Star Trek Destiny Vol. I: Oltre la soglia

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La nave alla deriva ***
Capitolo 3: *** Conto alla rovescia ***
Capitolo 4: *** Predatori e prede ***
Capitolo 5: *** Evasione ***
Capitolo 6: *** Smarriti nel Multiverso ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Destiny Vol. I:
Oltre la soglia
 
 
PER SECOLI LA FEDERAZIONE
HA ESPLORATO IL COSMO,
NELLE SUE VASTITÁ DI SPAZIO E TEMPO.
RESTA UN’ULTIMA SOGLIA DA OLTREPASSARE:
QUELLA CHE CONDUCE AD ALTRE REALTÁ.
E SEBBENE IL MULTIVERSO SIA UN CONCETTO
DI CUI SAPPIAMO SPAVENTOSAMENTE POCO,
LA MISSIONE DELL’USS DESTINY È ESPLORARLO,
ARRIVANDO CORAGGIOSAMENTE LÁ DOVE
NESSUNO È MAI GIUNTO PRIMA!
 
 
-Prologo:
Data Stellare 2605.44
Luogo: Stazione Jupiter (Sol 5)
 
   Uscita dal tunnel di cavitazione, la slanciata navetta federale sfrecciò verso la grande stazione spaziale di forma fungina, che spiccava contro l’atmosfera striata e turbolenta di Giove. Il copilota aprì un canale con i passeggeri che affollavano il comparto posteriore, seduti lungo le due file di poltroncine, per la comunicazione di servizio.
   «Attenzione, stiamo per giungere a destinazione. Tutto il personale è pregato di prepararsi al teletrasporto. Una volta a bordo, convalidate la vostra identità e recatevi agli alloggi per lasciare gli effetti personali. Dopo la visita medica prenderete servizio, in base ai ruolini assegnati. Si raccomanda la puntualità. Arrivederci e buona fortuna, ufficiali della Flotta Stellare!».
   «Ufficiali della Flotta Stellare!» si disse Giely, sentendo il cuore palpitarle. Era un titolo altisonante, persino per chi come lei era l’ultima ruota del carro. Ed era un’immensa soddisfazione, dopo tutta la fatica fatta per arrivare a quel punto. Sentì un formicolio crescerle nello stomaco: quel giorno si apriva un nuovo capitolo della sua vita. Niente di ciò che aveva passato poteva paragonarsi a ciò che l’attendeva, in termini di sfide... e di pericoli. Sarebbe stata all’altezza? In tutta sincerità, non lo sapeva; ma confidava che il Capitano e gli ufficiali superiori sapessero il fatto loro, e tenessero la nave tutta d’un pezzo.
   «Guardate, eccola lì!» esclamò un collega, indicando fuori dall’oblò alla sua destra. Tutti coloro che si trovavano su quel lato della navetta si girarono a osservare dai finestrini. Lo fece anche Giely, e con un tuffo al cuore la vide, attraccata alla stazione.
   L’USS Destiny era più bella di quanto avesse sognato. Il suo design avveniristico si discostava dalla tradizione della Flotta Stellare, proseguendo la tendenza sperimentale dell’ultimo secolo. Lo scafo principale era lungo e squadrato, come nella classe Juggernaut, ma attorno ad esso correva una sezione ad anello, perfettamente circolare e aperta al suo interno, tanto che Giely vide le calde tinte di Giove attraverso il foro. La giovane non conosceva le specifiche della Destiny, che erano top secret; sperò di capirci qualcosa una volta a bordo. Comunque notò che quasi tutte le finestre erano disposte lungo lo scafo centrale, mentre nell’anello si aprivano grandi hangar. Sempre lungo l’anello brillavano i collettori Bussard, segno che le gondole quantiche vi erano completamente integrate. Un ultimo dettaglio la colpì mentre si avvicinavano: sulla prua dello scafo principale, che si protendeva oltre la sezione anulare, vi erano due deflettori di navigazione. Uno era ovale, l’altro a forma di triangolo dai lati smussati. Evidentemente uno degli apparati serviva alla navigazione vera e propria, mentre l’altro permetteva alla Destiny di aprire i portali verso altre realtà. Il Multiverso non era mai stato così a portata di mano...
   Persa nella contemplazione, Giely non si accorse che i colleghi si erano alzati in piedi, preparandosi al trasferimento. Capì il suo errore solo quanto la nebbia puntiforme del teletrasporto l’avvolse, togliendole la visuale. Tre secondi dopo, il bagliore si estinse e la giovane si materializzò sulla pedana... ancora in posizione seduta. Fu così che ruzzolò giù, fra gli sguardi divertiti e le risatine dei colleghi. Le argentee paratie della saletta parvero ruotarle attorno, come in una giostra. Quando si fermò, in posizione supina, vide l’imponente sagoma di un ufficiale della Sicurezza incombere su di lei.
   «S’identifichi, Guardiamarina!» disse l’ufficiale con voce aspra. Era uno Xindi Rettile, dalla grossa testa scagliosa su cui spiccavano gli occhietti gialli.
   «Dottoressa Giely, specialista medica di seconda classe!» rispose la giovane, scattando in piedi come una molla. Si mise sull’attenti, mentre il superiore le passava un d-pad sul comunicatore, convalidando la sua identità.
   «Uhm, vedo» borbottò il Rettile, scorrendo i dati. «È il suo primo incarico?».
   «Nossignore. Ho fatto due anni alla nuova Deep Space Nine, per specializzarmi in tossine e veleni» rispose l’interpellata, col cuore in gola. Le dispiaceva che il suo primo impatto con un ufficiale fosse così negativo.
   «Tossine e veleni! Che scelta curiosa» commentò il Rettile, scrutandola attentamente. «E se gli occhi non m’ingannano, lei è Vorta».
   «Sono una Vorta, sì. Credo d’essere la prima nella Flotta Stellare» mormorò Giely, fissandosi nervosamente la punta delle scarpe. Il suo aspetto la tradiva sempre, ovunque andasse. La carnagione cerea, quasi cadaverica; le spropositate orecchie zigrinate; la combinazione di lisci capelli corvini e occhioni violetti; tutto in lei gridava: «Vorta!». E i Vorta non erano apprezzati, trattandosi di una casta del Dominio, la potenza del Quadrante Gamma. In effetti erano la casta più alta, dopo i Fondatori posti al vertice. Fungevano da burocrati e scienziati; talvolta anche da spie o comandanti delle legioni Jem’Hadar. Tutti li conoscevano come esseri infidi, untuosi e fanaticamente devoti ai Fondatori, che adoravano come dèi. Del resto erano i Fondatori a crearli, con tecniche di manipolazione genetica e clonazione, per assicurarsene la totale lealtà. Vedere un Vorta che agiva per proprio conto era più unico che raro.
   «Beh, sembra tutto in regola» disse lo Xindi, finendo di scorrere i dati sul d-pad. «Benvenuta a bordo, dottoressa. Io sono il Tenente Comandante Skelos, capo della sicurezza» si presentò.
   «Onorata, signore» disse Giely, ancora sull’attenti.
   «Può lasciare la borsa al suo alloggio, prima di andare in infermeria» aggiunse il Rettile, accennando al borsone che era stato trasferito con lei. La Vorta si affrettò a raccoglierlo, per liberare la pedana, e se lo mise a tracolla.
   «Questo vale per tutti» disse l’Ufficiale Tattico, passando in rassegna i nuovi arrivati. «Inoltre v’informo che alle 18 in punto dovrete essere nell’hangar 1, per accogliere il Capitano. Vedete di presentarvi per tempo, e con l’uniforme in ordine. Potete andare» li congedò.
   I nuovi arrivati sciamarono nel corridoio, dopo aver dato un’occhiata al pannello su cui scorrevano i loro nomi, per conoscere gli alloggi assegnati. Piccolina com’era, Giely dovette alzarsi in punta di piedi per vedere tra la selva di teste in prima fila. Visto l’alloggio, lasciò la saletta e si mise in marcia col borsone a tracolla. Attorno a lei i colleghi chiacchieravano eccitati, scambiandosi le prime impressioni sulla nave. La Vorta però non conosceva nessuno, e intimidita com’era non trovò nessuno con cui attaccar bottone. Si limitò a osservare i corridoi, ancora percorsi dagli ingegneri che ultimavano i preparativi per il varo.
   In quei lavori i tecnici erano aiutati da robottini svolazzanti, simili ad angurie per forma e dimensioni. Giely ne aveva già visti alcuni su Deep Space Nine, anche se non così sofisticati. Si chiamavano Exocomp e coadiuvavano gli ingegneri, anche grazie alle loro dimensioni ridotte, che permettevano d’infilarsi un po’ ovunque. Erano equipaggiati con una miriade di strumenti, che uscivano da numerosi sportellini. Ma il loro asso nella manica era il replicatore anteriore, che permetteva di creare lo strumento più adatto per ogni lavoro, riconvertendolo poi in energia. Perché ciò fosse possibile, gli Exocomp avevano una rozza Intelligenza Artificiale, che gli permetteva di selezionare lo strumento più indicato per ogni compito; ma la loro parlantina si limitava a poche frasi pre-impostate. Era dai tempi della Guerra Civile federale – quindici anni prima – che gli Exocomp si erano diffusi sulle astronavi, per sopperire alla cronica carenza di personale tecnico. E sebbene la guerra fosse finita e le navi non fossero più a corto d’ingegneri, i robottini erano ormai irrinunciabili. Il loro ronzio accompagnò Giely per tutto il tragitto. Un paio di volte la giovane dovette persino scansarli, anche se poi pensò che l’avrebbero certamente scansata loro, con quelle rapide correzioni d’assetto che li facevano somigliare a grossi calabroni.
   Giunta nel suo alloggio, piccolo ma accogliente, Giely gettò il borsone sul letto senza nemmeno disfarlo. Si mise subito al computer, decisa a capirci qualcosa di quella strana nave. Osservò una planimetria della Destiny. Come sospettava, quasi tutti i settori abitativi si trovavano nello scafo principale: plancia e sala macchine, infermeria, armerie, laboratori scientifici, mensa e aree ricreative (come la palestra e il ponte ologrammi), nonché gli alloggi dell’equipaggio. Nell’anello si trovavano invece grandi hangar, stive di carico e, come aveva notato, le gondole quantiche. La curiosità la spinse a informarsi sulle capacità belliche della Destiny, ma scoprì che queste informazioni erano classificate. Del resto un medico come lei non ci avrebbe capito molto. Allora verificò quali erano gli ufficiali superiori, così da riconoscerli a prima vista, evitando altre figuracce. Il Capitano Dualla, una Deltana dal cranio liscio come un uovo, era una figura notevole: aveva partecipato agli scontri più duri della Guerra Civile. Anche gli altri ufficiali superiori erano veterani del conflitto. Essendo un medico, la Vorta si concentrò sui colleghi della sua sezione. Quando si sentì abbastanza sicura, si dette una rapida rassettata all’uniforme e corse in infermeria per la visita: l’ultima formalità prima di prendere servizio.
 
   Quand’era in Accademia, e poi a Deep Space Nine, Giely pensava di aver familiarizzato con gli strumenti e le procedure più moderni; ma dovette ricredersi. L’infermeria della Destiny era avveniristica: il meglio della scienza medica federale in quel primo scorcio di XXVII secolo. C’erano camere per la rigenerazione degli organi, capsule crono-statiche per tenere in stasi i pazienti più gravi, oltre all’immancabile Medico Olografico d’Emergenza. Una cabina di teletrasporto assicurava il pronto trasferimento dei pazienti. Il Medico Capo era un Illyriano un po’ burbero, che salutò Giely con un grugnito quando lei gli si presentò. La giovane Vorta sperò che non avesse sempre quell’atteggiamento. Il suo primo incarico fu inventariare le attrezzature della sua sotto-sezione, per accertarsi che ci fosse tutto. Tuttavia il turno fu breve, perché di lì a poco l’equipaggio dovette recarsi all’hangar 1, per accogliere il Capitano.
   Era un hangar vasto, ma in quel momento era gremito, perché quasi tutto l’equipaggio – settecento persone – si era radunato per ricevere il Capitano Dualla. Dal fondo del salone, in cui si trovava con gli altri colleghi di grado inferiore, Giely poté giusto vedere la navetta del Capitano che atterrava; ma non riuscì a scorgere la Deltana che ne usciva per salutare gli ufficiali superiori. In compenso udì la sua voce, amplificata dai microfoni.
   «Benvenuti a tutti voi» esordì il Capitano. «È con grande onore che assumo il comando di questa nave, la prima della sua classe. Alla Destiny è stato affidato un incarico d’eccezionale importanza. Per secoli la Federazione ha esplorato il cosmo, nelle sue vastità di spazio e tempo. Abbiamo fatto scoperte straordinarie, che hanno rivoluzionato la nostra comprensione dell’universo. Ora resta un’ultima soglia da oltrepassare: quella che conduce ad altre realtà. E sebbene il Multiverso sia un concetto di cui sappiamo ancora poco, la nostra missione è esplorarlo, ampliando sempre più le frontiere della conoscenza. Nella migliore tradizione della Flotta Stellare, arriveremo là dove nessuno è mai giunto prima!».
   Gli applausi scrosciarono, anche se Giely notò una certa insoddisfazione tra i colleghi più vicini. «Non ha detto dove andremo come prima missione» borbottò uno dei medici. «Sarà un Universo già noto o faremo un salto nel buio?».
   «Ha importanza?» chiese un collega, più ottimista.
   «Quando ci saranno le prime emergenze mediche sì, potrebbe averne» mugugnò il primo.
   «Scusate, ma... il Capitano e gli altri sapranno pure ciò che fanno, no?» interloquì Giely. «In fondo sono veterani; quelli come loro non lasciano niente al caso».
   «Sarà» disse il collega pessimista. «Però il Capitano stesso ha ammesso che il Multiverso è un concetto di cui sappiamo ancora poco».
   La discussione finì lì, perché la folla aveva già preso a defluire nel corridoio. Tutti tornavano rapidamente alle loro sezioni, alle loro postazioni, per l’ultimo controllo prima del varo. Anche Giely si trovò imbottigliata nel flusso e ricevette parecchie gomitate, prima che la folla si diradasse. Per il resto del turno cercò di concentrarsi sull’inventario, ma quando a fine giornata tornò nell’alloggio, per disfare il suo bagaglio e concedersi un po’ di riposo, quelle parole tornarono a roderla come un tarlo.
   «Il Multiverso è un concetto di cui sappiamo ancora poco».
   Tutto il personale della Destiny era composto da volontari, che sapevano d’imbarcarsi sulla prima nave multi-dimensionale della Flotta Stellare. Eppure, ora che erano al dunque, anche tra loro serpeggiava una certa tensione, acuita dal fatto che il Capitano non avesse annunciato la destinazione.
   «Beh, è tardi per cambiare idea» si disse la giovane, rimboccandosi le coperte. Era sempre stata tormentata da quesiti esistenziali che non toccavano gli altri Vorta: domande sul senso ultimo della vita, della sofferenza, della morte stessa. Vi era in lei una tensione spirituale che il culto dei Fondatori non riusciva in alcun modo ad appagare. Forse era per questo che aveva accettato un ingaggio così estremo, si disse. Era mai possibile trovare risposta ai suoi quesiti oltre il velo di questa realtà, nelle inconcepibili estensioni del Multiverso? O questo tentativo non era piuttosto un segno d’arroganza, d’ingenuità, di disperazione? Solo il tempo e le esperienze potevano risponderle.
 
   Il mattino dopo, ora di bordo, tutto era pronto per il varo. Dall’infermeria, dove prestava servizio, Giely assistette alla scena da un piccolo oloschermo. Secondo l’antica tradizione terrestre, una bottiglia d’autentico liquore fu rilasciata nello spazio, andando a infrangersi sullo scuro scafo di yiterium. Quando videro il vino disperdersi nello spazio sotto forma di bollicine, i colleghi applaudirono. Giely li imitò, sebbene il senso della cerimonia le sfuggisse: perché sprecare una buona bottiglia? Doveva esserci un significato simbolico; qualcosa di cui la cultura Vorta era tristemente povera.
   Rifornita di tutto punto, la Destiny si sganciò dalle morse d’attracco e lasciò la stazione Jupiter, in un tripudio di fuochi d’artificio spaziali. Spinta dai motori a impulso, si allontanò rapidamente. La stazione spaziale rimpicciolì fino a diventare un puntino sull’atmosfera striata di Giove. Il pianeta stesso divenne una falce sempre più piccola, circondata dalla moltitudine di satelliti. La Destiny sorvolò Europa, la luna ghiacciata la cui superficie era una ragnatela di crepe, che le davano un aspetto graffiato. Infine anche quel piccolo mondo congelato scomparve in lontananza: l’astronave stava lasciando il sistema gioviano. Ma non sarebbe entrata in cavitazione quantica, come i vascelli normali.
   «Allarme Nero: stiamo per aprire il varco interdimensionale» disse una voce all’altoparlante, forse il Primo Ufficiale. «A tutto il personale, reggetevi forte. Al termine della procedura i capi-sezione faranno rapporto, segnalando eventuali danni. Signori, ci vediamo dall’altra parte!».
   «Ci siamo» si disse Giely, sedendo su una poltroncina e reggendosi forte ai braccioli. Chiuse gli occhi, mentre la Destiny vibrava sempre più forte attorno a lei. Tutte le energie della nave erano convogliate al deflettore inferiore, quello triangolare. Giunto al massimo potenziale, l’impulso fu rilasciato: i gravitoni colpirono lo spazio poco più avanti, squarciando il velo tra le realtà. Si spalancò una fenditura, visibile come un vortice dorato. Era la soglia per un altro Universo. E la Destiny vi entrò, procedendo a minimo impulso: lo scafo superò l’orizzonte degli eventi, svanendo alla vista. Ancora un minuto e anche il vortice svanì. Il velo tra le realtà si era richiuso... per ora.
 
 
   Rapporto confidenziale dell’Ammiraglio Hod per il Consiglio di Difesa Federale
   Oggetto: incidente della USS Destiny NCC-204.610
 
   In Data Stellare 2605.45 l’USS Destiny, prototipo sperimentale per l’esplorazione inter-dimensionale, ha compiuto il suo viaggio inaugurale al comando del Capitano Dualla. Il vascello è partito dalla stazione Jupiter, dov’era stato costruito, segnalando la piena operatività dei sistemi e dell’equipaggio. Nessuna segnalazione di guasti o sabotaggi è giunta per tutto il tempo in cui le comunicazioni sono rimaste aperte. Giunta a 3 milioni di km, la Destiny ha attivato il deflettore secondario, aprendo il varco per lo [XXX]. I sensori della stazione Jupiter e le boe perimetrali non hanno rilevato vascelli intrusi, né degli [XXX], né di altre fazioni.
   Alle 9:15 ora di bordo la Destiny ha superato l’orizzonte degli eventi, traslandosi nello [XXX]. La fessura interdimensionale è collassata settanta secondi dopo. Non ci sono stati picchi di radiazioni, interferenze subspaziali o altri fenomeni fuori dalla norma.
   Il rientro della Destiny nella nostra realtà era previsto per la Data Stellare 2605.60, come misura cautelare, indipendentemente dai progressi svolti nella missione. Il suo eventuale ritorno nello [XXX] sarebbe dipeso dal rapporto del Capitano Dualla e da un’accurata valutazione dei rischi […].
   In Data Stellare 2605.70 non si segnala ancora alcuna traccia dell’USS Destiny. Il vascello non è riapparso nel sistema solare, né altrove nello spazio federale. Anche i rapporti dai nostri alleati, al di fuori dei confini, danno esito negativo. Non c’è alcun segno di trasmissione subspaziale riconducibile alla Destiny; nemmeno messaggi automatici di SOS. Tutte le nostre postazioni restano in ascolto, ma col passare dei giorni le speranze di un ritorno dell’astronave si fanno più esigue.
   Alla luce della fondamentale importanza della Destiny in termini di sicurezza federale, nonché per ragioni umanitarie nei confronti dell’equipaggio, ritengo prioritario inviare una missione di salvataggio. Sebbene la Destiny sia l’unica nave specificamente progettata per viaggi interdimensionali, ci sono vascelli – come l’USS Keter – che con poche modifiche possono prestarsi allo stesso impiego. La nostra speranza è rintracciare la Destiny e riportarla a casa col suo equipaggio. Ma anche se scoprissimo che è stata distrutta, l’analisi dei detriti e l’eventuale ritrovamento della scatola nera ci fornirebbero informazioni vitali per ricostruire l’accaduto.
   Per queste ragioni chiedo al Consiglio di Difesa l’autorizzazione a inviare una missione di soccorso e recupero, che coinvolga la Keter ed eventualmente altre navi. Aggiungo che il tempismo è fondamentale per accrescere le probabilità di trovare dei superstiti. Le loro testimonianze ci aiuteranno ad affinare le strategie difensive in caso di confronto con gli [XXX]. Nel frattempo ho richiamato la Prima e la Terza Flotta, per potenziare le difese del sistema solare. Ho inoltre diramato un messaggio di allerta all’intera Flotta Stellare, nel caso che gli [XXX] decidano di ricambiare la visita. Confidando in una rapida risposta, vi porgo rispettosi saluti.
 
Bina Hod,
Ammiraglio della Flotta Stellare
 
 
Rapporto confidenziale del Consiglio di Difesa Federale per l’Ammiraglio Hod
Oggetto: incidente della USS Destiny NCC-204.610
 
   Alla luce della perdurante scomparsa della Destiny, e dopo un’attenta valutazione del rapporto costi-benefici, questo Consiglio rigetta la proposta di una missione di soccorso e recupero. A nostro avviso, la Destiny è stata distrutta e un’eventuale operazione di salvataggio metterebbe inutilmente a repentaglio altre vite. Ufficialmente la Destiny sarà data per dispersa. Ogni informazione riguardante il suo viaggio inaugurale resterà strettamente classificata. Si decreta inoltre, con effetto immediato, l’interruzione dei lavori di costruzione per altre navi della stessa tipologia. La classe Destiny sarà considerata un fallimento da cui imparare.
   Riguardo il problema della sicurezza da Lei sollevato, il Consiglio prende molto seriamente il suo allarme. A dieci anni dal termine della Guerra Civile, la Flotta Stellare non è ancora tornata al suo potenziale prebellico. Si promulgano pertanto, sempre con effetto immediato, i seguenti progetti volti all’ammodernamento della Flotta e al potenziamento delle capacità difensive […].
   Come evidenziato, nella prossima decade la Flotta Stellare adotterà una strategia difensiva. Potenzieremo il pattugliamento dei confini e la sorveglianza dei mondi abitati, nonché di cantieri e altre infrastrutture chiave della Flotta. Per contro, l’esplorazione dello spazio al di fuori dei confini sarà ridotta allo stretto necessario, con la cancellazione dei seguenti progetti […].
   Si precisa che queste misure sono intese come temporanee e saranno ritirate al termine dell’emergenza. Una volta che la Flotta sarà tornata al suo pieno potenziale, l’esplorazione di nuovi mondi potrà riprendere. Ma per adesso è imperativo focalizzarci sul rafforzamento della difesa.
   Quanto alle sorti dell’USS Destiny, siamo desolati di non poter fare di più. Ci auguriamo tuttavia che, nel caso in cui l’astronave non sia stata distrutta, l’equipaggio riesca a trovare un modo per tornare. La Flotta Stellare ha ripetutamente dato prova di grande inventiva. La Destiny è l’astronave più moderna, con un equipaggio scelto; se mai un vascello ha avuto speranza di tornare dallo [XXX] è certamente quello. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con i coraggiosi ufficiali dell’USS Destiny. Ovunque essi siano in questo momento, possano avere vita lunga e prospera; e possano ritrovare la via di casa. 

 

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Capitolo 2
*** La nave alla deriva ***


-Capitolo 1: La nave alla deriva
Data Stellare 2610.35
Luogo: Ammasso delle Pleiadi
 
   Il mercantile Ferengi di classe D’Kora era vecchio e scassato, eppure riusciva a manovrare con sorprendente agilità tra gli asteroidi che circondavano Merope, una delle più brillanti tra le Pleiadi. La gigante azzurra sfolgorava a poca distanza, diffondendo radiazioni letali, tanto che il vascello doveva tenere alzati gli scudi. E tenerli attivi è un problema, quando un’altra astronave t’insegue, sparando a tutto spiano.
   «Colpo diretto alla griglia scudi posteriori, perdiamo potenza!» avvertì Rivera, l’unico Umano in servizio sul mercantile. Era un uomo atletico, dalla corta barba ispida e i lunghi capelli scuri raccolti in una coda, secondo una moda maschile assai diffusa in quel primo scorcio di XXVII secolo.
   «Energia d’emergenza, compensare!» ordinò Grilk, stringendosi ai braccioli della poltrona. Come Capitano – il termine Ferengi era DaiMon – non poteva mostrare troppa fifa; ma ne aveva eccome. Tra le loro fughe rocambolesche, quella si stava rivelando la più pericolosa.
   «Fatto, scudi ripristinati» disse Rivera, il volto madido di sudore nella luce incerta dell’Allarme Rosso. «Ma non reggeremo a lungo. È la Flotta Stellare a inseguirci, non qualche banda criminale».
   «Rispondere al fuoco!» strillò il DaiMon, gesticolando verso lo schermo. L’inquadratura posteriore mostrava la nave inseguitrice: un potente vascello di classe Horus. Stava riducendo le distanze, sgusciando agilmente tra gli asteroidi. Ogni pochi secondi sparava coi phaser anteriori, martellando gli scudi dei Ferengi.
   «Signore, è una classe Horus! Non le faremo neanche il solletico!» protestò Rivera. Sebbene fosse il Primo Ufficiale, in quei frangenti svolgeva anche il ruolo di Ufficiale Tattico, secondo un’usanza diffusa tra i mercanti Ferengi. Di conseguenza i suoi pareri avevano un certo peso.
   «Continuano ad avvicinarsi. Sono a diecimila km, in diminuzione» avvertì Talyn, l’addetto ai sensori. Era di gran lunga il più giovane tra gli ufficiali di plancia, poco più di un ragazzo. A vederlo sembrava un Umano, dalla carnagione olivastra e gli occhi un po’ a mandorla, come gli abitanti del sudest asiatico e dell’Indonesia. Ma le apparenze ingannano: il giovanotto apparteneva agli El-Auriani, uno dei più antichi ed enigmatici popoli della Galassia.
   «Non puoi seminarli?!» chiese il DaiMon, all’indirizzo della timoniera.
   «Ci sto provando!» berciò lei, senza nemmeno voltarsi. «Ma questa carretta ha visto giorni migliori. Come vuole che faccia a seminare una Horus? È già tanto che non esploda il nucleo!». Shati, così si chiamava, era l’elemento più irruento dell’equipaggio. Era una Caitiana dalla folta pelliccia color crema, salvo la criniera più rossiccia; le ciocche fulve erano raccolte in spessi dreadlocks che le davano un’aria rockettara. Di solito era ottimista, ma ora il suo nervosismo era evidente: le vibrisse fremevano, le pupille verticali erano contratte, la coda a ciuffo si agitava senza posa.
   «Non accusare l’Ishka!» protestò Grilk, passando lo sguardo da una paratia all’altra della sua adorata astronave. «Ho fatto un affarone con Joe, il Rigattiere Interstellare...».
   «Già, quello a momenti ti pagava perché la portassi via! Non ti ha nemmeno accordato la garanzia!» sbuffò Losira, la tesoriera di bordo. Il suo prestigioso incarico ne faceva la terza in comando dopo il DaiMon e il Primo Ufficiale. Anche Losira, però, non era una Ferengi. Si trattava di un’avventuriera Risiana, riconoscibile dal piccolo fregio bianco al centro della fronte. Era affascinante, fasciata com’era in un lungo abito azzurro con una fantasia tropicale. I capelli a caschetto cambiavano spesso tonalità, tanto che nessuno ne aveva mai scoperto il vero colore; quel giorno erano bianchi, con strisce orizzontali azzurre. Sarebbe stata irresistibile, se solo il cinismo non ne avesse smorzato l’avvenenza.
   «Meno critiche! Voglio dei suggerimenti costruttivi, e li voglio subito!» strepitò il DaiMon. Si portò istintivamente la mano alla cintura, dove pendeva la famigerata frusta neurale, l’arma più temuta dei Ferengi. Uno schiocco di quell’arnese stimolava i centri nervosi delle vittime, provocando un dolore intenso e stordendole, pur senza ferire il corpo. Quando si sentiva minacciato, Grilk la sfiorava; ma solo in casi estremi la usava per mantenere la disciplina.
   A vedere quel gesto, Rivera fremette: aveva provato sulla sua pelle la tortura della frusta neurale, negli anni bui della Guerra Civile. Ma come al solito si dominò.
   «Tu!» disse il DaiMon, indicandolo col tozzo indice dall’unghia laccata. «Non fai che vantarti d’essere stato nella Flotta. Metti a frutto le tue conoscenze e tiraci fuori dai guai!».
   «Ehi, c’ero anch’io nella Flotta!» rivendicò Shati con orgoglio, come se questo la ponesse al di sopra della marmaglia.
   «No, io sono stato nella Flotta Stellare, per cinque anni. Tu ti sei fatta espellere dall’Accademia!» le ricordò Rivera.
   «Ero all’ultimo anno, a un passo dagli esami. Ho imparato tutto quel che c’è da sapere!» si difese la Caitiana, ma in quella l’astronave sussultò, richiamandola alla guida.
   «Allora, qualche idea?!» incalzò Grilk.
   «Vediamo... la classe Horus ha scudi molto più resistenti dei nostri, quindi non possiamo reggere lo scontro, e nemmeno nasconderci nella fotosfera» ragionò il Primo Ufficiale. «Scarterei anche di nasconderci tra gli asteroidi; i sensori federali ci troverebbero subito. Però siamo a pochi parsec dalla Nebulosa del Toro» aggiunse, con un occhio alle telemetrie dei sensori. «Dovrebbe essere abbastanza densa da offrirci riparo».
   «Dovrebbe?».
   «Lo farà, okay? Dobbiamo solo arrivarci tutti interi» assicurò l’Umano.
   «E va bene» cedette il DaiMon. «Shati, traccia la rotta e portaci là a massima curvatura. Talyn, apri un canale: dobbiamo distrarli, così forse la smetteranno di spararci addosso».
   «E dovrei distrarli io?» chiese Losira, che da esperta truffatrice aveva una certa esperienza.
   «No, me la sbrigo io» disse Grilk, alzandosi con risolutezza dalla poltroncina. «Mercantile Ishka a nave federale, cessate il fuoco e rispondete!».
   Passarono alcuni secondi carichi di tensione, nei quali Shati compì la modifica di rotta. Il vecchio mercantile lasciò la cintura d’asteroidi, allontanandosi dalla stella azzurra, e puntò verso la Nebulosa del Toro. Appena fu possibile balzò in curvatura. La pattuglia federale continuò a tallonarlo, adeguando rotta e velocità; ma per il momento smise di sparare.
   «Qui è il Capitano Cagy dell’USS Rukh» disse un minaccioso Coridano, apparendo sullo schermo. «Cessate il vostro futile tentativo di fuga. Fermatevi, abbassate gli scudi e consentiteci di abbordarvi».
   «Come no! Già che ci siamo, vi prepariamo anche la cena?!» sbottò Shati, ma il DaiMon la zittì con un gesto.
   «Capitano, sono certo che siamo di fronte a un banale errore» disse il Ferengi, nel suo tono più affabile. «Sono il DaiMon Grilk, un libero professionista dedito a oneste e innocue attività commerciali. La mia nave è regolarmente iscritta nell’albo della FCA, l’Autorità Commerciale Ferengi. Controllate pure, ho tutti i documenti in regola».
   «Sarete anche nel registro FCA, ma questo non vi pone al di sopra delle leggi federali; e ne avete violate parecchie» obiettò Cagy. Attivò un oloschermo dal bracciolo della sua poltrona e prese a leggere: «Siete accusati di quarantasette reati, in trentanove diversi sistemi stellari. Le accuse includono contrabbando, furto, ricettazione, truffa aggravata, falsa testimonianza, occultamento di prove, atti osceni in luogo pubblico...».
   «Quello fu tutto un malinteso» intervenne Losira, disinvolta.
   «... potrei continuare, ma credo che ci siamo capiti» proseguì il Coridano. «Fermatevi, vi dico, e affrontate le conseguenze delle vostre azioni».
   «Conseguenze! La Federazione ha mai pensato alle conseguenze, quando ha varato le sue leggi restrittive in materia d’affari?!» protestò Grilk. «Quelle leggi sono un insulto per ogni Ferengi che si rispetti. Io credo nel libero mercato e nell’iniziativa personale, non nella vostra asfissiante economia pianificata!».
   «L’economia federale non è poi così pianificata; infatti ci siete voi mercanti indipendenti» obiettò Cagy. «Però bisogna rispettare le leggi. Voi non l’avete fatto, quindi la vostra licenza è revocata e la vostra nave sarà sequestrata. Chi troppo vuole, nulla stringe!».
   «È questo che voi federali non riuscite proprio a digerire, vero?! Non accettate che qualcuno possa guardare la vostra utopia e dire: “No grazie, non fa per me, io preferisco guadagnarmi la mia fortuna sulla frontiera!”» polemizzò il DaiMon. «Dica la verità: ci detestate perché vi ricordiamo com’eravate voi un tempo, quando poneste le basi del vostro successo. Fare la guerra a noi è tutt’uno col rinnegare il vostro passato!».
   «La smetta d’atteggiarsi a vittima» ammonì il Coridano. «Questo è l’ultimo avvertimento: arrendetevi o apriremo di nuovo il fuoco. E stavolta ci fermeremo solo quando la vostra nave sarà ridotta a un colabrodo» minacciò.
   «Non prendiamo ordini da un ex Pacificatore!» ringhiò Rivera, inserendosi di prepotenza nella conversazione. «Sì, Capitano Cagy. Ho fatto le mie ricerche e so da che parte stava, durante la Guerra Civile. Sono i macellai come lei che dovrebbero stare in cella, non noi avventurieri, che a ben vedere contribuiamo a espandere la frontiera!».
   «Ah ah! Ben detto, figliolo! Questo significa cantarle chiare!» approvò Grilk, dandogli una pacca sulla spalla. «E tu, mia cara, che pensi degli ex Pacificatori riammessi nella Flotta?» si rivolse a Losira.
   «Tutto il male possibile!» sibilò la Risiana, ricolma di disprezzo.
   «Come vede, io e i miei ufficiali siamo unanimi» concluse il DaiMon, rivolgendosi al Capitano avversario. «Che la sfida continui, e vinca il Ferengi migliore!».
   «Siete dei pazzi; non avete alcuna possibilità di sfuggirci» disse Cagy, e chiuse il canale. L’attimo dopo i phaser della Rukh tornarono a martellare gli scudi posteriori dell’Ishka.
   «Allora, questa nebulosa?» chiese Grilk, rivolgendosi a Talyn con un certo nervosismo.
   «Ci saremo tra venti minuti» assicurò il giovane El-Auriano. «Nel frattempo emetto un segnale a onda coassiale per interferire coi loro scanner di puntamento».
   «Ho deviato tutta l’energia disponibile agli scudi posteriori, spero che reggano» aggiunse Rivera, tornato alla postazione tattica.
   «E io continuo le manovre evasive» disse Shati, sebbene fosse un grosso rischio manovrare così la nave mentre erano in curvatura. Una sterzata troppo brusca rischiava di far collassare il campo di curvatura, rigettandoli nello spazio normale... o distruggendoli.
   «Bene, continuate così» approvò Grilk, risedendosi sulla poltrona di comando. «Sapete che vi dico? Dopo tante avventure su questa nave, sono convinto che possiamo superare ogni ostacolo».
 
   Venti minuti dopo, gli scudi posteriori dell’Ishka erano pressoché esauriti; ma la Nebulosa del Toro campeggiava sullo schermo. Era una nube oscura, composta da gas e polveri così opachi da nascondere le stelle retrostanti.
   «Bene così, scendiamo a impulso e avanti tutta!» ordinò il DaiMon.
   Il mercantile effettuò la manovra con qualche scossone. La macchia nera della nebulosa crebbe, fino a invadere tutto lo schermo. Non si vedeva una sola stella.
   «Siamo dentro» confermò Talyn. «Densità delle polveri in rapido aumento».
   «E i federali?» chiese Grilk.
   «Li ho persi» ammise l’El-Auriano. «Comunque anche noi dovremmo essere svaniti dai loro sensori».
   «Non ancora; ricorda che hanno sensori migliori dei nostri» avvertì Rivera. «Shati, riduci la velocità e correggi la rotta. Va’ a zig-zag per seminarli» chiarì.
   «Ricevuto» disse la Caitiana, curva sui comandi. «Signore, ho difficoltà a manovrare. Tutti quei colpi nel posteriore ci hanno conciati male. Se ne usciamo vivi, la bagnarola avrà bisogno di una revisione».
   «Cominceremo a lavorarci non appena avremo la certezza di aver seminato gli sbirri» promise Grilk. «Cioè, voi comincerete a lavorarci. Io sono il DaiMon e ho già fatto il mio dovere: vi ho tirati fuori dai guai!».
   «Lei, eh?» fremette Rivera. «Sono stato io a suggerire la nebulosa come riparo, mentre te la facevi sotto dalla paura!» aggiunse fra sé.
   «Io, sì. Ricorda che sono stato io ad accoglierti nella ciurma, dopo che la Flotta Stellare ti ha cacciato a calci in culo. Ti ho offerto una nuova vita, un nuovo scopo!» proseguì il Ferengi in tono enfatico. «Così, ogni volta che ti viene una buona idea, è in conseguenza della mia lungimiranza!».
   «Organizzo i turni per le riparazioni» sospirò l’Umano. Disinserito l’Allarme Rosso, lasciò la postazione tattica per tornare a quella del Primo Ufficiale.
   «Bravo. E non lesinare i doppi turni» raccomandò il DaiMon. «Ricorda la Regola dell’Acquisizione numero 111. Tratta i sottoposti come tratti i tuoi familiari: sfruttali!».
   «Sissignore» mugugnò il Primo Ufficiale.
 
   Quella sera, Rivera decise di andare in mensa per annegare le sue preoccupazioni in un bicchiere di tequila. C’era poca gente, perché erano quasi tutti impegnati in controlli e riparazioni. L’Umano contò una mezza dozzina di Ferengi e due Yridiani, più il Dopteriano al bancone. Con una certa sorpresa vide anche Losira, seduta a un tavolino e intenta a osservare l’oscurità fuori dal finestrone. Era raro che la Risiana venisse in mensa, se non per spennare qualche nuovo arrivato al gioco del tongo.
   Volendo scambiare due chiacchiere, Rivera passò prima dal replicatore per ordinare la tequila. Ne prese due, una per sé e l’altra per la collega. Per averle, però, dovette passare la tessera fiscale sul lettore: tutte le consumazioni sull’Ishka erano decurtate dallo stipendio. «Ah, le astronavi Ferengi» si disse mesto, accomodandosi al tavolino. Vi posò i bicchieri e ne spinse uno verso la Risiana. «Ehi, come va?» le chiese.
   «Uh, che galante!» sorrise lei, nel prendere il bicchiere. «Non c’è male, i profitti dell’ultimo mese sono ottimi».
   «Già, i profitti del DaiMon!» sbuffò Rivera. «Io comunque volevo sapere come stai tu. Mi sembra che l’inseguimento di oggi ti abbia scossa».
   «Scossa? Non direi, ne abbiamo passate di peggio» ricordò Losira, bevendo una prima sorsata. «Più che altro mi chiedo che prospettive abbiamo per il futuro. Ormai siamo tutti schedati dalla Flotta Stellare. Le pattuglie ci danno la caccia in ogni settore. Probabilmente sfuggiremo alla Rukh, restando nascosti qualche giorno; ma poi che faremo? Dove andremo?».
   «Non lo so» ammise Rivera, bevendo a sua volta. «Suppongo ci siano ancora sistemi sicuri, a cercar bene. Certo che alla lunga...» lasciò in sospeso.
   Vedendo il suo sconforto, la Risiana gli prese la mano tra le sue, in un gesto incoraggiante. L’Umano era l’unico collega che le stesse un po’ simpatico, forse perché era finito di malavoglia in quel postaccio, proprio come lei. Ma sebbene tra loro ci fosse intesa, persino una certa ammirazione, nessuno dei due aveva mai provato a sedurre l’altro. A ciò contribuiva senz’altro la significativa differenza d’età. Rivera aveva trentacinque anni; Losira lo superava di ben quindici primavere. A onor del vero, la Risiana era in splendida forma: aveva mantenuto con cura una figura snella e non c’era in lei debolezza o irrigidimento. La pelle era ancora liscia e vellutata; solo intorno agli occhi cominciava a vedersi qualche cedimento. Ma per quanto avesse un aspetto giovanile, Losira non intendeva prendere in giro se stessa, né il giovane collega.
   «Guarda, guarda... abbiamo visite» mormorò la Risiana, accennando a un nuovo arrivato in sala mensa. «È il nostro passeggero di riguardo».
   «Che?! Non ce le voglio le lucertole, qui!» ringhiò l’Umano, in un raro attacco di collera.
   «Ti ricordo che è un passeggero pagante. Il nostro unico passeggero» lo redarguì Losira, lasciandogli la mano. «Se non ti sta simpatico, vattene; me ne occupo io. Ma non offenderlo: abbiamo già fin troppe rogne».
   «Non sia mai che la lucertola si offenda!» sibilò Rivera, fissando l’intruso di sottecchi.
   Non correva buon sangue tra Umani e Voth, le due specie senzienti originarie della Terra. Non da quando, vent’anni prima, i Voth erano giunti con un’armata dal Quadrante Delta, intimando la consegna del loro “Mondo Perduto”. Forti della loro avanzatissima tecnologia, e di un vergognoso collaborazionismo da parte delle autorità federali, i sauri si erano impossessati della Terra, deportando milioni di Umani (e alieni) per sostituirli con i propri coloni. Questo dramma aveva scatenato la Guerra Civile che per tre anni aveva dilaniato la Federazione. Dopo inutili bagni di sangue, e dopo che la Flotta Stellare aveva sventato un’invasione Borg su vasta scala (mentre i Voth erano vigliaccamente fuggiti) si era giunti a un trattato di pace. I sauri avevano rinunciato a ogni pretesa sul Mondo Perduto, consentendo ai deportati di tornarvi. In cambio la Federazione permetteva loro di visitare la Terra come turisti; ma solo a patto di non soffermarvisi più di un mese e di non sforare un tetto massimo di centomila visitatori per volta. Così adesso c’era un discreto andirivieni di sauri, che venivano in pellegrinaggio al loro mondo d’origine. Per la maggior parte sfruttavano canali diplomatici; ma alcuni s’ingegnavano a trovare mezzi di trasporto alternativi. Era il caso di Irvik, che dopo essere finito ampiamente fuori strada con la sua navetta aveva chiesto un passaggio a quelli che, sul momento, gli erano parsi onesti mercanti.
   «Ah, Comandante! La stavo giusto cercando!» esclamò il Voth, puntando dritto su Rivera. «È tutt’oggi che attendo una spiegazione. L’Allarme Rosso, tutti quegli scossoni... è chiaro che abbiamo avuto uno scontro a fuoco. Ma contro chi? E dove ci troviamo adesso?» chiese, sedendo pesantemente accanto all’Umano.
   «Signor Irvik, sono desolato per i disagi, ma le assicuro che l’emergenza è passata» lo rassicurò Rivera.
   «Non ha risposto alle mie domande. Chi ci ha attaccati?» insisté il sauro.
   «Erano dei pirati spaziali, okay? Probabilmente del Sindacato di Orione» s’inventò l’Umano lì per lì. Come poteva confessare che invece si trattava della Flotta Stellare?
   «Pirati?! Oh, povero me! Quando sarò sulla Terra, protesterò presso il consolato Voth!» avvertì il passeggero. Vedendo le espressioni allarmate dei commensali, si calmò leggermente. «Tranquilli, signori, non intendo denunciarvi. È chiaro che avete fatto il possibile, anzi vi ringrazio per averci salvati da quei criminali. Ma la Flotta Stellare deve sapere che le rotte non sono ancora sicure».
   «Oh, credo che lo sappia» sospirò Rivera. «Sa, una volta lavoravo nella Flotta, prima di... cambiare ramo».
   «Oh, allora è del mestiere! Bene, sono contento» disse Irvik, senza sospettare la realtà. «Ci siamo rifugiati in una nebulosa oscura, suppongo» aggiunse, osservando il finestrone nero intenso, senza una stella. Vedendo che l’Umano annuiva, passò alla domanda successiva: «Tra quanto potremo ripartire?».
   «Un giorno, ma forse ci tratterremo più a lungo, per sicurezza» disse Rivera.
   «Spero non tanto più a lungo» brontolò il sauro. «Sa, sono qui in ferie... le prime ferie prolungate che mi prendo da parecchi anni a questa parte. Voglio avere la soddisfazione di visitare il Mondo Perduto, per una volta nella mia vita. Quindi ogni giorno che perdo è un giorno in meno che passerò là!» si lamentò.
   «Ha la nostra garanzia che la sbarcheremo il prima possibile» intervenne Losira, prima che il collega esplodesse. «La porteremo fino a Evora, da cui potrà prendere un trasporto diretto per la Terra. Nel frattempo che ne dice di svagarsi con qualche gioco da tavolo? Potrei insegnarle il tongo!» suggerì, prendendo la tavoletta e le carte circolari dal tavolo adiacente.
   «Tongo? Non ne ho mai sentito parlare. È un gioco tipico della Terra?» s’interessò il Voth.
   «In un certo senso...».
   Vedendo che la Risiana aveva trovato il pollo da spennare, Rivera lasciò silenziosamente il tavolo, con l’intento di dileguarsi. Era arrivato all’ingresso quando, aprendosi questo, si trovò davanti Talyn. Il ragazzo-prodigio era visibilmente emozionato. «Ah, Comandante! Cercavo proprio lei!» esordì.
   «Anche tu» borbottò Rivera, lanciandosi una rapida occhiata alle spalle, dove il sauro era ormai intortato da Losira. «Va bene, dimmi tutto».
   «Poco fa i sensori a lungo raggio hanno captato un segnale. È molto disturbato dalla nebulosa, ma la frequenza è certamente della Flotta Stellare» rivelò l’El-Auriano.
   «La Rukh?!» s’inquietò il Primo Ufficiale.
   «Direi proprio di no. Loro ci stanno cercando, quindi vogliono coglierci di sorpresa. Quello invece è un segnale automatico di soccorso» spiegò il giovane.
   «Un SOS?» fece Rivera, aggrottando la fronte.
   «Sì, signore... qualcuno ha avuto un incidente e sta chiedendo aiuto» confermò Talyn. «Ma siccome si trovano nella nebulosa è difficile che il segnale possa uscire. Noi lo abbiamo captato per pura fortuna, perché siamo vicini. Se non rispondiamo, passerà molto tempo prima che qualcun altro lo riceva. Forse troppo per aiutare quelle persone. Quindi... non dovremmo pensarci noi?» chiese con ansia.
   «Groan, se fossi ancora nella Flotta Stellare non ci penserei due volte» mugugnò Rivera, massaggiandosi la fronte. «Ma ora sono qui con voi... una banda di ricercati. Non ti viene in mente che potrebbe essere un trucco dei federali, per attirarci in un’imboscata?».
   «Lo escluderei. Considerando la distanza da cui proviene il segnale, devono aver cominciato a trasmettere prima che noi ci rifugiassimo nella nebulosa» rivelò il giovane.
   «Ma è comunque un codice della Flotta Stellare» puntualizzò il Primo Ufficiale. «Anche se questi non ce l’hanno con noi, potrebbero riconoscere che siamo ricercati e agire di conseguenza. A meno che non siano veramente a pezzi, ci batteranno».
   «È un rischio, sì» ammise Talyn. «È per questo che ci sono gli ufficiali superiori, no? Io il mio dovere l’ho fatto... ora tocca a voi decidere» si sfilò.
   «Diciamo piuttosto che deciderà il DaiMon» borbottò Rivera, cercando di prevedere la sua reazione. «D’accordo, gli parlerò io. Cercherò di mettere una buona parola, nel caso che possiamo salvare qualche vita. Tu va’ a riposare, muchacho» ordinò.
   «A domani, Comandante» salutò l’El-Auriano, e sparì nelle profondità della nave.
   «Un’altra deviazione... speriamo solo di non morire da Buoni Samaritani» si disse l’Umano, lasciando frettolosamente la mensa.
 
   Più tardi, il DaiMon Grilk era nel suo alloggio; ma non per dormire. Seduto in poltrona, lasciava che Losira gli girasse attorno, praticandogli l’oo-mox, ovvero il massaggio dei lobi. Le grandi orecchie dei Ferengi, infatti, erano piene di terminazioni nervose che le rendevano molto sensibili. Un buon massaggio portava i proprietari al settimo cielo, così come le lesioni gli facevano patire le pene dell’Inferno. E fortuna voleva che Losira fosse un’ottima massaggiatrice.
   «Aaaahhh, che meraviglia!» sospirò Grilk, socchiudendo gli occhi mentre reclinava la testa all’indietro. «Ci voleva, dopo una giornata così».
   «Tutto si sistemerà, vedrai» lo blandì la Risiana. «Il peggio è passato, ormai siamo fuori pericolo. Tra un giorno o due potremo lasciare la nebulosa».
   «Uhm, sì» fece il DaiMon, aggrottando appena la fronte. «Rivera mi ha detto che abbiamo captato un SOS da dentro la nube, su una frequenza della Flotta Stellare. Voleva che andassimo a controllare, ma ho detto di no. Non siamo boy-scout della Flotta, e poi potrebbe essere una trappola».
   «Ma se ora me ne parli, significa che vuoi il mio parere» notò Losira, sempre dandosi da fare coi lobi. «Io credo che dovremmo investigare sulla faccenda».
   «Davvero?» fece Grilk.
   «Con le dovute precauzioni, s’intende. Al minimo segno di trappola faremo presto a dileguarci nella nebulosa» chiarì la Risiana. «Ma se c’è davvero una nave in difficoltà, potremo approfittarne. Ci sono sempre cose interessanti, nelle stive dei federali!». Così dicendo gli dette una grattatina dietro le orecchie, facendolo fremere.
   «Ah! Oh! Uh!» fece il DaiMon, su di giri. «Se la metti così, sei convincente. Ma non so se il profitto vale il rischio».
   «Questo capita spesso, ma finora l’incertezza non ti ha mai trattenuto. Suvvia... sai bene che un mancato profitto è come una perdita» lo provocò Losira. Per suonare ancora più convincente, gli mordicchiò delicatamente un orecchio.
   «Uuuuhhh!» esalò Grilk, deliziato. «Hai ragione, dolcezza. Mostrerò alla ciurma che il loro DaiMon non si lascia sfuggire alcuna occasione. E se c’è davvero un vascello della Flotta in panne... impareranno che quando si è nei guai è meglio stare zitti!» aggiunse, facendosi truce.
 
   Il segnale di soccorso veniva da una regione più interna della nebulosa, dove i gas e le polveri si addensavano. L’Ishka s’inoltrò con i sensori all’erta e gli scudi alzati, per difendersi in caso d’imboscata. In plancia si respirava un certo nervosismo, eppure il DaiMon non si tirò indietro, come Rivera aveva temuto. «Vuole soccorrere la nave incidentata... o vuole saccheggiarla?» si chiese l’Umano, che ormai sapeva con che fuorilegge si era messo.
   «Ci siamo, scendo a velocità impulso» disse infine Shati.
   «Nave federale a ore dodici, sta entrando nel campo visivo» aggiunse Talyn.
   Gli avventurieri fissarono lo schermo principale, aguzzando la vista. Sulle prime non videro altro che scure volute di gas nebulare, rischiarate qua e là da lampi d’elettricità statica. Poi qualcosa emerse dalle tenebre. Era uno scafo gigantesco, dalla configurazione così insolita che non ne avevano mai visto l’eguale. Scuro e incorniciato dai fulmini, incombeva minaccioso sul mercantile. Era inclinato di 45 gradi e ruotava lentamente lungo l’asse maggiore, come se fosse alla deriva. Nessuna luce lo punteggiava: né le finestre degli alloggi, né i collettori Bussard, né tantomeno il deflettore di navigazione. Osservandolo, Rivera si sentì accapponare la pelle; c’era qualcosa di strano e d’inquietante in quel vascello.
   «Si direbbe alla deriva. L’energia principale è disattivata, c’è solo qualche sistema ausiliario in funzione» rilevò Talyn. «Il supporto vitale è al minimo... deve far freddo da morire» aggiunse.
   «Segni di vita?» chiese Rivera.
   «Non ne rilevo nessuno» rispose l’El-Auriano.
   «Una nave abbandonata? Ma lo scafo sembra integro!» commentò Shati, aguzzando gli occhi felini.
   «Ci sono ragioni per abbandonare un’astronave integra. Fughe di radiazioni, rischi biologici...» notò Rivera.
   «Già, ma quando si abbandona una nave in genere lo si fa con navette e capsule di salvataggio. Invece le capsule ci sono ancora tutte. E anche le navicelle sembrano essere al completo» disse Talyn, proseguendo le scansioni. «Magari quelli dell’equipaggio sono ancora a bordo... tutti morti» rabbrividì.
   «Ma siamo certi che sia una nave della Flotta Stellare? Io non ne ho mai viste con questa configurazione» disse Losira, osservando l’anello che avvolgeva gran parte della nave, cambiando inclinazione man mano che questa ruotava.
   «Sì, non ci sono dubbi. Il registro è USS Destiny NCC 204.610» disse Talyn, leggendo il nome dipinto sullo scafo.
   «Destiny... questo nome non mi è nuovo...» mormorò Rivera, frugando nella memoria.
   «Ne hai sentito parlare? Dimmi tutto!» ordinò il DaiMon.
   «Cinque anni fa, un prototipo sperimentale chiamato Destiny fu varato dalla stazione Jupiter. Io non ero presente, ma ricordo che se ne parlò in tutta la Flotta» ricordò l’Umano. «Vedete, la Destiny era la prima nave destinata a esplorare il Multiverso».
   «Multicosa?!» sobbalzò Grilk.
   «Multiverso. Dimensioni parallele, realtà alternative... chiamatele come volete» s’infervorò Rivera. «Purtroppo qualcosa andò storto e la Destiny non fece ritorno dal suo viaggio inaugurale. Così la Flotta la dichiarò dispersa e vietò la costruzione di altre navi della stessa classe. Però non ha mai smesso di cercarla in lungo e in largo. Signori, abbiamo fatto una scoperta importantissima. Quella lì è la nave più bramata dalla Flotta Stellare!» disse, indicando il vascello alla deriva. «Chissà dov’è stata in questi anni... chissà cos’ha visto...».
   «Ma la sua destinazione originale qual era?» s’inquietò Losira, osservando la nave spettrale, in quel momento quasi capovolta.
   «E chi lo sa? I dettagli di quel viaggio sono top secret» sospirò Rivera. «Forse se l’abbordassimo ne sapremmo qualcosa. I diari dei sensori, quelli dell’equipaggio... ci aiuterebbero a capire cos’è andato storto».
   «Scusate, ma questo non è di competenza della Flotta Stellare? Noi passavamo solo di qui» notò Talyn. «Abbiamo risposto a una chiamata d’aiuto, ma in assenza dell’equipaggio...».
   «L’equipaggio non c’è e la nave è intatta. Combinazione perfetta!» gongolò il DaiMon, fregandosi le mani mentre osservava il relitto con bramosia.
   «Che vuol fare, signore?» si preoccupò Rivera. Conosceva quello sguardo cupido e sapeva che annunciava guai.
   «Che domande! Voglio abbordare la nave, scoprire i suoi segreti e venderli al miglior offerente!» annunciò Grilk. «Questo è l’affare più redditizio della mia carriera... finalmente potrò smetterla di girovagare con voi guitti e diventare un rispettabile Ferengi d’affari. Ovviamente ci sarà profitto anche per voi!» promise.
   «Vuol saccheggiare una nave della Flotta?!» inorridì il Primo Ufficiale. «E poi a chi conta di rivendere le spoglie? Chiunque nella Federazione ci salterà addosso...».
   «E allora venderemo fuori dalla Federazione, no? Là fuori ci sono fior di clienti che pagheranno latinum per avere i segreti della Destiny. I Breen, i Romulani Imperiali, il Dominio... usa un po’ di fantasia!» esortò il DaiMon, picchettandosi il testone.
   «È un’ottima idea, caro!» trillò Losira, venendogli a fianco. «Questo può essere l’affare che ci sistema tutti, se lo sfruttiamo bene!» aggiunse, lanciando un’occhiataccia a Rivera, per dissuaderlo dal sollevare obiezioni.
   «Già, stavolta siamo sistemati per le feste!» si disse l’Umano, pensando alla reazione della Flotta. Ma vedendo che anche la Risiana voleva darsi al saccheggio, si arrese. «Posso almeno suggerire di esaminare la Destiny con una squadra, prima d’invaderla in massa? Dobbiamo capire cos’è successo all’equipaggio, se c’è rischio biologico o di altra natura. Ricordate che il latinum non serve a niente, se si è morti» avvertì.
   «Sì, e spegnete quel dannato segnale di soccorso!» annuì Grilk. «Non voglio che i federali vengano a rovinare tutto».
   «L’ideale sarebbe riattivare l’energia principale, motori compresi, e spostare altrove la Destiny» suggerì Shati. «Così avremo tutto il tempo per esaminarla».
   «Splendida idea, fatelo subito!» ordinò il DaiMon. «Rivera, porta una squadra su quella nave e tienimi informato dei progressi. Sento che abbiamo trovato una miniera di latinum!» ridacchiò, spaparanzandosi sulla poltrona di comando.
 
   Di lì a poco la squadra esplorativa si teletrasportò sulla Destiny. Oltre a Rivera c’erano Talyn (per esaminare i diari di bordo), Shati (per occuparsi del timone) e l’Ingegnere Capo Brokk (per riattivare il nucleo principale). Tutti quanti indossavano le tute spaziali, per non correre rischi nel caso in cui ci fossero agenti infettivi. Si materializzarono sul ponte di comando, sperando che da lì fosse più facile verificare lo status della nave.
   La plancia della Destiny era ampia e circolare, con uno schermo visore particolarmente largo, tanto da coprire un terzo della circonferenza. Al centro della sala vi era una pedana rialzata che ospitava le sedie del Capitano, del Primo Ufficiale e del Consigliere di bordo. Le altre postazioni erano allineate lungo la parete; ma non c’era nessuno dell’equipaggio, né vivo né morto. Il salone era immerso nell’oscurità, a stento rischiarata dai faretti delle tute. Gli oloschermi erano disattivati, come buona parte delle interfacce LCARS, che inoltre erano coperte di brina. Su tutto gravava un silenzio opprimente, tanto che Rivera udì il sangue pulsargli nelle orecchie. Trascorsero lunghi secondi prima che qualcuno osasse parlare.
   «Sembra in buono stato» commentò Shati, i cui occhi felini luccicavano nell’oscurità. Tra i presenti era quella che ci vedeva meglio al buio.
   «Già, a parte il dettaglio che l’equipaggio s’è volatilizzato» commentò Rivera. «Allora, per prima cosa esaminiamo l’aria, in cerca d’agenti infettivi». Rimpianse che sull’Ishka non ci fosse un vero dottore cui fare affidamento. Invece avevano solo un vecchio Medico Olografico d’Emergenza, senza nemmeno un Emettitore Autonomo che gli permettesse di lasciare l’infermeria.
   «Il mio tricorder segnala pulito» disse Shati dopo qualche minuto.
   «Confermo» disse Talyn. «Ci sono tre gradi sottozero, per questo c’è condensa ovunque. E l’aria è un po’ viziata. Ma a parte questo non ci sono problemi. Direi che possiamo toglierci i caschi».
   «Aspettate, servono ulteriori...» cominciò Rivera, ma Shati aveva già ritirato il suo casco nel collo della tuta. Vedendola, Brokk e Talyn la imitarono. «... analisi. Oh, al diavolo!» sbottò Rivera, e ritirò il casco a sua volta. Fu assalito dal freddo pungente, a cui non era abituato. Ogni suo respiro condensava in una nuvoletta bianca. Si guardò attorno più volte, girando su se stesso: quella nave buia e deserta gli faceva accapponare la pelle. Aveva il timore irrazionale d’essere spiato e persino assalito alle spalle. Dovette respirare a fondo per calmarsi. Sapeva che l’oscurità è uno dei timori più atavici degli umanoidi. Una volta riaccese le luci, sarebbero stati meglio.
   Notando una targa color bronzo fissata a una paratia, il Primo Ufficiale andò a osservarla da vicino. Come sospettava era la targa commemorativa della Destiny, che riportava i dati fondamentali dell’astronave, oltre al motto che la ispirava. 
 
USS DESTINY
 
STARSHIP REGISTRY NCC-204.610
LAUNCHED STARDATE 2605.45
BUILT AT JUPITER STATION – SOL SECTOR
UNITED FEDERATION OF PLANETS
FIRST PROTOTYPE OF ITS CLASS
 
“Logic will get you from A to B.
Imagination will take you everywhere”
A. Einstein
 
   «Mi sa che stavolta l’immaginazione li ha spinti troppo oltre» si disse Rivera, chiedendosi ancora una volta dove diavolo fosse stata quella nave. Lesse anche le righe più piccole sulla targa, che riportavano il nome del Capitano Dualla e degli ufficiali superiori al momento del varo. «Eppure questa gente non può essere svanita nel nulla. Da qualche parte saranno finiti. Se non sono più a bordo, devono essere sbarcati. Ma dove, e perché? Cosa li ha indotti ad abbandonare l’astronave alla deriva, con l’SOS automatico?».
   «Ehm, ci mettiamo al lavoro, signore?» lo richiamò Talyn.
   «Sì, per prima cosa spegni quel segnale di soccorso» ordinò l’Umano con voce roca, ricordando i loro doveri.
   «Subito» fece l’El-Auriano. Passò da una postazione all’altra, fino a trovare quella di sensori e comunicazioni, una delle poche attive. La sbrinò con una manata e si mise al lavoro.
   Nel frattempo i colleghi aprirono le porte con le apposite unità di sblocco, per controllare le sale adiacenti. C’erano quattro porte in tutto. Una conduceva all’ufficio del Capitano Dualla, ornato da piante e manufatti del suo mondo d’origine, Delta IV. Ma nella perdurante oscurità tutto appariva sinistro, anche perché le piante erano avvizzite in mancanza di luce e acqua. La seconda porta conduceva alla sala tattica, caratterizzata da un lungo tavolo semitrasparente di forma rettangolare. Attraverso l’ampia finestra era visibile l’Ishka, che stazionava a poche decine di km dalla Destiny.
   «Ancora nessuna traccia dell’equipaggio...» mormorò Rivera, sempre più inquieto.
   La terza porta condusse i visitatori a una saletta teletrasporto. Giunti alla quarta, si aspettavano di trovare il turboascensore per scendere ai ponti inferiori; ma al suo posto videro un’ampia scala a chiocciola che scendeva nell’oscurità.
   «Dev’essere per non isolare la plancia, se venisse meno l’energia principale» comprese Rivera. «Meglio così; non avremo problemi a scendere. Talyn, sei riuscito a interrompere il segnale?».
   «Ho fatto, non stiamo più trasmettendo» rispose il giovane, stranamente trasognato. Era ancora alla postazione sensori, ma teneva gli occhi chiusi, come in ascolto.
   «Ehi, che ti succede?» chiese Rivera, venendogli accanto.
   «Non so come descriverlo... non ho mai provato nulla di simile» mormorò Talyn, con voce distante. «È come se percepissi un’eco dell’equipaggio. Le loro voci... no, le loro sensazioni. È successo qualcosa di terribile, capo. Non so cosa... ma terribile!» sussurrò, riaprendo gli occhi. Aveva le pupille dilatate dall’orrore.
   «Ma come puoi saperlo?» chiese Shati, inquieta.
   «Psicometria» rispose Rivera al posto suo. «È la capacità di percepire la storia di un oggetto, o del suo proprietario, semplicemente toccandolo. Si tratta di una qualità rarissima, anche fra i telepati».
   «Ma io non sono un telepate!» squittì il giovane, spaventato.
   «Sei un El-Auriano. La tua gente ha capacità percettive ancora poco comprese» ricordò il Primo Ufficiale. «Non sarete telepati alla maniera dei Betazoidi o dei Vulcaniani, ma certo avete un dono...».
   «Non so che dire. Non ho mai conosciuto il mio popolo» si rabbuiò Talyn. «Qualunque cosa sappiano fare, non hanno potuto insegnarmela».
   «Va bene, ora calmati. Pensi di poter scaricare i diari dei sensori? Così ci faremo un’idea più precisa dell’accaduto» disse Rivera, per dargli un compito che lo distraesse.
   «Sì, non dovrebbe essere difficile» si riscosse il giovane, e si mise al lavoro.
   Mentre Talyn armeggiava coi comandi, aiutato da Brokk e Shati, Rivera lo osservò pensosamente da una certa distanza. Quando l’Umano era salito sull’Ishka, cinque anni prima, il ragazzo era già lì. Siccome era ancora minorenne, Rivera aveva chiesto spiegazioni a Losira, che si trovava a bordo da più tempo. Se chiudeva gli occhi, poteva quasi risentire la loro discussione.
 
   «Non farti ingannare dal suo aspetto» gli disse Losira. «Il ragazzo non è Umano come te. Si tratta di un El-Auriano».
   «Okay, ma... è pur sempre minorenne. Che diavolo ci fa qui a bordo?» insisté Rivera.
   «Oh, è una triste storia» sospirò la Risiana. «Lo abbiamo trovato a Stardust City, sul pianeta Freecloud. La città fu bombardata dai Pacificatori, come rappresaglia per la loro sconfitta nella Guerra Civile. La casa di Talyn fu distrutta, la sua famiglia sterminata. Solo lui sopravvisse... all’epoca doveva avere cinque o sei anni. Nei dieci anni successivi è vissuto in strada, nei quartieri degradati e semidistrutti, compiendo piccoli furti. L’anno scorso lo abbiamo trovato mentre eravamo a Freecloud per affari».
   «Trovato?» si accigliò Rivera.
   «Ha tentato di borseggiare il DaiMon, ma l’abbiamo scoperto e bloccato. Grilk l’avrebbe consegnato alla polizia locale, se non avessi interceduto per lui» rivelò la Risiana. «Ho convinto il DaiMon a prenderlo a bordo, come apprendista tuttofare. Da allora si può dire che l’abbiamo adottato, tutti noi dell’equipaggio. Gli stiamo insegnando il necessario sulla vita di bordo e alla lunga contiamo di trovargli un incarico, forse come addetto ai sensori».
   «Commovente» disse l’Umano. «Ma non dovreste consegnarlo agli assistenti sociali?».
   «Lui non vuole andarsene. Cerca di capire: questa nave è la casa più stabile e confortevole che abbia avuto da quand’è rimasto orfano. Alcuni di noi sono ciò che di più simile abbia a una famiglia. Farlo andar via sarebbe traumatico...» si giustificò Losira.
   «Per lui o per te?» chiese Rivera. «Da come ne parli, sembra che sia stata soprattutto tu ad adottarlo» indovinò.
   «Non lo nego» ammise la Risiana. «Comunque ci stiamo impegnando tutti per tirarlo su. Io faccio il possibile, ma ha bisogno di una figura paterna. Sai, certe notti si sveglia ancora gridando, dopo aver sognato i bombardamenti. E ha ancora il brutto vizio di rubacchiare in giro. Potresti tenerlo d’occhio, dargli una raddrizzata...?» chiese speranzosa.
   «Farò del mio meglio» s’impegnò l’Umano. «Però ho sentito strane voci sugli El-Auriani».
   «Sono grandi ascoltatori e credono negli incontri predestinati» annuì Losira.
   «Sì, ma a parte questo, pare che abbiano una telepatia latente e avvertano persino gli scompensi spazio-temporali. Se è vero, e i suoi poteri si risvegliano, allora nessuno di noi è qualificato per insegnargli il controllo» avvertì Rivera.
   A questo Losira non rispose.
 
   «Molto strano» disse Talyn, esaminando i diari dei sensori.
   «Cosa c’è di strano?» fece Rivera, riscuotendosi dai ricordi. Gli venne accanto, per osservare lui stesso l’interfaccia.
   «Qualcuno ha cancellato i diari dei sensori, persino i file di back-up» spiegò il giovane. «C’è un vuoto tra il momento in cui la Destiny è passata nell’altra realtà, cinque anni orsono, e il suo ritorno... che risale a poche settimane fa. Qualunque cosa sia successa, i responsabili non vogliono farcelo sapere».
   «E i diari personali dell’equipaggio?».
   «Cancellati anche quelli. Chiunque sia il responsabile, è stato molto meticoloso».
   «Ma non c’è un’Intelligenza Artificiale? Se la riattivassimo, potremmo chiedere a lei...» suggerì Shati.
   «No, niente IA su questa nave» constatò Brokk, che stava esaminando una consolle ingegneristica. «La cosa non mi stupisce. Dopo tutti i casini della Guerra Civile, le IA delle astronavi sono passate di moda. Non resta che andare in sala macchine per riattivare l’energia principale, così potremo spostare la nave ed esaminarla con più calma» aggiunse.
   «Okay, andiamo» disse Rivera, muovendo verso la porta.
   «La sala macchine è quindici ponti più giù. Non ci facciamo teletrasportare dall’Ishka?» chiese Brokk, volendo risparmiarsi la scarpinata.
   «No. Voglio percorrere i corridoi di questa dannata nave, per cercare di capirci qualcosa» decise il Primo Ufficiale. «Seguitemi e tenete gli occhi aperti. Fate caso se ci sono dei corpi, tracce di lotta, segni di sabotaggio... qualunque cosa possa fornirci un indizio». Ciò detto imboccò la scala a chiocciola, obbligando i colleghi a seguirlo.
 
   Il viaggio attraverso i livelli dell’astronave fu lento, perché gli avventurieri procedevano con prudenza, osservando ogni dettaglio attorno a loro. I corridoi vuoti erano inquietanti; l’oscurità e il silenzio li rendevano ancor più spettrali. Più volte Rivera ordinò alla piccola squadra di fermarsi, convinto di aver sentito dei rumori; ma si trattava sempre di echi dei loro passi e delle loro voci. Ancora più snervanti furono i passaggi nei tubi di Jefferies, necessari in quanto i turboascensori erano senza energia. In quei momenti l’Umano teneva il phaser in pugno, pronto a reagire a qualunque attacco. Ma di attacchi non ce ne furono e così la squadra raggiunse finalmente la sala macchine.
   Sbloccato l’ingresso, i contrabbandieri si addentrarono nel vasto salone in penombra. Il nucleo quantico era spento, come gran parte delle consolle.
   «Wow, avete mai visto attrezzature così?!» commentò Shati, guardandosi attorno.
   «No, mai» ammise Rivera. «Questa doveva essere la nave più moderna della Flotta, cinque anni fa. Probabilmente lo è ancora. Continuo a chiedermi cosa li abbia sopraffatti, e se proprio non hanno lasciato indizi...».
   In quella le orecchie feline di Shati si mossero sopra la sua testa. «Ssshhh! C’è qualcuno!» sussurrò.
   «Sicura?» fece l’Umano, impugnando il phaser.
   «Ci scommetto le vibrisse. È lassù!» bisbigliò la Caitiana, accennando ai ponteggi che circondavano il nucleo quantico. Poiché la sala macchine era immersa nelle tenebre, non c’era modo di vedere chi vi si acquattasse.
   «Niente luci!» sussurrò Rivera, impedendo a Talyn di dirigere la torcia da polso della tuta in quella direzione. «Perderemmo l’effetto sorpresa. Shati, tu sei la nostra One Woman Army. Te la senti di andare a caccia?».
   «Sì, gioco volentieri al gatto col topo» sogghignò la Caitiana. «Ma mi serve un’esca».
   Brokk e Talyn presero a fissarsi le scarpe. Rivera avrebbe potuto far valere i gradi e mandare uno di loro allo sbaraglio, ma non se la sentì. «Okay, vado io» sussurrò. «Voi guardatemi le spalle. Phaser su stordimento, mi raccomando. Chiunque sia l’intruso, lo voglio vivo».
   Il quartetto si divise. L’Umano avanzò allo scoperto, fingendo d’esaminare le consolle, mentre i colleghi lo sorvegliavano a una certa distanza. La Caitiana invece si addentrò tra le ombre, non così fitte per i suoi occhi felini. Giunta sotto una delle passerelle, si sfilò rapidamente la tuta spaziale affinché non l’intralciasse. Poi spiccò un balzo, atterrando sul ponteggio col silenzio dei suoi piedi felpati.
   Rivera stava ancora passando tra le consolle, senza realmente vederle, quando una voce piovuta dall’alto lo inchiodò lì dov’era. «Fermo là! Chi sei tu, che violi quest’eremo di pace?!». Era una voce femminile, con una strana inflessione.
   L’Umano alzò le mani, temendo che la sconosciuta fosse armata. Spinse lo sguardo in direzione della voce, ma non vide altro che oscurità. «Mi chiamo Armando Rivera, sono il Primo Ufficiale del mercantile Ishka» si presentò. «Non ho cattive intenzioni, anzi sono qui per aiutarti. La mia nave ha captato la tua richiesta di soccorso».
   «Richiesta di soccorso?».
   «Sì, questo vascello emette un segnale automatico. Non lo sapevi?» si stupì Rivera.
   Silenzio.
   «Senti, posso abbassare le mani?» chiese l’Umano, stanco di starsene come un malvivente colto in flagrante. «Poi potresti scendere, così parleremo faccia a faccia...».
   «Scendere? No-no, sto bene qui. Puoi salire tu. Anzi no, ti preferisco sotto tiro!» disse l’estranea, parlando in falsetto. «Siete arrivati in molti? Che volete fare, rubare la nave per poi venderla? Farla a pezzi, e poi vendere i pezzi? Non si fa, tsk-tsk!».
   «Niente di tutto questo; vogliamo solo aiutarti» disse Rivera, falso come Giuda. Aveva l’impressione che l’estranea fosse picchiatella; ma temeva che fosse anche armata e ciò lo tratteneva dall’andarla a stanare. «Ci risulta che questa nave sia sparita cinque anni fa. Tu facevi parte dell’equipaggio o sei salita in un secondo momento? Perché se sei rimasta tutta sola per cinque anni, potresti essere... come dire...» esitò.
   «Svitata? Mi stai dando della svitata, intruso?!».
   «Certo che no!» annaspò l’Umano, che invece ne era sempre più convinto. «Ma potresti gradire la compagnia. Se ci aiuti a riavviare la nave, ti porteremo dove vuoi. Non ti piacerebbe tornare a casa?».
   «Casa?! Non voglio vederla neanche al telescopio!» si scaldò l’estranea. «La Flotta Stellare è la mia casa. Questa è una nave della Flotta, perciò sono a casa. Non come voi manigoldi, che siete qui solo per rubare!».
   «Senti, perché non mi dici chi sei e...» si spazientì Rivera, facendo un passo avanti, ma fu bloccato dalla reazione.
   «Altolà! Un’altra mossa e ti uccido!».
   Ora che si era un po’ avvicinato, Rivera intravide la sagoma dell’avversaria che incombeva su di lui. Sembrava che gli puntasse contro un phaser, impugnandolo con ambo le mani. Avrebbe sparato? Passarono i secondi, dilatati dalla tensione. Uno... due... tre...
   In quella una seconda figura si scagliò contro la prima, con un balzo felino. Era Shati, naturalmente. Atterrò l’avversaria e la disarmò, o così parve; poi la costrinse a rialzarsi e a seguirla in un piccolo elevatore, che le riportò al piano inferiore. Lì giunte, la Caitiana scaraventò teatralmente la prigioniera ai piedi di Rivera. «Guarda un po’ chi abbiamo! Una lecchina del Dominio!» esclamò.
   L’Umano si chinò sull’estranea. Il colorito cereo, gli occhi violetti, le strane orecchie zigrinate... era proprio una Vorta. Però aveva i capelli lisci, anziché impomatati come facevano i suoi simili. Cosa ancora più strana, indossava un’uniforme della Flotta Stellare, sezione medica. «Insomma, chi sei tu?» chiese Rivera.
   «Dottoressa Giely, specialista medica di seconda classe! Posso fare qualcosa per voi? Ehi, attenti... sono armata!» ridacchiò la Vorta, ancora in ginocchio. Così dicendo gli puntò contro l’unica “arma” di cui fosse mai stata provvista: le mani intrecciate con gli indici puntati in avanti, a simulare un phaser. E scoppiò in una risata maniacale. 
 

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Capitolo 3
*** Conto alla rovescia ***


-Capitolo 2: Conto alla rovescia
 
   «Ebbene?» chiese Rivera, quando il Medico Olografico dell’Ishka ebbe finito di visitare la prigioniera.
   «Non c’è molto da dire. È indubbiamente una Vorta, e dall’analisi genetica posso confermare che si tratta della dottoressa Giely, imbarcata sulla Destiny cinque anni fa» rispose l’ologramma. Dopo che la squadra aveva acceduto al computer della Destiny, era stato semplice scaricare le schede personali dell’equipaggio per fare il confronto.
   «Okay, ma perché è ridotta così?» volle sapere il DaiMon Grilk, che era giunto in infermeria per aggiornarsi sulla situazione. Indicò la Vorta, che era legata al lettino medico con delle fascette ai polsi e alle caviglie, per impedirle di scappare. Giely inclinò la testa, sorridendo stranamente, e l’attimo dopo riprese a scuotersi, nel vano tentativo di liberarsi.
   «Non ho trovato traccia di droghe nel suo organismo, né ho riscontrato danni cerebrali» rispose il Medico Olografico. «Posso ipotizzare che cinque anni di completo isolamento su una nave abbandonata abbiano avuto un effetto deleterio sulla sua mente. Ma io sono un medico chirurgo; per una valutazione psichica occorre uno psicologo».
   «Sfortunatamente non l’abbiamo!» sbuffò Rivera. Era già tanto se avevano l’MOE su quella nave scalcagnata.
   «Che fregatura... l’unica testimone, ed è matta da legare!» commentò il DaiMon, scuotendo la testa. «Se si sentiva sola, non poteva rifugiarsi sul ponte ologrammi?».
   «Anche quello era senza energia» spiegò Rivera. «Comunque le cose sono cambiate. Brokk ha riattivato il nucleo quantico, la sua squadra tecnica sta mettendo in linea tutti i sistemi».
   «Sì, mi hanno aggiornato poco fa» annuì Grilk. «Appena possibile sposteremo la nave. Ottimo lavoro... questa scoperta ci farà ricchi!» gongolò.
   «E di lei che ne facciamo?» chiese Rivera, osservando dubbioso la prigioniera.
   «Mah, la lasceremo su qualche emporio commerciale» disse il Ferengi, sbrigativo. «Ci penseranno i federali ad aggiustarle il cervello».
   «Eppure c’è qualcosa che non quadra» rimuginò l’Umano, osservandola. «Noi non abbiamo avuto problemi a riattivare il nucleo. Perché lei non c’è riuscita?».
   «Sono un medico, non un ingegnere!» rispose l’interessata, che aveva smesso di scuotersi e stava seguendo la discussione.
   «Ma avevi a disposizione navette e capsule di salvataggio. Quelle non sono difficili da usare» obiettò Rivera. «Potevi prendere una navetta e lasciare la nebulosa. Perché non l’hai fatto?».
   «Avevo paura. C’è tanto buio, là fuori. Chi ha spento le stelle?» vaneggiò la Vorta.
   «Nessuno le ha spente, sono solo velate» sospirò Rivera. «Le rivedremo appena saremo fuori da qui».
   «Oh! Se le stelle apparissero una sola notte ogni mille anni, come gli uomini potrebbero credere e adorare, e serbare per molte generazioni la rimembranza della città di Dio?[1]» declamò Giely, in tono ispirato.
   «E ora che ciancia?» si stupì Grilk.
   «Recita una vecchia poesia, credo» indovinò Rivera. Poi si rivolse alla Vorta: «Senti, bambola, devi essere stanca. Adesso il dottore ti somministrerà un leggero sedativo, così farai una bella dormita. Domani parleremo di nuovo».
   «Ah, il sonno, il sonno, cosa soave, amata da un polo all’altro![2]» recitò Giely.
   «Dalle una doppia dose» sussurrò il DaiMon all’orecchio del Medico Olografico. Detto fatto, l’ologramma le praticò l’ipospray nel collo, spedendola nel mondo dei sogni.
   «Che assurdità! Mi sa che da questa non ricaveremo niente» commentò Grilk, scuotendo la testa. «Concentriamoci sulla Destiny, è meglio. Voglio che quella nave sia messa in grado di muoversi al più presto».
 
   «Controlli ultimati, sistema di guida in linea» disse Shati.
   «Bene, attiva i motori a impulso» ordinò Grilk. Lui e gli ufficiali si erano trasferiti sulla Destiny, nuovamente illuminata e riscaldata ora che il nucleo era attivo. Sull’Ishka restava il grosso dell’equipaggio, pronto a intervenire se qualcosa fosse andato storto.
   «Ci muoviamo, un quarto d’impulso».
   «Verifica la manovrabilità. Poi arresto totale».
   Fatte alcune manovre standard, la timoniera riportò la Destiny in quiete. «Risponde che è una meraviglia. Neanche nei simulatori d’Accademia ho guidato navi così maneggevoli» commentò.
   «Plancia a sala macchine, potete darci la cavitazione quantica?» chiese il DaiMon.
   «Negativo, signore» rispose Brokk. «La matrice quantica è disallineata. Ci vorranno ore per ripristinarla».
   «Com’è potuto accadere? Si tratta di un guasto o...».
   «È difficile che sia un guasto; per ridurla così dovrebbe esserci un buco nel collettore primario» rispose l’Ingegnere Capo. «No, devono averlo fatto di proposito».
   A queste parole Rivera, che ascoltava la conversazione, si alzò di scatto dal sedile del Primo Ufficiale. «È il primo segno di sabotaggio che troviamo a bordo, e potrebbe non essere l’ultimo. Dobbiamo stare attenti, prima di partire con questa trappola» consigliò.
   «Groan, e va bene!» si arrese il DaiMon. «Sala macchine, cominciate subito a sistemare la matrice. E controllate gli altri sistemi chiave. Cercate segni di sabotaggio».
   «Sembra che qualcuno voglia tenerci qui» mormorò Rivera, accostandosi a Shati. «Mi domando perché...». Di colpo si bloccò, paralizzato dall’orrore; poteva esserci un solo motivo per impedir loro di scappare. Si voltò di scatto: «Talyn, fa’ una scansione a lungo raggio! Cerca astronavi in avvicinamento. Potrebbero essere occultate, quindi cerca le emissioni di tachioni e anti-protoni...».
   «Subito» disse l’El-Auriano, che era giunto alla stessa conclusione. «Rilevo un vascello in rapido avvicinamento. Mi correggo, sette vascelli. Gli altri sei sono così piccoli che quasi mi sfuggivano».
   «Perché l’Ishka non li ha rilevati?!» s’indignò Grilk, che aveva ordinato agli ufficiali rimasti a bordo di scansionare la zona e avvertire in caso d’intrusioni.
   «Perché i sensori dell’Ishka sono antidiluviani, ecco perché! Quelli della Destiny sono cento volte meglio» disse Rivera, correndo accanto a Talyn. «Sì, eccoli... ci sono addosso. La traccia è... oh, mio Dio». Alzò gli occhi allo schermo, in tempo per vederli uscire dalla curvatura.
   Un massiccio incrociatore apparve dritto a prua, seguito da sei navi scorta. Gli scafi erano neri e blu, con angoli duri che li facevano somigliare a gemme intagliate. Le navicelle sembravano punte di freccia, mentre la nave madre aveva una forma più complessa, con una strozzatura centrale.
   «Sono Tholiani» confermò Talyn. «Un incrociatore di classe Tarantula e sei caccia di classe Widow. Stanno attivando le armi».
 
   Per un attimo scese il gelo. A secoli dal primo contatto, i Tholiani rimanevano una delle specie più enigmatiche e pericolose della Via Lattea. Il loro spazio era off-limits e s’immischiavano di rado nelle faccende di altre specie; ma quando lo facevano, erano inarrestabili.
   Siccome il DaiMon non reagiva, fu Losira a prendere la parola: «Dobbiamo tornare sull’Ishka e filarcela. Tanto la Destiny non va da nessuna parte».
   «No! Questo è il più grande tesoro che abbia mai trovato, non ci rinuncio così facilmente!» s’impuntò il DaiMon.
   «Ma... sono stati i Tholiani a preparare questa trappola?» chiese Shati, smarrita. «E perché, poi? A che gli serviamo noi, o chiunque altro avesse risposto all’SOS?».
   «C’è qualcosa che non quadra» convenne Rivera. «Non credo sia opera loro».
   «La nave madre ci chiama» disse Talyn.
   «Sullo schermo» ordinò Grilk, detergendosi il sudore dalla fronte mentre si chiedeva come ne sarebbero usciti.
   Sull’ampio schermo parietale si ritagliò un riquadro, in cui apparve il comandante dell’incrociatore. A differenza delle specie umanoidi, tutte eredi di un antichissimo ceppo proto-umanoide, i Tholiani venivano da un albero evolutivo del tutto separato. Nativi di un mondo vulcanico di classe Y, dalla densa atmosfera rovente, potevano vivere solo a temperature superiori ai 200º C. In ambienti più freddi, il loro esoscheletro cristallino si fratturava ed essi morivano, ragion per cui si mischiavano ben di rado con altre specie. Il loro aspetto era demoniaco: avevano sei zampe da ragno, sopra cui si levava un busto rozzamente umanoide, munito di due braccia. La testa aveva un curioso “becco” da rapace e due occhi che spiccavano gialli sull’esoscheletro arancione.
   Il Tholiano prese la parola: la sua voce era fatta di suoni striduli, come unghie su una lavagna, intervallati da schiocchi secchi. Il traduttore simultaneo la convertì in parole comprensibili, seppure dal timbro metallico e impersonale: «Qui è l’Ammiraglio Ziz. A nome dell’Annessione Tholiana, vi ordino di consegnare la nave alla deriva da voi illegalmente abbordata».
   «Illegalmente? Devo contraddirvi, egregio Ammiraglio» disse il DaiMon, intravedendo uno spiraglio. «Due giorni fa abbiamo captato una richiesta di soccorso da questa nave. Essendo altruisti, ci siamo prontamente lanciati al soccorso, seguendo il segnale fino al punto d’origine. La nave era integra, ma priva d’equipaggio...».
   «Perché? Cosa gli è successo?» volle sapere il Tholiano.
   «Non lo sappiamo; non ci sono superstiti» mentì Grilk, non volendo che i Tholiani interrogassero Giely coi loro metodi brutali, magari scoprendo per primi qualcosa d’importante. «Comunque, secondo le norme interstellari, essere giunti per primi ci garantisce il diritto al recupero. Mi spiace per voi, ma... arrivare secondi è come non arrivare affatto!» ridacchiò, citando un’altra Regola dell’Acquisizione.
   «Una nostra sonda ha captato il segnale di soccorso sette giorni fa, quindi ben prima di voi. Questo ci attribuisce la precedenza sul recupero» affermò Ziz.
   «Niente affatto! Conta il primo che mette piede a bordo!» si stizzì il DaiMon.
   «Secondo le leggi federali è così. Ma qui ci troviamo al di fuori dello spazio federale» puntualizzò il Tholiano. «Nel vostro interesse, vi suggerisco di abbandonare il relitto prima di giungere a un confronto armato. Non sarebbe saggio, per il vostro mercantile, sfidare la mia flottiglia» minacciò.
   «Vuole intimidirmi? Io sono iscritto all’FCA! Lo sa che siamo i maggiori importatori di seta tholiana? Non vi conviene farmi questo sgarbo, vecchio mio!» avvertì Grilk.
   «Ay, caramba!» imprecò Rivera, intuendo che si metteva male.
   «La sua ostinazione mi costringe a intraprendere un’azione di forza» avvertì Ziz. «E sarà la sua nave a farne le spese». Ciò detto chiuse il canale. L’attimo dopo la flottiglia tholiana aprì il fuoco contro l’Ishka, colpendola con potenti raggi tetrionici.
   «Il mio tesoro!» si disperò il Ferengi, afferrandosi il testone con le mani. «Non posso perderlo... ragazzo, richiama subito i Tholiani!».
   «Lo sto facendo, ma... non rispondono» avvertì Talyn, armeggiando coi comandi. L’Ishka era al centro di una gragnola. Le navi-ago le sfrecciavano attorno, troppo veloci per essere colpite dai siluri fotonici. Qualche raggio phaser andava a segno, ma le navi tholiane non sembravano risentirne. La nave madre era più stazionaria, ma un vascello di quelle dimensioni non aveva nulla da temere dal vecchio mercantile.
   «L’Ishka ha perso gli scudi!» avvertì Talyn, tirato in volto. «I Tholiani sparano ancora, brecce sullo scafo!».
   La nave Ferengi sbandò sotto gli occhi degli avventurieri, fiammeggiando dagli squarci nello scafo. Era condannata: gli aggressori non si sarebbero fermati prima di ridurla in briciole.
   «L’equipaggio!» si riscosse Rivera. Si precipitò a una postazione che permetteva di controllare le numerose sale teletrasporto della Destiny. «Avvio il trasferimento automatico d’emergenza» disse, fissando le coordinate sul mercantile condannato. Il computer avrebbe cercato ogni segno vitale a bordo, trasferendolo d’urgenza nelle sale teletrasporto o nelle stive di carico.
   «Non c’è tempo, dobbiamo distrarre i Tholiani» avvertì Losira, sapendo che servivano alcuni minuti per imbarcare le trecento persone dell’equipaggio.
   «Gliela do io, la distrazione!» ringhiò Grilk, recandosi alla postazione tattica. «Le armi sono in linea, quindi usiamole. Così le zecche imparano a distruggere le mie proprietà!».
   Come risvegliata da un lungo sonno, la Destiny si gettò a capofitto nella battaglia. E la ribaltò in un modo che nemmeno gli avventurieri osavano sperare. Raggi phaser e polaronici scaturirono dai banchi che coprivano tutta la circonferenza dell’anello esterno, dandole un raggio di tiro di 360º. In una manciata di secondi, le sei navi-ago furono colpite e distrutte. Non avevano nemmeno fatto in tempo a rispondere al fuoco. Al tempo stesso, il DaiMon scagliò una raffica di siluri quantici contro la nave madre. La Tarantula fu centrata sul muso: i suoi scudi ressero, ma il vascello effettuò una brusca manovra evasiva per mettersi fuori tiro.
   «Dove sono gli scudi...» mormorò Grilk, ancora poco avvezzo ai futuristici comandi della Destiny.
   «No, niente scudi! C’impedirebbero di salvare i nostri compagni» obiettò Rivera. «Shati, manovre evasive. Cerca di tenerci lontani dai Tholiani, ma non tanto da uscire dal raggio di teletrasporto».
   «Ci provo» disse la Caitiana, anche lei poco abituata ai nuovi comandi. Inclinò la Destiny per sfuggire ai colpi nemici. In quella si udì un ronzio e alcune grosse forme si materializzarono in plancia, mentre l’allarme interno segnalava la breccia nella sicurezza.
   «Porca vacca, ci abbordano!» imprecò Rivera, estraendo il phaser. Con gli scudi abbassati, nulla impediva ai Tholiani d’invadere la Destiny. L’unica consolazione era che, per far questo, anche loro dovevano abbassare gli schermi, rendendosi vulnerabili.
   Quando i bagliori fiammeggianti svanirono c’erano cinque Tholiani sulla plancia della Destiny. Contrariamente al solito, non indossavano alcuna tuta per proteggersi da una temperatura ambiente che avrebbe dovuto essergli fatale; eppure non parevano soffrire. Avevano cinture metalliche e impugnavano dei fucili disgregatori, che subito puntarono contro gli avversari.
   «Nascondetevi!» gridò Rivera, tuffandosi dietro la sua consolle. I colleghi non se lo fecero ripetere: si precipitarono tutti dietro qualche postazione o nelle camere adiacenti. Shati sfuggì appena in tempo a un raggio che squarciò lo schienale della sua poltroncina. Saltò sopra la postazione del timone, atterrando tra questa e lo schermo anteriore, e vi rimase acquattata.
   «Arrendetevi o sarete distrutti» minacciò uno dei Tholiani, presumibilmente il caposquadra.
   «Mai! Fuori dalla mia proprietà!» gridò il DaiMon, sporgendosi quel tanto che bastava a dare una sferzata di frusta neurale. L’energia giallastra colpì in pieno il Tholiano più vicino, riverberando stranamente sul suo esoscheletro. L’alieno non dette alcun segno di soffrirne.
   «Hanno gli scudi individuali, per questo non si congelano!» gridò Rivera, per farsi udire dai colleghi. Ecco a cosa servivano i loro strani cinturoni. «Phaser al massimo e concentriamo il fuoco!» ordinò, alzando la regolazione della sua arma. Si sporse per un attimo dal rifugio, centrando uno dei Tholiani. Nello stesso attimo Losira si sporse dalla sala tattica, in cui aveva trovato scampo, e lo colpì alle spalle. I due raggi ad alta intensità perforarono lo scudo: l’alieno stridette e andò in pezzi.
   I Tholiani risposero al fuoco, uccidendo due Ferengi e distruggendo alcune consolle. Ma si trovavano al centro della plancia, in una posizione esposta. Con ogni probabilità non si erano aspettati una resistenza così accanita.
   «Ancora!» gridò Rivera, tornando a sporgersi per colpire i Tholiani. Ne centrò uno a una zampa, facendolo cadere in avanti, e poi di nuovo sul muso, che si frantumò. Nel frattempo Shati abbatté il terzo, colpendolo ripetutamente col phaser. Il DaiMon sferzò il quarto con la frusta, indebolendo il suo scudo, e Losira gli dette il colpo di grazia.
   Ne restava solo uno, il caposquadra. Prima che i difensori potessero prenderlo di mira, colpì la postazione sensori e comunicazioni con un raggio così potente da farla esplodere. Talyn gemette di dolore e fu scagliato all’indietro, contro la paratia. Per un attimo Rivera vide il suo volto ustionato; poi il ragazzo si accasciò privo di sensi. Il Tholiano lo prese di mira, per finirlo.
   «NO! Prenditela con me!» gridò il Primo Ufficiale, gettandosi temerariamente allo scoperto. Il Tholiano si girò verso di lui per colpirlo, ma l’Umano fu più veloce. Sapendo di non avere il tempo per abbattergli lo scudo, mirò alla sua arma. Il raggio phaser centrò il fucile disgregatore, che esplose tra le mani dell’alieno. Questi arretrò, zampettando come un granchio in direzione della saletta teletrasporto.
   «Ah no, non te ne vai!» ruggì il DaiMon, assetato di vendetta. Colpì il Tholiano con la frusta neurale, che gli si avvolse attorno alle zampe, immobilizzandolo. «Finiscilo, Rivera!» ordinò.
   Per un attimo l’Umano guardò Talyn, ancora riverso sul pavimento, col volto ustionato. Aveva una gran voglia d’ammazzare il mostro che aveva fatto questo... ma alcuni Tholiani erano già morti, e non voleva provocare un’escalation col loro governo. La Flotta Stellare gli aveva insegnato che il primo dovere di un ufficiale era disinnescare i conflitti sul nascere. «È meglio tenerlo vivo... come merce di scambio» disse, cercando di persuadere il DaiMon.
   «E va bene. Tanto farò sempre in tempo ad ammazzarlo, se cambio idea» borbottò questi, fissando malignamente il prigioniero. «E ora vuoi alzare gli scudi, prima che ne arrivino altri?!».
   Mentre Losira correva da Talyn, per verificare le sue condizioni, Rivera andò alla postazione tattica. Un colpo l’aveva scalfita, ma fortunatamente i comandi erano ancora operativi. Verificato che tutto l’equipaggio dell’Ishka era in salvo, attivò gli schermi difensivi. Appena in tempo: compreso che la loro squadra d’attacco aveva fallito, i Tholiani colpirono la Destiny con il raggio tetrionico. La nave federale tremò, ma gli scudi formidabili resistettero.
   La nave madre tholiana aprì nuovamente il fuoco; stavolta mirò all’Ishka. Il vecchio mercantile era alla deriva, senza scudi e con lo scafo compromesso da svariate falle. Bastò un colpo ben assestato per disintegrarlo. Sulla plancia della Destiny, gli avventurieri assistettero angosciati all’esplosione della loro astronave. Molti di loro erano vissuti lì per anni e non avevano un altro posto dove andare. Ma nessuno fu più annientato del DaiMon.
   «La mia nave! La mia povera nave!» si disperò il Ferengi, prendendosi la testa fra le mani. Ma il dolore mutò subito in collera. «Rivera! Da’ alle zecche la lezione che meritano!» abbaiò.
   «Ci provo» sospirò l’Umano. Era stato un ufficiale tattico prima che i rovesci di fortuna lo portassero in mezzo a quei furfanti. Anche se erano cinque anni che non prestava servizio su una nave della Flotta, ricordava il mestiere. Preso il controllo, tempestò di colpi la Tarantula, sforzandosi di metterle fuori uso gli armamenti. Le due navi presero a girarsi attorno come lupi, scambiandosi bordate micidiali.
   «Bene, così! Non dargli respiro!» incitò Grilk, accostandosi al suo Primo Ufficiale.
   Le capacità offensive della Destiny erano impressionanti. In pochi minuti soverchiò la Tarantula, disattivandole le armi. Ai Tholiani non restò che disimpegnarsi, allontanandosi a impulso.
   «Eccellente. Ora finiscili!» ordinò il DaiMon, con un sorriso sadico.
   «Signore, con tutto il rispetto, i Tholiani non sono più una minaccia. Ma se ora li distruggiamo, supereremo il punto di non ritorno. Potremmo persino scatenare una guerra fra Tholiani e Federazione» avvertì Rivera.
   «E allora? Ricorda la Regola dell’Acquisizione numero 34: la guerra è propizia per gli affari» citò il Ferengi.
   «Già, ma lei ricordi la Regola numero 35: la pace è propizia per gli affari» ribatté l’Umano.
   «Mannaggia, hai ragione!» riconobbe Grilk. «E va bene, lasciamo andare le zecche. In futuro ci penseranno due volte, prima di attaccarci». In quella la Tarantula balzò a curvatura, mettendosi definitivamente in salvo.
   «Ma sì, scappate, vandali! Tanto non siete voi a dover pagare i danni. Povero me... fortuna che l’Ishka era assicurata...» borbottò il DaiMon, cercando di calcolare l’ammontare del risarcimento.
   Rivera ne approfittò per verificare le condizioni di Talyn. Vide che il ragazzo si era ripreso; Losira gli stava esaminando le ustioni. «Nulla di grave, per fortuna. Basterà una passata di rigeneratore dermico e tornerai come nuovo. Tirati su, ti accompagno in infermeria» disse la Risiana, aiutandolo a rialzarsi.
   «Andate, io penso al responsabile» disse Rivera, tagliente. Girò sui tacchi e andò dal Tholiano prigioniero. «Hai visto? I tuoi colleghi sono scappati, ti hanno abbandonato!» infierì.
   «Di certo hanno pensato che fossi morto» rispose l’alieno con la sua voce gracidante, corretta dal traduttore. «In effetti non comprendo perché mi abbiate risparmiato. Se sperate in un riscatto, sappiate che l’Annessione Tholiana non paga per riavere gli sconfitti».
   «Ssshhh! Se il DaiMon ti sente, allora sì che sei finito!» lo zittì Rivera. «Stammi a sentire, dannata zecca. Non so nemmeno io perché continuo a risparmiarti. Forse perché c’è stato un tempo in cui ero nella Flotta Stellare e credevo nella diplomazia. Comunque ora ti spiego le regole di bordo. Se tenti in qualunque modo di scappare, sei morto. Se tenti di contattare i tuoi simili per fargli sapere dove siamo, sei morto. Se dici qualcosa che non mi piace, sei morto. Se invece te ne stai zitto e buono nella tua cella, allora potresti sopravvivere. È tutto chiaro? Rispondi sì o no».
   «Sì» rispose il Tholiano dopo qualche attimo.
   «Bravo ragazzo, sapevo che ci saremmo capiti al volo» disse l’Umano. «A proposito, ce l’hai un nome?».
   «Mi chiamo Naskeel» rispose la creatura, fissandolo con gli insondabili occhi sulfurei.
 
   Giunti in infermeria, Losira e Talyn vi trovarono altri colleghi dell’Ishka, feriti durante la battaglia. Solo allora la Risiana si soffermò a pensare che, assieme al mercantile, era stato distrutto anche il loro Medico Olografico; e tra loro non c’erano dottori in carne e ossa. Chi avrebbe curato Talyn e gli altri feriti? Osservando l’infermeria, all’avanguardia come il resto della nave, la risposta le sorse spontanea alla mente. «Computer, attivare l’MOE!» ordinò. La Destiny ne aveva certamente uno, ben più avanzato del loro...
   «Impossibile eseguire. Il programma MOE è stato cancellato dagli archivi» fu l’inaspettata risposta.
   «Come, cancellato? Chi è stato?!» chiese Losira, innervosita.
   «Responsabile ignoto. La memoria di bordo è incompleta» fu la temuta risposta.
   «Frell, un altro sabotaggio!» imprecò la Risiana. «Sembra proprio che qualcuno abbia voluto azzopparci».
   «Forse l’hanno cancellato perché era un testimone di... qualunque cosa sia accaduta su questa nave» mormorò Talyn, sedendo stancamente su un lettino.
   «Okay, ci penso io a te» disse Losira, cercando un rigeneratore dermico. Attorno a loro, però, c’erano colleghi feriti ben più gravemente. La mancanza di un vero medico si faceva sentire...
   «Ci penso io, ci penso io!» disse una vocetta squillante. Giely entrò in infermeria a passo svelto, dette un’occhiata ai pazienti più gravi e andò agli armadietti per prendere gli strumenti.
   «E tu che ci fai qui, ragazzina?» chiese Losira, sbarrandole la strada.
   «Sono un medico di seconda classe, l’hai dimenticato? E in questo momento sono l’unico a bordo... il che fa di me un medico di prima classe!» rispose la Vorta, giuliva. «Ora spostati, mi servono gli strumenti».
   «Tu non puoi metterti a operare! Non stai bene con la testa!» disse brutalmente la Risiana, senza scostarsi di un millimetro.
   «Stammi a sentire, fatalona! Avrò anche dei buchi nella memoria, ma ricordo il mio mestiere!» rivendicò Giely. Indicò il paziente più grave, un Ferengi che aveva un trauma cranico. «Lui ha un’emorragia cerebrale. Morirà fra pochi minuti, se non lo opero. Allora, mi lasci provare?».
   Losira aveva forti dubbi, ma il Ferengi era davvero messo male e nessun altro poteva aiutarlo. Che poteva fargli quella Vorta impazzita, di peggio che ucciderlo? Tanto valeva lasciarla tentare. La Risiana si scostò, permettendole di saccheggiare gli armadietti. Rimase a osservarla per qualche minuto, mentre s’ingegnava a salvare il Ferengi. «È fuori pericolo» disse infine Giely. «Sotto un altro!».
   Leggermente rassicurata, Losira prese un rigeneratore dermico e andò da Talyn. «Sembra che la pazzerella ricordi il suo mestiere» ammise, mentre curava le ustioni del ragazzo. «Qualunque cosa le abbiano fatto, dev’essere selettiva. Se solo avessimo un altro medico, potrebbe darle un’occhiata; ma non credo che possa curare se stessa».
   «Forse basterebbe poco per sbloccarla» suggerì Talyn, guardandola assorto.
   «Che intendi?».
   «Ecco... appena le cose si saranno calmate, vorrei provare a stabilire un contatto mentale con lei» disse il giovane, un po’ imbarazzato.
   «Non hai mai fatto nulla di simile» si accigliò Losira.
   «Lo so, infatti non so bene come procedere. Pensavo a una... meditazione guidata, o qualcosa del genere. Non so, forse sto dicendo una sciocchezza» borbottò Talyn, come a tirarsi indietro.
   «Non penso che tu sia sciocco. Sei un El-Auriano, anche se spesso ce lo dimentichiamo» sospirò la Risiana. «La tua gente ha la capacità istintiva di sapere quando una cosa va fatta. Perciò, se hai questa sensazione, credo che tu debba tentare. Però voglio assistere, nel caso che la pazzerella abbia una reazione inconsulta» aggiunse, osservando Giely con poca simpatia.
 
   Dopo aver chiuso Naskeel in cella, lasciando una guardia, Rivera andò nella stiva di carico 1, dove aveva teletrasportato gran parte dell’equipaggio. Doveva spiegare a tutti la situazione e assegnare i vari incarichi. Trattandosi in gran parte di Ferengi che avevano appena perso le loro proprietà, sapeva che non sarebbe stato facile calmarli.
   Come temeva, la ciurma era in subbuglio. Molti volevano prendere le navette della Destiny e andarsene con quelle, prima che tornassero i Tholiani, o che la nave stessa si rivelasse una trappola. Rivera dovette mettercela tutta per calmare gli animi. Solo quando garantì che le assicurazioni erano ancora valide, per cui l’FCA li avrebbe risarciti delle perdite, i Ferengi si calmarono. Aveva appena cominciato a distribuire gli incarichi che si trovò davanti Irvik, il passeggero Voth.
   «Frell, mi ero dimenticato di lui!» si disse l’Umano, non sapendo come gestirlo.
   «Ho sentito tutto. Siete in un mare di guai, eh?» fece il sauro.
   «Temo di sì» ammise il Primo Ufficiale. «Se vuole un risarcimento per il costo del viaggio, credo che si possa fare...».
   «Ne parleremo dopo. Per adesso, voglio offrirvi il mio aiuto» disse Irvik.
   «Che intende?».
   «Deve sapere che, tra la mia gente, io ho la qualifica d’Ingegnere Capo. E modestia a parte, sono piuttosto famoso» rivelò il sauro. «Ora, mi sembra di capire che siete a corto d’equipaggio, e in particolare di tecnici. Perciò vi offro i miei servigi, fin quando saremo fuori pericolo. Lasci che vada in sala macchine e aiuti i vostri ragazzi a capirci qualcosa».
   Rivera ragionò in fretta. I sauri non gli stavano per niente simpatici, dopo tutti i danni che avevano causato alla Terra, spinti dal loro maledetto orgoglio aristocratico. Eppure Irvik sembrava sincero. E nella situazione precaria in cui si trovavano, l’Umano non poteva rifiutare la sua offerta. «Lei è... molto gentile» ammise a denti stretti. «Non le nascondo che il suo aiuto ci sarebbe prezioso».
   «Bene, allora vado subito. A presto, Comandante» si congedò il Voth, unendosi al gruppetto di tecnici che stavano andando in sala macchine. L’Umano lo seguì con lo sguardo, augurandosi di aver fatto la scelta giusta.
 
   «Avanti» disse Losira, sentendo il cicalino della porta. Nelle ultime ore gli avventurieri si erano sistemati negli alloggi della Destiny, cercando di rispettare l’ordine gerarchico. Così il DaiMon aveva occupato l’alloggio del Capitano, Rivera quello del Primo Ufficiale, Shati quello del timoniere, eccetera. Losira, che sull’Ishka era la tesoriera, non aveva un equivalente sulla nave federale; così le era toccato l’alloggio del Consigliere di bordo. Era un appartamento comodo e spazioso, abbellito da quadri e tendaggi. Al centro c’era un basso tavolino, con delle candele da meditazione. La Risiana ne aveva accesa una, che diffondeva un aroma speziato.
   «Ciao, come va l’alloggio?» chiese Talyn, entrando un po’ nervoso.
   «Mi piace, è confortevole. Ti stavamo aspettando» disse Losira, accennando a Giely. La giovane Vorta era davanti alla finestra e fissava lo spazio, in punta di piedi, canticchiando filastrocche senza senso.
   «È di nuovo così?» si accigliò Talyn.
   «Sì, da quando ha finito di curare i feriti» confermò la Risiana. «Spero che tu possa aiutarla. Dicevi di voler provare una meditazione guidata...» disse, accennando alla candela aromatica.
   «Qualcosa del genere, sì» fece il giovane, esitante. Sedette davanti al tavolino, a gambe incrociate.
   Losira andò da Giely e la indusse garbatamente a lasciare la finestra, guidandola passo dopo passo. Quando furono davanti al tavolino la fece sedere, in modo che fosse di fronte a Talyn.
   «Ciao; ci siamo visti in infermeria, ma ancora non ci siamo presentati» esordì il giovane. «Io sono Talyn, l’addetto ai sensori e alle comunicazioni. I miei simili, gli El-Auriani, sono grandi ascoltatori. Mi piacerebbe molto sentire la tua voce. Come ti senti, Giely?» chiese, osservandola attentamente.
   «Non riesco a vedere le stelle. C’è luce, qui?» chiese la Vorta, trasognata.
   «C’è la luce della candela, vedi?».
   «S-sì...».
   «Siamo qui per aiutarti a ricordare. Va tutto bene, Giely, sei tra amici» disse il giovane, cercando di calmarla. «Ora sei confusa: la tua mente è come un labirinto in cui ti sei smarrita, un rompicapo di cui non hai la chiave. Io non posso liberarti, ma forse posso darti qualche indicazione su come liberarti da sola. L’essenziale è individuare i ricordi autentici: devi focalizzarti sui momenti cruciali della tua vita, quelli che ti definiscono come individuo, belli o brutti che siano. Così potrai seguirli come un filo conduttore, facendo ordine nel caos dei tuoi pensieri. Ma per prima cosa devi calmare la mente. Ecco, osserva la candela. Fissa la fiammella guizzante, senza distogliere lo sguardo. È affascinante, vero? Sempre fissa allo stoppino, eppure sempre mutevole...».
   «Sempre fissa... sempre mutevole...» annuì la Vorta, fissandola con gli occhioni spalancati.
   «Ora fa’ dei respiri lenti e profondi. Inspira col naso, riempiendo completamente i polmoni, ed espira con la bocca. Bene, così. Inspira... espira... inspira... espira...».
   Seguendo i suggerimenti di Talyn, la giovane si concentrò sempre più, fino a entrare in uno stato di trance. Poco discosta, Losira si chiese come facesse il ragazzo a padroneggiare quelle tecniche. Sembrava avere una conoscenza istintiva di come funzionava la mente delle persone, e di come sbloccarla dalle fissazioni. Non era esattamente telepatia, ma forse era un potere ancor più sottile e indefinibile.
   «Bene, ora proviamo a ricordare» disse Talyn quando gli sembrò il momento. «Una cosa alla volta. Qual è il tuo primo ricordo in assoluto?».
   «Ricordo... d’essere uscita dalla vasca» mormorò la Vorta.
   «Quale vasca?».
   «La vasca di crescita accelerata. Noi Vorta nasciamo così. Non abbiamo genitori... siamo clonati e cresciamo nelle vasche, uscendo già adulti» rabbrividì la giovane. «Io ero Giely-9, la nona del mio ceppo genetico. Mi avevano creata per servire i Fondatori, come le altre prima di me».
   «Ma la cosa non ti piaceva, vero?» indovinò Talyn.
   «Per niente... non volevo essere una fra le tante» confermò la Vorta. «Non riuscivo a credere che i Fondatori fossero dèi. Ero curiosa verso il modo di vivere dei federali... li invidiavo, volevo vivere come loro» confessò.
   «Così sei scappata...».
   «Sì, scappata. Quando l’USS Keter esplorò il Quadrante Gamma, chiesi asilo politico. Al termine della missione, i federali mi riportarono con loro a Bajor. Ottenni la cittadinanza federale e studiai medicina. Giurai a me stessa che non sarei mai tornata al Dominio e abolii il numero 9 dal mio nome. Ma mi sentivo così vuota... non veneravo più i Fondatori, né credevo nei Profeti di Bajor...» confessò Giely, sul punto di scoppiare in lacrime.
   «Va tutto bene, ora sei al sicuro» disse Talyn, accorgendosi che si era quasi svegliata. Spese qualche minuto per calmarla. «Ora facciamo un salto in avanti di qualche anno. Sei sulla Destiny, il giorno del varo. Vedi la nave?».
   «Sì, la vedo...».
   «I tuoi colleghi, ricordi i loro volti?».
   «Li ricordo...».
   «Bene, molto bene» disse Talyn, asciugandosi il sudore dalla fronte. Stavano per arrivare al punto critico. «Ora la Destiny è partita. Tu sei molto tranquilla... vedi i tuoi ricordi, ma sai che non possono farti del male. Ripetilo, per favore».
   «Non possono farmi del male...».
   «Infatti, nessun male. La Destiny ha lasciato la stazione... ha aperto un portale... l’ha varcato. Ecco, siete arrivati a destinazione. Dove siete, Giely? In che posto vi trovate?» incalzò l’El-Auriano.
   «Noi siamo... siamo...». La Vorta aggrottò la fronte, sforzandosi di ricordare. Frammenti del passato le tornarono alla memoria, come brevi flash sconnessi.
   Flash. Era nel suo alloggio e guardava fuori dalla finestra. Invece dell’oscurità punteggiata di stelle c’era una luminosità soffusa, tra il giallo e il verde...
   Flash. Incespicava tra i corpi riversi dei colleghi, vittime di un patogeno sconosciuto, disperandosi...
   Flash. Qualcuno aveva abbordato la nave, sentiva i loro passi nei corridoi deserti. Un’ombra mostruosa faceva capolino da dietro un angolo, allungando il braccio scheletrico verso di lei...
   Flash. Due enormi occhi gialli riempivano il suo campo visivo. Occhi con pupille a forma di croce, che si strinsero mentre l’alieno violava i suoi pensieri...
   «NO!» gridò la Vorta, uscendo bruscamente di trance. Si ribaltò all’indietro e prese a contorcersi, come se la stessero scannando. «No, no! Via da me, mostri!» strillò.
   Talyn si alzò di scatto, pallido come un cadavere.
   «Che succede? Cos’hai visto?» si allarmò Losira, accorrendo al suo fianco.
   «Io non ho visto un bel niente. È lei che sta ricordando, e beh...» fece l’El-Auriano, indicando la disgraziata che urlava e si contorceva.
   «Va bene, è tutto finito. Sei al sicuro, adesso!» disse la Risiana, chinandosi su di lei. La prese per le spalle, cercando di fermare le sue convulsioni.
   «No, non sono al sicuro! Nessuno di noi lo è!» avvertì Giely con voce rotta. «Loro non si accontentavano di un equipaggio, capite? Volevano altri da studiare. Così hanno mandato indietro la Destiny, con un conto alla rovescia. Appena la nave avrà un nuovo equipaggio e i sistemi completamente riavviati, saremo tutti risucchiati dall’altra parte... dove loro ci aspettano...» ansimò, gli occhi dilatati dal panico.
 
   «Ah, ecco l’ultimo problema» disse Irvik, indicando agli altri ingegneri un punto sull’oloschermo. «Questo è il giunto di potenza che regola l’afflusso d’energia dal nucleo quantico ai deflettori di navigazione. Per qualche motivo il flusso è stato interrotto. Così il deflettore non funziona e non possiamo entrare a cavitazione. Qualcuno deve infilarsi nel tubo di Jefferies, arrivare fin lì e sbloccarlo manualmente. Chi si offre?».
   Gli ingeneri rimasero in silenzio, fissando il pavimento.
   «Come, non c’è nessuno?» protestò il Voth, deluso.
   «È stato lei a individuare il problema. Dovrebbe essere lei a risolverlo» disse Brokk. Gli altri Ferengi borbottarono la loro approvazione.
   «Io veramente ero qui come passeggero!» protestò Irvik, mentre le sue scaglie – normalmente verdi – si arrossavano per l’indignazione. «È già tanto che abbia deciso di darvi una mano. Non ero tenuto a farlo».
   «Noi siamo abituati ai motori a curvatura. La Destiny ha la cavitazione quantica, più veloce ma assai più complessa» si giustificò Brokk. «Credo sia affine alla transcurvatura Voth, quindi lei è il più indicato per risolvere il problema».
   «Ma si tratta solo di sbloccare un giunto, può farlo chiunque... vabbé, ho capito» brontolò il sauro, lasciando il tavolo d’ingegneria. Prese la cassetta degli attrezzi e andò all’imboccatura dei tubi di Jefferies. Aprì il portello e salì per la scaletta, maledicendo la sua decisione di chiedere un passaggio a quei mercanti imbroglioni.
   «Vediamo... sezione 47, sottogiunzione 12...» mormorò Irvik, leggendo i numeri sulle targhette. C’era parecchio da scarpinare, su una nave così grande. E considerando la sua stazza Voth, più massiccia di quella umana, i tubi di Jefferies gli apparivano terribilmente angusti. Dovette fermarsi più volte, chiudendo gli occhi e respirando a fondo, per lottare contro la claustrofobia. Infine sboccò in una saletta di controllo, in prossimità del condotto primario d’energia che collegava il nucleo quantico ai deflettori.
   «Eccoci qui...» borbottò fra sé, accedendo al pannello di controllo. Come previsto, qualcuno aveva completamente interrotto l’afflusso d’energia. Al sauro bastarono pochi minuti per ripristinarlo manualmente. Appena ebbe finito, sentì le pulsazioni ritmiche del condotto energetico, pochi metri dietro la paratia. «Irvik a sala macchine» disse, premendosi il comunicatore che gli avevano affidato. «Qui ho finito. Datemi qualche minuto per tornare indietro, voglio essere con voi quando entreremo a cavitazione» raccomandò. «Nel caso ci sia qualche altro contrattempo» aggiunse fra sé.
   «Va bene, l’aspettiamo. Grazie di tutto» rispose Brokk.
   Il Voth stava per lasciare la sala controllo, quando udì un be-beep proveniente dall’imboccatura di un altro passaggio. «C’è qualcuno?» chiese, voltandosi di scatto. Diresse il fascio di luce della torcia da polso in quella direzione.
   «Be-beep?». Un’ombra ovale si disegnò sulla parete antistante. Passato qualche secondo, il proprietario si palesò. Era un robottino a forma di pallone da rugby, che levitava a qualche spanna da terra. Lucette multicolori brillavano sul suo carapace metallico. Sull’estremità anteriore aveva un piccolo saldatore.
   «Ehilà, piccolo amico. E tu chi sei?» sorrise Irvik, accostandosi.
   «Bzzzt!». Il robottino si ritrasse istintivamente, come se avesse paura.
   «No, non temere, sono tuo amico. Non farti ingannare dagli abiti civili... io sono un ingegnere» si presentò il sauro.
   «Flotta Stellare?» chiese il robottino, con una vocetta metallica.
   «Non proprio» sospirò Irvik. «Sono Ingegnere Capo su una nave Voth, in servizio nel Quadrante Delta. Passavo di qui per visitare la Terra, ma le circostanze avverse mi hanno condotto su questa nave, assieme a un gruppo di mercanti. Stiamo cercando di ripristinare la cavitazione quantica, per lasciare questa maledetta nebulosa. Tu chi sei? Fatti un po’ vedere».
   Così dicendo si accostò al robottino, adagio per non spaventarlo, finché gli poté leggere la targhetta. «Vediamo: Exocomp n. 64. Ah sì, ho sentito parlare di voi piccoletti. Siete in servizio sui vascelli della Flotta Stellare, ma tu sei il primo che vedo qui. Che fine hanno fatto i tuoi compari?».
   «Exocomp rottamati!» pigolò il robottino.
   «Rottamati? E da chi?» si meravigliò il Voth.
   «Invasori rottamano Exocomp! Exocomp 64 nascosto! Exocomp 64 non rottamato!» spiegò il riparatutto, mentre le sue lucette pulsavano in segno di stress.
   «Invasori? Ah, ma certo... qualcuno deve aver ucciso o sequestrato l’equipaggio originale» ragionò Irvik. «Quindi tu e quella povera Vorta siete gli unici superstiti. Mi hanno detto che la ragazza ha perso la memoria, ma tu dovresti essere immune al problema. Forse nei tuoi banchi di memoria c’è la chiave per risolvere il mistero. Sono proprio contento di averti trovato. Vieni, torniamo in sala macchine, così mi racconterai tutto mentre facciamo rotta verso la Terra...».
   «Be-beep! Rotta verso la Terra, negativo! Pericolo!» squillò l’Exocomp.
   «Come sarebbe a dire? Che c’è di pericoloso?» si allarmò il sauro.
   «Ripristino propulsione, conto alla rovescia attivato!».
   «Quale conto alla rovescia? Ah, se solo ti avessero dato una parlantina più sciolta!» si lamentò Irvik. Corse al pannello di controllo, cercando tracce di un countdown. Lo trovò: mancavano trenta secondi.
   «Oh, no» fece il Voth, mentre le sue scaglie si facevano blu di paura. «Irvik a sala macchine, bloccate la sequenza d’attivazione!» gridò, premendosi il comunicatore.
   «Qui sala macchine, sai dirci che succede?» gli rispose Brokk. «Il nucleo è impazzito, ci sono allarmi ovunque...».
   «Credo che questa nave si stia preparando a partire. Ma non è la cavitazione quantica, capite? È il deflettore secondario che s’è attivato. Significa che la Destiny sta per abbandonare questo Universo. Con ogni probabilità tornerà in quello che ha visitato cinque anni orsono. Io non ci tengo a vederlo, e voi?!».
   Mentre parlava, il sauro cercò di bloccare nuovamente l’afflusso energetico; ma scoprì che i comandi non gli rispondevano più. «Perché sono salito su quel dannato mercantile?!» si disperò.
   «Be-beep» disse il robottino, comprensivo.
 
   «E adesso che succede, yotz?!» imprecò il DaiMon, udendo squillare un misterioso Allarme Nero.
   «Appena gli ingegneri hanno ripristinato la propulsione, s’è attivato un conto alla rovescia. Si direbbe una sequenza automatica di partenza» rispose Shati, che cercava di capire qualcosa dai comandi del timone.
   «Partenza per dove?» s’inquietò Grilk.
   «Non è il deflettore di navigazione, ma quello secondario» disse Rivera, che osservava da sopra la spalla di Shati. «Questa trappola sta per tornare ovunque sia stata in questi anni» aggiunse, con un senso di vertigine.
   «Interrompete la sequenza, presto!» ordinò il DaiMon.
   «Impossibile, tutti i comandi sono bloccati!» si lamentò Shati, picchiando i pugni sulla consolle inutile.
   «Allora... allora... evacuare la nave! Tutti sulle navette!» ordinò Grilk, sebbene gli piangesse il cuore ad abbandonare la Destiny.
   «Non c’è tempo nemmeno per quello» disse Rivera, scuro in volto, osservando lo schermo principale. Il deflettore sprigionava un raggio che in pochi secondi bucò lo spazio, aprendo una distorsione luminosa. Subito la Destiny scattò in avanti, spinta dai motori a impulso. E s’immerse nel vortice dorato.
   Per un istante gli avventurieri provarono una sensazione stranissima: era come trovarsi in due posti simultaneamente, o come essere rivoltati. Finì prima che i loro cervelli potessero processare l’esperienza. L’Allarme Nero cessò e l’illuminazione della plancia tornò alla normalità. La Destiny arrestò la sua corsa, tornando stazionaria. Ma qualcosa era cambiato, se ne accorsero tutti. Anziché mostrare l’oscurità senza stelle che regnava nel cuore della nebulosa, lo schermo principale era affacciato su uno strano spazio, dalla diffusa luminosità giallo-verde.
   «Dove frell siamo finiti?!» imprecò il DaiMon, ricadendo sulla poltrona di comando.
   «Non lo so, ma temo che lo scopriremo presto» disse Rivera, fissando l’ignoto innanzi a lui.

 

[1] Ralph Waldo Emerson.
[2] Samuel Taylor Coleridge.

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Capitolo 4
*** Predatori e prede ***


-Capitolo 3: Predatori e prede
 
   Gli avventurieri stavano ancora osservando quello strano spazio lattiginoso quando l’energia principale venne meno, lasciandoli al buio. L’unica luce veniva dallo schermo, ancora attivo. «Frell!» imprecò il DaiMon, guardandosi attorno come un animale in gabbia. «Non avrei mai dovuto abbordare questa dannata nave... mi ha portato solo sventura!».
   «Il nucleo s’è spento di nuovo, energia principale disattivata. Abbiamo solo i sistemi automatici d’emergenza» disse Rivera, dopo aver consultato una postazione ingegneristica. «Dev’esserci un virus nel computer, che prima ci ha portati qui e poi ci ha tolto l’energia. Siamo inermi».
   «Forse gli ingegneri possono ripulire il processore...» disse Grilk, aggrappandosi all’ultima speranza.
   «Sarebbe inutile» disse una vocetta alle sue spalle. Giely era sulla soglia, assieme a Losira e Talyn.
   «E tu come lo sai? T’è tornata la memoria?» volle sapere il DaiMon.
   «In gran parte, sì» confermò la Vorta. «Per questo vi dico che lottare è inutile. Non fareste che renderli ancora più bestiali».
   «Ma chi? Di chi diavolo stai parlando?!» esclamò Rivera, accostandosi.
   «Mi riferisco alla specie più pericolosa mai incontrata dalla Flotta Stellare. Una specie... infiltrante» rispose Giely. Percorse la plancia a passi misurati, lungo la circonferenza esterna. «Un tempo erano noti come Specie 8472, la loro designazione Borg. Ma il loro vero nome è Undine» rivelò. «Sono l’apice dell’evoluzione biologica... la loro perfezione strutturale è pari solo alla loro ostilità. Pensateli come perfette macchine per uccidere, non offuscate da dubbi, pietà o rimorsi. Sono l’unica specie senziente nativa dello Spazio Fluido, o almeno l’unica rimasta».
   «Spazio... fluido?» chiese Shati, osservando la distesa giallo-verde.
   «Sì. A differenza del nostro Universo, dominato dalle leggi fisiche, questo è dominato dalla biologia. Là fuori non c’è spazio vuoto» spiegò la Vorta, accennando allo schermo. «No, l’intero cosmo è ricolmo di questo liquido organico. Le bionavi degli Undine ci sguazzano come pesci nell’acqua. Perché vedete, gli Undine non usano tecnologie meccaniche, anzi le aborriscono. Tutto ciò che costruiscono è organico: le astronavi, le basi spaziali... forse interi mondi».
   «Conosciamo alcune specie che usano tecnologie organiche» notò Rivera. «Diamine, noi stessi usiamo le gelatine bio-neurali per potenziare i computer».
   «Gli Undine sono a un altro livello» ammonì Giely. «Le loro bionavi sono vive, tanto che si riparano da sole. La loro potenza di fuoco... beh, vi dirò solo che una manciata di bionavi può facilmente distruggere un pianeta di tipo terrestre».
   «Ma cosa vogliono?!» chiese Shati, con la pelliccia arruffata dalla fifa.
   «Le loro finalità mi sono ignote; posso solo dirvi ciò che accadde la prima volta che la Destiny visitò lo Spazio Fluido» sospirò la Vorta, sedendo sulla postazione del timone ormai inattiva. «La nostra missione era top secret, tanto che il Capitano Dualla ce la rivelò solo dopo essere giunti qui. Dovete sapere che il primo contatto con gli Undine fu compiuto dalla Voyager, la nave dispersa nel Quadrante Delta, nel 2373. All’epoca gli Undine stavano invadendo la Via Lattea: in quel momento ce l’avevano coi Borg, ma in prospettiva avrebbero sterminato ogni specie della Galassia. Così quelli della Voyager osarono allearsi coi Borg contro di loro. Scoprirono come potenziare le nanosonde Borg, fino ad allora inefficaci contro gli Undine: le nuove nanosonde non riuscivano ad assimilarli, ma li uccidevano. Equipaggiata con questa nuova arma, la Collettività Borg respinse gli invasori nello Spazio Fluido».
   «Non c’era il rischio che gli Undine evitassero i Borg, ma attaccassero gli altri popoli della Via Lattea?» s’inquietò Rivera.
   «Era più di un rischio» annuì Giely. «Due anni dopo quelli della Voyager scoprirono che gli Undine si preparavano a colpire la Federazione. Invece di un assalto frontale, volevano infiltrare alcuni loro agenti mutaforma nel Comando di Flotta e nell’Accademia. Incredibilmente il Capitano Janeway riuscì a siglare un armistizio e gli Undine rinunciarono al progetto, tornando nello Spazio Fluido. Ma la Flotta Stellare sapeva che quella tregua precaria non sarebbe durata per sempre. Negli ultimi anni, infatti, alcune bionavi sono state avvistate nello spazio federale. Hanno sempre evitato gli scontri, e anche i contatti, ma è chiaro che qualcosa bolle in pentola. Così la Flotta inviò la Destiny a investigare nello Spazio Fluido. Lo scopo della missione era contattare gli Undine e, se possibile, siglare un nuovo trattato di pace».
   «Ma non è andata così» notò Rivera.
   «No, per niente. Qualunque cosa li avesse indotti ad accettare la tregua del 2375, non conta più; sono tornati ai vecchi metodi» confermò la Vorta. «Ma noi non lo sapevamo e questo ci fu fatale. In un primo momento gli Undine si finsero ancora amichevoli, infatti non ci fu battaglia. Alcuni loro delegati salirono sulla Destiny per le trattative. Non conosco i dettagli, dato che se ne occuparono il Capitano e gli ufficiali superiori. So solo che, di lì a poco, l’equipaggio fu neutralizzato da un patogeno sconosciuto. Se avessero voluto, gli Undine ci avrebbero distrutti con le loro bionavi, ma no: volevano impadronirsi della Destiny per studiarla. Posso solo immaginare che i loro delegati abbiano rilasciato il patogeno durante la visita iniziale. Così rimasi sola a bordo...».
   «Aspetta, l’equipaggio era morto o no?» chiese Rivera.
   «Per la maggior parte caddero in un coma indotto, ma erano ancora vivi» rivelò Giely.
   «E tu eri l’unica cosciente? Com’è possibile?».
   «Sono una Vorta» sospirò la giovane. «I Fondatori ci hanno manipolati con l’ingegneria genetica, per renderci i servitori ideali. Ciò significa che siamo immuni a un’ampia gamma di malattie e intossicazioni. Essendo l’unica della mia specie a bordo, fui l’unica a restare cosciente. Sapevo di avere poco tempo, quindi studiai il patogeno e cominciai a elaborare una cura, basata sul mio sangue. Ma gli Undine invasero la Destiny prima che potessi finire. Mi braccarono per i corridoi, finché mi trovai con le spalle al muro. Allora...». La sua voce si ruppe; la Vorta chinò il capo e pianse silenziosamente.
   «Devono averla condizionata, imponendole alcuni ordini subliminali» disse Talyn a bassa voce. «Poi le hanno imposto un blocco mentale, per impedirle di ricordare. Poco fa l’ho aiutata a spezzarlo. Credo che fosse quello a renderla così umorale... forse un effetto collaterale imprevisto».
   «Perché non l’hanno semplicemente uccisa?» mormorò Losira.
   «Sulle prime erano sorpresi di vedere che avevo resistito al loro patogeno» spiegò Giely, che l’aveva sentita. «Mi portarono in una loro base, per esaminarmi. Credo che mi abbiano tenuta in stasi per anni, mentre studiavano la Destiny e il resto dell’equipaggio. Alla fine mi tirarono fuori e mi riportarono su questa nave. Fu allora che mi tolsero la memoria, subito prima di rimandare la Destiny nel nostro Universo. Credo che il mio compito fosse riportare la nave nello Spazio Fluido, casomai vi foste accorti del conto alla rovescia e lo aveste disinserito. Ma non ce n’è stato bisogno: il loro piano ha funzionato alla perfezione. La Destiny è di nuovo qui, con un altro equipaggio di cui possono impadronirsi».
   «Al tempo! Non siamo ancora finiti» dichiarò Rivera. «Dobbiamo riavviare questa carcassa e tornare a casa, prima che ci siano addosso».
   «Sei un ingenuo. Gli Undine controllano il computer: avranno fatto in modo che la nave non si possa riavviare alla svelta. E da un momento all’altro saranno qui» avvertì Giely.
   «Come fai a dirlo?».
   «Il nostro Universo e lo Spazio Fluido sono sovrapposti. Gli Undine hanno disattivato i motori della Destiny proprio per impedirci di allontanarla. Così, ora che siamo tornati, ci troviamo vicini al punto di partenza; un luogo che di certo stanno pattugliando» spiegò la Vorta. «Inoltre la natura dello Spazio Fluido fa sì che il nostro ritorno abbia generato un’onda di compressione nel liquido. Gli Undine hanno sensori studiati apposta per rilevare queste onde, così che nessun intruso gli sfugga. Ecco perché non abbiamo scampo» concluse in tono fatalista.
   «Mi sa che ha ragione... rilevo venti bionavi in rotta d’intercettazione» disse Talyn, che era tornato alla postazione sensori. «Saranno qui tra un minuto».
   «Possiamo alzare gli scudi, attivare le armi...?» chiese Grilk, pur sapendo la risposta.
   «Non certo con l’energia principale disattivata; funzionano a malapena i sensori» rispose il giovane.
   «L’occultamento?».
   «Forse, ma finché siamo immersi nello Spazio Fluido gli Undine potranno sempre rilevare la nostra onda di compressione. Giely ha ragione, non possiamo sfuggirgli» disse stancamente l’El-Auriano.
   «Allora... allora cercheremo di trovare un compromesso!» ansimò il DaiMon, osservando lo schermo. Le bionavi stavano già entrando nel campo visivo. Erano piccole, di colore giallo-arancio, con una forma tripartita: la prua si divideva in tre scafi a tenaglia, mentre dalla poppa sporgevano tre lunghi alettoni. Le navicelle sfrecciarono attorno alla Destiny come uno sciame di locuste, dimostrando grande agilità e maneggevolezza.
   «Ci girano attorno, ma nessuna apre il fuoco» disse Talyn.
   «Perché dovrebbero? Hanno già vinto» sospirò Giely. «Ho già vissuto questa scena, e presto tutto ricomincerà daccapo».
   «Una bionave sta accostando... attracca al boccaporto del ponte 2» avvertì Talyn.
   «Tenetelo chiuso!» ordinò il DaiMon.
   Gli ufficiali ci provarono, ma ben presto l’allarme interno segnalò che il portone era stato forzato. «Ci hanno abbordato» confermò Talyn. «Rilevo un singolo segno vitale alieno. Si muove in fretta... è proprio sotto di noi!».
   Tutti gli sguardi andarono all’ampia scalinata a chiocciola che collegava la plancia al ponte inferiore. La parete di fondo era debolmente illuminata dai faretti d’emergenza. Su quella parete si disegnò un’ombra enorme e grottesca: qualcosa stava salendo. Si udirono dei passi ritmici, grevi, accompagnati da un ringhio profondissimo; o forse era solo il respiro della creatura. In un estremo tentativo di difesa, Rivera chiuse la porta blindata di sicurezza, l’unica opzione dal momento che non c’era l’energia per un campo di forza.
   «Non lo tratterrà a lungo» disse Giely, rassegnata.
   I passi si arrestarono, proprio davanti al portone. Per un attimo vi fu silenzio. Poi qualcosa colpì la lamiera, facendo sobbalzare tutti i presenti. Ancora, e ancora. Ad ogni colpo, la spessa lastra in duranio si deformava. Sotto gli occhi atterriti dei presenti il metallo si lacerò, lasciando intravedere due zampe artigliate, dall’epidermide violacea. Quando già l’alieno aveva aperto uno squarcio piuttosto ampio, prese a colpire il portone poco più sotto, finché lo fece crollare in avanti.
   Sbam.
   L’Undine si stagliò sull’ingresso: era così alto che sfiorava il soffitto. Aveva un’aria scheletrica, eppure nessuno poteva dubitare della sua forza, dopo averlo visto sfondare il portone blindato. Le tre gambe sorreggevano un busto grossomodo umanoide, sebbene le braccia arrivassero fin quasi a terra. Il collo, attraversato da due fori, reggeva una grossa testa aliena, con una protuberanza ossea che la cingeva da dietro come un elmo. La bocca e le narici erano fori appena visibili. A spiccare erano soprattutto gli occhi gialli, assai distanziati, dalle sinistre pupille cruciformi.
   Davanti a quell’orrore, Rivera si sentì sul punto di svenire: le gambe erano molli, le orecchie gli fischiavano. Guardando i colleghi, vide che anche loro accusavano gli stessi sintomi.
   «É... telepatico!» ansimò Talyn, portandosi le mani alle tempie.
   «Vediamo se è anche immortale!» ringhiò l’Umano, sparandogli col phaser ad alta energia. Un colpo del genere avrebbe vaporizzato qualunque cosa fatta di carne e sangue. L’Undine lo parò col palmo della mano. Poi si fece avanti, con la sua strana andatura tripode, mentre gli avventurieri sbalorditi indietreggiavano verso lo schermo principale.
   «Non potete sconfiggerci» disse una voce atona, proprio alle spalle di Rivera. L’Umano si girò di scatto, col phaser in pugno, ma si trovò di fronte Giely. La dottoressa era in piedi, in stato catatonico; non sbatteva nemmeno le palpebre. «Sto comunicando per mezzo della Vorta; la mia specie non ha corde vocali» disse. «Se le spari, ucciderai solo lei, e non potremo più parlare».
   «Parliamo, allora!» disse Rivera, voltandosi nuovamente verso l’Undine. «È chiaro che avete orchestrato tutto per intrappolarci. Ma se vi aspettate di scoprire qualcos’altro sulla Flotta Stellare, cascate male. Noi non apparteniamo alla Flotta, siamo dei mercanti indipendenti». Si chiese se aveva fatto bene a dirlo; non c’era il rischio che gli alieni li uccidessero tutti? Ma tanto lo avrebbero scoperto ugualmente, con i loro poteri telepatici.
   «Percepisco che dici il vero» disse l’Undine, sempre per bocca di Giely. «Questo è uno sgradevole contrattempo. Ma anche se non avete nulla da dirci sulla Flotta, non credere che siate privi di valore per noi. Vi destineremo alla biosfera. Del resto ci sareste finiti comunque, alla fine».
   «La biosfera? Di che si tratta?» chiese Rivera, presagendo che non era nulla di buono.
   «Ehm-ehm, permette, illustrissimo?» intervenne il DaiMon. Si rivolse direttamente all’Undine, anziché alla sua portavoce. «Sono DaiMon Grilk, dell’Autorità Commerciale Ferengi. Deve sapere che i miei servigi sono richiesti in tutto il Quadrante Alfa. Non nutro particolare simpatia per la Federazione, infatti sono convinto che abbia sbagliato a intrufolarsi nel vostro spazio. Quello che vorrei dire è semplicemente che possiamo accordarci per il reciproco beneficio. Ad esempio, se ci lasciate tornare indietro, ci assicureremo che il prossimo equipaggio della Destiny sia della Flotta Stellare...».
   «Ferengi, conosco la tua specie!» disse l’Undine, accostandosi. «I vostri pensieri sono difficili da leggere, ma la vostra fama vi tradisce. Tutti vi conoscono come esseri avidi, infidi e meschini. Le vostre promesse non hanno alcun valore!». Così dicendo lo agguantò per il collo, sollevandolo senza sforzo e lasciandolo ad annaspare. «Potrei ucciderti seduta stante, ma non voglio privare gli altri del piacere della caccia. Chissà, magari anche tu avrai qualcosa da insegnarci». Ciò detto lo scaraventò lontano. Il DaiMon atterrò malamente e restò a sputacchiare, tastandosi il collo dolorante.
   «La caccia... è questo che avete in mente? Ci braccherete per divertimento?» mormorò Rivera. In quella fu assalito da un terribile capogiro, che lo fece accasciare a terra. Guardandosi attorno, vide che anche i colleghi stavano soccombendo al malessere. Solo Giely restava in piedi, senza battere ciglio. Doveva essere il patogeno... lo stesso patogeno che aveva messo fuori combattimento l’equipaggio originale.
   «Non solo per divertimento» rispose l’Undine, ancora tramite la dottoressa. «Vedi, il conflitto genera evoluzione. E noi non smettiamo mai di evolverci. Alla fine, il più debole dovrà perire!» sibilò.
   Erano spacciati, si disse Rivera. Quei mostri li avrebbero cacciati e uccisi uno dopo l’altro. Come ci si poteva difendere da esseri del genere? Nemmeno il phaser regolato al massimo l’aveva ferito. In quella, però, il Primo Ufficiale notò che sulla mano dell’alieno c’era una chiazza bruciata. «Forse non è del tutto invulnerabile» si disse.
   Come se gli avesse letto il pensiero, l’Undine serrò il pugno, nascondendo la ferita. Ma una singola goccia biancastra – il suo sangue – gli sfuggì tra le dita, cadendo a terra. «Se l’ho fatto sanguinare, allora forse posso ucciderlo» si disse l’Umano, prima di perdere conoscenza.
 
   Ricordi sfilacciati si rincorsero nella mente di Rivera, mentre questi era privo di sensi, assumendo la forma d’incubi. Di norma l’Umano cercava di non pensare al passato, ma non poteva impedirgli di riaffiorare mentre dormiva, per tornare a tormentarlo.
   Flash.
   Era ancora un adolescente, all’inizio della Guerra Civile. I Pacificatori lo avevano sfollato con la sua famiglia, e con molte altre famiglie della sua città natale, Buenos Aires. Ora li caricavano a forza su una nave trasporto, per portarli chissà dove. Le loro case sarebbero state abbattute, per far posto a lussuosi palazzi Voth. Nel marasma di corpi accalcati e voci sovrapposte, il giovane Rivera cercava di non perdere di vista i suoi genitori.
   «Papà, perché ci portano via?» chiese il ragazzo.
   «Perché siamo usurpatori, figliolo. Questo mondo è sempre appartenuto ai Voth» sospirò il padre.
   «E tu credi a questa stronzata?!».
   «Non importa cosa credo io. Questa è la situazione e non possiamo cambiarla, quindi rassegniamoci».
   «Svelti a imbarcarvi, non interrompete il flusso!» ammonì un Pacificatore. «Ricordate che tutto questo è nel vostro miglior interesse!».
   Flash.
   Tre anni dopo, il giovane era uno schiavo costretto ai lavori forzati nella Forgia, un enorme cantiere militare. Giorno dopo giorno doveva riparare delle navi-drone che poi sarebbero state impiegate contro la Federazione. Non sapeva dove fossero i suoi genitori: li avevano separati non appena erano giunti sulla stazione. Un giorno la fatica e la disperazione furono tali che il giovane cadde a terra, rovesciando le pesanti attrezzature che aveva in spalla.
   «Ancora tu!» berciò un Pacificatore, balzandogli accanto. «Allora lo fai apposta a sabotarci! Alzati e raccogli tutto... se qualcosa s’è rotto, la pagherai cara!».
   «Ho sete... datemi dell’acqua, vi prego!» singhiozzò il ragazzo, mordendosi le labbra screpolate.
   «Hai le tue porzioni, come tutti, quindi non battere la fiacca!» ammonì il sorvegliante, un Talariano. «C’è gente molto più vecchia di te che non si lamenta. Non vedi? Qui tutti sono felici di lavorare per la pace. Perciò smettila di poltrire e fa’ la tua parte. In piedi, ho detto!». Ciò detto lo sferzò sulla schiena con la frusta neurale, strappandogli un grido. Gli altri Pacificatori osservarono compiaciuti, senza intervenire...
   Flash.
   Lui e gli altri forzati erano sulla nave corsara che li aveva salvati dalla Forgia con un’ardita missione. Il giovane scorreva su uno schermo i nomi dei prigionieri liberati, in cerca dei suoi genitori, ma loro non c’erano. Li avrebbe cercati per settimane, prima sulla nave sovraffollata e poi su Halkan, dove i corsari li avevano sbarcati. Ma di sua madre e suo padre non c’era traccia. Erano morti durante gli anni di lavori forzati? Oppure i corsari non avevano fatto in tempo a teletrasportarli, prima di distruggere la Forgia? Non lo avrebbe mai saputo...
   Flash.
   «Allora, figliolo, vuoi arruolarti nella Flotta Stellare?» chiese l’esaminatore.
   «Sì, signore».
   «Posso saperne il motivo?».
   «Gratitudine, credo. La Flotta Stellare ha sconfitto i Pacificatori e ha riconquistato la Terra. Ci ha restituito la democrazia. Ma so che è ancora sotto organico; io vorrei fare la mia parte, ecco tutto».
   «Qui leggo che hai perso la tua famiglia in guerra» disse l’esaminatore, scorrendo i dati sull’oloschermo. «Sei certo di non arruolarti per un bisogno infantile di riscatto... o anche di vendetta?» chiese severamente.
   «Con tutto il rispetto, signore, ma se scartaste chiunque sia sospettato di queste motivazioni, credo che non arruolereste nessuno» si azzardò a dire il giovane.
   «Uhm, può darsi» ammise l’esaminatore con gravità. «Che sezione hai scelto?».
   «La Sicurezza» rispose Rivera. «Sono stato indifeso una volta; non lo sarò mai più» aggiunse fra sé. Non immaginava che il peggio doveva ancora arrivare...
 
   Svegliatosi di soprassalto dal sonno pieno d’angosciosi ricordi, Rivera si accorse d’essere coricato a terra, in quella che pareva la hall di un palazzone abbandonato. Da un lato c’erano le scale mobili, ormai inattive; dall’altro la porta a vetri sfondata dava su una strada parimenti in abbandono. Tutto era vecchio, sporco, arrugginito. Ciuffi d’erba spuntavano nelle crepe dei muri e i rampicanti coprivano un’intera parete.
   «Ti sei svegliato, finalmente» disse una voce nasale. Il DaiMon Grilk era a pochi passi, assieme ad altri due Ferengi dell’equipaggio. C’era anche Talyn, che lo aiutò a rialzarsi.
   «Come sta, Comandante?» chiese il giovane.
   «Groan, sono stato meglio» borbottò Rivera, sentendosi ancora debole. Quando fu in piedi ebbe un capogiro, tanto che Talyn dovette sostenerlo. «Sapete, ho fatto un sogno stranissimo. Eravamo nello Spazio Fluido...».
   «Infatti ci siamo» disse cupamente l’El-Auriano.
   «Ma questo posto...?» chiese l’Umano, guardandosi attorno smarrito.
   «Dev’essere il terreno di caccia degli Undine» rispose Talyn. «Ricorda che parlavano di una biosfera? Mi sa che ci siamo dentro. Devono aver ricostruito il nostro habitat, cioè un ambiente urbano, anche se in rovina. Non so se sia una simulazione olografica o se abbiano usato veri materiali. Frell, mi ricorda quella fogna di Stardust City dove mi avete trovato!» imprecò.
   Rivera si passò le mani sul volto, cercando di schiarire i pensieri. Poi si tastò il petto, in cerca del comunicatore, ma si accorse di non averlo.
   «Niente comunicatori. Non vogliono che ci teniamo in contatto con gli altri» commentò il DaiMon. «Chissà, magari la Destiny è vicina... ma non possiamo chiamarla».
   L’Umano tornò a guardarsi attorno, cercando un modo per saggiare la realtà di quanto lo circondava. Alla fine raccolse un fiorellino che cresceva tra le crepe del pavimento e lo annusò. «Credo che sia tutto vero. Senti il profumo?» chiese, passandolo a Talyn.
   «Già, l’olo-materia non dovrebbe essere così realistica» convenne il giovane. «Beh, adesso che facciamo?».
   «Lasciami riflettere un momento. Dunque, siamo solo noi cinque?» chiese l’Umano, cercando d’inquadrare la situazione.
   «Per adesso sì, ma se ci muoviamo potremmo incontrare altri» disse il DaiMon, accostandosi. «Sempre che ci convenga muoverci. Forse faremmo meglio a stare qui; sembra una posizione difendibile».
   «Meglio di no. Sono stati gli Undine a piazzarci qui, presto attaccheranno» si oppose Rivera. «Dobbiamo muoverci, cercando di radunarci con gli altri. Vediamo un po’ che ci hanno lasciato...». Si portò la mano in fondina, estraendo il phaser, e ne verificò la carica.
   «Siamo tutti armati» confermò Grilk. «A me hanno lasciato anche questa... per quel che vale» aggiunse, sfiorando la frusta neurale che portava appesa in cintura.
   «Già, suppongo che se ci avessero disarmati non saremmo state prede degne» ragionò l’Umano. «Stiamo attenti a non sprecare colpi; se esauriamo le batterie siamo finiti».
   «A me preoccupano i viveri» disse Talyn. Andò in un angolo della hall, dov’erano ammucchiati alcuni zainetti con le provviste. «Gli Undine ci hanno lasciato delle borracce e qualche barretta proteica, ma non dureranno a lungo. Con le barrette possiamo sopravvivere due settimane, anche tre se le razioniamo. Ma l’acqua finirà in pochi giorni».
   «Forse riusciremo ad approvvigionarci» disse Rivera, sebbene non ci sperasse molto. Se gli Undine avevano intenzione di cacciarli fino all’ultimo, potevano aver organizzato le cose in modo che nessuno di loro sopravvivesse più di qualche giorno.
   «Ehi, non c’è bisogno di addolcire la pillola. Lo so che siamo messi male» borbottò il giovane El-Auriano, fissando il pavimento.
   Il Primo Ufficiale gli mise la mano sulla spalla, cercando di confortarlo. «Purtroppo è così, ma non perdiamo del tutto la speranza» disse. «Se ci muoviamo in linea retta, forse raggiungeremo il confine di questo habitat e troveremo il modo di lasciarlo. Nel frattempo le tue competenze ci saranno utili. Tu sei l’unico fra noi che è sopravvissuto per anni in una città devastata, ed eri solo un bambino».
   «Sì, beh, non era così devastata» sospirò Talyn, guardandosi attorno. «C’erano altre persone da cui potevo mendicare o rubacchiare».
   «Okay, avete poltrito fin troppo. Zaini in spalla, si parte!» ordinò il DaiMon.
   Il gruppetto lasciò l’edificio, avventurandosi in strada. L’ambiente era post-apocalittico. C’erano palazzoni abbandonati e pericolanti, mentre le strade erano ingombre di levi-car scassate e inutilizzabili. Qua e là vi erano tracce d’incendi, ora estinti, che avevano lasciato chiazze annerite. Tutto era immerso in una luce gialla e malata, come in un inverno nucleare.
   Alzando gli occhi al cielo, Rivera vide una cupola composta da formelle esagonali trasparenti. Era la prova che si trovavano in una biosfera. La luce giallastra veniva dallo Spazio Fluido, che premeva al di fuori. «State attenti a non sparare in aria... ci manca solo di forare la cupola» borbottò, mettendosi in testa al gruppetto. Avanzarono circospetti, con gli zaini in spalla e i phaser in pugno, i sensi all’erta per qualunque presenza ostile.
 
   «Cosa stiamo cercando esattamente?» chiese Brokk, arrancando nel sottobosco.
   «Non lo so, va bene?!» sbottò Losira, girandosi a mezzo. «Ci siamo svegliati poco fa in questa giungla. Dev’essere la biosfera di cui parlava quel mostro. Ora come ora, il nostro obiettivo è sopravvivere». La Risiana si guardò attorno, frustrata. In tutte le direzioni si estendeva una giungla tropicale, con alberi colossali che nascondevano il cielo. Il suolo era spesso acquitrinoso, tanto che ad ogni passo rischiavano di sprofondare in qualche pozzanghera; i loro abiti erano già sudici. Da ogni direzione venivano versi poco rassicuranti: ringhi, sibili, gracidii. Nugoli d’insetti ronzanti li seguivano, cercando di rimpinzarsi col loro sangue. Come se non bastasse, il fatto di dover condividere quell’inferno con un Ferengi lamentoso stava per farla impazzire. Ripresero la marcia, ma avevano fatto poca strada che Losira si bloccò.
   «E adesso perché ci siamo fermati?» chiese Brokk.
   La Risiana non rispose, ma indicò qualcosa poco più avanti. Seminascosto nella boscaglia c’era lo scheletro di un umanoide; probabilmente un Klingon, a giudicare dalla cresta ossea sul cranio. Le ossa erano rotte e sparpagliate, come se qualcosa lo avesse fatto a pezzi. I resti dell’uniforme non lasciavano dubbi su chi fosse.
   «Un ufficiale della Destiny» commentò amaramente Losira. «Dev’essere così che sono morti. Braccati in quest’inferno per cinque anni, uccisi uno dopo l’altro». Tenne il resto delle considerazioni per sé. Se degli esperti ufficiali di Flotta erano finiti così, che speranze avevano loro d’uscirne vivi? Nessuna. La Risiana si chiese cos’era meglio fare nell’immediato. Non potevano andare avanti alla cieca, ma che alternative avevano? Fermarsi in una zona così esposta li avrebbe resi un facile bersaglio per gli Undine. Quelle creature potevano essere ovunque, in agguato...
   «Ehi, arriva qualcuno» bisbigliò l’Ingegnere Capo, indicando la densa boscaglia di bambù alla sua destra.
   «Ne sei certo?» chiese Losira, impugnando il phaser.
   «I lobi non mentono» ribatté Brokk, indicandosi le spropositate orecchie Ferengi.
   Ora che l’intruso si avvicinava, la Risiana riuscì a sentire il suo respiro affannoso. I lunghi steli di bambù si piegarono, segno che stava per emergere. Non avendo tempo per scappare, Losira tentò il tutto per tutto: regolò il phaser al massimo e si preparò a sparare in faccia al mostro. Difficilmente l’avrebbe ucciso, ma forse poteva accecarlo. Il cuore le batté all’impazzata, mentre gli steli si aprivano per far emergere la creatura...
   «Argh! Non sparare, mi arrendo!» gridò Irvik, alzando le mani.
   «Ah, è lei» fece Losira, sollevata. Abbassò l’arma e si fece indietro, mentre il Voth usciva allo scoperto. «Ci sono altri?».
   «No, mi sono svegliato da solo. Sono proprio contento di avervi trovato!» ammise il sauro, abbassando le mani. «Ma siete solo voi due?» si stupì.
   «Se ci sono altri, li dobbiamo ancora trovare» annuì Losira. «Allora, le hanno spiegato le regole del gioco?».
   «Ho sentito un avviso all’altoparlante, prima di perdere conoscenza» annuì Irvik. «Cacciarci come bestie... che cosa barbara!».
   «Già, e presto saremo bestie affamate. Lei come sta a viveri?». Appurato che Irvik era equipaggiato come loro, la Risiana si sentì assalire dallo sconforto. «Non dureremo a lungo in quest’ambiente» disse, più a se stessa che agli altri.
   «Beh, possiamo integrare le scorte!» commentò il Voth. Adocchiata una mosca cavallina, l’acchiappò con la sua lingua da camaleonte, inghiottendola con grande gioia e succulenza. Dopo di che, notando l’espressione schifata di Losira, si ridette un contegno. «Ah, già... voi mammiferi non avete la lingua estensibile» ricordò.
   «Nessuno è perfetto» ironizzò la Risiana. «Comunque il problema più urgente è l’acqua. Quella degli acquitrini è putrida, non possiamo berla».
   «Se raggiungiamo una zona più elevata, forse ne troveremo di potabile» ipotizzò Irvik.
   «Faccia strada» disse Losira, avendo cura di tenersi fra il Voth e lo scheletro del Klingon, così che non lo vedesse. Era stanca di aprire la strada in quella giungla. E soprattutto temeva che il primo della fila rischiasse più degli altri, se gli Undine li attaccavano. Così si mise alla retroguardia, sperando di resistere abbastanza a lungo da ritrovare i colleghi.
 
   «Dannato il giorno in cui ho deciso di lavorare nello spazio!» si disse Shati, trascinando stancamente le gambe. Si era risvegliata tutta sola, in quel deserto pieno di rocce scolpite dal vento in forme torturate. Il terreno era riarso e spaccato dal calore; vi crescevano solo poche sterpaglie. Qua è là c’erano pozze sulfuree da cui si levavano densi miasmi, che oscuravano il cielo. L’odore di uova marce era insopportabile; ma peggio di tutto era la consapevolezza che gli Undine l’avevano portata lì per cacciarla e ucciderla.
   Un suono ritmico di passi la destò dagli amari pensieri. Qualcosa si stava avvicinando... qualcosa di grosso e pesante. Intravide una sagoma tra i caldi vapori. Aveva molte zampe, un torso vagamente umanoide e occhi gialli che brillavano attraverso i gas. Il mostro era lì!
   «Crepa!» gridò la Caitiana, sparando un colpo ad alta energia. Il raggio colpì un campo di forza, facendolo brillare senza perforarlo. Un braccio arancione scattò in avanti, serrandole il polso in una stretta d’acciaio. Shati gridò di dolore, mentre il phaser le cadeva di mano. Ora l’alieno era così vicino che lo riconobbe: non era l’Undine, ma il prigioniero Tholiano! Lo avevano incontrato appena il giorno prima, ma in quel breve lasso di tempo erano accadute così tante cose che si era dimenticata di lui.
   «Spiega» disse il Tholiano, con la sua voce metallica resa dal traduttore.
   «Sì, io ti spiego... ma tu mollami, mi fai male!» protestò la Caitiana.
   «Spiega» ripeté l’alieno, allentando di poco la sua stretta.
   A corto di alternative, Shati aggiornò l’alieno sulla situazione, aggiungendo le sue considerazioni sul posto in cui si trovavano. «Ho finito... ora mi lasci?» pregò.
   Il Tholiano si chinò a raccogliere il phaser e glielo rivolse contro. Solo allora la mollò. «Perché mi avete risparmiato, sulla Destiny? E perché avete lasciato andare il mio vascello?» chiese.
   «Anche se avete distrutto la nostra vecchia nave, non vi odiamo tanto da volervi morti» rispose la Caitiana, massaggiandosi il polso dolente. «E poi Rivera e io eravamo nella Flotta Stellare. La Flotta c’insegna che essere avversari oggi non significa esserlo per sempre. Del resto federali e Tholiani hanno collaborato nella Battaglia di Procyon V. Se l’abbiamo fatto in passato, possiamo farlo di nuovo».
   «La tua logica è coerente» ammise il Tholiano. «Ma la Specie 8472 è diversa da ogni altra. Le nostre possibilità d’evadere senza un aiuto esterno sono pressoché nulle».
   «E chi ti dice che un aiuto non arriverà? Magari qualcuno degli altri è ancora libero...» annaspò Shati.
   «Improbabile».
   «Però, che disfattista!» sbottò la Caitiana. «Stammi a sentire... Naskeel, giusto? Gli Undine sono pesi massimi e io un peso piuma. Mi serve la tua collaborazione per uscirne viva. Ma questo gioverà anche a te, ficcatelo in quella testa di pietra! Gli Undine non ti hanno liberato per farti un favore. Se sei qui con me, significa che anche tu sei una preda! Ecco perché dobbiamo allearci. Dopotutto il nemico del mio nemico è mio amico».
   «Il nemico del mio nemico... è mio amico?» ripeté Naskeel. Era difficile dare un tono alle sue parole, ma non sembrava convinto.
   «Sì! Siamo tutti parte di questo gioco perverso, lo capisci?!» insisté Shati. La diplomazia non era mai stata il suo forte, ma sperò d’essersi spiegata.
   «Se questo è un gioco mortale, allora l’unico modo di sopravvivere è smettere di giocare» disse Naskeel. Lasciò cadere il phaser e zampettò verso la più vicina pozza sulfurea. Qui s’immerse nell’acqua bollente, disattivando il campo di forza che lo proteggeva dal freddo. Le sue membra cristalline si ripiegarono, finché il Tholiano divenne simile a un blocco di roccia, mezzo sepolto dalla pozza fumigante. Restò immobile in quella posizione, come in stasi.
   «Ehi, dico a te! Frell, non puoi lasciarmi così!» strepitò Shati dalla riva. Avrebbe voluto raggiungerlo, ma non poteva immergersi nell’acqua bollente. Per un folle attimo fu sul punto di sparargli, ora che aveva di nuovo il phaser; ma si trattenne. Se anche non lo uccideva, certo non lo avrebbe reso più bendisposto nei suoi confronti.
   «E va bene, resta pure a sobbollire! Ma quando io non ci sarò più, e gli Undine verranno a farti la festa, non dire che non ti avevo avvertito!» strillò la Caitiana. Dopo di che corse via, maledicendo tutto e tutti.
 
   «Si direbbe che il nuovo equipaggio della Destiny sia più disfunzionale del precedente» disse l’Esaminatore Undine. Non si esprimeva a parole, essendo privo di corde vocali; ma i suoi pensieri rimbombavano nella mente di Giely.
   «Dipende dal fatto che non hanno alle spalle il rigoroso addestramento della Flotta. Sono solo avventurieri che hanno occupato il vascello in cerca di profitto» rispose la Vorta.
   I due si trovavano nel laboratorio astrometrico della Destiny, da cui potevano tracciare con precisione gli spostamenti delle cavie nella biosfera. Davanti a loro, sullo schermo che occupava tutta la parete di fondo, giganteggiava uno schema della stazione spaziale. La biosfera somigliava a un enorme fungo; ironicamente era la stessa forma della stazione Jupiter. Nel “gambo” conico si trovavano i sistemi energetici, i magazzini e gli ambienti di servizio per l’equipaggio. L’ampio “ombrello” semisferico ospitava invece l’habitat in cui erano testate le cavie. O per meglio dire, gli habitat. Tre barriere poste ad angoli di 120º dividevano l’ambiente in altrettanti spicchi, ciascuno col suo ecosistema. L’habitat 1 ospitava una città abbandonata, il 2 una foresta pluviale, il 3 un deserto roccioso. Erano tre fra gli ambienti più diffusi sui mondi federali, anche se ovviamente gli Undine avevano dovuto scartarne molti altri, dai boschi temperati alle praterie, dalle lande ghiacciate agli oceani. Se quell’esperimento li avesse soddisfatti, avrebbero costruito altre biosfere, con nuovi ecosistemi.
   «In ogni caso è sorprendente che riescano a coesistere senza scannarsi l’un l’altro» commentò l’Esaminatore. «Forse le cose cambieranno quando saranno più sotto pressione».
   «Lo sapremo presto; sta calando la notte» disse Giely, sostituendo lo schema con una ripresa in tempo reale della biosfera. I pannelli esagonali della cupola si stavano oscurando, in rapida successione. Così opachi non lasciavano più filtrare la luminosità dello Spazio Fluido. Per chi si trovava all’interno, era come se la notte calasse di botto. «Passo agli scanner a infrarossi, così seguiremo meglio i loro spostamenti» aggiunse la Vorta.
   «Brava, continua così» disse l’Undine, chinandosi su di lei. I suoi occhi cruciformi si strinsero mentre le invadeva la mente, piegandola al suo volere. «Ci serve una persona come te, che abbia familiarità con le tecnologie federali e possa farci da portavoce» commentò. «Continua a servirci e sarai ricompensata».
   «Esisto per servire» annuì Giely, con voce atona. In fondo era quello lo scopo dei Vorta. Dopo aver abbandonato il Dominio, e aver fallito anche nella Flotta Stellare, servire gli Undine le sembrava l’unica opzione logica. Quel che non sapeva era quanto la sua logica fosse viziata dall’influenza degli alieni, che soffocavano ogni pensiero di dissenso. Così continuò a registrare tutto ciò che accadeva nella biosfera, con il distacco di uno scienziato che osserva i comportamenti delle sue cavie.
 
   In testa al gruppo, Rivera procedeva lentamente, guardandosi attorno. Dietro ogni angolo poteva celarsi il pericolo. Dentro ogni finestra vuota poteva acquattarsi il nemico, pronto a balzare su di loro. Al tempo stesso l’Umano osservava la città, cercando di farsene un’idea. Sembrava una tipica città federale, come quelle che si trovavano sulla Terra e gli altri mondi centrali. Era difficile, però, stabilire se gli Undine ne avessero copiata una in particolare. Finora non aveva visto monumenti che permettessero di riconoscerla.
   A un tratto il cielo si oscurò. Gli avventurieri alzarono gli occhi, in tempo per vedere la cupola che si faceva opaca, tassello dopo tassello. Rimase un solo esagono trasparente, che lasciava filtrare una luminosità paragonabile a quella della luna piena. «Cala la notte» constatò Rivera. «Dobbiamo trovare un riparo».
   «Potremmo metterci qui» disse uno dei Ferengi, accennando a un ristorante riconoscibile dall’insegna. «I replicatori saranno senza energia, ma forse c’è una dispensa con vero cibo a lunga conservazione». Si accostò alla vetrina semitrasparente, cercando di guardare all’interno. Siccome era coperta da uno strato di polvere, vi passò sopra la mano. Guardò attraverso lo spiraglio di vetro pulito... e si trovò faccia a faccia con un Undine. Prima che potesse reagire, l’alieno infranse la vetrina e gli afferrò la testa. Gliela strattonò con tale violenza da strapparla dal collo; poi sollevò il macabro trofeo, grondante di sangue.
   «Fuoco!» gridò Rivera, cogliendo l’alieno in pieno petto. I colleghi si unirono a lui, tempestando la creatura di raggi phaser.
   L’Undine mollò il trofeo e balzò di lato, per sottrarsi alla gragnola. Atterrò dietro una levi-car fracassata, la sollevò senza sforzo e la scagliò contro il secondo Ferengi, schiacciandolo. Poi balzò di nuovo lontano, sfuggendo ai colpi.
   Rimanevano solo Grilk, Rivera e Talyn. «Via!» gridò il DaiMon, dando il buon esempio nel fuggire. Gli altri lo seguirono, correndo a perdifiato. Ogni tanto Rivera si girava per sparare un colpo. L’Undine era dietro di loro: appariva e spariva nel buio, troppo agile per farsi colpire. Veloce com’era, li avrebbe raggiunti ben presto.
   Nella loro fuga precipitosa, i contrabbandieri salirono su un viadotto che passava sopra una strada più ampia. Erano quasi in cima quando si trovarono la via sbarrata da macerie e rottami, disposti a formare una barricata. Con un po’ d’attenzione potevano scavalcare gli ostacoli, ma questo li avrebbe rallentati; e il nemico gli era addosso. «L’ha fatto apposta a spingerci qui» comprese Rivera.
   I fuggitivi si voltarono, decisi a vender cara la pelle. L’Undine si avvicinava: non lo avrebbero abbattuto nemmeno con un fuoco concentrato. Per un attimo Rivera fu tentato di spararsi, piuttosto che cadere nelle grinfie del mostro. Ma pensando a Talyn, si disse che non poteva abbandonarlo. Forse c’era una via d’uscita, sia pure temporanea.
   L’Undine era a pochi passi. Invece di sparargli direttamente, l’Umano colpì il permacemento sotto di lui. Ci fu uno schianto e quella sezione del viadotto cedette, facendo precipitare l’alieno. La sua mano artigliata dardeggiò a un palmo dall’Umano, prima di svanire nel buio. Ma anche Rivera sentì mancargli il sostegno sotto i piedi e cadde in avanti, nella voragine che si allargava. All’ultimo istante due braccia robuste lo afferrarono da dietro.
   «T’ho preso, figliolo!». Era Grilk, che lo aveva salvato dalla morte. Il DaiMon lo tirò indietro, al sicuro. «Ora leviamoci da qui, prima che quella cosa torni all’attacco!».
   «Grazie, capo» ansimò l’Umano.
   «Non l’ho fatto per te, ma per me. Sei la mia migliore assicurazione sulla vita» rispose il Ferengi, burbero.
   Scavalcata la barricata, i fuggiaschi corsero a rotta di collo giù per il versante opposto del viadotto. Sapevano che una caduta di pochi metri non bastava a ferire l’Undine. Si trovarono a vagare nella città fantasma, resa ancor più spettrale dal buio e dalla consapevolezza dei predatori in agguato.
   «Basta, non ce la faccio più!» disse Talyn, esausto per la corsa prolungata e per lo stress della caccia. «Non possiamo scappare in eterno, ci occorre un riparo!» ansimò.
   «Già, ma dove?» si disse Rivera. Quei mostri potevano lacerare il metallo a mani nude: non c’era rifugio da cui non li potessero stanare.
   «Da questa parte» disse una voce roca. Riconoscendo che non apparteneva a nessuno di loro, i fuggitivi si girarono nella sua direzione, con le armi in pugno. Videro una figura massiccia che si stagliava innanzi a una soglia, debolmente illuminata dall’interno.
   «Amico o nemico?!» chiese Rivera, ancora sovreccitato, puntandogli contro il phaser.
   «Hisss! Calmati, amico!» sibilò l’estraneo, palesandosi come uno Xindi Rettile. «Sono dalla vostra parte, sono della Flotta Stellare. Tenente Comandante Skelos, dell’USS Destiny. Voi chi siete, e come siete finiti in questo postaccio?».
 
   La notte calò improvvisamente sulla giungla in cui Losira e i compagni arrancavano. «Ci mancava questa!» si lamentò la Risiana. «Ora non vedremo nemmeno dove mettiamo i piedi».
   «Prima o poi avremmo dovuto fermarci; tanto vale farlo ora» ragionò Irvik.
   «Così, in mezzo al niente?» protestò Losira.
   «Potremmo passare la notte sugli alberi» suggerì Brokk, guardandosi attorno in cerca di uno adatto. In quel momento stavano camminando su una stretta lingua di terra, circondata da acquitrini pieni di mangrovie. Le loro radici si levavano per un buon metro sopra l’acqua, fornendo un appoggio. I tronchi erano spessi, ma a poca altezza si dividevano in una moltitudine di grossi rami che spesso correvano quasi orizzontali, formando dei giacigli naturali.
   «Non so... potrà andar bene per difenderci dagli animali inferiori, ma non dagli Undine» disse Losira, dubbiosa. «Se quelli ci attaccano, avremo difficoltà a scappare».
   «Se ci attaccano, saremo finiti in ogni caso» ribatté Brokk, osservando le mangrovie, in cerca della più adatta a essere scalata. In quella si accorse di un movimento sotto il pelo dell’acqua. Che fosse un pesce? In tal caso valeva la pena di aggiungerlo alle loro magre scorte di cibo. Il Ferengi si chinò a osservare.
   «Che fai, attento!» avvertì Losira. Troppo tardi.
   L’Undine appostato sott’acqua emerse con un balzo, graffiando il Ferengi sul petto. Brokk emise un grido lacerante e cadde all’indietro, contorcendosi. La creatura non si curò di finirlo. Si avventò su Losira e Irvik, che reagirono sparandogli coi phaser regolati al massimo della potenza. La Risiana in particolare riuscì a colpirlo al volto. Il mostro emise uno strano verso, come se soffrisse, e balzò via, sparendo nel buio della notte.
   «Dice che lo abbiamo sconfitto?» chiese Irvik, un po’ sotto shock.
   «Credo che sia ferito, ma non gravemente» rispose Losira. «Sono quasi certa che se n’è andato di sua spontanea volontà. Forse vuol vedere come ci comportiamo, ora che abbiamo un ferito» disse, osservando Brokk con seria apprensione. Il Ferengi aveva smesso d’urlare e di contorcersi, ma solo perché era svenuto. I graffi sul petto erano profondi, anche se stranamente perdeva poco sangue.
   «Sopravvivrà?» chiese il Voth.
   «Così al buio non riesco a giudicare quanto siano gravi le ferite» rispose la Risiana. «Senta, dobbiamo andare prima che quel mostro ci attacchi di nuovo» aggiunse, guardandosi nervosamente attorno.
   «D’accordo, lo porto io» disse il sauro.
   «Sicuro di farcela?» chiese Losira, a disagio.
   «Perché, vorrebbe lasciarlo qui?» fece Irvik, come se fosse un’assurdità, ma guardandola in faccia dovette ricredersi. «Sì, vuol davvero abbandonarlo» comprese.
   «Guardi in faccia la realtà: siamo soli e potremmo diventare cibo per pesci in ogni momento» disse la Risiana. «Non possiamo farci carico di un ferito che va portato in spalla».
   «Quindi vuole lasciarlo qui a morire? O preferisce dargli il colpo di grazia prima d’andarsene?!» s’indignò il Voth.
   «Sarebbe più pietoso finirlo» dichiarò Losira.
   «Ma guarda un po’ con che gente sono finito! Mi preoccupo più io del suo collega, che non lei!» bofonchiò il sauro. «Forse è abituata a pensare solo a sé stessa, ma io no. Lo porterò finché avrò forze».
   «Faccia come vuole, ma si sbrighi» disse la Risiana, riprendendo la marcia.
   Irvik rimase un attimo a fissarla con rabbia. Poi si caricò in spalla il ferito e la seguì tra le ombre della giungla.
 
   Dopo ore di marcia, Shati era quasi giunta alla muraglia che divideva una sezione dall’altra. Se c’era qualche speranza di abbandonare quell’habitat, si ripeteva, era lì: avrebbe seguito il muro per tutto il perimetro, in cerca di un’uscita. La notte non la impacciava più di tanto: dalla cupola filtrava ancora un po’ di luce, più che sufficiente per i suoi occhi felini.
   Superato l’ultimo crinale, la Caitiana giunse in vista della ciclopica barriera. Era una parete liscia e uniforme, che saliva da terra fino alla cupola. «Almeno non c’è un finto orizzonte olografico» si disse. Aguzzò la vista, in cerca di un ingresso, ma fu qualcos’altro ad attirare la sua attenzione. C’erano due prigionieri, avvinti alla muraglia con ceppi metallici che li costringevano a restare in piedi, con le braccia sollevate sopra la testa. A giudicare da come i loro corpi erano abbandonati, erano privi di sensi. Forse soffrivano la disidratazione, se avevano passato tutto il giorno così, in quell’habitat caldo e secco. Guardandosi attorno, Shati non vide traccia di guardie.
   Dopo una breve riflessione, la Caitiana si accostò con passo felpato, cercando di nascondersi dietro alle rocce. Ben presto riconobbe i prigionieri: erano due Yridiani dell’equipaggio. Quegli alieni dalla faccia di topo non le erano mai stati simpatici, ma non era certo una ragione sufficiente per lasciarli lì a soffrire. Li avrebbe liberati, se possibile. Riprese ad accostarsi, più silenziosa che mai, col phaser in pugno. Quando fu a pochi passi, uno Yridiano dovette avvertire qualcosa, perché si agitò e rialzò la testa. «Chi sei? Ti prego, liberaci...» mormorò con voce roca.
   «Tranquilli, vi porto via da qui» disse Shati, regolando il phaser con l’idea di sparare ai ceppi. In quella udì uno schiocco metallico alle sue spalle. Si girò in tempo per vedere un congegno discoidale, simile a una mina, che usciva dal terreno. La Caitiana si gettò al suolo, appena in tempo: l’apparecchio sparò in tutte le direzioni, all’altezza di un metro. Shati si sentì passare i raggi sopra la testa e rispose al fuoco: colpì il drone, disintegrandolo. Ma quando tornò a guardare i prigionieri, si accorse con orrore che erano stati colpiti: per loro non c’era più nulla da fare.
   «Una trappola per topi» si disse scioccata. Ma gli Yridiani erano solo l’esca; il bersaglio era lei. Di colpo Shati non si sentì per nulla sicura, lì davanti alla barriera. Con ogni probabilità c’erano sensori che la tenevano d’occhio. Non le restò che ritirarsi, con la crescente sensazione che quella non fosse semplicemente una caccia, bensì un test comportamentale. Gli Undine studiavano le sue reazioni in un ambiente sempre più ostile; probabilmente facevano lo stesso con gli altri prigionieri. Il primo test si era concluso con la morte di due compagni, a causa della sua imprudenza; ora la Caitiana temeva le prossime sfide.
 
   «Interessante» disse l’Esaminatore, trasmettendo i suoi pensieri. «I soggetti stanno ancora cercando di riunirsi, ma i loro gruppi mostrano già segni di cedimento. Vedremo come reagiranno, con l’aumentare delle difficoltà».
   «Volete attaccarli ancora?» chiese Giely.
   «Non stanotte; riprenderemo domani» decise l’Undine. «Va’ a riposare: anche tu hai bisogno di sonno, come gli altri umanoidi. La mia specie non ha questa debolezza, quindi continuerò a monitorarli».
   «A domani, mio signore» salutò la Vorta, accompagnandosi con l’inchino a mani giunte che la sua specie riservava ai Fondatori. Lasciò il laboratorio astrometrico, per tornare al suo vecchio alloggio, ma i passi la portarono inaspettatamente all’alloggio del Consigliere, ora vuoto come tutti gli altri. Spinta da un impulso che non comprendeva appieno, vi entrò. Sul tavolino c’era ancora la candela di meditazione che aveva usato con Talyn. Frammenti della loro conversazione le tornarono alla memoria.
   «Ora sei confusa: la tua mente è come un labirinto in cui ti sei smarrita, un rompicapo di cui non hai la chiave» le aveva detto l’El-Auriano. «Io non posso liberarti, ma forse posso darti qualche indicazione su come liberarti da sola. L’essenziale è individuare i ricordi autentici: devi focalizzarti sui momenti cruciali della tua vita, quelli che ti definiscono come individuo, belli o brutti che siano. Così potrai seguirli come un filo conduttore, facendo ordine nel caos dei tuoi pensieri. Ma per prima cosa devi calmare la mente».
   Istigata da quelle parole, Giely sedette a gambe incrociate e accese la candela. Prese a fissare la fiammella, rallentando il respiro come le era stato insegnato, finché scivolò di nuovo in uno stato di trance. I ricordi della sua vita presero a scorrerle davanti, a partire dal giorno in cui era uscita dalla vasca di gestazione. La Vorta li passò al setaccio, cercando di ricordare di volta in volta quali erano stati i suoi obiettivi. Era il primo passo per tornare padrona della sua volontà.
 
   «Che posto è questo?» chiese Grilk, mentre lo Xindi Rettile li conduceva nei sotterranei del suo rifugio.
   «In origine era un centro sportivo, hisss!» rispose Skelos. «Beh, in realtà non lo è mai stato, visto che siamo in un habitat fittizio; ma è un’ottima replica. Ci sono le cucine, con scorte che mi hanno aiutato a sopravvivere, e un’infermeria con vari medicinali. Ma il posto più sicuro è questo». Così dicendo li introdusse in una stanza senza finestre, rischiarata da alcuni pannelli luminosi, segno che c’era energia nell’edificio. A terra giacevano alcune brande; il resto del pavimento era ingombro di cianfrusaglie, razziate dalla città fantasma. Su tutto aleggiava un odore di chiuso e di stantio, assai sgradevole.
   «È qui da molto?» volle sapere Rivera.
   «Sembra un’eternità. Sapete, ho perso la cognizione del tempo. In che data siamo?» chiese il Rettile.
   «Vediamo... data stellare 2610.38. Anzi, ormai sarà 39» rispose l’Umano.
   «Cinque anni!» fece Skelos, incredulo. «Cinque anni...» ripeté a bassa voce, sedendo su una branda.
   «E li ha passati tutti qui?».
   «Eh? No, affatto» si riscosse il Rettile. «All’inizio, dopo che gli Undine ci catturarono, rimasi chiuso in cella per molto tempo. Un anno, credo. Poi mi trasferirono in un habitat desertico».
   «Un deserto?» si accigliò Rivera.
   «Sì, ci sono almeno tre habitat qui dentro. Un deserto roccioso, una giungla paludosa e infine questo. Io sono sopravvissuto a tutti; i miei colleghi non sono stati così fortunati» disse Skelos con voce roca. «Li ho visti morire uno dopo l’altro, cacciati dagli Undine. Ma non è solo una caccia... quei mostri ci usano come cavie da laboratorio. Ci spingono al limite e poi osservano che succede. Forse vogliono vedere se siamo all’altezza degli ideali della Flotta Stellare, hisss!» ironizzò.
   «Beh, fortunatamente noi non siamo della Flotta» disse Grilk, che aveva già presentato se stesso e i compagni come “onesti mercanti”.
   «Uhm, già. Però non mi avete ancora detto come siete finiti qui» notò il Rettile. «Gli Undine hanno preso a fare incursioni nello spazio federale?».
   «No, siamo arrivati con la Destiny».
   «La Destiny!» sobbalzò Skelos. «Allora esiste ancora? Frell, quanto mi piacerebbe rivederla!» vagheggiò.
   Gli avventurieri gli riferirono come avevano trovato la nave alla deriva, venendo attirati nello Spazio Fluido. Tralasciarono solo che ciò era accaduto mentre si nascondevano da una pattuglia della Flotta.
   «Se siamo in una biosfera, può darsi che la Destiny sia vicina» ragionò Rivera. «Non c’è modo di contattarla?».
   «Per farci teletrasportare, intende? Macché! Gli Undine ci hanno tolto i comunicatori, e in anni di ricerche non ho mai trovato niente del genere qui. No, non c’è modo di uscire» disse il Rettile, di nuovo rassegnato.
   «Prima si è presentato come Tenente Comandante. Era il capo della Sicurezza, vero?».
   «Già, il mio addestramento mi ha aiutato a sopravvivere».
   «Allora siamo colleghi, più o meno. Anch’io sono stato nella Sicurezza, prima di... cambiare attività» rivelò l’Umano. «Senta, in questi anni di cacce è mai capitato che lei o qualcun altro riusciste a uccidere un Undine?».
   «Un paio di volte» sbadigliò Skelos.
   «Come avete fatto?».
   «Ne parleremo domani. È tardi, dobbiamo riposare, hisss!» disse il Rettile. Abbassò la luminosità dei pannelli, riducendola a un tenue chiarore. Poi accennò alle brande: «Queste erano dei miei colleghi, ora potete usarle voi». Così dicendo si coricò in quella più vicina alla porta.
   Agli ospiti non restò che imitarlo; del resto erano stanchi, dopo la giornata di marcia. Ognuno si scelse un giaciglio e vi si coricò vestito. «Non dovremmo fare dei turni di guardia?» suggerì Rivera.
   «È da tanto che sto qui, e gli Undine non hanno mai attaccato questo rifugio» disse Skelos, con voce assonnata. «In effetti è da molto che non li vedo. A volte mi chiedo se si siano dimenticati di me».
   «Ma come ha fatto a sopravvivere così a lungo? Voglio dire, dove trova da mangiare?» chiese l’Umano.
   «Oh, il cibo lo si trova qua e là, sapendo dove cercare. Domani vi mostrerò» promise il Rettile. «Ma ora dormiamo, ho detto!» insisté, rigirandosi in modo da volgergli la schiena.
   Rivera non si sentiva del tutto sicuro, ma era troppo stanco per vegliare. Ben presto sentì i compagni russare e di lì a poco si addormentò anche lui.
 
   «Sveglia, Comandante!» gridò Talyn, dopo quelli che parvero pochi minuti.
   «Eh, che succede?!» farfugliò Rivera, balzando a sedere. Si portò istintivamente le mani alla cintura: il phaser era sparito.
   «Niente armi; il bastardo m’ha preso anche la frusta» mugugnò Grilk, anche lui sveglio.
   «Ma perché?!» fece l’Umano, levandosi il sudore dalla fronte; solo allora si accorse che era stranamente caldo. Un orribile sospetto si fece strada nella sua mente. Corse alla porta: era chiusa dall’esterno. Non c’erano altre uscite e nemmeno finestre. Erano prigionieri di quello stanzino sempre più caldo, e senza i phaser non avrebbero mai abbattuto il robusto portone.
   «Così siamo in un centro sportivo, eh? Mi sa che questa era la sauna» disse il Ferengi senza allegria. «Il bastardo vuole cuocerci a puntino. Ecco come li trova, i viveri! Chissà quanti altri galantuomini ha invitato a... restare per cena».
   Rivera si guardò attorno, in cerca di qualcosa con cui sfondare la porta, ma non trovò nulla. Non c’erano armadietti, né altri oggetti metallici di grandi dimensioni. E la porta non sarebbe certo venuta giù a spallate. «Io... non so che fare» mormorò, fissando il DaiMon.
  «Beh, io invece sì» si riscosse Grilk. «C’è stato un tempo, prima di darmi agli affari, in cui ero versato nell’antica arte dello scassinatore. Spero di non aver perso il tocco». Frugò nel ciarpame, finché trovò un filo metallico, e con quello si dedicò alla serratura. A volte la picchettava, ascoltando il suono con le sensibilissime orecchie Ferengi. In altri momenti si lasciava sfuggire degli «Ah!», degli «Oh!» o delle sonore imprecazioni.
   Nel frattempo la temperatura saliva sempre più. Non c’erano termometri, ma Rivera stimò che fossero sui quaranta gradi, in continuo aumento. E sapeva che le saune possono raggiungere temperature ben più elevate: ottanta, novanta, persino cento gradi. Se il DaiMon non riusciva a scassinare la serratura, non avrebbero superato la notte. Già adesso Talyn boccheggiava, stordito dal caldo e dalla paura.
   «Comandante, crede che qualcuno dei nostri verrà ad aiutarci?» mormorò il giovane.
   «È una bella speranza, ma non credo che gli Undine lo permetteranno» sospirò l’Umano. «No, muchacho. Finché resteremo in questo buco d’Inferno, saremo soli».
 
   La luce tornò negli habitat con la stessa rapidità con cui se n’era andata. All’ora in cui sarebbe dovuto sorgere il sole, i pannelli della cupola tornarono trasparenti, lasciando filtrare la luminosità giallastra dello Spazio Fluido. Allora Losira e Irvik, che avevano dormito in un anfratto della vegetazione, si svegliarono. Per prima cosa esaminarono il loro compagno ferito e rimasero inorriditi. Dai graffi sul petto di Brokk uscivano dei disgustosi filamenti giallastri, che crescevano su di lui come un’edera maligna. Il Ferengi si lamentava debolmente, mezzo svenuto. Tutto il suo corpo mostrava i segni di un rapido deperimento: gli occhi erano incavati, le guance smagrite.
   «Ha mai visto un male del genere?» chiese il Voth in un soffio.
   «No, mai. Questa cosa lo sta divorando vivo» rispose la Risiana. «Ora capisco perché la Vorta ha detto che gli Undine sono una specie infiltrante. Credo che queste siano le cellule dell’alieno. Hanno contagiato Brokk e ora crescono dentro di lui, consumandolo. Non lo tocchi!» raccomandò, vedendo che il sauro gli si era avvicinato.
   «Ma così non potremo più portarcelo dietro! Che possiamo fare?!» si disperò Irvik.
   «Se avessimo un dottore, coi suoi strumenti... ma non abbiamo niente. Non possiamo fare niente» constatò Losira. «Tranne porre fine alla sua sofferenza» aggiunse. Per lunghi secondi nessuno fiatò.
   «Sa, avevo proprio sperato che arrivassero i suoi colleghi a salvarci, come negli olo-romanzi...» mormorò infine il Voth.
   «Lo so. Ci aggrappiamo sempre alle speranze, anche quando sono stupide. Ma la realtà arriva puntualmente a presentarci il conto. Io lo so, ci sono già passata» disse la Risiana con voce amara. Vedendo che il sauro la fissava con aria interrogativa, decise di vuotare il sacco.
   «Non sono sempre stata un’avventuriera. Un tempo ero un’aristocratica di Risa. Avevo tutto ciò che si può desiderare: ricchezza, prestigio... anche l’amore. Ero sposata con un altro nobile, il visconte Atrevius; ci amavamo alla follia. Poi venne la Guerra Civile e Risa si trovò a far parte dell’Unione, subendo l’occupazione militare dei Pacificatori». Il viso di Losira s’indurì nel ricordare quegli anni bui. «Io e mio marito eravamo d’idee liberali, così di comune accordo conducemmo una doppia vita. Ufficialmente appoggiavamo il regime, ma in realtà passavamo informazioni alla Federazione. Per svolgere quel ruolo ci sobbarcammo considerevoli rischi, per tutta la durata del conflitto» chiarì.
   «Infine la Guerra Civile terminò con la vittoria della Federazione. Io e mio marito speravamo in una vita più serena, ma non avevamo considerato la realpolitik. Agli occhi del nuovo governo di Risa eravamo troppo compromessi col vecchio regime, malgrado i nostri servigi. Tutte le altre famiglie aristocratiche venivano espropriate dei beni ed esiliate; per noi non poteva esserci eccezione. Mio marito protestò e fu assassinato in circostanze poco chiare... probabilmente per ordine del governo di transizione democratica». I suoi occhi grigi s’inumidirono e la voce s’incrinò al ricordo di quella perdita devastante.
   «Non mi restò che fuggire dal pianeta, prima di finire come lui. Tutti i nostri averi e le proprietà furono confiscati dal governo, ansioso di far cassa dopo il conflitto. Me ne andai solo coi vestiti che avevo addosso, giurando di non tornare mai più in patria. Fu allora che scelsi come motto la Regola dell’Acquisizione numero 285: nessuna buona azione resta impunita.
   Per dieci anni fui costretta a vivere d’espedienti su mondi malfamati; in certi periodi feci persino la ragazza-dabo. Infine conobbi il DaiMon Grilk, divenendo la sua partner. Quel furfante s’è molto avvantaggiato delle mie capacità. Lo avrà capito, ormai, che non siamo semplici mercanti...».
   «Mi era venuto il sospetto, sì» sospirò Irvik. «Siete truffatori?».
   «Truffatori, contrabbandieri, ricettatori... tutto fa brodo» spiegò Losira. «Ma anche questo è stato inutile, alla fine. Eccoci qui, in questo buco infernale, in cui usciremo solo da morti! Una degna conclusione per la mia vita».
   Terminato lo sfogo, la Risiana guardò Brokk, che si era destato e l’aveva ascoltata. «Ah, sei sveglio. Sai cosa devo fare adesso, vero?» gli chiese.
   Il Ferengi annuì.
   «Non biasimarmi. Tu almeno avrai una morte rapida. Io probabilmente non sarò così fortunata» disse Losira, dura in volto.
   «Fammi... parlare... con...» boccheggiò il Ferengi, indicando Irvik.
   «Come vuoi» disse la Risiana, scostandosi. «Fa’ alla svelta, non dobbiamo perdere altro tempo» disse al Voth, mentre questi le passava accanto.
   Irvik si chinò sul collega ingegnere, per ascoltarne le ultime volontà.
   «Se per miracolo tornaste sulla Destiny... tu devi aiutarli» sussurrò il morente. «Sei un ingegnere, sai come far funzionare le cose. Occupati della nave... aiuta l’equipaggio a sopravvivere».
   «Ci proverò» promise il sauro.
   «Un’altra cosa: ricorda a Talyn che mi deve tre barre di latinum» aggiunse il Ferengi.
   «Farò anche questo» s’impegnò Irvik, trattenendo un sorriso. Accortosi che non c’era altro da dire, si ritirò.
   «Dove vai? Vieni qui!» lo richiamò Losira, che stava già saccheggiando lo zainetto di Brokk. Gli prese l’acqua e il cibo, dividendoli fra sé e il sauro. Il phaser lo tenne per sé. Per un attimo sembrò intenzionata a prendersi anche gli stivali del moribondo, ma all’ultimo rinunciò, forse perché erano troppo grandi per lei. Infine si rialzò e si rivolse a Irvik: «Puoi avviarti, non ci metterò molto».
   Il Voth dette un’ultima occhiata rassegnata al collega ingegnere. Le cellule parassitiche dell’Undine crescevano a vista d’occhio su di lui, provocandogli sofferenze indicibili. Losira aveva ragione, non c’era che una cosa da fare. «Addio» mormorò Irvik, e si allontanò frettolosamente, senza voltarsi indietro. Aveva fatto una ventina di passi quando udì il fischio del phaser. Si fermò lì dov’era, finché la Risiana gli fu di nuovo accanto. Allora ripresero il cammino, e per molto tempo furono silenziosi.
 
   Il ritorno della luce svegliò Shati di soprassalto. La Caitiana temeva di dormire, per paura di agguati, ma non poteva certo vegliare all’infinito. Così si era nascosta alla meno peggio in un anfratto roccioso. Ne uscì guardinga, col phaser in pugno. Attorno a lei c’era il solito dedalo di rocce scolpite dal vento.
   Che fare? Aveva già camminato per un’intera giornata, senza trovare i suoi compagni. Ma restare lì ferma, in attesa della sorte, le ripugnava ancora di più. Decise che si sarebbe spostata, almeno per un certo tragitto. Così dopo aver bevuto un sorso d’acqua e mangiato una mezza razione proteica lasciò il rifugio. Camminò per qualche ora, finché si trovò nuovamente in una zona di pozze sulfuree, forse quella che aveva già attraversato.
   «Perché non ho lasciato dei segni? Così rischio di girare in tondo» si rimproverò Shati. Per il momento le bastava levarsi da quell’ambiente mefitico, che la faceva tossire e riduceva la visibilità. Salì lungo un pendio scosceso, sperando che con l’aumento di quota l’aria divenisse più salubre. La scalata fu laboriosa, dato che dovette arrampicarsi tra le rocce. Giunta quasi in cima, alzò cautamente la testa oltre l’orlo del dirupo. E vide l’Undine che l’aspettava al varco.
   La Caitiana ebbe un tuffo al cuore. Impugnò il phaser e cercò di sparare a bruciapelo, ma l’alieno le dette un calcio con una delle tre zampe. Shati fu scaraventata all’indietro e rotolò malamente giù per il dirupo, perdendo l’arma. Nell’ultimo tratto precipitò in caduta libera per alcuni metri. Atterrò sulle quattro zampe e illesa, come tutti i felini. Subito si rialzò e si guardò attorno, in cerca del phaser, ma non lo vide: doveva essersi perso in qualche anfratto. E il peggio doveva ancora arrivare.
   Vedendosi in vantaggio, l’Undine saltò giù dal crinale roccioso, atterrando davanti a Shati. Il suolo riarso si fratturò sotto il suo peso. L’alieno ringhiò e menò un colpo d’artiglio, che la Caitiana evitò a stento, rotolandosi a terra.
   «Che faccio?!» si chiese Shati, rialzandosi in una nube di polvere. Né il suo addestramento d’Accademia, né le avventure successive l’avevano preparata a questo. Una lotta all’ultimo sangue con un alieno invincibile! E ora era anche disarmata. Ricordò che una volta il Capitano Kirk si era trovato in una situazione simile, costretto ad affrontare un Gorn su Cestus III. Se l’era cavata fabbricandosi un cannoncino artigianale, con tanto di polvere pirica, e sparando pietre nel petto dell’avversario. Ma anche se nell’immediato fosse riuscita a seminare il mostro, Shati non vedeva attorno a sé i materiali necessari per fabbricarsi un’arma del genere. E poi che poteva fare un sasso sparato a bassa velocità, a quell’alieno che resisteva ai raggi phaser? Non lo avrebbe nemmeno infastidito.
   Muovendosi agilmente, la Caitiana scansò altre zampate e cercò di mettere una certa distanza fra sé e l’Undine. Ma si accorse con orrore che l’alieno l’aveva messa all’angolo: dietro di lei c’erano le pozze ribollenti. Non poteva immergersi senza finire arrosto, e data la loro estensione non poteva nemmeno oltrepassarle con un balzo. Era giunta al capolinea.
   L’Undine avanzò, implacabile. Shati rimase ferma sull’orlo della pozza, aspettandosi d’essere fatta a pezzi; ma in quella accadde l’inimmaginabile. Una creatura cristallina emerse dal bagno sulfureo e si lanciò contro l’Undine, affrontandolo in un corpo a corpo che spaccò le rocce circostanti. I due alieni combattevano con gli artigli, cercando di farsi a pezzi; ma nessuno riusciva a prevalere sull’altro. Allibita, Shati riconobbe nel nuovo arrivato Naskeel, il Tholiano.
   Passato il primo attimo di sconcerto, la Caitiana decise d’approfittare della distrazione per levarsi di torno. Sgusciò a lato dei combattenti, che non la degnarono di uno sguardo, e fece per andarsene. Ma all’ultimo si trattenne, guardandosi indietro. C’era qualcosa d’affascinante nello scontro tra la più forte specie organica e una specie inorganica. Gli artigli dell’Undine scivolavano sul corpo cristallino del Tholiano senza ferirlo, ma anche quest’ultimo non riusciva a danneggiare l’avversario. Eppure un vincitore ci sarebbe stato, prima o poi; e Shati temeva che fosse l’Undine. Poteva scappare, ma così la caccia sarebbe ripresa; oppure poteva aiutare il Tholiano, che nell’immediato sembrava meno ostile.
   Com’era suo solito, la Caitiana decise in fretta. Corse nel punto in cui era scivolata e tornò ad arrampicarsi fra le rocce, in cerca del phaser. Si guardò freneticamente attorno, finché lo vide, incastrato fra due macigni. Tese la mano, tenendosi precariamente con l’altra a un appiglio, finché riuscì ad afferrarlo. Allora tornò a guardare di sotto: come temeva, l’Undine stava prendendo il sopravvento. Aveva agguantato il Tholiano e lo schiacciava a terra, tempestandolo di colpi. Naskeel emetteva un fischio acutissimo, quasi ultrasonico, che parve una richiesta d’aiuto. Qualunque cosa fosse, Shati mirò alla testa dell’Undine e fece fuoco.
   Colpito in pieno, l’alieno ringhiò e alzò la testa, cercando l’avversario. I suoi occhi micidiali si appuntarono su Shati, che gli sparò di nuovo. L’attimo dopo Naskeel scalciò con le sei zampe cristalline, scagliandolo all’indietro... dritto nella pozza. Per qualche secondo l’Undine annaspò tra i vapori sulfurei, ringhiando in modo spaventoso; ma ben presto affondò tra i composti ribollenti. Una strana calma tornò nel fondovalle.
   Ora che tutto era finito, Naskeel si rialzò. Shati dal canto suo ridiscese dal pendio e si avvicinò al Tholiano, ancora un po’ circospetta. «Grazie per avermi salvata» disse. «Ma perché l’hai fatto?».
   «Il nemico del mio nemico è mio amico» rispose Naskeel, laconico.
   «Ah, l’hai capito!» fece la Caitiana, un po’ sollevata. «Allora restiamo insieme?» chiese speranzosa. Avere dalla sua un essere capace di tener testa agli Undine non era cosa da poco.
   «Per il momento» rispose il Tholiano, imperscrutabile.
 
   «Saranno morti, ormai. Bene, finalmente si mangia» pensò lo Xindi Rettile, tornando verso la sauna. Il suo disappunto fu enorme quando trovò la porta scassinata e la stanza vuota. Subito estrasse il phaser, temendo un assalto. «Hisss!» sibilò, guardandosi nervosamente attorno. Il suo piano per eliminarli senza sforzo era fallito; ora doveva affrontarli faccia a faccia. Poco male... sebbene fossero in tre, erano disarmati. Prima di lasciarli, infatti, gli aveva sottratto i phaser e anche la frusta neurale.
   «Il vantaggio è ancora mio» si disse Skelos, mentre ispezionava il centro sportivo abbandonato. In fondo lui era un ufficiale della Flotta Stellare, loro dei falliti. Lui era sopravvissuto per anni in quell’inferno; loro non sarebbero arrivati alla fine del giorno. «E se avessero lasciato l’edificio?» si chiese. In tal caso sarebbe passato molto tempo prima di ritrovarli. Ma non poteva rimanere tranquillo, se prima non ispezionava il suo rifugio da cima a fondo. Cominciò dai sotterranei, salendo poi al pianterreno.
   Il Rettile giunse così nell’ambiente più vasto del palasport: l’arena di parrises square. Era uno degli sport più in voga nella Federazione, da giocarsi in squadre. L’arena aveva forma rettangolare: alle estremità si trovavano i canestri, simili a grosse crune d’ago. Al centro si levava una piramide di dodici gradini, dalla cima piatta, con due rampe laterali. Ai lati dell’arena vi erano gli spalti per il pubblico, vuoti e impolverati. Skelos era ancora sull’ingresso, a osservare il salone, quando i riflettori si accesero e una voce giunse dagli altoparlanti.
   «Ciao, pezzo di dren. Come avrai notato, non sei riuscito a cuocerci». Era la voce di Rivera. «Potremmo inseguirci per ore in questo palazzone, prima che qualcuno riesca a eliminare l’altro. Oppure noi tre potremmo abbandonare l’edificio e tenerci alla larga. Ma non ci piace l’idea di rimanere disarmati, senza provviste e senza un rifugio, mentre tu hai tutte queste cose. Quindi sai che faremo? Daremo fuoco a questo maledetto palazzone, così anche tu sarai uno sfollato!» minacciò.
   «Hisss! Non osate!» sibilò il Rettile, anche per timore che questo attirasse gli Undine.
   «Oh, sì che osiamo. Sempre che tu non accetti di deporre le armi e venire a trattare i termini della tua resa» ribatté l’Umano.
   «Chi ha le armi non si arrende!» obiettò Skelos.
   «Allora di’ addio al tuo nascondiglio e a tutte le tue scorte, perché stanno per andare in fumo» minacciò Rivera. «Se invece accetti di trattare, conserverai le tue cose. Hai la mia parola... da ufficiale a ufficiale» promise.
   «Tu non fai più parte della Flotta Stellare!» obiettò il Rettile.
   «Nemmeno tu, direi. Gli ufficiali di Flotta non cercano di cucinare i loro ospiti» ribatté l’Umano. «Allora, accetti di discutere faccia a faccia? Se sì, deponi le armi e sali sulla piramide dell’arena. Noi ti raggiungeremo lì».
   Sibilando di rabbia, Skelos lasciò cadere il phaser e la frusta neurale. Poi entrò nell’arena di parrises square e s’inerpicò su per la piramide centrale. Dopo un’attesa di pochi minuti, fu raggiunto dai tre avventurieri. Grilk si era riappropriato della frusta, lasciando a Rivera il phaser, dato che l’Umano era il più veloce a maneggiarlo. Talyn doveva accontentarsi di una mazza ionica, del tipo usato dai giocatori di parrises square, che dava una leggera scossa.
   «Bene, bene. Come s’è rovesciato il tavolo, eh?» infierì Grilk, puntando la frusta in faccia al Rettile.
   «Mi ucciderete?» chiese questi.
   «No, abbiamo dato la nostra parola» disse Rivera. «Ma vogliamo chiarire certe cose. Intanto, perché hai cercato di farci la pelle?».
   «Non ci arrivi? Riesco a stento a sopravvivere da solo. Con altre tre bocche da sfamare, sarebbe impossibile» grugnì Skelos.
   «Lo immaginavo. Seconda domanda: quanti dei tuoi colleghi ti sei mangiato?».
   «Ha importanza?».
   «Veramente no, era solo una curiosità personale».
   «Basta, veniamo al sodo!» lo interruppe Grilk, per poi rivolgersi al prigioniero. «Sei sopravvissuto qui per anni, quindi hai maturato un’esperienza preziosa. Condividila con noi e vivrai ancora un po’».
   «Oh, e per quanto? Presto le ultime scorte finiranno e allora ci sarà da divertirsi!» esclamò il Rettile. «Ciò che accadde a noi della Destiny accadrà anche a voi. Ogni senso di lealtà, di fiducia, di fratellanza si scioglierà come neve al sole. Vi ritroverete a essere nemici giurati, in lotta per la sopravvivenza. Arriverete a odiare i vostri colleghi più di quanto odiate gli Undine, hisss!».
   «Taci!» disse Rivera, temendo la verità di quelle parole.
   «Perché? Sai che ho ragione» insisté Skelos. «E poi il tuo Capitano è un Ferengi, la razza più infida della Galassia. Appena saprà dove ho nascosto armi e cibo, ucciderà te e il ragazzo, per non doverli condividere».
   L’Umano guardò di sottecchi il suo superiore. Era possibile che il Rettile avesse ragione? In fondo Rivera non si era mai fidato granché di Grilk. Lo aveva visto troppe volte tradire i presunti amici in nome del profitto. In quella situazione disperata, non c’era da credere che avrebbe fatto lo stesso con loro? Impercettibilmente il phaser dell’Umano si rivolse contro il DaiMon; e anche la frusta neurale del Ferengi si volse contro il Primo Ufficiale. Talyn indietreggiò, temendo che una mossa da parte sua innescasse la sparatoria.
   Fu allora che il Rettile scattò in avanti. Afferrò Grilk per il polso, cercando di strappargli di mano la frusta neurale; ma il DaiMon vi restò tenacemente attaccato. «Sparagli!» gridò al suo Primo Ufficiale.
   Rivera aveva già settato il phaser su massimo stordimento, quindi non perse tempo. Puntò la schiena di Skelos e premette il grilletto. Ma invece di sparare, l’arma emise un acuto fischio. Memore dei suoi anni nella Sicurezza, l’Umano riconobbe il suono di un phaser in sovraccarico. Evidentemente il Rettile aveva impostato il lettore di DNA, settando l’arma per l’autodistruzione se qualcun altro avesse cercato di sparare. Non c’era tempo da perdere: Rivera scagliò il phaser più lontano che poteva. L’arma era ancora a mezz’aria quando esplose, con la violenza di una granata. Erano salvi, ma erano anche disarmati contro uno Xindi Rettile infuriato e pronto a tutto.
   A pochi passi di distanza, Skelos cercava ancora di strappare la frusta neurale a Grilk. Mentre erano avvinghiati, il Rettile riuscì a puntarla contro Rivera e a premere il grilletto, facendo partire una sferzata. Colpito di striscio, l’Umano gridò di dolore e cadde all’indietro, rotolando giù dai gradini della piramide di gioco.
   «Fuori uno» ghignò Skelos, sempre contendendo la frusta a Grilk. Dato che il Ferengi non mollava, lo Xindi sfruttò la sua ultima risorsa. Estrasse una vibro-lama che teneva nascosta nello stivale, l’attivò e la piantò nel petto del DaiMon. Questi emise un lamento soffocato e si accasciò; allora il Rettile riuscì finalmente a sottrargli la frusta.
   «No!» gridò Talyn, menando un colpo con la mazza ionica. Beccò Skelos sulla mano sinistra, facendogli saltare via il pugnale. L’altra mano però impugnava la frusta neurale, e con quella il Rettile menò un’altra sferzata. Il giovane la parò a stento con la mazza ionica, che sfrigolò minacciando di sovraccaricarsi nell’assorbire l’energia.
   «Fuori due, resti solo tu!» rise Skelos, menando un’altra frustata. Anche quella fu parata con difficoltà da Talyn. «Non dolerti per i tuoi colleghi. Anche loro a tempo debito ti avrebbero tradito. Forse è meglio così... meglio andarsene subito, piuttosto che morire un po’ ogni giorno, hisss!». Dette a Talyn una terza sferzata, e stavolta riuscì a fargli saltar via di mano la mazza ionica. Compiaciuto, il Rettile fece schioccare la frusta, preparandosi a colpire il giovane indifeso.
   «Al tempo!» gridò Rivera, ricomparendo dietro a Skelos. Impugnava la vibro-lama persa poco prima dal Rettile, e senza esitazione gliela immerse nella nuca. La lama affilatissima perforò il collo dello Xindi, recidendogli il midollo spinale, e gli uscì dalla gola. L’Umano l’estrasse subito e sgusciò di lato, strappando la frusta di mano all’avversario. «Se preferisci andartene subito, eccoti accontentato» gli disse.
   Il Rettile lo fissò con un odio sconfinato, sibilando mentre il sangue gli sgorgava dal collo. L’attimo dopo le gambe gli cedettero ed egli cadde all’indietro, rovinando giù dalla piramide di parrises square. Ci fu un tonfo, un ultimo rantolo; poi il silenzio.
 
   «Niente male... per un pivello della Flotta» sorrise Grilk, accasciato. L’attimo dopo tuttavia s’irrigidì per il dolore.
   «Fa’ vedere, capo» disse Rivera, inginocchiandosi accanto a lui per esaminargli la ferita. Si avvide subito che era profonda; il sangue scorreva copioso. L’Umano si tolse la giacca, nell’estremo tentativo di tamponare l’emorragia, ma il Ferengi lo fermò.
   «Lascia stare» disse Grilk con voce fioca. «Non puoi salvarmi. Presto sarò nella Tesoreria Divina. Spero solo che il Tesoriere accetti la mia umile tangente e mi faccia entrare».
   «Lo farà senz’altro, i tuoi affari erano in attivo» disse Rivera, per rincuorarlo.
   «Già, ma che ne sarà di voi furfanti?» si chiese il Ferengi. «Ora tutto dipende da te, figliolo. Raduna gli altri, trovate un modo per tornare sulla Destiny. Quella nave è la vostra ultima speranza. Cercate di... di restare uniti, o sarà la fine» raccomandò. Dovette interrompersi per tossire, e tossì sangue.
   «Farò del mio meglio» promise l’Umano, pur non sapendo come procedere.
   «Ricorda le Regole dell’Acquisizione» raccomandò Grilk, la voce ridotta a un sussurro. «Specialmente la più importante, la numero 284: in fondo, siamo tutti un po’ Ferengi!». Ciò detto, il DaiMon spirò.
   Rivera gli restò a lungo inginocchiato accanto, sforzandosi di accettare la perdita. Grilk era stato una canaglia e uno sfruttatore, eppure a modo suo si era occupato dell’equipaggio meglio che poteva. In un certo senso l’Umano lo considerava un mentore, che gli aveva fornito una prospettiva diversa da quella della Flotta Stellare. Adesso era il momento di subentrargli nelle responsabilità.
   «Signore, che facciamo?» mormorò Talyn, in piedi dietro di lui.
   «Il nostro dovere» sospirò Rivera, rialzandosi. Si assicurò la frusta neurale in cintura, deciso a non separarsene mai. «Setacciamo questo posto, in cerca delle nostre armi. Poi andremo a cercare i nostri compagni» decise.
   «E gli Undine?» chiese il giovane. Se affrontare uno Xindi Rettile era stato così difficile, combattere i nativi dello Spazio Fluido pareva impossibile.
   «Quando sarà il momento, affronteremo anche loro. E sarà quel che sarà» disse Rivera, posandogli la mano sulla spalla. Dopo di che scesero dalla piramide di parrises square, iniziando a setacciare il palasport.
 
   «E così abbiamo perso il vecchio Skelos. Peccato... mi ero quasi affezionato a lui» disse l’Esaminatore. Dopo di che si rivolse a Giely: «Congratulazioni, sei l’ultima superstite dell’equipaggio originale della Destiny».
   «Vivo per servire» rispose la dottoressa, senza emozione.
   «Già, e d’ora in poi lo farai ancora meglio. Abbiamo preso una decisione riguardo ai federali. Tra loro ci sono dei soggetti interessanti, diversi da quelli visti finora. Quindi se saranno feriti li trasferiremo nell’infermeria di bordo, affinché tu possa curarli. Dopo di che li rimanderemo nella biosfera, per sottoporli ad altre prove» annunciò l’Undine.
   «Capisco» disse Giely. «Ma considerando la mia specializzazione in tossicologia, non sono in grado di curare ogni tipo di trauma».
   «Se alcuni dei feriti moriranno, non te ne faremo una colpa» assicurò l’Esaminatore. «Tanto alla fine del ciclo d’esperimenti dovranno perire tutti».
   «Ricevuto» disse la Vorta. «Se la mia presenza qui non è necessaria vado in infermeria, a predisporre gli strumenti».
   «Va’ pure, e restaci fino a nuovo ordine» disse l’Undine. Poi tornò a concentrarsi sullo schema della biosfera, per seguire gli spostamenti dei vari gruppetti.
   Giely uscì dal laboratorio astrometrico a passo svelto, diretta in infermeria. Sebbene il suo aspetto esteriore fosse impassibile, dentro di sé era trionfante. Le era servita gran parte della notte, ma a furia di riesaminare i suoi ricordi e le sue motivazioni, si era finalmente liberata dall’influenza mentale degli Undine. E l’Esaminatore non se n’era accorto! Ora poteva passare alla seconda parte del piano, riconquistare l’astronave. Era un’impresa disperata: cosa poteva fare una sola Vorta contro una guarnigione di Undine? Eppure doveva tentare; e il fatto di poter curare i compagni le dava più tempo. «Un passo alla volta, così bisogna procedere» si disse, pianificando le prossime mosse. 
 

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Capitolo 5
*** Evasione ***


-Capitolo 4: Evasione
 
   «Ventitré... ventiquattro... venticinque». Accertatasi d’essere nella sezione giusta dei tubi di Jefferies, indicata dalle targhette, Giely si guardò intorno, in cerca del pannello. Appena l’ebbe visto, gattonò lungo il condotto fino a raggiungerlo e lo aprì con gesto nervoso. I circuiti bio-neurali erano lì davanti a lei: una piccola sacca contenente una gelatina blu, composta da neuroni coltivati in laboratorio. Dopo aver inserito i necessari comandi, la Vorta la staccò dalla presa, sostituendola con un’altra che si era portata dietro; poi mise in linea la nuova unità e richiuse il portello.
   La Destiny era costellata di quelle sacche, che costituivano il suo sistema nervoso, potenziando le capacità di calcolo del processore centrale. Sfortunatamente era proprio così che gli Undine – sempre primi in biotecnologie – avevano assunto il controllo del computer. Avevano contagiato le gelatine con un loro virus, inserendovi le istruzioni per riportare la nave nello Spazio Fluido e renderla indifesa. Ma se la nave era stata conquistata così, poteva anche essere liberata sostituendo le gelatine; cosa che la dottoressa si accingeva a fare. In un certo senso era fortunata: davanti a un problema informatico non avrebbe saputo che fare, ma quella somigliava più a un’operazione chirurgica. L’unica cosa che la spaventava era la mole di lavoro. C’erano centinaia di gelatine bio-neurali sulla Destiny e lei doveva sostituirle quasi tutte, il che comportava strisciare in ogni condotto della nave. A parte la scomodità, c’era il fattore tempo: aveva calcolato che le occorreva un mese intero per completare il lavoro. Dubitava che i prigionieri negli habitat della biosfera sarebbero sopravvissuti così a lungo. E poi, più tempo dedicava a quel lavoro e più aumentavano le probabilità che gli Undine la scoprissero. Ah, se solo avesse avuto un aiutante...
   «Be-beep?». Il pigolio elettronico veniva da dietro l’angolo. Alcune lucette si riverberarono sulla parete. Qualunque cosa fosse, era sempre più vicina.
   Spaventata a morte, Giely impugnò il phaser. Se quell’apparecchio era un drone usato dagli Undine per pattugliare i tubi – troppo stretti per loro – doveva distruggerlo prima d’essere inquadrata. Si preparò a far fuoco, col cuore che batteva a mille e la fronte imperlata di sudore.
   «Be-beep!» gioì il robottino a forma d’anguria, girando l’angolo. Le sue lucette lampeggiarono in segno d’entusiasmo. A Giely servì qualche attimo per riconoscerlo: era un Exocomp. La Destiny ne era piena al momento del varo, ma poi gli Undine li avevano distrutti tutti, per impedire che interferissero con i loro piani. Tutti tranne uno, evidentemente.
   La Vorta tirò un sospiro di sollievo e abbassò il phaser. «Ma guarda, quando si dice la sincronicità; speravo proprio in un aiuto» sorrise. «Sì, anch’io sono felice di vederti... numero 64» aggiunse, leggendogli la targhetta quando il robottino le venne accanto. Faceva le fusa come un gatto, tanto che dovette accarezzarlo per calmarlo. «Ma siamo in grave pericolo. Sai che la nave è occupata dagli Undine, vero?».
   «Affermativo. Nave occupata. Exocomp rottamati, equipaggio rottamato!» pigolò il robottino, agitatissimo.
   «Ssshhh, parla piano!» ammonì Giely. «Siamo tornati nello Spazio Fluido. Gli Undine pensano che sia al loro servizio e devono continuare a crederlo, o mi uccideranno. Quanto all’equipaggio, non è morto... non ancora. Gli alieni tengono tutti prigionieri nella loro biosfera. Spetta a noi liberarli».
   «Liberare equipaggio?».
   «Certo. E qui entri in gioco tu, piccolino» spiegò Giely. «La prima cosa da fare è depurare il computer dal virus Undine, sostituendo le gelatine bio-neurali infette. Io ci avrei messo un mese, col rischio di farmi scoprire, ma tu puoi farlo più rapidamente e discretamente». Così dicendo, estrasse il d-pad e scaricò nella memoria dell’Exocomp il suo piano di lavoro.
   «Elaboro. Sostituzione sacche compromesse. Richiesti sette giorni, tre ore, undici minuti» calcolò il riparatutto.
   «Bene, comincia subito. Io sarò in infermeria, a cercare una cura per l’agente paralizzante che hanno diffuso nell’aria» spiegò la Vorta. «Quando hai finito, vieni a farmi un fischio».
   «Be-beep!» promise il robottino. Le sue lucette sfarfallarono, nell’equivalente di mettersi sull’attenti.
   «Bravo ragazzo». Giely era sul punto di andarsene, ma si trattenne. «Sai, ti serve un nome. Visto che sei l’Exocomp numero 64, ti chiamerò Ottoperotto. Che ne dici?».
   «Designazione Ottoperotto accettata. Be-beep!» trillò il robottino.
   «Ottimo, ora mettiamoci al lavoro» disse la Vorta. Per la prima volta aveva la sensazione che il suo folle piano potesse davvero riuscire.
 
   Rivera si avvicinò alla fontana pubblica, posta al centro della piazza, con la cautela di un animale braccato. Camminava a passi lenti, guardandosi attorno in cerca di trappole o predatori. Aveva il phaser in pugno e l’avrebbe usato al minimo segno di pericolo; nell’altra reggeva la borraccia. Di regola cercava di non esporsi tanto, ma dopo cinque giorni nell’habitat lui e Talyn avevano esaurito le scorte d’acqua. Se non volevano morire di sete, dovevano trovarne da qualche parte; e la fontana gocciolante dava l’idea di averne.
   «Se fosse avvelenata?» chiese l’El-Auriano, pochi passi più indietro.
   «È un rischio che dobbiamo correre» sospirò l’Umano. «Berrò io per primo. Se entro domani non accuserò sintomi, potrai bere anche tu».
   «Non è giusto. Tu sei il Comandante... anzi, ormai sei il DaiMon» notò Talyn. «Secondo le Regole dell’Acquisizione tocca a me rischiare».
   «Beh, allora sei fortunato ad avere un DaiMon sui generis» disse Rivera, ormai davanti alla fontana. Pose la borraccia sotto al rubinetto gocciolante, ma non voleva aspettare tanto per riempirla. Con l’altra mano, armata di phaser, girò il rubinetto per aumentare il flusso d’acqua.
   Subito si udì uno schianto. Il selciato a pochi passi si spaccò, lasciando uscire una mina, simile a quella che aveva ucciso gli Yridiani nell’habitat desertico. Anche questa sparò in tutte le direzioni. Visto il pericolo, Talyn si gettò prontamente a terra. Sentì un raggio phaser che gli passava pochi centimetri sopra la testa. Non sapeva di che tipo fosse quella mina, ma non voleva darle il tempo di aggiustare il tiro, così sparò dalla sua posizione coricata. La colpì al primo tentativo, disintegrandola.
   «Yu-huuu! Beccata!» esultò l’El-Auriano, rialzandosi. Solo allora realizzò che Rivera non aveva fatto in tempo a gettarsi al suolo. L’Umano era ancora in piedi, con una chiazza bruciata nell’addome, là dove il phaser lo aveva colpito.
   «Bel colpo...» disse Rivera, con un filo di voce. E crollò sul selciato.
   «Frell!» imprecò Talyn, precipitandosi al suo fianco. Gli esaminò la ferita: non era un medico, ma gli parve assai grave. «Resista, s-signore. L’aiuto a t-tornare al rifugio» balbettò.
   «Ho i miei dubbi» mugugnò l’Umano, stringendo i denti dal dolore. «Mi spiace, muchacho, ma temo che sia finita. Avrei voluto fare di più... per te e gli altri...». Una fitta di dolore gli tolse il fiato.
   «No, no, signore! Resti con me!» supplicò Talyn con voce rotta. Essere in quel postaccio era già abbastanza brutto; ma rimanerci da solo lo avrebbe fatto impazzire. Cercò di sollevare Rivera, pur sapendo che non aveva la forza per riportarlo al rifugio. Ma in quella l’Umano gli svanì tra le mani in un bagliore azzurro. Per un attimo l’El-Auriano rimase paralizzato, incapace di connettere. Poi si rese conto che il superiore era stato teletrasportato via... con ogni probabilità dalla Destiny. Questo non era accaduto agli altri, quando erano morti.
   «Forse c’è speranza» si disse Talyn. Per il momento, però, era rimasto solo in quell’habitat pieno di trappole mortali. Si affrettò a riempire sia la sua borraccia che quella di Rivera, dopo di che tornò di corsa al rifugio, deciso a restarci barricato il più a lungo possibile.
 
   Come gli era accaduto giorni prima, quando aveva perso conoscenza, anche stavolta i ricordi di Rivera tornarono a tormentarlo sotto forma d’incubi fin troppo vividi.
   Flash.
   Era un giovane Tenente sull’USS Harmony, la nuova ammiraglia della Flotta Stellare. La vita pareva finalmente sorridergli, davanti a lui c’era una brillante carriera. Ma ecco la sfortuna abbattersi nuovamente su di lui. Come addetto alla Sicurezza, aveva la responsabilità di una delle armerie di bordo. Un giorno, durante un’esercitazione a sorpresa, gli era capitato chissà come di non reinserire il codice di sicurezza dell’ingresso. Si era accorto dell’errore solo a sera, quand’era tornato nell’armeria per riporre alcuni equipaggiamenti.
   A terra c’era un bambino di circa sei anni, figlio di una coppia di bordo. Era inanimato e Rivera vide subito il perché: un raggio phaser ad alta energia gli aveva disintegrato il piede. La piccola mano impugnava ancora l’arma con cui si era sparato. Rivera non avrebbe mai dimenticato il terrore che si era impossessato di lui in quel momento. Si era inginocchiato sulla piccola vittima, cercandone i segni vitali: il cuore batteva appena e c’era un debolissimo respiro.
   «Rivera a infermeria, emergenza medica! Codice rosso, è coinvolto un minorenne che necessita rianimazione. Per il teletrasporto agganciate le coordinate del mio comunicatore!» gridò, appuntandolo sulla maglietta del bambino.
   Flash.
   Rivera camminava avanti e indietro in cella, ascoltando il suo superiore – dall’altra parte del campo di forza – che gli riferiva l’esito delle indagini. Alla fine rialzò lo sguardo, incredulo. «Vediamo se ho capito. Quel bastardello è stato tanto furbo da pedinarmi nei miei spostamenti, localizzare l’armeria ed entrare approfittando dell’unico momento in cui non era sigillata. Ed è stato tanto deficiente da prendere un phaser, togliere la sicura, regolarlo a piena potenza, mirarsi alla gamba e fare fuoco».
   «Questa è la nostra ricostruzione» confermò l’Ufficiale Tattico. «Ora deve capire che lei si trova in una posizione difficile. L’armeria era sotto la sua responsabilità e c’è un minorenne coinvolto. Fortunatamente il bambino è sopravvissuto, ma il piede è andato, per cui dovrà sempre portare una protesi. I genitori hanno sporto denuncia contro di lei...».
   «Queste cose non accadrebbero, se la Flotta non facesse puttanate come tenere i bambini sulle navi stellari!» esplose Rivera, dando un violento pugno contro il campo di forza. «Poi la responsabilità è mia, se accadono incidenti?!».
   «Così dice il codice e nessuno può farci niente» confermò l’Ufficiale Tattico. «Ora subirà la corte marziale. Se avrà fortuna, riusciremo a evitarle il carcere. Ma sarò sincero con lei, la sua carriera nella Flotta è finita. Sarà espulso con disonore». Questo comportava la perdita dei privilegi sociali derivanti dall’essere stato in servizio.
   «Frell. E se facessi ricorso?!».
   «Le dico per esperienza che queste cose non finiscono mai bene. Nel suo interesse, le consiglio di accettare la sentenza» avvertì l’Ufficiale Tattico.
   Ci fu un lungo silenzio. Rivera continuava a passeggiare avanti e indietro nel piccolo spazio della cella, torcendosi le mani. A un tratto si fermò e fissò il superiore attraverso il campo di forza. «Cinque anni d’Accademia e altri cinque di servizio buttati via!» esclamò con amarezza. «Bell’affare, la Flotta. Vi siete presi la mia vita e mi lasciate senza niente!».
   «Suvvia, non sia così negativo» consigliò l’Ufficiale Tattico. «Troverà altre strade. Le sue competenze sono assai richieste in certi ambienti».
   «Quali ambienti?» chiese Rivera, poco convinto.
   «I mercanti indipendenti, ad esempio» rispose il superiore. «Dopo la Guerra Civile non siamo ancora riusciti a ripulire le rotte spaziali, per cui i mercanti sono sempre in cerca di ufficiali tattici con esperienza. Fossi in lei mi rivolgerei a loro. Vedrà, l’accoglieranno a braccia aperte».
   Flash.
   «Un ex ufficiale di Flotta, eh?» fece il DaiMon Grilk, scorrendo il suo curriculum sull’oloschermo della scrivania. «Beh, ho visto di peggio. Ma qui vedo che è stato espulso con disonore. Posso sapere cos’è accaduto di preciso?».
   Rivera glielo disse, cercando d’essere più obiettivo possibile.
   «Ma guarda... tipico della Flotta, far scontare ai singoli individui le conseguenze del suo dannato idealismo!» commentò Grilk, scuotendo la grossa testa. «Beh, giovanotto, sei fortunato: qui sull’Ishka non abbiamo marmocchi».
   «Significa che sono assunto?» chiese Rivera, col cuore in gola.
   «Per il momento ti prendo in prova, a mezza paga» chiarì il DaiMon. «Se tiri dritto per sei mesi, il posto è tuo. Sarai il nostro artigliere; e non credere che sia un incarico di riposo!».
   «Avete molti scontri?».
   «Sicuro! È dalla guerra che le rotte spaziali sono infestate» confermò il DaiMon. «Il Sindacato di Orione, la Catena Cremisi, i resti dei Pacificatori... non aspettano che di arricchirsi a scapito degli onesti mercanti come me» disse con aria ferita.
   «Porterò al massimo le vostre difese» promise Rivera.
   «Ci conto. Ah, ragazzo mio, come t’invidio!» disse Grilk in tono teatrale. «Stai per vivere avventure indimenticabili, con chi lo spazio lo conosce veramente. Altro che l’addestramento di Flotta... è sulla mia nave che imparerai come funziona davvero la Galassia!».
   Flash.
   «E questa che roba è?!» protestò Rivera, alludendo al contenuto delle casse scoperchiate. Sebbene nessuno glielo avesse ordinato espressamente, aveva ispezionato il carico subito dopo l’imbarco. Così aveva scoperto i fucili polaronici, le granate al plasma e le altre armi che l’Ishka stava trasportando illegalmente.
   «Mi sembra evidente ciò che sono» rispose Losira, chiudendo di scatto la cassa. «Sono merce che scotta. Il che la rende doppiamente preziosa. Guai se mancasse qualcosa all’arrivo!».
   «Tu lo sapevi?».
   «Certo che lo sapevo, fessacchiotto! Sono la tesoriera di bordo, è mio compito tener traccia di tutto ciò che entra ed esce dalle stive» chiarì la Risiana.
   «E io sono l’Ufficiale Tattico, quindi non posso esser tenuto all’oscuro» si adombrò Rivera. «Per chi è questa roba?».
   «La cosa non ti riguarda».
   «Mi riguarda eccome! Quando gli acquirenti arriveranno, dovrò distinguerli dai pirati. Altrimenti mi sentirò autorizzato a sparare e il vostro affare andrà in fumo!» avvertì l’Umano.
   «E sia!» sbuffò Losira. «Queste armi sono per la Catena Cremisi» disse indicando le casse sulla destra. «Sai, quei fanatici che si credono ancora in guerra. Le useranno contro i rimasugli dei Pacificatori, quindi a conti fatti stiamo facendo un favore alla Galassia».
   «E le altre?» chiese Rivera, accennando alle casse sulla sinistra.
   «Quelle sono per i Pacificatori, naturalmente! Vuoi che restino indifesi?» sogghignò Losira. «Così siamo tutti soddisfatti: loro continuano ad ammazzarsi, noi a guadagnare».
   «Quando sono salito a bordo, non pensavo che fossero questi i vostri affari» borbottò Rivera, col morale a terra. Avrebbe dovuto ribellarsi, dare le dimissioni... ma temeva che quei contrabbandieri non lo avrebbero lasciato andare, dopo le rivelazioni sui loro affari. Non gli restava che tacere e adeguarsi, sperando di non finire in qualche prigione federale, o peggio.
   «Lo so, è dura per tutti, specialmente all’inizio» si addolcì Losira. «Nemmeno io avrei voluto finire con questi farabutti, ma è capitato. Non ci resta che fare buon viso a cattivo gioco. Ti darò qualche consiglio, per aiutarti a sopravvivere» promise, accompagnandolo fuori dalla stiva. «La cosa più importante è non dare mai niente per scontato. Non devi fidarti di nessuno...».
   «Neanche di te?» fece l’Umano, guardandola con un misto d’attrazione e repulsione.
   «Certo, neanche di me» confermò la Risiana. «Del resto non puoi nemmeno vivere nella costante paranoia. Ogni volta che ti svegli la mattina, fa’ conto che può accadere l’inaspettato, con nuovi pericoli ma anche nuove occasioni da cogliere...».
 
   «Gasp!» fece Rivera, svegliandosi di botto. Cercò d’alzarsi, ma scoprì d’essere avvinto mani e piedi a un lettino. Si guardò attorno, confuso: era in un’infermeria ultramoderna. Gli ci volle qualche attimo per riconoscere l’infermeria della Destiny.
   «Calmo, non ho ancora finito di rappezzarti» disse una voce familiare. La dottoressa girò attorno al lettino, entrando nel campo visivo del paziente: era Giely.
   «Tu! Schifosa collaborazionista!» ringhiò l’Umano. «Che mi stai facendo?!».
   «Ti sto salvando la vita, credo si dica così» rispose la Vorta in tono diplomatico. «Se non approvi, posso sempre rispedirti nella biosfera».
   «Perché ti prendi il disturbo d’aiutarmi, dopo averci venduti al nemico?» chiese Rivera, scrutandola torvo.
   «Voi avventurieri siete dei soggetti interessanti. Le vostre gesta nella biosfera hanno appassionato gli Undine» rivelò Giely. «Così i padroni di casa mi hanno dato il permesso di curarvi, quando rimanete feriti. Sta’ fermo, ho quasi finito» aggiunse, passandogli il rigeneratore dermico sulla lesione.
   «E dopo avermi curato, che farai? Mi rispedirai laggiù per lo spasso dei tuoi padroni?» indagò l’Umano.
   «Non ho scelta. E non pensare neanche per un attimo di poter fuggire da qui. Gli Undine arriverebbero subito e ti farebbero a pezzi» avvertì la Vorta.
   «Già, loro non pensano ad altro!» esclamò l’Umano, frustrato. Per qualche secondo si abbandonò sul lettino. Poi notò la stranezza della situazione. «Avevo capito che gli Undine ci avevano stesi con un patogeno disperso nell’aria».
   «Corretto».
   «E allora perché sono sveglio?».
   «Questa è la domanda giusta, Comandante» disse Giely, abbozzando uno strano sorriso. Ora che aveva curato la ferita, depose il rigeneratore e si chinò sul paziente. «T’informo che non sono più sotto l’influenza degli Undine» gli bisbigliò all’orecchio.
   «Qualcuno ti ha liberata?» chiese Rivera, dubbioso.
   «Mi sono liberata da sola. Talyn mi ha mostrato come fare, prima che vi catturassero» rivelò la Vorta. «Ora sono di nuovo al servizio della Flotta Stellare. Ecco perché ho sintetizzato una cura per il patogeno aereo, a partire dal mio sangue. Te l’ho iniettata mentre ti rappezzavo lo stomaco. Osservandoti direi che funziona».
   «Mi hai usato come cavia... che carina» commentò l’Umano. «Che altro hai macchinato, in quel vortice spaziale che chiami cervello?!».
   «Dobbiamo riconquistare la Destiny» gli sussurrò Giely all’orecchio, insinuante. «Ho già mosso i primi passi. Oltre a sintetizzare la cura per tutti voi, ho spedito Ottoperotto a sostituire le gelatine bio-neurali. Così gli Undine non potranno più accendere e spegnere la nave a comando; né potranno trattenerci nello Spazio Fluido».
   «Aspetta, chi è Ottoperotto?!».
   «Ah già, non lo conosci. È l’unico superstite degli Exocomp di bordo. Sai, i robottini riparatutto. L’ho trovato nascosto nei tubi di Jefferies e l’ho arruolato per la nostra causa!» si esaltò la Vorta, fiera della sua trovata.
   Rivera la osservò perplesso, chiedendosi se non avesse ancora le rotelle fuori posto. «Senti un po’... se vuoi fare piani di battaglia, che ne dici di liberarmi?» suggerì, alludendo al fatto d’essere legato al lettino. «Così parleremo meglio».
   «Spiacente, non posso rischiare che tu combini qualche pasticcio» si oppose Giely. «Se gli Undine scoprono che sei cosciente e che abbiamo parlato, è la fine. Perciò starai lì, fino al momento di rispedirti nella biosfera».
   «Groan, e va bene!» si arrese l’Umano. «Ma almeno rispondi alle mie domande. Per prima cosa, spiegami com’è fatta quella dannata struttura. Io mi trovavo in un habitat urbano, ma un sopravvissuto della Destiny mi ha detto che ce ne sono almeno altri due».
   «Sì, sono tre in tutto» confermò la Vorta. «Ma solo pochi di voi si trovano là in questo momento. Quasi tutto l’equipaggio è in cella, nei livelli inferiori della stazione. Gli Undine li mandano di sopra a piccoli gruppi, man mano che i primi soggetti – ehm – muoiono».
   «Possiamo teletrasportarli sulla Destiny? Sia quelli negli habitat che gli altri di sotto?» volle sapere Rivera.
   «Una volta assunto il controllo del computer, credo di sì».
   «Frell, lo credi o lo sai?!».
   «Beh, io credo... penso... ritengo di sì» si corresse Giely. «Non guardarmi così: non ho mai teletrasportato qualcuno da una prigione Undine attraverso lo Spazio Fluido. Ma se il segnale è stabile, non dovrebbero esserci problemi. Posso trasferirvi tutti in infermeria, nel giro di cinque minuti» aggiunse, accennando alla cabina di teletrasporto riservata alle emergenze mediche.
   «Cinque minuti... gli Undine non se ne accorgeranno?» obiettò Rivera.
   «Non se vi trasferisco mentre il computer si riavvia dopo la sostituzione delle gelatine» rivelò la Vorta. «Vedi, il teletrasporto dell’infermeria ha un processore autonomo, perché dev’essere operativo anche qualora il computer principale sia disattivato o in fase di riavvio. Naturalmente una volta che si sarà riavviato gli Undine capteranno i vostri segni vitali a bordo» avvertì.
   «Okay, diciamo che tu riesca a imbarcarci. Supponiamo anche d’immunizzare gli altri prima che perdano i sensi» ragionò l’Umano. «Poi che facciamo con gli Undine? Quanti ce ne sono a bordo?».
   «Questo è il bello, sono pochissimi. Sei in sala macchine, altrettanti in plancia. Più l’Esaminatore, che è il capo della combriccola e sta quasi sempre a spiarvi in astrometria» spiegò Giely.
   «Così pochi?».
   «Non ne servono di più. Hanno già esaminato la Destiny l’altra volta, ora devono solo tenerla in funzione» confermò la dottoressa. «Tra l’altro gli Undine non dormono mai, quindi non c’e’ rotazione di personale».
   «Uhm, tredici in tutto...» rimuginò Rivera. «Possiamo trasferirli via?».
   «Temo di no. Hanno una biochimica così complessa che il teletrasporto non li aggancia» avvertì la Vorta. «E non possiamo neanche confinarli da qualche parte, perché oltrepassano i campi di forza e squarciano il metallo a mani nude. Se vogliamo riconquistare la nave, temo proprio che dovrete ammazzarli».
   «Dovremo, noi?».
   «Certo! Io sono un medico, non posso uccidere nessuno» chiarì la dottoressa, mostrando i palmi aperti. «Siete voi gli avventurieri pronti a tutto. È la vostra battaglia».
   «Ma puoi almeno procurarci le armi?» insisté l’Umano.
   «Sì, ma vi serviranno molti colpi per abbattere quegli esseri. Hai visto quanto sono resistenti».
   «Forse c’è un’alternativa» ragionò Rivera. «Il Medico Olografico della Voyager modificò le nanosonde Borg per ucciderli, non è così?».
   «Sì, ma si trattava di far esplodere delle cariche nello spazio per contagiare le bionavi» chiarì la Vorta. «Non è qualcosa che si possa fare qui dentro. Le nanosonde colpirebbero anche voi, uccidendovi ben più in fretta degli Undine».
   «Non voglio mettermi a lanciare granate. Pensavo a qualcosa di più controllabile...» rimuginò l’Umano. «Hai mai sentito parlare dei TR-116?».
   «No, che sono?».
   «Fucili a proiettili, progettati dalla Flotta Stellare per usarli quando ci sono campi di dispersione o radiogenici che interferiscono coi phaser convenzionali» rivelò il Primo Ufficiale. «Usano propellente chimico per sparare dei proiettili di tritanio. A conti fatti, somigliano alle armi da fuoco della vecchia Terra. Le loro specifiche dovrebbero essere nel replicatore industriale di bordo. Fanne almeno una ventina e tienili pronti. Però devi sostituire i proiettili con dardi soporiferi... anche quelli dovrebbero essere in archivio. E al loro interno, invece del tranquillante, inserisci le nanosonde. Pensi di riuscirci?».
   «Non ho mai fatto niente del genere, ma... credo di sì» esitò Giely.
   «Devi esserne convinta, perché avremo una sola occasione» le ricordò Rivera. «Appena avrai terminato i preparativi, prendici a bordo. Imposta il teletrasporto affinché ci prenda tutti in automatico, anche se qualcosa ti distraesse. A quel punto dovrai immunizzare gli altri in fretta, prima che perdano i sensi. Se riesci a fare tutto questo, ci penseremo noi a riconquistare la nave. Non appena controlleremo la plancia e la sala macchine, potremo aprire un portale e tornare a casa».
   «C’è un ultimo problema» disse la Vorta. «Attorno a noi ci sono venti bionavi che orbitano attorno alla biosfera. Non appena capiranno che stiamo riconquistando la Destiny, ci attaccheranno. Sono certa che non esiteranno a sacrificare i pochi compagni a bordo, pur d’impedirci di scappare».
   «Uhm, è come temevo» borbottò l’Umano. «Ma prima che fossimo catturati ho esaminato l’arsenale della Destiny e ho trovato qualcosa che potrebbe cambiare le carte in tavola...».
 
   Barricato nel seminterrato del centro sportivo, Talyn stava esaminando le scorte di viveri, calcolando per quanto tempo poteva restare nascosto. Quattro giorni... aveva solo quattro giorni, prima di dover uscire a rifornirsi d’acqua. La prossima volta si promise di portare un recipiente più grande.
   D’un tratto l’El-Auriano udì un suono di passi nel corridoio. Qualcuno si stava avvicinando! Che fosse un Undine giunto per farlo a pezzi? O un altro superstite impazzito della Destiny? Chiunque fosse, il giovane era deciso a non farsi trovare impreparato. Si appostò accanto alla porta, pronto a sparare nella nuca a chiunque fosse entrato. Non aveva mai ucciso a sangue freddo... anzi, non aveva mai ucciso in alcun modo... ma in quel frangente disperato non vedeva altra via.
   I passi si fermarono davanti alla porta. Tum... tum... tum.
   Talyn trattenne il fiato, pronto a scattare. Una goccia di sudore gli scese lungo la fronte.
   Il portone si aprì cigolando. Creek...
   Una sagoma umanoide entrò nello stanzone semibuio. «Hola!».
   Talyn scattò, col phaser in pugno, ma all’ultimo istante si trattenne dal fare fuoco. «Comandante, sei vivo!» esclamò, riconoscendolo.
   «Solo finché non premi quel grilletto, muchacho» precisò Rivera, che aveva ancora il phaser puntato alla nuca.
   «Al tempo! Giely ha detto che gli Undine sono anche mutaforma» ricordò l’El-Auriano, ancora sovreccitato. «Vediamo se ricordi: dove ci siamo incontrati la prima volta?».
   «Nella stiva dell’Ishka» rispose l’Umano, restando immobile. «Io ero appena salito a bordo. Tu mi avevi rubato alcuni effetti personali, tra cui la scacchiera di kadis-kot».
   «Indovinato. È davvero lei, Comandante... sapesse quanto sono contento!» gioì Talyn, abbassando finalmente l’arma.
   «Anch’io sono contento d’essere sopravvissuto al fuoco nemico... e a quello amico» ironizzò Rivera.
   «Vedo che l’hanno rimessa a nuovo. È stato sulla Destiny?».
   «Sì, e torno con buone notizie. Abbiamo una speranza di salvarci, ma dobbiamo essere pronti a entrare in azione» rivelò l’Umano, passando poi a illustrare il piano.
 
   Sulla plancia della Destiny regnava un silenzio surreale. Gli Undine che la occupavano erano in quiete; solo ogni tanto uno di loro si attivava per controllare i sistemi a lui affidati. Se dovevano dirsi qualcosa, lo facevano telepaticamente.
   A un tratto le cose cambiarono. Una spia si attivò, destando l’interesse dell’addetto. Questi armeggiò per alcuni secondi con i comandi; poi richiamò l’attenzione degli altri. «Abbiamo un problema» avvertì. «È in corso un riavvio non autorizzato del processore centrale».
   «Bloccalo» ordinò un altro.
   «Troppo tardi, è già in corso. Sistemi offline».
   La telepatia degli Undine faceva sì che la conversazione fosse percepita non solo dai presenti in sala, ma anche dagli altri che si trovavano a bordo. Questo comprendeva gli addetti alla sala macchine e l’Esaminatore in astrometria.
   «È chiaro che abbiamo una falla nella sicurezza. Portatemi la Vorta, devo interrogarla... anzi no, vado io stesso» decise l’Esaminatore. «A tutti gli altri, assicuratevi di mantenere il controllo dei sistemi. Ogni anomalia dev’essermi segnalata immediatamente» chiarì. Sondò l’astronave, cercando di percepire la presenza d’eventuali intrusi. Non ci volle molto perché il suo sospetto divenisse una certezza.
 
   «Svelti, svelti!» disse Rivera, facendo uscire i colleghi dalla cabina di teletrasporto. Man mano che arrivavano, al ritmo di cinque per volta, bisognava iniettargli la cura e spiegargli la situazione. Ma non c’era tempo per farlo con i trecento membri dell’equipaggio. Non appena ebbero imbarcato i primi venti, l’Umano li divise in due gruppi.
   «Signori, dobbiamo riconquistare la Destiny. Questo significa prendere plancia e sala macchine, sbarazzandoci degli invasori. Abbiamo pochi minuti prima che si accorgano della situazione, al che manderanno rinforzi o distruggeranno questa nave» avvertì l’Umano, mentre distribuiva i fucili TR-116 preparati da Giely.
   «Dov’è Grilk?» chiese Losira, guardandosi attorno.
   «Non ce l’ha fatta; ora sono io al comando» chiarì Rivera, in tono inappellabile. Cominciò a distribuire gli incarichi, prima che qualcuno sollevasse obiezioni. «Se volete sopravvivere, seguite le mie istruzioni. Voi verrete con me in plancia» disse a Talyn, Shati e una mezza dozzina di Ferengi. «Gli altri vadano in sala macchine. Losira, dirigi il secondo gruppo. Prendete i fucili e anche i proiettili, mi raccomando!» disse, sapendo che non erano avvezzi alle armi da fuoco. «E non scordate i comunicatori» aggiunse, prendendone uno per sé dalla scorta che Giely aveva preparato.
   «Sentito? Tutti con me... anche tu!» disse Losira, acciuffando Irvik prima che potesse eclissarsi in una saletta di degenza.
   «Io? A che vi servo?» squittì il Voth, terrorizzato.
   «A far funzionare i sistemi, no? Avevi promesso d’aiutarci!» gli ricordò la Risiana.
   «L’ho fatto, mannaggia» convenne il sauro, accodandosi. Lui però non volle impugnare armi.
   «Seguitemi, svelti» stava dicendo intanto Rivera al suo gruppo. «No, tu sta’ qui!» ordinò a Naskeel, che aveva preso a zampettargli dietro. Non sapeva se potevano fidarsi del Tholiano.
   «Mi ha salvata, nella biosfera» rivelò Shati.
   «Buon per te, ma ne riparleremo» disse l’Umano, non volendo affrontare una battaglia assieme a un elemento imprevedibile.
   I due gruppi lasciarono l’infermeria con le armi in pugno, spinti dalla forza della disperazione. Giely rimase invece ad accertarsi che il teletrasporto continuasse a imbarcare l’equipaggio, oltre che per immunizzare i nuovi arrivati. La battaglia per il controllo della Destiny era iniziata.
 
   «Riavvio ultimato, il computer è nuovamente operativo» disse l’addetto Undine.
   «Rapporto» ordinò l’Esaminatore, che in quel momento si dirigeva a gran velocità in infermeria.
   «Rilevo dei trasferimenti in corso dalla biosfera verso l’infermeria» avvertì l’addetto. «Cinquanta federali sono già a bordo. Un gruppo si sta dirigendo verso la sala macchine e un altro viene qui in plancia».
   «Notevole, sembra che questi avventurieri siano più pericolosi degli ufficiali di Flotta» ammise l’Esaminatore. «Ebbene, i nostri esperimenti sono finiti. Barricatevi dove siete e chiamate rinforzi. Quando avrete il vantaggio tattico, sterminate gli intrusi. Io intanto vado ad accertarmi che, qualunque cosa accada, questa nave non faccia ritorno alla Federazione» disse, cambiando bruscamente direzione. Invece che all’infermeria, ora era diretto alla sala del processore centrale.
 
   «Ci siamo» disse Rivera, vedendo la scala a chiocciola che portava in plancia. Salì i gradini a quattro a quattro, seguito dai suoi. Come sperava, il portone blindato che avrebbe dovuto isolare la plancia non era stato ancora sostituito, dopo che l’Undine lo aveva sfondato qualche giorno prima. Tuttavia si accorse che il campo di forza al di là di esso era stato attivato, segno che gli alieni si erano già accorti dell’intrusione.
   «Fermi, c’è la barriera!» disse ai suoi. «Rivera a infermeria, la plancia è isolata. Il vostro hacker può farci qualcosa?».
   «Ci sta già lavorando» disse Giely, osservando Ottoperotto che trafficava con un’interfaccia del computer. Aveva inserito uno spinotto, stabilendo un link diretto, e si faceva strada nei sistemi con la velocità di un’Intelligenza Artificiale. «Ora che il processore è riavviato, dovrebbero valere i codici di comando originali. Restate in attesa» raccomandò la dottoressa.
   «Avanti...» mormorò Rivera, sapendo che ogni secondo perso affrettava la loro rovina. Finalmente il campo di forza sfarfallò e venne meno. La via era libera.
   «Ora!» gridò l’Umano, irrompendo in plancia in testa al suo manipolo. Impugnavano i fucili TR-116, con cui bersagliarono gli Undine. L’Umano colpì tutti gli avversari, e così Shati; anche i Ferengi misero parecchi colpi a segno. I proiettili cavi colpirono gli alieni in vari punti, strappandogli dei grugniti. Ma invece di conficcarsi nella loro epidermide, caddero a terra spuntati.
   «Non hanno abbastanza forza di penetrazione!» gemette Shati, impugnando il phaser.
   «Aspetta!» la bloccò Rivera. «Dovrebbe bastare il contatto».
   Gli Undine si avvicinarono con uno strano passo barcollante, come se fossero ubriachi. La loro pelle violacea stava diventando di un malsano verde scuro. Eppure continuavano ad avanzare, con gli artigli protesi. Gli avventurieri dovettero arretrare, tanto da ridiscendere la scala a chiocciola. Uno degli Undine parve in procinto di scenderla a sua volta, ma le forze gli vennero meno e rotolò giù dai gradini. Si contorse sotto gli occhi intimoriti degli avversari, mentre la sua epidermide passava dal verde al grigio. Per un attimo levò il braccio scheletrico, in un estremo tentativo d’artigliare Rivera; l’attimo dopo ricadde inanimato.
   «È morto?» chiese Talyn col cuore in gola.
   «Lo spero sinceramente» disse l’Umano, ricaricando il suo TR-116. «Forza, dobbiamo occupare la plancia. State attenti a non toccarlo!» disse, scavalcando il corpaccio dell’alieno per imboccare le scale.
   Gli avventurieri giunsero così in plancia, dove trovarono gli altri cinque Undine riversi a terra, senza vita. Sullo schermo campeggiava la biosfera, simile a un fungo velenoso; era la prima volta che la vedevano dall’esterno. Si precipitarono ai posti di comando, verificando lo status della nave.
   «Losira a Rivera. Siamo all’ingresso della sala macchine, ma il nemico si è barricato all’interno» avvertì la Risiana.
   «Vi apro il portone» disse l’Umano, correndo alla postazione tattica. In pochi attimi fece quanto promesso; poi restò in ascolto. Attraverso il canale aperto udì una serie di spari, seguiti dai rantoli degli Undine.
   «La sala macchine è nostra» disse infine Losira.
   «Bene, preparatevi ad aprire il portale di ritorno. Informatemi non appena pronti» ordinò Rivera. In quella un lampo accecante illuminò lo schermo e la Destiny rollò leggermente. «Una delle bionavi ha sparato, ma ci hanno mancati» constatò l’Umano, consultando la postazione tattica. «Doveva essere un colpo d’avvertimento. Plancia a infermeria, avete imbarcato tutti?».
   «Ho finito in questo momento» confermò Giely.
   «Bene, allora alzo gli scudi» disse Rivera. Appena in tempo: il secondo colpo giunse a segno, facendo rollare la nave ancora di più. «Usano un raggio antiprotonico ad alta energia, gli scudi non reggeranno a lungo» ragionò l’Umano. Le bionavi li stavano circondando come uno sciame di cavallette.
   «Ci porto via di qui» disse Shati, che si era già messa al timone. La Destiny schizzò a cavitazione quantica, sfuggendo ai colpi delle bionavi. Allora si fece silenzio in plancia.
   «Ce l’abbiamo fatta?» mormorò Talyn, incredulo.
   «No, non ancora» avvertì Rivera. «Abbiamo guadagnato un po’ di respiro, ma finché saremo nello Spazio Fluido resteremo in pericolo. Che fanno le bionavi?».
   «Vediamo... frell, c’inseguono già!» rilevò l’El-Auriano.
   «Shati, portaci a massima cavitazione».
   Di lì a poco la Destiny prese a vibrare leggermente, mentre il nucleo quantico era spinto al limite. «Le bionavi ci stanno ancora alle costole» rilevò Talyn. «La loro velocità sembra pari alla nostra. Mi correggo... è appena superiore. Ci saranno addosso fra mezz’ora».
   A quelle parole Rivera si premette il comunicatore. «Plancia a sala macchine, abbiamo mezz’ora per capire come tornare a casa. A che punto siete?».
   «La procedura è complicata, signore» gli rispose Irvik. «E poi nessuno di noi ha familiarità con queste tecnologie. È sicuro di non poterci dare più tempo?».
   «C’è qualcosa, sì» rammentò Rivera, consultando la postazione tattica. «Questa nave ha un cannone thalaronico. Dovrebbe essere efficace contro i tessuti organici delle bionavi. Tenetevi pronti, avvio la procedura di miscelamento». Fatto questo, l’Umano si rivolse a Shati: «Correggi la rotta. Voglio che tu descriva un ampio cerchio e ci riporti alla biosfera. Con un po’ di fortuna, la distruggeremo assieme alle bionavi». A questo punto Rivera lasciò la postazione tattica, invitando uno dei Ferengi a sostituirlo.
   «Dove sta andando?» si stupì Talyn.
   «C’erano tredici Undine a bordo» ricordò l’Umano, imbracciando il fucile TR-116. «Ne abbiamo uccisi sei in plancia e altrettanti in sala macchine. Resta l’Esaminatore, che secondo Giely è il loro comandante. Cerca i suoi segni vitali».
   «Vediamo... trovati! È nella sala del processore» rilevò l’El-Auriano. «Forse vuole sabotarlo di nuovo» si preoccupò.
   «Senza computer non torniamo a casa. Mi occuperò subito del problema, voi attenetevi agli ordini» disse Rivera. Lasciò la plancia, recandosi nell’adiacente saletta di teletrasporto. Qui impostò il trasferimento per la sala del processore e salì svelto sulla piattaforma. Si teletrasportò col fucile a tracolla, pronto a far fuoco.
 
   «Abbiamo un problema» disse Irvik, consultando una consolle. «Il miscelatore thalaronico perde. Forse sono stati gli Undine a sabotarlo. Se continua così, quando sarà carico esploderà. Dobbiamo spegnerlo subito».
   «Non si può riparare?» chiese Losira, occhieggiando la sala del miscelatore.
   «Si può escludere manualmente l’iniettore danneggiato, sì» dedusse Irvik, osservando un diagramma del congegno. «Ma si può farlo solo nella sala di miscelamento. E quella è già inondata di radiazioni thalaroniche. Nemmeno le tute ci proteggerebbero. Mi spiace, non resta che spegnere tutto» disse, la mano già sui comandi.
   «Fermi» disse Naskeel, entrando in sala macchine. Il Tholiano li aveva seguiti, malgrado l’ordine di restare in infermeria. «Andrò io. La mia fisiologia cristallina è immune alle radiazioni thalaroniche».
   «Dovremmo fidarci di te?» chiese Losira, sospettosa.
   «Non avete scelta» rispose Naskeel freddamente. «Tra pochi minuti le bionavi ci saranno addosso. Il cannone thalaronico è la nostra sola possibilità di sconfiggerle. Per la comune sopravvivenza, devo andare».
   Losira non sembrava convinta, ma Irvik agì al posto suo. «D’accordo, quella è la camera stagna» disse indicando l’ingresso. «Quando sarai dentro ti dirò cosa fare».
   Senza perdere tempo, il Tholiano zampettò nella camera stagna, chiudendosi il portello alle spalle. Subito aprì la porta interna, venendo inondato dalle radiazioni. Ma come previsto, il suo organismo non riportò danni. Varcò anche la seconda soglia, accedendo alla sala del miscelatore. Davanti a lui c’era un pozzo da cui saliva l’energia thalaronica, sotto forma di una doppia elica, ironicamente simile al DNA; ma queste erano radiazioni che disgregavano la materia organica. Ad ogni istante la doppia elica ruotava più rapida, segno che l’energia aumentava; la sua luce tingeva ogni superficie di una tonalità verde veleno.
   «Sono dentro» disse Naskeel. «Che devo fare?».
   «Avvicinati al pozzo. Ci sono sei iniettori tutt’attorno» gli dettò Irvik. «Uno di essi è danneggiato e perde. Dovrebbe esserci una spia accesa, forse anche una perdita visibile».
   «Trovato» disse il Tholiano dopo una rapida ispezione. Seguendo le istruzioni dell’ingegnere prese a disattivarlo manualmente, mentre la Destiny sfrecciava nello Spazio Fluido, tallonata dalle bionavi.
 
   La sala del processore centrale era ampia e circolare, con un camminamento che permetteva di girare intorno al computer. Le consolle erano perlopiù disposte lungo le pareti. L’illuminazione era bassa, così che le interfacce LCARS brillavano in penombra. Un costante ronzio segnalava l’attività informatica.
   Rivera si guardò attorno, ma l’Undine non era in vista. Doveva trovarsi dietro al processore, tanto alto da nascondere anche il grosso alieno. L’Umano prese a girarci intorno, più silenziosamente possibile. La sua fronte era imperlata di sudore; l’indice posato sul grilletto aspettava solo di scattare alla vista dell’alieno. Un quarto di giro... mezzo giro... finalmente una sagoma umanoide comparve nella penombra.
   «Fermo, sono io!» squittì una voce femminile. Giely si fece avanti con le mani alzate, entrando in una zona maggiormente illuminata da una consolle parietale.
   «Che ci fai qui?! Ti credevo in infermeria!» sbottò Rivera, abbassando il fucile.
   «Ho rilevato che l’Esaminatore era qui. Non potevo lasciare che sabotasse ancora il computer» disse la Vorta, avvicinandosi.
   «Lui dov’è? E come t’è saltato in mente d’affrontarlo da sola?!» chiese l’Umano. Nel momento in cui pronunciava queste parole, la risposta gli balenò in mente. Rialzò il fucile, ma era troppo tardi. L’Esaminatore – perché di lui si trattava – scattò in avanti, afferrò la canna e la piegò di lato. Lo sparo infranse la consolle sulla parete, facendo tornare la penombra. E in quella penombra, l’alieno abbandonò la forma umanoide con cui s’era travestito. Il suo corpo s’ingrandì, tingendosi di viola e acquistando le mostruose fattezze degli Undine. La mano, ancora serrata attorno alla canna del fucile, la piegò e deformò in modo che l’arma non potesse più sparare.
   Congelato dall’orrore, Rivera dovette piegare la testa all’indietro per vedere il mostro in faccia. Non aveva mai visto un Undine così inferocito. Lasciò andare il fucile, ormai inservibile, e arretrò precipitosamente. Al tempo stesso impugnò la frusta neurale. Ma l’Esaminatore gli fu addosso alla velocità di un cavallo al galoppo. Lo afferrò per la gola, sbattendolo contro il muro. Al tempo stesso gli bloccò il polso, costringendolo a mollare la frusta. Poi si piegò su di lui, fissandolo con gli spaventosi occhi gialli: erano faccia a faccia.
   «Perché non mi uccidi?!» rantolò l’Umano. Meglio quello che tornare nella biosfera.
   Trascorsero lunghi attimi di silenzio. Poi l’Undine si rimpicciolì, assumendo nuovamente le fattezze di Giely. La sua mano però era ancora serrata attorno alla gola di Rivera, con una stretta d’acciaio. «Ecco, ora possiamo comunicare» disse con voce bassa e raschiante, ben diversa da quella della Vorta. «Io sono l’Esaminatore, il responsabile della biosfera. Ci siamo già incontrati in plancia, quando vi catturai» rivelò.
   «Ah, eri tu!» boccheggiò Rivera. «Che vuoi da me?».
   «Offrirti un accordo» rivelò l’Undine, sempre con voce rasposa. «T’informo che, prima del tuo arrivo, ho cancellato le coordinate quantiche del vostro Universo dalla memoria del computer. Perciò, anche se i tuoi colleghi riuscissero a stanarmi e uccidermi, non tornerete mai a casa».
   «Hijo del diablo!» imprecò Rivera, vedendo la rovina abbattersi definitivamente su di loro. «Mi avevi proposto un accordo, di che si tratta?!».
   «Consideralo un armistizio» rispose l’Esaminatore. «Se accetti ti restituirò le coordinate del vostro Universo. Lascerò che la Destiny vi faccia ritorno, dopo di che permetterò a tutti voi di andarvene con le navette».
   «E la Destiny?».
   «Quella deve restare mia» sibilò l’Undine.
   «Così ripeterai la trappola!» obiettò Rivera. «Ti procurerai un altro equipaggio da imprigionare nella biosfera, non è così?».
   «Se anche fosse, che te ne importa?» chiese l’Esaminatore. «Non sei un ufficiale della Flotta Stellare... non più. Sì, leggo nella tua memoria che sei un reietto. La Flotta ti ha scacciato per un incidente di cui non avevi colpa, irriconoscente dei tuoi anni di servizio. Quindi perché preoccuparti di ciò che accadrà a degli sconosciuti, in un settore lontano? Pensa piuttosto al bene del tuo equipaggio: puoi ancora salvarlo, se accetti la mia offerta. È nel tuo migliore interesse».
   «Il mio migliore interesse! Questo me l’hanno già detto in molti, e sono sempre state fregature!» protestò Rivera, oppresso dalle sue disgrazie. Aveva già sofferto parecchio, per aver accettato dei contratti-capestro; ma stavolta l’errore si pagava con la vita. «Come so che manterrai la parola? Una volta che saremo sulle navette, e tu ancora sulla Destiny, potresti distruggerci» argomentò.
   «Temo che per questo dovrai fidarti della mia parola».
   «E se non fosse abbastanza?».
   «Se rifiuti la mia generosa offerta, ti ucciderò seduta stante!» minacciò l’Undine, serrando la stretta sulla sua gola.
   «Se mi uccidi, i miei colleghi ti ammazzeranno» rantolò l’Umano.
   «Sì, è probabile» ammise l’Esaminatore, allentando un poco la presa. «Ma resta il fatto che, senza le coordinate di ritorno, siete bloccati nello Spazio Fluido. La mia gente vi attaccherà con forze preponderanti e alla fine vi distruggerà con tutta la nave. È questo che vuoi, Umano?!».
   «No» ammise Rivera, paonazzo. «Hai ragione, il mio primo dovere è verso l’equipaggio. E hai ragione anche nel dire che non ho alcun debito verso la Flotta Stellare. Ma vedi, non tutto il male viene per nuocere. C’è un grande vantaggio nell’abbandonare la Flotta...».
   «E sarebbe?!» chiese l’Esaminatore, fissandolo a distanza ravvicinata. Sebbene avesse l’aspetto di Giely, i suoi occhi erano ancora quelli degli Undine: gialli e con le pupille cruciformi.
   «Ora indosso abiti con le tasche» ironizzò l’Umano. Così dicendo si levò un ipospray di tasca e lo svuotò nella gola dell’avversario.
   L’Esaminatore fece un ringhio disumano e mollò la presa, tastandosi il collo. Le nanosonde stavano già scurendo i suoi vasi sanguigni, come un fiume velenoso. Rivera approfittò della distrazione per gettarsi a terra. Recuperò la frusta neurale, che giaceva a poca distanza, e si rialzò con una capriola.
   L’Undine si girò verso di lui, ancora nelle fattezze di Giely ma con gli artigli snudati, pronto a farlo a pezzi. L’Umano non gliene diede il tempo: attivata la frusta neurale, gli dette una tremenda sferzata. La frusta gli si avvolse attorno, bloccandogli le braccia lungo i fianchi e trasmettendogli una fortissima scossa. L’Esaminatore cadde a terra, immobilizzato, mentre le nanosonde terminavano la loro opera. «Sei un folle, ora morirete tutti» rantolò, mentre la sua pelle si faceva grigia e secca.
   «Non è detto» obiettò Rivera, tenendolo ben fermo. «Abbiamo una terza via, che non avevi considerato. Dopo averti ucciso possiamo esplorare il Multiverso, in cerca della via di casa».
   «Non la troverete mai! Il numero delle realtà parallele... è tendente all’infinito...» avvertì l’alieno morente.
   «Chi lo sa? Magari troveremo qualcuno capace d’indicarci la via giusta» ribatté l’Umano.
   «Illuso! Non vuoi ammettere che... siete condannati...» sussurrò l’Esaminatore, fulminandolo con gli occhi gialli. L’attimo dopo anche quelli si spensero e l’alieno ricadde inanimato. Rivera disattivò la frusta neurale, prima che esaurisse la carica; ma lo spettacolo non era ancora finito. Sotto i suoi occhi, il corpo dell’Undine riprese il suo vero aspetto, quello di un’enorme creatura tripode. Poi anche quella forma spaventosa cominciò a sfarinarsi.
   Rivera si appoggiò a una consolle, tastandosi la gola dolorante. Stavolta se l’era vista proprio brutta. Il cuore gli batteva a mille e la stanza gli ruotava attorno, segno che aveva un principio di svenimento. Boccheggiò in cerca d’aria, finché la respirazione si stabilizzò e anche i battiti cardiaci rallentarono. La sala del processore smise di vorticare. «Rivera a plancia, missione compiuta» disse premendosi il comunicatore. «Teletrasporto per uno» ordinò, senza fare parola dell’accordo che aveva appena rifiutato.
 
   «Rapporto» ordinò l’Umano, non appena fu di nuovo in plancia.
   «Le bionavi ci sono addosso, ma siamo quasi tornati alla biosfera» rispose Shati.
   «Bene, oltrepassala a velocità impulso. Poi voglio un’inversione di rotta, seguita dall’arresto totale» disse Rivera, riprendendo la postazione tattica. «Il cannone thalaronico è pronto?».
   «C’erano dei problemi, ma dalla sala macchine ci hanno appena segnalato che è tutto risolto» riferì Talyn.
   «Bene, assumo il controllo da qui» disse l’Umano, col cuore in gola. Tutta la sua strategia dipendeva da quell’arma, installata sulla Destiny in deroga agli accordi interstellari.
   «Ci siamo, scendo a impulso» avvertì Shati. La biosfera riapparve davanti alla Destiny, che la sorvolò a distanza ravvicinata. In quell’attimo Rivera lanciò tre siluri transfasici, le testate più potenti in dotazione alla Flotta Stellare. I siluri giunsero a bersaglio, infrangendo la cupola che ospitava gli habitat. Subito il fluido organico circostante si riversò attraverso le falle. Milioni di ettolitri piovvero all’interno, spazzando via tutto ciò che incontravano. La città fantasma fu distrutta, i palazzi crollarono sotto la marea inarrestabile. Anche gli altri due habitat furono sommersi.
   Mentre ciò accadeva, Shati impresse all’astronave una brusca virata. La Destiny fece un’inversione completa, poi si fermò a poca distanza dalla biosfera. Ancora pochi secondi e apparvero le bionavi, lanciate all’inseguimento. Ora che i piloti Undine vedevano i danni inflitti alla stazione, dovevano essere ancora più infuriati.
   «Su, fatevi avanti... ecco!» esclamò Rivera, attivando il cannone thalaronico. L’impulso radioattivo si sprigionò dalla prua della Destiny, diffondendosi in un ampio volume di spazio. L’Umano non era sicuro del suo effetto in uno spazio completamente pieno di materia organica, ma non fu deluso. La radiazione verdastra avvolse completamente sia la biosfera che le bionavi, celandole alla vista.
   «La nube radioattiva si espande in tutte le direzioni. Siamo al suo interno» avvertì Talyn.
   «Tranquilli, gli scudi reggono» disse Rivera, per calmare l’equipaggio. Osservò lo schermo, invaso dalla nebbia verdastra, in cerca di qualche segno degli Undine. Non dovette attendere molto: di lì a pochi secondi le bionavi perforarono la nebbia. Il loro scafo, solitamente giallastro, aveva assunto una tinta verdognola.
   «Non si fermano... danno energia alle armi!» gridò Talyn.
   «Scudi al massimo, reggetevi!» disse Rivera, aggrappandosi alla sua postazione. Ma i raggi antiprotonici non colpirono mai la Destiny. Nel momento in cui dettero energia alle armi, le bionavi – fatalmente indebolite dalle radiazioni – esplosero come fuochi d’artificio. Solo qualche lieve onda d’urto fece tremare la nave federale.
   «Le bionavi sono distrutte!» disse Talyn, incredulo. «Anche la biosfera non se la passa bene».
   «Avviciniamoci» ordinò Rivera.
   Con il diminuire della distanza, la stazione emerse dalla nebbia verdastra. La cupola era infranta in più punti e tutto lo scafo era annerito; le radiazioni lo corrodevano a vista d’occhio. Alcuni fluidi organici ne uscivano, come una strana emorragia.
   «E ora l’ultimo tocco» disse Rivera, scagliando una salva completa di siluri transfasici. Stavolta li indirizzò nel punto di raccordo tra la cupola e il “gambo” inferiore. Ci fu un lampo e la stazione indebolita prese a disintegrarsi. Vista da fuori, sembrava un fungo che bruci lentamente. Grandi pezzi se ne staccavano, continuando a bruciare e a corrodersi nello Spazio Fluido. Rivera la contemplò con truce soddisfazione. «Questo è per voi, ragazzi» mormorò, pensando allo sfortunato equipaggio originale della Destiny, nonché ai colleghi dell’Ishka che vi avevano trovato la morte. Chissà se il DaiMon Grilk sarebbe stato fiero di come aveva gestito la situazione...
   «Adesso che facciamo, signore?» chiese Shati, richiamandolo al presente.
   «Andiamocene a cavitazione, velocità 9» si riscosse l’Umano.
   «In che direzione?» chiese la timoniera. Erano pur sempre nello Spazio Fluido: il pericolo era ovunque.
   «Non importa, basta che ci allontaniamo da qui» disse Rivera. Per il momento erano salvi, ma presto gli Undine sarebbero tornati all’attacco con forze preponderanti, come aveva detto l’Esaminatore. «E se quel mostro ha davvero cancellato le coordinate di ritorno, i nostri guai sono appena iniziati» rimuginò l’Umano. Si chiese se aveva fatto bene a rifiutare la sua offerta... ma era tardi per recriminare. «Un’altra cosa: voglio gli ufficiali superiori a rapporto in sala tattica fra un’ora. Abbiamo cose importanti di cui discutere» ordinò. 
 

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Capitolo 6
*** Smarriti nel Multiverso ***


-Capitolo 5: Smarriti nel Multiverso
 
   «Bene signori, facciamo il punto della situazione» disse Rivera, seduto a capotavola. Era la prima volta che presiedeva una riunione tattica su un vascello della Flotta Stellare. Ne sarebbe stato fiero, se non fosse stato acutamente consapevole del fatto che lui e gli altri non appartenevano alla Flotta. Alla sua destra c’erano gli ufficiali di plancia dell’Ishka, vale a dire Losira, Shati e Talyn. Alla sinistra vi erano gli ospiti a cui dovevano la salvezza, vale a dire Giely, Irvik e anche Naskeel. Passata la concitazione della battaglia, i due gruppi si guardavano in cagnesco. L’Umano capì che era indispensabile tenerli concentrati sulle loro mansioni, almeno finché la Destiny rimaneva nello Spazio Fluido. «Cominciamo con le buone notizie: siamo vivi e abbiamo riconquistato la nave. È più di quanto osassi sperare fino a ieri. Mi congratulo con tutti voi per come avete affrontato la sfida».
   «Fa piacere essere apprezzati, ma c’è una cosa che devo dirvi...» cominciò Irvik, che pareva seduto sui carboni ardenti.
   «A suo tempo; prima dobbiamo chiarire alcune cose» lo fermò Rivera, temendo che il sauro avesse già compreso l’impossibilità di tornare. «Abbiamo ottenuto la libertà, ma la situazione resta precaria, perciò vi ho radunati per discuterne. Cominciamo dal primo problema: il DaiMon Grilk non è più tra noi, è perito nella biosfera. Qualcuno deve subentrargli nel comando. Stando al regolamento di bordo, questo spetta al Primo Ufficiale, ovvero a me». Non disse se si riferiva al codice dell’Ishka o a quello della Destiny; del resto concordavano. «Se qualcuno ha qualcosa da obiettare, vorrei che lo dicesse ora con franchezza» dichiarò. Il suo sguardo indugiò su Losira, che era stata sull’Ishka più a lungo di lui ed era vicina a Grilk.
   «Per quanto mi riguarda, ti sei guadagnato la promozione» riconobbe la Risiana. Anche gli altri espressero il loro assenso.
   «Bene; se sono il Capitano, mi servono degli ufficiali superiori» proseguì Rivera. Non accennò al fatto che sarebbero rimasti bloccati a lungo sulla Destiny. Prima di affrontare quel punto critico voleva distribuire le mansioni, così che ognuno si trovasse già inserito in un ruolo ben definito. Questo avrebbe dato a tutti un senso del dovere, aiutandoli a reggere lo shock. «Cominciamo da te, Losira. Come vedi su questa nave non c’è la mansione di tesoriera. Ma siccome sei scaltra e piena d’esperienza, ti voglio come Primo Ufficiale».
   «Se mi avessero detto che sarei diventata Primo Ufficiale di un’astronave della Flotta Stellare...» mormorò la Risiana, scuotendo la testa. «Ma sì, accetto l’incarico». Non era nella sua natura rifiutare una posizione d’autorità.
   «Shati, Talyn, voi manterrete gli incarichi che avevate sull’Ishka. Vi chiedo solo di familiarizzare con la strumentazione della Destiny, che è molto più moderna» raccomandò l’Umano.
   «Certo Capitano, ma vorrei capire una cosa: si aspetta che rimarremo a lungo su questa nave?» chiese l’El-Auriano, inconsapevole di toccare il tasto dolente. «Voglio dire, una volta tornati nel nostro Universo non dovremo restituirla alla Flotta Stellare?» chiese.
   Per un attimo si fece silenzio in sala tattica. Irvik ne approfittò per prendere la parola: «A questo proposito, volevo informarvi che...».
   «Abbia pazienza, arriveremo anche a lei» lo prevenne Rivera. «Talyn, prima o poi si porrà il problema di restituire questa nave ai suoi legittimi proprietari. Ma prima di allora la voglio in piena efficienza, nel caso dovessimo ancora difenderci» chiarì.
   «Sì, signore» fece il giovane, non del tutto convinto.
   Passato qualche momento, il nuovo Capitano della Destiny rivolse l’attenzione a quelli che si trovavano sull’altro lato del tavolo. «Ora veniamo a voi. Non fate parte del nostro equipaggio, eppure vi dobbiamo la salvezza. E c’è di più: avete delle competenze che ci saranno ancora necessarie. Cominciamo da te, Giely...».
   «Dottoressa Giely» corresse la Vorta, con un pizzico d’orgoglio.
   «Giusto, dottoressa» convenne Rivera. «Tu hai ricevuto un addestramento professionale presso l’Accademia Medica della Flotta Stellare. Sei l’unica superstite dell’equipaggio originale della Destiny. E anche se hai sofferto squilibri psichici a causa degli Undine, mi sembra che tu abbia recuperato la sanità mentale. In effetti ti dobbiamo tutti la salvezza, dato che ci hai tratti in salvo dalla biosfera e ci hai fornito i mezzi per riconquistare la nave. Perciò ti chiedo: te la senti di fare il medico di bordo?».
   «Non ho tutte le competenze di un Medico Capo» si cautelò Giely. «Ma in mancanza di meglio... sì, potete contare su di me».
   «Ti ringrazio. Ora veniamo al problema della sala macchine» proseguì Rivera, avvicinandosi al punto cruciale. «Il nostro Ingegnere Capo, il compianto Brokk, è tra le vittime della biosfera. Dovrei designare un successore all’interno della sua squadra, ma so che i nostri tecnici hanno avuto difficoltà a padroneggiare le tecnologie ultramoderne della Destiny. L’unico che finora ci ha capito qualcosa è lei, Irvik» si rivolse al sauro. «Lei, che era nostro passeggero e ora è la sola speranza di tornare a casa. Sappiamo tutti che i Voth hanno una tecnologia superiore; e lei è un ingegnere rinomato tra la sua gente, dico bene?». Non gli piaceva lusingare il sauro, ma in quel frangente disperato doveva assolutamente accattivarsi la sua simpatia.
   «Dice più che bene!» confermò Irvik, solleticato nell’orgoglio. «Sono Ingegnere Capo su una Nave Bastione e ho anche collaborato alla progettazione dei Borg Killer, le nuove difese contro la Collettività» si vantò.
   «Quindi suppongo che la Destiny non sia troppo complicata per lei...» incalzò Rivera.
   «Oh beh, ogni nave ha le sue peculiarità e richiede tempo per padroneggiarla» ammise il Voth. «Comunque sì, ritengo che potrei cavarmela».
   «Allora devo chiederle il suo impegno a tempo pieno. Signor Irvik, se la sente d’essere il nostro Ingegnere Capo?» chiese il Capitano.
   «Uhm, ciò che mi chiede è più gravoso di quanto immagina» si rabbuiò il sauro, pur non rivelando ancora il motivo.
   «Comprendo che lei non fa parte del mio equipaggio e pertanto non posso accampare alcuna autorità nei suoi riguardi» ammise Rivera. «Ma sarò franco: abbiamo bisogno di lei per tornare a casa. Anche lei vorrà rivedere i suoi cari, immagino...».
   «Eccome! Ho moglie e figli nel Quadrante Delta» rivelò Irvik. «L’unica cosa buona, di tutta questa storia, è che non mi hanno accompagnato nel pellegrinaggio alla Terra e quindi sono rimasti al sicuro. Il mio solo obiettivo, ora, è tornare da loro. Se ciò richiede che vi faccia da Ingegnere Capo, ebbene lo farò... Capitano» disse con una punta d’ironia.
   «Grazie infinite, signor Irvik» disse Rivera, allungandosi sul tavolo per stringergli la mano tridattila.
   «Aspetti a ringraziarmi. Vede, il ritorno a casa si prospetta più impegnativo di quanto tutti voi pensiate...» mormorò il Voth, a disagio.
   «Che intende?» chiese Losira, insospettita dal suo atteggiamento.
   «Prima di venire qui ho cercato le coordinate quantiche del nostro Universo nel database di bordo. Non le ho trovate. Sembra che quell’informazione sia stata cancellata poco fa, durante la battaglia» rivelò Irvik.
   Sulla sala tattica scese il gelo. Tutti sapevano o intuivano cosa significasse questo, ma nessuno osava dirlo a voce alta. Il primo a riscuotersi fu Talyn. «Ecco cos’era andato a fare l’Esaminatore nella sala del processore» mormorò l’El-Auriano. «Ha fatto in modo che non potessimo fuggire».
   «Frell, state dicendo che siamo intrappolati nello Spazio Fluido?!» esclamò Shati. I suoi artigli, involontariamente estroflessi, graffiarono la liscia superficie del tavolo. «Fra poco gli Undine ci saranno addosso! Sanno sempre dove siamo, per via delle onde che ci lasciamo dietro!» si agitò.
   «No, calma!» ordinò Rivera, cercando di non far dilagare il panico. «Anche se al momento non abbiamo le coordinate di casa, ciò non vuol dire che siamo spacciati. Siamo su un’astronave progettata apposta per viaggiare tra le realtà. Abbiamo l’intero Multiverso per nasconderci».
   «Il Multiverso è un concetto del quale sappiamo spaventosamente poco» avvertì Giely, riecheggiando le parole del Capitano Dualla. «Se ci spostiamo a casaccio, senza coordinate affidabili, non abbiamo idea di dove finiremo. Forse in un posto ancor più ostile dello Spazio Fluido. Certe realtà hanno leggi fisiche così diverse da essere incompatibili con la vita. In alcune non può esistere la materia, per cui finiremmo annichiliti all’istante» ammonì.
   «Non faremo dei salti alla cieca» promise Rivera. «Manderemo sempre avanti una sonda con dei campioni biologici di prova. Al ritorno li analizzeremo e solo se staranno bene passeremo a nostra volta».
   «Okay, ma... il numero delle realtà parallele è infinito, o comunque esorbitante. Non troveremo mai quella giusta!» obiettò Talyn.
   «Forse non viaggeremo completamente alla cieca» intervenne Irvik.
   «Che intende?» chiese Rivera.
   Il Voth unì le punte degli artigli, un gesto che esprimeva autocompiacimento. «Vede Capitano, quando mi sono accorto che non avevamo le coordinate di rientro, ho lanciato un sofisticato algoritmo di deframmentazione e ricostruzione dati. I suoi ingegneri non avevano nulla di simile... in effetti siete fortunati ad avermi a bordo». Tacque, in attesa degli elogi.
   «Beh? Che ha trovato?!» lo incalzò Shati, per nulla elogiativa.
   Ferito dalla mancanza di considerazione, Irvik si ricompose. «Ho ricavato una lista di coordinate quantiche, una trentina in tutto. La mia ipotesi è che siano le coordinate delle realtà alternative note alla Federazione. Forse la Destiny era progettata per visitarle tutte, nel corso degli anni».
   «Fra quelle coordinate potrebbe esserci l’indirizzo del nostro Universo?» chiese Rivera, sulle spine.
   «Non lo escludo. Ma abbiamo solo le coordinate, senza alcuna informazione su dove portino» avvertì il Voth.
   «Sta dicendo che per tornare a casa le dobbiamo provare tutte?!» chiese Losira, sull’orlo di una crisi nervosa.
   «Considerato che non possiamo chiedere lumi agli Undine... temo proprio di sì» ammise Irvik. «Non si affligga: magari beccheremo quella giusta al primo tentativo» suggerì.
   «Come no. Con la fortuna che abbiamo, la beccheremo all’ultimo» fece la Risiana, torva.
   «Se così fosse, potremmo ancora dirci fortunati» avvertì il sauro. «Vede, io non so se la lista sia completa. Alcune coordinate potrebbero essersi perse definitivamente. Ciò che cerchiamo può non essere affatto in quell’elenco; ma lo sapremo solo dopo averle spuntate tutte».
   «Di bene in meglio!» fece Losira, prendendosi la testa fra le mani.
   «Ehi, state calmi, tutti voi!» esclamò Rivera, temendo che la situazione gli sfuggisse di mano. «Le cose non sono brutte come sembrano. Eravamo prigionieri della biosfera e ora siamo liberi. Temevamo la vendetta degli Undine, ma abbiamo trovato il modo di sfuggirgli. Ci aspetta un’odissea, è vero, ma con quella lista abbiamo fondate speranze di ritrovare la via di casa».
   Tornò il silenzio, mentre tutti ponderavano quelle parole. Infine Giely parlò. «E se così non fosse? Se rimanessimo smarriti nel Multiverso?» mormorò, la voce stranamente amplificata nel silenzio. Tutti gli sguardi puntarono sul Capitano, che rifletté a fondo prima di rispondere.
   «Ebbene, neanche allora sarà tutto perduto» disse infine. «La Flotta Stellare conosce diverse entità capaci di spostarsi a piacimento nel Multiverso: i Q, i Nacene. Cercheremo le loro tracce e se riusciremo a localizzarne una chiederemo il suo aiuto. Nella peggiore delle ipotesi, qualora il ritorno sia impossibile, valuteremo di stabilirci in uno degli Universi meno alieni; magari una delle realtà alternative in cui esiste la Federazione».
   «Sempre che non finiamo nell’Universo dello Specchio!» borbottò Shati, muovendo nervosamente le orecchie.
   «Signori, non voglio addolcirvi la pillola» disse Rivera, passando lo sguardo sul variegato gruppo degli ufficiali. «Davanti a noi si pongono sfide enormi. Ma siamo già sopravvissuti a quello che pareva uno scenario senza uscita. Continueremo a sopravvivere, che sia nel nostro Universo... o altrove. E ora torniamo al lavoro. Dobbiamo lasciare lo Spazio Fluido prima di trovarci le bionavi addosso».
   I presenti si alzarono e stavano per lasciare il tavolo, quando Losira prese la parola: «Un momento, Capitano. Hai dimenticato una cosa importante».
   «Sarebbe?».
   «Hai designato tutti gli ufficiali superiori, meno l’Ufficiale Tattico. Prima di chiudere la riunione, sarebbe bene sceglierne uno» disse la Risiana.
   «Non è così semplice, lo sai bene» si spazientì Rivera. «Sull’Ishka svolgevo io quel ruolo, all’occorrenza, sebbene fossi ormai Primo Ufficiale. E comunque non avevamo una sezione Sicurezza come sulle navi federali. Se anche scegliessi l’Ufficiale Tattico, non avrebbe una squadra».
   «Ad ogni modo, ora che sei Capitano dovresti avere qualcuno che stia alla postazione tattica» insisté Losira. «Chiunque poteva usare le armi dell’Ishka, ma su una nave moderna come questa serve un esperto».
   «In tal caso, io sono l’opzione migliore» si offrì inaspettatamente Naskeel. Il Tholiano era rimasto zitto per tutta la riunione, ma ora si fece avanti con l’insolita richiesta. «Dopotutto sono un ufficiale tattico di professione» sottolineò.
   «Tu? Non dire sciocchezze!» si oppose Rivera. «Sei salito su questa nave da nemico, con la tua squadra d’invasione. Per questo ti avevo chiuso in cella. Ammetto che le cose sono cambiate: Shati mi ha detto che l’hai salvata nella biosfera e poco fa ci hai salvati tutti, azionando il cannone thalaronico. Ti sono riconoscente e quindi ti consento di aggirarti liberamente per la nave. Ma non ti assegnerò incarichi di responsabilità; men che meno Ufficiale Tattico! Non ho scordato che la tua missione era eliminarci per conquistare la Destiny. E tu certo non hai scordato come la tua squadra sia morta nel tentativo. Erano i tuoi soldati, non vuoi vendicarli?».
   «La vendetta è una debolezza emotiva che non tocca i Tholiani» rispose Naskeel. «Avevo una missione, ma è fallita. Da allora la situazione è radicalmente mutata. Ora l’unico modo per massimizzare le mie probabilità di sopravvivenza è collaborare con voi».
   «Io credo che sia sincero» intervenne Shati. «Nella biosfera mi è sempre stato accanto, salvandomi da molti pericoli».
   «Forse fa parte del suo piano per carpire la nostra fiducia!» obiettò il Capitano, fronteggiando l’inquietante alieno cristallino.
   «Che piano potrei avere?» obiettò Naskeel. «La mia missione era consegnare questa nave al mio governo. Se la distruggessi fallirei del tutto, oltre a perdere la vita. Se in qualche modo vi neutralizzassi, rimarrei perduto nel Multiverso, su una nave che oltretutto non posso manovrare da solo. La mia sola speranza è tornare indietro con voi».
   «E supponendo che riusciamo a tornare, cosa farai allora?» chiese Rivera.
   «Vi chiederò di riportarmi alla mia gente o di concedermi una navetta per andarci io stesso» rispose il Tholiano.
   «Non cercherai di farci la pelle, per completare la tua missione ed essere riaccolto con tutti gli onori?» incalzò il Capitano.
   «Comprendo il suo dubbio, ma ha la mia parola che non attenterò alle vostre vite» disse Naskeel, imperscrutabile.
   Rivera si accorse che la promessa del Tholiano non corrispondeva esattamente a ciò che lui gli aveva chiesto. Naskeel aveva promesso di non attentare alle loro vite; non di rinunciare alla Destiny. Considerando che i Tholiani erano maniaci della precisione, anche a livello verbale, non poteva essere un caso. «Come ho detto, sei libero di muoverti sulla nave. Ma affidarti la sicurezza di bordo è prematuro» decise.
   «Come vuole, ma spero che avrà modo di ripensarci nei giorni a venire» disse Naskeel.
   Accantonata la questione, il Capitano rivolse un’occhiata alla finestra panoramica, tutta invasa dai toni gialli e verdi dello Spazio Fluido. Un senso d’urgenza si fece strada in lui: non dovevano attardarsi in quel cosmo spietato. «Irvik, torni in sala macchine. Portateci via da qui il prima possibile» ordinò.
   «Certo, Capitano» disse il sauro, contagiato dal timore. «In mancanza d’informazioni sceglierò a caso dalla lista di coordinate».
   «Tutti gli altri in plancia, la riunione è aggiornata» disse Rivera. Stava per lasciare la sala tattica, quando Losira lo trattenne. Non disse nulla, ma dalla sua espressione era chiaro che voleva parlargli in privato. L’Umano attese che tutti gli altri fossero usciti, poi si girò ad affrontare la Risiana. «Allora?».
   «Quando Irvik ha detto che eravamo smarriti, non hai battuto ciglio. Tu lo sapevi già, non è vero? Ecco perché hai insistito a distribuire prima gli incarichi!» sibilò Losira, in tono accusatorio.
   Rivera non provò a negare; sarebbe stato inutile. «Sì, lo sapevo» ammise, poggiandosi con la schiena contro lo stipite. «Quando ho affrontato l’Esaminatore, poco fa, lui mi ha detto di aver cancellato le coordinate. Poi mi ha assalito, costringendomi a ucciderlo. Speravo che avesse mentito, per farmi disperare; ma ero preparato all’eventualità che avesse detto il vero» dichiarò. Non menzionò l’accordo proposto dall’Undine, e che lui aveva rifiutato. Temeva che Losira non avrebbe capito né apprezzato la sua scelta.
   La nuova Comandante della Destiny lo fissò a lungo, cercando di capire se era sincero. Giudicò che lo fosse; ma aveva la sgradevole sensazione che ancora le nascondesse qualcosa. Per il momento, tuttavia, non volle insistere. Anche lei sentiva crescere il timore di un nuovo attacco Undine e non voleva trascorrere un secondo più del necessario nello Spazio Fluido. Così tornò in plancia. Rivera attese qualche secondo, osservando l’inquietante paesaggio giallastro oltre la finestra; poi la seguì sul ponte di comando.
 
   Tornato in plancia, il Capitano trovò un’atmosfera agitata. «Signore, i sensori a lungo raggio hanno captato bionavi in avvicinamento» disse Talyn.
   «Quante e da che direzione?».
   «Sono una settantina, ma continuano ad aumentare, man mano che entrano nel raggio dei sensori» rispose l’El-Auriano, scuro in volto. «Vengono da tutte le direzioni, per cui non possiamo tracciare una rotta sicura».
   «Allora dipende tutto da Irvik» mormorò Rivera. «Quanto tempo ci resta?» volle sapere.
   «Le prime bionavi ci saranno addosso tra mezz’ora al massimo».
   «Manda i dati al timone. Shati, facci guadagnare ogni secondo possibile» ordinò immediatamente l’Umano, muovendo verso il centro della plancia. Per un attimo indugiò davanti alla poltrona del Capitano, su cui non s’era mai seduto. Era paradossale, ma proprio ora che l’aveva ottenuta scopriva che avrebbe preferito farne a meno, per sfuggire alle responsabilità derivanti. Ma era tardi per fare marcia indietro. Fatto un respiro profondo, si accomodò sulla poltroncina. La prima cosa che fece fu l’ultima che un Capitano vorrebbe fare: premette il comando di Allarme Rosso.
   «Attenzione, Capitano Rivera a equipaggio. I sensori indicano che gli Undine ci raggiungeranno tra mezz’ora con forze soverchianti. Prima di allora dobbiamo cambiare aria, quindi gli ingegneri hanno l’ordine di aprire un portale. Tutti gli altri si preparino alla battaglia».
 
   Di lì a venti minuti Irvik segnalò che erano pronti. Shati portò la Destiny in arresto totale, mentre Giely caricava una sonda con alcuni campioni biologici, per accertarsi che la nuova realtà fosse compatibile con la vita. Gli ufficiali di plancia avvertirono una crescente vibrazione, man mano che la Destiny raccoglieva le sue imponenti energie. Infine l’impulso gravitonico scaturì dal deflettore inferiore.
   «Impulso lanciato» disse Talyn. «Funziona, si sta aprendo la breccia!».
   Rivera lasciò la poltrona, per osservare meglio attraverso lo schermo. Il raggio verde-azzurro collassava poche centinaia di chilometri più avanti, creando una distorsione sempre più marcata. D’un tratto qualcosa cambiò: la distorsione assunse una forma a imbuto e il fluido organico le vorticò attorno, come acqua risucchiata da un sifone.
   «Breccia inter-dimensionale aperta» confermò Talyn.
   «La sonda, presto!» ordinò Rivera, ricordando che occorreva un test con dei campioni biologici prima di rischiare le loro vite. Vide il piccolo guscio sfrecciare verso il vortice e svanirci dentro. Trascorsero pochi secondi, il tempo necessario alla sonda per eseguire un’inversione di rotta. Ed eccola riapparire, per tornare come un boomerang verso coloro che l’avevano lanciata. «Non c’è tempo per le procedure d’attracco. Teletrasportatela a bordo» ordinò il Capitano.
   Detto fatto, la piccola sonda fu trasferita in infermeria. Rivera attese un minuto, tamburellando nervosamente sul bracciolo. Poi cedette. «Plancia a infermeria, non c’è più tempo. Come stanno i campioni?».
   «Sono vivi» rispose Giely, che li stava analizzando freneticamente. Dopo aver passato il tricorder medico su un bio-cilindro se lo gettava alle spalle, passando al successivo. «Un’analisi completa richiederebbe ore, per escludere ogni effetto deleterio sul genoma. Ma se non c’è tempo, non resta che rischiare».
   «Sentito? Portaci dentro» ordinò il Capitano alla timoniera.
   «Allarme, ci sono addosso!» avvertì Talyn. In quel momento una flottiglia di nove bionavi entrò nel campo visivo. Avevano un’insolita formazione: un grosso vascello stava al centro, mentre le bionavi rimanenti lo contornavano, disposte a ottagono. L’El-Auriano esaminò il vascello al centro, tutto irto di spuntoni. Interrogò il database, cercando di capire cosa fosse.
   In quella la Destiny varcò l’orizzonte degli eventi, abbandonando lo Spazio Fluido. La plancia si oscurò all’improvviso. Invece di mostrare una diffusa luminosità giallastra, ora lo schermo principale era affacciato su un cosmo nero intenso. Nessuna stella lo punteggiava.
   «Non sembra familiare» mormorò Shati, delusa. «Dove sono le stelle? Può darsi che siamo finiti fuori dalla Galassia?».
   «Non credo» rispose Talyn. «La breccia ci ha trasportati da una realtà all’altra, ma non può trasferirci da una coordinata a un’altra. Tecnicamente siamo nello stesso punto di prima. Vale a dire che dovremmo essere ancora nella Nebulosa del Toro. Però i sensori mi dicono che non c’è gas nebulare attorno a noi. Se non vediamo le stelle, significa proprio che non ce ne sono. Siamo in un altro cosmo... uno vuoto e buio».
   «Sempre meglio dello Spazio Fluido» disse Rivera, cercando di mitigare la delusione dei suoi. «Ma che ne è della breccia? È collassata?».
   «Veramente no, è ancora aperta» rilevò Talyn.
   A queste parole Shati eseguì un’inversione di rotta, per poi arrestare la nave. La breccia inter-dimensionale campeggiava al centro dello schermo, unica fonte di luce in quel cosmo tenebroso.
   «Che ci fa ancora lì, non dovrebbe chiudersi?» chiese Losira.
   «Non saprei... forse deve passare più tempo» ipotizzò l’El-Auriano.
   «Ma se noi l’abbiamo varcata, gli Undine non faranno altrettanto?» incalzò la Risiana.
   A quelle parole Rivera avvertì un brivido lungo la spina dorsale. Se il nemico li seguiva anche lì, erano finiti. Si girò di scatto, per correre alla postazione tattica, ma vide che Naskeel l’aveva già occupata.
   «Non demordi, eh? Va bene, resta lì» si arrese il Capitano. In effetti era meglio per lui concentrarsi sulla strategia, anziché azionare direttamente le armi. «Il cannone thalaronico è operativo?» chiese, sperando di poter indirizzare i colpi nella strettoia costituita dalla breccia.
   «Negativo. Avendolo usato alla massima potenza, deve ancora completare il ciclo di ricarica» rispose il Tholiano.
   «Frell» imprecò Rivera, vedendosi privato dell’unica arma efficace contro gli Undine. «Allora tieniti pronto. Appena compare un vascello nemico, lanciagli una salva di siluri transfasici».
   «Ricevuto» disse Naskeel.
   «Signore, ho un riscontro sul database per quanto riguarda l’ammiraglia nemica» intervenne Talyn. «È un Distruttore Planetario, non credo che siamo alla sua altezza».
   Rivera deglutì, vedendosi a corto di opzioni. Aveva sperato d’essere Capitano per più di mezz’ora.
   Di lì a un attimo il Distruttore Planetario cominciò a uscire dal vortice. Inquadrato così da vicino era ancora più impressionante, con lo scafo irto di protuberanze simili ad aculei. Appena lo vide, Naskeel lanciò i siluri transfasici. Ma era chiaro che mettere a segno il primo colpo non sarebbe bastato a vincere.
   Fu allora che la breccia interdimensionale si richiuse, svanendo come una bolla di sapone. Il Distruttore Planetario era ancora al suo interno per metà. L’effetto fu devastante: la potentissima astronave fu tranciata in due. Solo la parte anteriore rimase alla deriva nel cosmo oscuro, perdendo liquidi interni come una bestia ferita. La metà di poppa era certamente rimasta nello Spazio Fluido.
   Sotto gli occhi sgranati degli avventurieri, i siluri transfasici giunsero a bersaglio. Erano missili intelligenti, progettati per indirizzarsi verso qualunque punto debole del nemico. Quando captarono le ampie falle sullo scafo, s’indirizzarono al loro interno. Ci fu una serie d’esplosioni abbaglianti, in rapida successione. Quando l’ultimo lampo si estinse, del Distruttore Planetario restavano solo frammenti in dispersione.
 
   Quella sera i nuovi ufficiali e marinai della Destiny si ritirarono nei loro alloggi, ovvero gli alloggi appartenuti ai loro sfortunati predecessori. Gli Undine, che non dormivano mai, non li avevano toccati; dunque erano ancora arredati con gli effetti personali degli ultimi proprietari. Faceva uno strano effetto prenderne possesso: era come violare la privacy altrui. I Ferengi non se ne fecero un problema, ma altri si sentirono a disagio, specialmente nel vedere le immagini di amici e parenti che ancora ignoravano la sorte dei loro cari.
   L’alloggio del Capitano non faceva eccezione. In salotto spiccava il dipinto raffigurante un pianeta verdastro: era Delta IV, patria della defunta Dualla. Sui mobili c’erano manufatti deltani, che Rivera stentò a comprendere; uno gli parve uno strumento musicale. Sul comodino accanto al letto, infine, trovò il ricordo più struggente: l’olografia della famiglia. Erano una decina di persone sorridenti, tutte pelate com’era tipico dei Deltani, ritratte in un giardino assolato. Forse l’immagine era stata scattata subito prima che Dualla partisse. «Se solo avesse immaginato che non li avrebbe rivisti...» si disse l’Umano. Dopo una breve riflessione ripose l’olografia in un cassetto. Tenne il resto degli arredi lì dov’erano, non avendo di che sostituirli.
   Quando finalmente si buttò sul letto, il nuovo Capitano si concesse la prima lunga dormita dacché la Destiny lo aveva strappato alla sua vita precedente. Erano passati solo dieci giorni, ma sembrava molto di più. Quei pochi giorni nello Spazio Fluido avevano segnato in modo indelebile sia lui che gli altri; e chissà cosa aveva in serbo il Multiverso nei tempi a venire.
 
   Erano queste le sue riflessioni quando, il giorno dopo, Rivera ispezionò la nave. La ciurma era al lavoro: la Destiny aveva affrontato una dura battaglia e bisognava sistemarla. Fortunatamente i danni erano minimi. Più che riparare la nave bisognava capire come governarla, data la sua tecnologia ultramoderna. Il Capitano confidava che ci sarebbero riusciti; quel che lo preoccupava era la carenza d’organico. La vecchia Ishka era un mercantile: i suoi trecento effettivi erano più che sufficienti. Ma la Destiny era un grande vascello polifunzionale che necessitava di settecento effettivi. Come avrebbero fatto a gestirlo, con neanche la metà del personale?
   Salendo in plancia, Rivera vide con piacere che gli ingegneri stavano già sostituendo il portone blindato, secondo le sue istruzioni. Passato oltre, il Capitano s’imbatté in una scena singolare: Naskeel raccoglieva i corpi degli Undine, caricandoli su un carrello antigravitazionale. I resti degli alieni, infatti, erano classificati come “pericolo biologico” e nessun altro osava toccarli, nemmeno con i guanti. Il Tholiano era l’unico che non temeva contaminazioni. Occupandosi della faccenda, non faceva che ribadire la sua pretesa di gestire la sicurezza di bordo. Nel passargli accanto, Rivera decise che non poteva ignorarlo. «Naskeel, vedo che ti sei messo al lavoro. Che intendi fare con quei resti? Li espellerai nello spazio?» chiese.
   «Negativo. La dottoressa Giely vuole conservarli nella camera criogenica» rispose il Tholiano, senza interrompersi. «Dice che potremo imparare molto sulla loro biologia: forse anche nuovi modi per combatterli».
   «Uhm, va bene» acconsentì l’Umano. «Ricordale di usare ogni precauzione nel maneggiarli. Ci manca solo che si faccia contagiare da qualche altra diavoleria. E tu non scordare quello che giace nella camera del processore» raccomandò.
   Sistemata la faccenda, il Capitano andò da Talyn. «Allora, che dicono i sensori? Siamo soli?» volle sapere.
   «Più soli di quanto qualunque equipaggio sia mai stato, temo» rispose il giovane. «Non ho rilevato astronavi, né stazioni spaziali, né boe o sonde. E nemmeno trasmissioni di alcun genere. Insomma, nessun segno di tecnologia. Ma c’è di più». Mentre parlava richiamò i dati sull’oloschermo della sua postazione. «Vede, Capitano? Attorno a noi non ci sono asteroidi, né pianeti, né stelle, né nebulose. Non c’è neanche traccia di galassie lontane. La mia impressione è che questo Universo sia completamente vuoto. Forse la materia e l’antimateria si sono annichilite completamente nei primi attimi dopo il Big Bang. Fatto sta che ci siamo solo noi».
   «Sentito, Capitano? Puoi proclamarti Imperatore dell’Universo, se vuoi. Nessuno ti contesterà» lo sfotté Losira, che al pari degli altri ufficiali seguiva la conversazione.
   «Grazie, per ora mi basta essere Capitano. Sono comunque l’autorità più alta dell’Universo» rispose Rivera, ricambiando l’ironia. Poi si rivolse di nuovo a Talyn. «E se invece fosse un Universo molto antico? Uno in cui tutte le stelle si sono spente?» ipotizzò. Non aggiunse altro, ma le implicazioni erano evidenti. Un Universo antichissimo poteva ospitare esseri così evoluti da risultare del tutto incomprensibili... e invincibili.
   «Questo tenderei a escluderlo» disse però l’El-Auriano. «Analizzando la radiazione cosmica di fondo, direi che ha grossomodo la stessa età del nostro. Del resto non ci sono nane bianche, stelle di neutroni, buchi neri o altri residui stellari che facciano pensare a un cosmo antico».
   «Va bene, diciamo che è un grosso spazio vuoto» convenne Rivera. «Anzi, sapete che vi dico? D’ora in poi lo chiameremo proprio così: il Vuoto!».
   «Originale» fece Losira. «Ma battezzare nuovi corpi celesti... e anche interi Universi... è tua prerogativa, Capitano».
   «Potremmo anche chiamarlo il Nulla, o il Niente» aggiunse l’Umano, prendendoci gusto.
   «No, per carità. Il genio deve seguire la sua prima ispirazione» consigliò la Risiana, sempre ironica.
   «Scherzi a parte, è un’ottima cosa essere finiti qui» disse il Capitano, rivolgendosi a tutti i presenti. «Questo è un luogo in cui nessuno ci minaccerà o ci disturberà. Sarà il nostro campo base... il nostro covo, se volete. Se nelle esplorazioni a venire ci troveremo in pericolo, avremo sempre un posto sicuro in cui tornare. Se dovremo riparare la nave, curare dei feriti o semplicemente pianificare la prossima mossa, verremo qui nel Vuoto!» annunciò.
   L’idea piacque alla ciurma. Nelle loro condizioni precarie, avere un rifugio sicuro era già di per sé confortante. E chi altri poteva vantarsi di possedere un intero Universo come nascondiglio? Sarà anche stato uno spazio vuoto... ma era il loro Vuoto.
 
   Più tardi Rivera scese in sala macchine, per discutere con Irvik. Il principale problema era ovviamente la carenza di personale. «Dovrei avere duecento elementi, tra ingegneri e ausiliari; e ne ho settanta!» brontolò il sauro. «Mi dica lei come si può far funzionare un’astronave in queste condizioni!».
   «Io e Losira stiamo riorganizzando il personale; cercheremo di farle avere altri tecnici» promise il Capitano.
   «Quanti?».
   «Una ventina in più, forse» azzardò Rivera. «Ma se vuole mandare avanti la baracca, le consiglio di affidarsi a quelli» aggiunse, accennando a un Exocomp che gli ronzava accanto.
   «Ah sì, i piccoletti ci saranno preziosi» convenne Irvik. «Dopotutto uno solo di loro è bastato a restituirci la nave. Capitano, le presento l’Exocomp numero 64, un vero eroe di guerra!» annunciò.
   «Be-beep! Io Ottoperotto!» si presentò il robottino, sfarfallando di luci.
   «Sì, pare che la dottoressa Giely lo abbia ribattezzato così, e da allora non accetta altre designazioni» ammise l’Ingegnere Capo, grattandosi pensosamente la testa scagliosa. «Se vuole posso ricalibrargli i circuiti».
   «Bzzzt! Negativo!» protestò Ottoperotto, ritraendosi spaventato.
   «No, lascia stare. Mi piacciono gli individualisti» disse Rivera, accorgendosi che quel robottino aveva più personalità degli altri. Forse dipendeva dal fatto che aveva passato cinque anni a nascondersi sull’astronave occupata dagli Undine. Fatto sta che aveva sviluppato una particolare intraprendenza. «Che nessuno lo resetti, sono stato chiaro?» raccomandò.
   «Come vuole» convenne Irvik. «Tanto ne stiamo replicando a centinaia, per ripristinare lo stock originale. Anzi, vista la situazione penso proprio che ne replicheremo di più. Dovremo delegargli alcune mansioni del personale, tra le più ripetitive».
   «Certo, procedete» annuì il Capitano. Osservando il robottino, gli venne un’altra idea. «So che ogni sciame di Exocomp ha un caposquadra che dirige i lavori. Di norma è il numero 1, ma io voglio che sia Ottoperotto».
   «Vuole promuoverlo per i servigi resi?» chiese il Voth, divertito.
   «Perché no? È un’Intelligenza Artificiale, quindi mi sembra giusto che possa fare carriera» confermò l’Umano.
   «Be-beep!». L’interessato espresse la sua approvazione con un sonoro trillo.
   «Sentito, ragazzo? Se lavori sodo, forse un giorno ci sarai tu sulla poltrona del Capitano!» ridacchiò Irvik, incrinando l’autostima di Rivera.
   «Beh, se è tutto devo andare» disse il Capitano, avviandosi verso la porta.
   «Aspetti, c’è un’ultima cosa che devo mostrarle» disse l’Ingegnere Capo, venendogli dietro con una strana fretta. «L’abbiamo trovata poco fa, nell’hangar 2».
   «Che cosa?».
   «È meglio che la veda con i suoi occhi. Mi segua, faccio strada».
 
   Di lì a poco i due ufficiali erano nell’hangar 2. Come il suo gemello all’altra estremità della sezione anulare, aveva grandi dimensioni e ospitava un vasto assortimento di navette. Ma tra le navicelle federali ne campeggiava una più grossa, dall’aspetto alieno, che stonava con le altre. Il suo scafo era giallastro e irto di spuntoni; la consistenza pareva organica.
   «Quella è...» mormorò Rivera.
   «Una bionave, sì» confermò Irvik. «Si tratta di un modello più piccolo di quelle che abbiamo affrontato. Non si preoccupi, non c’è alcun pilota dentro» lo rassicurò. «Credo che sia una navetta trasporto. Gli Undine l’avranno usata per salire a bordo, e forse per qualche andirivieni tra la Destiny e la biosfera nei giorni in cui eravamo prigionieri. Come ricorderà, loro non usano il teletrasporto».
   «Guarda, guarda...» fece il Capitano, avvicinandosi alla bionave. Le girò attorno per osservarla da tutte le angolazioni, tornando infine accanto all’ingegnere.
   «Come vuole che ne disponiamo?» chiese Irvik.
   «Ritiene che possa costituire un pericolo?».
   «Senza il pilota, direi di no. I sistemi a bordo sembrano quiescenti» rispose il Voth. «E considerando che ci troviamo in un’altra realtà, gli Undine non possono nemmeno inviare un segnale per attivarla a distanza».
   «È quanto volevo sentire. In tal caso, ce la terremo!» disse Rivera con decisione.
   «Ne è certo? A molti dell’equipaggio non piacerà avere questa cosa a bordo» notò il sauro.
   «Abbiamo appena vinto una battaglia, no? Ai vincitori vanno le spoglie!» citò il Capitano, con truce soddisfazione. «Studiando questa navetta capiremo meglio la tecnologia degli Undine. Magari troveremo nuovi modi per combatterli. Se... voglio dire, quando torneremo a casa, la consegneremo agli scienziati federali, così che continuino le ricerche».
   «Vuole assicurarsi che al ritorno vi diano l’amnistia?» chiese Irvik, divertito.
   «Beh, non mi dispiacerebbe» sospirò Rivera. «Per adesso teniamola qui. Ci metta le transenne e un bel cartello “Vietato toccare”! Chiunque voglia esaminarla dovrà prima avere la mia autorizzazione» stabilì, dando un’ultima occhiata all’inquietante scafo organico.
 
   L’ultima tappa dell’ispezione fu l’infermeria, dove Giely aveva già messo in stasi i resti degli Undine. Il Capitano però era più preoccupato dalle condizioni della dottoressa. Non riusciva a togliersi di mente il loro primo incontro, quando l’aveva trovata fuori di testa in sala macchine, e si chiedeva se la Vorta avesse davvero riacquistato l’equilibrio mentale. Ascoltò distrattamente i suoi discorsi.
   «... e naturalmente devo visitarvi tutti, per convalidare l’idoneità al servizio» disse a un certo punto la dottoressa.
   «Come?!» fece Rivera, bruscamente riportato alla realtà.
   «Ma certo, non avrai pensato che vi lasciassi lavorare così, senza un controllo!» confermò Giely. «Ricorda che non ho le vostre cartelle cliniche, quindi non so niente di voi. Anzi, se qualcuno ha malattie pregresse, allergie o altre peculiarità, deve informarmi al più presto» raccomandò.
   «Abbiamo un aspirante Ufficiale Tattico che è fatto di cristallo e non sopporta temperature inferiori ai 200º C. È abbastanza peculiare?» fece Rivera, sarcastico. «Ma sì, ordinerò a tutti di scriverti qualche riga sul loro conto. Così potrai cominciare a stilare delle cartelle».
   «Ottimo. Per quanto riguarda le visite, sarebbe bene che il Capitano desse il buon esempio, sottoponendosi per primo» suggerì la Vorta.
   «Ci avrei scommesso. E va bene, tanto sono qui» sospirò l’Umano. Nell’ora successiva si sottopose a una serie d’analisi, più invasive del previsto. Probabilmente la dottoressa non sarebbe stata così puntigliosa con tutti gli altri membri dell’equipaggio.
   «Hai una salute di ferro, Capitano» concluse Giely. «Però ti suggerisco di non esagerare con la tequila».
   «Cercherò di controllarmi» promise Rivera, ancora disteso sul lettino delle analisi. Squadrò la dottoressa, notando solo adesso che era l’unica dell’equipaggio a indossare l’uniforme della Flotta Stellare. In effetti era l’unica ad averne diritto, essendo tuttora un ufficiale. Gli altri, lui compreso, indossavano ancora le tenute paramilitari che avevano sull’Ishka. E alcuni, come Losira e Irvik, si ostinavano a indossare abiti civili, particolarmente appariscenti nel caso della Risiana. Il Capitano si chiese se era meglio disciplinarli; ma poteva imporre l’uniforme a chi, a rigor di legge, non era autorizzato a portarla?
   «È tutto a posto?» chiese la Vorta, vedendolo così assorto.
   «Eh? Sì, ho solo tanto a cui pensare» si giustificò Rivera. «Comunque potrei farti la stessa domanda. Sei passata attraverso esperienze sconvolgenti; ora sei certa di stare bene?».
   «Vuoi sapere se sono ancora picchiatella?».
   «Per dirla in modo indelicato, sì. In fondo ti sto affidando la salute di noi tutti» notò il Capitano.
   Giely non rispose subito. Si allontanò di qualche passo, assorta nei ricordi. «La mia vita non è mai stata ciò che definiresti normale. Un giorno forse te ne parlerò. È come se fossi sempre stata in cerca di qualcosa... non so nemmeno io cosa di preciso. Forse uno scopo, un significato, o un senso di realizzazione personale. Speravo di trovarlo nella Flotta Stellare; forse lo troverò qui con voi. Comunque per adesso sto ragionevolmente bene» garantì.
   «Allora mi ritengo ragionevolmente soddisfatto» dichiarò Rivera, balzando giù dal lettino. «Arrivederci, dottoressa».
   «Hasta la vista, Capitán!» lo sorprese la Vorta, in perfetto spagnolo.
 
   Una settimana dopo, le riparazioni erano ultimate e gli ufficiali avevano l’impressione di aver familiarizzato con i sistemi di bordo. Rivera sapeva che per padroneggiare davvero la Destiny sarebbe servito più tempo, ma temeva che con un’attesa più lunga tra l’equipaggio serpeggiasse il malumore e venisse meno la concentrazione. Così decise che era giunto il momento e annunciò la partenza per l’indomani. Questo creò grande trepidazione a bordo: alcuni si comportavano come se stessero per tornare a casa, altri erano più pessimisti sull’avvenire. Rivera non sapeva quale fosse l’atteggiamento prevalente, ma ormai era tardi per tornare sulla sua decisione.
   La mattina fatidica, il Capitano entrò in plancia col batticuore. Gli ufficiali erano già lì: tutte le teste si girarono verso di lui. «Capitano sul ponte!» annunciò Talyn, sempre il suo più grande fan.
   «Riposo, signori. Tutti ai vostri posti» ordinò Rivera, sperando col suo esempio d’instillare una certa disciplina in quegli avventurieri. Non poteva pretendere performance da Flotta Stellare in chi non aveva fatto l’Accademia, ma sentiva di doverli mettere in riga, ora che erano su una nave federale.
   Tutti fecero come ordinato, tranne Naskeel che gli si avvicinò. «Capitano, ha preso una decisione nei miei riguardi?» chiese il Tholiano.
   Rivera dette una breve occhiata al centro della plancia, dove si trovavano le tre poltrone principali: quella del Capitano, del Primo Ufficiale e del Consigliere. La terza sedia era destinata a restare vuota, dato che non avevano uno psicologo a bordo. Alla luce di questo, Rivera non voleva trovarsi con altre posizioni chiave scoperte: non ora che stavano per tuffarsi nell’ignoto. Per quanto ne sapeva, magari di lì a poco sarebbero stati impegnati in una battaglia mortale. No, gli serviva un professionista al tattico; così era una scelta obbligata.
   «Signor Naskeel, dopo attente riflessioni ho deciso di affidarle l’incarico da lei richiesto» disse in tono formale, fissando l’interlocutore; ma avvertì la sorpresa che aveva suscitato negli altri. «Sappia che mi aspetto piena lealtà e dedizione da parte sua. Il tradimento non sarà tollerato» avvertì.
   «Com’è giusto che sia» convenne Naskeel, piegando appena le sei zampe in una sorta d’inchino, che per lui corrispondeva al saluto militare. Dopo di che zampettò alla postazione tattica.
   Rivera restò a osservarlo qualche istante, prima di accomodarsi sulla sua poltrona.
   «Spero che tu sappia ciò che fai» gli sussurrò Losira, dal seggio del Primo Ufficiale.
   «Hai insistito tu perché designassi un Ufficiale Tattico».
   «Non mi aspettavo che si proponesse lui; ancor meno che tu accettassi».
   «Affrontiamo un problema per volta. Dovremmo essere al sicuro... finché non saremo tornati nel nostro Universo. Poi si vedrà» puntualizzò l’Umano, dandole un’occhiata eloquente.
   Passato qualche attimo, il Capitano premette un tasto sul bracciolo. Voleva aprire un canale con tutti i ponti, per rivolgere un discorso d’incoraggiamento alla ciurma. Quel che ottenne, invece, fu il dispiegarsi delle cinture di sicurezza che lo avvolsero strettamente. Gli ufficiali lo fissarono perplessi.
   «Mannaggia. Dovrei comandare la nave, e non vengo a capo nemmeno del mio bracciolo!» si rimproverò Rivera, ritirando le cinture. «Avete visto tutti? Ora sapete cosa fare, in caso di scossoni!» si giustificò.
   Losira alzò gli occhi al cielo e si piegò verso di lui, pigiando il tasto giusto sul suo bracciolo.
   Dopo essersi ricomposto, l’Umano si schiarì la voce. «Buongiorno a tutti, è il Capitano che vi parla. Oggi comincia il nostro viaggio più memorabile, anzi il più memorabile di tutti i tempi: l’esplorazione del Multiverso. Non l’abbiamo chiesto noi, ma il destino ci ha posti su questa nave, con questa missione. Là fuori ci sono bellezze, scoperte e pericoli che oltrepassano ogni immaginazione. Solo restando uniti e fidando gli uni negli altri ne verremo a capo. Non siamo ufficiali di Flotta, eppure dovremo comportarci come tali, perché solo così troveremo la via di casa.
   In questa ricerca non lasceremo nulla d’intentato. Visiteremo tutte le coordinate quantiche ritrovate nel database, in cerca di quella giusta. Proveremo a contattare le entità capaci di spostarsi nel Multiverso, come i Q e i Nacene. Cercheremo ogni traccia, ogni indizio che possa metterci sulla giusta via».
   Fatta una breve pausa, il Capitano riprese in tono accorato: «Ricordate inoltre che tutto questo non lo facciamo solo per noi stessi. Dobbiamo tornare anche per avvertire la Federazione della minaccia Undine. Può darsi, infatti, che la biosfera fosse parte di un piano d’invasione: un modo per scoprire i nostri punti deboli prima di sferrare l’attacco su vasta scala. Se è così, dobbiamo avvisare le autorità federali prima che sia troppo tardi. E dobbiamo rendere giustizia al primo equipaggio della Destiny, raccontando la loro storia.
   Questa è la nostra responsabilità, sebbene le autorità non ci siano state amiche. E chissà che, riuniti su questa nave, non riscopriamo in noi quello spirito di fratellanza che creò la Federazione, tanto tempo fa. Signori, avanti tutta verso l’ignoto!». Ciò detto, il Capitano chiuse il canale.
   «Ecco perché voi Umani arrivate sempre alla poltrona di comando: siete bravi a fare i discorsi» commentò Losira, con un guizzo divertito negli occhi.
   «Plancia a sala macchine, quando volete» disse Rivera.
   La Destiny vibrò, raccogliendo le energie, finché il deflettore lanciò un impulso gravitonico che forò lo spazio, aprendo una breccia. Anche stavolta gli avventurieri ebbero la prudenza di lanciare prima una sonda contenente campioni biologici, per accertarsi che la destinazione fosse compatibile con la vita. La sonda tornò poco prima che la breccia si richiudesse e stavolta Giely ebbe tutto il tempo d’analizzare i campioni, in cerca d’anomalie. Quando, qualche ora dopo, riferì alla plancia che era tutto okay, il nucleo si era già ricaricato. La Destiny riaprì la soglia tra le realtà, simile a un vortice dorato.
   «Avanti a un quarto d’impulso» ordinò il Capitano, contemplando l’ignoto davanti a sé. «Vediamo cosa ci aspetta!». 
 

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


-Epilogo:
Data Stellare 2610.48
Luogo: Mondo Corallo, capitale Undine
 
   Il pianeta corallino fluttuava nello Spazio Fluido, al centro di un continuo andirivieni di bionavi che rifornivano la sua folta popolazione. Miliardi di Undine erano affaccendati in tutte le attività necessarie a governare il loro vasto impero. Per la maggior parte di loro era un onore il solo fatto d’essere ammessi nella capitale. Ma l’Attendente avrebbe dato un braccio per trovarsi in qualunque altro luogo.
   «Inaudito!» commentò il Supervisore, dopo aver ricevuto il suo rapporto sulla distruzione della biosfera. «Quel che è accaduto è di una gravità inaudita» ripeté, aggirandosi nel salone in penombra. Le pareti organiche si scurirono, in accordo con il suo pessimo umore. «Avete perso la biosfera, venti bionavi, persino un Distruttore Planetario, tutto a causa di quei bipedi! E la cosa più grave è che vi sono sfuggiti! Ora informeranno la Federazione dell’accaduto. Dovremo riformulare tutta la nostra strategia. Anni d’accurata pianificazione... vanificati dalla vostra incompetenza!».
   «Con tutto il rispetto, signore, ma è stato l’Esaminatore a insistere per tenere la Vorta con sé sulla Destiny» puntualizzò l’Attendente. «Pensava di averla sotto controllo. Credo che volesse farne la sua portavoce presso i federali...».
   «Allora è stato doppiamente stupido!» tagliò corto il Supervisore. «Se non avesse già pagato con la vita, lo giustizierei io stesso». Dette le spalle al sottoposto e si accostò all’alcova dorata incastonata nella parete di fondo. Lì, in un liquido viscoso simile alla resina, galleggiava una figura umanoide tenuta in animazione sospesa.
   «Non tutto è perduto, signore» rivelò l’Attendente. «Poco prima di morire, l’Esaminatore ci ha inviato un messaggio telepatico. Ci ha informati di aver cancellato dal computer della Destiny le coordinate quantiche del suo Universo d’origine. Così i fuggiaschi non potranno tornare alla Federazione per avvertirla dell’accaduto».
   «Davvero?» s’interessò il Supervisore, girando la testa. «Allora la nostra strategia può ancora riuscire. Ma c’è qualcosa che mi lascia perplesso. Dici che i federali non avevano le coordinate di casa, eppure se ne sono andati...».
   «Senza dubbio hanno impostato una destinazione casuale, per sfuggire alla nostra flotta» rispose l’Attendente. «Ora sono perduti nel Multiverso, senza alcun indizio su come tornare. È matematicamente impossibile che trovino le giuste coordinate per mera fortuna. Sono condannati a vagare nel Multiverso, finché qualcosa o qualcuno li distruggerà. Se posso esprimere il mio parere, non sentiremo più parlare di loro. È come se fossero già morti».
   «Uhm, può darsi» ammise il Supervisore, meditabondo. «Ma dopo questo clamoroso fallimento, non dobbiamo più sottovalutare l’intraprendenza dei federali. Non è da escludere che un giorno la Destiny torni a darci noie. Fortunatamente ho ancora qualche risorsa da impiegare in quel frangente» ragionò, tornando a osservare la figura umanoide tenuta in animazione sospesa. Calva, con gli occhi chiusi, ancora rivestita della sua uniforme, il Capitano Dualla dell’USS Destiny galleggiava come un insetto nell’ambra.
 
 
FINE
 
 

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