Dire, fare, baciare, lettera, testamento

di Giorgi_b
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dire. ***
Capitolo 2: *** Fare. ***
Capitolo 3: *** Baciare. ***
Capitolo 4: *** Lettera. ***
Capitolo 5: *** Testamento. Dieci pensieri prima di morire. ***
Capitolo 6: *** Pugno sotto il mento, tortura cinese, tortura giapponese. ***



Capitolo 1
*** Dire. ***


In un modo o nell'altro
ho sempre un po’ paura
di soffrire
di star bene
di rimanere fermo
di diventare acerbo
di non sapere cosa voglio
di cessare di volerlo.
Anche tu ad esempio
mi fai sempre un po' paura
e non trovo una risposta,
perché, in un modo o nell'altro,
ti inseguo anche quando scappo
dalla parte opposta.
 
Marco Gregó
 
 
Dire.
 
Schiacciato dalla folla che sciamava verso il ponte Umayabashi, Ranma Saotome, sguardo corrucciato, mani in tasca e passo nervoso, camminava lungo il fiume Sumida tra gli odori delle bancarelle gastronomiche e le urla dei commercianti di souvenir. 
Fingendo interesse per le promesse di vincita assicurata del proprietario di un banco di wanage, voltò di poco la testa, quel tanto che bastava per spiccare un’occhiata furtiva oltre la propria spalla, a un paio di metri di distanza, lì dove lei lo seguiva con piccoli passi, rallentata dai geta e dallo yukata, con le gote arrossate, gli occhi colmi di luci e di stelle, entusiasta per ogni cosa.
Qualcosa gli morse le viscere a tradimento. C’era una sorta di grazia in quel modo incespicante di incedere, una dolcezza gentile e imbranata che provocò una decisa impennata del suo battito cardiaco, cosa che lo indispettì, se possibile, più di quanto già non fosse. 
Forse percependo i suoi occhi indagatori su di sé, con un rapido movimento Akane lo colse in flagrante scrutandolo come solo lei riusciva a fare, puntando le iridi nocciola come fasci di luce calda direttamente sul suo cuore e Ranma, impotente, lo sentì scodinzolare come un docile animaletto addomesticato. 
Pensò con sgomento che lei conoscesse benissimo l’effetto che aveva su di lui, perché gli sembrò di notare un’infinitesimale punta di soddisfazione nel suo sguardo una frazione di secondo prima che si voltasse sprezzante dall’altra parte, portando via con sé tutta la luce del mondo.
Nel suo petto la creaturina, rimasta improvvisamente al buio, uggiolò con la coda tra le zampe, misera e infelice.
Ma scusa, ti sembra possibile? Vorrei ricordarti che sei il MIO cuore e che io sono ancora arrabbiato con lei!
Il cucciolo latrò come per redarguirlo del fatto che anche Akane, al netto di ogni evidenza, era ancora arrabbiata con loro e con un ringhio basso sembrò borbottare che era solo ed esclusivamente per colpa sua.
Schioccando la lingua irrequieto, Ranma tornò a guardare dritto davanti a sé e spinse più a fondo i pugni nelle tasche, fino a sentire le cuciture tendersi sotto le nocche delle mani. 
Avrebbe voluto fare una corsa fino al ponte per conquistare i posti migliori e godersi lo spettacolo pirotecnico che si sarebbe tenuto di lì a poco, invece no: aveva fatto forse venti passi in dieci minuti, in mezzo a una miriade di persone sudaticce che gli si strusciavano contro, obbligato all’andatura da lumaca di quella violenta e per niente carina della sua fidanzata che aveva insistito per indossare gli abiti tradizionali al festival dei fuochi d’artificio di Sumidagawa.
Per tutti i santissimi kami del cielo, quanto testarda e orgogliosa poteva essere una donna?! 
L’aveva detto o non l’aveva detto, lui, che goffa com’era sarebbe riuscita a malapena a muoversi conciata in quel modo? Sì, lo aveva detto chiaro e tondo! Ma quella cretina, anziché ringraziarlo del prezioso consiglio, non solo aveva cercato di colpirlo maldestramente con uno dei suoi geta, era pure caduta inciampando nell’orlo dello yukata, dimostrando che - guarda un po’!? - aveva proprio ragione lui. 
A quel punto gli era scappato da ridere e ammise, almeno a se stesso, che forse lì - giusto un pochino - aveva sbagliato lui, comunque meno e dopo di lei.
Ma poi, su, che sarà mai una risatina sciocca! Era per sdrammatizzare e alleggerire la situazione… lei, invece, senza un briciolo di ironia, come al solito se l’era presa!
Si era rialzata da terra con un cipiglio assassino, avvolta dalla sua caratteristica, temibile aura combattiva e, dopo averlo perforato con il suo sguardo laser, era uscita di casa in una nuvola nera e a lui (su “gentile invito” di quell’oni di Soun Tendo) non era rimasto altro da fare che seguirla a debita distanza di sicurezza.
Da quel momento non si erano detti una parola. Lungo il tragitto del treno da Nerima alla fermata di Asakusa, le aveva lanciato di tanto in tanto sguardi in tralice, si era avvicinato, schiarito la voce, stiracchiato allungando le braccia verso di lei, ma Akane aveva continuato ad ignorarlo e allora anche lui, sempre più arrabbiato e frustrato, era tornato a girarsi dall’altra parte. 
Insomma, cosa diamine voleva quel maschiaccio sgraziato? Quante occasioni le aveva dato in quel breve spostamento in treno per fare la pace? Avrebbe dovuto dirle esplicitamente: coraggio Akane, ora puoi scusarti, sono pronto a perdonarti?!
Scosse la testa senza speranza. Ranma si ritrovava spesso a fantasticare su quanto la sua vita sarebbe stata in discesa se cadendo nella Nyanichuan, oltre che all’aspetto femminile avesse acquisito anche la mentalità di una donna, rendendogli così più semplice la comprensione di quell’incredibile mistero che era per lui Akane Tendo. 
Se, per esempio, in quegli anni di fidanzamento (forzato) anziché picchiarlo o infuriarsi, lei gli avesse detto direttamente cosa fare o non fare, non sarebbe stato tutto più facile? Non avrebbero evitato milioni di discussioni ed equivoci? Come quella volta che erano andati a comprare reggiseni con sua madre. Cosa ci voleva a dire: “Ranma, vorrei che guardassi il mio seno”?!  
Non che lui avesse mai avuto interesse nelle sue… le sue… cose lì davanti! Ormai era abituato, gli bastava un po’ di acqua fredda per vederne e toccarne un paio davvero niente male… modestamente! Se lei in quella circostanza glielo avesse chiesto con cortesia, lui le avrebbe guardate con stoicismo e abnegazione, solo ed esclusivamente per renderla felice. E lo avrebbe fatto in maniera disinteressata e distaccata, perché lui - sentì il bisogno di ribadire ancora una volta a se stesso - non era assolutamente attratto dal suo piccolo… sodo, meravigl… ehm… - l’aveva già detto piccolo? - ehm… orribile seno piatto. 
Sbuffò prima di passarsi una mano sulla fronte a detergere il leggero velo di sudore che gli aveva coperto il volto con una vampata di calore improvviso; scese con le dita sugli occhi, strinse la radice del naso e stropicciò il resto del viso per cercare di scacciare il conturbante e indelebile ricordo del camerino troppo stretto per entrambi; degli occhi smarriti e liquidi che lo guardavano talmente vicini da sentire distintamente il calore dell’imbarazzo della loro proprietaria investirlo come un’onda, le due fettucce di lucido raso bianco del reggiseno che le scivolavano dalle spalle con un tempismo e una sensualità commoventi e, infine, il suo candido seno strizzato tra le braccia nel tentativo di coprirlo… si schiarì la voce, deglutì ed espirò forte dal naso.
Il bisogno improvviso e quasi doloroso di guardarla lo spinse a cercarla ancora voltando la testa, ma lei non c’era più. Il corpo di Ranma per poco non si spezzò per la velocità con cui si girò e, nella manciata di secondi che passarono prima che i suoi occhi in tempesta la individuassero tra la folla, si sentì perduto. 
Di nuovo, come a Jusenkyo.
Non avevano mai più parlato di cosa era successo in Cina, fatta eccezione, il giorno del matrimonio andato a monte, per la “velata allusione” a quello che lui aveva detto o meglio: a cosa lei credeva che lui avesse detto ma che in realtà non aveva detto, e che - in tutta sincerità - non avrebbe mai voluto averlo nemmeno pensato, perché dal momento in cui quella gigantesca verità si era fatta strada prepotente e rumorosa tra i suoi pensieri, nulla era più stato lo stesso. E lui detestava i cambiamenti.  
Ranma avrebbe voluto cancellare completamente quell’orribile esperienza e tornare alla loro vita di prima, agli spensierati battibecchi infantili (causati per lo più dalla gelosia di lui nei confronti di lei), ai pugni, i calci, le martellate e i voli sui tetti di Tokyo (causati per lo più dalla gelosia di lei nei confronti di lui), alle sfide quotidiane contro i loro assurdi pretendenti, alle piccole tenerezze e agli innocenti imbarazzi fatti di niente.
Quanti anni relativamente felici erano già passati in questa maniera? Uno? Due? Dieci?! Secondo il suo modo perverso di vedere le cose, avevano trovato un equilibrio perfetto in questa eterna adolescenza, dunque perché complicare tutto dicendo parole che avrebbero avuto il peso di bombe atomiche radendo al suolo la loro - la sua - tanto cara isola felice?
La bestiola nel suo petto con il muso fece rotolare la risposta proprio sotto ai suoi occhi, scodinzolando e uggiolando gli suggerì che ormai quella cosa era lì dentro di lui che cresceva di giorno in giorno e non poteva fare più nulla per ignorarla o per trattenerla: prima o poi, che lo volesse o no, sarebbe venuta fuori. 
Quindi, dopo qualche istante di panico e il corpo ridotto a un pezzo di ghiaccio nonostante la serata bollente di luglio, finalmente, la vide: piccola e luminosa tra la folla insulsa e anonima, ferma in fila davanti a un carretto che vendeva watagashi.
Il suo cuore abbaiò felice, fece una capriola mostrando il ventre e Ranma tornò a respirare. 
Mentre la guardava sorridere cortese all’uomo che le porgeva lo zucchero filato, deglutendo ricacciò nelle profondità della sua anima la paura irrazionale di averla persa per sempre che ormai lo accompagnava ovunque. La ripose vicino alla fobia per i gatti, all’angoscia di non essere ricambiato, al terrore di non essere abbastanza per lei e all’orrore che se ne andasse con un altro. Senza volerlo ripensò a Ryugenzawa, la sua guancia di riflesso bruciò e il suo cuore scoprì i denti, ringhiando feroce. 
Osservandole tutte insieme, rifletté torvo sul fatto che Akane fosse senza ombra di dubbio la regina incontrastata delle sue paure. 
Per quanto Ranma fuggisse disperatamente dalla parte opposta se la ritrovava sempre davanti, continuando inconsapevole a inseguirla cercandola, desiderandola, trattenendola senza sapere cosa dirle, cosa pensare, cosa sentire… tirandolo per una manica il suo cuore gli ricordò che in realtà, ormai, conosceva bene ciò che provava e che forse - aggiunse dandogli la zampa con occhi umidi e incoraggianti - era proprio da lì che doveva partire: confessandole i suoi veri sentimenti. 
Ma Ranma sapeva bene che le parole gli erano nemiche: ogni volta che aveva tentato di aprirle il suo cuore, le frasi che si erano formate in maniera perfetta nella testa, nel tragitto fino alla bocca si scomponevano, si scollavano, diventavano altro e finivano sempre per trasformarsi in qualcosa di sbagliato o fraintendibile.
La guardò avanzare felice con una gonfia nuvola di zucchero in mano e, prima che se ne rendesse conto, le andò incontro camminando con una certa urgenza nella folla controcorrente.
Quando si bloccò davanti a quegli occhi grandi e densi di miele si trovò costretto a fare da arbitro tra la squadra composta da gambe e braccia, capitanata dall’istinto cieco di girare i tacchi e fuggire il più lontano possibile e quella della lucida consapevolezza che fosse giunto il momento giusto per dire, formata da anima e cuore.
Nel bel mezzo di quell’ardua impresa, mentre Ranma cercava di non inciampare nei suoi occhi incantati, di rimanere saldo sulle proprie gambe, di mettere le parole in fila ordinata e tenere il cuore a bada, Akane decise di aumentare il livello di difficoltà, abbassando lo sguardo titubante e intrecciando le proprie dita sottili con le sue.
Solo i kami sapevano come fosse riuscito fin lì a tenere tutti i pezzi insieme; poi lei, infida e per niente carina, gli diede il colpo di grazia: puntò gli occhi nei suoi, batté le lunghe ciglia arrossendo, sorrise con tutta la dolcezza del mondo e lui non capì più nulla.
Il cuore di Ranma, approfittando di quella distrazione, si liberò dal corto guinzaglio col quale era stato trattenuto per anni; impazzito di felicità prese a correre uggiolando dalle viscere fino alle labbra del proprio padrone e, nell’esatto momento in cui quelle scelsero in quale squadra giocare, nella porzione di oscurità sulla loro testa, con un boato, esplose un’enorme raggiera dorata seguita da una blu, una verde e una rossa.
Presto la notte si illuminò a giorno, tutto si incendiò di colori, fragore e odore di polvere da sparo.
Akane alzò la testa verso il cielo e Ranma, ammutolito, rimase a guardare imbambolato lo spettacolo dei riflessi vermigli sui suoi denti bianchi, dei gialli sulla pelle diafana, dei verdi sui capelli lucidi, dei blu negli occhi colmi di fanciullesco stupore. 
La bocca iniziò a muoversi da sola nel frastuono delle esplosioni e Ranma, un filo di voce, parlò. 
Con uno sguardo interrogativo Akane scosse la testa indicandosi un orecchio e si avvicinò leggermente a lui. 
Non sapeva dire se fosse il suo cuore o la risonanza dei boati dei fuochi d’artificio a farlo tremare così tanto: trovò il coraggio aggrappandosi alla mano di Akane, inspirò profondamente e, con voce quanto più ferma possibile, ripeté quelle quattro semplici parole mentre la notte esplodeva intorno a loro.
Lei lo ascoltò guardandolo attenta, poi piegò la testa di lato, sorrise, annuì e Ranma e il suo cuore finalmente si sentirono leggeri, felici. Liberi.
Senza staccare gli occhi dai suoi, Akane si alzò sulle punte e si avvicinò al suo volto facendogli annodare le viscere e trattenere il respiro, ma a pochi centimetri dal coronamento di un sogno virò verso il suo orecchio destro, urlando: «Sì, hai ragione, sono proprio bellissimi, anche io li amo!» poi si raddrizzò e tornò a guardare il cielo. 
Un ululato triste e solitario riecheggiò dentro di lui e come se un carico di due tonnellate di mattoni gli fosse precipitato addosso, Ranma cadde in ginocchio, scuotendo la testa, incredulo.
Non hai capito niente, baka, pensò, sei tu che sei bellissima ed è te che… 
Lei si piegò su di lui e accarezzandogli la schiena con uno sguardo preoccupato chiese: «Ranma! Stai bene?»          
Alzò gli occhi e la vide stagliarsi contro la notte, una silhouette scura lambita da esplosioni incendiarie e filamenti di luce colorata che gli ricordavano la corolla di un fiore o le morbide e sinuose forme di una galassia sconosciuta di cui lei era il centro. 
Raccolse le forze e si alzò in piedi accettando docile l’invito della mano di Akane che, ignara del suo dramma interiore, gli sorrise offrendogli il suo watagashi
Sospirando sconsolato, Ranma affondò i denti in quella nuvola dolce e mentre sentiva l’amaro della delusione nella sua bocca mischiarsi con lo zucchero che sapeva anche un po’ di lei, pensò che quello fosse il sapore di tutte le occasioni mancate, di tutte le speranze disattese, di tutti i baci mai dati e di tutte le parole non dette e sorridendo disse, tra sé e sé: Akane Tendo, giuro su tutti i kami che prima o poi riuscirò a dirtelo!
 
 
Glossario:
 
 
Festival di Sumidagawa è uno dei festival pirotecnici più famosi e antichi del Giappone.
Si tiene sul fiume Sumida a Tokyo a fine luglio. La vista migliore è tra il ponte Umayabashi e il ponte Sakurabashi. Vestirsi con gli abiti tradizionali è un must di questo festival.
Wanage è il “lancio dell’anello” uno dei giochi che si trovano tipicamente nei festival cittadini. Tutto ciò che si deve fare è lanciare un anello e centrare il premio desiderato. Se non si riesce a vincere nulla solitamente viene donato l’anello stesso.
Geta sandali tradizionali giapponesi con una suola in legno rialzata su due tasselli o su un’unica zeppa alta a forma di mandolino.
Yukata kimono estivo di cotone colorato.
Oni creatura della mitologia giapponese tra un orco e un demone.
Watagashi zucchero filato giapponese.
 
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Carissimi lettori! Grazie per essere arrivati fin qui! Questa raccolta di os nasce da un’intuizione avuta guardando Squid Game: come dimenticare DireFareBaciareLetteraTestamento, splendido e infido gioco italico basato sulle penitenze e sull’esposizione al pubblico ludibrio…XD?! sono certa che chiunque di voi ci avrà giocato almeno una volta nella vita… e se non lo avete mai fatto, in chiusura una piccola spiegazione.
Un dovuto e sincero GRAZIE alla mia adorata beta e sensei Tiger Eyes che, oltre a correggere i miei strafalcioni, si sorbisce spesso e volentieri pipponi mentali di un certo livello… povera te! XD
 
Un GRAZIE di cuore a voi lettori, che siete sempre così generosi e affettuosi, fatemi sapere anche stavolta cosa ne pensate…! <3
 
Un abbraccio a tutti e a prestissimo con “Fare”!

G.

P.S. Sicuramente lo avrete riconosciuto, ma in questa os ho accennato al capitolo 360 del manga: "La guerra dei seni", volume 47 ed Neverland.
 
 
IL GIOCO:
Non c’è un limite di giocatori, ognuno deve scegliere a ogni turno una delle cinque penitenze e scontarle.
DIRE: il penitente deve confessare un segreto.
FARE: bisogna fare qualcosa che normalmente il giocatore non avrebbe mai fatto.
BACIARE: il penitente dovrà baciare qualcuno indicato dai compagni (le amiche ti costringevano sempre a baciare quello che ti piaceva!). 
LETTERA: qualcuno del gruppo scrive con il dito sulla schiena del giocatore una parola, se il poveretto non riuscirà a decifrarla sarà “affrancato” e “spedito” con un calcio nel sedere! 
TESTAMENTO: un compagno chiede alle spalle del penitente, senza che lui possa vedere il gesto mimato: “Quanti ne vuoi di questi?” La risposta, da uno a dieci, indica per quante volte il giocatore subirà il gesto o l’azione in questione, che - attenzione, qui è il bello - non sono necessariamente negativi, possono nascondersi anche baci, abbracci, carezze o favori dietro alla domanda del compagno. Per il penitente dunque è un’autentica scommessa!
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Fare. ***


Fare

La sveglia trillò nella stanza con una delicata melodia di violini e vispe campanelle animando la fredda penombra dell’alba. Le note, leggere, si adagiarono danzando sugli oggetti disposti con cura sul comodino – un abat-jour di ceramica azzurra, una foto di famiglia, una rivista di cucina, una crema per le mani – poi corsero come cerbiatti a brucare tra i capelli sparsi sul cuscino della giovane donna sdraiata nel letto, lo sguardo vuoto e fisso al soffitto.
Allungò un braccio fuori dalle coperte e azzittì la sveglia, grata che l’agonia notturna fosse finita. Provò a chiudere gli occhi arrossati, ma le palpebre scorrevano a fatica sui bulbi riarsi per la lunga esposizione agli spettri dell'insonnia e con una fitta di dolore cominciò a lacrimare.
Stupita, sfiorando le gote umide con la punta delle dita, si chiese: quando è stata l’ultima volta che ho pianto?
Le rispose qualcosa che si piazzò sul suo diaframma bloccandole il respiro. Con un gesto isterico delle gambe scrollò le coperte all’improvviso, come per gettare più lontano possibile quel peso granitico che le toglieva l’aria e scattò in piedi, smarrita. Deglutì con la speranza di buttare giù quella brutta presenza insieme alla nausea che l’aveva assalita, poi, con lentezza, cercando di domare il cuore e l’affanno, si portò le mani al viso e, con un leggero massaggio, distese le sopracciglia aggrottate. Si stropicciò gli occhi, piantò gli indici ai lati della bocca e li spinse in alto, plasmando uno sterile sorriso tirato.
Dopo qualche secondo abbandonò le braccia lungo i fianchi e con una voce ancora arrochita dalla notte disse piano: «Coraggio, il sole è sorto. Datti da fare, Kasumi!».

Non ricordava più da quanti anni ormai - forse da sempre? - la sua routine quotidiana cominciava alle cinque e trenta del mattino.
Apriva gli occhi con lo stesso entusiasmo di un bambino per un gioco nuovo, lieta che un altro giorno si fosse affacciato al mondo; indossava il suo sorriso migliore e dopo essersi lavata, vestita e pettinata con cura, scendeva in cucina a preparare la colazione.
Mentre il riso cuoceva, la zuppa di miso bolliva e il pesce arrostiva, lucidava i pavimenti del dojo; non appena sentiva suonare la sveglia di suo padre, correva a stendere i panni. A seguire, i singoli risvegli di ogni abitante di casa Tendo cadenzavano il ritmo delle attività di Kasumi: Akane era il tavolo da apparecchiare, Nabiki il riso da assaggiare, il maestro Happosai i bento da preparare, il signor Saotome le pietanze da impiattare e Ranma… beh, Ranma veniva sempre tirato giù dal futon da Akane troppo tardi, quando la colazione era già cominciata.
Fare, fare, fare.
Quando i ragazzi uscivano per andare a scuola c’era da sparecchiare, lavare i piatti, sistemare la cucina, stendere i futon a prendere aria, spolverare, lavare il bagno, rassettare le camere, fare la spesa, cucinare il pranzo, ritirare i panni, apparecchiare, mangiare. Poi di nuovo sparecchiare, lavare i piatti e sistemare la cucina, stirare, rammendare i vestiti di Ranma, annaffiare il giardino, preparare il tè, cucinare la cena, e, per la terza e ultima volta, sparecchiare, lavare i piatti e sistemare la cucina.
Fare, fare, fare: un mantra che scandiva le sue stagioni, i suoi mesi, i suoi anni.
A fine giornata, dopo aver caricato l’ultima lavatrice, Kasumi si concedeva un bagno bollente prima di andare a dormire: nell’acqua versava quattro gocce di olio di lavanda, quattro di geranio, due di magnolia e si immergeva stanca e felice, in una nuvola di vapore e aromi celestiali.
Dormiva il sonno dei giusti e ogni notte era limpida e senza sogni.
Dopo alcune ore, un nuovo giorno si affacciava con un bagaglio di confusione e disordine: grazie alla sua folle famiglia allargata, Kasumi aveva sempre così tanto da fare che non aveva un minuto per fermarsi a pensare, solo fare, fare, fare.

Tutto cambiò il giorno in cui Nodoka Saotome mise piede in casa Tendo.
La donna, con le sue attenzioni materne, i suoi gesti affettuosi, le sue parole accudenti, a suon di tenerezze, riaprì una ferita che Kasumi credeva del tutto cicatrizzata e, un po’ per la sua totale incapacità di riconoscere ed etichettare un certo tipo di sensazioni, un po’ per la volontà di fare piuttosto che fermarsi a pensare, non si accorse della catena di mutamenti che iniziarono ad avvenire nelle profondità del suo animo.
Nei mesi successivi al ricongiungimento dei Saotome, qualcosa di pericoloso, lento e subdolo come una serpe, cominciò a strisciare fuori dalla piccola crepa nella sua corazza di imperturbabile serenità.
All’inizio Kasumi non diede alcun peso al sogno ricorrente che quasi ogni mattina la lasciava singhiozzante e in posizione fetale al suono della sveglia - lei cinquenne e una mano amorevole che la accarezzava sulla testa.
Allo stesso modo, ignorò completamente gli epiteti per niente cortesi che lanciò in direzione di Ranma e Genma - lasciando tutti di stucco - quando, una sera d’inverno, litigarono come al solito per l’ultimo boccone. E non fece nemmeno troppo caso all’emozione sconosciuta, sgradevole e impetuosa - forse indignazione? Rabbia? - che le provocava ogni volta la vista di Nabiki beccata in flagranza di reato a fotografare di nascosto Ranma-chan e Akane in pose sconce o a filmarli nei momenti di rarissima sintonia.
Nessuna delle sue stranezze la scalfì: non quella volta che preparò una cena degna di Akane, né quella in cui tinse di rosa tutti i karategi di casa dimenticando una casacca di Ranma nella lavatrice e nemmeno il giorno che senza pietà, anzi, con una certa soddisfazione, bruciò in giardino, insieme alle foglie secche, l’intera collezione di zuccherini del maestro Happosai causandogli un violento colpo apoplettico.
Quando poi, qualche tempo dopo, la casa di Nodoka fu distrutta dalle pretendenti di Ranma e la donna si trasferì in casa loro, le cose peggiorarono fino a precipitare.
Le eccentricità di Kasumi si susseguirono in maniera esponenziale per settimane finché, un giorno, irruppe nella stanza di Akane facendola sussultare e le domandò a bruciapelo: «Cosa ricordi di nostra madre?»
La sorella rimase qualche secondo ad osservarla stupita: «Non molto. Non dimenticherò mai il suo sorriso, che era una donna gentile e sempre molto indaffarata». Si guardò le mani torcendole e continuò, con un velo di tristezza nella voce: «Anche se… ti confesso che in molti dei miei ricordi la confondo con te».
Uscì prima che Akane potesse chiederle il motivo di quella domanda.
La sera saltò il rito del bagno rilassante perché si sentiva esausta e febbricitante; arrivata nella sua camera fece appena in tempo a infilarsi la camicia da notte che crollò in un sonno buio e tormentato.
L’indomani si svegliò di soprassalto, in un tripudio di campanelle e violini che andavano avanti indisturbati da più di un’ora e mezza. Corse trafelata per le scale maledicendosi per non aver sentito la sveglia e trovò la signora Saotome che si muoveva in cucina perfettamente a suo agio.
Dopo averle augurato il buongiorno, Nodoka le raccontò di aver preparato il riso, il miso e il salmone, di avere steso il bucato e incerato il pavimento del dojo e, mentre le parlava, continuava a decorare con mani svelte i bento per Ranma, Akane e Nabiki con dei graziosissimi fiorellini di carote e polpetti intagliati nei wurstel.
Kasumi rimase impalata con la bocca aperta e la donna, dopo averla squadrata dalla testa ai piedi, soffermandosi sui capelli scarmigliati, sugli occhi cerchiati e sulla vestaglia indossata alla rovescia sulla camicia da notte, le chiese gentile: «Kasumi, stai bene? Perché non torni a letto a riposare, cara?».
Non riuscì a muovere un muscolo; al che, la donna le sorrise e dopo essersi asciugata le mani sul grembiule, prese quelle di Kasumi tra le sue sussurrando compassionevole: «Tesoro, permettimi di rendermi utile e di sdebitarmi a nome della mia famiglia. Sei talmente giovane! Prenditi cura di te, da oggi mi occuperò io di questa casa. Sono certa che se la vostra mamma fosse qui con noi ti direbbe la stessa cosa!».
Al sentirla nominare, la mente di Kasumi le giocò un brutto scherzo e sovrappose ai lineamenti di Nodoka quelli sbiaditi di sua madre. Rivide il caldo sorriso, la gentilezza e la sua accondiscendenza e all’improvviso si sentì precipitare in un orrore sconfinato perché in quell’immagine grottesca - un patchwork di donne gentili e accudenti - riconobbe distintamente se stessa.
Kasumi Tendo non era altro che una pallida imitazione di sua madre, una bambina che giocava a fare la donna di casa.
Una scheggia le trapassò la gola, ma, nonostante il forte senso di nausea e gli spasmi che le mordevano gambe e braccia, trovò la forza di annuire; con grande dignità lasciò le mani di Nodoka, si voltò, salì le scale, entrò nella sua camera e, infine, si accasciò sul letto.
Ascoltò con attenzione la casa prendere vita e col pensiero legò al suono familiare delle varie sveglie che si susseguivano un’immagine per lei confortante: gli uccellini allegri nella stanza di Akane le ricordavano il tavolo da apparecchiare, le prime note di Money dei Pink Floyd dallo stereo di Nabiki il riso da assaggiare, la voce sensuale di una speaker dalla radio del maestro Happosai i bento da preparare, i lamenti da panda affamato del signor Saotome le pietanze da impiattare.
Fare, fare, fare. Anche solo fantasticare di fare: qualsiasi cosa pur di non pensare.
Rimase seduta sul letto a svolgere faccende immaginarie finché il giorno diventò sera e le venne fame.
Aprì appena la porta e dalla fessura intravide, poggiato sul pavimento, un vassoio apparecchiato. Dal piano terra un profumo di cibo e di pulito saliva insieme alla voce di Nodoka che si aggirava indaffarata per casa canticchiando, sovrastata di tanto in tanto dalle risate esplosive e vagamente alcoliche di suo padre, del maestro Happosai e del signor Saotome che rivangavano vecchie avventure di gioventù; sentì Akane e Ranma battibeccare da qualche parte sul tetto e Nabiki parlare al telefono di affari e scommesse. Richiuse lo spiraglio della porta assieme al suo stomaco.
I suoi familiari continuavano le loro vite come se niente fosse, tutto andava avanti anche senza di lei.
Si trascinò alla toeletta di fianco alla finestra. Si sedette e si specchiò per ore, in silenzio, alla ricerca del confine tra sua madre e se stessa, senza successo.
Sconfitta, sentì il suo cuore sgretolarsi e tra quelle macerie una sorgente cominciò a gorgogliare. Pianse silenziosa tutte le lacrime che non aveva versato negli ultimi dodici anni e, in quello che le sembrò un attimo, il mattino seguente bussò alle finestre trovandola ancora sveglia, con gli occhi gonfi e cerchiati a rimuginare sulla sua intera esistenza.
L’analisi era stata severa e impietosa. Quando la donna che aveva amato più di chiunque al mondo, colei che le aveva mostrato cosa fosse la gentilezza, l'amore e la generosità era morta lasciandola orfana a nove anni con due sorelle di sette e di sei e un padre malato di malinconia, la piccola Kasumi non aveva trovato altra strada che stringere un patto col suo fantasma accettando di sostituirsi a lei, votandosi a una vita non sua.
Eppure averla dentro di sé, nei suoi gesti, nei suoi sorrisi, nelle sue parole gentili l’aveva fatta sentire meno sola e meno disperata davanti alla tragedia che aveva investito la sua famiglia.
Ripensò alle parole di Nodoka e trovò da qualche parte il coraggio di chiedersi: sua madre sarebbe stata felice della decisione che aveva preso? E lei, Kasumi, era mai stata davvero felice?
Tornò a sedersi alla toeletta e, cercando di calmare il proprio respiro affannato, iniziò mentalmente la rassicurante routine di faccende domestiche immaginarie.
Fare, fare, fare. Per oggi, basta pensare.

Il riposo forzato di Kasumi andò avanti per un paio di settimane, finché una mattina Nodoka non le chiese di accompagnarla a fare una passeggiata.
Quando Kasumi attraversò il portone di casa Tendo e si ritrovò in strada, le sembrò di uscire per la prima volta in vita sua: tutto era talmente luminoso e colorato che ebbe un capogiro e dovette aggrapparsi al braccio della signora Saotome, che con un sorriso incoraggiante cominciò a camminare sostenendola. Kasumi non si rese conto dove Nodoka la stesse portando, ma quando si ritrovarono davanti all'ambulatorio del dottor Tofu, ebbe un violento attacco di ansia e in un tripudio di battiti cardiaci non riuscì a fare un passo di più.
«Kasumi cara, devo entrare a ritirare delle medicine per la pressione del maestro Happosai, preferisci aspettarmi qui fuori?». Non ricevendo risposta Nodoka sfilò il braccio dalla morsa in cui la stava stringendo e si avviò sorridendo verso l’ingresso. «Aspettami qui, allora. Arrivo subito!».
Il cuore di Kasumi batteva all’impazzata, non si spiegava perché essere lì le causasse quelle strane emozioni. Era combattuta tra la voglia di entrare a salutare il dottor Tofu e l’istinto di fuggire via, perché anche solo l’idea che lui la vedesse così… così fragile la destabilizzava.
Dopo pochi minuti la porta si aprì provocandole una nuova ulteriore stretta allo stomaco, ma, con suo grande sollievo prima e delusione poi, ne uscì solo Nodoka, che con due passi fu di nuovo al suo fianco cinguettando garrula un “Mi ha detto di salutarti tanto caramente… Ah! Com’è virile!” che le fece incomprensibilmente e inaspettatamente tremare le ginocchia.
Quella notte, circondata dal buio, arrossì ripensando al proprio emozionatissimo cuore davanti alla targa che recitava tutte le specializzazioni del dottor Ono Tofu, a quel kimono blu sempre curato, alla sua gentilezza. Deglutì e un calore sconosciuto le invase il ventre quando visualizzò le sue belle mani rassicuranti, le braccia forti, i denti candidi quando sorrideva, i suoi occhi scuri e profondi dietro le lenti sempre appannate, il pomo d’Adamo che si muoveva mentre diceva frasi sciocche scherzando con Betty… era così spiritoso e buffo, pensò tirandosi il lenzuolo sulla testa. “Quando tu non ci sei non fa mica così”. Il commento di Akane di qualche tempo prima venne a galla proprio in quel momento dalle profondità della sua anima facendola fremere di imbarazzo.
È davvero bello, il dottor Tofu, ammise tra sé con le orecchie in fiamme, ma perché riusciva a notarlo solo ora? Quell’uomo timido e dolce, più grande di lei di una decina di anni, le aveva sempre ispirato sicurezza e simpatia, era gentile e rispettoso, un bravissimo medico nonostante la sua giovane età, uno stimato artista marziale, molto legato alla famiglia… ma mai prima di allora Kasumi si era concessa di immaginarlo diversamente dal ruolo del cordiale e rispettabile dottor Tofu; mai prima di allora aveva permesso a quel desiderio struggente che ora la investiva di salire in superficie e di farla sentire languida, irrequieta, incandescente. Viva.
Da quella sera il dottor Tofu abitò sempre più spesso i suoi pensieri e nei mesi successivi l’interesse per l’uomo andò di pari passo con il lento riappropriarsi di sé.
In quei giorni l’opera di riabilitazione alla vita ideata dalla sua famiglia, prevedeva che la sveglia Kasumi suonasse tra quella di Nabiki e del maestro Happosai - tavolo da apparecchiare, riso da assaggiare, pesce da arrostire - ma che non si alzasse dal letto prima che i lamenti da panda affamato di Genma arrivassero fino al suo orecchio - bento da preparare, pietanze da impiattare - poi che si sedesse alla toeletta e cominciasse a spazzolarsi i capelli mentre sentiva i passi veloci di Akane salire le scale ed entrare nella camera di Ranma.
Nei lunghi minuti silenziosi che intercorrevano tra l’ingresso della sorella e il rumoroso risveglio del suo fidanzato, il cuore di Kasumi si scaldava immaginando Akane osservarlo teneramente nella penombra e, cullata da quel dolce pensiero, si concedeva il primo sogno a occhi aperti della giornata sul dottore: fantasticava sul suo corpo profondamente addormentato abbandonato sul futon, il respiro lento e cadenzato, il volto accaldato, i lembi del kimono un po’ scostati che lasciavano intravedere l’ampio petto, la bocca socchiusa…
Quando poi i due ragazzi cominciavano la quotidiana pantomima di insulti reciproci, spezzando la magia del momento, Kasumi tornava con i piedi per terra con le guance arrossate e il battito accelerato: allora sapeva che era giunto il momento di infilarsi la vestaglia sulla camicia da notte, scendere le scale e sedersi al tavolo della colazione con la sua chiassosa famiglia.
Nel corso della giornata, un po’ per noia, un po’ per paura, aveva spesso delle ricadute: sentiva le mani formicolare e una frenesia le prendeva la bocca dello stomaco - fare, fare, fare - ma Nodoka con una scusa o con l’altra, le trovava sempre qualche piccola commissione da svolgere fuori di casa, allontanandola il più possibile dalla fonte della sua bramosia.
I primi tempi Kasumi si limitava ad eseguire i suoi compiti e a tornare subito indietro, poi, complici le belle giornate di maggio, cominciò a trattenersi sempre più a lungo in giro, scoprendo il piacere delle passeggiate nel parco, di andare al cinema da sola, di leggere un libro in un cafè o sbirciare le vetrine dei negozi del centro di Nerima.
Il pensiero del dottore la accompagnava sempre, si nascondeva tra i fruscii di un kimono blu scuro indossato da uno sconosciuto incrociato al mercato, tra le note profonde di una risata simile alla sua che la faceva voltare all’improvviso per strada avvampando o in un bacio rubato in uno dei film romantici che amava tanto guardare.
Eppure erano trascorsi mesi dall’ultima volta che si erano visti: forse, pensò con un brivido, nel frattempo il dottor Tofu si era fidanzato o, peggio ancora, sposato! No, una notizia simile le sarebbe arrivata senza meno dal signor Saotome che continuava a dare una mano nell’ambulatorio e che, anzi, le portava costantemente gli affettuosi saluti del dottore.
Kasumi non riusciva a trovare il coraggio di andare a trovarlo, non si sentiva pronta, non sapeva come affrontarlo, in vita sua non aveva mai avuto tempo per le questioni amorose ed era troppo imbarazzata per chiedere consiglio. Ma poi, a chi si sarebbe potuta rivolgere? Le sue sorelle purtroppo non brillavano nelle loro relazioni sentimentali: Akane e Ranma, fidanzati ormai da anni, erano famosi in tutta Nerima per le loro complicate faccende di cuore e Nabiki… si chiedeva spesso perfino se Nabiki avesse un cuore!
Non le rimaneva dunque che affidarsi ai romanzi o alle commedie romantiche.
Fece un abbonamento al cinema Toshimaen e prese a studiare con attenzione ogni mossa, ogni sguardo, ogni battuta, ogni dinamica delle sue storie d’amore preferite, andando a vedere lo stesso film fino a tre volte a settimana pur di apprendere le regole base di una relazione sentimentale.
Un martedì pomeriggio di giugno, a un’anteprima dell’ultimo lavoro della sua attrice preferita, durante una scena particolarmente commovente, Kasumi si ritrovò a singhiozzare e tirare su con il naso, mentre lacrime calde e gonfie le rotolavano giù dalle guance. Prima che prendesse dalla sua borsetta un pacchetto di kleenex, sentì un leggero picchiettio sulla spalla destra e, voltatasi in quella direzione, vide la mano dell’uomo seduto dietro di lei porgerle un fazzoletto di stoffa immacolato e inamidato.
«Prego, prenda pure il mio, è pulito» una voce appena soffiata offrì alle sue spalle, talmente vicino al suo collo da scuoterla con un brivido dalla testa ai piedi.
Kasumi sgranò gli occhi su quella offerta gentile, la prese titubante e ringraziò con un cenno del capo la mano anonima, senza avere nemmeno il coraggio di voltarsi per scoprirne il proprietario. Notò con un leggero batticuore come il fazzoletto odorasse di buono: sapone di Marsiglia con qualche nota di sandalo, il suo profumo preferito.
Passò l’ultima mezz’ora della pellicola come fosse seduta su un cuscino di rovi, le mani sudate strette intorno al fazzoletto prestato dallo sconosciuto con la forte tentazione e, al contempo, il timore di voltarsi per scoprire chi fosse.
Quando si accesero le luci in sala, tremando come una foglia, Kasumi si alzò, si voltò lentamente e rimase di sasso davanti a un altrettanto imbambolato dottor Tofu.
«Ka-Kasumi… anche tu qui? Ehm, ehm... c-che bella sorpresa! Doveva venire anche Betty ma… aveva il corso di ceramica! Eh, eh, eh!».
Mentre lo ascoltava fissandolo senza riuscire a emettere un suono, per la prima volta sentì a fior di pelle il violento imbarazzo che andò ad appannare gli occhiali del dottore e Kasumi, in una sorta di risonanza emotiva, arrossì fino alla radice dei capelli in una nuvola di vapore.
Andarono avanti per qualche minuto, lui a ridacchiare imbarazzato e lei aggrappata al fazzoletto, muta e inespressiva, finché l’inserviente del Toshimaen che doveva pulire la sala non li cacciò spazientito brandendo uno scopettone.
Seguendo il percorso per l’uscita, Kasumi si ritrovò più di una volta a dover tirare Tofu per la manica del kimono per impedirgli di andare a sbattere ovunque e finalmente, dopo un breve ma tortuoso cammino, si ritrovarono fuori dal cinema uno davanti all’altra, guardandosi le punte delle scarpe.
Passati diversi minuti, Kasumi fece un profondo respiro e, accennato un lieve inchino della testa mostrandogli il fazzoletto, pigolò: «La ringrazio dottore, lo laverò con cura e glielo riporterò quanto prima!».
Si voltò e fuggì con le gambe che le tremavano e il cuore che cercava di scappare dal petto, corse a perdifiato fino a casa e quando entrò aveva i capelli in disordine, le guance arrossate e un sorriso meraviglioso che le illuminava anche gli occhi. Tutta la famiglia Tendo-Saotome rimase sbalordita davanti all’immagine inedita di Kasumi che per la prima volta si mostrava per quel che era: una splendida donna di ventuno anni in piena fioritura.
Quella sera si addormentò con il fazzoletto stretto in un pugno inebriata dal suo odore.
Il giovedì successivo, alle quattordici e trenta, dopo essersi pettinata con cura e aver indossato il vestito di lino giallo con le spalline sottili e la gonna al ginocchio, il fazzoletto del dottore lavato e stirato nella borsetta, Kasumi Tendo, occhi luccicanti e labbra rosso ciliegia, si armò di grandi speranze e si avviò verso l’ambulatorio.
Dopo un quarto d’ora di passeggiata sotto un sole cocente, girò l’angolo con lo stomaco aggrovigliato dall’emozione e il suo cuore inciampò davanti all’insegna che le faceva venire la pelle d’oca. Si sentì strana, fece ancora un passo ma le gambe diventarono molli, il respiro accelerò, gli occhi affogarono nell’oscurità e Kasumi perse i sensi.
La sensazione di fresco della pezzuola umida sulla fronte la risvegliò lentamente, restituendole poco a poco la coscienza del proprio corpo indolenzito, di un bruciore pulsante alle ginocchia e, più di tutti, del tamburo che suonava incessante nella sua testa. Con gli occhi ancora chiusi mosse il braccio per toccarsi dove le faceva male, ma una mano ferma le avvolse le dita e la trattenne. Kasumi istintivamente si alzò a sedere facendo scivolare il panno bagnato sul suo grembo, ritrovandosi occhi negli occhi con il dottore. Per pochi, lunghissimi secondi riuscì a scorgerne tutta la tenerezza e l’affetto prima che la solita nuvola di vapore li annebbiasse. «Ka-Kasumi… va tutto bene, hai avuto un colpo di calore, come ti senti ora?».
Si guardò intorno ancora confusa e riconobbe il lettino dove era sdraiata, i poster appesi alle pareti che indicavano i punti dei meridiani energetici del corpo umano per la moxibustione, il lavandino, la bilancia: era nello studio del dottor Tofu. Abbassò lo sguardo e vide le ginocchia escoriate già medicate, le mani graffiate, si toccò delicatamente la tempia dove era stato posto un grande cerotto a coprire il punto dove i tamburi suonavano con più energia. Voltò la testa per tornare su Tofu e quasi cadde dal lettino sobbalzando per lo spavento: a pochi centimetri dal proprio volto c’era il cranio diafano di Betty, le orbite vuote, scure e inespressive che la osservavano mute e prive di vita.
Senza darle il tempo di elaborare un pensiero, lo scheletro parlò con una distorsione ridicola e nasale della voce del dottor Tofu: «Paziente scoppia di salute. Morto il dottore e due infermiere!».
Un silenzio imbarazzante cadde su di loro. Poi, come l’eruzione di un vulcano, si arrampicò dentro Kasumi la risata più grassa, felice e spontanea della sua vita. Cercò di trattenerla coprendosi la bocca con le mani, ma era incontenibile e senza poterlo evitare esplose, riempendo la stanza di gioia. Era talmente limpida e contagiosa che anche il dottore si ritrovò presto senza fiato a tenersi la pancia e dopo pochi secondi, al di là della porta a vetri, si aggiunse anche il signor Saotome con un buffo raglio da panda che li fece sbellicare, se possibile, anche di più.
Quando esausti e paonazzi finalmente smisero di ridere, continuarono a guardarsi complici, con il respiro affannato, asciugandosi gli occhi.
Kasumi prese la testa dello scheletro tra le mani e la baciò sulla fronte.
«Grazie Betty, potresti dire al dottore che vorrei sdebitarmi per la vostra cortesia offrendovi un tè?».
Da quel pomeriggio non fu raro vedere quell’insolito trio passeggiare per Nerima: il dottore riusciva a parlare con lei solo attraverso la voce di Betty e anche Kasumi si sentiva rassicurata dalla sua bizzarra presenza. Andarono spesso al cinema insieme prendendo tre biglietti, dopo lo spettacolo discutevano del film davanti a una tazza di tè matcha o una coppa di gelato. Kasumi e il dottore preferivano i film romantici, possibilmente con trame complicate e drammatiche, Betty era più per il genere horror, ma convennero tutti che, in seguito all’esperienza di insonnia e agli incubi provocati dall’ultimo film scelto dallo scheletro, da quel momento in poi la maggioranza avrebbe deciso il titolo da vedere e quindi: mai più film paurosi, con grande dispiacere di Betty che borbottò qualcosa in favore dei colpi di stato in America Latina.
A furia di frequentarsi, gli occhiali del dottor Tofu presero ad appannarsi sempre meno; Kasumi cercava di trattenersi dal fissarlo per evitare di emozionare troppo entrambi, dal momento che l’equilibrio che avevano raggiunto era precario e delicato e bastava poco a farli cadere in un imbarazzo paralizzante.
Una sera, mentre passeggiavano verso casa, il dottore per caso sfiorò le dita di Kasumi ritraendosi all’istante; lei, il fuoco sulle guance e nelle viscere, si fece coraggio e con un gesto lento ed elegante gli prese la mano.
Lui reagì con una repentina rigidità delle membra, ma, con uno sforzo titanico, riuscì a controllare e reprimere l’annebbiamento pagando quella concentrazione zen con un battito del cuore facilmente udibile anche senza stetoscopio e un mutismo totale fino al portone di casa Tendo, dove, davanti a una Kasumi raggiante e bellissima, non riuscì più a trattenersi e crollò, appannandosi tutto, occhiali e cervello.
Così, prima di dare la buonanotte a un palo della luce e congedarsi con un inchino e una pacca sulla spalla di Kasumi da parte di Betty, si rivolse alla gatta randagia appollaiata sul bidone della spazzatura e guardandola negli occhi gialli e annoiati le chiese, finalmente, di dargli del tu e chiamarlo Ono.
Gli appuntamenti che seguirono consolidarono queste nuove abitudini di tenersi per mano e chiamarsi per nome, cosa che non fu proprio facile e senza imbarazzi.
Il dottor Tofu divenne un ospite fisso e gradito di casa Tendo-Saotome, tutti lo accolsero con entusiasmo ed ebbero, incredibilmente, il tatto e la sensibilità di non accennare mai alla stravagante presenza dello scheletro che continuava ad accompagnare la coppia ovunque.
Per Kasumi, quella fu l’estate più felice della sua vita, circondata dalla sua famiglia e benedetta dallo sbocciare di questo nuovo amore.
Sul suo comodino alla foto di famiglia se ne erano aggiunte altre che la ritraevano nei momenti salienti di quelle ultime settimane: ce n’era una in cui sorrideva, nel suo furisode rosa ai festeggiamenti del Tanabata, al centro tra Akane, Nabiki, Ranma, Betty e Ono; un’altra in spiaggia con il Fuji sullo sfondo, sotto un grande cappello di paglia sottobraccio allo scheletro che indossava per l’occasione occhiali da sole e cappellino da baseball. Ma la sua preferita era quella che la ritraeva su un piccolo molo sul fiume Shakujii, circondata da iris gialli, in sella a un tandem guidato da Ono: lo sguardo del dottore non era per Nabiki che stava scattando la foto, ma tutto per lei, ed era talmente dolce e devoto che Kasumi sentiva il cuore galoppare ogni volta che lo osservava.

La conquista del suo ottimo umore le permise di essere riammessa da Nodoka ai lavori di casa in occasione della preparazione dell’Obon.
Riannodarsi il grembiule dopo tanti mesi le provocò una profonda commozione e per un momento Nodoka, vedendola accigliata, temette di aver commesso un errore. Poi Kasumi la abbracciò senza dire una parola e rimasero così per qualche minuto, raccontandosi mute il loro affetto e la reciproca, profondissima stima. Quando furono pronte, si allontanarono sorridendo e, dopo essersi asciugate gli occhi con il bordo del grembiule, cominciarono a darsi da fare.
Tutti vollero aiutare: Nabiki era l’addetta alla spesa, Ranma, Genma e Soun decorarono l’ingresso e il giardino con candele, lanterne e kadobi, il maestro Happosai acquistò al mercato nero cinese piccoli fuochi d’artificio domestici, mentre Akane si impegnò moltissimo nel tagliare la frutta per le offerte ai defunti.
Quando la sorella mostrò, raggiante e soddisfatta, il suo lavoro, tutti si morsero la lingua fatta eccezione per Ranma che, come al solito, non mancò di punzecchiarla chiedendole sarcastico se, con tutte le schegge del tagliere di legno nascoste negli spicchi di melone giallo e di anguria, non pensasse di uccidere gli spiriti dei loro cari estinti per la seconda volta. Kasumi si trattenne dal ridere e osservando quei due battibeccare e il resto della sua famiglia scherzare e chiacchierare spensierati, le riaffiorò alla mente la riflessione che tanto l’aveva addolorata mesi prima: la loro vita va avanti, anche senza di me. Ma non era più un pensiero di tristezza, bensì di speranza.

L’indomani, come da tradizione, si recarono tutti al cimitero a trovare la signora Tendo e il dottore, insieme all’inseparabile Betty, furono invitati ad accompagnarli.
Dopo aver cambiato i fiori nei vasi, acceso le candele, disposto le offerte e versato più volte acqua sulla lapide, ognuno di loro si inginocchiò e disse una piccola preghiera silenziosa.
Poi, secondo l’usanza, fu Kasumi, la primogenita, a prendere la parola per raccontare allo spirito della signora Tendo cosa fosse successo nell’ultimo anno.
Si schiarì la voce e cominciò: «Okāchan, eccoci di nuovo qui. Grazie per aver vegliato su di noi. Come puoi vedere, nonostante qualche piccolo problema quotidiano, stiamo tutti bene. La signora Nodoka si prende affettuosamente cura di noi e le siamo molto grati per questo. Papà ha ritrovato il sorriso con il suo amico Genma, mentre il maestro Happosai… beh, diciamo che lo tiene parecchio indaffarato». Pacche fraterne e suoni commossi e gutturali accompagnarono le sue parole. «Nabiki ha brillantemente concluso il primo anno di economia in una prestigiosa università privata che è riuscita a frequentare grazie ai soldi guadagnati in questi anni con la vendita delle foto di una certa ragazza col codino…» alle sue spalle sentì una risatina familiare e qualcun altro risucchiò l’aria con sdegno. «La nostra piccola Akane è diventata una splendida donna: è il solito dolce, goffo maschiaccio, ma ha trovato qualcuno che le tiene testa e che, nonostante i litigi e i battibecchi, le vuole molto bene». Le sembrò di percepire fin sulla propria nuca il calore dell’imbarazzo dei due testoni dietro di lei e sorrise. «Per quel che riguarda me, okāchan, molto è cambiato negli ultimi mesi. Come sai, da quando te ne sei andata ho vestito i tuoi panni pensando che mio padre e le mie sorelle non sarebbero stati in grado di farcela senza di te, ma era solo una scusa. La verità è che io non sapevo come vivere senza averti al mio fianco e così facendo ho dimenticato me stessa». Fece una pausa, cercando di sciogliere il nodo che le strozzava la voce. Riconobbe la mano di Nodoka poggiarsi sulla sua spalla mentre qualcuno - suo padre, Akane, o forse entrambi - piangeva sommessamente. «Okāchan, per tanti anni ho cercato di tenermi occupata pensando che fare fosse lo stesso che vivere o amare, ma mi sbagliavo. Ora puoi stare serena perché oggi sono davvero felice!».
Fece un’altra piccola pausa, pescò dal secchio al suo fianco un lungo mestolo di legno e versò un po’ d’acqua sulla lapide di pietra, lo rimise a posto, unì di nuovo le mani in preghiera e dopo un profondo respiro, riprese: «C’è una cosa molto importante che devo dirti, okāchan, la più importante di tutte. Ho portato a farti conoscere l’uomo meraviglioso di cui mi sono innamorata e che mi renderà ancora più felice diventando mio marito, costruendo una famiglia insieme a me. Ti presento il dottor Ono Tofu». Disse in fretta e con la voce che le tremava, finalmente si ricordò di respirare e, soddisfatta della propria audacia, sorrise sulle mani ancora unite.
Tutti trattennero il respiro, abbracciandola in un silenzio emozionato e carico di attesa. Poi, due passi sulla ghiaia e qualcuno si inginocchiò al suo fianco.
Kasumi aprì gli occhi e guardò di sottecchi l’uomo alla sua destra, le mani giunte sulle labbra, rosso come un peperone, le palpebre serrate.
Dopo qualche minuto, il dottor Tofu scartò di lato e dal suo fianco sinistro si affacciò Betty, che con la sua vocina nasale, rotta dalla commozione, disse: «Venerabile signora Tendo, il mio amico Ono è innamorato di sua figlia fin da quando era proibitivo e sconveniente anche che lo confessasse a me: Kasumi aveva solo sedici anni e lui era un giovane dottore da poco laureato. Da allora la sua luce lo ha sempre accecato e stordito, ma con dolcezza e pazienza lei gli sta insegnando ad amarla senza rimanere abbagliato. Signori Tendo, non so perché vostra figlia voglia concederci questo privilegio, ma per me e Ono sarà un onore rendere felice Kasumi ogni giorno della nostra vita!»

Un sospiro generale interrotto da qualche singhiozzo, fruscio di abbracci e nasi soffiati accompagnò il momento in cui Ono, dopo essersi schiarito la voce e aver ringraziato lo scheletro per averlo sostenuto e spalleggiato come il migliore degli amici possibili, si voltò verso Kasumi che gli sorrideva raggiante, la guardò teneramente e senza preoccuparsi della luce abbagliante che gli entrava negli occhi, nel cuore e nella mente distorcendo i colori, le voci e il mondo che li circondava, si disse tra sè: è il giorno più bello della mia vita.
Così - prima che si avvinghiasse piangendo alla lapide della signora Tendo e che tutti stringessero le mani a Betty congratulandosi commossi - con l’ultimo brandello di lucidità rimasta, il dottor Tofu decise che era giunto il momento di fare: si chinò e la baciò a fior di labbra, come fosse il più prezioso dei doni.



Glossario:

Bento contenitore adibito a servire e portare ovunque con sé il pasto.
Furisode kimono formale di seta con le maniche lunghe, solitamente indossato da giovani donne nubili.
Tanabata festa delle stelle, si festeggia intorno al 7 luglio.
Obon è una tradizione buddista giapponese per onorare gli spiriti dei propri antenati. A seconda della zona del Giappone, si svolge a luglio o a metà agosto (come a Tokyo) e decreta la fine dell’estate. È il momento in cui le famiglie si riuniscono e contrariamente a quel che si possa pensare è una festa allegra. Dura tre giorni, si accendono candele e lanterne di carta rossa che rimangono accese per la durata dei festeggiamenti. La parte più importante è la presentazione delle offerte di cibo agli altari domestici dei defunti o al cimitero, dove il primogenito racconta agli spiriti gli avvenimenti dell’ultimo anno e invoca protezione per la famiglia.
Kadobi (fuochi di benvenuto) sono lanterne che fungono da guida per aiutare gli spiriti a trovare la strada di casa e ricongiungersi alla terra.
Okāchan mamma.



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Ciao a tutti e bentrovati! È la prima volta che scrivo di una coppia diversa rispetto a R&A, è stato piuttosto difficile e non sono sicura di aver fatto un buon lavoro… spero davvero che vi sia piaciuto, aspetto con trepidazione i vostri pareri anche critici, sono curiosissima di sapere cosa ne pensate. Comunque è un capitolo un po’ lungo (e a tratti pesantuccio XD!) e mi scuso se vi ho annoiati, del resto non potevo esimermi dall’approfondire il personaggio di Kasumi e darle la redenzione e lo spessore che merita… E dopo le centinaia di mani messe avanti, un grazie alla mia carissima beta Tiger Eyes che non so quante volte ha letto e riletto questa os sull’onda delle mie insicurezze… sei un mito!
Infine, a tutti i lettori che hanno trovato il tempo per lasciare un commento a Dire: GRAZIE!!
Un abbraccio e a prestissimo con Baciare!

 

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Capitolo 3
*** Baciare. ***


Baciare.
 
Nonostante i capelli di Ranma fossero scuri, nella luce abbagliante del sole estivo, apparivano traslucenti come argentee ragnatele tese tra i rami di un albero.
Mossa da una leggera brezza, la folta frangia si era aperta lasciando scoperta parte della fronte, le belle sopracciglia distese e gli occhi chiusi.
Le foglie intanto, in un fruscio sussurrato, proiettavano geometrie variabili di luci e ombre sulla sua pelle interrotta da qualche cicatrice leggera, sulla quale gli zigomi alti, il naso dritto e pronunciato, la bocca rilassata altro non sembravano che alfieri, torri, re e regine su una disordinata scacchiera in movimento.
Akane si soffermò assorta sulle labbra che si schiudevano umide ad ogni respiro, calmo e profondo, in un ritmo regolare e rassicurante al quale tentò di sovrapporsi: lui inspirava, lei inspirava. Lui espirava, lei espirava. 
La casacca rossa - che cominciava ad andargli stretta e oramai lasciava ben poco margine all’immaginazione - si alzava e si abbassava lenta; la mano sinistra, mollemente abbandonata sul ventre, ne seguiva docile il movimento, mentre la destra, assecondando il braccio piegato in un angolo acuto che accentuava le linee asciutte del bicipite, gli faceva da cuscino contro il tronco dell’albero. 
Con un sospiro Akane si chiese senza sarcasmo quale dei due fosse più duro, se la testa di Ranma o il ginkgo sotto il quale era caduto in un coma profondo da circa mezz’ora, subito dopo aver spazzolato in un tempo da guinness dei primati il bento preparato da sua madre.
Lontano, il suono lungo e riverberato di una mazza da softball che colpiva una palla richiamò la sua attenzione. 
Quella stessa mattina aveva farfugliato alle sue compagne di squadra che agli allenamenti pomeridiani avrebbero dovuto fare a meno di lei - purtroppo! - perché doveva assolutamente finire di leggere il libro che le era stato assegnato dalla professoressa Ninomiya - un tale mattone! - e, distogliendo imbarazzata lo sguardo dal loro viso, accennato un inchino frettoloso con la testa prima di fuggire in classe, aveva concluso dicendo che le dispiaceva davvero tanto, anzi: tantissimo
“Bugiarda”.
N-non era una bugia… Questo libro non si leggerà certo da solo! Si strinse il pesante tomo al petto strizzando gli occhi, tentando di mettere a tacere la fastidiosa vocetta nella sua testa con risultati piuttosto scarsi, tanto che quella rilanciò beffarda: “Bugiarda e pure vigliacca!”.
Si fece coraggio e inspirò, montando come panna in un cipiglio fiero e battagliero.
Ok, ok. La verità è che volevo…
Deglutì. Non riuscì nemmeno a formulare la frase che si sgonfiò come un palloncino, maledicendosi.
La verità è che volevo passare del tempo con Ranma perché speravo si ricordasse che oggi…
“Akane, Akane… quando imparerai? Come puoi pensare che lui si ricordi? Illusa!” 
La tizia antipatica che abitava i suoi pensieri non le dava tregua, ultimamente. Quella mattina, poi, si era svegliata ancora più petulante del solito.
Alzò gli occhi sconsolata, le fronde dell’albero le restituirono un’immagine frastagliata e mossa di cielo, foglie e ritagli di luce. 
Per qualche minuto rimase con le palpebre abbassate, accarezzata dal calore del sole e cullata dal canto delle cicale. Poi, attirata come una calamita, tornò su di lui.
“Avanti, dillo che ti piace da morire guardarlo dormire”.
C-Cosa? Ora non esageriamo! Akane la redarguì arrossendo, senza però riuscire a staccargli gli occhi di dosso.
Ranma aveva un modo di abbandonarsi al sonno pieno di fiducia, quasi infantile. Il suo volto perdeva la durezza della competitività, la bocca diventava innocua e indifesa, svuotata della ferocia degli insulti che le urlava durante i litigi o dei sorrisi beffardi che le rivolgeva per prenderla in giro. 
“Va bene, va bene… Diciamo allora che ti mette in pace con il mondo? Troppo melodrammatico?!”
Con un sospiro mesto Akane dovette ammettere che, in effetti, spiarlo mentre dormiva, allineandosi a quel calmo respirare, era diventato rapidamente uno dei suoi piccoli piaceri segreti. 
Quando si accorse di fissare le labbra di Ranma da un po’ troppo tempo e con una certa insistenza, Akane si riscosse guardandosi intorno imbarazzata. 
Stranamente nei paraggi non c’era nessuno pronto a beffeggiarli, sfidarli, ricattarli, corteggiarli o incitarli. Sarebbero stati completamente soli se non fosse stato per un gruppo di ragazze del secondo anno a una ventina di metri di distanza, che pranzava tra chiacchiere e risate all’ombra di un acero, senza far caso a loro due. 
Akane sospirò. Di nuovo.
Beate voi che avete una vita semplice e spensierata. Una vita normale con una famiglia normale, amici normali e, soprattutto, fidanzati normali con cui festeggiare normalmente un normalissimo anniversario. 
Si immaginò per un attimo seduta lì insieme a loro senza doversi preoccupare di niente. Niente sorgenti maledette. Niente teiere. Niente amazzoni sexy, cuoche di okonomiyaki vendicatrici, ginnaste avvelenatrici, pericolosi rivali, subdoli rimedi cinesi… eccetera, eccetera. Improvvisamente si sentì terribilmente stanca. Scrollò la testa e, per l’ennesima volta nell’ultima mezz’ora, aprì il libro alla pagina dove aveva lasciato l’indice e il medio della mano sinistra; cercò senza successo il capoverso dove la sua lettura si era interrotta, ma la sola presenza del baka addormentato di fronte a lei non le permetteva di ritrovare il segno né tantomeno la concentrazione.
“Non essere ridicola e metti via quella noia mortale, entrambe sappiamo che era solo una scusa!”.
Con un gesto esasperato Akane spinse con decisione il libro contro il viso come fosse un paravento.
“Ragazza, ascoltami: approfitta di questo momento di tregua e riempiti gli occhi di quella vista celestiale!” sghignazzò ammiccante la voce.
Arrossendo per i suoi stessi pensieri, ma incapace di disubbidirgli, Akane abbassò di qualche centimetro il pesante tomo, quel tanto che bastava per permettere ai propri occhi di tornare ad osservarlo, pronta a fingersi infastidita dal suo leggero russare casomai si fosse svegliato, sorprendendola a fissarlo. 
“Mi sembra un’idea eccellente, ottima scusa, brava! Vedi che quando ti impegni…”
All’improvviso le ciglia scure di Ranma ebbero un fremito, le pupille si mossero rapide sotto le palpebre sottili, le sopracciglia si aggrottarono in un moto di fastidio, poi mugugnò qualcosa di incomprensibile e tornò la regolarità del respiro, la serenità del sonno sui suoi lineamenti tranquilli. 
Con chi starai litigando, Ranma?
Akane ripose il libro sulle gambe e si sporse su di lui per scansare con delicatezza una ciocca di capelli dai suoi occhi. 
“Ti ricordi? Sono stati la prima cosa che hai notato.”
Un sorriso appena abbozzato addolcì il volto di Akane.
Sì, certo. Come avrei potuto non notarli?!
Non erano neppure suoi in quel momento, ma di una ragazzina dai capelli rossi.
Mentre gli occhi di Ranma-kun le ricordavano la palpitante sfumatura del crepuscolo estivo oppure, a seconda del suo umore, la minacciosa promessa della neve nel cielo di fine gennaio, Ranma-chan aveva due laghi scuri e profondi, di un cobalto intenso, febbricitante, pericoloso eppure caldo e appassionato.
Fino ad allora Akane aveva pensato che quel colore appartenesse solo alla notte, invece: eccolo, prigioniero delle iridi di una bizzarra coetanea che, in un afoso e umido pomeriggio di due anni prima, era piombata all’improvviso in casa sua, trascinata da un panda.
Le era piaciuta da subito, vestita con quegli abiti cinesi maschili inzuppati di pioggia e il portamento fiero: in quella manciata di ore prima di scoprire il suo segreto, aveva pensato che sarebbero diventate grandi amiche e che le sarebbe stata eternamente grata per il solo fatto di essere una ragazza e aver dissipato la minaccia di un matrimonio combinato con un perfetto sconosciuto.
“Già…” chiosò la voce.
Già, sospirò Akane.
Fin da bambina si era sempre proiettata in un futuro da sensei alla guida del dojo della scuola di Lotta Indiscriminata Tendo; l’idea di un uomo forte al proprio fianco come requisito per la realizzazione del suo progetto di vita non l’aveva mai nemmeno sfiorata. 
Quel giorno, invece, scoprì che la sua più che legittima eredità si era tramutata in una squallida dote e con il cuore a pezzi aveva giurato a se stessa che si sarebbe opposta accanitamente a quella unione forzata e infelice.
“Tuttavia, eccoti qui, a distanza di due anni, a sdilinquirti e scioglierti davanti a questo deficiente con il codino! Come è successo?”
Akane schioccò la lingua incrociando le braccia indispettita, le labbra arricciate in un broncio infantile e molto poco convincente. 
Sdi-sdilinquirmi…? Io?! Figuriamoci! Non è assolutamente vero! 
“Oh, sciocchina, sì che lo è!” ridacchiò frivola la sua coscienza.
Prima che Akane potesse replicare, un movimento impercettibile catturò la sua attenzione: una piccola foglia a ventaglio volteggiò nell’aria avvitandosi su se stessa. La seguì con lo sguardo danzare tremula verso il terreno e interrompere la sua leggiadra corsa in bilico sul naso perfetto di Ranma che, con un grugnito infastidito, la fece sollevare per un attimo e scivolare aggraziata sulla propria bocca, illuminata da un raggio di sole intermittente.  
Al primo respiro di Ranma, Akane trattenne il fiato.
Odiandosi, si ritrovò a desiderare con tutte le forze di essere al posto di quella misera foglia quando lui inspirò e lei si avviluppò alle sue labbra carnose aderendo alla loro forma qualche istante, giusto il tempo di un battito mancato del cuore di Akane. Poi, con un soffio poco deciso Ranma la respinse debolmente facendola fremere e sollevare, allontanandola senza tuttavia permetterle di fuggire altrove, catturandola - crudele - con un nuovo respiro.
Beffandosi dei suoi turbamenti, la voce rise soddisfatta: “E allora, stupidina, avevo ragione o no?!”
Akane, sconfitta, assistette impotente alla dimostrazione di quanto fosse in errore altre due volte, finché la foglia non riuscì a liberarsi dal giogo delle labbra di Ranma e non planò leggera sulla casacca rossa.
Senza pensarci un istante, Akane si sporse a raccoglierla e, bramosa ma delicata, se la portò alla bocca.
“Invidiosa di una foglia: come ti sei ridotta, povera te!”.
Cercando di ignorare la voce, con entrambe le mani spinse la sottile lamella verde sulle proprie labbra, chiuse gli occhi alla ricerca di una qualche traccia residua del suo calore e le tornò alla mente, prepotente, la percezione della tiepida morbidezza sotto la plastica tesa del nastro da pacchi alla recita scolastica. 
Quante notti aveva cercato di rievocarne il tepore prima di addormentarsi e in quanti sogni si era intrufolata la sensazione dei loro volti perfettamente incastrati come tessere di un puzzle o la reminiscenza dei suoi capelli che le solleticavano le palpebre chiuse, l’odore inebriante della pelle di Ranma che si mischiava al suo…
“Nulla a che vedere con quella volta che ti ha baciata in versione felina. Non te lo sei nemmeno goduto, quel microscopico bacio, eri troppo concentrata ad arginare la figuraccia davanti a tutta la scuola…” Akane sentì il proprio cuore cadere con un tonfo sordo da qualche parte, dentro di sé, ma la voce, sadica, continuò: “E volendo proseguire la gloriosa carrellata delle esperienze insoddisfacenti che costellano il firmamento del vostro fidanzamento, non dimentichiamo tutti quei quasi: Il quasi bacio nel dojo, il quasi bacio nell’armadio, il quasi bacio quando Ranma aveva frainteso il tuo salvataggio dalla katana di Nodoka, il quasi bacio sull’albero… e chi più ne ha, più ne metta!”
Akane trascurò il rovo di spine che le impediva di deglutire, inspirò profondamente con la bocca socchiusa e la foglia aderì alle sue labbra.
Quando espirò, l’invidia era passata lasciandosi indietro solo un piccolo sorriso malinconico.
Si prese qualche secondo, sotto le palpebre serrate scorrevano rapide le immagini di tutte le carezze, gli sguardi e i sorrisi collezionati in quei due lunghi anni.
“Patetica.”
Akane convenne con la voce che, in effetti, lo era e si biasimò per questo.
Cosa ne era stato dell’Akane orgogliosa e combattiva che odiava gli uomini? Come sarebbe stata la sua vita, oggi, se i Saotome non fossero mai piombati a casa loro? Di getto si rispose: Noiosa. Piatta. Vuota.
Meravigliata dal suo stesso pensiero, aprì gli occhi senza fretta e trovò Ranma sveglio, intento ad osservarla in silenzio.
“Ops… sei stata beccata!”
Non riuscì a dire o a fare nulla, rimase immobile con la foglia sulla bocca, gli occhi sbarrati e il cuore che le batteva all’impazzata.
La voce non perse tempo: “Ascoltami bene, Akane, ci siamo: questo è il vostro momento. Sarebbe così facile mettere un punto a tutta quella sfilza di quasi…” fece una pausa ad effetto poi la incalzò: “Basterebbe avvicinarsi ancora un po’ assecondando la naturale gravità che esercita su di te, chiudere gli occhi per non rimanere abbagliata e...”  
Io… io… mi basterebbe solo un piccolo segno dal cielo, qualsiasi cosa per farmi coraggio… magari un suo gesto o una parolina gentile e… sì! Giuro su tutti i Kami che lo bacerò! Ora. Qui. Adesso!
Quasi rispondendo a quella richiesta, lui la guardò con determinazione e si inginocchiò di fronte a lei; poggiò i palmi a terra avvicinandosi pericolosamente al suo volto, scrutandola come se la stesse osservando per la prima volta.
Akane avvampò, incapace di muoversi, sentì il respiro di Ranma posarsi sulla sua pelle d’oca e un’onda si infranse contro il suo ventre. 
“Oh, Kamisama! Sta succedendo davvero?!” cinguettò eccitata la voce.
Prendendosi tutto il tempo del mondo, Akane, incredula, liberò le proprie labbra dalla foglia abbandonando le mani sul grembo; inclinando leggermente la testa socchiuse gli occhi mentre un batticuore selvaggio la assordava rimbombandole nella testa e nelle viscere, più intenso dei fuochi d’artificio visti qualche sera prima a Sumidagawa, più caldo di quelle labbra perfette così carnose, così invitanti, così vicine… Oh, Ranma…
 
«Ma sei scema, Akane? Che diamine ti ha fatto quella povera foglia?!»
 
Il frastuono dei cocci dell’ennesima speranza infranta riecheggiò dolorosamente dentro di lei.
“Aggiungo subito alla lista: quasi bacio sotto il ginkgo, a scuola, il giorno del vostro secondo anniversario. Ecco fatto!”.
Akane si sentì invadere da una furia cieca e mentre uno tsunami di lacrime stava per esondare dai suoi occhi, il braccio destro, in completa autonomia, era già scattato verso l’oggetto del suo odio profondo, in uno dei fendenti più feroci che avesse mai prodotto.
Ma Ranma fu più veloce di lei e in una frazione di secondo svanì.
«Troppo lenta, maschiaccio!» cantilenò, ridendo appeso a testa in giù, le gambe agganciate ad un ramo basso dell’albero, mentre con l’indice si abbassava la palpebra inferiore esibendosi in una buffa linguaccia. 
Dopo qualche secondo di stordimento, il braccio ancora rigido, teso e vibrante di rabbia, Akane tornò in possesso delle proprie facoltà e balzò in piedi urlando: «Vigliacco! Vieni giù se hai il coraggio!» 
Senza esitare un secondo afferrò da terra “The complete works of William Shakespeare” - milleottantuno pagine, ventinove centimetri per quindici, per sei, Spring Books editore, Londra - e, mettendo in pratica anni di allenamenti di softball, lo lanciò contro Ranma centrandolo in pieno volto e facendolo rovinare al suolo con uno sgraziato tonfo sordo.
Cercando di tenere a freno le lacrime, Akane gli saltò a cavalcioni sul petto e, preso per il colletto della casacca, cominciò a scuoterlo urlando: «Come osi… tu… stupido… idiota… egocentrico… arrogante…! Ti odio, Ranma Saotome! Mi hai sentito? Ti odio!»
«A-Akane… m-mi stai s-soffocando! Fe-fermati… ti prego!».
In un secondo tornò in sé, si bloccò e lo guardò, vedendolo.
Aveva i capelli scarmigliati e striati d’erba, le mani serrate intorno ai suoi polsi nel tentativo di fermarla, il pomo d’Adamo che saliva e scendeva mentre deglutiva, gli occhi spaventati e un bernoccolo che andava gonfiandosi rapidamente sulla fronte.
“Sai, Akane” sussurrò melliflua la voce “non credo che i fidanzati normali festeggino il loro anniversario in questo modo…”
Si sentì stanca e svuotata, non riuscì più a trattenere le lacrime e lentamente si accucciò, posando la fronte sul petto di Ranma che rimase impietrito trattenendo il respiro. Quando Akane cominciò a singhiozzare, lui, incerto, slacciò le mani dai suoi polsi e prese ad accarezzarle i capelli e la schiena con goffa dolcezza. 
«Non ne posso più, Ranma,» sbottò «non voglio più essere così. Non voglio più essere la fidanzata maldestra e violenta!» 
Lui le prese il capo tra le mani e lo sollevò il poco che bastava per guardarla negli occhi; arrossendo un po’ le asciugò le lacrime con i pollici, poi, con un tono che probabilmente voleva essere gentile e quel sorriso sfrontato che le faceva allo stesso tempo prudere le mani e tremare le gambe, le sussurrò: «Akane, non ci vuole niente… guarda me! Quando mi trasformo in una ragazza riesco ad essere perfettamente carina e sexy. Puoi farcela, è molto semplice, credimi: volere è potere!» 
Cosa ha appena detto l’idiota?
“Sono quasi certa che abbia detto che, se vuoi, ti insegna lui a comportarti da femmina. Ha detto che volere è potere, che non ci vuole niente ad essere carina e sexy e quindi, se leggo bene tra le righe, ha implicato che sei tu che non vuoi essere carina e sexy e che quindi è colpa tua. Ha detto: è molto semplice.”
Akane risucchiò l’aria e rigida come un pezzo di legno si tirò su con il busto come fosse di nuovo nel corpo della bambola vendicatrice, le braccia incrociate con forza e i pugni serrati. 
«Ma certo, baka che non sei altro, come ho fatto a non pensarci prima, è davvero molto semplice: TU non ti comporti più come un perfetto imbecille insensibile così IO smetterò di picchiarti!»
Ranma si alzò sui gomiti, le sopracciglia aggrottate e un tono indispettito: «Adesso cosa ho fatto di male?! Non sono IO a comportarmi da imbecille, sei TU che fraintendi in continuazione!» 
«Ah sì?» sibilò «Allora spiegami in che modo avrei frainteso “puoi farcela”, “non ci vuole niente”, “volere è potere”? O quando, appena sveglio, mi hai dato della scema?!» 
«Akane, ti comportavi da pazza! Cosa stavi facendo a quella foglia? A me sembrava che la stessi baciando, per tutti i kami!» 
«Certo che lo stavo facendo, baka!» gridò. «Se aspetto che sia tu a baciarmi…!»
All’unisono spalancarono gli occhi e ammutolirono.
Non… non l’ho detto. Vero?!
“Oh… sì, mia cara… e lo hai detto anche a voce bella alta!” sghignazzò la sua coscienza con un gridolino.
Akane scattò in piedi velocemente, raccolse il libro, la cartella e senza guardarsi indietro farfugliò con voce strozzata: «Lascia stare, devo tornare a lezione. Ci vediamo a casa!»
Prima che fuggisse lasciando l’ombra del vecchio ginkgo come se fosse una stanza, Ranma la prese saldamente per la spalla e la fece voltare. Akane con lo sguardo basso si aggrappò con forza al suo libro e si appoggiò con la schiena al tronco dell’albero.
Con due dita lui le sollevò il mento costringendola a guardarlo e quando Akane lo fece, faticò a mettere a fuoco ciò che si trovò davanti agli occhi.
Ranma le stava porgendo un piccolo fiore stropicciato e mezzo appassito. Lo prese titubante e poi posò su di lui uno sguardo interrogativo. 
La sua tipica posa imbarazzata le strappò un flebile sorriso. 
«B-buon anniversario…» sussurrò talmente in fretta che lei credette di averlo immaginato. 
«Scusa s-se è un po’ rinsecchita» e abbassò ancora di più la voce «ma stamattina… mi-mi sono svegliato presto e ho s-setacciato il parco alla ricerca di una ma-margherita con i petali d-dispari, po-poi l’ho tenuta in tasca tutto questo tempo… e oggi fa così caldo…»
Pensando di aver capito male, Akane istintivamente si chinò verso di lui aggrottando la fronte. 
«Dispari?»
«Ehm sì, di-dispari, perché, ehm, sai… quando… beh, perché qu-quando li s-strapperai… insomma… hai… capito, no?» rispose balbettando e arrossendo fino alle orecchie, mimando il gesto di chi sfoglia un fiore.
«Strappare?» 
Lui divenne se possibile ancora più paonazzo e cominciò a sudare copiosamente artigliando con la mano destra la casacca all’altezza del cuore.
«S-sì… s-strappare i pe-petali di una m-margherita per sapere se qualcuno t-ti a-am…ama… i-in questo c-caso s-se io t-ti… ehm… p-perché, s-sai A-Akane io… ehm… t-ti… i-insomma è un mo-modo p-per di-dirti che…»
 
Sta… sta per caso cercando di dire quello che penso? Sto… di nuovo fraintendendo…?!
 
La voce si prese qualche secondo, poi dolce e commossa le rispose:
La domanda è un’altra, testona: cosa diavolo stai aspettando ancora, che gli venga un infarto?!”
Akane si portò la margherita alle labbra e inebriata da un’improvvisa, fulminante felicità le sfuggì un sorriso così luminoso che Ranma accennò un passo indietro, quasi volesse mettersi in salvo allontanandosi il più rapidamente possibile da quella esplosione. Con il cuore impazzito e un gesto sicuro, Akane lo afferrò per la casacca e lo tirò a sé, si alzò sulle punte dei piedi e poi, riversando il caldo miele dei suoi occhi nel cielo sconfinato di quelli di Ranma, fiduciosa e colma di amore, gli andò incontro e si sporse lanciandosi, senza più alcun timore, verso l’ignoto.
 
 
*********************
 
 
Allora? Soddisfatti del modo trovato da Ranma per dire?! XD
Nella mia linea temporale Baciare si colloca qualche giorno dopo Dire, ma ammetto di aver barato perché il festival di Sumidagawa si tiene l’ultimo sabato di luglio (quest’anno il 30) mentre la scuola in Giappone solitamente finisce qualche giorno prima, intorno al 20… lo so, una imprecisione gravissima , ma insomma, confido nella vostra elasticità!XD
Il librone di Shakespeare esiste davvero… eccolo qui: https://www.abebooks.it/prima-edizione/COMPLETE-WORKS-WILLIAM-SHAKESPEARE-Skakespeare-Spring/1043574298/bd; inizialmente non avevo inserito nella os le sue caratteristiche perché mi sembrava un’informazione superflua, poi ho pensato che il nome dell’editore fosse una simpatica coincidenza che non poteva essere ignorata (“Spring Books”, spring = sorgente)! 
Un enorme ringraziamento va, come al solito, alla mia preziosissima e adorata beta Tiger Eyes e un altro va a Neechin/Cinzia per avermi dato consulenza su tutti i “quasi baci” dei nostri fidanzati preferiti: GRAZIE!
Alla lista avremmo aggiunto volentieri anche quello di Ryugenzawa (durante lo scontro con l’Orochi) e chiaramente quello di Jusenkyo, ma, volendo essere scrupolosi, nel manga non viene tecnicamente esplicitata nemmeno l’intenzione di un bacio, sebbene ci fosse l’atmosfera perfetta (chettepossino Rumiko!!) e quindi, alla fine, ho preferito non inserirli nella lista. A voi ne vengono in mente altri?
Un GRAZIE dal profondo del cuore e un abbraccio a voi che continuate a seguire e a commentare, spero vi sia piaciuta e che vi siate divertiti, fatemi sapere anche stavolta cosa ne pensate!
A prestissimo con Lettera!
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Lettera. ***


Lettera.
 
[Ciao a tutti, questa os racconta un missing moment di “L’uomo col marchio dei fiori di ciliegio” (ed. Neverland, n°29 cap. 216-218). Per chi non avesse letto il manga questo è il relativo episodio dell’anime (nº149): “Chi è l’uomo giusto?” in lingua originale con i sottotitoli in inglese. Buona lettura!]
 
 
 
Carissima Akane, 
io ti amerò per sempre con passione immutata. 
È dunque       sta la felicità?
Il cuore    mbra dirmi: perché no? 
La testa, invece                 imposs      che tu sia finalmente mia!                          
Mia     lce Akane, ti domando: perché no? 
Tu sei il mio unico,    nde, vero am              come te          ‘è nessuna!
Amo   tto di te, la tu    ergia luminosa, la tua forza, persino       manicaret
Pe   hè no, Akane?
                                            la mia vita                            un sogno che finalmente 
                                       io e te 
Giuro                 ascerò mai sola
                      ti tratterò con rispetto                                    
sono affidab   , un uomo leale e sinc
      cellente artista marziale, non temer          rrò a parlare con tuo padre
del nostro fidanza    to, non potrà opp     al nostr  more
il dojo Tendo sarà in buone mani perchè io                                                              
                                      non sono          
              quell’idiota 
di Ranma
                               
Perché no, A    e?
 
Tuo
Ry  a Hibiki



La risposta era lì, chiara e tonda, in quelle misere, naufraghe parole abbracciate strette in un mare di inchiostro: isole in un oceano di solitudine. 
 
Perché io non sono quell’idiota di Ranma.
 
Quando Ryoga riuscì a tornare alla sua tenda nel parco di Nerima, trovò tutto come lo aveva lasciato. Lo zaino, la vaschetta con la china rovesciata a terra e lei: la pergamena sulla quale, due giorni prima, aveva iniziato a scrivere ad Akane una lunga lettera d’amore. 
Si cullò nel tepore del ricordo della felicità che aveva accompagnato quel momento, forse il più bello della sua giovane vita. 
Si accucciò sull’erba, raccolse la lettera e la osservò con uno sguardo vuoto. Era per lo più illeggibile, la china schizzata da Ranma e la rugiada notturna avevano trasformato quelle che un tempo erano state parole in liquide rose azzurrine. Qui e là qualcosa si era ancora salvato, concetti e pensieri come semi d’amore che non sarebbero mai sbocciati negli amati occhi di Akane. 
Scosse la testa e si alzò in piedi sulle gambe malferme.
Doveva farsene una ragione: era la fidanzata di Ranma. La bella, dolce, intelligente, solare, generosa, testarda e maldestra promessa sposa di quel fortunatissimo bastardo arrogante.
Strinse i pugni e accartocciò la lettera tra le mani, digrignò i denti e poi abbandonò le braccia lungo i fianchi, completamente senza energia. 
Tu sei un proprio gran casino, Ryoga
Fece per ridere, ma invece di una risata, un grugnito si alzò al cielo e un’ombra scura attraversò i suoi occhi sbarrati: P-chan stava cominciando a prendere il sopravvento.
Urlò di rabbia mettendo in fuga alcuni bambini che erano venuti a recuperare un pallone rotolato vicino al suo accampamento. 
Odiava profondamente il suo alter ego, eppure se non fosse stato per lui non avrebbe mai conosciuto la vera Akane, quella privata, oscura a chiunque, perfino a Ranma. 
P-chan aveva accesso a tutti i più reconditi segreti della ragazza, aveva il privilegio di viverla e osservarla quando era sola, quando tutte le sue difese erano abbassate, quando canticchiava sovrappensiero mentre faceva i compiti, quando parlava davanti allo specchio immaginando botta e risposta ad effetto con Shampoo, Ukyo o Kodachi, quando camminava avanti e indietro con i libri sulla testa per acquisire una postura elegante o quando tirava fuori dal suo nascondiglio il libro di esercizi che prometteva di aumentare il seno di una taglia. 
Solo P-chan poteva sapere che ogni notte, appena spenta la luce, sdraiata nel letto nel buio della propria stanza, Akane avesse l’abitudine di avvicinare teneramente la propria mano alla bocca e, simulando con pollice e indice delle labbra, facesse le prove generali per un bacio che Ryoga avrebbe ucciso per ricevere.
Solo P-chan sapeva quante volte Akane nel sonno - quando era più vulnerabile e più sincera, specialmente con se stessa - tra denti serrati, lacrime disperate o sospiri accaldati avesse pronunciato il nome di quell’idiota baciato dai kami.
Ogni tanto capitava che Ryoga si confondesse e le si avvicinasse con la stessa familiarità e confidenza del suino e a quel punto lei, pur trattandolo con gentilezza, ripristinava la giusta distanza tra loro, facendogli capire bene quale fosse il posto dell’uomo: sicuramente non al proprio fianco. Figuriamoci tra le sue braccia o tra i suoi seni. 
Mentre P-chan sì. P-chan era entrato a pieno diritto nel cuore e nel letto di Akane: quel dannato maiale era oramai molto più di un animaletto domestico per lei, era un amico indispensabile, un confidente speciale, un compagno insostituibile. 
Ryoga invidiò e odiò il porcellino nero con tutte le sue forze, lo maledisse imprecando contro il cielo, contro le sorgenti di Jusenkyo e, ovviamente, contro Ranma; poi, si bloccò all’improvviso. Il lampo di luce negli occhi iniettati di sangue e il ghigno affilato comparsi sul suo volto spaventarono a morte una vecchietta con un cagnolino al guinzaglio che si era inoltrata nel parco fino alla sua tenda.
La risata cavernosa e folle che seguì - che mise in fuga anche la giovane coppia in cerca di un angolino tranquillo dietro qualche cespuglio - annunciò l’idea ancora più folle appena partorita dalla sua mente.
Che male ci sarebbe stato se avesse preso le sembianze dell’animale di compagnia di Akane fino alla fine dei suoi giorni? In questo modo avrebbe potuto accompagnarla per il resto di quella vita di cui lui, l’uomo Ryoga, mai avrebbe potuto fare parte se non come comparsa: lo sfortunato eterno disperso, l’acerrimo amico di Ranma ovvero il suo migliore nemico
Con un sospiro sognante si immaginò di lì a dieci anni, un maialino un po’ sovrappeso accoccolato sulla pancia di Akane, seduta sul letto, la schiena adagiata su soffici cuscini contro la testiera e le gambe distese: sarebbe stato bello, già sentiva il calore del suo corpo scaldarlo e coccolarlo.
Lei, più luminosa che mai, avrebbe sferruzzato senza sosta una massa non meglio identificata di lana gialla e lui l’avrebbe guardata tutto il giorno adorando la sfericità perfetta del suo seno, le guance palpitanti e rosate come peonie in procinto di sbocciare, le labbra rosse e insolitamente turgide dischiuse in un sorriso.
Sarebbe stato lì in religioso raccoglimento, annichilito da tanta bellezza, finché dalla pancia stranamente arrotondata di Akane un calcetto non lo avrebbe colpito con una forza inaspettata, cogliendolo alla sprovvista e facendolo rotolare giù dalla sua amata e dal letto. Dannato moccioso! Tale padre, tale figlio! 
Con la protezione di Akane e un po’ di fortuna, sarebbe uscito indenne - o quasi - dall’infanzia dispettosa della nidiata di piccoli Saotome che lei avrebbe messo al mondo in rapida successione. 
Anno dopo anno, stagione dopo stagione, sarebbero ingrigiti insieme; con lei avrebbe festeggiato le nascite dei figli dei suoi figli e con lei avrebbe pianto la scomparsa dei suoi cari. Nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, finché morte non li avesse separati. Lui e lei. Lei e lui.
E Ranma?
Ryoga si riscosse dal suo sogno a occhi aperti. 
Ranma avrebbe vissuto davvero la propria vita al suo fianco, con due vere braccia per stringerla, due vere mani per accarezzarla, una vera bocca per baciarla, un vero corpo per amarla.
Sbuffò cercando di ignorare il nodo che lo stava strangolando. 
Che tristezza Ryoga Hibiki, nemmeno nei tuoi sogni riesci ad ottenere ciò che più desideri al mondo. 
Si lasciò cadere esausto con la schiena sull’erba, braccia e gambe aperte, sconfitto. 
Nel cielo gonfie nuvole bianche correvano veloci. Per un momento si distrasse perdendosi nelle storie raccontate da quei giganti di panna montata. Vide un elefante. Una scodella fumante di ramen, una balena e una volpe. Poi una sedia che si trasformò in una giraffa con il collo lungo. Molto lungo. Talmente lungo che presto dichiarò la propria indipendenza proseguendo la sua storia da ombrello, mentre il resto del corpo dell’animale continuò la propria tramutandosi in una puledra. No: un unicorno. Sulla sua groppa comparve il primo cavallerizzo, poi il secondo; Ryoga riconobbe commosso in quei due se stesso e Akane che galoppavano felici. Ma ecco un cumulonembo più scuro e veloce passare sopra di loro; a guardarlo bene sembrava che avesse il codino… al suo passaggio, il nuvolone portò via con sé Akane, mentre il fantino Ryoga, rimasto solo, si dissolse insieme al suo destriero in tante tristi nuvolette. 
Onore a te, prode cavaliere Hibiki, che tu possa piovere sulla testa di Ranma Saotome, quel bastardo fortunato!
Cercò da qualche parte la forza di ridere, ma non trovò nemmeno un briciolo di energia per farlo. 
Certo, questo sì che sarebbe stato interessante, chissà se da qualche parte in Cina esisteva un maestro che gli potesse insegnare una tecnica con la quale controllare le nuvole… per il resto della sua vita l’avrebbe lanciata su quell’idiota trasformandolo in ragazza ogni qualvolta si fosse avvicinato ad Akane, rendendo quantomeno imbarazzanti certi momenti intimi tra di loro. O l’avrebbe usata su Shampoo ogni volta che si fosse aggrappata al collo del bastardo finché non fosse morto di paura o si fosse gattizzato in maniera talmente radicale da dimenticarsi persino di essere un uomo. 
Ma sarebbe servito a qualcosa? Akane avrebbe smesso di cercare le attenzioni di quel buzzurro? Ryoga tentennò. Il ragazzo e il porcellino avrebbero risposto diversamente a questa domanda: ciò che uno sapeva, l’altro aveva deciso di ignorare con ottusa ostinazione.  
Sbuffò e si portò un braccio sugli occhi, cercando di alzare un argine che impedisse alle lacrime di scorrere. In quelle ultime ore aveva assaporato la speranza di essere corrisposto, ed era stata così dolce… 
Certo, ad essere sincero, quella di Akane non era stata propriamente la dichiarazione dei suoi sogni: “Se vuoi, Ranma, amerò sul serio Ryoga!” sembrava più che altro l’intenzione di un dispetto, ma era comunque un inizio sul quale lavorare e se c’era una cosa che amava tanto quanto amasse Akane, era infastidire quel deficiente di Saotome! Quindi, perfetto: due piccioni con una fava, anzi, due piccioncini con un sakura-mochi!
E allora perché quel senso di amaro in bocca? 
A dirla tutta, non gli era piaciuto nemmeno scoprire che Akane avesse affidato a dei dolcetti magici la scelta del suo uomo del destino, tuttavia, trattandosi proprio di lui - io? L’amore della vita di Akane Tendo?! - se l’era fatta andare bene e si era consolato pensando che lei avrebbe imparato con il tempo a volergli bene e che, prima o poi, lo avrebbe apprezzato e amato tanto e più di P-chan e Ranma messi insieme. 
E allora perché quel senso di vuoto? 
«Veramente io mi sposerò con Ryoga?» aveva chiesto a bruciapelo al maialino. 
Ryoga poteva prendere in giro Ranma - e l’aveva fatto, oh, se l’aveva fatto - ma non poteva ingannare se stesso. Aveva visto perfettamente lo sguardo cupo di Akane, aveva colto l’inflessione preoccupata della sua voce, come se cercasse negli occhi puri e sinceri del fido P-chan la rassicurazione che no, non sarebbe andata così, che mai e poi mai avrebbe sposato Ryoga. 
La sua felicità già precaria si era sgretolata completamente quando, vedendo le impronte del porcellino sul volto di Ranma, Akane aveva esclamato raggiante: «Pensavo di rompere il nostro fidanzamento, ma se sono comparsi così tanti petali non possiamo certo separarci!».
Quelle parole riecheggiarono nella sua mente, colpendolo una per una come fossero martellate e, ciliegina sulla torta, il sorriso smagliante che lei aveva dedicato a Ranma, a commento di quella frase, non era sfuggito a nessuno dei due ragazzi.
Il maledetto destinatario di quelle attenzioni era arrossito e si era ammutolito, le mani che stringeva intorno al collo di P-chan si erano fatte all’improvviso calde e sudate e il porcellino aveva sentito chiaramente il suo battito cardiaco accelerare. 
Se Ryoga fosse stato al suo posto l’avrebbe stretta forte tra le braccia, poi, dopo averla guardata a lungo negli occhi, avrebbe posato le labbra su quelle di Akane, permettendole finalmente di mettere in pratica quanto aveva provato e riprovato sulla propria mano ogni notte da quando l’aveva conosciuta.
Lui, invece - l’imbecille, l’imbranato, l’ingrato - aveva farfugliato qualcosa e, senza avere il coraggio di muovere un dito, l’aveva lasciata rientrare in casa guardandola imbambolato camminare felice a un metro da terra. 
Per tutti i kami, si può essere più cretini di così?!
Ryoga si alzò a sedere e guardò assente la palla di carta ancora stretta nel suo pugno. La riaprì e il suo sguardo si posò su una riga a caso: 
 
ti tratterò con rispetto.
 
All’improvviso gli saltò agli occhi quanto fosse inopportuna quella parola nella sua bocca. Lui, che l’aveva sempre ingannata con la sua doppia identità, come osava parlare di rispetto? Come osava definirsi sincero e leale?
Ryoga prese su due piedi la decisione più importante della sua vita: avrebbe scritto una nuova lettera in cui le avrebbe raccontato tutto, per filo e per segno. Avrebbe lasciato a lei la possibilità di decidere se allontanarlo per sempre o estendere il suo affetto nei confronti del suino anche all’uomo Ryoga. Era finalmente pronto.
Rinvigorito dall’impresa, corse dentro la tenda e dopo qualche secondo uscì stringendo tra le mani un nuovo foglio e la china: è giunto il momento della verità, Akane, ora o mai più!
 
*
«Ho vinto!»
Akane batté il palmo della mano sul portone di casa Tendo ridendo. Aveva il fiatone, il cuore che sembrava voler uscire dalla bocca ed era completamente inzuppata di pioggia, ma sprizzava gioia da tutti i pori per essere riuscita a battere Ranma in qualcosa. Poco prima, mentre tornavano da scuola, un acquazzone li aveva colti di sorpresa senza ombrello costringendoli a fare una corsa fino a casa. 
«Non vale! Ho dovuto rallentare… ho visto il mo-mostro peloso dei vicini che mi-mi guardava con uno sguardo gia-giallo e cattivo na-nascosto sotto una macchina pa-parcheggiata! Mi-mi guardava, Akane, capisci?! Mi gua-guardava d-dritto n-negli occhi… Co-come se volesse mi-minacciarmi…» Esclamò Ranma-chan rabbrividendo con un'espressione terrea mentre strizzava la treccia rossiccia.
«Sì, come no. Abbi il coraggio di ammettere che sono più veloce di te almeno come ragazza, vigliacco che non sei altro!» 
«Ti ho fatto vincere solo perché sono gentile e sensibile. Con quei fianchi larghi e quelle gambette corte mi facevi quasi tenerezza!» le rispose Ranma beffardo esibendosi nell’indubbia imitazione di un nano storpio che correva.
Un grugnito allegro alle sue spalle interruppe appena in tempo lo tsunami di insulti che stava per vomitare addosso a quel deficiente.
«P-chan!» Akane si inginocchiò a terra incurante delle pozzanghere e prese in braccio il porcellino che le saltò al collo, felice. «Sono due mesi che non ti fai vedere, dove eri finito? Sai quanto mi sei mancato, sciocchino?» 
«Oh, sì. Sai quanto ci sei mancato, sciocchino?» le fece eco sarcastico Ranma, le braccia conserte e gli occhi a fessura. 
«Baka, smettila! Ma cos’hai qui, piccolo?» Akane sfilò dalla bandana intorno al collo di P-chan un foglio arrotolato, piuttosto logoro e macchiato; lo aprì e lo lesse. 
«Di che si tratta?» chiese Ranma avvicinandosi incuriosito.
«Chissà! Purtroppo è illeggibile, con la pioggia l’inchiostro si è sbiadito» appallottolò la pergamena e la passò a Ranma che la lanciò facendo canestro nel cestino dall’altra parte della strada. 
Il cielo lampeggiò con un brontolio e ricominciò a piovere. «Andiamo dentro, abbiamo tutti bisogno di un bagno caldo. Anche tu P-chan!» Akane lo sollevó all’altezza del proprio volto ma il sorriso che gli stava dedicando le morì sulle labbra. L’animaletto era esanime, con gli occhi rivoltati, in uno stato di incoscienza. 
«P-chan! Che ti succede?» Akane urlò scuotendolo con forza, il maialino si riprese dal suo stato catatonico e, dopo averla guardata intensamente con occhi sgranati e liquidi, si divincolò come un forsennato, saltò giù dalle sue braccia e scappò via sotto la pioggia battente, più veloce della luce. Akane avrebbe giurato di vedere delle lacrime scorrere sul suo musino.
«P-chan!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
«Non ti preoccupare, tornerà» intervenne Ranma flemmatico. 
«Tu dici?» con il pianto in bilico sulle ciglia e la terribile sensazione di aver profondamente ferito in qualche modo il suo piccolo amico, avrebbe voluto rincorrerlo e cercarlo, ma il fulmine che la attraversò quando Ranma la trattenne per le spalle avvicinandosi e guardandola dritta negli occhi, la inchiodò sul posto. Anche se in quel momento aveva l’aspetto di una ragazza, ormai per Akane non c’era più differenza. Ma poi, c’era mai stata?
«Torna sempre. Stai tranquilla, non ci libereremo così facilmente di lui!» le disse Ranma con voce calda e un ampio sorriso che le fece quasi cedere le gambe.
«Ci libereremo? Noi? Tu che c’entri, ti ricordo che P-chan è il mio animaletto, la cosa non ti riguarda affatto!» Fingendosi arrabbiata, Akane si voltò bruscamente per liberarsi dall’imbarazzo e dal batticuore oltre che dalla presa di Ranma. 
«E io che volevo consolarti! Sei sempre la solita scorbutica e per niente carina! Sai che c’è...? Chi se ne frega di quel suino maledetto!» Ranma entrò in casa sbattendo il portone e continuando a inveire contro di lei. 
Akane aspettò ancora qualche minuto sulla porta di casa sperando che il maialino si facesse di nuovo vivo, poi, prima di rientrare, diede un ultimo sguardo al cielo. 
La pioggia stava diminuendo, pesanti nuvoloni neri si muovevano rapidi svelando già ritagli di cielo azzurro. Il suo sguardo fu attirato da una vaporosa poltrona argentea che si era evoluta in fretta in una teiera, poi in una pagoda, un grosso cane-ippopotamo plumbeo ed infine… possibile che… ma certo, non poteva sbagliarsi… quello era proprio il suo P-chan! Akane lo prese come un segno di buon auspicio e sentì la sua anima distendersi. 
Inspirò profondamente e strillò a pieni polmoni contro il cielo: «Torna presto! Come farei senza di te?!» In tutta risposta l’allarme dell’auto parcheggiata poco più avanti cominciò a suonare, il gatto dei vicini schizzò fuori dal suo nascondiglio con un miagolio che sembrava una sirena dell’oltretomba e i cani del quartiere si unirono in concerto abbaiando e ululando, sollevando le proteste di tutto il vicinato.
«Akane! Ti ho sentita gridare, tutto bene?!» Ranma si affacciò ansimante alla porta di casa, scalzo, di nuovo ragazzo, i capelli gocciolanti, un asciugamano intorno alla vita e nient'altro addosso. Ci volle tutta la sua volontà e la sua proverbiale ostinazione per non spalancare gli occhi facendoli correre su e giù su quel corpo statuario e tenere la mascella al suo posto… balbettò qualche sillaba slegata poi, con uno sforzo immane, deglutì, riprese possesso di sé e rispose: «Se avessi corso così anche prima mi avresti certamente battuta…» poi continuò con una punta di malizia, sporgendosi leggermente verso di lui e incrociando le braccia: «non mi dire che ti preoccupi per me!?» 
L’espressione di stupore, imbarazzo ed infine fastidio di Ranma fu impagabile: mentre si arrampicava sugli specchi impastando insulti misti a scuse, Akane rise con il cuore leggero pensando: questa devo proprio raccontartela la prossima volta che ci vedremo, P-chan!
 
 
 **********
  
 
Carissimi, siamo quasi giunti alla fine di questa raccolta, grazie di cuore per avermi seguito fin qui! Questa volta siamo alle prese con i pensieri di Ryoga che, come tutti sappiamo, vede P-chan come una malattia, come una vergogna terribile e un ostacolo alla sua felicità (ancora rido quando ripenso al primo dialogo del manga tra Ranma e Ryoga: “Ranma Saotome distruggerò la tua felicità!” Il baka si gira verso Akane e le chiede serio ”Secondo te sono felice?”). Invece proprio il tanto odiato P-chan, ironia della sorte della Divina Rumiko, è l’oggetto dell’affetto incondizionato di Akane, quello a cui Ryoga non avrà mai accesso. Nei capitoli del manga a cui faccio riferimento, come sapete, con un triplo carpiato di abusi psicologici e maltrattamenti nei confronti di un proprio personaggio (XD), la Takahashi si accanisce contro il povero Ryoga facendogli credere di essere lui l’uomo del destino di Akane a causa di un malinteso creato proprio da P-chan…! 
Ehm… Vabbè, scusate l’accollo, mi sono lasciata trasportare, ma non smetterei mai di elucubrare sul magnifico manga di Ranma ½! 
Un ringraziamento immenso a chi mi ha scritto e commentato finora, siete preziosissimi! Vi prego di continuare a supportarmi, il vostro sostegno è fondamentale!!
Infine un GRAZIE macroscopico alla mia Tiger Eyes che, come sempre, ha avuto la pazienza di leggere per prima e correggere: un inchino alla mia grande sensei!
Un abbraccio e a presto con “Testamento. (Dieci pensieri prima di morire)”
 
 

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Capitolo 5
*** Testamento. Dieci pensieri prima di morire. ***


Testamento. Dieci pensieri prima di morire.
 
[Carissime/i, non saprei bene come definire questa os, è un missing moment del cap 394, “Il labirinto sotterraneo” - meglio: un approfondimento - ma anche un what if e un amarcord (proprio nel significato letterale “io mi ricordo”) di pietre miliari tra R&A. In appendice troverete tutti i riferimenti ai capitoli del manga. Buona lettura!]
 
Monte Hooh, Bayan Har Shan, provincia di Qinghai, Cina.
 
Quando Ranma riprese i sensi, la prima cosa che pensò, masticando l’impasto di sangue e pietrisco, fu: è indubbiamente più gustoso dei biscotti di Akane.
Gli ci volle qualche secondo per tenere a bada la nausea che lo colse, poi si passò la lingua sul labbro spaccato e rise per la sua brillante battuta, ma, invece della solita risata gradassa che si aspettava di ascoltare, alle sue orecchie arrivò uno strano verso sgonfio e sfiatato che lo spaventò, facendogli passare in fretta ogni ilarità.
Un violento attacco di tosse gli svuotò i polmoni da ciò che rimaneva dell’ultimo respiro fatto prima che venisse travolto dalla frana e, con un brontolio crudele e vagamente irriverente, le rocce che gli premevano sulla schiena ne approfittarono per conquistare altro spazio a scapito del suo, facendolo affondare ancora di più nel terreno fangoso. 
Qualche imprecazione più tardi, dopo che il monte Hooh smise di ringhiare e sembrò che il peggio fosse passato, Ranma finalmente tornò a respirare, ma l’aria era talmente satura di umidità che temette di affogare: annaspò sputando terriccio e le sue costole gemettero scricchiolando sotto il peso della montagna.
Come un riflesso lontano, gemello di quello stesso lamento, il suo secondo pensiero esplose dentro di sé tanto violento e sorprendente quanto l’abbraccio spezzaossa di Akane al rientro dallo scontro con Herb.
Ora come allora, le sue viscere reagirono con uno spasmo e Ranma fece una smorfia per dissimulare l’emozione che, ancora una volta, lo colse impreparato al ricordo della propria casacca azzurra inzuppata dalle lacrime di Akane, ai singhiozzi che avevano fatto sussultare quel seno - tutt’altro che piatto - stretto contro di lui. 
Arrossì rievocando il profumo dei capelli di Akane, talmente carezzevole e dolce da stordire i sensi e intorpidire il corpo… o forse era solo la sua presa letale da lottatore di sumo, chiosò. Gli tornò la voglia di ridere ma, di nuovo, si spense in un ghigno amareggiato. 
Se non ci fossero stati quei guastafeste di Mousse e Ryoga a guardarci, forse io… forse noi… in un attacco di estrema onestà non finì la frase nemmeno nella sua testa, perfettamente consapevole che, per colpa della sua timidezza patologica, anche se non ci fosse stato nessuno a spiarli, seppure fossero stati soli in casa o addirittura in tutta Nerima… insomma, perfino se fossero rimasti gli ultimi esseri viventi sulla terra, purtroppo, non sarebbe cambiato assolutamente nulla: non avrebbe mai trovato il coraggio di ba-baciar… ehm… di corrispondere quel gesto affettuoso.
Da quel giorno, la sensazione di Akane allacciata stretta intorno a lui aveva preso a fare capolino ogni sera tra i suoi pensieri, insinuandosi, infida e assassina, nello spazio indifeso tra la veglia e il sonno. Sebbene all’inizio avesse lottato con se stesso per non farlo, alla fine Ranma aveva ceduto e si era ritrovato a immaginare centinaia di simulazioni di realtà alternative di quella scena, sviluppandole con la capacità analitica di uno stratega. 
Purtroppo, a dispetto della spavalderia che sfoggiava in ogni ambito della sua esistenza - ma che svaniva misteriosamente quando aveva a che fare con lei - in nessuna di quelle fantasie la situazione si era evoluta diversamente. 
Si era concesso giusto qualche piccola differenza: uno sguardo più indugiato, un sorriso appena accennato, una guancia accarezzata… ma in tutte le più che realistiche rielaborazioni di quel momento, Akane aveva continuato a piangere con la faccia affondata nel suo petto stritolandolo come un boa constrictor e lui, sciagurato, era sempre e comunque rimasto lì, impalato davanti alla porta del bagno, con le braccia abbandonate e il respiro mozzato. Un perfetto, impacciatissimo idiota.
Da qualche parte in alto, sopra di lui, una gragnola di piccoli sassi gli piovve addosso come fossero insulti, inasprendo la sua frustrazione.
Se solo Akane avesse saputo, o meglio, se solo Ranma avesse avuto il coraggio di confessarle quante volte, nelle gelide notti degli addestramenti con suo padre, chiuso nel sacco a pelo, le mani dietro la nuca e gli occhi puntati su milioni di stelle, quell’abbraccio lo avesse scaldato e confortato… chissà lei come avrebbe reagito. Lo avrebbe preso in giro? Lo avrebbe picchiato dandogli del pervertito? O lo avrebbe abbracciato di nuovo, arrossendo imbarazzata?
Dopo quell’episodio, senza rendersene conto, Ranma aveva iniziato a trasferire l’emozione e l’adrenalina di ogni partenza direttamente all’aspettativa del ritorno, con la speranza sempre viva che Akane lo avrebbe accolto con lo stesso entusiasmo imbranato del suo rientro dal monte Horai. 
Un rombo non troppo lontano lo ricondusse repentinamente lì, nel ventre della montagna dove si trovava. Digrignando i denti fece l’appello dei suoi arti per capire se fosse tutto intero, ma non appena accennò a spostarsi provocò un nuovo smottamento delle rocce e un'ulteriore limitazione dei suoi movimenti.  
Maledizione! Ranma inveì urlando contro il monte Hooh. Non si era battuto vittoriosamente sui campi di gara più disparati - dalle palestre di ginnastica artistica alle sale da tè - per andare a morire miseramente sotto quattro sassi cinesi… Doveva solo impegnarsi di più, trovare la giusta concentrazione e in un batter d’occhio avrebbe certamente escogitato un piano per uscire dal guaio in cui si era cacciato. Era l’erede della Scuola di Lotta Indiscriminata, il migliore artista marziale del Giappone, giusto?! 
Invece, a bruciapelo, il suo terzo pensiero lo riportò come un elastico ad Akane: perché non l’ho salutata prima di partire per questo viaggio?
Ranma l’aveva aspettata sulla banchina del porticciolo perdendo tutto il tempo che aveva potuto, intrattenendosi con le ultime raccomandazioni di sua madre, Kasumi e Soun; perfino Nabiki era venuta a salutarlo senza chiedere in cambio nulla o quasi (giusto una saponetta per dimagrire come souvenir).
Una volta salpato per la Cina, Ranma aveva mantenuto lo sguardo fisso sul molo fino a quando non gli erano sembrati tutti puntini all’orizzonte, con la speranza di vedere l’inconfondibile figura della sua fidanzata girare l’angolo degli ultimi frangiflutti correndo, sbracciandosi e urlando parole al vento per lui ormai incomprensibili.
Subdola, la malevola zona del cervello di Ranma dedicata ai litigi con Akane - troppo vicina e talvolta sovrapponibile all’area delle reazioni infantili e delle idee stupide e controproducenti - gli aveva suggerito che, nonostante lui fosse in partenza per quello che sarebbe potuto essere il viaggio più pericoloso della sua vita, lei, pur di mantenere il punto non si sa bene su cosa - forse sull’ennesimo attacco di gelosia nei confronti di Shampoo - non lo aveva ritenuto nemmeno degno di un ultimo saluto!
Dannazione, è proprio una donna fredda!
Una rabbia sorda lo infiammò di nuovo dalla testa ai piedi, doveva assolutamente dire a quel maschiaccio con i fianchi larghi… quel… quel tronco d’acero privo di qualunque sex-appeal, quell’hosomaki con le braccia ciò che pensava di lei. 
Si intenerì davanti al fuoco che lo aveva rinvigorito alla sola idea di insultare Akane ancora una volta e strinse i pugni nel tentativo di strangolare la malinconia che lo colse all’improvviso. Per tutti i kami, voglio tornare al più presto e litigare con lei!
Provò a muovere le gambe semi addormentate, ma le pietre aguzze che lo puntellavano al suolo come chiodi non sembravano avere alcuna intenzione di lasciarlo andare, anzi, gli si piantarono ancora più in profondità nella carne e ogni fibra del suo corpo urlò dal dolore. Un’altra imprecazione gli si spezzò tra i denti. Un pesante senso di morte imminente lo pugnalò alla gola e si sentì terribilmente solo e stupido. 
La quarta cosa che pensò fu brutale, disperata: e se non dovessi rivederla mai più?
 
Plic. Plic. Plic. 
 
Il suono lontano di una goccia d’acqua fu l’unica risposta che ricevette, il silenzio sepolcrale di quei luoghi gravava su di lui più dei suoi macigni.
In quella desolazione, il quinto pensiero di Ranma si presentò, traditore e inopportuno, con le tasche piene zeppe di frammenti di Akane con l’uniforme azzurra del Furinkan sulla strada di casa. 
C’era Akane che fingendo fastidio gli faceva posto sotto il suo ombrello in un pomeriggio di pioggia. Akane incantata che guardava cadere i primi fiocchi di neve di gennaio sul palmo della propria mano, un sorriso infantile che si affacciava tra le spire della sciarpa rossa. 
 
Plic. Plic. Plic. 
 
Akane che gli negava un assaggio del suo ghiacciolo con uno sguardo furbetto. Akane che si sistemava con grazia una ciocca dietro l'orecchio, sovrappensiero. Akane che si incupiva al suono del campanello di una bicicletta. 
 
Plic. Plic. Plic. 
 
Akane furibonda che non lo degnava di uno sguardo. Akane che camminava con passo spedito per non arrivare in ritardo. Akane che cercava di colpirlo con la cartella. Akane che con un dito lo spingeva giù nel canale ridendo.
 
Plic. Plic. Plic. 
 
La caparbietà ritmica dell’acqua che, lenta e inesorabile, scavava la dura roccia con grazia marziale, era senza alcun dubbio la colonna sonora più appropriata a commento di quei ricordi. 
A commento di Akane Tendo, si corresse senza riflettere e qualcosa balenò nell’oscurità della sua mente, il lampo fugace di una consapevolezza lucida, chiara e cristallina che lo travolse come un treno in corsa. Ma… cosa vado a pensare?
Schioccò la lingua bofonchiando quanto fosse assurdo avere certe idee in quella circostanza, mentre era sepolto al centro di una montagna sperduta da qualche parte della Cina, con poche, anzi, quasi nulle speranze di sopravvivenza. 
Si persuase che il rischio di asfissia fosse all’origine di quell’attacco di sentimentalismo da mammoletta, poiché si sentiva molto più a suo agio ad imputare quei pensieri bislacchi alla scarsità di ossigeno piuttosto che riconoscere che lui… che Akane…
Un moto di imbarazzo mascherato da orgoglio raschiò con un grugnito la sua gola secca. 
Devo uscire di qui. Devo tornare da… ehm, devo tornare a casa.
Facendo confluire il ki nel proprio corpo, molto lentamente Ranma riuscì a raccogliere le braccia sotto il torace mentre intorno a lui una sinfonia di scricchiolii sinistri risuonava come monito per rammentargli che ogni piccola libertà di movimento fosse solo una gentile concessione della montagna e che, se quella avesse voluto, si sarebbe ripresa tutto, pezzetto dopo pezzetto.
Febbrilmente passò in rassegna ciò che aveva imparato in una vita di addestramenti, ma il suo cervello non voleva saperne di collaborare. 
Forza, Ranma, ragiona! Ci sarà qualche assurda tecnica che può esserti d’aiuto, no?!
Perse di risolutezza quando giunse il sesto pensiero a distrarlo di nuovo, provocatorio e dardeggiante come gli occhi che una volta nel dojo lo avevano guardato così vicini che, abbacinato, non aveva potuto far altro che chiedere alla loro proprietaria di chiuderli. 
Kamisama, Akane! Perché non mi hai mai costretto ad affrontarti?!
Con un ringhio e un atto di forza, mettendo a tacere i rimbrotti delle rocce ammonticchiati sulla sua schiena, riuscì a sollevare un po’ il busto sugli avambracci, spalancò gli occhi incrostati di terra e, quando mise a fuoco ciò che aveva davanti, rimase pietrificato dalla sorpresa.
Lei era lì, di spalle, il volto di tre quarti, tra le labbra una cannuccia con cui stava bevendo una bibita e lo sguardo distaccato di chi si volta per strada sentendosi chiamare all’improvviso. 
Ranma impiegò qualche secondo a riprendersi dallo stupore e capire che si trattava della foto che Ryoga aveva portato con sé dal Giappone. A fatica ingoiò il cuore per rimetterlo al suo posto, allungò il braccio riuscendo a malapena a sfiorarla e con un’unghia grattò via la patina di polvere che vi si era depositata sopra. 
Mentre la guardava con insolita dolcezza, la settima cosa che pensò fu talmente imbarazzante che si vergognò anche solo nel sentirla riecheggiare nella sua testa: ti mancherò…?
Nel suo cuore, le labbra rosso sangue dell’Akane vestita di bianco di qualche giorno prima non risposero, ma gli sorrisero enigmatiche da sotto il wataboshi
L’ottavo pensiero sbaragliò ogni tenerezza e giunse cavalcando la sua gelosia: chi avrebbe osato prendere il suo posto? Strinse i pugni e inspirò con rabbia riuscendo dolorosamente a riempire i polmoni e a gonfiare il torace. 
Come fossero tessere montate sulle bobine rotanti di una slot machine, vide alternarsi ai lati di Akane - inginocchiata composta nel suo shiromuku - tutti gli spasimanti che si erano susseguiti negli ultimi anni e, per un momento, credette di impazzire.
Rivide, uno per uno, gli allupati senza nome del Furinkan che la aspettavano ogni mattino nel cortile della scuola e, col senno di poi, comprese l’odio di Akane nei confronti degli uomini.
Quando alla destra della sua fidanzata comparve il dottor Tofu, Ranma rise pensando a quell’accoppiata inverosimile ma tornò subito torvo alla vista di Tatewaki Aristocrat Kuno in un turbinio di petali rossi alla sua sinistra. Si morse la guancia minaccioso quando al fianco di Akane si avvicendarono Mikado Sanzenin, Hikaru Gosunkugi, Sentaro Daimonji e, per un attimo, persino il vecchio Happosai.
Poi fu il turno di un commosso Ryoga e di P-chan, della maledetta tutina della forza e, infine, lui: l’odiato guardaboschi di Ryugenzawa, “Scemosuke” lo smemorato con il suo ridicolo scopettone, decrepito nonno e ornitorinco gigante al seguito. 
Il nono pensiero di Ranma ruggì. Dannazione, non poteva morire così, lasciando Akane nelle braccia di un altro. Mai!
Urlò di rabbia e frustrazione, quasi si ruppe una mano per la forza con cui colpì una roccia e in tutta risposta un’altra pioggia di sassi e polvere lo redarguì picchiandolo sulla schiena. 
Ranma si sentì improvvisamente sfinito, chinò il capo sulle braccia e smise di combattere il pianto che lo soffocava mentre la foto, intanto, continuava a fissarlo con occhi distanti. 
Akane… 
Lei non lo aveva mai guardato in quel modo distratto, nemmeno il primo giorno che si erano conosciuti. Gli sguardi che gli aveva sempre dedicato, nel bene e nel male, erano incendiari, appassionati. Non della passione maliziosa di Shampoo, di quella egoista di Ukyo o folle di Kodachi, ma di un sentimento dolce, testardo, profondo e autentico. Proprio come lei. 
Con un dolore dolceamaro che gli trapassava il cuore, Ranma pensò, guardandolo arrivare, che il decimo pensiero prima della sua morte avesse la stessa liquida incredulità degli occhi di Akane quella volta che le aveva gridato il suo amore pensando di fare un dispetto a Nabiki. 
Lì per lì, in un attimo che gli era sembrato eterno, affondando nelle sabbie mobili delle sue iridi vischiose e dolci di miele, aveva valutato freneticamente le infinite possibili declinazioni e conseguenze di quell’errore, il più giusto e benedetto dai kami che avesse mai commesso.
Invece, di fronte agli occhi interrogativi ed emozionati di Akane, il grande - idiota! Vigliacco! Incapace! - Ranma Saotome, per l’ennesima, stupidissima volta, non aveva avuto il fegato di arrendersi ai propri sentimenti e, anziché approfittare di quel provvidenziale equivoco, aveva ritrattato. 
Che razza di uomo era?! Akane aveva ragione, non era nient’altro che un baka! Un baka che lottava con tutto se stesso contro un’evidenza lampante, un baka che non voleva accettare che quel maschio mancato, quell’avvelenatrice senza speranza, quella violenta, grassa, maldestra e piatta sottospecie di fidanzata lo avesse completamente, irrimediabilmente e perdutamente fatto innam… 
No! Non è vero! Io e Akane… siamo stati costretti dai nostri padri, noi… noi non… io non…
…un baka che perfino a un passo dalla morte si rifiutava di dare retta al proprio cuore, ecco cos’era.
Singhiozzò sbattendo la fronte più volte sulla dura roccia.  
Dannazione, cos’ho che non va?!
Alzò la testa per guardarla ancora, forse per l’ultima volta in questa sua esistenza terrena. 
Perdonami, Akane… 
Poi, con gli occhi pieni di lei - bellissima, luminosa come una stella - finalmente, Ranma capì.
La luce. Riusciva a vedere la foto.
 
Akane! Sono salvo! 
 
Facendo leva sui gomiti, con il cuore traboccante di voglia di vivere, iniziò a scavare e strisciare in quella direzione, incurante dei borbottii sempre più astiosi delle rocce che feroci lo trattenevano, lo bloccavano, lo schiacciavano graffiandogli la pelle, spezzandogli le unghie, strappandogli i vestiti.
Con movimenti impazienti, scalciando e spingendo con le gambe, raggiunse la foto, la arraffò e continuò a farsi strada con le sue ultime forze verso la libertà, mentre il monte Hooh, furioso, si richiudeva al suo passaggio.
Sbucò fuori da una roboante nuvola di polvere e pietrisco in un pozzo prosciugato dove miracolosamente ritrovò il resto del gruppo: mai in vita sua Ranma fu così felice di rivedere Ryoga, Mousse e persino suo padre.
Respirò con la gioia selvaggia di chi viene al mondo per la seconda volta e rise, rise a pieni polmoni scagliando vittorioso i pugni contro il cielo, contro il monte Hooh, contro i kami capricciosi e contro tutte le avversità che mettevano costantemente lungo il suo cammino. 
Poi, in apprensione, controllò che la foto non si fosse rovinata. La stirò teneramente con le dita e in uno slancio di emotività decise che non l'avrebbe restituita a Ryoga, ma che l’avrebbe tenuta per sé, come portafortuna. La guardò ancora una volta mormorandole un timido ringraziamento e poi la infilò di nascosto nella casacca cercando di tenere a bada la curiosità di Plum. 
Mentre la morte si allontanava a grandi falcate e Ranma già tornava alla normalità azzuffandosi con Ryoga e Mousse, il primo pensiero della sua seconda vita, accompagnato da un tepore che si irradiava all’altezza del cuore, sgorgò puro, fresco e cristallino come una delle sorgenti di Jusenkyo: sto tornando da te… aspettami, Akane!
 
 
 
 ******************
 
Carissime lettrici e carissimi lettori,
siamo giunti alla fine di questa raccolta di one shot, spero davvero che vi siate divertiti!
Per me è stato un successo riuscire a concludere un progetto che, per quanto piccolo, mi ha impegnato moltissimo negli ultimi mesi… Non so dirvi quanto mi abbia fatto piacere leggere i vostri pensieri e spero davvero che continuiate a condividerli: il regalo più grande per un autore è ricevere una recensione! GRAZIE DI CUORE!
Ovviamente tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’incrollabile aiuto e sostegno della mia adorata Tiger, non solo una grandissima autrice, una instancabile beta, ma anche una cara amica e compagna di grandi viaggi mentali! Grazie Magnifica!
 
Un abbraccio a tutti, alla prossima!
 
 
Glossario:
 
Hosomaki piccolo cilindro di riso ricoperto d’alga.
Wataboshi è il cappuccio rigido bianco nel tradizionale vestito da sposa giapponese (shiromuku), ed equivale al velo nel vestito occidentale.
 
Riferimenti:
 
  • Cap 258: Bentornato Ranma!
  • Cap 392: Ranma parte per la Cina.
  • Cap 25: Labbra in imbarazzo.
  • Cap 389: I messaggeri di Jusenkyo.
  • Cap 178: Il labririnto dell’amore e della vendetta.
 
 
 

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Capitolo 6
*** Pugno sotto il mento, tortura cinese, tortura giapponese. ***


DIRE sempre la cosa sbagliata
 
Akane sbirciò alla sua destra. 
Ranma guardava il cielo con un’espressione imperscrutabile. Sembrava quasi deluso, eppure poco fa le aveva detto che gli piacevano quei fuochi d’artificio, anzi, che li amava, addirittura! Che cretino… Le sfuggì un sorriso che nascose in fretta dietro lo zucchero filato che lui le aveva appena restituito.
Indubbiamente: “sono bellissimi, li amo”, era una frase un po’ bizzarra da dire, ma se avesse dovuto elencare tutte le stranezze del suo… del suo fidanzato… una scintilla di tenerezza le accese un piccolo incendio nelle vene e lo guardò di nuovo. 
Mancavano pochi giorni al loro anniversario, constatò. Certo che in due anni ne erano successe di cose. E quante altre non ne erano successe…
Akane ripensò agli ultimi mesi, a Jusenkyo, alla sua quasi morte, al matrimonio saltato e, soprattutto, al “ti amo” ritrattato. Ovvero: quello che, a detta di Ranma, lei avrebbe voluto ascoltare e per questo aveva immaginato che lui lo avesse detto, ma, in realtà, lui non lo aveva mai nemmeno pensato, figurarsi! Sarà… ma questa storia continuava a non convincerla del tutto.
Sospirò così rumorosamente che la causa di quello sconforto si voltò a guardarla incrociando il suo sguardo.
Rimasero così per un po’, occhi negli occhi, mentre intanto la notte esplodeva su di loro.
Poi, mantenendo fisso lo sguardo su di lei, Ranma si chinò, le strinse la mano che reggeva il watagashi e se lo portò alla bocca dando una leccatina a quella nuvola azzurrina. 
Akane sperò con tutta se stessa che lui non si accorgesse dello strato di sudore freddo che l’aveva ricoperta da cima a fondo. Ma non ebbe nemmeno finito di fare questo pensiero e di calmare il suo cuore che Ranma, con un boccone che avrebbe reso fiero persino Picolet Chardon II, ingurgitò quello che rimaneva dello zucchero filato.
E le sfiorò le dita che reggevano il bastoncino con labbra bollenti, morbidissime e umide. 
Akane trasalì a quel calore, batté le palpebre e le sfuggì un gemito, maledicendosi subito dopo.
«Ehi!» bofonchiò lui con la bocca piena, «Non guardarmi con quella faccia, l’ho fatto per te, non vorrai mica diventare più grassa di così?!» 
Come un riflesso incondizionato, più veloce dei suoi stessi pensieri, Akane caricò il pugno mentre era ancora stordita dal batticuore e dalle labbra di Ranma. 
 
Ranma, invece, riprese conoscenza solo qualche ora dopo, in piena notte, tra i rami di un albero in un parco dalle parti di Shinjuku, senza ricordare come vi fosse arrivato. 
 
FARE l’amore
 
Il Dottor Tofu giaceva sul futon in un assoluto e totale stato di grazia, i capelli spettinati, il respiro accelerato, gli occhi chiusi e, al suo fianco, poggiati sul tatami, gli occhiali e il proprio kimono blu perfettamente piegato da Kasumi, da poche ore la sua incantevole, dolcissima sposa.
Non poteva ancora crederci, ma ci era riuscito, non si era appannato, non aveva perso il lume della ragione come si sarebbe aspettato: tenendo gli occhi chiusi e concentrandosi sul proprio ki, aveva appena fatto l’amore con la donna della sua vita, la sua anima gemella, il suo sole di mezzanotte, la sua… 
«…ossima volta?»
Il cuore ancora gli batteva così forte nel petto e nelle orecchie che non riuscì a capire nulla di quello che lei gli aveva appena detto. 
Con gli occhi serrati girò la testa verso di lei, accoccolata stretta a lui con il capo poggiato sul suo petto e le chiese di ripetere. Era così minuta, così delicata e leggiadra…
«Dicevo, tesoro, non potremmo rimanere da soli, la prossima volta?!»
Tofu strinse a sé l’esile corpicino della donna che amava, la nebbia era lontana ed era solo il primo giorno del resto della loro vita insieme. Esisteva qualcuno più fortunato di lui?
«Voglio dire… tu sei magnifico e io… io adoro Betty, ma… Anche solo il fatto che, beh, ecco, sia fluorescente al buio è un po’ inquietante, non credi? E poi la sua esuberanza in certi momenti mi mette leggermente a disagio… quando per esempio, poco fa, ti incitava mentre stavamo… beh, lo sai…» abbassò la voce con un adorabile tono imbarazzato, poi si schiarì la gola e riprese: «Inoltre non trovi sia ingombrante? Mi vergogno a dirlo, ma a un certo punto ho scambiato il suo femore per… ehm… Insomma, Ono, in quei momenti mi piacerebbe avere un po' di privacy!»
Tofu rise di gusto, le prese le dita e le baciò una ad una teneramente: «Certo Kasumi-chan, mia adorata, tutto quello che desideri, Betty capirà!»
Le posò le labbra sulla fronte e fece un sospiro soddisfatto mentre con il pollice le accarezzava la spalla. Non si capacitava di come si potesse essere così felici, appagati e commossi nello stesso momento. 
«E poi Ono, caro, c’è un’altra cosa» 
La voce di Kasumi era una carezza, sempre leggera e gentile come un battito d’ali. 
«Mmm...?» Tofu strinse ancora di più le palpebre e sorrise raggiante, sopraffatto dall’amore per sua moglie. 
«Col rischio di apparire gelosa, potrei essere coccolata anche io da mio marito?!»
Gelosa?
Il dottore corrugò fronte e sopracciglia poi finalmente spalancò gli occhi e vide il cranio perlaceo di Betty sul suo petto, i denti scoperti in un ghigno sardonico, le cavità oculari profonde e vuote che lo fissavano, le falangi sottili e fredde strette nella sua mano. 
«Qual è il colmo per un dottore?» Sobbalzò al trillo della voce distorta e acuta di Kasumi: «Avere una moglie paziente!»  
Ono scattò a sedere guardando incredulo prima Kasumi e Betty, poi Betty e Kasumi. 
Questa donna incredibilmente bella, gentile, indulgente e perfino spiritosa, questa benedizione del cielo - che nemmeno in cento vite sarebbe riuscito a ringraziare abbastanza i kami per averla fatta diventare sua moglie - questo stupefacente miracolo seduto al suo fianco, gli posò una mano sulla spalla, con l’altra si coprì la bocca e cominciò a ridere a crepapelle. Aveva i capelli sciolti e un po’ in disordine, lo yukata aperto che mostrava la pelle lattea, i seni sodi, il ventre piatto, le cosce tese… la soverchiante bellezza di Kasumi era troppa da gestire tutta insieme e Tofu smise di resisterle: mentre iniziava a ridere anche lui, i contorni di ciò che lo circondava si sciolsero nella luce con dolorosa dolcezza riempiendo i suoi occhi, la sua testa, il suo cuore, i suoi polmoni ed infine tutta la stanza che, intanto, defluiva in un caleidoscopio di forme e colori. 
 
BACIARE e tacere
 
“Vedere le stelle”.
Prima di questo momento Ranma non pensava che fosse un modo di dire così letterale.
«Oh, (flash) santissimi (flash) kami! (flash) M-mi (flash) dispiace (flash) Ranma…» 
Ogni parola è un’esplosione nell’oscurità dietro le proprie palpebre chiuse.
«Scusa…(flash) io… (flash) non (flash) volevo (flash)…» 
Ranma è stordito, apre e chiude gli occhi più volte, i raggi che filtrano tra le foglie trapassano le sue iridi come frecce incandescenti. 
Stenta ancora a crederlo, ma è proprio così: quel maschiaccio violento e crudele di Akane gli ha appena tirato una capocciata degna di un wrestler americano. 
Quando finalmente si abitua alla luce si guarda intorno. Sono sempre sotto il ginkgo nel giardino del Furinkan, non c’è nessuno tranne loro, la campanella sta suonando, il gruppo di ragazze del secondo anno, che fino a poco fa stava pranzando poco più in là, deve essere già rientrato in classe. 
Ha un gran mal di testa, si pizzica le narici e due strisce di sangue gli rimangono sulle dita. Alza gli occhi e, stagliata contro la chioma dell’albero, le mani a coprire la bocca, lo sguardo inorridito e preoccupato, Akane sembra sul punto di scoppiare a piangere. 
Ranma si tira su a sedere e in maniera assolutamente inaspettata e, forse, anche un po’ isterica, gli viene da ridere al pensiero che questo gorilla sgraziato e maldestro, che i kami hanno messo sulla sua strada per punirlo di chissà quale colpa, riesca sempre a coglierlo alla sprovvista. Pochi secondi prima era davvero convinto che lei stesse per baciarlo - che baka! - che avesse apprezzato il suo gesto - che illuso! - che avesse capito finalmente cosa volesse dirle con quella margherita… - ma figurati! - invece… invece lo aveva preso per la casacca tirandolo a sé assestandogli la testata peggiore della sua vita. 
Akane si accovaccia al suo fianco e l’istinto di Ranma gli dice di mettersi sulla difensiva coprendosi con un braccio. Non sentendo arrivare alcun colpo, sbircia da sotto il gomito e, se non fosse ancora scombussolato e arrabbiato, penserebbe che in questo momento Akane è adorabile con quell’espressione da bambina mortificata e gli occhi pieni di lacrime.
«Ti giuro, Ranma, non era mia intenzione farti del male, io…» riprende con voce tremula.
«Per fortuna che non volevi farmi del male!» ribatte sarcastico mentre le mostra il sangue sulle dita. 
Lei reprime un singhiozzo e si asciuga gli angoli degli occhi con un gesto estremamente tenero che gli stringe il cuore facendolo uggiolare. A cuccia, tu!
«Dico sul serio, Ranma… io volevo ba-bac… ehm, cioè avrei voluto… insomma, pensavo che sarebbe stato sufficiente partire e poi tu… ecco, in tutti i film che ho visto, di solito è lui che si avvicina mentre lei inclina la testa… ma visto che tu… tu non ti decidevi… ho preso io l’iniziativa… e mi sono lanciata, ecco!»
«Mi... mi stai forse paragonando a quelle… quelle stupide ragazzine di quegli stupidissimi filmetti romantici che ti piacciono tanto?! Per tutti i kami, io sono l’uomo, Akane!»
Senza lasciarle il tempo di rispondere la strattona per il polso, le passa una mano tra i capelli sulla nuca e la trascina a sé, stampandole un bacio sulla bocca. 
«Lo vedi… - il tipico sorriso arrogante che sa bene di sfoggiare quando vince un confronto gli si spegne sulle labbra mentre realizza cosa ha fatto - …A-Akane?!… - lei ha gli occhi d’oro fuso delle grandi occasioni, quelli che gli riducono in pappa il cervello - ...È così c-che… che… - deglutisce sonoramente - …si f-fa…»
Si studiano parlandosi muti in un idioma di occhi increduli, sorrisi accennati e respiri corti. 
Ce l’ho fatta? 
Ce l’hai fatta. 
Ti ho baciata? 
Mi hai baciata
La mano lascia il polso di Akane e va ad accarezzarle il viso, lei chiude gli occhi per un attimo abbandonandosi al suo tocco. Ranma smette di respirare e, dandole il tempo di arrossire e reclinare di poco la testa come nei film che le piacciono tanto, gustandosi tutto il viaggio fino ad Akane che stavolta - giura a se stesso - non sarà un’altra occasione persa, ma una promessa di felicità che si realizza adesso, si posa delicatamente sulla sua bocca.
Oh, kami! Esiste qualcosa di più soffice? 
Non è una domanda retorica, Ranma se lo chiede davvero nel momento in cui, staccandosi da quelle labbra, ne sente già la mancanza. 
È un sogno?
In effetti potrebbe essere uno di quelli che fa ogni tanto e che gli lasciano una sensazione sublime di calore al mattino… se non fosse per il trambusto che sta facendo quel cagnaccio traditore del suo cuore. Cuccia, ho detto! E per un attimo lui - povera bestiolina - prova a calmarsi, ma poi Akane si avvicina, timidamente prende il volto di Ranma tra le mani, sorride, lo bacia su una guancia e sull’altra, sorride, prosegue sul naso e sui bernoccoli che gli ha fatto con il libro e con la testata, sorride, chiude gli occhi, sorride e, finalmente, lo bacia. 
E lo bacia ancora, mostrando un’intraprendenza del tutto nuova che non gli dispiace affatto, pensa sopraffatto mentre lei lo assapora indugiando e Ranma non può nemmeno soffermarsi un secondo sulla sensazione magnifica che sta provando che dentro di sé, in un tripudio di ululati, uggiolii e scodinzolii, il suo cuore ubriaco di felicità continua a correre da un braccio all’altro e lui, accontentandolo, la stringe tuffandosi in quel bacio umido, goffo e perfetto nella sua imperfezione.
Quando riemerge, si allontana alla giusta distanza per continuare a scambiarsi il respiro, per permettere alle loro fronti di toccarsi, ai loro battiti di confondersi. 
Perché ci abbiamo messo così tanto, si chiede con rammarico, non si è mai sentito meglio di così; non si è mai sentito migliore di così. 
Decide di dirglielo, deve dirglielo. 
Resistendo con immensa fatica alla voglia di baciarla di nuovo, apre gli occhi e la guarda. 
Akane ha il respiro corto e le guance arrossate; il sole che filtra tra le foglie dell’albero sopra di loro la illumina a intermittenza evidenziando le sue iridi talvolta di caramello con pagliuzze dorate e miele, talvolta nocciola e ambra, a seconda della luce. E sorride contro le sue labbra, sorride un sorriso contagioso, un sorriso assoluto, liberatorio, senza fronzoli, un sorriso che in questo momento - no: dalla prima volta che l'ha visto - è il centro del suo mondo. 
Gli fa quasi male al petto ammettere che il maldestro maschio mancato tra le sue braccia sia, senza alcun dubbio, la ragazza più carina su cui abbia mai posato lo sguardo. Ma deve rimanere concentrato, non vuole e non può farsi confondere, vuole andare per ordine e dirle finalmente tutto, partendo dalla felicità che sente scorrergli dentro, così calda, intensa, potente. 
Deve dirle che questo bacio ha cambiato la sua vita. 
«Akane, io… io vo-vorrei d-dirti che… ehm, ecco…» 
D’accordo. Sarà pure cambiata la sua vita, ma la sua timidezza e incapacità ad esprimersi, purtroppo, sono rimaste esattamente le stesse. Sono proprio un baka! 
Lei, allora, le braccia intorno al suo collo, gli tira un po' il codino e con un impercettibile gesto del capo lo incoraggia a proseguire. Ranma deglutisce e ricomincia: «Que-questo ba-ba-bacio… oh, kami, Akane, l-la tua bo-bocca… ehm… co-come posso spiegarti… Quella volta che Shampoo mi ha baciato, ti ricordi?! Le sue lab…»
Stavolta non lo sente nemmeno arrivare. 
 
La mattina seguente Ryoga lo ritrova a girovagare in stato confusionale per le strade di Shibuya, con un sorriso da ebete ed evidenti segni di percosse. Riconosce subito nei lividi netti e precisi la firma di Akane e mentre se lo carica su una spalla, si chiede cos'avrà mai combinato quell’idiota stavolta per farla arrabbiare così tanto. Ma poi, ha importanza? Akane avrà certamente bisogno di essere consolata e chi potrebbe farlo meglio di P-chan accoccolato tra i suoi seni morb… ehm, tra le sue braccia?
 
LETTERA P come…
 
Akane era ferma sulla porta della propria stanza, i mobili e tutti i suoi averi erano spariti, c’era solo un’alta culla di legno chiaro dalla cui sommità si intravedevano corte gambine e braccette cicciottelle agitarsi nervose. Risatine e gorgoglii riempivano l’aria facendo sciogliere Akane di tenerezza. Attirata come un’ape da un fiore, fece qualche passo e si affacciò emozionata sulla culla. 
Il piccolo era semplicemente bellissimo, aveva occhi penetranti di ghiaccio e sulla testa una soffice peluria scura con un vago riflesso ceruleo. 
Suo figlio la riconobbe non appena la vide e subito le sorrise con due rosee gengive bavose facendola commuovere. Aveva un profumo irresistibile e, quando si chinò per annusarlo, con una delle sue manine paffute le agguantò un dito e strinse con forza: è proprio il nostro bambino, pensò ridendo, stranamente libera da ogni timidezza. 
Con tutta la dolcezza del mondo lo prese in braccio e la cappa nella quale era avvolto scivolò nel lettino. 
La guardò prestandole attenzione per la prima volta e un brutto presentimento le strinse lo stomaco. Era di pelle nera e ad una delle estremità penzolava uno straccetto arricciato che le ricordava… una coda?! 
Un sottile velo di sudore freddo le coprì la fronte. Con una mano tremante voltò un lembo del cappuccio rivelando quelle che… fo-forse erano d-due o-orecchie e… e… po-poco più giù un… mu-musetto?!
 
Si svegliò di soprassalto con un urlo represso in fondo alla gola. Sentì grufolare, abbassò lo sguardo e sorrise: P-Chan era vivo, appollaiato sulle sue gambe che la guardava preoccupato. Fortunatamente era stato solo un orribile incubo. 
“Uno psichiatra cosa direbbe dei tuoi sogni, Akane?” 
Ma, santissimi kami, non ti prendi mai una pausa? Chiese stizzita alla voce della sua coscienza.
Guardandosi intorno si rese conto che si era addormentata dopo cena con la testa sul tavolo, davanti a un film che aveva tanto insistito per vedere e che Ranma invece aveva catalogato come una palla. Ovviamente c’era stata una lite, che si era conclusa con il telecomando nelle sue mani. 
«Bello il film, eh?» Ranma e il suo sarcasmo erano sdraiati vicino a lei sul fianco sinistro, una mano a sorreggere la testa, l’altra un manga. Quel sorriso da schiaffi al solito la indispettì e al tempo stesso le fece sciogliere le viscere. Akane ripensò al loro splendido bambino e il suo cuore accelerò.
“Adesso chi ha il coraggio di dirgli che aveva ragione lui?” 
Nessuno. Taci.
«Sì, bellissimo», mentì e per dissimulare il rossore prese il maialino tra le braccia e lo baciò sulla testolina ispida. «Tu sei bellissimo, mio piccolo, adorabile P-Chan!» 
«Oh, nostro piccolo, adorabile P-chan, per fortuna che ci sei tu!» le fece il verso, poi lanciò un’occhiata torva al maiale che gli ringhiò di rimando e proseguì, quasi tra sé: «Comincio a pensare che la P di P-Chan non stia per porcellino ma per paracu…” 
«La tua scurrilità e il tuo sarcasmo gratuito nei confronti di un animaletto indifeso denotano quanto tu sia immaturo, Ranma Saotome!» lo interruppe Akane stizzita, strizzando ancor più il maialino tra i suoi seni.
“Anche se vederlo geloso ti fa sempre piacere, dì la verità…”
Ti ho detto di tacere!
Ranma si rabbuiò e si tirò su a sedere nascondendosi dietro al suo fumetto. Dopo qualche secondo borbottò a voce abbastanza alta per farsi sentire: «Vorrei proprio sapere cosa avesse in quella testolina bacata da suino quando poco fa è scappato a gambe levate sotto la pioggia per poi tornare subito dopo...» 
«E a te cosa importa?!» ribatté Akane aggressiva, «L’importante è che sia tornato! Anche tu avevi previsto che lo avrebbe fatto, prima o poi: meglio prima che poi!» 
Ranma abbassò lentamente il suo manga, rivelando un bagliore soddisfatto negli occhi e un sorriso assassino. Si allungò avvicinandosi ad Akane e sussurrò: «Un momento, maschiaccio, stai forse ammettendo che avevo ragione io?» 
“Allarme rosso!” la voce gridò eccitata.
Akane, colta in contropiede, nell’ordine: deglutì, arrossì e smise di respirare. Lui si sporse ancora un po’, abbastanza per permetterle di ammirare le piccole lentiggini e le leggere cicatrici che anni di duri allenamenti sotto il sole e i combattimenti avevano lasciato sul suo viso. Ripensò alla pelle liscia del bambino, al suo profumo inebriante e in momento di inconcepibile e imperdonabile distrazione lo immaginò in braccio a Ranma. A torso nudo.  
«Coraggio, dillo: dì che avevo ragione io!»
“Allarme rosso! Allarme rosso! Troppo vicino!” l’eccitazione della voce salì di due ottave.
Presa dal panico lo colpì talmente forte che il manga che aveva in mano non era ancora caduto in terra, che lui era già un puntino lontano nel cielo di Tokyo. 
Si alzò rossa come un pomodoro, con le ginocchia che ancora tremavano e salendo le scale mormorò: «E guai a te se non insegnerai ai nostri figli a trattare con rispetto P-Chan, Ranma Saotome! Giusto, piccolo mio?» Si bloccò davanti agli occhietti pieni di lacrime del maialino. «Che ti prende adesso? Oh, poverino, non fare così, ti prometto che è l’ultima volta che quel buzzurro ti fa piangere!» 
 
Ranma si risvegliò alle prime luci dell'alba con la testa incastrata tra le tegole di un tetto di Toshima, con un bruttissimo raffreddore e con la vivida sensazione di aver sognato di scuoiare P-chan. 
 
TESTAMENTO già pronto, Saotome?!
 
Il primo pensiero di Ryoga, entrando con Mousse nel furo della guida di Jusenkyo, vedendoli sul pavimento, molto vicini, molto intimi e soprattutto, molto, molto svestiti, fu, senza mezzi termini: ti ammazzo, Ranma Saotome.
Il secondo si concentrò sulla pelle candida di Akane, provocandogli una fitta al cuore talmente intensa che gli vennero le lacrime agli occhi.
Il terzo cercò di negare tutto: non devi crederci Ryoga Hibiki, è un’illusione. È una ragazza pura, non si comporterebbe mai in questo modo.
Il quarto e il quinto, prepotenti e furiosi, persino troppo feroci per la sua mente di ragazzo semplice e di buon cuore, si potrebbero riassumere in: morirai tra atroci dolori, Ranma Saotome.
Il sesto inciampò sulla linea del collo di Akane, la curva morbida che diventava spalla poi braccio, continuava fino al gomito, risaliva sul fianco e infine si arricciava, impertinente e sbarazzina, nel seno più tondo e perfetto che avesse mai visto.
Il settimo fu una considerazione rapida: Akane non sarà mai mia.
L’ottavo si concentrò indispettito sulle mani di Ranma che, pur avendone la possibilità, non stringevano la ragazza dei suoi sogni, avvinghiata a lui, ma girovagavano imbarazzate nell’aria.
Il nono pensiero, allora, pianse di rabbia constatando che avrebbe barattato volentieri cinque anni della sua vita con soli cinque minuti da Ranma Saotome.
Qualche secondo prima che distruggesse il furo con uno bakusai tenketsu da manuale, al grido di “Una scena del genere non può esistere nella realtà!”, una furia cieca e dolente esplose nel suo decimo pensiero: maledetto bastardo, preparati a morire!
 
 
*****


GLOSSARIO

Furo è la stanza da bagno. L’ultima appendice fa riferimento al capitolo 398 “La fuga di Akane”



*****
 
Carissimi, grazie per essere arrivati fin qui! Ho scoperto che “pugno sotto il mento, tortura cinese, tortura giapponese” sono altre penitenze aggiunte negli ultimi anni al gioco originale: non mi è chiarissimo in quali atroci sofferenze consistano (a parte la prima XD!), in ogni caso, le ho trovate incredibilmente calzanti e ho colto l’occasione per buttare giù una sorta di appendice a ciascuna delle storie che avete letto. Un ringraziamento speciale va a Meddy80 che mi ha suggerito lo spunto per l’episodio dedicato a Kasumi e Tofu: “FARE l’amore”. GRAZIE!
Un enorme grazie a Moira78 e Tiger Eyes che hanno letto e (betaletto) per prime: grazie ragazze, siete fantastiche!
 
Mi imbarazza un po’ farlo, ma vorrei cogliere l’occasione per pubblicizzare un piccolo progetto a tre a cui tengo tantissimo, scritto, per l’appunto, con Moira e Tiger: The pursuit of love, pubblicato con l’account multiautore RanmaFanwriters. Se non l’avete ancora fatto, vi consiglio di leggerlo! Fateci poi sapere se vi è piaciuta! 
Grazie ancora a tutti! <3
 
A presto!
 
 

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