Star Trek Destiny Vol. II: Schegge di realtà

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Illusione o realtà? ***
Capitolo 3: *** Paure nascoste ***
Capitolo 4: *** Desideri irresistibili ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Destiny Vol. II:
Schegge di realtà
 
 
LA DESTINY DOVEVA ESPLORARE IL MULTIVERSO,
MA QUALCOSA È ANDATO STORTO
E L’EQUIPAGGIO È STATO UCCISO.
ANNI DOPO, UNA BANDA DI CONTRABBANDIERI
HA ABBORDATO LA NAVE ALLA DERIVA,
VENENDO RISUCCHIATA NEL MULTIVERSO,
SENZA LE COORDINATE DI RITORNO.
AGLI AVVENTURIERI NON RESTA CHE
ESPLORARE UNA REALTÁ DOPO L’ALTRA,
IN CERCA D’INDIZI SULLA VIA DI CASA,
MENTRE CERCANO DI RISCOPRIRE IN LORO
QUELLO SPIRITO CHE CREÓ LA FEDERAZIONE...
 
 
-Prologo:
Data Stellare 2594.94
Luogo: Risa
 
   «Gentili spettatori, la notizia è confermata. Dopo settimane di trattative ai massimi livelli tra la Flotta Stellare e il Comando dei Pacificatori, la Tregua di Bajor è una realtà. Da oggi è in vigore il cessate il fuoco, valido su tutti i fronti. La legge marziale è stata ritirata e i prigionieri di guerra saranno rilasciati al più presto. La Guerra Civile che ha insanguinato i nostri mondi per oltre tre anni può dirsi terminata. La tregua comporta l’avvio di trattative per la ricomposizione politica tra la Federazione e l’Unione. Garanti dell’accordo sono i Proto-Umanoidi, che si sono impegnati a patrocinare le trattative sino alla firma degli accordi di pace definitivi.
   Per quanto riguarda il nostro mondo, possiamo confermare che le forze d’occupazione dei Pacificatori sono in piena ritirata. Le loro guarnigioni sono state abbandonate, incluso il presidio nella capitale. Il personale è risalito sulle astronavi, che hanno assunto un vettore d’uscita dall’orbita. Chiediamo alla regia se può mostrarci la diretta... ecco, quella che vedete è la flotta dei Pacificatori. Le navi stanno partendo in questo preciso momento, potete vederle entrare in cavitazione. Signore e signori, queste sono riprese storiche. Dopo tre anni, Risa è di nuovo libero!».
   Dalla loro villa sulla laguna, il visconte Atrevius e sua moglie Losira seguivano il notiziario senza proferire parola. Se ne stavano abbracciati sul divano, i cuori palpitanti per l’emozione. Quando infine videro i lampi Cherenkov delle astronavi in ritirata, la loro tensione si spezzò.
   «È finita davvero...» mormorò Atrevius, quasi incredulo. «Abbiamo vinto, amore mio. La guerra è finita e possiamo ricominciare a vivere!» esultò, guardando la consorte.
   «Oh, caro! Dopo tutti questi orrori... i giorni e le notti d’angoscia... gli amici morti... quasi non riesco a crederci» mormorò Losira, piangendo calde lacrime di gioia. «Allora le nostre sofferenze non sono state vane. Quel che abbiamo fatto ha avuto un senso».
   «Sì, anima mia, lo ha avuto» disse il visconte con decisione. «Anche se non siamo stati noi a far cadere i Pacificatori, siamo parte del grande sforzo che li ha piegati. Dopotutto abbiamo trascorso questi anni a fare il doppio gioco in favore della Flotta Stellare. Tutte quelle informazioni riservate che le abbiamo passato avranno pur contribuito alla vittoria. Ora finalmente non dovremo più fingerci dei collaborazionisti; potremo essere noi stessi».
   «Promettimi che d’ora in poi ti terrai alla larga dalla politica!» disse Losira. «Ho vissuto abbastanza intrighi da bastarmi per una vita intera».
   «Lo prometto, tesoro!» rise il marito. «Non cercherò più incarichi diplomatici. Vivremo come due privati cittadini... anche se...».
   «Se?» si allarmò Losira, temendo che il consorte volesse lanciarsi in qualche altra missione idealista.
   «Ecco, ora che la guerra è finita, mi chiedo se non potremmo vivere come tre privati cittadini» disse Atrevius, fissandola con tenerezza.
   «Vuoi dire...!» fece Losira, tremando per l’emozione.
   «Sì, amore. Credo che siamo pronti per avere un figlio» confermò il visconte. «Io lo desidero molto, e non credo di sbagliarmi se dico che lo vuoi anche tu».
   «Mi conosci bene» sorrise la Risiana. «Finché c’era la guerra avevo troppa paura, ma ora... sì, mi sento pronta. Però ti avverto: voglio scegliere io il nome!».
   «Accordato. Del resto hai più buon gusto di me» ridacchiò Atrevius. «Ti amo tanto, tesoro» disse poi, stringendola forte.
   «Ti amo anch’io» disse Losira, lasciandosi cadere all’indietro sul divano. «Sei la mia vita... non potrei vivere senza di te». E per l’ultima volta nella sua vita, fu tutto perfetto.
 
   Tre settimane dopo, i piccioncini non erano più così allegri. Il governo provvisorio di Risa, infatti, aveva notificato un avviso d’esproprio a tutte le famiglie aristocratiche del pianeta. Oltre a vedersi confiscati averi e proprietà, gli interessati avevano una sola settimana per lasciare il pianeta. Chiunque si fosse fatto trovare su Risa oltre lo scadere del tempo sarebbe stato arrestato e condannato all’ergastolo.
   «È assurdo... non possono farlo» mormorò Losira, leggendo l’avviso sull’oloschermo della scrivania.
   «L’hanno già fatto» disse cupamente Atrevius, aggirandosi nel suo studio. «Il provvedimento è già esecutivo. Se leggi in fondo, vedrai come lo giustificano. In pratica dicono che, siccome noi aristocratici abbiamo collaborato col regime dei Pacificatori, ora dobbiamo risarcire il popolo».
   «E il popolo non ha forse collaborato?! Si sono arruolati a milioni tra le file dei Pacificatori!» ringhiò Losira, scattando in piedi. «Del resto i dissidenti erano subito arrestati, o peggio. Nessuno ha davvero avuto scelta».
   «Non devi spiegarle a me, queste cose!» sbuffò Atrevius. «Ma il governo provvisorio vuole far cassa, in vista del ritorno nella Federazione. E vuole approfittare dell’occasione per sbarazzarsi dei vecchi casati. E vuole dare al popolo un capro espiatorio per tutto il male di questi anni» enumerò sulle dita. «Sono tre valide ragioni per derubarci di tutto» aggiunse tristemente.
   «Capisco gli altri casati, ma noi?!» esclamò Losira. «Noi abbiamo rischiato la vita per aiutare la Federazione! Ed è impossibile che quelli del governo provvisorio non lo sappiano. Tra loro c’è un sacco di gente della Resistenza con cui abbiamo collaborato. Non possono averci dimenticati!».
   «Dimenticati no di certo, ma...».
   «Dici che non gli importa?» fece Losira, col labbro tremante. «Dopo tutto ciò che abbiamo fatto per loro, vogliono punirci comunque?!».
   «Intendo scoprirlo subito» decise Atrevius, smettendo di passeggiare avanti e indietro. «Andrò al Ministero degli Interni. Il vecchio Freebus è mio amico, ed è in debito con me. Gli farò presente la nostra situazione. Vedrai, tutto si sistemerà!» disse, cercando di convincere innanzi tutto se stesso.
   «E se non si sistemasse?!».
   «Deve farlo, o lo farò cadere da quella scrivania che nemmeno avrebbe, se non fosse per me!» rivendicò il visconte. «Vado seduta stante, non c’è tempo da perdere» disse, lasciando lo studio. Stava già indossando il soprabito quando Losira gli fu accanto.
   «Vengo con te, così lo minacceremo in due» dichiarò.
   «Preferirei di no» disse Atrevius, con uno strano tono.
   «Perché no?».
   «Se apparissimo troppo ostili, potremmo sortire l’effetto opposto. E poi vorrei che t’informassi sui prossimi trasporti in partenza da Risa, se... le cose volgessero al peggio» rispose il marito. C’era un’altra ragione per non farla esporre, una ragione attinente alla sua sicurezza personale; ma non lo disse per non spaventarla.
   «Come vuoi» cedette Losira, troppo agitata per riflettere con la solita perspicacia. «Cantagliele chiare, a tutte quelle canaglie. Devono ricordare che sono in debito con noi!».
   «Lo farò, tesoro. Sarò di ritorno entro sera, con una deroga firmata!» promise il visconte, aprendo la porta. «E tu non angosciarti, mia adorata. In fondo ne abbiamo passate di peggio. Ne siamo sempre usciti insieme; lo faremo anche stavolta!». Le prese il volto tra le mani, si chinò su di lei e la baciò con passione; poi si dileguò.
   Losira rimase sulla soglia, a osservare il marito che saliva sulla levi-car e prendeva quota. Continuò a guardare finché la vettura divenne un puntino all’orizzonte, diretto a velocità ultrasonica verso la capitale. Poi la Risiana rientrò in villa, con il cuore oppresso da oscuri presagi.
 
   Il sole si alzò e ridiscese senza che Atrevius facesse avere sue notizie. Losira contava le ore, chiedendosi che stesse accadendo. Era tentata di contattare il marito, ma all’ultimo si tratteneva, non volendo rischiare d’interromperlo in un momento delicato. Venne l’ora di cena, ma la Risiana non aveva fame. Uscì nella veranda, per sentire la brezza che saliva dalla laguna. Il sole moriva all’orizzonte, in un rosseggiare di nubi sanguigne. Losira fece in tempo a vedere l’ultimo raggio, prima che calassero le tenebre; allora spirò un vento freddo, che la fece rabbrividire. Assalita da una strana angoscia, che le toglieva il fiato, la Risiana rientrò in casa. Fu allora che squillò il comunicatore.
   Losira rispose senza nemmeno controllare da dove veniva la chiamata. Era certa che fosse Atrevius; ma l’estraneo che apparve sull’oloschermo infranse le sue aspettative. A giudicare dalla sua uniforme, era un commissario di polizia. «Qui è il comando provinciale delle forze dell’ordine. Parlo con lady Losira?» esordì.
   «Sono io; a cosa devo la chiamata?» chiese la donna, reprimendo un tremito.
   «Milady, temo di doverle annunciare una tragica notizia» disse il commissario. «Riguarda suo marito. Aveva lasciato la capitale dopo un incontro col Ministro degli Esteri e stava tornando alla vostra dimora, quando c’è stato un incidente».
   «Incidente?» ripeté Losira, con l’impressione che tutto le vorticasse attorno.
   «La sua levi-car ha avuto un malfunzionamento ed è precipitata, signora. Ha impattato ad alta velocità col suolo. I paramedici lo hanno estratto dalle lamiere poco fa» spiegò il commissario.
   «Ma lui come... voglio dire, lui è...» mormorò Losira, incapace d’articolare.
   «Sono profondamente addolorato, milady. Devo annunciarle che suo marito è morto».
 
   Come in un sogno, Losira percorse a grandi passi i corridoi di fredde mattonelle bianche nei sotterranei dell’ospedale, seguendo il medico in camice bianco. Giunti all’obitorio, si fermarono davanti alla salma, distesa su un lettino e coperta da un telo bianco.
   «Eccolo» disse il medico legale. «Le rinnovo le mie condoglianze, milady. Lo abbiamo già identificato col DNA, quindi non occorre alcun riconoscimento. Del resto, non c’è molto da riconoscere. L’impatto è stato talmente...».
   «Io voglio vederlo» disse la vedova. «Per l’ultima volta».
   «Ne è certa, milady?» chiese il coroner. «So per esperienza che l’ultima immagine di una persona cara è quella che resta più impressa. Non preferisce ricordarlo com’era da vivo, piuttosto che...».
   «Alzi quel dannato telo o lo farò io stessa» ordinò Losira, in un tono che non ammetteva repliche.
   Non essendoci altro da fare, il medico legale obbedì. Scostò il telo solo per pochi secondi, permettendo alla vedova di dare una breve occhiata. Poi si affrettò a ricoprire i resti maciullati.
   «Era un pilota esperto. Come mai non s’è eiettato?» mormorò Losira, pallida come le salme che passavano per quella camera.
   «Stiamo ancora investigando» rispose il commissario, che l’aveva seguita in obitorio. «Da un primo esame dei resti, pare che i sistemi di sicurezza non abbiano funzionato. Una tragica fatalità».
   «Aveva fatto revisionare la levi-car appena il mese scorso» precisò la vedova. «Non vi pare il caso d’indagare?».
   «Desolato milady, ma non ci sono indizi sufficienti ad aprire un’indagine».
   A queste parole, Losira si girò di scatto verso il tutore dell’ordine. «Le hanno ordinato d’insabbiare tutto, non è così? Chi è stato?! Il governatore provinciale? O il Ministro degli Interni in persona?!».
   «Signora, data la sua posizione non è prudente lanciare simili accuse» avvertì il commissario. «Anzi, per la sua sicurezza la esorto a lasciare subito il pianeta. Non vorrei che ci fosse un’altra... fatalità».
   Losira sgranò gli occhi a quella velata minaccia. «È così, dunque? Mio marito è morto e non posso nemmeno seppellirlo?! E mi dica, dove dovrei andare, per giunta senza bagaglio? Tutto ciò che avevo è sotto sequestro!» protestò.
   «Milady, deve guardare in faccia la realtà!» si scaldò il commissario. «Voi aristocratici avete collaborato coi Pacificatori. Avete lucrato grazie alla guerra, mentre i nostri ragazzi morivano. Ora vi odiano tutti, dalla gente comune fino ai massimi livelli del governo provvisorio».
   «Mio marito e io passavamo informazioni alla Resistenza!» proruppe la vedova, piangendo di dolore e rabbia. «Abbiamo contribuito a crearlo, il governo provvisorio. Molti suoi membri sarebbero morti, se non li avessimo protetti durante la guerra. Ma forse non vogliono ammettere il loro debito, per questo hanno deciso la nostra morte! E allora io mi chiedo: perché sostituire una dittatura assassina con una democrazia ugualmente assassina? Se avessero vinto i Pacificatori, ora Atrevius sarebbe vivo. Invece, siccome avete vinto voi, mio marito è morto e io è come se lo fossi!».
   Calò un lungo, cupo silenzio. Il coroner e il commissario fissavano il pavimento, incapaci di proferir parola. Fu il medico legale a riaversi per primo. «Milady, faremo tutto il possibile affinché a suo marito sia offerta degna sepoltura nel cimitero di famiglia. Ma lei deve andarsene subito. Per il suo bene, lasci Risa e non torni mai più!».
   «Ci può giurare, che non tornerò mai più. Ho chiuso con questo mondo ingrato!» strepitò Losira.
   «Non stia nemmeno a ripassare da casa» la esortò il commissario. «Uscita da qui, vada allo spazioporto e prenda la prima nave in partenza».
   «Ma... ma...» balbettò la vedova. Si guardò l’abito nero, da lutto, che aveva indossato quand’era uscita di casa: era tutto ciò che le restava. «Come si suppone che sopravviva, d’ora in poi?» sussurrò, trattenendo a stento le lacrime.
   I rappresentanti dello Stato non risposero.
   Col cuore spezzato, Losira dette un’ultima occhiata alla salma coperta dal telo. Ci sono momenti che travalicano l’attimo in cui sono vissuti e si fissano indelebilmente nell’animo. Questo era il suo momento, si disse la vedova. Una parte di lei sarebbe sempre rimasta lì, in quel freddo stanzone, a contemplare i resti martoriati del suo grande amore. In un certo senso era morta con lui. Il sogno di una vita insieme, il sogno di un figlio... era tutto svanito. Ciò che le sarebbe accaduto d’ora innanzi era di secondaria importanza.
   «Signori, a mai più rivederci» si riscosse Losira. «Vi auguro di non fare mai nulla di buono nelle vostre vite. Perché, come ho imparato a mie spese, nessuna buona azione resta impunita. Sarà questa la mia filosofia, d’ora in poi» promise. Se ne andò senza voltarsi indietro, sbattendo la porta dell’obitorio.
   Lasciato l’ospedale, la vedova fece come consigliato: andò dritta allo spazioporto e s’imbarcò sul primo trasporto in partenza, senza nemmeno guardare la destinazione. Da quel momento in avanti seguì la sua nuova filosofia, il che se non altro la tenne in vita, sebbene non potesse darle una ragione per vivere. 
 

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Capitolo 2
*** Illusione o realtà? ***


-Capitolo 1: Illusione o realtà?
Data Stellare 2610.55
Luogo: Spazio Caotico

   L’USS Destiny era stata costruita per esplorare il Multiverso. Ma con l’equipaggio originale sterminato e le coordinate di ritorno cancellate dal nemico, gli avventurieri che l’avevano occupata dovevano muoversi a tentoni. L’unico, flebile indizio era dato da una lista di coordinate che l’Ingegnere Capo aveva ricostruito con un algoritmo di deframmentazione dati. A tali coordinate, però, non era più abbinata alcuna descrizione. Dunque ogni viaggio era un salto nel buio; e bisognava provarle tutte per trovare la combinazione giusta, che li avrebbe riportati a casa. A peggiorare le cose, non c’era modo di sapere se la lista era completa. Forse l’indirizzo di ritorno era perduto per sempre; ma gli avventurieri lo avrebbero saputo solo dopo averle tentate tutte. Così fu con un misto di speranza e paura che iniziarono la loro odissea nel Multiverso.
   Abbandonato il Vuoto – l’Universo senza stelle in cui aveva sostato – la Destiny si trovò in un nuovo cosmo, completamente diverso. Non c’erano stelle in vista, ma nemmeno l’oscurità dello spazio. Al contrario, l’astronave era sospesa tra volute azzurre, simili a nubi in perenne cambiamento. Alcune zone parevano più dense, altre meno, ma tutte mutavano forma. L’elemento più sconcertante erano le luci bianche, radunate in piccoli sciami, che sfrecciavano attorno all’astronave, uscendo dalle nubi e sparendovi subito dopo. Tutto era in continua trasformazione, nulla restava uguale più di qualche secondo.
   «E questa che roba è?!» chiese il Capitano Rivera, osservando lo strano cosmo. «Analisi sensoriale completa!» ordinò.
   «Forse siamo finiti dentro una nebulosa» ipotizzò Shati, la timoniera. «Anche se non capisco cosa siano quegli sciami luminosi. Magari fulmini globulari?».
   «Non siamo in una nebulosa» la smentì Talyn, l’addetto a sensori e comunicazioni. «Non rilevo gas né polveri. E non capto nemmeno fulmini o altri fenomeni elettrici».
   «E allora che cosa rilevi?» chiese il Capitano, girandosi a mezzo verso di lui.
   «Io... ho difficoltà a stabilirlo» rispose il giovane El-Auriano, azionando nervosamente un comando dopo l’altro. «È come se non ci fosse nulla, là fuori».
   «Ma qualcosa c’è, lo vediamo coi nostri occhi!» insisté Rivera.
   «Ci sono indubbiamente dei fotoni, ma proprio non capisco che cosa li emetta!» disse il ragazzo-prodigio, sempre più frustrato e imbarazzato.
   «Va bene, non ti preoccupare» lo rassicurò il Capitano. «Sapevamo che alcune realtà hanno leggi fisiche diverse dalle nostre. È probabile che, qualunque cosa ci sia là fuori, i nostri sensori non riescano a individuarlo».
   «Okay, qui abbiamo finito. Proviamo un’altra di quelle coordinate!» suggerì Losira.
   «Ehi, piano! Siamo appena arrivati e già vuoi andartene?!» protestò Rivera, urtato dal suo disinteresse.
   «Non siamo scienziati della Flotta Stellare. Siamo solo gente normale che vuol tornare a casa» gli ricordò Losira. Lei infatti vestiva ancora casual... se si potevano definire casual gli appariscenti abiti da diva e i capelli a caschetto che cambiavano spesso colore. Adesso, ad esempio, erano di un rosso porpora.
   «Va bene, ma non possiamo guardarci intorno e dire: “Okay ragazzi, in questo Universo non c’è niente d’interessante, passiamo al prossimo”!» si spazientì il Capitano. «Forse è la prima volta che una nave federale viene qui, e potrebbe passare molto tempo prima che accada di nuovo... se mai accadrà. Abbiamo il dovere di trattenerci almeno qualche giorno e raccogliere dati».
   «Il dovere? Noi non abbiamo alcun obbligo verso la Flotta Stellare!» ribadì Losira.
   Rivera alzò gli occhi al soffitto. Ora capiva che era stato un errore cominciare quell’odissea senza prima mettere in chiaro come l’avrebbero condotta. «Facciamo un passo indietro» disse, cercando di dominarsi. «Ci sono tre ragioni logiche per cui non possiamo visitare decine di Universi in rapida successione.
   Primo: ogni passaggio da una realtà all’altra costituisce un terribile stress per la nave. Quindi a ogni tappa gli ingegneri devono fare un check-up completo dei sistemi. Ti ricordo che il minimo guasto ci farebbe saltare in aria al prossimo viaggio.
   Secondo: siamo avventurieri e ciascuna di queste realtà inesplorate può essere uno scrigno di tesori inimmaginabili. Quindi voglio guardarmi attorno e fare un po’ d’esplorazione, prima di andarcene per sempre.
   Terzo: quando finalmente torneremo a casa, non potremo tenerci la Destiny. La Flotta Stellare la rivorrà indietro, con le buone o con le cattive. Se al momento della restituzione avremo qualcosa da mercanteggiare, fossero anche solo informazioni sul Multiverso, potremo ottenere l’amnistia. Non so te, ma io sono stanco di fuggire da tutte le pattuglie federali. Potrebbe essere la volta buona che ci mettiamo in regola con la legge» concluse il Capitano.
   Losira valutò attentamente le sue argomentazioni. «Approvo i primi due punti» disse infine. «Ma non il terzo. Ho imparato a mie spese che fare del bene non serve a niente, perché si ottiene solo ingratitudine. Nessuna buona azione resta impunita!» citò. Era il suo motto e non perdeva occasione per ricordarlo.
   «Forse hai ragione» sospirò Rivera. «Ma restano validi i primi due punti. Capitano a equipaggio!» aggiunse, aprendo un canale con tutti i ponti. «Come vedete abbiamo raggiunto una nuova realtà, che per ora sfugge alle nostre capacità d’analisi. Tuttavia agli ingegneri serve tempo per controllare i sistemi, prima di passare alle prossime coordinate. Inoltre, considerando che siamo i primi a visitare questo Universo e che una volta andati non lo rivedremo, voglio esplorarlo almeno per qualche giorno, per verificare se ci sono occasioni di profitto. Per ora seguirete i vostri turni; se ci saranno novità sarete informati. Plancia, chiudo».
   Per un attimo vi fu silenzio, poi Shati prese la parola. «Ehm... che rotta dovrei tracciare, Capitano?» volle sapere.
   Rivera guardò quello spazio azzurrino, privo di una reale fisionomia. Non c’erano stelle, pianeti o altri corpi celesti verso cui dirigersi. Una direzione valeva l’altra. «Avanti a metà impulso. Se ci troviamo nell’equivalente di una nebulosa, cerchiamo d’uscirne» ordinò. Ciò detto lasciò la poltrona del Capitano e si accostò allo schermo, per osservare gli sciami lucenti che sfrecciavano attorno all’astronave. «Uhm, non mi piacciono quelle strane luci. Naskeel, alzi gli scudi e mi avverta se qualcosa prova a superarli» aggiunse rivolto all’Ufficiale Tattico, un inquietante Tholiano di cui non si fidava pienamente.
   «Scudi alzati» disse il Tholiano, con la voce sintetica del traduttore. «Per ora nessuna reazione dai bagliori. Vuole che provi a colpirli?».
   «No, per carità! Se fossero qualcosa di senziente, non dobbiamo danneggiarli» raccomandò il Capitano. «In generale le proibisco di sparare per primo. Useremo le armi solo per difenderci in caso d’attacco».
   «Bizzarro» commentò Naskeel. «Ma il Capitano è lei».
   «Già, veda di non dimenticarlo» ammonì Rivera, squadrandolo con diffidenza. Appena tre settimane prima il Tholiano li aveva abbordati da nemico. Solo una fortuita serie d’eventi li aveva costretti a collaborare contro una minaccia comune, e solo la mancanza di un Ufficiale Tattico professionista aveva costretto il Capitano a designare proprio lui. Tra tutte le sue decisioni, era quella che più gli dava da pensare; ma col resto dell’equipaggio non poteva mostrare tentennamenti.
   Per distrarsi, l’Umano tornò a osservare lo strano spazio azzurrino. Quando s’era arruolato nella Flotta Stellare, sperava proprio di vivere avventure del genere. Se solo non fosse stato espulso per un incidente, lo avrebbe fatto da ufficiale anziché da avventuriero. Si trovò a pensare con malinconia agli anni d’Accademia, quando la vita sembrava sorridergli. Aveva una fidanzata, all’epoca. Al termine degli studi avevano fatto domanda per servire sulla stessa astronave, ma la richiesta era stata rifiutata. Così avevano dovuto dirsi addio; era da allora che non la rivedeva.
   «Ah, Debora... che penseresti, se mi vedessi ora?» si chiese con un misto di sentimenti agrodolci. Ovunque fosse la sua vecchia fiamma, poteva solo augurarsi che fosse più al sicuro di lui.
 
   Quella notte il Capitano stentò a prendere sonno. Aver pensato a Debora, per la prima volta dopo tanto tempo, lo aveva colmato di rimpianti. Quando finalmente riuscì ad assopirsi, il sonno fu agitato. Rivide alcuni dei momenti terribili che aveva passato dopo aver abbordato la Destiny, quando lui e l’equipaggio erano finiti nello Spazio Fluido e avevano dovuto affrontare i micidiali Undine. A un certo punto si svegliò per l’emozione.
   L’alloggio era buio, ma Rivera ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di strano. Era come se non fosse da solo... come se qualcuno lo spiasse. Ancora mezzo addormentato, l’Umano cercò di scostare le coperte per alzarsi. Le coltri fecero resistenza, come se qualcosa le trattenesse. Fu allora che Rivera percepì un respiro accanto a lui. «Computer, luci!» farfugliò.
   «Cucù!» trillò una voce femminile, mentre due mani gli calavano sugli occhi.
   «CARAMBA!» gridò Rivera, mentre il cuore gli balzava nel petto. D’un tratto fu completamente sveglio. Afferrò le mani sconosciute e le se levò dalla faccia. Poi balzò giù dal letto, ma era così invischiato nelle coperte che cadde a terra. Si rotolò sul pavimento, cercando di districarsi dall’involto. La sua mano corse al cassetto del comodino: lo aprì e ne estrasse il phaser. Solo allora alzò gli occhi allo sconosciuto aggressore... che si rivelò essere una bella ragazza sul principio della ventina, in lingerie.
   «Ehi, calmati!» disse la ragazza appollaiata sul letto. «Sono io, amore. Perché mi guardi in quel modo? Ti ho spaventato?».
   «Non è possibile... Debora?!» la riconobbe Rivera. «Come sei salita a bordo?» ansimò, il cuore ancora a mille.
   «Di che parli? Siamo nel tuo alloggio all’Accademia» corresse Debora, o chiunque fosse.
   L’Umano si guardò brevemente attorno, senza smettere di tenerla sotto tiro. Quello era indiscutibilmente il suo lussuoso alloggio sulla Destiny; non certo il monolocale che aveva all’Accademia.
   «Amore, si può sapere che ti piglia? Perché mi punti contro quell’arma?» chiese Debora, turbata. Fece per scendere dal letto, ma Rivera si rialzò e la minacciò ancora più da vicino.
   «Non ti muovere, pupa! Qualunque sia il tuo sporco gioco, con me non attacca!» avvertì il Capitano, studiandola da vicino. Non era invecchiata di un giorno dall’ultima volta che l’aveva vista, tanti anni prima: aveva ancora il faccino pulito di una ventenne. Per un attimo l’Umano si lasciò quasi distrarre dal resto, così generosamente in vista, ma poi tornò a concentrarsi. «Tu non puoi essere Debora... quindi chi sei?» la interpellò.
   «Ma certo che sono io! Chi dovrei essere, altrimenti? Ti stai prendendo gioco di me, mattacchione! Sei spiritoso, per questo mi piaci...» disse, provando ad abbracciarlo.
   Rivera si ritrasse come se fosse appestata. «Ho detto ferma, straniera! Tu non puoi essere Debora. Ci siamo lasciati anni fa, quando ci destinarono a navi diverse. Da allora non ci siamo più rivisti. E in ogni caso tu non avresti mai potuto raggiungermi. Non ci troviamo più nel nostro Universo!».
   «Questa è buona! E in quale Universo ci troviamo, allora?» rise la ragazza.
   «Te lo mostro subito. Computer, finestre in modalità diurna!» ordinò il Capitano.
   Le finestre dell’alloggio – inclusa quella dietro la testata del letto – divennero trasparenti, grazie ai materiali intelligenti di cui erano composte. Ora mostravano le mutevoli nubi azzurre e gli agili sciami luminosi di quello strano cosmo.
   «Hai visto? Ti pare la Terra, questa?!» fece Rivera, dando un’occhiata al panorama alieno. «Siamo su una nave stellare che ha raggiunto una realtà parallela, e tu devi dirmi come diavolo sei...». La sua voce si smorzò e s’interruppe, perché rigirandosi verso il letto lo aveva trovato vuoto. Debora, o chiunque fosse, era sparita.
   Per un attimo il Capitano pensò di avere le traveggole, ma allungando la mano constatò che effettivamente il letto era vuoto. Ci girò intorno, nell’improbabile caso che la ragazza vi si nascondesse dietro. Arrivò persino a sbirciare sotto al letto, ma niente: la sua ex si era volatilizzata. «Come se non fosse mai stata qui» si disse l’Umano con un brivido. Però, che strano: Debora gli era apparsa proprio dopo che aveva pensato a lei. Non poteva essere un sogno o un’allucinazione? «Non un sogno, perché ormai sono sveglio. E se era un’allucinazione, era la più realistica di sempre. L’ho vista, ho udito la sua voce... sentivo persino il suo profumo...».
   Incapace di lasciar perdere la faccenda, Rivera tornò al comodino e prese il comunicatore. Esitò per un attimo, incerto su chi chiamare. Dopotutto era il turno di notte: in plancia c’era solo una manciata d’ufficiali di basso grado. In quella gli venne in mente che Naskeel, in quanto Tholiano, non dormiva.
   «Rivera a Naskeel, è ancora in plancia?».
   «Certo, Capitano. A cosa devo la sua chiamata?» rispose l’Ufficiale Tattico.
   «Io... ehm... credo ci sia stata un’intrusione nel mio alloggio» farfugliò il Capitano, incerto su cosa dire.
   «Vengo subito con una squadra» disse il Tholiano.
   «No! Non c’è bisogno, ora sono da solo» precisò Rivera. «Mi dica soltanto se i sensori interni hanno rilevato intrusi nell’alloggio».
   «Verifico» disse Naskeel, consultando i diari dei sensori. «Negativo, signore».
   «Strano» borbottò l’Umano, interrogandosi sull’accaduto.
   «Se vuole fornirmi un identikit dell’intruso, esaminerò l’equipaggio in cerca del colpevole» si offrì il Tholiano.
   «Come no! Bionda, sui vent’anni e indossa solo biancheria intima!» pensò Rivera, scuotendo la testa. L’equipaggio lo avrebbe preso per un maniaco se si metteva a setacciare la nave in cerca di quella pupa uscita dai suoi sogni. «Lasci stare, io... non l’ho visto bene» mentì. «Forse è stato solo un sogno particolarmente realistico. Anzi, ora che mi conferma l’assenza d’intrusi, sono certo che lo fosse».
   «Solo un sogno» ripeté Naskeel. «Sa Capitano, più conosco gli Umani e più sono lieto d’essere nato Tholiano. Buonanotte, signore».
   «Buona... veglia, Tenente» sospirò Rivera, e chiuse la comunicazione. Dette un’altra occhiata alle nubi azzurrognole, che gli apparivano sempre meno amiche. Poi raccolse il fagotto di coperte e si rifece il letto. Accomodatosi sotto le coltri, ordinò al computer d’opacizzare nuovamente le finestre. In qualche modo riuscì a riprendere sonno.
 
   La mattina dopo il Capitano decise di fare colazione in sala mensa, anziché nel suo alloggio. Voleva osservare la ciurma, per verificare se altri avevano avuto strane visioni. «Un caffelatte. Poco latte e molto caffè» ordinò al replicatore. Presa la tazza fumante, andò a sorbirsela a un tavolino, avendo cura d’osservare gli altri avventori. Gli ufficiali del turno principale stavano arrivando proprio in quel momento; poteva sentire le loro ordinazioni al replicatore.
   «Una cioccolata calda» ordinò Talyn, che da quando non viveva più per strada cercava di approfittare delle comodità.
   «Un latte doppio con un cucchiaino di miele, in una ciotola!» volle Shati. Prontamente accontentata, la Caitiana si portò la ciotola a un tavolino e prese a sorbire il latte con la lingua, alla maniera dei gatti. Rivera cercò d’ignorarla.
   «Un succo di larve ben spremute, con la cannuccia» ordinò Irvik, l’Ingegnere Capo di razza Voth. Anche lui fu accontentato e andò a un tavolino per sorbirsi la squisitezza.
   Losira non si fece vedere. Del resto anche quand’erano sul mercantile Ishka preferiva mangiare nel suo alloggio, per non dover fraternizzare con l’equipaggio. In compenso apparve la dottoressa Giely, il medico di bordo.
   «Un tè alla cicuta!» trillò come se niente fosse.
   «Attenzione, la cicuta è tossica per 325 specie umanoidi» avvertì il replicatore.
   «Lo so. Bypassare i protocolli di sicurezza, autorizzazione medica Giely 88-sigma» ordinò la dottoressa.
   «Autorizzazione valida, protocolli sospesi» riconobbe il replicatore, e sfornò la tazza fumante. Giely la prese e si guardò attorno, in cerca di un tavolo libero.
   «Sei sicura di volerlo bere?» chiese Rivera, seduto a poca distanza dal replicatore.
   «Oh sì, è la mia bevanda preferita» confermò Giely. «Posso sedermi, Capitano?».
   «Certo, accomodati» la invitò Rivera, accennando alla sedia di fronte a lui. «Fammi indovinare: un altro dono della fenomenale fisiologia Vorta?».
   «I Fondatori ci hanno potenziati affinché fossimo i servitori ideali, specialmente in ambito diplomatico» sospirò Giely, soffiando sulla tazza calda. «Un buon diplomatico, per avere successo, non può farsi avvelenare dal nemico. Quindi i Fondatori ci hanno resi immuni a quasi tutti i veleni conosciuti. Alla tua salute, Capitano!» brindò, e bevve la cicuta.
   «Saresti l’invidia di Socrate» commentò l’Umano. «Senti, non è che per caso stanotte hai fatto strani sogni?».
   «Definisci “strani”» chiese la Vorta.
   «Mah, non so... tipo vedere persone che non dovrebbero essere qui?» fece Rivera, un po’ imbarazzato.
   «Ah, quel genere di stranezza. No, niente affatto» lo affossò Giely. «Però ieri sera ho ricevuto un paio di chiamate strane dall’equipaggio. Uno diceva di aver trovato il suo alloggio infestato da ragni uncinati talariani, che poi erano scomparsi. Un altro asseriva che, guardandosi allo specchio, gli sembrava d’aver perso tutti i denti; ma a un successivo esame li aveva trovati al loro posto. Ho prescritto a entrambi un leggero sedativo per la notte. Pensavo che fossero sotto stress, per via di questo nuovo Universo» disse, accennando alla finestra panoramica. «Per caso anche tu hai notato qualcosa di strano?».
   «No, io... ho solo sentito che qualcuno aveva visto una persona estranea» mentì il Capitano, non volendo sembrare eccentrico. Ma la sua risposta suonò poco convincente. «Senti, se ti arrivassero altre chiamate del genere, voglio esserne informato» aggiunse.
   «Come vuoi, Capitano. Pensi che siamo di fronte a un’epidemia di allucinazioni? Magari provocata da questo strano spazio?» chiese la dottoressa, accennando alle nubi azzurre oltre la finestra panoramica.
   «Non saprei, ma... siamo i primi visitatori di questa dimensione. Tutto è possibile» disse Rivera, chiedendosi se non fosse meglio lasciarla finché potevano.
 
   Più tardi Irvik stava ultimando il controllo dei sistemi. L’Ingegnere Capo era a una consolle secondaria, in un angolo della sala macchine, quando udì una risata infantile alle sue spalle. Questo era molto strano: sulla Destiny non c’erano bambini. Il Voth si girò di scatto, in tempo per vedere un cucciolo della sua specie che saliva con l’elevatore al livello superiore. Il bambino lo salutò con la mano, prima di sparire alla vista. Per assurdo che fosse, a Irvik parve suo figlio Dryos.
   «Ehi, fermo là! Dove stai andando?!» si allarmò l’Ingegnere Capo, lasciando la consolle. Era tardi per fermare l’elevatore, quindi dovette attendere che salisse del tutto, per poi richiamarlo. Salito a sua volta al livello superiore, formato da passerelle di servizio affacciate sul salone principale, Irvik si guardò attorno. Vide il nucleo quantico, che pulsava a bassa intensità, e una serie di condotti d’alimentazione e scarico. Ma del bambino nessuna traccia. Fatto un giro completo su se stesso, il Voth ne fece un altro, per sicurezza... e si trovò di fronte il piccolo. Era così vicino che non capì da dove fosse spuntato.
   «Figliolo, tu qui?!» si sgomentò Irvik, riconoscendo il suo primogenito. «Dovresti essere a casa, con tua madre. Come sei arrivato su questa nave?».
   Per tutta risposta, il monello gli fece una pernacchia con la lingua da camaleonte e scappò via.
   Sconcertato, il Voth non poté far altro che seguire il pargolo; ma scoprì che si era volatilizzato nel momento in cui era passato dietro al nucleo. Allora lo chiamò a gran voce.
   «Signore, che sta facendo?» chiese uno degli ingegneri dal piano inferiore. Guardando giù, Irvik vide che una decina di colleghi si erano radunati al centro del salone e lo guardavano con tanto d’occhi.
   «Beh, non state lì impalati! Mio figlio è qui da qualche parte; cercatelo!» ordinò il Voth.
   «Suo figlio?! Ma signore, la sua famiglia non è qui. Ce l’ha detto lei stesso!» obiettò il sottoposto.
   «Eppure l’ho visto. Cercatelo, ho detto!» insisté Irvik, sempre più agitato. Ispezionò tutte le passerelle, senza trovarlo; allora tornò al pianterreno. Aveva appena cominciato a chiedersi se non l’avesse sognato quando vide Psitta, la sua secondogenita.
   «Ciao, babbo!» trillò la bambina, salutandolo con la manina tridattila. E fuggì a sua volta. Con orrore, Irvik la vide infilarsi nella camera stagna che portava al miscelatore thalaronico.
   «Ferma, ci sono ancora le radiazioni!» si disperò il Voth. Non erano più così intense da uccidere in pochi secondi, ma erano pur sempre pericolose. L’ingegnere lottò con il padre, finché fu il secondo a prevalere. Riaprì la camera stagna senza aver perso tempo a indossare la tuta protettiva, con l’idea di portar fuori la figlia prima che le radiazioni lo facessero collassare.
   «Ma che fa, è impazzito?! Le radiazioni!» protestò un collega Ferengi, afferrandolo da dietro per impedirgli d’entrare.
   «Lasciami, devo salvare mia figlia!» protestò il Voth, cercando di divincolarsi. Altri ingegneri accorsero, bloccandolo prima che potesse lanciarsi in quella missione suicida.
   «Che succede qui? Fermatevi!» squillò una voce perentoria. Losira era sull’ingresso della sala macchine e guardava la colluttazione con tanto d’occhi.
   «Comandante, gli dica di lasciarmi! Mia figlia è là dentro, in grave pericolo!» si disperò Irvik.
   «Sua figlia? Ma sta scherzando?!» fece Losira, avvicinandosi in tutta fretta. «Mi ha detto che la sua famiglia è rimasta al sicuro sulla vostra colonia. E del resto posso confermarle che non abbiamo bambini a bordo».
   «È come impazzito» disse l’ingegnere Ferengi, sempre trattenendo il superiore. «Prima diceva di vedere suo figlio, poi la figlia. Ma nessuno di noi ha visto niente, e del resto come potrebbero essere qui?!».
   «Infatti è impossibile» convenne Losira. «Irvik, mi ascolti. Qualunque cosa abbia visto, non possono essere i suoi figli. Se vuole analizzeremo quella camera, e anche il resto della nave, coi sensori interni; ma sono certa che daranno esito negativo».
   «D’accordo» mormorò il Voth, calmandosi. Solo allora i colleghi si fidarono a lasciarlo andare. Gli ingegneri si recarono a una vicina consolle, da dove esaminarono la camera del miscelatore. Risultò che non c’erano segni vitali all’interno, e anche le telecamere di sicurezza confermarono che era del tutto vuota. Allora Irvik scansionò l’intera astronave, verificando che c’era un solo segno vitale Voth: il suo.
   «Non capisco come sia potuto accadere» mormorò l’Ingegnere Capo, con le scaglie arrossate dalla vergogna. «Non ho mai sofferto d’allucinazioni, e loro erano così vividi...».
   «Forse soffre la nostalgia di casa» ipotizzò Losira. «Ma come sua superiore, devo capire se lei è abile al lavoro. Quindi voglio che vada in infermeria: descriva ciò che ha visto a Giely e si lasci visitare. Se la dottoressa darà l’assenso, potrà riprendere servizio. E se in futuro dovesse nuovamente vedere i suoi cari, che siano o meno in pericolo, si ricordi che non può essere vero» raccomandò.
   «Io... farò come vuole, Comandante» mormorò Irvik, oltremodo avvilito. Si ricompose e lasciò la sala macchine, con passo lento, sotto gli occhi preoccupati della Risiana.
 
   Nel corso della giornata a Rivera giunsero rapporti simili da quasi tutte le sezioni. Le allucinazioni erano sempre più frequenti, realistiche e prolungate nel tempo. Le vittime asserivano di vedere materializzate cose o persone a cui avevano pensato di recente. A volte ne erano liete, perché era come veder avverato un desiderio; ma in altri casi vedevano apparire le loro peggiori paure. Tuttavia non c’erano stati contatti fisici, a riprova che erano solo visioni. L’unico rischio era che qualcuno si facesse male nel tentativo d’inseguirle, com’era quasi successo a Irvik.
   Nel pomeriggio il Capitano decise d’andare in infermeria, per discutere della faccenda con Giely. Voleva vedere le scansioni cerebrali dei pazienti e sentire le ipotesi della dottoressa. Era circa a metà strada fra plancia e infermeria, quando si trovò il corridoio sbarrato da un estraneo. Era un Talariano che indossava l’uniforme bianca dei Pacificatori; impugnava una frusta neurale.
   «Ah, eccoti qui, Rivera! Perdi tempo come al solito, invece di produrre! Ma stavolta non mi scappi... avrai una punizione coi fiocchi!» minacciò il Pacificatore, impugnando l’arma.
   Il Capitano si sentì mozzare il fiato. Aveva già visto quell’individuo, anche se gli servì qualche attimo per riconoscerlo. Era il sorvegliante che spesso si accaniva su di lui quando, durante la Guerra Civile, era stato ridotto in schiavitù e costretto a lavorare nella Forgia, il grande cantiere militare dei Pacificatori. Quell’aguzzino gli aveva fatto assaggiare parecchie volte la frusta neurale. Rivera non aveva mai saputo se fosse sopravvissuto alla distruzione della Forgia; ma era improbabile trovarselo davanti proprio in quel luogo e in quel momento.
   «Tu non sei davvero qui. Forse sei morto; in ogni caso non sei sulla mia nave» disse il Capitano, un po’ per convincere se stesso e un po’ per capire se si poteva ragionare con l’allucinazione.
   «Non fai che dire fesserie, come tutti gli Umani. Ma se credi di sfuggire alla punizione, ti sbagli!» avvertì il Pacificatore. Attivò la frusta neurale e gli dette una sferzata.
   Per Rivera fu un’esplosione di dolore. L’Umano cadde all’indietro, gridando a squarciagola, e si rotolò sul pavimento. A differenza delle fruste neurali dei Ferengi, il cui principale effetto era stordire gli avversari, quelle dei Pacificatori erano modificate in modo da provocare i dolori più atroci, ma senza stordire. Così gli aguzzini potevano infierire a lungo sulle vittime. L’Umano ne aveva già fatto esperienza da adolescente; rifarla ora portò a galla i ricordi peggiori della sua vita.
   «Lo sapevo che avresti strillato come un maiale! E questo è solo l’inizio... ho ben altro in serbo!» promise il Pacificatore, levando la frusta per colpire di nuovo.
   «Altro che allucinazione!» si disse Rivera, intravedendolo con occhi offuscati dalle lacrime. In qualche modo, quel sadico era davvero tornato a tormentarlo. «Ma ha fatto male i conti; non sono più indifeso!». Si portò la mano in cintura, impugnando la frusta neurale che aveva ereditato dal DaiMon Grilk, precedente capo degli avventurieri.
   «Oh-oh, mi sfidi? Peggio per te, avrai doppia punizione!» rise il Pacificatore, e dette una sferzata con la sua frusta blu. Nello stesso attimo, Rivera ne dette una con la sua frusta gialla. I due flussi d’energia si scontrarono a mezza strada, provocando un’onda d’urto che scagliò i combattenti all’indietro.
   Rivera atterrò di schiena, coi capelli dritti per l’elettricità. «Ouch!» si lamentò. Ma non c’era tempo da perdere: l’avversario poteva colpire di nuovo. Il Capitano tornò in piedi con un colpo di reni. Aveva la vista offuscata dal dolore e dallo shock elettrico, per cui frustò a casaccio, sperando di beccare comunque il Talariano nello spazio angusto del corridoio.
   «Aaaahhh!». Lo strillo era troppo acuto per venire dal Pacificatore.
   Confuso, Rivera si asciugò le lacrime con una manata e tornò a guardare. Del Pacificatore non c’era traccia. In compenso Talyn era a terra, mezzo stordito. Il Capitano comprese che era stato lui a colpirlo.
   «Mi dispiace, muchacho, t’ho preso per sbaglio» si scusò. «Volevo colpire quella carogna di Pacificatore. Hai visto dov’è andato?».
   «Quale Pacificatore? Qui nel corridoio ci siamo solo io e lei!» protestò Talyn, massaggiandosi il braccio paralizzato.
   «Stai dicendo che non hai visto nessuno correre per di là?».
   «No, nel modo più assoluto! Mi sa che anche lei ha avuto un’allucinazione» borbottò il giovane.
   «Mi dispiace, non avrei mai voluto colpirti» si scusò il Capitano, scosso dall’accaduto. «Ma quel Pacificatore mi ha colpito per primo e io... ho provato dolore. Non era una semplice visione!» rivelò.
   «È come temevo» disse Talyn. «Vede, scavando negli archivi della Flotta Stellare ho trovato un precedente per la nostra situazione. Stavo andando nel laboratorio d’astrometria, perché lì è più facile raccogliere i dati dei sensori e confrontarli con quelli in archivio».
   «Ti accompagno. Nella nostra situazione, nessuno dovrebbe aggirarsi da solo» disse il Capitano, decidendo di posticipare la visita in infermeria. «Ce la fai a camminare?».
   «Credo di sì. Urgh!». Con l’aiuto del Capitano, il giovane si rimise in piedi.
   Andarono nel laboratorio astrometrico, dove Talyn radunò tutti i dati raccolti dai sensori, producendo uno schema della regione di spazio che finora avevano attraversato.
   «Allora, qual è il precedente che hai trovato?» chiese Rivera, impaziente.
   «Eccolo» disse l’El-Auriano, richiamando i dati dagli archivi. «Data stellare 2364.84, Enterprise-D. Il vascello, appena varato, aveva accolto lo specialista di curvatura dottor Kosinski e il suo misterioso assistente. Dovevano condurre degli esperimenti volti ad accrescere la velocità di curvatura. Accadde invece che l’Enterprise compì dei prodigiosi balzi in avanti, ben oltre la resa di qualsiasi motore a curvatura. Il primo balzo li portò a 2.700.000 anni luce, vale a dire nella Galassia del Triangolo, dove osservarono una regione d’intensa formazione stellare». Così dicendo il giovane richiamò sullo schermo principale le immagini raccolte all’epoca dall’Enterprise. Centinaia di protostelle brillavano nel firmamento, ancora avvolte dalla nebulosa che le aveva generate.
   «E le visioni?» incalzò Rivera.
   «Quelle arrivarono col balzo successivo, che portò l’Enterprise ancora più lontano, addirittura oltre i confini dell’Universo osservabile» rivelò Talyn, emozionato. «Guardi un po’... le dice niente?». Proiettò un filmato girato dall’Enterprise: nubi celesti in perenne movimento, sciami di luci bianche.
   «È identico a dove ci troviamo ora» convenne il Capitano. «Però non capisco: per quanto fosse giunta lontano, l’Enterprise era pur sempre nel nostro Universo d’origine. Noi invece ne abbiamo raggiunto un altro».
   «Sì, è strano» ammise Talyn. «La mia ipotesi è che l’Enterprise avesse raggiunto un’interfase di spazio, cioè un luogo in cui le due dimensioni si sovrapponevano. Sta di fatto che l’equipaggio sperimentò visioni sempre più realistiche... e pericolose. I loro ricordi, i desideri, ma anche le paure si materializzavano. E loro avevano poco o nulla controllo sulle apparizioni».
   «Proiezioni dell’inconscio» comprese Rivera, rabbrividendo fino al midollo.
   «Come, signore?».
   «La nostra mente è come un iceberg, muchacho» spiegò il Capitano. «La parte visibile sopra l’acqua, cioè quella di cui siamo consapevoli, è la mente conscia. Ma al di sotto si trova la parte sommersa, dieci volte più grande: è l’inconscio, di cui non abbiamo il minimo controllo. È il luogo in cui si trovano i nostri ricordi più traumatici, in cui si formano i sogni e gli incubi. Ed è anche il luogo in cui releghiamo gli aspetti peggiori della nostra personalità, quelli che ci sforziamo di negare. Ma il nostro lato oscuro e bestiale è sempre lì in agguato, in attesa del momento di sfogarsi. Se davvero ci troviamo in un luogo in cui pensiero e realtà si confondono, allora i nostri demoni interiori potrebbero approfittarne per liberarsi... e vendicarsi».
   Dopo un breve silenzio, l’Umano riprese con urgenza: «Quelle apparizioni, quant’erano consistenti? Potevano ferire, uccidere...?».
   «Qui dice che parecchi membri dell’equipaggio rimasero feriti, anche se non vi fu nessuna vittima» lesse l’El-Auriano, consultando l’archivio a una velocità che nessun Umano poteva eguagliare. «Le apparizioni, se così vogliamo chiamarle, erano ai limiti della realtà. Ad esempio, se appariva un incendio le persone si ustionavano. Poi magari le fiamme svanivano senza lasciare traccia, ma i feriti restavano tali».
   «Okay, cerchiamo di non pensarci troppo» raccomandò Rivera, temendo che bastasse quello per evocare le fiamme. «Come ne uscirono quelli dell’Enterprise?».
   «Saltò fuori che i fantastici balzi in avanti dell’astronave non dipendevano dalle equazioni di Kosinski, bensì dalle strane facoltà mentali del suo assistente, detto il Viaggiatore. La vera portata dei suoi poteri non fu mai chiarita» lesse Talyn. «Qui dice solo che alla fine il Viaggiatore accettò di riportare indietro l’Enterprise, chiedendo a quanti erano a bordo d’indirizzare i pensieri su di lui, per sostenerlo con la loro energia mentale. Funzionò, nel senso che l’astronave tornò nello spazio federale, ma nel far questo il Viaggiatore svanì misteriosamente. Negli anni seguenti quelli dell’Enterprise ebbero un paio d’altri contatti con lui, segno che era sopravvissuto. Ma la sua natura non fu mai chiarita, né lo furono i suoi scopi».
   «Uhm, strano che non ne fossi al corrente» rimuginò il Capitano. «Forse questi fatti furono secretati dalla Flotta. Ma ora sappiamo quanto basta».
   «Ce ne andremo da questo Universo, vero signore?» chiese Talyn.
   «Eccome, e di volata. Vieni muchacho, torniamo in plancia. Non vedo l’ora di tornare al sicuro nel Vuoto... OOOOOHHHHH!». L’ultima parola si trasformò in un urlo. Perché nel momento in cui la porta del laboratorio si apriva e Rivera la varcava, il suo piede non trovò alcuna superficie su cui posarsi. Il Capitano cadde in avanti, in uno spazio infinitamente vasto e oscuro. All’ultimo istante riuscì ad afferrarsi allo stipite della porta. La sua mano scivolò verso il basso, finché l’Umano restò precariamente aggrappato al pavimento del laboratorio, che terminava in corrispondenza della soglia. Il resto del suo corpo penzolava nel Vuoto.
   «Resista, signore!» gemette Talyn, correndogli appresso. «Mi dia l’altra mano!».
   Con uno sforzo, Rivera si rigirò e allungò la mano libera, quel tanto da permettere al giovane di afferrarla. Allora Talyn puntò i piedi contro gli stipiti della porta e fece forza, aiutando il Capitano a issarsi. Servì un intero minuto di sforzi affannosi da parte di entrambi, ma infine l’Umano fu in salvo. Strisciò sul pavimento, allontanandosi il più possibile da quella soglia maledetta, finché la vide richiudersi. Solo allora lui e Talyn tirarono un sospiro di sollievo.
   «Che era quello?!» ansimò l’El-Auriano.
   «Il Vuoto, direi. Stavo pensando a quanto mi sarebbe piaciuto tornarci... ma con la Destiny, non da solo!» sbuffò l’Umano. «Sembra che questo Universo prenda i nostri desideri troppo alla lettera».
   «E adesso come facciamo a tornare in plancia?» si chiese Talyn, occhieggiando la porta come se conducesse direttamente all’Inferno.
   «Se ho ben capito le regole del gioco, basta desiderare intensamente d’arrivarci» rispose Rivera. «Forza, concentrati anche tu: dobbiamo tornare in plancia».
   «Tornare in plancia... tornare in plancia...» mormorò l’El-Auriano, figurandosi la destinazione.
   Si riaccostarono alla porta, circospetti. Il Capitano si avvicinò tanto da provocarne l’apertura automatica, pur stando attento a non varcarla prima di aver verificato cosa c’era dall’altra parte. Sperava di rivedere il corridoio: invece trovò direttamente la plancia, come se i due ambienti fossero comunicanti.
   «Beh?» fece Losira, alzando gli occhi da un d-pad.
   «Salve a tutti!» salutò Rivera, millantando una sicurezza che non aveva. Varcò la soglia, trovandosi effettivamente in plancia. Talyn lo seguì con più apprensione. I colleghi di plancia però non avevano occhi che per il laboratorio astrometrico alle loro spalle, che si trovava là dove avrebbe dovuto esserci la scalinata d’accesso. Continuarono a fissarlo finché la porta si richiuse.
   «E voi da dove sbucate?» chiese Losira con educato stupore.
   «Lunga storia... bisognerà avvertire l’equipaggio di stare attento alle porte. Non sempre portano dove uno si aspetta» disse il Capitano. Si stava ancora chiedendo dove sarebbe finito, se fosse realmente precipitato nel Vuoto. «Signori, dopo attenta valutazione sono giunto alla conclusione che in questo Universo non c’è nulla che faccia per noi. Di conseguenza leviamo il disturbo!» annunciò.
   «Oh, finalmente ti sei deciso ad ascoltarmi» lo motteggiò Losira, cedendogli la poltrona del Capitano.
   «Plancia a sala macchine, aprite immediatamente un portale. Torniamo nel Vuoto» ordinò Rivera, non appena si fu accomodato.
   «Ricevuto, signore. Ci dia solo un minuto per caricare il deflettore» rispose Irvik. Passò un minuto... poi due... poi tre.
   «Ancora niente» avvertì Shati, osservando i comandi del timone. «Non hanno nemmeno cominciato a dare energia».
   «Plancia a sala macchine, è tutto a posto?» chiese il Capitano, cercando di celare il nervosismo.
   «Temo di no, signore» disse Irvik, che in quel momento passava frettolosamente da una consolle all’altra. «Abbiamo un problema, potrebbe essere il trasformatore d’energia. Mi faccia controllare... sì, è proprio il trasformatore. Mi spiace Capitano, ma finché non lo avremo accomodato non andremo da nessuna parte».
   «Ed è un lavoro lungo?» chiese Rivera, sulle spine.
   «Almeno un giorno, forse di più. Devo ancora valutare l’entità del guasto» avvertì l’Ingegnere Capo.
   «Un giorno! Riusciremo a trascorrerlo senza autodistruggerci?» si chiese Rivera, osservando le forme cangianti sullo schermo. 
 

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Capitolo 3
*** Paure nascoste ***


-Capitolo 2: Paure nascoste
 
   Terminato il suo turno in plancia, Shati stava tornando nel suo alloggio. La situazione della nave la preoccupava, anche se lei personalmente non aveva ancora avuto visioni. Forse non ne avrebbe avuta nessuna, si disse. Forse capitava solo alle menti deboli...
   Uno scalpitare di passi la mise in allarme. Due Ferengi dell’equipaggio svoltarono da un angolo, pochi metri avanti a lei, e le corsero incontro, guardandosi terrorizzati alle spalle. Scappavano come se avessero un esattore delle tasse alle calcagna. «Aiutaci, Shati! Non vedi che c’inseguono?!» strillò uno di loro, mentre le passavano accanto.
   La Caitiana spinse in avanti lo sguardo, ma non vide nulla di strano. Il corridoio era perfettamente vuoto. Qualunque fosse il pericolo visto da quei due, era già scomparso. O forse lo vedevano soltanto loro? In effetti finora le visioni avevano colpito solo una o due persone alla volta; mai l’intero equipaggio.
   Un po’ rassicurata, Shati proseguì fino al suo alloggio. E qui l’attendeva una sorpresa, perché davanti alla porta l’aspettava uno strano individuo. Le girava le spalle, così che sulle prime la Caitiana non poté riconoscerlo; capì solo che era un Axanar. Cosa strana, indossava l’uniforme dei cadetti d’Accademia. «Ben arrivata, Shati. Era da un pezzo che ti aspettavo» le disse con voce rancorosa.
   «Scusi, lei chi è?» s’insospettì la Caitiana. Non c’erano Axanar a bordo, quindi con ogni probabilità era solo una visione, la prima che le capitava; ma voleva vederci chiaro prima di avvicinarsi.
   «Non fingere di non conoscermi, palla di pelo! Sei stata tu a ridurmi così... è tempo di pareggiare i conti!» minacciò l’Axanar, voltandosi di scatto.
   Shati indietreggiò con un «Meow!» spaventato, riconoscendolo. Era Jorag, il suo rivale ai tempi dell’Accademia. Sul lato destro del suo volto c’era una spaventosa ustione, che gli aveva rovinato un occhio, rendendolo cieco. Ma l’altro occhio ci vedeva benissimo. E in pugno l’Axanar aveva un phaser, puntato dritto contro di lei.
   «Tu non puoi essere Jorag. Sei solo un’allucinazione fra tante di questo posto assurdo» disse la timoniera, cercando di razionalizzare. «Ora fatti da parte, devo entrare nel mio alloggio. È stata una lunga giornata: ho fatto un doppio turno e voglio riposare».
   «Oh, la signorina vuole riposare!» sghignazzò Jorag. «Io invece ho voglia di giocare al gatto e al topo. Comincia a correre: ti do dieci secondi di vantaggio» disse, sempre minacciandola col phaser.
   «Io non corro da nessuna parte. Tu non sei qui, non puoi farmi del male» disse Shati, sebbene in realtà si chiedesse se poteva. Il Capitano aveva avvertito che quelle manifestazioni erano al limite della realtà...
   «Ah, no? Sta’ a guardare!» disse Jorag, e fece fuoco. Il raggio phaser colpì la criniera della Caitiana, tranciando uno dei folti dreadlocks. Shati sentì la puzza di capelli bruciati e vide la treccia recisa che giaceva sul pavimento.
   «Corri, ho detto» ripeté l’Axanar.
   Stavolta Shati non se lo fece ripetere. Sfrecciò per il corridoio alla massima velocità possibile, cercando un luogo in cui nascondersi o qualcuno che potesse aiutarla. Al tempo stesso pensò che non avrebbe dovuto ignorare con tanta superficialità quei due Ferengi in fuga. Non trovando salvezza, pigiò il comunicatore: «Shati a Sicurezza, mi serve subito aiuto! Un pazzo armato di phaser m’insegue sul ponte 8, sezione 14! Vuole uccidermi!».
   «Calmati, Tenente. È solo un’allucinazione...» cominciò Naskeel.
   «Allucinazione un corno! È armata con un phaser vero!» spiegò la Caitiana, correndo trafelata. Dietro di sé avvertiva i passi dell’inseguitore, sempre più vicino.
   «Cerca un posto in cui nasconderti e restaci, arrivo subito» disse il Tholiano.
   «Fosse facile!» ansimò Shati, guardando le porte che le scorrevano ai lati. Erano tutti alloggi, che non le avrebbero offerto alcun riparo; né voleva coinvolgere altri nel pericolo. Finalmente vide qualcosa che faceva al caso suo: una delle armerie di bordo. Si precipitò alla porta, che tuttavia era chiusa come al solito. «Computer, sblocca ingresso! Autorizzazione Shati 44-epsilon!» ansimò.
   La porta si aprì proprio mentre Jorag appariva in fondo al corridoio. L’Axanar sparò un colpo, che Shati evitò abbassandosi di scatto. La Caitiana sentì il sibilo del raggio phaser poco sopra la sua testa e fu investita dalle scintille sprizzate dallo stipite colpito. Si fiondò nell’armeria prima che l’inseguitore sparasse di nuovo. «Computer, sigilla ingresso!» ordinò.
   La timoniera aveva guadagnato qualche secondo, non di più. Doveva approfittarne per armarsi. Corse a un armadietto e prese un phaser; poi si appostò dietro a un angolo, tenendo sotto tiro la soglia. Se Jorag l’avesse varcata, gli avrebbe sparato... ma poteva fidarsi dei suoi sensi? Se avesse visto l’avversario, ma in realtà si fosse trattato di qualche suo collega della Destiny? Nel dubbio, la Caitiana si accertò che il phaser fosse settato su stordimento; poi tornò in attesa. Passarono i secondi, dolorosamente lunghi. Infine la porta si aprì senza essere forzata, segno che il nemico conosceva il codice di sblocco.
   «Sa tutto quello che so io. È nella mia testa...».
   Jorag si stagliò sulla soglia, più tronfio che mai. Prima che potesse dire o fare alcunché, Shati lo colpì in pieno. Il raggio phaser si spense sul suo petto come se fosse un innocuo ologramma. «È inutile che cerchi di nasconderti, palla di pelo!» avvertì l’Axanar. «Mi devi un occhio, ricordi? Non mi riterrò soddisfatto finché non me l’avrai restituito!». Sparò un colpo, che la Caitiana evitò ritraendosi dietro l’angolo.
   Col batticuore, Shati alzò la regolazione del phaser. Adesso era tarato per uccidere. Ma era proprio sicura che quello sulla soglia fosse un nemico mortale? Non c’era la possibilità che i suoi sensi alterati la inducessero a uccidere un collega innocente? Decise che doveva dargli almeno un avvertimento. «Chiunque tu sia, vattene subito! O giuro che ti uccido!» strillò.
   «Ma guardati! Pusillanime come al solito... è un bene che ti abbiano espulsa dall’Accademia. Non sei mai stata degna della Flotta Stellare!» infierì Jorag. «Ora sarai anche al timone della Destiny, ma non l’hai meritato. Tu e gli altri ladri vi siete impadroniti di una nave alla deriva, e del resto non sapete neanche usarla per tornare a casa. Se tuo padre fosse ancora vivo, si vergognerebbe di te!».
   «Taci!» gridò Shati, sporgendosi per sparare. Colpì l’Axanar come aveva già fatto, ma ancora una volta questi non mostrò alcun danno; e dire che stavolta il phaser era regolato per uccidere. Jorag fece per rispondere al fuoco, ma in quella fu colpito alle spalle da un raggio così potente da trapassarlo.
   Sconvolta, la Caitiana vide la luce del corridoio filtrare dallo squarcio nel petto di Jorag. Invece di cadere morto, come sarebbe stato naturale, l’Axanar si voltò lentamente, trovandosi a fronteggiare Naskeel. «Oh, questo è... insolito» ammise.
   «La sua presenza a bordo è indesiderata» disse il Tholiano, e sparò di nuovo. Stavolta il settaggio era talmente alto che Jorag fu completamente vaporizzato. Rimase solo il suo phaser, che cadde a terra. Naskeel lo raccolse, soppesandolo. Poi si rivolse a Shati: «Stai bene, Tenente?».
   «Credo di sì... grazie a te» ammise la Caitiana, uscendo dall’armeria. «Stavolta me la sono proprio vista brutta. Ti devo la vita» riconobbe.
   «Chi era quell’individuo?» chiese l’Ufficiale Tattico. «Da come parlava, si direbbe che vi conosceste».
   «Infatti ci conoscevamo, anni fa» sospirò Shati. Poggiò la schiena alla paratia e da lì si lasciò scivolare a terra. Aveva bisogno di sedersi un attimo per riprendersi. Vedendo che il Tholiano era ancora in attesa di chiarimenti, decise di vuotare il sacco. «Eravamo cadetti allo stesso anno d’Accademia e tra noi non scorreva buon sangue. Vedi, entrambi proveniamo da famiglie con una lunga tradizione nella Flotta Stellare. Durante la Guerra Civile, però, suo padre militò fra i Pacificatori mentre il mio rimase fedele alla Flotta. Morirono entrambi nella Battaglia di Bajor, combattendo negli opposti schieramenti» ricordò, tormentata.
   «E quindi?» incalzò Naskeel.
   «Quindi io e Jorag ci siamo odiati fin da subito!» rispose Shati, con sguardo velenoso. «Tra noi era una continua competizione per eccellere, il che se non altro ci valse ottimi voti. Ma Jorag non perdeva occasione per insultarmi e giocarmi brutti scherzi. Mi metteva costantemente in cattiva luce con gli istruttori. Una volta cercò persino d’addossarmi la responsabilità di un furto in un alloggio, del quale credo fosse lui il responsabile. Così, alla vigilia degli esami, tra noi era guerra aperta. Ma dopo tutti i suoi sabotaggi era lui ad avere i voti più alti, che gli offrivano migliori sbocchi di carriera. Così decisi di vendicarmi!» soffiò, infuriata. «La notte prima dell’esame finale, m’intrufolai sul ponte ologrammi e feci in modo che i protocolli di sicurezza si disattivassero quando sarebbe toccato a lui» confessò.
   «Speravi che il tuo rivale restasse ucciso?» chiese Naskeel.
   «Non so neanch’io cosa sperassi, in quel momento» borbottò la Caitiana. «Volevo solo che si facesse del male. E se ne fece, eccome! L’esame prevedeva che pilotassimo un’astronave in una simulazione di guerra. Se non eravamo abbastanza bravi, la plancia subiva danni. E lui non fu affatto bravo, perché la consolle del timone gli esplose in faccia. Se i protocolli di sicurezza fossero stati inseriti, come da regolamento, non si sarebbe fatto niente. Ma siccome io li avevo disattivati si ustionò mezza faccia, perdendo anche un occhio, ed ebbe una commozione cerebrale». Shati fremette al ricordo.
   «A quel punto l’Accademia aprì un’inchiesta per stabilire chi gli avesse giocato quel tiro mancino. Il Direttore esortò il colpevole a farsi avanti, promettendo clemenza. Ma io ero troppo giovane, arrabbiata e spaventata per denunciarmi. Temevo d’essere espulsa e temevo ancor più la reazione della mia famiglia. Per la figlia d’un eroe di guerra, sarebbe stata una vergogna. Così tenni la bocca chiusa. Questo non fece che peggiorare le cose, quando emerse la mia colpevolezza. Così provocai proprio ciò che temevo: la mia paura d’essere espulsa mi fece espellere, il terrore della vergogna mi gettò nella vergogna. Mi ero bruciata ogni opportunità di carriera nella Flotta e i miei parenti non volevano più parlarmi... nemmeno mia madre» confessò, con la morte nel cuore.
   «Così non mi restò che cercare impiego fra i mercanti, ma anche loro non erano attratti dal mio curriculum. Per anni ricevetti porte in faccia, e quando finalmente riuscii a farmi assumere, scoprii d’essere finita in mezzo ai delinquenti» concluse.
   «Ti riferisci ai tuoi colleghi dell’Ishka?» chiese Naskeel.
   «Sì, beh, Rivera li ha messi un po’ in riga, specialmente da quando ci siamo trasferiti sulla Destiny» riconobbe Shati. «Anche lui è stato espulso dalla Flotta, quindi mi capisce meglio di altri. Ma ancora oggi non posso fare a meno di chiedermi quanto sarebbe diversa la mia vita, se non avessi commesso quell’unico errore. E adesso... adesso quel maledetto Jorag è qui, per punirmi ancora!» si agitò, alzandosi di scatto. Nei suoi occhi c’era il terrore di un animale braccato, senza riposo né sollievo.
   «Calmati» disse Naskeel. «Non so cosa ne pensino i tuoi colleghi, ma a mio giudizio sei stata punita abbastanza».
   «I miei colleghi non conoscono la verità!» sussurrò la Caitiana, spalancando gli occhi spiritati. «Siccome nessuno mi assumeva, ho fornito dati falsi. Non potevo nascondere la mia espulsione, ma l’ho motivata dicendo che avevo modificato la simulazione per avere un punteggio perfetto. Ho nascosto il fatto di aver quasi ucciso un altro cadetto. Non c’è nessuno, su questa nave, che sappia come andarono realmente le cose: tu sei il primo a cui lo confesso. Ma questo spazio caotico... lui lo sapeva!» gemette, picchiandosi in testa. «Ci entra nel cervello, conosce tutti i nostri segreti, le angosce, i dolori. E li materializza affinché ci diano la caccia! Non possiamo nasconderci, né fuggire, né combatterli. Non esiste riparo contro i nostri demoni. Se non ce ne andiamo subito, ci distruggeranno uno dopo l’altro!» singhiozzò.
   «In effetti voi Organici sembrate assai vulnerabili a questo fenomeno» constatò Naskeel.
   «E tu, invece?!» chiese Shati con rabbia.
   «Io sono Tholiano. Il mio cervello non è un ammasso caotico di neuroni, bensì un preciso reticolo cristallino. Di conseguenza la mia psiche è diversa dalla vostra» chiarì l’Ufficiale Tattico. «Non possiedo un inconscio: sono perfettamente consapevole di tutte le mie istanze psichiche. Agisco secondo logica e di conseguenza non provo inutili emozioni».
   «Voi Tholiani siete logici solo fino a un certo punto» obiettò la Caitiana. «Dopotutto siete una delle specie più xenofobe della Galassia!».
   «Augurati che sia abbastanza logico da non soccombere a queste proiezioni psichiche, come sta accadendo a voialtri» ammonì Naskeel. «Ora che non ci sono pericoli immediati, vuoi che ti scorti al tuo alloggio?».
   «No, posso andare da sola» disse Shati, augurandosi di non trovare nuovamente Jorag ad aspettarla. «Grazie per avermi salvata... e anche per essermi stato a sentire. Ma vorrei che non dicessi ad altri ciò che ti ho rivelato» pregò.
   «Se desideri la riservatezza, l’avrai» promise il Tholiano. «Ma ho l’impressione che più segreti ci sono tra voi, più siate vulnerabili a questo spazio. Buonanotte, Tenente».
 
   Smontato dal turno, Talyn era tornato al suo alloggio. Gli eventi della giornata gli davano molto da pensare, così prima di coricarsi volle fare qualche esperimento. Prese una candela di meditazione, proveniente dall’alloggio ormai vuoto del Consigliere, e la pose spenta sul tavolino. Vi sedette davanti e si concentrò, provando ad accenderla con la forza del pensiero. Se l’inconscio aveva materializzato interi individui, non poteva la mente conscia accendere quello stoppino? Si concentrò a fondo, figurandosi la fiamma nella mente, ed ecco! La candela ardeva davanti a lui. Accostò la mano e ne sentì il calore. Di lì a un minuto vide la cera che cominciava a sciogliersi, colando lungo il fusto.
   «Manipolare la realtà col pensiero... il potere degli dèi!» si esaltò il giovane. Già, ma lui e gli altri non erano dèi. Non avevano un adeguato controllo su ciò che facevano. Gli venne in mente che a bordo serpeggiavano tensioni, specialmente verso i nuovi arrivati. Se qualcuno avesse desiderato, sia pure inconsciamente, che gli accadesse qualcosa di male? Di colpo Talyn ebbe paura. Spense la candela con un soffio e restò a osservarla finché il filo di fumo si estinse. Poi indossò il pigiama e andò a letto, sperando di prendere sonno in fretta.
   Ma se gli umanoidi hanno scarso controllo dei propri pensieri durante la veglia, non ne hanno affatto durante il sonno. È allora che dal calderone sobbollente dell’inconscio escono quelle strane combinazioni di fantasticherie e ricordi, di desideri e paure che sono i sogni. E nel passato del giovane El-Auriano c’era di che alimentare i peggiori incubi.
   Sulle prime fu un fischio incessante, come lo squillo di una sirena. La mente confusa di Talyn cercò d’identificarlo, finché lo riconobbe: era l’allarme che durante l’ultima guerra avvertiva i cittadini dei bombardamenti imminenti. A un tratto udì anche la voce diffusa dagli altoparlanti: «A tutti gli abitanti di Stardust City, attenzione! I Pacificatori hanno superato la griglia difensiva e si accingono a bombardare. Lasciate le vostre case in modo ordinato e recatevi nei rifugi, secondo il piano d’evacuazione. Non attardatevi a prendere i vostri oggetti. Ripeto, i Pacificatori hanno superato la griglia difensiva e si accingono a bombardare...».
   Nel dormiveglia, Talyn riconobbe l’incubo ricorrente che lo tormentava fin dall’infanzia: le sirene, i bombardamenti, il crollo. Tre giorni passati sotto le macerie di casa, prima che i soccorritori lo estraessero, unico superstite della sua famiglia. Per anni si era svegliato urlando a quei ricordi: solo dopo che gli avventurieri lo avevano adottato le sue notti si erano fatte più serene. Ma ora il vecchio incubo tornava a tormentarlo... doveva svegliarsi!
   L’El-Auriano spalancò gli occhi e drizzò la schiena, madido di sudore. Si guardò attorno: era ancora a letto, nel suo alloggio sulla Destiny. Ma qualcosa non andava, la sirena squillava ancora. «Attenzione, i Pacificatori hanno superato la griglia difensiva e si accingono a bombardare...». L’alloggio vibrò, a tempo con i boati provenienti dalla finestra.
   «Ma cosa...».
   Talyn si girò a fissarla, oltre la testata del letto. Invece del finestrone sigillato che dava la vista sullo spazio, c’era la finestra aperta di un’abitazione. E fuori si stendeva il panorama notturno di Stardust City, illuminata dalle esplosioni. I Pacificatori bombardavano dall’orbita, trasformando interi quartieri in crateri ribollenti di lava. Le onde d’urto squassavano case e grattacieli circostanti.
   «Non è possibile!» pensò il giovane, affacciandosi alla finestra. Che stesse ancora sognando? Ma era troppo vivido e dettagliato per essere un sogno. Oltre a vedere la distruzione in corso ne udiva i boati, avvertiva le vibrazioni, sentiva persino l’odore del fumo. Doveva essere un’altra allucinazione suscitata dallo Spazio Caotico, come l’equipaggio cominciava a chiamarlo. Solo che, invece d’evocare singoli individui, stavolta aveva evocato un’intera città...
   L’El-Auriano chiuse la finestra, sbattendo le ante, come se questo bastasse a chiudere fuori il bombardamento. Ma non era finita: sentì il soffitto scricchiolare, come se fosse in procinto di crollare. Allora saltò giù dal letto e corse verso la porta dell’alloggio, ancora scalzo e in pigiama.
   Troppo tardi.
   Con uno schianto assordante, il soffitto cedette e l’alloggio fu travolto dalle macerie. Erano macerie compatibili col crollo di un palazzo, non col cedimento dei ponti di un’astronave. Travi di tritanio e blocchi di permacemento si rovesciarono ovunque, schiacciando il letto su cui Talyn giaceva pochi attimi prima. Frammenti più piccoli caddero addosso al giovane, che fu gettato a terra. Talyn tossì per la polvere cementizia; quando anche questa si fu posata si guardò attorno, scoprendo che il suo più grande terrore s’era avverato. Era di nuovo intrappolato sotto le macerie, immobilizzato, incapace persino di chiedere aiuto. L’ultima luce sfarfallante dell’alloggio si estinse, lasciandolo completamente al buio. Nelle tenebre dilaganti le macerie scricchiolarono, sul punto di crollare ulteriormente, nel qual caso lo avrebbero schiacciato. Il comunicatore era perso chissà dove; così non gli restò che urlare con quanto fiato aveva in gola, sperando che anche stavolta qualcuno giungesse in suo soccorso.
 
   La mattina dopo, quando il turno principale prese servizio, tutti notarono l’assenza di Talyn. «Beh, che ne è del nostro ragazzo-prodigio?» chiese Rivera, dando voce alla perplessità generale. «Non è da lui far tardi la mattina».
   «Se per una volta tarda qualche minuto, non dovremmo farne un dramma» notò Losira.
   «No di certo, se fossimo nello spazio normale. Ma con tutto quel che sta succedendo, non sono tranquillo» borbottò il Capitano. «Plancia a Talyn, mi senti? Plancia a Talyn, rispondi! Fammi sentire la tua voce!».
   Dal comunicatore non giunse alcuna risposta.
   «Non mi piace...» borbottò Rivera, tamburellando sul bracciolo.
   «Vado a vedere che succede» si offrì Losira.
   «Prendi Naskeel con te, non si sa mai» ordinò il Capitano. Quando furono scesi, aprì un altro canale. «Plancia a sala macchine, come vanno i lavori?».
   «Qui Irvik, ho appena rilevato il turno di notte» rispose l’Ingegnere Capo. «Signore, mi spiace comunicarle che il danno è più grave del previsto. Oltre al trasformatore d’energia ci sono gli iniettori d’antimateria bloccati e i giunti di potenza depolarizzati. Ci vorrà più di una giornata per sistemare tutto. Ho anche lanciato una diagnostica generale, per rilevare eventuali altri danni».
   «Ma com’è possibile che si sia guastato tutto?!» si sgomentò Rivera. «Ci sono segni di sabotaggio?».
   «Nessun segno evidente, Capitano» rispose il Voth, che in quel momento esaminava un diagramma del nucleo. «Gli apparecchi si guastano e basta. Sembrerebbe usura, se non fosse che la nave non è poi così vecchia. In fondo ha appena cinque anni, ed è stata usata pochissimo. Perciò non mi spiego...».
   «Sarà meglio che trovi una spiegazione, se non vuole che rimaniamo bloccati qui!» disse seccamente il Capitano. «Mi avverta quando avrete ultimato le riparazioni. Non voglio restare un minuto più del necessario in questo Spazio Caotico».
 
   Giunta davanti all’alloggio di Talyn, Losira fece un ultimo tentativo di contattarlo al comunicatore. «Losira a Talyn, rispondi subito. Siamo in ansia per te!». Non ottenendo risposta, premette il comando per sbloccare la porta.
   Uno sbuffo di polvere cementizia le fece subito capire che qualcosa non andava. La Risiana cercò d’entrare, ma si trovò davanti un intrico di travi rovesciate e blocchi di permacemento inclinati. Da qualche parte, in mezzo alle macerie, risuonò una voce fioca: «Sono qui, non riesco a muovermi!».
   «Frell, sei ferito?!» si agitò Losira.
   «Credo di no, ma sono incastrato. E non oso muovermi, perché questa roba scricchiola come se dovesse crollare da un momento all’altro» spiegò il giovane, col respiro affannoso. «Non riesco a respirare... tiratemi fuori di qui!» boccheggiò.
   «Resisti, sarai fuori tra un attimo!» promise la Risiana. Anche se con lei c’era Naskeel, non osò chiedergli di rimuovere le macerie. Il rischio di provocare un crollo più grande, prima che arrivassero a estrarre il ragazzo, era troppo grande. Non c’era che una cosa da fare. «Losira a plancia, serve un teletrasporto d’emergenza. Agganciate i segni vitali di Talyn e portatelo al sicuro. È urgente!».
   «Sentito? Portatelo subito qui!» ordinò Rivera ai suoi ufficiali di plancia. Lasciò la poltrona e andò nell’adiacente saletta di teletrasporto, in tempo per vedere l’El-Auriano che si materializzava. Era ancora in pigiama, tutto sbiancato dalla polvere di cemento. Sul suo corpo c’erano lividi ed escoriazioni. Respirava affannosamente, come chi sia mezzo soffocato. «Aria!» boccheggiò, inspirando a pieni polmoni.
   «Santo Cielo, ma che t’è successo?!» si preoccupò il Capitano, chinandosi su di lui.
   «Ho rivissuto il momento peggiore della mia vita!» ansimò Talyn, ancora sotto shock. «Sa, il bombardamento di Stardust City. Ho visto le esplosioni dalla finestra, come se ci fosse l’intera città. E sono rimasto sotto le macerie... per ore, credo. Gran parte della notte. Mi mancava l’aria, credevo di soffocare!» gemette.
   «È tutto finito, ora sei al sicuro» lo confortò Rivera.
   «Nessuno è al sicuro, finché rimaniamo nello Spazio Caotico!» obiettò Talyn, levandosi la polvere dalla faccia.
   «Infatti ce ne andremo appena possibile» promise il Capitano. «Plancia a Losira, abbiamo Talyn ed è incolume. Dai un’occhiata al suo alloggio e fatti un’idea di quant’è grave il danno strutturale» ordinò, chiedendosi come mai i sensori interni non avessero dato l’allarme.
   Fatto un respiro profondo, Losira tornò ad accostarsi alla porta, provocandone la riapertura. E qui ebbe una grossa sorpresa, perché all’interno l’alloggio era tornato in perfetto ordine. Solo il letto era sfatto, come se il proprietario l’avesse abbandonato di fretta, ma per il resto era tutto a posto. Il soffitto era integro e a terra non c’era un granello di polvere. Le nubi azzurre vorticavano fuori dal finestrone sigillato. «Capitano, l’alloggio è in perfetto stato. Nessun danno, nulla in disordine» mormorò la Risiana, con la bocca secca.
   «Io ero sotto le macerie!» protestò Talyn, agitatissimo.
   «Lo so, le ho viste anch’io» assicurò Losira. «Tu sei certo di star bene?».
   «Ho qualche graffio, ma niente di rotto, credo» disse il giovane. Si alzò lentamente, con l’aiuto del Capitano, tastandosi per verificare la sua affermazione.
   «Comunque voglio accompagnarti in infermeria, non si sa mai» decise Rivera. Affidata la plancia a un sottoposto, salì con Talyn sulla pedana di teletrasporto.
 
   Trasferiti in infermeria, i due si guardarono attorno, in cerca della dottoressa Giely. Al momento, tuttavia, la Vorta non era in vista. «Dottoressa, sei qui?» chiese il Capitano, affacciandosi sulle altre salette. Le ispezionò una dopo l’altra, trovandole tutte vuote. Impensierito, tornò nella sala principale. Qui vide che Talyn si era seduto su un lettino e si stava curando da solo con un rigeneratore dermico. I graffi e i lividi sparivano, ma gli sarebbe servito un pezzo per rimettersi a nuovo.
   In quella entrò Losira. «Ho rimandato Naskeel in plancia» disse rapidamente a Rivera, dopo di che si accostò a Talyn. «Ti stai curando da solo? Non c’è la dottoressa?» si accigliò.
   «Sembra che anche lei non abbia preso servizio» borbottò il Capitano, sempre più preoccupato. «Rivera a Giely, puoi sentirmi? Rivera a Giely, rispondi subito!».
   Ancora silenzio.
   «Resta qui con Talyn, aiutalo a curarsi» ordinò il Capitano. «Io vado a vedere come sta la dottoressa».
   «Prudenza, signore!» lo esortò l’El-Auriano. «Questo spazio conosce tutti i nostri punti deboli. E ho notato che le apparizioni si fanno sempre più complesse e persistenti. Prima apparivano singoli individui, ora interi ambienti. Prima duravano pochi secondi, adesso intere ore. È come se questo luogo ci stesse fagocitando. Se non ne usciamo in tempo, potremmo esserne... assorbiti».
 
   Dopo una notte di sonno lungo e profondo, la dottoressa Giely cominciò a risvegliarsi. Attorno a lei c’era un calore uniforme e il suo corpo sembrava galleggiare. Poco alla volta si rese conto d’essere immersa in un liquido caldo. Si era forse addormentata nella vasca da bagno? Impossibile... l’alloggio del Medico Capo, da lei recentemente occupato, aveva sì una vasca, ma non l’aveva mai usata. Risvegliava troppi brutti ricordi. Allora perché adesso era a mollo? D’un tratto udì un sibilo, come di un coperchio stagno che viene rimosso. Una ventata d’aria fredda la fece rabbrividire.
   «Svegliati, Giely-9. La tua vita al servizio dei Fondatori è cominciata!» annunciò una gelida voce femminile.
   A quelle parole, fin troppo familiari, la Vorta spalancò gli occhi. E si trovò catapultata nel peggiore degli incubi: la memoria del passato. Era immersa nella vasca di gestazione da cui tutti i Vorta uscivano, fisicamente adulti. Aveva un respiratore fissato al volto, per darle ossigeno, e flebo conficcate nel corpo per somministrarle sostanze nutritive. Si trovava in un salone buio, ma in quella si accesero un paio di faretti sul soffitto, che l’abbagliarono tanto da farla lacrimare. Lo shock e la sensazione di soffocamento la indussero ad agitarsi.
   «No, sta’ ferma o ti farai male» l’ammonì la voce femminile. «Liberatela, presto».
   Mani sconosciute le staccarono il respiratore e le rimossero le flebo. La Vorta afferrò i bordi della vasca e fece forza per alzarsi, uscendo dal liquido amniotico. I capelli fradici le ricaddero davanti agli occhi, togliendole la vista. «Gasp!» boccheggiò, inalando l’ossigeno. Richiamate alla memoria le cognizioni sull’anossia, prese a respirare a fondo, ispirando dal naso ed espirando dalla bocca, finché il ritmo divenne regolare. Quando sentì che anche i battiti cardiaci erano più lenti e costanti, si scostò i capelli dal viso e riaprì gli occhi.
   Attorno a lei c’era la severa architettura del Dominio: pareti grigie e spoglie, interrotte da poche consolle. Il simbolo del Dominio, un rombo nero contenente un glifo verde e viola, campeggiava proprio davanti a lei. E sotto quel simbolo sostavano tre figure, in paziente attesa. Due erano soldati Jem’Hadar, armati e nerovestiti, dai duri volti scagliosi incorniciati d’escrescenze ossee. Ma era la terza figura, quella più minuta, che la terrorizzava più di tutte. Era una Vorta dal viso anziano e i capelli grigio ferro, vestita con l’uniforme della sezione medica del Dominio.
   «Benvenuta tra noi» disse l’anziana Vorta, con un sorriso privo d’amore. «Io sono Giely-8, medico di seconda classe al servizio dei Fondatori. Tu sei Giely-9, il mio clone progettato per sostituirmi. In questo momento ti senti spaesata, ma presto starai meglio. La tua memoria genetica riaffiorerà nell’arco di pochi giorni, dandoti una conoscenza istintiva delle nostre istituzioni. La tua istruzione medica, invece, richiederà qualche anno. La completerai in tempo per prendere il mio posto al servizio dei Fondatori. Sentiti onorata del tuo incarico e delle tue responsabilità!».
   «Ho già vissuto tutto questo» mormorò Giely, il cuore in tumulto.
   «Certo, lo hai già vissuto otto volte» confermò l’anziana Vorta. «Per otto generazioni abbiamo servito i Fondatori; tu sarai la nona. Devi esserne fiera: il nostro ceppo genetico è antico e rispettabile».
   «Intendevo che io personalmente ho già vissuto questi eventi» borbottò Giely, scoccandole un’occhiata velenosa. Non sopportava di starsene lì nuda, sotto gli occhi di tutti, a rivivere il momento peggiore della sua esistenza: quello in cui aveva saputo cos’era.
   «Ma che dici? Forse sei ancora confusa. Presto, vestitela!» ordinò Giely-8 in tono sbrigativo.
   I Jem’Hadar si avvicinarono, recando un asciugamano e abiti della giusta taglia. Giely glieli strappò di mano. «Grazie, faccio da sola!» sibilò. Uscita dalla vasca, si asciugò in tutta fretta e si rivestì. Ogni tanto lanciava occhiate feroci ai Jem’Hadar, che le restavano accanto, imperturbabili.
   «Si direbbe che tu abbia più individualità del dovuto» commentò Giely-8, squadrandola come avrebbe fatto con una cavia da laboratorio. «Controllerò che non ci siano state derive genetiche nel tuo processo di clonazione. Spero per il tuo bene che non ce ne siano, perché in tal caso sarei costretta a eliminarti e ricominciare daccapo».
   «Tranquilla, non ci sono derive. Sono il clone che hai sempre desiderato avere!» disse Giely con amarezza. «Però non sono te. Non sono nessuna delle mie antesignane. Ho una mia volontà e farò cose che nessuna di voi ha mai sognato!» rivendicò.
   «Tu obbedirai ai Fondatori, giovanotta, o saranno guai!» ammonì Giely-8. «Ricorda che sono i nostri dèi. Tutto ciò che siamo, e che saremo mai, lo dobbiamo a loro».
   «I Fondatori possono spiegare quel che c’è oltre quella porta?» la provocò Giely, indicando l’ingresso. «Aprila e scoprirai che non siamo su Kurill Primo».
   «Che vai farneticando? Certo che siamo sul nostro mondo!» s’indignò Giely-8. Ma i fatti la smentirono, perché in quel momento il Capitano Rivera entrò nel laboratorio di clonazione che aveva sostituito l’alloggio di Giely.
   «Dottoressa, come... stai?» mormorò l’Umano, guardandosi attorno sorpreso. Quel laboratorio alieno era assai più grande dell’alloggio del Medico Capo. Prima che potesse riaversi dallo stupore, il Capitano si trovò puntati al petto i fucili polaronici dei Jem’Hadar.
 
   «Tu chi sei, intruso?!» chiese Giely-8 in tono minaccioso.
   L’Umano passò lo sguardo da lei alla Giely più giovane, che con lo sguardo gli rivolse una muta preghiera: «Non fare sciocchezze». Poi tornò a fronteggiare gli esponenti del Dominio. «Sono il Capitano Rivera, dell’USS Destiny» dichiarò.
   «Mai sentita» rispose freddamente la vecchia Vorta. «Come ti sei introdotto nel nostro laboratorio, e perché?!».
   «Io non mi sono introdotto in alcun luogo. Siete voi che vi trovate illegalmente sulla mia nave» ritorse il Capitano. «Uscite da qui e lo vedrete coi vostri occhi!» aggiunse, scostandosi affinché vedessero il corridoio bene illuminato della Destiny alle sue spalle.
   «Impossibile! Che trucco è questo?!» fece Giely-8, arricciando il naso.
   «Nessun trucco. Avete invaso una nave federale, in violazione del trattato di pace tra i nostri governi» insisté Rivera. «Non intendo punirvi, però esigo che consegnate le vostre armi. È quel che vorrebbero i Fondatori, non trova?».
   «Non spetta a lei parlare a nome dei Fondatori!» lo zittì Giely-8. Tuttavia il corridoio della Destiny la incuriosì, inducendola a uscire. I due Jem’Hadar la scortarono, portando con loro la Giely più giovane. Percorsero un tratto di corridoio, circospetti. Avevano ancora i fucili polaronici spianati e Rivera temeva che aprissero il fuoco, se avessero incontrato qualcuno del suo equipaggio.
   Approfittando della loro distrazione, il Capitano mise mano a un’interfaccia parietale del computer. Bastava poco per inserire un codice di sicurezza atto a isolare gli intrusi. Lo preoccupava solo il fatto che Giely fosse ancora in mezzo a loro. In quella la giovane Vorta si guardò alle spalle, vedendolo armeggiare col pannello. Tra loro corse uno sguardo d’intesa.
   «Ora!» gridò Rivera.
   Giely si volse del tutto e sgusciò tra i Jem’Hadar. Si gettò in avanti, facendo una capriola sul pavimento, e si rialzò agilmente. I soldati del Dominio si girarono a loro volta, con le armi in pugno, ma non potevano uccidere il membro di una casta superiore senza l’ordine esplicito di Giely-8. E l’ordine venne, ma con un attimo di ritardo.
   «Fermatela! Fate fuoco!».
   I raggi polaronici si arrestarono contro il campo di forza che Rivera aveva appena alzato nel corridoio, alla giunzione fra un settore e l’altro. Buttandosi in avanti, Giely aveva superato gli emettitori incassati nelle pareti, ponendosi in salvo. La barriera, colpita dai raggi, scintillò a un palmo dal suo viso. C’era mancato poco. Giely-8 e la sua scorta si avventarono nell’altra direzione, ma si avvidero che un secondo campo di forza si era attivato pochi metri più avanti. Erano isolati in quel tratto di corridoio, privo di porte.
   «Stai bene?» chiese il Capitano, accostandosi a Giely.
   «Sono viva. Grazie, Capitano» mormorò la Vorta. Era chiaramente scossa dall’accaduto.
   «Sei una traditrice!» sibilò Giely-8 da dietro il campo di forza. «Non puoi sfuggire al Dominio. Non puoi sfuggire ai Fondatori. Se non ti poni al loro servizio, allora non hai motivo d’esistere e sarai eliminata».
   «Me ne sono andata una volta e lo farò di nuovo! E tu non puoi impedirmelo, oggi come allora!» gridò Giely con voce rotta.
   «Sei solo un clone difettoso che è impazzito. Un incidente di laboratorio. Ogni tanto capita anche nei ceppi genetici migliori. Mi assicurerò che la nostra prossima incarnazione sia priva di difetti» disse la vecchia Vorta, fissandola con gelido disprezzo.
   Giely si accostò al campo di forza. Erano faccia a faccia, del tutto simili, tranne la marcata differenza d’età. «Io non sono come te... non lo sarò mai!» sussurrò la giovane Vorta, piangendo. Poi le voltò le spalle e corse via, col cuore in tumulto.
 
   «Mi spieghi chi erano quelli?!» chiese Rivera, quando furono in infermeria. Talyn e Losira se n’erano già andati, per cui i nuovi arrivati avevano la necessaria privacy.
   «La mia famiglia» disse Giely, senza allegria. Misurò a grandi passi l’infermeria, poi si voltò di scatto verso il Capitano. «Ne avevo accennato a Talyn e Losira, durante la prima missione. Non ti hanno detto niente?».
   «Neanche una parola. Evidentemente vogliono rispettare la tua privacy» spiegò Rivera. «E siccome è evidente che il passato ti addolora, non pretendo che tu mi dica tutto. Parlerai se e quando ti sentirai pronta» disse, muovendo verso la porta.
   «No, aspetta!» lo inseguì la dottoressa. «Tanto vale che tu sappia ora. Cosa sai dei Vorta?».
   «Poco, in effetti» ammise Rivera. «So che siete una casta del Dominio, la più alta dopo i Fondatori. Siete amministratori, diplomatici e scienziati. A volte anche spie e comandanti militari. Tu sei la prima Vorta che abbia mai incontrato e devo dire che mi hai sorpreso. Non sapevo che alcuni di voi si fossero messi in proprio».
   «È rarissimo, infatti» confermò Giely. «La nostra devozione verso i Fondatori è così radicata che non trovo parole per descriverla. Per fartelo capire, ti racconterò una storia. Beh, più che storia è una leggenda: l’unico vero mito che si tramanda nella nostra cultura. Siediti» lo invitò, accennando a un lettino.
   L’Umano si accomodò e la Vorta gli sedette a fianco, con le mani in grembo. Il suo sguardo era perso in ricordi lontani; la voce usciva lenta e profonda dalle sue labbra. «La mia specie è originaria di Kurill Primo, un mondo del Quadrante Gamma. Eravamo creature scimmiesche, piccole e timide, che si nascondevano sugli alberi per sfuggire ai molti predatori del nostro ambiente. Mangiavamo bacche e noci, di cui infatti siamo ancora ghiotti... un retaggio del nostro miserevole passato» disse, ancor più pallida del solito.
   «Un giorno, uno dei Fondatori venne tra noi. Stava scappando: alcuni cacciatori Hur’q lo avevano ferito e ora lo inseguivano per dargli il colpo di grazia. I nostri antenati avevano paura di quella caccia violenta, ma una loro famiglia s’impietosì e offrì nascondiglio al Fondatore ferito. Lo tennero con loro e lo nutrirono finché non si fu pienamente ristabilito. Allora il Fondatore, grato dell’aiuto, predisse ai Vorta un futuro di grandezza. Ci promise che un giorno saremmo stati a capo di un vasto impero interstellare, che avrebbe dato legge e ordine alla Galassia. Non avremmo più dovuto nasconderci sugli alberi a ogni scricchiolio nel sottobosco!» disse con amara ironia.
   «Fammi indovinare... il Fondatore tralasciò di aggiungere che sareste stati suoi schiavi» mormorò Rivera.
   «Deve essergli sfuggito, sì» annuì Giely, sarcastica. «Nei secoli seguenti, i Fondatori sfruttarono i loro poteri di mutaforma per sottrarre tecnologie evolute ai popoli della zona. Tornarono su Kurill Primo ed elevarono la mia specie con l’ingegneria genetica. Ci trasformarono nei loro strumenti di conquista e di governo, ponendoci ai massimi livelli del Dominio. Come ti ho mostrato, ci resero immuni a molti veleni. Ma soprattutto c’instillarono l’incrollabile convinzione che loro fossero dèi, così da assicurarsi la nostra assoluta obbedienza. Pensa che ci dotarono persino di una ghiandola, nel cervello, che può rilasciare a comando una rara tossina letale anche per noi. Così, quando un Vorta viene catturato dal nemico, deve commettere suicidio piuttosto che nuocere agli interessi dei Fondatori, rivelando informazioni».
   «È orribile» mormorò il Capitano. «Perdona la domanda, ma... tu ce l’hai ancora?».
   «Quando chiesi asilo all’USS Keter, chiesi al loro medico di bordo di rimuoverla» rivelò Giely. «All’epoca ero così divorata dai sensi di colpa per la mia fuga che temevo di usarla in un attacco di depressione. Così eliminai il problema alla radice. Ma resto pur sempre una Vorta... la mia razza è odiata dai popoli liberi della Galassia. Siamo schiavi dei Fondatori e aguzzini per le altre specie!» si disperò, torcendosi le orecchie da Vorta come se volesse strapparsele.
   «Ehi, piano!» la fermò Rivera, temendo che si ferisse. «Non devi vergognarti dei tuoi antenati. Anche noi Umani discendiamo da primati che vivevano sugli alberi e mangiavano bacche».
   «Ma voi almeno vi siete evoluti da soli! Avete affrontato le sfide del vostro ambiente e avete forgiato il vostro destino!» insisté Giely. «Noi invece dobbiamo tutto ai Fondatori. Siamo una specie cliente; senza di loro saremmo ancora a dondolarci sugli alberi».
   «Qualunque cosa siano i tuoi simili, è chiaro che tu hai scelto un’altra strada» disse il Capitano, cercando di darle sollievo da quell’angoscia che la consumava.
   «Non è semplice come credi» mormorò la dottoressa. «Hai visto quella Vorta più anziana; hai anche notato quanto mi somigliava nell’aspetto?».
   «Vuoi dire che...» sussurrò Rivera, sentendosi accapponare la pelle.
   «Sì, quella è Giely-8, l’ottava esponente della sua linea genetica. Io sono Giely-9, destinata a subentrare nelle sue mansioni» rabbrividì la Vorta. «Vedi, le manipolazioni genetiche dei Fondatori coinvolgono anche la nostra sessualità. Sebbene tra noi ci siano ancora maschi e femmine, siamo pressoché privi d’istinto riproduttivo; e in ogni caso siamo sterili. Di conseguenza ci riproduciamo tramite clonazione, creando embrioni che crescono in vasche di gestazione. Dopo qualche travaso in vasche sempre più grandi, usciamo fisicamente adulti. Anche dal punto di vista mentale siamo in gran parte autosufficienti. La nostra memoria genetica ci fornisce una conoscenza istintiva delle istituzioni del Dominio; il resto lo studiamo a tempo di record. Quando un Vorta raggiunge una certa età, clona il suo successore e lo istruisce durante i suoi ultimi anni di vita, così che il clone sia pronto a subentrargli. Se invece un Vorta viene ucciso prima del tempo, sono gli altri che lo clonano e addestrano il suo successore. Ogni tanto poi il DNA viene manipolato, creando nuove linee genetiche, in un simulacro d’evoluzione».
   «Quindi tu sei...».
   «... creata in provetta e coltivata in una vasca, come un fungo» confermò Giely, beffarda verso se stessa. «Il mio primo ricordo, quando uscii dalla vasca, è Giely-8 che mi spiegava come sarei vissuta al servizio dei Fondatori. Dovevo essere come lei... come tutte le altre Giely che mi avevano preceduta e tutte quelle che sarebbero venute dopo».
   «Ma tu hai scelto diversamente» insisté il Capitano.
   «Ci ho provato, sì. Ho fatto di tutto per distinguermi dalle altre» annuì Giely. «Sono fuggita dal Dominio, ho rinnegato i Fondatori. Mi sono fatta togliere la ghiandola dell’eutanasia e ho rimosso il numero 9 dal mio nome. Mi sono arruolata nella Flotta Stellare nella speranza di placare la mia angoscia con l’esplorazione. Ma poco fa, in quella stanza, ho rivissuto la mia nascita e mi sono resa conto che è tutto inutile. Per quante cose faccia, non potrò mai cancellare ciò che sono. Giely-8 ha ragione: non sono altro che un clone difettoso, che s’è mascherato con l’uniforme della Flotta per illudersi d’essere qualcos’altro!».
   Osservandola, il Capitano fu colpito dai suoi occhi. Erano gli occhi di un animale braccato, alla perenne ricerca di qualcosa d’inafferrabile. La giovane Vorta era come posseduta, consumata dall’incapacità di dare un senso alla propria vita. La sua esistenza era grottescamente banale e senza scopo: un’infinita successione di azioni ripetitive, un’interminabile corsa che la sfiancava senza portarla da nessuna parte. Se fosse morta quel giorno, nulla si sarebbe perso... perché lei non era nulla. Ecco ciò che Rivera vide in fondo al pozzo di quegli occhi spiritati.
   «Stammi bene a sentire: tu non sei l’unica a sentirti così» disse l’Umano, prendendole le mani fra le sue. «Anche a me è capitato di sentirmi annientato, d’avere la sensazione di non valere niente, di temere che se fossi morto non sarebbe importato a nessuno. Credo che capiti a tutti gli umanoidi, prima o poi. Ma è proprio questo il punto! Se tu fossi un automa, o un clone programmato alla stregua di un automa, saresti soddisfatta delle tue mansioni. Non ti faresti domande, non brameresti di più. Il fatto stesso che tu abbia questa... tensione spirituale significa che sei ben altro che un clone malriuscito. Vedi, la cosa importante degli umanoidi non è il fatto che costruiamo astronavi per viaggiare nello spazio, nel tempo e persino da un Universo all’altro. No, ciò che ci rende speciali è che siamo... come posso dire... costruttori di significati. Non so se la vita in sé abbia uno scopo, ma noi ce ne diamo uno. O almeno ci proviamo, che poi è lo stesso».
   Giely lo ascoltò con gli occhioni violetti sgranati, affascinata dalle sue parole. Gradualmente un po’ di vita riprese a scorrere in lei. «Se solo capissi qual è il mio scopo...» mormorò.
   «Solo tu puoi rispondere a questa domanda» sospirò Rivera. «Tuttavia, se insisti, ti dirò che a mio modesto avviso tu stai già facendo cose importantissime. Ci hai salvati tutti dagli Undine e adesso sei il solo medico che abbiamo su questa nave. Hai trecento persone, incluso il sottoscritto, sotto la tua responsabilità. A me sembra una missione decisamente importante. Soprattutto se consideri che non sono stati i Fondatori ad affibbiartela, ma tu stessa, con le scelte che ti hanno condotta qui. Magari non era ciò che desideravi... del resto nessuno di noi vorrebbe essere smarrito nel Multiverso. Ma nel bene o nel male, resta il fatto che la tua esistenza non è stata decisa a tavolino da qualcun altro; hai esercitato il tuo arbitrio. E questa è una cosa che nessuno, nemmeno i Fondatori, potranno mai cambiare».
   A queste parole, Giely scoppiò in un pianto liberatorio. Abbracciò Rivera, scossa dai singhiozzi, finché l’emozione si placò. Allora si discostò da lui, mentre si asciugava il viso dalle lacrime. «Grazie di tutto, Capitano. Ti prometto che farò del mio meglio come medico di bordo» disse, con voce ancora roca.
   «Non chiedo altro».
   «Ma come medico, ti dico che sono molto preoccupata» aggiunse la Vorta. «Questo Spazio Caotico ci sta distruggendo psicologicamente. E più passa il tempo, più crescono anche i pericoli fisici. È un miracolo che non abbiamo ancora avuto vittime, e non so per quanto possa continuare. È di vitale importanza andarcene subito».
   «Fosse facile! Ma la Destiny sta avendo dei danni a cascata che c’impediscono di andarcene» si lamentò il Capitano.
   «Danni provocati da cosa?».
   «È questo che non riusciamo a capire. Ogni volta che gli ingegneri ne riparano uno, qualcos’altro si guasta. È come se la nave non volesse lasciarci ripartire...». Così dicendo, Rivera si bloccò. «O forse no. Forse siamo noi il problema» mormorò.
   «Capitano?».
   «Finora questo spazio ha agito sulle nostre emozioni più profonde. Desideri, rimpianti... e soprattutto paure» notò il Capitano. «Sai qual è una delle paure più ataviche e condivise dagli umanoidi? Rimanere intrappolati in un luogo pericoloso. Scommetto che tutti, a bordo, hanno il terrore di restare prigionieri di questo Spazio Caotico. Specialmente gli ingegneri, che hanno la responsabilità di far funzionare la nave. E così il timore che la Destiny si guasti si sta avverando. Siamo noi stessi, con le nostre paure, a distruggere l’astronave». 
 

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Capitolo 4
*** Desideri irresistibili ***


-Capitolo 3: Desideri irresistibili
 
   Quando ebbe aiutato Talyn a curarsi dai numerosi graffi e lividi che si era procurato nel crollo, Losira gli si rivolse con apprensione. «Te la senti di tornare in plancia? Posso dispensarti per la giornata, se vuoi. Dopo ciò che hai passato...».
   «Dopo ciò che ho passato nel mio alloggio» puntualizzò il giovane. «Se torno lì, rischio di rivivere tutto daccapo. No, preferisco tornare in plancia con gli altri. Certo, prima o poi dovrò dormire di nuovo...» si preoccupò.
   «Cercheremo di andarcene prima di allora» disse la Risiana. «Voglio andare in sala macchine a scambiare due parole con gli ingegneri, riguardo a quegli strani guasti».
   Lasciarono insieme l’infermeria, memori di quanto fosse rischioso aggirarsi da soli, e si divisero solo quando raggiunsero i turboascensori. Talyn ne prese uno per salire, mentre Losira ne prese un altro per scendere di livello.
   «Sala macchine» ordinò distrattamente la Risiana. Sentì l’ascensore che scendeva e lesse i livelli sul piccolo schermo: 10, 20, 30...
   «Qualcosa non quadra» si allarmò Losira. Era già scesa oltre il dovuto. «Ho detto sala macchine!» disse con voce stentorea, pensando che il computer avesse frainteso l’ordine.
   Il turboascensore continuò a scendere, imperterrito. Era già al livello 40, uno dei più bassi, e non accennava a rallentare. Si sarebbe schiantato?!
   «Sala macchine, sala macchine!» ripeté la Risiana, sempre più spaventata. «Computer, ferma il turboascensore! Arresto immediato!». Poiché le parole non sortivano effetto, premette il pulsante per l’arresto d’emergenza. Ma anche questo fu inutile: l’ascensore continuò a sfrecciare verso il basso. Superò il livello 50...
   «Livello 50?!» si stupì Losira. C’erano soltanto 45 ponti sulla Destiny. O 47, se si contavano il ponte superiore della plancia e un mezzo ponte con alcune strumentazioni al livello più basso. Sotto a quello c’era la corazza inferiore dello scafo. Ma quel maledetto turboascensore la stava portando sempre più giù, in ponti inesistenti: 60... 70... 80...
   La paura si trasformò gradualmente in una morbosa curiosità. La Risiana voleva sapere fin dove l’avrebbe portata quell’ascensore, in quali piani inesistenti. Si sarebbe mai fermato? E in tal caso, cosa avrebbe trovato all’apertura della porta? Un mondo alieno? Un girone infernale, pieno di diavoli e fiamme? Tutto era possibile, in quel cosmo in cui pensiero e realtà si confondevano.
   Giunto a un impossibile ponte 88, il turboascensore finalmente si fermò. La porta si aprì col solito sibilo discreto e Losira si affacciò su uno stanzone rivestito di mattonelle bianche. Almeno non c’erano diavoli coi forconi, si disse: era già qualcosa. Ma quel salone aveva qualcosa di stranamente familiare, che la fece rabbrividire fino al midollo. Sembrava una sala operatoria... no, si corresse, era un obitorio con gli strumenti per le autopsie. E lei c’era già stata, lo riconosceva.
   La Risiana fece qualche passo in avanti, come trascinata da una forza irresistibile. Il suo sguardo andò verso il fondo della sala, dove su un lettino giaceva un corpo, ricoperto da un telo bianco simile a un sudario. Allora le sembrò che ogni calore abbandonasse il suo sangue. Aveva già vissuto quella scena: era il giorno in cui aveva visto i resti sfigurati di suo marito, morto per l’incidente – no, il sabotaggio – alla levi-car.
   «No, no, no...» mugolò Losira, coprendosi il viso. Aveva sopportato una volta quella vista; non poteva farlo di nuovo. Si girò verso il turboascensore, scoprendo che la porta si era richiusa. Allora si avvicinò, ma quel maledetto ingresso rimase sigillato. «Apriti, dannazione! Non puoi lasciarmi qui!» gridò, battendoci sopra i pugni. Ma non sarebbero state certo le sue mani a sfondare la lastra di duranio. Lì era e lì sarebbe rimasta, fino a che lo Spazio Caotico lo avesse voluto.
   Fremendo d’angoscia, la Risiana tornò a fronteggiare la salma sul lettino. «Cosa vuoi da me, eh?! Non mi servi tu, per ricordare d’essere vedova! L’ho ricordato ogni giorno, per sedici anni!» inveì. La sua voce si spense in quel salone gelido e opprimente.
   «Insomma, che cosa devo fare? Guardarlo di nuovo? Dirgli addio? Dopo potrò tornare sulla Destiny?» si chiese Losira. Non avendo altro da fare, si avvicinò al corpo del marito. Ogni suo passo risuonò nello stanzone, finché gli fu accanto. Stava per sollevare il sudario, ma all’ultimo le mancò la forza. Si accasciò sul pavimento, scossa dai tremiti. Sedici anni prima era una persona onesta, che poteva guardare i resti del consorte per dirgli addio. Ma adesso che cos’era? Una ladra, una truffatrice, una contrabbandiera? Aveva fatto di tutto per il profitto e ormai si sentiva così sporca nell’animo che non osava più confrontarsi con quell’immagine del passato.
   Fu allora che udì un fruscio e percepì un movimento accanto a sé. Per lunghi attimi rimase completamente paralizzata dal terrore. Qualcuno si stava muovendo, e poteva essere solo... no, rifiutava di accettarlo. Ma non poteva rimanere per sempre lì accasciata accanto al lettino. Con estrema lentezza, alzò lo sguardo; e poco ci mancò che non le si fermasse il cuore. Perché la salma si era rialzata dal giaciglio. Se ne stava seduta, con il capo reclinato, cingendosi le ginocchia raccolte con le braccia. Era ancora coperta dal telo bianco e se ne stava immobile, in assoluto silenzio. Ma si era mossa, indiscutibilmente.
   «Che cosa sei tu?! Che vuoi da me?!» gridò Losira, scattando in piedi. «Insomma, smettila di tormentarmi!». Al colmo della disperazione, afferrò il sudario e lo strappò da colui che le stava innanzi.
 
   «Capitano, abbiamo un problema!» disse Talyn, non appena Rivera rimise piede in plancia.
   «Uno solo? Avanti, dimmi» borbottò l’Umano.
   «Quello è il problema» disse il giovane, indicando lo schermo principale. Davanti alle mutevoli nubi azzurre spiccavano numerose navicelle giallastre, piccole e irte di spuntoni. Il Capitano riconobbe le bionavi degli Undine, la temuta Specie 8472. Erano sfuggiti per miracolo al loro attacco, nello Spazio Fluido, quando la Destiny era in piena efficienza. Potevano cavarsela ora che tanti sistemi erano in avaria?
   «Sono venticinque navi e danno energia alle armi!» avvertì Talyn.
   «Attivo l’Allarme Rosso» disse Naskeel, dato che il Capitano non dava l’ordine.
   «No, fermo!» lo bloccò Rivera. «È praticamente impossibile che gli Undine ci abbiano seguiti fin qui. Questa è un’illusione come le altre. Nasce dal fatto che la battaglia contro di loro è ancora fresca nella nostra memoria e abbiamo paura d’incontrarli di nuovo».
   «E se anche fosse? Lei stesso ha detto che queste illusioni sono ai limiti della realtà. Finché sono in essere, possono danneggiarci e anche distruggerci. Ecco perché dobbiamo affrontarle» sostenne Naskeel. Così dicendo azionò l’Allarme Rosso, che oltre ad allertare l’equipaggio comportava l’attivazione automatica di scudi e armamenti.
   «Ho detto no! Se l’equipaggio si spaventa, è la fine! Arriveranno sempre più bionavi e ci faranno a pezzi!» insisté il Capitano, balzando alla consolle tattica. Disattivò l’Allarme Rosso, dopo di che aprì un canale con tutta la nave. «Qui è il Capitano Rivera, v’informo che si è trattato di un falso allarme. L’unica minaccia sono le nostre paure, come quella d’essere aggrediti o di restare in trappola. Quindi cercate di... pensare positivo. Mi rivolgo soprattutto agli ingegneri: convincetevi che la nave è a posto e scoprirete che lo è davvero. Tutti quei guasti che state trovando non sono che la materializzazione dei vostri timori. In realtà non ci sono danni a bordo, così come non ci sono nemici là fuori. Dico a tutti: è di vitale importanza che riusciate a convincervi! Focalizzatevi sui ricordi più felici. Pensate ai momenti in cui vi siete sentiti più protetti, più al sicuro. Se accanto a voi c’è un amico, abbracciatelo e ditegli quanto gli volete bene. È un ordine! Plancia, chiudo».
   «Bellissimo discorso, sono commossa» commentò Shati. «Ma gli Undine sono ancora là fuori» aggiunse, additando la flotta nemica. Le bionavi sfrecciavano da tutte le parti, come uno sciame di calabroni, sebbene nessuna avesse ancora aperto il fuoco.
   «No, non sono là fuori! Sono solo nella nostra mente!» insisté il Capitano, aggirandosi nella plancia per rivolgersi a tutto il personale. «Dovete credere che sia così. So che sembra folle, ma vi chiedo un... un salto di fede. Non abbiate paura!».
   Chiuse gli occhi, sforzandosi lui stesso di credere che gli Undine non fossero lì, che non potessero fare alcun male. «Non possono nuocermi. Non possono nuocere al mio equipaggio. Non possono danneggiare la nave. Non sono là fuori. Non esistono!» si ripeté.
   Passarono lunghi secondi. La Destiny era in quiete: nessun sussulto, nessun allarme, segno che le bionavi non avevano aperto il fuoco. Era già un buon segno. Finalmente Rivera osò riaprire gli occhi. Lo schermo panoramico offriva un’ampia visione dello Spazio Caotico: non c’era traccia di bionavi.
   «I sensori non rilevano alcun vascello» confermò Talyn. «Siamo salvi... o dovrei dire che non siamo mai stati in pericolo».
   «Quindi è finita? Abbiamo trovato come proteggerci?» chiese Shati, stupita dall’apparente facilità della soluzione.
   «Sarà finita quando avremo abbandonato lo Spazio Caotico» corresse il Capitano. Non voleva dirlo, per non incrinare il morale, ma intuiva che tutti loro non potevano tenere sempre a bada i pensieri negativi. Durante il sonno, in particolare, erano in preda al loro subconscio. No, la vera salvezza stava solo nell’andarsene. «Plancia a sala macchine, rapporto» ordinò.
   «Signore, è come diceva lei» rispose Irvik. «La maggior parte dei nostri problemi si sono dissolti!».
   «La maggior parte?».
   «Ecco, abbiamo ancora dei problemi con quel trasformatore» ammise l’Ingegnere Capo. «Forse si tratta di un vero guasto».
   «O forse non c’è ancora abbastanza ottimismo a bordo» sospirò il Capitano. «Lavorate al trasformatore, ma ricordate di mantenere il giusto atteggiamento mentale. Dovete credere fermamente che lo riparerete in fretta e senza difficoltà».
   «Ci proveremo, Capitano... devo dire che non ho mai lavorato così» ammise il Voth. «Vedremo che succederà. Sala macchine, chiudo».
   Ora che era tornata la calma, Rivera si chiese se c’era un modo per aiutare l’equipaggio a mantenere il relax. Magari poteva chiedere a Giely di somministrare qualche sostanza tranquillante. Già, ma quale? Non voleva drogare l’equipaggio, perché questo avrebbe ulteriormente abbassato il controllo emotivo. E non voleva nemmeno dare dei sonniferi, perché il sonno peggiorava le cose. Serviva qualcosa di blando. Stava per chiedere un parere a Losira, quando notò che il suo Primo Ufficiale non era ancora tornato.
   «Qualcuno ha visto Losira, o sa dov’è?» chiese in tono calmo, cercando di non far preoccupare nessuno.
   «Era con me in infermeria, poi ha detto che sarebbe scesa in sala macchine per discutere dei guasti» ricordò Talyn. «In effetti è via da un pezzo» notò, consultando l’ora sulla consolle.
   «Plancia a Losira, rispondi» disse il Capitano. Come temeva, non fu accontentato. «Già, proprio come temo... ed è questo il problema!» si disse. «Talyn, vedi di localizzarla» ordinò, sempre in tono calmo.
   «Qualcosa non va» disse l’El-Auriano. «Non rilevo i suoi segni vitali a bordo».
   «Non è che se ne sia andata con qualche navetta o capsula?».
   «Sono ancora tutte al loro posto».
   «Ahi, ahi!» si disse Rivera. Questo era un problema inedito. Il suo Primo Ufficiale mancava all’appello e aveva la sgradevole sensazione che non bastasse desiderare intensamente il suo ritorno.
 
   Nell’obitorio regnava il silenzio. Losira fissava il marito, senza riuscire ad articolare parola. L’ultima immagine che aveva di lui era un corpo maciullato, irriconoscibile; ma ora lo vedeva integro, nel pieno delle forze e della salute.
   «Amore, cosa ci faccio qui? Sai spiegare?» chiese Atrevius. Si era avvolto il telo bianco attorno ai fianchi e sedeva sul lettino, guardandosi attorno meravigliato.
   «Non conosco tutte le risposte» mormorò Losira. «Qual è l’ultima cosa che ricordi?».
   «Vediamo... ero stato alla capitale, a discutere con quella canaglia del Ministro» ricordò il Risiano. «Diceva che non poteva aiutarci, il buffone, come se non fosse stato lui a firmare il provvedimento d’esproprio! Sono uscito dal palazzo con un diavolo per capello e ho preso la levi-car. Stavo tornando da te, riflettendo sul da farsi, quando...» esitò.
   «Quando?» incalzò Losira.
   «I miei ricordi sono confusi, ma credo di aver avuto un incidente» disse Atrevius. «Sì, la levi-car s’è guastata ed è precipitata. Ho provato a eiettarmi, ma anche il seggiolino non funzionava. Ricordo il fischio dell’aria nell’abitacolo e il suolo sempre più vicino. Temevo che fosse la fine... temevo di non rivederti. Invece sei qui, anima mia!».
   Fece per abbracciarla, ma Losira si ritrasse. «Non ricordi altro?» chiese.
   «Temo di no. Devo aver perso i sensi. Siamo all’ospedale, vero? Per quanto sono stato svenuto?» chiese, notando con stupore l’assenza di medici.
   «È passato più tempo di quanto credi. Non mi trovi invecchiata?» chiese Losira, fissandolo con un misto d’orrore e desiderio.
   «Non direi... beh, forse appena appena» si corresse Atrevius, fissandola attentamente. «Insomma, cosa vuoi dirmi? Quanto è passato?».
   «Sedici anni, amore mio» rispose Losira in un soffio.
   «Sedici...!» esalò il visconte, sgranando gli occhi. «Vuoi dirmi che sono rimasto in coma per tutto questo tempo?!».
   «Magari fosse così semplice, caro. No, tu sei morto in quell’incidente» rivelò la moglie. «Questo è l’obitorio in cui vidi i tuoi... i tuoi resti. Dopo di che dovetti fuggire da Risa, per non finire allo stesso modo. Sono passati sedici anni e non ho più rimesso piede sul nostro pianeta».
   «Suvvia, è assurdo!» protestò Atrevius. «Non sono morto, questo devi ammetterlo. Guardami, sono tutto d’un pezzo!» disse, tastandosi il petto e le braccia.
   «Mio marito è morto. Tu non so chi sei» dichiarò Losira, indietreggiando di un passo.
   «Amore, non puoi dire sul serio!» fece il visconte, saltando agilmente giù dal lettino. «Se fossi un impostore, ricorderei la nostra vita insieme? C’incontrammo la prima volta alla baia di Suraya, durante il Festival delle Lune. Tu mi rovesciasti accidentalmente un cocktail addosso e così io ti convinsi a berne un altro con me. Ti chiesi di sposarmi durante una visita ai giardini sotterranei delle piante luminescenti. Andammo a Betazed in luna di miele e poi vivemmo nella mia villa sulle rive della Laguna Temtibi...».
   «Basta così! Stai traendo queste informazioni dalla mia memoria!» protestò Losira.
   «Scherzi? Non sono un telepate, lo sai bene!» obiettò Atrevius.
   «Io non so cosa sei... mi correggo, lo so eccome!» si scaldò la Risiana. «Sei la proiezione dei miei rimpianti e di un desiderio impossibile. Ti vorrei ancora accanto – oh, quanto lo vorrei! – ma so che non può accadere».
   «Non può? Sta già accadendo!» insisté il marito. «Io sono qui, mi sento vivo, e ti amo ancora come il primo giorno. Vieni con me, andiamocene da questo luogo di morte» disse, accennando all’obitorio. «Torniamo a casa nostra, e se ci sfratteranno allora troveremo un altro posto dove vivere assieme...».
   «Non è così semplice!» gemette Losira. «In questo momento non siamo su Risa, bensì su un’astronave, la Destiny. E l’astronave si trova in una realtà parallela, lo Spazio Caotico, dove i pensieri diventano realtà. È questo che ti ha fatto tornare, capisci?».
   «Oh, andiamo! Questo è ancor più difficile da credere rispetto a... tutto il resto!» sbuffò Atrevius, accostandosi. «Ma se anche fosse: tu hai detto che in questo luogo i pensieri diventano realtà. Ebbene, il mio ritorno non è forse una realtà? Non sono qui davanti a te? Non puoi forse vedermi, udirmi, toccarmi?». Ciò detto le prese il volto tra le mani e la baciò, come aveva fatto tante volte in passato.
   «Io... non sono più sicura di cosa è reale e cosa no» ammise Losira, sentendo il sapore del bacio. «So solo che ti amo e non voglio perderti un’altra volta. Cosa che accadrà, se...» si bloccò.
   «Se cosa?» la incalzò il marito.
   «Se mai questa nave abbandonerà lo Spazio Caotico» mormorò Losira.
 
   «Sala macchine a plancia, mi pregio d’informarvi che il trasformatore è riparato! Possiamo tornare nel Vuoto quando volete!» annunciò Irvik, sempre un po’ cerimonioso.
   «Restate in attesa, è sorta un’altra complicazione» rispose il Capitano. «Losira è scomparsa, pare che non si trovi a bordo».
   «Ma come! Proprio ora che è tutto riparato...!» si sgonfiò il Voth.
   «Non me ne parli, o vado in bestia anch’io» ammise Rivera. «Tenetevi pronti a partire, vi richiamerò io. Plancia, chiudo». L’Umano si girò con tutta la poltrona, così da fronteggiare i suoi ufficiali di plancia. «Qualcuno ha suggerimenti su dove potremmo cercare Losira?».
   «Io ho un suggerimento d’altro genere» disse Naskeel.
   «Sentiamo».
   «Losira è un solo individuo, su trecento che compongono questo equipaggio. Non trova illogico mettere a repentaglio trecento vite, prolungando la permanenza in questo spazio, solo per salvarne una?» chiese il Tholiano.
   «È molto illogico» riconobbe il Capitano. «Ed è anche la cosa più umana da fare».
   «Losira non è Umana».
   «Intendevo dire che è la cosa più giusta da fare!» si scaldò Rivera.
   «Curioso come per voi Umani i due termini siano sinonimi» commentò il Tholiano, sempre calmo.
   «Pensala come vuoi, ma non abbandono uno dei miei ufficiali nel pericolo».
   «Quindi si tratterrebbe anche se fossi scomparso io, al posto di Losira?» chiese Naskeel.
   Stavolta il Capitano accusò il colpo. Non sapeva proprio se avrebbe attribuito la stessa importanza al Tholiano, considerando i loro trascorsi.
   A trarlo dall’imbarazzo fu Talyn. «Signore, ho un riscontro sui sensori interni. Losira è riapparsa» avvertì.
   «Dove?».
   «Si trova nel turboascensore 13, sta risalendo dagli ultimi ponti. Anche se...». L’El-Auriano verificò rapidamente i dati dei sensori. «Con lei nell’ascensore c’è un secondo segno vitale. Un altro Risiano. Non corrisponde a nessuno dell’equipaggio».
   «Un’apparizione, dunque. Non mi piace che le stia così addosso. Trasferiscili qui entrambi!» ordinò il Capitano, estraendo il phaser. Lui e Naskeel andarono nell’adiacente saletta di teletrasporto. Si appostarono pronti a colpire, in caso di pericolo; ma dovettero ricredersi.
   Losira e Atrevius apparvero sulla pedana, avvinghiati in un bacio passionale. Resisi conto del trasferimento, si lasciarono.
   «Beh?» fece Rivera.
   «Capitano, ti presento mio marito, il visconte Atrevius!» annunciò Losira, emozionata.
   Ci fu un lungo silenzio.
   «Onorato di fare la sua conoscenza» disse infine Rivera. «Ho sentito molto parlare di lei. In particolare ho sentito che era morto».
   «Capitano!» si scandalizzò Losira.
   «Non ti preoccupare, anima mia. È comprensibile che il nostro anfitrione sia spaesato» la calmò il visconte. «Capitano Rivera, le chiedo ufficialmente asilo sulla sua nave. E se non è troppo, vorrei anche qualcosa da mettermi addosso» aggiunse, dato che indossava solo il telo bianco stretto attorno ai fianchi.
   «Avrà i vestiti, poi parleremo del resto» disse Rivera, scrutandolo arcigno.
 
   Più tardi, gli avventurieri e il loro ospite erano seduti al tavolo tattico.
   «Davvero, non vedo quale sia il problema» disse Atrevius in tono animato. «Sono un cittadino federale in difficoltà, che le ha chiesto asilo sulla sua nave. Cosa le impedisce di accogliere la mia domanda?».
   «Tanto per cominciare, io e il mio equipaggio non apparteniamo alla Flotta Stellare» rispose il Capitano. «Abbiamo occupato questa nave abbandonata dopo la distruzione della nostra, ma rimaniamo liberi mercanti».
   «Avventurieri» corresse Losira, appiccicata al marito redivivo.
   «Chiamaci come vuoi. Resta il fatto che non siamo vincolati al regolamento di Flotta» chiarì Rivera. Tornò a concentrarsi sul visitatore. «Secondo: lei non è chi dice di essere. Non è il visconte Atrevius, non è un cittadino federale... non è neppure vivo».
   «Mi creda, sono vivo quanto lei. Se la sua dottoressa avrà la bontà d’analizzarmi...» cominciò il visconte, accennando a Giely.
   «Atrevius è morto sedici anni fa!» disse brutalmente il Capitano. «Lei potrà anche avere il suo aspetto, i suoi ricordi e la sua personalità. Potrà persino ingannare gli strumenti medici. Ma sappiamo tutti che è una copia creata dallo Spazio Caotico. Una copia che può svanire in qualsiasi momento, com’è capitato alle altre».
   «No, lui non svanirà! Il nostro amore ci terrà uniti!» proclamò Losira, afferrandogli il braccio come se temesse che glielo portassero via.
   «Copia, copia!» rise il visconte. «Cos’è una copia, e perché dovrebbe valere meno dell’originale? Il suo medico è una Vorta: non si riproducono forse per clonazione? Dunque anche la dottoressa qui presente è una copia. Devo dedurne che non attribuisce valore alla sua persona?».
   A quelle parole Giely s’irrigidì, colpita nel vivo.
   «Ah, mi risparmi queste baggianate!» sbottò Rivera. «La dottoressa è un vero individuo, con un bagaglio d’esperienze che la rendono unica. Lei invece non ha vita autonoma. È una proiezione mentale creata dallo Spazio Caotico, sulla base dei ricordi e dei desideri di Losira. Quando ce ne andremo da qui, lei cesserà d’esistere!» avvertì.
   «Vuoi dire se ce ne andremo da qui» disse Losira, con aria torva. In quella tutti avvertirono distintamente una vibrazione della nave.
   «Irvik a Rivera, c’è stata un’esplosione in sala macchine!». La voce dell’Ingegnere Capo giungeva affannata dal comunicatore. «Abbiamo tre feriti, di cui uno grave. C’è una perdita di refrigerante, dobbiamo evacuare la sala macchine!».
   «Fatelo, poi sigillate la perdita. Usate gli Exocomp» suggerì il Capitano, alludendo ai robottini riparatutto che aiutavano i tecnici. «Avvertitemi a cose fatte. Rivera, chiudo».
   «Sarà meglio che vada a occuparmi dei feriti» disse Giely, lasciando il posto.
   «Mh-mh» mugugnò Rivera, senza staccare gli occhi da Losira. Appena la dottoressa se ne fu andata, passò all’attacco. «Sei stata tu! Ci hai sabotati!» ringhiò.
   «Provalo, Capitano» fece lei con aria beffarda.
   «Dannazione, non scherzare! Hai sentito Irvik: tre feriti, di cui uno grave» le ricordò il Capitano. «Se non ti accontentiamo, che farai? Ci ucciderai uno a uno con la forza dell’inconscio, finché tu e quel simulacro resterete soli su questa nave?!» inveì. Ma vedendo il suo sguardo, si pentì di averglielo suggerito.
   «Questo può essere facilmente prevenuto» disse Naskeel, estraendo il phaser che portava in cintura. «Se la Comandante muore, il suo inconscio non potrà più nuocerci» disse, prendendola di mira. Losira si ritrasse, spaventata, e Atrevius le fece scudo.
   «Ehi, fermo!» lo bloccò Rivera. «Qui nessuno spara a nessuno senza il mio ordine. Deponga il phaser, Tenente, e torni nei ranghi!» ordinò.
   «Come vuole, Capitano» fece il Tholiano, imperturbabile. La tensione si allentò; Atrevius e Losira tornarono a sedersi.
   «Sentite, non serve che ci spariamo fra noi. Lo Spazio Caotico ci ucciderà comunque, uno dopo l’altro» intervenne Shati. «Dobbiamo andarcene finché possiamo!».
   «Sono d’accordo» intervenne Talyn. «Ho già passato una notte sotto le macerie e tremo al pensiero della prossima. Se la nave è in grado di portarci via, dobbiamo farlo subito, prima che accada qualcosa di veramente grave».
   A quelle parole Losira si riscosse. «Se avete tanta paura di questo spazio, andatevene pure! Ma lo farete senza di me, perché io resto qui con mio marito» dichiarò.
   «Hai perso la ragione?! Non puoi restare qui da sola!» esclamò Rivera, categorico. «Del resto, dove staresti? Non ci sono pianeti su cui sbarcarti».
   «Dammi una navetta. Magari lo yacht del Capitano, che è più spazioso» rispose la Risiana.
   «E vorresti passare il resto della tua vita lì?!» inorridì Rivera. «Morirai al primo guasto. E se non morirai, diverrai pazza. Posto che tu non lo sia già» insinuò.
   «Le potenzialità dello Spazio Caotico sono inesplorate. Poco fa ero in un intero ambiente creato col pensiero, fuori dalla Destiny!» rivelò Losira, eccitata. «Col tempo potrei apprendere a creare interi mondi».
   «Sì, creerai un mondo in sei giorni e il settimo ti riposerai! Ma ti ascolti quando parli? Sei in pieno delirio d’onnipotenza!» accusò il Capitano.
   «Se anche riuscissi a creare un habitat vivibile, si dissolverà nell’attimo in cui perderai la concentrazione, o in cui ti addormenterai» rincarò Talyn.
   «Inoltre, rifiutandoti di seguirci, hai ammesso che tuo... marito non è altro che una proiezione della tua mente» notò Shati. «Può esistere solo finché ti trovi nello Spazio Caotico e svanirà quando te ne andrai».
   «Siete tutti contro di me!» protestò Losira, passando lo sguardo da uno all’altro. «Che vi ho fatto, per meritare questo?!».
   «Ancora non capisci? Se ce ne fregassimo di te, ti avremmo già abbandonata. È proprio perché ci stai a cuore che rifiuto di lasciarti in un’illusione che può diventare letale in qualunque momento!» spiegò il Capitano, accorato. «Pensaci! In tre giorni di permanenza nello Spazio Caotico abbiamo già avuto danni e feriti, senza contare l’equipaggio prossimo al crollo nervoso. Pensa cosa potrebbe capitarti nell’arco di anni interi! Perché se decidi di rimanere, è una scelta definitiva. Noi non torneremo qui. Nessuna nave federale verrà per anni, forse per secoli. Non vedrai mai più una sola persona vera; solo proiezioni della tua mente ossessionata».
   «Come se ci fosse chissà che, nelle persone vere!» sbottò Losira. «Sono state le persone vere a distruggere la mia vita. Come hanno distrutto la tua, Capitano. E la tua, e la tua!» aggiunse, rivolta a Talyn e Shati. «Tutti noi abbiamo cercato di fare del bene, in principio. In cambio abbiamo ricevuto solo odio e disprezzo dai nostri simili. Se anche riuscissimo a tornare, continuerebbero a torturarci per il gusto di farlo. Nessuna buona azione resta impunita! E allora piuttosto restiamo qui, dove la loro malvagità non può raggiungerci».
   «Ci siamo noi, e tanto basta perché le nostre ossessioni ci consumino poco alla volta» disse tristemente il Capitano. «Noi umanoidi siamo bravi a raccontare storie di... demoni sorti dall’Inferno, ma in ultima analisi temiamo noi stessi».
   Tornò il silenzio, che si protrasse a lungo. Infine Atrevius prese la parola: «Se è determinato a lasciare questo spazio per non tornarvi mai più, allora permetta a me e mia moglie di passare queste ultime ore assieme. Così almeno ci diremo addio, cosa che non potemmo fare l’ultima volta».
   «Andate, ma non tentate strane mosse. Vi terremo d’occhio coi sensori» avvertì Rivera.
   Atrevius e Losira si alzarono e lasciarono la sala tattica a braccetto. Attraversarono in fretta la plancia, per poi scendere nei ponti inferiori. Di lì a poco i sensori confermarono che si erano recati nell’alloggio della Risiana.
   «Non capisco!» sbuffò Shati. «Tutti noi abbiamo visto concretizzarsi le nostre peggiori paure. Perché solo Losira ha visto avverarsi i suoi desideri?».
   «Forse perché tutti noi abbiamo ancora qualcosa da perdere. Solo Losira, invece, ha perso così tanto che le restano solo i rimpianti» rispose il Capitano.
 
   Nelle ore seguenti giunsero rapporti di altre apparizioni strane e pericolose in ogni angolo della nave. Giely distribuì dei blandi tranquillanti all’equipaggio, ma anche questa era una soluzione palliativa. Infine, verso sera, Irvik segnalò che i danni in sala macchine erano riparati. «Inizio il ciclo di ricarica del nucleo, partiremo fra un’ora» riferì l’Ingegnere Capo.
   «Ottimo lavoro» si congratulò Rivera. «Plancia a equipaggio, v’informo che lasceremo lo Spazio Caotico entro un’ora. Finora avete resistito egregiamente; tenete duro e tra poco saremo salvi. Plancia, chiudo».
   Passato qualche secondo, il Capitano ricordò l’altra faccenda che lo angustiava. «I piccioncini sono ancora nel loro nido d’amore?» chiese. Gli aveva inibito l’uso del teletrasporto e aveva persino posto una sentinella nelle vicinanze, ma non era certo che questi accorgimenti bastassero.
   «Negativo, sono spariti dall’alloggio» avvertì Talyn. «Eppure avevo regolato i sensori per avvertirmi. Sono nell’hangar 1... si direbbe che siano passati direttamente da un ambiente all’altro, senza usare il teletrasporto».
   Rivera ricordò come lui e Talyn fossero passati direttamente dall’astrometria alla plancia, il giorno prima. Non c’era modo di trattenere qualcuno, finché si trovavano nello Spazio Caotico. «Dobbiamo fermarli prima che facciano qualche sciocchezza. Talyn, vieni con me. Naskeel, a lei la plancia».
 
   Gli hangar della Destiny si trovavano nella sezione ad anello dell’astronave, uno per lato, e avevano dimensioni ragguardevoli. Vi si trovava una gran quantità di caccia, navette e Work Bee, ovvero navicelle specializzate nelle riparazioni. Nell’hangar 1, inoltre, trovava posto lo yacht del Capitano, il Centurion. Era una navicella assai grande, dalla forma che ricordava le Ali Volanti della vecchia Terra. Al suo interno si trovavano cuccette, replicatori, persino un bagno con doccia sonica, che garantivano una lunga autonomia di missione. Il Centurion inoltre era pesantemente armato e corazzato, da cui il suo nome battagliero.
   Quando Rivera e Talyn giunsero nell’hangar, il portello esterno si stava già alzando, con il campo di forza a trattenere l’atmosfera. «Fermiamolo, presto!» disse il Capitano, correndo a una consolle di controllo. Ma scoprì che i comandi non rispondevano.
   «No, non è così che funziona in questo spazio» ricordò Talyn. «Bisogna volerle, le cose. Chiuditi!» ordinò, levando la mano verso il portone blindato. E il portone si richiuse, nascondendo le nubi azzurre e i bagliori dello Spazio Caotico.
   In quella però il Centurion si alzò in volo, rimanendo stazionario a pochi metri d’altezza. Ruotò leggermente, in modo da fronteggiare l’uscita. Un ronzio indicò che i phaser anteriori erano innescati. «Losira a Rivera. Se non vuoi che faccia un buco in quel portone, lascia che si apra!» avvertì la Risiana tramite il comunicatore. Un attacco del genere avrebbe messo fuori uso l’intero hangar, perché non c’era modo di riparare il portone senza sostare in un cantiere spaziale. Per gli avventurieri sperduti nel Multiverso sarebbe stato un disastro.
   «Losira, ascolta, quel che stai facendo è pura follia. Se tuo marito ti amasse davvero, non ti trascinerebbe in questo suicidio...» tentò il Capitano.
   «Hai dieci secondi per aprire, poi lo farò io con le armi!» minacciò la Risiana.
   A quelle parole Talyn corse in avanti, frapponendosi tra il Centurion e il portone. Trovandosi sulla linea di fuoco, era spacciato se i fuggitivi avessero sparato. Anche se i raggi phaser gli fossero passati sopra la testa, l’esplosione ravvicinata lo avrebbe travolto. «Talyn a Losira, mi vedi? Dovrai uccidermi per andartene!» avvertì il giovane, premendosi il comunicatore.
   «Levati di lì, idiota!» gridò la Risiana, che aveva già le mani sui comandi di fuoco.
   «Non lo farò» dichiarò Talyn, fronteggiando il Centurion. «Resta con noi, ti prego. Dici di aver ricevuto solo odio, ma qui a bordo c’è gente che si preoccupa per te. Io, ad esempio. Mi hai raccattato per la strada quand’ero un orfano che viveva di furtarelli. Mi hai accolto sulla vostra nave, mi hai confortato, mi hai dato un’istruzione. Quello che ho, lo devo tutto a te. Sei quanto di più simile abbia a una madre. E anche se dici sempre che nessuna buona azione resta impunita, è chiaro che non lo credi davvero. Sei così buona che non riesci a vivere in modo cinico, nemmeno se ti sforzi! E allora non fuggire verso il nulla. Non autodistruggerti, perché allora quelli che ti hanno fatta soffrire l’avranno davvero vinta!».
   A quelle parole, Losira pensò che sarebbe morta di crepacuore. Ci pensò Atrevius a toglierla dall’impasse. «Basta così» disse il Risiano, facendo posare il Centurion. Disattivò i motori e aprì il portello. «Devi tornare con loro. Quel ragazzo ha ancora bisogno di te».
   «E di te che ne sarà? Ti ho appena ritrovato, e già ti perdo di nuovo...» sussurrò Losira, gli occhi lucidi di lacrime.
   «Se quel che mi hai detto è vero, sono morto da tempo» sospirò il visconte. «Questo strano spazio mi ha dato la possibilità di tornare a dirti addio, e ne sono grato. Addio, dunque!» disse abbracciandola strettamente. «Ricordami, se vuoi, ma non lasciare che il rimpianto ti precluda ogni futuro. Vivi al meglio i giorni che ti restano».
   «Io... non so se...» mugolò la moglie, stringendolo con tutte le forze.
   «Se vuoi farmi felice, allora sii felice tu stessa. Io sarò in pace» promise Atrevius. «Addio, anima mia».
   «Addio, mio caro amore» sussurrò Losira, con gli occhi chiusi. Quando li riaprì, si accorse d’essere sola. Le sue braccia non stringevano che l’aria. Con un sospiro, le lasciò ricadere lungo i fianchi. Poi rialzò la testa e lasciò la cabina, percorrendo il Centurion fino al portello. Qui trovò Rivera e Talyn ad attenderla. «Se n’è andato» disse con dignità.
   «Possiamo lasciare lo Spazio Caotico?» chiese il Capitano.
   «Facciamolo subito e non torniamoci mai più!» rispose la Risiana.
   Rivera fece un cenno d’assenso e se ne andò, lasciandola con Talyn.
   «Grazie per essere rimasta» disse il giovane.
   «Ci sarò sempre... diventerò la tua vecchia palla al piede» disse Losira, riuscendo a sorridere. «Sei come un figlio per me; il figlio che non ho mai avuto» confessò per la prima volta.
 
   Ora che tutto l’equipaggio era concorde, la Destiny poté lasciare lo Spazio Caotico senza difficoltà. Aperta una breccia tra le realtà, vi si tuffò dentro per riemergere nel Vuoto. Quel cosmo senza stelle né pianeti parve accogliente, dopo ciò che gli avventurieri avevano passato. Quella notte poterono finalmente gustarsi un buon sonno, senza il timore di scatenare qualche calamità.
   L’indomani il Capitano andò a far colazione in sala mensa, per osservare l’equipaggio e farsi un’idea dell’umore generale. Come si aspettava erano tutti scossi, ma non tanto da destare preoccupazione. In fondo erano avventurieri incalliti, abituati a fronteggiare i pericoli. Rivera vide i suoi ufficiali prendere le solite ordinazioni al replicatore: una cioccolata calda, una ciotola di latte, un succo di larve spremute, un tè alla cicuta...
   La sorpresa venne quando Losira entrò in mensa. Di norma la Risiana mangiava nel suo alloggio, per non trascorrere più tempo del necessario con la ciurma, ma stavolta pareva aver bisogno di compagnia. Ordinata la colazione al replicatore, gli venne accanto col vassoio. «Posso sedermi?» chiese.
   «Certo, accomodati... viscontessa» l’accolse Rivera.
   «Non chiamarmi così. Ho abbandonato quel titolo con tutto il resto» disse Losira, sedendogli davanti. Aveva nuovamente cambiato colore di capelli: adesso il caschetto era di un verde che sfumava in un orlo dorato.
   «Come vuoi. Scherzi a parte, come ti senti?» chiese il Capitano.
   «Abbastanza bene, credo» rispose la Risiana. «Ma c’è una cosa di cui dobbiamo parlare».
   «Non dirmi che sei rimasta incinta di quella replica di tuo marito!» si allarmò Rivera.
   «Niente del genere» fece Losira, guardandolo storto. «Volevo solo sapere se intendi sottopormi a procedimento disciplinare, per quanto ho fatto nell’hangar».
   «Se fossimo nella Flotta Stellare, senz’altro. Ma per tua fortuna, non siamo nella Flotta» rispose l’Umano, abbozzando un sorriso. «Sa il Cielo che avrei fatto io se mi fossero apparsi, che so, i miei genitori redivivi. Immagino che sarebbe successo, se ci fossimo trattenuti più a lungo».
   «Già... senti, devi rivolgere qualche parola all’equipaggio, dopo giorni come questi» raccomandò Losira.
   «Tecnicamente sei tu, in quanto Primo Ufficiale, l’addetta al morale» notò il Capitano. «Ma sì, m’inventerò qualcosa» promise.
 
   Di lì a poco gli ufficiali erano in plancia. Fu stabilito che per qualche giorno l’equipaggio si sarebbe dedicato a controllare i sistemi della nave, terminando le ultime piccole riparazioni, prima di tentare la fortuna in un nuovo Universo. Poiché non c’erano urgenze, Rivera aprì un canale con tutti i ponti.
   «Capitano a equipaggio, un momento d’attenzione» esordì. «Siamo reduci dalla nostra prima esplorazione del Multiverso. Inutile dire che le cose non sono andate come speravamo. Abbiamo affrontato quella che forse è la sfida più sconvolgente di tutte, il confronto con noi stessi. Lo Spazio Caotico ci ha messi di fronte alle paure, alle meschinità, ai rimpianti e ai desideri irrealizzabili che tutti noi ci portiamo dentro. Sono cose che non vogliamo ammettere, che cerchiamo in ogni modo di negare, perché ci fanno sentire vulnerabili. Ma dopo quest’esperienza, credo sia meglio riconoscere i nostri limiti, così da conoscere meglio noi stessi e agire con più cognizione di causa.
   Tutti noi siamo stati feriti dalle nostre esperienze di vita. Abbiamo perso le nostre dimore, i nostri cari. Abbiamo dovuto confrontarci con la feccia della Galassia, sempre in fuga da un luogo all’altro. Ora siamo persino esuli nel Multiverso. Ma se sappiamo trarne qualche lezione, allora non saranno state sofferenze inutili. Se non abbiamo più chi ci voglia bene, allora vogliamocene gli uni con gli altri, su questa nave. E chissà che, alla fine del viaggio, non ci ritroviamo a essere persone migliori. Alla prossima! Plancia, chiudo».
   Fatto questo, il Capitano scambiò uno sguardo d’intesa con Losira. Era soprattutto a lei che pensava, parlando a braccio. La Risiana annuì, incoraggiata.
   «Chissà come sarà la prossima realtà. Forse saremo tutti disegnati, come fumetti!» fantasticò Shati.
   «Forse vedremo cose che nessuno ha mai visto prima» rincarò Talyn.
   «Forse diventerete finalmente ufficiali responsabili... ma questo è lo scenario più irrealistico» commentò Naskeel, facendo involontariamente ridere i colleghi. E la Destiny proseguì la sua missione, in cerca della via di casa.
 
 
FINE
 
 

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