Letters

di Persefone26998
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Start ***
Capitolo 2: *** 1- Storm ***
Capitolo 3: *** 2- Leave ***
Capitolo 4: *** 3- Dreamless ***



Capitolo 1
*** Start ***


Piccola nota di servizio: questa storia è una raccolta ad aggiornamento piuttosto variabile che racconta la mia visione del rapporto tra Kaeya e Diluc; potete leggerci un sottotesto romantico, platonico, fraterno, siate liberi di vedere l'amore tra i due (nella mia visione amore è una parola neutra non collegata sempre all'aspetto romantico). Tuttavia, sul mio profilo vige tolleranza zero per le ship wars (anche da parte di chi shippa Kaeluc, siamo chiari), non ho interesse a convincere nessuno e non necessito di essere convinta di niente; rispettiamoci tra di noi, che la scrittura è un tramite, non un campo di battaglia, grazie <3

La pioggia è un ticchettio regolare sugli infissi del Manor, tanti piccoli rintocchi alla memoria di una vergogna passata che non è sicuro di voler scoperchiare in quella sera di tempesta; il fuoco scoppietta nel caminetto con un bagliore sinistro, sembra quasi volersi aggregare a quella sinfonia di campanelli che si insinua nella sua testa ad ogni scossone che i suoi ricordi danno al vecchio coperchio scorticato che li tiene a cuccia. Non sa esattamente perché ha acceso quel fuoco, piove ma la calura estiva non rende giustificabile un’azione così ossimorica, ma forse è la pioggia che fa brutti scherzi con quel rumore incessante che pare volergli aggrovigliare la gola con i suoi peccati; è che a sentire il rumore del caminetto gli sembra quasi sia possibile coprire il suono dei suoi ricordi.

Certamente è un pensiero figlio dell’illusione, ma starci a rimuginare sopra non farebbe altro che fargli sentire quanto scricchiolante siano le sue barriere, quanto sottile e traballante la corda che lo separa da quel pozzo fatiscente di rimorsi; perché già a sentire la carta vellutata tra le dita e a vedere la danza che la sua calligrafia gli improvvisa davanti agli occhi, un po’ si sente come perle d’uva troppo spremute incapaci di dare anche solo un'altra goccia di succo.

È che il senso di colpa ha la forma di una pupilla stellata e odora tremendamente di pioggia, terra bagnata e fuoco, ha la consistenza dell’acqua che cambia al cambiare del proprio contenitore e il bruciore pungente del ghiaccio; è che con i ricordi non si può scherzare davvero, perché sono corde troppo strette da tirarle a sufficienza per allontanarli e questo, a sue spese, continua a sbagliarlo ogni giorno da quella fatidica notte.

Neanche la lontananza, quel peregrinare continuo di quasi quattro anni in cerca di una risposta che non sa ancora se sia mai esistita, era riuscita a infondergli un minimo di timore reverenziale o a scacciare l’immagine della persona più importante che le sue stesse mani avevano spezzato; e adesso, a vederselo di fronte ogni giorno sia nel bagliore rassicurante della sua uniforme sia nel sorriso tutto denti bianchi e occhi malinconici dall’orlo di un bicchiere di vino, Diluc pensa che se fosse un uomo saggio quel coperchio l’avrebbero già dovuto aprire insieme in un tempo passato.

Kaeya è Kaeya anche adesso che hanno più di vent’anni e i sensi di colpa gli si attaccano alle caviglie con i loro denti aguzzi; Kaeya è ancora una scrittura troppo bella e perfetta per essere umana, Kaeya è ancora una carta profumata di Calla Lily nonostante il passare degli anni, Kaeya è ancora un umorismo insensatamente pungente e un cuore troppo grande da poterci contenere tutta Mondstadt, Kaeya è ancora una striscia di capelli blu e una pupilla fatta di stelle e di un abisso tanto profondo che a guardarlo per troppo tempo rischi di annegarci. Kaeya è ancora Kaeya e Diluc vorrebbe tanto che fosse il mostro delle favole, lo straniero traditore pronto a vendere la loro terra per un piatto di lenticchie e non il sorriso rassicurante che rivolge ai bambini di Mondstadt; mentre sfoglia le sue lettere, quel filo conduttore di una scatola di ricordi che si apre davanti ad un camino in una giornata di pioggia, Diluc vorrebbe con tutte le sue forze poterlo odiare, ma la rabbia di una notte è bugiarda come una candela soffocata sotto una coppa di vetro.

Perché Kaeya è Kaeya e il cuore gli sembra sfilacciarsi dal dolore, mentre inclina il capo e la vista gli si offusca.


 

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Capitolo 2
*** 1- Storm ***


“Una tempesta è in fermento tra i Cavalieri di Favonious...”

Suo padre è morto.

È una realtà che alla soglia dei suoi diciott’anni Diluc non si sente pronto ad affrontare, non senza il peso continuo e ripetuto dei suoi occhi che gli si spegnevano davanti, non senza quell’immagine impressa come un ferro rovente sul fondo delle sue retine che pare divertirsi a tormentarlo ogni volta che chiude le palpebre; suo padre è morto e la persona che considerava più parte di sé di un suo braccio o del suo cuore è una spia di una terra morta e mostruosa, è l’incarnazione multiforme di una favola nata per spaventare i bambini incarnata nell’orrore della loro macchine e della tracotanza verso Celestia. Suo padre è morto, Kaeya è una spia e la terra sembra voler piangere con lui ad ogni scrosciata d’acqua che gli cade sulla testa.

Piove come se la sua casa in quel momento fosse il centro di un tifone, piove e la pioggia è una frusta gelida in quel bilico da funambulo in cui la sua mente si trova, un’oscillare ubriaco tra incredulità e dolore che gli blocca il fiato in gola in una sorta di pendolo perverso; l’acqua gli corre lungo i capelli, si infila negli spazi stretti al di sotto dei vestiti zuppi e arricciati sulla pelle, incespica nelle pieghe dei suoi movimenti mentre si strofina le mani sotto la fonte al di fuori della sua tenuta. Sangue le ricopre, anche se ha passato gli ultimi quaranta minuti della sua esistenza a strofinarle fino a spaccare la pelle, anche se la pioggia è una sferza impetuosa, anche se il sangue vecchio – quello di suo padre, quello di Kaeya – è ormai scivolato via ed è il suo sangue a sostituirlo.

Certa sporcizia è semplicemente impossibile da lavare via perché si insinua sotto la carne, corrode come acido finché non riesce ad arrivare all’osso nudo della propria anima, lì dove può attecchire e bruciare per anni, forse anche per tutta la vita, come un fuoco inestinguibile; perché la natura dei sensi di colpa è fatta di quella sporcizia che Diluc non si leverà mai di dosso, è fatta degli occhi morenti di un padre che non è stato in grado di proteggere – nonostante la sua forza, nonostante quel gingillo che si porta appeso alla vita e che per tutti è la prova che Celestia ha visto il suo valore – è fatta degli occhi di Kaeya che paiono ghiaccio zigrinato e non smettono di guardarlo con lo stesso scintillio delle stelle anche dopo che l’ha quasi accecato, come se quel concentrato di rabbia e sensi di colpa piegato a lavarsi inutilmente le mani fosse degno di amore.

Gli si attorciglia lo stomaco quando pensa agli occhi di Kaeya, al sangue e a quella figura trasfigurata che non era più Diluc e che ha ferito il centimetro più importante di sé, come un mostro che egli stesso ha creato e che adesso, mentre si scortica la pelle sotto la fonte, vorrebbe poter afferrare per i capelli tornando in dietro nel tempo; avrebbe voluto che qualcuno gli avesse insegnato che i veri mostri non hanno occhi azzurri e il profumo di altre terre, che non sanno di ghiaccio e di legami, che non hanno la scrittura più bella che Diluc abbia mai visto e il mondo non sembra fermarsi incantato quando ridono, ma che gli avessero detto che i mostri hanno ciocche rosse e il sapore acido della bile ancora sulla punta della lingua.

Avrebbe voluto che qualcuno gli avesse insegnato che ci si impegna così tanto a credersi puri di cuore da diventare miopi al marcio di se stessi.

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Capitolo 3
*** 2- Leave ***


“Se vuoi andare via, fallo adesso.
Meno le persone sanno, meno addii dovrai dare.
Parti di notte, inoltre, così non sarà troppo triste.
Prenditi cura di te stesso”
 
- Master Diluc, siete sicuro che...

- Ne abbiamo già parlato Adelinde

- Non sempre le scelte che ci paiono più facili sono le scelte giuste

Forse non è neanche una scelta facile chiudere le sue cose in una sacca e andarsene, ma non ha le parole per spiegare la matassa nella sua testa o, a starci a riflettere troppo, significherebbe sentire scricchiolare così tanto la scatola del senso di colpa da credere che ci si sia rintanato un mostro quando ha cercato di chiuderla; con la coda dell’occhio vede Adelinde stringere appena il bordo del grembiule tra le dita, le labbra strette in una linea che le indurisce il viso e, per quanto Diluc odi quell’atteggiamento deferente nei suoi confronti, è grato che l’altra non cercherebbe di superare la linea sociale che li divide pur di convincerlo a restare. A volte non c’è necessità di più parole di quelle che si sono dette e, anche se già in molti ci hanno provato a fargli cambiare idea, per una volta nella sua vita è pienamente sicuro della sua scelta; non poteva dire di non averci pensato a rimanere, nonostante la sola idea gli facesse sentire la gola chiudersi, non poteva neanche dire che una parte di sé sarebbe andata persa lasciando quella terra, ma se anche quella Alice appoggia il suo viaggio forse anche un buco nell’acqua sarà meglio del tormento che gli infuria nell’anima.

È per se stesso che ha bisogno di andare via, per le risposte che nessuno sembra pronto a dargli e per quel senso di colpa che gli pesa sul capo ogni volta che Mondstadt si riempie di nuvole, per il sacrificio di suo padre e per l’orrore che prova verso se stesso ogni volta che vede la foto che ha sul comodino; Kaeya gli sorride nei suoi sedici anni, il colletto inamidato della camicia contrasta in modo quasi comico con il modo in cui la tiene appoggiata mollemente sulle spalle, il mare dietro di lui pare uno specchio scintillante come se la luce si piegasse sulle onde per incorniciarlo e Diluc fatica a ricordare l’odore  del mare e della sabbia, di quelle giornate d’estate, ora che non ha più le ciocche cobalto di Kaeya a girargli attorno. Non è neanche sicuro di ricordare dove fossero in quella foto, il tempo e il luogo gli paiono due concetti talmente astrusi da drenargli le energie a pensarci, né perché stessero sorridendo come se il mondo fosse un’ostrica pronta a dischiudere le sue perle davanti ai loro occhi; con tutto il dolore e il senso di colpa che gli scampanellano in testa, a conti fatti è più una pianta carnivora talmente bella e crudele nell’attirare le sue prede.

E, probabilmente, se resterà fermo a guardare il mondo scorrergli tra le dita crogiolandosi nel suo dolore, anche le risposte a quella Babele scapperanno lontano da lui come i fili del tempo che li uniscono su quella spiaggia.

Il sospiro di Adelinde gli si incastra nelle orecchie e sente che se si girerà a guardarla il coraggio potrebbe venirgli meno, perché non gli è rimasta che lei da deludere e avrà completato il giro d’orologio della sua colpa; ché ci vuole tanto più coraggio nel mettere in atto le proprie decisioni che nel prendere le stesse e Diluc non si sente abbastanza coraggioso a guardarla negli occhi come se non fosse tutto una sua responsabilità, come se lui non fosse l’artefice ultimo del male calato su quella casa, mentre tutte le pressioni del mondo gli premono addosso pur di trattenerlo a Mondstadt.

- Master Diluc, quando tornerete?

Ed è assurdo, nonostante il disgusto verso se stesso gli maceri il petto, come gli basti guardare la bella grafia di Kaeya su quella carta filigranata dei Cavalieri di Favonious per sentirsi più leggero, mentre se la lascia scivolare in tasca come il più sordido dei segreti e pensa di riuscire a chiude da illuso il coperchio del suo passato.

- Quando avrò ritrovato me stesso

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Capitolo 4
*** 3- Dreamless ***


“Qualunque sia la verità, è davvero faticoso leggere
quelle parole sfocate con un solo occhio, lo sai?
Non preoccuparti, rimarrà un segreto”
 
Come Kaeya riesca a trovarlo persino nel fitto della foresta di Avidya, lì dove il cielo sembra sparire tra le fronde degli Adhigma che ombreggiano alle radici dei grandi alberi a fondamento di tutta la terra della Conoscenza, resta un mistero che Diluc si è ormai arreso a svelare; aveva semplicemente accettato che, ad un certo punto del suo infinito pellegrinaggio, sarebbe arrivato un falco messaggero dal piumaggio brunastro e l’insegna dei Cavalieri di Favonious o, come in quel preciso caso, un mercante con un cappello di filo sempre troppo ampio per la sua testa e un sorriso vecchio come il mondo. E per quanto ammetterlo significhi venire a patti con dei sentimenti che non vuole affrontare, come un bambino che si avvolge nelle coperte per sfuggire al mostro sotto al letto, c’è un conforto abitudinario nelle linee fini ed eleganti di quella grafia che gli danza davanti agli occhi anche nella nazione senza sogni.

Sumeru è il luogo più singolare in cui Diluc sia stato nel suo viaggio fino ad allora, come un insieme di bolle in cui sembrava che la vera protagonista in grado di tirare i fili del destino non fosse altro che un’ombra dimenticata, una nazione con un Archon vivo che sembrava agli occhi degli abitanti più morto del proprio predecessore; uno studente dell’Accademia che aveva incontrato nella foresta, forse l’unica persona che gli era parsa degna di fiducia in quella terra così strana e verso cui provava un senso di vergogna ad avergli nascosto la sua vera identità, gli aveva detto che tutto su Teyvat è come un grande albero collegato: in superficie ci sono metri e kilometri a separare e dividere, a far sembrare quasi che i fili che connettono i singoli al tutto si assottiglino fino a sparire in un sogno; ma in profondità le radici si intrecciano, si aggrovigliano tra loro condividendo lo spazio e ciò di cui si nutrono, tanto che le scelte del singolo si ripercuotono sul tutto, perché ogni cosa in Teyvat risuona e fa vibrare anche due fiammelle distanti la strada tra il suo accampamento e i tetti rossi di Mondstadt.

C’è uno strano conforto in quel sogno e non dovrebbe crogiolarvisi, o finirà per perdersi sulla strada della sua vendetta.

È che se sta a pensarci troppo, se rilegge ancora e ancore le parole dell’altro, sente che il cuore potrebbe scoppiargli da quanto disgustato sia verso se stesso; sa che Kaeya non è cieco, che tutte quelle parole non sono che una messa in scena manieristica che l’altro tiene col mondo e che è come cercare di stare in bilico su una corda a tentare di trovare il vero e il falso in ciò che dice Kaeya. Ma sa anche che la sensazione lorda del suo crimine sulle dita non la laverà via mai, che non serve un occhio non cieco per alleggerire il senso di colpa che gli schiaccia il viso nella fanghiglia, che il viscido odore ferroso del sangue impastato da terra e pioggia se lo porterà impresso nella carne fino all’ultimo fiato.

Ché non c’è niente di più grande e più terribile del vivere del proprio senso di colpa, come un miasma velenoso che corrode la natura stessa dell’essere umano, lo spezza e lo rimonta trasformandolo in mostruosità bloccato in quel limbo in cui il tempo è un oroboro che inghiotte se stesso; Diluc sa che per lui non c’è perdono anche se la scrittura di Kaeya è sempre bellissima e l’altro non sa tenersi appiccicata quella maschera di strafottente arroganza neanche nelle lettere che gli scrive, perché Kaeya resta sempre il suo Kaeya anche con quella catena che si sono legati al collo prima di buttarsi dalle cime di Starsnatch.

E Diluc vorrebbe davvero con tutte le sue forze che fosse rimasto solo l’odio e la vergogna a tenerli uniti, lo prega con fervenza a Barbatos notte dopo notte, lo spera ogni volta che l’acido gli balla sulla punta della lingua quando un falco o un mercante gli fanno scivolare quelle lettere tra le mani, lo desidera perché altrimenti il male che ha causato non è che la riprova che grattando la scorza dei giusti non si trovano altro che mostri.

Ma le lettere di Kaeya sanno di Calla Lily e, in mezzo agli orrori che si susseguono davanti ai suoi occhi e nel bagliore sinistro dell’eresia bugiarda che si porta al polso, sono l’unica cosa che lo tiene attaccato alla ragione. Perché Kaeya è Kaeya, mentre a quel ragazzo che sta accarezzando con cura le parole del suo passato di Diluc non è rimasto il resto di niente.

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