Crisalide nera

di shana8998
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sono Lili Bennet ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***



Capitolo 1
*** Sono Lili Bennet ***




Amo le bevande di un colore rosso vivo. Hanno un sapore due volte più buono di qualsiasi altro colore.


                                                1.

«Sono Lili Bennet e questo è il mio primo caso…»

Passo un’altra manciata di fondotinta sul viso.

«Piacere, il mio nome è Lili Bennet. Si, Lili.» Sorrido allo specchio, il mio riflesso non è dei migliori, non mi soddisfa.

«Sono Lili Bennet è un piacere conoscervi. No.»

Sospiro e riprovo. Marco meno la curva delle labbra, poso il pennello, prendo lo struccante. Un viso troppo colorito potrebbe denotare di me una poca cura della persona o la voglia di apparire sin troppo.

«Piacere, il mio nome è Lili Bennet», dico mentre passo lo struccante sulle guance «Questo è il mio primo giorno come aspirante detective. Sono qui per seguire il caso del vampiro.» Che nome stupido. Quell’uomo è un feticista, ama il sangue umano e torturare le sue vittime fino a svuotarle totalmente, non è un vampiro. E’ uno squilibrato.

Accantono lo struccante e getto il tovagliolo intriso di fondotinta.

Ho bisogno di un trucco delicato, non devo assomigliare ad una delle battone che costeggiano gli angoli del motel in cui alloggio.

Torno a dirmi che quel fondotinta comprato ai magazzini MacKraft sia di pessima qualità. Non sono mai stata troppo brava a scegliere articoli di makeup.

Ma non posso dire lo stesso per quello che riguarda la mia carriera: a soli venticinque anni ero entrata nella scientifica in Massachusset e non come matricola ma come medico coroner abilitato. Il mio sogno però era quello di diventare una profiler, una cazzo di detective a tutti gli effetti. Sogno che sembrava diventare più palpabile cambiando città. Non che in Massachusset non ce ne sia l’opportunità, ma di gente come me ne è esattamente pieno quel posto. Perciò da dove incominciare se non da una piccola cittadina del New Hampshire? West Brook é perfetta.

Il tasso di criminalità non é alle stelle se confrontato con la mia città natale, ma basta a farmi fare esperienza. Ed esperienza è il termine che sottolinea tutto ciò di cui ho bisogno al momento.

Perciò eccomi, dopo un’accurata scelta, ho fatto domanda per accedere alla centrale di polizia della città, ovviamente domanda accettata all’istante con i miei requisiti, ed ora sono pronta per il mio primo giorno di lavoro.

Il caso per cui ho deciso di propormi è quello del vampiro di West Brook. Un uomo non ancora identificato che da circa sei mesi sta terrorizzando l’intera cittadina, rapendo e uccidendo in modi del tutto efferati giovani donne.

Nessuno si sente più al sicuro da quando una fuga di notizie da parte della polizia ha fatto sì che l’intera città venisse a sapere che non c’è un sospettato.

Assurdo! Come diavolo hanno potuto far sì che una notizia del genere trapelasse indisturbata!

Scuoto la testa. Ho gli appunti sul caso sotto di me, i cosmetici sparsi sopra.

Certo, non mi aspetto che con il mio arrivo si sbrogli la faccenda, anche solo un dettaglio in più, però, può farmi tornare a casa soddisfatta e con la stellina in più che merito a patto che riesca a trovare qualcosa che serva al caso.

Il suono della sveglia mi desta di colpo dai miei pensieri.

Sono le otto e trenta e io…sono in un fottutissimo ritardo di merda.

Non ho scelto un tailleur per il mio primo giorno. Ho preferito un jeans scuro, la t shirt della polizia del Massachusset e una giacca scura abbastanza aderente da non farmi sembrare troppo sciatta.

Odio i convenevoli e odio il buongusto delle donne in gonnella. Non mi sono mai reputata troppo femminile ma nemmeno abbastanza mascolina da guadagnarmi il rispetto di tutti quei finti maci che si fingono miei colleghi.

Non esiste meritocrazia, né rispetto quando sei una donna in un mondo di uomini pieni di loro stessi.

Questo è il mio parere: sono cresciuta così.

Afferro i miei appunti sul caso e le fotocopie che il dipartimento mi ha inviato per email e le infilo in una ventiquattrore moderna. 

Fuori il cielo è plumbeo. Mi piacerebbe dire che nel New Hampshire, a Settembre, c’è quel tempo terso di cui tutti parlano ma non è così.

L’autunno qui fa veramente schifo. Umido, freddo e grigio.

Io comunque sono abituata ai palazzoni della mia città natale, questo posto con i suoi campi e i boschi al confine sembra il paradiso a confronto.

West Brook è una città di circa quindicimila anime. Hanno persino uno sceriffo qui e la polizia è praticamente ridotta all’osso. Gli agenti di pattuglia sono il classico cliché del poliziotto medio che mangia la sua ciambella mentre a bordo strada alcuni barboni vengono derubati da qualche tossico e interviene quando la frittata è fatta.

Che odio.

Ora, non voglio passare per la paladina di sto cazzo, ma penso che i soldi dei contribuenti dovrebbero essere spesi meglio di così.

Mi infilo in auto. Ho anche io una ciambella stretta fra le labbra, quindi, per certi versi, sono anche io il cliché del poliziotto medio al momento.

Il pensiero mi fa ridere.

La città sembra tranquilla a quest’ora della mattina. In giro si vedono poche persone, quasi sempre le stesse facce, quelle che le anziane che vivono stipate sui loro balconcini a spiare il circondario chiamerebbero: i temerari. Quelli che escono nonostante il vampiro.

Qualcuno dovrebbe spiegarglielo che il tizio non ha mai ucciso di giorno.

Ad ogni modo, sono quasi arrivata alla centrale. Marcio a passo d’uomo, ho bisogno di nutrirmi di questo posto. Come prima cosa ho bisogno di imparare le strade. West Brook è un piccolo centro abitato costruito su una scogliera. Ci sono gradoni di terreno che si possono vedere dal Duomo ed ognuno ha una strada e piccole case in bilico fra profondità del mare e solidità della montagna.

 Il centro è un po’ meno scomodo, tutto concentrato in unica via mentre a pochi chilometri di distanza c’è la zona imprenditoriale. Niente po’ po’ di meno che vecchie fabbriche in disuso, terreno fertile per tossici, bande di teppisti e stupratori golosi di globuli rossi.

Gli ultimi corpi, se non sbaglio, sono stati ritrovati proprio nei pressi della zona industriale.

Solo una ragazza era stata trovata priva di vita nella sua stanza di motel. 

Sono arrivata. La mia ciambella è finita da un pezzo e ho tutto il cruscotto pieno di zucchero, un problema di cui mi occuperò solo più tardi.

Afferro la valigetta e attraverso velocemente la strada.

Ho gli stivali fradici: inizio ad odiare il New Hampshire.

La porta scorrevole spalanca la sua bocca e decine di teste appaiono sparse per l’ingresso.

Non mi aspettavo nulla di diverso, qui la polizia ha più un ruolo di segreteria che non altro.

«Tu sei la nuova segretaria?» mi domanda un tipo tracagnotto dalla capigliatura spettinata e rossastra, buttandomi sulle braccia una pila pesantissima di fogli. Li accolgo fra le braccia un attimo prima che piombino al suolo.

«Emh, no. Deve esserci un errore. Io sono Lili Bennet.» Seguo l’uomo che si caracolla a passi sin troppo svelti per la sua stazza, lungo il corridoio.

«Non conosco nessuna Lili Bennet, sei qui per sporgere denuncia?»

Sorpasso un mucchio di stanze colme di scrivanie e gente intenta a parlare al telefono. A dire il vero, sono più i telefoni squillare a vuoto che la gente a rispondere.

«Se per sporgere denuncia devo per forza venire qui non oso immaginare che protezione potreste darmi», borbotto constatando un uomo che con estrema svogliatezza ha appena alzato ed abbassato la cornetta senza neanche rispondere.

«Qualcosa non va?» Il tipo nerboruto mi scruta strofinandosi i folti baffi che penso gli facciano prudere il naso leggermente roseo.

Scuoto la testa «Affatto.»

Mi precede dentro una stanza: ci sono almeno venti scrivanie e chi è a sedere non ci degna nemmeno di uno sguardo.

«Come dicevo sono Lili Bennet, credo abbia letto la mia domanda per fare parte della squadra che si occupa del caso del vampiro.» Lo trovo confuso, allora cerco di presentarmi meglio. «Lili Bennet dal Massachusset. Laureata in brevissimo tempo alla Rain Art Accademy con il massimo dei voti…»

Spalanca le labbra e mugugna un verso di approvazione ma sono certa che non abbia ancora capito chi io sia.

«Certo, la ragazzina.», dice infatti ancora più confuso di un attimo fa «Tu vorresti far parte del caso…Be’ non abbiamo bisogno di altra confusione.» Stira le labbra in quello che dovrebbe essere un sorriso forzato. Ciò che vedo io però è una smorfia di fastidio.

«Avete approvato la mia domanda però…»

Fa spallucce «Probabilmente ai piani alti hanno bisogno di più segretarie.» e poi mima una risatina sguaiata e rauca.

Quest’uomo oltre a puzzare terribilmente di sigaro è anche molto sgradevole.

Mi indica la scrivania accanto a me e, cogliendomi del tutto alla sprovvista, mi strappa i fascicoli dalle mani sbattendoli fra la moltitudine di fogli già presenti su di essa e il pc del ‘95 facendolo oscillare pericolosamente.

«Adesso è il momento del tuo primo incarico, non sei contenta? Occupati di questi, li voglio etichettati e catalogati entro mezzogiorno.» Sentenzia serafico allontanandosi.

Mi ha lasciata come una perfetta cogliona e da tale piombo a sedere senza mai scollare gli occhi dalle sue spalle grasse.

Nemmeno la giacca marrone e scura gli rende una silhouette meno grassoccia di quello che già non è.

«Hai conosciuto il capitano Kook’s, eh?» L’unica voce di donna che sentono le mie orecchie proviene dalla sagoma snella alle mie spalle.

Stringe fra le mani un vassoio con qualche caffè fumante e sul viso, incoronato da folti ricci castani, ha stampato un sorrisetto piuttosto caloroso.

Le sorrido debolmente. C’è una parte di me che vorrebbe evitarla e per un momento provo a girarmi verso la pila di fogli, ma lei fa un passo avanti e torna a rivolgermi parola.

«Non è sempre così. Certe volte è persino peggio, specie quando il vampiro torna a colpire.» Allunga un bicchiere fumante sulla mia scrivania, come se glielo avessi chiesto «Si dice che non dorma da sei mesi, più o meno dalla prima vittima.»

Sorrido leggermente impacciata: forse più nervosa che impacciata.

 «Ascolta-» dico guardando il caffè stretto fra le mie dita «mi piacerebbe davvero starmene qui a chiacchierare con te, ma credo che ci sia stato un terribile errore. Io non sono qui per farvi da segretaria e-» Mi zittisco quando la sento ridere.

«O tesoro, sei come una di quelle poliziotte in erba che è pronta a buttarsi a capofitto sul lavoro. Adorabile.»

Adorabile?

Sbatto le palpebre, sono sconcertata.

La ragazza che dice di chiamarsi «Maggie» scuote la testa in segno di disappunto.

«Il Tenente capo non ti farà partecipare a quel caso. E’ già molto che abbia lasciato partecipare suo figlio, bé forse proprio perché è suo figlio…» Le vedo battersi il polpastrello dell’indice sul mento e riflettere su quanto detto. Decido di darci un taglio. Mi sollevo rumorosamente dalla sedia pronta a raggiungere l’ufficio del panzone.

«Come ti ho detto c’è un errore. Io non dovrei essere qui.» Ma nella stanza con i profiler, i detective e la polizia a discutere del caso.

Traggo un bel respiro, quello stronzo sta per sentirmi.

«Tesoro non lo farei se fossi in te!», mi avverte Maggie alzando di qualche decibel la voce, ma sono già lontana dalla scrivania, dal suo dannato caffè e dai suoi sorrisi melensi.

La stanza del “capo” è a vista e sorpassato il corridoio da dove sono arrivata la trovo lì, chiusa da pareti di vetro.

Ci sono un paio di uomini assieme al panzone.

Uno anziano, lo individuo come il direttore di questa bettola.

Mi schiarisco la voce solo quando sono davanti alla porta a vetro e la colpisco con le nocche un paio di volte.

«E’ permesso?»

L’uomo anziano, il direttore della bettola, aggrotta la fronte infastidito.

«Non lo vede che stiamo discutendo di un caso?», dice con fare di rimprovero. 

Poi si rivolge ai colleghi «Non vi avevo detto di redarguire più spesso le segretarie?»

Adesso sono io che ho la fronte aggrottata e sto serrando i denti, voglio urlare.

«Non sono una segretaria.» Dico con fermezza.

Nella stanza oltre a lui e al panzone c’è un tipo magrolino sulla quarantina e tutti e tre sembrano star aspettando qualcosa…o qualcuno.

«Si presenti allora.», l’uomo anziano si alza dalla poltrona dietro la sua scrivania.

C’è tanfo di sigari dentro l’ufficio. Posso passarci sopra però: questa stanza è l’unica che non ha veneziane a tarpare le ali alla luce, anzi, è piuttosto luminosa.

«Sono Lili Bennet, la coroner del Massachusset.» A quel punto la sua espressione cambia radicalmente.

«Signorina Bennet,» adesso mi sorride. E’ come se di colpo avessi raccolto tutto il suo rispetto per me imbottigliandolo. «non l’aspettavamo con così largo anticipo.»

Io non sono nessuno, ma qui dentro mi sembra di essere diventata il miraggio della madonna.

Forse non hanno un coroner?

Accenno un sorriso freddo. «Sono stata mandata qui per occuparmi di uno dei vostri casi di maggior rilevanza.», gli dico. 

«Il caso del vampiro…», sussurra fra sé l’uomo.

Ho lasciato la mia ventiquattrore agganciata alla sedia di quella squallida scrivania, ma se l’avessi avuta con me gli avrei mostrato le decine di appunti a riguardo.

Ad un tratto l’uomo si massaggia la nuca, sembra desolato.

«Ecco signorina Bennet, il nostro quartier generale avrebbe dovuto avvisarla prima…», il tono di rammarico nella sua voce mi fa comprendere in fretta come sta per finire il resto del discorso.

Ma io non ho alloggiato nove giorni in quella bettola di motel per farmi rispedire come un pacco a casa.

«C’è già qualcuno che si occupa di questo caso. E’ una giovane promessa fra i profiler e vanta molti casi risolti in poche settimane.», si schiarisce la voce, «Sono certo che lei sia altrettanto formata e preparata ma ecco, un caso del genere non è materia di studio per qualche matricola.»

Sono sotto shock. Potrei piangere volendo.

«Siete voi che avete accettato di farmi partecipare.» Cerco di dire. Lo sguardo compiaciuto del panzone mi sta dando i nervi.

Mentre il suo capo mi sta licenziando senza neanche avermi dato la possibilità di mostrargli i miei ragionamenti, lui sorride. Sorride.

Distolgo lo sguardo dal suo profilo, non sarà di certo lui a farmi perdere le staffe.

L’uomo più anziano annuisce mortificato «Questo, quando ancora non era arrivato lui.»

Quindi la promessa profiler è un lui e non una lei.

Mi sento leggermente rinfrancata. Ma non troppo.

Mi inumidisco le labbra prima di parlare di nuovo «Vorrei avere l’opportunità di parlare con questa promessa. Sono certa che insieme, confrontandoci-»

«Hai sentito il capo? No è n-o.» Non rispondo al grassone. Spero però che qualcuno gli buchi le gomme dell’auto.

L’uomo più anziano solleva il palmo della mano per zittirlo. Me ne rallegro.

 «Signorina Bennet, vorrei veramente poterla accontentare…Sono certo che il Massachusset e tutto il New Hampshire ripone molta fiducia in lei ma-»

«Io invece vorrei averla al mio fianco.»

All’improvviso una terza voce si fa spazio fra noi. Proviene dalle mie spalle e perciò non tardo a voltarmi.

Il passo è sicuro e fluido, quasi felino, la figura alta e snella ma allo stesso tempo possente. Il nuovo arrivato indossa un pantalone scuro e bretelle agganciate alla sua estremità che gli stringono il ventre muscoloso e nascosto dal candido bianco della camicia.

Si avvia verso la stanza sicuro di sé. Senza degnarmi di uno sguardo si ferma fra me, la porta dell’ufficio che ho inavvertitamente lasciato aperta alle mie spalle e la scrivania.

«Signorina Bennet, questo è l’agente Serafiris.»

Che cognome strano, è del posto?

L’uomo più anziano sembra entusiasta nel vedere il giovane e lo presenta in maniera plateale.

«E’ la promessa di cui le parlavo.»

A quelle parole il ragazzo alza finalmente il viso verso di me permettendomi di guardarlo.

Il suo viso è marmo scolpito dal più abile degli artisti.

Gli occhi glaciali, di un verde così chiaro da sembrare grigio, pericolosi, cristallini, in grado di paralizzare all’istante chiunque come un dolce veleno.

L’espressione fiera e orgogliosa, quasi diabolica, è contornata da capelli scuri come l’ebano, morbidi e leggermente spettinati.

Improvvisamente le sue labbra si aprono in un sorriso seducente, che spezza il silenzio imbarazzante. Resto senza fiato senza sapere esattamente il perché.

«Puoi chiamarmi Roth.» Dice allungando la mano verso di me.

Noto che ha degli anelli a cingergli le dita. Tre, uno dei quali ha un vistoso teschio, i suoi occhi sono smeraldi incastonati nell’argento. E’ in totale contrapposizione con l’aria seria e professionale che ha.

«Carino l’anello», dico prima di stringergli la mano. Sorrido appena e solo dopo mi pento di quella curva.

Sembro una liceale alla sua prima cotta?

Non ho mai visto un uomo? 

Roth ricambia il sorriso con uno molto più sicuro ma allo stesso tempo impercettibilmente marcato sulle sue labbra.

Sono un fascio di nervi e per assurdo provo uno strano senso di disagio.

«Detective Serafiris non credo sia una buona idea, ad ogni modo…», prosegue l’uomo. Ha la voce pacata, intimidita.

Io però sono concentrata solamente su quella parola: detective. Roth, nonostante la sua giovanissima età, è trattato con rispetto e chiamato a dovere. Mi immagino per un momento nelle vesti di un vero detective. Sarebbe bello poter godere di tutto quel rispetto.

«Inserire una nuova leva, proprio ora e con il dannato vampiro che miete vittime.» A quell’affermazione, l’uomo sulla quarantina, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, tira fuori un fascicolo da una ventiquattrore appoggiata alla scrivania e la porge a Serafiris.

Il ragazzo non dice una parola, spagina il plico di fogli e fissa imperscrutabile quella che ha tutta l’aria di essere una foto.

«E’ un’altra vittima?», chiedo più allarmata che curiosa.

Che mi ero persa? 

Allungo il naso oltre il profilo di Roth e guardo ciò che ritrae la foto.

Un corpo. E’ nudo come quello di tutte le altre vittime, i capelli rossi e scompigliati, le ferite lungo le braccia e quei due piccoli fori al lato del collo.

Non a caso quel killer aveva il soprannome di vampiro: ogni sua vittima ha due piccoli fori sul collo dal quale lui, si sostiene, beva tutto il loro sangue.

Dubito sia la verità. Un essere umano non può bere tutto quel sangue. Parliamo di diversi litri, senza vomitare o avere uno shock. No, mi resta troppo difficile crederlo.

«Quando è stata trovata?», chiede Roth senza scomporsi alla vista della fotografia.

«Questa mattina all’alba sulla spiaggia oltre la scogliera.», lo informa il quarantenne.

Sento Roth sospirare dal naso.

Sembra confuso, come se qualcosa non riportasse.

«Non sembra essere lo stesso uomo.», afferma.

«Come? Ma il modus operandi è esattamente quello!», ribatte l’altro.

Roth scuote la testa.

«Vede?», indica il corpo della ragazza «Qui in questo punto e qui. Vede i tagli? E’ stata usata una lama, il nostro uomo non gioca con le sue vittime.»

L’uomo sulla quarantina a quel punto è confuso ma non è l’unico, tutti i presenti ora hanno un tarlo che si è insinuato nella loro testa, me compresa: e se i killer fossero due?

Roth aveva ragione, o l’uomo aveva deciso di reinventarsi sadico oltre che feticista, oppure quel corpo sfregiato era il risultato di un' altra mente malata.

Avevo studiato il caso per mesi e ciò che aveva ammesso Roth mi trovava in accordo.

«Nei punti sei e sette deve avere usato una lama incandescente.» dico. Gli altri non sembrano prendermi sul serio, mentre Roth mi guarda stupito.

«E lo hai dedotto da?», mi chiede.

«I bordi frastagliati della sua pelle. Presenta ecchimosi ma anche cauterizzazione.»

Gli vedo apparire un breve sorriso sulle labbra e per un momento mi sento appagata.

«I miei complimenti novellina.», sussurra un attimo dopo, quando sia Kook’s che l’uomo più anziano stanno discutendo a riguardo.

«Non chiamarmi novellina.», dico settica.

Non sono qui per beccarmi finti complimenti da colui che mi ha appena soffiato il posto.

«Bene.», ad un tratto la voce del capo mi sembra più alta delle altre e mi fa rinsavire dai pensieri.

«E’ deciso allora, Bennet, Serafiris siete sul caso.»

Sono incredula.

«Spero che tu non mi sia d’intralcio Bennet.» Ascolto scioccata le parole di Roth e vorrei rispondere che molto probabilmente accadrà il contrario, ma tutto ciò che faccio e osservare le sue spalle mentre si allontana nuovamente.

Mi congedo anche io.

Sono euforica, tanto da non stare nella pelle ma non è il caso che lo dia a vedere.

Piuttosto Kook’s ha bisogno di una bella lezione. Mi aveva dato un compito poco prima e di certo lo avrei portato a termine.

Perciò, decisa a impilare quelle scartoffie torno alla scrivania che ora sento un po’ più mia, ma solo quando mi siedo, per la prima volta da quando ho messo piede qui, sento tutti gli occhi addosso.

Le poche donne che lavorano assieme a me mi guardano in tralice come se avessi appena strappato un qualche scettro dalle loro mani e gli uomini mi scrutano quasi con sdegno.

Ho fatto qualcosa che non va? Dubito.

Scuoto il capo e torno a guardare la pila di fogli.

«Tanto farai la fine di quelle donne.» Non credo alle mie orecchie. 

La voce che mi ha parlato è di una donna in tailleur grigio che pigia convulsamente sulla tastiera del pc.

«Come hai detto?», le chiedo in maniera decisamente poco amichevole.

Lei mi scruta appena «Hai capito bene biondina, farai la fine di quelle donne dietro Serafiris.»

Doveva avere un problema con lui molto probabilmente.

«Credi che mi lascerò trascinare da lui? Ti sbagli.»

La donna ghigna appena. Continua a non guardarmi il ché mi fa spazientire e non poco.

«Staremo a vedere, poi non dirmi che non avevo ragione.»

«Darline, ti prego dacci un taglio.» Le dice un uomo dietro di me supplichevolmente.

«Si da retta al tuo amico.» mormoro. Voglio solo tornare a lavoro, nulla di più.

Sta per dire qualcosa quando, di colpo, Roth entra in ufficio. Si avvia con calma verso la sua scrivania e per un momento mi sembra di vedergli stampato in faccia un sorrisetto compiaciuto. Nel momento in cui si gira però già non lo ha più.

Quando è ormai vicinissimo inchioda il mio viso  guardando nella mia direzione. Perché sta guardando proprio me? Non farti strane idee. Insomma…non ti conosce nemmeno, perché fra tutti dovrebbe fissare proprio te? mi dico. Eppure provo una strana sensazione di fronte a quello sguardo tagliente, lo sento entrarmi nell’anima fino a mozzarmi il fiato, così abbasso istintivamente lo sguardo interrompendo il contatto visivo.

Il nuovo arrivato continua ad avanzare fino a superare la mia fila, e infine si siede proprio ad una scrivania di distanza.

Mi investe di nuovo una sensazione di profondo fastidio.

A fine giornata sono esausta. La donna bionda con il tailleur grigio non mi ha più punzecchiata in alcun modo. Uscendo, mi sono convinta a salutare Maggie trovandola all’ingresso, dopo aver consegnato i fascicoli a Kook’s. Che soddisfazione!

Sembra essere andato tutto secondo i piani alla fine, sono persino euforica.

Ma poi c’è Roth.

Lo trovo all’ingresso poco dopo la scrivania di Maggie e stanno parlando.

Lei ammicca qualche risatina divertita e lui sembra sorriderle come un vero cascamorto.

Che abbiano un flirt?

Mi ritrovo a nascondermi dietro una colonna. Si, poi mi offenderò da sola per questo, ma adesso voglio solo vedere…

Roth solletica la guancia di Maggie che arrossisce di colpo.

«Ti donano quegli occhiali», le dice.

Maggie ha un paio di occhiali tondi e spessi e seppur il suo viso sia terribilmente dolce quella montatura è terrificante.

Quindi o lui è cieco oppure un discreto attore.

«Ti ringrazio» -risatina.

«Sei gentile» -altra risatina.

Povera Maggie.

Scuoto il capo e decido che quelli non sono affari miei.

Voglio solo tornare al motel, farmi una doccia e concentrarmi sul caso fino ad addormentarmi.

Quando passo accanto a loro però, Roth mi chiama.

Un brivido gelido mi percorre la schiena.

«Bennet.»

Mi volto ma sento che ogni fibra del mio corpo sta combattendo contro il mio volere.

«Serafiris, dimmi.»

«Sei pronta ad occuparti del caso?» Roth mi affianca lungo il corridoio. Faccio appena in tempo a guardarmi alle spalle che vedo Maggie abbassare il capo delusa.

Che stronzo.

«Non l’hai nemmeno congedata?»

Roth mi scruta confuso. «Come dici?»

«Maggie. Non l’hai nemmeno salutata?»

«Ah…» Si guarda alle spalle e poi scrolla le sue. «Non sapevo si chiamasse Maggie.»

Sono allibita. Per sei mesi quella ragazza gli ha portato il caffè, lui ci ha perfino fatto il cascamorto e non sa il suo nome? Non ha avuto nemmeno la decenza di chiederlo?

Vorrei dire altro ma taccio.

«Ascolta», poi ci ripenso. E’ giusto che Roth sappia come la penso. «Ti ringrazio per aver detto al capo di volermi sul caso, sono qui per questo in fondo, ma…»

«Ma?»

«Non credere che diventeremo amici per questo. Non ho bisogno di una spalla.»

Roth mi fissa imperturbabile. Sembra che le mie parole gli siano scivolate addosso come acqua calda.

«Non ti considero affatto una spalla. Ho bisogno di confrontarmi sul caso con chi lo ha studiato per davvero.»

Sospiro un sorriso «E chi ti dice che io l’abbia fatto?»

«Saresti qui, altrimenti?»

Già.

«Touché.»

Di nuovo quel sorriso magnetico.

«Non montarti la testa, Bennet.»

«Non lo farò.»

Roth fa per girarsi ma prima di sottrarre lo sguardo al mio ci ripensa e torna a guardarmi dritto in faccia.

Qualche sirena trilla in lontananza, probabilmente le volanti stanno tornando in sede. Il rumore è abbastanza forte da sovrastare le nostre voci.

«Sei arrivata finalmente.»

Ho le allucinazioni o ha detto proprio quello che mi sembra di avergli sentito dire.

«Come? Non ti sento.»

«Ci vediamo domani!», dice salutandomi definitivamente.

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Capitolo 2
*** 2. ***


Dominerò le notti,

ballerò in città,

metterò qualcosa di rosso

per risplendere di fuoco…    

 

                                                2.


E’ notte quando il mio cellulare squilla strappandomi al morbido silenzio del sonno.

Quando apro gli occhi, ancora impastati dal sonno, non trovo subito l’apparecchio. Frugo, perciò, con la mano sul comodino lì dove ricordo di averlo lasciato.

«Pronto?» dico, non ho solo gli occhi impastati ma anche la bocca.

«Bennet-» la voce dall’altra parte della cornetta la conosco bene e riesce a farmi salire i nervi di colpo.

Ma adesso non ha importanza, perché ciò che sentono le mie orecchie mi fa drizzare di colpo tutte le antenne. All’improvviso sono più sveglia che mai.

«-ce n’è un’altra.»

Il cuore mi rimbalza dal petto alla gola in un nanosecondo.

«Un-un’altr…Arrivo.» Farfuglio in preda all’agitazione.

Riattacco e sono già fuori dalle coperte.

Fa freddo e oltre la finestra della mia stanza di motel sta diluviando.

Una pioggia torrenziale e silenziosa.

Decido perciò di infilare i jeans dentro gli stivali e il bomber autunnale sopra il cardigan panna.

Mi raccolgo i capelli biondi in una coda di fortuna e afferro la mia valigetta.

Un attimo dopo sono giù per le scale. Ho il fiatone, temo di cedere al panico ma faccio del tutto per non ponderare l’idea di abbandonarmi ad esso.

All’ingresso del motel, dentro la cabina chiusa da una grata di ferro, c’è un uomo. Era lì anche il primo giorno, ho dato a lui la caparra per la stanza.

«Dove vai?», mi chiede masticando fra i denti un ramoscello di liquirizia.

Ha l’aria trasandata, la pelle ombrata forse dalla poca pulizia e una vistosa cicatrice sulla guancia.

Indossa abiti di diverse taglie più grandi, anonimi, di un insolito color nocciola.

«Mi ha chiamato la centrale.», affermo con fierezza.

Lui fa una smorfia strana prima di parlare di nuovo «Dimenticavo che ora alloggiano anche gli sbirri qui.»

Il modo in cui dice la parola sbirri è irritante. No, non c’è tempo per battibeccare con lui, mi dico.

Scuoto la testa e spalanco la porta di ferro pesante che mi separa dalla gradinata esteriore.

L’uomo fa un’altra battuta ma lo sento appena, perché il cellulare mi squilla di nuovo e sono troppo concentrata a cercarlo in tasca per dar retta a quella canaglia.

«Qui Bennet.» Non faccio in tempo a proseguire che la voce adirata di Kook’s mi riempie le orecchie.

«Dove diavolo sei, Bennet!?», grida furibondo.

«Sono appena uscita di casa.», ammetto.

Non sono in ritardo, non lo sono mai. Era praticamente infattibile far prima di così.

«Due minuti. Ti do due minuti», minaccia.

Sto annuendo al vuoto. Sono certa che la sua impazienza sia solo il risultato del malcontento provocato dalla decisione del capitano Armstrong. Kook’s non mi vuole fra i piedi, ma dovrà farci l’abitudine ed io dovrò fare in modo di non fallire mai. Per nessun motivo.

«Sì signore.» Mi precipito verso l’auto noncurante della pioggia battente, del bomber impregnato d’acqua, dei capelli gocciolanti. 

Devo correre.

                                         *****

Ci sono almeno tre pattuglie con i lampeggianti accesi accanto al bosco. Vedo teste muoversi nel buio e voci, tante, diverse, accolgono il mio arrivo.

Ci sono i Ris e stanno scattando le foto, ma io non vedo ancora nessun corpo.

«Era ora!» La voce insopportabile di Kook’s mi raggiunge ancor prima di chiunque altro.

«Capitano», dico con tono di riverenza. Finta. Falsa come Giuda.

Kook’s fa una smorfia che non riesco a decifrare e poi mi fa cenno di seguirlo all’interno del boschetto di larici.

Sento scorrere un corso d’acqua non lontano da me ma non vedo un accidenti al buio.

«Abbiamo una torcia?»

Kook’s mi guarda distratto e poi, altrettanto distrattamente, si rivolge a qualcuno alle mie spalle.

«Datele una torcia.», comanda.

Una donna con la tuta bianca incollata addosso, per via della pioggia, mi tende una torcia piccola e maneggevole.

L’afferro e indirizzo la luce davanti a me.

«Il corpo non è lontano da qui.», proferisce serafico Kook’s mentre sposta un ramo che gli ostruisce il passaggio. «A ritrovarla pare sia stata quella coppia di fidanzati lì giù.» Mi indica una ragazza avvolta da una coperta e il suo fidanzato, anche lui visibilmente scosso.

Attorno, agenti sembrano porgli una miriade di domande.

Domande che non serviranno a nulla perché quei due erano nel bosco per fare sesso e sicuramente non hanno notato alcunché se non il corpo della ragazza. Visione che li avrà terrorizzati, sicuramente, e che per questo, mi dico, molto probabilmente, avrà fatto si che imprudentemente i due abbiano contaminato la scena del crimine . Sconfortata da quel pensiero mi guardo attorno. La pioggia lentamente sta cessando: il terriccio è umido e scivoloso e il torrente sembra avvicinarsi sempre di più.

«Questa volta si è sentito un vero artista», commenta Kook’s fermandosi di colpo. Deduco di essere vicina al corpo.

 Ad un tratto, la luce bianca della mia torcia scivola sulla punta di un paio di piedi lattei. 

Il torrente c’è e il corpo è riverso sulla sua riva, con la testa nell’acqua.

Stringo i denti. Sento che potrei vomitare.

Il tanfo di morte è oltremodo forte e impastato con la pioggia è qualcosa di insopportabile.

Kook’s ridacchia.

«Tutto bene, Bennet?», domanda con fare di scherno.

«E’ tutto apposto.», ringhio.

Quando mi muovo per raggiungere il corpo Kook’s parla ancora.

«Ehi, novellina fa attenzione.» 

Lo fulmino con un’occhiata tagliente. Per quanto mi creda alle prime armi non lo sono. So come non compromettere una scena del crimine e in questo momento, mi dico, vorrei proprio vedere lui alle prese con il corpo. Il grande capo ha lasciato andare avanti me nonostante mi consideri una buona a nulla, la cosa mi indispettisce e non poco.

Incurante della terra scivolosa sotto la suola dei miei stivali, mi chino quanto basta per superare una piccola sporgenza di roccia che separa me dal cadavere. E’ scivolosa e ricoperta di muschio, ma ciò non mi impedisce, finalmente, di trovarmi accanto al corpo.

La povera ragazza ha la mia stessa età, lunghi capelli neri e occhi chiari, spenti. E’ stupenda persino ora che la vita le è stata strappata via. A scarabocchiare la sua candida bellezza, però, c’è un vistoso squarcio al centro del petto.

Dalla ferita posso vedere i suoi organi: è profonda e chi gliel’ha inferta sa perfettamente come sventrare un corpo. E’ stata prosciugata di tutto il suo sangue è scioccante.

«Un macellaio?», chiedo più a me che a Kook’s.

«Probabile.»

Le osservo le braccia. Come le altre vittime è priva di ogni abito. 

«Non ci sono segni di lotta», costato osservandole la pelle. Né un graffio, né una piccola escoriazione.

«Capitano!», qualcuno attira l’attenzione di Kook’s

che si volta di scatto.

Sopra le nostre teste, fra gli alberi, noto l’uomo sulla quarantina che avevo visto in centrale.

Dalla tasca gli pende il distintivo: il suo nome è Murfis.

«Cosa c’è?», chiede nervosamente Kook’s.

L’uomo non risponde, alza direttamente un mucchio di panni oltre il suo naso.

«Li abbiamo ritrovati a pochi metri di distanza dal corpo.In acqua, la corrente deve averli trascinati via.»

Kook’s guarda i panni stretti nelle mani del tenente poi torna a guardare me.

«I suoi vestiti.», dice come se non potessi vederli da sola.

Poi aggiunge «Il maledetto potrebbe averglieli tolti prima di farle questo…».

Indica con la luce la giovane e me china su di lei.

Perché? Perché ti sei spogliata prima? E’ stato lui o sei stata tu? Lo conoscevi?

Una strana sensazione mi opprime il petto. Sono confusa da tutte le domande che riesco a formulare nella mia testa. Ho bisogno di risposte, di qualcuno che sappia darmene.

«Dov’è Serafiris?», chiedo.

Kook’s mi scruta allampanato, come se effettivamente non sapesse la risposta.

«Vuole dirmi che non è stato chiamato?», sono nervosa.

Mi sollevo da terra e fisso il capitano dritto in faccia.

«Certo che lo abbiamo chiamato.», ribatte impettito.

«Il detective Serafiris era qui proprio un attimo fa.», si intromette l’altro spostando lo sguardo incerto su di noi.

«Credo si sia unito ai Ris per i rilievi.»

«Fatelo venire qui.», comando.

Non sono certa di potermi permettere degli ordini, ma ho la vaga sensazione che questi poliziotti siano dei veri incompetenti.

«Murfis chiama Serafiris.», ordina Kook’s al suo sottoposto.

L’uomo annuisce e si fa indietro verso la boscaglia.

Mi passo una mano sul viso e scaccio alcune goccioline di pioggia dalla fronte.

«Tutto bene, Bennet?», questa volta, stranamente, Kook’s ha un tono mansueto e pacato. 

Annuisco.

«Sono confusa.», ammetto. «Il corpo non presenta escoriazioni, solo quel profondo taglio al centro del petto e…» Le sposto una ciocca di capelli dal collo con la parte terminale della torcia «I classici fori che hanno tutte le altre vittime.»

«Cosa ti crea confusione?»

«Le altre, tutte, hanno lottato. Il più riportava segni di colluttazione e lividi per tutto il corpo, lei no. Questo mi fa credere che-»

«Conoscesse il killer», una terza voce si intromette fra noi costringendoci a voltarci alle nostre spalle.

«Serafiris», lo saluta Kook’s con riverenza.

Roth ha l’aria stanca. Il volto leggermente impastato di sonno e umido per la pioggia. Ha un lungo impermeabile nero calato sulle spalle e indossa gli stessi abiti della mattina precedente.

«Ti sei appena svegliato?», gli chiedo con poca affabilità.

Roth mi fissa impassibile.

«No.»

Non che mi aspettassi una risposta diversa.

Si fa strada attraverso il terriccio umido e con agilità, chinandosi leggermente, scavalca la grande pietra coperta di muschio.

Ora è accanto a me e sento di nuovo una sgradevole sensazione nel petto.

Probabilmente lavorare al suo fianco mi fa sentire sotto pressione.

«La torcia», allunga una mano verso me e ci metto un attimo prima di decidere che devo passagli la luce.

«Ah, si. Ecco.» 

Roth afferra la torcia e con meticolosità ispeziona il cadavere.

«Non ha nulla di diverso dalle altre,» lo informo «stesso profondo taglio al centro del petto, stessi fori sul collo…come avrai notato però-»

«Non ci sono segni di colluttazione, si.», dice al posto mio.

«Già.»

«Anche la penultima vittima non ne aveva.», ammette lasciandomi spiazzata.

«No, non è vero...i tagli sulle braccia...», balbetto colta in fallo.

Lo vedo sorridere appena. Ho uno spasmo.

« Sono stati inferti post mortem. Non ti hanno dato il fascicolo, vero?»

Non so se sia stata una dimenticanza o un dispetto di Kook’s ma è assurdo che nessuno mi abbia informata a dovere sul caso.

«No, nessuno.», dico.

«Nemmeno tu hai chiesto, però…»

Sono piena d’imbarazzo.

Roth sbuffa un sospiro che assomiglia molto ad una risatina e scuote la testa.

«Se vuoi ti passo i miei appunti.»

«Sono apposto, grazie.», dico nervosa. Mi sto vergognando come una ladra.

I lineamenti sul viso di Roth si fanno più seri e marcati. Devo averlo offeso, mi dico. 

«Kook’s». Ad un tratto, Roth alza la voce per farsi sentire dal capitano che, nel frattempo, sta discutendo con un suo collega in cima alla piccola sporgenza.

L’uomo si volta nella nostra direzione e resta in attesa.

«Puoi dire ai Ris di portare via il corpo. Qui abbiamo finito.»

Kook’s annuisce e voltandosi richiama l’attenzione di un paio di coroner non lontani da lui.

«Che ne dici di un caffè?»

Sono sbalordita e anche leggermente imbarazzata. Un caffè? L’ho appena trattato a pesci in faccia. E poi, come può aver voglia di un caffè, proprio ora? Io sto impazzendo dalla voglia di sapere cosa ne pensa il medico della scientifica riguardo questa nuova vittima. Vorrei andare in centrale e assistere all’autopsia. Non voglio un dannato caffè.

Ammonisco lo sguardo, sto cercando le parole per congedarmi ma Roth parla di nuovo e questa volta mi lascia interdetta. 

Come se mi avesse letto nella mente, dice «Il medico legale la prenderà in carico solo domattina, fino ad allora non possiamo far nulla e tu, hai il viso scavato dal sonno.»

Sta sorridendo, cosa che mi fa bollire di vergogna e…rabbia. Roth mi irrita. La sua presenza trasuda autorità. Un’autorità che non merita, secondo me, alla sua età. E poi è superbo, presuntuoso, anche maleducato certe volte. Quegli sguardi di superiorità che mi lancia sono insostenibili.

Mi sfioro una guancia, sono calda.

«Ok.», mi convinco, non ho molta scelta. «Vada per il caffè, allora.»

 

                                              *****

Roth ha un’ auto anonima. Una Berlina del 96. E’ leggermente consumata dall’usura. L’interno sa di un pesante odore di cenere ma sono certa di non averlo mai visto fumare.

Comunque è un odore indubbiamente pungente e sono costretta ad abbassare il finestrino nonostante fuori l’aria sia gelida.

Mentre marcia a passo moderato si accorge del mio fastidio e timidamente sorride.

«L’odore non è dei migliori, già.», ammette «Ho preso quest’auto in centrale. Il vecchio proprietario era un amante di sigari e vodka.»

Lo scruto sorpresa, espressione che si attira un secondo sorriso.

«Vodka?»

Annuisce.

«Ho trovato un paio di bottiglie nel portabagagli. Penso sia stato congedato dal servizio per questo motivo.»

Perché non mi sorprende? In questo posto dimenticato da Dio il corpo di polizia è veramente da rivedere.

Assottiglio le labbra in un’espressione piatta e vagamente imbarazzata.

«Una qualità, però, quest’auto ce l’ha.» Roth allunga la mano verso il cruscotto e pigia un pulsante.

«Una radio funzionante.» 

La vettura viene invasa da un brano rock di cui ignoro il nome della band. E’ una bella canzone cantata in acustica e mi fa strano che un tipo come Serafiris l’apprezzi.

Durante il resto del tragitto rimaniamo in silenzio.

Anche se Roth sembra un tipo abbastanza socievole a discapito della prima impressione che mi ha dato, non ho voglia di parlare con lui. Al momento ho in testa il volto di quella ragazza stampato, indelebile. Non è il mio primo cadavere ma la mia prima scena del crimine e questo ha fatto sì che miliardi di sensazioni contrastanti si aggrovigliassero nel mio petto.

Da sempre, e questo è forse il motivo della scelta di diventare coroner ed ora detective, provo una sorta di coinvolgimento emotivo con le vittime.

In Massachusset qualcuno mi aveva soprannominato “la ragazza che mormora ai cadaveri”. Ho sempre parlato ai loro corpi. E’ il mio modo di indagare, anche se, per lo più, nessuno di loro mi ha mai risposto.

«Siamo arrivati.»

L’auto oscilla sul posto quando Roth schiaccia il freno. Mi desto dai pensieri in fretta.

Parcheggiati accanto al marciapiede, le luci di un locale, il Bug’s, si riflettono all’interno della vettura illuminandola di giallo e rosa ad intermittenza.

«E’ un bar?», chiedo.

«Una specie. E’ vintage.»

Il posto effettivamente ricorda uno di quei locali anni sessanta ed entrata, l’impressione diventa certezza.

Di colpo vengo catapultata nel film Grease.

Il pavimento è scacchettato rosso e bianco. Il bancone altrettanto rosso e lucido percorre metà locale e va dalla porta fino ai tavolini dai piedi di ferro con il piano del medesimo colore scarlatto.

Le sedute sono morbide, imbottite.

Decidiamo di occupare un tavolo accanto alla vetrata principale e Roth raggiunge il bancone per cercare il barista che sembra sparito sul retro.

Il silenzio è interrotto solo dallo scrosciare della pioggia, che, impertinente, è tornata a battere sui vetri e da un brano in sottofondo.

«Finalmente.» borbotta Roth quando intercetta la sagoma di un uomo con un grosso vassoio di paste fumanti stretto fra le dita.

«Voi poliziotti siete sempre impazienti.» L’uomo in questione ha un grembiule a righe blu e bianche. Una divisa alla quale è agganciata una targhetta. Il suo nome è Bob e questo locale, come ci spiega attimi dopo, è suo da moltissimo tempo.

Credo sia l’unico nel suo genere ed è aperto da quando lui era solo un bambino.

In fondo mi piace. Anche Roth sembra apprezzare, non lo facevo tipo da cose vintage.

L’uomo, Bob, ci tiene compagnia ancora per un po’ finché con una scusa non ci invita ad ordinare prima di tornare al suo lavoro.

  Qualche tempo dopo, siamo seduti al nostro tavolo. Bob è sparito nuovamente sul retro ed ora, davanti ai nostri nasi, ci sono due enormi bicchieri di Smoothie.

«Da quanto sei qui, Roth?» Immergo il cucchiaino nel liquido alla fragola e non alzo lo sguardo dal bicchiere finché non sento il ragazzo parlare.

«Da quando è iniziato tutto questo.», ammette.

«Prima ero ad est. Vivo lì.»

C’è un attimo di silenzio, poi, dopo un breve sorso dal suo Smoothie, chiede «Tu?»

«Massachusset.»

Roth strozza una risata «Spiegami cosa ti ha spinta a venire in questo posto-»

«Dimenticato da Dio?», concludo per lui.

Ride.

«Esatto.»

Faccio spallucce «Volevo diventare una detective e questo posto…il vampiro…sono la mia occasione.»

Per un momento i suoi occhi verdi inchiodano il mio viso. Sono impenetrabili come del resto i suoi pensieri.

«Ben presto», dice abbassando lo sguardo, «ti passerà.»

Non capisco. «Cosa?»

«La grinta da giovane profiler.»

Scuoto la testa sorridendo timidamente «Non credo. Penso di essere nata per questo lavoro. Scovare i cattivi», dico sorridendo marcatamente «è il mio obiettivo ultimo. Ho studiato molto per arrivare qui.»

Roth ride di nuovo: «Non dirlo in giro, ti prego.» Contro ogni previsione, rido anche io. Questo posto fa schifo e ammettere di aver sacrificato gli anni migliori per venire qui, be’ è imbarazzante. Ha ragione.

I nostri Smoothie sono quasi finiti, ma per qualche ragione vorrei poterne ordinare un altro e continuare a chiedere di lui. Mi rendo conto solo all’improvviso che Roth è più interessante di quello che sembra.

«I tuoi genitori sono ad est, Roth?»

Roth raccoglie con la punta del cucchiaino l’ultima porzione di Smoothie e la ingurgita.

«No, vivo solo da molto tempo. Loro abitano nelle lande a Nord.»

Adesso mi spiegavo la sua tempra, l’espressione impavida, sicura di sé. Sin da subito mi è sembrato un tipo risoluto.

«Capisco.»

Di nuovo ho i suoi occhi terribilmente verdi puntati addosso. Per un momento mi sento costretta a spostare il peso del corpo da una parte all’altra, sulla seduta. Non riesco a star ferma, cosa mi prende? Perché sono imbarazzata?

«Sei timida, Bennet?»

Sbatto le palpebre, la domanda mi spiazza.

Che razza di domanda è?

«Come?»

«Sei una ragazza timida? Una di quelle che quando viene guardata avvampa e arrossisce.»

«No, non credo per lo meno.» Adesso temo di avere le guance rosse e mi sto vergognando di più. In oltre, il senso di fastidio nei suoi confronti è tornato scalpitante.

Roth non aggiunge altro, si limita a sorridere quasi impercettibilmente mentre raschia con il cucchiaino i residui di Smoothie dal suo bicchiere.

Sto per dire qualcosa quando il suo cellulare squilla.

Si infila una mano in tasca e legge il nome sul display, poi, di colpo, si alza e raggiunge la porta all’ingresso.

Le campanelle su di essa trillano due volte, una quando scosta l’anta e la seconda quando essa si richiude alle sue spalle.

Attimi dopo le sento di nuovo e mi volto di scatto.

«Dobbiamo andare», mi dice. Sembra allarmato.

Mi alzo in fretta e lo raggiungo.

Roth tira fuori dalla tasca un paio di banconote e le lascia sul bancone.

In un attimo siamo in auto e stiamo correndo verso la centrale.

«Che succede? Perché tanta fretta?»

«Pare che il medico legale abbia fatto gli straordinari.» dice, «Stanno analizzando il corpo proprio ora.»

Sono in fibrillazione.

Non devo attendere l’indomani e ciò non mi fa stare nella pelle.

                                           ******

 

Ufficio del medico legale. 2:oo am.

 

L’odore settico di questo posto mi ricorda il Massachusset e tutte le notti passate ad analizzare corpi che, a differenza di questo che sto per vedere ora, non erano vittime di un serial killer.

Attraversiamo il corridoio principale e vedo Kook’s in piedi fuori da una porta.

«Siete qui.», dice mantenendo un fazzoletto premuto contro il naso.

Aggrotto la fronte, è strano che non sopporti l’odore di morte. Proprio lui che mi aveva preso in giro poche ore fa.

«Il corpo non presenta ecchimosi dovute a colluttazione», quando Roth ed io ci avviciniamo alla stanza in questione, sento una voce femminile parlare al registratore.

Mi affaccio. Una donna in camice celeste, dalla pelle scura e i folti ricci neri allacciati dietro la nuca, sta ispezionando il corpo della ragazza del lago.

Lo ha lavato, ed ora su di esso giace un telo bianco.

Comprendo Kook’s. L’odore che sento non ha a che fare con quello dei cadaveri che so di conoscere.

E’ forte e sa di…zolfo.

Persino la coroner fa fatica a trattenersi dal vomitare.

«E’ stata impregnata con qualche sostanza?», chiedo avvicinandomi.

Ho bisogno di proteggere le narici da questo tanfo, perciò, intingo due dita in un barattolo di pomata al mentolo e mi cospargo le narici.

«Le assicuro che servirà a poco», dice la donna scrutandomi «quest’odore è terribile.»

Ha ragione: è nauseabondo.

«Ad ogni modo, dalle prime analisi non è stata rilevata alcuna sostanza chimica. Perciò mi vedo costretta ad ammettere di non sapere da dove proviene questo tanfo, e la ragazza è morta fra le 22 e mezzanotte, perciò escluderei la decomposizione.»

E’ un vicolo cieco questa puzza.

«Anche le altre vittime avevano quest’odore?», chiedo.

La donna afferra il registratore e prima di stopparlo parla di nuovo.

«Si, ma non era così forte. Forse la penultima vittima puzzava quasi quanto questa.»

Da dove diavolo può provenire un tanfo del genere? E perché proprio le vittime del vampiro hanno questo odore? Mi chiedo.

Mi avvicino al corpo. Sono totalmente concentrata su di esso quando, di colpo, una fitta alla testa mi fa serrare la bocca.

Improvvisamente, sento le gambe molli. 

Non mi reggono. Sto per cadere.

«Bennet, tutto bene?»

Un paio di mani mi sfiorano le braccia. La presa è più forte, ora.

Rinsavisco dallo stato di confusione che provo, di colpo.

Roth è dietro di me e mi guarda confuso.

Anche Kook’s e la donna mi scrutano dubbiosi.

«Si, si…Forse mi si è abbassata la pressione», mormoro aggrappandomi al bordo del tavolo di ferro.

«E’ meglio se vai a farti un giro, Bennet.», mi consiglia in maniera sgarbata il capitano.

Questa volta però ha ragione, devo uscire e prendere una boccata d’aria.

«Vuoi che ti accompagno?». Sollevo lo sguardo oltre la mia fronte. Il metro e ottanta abbondante di Roth mi sovrasta. Mi scruta serio, quasi preoccupato.

Scuoto la testa «No, no…Posso fare da sola.»

Attendo di non sentire più le sue mani attorno alle mie braccia e mi allontano dalla stanza.

Sento gli occhi riempirsi di lacrime. Un vecchio nemico sembra essere tornato e vuole distruggermi.

In passato, quando vivevo ancora nella mia città natale, avevo iniziato a soffrire di lancinanti mal di testa. Questi ricorrevano, sempre, durante uno specifico mese dell’anno e il mio medico, all’epoca, li aveva attribuiti a quel particolare cambio di stagione, fra estate ed autunno.

Per un paio di anni si erano attenuati, quasi li avevo dimenticati, ma adesso…Adesso lo avevo riconosciuto quel dolore lancinante.

«Maledizione», ho una vertigine.

Corro con la mano alla parete accanto a me, la vista è leggermente sfocata e sto sudando. Una vampata bollente sembra essermi risalita dalle viscere.

Poggio le spalle alla parete e tento disperatamente di respirare. Annaspo alla ricerca d’aria, questo corridoio sembra infinito.

«Calmati Lili. Sta calma.» Posso contare le pulsazioni del mio cuore nella mia testa.

La sensazione incombente di pericolo mi fa capire che potrei essere vittima di un attacco di panico.

Non ricordo di averne mai sofferto, ma so per certo che i sintomi che ho sono proprio gli stessi.

Scivolo con la schiena lungo la parete. I neon sulla mia testa sembrano ondeggiare e la luce va e viene ad intermittenza.

«Ma che diavolo…»

«Elisabeth».

Mi volto a destra di scatto: è da quella direzione che sento qualcuno chiamare. Il fondo del corridoio è avvolto dal buio. Ho l’impressione che tutte le luci in quel punto siano saltate.

«Chi c’è?»

Tremo. I palmi umidi delle mani scivolano sul pavimento. Vorrei alzarmi ma anche i piedi sembrano scivolare su di esso.

«Elisabeth…» La voce che mi chiama non è più di un sussurro quasi impercettibile. Delicato, femminile, breve.

Stento a credere di averlo sentito.

«Chi c’è laggiù?»

Ruoto su un lato e aiutandomi con il ginocchio puntato a terra, provo a sollevarmi.

Il buio mi fa gola. E’ come se di colpo ne fossi attratta e allo stesso tempo, la repulsione che provo per esso è palpabile.

Torno dritta. Non sono stabile, ma riesco ad avanzare lungo il corridoio deserto.

«Esci fuori!», grido.

Un risata ovattata e lontana mi fa increspare i peli sulla nuca.

Ho paura, adesso me ne rendo conto.

Il buio è tagliato di netto dai pochi neon rimasti accesi sulla mia testa. Sento che oltre quella linea marcata, il confine con qualcosa di terribile verrebbe annientato se solo la sorpassassi.

«ELISABHET!»

All’improvviso, un grido stridulo, disumano, mi fa piegare sulle ginocchia per il dolore. Mi porto di getto le mani alla testa e gemo di dolore.

«Lili. Lili va tutto bene?» Come se fossi appena rinsavita da un brutto sogno e con l’impressione di aver immaginato tutto aggrappata al petto, noto che le luci non tremano più. Sono tutte accese e davanti a me, sul fondo del corridoio, è appena apparsa la porta d’ingresso al piano.

Roth è dietro di me e mi sfiora una spalla.

«Va tutto bene? Ti abbiamo sentita urlare.»

Dietro di lui c’è anche Kook’s e poco più dietro la dottoressa dai folti ricci neri.

«Sto-sto bene.», dico allontanando le sue mani da me, delicatamente.

«Mi fa solo male la testa.»

Roth mi scruta serio.

«Devi tornare a casa e riposarti.»

«Già, Bennet.» Kook’s avanza caracollandosi fino a raggiungerci. «Sei solo d’intralcio qui, in quelle condizioni.»

Lo fulmino con un’occhiataccia ma non sembra intimidito.

«Ho detto che sto bene.»

Nuovamente una mano del ragazzo mi sfiora una spalla.

Roth ha l’aria angosciata. «Kook’s ha ragione, non sei di aiuto così come stai.»
Sospiro avvilita.

«E va bene.» Alla fine sono costretta ad arrendermi.

«Ti porto a casa, se vuoi.» Si offre il ragazzo.

«No.» Fingo un sorriso caldo «Andrò a piedi, casa mia non è lontana da qui.»

Forse per orgoglio o per pudore, non ho intenzione di far vedere proprio a lui dove abito. Non so che idea si è fatto di me, ma non mi va che sappia che il mio alloggio è un motel ad ore dove, per lo più, la clientela è composta da uomini e puttane.

«Non è sicuro lì fuori e lo sai.», insiste il ragazzo.

«Posso farcela da sola, dico sul serio.», sentenzio avvilita.

Roth non insiste. Non so se apprezzarlo o meno ma ora,  tutto ciò che voglio è restare sola. 

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


Desiderava molto di più del suo corpo, voleva appropriarsi di quella materia imprecisa e luminosa che c'era nel suo intimo e che gli sfuggiva anche nei momenti in cui sembrava agonizzare di piacere.



 

                                                     3.


E’ l’alba quando raggiungo il motel. Alla fine ho deciso di tornare sola ma ho chiamato un taxi. Roth aveva ragione, non è sicuro andarsene in giro soli con un killer pronto ad uccidere. 

«Sono 5 e 70.» Porgo i soldi al tassista e lo saluto con un cenno del viso prima di scendere dall’auto.

Ho ancora le gambe intorpidite e mi sento confusa.

Penso e ripenso in continuazione alle ultime due vittime, al tanfo dei loro corpi, all’espressione sgomenta sul loro viso, poi c’è il ricordo doloroso del mal di testa. Se ci ripenso torna a farmi male.

Dannazione. Non posso ammalarmi proprio ora che il caso sta incalzando.

Siamo ancora lontani dall’individuare un colpevole eppure sento che quelle ragazze meritano ogni goccia del mio sudore. La giustizia, ecco cosa meritano.

«Sei tornata, sbirro.»

Sposto lo sguardo alla grata di ferro. L’uomo trasandato con la faccia da canaglia è ancora lì. Acceso, alle sue spalle, un vecchio televisore da pochi pollici che probabilmente ha più anni di quanti non ne abbia io. Un programma d’intrattenimento si sta svolgendo all’interno del suo tubo catodico e una donna ha appena conferito il primo premio da diecimila dollari ad un tipo occhialuto.

«Non dormi mai tu?», chiedo al tizio. Il bastoncino di liquirizia fra i suoi denti, ormai, è del tutto corroso.

Fa spallucce.

«Quando ce n’è bisogno si.»

Ha la voce rauca e parla in maniera goffa.

«Be’, io ne sento il bisogno ora.», mormoro. «Ci si vede.»

«Il mio nome è Sparky.» Si affretta a dire masticando male le parole.

«Allora ciao, Sparky.» Il solo guardarlo mi accappona la pelle. 

Nel suo sguardo c’è qualcosa di maligno, come se di punto in bianco potessi sentire le sue manacce sudice su di me.

Quella sensazione sgradevole mi spinge ad affrettarmi sulle scale.

Sfilo la chiave della stanza dalla tasca e con un sospiro rassegnato realizzo che ho lasciato la valigetta nella mia auto, parcheggiata sulla scena del delitto. Niente studio questa volta, il sonno vuole proprio averla vinta.

Mi chiudo la porta alle spalle e mi sfilo il bomber di dosso. E’ fradicio e anche il mio cardigan lo è, soprattutto sulle spalle.

Le cosce sono umide e la suola dei miei stivali è impastata di terriccio.

Altro sospiro avvilito.

Me li sfilo, li afferro e raggiungo il bagno.

Decido che prima di occuparmi di qualsiasi cosa, il cardigan che ho addosso deve finire nel cesto dei panni sporchi: la sua lana umida mi prude sulle spalle.

Così mi spoglio e resto in jeans e canottiera. 

Sedendomi sul bordo della vasca, apro il getto d’acqua e afferro gli stivali.

C’è una grossa spazzola per la schiena agganciata al muro. Non è mia e non ho idea di chi l’abbia usata prima di me, ma per i miei stivali andrà benissimo.

Perciò, con meticolosa attenzione, bagno la suola sotto l'acqua ed inizio a strofinare.

Sono sovrappensiero, quando, improvvisamente, qualcosa mi gocciola oltre il dorso della mano.

Sento del calore scivolarmi lungo il collo e d’istinto lascio andare lo stivale per sfiorare il punto in questione.

Il liquido rosso macchia ancora la vasca picchiettando sempre più copioso.

Mi alzo di scatto, rumorosamente. Ho il cuore in gola. Cerco lo specchio agganciato sopra il lavabo e i miei occhi scavano all’interno del suo riflesso.

Sangue.

Mi gocciola da entrambe le orecchie, sembra un fiume in piena.

«Cazzo, cazzo!»

Afferro l’asciugamano accanto a me e apro la cannella dell’acqua. Devo tamponarlo…Devo…

Nella fretta, urto per sbaglio un contenitore e forbicine, pinzette e altri accessori ruzzolano dentro il lavabo. Qualcosa finisce nello scarico.

«Maledizione», piagnucolo. Sotto pressione sono un impiastro. Mi chino con la testa dentro il lavabo cercando di capire cosa è finito nello scarico e se eventualmente posso recuperarlo.

Non vedo granché: la tubatura è vecchia e nera di sporco.

«Elisabeth…»

Acuisco la vista, qualcosa sta brillando dal fondo della tubatura. 

«Elisabeth…» 

Sporgo ancora di più la testa e concentro la vista all’interno dello scarico. C’è qualcosa dentro e mi reclama.

«Che…cosa…» Proprio quando riesco a mettere a fuoco, la palla di un occhio dalla sclera iniettata di sangue e la pupilla gialla ruota all’interno del tubo di scarico. Dannazione! Mi sta guardando!

Sento di nuovo, forte, prepotente «ELISABETH!» il mio nome.

Mi ritraggo di colpo strozzando un grido e nel farlo inciampo contro uno sgabello alle mie spalle finendo per cadere a terra.

Un dolore lancinante mi risale dalla schiena e mi pulsa nella testa. Di lì a poco, tutto attorno a me viene avvolto dal buio.

 

                                             ******

 

Il pugno di una mano batte con prepotenza contro la porta della mia stanza. Lo sento in lontananza, poi sempre più vicino, finché qualcosa non mi spinge a spalancare gli occhi.

Davanti a me, il soffitto è appena illuminato dalla foschia di una mattina piovosa e fredda.

C’è poco riverbero ed è celeste sbiadito come se il sole fosse appena tramontato.

Che cosa mi è capitato? Che ore sono? Mi chiedo, ma non trovo molte risposte.

«Bennet! Bennet apri la porta!»

Mi volto nella sua direzione. Qualcuno grida il mio nome concitatamente.

«A-arrivo.» Dico sollevandomi da terra come posso.

Sento l’acqua scorrere copiosa dal bagno e a terra noto che una grossa pozza si sta estendendo fino alla stanza principale.

Prima ancora di aprire, corro in bagno e mi rendo conto che la vasca è colma e sbocca.

Questo sarà sicuramente Sparky che vorrà baccaiare per l’acqua, mi dico angosciata mentre chiudo l’acqua.

Di fatti, quando raggiungo la porta, la sagoma smunta dell’uomo con il viso particolarmente adirato si piazza davanti ai miei occhi.

«Hai allagato la camera?», mi chiede bruscamente.

«No», mento. Non voglio che entri e mi piazzo al centro della porta stringendo l’anta verso di me.

«Spostati», ordina. Non lo faccio.

«Ho detto spostati!», con uno strattone mi scansa dall’ingresso ed entra.

«L-Lo sapevo», è leggermente balbuziente, me ne accorgo solo ora.

«G-Guarda che casino hai combinato!»

«Non l’ho fatto apposta. Sono svenuta.», dico.

A Sparky non sembra interessare.

Entra in bagno e con fare nervoso prende tutti gli asciugamani presenti, il mio cardigan e l’accappatoio gettandoli sopra la pozza.

«Asciuga tutto,», ordina «o ti butto fuori.»

Resto impietrita. Quell’uomo ha qualcosa di terribile insinuato nello sguardo. Non mi sorprenderebbe vedergli una lingua biforcuta spuntargli dalle labbra.

«Va bene. Va bene.», sollevo le mani in segno di resa. Voglio che esca da qui.

Sparky mi osserva. Nonostante il volto nervoso e le rughe increspate, per un solo istante, gli vedo disegnato sulle labbra un pericolosissimo sorriso demoniaco che gli taglia la faccia da parte a parte. Devo sbattere le palpebre un paio di volte per rendermi conto che è solo il frutto della mia immaginazione.

Ho la gola stretta, cosa mi prende?

Sparky, ad un tratto, mi scruta perplesso. Sembra che l’ira di poco prima sia sciamata per lasciare il posto ai dubbi.

«Va tutto bene, ragazza?»

Lo guardo spritata e mi costringo ad annuire.

«Si, si è tutto apposto. Scusa per l’acqua, metterò tutto in ordine.» Dico.

Lui fa una smorfia strana, poi annuisce e se ne va.

Finalmente sola ho un momento per capire cosa sia accaduto.

Sono svenuta e poi…

Quella voce. 

Guardo il bagno. C’era un’occhio nello scarico.

Presa da un impeto più forte di me corro verso il lavabo.

Nello scarico brilla una tronchesina per le unghie ma non c’è nessun occhio.

«Maledizione», impreco in un sospiro.

 

                                                      ******

 

E’ mezzogiorno quando ricevo una chiamata dal commissariato.

«Pronto?»

Avvolta dalle lenzuola, tiro un braccio fuori e abbasso il volume della televisione.

«Bennet non sei a lavoro oggi.» E’ Kook’s e so che sta per farmi una delle sue ramanzine.

«Ne sono al corrente, capo.», dico non nascondendo un pizzico di ilarità.

Potrei giurare che ora ha aggrottato la fronte.

«E sentiamo-» sibila, «dove saresti di bello?»

C’è uno specchio oltre i piedi del mio letto, sul comò, e il mio riflesso ci giace dentro. Due profonde occhiaie segnano i miei occhi chiari e la pelle è pallida. Ho una pessima cera.

«Sono a casa, credo di essermi ammalata o qualcosa del genere…», mormoro. Ho poco fiato per parlare e sprecarlo con Kook’s mi fa innervosire.

Lo sento gracchiare una risata sciatta. «A casa.» Fa eco.

«Sai dove dovresti essere? In Massachusset! Non ce ne facciamo nulla di personale incompetente. Non ti pago per metterti in malattia!».

Voglio attaccare ma qualcosa mi dice di non farlo.

«Serafiris è a lavoro?», domando.

Kook’s sembra spiazzato «Cosa ti importa?»

«Nulla. Se però lui c'è, siete in buone mani.», dico, ed ora riattacco.

Lascio ricadere il braccio lungo il fianco e abbandono il cellulare accanto a me.

C’è qualcosa che non va, non mi sento la stessa di qualche giorno fa. Sono più stanca, spossata. La testa mi fa male e ondate di vertigini mi costringono per lo più a starmene a letto.

Forse tutta la pioggia della sera prima deve avermi dato il colpo di grazia, dato che, ripensandoci, da quando ho messo piede a West Brook la mia salute si è fatta più cagionevole.

«Questo posto mi ammazzerà…», commento ad alta voce rivolgendo lo sguardo al soffitto.

Non ci avevo mai fatto caso, ma proprio al centro della parete, in direzione del mio posto letto, c’è una vistosa macchia nera. Un’ infiltrazione d’acqua. Perché non l’avevo mai notata prima?

Mi sollevo sul materasso e allungo una mano verso quelli che mi sembrano pezzetti di muffa che pendono attorno ad essa.

Come ne tocco uno, quest’ultimo dispiega le ali.

Un insetto si separa dal soffitto facendomi ingoiare un gridolino.

Ricado a sedere sul materasso ma non smetto di guardare la macchia.

Di colpo sento squillare il mio cellulare. Perdo un battito. Distolgo l’attenzione dal soffitto e cerco fra le coperte l’apparecchio.

Sul display un numero che non conosco. «Si? Chi parla?».

«Bennet? Sono Serafiris.» Quando sento la sua voce mi si mozza il fiato.

Come ha fatto ad avere il mio numero? Perché mi ha chiamata?

«Roth…Cioè…detective Serafiris.», balbetto imbarazzata.

«Sai che puoi chiamarmi Roth…», dice lui molto pacatamente.

«Già…Certo…», sto sorridendo come un’ebete. 

«Come mai mi hai chiamata?»

«Non eri a lavoro questa mattina e ieri sera mi sei sembrata esausta. Credevo stessi male.», ammette.

Trovo che il pensiero che ha avuto sia stato molto carino.

Insomma poteva anche fregarsene.

«Effettivamente non sto benissimo. Nulla di ché, ho preso freddo.», dico guardando per la seconda volta il mio riflesso dentro lo specchio. Quella che vedo non sono io. Il viso emaciato, pallido, malato.

Sembro persino più magra.

C’è un momento di silenzio dove non sento nulla dall’altra parte del microfono, poi Roth torna a parlare «Allora? Cosa aspetti a darmi il tuo indirizzo?»

Stento a credere alle mie orecchie e mi viene anche da sorridere.

«Perché dovrei?»

«Perché non dovresti?»

Odio il suo modo di rigirarsi la frittata.

«Sto bene, Roth. Davvero.»

«Oh…lo so. Il punto è che ho un vassoio colmo di ciambelle e mi dispiace troppo buttarlo, perciò…si gentile, aiutami a finirle.»

Il tono della sua voce si attira una risata da parte mia.

«E…ok. Vada per le ciambelle.»

Gli recito l’indirizzo. Per qualche motivo, c’è una parte di me che ha dimenticato la vergogna e il senso di inferiorità nei confronti di Roth. Lui si sta rivelando più gentile e collaborativo di quanto non potessi sperare ed essendo colleghi, creare una buona complicità porterebbe solo i suoi frutti. Perciò basta, basta con la storia dell’asociale infoiata.

  Dopo una mezz’ora Roth bussa alla mia porta.

Sono immersa nella penombra. Da poco la luce ha incominciato a darmi fastidio e sento che la temperatura del mio corpo si è alzata di parecchio.

Ho i brividi e la sgradevole sensazione di febbre nelle ossa.

«Sei arrivato.», dico scostando l’anta della porta.

Roth ha una scatola fra le mani. E’ di colore rosa e ha un bel fiocco al centro. La sua espressione, però, collide con quel pacchetto tanto gioviale.

E’ serio. Estremamente, serio.

Mi fissa inespressivo: i lineamenti marcati incutono quasi timore.

Vorrei chiedergli qualcosa come “tutto bene?”, ma temo la risposta.

«Hai la febbre?» Domanda avanzando dentro la stanza. Chiudo la porta alle sue spalle e lo seguo.

«Non l’ho misurata ma penso di sì. Sto uno straccio.», affermo.

Roth posa la scatola sul comò ed io mi sento in dovere di farmi vedere ingolosita seppur non abbia affatto voglia di dolci.

«Mmh», mugolo «Fammi vedere cosa mi hai portato!».

Saltello - e mi costa caro - fino al comò e sollevo il coperchio.

Ho un conato ma lo reprimo. Le ciambelle che sono all’interno hanno un aspetto invitante e sono persino decorate meravigliosamente, ma il mio stomaco sta protestando. Ho la nausea ed è marcata e pesante da sopportare.

«Che buone», mi sforzo di dire.

«Cosa c’è, Lili?» Sento la voce di Roth farsi più cupa. Ho i suoi occhi puntati dietro la nuca, mentre se ne sta lì, fermo nell’oscurità della mia stanza.

«Qualcosa non va?», sibila.

«No, affatto. Va tutto bene.», mi trema leggermente la voce.

Vedo gli occhi di Roth scintillare nel buio.

Sono imbarazzata perché non so proprio che mi sta prendendo. Qualcosa vibra dentro me e, di colpo, mi sento in pericolo. Temo i suoi occhi, nascondono qualcosa di pericoloso.

Roth mantiene lo sguardo luminescente su di me, mentre fa un passo verso il tendaggio della finestra.

Solleva la serranda e poi, di colpo, spalanca la tenda.

Gemo. Credo di aver gridato.

La luce mi graffia gli occhi come se non l’avessi mai vista prima. Ho l’impressione che potrebbero sanguinare da un momento all’altro.

«Chiudila!», grido.

Roth è serio. Sta fermo a guardarmi e mi domando a cosa diavolo stia pensando ora.

Lentamente torna ad oscurare il vetro.

«Eh si…è proprio febbre…», mormora con uno strano tono di voce.

Io, intanto, sono china sulle ginocchia impietrita dalla luce e spaventata per quello che sta succedendo. Il mio cuore pulsa nella testa dolorosamente. D’un tratto mi sento come se qualcuno mi avesse riempita di botte. 

«Roth», piagnucolo debolmente «Cosa mi succede?»

Il ragazzo mi raggiunge e sollevandomi per le spalle mima uno “shh” aggiungendo: «Va tutto bene.»

La sua voce è così calda. Non l’avevo mai ascoltata così intensamente.

Mi accompagna a letto sorreggendomi per tutto il breve tragitto.

«Non so cosa mi sta capitando. Ho paura.», la mia voce è ovattata. Ho la testa confusa e sento ogni arto molle, debole.

Roth mi solleva per le gambe e delicatamente mi adagia sul materasso.

Adesso la sua voce è lontana «Va tutto bene…Elisabeth…»

Sento il suo odore, le mie narici sono piene di esso.

C’è qualcosa nel suo aroma che mi contorce le budella. Una forza innaturale mi spinge a respirare ancora…e ancora.

Non so bene cosa sta accadendo, ma quando sento la punta del suo naso sfiorarmi la guancia ho la voglia irrefrenabile di toccare il suo viso.

In questo momento penso di potermi fidare solo di lui ma soprattutto voglio abbandonarmi totalmente. E’ così strano. Innaturale.

Provo a guardare nell’oscurità ma tutto ciò che vedo è la sua ombra che troneggia davanti a me. Si è seduto sul bordo del letto e la sua mano mi scivola sul viso bollente.

Quando il suo polso è all’altezza della mia bocca mi rendo conto che posso sentire le pulsazioni del suo cuore e del suo sangue nelle sue vene. Il suo sangue…E’ così dolce. Potrei giurare di sentirlo scorrere nella mia gola e il sol pensiero mi crea una sorta di estasi.

Sono malata? Sto sognando?

«Non andartene.», dico al buio.

«Non lo farò.» Il fatto che mi risponda mi consola.

«Ma tu hai bisogno di riprenderti, sei debole Lili.», sussurra al mio orecchio.

«Riprendermi? Da cosa?»

Silenzio.

Si è leggermente spostato sul materasso.

A poco a poco, però, i miei occhi si stanno abituando al buio e lo vedo sbottonarsi la manica della camicia.

«Ben presto starai meglio.», afferma.

Ho paura di lui, ma in special modo di ciò che ringhia dentro di me.

Roth si avvicina il polso alle labbra. Poco dopo, qualcosa di estremamente caldo mi scorre in gola. Voglio oppormi e cerco di farlo. La paura mi impone di scalciare, ma Roth è forte e mi tiene premuta contro il materasso con forza, finché, di colpo, tutto svanisce come se non fosse mai accaduto.

 

                                           ******

Spalanco gli occhi di colpo. La tv è accesa e la voce irritante di una valletta in un programma di giochi a premi mi fracassa la testa.

Non so che ore sono, né per quanto ho dormito ma ho una grande fame come se non mangiassi da giorni.

Confusa cerco di ricordare cosa sia accaduto. Mi sollevo dal materasso e noto che la porta del bagno è accostata. La luce è spenta, mentre le tapparelle della mia camera sono sollevate. La luce filtra dentro nonostante il lungo tendaggio bianco. E’ giorno e sta piovendo ed io sono certa di essere in ritardo.

Cerco il mio cellulare fra le coperte e quando lo trovo, scopro con sgomento che è passato un giorno intero. Un giorno. Diamine! Ma quanto ho dormito?

Mi scopro di colpo le gambe allontanando la coperta e l’aria gelida della stanza mi increspa la pelle in tanti piccoli brividi.

Massaggiandomi le spalle percorro il poco spazio che mi divide dal bagno mentre controllo convulsamente la segreteria telefonica.

Ci sono parecchie chiamate di Kook’s e una appartenente ad un numero che non conosco.

«Roth…»

Roth è stato qui. Certo.

Mi volto alla ricerca della scatola di ciambelle. Ricordo che me ne aveva portata una.

Il comò è sgombro però. Per tutta la stanza non c’è traccia di lui e delle sue ciambelle.

«Che strano…»

Quando entro in bagno mi rendo conto che non ci sono più gli asciugamani a terra. I panni sporchi sono nella lavatrice assieme a loro e l’acqua è stata raccolta.

Che Sparky mi abbia fatto visita? Il pensiero mi accappona la pelle.

Lo scaccio prima che mi venga voglia di prenderlo per il collo e mi dirigo verso la doccia.

Qualsiasi cosa mi sia venuta, adesso sto molto meglio. Mi sento le forze di un leone e sono pronta ad affrontare la giornata.

Mi preparo in fretta perciò: doccia, capelli, scelgo un maglioncino corallo da indossare sopra il paio di jeans celesti e un paio di Converse scure.

Dopo essermi accuratamente asciugata i capelli decido di non legarli. Guardando la mia immagine allo specchio, stamattina, mi sento insolitamente più femminile e trovo che sia un peccato portare dei capelli tanto lunghi e morbidi sempre, costantemente, allacciati alla nuca.

Scrutandomi, mi accorgo di avere anche un gran bel seno e che il cardigan lo fa risaltare ancora di più.

Che mi prende? Da quando sono così concentrata su simili sciocchezze?

Faccio una smorfia buffa allo specchio mentre me lo chiedo.

«Sarà colpa della febbre alta.» 

Torno in camera per cercare un soprabito o un semplice cappotto, quando, il mio sguardo vaga sul lenzuolo candido.

«Cos’è quella?». La mia attenzione si è appena catalizzata su una piccola macchiolina rossa semi-nascosta dal bordo del cuscino.

Lo sposto.

Sangue.

Corro con le mani al collo. Non c’è nulla. Non sono ferita; forse si tratta delle mie orecchie, penso.

Guardo lo specchio sul comò e spostandomi i capelli biondi noto che non sono sporca.

Sto per chiedermi come quel sangue possa aver raggiunto la mia biancheria da letto, quando il cellulare mi vibra in tasca.

E’ il numero che non conosco. Roth. «Hai intenzione di non presentarti nemmeno oggi? Kook’s potrebbe strapparsi tutti i capelli qualora tu lo faccia.»

Rido.

«Non ho intenzione di farlo diventare calvo, sto arrivando.»

Gli rispondo.

C’è un momento di silenzio.

«Come stai, Lili?»

A quella domanda, sto per chiedergli se c’era lui in stanza con me. Sono ancora confusa su quanto accaduto un giorno fa. Forse è stato solo un sogno causato dalla febbre alta.

«Meglio. Odio la febbre», dico ponderando una risata che non sembri troppo impacciata.

«Già…»

«Roth…» Mi inumidisco un labbro. Devo chiederglielo. Io devo farlo «Sei stato da me ieri notte?».

Roth sbuffa una risatina «No, ero in centrale. Perché? Volevi fossi da te?» dice con malizia.

Arrossisco.

«Oh, no. C’è… no!».

Lo sento ridere ancora e finisco nell’imbarazzo più totale.

«Come mai questa domanda?»

«Sono certa di ricordare che tu fossi venuto da me con una scatola di ciambelle…», ammetto «Ho trovato anche una tua chiamata sul telefono.»

«Bennet…Siamo colleghi, certo, ma non abbiamo tutta questa confidenza.», dice in modo tagliente «E se avessi avuto una scatola di ciambelle non l’avrei di certo condivisa.»

Egoista!

«Immaginavo…».

Roth respira il mio silenzio ancora per un po’, prima di aggiungere: «Ti ho chiamata ieri, Kook’s mi ha detto che stavi male. Questo è il massimo dell’interesse che avrai da me.»

Ma quanto è arrogante questa mattina?

«Non ho bisogno del tuo interesse.», dico acida, poi mi pento «Comunque grazie.»

«Ci vediamo in centrale, Bennet.»

Un attimo dopo ha riattaccato.

Non so dire esattamente come mi sento. Lui mi irrita e la sua arroganza mi fa sentire impotente delle volte.

Probabilmente mi sono fatta uno stupido film in testa: io e Roth non saremo mai buoni amici, né colleghi affiatati. 

Lui mi sopporta appena. Per non parlare del modo in cui cambia umore. Un attimo è premuroso mi porta a bere degli Smoothie e parla della sua famiglia nelle lande, quello dopo mi snobba, trattandomi da pezza. E’ strano, ambiguo e quando lo sento vicino divento vulnerabile.

C’è qualcosa in lui che mi fa accapponare la pelle, una sensazione di pericolo costante.

Di emblematica devozione…Ripenso alla sensazione della notte precedente.

Sono certa di aver sognato, a questo punto, di bramarlo. Io lo volevo, ogni fibra del mio corpo lo desiderava.

E’ così frustrante che il mio inconscio sia attratto da lui.

«Vai a piedi?»

Una voce mi fa trasalire.

Mi volto e trovo Sparky che tenta di rastrellare dalle foglie l’ingresso del motel.

«Mi hai fatto prendere un colpo.», borbotto attirandomi un sorriso sdentato da lui.

«Ho lasciato la mia auto a qualche chilometro da qui, perciò si, andrò a piedi.» -ma che t’importa?

«Se vuoi ti do un passaggio.»

Ho un brivido.

«No, grazie.»

Ne posso fare bene a meno.

Sparky mi fissa per un istante «G-Guarda che non mordo mica!»

Eh, grazie…Ti mancano i denti! Senno scommetto che lo faresti.

Scuoto la testa «Davvero, non ce n’è bisogno.»

Sparky abbandona il rastrello appoggiandolo alla parete e torna a guardarmi «Insisto. C’è un pazzo in città e sembra che uccida le ragazze bionde e belle come te.»

Faccio un passo indietro quando lo vedo avanzare.

«Non sono tutte bionde», lo informo «E sono certa che di giorno non lo farebbe mai.»

Perché ho l’impressione che questo tizio sia famelico nei miei confronti?

Ad un tratto, si allarga il colletto della maglia e drizza la schiena. Sembra aver distolto lo sguardo come se si fosse reso conto di dover mantenere la calma.

«Come vuoi, se cambi idea sai dove trovarmi.»

Fingo un sorriso e scavallo il gancio del cancelletto principale allontanandomi.

 

                                           ******

 

Dopo un bel po’ di tragitto, intirizzita dal freddo e avvolta dalle mie stesse braccia, mi ritrovo ai piedi della centrale.

Il palazzo privo di una vera e propria sua identità sembra riposare placido nella calma della mattina.

Alcune volanti sono parcheggiate all’esterno e noto che anche la Berlina di Roth è posteggiata accanto a loro.

Avanzo. Le porte scorrevoli si spalancano e un piacevole calore mi avvolge riscaldando i miei muscoli.

«Sei tornata!» Una voce raggiante mi arriva alle orecchie.

Quando mi volto di lato, Maggie, con entrambe le braccia occupate da scartoffie, mi sorride amichevolmente. Sembra davvero contenta del mio rientro a lavoro.

«Ehi…», sollevo il palmo della mano timidamente. Il suo atteggiamento mi mette leggermente in imbarazzo.

Non ho molte amiche donne, anzi direi nessuna e forse una parte di me non è nemmeno pronta a farsene. Però Maggie è così dolce e socievole che resta difficile non darle confidenza.

«Come stai? Per tutto l’ufficio gira voce che sei stata poco bene.»

Sorrido debolmente «E’ così. Credo che la pioggia di qualche notte fa sia la causa.»

Maggie mima un’espressione dispiaciuta.

«L’importante è che ora tu stia meglio.»

Annuisco «Sto alla grande», e mi sforzo di sorriderle in maniera carina. Maggie è gentile e non sarebbe giusto trattarla male.

Poco dopo stiamo percorrendo il corridoio assieme.

Maggie mi aggiorna sulle novità del caso, riportandomi persino voci di corridoio e le sono grata per questo. Poi, mentre siamo quasi arrivate davanti la porta dell’ufficio comune, dice qualcosa che, per qualche motivo, mi lascia a bocca aperta.

«Ricordi quella donna bionda», inizia. Ricordo una donna bionda come me seduta a qualche scrivania di distanza dalla mia e la ricordo perché mi ha infastidito.

«Quella con cui ho battibeccato? Darline?»

Maggie mi guarda in modo strano «Il suo nome è Eva ma odia che la si chiami con il suo nome di battesimo, perciò, si è ribattezzata, da sola, Darline.»

Spalanco le palpebre, sto per ridere.

«Si, è imbarazzante e assurdo, ma non è questo il punto. Ieri pare sia stata tutto il giorno in compagnia di Serafiris.»

Sentirlo nominare mi riporta subito alla mente quella strana sensazione che ho provato durante il sogno su di lui. Ho uno spasmo.

Istintivamente do un’occhiata all’ufficio per trovarlo, ma non lo vedo seduto al suo posto.

«E quindi?» rispondo tornando a concentrarmi su Maggie.

«E quindi pare che siano stati beccati da qualcuno a scambiarsi effusioni.» ribatte lei.

«Effusioni?», sono incredula.

Maggie annuisce più volte. «Ti lascio solo immaginare…Lei altezzosa com’è, non ha fatto altro che parlarne per tutta la giornata co noi altre.»

Accidenti, non credevo che Eva, Darline, o come diavolo si chiama, fosse il suo tipo.

All’improvviso sento una strana sensazione. Sento la sua presenza alle costole. Si, è lui, sta arrivando.

Guardo in fondo al corridoio e lo vedo avanzare con la fluidità di una pantera. Oggi indossa un paio di jeans chiari e una felpa scura dal colletto largo che lascia intravedere la sua pelle candida.

Gli occhi sono fissi su di me. Non mi fa neppure un cenno, ma continua ad osservarmi mentre avanza, fino a quando non arriva di fronte alla porta, solo allora distoglie lo sguardo ed entra nella stanza.

«Spero che anche tu ti sia accorta del modo in cui ti guarda…», mi fa notare Maggie mantenendo lo sguardo su di lui.

Lo seguiamo dentro l’ufficio, giusto in tempo per goderci la scena di lui che ignora totalmente Eva passandole davanti.

Supera la sua scrivania e si accomoda al suo posto.

Il volto di Eva- Darline  è il ritratto dello stupore ma soprattutto dello sdegno.

 Durante la giornata non accade nulla di più di quanto ho potuto osservare, finché, davanti alla porta, non appare una ragazza.

Sembra venire dai piani alti. E’ bella, dai capelli rossi e i profondi occhi cristallini. Indossa un tailleur nero e dallo scollo della giacca si nota quello ancora più vistoso del cardigan sul suo decoltè.

Un leggero brusio maschile si leva alle mie spalle e sento qualcuno fare apprezzamenti coloriti.

Una parte di me la invidia seppure ho sentito gli stessi commenti rivolti a me proprio poco prima.

«Serafiris? Puoi venire un attimo con me?», domanda indirizzando uno sguardo malizioso al diretto interessato.

Guardo Maggie che si aggira fra i tavoli con il suo solito vassoio di caffè. Mi fa spallucce e poi mima con le labbra “E’ la nuova segretaria del capo”.

Roth si alza ed esce seguito dalla rossa.

Io e pochi altri ci guardiamo sorpresi; a quanto pare si dà parecchio da fare il nostro detective. Non oso voltarmi verso Eva.

“Casanova” rientra in ufficio ad un quarto d’ora dalla fine del turno giornaliero, risedendosi tranquillamente al suo posto. I capelli sono arruffati come se una mano ci si fosse tuffata più volte, la felpa è vistosamente sgualcita e le labbra sono rosso sangue, come se fossero state protagoniste di chissà quali passioni.

E’ il cambio turno. E’ l’occasione perfetta per Eva, che gli si avvicina decisa.

«Dove sei stato?», chiede nervosa. Ho l’impulso di coprirmi il viso con la mano, sopprimendo un “noo” d’imbarazzo per lei.

Roth non risponde, continua a studiare i fogli che ha sparso davanti a sé.

«Sto parlando con te!» strilla lei con un urlo che fa piombare nel silenzio tutto il secondo piano del dipartimento.

Tutti gli sguardi si concentrano su di loro.

Maggie mi scruta preoccupata e in tutta onestà, un po’ lo sono anche io.

Seccato, Roth abbandona il foglio che ha per mano «Solo una stupida non capirebbe dove sono stato. Quindi dimmi…sei per caso una stupida?»

Vorrei sotterrarmi al posto di Eva.

«Certo che no!»

«Allora sai benissimo dov’ero.»

«Volevo sentirlo dire da te.»

Roth schiude le labbra in un sorriso malizioso e incrocia le braccia al petto.

«Senti…Eva, giusto? Non so cosa tu ti sia messa in testa ma io non sono il tuo ragazzo e non voglio esserlo. Quella di ieri sera è stata una serata mediocre, niente di che. Non trovi anche tu?»

Dio, la sta uccidendo.

«Sarai anche carina e molti dei nostri colleghi bramano l’idea di portarti a letto, ed è quello che volevo anche io…E l’ho fatto. Non c’è null’altro.»

Eva ha il viso paonazzo «Allora perché ieri mi hai detto che ti sarebbe piaciuto rivedermi?»

Roth fa spallucce «Non è quello che si dice a fine serata?»

Gli occhi della ragazza si riempiono in fretta di lacrime. Si sta evidentemente combattendo per non piangere.

«Comunque», sibila lui lanciando un’occhiata attorno a sé «stiamo dando spettacolo…E io odio dare spettacolo.» 

Eva non sa più come replicare. Roth le ha spazzato via ogni briciola d’orgoglio e io sono stufa di ascoltare questa pantomima.

Mi sollevo dalla sedia sotto lo sguardo stupito di Maggie e quello sorpreso di Roth stesso, e mi avvio verso la porta.

Attimi dopo sono in piedi davanti al distributore automatico e ho scelto di bere un caffè. Ho provato anche io le stesse orribili sensazioni di Eva anni fa. Avevo conosciuto un ragazzo della mia stessa età. Frequentavamo la stessa facoltà e dire che io me ne fossi infatuata sarebbe riduttivo. Per me era il giovane più bello ed interessante che avessi mai potuto conoscere. Passai diversi mesi in sua compagnia: studiavo con lui, passeggiavo con lui e ci scambiavamo decine di messaggi come se fossimo fatti l’uno per l’altra da sempre. Poi un bel giorno lo avevo trovato in auto, posteggiato nel parcheggio della facoltà, con una bella ragazza Svedese. Lui, Rich, affermò che fra noi tutt’al più si sarebbe potuta creare una bella amicizia. Rimpiango ancora adesso l’essermi concessa a quel ragazzo, anche perché solo poche settimane dopo aver consumato lui aveva già voltato pagina. Roth, mi dico, ha fatto lo stesso con Eva e si, magari lei non mi è simpatica ma non lo merita.

«Perché sei uscita in quel modo?»

La sua voce mi fa sussultare.

Mi giro a guardarlo ma non rispondo.

«Che c’è? Sei gelosa, Bennet?», Roth si appoggia con la spalla al muro accanto al distributore automatico e sono certa che l’espressione stampatasi sul suo volto sia maliziosa e insopportabile.

Non riesco a trattenere una risata isterica «Gelosa? Fai sul serio Serafiris? Non proverei mai, per nessuna ragione al mondo, gelosia nei tuoi confronti, soprattutto dopo quello che hai fatto ad Eva.»

Anche le sue labbra si aprono in un sorriso molto più divertito del mio.

«Non credevo che tu e lei foste amiche.»

«No infatti. Non lo siamo, la conosco appena, ma non è giusto giocare con i sentimenti delle persone così.»

«Sei così ingenua…», mormora allungando una mano verso il bicchierino colmo di caffè. Il mio caffè.

«Credi veramente che i suoi sentimenti verso di me siano sinceri? Il suo è soltanto un capriccio. Ha più di trent’anni e si sente già avvizzita. La sua carriera non ha alcuno sbocco. Lei è semplicemente lì, cristallizzata sulla sua stupida sedia a fare da segretaria ad un branco di idioti.»

Si porta il bicchierino alle labbra ma non stacca mai, nemmeno per un attimo, lo sguardo da me.

«Io le ho dato un po’ di…brio.»

«L’hai sedotta.», lo correggo.

«Ti da fastidio?»

«Non nel modo che pensi tu.»

Roth mima un sorriso fugace prima di fare un altro sorso.

«E’ stata lei a sedurmi», dice con franchezza «Lei ci ha provato con me, se non avesse fatto la prima mossa io non ci sarei mai finito a letto.»

«Se certo…», lancio un’occhiata al cielo trattenendo l’ennesima risata nervosa. «Anche la rossa di poco fa ti ha sedotto? Immagino di si.»

E’ così divertito dalle mie accuse? Non la smette di sorridere.

«Con lei è diverso. Clara è più…generosa di Eva.»

Sto per urlargli in faccia che è un pervertito ma mi limito a dargli una spinta, gesto che lo fa scoppiare a ridere.

«Stammi lontano!»

«Che ti prende, Bennet?», dice, qualche metro dietro di me.

Gli mostro il medio, poi mi volto «Sai, questo tuo atteggiamento denota molto di te.»

Fa un’espressione sorpresa e al tempo stesso curiosa «Ah si? Be’ …che ci posso fare sono irresistibile.»

-e pieno di te.

Seconda lanciata di sguardo al cielo. 

                          

                                         *****

 

E’ passata una settimana da quando Serafiris ed io siamo sul caso e sono bastati appena sette giorni per far si che la sua permanenza, adesso più costante, sconvolgesse interamente l’ufficio. Roth ha spezzato più cuori fra le segretarie di quanto Mr. Darcy non avrebbe fatto in Orgoglio e Pregiudizio.

La sua tattica ormai è chiara: farsi desiderare fino al punto di ottenere ciò che vuole e sbarazzarsi delle carcasse successivamente.

Il bello è che le ragazze in questione invece di prendersela con lui fanno la guerra alla sua successiva vittima.

Sta creando un circolo vizioso di odio che, sono certa, andrà avanti all’infinito.

Ho l’impressione che il suo fascino sia così sproporzionato e indomabile che è in grado di ridurre il raziocinio di queste donne paragonandolo a quello di liceali in preda agli ormoni.

«Come va?» Maggie mi sorride questa mattina ma non è raggiante come al solito.

«Io…bene, ma tu non sembri in forma.»

Ha lo sguardo triste, come se le fosse appena morto il gatto.

«Sono un po’ stanca», dice ma non sono certa che sia la verità.

«Maggie…», cantileno il suo nome.

Lei mi scruta da dietro la montatura spessa, sembra voler parlare ma ho l’impressione che si vergogni.

«E’ successa una cosa.»

So già cosa mi vuole dire.

«Cosa?»

«Si tratta di Roth.»

Da quando lo chiama per nome?

«Ti prego, dimmi che non ti ha portata a letto.»

Scuote la testa. 

«No, ma dicono che voglia abbandonare il caso.»

No. Non può essere.

«Sai dov’è adesso?»

«Credo nell’ufficio del capo. Stava per consegnare le dimissioni.»

Non c’è tempo da perdere. Se Roth abbandona il caso, di conseguenza, anche io sono fuori.

Corro lungo il corridoio e raggiungo come una furia l’ufficio del capo.

Ci sono proprio tutti: Armstrong, Kook’s, la rossa.

«Ro-Serafiris può uscire un attimo?», dico spalancando la porta.

In un battito di ciglia ho tutti gli occhi puntati addosso, compresi quelli verdi di Roth.

«Bennet sono occupato adesso.»

«E’ importante.», insisto mantenendo lo sguardo serrato nel suo.

Roth guarda il resto dei presenti e chiede permesso «Potete scusarmi?»

«Certo, va pure.» Armstrong gli fa cenno con la mano di allontanarsi.

Quando siamo soli, scoppio.

«Non puoi andartene.»

Sembra sorpreso di sentirmelo dire.

«Wow…Poi non dire che non sei interessata al sottoscritto.»

Aggrotto la fronte «No che non lo sono e mi devi anche un caffè.»

Mi attiro un sorriso divertito, ma poi torna a farsi serio.

«Siamo in un punto morto e il vampiro non ha più ucciso, giusto? Non ha senso che io resti.»

Certo che lo ha…

«Certo che lo ha! Senza di te io sono fuori dai giochi!»

A quell’affermazione lo vedo sbuffare «Ti preoccupi solo di te stessa.»

«Non dovrei? Ho patito le pene dell’inferno per arrivare fin qui.»

«No, no che non le hai patite.», mormora così a bassa voce che stento a credere di averlo sentito. Prima che possa chiedergli di ripetersi torna a parlare.

«Ascolta Bennet, non posso darti una certezza. Non so se andrò via domani o il mese prossimo…Posso solo ritardare quest’eventualità ancora per un po’.»

Quasi tiro un sospiro di sollievo.

«Ma tu fai in modo di trovare qualcosa di interessante sul vampiro o i tipi lì dentro chiuderanno il caso, stanne certa.», dice poi sussurrando al mio orecchio un attimo prima di allontanarsi.


 

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Capitolo 4
*** 4. ***


Niente tiene più dell’incubo che certi sogni tradottisi nella realtà.


                                    4 .



 

I giorni sono trascorsi inesorabilmente dal mio arrivo a West Brook. Roth sembra aver accantonato l’idea di congedarsi dal caso, ma quando ha detto di darmi da fare, aveva ragione. Armstrong non ha una pista da seguire e, a meno ché, il vampiro non decida di spuntare fuori nuovamente, la possibilità che il caso vada in prescrizione si fa sempre più tangibile.

In ufficio, da giorni, è calma piatta.

I telefoni squillano di meno e se lo fanno è per motivi poco rilevanti.

E’ tutto così strano, mi dico, leggendo gli ultimi appunti sul caso.

Fino a poco prima che ci mettessimo alle costole del vampiro, lui, ammazzava regolarmente giovani donne. Poi, deve essere cambiato qualcosa.

Possibile che per sei mesi quest’ultimo aveva fatto della popolazione di West Brook ciò che voleva, spargendo panico fra la gente ed ora sia sparito così com’è arrivato?

Mi strofino un occhio.

La mia testa è riempita di domande alla quale non so dare una risposta.

«Bennet». Ad un tratto, la voce roca e severa di Kook’s mi arriva alle spalle. Mi volto e lo cerco con lo sguardo. Ha l’espressione più esacerbata del solito.

«Si, capo?».

Mi passa affianco a passi pesanti e senza guardarmi in faccia dice: «Sei di turno questa notte.»

Non mi è mai stato dato un turno notturno, specie dopo aver passato nove ore qui dentro con appena il tempo di fare pausa per pranzo. Ad ogni modo, non mi sento di ribattere.

«Va bene.», dico priva d’emozione nella voce.

Lui non mi fa alcun cenno. Prosegue e sparisce dietro una porta.

Sospiro.

Ho la schiena a pezzi: sono seduta alla mia scrivania da questa mattina e non ne posso più.

«Tutto bene, Lili?», Maggie entra in ufficio. Molti dei nostri colleghi si stanno allontanando dalle loro postazioni per far ritorno a casa ed anche lei sembra in procinto di congedarsi.

Annuisco avvilita. «Devo passare la notte in centrale.»

Maggie mi scruta con la stessa espressione ammorbata che penso di avere io.

«Mi dispiace molto…»

«Già…Anche a me.», se penso però che posso risparmiarmi i commenti viscidi di Sparky, d’un tratto, mi sento quasi consolata.

«Domani mattina ci sei?», mi chiede.

«Oh, spero di no.», le rispondo ridacchiando. In cambio mi offre un sorriso divertito.

«Tu stai per andare?», noto che indossa un lungo cappotto senape.

Annuisce.

«Allora, ci vediamo domani.»

«A domani Maggie.»

             

                                             ******

 

Le successive ore trascorrono lentamente e quando anche l’ultimo agente abbandona la sua scrivania salutandomi, mi rendo conto che sono totalmente sola.

I neon sulla mia testa sono quasi tutti spenti e per farmi luce sono costretta ad accendere la piccola abat-jour sulla mia scrivania.

Mentre navigo su internet alla ricerca di nozioni che possono essere utili, decido che ho bisogno di caffeina.

Mi sollevo dalla sedia sgranchendomi le gambe. Non mi sembra vero d’essermi alzata, finalmente.

Esco dalla stanza e scopro un corridoio ancora ben illuminato.

Mentre lo percorro, un uomo in giacca e cravatta mi sorpassa augurandomi un buon riposo.

C’è un silenzio insopportabile a quest’ora della sera.

Raggiunto il distributore, l’unico rumore che sento è il caffè che viene miscelato all’interno del bicchierino.

Lo afferro e faccio un paio di sorsi guardandomi attorno.

Chissà, dov’è Roth? mi chiedo.

Non l’ho visto per tutta la giornata, pare che avesse delle ore in più da spendere per se stesso.

Che diavolo me ne importa? 

Punisco la mia curiosità con una sensazione di disapprovazione per aver pensato a lui.

Non voglio fare la fine di tutte quelle donne smaniose della sua persona, che da giorni si strappano i capelli per lui.

Il suo fascino è innegabile, ma non è cosa per me.

Avvilita per ciò che so di provare, torno in ufficio.

Sono pronta a rimettermi a lavoro, quando, sedendomi, noto una busta bianca poggiata sopra la pila di fogli che stavo analizzando solo un attimo fa.

Mi guardo attorno: chi l’ha lasciata?

La stanza è vuota e silenziosa, ed ora, anche l’ultimo neon sembra essersi spento.

Afferro la busta e dispiego la parte superiore che sembra ben attaccata al resto.

C’è un biglietto all’interno. E’ piegato almeno tre volte e dalla trasparenza riesco a scorgere parole scritte in grassetto con un pennarello scuro.

Quando lo spagino del tutto, ho uno spasmo.

 

“SEI PRONTA A MORIRE PER LUI? ”

 

Chi può aver scritto una frase del genere?

Di colpo, incomincio ad avvertire una strana sensazione di pericolo nel petto.

 

«Chi c’è?», chiedo a voce alta.

Nessuna risposta. Sono certa, però, di avere un paio di occhi puntati addosso e la sensazione mi straripa dentro come un fiume in piena.

Mi sollevo rumorosamente dalla sedia e tuono: «Esci fuori!»

Silenzio.

Una parte di me pensa che io sia diventata pazza e paranoica, eppure, la sgradevole sensazione di non essere sola è così palpabile da togliermi il fiato.

Ad un tratto, in lontananza, una porta si chiude.

Maledizione! Allora non me lo sono inventato, c’è veramente qualcuno!

Voglio sapere che faccia ha il vandalo che mi ha appena minacciata e, perciò, esco come una furia dalla stanza guardandomi a destra e sinistra.

Seppur non vedo nulla, acuendo l’udito, sento grattare i piedi di una sedia contro il pavimento. Il rumore metallico proviene dalla terza porta a contare da me.

Senza pensarci due volte, la raggiungo e la spalanco.

Aria gelida ulula dall’ampia finestra spalancata e le veneziane sbattono contro il parapetto più e più volte.

La luce è spenta e, effettivamente, c’è una sedia scostata da una delle tre scrivanie.

Avverto un brivido dietro la nuca.

Lentamente avanzo verso la finestra e mi sporgo.

Mi aspetto di vedere qualcosa, magari qualcuno, ma lì fuori, in strada, non c’è nessuno.

«Cristo…», sospiro.

Forse sto diventando veramente paranoica.

Abbandono l’idea di essere in compagnia di qualcuno e decido di tornare alla mia postazione.

  Ore dopo sono quasi nel dormiveglia. I miei occhi faticano a stare aperti. Sono, stranamente, troppo stanca, forse, per tutta la giornata passata in centrale come se questo posto fosse mio e di mia responsabilità.

Con i muscoli contratti e doloranti, decido che un sonnellino può essermi solo d’aiuto.

La lettera, illuminata dalla piccola lampadina, giace ancora davanti a me e sdraiando le braccia fra i fogli, l’artiglio fra le dita sollevandola appena quando basta per vederla, mentre appoggio il mento sul mio avambraccio.

“Sei pronta a morire per lui?”, chi è questo lui?

La mente vaga verso l’immagine sbiadita di Roth. Perché mi è venuto in mente proprio il suo viso?

A quella domanda i miei occhi si chiudono.

 

Un alito rovente mi scotta la nuca. All’inizio credo sia solo un’impressione e lo scaccio via con la mano, mugugnando.

 Ma quando il mio subconscio riconosce il suono di un ringhio roco e cupo, spalanco gli occhi.

C’è qualcuno dietro di me.

Faccio appena in tempo a voltarmi che, avvolta da un mantello scuro, una sagoma troneggia su di me.

Sto per urlare ma il fiato mi muore in gola.

La sagoma ha il viso coperto che neppure la luce riesce a riverberare.

L’unico punto scoperto è la bocca da cui vedo fare capolino due denti bianchissimi e aguzzi.

Cerco di alzarmi, voglio combattere ma lei mi afferra per le spalle e con uno strattone mi lancia al centro della stanza.

Il dolore pungente mi risale lungo la schiena togliendomi il fiato. L’ho persa di vista.

Mi guardo attorno impaurita. Chi diavolo è? Il vampiro?

La sua forza è sovrumana.

«Chi sei? Esci fuori!», grido.

«Elisabeth…», cantilena. La sua voce è eterea, un leggero eco che vibra nel nulla.

Sento i suoi passi sulla moquette, ovattati, predatori.

Il buio della stanza le fa da tana, ma so che è pronta a scagliarsi ancora una volta su di me.

«Esci fuori!», urlo ancora.

C’è un tanfo rivoltante ed io l’ho già sentito. Tossisco e d’istinto mi porto una mano alla bocca.

L’odore di zolfo mi riempie i polmoni e brucia dentro me come acido.

Ho gli occhi umidi per i colpi di tosse e la vista offuscata.

«Elisabeth.»

Quella voce continua a reclamarmi, prendendosi gioco di me. La sento ridere malvagia mentre mi nomina.

«Chi…sei?», tossisco.

Sento che sto per piangere. Chiunque ci sia ammantato dal buio, vuole farmi fuori. E’ qui per uccidermi. 

Carponi, cerco riparo sotto una scrivania.

Ho il cuore a mille e, ora, la sensazione di pericolo scalpita al centro del mio petto, asfissiante.

Ad un tratto, sfioro con la punta delle dita la tasca del jeans. Il mio telefono.

Lo afferro in fretta e compongo l’ultimo numero in rubrica.

«Pronto?»

Schiaccio l’apparecchio contro la guancia per paura che lui non riesca a sentirmi.

«Roth.», dico in lacrime.

«Lili.» Roth è sorpreso di sentirmi così allarmata.

«Roth, sono in centrale e credo che il vampiro sia-». Improvvisamente vedo i piedi della scrivania sollevarsi da terra. Il ripiano scricchiola lì dove la sagoma preme le sue mani.

Tremo.

«Eccoti.» 

La scivania fa almeno mezzo metro sulla moquette e una mano rovente mi afferra dalla nuca. Inavvertitamente, il cellulare mi scivola dalle dita.

«Lili. Lili!», sento gridare dal microfono. Non arrivo a raccoglierlo, i miei piedi sono lontani da terra. Ho la sensazione che le viscide dita che mi stringono il collo, presto, me lo spezzeranno.

Mi manca l’aria.

Provo a scalciare con tutta la forza che ho ma i miei piedi colpiscono il vuoto.

«Elisabeth…Che sangue irresistibile che hai…», mormora la sagoma alle mie spalle. 

La sua voce ovattata mi terrorizza.

«C-Cosa v-vuoi da me?», mormoro a fatica.

Il calore che irradia il viso alle mie spalle si fa più vicino. Adesso, il suo fiato rovente solletica il lobo del mio orecchio.

«Nutrirmi di te…», sibila.

Una lacrima si sgancia dalle mie ciglia.

Sarebbero mille le domande da porre al mio aggressore, ma non riesco nemmeno a gemere di paura. Sono pietrificata.

Il vampiro è qui e vuole me.

Mi sento lanciare con estrema forza contro la parete dalla parte opposta.

Potrei giurare di aver sentito le mie ossa sbriciolarsi al momento dell’impatto.

Respirando appena e tossendo copiosamente, mi sollevo con i gomiti da terra.

I neon sulle nostre teste stanno ondeggiando come se nella stanza ci fosse una finestra aperta. Di tanto in tanto, la luce va e viene ad intermittenza rischiarando, a tratti, la sagoma scura. Fogli si spargono in tutta la stanza, danzando, colpiti da un vento innaturale.

Sto piangendo. Sento che la mia fine è vicina.

Non capisco, però, perché lui sia qui. Come ha fatto a sapere di me? Com’è entrato indisturbato? Dovrebbe esserci un usciere a pian terreno.

«Arrenditi al tuo destino, Elisabeth.»

Non morirò. Non morirò, stasera.

«Io non morirò!», grido disperata attirandomi una risata demoniaca e sguaiata da parte dell’ombra.

«Oh…Si che lo farai.»

Torna ad avanzare, felina, verso di me.

Mi rendo conto che non ho speranze, mi ucciderà.

Quando è ad un passo da me, poco prima di arrendermi, noto qualcosa scintillare sul suo collo. Un piccolo punto luce di argento. Non so perché, ma lo fisso intensamente come se volessi concentrarmi su altro, un attimo prima di palpare la mia dipartita. 

Singhiozzo e mi chino proteggendo la testa con le braccia, supplicando pietà in silenzio.

Chiudo gli occhi.

«Bennet!»

Quando sento la voce di Roth e spalanco gli occhi, l’ufficio è un disastro. Ci sono fogli dappertutto, la scrivania dove mi ero nascosta è rovesciata da una parte ed io giaccio contro una parete con le braccia avvolte attorno alla testa.

Stranamente, tutte le luci sono accese e del vampiro non c’è traccia.

«Roth.», dico in lacrime, sollevando la testa da terra.

Lui si affretta a raggiungermi e si china alla mia altezza.

Mi accarezza il viso dolcemente: non posso fare a meno di agguantare le sue spalle in un abbraccio disperato, che lo lascia stupito e confuso.

«Lui era qui», singhiozzo «Il vampiro era qui e voleva uccidermi.»

Roth fa fatica a ricambiare la stretta ma, quando lo fa, mi sento subito al sicuro.

«Non c’è nessuno qui.», mormora.

Mi separo da lui e lo guardo dritto in faccia «Devi credermi! Mi ha attaccata! Guarda questo posto.»

Roth osserva fugace la stanza. Sono certa che, in cuor suo, mi creda anche se non lo ammette.

Torna a guardarmi dopo un po’, è angosciato. «Lili, non c’è nessuno.»

A quel punto sono furiosa. Mi sollevo all’istante incurante del dolore che provo.

«Come diavolo pensi che sia riuscita a fare tutto questo?», grido spalancando le braccia.

Roth ha l’espressione avvilita.

«Dovresti guardare tu stessa le telecamere.» 

 

                                          *****

Poco dopo siamo in una stanza. Ci sono diversi monitor e Roth ne accende un paio invitandomi a sedermi.

Quando manda indietro le riprese della camera 1, posso riconoscermi.

Sono seduta alla mia scrivania e sto dormendo.

Ad un tratto, poi, mi volto e sembra che io stia parlando da sola.

Mi alzo di scatto, protesto. Sono sempre io a lanciarmi di lato per poi risollevarmi da terra.

«Non è possibile…»

Roth è serio mentre fissa i monitor.

«Io sono stata attaccata, devi credermi.», gli dico disperatamente.

Corruccia leggermente la fronte «Lavori troppo, ultimamente. Forse è lo stress.»

Vorrei gridare.

«Non sono stressata, so cosa ho visto!»

Non ho intenzione di ascoltarlo oltre.

Mi sollevo dalla poltrona girevole ed esco in corridoio.

Roth si appresta a spegnere i monitor e, poco dopo, mi segue fuori.

«Qualsiasi cosa sia accaduta, è meglio se nessuno la venga a sapere.», annuncia infilandosi le mani in tasca.

Non so se mi ferisce di più il fatto che pensi sia pazza che non quello relativo al non credermi.

«Sono…D’accordo.», dico arrendevolmente.

E’ terribilmente serio, quasi preoccupato. In questo momento pagherei oro per frugare fra i suoi pensieri.

«Ti aiuto a mettere in ordine l’ufficio, se vuoi.»

Annuisco.

       Per tutto il tempo mantengo fra noi un silenzio quasi rintronante.

Non so cosa dire, ogni parola, al momento, mi sembra superflua. Mi limito perciò a raccogliere i fogli sparsi a terra, mentre osservo Roth risollevare la scrivania e un paio di sedie.

«E questo?».

Ad un tratto, lui stesso spezza il silenzio, sollevando il biglietto che ho trovato sulla mia scrivania prima che tutto accadesse.

«Ecco.», dico speranzosa «E’ partito tutto da quel biglietto.»

Roth lo dispiega stringendolo fra le dita, osservandolo meticolosamente.

«E’ sangue.», affermo «Non me ne sono accorta subito, bisogna guardarlo bene per rendersene conto.»

Adesso che lo dico ad alta voce, mi fa accapponare la pelle ancora di più.

Roth sembra estremamente confuso, poi, all’improvviso, accartoccia il foglio bruscamente.

«Roth! Maledizione, è una prova quella!»

I suoi occhi cristallini mi inchiodano severi «Dimentica quel biglietto.», ordina.

Non capisco, come posso ignorarlo?

«Nessuno ti ucciderà.»

Per un momento temo che lui creda che sono stata sempre io a scrivermi quel biglietto da sola. Sono costretta ad accertarmene.

«Non l’ho scritto io.»

Solleva lo sguardo, nuovamente, di colpo.

«Perciò non lo pensare», proseguo ammonendo il mio.

Roth fa un passo verso di me, non ho il coraggio di guardarlo.

Non so nemmeno cosa esattamente voglia fare e questo mi suscita un fremito fastidioso nel petto.

«Presto sarà tutto finito», mi consola. Poggia il suo mento sulla mia testa, mentre con una mano mi accarezza il viso.

Il suo odore mi riempie i polmoni. Da quando, mi sento così sicura accanto a lui?

«Roth…», non sono certa che ciò che sto per fare sia una buona idea, ma se penso di restare sola un’altra volta sento le lacrime pizzicarmi gli occhi. «Puoi restare con me?»

Lui mozza un sospiro. Lo stupisce così tanto la mia richiesta? 

Sollevo il viso verso il suo, alla ricerca dei suoi occhi verdi, solo quando non lo sento rispondere.

E’ così bello da non sembrare umano.

«Emh, si… Certo.», risponde pacatamente. La sua voce è profonda come poche.

«Grazie.», dico tornando ad affondare la guancia contro il suo petto.

Devo sembrare proprio disperata e, in parte, lo sono davvero.

Ora che c’è lui, però, sento che nessuno tornerà per farmi del male.

                                                  *****

 

«Tieni».

Un’ora dopo, sono davanti alla mia scrivania e Roth è appena apparso accanto a me con una barretta energetica stretta fra le dita. Me la porge e torna a sedersi accanto a me.

«Ti ringrazio», dico scartandola.

«Ti senti meglio?»

Mi sento in balia di onde increspate, alte e pericolose. I pensieri che ho sono cupi e tristi. 

Sta succedendo qualcosa, da giorni, ed io non posso oppormi.

Ho la costante sensazione che tutto mi stia sfuggendo pericolosamente dalle mani.

Mimo di no «Finché non eliminerò quei video, no.»

Roth sfila una barretta dalla tasca e la scarta come ho fatto io un attimo prima, abbandonando la plastica sulla scrivania. L’addenta e ingurgita il boccone. «Ci ho pensato io, sta tranquilla.»

Perché si prende cura di me?

Certo non è il classico modo di prendersi cura di qualcuno, ma è corso qui, ha cancellato i video ed è rimasto con me.

Lo apprezzo.

«Perché?», chiedo, attirandomi un’occhiata confusa.

«Perché ti preoccupi per me?»

In cuor mio, sono ancora certa che lui sia stato nel mio appartamento la notte che ho ceduto alla febbre.

Fa spallucce «Se avessero visto quel video, ti avrebbero licenziata ed io…be’ ho bisogno di qualcuno con cui confrontarmi sul caso, come ben sai.»

Sorrido appena «Già…»

Non credo molto alle sue parole, seppur qualsiasi cosa dica sembra sempre molto convincente.

«Manca solo mezz’ora alla fine del turno.», mi fa notare sporgendosi con la sedia oltre la scrivania.

Gli occhi rivolti al grande orologio agganciato alla parete.

Sospiro «Era ora.»

«Hai bisogno di un passaggio?»

Ho ripreso la mia auto ed è parcheggiata proprio qui fuori, ma l’idea di restare sola proprio non la tollero.

«Volentieri…Se per te non è un problema.»

Fa spallucce nuovamente, l’espressione priva di emozioni «Sono sveglio ormai, non mi crea problemi.»

Mi vergogno leggermente.

«E’ colpa mia, perdonami.», dico sollevandomi impacciatamente dalla sedia, cercando, disperata, il cestino delle cartacce.

Roth sospira un sorriso scrutandomi. Devo sembrare una stupida e lui si deve essere accorto del mio imbarazzo. «Smettila di farti paranoie senza senso.»

Mi piacerebbe starlo a sentire, ma è contro la mia natura.

Arrossisco o penso di averlo fatto.

«E’ che…Cristo, è stato tutto così reale…», sento pizzicarmi di nuovo gli occhi.

Ripenso alle telecamere: come diavolo è potuto accadere? C’era qualcuno con me, io l’ho visto!

«Lili, come ti ripeto, la stanchezza delle volte gioca brutti scherzi. Credimi.»

Stanchezza. Ricordo di aver provato un sonno pesante, attimi prima che il vampiro apparisse. Forse, Roth ha ragione.

Ammonisco lo sguardo, preda dei dubbi.

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Capitolo 5
*** 5. ***


                  La natura umana è così inesplicabile, ciò che divide il bene dal male è un filo talmente sottile, talmente invisibile. Non dissi nulla e pensai che, a volte, quel filo si spezza tra le tue mani mischiando il bene e il male in un mistero che ti smarrisce. 

 


                                                     5.

 

Spalanco gli occhi.

La chiazza, sul soffitto della mia stanza, è sempre più grande. Se mi fermo ad osservarla, proprio come sto facendo ora, sembra che si espanda sempre di più. Certe volte ho l’impressione che mi chiami.

Gli insetti che giacciono attorno ai suoi bordi si sono moltiplicati: tante piccole larve scure aspettano pazientemente solo di dispiegare le ali.

Tossisco pesantemente e la gola mi stride.

Da qualche giorno ho incominciato ad accusare una fastidiosa bronchite.

Più passa il tempo, più mi sento debole. E’ così strano.

Volto la guancia sul cuscino. Stanotte ho fatto degli incubi terribili.

Fiamme.

Grida.

Se chiudo gli occhi, posso vedere un corpo mutilato e sono costretta a spalancarli con forza.

Questo posto è l’inferno ed io ci sto affogando dentro.

Attorno a me, sparse in cerchio, le foto delle vittime. Più le osservo, più sento le loro voci: gridano, chiedono aiuto, pietà.

Mi sollevo con il gomito e ne raccolgo una.

Susanna Betfiel. Una donna sui trent’anni. E’ la prima vittima del vampiro; quella che hanno ritrovato nella stanza di motel.

Ho il suo fascicolo davanti, lo apro. Ci sono diverse foto scattate dai Ris. La stanza, il sangue. Il materasso ne è ricoperto.

Cosa mi sta sfuggendo?

Dispiego a ventaglio le foto, con le dita. C’è qualcosa che ha catturato la mia attenzione. Fuori dalla finestra, in un’inquadratura che non ritrae la vittima bensì l’intera stanza, c’è un’auto.

Un’utilitaria bianca la cui targa è poco visibile.

Non ci avrei nemmeno fatto caso se non l’avessi già vista.

Mi sollevo del tutto colta da una folgorazione: quell’auto è presente su ogni scena del delitto.

La vedo parcheggiata a qualche metro di distanza dal lago. Oltre il guard rail quando Amanda Bristol è stata ritrovata in spiaggia. E’ ovunque.

«Maledizione!»

Non c’è tempo da perdere. Quell’auto, sono certa, è dell’assassino.

 

                                          ******

Dipartimento di polizia, ore 18.

«Capitano, Kook’s.» L’uomo sta camminando lungo il corridoio con una cartellina nocciola stretta fra le dita. Non si accorge subito di me alle sue spalle e devo ripetermi prima di riuscire ad attirare la sua attenzione.

Si volta distrattamente «Ah, Bennet…Sei ancora qui?»

Annuisco.

«Deve vedere una cosa.», affermo.

Lui mi scruta confuso, aggrottando leggermente la fronte.

Ma un attimo dopo, «Seguimi nel mio ufficio», mi fa strada verso una stanza accanto alla porta di vetro dell’ufficio di Armstrong.

Entriamo e mi accomodo a sedere dall’altro lato della sua scrivania.

«Ecco, guardi queste foto…», le spargo sulla sua scrivania.

Kook’s sembra incerto.

«Sono le foto delle vittime, e quindi?».

«Guardi attentamente.». Non perdo tempo e gli indico con la punta delle dita la vettura. «E’ presente su ogni scena del crimine,» affermo «Sa chi è il proprietario? Qualcuno se n'è mai accorto, prima di me?»

A quel punto, il viso del sergente Kook’s si irradia di fastidio.

«No, nessuno ha dato importanza a quello che c’era attorno alla scena del crimine.», afferma masticando con rabbia le parole.

Poi, aggiunge «E’ assurdo che nessuno l’abbia fatto.»

Un’ ammissione più a sé stesso che a me.

«Sono convinta che quell’auto sia del killer.», dico con una certa sicurezza.

Kook’s raccoglie le foto, mantenendole davanti a sé come le carte in una mano di poker.

«La targa è incomprensibile.»

«Già.»

Storce un labbro e si pettina i baffi rossastri, sembra stia riflettendo.

«Serafiris è stato messo al corrente?». Mi chiede.

«Non l’ho ancora incontrato.»

Possibile che Roth non si sia accorto di questo dettaglio? 

«Fagli presente che c’è una vettura sospetta e divulghiamo un mandato per ispezionare tutte le vetture di proprietà, nella zona.», ordina.

Annuisco.

Raccolgo le foto, sto per alzarmi; «Bennet…» quando Kook’s torna a parlare.

«Voglio che questa sera il detective Serafiris e tu siate di pattuglia.»

Sono sorpresa. Fino ad ora non mi ha mai lasciato partecipare a nessun pattugliamento notturno. 

«Certo, va bene», mormoro ancora incredula.

Il sergente apre un cassetto e tira fuori un distintivo luccicante, una ricetrasmittente e per finire una pistola.

Il ferro scuro brilla nei miei occhi, non ne vedevo una da così vicino da molto più tempo di quanto non credessi.

«Questi sono tuoi.», afferma. Mi muovo per raccoglierli, ma quando allungo la mano, lui la intercetta «Se perdi il distintivo, rompi la ricetrasmittente o se spari senza che ti sia dato l’ordine, non solo riconsegnerai tutto alla centrale ma sarai anche licenziata in tronco.» Il tono aspro della sua voce mi indispettisce, ma non dico una parola. Mi limito a mimare un sì, affermativo e quando lui mi lascia andare la mano, finalmente, raccolgo quanto mi è stato dato.

                                          *******

 

Manca poco, mi dico osservando l’orologio sulla parete dell’ufficio. Poco meno di mezz’ora e dovrò passare tutta la notte in auto con Roth. C’è una parte di me che al sol pensiero piomba in un baratro d’angoscia.

Roth ha quell’alone di mistero attorno che mi spiazza e non si tratta solo di fastidio riferito ai suoi atteggiamenti, c’è qualcosa in lui che fa paura.

Allo stesso tempo, però, se ripenso a me, spaventata, stretta fra le sue braccia, una sorta di calma mi travolge.

Lui è tutto ciò che mi tiene in allerta e anche ciò che mi placa.

«Sei di pattuglia?», la voce sorpresa di Maggie mi arriva dritta alle spalle. Le sorrido sollevando il distintivo appeso al mio collo.

«Già! Non mi sembra vero.»

«Wow, Kook’s deve essere di luna buona!»

Rido. «Francamente, non so se lo sia…Ma finalmente ho il ruolo che mi spetta.»

E sono felice di questo.

«Mi raccomando, fa attenzione», Maggie mi sorride quasi maternamente. E’ assurdo, una ragazza così dolce ed espressiva non dovrebbe lavorare in un dipartimento di polizia con gente del genere.

«Si, sta tranquilla.» Sta per uscire dalla stanza, quando si volta e torna a sorridermi.

«Se vuoi, qualche volta, potremmo andarci a prendere qualcosa da bere…si, magari come amiche-», è arrossita e quando nota dello stupore sul mio viso si corregge «o come colleghe.»

E’ gentile e forse è stata l’unica ad esserlo con me da quando sono qui.

«Ma certo.»Le dico, ricambiando con un sorriso affettuoso.

Proprio in quel momento, Roth entra nell’ufficio. Maggie alza appena lo sguardo nella sua direzione e poi, qualcosa la spinge a salutare rapidamente, dileguandosi lungo il corridoio.

Lui ha l’espressione terribilmente seria e impenetrabile.

«Sei arrivato», dico sollevandomi dalla scrivania.

«Siamo di pattuglia, quindi...»

Accenno un sorriso settico e stirato «Già…Kook’s ha deciso di trattarmi da detective finalmente.»

Raccolgo le mie cose e mi dirigo verso di lui.

«Non mi farei troppe illusioni, fossi in te.»

Acido come sempre, si infila una mano fra i capelli e sbadiglia.

Gli lancio un’occhiata eloquente prima di sorpassarlo.

 

                                             *****

Ore 22.30

 

Siamo in auto da un po’. La strada è deserta, illuminata solo dai lampioni gialli e le poche insegne di locali che stanno per chiudere. Da pochi giorni è stata emessa un’ordinanza che prevede un coprifuoco. Non so esattamente perché l’abbiano deciso solo ora, ma la trovo un’ottima idea.

Certo, del vampiro, attualmente, non c’è traccia ma non per questo bisogna rilassarsi.

Avvolti dal buio della notte e da una fastidiosa pioggerellina, Roth ed io ce ne stiamo rintanati in auto in silenzio.

Lui non è mai stato un tipo di tante parole e questo lo so, ma il silenzio calato sulle nostre teste sta rendendo l’aria irrespirabile. Per questo decido di parlare.

«Guarda qui.», dico porgendogli le foto scattate dai Ris.

Roth lascia che io gliele passi e le fissa.

«Sono le vittime.»

Si, questo lo so anche io.

Senza pronunciarmi, indico l’auto bianca che compare assiduamente in tutte le foto.

Le sopracciglia gli fanno un balzo. 

Sorrido fiera.

«Pensi che…»

Annuisco. «E’ l’auto del killer, ne sono più che certa.»

Si passa una mano sul viso e inaspettatamente, sulla sua bocca compare un sorriso leggero e vittorioso.

«Non posso crederci, come abbiamo fatto a non accorgercene prima?»

Faccio spallucce. «Una svista, forse.»

Per un attimo fissa le foto senza spegnere il sorriso e poi me.

«Devo farti i complimenti.», dice riempiendomi il petto.

Mi mordo un labbro. Forse è stupido, ma sentire una simile affermazione da lui mi convince che sono molto meglio di ciò che penso di me stessa.

Mi muovo sul sedile intrecciando una gamba sotto il mio fondoschiena. Quasi totalmente voltata verso di lui, scruto le foto «Adesso dobbiamo solo capire di chi sia.»

Roth sta per rispondere qualcosa, quando le nostre ricetrasmittenti ragliano.

Ci zittiamo di colpo.

«Qui centrale.», dice una donna, «Abbiamo un dieci cinquantasei a Vegar street.»

Roth solleva lo sguardo verso me «Non vorrai…»

Prima che dica altro, sollevo la radio e pigio il pulsante «Qui Bennet, ce ne occupiamo noi.»

Roth affloscia le spalle e sospira avvilito «Una lite domestica? Davvero?»

C’è qualcosa che mi scalpita nel petto: è come se avessi l’indubbia certezza che qualcuno sia in pericolo. Una forza prepotente mi spinge a scavare nelle mie sensazioni.

«Chiamalo sesto senso.»

Sbuffa un sorriso.

«Sesto senso…», ripete mettendo in modo.

 A pochi isolati da dove eravamo parcheggiati, un palazzo vecchio e spoglio appare imponente davanti a noi.

A precedere le scale, un cancelletto di ferro.

Roth ferma l’auto in procinto del marciapiede.

Fuori, adesso, piove leggermente di più.

Scendiamo e scopro che non c’è un gancio a serrare l’ingresso. Sposto l’anta scura e avanzo verso la breve scalinata.

«Polizia, aprite!», dico.

Roth storce le labbra «Così non ti apriranno mai.» fa un passo avanti e bussa di nuovo «Lascia fare a me.», mi ammonisce. Voglio ribattere qualcosa, ma non trovo le parole.

«Siamo gli agenti Bennet e Serafiris, vogliamo farvi solo qualche domanda.»

A quel punto non ci resta che attendere una risposta che, inaspettatamente, non tarda ad arrivare.

«Chi vi ha chiamati?», la voce è maschile e ci arriva da dietro l’anta della porta.

«Una vicina.», mente Roth.

Dopo qualche istante, appare dietro l’anta, un uomo dall’aria apparentemente poco calma.

Ha il viso arrossato e arrossate sono anche le sclere dei suoi occhi.

Indossa una canottiera bianca con tante macchie diverse impastate sopra.

A vederlo sembra un mezzo naziskin. Alcuni tatuaggi gli macchiano le spalle, svastiche e simboli di cui ignoro il significato. Già lo odio.

Non guarda Roth in faccia e da come parla sembra sotto effetto di qualche sostanza stupefacente. Respira affannosamente e la fronte imperlata di sudore mi convince del fatto che abbia assunto qualcosa.

«Va tutto bene, agente. Può tornare al suo lavoro.», borbotta.

Sta per chiudere nuovamente la porta, quando Roth blocca l’anta con l’avambraccio.

«C’è qualcuno in casa con te?»

L’uomo in questione è visibilmente a disagio. Annuisce in fretta e risponde «Mia moglie.»

Roth sospira «Mi trovo costretto a chiederti di farmi entrare, devo vederla.»

«Come le ho detto,» tossisce «mia moglie sta bene.»

Non riesce a star fermo sul posto, noto che i piedi fremono per spostarsi dall’uscio di casa. Una sorta di fretta o qualcosa di molto simile lo sta scuotendo.

«Come ti ho detto, devo vederla.», insiste Roth.

I due si fissano dritti in faccia per qualche istante, poi, l’uomo si convince a lasciarci passare.

«Ti chiami Carlos De Fuentes?», gli chiedo mentre attraversiamo un corridoio buio e puzzolente.

«Si.», conferma lui.

«Ecco, vedete?» Sorpassiamo un mucchio di spazzatura abbandonata a terra e al centro di una stanza terribilmente sporca e in disordine, troviamo sua moglie seduta sul divano. Trema e mantiene la testa bassa come se fosse terribilmente spaventata. E so esattamente chi e cosa la spaventa.

Roth ed io ci guardiamo attorno. A terra ci sono crocchette per cani sparse persino sotto i mobili. Qualche barattolo di tonno in scatola che emana un tanfo di avariato terribile e giornali sparsi ovunque.

Persino le finestre sono ricoperte di fogli.

«Sembra la casa degli orrori», mormoro.

Sono sconvolta, non credevo che si potesse vivere in un modo simile.

Mentre Roth fa domande di routine all’uomo e cerca di far parlare la donna, mi accorgo che da una parte, in un punto lontano della stanza, sul pavimento, ci sono segni di profondi graffi incisi nel parquet.

Non ho visto nessun cane, per quanto, l’intera stanza è cosparsa di cibo per animali, il ché mi trova confusa.

«Sta bene?»

Mi volto verso Roth. E’ chino all’altezza della donna e cerca di convincerla a sollevare lo sguardo.

Lei annuisce, ma non è abbastanza convincente.

«Ha detto che sta bene.», proferisce il marito visibilmente nervoso.

Decido che una voce femminile può essere di maggior conforto e raggiungo la donna.

«Ehi, va tutto bene.», le dico. Provo ad allungare una mano verso la sua spalla, ma lei fa uno scatto di lato.

E’ chiaramente vittima di abusi.

Quando alza lo sguardo, il suo viso è tumefatto. I lividi le vanno dal collo fino alle guance. Ha gli zigomi gonfi e neri e penso che lo stronzo del marito le abbia fatto scoppiare i capillari di un occhio con un pugno.

«Sta bene, eh?», mormora Roth scrutando in tralice il naziskin. 

«E’ stato lui!», grida improvvisamente la donna in lacrime.

«Sta zitta!»

«Certe volte è così violento che penso “mi ucciderà”.»

«Sta zitta, puttana!»

Non ci sono più dubbi ormai.

Roth sfila dalla tasca un paio di manette e fa un passo verso l’uomo.

«Carlos de Fuente, ti dichiaro in arresto per…»

«Mamma?». La voce di una bambina ci distrae involontariamente. E’ la figlia della coppia e persino lei sembra avere lividi sparsi qua e là sulle braccia.

Ci voltiamo. E’ il momento giusto: Carlos spinge via Roth facendolo barcollare all’indietro e nella sua furia trascina contro il pavimento sia me che sua figlia.

«Sta scappando, dannazione!»

Roth non perde tempo e si lancia in una corsa folle dietro l’uomo.

«Lo prenderemo.» Rimasta sola con la donna e sua figlia, che gli è appena corsa fra le braccia, non posso far altro che tentare di consolarle.

 

                                              *****

Commissariato ore 00:30

 

«Non ha nessuna intenzione di parlare.», afferma Roth, sconfitto, passandosi una mano fra i ricci ebano.

L’uomo giace seduto dietro il vetro della sala per gli interrogatori. Sembra fissare il vuoto, con le mani strette dietro la schiena e le manette ai polsi.

Lo fisso. 

«Picchiava persino sua figlia, meriterebbe la pena di morte.», ringhio con ferocia.

«Già.»

Il ribrezzo e la rabbia furente che provo mi stanno divorando. Vorrei cavargli gli occhi.

«Figlio di puttana.», mi lascio trascinare dal vortice di sentimenti oscuri che provo e abbasso di colpo la maniglia.

«Bennet, che stai facendo?» Mi chiede Roth sorpreso.

«Voglio fargli qualche domanda.»

Roth mi scruta dritto in faccia. Leggo un velo di preoccupazione nei suoi occhi, ma sparisce in fretta.

Il suono meccanico della porta suona nell’esatto istante in cui separo l’anta dal muro.

Carlos solleva lo sguardo venefico verso di me.

«Una puttana. Una puttana. Una puttana.», sibila convulsamente dondolandosi sulla sedia.

Sposto la sedia e mi piazzo davanti a lui.

C’è qualcosa di sinistro nei suoi occhi.

Continua a ripetere frasi sconnesse e la parola puttana, alternando risatine diaboliche e versi strani.

«Hai assunto droghe, Carlos?», gli domando serafica.

Sghignazza.

«Non parlo con le puttane.» 

Devo mantenere la calma.

«Ti piaceva così tanto picchiarle? Eh?! Tua figlia ha solo otto anni!»

Lo vedo sghignazzare, sinistro, ancora una volta. Le manette alle sue spalle ticchettano ferruginose contro la sedia

«Una puttana. Una puttana. Una puttana.»

Non ho idea di che droga abbia assunto, ma le sue vene sono increspate e scure. I suoi occhi iniettati di sangue sporgono dai lobi. C’è qualcosa di tremendamente inquietante in lui e gli aleggia sul viso.

«Rispondi!», grido sbattendo un pugno sul tavolo che ci divide.

E’ solo a quel punto che sporge, di colpo, mezzo busto verso di me.

Lo sguardo assottigliato, ridotto a due fessure, ricorda quello di un serpente.

«Lui ti troverà.». Sento un sibilo provenire dal più profondo della sua gola e schiuma bianca gli gocciola dalle labbra.

Tiro le spalle indietro. Temo di avere gli occhi sbarrati, ciò che ha detto mi ha scosso.

Ride sguaiato «E’ arrivato l’empio», cantilena «e all’inferno ti porterà.»

«E’ arrivato l’empio» canta di nuovo «e all’inferno ti porterà. Elisabeth Bennet.» Balzo in piedi quando marca il mio nome.

«Come fai a sapere il mio nome?», mi trema la voce.

Carlos ride ancora, di gusto.

«E’ arrivato l’empio. E’ arrivato…E’ arrivato.», mormora sempre più a bassa voce. Ho come l’impressione che qualcosa mi sia appena esploso dentro la testa e un dolore lancinante mi fa stringere i denti. La risata malefica di quell’uomo mi frusta le orecchie.

Mi fiondo sulla porta e ci sparisco dietro sbattendomela alle spalle.

Ho il cuore in gola. 

Nonostante ci sia una parete di vetro che non consente la visuale all’esterno della stanza, Carlos continua a fissare nella mia direzione ghignando con l’espressione diabolica, folle, stampata in faccia.

«Chi gli ha detto come mi chiamo?», chiedo impaurita a Roth.

«Lo avrà sentito da me quando abbiamo fatto irruzione in casa sua.», dice liquidando la cosa con un’alzata di spalle.

Scuoto la testa «Non hai detto il mio nome.»

Roth sembra più confuso di me «Magari l’hai detto davanti a sua moglie e non lo ricordi…Dai, avanti, è strafatto di qualcosa non puoi lasciarti intimorire da lui.»

Eppure io so cosa ho sentito. Quelle parole non erano di un tossico qualsiasi. 

L’empio è arrivato.

A cosa si riferisce?

«Hai bisogno di prendere aria.» Ad un tratto, è di nuovo la voce di Roth ad attirare la mia attenzione.

«Si…Meglio di si.»

 

                                           ******

L’aria gelida della notte mi graffia le guance, nonostante ciò, non vorrei essere da nessun’altra parte in questo momento.

Il cielo è colmo di nuvole ma non piove più.

Mi avvolgo le braccia attorno alle spalle e lo fisso mentre i pensieri vagano sfiorando confini che mai, prima d’ora, avevano valicato.

«Bevi.» Roth mi appare accanto con un bicchiere di plastica colmo di tè caldo. «Ti farà bene.»

Lo afferro, sforzandomi di sorridere. C’è un momento di silenzio, poi qualcosa mi spinge a parlare.

«Sai perché ho scelto di fare questo lavoro, Roth?»

Non lo guardo. Non so nemmeno perché mi è venuto in mente di aprirmi con lui.

«Molto tempo fa, è successa una cosa che mi ha segnato nel profondo.»

Roth si accomoda su una panchina alle mie spalle e resta in silenzio.

Posso sentire il suo sguardo addosso.

«Ero appena entrata in accademia, la mia vita sembrava essere perfetta. Studiavo, avevo un ragazzo, vivevo a casa con i miei genitori a cui non avrei mai potuto chiedere più amore di quanto non me ne abbiano dato. Poi, un giorno, di ritorno da una serata con gli amici, arrivata davanti casa, mi sono accorta che non c’era mia madre ad aspettarmi sveglia bensì mio padre in lacrime e una pattuglia della polizia.» Abbasso lo sguardo all’interno del bicchiere. Il ricordo è doloroso e mi spacca il petto.

«C’era stato un incidente. Un pirata della strada l’aveva travolta mentre era di ritorno da lavoro.» Per un momento ho il viso sorridente di mia madre davanti agli occhi. Mi manca così tanto.

«Qualcuno l’aveva messa sotto senza neanche prestare soccorso, capisci? A trovarla era stato un camionista molte ore dopo. Lei era già morta, ovviamente.», racconto amaramente «Se solo quell’uomo si fosse fermato, mia madre, forse, sarebbe ancora viva.»

«Immagino che non è mai stato arrestato.», mi dice.

Annuisco con rabbia «E’ per questo che voglio diventare una detective. Perché certi gesti malvagi non possono restare impuniti.

«Volevo bene a mia madre, era tutto per me e quella persona me l’ha portata via.»

Sento che sto per piangere, ma non voglio. Mi dico sempre che devo essere più forte di così, più forte del dolore che sento, anche quando lui mi strappa il fiato.

Roth sospira alle mie spalle. Non so esattamente quale potrebbe essere la sua espressione, ma d’un tratto lo sento alzarsi dalla panchina. La sua mano mi sfiora la spalla e non so dire, esattamente, che effetto mi fa.

Ci poggio sopra la mia.

«Certe volte, penso di non farcela.»

«Ma ce la fai.»

Sorrido. 

«Già. E’ per questo che, quando ho sentito il messaggio alla radio, non ci ho pensato due volte. Dovevo proteggere quella donna e sua figlia.»

Sposto lo sguardo verso il suo profilo, sto sorridendo appena. «E’ il mio sesto senso. Sapevo che qualcuno era in pericolo e non potevo ignorarlo.», mormoro con una scrollata di spalle attirandomi un sorriso complice da lui. Roth mi guarda un attimo prima di distogliere lo sguardo. «Ti capita spesso? Di avvertire un pericolo, intendo.»

Onestamente non lo so. Non me lo sono mai chiesta.

«Delle volte, non sempre.»

Roth sospira, mentre i suoi occhi verdi viaggiano in fondo al parcheggio, lì dove fronde di alcuni alberi danzano colpiti dal vento. Chissà quali pensieri, la sua mente sta sfiorando…

«Sei una persona buona, Lili.»

Sono sbigottita. Mai avrei potuto immaginare un’affermazione simile da lui.

Sono leggermente imbarazzata «O una povera stupida che spera di fermare il male del mondo.», rido.

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Capitolo 6
*** 6. ***


Alla fine, desidero solo le cose che mi distruggeranno.



 

                                             6.


Roth ed io, di servizio in centrale, stiamo vagliando alcune riprese delle telecamere nella zona dove sono avvenuti gli ultimi omicidi, quando Kook’s piomba nella stanza dei monitor.

Con la sua solita sgarbatezza ci avverte che sta succedendo qualcosa nei pressi dello zoo e vuole noi due sul caso.

Ci affrettiamo a seguirlo lungo il corridoio. 

«Cosa è successo allo zoo?», gli chiedo mentre fatico a tenergli il passo.

«Pare che una pazza abbia buttato sua figlia nella gabbia dei leoni.», avverte.

Sento nuovamente la strana sensazione di pericolo imminente nel petto.

«Stanno impazzendo tutti in questa città, ultimamente.», commenta prima di svoltare l’angolo.

«Non ci sono già le pattuglie sul posto?»

Kook’s scruta sottecchi Roth «Certo, ma pare che serviate anche voi», fa una breve pausa e si volta a guardarci «Che fate ancora qui?», chiede bruscamente.

Roth sbuffa leggermente dal naso. 

«Stiamo andando», mi affretto a dire.

 

«Il tuo sesto senso?», mi chiede solo quando stiamo per raggiungere l’uscita della centrale.

Annuisco e gli sorrido fugace.

 

                                                ******

 

E’ sera. Il cielo è già scuro e nuvoloso ma non piove, stranamente. Davanti al cancello principale dello zoo una folla di curiosi si è appena accalcata per cercare di sbirciare l’interno del parco.

«Permesso», faccio fatica a passare fra di loro. Sbracciando mi faccio largo, Roth dietro di me.

Ci sono un paio di agenti accanto alla recinzione che separa noi da tre grossi leoni. Sono chiusi dentro alcune cabine e ruggiscono affamati.

«Cosa è successo?», chiedo ad una donna in divisa da poliziotta.

«Sembra che una pazza abbia gettato sua figlia dentro la gabbia. La bambina sta bene, anche se ha riportato un lieve trauma cranico, la donna invece pare si sia dileguata nel nulla.», fa una breve pausa «Inoltre, per tutto il parco è saltata la luce al momento dell’accaduto, quindi per noi è stato più difficile metterci sulle sue tracce.»

«E per questo…avete chiamato noi…»

Anche la poliziotta sembra incredula.

«Sono sorpresa quanto te, ragazzina.»

«Che pensi di fare?» Sussurra Roth affiancandomi.

«Do un’occhiata in giro.», non lo guardo. I miei occhi sono concentrati ai tre leoni.

«Sei certa che quella donna si nasconda ancora qui?»

A quel punto sposto lo sguardo su di lui «No, ma è il primo posto dove la cercherei.»

Nessuno ha visto la donna allontanarsi, solo qualche passante ammette di aver avuto una colluttazione con lei subito dopo che, la stessa, ha lanciato la bambina nella gabbia dei leoni e subito prima che le luci saltassero per tutto lo zoo.

Qualcosa mi dice che non è lontana.

«Ok, sei apposto», dice la poliziotta porgendomi un binocolo a raggi infrarossi.

Un giubbotto antiproiettile mi fascia il petto e stringe attorno al seno. La ricetrasmittente è accesa e viaggia sulla stazione della polizia.

Sono elettrizzata e una parte di me è preda dell’ansia.

Immerse nel buio le gabbie degli animali sembrano ospitare le bestie più disparate.

Mi addentro nel parco.

Stringo una mano sulla pistola riposta nella fondina. Spero che non ci sia il bisogno di usarla, non credo di essere pronta.

«Lili», mi volto. Roth è dietro di me. 

«Non andare da sola.»

Sembra preoccupato... No, lui non lo è mai veramente.

«Preferisco che tu resti con gli altri agenti. In caso lei sbuchi da qualche parte verso l’ingresso.»

Roth non aggiunge altro e mi lascia libera di scegliere. Proseguo, ovviamente.

Man mano che avanzo, il buio mi inghiotte.

Fronde di alberi esotici mi solleticano la testa, mentre avanzo sul terriccio.

Sollevo il binocolo e ci guardo all’interno: c’è una gabbia che mantiene in sicurezza alcune scimmie; sono agitate.

Un grosso esemplare maschio continua a battersi i pugni sul petto mentre tuona con i suoi versi; e anche poco dopo, nella gabbia delle zebre, la scena sembra ripetersi. Sento rumori di ogni genere spezzare il silenzio del buio. Gli animali sembrano impazziti. E’ come se una presenza li stesse molestando, infastidendo, spaventando.

Sto per fare un altro passo, quando inciampo su qualcosa.

Ingoio un urlo e finisco con le ginocchia a terra. Il binocolo ruzzola a qualche metro da me ed ora sono totalmente cieca.

C’è però qualcosa di viscido e freddo che mi solletica i polsi.

Un sibilo che so di conoscere raggiunge le mie orecchie.

In fretta sfilo la torcia dalla cinta e l’accendo. Un grosso serpente nero si avviluppa sulla terra, strisciando e sibilando attorno ai miei polsi e sulle mie mani.

Mi ritraggo di colpo. Sento il sibilo farsi sempre più forte e sdoppiarsi, ad un certo punto. Quando mi guardo attorno, il bagliore della torcia illumina tanti altri esemplari. Qualcuno ha aperto la loro teca, ce ne sono a decine attorno a me.

Spaventata mi muovo all’indietro incespicando sulla terra.

Ho il cuore che mi pulsa nelle tempie per lo spavento.

«Cazzo!», impreco ripetendomi che sono solo animali.

Ancora lievemente scossa, recupero il binocolo.

Lo zoo, di notte, privo di luci, ha un aspetto spettrale.

Certa di dover proseguire, mi addentro sempre più nella foschia del buio. Più avanzo, però, più un’asfissiante sensazione di caldo sembra divampare dentro me.

So di averla già provata. Tutto ciò che sento da giorni è qualcosa di già conosciuto. Sento le gambe farsi sempre più pesanti e la sensazione di qualcosa di molto malvagio che si avvicina sempre di più.

«Elisabeth…»

«Chi c’è?», chiedo a voce alta.

Ad un tratto, il fruscio del vento muove le fronde di un albero. Mi volto di scatto. Non c’è nulla attorno a me se non il buio e l’ululato di un lupo chiuso in gabbia.

Quando gli passo accanto ringhia mostrando le fauci.

L’aria pesante si fa sempre più difficile da respirare e, inaspettatamente, vengo colta da un tanfo insopportabile.

Marcio, morte, putridizia.

Sono al centro del parco, sola, immersa nell’oscurità e alle mie spalle si è appena mosso un cespuglio.

Mi volto e punto il binocolo proprio nella direzione delle copiose foglie che ho sentito frusciare.

C’è qualcosa chino dietro di esse.

Con il cuore in gola mi porto le mani in tasca ed estraggo le manette.

«Ti vedo, esci fuori!»

Il cespuglio si muove ancora. Sono ad un passo da lui. Deglutisco a vuoto, pronta a sporgermi per guardarci dietro.

Uno…Due…«Tre!».

Il musetto di un tasso si solleva da terra scrutandomi con i suoi piccoli occhi tondi.

Sospiro, consolata dal fatto che sia solo un animale.

«Ehi…», voglio accarezzarlo e mi chino, ma non appena nota la mia mano avvicinarsi alla sua testa si dà alla fuga.

«No, non-» Appena mi volto, convinta di riuscire a seguirlo, davanti alle lenti del binocolo si piazza il viso di una donna.

E’ fuori di sé e di colpo, ringhia. Un suono gutturale, non umano.

Sommetto un grido incespicando all’indietro.

Lei, con un balzo degno di un felino, scatta verso la boscaglia e corre gettandosi fra le piante.

Afferro la ricetrasmittente e pigio il pulsante. Conosco quella donna e sono scioccata «Roth, è qui. L’ho trovata.», dico serafica, prima di lanciarmi in una corsa sfrenata verso di lei. Affrontando i cespugli, sbuco in quello che sembra uno spiazzo libero.

La trovo china sulle ginocchia in mezzo al fango. Una grossa pietra esce dalla terra proprio davanti a lei che, con ferocia inaudita, la graffia e ci scava sopra fino a ferirsi le dita.

«Signora De Fuentes…», mormoro.

La donna ruota la testa verso me in uno scatto innaturale. Mi fissa e poi sibila esattamente come i serpenti in cui mi sono imbattuta solo un attimo prima.

«Lui è arrivato e ci porterà tutti all’inferno», dice con una voce che non è la sua, roca e gutturale; prima di tornare a grattare convulsamente la terra.

«Lui è arrivato. E’ arrivato…», singhiozza in preda al terrore

«E’ qui» e poi ride come una pazza.

Faccio un passo indietro, sono spaventata. 

«Lili», quando sento una mano dietro la mia schiena, mi volto di scatto terrorizzata. Roth e alcuni agenti sono sopraggiunti senza che me ne accorgessi e lui è dietro di me che mi fissa leggermente confuso.

«Roth», dico. Vederlo mi fa sentire sollevata.

 

                                              *****

 

«I proprietari dello zoo vi faranno avere le riprese delle telecamere in serata.», ci avverte la stessa poliziotta che avevo trovato all’ingresso del parco.

«La ringrazio.»

Roth non si è staccato da me nemmeno per un attimo ed io non ho fatto nulla per allontanarmi dalle sue braccia o dalle mani che ora mantiene sulle mie spalle.

«E’ stata una serata pesante.»

«Concordo.»

Sono ancora frastornata. La donna che ha lanciato sua figlia nella gabbia dei leoni è la stessa che solo pochi giorni fa avevamo salvato dai pestaggi di un marito violento.

Ricordavo di averla vista in atteggiamenti materni ed affettuosi con sua figlia, come aveva potuto farle una cosa simile?

«Lui è arrivato e ci porterà tutti all’inferno.»

Ha bofonchiato in preda a quello che mi sembra un raptus di follia. Ma che voleva dire? Chi è arrivato? Mi sono sentita esattamente come quando ho interrogato suo marito: davanti al male in persona.

«Che ne dici di fare un giro prima di tornare in centrale?».

Guardo oltre la mia fronte e trovo gli occhi verdi del ragazzo. 

«Si, ho bisogno di rilassare i nervi.»

   Roth mi accompagna alla macchina e una volta messo in moto sterza verso il centro della strada.

Dopo qualche rotatoria e superate un paio di parallele, ci ritroviamo a vagare senza una meta precisa, in silenzio.

Mantiene lo sguardo cristallino fisso sulla strada. Nonostante quanto successo questa sera, sul suo viso aleggia una calma innaturale.

Come fa a non scomporsi mai? Mi chiedo mentre mi perdo a scrutare il suo profilo perfetto.

Mentre i pensieri vagano liberi nella mia testa, ammetto a me stessa che se non ci fosse lui con me, sarei persa.

E’ l’unico legame che ho in questo posto e se non riesco a trattenerlo, rischio di restare veramente sola e preda degli eventi.

«Come va?», domanda di colpo.

Rinsavisco, la voce nella mia testa fa presto a sparire.

«Bene…Credo.» Torno dritta sul sedile e finisco con gli occhi al di là del parabrezza, sulla strada che corre sotto le ruote dell’auto.

«Sei stata coraggiosa.»

Sorrido debolmente.

«In verità me la stavo facendo sotto per la paura», ammetto con un pizzico di vergogna, attirandomi una breve risata da parte sua.

«Hai eseguito due arresti in una settimana, è da pochi.»

«Il primo lo hai portato a termine tu.», gli faccio notare.

Mi scruta con la coda dell’occhio senza spegnere il magnifico sorriso che gli marca le labbra «Senza il tuo “sesto senso”, però, non sarebbe successo.»

Sospiro guardando altrove. «A volte, spero che sparisca. E’ come se riuscissi sempre ad attirare tutto il male del mondo su di me.»

A quell’affermazione ho come l’impressione di averlo sentito strozzare un respiro. Mi volto incuriosita verso di lui ma è lì che guarda la strada senza dire una parola.

Quando penso che mi stia per dare della pazza, i suoi lineamenti si rilassano «Sono certo che tu riesca ad attirare anche le cose belle della vita.»

«Mi piacerebbe crederlo.»

Ad un tratto accosta l’auto in procinto di una piazzola di sosta. Attende un momento e poi parla di nuovo «Lili»

Sono totalmente rapita dalla sua voce, da lui, ha tutta la mia attenzione. Troppa, se considero che non c’è nulla a legarci se non delle morti brutali.

Non siamo amici. Non siamo nulla.

E allora perché penso di poter sentire il battito del suo cuore?

Perché desidero nutrirmi del suo odore? Del suo sguardo?

Perché mi fido così ciecamente di lui?

«Dimmi una cosa che ti piacerebbe avere in questo momento.»

«Una cosa che mi piacerebbe…avere?»

Annuisce lentamente «Si, qualsiasi cosa.»

Accenno un sorrisetto strafottente «E cosa farai? Me la procurerai tu? E sentiamo, come?». 

Aggrotta la fronte.

Incrocio le braccia al petto: mi prende in giro. Lo odio.

«Sto dicendo seriamente. Non deve essere necessariamente un oggetto o una persona, ma anche un momento…Qualsiasi cosa.»

Non ha senso tutto questo.

«Non lo so, Roth.»

Sospira spazientito. «Impegnati.»

Davvero, anche se provo a concentrarmi non c’è nulla che vorrei davvero adesso, forse trovare il killer o forse, nemmeno quello voglio più, realmente.

Sono confusa.

I suoi occhi voraci sono incollati al mio viso che sento accaldato.

Di colpo mi sembra che in quest’auto ci sia poco ossigeno.

«Vorrei dimenticarmi per un attimo tutto questo…», mi arrendo infine «Vorrei…», seguo il flusso dei miei pensieri «Essere da qualche parte, lontano mille miglia da qui.»

Mi sento così stanca e sopraffatta dagli eventi.

Vivo preda di ciò che mi circonda, barcollando sulla paura, preda dell’incertezza, scoraggiata dal male. Sono così risucchiata da tutto questo…

«Chiudi gli occhi, Lili», Roth mi fa adagiare contro il sedile delicatamente.

«Fidati di me.»

Non sto capendo molto. Sono intorpidita dalle sensazioni che provo e mi accorgo che la sua voce è sempre più lontana e la sua immagine sempre meno nitida. Ho sonno. Molto sonno.

«Sei al sicuro…»

Quando apro gli occhi la gola scura di un bosco appare davanti a me e invitante, mi chiama al suo interno.

Mentre avanzo, d’improvviso vengo colpita da una strana iridescenza, un sottile brillio che mi invita a voltarmi nella sua direzione. Stringo gli occhi per provare a capire di cosa di tratta e la riconosco: è una lucciola! Sorrido incantata come una bambina, e mi avvicino per osservarla meglio. La luminosa creaturina però si inoltra nel bosco, sfuggendomi.

Incerta, mi fermo accanto ad un albero dalla corteccia spessa e friabile al tempo stesso. So che non è consigliabile addentrarsi in un posto simile da sola, di notte. In fondo però…Che cosa può accadermi? Conosco questo posto, ci sono già stata anche se non ne ho ricordo. Non mi allontanerò troppo.

 Decido di seguire la creaturina fino in fondo alla lingua nera costernata di alberi, fino a quando di fronte agli occhi non mi si para uno scenario fiabesco, rischiarato dalla luce di una miriade di lucciole.

Nel folto degli alberi scorre tranquillo un fiumiciattolo mentre se avanzo posso intingere i piedi in quello che sembra essere un lago pieno di orchidee ed altre piante magnifiche. C’è odore di pino e resina. E’ così intenso da invitarmi a chiudere gli occhi per assaporare meglio la sensazione.

C’è pace attorno a me, non mi sono mai sentita così serena.

Avanzo di qualche passo e i piedi affondano nella melma sotto la coltre dell’acqua. Mi piace la sensazione avvolgente del fango sotto i piedi.

Indosso un lungo abito bianco: tanti piccoli ritagli di stoffa cuciti fra loro che ondeggiano ogni volta che mi muovo. 

Sembro…Un Angelo. Ad un tratto però sento qualcosa, come un fruscio in lontananza. Mi volto e guardo nella direzione da cui proviene il rumore, ma è inutile, c’è troppo buio per distinguere alcunché. 

«C’è qualcuno?», mormoro eterea uscendo dall’acqua.

Il suono si fa sempre più intenso finché dopo pochissimi secondi, lo avverto proprio davanti a me.

Nell’ombra scura risuona un ringhio minaccioso e inconfondibile: quello di un lupo.

Mi abbasso lentamente e raccolgo un grosso pezzo di legno ai miei piedi, poi indietreggio con cautela, senza staccare gli occhi dal cespuglio di fronte.

Sento l’animale avanzare, fino ad uscire allo scoperto. E’ ancora più minaccioso di quanto immaginassi: le orecchie sono abbassate, i muscoli sono tesi e i suoi occhi sono pietre luminescenti.

Mi mostra le zanne lunghe e affilate.

Sarei morta per un motivo tanto stupido come una lucciola?

Mi maledico per averla seguita. Quella lucciola…La mia curiosità.

Attirata dal pericolo costantemente, così è la mia esistenza.

Eppure sapevo di questo bosco. Sapevo di quella creatura.

Il lupo è pronto, mi sta per attaccare. Con uno slancio viene verso di me: d’istinto mi paro il viso con le braccia.

Ecco, è la fine.

Il tempo si ferma. Passano lunghissimi secondi in cui l’unico suono che le mie orecchie sentono è un guaito lontano e il silenzio un attimo dopo.

Incerta, riapro gli occhi e mi accorgo che l’animale di fronte a me non è più in posizione d’attacco. Abbassa la testa in atteggiamento di sottomissione e guaisce. Rimango immobile quando, ancora con il cuore in gola, vedo due occhi verdi e luminosi.

E’ Roth? Che ci fa qui?

Il ragazzo avanza fuoriuscendo dal buio che gli copre metà viso. E’ etereo, come un sogno. Attorno a lui, un alone di luce innaturale si irradia debolmente.

E’ serio. Stupendo.

«Che ci fai da sola nel bosco?»

«Io…Non lo so.»

Non avverto più nessuna sensazione di pericolo. Altro, adesso, scalpita nel mio petto.

Qualcosa di antico e profano.

Roth viene verso di me, ma non arretro.

Piuttosto sono in difficoltà. Smaniosa di qualcosa che non mi appartiene e che mai e poi mai, dovrebbe farmi gola.

Quando è ad una spanna da me, le sue dita si intrecciano ad una ciocca chiara dei miei capelli. La sposta dal viso, portandola dietro il lobo del mio orecchio. Non mi guarda Roth. I suoi occhi sono concentrati sulle mie labbra e mormorano pensieri che mi fanno avvampare.

«E’ pericoloso starsene qui soli», dice. La sua bocca è così vicina. 

Sono assorta, in trance, privata di ogni freno inibitore.

Nelle sue mani, mi affido.

Non è naturale. E’ questo ciò che voglio davvero?

Quando sollevo il mento verso di lui, i suoi occhi si irradiano di un verde ancora più marcato. La luce che balugina in essi non è umana.

«Cosa sei…?».

Poggia il pollice sul mio mento e al solo tocco, mi rendo conto che brama qualcosa di più di un semplice bacio.

«L’essere più pericoloso che esista e quello che dovresti desiderare di più», sussurra contro le mie labbra.

«Io ti desidero già.»

Non riconosco la mia voce. 

Cosa mi sta succedendo?

«Abbandonati al tuo destino, Elisabeth.»                                     

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