Che ce stamo a fa ar monno?

di shana8998
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Spazio autore: Scrivo questa storia con un paio di premesse.

La prima: non ho mai scritto storie in terza persona, questa per me è la prima volta.

La seconda: non sono romana e non so parlare il dialetto seppur lo ami molto. Perciò, qualora ci fossero errori, frasi poco comprensibili e parole terribilmente mutilate, chiedo venia.

Non so se continuerò a scrivere questa fanfic, per il momento butterò giù qualche capitolo come esperimento che spero piaccia a chi lo leggerà. Se volete, fatemi sapere cosa ne pensate.

 

Un saluto a tutti e buona lettura.

 

                                1.

 

Che ce stamo a fa ar monno? 

 

L’amore n’è pe tutti, n’è pe me.

 

                                         Francesca.

 

Francesca si affrettò lungo il corridoio. Aveva sorpassato la sua aula senza neanche guardarci dentro. Chissà se la Romanucci stava già seduta alla cattedra? Non le importava adesso.

Era troppo presa dalla voce che gridava imprecazioni in fondo al corridoio.  La conosceva bene, era quella della sua migliore amica Lucia.

«Te sfonno! Puttana!»

«Ao! Lucì lasciala sta!»

«Troia!»

Svoltato l’angolo, eccola lì Lucia Feriozzi, la sua migliore amica, che se ne stava con le dita intrecciate fra i capelli di Maddalena del quinto D e glieli tirava con forza. Attorno a loro c’era almeno mezza scuola, un sacco di teste -di cazzo- che invece di fermarle si stavano godendo la scena.

«Tu statte zitto che poi famo i conti!»

Il viso cinereo, le gambe pronte a sferrare calci: era proprio incazzata Lucia. Nervosa, ribelle, romana. Era tutto ciò che Francesca non sarebbe mai stata.

Non era violenta, non era verace. Francesca era l’acqua santa. Docile, timida, minuta, dai lunghi capelli biondi e l’aria sempre fra le nuvole.

«Lucia!»

Era buona Francesca. La ragazza più buona e genuina de 'sto monno. C’era sempre per Lucia, in qualsiasi occasione, pure quando quest’ultima dava di matto, come spesso sentiva dire dal suo fidanzato Marco.

Francesca non esitò nemmeno quella mattina a buttarsi fra le due rivali. Non sapeva bene cosa fosse accaduto, ma dal viso graffiato di Maddalena, dai ciuffi di capelli sparsi sulle sue spalle e dall’espressione nervosa di Marco, capì che doveva averla fatta grossa.

Lui non lei.

Si, perché succedeva sempre la stessa cosa: Marco faceva lo scemo con qualcuna, Lucia si incazzava e poi,  invece di prendersela con lui, dava addosso a quest’ultima.

Francesca non capiva perché lo facesse. Era logico che lo stronzo fosse Marco e non era solo Francesca che lo pensava. Ce l’aveva proprio visto a provarci con Greta e con Camilla ed ora lo aveva fatto con Maddalena, molto probabilmente.

Ma Lucia era così, impulsiva, testarda, innamorata. 

«Oh, te devi da fermà!», Marco le prese un polso e la costrinse di colpo a lasciare la testa di Maddalena che, intanto, le sferrava occhiatacce cariche d’odio con gli occhi gonfi e rossi.

«Nun me toccà!»

Francesca guardò la mano di Marco stretta attorno al polso della sua amica e poi scrutò lei che era così furente e disperata e decise di seguire i suoi sentimenti. Era colpa del suo ragazzo se Lucia aveva fatto ‘a pazza un’altra volta, non aveva nessun diritto di darle ordini. «Dai, andiamo via.» Lucia si ritrovò Francesca davanti. Il viso rosso d’imbarazzo per colpa di tutti gli occhi che avevano addosso, lo sguardo basso e timido.

La guardò e fece una smorfia «Nun te ce mette pure tu, Francè.»

Innervosita dalla testardaggine dell’amica, Francesca sollevò gli occhi verdi su di lei «Te vuoi fa caccià proprio mo? All’ urtimo anno?» 

Non parlava mai in romano Francesca. Sua madre e suo padre non glielo permettevano. Non si doveva mescolare a quei burini dei suoi compagni. Lei era della Roma bene. Della Roma frivola, sfarzosa fatta di soldi e vita che costa cara. Veniva da una famiglia per bene ma soprattutto da una Roma per bene. Quella dei Parioli, con i suoi palazzi eleganti, i monumenti, le fontane illuminate. Suonava il piano, faceva danza, sarebbe andata in erasmus all’estero: faceva cose che i suoi compagni non avrebbero mai fatto, forse.

Non era come loro e certe volte si chiedeva come ci fosse finita a studiare in periferia. Si sentiva così diversa dal resto degli occhi che incrociava a scuola, eppure, voleva esse così uguale a l’artri. Solo quando si incazzava come lo era adesso e sempre quando c’era di mezzo Lucia, le usciva quella parlata un po’ pronunciata male, un po’ pensata bene, come fosse un dispetto, un modo per essere più simile a quelle persone che a sua madre.

Lucia strappò via il polso dalle mani di Marco e sospirò arrendevole.

«Annamo. Nun li vojo proprio vedè a sti due stronzi.»

Finiva sempre così, almeno in un primo momento. Lei se ne andava scortata dalla sua fedele amica, Marco restava a leccarsi le ferite e la malcapitata di turno finiva con la testa china sul banco a singhiozzare. Sempre, tutte le volte.

Lucia spalancò la porta del bagno rumorosamente.

«Che fijo de na gran mignotta! Proprio co quella se doveva andà a n'frattà?»

«Lucì…Proprio co quella. Sta settimana era quella, la scorsa era n’altra e quella prima ancora?»

Francesca appoggiò il fondoschiena al lavandino e usò i palmi delle mani per sorreggersi mentre scrutava il volto cinereo di Lucia.

Era carica come una molla: non stava ferma, non ci riusciva.

Si infilò una mano in tasca e tirò fuori il pacchetto di Marlboro rosse. Ne cacciò una e prese l’accendino. Facendo tiri veloci e pieni, respirò le prime boccate.

«Così finirai per svenire.», le disse Francesca mentre guardava l’amica sua farsi l'aerosol con il tabacco.

«Nun me ne frega n’cazzo.» Lucia non aveva più la coda alta dietro la testa. Maddalena gliel’aveva tirata fino a farla diventare lenta sulle sue spalle ed ora i suoi capelli castani ondeggiavano qua e là, mentre fumava facendo su e giù per il bagno.

«Ce credi? L’hanno visto scopà dietro a n’vicolo co quella.», indicò con la mano e un gesto stizzito la porta.

Francesca sospirò. Quante volte era successo? Almeno quattro, si rispose, e questo solo da quando era incominciato l’ultimo anno.

Era solo Ottobre, chissà, fino a Natale, quante se ne sarebbe portate a letto Marco!

«Che vuoi fa mo? Lo perdoni?»

Lucia ridusse gli occhi a due fessure «Cor cazzo! Mo è finita. Finita pe davero

Non ci credeva manco lei. Lei, a Marco, l’amava.

«Lo dici tutte le volte e poi ci torni insieme.»

Un altro sospiro e poi Lucia lanciò lo sguardo oltre la sua fronte «Che te devo dì? Quanno ami a uno, nun ce riesci a lasciallo annà via. Nun ce la faccio, Francè...Ma tu che ne voj capì, n’te sei mai innamorata!»

Francesca apprezzava la schiettezza di Lucia, era una di quelle cose che la contraddistingueva da molte. Era sincera pure se delle volte se ne passava. Come ora. Francesca si sentì offesa. Lucia è un’illusa, pensò. Troppo suscettibile ai sentimenti, troppo debole per lasciar andare Marco per la sua strada. Forse, Francesca non era mai stata innamorata, era vero, ma sapeva che quando una persona ama l’altra non va in cerca di sesso occasionale.

Lo aveva imparato dalla miriade di romanzi rosa che tanto amava leggere e quindi, anche se Lucia aveva ragione e Francesca non conosceva l’amore, era certa che Marco non l’amasse veramente.  

Per un momento Francesca smise di ascoltare la sua amica. 

Perché nessuno l’aveva mai amata?

Nessuno si era mai innamorato di lei, né tanto meno sapeva cosa si provava ad esser desiderati, baciati…e il sesso…Oh, lontano anni luce da lei. “Sono io il problema?” Si chiese.

C’era da dire che era timida, troppo, per comunicare i suoi sentimenti agli altri e quel mare di persone che la circondavano la spaventava a morte.  Comunque nemmeno qualcuno glieli aveva provati a tirar fuori con le pinze quei sentimenti. Nemmeno quando per un breve periodo s’era scambiata degli sguardi fugaci con Lorenzo, suo compagno di classe. Lui le sorrideva spesso, le aveva fatto un paio di complimenti a ginnastica; era gentile con lei e per un attimo, si era quasi convinta di piacere a quel ragazzo. Poi, però, lo aveva visto in cortile con una del secondo anno ed era finita lì. L’amore n’è pe tutti, n’è pe me, si era detta.

Perciò Francesca a quasi vent’anni era sola, senza un affetto suo e senza sapè cos’è l’amore e Lucia a ventun’anni, perché ripetente, ne aveva uno falso come Giuda e si ostinava a tenerlo stretto con tutte le forze. Allora, cos’era meglio? L’amore falso e ipocrita di Marco o la solitudine?

Chissà, magari Marco non ci voleva stare manco più con la sua amica. Ma Francesca sapeva che Lucia non se l’era mai posto il problema. In realtà, incominciava a sospettare che a lei, dei sentimenti di Marco, non interessasse nulla.

«Io nun me so mai innamorata. E’ vero! Ma nun me farei mai pijà pe culo così.» Non urlava mai Francesca anche quando era incazzata a morte. Nemmeno in quella circostanza, mentre sentiva le guance imporporate e la gola stretta.

Però faceva male. Aveva l’impressione di avere un macigno sul petto.

Punta nel vivo si rese conto che le veniva da piangere, e  cercò con tutte le forze di non darlo a vedere. Che le avrebbe detto Lucia? L’avrebbe presa per stupida, per una bambina. Già la sentiva con il suo romanaccio, dirle «E mo che te piagni, Francè? Dio, nun te se po dì n’cazzo!» e quelle parole l’avrebbero, di certo, fatta piombare ancora di più nell’imbarazzo.

Perciò si morse un labbro e trattenne un respiro.

Lucia di solito se le beccava da Francesca le parole. Non glielo aveva mai detto a  l’amica sua, ma la riteneva molto più obiettiva di quanto non lo credesse e sapeva che pure quella frase detta male e un po’ da stronza, Francesca gliel’aveva sputata in faccia perché le voleva bene. 

«Te ce vorrei vedè a te.» Sospirò la mora.

Manco dava più retta alla conversazione ad un certo punto. Sapeva che la presenza di Francesca in quel bagno, in quel momento, era fondamentale, ma stava pensando ad altro.

Si trascinava quel pensiero da qualche minuto. Un dubbio che lentamente si era insinuato nella sua testa. Se Marco non l’amava più? Come avrebbe fatto?

L’idea le serrò lo stomaco.

“Ascolta Lucì, calmate prima di fà qualsiasi cosa”, pensò. Aveva riconosciuto quel fremito, era la stessa sensazione che provava tutte le volte che lei e Marco litigavano.

Gliela voleva far pagare, doveva solo trovare il modo.

Perché? Perché ogni volta poi, lui tornava sui suoi passi.

“Magari stavolta mi faccio trovare a letto co Riccardo”

Scosse la testa. Non c’aveva il coraggio, Riccardo era suo amico da una vita ed era certa che non si sarebbe mai  prestato ad andare a letto con lei. 

«Sai che famo?», disse di getto. Francesca la guardò titubante. «Annamo a ‘na festa stasera!»

«Oh, nono…Lo sai che non posso.», si affrettò a rispondere l’amica.

«Oh, avanti! Ce divertimo, stamo in compagnia e nun pensamo a quello stronzo.» Lucia la prese sotto braccio, l’espressione sorniona sul viso.

«Tu ce pensi a quello stronzo, mica io.»

Francesca esitò. Quante volte poteva dire di essere andata ad una festa? Una? Due? E come era finita?

I suoi genitori, ignari di tutto, si erano presentati entrambe le volte, irrompendo come pazzi e trascinandola a casa e per questo si era beccata l’appellativo di cocca di mamma.

Era già stata umiliata, le bastava.

«Lo dici tu ai miei?»

Le spalle di Lucia si afflosciarono di colpo.

«Che cojoni e dije che stai da me», poi ci ripensò «Anzi, resta da me stanotte.»

L’idea era allettante. Francesca amava dormire in compagnia. Essendo figlia unica non aveva mai sperimentato la condivisione degli spazi, la compagnia di un’altra ragazza. Le sarebbe piaciuto avere una sorellina, ma aveva l’impressione che fosse già molto che i suoi genitori avessero deciso di mettere al mondo lei.

«Essù…Te prego!», Lucia sbatté le palpebre mimando un’espressione da cerbiatta che fece scoppiare a ridere Francesca.

«Ok, ok…Ma solo perché me lo stai a chiede così.»

Risero di nuovo.

«Sei la mejo, Francè.»

 

                                             ****

 

Tornata a casa, Francesca non trovò nessuno ad accoglierla. Le luci del corridoietto erano spente esattamente come quelle dell’enorme salone dai divani bianchi che scorgeva dall’ingresso.

Si sfilò le scarpe e, finalmente a piedi nudi, tamburellò sul parquet fino alla sala.

Sentiva dei rumori provenire dalla cucina, quindi qualcuno in casa c’era.

«Sono tornata!», disse e poi attese speranzosa di sentire la voce di sua madre o di suo padre.

«Ben tornata, signorina.» Ad accoglierla però c’era Magda, la domestica, che spuntò da dietro la porta a vetri della cucina. 

Un po’ delusa, Francesca si sforzò di sorriderle e raggiunse il tavolo della cucina scansando una sedia.

Ci poggiò sopra lo zaino e raggiunse i fornelli.

Magda stava spolverando ma, nel frattempo, aveva approntato il pranzo.

«Spezzatino.», sorrise la donna.

«Ha un aspetto così invitante!», Francesca respiro l’ottimo odore di carne al sugo con gli occhi chiusi e lo stomaco le brontolò.

«Dai, prendi un piatto.»

Magda era la loro domestica da quando Francesca ne aveva memoria. Ricordava la presenza di quella donna da sempre e lei, portoricana espatriata da ragazza, si era comportata come una seconda mamma, confortandola con le attenzioni che entrambe sapevano mancare in quella casa.

Le voleva bene.

Francesca aprì la credenza e sfilò un piatto celeste di ceramica. Prese le posate e raggiunse il tavolo.

«Non aspettiamo i miei?»

La domestica si voltò sorridendo compassionevole «No piccola, saranno fuori per lavoro tutto il giorno.»

Lo sapeva, nonostante ciò, faceva la stessa domanda tutte le volte nella speranza che almeno una di quelle, Magda le rispondesse "sì, saranno qui a breve”. Non capitava mai però.

Un po’ più triste, aspettò che le fosse servita la carne e in silenzio terminò il pranzo.

Solo nel tardo pomeriggio e dopo le prove di pianoforte, riuscì a recuperare il cellulare.

Si chiuse la porta di camera sua alle spalle e lanciandosi sul letto, sbloccò lo schermo.

Non c’erano notifiche, veramente non c’erano quasi mai se non quelle fastidiose inserzioni di Facebook che le facevano vibrare l’apparecchio ogni trenta secondi.

C’era però un sms. Era di Lucia.

“Allora? Glielo hai chiesto?”

Francesca non sentiva i suoi genitori dalla mattina e non aveva la più pallida idea di dove fossero. Sapeva che quando erano fuori per lavoro tutto il giorno, non li si doveva disturbare e perciò lasciò perdere l’idea di chiamarli.

“Non li ho visti”, digitò e inviò. Lucia era online e rispose subito.

 

Sta scrivendo…

“Che cazzo! La festa è alle 21!”

 

Perché così tanta fretta? Erano solo le sei del pomeriggio avevano ancora molto tempo.

 

“Se non li sento per le 19| ” , non inviò il messaggio, restò a fissare le parole intensamente mentre pure il cursore della tastiera sembrava metterle fretta. Se non li avesse sentiti prima delle 19…Cosa avrebbe fatto?

Sarebbe scappata di nuovo?

C’era stata male quelle due volte che aveva mentito ai suoi, uscendo di nascosto in piena notte; non per la lavata di capo, ma per lo sguardo di sua madre.

Era così delusa, così amareggiata.

Francesca aveva pianto e supplicato le scuse solo per quel motivo.

Cancellò in fretta quelle poche parole e fissò lo schermo ancora per qualche istante.

“E se lo dico a Magda?”

Magari lei avrebbe potuto avvertire sua madre.

Sospirò.

Sarebbe stato inutile. I suoi non volevano che lei si mischiasse a quella gente.

«Merda…», mormorò a voce alta, affondando un po’ di più la testa nel cuscino. «E mo che je dico?».

Lucia aveva bisogno della sua amica e di quella festa e Francesca aveva bisogno di Lucia per sentirsi leggermente più uguale al resto del mondo.

C’era poco da fare. Si fece coraggio e all’improvviso scrisse.

 

“Vengo.”.

 

“Cazzo, i tuoi t’hanno detto de si?”

 

I suoi non j’avevano detto proprio n’cazzo, ma Francesca desiderava così tanto essere come tutto il resto del mondo che, per l’ennesima volta, preferì disobbedire. 

 

“Pare de si.” mentì vergognandosi pure “A che ora ci vediamo?”

 

“Damme n’ora e sto da te.”

 

Il cuore le batteva forte. Divisa in due da sensazioni contrastanti incominciò a sentirsi diversa. Mentire ai suoi la faceva sentire, stupidamente, grande, ribelle e padrona di sé anche se da una parte provava quel fastidioso senso di angoscia come se chissà cosa sarebbe potuto succedere dopo.

Con il cellulare stretto fra le dita e le braccia lunghe contro i fianchi, guardò il soffitto del suo letto a castello chiedendosi se mai sarebbe stata come tutti gli altri, normale. 

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Capitolo 2
*** 2. ***


                                2.


C’avemo la vita ‘ncasinata e la testa troppo confusa pe pensà.


                                        Lucia.

 

Lucia se ne stava buttata sul letto di camera sua a fissare le pareti verdi cosparse di poster impolverati. La piccola luce fioca sul suo comodino illuminava i suoi pensieri e il ricordo di quella mattina a scuola. Maddalena j’aveva fatto proprio male a quel braccio. Sollevò la manica della felpa e si guardò il livido violaceo: le aveva sferrato un calcio quella stronza, e lei, per proteggersi, lo aveva sollevato come uno scudo. Mo però je doleva da pazzi.

Sospirò. C’era qualcos’altro che le faceva più male di quel livido: Marco.

Scivolò sui pensieri e ruzzolò verso i ricordi.

Seppur frequentassero la stessa scuola, lo aveva conosciuto ad una festa. S’erano piaciuti subito. Lui con i capelli corti, castani, le sue amate felpe della Nike, le scarpe da tennis griffate e lo sguardo fiero e lei con il suo seno prosperoso e gli occhi profondi. Marco s’era innamorato di Lucia per quelle due qualità, glielo diceva spesso.

“Marco…” Come aveva potuto tradirla di nuovo?

Ruotò su un fianco, premendo la guancia contro il cuscino.

Cosa non andava in lei, tanto da spingere il suo ragazzo ad infilarsi fra le gambe delle sue compagne di scuola?

Era brutta? No, sapeva di non esserlo.

Era antipatica? Nemmeno.

Era verace? Abbastanza da piacere ad uno della borgata come lo era lei, d'altronde.

Si sentiva svuotata in quel momento mentre, afferrando il cellulare, scorreva le foto di loro due.

Sapeva che senza Marco la sua vita sarebbe stata un po’ più de merda di quanto già non fosse, con la madre che da qualche tempo aveva iniziato a vennesse pe pagà l’affitto e suo fratello che era tornato a vive co loro per via degli arresti domiciliari.

Si sentiva soffocare dalle lacrime e da quel piccolo appartamento di manco sessanta metri quadri, stipato nei palazzoni de Subburra. C’aveva la testa incasinata, Lucia.

Se ne voleva andare da quel posto, voleva cambiare vita, sentiva in petto che attorno a lei l’esistenza stava scorrendo in maniera sbagliata. Nel verso sbagliato.

Ecco perché ora Marco le mancava na cifra.

Perché lui le permetteva di evadere da quella prigione. Se la portava in scooter per la città, le faceva i regali, le diceva cose belle. Si sentiva una principessa con lui. 

Poi però, sbagliava Marco. Cercava di conquistà l’artre, e la faceva sentire più sbagliata di quanto già non si sentisse.

Ma mo era finita, davvero.

Non ci stava più a farsi trattare da pezza. 

Fece uno scatto con le gambe sul materasso, colpa di un pensiero che le saltò in testa: ce l’avrebbe fatta lo stesso a rialzasse, pure senza Marco.

Tanto per cominciare, sarebbe andata a quella festa e si sarebbe divertita e questo bastò a farla sentire un po’ meno triste. Poi c’era Francesca, non le sembrava vero.

Sarebbe rimasta a dormire da lei e forse, Lucia le avrebbe ammesso che aveva passato il pomeriggio a frignà pe Marco. 

Forse, non ne era certa. Perché Lucia sapeva che fra lei e Francesca, quella forte non era di certo la sua amica. E sapeva anche che se lei fosse crollata se la sarebbe portata appresso. Ci teneva troppo a Francesca per trascinarla nei suoi casini, per lo meno, nei casini  de ‘a testa sua.

In quelli reali, m’mezzo alle cazzate, se la trascinava e come.

Come quando l’aveva convinta ad andare ad una festa in un appartamento della borgata e i suoi genitori avevano fatto irruzione in casa di un tipo che manco Lucia conosceva, e se l’erano portata via.

Per colpa di Lucia, Francesca s’era fatta dieci giorni di punizione chiusa in casa come ‘na sardina

Ma che je faceva, s’erano divertite ‘na cifra pure se pe poco.

Lucia chiuse la galleria delle foto e guardò l’ora. S’era fatto tardi e lei, prima di prepararsi, doveva rassettare casa.

A casa Feriozzi la lavatrice funzionava secondo l’umore di sua madre o dei suoi impegni. Valeva lo stesso per i piatti che, solitamente, occupavano il lavello della cucina almeno per un paio di giorni.

Dato che non fregava a nessuno di quella casa o dei panni, era Lucia che se ne occupava.

Quando tornava a casa, qualunque ora fosse, ancor prima di mettersi in pigiama, si corciava le maniche e faceva i piatti, caricava la lavatrice, aspettava che il lavaggio terminasse, stendeva i panni e poi, se le andava, usciva di nuovo e restava fuori fino a tardi.

Così, tutti i giorni.

Pure quel pomeriggio, quando si sbrigò a svolgere le faccende perché Francesca sarebbe rimasta da lei.

Mica je poteva fa trova ‘a casa na stalla.

Seduta sul pavimento del bagno a fissare l’oblò della lavatrice, pensò a cosa indossare.

Le piaceva essere appariscente, anche se in fondo lo era pure con una felpa anonima addosso.

Aveva un vestito nero e scollato nell’armadio che aspettava solo di essere indossato per la seconda volta.

Un paio di tacchi alti e le calze a rete. No, forse quelle se le sarebbe risparmiate:je ricordavano un po’ troppo ‘a madre in quell’ultimo periodo.

Ad un tratto, la porta del bagno si aprì.

Il torace allenato di suo fratello sbucò da dietro l'anta, seguito dalle braccia macchiate di tatuaggi e dagli occhi azzurri. C’aveva lo sguardo assonnato Michele e i pantalocini della Roma, suo grande amore da sempre, sgualciti sulle cosce.

«Levete che devo piscià.», borbottò lui.

Lucia gli rifilò un’occhiataccia «Guardate, stai come n’rincojonito a forza de fatte le canne.»

Lui sbuffò dal naso facendo una smorfia. Manco più le rispondeva alla sorella: era una vita che lei lo punzecchiava, irritante.  

Lucia si spostò da davanti al water ma non uscì dal bagno. C’era abituata a vedè suo fratello piscià, perché pure se erano come cane e gatto una parte di loro li rendeva inseparabili. A modo loro, certo.

«L’hai vista ‘a lettera su ‘a tavola?», gli chiese lei.

Lui scrollò le spalle. «No, che lettera?»

«Quella del padrone di ‘sto buco. Pare che c’ha revocato ‘o sfratto.»

«M’bè mejo, no?»

«Ma te nun le vedi proprio ‘e cose? N’te fa strano che fino a du giorni fa, tu madre n’ c’aveva na lira pe piagne e mo ha pagato tre affitti de fila e pure er condominio?»

Chissà se Michele fingeva di non vedelle proprio ‘e cose o sapeva tutto ma non gli interessava?

Lucia temeva che a suo fratello non interessasse proprio nulla di sua madre…o di lei.

«E che te dovrei dì io? Se ‘o fa, è pe mantenesse un tetto su ‘a testa sua.» Michele si tirò su i pantaloncini e raggiunse il lavandino per sciacquare le mani.

«Eh certo! Pe te è tutto normale! N’fonno, te spacciavi pe portà du spicci qua dentro!»

Michele socchiuse le palpebre sospirando. Quando sua sorella gli diceva quelle cose - la verità- se ne andava in bestia. Ma lui, grosso com’era, non poteva più facce a botte. Non avevano più cinque anni e Lucia non je teneva più testa. Michele, ora, aveva paura di farle male e se per caso succedeva che volava un ceffone dalle mani di sua sorella, lui se lo beccava in silenzio. Non perché fosse un debole, un miserabile, ma perché c’aveva paura di rompella.

«Ao Lucì, che c’hai er ciclo? E falla finita.»

Manco si asciugò le mani. Chiuse l’acqua e cercò di sorpassarla, urtandole la spalla per sbaglio.

Ma Lucia, testarda com’era, gli piazzò il palmo della mano al centro del petto e lo spinse indietro.

«Nun fa ‘o stronzo! A mamma je devi dì che ‘a deve smette di fa ‘a puttana. Piuttosto ce penso io a’ le bollette».

Lucia era seria. Se ne sarebbe occupata lei, volendo, pure se non aveva idea di come.

Ma lo avrebbe fatto pe quella mamma incasinata e per suo fratello. Perché la famiglia è la famiglia.

Michele abbozzò una smorfia.

«E come? Come ce pensi? Co quelle poche vorte che te metti a fa le unghie all’amiche tua?»

Lucia sentì i nervi incresparsi dietro la nuca. Michele c’aveva ragione, sempre. 

Impotente, sentì prudere le mani. Voleva dare uno schiaffo a suo fratello, perché in cuor suo sapeva che manco lui faceva qualcosa pe tiralli fuori da quell’inferno.

Alzò una mano allargando per bene le dita e si preparò a colpirlo.

Ma a Michele, quella sera, non andava proprio di beccarsi un ceffone o le imprecazioni della sorella e perciò gli afferrò il polso di scatto.

Lucia mormorò un gemito di dolore.

«Mica t’ho stretto troppo!», si affrettò a dire lui, preoccupato di averle fatto male. Ultimamente non calibrava più la sua forza. Si sentiva implodere per colpa della sua vita e qualche volta aveva esagerato con le mani, facendo male ad un paio di amici.

Lucia, fortunatamente, scosse la testa mimando un no.

«Che te prenne, m’bè?» 

Sua sorella ritrasse il braccio proteggendolo come fosse un tesoro da custodire.

«Famme vedé!», ordinò lui.

«Fatte i fatti tua!»

Per fortuna Michele era testardo quasi quanto sua sorella e con prepotenza le afferrò la manica della felpa, scoprendo il vistoso livido violaceo che tanto le faceva male.

«E questo? Chi te l’ha fatto?»

«Na stronza, Miché. N’te preoccupà, n’è niente.»

Lucia di solito non si imbarazzava quasi mai. Le succedeva però, di sentirsi piccola, minuscola, specie quando ritornava a casa pesta ed odiava l’idea che fosse proprio suo fratello a consolarla.

«E te hai incassato e basta?», già lo sentiva pronto a farle una ramanzina. Perché ai Feriozzi nun je se devono pestà i piedi.

«Te pare che resto a piaccele?», aggrottò la fronte, nervosa.

«Ah, m’bè.» Si sentivano entrambi consolati al momento. Lucia perché non era passata per una debole e Michele perché non voleva preoccuparsi pure per lei come, fra l’altro,  già stava facendo. «Comunque, la prossima vorta dajele più forte e sul muso.»

Le consigliò.

Lucia sorrise appena. Non sapeva nemmeno lei perché si sentisse così al sicuro nelle mani di suo fratello.

«Te fa male?» Dopo qualche minuto, si ritrovarono seduti sul bordo della vasca. Michele aveva preso dallo sportello del mobiletto, accanto al lavandino, la pomata che usava in palestra. Gliel’aveva consigliata il suo istruttore di boxe e pareva funzionare quando, inavvertitamente, si beccava un pugno in faccia.

«’Na cifra.», ammise lei. 

Le sollevò la manica ancora più su, oltre il gomito, svitò il tappo e raccolse con le dita un paio di noci di pomata.

Lucia lasciò che suo fratello la medicasse, pure se continuava a lagnasse pecchè je faceva male e mentre succedeva, si sentiva strana, realizzando che era proprio l’affetto di suo fratello e quello di sua madre a mancarle, tanto da doversi appoggiare a quello falso regalato da Marco.

«Mo vattene, sei a posto.» Disse lui, dandole una mezza pacca sulla spalla.

Lucia sorrise ancora e anche Michele fece lo stesso.

Lei si alzò e raggiunse la porta del bagno.

«Ao, quasi me dimentico. Stasera ce sta ‘na pischella, n’amica mia, a dormì qua. Nun te fa venì strane idee.»

Michele mimò una smorfia eloquente «Oh! Quante vorte te lo devo dì che nun me scopo ‘e liceali?!»

Lucia lanciò gli occhi al cielo arrendevole.

«Vabbè.»

Che casino che era la vita di Lucia. La testa sempre invischiata nella melma dei suoi problemi. Eppure, quando suo fratello si prendeva cura di lei, a volte pensava di nun esse poi così sola. C’aveva bisogno d’affetto, lo sapeva; anche se faticava ad ammetterlo a sé stessa. Era cresciuta troppo in fretta e aveva visto troppe brutture nella sua breve vita, ecco perché sfogliava le riviste di moda sognando una vita che forse non le sarebbe mai appartenuta.  Sognava di annassene da quel buco e magari di salvare suo fratello e sua madre dai loro casini.

E chissà, forse, un giorno, ci sarebbe pure riuscita.

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Capitolo 3
*** 3. ***


                             3.

 

Mica c’avemo i pensieri solo noi!


                            Lucia e Francesca.

 

Lucia passò nei pressi di casa di Francesca solo verso le otto di sera.

Si erano messe d’accordo perché il loro incontro avvenisse vicino una piccola edicola che ricordava molto un chioschetto, con le travi di legno scuro e un paio di vetrine colme di riviste schierate su entrambi i lati dell’ingresso.

Lucia non poteva sbagliarsi: era impossibile non riconoscerla.

Fermò la Yaris di suo fratello in prossimità del marciapiede ed attese di scorgere la sagoma magrolina della sua migliore amica.

Per ammazzare l’attesa, collegò il cavo aux alla radio e, frugando con il pollice sullo schermo del cellulare, cacciò fuori una vecchia playlist che risaliva presso a poco al periodo in cui Marco la corteggiava.

Mentre le luci arancioni dei lampioni, riflettendosi sul parabrezza, avviluppavano bagliori fugaci sul vetro, si ritrovò persa nelle parole di un brano strappalacrime che narrava più o meno una storia molto simile alla sua.

“Che stupida che so’ ”, si disse a malincuore affondando nel sedile. Una parte di Lucia, quella più sommersa dall’inconsapevolezza, se lo era detto qualche volta che la colpa di tutto quello star male per Marco era solo il frutto delle carenze subite in vita sua. Ma che je poteva fa ‘na ventenne a ‘sti problemi interiori?

Poco e niente.

Perché, a vent’anni, certe cose non le si affronta nel modo giusto. Piuttosto le si sommerge con la presenza degli amici, degli amori - pure se falsi -, con le feste e le cazzate.

Era proprio così che aveva fatto Lucia. “Pe nun pensà”, come diceva ogni volta passando le sue serate al baretto, tracannando birra, raccontando delle cose che succedevano a scuola, baciandosi con Marco nel bagno.

Soffocava la voce urlante dentro di sé al punto da asfissiarla. Lei e pure i suoi problemi a cui avrebbe volentieri stretto ‘no straccio ar collo.

Sospirò. 

Mentre lo sguardo si spostava oltre il finestrino, quello che dava sulla strada brulicante di persone, notò una coppia.

Un uomo e una donna. Mo uno normale si sarebbe chiesto: e quindi?  Che te frega di ‘sti due? E avrebbe guardato altrove, come avrebbe fatto anche Lucia, se non fosse stato il caso a farle riconoscere un paio di occhi.

Lucia si abbassò sotto il limite dello sportello, sbirciando oltre il vetro e sperando che quel paio di occhi cerulei non la notassero.

Non l’avevano fatto, ovviamente.

Così, dopo essersi accertata, continuò a fissare i due che nel frattempo se ne stavano sottobraccio e passeggiavano allegri. 

Quel paio di occhi erano di Giulia. Giulia, da quando Lucia ne aveva ricordo, era sempre stata presente a casa Feriozzi.

Se ne stava per lo più stipata in camera di suo fratello e con lui fumava erba, cantava canzoni a squarciagola, vedeva film, faceva quello che per Lucia era l’amore.

Giulia aveva ventinove anni, un paio in più di suo fratello e in passato, quando lei e suo fratello Michele avevano la stessa l’età di Lucia, ricordava che avevano frequentato la stessa scuola.

Non c’è una linea intermedia che riusciva a scindere il momento del loro incontro a quello della loro storia d’amore. Per lo meno Lucia non l'aveva mai individuata.

Sapeva che Giulia c’era sempre stata e non solo a casa loro, ma per Michele, e viceversa, senza nemmeno un motivo logico delle volte.

C’era lei fuori da casa loro quando le guardie lo avevano scortato prima dell’arresto. C’era lei in tribunale, quando il giudice aveva sganciato la bomba, accusando Michele di spaccio e percosse per poi sentenziare quella condanna con gli arresti domiciliari, e c’era sempre lei, in lacrime, quando Michele sembrava crollare.

Allora, perché ora se ne stava a braccetto con quello sconosciuto? Non sembrava manco essere il tipo suo.

Alto, ben vestito; Lucia immaginò anche il suo odore che sarebbe sicuramente stato lo stesso di un buon profumo costoso. Indossava un paio di braccialetti scintillanti, oro sicuramente, e un grossissimo orologio appariscente stretto attorno al polso che di tanto in tanto, faceva capolino dalla manica stretta di una camicia celeste con le costine bianche.

“No…Mo che sta a fa’ sta rincojonita?!”.  Lucia difficilmente riusciva a dare a Giulia la colpa di qualcosa, anche quando le capitava di sentirla litigare con suo fratello. Probabilmente, perché quest’ultima la considerava come una sorella, e perciò, anche in quella circostanza, le parve di doversi mettere subito a cercare una scusa plausibile.

Sarà n’amico.” , provò a spiegare a se stessa, pure se sapeva che Giulia, di amici ai Parioli, non ne aveva mezzo.

M’parente? N’conoscente?”.

Li osservò ancora. I due sorpassarono la Yaris che Giulia non riconobbe - per fortuna - e a quel punto, Lucia si lanciò verso i sedili posteriori afferrando saldamente le loro estremità.

Quel fiume bizzarro di persone dall’aria sfottente e presuntuosa - agli occhi suoi -, inondò il marciapiede facendo velocemente sparire la coppia avviluppandola nella marea.

“Cazzo!”, Lucia colpì il sedile.

Com’era possibile? Lei che tanto desiderava una storia come quella di suo fratello Michele e di Giulia, adesso si ritrovava a spiare da lontano la stessa che lo tradiva? Perché di questo si stava parlando, e Lucia, a malincuore, fu costretta ad ammetterlo. Possibile che tutti, ma proprio tutti le nascondevano sempre qualcosa? Sua madre, suo padre quando era sparito senza un valido perché, suo fratello quando spacciava e ora anche l’unica persona che le sembrava essere sempre stata sincera. Con il cuore serrato continuò a guardare quell’onda di teste parlanti, domandandosi se anche loro fossero bugiarde.

«Che stai facendo?».

Lucia non aveva sentito il tlac dello sportello, le era arrivata solo la voce di Francesca alle orecchie: così, all’improvviso, tanto da farla sussultare.

Si voltò di scatto e scorse la sua amica che la scrutava perplessa.

«N’cazzo…Stavo a vedè sti quattro scemi passeggià.», mentì la mora.

Francesca abbozzò una smorfia poco convinta ed entrò in auto.

«Allora? Come stai?»

Lucia scivolò nuovamente sul sedile di guida.

«Come sto…de merda, come vojo stà? Però nun pensamoce, me vojo divertì.», le sue dita scivolarono sulla chiave inserita nel cruscotto. La girò e mise in moto.

Francesca le sorrise. In quel esatto momento, speravano entrambe la stessa cosa.

                                            *****

 

 

Il ritmo del brano che stava letteralmente sfondando le casse, alle orecchie di Francesca sembrò ricordare un qualche motivo voodoo. Il suono sembrava penetrare la sua carne, rimbombando nella sua cassa toracica, scuotendole il cervello fino ad atrofizzarlo.

Il cuore le pulsava in gola, ma quello, non per il frastuono o  per quella casa abbastanza grande da contenere tutti i corpi che vedeva scuotersi sotto il ritmo incessante del brano. Francesca aveva paura. Paura di tutti quegli sguardi languidi e intrisi di alcool, per aver mentito ai suoi genitori e perché qualcuno l’aveva appena notata. 

«Ce sta pure ‘a cocca di mamma!», aveva sghignazzato Luigi, un ragazzo della sua età, suo compagno di scuola, che da qualche tempo l’aveva presa di mira.

Insieme al suo gruppetto di amici, nell’ultimo periodo, sembrava aver trovato in Francesca - o meglio, nel prenderla in giro - una specie di divertente passatempo.

Lei lo scrutò per un solo istante prima di sopprimere lo sguardo lanciandolo alla punta delle sue scarpe scure.

«Stasera t’ha fatto venire, mammina?», la sbeffeggiò ancora. Francesca era atterrita. Pensò a qualche risposta ma nessuna, in quel momento, le pareva efficace. Non era di certo il tipo di ragazza a cui le risposte venivano facili.

Non era mica Lucia.

«Ao! Luì perché n’te ficchi in bagno co una invece di rompe le palle?», Lucia gli andò a sbattere di proposito contro la spalla per poi voltarsi e rifilargli un’occhiataccia.

«’A solita rompi palle…», aveva commentato lui sbuffando, ma ringraziando Dio, e Francesca lo stava facendo faccia a terra, il leggero battibecco era finito lì.

Finalmente potevano godersi la festa, o quanto meno, Francesca sperava che accadesse.

Attraversarono quello che doveva essere un salotto e dalla porta successiva, Francesca poteva sentire la musica aumentare di volume e le voci amplificate in un crescendo di eccitazione come se dietro la parete ci fosse uno sciame di grilli. Ebbe l’impressione persino che le pareti stessero tremando.

Scansò l’anta di vetro della porta e in un sol battito di ciglia, si ritrovò catapultata al centro della festa.

Le luci erano spente, ad illuminare la stanza qualche apparecchio elettronico ed alcuni led agganciati alle pareti la cui luminescenza era esclusivamente blu elettrica.

Mentre avanzava, seguita da Lucia, veniva urtata da tutti quei corpi danzanti e più si guardava attorno, con il cuore a mille, più le sembrava di aver preso posto in una sorta di festa pagana dove, a braccia alzate, tutti stavano invocando un qualche Dio.

Il ritmo del brano aumentò. Adesso accanto a lei qualcuno stava saltando e scuotendo la testa in modo convulso.

Una parte di Francesca sembrava rapita da tutto ciò che le vorticava attorno. Dai passi, dalle risate, dalla calca. Stava sorridendo ad un certo punto, ammaliata dal contorno. 

«Siete arrivate!». A distrarla, Riccardo.

Era sgusciato fuori da un muro di ragazzi, tre quattro che stretti stretti se ne stavano lì, a ballare spalla a spalla; aveva raggiunto Lucia e la sua amica e ora stava sorridendo loro calorosamente.

Riccardo strinse Lucia in un abbraccio quasi fraterno e subito dopo sorrise a Francesca.

«N’ce potevamo perde ‘sta festa!», Lucia sembrava euforica.

Il brutto broncio che aveva accennato durante il tragitto in auto era sparito, lasciando posto ad un sorriso furbo, euforico, pronto a qualsiasi idea le fosse saltata in testa.

La festa si intratteneva nel quartiere di Francesca.

Da quanto ne sapevano le due ragazze, si erano imbucate ad un diciottesimo di un amico del suddetto Riccardo. Un tipo che giocava con lui a pallone, che né Lucia, né Francesca avevano mai incontrato.

Anche in quel momento, non avevano idea di chi fosse.

 

Lucia e Francesca erano al centro della pista, mani nelle mani e ballavano, saltavano, scuotendo la testa proprio come Francesca aveva visto fare da tutti quei ragazzi non appena era arrivata.

Le sembrò il momento più felice e normale della sua vita. Stretta nelle mani della persona di cui si fidava di più, anche Lucia provava la stessa sensazione.

Cantando a squarciagola, le due mimarono le parole di un brano che sentivano spesso in auto di Lucia e che ora, stava rimbombando per tutto il pian terreno.

E’ così che le persone si sentono libere? Si domandò Francesca fissando gli occhi profondi della sua amica.

In quel momento si rispose di sì.

Per la prima volta, era già passata un’ora e nessuno l’aveva reclamata bruscamente. Le parve un miracolo.

Poteva, finalmente, sentirsi come le sue compagne, come tutti i corpi anonimi dentro quella stanza.

E rideva, felice.

Lucia avvolse al collo della sua amica entrambe le braccia.

«So’ felice che ce stai pure tu.», disse alzando la voce abbastanza perché Francesca la potesse sentire.

La bionda si scansò appena dalla guancia della sua amica e le sorrise raggiante.

«Anche io.»

                                             ******

 

«Che ce stamo a fa ar monno, Francè?».

«Ma che dici, Lucia?»

«Si, che ce stamo a fa? Pe condivide ‘a vita nostra co i bugiardi e gli ipocriti? Pe soffrì? Perché?»

La situazione, quasi all’alba, era precipitata. Francesca non sapeva come fosse successo. Lei e Lucia erano state, per lo più, sempre insieme, poi quest’ultima si era allontanata per fumare una sigaretta e Francesca aveva ingannato l’attesa ballando con Riccardo. Quando Lucia aveva fatto ritorno in pista già stava conciata per le feste.

Ora farfugliava frasi che, alle orecchie della sua amica, sembravano assurde e si reggeva a malapena dritta.

«Lascia sta’. Nun me capisco manco io.»

«Quanto ha bevuto?», domandò Riccardo a Francesca mentre Lucia gli si accasciava sulla spalla.

«Non lo so, poco.», rispose agitata Francesca. Anche se non era colpa sua, in quel momento si sentiva responsabile per lo stato della sua amica. “La dovevo controllare di più”, si castigò mentalmente. Francesca conosceva bene Lucia. L’aveva notato lo sguardo elettrico non appena avevano messo piede a casa del festeggiato. Come aveva potuto ignorarlo?

«Lucì, lascia perde ‘ste domande. C’hai ventuno anni e na vita pe pensà alla risposta. Stamo a ‘na festa…Balla co me.», le disse Riccardo, guardando la mora con una punta di preoccupazione.

«Scusa Riccà, ma sto pe sbrattà.»

Lucia si sentiva un po’ così. Mezzo relitto nel mare dei cazzi amari. Con le persone della vita sua che le mentivano in continuazione e lei che si sentiva svuotata ogni volta. Non stava proprio bene Lucia. E sbrattare ad una festa, insieme a Riccardo e Francesca, litri di alcool, un tiro d’erba e ‘na pomiciata - se capitava -, non è che la facesse sentire meglio.

Francesca e Riccardo non fecero nemmeno in tempo a trascinarla fuori dal salone. 

«Ao! Mi sa che me so sbrattata fuori pure i sentimenti stavolta.»

«Cazzo Lucì, m’hai vomitato su ‘e scarpe! Se nun te stai zitta i sentimenti te li faccio smette di provà pe sempre!»

Riccardo non diceva sul serio. Lucia gli vomitava sulle sneaker almeno tre volte al mese. Anche quattro. E le minacce poi passavano.

«Fallo Riccà, ammazzame i sensi, tanto è come che stanno congelati.»

«Non dire cazzate, Lucì.»

Lucia se ne rideva di quel riso amaro che ti viene fuori quando stai a soffrire ma t’importa poco.

Barcollava tutta storta, schiena china, gambe tese e strascinate, si poggiava alla ringhiera, ora al muro, ora all’amica Francesca, ora al collo di Riccardo.

«Riccà che c’ha ‘a amica tua?», gridò un ragazzo, probabilmente il festeggiato, tra la folla.

«Fammela portà sopra! Pare che sta a morì e me sta a spacca i bracci a forza de tenella come ‘n manichino de legno.»

Lucia non se lo ammetteva, ma stava male. Male davvero. Mandava giù cocktail per annegarlo a quel sentimento così fastidioso che le opprimeva il petto, e quando non bastava, quando quest’ultimo tornava a galla ondeggiando sull’acido del suo stomaco, si faceva un paio di tiri di canna.

“Almeno me s’addormono i sentimenti”, si diceva prima che le labbra le sfiorassero il filtro bucato. E in parte era proprio così. Necrotici, marci, dolorosi come una ferita non abbastanza profonda sembravano sopirsi sotto il fumo incensato dell’erba. 

Salirono a fatica le scale. Francesca che la teneva per un braccio, Riccardo per l’altro.

«Daje…Manca poco…», mormorò lui mentre si sentiva trascinare da una parte all’altra dal peso di Lucia.

Guardò Francesca. Aveva proprio il viso sgomento «Nun te preoccupà, Franci. Je passa.» 

Francesca scrutò Riccardo e le parve che a lui fossero note quel genere di cose. Come se fosse un film trito e ritrito dove, alla fine, il ragazzo si ritrovava sempre a scortare l’amica sua da qualche parte.

Francesca annuì poco convinta e continuò a trascinarsi, anch’essa, il peso dell’amica su per le scale.

 

«Nun ce voglio sta’ su sto letto, vojo sta a casa mia!»

Protestò Lucia sollevandosi dal materasso.

«Lucì n’se po’. Devi da sta’ ferma.»

«Ti devi riprendere.», mormorò Francesca. Il cuore che era tornato a batterle in gola.

«Mollame! Devo andà in bagno!»

Ricardo sospirò esausto: «E' occupato.»

«Che faccio? Piscio qua?»

«Nun ce puoi andà ar bagno, oh!»

 

Non contenta Lucia incominciò a strillare.

 

«Perché non può andare in bagno?», domandò avvilita Francesca.

Solo allora, Riccardo la prese per un braccio e allontanandosi un momento dal materasso, le spiegò che chiuso nel bagno c’era Marco con Maddalena, che lo aveva visto salire mentre Lucia stava vomitando e che lo stesso gli aveva fatto un gesto eloquente con l’indice, chiedendogli praticamente di stasse zitto.

Dentro il petto di Francesca montò la rabbia.

Guardò la sua amica che s’era ridotta ‘na pezza e pensò a quanto fosse bastardo Marco, poiché, secondo lei, era proprio colpa del ragazzo se ora la sua amica stava così.

Mentre continuava a lamentarsi, Lucia, ancora poco lucida, si rotolava sul letto.  Francesca e Riccardo cercavano di convincerla a stare ferma. A rilassarsi, magari a dormire per smaltire la sbornia, ma non c’era verso.

«E vattene!», protestò lei scansando le mani di Riccardo dai suoi piedi. 

«Nun lo vedi che stai zozza di vomito? Te vuoi toglie’ almeno ‘e scarpe?»

«Non puoi stare con le scarpe sul letto, Lucia.», Francesca mantenne un tono di voce pacato, sperando che bastasse la calma per farla tranquillizzare.

«Sai che me frega!»

Sembrava una causa persa, però, adesso, almeno Lucia se ne restava stesa e non aveva più provato a sollevarsi.

Riccardo a quel punto decise di riprovarci: si sentiva in colpa per le lenzuola sporche. Era a casa di un ragazzo della Roma bene che lo aveva invitato come se fosse uno dei suoi migliori amici da sempre, aveva imbucato due ragazze e una delle due ora gli stava devastando la camera.

«Te fermi?»

Allungò le mani sulla cerniera degli stivaletti tacco dieci di Lucia e ne abbassò una.

La ragazza sollevò appena la testa nella sua direzione. Uno sguardo sornione e un sorriso leggermente storto le si disegnarono in viso.

«Ce stai a provà, Riccà?»

Lui fece una smorfia e continuò a sfilargli le scarpe.

«’O so che ce stai a provà. L’ho capito dal primo giorno che m’hai rivolto la parola che te piaccio ‘na cifra.», sghignazzò rigettando la testa indietro «Ma er core mio è di Marco.»

Riccardo non disse una parola, ma si era fatto terribilmente serio e Francesca lo aveva notato.

Serio, e forse pure ferito nell’orgoglio perché a Riccardo, Lucia, piaceva veramente.

Le aveva rivolto parola durante l’ora di Italiano di almeno 3 anni prima. Passandosi una penna, ecco come si erano conosciuti. E grazie a quella biro dal cappuccio mangiucchiato ora erano inseparabili. Ma non come voleva lui.

Con il passare del tempo, Lucia si era fatta sempre più bella con il suo sorriso perfetto e gli occhi che raccontavano di pensieri profondi. Riccardo, lentamente, notò che Lucia per lui sarebbe potuta essere anche altro.

Peccato Marco.

«Perché non prendi un po’ d’acqua?», chiese a Francesca.

La ragazza stava annuendo, già pronta a gettarsi lungo le scale per trovare quanto chiesto, quando, un paio di ragazze si infilarono lungo il corridoio e passarono davanti alla porta aperta della stanza.

«Nun ce potete annà ar bagno!», gridò sguaiata Lucia.

Un momento rideva. L’altro mugolava di dispiacere, l’altro ancora voleva rompere tutto.

In quel momento rise.

Una delle due ragazze, tale Carlotta, si affacciò con la testa dentro la stanza e mimò un sorriso che, agli occhi di Francesca, sembrò spietato: «Guarda che ‘o so chi ce sta’ dentro.»

Lei si, non Lucia. No di certo.

«E sentimo, chi ce sta’?», schiacciò il viso sul cuscino in direzione dello sguardo della ragazza.

«Non importa.», Riccardo, che si era seduto sulla poltrona girevole accanto alla scrivania, era balzato in piedi pronto a chiudere la porta in faccia a quelle due.

Ma Carlotta, lo anticipò. 

«Ce sta’ l’ex tuo.»

Fu una frustata dietro la schiena di tutti.

Francesca deglutì. Quella frase aveva solo anticipato ciò che sarebbe successo un attimo dopo.

Lucia, come una furia, si sollevò dal letto. Tanta la rabbia che, nonostante non si tenesse proprio dritta, nonostante avesse urtato con il fianco lo spigolo della scrivania, sembrava non sentire niente e procedeva spedita come un proiettile verso la porta.

«Lucì. Lucì!» Strappò via da sé le mani di Riccardo e spintonò Carlotta che, nel frattempo, sembrava ridersela di gusto.

«Apri, pezzo di merda!»

Il bagno era solo una porta più in là sul fondo del corridoio. Non si sentivano rumori all’interno e per un momento, tutti sperarono di trovarlo vuoto. 

«Lucia lascia perde!», cercò disperatamente di fermarla Francesca, beccandosi uno spintone.

«Apri ho detto!»

Riccardo, fissando la scena, si passò le mani sul viso.

«Nun ve potete mai fa i cazzi vostri, ve’?», guardò con astio le due.

«Perché lei è sempre carina e gentile co noi?»

«Marco, esci da quel cazzo de bagno!»

I pugni ripetuti sulla porta, le grida: qualcuno li avrebbe potuti sentire. Magari qualche vicino e avrebbe chiamato la polizia, specie ora che, al piano di sotto, qualcuno aveva abbassato notevolmente il volume della musica.

«Così chiamano ‘i sbirri! Te vuoi calmà?», gridò Riccardo.

«Non sarebbe tanto male.», rispose Francesca accennando un sorriso timido «Almeno la smette.»

«A Francè nun lo dì manco pe scherzo! ‘O sai che giro d’erba che ci sta qua dentro?»

Francesca a quell’affermazione si sentì esattamente come molte altre volte, ingenua.

Come aveva fatto a non pensarci?

 

Ad un tratto la porta si spalancò.

Marco aveva la felpa sgualcita, le labbra rosse, lo sguardo annebbiato.

Quando apparve dietro l’anta, il cuore di Francesca e forse pure quello di Riccardo, persero un battito.

Maddalena gli stava dietro. Inespressiva, almeno all’inizio.

Quando vide Lucia scagliarsi contro Marco, la sua espressione mutò.

Soddisfazione. Timore. Altra soddisfazione. Nervi per essere stata interrotta.

«Ma che cazzo vuoi, Lucì?!»

Marco le teneva i polsi, rifilandole sguardi carichi di fastidio.

«Sei ‘na merda! Come hai potuto?», pianse la ragazza.

Francesca sapeva bene che Marco non sarebbe stato la vittima delle sue percosse. Lucia aveva già sfiorato con lo sguardo la sagoma spettinata di Maddalena che, come lei, si stava preparando allo scontro.

«Puttana!», gridò Lucia rievocando agli occhi di Francesca una scena già vista.

Nonostante Marco, prontamente, l’avesse afferrata per il busto, Lucia riuscì ugualmente a sferrare qualche calcio alla ragazza colpendole un dito e tutta la mano successivamente.

«Nun te vuole più, oh! Mettitelo in testa, nessuno ti vuole!».

Maddalena aveva ricacciato il peggio dalla sua rabbia.

«Te, co ‘a madre tua che batte! ‘O sanno tutti!»

«Mo ha rotto il cazzo!», Riccardo non voleva più sentire le schifezze che stavano uscendo dalla bocca di Maddalena e così, si fiondò su Lucia, strappandola dalle braccia di Marco e trascinandosela lungo il corridoio.

Francesca li seguì velocemente ma non prima di aver lanciato uno sguardo torvo a Marco.

 

«L’ammazzo! L’ammazzo a quei due stronzi!»

Fecero sedere Lucia in giardino. Francesca si chiese persino come avevano fatto ad arrivarci con lei che scalciava come una furia, che gridava in lacrime. Ma ce l’avevano fatta ed ora Lucia era seduta sul dondolo e stava singhiozzando.

«E’ un coglione, Lucì.», Riccardo si lasciò scivolare seduto accanto a lei.

«Concordo.», mormorò Francesca.

«Valle a prendere l’acqua, così le pulisco il viso.»

Lucia aveva tutto il mascara colato. Una linea nera e profonda che tagliava le sue occhiaie in due, disegnandoci una maschera di dolore sopra.

«Vado.»

Francesca si affrettò a superare la veranda e tornò nel cuore della festa.

Come detto, era quasi l’alba e molta della gente che aveva visto all’inizio sembrava essersi ritirata.

Il pavimento era cosparso di bicchieri vuoti, cartacce e liquidi di cui Francesca desiderava non sapere la provenienza. Non desiderava nemmeno essere nei panni della governante che il giorno dopo sarebbe andata a pulire quella casa!

Scavalcò un mucchio di sporcizia e le gambe di qualcuno che se ne stava con la schiena premuta contro il bordo del divano, la testa penzoloni e una bottiglia mezza vuota fra le dita, mentre sonnecchiava in preda alla sbornia. Ignorò le facce sfatte dei ragazzi che continuavano a ballare molli sulle loro gambe e raggiunse un grosso tavolo ormai non più colmo di vivande.

Intonse c’erano una decina di bottiglie d’acqua.

Ne prese una e soddisfatta fece per tornare fuori, quando, ai suoi occhi apparve la borsetta della sua amica. L’aveva lasciata proprio su quel tavolo, abbandonata come un vecchio ricordo e sembrò un miracolo che fosse ancora lì.

Francesca la raccolse, l’aprì e frugò dentro per esser certa che fosse di Lucia. Era sua.

Mentre le sue dita stavano cercando di chiudere la bocca della borsetta, gesto non facile con la bottiglia stretta sotto il braccio, sentì il cellulare vibrare.

Lo cercò e quando sbloccò lo schermo notò che c’era un messaggio.

 

“So le cinque, do cazzo sei finita?”

 

Il mittente era un certo Michele. Francesca lo aveva sentito nominare diverse volte e aveva, suo malgrado, visto pure il notiziario in tv quando era stato arrestato.

In quel momento, però, non le importò del notiziario, dell’arresto, dell’attimo in cui di sfuggita aveva visto il viso furente del ragazzo dentro lo schermo del suo plasma: aprì il messaggio.

 

“Sono Francesca, un’amica di tua sorella. Lucia sta poco bene, anzi non sta bene per niente. Puoi venire?”

 

Parlò con estrema confidenza, digitando il messaggio come se fosse la cosa più normale di ‘sto mondo.

La risposta non si fece attendere. Michele chiedeva l’indirizzo della festa e spiegò dove farsi trovare.

 

«Hai scritto a mio fratello?!»

Quando Francesca tornò dall’amica, non si aspettava una reazione del genere. Credeva di aver fatto la cosa giusta in fondo.

«Come cazzo t'è venuto in mente!?»

«Come ci torniamo a casa? Non lo vedi come stai?»

Francesca le passò la bottiglia e la borsa che Lucia lanciò nell’erba un secondo dopo.

«Te dovevi fa’ li cazzi tua!», gridò.

«Oh! Te voleva da ‘na mano, eh!»

Riccardo aveva ragione, Francesca voleva solo aiutare l’amica sua, mezzo relitto, che si era massacrata di erba ed alcool per addormentare i sensi.

Perché la vedeva così disperata, triste, sofferente che le si spezzava il cuore.

In quell’istante, Francesca decise che il dolore era la causa dei gesti più stupidi e poco sensati che le persone potevano commettere.

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Capitolo 4
*** 4. ***


“ Ar desiderio niente piace più di ciò che nun è lecito ”

 

4.  Francesca.

 

Alle cinque e un quarto del mattino, Michele raggiunse la casa dell’anonimo festeggiato a bordo della sua moto.

Francesca sentì il rombo del motore squarciare il silenzio di Roma che alle prime luci dell’alba di un giorno qualsiasi pareva essere tutta un’altra città. Maestosa sì, ma terribilmente silenziosa.

«Pe’ fortuna Miché.», Riccardo avanzò lungo il marciapiede, Lucia sottobraccio con le spalle coperte dalla sua giacca.

«Che cazzo v’è saltato in testa?». Gli occhi azzurri di Michele sbucarono da sotto la visiera del casco come due fari che squarciano la notte. Francesca li notò subito. Si domandò all’istante come quel ragazzo potesse essere il fratello biologico della sua migliore amica. Erano così diversi. L’unica cosa che li accomunava, si disse, era la parlata. Romano: lo sentiva calcatissimo.

«Non guardà a me,io non so che s’è calata.», si affrettò a dire Riccardo porgendo a Michele una spalla di Lucia come fosse un pacco.

Suo fratello la scrutò, fronte aggrottata, espressione che rasentava la rabbia.

«Oh, non te ce mette pure tu Miché, famme tornà a casa.», bofonchiò lei scrollandosi le mani di suo fratello di dosso.

Francesca osservò in silenzio la scena restando un passo indietro. Si vergognava terribilmente per quello che era successo. Doveva stare più attenta alla sua amica, la conosceva bene, sapeva di cosa era capace.

E non lo aveva fatto. Piuttosto, cosa era successo nel frangente di quel poco tempo che si erano perse di vista? 

Ancora se lo stava domandando mentre tremava dal freddo stretta nelle sue stesse braccia.

«Tieni Riccà», Michele porse la giacca al ragazzo e raccolse la borsetta di sua sorella che l’altro, gentilmente, aveva custodito fino ad allora.

Lucia, intanto, aveva già attraversato la strada e stava aspettando suo fratello e, Francesca probabilmente, premuta contro lo sportello della Yaris a braccia conserte.

«La prossima volta, scopatela invece di invitarla a ste’ stupide feste.», commentò infine Michele, prima di cacciare le chiavi dalla borsetta della sorella e sbloccare le portiere con il telecomando.

Riccardo diventò paonazzo. Non disse nulla, ricacciò solo una risatina isterica che morì lì dove era nata.

Attese un momento poi si rivolse a Francesca. «Allora…Ci becchiamo a scuola?».

Francesca annuì avvilita ma non perché lo avrebbe effettivamente rivisto l’indomani, piuttosto perché se la sarebbe dovuta fare a piedi fino a casa sua. Stava morendo di freddo e la testa le pulsava violentemente come se di lì a poco il cervello le potesse schizzare dagli occhi.

«Ao! Vieni o no?». La voce di Michele la riscosse dai pensieri.

Si indicò timidamente.

«Si, tu! Vuoi restare lì impalata?».

Schiuse le labbra per dire qualcosa. Qualcosa non uscì però e perciò attraversò la strada di getto.

                                  ******

 

Poco dopo l’asfalto le scorreva fuori dal finestrino velocissimo.

In auto c’era silenzio, nemmeno la radio accesa. Lucia dormiva sui sedili posteriori, Michele guidava fissando la strada e facendo qualche boccata di sigaretta ogni tanto.

Fu proprio quella sigaretta ad interrompere il silenzio.

O meglio, chi la stava fumando.

«Te da fastidio?».

«C-Cosa?».

«’A sigaretta.».

«No,no.» Francesca serrò i dorsi delle mani fra le cosce e si richiuse a riccio nelle spalle. Stava morendo di imbarazzo. Di tutte le cose che le sarebbero potute accadere quella era la meno aspettata.

Non aveva mai incontrato dal vivo il fratello di Lucia né, tanto meno, aveva mai parlato con qualcuno che come lui godeva di una pessima fama.

Un delinquente, come lo avrebbe apostrofato sua madre e i delinquenti non si frequentano, a loro non si rivolge parola e non ci si torna in auto.

Quante volte lo aveva sentito dire da sua madre e guarda dov’era: in auto con un delinquente.

A quanti altri divieti avrebbe disobbedito di lì in avanti?

«Me spieghi che v’è preso? Tu stai bene me sembra.».

Francesca scrutò il profilo di Michele per un istante.

«L’ho persa di vista. Non so cosa abbia fatto, so che era uscita a fumare una sigaretta.».

Inaspettatamente, Michele ridacchiò.

«T’ha detto questo?».

Francesca si grattò la testa «Be’ a dire il vero l’ha chiamata spino, ma pensavo che significasse sigaretta.».

Michele sghignazzò ancora.

«Te non sei tanto…».

«Tanto?».

Francesca ebbe l’impressione che lui stesse spulciando un sinonimo fra i vocaboli in suo possesso perché ci mise un po’ prima di pronunciare un settico «Sveglia.».

Quel settico sveglia rimbalzò nelle orecchie di Francesca offendendola e umiliandola all’istante.

Perché effettivamente lei, tante volte, si era detta di non essere abbastanza scaltra per quelli della sua età come per la vita in generale.

Era un suo complesso e quello sgarbato del fratello di Lucia glielo aveva sparato in faccia come una pallonata.

Sentirlo ad alta voce le aveva stretto lo stomaco.

«No, forse non lo sono.» mormorò spostando lo sguardo oltre il finestrino.

In un’altra circostanza sarebbe scoppiata a piangere, ma era in macchina con un ragazzo che non conosceva, molto più grande di lei, che le aveva appena dato della scema in pratica, perciò non poteva permettere ai suoi impulsi di prendere il sopravvento scavandole la fossa definitivamente.

Calò un velo di silenzio in auto che durò qualche istante.

«Che te sei offesa?».

«Chi? Io? Pff, assolutamente.» Francesca non riusciva neanche a guardare in faccia Michele. Solamente i suoi occhi azzurri riuscivano a metterle soggezione, piuttosto sarebbe morta soffocata se si fosse scontrata ancora una volta con il suo sguardo.

«Me pareva.»

«Te pareva male.» Rispose con una minuscola punta di acido nella voce. Tono che fece ridacchiare Michele.

A Francesca ribollì il sangue. Non si era mai sentita così sciocca prima di allora ed era una sensazione che non le piaceva affatto. Ad un certo punto, ponderò l’opzione tornare a casa e le sembrò ideale, solo che aveva promesso a Lucia di restare da lei e se così non avesse fatto, conoscendo la sua amica, forse ci avrebbe chiuso i rapporti.

No, non era il caso. Marco l’aveva ferita abbastanza, Lucia aveva bisogno di qualcuno vicino a lei.

«Arrivati.», Michele accostò bruscamente e spense il motore della Yaris. Il casco della sua moto ruzzolò dal sedile posteriore a terra facendo voltare Francesca di scatto.

«La moto?». Perché lo aveva chiesto? Che le importava? Stava tentando di proseguire un dialogo con lui?

«Ce manno n’amico a pialla, nun preoccupatte.»

Non si stava preoccupando Francesca, non le interessava proprio nulla della moto. Per qualche malato motivo però, si sentiva partecipe nel rivolgergli parola, come se volesse restituire a se stessa un’immagine meno scema, meno bimba. “Posso parlare con un ragazzo più grande senza sembrare una bambina” è di questo che si voleva convincere.

Michele scese dalla macchina prima che lei potesse aggiungere altro e spalancò il sedile posteriore della Yaris.

«Oh, bella addormentata ‘a carrozza s’è fermata!».

Afferrò per i piedi sua sorella e la tirò verso l’asfalto.

«Vaffanculo!», sbraitò lei con i piedi puntati sul marciapiede.

«Si può sape’ perché mi devi fare sempre incazzare?».

«Perché me diverte.» In fondo facevano simpatia insieme.

Francesca li osservava bisticciare e ogni tanto sorrideva quando lei provava a colpirlo da qualche parte e lui per evitare di prenderle le gironzolava intorno.

A Francesca sarebbe piaciuto avere un fratello o una sorella con cui scherzare. Casa sua era sempre vuota, c’era la sua domestica ma non era la stessa cosa.

«Ao! Mo m’hai rotto il cazzo, e movete!».

Michele rideva e ad un certo punto pure Lucia aveva sorriso.

Ecco, pure Francesca stava ridendo pure se camminava in disparte e li guardava solamente.

In ascensore avevano smesso di darsi fastidio. Lucia fissava il soffitto, Michele spulciava le notifiche sul cellulare e Francesca scrutava le scritte indelebili che riempivano la cabina. Il palazzo di Lucia non aveva nulla a che fare con quello di Francesca. La vita dei palazzoni di Suburra non era di certo come la sua in quella dei Parioli. C’era una netta spaccatura fra loro che Francesca si ostinava ad ignorare per amore delle cose che non si sentiva di essere e che voleva provare.

«Noi ce ne annamo a dormì, vedi di non fa il cretino co l’amica mia.», lo minacciò Lucia una volta dentro casa.

«C’ho na voglia di fa il cretino co l’amica tua…», sbadigliò lui.

Per un momento Francesca si urtò. Non sapeva bene perché ma quella risposta le aveva dato fastidio. Cercò di far finta di nulla e tacque.

Casa di Lucia era silenziosa. Le luci spente, il soffietto della cucina semichiuso, la luce grigia del cielo che faceva capolino dalle vetrate smerigliate delle finestre. Forse sua madre non era in casa o forse stava dormendo, ma ai due fratelli pareva non interessare poiché si muovevano per la casa rumorosamente come se non ci fosse nessuno da disturbare.

«Vieni Francé.», Lucia le fece cenno con la mano di seguirla e l’accompagnò nella sua stanza.

Il letto era disfatto e c’era un po’ di tutto in giro, a Francesca però non importava. Per lei stare lì in quella casa era qualcosa di diverso. Era con la sua migliore amica e in quel momento le pareva di essere con una fantomatica sorella a fare cose da sorelle.

Lucia le prestò un pigiama e si infilarono sotto le coperte, strette strette. Prima di addormentarsi chiacchiecchierarono un po’ e finalmente Lucia rise, Francesca si sentì realizzata per quel momento e lentamente riuscì a prendere sonno.

 

                                         ******

Alle otto il cellulare di Francesca vibrò insistentemente fino a svegliarla. Con il cuore in gola lo artigliò.

Sul display, il numero di sua madre scorreva lento come il sangue che le si stava rapprendendo nelle vene.

I suoi genitori dovevano essere fuori per lavoro, non l’avrebbero sentita fino al tardo pomeriggio quando lei sarebbe rincasata dalla lezione di piano. Perché la stavano chiamando alle otto del mattino?

In preda al panico si alzò dal letto e cercò la porta del bagno.

Si chiuse dentro e rispose.

«Mamma?».

«Si può sapere dove sei?», gridò la donna dall’altra parte del microfono.

«A casa di un’amica.», a Francesca tremava la voce.

«Come sarebbe a dire? Perché la domestica non ne sapeva nulla?». 

A quel punto Francesca non poteva mentire.

«Perché non le ho detto nulla.».

«Francesca, vedi di tornare a casa immediatamente! Chi è quest’amica tua? Non sarà mica qualche cafonetta di periferia?».

Le spalle di Francesca si irrigidirono per i nervi.

«Torno a casa.», rispose ferma.

«Non usare quel tono con me!».

Si inumidì le labbra.

«Si, scusa mamma.»

La chiamata si interruppe bruscamente momenti dopo.

A Francesca pareva esplodere il cuore. Tutto ciò che sperava non accadesse era successo e sapeva quali sarebbero state le conseguenze.

Probabilmente però, avrebbe ammortizzato i danni se fosse rincasata immediatamente.

Ma come?

Casa di Lucia era veramente troppo lontana.

«Cavolo! Cavolo!», si picchiettò il cellulare sulla fronte mentre accovacciata a sedere sul bordo della vasca meditava un modo qualsiasi per tornare a casa il più in fretta possibile.

Proprio non le veniva niente in mente.

“Forse potrei chiamare Magda”, si disse. Ma poi pensò che nel farlo avrebbe messo nei guai persino lei. Francesca conosceva bene la furia di sua madre e sapeva anche che se Magda fosse rincasata con lei, sua madre sarebbe stata in grado di licenziarla in preda ai nervi.

Niente Magda.

Si morse un labbro.

“Non dovevo andare a quella festa”, si castigò mentalmente. Mentire non porta mai nulla di buono, aveva ragione sua madre.

Era in un bel pasticcio.

«Torno a piedi. Se mi metto a correre posso farcela in quaranta minuti.».

«Parli da sola?». Non si era accorta che la porta del bagno si era aperta. Se ne accorse solo quando il torace nudo di Michele le si piazzò davanti.

Per un momento ebbe l’impulso di coprirsi gli occhi, le guance le andavano a fuoco.

«Eh…Io, no. Ecco…». Lanciò gli occhi altrove e si ritrovò a guardare la biancheria intima buttata nel cesto dei panni da lavare. Voleva smettere di guardarla ma a quel punto avrebbe dato nell’occhio cercando disperatamente altro da fissare.

«Perché ti sei chiusa ar cesso e parli da sola? C’hai qualche rotella fuori posto?».

Francesca aggrottò la fronte senza rendersi conto che ora lo stava fissando dritto in faccia.

«No, sono apposto.».

Michele aveva una strana espressione divertita disegnata in faccia. Divertita e curiosa, come se quella ragazzina poco sveglia fosse un criceto chiuso in gabbia con cui giocare. E lui voleva per qualche insolito motivo vedere quel cricetino correre sulla ruota.

«Sicura?».

«Certo.»

Le sopracciglia di Michele fecero un piccolo balzo, piegò le labbra in un’espressione di disinteresse e attese un altro istante prima di chiedere a Francesca «Vabbè, posso piscià?».

Le guance della ragazza adesso erano viola dall’imbarazzo. Lui le notò, le le potè solo immaginare a malincuore.

«S-Scusa, hai ragione.», si affrettò a dire lei sbrigandosi a superarlo per uscire dal bagno.

A quel punto, Michele le afferrò un braccio, gesto che le mozzò il respiro.

«Ho sentito che parlavi a telefono prima.», ammise, «Erano i tuoi?».

Fu difficile per Francesca ammettere che erano proprio i suoi genitori che la stavano rimproverando per non essere a casa.

«Si.», si limitò a dire. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla mano di lui stretta attorno alla manica del suo pigiama.

«Devi tornà a casa?».

Si morse un labbro per la vergogna e annuì.

«Ti accompagno.», sbadigliò lui lasciandole andare il braccio.

«Non c’è bisogno, posso tornare a piedi.».

Michele scosse la testa. «Lucia mi ha detto che sei della Roma bene, un po’ lontana da casa mia. Non trovi?».

Francesca ammonì lo sguardo. Lucia qualche volta poteva pure farseli gli affari suoi, comunque. Perché Michele le aveva ricordato di essere della Roma bene con un tono di voce che rasentava l’antipatia o forse il disprezzo stesso.

E Francesca gli avrebbe pure detto che non sarebbe salita di nuovo in auto e che, forse, non avrebbe più messo piede in casa sua ma in quel momento doveva tornare a casa più che mai.

Quindi si limitò a dire «Prendo le mie cose.».

Uscì dal bagno e si richiuse la porta alle spalle.

Moriva di vergogna Francesca. Quel ragazzo la metteva in imbarazzo già solo guardandola e lei non riusciva bene a capirne il motivo.

Non era il semplice imbarazzo che si prova a parlare con uno sconosciuto, quello dura poco. Era più persistente, non permeabile da un’eventuale motivazione. C’era qualcosa che l’attraeva. La sua diversità, quel modo di essere scanzonato ma soprattutto il proibito.

Sua madre le avrebbe tirato il collo se avesse saputo a chi aveva rivolto parola. Molto probabilmente, anche Lucia le avrebbe imprecato contro se Francesca le avesse confessato che quando Michele era apparso in bagno a torso nudo aveva apprezzato quella vista schiva e veloce.

Questo l’attraeva. I no a cui voleva disobbedire.

Due dita picchiettarono contro la porta di Lucia che dormiva beatamente.

 «Sei matto! Così la sveglierai!», strepitò a bassa voce, nel panico, Francesca.

Michele sorrise «Ha il sonno pesante, tranquilla.».

Francesca schiuse le labbra per dire qualcosa mentre i suoi occhi scivolavano sul profilo della sua amica. Effettivamente se la dormiva alla grande.

Sospirò e passò accanto a Michele con la sua borsetta stretta al petto.

Lui la osservava. Francesca poteva sentire i suoi occhi chiari addosso ovunque si muovesse in quella casa. Quasi la soffocavano.

E Michele…Michele non le riusciva a togliere di dosso lo sguardo. Troppo curioso per farlo.

Francesca era così impacciata e ingenua che lui stesso si era domandato più volte se ragazze del genere potevano esistere ancora o se Francesca stesse recitando una parte che le calzava a pennello in maniera ineccepibile. Perché non c’era più abituato a quel genere di ingenuità.

Giulia non era di certo ingenua o impacciata. Con lei c’aveva fatto le prime esperienze, c’era cresciuto e s’era spinto pure più in là. Giulia non era una santa ma nemmeno una persona cattiva. Era un’artista, come amava definirsi e da tale amava sperimentare, creare e spesso fantasticava anche un po’ troppo con l’immaginazione. Ecco perché lei e Michele tante volte litigavano. Perché lui era consapevole di essere nato in quei palazzoni di Suburra e che forse ci sarebbe pure crepato. Nemmeno ci provava a immaginarsi altrove. Lei invece amava pensarsi vestita di lusso su una bella barca a Mykonos a sorseggiare un drink. Troppo ambiziosa per lui.

Così le loro strade si erano divise quando Giulia gli aveva detto che s’era stufata di stare chiusa in cameretta a sfondarsi di spinelli e da un giorno all’altro era sparita senza farsi più sentire.

Michele ovviamente non l’aveva cercata i primi giorni, per orgoglio. Poi una sera, si era ubriacato co’ gli amici sua ed ecco che le aveva mandato quel maledetto sms. 

“Mi manchi”.

Lei gli aveva risposto che non provava lo stesso che lui non le mancava affatto, e lui aveva insistito un po’ finché Giulia non aveva sganciato la bomba.

“Mi vedo co’ uno”.

Sbam, dritto in faccia.

Michele aveva tirato il cellulare contro la vetrina del baretto e mo doveva al proprietario cento euro - cifra forfettaria e gentilmente accordata da quest’ultimo - per i danni.

Era un macello Michele quando si trattava di sentimenti. Rabbia, amore o dolore si manifestavano tutti allo stesso modo, con le mani. Con l’impulso di sfasciare qualcosa come se l’avesse per qualche motivo con il mondo intero; e se amava, invece, si sentiva sempre in difetto come se non meritasse di provare quel sentimento così bello e sconosciuto. 

Forse Francesca era simile a lui. Non le sembrava una ragazza che aveva avuto molto a che fare con l’amore. Non le ricordava minimamente Giulia e la sua ingenuità lo attirava anche più del dovuto.

Scesero la prima rampa di scale e Michele chiamò l’ascensore.

L’agitazione di Francesca si poteva tagliare con la lama d'un coltello.

Fremeva per tornare a casa, impietrita dalla compagnia di Michele e ancor più, terrorizzata dalla reazione di sua madre.

Guardò i numeri sulla sua testa illuminarsi. I piani scorrevano troppo lentamente per i suoi gusti e una volta dentro la cabina, le parve di respirare aria satura e pesante.

«Te la stai facendo addosso, vero?».

Francesca lo scrutò di sottecchi «No, ma ho una certa fretta.».

Lui ridacchiò sotto i baffi.

«Cosa ci trovi di divertente?», Francesca non si era mai sentita contemporaneamente così attratta e indispettita  dalla stessa persona come ci si sentiva in quel momento.

Michele fece spallucce e si infilò le mani nelle tasche del jeans.

Quando le porte automatiche dell’ascensore tornarono ad aprirsi le sembrò di respirare per la prima volta.

C’era il sole quella mattina. Una bella giornata di sole che lei avrebbe passato in punizione chiusa in camera sua.

Se solo Michele avesse saputo che, a vent’anni, Francesca veniva ancora messa in punizione! L’avrebbe sicuramente presa in giro a morte.

Francesca planò accanto allo sportello della Yaris. Mano serrata sulla maniglia, provò ad aprire l’anta un paio di volte poi guardò oltre il tettuccio impaziente.

«Vai di corsa?».

«Ti ho già detto di avere-»

«Una certa fretta», disse lui mimando il verso.

Francesca non poteva credere alle sue orecchie. Cos’era tutta quella confidenza non gradita.

Il tlack della portiera scattò e come una saetta Francesca si proiettò all’interno della vettura.

Avrebbe gridato a Michele di mettere in moto e partire ma restò chiusa in un doloroso e paziente silenzio.

Una volta in strada, tutto le sembrò meno opprimente.

Era sulla via di casa e anche se avrebbe ricevuto una bella lavata di testa, in quel momento, non poteva che sentirsi sollevata.

Abbassò il finestrino e lasciò che il vento le scompigliasse i capelli. Con l’avambraccio appoggiato sull’estremità dello sportello quasi non si addormentava.

Dopo un bel po’ di tragitto Michele le tornò a parlare «Allora? Dove giro?».

Francesca gli stava per rispondere “subito a destra” ma poi ripensò alle finestre di casa sua e al fatto che davano sulla strada, le venne un groppo in gola.

«Puoi accostare qui.», si affrettò a dire. Alzò lo sguardo e notò che sua madre era alla finestra ma per fortuna la loro posizione non le permetteva di vederli.

«Come vuoi…», Michele rallentò e accostò in prossimità del marciapiede.

«Grazie per il passaggio.», si affrettò a dire Francesca ma non perché volesse scendere come una saetta dalla macchina, piuttosto perché non sapeva bene come comportarsi.

«De nada.»

Michele guardò altrove e aspettò di sentire lo sportello aprirsi.

Quando Francesca scese dall’auto, inconsapevolmente si ritrovò a seguirla con lo sguardo. Chissà perché si ritrovava sempre attratto dalle situazioni proibite.

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