A&A: Strane Indagini – “IL QUADRO MALEDETTO”

di Orso Scrive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***
Capitolo 4: *** 3. ***
Capitolo 5: *** 4. ***
Capitolo 6: *** 5. ***
Capitolo 7: *** 6. ***
Capitolo 8: *** 7. ***
Capitolo 9: *** 8. ***
Capitolo 10: *** 9. ***
Capitolo 11: *** 10. ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 

 

Notte di Halloween, 2021

 

 

 

«Che palle, non succede niente…» sbuffò Aurora, mettendosi in bocca l’ennesima sigaretta e facendo scattare lo Zippo.

L’odore di petrolio riempì l’abitacolo, la fiammella guizzò e il tubetto di carta e tabacco prese fuoco in punta. La ragazza ne trasse una lunga boccata che sbuffò da bocca e narici con evidente sollievo.

«Secondo me, ormai, il tuo amico Ceccarelli possiamo darlo per perduto. Quello se ne starà rintanato da qualche parte a ridere di noi, dammi retta. Che ne diresti di toglierci di qui e andarci a chiudere al calduccio in un bel pub fumoso, di quelli dove ti servono una bella pinta di sidro, o magari di idromele bollente?» domandò. Si strinse nelle spalle. «Così, giusto per dare almeno un minimo di senso a questa serata che hai deciso di rovinarmi.»

Alberto scoccò un’occhiata alla collega dai lunghi capelli rossi, come sempre sobriamente affascinante nel suo giubbotto di pelle nera intonato con i jeans e gli anfibi della medesima tonalità, e soppesò la proposta.

Il tenente Alberto Manfredi e il sottotenente Aurora Bresciani, carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, lavoravano sempre bene insieme. Quando non fingevano di azzuffarsi e di beccarsi, andavano d’amore e d’accordo. D’altronde, il loro era un rapporto speciale, strano, che si spingeva ben oltre gli orari di lavoro. A unirli era un legame unico, che non avrebbero saputo spiegare con esattezza nemmeno loro. Forse era per via di tutte le avventure che avevano passato insieme, chi poteva dirlo. O, forse, era soltanto un’amicizia tanto antica di cui non avrebbero saputo più spiegare nemmeno loro l’origine. Gli era sufficiente una semplice occhiata per intendersi a meraviglia.

Quasi sempre, almeno.

Qualche volta uno dei due capiva l’esatto apposto, e così ciò che stavano facendo andava a monte. Seguivano gli immancabili strepiti e litigi che, praticamente sempre, finivano con la vittoria totale di Aurora e la capitolazione di Alberto, costretto a riconoscere la superiorità assoluta – in ogni cosa – della sua collega. Non che questo fosse di necessità vero. Ma il carattere del sottotenente Bresciani era talmente pessimo che il tenente Manfredi aveva da molto tempo imparato a non contraddirla.

Almeno, non troppo.

Era piena notte.

La notte di Halloween.

Notte di fantasmi e di streghe.

Ma, anziché trascorrerla standosene stesi sul divano davanti al caminetto acceso, ad aspettare i bambini che sarebbero venuti a suonare il campanello per fare dolcetto o scherzetto, e magari guardando un bel film dell’orrore in televisione – oppure, perché no, andandosene a zonzo in cerca di quel mistero di cui ancora sapeva essere intriso il mondo – Alberto e Aurora la stavano passando decisamente male: appostati a bordo della vecchia Fiat Punto blu di Manfredi, posteggiata sul ciglio di una strada disconnessa e piena di buche, nei pressi di una villa in apparenza abbandonata, di cui scorgevano a malapena il cupo profilo buio e sinistro al di là del muro di cinta e del giardino incolto, avvinghiato dal cupo abbraccio della nebbia.

Erano seduti da almeno tre ore e mezzo e cominciavano ad avere freddo e a sentirsi anchilosare le gambe. I sedili mezzi sfondati del veicolo non aiutavano di certo. In giro non si vedeva anima viva. Non fosse stato per una zucca intagliata che spandeva un bagliore aranciato da sopra un muretto, avrebbero potuto pensare di essere finiti in una strada del tutto dimenticata da ogni essere vivente.

Manfredi fu tentato di accettare quella proposta. Ormai, potevano considerare inutile restare ancora appostati. Ma non gli andava di arrendersi. Non dopo aver atteso tanti anni che la soluzione di quel vecchio caso gli venisse finalmente messa davanti agli occhi.

«Ancora qualche minuto», disse Alberto. «È solo questione di avere ancora un poco di pazienza… sono certo che, tra pochissimo, Ceccarelli spunterà da dietro la curva.»

Aurora gli sbuffò una nuvola di fumo sul viso.

«Credici pure che quel ladrone verrà, Manfredino mio», lo canzonò. «Secondo me, come al solito, ti sei fatto prendere per il culo dal tuo informatore. Scommetto che gli hai dato i soliti cento euro, per questa soffiata.»

«Magari fossero stati solo cento euro», si lamentò Alberto. «Quel dannato esoso ha preteso tre bottiglie di whisky scozzese invecchiato, tra cui un Macallan di quindici anni, mi sono costate metà di quella miseria che chiamano stipendio.»

«Me lo immagino», sbottò Aurora, tagliente come una lama affilata. «Così ora avrà nel ripostiglio sei bottiglie: tre da parte tua per dirti che quel brigante di Ceccarelli stava arrivando qui per piazzare il quadro maledetto, e altre tre da parte di Ceccarelli per dirgli che qui ci saremmo stati noi ad aspettarlo e quindi di non venire.»

Alberto non rispose.

Mi sa che hai ragione. Ma io mica te lo dico.

Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce davanti a lei. Sarebbe stata capace di rinfacciargli la faccenda per un mese intero, forse anche di più.

Decise di deviare l’argomento e tornare verso la proposta della collega.

«Allora, facciamo così… aspettiamo ancora venti minuti, mezz’oretta al massimo… e poi ti offro io una pinta di idromele. Conosco un posticino, non troppo lontano, dove te ne servono uno che è una favola.»

Nello sguardo della ragazza lesse una luce assassina che lo fece rimpicciolire nel sedile.

«Un’altra mezz’ora chiusa qui dentro io non me la faccio, Manfredi!» ringhiò. «Mi sto congelando persino la figa, a stare su questo sedile. Ti concedo giusto altri dieci minuti, poi dovrai riconoscere di essere un idiota che si è fatto fregare e mica te la caverai con una sola pinta, stanne certo.»

Alberto sospirò, rassegnato.

Si sentiva dare dello stupido da parte di Aurora almeno dieci volte al giorno.

Un giorno scoppio e ti rispondo a tono e ti dico io, che cosa penso davvero di te

Ma quando mai? Non ne avrebbe mai avuto il coraggio, a meno che, quel giorno, non avesse aspirato al suicidio. Perché lei, se lui avesse parlato in quel modo, sarebbe di sicuro stata capace di ucciderlo.

Una morte lenta e dolorosa.

Ne era più che sicuro.

E anche di un’altra cosa era sicuro. Più che sicuro.

Era certo che lei gli leggesse nel pensiero. Ogni volta che, colto da un istante di orgoglio, tentava di replicare ai suoi insulti, lei lo fulminava con un’occhiata tale da farlo tornare subito nel suo angolino. Chiunque, al suo posto, le avrebbe mollato un calcio in culo e le avrebbe detto addio.

In effetti, erano in molti ad averlo fatto: Aurora Bresciani, con il suo disprezzo malcelato verso l’intero genere umano, non era una persona facile, ed erano pochissimi a desiderare la sua vicinanza, men che meno la sua amicizia. La sua rubrica telefonica non era affatto ricca di nomi, e le sue conversazioni via Whatsapp si contavano sulle dita di una mano sola. Su Facebook, dove aveva un profilo, non la cercava nessuno, a parte qualche incauto che, non conoscendola, si lasciava attrarre dal suo aspetto; ma bastavano poche parole perché colui o colei che aveva cercato un approccio tagliasse la corda. Le sue uscite serali con qualcuno, poi, erano talmente poche che, nel volgere di un anno intero, si potevano ridurre a meno di una manciata.

Era impopolare e, per quello che la riguardava, ne andava fiera.

Ciò nonostante, lui le voleva un gran bene. Senza di lei, sarebbe stato perso. La conosceva in pratica da sempre e, col tempo, lei era diventata la sua colonna. Il suo punto d’appoggio. Alberto Manfredi stava su solo grazie ad Aurora Bresciani. Ma neppure questo avrebbe mai detto ad alta voce di fronte a lei o a qualsiasi altra persona.

«Okay…» Si schiarì la gola. «Allora dieci minuti…»

La mano di Aurora gli si posò sul braccio. Per un attimo, pensò che volesse dirgli che aveva visto arrivare Ceccarelli.

Invece, era soltanto per minacciarlo, come al solito.

«Ma Manfredi, ti avverto: devi portarmi in un locale di quelli che ho in mente io, e non nei tuoi soliti baretti da due soldi sulla tangenziali dove ti rifilano una brodaglia insulsa e panini con il salame vecchi di un anno o due.» Il suo tono era velatamente minaccioso, carico di quell’ironia magnetica fatale e ineluttabile. La presa della sua mano sul braccio di lui si fece più stretta. «Non provare a fare l’avaraccio con me, perché mi incazzo di brutto.»

Alberto deglutì.

«Io non ho mai fatto l’avaraccio, né con te né con nessun altro», si schermì.

Aurora ridacchiò, lasciando scivolare un’altra nuvoletta di fumo.

«Raccontala a un’altra, questa storiella», commentò.

«Io...» cominciò Alberto, ma lei lo interruppe.

«Senti un po’, Manfredino: io comincio a essere stanca, oltre che infreddolita. Adesso chiudo gli occhi, giusto per dieci minuti. Se, trascorso questo lasso di tempo, il nostro amico non si fa vedere, ce ne andiamo al bar e basta appostamenti notturni fino all’anno prossimo.»

Trasse un’ultima boccata di fumo e si tolse di bocca la sigaretta. La schiacciò nel posacenere, che aveva già riempito di cicche. Si raggomitolò sul sedile e i capelli rossi le scivolarono sugli occhi.

«Io riposo, ma tu fai buona guardia, mi raccomando», lo canzonò.

Manfredi le rivolse uno sguardo e un sorrisetto. Avrebbe potuto provare a replicare qualcosa, ma non gli venne in mente nulla. Inoltre, negli occhi della sua amica lesse un’autentica stanchezza.

Quella notte si stava rivelando davvero pesante.

Ma non poteva finire così, in niente.

Non dopo tutto quello che li aveva condotti in quella strada, appostati in attesa che arrivasse un uomo con un quadro sotto il braccio.

Quella storia durava ormai da circa cinquecento anni, e Alberto Manfredi era più che deciso a porvi la parola fine quella notte stessa.

- - - - - - - - -

Nota dell’autore: i personaggi di Alberto Manfredi e Aurora Bresciani sono stati creati da me per una serie di romanzi o presunti tali che vorrei loro dedicare. Nel frattempo, mentre cerco di scrivere quelle storie più lunghe, sto scribacchiando anche qualche breve raccontino che li veda protagonisti. Ho pensato di intitolare questi raccontini “A&A – Strane Indagini” e questa è il primo della serie. Spero che possa almeno incuriosirvi!


 

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Capitolo 2
*** 1. ***


1.

 

 

Campagne fiorentine, 1501

 

 

Distesa sull’erba punteggiata di fiori variopinti, completamente nuda, una mano languidamente abbandonata contro il pube florido di peluria biondiccia e il braccio piegato a sostenere il capo, i capelli disciolti sulle spalle che brillavano come pietre preziose nei raggi del sole, madonna Fiammetta Ambrogiuoli sembrava davvero un’antica divinità discesa dal cielo per riempire il mondo intero della sua bellezza.

Per quanto abile e concentrato, per quanto fosse ritenuto uno tra i migliori di tutti i pittori minori della sua epoca – uno di quelli il cui nome non si sarebbe perpetuato nei secoli, ma le cui opere sarebbero rimaste per sempre sotto gli occhi di tutti, nelle chiese di campagna come nelle ville signorili, capolavori inattesi e nascosti nei luoghi più impensati – Francesco il Bianco stentava a trarre dal suo pennello la capacità di tramutare quell’opera d’arte vivente in un insieme di vernice e olio.

L’immagine che andava formandosi lentamente sulla tela riusciva soltanto in parte a restituire la leggiadria di quel corpo, l’armonia di quelle forme, la dolcezza evanescente di quello sguardo che sembrava appartenere all’empireo. La perfezione era là, di fronte a lui. Chi mai avrebbe potuto pensare di trasporla attraverso l’arte di un uomo qualsiasi? Era una vera sfida al divino che si celava in lei.

Il pittore si sentiva sempre più inadatto, come se il compito affidatogli fosse inappropriato, superiore alle sue capacità. Dopo l’ennesima pennellata insoddisfacente, il Bianco gettò via il pennello, irritato.

«Ah, ma quando mai…!» sbottò, portandosi le mani alla testa.

Madonna Fiammetta lo guardò con un sorriso delicato.

Erano già dieci giorni che, ogni mattina, posava per quel pittore girovago a cui suo marito aveva dato l’incarico di ritrarla nei panni di Venere. Non era stanca, né si vergognava di mostrarsi nuda di fronte a quell’uomo, non celebre eppure degno di figurare nel novero dei più alti artisti. Un giovane gradevole, dolce, di buona compagnia. Le piaceva stendersi di fronte a lui. Amava osservarlo mentre lavorava con alacrità, la lingua stretta tra i denti, lo sguardo concentrato, la mano che si muoveva rapida e sicura, una stilla leggera di sudore che, dalla tempia, scivolava lungo la guancia glabra e da lì sul collo; eppure cominciava a credere che il pittore stesse chiedendo troppo a se stesso: non passava mattina, infatti, che il Bianco non facesse una scenata per quella che riteneva la sua incapacità di procedere in maniera adeguata con l’opera.

Madonna Fiammetta lo fissò mentre si aggirava attorno alla tela come un’anima in pena.

Lo trovava molto attraente, giovane e fresco. Doveva il suo soprannome al candore immacolato della pelle e al colore dei capelli, tanto biondi da apparire quasi bianchi, specialmente quando la luce li colpiva dall’alto, come in questo momento. Non le sarebbe affatto dispiaciuto donarsi a lui, trarre insieme reciproco piacere e, in questo modo, ispirarlo al meglio per il suo ritratto. D’altra parte, non le era affatto sfuggito come lo sguardo dell’artista indugiasse sul suo corpo ben oltre il tempo che era necessario a trasferire i suoi tratti sulla tela.

Si alzò e, drappeggiatasi attorno al corpo un lungo velo azzurro e quasi trasparente, che non celava per niente la bellezza delle sue forme – anzi, le esaltava, caricandole di eccitante mistero – gli si avvicinò con passo leggero, facendo frusciare l’erbetta sotto i suoi piedi nudi.

Percepiva lo scoramento del pittore, il suo senso d’impotenza. Malgrado ciò, sbirciando il quadro, a lei parve di avere sotto gli occhi un vero capolavoro. Non riusciva a comprendere che cosa gli mancasse per potersi dire soddisfatto.

«Non c’è la necessaria commozione, non c’è quell’enigma che la vostra figura emana, madonna», disse il Bianco, come se le avesse letto nel pensiero. «In voi io scorgo qualcosa di profondo, di estraniante… qualcosa che non appartiene a questo nostro mondo, così come noi lo concepiamo. Ma io non sono che un gretto pittore di campagna, e la mia arte non può davvero trasporre sulla tela ciò che scorgo in voi. Non mi è consentito di eternare l’ardore che, come una fiamma bruciante, emana dalla vostra anima.»

«Messere», rispose Fiammetta, con la sua voce flautata. «Io vi giuro che il modo in cui mi avete ritratta è meraviglioso, e…»

«E questo non basta!» la interruppe il pittore.

Il suo sguardo si era fatto truce, le sue mani si aprivano e si chiudevano a scatti. C’era qualcosa di spaventoso, adesso, in lui. Qualcosa che indusse madonna Fiammetta a muovere un involontario passo all’indietro.

«Ma io so che cosa devo fare!» urlò il Bianco, fuori di sé. «So dove dovrò recarmi affinché la mia arte possa davvero dirsi completa e in me arda quella fiamma che mi condurrà a creare il capolavoro della mia vita!»

Afferrata la tela dal cavalletto, Francesco il Bianco se la mise sotto braccio e fuggì. A nulla valsero i richiami di madonna Fiammetta, che tentò di richiamarlo indietro e farlo ragionare.

Nel volgere di pochi minuti, il pittore era già balzato in sella al suo destriero e si era allontanato al gran galoppo attraverso le campagne fiorentine.

 

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Capitolo 3
*** 2. ***


2.

 

 

Torino, Regno d’Italia, 1882

 

 

«Nessuno udì più parlare di Francesco il Bianco per almeno dieci anni», proseguì il signor Luigi Barbero, congiungendo le mani sopra l’ampio ventre. Il bottone argentato del panciotto di lana scura minacciava di cedere sotto la spinta di quella montagna di carne. La catena d’oro del suo orologio oscillava a ogni movimento.

Sedeva in poltrona, comodo, mentre il fuoco ardeva nel caminetto. Un calore che mitigava il freddo dell’inverno piemontese, carico di nubi grigie che promettevano neve. La stanza era ingombra di quadri, argenterie e anticaglie di vario genere, che denotavano tutta la passione del padrone di casa per l’antiquariato.

«Signor Barbero, questa storia la conosco già», replicò il suo ospite, il maresciallo Delacroix. «Con tutte le volte che lei me l’ha raccontata…» soggiunse, con un sorrisetto di compatimento. «Secondo la leggenda, il Bianco vagò per gli Appennini per molti anni, fino a quando si imbatté in una donna – una strega, una sibilla, vallo a sapere che cosa fosse davvero – che gli propose un patto: se lui avesse ceduto la sua anima al demonio, avrebbe potuto realizzare il quadro perfetto il cui pensiero lo perseguitava.»

«Andò proprio così» annuì Barbero.

Da un tavolinetto accanto alla poltrona prese un bicchiere di rosso Nebbiolo. Se lo portò alle labbra. Ne trasse un sorso con vivo gusto.

Riprese a parlare.

Il suo tono si caricò di un accento eccitato mano a mano che si immergeva nel racconto. Nei suoi occhi brillò una strana scintilla, come se stesse davvero vivendo in prima persona quei momenti di cui andava riesumando ogni singolo dettaglio.

«Quando il Bianco accettò di dannarsi pur di conquistare i suoi obiettivi, tornò a cercare madonna Fiammetta e, finalmente, la ritrasse nella maniera che desiderava, imprimendo alla tela la più leggiadra delle perfezioni. Si narra che, non appena ebbe dato l’ultima pennellata…»

 

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Capitolo 4
*** 3. ***


3.

 

 

Notte di Halloween, 2021

 

 

Alberto prese dal cruscotto una bottiglietta d’acqua e bevve un sorso. Era fredda, e scendendogli in gola gli procurò un brivido che lo scosse tutto.

Sorpreso di non aver ancora sentito un qualche commento tagliente e sferzante di Aurora, si voltò verso di lei.

Non riuscì a trattenere un sorriso.

La ragazza dormiva profondamente, raggomitolata sul sedile. Il suo petto si alzava e si abbassava in maniera regolare, tranquilla. I capelli rossi le cadevano sulla fronte e sulle guance, dandole un’aria quasi indifesa.

Era davvero bella. Non che non lo fosse sempre, ma così… era differente. Senza quella smorfia di disprezzo totale a deformarle i lineamenti, sembrava molto più giovane e fragile di quanto non fosse. Alberto si sentì un privilegiato nel vederla così, come a pochi altri era mai stato concesso.

Gli venne quasi la tentazione di accarezzarle i capelli. Lo trattenne soltanto il pensiero che, se si fosse risvegliata all’improvviso, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Persino azzannargli la mano.

Era già successo, peraltro.

Lanciò un’occhiata all’orologio elettronico della macchina. Erano passate le tre già da qualche minuto. I dieci minuti che lei gli aveva concesso erano diventati altre due ore, durante le quali Aurora aveva continuato a dormire. Non osava immaginare che cosa avrebbe detto – o, peggio ancora, fatto – quando se ne fosse resa conto. Non aveva nessuna fretta di scoprirlo.

Ora, però, Manfredi non aveva più alcuna scusa per rimanere lì. Cominciava a essere davvero stanco. Il tempo dell’appostamento era finito, e allora…

Un movimento lungo la strada attirò l’attenzione del tenente. Sollevò lo sguardo di scatto, cercando di penetrare le umide tenebre che avvolgevano tutta la zona.

Guardò bene, tentando di distinguere qualcosa in mezzo alle ombre e alla nebbia, così simile a un fantasma evocato dalla strada, che nel pomeriggio una pioggia battente aveva impregnato di acqua. Strinse gli occhi, scrutando ogni particolare.

Un uomo si muoveva furtivo lungo il marciapiede. Sotto braccio teneva un grande involto bianco di forma quadrangolare, che sembrava parecchio pesante.

Non c’erano dubbi, non ci si poteva sbagliare.

Ciò che cercava da anni era lì, vicinissimo.

Quelle tre bottiglie mi sono costate un capitale, ma è stato un buon affare.

Per una volta, persino un tirchio come lui era contento di aver speso del denaro.

«Aurora», sussurrò Alberto, scuotendo piano il sottotenente. «Aurora, svegliati.»

Lei aprì gli occhi e sbatté un paio di volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco e di capire dove si trovasse. Per un attimo, apparve confusa e insicura di ogni cosa. Il disappunto le si disegnò in volto quando si rese conto di essersi addormentata durante l’appostamento.

«Io stavo solo riposando gli…» balbettò.

Alberto non la lasciò continuare.

«Muoviamoci», disse. Appoggiò la mano alla maniglia della portiera, pronto ad abbassarla. «Ceccarelli è arrivato. Ha il quadro maledetto con sé.»

 

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Capitolo 5
*** 4. ***


4.

 

 

Campagne fiorentine, 1511

 

 

Madonna Fiammetta era stata sorpresa quando Francesco il Bianco si era ripresentato alla sua porta. Aveva pensato che non lo avrebbe rivisto mai più e, invece, era tornato. Era tornato più bello di prima e, soprattutto, più che mai deciso a completare il suo ritratto.

«Mio marito mi ha lasciata vedova», confessò al pittore, «ma questo non impedirà che il suo sogno venga realizzato, se voi ancora lo vorrete, messere.»

Ritrarre madonna Fiammetta era proprio ciò che desiderava il Bianco. L’unico sogno della sua esistenza, dinanzi alla quale si spalancavano già le porte dell’inferno. Si era condannato alla pena eterna, ma prima di patire tormenti indicibili, avrebbe realizzato il suo scopo in terra. Avrebbe eternato quella bellezza che, i dieci anni trascorsi e la tristezza del lutto, avevano resto ancora più sfolgorante.

Cominciò a lavorare, febbrilmente, senza risparmiare un solo briciolo della sua energia.

Lavorava con un ardore mai visto prima, fino a compromettere il proprio fisico al punto da deperire; dimagriva, si faceva sempre più pallido, gli occhi gli affondavano nelle orbite cerchiate di nero. Ma non se ne dava alcun pensiero: non voleva smettere, mai. Madonna Fiammetta doveva durare grande fatica per convincerlo a staccarsi dall’opera per rifocillarsi e riposare.

Il pensiero della bella, giovane e fresca vedova, in un primo momento, era stato quello di dedicare il tempo libero a fare l’amore con il bel pittore, un sogno del passato che le sarebbe piaciuto tramutare in realtà nel presente. Ora non avrebbe disonorato nessuno, concedendosi a lui, perché era protetta dalla libertà conferitale dalla vedovanza. Eppure, presto dovette desistere da quei propositi: innanzitutto, perché il Bianco non aveva in mente niente altro all’infuori della sua opera. E, in secondo luogo, perché più dipingeva e più imbruttiva, consumandosi come un tizzone nel fuoco.

All’inizio era stata poco più che un’impressione, quasi un abbaglio. Col trascorrere dei giorni e delle settimane, invece, il fatto divenne evidente e innegabile, per quanto inspiegabile.

Dopo ogni pennellata una nuova ruga gli solcava la fronte, e quando riponeva i pennelli una ciocca di capelli, ormai davvero bianchi e sfilacciati, simili a vecchia stoppa, gli cadeva dalla nuca. Gli occhi gli si affossavano e si facevano gialli, il suo insieme emanava cattivo odore. La pelle raggrinziva e si sfaldava, lasciando il posto a croste giallastre e a bubboni gonfi, dall’aspetto purulento. Presto, la carne che ancora gli rimaneva cominciò a staccarsi a brandelli dalle sue ossa, come se avesse contratto la lebbra.

Metteva terrore soltanto a guardarlo.

Nonostante tutto, madonna Fiammetta non si lasciava spaventare dalla sua trasmutazione. Ogni mattino, diligentemente, posava nuda di fronte a lui, senza fare caso all’orrore che le si consumava di fronte agli occhi. Né si curava del fatto che la sua domestica, quando entrava per pulire il pavimento, fosse costretta a porre in un secchio capelli, frammenti di pelle rinsecchita, finanche pezzetti di carne putrefatta. Anche lei, ormai, anelava soltanto ad avere sotto gli occhi il risultato, che fino a quel momento non le era stato possibile ammirare, perché il pittore, ogni volta che interrompeva il lavoro, copriva subito il quadro e lo portava via.

Anche quella mattina, dunque, la bella donna si denudò e si sdraiò sul letto, nella posa consueta. Con una mano sorresse il capo, con l’altra sfiorò il seno, coprendo un capezzolo. Allungò le gambe in una morbida e flessuosa posizione.

Annunciato dall’odore di marciume che non la abbandonava più, Francesco entrò a passo incerto nella stanza. Barcollò e dovette sorreggersi alla parete per non cadere. Era rimasto davvero poco di lui. Nulla, ormai, che potesse giustificare il soprannome di Bianco, o che rammentasse l’incomparabile bellezza del giovane pittore girovago che andava di villaggio in villaggio per guadagnare qualche spicciolo grazie all’arte.

Sembrava un cadavere incartapecorito. Era nudo, perché nessun abito poteva più adattarsi al suo fisico cadente. La carne decomposta, in più punti, aveva messo allo scoperto nervi e ossa. Le gambe erano scheletriche, simili a pezzo di legno marcescente. Una ragnatela violetta di vene gli solcava quel poco che restava del petto deformato. A ogni suo movimento, una sostanza scura e appiccicosa gocciolava sul pavimento attraverso i numerosi orifizi di cui era cosparso. Il volto era una maschera in decomposizione, in mezzo a cui si trovavano ciò che un tempo erano stati i suoi occhi, ridotti adesso a un ammasso informe e putrescente.

Il pittore, con movimenti lentissimi, depose il quadro sul cavalletto. A fatica tolse il telo che lo ricopriva e fissò prima l’immagine dipinta, poi madonna Fiammetta.

Le sue labbra deformi si contrassero in una specie di sorriso diabolico, che mise a nudo l’unico dente – giallo, marcio, dondolante – che gli era rimasto.

Ce l’aveva fatta, aveva trasposto la bellezza. Mentre madonna Fiammetta avrebbe continuato a invecchiare fino ad avvizzire, la sua immagine dipinta sarebbe rimasta inalterata, per tutta l’eternità. Già adesso si scorgeva maggiore armonia nel corpo ritratto, che non in quello adagiato sul divano.

Mancava un ultimo dettaglio. Un tocco di bianco sul seno sinistro. Poi l’immagine avrebbe abbracciato la perfezione, ne sarebbe stata infusa in ogni più piccola minuzia.

Francesco intinse la punta di un sottile pennello nel colore e l’appoggiò al seno sinistro. Un unico tocco, che diede vita alla perfezione.

Ce l’aveva fatta, infine.

«Ho finito», annunciò, con la flebile voce che gli restava.

Madonna Fiammetta alzò gli occhi verso di lui. Finalmente avrebbe potuto vedere il suo ritratto completato. Lasciò scivolare le gambe sulla sponda e si mise seduta. Ma quando fece per alzarsi, un grido di orrore le sfuggì dalle labbra.

Mentre guardava compiaciuto il quadro, Francesco venne avvolto dalle fiamme. Un fuoco scaturito dal nulla, che lo intaccò come se fosse stato cosparso di olio e di pece. Tentò di urlare tutto il suo dolore e di allontanare da sé quell’energia che lo consumava. Invano. Arse come una torcia, tramutandosi in cenere.

La donna gridò, gridò sempre più forte, e corse a lui cercando di salvarlo da quella tragedia. Non appena lo ebbe toccato, anche lei cominciò a bruciare. Crollò sul pavimento, contorcendosi nel fuoco che la deturpava e la scioglieva, distruggendo la bellezza del suo corpo, sottraendo al mondo ciò che, ormai, sarebbe esistito soltanto sulla tela.

 

 

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Capitolo 6
*** 5. ***


5.

 

 

Torino, Regno d’Italia, 1882

 

 

«L’unica testimone della vicenda fu una giovane domestica, accorsa alle grida della padrona», concluse il signor Barbero. Nello stesso tempo, terminò anche il suo calice di vino. «Riuscì a stento a raccontare ciò che era accaduto, prima di perdere completamente il senno. Fu rinchiusa in un convento, dove le monache si sarebbero prese cura di lei: ma dopo poco tempo, non reggendo il ricordo di ciò che aveva veduto, si impiccò.»

Delacroix bevve un sorso di vino. Guardò il calice in controluce e fece un cenno di soddisfazione. Poi tornò a rivolgere l’attenzione all’amico.

«Conosco la vicenda leggendaria, caro Barbero», disse. «D’altra parte, quante volte me l’avrà già narrata, questa storia? Una dozzina, come minimo.»

Barbero non si scompose.

«Ciò che non le ho mai detto, maresciallo Delacroix, era il motivo per cui mi fossi interessato tanto alla vicenda di Francesco il Bianco e del suo quadro maledetto», rispose. Si guardò attorno, facendo scivolare lo sguardo sulla vasta collezione di tele antiche che riempiva la stanza. «Anche se presumo che possa comprendere da solo il motivo del mio interesse.»

Il maresciallo seguì il suo sguardo.

«La sua raccolta?» intuì. «Vorrebbe trovare il quadro e aggiungerlo a…»

Barbero alzò la mano con il dito indice sollevato e la scosse in segno di diniego.

«No, no, caro amico», disse. «Non è ciò che vorrei, ciò che conta. Semmai ciò che ho fatto.»

Si alzò dalla poltrona – che gemette nel venire liberata da quel grave peso – e fece cenno al maresciallo di seguirlo. Lo condusse attraverso la sala, fino a raggiungere una porta chiusa. Vi si fermò davanti, la mano grassoccia sulla maniglia.

«Vede, caro amico, la proclamazione dell’Unità d’Italia è stata per me una vera benedizione. Mi ha permesso di girovagare per la Toscana in completa libertà, senza bisogno di lasciapassare di vario genere. Firenze è una città meravigliosa, sarebbe stata degna di rimanere la capitale del nostro nuovo stato. In fondo, è in essa, e non in Roma, che ha avuto origine la nostra lingua, la nostra cultura… Roma, lo sappiamo, con il suo passato imperiale e come sede del Papa, ha una vocazione universale, mentre Firenze, patria dell’Alighieri, del Boccaccio, e poi dell’Umanesimo e del Rinascimento, è sempre stata il centro d’Italia, il suo cuore pulsante, la sua anima… ma, certo, non mi sono recato in Toscana per motivi politici. Ho esplorato ville, conventi, chiese, sempre alla ricerca del quadro… il quadro maledetto. Mi ci sono voluti dieci anni, per raggiungere il mio obiettivo.»

Un sopracciglio si sollevò sulla fronte del maresciallo Delacroix.

«Vuol forse dire, signor Barbero, che c’è riuscito?»

Barbero annuì.

«Il quadro di Francesco il Bianco era ben nascosto, celato in uno scantinato dimenticato di una villa che, secoli or sono, appartenne alla famiglia degli Ambrogiuoli. La famiglia si estinse tanto tempo fa, e la proprietà, non sussistendo eredi, entrò a far parte del demanio pubblico. Il Ministero mi diede l’incarico di ispettore delle proprietà statali, e fu quindi facile, per me, una volta giunto a termine delle mie lunghe ricerche, mettere le mani sul capolavoro.»

«Al signor Ministro sarà venuto un colpo», ipotizzò il maresciallo.

«Niente affatto, amico caro, niente affatto», ridacchiò il signor Barbero. «Basta mettere un po’ di denaro nelle tasche giuste, e si ottiene tutto. Questa Italia sarà pure giovane, ma per chi ha occhi e orecchie, è già molto facile intendere quale sarà il suo vero spirito.»

Il maresciallo Delacroix si strinse nelle spalle. Non era certo lì per parlare di corruzione e di politica. Guardò la porta. Nonostante non avesse mai creduto alla veridicità della leggenda, non vedeva l’ora di ammirare con i propri occhi il quadro. Chissà se sarebbe davvero stato degno di tanta fama.

Come intuendo i suoi pensieri, il signor Barbero abbassò la maniglia.

Madonna Fiammetta li fissò attraverso la tela, portando ai loro occhi la sua eterna bellezza. Era un’armonia celeste, un’immagine indescrivibile. Era tanto bella e viva da risultare incomprensibile.

Il maresciallo si sentì piccolo e insignificante, di fronte a tanto splendore.

«Io non riesco a capacitarmi che…» disse.

Le parole gli morirono in bocca.

L’immagine nel quadro sembrava essersi mossa. Sbatté le palpebre. Scosse il capo. Doveva essere stato un effetto della scarsa illuminazione dello stanzino. O, forse, aveva esagerato con il Nebbiolo che gli aveva offerto il suo amico Barbero.

«Niente di più bello, niente di più eterno», sussurrò il signor Barbero, immobile al suo fianco, la voce fattasi d’improvviso rauca. «Valeva bene la dannazione, per riuscire a imprimere siffatta bellezza.»

Il maresciallo deglutì. Si sentiva incapace di muoversi. Avvertì a malapena il rumore della porta che sbatteva alle sue spalle.

«Un quadro degno del Signore delle Tenebre!» ruggì Barbero al suo fianco.

Solo che, adesso, il signor Barbero era scomparso.

Al suo posto c’era un essere altissimo, di una bellezza incomparabile, gli occhi fiammeggianti. L’essere allargò le braccia. Madonna Fiammetta si alzò dal divano su cui era stesa, venne avanti con passo leggero, facendo ondeggiare le sue grazie nel riverbero rossastro del fuoco che, adesso, riempiva tutte le cose. La bellissima donna venne accolta tra le braccia del diavolo e, con un grido ferino, si unì a lui in un amplesso demoniaco e bestiale.

Il maresciallo Delacroix gridò, gridò sempre più forte.

 

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Capitolo 7
*** 6. ***


6.

 

 

Milano, Italia, 1977

 

 

«Il quadro maledetto di Francesco il Bianco è valutato per trecento milioni di lire», annunciò il banditore della casa d’aste, con la sua voce monotona, priva di qualsiasi enfasi. «Il proprietario, il signor Anselmo Ferri, è discendente diretto del signor Barbero, ispettore ministeriale che, grossomodo cento anni fa, trovò il quadro in Toscana e lo aggiunse alla sua collezione privata. Si dice che chiunque fissi troppo a lungo il quadro perda il senno, proprio come accadde al signor Barbero stesso e a un suo amico, il maresciallo Delacroix, che terminarono i loro giorni nel Regio Ospedale Psichiatrico di Collegno, delirando fino all’ultimo istante di visioni, di diavoli, di donne bellissime.»

Il volto del banditore si fece beffardo, sebbene nei suoi occhi fosse comparsa una scintilla di nervosismo.

«Anche se, naturalmente, in piena era atomica non ci sembra affatto il caso di dare troppo adito a certe vecchie storie nate nell’ambito della riscoperta spiritica della seconda metà del secolo scorso, quando al pensiero liberale si sommavano reminiscenze romantiche, abbiamo convenuto di mantenere il quadro coperto, e di scoprirlo soltanto per pochi istanti, quelli necessari a mostrarvelo.»

Il banditore indirizzò un cenno al suo assistente, che annuì. L’uomo si avvicinò a un cavalletto che sorreggeva un quadro e, con mosse studiate e sicure, rimosse il telo bianco che vi era stato disteso sopra.

La sala gremita, che fino a quel momento era rimasta in silenzio, venne attraversata da un rapido brusio, che si fece sempre più acuto. L’intera platea parve ondeggiare, quando molte teste si mossero da sinistra a destra, come se stessero seguendo un movimento, qualcosa che si era prodotto sulla tela. Alcune persone emisero dei gemiti, altre impallidirono vistosamente.

Al banditore parve abbastanza. Fece un cenno all’assistente. L’uomo, facendo attenzione a non guardare mai il quadro, lo coprì di nuovo. Un sospiro di sollievo si levò da vari angoli della vasta stanza.

Poi, in un crescendo rossiniano, cominciarono a fioccare le offerte.

 

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Capitolo 8
*** 7. ***


7.

 

 

Guastalla, provincia di Reggio Emilia, 2016

 

 

«Vorrei donare il quadro maledetto al museo comunale», spiegò Sartori, stringendosi le mani senza riuscire a mascherare l’evidente nervosismo che gli dava il solo parlare della tela. «Saranno soltanto leggende, non dico di no… ma quell’affare non ha portato altro che scalogna alla mia famiglia. Mio nonno spese un mezzo patrimonio, per acquistarlo, una quarantina di anni fa, e meno di un anno dopo si suicidò, dopo aver trascorso tre giorni interi a fissarlo. Io… avevo soltanto quindici anni, a quel tempo, però ricordo che era letteralmente impazzito. Delirava, non mangiava più… alla fine si gettò da una finestra, senza nemmeno lasciare un biglietto per spiegare il suo gesto. Dubito che, nelle sue condizioni, fosse ancora in grado di scrivere qualcosa. Mio zio, che lo ereditò per primo, se lo portò a casa, ma dopo nemmeno una settimana morì in un incidente stradale. Mia cugina Carolina… se sapessi, Alberto… la trovammo squartata da capo a piedi, eppure il verdetto fu lampante: aveva fatto tutto da sola. Si… si sventrò con un coltello… con gli occhi rivolti alla tela.»

Sartori scosse la testa e bevve un goccio di grappa, per trovare la forza di continuare.

«Mio… mio padre, allora… decise di chiudere il quadro in una cassa e lo fece mettere nel caveau di una banca… e ce lo lasciò fino a… a quel giorno dell’anno scorso. Poi volle riportarlo a casa. Disse che erano tutte sciocche superstizioni. Sarà… sta di fatto che ora anche lui si è ammazzato e io… non ho nessuna intenzione di fare la stessa fine. Né voglio che la facciano i miei figli.»

Alberto Manfredi incrociò le braccia, osservando con attenzione il padre di Carlo, un suo vecchio compagno dei tempi delle scuole elementari. Dall’ultima volta che lo aveva incontrato, al matrimonio di Carlo, sembrava essere invecchiato di dieci anni, eppure erano trascorsi soltanto sei mesi.

«E quindi, signor Sartori, vorrebbe sbarazzarsi della tela?» domandò.

Sartori si strinse le mani, che avevano cominciato a tremare in maniera convulsa. Sembrava preda di qualche tipo di delirio.

«Io…» mugugnò, «io, sì. Non ce la faccio più ad averlo in casa. Lo tengo sempre coperto, in una stanza chiusa… ma c’è qualcosa… sento come un sussurro, la voce flebile di una donna che vorrebbe indurmi a entrare là dentro… a guardarlo… quel coso è maledetto, per davvero. E ora che Carlo si è sposato, e potrebbe avere dei bambini, non voglio che questa dannazione continui a pesarci addosso.»

Gli occhi di Sartori assunsero una sfumatura spiritata che innervosì Alberto.

Il giovane sottotenente aveva terminato l’Accademia Militare da circa un anno e mezzo ed era entrato da pochi mesi soltanto a far parte del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale, ma di storie simili gliene avevano già raccontate a bizzeffe. Per la maggior parte si trattava di semplici favole, inventate ad arte dai colleghi più anziani per mettere in soggezione qualche novellino, come lui. Ma ciò che vide negli occhi di Sartori lo incupì molto di più di quanto avessero fatto in quei mesi tutte le assurde panzane inventate da quell’inguaribile burlone del maresciallo De Crescenzo.

«Dipendesse da me, lo distruggerei senza pensarci due volte», andò avanti Sartori. «Farei a pezzi quella cosa e poi la getterei tra le fiamme…»

«La legislazione sui beni culturali…» cominciò Alberto, ma il padre del suo amico lo interruppe con un cenno.

«Lascia perdere la legislazione», sbottò. «Non me ne frega niente della legge. Se non l’ho distrutto, è solo perché ho come l’impressione che non ci riuscirei… che il quadro mi si rivolterebbe contro. Ma se io lo donassi alla pinacoteca, forse, non dovrei avere problemi, che ne dici?»

Manfredi, a dire il vero, non seppe proprio che cosa dire. Non era abituato a sostenere conversazioni di quel tipo. Sentire parlare di un quadro in grado di opporsi alla propria distruzione non era certo ciò che aveva in mente, quando aveva accettato l’invito del signor Sartori a raggiungerlo a casa sua.

«Be’…» borbottò Alberto.

Provò a richiamare alla memoria i vari articoli sulle donazioni di cui parlava la legislazione competente. Non era mai stato granché ferrato, in giurisprudenza. Tutti quei paroloni, servivano soltanto a confondere le acque, così la gente finiva per commettere illeciti senza nemmeno rendersene conto.

Bastardi tutti gli studiosi di diritto, si disse Alberto. Le pensano tutte, pur di metterti nel sacco con il loro giuridichese incomprensibile.

Inoltre, con quella storia, il signor Sartori gli aveva messo in corpo abbastanza strizza da rendergli difficile pensare a qualsiasi altra cosa.

Di solito, era la sua amica e adesso anche collega Aurora, a sguazzare a pieno agio in storie come quella. Ma nessuno gli aveva anticipato nulla di ciò che lo avrebbe atteso una volta lì, e così non gli era neppure passato per la mente di domandarle di accompagnarlo a quell’incontro.

«Ecco», riprese, cercando di mascherare al meglio il proprio disagio. Non fu certo di esserci riuscito. «Io credo che non ci siano problemi. Basterà che lei si rivolga alla soprintendenza ai beni culturali… ma, comunque, non si preoccupi di nulla. Domani mattina ne parlo con il mio superiore, lui di certo saprà darle dritte migliori di me.»

«Ti ringrazio tanto, Alberto», rispose Sartori, lo sguardo colmo di gratitudine, sebbene ancora non riuscisse a cancellarsi dal volto i segni della paura incalzante. «Ti ringrazio a nome mio, di Carlo e dei suoi figli, per quando ne avrà. Aiutandomi a sbarazzarmi di quel quadro, libererai la mia famiglia dalla più grossa delle sventure…»

 

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Capitolo 9
*** 8. ***


8.

 

 

Notte di Halloween, 2021

 

 

Adesso, tenendo una mano sulla maniglia della portiera e l’altra sul volante, mentre guardava Ceccarelli che si avvicinava furtivo al cancello della villa, Alberto rivisse per intero quei giorni di cinque anni prima. Se li vide passare davanti agli occhi, come se fosse accaduto tutto soltanto da poche ore.

Come promesso, il pomeriggio seguente a quella conversazione aveva fatto ritorno alla casa di Sartori. Aveva con sé il fascicolo che gli aveva consegnato il maresciallo De Crescenzo, molto più competente di lui su quelle cose: a Sartori sarebbe stato sufficiente compilarlo e inoltrarlo; nel volgere di pochi giorni, il quadro sarebbe passato da casa sua alla pinacoteca comunale, dove poi gli esperti avrebbero valutato la possibilità di esporlo oppure di chiuderlo in magazzino e dimenticarsene per sempre. Probabilmente, se qualcuno gli avesse domandato un parere in merito, Sartori avrebbe suggerito la seconda ipotesi.

Alberto aveva suonato il campanello una volta, due, tre.

Invano.

Nessuno aveva risposto al citofono.

Gli era parso strano. Con tutta la fretta che aveva di togliersi di torno il quadro, Sartori non poteva certo aver scordato di aver con lui quell’appuntamento.

Stava per andarsene, quando si era reso conto che la porta dell’abitazione era soltanto accostata. Insospettito, aveva girato tutto attorno alla cancellata, per vedere se, magari, il padre di Carlo non fosse uscito in giardino. Nessuno. Ma una finestra sul retro aveva un vetro in frantumi.

A quel punto, non gli era rimasto che scavalcare ed entrare. Indossava la divisa, aveva la pistola con sé, eppure non si sentiva del tutto sicuro. Fino a quel momento, la cosa più elettrizzante che gli fosse capitata di fare, prima di entrare nel Nucleo Tutela del Patrimonio, era stato sedare una rissa tra ubriachi, una notte mentre era di pattuglia. Quella volta non aveva nemmeno dato il meglio di sé, a dire il vero: si era trovato con un occhio nero e uno zigomo sanguinante. Aurora, quando lo aveva visto in quelle condizioni, aveva fatto fatica a trattenersi dallo scoppiare a ridere. Poi, però, dolce e premurosa come sempre sapeva essere se soltanto lo voleva, gli aveva dato un bacino sulla guancia ferita e gli aveva sussurrato all’orecchio: «Quando ti capitano certe cose, Manfredino, chiamami subito, così ti proteggo io.»

Ora, ancora una volta, lei non c’era, e questo lo inquietava parecchio. Forse avrebbe fatto meglio a telefonare almeno al maresciallo, prima di procedere: sebbene lui, in quanto sottotenente, fosse tecnicamente un suo superiore, si sentiva di dipendere in tutto e per tutto da De Crescenzo e dalla sua esperienza ormai trentennale. Ma un senso di disagio e di urgenza lo aveva spinto a entrare senza altri indugi.

Non aveva esitato oltre.

Aveva raggiunto la stanza in cui Sartori gli aveva detto di aver nascosto il quadro. Qualcosa gli suggeriva che, se i suoi timori erano fondati, lì ne avrebbe avuto la prova.

Il cavalletto era vuoto.

Davanti, sul pavimento, un ammasso di carne e di sangue informe.

Ciò che restava di Sartori.

E le indagini, per quanto scrupolose, non avevano portato a nulla. Non si era mai scoperto il nome dell’assassino – o, meglio, del folle macellaio che aveva commesso quello scempio disumano – né che fine avesse fatto il quadro. Era come se tutto quanto si fosse dissolto nel nulla.

Almeno fino a quel pomeriggio – a cinque anni precisi di distanza da quel giorno che gli si era impresso in modo indelebile nella memoria – quando Toni, il suo esoso e costosissimo informatore, gli aveva fatto la soffiata su Ceccarelli.

«Se sotto quel telo c’è il quadro rubato, possiamo arrestarlo in flagranza di reato senza attendere che entri nella villa», suggerì Aurora, come sempre smaniosa di entrare in azione.

Alberto non distolse lo sguardo dall’uomo che si muoveva lentamente attraverso la nebbia.

«È vero, ma se nella villa c’è l’acquirente, sarà meglio beccarli insieme», rispose. La voce gli tremava leggermente. Le sue nocche, strette attorno alla maniglia della portiera, sbiancarono. «Così ci liberiamo di due delinquenti in un colpo solo. Magari scopriamo che, quello che vuole il quadro, è pure lo stesso che ha ordinato di rubarlo a ogni costo, nel 2016.»

La mano di Aurora si posò sulla sua. Quando voleva sapeva essere delicata, calda, confortante. Umana. Alberto fu felice di averla al suo fianco in quel momento. Lei era in grado di dargli quel qualcosa che nessun altro in tutto il mondo sapeva comunicargli.

«So quanto questa faccenda sia importante e personale per te, Manfredino», sussurrò la giovane donna. «Ma ti scongiuro, stai calmo.»

Alberto sospirò.

Quando il fatto era accaduto, Aurora aveva cercato di stargli il più possibile vicina. Lo aveva confortato, aveva tentato in ogni modo di aiutarlo a scordare l’immagine orribile che si era trovato davanti agli occhi, quando aveva scoperto il cadavere. In quei giorni, più che mai, lei gli aveva dimostrato il valore della loro amicizia, che durava da tantissimi anni. Si era anche assunta la direzione delle indagini, portandole avanti finché era stato possibile. Infine, però, si era dovuta arrendere, perché sembrava proprio che non ci fosse alcuna traccia, alcuna pista. Sartori era stato fatto a pezzi e il quadro era letteralmente scomparso: altro non era emerso.

Però, Alberto le era sempre stato grato per tutto quanto aveva fatto per lui. Non lo avrebbe mai scordato. E se adesso era davvero prossima la svolta che avrebbe messo la parola fine a quella brutta e vecchia storia, Manfredi si sentiva felice e fortunato di averla accanto. Sentiva che fosse giusto, che la portassero a termine insieme.

«Sono calmo», la rassicurò. «È solo che non posso fare a meno di pensare al padre di Carlo… lo conoscevo fin da quando ero piccolo. Ai tempi delle scuole elementari, ho trascorso tanto tempo insieme a Carlo, e i suoi genitori erano dei punti di riferimento per me, molto più di quanto non lo fossero i miei. E se penso… se penso che quell’uomo…»

Aurora aggrottò la fronte. Osservò il ladro – giaccone nero e coppola dai motivi scozzesi sopra i capelli radi – che si era avvicinato al cancello e, dopo essersi guardato altre volte attorno, stava armeggiando con una chiave.

«Davvero tu pensi che sia stato Ceccarelli a ucciderlo in quel modo orribile?» domandò, scettica.

Il tenente Manfredi rifletté un istante.

Aveva già avuto Ceccarelli tra le mani innumerevoli volte. Era un ladruncolo. Un mariolo che campava di furtarelli, o al massimo di piccole truffe ai danni dei più sprovveduti. Un omuncolo non troppo coraggioso, seppure dotato di un cervello abbastanza perspicace. Si aggirava soprattutto tra le vecchie chiese di campagna, alla ricerca di antichi candelabri o di piccoli quadretti votivi. Qualche volta, in passato, si appostava negli autogrill per rifilare ai camionisti scatole con mattoni spacciandoli per smartphone: un’attività, questa, che aveva abbandonato dopo che un suo cliente, anziché attenersi alle istruzioni – «Aprila solo quando sei lontano da qui, così nessuno si insospettisce» – aveva scoperto l’illecito e si era fatto restituire il corrispettivo a forza di pugni. Il colpo più grosso che avesse fatto, qualche anno prima, era stato trafugare delle monete romane da uno scavo archeologico in corso. Per quello si era beccato sei mesi con la condizionale.

Scosse la testa.

«Non è un assassino», ammise. «Può essersi impossessato del quadro chissà come, ma non è stato lui a uccidere Sartori. Probabilmente quella tela è in suo possesso da non più di ventiquattro ore.»

«Già», annuì Aurora. «Ceccarelli è troppo furbo per conservare qualcosa troppo a lungo. Due o tre mesi fa gli ho fatto una perquisizione a sorpresa in casa… non aveva niente di niente, nemmeno uno spillo che potesse incriminarlo di qualcosa.»

Un ghigno attraversò il volto del tenente. Si girò a guardarla.

«Una perquisizione a sorpresa?» sbottò, divertito. «E com’è che non ne sapevo niente?»

Aurora sorrise. Un sorriso maligno che avrebbe fatto rabbrividire un diavolo.

«Mi stavo annoiando, non avevo niente da fare», ricordò. «Ero seduta su una panchina al parco, a fumarmi una sigaretta e a guardarmi attorno. C’erano dei ragazzini fastidiosi che giocavano a calcio, un assillo che non ti dico con quel cazzo di pallone. E poi ascoltavano quelle loro specie di musiche di oggi, che solo a sentirle mi sembrano peggio della carta vetrata passata sulla passera. Un pomeriggio che stava diventando insulso che più insulso non si può. Quando ecco che vedo passare Ceccarelli con una sportina in mano. L’ho seguito fino a casa e, appena è entrato, ho bloccato la porta con un piede, l’ho persuaso a farmi dare un’occhiatina in giro e ho messo tutto a soqquadro.»

Alberto soffocò una risata. Non aveva bisogno di domandarle come avesse fatto a fare tutto senza bisogno di un mandato di perquisizione. Ceccarelli provava un cieco terrore nei confronti di Aurora. Probabilmente l’aveva lasciata entrare e non si era opposto a nulla. Oppure, e nemmeno questo era da escludersi, lei aveva minacciato chissà quali atrocità per indurlo a lasciarla passare.

«Immagino che sarà felice di rivederti, allora», commentò.

Al di là della strada, il cancello si aprì e si richiuse in fretta alle spalle di Ceccarelli. Il ladro sparì nella nebbia oscura del giardino.

«Andiamo», disse Alberto, aprendo la portiera.

Smontarono dalla vettura e attraversarono a passo rapido la carreggiata. Si fermarono a ridosso del muro di cinta. Era troppo alto per vedere qualcosa all’interno. Manfredi si piegò e Aurora gli salì con agilità sulle spalle. La giovane sbirciò.

«Allora?» grugnì Alberto.

Non gli dispiaceva affatto tenere il sottotenente sulle spalle. Sentiva il calore irradiarsi dal suo corpo e questo gli dava sicurezza. Con lei vicina, sarebbe sceso senza paura persino all’inferno. Inoltre, non capitava tutti i giorni di poter toccare Aurora tanto liberamente, perlomeno senza correre il rischio di trovarsi steso a terra mezzo massacrato di botte. Però, aveva ancora le gambe intorpidite dal lungo appostamento, e sorreggerla si stava rivelando un’impresa più complessa del previsto.

«Le piante sono molto fitte, non c’è una cazzo di luce e la nebbia fa il resto», sussurrò Aurora. «Non riesco a… aspetta! Si è accesa una flebile luce al primo piano e…» La giovane fece una breve pausa, guardando meglio. «Sì, vedo due figure muoversi attraverso il vetro della finestra. Uno è Ceccarelli. L’altro non lo riconosco, ma da qui sembrerebbe un gnocco da paura, se capisci cosa intendo dire.»

Con una piroetta elegante, Aurora tornò al suolo. Alberto si raddrizzò e accennò al cancello.

«Hai i tuoi attrezzi da scassinatrice?» domandò, con un sogghigno.

«Sempre», replicò lei, pronta.

Si avvicinarono all’ingresso e Aurora abbassò la zip del giubbotto nero. La tasca interna conteneva un vero e proprio campionario di piccoli grimaldelli, chiavi, forcine, cacciaviti. Osservò per alcuni istanti la grossa e antiquata serratura e scelse il ferro che si sarebbe meglio adattato.

«Se io non fossi una tutrice dell’ordine», disse, concentrata sul lavoro, «sarei una ladra perfetta. Sai che titoli, sui giornali? L’imprendibile Aurora, il terrore dei ricchi. La meravigliosa ladra dai capelli rossi beffa di nuovo polizia e carabinieri. La disperazione del tenente Manfredi, che ancora una volta deve gettare la spugna, sconfitto.»

Alberto ridacchiò.

«Ti darei la caccia fino in capo al mondo e, alla fine, ti prenderei di sicuro», replicò.

«Succederebbe soltanto perché io te lo lascerei fare», rispose Aurora. Si voltò a guardarlo con il solito sorriso sinistro e malizioso. «Alla fine sei così dolce, Manfredino, che mi dispiacerebbe sconfiggerti sempre.» Spinse il cancello, che si spalancò con un cigolio.

«Dopo di te, mio eroico tenente», lo invitò, indicando il vialetto circondato da palme e alberi contorti, che si perdeva nella foschia.

Alberto annuì e si avviò, guardingo.

Nel giardino regnava un silenzio quasi assoluto, rotto soltanto dall’umidità che gocciolava dai rami. Gli alberi neri sembravano cupi spettri in agguato nell’oscurità. La ghiaia bagnata e screziata di muschio scricchiolava sinistramente sotto la suola degli anfibi. Cric-cric. Ogni ombra pareva nascondere una cupa minaccia in agguato…

Accidenti, forse sarebbe stato meglio scegliere una notte migliore di questa, per concludere tutta questa faccenda pensò Alberto.

Deglutì.

Non doveva lasciarsi suggestionare da nulla. Non doveva nemmeno lasciarsi trasportare dall’idea che, quel quadro che stava andando a recuperare, fosse maledetto. Gli sarebbe piaciuto ammettere ad alta voce che si trattasse solo di sciocche paure infondate e superstizioni senza senso. Purtroppo, aveva già visto – e affrontato – un sufficiente numero di cose assurde da essere consapevole di non poter dare nulla per scontato.

Dietro di sé, sentì i passi e il respiro leggero di Aurora. Questo lo rassicurò. Con lei vicina, non c’erano maledizioni che potessero essere efficaci. Sarebbe stata capace di beffare il diavolo e di metterlo in quel posto a un mostro, quella donna. A volte si scopriva a domandarsi se, per caso, non fosse lei stessa una specie di creatura diabolica…

«Se pensi qualcosa di cattivo nei miei confronti, giuro che mi offendo… e, quando mi offendo, mi arrabbio. E se mi arrabbio divento… come dire… intrattabile.»

Il sussurro ironico di Aurora nell’orecchio lo fece sussultare. Rabbrividì, e la nebbia umida che gli si incollava sul giubbotto non c’entrava nulla. La certezza che lei, chissà come, sapesse leggergli nel pensiero, divenne più forte che mai. Prima o poi avrebbero dovuto affrontare la questione con tutta la serietà del caso. Ma non era questo il momento più adatto per farlo.

Erano vicini all’ingresso della villa.

 

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Capitolo 10
*** 9. ***


9.

 

 

 

Ceccarelli tremava. A stento riusciva a impedire che i denti cozzassero gli uni contro gli altri. Era stato costretto a infilare le mani in tasca per tenerle ferme. Aveva soltanto voglia di essere mille miglia lontano da quella stanza.

Come da istruzioni, la notte precedente aveva raggiunto il magazzino, che in apparenza non sembrava avere nulla di anomalo, visto dall’esterno: un capannone in mezzo ad altri capannoni, nel pieno di una squallida e puzzolente zona industriale di periferia. Ma l’interno aveva rivelato la più grande sorpresa. Era stipato di opere d’arte rubate, pronte a partire per l’estero. Una caverna delle meraviglie di stampo postmoderno. Una vera manna dal cielo, roba da diventare miliardario. Ma gli era stato caldamente suggerito di non toccare nulla all’infuori di ciò che era stato spedito a prendere. La voce al telefono gli aveva detto che era roba che scottava e che non sarebbe mai riuscito a piazzarla da nessuna parte.

«Ne ricaveresti soltanto un biglietto per l’inferno», disse la voce, profonda, vellutata di terrore. Minacciosa.

Ceccarelli era un uomo intelligente. Si era attenuto alle istruzioni. Non aveva ceduto a nessuna tentazione. Aveva visto pezzi pregiati, inestimabili, ma ai suoi sguardi non avevano fatto seguito azioni. Era sopravvissuto a troppe prove per sapere che un gesto sbagliato avrebbe potuto fare la differenza tra la vita e la morte. Lo aveva solo stupito il fatto che, a un simile tesoro, non fosse di guardia nessuno. Ma la voce lo aveva avvisato anche di quello, dopotutto.

«Non troverai nessuno a cercare di ostacolarti, ma non per questo devi rinunciare alla cautela.»

E, infatti, Ceccarelli aveva compiuto un lavoro a regola d’arte, poteva ben vantarsene. Seguendo le indicazioni che gli erano state date, si era fatto largo nel magazzino. Gli scaffali erano disposti nell’ordine preciso che gli era stato comunicato e contenevano esattamente gli oggetti che gli erano stati detti. Li aveva guardati, ammirati. Di un paio di loro si era perdutamente innamorato. Ma la voce al telefono era stata categorica, e gli aveva infuso un senso di profondo timore. C’era qualcosa di sbagliato, in quella voce. Così aveva ignorato ogni singolo reperto.

Era salito al primo piano.

Anche quello era un ricettacolo di opere d’arte d’ogni sorta e d’ogni epoca. Sembrava un museo privato maltenuto. L’ambiente umido e freddo, il buio quasi assoluto. A tratti gli era persino parso di sentire risuonare dei suoni simili a mormorii. Come se quegli oggetti e quei quadri stessero sussurrando in una lingua antica e dimenticata.

Fantasie, si era detto. È la pioggia che tamburella sul tetto e rimbomba.

Aveva proseguito la sua ricerca.

In realtà non aveva dovuto cercare proprio niente. Come seguendo la mappa di un tesoro nascosto, gli era bastato percorrere l’itinerario che gli era stato spiegato nei minimi dettagli e aveva trovato ciò che stava cercando.

Il quadro.

Era coperto da un telo bianco. La voce, al telefono, gli aveva ordinato di alzare un lembo soltanto per accertarsi che fosse proprio quello, che non ci fossero errori. Poi lo avrebbe dovuto coprire e non guardarlo mai più.

«Come capirò che è proprio quello che cerco?» aveva domandato Ceccarelli. «Che cosa è raffigurato, sopra il quadro?»

«La bellezza», aveva risposto la voce, intensa ed enigmatica.

Anche a questo punto, Ceccarelli si era scrupolosamente adeguato agli ordini. Era abituato a stare attento alle consegne. Questo gli aveva permesso, nella sua lunga carriera di ladro, di cavarsela sempre – il massimo che gli fosse capitato era stato di ricevere qualche sganassone: marchi del lavoro, come amava chiamarli lui – nonché di non conoscere mai troppo a lungo le pareti di una cella. Solo che, quando aveva alzato il lembo per guardare, era accaduto qualcosa.

Qualcosa che non si aspettava.

L’immagine sul quadro… quell’immagine era viva, ne era certo. Lo aveva folgorato. Non voleva smettere di fissarla, voleva perdersi in quello sguardo, in quel corpo. Voleva fondersi con la tela e con l’olio, diventare un tutt’uno con la materia che aveva innanzi agli occhi.

Forse sarebbe rimasto immobilizzato in quell’attitudine per il resto dei suoi giorni. Non valeva la pena pensare ad altro all’infuori del quadro. Ma un rumore lo riscosse. Passi. C’era qualcuno nel magazzino.

In tutta fretta, il ladro coprì il quadro, lo tolse dal cavalletto e lo mise sotto il braccio. Restò in attesa, ma non arrivò nessuno. Probabilmente si era sbagliato. Ma ormai l’incanto era spezzato e poteva andarsene.

E così aveva fatto.

C’era qualcosa di strano, in quel quadro. Qualcosa che non andava. Non andava per niente. Proprio per questo aveva fatto come gli era stato ordinato, senza più farsi cogliere dalla curiosità di sbirciare ancora.

Aveva portato il quadro a casa e lo aveva nascosto nello stanzino segreto. Il suo personale capolavoro antisbirri. Nemmeno il più furbo di loro avrebbe mai trovato quel piccolo rifugio. Neppure quella rompipalle della Bresciani, che un giorno era venuta a ficcare il naso dappertutto dopo averlo minacciato di una morte lenta e dolorosa se non le avesse permesso di farlo, era riuscito a scovarlo. Era nascosto troppo bene. Avrebbero dovuto abbattere casa sua a cannonate, per poterlo scoprire.

Poi era andato a letto, in attesa.

Non era riuscito a prendere sonno. Si girava e rigirava tra le coperte. Il rumore ticchettante della pioggia che continuava a cadere, anziché contribuire a rilassarlo come faceva di solito, lo aveva tenuto sveglio. L’immagine del quadro lo tormentava… non vedeva l’ora di sbarazzarsene. La voce gli aveva dato appuntamento alla villa, per le tre e trenta di notte del primo novembre.

Finalmente, dopo un giorno che gli era parso eterno, era arrivato il momento di mettersi in moto. Aveva continuato a piovere fino alla sera tardi. Dopo la pioggia era arrivata pure la nebbia. Che razza di situazione. Portato a termine quel lavoro si sarebbe preso almeno un mese di ferie. Se le era meritate.

Era arrivato all’appuntamento con mezz’oretta di anticipo. Forse il cliente non avrebbe avuto troppo da ridire. In fondo gli aveva portato quello che voleva, no?

Si era guardato attorno nella strada. A causa della nebbia non aveva potuto vedere granché. C’era qualche macchina parcheggiata. Una macchina con i vetri appannati: forse una coppietta in camporella. Nulla di allarmante. Sopra un muretto una zucca di Halloween, la cui fiammella si era spenta. Si diceva che portasse male. La fiamma doveva bruciare fino all’alba, altrimenti la protezione contro gli spiriti maligni non sarebbe stata efficace…

Basta dire cretinate, pensò.

Si era lasciato influenzare da quello strano quadro e ora vedeva tutto nero. Non doveva farsela sotto dalla paura. Nel suo lavoro, certe cose non erano affatto contemplabili.

Aveva la chiave del cancello. Ci impiegò molto più del necessario a far scattare la serratura. Anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, non aveva nessuna voglia di entrare in quella villa fatiscente.

Sembrava una costruzione uscita da un film dell’orrore, accidenti.

Le mura di pietra, annerite dal tempo e screziate di umidità, si innalzavano al cielo, confondendosi nella nebbia fino a perdersi e scomparire. Le finestre buie sembravano orbite vuote nel volto pallido e rinsecchito di un morto. Il portone d’ingresso, scuro, alto, attorniato da una cornice che riproduceva ghirigori deliranti tra cui si inseguivano animali fantastici – draghi, serpenti, creature di ogni sorta a cui il ladruncolo non seppe dare un nome – sembrava davvero la porta dell’Inferno. Mentre si avvicinava con il passo lento di un condannato a morte, cercando di ignorare il buio intenso che emanava dal giardino inselvatichito, Ceccarelli non poté fare a meno di domandarsi se, sopra la porta, avrebbe trovato inciso parole quali Per me si va ne l’etterno dolore e via discorrendo.

Lasciando da parte quei pensieri lugubri, il ladro si avvicinò al portone. Ovviamente non c’era scritto nulla. In compenso, si rese conto che la porta non era chiusa, solo accostata.

Proprio come l’ingresso infernale, che resta sempre aperto.

Con la mano libera, Ceccarelli spinse l’uscio. L’interno dell’edificio odorava di polvere, umidità, vecchiume. Era immerso nell’oscurità più totale. Ma la cosa non doveva impressionarlo, no? Era entrato in luoghi ancora più tetri e sudici di quello, per portarne via qualcosa di prezioso. Una volta o due, era persino disceso in una cripta piena di scheletri e aveva aperto i sarcofagi per scoprire che cosa contenessero. Però, di solito, entrava per rubare. Mai nessuno gli aveva chiesto di portare un pezzo di refurtiva in un luogo del genere.

Chi diavolo può essere tanto pazzo da abitare in una simile catapecchia fatiscente?

Gli era stato detto di salire al primo piano. Le scale si trovavano alla sua sinistra. Cominciò a muoversi adagio, sollevando nuvolette di polvere dal pavimento di pietra.

Giunto alla base della scalinata, guardò in alto. Sopra, il buio era assoluto. Una nera parete, quasi tangibile. Non si vedeva e non si sentiva nulla. Cominciò sul serio a domandarsi se il cliente non avesse cambiato idea.

Esitò.

«Sei in anticipo. Non importa. Sali.»

Quella voce lo colse di sorpresa, facendolo sobbalzare. Proveniva da qualche parte da sopra le scale. Era la voce che gli aveva parlato al telefono. Una voce maschile, seducente, sarcastica… terribile. Sentirla tanto vicino, dal vivo… questo gli strappò un brivido che gli solcò la spina dorsale. Tuttavia, un passo dopo l’altro, cominciò a salire i gelidi e sporchi gradini di marmo.

Più saliva, e più il freddo morso della paura gli attanagliava lo stomaco. Se non aveva ancora gettato via il quadro e non se l’era data a gambe, era perché la ricompensa lo aspettava al piano di sopra.

«Oro», gli aveva detto la voce al telefono, quando Ceccarelli, raccolto il coraggio, aveva domandato quanto e come lo avrebbe pagato. «Avrai oro in quantità. Più di quanto tu possa portarne o spenderne in una vita intera. Oro puro. Lingotti e monili antichi. Rivendendolo un poco alla volta, senza suscitare pericolose curiosità da parte di qualcuno, diverrai ricchissimo e potrai soddisfare ogni tuo capriccio per il resto della tua esistenza.»

«Niente denaro contante?» aveva osato domandare.

A rispondergli era stato una specie di ringhio sordo, che lo aveva raggelato. Poi la voce aveva parlato di nuovo.

«L’oro è un elemento della natura. Il valore che possiede gli è stato attribuito dall’uomo; avete scelto l’oro, avreste potuto fare lo stesso con mille altri materiali. Sono affari vostri, quelli. Il denaro, invece… quello è uno strumento del demonio. In suo nome si compiono le più turpi azioni. Io non lo maneggio, è stato creato per gli uomini, compete a loro. Se il sole emana calore, non ha bisogno di riceverne. Col denaro è lo stesso, per me.»

Ceccarelli non aveva capito fino in fondo quella frase sibillina, ma non aveva nemmeno voluto indagare oltre. I brividi che gli aveva provocato erano stati una risposta più che esaustiva. Aveva lasciato perdere. L’oro gli andava più che bene.

Era arrivato in cima alle scale. Sulla propria sinistra notò una porta aperta. L’istinto gli suggerì di fuggire, la ragione gli disse che era lì dentro, che doveva andare.

Seguì la ragione.

Entrò.

Nel centro della stanza c’era una poltrona foderata di velluto verdognolo, dallo schienale alto. Non riuscì a scorgere l’uomo che vi sedeva, soltanto una sagoma scura appoggiata ai braccioli. Davanti alla poltrona era posizionato un cavalletto vuoto.

«È un bene che tu sia arrivato prima», disse l’uomo, a bassa voce. «Senza guardare me e senza guardare la tela, metti il quadro sul cavalletto e scoprilo. Poi avvicinati al caminetto e accendi il fuoco. I fiammiferi sono sulla mensola.»

Ceccarelli avrebbe preferito essere pagato subito e farla finita. Ma non fiatò. Quell’uomo seduto emanava paura a fiotti. Obbedì, ripetendo meccanicamente ogni gesto che gli era stato ordinato di fare.

Appoggiare il quadro sul cavalletto fu come liberarsi da un peso opprimente che gli gravava sul cuore. Sperò che attizzare il fuoco avrebbe contribuito a rischiarargli la mente e a infondergli un poco di calore. Non bastò. Il fuocherello illuminò la stanza, rivelandogli la figura in ombra. Ma non portò alcun calore.

Ora Ceccarelli tremava, le mani infilate in tasca. Avrebbe voluto essere lontanissimo. Non capiva che cosa stessero aspettando.

L’uomo seduto era bello, non c’era altro modo per poterlo definire. Di una bellezza impareggiabile. Probabilmente l’uomo più bello che si fosse mai visto al mondo. Ogni tratto del suo viso era di proporzioni perfette e armoniche. Doveva essere sulla trentina, e molto alto. Aveva capelli nerissimi, proprio come i suoi occhi. La pelle era quasi diafana. A un certo punto, Ceccarelli fu attraversato dall’idea pazzesca di trovarsi al cospetto di un vampiro.

Non aveva ancora finito di pensarlo, che l’uomo rise.

«Un vampiro?» domandò, con tono beffardo. Il suo sguardo, fisso sul quadro, non si mosse di un solo millimetro. «Faccio quindi l’effetto del principe delle tenebre? Ma anch’esso mi appartiene. Io sono il signore del giorno e della notte, mia è la tenebra come la luce, il mondo di qua come quello al di là. Il fuoco e l’acqua mi competono allo stesso modo. Io sono molto più di un vampiro. Io emano.»

Ceccarelli pensò di aver capito male. Doveva essere andata così. Quell’uomo non poteva avergli letto nella mente, vero? A meno che, naturalmente, in preda al nervoso non avesse pensato ad alta voce. Gli capitava, qualche volta. Cattiva abitudine. Una volta aveva pensato male di una donna parecchio corpulenta che aveva davanti al supermercato, in fila alla cassa.

«E muoviti a togliere la roba dal carrello, culona!» aveva pensato. Solo che non lo aveva soltanto pensato, lo aveva anche detto, senza accorgersene. Quella si era voltata e gli aveva rifilato uno schiaffo tale da rovesciarlo a terra. Adesso doveva essere successa la stessa cosa…

«Non hai bisogno di parlare, perché io sappia», disse l’uomo, interrompendo i suoi pensieri. «Sarebbe impossibile celare qualcosa a me. Io sono colui che tutto vede e tutto sa. Io ho conosciuto il passato e il futuro. Io sono il signore del presente. E sono tornato per riprendermi ciò che è mio.»

L’uomo si alzò. Ceccarelli tremò ancora più forte.

La curatissima mano dell’uomo si appoggiò sulla figura ritratta sopra la tela e l’accarezzò. Ceccarelli fu certo di aver udito un mugolio di piacere sollevarsi da quella direzione.

«Secoli or sono concessi a un pittore la facoltà di imprigionare sulla tela la Bellezza. La sua anima in cambio della perfezione. Lo confesso: qualche volta vengo gabbato anche io. Troppo tardi mi resi conto di non aver guadagnato nulla, ma solo di aver perso: cosa poteva essere mai, un’anima dannata in più, se per averla rinunciai all’amore? Non è forse l’Amore, il potere più grande di tutti? Madonna Fiammetta fu creata per sedere al mio fianco, per illuminare con la sua meravigliosa presenza il trono delle tenebre. Nei millenni gli uomini la conobbero con nomi differenti: chi la chiamò Persefone, chi Ereškigal. Altri ancora le diedero il nome di Vanth, o di Iside. Ma la verità, una e sola, è che ella è sempre stata la mia sposa e io, scioccamente, la cedetti per un nonnulla.»

Ceccarelli aveva cessato di ascoltare. Udiva soltanto un sordo ronzio, mentre il cervello gli ripeteva: scappa, scappa, SCAPPA!

Troppo facile, pensare di scappare. Il difficile era farlo.

Impossibile, non difficile.

Ceccarelli era immobilizzato.

L’uomo, adesso, sembrava ancora più alto, più bello, più seducente. Era chino sul quadro, lo abbracciava, lo baciava.

«Per secoli», riprese a parlare, «ho cercato di riaverla. Ma non potevo. Ho tentato in ogni modo, ma la sola cosa che ho ottenuto è stato di creare una lunga scia di sangue. Mi palesavo, tendevo le mani, la gente impazziva nel trovarsi al mio cospetto… e non potevo fare altro. Ero legato da un patto. Persino io, il Signore, il Padrone, il Costrittore dei Mondi, non posso sottrarmi a un vincolo! Avevo avuto un’anima! Ero obbligato nei suoi confronti!»

Gli occhi dell’uomo scattarono su Ceccarelli. Erano rossi come la brace. Il ladruncolo fu certo di essere giunto al capolinea. Mentalmente, cominciò a dire le sue ultime preghiere. Si rivolse al Padre perché lo perdonasse…

«Ahhh, zitto!» sbottò l’uomo, infastidito. «Non nominare quel tizio petulante, capriccioso e infantile in mia presenza! Già è difficile sopportarlo con le sue lagne continue e la sua ossessione di non essere adorato abbastanza, figurarsi se mi tocca ascoltare un’orazione nei suoi confronti! Le preghiere devono essere rivolte al benefattore dell’umanità, non al suo nemico più assoluto! E, comunque, non ne hai bisogno!»

Ceccarelli, suo malgrado, svuotò la mente e smise di pregare.

«Ecco, bravo…» riprese l’uomo, ricontrollandosi. «Dicevo che avevo l’Obbligo. Avevo avuto un’anima, non potevo rinunciare, le mie mani erano legate. Ma a tutto c’è un rimedio. Il diavolo non ha bisogno di avvocati, checché se ne dica. Possediamo biblioteche antiche e amplissime, in cui è raccolto il sapere dei tempi. E la soluzione, più semplice che mai, mi si è presentata. Per un’anima avuta, un’anima resa, e il vincolo sarà rotto.»

Lo sguardo fiammeggiante dell’uomo tornò a volgersi sopra il quadro.

«Questo significava rinunciare a qualcuno, in sostanza. Ma a chi? Assassini? Stupratori? Corrotti? Davvero avrei perso tutto questo? Poi ho pensato a te. C’è un posticino che ti attende da quando sei entrato per la prima volta in un tempio per trafugarne un quadretto votivo. Più rubavi, più la punizione aumentava… non sarebbe stata eterna, no. Quasi per nessuno lo è. Alla fine, dopo l’Espiazione, c’è il Nuovo Inizio: stessa anima, nuovo corpo, un mondo che chissà se è questo o un altro. Ma sarebbe durata un tempo consono alle tue azioni: mille anni di tormenti per ogni oggetto rubato.»

Ceccarelli era un uomo intelligente. Ne sapeva anche parecchio di matematica. Non gli ci volle molto a fare una rapida moltiplicazione. Si trattava di almeno mezzo miliardo di anni di torture.

Accidenti

«Sei stato bravo. Hai obbedito ai miei comandi. Non hai preso dal magazzino in cui si trovava il quadro altro all’infuori di ciò che ti ho detto. Se lo avessi fatto, questa notte non mi avresti trovato qui, e la tua punizione sarebbe stata inesorabile. Ora i tuoi peccati passati sono condonati. Non quelli futuri, però: bada bene a ciò che farai. Ho rinunciato alla tua anima per ciò che ha fatto, non per ciò che farà.»

L’uomo lo guardò ancora. Era beffardo, ironico, sinistro.

«Quindi bada a te: sei ricco, ora. Ma se cadrai di nuovo in tentazione… sarai mio!» Il suo tono si abbassò lievemente, pur mantenendo il medesimo accento sarcastico. «Nessuno la fa in barba al diavolo per due volte.»

Detto questo, si volse per l’ennesima volta al quadro. Il suo volto, per quanto fosse possibile, si raddolcì. Forse anche il demonio provava sentimenti d’affetto. Nello stesso momento, una pendola che si trovava in un angolo della stanza cominciò a battere. Ceccarelli la guardò, stupefatto: segnava l’orario più strambo che avesse mai visto. Le tre e trentatré.

La pendola scandì appunto trentatré rintocchi. Al trentatreesimo, l’uomo fece schioccare le dita e, all’improvviso, la tela prese fuoco. Avvampò tutto in un momento, fino a consumarsi completamente.

Abbagliato, Ceccarelli tolse la mano di tasca e se la portò davanti agli occhi per proteggersi. Vide delle immagini confuse. Per un momento, gli sembrò di avere scorto una donna di incredibile bellezza avvolgersi attorno al corpo dell’uomo e baciarlo con voluttà e ardore.

Fu questione di un attimo.

Le fiamme scomparvero con la velocità con cui erano apparse. L’uomo, impassibile, restò fermo davanti a ciò che restava del quadro: una cornice annerita da cui pendevano pochi brandelli di tela incenerita.

«Ci sono due tutori dell’ordine appostati in corridoio», rivelò l’uomo, immobile. I suoi occhi avevano riassunto la tonalità nera. «Non opporti all’arresto. Ricorda… basta un niente, e sarai di nuovo mio. Ti condurranno in caserma, ma non potranno trattenerti. Non hanno prove di qualche tua colpevolezza e non ne troveranno. Se perquisendo casa tua scopriranno un ricco deposito d’oro, non potranno sequestrartelo: il notaio Lucifero Satanassi, di Casa del Diavolo a Perugia, testimonierà che si tratta di una legittima eredità lasciatati da un tuo zio americano. Le tasse di successione sono già state pagate.»

L’uomo fece schioccare di nuovo le dita. Il poco che era sopravvissuto del quadro maledetto di Francesco il Bianco si ridusse in cenere finissima.

«Ora devo andare», rivelò. «Dialogare con te è senza dubbio interessante, per quanto abbia parlato soltanto io… ma vorrai scusarmi. La mia sposa mi attende da secoli e dobbiamo soddisfare la nostra libidine. Ci aspetta, come dire, un amplesso infernale.» Ridacchiò piano della sua battuta. «Le brame d’amore le proviamo tutti, mio caro.»

Ci fu un guizzo. Le fiamme nel camino si spensero completamente, ripiombando la stanza nel buio più assoluto.

Ceccarelli sbatté le palpebre, ma quando tornò a guardarsi attorno scoprì di essere rimasto solo.

 

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Capitolo 11
*** 10. ***


 

10.

 

 

 

Fuori, nel corridoio, Alberto e Aurora si scambiarono uno sguardo stralunato.

«Riesci a credere a ciò che abbiamo visto e sentito?» sbottò il tenente, perplesso.

La giovane donna si strinse nelle spalle.

«Non mi stupisco più di nulla, ormai», disse. «Incontrare il demonio che briga per ritrovare la sua mogliettina è forse una delle cose meno strambe che mi siano successe da quando ti conosco, Manfredi.»

In quel momento, ancora pallido e scosso, Ceccarelli uscì dalla stanza. Alberto gli puntò in faccia la torcia elettrica e l’accese.

«Non ti muovere e alza le mani!» ordinò, secco. «Ti dichiaro in…»

Aurora agitò la mano.

«Ma lascia perdere, tenente», borbottò. «Non hai sentito quel diavolo o quello che era? Prove contro di lui non ne esistono… e io ho sonno. Cazzo, se ho sonno. Mi è pure passata la voglia di bermi l’idromele bollente. Ho voglia soltanto di andarmene a letto e basta. Se portiamo questo qui in caserma, significa perdere il resto della notte e stare come minimo in ballo fino a mezzogiorno, in attesa che a un magistrato venga in mente di interrogarlo e mandarci a perquisire casa sua.»

Un sorriso inquietante le alterò i lineamenti. Ceccarelli si fece minuscolo. Anche Alberto provò un brivido di paura.

«Ma potrei divertirmi a prenderti a calci nelle palle, ladruncolo da strapazzo, giusto per vendicarmi di avermi fatto passare la notte in macchina», considerò, con la voce ridotta a un sussurro. «Tanto tu non puoi difenderti: commetteresti un peccato, a picchiare una donna. E sai che cosa ti aspetterebbe in quel caso, vero?»

Ceccarelli, tremebondo, tentò di dire qualcosa. Dalle labbra gli sfuggì solo un gemito incomprensibile. Manfredi decise di prendere in mano la situazione. Anche lui cominciava ad avere sonno.

Batté le mano sulla spalla dell’ormai ex ladro.

«Il sottotenente Bresciani ha sempre voglia di scherzare: non farebbe mai del male nemmeno a una mosca», disse. Non fu sicuro di essere riuscito convincente. «Ora fila via e sparisci. E cerca di rigare dritto. Ti teniamo d’occhio come diavoli.»

Ceccarelli non se lo fece ripetere due volte. Non provò nemmeno a dire una parola. Con passo rapido raggiunse le scale e si defilò.

«Potevi farmi divertire ancora qualche minuto», borbottò Aurora, scocciata.

«Ma va’, che non tieni gli occhi aperti», replicò Alberto. «Andiamocene a dormire.»

«Di’ piuttosto che sei tu che caschi dal sonno, Manfredino», lo prese in giro.

Alberto sorrise.

Si presero sottobraccio e scesero le scale.

 

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

 

 

La strada era ancora immersa nella nebbia. L’umidità era così penetrante da riuscire a farsi largo persino sotto il giubbotto di gore-tex di Manfredi e quello in pelle di Aurora. Rabbrividendo, Alberto prese di tasca un basco di lana nera e se lo calcò bene in testa, sopra i capelli perennemente arruffati.

«Che dici?» domandò, guardando Aurora che si accendeva una sigaretta. «Andiamo a dormire? O ci hai ripensato, per il pub?»

Lei lasciò uscire una boccata di fumo, quindi rivolse un cenno al muricciolo dall’altra parte della carreggiata.

«C’è un’ultima cosa da fare», rispose.

Con le mani affondate nelle tasche, curioso di scoprire che cosa avesse in mente, Alberto restò fermo a guardarla mentre attraversava. Raggiunse la zucca di Halloween e, toltasi la sigaretta dalle labbra, ne avvicinò la punta allo stoppino della candela. La fiammella tornò a baluginare, riaccendendo di rosso il sogghigno del guardiano della notte.

«Ecco fatto», commentò la donna, tornando da lui. «Ora possiamo andare.»

Risalirono in macchina. Con uno sbadiglio, Alberto avviò il motore.

Aurora gli lanciò un’occhiata di sbieco.

«Sei sicuro di riuscire a guidare senza andare a sbattere da qualche parte?» domandò, aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Perché, all’improvviso, il sonno mi è passato, e se trovi un pub aperto, un secchio di idromele bollente me lo butto giù volentieri. Non capita tutte le notti di incrociare il demonio in persona. Bisogna in qualche modo festeggiare l’avvenimento. Ma sempre senza che ti addormenti al volante, Manfredino bello.»

«Ma sì, certo che non mi addormento», borbottò Alberto. «Basta che non ci sia una pattuglia della stradale che ci ferma… sbirri rompiballe.»

«Ricordati che anche tu sei uno sbirro rompiballe, tenente.»

«Ah, già», fece lui, soffocando un nuovo sbadiglio.

«Per me ti addormenti», dichiarò Aurora, con tono saccente.

«Per me ti sbagli», replicò lui, poco convinto. Sollevo un sopracciglio e le lanciò un’occhiata di sfuggita. «Ma se non ti fidi, ti cedo volentieri il volante…»

Lei scosse la testa. Allungò i piedi sul cruscotto e aspirò un’altra boccata di fumo.

«Non ci penso nemmeno», disse. «Sono qui bella comoda e da qui non mi smuove più nessuno. Guida tu, Manfredino. Ma, giusto perché sei tu, tenente, posso stare pronta a darti un pizzicotto nelle palle appena minacci di addormentarti. Funziona sempre, te lo assicuro.»

«Affare fatto», rispose Alberto, ingranando la marcia.

Si allontanarono nella bruma compatta, e i fanali posteriori della Punto divennero soltanto due occhi rossastri, sempre più piccoli nell’oscurità.

Dietro di loro, nel buio fumoso di nebbia, la zucca di Halloween continuò a brillare, sogghignando nella notte.

 

 

 

Scritto: Ottobre 2021

Rivisto e corretto: Luglio – Agosto 2022

 

 

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