WRITOBER 2022 – LISTA pumpAU

di HellWill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pirate!AU - La Regina dei Mari Kanoriani ***
Capitolo 2: *** Crime!AU - Cry me a River ***
Capitolo 3: *** Tattoo!AU - Maschera ***



Capitolo 1
*** Pirate!AU - La Regina dei Mari Kanoriani ***


Note dell'Autore
Mi baso sulla lista di prompt di Fanwriter (tale lista si chiama pumpAU),
i cui suddetti prompt sono qui.
Siccome ho poche ship e le poche che ho sono Originali,
ho deciso di utilizzare i miei setting e personaggi Originali
(quindi NON il mondo reale) per ciascuna AU.

 

Pirate!AU
La Regina dei Mari Kanoriani

 
L’aria allegra era già densa nel covo: era pregna della puzza di sigarette appena rollate, e dell’odore del pesce cucinato nel retro. Si festeggiava, quel giorno: la flotta aveva ricavato un bel guadagno dalla vendita di tutte le merci rubate durante la settimana.
I gentiluomini del mare avevano acquistato parecchi alcolici con la propria parte dei proventi: il resto era da riferire, come sempre, alla Regina cui tutti loro dovevano la propria libertà.
Prigionieri di guerra, criminali, credenti di religioni diverse da quella Kanoriana, schiavi: tutti loro avevano solcato il mare in catene, e quasi tutti si erano uniti alla Regina di propria sponte. Servire qualcuno non era una novità, ma la Regina non aveva mai fatto mistero che oltre alla quota dovuta, ben poco altro sarebbe stato obbligatorio.
Chiunque di loro aveva ricevuto abiti puliti, pasti garantiti e una paga minima; poi, che alcuni pesci piccoli avessero in seguito abbandonato la nave – letteralmente o meno – non aveva influito neanche in minima parte sul successo delle operazioni della Regina e dei suoi sgherri più stretti.
Ma ciò era acqua passata: la flotta della Regina contava ben due vascelli da guerra, conquistati con gran fatica, e diverse navi ben più veloci e di pescaggio minore, adatte all’assalto delle navi mercantili più grandi.
Le previsioni delle Sciamane non facevano che confermare quella crescita esponenziale di forza lavoro, navi, e soprattutto denaro.
La Regina non era ancora arrivata al banchetto, a quel punto della serata. Il pesce era stato appena sistemato sui vassoi, dopotutto, e i contorni e il pane erano appena stati posti sui carrelli. Non c’era un vero ordine nelle portate, e dopotutto quei gentiluomini non erano così affini al galateo come si poteva pensare.
La maggior parte dei pesci medi era già ubriaca quando il suo tacco risuonò sulle assi di legno del covo. I pesci grossi si diedero un paio d’occhiate, e si alzarono nel momento stesso in cui Nahida comparve dall’oscurità, con solo una brace di una sigaretta accesa ad illuminarle gli occhi scuri, due pozzi d’infinita e calda oscurità.
I suoi tratti somatici erano tipicamente Kanoriani: zigomi alti, occhi a mandorla, pelle scura, capelli castano scuro e mossi, morsi dalla salsedine sulle punte. Qualche ruga per via dell’età che avanzava – e del sole battente – le solcava il viso. I pesci medi e quelli piccoli, che erano ancora seduti o abbarbicati su sedute di fortuna lungo le pareti della grotta – batterono i piedi sul pavimento di assi, di pietra o di sabbia che fosse, producendo un gran baccano a cui si unirono subito degli ululati.
Nahida sorrise: dopotutto, non a caso li si chiamava lupi di mare, no?
Li lasciò sfogare e festeggiare con quegli ululati e gli applausi e tutto il resto; poi sollevò una mano e chiuse il pugno. Un silenzio tombale calò improvvisamente nel covo nella grotta: pendevano dalle sue labbra al punto che persino i più ubriachi avevano una mano sul petto in segno di rispetto, con le bocche aperte come di chi aspetta solamente un ordine.
Nahida chiuse gli occhi, e li riaprì solo quando si sentì sgorgare le parole dall’animo; una frazione di secondo per molti… ma era stata fondamentale per lei, e per decidere cosa dire, e come dirlo.
Fu un discorso accorato, pieno di complimenti per le ciurme e i capitani delle rispettive navi che avevano portato i bottini in porti diversi, dimezzando così le loro probabilità di essere catturati; e infine, Nahida si ritrovò con il batticuore. Perché era così nervosa dovendo fare quell’annuncio?
«Infine… desidero farvi una confessione, e darvi una notizia».
I più ubriachi ormai avevano ripreso a bere: si erano beccati la loro dose di lodi, ed era quello che li interessava. I pesci grossi, invece, assottigliarono lo sguardo: non era una buona notizia, e non era una cattiva notizia? Era solo… una notizia?
«La confessione è che da tempo desidero fornire una qualche stabilità a questo regno fondato sul sangue delle nostre mani, sul sale del nostro sudore, sul vento che ci scorre nelle vene. Molti di voi sono stati liberati da questo regno. E molte altre catene continueranno ad essere spezzate, se solo… se solo una singola vita umana non fosse così breve» Nahida fece una pausa. «Ma la maggior parte di voi non è umana, e non posso aspettarmi che capisca. Per questo ho deciso che nominerò uno dei miei consiglieri più fidati come possibile successore, purché le altre persone mie fidate votino, come sempre, per la sua nomina» la decisione non fece scalpore: la Regina era sempre stata molto trasparente su tutte le proprie decisioni, ed esse erano votate dal Gran Consiglio.
«In ogni caso» riprese Nahida dopo qualche istante. «oggi non bevo alla vostra salute, o alla mia, per quel che vale. La notizia che volevo darvi è che aspetto un bambino. Tutti gli dèi sanno quanto ciò sia stato un evento atteso e voluto fortemente in questa comunità, e lungi da me imporre un destino a questo nascituro: se vorrà fare il contabile, che sia libero di farlo! Se invece vorrà continuare a lottare nell’eredità da me lasciata, che lo faccia! Quindi oggi beviamo alla salute di questo miracolo!» e grida di giubilo seguirono quell’affermazione, subito accompagnate da calici e boccali e gavette vari pieni e sollevati alla salute di quella persona ancora inesistente.
La serata proseguì senza intoppi: i cuochi di turno servirono i vassoi di pesce, quelli ricolmi di contorni di verdure caramellate e altre leccornie e infine persino quelli dei dolci; altri pesci piccoli, intanto, rifornivano le varie tavolate sparse di tabacco kanoriano e alcolici dei tipi più disparati.
Nahida si ritirò sulla propria nave a notte inoltrata, quando la festa era lungi dal finire – probabilmente si sarebbe esaurita soltanto alle luci dell’alba –; ma lei era completamente ubriaca, e sorretta dai suoi due amanti, riuscì ad arrivare fino al letto evitando di dare spettacolo strisciando.
«Non ho più l’età per questo tipo di bagordi» borbottò strascicando le parole, e Sanka rise di gusto.
«Chissà perché non hai detto di chi è il bambino» la sfotté, e Nahida inarcò un sopracciglio.
«Ho due mariti, solo gli dèi sanno di chi cazzo è questo bambino» rise sguaiatamente, e Sanka sorrise a trentadue denti.
«Ti ho già detto che adoro quando sei così… disinibita?» mormorò, facendo quasi scivolare casualmente quella parola sulla lingua, e Nahida si umettò le labbra, decidendo di stare al gioco.
«…no. Ripetimelo ancora».
«Ehy, voi due» li apostrofò Nilan. «Gatti in amore» li sfotté ancora, dato che i due non si erano girati. Ottenuto ciò, Nilan si pose le mani sui fianchi, completamente nudo. «Intendete includermi nel festino, oppure faccio da solo mentre vi guardo?» ridacchiò.
Sanka si passò la lingua sul filo dei denti superiori, sorridendo come un lupo che non vede l’ora di banchettare con la sua preda preferita.
«Non lo so, Nilan, tu cosa preferisci?».
«Sfondarti il culo a suon di cazzo, tesoro, lo sai» mormorò Nilan seducente: fra i due, il più dominante era decisamente Sanka… eppure provocarlo era così semplice da risultare quasi banale, alle volte.
Nahida si sollevò dal letto per iniziare a spogliarsi, ma le mani dei due elfi presto sostituirono le sue, dai riflessi annebbiati dall’alcol; e la notte proseguì fra ansiti, gemiti e urla di piacere, come solo tre amanti appassionati sanno dedicare l’un l’altro.

 

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Capitolo 2
*** Crime!AU - Cry me a River ***


Crime!AU
Cry me a River

 
Sì, immaginava che dopotutto se lo fosse meritato. Insomma… era legato a quel tavolo da giorni, nutrito a pappa reale e acqua, con le flebo endovena per mantenerlo sedato quel po’ che bastava per confondergli i sensi e non fargli rendere conto di dove si trovasse, che ora del giorno fosse, e chi fosse presente. Ma se lo era meritato, perché non appena l’aveva vista per la prima volta il cuore gli era balzato in gola… e non per la paura.
Ombre si agitavano ai limiti del suo campo visivo, ma Nathan non sapeva bene se fossero effetto delle medicine che lei continuava a fargli ingollare oppure se ci fosse davvero qualcuno che, magari, puliva la cantina in cui era rinchiuso. Dopotutto, River era famosa per essere una manipolatrice molto capace: sapeva procurarsi complici continuamente, di cui si disfaceva non appena si rivelavano inutili, noiosi, o entrambe le cose.
Ma, di solito, River era anche una serial killer veloce e metodica, quasi fredda e decisamente calcolata, per niente passionale nei propri delitti; sembrava uccidesse per un piacere molto sottile, come quando si completava un puzzle, piuttosto che per un bisogno spasmodico.
Nathan aveva mal di testa: quei pensieri gli si affollavano nella mente, facendogli ronzare le orecchie; il battito del cuore accelerò di colpo quando la porta scricchiolò e i tacchi di River risuonarono sul pavimento di nudo cemento.
«Allora, dolcezza… come stai oggi?» chiese la donna, con un sorriso dolcissimo che stonava con i suoi occhi così azzurri da risultare quasi lilla e che erano freddi, calcolatori. In mano aveva una pochette blu scuro, che si intonava al vestito lungo e ricoperto di brillanti incastonati nel tessuto, come fosse stata una principessa. Lo spacco lasciava intravedere un polpaccio ben definito di pelle candida, e il suo viso dolce a forma di cuore si stava gradualmente avvicinando a Nathan. River si mise la pochette sotto un braccio e gli tolse con gentilezza il nastro adesivo dalle labbra.
«Siamo soli, dolcezza» mormorò.
Non era normale che lo tenesse prigioniero in quelle condizioni. La sua mente viaggiava, e si chiedeva se per caso… anche lei… magari…
Perse il filo dei pensieri, ma il suo corpo lo aveva seguito abbastanza e una specie di mezza erezione gli premeva contro il cavallo dei jeans.
River ovviamente se n’era accorta, e Nathan deglutì a fatica.
«Sto… sto bene» mormorò, rispondendo alla sua domanda. Respirava a fatica: fino a quel momento le sue torture si erano limitate a un’incisione con uno scalpellino sulle clavicole e sulle costole, che gli facevano male ad ogni singolo respiro.
«Oggi ti faccio un regalo, dato che finora sei stato bravo» gli propose, strizzandogli l’occhio. «Dimmi, tesoro, hai mai provato qualcosa di simile alla Psilocibina?».
«Non… Non so cosa sia» ammise Nathan, e River ridacchiò.
«Non hai mai lavorato alla narcotici, evidentemente» lo rimproverò con un sorriso tremendo, poi aprì la pochette e ne tirò fuori una siringa. «Lars passerà più tardi ad assicurarsi che la flebo vada ancora» disse concentrata nell’iniettare il contenuto della siringa nel corso della flebo, sulla giuntura di gomma.
«Cosa mi hai…?» mormorò Nathan, e River si avvicinò a lui finché non fu così vicina che lui poté sentirne l’odore persistente di gelsomino che aveva imparato a conoscere così bene in quei giorni.
«Un regalo, te l’ho detto» sorrise misteriosa. «Goditelo, mi raccomando».
E detto ciò uscì.
Le ore che seguirono furono pregne di allucinazioni, sogni ad occhi aperti, vividissimi colori e Nathan poté anche giurare, una volta finito l’effetto degli allucinogeni, che addirittura gli fosse stato rivelato il senso della vita e dell’universo stesso. Ma ciò gli sfuggiva, una volta sobrio, e l’unico strascico lasciato da quell’esperienza fu una sensazione di pace profonda.
Fu solo a quel punto che Lars entrò nella cantina; o forse era già passato a controllarlo, ma lui non se n’era accorto. Era un uomo silenzioso, dai lineamenti forse sud-asiatici, la pelle un po’ scura e gli occhi castani che lo sondavano.
Al contrario delle altre volte, in cui si era trattenuto lo stretto necessario per controllarlo, stavolta prese una sedia da vicino il muro e si sedette a gambe incrociate su di essa, vicino al tavolo a cui Nathan era legato, e lo fissò con curiosità.
Non parlarono per un po’, poi Lars sorrise appena.
«Com’è stato?».
«Mi sono scordato del dolore per qualche ora».
«Sono passate quasi dodici ore da quando è venuta l’ultima volta qui» lo informò lo scagnozzo, e Nathan sgranò gli occhi.
«E perché mi parli, ora?».
«Perché lei dorme, e non temo punizione: se le dicessi che abbiamo parlato, probabilmente crederebbe che sia stata un’allucinazione».
Nathan rimase in silenzio.
«Sai di cosa ho voglia?» mormorò ad un certo punto il poliziotto prigioniero.
«Sentiamo».
«Un pompino».
Lars ridacchiò.
«Siamo pur sempre uomini, no? Sarò lieto di aiutarti» propose.
«Ti offendi se… penso a lei?» chiese esitando Nathan. Lars lo guardò serio.
«È la più bella donna che abbia mai visto. Pensa a chi vuoi, mi fai un po’ pena. Secondo me morirai a breve, e lo stesso farò anch’io. Quindi… tanto vale godersi questi ultimi giorni».
La gola di Nathan si strinse di colpo.
Giusto.
Quella prigionia era sempre stata in qualche modo da lui sopportata perché da un lato pensava di meritarsi quelle torture; dall’altro, pensava anche sarebbe stato liberato, prima o poi.
Ma sentirsi dire con così tanta sicurezza – e noncuranza – che sarebbe morto…
Le lacrime sgorgarono da sole; la stanchezza gli piombò addosso tutta insieme, come se si fosse trattenuta sul soffitto e improvvisamente quest’ultimo fosse crollato, concentrato sul suo petto, proprio lì dove faceva più male.
Lars gli slacciò i pantaloni, e fece quel che poteva per farglielo drizzare; Nathan tentò di pensare al profumo di gelsomino di River, e pianse calde lacrime perché non poteva averla, e perché presto ciò non sarebbe più stato neanche un problema.
Se solo non avesse dovuto indagare su di lei sin dal principio, forse quella situazione terrificante non si sarebbe mai verificata.

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Capitolo 3
*** Tattoo!AU - Maschera ***


Tattoo!AU
Maschera
 
«Ma sei proprio sicuro di voler andare da quel tatuatore? Dicono che sia bravo, eh, per carità, ma non è neanche detto che ti prenda come cliente…» Elizabeth aggrottò la fronte, storcendo le labbra mentre rinforzava la presa sul volante. Leander guardava fuori dal finestrino, e si strinse nelle spalle. 
«Io ci provo lo stesso. Tra l’altro dicono che abbia una lista d’attesa di mesi, eppure Jhon ci è andato l’altro giorno e l’ha preso dentro subito per fare un tattoo piccino». 
«E quanto l’ha pagato?».
«Centocinquanta».
«Eeeeeh?» Elizabeth sgranò gli occhi, gettandogli uno sguardo fugace prima di concentrarsi di nuovo sulla strada. «Ma piccino quanto?».
«Boh, era tipo… un design particolare. Molto dettagliato. Quasi da tavola scientifica, hai presente il genere, no?».
Elizabeth sospirò. 
«Immagino. Comunque siamo quasi arrivati».
Qualche goccia di pioggia iniziò a ticchettare sul parabrezza. I temporali di fine estate non erano rari, a quella latitudine, e Elizabeth li preferiva comunque al sole a picco. Leander alzò il finestrino, dato che le gocce avevano cominciato ad entrare in auto. In breve furono a cercar parcheggio; quando l’ebbero trovato, si rifugiarono sotto un balcone per ripararsi dalla pioggia, cercando online l’indirizzo esatto dello studio di Kareem Harper, il tatuatore più in voga negli ultimi cinque anni. 
Trovata la strada, la seguirono rifugiandosi di balcone in balcone, ed inzuppandosi nel mentre. Bussarono al portone, e gli fu aperto da una ragazza completamente tatuata, che masticava una chewingum blu come i suoi capelli. Elizabeth sorrise. 
«Bello il colore!» la complimentò, indicandosi i capelli a sua volta. «Il mio è della Manic Pixie, tu che tinta usi?» chiese, entrando. La ragazza sorrise appena.
«Non è me che devi irretire, tesoro» disse. Elizabeth arrossì violentemente. 
«Non volevo irretirti… solo fare conversazione» borbottò. La tatuatrice fece una smorfia e inarcò le sopracciglia. 
«Allora… chi si deve tatuare?».
«Io, ma…» rispose Leander, dopo aver finito di guardarsi attorno: le pareti erano tappezzate di gente nuda e seminuda con le opportune parti coperte, che mostrava orgogliosamente i propri tatuaggi.
«Ma?» lo incalzò la tipa.
«In realtà volevamo fare un tatuaggio insieme» prese la parola Elizabeth. «Sempre per mano sua, ovviamente».
La ragazza sospirò. 
«Quindi volete tipo… i vostri nomi o qualcosa del genere?» chiese con sufficienza.
«No».
«Vogliamo qualcosa di… particolare» Leander si strinse nelle spalle. «Volevamo qualcosa di grosso, bello e pregno di significato». 
«Da quanto state insieme?».
«Stare ins… no guarda hai frainteso. Al massimo siamo scopamici» rise Leander, e Elizabeth sorrise indulgente. 
«Non siamo proprio il tipo di persone che fa la coppietta felice. Anzi, vogliamo allargare la situazione».
«Con un figlio?» chiese lei, interessata.
«No, con un’altra persona» ridacchiò Leander. «Ma finora non c’è nessuno che ci sia interessato per davvero». 
«Buona fortuna. Vado a chiamare Kareem». 
«Dici che abbiamo esagerato?» chiese Elizabeth con un tono un po’ ansioso, non appena la ragazza fu sparita dietro una porta bianca che contrastava con le pareti nere ricoperte di foto. 
«Non credo. Abbiamo solo detto la verità».
Sentirono una bestemmia dall’altra parte della porta, poi questa si spalancò e l’uomo più bello che entrambi avessero mai visto si palesò davanti a loro. La sua pelle era scura come del caramello ben fatto, e sul petto scoperto era ricoperta di tatuaggi bianchi e neri; i capelli erano lisci e lunghi fino alla cintola, neri anch’essi, e gli occhi erano scuri come il carbone, freddi e in qualche modo sospettosi. Indossava solo dei jeans scuri e degli stivaletti alla caviglia; la barba era nera e ben curata, mentre era glabro su braccia e petto. 
Mentre ancora si riprendevano da quella vista, Kareem schioccò le dita in loro direzione.
«Non ho tutto il giorno. Volete star lì imbambolati ancora per molto?».
Elizabeth fu la prima a riprendersi. 
«Sei davvero bellissimo».
«I complimenti non vi porteranno alcunché, ma ti ringrazio. Allora. Come mai proprio qui, e proprio adesso?».
«Abbiamo i soldi necessari e vogliamo affidarti completamente il design del tatuaggio».
«Hanno detto “grosso, bello e pregno”» disse la tipa dai capelli azzurri, annoiata.
«Come il mio cazzo» ridacchiò Kareem, e poi strizzò loro l’occhio. «Non preoccupatevi: è halal» disse. Leander sorrise feroce, e Kareem lo indicò.
«Questo…» si bloccò, poi ammiccò. «Tu. Preso».
«Non puoi prendere solo me. O tutti e due o nessuno dei due». 
«Non lavoro con chi non mi piace».
«Sei disposto a perdermi pur di seguire questa filosofia?» Leander inarcò un sopracciglio e allargò le braccia, alzando il mento.
Kareem lo studiò. 
«Sentiamo… che ha di particolare la tua ragazza?».
«Non è la mia ragazza».
«Bene. Che ha di particolare la tua non-ragazza?» Kareem gli dedicò un sorriso antipatico. 
«Lo lascio scoprire a te» Leander arretrò di un passo e Elizabeth inclinò la testa di lato, inarcando un sopracciglio. Kareem prese a girarle attorno.
«Eccoci di nuovo» disse lei.
«Nulla in contrario, dolcezza, ma preferisco di gran lunga gli uomini alle donne».
«Nulla in contrario, tesoro, ma non me ne può fregar di meno. Posso anche guardarvi mentre scopate, non mi tange». 
Kareem si fermò colpito. 
«Davvero mi lasceresti ficcare il cazzo nel tuo non-ragazzo?».
«E qual è il problema? Anche io ce lo ficco» rise Elizabeth, e Kareem alzò il mento. 
«Che sei, una futa?». 
«Quel termine è abbastan–» Elizabeth scosse la testa, alzando gli occhi al cielo e rinunciando a quel discorso. «Sono una ragazza transgender». 
Kareem riprese a girarle attorno. 
«Non mi interessa quello che hai nelle mutande, dolcezza. Onestamente, fino ad ora mi hai colpito davvero poco. Se non ti sbrighi, dovrò mandarvi entrambi a casa… e non sai quanto mi dispiacerebbe rinunciare al tuo amichetto» disse, scoccando un’occhiata a Leander. 
«Sono una scrittrice» mormorò Elizabeth. «Il tempo è mio amico, mentre è tuo nemico a quanto pare». 
«Mi annoi. Ti prenderò come cliente a patto che non apri più bocca» contrattò Kareem. Elizabeth scoccò un’occhiata a Leander, che aggrottò la fronte. 
«Non se ne parl–» cominciò, ma Elizabeth sollevò una mano.
«Accetto» lo interruppe. Kareem sorrise. 
«È bello fare affari con voi. Discuteremo del design al prossimo appuntamento. Per ora lasciate un acconto di cento dollari per entrambi – cinquanta a testa – e fissate la prossima data con Katherine». 
Detto ciò, Kareem sparì nuovamente dietro la porta bianca. Katherine, la tipa dai capelli azzurri, consultò la fitta agenda dello studio. 
«Vi va bene il 29 dicembre?».
«Fra tre mesi?» chiese Leander, inarcando un sopracciglio. 
«Non ho posto prima».
«Allora immagino che vada bene» sospirò Leander. 
Una volta usciti, Leander poteva sentire il malumore di Elizabeth sulla pelle come fosse una grattugia. 
«Hai qualcosa da dire?».
«Sì. A te è bastato sorridere, io invece non devo più parlare. È proprio un atteggiamento sessista e da pallone gonfiato». 
Leander ci rifletté un momento. 
«Immagino di sì. Vuoi ancora andarci?».
«Dannazione, immagino di sì…? Abbiamo messo cinquanta dollari di acconto a testa, non è che possiamo tirarci indietro a questo punto» mormorò lei, amareggiata. 
Leander sospirò. 
«Mi dispiace. Non mi aspettavo che fosse così…».
«Così?».
«Sì, sai… così».
Leander non specificò e Elizabeth era troppo stanca e di cattivo umore per chiedere ancora. 
«Dai, andiamo a casa» mormorò Leander, mentre Elizabeth si accendeva una sigaretta in silenzio. Proprio in quel momento, dal portone uscì Kareem, che si bloccò all’istante non appena li vide.
«Ehy» li salutò, accendendosi anche lui una sigaretta.
«Ehy» dissero cautamente gli altri due.
«Volevo scusarmi con voi, vi ho già mandato un messaggio su Insta a tal proposito. Purtroppo davanti ai dipendenti devo… metter su una specie di farsa. Mi rispettano molto, ma è un rispetto pieno di spine» mormorò, e in qualche modo sembrò impacciato. Elizabeth incrociò le braccia sul petto.
«Quindi?».
«Voglio porgervi le mie scuse. In particolare a te, dolcezza. Scusate se sono stato “cattivo” lì dentro. Non sono così, fuori da quelle quattro mura in cui ormai vivo venti ore al giorno» mormorò ancora, e Elizabeth sentì sciogliersi un nodo allo stomaco che non sapeva di avere. 
«Mi dispiace. Dovresti staccare la testa, ogni tanto. Vuoi venire a cena da noi, stasera? È quasi ora» disse lei, consultando il cellulare per leggervi l’orario.
«Oddio, vi ringrazio ma… non saprei. Ho altri appuntamenti fino alle sette».
«Sono le sette meno dieci» lo informò lei.
Kareem spostò il peso da una gamba all’altra, visibilmente a disagio. 
«Ooh, fanculo. Ci sto. Lasciatemi prendere il casco e–».
«No, lì dentro non ci torni» si inserì Leander. «Se no non ti rivediamo più» rise. 
«E quindi?».
«Quindi ti portiamo noi in auto». 
«E poi quando me ne devo andare? Come faccio?».
«Un qualche modo lo troviamo» sorrise Elizabeth.
Kareem deglutì e si strinse la felpa addosso: si era coperto, perlomeno, per uscire dallo studio. 
«Va bene. Grazie».
I tre si avviarono sotto la pioggia, e quando arrivarono all’automobile c’erano già le stelle a brillare al di là delle nubi stracciate.

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