere i miei nonni, fu sconvolgente e meraviglioso. Fatale forse, nel senso che il fato decise che lì iniziassi a sbagliare e poi proseguissi attirato dalla gravità che ciascun errore esercita sui successivi in un'indole arrogante, perché rompere la catena significa ammettere la colpa, vivere il rimpianto.

Non avevo molti anni più di quelli che hai tu, a quel tempo, e mi persuasi, perché a nessun altro posso darne la colpa, di una serie di motivazioni molto razionali per cui quel sentimento, in quella precisa situazione, era altamente indesiderabile. E lo era, secondo tutti i parametri di giudizio eccetto quello del mio cuore, molto inesperto, molto giovane, molto insicuro.

La vita, però, richiede follia. Quel momento l'avrebbe pretesa.

E forse tutto sarebbe stato diverso.

Una diversità tragica o radiosa (nessuno può dirlo), in cui non ci sareste stati tu, né Aki-chan e io non vi avrei resi infelici.

Fui, semplicemente, ordinariamente, vigliacco.

Credo che sia la vigliaccheria, Tsukishima Kei, il tratto meno nobile del sangue che hai nelle vene. Quello che reca maggiori probabilità di renderti infelice. Paradossalmente, l'intelligenza abbinata alla mancanza di coraggio non è vantaggiosa, perché tende a produrre un'infinita serie di motivazioni per giustificare qualsiasi scelta conservativa.

Le scelte conservative, molte più volte di quanto non vorremmo, nascono dalla nostra paura. Di perdere il controllo, di trovarci indifesi, di porgere il fianco a qualcuno che ci ferisca e nemmeno sospetti quanto a fondo colpisce e quanto a lungo farà male.

Il confine fra la paura e la prudenza è così sottile che per vederlo ci vuole una luce chiara di ottimismo e di fiducia che noi due non abbiamo.

Questo coraggio è la cosa che avrei dovuto insegnarti, perché la matematica l'avresti imparata da solo senza sforzo. Ma che qualifica avevo, io, per insegnarti qualcosa che non ho mai saputo?

E così ho fallito, tanto profondamente quanto profondo era il mio affetto.

Ecco, fai così, Kei: misura l'amore di tuo padre col metro del tuo risentimento, che è proporzionale ai miei errori. Vedrai che ti ho amato moltissimo.

Ti amo anche adesso, mentre il mio telefono, con il vivavoce, prova a richiamarti ogni dieci minuti, anche sapendo che non sbloccherai il mio numero.

E' questa l'evidenza lampante del mio fallimento umano, sono stato infelice, ho reso altri infelici. Ho evitato la felicità.

Tuo fratello è in collera con me, ma si è imposto di superarla, date le circostanze. E' venuto molte volte nelle ultime settimane. Non lo dice, ma si capisce che soffre molto della freddezza che c'è fra di voi, gli sembra che tu ti senta in colpa delle sue menzogne (quelle sulla pallavolo, quando era ancora al liceo), come se le tue aspettative su di lui fossero il motivo che l'ha spinto a mentire. E' molto arrogante, da parte tua, negargli il diritto a mentire per sua scelta, non trovi, Kei? La colpa è stata sua, interamente, e se lui è riuscito a perdonarsi, dovresti farlo anche tu.

Ma nuovamente, non sono preoccupato. So che Akiteru troverà il modo e il momento per riavvicinarsi e so anche che tu glielo permetterai.

Mi ha mostrato le foto delle tue partite di pallavolo, mi ha detto che ti piace, che ci tieni molto, anche se fingi il contrario. Spero che continuerai a tenerci. Che non ti ritroverai troppo presto a pensare che, se in qualcosa non puoi essere il migliore, allora non vale la pena neppure di provarci.

In realtà mi immagino che prima o poi cadrai in questa trappola o in una simile, tesa con maestria da te stesso.

Anche questa è una forma di vigliaccheria Keicchin: rifiutare il confronto sapendo la sconfitta, scegliere la strada con ovvie garanzie di successo, piuttosto che quella che va nel senso dei tuoi puri desideri.

Non porti dei freni, Kei, non rivolgere l'arma della tua intelligenza contro te stesso, meglio essere stupidi che usare male il proprio ingegno (dieci punti se riconosci la citazione). Desidera. Desidera intensamente. Desidera anche contro la logica e contro la probabilità: è il seme del coraggio che devi coltivare.

Andrà male, o anche malissimo, forse più di una volta.

Accettalo, Kei. Accetta che si possa fallire e andare avanti. Fallire e riprovare.

Spalle su cui piangere, o appoggiarti, ne hai abbastanza da lasciarmi sereno.

Tuo fratello per primo, che ti ama con una purezza e una forza che non avrei mai potuto eguagliare, neppure se mi fossi ravveduto.

Il piccolo Yama, anche. Mi guarda con occhi così ostili che non credevo che l'infanzia potesse possederne di simili. E' il riflesso del bene che ti vuole e io ne voglio a lui per questo. 

E tua madre, che, con tutti i suoi difetti ha fatto la madre meglio di quanto io abbia fatto il padre. Nei momenti difficili, anche su di lei potrai contare, anche se pensi il contrario.

E se mai avessi bisogno del consiglio di un adulto al di fuori dei tuoi legami più stretti, qualcuno che possa giudicare i fatti senza farsi influenzare, qualcuno abbastanza giovane da comprenderti e abbastanza grande da avere esperienza del mondo, la latrice di questa lettera mi ha promesso che, per quanto glielo concederai, veglierà su di te come una sorella maggiore. Non allontanarla a priori, solo per via della stima che ho per lei, concedile un giudizio più critico e più puro, sapendo che ha sofferto dolori grandi e li ha superati. E' una di quelle persone che vanno sempre avanti, gente che resiste e che resta in piedi.

Non come noi, Kei. Noi soccombiamo a noi stessi. Per questo, quelli come noi hanno bisogno di quelli loro e non viceversa. Riconoscere questa verità è un atto di umiltà che forse richiederà parecchi anni, ma confido che un giorno ci arriverai. 

Adesso chiudo questa lettera, è già troppo lunga, le cose importanti non hanno mai bisogno di molte parole.

Prima, però, qualcosa che avrebbe dovuto essere nelle righe iniziali: Keicchin, scusami.

Ti chiedo umilmente scusa per tutte le mancanze che mi hai sempre attribuito, per i dolori che ho procurato, per le azioni a cui ti ho costretto e che ti ha fatto male compiere. Quasi tutte le accuse che mi hai rivolto negli anni le ho meritate.

Perdonami, se vuoi, o non farlo, purché non ti porti addosso sensi di colpa, né rimorsi per me.

Le nostre strade a un certo punto si sono separate e questa lettera porta a zero il bilancio: niente colpe, niente obblighi. Per come eravamo disposti, non esisteva alcuna possibilità che i nostri percorsi tornassero a incrociarsi, almeno nel breve termine. Era inevitabile, Kei. E bisogna accettare anche l'inevitabile, senza per forza caricarselo sull'anima.

Liberati dai pesi, figlio mio, sei troppo sottile per portarli.

Nuota sempre verso l'alto, è forse l'unica cosa che ti ho insegnato bene.

Vivi. Cerca la tua felicità, qualsiasi forma abbia, e dalle valore.

Ti voglio bene.

Scusami.

Tuo padre
 

P.S. Il tuo carnotauro mi ha fatto buona compagnia in questi mesi, è un tipo silenzioso e simpatico. Quando non ci sarò più, vorrei che tornasse al suo legittimo proprietario. Aki ha promesso di impegnarsi per convincerti a riprendertelo, spero che ci sia riuscito.


 

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Capitolo 44
*** Speciale San Valentino - Kamei Arena ***


Speciale San Valentino - Kamei Arena


 

14 febbraio 2013


Da quando lo scemo si è impadronito della sua vita, il tempo di Kei ha iniziato a perdere regolarità, scansione, ritmo. Impazzisce, vibra, si dilata e si restringe fra le dita di Tetsurou, respira sul fondo lucido dei suoi occhi, sulle labbra e sulla lingua, in ognuno dei miliardi di frammenti in cui scompone la realtà continuamente, riempiendola di sé.

Gli sembra di vivere su un treno lanciato a tutta velocità, con loro due ancorati e solidali al sistema relativo dei loro ingombranti sentimenti e la vita tutto intorno che scorre a una velocità impossibile fuori dai finestrini.

Almeno i luoghi dovrebbero avere la decenza di non subire l'interferenza così tanto.

La Kamei Arena, per esempio, era lecito aspettarsi che fosse esattamente uguale a se stessa, identica a come Kei l'ha lasciata solo pochi mesi prima. In effetti lo sembra, ma è solo apparenza, perché esiste un livello di realtà più fine e più nascosto, un velo traslucido che si solleva appena mentre varcano insieme la porta vetrata. 

C'è un mondo, lì sotto.

E' il mondo dove camminano tenendosi per mano, con le dita intrecciate, oppure abbracciati stretti, e si baciano per strada, addossati ai pannelli trasparenti della pensilina dell'autobus e contro i muri dei palazzi, dove l'amore si scrive a caratteri cubitali in immensi graffiti, ed è più facile che dirlo a parole.

Ogni volta che si sorprende a pensare questo genere di scempiaggini, a Kei viene voglia di prendere a schiaffi prima se stesso e poi lo scemo, visto che, in fin dei conti, è tutta colpa sua.

"Sei proprio un cazzone irrecuperabile" sbotta, cacciandosi in tasca il biglietto verde smeraldo appena timbrato all'entrata. Ovviamente, ha intenzione di scriverci sopra la data e conservarselo. Per sempre.

"Che ho fatto stavolta?"

"Niente. Non hai fatto niente."

Tetsurou ammicca "...dammi tempo... "

Suo malgrado, Kei ride. Adora lasciarsi cogliere alla sprovvista e ingollare una pinta di emozioni dopo l'altra. Amare è una sbornia continua; amare Tetsu è un biglietto di sola andata per il disordine mentale e il caos. (E la felicità? Cazzo, sì.)

"Dai, Tsukki, vieni!"

"Ma dove?"

"Muoviti, che tra poco inizia!"

Non è vero, manca mezz'ora, ma Kei si lascia trascinare per il polso attraverso i corridoi laterali, con i soffitti bassi, senza finestre, illuminati da una luce verdolina. Superano una porta dopo l'altra e poi imboccano una rampa di scale. Kei trattiene gli occhiali sul naso, mentre scendono i gradini due a due. Non è sicuro che lo scemo sappia dove stanno andando.

"Ma i nostri posti sono alle prime gradinate!"

"Shhh, non fare il pedante, seguimi e basta!"

"Tetsurou..."

"Sì?" Si ferma di scatto e si volta. E sorride, come se non si vedessero da settimane e fosse appena sceso dal treno. Il genere di sorriso che si pianta nel fondo del cuore e getta ombre lunghissime sulla possibilità di sopravvivere altre chissà quante settimane senza vedersi.

"Vuoi dirmi dove cazzo stiamo andando? Qui ci sono solo gli spogliatoi degli sfigati. Ho già avuto la mia parte di polvere e di sudore altrui."

"Non potresti fidarti per una volta? Per favore?"

"No!"

"Perché?"

"Perché sono io quello con un minimo di cervello, se me ne hai lasciato un po'. E ti posso garantire che non faremo sesso negli spogliatoi fetidi di questo orrendo stadio."

"... se giuro che non attenterò alla tua virtù?"

La virtù di Kei aspetta di essere fatta a pezzi da ventisette giorni. "Meglio per te che non giuri. E che non mi fai perdere il fischio di inizio."

"Lo sapevo che sotto sotto eri un vero tifoso dei Frogs... "

"Crepa!"

"Duecentododici. Vieni, dai, ci siamo quasi!"

Tetsurou avanza ancora, tirandoselo appresso, un'ultima svolta lungo il corridoio e poi si lancia oltre una porta bianca.

Il bagno è deserto, palesemente inutilizzato da tempo. Quell'ala dello stadio è riservata agli eventi scolastici e sembra naturale l'idea di trovare decine di ragazzini accampati negli angoli, seduti sul pavimento o addormentati sulle sedie di plastica.

Ma non è un bagno qualunque.

Se Kei non si fidasse completamente di Tetsurou - e si fida ben più di quanto sia consapevole - esiterebbe sulla soglia: di tutto ciò che hanno condiviso, le pagine ambientate fra quelle quattro pareti sono le più dimenticabili.

Purtroppo, la memoria emotiva di Kei non conosce rimozioni. Niente viene cancellato: neanche mezza sillaba, non una sola inclinazione dello sguardo; la scena di ottobre si ripresenta vivida alla sua mente. La sensazione soverchiante di perdita di controllo, di sopruso inferto e subito, di squallore, di fallimento totale.

Ma Tetsurou ha un modo singolare di smussare gli angoli vivi del passato e si dirige proprio a quel cubicolo. Apre la porta e aspetta che Kei lo segua.

Kei lo segue, a testa bassa e con imbarazzante docilità. Ormai lo scemo non deve neanche disturbarsi a chiedere.

Il fermo scatta con un rumore metallico, lo spazio è angusto e soffocante come allora e forse loro sono anche cresciuti.

"Guarda qui, c'è ancora il segno" osserva Tetsurou angustiato, seguendo col dito la spaccatura sulla parete divisoria. "Che bestia!"

L'idea di tornare lì è stata pessima. Kei raddrizza le stanghette dietro le orecchie: questa volta, se non altro, ha intenzione di guardare tutto ad occhi bene aperti. "Voglio andarmene."

"Aspetta un attimo. Che giorno è oggi?"

"Il giorno in cui ti prendo a calci davanti a un water."

La smorfia di finta paura è meno divertente del solito. Tetsurou se ne accorge e rimedia con una carezza, le dita che sfiorano lo zigomo di Kei, così leggere e rapide che lasciano quasi solo la nostalgia di se stesse.

"Mi sa che due calci in culo a questo giro me li merito. Ma tu dammi solo un minuto, okay?"

Si china, rovista nello zaino e tira fuori un pacchetto, confezionato a mano e un po' strapazzato dal viaggio.

"E' un regalo per San Valentino? E me lo dai nel cesso di uno stadio?"

Tetsurou sorride e, maledizione, quando lo fa è invincibile. "Voglio cancellare un ricordo pessimo con uno fantastico. Per questo bisogna che siamo proprio qui."

Kei pensa che sia assurdo, e vuole ancora andarsene. Invece scarta il pacchetto e anziché la cioccolata che si aspettava, viene fuori una scatolina di cartone origami, al cui interno giacciono in fin di vita una ventina di biscotti a forma di brontosauro, mezzi sbriciolati e con i colli e le code spezzati.

Ne prende in mano uno e si emoziona. Di brutto, sul serio e all'improvviso. Un'ondata di emozione travolgente che lo percorre tutto e lo fa arrossire e sorridere e lo costringe a mandare giù molta più saliva di quanta credeva di averne fra le fauci.

"Li hai fatti tu?"

"Sì. Beh, stamattina erano messi un po' meglio ma... "

La bocca di Tetsurou viene tappata con un brontosauro. Anche Kei se ne infila in bocca uno: sono dolci, molto friabili e un po' troppo granulosi, ma fanno schizzare alle stelle l'asticella del concetto astratto di biscotto nel multiverso Tsukishima.

Mezzo secondo dopo Kei è avvinghiato al collo di Tetsurou, che sta ancora masticando.

"Mi sa che non sono un granché... "

"Taci. Di dolci non capisci un tubo: sono fantastici."

Le labbra di Kei sono così vicine che non caderci sopra è uno sforzo contro natura.

"Vorrei baciarti. Posso?" 

La domanda è stupida e non è il genere di cosa che Tetsurou di norma chiederebbe, perché il consenso fra loro è implicito e sfumato, e non passa per le parole. Ma a volte le parole servono. Lì, in quel momento, sono importanti. 

"Dimmelo: ti posso baciare?"

"Certo, scemo."  

Sul bacio piovono briciole, tenerezza e pezzetti di biscotto e resta sulle labbra un sapore profumato di vaniglia, di promesse mantenute e speranze tenaci e ancora acerbe.

Il bacio successivo strappa il velo fra la realtà reale e il mondo sottile che c'è oltre, il confine passa giusto nei punti dove corrono le crepe sul tramezzo e il passato si lascia superare dal presente.

Mentre osserva con gli occhi chiusi l'incredibile fenomeno di un ricordo svuotato delle sue ombre e riempito di luce, Kei si lascia baciare. Il bacio stesso, nel suo essere finalmente perfetto e indiscutibilmente giusto, nonché fantastico, è la sostanza di quella prodigiosa trasmutazione alchemica. In mezzo ci finiscono i sospiri di Kei, i segni sulla sua pelle chiara,  e le sillabe sconnesse delle dichiarazioni d'amore di Tetsurou.

La Kamei Arena ridisegna se stessa e diventa luogo del cuore. Tsukishima Kei si rende conto che forse un limite all'innamorarsi non esiste e dovrebbe decidersi a smettere di cercarlo.

"Anch'io ho qualcosa per te."

"Qualcosa del tipo che posso assaggiare ora o è meglio aspettare stanotte..."

"Stanotte siamo a casa mia, a tre metri da mia madre. Levati dalla testa qualsiasi idea sconcia."

"Qualsiasi, qualsiasi? Perché in realtà avevo in mente di..."

"Crepa!"

"Duecentotredici. Quindi assaggiamo ora?"

"Maniaco."

"Ma... è un libro?"

"La tua perspicacia mi stordisce."

Il volume è piccolo, azzurro, con un pettirosso ad acquerello in copertina. Tetsurou lo riconosce subito e lo sfoglia con dita avide e gentili.

Il testo è in inglese, ma la grafia elegante di Kei ha tradotto ognuna delle poesie in kanji ben allineati al margine, regolari, ordinati. Un segnalibro semplice di carta washi marca una pagina centrale, con due righe sottolineate (a penna!).

 

Che sia l'amore tutto ciò che esiste

E' ciò che noi sappiamo dell'amore.

E. Dickinson

 

****

E' tragicamente fluff, ma per San Valentino ho pensato che si potesse esagerare.

Il fatto che non riesca davvero a staccarmi da questa storia inizia a preoccuparmi :)

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Capitolo 45
*** Speciale Tsukki's Bday - Dorayaki ***


Speciale Tsukki's Bday - Dorayaki


27 settembre 2023


Ciao Kei,

se ho fatto i conti giusti, la lettera l'avrai trovata oggi sotto le mie mutande, perché le tue sono finite ieri e nel tuo praticare una forma estetica di disinteresse per le cose ordinarie, come mi dicesti a sedici anni, ricadono ancora le lavatrici, anche se di anni oggi ne compi ventisette. La cosa davvero imbarazzante è che ho scoperto che mi piace lavare le tue mutande e i tuoi calzini, che detto così sembra uno squallido kink da casalingo, e invece Kei-chan, mi sa che è proprio Amore.

Ti ricordi quella volta che abbiamo litigato e hai tirato la scatola dei dorayaki contro il muro della cucina?

Sono sicuro che te ne ricordi, ti ricordi sempre tutto, specie quello che ti fa più male ricordare. La mia memoria è meno infallibile, ma di quel giorno mi sono rimaste in mente due cose: i crampi allo stomaco per la colazione saltata e quello che mi urlasti addosso, ossia che ciò che volevi da me, dal nostro rapporto, erano certezze e risposte; che io parlavo tantissimo ma non ero capace di dirti né di darti quello di cui avevi più bisogno. Non so cosa ti risposi, non so neppure per cosa effettivamente stessimo litigando. So che ero fuori di me, un po' per la rabbia e un po', soprattutto, per il terrore di tornare a casa e non trovarti lì.

Invece c'eri. Di pessimo umore, incazzato come una biscia, acido e protervo come non mai, ma ancora convinto che valesse la pena sprecare il tuo tempo con me.

Mi sa che anche questo è Amore. Ammettilo, dai.

Quanti anni sono passati? Cinque e qualcosa, credo, vivevamo insieme da poco ed era primavera, mi ricordo sulla tavola le fragole raccolte dal balcone.

Da allora, sono cambiato. Lo so con certezza, perché sei tu a cambiarmi. Ogni giorno, ogni ora. Hai cominciato da ragazzino a modellarmi lentamente con la tua sincerità insolente e la tua lealtà assurda, in bilico sulla forgia tagliente della tua costante, pressante attenzione. Un lento, costante sfregare dei tuoi difetti contro i miei, dei tuoi desideri sui miei, fino a raggiungere la forma di un incastro; imperfetto, però, con i bordi mai del tutto limati, che bruciano ancora.

Io brucio ancora, come quando ero un moccioso e passavo giorni interi a preoccuparmi che all'improvviso ti cadesse il prosciutto dagli occhi e ti accorgessi di essere davvero troppo per me. E allora mi sforzavo di essere migliore, per colmare almeno un po' il divario. Mi sforzavo di reinventare continuamente noi e me stesso, per tenerti sulla corda.

Invece, sai, sei stato tu a tenermici, sulla corda, negli ultimi dieci anni, e mi ci tieni ancora. Sei stato tu a spingermi, spalla contro spalla, verso direzioni che non sapevo mai di voler prendere, ambizioni che neanche pensavo di avere, idee assurde concepite solo per stupirti e per tenerti stretto, e gongolare quando fingi di insultarmi e neanche ti rendi conto (o sì?) che ti stai vantando di me. 

Farò qualsiasi cosa per tenerti nella mia vita, con il prosciutto ben appiccicato agli occhi.

Qualsiasi.

Perché diciamocelo, essere amati da te è la sbornia del secolo, fisica, mentale, emotiva. Sei ad altissima gradazione, e quindi, va da sé, non per tutti.

Neanche per pochi. Facciamo solo per me.

E comunque ci vuole cautela, perché a ubriacarsi di te di continuo si finisce per vedere il mondo deformato. Ecco una verità scomoda: la mia vita, tutta, sempre, è filtrata da te, salata e addolcita da te, accesa da te e anche graffiata da te, ammaccata da te, dalla forza della tua presenza, dalla pressione dei tuoi spigoli più acuminati.

Sono io la scatola di dorayaki, Kei, meno male che non ti è mai venuto in mente di buttarla e sostituirla con una più nuova.

Non so se avrò mai le certezze e le risposte che volevi. Non sono tipo da certezze e tu avrai sempre più domande e dubbi di quanti mai potrei sperare di risolverne. Non so se smetteremo mai di litigare, forse no, un giorno lo faremo per le dentiere e l'incontinenza anziché per la prima divisione e le briciole nel letto. Poi faremo pace. E tu avrai l'ultima parola. Ma io ti porterò a letto e quindi avrò vinto comunque.

E resterò sempre diviso fra l'istinto di dichiararti amore eterno, come i tizi imparruccati dell'opera, e quello di strapparti le mutande, proprio come quel giorno sull'altalena, mentre ti fasciavo le mani facendo la faccia da poker (per fortuna era buio).

Una certezza forse ce l'ho, alla soglia dei trent'anni, ed è che non posso vivere senza di te. Questa cosa, Kei, mi spaventa (e dovrebbe spaventare anche te).

Mi spaventa perché siamo cresciuti insieme con l'idea che due persone adulte debbano essere indipendenti, autonome, libere. E che amarsi sia superare questa indipendenza e condividere questa libertà. E ora che siamo adulti veramente, mi sembra che tutto questo sia diventato in qualche modo accademia, perché se tu non ci fossi, io non saprei da che parte cominciare. O più esattamente, non vorrei ricominciare affatto.

Perché ti amo più di quel che dovrei e che sarebbe saggio accettare da parte tua.

Per fortuna tu non sei saggio (anche se pensi il contrario) e io non ho mai avuto un gran senso della misura.

Ogni tanto ripenso alla golden week, il giorno che ci siamo conosciuti e tu facevi finta di non avermi notato, mentre io cercavo disperatamente di farmi notare, senza nemmeno aver capito perché. Ero uno scemo di diciassette anni col cervello confuso e gli ormoni vaganti, ma ho sempre avuto occhio per le cose belle e istinto per quelle preziose. E per fortuna sono uno scemo impulsivo, avido e ostinato (nonché molto figo).

Puoi ammaccarmi tutta la vita, Kei-chan, mi piacciono sempre i segni che lasci.

Mi piacciono le parole che taci, gli sguardi di sbieco, le cene a base di ramen scotto, i calzini a righe, i post-it minatori sul frigo, i piedi gelati sotto il piumone, i messaggi vocali con solo uno schiocco di labbra infastidito, le stelle quando me le indichi col dito e a me sembrano tutte identiche e bellissime.

Mi piace fare l'amore, in tutti i modi, mi piace il tuo corpo sotto le dita, che cambia negli anni, matura, eppure mantiene intatta la sua perfezione e non perde mai sapore, come un vino buono.

Lo capisci che non potremo mai invecchiare? Miglioreremo e basta.

Buon compleanno, Kei. Sentiti felice, sentiti amato perché lo sei. Di brutto.

Tetsu

 

P.S. Bo ti ha preparato una sorpresa. Non dovrei dirtelo, ma ti amo troppo: sabato mettiti le scarpe che vanno in lavatrice e quei jeans che volevi buttare. Keiji era contrario, io, confesso, ho votato a favore solo per vedere la tua faccia.

P.P.S. È ora di dirtelo: nella mia vita c'è una donna e credo di amarla. Anzi, ne sono sicuro. È bionda, intelligente, bellissima e ha sei anni, incidentalmente ha anche il tuo stesso cognome e il motivo principale (ma non l'unico) per cui la amo è quanto cazzo ti somiglia. E' impressionante: a volte quando fa quella cosa di spingersi in su gli occhiali, serrare le labbra e tirarsi via i capelli dalla fronte penso di avere le allucinazioni; è come avere una versione di te in miniatura, con tutta la fiducia, l'allegria e la tenerezza che ti sei perso da qualche parte prima di conoscermi. E poi mi adora. Non è che c'è un modo per convincere tuo fratello a farcela adottare? Koko e Aki potrebbero venire a trovarla quando vogliono, magari si decidono a fare un altro figlio. A me sembra una splendida idea...

P.P.P.S [scritto di traverso] Il mio regalo ti piacerà, l'ho nascosto a casa e non penso che lo troverai, ma se per caso lo trovi, aspettami per aprirlo. Indizio: è in una busta gialla con il logo della JVL.

 

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