Gli altri giorni della loro vita

di Melisanna
(/viewuser.php?uid=9715)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gli altri giorni della loro vita ***
Capitolo 2: *** Le ragioni della vita ***
Capitolo 3: *** Il costo della vita ***



Capitolo 1
*** Gli altri giorni della loro vita ***


Storia scritta per la 200 summer prompts challenge del gruppo Facebook Non solo Sherlock - gruppo eventi multifandom
I racconti sono leggibili separatamente, ma si svolgono lungo la stessa linea temporale alternativa.


 
Gli altri giorni della loro vita

 
Si svegliò nella morsa di un dolore impietoso, che affondava le zanne nella schiena e nel ventre. Si svegliò in una corsia di ospedale, tra i lamenti dei malati e il puzzo di disinfettante e materia organica. Si svegliò febbricitante e in preda a vertigini violente che gli impedivano di distinguere il sopra dal sotto e gli causarono un onda violenta di nausea. Non riuscì neppure a chiedere aiuto mentre boccheggiava e vomitava sul lenzuolo. Cercando disperatamente di allontanarsi dal suo sudiciume, tentò di alzarsi, nonostante il dolore che gli attraversava il ventre, ma si ritrovò steso a terra, le gambe un groviglio inestricabile. Provò ad alzarsi, una, due volte, ma ogni volta si ritrovò disteso, mentre il panico si faceva via via largo in lui.

Non sentiva le gambe. Non le sentiva. Perché non riusciva ad alzarsi? Dov’era suo padre? Cosa stava succedendo?

Un’infermiera robusta, dall’aria arcigna gli si avvicinò. “Guardi un po’ che confusione ha fatto, Mr Joestar. Dovrebbe avere un po’ di rispetto per chi lavora, perché non ha chiamato aiuto?”

“Le mie gambe? Cosa avete fatto alle mie gambe?”

L’infermiera afferrò le lenzuola sporche, strappandole via dal letto “Che macello! Non si vergogna un ragazzo così giovane?”

“Non mi sento più le gambe, maledizione! Cosa mi avete fatto? Parla, mio padre te la farà pagare se non parli!”

L’infermiera gli rivolse per la prima volta uno sguardo quasi gentile “Suo padre non è mai venuto a trovarla, Mr Joestar, dubito che gli importi molto di lei. Quanto alle sue gambe… è solo colpa sua”.

“Co… colpa mia? Sono caduto da cavallo? Non posso essere caduto… Io non cado mai”.

L’infermiera lo afferrò da sotto le ascelle e lo mise a sedere sul letto, quindi gli prese le caviglie e gli distese le gambe sul materasso “Si è fatto sparare, sciocco ragazzo, non se lo ricorda?” Prese un quotidiano da un penny dal letto vicino e glielo gettò in grembo “Spero che lo shock non le abbia danneggiato la memoria, legga”.

E Johnny lesse. Lesse del teatro, dove non andava mai e perché mai aveva dovuto farcisi trascinare da una sciacquetta? E ricordò di come quella stessa sciacquetta, non avrebbe neppure saputo dire che faccia avesse o come si chiamasse, lo avesse convinto a saltare la fila. Lesse e si ricordò dell’arroganza con cui si era rivolto agli astanti, sicuro del prestigio che gli dava essere un fantino acclamato, dell’umiliazione dell’uomo a cui aveva rubato il posto e della sua folle furia. Lesse del diverbio e della sua tragica conclusione e guardò la foto, grigia e sfocata e immaginò il proiettile che gli aveva attraversato la spina dorsale, fracassandogli le vertebre e spiaccicando sul lastricato frammenti d’osso e midollo spinale. Lesse di come era stato portato d’urgenza in ospedale e di come la sua vita era stata appesa a un filo per giorni.

E infine lesse di come fosse straziato dall’infezione e dalle emorragie interne, le sue condizioni erano stabili, ma peggiori della morte stessa per un fantino professionista: le sue gambe erano perdute per sempre, nient’altro che un’inutile appendice, che non gli avrebbe permesso mai più di montare seriamente a cavallo.

Affondò il viso nel cuscino e iniziò a singhiozzare disperatamente, mordendo la fodera grigia. Era finito, caduto così in basso da non poter neppure sperare di risalire. Cosa gli restava ormai?

E suo padre non era mai neppure venuto a trovarlo.

Alla fine suo padre a trovarlo ci venne, ma fu solo per dirgli che avrebbe pagato le sue cure, finché Johnny non fosse uscito dall’ospedale, ma che poi avrebbe fatto meglio a non farsi vedere più, era la vergogna della famiglia, riusciva sempre a distruggere tutto. Con la sua idiozia aveva rovinato sé stesso, così come un tempo aveva rovinato la famiglia e ucciso Nicholas.

Passò le settimane seguenti uscendo e entrando dall’incoscienza, il dolore che gli azzannava il ventre e la schiena, la febbre che lo tormentava, squassandolo di brividi di freddo e vampate di calore, le ossa e i muscoli trafitti, come dopo le peggiori cadute. E soprattutto il panico, che lo assaliva appena riacquistava un filo di lucidità e lo perseguitava anche durante i suoi incubi. Non era più nessuno, non era più niente. Come avrebbe fatto a sopravvivere? Ma valeva la pena sopravvivere? Così senza uno scopo? Senza l’unica cosa che sapeva fare e che amava fare?

Chi era Johnny Joestar senza la sua prodezza in sella? Solo un inutile storpio.

La febbre si abbassò e i dolori si ridussero e iniziarono a parlare di dimetterlo dall’ospedale e implorò che non lo facessero, perché si sarebbe trovato per strada, non aveva un solo posto dove andare. E i suoi sogni si fecero ancora più agitati e da sveglio passava il tempo fissando il soffitto mentre lacrime che non sapeva di poter piangere continuavano a sgorgargli dagli occhi.

Una mattina si svegliò e ai piedi del letto trovò una figura snella, abbigliata di colori sgargianti, così fuori luogo in quel posto cupo, i ciuffi dorati che ombreggiavano il viso sprezzante, le gambe fasciate negli stivali da equitazione, immancabili persino per far visita a un malato in un ospedale.

“Come siete ridotto, Joestar, dovrò darvi una lavata prima di portarvi fuori di qui. E sarà bene che vi spunti anche quel cespuglio di capelli che vi ritrovate”.

Johnny ritrovò subito tutta la sua aggressività “Che accidenti ci fate voi, qui?”

“Neanche restare storpio vi ha fatto abbassare la cresta, vedo”.

“Come vi permettete! Infermieri, infermieri! Chi ha fatto entrare quest’uomo? Buttatelo subito fuori!”

Brando ridacchiò “Dubito che vi ascolteranno. Ho pagato per entrare”.

“Voi avete pagato, per venirmi a trovare? Che razza di scherzo malato è questo?” Johnny voltò la testa di scatto mentre sentiva gli occhi riempirglisi di lacrime di umiliazione “Volevate vedere con i tuoi occhi come sono ridotto: bene, eccomi qua, un inutile rottame” concluse mordendosi il labbro inferiore per trattenere i singhiozzi.

Brando si sedette sul letto accanto a lui e gli scostò i capelli dalla fronte, con la stessa delicatezza con cui sfiorava le froge dei cavalli “Non sono qui per questo”.

“E cosa volete da me allora, Brando?”

“Ho una tenuta e voglio iniziare un allevamento mio. Ma sono sempre stato solo un garzone di stalla, prima di iniziare a correre. Ho bisogno di qualcuno con più esperienza. Ho bisogno di voi, Jonathan”.

Johnny si lasciò sfuggire un verso di derisione “Non prendetemi in giro. Tutti sanno che siete in grado di valutare un cavallo con una sola occhiata”.

“Non basterò solo io. Non sto scherzando, Joekid”.

Johnny lo guardò negli occhi, ignorando le lacrime che continuavano a colargli lungo il mento e le guance “Non prendermi in giro, Diego. Non lo fare”.

Al viso di Brando successe qualcosa che cancellò per un secondo tutta la supponenza e l’arroganza che di solito mascheravano così bene qualsiasi altra emozione e Johnny si sentì quasi travolgere dalla quantità di sentimenti che trasparirono: compassione, affetto, rispetto, disperazione, imbarazzo, desiderio e paura, una paura folle. “Non lo farei mai, Joekid, mai”.

“Io l’avrei fatto, forse lo farei ancora”.

Gli occhi verdi di Brando sparirono per un attimo sotto i ciuffi biondi “Lo so”.

“Mi porterai via di qui?”

“Sì”.

“Dovrai occuparti di me per tutta la vita, se lo farai”.

“Lo so”.

Johnny chiuse gli occhi e ascoltò il battito frenetico del suo cuore. Forse non era finita. Non ancora.

“Allora verrò con te”.

Brando sorrise “In tal caso sarà meglio iniziare a sistemare questi capelli”. Tirò fuori da una tasca un paio di forbici e un pettine e iniziò a spuntarli.
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Le ragioni della vita ***


Le ragioni della vita


 
La prima volta Johnny aveva avuto il naso rosso e gli occhi gonfi per il pianto, dopo l’ennesima sconfitta.

Aveva sporto il labbro inferiore in un broncio da bambino e l’aveva guardato con pupille colme di odio, il braccio alzato e il pugno stretto in una minaccia silenziosa. Diego non aveva battuto ciglio. Era abituato all’odio. Era abituato ad essere picchiato. Lo avevano picchiato gli stallieri e i Lord, perché non era stato abbastanza veloce, perché aveva rovesciato un secchio o perché un cavallo stava male. O semplicemente perché era lì.

E da quando correva lo picchiavano fantini e proprietari che non sopportavano che un orfano venuto dal nulla tagliasse sempre il traguardo per primo. Non potevano batterlo in pista. Perciò lo picchiavano. Non avrebbero mai osato farlo davanti a Lord Wallgrave, ma bastava che il suo padre adottivo non li vedesse. Tutti sapevano che Diego era troppo orgoglioso per andare a lamentarsi con lui.

Diego era abituato all’odio, perciò non aveva battuto ciglio. E Johnny aveva abbassato il pugno e invece di picchiarlo lo aveva afferrato per il colletto e l’aveva baciato.

E quello Diego non l’aveva messo in conto. Quel bacio l’aveva mandato in frantumi. Non si era mai accorto prima di averlo desiderato dalla prima volta che aveva visto Johnny, i suoi capelli d’oro rosso e i suo occhi che si riempivano così facilmente di lacrime. Diego invidiava il modo in cui Johnny piangeva. Diego non era in grado di piangere, la sua sofferenza era un grumo che pesava tra il petto e la gola, come un nodo soffocante e non si spostava. Ci era così abituato da non accorgersene neppure più. Invece Johnny piangeva, come aveva pianto la prima volta che l’aveva visto, bambino, davanti a un fratello morto e un topo bianco, con la stessa disperazione, la stessa autocommiserazione e la stessa sincerità. Diego invidiava quelle lacrime. Le invidiava e desiderava baciarle e berle e asciugarle.

Ma Johnny sembrava avere capito, in un qualche modo segreto e istintivo, che quello che lui desiderava era affetto e non gli concedeva che feroce lussuria, che lo avvinghiava e lo tratteneva e lo paralizzava, quanto più dolore gli causava.

Diego era abituato all’odio, era abituato ad essere picchiato, ma non era abituato ad essere baciato e morso e accarezzato, a un corpo snello e androgino che strusciava contro il suo. Non era abituato a Johnny.
Johnny era il suo tutto eppure non era niente. Era ciò che aveva, senza mai possedere. Gli si concedeva solo per il piacere di sfuggirgli.

Diego era succube della sua vitalità, della crudele limpidezza con cui affrontava la vita, si abbandonava al pianto con la stessa passione con cui si abbandonava alla rabbia e alla gioia e al sesso.
E Diego lo invidiava e lo desiderava.

Da quando lo aveva portato via dall’ospedale, Johnny non aveva mai pianto e non l’aveva mai baciato. Sembrava prosciugato, privato di quell’energia con cui aveva sempre vissuto. Diego lo guardava fissare il mondo con sguardo opaco e spento e si macerava chiedendosi cosa potesse fare per riportarlo indietro. Preferiva il Johnny che lo odiava a questo, che ringraziava con tono monocorde e si lasciava mettere a letto come una bambola, immemore dell’orgoglio bruciante che lo aveva sempre animato.

Gli scansò i capelli dalla fronte, senza che Johnny reagisse in alcun modo, continuando a fissare il cielo oltre la finestra.

Non era più pallido e smagrito come quando l’aveva trovato in ospedale, ma lo sguardo vacuo che aveva negli occhi era per Diego altrettanto spaventoso. La luce della luna gli disegnava ombre bluastre sul viso, evidenziandone gli zigomi affilati. Diego avrebbe voluto chinarsi a baciarli, invece sospirò silenziosamente e fece per allontanarsi.

In quel momento, la mano di Johnny si mosse stringendo il lenzuolo, in una gesto da fanciullo impaurito. Senza riflettere, Diego la sfiorò con la propria e Johnny gli afferrò le dita. Dopo un po’ le sue palpebre tremarono e si abbassarono finalmente sugli occhi azzurri.

Facendo attenzione a non ritrarre la mano, Diego si sedette sul letto accanto a lui.


 
La tenuta di Brando contava di un piccolo maniero, affidatogli da Lord Wallgrave, circondato da un ampio giardino all’inglese, tutto erba verde e alberi frondosi e di oltre seicento ettari di terra adibiti a pascolo.

Johnny guardava gli uomini affaccendarsi intorno ai lavori per le stalle dalla finestra della sua stanza. Brando si era scusato, perché al pianterreno c’erano solo saloni e cucine e aveva dovuto dedicargliene una al primo piano. Così, ogni volta che voleva salire in camera, era costretto a chiamare un robusto servitore, che in ogni caso lo seguiva ovunque, e farcisi portare in braccio.

Un tempo si sarebbe sentito ferocemente in imbarazzo in una situazione del genere, ma, adesso, niente aveva più importanza. Sapeva perfettamente che l’accordo fra lui e Brando non era altro che una copertura e che il suo stato dipendeva unicamente dalla dubbia generosità del suo ex-rivale. Johnny non capiva cosa volesse veramente e non voleva neppure capirlo, prendeva ciò che arrivava senza porsi domande. Cos’era la sua vita, ormai, se non un sopravvivere strisciando giorno dopo giorno, sperando che Brando non si stancasse di quel suo giochetto?

Il suo padrone di casa correva instancabile da un cantiere all’altro, controllando ogni parte del lavoro, energico ed entusiasta, sotto la sua patina compassata. Quando erano ragazzi, Jonathan era stato convinto che quell’aria snob e quell’accento aristocratico fossero il risultato della sua educazione nobiliare, ma, crescendo, aveva realizzato che la maggior parte dei lord erano assai meno impostati di Brando. Lui non sarebbe riuscito a essere più rilassato o ad avere un accento meno marcato senza che emergessero le sue origini proletarie e il ruvido cockney che non aveva mai perso del tutto e gli sfuggiva se appena beveva un bicchiere di troppo.

E forse era per quello se Brando era l’inglese, e il fantino, più morigerato che Johnny avesse mai conosciuto. Mentre lui incedeva negli alcolici, cercando di perdere coscienza il più rapidamente possibile, Brando beveva pressoché solo tè e caffè, guardandolo con un’espressione di superiorità e compatimento che Johnny detestava. Magari era per quello che lo aiutava, per bearsi dei suoi successi davanti all’inutile storpio che aveva osato sfidarlo.

Qualcuno bussò alla porta, interrompendo i suoi pensieri. Johnny avrebbe voluto urlare che lo lasciassero in pace, ma neppure la sua intimità era più sua “Entrate, è aperto”. Sentì la porta che si apriva e poi silenzio.
Si voltò appena e incontrò lo sguardo di Brando, fermo sulla soglia, che lo fissava “Come state oggi?”
Scrollò le spalle “Non ho più molto dolore”. Per quello che valeva.

Brando gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla “Ritroverete la voglia di vivere, Jonathan. Dovete ritrovarla. Ho bisogno di voi”.

A Johnny sfuggì un sorriso amaro “Se è quello che volete, saprò ben fingere che sia così”.

Le labbra di Brando si tesero in una linea dura “Non parlate così. Non è questo che voglio. Dov’è finito l’uomo che conoscevo? Che non si arrendeva mai neppure alla centesima sconfitta?”

“È questo che volete, Diego? Riavere il rivale da umiliare?”

“Non siete mai stato questo per me”.

Johnny abbaiò una risata crudele “Perciò lo facevate senza nemmeno rendervene conto!”

“Non potete farmi un colpa dell’aver sempre voluto vincere. Vincere correttamente, qualsiasi cosa dicano di me. Se pensavate che vi volessi con me per questo, come avete potuto accettare di seguirmi?”

“Cos’avrei dovuto fare? Siete l’unica possibilità che mi è rimasta!”

Brando chinò la testa, stringendo i pugni “In questo caso…” mormorò “In questo caso… farete ciò che vi ordino”.

Johnny gettò indietro il capo, una luce di sfida negli occhi, felice che fosse finalmente venuto allo scoperto “Qualsiasi cosa”.

“Devo comprare una fattrice e un puledro. Preparatevi, voglio che veniate con me e mi aiutiate a scegliere”
e uscì con poche ampie falcate, sbattendo la porta dietro di sé.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il costo della vita ***


Il costo della vita

 
L’appaloosa spore la testa oltre il recito per afferrargli il panciotto e tirargli le falde con i grandi denti gialli. Johnny lo lasciò fare. Le sue tasche erano vuote, il pony sarebbe rimasto deluso. Il cavallino non parve però lasciarsi scoraggiare e continuò ostinatamente a mordergli i vestiti, sbavandogli sul petto. Colpito dalla sua testardaggine, gli sfregò con approvazione la larga fronte piatta.

Era stati tre giorni strani. Brando l’aveva voluto con sé per visitare la fiera e scegliere una fattrice incinta o con un puledro di poche settimane. Johnny si era costretto a fingersi interessato, pur consapevole che la sua triste commedia non veniva creduta. Nonostante tutto Brando aveva continuato a chiedergli consiglio, paragonando i pregi dei purosangue arabi, per cui aveva una predilezione e di quelli inglesi, che Johnny non aveva osato ammettere di preferire.

I cavalli, solo loro probabilmente, amavano Brando. Ammansiva anche il più riottoso con poche parole e l’offerta del palmo della sua mano e quando era con loro dimostrava finalmente i suoi pochi anni e dismetteva l’aria severa che riservava agli esseri umani. Rideva molto, pur non smettendo di analizzarli con la sua mente calcolatrice e i suoi occhi acuti.

Johnny si era trascinato dietro a lui, in mezzo ai recinti della fiera, in quell’atmosfera festosa, sentendolo discutere di zoccoli e denti e garretti e incroci e discendenze, senza riuscire a trovare nessun entusiasmo in quella ricerca che avrebbe dovuto essere appassionante. Un tempo gli piaceva accompagnare suo padre a scegliere i cavalli ed era sempre entusiasta e orgoglioso, quando gli veniva chiesto un parere. Adesso invece aspettava solo che arrivasse la sera per poter tornare a chiudersi nella sua camera d’albergo, cercando invano di dormire e dimenticare.

Ma la notte era ancora più crudele e spietata del giorno con lui. Non riusciva a far altro che rigirarsi nel letto, agitando le braccia e la testa, nel tentativo di scacciare i pensieri, tormentato del presente e dal passato.

Perché era stato così stupido? Così arrogante? L’angoscia gli prendeva le viscere ogni volta che lo assaliva il ricordo dell’idiozia con cui aveva rovinato la sua vita. Avrebbe solo voluto dare la colpa a qualcuno, a qualcosa e invece la colpa era stata solo sua che si era ritenuto immortale, solo perché era giovane ed abile e famoso e immensamente sciocco.

Giaceva nel letto e si appallottolava su sé stesso, stringendo a sé quelle sue gambe inutili, trascinandoseli al petto, quegli arti come rami secchi, con la forza delle braccia, cercando di tenere fuori il dolore e la disperazione e la vergogna, desiderando fuggire non sapeva dove, non sapeva da cosa e sapendo che non poteva fare altro che stare lì a macerarsi nella sofferenza e che, anche se avesse chiesto aiuto, nessuno glielo avrebbe potuto dare. Aveva fatto a pezzi tutto, distrutto tutto, suo padre aveva sempre avuto ragione su di lui. Avrebbe dovuto morire al posto di Nicholas. Avrebbe solo voluto che tutto fosse finito.

Eppure aveva paura di morire. Era vigliacco anche in questo. Restava aggrappato a Brando, perché era l’unico che potesse offrirgli una possibilità di sopravvivenza. Un tempo si disperava perché non riusciva a batterlo, perché non era il migliore di tutti! Che ragazzino sciocco, non si rendeva conto di quanto era fortunato. Lui, stupido coglione orgoglioso e pieno di sé, non aveva capito quanto era fottutamente felice.

Era stata di quello la colpa. Ecco di cos’era stata. Era stata della felicità. Di quella stupida, idiota, maledetta felicità che gli aveva fatto credere di essere invincibile. L’aveva fregato, dopo tutta la vita a sentirsi dire di non valere niente, scoprire di valere qualcosa, di poter avere stuoli di fan adoranti e di essere famoso in tutta America e persino nel vecchio continente, gli aveva dato alla testa. Gli aveva fatto scordare la prudenza e il buonsenso.

Ecco di cos’era stata la colpa: della felicità.

Se non fosse stato per la felicità che aveva provato quando aveva vinto la sua prima gara, non avrebbe pensato di poter sconfiggere Brando, di doverlo sconfiggere a qualsiasi costo e non avrebbe pensato di avere il diritto di superare una fila, solo perché una ragazzina faceva la lagna.

Stupido, stupido Johnny. Ora non aveva più niente, non valeva più niente. Perché non aveva saputo accontentarsi?

Ora aveva imparato ad accontentarsi, rifletté, grattando la testa al pony, aveva imparato a non essere ostinato, non come questo sciocco cavallino che continuava inutilmente a cercare mele e zucchero nelle sue tasche vuote.

Una mano si allungò accanto alla sua a dare una pacca all’appaloosa che alzò la testa incuriosito e fu prontamente ricompensato con una zolletta di zucchero. Il cavallino sbuffò e protese le labbra per afferrarla soddisfatto, lasciando la mano di Brando viscida di bava. Brando se la pulì sul collo pezzato del cavallino stesso.

“Vi piace?” chiese.

Johnny alzò le spalle “Avrà almeno sette anni, ma è furbo e resistente”.

“Potreste provare a cavalcarlo”.

Johnny lo fulminò con lo sguardo “Non dite sciocchezze, come posso fare, con queste gambe?”

“Avete solo bisogno di un bravo cavallo esperto. E questo lo è. Penso che lo comprerò”.

 “Non sprecate i vostri soldi. Anche se riuscissi a stare in sella, cosa potrei fare?”

“Non c’è ragione per cui dobbiate privarvi del piacere di cavalcare, anche se non potete più gareggiare”.

“Che piacere sarebbe, allora?”

Brando lo guardò sbalordito “Credevo amaste cavalcare”.

Johnny scrollò le spalle “Forse un tempo, io… non so… cos’avrei potuto fare, se non cavalcare?”

Le labbra di Brando si tesero “Comprerò l’appaloosa. E se non vorrete cavalcarlo potrete almeno scendere nelle stalle e passare del tempo con lui, come stavate facendo ora”.

Johnny sospirò e distolse lo sguardo “Io non vi capisco, Diego… Perché non mi lasciate stare? Faccio già tutto quello che mi chiedete. Cosa volete? Cosa volete da me?”

Senza voltarsi avvertì lo sguardo di Brando su di lui e la sua voce si fece più morbida e onesta e le consonanti vennero assorbite dal cockney “Voglio solo che vi perdoniate, Jonathan. Abbiate pietà di voi”.

Johnny si voltò e lo guardò negli occhi, la voce di Brando si fece ancora più bassa e quasi incerta “E abbiate pietà di me. Vi amo Johantan. Molto”.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4031391