ATypical

di ArielSixx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A-126 ***
Capitolo 2: *** Sotterranei ***
Capitolo 3: *** Vieni con me ***
Capitolo 4: *** La fossa ***
Capitolo 5: *** Mani sporche ***
Capitolo 6: *** Il mercato ***
Capitolo 7: *** Futura - prima parte ***
Capitolo 8: *** Futura - seconda parte ***
Capitolo 9: *** Senza fiato ***
Capitolo 10: *** Sanguisughe ***
Capitolo 11: *** Sapore di sale ***
Capitolo 12: *** Giochiamo insieme ***
Capitolo 13: *** Fallimenti ***
Capitolo 14: *** Strade maestre ***
Capitolo 15: *** Carina ***
Capitolo 16: *** Colpi al cuore ***



Capitolo 1
*** A-126 ***


“Selena! Selena mi senti?”, tutto quello che vedo è offuscato e confuso. Dove mi trovo? Qual è l’ultima cosa che ricordo?


Le luci al neon sul soffitto mi danno fastidio, sto tentando di aprire gli occhi ma un dolore lancinante mi rende difficile anche i minimi movimenti. 


“Tesoro, mi senti?”, ripete una voce che non ho ancora identificato. Di tutta risposta emetto un piccolo rantolo, è il modo di dire che ho afferrato il concetto ma non riesco ancora a prendere pieno possesso delle mie capacità. 


“Non ti preoccupare, ti ci vorrà qualche minuto per abituarti”, mi ripete quella voce. Ha una tonalità calma, probabilmente sa bene come fare il suo lavoro. 


Cos’è successo? Casa mia, la strada, la guerra, la clinica. La clinica! Oh, adesso ricordo. Uno stimolo arriva al mio cervello e finalmente riesco ad aprire gli occhi, una fitta di dolore mi colpisce immediatamente ma dopo qualche secondo tutto è di nuovo più nitido. 


“Come ti senti?”, adesso vedo anche lei. Ailyn Down, 34 anni, infermiera, gruppo sanguigno AB positivo, nessuna minaccia rilevata. I capelli ramati legati dietro la nuca e le lentiggini la fanno sembrare molto più giovane. Tutte le informazioni su di lei mi appaiono ben visibili davanti agli occhi, come a fare da contorno alla sua figura. 


Ecco perché sono qui. 


Da quando è iniziata la guerra tra le fazioni i nuovi esperimenti proliferano giorno dopo giorno e le cavie sono sempre ben pagate. Per la maggior parte si tratta di ragazzini orfani come me, o di chi ha già perso tutto e non sa più come continuare a vivere. Un’atrocità senza mezzi termini, ma non avevo altra scelta. Quei soldi mi servono più di qualsiasi altra cosa. Devo tornare a casa, devo tornare da Kyle e portargli le medicine di cui ha bisogno. 


“Sto bene”, sussurro sforzandomi di sembrare il più tranquilla possibile. 


Tento di scendere dal lettino, ho tutti gli arti ancora indolenziti e anche solo mettermi seduta mi costa fatica. 


“Con calma, l’anestesia è ancora in circolo.  Il dottor Zukev verrà a visitarti a breve”. Uhm a breve, non ho tutto questo tempo da perdere.


“Ce la faccio, devo andare”, dico riprendendo il controllo quantomeno della mia voce. 


L’espressione sul viso dell’infermiera si fa improvvisamente cupa mentre tenta di porgermi un bicchiere d’acqua: “Oh, mi dispiace, ma non posso lasciarti andare. Sarà il dottore a dirlo, non ci vorrà molto”. 


L’espressione di delusione sul mio viso è evidente, accetto il bicchiere d’acqua ma non ho intenzione di rimanere a lungo. Arrivati a questo punto presumo che anche il mio pagamento sarà a carico del dottore. 


Potevo farmi esportare un rene, impiantare tessuti animali o persino sputare fuoco secondo tutti gli annunci che ho preso in considerazione. Ma il trapianto di cornea era quello più redditizio, come delle speciali lenti a contatto che non si tolgono mai. Un archivio nazionale vivente, o meglio, una raccolta di cartelle cliniche vivente. Insomma, un vero e proprio mix delle due cose. 


“Non si spegne mai?” chiedo, mentre cerco di non fare troppo caso alle scritte che mi affollano la testa. 


“Sbatti due volte le palpebre per spegnerlo, una per accenderlo”, dice una figura che ha appena fatto il suo ingresso nella stanza. Non ho più bisogno di chiedere per sapere con chi sto parlando. 


“Com’è andata l’operazione?”, chiede il dottor Zukev mentre si aggiusta la spessa montatura che porta sopra al naso. 


“Molto bene, il sistema sembra funzionare alla perfezione”, gli risponde l’infermiera con un’aria fin troppo entusiasta. 


“Oh, ottimo” annuncia, mentre mi punta contro delle lucine colorate per controllare il successo del suo lavoro. 


“Ora posso andare?” chiedo, aspettando una risposta prima di provare finalmente ad alzarmi.


“Non vedo perché no” mi risponde, tirando fuori da un cassetto alcune pastiglie “prendi una di queste tutte le sere per almeno una settimana, ci vediamo tra quindici giorni”.


“Quindici giorni?”, non era nei programmi.


Mi mette in mano le pastiglie, un foglio da compilare e mi tira su dal lettino con una forza che non pensavo potesse possedere. “Sì, per la visita e il pagamento”.


La mia espressione confusa sembra non stupirlo affatto. “Sull’annuncio c’era scritto pagamento immediato”, ribatto con l’aria di una che si sta decisamente arrabbiando. 


“Una volta finito l’esperimento” annuisce “la fase di sperimentazione dura quindici giorni”. 


Non riesco a crederci, mi sono fatta fregare.


“Ma quei soldi mi servono”, ribadisco.


“E li avrai” dichiara, spingendomi fuori dalla sala con una pacca sulla spalla. “Annota tutto quello che non va sul foglio”, gli sento dire mentre la porta si chiude con un tonfo. 


Percorro un lungo corridoio dall’aria austera, con pareti grigie e frecce lampeggianti che indicano la direzione da seguire. Mi portano direttamente a una porta di servizio che si apre su di un cortile maleodorante, d’altronde è questa la strada che seguono coloro che si ritrovano in strutture del genere. Lì fuori la guerra dilaga, le malattie stanno colpendo chiunque e trovare da mangiare è sempre più difficile. In tasca ho ancora i dieci dollari che ho sottratto a un mendicante in fin di vita poco prima di entrare in questo posto, dovranno bastarmi per racimolare una parte di quello che mi serve al mercato nero. Non esiste più pietà o misericordia tra queste strade. Vince la legge del più forte, o tu o loro. Uccidi o vieni ucciso, mangi o vieni mangiato, sopravvivi o qualcuno lo farà al posto tuo. Io devo farlo per entrambi, per me e per Kyle, siamo troppo giovani per morire in questo posto. La svista che ho preso con l’esperimento ci ha dimezzato il tempo, quindici giorni potrebbero non bastare più. 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Sotterranei ***


Questo posto non ha più un nome, è il residuo di quella che un tempo chiamavano terra. Le risorse si sono esaurite anni fa e quelle alimentari non sono più organiche ma chimiche, i laboratori riproducono tutto ciò che ci occorre per tenerci in vita con le stesse sostanze che pian piano ci deteriorano i tessuti. La mortalità si aggira alla soglia media dei cinquant’anni e la povertà ha raggiunto il 90% in certe zone. È un pianeta di giovani perché si ha appena il tempo di diventare adulti, ma sono quelli che ancora rimangono a dettare le leggi. Anche le nazioni hanno fatto il loro corso per essere sostituite dai distretti: sei grandi aree che si spartiscono i territori a suon di granate. Ogni distretto è diviso a sua volta in tre divisioni, per un totale di diciotto micro-fazioni ognuna delle quali governata da un generale del rispettivo esercito. Non tutte le aree sono uguali, ognuno ha scelto di vivere in modo diverso in base ai propri principi e a quell’unica risorsa che gli è toccata nella spartizione iniziale. Ogni distretto è chiamato per numero da 1 a 6 per importanza decrescente e le divisioni all’interno di ogni distretto si suddividono sempre in Alfa, Beta e Omega. 

Non è difficile intuire i due punti della piramide: Distretto 1, Divisione Alfa – Distretto 6, Divisione Omega. E, per ironia della sorte, quell’ultima ruota del carro è esattamente la visuale che scorgo davanti a me in questo preciso momento. Qui sono relegati i progetti non abbastanza validi, quelli a cui non si può dire di no ma sui quali non vorrebbero scommettere nemmeno un centesimo. Impacchettati e spediti nell’ultima delle fosse, dove chi non riesce a sopravvivere farebbe di tutto per un minimo di speranza. Poco importa dove sei nato o quali sono le tue condizioni, se hai denaro arrivi in cima. Ma, al contrario, se sei orfano o non hai un lavoro abbastanza redditizio questo è il posto in cui ti ritrovi. 

Le prime luci della sera iniziano a intravedersi striando il cielo di rosso, manca ancora un’ora al suono delle campane.

Scendo a due a due i gradini del viale principale – devo fare in fretta – e mi dileguo tra i vicoli dove risiede chi probabilmente non arriverà a vedere un’altra alba. Quando busso al portone che mi ritrovo davanti devo aspettare qualche minuto prima di ricevere risposta. Quasi mi tremano le gambe, sarà il freddo che si insinua nelle ossa. Il piccolo spiraglio che si apre è abbastanza per lasciarmici sgattaiolare attraverso, non mangio qualcosa di sostanzioso ormai da giorni. 

“Non ti avevo detto di non farti vedere prima di tre giorni? I documenti non sono ancora pronti”, madama Gus mi canzona in modo severo. È lei a occuparsi del mercato nero, un soldato semplice che fa quel che può per aiutare chi ne ha più bisogno. Non a titolo gratuito ovviamente, ma pagare lei è sempre più conveniente che racimolare qualsiasi cosa altrove. 

“Non posso ancora permettermeli quelli, mi servono gli antibiotici”, commento. 

“Hai cambiato idea?” mi chiede, consapevole che per un prezzo del genere c’è un solo posto in cui puoi recarti. 

“No”, ammetto “ci vorrà solo più tempo”.

“Ti hanno fregata quindi” dice, mentre tira fuori la confezione di antibiotici di cui ho bisogno. Il mio silenzio basta a far capire tutto. “Sono sette dollari”, annuncia porgendomi l’involucro che devo nascondere dentro al maglione di un materiale che è tutto tranne che lana.

“Stai attenta, non c’è molto tempo”, mi ripete mentre vado via con un tono più deciso del solito. 

“Non c’è mai stato”, le sussurro senza sapere se mi sta ancora ascoltando. 

Il campanile della piazza principale segna le 19:30, mi rimane ancora mezz’ora per ritornare agli alloggi. Tutti gli orfani fino ai diciassette anni hanno diritto a una branda in una delle camerate comuni, il resto delle stanze è per chiunque possa permettersi una quota minima a ogni luna piena. Per tutti vale la regola delle dodici ore: dodici dentro e dodici fuori. Se non rientri entro i rintocchi delle campane non hai più possibilità d’entrata e lì fuori in piena notte non sai mai cosa potrebbe capitarti, pochi sono quelli vissuti tanto a lungo da poterlo raccontare. Girano certe leggende per spaventare i bambini, ma anche i più grandi non hanno il coraggio di accertarsene di persona. È meglio non rischiare di notte quando vi è già il giorno a essere pieno d’insidie. 

Mi faccio largo tra la gente in fila per entrare e sgattaiolo lungo i tunnel di questo posto che non mi piace chiamare casa, un ammasso di ferraglie sotterranee in cui ogni angolo il tuo riflette il tuo stesso viso. È difficile dimenticarti chi sei qui dentro, ma non impossibile. Molti di noi non l’hanno neanche mai saputo, si sono dati un nome e un’età da soli, si sono inventati la propria storia. 

Per me, il nome è l’unica cosa che ancora mi lega al passato. 

Per la prima volta dopo due giorni mi guardo di nuovo allo specchio: i capelli raccolti in una coda scombinata con un taglio fatto da una ragazza molto più piccola di me in cambio di qualche caramella, il viso sporco di fuliggine per i fumi della superficie, le labbra sottili e spaccate per il freddo. E gli occhi, gli stessi occhi nocciola di Kyle, che adesso sembrano un profondo pozzo nero. 

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Capitolo 3
*** Vieni con me ***


“Si può sapere cos’hai?”, la voce di Wynona mi riporta alla realtà. Che ore sono? Per quanto tempo sono rimasta a fissare il vuoto? La colazione che staziona sul piatto davanti a me è sempre la stessa: uova e latte, per le prime preferisco non chiedere da dove provengano, mentre il secondo è un ottimo composto di polvere e acqua calda. Kyle sta ancora dormendo, grazie agli antibiotici recuperati da Madama Gus la febbre è scesa notevolmente, se tutto va bene dovrebbe riprendersi entro qualche giorno. So che non è una soluzione definitiva, ma basteranno ad alleviare i dolori per un paio di settimane.

“Nulla, perché dovrei avere qualcosa”, dico. Io e Wynona ci conosciamo da almeno tre anni, è stata la prima a mostrarsi amichevole quando siamo arrivati qui e nonostante questo cerco sempre di guardarmi le spalle anche da lei. Non sai mai di chi puoi fidarti fino alla fine. Tre anni sono bastati a farmi capire come funzionano le cose in questo posto, non si può mai abbassare la guardia se si vuole rimanere vivi.

“È che mi sembri strana”, mi dice. Prima era diverso, non dovevamo preoccuparci di nulla e non solo per l’età. Io e Kyle non siamo nati da queste parti, abbiamo avuto il privilegio di godere di agi che molti non hanno mai nemmeno immaginato, sembrava tutto perfetto. Sembrava, appunto. Ma è qui che finiscono gli orfani, dove chi ha perso tutto non può più avere nulla. Quando stai ai piani alti la scalata è un gioco, si fa a gara a chi riesce a ottenere di più; ma in un posto come questo non si può giocare, si fa appena in tempo a raggiungere la fine della giornata sani e salvi. Da qui è difficile arrivare in un altro distretto o in un’altra divisione, sono pochi quelli che ci riescono e ancora di meno quelli che ci provano.

“Strana come? Noti qualcosa di diverso?” dico, guardandola di proposito negli occhi. Quando mi guardo allo specchio non sono più io, ma tutto intorno a me nessuno sembra accorgersene. Possibile che io mi stia immaginando tutto? Possibile che realmente nessuno se ne sia ancora accorto?

“No, non in quel senso. Sei più…uhm… pensierosa ecco! Hai messo il sale nel latte invece dello zucchero”, risponde lei. No, no, no. Non lo vede. Forse sto impazzendo ed è tutto un effetto collaterale dell’operazione. Qualsiasi cosa sia non posso permettermi di perdere la testa.

“Oh, questo” alzo le spalle, picchiettando con le dita sulla boccetta del sale “devo essermi confusa”, ammetto. In effetti non ci avevo davvero fatto caso, tanto da trangugiare tutto il contenuto del bicchiere senza accorgermi di nulla. Forse perché ho troppi pensieri per la testa, forse perché quando stai morendo di fame poco importa cosa metti nello stomaco se ti consente di arrivare al giorno successivo.

Quando sento il suo della prima campana tiro un sospiro di sollievo, altre dodici ore hanno inizio. Lì fuori non ho veramente qualcosa da fare, le ore passano alla ricerca vaga di qualcosa, di solito un paio di spiccioli per un lavoro occasionale. A volte al mercato c’è bisogno di manodopera in più o qualche volontario per smontare le attrezzature delle fabbriche, sono i lavori più redditizi e non vi è molta altra scelta se non ci si vuole ritrovare a seppellire cadaveri. Gli scienziati vanno e vengono almeno ogni due settimane e tutte le volte portano con loro una quantità innumerevole di attrezzature che alla fine abbandonano alla propria sorte quando quello che doveva essere l’esperimento del secolo fallisce miseramente. A quel punto la zona va pulita e sgomberata in attesa del nuovo genio di turno. Sappiamo tutti che nulla di tutto ciò funzionerà, ma noi forniamo lo spazio e loro portano i soldi. Beh, lo spazio gli spetterebbe a prescindere ma far finta che si tratti di uno scambio reciproco è l’ultima cosa che tieni in piedi la divisione. È l’unico motivo per quale ci dimentichiamo che ognuno di noi è una cavia da laboratorio. In giro non si dice, ma tra quelli rimasti solo i più piccoli non si sono mai sottoposti a qualche intervento. A loro ci pensa chi può, fin quando possibile.

Anche oggi è una di quelle giornate in cui le fabbriche sono ancora piene e il mercato è già stato rifornito. La colazione si è portata via uno dei tre dollari avanzati dalle medicine e quelli che restano dovrò conservarli con cura, potrei averne bisogno prima del passare dei successivi quindici giorni. Il tempo qui è una costante instabile, ce n’è sempre troppo poco e non sai mai fin quando potrebbe durare.

“Cercano qualcuno alla vecchia fossa”, mi dice Wynona. Ogni martedì facciamo il giro della divisione insieme, a volte due è meglio di uno.

“Non si respira lì dentro”, le rispondo. Quella è l’ultima spiaggia, ancora peggio di farsi impiantare addosso meccanismi che probabilmente ti friggeranno il cervello. Il tanfo di morte ti si appiccica addosso e non va più via per giorni. Solo i più disperati accettano una cosa del genere, per non finirci dentro in un’altra versione.

“A me non rimane niente” dice, tormentandosi una guancia col palmo della mano. Anche lei ha una sorella più piccola, Mad, che ha solo nove anni e lei come unica costante di sopravvivenza. So cosa significa, andare avanti così è difficile il doppio.

“Ci vuoi andare?”, le chiedo. Penso di sapere già quale sarà la sua risposta. Ci forniscono un posto dove ripararci durante la notte ma riuscire a rimanere in vita è compito nostro, non vi sono abbastanza provviste per fornire a tutti un pasto gratuito. Succede raramente, ogni due venerdì, e non è mai all’altezza delle aspettative.

“Solo se vieni con me”, mi risponde


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Capitolo 4
*** La fossa ***


La fossa è l'area più a sud dell'ultima divisione, dove anche i prefabbricati sono rari e quasi inesistenti. In questa zona della periferia nessuno si avvicina ben volentieri, a tal punto che l'unico mezzo disponibile è un vecchio bus pieno di senzatetto e malviventi. D'altronde, chi va in quelle zone non si spaventa per così poco.

"Che puzza", esclama Wynona. Si sposta verso di me per evitare il barbone con i pantaloni zuppi che le è appena passato accanto, così finiamo entrambe spiaccicate contro il finestrino dell'autobus.

"Questo è l'ultimo dei nostri problemi", le dico. Sono costretta anche io a trattenere il respiro, il fetore mi mozza il fiato ma non vi sono altre opzioni.

Dall'altra parte del bus sento lo sguardo fisso di un uomo sulla quarantina, porta la barba incolta e un grosso coltello alla cintura. Normalmente non passerebbe i controlli delle guardie ma all'autista interessa solo arrivare a destinazione, non importa come o con chi. Essere armati è un privilegio per pochi, i controlli sono severi ma anche l'arma più piccola potrebbe salvarti la vita in qualsiasi occasione. La tentazione di possederne una mi è stata vicina in più occasioni ma il buon senso ha sempre avuto la meglio.

Il bus arriva a destinazione ed è ancora presto per riuscire a respirare di nuovo, al contrario di quanto si possa pensare la gente non si accalca per uscire da quella ferraglia. Con un impeto di coraggio Wynona mi afferrare il polso e si fa strada lungo il corridoio che ci porta all'uscita, le uniche porte aperte sono quelle accanto al conducente. Mentre stiamo già pregustando l'imminente boccata d'aria fresca noto per l'ennesima volta lo sguardo di quell'uomo su di noi, col suo corpo intralcia l'uscita e ci tocca tuffarci dentro uno spazio ristretto; sento la sua mano su una delle mie natiche e in men che non si dica siamo entrambe coi piedi sull'asfalto, con un odore terribile addosso e un coltello stretto nella mia tasca.

Arrivate a questo punto ci separa un solo chilometro dalla fossa, la strada va percorsa a piedi e tornare indietro è ormai impensabile significherebbe perdere un'intera giornata e restare a mani vuote. Percorriamo l'ultimo tratto in rigoroso silenzio, nessuna di noi due sa esattamente cosa dire. Non è la prima volta che ci ritroviamo in una situazione pericolosa eppure prima d'ora non eravamo mai arrivate a questo punto, le piccole risorse della città ci hanno sempre garantito il minimo indispensabile e anche l'intervento doveva servire a evitare questa situazione. 

Un anziano dall'aspetto deperito è seduto su di una seggiola davanti l'entrata, un cancello in ferro battuto che potrebbe essere scavalcato facilmente da chiunque, ma poco importa dato che non vi è nulla di prezioso lì dentro. Solo morte. 

"Ci sono posti?", chiedo. Attendendo una risposta che sembra non arrivare. 

Dopo due minuti buoni sembra accorgersi finalmente della nostra presenza, ci squadra dalla testa ai piedi e sospira: "Non è un lavoro per dei mocciosi questo".

"La prego, ne abbiamo bisogno. Non se ne pentirà", ribatte Wynona. Ha sulla faccia un'espressione decisa, di quelle che dicono che non cambierà di certo idea finché non ci faranno entrare. 

Sembra accorgersene anche lui, si fa da parte facendoci segno di passare. "Seguite il sentiero e non toccate nulla". 

Ci inoltriamo oltre il cancello quasi immediatamente, come se fosse qualcosa che non vedevamo davvero l'ora di fare. Che stupidaggine. Il tanfo è sempre più persistente, nulla a che vedere con l'odore sgradevole del bus, è puzza di cadaveri in decomposizione. Quello alla fossa è un lavoro ben retribuito ma talmente disgustoso che a volte i cadaveri restano accatastati per settimane in attesa di volontari. 

Alla fine del sentiero la visione che ci ritroviamo davanti è talmente stomachevole che devo riuscire a trattenermi per sedare i conati di vomito. Enormi montagne di cadaveri sono ammucchiate in un'immensa area, non ho mai visto così tanti corpi in città durante i giorni di pasto gratuiti. Da dove provengono? Solo da questo distretto o anche da altre parti? In fondo si intravede un grande inceneritore che sbuffa una nube di fumo nero, pronto a spazzare via ogni traccia di questa esistenza. 

"Volontari?", ci chiede una donna che si sta avvicinando verso di noi con quella che è palesemente una domanda retorica. In men che non si dica ci ha già spinto contro un mazzo di targhette a testa con sopra una serie di numeri. "Andate all'inceneritore, li troverete Mike", ci dice in via definitiva. 

Arrivare all'inceneritore è molto più facile del previsto, le ''montagne umane'' sono disposte in modo tale da lasciare liberi dei piccoli sentieri. Mike è un ragazzo sulla trentina dagli occhi trasparenti come il ghiaccio e un cappellino azzurro con su una sigla che non ho mai visto prima: C.I.I.D.  "Finalmente degli aiutanti! Vedo che avete già le targhette, disfate le pile partendo dall'alto e attaccatele sulla destra", esordisce. Ha un'aria talmente allegra che mi destabilizza. 

"Le pile?", chiediamo in coro io e Wynona. Per un momento vi è un silenzio stranamente imbarazzante, poi i nostri occhi seguono meccanicamente il suo sguardo che si posa sulle montagne di cadaveri intorno a noi. Beh, giusto...quelle pile. 

"Finite le targhette e ritornate", ci dice come se fosse la cosa più semplice del mondo. 

Ci dividiamo il lavoro cercando di concentrarci sulla parte pratica della vicenda, Wynona si è offerta di salire in cima e gettare giù i corpi sui quali io attacco su le etichette in modo assolutamente casuale. Una parte di lei si sente in colpa per avermi convinta ad arrivare fin qui, un'altra parte sa che prima finiamo e prima riusciremo ad andare il più lontano possibile da questo posto.  Anche solo guardarli mi dà il voltastomaco. 

"La prossima volta che hai un'idea del genere ricordati ti tenertela per te", dico. In parte per smorzare la situazione e attutire quel silenzio che mi sta dando i brividi. 

"Larry si offenderebbe a non fare la tua conoscenza", mi risponde con una delle sue solite risate che mettono di buon umore.

"Larry?", chiedo interdetta. 

"Larry!", risponde scaraventando giù l'ennesimo corpo. È palesemente un ragazzo, indosso ha una maglietta rossa con su scritto "Larry's Pizza". Scoppio improvvisamente a ridere e vorrei poter davvero essere così spensierata perché è l'unico modo di esorcizzare la presenza della morte intorno a noi. O così, o come loro. 

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Capitolo 5
*** Mani sporche ***


Tanfo di morte e sudore, cenere e disprezzo nell’aria. La fuliggine che mi cade addosso lascia un leggero pizzicore sulla pelle scoperta, è il regalo che ci dona l’inceneritore sempre in funzione, qui non c’è tempo o possibilità per pensare alle norme di sicurezza. Mi ricorda un episodio di quando ero piccola; a scuola avevamo organizzato tutto secondo i minimi dettagli con apri fila e chiudi fila pronti a fare il loro lavoro in caso di pericolo, ogni tanto scattava un’esercitazione e allora seguivamo tutti un percorso ben preciso che terminava sempre con un caloroso applauso, segno che anche questa volta non vi era nulla di cui preoccuparsi. Avrei voluto riuscire a imparare di più quando mi era ancora concesso. Eppure, eppure l’illusione che certe cose non capiteranno mai ci fa rimandare tutto al giorno successivo con l’assurda consapevolezza che tanto ci sarà tempo per fare domani quello che vorremmo fare oggi.  

“Quanti ne mancano?”, chiede Wynona distogliendomi dai miei pensieri. Da quanto tempo sono bloccata così a fissare il vuoto? Non troppo considerando i tre corpi rimasti a terra senza etichetta.  

“Di questo passo almeno fino al resto dei nostri giorni”, le rispondo. Anche terminando il nostro lavoro si potrebbe benissimo continuare per anni senza mai arrivare alla fine dell’ultima pila.  

Ogni qualvolta etichettiamo l’ennesimo cadavere una ragazza e un ragazzo si danno il cambio per trasportarli su di una carriola malmessa, dritti verso i loro ultimi attimi in questa forma. Quello che ne resta viene trasportato via dal vento e adesso penso a quante volte, inconsapevolmente, queste ceneri ci hanno raggiunto nella zona abitata. Per chi ci vede da fuori questo è solo un immenso cimitero senza capo né fine. Ma qui non importa, molti non se ne rendono conto e probabilmente non lo sapranno mai, hanno cose più urgenti alle quali pensare come sopravvivere ad esempio.  

Quando sembra scorrere tutto a un ritmo naturale noto qualcosa che, per la prima volta dopo settimane, mi fa accapponare la pelle. Lo sguardo di quell’uomo su di me. Considerate le nostre condizioni e il tempo che sicuramente abbiamo già passato qui il bus deve aver completato nuovamente il giro. Ma perché scendere a questa fermata? Perché arrivare qua? A meno che non gli manchi qualcosa... che mossa stupida. Cosa fare adesso, restituirlo o scappare? Nessuna delle due opzioni prevede un bel lieto fine.  

Mi sposto il più possibile dietro la pila ancora abbastanza alta da sovrastarmi, come quando hai l’impressione che nascondendo una cosa alla tua vista sparirà improvvisamente anche il problema. Eppure, sfortunatamente, non funziona mai così.  

“Hai qualcosa che mi appartiene”, dice con un tono che fa ben chiarire che non si tratta di una domanda. Pensavo davvero di farla franca tranquillamente, saltare giù dal bus rubando un coltello e portamelo in giro? Tre anni qui non mi hanno ancora insegnato abbastanza.  

“Non so di cosa sta parlando” dico, infilando le targhette rimaste dentro la tasca solo per controllare che l’arma si trovi ancora lì.  

“Oh dolcezza” sussurra lui “sai benissimo di cosa sto parlando”. A ogni suo passo avanti io ne faccio istintivamente uno indietro senza accorgermi che in questo modo ci stiamo allontanando da Wynona.  

Da quant’è che non tremavo così e non pensavo davvero che qualcosa potesse ferirmi, inconsapevolmente abituata a districarmi in questa giungla di pericoli. I movimenti del mio corpo tradiscono lo sguardo che cerco di sostenere e deve essersene accorto perché in lui non vi è nessun cenno di tentennamento, sa ciò che fa e una ragazzina impaurita è forse l’ultimo dei suoi problemi. Scatto indietro appena due secondi prima d’intuire la sua ennesima mossa, non ha più voglia di restare a parlare. Le mani strette al collo mi lasciano a malapena respirare; sono esile, ma non così tanto da sopravvivere a questa situazione. Dalla mia gola non escono parole, potrei urlare per avvertire Wynona o chiunque altro dei pochi presenti, ma nulla. Per un attimo, uno solo, penso che forse la fine è veramente arrivata. Dimenarmi è inutile, il peso del suo corpo mi blocca a terra e i suoi occhi gridano vendetta prima di riprendersi ciò che gli appartiene, ma le mie mani sono agili e in men che non si dica faccio qualcosa che mi ero ripromessa di riuscire a evitare.  

Quando il suo corpo mi ricade addosso mi rendo realmente conto di avere il coltello ben saldo al polso, tra me e lui, ancora conficcato sul suo petto. Un rivolo di sangue gli scende dalla bocca riversandomisi sulla faccia e questa volta, pur facendo appello a tutta la buona volontà, devo scansare il suo corpo con tutte le forze che mi rimangono per ritrovarmi a rigurgitare i pasti degli ultimi due giorni. Le mani continuano a tremarmi e i succhi gastrici rimasti nello stomaco fanno a gara per venire fuori. Perché l’ho fatto inizio a domandarmi, perché non sono riuscita a trovare un’altra soluzione. Eppure, non è tanto diverso dal togliere a qualcuno l’ultimo boccone della propria esistenza, addirittura sembrerebbe più immediato e indolore. Se solo mi vedesse la vecchia me, si chiederebbe subito cosa abbiamo fatto di male per ridurci così.  

Uso un lembo della canottiera ormai sudicia per togliermi dal viso saliva e sangue, adesso devo rimediare all’irrimediabile. Striscio i palmi delle mani sul terreno per togliere via i residui di sangue che potrò lavare solo tra parecchie ore con quel misto di acqua e detriti disponibile ai rifugi, sempre meglio di niente.  

“Cos’è successo?”, la voce di Wynona arriva alle mie spalle. Ha lo sguardo atterrito e sconcertato mentre guarda la scena che le si presenta davanti. I miei occhi, invece, passano meticolosamente da lei all’arma del delitto. “Quando l’hai preso quello?”, mi chiede. È vero che a volte ci si capisce solo con uno sguardo.  

“Sul bus” ammetto “pensavo che avremmo potuto averne bisogno”.  

“Beh, è stato utile in effetti”, risponde lei. Non mi chiede come o perché, sa che i motivi potrebbero essere innumerevoli. “Lo lasciamo qui” dice, riacquistando tranquillità.  

In due dobbiamo comunque fare uno sforzo notevole per avvicinarlo il più possibile alla pila e ricoprirlo coi suoi compagni di sventura, il tempo che qualcuno arriverà a quel punto saranno già passati giorni o addirittura mesi. Il coltello, al contrario, ritorna stretto nella mia tasca. Non posso portarmelo dietro a lungo, ma questo non è il posto adatto in cui lasciarlo.  

Quello che è successo mi ha stremata, ma devo alla mia amica una giornata di lavoro e un favore bello grande; finire il nostro lavoro tanto da ricevere la paga è il minimo che possa fare. Venti dollari stropicciati a testa, potrebbero bastarci per settimane intere se razioniamo i pasti una volta ogni due giorni ed evitiamo le medicine finché non ve ne sarà estremamente bisogno. Potrebbero bastarmi per i prossimi quindici giorni, finché non arriverà finalmente il pagamento che mi devono. Sto già pagando un prezzo fin troppo caro per la mia sbadataggine.  

Il viaggio di ritorno sembra quasi una passeggiata, siamo parte di quella stessa puzza e ormai degli stessi peccati. Alla penultima fermata un’idea mi balena per la testa: “Scendiamo qui” dico, invertendo i ruoli e trascinandomi dietro Wynona. Un vicolo stretto e buio ci aspetta poco lontano, è un nascondiglio perfetto per un’arma che non deve essere trovata. All'angolo del marciapiede c’è una piccola insenatura dentro alla quale la lama entra perfettamente. Bingo! 

“In caso di necessità”, sospira Wynona.  

“In caso di necessità”, le faccio eco io.  

Ritornare ai rifugi è l’unica cosa che ci resta da fare e abbiamo ancora abbastanza tempo per percorrere la strada a piedi, una doccia e un pasto caldo saranno il nostro premio di consolazione. Ce li meritiamo, almeno oggi. Domani sarà di nuovo un’altra storia.  

Arrivate all’entrata sto già pregustando il sapore di una minestra calda dal contenuto sconosciuto che, per qualche assurda ragione, ha sul serio un sapore ben definito. Nessuno ha mai chiesto cosa c’è dentro e forse è meglio non saperlo. Per un momento il microchip – posto all’altezza del polso destro – fa un rumore insolito, e devo aspettare qualche minuto per capire cosa sta succedendo. Markus Kane è il nome che risulta sullo schermo, una, due, tre volte quando il chip passa sotto al lettore. Qualcosa, per istinto, mi dice di sbattere le palpebre due volte. Ed eccolo lì: Selena Veyr, anni 17, stato orfana.  

“Ci dev’essere stato un errore nel sistema, puoi andare”, mi dice una delle guardie prima di lasciarmi passare.  

Una volta arrivata di sotto la tentazione è più forte di me: ‘una volta per accendere e due per spegnere’ mi ripeto in testa, mentre mi vedo riflessa sulla lamiera che ricopre le pareti. Il volto è sempre il mio, sono io, male indicazioni che compaiono non mi appartengono. Eppure, non mi ci vuole molto per capire di chi si tratta. La foto sul fascicolo è in condizioni migliori, ma quel volto non lo dimenticherò ancora per molto tempo. Una cosa del genere non era tra le indicazioni che mi erano state consegnate dal medico, possibile che io ne sia in grado? E se non funzionasse solo con i morti? Potrebbe essere la mia via d’uscita da questo posto.  

 

 


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Capitolo 6
*** Il mercato ***


Il silenzio delle camerate è quasi surreale, sintomo della pace che si guadagna quando si spengono le luci. I rumori dall’esterno arrivano ovattati, qualche aereo ogni tanto e poche voci; quelli che restano fuori non hanno molto da dire e il loro unico pensiero è quello di riuscire – raramente – a sopravvivere. Qui dentro invece, se ti sei guadagnato un pasto con cui riempirti lo stomaco, non ti resta che godere di un meritato riposo. Al contrario, se sei stato meno fortunato i morsi della fame ti tengono sveglio fino a notte fonda. La mia pancia oggi è piena, ma i rimorsi hanno lo stesso effetto della fame. ‘Non si fanno certe cose signorina’, mi avrebbero sgridata i miei genitori in un’epoca che sembra non essere mai esistita. Anche i ricordi pian piano vanno affievolendosi sostituiti da quelli sempre più recenti, e non mi rimane che attaccarmici con la forza per non dimenticare da dove provengo. Come se ci fosse ancora speranza da qualche parte in questo posto. 

Gli aerei che passano sopra le nostre teste mi ricordano che è sempre il solito orario, circa le 04:30 del mattino. Ripenso da ore alle scelte discutibili che ho preso negli ultimi tre giorni, una di seguito all’altra in una scia che sembra non volersi arrestare. Potrebbero trovare il cadavere e ricollegarlo col mio errore di accesso di questa sera, ma ci vorranno giorni probabilmente prima che se ne rendano conto... per allora forse io e Kyle saremo già da un’altra parte. Potrei avere a disposizione dei documenti falsi se solo riuscissi a trasferire sul mio cip anche i dati di qualcuno attualmente in vita, non so ancora come ma potrebbe essere possibile. Per Kyle sarebbe diverso, ma procurarmi solo una copia di documenti al mercato nero è di certo meno dispendioso del previsto. Con le mosse giuste potremmo arrivare addirittura oltre le barriere. E se tornassimo a casa? Sono certa che ci sono ancora delle persone che ci stanno aspettando e si chiedono dove siamo finiti. Allora perché non riesco davvero a crederci, tormentata dall’idea che resteremo qui dentro per sempre.  

L’alba arriva in un batter d’occhio e con essa la prospettiva di un nuovo – instabile – giorno. Salto molto volentieri la colazione e so per certo che me ne pentirò nel giro di un paio d’ore, ma il mio stomaco è ancora troppo in subbuglio per accogliere roba non ben identificata. Così attendo lo scoccare delle campane fissando beatamente il vuoto. 

“Vuoi una caramella?” mi chiede una ragazzina dai capelli viola, con una minigonna e delle calze a rete che la fanno sembrare molto più grande dei suoi dodici anni. Di tutta risposta mi limito a scuotere la testa in segno negativo, non ho voglia di barattare quel che mi rimane per dei dolciumi. Stamattina non si vede in giro nemmeno Wynona, non dev’essere facile nemmeno per lei sopportare tutto quello che è successo ieri; sembra una tipa tosta, ma sono sicura nasconda molto più di quanto si possa pensare.  

Quando finalmente riesco ad arrivare in superficie il mio primo pensiero è quello di recarmi subito al mercato. I vicoli sono già affollati di gente che si reca velocemente a destinazione, non si perde tempo quando non se ne ha.  

“Vi serve manodopera?” chiedo, arrivata davanti a una bancarella che smercia frutta. 

“Non ci serve nessuno”, ribatte in modo scorbutico un uomo grassoccio.  

“Lavoro bene e non creo problemi”, dico di nuovo nel tentativo di convincerlo. 

“Ho detto di no!”, mi risponde in modo secco. 

Ingoio il rospo e mi dileguo, forse c’è ancora qualche speranza altrove. Il resto del giro non porta esiti positivi, il mercato è in pieno subbuglio eppure il lavoro non sembra essere più una cosa possibile. Gironzolare in giro in cerca di un passatempo è la migliore delle ipotesi in una giornata che sembra non aver destino. Superato il mercato i vicoli diventano sempre più scogniti e s’iniziato a intravedere le prime boutique pieni di oggetti di contrabbando venduti per un vero e proprio rene, insieme alle taverne che intrattengono gli ubriaconi in cerca di salvezza. Tra tutte quelle vetrine una colpisce particolarmente la mia attenzione: ‘Esoterismi e altri misteri’ vi è scritto su di un’insegna piuttosto sbiadita e impolverata. In bella mostra vi è una palla di cristallo dalle sfumature viola mentre una donna sulla trentina sta scalza sulla soglia dell’entrata, pronta per attirare qualche possibile cliente.  

“Tentare la fortuna è quel che ci vuole per una giovane con un bel futuro davanti” dice, con un tono molto pacato. I suoi occhi mi scrutano velocemente, soffermandosi sulla pelle ricoperta di fuliggine e i vestiti logori. 

“Non ho soldi da sprecare nei giochi d’azzardo” rispondo, mentre resto lì ad ammirare la vetrina cosparsa di brindoli luccicanti e stelline di cartone dorato. 

“Nessun gioco d’azzardo” ribatte lei, facendo tintinnare le monete che porta appese alle trecce dei capelli “la nostra dea fortuna legge solo la verità, e se questa non basta puoi sempre deliziarti con dell’ottimo idromele. Il primo bicchiere è gratis!” 

Sembra quasi leggere la curiosità lampante nei miei occhi e senza un cenno di assenzo mi avvolge le spalle con un braccio, il suo tocco delicato sembra indicare una carezza più che un invito forzato. “Vieni con me tesoro, ho qualcosa per te” mi sussurra a un orecchio, accompagnandomi oltre la soglia.  

L’odore di cannella e tabacco mi arriva all’improvviso, quasi più persistente del tanfo di morte, risalendomi su per le narici fino a farle bruciare. Credevo che il tabacco fosse una di quelle cose che non si trovano più neanche di contrabbando ormai da molto tempo... quando eravamo ancora a casa ricordo che in certe feste, di quelle importanti che capitavano raramente, gli adulti avevano il privilegio di fumare qualche sigaro discutendo di politica e affari; odiavo dover stare lì per molto tempo, ma ricordo tutto con una nostalgia che adesso mi è cara. 

“Ullallà chi abbiamo qui”, fischietta un ragazzo con un vistoso tatuaggio sul volto.  

“Non è roba per te” ribatte la donna, spingendomi poco più avanti per esortarmi a camminare. “Non ti ho neanche chiesto come ti chiami” continua poi, in modo più dolce. 

“Selena” rispondo, senza pensarci neanche un attimo.  

Mi duole la testa e sento il pavimento mancare sotto ai piedi. Il viso di quella donna, ora dall’aria preoccupata, mi guarda in modo confuso o forse è solo la mia percezione della realtà che va pian piano sgretolandosi. Tutto intorno il baccano mi avvolge e sembra assecondare la mia voglia di lasciarmi andare. Ho appena il tempo di sentirle pronunciare: “Io sono Roxy”, prima di afferrarmi a una delle maniche a sbuffo della sua camicetta e lasciarmi andare all’oblio.  


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Capitolo 7
*** Futura - prima parte ***


Brividi mi percorrono il corpo facendo largo a una strana sensazione di benessere, potrei aver dormito per ore. Impegno ancora qualche minuto per svegliarmi del tutto, così finalmente riesco a guardarmi intorno. L’arredamento è semplice: vi sono solo un armadio e una scrivania dall’aspetto piuttosto trasandato, le pareti a loro volta sono contornate a uno spesso alone di muffa soprattutto lungo i bordi del soffitto. Deve avermi portata qui quella strana donna quando mi sono sentita male – penso tra me e me – e solo adesso mi rendo davvero conto di dove mi trovo.

“Oh, merda!” esclamo, ma nessuno può realmente sentirmi.

Da quanto tempo sono qui? Non vi è neanche l’ombra di un orologio e ovviamente i cellulari non sono un lusso che possiamo più permetterci. La confusione e il caldo all’interno della locanda mi hanno sicuramente dato alla testa e in più non ho neanche un motivo valido per trovarmi qui, se non la mia implacabile curiosità.

Decido che è meglio alzarmi e dare un’occhiata in giro, devo capire se posso permettermi di uscire o se è già troppo tardi. Nonostante l’aspetto trasandato questo posto sembra di gran lunga più accogliente dei luoghi austeri e asettici in cui ho trascorso tutte le mie ultime notti. La maniglia della porta si abbassa subito e – stranamente – tiro un sospiro di sollievo... l’idea di poter essere prigioniera mi era già passata per la mente. Mi ritrovo subito su di un lungo corridoio piuttosto angusto, oltre la ringhiera alla mia sinistra arrivano le voci provenienti dal piano di sotto; se i miei calcoli non sono errati c’è ancora troppa confusione per essere già notte poiché dubito che così tante persone abbiano la possibilità di fermarsi qui nelle ore successive al suono delle sirene. Alla mia destra, invece, vi sono una serie di porte tutte uguali sulle quali al posto dei numeri si vedono ormai poco in evidenza i disegni di alcuni animali. Uno strano modo per contrassegnare le camere.

Mi dirigo a passo svelto verso la rampa di scale alla fine del corridoio convinta che uscire di qui sia la soluzione più pratica e veloce all’ennesimo disastro degli ultimi giorni, quando qualcosa cattura improvvisamente la mia attenzione. Da una delle porte semi-aperte si intravede l’interno di una camera dove un uomo girato di spalle è intento a rimettersi la camicia. Qualcosa in quel volto mi è familiare e ricordo di aver incrociato il suo sguardo giusto poco prima di perdere conoscenza. Il tatuaggio che porta impresso sul volto non lo fa di certo passare inosservato e devo sostare per qualche attimo davanti la soglia della porta per capire bene di cosa si tratta: un assurdo camaleonte dalle sfumature nere e violacee che parte dallo zigomo e termina all’angolo della bocca. Chissà che anche questo non sia l’ennesimo esperimento di qualche folle scienziato, d’altronde perché qualcuno dovrebbe scegliere di farsi qualcosa del genere di propria volontà.

“Non ti hanno mai detto che esiste una cosa chiamata privacy?”, lo sento pronunciare senza neanche bisogno che si giri a guardarmi.

“Di solito la gente chiude le porte” ribatto, tremendamente imbarazzata per essere stata colta sul fatto.

“Questo non ti dà il diritto di curiosarci dentro”, ribadisce.

“Non stavo curiosando” rispondo di scatto, senza neanche pensarci su.

“A me sembrava proprio tutto il contrario” dice, girandosi e lasciando intravedere ogni particolare del volto.

Di tutta risposta giro lo sguardo dall’altro lato, ancora appoggiata allo stipite della porta. Il rumore di passi su per le scale mi salva da quella strana situazione quando la donna di poco prima imbocca il corridoio, il suo sguardo si posa su di me e in men che non si dica me la ritrovo subito accanto. Questa volta mi basta solo, più astutamente, guardarla per sapere ogni cosa di lei.

“Come ti senti tesoro? Va meglio? Ci hai fatti preoccupare”, mi chiede.

Abbasso la testa in segno affermativo, ancora intontita.

“Sì, grazie”, è l’unica cosa che riesco a dire.

“Coraggio vieni a prendere qualcosa da bere, ti farà bene” dice, trascinandomi con sé al piano di sotto.

L’atmosfera è pressoché identica a quella precedente, ma questa volta scansiamo la folla per arrivare direttamente al bancone. Mi accomodo su di uno degli sgabelli stranamente non in pelle ma in velluto. Non ero mai stata in una vera locanda prima d’ora.

“Sidro di mele?” mi chiede, come se sapessi di cosa si tratta.

Acconsento, d’altronde non può davvero andare peggio di così. Il bicchiere che mi piazza davanti ha la forma di uno stivale e mi ci vuole tutta la buona volontà che posseggo per non scoppiare a ridere, eppure contro tutte le mie aspettative il contenuto al suo interno è davvero buono; il retrogusto è proprio quello di mele, ma con un tocco frizzante e molto dolce. Mi chiedo dove sono stata tutti questi anni senza scoprire mai certe cose. D'altronde, nella mia vecchia vita, una bevanda del genere sarebbe proprio considerata cosa per poveri.

“Vedo che ti piace”, dice Roxy.

“È davvero buono” le rispondo, con un’espressione soddisfatta sul volto.

“Ne sono contenta” dice, mentre continua indaffarata a servire tutti gli altri clienti.

A guardarla così dimostra appena una ventina d’anni e gli abiti che indossa le donerebbero di più se non fosse per la polvere che li ricopre, chissà se è lei la proprietaria o quali sacrifici deve fare per mantenersi quel posto... nella sua cartella non vi è nulla a riguardo.

“Posso chiederti che ore sono?” le chiedo, ricordandomi improvvisamente della cosa più importante.

“Le 15:30”, risponde.

Menomale, è passata solo mezza giornata e ho ancora diverse ore a disposizione.

“Ora devo andare in magazzino, ma tu resta pure. Se vuoi puoi farti leggere le carte, costa solo un dollaro e Talia non ne sbaglia mai una”, mi dice.

Resto un’altra buona mezz’ora a sorseggiare l’ultimo quarto del mio bicchiere, non credo di potermene permettere un altro e non sono ancora del tutto convinta di andare via. Quando il bicchiere è ormai finito mi pervade una sensazione di sconforto, forse è per questo che posti del genere sono sempre pieni... entrare è facile e uscirne troppo difficile. A tutti gli effetti anche l’idea di farmi leggere le carte non sembra poi così male, nonostante io non abbia mai creduto a questo genere di cose. Così mi ritrovo davanti l’ingresso di uno stanzino dove un buttafuori dal completo verde rappezzato scambia il mio dollaro con un gettone color bronzo, più una formalità che una vera necessità. Probabilmente la necessità di un gettone rende il tutto ancora più interessante anche se sappiano bene che a fine giornata l’unico valore effettivo sarà quello dei dollari guadagnati, compreso il mio che ne varrà del pranzo e della cena di oggi.

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Capitolo 8
*** Futura - seconda parte ***


“Uhm... sei combattuta. Vedo molte cose che ti danno il tormento, una decisione difficile forse”, dice la donna che mi ritrovo davanti. 

È agghindata con una bandana viola sul capo e delle monete di bronzo cucite sui bordi le ricadono sulla fronte, ha un trucco piuttosto vistoso il che è raro trattandosi di merce di contrabbando. Mi è capitato raramente di trovarne qualcuno al mercato nero, ma il loro costo è esorbitante anche per chi ha la fortuna di lavorare tutti i giorni. In un certo senso il suo aspetto le dona un non so che di superiorità, come se in questo modo le sue parole valgano di più. Per quanto mi riguarda mi limito ad annuire alle sue frasi sforzandomi di non perdere il filo del discorso. 

“Hai fatto qualcosa che non dovevi e adesso i sensi di colpa si stanno facendo sentire”, dice.  

Il modo in cui non sbatte minimamente le palpebre è quasi inquietante: “ma non c’è solo questo... vedo un’azione, una brutta azione di cui ti pentirai profondamente”. 

Quest'ultima frase mi scuote dal mio senso di pace apparente facendomi tirare indietro sulla sedia. Tutte sciocchezze mi ripeto, un dollaro sprecato. Smetto di dar corda a quella serie di stupidaggini che non possono avere niente a che fare con la mia vita, trascorrendo il resto del tempo a divagare tra i miei pensieri. Ogni tanto colgo qualche parola fugace o una premonizione di sventura.  

“Ti andrà bene in amore” mi dice, e questa è la conferma che si tratta solo di una marea di sciocchezze. 

Alla fine della seduta sono più innervosita che sollevata, mi limito a ringraziare con un finto sorriso stampato sulla faccia e uscire velocemente dal quel magazzino. È arrivato davvero il momento di lasciare questo posto, vorrei salutare Roxy e ringraziarla ma non riesco a trovarla da nessuna parte. Alla fine rinuncio semplicemente e mi dirigo fuori.  

La luce del sole mi costringere a sbattere le palpebre più volte, la differenza con l’interno è notevole. Mi ero quasi persa per arrivare qui e ora non mi rimane che continuare a vagare in cerca di una via conosciuta. Una pozzanghera riflette il mio volto che è sempre lo stesso negli ultimi tempi, eppure ho la certezza di non sentirmi più la stessa persona. Sono successe troppe cose in troppo poco tempo.  

Appena giro l’angolo dell’ennesimo vicolo Wynona mi è immediatamente davanti e devo fare uno sforzo immane per non prenderla in pieno, con pochi risultati.  

“Ai! Guarda dove vai!” esclama, prima di prendersi conto di chi ha davanti. 

“Scusami” le dico, massaggiandomi un fianco che ho appena sbattuto per terra. Ci diamo una mano a vicenda per rimetterci su, come sempre.  

“Dov’eri finita?”, mi chiede. Effettivamente questa mattina mi sono dileguata senza neanche perdere troppo tempo a cercarla, volevo così tanto trovare un lavoro per la giornata che ho affrettato decisamente i tempi. 

“Una storia lunga, non ho trovato nulla oggi”, sospiro. Di tutta risposta lei alza le spalle e mi guarda con aria compassionevole, segno che ancora per una volta ci troviamo sulla stessa barca. 

“Kyle come sta?” mi chiede all’improvviso mentre ci dirigiamo verso la meta conclusiva di questa giornata, è sempre molto affettuosa quando si tratta di lui. 

“Gli antibiotici stanno facendo effetto, dovrebbe stare meglio almeno per qualche settimana”, rispondo.  

Cerco sempre di fare il possibile, ma stargli lontana tutte queste ore non agevola la situazione; dovrei imparare ad andarmene di meno in giro e ad occuparmi di più di lui. Quando non ci siamo lui e Mad passano le giornate insieme, per i bambini ci sono delle camerate completamente vuote in cui sono ammassati mucchi di giocattoli prettamente rotti e malandati, ma a loro basta poco per vederli tornare sorridenti. A volte sono convinta che Kyle si ricordi ancora com’era vivere in un altro distretto, eppure non ne parla mai neanche per sbaglio. Non mi chiede dei nostri genitori o di tutti i nostri parenti, non racconta eventi passati, non dice mai che vuole tornare a casa... è un atteggiamento insolito per un bambino e ancora oggi non ho capito come interpretarlo. Ho provato a spronarlo diverse volte, ma tutti i miei tentativi sono andati vani. A un certo punto mi sono arresa all’idea che una parte di lui abbia accantonato il passato per fare spazio a questo insolito presente.  

“Non c’è una cura, vero?” chiede ancora, neanche a lei piace l’idea di vederlo stare male così spesso.  

“In un altro posto ci sarebbe” dico, ed è l’unica verità che conosco.  

La fila per entrare è sempre chilometrica anche ore prima della chiusura dei cancelli, ci tocca stazionare con fare nervoso attendendo lo scorrere delle persone che si accalcano imperterrite davanti a noi. C’è posto per tutti se siamo in orario, ma la gente ha comunque paura di poter rimanere fuori quasi più che morire di fame. Questa sera siamo entrambe troppo taciturne, eppure in ogni caso la confusione intorno a noi ci impedirebbe di affrontare tranquillamente qualsiasi dialogo. Adesso che mi ritrovo di nuovo qui i pensieri di stamattina sono sempre più incessanti. Se avessi davvero l’occasione di uscire da questo distretto attraverso quella piccola falla nel sistema? Potrei sfruttare chiunque o qualsiasi cosa e ritornare a casa in men che non si dica. Certo, con Kyle sarebbe tutto più difficile però potrei comunque trovare il modo. Mentre sono persa tra i miei pensieri mi accorgo che la folla mi ha praticamente trascinata all’entrata. Chissà, continuo a pensare... chissà se posso. Mi giro d’improvviso verso Wynona, quasi come a ricordarmi che c’è anche lei lì con me, ci guardiamo entrambe e per riflesso sbatto le palpebre tre volte. Giusto un attimo prima di venir spinta ulteriormente in avanti, è arrivato il mio turno. La prassi è sempre la stessa: braccio sotto al lettore e poi dentro. Mi accorgo appena che il momento indicato non è il mio e sono già stata catapultata oltre la soglia. Ma no, volevo solo provare, non l’ho fatto di proposito mi dico. Non succederà nulla. Uno, due, tre bip, il cip di Wynona non passa sotto allo scanner. La gente la sposta di lato e il suo nome mi esce smorzato in gola, per l’ennesima volta non riesco a gridare. Chi passa mi fa segno di proseguire oltre il tunnel, non posso rimanere a bloccare l’ingresso. Non posso neanche lasciarla lì fuori. Non posso neanche rimanere lì fuori.  


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Capitolo 9
*** Senza fiato ***


Rintocchi.  

Quattro rintocchi.  

Scandiscono il cigolio metallico dei cancelli che vengono chiusi, i catenacci ben saldi a confermare che non vi è più altra scelta. O dentro o fuori, e io sono dentro... e Wynona è fuori. Il mio sedere è ben piantato a terra e inizia a farmi male la schiena contro la parete metallica, ma non ho ancora trovato il coraggio di spostarmi dall’ingresso. Gli spintoni di quelli a cui ho intralciato il passaggio mi lasceranno i lividi per tutti i prossimi giorni. Poco importa, non vale abbastanza come castigo dopo tutto quello che è successo. Non ho neanche avuto il tempo di parlarle, chissà se ha capito che è tutta colpa mia; forse no, non mi sono fidata abbastanza da raccontarle quello che mi stava succedendo. Un segreto che potrei portarmi nella tomba di questo passo. Io sono quella al sicuro questa notte. Vorrei poter fare qualcosa eppure è tutto inutile. Non mi rimane che prendermi cura di Kyle e Mad sperando che le mie preghiere la conducano viva alla prossima alba. Non è stupida ed è già sopravvissuta a tantissime cose, ce la farà anche questa volta mi ripeto.  

Utilizzo tutte le forze che mi rimangono per tirarmi su, i corridoi a quest’ora sono deserti contando che saranno già tutti a procurarsi gli ultimi residui della cena o un posto comodo nelle camerate. Non so esattamente quanto sono stata ferma lì a terra a disperarmi inutilmente, ma suppongo che saranno passate al massimo un paio d’ore.  

Arrivata nella zona della mensa l’aria è fresca e piacevole, a prescindere da quanti gradi ci siano all’esterno qui si sta sempre bene. Non ci sono abbastanza materie prime per riuscire a utilizzare l’aria condizionata e i sistemi di ventilazione sono pressoché rudimentali, sarà anche per questo che ci troviamo sottoterra. Durante i primi tempi l’idea di star qui mi faceva sentire paranoica anche se non ho mai avuto problemi con i luoghi chiusi, riusciva comunque a darmi delle brutte sensazioni. Col tempo ci si abitua a tutto, questa come altre cose. Adesso non posso dire di sentirmi al sicuro, non vi è angolo di questo distretto in cui ho l’opportunità di poter abbassare la guardia; eppure, ci sono notti in cui gli incubi non tormentano i miei sogni tanto da lasciarmi dormire almeno un paio d’ore di fila.  

Le luci sono soffuse, il consumo di energia è ridotto al minimo. In giro non c’è nessuno e sto pensando di approfittarne per fare una doccia – anche congelata – per togliere via i pensieri più che lo sporco. Alla sporcizia ci sono abituata, ma questo peso che mi porto dietro è completamente nuovo. Respira Selena mi ripeto, niente panico. Gli spogliatoi che precedono le docce hanno a che fare con tutto tranne che con la privacy, ci sono giusto un paio di armadietti per riporre le proprie cose e i lucchetti sono spariti ormai troppo tempo fa. Non mi sono portata dietro neanche un asciugamano, poco importa, un raffreddore è l’ultimo dei miei pensieri.  

Lascio i vestiti nell’armadietto più vicino, se qualcuno dovesse avvicinarsi lo sentirei per tempo. L’acqua fredda mi riscuote, un brivido mi risale lungo la colonna vertebrale e ho l’istinto di contrarre i muscoli in cerca di calore. Eppure sembra avere il suo effetto, le gocce congelate che mi ricadono sulla testa affievoliscono i pensieri... che si concentrano su quella sensazione lasciandomi un attimo di pace. Sporcizia e sudore scorrono lungo il pavimento di piastrelle celesti, sarebbe più facile se si potessero lavare così anche i peccati. 

Quando ne ho abbastanza ritorno improvvisamente alla realtà, con l’acqua chiusa il freddo si fa sentire ancora di più e devo restare almeno qualche minuto immobile tra quelle pareti per asciugarmi spontaneamente. I vestiti mi si appiccicano addosso e pur avendo la fortuna di avere dei capelli molto sottili mi ci vuole un po’ per strizzare via tutta l’acqua.  

Il silenzio non aiuta.  

Così ritorno alla camerata e mi butto pesantemente sulla mia branda, bagnata e affranta. Anche stanotte gli incubi non mi lasciano tregua. Aspetto il sorgere del sole con il pensiero di andare a cercare Wynona. 

Odore di caffè e rugiada, sangue e salsedine. Un mare immenso intorno a me e io che affogo, l’acqua dentro ai polmoni che non mi lascia più respirare. Giù, sempre più giù. Mi si mozza il respiro. Sto solo sognando eppure non riesco a respirare. Spalanco gli occhi e mi rendo finalmente conto che non è solo un sogno. Una figura robusta mi blocca sul letto con le mani intorno al collo, mi dimeno come un pesce fuor d’acqua senza la possibilità di urlare. Il volto paonazzo, la paura intensa. Poi improvvisamente la presa si allenta.  

“La prossima volta non avrai una seconda possibilità, so cosa hai fatto”, mi sussurra quella figura che non riesco neanche a distinguere nel buio.  

Non riesco ancora a respirare, le mani che tremano e il cuore a mille. È andato via, ma io non me ne capacito.  

‘So cosa hai fatto’ mi ha detto, ma cosa? Quale dei miei tanti peccati non è più solo un segreto? Quale disastro ho davvero combinato? Qualsiasi cosa sia non possiamo più restare qui ad aspettare, non abbiamo più tempo per progettare un piano come si deve prima di metterlo in azione. E se sapesse quello che posso fare? Non avremmo più altra possibilità per andare via di qui.  

È arrivato il momento di agire.  

Non so ancora come, ma è ora.  


 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Sanguisughe ***


Sapore di ferro sulle labbra, sostituisce qualsiasi tipo di pasto e annienta il sonno arretrato. Il sangue che mi sgorga dalla bocca è minimo, me lo sono provocato mordendomi le guance per la paura e il dolore...un brutto vizio che ho sin da bambina. La notte è sembrata infinita, dolorosa, un incubo ad occhi aperti. Qualcuno sa. Cosa? Me lo sto chiedendo da ore. Non è impossibile che mi abbiano visto uccidere quell’uomo alla fossa o nascondere il suo coltello in un vicolo poco lontano da qui. La gente è ovunque e ha occhi da tutte le parti. Ma che sappiano ciò che ho fatto a Wynona...no, è praticamente impensabile. Eppure potrei anche non essere l’unica a saper fare qualcosa del genere, gli esperimenti sono tantissimi ed io non sono di certo speciale. Se fosse così sarei davvero nei guai seri. Qui non ci si può fidare di nessuno, neanche di me. Wynona si è fidata della sua amica con la quale condivideva ogni cosa, di me, e ora io sono ancora nella mia branda mentre lei è chissà dove là fuori.  

Siamo sotto terra e non vi è neanche la possibilità di poter intraveder la luce del sole per intuire che un nuovo giorno sta iniziando. Si sente il ticchettio di un vecchio orologio di quelli con le lancette, impostato da un vecchio che se lo portava sempre con sé come l’unico appiglio alla sua vita passata. Sfortunatamente quasi nessuno sa leggerlo, non abbiamo mai imparato. Quel rumore a tratti fastidioso e a tratti confortante non ci dice nulla. Eppure, se quel vecchio è ancora sveglio, ti dice volentieri l’orario in cambio di un po’ di compagnia. Questa volta sembra andarmi bene – finalmente - perché neanche lui ha più voglia di dormire. Dice che è colpa dell’età, un miracolo anche solo arrivarci.  

“Posso chiederle che ora è?” dico, avvicinandomi in punta di piedi come un felino.  

Il suo sguardo va dritto all’orologio: “le 05:43”, mi risponde.  

Sbuffo, istintivamente, affranta da questa notte che sembra non finire più.  

“È ancora presto perché non dormi, il sonno è importante”, dice di nuovo squadrandomi dalla testa ai piedi. È buio nella camerata, eppure col passare degli anni la nostra vista si sta abituando anche a questo.  

“Ci sono cose molto più importanti”, rispondo evitando di fornire qualsiasi tipo di dettaglio.  

La curiosità a volte è come la fame.  

“Tu sei piccola, cosa vuoi saperne delle cose importanti” dice, e probabilmente ha davvero ragione. Se non fosse per tutte le cose che ho già dovuto vedere, sentire, provare. 

“L’età è solo una costante instabile, ognuno ha la sua linea e non sai mai dove si posizionano gli eventi” rispondo, prima di congedarmi con un cenno della mano. Per lui non è tempo di dormire perché sta contando tutti i secondi che gli rimangono, per me non è tempo di dormire perché ho bisogno di sapere che non sta finendo così.  

Ho quasi paura di camminare per i corridoi, ma stare a letto è impensabile. Adesso neanche qui mi sento più al sicuro. Potrei soffocare di nuovo da un momento all’altro. Neanche Kyle è più al sicuro, potrebbero prendersela con lui per vendicarsi su di me. Aspetto solo il rintocco delle campane, poi troverò Wynona e risolverò tutto. Ce la devo fare. I documenti dovrebbero quasi essere pronti e mi spettano ancora i soldi dell’esperimento, non sono diventata questa specie di mostro per nulla. Ne deve valere la pena, non potrei mai accettare un errore così grande...non dopo tutto quello che mi ha portata a fare. Una vocina nella mia testa mi ripete “forse sei tu, sei tu che non vai bene”. Me lo sto chiedendo, se fosse solo una scusa per far uscire una parte di me che tenevo nascosta da sempre. Una parte cattiva e senza scrupoli. Una parte che non avevo il coraggio di accettare.  

Sono piazzata davanti i cancelli quando manca ancora più di mezz’ora all’apertura. Di solito nessuno ha tutta questa voglia di andare lì fuori e se non fosse per denaro e cibo resterebbero molto volentieri sottoterra. A volte chi non ce la fa più racimola quanto basta per pagare l’ultimo mese, poi si lascia morire di fame finché la puzza di cadavere intasa tutte le camerate. Con l’aria che non circola bisogna convivere col tanfo di morte per giorni. Da un verso aiuta, ti ricorda di fare qualcosa per non finire in quel modo.  

Lo scoccare delle campane mi libera da questa sensazione costante d’impotenza, mi sento finalmente fuori dalla gabbia che mi ha tenuta bloccata tutta la notte. Il mio primo pensiero è quello di correre immediatamente fuori e all’improvviso mi rendo conto che non so neanche dove andare, non abbiamo un altro posto sicuro o un rifugio in cui recarci in caso di emergenza. In effetti, non abbiamo mai pensato abbastanza a quest’eventualità. Ci siamo sempre limitate a tornare in orario perché qualsiasi altra opzione era impensabile. Così inizio a vagare per i vicoli, faccio avanti e indietro per la zona un paio di volte e poi inizio a dirigermi verso il mercato, forse sotto i banconi lasciati per la notte si può trovare riparo. È ancora presto, ma sembra tutto tranquillo. Alle prime luci dell’alba saranno già passati a ripulire gli orrori della notte. In questo modo non sapremo mai cosa è successo.  

I banconi del mercato sono in parte sistemati dove si vende tutta quella merce che solo alcuni possono permettersi, perlopiù gli scienziati e tutti gli addetti ai laboratori. Nelle viuzze più scognite la puzza di pesce marzio è intenza e tutto è ancora da sistemare. È lì che m’inoltro nella speranza di non trovare nulla. L’acqua putrida ricopre l’asfalto e m’inzuppa gli anfibi che porto ai piedi, non è bastata la doccia di ieri a togliermi di dosso il marciume di questa città. Sto aggiungendo solo un altro strato.  

Mi chiedo quando andrà via tutto questo, forse mai. Ma è solo un attimo. Un attimo in cui i miei occhi guardano in basso a sinistra. Un attimo in cui il mio cervello va in tilt. Un attimo in cui i conati di vomito fanno a lotta con tutta la mia buona volontà. Un attimo in cui tutto va in pezzi. Il corpo pallido e in posizione fetale è ricoperto da sanguisughe, i segni dei lividi sono ben visibili dove alcune di esse si sono già staccate. Non mi serve avvicinarmi per capire che non vi è battito, forse ancora da prima che quegli esserini iniziassero il banchetto. Vorrei togliergliele di dosso ad una ad una e urlargli che quella non è la loro cena. Per un istante vorrei essere al posto suo. Senza ritorno, senza più via di scampo.  

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Capitolo 11
*** Sapore di sale ***


NB: Una parte di questo capitolo potrebbe non essere adatta ai minori di 14 anni, le scene non sono estremamente spinte o dettagliate, mi trovo comunque in dovere di comunicarvelo. Il capitolo può essere letto saltando quella parte segnalata da inizio e fine. 



Tutto è annebbiato davanti ai miei occhi mentre le lacrime mi bagnano il viso. D’improvviso mi ritrovo carponi a terra, nelle narici un tanfo che mi dà alla testa. Non importa quanti morti hai visto, non potrai mai abituartici. I palmi delle mie mani sono sporchi di fango, graffiano sull’asfalto e si confondono col sangue. Il volto di Wynona è quasi irriconoscibile, non mi sembrerebbe neanche lei se non la conoscessi bene. Il colorito pallido, le clavicole all’infuori, le unghie delle mani conficcate nella carne. Solo gli occhi, quelli, sono chiusi. Ringrazio per questo. Non sopporterei di vederli scrutarmi. Le pareti di questa città sanno quello che ho fatto. La morte sta ancora reclamando il mio nome.

Il tocco di una mano sulla mia spalla mi fa sussultare, destabilizzandomi da quella fase di shock.

“Se non ti togli da qui prenderai qualche malattia, i morti non resuscitano e ai vivi non è concessa grazia”, dice la figura alle mie spalle. Mi basta inclinare di poco la testa per riconoscere l’inchiostro nero che forma i tentacoli di una piovra sul suo collo. La mano sinistra si sposta dalla mia spalla e mi viene in soccorso incitandomi ad alzarmi. Vorrei poter restare qui, ma ha ragione. Lo devo anche a Mad che non ha più una sorella che si occuperà di lei. Il contatto con la sua pelle mi dà una leggera scossa, da quant’è che non tocco qualcuno di vivo? Troppo tempo. Ho dimenticato il profumo della pelle e il calore del contatto umano.

“Grazie” rispondo gentilmente, stringendo la sua mano per sollevarmi su. Un gesto del genere è raro più dell’oro di questi tempi.

Per la prima volta noto il colore dei suoi occhi, scuri come la notte; e la ruvidezza della sua pelle solcata da chissà quante cicatrici. Avrà circa un paio d’anni più di me, non troppi, ma abbastanza d’aver visto quanto si deve.

“Hai bisogno di riprenderti, ti offro un idromele” dice, avviandosi senza neanche aspettare che lo segua.

Non dovrei, eppure lo faccio...ancora con le ultime lacrime fresche sul volto.

La locanda è come l’avevo lasciata, già strapiena di gente. Questa volta però la confusione non mi dà alla testa. Al contrario sembra quasi confortante, riempie il vuoto e mi impedisce di ragionare. Il tanfo di poco prima viene sostituito dall’aroma del tabacco e dal sentore pungente dell’alcool.

“Roxy, due idromele!” dice lui, posando i soldi sul bancone e sedendosi su di uno sgabello.

Mi accomodo anche io sullo sgabello accanto, afferrando il boccale che mi scivola davanti. Roxy mi guarda insospettita, ma è troppo indaffarata per fermarsi a chiedermi qualcosa. Il primo sorso scende giù rinfrescandomi la gola, il sapore dell’alcool arriva solo alla fine. È più forte di quello di ieri o forse sono io che lo noto solo adesso. Senza neanche accorgermene ho già svuotato il boccale, la schiuma che risiede sul fondo. Due minuti dopo ne ho un altro tra le mani.

“Era tua sorella?” mi chiede, svuotando il suo secondo boccale.

“Un’amica” rispondo.

“Qui non ci sono amici” ribatte, ed è vero.

Lei mi considerava un’amica, io la consideravo un’amica, ed eccoci qui. Gli amici non stanno inermi a terra al posto tuo. Gli amici non brindano con gli sconosciuti per dimenticarsi di te.

“Fa meno male a un certo punto, ti ci abitui e conti quelli che restano” mi dice, rassegnato.

“Tu ne hai visti molti?” chiedo, con fin troppa curiosità.

“Più di quanti potresti contarne”, mi risponde.

“Non hai l’aria di uno così vecchio”

“Forse nessuno di noi due arriverà ad essere vecchio”

Mi soffermo a guardare la ciocca di capelli che gli ricade sul viso, coprendogli un occhio. Deve dargli fastidio poiché se la sposta di continuo. Il sapore dell’alcool ha preso possesso sul mio palato e la testa mi gira più del dovuto. Se dovessi dare un senso a questa sensazione direi che sono ubriaca, per la prima volta. Ho scelto quest’occasione per lasciarmi andare. Solo questa per mettere a tacere tutto il dolore. Non so bene cosa dico nei momenti successivi, le parole mi biascicano fuori dalla bocca. Anche camminare non è più la stessa cosa, sento le gambe molli e vorrei quasi lasciarmi fluttuare. Avrò urtato almeno un paio di persone, ho la maglietta ricoperta d’idromele e domani mi ritroverò con diversi lividi.


                                               - RED FLAG WARNING -

La sensazione è quella di sprofondare, il materasso è morbido e le lenzuola sono fresche. Tutto è ovattato e piacevole.

“Non dovevo darti da bere”, dice.

Devo girare lo sguardo per ricordarmi di non essere sola. Non so che aspetto ho, ma il suo viso è decisamente paonazzo per il troppo alcool. La camicia in parte sbottonata è madida di sudore, mi sorprende notare che sul petto non porta alcun tatuaggio. Le ciocche di capelli, che prima gli davano fastidio, adesso sono incollate al viso. Non ho mai pensato al mio aspetto, ma adesso, vorrei per un attimo potermi guardare allo specchio.

“È così che funziona no?” chiedo.

“No” ride, e quel suono riecheggia per la stanza “quando voglio quelle le pago”

“Vuoi pagare anche me?”

Sul volto ha un’aria spaesata, non si aspettava la mia risposta.

“Tu...vuoi?”, quasi balbetta.

“Non voglio essere pagata”, rispondo secca.

Guardo d’istinto il soffitto per distogliere lo sguardo, anche da ubriaca non mi sento del tutto senza freni.

“Non ne avevo intenzione”, ribatte.

Il sapore delle sue labbra mi coglie d’improvviso, sa di sudore e sale e nonostante questo risulta comunque piacevole. Non ho mai avuto il tempo per cose del genere, troppo impegnata a sopravvivere per dedicarmi ad altro. Nessuno svago, nessuna distrazione. Il peso del suo corpo mi schiaccia sul materasso che affonda sempre di più, dubito che riuscirà a reggerci ancora per molto. Le sue mani scorrono lungo le mie braccia per posarci sui fianchi. Mi sento un’impedita in questa situazione che non mi era mai appartenuta prima. Come ho visto fare solo nei film porto le mie mani sulla sua nuca e lascio che le mie gambe avvolgano il suo corpo, portandolo ancora più vicino a me. Quando inizio a sentire una protuberanza premere contro il mio addome sono già stordita dai suoi baci. Il calore del suo corpo, senza la barriera dei vestiti, mi brucia la pelle al contatto con la sua. Le impronte delle sue dita sono ben salde sulle mie cosce, le mie unghie infilzate sulla sua schiena. Una fitta di dolore mi pervade e ho di nuovo l’impulso di trafiggermi le labbra con i denti, ma questa volta mi lascio andare e tutto d’improvviso si placa. Non di morte, ma di vita.

Mi sembra di aver dormito giorni, forse settimane, non so se è qualcosa in queste stanze o l’effetto che portano con sé. I miei vestiti sono ancora sparsi per la stanza, vi è solo una coperta di lino ad avvolgermi. Il corpo di quello sconosciuto è ben disteso accanto al mio, una gamba gli pende giù dal letto e l’avambraccio si estende sopra il cuscino. I muscoli tesi ad afferrare una parte del lenzuolo che non arriva a coprirlo, fatica sprecata anche mentre dorme. La voglia di sgattaiolare via fa a botte col timore di affrontare qualsiasi tipo di conversazione adesso che sono sobria. Mi tiro su lasciando ricadere la coperta, non posso portarmela dietro per arrivare ai vestiti. Devo rinunciare al mio intimo, scomparso in chissà quale angolo di questa stanza, e adeguarmi ai pantaloni che adesso sfregano troppo. Sto arrotolando la maglietta nel verso giusto quando sento il calore di due mani stringermi i seni. Adesso che l’alcool ha finito il suo effetto le guance mi vanno a fuoco d’imbarazzo. Sento la sua risata vicino al mio orecchio, il respiro corto, prima di allontanarsi e recuperare i suoi vestiti. È la prima volta che mi ritrovo in una situazione del genere e la mia unica mossa è quella di temporeggiare abbastanza da vederlo avviarsi oltre la porta.

                                                         - STOP RED FLAG -


Le prime luci dell’alba si intravedono dalle finestre, siamo rimasti qui un’intera giornata. 24 ore volate in un soffio. Siamo entrambi seduti ai due angoli opposti del bancone: lui con un altro idromele, io con una colazione scondita che è pur sempre meglio di tutto quello che mi capita di mangiare di solito. Fa leggermente fresco, sarò io o le giornate fredde che si avvicinano...segnale che è giunta l’ora di andare via. Prima che questo posto inizi di nuovo a popolarsi sono già davanti l’uscita. Mi giro solo per un’ultima domanda, l’unica cosa che voglio sapere.

“Come ti chiamo?”, gli chiedo, quando giungo davanti a lui.

“Niko” mi risponde, continuando a sorseggiare dal suo boccale.

Un attimo dopo sono già oltre. 


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Capitolo 12
*** Giochiamo insieme ***


Quando la morte arriva ti attanaglia nelle sue viscere, lenta come una ninna nanna che ti culla nel sonno. Un soffio che ti gela la pelle e fa calare il silenzio. Ma quando resti non vi è posto in inferno o paradiso, solo il vuoto che rimane dove non vi è più niente. Ci vuole più coraggio a restare, guardare dove prima stava chi amavi e non trovare nulla. Sentire l'eco dei passi nel bel mezzo della giornata, ritrovarsi a pensare a gesti quotidiani e non poterli più fare, rifugiarsi nei sogni la notte. Hai avuto il tuo tempo e l'hai vissuto come meglio potevi, assecondando il tempo e il destino. Travolgendo d'amore le vite altrui.

"Cosa stai facendo" mi chiede Kyle, mentre sto riempiendo un borsone dei pochi averi che ci rimangono. Sta seduto a terra con le spalle appoggiate al muro e le ginocchia tirate su fino al petto, i riccioli castani gli ricadono sugli occhi e ha l'aria di uno che si è appena svegliato. È riuscito a fare un pasto decente con gli ultimi spiccioli che ci rimanevano, la sua felpa coi dinosauri sporca di salsa ne è la conferma.

"Andiamo a fare una gita", rispondo. Non saprei neanche come spiegare a un bambino di otto anni tutto quello che sta succedendo. È inevitabile renderlo anche solo in minima parte consapevole, non sono come sono riuscita a tenerlo nella sua bolla fino ad adesso, miracolo forse o fortuna, due parole che non si sentono mai da queste parti.

"Anche Wynona e Mad vengono con noi?", il volto gli si illumina di gioia. Sto tirando fuori alcune cose da sotto la branda di Wynona: utensili di prima necessità, un paio di vestiti, una vecchia foto che non mi appartiene... tutte cose che porteremo con noi.

"Solo Mad", riesco a malapena a pronunciare. Non c'è lo fatta a dirgli la verità. Avrei semplicemente potuto omettere qualcosa, ma non riesco ad ammettere che lei non ci sia più. 'Ha un impegno importante' o ' è stata chiamata per un lavoro', sono le uniche scuse valide.

"Davvero posso venire?", gli occhioni nocciola di Mad sono carichi di speranza l'unica cosa che questo posto non è ancora riuscito a uccidere. Anche lei è seduta nella stessa posizione di Kyle, con una maglietta altrettanto logora e i capelli arruffati identici a quelli della sorella.

"Certo che puoi, anzi devi!", le dico sedendomi a terra vicino a loro. Da questa visuale il mondo ha un'altra prospettiva. Mi appoggio con un gomito alla borsa di tela nera nella quale ho inserito tutte cose alla rinfusa, disordine e caos sono le mie parole chiave.

"Chi lo dirà alla mia sorellona quando ritorna?" , adesso i suoi occhi sono quasi languidi e un colpo al cuore mi spiazza.

"Non preoccuparti lei lo sa già e ha detto di divertirti e fare attenzione. Sarà come un gioco, una specie di missione segreta", così dicendo mi guardano entrambi stupiti. È più pericoloso di quanto sembri, non so neanche se riusciremo a uscire vivi da qui, eppure è l'unico modo che mi viene in mente per non spaventarli troppo.

"Si vince qualcosa?", Kyle è in piedi quasi euforico e devo fargli segnale di abbassare il tono della voce per non destare troppi sospetti. Andare via di solito è impensabile e non abbiamo un vero e proprio piano. Ho deciso tutto subito dopo la morte di Wynona e le ore successive non le ho esattamente passate a curarne i dettagli. Faremo quel che potremo.

"Un bellissimo regalo a sorpresa, ma non potete ancora sapere cosa. Inizieremo domani mattina. Ora però a lavare i denti e subito a letto, non vorrete essere troppo stanchi per giocare" dico, vedendoli correre contenti. Ho paura che questa felicità durerà davvero poco, probabilmente solo qualche altra ora.

Per tutta la notte non riesco a chiudere occhio nonostante sia tutto pronto per quella che probabilmente sarà la missione suicida del secolo. Mancano solo alcune piccole cose, ma ci penseremo direttamente domani. Questo posto non ci vedrà per più di un'altra notte. L'attesa del sorgere del sole è diventata ormai quasi un'abitudine, lenta e angosciante come sempre; non ricordo neanche più l'ultima volta che ho fatto una dormita come si deve, risvegliandomi appagata dal sonno. Esistono delle vitamine che aiutano a non dormire senza conseguenze ed ovviamente non posso permettermele, l'unica cosa che mi fa andare avanti in questo modo è la forza di volontà. Cambio i vestiti e faccio un'ultima doccia come buoni propositi per iniziare questa giornata.

"La prima parte della missione è molto semplice, ci servono delle pietre blu", mi accovaccio sulle ginocchia per arrivare all'altezza dei loro occhi. La piazza principale è piena di mattonelle blu talmente frastagliate da sembrare piccole pietruzze, uno stratagemma per far uscire i bambini a giocare. E così è, corrono veloci verso il punto designato. Mentre anche io mi dirigo verso l'uscita una guardia mi sbarra il percorso e sono costretta a spiegare che il contenuto della borsa è solo roba da vendere per guadagnare un po' di soldi, tentenna un attimo e poi mi lascia passare. Probabilmente deve solo fingere di fare bene il suo lavoro poiché a nessuno importa davvero se restiamo lì dentro. Per loro meno siamo e meglio è.

Alla fine siamo tutti fuori e appena Mad e Kyle hanno finito il loro fantomatico compito - raccogliendo più pietre del necessario - ci dirigiamo verso il quartier generale di Madama Gus. In poche parole, una sorta di ripostiglio per le scope all'interno del mercato nero. Di prima mattina sarà abbastanza affollato da non far destare sospetti, nessuno si ricorderà di noi.

"Eccoti qui" mi squadra dalla testa ai piedi " è arrivato il momento?", ha già capito tutto. Ci vorrebbero più persone come lei al mondo. Anche così, appoggiata allo stipite blu della porta che un giorno o l'altro verrà via. La cintura sfibbiata, troppo stretta in vita, tenta di racchiudere le sue forme. Una così potrebbe permettersi la qualsiasi eppure è ancora qui.

Annuisco: " puoi tenere i bambini? Vado a prendere i soldi che ti devo". Preferisco lasciarli qui con lei che rientrare nei sotterranei. Anche stare fuori a giocare è troppo pericoloso. In quest'era è meglio guardarsi le spalle un paio di volte.

Quando hai fretta sembra che le cose si intreccino in modo tale da costringerti a fermarti un attimo, come per testare quanto veramente sei disposto a completare quel compito. Così la strada per arrivare ai laboratori sembra più lunga del previsto, con deviazioni che non ricordavo di aver visto l'ultima volta che sono stata qui. A dir la verità non sono passati esattamente quindici giorni, ma ci siamo quasi. Le solite porte in metallo e le pareti grigie mi fanno venire la pelle d'oca, l'aria estremamente fredda poi - solo qui si possono permettere l'aria condizionata - non contribuisce a rendere il tutto piacevole. Mi ripeto che lo faccio per i bambini, per dare un futuro migliore anche a loro e andarcene di qua. Questa volta entro dal cancello principale e vi è una ragazzetta minuta ad attendermi alla reception... davvero strano, di solito i minorenni non vanno mai in trasferta in altri distretti.

"Ciao, come posso aiutarti?", il suo sorriso è davvero troppo smagliante per i miei gusti.

"Devo ritirare il mio compenso" le dico, appoggiando gli avambracci sul bancone. Si chiama Sally e ha 15 anni, distretto 2 divisione 3.

Controlla alcuni dati sul pc dopo avermi chiesto d'identificarmi attraverso il cip: "Hai portato il foglio da compilare?"

"Ehm, veramente no", dannazione me ne ero completamente dimenticata. Non ho più neanche la minima idea di dove sia finito quel foglio e spero che questo non crei ulteriori problemi.

"Fa nulla" esclama, porgendomi un altro foglio che ha tirato fuori da un degli armadietti dietro di lei "puoi compilarlo ora".

La prima parte comprende solo dati che già conoscono benissimo, ma che mi tocca inserire comunque. Le domande seguenti le compilo con velocità, senza darmi il tempo di rifletterci troppo a lungo:

* Emicranie? No
* Stanchezza? No
* Vista annebbiata? No
* Repentini cambiamenti d'umore? No
* Rabbia immotivata? No
* Allucinazioni? No
* Strani effetti collaterali non da programma? No

Su Selena, è andato tutto a meraviglia in questi giorni!

La ragazza di fronte a me si arrotola una ciocca di capelli color rosa pastello su di un dito, non sembra nervosa, piuttosto spazientita. Appena le porgo il foglio da subito un'occhiata veloce e lo inserisce nel database. Intorno c'è un silenzio tombale, forse il clamore di questo esperimento è finito e sono già passati tutti a quello successivo. Mi aspetto che mi chiamino per una visita o un controllo che probabilmente non passerò, invece nulla. Sally prende una buona da un cassetto e me la porge: "Tieni, questa è tua". Come, tutto qui? Bastava solo questo? Il terrore che mi ha tenuto compagnia fino a questo momento si affievolisce, di colpo mi sento sollevata. Questo vuol dire che non avranno modo di scoprire che il loro esperimento non è andato secondo i piani, o magari già lo sanno e non gliene importa.

"Grazie" sussurro appena, infilando la busta nella tasca interna della giacca. Meglio stare attenta e custodirla per bene, questi soldi ci servono per guadagnarci un'opportunità di fuga. Appena varco la soglia del cancello mi metto a correre per due isolati, non so bene neanche perché: nessuno mi sta inseguendo e non sono in pericolo, ma sento comunque la necessità di andare il più lontano possibile. Arrivo al mercato nero nel giro di quindici minuti quando all'andata c'era voluta almeno mezz'ora.

Madama Gus sta seduta su di uno sgabello a parlare con dei tizi mai visti, mi guarda con la coda dell'occhio e finisce il suo discorso. Appena se ne vanno mi precipito da lei con fin troppa foga, porgendole la busta. Il suo comportamento è meccanico, l'ha già fatto fin troppe volte: conta i soldi, mi consegna il resto ed estrae una cartella con dei documenti dalla carpetta che tiene nascosta dietro la porta. "State attenti", mi guarda con aria preoccupata. Sa che non dovremmo andare e che allo stesso tempo non abbiamo nessuna prospettiva qui.

"Ci guarderemo le spalle a vicenda" mento, quando in realtà sarò io a dover badare a tutti quanti. Non sono riuscita a combinare neanche qualcosa di buono ultimamente, non voglio nemmeno immaginare come andrà a finire.


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Capitolo 13
*** Fallimenti ***


La strada su cui posano i miei piedi è lastricata di brutte intenzioni. Fuori il sole sta calando, Madama Gus ci ha trattenuti più del previsto e muoverci a quest'ora è diventato troppo pericoloso. Bisognerà sostare per la notte e rimandare il nostro piano a domani mattina. Attendere così tanto mi fa essere nervosa, con la paura di poter vedere sfuggire tutto da un momento all'altro. Ritornare ai sotterranei sarebbe un'idea folle, siamo già riusciti a passarla liscia una volta e non possiamo permetterci di rischiare oltre. Neanche rimanere da Madama Gus è sicuro per la notte. I nostri passi ci portano verso la locanda di Roxy, con l'intento di affittare una camera grazie ai pochi risparmi rimasti.

Poche gocce iniziano a cadere sulle nostre teste quando siamo ormai quasi arrivati a destinazione, inzuppandoci i vestiti già malconci. Mi porto dietro una sacca nera che non è adatta a proteggere tutto quello che abbiamo, costringendomi a stringermela al petto per ripararla. I bambini, saltellando davanti a me, si divertono a infilarsi nelle pozzanghere. Poco importa se arriveranno fradici, la felicità è un lusso che bisogna cogliere al volo.

Le gocce scivolano sulle vetrine e il frastuono si percepisce già dall'esterno, in una serata come questa molti cercano riparo più del solito. Fuori è buio quando finalmente entriamo, percependo l'aroma di cibo caldo; non ero mai stata qui a quest'ora, sembra un posto più accogliente del solito. Per istinto tiro a me Kyle e Mad, costringendoli a tenermi la mano. Qui è quasi come sentirsi al sicuro, ma le persone che circolano non sono diventate improvvisamente benevole.

Roxy è al bancone come al solito, intenta a spillare idromele e birra. Mi avvicino quanto basta per farle un segno con la mano e il suo sorriso è rassicurante, prima di dirigere il suo sguardo verso le due piccole canaglie che mi stanno stretta addosso. Ora leggo compassione nei suoi occhi. Si allontana dal bancone lasciando il posto a un uomo dalla barba incolta: "Cosa ci fate qui?" sussurra appena, prendendomi la mano per spostarci verso un angolo della sala.

"Si è fatto tardi e non sapevo dove altro andare, ti pagherò una stanza". Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, mi ripeto. Da qui noto gli occhi della cartomante che mi scrutano, appoggiata con le spalle alla porta del suo sgabuzzino...ho le sue parole ancora fresche in mente.

"Va bene, venite". Il suo è un sospiro di sconfitta, di quelli che fanno le madri quando hanno altri piani per i loro figli.

L'ennesima stanza diversa: una cavalletta come stemma sulla porta, un letto matrimoniale che va benissimo per tutti e tre e le solite pareti che sanno di vecchio e umido. L'ultima volta che sono stata qui era troppo intontita e sopraffatta per notare qualsiasi altra cosa, ma ora percepisco il freddo della sera e gli spifferi che passano da tutte le parti.

"Che ci facciamo qui? Fa parte del gioco?, chiede Kyle. È diventato abbastanza grande da lanciarsi sul letto senza avere più bisogno del mio aiuto come facevamo un tempo.

"Certo che sì, è arrivato il momento di fare una pausa e riposare", tento di evitare il suo sguardo che è comunque impegnato a scrutare altrove.

"Quanto dura questo gioco?", chiede Mad. Sta appoggiata al bordo del materasso, quasi in bilico, con i muscoli tesi e la paura di rilassarsi.

"Solo un paio di giorni", m'invento una bugia dietro l'altra per arrampicarmi sugli specchi.

Ho pagato la stanza una fortuna e dobbiamo camminare in punta di piedi per il corridoio, solo per fare pipì e lavarci i denti senza mai lasciarci la mano. Le pareti dei bagni gocciolano liquido di vari colori e non voglio nemmeno sapere di cosa si tratta: urine e sangue sono la cosa che mi spaventa meno. Una tizia barbuta ci guarda in cagnesco mentre usciamo da quella latrina, un occhio su di noi e l'altro verso un punto indefinito. Quando finalmente riesco a metterli a letto, entrambi stretti sotto a una coperta che ha visto cose che è meglio dimenticare; sento ufficialmente il peso di questa giornata. Abbiamo un piano che non sta andando da nessuna parte e così poche ricorse che ci toccherà centellinare anche l'aria. Eppure, mentre li guardo dormire, mi sento in pace. Schiena contro schiena con i volti sereni, le zip delle felpe allacciate fino alla bocca e i cappucci a coprirgli le teste. La febbre che colpisce Kyle quattro giorni su sette non si fa vedere da un po' e temo ogni istante per una ricaduta. Gli ultimi antibiotici dovrebbero aiutarci almeno finché non riusciamo ad andare via. Sono due esserini minuscoli eppure hanno occupato l'intero letto, potrei svegliarli ma mi sento in colpa al solo pensiero. Così gli rimbocco le coperte per l'ennesima volta e decido che sì, è giunta l'ora di colmare le mie preoccupazioni con un ultimo boccale d'idromele.

Un paio di giorni e mi sembra già di conoscere questo posto più della casa che non ho. Ormai è giunto l'orario di chiusura e il baccano si è affievolito...sono pochi quelli che restano fuori la notte anche in posti come questo. L'ultima volta che sono stata qui non mi ero accorta nemmeno del calar del sole, solo ora mi rendo conto di quanto il silenzio della notte non lascia scampo per nessuno. I miei stivali logori mi portano direttamente al bancone, la maggior parte degli sgabelli sono ormai vuoti e Roxy non sembra indaffarata come al solito. Mi guarda solo per un istante: "Offre la casa". Allunga un boccale d'idromele che straborda da tutti i lati, metà va alle mie labbra e metà sulla mia maglietta.

"Ce ne vuole di coraggio per una come te", commenta ancora. Non le ho detto nulla, ma ho come l'impressione che sappia già tutto. A volte, gli addii si percepiscono senza bisogno di dire niente.

"C'è sempre così poca gente la notte?" non m'interra sul serio saperlo, ho solo bisogno di cambiare discorso.

"Tra un'ora ce ne sarà ancora meno, chiudiamo il portone e nessuno può più uscire fino al mattino dopo".

Probabilmente lo stupore sul mio volto è palese: "Non pensavo funzionasse come nei sotterranei".

"Non ci piace quel metodo, ma dobbiamo pur tutelarci anche qui. Dopo un certo orario non è più sicuro neanche per disperati e ubriaconi", mi spiega.

Non ha tutti i torti, per quanto insopportabili quei metodi rimangono i più sicuri. Eppure, non posso che pensare a tutte quelle persone che non ce l'hanno fatta a tornare in tempo.

"Non lo so dove vanno" mi dice, percependo i miei pensieri "ci sono dei rifugi abusivi e qualche altra locanda come questa".

"Rifugi abusi?" chiedo, d'istinto.

"Al mercato nero...porti merce di contrabbando o qualsiasi cosa gli possa interessare nella maggior parte dei casi hai un posto assicurato".

Quest'ultima frase mi colpisce più di tutto il resto.

"Forse puoi andare lì qualche volta se qui è troppo costoso" continua lei, nel vano tentativo di convincermi a non combinare danni.

Ma io non riesco più a smettere di pensare a quello che ha detto pochi attimi prima. C'è un rifugio abusivo e Madama Gus non mi ha mai detto della sua esistenza. Mi sento improvvisamente ferita e delusa. Non avrei avuto nulla da potergli offrire, ma perché non dirmelo. Mille pensieri mi vorticano in testa confondendosi con l'alcool.


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Capitolo 14
*** Strade maestre ***


Un pizzicore intermittente mi solletica il fianco, provo quasi a scacciarlo via...una mano sopra la testa che ricade a peso morto. Mi bastano due secondi per saltare in aria, mi ero appisolata sul bancone. Non so come sono arrivata a questo punto, a sembrare un'ubriacona di mezz'età che non ha altro di meglio da fare se non girare per le taverne. Invece sono ancora una ragazzina. O lo ero, non lo so dire più nemmeno io. Riprendermi da quello stato di torpore non è poi così difficile, la testa mi duole a malapena e riesco a pensare lucidamente.

"Buongiorno principessa" , Niko ha la testa inclinata per guardarmi meglio.

"Che ore sono?" chiedo, saltando in aria per l'ennesima volta.

"Le due del mattino", mi risponde con un ghigno stampato sulla faccia.

Un sospiro di sollievo mi percuote, per fortuna non è già mattina. Mi butto letteralmente giù dallo sgabello, le scale come mio unico obiettivo. Stropicciarmi gli occhi mi aiuta ad acquistare maggiore lucidità, fortuna che il trucco non è mai stato un lusso che posso permettermi. Quando stavamo bene a casa nostra ero ancora troppo piccola per conoscere certe cose. Avrei iniziato utilizzando quelli di mia mamma, come la matita nera e il rossetto rosa opaco che teneva sempre sopra il comò. Me la ricordo ancora con quella linea perfetta sopra agli occhi grigi e i capelli corvini sempre attaccati in uno chignon. Non mi avrebbe mai permesso di bere prima dei diciott'anni, si sarebbe fatta prendere per pazza piuttosto... e non avrebbe mai lasciato Kyle in giro con questo tempo, gli avrebbe rimboccato le coperte e sarebbe rimasta con lui tutta la notte.

"Da quanto sei qua?" continua, mentre mi segue su per le scale.

"Non sono affari tuoi" dico, precedendolo di un paio di passi. Da quand'è che siamo diventati amici? Non ricordo questo passaggio.

"Bene, più scorbutica del solito. Io sono appena arrivato".

Discutere è l'ultimo dei miei pensieri stanotte, motivo per cui continuo beatamente a camminare per il corridoio in direzione della mia stanza. Nessuno lo ha invitato a seguirmi, ma poco importa. Roxy ci ha dato una tra le ultime camere, teoricamente le più tranquille e anche le più distanti. Arrivati davanti la porta mi blocco all'improvviso.

"Non entriamo?" mi chiede, con una convinzione che gli strapperei dal volto.

"Sssh", faccio segno. In un'altra occasione gli avrei ribadito che quello che è successo l'altra sera è stato un caso eccezionale, ma non è questo il momento. La porta della stanza è stranamente socchiusa, ed io sono sicura di averla chiusa e controllata più volte prima di dirigermi di sotto. Faccio un piccolo passo avanti, la mano che trama nell'afferrare la maniglia, solo un sospiro e poi...la stanza è completamente a soqquadro. Il letto disfatto, il contenuto del borsone ovunque, e i bambini spariti.

"Si può sapere cosa diavolo stai cercando?" chiede, mentre cammino avanti e indietro per la stanza in pieno panico.

"I bambini" rispondo, cercando di rimettere insieme tutti i pensieri che mi affollano la testa.

"Quali bambini?", adesso la sua espressione è palesemente confusa.

"Mio fratello e la sua amica" sospiro, accasciandomi a gambe incrociate sul pavimento.

"Hai portato dei bambini qua? Ma sei seria?", sembra quasi più in panico di me.

"Non sapevo cosa altro fare, dovevamo andare via e si era fatto tardi...non potevamo restare là fuori. Sono stata attenta a tutto e ho persino chiuso la porta più volte", devo trattenermi per non far sgorgare fuori tutte le lacrime che possiedo.

"Pensavo avessi capito che in questo posto non esistono porte".

È una verità che avevo appreso quel primo giorno, quando lo vidi rivestirsi in quella stanza. Ero stata io a curiosare quella volta, eppure non ricordavo quanto fosse effettivamente facile entrare nelle camere altrui; quanto questo posto ti porti a pensare di poter avere l'esclusiva sulle vite che ti circondano. Perché non me lo ricordavo? Come ho fatto a essere così ingenua per l'ennesima volta? Come sto riuscendo a spezzare le vite di tutti quelli che amo?

"Faremo in modo di ritrovarli" alza le spalle, guardandosi in giro per la stanza.

Se potessi guardarmi in questo momento mi vedrei con gli occhi di fuori per l'incredulità, e lui se ne accorge poiché si abbassa alla mia altezza per richiudermi la bocca che tengo ancora spalancata: "Non chiedermi perché lo faccio, non saprei risponderti...ma se posso darti un consiglio, accetta prima che sia troppo tardi". Avrei un milione di domande da fargli e le tengo tutte per me. Accetto il suo aiuto in modo silenzioso, senza controbattere a nulla di quello che ha detto. Semplicemente mi rialzo cercando qualsiasi cosa possa esserci d'aiuto. Le sue domande sono brevi e concise, tutto quello che può davvero aiutarci a trovare una causa. Come si chiamano, quanti anni  hanno, un paio di caratteristiche per poterli riconoscere.

"Umh, bene... quindi chi è che hai infastidito?", mi chiede infine.

"Non ho dato fastidio a nessuno", ribatto.

"O mi dici la verità o ti arrendi al fatto che non troveremo mai chi li ha presi". Si appoggia con le spalle alla scrivania e l'impermeabile nero lascia intravedere la camicia borgogna mezza sbottonata.

Sono esattamente dall'altro lato della stanza rispetto a lui quando mi arrendo all'idea di raccontare la verità: "Ho ucciso uno alla fossa di recente, ma è stato lui ad aggredirmi per primo".

"Non voglio sapere perché lo hai fatto, non m'interessa. Hai qualcosa che possa ricollegarci a lui?", non è minimamente sorpreso da quello che ho appena confessato.

"Ho nascosto il suo coltello".

"Ottimo, raccogli tutte le tue cose andiamo a prenderlo. Ti aspetto di sotto" annuncia, avviandosi nel corridoio.

"Come? Non possiamo uscire a quest'ora!", gli urlo dietro facendo capolino con la testa fuori dall'uscio.

"E perché no?"

"È pericoloso e il portone è chiuso".

"Oh, ma noi non usciremo dal portone" ghigna "muoviti, hai due minuti o vado da solo".

Raccolgo alla rinfusa tutto quello che riesco a trovare, non che importi più ormai. Ce la caveremo con quel che rimane. Prego solo che stiano bene, tutto il resto sono dettagli. Lascio gran parte dei vestiti e tengo solo il minimo necessario per un cambio e qualche ricordo, perderei troppo tempo a recuperare tutto. Mi fiondo sulle scale con la borsa ancora mezza aperta. Di sotto trovo Niko che parla con Roxy, le sta dicendo qualcosa che non riesco a sentire. Appena mi vedono si bloccano entrambi. Mi sto fidando per l'ennesima volta col rischio di finirci secca sul serio, ma non ho altro modo per riuscire a ritrovare Kyle e Mad.



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Capitolo 15
*** Carina ***


NB: questo capitolo sarà leggermente più breve del solito, mi serve come scena di passaggio per passare ad un nuovo scenario.






Selena si reggeva saldamente alla pareti, come se ci fosse davvero qualche appiglio a poterla sostenere, o più che altro non scostava la mano dalla parate rocciosa alla sua destra, tutto nel vano tentativo di sentire con se una parvenza di sicurezza. Un sottoscala li aveva portati in un vicolo stretto e polveroso, dove la luce di una torcia sorretta da Niko indicava l'unica via percorribile. Doveva saperlo che quel posto era pieno di sotterranei, d'altronde aveva passato sotto terra gli ultimi anni della sua vita in quell'unico posto che poteva quasi chiamare "casa"; eppure ne rimase lo stesso sorpresa, c'erano un sacco di cose che effettivamente non sapeva di questo distretto. Nel giro di un paio d'ore aveva scoperto più segreti di quanti poteva realmente aspettarsene. Tutto ciò che vedeva però non bastava a farla calmare neanche un poco, il cuore continuava a batterle all'impazzata per la paura. Era riuscita a perdere tutto ciò che amava, tutto ciò che aveva di più caro e l'idea che potesse essergli successo qualcosa di brutto non la lasciava in pace.

"Attenta, ora si gira" sussurrò Niko, in un modo quasi impercettibile. Aguzzarono entrambi i sensi, anche solo i loro respiri facevano baccano il quel corridoio tetro.

"Come fai a sapere dove dobbiamo cercarli?" si chiese Selena, con un tono di voce che non era basso quanto avrebbe voluto.

Fu una conversazione che rimase momentaneamente in sospeso, poiché entrambi erano a bocca aperta davanti il chiaro di luna che illuminava la notte. L'uscita non era una grotta né qualche bella porta intagliata come la ragazza aveva inizialmente immaginato, si trattata solo di una piccola scala che conduceva a un normalissimo tombino. Ne uscirono fuori in perfetto silenzio, come se il minimo rumore potesse recare danni. Eppure, lì fuori era tutto tremendamente tranquillo. Per Selena era una novità, non era mai stata fuori oltre l'orario del coprifuoco, in questo come nel distretto precedente...la notte era solo un'ipotesi immaginata per molto tempo. Non vi erano pericoli all'orizzonte che la stavano terrorizzando, allora perché continuava ad aspettarsi il peggio da un momento all'altro?

Niko la scrutò per un secondo, ancora con la bocca spalancata mentre si guardava intorno: "La prima volta? Fa sempre un certo effetto". La vide sussultare per un attimo e ridestarsi immediatamente, ancora con gli occhi lucidi mentre recuperava un certo contegno. "Per il discorso di prima" proseguì "non lo so, ma non è la prima volta che succedono cose del genere e ci sono dei posti in cui potrebbero essere. Non è mai per nulla e si guadagna molto bene se proprio vuoi saperlo".

"Conosci bene queste cose" sentenziò Selena, che non sapeva più quanto potesse davvero fidarsi. Ne sapeva tanto, troppo per i suoi gusti. Che genere di persona conosce certi giri e certa gente...lo stesso genere di persona che lei stava effettivamente seguendo.

"Non hai ancora visto niente di quello che gira in questo posto e di quello di cui è capace certa gente pur di sopravvivere, ed è meglio che tu non lo veda mai....", il tono di Niko era improvvisamente diventato freddo. Avevano iniziato a percorrere la strada noncuranti di nascondersi nei vicoli, con le ombre ben evidenti sui ciottoli dissestati del viale principale; lo stesso dove tutti i giorni le bancarelle del mercato rendono quasi impossibile il passaggio.

Era così strano ritrovarsi improvvisamente nel cuore della notte, Selena non aveva mai nemmeno immaginato di riuscire a vedere la luna splendere di nuovo. Quella paura che le attanagliava le viscere ogni volta che il tramonto si avvicinava adesso sembrava solo una vana follia. Eppure, Wynona non era sopravvissuta all'oscurità della notte. Non erano state strane bestie o creature innominabili a portarsela via, era sicuramente stato qualcuno che adesso circolava ancora tra quelle strade. Voleva trovarlo e fargliela pagare, restituirgli tutti il dolore che le aveva causato...ma c'era qualcos'altro da fare prima. Dovevano trovare i bambini e dopodiché muoversi in fretta sarebbe diventata la priorità. Non avevano più un posto assicurato nei sotterranei, non senza nulla in cambio, e rimanere allo sbaraglio non era fattibile.

"La vedi quella lì?" Niko alzò gli occhi in cielo, puntando il dito proprio sopra le loro teste, stavano camminando così tanto che a Selena facevano male i piedi e quella piccola pausa fu come acqua fresca in un giorno d'estate.

"La stella" annunciò la ragazza, per ribadire qualcosa  che in realtà era già ovvia.

"Una costellazione se vogliamo essere precisi, Carina...un tempo era visibile solo nell'emisfero australe ma adesso le guerre hanno sconvolto così tanto questa terra che possiamo godere della sua luce anche noi. Si dice che esista sin dai tempi degli antichi greci e che sia legata alla storia degli argonauti" le spiegò Niko.

"Un nome troppo bello per chi ha visto così tanto male" pronunciò appena Selena.

"Un porta fortuna dall'alto" la corresse Niko "che ci doni la forza per affrontare questa battaglia".

Si squadrarono entrambi, con quella che sembrava una consapevolezza sorda e cieca. Perché non tutte le battaglie sono fatte per esattamente vinte o anche solo combattute.

Lo sguardo del giovane ricadde verso la botola ai loro piedi: "Siamo arrivati", sentenziò.



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Capitolo 16
*** Colpi al cuore ***


Sono sempre più sicura che, al posto dell'intervento agli occhi, avrei dovuto sceglierne uno in grado di rifarmi il naso contro qualsiasi tipo di odore. Me lo conferma il fatto che appena messo piede in oltre quella botola il tanfo è allucinante. Non sa di morte come la fossa ma si avvicina al pesce marcio col solo dubbio che non credo si tratti di pesce.

Abbiamo già percorso un centinaio di metri senza trovare anima viva nonostante il baccano di sottofondo, il che è fin troppo strano.

«Dove sono tutti?»

«A quest'ora possono solo dormire o ubriacarsi»

Scontato, fin troppo.

«Fino a dove arriva questo posto?»

«Fin dove non puoi neanche immaginare, oltre i confini della città. Si potrebbe uscire dal distretto anche solo attraverso i cunicoli sotto terra»

Un lampo di genio mi balena improvvisamente nella mente e Niko sembra essersene accorto.

«Vuoi andartene no? Altrimenti perché rischiare così tanto»

«Non possiamo continuare a stare qui, è troppo pericoloso» annuncio di colpo, senza dare altre informazioni.

«Effettivamente... meglio rischiare di farli rapire, torturare e uccidere» risponde sarcastico.

«Non l'avevo previsto» dico, allarmata al pensiero che possa essere già troppo tardi.

«Staranno bene» taglia corto lui.

Forse si è reso conto del terrore nel mio sguardo o forse ha pensato di aver esagerato con quel discorso.

«Se si può davvero uscire dal distretto così allora perché nessuno lo fa?» chiedo ancora, per necessità di scoprire più cose possibili.

«Perché una volta fuori quante possibilità avrebbero di riuscire a confondersi tra gli abitanti di un altro distretto? E pur riuscendoci, il loro chip parlerebbe per loro al primo controllo»

Non vi è cosa più vera di questa. Eppure, quanti di loro hanno avuto la possibilità di fare quello che io ho già fatto con Wynona? Nessuno. È per questo che noi ce ne andremo.

«Capisco» rispondo, ma non sono per niente demoralizzata come vorrei fargli credere.

«Ssh, adesso basta discorsi» annuncia, facendomi segno di seguirlo.

Le voci sono sempre più vicine e questo vuol dire che ogni nostra azione sarà fondamentale d'ora in avanti.

|——|

Stanno in una stanza in cui il tanfo di sudore si sovrappone a quello di pesce marcio, tutti troppo impegnati a strafogarsi d'idromele e una vecchia bevanda a base di luppolo - di qualità altamente scadente - per rendersi conto della nostra presenza. Sgattagliolare oltre la porta d'ingresso è un'azione talmente facile che ci si ritorcerà contro.

Dopo una serie infinita di stante mi sembra di star ormai perderndo ogni speranza. È qui che la voce inconfondibile di Kyle mi fa prendere un colpo al cuore. In uno stanzino striminzito una quindicina di bambini dorme per terra, senza materassi nè coperte. Ho sempre pensato ad un'unica soluzione per coloro che non facevano ritorno, solo oggi scopro che le cose sono ben diverse.

Vederli, entrambi rannicchiati in un angolino, mi sembra quasi un sogno.

Restiamo tutti e tre a bocca aperta ed un secondo dopo ci ritroviamo abbracciati e quasi in lacrime.

«Veloci, sta arrivando qualcuno» annuncia due secondi dopo Niko,.

È una felicità instabile e precaria.

Ci dirigiamo di corsa lungo il corridoio per poi girare l'angolo e finire dritti nella prima rientranza che troviamo. Non è neanche passabile come nascondiglio. Si tratta di una sorta di ripostiglio per le scope e spero che, date le condizioni in cui versa tutti il distretto, a nessuno venga la mania delle pulizie proprio adesso. Stiamo stretti e in silenzio. I bambini mi arrivano all'altezza del bacino e sono avvinghiati alla mia gamba, pronti a non lasciarmi più; Niko è schiacciato contro di me, mi respira sul collo aria calda e ho bisogno di concentrazione per non girarmi e trovare la sua bocca a un millimetro dalla mia. L'odore di tabacco copre tutto il resto e non saprei descriverne il sapore se non quello della sua pelle.

I passi si fanno sempre più vicini e quando si fermano ci ritroviamo a trattenere il respiro. Solo la luce che ci acceca quando la porta viene aperta ci conferma che è ormai troppo tardi.

«Bene bene, chi abbiamo qui?» sputa fuori un bestione di quasi due metri e almeno cento chili.

Abbiamo a malapena il tempo di renderci conto della situazione. Con un solo braccio tira a se i bambini e con un altro mi carica sulle spalle. Il suo compare, più magro ma egualmente alto, si occupa di Niko. Con la mente già annebbiata li sento discutere e prendersi a cazzotti.

|——|

Recupero i sensi dopo non so quanto tempo. Kyle e Mad sono seduti accanto a me, entrambi con i polsi legati ad una trave di legno. Anche le mie mani sono ben strette e agganciate ai piedi di un tavolino. Guarda un po', i galantuomini mi hanno anche permesso di stare sdraiata. Mi tiro su a fatica, cercando di capirci qualcosa. Tra la folla che ci circonda vedo Niko, ha un occhio nero ma sta in piedi e con le mani slegate.

«Selena, come stai?» sussurra, vedendomi di nuovo cosciente. Con lui anche il resto della sala volta lo sguardo verso di me.

«Ben svegliata principessa!» un uomo barbuto e completamente ricoperto di tatuaggi mi rivolge la parola «il tuo amico ci stava raccontando delle vostre eroiche gesta»

«Lasciateci andare» sputo gelida.

«Lo faremo. Ma prima abbiamo alcune condizioni da definire»

«Quali?», ho quasi paura a chiederlo.

«Si dia il caso che ci serva qualcosa, diciamo che dobbiamo recuperare un oggetto perduto. Sono sicuro che una tipetta come te potrebbe esserci d'aiuto»

«Non sono una ladra»

«Ma sei un'assassina»

Lo sa, lui lo sa! Di Wynona? Del tipo alla fossa? Cosa sa questa gente di me?

«Abbiamo le nostre fonti» ride compiaciuto «devi solo andare in un posto e portarmi quello che mi serve, poi sarete liberi di andare»

«Solo questo?» chiedo.

«Solo questo» mi conferma.

Li guardo ad uno ad uno e le scritte sulle loro teste mi confermano soltanto tutto quello che sospettavo. Nessuno di loro si farebbe scrupoli nell'ucciderci all'istante. 

«Perché devo farlo io? Sono sicura che tutti voi ne siete capaci»

«Chi mai sospetterebbe di una piccola ragazzina dal viso angelico» vi è un coro di risate che mi fanno accapponare la pelle «nessuno sa che il piccolo angioletto in realtà è una serpe velenosa»

Cerco il viso di Niko tra tutti quegli sguardi. Cerco un segno di assenzo nel suo viso che mi confermi che è esattamente quello che devo fare.
E lo trovo, proprio quando ne avevo bisogno.
Solo un particolare però mi salta all'occhio per la prima volta, una cosa che non avevo mai avuto la necessità di cercare: tra tutte quelle scritte che mi confondono la mente le sue non ci sono, nulla di nulla...Niko non ha una cartella.



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