Bocciolo di rosa

di summers001
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo – ottobre 1799
 
Andrè Grandier si muoveva a passi pesanti su di un sentiero selciato della Provenza, che conosceva quasi come le sue tasche. Sapeva perfettamente dove mettere i piedi. Usava un bastone per mantenersi in piedi, come fosse una terza gamba. Non riusciva a ricordare nessun animale in natura che avesse tre gambe. E sì, che negli anni aveva studiato, anche troppo. Di recente gli era anche ricapitato di mettere mano ad un libro di biologia, ma questa è un’altra storia. 
 
Correva l’anno 1799. Un uomo, Napoleone Bonaparte, aspettava la stesura della Costituzione francese. Tutti sapevano che sarebbe stata la sua chiave per assegnarsi il consolato ed il potere, prendere la Francia. Un nuovo Giulio Cesare, pensava ironicamente Andrè, sbeffeggiandolo. Non gli piaceva Bonaparte. Aveva imparato a sue spese che quando poche persone vogliono aiutare il popolo, in realtà lo stanno strumentalizzando per aiutare sé stessi. Sapeva quello che sarebbe successo, già se lo vedeva re, console o imperatore sul nuovo trono. La Francia, però, era stanca. Non voleva più combattere. Bonaparte stava raccogliendo i frutti di Robespierre, Danton e Saint-Just.
 
Nel frattempo, Andrè nelle campagne non riusciva a stare al passo del suo accompagnatore ormai da un pezzo. “Rallenta” continuava ad urlare, mentre i capelli grigi gli si appiccicavano alla fronte con un velo di sudore. Riusciva ancora a vedere dove metteva i piedi, forse non come lo faceva, ma la sua vista era stata così misericordiosa da non abbandonarlo mai del tutto. Nel gioco delle casualità, aveva barattato una vita per vedere ancora.
 
Raggiunse la cima della collinetta quando il sole disegnava piccole ombre puntiformi tra i fili d’erba. Una ragazzina dai capelli scuri se ne stava distesa a farsi sbruciacchiare la pelle. Teneva le braccia in alto, così che il suo colorito fosse uniforme almeno fino alle maniche a palloncino del suo vestito. Non le piaceva rigirarsi il braccio e vedere che il colore bronzino del sole si sbiadiva man mano che guardava sotto. 
 
Andrè queste fissazioni le conosceva bene. Si fermò a prender fiato appoggiato al bastone, cogliendo l’occasione per contemplare, per quanto riuscisse, la figura di Justine. “Incredibile,” fece lui scherzando “te ne stai qui mentre io soffro!” continuò additando la posizione beata e sorniona di lei. 
 
“Dici sempre che non vuoi essere aiutato.” Si giustificò la ragazza. 
 
Gli occhi di Andrè non riuscivano quasi a distinguere la differenza tra il verde del vestito di Justine e quello del prato, così che con la sua vista malata immaginasse lei come una sirena delle piante. Una ninfa di straordinaria ed acerba bellezza. Le si sedette accanto con movimenti misurati, per non suscitare alcun dolore del corpo e lasciò che il sole gli schiaffeggiasse la pelle temprata e ruvida. 
 
“Perché siamo venuti qua?” fece lei. Aveva la stessa impazienza di sua madre. Se non capiva diventava nervosa. Quando era più piccola faceva persino i capricci sbattendo i piedi a terra, poi crescendo aveva imparato a nascondere quel sentimento dietro uno sbuffo. Andrè credeva di notare tratti caratteriali di chiunque le fosse stato intorno dalla nascita, persino tratti di Oscar. Da lei forse aveva preso quel modo sfiduciato di approcciarsi a qualunque compito le si presentasse davanti, come se non potesse lasciar spazio a nessuno accanto a sé. Persino allora l’uomo non sapeva se si trattasse di consapevolezza di sé stessa o di eccessiva diffidenza verso gli altri.
 
“Credevo ti piacesse qui.” Rispose lui, godendosi quegli attimi di confusione della ragazza. 
 
“Mi piace, ma…” cominciò lei, lasciando però il resto della frase appesa, senza altre parole. Andrè non la aiutò. Attese per non forzare il suo lessico. Credeva ormai che le parole fossero uno strumento furbo, audace e sottile per attaccare. Ci teneva che la ragazza imparasse, si esprimesse e trovasse da sola le parole più adatte.
 
“Ma?” chiese solo, cercando di stimolarla. 
 
“Ma mi stai nascondendo qualcosa.” Disse tirandosi su e puntando i piedi nel terreno. Le scarpe affondarono e lasciarono il segno. Le mani sui suoi fianchi strinsero il vestito alla vita, arricciandolo in tante pieghe. Non era niente di festoso, né ampio. Seguiva la moda dell’epoca, era esattamente come i vestiti di Giuseppina. Un sottile nodo sul petto, la gonna che cadeva dritta sulle gambe. Nessun fiocco o ghirigoro. Già solo quello gli ricordò di quanto tempo era passato dalla corte di Versailles. Andrè sorrise malinconico. Già, pensò lui. Strappò un filo d’erba e cominciò a giocare. Se lo premette sulle labbra, come faceva lei, la sua Oscar, quando aveva l’età di Justine. 
 
“Allora?” chiese lei riscuotendo l’uomo dai suoi pensieri. Non voleva essere sgarbata, questo Andrè lo sapeva. Era solo che, a volte, Justine si trovava come tutti i giovani di fronte al muro di pensieri degli adulti e l’unica soluzione per riuscirlo a penetrarlo era riportarli alla realtà.
 
Andrè sospirò. Che coraggio, si commentò tra sé e sé. Le dirai proprio tutto? Sì, proprio tutto, si domandò in un monologo interiore. “Siamo qua perché è ora che tu conosca tutta la storia di come ti ho conosciuta, figlia mia.”

 



Angolo dell'autrice 
salve bella gente! Di ritorno dal lavoro, in una serata morta, vi pubblico una long. Strano, eh? Beh, saranno altri 3 capitoli più l'epilogo. È una storia drammatica, farà piangere. 
Spero di evitare l'OOC come le buche per strada. E spero soprattutto di sorprendervi.
Da qui in poi vi auguro buona lettura per i prossimi capitoli, fatemi sapere cosa ne pensate. Ci leggiamo al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


13 luglio 1789 – sera

Cara Justine, devi sapere che di notte non si combattono guerre. Di notte si riposa. I combattenti si ritirano per seppellire i propri morti, per riposarsi e dormire. In alcuni casi per preparare il prossimo attacco. In quella notte, noi, i soldati della Guardia Parigina ci eravamo ritirati dietro le trincee. Non si sentivano rumori di spari, cannoni, né scalpiccii di zoccoli e stivali. I feriti erano stati raccolti in una chiesa. I corpi cosparsi di fiori colorati, raccolti dai bambini e dalle loro mamme, che avevano approfittato dell’occasione per tenersi lontani dalle strade della città in tumulto.
 
Noi sopravvissuti ci sentivamo invincibili e così fragili insieme. Ci portavamo sulle spalle il peso delle anime di chi avevamo perso, come se avessimo dovuto combattere non più per una, ma per due, cento persone.
Ci ritirammo nell’appartamento che era appartenuto alla madre di Alain, tuo zio per così dire, l’hai conosciuto, figlia mia. L’appartamento era stato riorganizzato per accogliere i soldati della guardia in due stanze. Dal piano di sopra e da quello di sotto i concittadini di Parigi avevano messo a disposizione quelle poche cose che possedevano: qualche pasto, lenzuola vecchie, bicchieri, acqua pulita ed una sola saponetta. Alain, immaginai,  fu uno dei primi  a mettersi comodo. S’era scelto un angolo, ci aveva buttato sopra una coperta. S’era tolto la giubba e ne aveva formato un fagotto, insieme ad altri panni rubati qua e là. Insomma per una notte aveva un letto ed un cuscino. Credo che si unì agli altri che giocavano a carte per un po’. Cominciò a scommettere bottoni, perché era l’unica cosa che aveva. Almeno questo è quello che immaginai in base a quello che vidi dopo. Una giovane ragazza portò del pane, vari pezzi di formaggio e persino vino scadente. Se l’erano tolto dalla bocca i cittadini, o chissà potevano esser appartenuti ad un morto.
 
Me lo immagino ancora Alain a dire “Salute!” mandando tutto giù, per poi guardarsi attorno, a quelli che erano rimasti. Era una cosa che cominciò a fare spesso, forse proprio da lì. Chi non c’era, era nella chiesa, disteso. “Dov’è il comandante?” potrebbe aver chiesto poi sorpreso. S’era così abituato alla presenza di Oscar durante quella lunga giornata, che pareva strano non fosse con loro. Avevano avuto paura assieme, sudato assieme, lottato e sanguinato assieme. Non concepiva che il fatto che lei fosse ancora là con me.
 
“E’ davanti a quella chiesa.” Gli potrebbe aver risposto Gaubert.
 
“A fare che?”
 
“E che ne so!”
 
“Si staranno dando da fare!” Maurice faceva sempre una cosa: imitava prima un abbraccio, poi un bacio ed alla fine... beh, te lo racconterò più in là, forse un giorno. Era uno scambio di battute che avevo sentito fare un milione di volte. Ero sicuro lo stessero ripetendo anche lontano da me.
 
Ad Alain scappava sempre da ridere. “Come se non avessimo visto abbastanza azione oggi!" protestava sempre alla fine invidioso.
 
Oscar ed io sedevamo in effetti sui gradini della chiesa in cui erano conservati i corpi dei nostri compagni. Solo due famiglie erano venute a reclamare le salme. Erano i nostri soldati ed i nostri compagni. Doveva esserci qualcuno a badare a loro, almeno ancora per un po’. Allo stesso tempo però, la morte merita il suo rispetto, quindi eravamo usciti in punta di piedi ed eravamo rimasti fuori. Avevamo visto la folla piano piano disperdersi, le candele spegnersi ed eravamo rimasti soli, al buio e nel silenzio.
 
Non si muoveva un filo di vento. Il cielo si era coperto e qualche lampo ogni tanto faceva capolino nel cielo scuro. La guardai: teneva gli occhi bassi, si sfregava le mani tra loro ed a tratti guardava le nuvole preannunciare l’acquazzone. La conoscevo così bene che riuscivo a leggere i suoi pensieri: bene, pensava Oscar, verrà lavato il sangue. Credeva di essere fortunata ad essere ancora viva, come tutti noi del resto, solo coperta di sangue di qualcun altro. Sangue rappreso, che si era incrostato e reso i vestiti pesanti. Aveva provato a grattarlo via con le unghie, ma poi le era rimasto come sporcizia sulle dita. Provava disgusto al fatto che potessero rimanere solo quello di un altro essere umano, ma aveva anche deciso di continuare ad indossare il sangue.
 
“Dicevi sul serio questa mattina?” le chiesi, rubandola ai suoi pensieri. La voce mi venne fuori squillante. Ero sveglio, vivo, energico. Non sapevo cosa mi aspettava, ero solo felice di poter respirare ancora  a fine giornata. Le presi le mani nelle mani e me le tenni sulle ginocchia costringendola a guardarmi. Col pollice giocavo coi calli sul suo palmo destro, la mano della spada. Sembrava che ci stessimo raccontando un segreto. Oscar sollevò il capo aprendo gli occhi. “Marito e moglie?” le domandai alla fine.
 
Lei fece prima cenno di sì col capo. Poi le si schiarirono per un attimo i pensieri e sorrise. “Non avresti dovuto chiedermelo prima di ieri sera?” mi domandò in tono scherzoso. Chiuse gli occhi e si appoggiò sulla mia spalla. Puzzavo di polvere da sparo e sudore ed avevo timore che lo sentisse. Tempo più tardi mi confidò che al suo naso la mia pelle profumava di inverno. Come se fosse odore di vento freddo persino a luglio.
 
“No,” risposi tra il serio e lo scherzoso “tu non provi la merce prima di acquistarla?”
Devi sapere, Justine, che la notte precedente era stata magica. Mi aveva confidato di amarmi. E’ una cosa grossa, sai? Ci eravamo dati un bacio, avevamo chiuso gli occhi ed espresso un desiderio. Lo fanno tutte le mamme coi papà, ma non è stato questo il tuo caso. Tu sei arrivata dopo.
 
Oscar mi rimproverò. Lei mi rimproverava spesso imitando il tono di voce di mia nonna, la sua vecchia balia. “Andrè!” diceva. Mia nonna era così abituata a lanciare certi strilli contro di me che ormai mi ero guadagnato una personalissima inclinazione della voce e cantilena nel nome, che era quella che Oscar imitava. Era una piccola prova della vita che avevamo condiviso insieme. Allora le sorrisi e colsi l’occasione per alzarsi. Guardai per un’ultima volta la chiesa, ci tenevo, dovevo farlo, e tesi le mani verso Oscar. Istintivamente lei le prese e si lasciò tirare su. “Dove andiamo?” mi chiese.
 
Poteva fare finta di stare bene, di essere sveglia, persino irrequieta, ma non me la bevevo mai. “A dormire.” Le risposi. La guardai. Si muoveva poco convinta, come se avesse lasciato indietro qualcosa di importante. Anche lei si fermò a guardare la chiesa. Tutti l’avremo fatto da lì in avanti. Poi la seguii ed insieme ci dirigemmo all’appartamento di Alain.  
 
Camminammo lei avanti ed io dietro per un isolato. Raggiungemmo il posto in silenzio. Anche gli schiamazzi s’erano calmati, i soldati s’erano addormentati e le luci erano tutte spente. Varcammo il portoncino in legno ed in quell’istante cominciò a piovere. “Giusto in tempo!” le dissi sospirando sollevato.
 
Oscar si guardò dietro, verso la pioggia, fece un cenno col capo e cominciò ad avviarsi al piano superiore. “Mi sono reso conto adesso di non averti risposto.” La fermai con la voce. Mi tenevo le mani nelle tasche. Ero sorpreso persino io di sentirmi imbarazzato. Non so perché lo fossi.  Avevo ripetuto mille volte quelle parole solo con me stesso nella mia camera. Nella mia immaginazione però ero io che chiedevo a lei di diventare mia moglie. Tra i mille scenari non avevo pensato all’eventualità più ovvia. “Mi piacerebbe tanto.” Le dissi alla fine, come un imbecille.
 
Oscar si voltò e mi sorrise. Si avvicinò, mi prese le mani e cominciò a giocare con le dita. Accorciò tutta la distanza possibile e si posò qui sul mio petto. Riesco quasi a sentirne ancora la forma. C'era uno spazio, qui, tra la mia spalla ed il petto, che si incastrava perfettamente contro la sua guancia e la tempia. Si metteva qua e mi ascoltava il cuore. Tu-tum, tu-tum, tu-tum… Sembrava fosse stato creato apposta per lei quel posto. Gli innamorati si comportano sempre in modo stupido, Justine. “Non era questo,” mi sorrise pensando tra sé e sé “ma ti ringrazio.” bisbigliò “E’ come se mi sentissi in colpa di essere viva.” Mi confidò piano. Da lì cominciarono le nostre confidenze. Parlavamo e parlavamo per ore: a letto abbracciati, sulle scale della palazzina, sotto la luna dopo la Rivoluzione.
 
“Ed io chi avrei sposato se tu non fossi viva?” provai a scherzare con prontezza. Già sapevo di riuscire a farla ridere. Mi piaceva da matti come mi guardava a rideva poi. Pensai che la malinconia che avevo provato negli anni mi aveva sottratto quella parte infantile di me stesso, eppure in quel momento, nonostante tutto, stava tornando.
 
“Non l’hai ancora fatto.” Mi rispose.
 
“Rimedierò.” Le dissi.
 
Sai Justine, ho cambiato idea. E’ ora che tu sappia anche queste cose. Quando due persone si amano fanno l’amore. Fare l’amore significa toccarsi coi corpi e con le anime, con la parte più profonda di te che nessuno conosce. Ma deve essere una persona speciale e deve cominciare sempre con un bacio. Quella volta per esempio con Oscar la baciai. Mi piaceva da pazzi che fosse più bassa di me, anche se di poco. Mi piaceva che dovessi abbassare la testa per baciarla, che lei si lanciasse in punta di piedi contro di me. Ci avrai visto qualche volta, quando eri più piccola. Mi piaceva abbracciarla, accoglierla addosso, avvolgerla completamente. Fu un bacio sfiorato, appena accennato, ma sufficiente perché respirassi l’aria che le usciva dalla bocca. Aveva un sapore coinvolgente, ammaliante. Quando baci la persona che ami vuoi che quel momento non finisca mai. La lasciai solo per immergere il viso ed il naso nei suoi capelli, per riprendere fiato e pensare lucidamente.
 
Le mise le mani sulle spalle per darmi coraggio ed allontanarmi da lei o allontanare lei da me. La cercai, la guardai in viso: i capelli biondi illuminati dai lampi, gli occhi blu profondi nel buio, resi minuscoli delle occhiaia profonde che li circondavano. Le guardai le labbra piene, umide ancora di baci. I maschi, ancor più delle femmine, sanno essere feroci a volte in materia di amore. Io lo sapevo bene ed i miei stessi istinti e pensieri mi avevano terrorizzato in passato. Dimenticai quelle paure la sera precedente, quando lei si spogliò. Mi scoprii coraggioso e paziente. Dovevo essere tutto per lei. Con la stessa risolutezza che mi ero scoperto proprio in quell’occasione, mi dissi di no. Non ero un animale, non era così che mi dovevo comportare.
 
Anche in Oscar si era mosso qualcosa dentro. La capivo bene, leggevo nei suoi occhi i miei stessi desideri. Justine, hai mai notato che non riesci a sentire il tuo cuore finché non fa qualcosa di strano? Eppure è sempre là, che batte, fa rumore. Per gli innamorati è come sentire il proprio cuore fermarsi per un attimo. In quell’istante nessuno dei due sentiva il proprio cuore. Poi mi guardò come se non ci credesse del tutto a quello che le stava succedendo: essere viva, essere insieme, essere amata con tutte le forze. Ed io ti auguro di amare così, Justine, un giorno.
 
“Andiamo.” Mi disse lei. Mi portò su, sfiorò la porta per entrare. Si fece strada tra i corpi addormentati dei nostri compagni. Uno stava abbracciando una bottiglia di vino vuota. Un altro aveva un pugno di bottoni che gli uscivano dai pantaloni, mentre le giacche di tutti gli altri non ne avevano. Alain dormiva in un angolo, come ti ho  detto prima. Su una tavola trovammo una fetta di pane e del formaggio. Era per lei, per il comandante. In piedi, in mezzo ai soldati addormentati ed ubriachi, che russavano, Oscar giocò ad imboccarmi. Un morso per uno lo finimmo. Cercai di strappare parti sempre più piccole, per lasciarne di più a lei. Era dimagrita, me l’aveva detto spesso la nonna. Io non l’avevo notato, perso com’ero nel mio sogno di amore. Quando diedi ragione alla nonna non sapevo ancora perché, anche se lo sospettai da subito: le cameriere a palazzo Jarjayes avevano sempre parlato molto con me…
 
***
 
Ottobre 1799
 
“Non la voglio sentire questa parte, papà!” protestò Justine, che fino a poco prima se n’era stata buona ad ascoltare. Incrociò le braccia, girò la faccia e mise il muso, convinta di riuscirlo ad ignorare.
 
"Justine?” la chiamò Andrè con un punto di domanda, come se le stesso chiedendo di ascoltarlo. “La vita è fatta anche di dispiaceri.”
 
La ragazzina lo guardò indietro titubante. Voleva tirarsi via il braccio, scappare via e forse anche urlare, ma era grande, si continuava a ripetere, ed ormai la rabbia le era anche passata. Fece finta di rilassarsi, si atteggiò in posa coraggiosa tirando dentro aria dal naso. Quella parte già la conosceva, sapeva tutto delle malattie e della morte. Ancora a volte, quando sentiva dire in giro di qualcuno che stava male, si faceva prendere dal terrore che potesse succedere di nuovo. “Continua.” Gli chiese alla fine.
 
Andrè sorrise. Se solo sua madre l’avesse vista in quel preciso momento. Chiuse gli occhi e ripensò alle mani di Oscar che la accompagnavano nei suoi primi passi. Provava così tanto orgoglio per quello che Justine stava diventando che era inevitabile fare certi pensieri. Normalmente avrebbe scacciato la malinconia, ma in quel momento sapeva di doverla abbracciare, per riuscire a tirare tutto fuori per lei.
 
I genitori sacrificano tutto per i propri figli.
 
“Ti va se ti abbraccio un po’ mentre lo racconto?” le chiese “Così sono meno triste io.” Fece finta e lei gli si lanciò addosso, esattamente in quel posticino tra la spalla ed il petto. “Dicevamo.”
 
***
14 luglio 1789 – mattina
 
“Comandante!” ci svegliò Alain quella mattina. Per la precisione svegliò lei.
 
Oscar lo afferrò per il braccio, rigirandosi la giubba di lui tra le mani. Non lo faceva mai. Nessuno aveva mai turbato il suo sonno. Oscar aveva sempre dormito tra le lenzuola di palazzo Jarjayes, chi mai avrebbe potuto disturbarla lì? In quei giorni era spaventata. Lo fu durante tutta la rivoluzione. Avrei dovuto tranquillizzarla, ma i miei riflessi erano lenti quella mattina. Lo fece da sola, appena aprì gli occhi e riconobbe la figura burbera che le stava affianco. Richiusi gli occhi anch’io allora. Lei doveva avermi sentito, perché si alzò e portò fuori il nostro amico. “Andiamo fuori.” Bisbigliò.
 
“I cannoni della Bastiglia sono puntati verso la città.” Disse una terza voce. Era Bernard. Sissignore, proprio lui. Tu non l’hai conosciuto, mia cara, ma in un certo senso ha fatto in modo che tu nascessi. Forse più di uno, ma ci arriverò. “Dobbiamo rispondere al fuoco col fuoco. Ne abbiamo anche noi, ma ci servono soldati veri per usarli.”
 
“Comandante,” la chiamò Alain. Mi immaginai che lei non rispondesse per guardarsi indietro, verso di me magari, controllare che fossi vivo. Cominciò ad avere paura che una palla di metallo ci facesse saltare in aria da un momento all’altro. “Oscar!” la chiamò di nuovo Alain.
 
“Posso parlare prima con Andrè?” chiese lei, più preannunciando le sue intenzioni che chiedendone realmente il permesso. Sentii i suoi passi leggeri raggiungermi nella stanza. Dall’altro lato Alain sbuffò e si diede una pacca sulla coscia, come per additarci.
 
Mi misi in piedi appena lei fu da me. Mi domandò se avessi sentito. Certo che avevo sentito. Le feci segno di sì con la testa. Ci guardammo e leggemmo entrambi la paura negli occhi degli altro. Saremmo potuti morire questa volta sotto i cannoni. Non c’era scampo, ancor meno del giorno precedente. E se fossimo morti là? E se fosse morta lei e non io? Se avessi letto più a fondo i suoi pensieri, avrei capito che lei non aveva paura di morire. Oscar era già pronta a farlo di lì a pochi mesi. Era per me che aveva paura, la mia Oscar.
 
“Io voglio farlo.” Le dissi di punto in bianco. Le accarezzavo le mani e lei fissava le mie mani toccare le sue. Alzò poi gli occhi incredula. “Per i nostri figli, per una Francia migliore, per poterti sposare.” Le confidai. Quella notte avevo sognato tutto: mi immaginavo nervoso all’altare, la vedevo sorridere mentre le infilavo l’anello al dito, sentivo le farfalle nello stomaco all’idea di vederla portare in grembo nostro figlio. Parlavo di te, Justine, anche se ancora non lo sapevo.
 
Ed eccolo il primo momento in cui entrambi pensammo a te.
“I nostri figli?” mi chiese lei sorridendo. Chissà se ci aveva mai pensato prima di allora. Vidi l’idea solleticarle la fantasia, la vidi immaginare tutto questo, tutto quello che abbiamo ora. E sorrideva. Avevo avuto quasi timore nel parlargliene, credevo che mi avrebbe lasciato là per tornarsene a casa sua, nostra. Invece sorrideva. Sbalorditivo. Ammirai la meraviglia farsi strada sul suo volto. Non ebbi il coraggio di dirle sì, feci solo cenno con la testa e lei mi assecondò e fece lo stesso. La baciai a lungo. Un solo bacio lento ed infinito.
 
“Ehi piccioncini.” Ci interruppe Alain.
 
Oscar si allontanò senza vergognarsi. Sorrideva ancora. Non riuscivo a crederci che sorrideva per me, che io le avevo regalato quella espressione sul viso.
 
“Vado ad aiutare di là.” Le bisbigliai. Le lasciai un bacio sulla guancia. Che bello e che strano poter fare tutte quelle cose, raccontarle i miei sogni più nascosti, immaginare un futuro con lei affianco, come se fossi una persona normale, due persone normali che si erano conosciute ed innamorate. Diedi una pacca sulla spalla di Alain e mi allontanai.
 
Non riuscivo a non guardarmi indietro, a smettere di ammirarla. Oscar si stava mordendo il labbro, tornando forse alla realtà. “Alain,” poi la sentii dire. Ero già dall’altro lato della porta. Non ero più attento e non stavo ascoltando, ma posso giurare di averle sentito dire “se non muoio là sotto, fai in modo che succeda.”
 
Mi si gelò il sangue. Che voleva dire quella frase? E perché proprio allora che avevamo appena deciso il nostro futuro? Mi tirarono nella mischia, mostrandomi fucili, pistole, spade, sacchi di polvere da sparo per i cannoni. In cuor mio sapevo già tutto. Come ti ho detto, Justine, avevo già fatto due più due da tempo, anche se non volevo ammetterlo neanche a me stesso. Sapere che la persona che ami sta morendo sotti i tuoi occhi mentre tu sei là impotente, è tra i dolori peggiori che possano esistere in natura.
 
Ci facemmo trascinare dagli eventi. La incontrai di sotto. Avevo voglia di parlare, dovevo farlo, ma non volevo che la morte rovinasse quelli che potevano essere i nostri ultimi momenti, quindi vigliaccamente non dissi niente. Camminammo mano nella mano verso la Bastiglia. Non appena vedemmo le sue torri di lontano, cominciammo a tremare. Sapevamo che stavamo arrivando alla fine. La gente correva attorno a noi, ci trascinava, ma noi paralizzati e spaventati continuavamo ad avanzare piano. Vedemmo i cannoni puntare verso di noi.
 
Oscar fu eroica.
Oscar fu al massimo del suo splendore. Era nata per quello, per la guerra, per comandare, per porre fine alle dispute col suo pugno deciso. Era un generale in tutto e per tutto. Era un fuoco che bruciava ardente. Urlava e gli avvenimenti si piegavano al suo volere. Sembrava quasi che riuscisse a comandare persino gli eventi. Bruciava lei stessa di quel fuoco. Si sentiva viva, vibrante.
 
Poi fu un attimo. Il rumore dello sparo mi arrivò con un secondo di ritardo. Il proiettile era già a metà strada quando me ne resi conto. Nonostante avessi cercato di ronzarle sempre attorno, ero lontano allora. Alain però le era direttamente affianco. Pregai. Supplicai. Feci voto al Signore perché il mio amico non seguisse gli ordini che lei stessa gli aveva impartito, che fosse dalla parte della vita più che dell’eroismo. Fortunatamente così fu. Senza Alain sarebbe morta sul colpo con ogni probabilità. La spinse via con una mano.
 
Il proiettile che poteva colpirla in pieno petto all’altezza del cuore, le trafisse la spalla ed un polmone. Poco più tardi avremmo scoperto che era arrivato molto vicino alle grandi arterie del petto, ma si era fermata prima perché la giubba aveva rallentato la sua corsa ed evitato l’impatto mortale.
 
Cadde a terra, sanguinante ovviamente. Cercò di sollevarsi a controllare i danni, ma non ce la faceva. Era come se non avesse forze dalle braccia in giù. Con la mano si toccò il petto, se le portò agli occhi e vide il sangue insozzarle ed appiccicarle le mano. Provò sollievo e paura.
 
Io invece, terrorizzato, la raggiunsi di corsa e mi misi sopra di lei. La protessi col mio corpo dalla raffica di altri proiettili che arrivò dopo. Le feci da scudo coprendola completamente. Tenevo le braccia ai lati della sua testa sui sanpietrini parigini, con le gambe le nascondevo le gambe, col petto e la pancia tutto il resto. Ero col capo contro il suo e sentivo il suo respiro asmatico e pesante. Era rauco ma c’era. Quel suono mi diede il coraggio di rimanere fermo.
 
“Togliti, Andrè.” Mi ordinò monocorde. Sentivo gli spari sopra la mia testa, oltre le mie spalle. Alcuni proiettili mi sfiorarono la schiena. Uno qualunque di quelli poteva colpirmi ed io sarei morto esangue sopra di lei, ma non mi importava. Avessi dovuto risparmiarle anche solo un giorno, avesse dovuto respirare solo qualche secondo più di me, avrei dato la mia vita in cambio.
 
"Togliti." mi continuava a dire. Ed io no, no, non che mi toglievo. Scuotevo la testa e mi rifiutavo di muovere un solo muscolo. Oscar si agitò. Prese a colpirmi coi pugni sulle spalle, sul petto, contro il cranio tra i capelli. “Lasciami!” urlava a ripetizione. Non l’avrei mai lasciata, doveva saperlo, doveva averlo capito ormai.
 
“Sei pazza se pensi che ti lasci morire qui.” Le urlai di rimando ed allora smise di picchiarmi e pianse soltanto. Le lacrime le rigavano il viso, portandosi appresso sangue, fango e polvere da sparo, disegnando una bella riga pulita di pelle sul suo volto. Piangeva come una disperata, non l’avevo mai sentita piangere così. E stava ancora perdendo sangue. Sentivo i nostri vestiti appiccicarsi tra di loro.
 
Quando non sentii più gli spari, la abbracciai, la presi in braccio e me ne andai di corsa. Alain dietro di noi aveva preso il suo posto ed urlava “fuoco!”. Oscar poggiava il capo sul suo solito posto. Continuava a piangere singhiozzando. Io correvo a perdifiato. Mi facevo strada tra le persone, ignorando chiunque mi chiamasse o mi desse una voce. Mentre correvo lei ad un tratto cominciò a parlare. “Lasciami morire.” Mi supplicò, ancora piangendo. Non aveva mai pianto così a lungo e con così tanta disperazione.
 
Forse capii in quel preciso istante. Misi insieme i pezzi che il mio subconscio già aveva analizzato e li presentai alla mia coscienza. “No.” Mi rifiutai però mentre correvo ancora. Per nessuno di quei minuti di corsa mi abbassai per guardare lei. Concentrai la vista per tirare dritto. Focalizzai bene solo strada davanti a me, del resto non mi importava.
 
“Lasciami morire adesso.” Mi supplicava sempre. Mi sentii quasi offeso da quella richiesta. Come pensava che avrei mai potuto fare una cosa del genere? “Ho la tisi, Andrè.” Cominciò piangere. Me lo ripetette all’infinito. Se avessi avuto modo di rispondere le avrei detto che l’avevo appena capito, ma lei continuava a vomitarmelo addosso, ancora ed ancora. “Ho la tisi, ho la tisi.”
 
Raggiunsi miracolosamente la trincea.
Fui circondato da persone, ma non ne riconobbi neanche una. Uno di loro si presentò come chirurgo. Ordinò a qualcuno di tenermi da parte, a qualcun altro di tenere Oscar ferma. Lei urlava ancora a tutti di lasciarla morire. Le versarono dell’alcol sulla ferita. Oscar urlò di nuovo, forse urlai anch’io. Il dottore le infilò impavido un dito nella ferita, mentre due altri la tenevano per le spalle e per le gambe. Venne fuori il proiettile, ma a quello non bastava e, come se fosse stato per un momento illuminato dalla Sapienza, penetrò col polpastrello il suo torace di nuovo. Qualche giorno dopo mi confidò di aver sentito solo aria. Credevo fosse normale, invece no. Si chiamava pneumotorace.
 
Ricucì la ferita infine, mi venne vicino. “Pregate.” Mi disse solo e se ne andò.
 
***
Ottobre 1789
 
Justine ascoltava ormai con le mani sotto al mento distesa di nuovo nell’erba. Scacciò una formica dalle braccia, infastidita dal fatto che avesse distolto la sua attenzione. Anche se la morte e la malattia la spaventavano persino quando si parla di storie, era stata circondata per tutta la vita da racconti di eroi e combattenti per impegnarsi con tutta sé stessa nell’ascoltare. Era un esercizio per la sua tempra. Credeva di imparare così ad essere coraggiosa, sfidando le sue paure.
 
“Forse è il momento di fare una pausa.”  Le annunciò invece Andrè. La ragazzina sbuffò e suo padre le sorrise. “Riprendiamo tra poco.”


 



Angolo dell'autrice
Salve a tutti. Avevo il capitolo pronto ed ho deciso di inviarvelo, inutile che me lo tenga sul computer. Spero di riuscire anche a scrivere velocemente il prossimo. Fatemi sapere cosa ne pensate. Vi mando un saluto ed un bacio. Alla prossima! :*

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


14 luglio – sera
 
Oscar non faceva altro che dormire. Si addormentò subito dopo esser stata ricucita e non si svegliò neanche a notte inoltrata. Non avevo esperienza di tubercolosi. Non immaginavo neanche cosa fosse, sapevo solo che certa gente ci moriva e che era una malattia dei polmoni. Volevo chiedere di più, ma il dottore che l’aveva operata non sapeva neanche che fosse malata oltre che ferita. Feci come aveva detto lui di fare, continuai a pregare, ma non accadde nient…
 
***
 
Ottobre 1799
 
“Lo sapevo che sarebbe andata così!” sbottò Justine. S’alzò, calciò l’erba e si preparò a fare una scenata. Si paralizzò per concentrare la rabbia tutta insieme, così da poter esplodere in un boato. Si nascose dietro ai capelli castani, le mani erano chiuse a pugno lungo i fianchi, le unghie conficcate nei palmi. Agitava le gambe sul posto, irrequieta.
 
“Così come?” le chiese Andrè calmo, nonostante fosse stato interrotto all’improvviso, non reggendole il gioco, senza farsi turbare. Sapeva che sua figlia avrebbe reagito a quel modo. D'altronde cosa poteva aspettarsi da una ragazzina che ne aveva già passate così tante?  
 
Justine era arrabbiata, ed anche tanto. “Le preghiere sono una scemenza!” Urlò. Provava tutte le emozioni di bambina, tutte quelle già affrontate, passate. Pensava a tutte le volte che aveva pregato che le cose fossero andate diversamente e poi non l’avevano fatto. Pensava alle promesse delle persone che le dicevano “se preghi, Dio ti ascolta” e poi non l’ascoltava mai.
 
“Justine!” la rimproverò alla fine. “Non mi sembra di averti insegnato una cosa del genere!” Andrè le disse con fare severo, addirittura sconvolto della mancanza di rispetto dimostrata da sua figlia. Comprendeva la rabbia che aveva verso il mondo, il calcio che aveva dato, persino il tono di voce, ma non comprendeva lo sfogo nei confronti di qualcosa d’importante per tanta gente. Justine era sempre stata di carattere difficile. Negli anni si era chiesto spesso come aveva fatto sua nonna a sopportare il carattere di Oscar, che tanto le somigliava in testardaggine.
 
“Non ci credo alle preghiere.”
 
“E questo cosa ha a che vedere col rispetto per gli altri e per la religione?” Andrè pensò a sua nonna, alla catenella del rosario che teneva al collo, a Maria Antonietta che piangeva davanti all’altare per suo figlio malato, a quel medico che sotto la Bastiglia salvò Oscar.
 
Justine incrociò le braccia. Non le piaceva essere sgridata, ancor più quando disubbidiva. Sapeva di avere ragione, le preghiere non l’avevano mai aiutata, le preghiere erano una scemenza! Però… però suo padre gliel’aveva detto tante volte: il rispetto prima di tutto. Era l’unica cosa per cui si arrabbiava: quando rispondeva male al mercato, quando gli parlava a stento, quando non salutava, quando litigava con qualcuno.
 
“Posso continuare?”
 
“Continua, ma tanto a me non interessa.”
 
Andrè sospirò. Le mise le mani sulle braccia, la guardò negli occhi come se fosse una adulta. Aveva imparato la fluidità dei gesti, aveva imparato ad adattarsi velocemente ai cambiamenti di umore di sua figlia. Aveva imparato che coi bambini devi modificare atteggiamento in base al momento, ed era quello che stava facendo. S’immaginò di parlare con lei di lì a qualche anno, di dirle le stesse cose che stava per pronunciare, sperando che capisse. “Presto sarai un’adulta. Presto sarai chiamata a fare delle scelte.” cominciò “Le ho fatte io, ne ha fatte molte di più tua madre, le hanno fatte tutte le persone che ci sono state a fianco. Queste scelte ci hanno portato fin qua. Non ti racconto questa storia per togliermi un peso dalla coscienza. Lo faccio per rispetto a tutte quelle persone e per prepararti ai cambiamenti che dovrai affrontare nella vita.”
 
Justine si sentì immediatamente in colpa per quella sfuriata, verso suo padre ed anche verso sua madre, che era il principale bersaglio di tutte le sue accuse. Lo faceva sempre. Sentiva come se ci fossero due Justine: una sempre arrabbiata che era e l’altra sempre tranquilla che voleva essere. La prima esplodeva in sfuriate, la seconda invece si sentiva in colpa per quello che diceva. “Lo so come va a finire, papà.” E sapeva anche che quello che lei era, dipendeva da come la sua storia era andata a finire. Cominciò a pensare a sua mamma ed il pensiero non l’abbandonò più durante tutto il racconto.
 
“Già, ma è importante il viaggio, non la meta. Posso?”
 
“D’accordo.”
 
***
 
14 luglio – sera
 
Cominciarono ad arrivare sempre più feriti, man mano che un’ora si seguiva all’altra. Non avevamo niente: né un letto, né una brandina, un lenzuolo o una pentola. Oscar era stesa su una coperta sul lastricato. Mi ero seduto accanto a lei per tenerle caldo. Mentre la guardavo dormire e le accarezzavo i capelli, mi crollò addosso il peso della scelta di Oscar, il peso della sua nobiltà, di tutto quello che avevamo lasciato. Se solo avessimo avuto un posto per riposare, dormire, guarire. Se avesse avuto freddo? Se avesse piovuto come la sera prima? E se le fosse salita la febbre? Come avrei provveduto a tutte quelle cose, con il popolo in guerra con la famiglia reale, senza un lavoro e come disertore? Avrei dovuto riportarla indietro forse, aspettare che si rimettesse e poi lasciare che mi uccidesse.
 
La sera mi raggiunse Alain. Era scalpitante, entusiasta. “Glielo abbiamo messo a quel servizio!” mi disse venendomi incontro, dandomi una pacca sulla spalla. Mi trovò con  la schiena contro il muro improvvisato della trincea, a vegliare una Oscar distesa davanti ai miei piedi. Alain mi raccontò e mimò tutto l’accaduto, di come avevano liberato i prigionieri e catturati di altri, dei cannoni, degli spari, delle persone che saltavano per aria. “Amico, mi stai ascoltando?” mi chiamò Alain di nuovo. Aprii gli occhi solo allora.
 
“Sì, sì, ti ho sentito.” Gli risposi con voce stanca. Mi stava calando addosso la stanchezza degli ultimi giorni, delle notti insonne, degli sforzi fisici. La felicità e la spensieratezza se n’erano tutta andate col sorriso della donna che amavo. Justine, mi sembrava di non poter tollerare oltre. Avrei voluto svegliarla mille volte solo per chiederle come stava, se si sentisse senza fiato, se provasse più del dolore che riusciva a sopportare, se c’era qualcosa, qualunque cosa che potevo fare per farla sentire meglio. Te la ricordi anche tu quella sensazione? E’ uno stato di ansia arricchito di lacrime.
 
Alain si arrese, avrebbe raccontato le sue gesta eroiche poi a qualcun altro, anche più di una volta. Alla stessa Oscar quando si svegliò. “Come sta?” mi domandò, mettendosi affianco a me.
 
Ci pensai. “Non lo so.” Mi trovai a dover rispondere.
 
“Buone vecchie abitudini, eh, Andrè?” terminava ogni frase usando sempre il mio nome. Lo faceva come fosse un’offesa quando dovevamo parlare di lei o di me che le facevo girare la mia vita attorno.
 
“Niente di buono o di vecchio, Alain.” Gli risposi, sinceramente arrabbiato con lui che pareva non volermi capire mai, con lei per non essersi presa cura prima della sua salute, con me che non riuscivo a smettere di provare rabbia, con la Bastiglia per averla sparata, con il tempo che non smetteva di andare così piano o così veloce. “E’ malata.” Lo informai monocorde. Lo dissi come se fosse solo una nozione da apprendere, avevo imparato che sapore avevano quelle due parole.
 
Alain sospirò. “Me lo immaginavo.” Mi disse solo. Si sedette affianco a me, nella mia stessa posizione, solo che io le tenevo la mano, giocando con le sue dita. Erano caldissime ed in me stavano crescendo malessere ed irrequietezza. Mi aspettavo che il mio amico, tuo zio, se ne uscisse con un piano sorprendente, qualcosa da fare, un suggerimento, come andiamo da quel tizio o da quell’altro, o in paese uno s’è salvato così. Il suo silenzio significava che non aveva conosciuto mai nessuno che si fosse salvato, né qualcuno che ci potesse aiutare. A quel punto non sapevo più cosa fare.
 
“Andiamo,” si alzò Alain “ti aiuto a portarla da me.”
 
La presenza di Alain fu una benedizione e non solo perché ci diede un tetto sopra alla testa, che ora sapevamo che non sarebbe potuto crollare, che non era nel mirino dei cannoni di nessuno. Fu per quello che fece dopo che lo avrei definito un vero amico. Mi aiutò in tutto e per tutto: pianse con me quando ne avevo bisogno, mangiò e bevette con noi, restò con Oscar quando ero troppo stanco per aiutarla. Fu lui che mi insegnò che se non avessi dormito il giusto o quasi, se non mi fossi nutrito e dissetato, per lei sarei stato solo un peso. Io badai ad Oscar ed Alain badò a me.
 
La sollevai da terra, passandole una mano sotto la schiena ed una sotto le ginocchia. Era straordinario quanto la mia mente mi avesse ingannato e mi avesse protetto fino a quel momento. Impara, Justine, non c’è peggior cieco di quello che non vuole vedere. Pesava pochissimo, sentivo le ossa rivestite della giubba blu sulle mie braccia. Vedevo solo allora le guance scavate e le occhiaia che le solcavano il viso. Quanto era diversa dalla ragazza e dalla donna che era sempre stata? Come avevo potuto lasciarmi ingannare così? Se me ne fossi accorto prima, se avessi dato ascolto a mia nonna…
 
“Stiamo mettendo fuori alla porta i soldati della Guardia per il comandante.” Alain mi sottrasse dai miei pensieri cercando di scherzare. Non attaccava, non riuscivo a ridere. Continuavo solo a camminare con lei addosso. Ero arrabbiato persino con Alain, che stava cercando di farmi parlare come se nulla fosse.
 
Mentre pensavo a queste cose e cercavo di nascondere la mia rabbia dietro la riconoscenza per la sua accoglienza, inciampai. Stavo per cadere in avanti con lei prima di tutti. Fortunatamente i riflessi di Alain furono più lesti della mia goffaggine ed interruppe la mia caduta. Incrociai i suoi occhi, vi trovai dolore, una stanchezza pari alla mia e vidi il suo pensiero volare ad Oscar, quando lasciò me ed osservò lei. Controllò che stesse bene e mi lasciò rimettere bene in piedi. Dovette pensare che era meglio se fosse stato lui a portarla in braccio. Che diavolo stiamo facendo, continuavo a pensare. Avrebbe fatto bene Alain a strapparmela da dosso ed occuparsene lui stesso. Mi sentii immediatamente riconoscente, perché in quel gioco di altruismo mi stava dando l’opportunità di badare a lei.
 
Mi mise una mano sulla schiena, incitandomi a proseguire, ma mi si sistemo accanto questa volta, così da non dover sfidare di nuovo i suoi sensi. “Grazie.” Gli bisbigliai, ma lui non disse niente. Mi biasimò col suo silenzio. Mi venne in mente di tornare a quel discorso che stava facendo, pretendendo di fare quattro chiacchiere in una taverna, invece che per le strade di una Parigi in guerra. “Otto soldati della Guardia.” Mi sforzai solo di dire, testando i suoi umori.
 
“Sei.” rispose distrattamente Alain. “Che rivoluzionari, eh?” fece poi ed usò lo scherzo per farmi capire che era dalla mia parte, che non spettava a lui biasimarmi né perdonarmi e che era mio amico. 
 
L’informazione sui nostri compagni mi arrivò dopo. “Chi?” gli chiesi.  
 
“Michel e Renaud.” Rispose. Riconobbi in lui lo stesso tono di voce che avevo usato io per informarlo sulla malattia di Oscar. Parlava così per non farsi coinvolgere, per non sognare quelle persone di notte, per non sentirsi in colpa e pensare ancora ed ancora cosa avrebbe potuto fare di diverso per salvarli. Ormai parlavamo così. Quel tono di voce era l’urlo rauco dell’inerzia di quel periodo.
 
Arrivammo poi nello stesso posto in cui avevamo dormito la sera precedente. La stanza era buia, le pareti piene di muffa. Non ci avevo fatto caso il giorno prima, né quella stessa mattina. La struttura di legno di quel letto era disseminata di tanti cunicoli vuoti, segno che i tarli se lo stavano mangiando da dentro, esattamente come la tubercolosi stava facendo con Oscar. Ogni tanto mi fermavo per ascoltare. Mi immobilizzavo preso dall’ansia e mi rilassavo solo quando sentivo il rumore metallico del suo respiro.
 
Quella notte le venne la febbre. Prendemmo dell’acquavite e  le bagnammo con quella la fronte per farla scendere. Le umettai continuamente i punti in cui sentivo il suo cuore battere più veloce. Le asciugai il sudore che venne dopo. La forzai a bere acqua e per fortuna lei ingoiava. Le tolsi il sangue dalla labbra. Le pulii la ferita nonostante lei si agitasse. Ascoltavo il suono roco del suo respiro. Mi addormentavo con le braccia incrociate sulla sponda del letto, cercando di non toglierle spazio. Aprivo le finestre di giorno perché la riscaldasse il tepore del sole. Le richiudevo di notte perché non filtrasse neanche uno spiffero di vento.
 
Alain mi guardava dalla soglia della porta, come se provasse troppo rispetto per il nostro dolore per disturbarci. A volte mi portava da bere, mentre Bernard prese a portarmi da mangiare. Mi metteva un pacchetto accanto, per terra, dicendomi solo che l’aveva preparato sua moglie e che quindi non potevo farle dispetto. Mangiavo solo quella ragione. Cercavo di conservare qualcosa per lei, per quando si sarebbe svegliata.
 
Facemmo questo per due giorni e tre notti. La sera del 17 luglio 1789 Oscar si svegliò, mentre fuori urlava la gente esultando per la liberazione della città. Il re aveva ritirato l’esercito da Parigi. Finalmente i cittadini si sentirono liberi e vittoriosi. Grida di trionfo accolsero gli occhi azzurri di Oscar.
 
Non fu un bel risveglio, né tanto meno commovente. Cominciò a respirare male, come se il suo fiato fosse interrotto in qualche modo. I respiri si seguivano veloci e superficiali, come se il panico l’avesse colpita improvvisamente. Erano come tanti respiri a metà. Un’altra cosa che notai era che non muoveva affatto la metà sinistra del torace. Era come se respirasse solo con la destra. Oscar si guardò attorno impaurita, cercando di capire cosa fosse successo, dove si trovasse. Fu un solo momento di panico, prima che le tornassero alla memoria i ricordi degli ultimi giorni che aveva vissuto. Mi cercò, mi trovò. Aveva lo sguardo ferito, mentre il suo corpo continuava a reagire in quel modo terrificante. Le labbra cominciarono a colorarsi di blu ed il volto le si imperlò di lacrime. Mi guardava delusa. Con lo sguardo cercava di dirmi “guarda come mi hai ridotto”. Non aveva neanche il fiato per parlare. Sentii come se fosse davvero colpa mia il suo stato di salute, come se l’avessi sottratta ad una morte in salute. Agitai il capo. No, non fare così, avrei voluto dirle. Non devi arrenderti, non devi credere che starai solo male. L’avrei supplicato di non lasciarmi. Come avrebbe potuto e voluto farlo? Io l’avrei vissuta fino alla fine.
 
Continuò a guardarsi attorno e dall’altro lato del letto trovò Alain. Un fuoco divampò in lei più forte della febbre. Scattò per mettersi a sedere, ma la tenne giù il dolore alla spalla ferita, al polmone bucato, ricucito malamente.  
 
“Oscar, ti prego, non odiarmi…” cominciai a dirle. Volevo dirle che l’amavo, di combattere per me, non arrendersi e respirare con calma. Volevo spiegarle le sue condizioni di salute, quasi pregandola di non strapparsi i punti.
 
“E’ con me che è arrabbiata, tranquillo.” Fece Alain con atteggiamento sfrontato. Era stanco tanto quanto me, demoralizzato per la salute di Oscar, sorpreso per la resa del re ed affamato ormai da giorni in assenza del rancio della caserma. Nonostante tutto questo, la guardava con la stessa aria di sfida che aveva lei stampata in faccia, con la strafottenza (perdonami la parola, figlia mia) della buona salute che Oscar notava e, come poi mi confidò, non sopportava. “Era un piano vigliacco, comandante, ed a me non piace quando vi comportante in quel modo.” Le disse. “Non vi si addice.”
 
Credevo che sarebbero venuti alle mani. Mi ero messo tra loro per separarli, ma non successe niente. Continuarono a guardarsi come due fiere, Oscar respirava ancora a fatica in quel modo rumoroso. Alain invece le teneva lo sguardo, neanche preoccupato, ma piuttosto scocciato. “Vi lascio.” Fece poi a me e se ne andò.
 
Si poteva credere che si fosse arreso. Invece quello in piedi era Alain, quella a letto senza neanche aria abbastanza per reggersi seduta era Oscar; quello che se stava camminando via era Alain. Le lacrime ripresero a scorrere sul volto di Oscar. Si sentiva inferma, inutile, tradita dal suo stesso fisico. Ti ricordi, Justine, il discorso di prima sul tuo cuore che batte? È lo stesso per il fiato, i polmoni. Non te ne accorgi finché non ti manca.
“Vattene.” Mi mormorò tra le lacrime.
 
“No.” Le bisbigliavo con un filo di voce. Neanche io mi sentivo. Agitavo il capo, mi avvicinavo le sfioravo le mani, ma lei si ritraeva. Si sentiva tradita anche da noi che l’avevamo tenuta in vita, costretta in quell’esistenza che non le somigliava. Desistetti davanti alle sue lacrime e la lasciai.
 
***
 
Ottobre 1799
 
“È stata cattiva con te, papà.” Interruppe Justine, immedesimandosi nell’Andrè di quel racconto. Si pensò al suo posto, a dover badare e curare Oscar dal suo male e dalla sua voglia di morire perfino. Come si fa a convincere qualcuno a continuare a vivere? Il ricordo della madre le confuse ancora una volta i pensieri. Le venne in mente la sua figura, i capelli biondi, la voce soffice, una cantilena che la riempiva di gioia. La paragonò alla donna del racconto. Quella invece era una donna egoista.
 
“No, tesoro,” rispose Andrè “eravamo tutti provato a quel punto.” La difese come sempre, persino con la sua stessa figlia.
 
“Poi?”
 
“Poi il tempo pensa sempre a tutto”.
 
***
 
14 ottobre 1789
 
La vita ha modi strani di farsi sentire.
 
Col passare dei mesi il suo fisico migliorava, ma il suo umore la rinchiudeva in una coltre cupa di pessimismo. Non emetteva più quel respiro fischiante ed il suo colorito era virato di nuovo al rosa pallido, ma la voglia di vivere sembrava persa e passava le sue giornate chiusa in quella stanza. Credeva di non poter guarire, di morire di lì a pochi giorni, che i miei prossimi mesi sarebbero stati un inferno per la necessità di doverla accudire, che forse avrei anche finito per odiarla. Neanche si immaginava le cose che avrei fatto per lei. Una volta le proposi di tornare indietro, sacrificando il mio posto accanto a lei. Mi rispose con rabbia che aveva fatto una scelta e mi chiese se l’avevo mai vista ripercorrere i suoi passi. Non eravamo morti, ma era così che sembravamo. Fermi. Anche Parigi era inerte. Contemporaneamene l'odore di polvere da sparo aveva lasciato la città. Sembrava che niente fosse cambiato, eravamo tornati indietro a qualche giorno prima della caduta della Bastiglia. C’era questa idea appena accennata di noi, mi parlava poco, mi toccava meno, ma era solo me che voleva vedere. Avevo preso a dormire accanto a lei. Di notte si allungava e lasciava che le accarezzassi il capo come fosse piccola piccola come te, Justine. Una notte però, mi raccontò Oscar, sentì il pianto di un bambino. Si svegliò di soprassalto e c’era il silenzio. Si guardò addosso, verso il ventre. La voglia di vivere la investì di soprassalto. Si alzò persino, senza dare credito alla voce che le diceva che non ce la avrebbe fatta. Cercò nel piccolo appartamento il corpo da cui era partito quell’urlo acuto. Non trovò niente e si rimise a letto. Quella manciata di minuti però erano bastati per convincerla che poteva ancora vivere.
 
“Andrè.” Mi chiamò nel buio di quella stanza. Faceva freddo, le coperte bastavano appena per entrambi.
 
Avevo il naso gocciolante e mezzo busto infreddolito. “Hm?” Le feci un verso, svegliato di soprassalto. Pareva un sogno, tutto quello che speravo: Oscar con quella voce dolce e le mani delicate che mi solleticavano il petto ed il collo.
 
Mi abbracciò ed aspettò che anch’io la abbracciassi. Stavamo distesi sul fianco. Lei era nascosta nel mio corpo e nei suoi capelli. Si era rintanata in quel suo posticino speciale. Posso giurare ancora oggi di averla sentita sorridere. Non sapevo cosa stesse succedendo, così come non lo sapevo la prima notte che disse di amarmi, ma ero certo che lei era con me, che mi amava tanto quanto io amavo lei, che eravamo l’uno il mondo dell’altro e che il nostro amore era più forte della rivoluzione, della monarchia, della malattia e di tutti mali del mondo. Mi addormentai con la convinzione di poter sconfiggere tutto con lei accanto. Lì per lì, mi bastò farmi abbracciare e tenerla stretta. Mi ripromisi di baciarla l’indomani.
 
Più tardi mi svegliai con lei che si agitava e contorceva nel letto per il dolore. Quando aprii gli occhi era raggomitolata sulla pancia con tutta sé stessa. Si teneva le mani al ventre come se quello fosse il centro di tutto. Non mi preoccupai neanche di dare uno sguardo alla situazione, non era importante che io capissi ma che lo facesse un medico. L’andai a cercare. Bussai alla porta di quello che le aveva ricucito il torace ed insieme corremmo indietro.
 
Quando arrivammo, lui con la solita indelicatezza poco impressionabile e irrispettosa dei confini altrui, le tolse le coperte. Vedemmo solo sangue. Le lenzuola erano intrise di sangue, impregnate completamente. Il gesto fece gocciolare tutto sul pavimento. Oscar stava con le braccia incrociate sulla pancia e le caviglie rigirate su sé stesse come se proteggesse qualcosa che stringeva tra le mani. Non ce l’aveva tra le mani ovviamente, ma quello che stava proteggendo era la vita di nostro figlio. Com’è strano il mondo vero, Justine? Come sono strani gli esseri umani, gli istinti animali con cui difendiamo la nostra prole.
 
“E’ un aborto.” Sentenziò il dottore.
 
La prima volta che sentii parlare di mio figlio fu quella. Un aborto, così lo definii. Significa un bambino che non potrà mai esistere, che muore prima del soffio della vita.
 
Per lei non fu così, doveva averlo già conosciuto. Sapeva già tutto di lui, anche se si era resa conto solo poche ore prima della sua esistenza. Si era portata dentro la sua anima, i loro cuori erano stati in contatto e solo tramite quello di lei, il suo aveva potuto funzionare. Si era sentita necessaria, importante. Aveva immaginato che ci sarebbe stato ancora qualcosa di buono da fare e non vedeva l’ora di farmelo sapere e gioire con me. Invece, tutto quello che di buono c’era da fare le stava scivolando via dal corpo. Piangeva. Le lacrime le scendevano veloci più del sangue. Ad ogni fitta di dolore emetteva un urlo che non poteva essere altro che il dolore dell’anima. Sentiva una parte di sé che se ne andava. Una parte di me e di lei, che andava via. Io non ce l’avrei fatta, ma lei era coraggiosa. Lei era coraggiosa oltre ogni immaginazione.
 
Assistetti senza parole allo spettacolo del dottore aiutarla a partorire una cosa minuscola, che mi tennero nascosta. Avrei voluto vederlo, tentare di riconoscerlo, avere qualcosa anch’io da poter ricordare. Il dottore mi disse che doveva avere meno di quattro mesi. “Tre.” Lo corressi, ricordando quella notte con le lucciole.
 
Il sangue si fermò all’alba e solo quando fummo certi che la vita di Oscar era al sicuro, almeno per quella notte, lui se ne andò. A quel tempo gli avevo ormai già parlato della tubercolosi. Si informò sulle sue condizioni di salute. Le dissi che stranamente andava meglio. “Ci terremo aggiornati.” Mi rispose scettico e vagamente incuriosito. Poi se ne andò.
 
Rimanemmo soli di nuovo. Eravamo stati soli più di un milione di volte. Riuscivamo a stare insieme senza parlare da quasi trent’anni. In quel momento però non seppi cosa fare. Mi sentivo frastornato dall’idea di aver avuto un figlio per qualche minuto, prima che la vita gli fosse strappata via. Mi sarei potuto definire padre per qualche tempo. Avevamo avuto un figlio per un po’, noi due, Oscar ed io. Oscar era a letto, invece. Teneva le ginocchia ancora piegate e guardava dritto davanti a sé. Le coperte creavano una tenda, tese tra le sue cosce troppo magre. Si teneva con le mani ancora il ventre, ormai vuoto. Come si può soffrire così, mi chiedevo. Come si può andare incontro a tutte queste cose ed uscirne vivi?
 
La raggiunsi e mi misi accanto a lei, seduto su una sedia, deciso a fare l’unica cosa che meglio mi veniva: starle vicino. “Vuoi dargli un nome?” Le chiesi. Come ti ho detto prima, Justine, lei aveva conosciuto quel bambino da prima di me. Ne aveva assaporato l’esistenza in quei giorni di sonno profondo in cui continuava a sognare noi tre e poi, quando aveva capito che era reale, si era resa conto di quanto il battito del suo cuore fosse assordante, di quanto l’agitarsi nel suo corpo le facesse sentire la vita rombarle dentro.
 
Fece segno di no col capo. Era un sogno troppo bello per essere vero, almeno per lei. Non aveva più il coraggio di sperare che sarebbe accaduto. Voleva solo ignorare il suo fallimento nel ruolo più importante di tutte le madri. Si sentì di nuovo inutile e tradita. Comprese che era stata stupida a credere di poter portare in grembo una creatura, o di poter diventare madre. Non sapeva ancora di te. Non sapeva ancora quanto sarebbe stata invece brava con te.
 
“Io e te siamo ancora qui.” Cercai di dirle all’epoca “Potremo farlo di nuovo.” Non volevo suggerirle di sostituire un figlio con un altro. Come ti ho già spiegato prima, lei quel figlio l’aveva già conosciuto. Era unico ed insostituibile. Quello che volevo dirle era che potevamo ancora sognare per un futuro, potevamo ancora immaginare la nostra vita a tre o più. Avevamo ancora noi, le basi solide su cui potevamo costruire qualcosa. Mi comprese, prima ancora che corressi il tiro. Mi sorrise.
 
“No.” Bisbigliò inudibile, più leggera di un sussurro. “Lo sai.” Mi prese una mano e la strinse forte. La strinsi forte anch’io, fino a chiedermi poi perché non la stessi abbracciando ed allora la raggiunsi e la avvolsi.
 
Piansi anch’io con il volto nascosto tra i suoi capelli. Volevo disperatamente quella creatura, volevo che lei smettesse di soffrire, vederla di nuovo serena, sorridente. Volevo sposarla e dirle che era tutta la mia famiglia, che la amavo da morire e che non accettavo il destino che ci era stato riservato. Volevo dirle tutte quelle cose, ma la tenni solo stretta per tanto tempo. Cercò i miei occhi, mi guardò con attenzione perché credeva di avermi deluso ancora. Si chiedeva come facessi ad essere ancora lì, quale fosse la ragione dietro al mio amore per lei. Mi voleva dire che se fosse stato troppo per me, conoscevo dov’era la porta. Le restituii lo sguardo e non mi mossi di un passo. Le presi le mani e le strinsi più forte che potevo. “Ti amo.” Le dissi con decisione. “In salute e malattia, nella buona e nella cattiva sorte.” Le recitai.
 
Oscar sorrise mentre piangeva. Vidi uno spiraglio allora, finalmente sapevo che c’era. Mi arrampicai sul letto e le rimasi accanto per tutto il giorno e la notte successiva. Ci tenemmo abbraccianti e sembrava che sarebbe bastato quello. Ne saremmo venuti a capo insieme. Mi tornò quel pensiero che avevo fatto la notte prima. Potevamo tutto insieme.
 
Mi chiamò nella notte. Tirò appena un lembo della mia camicia. “Andrè, portami via.” Mi supplicò prima che aprissi completamente gli occhi. Mi sembrò fragile, indifesa, così diversa dalla Oscar che conoscevo, persino da quella malata di tubercolosi che avevo imparato a conoscere negli ultimi giorni. Un raggio di luna si aprì sui suoi occhi chiari, due perle che riflettevano il gioiello di quella notte. Non sapevo dove saremmo potuti andare, ma accolsi con gioia quella richiesta.
 
Il giorno dopo partimmo. Nello stesso momento tutte le donne si Parigi stavano marciando su Versailles. Venimmo qui, mentre la regina Maria Antonietta si inchinava dal balcone al suo popolo. L’odore della lavanda ci accolse e ci fece amare questo posto. Ci sistemammo e cominciò uno dei periodi più belli della nostra vita, come se tutto il dolore patito ci fosse servito per meritarci il nostro piccolo angolo di paradiso.


 



Angolo dell'autrice
Rieccomi! Dunque capitolo 2. Questo significa che ci manca l'ultimo e l'epilogo finale. Vi dico che ho già scritto a metà il prossimo capitolo e lo adoro. Questa è una storia a cui mi sto affezionando non poco e spero venga fuori nel migliore dei modi possibili. Fatemi sapere se sta piacendo anche a voi. Colgo l'occasione per salutarvi tutti. Mi dispiace non rispondere a tutti i commenti, piano piano magari ci riesco ;) 
Un bacio, a presto!
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Dicembre 1789
 
Guarimmo tutti e due in quel periodo. Con mia grande sorpresa, Oscar aveva fiato abbastanza per camminare e correre. Non le era più venuta la febbre e la stanchezza si stava dissipando. Avevamo trovato questa piccola casetta, erano due piani incastrati in una struttura in cui vivevano altre brave persone. Al piano terra, come ben sai, c’è ancora una cucina ed il camino. A quei tempi nel salotto ci tenevamo solo un tavolo con le sedie. Le scalette di legno scricchiolavano così come oggi e portavano alla stanza al piano di sopra, dove abbiamo sempre tenuto il letto e due seggiole che usavamo al posto degli armadi. Eravamo disordinati, strano per il modo in cui eravamo cresciuti, ma non ci importava. Sembrava una trasgressione all’epoca, eccitante ed emozionante come vivere insieme. Non fu mai strano per me vivere con lei ogni giorno. Non dovetti mai imparare le sue abitudini, cosa le piacesse mangiare, le piccole manie che aveva quando era distratta, come grattare i bordi delle copertine mentre leggeva un libro. Tutte quelle cose le conoscevo già, le amavo già.
 
Una mattina mi svegliò con un bacio. I capelli le caddero ai lati della testa e mi solleticarono le guance. Mi fece sentire entusiasta il suono pulito del suo respiro e mi portò giù di gran corsa tenendomi per mano. Stavamo imparando gesti che ci sembrarono a mano a mano sempre più familiari. Mi portò fuori alla fine. Mi mise in mano una spada che aveva lasciato andare nell’erba. Mi sfidò e mi fece vedere che era tornata quella di sempre. Mi stracciò, a dirla tutta. Ci mise tutte le energie per finire il duello in poche mosse, perché capissi che non era diversa.
 
Eppure non era più esattamente quella persona. Sebbene lo nascondesse bene, qualcosa era irrimediabilmente cambiato in lei. Si teneva spesso una mano sul ventre, per strada osservava bene tutte le persone che passavano e quando vedeva delle madri coi loro bambini non li perdeva un attimo d’occhio. Aveva un sorriso triste quando lo faceva, anacronistico. Aveva sviluppato una sensibilità che non mi aspettavo, ma se ci ripensavo bene, era impossibile negarle. Era sempre stata premurosa, materna, paziente. Non ne parlammo mai. Avevo paura di ferirla e ricordarle quella notte di sangue. Ogni volta che facevamo l’amore però ci mettevo la speranza che da noi due sarebbe potuta nascere una vita. Me la immaginavo gravida mentre ero con lei, in lei, pensavo a quanto sarebbe diventata ancora più bella, a chi meglio di noi per un compito così delicato: sensibili, istruiti, forti, avevamo vinto tutto, anche la malattia. O almeno era quello che pensavo.
 
Credo che lei l’avesse capito. “Stai con me.” Mi supplicò una volta ed allora lasciai perdere il futuro e mi concentrai sul presente, sullo spettacolo bellissimo dei suoi capelli dorati sparsi sul bianco del mio cuscino, sul candore della sua pelle e sul movimento sinuoso del suo addome teso e perlaceo sotto di me.
 
Ci piaceva venire al lago. Passavamo ore stesi sull’erba come stiamo facendo io e te. Una volta la sorpresi a specchiarsi nelle acque laggiù, dove giocavi con le anatre anche tu, Justine. Si studiava nelle acque, cercava qualcosa di diverso sul suo corpo. S’abbassò la camicia dalla spalla sinistra fino a guardarsi la cicatrice che le distorceva il profilo del seno. “Sei bellissima.” Le dissi andandole incontro. Le accarezzai le mani, risalii lungo le braccia ed incontrai le spalle e la cicatrice che tanto stava disprezzando.
 
Oscar sospirò e si guardò riflessa. “Vediamo due cose differenti.” Disse. Mi prese la mano che ancora sostava sulla sua pelle accartocciata.
 
“Vediamo le stesse identiche cose.” Le risposi posandole un bacio sulla pelle nuda.
 
Oscar non era vanitosa, non lo era mai stata. La sua pelle contava una lista di cicatrici così lunga che sembrava fosse stata cucita più che partorita. Nessuna di quelle però deturpava una parte di lei che per tanto tempo aveva odiato, ma che stava riscoprendo con me. Era una parte di lei che amavo ed adulavo ogni giorno. Era una parte di lei con cui avrebbe dovuto poter sfamare una creatura. Le era stato tolto il grembo ed il seno in una sola volta, era stato come perdere la femminilità finalmente raggiunta, tanto agognata. Quando aveva deciso di imbracciare la natura, quella l’aveva abbandonata, lasciandola a metà. Cercai di farle capire che tutto quello che aveva passato non la rendeva meno donna. La baciai appassionatamente quella e tutte le altre volte a venire. Le feci sentire come era capace di accendermi di desiderio, quanto tutto di lei mi riempisse di passione. Facevamo l’amore tutti i giorni in quel periodo. Si lasciava andare ogni volta, colmava con la passione e l’impegno tutto quello che credeva di non avere nel fisico. Era una dea nuda davanti a me. Ricordo tutto: il modo in cui si portava dietro l’orecchio ciocche di capelli che le cadevano davanti al volto; come sorrideva mordendosi il labbro quando vedeva me in estasi, o come quando toccava a lei ed arricciava le dita dei piedi; la curiosità con cui mi studiava; quando spostava anche i miei di capelli per baciare la cicatrice sul mio occhio; come mi poggiava delicatamente le mani sul mio petto. Tutto quanto dava colore a quella donna perfetta che avevo davanti. Mi sentivo così fortunato.
 
Dicembre era il mese del suo compleanno, Justine. Sì, siete nate nello stesso mese. Nessuno di noi ti stava aspettando. Se l’avessimo saputo forse ci saremmo comportati diversamente con tua madre. Lei arrivò diverse mattine prima di Natale. Il 23 dicembre, per la precisione. Ricordo che si gelava fuori, mi stavo riscaldando le mani soffiandoci dentro, quando bussò con prepotenza alla nostra porta e fu Oscar ad aprire. Se la trovò davanti gravida, sofferente, partoriente, sola. “Rosalie!” La sentii urlare, non so se a lei o a me.
 
Il tutto mi fece incuriosire e le raggiunsi subito. Oscar la stava portando in camera nostra, sul letto, e mi disse di portarle lenzuola, asciugamani, qualunque cosa e subito anche. Ci ritrovammo impreparati e catapultati in un’emergenza. Afferrai tutto quello che trovai e glielo portai. Se ne stava seduta davanti a lei sul bordo del letto. Con le mani Oscar teneva le ginocchia di Rosalie. Le stava spiegando che doveva spingere, che non doveva smettere mai, neanche se sentiva l’addome lacerarsi in due. Mi istruì sulla necessità di trovare un dottore. Corsi per strada, come al solito, senza neanche prendere una giacca. Mi aspettavo di sentire urla disumane, come quelle di Maria Antonietta quando aveva partorito, o di tutte le sue dame di compagnia, invece non sentii niente.
 
Quando le raggiungemmo di nuovo, io ed un dottore, tu stavi vedendo per la prima volta il mondo. Fu Oscar a prenderti in braccio per la prima volta, darti il benvenuto. La prima persona con cui venisti a contatto fuori fu proprio lei. Ti tagliò il cordone e ti portò da tua madre. Ti depositò tra le sue braccia e ti guardò invidiosa e felice insieme se fosse possibile. Piangeva, tremava. Anche tua madre ovviamente.
 
Rosalie era al settimo cielo. Ti aveva solleticato con un dito che subito le rubasti, così che la tua prima carezza fu per lei. Fu Oscar a portarmi via. Non so dove trovò la forza di farlo. Rimanemmo in cucina affacciati alla finestra, a guardare la notte. Entrambi eravamo completamente senza parole, frastornati.
 
“Hai la pelle d’oca.” Le dissi ammirando il milione di emozioni che le scorreva nelle vene.
 
“H-hm.” Mi rispose lei distrattamente, mentre una vita di memorie le passava davanti agli occhi, dietro alle imposte semichiuse della nostra casa in Provenza. La luce era povera ed era quella che filtrava dalle nuvole, biancastra. Le illuminava uno spicchio di pelle e disegnava delle ombre cupe nel buio. “Ti ricordi, con Maria Teresa e Luis Joseph ero in prima fila. La regina l’aveva notato. Mi aveva guardato entrambe le volte, come se mi avesse voluto chiedere perdono.” Mi disse. L’ammirazione che un tempo aveva avuto nei confronti di quella donna, ancora traspariva dalle sue parole. Separava come le due versioni della regina: quella prima e quella dopo il loro ultimo saluto. “Io non l’avevo mai considerata un’opzione per me, prima.” Intendeva dire prima di me. “Ora non lo so più.” Ebbi voglia di abbracciarla, di consolare quello splendido, meraviglioso cuore di donna, di mamma che non aveva avuto più la possibilità. Ero innamorato pazzo. Non l’amai mai più di quel momento. La guardavo sbalordito. Avrei voluto avere parole per consolarla, essere un poeta che le tirava fuori i sonetti più belli per decantarla. Poi fu lei a pronunciare la frase che ci cambiò la vita per sempre. “Andrè, dov’è Bernard?”
 
Terrorizzati dalle possibili risposte andammo in camera da letto. Rosalie ti stava coccolando ed allattando. Era diventata bellissima con gli anni e con la gravidanza: aveva i capelli scomposti ma luminosi persino in quella giornata uggiosa, era radiosa nel suo modo di essere felice e le sue forme non erano più quelle di una bambina. Oscar vi chiese scusa e si sedette sulla sedia che abbiamo in camera da letto, una di quelle piene di vestiti. “Rosalie,” cominciò “dobbiamo parlarti. Lascia che ti aiutiamo.” Continuò portando una mano su quella di lei. Io rimasi in piedi davanti a loro, intimorito quasi dalla scena intima che si era creata davanti a me. Sembrava quasi non c’entrassi niente allora. “Che fine ha fatto Bernard?” Le chiese senza mezzi termini.
 
Rosalie, tua madre, guardò me e poi guardò lei. Cercava di capire se l’avremmo mai giudicata una volta sentita la sua risposta, se avremmo mai biasimato le sue scelte. Capii che non era qualcosa che le era capitato, ma che aveva scelto da sola di essere qui con noi senza Bernard. Non volevo trarre tuttavia conclusioni affrettate. Aspettai, aspettammo che lei finisse di osservarci. Stava studiando il nostro nuovo stato, cercando di capire se quello aveva cambiato l’affetto che provavamo per lei, come se la nostra relazione potesse togliere qualcosa a quella che aveva con Oscar, piuttosto che aggiungere.
 
“Sei al sicuro qui.” Le dissi io per tranquillizzarla. Oscar mi sorrise. Sembravamo tornati indietro nel tempo, a quando Rosalie faceva quelle confidenze sulla sua vera madre e noi ascoltavamo la sua storia per trovare il modo di aiutarla. Ci studiavamo anche allora nello stesso modo. In quel momento pensai a quanto ci fossimo sempre comportati come una vera coppia nel corso degli anni. Mi chiesi come aveva fatto anche tua madre a non vederlo.
 
Lei allora prese coraggio. Ti accarezzò i capelli, tu sbadigliasti per la prima volta e lei sorrise. Guardavamo tutti le tue mosse: Rosalie con la meraviglia di una nuova mamma e noi due scottati da quello che ci era capitato, ma inteneriti.  Chiudesti gli occhi ed allora lei si rivolse a noi due. “Lui è cambiato, madamigella. Madame, mad…” balbettò, non sapendo in realtà come chiamarla. Ci eravamo sposati? Era davvero importante? Voleva sempre essere educata.
 
“Oscar.” Semplificò lei.
 
“Oscar. Bernard è cambiato, è diverso. Sta sempre con Robespierre, Danton e Saint-Just. Non torna più a casa, parla di uno strumento di morte nuovo, che taglia la testa alla gente in pochi secondi. Mi ha detto che se l’avessimo avuto prima, mia sorella sarebbe morta così.” E prese a piangere, disegnando gli orrori di quello che sarebbe venuto dopo negli anni: una lama mortale che cade sulla carne tenera del collo e decapita senza possibilità di errore.  
 
Io guardavo Oscar. La vidi prima attenta poi ritrarsi. I suoi occhi erano fissi su Rosalie, ma la sua testa da tutt’altra parte. Stava meditando. Era arrabbiata anche se non lo dava a vedere. Arretrò per accomodarsi meglio sulla sedia, per ascoltare lo spettacolo di uomini di cui in fondo non s’era mai fidata decidere da soli le sorti di un paese che non gliel’aveva chiesto, ma soprattutto fare a pezzi la sua amica più cara, rendendola orfana di marito. Oscar si era trasformata in passato nella paladina di tutti i francesi, ora stava diventando quella delle donne francesi. Non poteva sopportare l’idea di un’altra donna sconfitta dalla bramosia di un uomo, per giunta sua amica o di più. Prese un respiro profondo prima di parlare. “Non hai ancora scelto un nome.” Le disse. Voleva che non capisse quello a cui stava pensando, voleva che tornasse a pensare a sua figlia, al bene più prezioso che si era ritrovato a stringere tra le braccia, quello che lei non avrebbe mai potuto avere.
 
“Non voglio darle un nome che avevo scelto con Bernard.” Rifletté Rosalie, ci pensò per qualche attimo, poi le venne un’idea “Voi come la chiamereste?” chiese.
 
Oscar guardò me cercando aiuto, che le dessi man forte in quel diniego che già stava accennando col capo. “No, non possiamo.” Disse. Io intanto ero pronto a scuotere le mani se mi avesse rivolto lo sguardo.
 
Rosalie però non lo fece. Con gli occhi non abbandonò mai il tuo volto, il tuo corpicino minuscolo. “No, insisto, per me sarebbe un onore.” Disse. Pensai che era diventata grande e saggia, che le ci era voluto un gran coraggio per allontanarsi da quella città che ormai sapeva solo di morte, che i genitori sacrificano tutto per i propri figli, che aveva compiuto tante scelte difficili nel corso della sua vita e che era stata fortunata ad avere noi.
 
Gli intenti di Oscar di farsi negare sparirono subito. Ti spiò, ti studiò, constatò come mi disse poi che somigliavi molto all’uomo che ti aveva generata. “Che ne pensi di Justine?” propose poi. Fu uno slancio di iniziativa che non mi aspettai da lei, la cui pronta risposta era prova dei suoi sentimenti di quel periodo. “Mi ricorda una bella parola.”
 
Sorrisi. Immaginai che fosse così che avrebbe chiamato una figlia nostra. Mi avvicinai, le presi la mano. Le nostre dita si intrecciarono alla perfezione. Lei capì, io capii. Strini per darle coraggio, per darle la consolazione che le serviva dietro la maschera di sicurezza che Rosalie aveva bisogno che le mostrassimo. Fui per lei il supporto di cui sapevo che aveva bisogno.
 
“Justine. Mi piace, suona così bene.” Concordò tua madre. E così scegliemmo il tuo nome. Lo provammo tutti sulla nostra bocca. Ti chiamammo perché imparassi subito il suono di quella parola. Sono sicuro che neanche ci capisti. Serviva a noi per abituarci ad averti nel nostro mondo. Scherzammo per un po’. Raccontammo a Rosalie di come avevamo comprato un appezzamento di terra, dei contadini che la coltivavano, delle patate che erano arrivate dalle Americhe. Tua madre però era stanca. “Oh, Oscar sono molto stanca. Vi dispiace se…” cominciò col dire.
 
Oscar notò qualcosa. Le mise una mano sulla fronte e provò che scottava. Aveva imparato a riconoscere le stigmate della febbre, probabilmente furono gli occhi lucidi a tradirla. “Restate pure qui quanto vuoi. Entrambe.” Le sorrise e salutò invece te, Justine, con un dito. Vi lasciò la camera da letto, il materasso matrimoniale e noi ci mettemmo al piano di sotto. Ci stendemmo per terra su una coperta. Dormimmo abbracciati osservando la luna dalla finestra. Aveva la schiena contro il mio petto e gli occhi chiusi. Era pensierosa, ogni tanto agitava una mano o una gamba. Non seppi se era responsabilità della tua presenza o della lunga giornata passata in soccorso della sua cara amica. “Tutto a posto?” le chiesi.
 
“Solo un presentimento.” Mi rispose prima di addormentarsi.
 
Imparai che dovevo smetterla di ignorare i suoi presentimenti, che il suo istinto era migliore del mio e che la fiducia che le davo era sempre meno di quella che meritava. Mi svegliai da solo al mattino. C’era silenzio, fin troppo per quattro persone in quel poco spazio. Mi guardai attorno strizzando l’occhio e non trovai nessuno. Mi diressi ignaro, ancora sereno, al piano di sopra e trovai Oscar, rannicchiata contro una parete, gli occhi aperti in lacrime, incapace di emettere un suono. “Che cosa…” cominciai a domandare. Era inutile andare avanti. Seguii il suo dito e mentre il mio sguardo raggiungeva il letto che stava puntando, sentivo l’ansia crescermi dentro, sempre più forte. Sentii il cuore che si fermava in attesa, la sensazione che quella cosa che si avvicinava alla felicità che avevamo provato fino alla sera prima e che stava finendo, il terrore della tragedia che sarebbe venuta dopo, la certezza che mi sarebbe toccato essere di nuovo coraggioso. Poi la vidi, immobile, fredda, cerea, distesa nel letto mentre ti abbracciava. Mi si squarciò qualcosa dentro. La nostra gioventù mi passò davanti come un lampo che rompe il cielo: io che insegnavo a Rosalie a danzare, andare a cavallo, a duellare, il latino, la matematica; il sollievo che provai quando seppi che era a Parigi, che era sposata con uno che credevo essere tra gli uomini più leale e pieno di valore che conoscessi.
 
***
 
Ottobre 1799
 
“Papà?” Interruppe Justine.
 
Essere chiamato padre per Andrè era come ricevere una conferma che tutto ciò che era venuto da quel momento in poi l’avevano fatto nel modo giusto, che in fondo tutto quello che era successo aveva avuto un senso. “Dimmi, tesoro.” Concesse una coccola dietro quel vezzeggiativo, più per sé che per lei.
 
“Se la mamma non fosse morta, sarei stata con te e con Oscar?”
 
“No.” Rispose lui con una certezza che solo l’amore poteva dare. Amava a tal punto Justine da rinunciare a lei se solo significasse darle le sue origini, l’amore della donna che l’aveva partorita e la felicità di crescere con lei. Sapeva che Rosalie sarebbe stata una madre perfetta, che le avrebbe dato tutto quello di cui aveva bisogno e che l’avrebbe resa felice.
 
***
 
24 Dicembre 1789
 
Sistemammo tutto. Chiamammo qualcuno perché portasse via la nostra amica. Lasciammo le finestre aperte per far volare via la sua anima con l’odore di decomposizione che aveva lasciato. Portammo te con noi al piano di sotto. Svuotammo una cesta e la rendemmo accogliente con tutte le lenzuola che ci erano rimaste ed una copertina lavorata a mano da chissà chi. Ci mettemmo seduti davanti al tavolo. Avevamo tutti e due lo sguardo perso nei nostri pensieri. Non so dire se ci sentissimo più delusi o arrabbiati. Credevamo che la vita ci avesse già tolto abbastanza. Mi chiedevo quanto deve essere fragile la realtà umana per sciogliersi in così poco tempo. Ce ne stavamo in religioso silenzio, aspettando forse anche il momento giusto per proferir parola.
 
Fu Oscar la prima a rompere quelle ore di muto lutto. “Lo uccido.” Sentenziò soltanto. La sedia traballò sotto la sua furia, quasi cadendo all’indietro nel momento in cui s’alzò.
 
La guardai passarmi davanti, fino a raggiungere la porta. Ero stordito e frastornato, ma mi alzai esattamente nel momento in cui capii i suoi pensieri. “Dove stai andando?” le chiesi raggiungendola. Mi frapposi tra lei e la porta bloccandole il passaggio.
 
“A Parigi.” Mi rispose solo irruenta. Mi ignorò come una cosa fastidiosa e mise la mano sul pomello della porta, cercando di forzarlo accanto al mio braccio.
 
Le presi la mano e gliela tolsi da lì. Mi ci misi davanti in modo che non potesse uscire, ma Oscar cercava di spostarmi. “Non fare cazzate.” Mi uscì dalla bocca per la prima volta in modo scurrile. Divenni arrabbiato allora anche con lei, che non smetteva di ragionare come se fosse da sola, senza considerare né me né te nel suo quadro. Pensai che era ora che sentisse addosso il peso delle responsabilità che comporta amare ed essere amati da qualcuno, e non stavo parlando solo di me.
 
“Lo difendi  ancora?” sbottò lei. Agitò una mano in modo composto come era solita fare. La mise tra noi due per allontanarmi in quel piccolo spazio di una spanna e mezzo che correva tra noi due.
 
Le abbassai il braccio e mi avvicinai. “Oscar, fermati.” La supplicai più calmo. Mi avvicinai e la presi per le spalle per tenermela vicino, feci qualche passo per portarla al centro della sala, perché in tutto quel trambusto non potevo fare tutto da solo. Volevo portarla vicino a te, perché ti vedesse.
 
“Lasciami.” Cercò di divincolarsi.
 
“Fermati.” Provai per l’ultima volta ad insistere, ma lei sgusciò via dalle mie mani, mi superò e raggiunse nuovamente la porta. Per un momento ebbi l’impressione che stesse scappando. Aprì la porta e l’aria fredda ci colpì entrambi. “Lo capisci o no che di là c’è una bambina che ha bisogno di due genitori?” sbottai allora alla fine.
 
Si fermò di colpo. Eravamo io e lei, parlavo di me e lei. Eravamo diventati genitori. Oscar richiuse la porta e ci si lasciò cadere contro. Scivolò ed i suoi capelli si impigliarono tra schegge mal levigate. Si mise seduta a terra, abbracciandosi le ginocchia. La raggiunsi, attesi che posasse la testa sulla mia spalla e rimanemmo fermi. Il fallimento del suo corpo nei mesi precedenti era ancora vivo dentro di noi. Cominciò a tremare ed allora capii che credeva di non esserne in grado. "Ho paura anch'io." le dissi "Ma la paura non ci deve fermare dal fare cose belle, Oscar.". Pianse e mi strinse. Poi s'alzò e camminò lentamente verso di te, che ancora dormivi ignara nella cesta. Affrontò con coraggio il primo sguardo che ti diede da genitore. Ti guardò con occhi diversi e non appena sorridesti, le nostre paure scomparvero. Divenne madre il giorno del suo compleanno.
 
Divenimmo genitori in così poco tempo e senza preparazione, eppure genitori esemplari. Facesti con lei i tuoi primi passi, Justine. Avrei voluto catturare quel momento e riviverlo all’infinito. Ti teneva orgogliosamente per le mani, stupita e felice insieme, rideva con la bocca aperta in un sorriso infinito e tu ti mordervi le labbra trai dentini da latte e le gengive. Tu eri buffa, lei bellissima. Ti sollevò per aria e fece finta di morderti la pancia. Era così affettuosa con te. Ti rimise giù e tu gattonasti da me. Spesso Oscar scherzava dicendo che io ero il tuo preferito. Era gelosa ed era bellissimo anche questo. Voleva viverti ogni giorno. Non volle mai che tu la chiamassi mamma, ti ricordi? La chiamavi per nome, solo Oscar. O una buffa imitazione di quello che doveva sembrare Oscar alle tue orecchie. Non voleva fare un torto a Rosalie. Tu una madre l’avevi avuta. Un padre no, però. Non ti era mai venuto a cercare. Ma io ero là.
 
***

Ottobre 1799
 
“Ti voglio bene, papà.” Fece Justine. A quel punto tutta la rabbia che aveva provato durante il racconto della sua storia s’era dissipato. Capii quello che i suoi genitori avevano passato, tutto quello a cui erano andati incontro, le sfide improbabili ed impossibili che erano capitate loro all’improvviso. Si sentì grati verso di loro, così che quelle due Justine che sentiva di essere certe volte, fecero pace tra di loro. Si sentirono entrambe grate e commosse, avvicinandosi sempre di più a quella persona che sentiva di essere.
 
“Te ne voglio anch’io.” Le rispose lui, carezzandole la testa ed i capelli morbidi e profumati. Justine aveva sempre ancora l’odore dell’innocenza, di qualcosa di nuovo, di futuro. Respirare quell’odore lo tranquillizzava, persino mentre arrivava alla fine della storia.
 
“Non è vero che Oscar è cattiva." ammise "Le volevo bene.” 
 
Andrè sorrise malinconicamente. “Ti ricordi quella volta in cui ti portò al mare?”
 
***

Agosto 1793
 
Ti insegnò a stare a galla, a stenderti sulla riva ed aspettare senza paura le onde che ti colpivano e ti facevano scivolare via. Piangesti quella volta e ti allontanasti, ma lei venne da te e ti bisbigliò qualcosa che io non capii. Ebbi l’impressione che mi guardasse. Poi tornaste insieme e vi rimetteste lì a farvi schiaffeggiare dalle onde. Rideste alla fine. Oscar aveva i capelli bagnati di mare e sporchi di sabbia. La guardavo ipnotizzato. Non riuscivo a mettermi in mezzo tra voi. Non sembrava giusto rubarvi quel momento e mi sentivo privilegiato ad ammirarvi. Rideva tanto con te, era fatta per quella vita.
 
Quando finalmente tornaste da me, ti diedi la mela che avevo preparato per i tuoi piccoli denti e poi mi dedicai a lei. Avrei ripopolato la Francia con Oscar. Le andai incontro e la presi per i fianchi. La sollevai così in alto che dovette tenersi alle mie spalle. “Andrè!” protestava, ancora una volta con quella intonazione nella voce imparata da mia nonna. “Mettimi giù!” diceva, ma non faceva niente per scendere davvero. Avrebbe potuto farmi cadere e tornare in piedi in pochi secondi.
 
“Giù? Vuoi andare giù? Andiamo giù!” le feci minaccioso e cademmo a terra, tra l’acqua e la sabbia morbida. La bloccai sotto di me, imprigionata nella gabbia delle mie braccia. Rideva, rideva davvero. Era la risata che avevo conosciuto quando era ragazza, quella che tornò da me negli ultimi anni, con cui tu crescesti per un po’.
 
Dovevamo averti ignorato troppo, perché ti sentii prendere la ricorsa e saltarmi addosso. Feci finta di esser stato colpito, che il tuo attacco fosse andato a segno. “Brava, Justine! Facciamo vedere a papà chi comanda!” vi incitò Oscar. Adoravo quando era lei a chiamarmi papà, quando con la voce dichiarava forte quel legame che ci univa tutti e tre. Lo sapeva e lo usò apposta in quell’occasione. Vi alleaste contro di me e mi metteste al tappeto, facendomi implorare pietà.
 
***

Ottobre 1799
 
“Me lo ricordo!” fece Justine battendo le mani. Col sorriso sui denti ripensò a quel momento. Capì che era da lì che veniva fuori la sua passione per il mare. Tutte le estati chiedeva sempre di essere portata lì.
 
“Cosa ti disse? Sai, me lo domando spesso.”
 
Justine gli raccontò quello che Oscar le aveva detto in quell’occasione al mare. Se lo ricordava bene. S’era nascosta, spaventata ed arrabbiata, in un cespuglio selvaggio cresciuto al confine tra la sabbia ed il bosco. Oscar le era andata incontro. Le punte dei suoi capelli erano bagnati ed appiccicati ai vestiti, mentre le radici si muovevano con l’andirivieni del vento. Le aveva detto di essere coraggiosa, che ne sarebbe valsa la pena, che la paura era utile certe volte, ma in certi altri casi impedisce di fare cose belle. L’aveva guardata intensamente, le aveva accarezzato una guancia, come se stesse parlando proprio di lei, di Justine. Poi aveva alzato per un attimo gli occhi per cercare Andrè. Justine l’aveva notato e l’aveva guardato anche lui, che di rimando aveva salutato. Oscar aveva sorriso ed insieme poi, mano nella mano, si erano lanciate nelle onde.
 
Andrè sorrise alla rivelazione di quel racconto. Chiuse gli occhi per ricordare il sorriso complice che aveva Oscar sul viso.
 
***
 
16 Ottobre 1793
 
Il giorno dell’esecuzione di Maria Antonietta, alle undici precise, credemmo di sentire il rumore della lama della ghigliottina correrle contro il collo. Ci segnò a tal punto che cominciammo a comprare i giornali quotidianamente. Se non riuscivamo coi soldi ne chiedevamo a mezzogiorno delle copie già lette. Sul letto giravamo insieme le pagine spiegazzate ed usate. Cercavamo disperatamente dei nomi.
 
Il terrore arrivò presto. Ci capitò sempre più spesso di leggere nomi di gente che avevamo conosciuto: la contessa di Polignac, il conte Fersen. Quando vidi quel nome mi si raggelò il sangue. Controllai il suo viso, cercai dei turbamenti. I suoi occhi erano fissi sulle pagine ingrigite. Le dita le si erano colorate d’inchiostro a furia di stringere la pagina consunta. Le poggiai una mano sulla sua per attirare la sua attenzione. Lei si girò, finse un sorriso cercando di rassicurarmi e poi richiuse il giornale. Mentre la guardavo andare via, mi passarono davanti i fasti di Versailles, l’uomo dai capelli biondo cenere, gentile in fin dei conti, che aveva salvato anche la mia di vita in più di un’occasione. Quella sera Oscar mi raccontò di Saint Antoine e della sera del ballo. Facemmo l’amore allora, con urgenza e disperazione. Ci amammo come mai prima, mentre lontano da noi una condanna dopo l’altra, la lama della ghigliottina scandiva inesorabilmente lo scoccare di mezzogiorno. Le esecuzioni furono così tante che ci sorprendemmo di essere ancora vivi.
 
Le riforme però presero a perseguitarci. Ci tolsero la terra che avevamo comprato e che stavamo coltivando. Venne riassegnata allo stesso contadino che lavorava con noi. Lui sfortunatamente non sapeva contare, non ne capiva niente di rendite, perdite ed investimenti. Ci chiese scusa e continuò a fare quello che faceva sempre, cioè zappare. I frutti vennero distribuiti a tutti in maniera ugualitaria, ma non equa. Noi che eravamo in tre, ne avemmo quanto lui che era da solo. Quando morì la terra rimase sprovvista di un proprietario e di un contadino.
 
Un giorno Oscar entrò urlando un giorno, chiamandomi “Andrè, corri!”
 
Corsi. La raggiunsi in piedi davanti alla porta di casa. Insieme leggemmo mezza colonna di parole fino a trovare quel nome: Bernard. Era stato catturato. Bernard, che era nel giro di Robespierre e Saint-Just dai tempi delle taverne e delle bettole. Lui che faceva propaganda alle loro idee tirando con sé carovane di Parigini.
 
Quella sera poi successe un’altra cosa che ci tolse il fiato. Oscar tossì. La tisi, di nuovo. Dapprima fu solo un colpo di tosse, poi il giorno dopo vedemmo il sangue. Una notte la sentisti pure tu. Ti trovai agitata nel tuo letto. Avevi le mani sulle orecchie mentre Oscar tossiva.
 
***

Ottobre 1799
 
Justine chiuse gli occhi. Ripensò a quel rumore che credeva di aver sentito solo negli incubi, la paura folle che veniva subito dopo. “Venivo a controllarla di notte, mentre tu dormivi.” Toccò stavolta a Justine raccontare. In particolare si ricordò di una volta in cui s’era svegliata nel cuore della notte. Oscar era corsa di sotto per tossire lontano dalle orecchie di Andrè. Justine però l’aveva sentita. Si svegliava ormai tutte le notti per ascoltare quando iniziava e quando finiva. Contava almeno cinque volte fino a dieci per tenere il tempo di quanto durava ogni accesso. Quella sera Oscar la vide raggiungerla. Immediatamente cercò di nascondere il suono dentro il braccio, ingoiare sangue e trattenere così tanto che gli occhi le si riempirono di lacrime e si fecero rossi. “Ti ho svegliato?” le aveva chiesto in quell’occasione. Justine le fece segno di no e le confidò in segreto che si svegliava sempre per contare. Credeva di stupire Oscar in quel modo, invece quella stupita fu proprio Justine dalla reazione di tristezza che suscitò. “Ti accompagno a letto, contiamo insieme.” Le disse allora prendendole la mano. Rimase accanto a lei e contò da zero a venti. La sua voce morbida che cantilenava le insegnò anche i numeri dopo il dieci in quel modo.
 
“La mia Oscar.” Commentò solo Andrè.
 
***

Giugno 1794
 
Le cose andavano male. Oscar peggiorava alla stessa velocità della Francia. Pareva che il suo fisico rispecchiasse quello di una nazione intera. La pena per Bernard fu tramutata da prigione a morte, neanche te lo dico come. Uno dei padri della democrazia stava per essere giustiziato. Per quanto lo odiassimo per quello che aveva permesso che accadesse e per quello che ti aveva fatto, non ci sembrò giusto. Ci pensammo a lungo, senza mai venirne a capo.
 
Nel frattempo venivano giorno in cui io avevo sempre più paura. Trovai Oscar una volta svenuta, poco lontano dal letto. Fu per pochi secondi. La tosse, si giustificò, le succedeva anche quando abitava a palazzo Jarjayes. Imparai a non lasciarla mai sola, a convivere con la paura ed il dovere di starle accanto giorno e di notte. La febbre poi prese a mangiarsi il suo corpo, la sua bellezza, la sua vita. Insieme notammo cambiamenti anche in te. Eri nervosa, stanca, arrabbiata. Ci chiedemmo a lungo se fosse più onesto raccontarti tutto o lasciare che tu vivessi in serenità quegli anni.
 
Non ebbi mai il coraggio di fare altro che starle accanto. Ovviamente quel coraggio però ce l’aveva lei. “Devo dirti una cosa.” Mi disse in quel mese. Non mi disse niente in realtà, ma capii subito. Voleva tornare a Parigi. “Conosco Bernard, Robespierre, Saint-Just ed ero nobile. Vorranno accogliermi o catturarmi, in entrambi i casi arriverò vicino a loro.” Cercava di spiegarmi il suo piano. “I genitori sacrificano tutto per i propri figli.” Considerò, ricordando una frase che aveva sempre associato a Rosalie. Poi prese un respiro profondo e guardò le nostre mani dove le dita erano intrecciate “Io sogno ancora una Francia diversa per nostra figlia. Dobbiamo prenderci cura di lei. Andrè, questa cosa dobbiamo farla io e te, ma non insieme stavolta.” Io stavo a sentire e piangevo, mentre lei continuava a parlare. Agitavo la testa per dirle di no, non era giusto, non doveva, dov’è che stava scritta una cosa del genere. Con le mani cercavo di tenermela vicina per farle cambiare idea. Poi dall’altra stanza ti sentimmo emettere lamenti. Entrambi ci girammo verso di te. Quando tornammo a guardarci ci sorridemmo, per come i nostri gesti si erano coordinati negli anni. Lo erano sempre stati, siamo sempre stati una squadra e me ne resi conto solo allora. “Non voglio che mi ricordi così.” Disse e si indicò. Ancora una volta non avevo voluto vedere il suo corpo arrendersi, gli effetti che aveva su di te e su di me. Sentii solo allora prepotente l’odore del sangue che tossiva, quel sentore ferroso e rancido. Capii che stava facendo di nuovo il conto alla rovescia. “Le racconterai tutto di me, sono sicura che mi farai sembrare magnifica.”
 
La baciai tra le lacrime. “E’ come ti vedo io.” Le dissi. Avrei voluto aggiungere che l’avrei seguita ancora una volta, come sempre. Le sarei andato dietro e saremmo morti insieme. E se non era possibile farlo, io sarei morto prima di lei, per non dover vedere la vita lasciare il suo corpo. Quell’ultima volta però non potei: avevo una responsabilità, una ragione in più per non morire. Avevo te. Sapevamo entrambi quale era il suo compito e quale il mio. La vita ci aveva uniti e tenuti stretti per più di trent’anni, la vita ci aveva divisi infine dopo tanto tempo. Vedevamo il bivio. Avevamo cercato di negarlo per qualche tempo, ma la verità torna sempre a riscuotere i propri debiti.
 
“Vorrei riuscirti a dire a parole come io vedo te.” Mi disse, riempiendo il vuoto che io non potevo colmare. Cominciò a piangere, lacrime calde le sgorgarono inarrestabili dagli occhi. Non c’era bisogno che dicesse niente. Mi stava lasciando sua figlia, che altro poteva dire? Che prova di fiducia più grande di quella esiste in natura? Prese a tossire. Attesi paziente che smettesse, poi la baciai ancora. Fu il bacio più umido ed amaro che ci scambiammo. Piangevo io, poi silenziosamente di nuovo anche lei. Assaggiavo le nostre lacrime mischiate e la sua saliva. Quell’addio aveva un sapore salato.
 
“Non ci riesco.” Le confidai. Mi immaginai vederla andare via, l’ultima immagine che avevo di lei di spalle. Riconobbi le parole di un uomo che aveva già accettato il suo fato, così velocemente considerai. Mi chiesi se il mio amore per te arrivasse al punto di accettare il sacrifico della donna che amavo. Chiusi gli occhi per pulirli dalle lacrime, provai a riaprirli ma vidi il retro della sua mano.
 
“Non farlo.” Mi bisbigliò “Lo faccio io.”
 
Dovette sembrarmi un saluto più dolce quello. Oscar si baciò le dita e me le portò alle labbra. Baciò le mie e lasciò che carezzassi il punto in cui si erano appena posate. Piano piano si allontanò. Sapevo che stava andando via, che non l’avrei mai più vista, ma credevo di avere un ricordo prezioso nella forma delle sue labbra. Mi concentrai su quella mentre la porta sbatteva e gli zoccoli del cavallo scalpicciavano sul selciato.
 
Aprii gli occhi e lei non c’era più. Ero solo. La nostra vita insieme era finita. Con lei che era stato il mio tutto. Era stata mia amica, compagna di giochi, di studi, di merende, la donna dei miei sogni, quella proibita, quella che mi aveva respinto, la mia migliore amica, la mia amante, la madre di mia figlia, mia moglie.
 
Quello che più mi faceva male era saperla lontana, in pena. Che soffrisse da sola, lontana da casa sua, dove non aveva la comodità dell’abitudine. Avrei voluto sentire il conforto di saperla a dormire nel suo letto.
 
Non l’ho mai più rivista.
 


 


Angolo dell'autrice
Sono a lutto tanto quanto voi. Giuro, mi ha distrutto scrivere questo capitolo.
Se ci sono errori ovviamente, scrivetemi senza problemi. Mi piacerebbe che alla fine la storia fosse quanto meno piena di errori possibile. Fatemi sapere cosa ne pensate, ormai siamo verso la fine. Molti di voi avevano capito più o meno tutto, è stato molto divertente leggere le vostre teorie.
Vi saluto con un bacio grande, vi aspetto per l'epilogo :*

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Capitolo 5
*** Epilogo ***


Giugno 1795
 
Da quel giorno, cara Justine, fu difficile andare avanti. Ho creduto di non farcela così tante volte che neanche le ricordo tutte. Sono stato arrabbiato con lei, con i tuoi genitori, con la Francia e con la rivoluzione che mi aveva prima dato e poi tolto tutto. Era andata via da meno di un anno. Solo un mese dopo la sua partenza erano finiti quelli che chiamavano gli anni del terrore. Le notizie della sparatoria su Robespierre prima della cattura e della morte di Saint-Just ci avevano già raggiunti. Non ero certo ovviamente, ma leggevo nella fine di quella rivoluzione malata le gesta di Oscar. Credetti di poter smettere di aver paura e senza neanche quella a tenermi vivo mi lasciai andare. Fosti poi tu ad aiutarmi. Una mattina mi svegliasti e mi trascinasti qui. Reagisti prima di me, mi mostrasti la primavera, i fiori che sbocciavano, la vita che continuava rigogliosa e inarrestabile. Eri forte più di me, sei forte più di me. Rivedevo nella tua tenacia la stessa che c’era stata in Oscar. Dovevo imparare da te, da voi. Mi ricordasti il mio compito, perché ero rimasto: tu.
 
Un giorno, proprio in quel periodo, ricevetti una lettera di una persona che avevo conosciuto lungo il nostro viaggio. Era il dottore che curò Oscar il giorno della Bastiglia. Mi chiedeva solo di lei. Era andata via da appena un anno ed all’amarezza che stavo provando si aggiunse il disgusto al pensiero che un uomo, che si fregiava del titolo di dottore, se ne fosse fregato della salute di Oscar fino ad allora. Mi arrabbiai e non risposi subito. Passò un po’ di tempo, poi forse un presentimento ebbe la meglio. Imparai a fidarmi degli istinti come faceva lei.
 
Presi coraggio e gli scrissi. Gli spiegai che era stata meglio per un certo periodo: respirava, correva, nuotava e rideva tanto. Poi che la malattia era tornata e che da lì in poi le mie notizie si erano esaurite. Poco tempo dopo, con mia enorme sorpresa, mi rispose chiedendomi il permesso di pubblicare il suo caso sui libri di medicina. Mi spiegò che lo pneumotorace che casualmente aveva avuto con lo sparo doveva aver messo a riposo la malattia, aiutato il polmone sinistro a guarire. Ipotizzò che col passare degli anni la tubercolosi avesse avuto la meglio anche su quello destro. Questo però avrebbe aiutato altre persone, avrebbe potuto sperimentare quella come cura se non altro per far guadagnare tempo. Si cominciò a parlare di guarire i malati di tisi. E così non fu solo la vita di Oscar a salvare tanta gente, ma anche la sua morte. Pareva quasi che la provvidenza divina stesse intervenendo sulla storia tramite Oscar.
 
Nello stesso anno, qualche mese dopo, mi raggiunse Alain. Era settembre del 1795. Me lo trovai sulla porta, ti ricordi, c’eri anche tu. Quando fuggimmo da Parigi, Alain s’era rifiutato di venirci a salutare né aveva mai voluto sapere dove ci trovassimo. Ancora una volta aveva deciso di proteggere sé stesso da qualunque tipo di affetto. Sarebbe dovuta essere una sorpresa per me, trovarmelo davanti alla porta di casa, tuttavia così non fu. Mi parve quasi di averlo aspettato. C’era allora solo un motivo perché si trovasse lì: Oscar. Dovevano essersi incontrati. L’avrà cercato una volta a Parigi.
 
“Allora, dov’è la mia nipotina?” Chiese non appena aprii la porta. Ti spaventarono i suoi modi di fare, coinvolgenti ed impulsivi, decisamente troppo per uno della sua stazza in paragone a te. Ti nascondesti dietro di me. “Ehi, Andrè, sei sicuro sia figlia vostra?” mi chiese. Non fu neanche necessario precisare figlia di chi credeva che tu fossi. “Voi” potevamo essere solo io ed Oscar.
 
“Molto sicuro.” Gli risposi distratto, mentre ti cercavo con le mani dietro alle mie gambe. Non sapevo cosa Oscar gli avesse raccontato, se tutto o solo la parte in cui io e lei stavamo crescendo una bambina, ma comunque dirgli di sì, che eri figlia nostra, mi sembrò anche la risposta più corretta. Fu strano dirlo a lui a voce alta. Fu come sentire la mia nuova vita in Provenza narrata a quella vecchia in caserma. Rese tutto così reale. “Saluta zio Alain.”
 
Uscisti allo scoperto e facemmo le presentazioni. Dopo una prima titubanza prendesti coraggio e vi stringeste la mano. Giocò con te, sembrava voler prendere tempo fino a che arrivò l’ora che dovemmo metterti a letto e mi disse tutto.  
 
Stavamo seduti al buio di una candela, fuori sentivamo i grilli cantare. Agitava continuamente il piede a terra, si sentiva quasi in colpa nei miei confronti. Mi chiese del mio occhio e fece qualche battuta nervosa. Alla fine disse che dovevo saperlo da lui. Oscar era stata a Parigi. L’aveva trovato che vagava per le taverne. Non era un bel periodo, non stava molto bene neanche lui, era ubriaco tutto il giorno, non sapeva mai cosa fare. Era finito come tutti a provare disgusto e vergogna per quello che la rivoluzione era diventata. Non gli piaceva la ghigliottina, non gli piaceva la facilità con cui veniva usata. Se ne rimase in disparte persino quando la usarono sui vecchi sovrani. Quando vide Oscar immaginò che avrebbero potuto insieme ribellarsi ai ribelli. Insieme scrissero la storia con grandi gesta, come era stato nel 1789. Non riuscivo ad immaginare altri al loro posto. Erano là quando catturarono Robespierre: la pistola che gli sparò alla bocca prima della cattura era di Oscar. Robespierre dovette portarsi dietro le stigmate del loro ultimo incontro fino alla ghigliottina. Provarono a salvare Bernard, ma negli anni era stato troppo vicino a Robespierre per farla franca e fu condannato qualche ora dopo. Mi disse che parlarono in privato, non sapeva di dire di cosa, io posso solo immaginarlo. Da padre, se avessi solo un’ultima ora da vivere parlerei di te o di lei. Qualche giorno dopo Oscar ed Alain catturarono anche Saint-Just, che morì di spada, in duello con lei, come aveva scelto. Riuscì quantomeno ad evitargli la ghigliottina. Ne rimase ferita e questa volta Alain non la aiutò, proprio come gli aveva chiesto quella volta. Rimase con lei fino alla fine.
 
Ora Alain, lo sai, coltiva quella terra che abbiamo riacquistato qualche anno fa. Non so perché ci mise più di un anno a raggiungermi. Per molto tempo, addirittura da prima della rivoluzione, ebbi il sospetto che la amasse. Fu un pensiero che non mi diede pena. Anzi sperai ci fosse qualcuno che tenesse a lei nei suoi ultimi momenti. Non ne parlammo mai, non ha molto senso. Immaginai che si sentisse in debito nei miei confronti per questo. Alla fine del racconto mi guardò come se stesse aspettando una reazione da me. Credo fosse pronto a vedermi arrabbiato, a sentire qualche sfuriata o a prenderle di santa ragione. Gli misi una mano sulla spalla invece e gli dissi “Grazie”.
 
Ci stringemmo prima una mano e poi mi abbracciò. Le mani unite sul petto, spalla a spalla, a lasciar fluire lutto, riconoscenza e redenzione tra le lacrime. Mi sentii sollevato di un peso. Oscar poteva non esserci più, ma tutto di lei era stato epico ed eccezionale: il suo carattere e la sua intelligenza l’avevano portata dai rivoluzionari, segnando la fine della monarchia sotto la Bastiglia; il suo cuore a rinnegare titolo e rango per stare con me ed ad adottare una bambina che potevo chiamare mia; la sua malattia a scoprirne una cura; tutti gli allenamenti e la maestria con la spada e la pistola l’avevano portata da Saint-Just e Robespierre a segnare la fine del regime del terrore, che la stessa rivoluzione che aveva favorito. Fui così fiero di lei che non riuscirei ancora oggi ad esprimere a parole quanto fosse meravigliosa. La respiro nella storia, nel corso degli eventi, lungo le pagine dei giornali. Sono sicuro che un giorno studieranno di lei come si studia oggi Giulio Cesare.
 
La rivedrò un giorno. So che è con me, con noi e ci guarda. So che sarebbe fiera di te per la caparbietà con cui difendi le tue idee perfino contro di me. Un giorno la rivedrò e la ringrazierò per essermi stata comunque accanto tutto questo tempo, per non averci lasciato. Non le mentirò, le dirò che è stato difficile senza di lei, che la sua presenza faceva sembrare tutto più facile.
 
Vedi, Justine, ho perso mia madre e mio padre insieme alla stessa età che avevi tu quando Oscar ci ha lasciati. Ricordo a malapena i loro volti. Lo so come ci si sente: la rabbia che hai provato, il senso di abbandono, non sapere più chi sei, cosa avrebbero fatto loro al posto tuo, domandarsi come sarebbe stata la tua vita altrimenti. Io spero che sapere tutta la loro storia ti aiuti a sentirli più vicini, così che siano le scelte che hanno fatto tutti loro ad insegnarti ed a guidarti. E’ possibile, Justine, dando voce a quelli che furono gli ultimi pensieri di Oscar, che molto di quello che ti ho raccontato sia un abbellimento dettato dai miei sentimenti, ma la sua storia no. Non lo è.
 
***
 
Ottobre 1799
 
“No, papà.” Justine cominciò a pensarci. Poteva continuare ad essere arrabbiata per averla persa, per non aver mai conosciuto davvero sua madre, persino con sé stessa per non ricordarsi che faccia avessero entrambe. Poteva continuare a chiedersi “ed io?” davanti alla lista di tutte quelle persone che Oscar aveva aiutato. Oppure poteva ritenersi fortunata: fortunata di essere nata sotto quel tetto; fortunata che sua madre avesse così tanto affetto per la donna a cui l’aveva lasciata; fortunata di aver potuto godere della presenza di Oscar per quattro anni; fortunata di poter conservare tutti quei ricordi, impreziositi dalla maschera dell’infanzia. “Era Oscar.”
 
“Era Oscar.” Ripeté Andrè. Si morse le labbra per non piangere. Guardò lontano chissà dove, senza vedere niente realmente col vento che lo schiaffeggiò in faccia. “E così ora sai tutto.” Disse alla fine, concludendo il suo racconto “E’ stata la mia compagna da sempre. Persino a palazzo Jarjayes, se uno dei due si svegliava prima aspettava l’altro per la colazione.” Ripensò a quei momenti. Chiuse gli occhi come se potesse vederla, seduta al tavolino nella sua stanza a sorseggiare tè o cioccolata. “Eravamo parte di un tutto.” Si risolse.
 
Justine guardava persa suo padre. Si chiese come si potesse amare tanto, come ci si potesse sentire a condividere tutta la tua vita con qualcuno che poi scompare. Cominciò ad aver paura anche del futuro, domandarsi se sarà mai stato all’altezza del suo passato. Si domando quanto coraggio le ci sarebbe voluto per eguagliare le scelte di Bernard e Rosalie, di Oscar, di suo padre. Decise in quel momento di fare qualcosa di grande della sua vita. Non sapeva ancora cosa, ma l’avrebbe scoperto. Imparò quel pomeriggio il valore del coraggio, dell’amore e del sacrificio. Imparò che amare significa anche fare scelte difficili e che ti porti dentro sempre chi ti ama.
“E ora?” gli domandò, come se si trovasse davanti ad una pagina vuota da riempire, ad una storia da scrivere.
 
Andrè si voltò a guardarla e le sorrise. “Ora tu sei la mia compagna.” Scherzò, sicuro che un giorno le incertezze di sua figlia si sarebbero risolte senza l’aiuto che solo in quel caso non poteva dargli, che avrebbe trovato la sua strada e l’avrebbe percorsa tenacemente fino alla fine. Le allungò la mano. Justine gli diede in cambio la sua. S’impresse nella memoria la mano ancora minuta, che doveva ancora crescere e diventare adulta, la mano che sarebbe stata capace di grandi cose. “Torniamo a casa.” Le disse, ed insieme lasciarono la radura.
 
Quella notte Andrè andò a dormire come sempre pensando a lei. Sogni e ricordi si confusero insieme. Chiuse gli occhi e si trovò di nuovo nella stanza di Oscar, quella che aveva occupato da quando era bambina. Lei era giovane e sana. Se ne stava davanti alla finestra illuminata dal sole. Sorrideva, era bellissima.
 
“Ti aspettavo.” Gli disse lei. Andrè la raggiunse, le accarezzò una guancia. La sua pelle era soffice, liscia, calda, piena. Si muoveva sotto il suo tocco esattamente come si ricordava, cercando di prolungare quel contatto ed offrirgli l’altra guancia da baciare. Con l’altra mano Andrè intrecciò le dita a quelle di lei, proprio come quella ultima volta. La guardò di nuovo e l’immagine che stava sognando si sovrappose ai ricordi. “E’ ancora arrabbiata con me?” gli domandò Oscar.
 
Andrè sorrise. La vita serena e spensierata che avevano vissuto negli ultimi anni gli si presentò alla memoria. La ragazza che aveva davanti divenne madre attenta e premurosa. “Non è mai stata davvero arrabbiata con te.”  Le rispose.
 
“Sei il migliore dei padri.”
 
Sorrise ripensando a Justine, alla spigliata e vivace giovane donna che stava diventando, all’impertinenza ed alla determinazione che sapeva da dove aveva imparato. “Ti somiglia così tanto che a volte credo di non farcela.”
 
La malinconia increspò il viso di Oscar, ma il sorriso non l’abbandonò mai. Una luce eterea che entrava dalla finestra la avvolgeva tutta. Fu il suo turno di accarezzargli una guancia, quasi preoccupata e dispiaciuta. Non disse niente.
 
Era bello quel sogno caldo, accogliete, ristoratore. Sarebbe voluto rimanere lì per sempre. Eppure c’era ancora tanto da fare prima. Ricordò come si sentì quella volta, con un bivio davanti ed una strada unica ed intrecciata sin dall’inizio indietro. “Non posso restare per sempre.” Le bisbigliò malinconico. “Mi dispiace.”
 
Oscar scosse il capo. No, non doveva dispiacersi. Non era colpa sua. “Lo so.” Rispose lei dolce e premurosa “Sarò sempre qui, dove sono sempre stata.” Gli disse e gli mise la mano sul cuore. “Ti amo.”
 
“Lo so.” Rispose facendo eco alle parole di lei. Oscar gli sorrise incoraggiante, fiera per quello che lui era riuscito a fare, orgogliosa, non s’aspettava niente di meno dal suo Andrè. Dietro di lui un muro di luce bianca che separava la realtà dal sogno stava per accoglierlo. Camminò all’indietro non distogliendo lo sguardo dalla sua amata, che lo guardava con amore. Le mani di entrambi si allungarono man mano che la distanza tra loro aumentava: prima i palmi erano intrecciati, poi le dita ed alla fine si sfiorarono appena con i polpastrelli.
Prima o poi si sarebbero rivisti, le loro strade si sarebbero riunite.
 




Angolo dell'autrice
The end! Ora siete autorizzati ad uccidermi se volete xD scherzi a parte, spero vi sia piaciuto. Fatemi sapere. 
Sentirete di nuovo parlare di me ;) a presto

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