Stiletto

di Nike90Wyatt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Prefazione:

A volte ritornano. Dopo ben due anni dalla mia ultima pubblicazione, rieccomi sul fandom di Miraculous a presentarvi una nuova opera.

Ritengo opportuno scrivere una breve premessa per introdurvi al meglio a ciò che andrete a leggere: quest’opera deriva da un’idea presentata all’interno di un episodio della quarta stagione di Miraculous, che mi ha affascinato particolarmente. Non entro troppo nel dettaglio in quanto non è mio desiderio rovinare la scoperta dei dettagli della storia, ma sappiate che mi sono divertito tanto a plasmare l’idea in modo da essere il fulcro di quest’opera.
Un altro appunto che mi preme spiegare è la collocazione temporale della presente storia: da quanto potete leggere nella breve sinossi, le vicende si collocano esattamente in un intervallo di tempo che colma una parte mancante dell’ultima storia che ho pubblicato, Le scelte della vita. Non è assolutamente obbligatorio leggerla (ogni opera che scrivo è autoconclusiva e a sé stante), ma comunque ve ne consiglio la lettura per approfondire alcuni dettagli che poi vedrete.
Detto ciò, vi auguro una buona lettura.
Nike90Wyatt



L’autobus rallenta sulla carreggiata e inizia ad accostarsi al marciapiede.
Balzo giù dal sediolino, schivo un signore in giacca e cravatta che parla al telefono e premo il pulsante per prenotare la fermata. L’Accademia si staglia contro il cielo terso, le vetrate della facciata riflettono i raggi solari costringendomi a distogliere lo sguardo.
Artiglio il palo ed evito di cadere per la frenata brusca dell’autista. Lungo l’asta corrono le solite scritte dei Satiri dell’Anarchia, l’inchiostro rosso risalta sul grigio. Devono averle fatte massimo due giorni fa.
«Accademia di Moda Bellerofonte,» gracchia la voce nell’altoparlante.
Le porte si aprono e scendo dall’autobus.
Prendo lo smartphone dalla tasca e blocco la riproduzione della playlist. Devo ammettere che provare nuovi gusti musicali è stata un’ottima idea: grazie nonna.
Sfilo le cuffie dalle orecchie.
Due colpi di clacson stridono da destra, un motorino mi sfreccia davanti nello strettissimo spazio tra me e il marciapiede. Il cellulare mi sfugge dalle dita, fa una parabola in aria e si schianta sulle mattonelle rosse. La scocca della custodia si apre e lo smartphone salta fuori.
Sbatto le palpebre e giro la testa a sinistra.
Il motorino ha rallentato la sua corsa. La ragazza in groppa suona altre due volte il clacson; boccoli biondi sbucano dal casco rosa tempestato di glitter e ballano sul giubbottino di jeans. Letizia…
Si volta e mi sorride fiera, orgogliosa della sua bravata. «Sta attenta a dove metti i tuoi piedi palmati, baguette!»
Ingoio una risposta affilata e corro a recuperare il cellulare.
Letizia dà un altro colpo di clacson, solleva il braccio e mi mostra il dito medio. Sgasa col motorino e scende la stradina che conduce al parcheggio.
Molto maturo da parte sua. Perché proprio a me doveva capitare come compagna di classe la fusione maligna di Chloé e Lila? A confronto con lei, quelle due sembrano angioletti.
 Afferro il polsino della maglietta e lo strofino sullo schermo: sembra non abbia riportato graffi. Premo il pulsante di accensione e sul display compare la foto di me che abbraccio Alya, la Tour Eiffel sullo sfondo. Se avesse assistito alla scena, avrebbe già cercato di forare entrambe le gomme del motorino di Letizia e, come al solito, io tenterei in tutti i modi di bloccarla per evitare discussioni con un’oca giuliva.
Che le oche giulive mi perdonino per il paragone.   
Il cellulare funziona ancora, ma la custodia è da buttare. L’angolo in alto si è spaccato impedendone l’utilizzo.
Un lieve movimento agita la pochette sul fianco. Apro la zip e gli occhi blu cobalto di Tikki mi fissano. «Stai bene, Marinette?»
«Per ora, sì.» Le spingo la testolina con l’indice. «Nasconditi, non vorrai farti vedere da qualcuno.»
Stringo la tracolla della borsa e mi incammino lungo il piastrellato che conduce al maestoso ingresso dell’Accademia. Un rigurgito acido mi risale lungo l’esofago: sapevo che ieri non avrei dovuto esagerare con gli assaggi mentre provavo la nuova ricetta dei macaron di mio padre. Questo è il motivo per cui la gola è un peccato capitale.
Spero almeno che ne sia valsa la pena.
Sulla parete dell’edificio che affaccia sul parcheggio riservato agli insegnanti, spicca il logo degli anarchici, una A rovesciata a strisce rosse e gialle circoscritta da un sole nero. Due addetti dell’impresa di pulizia, in tute azzurre con tanto di mascherina, stanno spruzzando del detersivo sul disegno per rimuoverlo.
L’aria puzza di varichina e ammoniaca.
Mi copro la bocca con il braccio e allungo la falcata. Passo accanto a un gruppo di studenti dell’ultimo anno e imbocco l’ingresso. Fumano e ridacchiano, presi dai loro discorsi sulla partita di Champions League di ieri sera: ancora una volta, ho dovuto ingoiare una cocente sconfitta del Paris Saint Germain, ma ormai ci ho fatto il callo. Il presidente non capirà mai che spendere milioni di euro alla cieca per comprare campioni su campioni non ci garantisce la vittoria di diritto. Serve coesione, un progetto serio.
Salgo le scale che conducono al primo piano, il chiacchiericcio dell’atrio diventa man mano un semplice brusio.
In cima, mi accoglie la riproduzione in scala dell’eroe greco che dà il nome all’Accademia. Il bel volto disteso è incorniciato dall’elmo, nella mano destra impugna la lancia puntata contro il muso da leone della chimera. Le zampe caprine del mostro sono piegate sulla base della scultura, la coda di drago vortica sulla testa di Bellerofonte.
Mi sono sempre chiesta se la mitologia greca non posasse le proprie fondamenta su eroi reali che brandivano Miraculous. D’altronde, i gioielli esistono da migliaia di anni, non è da escludere come teoria.
Cammino lungo il corridoio, l’aria è pregna del profumo di cera che viene stesa ogni settimana sul parquet. Ci tengono molto all’estetica qui, quindi i pavimenti devono brillare sempre, costi quel che costi. Peccato che risparmino sulle luci, al mattino occorre sempre camminare al buio.
Davanti alla porta dell’aula, incrocio un familiare sguardo verde: Sonia mi corre incontro, la coda castana le oscilla dietro la schiena.
Guarda l’orologio e annuisce convinta. «Sei minuti in anticipo sul suono della campanella. È record.»
«Avrei fatto anche prima se non avessi incrociato una chimera sul cammino. E non mi riferisco alla scultura.»
 «Che ha combinato Letizia?»
Storco il naso. «Non mi va di parlarne.» Apro la zip della borsa e ci ficco la mano dentro. «Ho qualcosa per te.» Scosto l’astuccio e le dita sfiorano la scatoletta ricoperta di pellicola trasparente.
La estraggo e la porgo a Sonia. «Per te.»
«È quello che penso?»
«Macaron al cioccolato, vaniglia e fragola.»
Gli occhi di Sonia si illuminano. Strappa via la pellicola e la getta di lato, facendola planare sul pavimento.
Apre la scatoletta, afferra un macaron e lo addenta a metà. Si lascia andare a un mugolio di piacere, la testa oscilla come se fosse pervasa da una sensazione di estasi. «Tu sei pericolosissima per la mia linea. Se dovessi farci l’abitudine a questi, nel giro di un mese non riuscirò più a passare per le porte e dovrò rifarmi il guardaroba.»
«Non correrai questo rischio.» Ridacchio. «Ieri ho messo la cucina sottosopra per prepararli e non ho potuto apportare le modifiche che volevo agli schizzi che avevo preparato.»
Sonia infila la mano nella scatoletta, esita un istante e la ritrae. Scuote la testa, la richiude e la mette via nella borsa. «Resisterò fino alla pausa. Non cederò al richiamo dei tuoi manicaretti.»
Dal fondo del corridoio giungono due voci familiari. Juan e Richard compaiono dalla rampa di scale e ci vengono incontro.
Sonia mi dà di gomito. «Perché devono vestirsi ogni giorno uguali?»
Mi stringo nelle spalle. «Si definiscono “gemelli”. Chi siamo noi per infrangere le loro convinzioni?»
Nella penombra del corridoio, l’incarnato pallido di Richard risalta sul golfino amaranto che indossa. Si passa una mano tra i capelli rossicci e mima un calcio nel vuoto.
Di sicuro stanno parlando della partita di ieri. Dunque, devo prepararmi alle loro battutine di scherno.
Juan avvolge con un braccio Sonia e le schiocca due sonori baci sulle guance. Si avvicina a me e ripete l’operazione, il suo profumo al bergamotto è così forte da farmi pizzicare il naso.
Si scosta il ciuffo color ebano dalla fronte e ghigna. «Allora, chiquita? Questo Paris?»
Sospiro. «Direi che ci siamo meritati di uscire. Il Manchester ha giocato meglio.»
Juan scuote l’indice. «Non te la caverai con la scenetta della tifosa sportiva. Sono andato a dormire all’una pur di trovare i dettagli del budget che avete speso in estate e a gennaio nel mercato.»
Richard sbotta in una risata. «Come on, my friend. Non torturarla.»
«Non esiste!» Juan tira fuori dalla tasca un foglio spiegazzato e lo apre. Sembra il prospetto finanziario di un’azienda. Punta il dito su un rigo e lo mostra a Richard. «Guarda qua! Il loro tetto ingaggi è pauroso e—»
«Yeah, yeah, ma ti ricordo che è stato buttato fuori dal Manchester City, che di certo non spende meno soldi sul mercato.»
Ineccepibile argomentazione.
Le braccia di Juan calano lungo i fianchi.
Richard scuote le spalle per bilanciare il peso dello zaino. «Stasera vedremo cosa farà il tuo Real, my friend.»
Sonia si lascia andare a un verso spazientito. «La volete finire di parlare di calcio?» Mi prende sottobraccio. «Io non so come tu faccia a sopportarli.»
Sorrido. «Abitudine.»
A Parigi ero abituata a intavolare discussioni che duravano giorni con Kim, Alix e Nino: oggi saranno a lutto visto il risultato di ieri, oppure saranno talmente furiosi da riuscire a farsi cacciare dalla classe dalla professoressa di turno.
Juan mostra i palmi e attraversa per primo l’uscio della classe. «Està bien. Ne riparliamo domani allora.»
Richard mi strizza l’occhio. «Domani ci divertiamo. Il Real è practically con un piede fuori.» Arriccia il naso e annusa l’aria. «Cos’è questo odore di dolci?»
Sonia mi indica col pollice. «Saranno i macaron che Marinette ha preparato per me.»
Richard disegna una O con la bocca. «What?»
Juan lo affianca di corsa. «Macaron? Di Marinette?»
Si scambia un’occhiata con Richard ed entrambi si gettano in ginocchio ai miei piedi, le mani giunte a mo’ di preghiera.
«Falli anche per me,» piagnucola Juan. «Juro che non ti prenderò più in giro sulla tua squadra.»
Richard fa eco alla sua preghiera. «Me too. Per favore, Marinette.»
Il resto della classe osserva la scena divertita. Risatine e cori di sostegno si alzano dal gruppetto. Non manca giorno che Juan e Richard si lascino andare a queste sceneggiate teatrali.
Sonia si piazza davanti a loro, i pugni premuti sui fianchi. «Ma guardali. Due schiavetti al nostro servizio.»
Un versaccio di disgusto tuona dal fondo dell’aula. Il gruppo di ragazzi si apre rivelando la sagoma di Letizia, seduta sul banco con le gambe accavallate.
«Tante storie per degli esperimenti casalinghi di dubbio gusto.» Fa oscillare i piedi avvolti nelle decolleté rosa confetto. «Siete davvero patetici, voi due.»
Juan e Richard si rimettono in piedi e vanno a sedersi, senza proferire parola. Non sono tipi che si abbattono dopo essere colpiti dal veleno di quella serpe, ma sui loro volti si legge l’imbarazzo e la vergogna.
La rabbia mi infiamma il petto. Non solo stamattina Letizia ha rischiato di uccidermi, ma adesso si permette anche di insultare i miei amici.
Sonia mi prende la mano. «Lasciala perdere, Marinette.» Parla a voce alta così da assicurarsi che Letizia la senta. «La signorina è abituata a mangiare le schifezze da ricchi, non ha idea delle prelibatezze che si perde.»
Letizia si punta una ciocca bionda dietro all’orecchio, il padiglione è tempestato di orecchini e piercing brillanti. «Almeno io riesco a mantenere una siluette perfetta, al contrario di altre persone.»
La mano di Sonia diventa di ghiaccio. Lei passa ore e ore ad allenarsi per bilanciare il suo metabolismo lento che altrimenti le farebbe mettere su chili appena compie qualche sgarro. Riesce a permettersi una piccolissima quantità di zucchero al giorno, il resto sono solo rinunce.
I ragazzi della classe tacciono, come se fosse una forma di assenso. Al suono della campanella, ognuno prende posto al proprio banco e la discussione cade lì.
Letizia si schiaffeggia i capelli e si siede con aria trionfante.
Non è giusto che debba avere sempre l’ultima parola.
 
***
 
Stacco la penna dal foglio e morsico il tappino. L’espressione contrita di Sonia mi ha provocato una stretta al cuore.
Non mi ha mai raccontato i particolari di quello che le è successo, ma, a grandi linee, so che poco più di un anno fa ha dovuto affrontare una crisi depressiva che l’ha condotta a mangiare pochissimo, fino a sfiorare l’anoressia. Solo con l’aiuto di uno specialista ne è uscita riprendendo il peso forma normale per una ragazza della sua età. Gli strascichi di quell’episodio, però, continuano ancora oggi a manifestarsi: basta una parola fuori posto e Sonia diventa fredda come un ghiacciolo appena preso dal frigo.
Mi agito sulla sedia.
Il professor Rissagno pinza con due dita l’asticella dei suoi occhialini e li sistema più in basso sulla radice del naso. Osserva con minuziosa attenzione le formule scritte alla lavagna.
Tra la rabbia per le angherie della serpe bionda e la preoccupazione per Sonia, non riesco a seguire la lezione. Dovrò farmi passare gli appunti da Richard.
«Dupain-Cheng.»
Accidenti a quella Letizia. Perché dev’essere così acida con tutti? Eppure, non dovrebbe esserci un motivo per avercela col mondo: è una brillante studentessa, ha una carriera spianata nel mondo della moda e può scegliere senza problemi di intraprendere la strada di stilista o di modella, in quanto eccelle in entrambe le discipline.
«Dupain-Cheng!»
E io che pensavo di essermi liberata definitivamente delle prepotenze, allontanandomi da Chloè e Lila per chilometri e chilometri.
Che illusa che sono stata.
«Dupain-Cheng, mi ascolti o preferisci continuare a dormire?»
Il gomito di Richard mi colpisce al fianco. Sbatto le ciglia e mi riscuoto, la penna ricade sul foglio. Tutti gli occhi della classe sono puntati su di me, compresi quelli severi e inceneritori di Rissagno.
«Ebbene, Dupain-Cheng?» Il professore tiene sollevato all’altezza della spalla il gessetto. «Devo scusarmi per aver interrotto il tuo flusso di pensieri?»
«I-io,» balbetto. «M-mi scusi, professore.»
«Se il tuo desiderio è dormire in classe, preferirei che tu stessi a casa.»
Letizia gira la testa sulla spalla e mi rivolge un ghigno. Sta godendo del rimprovero che ho preso. E se conosco bene Rissagno—
«Forza, vieni alla lavagna.»
Proprio quello che temevo.
Mi alzo dalla sedia e claudico fino alla cattedra. L’odore pungente del dopobarba del professore ristagna in zona. E lui vuole anche tenere le finestre serrate quando fa lezione.
Rissagno allunga il gessetto, o quello che ne rimane, e lo pianta sotto al mio naso. «La formula per determinare il fascio di rette passante per un punto.»
Prendo il gessetto. Ripasso a mente tutte le formule che ho studiato negli ultimi mesi. Accidenti, una domanda così a bruciapelo è paragonabile all’attacco di un’akuma. E la seconda la saprei gestire sicuramente meglio.
Avvicino il gessetto alla lavagna e inizio a scrivere. Il fascio di rette passante per un punto… «P-per un punto passano infinite r-rette.»
Scrivo l’equazione, ma all’ultimo punto mi blocco. La mia testa mi suggerisce che manca qualcosa. Mi volto verso Rissagno, il quale ha il muso sporgente e gli zigomi contratti. Un’espressione che non lascia presagire nulla di buono.
«La domanda è troppo difficile per te, Dupain-Cheng?»
Deglutisco. Ho sbagliato. So che ho sbagliato.
Richard solleva appena il gomito oltre la spalla e, con le dita rivolte verso il basso, forma una M.
Mi viene spontaneo di sorridere. Mancava il coefficiente angolare. Lo scrivo e completo la formula.
Il professor Rissagno accoglie la mia risposta con un grugnito. «Bene, Dupain-Cheng. Almeno la tua memoria funziona, sebbene ci impieghi un po’ per carburare.»
Abbasso lo sguardo fino a fissarmi le sneakers, le mani giunte al ventre. «Mi scusi ancora, professore. Non capiterà più.»
«Non voglio promesse da marinaio. Voglio fatti.» Rissagno punta l’indice su quello che ho scritto. «Se il punto è l’origine, come cambia la formula?»
Traccio una barra sulle coordinate generiche del punto.
Rissagno annuisce e mi prende il gessetto da mano. «Torna a posto, Dupain-Cheng.»
A testa bassa, vado a risedermi.
Accarezzo la mano di Richard. «Ti sei guadagnato un’intera guantiera di dolciumi.»
Richard mette la mano a coppa davanti alla bocca. «Abbonda con la crema al cioccolato.»
 
***
 
Nel silenzio del corridoio, mi accosto all’ufficio del professor Ursi, l’insegnante di fashion design.
Sfoglio il quaderno dei bozzetti, fino ad arrivare all’ultima creazione: un abito femminile, sportivo e aderente, giacchetto a coprire il top, leggings e un paio di stivaletti neri, tacco a punta. Quando ho avuto l’illuminazione e mi sono messa a disegnare, lo ritenevo una creazione fantastica. Ora che lo guardo a freddo, mi sembra zeppo di difetti, indegno anche solo di giacere sul quaderno di una studentessa dell’Accademia.
Poggio le spalle al muro e mi colpisco la fronte col quaderno. Magari Ursi non gradirebbe affatto una visita al di fuori dell’orario scolastico e mi beccherei di sicuro un rimprovero. E forse anche una nota di demerito.
No, meglio non rischiare.
«Io ti consiglierei di dar fuoco a quel quaderno.»
Sollevo lo sguardo e incrocio gli occhi celesti di Letizia. Non l’ho nemmeno sentita arrivare, persa nelle mie fantasie mentali. Sotto al braccio ha una cartelletta rosa shocking; sul fronte spicca una L disegnata con tanti brillantini incollati.
Trotterella davanti alla porta di Ursi e oscilla il collo, facendo danzare i suoi boccoli biondi. «Ancora non capisco come hanno fatto ad ammetterti qui, baguette. La tua sola presenza squalifica l’intera Accademia.» Posa le unghie smaltate di viola sul petto. «Per fortuna ci sono io.»
Una sfilza di insulti mi sale lungo la gola, ma li ricaccio giù. Non vale la pena abbassarsi al suo livello, non vale la pena nemmeno starla a sentire.
Letizia bussa alla porta. Entra senza nemmeno attendere il permesso. «Buon pomeriggio, professore,» cinguetta con la sua voce stridula in grado di raggiungere gli ultrasuoni. «Desidero proporle qualche mio schizzo e affidarmi alla sua eccelsa competenza in materia per limare qualche imperfezione.»
Faccio capolino dietro allo stipite per dare una sbirciata.
Ursi chiude la schermata al pc e rivolge la sua attenzione a Letizia. «In realtà non dovrei accettare…» Sospira e le sorride dolce. «Va bene, Letizia. Fammi dare un’occhiata.»
Avrei voglia di prendermi a pugni. Al posto di quella serpe dovevo esserci io. Il professor Ursi è la bontà fatta persona, non avrebbe mai detto di no, chiunque si fosse presentato. Dannata insicurezza.
Non ho voglia di ascoltare le sviolinate di Letizia e gli elogi che il professore le rivolgerà per l’ottimo lavoro svolto. Non voglio subire anche questo.
Giro i tacchi e mi allontano.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 
Infilo la chiave nella serratura e apro la porta di casa. «Nonna, sono a casa!»
Chiudo il battente alle mie spalle e mi sfilo le scarpe. Devo ammettere che, sebbene all’inizio il cambio sia stato traumatico, le sneakers mi stanno molto più comode rispetto alle ballerine che ero solita indossare.
Sfilo anche i calzini, li adagio nelle scarpe e metto piede sul parquet. Un formicolio mi solletica le piante dei piedi.
Nonna Gina si palesa sull’uscio della cucina, da cui proviene un sensazionale profumo di arrosto. «Bentornata, Marinetta.»
Indossa un grembiule da cucina sporco di verdure tritate, sopra al solito look da motociclista incallita. Mi schiocca un bacio sulla fronte, mi posa le mani sulle spalle e mi scruta con i suoi occhi cerulei. «Cosa ti turba mia cara?»
Apro la bocca, ma nessuna risposta – o scusa – affiora dalla gola. In passato, consideravo nonna Gina una donna amante dell’avventura e poco attenta quando si tratta degli affetti familiari: teoria confermata dal fatto che mi regalò una magliettina per bambini al mio quattordicesimo compleanno.
Invece, da quando abbiamo iniziato la convivenza ha sviluppato delle doti da mastino della polizia. È in grado di capire se una giornata è andata storta solo con un’occhiata.
Mi accarezza la guancia e mi sorride. «D’accordo. Me ne parlerai dopo se lo vorrai.»
Annuisco e abbozzo un sorriso che suona finto persino a me che non lo vedo.
Leon sbuca dal corridoio e zampetta fino alle mie ginocchia, scodinzolando. Mi gira intorno annusandomi e solleva le zampe anteriori posandole sul mio petto.
Mi chino sulle ginocchia e lo abbraccio, affondando il naso nel suo folto pelo nero e profumato.
«Va’ pure in camera, mia cara.» Nonna Gina strizza l’occhio. «Ti chiamo io quando è pronto.»
«Grazie nonna.» Mi sollevo. «Vieni, Leon.»
Chiudo la porta della camera, getto lo zaino a terra e mi tuffo sul letto, sulla coperta con la Tour Eiffel stampata sopra.
Non posso continuare così, a farmi avvelenare questa bellissima esperienza da Letizia. Giorno dopo giorno, peggiora sempre di più e io, da stupida, le vado anche dietro. Oggi le ho permesso di tentare un omicidio nei miei confronti, di insultare le mie doti di pasticciera – che già non sono eccelse, se poi ci si mette anche lei la mia autostima scende sottozero –, di mettere a disagio Sonia, Juan e Richard e di presentare una sua opera al posto mio.
Leon balza sul letto e avvicina il muso al mio naso, fissandomi con i suoi occhioni scuri. Come se comprendesse il mio turbamento. Anzi, di sicuro lo comprende.
Gli accarezzo la testa. «Per fortuna ho te.»
Tikki mi svolazza davanti al viso, le zampette incrociate in petto, l’espressione corrucciata.
Le tocco la punta del naso con l’indice. «E ovviamente te, amica mia.»
Tikki rilassa il volto. «Non capisco perché non sei entrata anche tu dal professor Ursi.»
«Perché so già che avrebbe trovato mille difetti nei miei bozzetti. Specialmente dopo aver ammirato le meraviglie disegnate da Letizia.»
«Questo non puoi saperlo. Né tu, né lei siete professioniste nella moda. Avete entrambe margine di miglioramento e i professori sono lì proprio per aiutarvi.»
«Non volevo fare brutta figura.»
«Ricordati che tu hai meritato almeno quanto lei di frequentare questa scuola. Sei stata ammessa perché in te hanno visto del potenziale.»
Mi sollevo sui gomiti e tiro a me il cuscino a forma di gatto. Vi poggio sopra il mento, godendone la morbidezza. «Sì, ma…»
Tikki sfreccia verso la scrivania, attraversa magicamente il cassetto e lo apre dall’interno.
Sbuca fuori reggendo un foglio piegato. «Se ancora hai dei dubbi, ti consiglio di rileggere la lettera di ammissione: specificano non una, ma ben due volte che sono stati colpiti dal tuo talento, ammirando la bombetta che tu hai disegnato e confezionato. All’epoca non esitasti così tanto quando partecipasti a quel concorso.»
«A Parigi era diverso, Tikki. I miei compagni di scuola non erano bravi quanto lo è Letizia, Sonia o chiunque altro frequenti l’Accademia. Il livello è molto più alto e io…» Batto un indice contro l’altro. «Non mi sento alla loro altezza.»
Leon annusa l’aria, leva una zampa verso Tikki e abbaia.
Dei passi si avvicinano dal corridoio.
Tre colpi battono sulla porta. Tikki si fionda a nascondersi dietro il monitor del computer.
«Marinetta,» cantilena Nonna Gina. «Il tuo pranzo è pronto, bocciolo.»
Inarco la schiena, la spina dorsale manda uno scrocchio. «Arrivo!»
 
***
 
Mi siedo alla scrivania e apro il quaderno dei bozzetti. Il disegno dell’ultima mia creazione mi osserva inquisitorio, come se volesse indicarmi quanti e quali errori ho fatto, bocciando in toto la mia idea.
Afferro la matita dal portapenne e sfioro il foglio con la punta, proprio sotto uno dei tacchi a spillo. Scuoto la testa. Che cosa dovrei migliorare? Perché più passa il tempo, più mi sembra un disegno orripilante?
Tikki ha ragione. Avrei dovuto farlo vedere al professor Ursi, chiedergli su quali punti avrei dovuto soffermarmi, cosa correggere e cosa, invece, andava tenuto.
Dal computer giunge il trillo di una chiamata. Sullo schermo, in basso a destra, compare il quadratino con la foto della mamma accanto all’icona della videocamera.
Sposto il cursore sul quadratino e accetto la chiamata. Si apre una finestra in cui compare il volto di mamma, con alle spalle la libreria del soggiorno. Ha i capelli corvini legati in un codino, gli occhi color platino trasmettono serenità.
«Mamma!»
«Ciao tesoro. Come stai?»
Mi torturo le dita sotto alla scrivania. «Potrebbe andare meglio.» Non me la sento di inventarmi scuse o di mentire, affermando che va tutto bene. L’ho già sperimentato in passato e mi sono sentita peggio.
«Problemi a scuola? Fai ancora ritardi?» chiede mamma, senza riuscire a trattenere una risatina.
«Sotto quel punto di vista, hai di fronte una nuova Marinette. Niente più ritardi, niente più note sul diario.»
«Ne sono contenta.»
«È solo che…» Mi mordo il labbro inferiore. «Pensavo fosse più facile; un conto è disegnare per diletto, un conto è farlo tra persone che condividono la tua stessa passione, persone con cui devi confrontarti e scoprire che la loro abilità è superiore alla tua.»
«Sei abbastanza matura da comprendere che le difficoltà ci saranno sempre, non importa quanto ami o odi fare qualcosa. Man mano che andrai avanti, esse si moltiplicheranno e tu non potrai evitarlo, non potrai fuggire. Ma qualcosa sarà sempre sotto il tuo controllo: il modo in cui le affronti, quante volte sarai in grado di rialzarti dopo essere caduta. È questo quello che fa davvero la differenza.»
Le parole di mamma sono come un balsamo rilassante dopo una giornata disastrosa. Vorrei tanto essere come lei, calma, tranquilla, sempre pacata anche quando tutto rema contro.
La sagoma imponente di papà emerge alle spalle di mamma. Agita la manona. «Ciao, tesoro.»
«Ciao, papà.»
Papà affianca mamma, le loro guance si sfiorano. «Approfitto della chiamata per chiederti un rapido consulto: secondo te, la nonna preferisce il cioccolato al latte o il fondente?»
Batto un dito sul mento. «Credo il fondente.»
«Perfetto! Allora la ganache sarà al fondente.»
«Vuoi spedirle una torta?»
Papà e mamma si scambiano un’occhiata perplessa. Lei rotea gli occhi al cielo e si stringe nelle spalle.
Cambio posizione sulla sedia. «Ho detto qualcosa che non va?»
Papà si allontana dallo schermo e scompare dall’inquadratura. La sua ombra si allontana sul muro.
Mamma sospira e piega le labbra di lato. «L’hai dimenticato, vero?»
Sollevo un sopracciglio. «Dimenticato, cosa?»
Dietro al monitor del computer, Tikki agita le zampette per attirare l’attenzione. Indica il calendario.
Assottiglio le palpebre per mettere a fuoco: il giorno di domenica è cerchiato in rosso, accanto ho disegnato una torta affiancandole la scritta NONNA GINA.
Oh, no…
Il compleanno della nonna è questa domenica!
Mi infilo le dita tra i capelli, con tutta l’intenzione di strapparmeli ad uno ad uno. «Ma dove ho la testa!»
Mamma si copre la bocca, celando una risata. «Spero non ti sia dimenticata anche che io e papà arriveremo sabato.»
Vorrei sotterrarmi. Mancano cinque giorni al compleanno della nonna e non le ho ancora preso un regalo, non ho organizzato nulla, non ho—
«Marinette?»
La voce della mamma mi scuote.
Mi alzo e inizio a camminare intorno a Leon, accucciato proprio al centro della camera sul tappetino in moquette. «Devo assolutamente trovare il regalo giusto. Ho pochissimo tempo per farlo, mi devo mettere subito all’opera.»
«Sono sicura che Gina apprezzerà qualsiasi cosa, perché sarai tu a donargliela.»
«Non esiste!» Taglio l’aria con una mano. «Dev’essere qualcosa di speciale. È il suo…» Arriccio la bocca. «Quanti anni compie?»
Mamma si stringe nelle spalle. «Mistero.»
«Beh, non importa. Le farò un regalo indimenticabile.»
 
***
 
Attraverso la strada e giungo sul lato opposto del naviglio. Gruppi di ragazzi, coppiette e uomini d’affari siedono ai tavolini dei bar, all’aperto. Sullo sfondo, le guglie del Duomo si stagliano contro il cielo crepuscolare.
Sono due ore che vago senza meta e ancora non ho trovato l’idea giusta per il regalo della nonna. Avevo pensato ad un fermaglio da abbinare ai suoi capelli color platino, un braccialetto o degli orecchini da sfoggiare quando sfreccia in moto, ma ho scartato tutto. È una donna d’avventura, non una patita degli accessori.
È una forza della natura; potrebbe dichiarare di avere trent’anni e chiunque le crederebbe ad occhi chiusi. Ci vuole qualcosa di specifico che la riporti in quell’esperienze che ha vissuto e che ancora ha intenzione di vivere.
Svolto l’angolo in fondo alla via, un lungo viale zeppo di negozi si apre di fronte a me.
Accanto al portone di un palazzo, due tizi coperti dai cappucci delle felpe trafficano con delle bombolette spray. Quello chino sulle ginocchia ne agita una, spruzza sul muro una nuvola rossa, disegnando un cerchio con due spuntoni sulla parte superiore.
Accidenti. Sono i Satiri.
Il tipo in piedi si volta a guardarmi, metà volto è coperto da uno scaldacollo grigio, lasciando scoperti solo un paio di occhi sottili e una fronte rugosa.
Incasso la testa nelle spalle e accelero il passo. Non voglio affatto avere a che fare con questa gente. Ai telegiornali si parla ogni giorno degli atti di vandalismo perpetuati in tutta la città dai Satiri dell’Anarchia: graffiti su muri, autobus, vagoni della metropolitana, bottiglie di vetro lanciate contro le volanti della polizia, falò nelle zone periferiche.
La gente non sembra essere preoccupata, ma c’è da stare tranquilli? Da piccoli reati di vandalismo a reati gravi il passo è breve.
Fortuna che a Milano non può arrivare l’influenza nefasta di Papillon e delle sue akuma. Quello sì che sarebbe un guaio difficile da gestire.
Il clacson di auto che sfreccia lungo il viale mi riscuote. Sono giunta ad un cinema. la locandina presenta lo spettacolo del giorno: Le avventure di Ladybug e Chat Noir.
Roteo gli occhi al cielo. È una persecuzione.
Scuoto il capo e proseguo lungo il marciapiede. Quel film romanza un po’ troppo le imprese di Ladybug secondo i miei gusti. L’avrò guardato almeno tre volte e non è mai capitato che non trovassi almeno un difetto nuovo che mi ha fatto storcere il naso. Se non avessi già tanti grilli per la testa, avrei volentieri fatto una visita allo sceneggiatore nei panni di Ladybug per dirgliene quattro.
Ma, in fondo, che importanza ha?
Alla gente piace e chi sono io per discutere i loro gusti?
Mi fermo davanti ad una vetrina di un negozietto. Esposti ci sono vari monili, strumenti musicali e dipinti di origine esoterica.
Potrebbe essere la scelta giusta per il carattere avventuroso della nonna. Spingo la porta vetrata col palmo, il campanello in alto trilla. Un profumo di melograno e oli rilassanti aleggia nell’ambiente, le note di un’arpa risuonano nell’aria. Sembra di essere in un tempio esoterico.
Una donna dai capelli color cenere legati in una crocchia mi accoglie da dietro a un bancone. «Benvenuta.» Stiracchia le labbra rugose in un sorriso e si sistema lo scialle sulle spalle. «Posso esserti d’aiuto?»
Ha un marcato accento del posto. Ho impiegato poco tempo a impararne le sfumature più comuni, ma ogni volta c’è qualcuno che me ne insegna una nuova.
«Posso dare un’occhiata in giro?»
La donna china il capo in un cenno d’assenso senza smettere di sorridere. «Sono qui se hai bisogno.»
Scruto gli scaffali sulla sinistra. In alto campeggiano fialette di spezie di ogni tipo, anche alcune di cui ignoravo l’esistenza. Più in basso, sono esposti dei quadretti raffiguranti paesaggi, costruzioni in pietra simili ai giardini pensili di Babilonia e disegni stilizzati della fauna africana. Su un cavalletto da pittore, giace un arazzo col disegno di una donna con un velo sulla testa che tiene in braccio un neonato e un uomo che le posa una mano sulla spalla.
«È cucito a mano,» dice la donna. «Un lavoro che ha impiegato anni.»
Non ne dubito. Accarezzo la superficie della tela, è ruvida e scanalata. La cura dei dettagli è impressionante: dai piccoli solchi di espressione sul volto della donna, alla pelle perlacea del bimbo, alle pieghe dell’abito dell’uomo, in giacca e pantaloni neri, con una camicia merlettata sotto.
Mi pizzicano le dita dalla voglia di replicare sul mio quaderno un look così particolare, fino a farne una creazione personale da presentare al professor Ursi.
Ma, per ora, la mia creatività dovrà aspettare. Il regalo della nonna ha la priorità.
Mi volto e mi avvicino alla vetrinetta sul lato opposto degli scaffali. Sul ripiano, giace un medaglione a forma di cipolla, dorato; sul fronte è inciso una specie di simbolo, che ricorda la forma di un pavone rovesciato.
Giro il capo verso la donna e pianto l’indice sul vetro. «Potrebbe farmi vedere questo?»
La donna si alza dallo sgabellino puntellando i palmi sul bancone ed estrae dalla tasca un mazzo di chiavi. Afferra quella più piccola, la gira nella serratura e fa scorrere la vetrinetta di lato.
Il campanello alla porta trilla di nuovo, un uomo dal volto simile ad una maschera piatta, largo e schiacciato, fa il suo ingresso nel negozio. Il cappello borsalino fa ombra alle guance smunte e al naso aquilino. Sotto al gilet di lana, porta una camicia azzurra scolorita.
«Questo qui?» Le mani chiazzate di macchie di vecchiaia della donna artigliano il medaglione.
Annuisco e prendo il portamonete dalla pochette. «Sì, esatto.»
La donna torna al bancone, stringendosi lo scialle al collo tra due dita.
Il tizio mi passa accanto, urtandomi, e strappa il medaglione dalle mani della donna. «Lo pago il doppio del suo valore.»
La donna fa una smorfia di disapprovazione e passa lo sguardo dal tizio a me, quindi di nuovo al tizio. «Veramente c’era prima la ragazza.»
L’uomo non si volta neanche. «Non m’interessa. Voglio questo medaglione. È perfetto per farmi perdonare da mia moglie.» Una pausa. «Lo pago il triplo.»
Stringo il pugno intorno al laccio della pochette. Detesto i prepotenti, con le loro ostentazioni di superiorità di potere e di denaro. Se questo tizio si rivelasse essere un parente stretto di Letizia, non ne sarei affatto stupita.
La donna abbassa le spalle, con un’espressione contrita. «D’accordo…»
L’uomo piazza sul bancone tre banconote da cento euro, si intasca il medaglione e si fionda fuori al negozio zoppicando.
«Mi dispiace, ragazza.»
«Non importa.» Non posso dare la colpa a lei. Da buona negoziante ha accettato l’offerta migliore, sebbene fosse palese che non ha apprezzato il comportamento di quel prepotente.
Sarebbe stato inutile tentare di discutere con un elemento simile. Avrei solo perso tempo prezioso e, in fondo, non ne valeva nemmeno la pena: questo posto offre tante altre alternative come regalo per nonna Gina.
Sorrido. «Sceglierò qualcos’altro.»

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Il professor Ursi entra nella classe e rivolge a tutti il suo sorriso più splendente. Indossa giacca e cravatta eleganti e dei pantaloni di velluto che fanno venir caldo solo a guardarlo. Tuttavia, non gli si può negare che abbia un certo stile e portamento. Con i capelli grigi tirati all’indietro e quegli occhiali dalla montatura rossa, ricorda a tratti Gabriel Agreste. Solo più solare e meno orso.
Letizia e le sue amiche sedute intorno a lei si scambiano dei commenti a bassa voce, ridacchiando e gettando occhiate maliziose al professore, che si accomoda alla cattedra.
«Civette in calore,» borbotto.
Sotto al mio palmo sudato giace il quaderno dei bozzetti, chiuso. L’entusiasmo per il mio nuovo bozzetto si è subito spezzato appena ho posato la matita sul foglio. Quale casa di moda sceglierebbe di far vestire al proprio modello un abito dallo stile così antico?
Non ne combino una giusta. Spero che almeno la lezione mi riporti quel briciolo di passione per la materia, altrimenti, a fine anno, farò le valigie e tornerò con la coda tra le gambe a Parigi. Accantonerò per sempre il mio sogno di diventare una stilista e mi dedicherò alla pasticceria, sperando di non fallire anche lì.
Ursi si schiarisce la voce e il brusio della classe si spegne. «Prima di cominciare la lezione, ho un annuncio importante per voi. Nei prossimi giorni, voi studenti del mio corso inizierete a lavorare a un progetto di moda: dovrete progettare, disegnare e, infine, confezionare un abito maschile. I lavori verranno presentati ad una giuria, composta da me e da alcuni esperti del settore che ospiteremo.»
Un coro di entusiasmo si solleva dalla classe. Alcuni battono le mani, Letizia si schiaffeggia più volte la chioma bionda, Sonia mi guarda e agita le folte sopracciglia.
Ursi batte le mani due volte per moderare i toni dell’aula. «Giudicheremo il vostro operato e sarà sancito un vincitore, il cui capo verrà indossato all’ufficiale sfilata che si terrà a Milano tra due settimane.» Si spinge gli occhiali sul naso. «Voglio precisare che non è obbligatorio partecipare, ma chi deciderà di farlo, riceverà dei crediti che saranno aggiunti alla pagella di fine anno.»
Sonia alza la mano, il professore la dà parola. «È possibile lavorare in gruppo?»
Ursi si gratta la nuca. «Direi che non c’è nessun problema. Gradirei, però, che i gruppi non superino i due elementi. Ritengo che sia più pratico e limiterebbe il rischio che un solo elemento lavori e gli altri si prendano il merito.»
 Dal banco in prima fila, Sonia si volta a guardarmi, indica prima sé stessa, poi me, e infine unisce gli indici.
Vuole che faccia coppia con lei. Ma io non sono nemmeno sicura di partecipare: dopo le cocenti delusioni dei miei ultimi bozzetti, ho il morale sotto le suole e la mia creatività è pari a quella di un comodino.
Mi porto due dita alla tempia e le roteo, indicando che ci penserò. Sonia piega le labbra verso il basso e annuisce mesta.
Ecco. Ne ho sbagliata un’altra e ora la mia amica è delusa.
 
***
 
Pigio il pulsante del quarto piano e l’ascensore parte con un sussulto. All’uscita da scuola ho deciso di rientrare a casa a piedi, percorrendo a passo lento strade, stradine, dedali e vicoli. Chilometri e chilometri sotto al sole cocente, con l’umidità che penetra fino alle ossa.
Ho le piante dei piedi che bruciano, i muscoli delle gambe che dolgono. Chiederò alla nonna di prepararmi un pediluvio rilassante. Pinzo la maglietta che mi si è appiccicata addosso; se la spremessi, potrei riempire metà di un secchio. L’altra metà la riempirei con il sudore che mi gronda dalle tempie.
Almeno ho avuto del tempo per riflettere e rimuginare sulla decisione che dovrò prendere. Questa storia della gara è arrivata all’improvviso e mi ha colta totalmente alla sprovvista. Non ci avrei nemmeno badato molto se non fosse che Sonia ha subito percepito la possibilità di lavorare insieme e unire le nostre idee, le nostre abilità.
Avrei dovuto esprimerle prima le mie difficoltà nel creare abiti decenti, così non sarebbe rimasta delusa da un eventuale rifiuto a concorrere in coppia.
Rientro in casa, sfilo le scarpe e i calzini. Le dita dei piedi somigliano a dei salsicciotti rossi. Poso la pianta sul pavimento, le piastrelle fredde mi danno un lieve sollievo, e gemo di dolore. Spero non mi venga qualche vescica.
Claudico fino alla cucina, da cui giunge il suono della tv accesa, sintonizzata sul telegiornale.
La nonna è seduta su uno degli sgabelli che circondano l’isola. Sta sfogliando un libro di ricette. Solleva gli occhi su di me. «Marinetta! Non ti ho sentita rientrare.»
La mia espressione deve assomigliare a quella di Gollum de Il Signore degli Anelli, perché la nonna chiude di scatto il libro e si fionda al mio fianco. «Cos’è successo, piccola?»
Mi accarezza la guancia e io, travolta dall’affetto, le circondo la vita con le braccia.
Un gemito di frustrazione mi sfugge da bocca. «Sento di star sbagliando tutto, nonna.»
«Marinetta cara.» La nonna scioglie l’abbraccio. «Se hai qualche problema, non c’è niente di meglio che buttare tutto fuori per alleggerirti il peso dell’anima.»
«Hai ragione. È che non so da dove iniziare… è tutto così diverso da quando stavo a Parigi.» Mi accomodo su uno sgabello e lascio sfilare a terra la borsa a tracolla. Mi sembra di aver corso tre maratone.
In tv, alle spalle del mezzobusto del giornalista, compare l’immagine del duomo di Milano.
Prendo il telecomando posato sul ripiano dell’isola e alzo il volume.
Il giornalista fissa la telecamera di fronte. «E non si fermano le scorribande dei cosiddetti Satiri dell’Anarchia, che da mesi ormai si rendono protagonisti di atti vandalici in tutta la città di Milano. Proprio pochi minuti, è stato pubblicato sul web il video di un elemento appartenente alla banda, che minaccia il sindaco di forzare la mano se questi non asseconderà le loro richieste. Il servizio…»
Le immagini scorrono sullo schermo e mostrano un tizio incappucciato, con una maschera rossa striata di nero a coprirgli il volto.
«Signor sindaco,» la voce è metallica, alterata da un modificatore vocale. «Lei continua ad ignorare le nostre richieste di incontrarla pacificamente. Evidentemente, non le hanno insegnato le regole diplomatiche che un buon politico deve rispettare.» Nella mano guantata compare un coltello seghettato, sul manico è disegnato il simbolo dei Satiri. «Vorrà dire che le manderemo un messaggio che difficilmente lei e i cittadini di questa città potranno dimenticare; ci sarà sofferenza e si ricordi che sarà tutta colpa sua.»
Nonna Gina spegne la tv, emettendo un versaccio. «Questi idioti finiranno per fare del male a poveri innocenti.» Addolcisce i tratti del viso. «Raccontami tutto, mia cara.»
Mi chino e prendo dalla borsa il mio quaderno dei bozzetti. Lo porgo alla nonna e le racconto del progetto di cui ci ha parlato il professor Ursi, del fatto che io ho tutta l’intenzione di non parteciparvi e che, a causa di ciò, ho deluso la mia amica Sonia.
«Io…» Sbuffo. «Io non sono più sicura di voler proseguire a frequentare l’Accademia. Non sono più sicura che la moda sia la strada che devo seguire.»
Nonna Gina sfoglia il quaderno soffermandosi di tanto in tanto a percorrere con i polpastrelli i contorni dei disegni.
Chiude il quaderno con una mano, le labbra tinte di rosso si distendono in un sorriso. «Io non sono per nulla d’accordo con te. Trovo che le tue creazioni siano ottime.»
«Lo dici solo perché mi vuoi bene. In realtà, sono zeppe di errori, sbavature e imprecisioni. Roba da dilettanti.»
«E tu non lo sei?»
«Nonna…» Batto le punte degli indici l’una contro l’altra. «L’Accademia Bellerofonte richiede una perizia di gran lunga superiore a quegli sgorbi; persino i bidelli che lavorano lì farebbero meglio di me.»
«Potresti avere ragione, ma dubito che in una scuola dove si va per imparare pretendano che una studentessa di sedici anni abbia le stesse competenze degli stilisti più famosi.»
Un nodo mi stringe la gola. So che ha ragione, ma una vocina dentro di me continua a ripetermi che non ce la farò mai, che farei meglio a mollare tutto e intraprendere una strada più sicura, senza rischi.
«Io tenterei lo stesso.» Nonna posa il quaderno sull’isola, lo apre, e si sofferma su uno degli ultimi bozzetti, l’outfit da donna completo di tacchi a spillo, quello che avrei voluto far vedere al professor Ursi. «Lavora su questo: correggi quello che ritieni vada corretto, confeziona l’abito e presentalo alla giuria. Potrai contare anche sull’aiuto della tua amica e, nel caso non andasse bene, potrai almeno dire di averci provato.»
Mi sfugge una risatina. «In realtà, il progetto prevede che si debba presentare un abito maschile.»
«Oh, un vero peccato. Mi sarebbe piaciuto sfoggiare questo look aggressivo. Fa molto… me.» La nonna ammicca. «Ricorda sempre Marinette: non tentare è come fallire già in partenza.»
 
***
 
Rientro in camera mia, con lo stomaco che pesa quanto un macigno. Per risollevarmi il morale, la nonna mi ha preparato un timballo di maccheroni estratto dal libro di ricette che sta studiando con tanto ardore.
Il risultato era squisito, ma devo accettare anche le conseguenze del mio peccato di gola.
Leon mi sfiora le ginocchia e va ad accucciarsi accanto alla scrivania. Tikki lo segue con lo sguardo, appollaiata sulla mensola in alto, tra la foto di mamma e papà e quella con i miei compagni di classe.
Durante il pranzo, non si è toccato più l’argomento moda e di questo ne sono stata contenta. Staccando per un po’ i pensieri dai miei turbamenti mi aiuterà a prendere una decisione definitiva sul mio futuro.
Dal computer arriva il suono di una notifica, seguito subito dal trillo di una videochiamata. Lo schermo si anima, in basso compare l’icona di un paio di occhiali da vista.
È Alya.
Mi accomodo sulla sedia girevole e accetto la chiamata.
Il volto olivastro di Alya riempie lo schermo, negli occhiali si riflette la luce del suo computer. «Salve, Miss Moda.»
«Hai cambiato pettinatura?»
Alya si passa una mano nella frangia ramata. «Almeno tu l’hai notato. Quando sono uscita dal parrucchiere, Nino ha avuto il coraggio di chiedermi ‘Cos’hai di diverso da prima?’.» Mette su il broncio. «Certe volte mi fa davvero impazzire.»
«Forse dovresti provare a indossare di nuovo il tuo bel costume da martello di Thor.» Sogghigno. «In quel modo, ti noterà di sicuro.»
«Ah-ah. Come vanno le cose nel bel paese
«Alti e bassi. Non ti nascondo che provo tanta nostalgia delle nostre riunioni segrete, dei miei piani assurdi… di un po’ tutto direi.»
«Anche tu ci manchi tanto, Marinette. Però siamo tutte felici che stai sulla strada per coronare il tuo grande sogno. Magari, un giorno, prenderai il posto di Gabriel Agreste oppure fonderai una tua casa di moda, col tuo nome, e gli farai concorrenza spietata.»
Sollevo le gambe sulla sedia e le circondo con le braccia. «Non sono più sicura di voler proseguire.»
L’ho detto senza mezzi termini. Con Alya diventa molto semplice confidarmi, esprimere le mie incertezze. Lei e Tikki sono le mie due voci della ragione; spesso i loro consigli coincidono, e spesso io li ignoro come se parlassero al vento.
Alya muove l’indice come un metronomo. «Sciocchezze, amica mia. Stai solo vivendo la fase della discesa: l’entusiasmo che avevi all’inizio per l’esperienza nuova è scemato pian piano e adesso stai facendo i conti con le prime difficoltà. È normale.»
«Lo pensi davvero?»
«Certo! Credi che per me sia sempre tutto facile? Sono settimane che né Ladybug né Chat Noir si fanno vedere in giro e, intanto, il mio Ladyblog perde follower ogni minuto, causa assenza di materiale.»
«Mi dispiace…» Non posso fare a meno di sentirmi in colpa per questo. La decisione di limitare al minimo le apparizioni pubbliche di Ladybug è stata mia e Chat l’ha accettata, seppur con riluttanza. Non potevo fare la spola da Milano a Parigi di continuo, ma non avevo pensato all’impatto che la nostra assenza poteva avere sui cittadini.
Alya fa schioccare le labbra. «Non pensare che questo mi abbia fermato, mia cara. Ho già predisposto un nuovo progetto che mi ripopolerà in un lampo il mio blog.»
«Di che si tratta?»
«Ah, no. Non ti dirò nulla finché non mi darai prova che ti rimetterai subito in carreggiata e avrai cancellato ogni traccia di dubbio sul tuo percorso.»
Scuoto la testa. «Non lo so, Alya. Forse, questa gara che ci sarà a breve testerà sul serio la mia capacità di reggere la competizione con gli altri stilisti.»
«Devo forse ricordarti la bombetta che confezionasti per Adrien?»
Il cuore salta un battito. «Meglio di no.»
Il solo sentire nominare Adrien fa riaffiorare in me ricordi spiacevoli, di quando lo vidi avvinghiato a Katami, pronti a darsi un bacio da veri fidanzati. Lo stesso giorno in cui, a causa di un mio errore, ho dovuto dire addio a una persona a cui tenevo tanto.
Mi mordicchio l’unghia dell’anulare. Ho timore a chiedere ad Alya come sta, cosa sta facendo, come passa le giornate e se frequenta ancora la sua compagna nipponica.
Prima, conoscevo a memoria ogni suo spostamento, ogni suo appuntamento era segnato con precisione certosina nella mia agenda. Allontanarmi da Parigi ha significato allontanarmi anche da lui. Non riuscii nemmeno a salutarlo il giorno della mia partenza, a causa dell’incidente che ebbe il padre.
Alya dà voce ai miei pensieri come se mi leggesse nella mente. «Pensi ancora a lui?»
«Meno di quanto credessi quando sono partita. Però, sì. È difficile togliersi dalla testa un ragazzo che occupava gran parte dei miei pensieri fino a un anno fa.»
«Anche a lui manchi, come amica ovviamente. Non voglio darti false illusioni.» Si morde il labbro inferiore e sospira. «Tanto prima o poi lo verrai a sapere comunque: da qualche mese si frequenta molto più assiduamente con Katami. Non c’è ancora ufficialità – e sospetto che in questo c’entri molto il padre – ma ritengo che siano una coppia a tutti gli effetti.»
Annuisco, frizionandomi le gambe. Non mi aspettavo qualcosa di diverso, ma sentirlo dire da una come Alya, sempre attenta alla validità delle notizie che diffonde, è come immergersi in un lago ghiacciato senza indossare vestiti.
«Marinette…» Alya posa le dita sullo schermo, quasi a volermi accarezzare. «Devi andare avanti. Non restare ancorata a questo amore che si allontana sempre di più, che ti causa solo sofferenze. Non esiste solo Adrien Agreste a questo mondo.»
«L’unica persona che posso incolpare di tutto questo sono io. Ho avuto migliaia di occasioni per dichiararmi, ma non ho mai trovato il coraggio.» Sono perfetta solo quando vesto i panni di Ladybug; quando Marinette si intromette, accadono solo guai. «Potrei scrivere un libro sulle occasioni perse.»
«Motivo in più per iniziare a muoverti.» Sul volto di Alya affiora un ghigno. «Dubito che in Italia non ci siano ragazzi affascinanti e sensuali, tanto da scatenare succose fantasie.»
Il volto mi va in fiamme. «Alya!»
«Andiamo, ragazza. Non hai nemmeno dato il tuo primo bacio. Vuoi forse diventare vecchia in attesa di trovare il coraggio di dichiararti ad Adrien, se e quando tornerà libero, oppure accantonare il belloccio di casa Agreste e guardarti un po’ intorno?»
«Io…» Mi mordo la lingua. Ero in procinto di dichiarare alla mia amica che in realtà io ho già dato il mio primo bacio e anche il secondo. Peccato che, in entrambi i casi, non provassi nulla più di un sincero affetto per il ragazzo con cui ho provato l’esperienza.
La prima volta fu per emergenza: Chat Noir doveva essere liberato dall’influsso malefico di Dark Cupido e baciarlo era l’unica opzione percorribile. La seconda volta, nemmeno ricordo il perché l’ho fatto. Di sicuro lui non rappresenta lo stereotipo di ragazzo che può suscitarmi le fantasie di cui parla Alya. Non solo non conosco il suo vero aspetto, ma è anche un supereroe e avere una relazione con lui significherebbe pericolo. Pericolo ad ogni angolo, pericolo ogni minuto della vita.
«Marinette!» Alya schiocca le dita davanti allo schermo. «Sei ancora nel mondo dei vivi?»
Mi riscuoto. «Scusami. Stavo riflettendo su ciò che hai detto e… credo tu abbia ragione. Devo essere più ferma nelle mie decisioni.»
«Dunque, cercherai il tuo bell’italiano da sbaciucchiare?»
«No!» Le guance avvampano. «Intendevo dire che proverò a partecipare al progetto di moda. Accetterò la collaborazione con Sonia e, insieme, lavoreremo per portare a casa un risultato che soddisfi la giuria.»
Alya sbuffa. «Immagino che dovrò accontentarmi per ora.»
 
***
 
Scanso un paio di persone che camminano nel senso opposto a mio e accelero il passo. Sono in ritardo colossale.
Ho perso tempo ad aiutare la nonna a scegliere il look per il suo incontro nella Galleria del Duomo e non ho badato ai minuti che scorrevano. Spero che almeno a lei vada tutto per il meglio.
Svolto l’angolo, l’Accademia compare in fondo alla strada. Inciampo in una mattonella, allargo le braccia per mantenere l’equilibrio e riprendo a correre.
Proprio oggi che la borsa è stracolma di libri, i mezzi pubblici dovevano interrompere il servizio. La mia solita fortuna.
In prossimità del cancello, rallento il passo e mi strofino il braccio sulla fronte zuppa di sudore. Ciocche di capelli mi si sono attaccate alle tempie, la t-shirt è diventata una seconda pelle.
Ho bisogno di riprendere fiato o i polmoni mi scoppieranno. Mi fermo e poso i palmi sulle ginocchia. In soli due giorni, avrò bruciato le calorie di un anno.
Davanti all’ingresso sono raggruppati alcuni ragazzi dell’ultimo anno, alcuni seduti sui loro motorini. Cori di risate e nuvolette di fumo si sollevano dal gruppo.
Lancio un’occhiata all’orologio al polso: le 9:10. Le lezioni sono iniziate quaranta minuti fa, che ci fanno quelli a bighellonare all’esterno?
Mi accosto a loro e mi paralizzo. Il cancello è chiuso.
Diavoli!
Sono arrivata talmente in ritardo che hanno chiuso l’ingresso. Oltre all’assenza, ho perso anche l’occasione per parlare con Sonia e dirle che volevo fare squadra con lei per il progetto.
Artiglio un paletto del cancello e ci batto la fronte contro. Una corsa inutile.
Una voce maschile si leva dal gruppo. «Ehi, ragazza!»
È un ragazzo bruno con i capelli a spazzola, a cavallo di un motorino. Schiocca via il mozzicone dalle dita, la cicca descrive una parabola in aria e atterra sull’asfalto.
Smonta dal motorino e schiaccia con il calcagno il mozzicone. «La scuola è chiusa oggi.»
«Chiusa?» Apro la bocca. «Non c’erano avvisi, ieri.»
«Infatti l’hanno deciso stamattina, dopo quello che è successo in piazza Duomo.»
«Cos’è successo?»
Il ragazzo storce la bocca. «I Satiri hanno preso d’assedio la stazione della metropolitana. Ci sono degli ostaggi nei vagoni. La situazione è critica.»

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Mi siedo sulla panca sotto la tettoia della fermata del bus. L’ombra mi protegge dal sole cocente. Sul display luminoso della colonnina scorre la scritta “SERVIZIO MOMENTANEAMENTE SOSPESO”.
Rilasso le spalle e oscillo il collo. Poso al mio fianco la borsa a tracolla. Se la fissassi per cinque minuti di fila, assumerebbe la forma dei massi che trasportavano gli schiavi nell’antico Egitto. Purtroppo, gran parte dei professori non si sono ancora messi al passo coi tempi e preferiscono la carta stampata ai libri digitali.
Il gruppo di ragazzi si è allontanato e ognuno ha preso la propria strada. Sembravano piuttosto sollevati dal fatto che non ci fosse lezione, del tutto indifferenti a quanto sta accadendo in zona Duomo.
È assurdo che i Satiri siano arrivati a tanto. Finora si erano limitati a imbrattare muri, a riempire la città di manifesti e a sporadiche risse nei quartieri periferici.
Qui siamo a livello di terroristi. Prendere in ostaggio la metropolitana, paralizzare l’intera Milano...
Spero che il sindaco inizi a prendere in considerazione l’idea di dare ascolto a questa gente. Altrimenti si rischia il tracollo.
Prendo lo smartphone, lo sblocco e reinserisco la suoneria. In alto allo schermo compaiono le tre tacche del Wi-Fi dell’Accademia e le notifiche di Telegram: i messaggi provengono dal gruppo di classe, in cui si parla dell’attentato, delle conseguenze e di come si muoveranno le forze dell’ordine per liberare gli ostaggi. Tra i commenti, mancano ovviamente quelli di Letizia, il cui ultimo messaggio è un invito a non prendere parte alla gara di moda, visto che il risultato è già scontato e lei vincerà di sicuro.
Che strazio!
Scorro la lista dei contatti e mi soffermo su Sonia. Le scrivo un breve messaggio:
SE L’OFFERTA È ANCORA VALIDA, VORREI FARE COPPIA CON TE PER IL PROGETTO DI MODA.
Premo invio.
Forse non è il massimo riferirle una notizia simile via messaggio, ma al momento ho i muscoli talmente a pezzi che persino il cervello sembra muoversi a rilento. Sono certa che Sonia non baderà molto alla forma, quanto al succo.
Chiudo l’applicazione di messaggistica e apro quella delle notizie in tempo reale. L’intera bacheca pullula di aggiornamenti concernenti l’assedio dei Satiri, alternando notizie testuali a riprese live.
Seleziono il video di un’emittente. La telecamera inquadra dall’alto le guglie della basilica, zoomando ad alternanza sui quattro accessi alla metropolitana, sigillati da veicoli parcheggiati di traverso: sulle portiere spiccano i simboli dei Satiri dell’Anarchia. Stavolta, anziché scegliere il rosso e il nero, hanno optato per un viola scuro su uno sfondo bordeaux. Il risultato è pressoché inquietante.
Intorno alla piazza sono schierate le volanti e i pulmini di polizia e carabinieri. Agenti in tenuta antisommossa sorvegliano il perimetro puntando i loro fucili sui vari accessi.
Premo sul tasto per alzare il volume, sullo schermo del cellulare la barra bianca si riempie del tutto.
La voce del giornalista risuona dall’altoparlante. «…questo assedio che dura ormai da più di tre ore e non ci sono cenni di allentamento da parte dei sequestratori. Al momento non hanno diramato nessun messaggio, impedendo alle autorità di intavolare qualsivoglia tentativo di trattare.»
Mi strofino il palmo sulla fronte sudata. Se fosse capitata una situazione simile a Parigi, sarei subito accorsa ad aiutare i tutori dell’ordine nei panni di Ladybug, e Chat Noir avrebbe fatto lo stesso.
Ma qui…
Scuoto la testa. Sarebbe troppo rischioso farmi vedere in giro. La notizia che Ladybug si trova a Milano farebbe il giro del globo nell’arco di un paio di minuti. La gente che mi conosce, Alya su tutti, ci metterebbe un attimo a fare due più due.
La pochette si muove sul mio fianco.
Lancio un’occhiata ai dintorni, per assicurarmi che non ci sia nessun curioso ad osservarmi. La strada, fatta eccezione per alcune auto di passaggio, è deserta.
Apro la zip della pochette.
Tikki fa capolino. «So cosa stai pensando, Marinette. Ma conosci i rischi.»
«Mi leggi nel pensiero adesso?» Rido. «Non preoccuparti, non ho la minima intenzione di intervenire.»
Tikki dischiude le labbra e mi fissa perplessa. «Come fai a essere così tranquilla?»
«In che senso?»
«Non hai pensato che tua nonna potrebbe essere tra gli ostaggi?»
La gola mi si secca. «L-la n-nonna? N-no, l-lei è…» Un senso di nausea mi pervade, la testa mi gira.
Per presenziare al suo appuntamento, la nonna avrebbe dovuto prendere la metropolitana.
Oddio!
Scatto in piedi, la borsa scivola dalla panca e cade a terra.
Chiudo all’istante l’app delle notizie e apro la rubrica. Scorro fino al contatto di nonna Gina e seleziono la chiamata.
Due squilli e parte in automatico la segreteria telefonica.
Chiudo la chiamata e riprovo. Di nuovo la segreteria.
Faccio un passo all’indietro e cado con le natiche sulla panca.
Nonna…
 
***
 
Sintonizzo la tv sul notiziario. Il sindaco, in accordo con la questura e i carabinieri, ha indetto una conferenza stampa per mandare un messaggio ai sequestratori.
Prendo dal frigo la bottiglia d’acqua e me la scolo tutto d’un fiato. Correre subito a casa non è stata una grande idea, soprattutto con i muscoli in queste condizioni, ma dovevo verificare di persona che i sospetti miei e di Tikki fossero fondati.
E purtroppo lo sono.
La casa è vuota.
Mi siedo sul divano e mi sfilo la maglietta rappresa di sudore.
Le immagini della tv inquadrano il sindaco, in gessato scuro, il volto scavato da occhiaie di stanchezza, seduto ad un tavolo su cui giacciono decine di microfoni direzionali. Alle spalle, sventolano la bandiera italiana e quella della comunità europea.
 Al suo fianco siede un signore dall’aria altera con una striscia di capelli bianchi. Sulle spalline della giacca scura risaltano delle stelline argentate.
Spalanco la bocca. È quel presuntuoso che mi ha soffiato il medaglione da regalare alla nonna.
Accidenti, è il capo della polizia o quantomeno un pezzo grosso.
Il sindaco si tocca il nodo della cravatta amaranto. «Quello che sta accadendo in queste ore nella stazione metropolitana di piazza Duomo è un affronto alle autorità e al rispetto della cittadinanza di Milano. Questi terroristi che prendono il nome di Satiri dell’Anarchia hanno deciso di agire attaccando in modo subdolo e infame dei poveri innocenti.» Contrae le labbra rinsecchite e lancia un’occhiata all’uomo seduto a fianco. «In accordo con il Governo, il capo della polizia, il questore Giovanni Portanova, e i membri della Giunta Comunale, si è stabilito che non ci piegheremo alle assurde richieste di questi teppisti e che ogni tentativo di predisporre un dialogo sarebbe inutile.»
Un brivido freddo mi serpeggia lungo la schiena, il sudore mi si gela sulla pelle.
La telecamera si stringe a inquadrare il questore Portanova. «Risponderemo alla violenza con pugno fermo. Non esiste diplomazia con i terroristi.»
I due si alzano dai posti e l’immagine torna sulla trasmissione del telegiornale.
Il giornalista è pallido in volto, l’espressione cupa. «Da queste parole si evince che le autorità stabiliranno presto un piano di attacco diretto, un blitz delle squadre speciali che consentirà loro di penetrare nei locali presi sotto assedio e affrontare la minaccia. Ci uniamo al dolore di coloro che sono rinchiusi lì sotto e a quello dei loro cari.»
Scatto in piedi. «È assurdo!»
Tikki mi vola davanti al viso. «Marinette, calmati. Sono sicura che loro sanno quello che—»
«No che non lo sanno! Ma li hai sentiti?! Vogliono ribattere con la forza; ci saranno scontri a fuoco, feriti tra i civili. Tutto perché quei due non vogliono intaccare la loro autorità.»
Mi pizzica la testa al pensiero di quanta superficialità esista e di quanto siano simili i politici in ogni parte del mondo. Anche il sindaco Bourgeois è un agnellino di fronte alle problematiche, ma almeno lui ha le spalle coperte da Ladybug e Chat Noir.
«Devo agire, Tikki.»
«Ne abbiamo già parlato, Marinette.» Scuote la testolina. «Se ti fai vedere in giro per Milano nei panni di Ladybug – o di qualunque altro portatore di Miraculous –, attirerai tutta l’attenzione su di te; inoltre, potresti non avere lo stesso riscontro positivo che hai avuto a Parigi.»
«Lo so.» Mi siedo sul bordo del divano e stringo la testa tra le mani. «Lo so. Ma quelle persone rischiano la vita e quelli che dovrebbero proteggerle ignorano i rischi che corrono. Non posso stare qui a sperare e pregare che tutto vada per il meglio sapendo che ho la facoltà di intervenire ed evitare il peggio. Non posso, Tikki.»
«E come farai se ti vedono?»
«Mi camufferò.»
Mi alzo e vado alla mia camera. Spalanco l’armadio e frugo tra i capi appesi alle stampelle. Mi soffermo sulla giacca acetata che uso per le ore di educazione fisica. È bianca con delle cuciture nere sui fianchi.
«Questa può andare.» La prendo e la lancio sul letto.
Mi chino sulle ginocchia e apro i cassetti in basso. Scosto vari capi e afferro l’ultimo della pila, un paio di jeans a gamba larga, con degli strappi sulle ginocchia e sul posteriore. Li comprai ad una svendita in un mercatino su consiglio di Alya, quando si era fissata che dovevo cambiare un po’ il mio look per far colpo su Adrien.
Li getto sul letto.
«E ora le scarpe.» Le sneaker che indosso di solito sono comuni tra i giovani. È molto difficile che con quelle possano risalire a me. In ogni caso, dopo che avrò risolto la crisi, andrò a comprarmene altre, di un altro colore.
Ficco la testa nell’armadio e scavo nella sacca riposta in fondo. Estraggo il berretto che mi regalarono alla partita di campionato del Paris Saint-Germain di due anni fa. È appena scolorito sulla visiera, il resto mi sembra in buone condizioni. Lo sbatto sulla coscia e lo appendo alla maniglia della porta.
Ho tutto.
Tikki si posa sui jeans. «Sei sicura di quello che stai facendo?»
Sbuffo, le braccia penzolano lungo i fianchi. «Per nulla. Anche dopo tutte le assurdità che ho affrontato a Parigi, questa è una situazione del tutto nuova. Non ci sono strani individui con poteri assurdi, o oggetti che prendono vita e distruggono ogni cosa passi sotto il loro naso. Qui ci sono tizi armati, con uno scopo ben preciso, con degli ostaggi sotto tiro. E io devo porre parte della mia attenzione a non espormi.»
«Hai bisogno di un piano.» Tikki sembra rassegnata ad assecondarmi. Il suo apporto è fondamentale, la sua è la voce della ragione. «Non puoi presentarti in piazza Duomo piombando dal cielo e penetrando nella stazione. Finiresti nel fuoco incrociato.»
«Hai ragione.» Tamburello due dita sul mento. «Dovrò arrivarci da sotto.»
«Attraverso i tunnel?»
«Credo sia il modo più pratico per non attirare troppo l’attenzione. Di sicuro i Satiri hanno preso il controllo delle telecamere di sicurezza, ma saranno focalizzati sulle forze dell’ordine che da un momento all’altro irromperanno nella stazione. Se io penetro dalla stazione precedente a quella del Duomo e corro sui binari, arriverò alle loro spalle e li coglierò di sorpresa.»
Tikki annuisce. «Ricorda di limitare al minimo l’utilizzo dello yo-yo. Anche quello è un fattore che ti rende riconoscibile.»
Intreccio le dita e le faccio scrocchiare. «Immagino che tu non sappia se il Miraculous Ladybug riporterà le cose a posto se qualcosa andasse storto.»
«Il potere agisce contro quello di altri Miraculous utilizzati per scopi malvagi. Non è questo il caso.»
«Non si torna indietro allora.» Deglutisco, le gambe sono molli come gelatina.
Sono ancora in tempo per ritrarmi da questa follia. Non ho nemmeno una spalla su cui contare. Se almeno ci fosse Chat Noir al mio fianco…
Stringo i pugni. «Tikki, trasformami!»
 
***
 
L’ingresso della stazione di San Babila è sigillato da una grata, un lucchetto alla base ne assicura la chiusura.
La strada è semideserta, qualche auto circumnaviga la fontana al centro della piazza e taglia per le vie adiacenti. Più avanti, i palazzi sono illuminati dai lampeggianti delle forze dell’ordine, che hanno allargato il perimetro in modo da impedire a chiunque l’accesso al centro nevralgico dell’attacco.
Se le cose dovessero andare per le lunghe, chiuderanno le principali arterie cittadini aumentando a dismisura i disagi.
Mi appoggio al corrimano della scalinata e lascio passare alle mie spalle una coppia di ambulanti.
Allungo il collo per sbirciare la strada. Nessuno sembra badare a me.
Scendo le scale, mi chino su un ginocchio e incuneo le dita nell’ansa del lucchetto. L’asta è arrugginita. Stringo i palmi e spingo con i pollici. Nonostante una leggera resistenza, l’asta si spezza e il lucchetto cede.
Sfilo il catenaccio, apro uno spiraglio della grata e mi ci infilo.
Dall’interno arriva una zaffata di gomma e ferro bruciato.
Percorro di corsa il lungo corridoio che conduce ai binari, immerso nell’oscurità. Solo le luci di emergenza illuminano appena di rosso il piastrellato.
Balzo dalle scale e arrivo ai binari.
Il tunnel è del tutto all’oscuro. Prendo lo yo-yo dalla cintura, lo apro e imposto la funzione torcia. Il fascio luminoso rischiara le pareti del tunnel.
Salto giù dalla banchina e inizio a correre sulle rotaie. Le sneaker stringono il piede avvolto nella tuta di Ladybug, ma è un fastidio sopportabile. Per fortuna, la magia della trasformazione riduce al minimo i disagi dovuti al caldo e al peso dei vestiti che indosso sopra la tuta. 
Le pareti del tunnel sono tappezzate di scritte dei Satiri; sotto ogni messaggio di minacce nei confronti delle autorità politiche è disegnato il loro simbolo. Alla luce della torcia, i contorni delle scritte sembrano animarsi e distorcersi, come se l’inchiostro fosse ancora fresco e dotato di una propria coscienza.
Se non avessi l’adrenalina che circola a mille nel mio corpo, sarei scossa da brividi di paura. E dire che ho anche affrontato un akumizzato con l’aspetto di Freddy Krueger.
Il tunnel prosegue dritto per decine di metri.
Abbasso lo yo-yo e seleziono sullo schermo circolare l’applicazione delle notizie live. Presa dal travestimento, ho dimenticato di analizzare a fondo la situazione. Nel poco tempo che ho a disposizione, vorrei sapere almeno la stima di quante persone dovrò trarre in salvo e quanti sequestratori dovrò affrontare.
In una news di un’ora fa, si parla di una dozzina di sequestratori, in un’altra più recente la stima si aggira intorno alla ventina. Un’altra ancora, dichiara che i Satiri sono armati di pistole, coltelli a serramanico, tirapugni e addirittura fucili kalashnikov.
Dove li avranno presi?
Non ci sono riferimenti a quante persone sono sotto sequestro.
Grugno per la frustrazione. Ai giornalisti interessa solo arrivare per primi quando si tratta di notizie succulente per fanno alzare l’audience. Però, quando si tratta di riportare dati veramente utili, sono del tutto inaffidabili.
Ecco perché tendo a non rilasciare interviste.
L’ultima volta, Nadja Chamack mi ha teso una trappola e ha mostrato all’intera Parigi la foto di me che bacio Chat Noir.
Nessuno ha capito che fosse un’emergenza. Nessuno!
Scorro le notizie, scrollo la pagina e la aggiorno. L’ultima risale a un paio di minuti fa: le forze dell’ordine hanno schierato un cordone di uomini intorno ad ogni accesso alla metropolitana in piazza Duomo.
Si stanno preparando all’irruzione.
Chiudo l’applicazione e accelero il passo.
Il tunnel si piega in una curva sulla destra. Una luce a neon sormonta una porta in ferro su cui è stato disegnato il simbolo dei Satiri. Dev’essere una delle porte utilizzate per la manutenzione.
A una decina di metri, un paio di fari rossi bucano l’oscurità del tunnel. È il vagone di coda.
Più avanti, sul binario opposto, le luci bianche e dorate della banchina rischiarano le rotaie.
Spengo la torcia e ripongo lo yo-yo sulla cintura.
Raggiungo il vagone, mi arrampico alla porticina del macchinista. Tiro a me la serratura. È bloccata.
Maledizione.
Potrei strattonarla fino a sradicarla, ma farei casino e dall’interno potrebbero sentirmi. Balzo sui binari.
Non ho molte alternative. Devo ricorrere alla mia fortuna.
Afferro lo yo-yo, lo roteo davanti alle ginocchia. «Miraculous Ladybug,» sussurro.
Dallo sciame di coccinelle si manifesta un chiavistello. Lo agguanto prima che si schianti a terra.
Risalgo accanto alla porticina, scelgo tra le chiavi una a forma di bullone esagonale e la infilo nella serratura. Un giro è sufficiente per sbloccarla.
Ripongo nella tasca della giacca il chiavistello, apro la porta e sguscio all’interno. La strumentazione per la guida del treno è spenta, solo un puntino rosso balugina nel buio.
Mi accosto alla porta che conduce all’interno del vagone e sbircio attraverso il finestrino rettangolare.
File di persone sono sedute rannicchiate sui sedili. C’è anche una donna con un fagottino tra le braccia e un passeggino parcheggiato di fianco ai pali per reggersi. Non vedo nonna Gina, forse si trova in qualche vagone più avanti.
Due tizi camminano avanti e indietro lungo il corridoio.
Il più vicino ha una maschera integrale rossa attraversata da saette nere. Un elastico che passa sulla nuca la tiene incollata al viso. Il tipo indossa una tuta blu elettrico, simile a quella di un meccanico e, sulla testa, porta una cresta dai riflessi viola. Regge un fucile d’assalto.
L’altro è un tipo alto e robusto, con indosso una camicia bianca a righe, pantaloni cargo e una pistola nella mano sinistra. Sulla maschera rossa ha incisi tre ghirigori, uno sulla fronte e due all’altezza degli zigomi.
Non sembrano essercene altri, almeno in questo vagone.
Batto tre volte le nocche sul finestrino. Il tizio con la cresta si volta e punta il fucile.
Batto di nuovo tre volte: essendo al buio e lui alla luce non può vedermi.
Si avvicina a passo lento. Sporge il viso mascherato nel finestrino. Mi appiattisco contro il muro laterale.
«Chi c’è?» La voce del tizio arriva ovattata. Ticchetta la canna del fucile sul finestrino. «Fatti vedere!»
Non ci penso affatto. Vieni tu da me.
Il tizio armeggia con la serratura, la porta scatta e scorre di lato.
La canna del fucile compare sulla soglia. Il Satiro entra con il busto inarcato in avanti.
Contraggo la schiena e gli tiro un ceffone sulla maschera, la testa gli schiocca all’indietro. Pianto un piede a terra e gli assesto una ginocchiata allo stomaco, tanto forte da farlo piegare in avanti. Gli afferro la testa con entrambe le mani e gli schianto la nuca sullo stipite.
Il corpo si affloscia lungo la parete e scivola a terra.
Richiudo di scatto la porta.
Rude, ma efficace. Fuori uno.
L’altro Satiro percorre il corridoio del vagone a lunghe falcate, la pistola spianata.
Con lui, un approccio corpo a corpo sarebbe più difficoltoso e io non ho molto tempo a disposizione. Un primo bip risuona dagli orecchini.
Recupero lo yo-yo e lo faccio roteare. Aumento i giri del polso, l’aria smossa dalla rotazione mi sferza il viso e mi fa volare il cappello dalla testa.
Il Satiro si ferma a una decina di metri dalla porta e punta la pistola. «Giò?»
Ancora un paio di passi…
Il Satiro lancia occhiate agli ostaggi. Nessuno osa fiatare o fare movimenti bruschi. Spero non ne tiri uno a sé e lo usi come scudo.
Un altro bip dall’orecchino. Mi restano tre minuti prima che la trasformazione termini.
Il Satiro si avvicina ancora.
Scalcio la porta e la spalanco. Lascio andare il braccio teso, lo yo-yo scatta in avanti e impatta il volto del Satiro, che barcolla stordito.
Riavvolgo il filo e lo distendo di nuovo. Lo yo-yo colpisce la fronte del Satiro.
Ritiro a me lo yo-yo, miro alle gambe e tiro. Il filo si avvolge intorno alle caviglie del tizio; strattono e quello finisce con il sedere a terra.
Richiudo la porta e sbircio dal finestrino. Il Satiro giace a terra, le gambe distorte, privo di sensi. Qualche ostaggio si azzarda ad alzarsi, guarda incuriosito la sala comandi del macchinista e poi il tizio a terra.
Le porte del vagone continuano a essere chiuse, ma, se qualcuno sorveglia le telecamere, a breve arriveranno di sicuro i rinforzi.
Devo muovermi.
Scendo dal vagone e mi acquatto accanto alle ruote. Poso la schiena contro il muro.
«Ritrasformami.»
Il bagliore rosso e bianco mi avvolge il corpo e si porta con sé i poteri di Ladybug. Tikki ricompare sul mio ventre.  
Sono sfinita. Tutti i muscoli bruciano per lo sforzo, un crampo mi assale la gamba sinistra costringendomi a tenderla.
Non posso mollare, sono appena all’inizio.
Ficco la mano nella pochette e prendo un biscotto alle noci. Lo porgo a Tikki.
Mi passo un braccio sulla fronte e friziono le cosce. Mi sfilo la giacca, un gelo mi attanaglia il torace. Con tutto il sudore che ho appiccicato alla maglietta, mi prenderò un raffreddore con i fiocchi.
Sfilo le scarpe e mi tolgo anche il jeans.
Tikki ingolla l’ultimo boccone e mi fa un cenno d’assenso.
«Tikki, trasformami!»
Il potere di Ladybug mi restituisce vigore, anche se il senso di stanchezza continua ad avvolgermi nella sua morsa.
Calzo in fretta giacca, jeans e scarpe.
Mi tocco la testa. Accidenti, il berretto si trova ancora nella sala del macchinista.
Salto accanto alla porta, ma qualcosa mi respinge e mi fa volare contro il muro del tunnel. Il dolore mi esplode nella schiena. Scivolo lungo la parete e digrigno i denti.
Che diavolo…
Mi rialzo in piedi e resto all’erta.
Uno spostamento d’aria mi frusta il viso, qualcosa di duro impatta sullo zigomo e mi rimanda a terra. La mandibola schiocca, il labbro mi pizzica. Lo tocco e un rivolo caldo fluisce sul polpastrello.
Punto i gomiti a terra.
L’ombra di un uomo enorme si staglia contro la luce rossa dei fari del vagone. È immobile, le braccia possenti penzolano lungo i fianchi.
Mi passo la lingua sul labbro inferiore, il sapore ferroso del sangue mi riempie il palato.
L’uomo ringhia come un cane rabbioso, un ringhio cupo da far accapponare la pelle.
Muove un passo sui binari.
Artiglio il mio yo-yo, lo schermo con una mano e con l’altra attivo la funzione torcia.
L’uomo muove un altro passo.
Sposto la mano e dirigo il fascio luminoso verso il testone oscuro, nella speranza di accecarlo e costruirmi una finestra di attacco.
Un boato tuona dall’interno della stazione, urla, botti e passi pesanti si rincorrono lungo la banchina.
Sono le forze dell’ordine. Hanno dato il via al blitz.
Un altro ringhio spira dal gigante. Alla luce della torcia, un braccio ammantato d’oscurità si solleva e si schianta sul treno, facendo traballare l’intero vagone. I passeggeri all’interno urlano di terrore.
Una forte folata di vento mi schiaffeggia e mi rigetta a terra supina.
Dall’interno dei vagoni risuonano gli ordini degli agenti ed esplosioni di granate. Flash di luce si alternano lungo i finestroni: granate abbaglianti.
Mi volto prona e mi levo in piedi, fiammate mi martoriano la schiena, la mascella pulsa dal dolore.
Il gigante è scomparso.
Recupero il berretto dalla sala del macchinista e mi avvio claudicante lungo il tunnel.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Spengo il fuoco e tolgo l’ebollitore dal fornello aiutandomi con una presina. Verso il tè nella tazza della nonna.
«Non era necessario che ti prendessi tanto disturbo, Marinetta.»
«Lo faccio con piacere.» Ripongo l’ebollitore sull’isola della cucina.
Nonna Gina taglia in un due un limone, ne prende una metà e lo spreme nel suo tè. Il profumo acre sale dalla tazza fumante. Immerge un cucchiaino di zucchero e lo gira.
Mi siedo di fronte a lei. Inzuppo un biscotto nel latte, le briciole si espandono sulla superficie bianca. Lo porto alla bocca. L’amarognolo della farina integrale si mescola al sapore delle scaglie di cioccolato e mi delizia il palato. Ad ogni morso, la mandibola mi duole nel punto in cui quell’energumeno mi ha colpito. La magia della trasformazione mi ha protetta e ha limitato i danni, altrimenti a quest’ora sarei stesa su un lettino d’ospedale a dettare le mie ultime volontà ad un notaio.
Nonna Gina prende un sorso di tè. «Ti sei spaventata molto, oggi?»
«Tu no?»
«Ne ho viste tante in vita mia, tesoro.» È rimasta in ostaggio per ore ed ore e sembra appena uscita da un centro estetico. La pelle è distesa, liscia e luminosa, gli occhi zampillano di energia. È un fiore. «Credevo che ci avessi fatto il callo a queste crisi, con tutti quei pittoreschi tizi che vagano per Parigi un giorno sì e l’altro pure. Io stessa ho fatto parte del gruppo.»
Rido. «Lo ricordo bene. Hai reso il mio quattordicesimo compleanno indimenticabile.»
Ed è stato allora che il nostro rapporto si è cementificato.
Leon mi viene vicino e poggia il muso sulla mia coscia.
«Vuoi un biscotto?»
Scodinzola.
Afferro un biscotto dalla busta e glielo lancio. Lui salta sulle zampe posteriori e lo addenta al volo.
Applaudo. «Eppure, sono terrorizzata dai Satiri dell’Anarchia. In un giorno sono passati dall’imbrattare muri a prendere in ostaggio una stazione della metropolitana.»
Di quelli che hanno partecipato, solo i due che ho messo ko sono stati catturati. Di sicuro terranno la bocca ben sigillata con la polizia. Degli altri non ve n’è traccia.
«Lo capisco.» Nonna Gina prende un sorso. «Ho dimenticato che voi avete Ladybug e Chat Noir a proteggervi. Qui, invece, dobbiamo far affidamento esclusivamente sulle forze dell’ordine. Tuttavia, hanno fatto un ottimo lavoro. Appena hanno fatto irruzione, i sequestratori se la sono data a gambe.» Posa la tazza e si pulisce gli angoli della bocca con un tovagliolo. «Mi aspettavo una reazione del genere: da vicino, mi sono sembrati degli scalmanati senza uno scopo concreto.»
Proprio per questo sono ancora più pericolosi. Chissà cos’hanno in serbo per il futuro. Non mi sembrano tipi che mollano la presa al primo intoppo. Per di più, disponevano di armi che trascendono le normali bande di teppisti.
Svuoto il bicchiere di latte e scivolo giù dalla sedia. «Se non ti dispiace, andrei a riposare.»
Nonna Gina mi tira a sé e mi dà un bacio sulla fronte. «Dormi tranquilla, bambina mia. Le cose trovano sempre il modo per sistemarsi. Comprese le perplessità riguardo i tuoi sogni.» Mi strizza l’occhio.
Le sorrido di rimando. «Buonanotte, nonna.»
Mi dirigo in camera mia, seguita con passo felpato da Leon.
Mi chiudo la porta alle spalle e mi tuffo sul letto, affondando la guancia sul cuscino.
Sono sfinita.
Dormirei volentieri per due giorni di fila, ma domani le lezioni riprenderanno e non ho la minima intenzione di fare assenza.
Sonia ha espresso tutto il suo entusiasmo per messaggio e vuole subito mettersi all’opera per trovare l’idea giusta. Non mi stupirei se stesse già buttando giù qualche schizzo.
Tikki plana accanto al mio naso. «È andata bene. Puoi essere orgogliosa di te stessa. Nessuno ti ha vista e gli ostaggi sono liberi, sani e salvi. Nessuno si è fatto male.»
«Sì, ma…»
Non riesco a togliermi dalla testa il pensiero che il mio intervento sia stato pressoché inutile. È stato il blitz delle forze speciali a fare la differenza. Io ho solo steso due elementi e le ho prese da un terzo.
Tikki mi tocca la punta del naso. «Credi che possano tentare un nuovo attentato?»
Sospiro. «Ho come l’impressione che sia solo l’inizio. Quel gigante aveva una forza incredibile: mi sono sentita così impotente solo quando affrontai Papillon sulla Tour Eiffel. Inoltre, trovo strano che nessuno degli ostaggi abbia testimoniato la sua presenza tra i sequestratori. Un tipo del genere non passerebbe inosservato.»
Abbraccio il cuscino. «Forse dovrei lasciar fare tutto alle forze dell’ordine. Io sarei solo d’intralcio.»
Tikki sorride. «È la scelta più saggia, Marinette.»
«Forse… ma non mi fa stare meglio.»
Qualcosa mi tocca la coscia sinistra. Mi volto di lato.
Gli occhioni di Leon mi fissano, la coda oscilla a destra e sinistra.
Porto la mia fronte contro la sua. «Tu sapresti sicuramente come agire.»
Leon mi lecca il mento.
Lo accarezzo. Apro il palmo dell’altra mano e invito Tikki a posarvi sopra. «Senza di voi sarei persa.»
 
***
 
Balzo giù dall’autobus e mi incammino lungo il piastrellato che conduce all’ingresso dell’Accademia.
Due agenti di pattuglia mi passano alle spalle, le loro trasmittenti gracchiano aggiornamenti costanti sullo stato dei quartieri.
I servizi pubblici hanno ripreso le loro funzioni all’alba. Il sindaco, in accordo con quel simpaticone del questore, ha predisposto un servizio di ronda in tutta la città, in modo da prevenire qualsiasi altro tipo di attentato.
Mentre osservavo le notizie al tg, per un attimo ho pensato che volesse addirittura coinvolgere l’esercito, vista la gravità della situazione, ma evidentemente sono l’unica a ritenere i Satiri un pericolo grave per l’incolumità pubblica.
Persino le autorità hanno minimizzato sull’accaduto. O lo fanno per pararsi il sedere visto che gran parte della responsabilità è loro, oppure davvero gli akumizzati di Parigi mi hanno resa paranoica e vedo minacce ovunque.
Mi sistemo la pochette sulla spalla e sbadiglio. Avrò dormito cinque ore scarse, ad essere ottimisti.
Le pasticche di melatonina non mi sembrano più una follia ora come ora. Ma aspetto che quest’ansia che mi pervade si sciolga nel momento in cui inizierò a lavorare al progetto.
Supero un gruppetto di ragazzi che aspetta il suono della campanella per entrare. Sembrano tutti euforici, come se stessero per entrare allo stadio prima di un derby.
Tra loro, riconosco il ragazzo gentile che mi ha informata della sospensione delle lezioni. Sono tentata da andargli vicino per ringraziarlo, ma vorrei evitare di ripetere la figura della svampita che si perde le notizie dell’ultima ora.
Passo oltre.
Mi faccio strada nei corridoi. Incrocio il portiere e il bidello, entrambi con dei volti raggianti. Strano: di solito hanno lo stesso entusiasmo delle anime che Caronte trasportava all’inferno.
È come se la momentanea sospensione di ieri abbia portato una ventata di euforia generale.
«Ehi, Marinette! Marinette!»
In fondo al corridoio, a pochi passi dall’aula magna, Sonia tiene in alto la mano e la agita per farsi notare tra le teste degli altri ragazzi.
Al suo fianco risalta la testa rossiccia di Richard. Non vedo, però, Juan.
Anche loro sprizzano eccitazione da tutti i pori. L’entusiasmo ha coinvolto persino uno pacato come Richard.
Sonia mi corre incontro e mi abbraccia, profuma di violette. Le guance sono arrossate, come se avesse bevuto un’intera bottiglia di vino. «Dobbiamo assolutamente vincere la gara, Marinette. Alessio deve indossare la nostra creazione, e forse…» Lancia un gridolino acuto. «Forse potremmo lavorare fianco a fianco con lui. Non vedo l’ora di cominciare.»
«Lo stesso vale per me.» Mi gratto la nuca. «Ma chi è questo “lui”?»
Sonia mi guarda come se mi fossero sbucati degli spuntoni dagli zigomi e i miei occhi fossero diventati rosso fuoco. «Come sarebbe? Non sai chi è lui?!»
Indica la marea di teste femminili che si è accalcata accanto all’uscio dell’aula. Tra loro, si erge un ragazzo altissimo, con una maglietta nera attillata dei Nirvana.
Una folta chioma bruna e riccia gli incornicia un volto dalla mascella scolpita, coperta da un accenno di barba.
Letizia gli sta avvinghiata al braccio muscoloso e pare sul punto di prendere a morsi qualunque essere vivente provi ad avvicinarsi al ragazzo.
Avvicino la bocca all’orecchio di Sonia. «Perdona la mia ignoranza, ma chi è?»
«Non posso credere che tu non lo conosca. È Alessio Tancredi! Uno dei più giovani modelli ad aver calcato le passerelle di Milano. Sono passati tre anni dalla sua ultima apparizione e ora ha deciso di rimettersi in pista proponendosi come modello campione per la nostra Accademia.» Sonia compie un paio di saltelli. «Indosserà l’abito che vincerà la gara e il vincitore avrà l’occasione di lavorare a stretto contatto con lui.»
«Wow. Un premio molto prestigioso.»
Sonia incrocia le braccia al petto e mette su il broncio. «Dimenticavo che la signorina francese frequentava la stessa classe del rampollo di casa Agreste. Per questo la presenza di Alessio non ti suscita alcun entusiasmo.»
Mi stringo nelle spalle.
Alessio solleva lo sguardo e prende a fissarmi; le ciglia folte donano al suo sguardo un’intensità sorprendente. Non ho mai visto occhi così scuri.
Mi sorride, sfoggiando una fila di denti bianchissimi che risaltano sulla sua pelle bronzea.
Le gote mi si infiammano all’istante.
Distolgo lo sguardo e incasso la testa tra le spalle. «F-f-forse è m-meglio andare in a-aula.»
Sonia pianta i pugni sui fianchi e ghigna. «Allora piace anche a te.»
«Cosa!?»
Il mio urlo è stato talmente forte che la massa di teste che circonda Alessio si volta all’unisono per fissarmi.
Accidenti a me. Credo di essere la campionessa di figuracce. 
Artiglio il braccio di Sonia e la trascino via.
Lei ridacchia. «Guarda che non ti giudico affatto. Mi sarei stupita del contrario.»
 
***
 
Mi accosto allo stipite, all’ingresso dell’aula magna e sbircio dentro.
Tre ragazzi sono accodati tra i banchi, in attesa. Al centro della cattedra è seduto il professor Ursi, in mano una penna con cui scorre il foglio davanti a sé.
Alla sua sinistra siede una donna con un caschetto biondo e un foulard rosso annodato al collo. Dev’essere una della commissione esterna.
A destra, invece, c’è uno dei ragazzi che gestiscono il laboratorio d’informatica. Batte sul suo computer portatile i dati delle schede di ogni studente che vuole iscriversi alla gara.
Finora, ben poca gente ha registrato il proprio nome, rispetto alla selva di studenti che si sono accalcati per incontrare Alessio Tancredi. Forse non si sentono ancora pronti, vorranno prendersi del tempo per decidere o magari sono spaventati dalla presenza di Letizia, che subito si è piazzata in pole position quando Ursi ha dichiarato aperte le iscrizioni.
Mi sfrego i palmi l’uno contro l’altro, sono sudati. L’ansia mi sta divorando, è come se dovessi entrare in un girone dell’inferno per non farvi più ritorno.
Sonia mi accarezza l’avambraccio. «Stai bene, Marinette?»
Mi dipingo in faccia un sorriso, ma forse ne è uscita più una smorfia da persona stitica. «Sono solo un po’ tesa.»
«Non è mica un’interrogazione di Rissagno. È il primo scalino per il nostro futuro.»
«Lo so. Ed è per questo che ho timore.»
Sonia tende una mano. «È meglio che vada io a registrare entrambe. Tu resta pure qui, così ti tranquillizzi.»
Sì, è la scelta più saggia. Recupero dalla tasca la scheda studente e gliela consegno.
Sonia entra nell’aula magna, scende gli scalini e si accoda agli altri.
Prendo un lungo respiro per rilassarmi. Dovrei smetterla di perdermi in pensieri negativi e pensare solo a dare il meglio di me per questa gara. Vada come vada.
Una voce maschile alle mie spalle mi fa sobbalzare. «Ansia da prestazione?»
Tiro un urlo.
Mi volto di scatto, con la mano stretta sul cuore. L’immagine pixelata di Kurt Cobain mi fissa da dietro i suoi occhiali dalla montatura bianca. Ai suoi lati emergono le figure di Chris Novoselic e Chad Channing, con le sue bacchette tra le dita.
Sollevo il mento e mi perdo in due occhi scuri come la notte.   
Alessio Tancredi sorride, passandosi una mano tra i suoi ricci. «Perdonami, non volevo spaventarti.»
«N-n-non i-importa.» Deglutisco una gran quantità di saliva. «S-scusami tu p-per l’urlo.»
Alessio mi porge la mano, l’anulare è avvolto in una ronda argentata. «Alessio Tancredi.»
Gliela stringo. «M-Marinette D-Dupain-Cheng.»
«Doppio cognome? Francese e… cinese, giusto?»
Batto le punte degli indici una contro l’altra. «S-sì. Mia madre ha origini cinesi.»
«Affascinante. Ho sempre provato una grande attrazione per il mondo orientale e i suoi oscuri segreti.» Aggrotta la fronte, una fossetta gli incide il lato della bocca. «Dupain-Cheng hai detto?»
Annuisco.
«Marinette…» mugugna Alessio. «Ma certo!» Schiocca le dita. «Tu sei la ragazza che ha disegnato la copertina di un album di Jagged Stone, circa due anni fa.»
«Sono io.»
«Un’opera sensazionale. Ho talmente adorato quella copertina che me la sono fatta stampare in formato poster e ora troneggia sul mio letto. Ogni mattina, al risveglio, la guardo e urlo “Rock and Roll!”, e poi mia madre mi strilla una serie di rimbrotti che non sto qui a raccontarti. Ma… credimi sono spaventosi.»
Rido. Credevo che uno come lui facesse parte di quella tipologia di modelli che se la tirano, che apprezzano più i pesi che sollevano in palestra rispetto alle relazioni interpersonali. Invece, è un ragazzo molto semplice e simpatico.
E bellissimo…
«Dunque, Marinette…» Alessio scocca un’occhiata all’interno dell’aula, dove Sonia ha approcciato il professor Ursi. «Partecipi alla gara?»
«Sì, insieme con la mia amica.»
«Quindi, avrò l’onore di indossare una tua creazione.»
«Pensavo che solo il progetto vincitore avesse quest’opportunità.»
«Infatti, è così. Ma qualcosa mi dice che sarai tu a trionfare.»
Intreccio le dita. «Magari…»
«Alessio!» La voce cinguettante di Letizia echeggia lungo il corridoio. Si avvinghia al braccio di Alessio come se fosse un koala. «Ho appena terminato il mio primo bozzetto. Sarai ancora più bello con la mia creazione.»
Mi inchioda con lo sguardo. «Che fai qui, baguette? Non mi dirai che vuoi partecipare anche tu alla gara?»
Incrocio le braccia. «Se anche fosse?»
«Per favore.» Si schiaffeggia una ciocca di capelli. «Non c’è alcuna competizione se partecipo io.» Riporta gli occhi su Alessio e sbatte le ciglia a mezzaluna. «Sai, mio padre ha finanziato di recente dei lavori per una nuova area nell’Accademia dedicata alle sfilate. Il rettore ha in mente di estendere i corsi anche per i modelli e tu potresti diventare un professore.»
Alessio fischia. «Interessante.» Si tasta il petto e le tasche dei jeans. «Purtroppo ho lasciato a casa il taccuino dove segno i concorrenti che hanno la vittoria in tasca perché la giuria simpatizza per loro.»
Letizia prorompe in una risata da oca. «Oh Alessio, sei così simpatico.»
O non ha afferrato la frecciata, nemmeno tanto velata, oppure ha finto di non capirla e ha evitato di controbattere. Conoscendola, opto per la seconda opzione.
 Letizia tira a sé Alessio. «Vieni, ti faccio vedere la mia opera.»
Alessio alza le spalle e mi strizza l’occhio. «Buona fortuna.»
 
***
 
Sonia gira la pagina del mio quaderno dei bozzetti, si sofferma su un modello: un completo sportivo, giacca in pelle, jeans a sigaro e cintura in bella vista.
La sua unghia smaltata di magenta traccia i contorni della figura maschile. «Questa potrebbe andare. Ci vedrei bene una bella camicia sotto la giacca.»
Mi sfilo i codini e sciolgo i capelli. Iniziava a farmi male il capo per quanto tiravano. «E per le scarpe?»
«Sono indecisa tra stivaletti o scarpe da ginnastica bianche. Dev’essere un outfit comodo. Hai visto come veste Alessio, no? È un tipo molto sportivo.»
«Sì, l’ho visto…»
Sonia ghigna. «Dunque, il bel modello milanese sta per soppiantare il francesino biondo.»
Spalanco la bocca per la sorpresa. «No! Nel modo più assoluto!»
Varie teste di ragazzi dislocati lungo l’aula studio si voltano nella mia direzione.
Sollevo le mani in segno di scuse. È già la seconda figuraccia che rimedio oggi. Anzi, la terza se conto anche l’urlo con cui ho accolto Alessio.
Sonia mi dà di gomito. «Stavo scherzando, non te la prendere.»
Sospiro. «Perdonami, ho i nervi a fior di pelle.» Batto la punta della matita sul quaderno. «È difficile per me togliermi dalla testa—»
«Il tuo primo amore. Il colpo di fulmine.»
«A dire il vero, non è stato amore a prima vista. In un primo momento, abbiamo litigato.»
«Davvero? Racconta, racconta.» Sonia posa il mento sui palmi. «Sono affamata di gossip.»
«La prima volta che ho incontrato Adrien, l’ho visto mentre armeggiava con una cicca che qualcuno aveva lasciato sulla mia panca e io ho pensato che fosse stato lui.» Poso la matita. «A fine giornata, mi ha detto che lui stava cercando di rimuoverla e si è comunque scusato. Pioveva a dirotto, così, vedendomi senza ombrello, mi ha offerto il suo. In quel momento, un tuono eruttò nel cielo e ho capito di essermi innamorata di Adrien.»
«Che romantico.»
«Ora che ci penso… non gli ho mai restituito quell’ombrello. Lo tengo ancora conservato nel mio armadio, a Parigi.»
«Avrai modo di restituirglielo.» Sonia batte il dito sul disegno. «Ora, pensiamo all’altro modello, quello alto e tenebroso.»
«D’accordo.»
Alessio è molto diverso da Adrien, non solo nell’aspetto. Pochi minuti con lui, mi hanno fatto capire che ha un carattere molto estroverso: difficilmente tiene per sé le opinioni, come ha dimostrato rispondendo per le rime a quelle odiose ostentazioni di onnipotenza di Letizia.
È palese che sia molto più maturo di noi. Sonia mi ha detto che ha già compiuto diciannove anni e ha viaggiato in quasi tutto il mondo.
Un ragazzo in felpa grigia si alza dal suo posto, si mette su una spalla lo zaino e passa accanto al banco mio e di Sonia. Ci piazza davanti un foglietto piegato in due e solleva i pollici. Scompare all’uscita.
Sonia lo indica, le sopracciglia contratte. «Tu lo conosci?»
Scrollo le spalle. «Mai visto prima.»
Prendo il foglietto e lo apro. È una specie di volantino che pubblicizza un evento, che avrà luogo online tra mezz’ora. Al centro, sopra al codice QR per collegarsi, campeggia un logo stilizzato: una A rossa rovesciata all’interno di un cerchio da cui si dipanano quelle che sembrano delle piume, il tutto su uno sfondo nero.
Sonia fa un versaccio. «Sarà una di quelle trovate pubblicitarie per venderti corsi telematici oppure una trovata propagandistica per invogliare ad uno sciopero.»
Si sbaglia. Questo simbolo è troppo simile a quello dei Satiri per essere una mera coincidenza. L’hanno camuffato in modo che non sia subito riconoscibile da un occhio distratto. Essendo un incontro online facile da raggiungere, parteciperanno tanti curiosi e magari i Satiri faranno in modo di reclutare altra gente, altri fanatici tra le loro fila.
«Marinette?» Sonia mi agita la mano davanti agli occhi. «Sei ancora tra noi? Non dirmi che sei interessata.»
Mi schiarisco la voce con un colpo di tosse. «No. È solo che questo simbolo mi ha ricordato che devo ancora impacchettare il regalo per mia nonna e iniziare a pensare a quale dolce prepararle per il compleanno.» Mi dipingo in volto il sorriso più falso che abbia mai fatto. «Domani arrivano i miei e vorrei che fosse tutto pronto per loro.»
Sonia annuisce. «Va’ pure, amica. Non dovevamo certo finire oggi il progetto.»
Infilo il volantino tra le pagine del quaderno, ripongo la mia roba nella borsa a tracolla e mi avvio all’uscita. Non amo mentire, men che meno ad una mia amica, ma questa storia dell’incontro online non mi piace affatto.
 
***
 
Mi siedo sotto la tettoia della fermata dell’autobus. Lo schermo digitale posto sulla colonnina è spento.
Guardo l’orologio al polso: le 15:37. Se l’autobus arriverà nel giro di dieci minuti, sarò a casa per le 16:10. Dovrò iniziare a seguire la diretta a bordo se non voglio perdermi nemmeno una sillaba.
Una volta a casa, sistemerò il cellulare sul bordo della vasca e mi farò un bel bagno rilassante mentre ascolto le fanatiche dichiarazioni di quei tipi.
Afferro i capelli con entrambe le mani e li lego in una coda. Ho il collo madido di sudore; uscire sotto questo sole con i capelli sciolti è stata una pessima idea.
Apro la cerniera della pochette.
Tikki fa capolino, con un cipiglio severo dipinto in volto. «Che intenzioni hai, Marinette?»
«I-In che senso?»
«I tuoi arriveranno dopodomani non domani e il pacchetto per tua nonna è già pronto da giorni. Perché hai mentito a Sonia?»
«E va bene.» Sbuffo. Prendo dalla borsa il volantino e lo distendo. «A breve i Satiri faranno un incontro online. Voglio solo vedere cosa dicono.»
«E poi? Denuncerai tutto alla polizia?»
«Penserò dopo al poi. Magari incrocerò di nuovo il ragazzo che mi ha consegnato questo e potrei segnalarlo alle autorità.»
Spingo con l’indice la testolina di Tikki. «Ora nasconditi o qualcuno ti vedrà. Oppure vedrà me parlare con la mia pochette e mi prenderà per pazza. Non che sia una novità.»
Tikki torna dentro borbottando qualcosa di incomprensibile. Non è d’accordo con il mio interessamento riguardo i Satiri e non prova nemmeno a nascondere il suo disappunto. Ma io devo sapere cos’hanno in mente di fare.
Agito le gambe e mi muovo sulla panca. Ancora nessun autobus in vista e io mi sto cuocendo a fuoco lento sotto questa tettoia. Dall’asfalto sembra che si sollevino soffi di fumo, come se fosse terreno vulcanico.
E siamo solo ad aprile.
Un’automobile grigio metallizzato si accosta al marciapiede. Il sole illumina sul cofano lo stemma della Mercedes.
Il finestrino del guidatore si abbassa, il volto di Alessio mi sorride. «Punti alla cottura media o ben cotta?»
Perché ho come l’impressione che la temperatura si sia alzata di colpo?
Alessio schiocca le dita. «Posso offrirti un passaggio?»
«I-io… i-io aspetto l’autobus.»
«Auguri, allora. Hanno ridotto le corse dopo il casino che è successo ieri. Se ti va bene, entro un’ora ne passerà uno e a quel punto sarai un succulento spiedino.»
Le spalle mi crollano. «Un’ora?»
«Andiamo… so che non si dovrebbero accettare passaggi da sconosciuti, ma io un po’ sono famoso. E, se vuoi, puoi impostare sul tuo cellulare la chiamata rapida dei carabinieri.»
Mi sfugge una risata. «A quanto pare, non ho scelta.» Mi alzo, raccolgo la borsa e la metto a tracolla.
Alessio smonta dall’auto, aggira il cofano e mi apre la portiera. «Il vostro umile cocchio, signorina Dupain-Cheng.»
Salgo a bordo e mi accomodo sul sedile in pelle. L’abitacolo profuma come se l’auto fosse appena uscita dal concessionario. E magari è così.
L’aria è rinfrescata dal condizionatore. Dalle casse arriva in sottofondo The Immigrant Song dei Led Zeppelin.
Alessio chiude la portiera e infila la cintura di sicurezza. «Dove andiamo?»
Batto con il piede sul tappetino, seguendo il ritmo della canzone. «Via Zurigo.»
Alessio digita sul touchscreen del navigatore satellitare la via. Sullo schermo compare la sagoma stilizzata della Mercedes su un tratto di strada evidenziato in blu. In basso a destra, il sistema indica che la distanza è di tre chilometri.
Dopo le scarpinate che ho fatto, credevo fossero almeno cinquanta chilometri.
Alessio ingrana la marcia e parte. «Hai smaltito un po’ l’ansia per la gara?»
«Io e la mia amica Sonia ci stiamo lavorando. Spero quantomeno di fare una buona impressione.»
«Perché tanti dubbi?»
«Letizia…»
Alessio mugugna. «Credo di aver capito. Non ti senti alla sua altezza, visto che lei ha già partecipato e vinto diversi concorsi e il padre è molto influente nell’ambiente.»
Chino la testa. «N-non sapevo dei concorsi che ha già vinto. Pensavo fosse solo molto brava.»
E così, le mie flebili speranze di portare a casa la vittoria scendono sottozero.
Alessio prende una curva a gomito stretta, i muscoli del braccio si tendono. «Ho visto i suoi lavori. Concordo sul fatto che è brava, però pecca molto in fatto di originalità.» Mi guarda di sottecchi. «Io ti ho inquadrata da subito, Marinette: sei la classica ragazza che ignori qualunque cosa brutta ti venga detta e cerchi di rispondere coi fatti, in silenzio. È lodevole, davvero: non ti abbassi al loro livello. Però corri un grosso rischio: non sempre le cattiverie scivolano addosso; a volte restano appiccicate e rimuoverle risulta difficile per chi non è abituato a farlo.» Unisce pollice e indice. «Basterebbe un pizzico di coraggio in più, ogni tanto, e persone come Letizia saranno un misero fastidio, nulla di più.»
Prende gli occhiali da sole posati sul portaoggetti accanto alla leva del cambio e li infila. «Perdona la mia invadenza.»
Scuoto la testa. «Hai perfettamente ragione, invece.»
Tendo sempre a chiudermi nel mio guscio, ma prima o poi si infrangerà e rimarrò senza protezioni.
Alessio svolta a destra, rallenta e si ferma in un parcheggio a spina di pesce. «Via Zurigo.»
Mi riscuoto. Non avevo notato che siamo già giunti a destinazione.
«Grazie del passaggio. Sei… sei molto gentile.»
Alessio mi sorride. Con quegli occhiali scuri sembra il cantante di una rock band. «Buon lavoro, Marinette.» Si cala le lenti sulla radice del naso e mi strizza l’occhio. «Ci vediamo domani.»
Chiudo la portiera e alzo la mano in segno di saluto.
L’auto fa retromarcia e riparte sfrecciando lungo la via.
Mi tocco la guancia, è rovente. Ho bisogno di riordinare i pensieri o finirò per impazzire.
Devo concentrarmi per lavorare al meglio delle mie possibilità con Sonia. Ma adesso devo seguire l’incontro dei Satiri.
 
***
 
Il pallino del caricamento ruota da più di cinque minuti. la trasmissione tarda a partire.
E dire che ho fatto una corsa per le scale pur di arrivare in tempo, rischiando anche di inciampare e ruzzolare giù per le rampe.
Leon si accuccia accanto al mio piede. Mi strofina il muso accanto alla gamba.
Mi chino e lo accarezzo. «Perché ci mettono tanto?»
Tikki è appollaiata sulla mensola e mi osserva dall’alto. «Se non si fanno vedere è meglio. Questa storia non mi piace affatto.»
Pinzo la maglietta, è appiccicata alla pelle. «Avrei fatto meglio a farmi un bel bagno e prendermela con calma.»
Lo schermo sfarfalla, un muro bianco riempie l’immagine.
«Ci siamo, Tikki.»
«Fremo dalla gioia…»
Comprendo il suo disappunto e, in parte, lo condivido. Loro non sono Papillon, la loro gestione non è un affare di mia competenza.
Un tizio in tuta nera, con la solita maschera rossa integrale si siede davanti al muro bianco.
Regge tra le mani un cartello. Lo volta: sopra vi sono quattro immagini separate al centro da una croce. In alto a sinistra è raffigurato il Duomo, accanto la chiesa di San Cristoforo al Naviglio, in basso a destra c’è la stazione centrale.
Ignoro invece il complesso di edifici ritratto in basso a sinistra.
Il tizio mascherato posa il cartello. «Ieri era solo l’antipasto.» La voce è contraffatta. «Questi quattro obiettivi saranno l’epicentro della nostra ascesa. Il sindaco ha ignorato volutamente le nostre richieste, la nostra offerta di dialogo. A pagarne le conseguenze sarà l’intera città.»
Un brivido rotola lungo la spina dorsale. Fanno sul serio.
Il Satiro si china di lato e solleva un telecomando con due bottoni. «Di sicuro, le forze dell’ordine comprenderanno la funzione di questo dispositivo. Avremmo preferito non spingerci così in avanti, ma il sindaco e la sua arroganza non ci lasciano scelta.»
Spinge col pollice il primo bottone. «Domattina, premerò il secondo.» Punta l’indice contro la telecamera. «Riflettete sulle vostre scelte.»
Lo schermo si oscura, al centro compare la scritta TRASMISSIONE TERMINATA.
Tikki atterra accanto alla tastiera. «Cosa avrà attivato con quel telecomando?»
Ho i brividi, e dubito siano di freddo. «Non ne ho idea.»
Agguanto il mouse e navigo verso i siti di notizie. Clicco sul primo risultato, una notizia in live del quotidiano locale.
UN VEICOLO ESPLODE IN UN PARCHEGGIO, NON LONTANO DALLA STAZIONE DEGLI AUTOBUS.
Spalanco gli occhi. «Fanno sul serio…»

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Nonna Gina soffia sulle candeline e le spegne.
Io, mamma e papà applaudiamo all’unisono, Leon ci fa eco abbaiando due volte.
«Auguri!» gridiamo in coro.
Papà afferra un coltello e taglia la torta. Prepara una porzione per ciascuno nei piattini di carta e li serve.
Tra i cannelloni ripieni della nonna e il pollo in agrodolce di mamma, ho lo stomaco stracolmo, sul punto di esplodere.
Ma non posso rinunciare al dolce di papà.
Ne prendo una forchettata e la porto alla bocca: la crema pasticciera alla vaniglia e la ganache al cioccolato danzano sulla lingua. Una bontà.
Batto le mani due volte, Leon saltella fino alla mia gamba e solleva la zampa destra.
Estraggo il savoiardo dalla fetta di torta e glielo lancio tra le fauci. Leon lo divora in un attimo e si lecca i baffi.
«È buonissima, papà.»
Papà si porta una mano al petto, solleva il mento e chiude gli occhi. «Solo il meglio per la mia famiglia.»
Mi spiace solo che il nonno non sia tra noi oggi. Lui odia viaggiare, soprattutto in quelle che definisce «diavolerie dell’era moderna» – che in realtà è lo startrain di Parigi. Si è limitato a fare gli auguri alla nonna via telefono, rifiutandosi di partecipare a una videochiamata.
Mamma si pulisce i lati della bocca con un tovagliolo. «Come procedono i tuoi disegni, Marinette?»
«Io e Sonia abbiamo deciso quale abito presentare, basandoci soprattutto sullo stereotipo di modello che lo indosserà.»
«Somiglia ad Adrien questo stereotipo?» Mamma sogghigna.
«No.» Sospiro. «È un modello italiano, abbastanza famoso a quanto dicono. Si chiama Alessio.»
Papà grugna. «L’importante è che questo Alessio si tenga lontano dalle stiliste.»
Addento un grosso boccone di torta e taccio. Meglio non sbandierare il fatto che il giorno stesso in cui ci siamo conosciuti, Alessio mi ha già offerto un passaggio a casa. Sulla sua auto. Da soli.
Nonna Gina dà un buffetto sul braccio di papà. «Non essere geloso. La nostra Marinetta dovrà pur ammirare i bei ragazzi, no?»
Affondo la testa nel piatto.
Mamma rincara la dose. «E io vorrei evitare di ritrovarmi di nuovo la casa impalata da una pianta rampicante che sale fino al cielo e un marito mannaro.»
«È stato un incidente,» borbotta papà. «Quel gattaccio presuntuoso ha preso in giro la mia bambina. L’ha illusa e poi delusa.»
«In realtà, tu hai costruito dal nulla un film in cui Marinette e Chat Noir sarebbero convolati a nozze.» Mamma beve un sorso d’acqua. «E hai finito con l’essere akumizzato.»
Papà sventola una mano. «È acqua passata, ormai. Ma comunque resto dell’idea che i ragazzi di oggi corrano un po’ troppo.»
«Ora assomigli a tuo padre.»
Finisco di mangiare la torta e mi alzo dalla sedia. Voglio defilarmi il prima possibile da questi discorsi. Non sono pronta per affrontarli, men che meno ora che l’immagine di Adrien inizia a farsi sfocata nella mia mente, mentre quella di Alessio si fa più nitida.
«Se non vi spiace, vorrei andare un po’ in camera a disegnare. Mi è appena venuta un’idea e vorrei subito approfittarne per metterla su carta.»
Nonna Gina soffia un bacio nella mia direzione. «Va’ pure, cara.»
«Vieni, Leon.»
Vado in camera e serro la porta.
Possibile che sia bastato un solo giorno, anzi pochi minuti al fianco di Alessio perché mi colpisse al punto da anteporsi ad Adrien?
Mi siedo a bordo letto. Forse Alya ha ragione quando dice che non esiste solo Adrien Agreste a questo mondo. E se basta così poco per rimpiazzarlo, significa che il mio amore per lui non era così solido come credevo.
Persino Luka per un attimo mi aveva fatto vacillare, ma avevo scacciato l’idea prima che si concretizzasse; ero troppo presa da Adrien, aggrappata ancora alla speranza che lui aveva rifiutato sia le attenzioni di Chloè sia quelle di Lila.
Ora però… Lui sta con Katami, e io sono lontana.
Afferro il cuscino e ci sbatto la faccia contro, affogando un gemito di frustrazione.
«Marinette.» La voce di Tikki giunge dalla mensola in alto. «Qualcosa non va? I tuoi stanno bene?»
Poso il cuscino sulle cosce. «Sì, fortunatamente.»
Tikki plana sul letto. «E allora cosa ti turba?»
«Pensieri di cuore.»
«Beh, almeno non sono pensieri su terroristi. Hai passato la notte in bianco a torturarti su un eventuale attentato alla stazione centrale.»
«Avevo buoni motivi, Tikki. Quella gente è pericolosa.»
Dopo aver fatto esplodere quell’auto in un parcheggio – fortunatamente deserto – i Satiri hanno sparato dei colpi di mitra sul muro del Teatro alla Scala e gettato due molotov contro le volanti della polizia.
Stanno dando prova che i loro non sono semplici avvertimenti.
«Il sindaco dovrebbe fare qualcosa di più che schierare un paio di agenti a quartiere.» Sbuffo. «L’ho paragonato ad André Burgeois, ma lui è anche peggio.»
«Io credo che—»
Fermo Tikki con la mano. «Non voglio pensarci per ora, o la deliziosa cena mi andrà di traverso.»
Vado alla scrivania, strappo un foglio dal quaderno ad anelli e prendo la matita.
Da un po’ di tempo, l’unico modo per svuotare la mente è disegnare a ruota libera, lontana dal quaderno dei bozzetti, su cui mi sembra di svolgere un compito scolastico più che dilettarmi a creare.
Traccio la sagoma di un uomo. Aggiungo dei dettagli alla muscolatura e qualche tratto del viso.
Cambio matita e scelgo quella con la punta più morbida, il tratto diventa più marcato. Comincio dai pantaloni, stile completo in modo da far risaltare gambe possenti.
Disegno sul torace una camicia, traccio una freccia che punta alla scritta “Raso”. Sopra ad essa, tratteggio una giacca di tipo sportivo e la coloro per intero.
Sollevo il foglio e annuisco.
Tikki svolazza accanto alla mia guancia. «Un look perfetto per Alessio.»
Un grumo di saliva prende il canale sbagliato. Tossisco. «A-Alessio. P-perché proprio l-lui?»
«Non ti sei accorta che il modello che hai disegnato è praticamente il suo ritratto?»
Copro il disegno con la mano. Ho paura a verificare se quanto detto da Tikki corrisponde alla realtà.
Tikki alza e abbassa le sopracciglia. «Ebbene?»
Sposto la mano. Il ragazzo ritratto è altissimo, ha i capelli ricci, una mascella pronunciata e muscoli ben definiti.
È lui.
 
***
 
Entro in classe e mi trascino fino al posto.
Sonia è in piedi accanto alla finestra, Juan e Richard sono seduti sui banchi di fronte al mio.
Mi accascio sulla sedia e tiro un lungo sbadiglio. «Gnao…»
«Hola, Mari. Que pasa?»
Devo avere l’aspetto di uno zombie, camminata inclusa. «Pasa che stanotte non ho chiuso occhio.»
Sebbene io sia solita passare solo un velo di trucco, oggi ho dovuto ricorrere a una forte dose di correttore per nascondere le due voragini viola che mi si erano formate sotto agli occhi.
Non ho avuto modo di constatare se avessi fatto un buon lavoro, ma spero di avere almeno un aspetto dignitoso.
Richard, in pantaloncini cargo, si arrotola le maniche della camicia a quadretti fino ai gomiti. I peli rossicci risaltano sulla pelle lattifera. «Well, ti stai dedicando anima e corpo al vostro project.»
Sonia si siede accanto a me. «Abbiamo concordato che vogliamo spaccare.» Mi passa un braccio intorno al collo. «I tuoi sforzi saranno ripagati, te lo prometto.»
Annuisco e reprimo un altro sbadiglio. In realtà, il lavoro di prima cucitura l’ho finito in poco più di un’ora – la pratica con i quaranta e passa regali per Adrien mi ha aiutata; il resto della nottata insonne l’ho passata con la mente rivolta a mamma e papà e alla loro partenza di oggi.
Sono ancora preoccupatissima per i tafferugli che i Satiri stanno sollevando in diverse zone della città e la stazione centrale è uno dei punti più sensibili della città. Ci passano migliaia e migliaia di persone ogni giorno: se colpiscono lì, sarà una catastrofe.
Stendo un braccio sul banco e vi adagio la guancia sopra.
Juan mi solletica il palmo con un dito, i capelli d’ebano gli accarezzano le spalle. Curioso che li abbia lasciati sciolti oggi.
Gli sorrido. «Almeno per ora, non dovrò preoccuparmi di Rissagno e posso riposare cinque minuti.»
Richard guarda il suo orologio da taschino. «Strano che non sia già seduto alla cattedra. Di solito, apre lui i cancelli.»
Due colpi battono sulla porta dell’aula.
La testa ovale del rettore si affaccia sull’uscio, gli occhietti scrutano uno ad uno gli studenti.
Juan e Richard balzano subito giù dai banchi, io rizzo la schiena sulla sedia.
«Permesso, signori studenti.» Il rettore raggiunge la cattedra, si passa un panno rosso sulla fronte lucida. Porta la camicia talmente stretta in gola che sembra stia per soffocare. «Il professor Rissagno non è ancora arrivato?»
Diversi studenti fanno un cenno di diniego con la testa.
«Strano. Comunque, signori studenti, volevo far presente ad ognuno di voi un fatto increscioso avvenuto pochi giorni fa, in una delle aule studio dell’Accademia.»
Infila una manona nella tasca, le sue dita a salsicciotto stringono una fotografia in bianco e nero. Sembra essere stata scattata da una delle telecamere di sorveglianza e ritrae un tipo in tuta e cappuccio, una pila di fogli tenuta sottobraccio.
Il rettore punta l’indice sulla foto. «L’identità di questo ragazzo è ignota: non sappiamo se egli è uno studente registrato all’Accademia o se è un intruso. Fatto sta, che chiunque abbia avuto un contatto ravvicinato con lui o gli è stato consegnato uno di questi volantini è pregato di dircelo.»
Mi volto verso Sonia, la quale fa spallucce.
Metto la mano a coppa davanti alla bocca. «Noi l’abbiamo visto l’altro giorno in aula studio.»
«Può essere, ma il volantino l’hai tenuto tu.»
Già, perché ho riconosciuto il simbolo dei Satiri dell’Anarchia. Il volantino pubblicizzava la trasmissione in diretta in cui uno di loro minacciava il sindaco e la città e poi ha fatto saltare in aria quell’auto.
Il rettore gira tra i banchi mostrando a ognuno la foto del tipo.
Alzo la mano.
«Signorina Dupain-Cheng?»
«Signore, non so a quanti altri, ma quel ragazzo ha consegnato a me uno dei suoi volantini.»
Il rettore mette via la foto e mi fa cenno di avvicinarmi a lui. «Mi segua fuori, per cortesia.» Si rivolge al resto della classe. «Voialtri, restate ai vostri posti in attesa del professor Rissagno.»
Mi alzo dal posto e lo seguo.
«Mi scusi, signore.» Juan leva un braccio e indica sé stesso e Richard. «Permette che veniamo anche noi? Eravamo presenti.»
Richard annuisce, guarda nella mia direzione e muove le folte sopracciglia.
Vogliono sostenermi, anche se non erano presenti.
Mi affiancano, senza nemmeno aspettare il consenso.
Sonia si alza a sua volta. «Ero presente anch’io.»
Il rettore piega le labbra verso il basso e si deterge di nuovo la fronte col panno rosso. «D’accordo, venite pure. Cerchiamo di risolvere in fretta questa faccenda.»
Si volta verso la porta.
Unisco i palmi e ringrazio i miei amici chinando il capo.
Alle loro spalle, Letizia traccia con l’indice una mezzaluna sul collo, da lobo a lobo. Gongolerebbe fino a Natale se ci cacciassimo nei guai.
Seguiamo il rettore fuori all’aula.
Chiude la porta e ci indica uno a uno. «Vorrei che fosse chiaro che il mio intento è mantenere intatto il buon nome di questo istituto e preservare l’incolumità fisica e psichica dei suoi studenti. Qualunque elemento può essere utile, quindi non lesinate sui dettagli.»
Ci incamminiamo lungo il corridoio.
Da un certo punto di vista, questo fuori programma mi sta evitando l’ennesimo rimprovero di Rissagno sulla scarsa attenzione che gli rivolgo durante le sue ore. Oggi, più che mai, avrei fatto fatica a tenere gli occhi aperti, figuriamoci a seguire i suoi ragionamenti.
Giungiamo all’ufficio del rettore.
Accanto alle due sedie disposte di fronte alla scrivania, c’è un agente della polizia in divisa.
«Prego.» Il rettore ci fa passare. «Questi ragazzi affermano di aver avuto un contatto diretto con il soggetto in questione.»
Il poliziotto si toglie il cappello dalla testa e se lo tiene sotto l’ascella. Ha delle orecchie enormi e i capelli tagliati cortissimi.
«Preferite che vi ascolti uno alla volta oppure insieme?»
Faccio un passo avanti. «Agente… Signore…» Do un colpo di tosse. «Signor Agente… quel ragazzo ha posato sul nostro banco il suo volantino mentre eravamo impegnati a studiare.»
Mi friziono il braccio. «Non ha parlato, ci ha solo fatto un gesto prima di scomparire all’uscita.»
Il poliziotto muove la lingua nella bocca come se cercasse una briciola infilata tra i denti. «Qual è il suo nome signorina?»
«M-Marinette Dupain-Cheng.»
«Mi dica, Marinette Dupain-Cheng, aveva mai visto questo ragazzo prima d’ora?»
Scuoto la testa.
Il poliziotto passa in esame con lo sguardo i miei amici: tutti mi imitano negando col capo.
«E come mai ha scelto proprio voi per consegnare quel volantino?»
Richard mi viene vicino. «We don’t know, agente. Non è detto che non l’abbia fatto anche con altri.»
«E lei è…?»
«Richard McCallister.»
Il poliziotto scambia un’occhiata con il rettore che, nel frattempo, si è accomodato alla sua poltrona.
Torna a fissarci con sguardo più amichevole. «Voi siete gli unici in tutto l’istituto ad esservi fatti avanti. Immagino che fosse per il messaggio contenuto nel volantino.»
Juan si gratta una tempia. «Porque? Qual era il messaggio?»
«Davvero lo ignorate?»
Richard e Juan di sicuro, visto che non c’erano. Sonia, dal canto suo, pensava fosse una trovata di marketing.
Sono l’unica ad aver colto il contenuto di quel volantino. «Pensavamo fosse solo pubblicità.»
«E non l’avete conservato?»
Mi mordo l’interno della guancia. «L’ho buttato appena sono uscita.»
«Beata ignoranza.»
Il rettore grugnisce. «Li svuotiamo ogni giorno alle 19. Non lo troveremo più.»
Il poliziotto si mette il cappello. «Vi ringraziamo della vostra disponibilità. Signor rettore, proseguiremo le indagini affinché venga alla luce l’identità di questo ragazzo.» Si congeda.
Il rettore batte le mani. «Orsù, tornate alla vostra lezione.»
Obbediamo e usciamo dall’ufficio in silenzio.
Richard incrocia le mani dietro la testa e fischietta. Il motivetto echeggia per il corridoio deserto.
Sonia si sistema una ciocca dietro all’orecchio. «Secondo voi, cosa bolle in pentola? La cosa dev’essere seria per coinvolgere addirittura la polizia. Questo tizio spacciava, forse?»
Juan si stringe nelle spalle. «Forse cannabis. Il rettore chiude a stento un occhio sulle sigarette normali, ma dubito sia indulgente con altro.»
Rallento il passo e soffoco uno sbadiglio. Sono a pezzi, non credo che riuscirò a sostenere un’intera giornata di scuola.
I miei amici si fermano e si voltano.
Richard mi tocca un braccio. «Sicura che sia solo stanchezza, Mari? Sei molto pallida.»
«Credo che chiamerò casa e mi farò venire a prendere.»
Almeno, potrò salutare i miei come si deve.
 
***
 
«Vorrei accompagnarvi.»
Mamma mi tira a sé e mi schiocca due baci sulle guance. «Resta qui e riposa. Non preoccuparti, io e tuo padre ce la caveremo anche senza di te.»
«Ma—»
«Niente ma, Marinetta.» Nonna Gina fa no con l’indice. «Se avevi abbastanza energie per accompagnarci alla stazione, ne avevi per restare seduta al banco a scuola.»
Una logica ineccepibile. «D’accordo.» Abbraccio papà. «Fate buon viaggio. E chiamate non appena arrivate.»
Mamma si china per accarezzare Leon. «Controllala tu. Fa che non si muova da casa.»
Leon abbaia due volte.
Papà raccoglie il borsone, lo mette a tracolla e afferra il manico del trolley. Esce sul pianerottolo, nonna Gina lo segue.
Mamma mi accarezza la guancia. «Dovresti iniziare a seguire un corso di yoga, per allentare lo stress.»
«Non basterebbero diecimila ore di sedute per farmi rilassare.»
«Non sei un robot, Marinette. Tutti abbiamo bisogno di una pausa, ogni tanto. Vedrai che con le energie ricaricate, ne beneficerai anche sui tuoi infiniti lavori.»
Sorrido. «Ci penserò.»
Mamma esce e chiude la porta blindata alle sue spalle.
Leon mi cammina tra le gambe, il pelo mi solletica le ginocchia scoperte.
Vado in camera e mi tuffo supina sul letto. «Sono andati, Tikki.»
Silenzio.
«Tikki?» Mi puntello sui gomiti. «Tikki, ci sei?»
Dalla mensola in alto giunge un fruscio, ma nessuna risposta.
Adagio la nuca sul cuscino. «Per quanto ancora mi terrai il broncio?»
È da quando sono rientrata a casa che si è appollaiata nella sua cuccetta e non mi ha più rivolto la parola. Forse, non ha per niente gradito la mia scelta di saltare un giorno di scuola, ma oggi non ne avevo proprio.
«Tikki…»
Due occhioni blu dal cipiglio severo compaiono sul bordo della mensola. «Perché hai mentito, Marinette?»
Copro gli occhi con il polso. «Non ho mentito. Sono davvero esausta. L’unico risultato che avrei ottenuto restando a scuola sarebbe stata una nota disciplinare da parte di Rissagno.»
«Non parlo della scuola.»
«E allora di cosa?»
«Parlo delle bugie che hai raccontato a quell’agente. Gli hai detto che ignoravi il significato di quel volantino.»
Sposto il braccio. «Cosa sarebbe cambiato dicendogli che lo sapevo?»
Tikki alza la voce. «Gli hai anche detto che l’avevi buttato. E, invece, tu lo conservi nel tuo quaderno dei bozzetti.»
Leon abbaia.
Mi giro su un lato e gli accarezzo il muso. «Perché tanto fervore? Non dicevi che dovrei tenermi alla larga da questa storia?»
«Perché è esattamente ciò che non stai facendo!» Tikki plana di fronte al mio naso. «Prima hai paura ad intervenire perché temi che possano riconoscere Ladybug; poi, decidi di intervenire, e infine te ne penti, dichiarando che sarebbe meglio lasciar far alla polizia.»
«Io—»
«Compare questo ragazzo dei volantini e tu decidi di seguire la trasmissione di questi Satiri. Non contenta, menti a un agente di polizia, affermando che non ne sai nulla della faccenda.» Mi punta contro la zampetta. «Se avevi deciso di lasciar fare alle forze dell’ordine, perché non hai aiutato le indagini anziché ostacolarle?»
«Perché…» Mi mordo il labbro inferiore. «Non lo so, Tikki. Forse avevo paura di quello che potevano pensare i miei amici.»
«Dubito pensassero che sei una dei Satiri.»
«Chi può dirlo? Magari l’agente mi avrebbe portato in questura, sarei finita sotto interrogatorio e—»
«Marinette, ti rendi conto delle assurdità che stai dicendo?»
Mi metto seduta e affondo le mani nei capelli. «Sono patetica, vero?»
«Sei solo molto confusa.» Tikki si posa sulla mia coscia, Leon adagia il muso sull’altra. «Ti sono piovute addosso troppe novità, tutte insieme. Come quando sei diventata Ladybug la prima volta, ricordi? Volevi addirittura rinunciare ai poteri, ma poi hai trovato la forza di reagire e hai accumulato vittorie su vittorie ai danni di Papillon.»
Tiro un lungo sospiro. Pur non conoscendo i dettagli, la mamma ha centrato in pieno il punto: ho accumulato troppo stress e, unito alla mia dannata incertezza e insicurezza, mi ha condotta al limite dell’esaurimento.
Allungo un braccio e afferro la tracolla, la borsa struscia sul pavimento.
Frugo all’interno. «Domani consegnerò il volantino al rettore. Magari gli dirò che l’ho trovato per strada e ho notato che era identico a quello che mi è stato consegnato da quel ragazzo.»
Tikki svolazza intorno a Leon. «È già qualcosa.»
«Ma dove diavolo è?» Sposto il libro di algebra e quello di storia. «Eppure sono certa di averlo messo in borsa, stamattina.»
Ruoto la borsa e ne rovescio l’intero contenuto sul pavimento. Libri, quaderni e il portapenne si sparpagliano.
Manca solo…
La gola mi si annoda. «Tikki… il quaderno dei bozzetti è sparito.»
 
***
 
Al telefono continua a rispondermi la segreteria telefonica.
Scaglio lo smartphone sul divano e tiro un gemito di frustrazione. «Al diavolo!»
Sonia è irraggiungibile, Richard e Juan non sanno nulla.
Io so chi ha preso il mio quaderno. «È stata Letizia.»
Quell’oca maledetta l’ha rubato mentre io e i ragazzi eravamo dal rettore. Vuole soffiarmi le idee e usarle per vincere la gara.
Le tempie mi pulsano per il nervoso. Oltre ai disegni, in quel quaderno ho conservato anche il volantino dei Satiri dell’Anarchia. Trovandolo, Letizia inizierà a farsi strane idee su di me e sono certa che proverà a gettarmi fango addosso pur di eliminare una diretta concorrente.
Scaglio un pugno nell’aria. «Maledetta oca giuliva!»
Tikki solleva le zampette. «Calmati, Marinette. Non hai prove che è stata lei.»
«Certo che è stata lei!» Serro i denti. «Non vuole solo i bozzetti, vuole vendicarsi. In qualche modo, avrà saputo del passaggio che mi ha dato Alessio l’altro giorno e ora cercherà di screditarmi ai suoi occhi. Non sopporta l’idea che lui guardi me anziché lei.»
Un giochetto subdolo degno di Letizia. Lila a confronto è un angelo con l’aureola.
Riafferro lo smartphone e richiamo Sonia.
Al terzo squillo, risponde. «Marinette?»
«Sonia! Grazie al cielo sono riuscita a contattarti.»
«Sto seguendo anch’io il notiziario. Spero che i tuoi genitori stiano bene.»
«Certo. Però io ti ho chiamato perché è succ—» Il cuore mi si ferma per un attimo. «Perché i miei non dovrebbero stare bene?»
Tikki rizza le antenne e strabuzza gli occhi.
«Non stai seguendo il telegiornale?» La voce di Sonia suona preoccupata. «I Satiri dell’Anarchia hanno preso in ostaggio la stazione centrale di Milano.»
Il cellulare mi cade di mano e si infrange a terra.
 
***
 
Apro l’armadio, sposto di lato i vestiti appesi e recupero gli abiti che ho usato per camuffarmi. Avrei dovuto lavarli, ma tra un pensiero e l’altro mi è passato di mente.
Scuoto la giacca impolverata e la lancio sul letto. Faccio fare al cappello la medesima fine. Pinzo dalla cintola il jeans, all’altezza della tasca posteriore destra si estende una macchia nera che emana un tanfo di olio motore. Per fortuna, l’olezzo non ha invaso l’intero armadio.
Tikki attraversa la porta, i suoi occhi sfrecciano da me ai vestiti. «Marinette, non farlo.»
«Non dirmi cosa non devo fare, Tikki. Per favore.» Apro e chiudo il pugno. «I miei genitori sono in pericolo. E lo sono anche altre persone in mano a quella gente.»
«Lascia che la polizia—»
«La polizia non è in grado di gestirli. Ma hai visto cosa stanno combinando per la città? E nessuno sta muovendo un dito per fermarli; chi può farlo si nasconde dietro i panegirici che dichiara il sindaco e il questore.»
«Marinette, ascoltami ti prego.»
«No. Sono decisa a intervenire, non mi farai cambiare idea.»
«Ascoltami!» L’urlo di Tikki mi penetra nei timpani.
Leon abbaia e ringhia.
Gli adagio una mano tremolante sulla testa. «Buono bello.» Sospiro. «Ti ascolto, Tikki, ma non mi persuaderai a restare qui.»
«Lo so. Ma vorrei almeno che rallentassi e pensassi prima di entrare in azione. Sei troppo sconvolta, rischi di fare errori e mettere in pericolo l’incolumità tua e di chi ti circonda. Hai bisogno di lucidità, quella che ti ha sempre condotta alla vittoria contro gli akumizzati di Papillon.»
Prendo il berretto tra le mani, seguo con l’indice il logo del Paris Saint-Germain in rilievo. «So quello che devo fare. Agirò con cautela, sfrutterò al massimo il potere del Miraculous e fermerò quei tipi. L’importante è che non riconoscano la maschera di Ladybug. Per il resto, che mi vedano pure. Manderò loro un messaggio che c’è qualcuno che non ha paura e che è in grado di affrontarli tutti.»
Tikki scuote la testolina, le antenne oscillano. «Non so se sia una buona—»
«Tikki, trasformami!»
Il lampo bianco e rosso mi illumina, la tuta di Ladybug avvolge il mio corpo, il potere fluisce nelle mie vene.
Indosso i jeans e la giacca e metto il cappello sulla testa. Abbasso la visiera in modo che un cono d’ombra copra la maschera a pois sugli occhi. Calzo le sneakers.
Apro la finestra. Un puzzo di nafta sale dalla strada, tre auto e un camion sono ferme poco prima dell’incrocio. Un vigile, al centro della carreggiata, dà disposizioni affinché prendano una via alternativa rispetto a quella conduce alla stazione.
Richiudo la finestra.
Se uscissi da qui, qualcuno potrebbe vedermi e troverebbe molto strano osservare una persona balzare giù dal quarto piano e atterrare sul marciapiede senza un graffio.
Esco dalla camera e mi fiondo alla porta d’ingresso.
Leon abbaia tre volte e mi si piazza davanti.
Mi chino sulle ginocchia e poso la fronte contro la sua. «So che la mamma ti ha incaricato di proteggermi, ma non devi temere.» Lo bacio tra gli occhi. «La tua padroncina torna subito, il tempo di prendere a calci un paio di fanatici.»
Apro la porta blindata e salgo la rampa delle scale.
Dai tetti farò prima.
 
***
 
Saltare da un terrazzo ad un altro, senza l’ausilio dello yo-yo, si è rivelato molto più difficile di quanto pensassi, ma ho coperto una grande distanza in poco tempo e quello mi basta.
Atterro sul tetto dell’hotel Atlantic, poco distante dalla stazione centrale. Nella piazza sono già ammassate quattro volanti della polizia e una camionetta dei carabinieri.
Un cordone di agenti fa defluire le persone dall’interno della stazione, riversandole nella piazza.
L’epicentro dell’attacco devono essere i binari.
Salto sul terrazzo contiguo, mi affaccio lungo la ringhiera in ferro.
Non vedo tra la folla mamma e papà, né la nonna. Spero tanto che siano al sicuro. Avrei dovuto far loro almeno uno squillo, per accertarmi che stessero bene.
Tikki aveva ragione: non dovevo farmi trascinare dalla foga del momento e ragionare di più sulle mie azioni.
Ora che sono qui, tanto vale proseguire.
L’attenzione della gente per strada è tutta rivolta verso la stazione. Nessuno bada ai tetti.
Scavalco la ringhiera e mi lancio verso il basso. Atterro a ginocchia piegate, mi spolvero i jeans e corro verso il retro della stazione.
Un fischio giunge alle mie spalle. Do una rapida occhiata da sopra alla spalla. È un vigile piazzato ad un incrocio pedonale. Agita la mano come a volermi invitare di fermarmi.
Accelero la corsa. Il vigile fischia più volte, alternando lunghi acuti a fischi brevi.
Urla qualcosa, ma sono già lontana per distinguere le parole.
Sfilo accanto al cordone di agenti, mi mescolo alla folla in uscita. Sgomitando, riesco a penetrare nella calca, senza perdere il cappello e senza incappare in qualche ostacolo.
L’atrio della stazione è vuoto, fatta eccezione per un paio di agenti delle forze speciali con i loro fucili dotati di mirino laser.
Scatto verso i binari. I poliziotti sorpresi tirano delle urla. Li ignoro e raggiungo il vagone del treno sul binario opposto alla banchina.
Stavolta non mi è stato possibile mantenere l’anonimato, ma non importa. Quello che conta è dare un segnale forte ai Satiri: qualcuno più forte di voi e più intraprendente del sindaco ha intenzione di darvi battaglia.
Aggiro la testa del treno. Un satiro con la solita maschera rossa e nera mi punta contro il suo fucile d’assalto.
Scivolo fino alle sue caviglie e le scalcio. Lui finisce con il sedere a terra. Faccio perno su un piede e impatto con il tallone sulla sua tempia.
Fuori uno.
Apro con una spallata il portello del vagone e penetro dentro.
Vuoto.
Che storia è questa?
Percorro di corsa il corridoio tra i sedili, passo le dita sul touchscreen che apre i portelli ed entro nel successivo vagone.
Vuoto anche questo.
Dove diavolo sono tutti?
Dall’esterno giunge una voce distorta da un megafono. «Ragazzo! Chiunque tu sia, scendi dal treno con le mani bene in vista.»
Mi avvicino al finestrone.
Tra tre agenti delle forze speciali, con i fucili puntati, emerge la sagoma di quel simpaticone del questore.
Si porta alla bocca il megafono. «Ripeto, esci con le mani bene in vista e provvederemo a scortarti all’esterno.»
Dannazione.
Invece di occuparsi dei Satiri pensano a me.
«Ultimo avviso! Al prossimo, spareremo!»
Se mi beccano, potrò dire addio alla mia identità segreta. Se non li assecondo…
Accidenti!
Calcio la porta e scendo dal treno.
Colpi di mitra esplodono alla mia sinistra, i proiettili sibilano accanto ai miei piedi.
Rotolo a terra, i sassolini scricchiolano sotto la schiena.
Sollevo lo sguardo.
Un Satiro è appollaiato sul tetto di un vagone dello startrain, la canna del suo fucile punta dritta su di me.
Due colpi echeggiano dall’altra parte del treno.
Il satiro viene colto da spasmi, allarga le braccia e crolla a terra prono, a poca distanza da me. Un rivolo di sangue fluisce da sotto al torace.
Passi di corsa si avvicinano.
Rotolo al di sotto del treno. Fili d’erba mi solleticano le guance.
Gli stivali degli agenti circondano il corpo del satiro. Tra essi risaltano un paio di mocassini color mogano.
Un agente con il casco azzurro a coprirgli la testa si china sul corpo, lo rivolta e gli tocca la gola con due dita. «È morto!»
«Che vi dice il cervello?» La voce del questore ha un tono greve. «Non dovevate aprire il fuoco se non strettamente obbligati.»
Il poliziotto chino indica il satiro. «Signore, è probabile che costui stesse mirando a quel—»
«Non è tuo compito fare ipotesi, agente. Devi solo seguire gli ordini. Che mi dite dell’altro?»
Un altro agente, più distante, prende parola. «È privo di sensi. Forse è stato quel ragazzo a metterlo ko.»
Che ho combinato…
Il questore mugugna qualcosa di incomprensibile. «Se me lo ritrovo tra le mani… Per ora mi accontento dei due che abbiamo preso e possa quest’altro riposare in pace. Bene, possiamo anche sgombrare, qui.»
Vanno via?
E l’emergenza?
Due agenti sollevano di peso il cadavere del satiro, seguono il gruppo che si allontana.
Qualcosa non quadra.
Sembra che abbiano risolto tutto in fretta, molto più efficienti rispetto alla volta nella metropolitana.
Tiro un lungo respiro, smorzato appena dalla posizione difficile in cui mi trovo e dall’odore di ferro delle rotaie.
Tikki ha ragione. I tutori dell’ordine sanno fare molto bene il loro lavoro, io non faccio altro che ostacolarli. E per colpa mia, un uomo è morto.
Striscio sotto al treno, fino ad allontanarmi abbastanza dagli agenti e mi rimetto in piedi.
Il jeans si è strappato sulla gamba destra, la striscia rossa del costume di Ladybug risalta dallo squarcio.
Devo trovare un luogo riparato dove liberarmi di questi vestiti, ormai da buttare, ed interrompere la trasformazione. La polizia cerca un ragazzo con berretto, giacca e jeans. Non baderanno ad una ragazzina in t-shirt e leggings.
Mi acquatto dietro un delimitatore di binario e lancio una sbirciata: la gente sta ripopolando a poco a poco la banchina, tra loro ci sono anche mamma e papà.
Il sollievo mi alleggerisce il cuore e gratta via in parte lo sconforto della colpa.
Almeno loro stanno bene.
Mi sfilo il cappello da testa. «Ritras—»
Dalla folla si leva un coro di urla. Una miriade di braccia si alza e indica un punto in lontananza.
Seguo i loro indici: una colonna di fumo nero si staglia contro il cielo terso.
Il respiro mi si mozza.
I Satiri che hanno attaccato la stazione erano solo tre. Un diversivo.
Sia io che la polizia ci siamo cascati con tutte le scarpe.
L’obiettivo era tutt’altro.
Il municipio.
 
***
 
Il chiasso generato dalle urla della gente si mescola alla sinfonia di sirene di polizia e vigili del fuoco.
Un’intera ala del municipio è avvolta dalle fiamme, fumo nero spira dalle finestre e si innalza nel cielo. Quella che era una semplice giornata primaverile si è trasformata in un inferno.
Scavalco un’inferriata e mi accosto ad un muro dell’edificio ancora integro. Il calore trasuda attraverso il calcestruzzo e mi fa pizzicare gli occhi.
Piego le ginocchia e salto in una finestra aperta. La stanza per fortuna è deserta.
Aggiro la scrivania e apro di uno spiraglio la porta, in modo da dare un’occhiata nei paraggi.
Del fumo bianco aleggia per il corridoio. Corro verso la fonte delle fiamme, una gamba mi cede e mi costringe ad appoggiarmi con una mano alla parete.
Se inizio ad avvertire la stanchezza anche nei panni di Ladybug significa che sono davvero al limite. Devo dar fondo alle mie ultime risorse e gestire al meglio la situazione. Spero di non dover ricorrere al Lucky Charm, oppure i minuti residui saranno spiccioli.
Tiro un respiro, i polmoni si riempiono di aria sporca di cenere. Tossisco. Pessima pensata.
Anche la mia mente lavora a basso regime. Se ne uscirò integra, dormirò per tre giorni di fila.
Corro lungo il corridoio. Tre porte si affacciano negli uffici comunali; i dipendenti hanno già seguito le norme di sicurezza e hanno lasciato le postazioni sfilando verso le uscite di sicurezza.
Devo solo accertarmi che non ci siano altri intrappolati dalle fiamme.
Un boato sconquassa l’edificio, il pavimento trema sotto i piedi. Proveniva dal piano inferiore.
Raggiungo le scale di emergenza e le scendo quattro scalini alla volta. Apro una porta tagliafuoco e mi ritrovo avvolta da lingue di fuoco che lambiscono porte e mura. Le lampade a neon pendono dal soffitto, sui fili scoperti crepitano scintille.
Il calore mi brucia il viso, la vista mi si appanna. Strizzo gli occhi e un paio di lacrime rotolano giù per le guance.
Un tonfo rimbomba dall’ufficio in fondo.
Ne segue un altro.
La parete tramezza crolla e si sbriciola, una figura colossale si staglia contro le fiamme. Nella mano destra impugna un’ascia nera dalla lama argentata.
È un energumeno pelato con indosso una canotta bianca e pantaloni cargo. Vene enormi striano i muscoli delle braccia e del collo su cui spicca un grosso tatuaggio nero, una sorta di simbolo.
Si volta nella mia direzione e stira un ghigno.
Dev’essere il tizio che ho affrontato nella metropolitana. Ma se pensa di bissare il suo show, si sbaglia di grosso.
Impugno lo yo-yo e lo faccio oscillare tra le mie gambe. Il vortice d’aria che si crea allontana da me le lingue di fuoco.
Il gigante mulina l’ascia e carica a testa bassa.
Scarto di lato, scivolo a terra e lo sgambetto. Lui incespica per un attimo, riprende l'equilibrio e scaglia un fendente dall’alto.
La lama mi sfiora il braccio, lacera parte della giacca e infrange due piastrelle del pavimento.
Se mi avesse preso, mi avrebbe mozzato il braccio, di sicuro.
Roteo lo yo-yo, il filo si avvolge intorno al busto del gigante. Tiro un’estremità, il cavo si tende e lo intrappola.
«Sei il capo dei Satiri, vero?»
Il gigante tira fuori la lingua e si lecca le labbra carnose, il sudore luccica alla luce proiettata dalle fiamme.
Stringe le dita intorno all’impugnatura dell’ascia e strattona il cavo.
Pianto i piedi a terra, ma il gigante è troppo forte e vengo scagliata su un muro. La schiena mi esplode dal dolore. Cado a terra, la testa vortica.
Il gigante si libera dalla morsa dello yo-yo, passa un indice sulla lama e se lo ficca in bocca come se fosse un lecca-lecca.
Dei passi giungono dalle scale, voci maschili si rincorrono. Sono i pompieri. Il gigante si mette sull’attenti e fissa la rampa.
Schizzi d’acqua iniziano a piovere dalle finestre, il fumo nero si addensa.
Trattengo il respiro. Gattono fino allo yo-yo, lo apro e lo appoggio sulla bocca. La modalità ossigeno restituisce ai polmoni un po’ di aria pulita.
L’energumeno solleva l’ascia oltre la sua testa.
No! Salto e afferro il manico con entrambe le mani e tiro.
Il gigante ruota la testa sulla spalla, ghigna di nuovo. Un luccichio diabolico si accende nei suoi occhi cristallini. «Sei finita.»
Strattona l’ascia e scaglia un montante che mi colpisce lo zigomo. Volo a terra, centinaia di coriandoli danzano davanti agli occhi, il viso mi si paralizza. Qualcosa di caldo mi cola dal naso.
Un velo bianco mi appanna la visuale. Stringo i denti. Non devo svenire…
L’ombra del gigante si avvicina, passi brevi, pesanti.
Mi puntello sui gomiti, ma un piede mi schiaccia la schiena e mi costringe a stare a terra.
Una luce verde si estende sotto il mio corpo, mi abbaglia.
La vista sfarfalla.
Cala il buio.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Sono distesa in un prato, una marea di girasoli mi circonda. Il cielo è una tavola azzurra, illuminata da un sole accecante.
Sollevo il busto.
Accanto a me è inginocchiato un ometto dai radi capelli grigi e una barba che gli arriva fino allo sterno. I suoi occhi sono piccoli, stretti, tipico degli orientali.
Sembra il maestro Fu, ma più giovane, più rampante, senza i suoi acciacchi.
Tra le mani stringe una coppa fumante, all’interno della cenere scoppietta e si tinge di arancione.
Apro la bocca, è secca e impastata. «D-dove mi trovo?»
L’ometto sorride, senza alzare lo sguardo dalla coppa. «Nella tua mente, Marinette.»
«C-Come?»
Stende un braccio. «Questa è una proiezione del potere del Miraculous. Protegge la tua psiche quando subisce dei traumi molto gravi.»
Una folata gelida mi pugnala la schiena e mi dà la pelle d’oca. Lo stomaco mi si attorciglia in preda ai crampi. Abbasso la testa e sgrano gli occhi.
Sono nuda!
Mi avvolgo le braccia intorno al corpo. «Che mi succede? Perché sono qui… senza vestiti?»
L’ometto soffia sulla coppa, il fumo si dirada. «Hai rischiato molto ad affrontare questa minaccia, Marinette. Ne sei uscita a pezzi.» Unisce indice e pollice e disegna un otto nell’aria. «Ora il tuo compito è ricucire uno ad uno questi pezzi e proseguire.»
«Non capisco quello che dice. Si riferisce ai Satiri? Io… io volevo solo aiutare le persone.»
«Il tuo cuore è puro, ma la tua mente è ancora grezza per poter comprendere i tuoi limiti ed estenderli.»
«Ho fallito…»
L’ometto intinge un dito nella coppa, lo solleva. Il polpastrello è avvolto in una specie di crema spumosa. «Trova il tuo io interiore, Marinette. Cambia il tuo modo di pensare e diventa la guerriera imbattibile, degna del Miraculous di cui sei portatrice.»
«Lei chi è? Perché somiglia al maestro Fu?»
«Sono la coscienza del tuo Miraculous. Ho questo aspetto perché è stato lui a guidarti verso il potere della Creazione e da lui hai ereditato la responsabilità di custodire i Miraculous.»
«Cosa… Cosa devo fare?»
«Trova il tuo io, Marinette. E va avanti.» Allunga il dito verso la mia fronte.
Una luce mi abbaglia e crollo distesa.
 
***
 
Un puzzo di medicinali e alcool mi artiglia le narici e mi strappa dall’oblio.
Apro gli occhi. Quello sinistro è ricoperto da un panno umido.
Dalla persiana chiusa a metà filtrano raggi argentati, tende dalle tonalità celesti danzano mosse dal vento.
Accanto alla finestra troneggia il poster di Jagged Stone, nella sua posa classica con una mano sulla chitarra e l’altra sollevata nel gesto delle corna.
Sono nella mia camera.
Deglutisco, la gola è arsa, mi brucia. Ho bisogno di bere.
La porta della camera si apre, nonna Gina entra e la richiude con il tacco del suo stivaletto.
Regge un vassoio con una brocca e un bicchiere in vetro. «Ben svegliata, Marinetta.»
«Nonna…» Muovo il collo, ho i muscoli intorpiditi. «Quanto ho dormito?»
«Un bel po’ mia cara. Quando sono tornata dalla stazione, ti ho trovata qui, nel letto, sofferente: avevi un brutto taglio sul labbro, il naso che colava sangue e ti è salita anche la febbre.» Posa il dorso della mano sulla fronte. «Per fortuna è scesa.»
Adagia il vassoio sul comodino e si siede a metà letto. «È un sollievo vedere che stai meglio. Ho avuto tanta paura.»
Mi ha trovata nel letto. Solo che io non ho idea di come ci sia arrivata. L’ultima scena che ricordo è quel gigante che mi mette al tappeto ed è sul punto di finirmi.
Nonna Gina mi toglie il panno dal viso. «Hai solo un piccolo livido, in pochi giorni andrà via.»
Indico con gli occhi la brocca, è piena di aranciata.
Nonna Gina ne riempie un bicchiere e me lo porge. «È tutta vitamina.»
Ne bevo un sorso: l’aranciata è ben zuccherata e mi rinfresca la gola. Vuoto il bicchiere. «Grazie, nonna.»
«Allora… mi vuoi spiegare che cosa hai combinato per ridurti in questo stato?»
Mi mordo l’interno della guancia. «Ho avuto un calo di zuccheri e… e sono andata a sbattere contro lo spigolo dell’isola in cucina, mentre… mentre ero seduta sullo sgabello. Sì.» Do un colpo di tosse, lo sterno mi manda una fitta di dolore. «Mi sono trascinata fino al letto e poi… buio.»
Nonna Gina inarca un sopracciglio, tre rughe d’espressione le incidono la fronte. «Avresti dovuto subito chiamarmi.»
«Non ci ho pensato. Scusami.»
«Non importa, piccola mia. D’altronde, anche la partenza dei tuoi non è stata una passeggiata.»
Sbatto le palpebre. «Perché?»
«Quei teppistelli che vanno in giro con quelle maschere hanno deciso di assaltare la stazione.»
«E mamma e papà come stanno?»
«Stanno bene. La stazione era solo un diversivo, il loro obiettivo era il sindaco, che purtroppo non se l’è cavata con la sua assurda diplomazia. Non questa volta.»
«Gli è successo qualcosa?»
Nonna Gina scuote la testa. «I vigili del fuoco l’hanno trovato nel suo ufficio, appeso per il collo al lampadario.»
Il cuore accelera. «Oh mio Dio.»
L’hanno ucciso. Non sono arrivata in tempo, sono stata sconfitta da quel gigante e il sindaco ne ha pagato le conseguenze.
Nonna Gina si china e mi schiocca un bacio sulla fronte. «Riposati ora. Ti chiamerò tra un po’ per la cena, hai bisogno di rimetterti in forze. L’unico fattore positivo di tutta questa brutta storia è che hanno sospeso tutte le attività per la giornata di domani, quindi potrai restare qui.»
Mi strizza l’occhio e lascia la stanza.
Mi alzo a metà letto. «Tikki,» sussurro.
Tikki attraversa il legno della mensola e plana sulle mie cosce. «Marinette, come stai?»
Malissimo. «Potrei star meglio, ma non mi lamento visto quello che è successo.» Mi massaggio una tempia. «Mi gira solo un po’ la testa, ma credo sia normale.»
«Stenditi di nuovo.»
Scosto il lenzuolo e tiro i piedi fuori dal letto. «Come ci sono arrivata qui dal municipio? Hai fatto qualcosa tu, vero?»
Tikki distoglie lo sguardo.
«Qualunque cosa tu abbia fatto, te ne sono grata. Non so cosa sarebbe successo se non…»
«Quando ho capito che il tuo interesse su quello che facevano i Satiri stava crescendo esponenzialmente, ho pensato che non avresti perso tempo a tornare subito in azione.» Le antennine si piegano in avanti. «E ho ritenuto saggio ricorrere ad una precauzione, nel caso ti fossi trovata in difficoltà. Così, ho chiesto a Kaalki di seguirti nel caso ti fossi trasformata e di intervenire solo in situazioni senza speranza. Lo so, avrei dovuto avvisarti e avremmo dovuto discuterne insieme, ma eri mentalmente stanca e—»
«Tikki.» Le accarezzo il nasino con la punta dell’indice. «Non sono arrabbiata con te. Non potrei mai esserlo.»
Quindi quella luce verde era il portale di Kaalki. Avendomi vista sconfitta da quel gigante, ha fatto in modo di portarmi via di lì in un batter d’occhio.
Tikki piega le labbra verso il basso. «Ho rischiato molto, agendo in questo modo. Noi kwami non dovremmo usare i poteri senza un portatore che li catalizzi.»
«Hai fatto la cosa giusta, invece. Sono io ad aver sbagliato.»
Artiglio l’orlo della maglietta e lo stritolo. Cosa mi ero messa in testa di fare? Ladybug può sconfiggere solo gli akumizzati di Papillon e solo quello. Una minaccia più letale va oltre le mie possibilità.
Mi alzo e vado all’armadio.
«Marinette, devi riposare.»
«Non ora, Tikki. Prima devo fare una cosa.»
Mi spoglio del pigiama, indosso leggings, t-shirt e ballerine. Apro l’ultimo cassetto, tiro a me la scatola in metallo e la apro con la piccola chiave che porto sempre nella pochette.
Passo il palmo sulla Miracle Box, premo un pois nero, si illumina. Infilo la mano dentro ed estraggo gli occhialini neri, il Miraculous del Cavallo.
Da una sfera luminosa verde si manifesta Kaalki. «Miss Marinette, sono lieto di vederla in salute.»
Agita la criniera. «Salve, Tikki. Il tuo piano ha funzionato a meraviglia.» Si porta uno zoccolo al petto e si esibisce in un inchino. «Ho creato il miglior portale della mia vita.»
Mi lego i capelli in due codini bassi. «Grazie per il tuo aiuto Kaalki.»
«È stato un piacere, Miss.»
Vado allo specchio. L’immagine riflessa è quella della Marinette di Parigi con qualche livido ed escoriazione in più, quella che brandì per la prima volta il Miraculous della Creazione, quella che fallì la prima battaglia contro Papillon ma si riprese alla grande, con l’aiuto essenziale di Tikki e di Chat Noir. Quella innamorata persa di Adrien Agreste, ossessionata da tutto ciò che fa, dice o pensa. Quella disposta ad architettare piani assurdi pur di ottenere le sue attenzioni, salvo poi ritrarsi all’ultimo quando è il momento decisivo.
Quella Marinette che sta proiettando le sue incertezze, i suoi dubbi anche su Ladybug. E l’eroina di Parigi non può permettersi di avere dubbi.
«Tikki, trasformami.»
«Marinette, cosa—»
Tikki viene assorbita negli orecchini. Il mio corpo si avvolge nel costume di Ladybug, una seconda pelle.
Adagio gli occhialini sul ponte del naso. Apro le braccia, a mani aperte. «Tikki, Kaalki, fusione.»
Anche Kaalki viene risucchiato dal Miraculous.
Traccio nell’aria un cerchio con indice e medio. Schiocco le dita e il portale rivela la destinazione.
Balzo all’interno e mi ritrovo su un terrazzino, con una sedia a sdraio e un tavolino in legno impolverato.
Il cielo tinto di rosso si specchia sulla superficie increspata della Senna. Un piccolo gruppetto di studenti sciama all’esterno dell’istituto François-Dupont, terminate le sessioni extrascolastiche del pomeriggio.
Inspiro l’aria di Parigi. Casa.
Dalla strada, giunge lo scampanellio della boulangerie di papà, un odore di dolciumi sale da sotto e mi fa venire l’acquolina in bocca.
Mi riscuoto. Non sono qui per questo.
Lancio lo yo-yo, il cavo si avvolge intorno ad uno dei gargoyle che sorvegliano le guglie di Notre-Dame. Salto sulla ringhiera, strattono lo yo-yo e volo su un terrazzino della cattedrale.
«Ritrasformami.»
Tikki e Kaalki ricompaiono davanti a me, i loro volti trasudano confusione.
Mi siedo a terra, la schiena poggiata contro la parete, all’ombra di un gargoyle. «Lasciatemi sola un attimo, per favore.»
«Marinette…» Tikki allunga una zampetta, ma Kaalki le va vicino e le fa un cenno con la testa. «D’accordo.»
Avvicino le ginocchia al viso e vi poggio contro la fronte. Le lacrime iniziano a scorrere, puntuali proprio come mi aspettavo.
Due persone sono morte a causa mia, perché non sono stata in grado di gestire la situazione. Lontano da Parigi, sono solo un fenomeno da baraccone che fa sfoggio delle sue acrobazie ma non riesce a tenere testa a un tipo palestrato.
«Sono inutile,» mormoro tra i singulti.
Stavolta non c’è Chat Noir a tendermi la mano, a darmi quel coraggio che mi occorre per superare le difficoltà.
«Marinette, non posso vederti così.»
«Forse dovresti trovare un’altra portatrice, Tikki. Una che non cerca di inseguire un sogno impossibile in un’altra città. E dovresti trovare anche una persona più adatta di me per il ruolo di guardiana.»
«Non c’è nessuno migliore di te, Marinette.»
La gola mi si stringe. «Domani chiamerò Sonia, e le dirò che rinuncio al progetto. Lei è in gamba, saprà cavarsela da sola.»
«Finisce tutto qui, allora? Vuoi bruciare in un secondo tutti i tuoi sacrifici?»
«Tikki… due persone sono morte, altre sono rimaste ferite. Sono—»
«Non è stata colpa tua. Sai perché non sei riuscita a gestire i Satiri come facevi con gli akumizzati? Perché non eri concentrata al massimo sulle tue azioni. proprio come quando il maestro Fu venne catturato da Papillon perché tu avevi in mente Adrien e Katami.»
Kaalki si schiarisce la voce. «Beh, come incoraggiamento non è il massimo.»
«Quello che intendo dire è che eri troppo presa dal tenere celata la presenza di Ladybug, oltre che dal pensiero suoi tuoi cari. E questo ti ha destabilizzato, ti ha condotta a compiere degli errori di valutazione.»
Tiro su col naso. «Errori che mi sono costati cari. Però, evviva! Sono riuscita a non svelare che sotto quel berretto c’era la maschera di Ladybug.»
«La colpa è mia, Marinette. Volevo che tu non impiegassi i poteri per combattere quella gente. Sono stata una sciocca: Ladybug non esiste solo per combattere Papillon. Ladybug è il simbolo della giustizia, dell’ordine e tu stessa hai contribuito a forgiare questa immagine. E sarà Ladybug a fermare i Satiri dell’Anarchia.»
Alzo la testa, i due kwami mi appaiono come due macchie rosse e bianche dietro il velo di lacrime. «Vuoi… vuoi che mi riveli a tutti? A Milano?»
«Se cambierai il tuo modo di pensare, non avrai bisogno di preoccupartene.»
Il mio modo di pensare. Le stesse parole che ha usato il Wang Fu giovane del mio sogno. Era questo che intendeva? Se cambierò il mio pensiero, riuscirò a vincere la battaglia?
Mi strofino gli occhi con due dita. «Sapete qualcosa riguardo la coscienza dei Miraculous
Tikki scambia un’occhiata fugace con Kaalki e sorride. «È la guida di ogni portatore che abbia una sinergia completa con il Miraculous. Non te ne ho mai parlato, perché aspettavo che fossi pronta. E, a quanto pare, lo sei.»
Un brivido mi scuote le membra. Il sole espande gli ultimi raggi purpurei, la temperatura sta calando e quassù a Notre-Dame inizia a far freddo.
«Meglio tornare a casa, altrimenti mi risalirà la febbre e stavolta la nonna si arrabbierà sul serio. Tikki, trasformami.»
 
***
 
«Dunque hai sognato una versione più giovane del maestro Fu?»
Annuisco. «Non posso esserne certa, ma direi che qualche anno fa doveva avere pressoché questo aspetto. Era un sogno molto realistico, Tikki. Percepivo ogni cosa intorno a me, e sentivo dentro una grande pace interiore a dispetto di quanto fosse successo prima.»
Tikki addenta il macaron. «È la conferma di quanto ti ho detto: devi tirar fuori la parte sopita di Marinette, quella che di rado riesce a venire fuori.»
«Se almeno sapessi come…»
«È semplice: ricordi quando hai visto per la prima volta Adrien? Ricordi quando Sabrina rubò il tuo diario e Chloé provò a leggerlo? Ricordi ogni singola volta che Lila ti ha rivolto la parola?»
«In pratica, tutte le volte che mi sono infuriata. Stai dicendo che devo diventare un’eroina rabbiosa e aggressiva?»
Tikki rotea gli occhi al cielo. «Non fraintendermi. Non è la rabbia la chiave, è il modo in cui hai affrontato le persone a petto in fuori che conta. Non hai esitato, non ti sei fatta mille domande prima di agire. L’hai fatto e basta. E, se devo dirla tutta, un pizzico di austerità in più non guasterebbe.»
Mi gratto la nuca. Sono più confusa di quanto non lo fossi prima. Cambiare in modo radicale il mio modo di essere è già di per sé un’impresa; farlo in un pomeriggio è impossibile.
«Sai, Tikki, di solito le persone impiegano anni per maturare ed evolversi.»
«Vero. Ma tu hai una validissima motivazione per farlo immediatamente. Anzi, più di una. A partire dai Satiri fino ad arrivare alla conquista di Alessio.»
La saliva mi va di traverso, tossisco. «C-che?»
Tikki trattiene una risatina. «Proprio quello che intendevo. Ammettilo che ti piace e che ha soppiantato Adrien nella tua testa, e pian piano nel tuo cuore.»
«L-lo conosco appena. Non so quali interessi abbia…»
«Gli piace il rock per cominciare.»
«…non so quale sia il suo piatto preferito…»
«È italiano, c’è l’imbarazzo della scelta.»
«…non so quali siano i suoi hobby…»
«Deve piacergli molto la palestra visto il suo fisico.»
«…non so—»
«Marinette!» urla Tikki.
Leon le fa eco abbaiando.
Tikki lo indica. «Credo sia d’accordo con me. Come puoi sperare di cambiare il tuo io se ti fai prendere ancora da questi dubbi?»
«Scusa.» Alzo le mani.
Mi sorprende questa severità da parte di Tikki. È sempre stata molto accondiscendente con me, anche quando i miei viaggi mentali non avevano né capo né coda.
È come se stesse subendo un processo evolutivo che sta cercando di trasmettere a me. A meno che l’anima di Alya non si sia impossessata di lei.
Sorrido al pensiero. Entrambe vogliono aiutarmi e non potrei essere più grata di ciò.
Sullo schermo del pc, compare un video dell’ultim’ora: è il questore che sta parlando in conferenza.
Mi avvicino e alzo il volume dalla tastiera.
«…non ci piegheremo di fronte a tanta violenza. Risponderemo al fuoco col fuoco.» È paonazzo in viso, la vena giugulare pulsante risalta sul collo. «E riserveremo lo stesso trattamento a quel folle ragazzino con il berretto che ha tentato di ostacolare il nostro intervento.» Punta il dito contro la telecamera. «Lo arresteremo e lo processeremo al pari dei Satiri. Grazie, ho finito.»
Chiudo il video.
«Ignoralo, Marinette.»
Pensa che io sia un ostacolo per le forze dell’ordine. Non l’ha dichiarato, ma sono certa che mi ritiene anche in parte responsabile di quanto è successo, altrimenti non avrebbe promesso in diretta di arrestarmi.
Ma gli farò cambiare idea. Non mi va a genio essere trattata come una criminale, quando ho rischiato la vita nel tentativo di salvare delle vite.
Non è giusto.
Stringo i pugni. «Facciamo un tentativo.»
Tikki annuisce convinta.
Chiudo gli occhi, inspiro a lungo e trattengo il fiato. Conto fino a tre. Cambiare, cambiare, cambiare.
Butto fuori tutta l’aria. «Tikki, trasformami.»
Riapro gli occhi. Il mio corpo è ricoperto dalla solita tuta integrale rossa a pois. Lo yo-yo è appeso alla cintola. Porto la mano dietro al collo e le dita sfiorano i fiocchi che legano i due codini. Non è cambiato nulla.
«Ritrasformami…»
Tikki ricompare di fronte a me.
Sbuffo. «Non è andata come pensavo.»
«È solo il primo tentativo. Dovremmo lavorarci su. E devi anche iniziare a pensare a quale immagine vorrai dare di te.»
«Che intendi dire?»
«Finora, trasformarti in Ladybug ti è venuto naturale. Lo fai senza pensarci e questo si riflette anche nell’aspetto che hai da trasformata. Ma se ti concentri, potrai manipolare il costume adattandolo alla tua personalità, al tuo io.»
Trova il tuo io interiore.
«D’accordo. Riproviamo.»

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Il rintocco delle campane del Duomo arriva ovattato attraverso i finestroni dell’aula di chimica. Un miasma di misture strane, simile a frittura scadente, ha invaso l’ambiente. Nessuno osa chiedere alla professoressa Adamanti di aprire le finestre.
Scommetto che anche d’estate, sulla spiaggia, indossa giacca a vento, sciarpa e stivali invernali.
Accomodo la guancia sul pugno. Il composto di bicarbonato di sodio e aceto frigge nell’ampolla, il palloncino giace gonfio sul banco.
Sono l’unica finora ad aver portato a termine l’esercizio odierno. Non credevo che gli altri trovassero tante difficoltà, ma è bello per una volta essere la prima della classe.
Sono tentata dall’alzare la mano e chiedere alla professoressa di uscire per farmi un giro – mi meriterei pure una boccata di aria pulita – ma so che lei me lo negherebbe; quindi, tanto vale aspettare la fine della lezione. Solo la perfida Letizia può ottenere il consenso a uscire dall’aula, anche se non porta a termine i suoi compiti. A lei tutto è concesso. Anche rubare un quaderno da una sua compagna di classe e passarla liscia.
Non ho ancora trovato il modo di affrontarla a viso aperto e chiederle di restituirmelo. Sono più che certa che è stata lei, ma non ho prove e nessuno mi crederebbe. A Sonia non ho detto nulla; per fortuna, il nostro progetto è in rotta d’arrivo, la presentazione è pronta e il capo troneggia semi-completo sul manichino nella mia stanza.
La campanella trilla nel corridoio, sancendo l’inizio dell’intervallo.
La professoressa Adamanti guarda l’orologio e storce la bocca sepolta da un chilo di rossetto magenta. «Può uscire solo chi ha ultimato il compito.» Dopo un’ora a respirare aria viziata, la sua voce querula è il colpo di grazia. «Gli altri resteranno qui.»
Mi alzo dal posto e mostro il palloncino gonfio. Sono ancora l’unica ad aver finito.
Mi avvio in silenzio all’uscita, Juan e Richard sollevano i pollici nella mia direzione sorridendo. Sonia, invece, è china sul libro.
Esco dall’aula e chiudo la porta alle mie spalle. Finalmente un po’ di ossigeno.
Sbadiglio e mi stiracchio.
Gli studenti delle altre aule sciamano verso il cortile interno e mi passano davanti.
Cammino nella direzione opposta alla loro, svolto a destra, verso i bagni.
Controllo lo smartphone: nessuna notizia.
È passata una settimana dall’attentato dei Satiri al municipio. La giunta comunale e il vicesindaco – ora sindaco in carica in attesa delle prossime elezioni –, in accordo con il governatore della regione, hanno conferito al questore poteri decisionali speciali per gestire l’ordine pubblico.
Sarò io strana, ma non vedo alcun cambiamento per le strade. C’è solo tanto timore per il prossimo attacco.
 Questo silenzio da parte dei Satiri mi mette a disagio. L’intuito mi suggerisce che stanno architettando qualcosa di grosso, vista l’ostinazione da parte dei pezzi grossi ad ignorarli, nonostante il decesso del sindaco.
Ad ogni modo, prendo ciò che posso e questo periodo di tregua mi consentirà di lavorare di più su me stessa, sul ritrovare questo benedetto io interiore di cui parlava il Wang Fu giovane.
Oltre a ciò, dovrò anche fare qualche ricerca più approfondita sulla simbologia che utilizzano i Satiri. Magari sarà una perdita di tempo, ma un tentativo posso comunque farlo.
Scendo i pochi gradini verso il bagno delle ragazze e ripongo il cellulare. In biblioteca troverò qualcosa. Ho scoperto che se qualche informazione manca su Google, la biblioteca dell’Accademia ha la risposta. Potrebbe essere paragonata alla leggendaria biblioteca di Alessandria.
Spalanco la porta del bagno con la spalla.
«Queste stoffe fanno schifo!» strilla una voce femminile. «Nemmeno nel più squallido mercatino delle pulci venderebbero questa roba. Io esigo il meglio. Mi sono spiegata, razza di asina ragliante?»
Nell’angolo c’è una ragazza, mi dà le spalle ed è voltata verso l’ultimo lavandino. Ha una cascata di boccoli biondi che le scende oltre le scapole; indossa una camicetta blu elettrico con la scritta GUCCI sul fondoschiena e una gonna a balze. Letizia. Accanto ai suoi stivaletti in pelle giace un rotolo di stoffa verde smeraldo.
«Se ti dico una cosa, tu esegui e basta.»
Chi è la povera vittima che sta subendo questo strazio? Sé stessa nello specchio? Sarebbe capace di arrivare a questo livello di follia?
Mi sollevo sulle punte e sbircio da sopra la sua spalla. Rannicchiata nell’angolo, con la schiena premuta contro le piastrelle del muro c’è una tipa minuta, dai capelli biondi che incorniciano un volto timoroso, ricoperto da una spruzzata di efelidi.
Non l’ho mai vista in giro. Dall’aspetto dev’essere una del primo anno.
Mi avvicino di un passo, stando sulle punte. La ragazza in trappola ha gli occhi gonfi di lacrime, spaccati dai capillari. Trema.
Letizia sbatte il palmo sullo specchio, lo fa traballare, e la ragazza sobbalza per lo spavento.
«Ora stammi bene a sentire.» Letizia sovrasta di tutta la testa la povera vittima. «Appena terminano le lezioni tu vai nella migliore boutique di Milano e compri due confezioni di stoffe pregiate e voli a portarmele a casa, cosicché il mio sarto possa confezionare l’abito per la gara.»
Avvicina il viso alla ragazza. «E prega che Alessio le apprezzi.»
Che imbrogliona! Si fa confezionare l’abito dal suo sarto personale e manda in giro questa povera ragazza a comprare la stoffa. Sommando il fatto che ha rubato il mio quaderno, in definitiva lei non ha fatto assolutamente niente.
La ragazza deglutisce. «Ho b-bisogno che t-tu mi dia i soldi per comprarle.»
Letizia le pinza il naso con indice e medio, lascia la presa e lo schicchera. «Anticipa tu.»
«N-Non ho i soldi.»
«Che poveraccia.» Letizia fa un versaccio. «È l’ultima volta che mi affido a un verme come te.»
Stringo i pugni. È inammissibile che una studentessa tratti in questo modo una ragazza più piccola. Sapevo che Letizia fosse altezzosa, superba e viziata ma non mi aspettavo potesse essere tanto spregevole.
E io che pensavo che dietro quella facciata da donna di mondo si nascondesse un grande talento, al pari di Audrey Bourgeois. Niente è farina del suo sacco.
«Questo errore ti costerà caro.» Letizia calpesta il rotolo di stoffa a terra. «Dovrai pedalare per ottenere la mia grazia.»
Nemmeno Chloè è mai arrivata ad un tale sfoggio di idiozia.
Poso la mano sulla spalla di Letizia. «Potresti piantarla?»
La ragazza strabuzza gli occhi e incassa la testa tra le spalle.
Letizia si volta piano, inchioda i suoi occhi azzurri su di me. «Che vuoi, baguette? Fai i tuoi bisogni in silenzio come un bravo cagnolino e poi sparisci. Non ho intenzione di respirare la tua stessa aria.»
«Allora è qualcosa su cui andiamo d’accordo.» Mi dipingo in faccia il più falso dei sorrisi. «Perché non te ne torni a leccare i piedi a qualche professore, invece di torturare il prossimo?»
Letizia ritrae la spalla e mi fronteggia. Mi soffia in faccia, gettando una zaffata di caffè. «Vedi di farti gli affaracci tuoi baguette.» Fa un passo di lato, mi sfila accanto ed esce dal bagno.
Mi volto e accarezzo il braccio pallido della ragazza. «Stai bene?»
Lei raccoglie in fretta il rotolo dal pavimento e scappa via.
Bel ringraziamento per averla aiutata.
Mi stringo nelle spalle. Almeno ho zittito per qualche ora l’oca giuliva. Una piccola vittoria di cui andarne fiera.
 
***
 
Un violento acquazzone si è abbattuto su Milano nelle ultime ore. Il cielo plumbeo è lo specchio dell’umore della città, sconquassata dalla costante minaccia del gruppo anarchico.
Salgo la scalinata in marmo che conduce alla biblioteca; superata la porta scorrevole, batto le scarpe sullo zerbino e lascio l’ombrello sotto l’attaccapanni, le gocce calano dalla tela e bagnano il rivestimento.
L’ultima notizia che circola è che i cittadini più che spaventati sono furiosi e ostili… nei miei confronti. O meglio, nei confronti di Ladybug, quella figura buffa che non ha fatto altro che causare danni e ostacolare la polizia.
Altro che eroina.
Attendo il mio turno dietro un ragazzo dai capelli rossicci, secco e alto, con spessi occhiali a coprire metà del volto.
Mi torturo l’unghia del pollice. La verità è che al di fuori di Parigi, al di fuori della mia bolla di sicurezza, non sono altro che un fenomeno da baraccone. Mesi ad affrontare akumizzati e sentimostri mi hanno condotta a sovrastimare le mie abilità, e ora tutti i miei limiti sono affiorati.
Tikki non vorrebbe sentirmi ragionare in questo modo, soprattutto dopo gli sforzi che sto facendo per cambiare, ma devo guardare in faccia alla realtà.
Come se non bastasse, ho la strana sensazione di essere osservata. Lancio un’occhiata alle mie spalle, l’ingresso è deserto. Forse sto impazzendo.
Il ragazzo si dilegua tra gli scaffali della biblioteca. È il mio turno.
Poso sul bancone della responsabile, una donna anziana dall’espressione severa con un paio di occhialini da lettura a coprire occhi celesti, la tessera della biblioteca.
«Marinette Dupain-Cheng.» La bibliotecaria digita sul computer i miei dati. «Quali libri desidera consultare?»
«Ci sono dei volumi dedicati alla simbologia? Qualcosa che spieghi il significato di—»
«Qui può trovare di tutto, signorina.» La bibliotecaria muove il mouse, seleziona dei dati. La stampante vomita un foglio con una breve lista. Lei me lo porge. «Questi sono tomi per i quali non è consentito il prestito. Potrà solo consultarli all’interno del locale biblioteca e non è permesso effettuare foto con lo smartphone.» Allunga una mano rugosa. «Devo chiederle di consegnarmelo.»
Con riluttanza, annuisco. Dovrò fare affidamento al quadernetto degli appunti che ho con me e alla mia capacità molto ristretta di sintesi. Recupero dalla tasca il cellulare e lo consegno alla signora. Prendo il documento e scorro la lista avviandomi agli scaffali.
 
***
 
Poso i libri su un tavolo libero – più di tre non riuscivo a portarne senza rischiare di farli cadere, rovinarli e incappare in sanzioni che non posso permettermi di risarcire – e tiro fuori dallo zaino a tracolla il quaderno per gli appunti e una penna biro.
Inchiodo i palmi sui libri e volto la testa di scatto. Sul corridoio opposto al mio, un’ombra imponente e incappucciata scompare dietro uno scaffale.
Mi passo una mano sulla fronte. È confortante sapere che il mio intuito funziona e che non sto impazzendo sul serio; sarei più tranquilla, però, se sapessi chi è che mi spia.
Scuoto la testa. Ci penserò dopo.
Mi accomodo su una sedia, alle mie spalle un enorme finestrone ad arco affaccia sulla piazzola dell’Accademia. Da questa posizione, posso anche tenere d’occhio i corridoi di fronte.
Non credevo che la biblioteca fosse tanto frequentata, ma io sono abituata a quella dell’istituto François-Dupont, dove al limite ci si trova Max o Sabrina intenti a studiare, o Mylene e Ivan quando vogliono dei momenti di privacy.
Apro il primo volume con cura: è un tomo dal titolo Simboli esoterici pagani, le pagine sono ingiallite dal tempo ma sono tenute integre in modo esemplare.
Sfoglio le pagine alla ricerca di quel maledetto simbolo. So per certo che se ne capirò il significato, sarò anche in grado di architettare una strategia d’attacco. Voglio e devo convincermi che sia così.
Mi soffermo su una pagina: al centro risalta l’immagine di un semicerchio nero che sfuma nel bianco man mano che ci si avvicina ai bordi. Dal centro si dipanano delle punte simili a frecce. Non è proprio uguale a quello che ho visto sul collo del gigante, ma il disegno è simile.
Scorro con l’indice le righe, alla ricerca del significato metaforico di questo simbolo.
Un movimento attira la mia attenzione.
Sollevo la testa e mi ritrovo a fissare gli occhi neri di Alessio Tancredi, cappuccio sulla testa. Indosso ha una felpa con zip bianca, chiazzata dalla pioggia all’altezza delle spalle, e dei jeans scuri tenuti da un cinturone di Gucci. Il volto è contratto in un’espressione cupa.
Era lui che mi seguiva? «Alessio? Cosa fai qui?»
«Vagavo un po’ per i locali in cerca di riparo dalla pioggia.» Si toglie la felpa e la adagia sullo schienale di una sedia. Sotto porta una t-shirt nera che gli lascia scoperte le sue braccia scolpite. Distende i tratti del viso. «Non speravo di incrociare un’angelica fanciulla cervellona, ma direi che mi va bene così.»
Ammicca e le mie gote avvampano.
Alle sue spalle sfila la bibliotecaria: gli batte due dita sulla spalla, si porta l’indice davanti alla bocca e soffia aria tra i denti stretti, intimandogli il silenzio.
Alessio congiunge i palmi e china il capo.
«Permetti?» Alessio indica la sedia dove ha adagiato la felpa. Si siede senza nemmeno aspettare il mio assenso.
Un ricciolo color ebano gli danza sulla fronte. «Dunque, quali studi arcani ti conducono in questo luogo?»
«Una ricerca sulla simbologia,» sussurro. Non è un granché come scusa, ma è la prima che mi è balenata nella testa e sembra che a lui vada più che bene.
Evito di incrociare il suo sguardo e mi rituffo tra la moltitudine di frasi scritte in latino alternate da sporadiche traduzioni in italiano. La sua spiegazione non mi ha convinto del tutto, ma non riesco a comprendere che motivo avrebbe di seguirmi. Magari, lui si trova davvero qui per caso: la sua stazza possente, il cappuccio e la mia paranoia mi hanno indotta a conclusioni errate.
Allungo il braccio per prendere la penna, il polso urta uno dei libri che ho messo di lato e lo fa cadere a terra con un tonfo che rimbomba per l’intera biblioteca.
Accidenti alla mia sbadataggine!
Mi chino per raccoglierlo, ma il libro sfila via e mi ritrovo a fissare le piastrelle del pavimento.
Alzo la testa, il volto sorridente di Alessio è a un palmo dal mio, il suo respiro mi solletica le labbra.
Schiudo le labbra, il cuore mi martella nelle orecchie, la pelle mi brucia.
«Signori!»
Sobbalzo sulla sedia, Alessio si allontana e si volta.
La bibliotecaria ha i pugni sui fianchi e batte a terra la punta della scarpa. «Questo non è un luogo per incontri romantici. Questa è una biblioteca.»
Alessio si rizza in piedi. Diamine, quanto è alto. Guarda la bibliotecaria con l’espressione mortificata. «Mi scusi. È colpa mia. Le prometto che non creerò altri disturbi.»
La bibliotecaria mi scocca un’occhiata di fuoco. «Lo spero per voi. Al prossimo richiamo sarò costretta a cacciarvi.»
Alessio china il capo. «La ringrazio per la sua pazienza.»
Lei gira i tacchi e scompare nel corridoio.
Mi sventolo il volto con la mano. Dubito che questo calore che avverto sia dovuto ai termosifoni.
Alessio fa roteare il libro nella mano e lo riadagia sul tavolo. «Sei un’appassionata di culture pagane? Sortilegi, stregonerie…»
«N-no, i-io so-sono…»
«Perdonami, non era mia intenzione disturbarti mentre studi.»
Prendo un profondo respiro e gli sorrido. «Non c’è problema.»
Lo invito a sedersi e lui si accomoda.
La sua espressione diviene seria. «Se vuoi, posso darti una mano con la tua ricerca. Ho una certa esperienza riguardo scienze esoteriche e antiche.»
Nonostante il continuo tambureggiare nel petto, accolgo con piacere la sua offerta. Grazie a lui, potrei ridurre di tanto il tempo che avrei passato sui libri alla ricerca di qualcosa che non sono nemmeno sicura di trovare.
Tiro a me il quaderno e la penna. Prendo a disegnare il marchio che quel tipo aveva sul collo, nella speranza che Alessio ci capisca qualcosa.
Terminato il disegno, glielo mostro.
Alessio assottiglia lo sguardo. Pianta il palmo sul foglio e lo rovescia. «A me sembra un pavone.»
Spalanco la bocca. «Come?» Mi copro le labbra con le mani e incasso la testa. Forse ho urlato troppo.
Alessio mi sorride e spinge il foglio nella mia direzione. «Guarda. Non so perché sia rovesciato, ma la sagoma è proprio quella di un pavone. Il simbolo della superbia.»
Non riesco a crederci. Come ho fatto a non pensarci prima?
In effetti, ora che è capovolto, quel simbolo ricorda proprio un pavone. E Alessio ha detto che rappresenta il simbolo della superbia.
«Sei convinta?»
Annuisco. «Ti ringrazio, Alessio. Sei stato fenomenale; probabilmente io ci avrei messo giorni prima di arrivarci.»
Ammicca. «A tua disposizione, bella streghetta.»
Mi avvicino a lui e gli schiocco un bacio sulla guancia, non devo nemmeno chinarmi per essere alla sua altezza.
Lui mi attrae a sé e ricambia il gesto. Un po’ più a destra e mi avrebbe sfiorato le labbra.
Arretro, alzo le mani e raccolgo in fretta tutta la mia roba. Devo allontanarmi immediatamente da qui o rischio l’infarto.
Prendo sottobraccio i libri, incespico nei piedi ma riesco a mantenere l’equilibrio. «A p-prestino, a-a presto, Alassi… Alessio.»
Accidenti a me. Che problemi ho con i modelli? 
 
***
 
Attraverso a grandi falcate il corridoio deserto che separa le aule di chimica dai bagni, la pochette oscilla e mi batte sul fianco.
Scuoto la manica destra, inzuppata di caffè solubile mescolato ad altre sostanze di cui non voglio sapere la provenienza. Se non mi sbrigo a metterla sotto l’acqua corrente, la macchia non andrà più via, ne sono certa.
La Adamanti oggi si è sbizzarrita con le esercitazioni in classe, assegnando compiti di una difficoltà estrema. Risultato: la mia ampolla ha traboccato e ora rischio di rovinare per sempre la mia maglietta. Almeno ho avuto la grazia di poter uscire prima.
Sarà stata la frustrazione della lezione di ieri, in cui solo io e altri due studenti siamo riusciti a gonfiare il palloncino. Qualcuno dovrebbe dirle che non è incrementando la difficoltà che renderà la sua materia piacevole ai ragazzi, anzi.
Entro nel bagno. Non c’è nessuno.
Sfilo il gilet di jeans, lo appendo alla maniglia e mi libero della maglietta. La getto nel lavandino e indosso di nuovo il gilet di jeans. Non è poca la quantità di pelle che mi lascia scoperta, ma non mi espelleranno per questo. In fondo, fa anche abbastanza caldo.
Apro il lavandino, il getto d’acqua impregna la maglietta. Strofino forte la manica, la macchia inizia a schiarirsi. Se non dovesse andar via, potrei tagliare la parte rovinata e cucirne una nuova.
La porta del bagno si apre, un rumore di tacchi risuona dal pavimento e si ferma proprio alle mie spalle.
Sollevo la testa. Lo specchio sopra al lavandino rimanda il mio volto e, sullo sfondo, quello di Letizia. Qualcuno lassù deve odiarmi.
Mi volto. «Cosa posso fare per te?»
«Voglio chiarire alcune cose.» Preme un’unghia smaltata di bianco contro il mio sterno. «Non ti conviene avermi come nemica, devi stare attenta a come ti muovi.»
«Alludi forse a quello che ho visto e sentito ieri? Precisamente, ti riferisci al modo in cui hai trattato quella povera ragazza oppure al fatto che al progetto tu stai solo mettendo la firma in calce, senza aver alzato un dito?»
La palpebra sinistra di Letizia ha uno spasmo.
«Come pensavo. Puoi stare tranquilla, Letizia. Non ho intenzione di mettere i manifesti in giro. L’esatto opposto di quello che faresti tu a ruoli invertiti.»
«Senti, baguette—»
Le schiaffeggio la mano e serro i denti. «Il mio nome è Marinette. Dupain. Cheng. E sono stufa del tuo atteggiamento altezzoso e prepotente. Nessuno dovrebbe essere trattato come quella povera ragazza. Ma l’hai vista? Era terrorizzata dalle tue minacce.»
Letizia contorce la bocca. «Era mia cugina, con lei faccio quello che mi pare.»
«Interessante sapere che tratti i parenti come se fossero i tuoi schiavi personali.» Mi giro e chiudo il rubinetto, ormai la maglietta è inzuppata del tutto. «Ancora non riesco a comprendere cosa vuoi tu da me. Ho persino lasciato perdere la faccenda del quaderno.»
«Quale quaderno? Di che accidenti parli?»
Stritolo la maglietta, un rivolo d’acqua cade nel lavandino. «Sai benissimo a cosa mi riferisco.» Le scocco un’occhiata da sopra la spalla. «Io almeno ho meritato l’ammissione all’Accademia.»
Se è poco furba come lo fu Chloè all’epoca, non si accorgerà che in ogni capo che disegno, aggiungo la mia firma sulla stoffa.
Strizzo un’ultima volta la maglietta. Mi avvio all’uscita, facendo attenzione a non sfiorare Letizia o il suo veleno mi contagerà.
Lei mi afferra il polso. «Sta’ alla larga da Alessio Tancredi.»
Dunque, è questo il succo del discorso. Qualcuno deve averle riferito dell’incontro tra me e Alessio in biblioteca. A lei non interessa che io possa parlare con qualcuno di quanto ho visto ieri, dell’atto di bullismo nei confronti di quella ragazza – che dubito sia la cugina – o che si diffonda la voce che lei sia un’imbrogliona, una scansafatiche che non alza un dito. Sa solo diramare ordini.
Mi libero con uno strattone. «Alessio è libero di frequentare chi vuole. Se preferisce la mia compagnia alla tua, dovresti farti un paio di domande. Magari, ripensa al modo in cui tratti le persone.»
Esco dal bagno senza darle la possibilità di replica.
Accidenti che nervoso. In questo momento, se ci fosse Papillon, sarei una vittima facilissima.
Sciolgo i codini e scuoto i capelli, lasciandoli sciolti sulle spalle.
Salgo gli scalini, mi dirigo verso l’ultimo piano. Ho bisogno di prendere una boccata d’aria senza nessuno che mi disturbi. Per fortuna, l’accesso al terrazzo è consentito a tutti gli studenti, salvo diverse disposizioni della direzione.
La Adamanti non noterà nemmeno la mia assenza prolungata. È troppo impegnata a concedere permessi speciali a Letizia, sebbene la migliore del corso sia io e l’ho dimostrato in più di un’occasione. 
Lungo la tromba delle scale incrocio un paio di ragazzi dell’ultimo anno. Si voltano a guardarmi e mi rivolgono un paio di fischi di approvazione, le loro facce sembrano quelle di Juan e Richard quando divorano i pasticcini.
Stringo le braccia al corpo e proseguo la salita. Cosa non fa un po’ di reggiseno in vista.
Raggiungo l’ultimo piano, spingo il maniglione antipanico ed esco sul terrazzo. L’aria è molto pesante, il cielo è plumbeo ma non piove.
Alla fine, togliere la maglietta è stato un bene.
Apro la pochette. «Devo comprarmi un bel sacco da boxe, per scaricare un po’ di stress o Letizia non arriva a fine anno con tutti i capelli sulla testa.»
Tikki si affaccia sulla cerniera. «Te la sei cavata benissimo, invece, Marinette. Le hai risposto con eleganza e classe e, allo stesso tempo, l’hai messa al suo posto, proprio come farebbe una ragazza matura. Non mi aspettavo nulla di meno da te.»
«Allora perché non mi sento soddisfatta?»
«Anche un santo farebbe fatica a sopportare Letizia. Tu sei riuscita a mantenere un self control invidiabile. Sono fiera di te.»
«Credi che basterà per il nostro “cambiamento”?»
Tikki mi strizza l’occhio. «Un passo alla volta.»
Stendo la maglietta pinzandola per le spalle. La macchia è scomparsa, aloni di bagnato la chiazzano sui fianchi e all’altezza del petto. «E oggi, oltre alla chimica, abbiamo ricoperto anche il ruolo della lavandaia.»
Un trillo fortissimo risuona all’interno dell’edificio. È l’allarme incendio. Oggi, però, non erano previste esercitazioni.
Tikki svolazza dalla pochette e mi sorride.
Ho le mani che mi tremano. «Credi sia l’occasione per…»
«Non sono io a doverlo dire.»
Ha ragione. Evolversi significa anche abbracciare la responsabilità delle mie decisioni. «Tikki… trasformami.»

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Un formicolio mi sale lungo la schiena, mi attraversa gli arti. È come se il potere del Miraculous si sia manifestato in tante piccole coccinelle luminose che zampettano sul mio corpo.
L’energia mi scorre forte nei muscoli. Non ho mai avuto una sensazione così quando mi trasformavo in Ladybug.
La luce si attenua.
Sulle mani sono spuntati dei guanti neri che lasciano scoperte le dita ricoperte dal costume rosso.
Un cappuccio mi ricopre la testa; mi sfioro il viso con i polpastrelli, anche la maschera ha una forma diversa. Ai piedi porto un paio di stivaletti con un tacco a punta.
Ha funzionato!
Sono riuscita a far emergere un altro lato della mia personalità e ciò si è riflesso nella trasformazione.
Ora, però, devo pensare all’allarme.
Mi affaccio alla ringhiera del terrazzo. Dall’ingresso principale e da quello che conduce al cortile interno, i gruppi di studenti sciamano all’esterno guidati dai rispettivi insegnanti. Nessuno sembra preoccupato, solo un po’ spaesati per questo fuori programma.
Al centro del cortile, c’è la mia classe con la Adamanti che continua a dare indicazioni ad ogni studente. Non vedo tra loro Letizia. Forse, ha approfittato della situazione per pensare ai suoi affari.
Spero che nessuno si accorga della mia momentanea assenza.
Un odore di nafta mi aggredisce le narici. È come se mi trovassi accanto ad un aereo in procinto di partire, è fortissimo.
Il nuovo potere deve aver incrementato anche la potenza del mio olfatto.
Vado alla porta e scendo le scale. Seguo l’odore attraverso i corridoi, si fa man mano più forte.
Mi fermo ad un angolo e sbircio. Dall’aula di chimica dove stavo seguendo la lezione della Adamanti proviene una nuvola di fumo grigiastro.
Di sicuro è quella la causa dell’allarme.
Ma cosa stanno combinando lì dentro?
Mi avvicino rasentando il muro, giungo all’uscio; l’aria è irrespirabile, mi copro bocca e naso con un braccio. Recupero dalla cinta lo yo-yo – almeno questo non è cambiato dalla classica trasformazione – attivo la funzione “Ossigeno” e lo fisso sul muso. Posso respirare.
Lancio un’occhiata all’interno dell’aula.
Due tizi muniti di maschera antigas e berretto bianco riempiono le ampolle con una sostanza nera e viscosa. La reazione del composto chimico provoca questo odore nauseabondo e genera la nube di fumo.
Uno dei due si spolvera i pantaloni, ha le mani avvolte in guanti da lavoro color ocra. «Credo che possa bastare. Non dobbiamo esagerare o i vigili del fuoco non crederanno ad un incidente.»
L’altro solleva i pollici.
Entrambi si spostano verso la cattedra, si avvicinano a due borsoni che giacciono ai piedi della sedia del docente. Li raccolgono e si avviano all’uscita.
Mi allontano di corsa e vado a nascondermi dietro al distributore di bibite al mezzano di corridoio.
I due tizi si incamminano verso il lato opposto al mio, verso la presidenza. Sulla loro schiena è disegnato un simbolo: un cerchio nero da cui si dipanano delle piume, con al centro la testa di un pavone rovesciato.
Satiri.
Cosa avranno in mente? Di sicuro nulla di buono.
Li seguo.
Giunti davanti alla porta della presidenza, il tipo con i guanti ocra sfila dalla tasca un mazzo di chiavi e lo fa tintinnare. «Il nostro ragazzino ha fatto un ottimo lavoro.»
L’altro mugugna qualcosa di incomprensibile.
«Ora è in mezzo a tutti gli altri.» Guanti Ocra infila una chiave nella toppa, ma è quella sbagliata. «È bravo a confondersi tra gli studenti. E chissà che con i suoi volantini di propaganda non sia riuscito a conquistare l’attenzione di qualcuno, magari che si possa unire a noi.»
Trova la chiave giusta e insieme penetrano nell’ufficio del preside.
Digrigno i denti. È partito tutto da quel ragazzo che distribuiva volantini nell’aula studio. Se non avessi taciuto riguardo il contenuto, magari…
Scuoto la testa. Non è il momento per i rimpianti.  
I due uomini ficcano le braccia nei borsoni e ne estraggono delle piastre da cui pendono fili elettrici; su ognuna di esse campeggia un display digitale circondato da piccole lampadine rosse.
Li posano sulla scrivania e tornano a estrarre roba dai borsoni. Stavolta tirano fuori delle lastre, simili ai lingotti d’oro che si vedono nei telefilm di rapine ai caveaux. Dubito, però, che quelli siano lingotti.
E se quelle piastre hanno dei display e dei fili…
Oh, mio Dio! Sono esplosivi!
Mi piazzo davanti alla porta. «Ehi, voi due!»
 I tizi si voltano a guardarmi, quello dal mugugno facile lascia cadere un lingotto nel borsone.
«Attento, idiota.» Guanti Ocra gli tira uno scappellotto sulla nuca facendogli volare il berretto. «Un errore e saltiamo tutti in aria.»
Avevo visto giusto allora.
Nella mano di Guanti Ocra compare un coltellino a scatto. «Chi accidenti sei? Una modella per cosplay?»
«Sono Lad—» Mi mordo la lingua. «Sono quella che vi darà tante sculacciate se non ve ne andate immediatamente.»
Ecco: mi sono trasformata nella versione femminile di Chat Noir…
Guanti Ocra affonda il colpo per primo. Mi sposto di lato e gli stringo un braccio al collo, facendogli piegare in avanti la colonna vertebrale. Punto un piede a terra, lo proietto oltre la mia schiena e lo schianto a terra.
Mugugno carica un colpo nella speranza di cogliermi di sorpresa. Respingo il pugno con il polso e piazzo il tacco destro sul suo petto. Scatto in avanti, le spalle cozzano contro la maschera antigas spaccandola in due. Lo spingo a terra.
Alle mie spalle, Guanti Ocra grugnisce di rabbia. Si alza e mi salta addosso. Ruoto le gambe, affondo un gomito nello stomaco dell’avversario. Artiglio la maschera antigas e gliela strappo, rivelando un volto glabro deturpato da una grossa escoriazione da bruciatura.
L’altro tizio mi placca da un lato e finiamo entrambi a terra.
«Tienila!» urla Guanti Ocra.
Il tizio mi avvolge con le sue braccia, ma io gli scaravento un diretto sul naso. Approfittando del suo stordimento, contraggo l’addome e ruoto il busto per liberarmi.
Guanti Ocra cala un fendente dall’alto con il coltello. Gli blocco il polso serrandogli intorno le dita, il ginocchio incontra il suo mento. Guanti Ocra si accascia sulle ginocchia. Gli appoggio il tacco sulla fronte e con un’unica spinta lo faccio cadere di schianto sul pavimento.
«A voi penserà la polizia.» Io devo pensare a quell’altro.
 
***
 
Mi calo con lo yo-yo lungo la parete dell’edificio che affaccia sul parcheggio. Da questa posizione, nessuno può vedermi dall’ingresso.
Atterro sull’asfalto, lungo la discesa che conduce al sottopassaggio. «Ritrasformami.»
Il fascio di luce mi riporta alla forma civile. Tengo la pochette aperta e Tikki vi si infila dentro. Avremo modo di parlare del nuovo look più tardi.
Raggiungo lo spiazzo all’ingresso, camminando radente al muretto, e mi mescolo ai gruppi di studenti: sono le classi dell’ultimo anno e quelli del primo. Gli altri, compresi i miei compagni, si trovano nel cortile interno.
Stando qui, ho un alibi sulla mia assenza nel gruppo classe. Posso dire che, sentendo l’allarme e trovandomi lontana dall’aula, ho preferito adottare le norme di sicurezza e accodarmi ad un'altra classe. Durante le esercitazioni, ci hanno ripetuto questa regola un milione di volte, la Adamanti non avrà nulla da obiettare.
I due ragazzi che ho incrociato sulle scale mi rivolgono un cenno, uno dei due si cala gli occhiali da sole sulla punta del naso e mi strizza l’occhio. L’altro dà di gomito agli altri amici della combriccola e alcuni di loro mi inchiodano gli occhi addosso.
Mi ero dimenticata del mio outfit “molto estivo”. Mi avvolgo le braccia al torace e cammino tra la folla.
Non devo farmi notare mentre scruto ognuno di loro in viso nella speranza di trovare il tizio dei volantini.
La camionetta dei vigili del fuoco arriva a sirene spiegate. Il cancello si apre, la camionetta lo attraversa e parcheggia davanti all’ingresso. Tre pompieri scendono dal veicolo e si accostano al preside e alla vicepreside che sono andati loro incontro.
Parlottano per qualche secondo, il preside indica un punto in alto, verso il secondo piano, dove una finestra vomita il fumo grigiastro dell’aula di chimica.
Mi strofino le mani l’una contro l’altra. È snervante sapere cosa ha provocato l’allarme, ma non poter dire nulla. Prima di lasciare quei due, legati, nella presidenza, ho effettuato una chiamata anonima alla polizia segnalando la presenza di due Satiri dell’Anarchia all’Accademia Bellerofonte.
La centralinista ha detto di essersi appuntata la segnalazione, ma l’istinto mi suggerisce che, se mai ha scritto un appunto, questo è finito dritto nel cestino dei rifiuti. Di segnalazioni così ne arriveranno a frotte, conoscendo la tendenza di molti mentecatti a fare scherzi o di quelli paranoici che si spaventano al minimo movimento strano.
I tre pompieri si armano di estintori e penetrano nell’edificio.
Mi dirigo verso il gruppo di studenti del primo anno, tra di loro riconosco la cugina di Letizia. Ha lo sguardo basso, i capelli biondi raccolti sulla testa grazie a una matita.
Potrei andarle vicino e chiederle come sta, ma sono pressoché certa che mi ignorerà del tutto, pur di far contenta quella strega del male che si ritrova come cugina. Spero che crescendo non diventi come lei.
Scocco un’ultima occhiata in giro. Del ragazzo dei volantini nemmeno l’ombra. Se quanto detto dal Satiro corrisponde alla verità, allora deve trovarsi in mezzo ai ragazzi del cortile interno. 
Una mano si posa sulla mia spalla. «Ehi, scusami.»
Mi volto di scatto.
È il ragazzo che prima mi ha fatto l’occhiolino. Ha i capelli castani a spazzola, tenuti su dalla gelatina, e un naso all’insù. Porta una maglietta bianca di cotone e dei jeans a vita bassa.
Gli sorrido. «Sì?»
Il ragazzo si porta una mano dietro alla nuca. Per un attimo mi ricorda lo stesso atteggiamento che assume Adrien quando è in imbarazzo. «Perdonami, ti ho vista che vagavi tra di noi e volevo sapere se potevo esserti d’aiuto in qualcosa.»
Elaboro in un baleno una scusa plausibile. «Cercavo una mia compagna di classe, Letizia Iorio.»
Il ragazzo stende le labbra in un mezzo sorriso. «L’ho vista poco fa sbraitare con un professore. Sei per caso una sua amica?»
«Me ne tengo volentieri alla larga.»
«Oh, ne sono lieto. Sai, non è il massimo della simpatia.»
«Non dirlo a me.» Del tizio dei volantini, non ve n’è traccia. Qualcosa mi dice che si è dileguato sfruttando la confusione. Il suo compito era solo far scattare l’allarme e lasciare strada spianata a quei due.
Il ragazzo fa un passo nella mia direzione. «Sei libe—»
Alzo una mano. «Perdonami, ma ora devo raggiungere la mia classe.»
Mi spiace dover essere scortese, ma non sono dell’umore adatto per intavolare una conversazione.
 
***
 
Chiudo la mano a pugno sulla pallina da tennis. La lancio contro il muro; rimbalza e torna indietro.
Non riesco ancora a concepire il fatto di essermi fatta sfuggire il ragazzo dei volantini. La sua presenza è un potenziale pericolo all’interno dell’Accademia e il tentativo di quei due Satiri ne è la dimostrazione.
Lascio cadere la pallina e mi stendo sul letto.
Forse avrei dovuto torchiare uno dei due e farmi dire quali sono i loro piani, cosa stanno architettando. L’organizzazione dei loro attacchi è studiata nei minimi dettagli e, per farlo, serve tempo. Dunque, è palese che abbiano preparato ogni singolo movimento da giorni e che abbiano già in mente qual è il prossimo obiettivo da colpire per fare male, molto male.
Intreccio le dita e le faccio scrocchiare. Qualsiasi siano le loro intenzioni, mi farò trovare pronta.
Tikki atterra sul mio petto. «Come intendi muoverti, Marinette?»
«Escluderei eventuali ronde come facevo a Parigi. Nonostante il successo di oggi, preferisco che si mantenga ancora un certo silenzio intorno alla figura incappucciata che combatte i Satiri.» Sollevo il pollice. «In primo luogo, i cittadini sono ancora inviperiti per quanto successo alla stazione e al municipio e il questore ha trovato in me – o Ladybug se preferisci – il capro espiatorio per il loro fallimento. Farmi vedere in giro, alzerebbe solo altri polveroni e distrarrebbe tutti dall’obiettivo principale» Sollevo l’indice. «Secondo: per ora i Satiri si sentono al sicuro dalla minaccia di un avversario che può combatterli. L’effetto sorpresa è fondamentale in questo frangente.»
Mi levo sui gomiti. «Se non ti dispiace, vorrei ammirare meglio il mio nuovo look.»
Tikki si libra in volo. «Sono pronta.»
«Tikki, trasformami.»
Il fascio di luce rossa mi investe in pieno e ricopre il mio corpo. Ai piedi compaiono gli stivaletti neri con il tacco, un cappuccio mi copre la testa.
Apro l’anta dell’armadio e mi specchio. Come avevo immaginato, la maschera ha una forma diversa rispetto al solito: anziché essere una striscia rossa a pois, adesso vi sono due mezzelune nere che si uniscono al centro degli occhi, e altre due mezzelune color magenta che scendono lungo gli zigomi e terminano appena sopra la mascella.
Il busto è avvolto in un top rosso che mi lascia la pancia scoperta; sopra indosso una giacchetta nera a collo alto tenuta stretta in vita da un cinturone, a cui è apposto lo yo-yo. Le gambe sono strette in un paio di leggings neri e terminano con i due stivaletti con il tacco a punta.
Ho un aspetto completamente diverso rispetto a quando mi trasformo in Ladybug. E mi piace da morire.
Qualcosa gratta al di là della porta della stanza. Dev’essere Leon che chiede di entrare. Con tutte le mie elucubrazioni, l’ho lasciato fuori.
Mi liscio il colletto della giacca e annuisco alla mia immagine riflessa.
Vado alla porta e la apro.
Nonna Gina si staglia di fronte a me, con la bocca spalancata. «Marinetta? Come ti sei combinata?»
Deglutisco. E ora cosa le racconto?
Leon zampetta tra le mie gambe, annusa le punte degli stivali e scodinzola.
«I-Io…» Mi mordo il labbro inferiore. «I-io stavo provando…»
«Stavi provando una tua creazione?» Nonna Gina inarca un sopracciglio. «E come mai indossi anche una maschera?»
«F-fa parte del look.» Sospiro e mi mordo l’interno della guancia. «Va bene, è una bugia.» Mi scosto di lato. «Entra, ti spiegherò tutto.»
Nonna Gina esita per un istante, la sua espressione è un misto di stupore, confusione e curiosità. Entra in camera e va a sedersi sul letto.
Chino la testa, lascio le braccia penzoloni lungo il corpo. «Promettimi che non dirai a nessuno quanto sto per dirti.»
«Marinetta, io non capi—»
«Promettimelo, nonna. Ti prego.»
Nonna Gina abbozza un timido sorriso. «Lo prometto.»
Prendo un lungo respiro. È una decisione che potrebbe cambiare per sempre la mia vita e quella della nonna. Ma se davvero voglio cambiare, se davvero voglio invertire la rotta, devo anche cambiare il mio modo di pensare, agire secondo schemi che prima non avrei mai preso in considerazione e prendermi la responsabilità delle mie nuove scelte.
«Marinetta, mi stai spaventando. Stai bene?»
«Nonna… io sono Ladybug.»
 
***
 
Guardando l’espressione vacua della nonna, pensavo stesse per avere un infarto alla mia rivelazione. Diamine, le ho appena detto di essere una tizia che veste una tutina rossa a pois, che gira sui tetti di Parigi affrontando strambi individui aventi poteri magici. Una ragazza che affronta un terrorista che si nasconde chissà dove, con una maschera grigia e amante delle farfalle.
Non è certo qualcosa che una nonna sente dire dalla nipote di consueto.
Invece, nonna Gina si è alzata e mi ha abbracciata talmente forte da stritolarmi.
«Sono così fiera di te, Marinetta.»
Deglutisco. «Quindi, non sei arrabbiata? O spaventata per quello che faccio?»
«Perché dovrei essere arrabbiata? Salvi ogni giorno migliaia di vite, sei un esempio per tutti, un simbolo di giustizia.»
Le parole della nonna mi scaldano il cuore e fanno riecheggiare anche tutte le volte che Tikki mi ha ripetuto queste stesse frasi.
Io sono un simbolo di giustizia. Non devo dar conto alle voci che circolano in questo momento su di me, sul fatto che il mio intervento può aver in qualche modo ostacolato il normale decorso della legge. Sono loro a non saper affrontare una minaccia così grave, al punto da costringermi ad intervenire.
Nonna Gina mi stringe le spalle e mi osserva con occhi scrutatori. «Però… quando ti ho vista a Parigi avevi un aspetto diverso.»
«Ho cercato di cambiare il mio modo di approcciarmi alle difficoltà e ciò ha influito anche sul mio costume.» Faccio spallucce. «È positivo anche per tenere la mia identità nascosta; difficilmente qualcuno collegherebbe Ladybug a… beh, tutto questo.» Faccio scorrere le mani lungo la giacca e i leggings.
«Saggia scelta, nipotina.» Nonna Gina mi strizza l’occhio e va a riaccomodarsi sul letto. «Non posso negare che un leggero timore ce l’ho al pensiero che tu vada in giro a combattere il crimine. Ma so anche che se c’è una persona in grado di prendersi questa responsabilità, sei tu.»
«Ci ho messo un po’ per capire questa verità, nonna. Per fortuna, ho avuto un valido aiuto.» Sorrido. «Ritrasformami.»
Tikki si manifesta dagli orecchini e svolazza accanto alla nonna.
«Lei è Tikki, il kwami che mi dona i poteri della Creazione attraverso questi», pinzo il lobo per mostrare uno dei due orecchini, «gli orecchini della Coccinella.»
Tikki si esibisce in un inchino. «Piacere di conoscerla signora Gina.»
Sul viso di Nonna Gina affiora un’espressione di manifesta gioia. Accarezza il capo di Tikki e le tira una guancia. «Piacere mio, piccolina.» Torna a guardare me. «Quindi, quello sarebbe un Miraculous.»
Annuisco. «Proprio così. Mi è stato affidato circa due anni fa da un uomo di nome Wang Fu. Vedi, nonna, lui era il custode di tutti i Miraculous e, non appena a Parigi comparve Papillon, decise di donare i due più potenti a due ragazzi che fossero in grado di brandirne il potere. Una fui io e l’altro…»
«È quel bel ragazzo biondo con la maschera nera. Chat Noir.»
«Già. È forse il mio più caro amico, al pari di Alya. Senza di lui, molte delle battaglie vinte avrebbero avuto un esito diverso.» Mi umetto le labbra con la lingua. «Spesso lo do quasi per scontato e mi dispiace, perché lui è importante almeno quanto me, forse anche di più. Da quando sono qui a Milano, ho messo in dubbio tante cose di me, ma ho potuto constatare che lui è fondamentale quando mi trasformo in Ladybug. È la mia colonna portante.»
«Comincio a capire.» Nonna Gina picchietta il palmo sulla coscia invitando Tikki a planare lì. «Il motivo per cui nei giorni scorsi eri così abbattuta, sempre stanca, poco energica è dovuto alla presenza dei Satiri dell’Anarchia, dico bene?»
Prima che possa confermare, la nonna mi anticipa. «Senza il supporto del tuo partner, hai dovuto prendere delle decisioni completamente da sola e, non avendo ottenuto subito quello che speravi, hai pensato di non essere in grado, che forse non eri degna di portare un Miraculous.»
Non l’avrei saputo spiegare meglio. Annuisco in silenzio.
Tikki interviene. «Anche io ho parte della colpa, signora Gina. Ho tentato in tutti i modi di persuaderla a restarsene in disparte. E, invece, avrei dovuto incoraggiarla e spingerla a superare questo castello di incertezze in cui si era rifugiata.»
Tiro su col naso. «È successo anche durante la mia prima battaglia come Ladybug. Solo la paura per Alya, che era stata catturata, mi spinse ad agire.»
Nonna Gina si alza e mi stringe di nuovo a sé. «Bambina mia.» Scosta una ciocca di capelli e mi schiocca un bacio sulla fronte. «Ricorda che in te scorre anche il mio sangue, forte e temerario. Ed è quella la forza a cui dovrai fare affidamento la prossima volta che affronterai i Satiri, e sarà la volta buona che li toglierai dalla circolazione una volta per tutte.»
«Grazie, nonna.» La stringo un’ultima volta e sciolgo l’abbraccio.
«Mi piace il tuo look, comunque. È molto simile a quel disegno che mi facesti vedere tempo fa.»
Schiocco le dita. «Ecco perché mi sembrava così familiare. Lo rivedrei volentieri se Letizia non mi avesse rubato il quadernetto.»
La nonna aggrotta la fronte. «Letizia ha… e non hai detto niente?»
«Cosa avrei dovuto fare? È solo la dimostrazione che lei è solo un bel faccino che sfrutta il conto bancario del padre. A questo punto, credo sia palese che l’ammissione all’Accademia è stata frutto di un cospicuo versamento e non un merito.»
Nonna Gina batte un pugno contro l’altro palmo. «Meriterebbe un discorsetto da parte della Marinetta incappucciata.»
Rido. «Purtroppo, non posso usare i poteri per motivi personali, altrimenti ne pagherei le conseguenze. Però, il solo pensiero mi fa stare meglio.»
Vado al computer, lo accendo e lo schermo si anima. «Tornando ai Satiri, ignoro del tutto quali possano essere le loro intenzioni. I media tacciono riguardo quanto successo all’Accademia e anche le forze dell’ordine non hanno diramato notizie.»
«All’Accademia? Non era un semplice incendio?»
«No. Erano in due: hanno utilizzato uno stratagemma per attirare professori e studenti fuori dall’istituto.»
«E cosa avevano intenzione di fare?»
«Stavano piazzando un ordigno esplosivo nell’ufficio del preside. Volevano far saltare in aria l’Accademia.»
«Oh santo cielo!» Nonna Gina si strofina la fronte. «E tu li hai fermati?»
«Ero sul terrazzo quando è scattato l’allarme. Ho capito subito che qualcosa non andava quindi ho fatto ricorso al potere del Miraculous e ho avuto ragione. Sono riuscita a catturarli ma, quando i vigili del fuoco sono riemersi dall’interno dell’edificio per segnalare al preside che la situazione era sotto controllo, non ne hanno fatto cenno. Nulla.» Tiro un pugno sulla mia anca. «Eppure, ero sicura di averli impacchettati a dovere, non possono essere fuggiti!»
«Non crucciarti, Marinetta. Hai comunque evitato che facessero del male a qualcuno.»
«È snervante il fatto di dover lottare su due fronti: da un lato i Satiri e i loro piani per mettere la città sottosopra; dall’altro le forze dell’ordine, tra polizia, carabinieri e vigili del fuoco, sembrano che remino a favore dei…» Un dubbio mi sale dallo stomaco fino alla testa e mi esplode nella mente. E se…
Sulla parete bianca alle spalle della scrivania compare l’immagine sfocata della conferenza del sindaco, di fianco a lui il questore. Era la prima volta che i Satiri prendevano sotto assedio un punto nevralgico della città, in quel caso era la stazione metropolitana del Duomo. Il sindaco aveva minimizzato la cosa e il questore aveva dichiarato che non si sarebbero piegati alle loro richieste.
Poi, quello scontro alla stazione centrale, dove il questore, con al seguito una grossa fetta delle unità speciali, sembrava più interessato a fermare me, piuttosto che cercare di catturare gli anarchici, che, nel frattempo, assaltavano il municipio uccidendo il sindaco. Nella testa mi risuona il suo disappunto quando un agente ha sparato e ha ucciso il Satiro che mi ha sparato addosso.
Nelle dichiarazioni successive, il questore ha continuato a glissare circa le contromisure da adottare contro i terroristi e ha posto l’attenzione sul fatto che ci fosse un individuo che ostacolava le forze dell’ordine.
Ed ora, silenzio assoluto sul potenziale agguato terroristico all’Accademia e quei due sembrano scomparsi nel nulla nonostante io li avessi rinchiusi nell’ufficio del preside.
La nonna mi posa una mano sulla spalla. «Marinetta, stai bene?»
Tikki svolazza sulla scrivania. «Fa sempre così quando le viene un’idea.»
 Sbatto le palpebre. Mi sembra così assurdo. Perché il questore, la polizia o i vigili del fuoco dovrebbero sostenere la causa dei Satiri dell’Anarchia? Cosa c’è sotto?
Sollevo la testa.
Gli occhi cerulei di Nonna Gina mi fissano colmi di curiosità mista ad apprensione. «A cosa pensi, Marinetta?»
«Che qualcuno ci sta prendendo in giro, nonna. Questa faccenda… qualcosa non torna. I Satiri hanno iniziato ad alzare il tiro da un giorno all’altro, come se qualcosa fosse cambiato all’improvviso. Come se qualcuno avesse suggerito loro di passare al livello successivo. E i loro attacchi sono troppo precisi, troppo studiati. Sono frutto di un’accurata pianificazione e di uno studio approfondito. Ma queste informazioni, qualcuno dovrà avergliele pur date.»
«E pensi che si tratti proprio del questore?»
Mi afferro la testa. «Forse… non lo so. Perché dovrebbe farlo?»
«Non credo di avere la risposta, mia cara. Ma so per certo che il tuo ragionamento ha un fondamento e, se ci hai azzeccato dovrai fare più attenzione che mai. Se hanno preso di mira l’Accademia, forse ci riproveranno e forse lo faranno proprio domani in vista della—»
«Oh, mio Dio! La gara dei modelli! L’avevo completamente dimenticata.»
La nonna scambia un’occhiata divertita con Tikki e mi indica col pollice. «Come fa a salvare il mondo e allo stesso tempo essere così sbadata?»
Tikki si stringe nelle spalle. «È una qualità innata che ha.»
Pongo i pugni sui fianchi. «Ehi! Non è facile dover gestire tante cose tutte insieme.»
Nonna Gina agita l’indice davanti al mio naso, ridendo. «Dovresti trovare un nome per il tuo nuovo alter ego. Non puoi certo continuare a chiamarti Ladybug.»
Metto su il broncio. «E dove lo trovo il tempo per pensarci?»
«Beh, visti i tuoi bellissimi stivaletti nero fiammante, che ne pensi di Stiletto

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Attraverso il cancello della scuola e mi incammino verso l’ingresso. Sulla facciata sono stati stesi due teli rossi dalla coda biforcuta che pubblicizzano la sfilata che avverrà sabato prossimo, quando verrà annunciato il vincitore della gara.
Per rendere la manifestazione più interessante, i giudici hanno disposto che non verrà dichiarato direttamente il vincitore; il pubblico vedrà il capo migliore sfilare indosso ad Alessio.
Svolto a destra nel corridoio, dirigendomi verso l’aula magna. Solo per la giornata di oggi, tutte le lezioni sono state sospese, ma gli studenti sono stati comunque invitati a seguire la presentazione degli abiti in gara.
Eppure, nonostante il mio interesse nei confronti di questo progetto sia cresciuto sempre di più col passare dei giorni, oggi non riesco a pensare ad altro che ai Satiri. Non riesco a togliermi dalla testa la vista di quegli ordigni che quei due stavano installando nell’ufficio del preside e il pensiero che possano riprovarci mi scombussola.
Sbircio dalla porta. Dietro alla cattedra sono già accomodati un uomo con uno sgargiante completo verde pisello e la donna che era presente il giorno delle iscrizioni, anche oggi munita di sciarpa intorno al collo.
Davanti a loro, è disposta una dozzina di manichini spogli, sui quali andranno appuntati i vari capi partecipanti. All’altezza del petto, spicca una targhetta dorata dove sono affissi i nomi corrispondenti agli studenti.
Mi strofino i palmi l’uno contro l’altro. Per fortuna, Sonia si è offerta di redigere per intero il discorso di presentazione del capo, in modo da bilanciare le ore che ho passato a cucire ogni singolo filo. E poi, oggi non ho proprio la testa per applicarmi a trovare le parole adatte: sono certa che mi incarterei con la lingua e finirei per creare un bel pasticcio.
In prima fila, al posto più esterno, è seduta una ragazza con un gilet di jeans tempestato di brillanti e una fluente chioma bionda a boccoli. Letizia. Si torce le dita e se le porta a tratti alla bocca, mangiucchiando le unghie a cui tiene tanto.
Accidenti. Non avevo la minima idea che potesse essere nervosa per la gara. Proprio lei che ostenta sempre la sicumera di primeggiare in qualsiasi attività che fa – anche se per quanto riguarda la moda, i suoi meriti tendono pressoché allo zero.
Se è così insicura del lavoro svolto dai suoi “assistenti”, poteva anche pensarci da sola a disegnare, confezionare e presentare il progetto. Non ho idea del risultato che ne sarebbe uscito, ma almeno avrebbe avuto la soddisfazione di fare qualcosa con le sue graziose manine da fata. Forse, però, è un concetto troppo al di sopra delle sue capacità.
Il professor Ursi sbuca da uno degli ingressi laterali all’aula. Veste una semplice camicia bianca e dei pantaloni in cotone scuri. Porta i capelli ben pettinati, con dei ciuffi bianchi che gli striano le tempie, e una nuova montatura d’occhiali, nera con finiture in oro.
Scambia una parola con l’uomo in verde pisello, si volta e mi rivolge un cenno con la mano.
Ricambio il saluto.
Sale le scale, saluta Letizia, e mi viene incontro. Si accosta al battente. «Buongiorno, Marinette. A differenza degli altri giorni, sei piuttosto in anticipo oggi.»
«Buongiorno a lei, professore. Ho preferito sbrigarmi prima, non avrei perso per nulla al mondo l’occasione di oggi.»
«Sai, sono rimasto piuttosto sorpreso dal fatto che tu non ti sia iscritta alla gara.»
Un brivido gelido mi serpeggia lungo la schiena. «C-Come?»
Ursi piega le labbra in un mezzo sorriso. «Tendo a non essere troppo prodigo di complimenti, ma tu, Marinette, sei una studentessa brillante. Ero certo che avresti partecipato e, con la creatività che ti ritrovi, avresti potuto conquistare la vittoria.» Alza le spalle. «Confido che la prossima volta ci farai più di un pensiero. Mi secca sprecare talenti come il tuo.»
«M-ma…» Ho la gola secca e faccio fatica a respirare. «I-io s-sono…»
Ursi mi accarezza la spalla. «Goditi la gara, Marinette.» Rientra nell’aula.
Ho il cuore che galoppa nel petto e mi rimbomba nelle orecchie. Il professore si sbaglia: io sono iscritta alla gara, partecipo insieme a Sonia, abbiamo concordato insieme quale disegno proporre tra quelli sul mio quadernetto, abbiamo scelto le stoffe che poi ho cucito…
Un atroce sospetto mi affiora nella testa.
No. Non posso… non voglio credere che—
Giro i tacchi e corro verso l’ingresso.
Sonia mi deve tante spiegazioni.
 
***
 
L’autobus accosta al cancello e apre le porte. Sonia salta giù e si incammina sul piastrellato.
Ma come si è conciata?
Porta i capelli mossi e vaporosi, un paio di occhialoni a mosca le coprono metà del volto e cammina col mento sollevato, ostentando alterigia. Indossa una camicetta rosa, sopra una maglietta bianca, con almeno tre collane dorate che le pendono sul petto, e una minigonna. Ai piedi, calza un paio di décolleté nere, con un brillante sul laccetto che le chiude.
Questa non è Sonia. Dev’essere una gemella segreta che ha preso il suo posto.
Mi asciugo il sudore freddo dalla fronte con il dorso della mano. È folle pensare che lei possa avermi preso in giro. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme in questo anno.
Sonia si ferma a fianco a me, ficca la mano nella sua borsa a tracolla e ne estrae un quaderno.
Mi paralizzo.
È il mio quaderno dei bozzetti.
Sonia lo agita, lo lascia cadere a terra e lo schiaccia sotto a un tacco. «Immagino che questo non mi serva più.»
«C-che…» Una colata di acido mi sale dallo stomaco, la rigetto giù. «Perché?»
Sonia solleva gli occhiali sulla fronte. «Perché io voglio vincere, Marinette. Sono stufa di arrivare sempre dopo le altre e accontentarmi delle briciole. Sono sempre stata messa in secondo piano da chiunque, sia nella scuola, sia dai miei genitori, sia dai ragazzi. Pensavo di dover combattere a vita da sola contro le persone come Letizia. Poi sei arrivata tu.»
Mi punta contro l’indice. «La ragazzina francese dall’animo puro e generoso.» Mima un conato. «Mi davi il voltastomaco. Però, sei sempre stata in gamba, specialmente nella moda. E sapevo che prima o poi il tuo talento e la tua immensa ingenuità mi sarebbero tornati utili. E ora ne raccolgo i frutti.»
Serro i pugni, le unghie si conficcano nei palmi. «Mi hai usata. Il giorno dell’iscrizione hai approfittato della mia esitazione e ti sei offerta di iscriverci entrambe ma alla fine hai consegnato solo la tua tessera studente.»
«Sei veramente una sciocca, Marinette. Confidi troppo nella buona volontà delle persone e per questo, puntualmente, rimarrai sempre nell’ombra, dove sono stata io finora.»
«Lo dirò a tutti che—»
«Che cosa? Non hai uno straccio di prova contro di me.»
Abbasso lo sguardo verso il quaderno a terra.
Sonia fa schioccare la lingua come un topo che gratta sul pavimento. «Io non ci conterei troppo su quello. Sono stata previdente e ho ricopiato il disegno dell’abito che presenterò. Ho aggiunto anche qualche lieve sbavatura in modo che sia più evidente che l’abbia disegnato io.»
«Sei veramente…» Una sfilza di insulti mi sale in bocca. Stringo i denti.
Sonia alza una mano aperta. «Perdonami, baguette. Ora ho una gara da vincere e un bel modello da vestire. Tu puoi anche tornare a casa tua, da quel bamboccio biondo che vive segregato col padre.» Si volta e scompare nel corridoio.
 
***
 
Lascio andare i piedi penzoloni oltre la ringhiera del terrazzo. Una coltre di nubi ha ricoperto il cielo, inscurendo la giornata. Un po’ come il mio umore in questo momento.
Da sotto, giungono le voci al microfono provenienti dall’aula magna. Si stanno alternando le varie presentazioni.
Per mia fortuna, è solo una specie di brusio, una sfilza di parole senza un senso. Non mi andava affatto di assistere alla discussione trionfale di Sonia, che si prende tutto il merito di un lavoro al quale ho lavorato da sola, almeno per il novanta percento.
Il disegno era mio, la stoffa l’ho scelta io, le cuciture, le correzioni, le notti insonni a tagliare e a ricucire… è tutta roba mia e quella vipera se ne prenderà il merito.
E io non posso fare nulla per impedirlo. È come dice lei, la sua parola contro la mia. Forse qualcuno mi crederebbe – il professor Ursi lo farebbe di sicuro conoscendo il mio tratto – ma chi potrebbe convincere i membri della giuria?
Lascerebbero correre, a loro interessa solo presentare un abito valido per la sfilata di sabato.
Tikki sbuca fuori dalla pochette chiusa, attraversando la stoffa con i suoi poteri. «Non avresti dovuto lasciarglielo fare, Marinette. Quell’abito è frutto del tuo duro lavoro, non è giusto che un’altra se ne appropri.»
Mi sfilo i codini e lascio che i capelli svolazzino alla leggera brezza. «In questo momento, Tikki, vorrei solo che questa giornata passasse in fretta per dimenticarmene e andare avanti.»
«Ma—»
«Niente ma. Ho subito una gravissima ingiustizia, sono stata tradita da una persona che ritenevo amica, stavo quasi per apporla al livello delle mie amiche di Parigi. Mi sono sbagliata sul suo conto. Almeno in questo, Sonia ha ragione: sono stata un’ingenua. Mi sono concentrata esclusivamente sulla prepotenza di Letizia e non mi sono accorta che stavo covando una serpe in seno.»
Butto fuori un gran respiro. «Ma ormai è andata. Non posso farci nulla, se non accettare il mio errore e farne esperienza.»
Tikki incrocia le zampette, un cipiglio aggressivo si disegna sui suoi lineamenti scarlatti. «Però non è giusto. Sonia meriterebbe una bella lezione per quello che ti ha fatto. E sappi che io sarei disposta anche a soprassedere sulla regola dell’interesse personale qualora tu lo volessi.»
Scuoto piano la testa. «Ti ringrazio per il supporto che mi dai, e non solo in questo momento. Però, abbiamo lavorato insieme perché io potessi crescere e superare determinate situazioni alle quali spesso e volentieri – troppo spesso – ho reagito sbagliando. E non voglio che si ripeta una cosa simile.»
La porta del terrazzo cigola, Tikki si fionda all’interno della pochette per nascondere la sua presenza.
Giro la testa sulla spalla.
Alessio Tancredi avanza sul terrazzo, i suoi occhiali scuri riflettono la luce bianca delle nuvole.
Si accosta a me e posa un piede sulla ringhiera. «Parli da sola, Marinette? Sai, molti studiosi hanno divergenze tra loro a riguardo: c’è chi afferma che è sinonimo di pazzia e chi dichiara con fermezza che è sintomo di una grande intelligenza.»
Ridacchio. «E tu cosa ne pensi?»
«Beh, se avessi dato il passaggio ad una pazza, me ne sarei accorto. E anche se fosse stato così, non me ne sarebbe importato nulla.»
Batto la mano sul cornicione. «Siediti, così mi fai compagnia.»
Alessio accoglie l’invito. «Come mai non sei di sotto? Ho scaglionato i posti uno ad uno per cercarti, ma non ti ho trovata.»
«E come hai saputo che ero qui? Non l’ho detto a nessuno.»
Alessio fa spallucce. «Ho tirato a indovinare. E se il bidello ti dovesse dire che ti ha vista salire le scale, sappi che mente spudoratamente.»
Di nuovo, rido. «E perché dovrebbe mentire il bidello?»
«Perché… perché sì. Mente.» Alessio si sfila gli occhiali e inchioda i suoi occhi nerissimi su di me, il sorriso lascia spazio ad un’espressione seria. «Cos’è successo, Marinette? Perché non eri vicino alla tua amica con la quale hai lavorato all’abito? C’entra qualcosa Letizia? Se fosse così, io—»
Gli tiro un buffetto sul bicipite. «Smettila di voler fare l’eroe dalla scintillante armatura. Non ne ho bisogno.»
Alessio finge di sentire chissà quale dolore e mette su il broncio. «Così mi spezzi il cuore. In Francia avete tutte gli artigli affilati?»
«Solo se necessario. E comunque, Letizia non c’entra nulla. Non stavolta.»
«E allora cos’è che ti porta a stare qui, da sola? Spero che non sia perché non gradisci il risultato dell’abito: sei andata sul sicuro, optando per un completo classico. Sono certo che otterrete un ottimo risultato, tu e la tua amica.»
«Lei non è mia amica. Non lo è mai stata… ha solo finto di esserlo.» Sospiro. «Non mi ha iscritto alla gara.»
Alessio corruga la fronte. «Non ti ha… ma io ricordo bene che tu le consegnasti la tessera affinché lei iscrivesse entrambe.»
«Da quanto mi osservavi quel giorno?»
«Da un po’… e comunque, non cambiare discorso. Questa è un’ingiustizia, Marinette! Quella tizia sta per prendersi il merito di qualcosa a cui avete lavorato insieme.»
Sollevo un indice. «Tengo a precisare che gran parte del lavoro l’ho fatto io.»
«Ancora peggio!» Alessio intreccia le dita e le fa scrocchiare. «Adesso scendo e la rivolto come un calzino, vedremo se non sputa fuori la verità.»
Mi avvinghio al suo braccio. «Tu, invece, non farai assolutamente nulla. Che Sonia si prenda pure meriti che non ha. Anzi, spero anche che vinca, così poi dovrà fare i conti con quello che verrà dopo. Quando tutti si aspetteranno altre opere di qualità, verranno fuori le sue vere capacità.»
«Marinette, io non ti capisco. Io posso testimoniare per te, posso—»
«Non occorre. Va bene così. E sabato sarò anche tra il pubblico che ti vedrà sfilare con l’abito vincitore. Non le darò la soddisfazione di vedermi sconfitta.»
Alessio socchiude gli occhi. «Tu hai qualcosa in mente.»
Prendo i suoi occhiali da sole e li inforco, i dintorni si scuriscono dietro alle lenti. «Forse…»
«Qualunque cosa sia, conta su di me. Non in qualità di cavaliere dall’armatura scintillante, ma come umile scudiero dell’eroina francese.»
«Grazie…»
Alessio pesca dalla tasca un bigliettino da visita e me lo porge. «È di mio padre. La sua agenzia ha organizzato e gestito l’evento. Se dovessi averne bisogno, ci sono il suo numero di telefono e il nostro indirizzo. Mio padre lavora nel suo studio fino a notte fonda, quindi puoi chiamare a qualsiasi ora. Basterà che tu dica il tuo nome.»
«Hai parlato di me a tuo padre?»
Alessio alza le spalle. «Mi ha chiesto un parere sugli studenti che avrebbero partecipato alla gara.»
Infilo il bigliettino nella pochette. «Vedrò di farne buon uso.»
 
***
 
Mi rigiro nel letto, attorcigliandomi le lenzuola addosso. Dopo due ore di cinguettio straziante, l’uccellino che si era appollaiato fuori alla finestra tace. Mi sembrava di averlo proprio accanto all’orecchio, come se volesse dedicare il suo canto solo per me.
Spalanco gli occhi. Sul soffitto, danza il riverbero di un lampeggiante che proviene dalla strada. In sottofondo, un cupo rumore di un motore borbotta. Devono essere quelli della nettezza urbana.
Mi volto su un lato e scocco un’occhiata verso l’orologio digitale sulla scrivania. Sono appena le 2:15.
Dalla finestra il lampeggiante si allontana tracciando oblique lame paglierine sul soffitto e sulle pareti.
Per quanto voglia dare la colpa ai rumori esterni, la verità è che non riesco a dormire per la vampata di acido che mi ristagna nello stomaco e sale e scende lungo l’esofago, bruciandomi gola e palato.
Quando ero con Alessio, mi sembrava di avere a portata di mano la soluzione per risalire il profondissimo pozzo nel quale mi ha gettata Sonia. Forse, nemmeno Lila sarebbe arrivata ad architettare un colpo basso del genere. Almeno lei si è dichiarata fin da subito per quella che è nei miei confronti: una viscida manipolatrice bugiarda.
 Invece, Sonia ha recitato per tutto il tempo la parte dell’amica con dei problemi di autostima, quella che è pronta a ricambiare il tuo supporto con del sincero affetto.
Mi stropiccio gli occhi, scosto il lenzuolo. È inutile. Ho bisogno di scrollarmi di dosso tutta questa bile che mi circola nelle vene e non lo farò certo stando rannicchiata nel letto in attesa che il sonno giunga.
Allungo la mano sul comodino, afferro lo smartphone e lo sblocco. Una carrellata di notizie sugli attentati di Milano invade la mia home.
Questi maledetti giornalisti sciacalli non hanno nemmeno il pudore di non copiarsi le informazioni l’uno con l’altro. Farebbero di tutto pur di vendere qualche news fresca al migliore offerente; intanto, i cittadini soffrono e la polizia brancola nel buio.
Mi mordicchio il polpastrello del pollice.
Già, la polizia
Da quando ne ho parlato con la nonna, non ho più raccolto notizie riguardo il questore Giovanni Portanova, assorbita dalla gara dell’Accademia.
Ma ora che non è più di mio interesse, posso impiegare il tempo per cercare di proteggere Milano dai Satiri dell’Anarchia e da quello che ritengo sia il loro burattinaio.
Chiudo l’app delle news e apro Google. Digito nella barra di ricerca il nome “GIOVANNI PORTANOVA” e avvio la ricerca. Gli unici risultati riguardano le sue dichiarazioni riguardo la misteriosa figura che ostacola le indagini e la sua nuova carica in stato d’emergenza che gli consente di gestire le sue unità come meglio crede, senza doversi appellare al Municipio.
Afferro il cuscino per l’orlo della federa e me lo sbatto sulla faccia, soffocando un gemito. Che mi aspettavo di trovare su Internet? La sua vita privata? Il suo domicilio?
Stupida! Stupida che sono!
Risistemo il cuscino al suo posto.
Tikki plana dalla sua cuccetta, la sua esile figura alata si staglia contro la flebile luce che proviene dalla strada.
«Marinette,» bisbiglia. «Che fai? Non riesci a dormire?»
«Cercavo qualche indizio che collegasse il questore ai Satiri. Ma sono risposte che non troverò certamente in un motore di ricerca online.»
«Beh, online forse no, ma…»
«Ma? Sai qualcosa che io non so?»
Accendo il lume sul comodino, la lampadina rischiara il volto esitante di Tikki.
Incrocio le gambe. «Se hai qualche indizio, ti prego di dirmelo. Almeno nel proteggere la città, vorrei avere una soddisfazione.»
«Dopo che ne hai parlato con tua nonna, ho riferito agli altri kwami i tuoi sospetti circa quell’uomo. Volevo alleggerirti il lavoro, sapendo già quali erano le tue intenzioni, ovvero parlare faccia a faccia con lui. Ho ragione?»
«Colpevole… prosegui pure.»
«Mentre tu seguivi le lezioni, gli altri kwami l’hanno seguito – con estrema attenzione ovviamente – e hanno scoperto dove abita.»
«E cosa aspettavi a dirmelo?»
«C’è stato il problema con Sonia e… scusami.»
Faccio un lungo sospiro. «Hai agito bene. Ora tocca a me.» Mi alzo. «Tikki, trasformami.»
 
***
 
L’appartamento di Giovanni Portanova occupa il piano più alto di un palazzo nel centro residenziale di Milano. È un edificio a forma di parallelepipedo di dodici piani, circondato da una striscia di verde, con tanto di parcheggio sotterraneo per i residenti.
Aggrappata allo yo-yo, disteso lungo l’intera facciata dove si affacciano solo delle finestre ad oblò, risalgo i piani dall’esterno. La scalata è agile e lineare, non sono per niente ostacolata dai tacchi.
Pensavo che questo nuovo look potesse in qualche modo crearmi delle difficoltà nei movimenti o nel combattimento, ma è evidente che la magia del Miraculous ha pensato anche a questo ed è come se stessi nella solita tutina rossa a pois.
Se questa cosa dovesse funzionare, quando tornerò a Parigi adotterò lo stesso approccio per scovare finalmente il nascondiglio di Papillon. Al minimo sospetto, indagherò a fondo e lo smaschererò. Sono indecisa se portarmi dietro Chat Noir: qualcuno che mi copra le spalle fa sempre comodo, se si risparmia il suo squallido sarcasmo e si concentra esclusivamente sul compito.
Mi riscuoto. Non è il momento di pensarci.
Passerà ancora parecchio tempo prima che torni in piena attività a Parigi. Parola mia, non me ne andrò da Milano finché non avrò conquistato almeno una fetta di quello che è il mio sogno: diventare una stilista.
Raggiungo l'ultimo piano e balzo sul balcone dell’appartamento di Portanova. Le persiane sono abbassate, dovrò cercare di entrare da una delle finestre.
Stendo di nuovo lo yo-yo, il cavo si avvolge intorno a due antenne paraboliche dislocate sul terrazzo. Salto oltre la ringhiera e oscillo con le gambe penzoloni oltre l’angolo della facciata. Pianto un tacco nel muro, per bloccare i movimenti, e allungo il collo. La finestra su questo lato ha uno spiraglio aperto.
Spero solo che il questore abbia il sonno pesante e non abbia installato un antifurto, altrimenti potrò dire addio alla mia missione.
La vista, da quassù, si estende per chilometri, abbracciando i dedali di vie della città, la sagoma scura del duomo e quella imponente del Pirellone.
Utilizzando i tacchi come rampini e il cavo come sostegno, cammino lungo la parete e raggiungo la finestra. Mi calo di qualche centimetro, avvolgo il cavo intorno alla vita. Do uno strattone per convincermi che la presa sia salda, non ci tengo a fare un volo di dodici piani. Sembra sia salda, ma per sicurezza, pianto i tacchi proprio sotto la marmetta che delimita da sotto la finestra.
Stendo le braccia, afferro l’infisso da sotto e spingo verso l’alto. Il vetro si solleva. Mi incuneo attraverso la fessura, ora grande abbastanza da farmi passare, e mi catapulto all’interno, atterrando a piedi uniti sul gabinetto. Riavvolgo a me lo yo-yo.
La finestra è aperta per consentire all’aria fresca della sera di asciugare dalle mattonelle l’umidità provocata forse da una doccia o da un bagno di poco fa. Un leggero odore di colonia permea l’aria.
Dunque, è in casa.
Appiattisco la guancia contro la porta e resto in ascolto, nella speranza di captare qualche rumore dall’altra parte del battente.
Nulla.
Abbasso piano la maniglia, apro uno spiraglio e sbircio. Il silenzio e la tranquillità dominano la casa. Sgattaiolo fuori dal bagno, i tacchi non provocano il minimo rumore a contatto con le piastrelle del pavimento. Potere del Miraculous. Attivo la funzione torcia dello yo-yo.
Mi affaccio in una delle porte spalancate del breve corridoio. Portanova dorme prono sul letto matrimoniale. È solo. Ricordo che lui aveva accennato a una riconciliazione con la moglie. Il regalo doveva servire a questo.
Sfioro un orecchino con il polpastrello. Per una volta, la coccinella mi ha portato fortuna. Basta muovermi con prudenza così eviterò di svegliarlo.
Mi aggiro per l’appartamento alla ricerca di quello che è il suo studio, o perlomeno, l’angolo in cui gestisce il suo lavoro da casa. Se trovassi il suo computer sarebbe ancora meglio, sempre se fosse sprovvisto di password.
L’ultimo locale della casa è una stanza con una scrivania addossata alla parete su cui troneggia un quadro raffigurante l’esercito italiano durante una parata. Accanto vi sono affissi i riconoscimenti che Giovanni Portanova ha riportato nel corso degli anni. È una figura esemplare per le forze dell’ordine. Questo collima con la mia teoria che possa essere lui a manipolare il gruppo di anarchici, ma potrebbe essere anche la conferma che dietro questi attacchi imprevedibili si nasconde una figura insospettabile.
Ma perché dovrebbe farlo?
Sciabolo il fascio di luce lungo gli scaffali ai lati. La libreria ospita volumi di antiche culture esoteriche, miti, rituali occulti e antiche leggende orientali. Non me ne stupisco: Portanova sembrava molto a suo agio nel negozietto dove comprai il regalo per la nonna.
In una nicchia, vi è una bacheca in vetro dietro la quale è collocato il pendente che Portanova mi ha sfilato da sotto al naso quel giorno.
Mi avvicino alla scrivania. Sopra, giacciono ritagli di giornali, articoli di blog stampati su carta, appunti scritti a mano. A quanto pare, nei mesi scorsi, il ministro e la stampa hanno criticato aspramente le tattiche di Portanova, i suoi continui dissidi con il sindaco e le enormi spese che pesano sul bilancio comunale, causate da un insensato utilizzo di nuove tecnologie per gli uomini di pattuglia.
Alla luce di questo, mi chiedo qual è il vero volto di Portanova: il brillante poliziotto medagliato o il nemico del Municipio?
A questo punto, il movente che l’ha spinto ad allearsi con i Satiri sembra chiaro: far fuori il sindaco. Questo spiegherebbe anche la sua crociata contro di me; sono un ostacolo per i loro piani. Ma ora che hanno fatto fuori il primo cittadino cos’altro vogliono?
Scosto dei fogli sulla scrivania e trovo un enorme disegno architettonico. È la planimetria di un luogo ben preciso. Sopra vi sono evidenziati con il pennarello rosso i due accessi possibili, da nord e da est, e, in blu, sono disegnate le sagome del personale di sicurezza. Al centro, si allunga un rettangolo circondato da omini neri, recintati all’interno di un cordone di sicurezza disposto dalle sagome in blu. Da un’estremità del rettangolo, si dipanano dei corridoi che conducono all’interno della struttura più grande.
È chiaro che sia il prossimo obiettivo di Portanova e dei Satiri. 
Sbatto le palpebre, il cuore mi balza in gola.
È il luogo dove si terrà la sfilata!
Ci saranno personaggi della moda provenienti da tutta Europa, forse dall’intero mondo.
Maledizione! Hanno alzato ancora di più il tiro. Ma stavolta mi troveranno pronta.
Avrò bisogno di un modo per entrare in quel posto e gestire l’attacco dall’interno. Con la funzione apposita dello yo-yo, scatto delle fotografie a qualunque documento si trovi sulla scrivania.
Ora devo andarmene da qui. Ho raccolto abbastanza informazioni da poterle studiare con calma nella mia camera.
Mi fiondo fuori alla finestra.
Lancio lo yo-yo verso l’alto, si aggrappa ad un’antenna, e oscillo lungo la facciata del palazzo.
Mi lancio verso un vicolo deserto, atterro sull’asfalto e pongo fine alla trasformazione.
Che nottataccia.
Devo cercare aiuto, da sola non riuscirò mai ad affrontare tutti i Satiri. Non posso contare sulle forze dell’ordine; chissà a quale livello si spinge la corruzione portata avanti da Portanova. Di sicuro, i vigili del fuoco che l’altro giorno sono intervenuti all’Accademia facevano parte del loro gruppo.
Ho bisogno di qualcuno che sia interessato a far proseguire per il meglio la sfilata, senza intoppi. Uno che abbia il pugno fermo di gestire il piano che Portanova ha architettato.
Una scintilla si accende nella mia testa.
Forse so a chi posso rivolgermi.
 
***
 
Svolto l’angolo e giungo nel quartiere di San Siro. Sebbene sia notte fonda, è gremita di gente; in particolar modo ragazzi che amano la movida e si divertono a vagare in giro per la città, bevendo, mangiando e scherzando tra loro.
La villa bianca immersa nel verde è il mio obiettivo. Non mi aspettavo nulla di meno dalla famiglia di Alessio: il padre è il principale organizzatore degli eventi mondani che si svolgono qui a Milano; dunque, fa parte di quel ristretto team che ha progettato la gara per l’Accademia e la sfilata in cui verrà presentato l’abito vincitore.
Non c’è persona che sia più interessata di lui al tranquillo svolgimento della serata.
Un paio di ragazze in bici mi passano accanto, lasciandosi dietro una fragranza di fragola mescolata a gelsomino; sono entrambe ben truccate e vestite in modo elegante, con gonne e giubbottini in pelle. Mi osservano per un attimo, fanno una smorfia e proseguono per la loro strada.
Sarebbero degne amiche di Letizia.
Do un’occhiata al mio abbigliamento. Ok, magari una semplice t-shirt e dei jeans a gamba larga non sono il massimo per un’uscita notturna, almeno per gli standard della città. Per non parlare dell’aspetto del mio viso, distrutto dalla mancanza di sonno.
Sbuffo. Concentrati, Marinette. Non è il momento di pensare ad apparire bella agli occhi delle persone. Devo trovare un modo per raggiungere lo studio del padre di Alessio e parlargli.
Inoltre, non posso farlo nei panni di Marinette o non mi prenderà mai sul serio e potrebbe pensare che io stia inventando una storia di sana pianta solo per rovinare la festa a Sonia. E poi non saprei nemmeno come giustificare le foto che ho scattato nell’appartamento del questore.
L’elegante dimora si sviluppa su quattro livelli ed è circondata da alte siepi, sorvegliate da sistemi di sicurezza all’avanguardia. Da una finestra all’ultimo piano giunge una luce bianca. Dev’essere lo studio del signor Tancredi.
Apro la pochette, mi acquatto accanto a un muretto buio, accertandomi di non essere vista da nessuno. «Tikki, trasformami.»
 
***
 
Penetro dalla finestra aperta sul lato ovest della casa, atterro sul pavimento. La stanza è un salone enorme, con ben tre divani dislocati intorno ad un tavolino per l’accoglienza degli ospiti. Sulla parete troneggia un televisore piatto enorme, sarà almeno una sessantina di pollici.
Procedo attraverso la casa in punta di piedi. Oltre a stare attenta a non far rumore, dovrò evitare di sfiorare la miriade di vasi di porcellana che costeggiano il corridoio e i disimpegni. Con la mia sbadataggine, potrei finire per romperne uno che vale milioni di euro.
E se fosse Alessio il patito di questi pregiati manufatti, finirà che non vorrà più vedermi, nemmeno dipinta e io…
E io sto vaneggiando come al solito.
Dev’essere la stanchezza dovuta alla mancanza di sonno. Spero di non fare gaffe quando parlerò al signor Tancredi. Una volta portato a termine questa missione, mi precipiterò dritta a casa, mi infilerò nel letto e dormirò fino a domani sera, come minimo. Perdere un giorno di lezione non è la fine del mondo.
Giungo alla fine del corridoio, ad una doppia porta chiusa. Dallo spiraglio in basso proviene una luce bianca. È l’unica fonte di luce in tutta la casa, quindi dev’essere lo studio.
Abbasso piano la maniglia, che purtroppo cigola. Apro di scatto la porta, mi infilo dentro e la richiudo subito.
Dietro al monitor di un computer, sulla scrivania, fanno capolino due occhi nerissimi. «Chi diavolo è lei? Cosa ci fa qui?»
Il signor Tancredi si alza di scatto dalla poltrona. Ha la stessa stazza fisica del figlio, un accenno di barba sul volto e dei tratti ben definiti e spigolosi. Sembra la fotocopia più matura di Alessio.
Alzo le mani. «Sono qui per parlare con lei, signor Tancredi.»
«Dottor Tancredi, prego.» Guarda l’orologio al polso, contraendo le sopracciglia. «Le rifaccio la domanda: chi è lei?»
«Il mio nome è Stiletto. Sono…» Devo trovare le parole più adatte affinché non mi prenda per una pazza maniaca. «Sono una ragazza con dei poteri magici che combatte contro i Satiri dell’Anarchia. Sono qui perché ho bisogno del suo aiuto per non mandare a monte la sfilata di sabato.»
Tancredi resta in silenzio. Si riaccomoda e si arrotola le maniche della camicia azzurra fino ai gomiti. «Ti concedo un minuto per spiegarti al meglio delle tue possibilità. Se ciò che dirai non mi convincerà chiamerò il servizio di sicurezza e te la vedrai con loro.» Fa un verso di stizza. «Poteri magici…»
Sussurro. «So per certo che—»
«La studio è insonorizzato rispetto al resto della casa. Non occorre parlare a bassa voce, mia moglie e mio figlio non ci sentiranno a meno che non lo voglia io.» Oscilla l’indice davanti al bottone dell’interfono posto accanto al lume. «Ti restano quaranta secondi scarsi.»
«Il questore Giovanni Portanova ha architettato un attacco simile a quello portato al municipio per rovinare la sfilata di sabato. È lui che guida i Satiri dell’Anarchia. Li ha condotti a far fuori il sindaco per prendere in mano i poteri speciali e ben presto potrebbe utilizzare questi poteri per—»
«Basta così, Stiletto.» Tancredi solleva una mano. «Per credere alla tua storia ho bisogno di prove.»
«Le ho, sign… dottore.» Prendo lo yo-yo, lo apro e seleziono le foto che ho scattato; ritraggono i piani che Portanova ha appuntato riguardo la sfilata. Le mostro a Tancredi.
Lui afferra lo yo-yo e prende a scorrere col dito le varie foto. «Immagino che ti sia intrufolata nell’appartamento del questore come hai fatto qui, vero?»
Annuisco in silenzio.
Tancredi mi restituisce lo yo-yo. «Perché sei venuta da me?»
«Perché da sola non ho speranze di vincere.»
«Hai dei poteri magici… parole tue.»
Scuoto la testa. «Hanno dei limiti. È il motivo per cui non sono riuscita a salvare il sindaco e ho fallito anche nel riuscire a fermare gli altri attacchi.»
Tancredi si gratta la barba e mi fissa con le palpebre socchiuse. «Porti maschera e cappuccio, ma è palese che tu sia solo una ragazzina. Una ragazzina che ha paura; non ho bisogno di guardarti negli occhi per capirlo. Il tuo atteggiamento ti tradisce.» Si massaggia il mento. «Perché proprio io? Non ti fidi, che ne so, dei carabinieri?»
«Immagino che lei conosca l’Accademia Bellerofonte, dottore.»
«Ovviamente. Il preside è un amico di vecchia data.»
«Qualche giorno fa, è stata presa di mira dai Satiri.»
Tancredi rizza la schiena. «Non ne so nulla. Mi stai forse prendendo in giro, ragazzina? Mio figlio frequenta quell’istituto molto spesso di recente, più di quanto abbia fatto in passato. Mi avrebbero avvertito subito se ci fosse stato un simile avvenimento.»
Intreccio le dita. «Il punto è che hanno insabbiato tutto. Due Satiri si sono intrufolati sfruttando un finto incendio. Li ho fermati, ma quando i vigili del fuoco hanno messo in sicurezza l’edificio, loro erano fuggiti. Probabilmente, gli stessi pompieri li hanno aiutati.» Deglutisco. «Questi tizi sono ovunque, dottore, quindi non so proprio di chi potermi fidare.» Lo indico. «Ho pensato a lei perché è sicuramente interessato affinché la sfilata abbia successo.»
Tancredi scrive un appunto su un blocchetto. Strappa il foglio e me lo consegna. «D’accordo, Stiletto. Facciamo che ti credo. Questa è la mia e-mail e il mio numero di telefono personale: mandami tutte le foto, tutti i dati, qualsiasi cosa tu abbia raccolto riguardo i Satiri dell’Anarchia, soprattutto gli appunti riguardanti la sfilata di sabato. Contatterò l’agenzia che mi mette a disposizione degli uomini per la sicurezza e studieremo delle contromosse.»
«Grazie, dottore.»
Tancredi mi punta contro l’indice. «Tu, però, dovrai darci una mano. La mattina di sabato, mi aspetto una telefonata.»
«La ringrazio di nuovo.» Mi volto e faccio per andarmene ma mi blocco. Mi giro a guardarlo di nuovo. «Posso farle una domanda?»
«Prego.»
«Non sembrava particolarmente colpito dalla mia affermazione riguardo i poteri magici. Mi aspettavo una reazione diversa da parte sua.»
Tancredi abbozza un sorriso, sulla guancia si forma la stessa fossetta che si disegna sul volto di Alessio quando sorride. «Nella mia vita ne ho viste di tutti i colori, Stiletto.»
 
 
***
 
«Cosa?» Alya agita il pugno nell’aria col rischio di colpire la webcam. «Prenoto subito un biglietto per Milano, così vengo a strangolare quella vipera.»
«Non occorre, Alya. È tutto ok.»
«Tutto ok?! Ma ti senti, Marinette? Non è da te lasciar correre simili ingiustizie. Devi dirlo a qualcuno, ai professori, agli organizzatori, al preside, alla polizia…»
Mi scappa da ridere. «Magari anche alla guardia nazionale e al presidente della Repubblica?»
Alya si imbroncia. «Non scherzare, è una cosa seria. Io sono—»
Un quadratino lampeggia di verde in basso allo schermo. L’immagine ritrae Nino e Alya abbracciati, guancia contro guancia con l’Arco di Trionfo sullo sfondo.
«È Nino.» Alya sbuffa. «Lo liquido subito, così continuiamo a parlare.»
«Mi piacerebbe salutarlo, invece.» È da un po’ che non ci parliamo; l’ultima volta che abbiamo chiacchierato in videochiamata era in occasione del suo compleanno. Lui era in estasi per il regalo che la fidanzata gli aveva fatto, un paio di cuffie della Beats, e ne ha descritto entusiasta le funzionalità per più di due ore.
Avrei tanto voluto raggiungere i miei amici in quell’occasione, ma purtroppo fui costretta a limitarmi a dei saluti e auguri virtuali.
«Ok, ok.» Alya traffica con il mouse e la tastiera, i suoi movimenti sono talmente rapidi che la webcam fatica a seguirli tutti e la sua immagine sembra sia sfocata. «Ecco qui.»
Il riquadro che racchiude il video di Alya si riduce e accanto ne compare un secondo, in cui appare il faccione ovale di Nino.
«Ciao, tesoro.» Nino manda un bacio con la mano alla fidanzata. «Yo, Marinette!»
«Ciao, Nino. È un piacere rivederti.»
«Guarda qui.» Allontana la videocamera inquadrando sotto al mento. Al collo, le sue nuove cuffie da dj bianche risaltano sulla carnagione mulatta.
«Sono veramente splendide.»
«E non è l’unica sorpresa che ho per voi.» Sposta il cellulare, la videocamera inquadra accanto a lui un ciuffo biondo che nasconde un paio di iridi smeraldine. «Prelevato direttamente da casa Agreste!»
Adrien si porta una mano dietro alla nuca e solleva l’altra con fare imbarazzato. «Ciao, Alya. Ciao, Marinette.»
Rivederlo mi riempie di gioia. Ho avuto poche occasioni per incrociarlo negli ultimi mesi. Nonostante il padre sia molto più indulgente con lui dopo l’incidente che ebbe in Tibet, la sua agenda è sempre ricca di impegni e lui tende a rispettarli tutti, sempre e comunque.
Lo ammiro molto. «Come stai, Adrien? È da un po’ che non ci si vede.»
Nel riquadro accanto, Alya spalanca gli occhi dietro agli occhiali e forma una O con la bocca. Di sicuro non si aspettava una frase di senso compiuto da parte mia in presenza di Adrien Agreste, seppur dietro alla videocamera di un cellulare.
«Leggermente frastornato.» Adrien oscilla il capo. «Nino mi ha appena fatto evadere dalla mia lezione di cinese e in questo momento siamo a casa sua, nascosti nella sua camera.»
«Ti trovo bene, comunque.»
«Anche tu sei splendida, Marinette. Sai, qui manchi molto a tutti. Non vediamo l’ora che tu possa fare un salto a Parigi per riabbracciarci e salutarci come si deve. Ho ancora dei rimorsi per non esserci stato il giorno in cui sei partita.»
«Non preoccu—»
«Sì, sì, ora concentriamoci tutti.» Alya riporta l’attenzione su di sé, sbraitando come se fosse un generale dell’esercito. «Ragazzi, per favore convincete questa sciocca a reagire all’ingiustizia che ha subito.»
Nino agita il cellulare, per un attimo l’immagine si mescola in un pasticcio di pixel. «Cos’è successo?»
«Una sottospecie di rettile si è appropriata del lavoro di Marinette, l’ha fatta sgobbare come un mulo e alla fine si è presa tutto il merito per un abito su cui lei non ha messo nemmeno un dito.»
«Cosa?» chiedono in coro Nino e Adrien.
«E Marinette non intende denunciare l’accaduto.»
Adrien strappa il cellulare dalla mano di Nino. «Marinette, devi fare qualcosa. So quanto i tuoi lavori siano importanti per te, e ho provato sulla mia pelle quanto siano magnifici. Non puoi lasciare che qualcuno si prenda il merito al posto tuo.» Due rughe gli incidono la fronte aggrottata.
Non molto tempo fa, avrei dato tutto l’oro del mondo perché Adrien Agreste si inviperisse così tanto per una causa che mi riguarda.
Alzo le mani. «Calmatevi, ragazzi. Io non ho mai detto—» Il cellulare accanto alla tastiera cinguetta. «Scusatemi un secondo.»
Lo afferro, sullo schermo campeggia un messaggio. È Alessio.
-SONO ANDATO DA URSI E GLI HO SPIEGATO LA SITUAZIONE. INUTILE DIRTI CHE È ANDATO SU TUTTE LE FURIE QUANDO HA SAPUTO QUELLO CHE HA FATTO SONIA ED È STATO ANCHE PEGGIO QUANDO GLI HO RACCONTATO LA TUA IDEA.
Digito una veloce risposta.
-QUINDI NON SE NE FA NULLA?
Il pallino accanto all’immagine del profilo di Alessio diventa verde, due spunte blu compaiono accanto al mio messaggio. È in linea e sta rispondendo.
-MIA PETITE MACARON, TU SOTTOVALUTI IL MIO POTERE DI PERSUASIONE. DOPO UN’ARRINGA DEGNA DEL MIGLIOR PERRY MASON, L’HO CONVINTO. IL PROFESSOR URSI SARÁ DEI NOSTRI.
Perfetto. Torno a guardare i miei amici di Parigi.
«Perché quel sorriso, furbona?» Alya tiene gli occhiali sollevati sulla fronte e gli occhi socchiusi. «Chi era?»
«Una persona che mi aiuterà ad ottenere giustizia, proprio come state cercando di convincermi a fare. Non ho mai detto che non risponderò alla provocazione, solo che preferisco farlo a modo mio.»
«Ora ti riconosco, amica.»
«Già.» Piego la bocca in un ghigno. «Ma se sapessi cosa ho architettato, faresti fatica a credere che sia io l’artefice.»
Anche se, a pensarci bene, dovrò lavorare di notte affinché abbia successo.
 
***
 
La tuta scura degli addetti ai lavori è almeno tre taglie più grande di me. Ho dovuto arrotolare le maniche tre volte per far uscire i polsi, i pantaloni avrei potuto indossarli due volte senza problemi.
Alessio ferma l’auto davanti a un furgone bianco degli addetti al reparto tecnico della sfilata. Con quella camicia celeste e quei pantaloni bianchi sarebbe già pronto per sfilare e guadagnare scrosci di applausi dalla platea.
Abbassa il finestrino e sbircia l’ingresso. Ci sono due uomini della sicurezza che sorvegliano chiunque entri o esca dal padiglione centrale.
Alessio mi squadra da capo a piedi e mugugna. «Nella mia testa, avevi un aspetto diverso con quella roba addosso.»
«Te l’avevo detto che sarebbe stato meglio spacciarmi per una delle stiliste della serata.»
«E se gli addetti alla sorveglianza dovessero avere una lista delle stiliste? Cosa avresti fatto in quel caso?»
«Mi sarei inventata qualcosa. Ho molta fantasia; quando te la presenterò, Alya ti racconterà tutti i miei fantasiosi piani per conqui—» Mi mordo la lingua. «…per marinare la scuola.»
Alessio inarca un sopracciglio. «Marinare la scuola? Tu?» Scoppia a ridere. «Non ci credo nemmeno se lo vedo documentato in un filmato. Miss perfettina francese non è il tipo che cerca di evitare le lezioni.»
«Però arrivo sempre tardi.»
«I geni sono tipi particolari.»
Le gote mi si scaldano. Ormai è questo l’effetto che mi fanno i complimenti di Alessio. Non è mai scontato, non si sofferma solo all’apparenza, ma riesce a scavare nel profondo.
Mi riscuoto e torno a concentrarmi sul piano. «Ormai è tardi per cambiare il piano. Atteniamoci alla tua idea iniziale e preghiamo che funzioni.»
«Alla peggio potrei stendere quei due con qualche mossa di taekwondo.»
«Pratichi il taekwondo?»
«No. Ma ho visto molti film di Bruce Lee.»
Alzo gli occhi verso l’alto e sospiro. Per fortuna che ho fatto il callo ad atteggiamenti simili, stando vicino a quello spaccone di Chat Noir.
Allungo una mano verso i sedili posteriori, afferro il berretto e lo metto sulla testa. Mi ballonzola e la visiera mi finisce sul naso.
Troppo grande anche questo. «Dì un po’, Alessio. Questa roba apparteneva al fratello di Dwayne Johnson?»
«Piantala di brontolare, ciliegina.» Mette su un broncio adorabile e incrocia le braccia al petto. Quando fa così, sembra un bambino a cui hanno vietato il cioccolato. «Io ho fatto del mio meglio.»
«Va bene, va bene.» Strappo i due lacci per stringere il cappello e li annodo. Lo infilo di nuovo, stavolta calza meglio. «Diamo il via all’operazione, prima che ci ripensi.»
Alessio si esibisce nel saluto militare. «Agli ordini, boss.»
Smonta dall’auto, lo imito e mi dirigo al portabagagli. Prendo lo zaino con il mio vestito di ricambio e scarpe e lo metto in spalla. Eseguo la stessa operazione con la sacca dell’abito da sfilata.
Mi incammino ingobbita dietro Alessio. Forse avrei dovuto ricorrere alla trasformazione in Stiletto in modo da non fare tutta questa fatica nel trasportare i vestiti, ma Tikki già non era d’accordo con il mio piano – che di legale ha poco o nulla – figuriamoci usare il potere per un interesse personale.
In realtà, nemmeno io ero molto propensa a questo piano dopo averne parlato con Alya, Adrien e Nino, ben conscia che tutto questo va ben al di là delle mie assurde strategie che inventavo a Parigi.
Alla fine, però, ha prevalso in me la voglia di sanare l’ingiustizia che ho subito e fermare per sempre il regno di terrore imposto dai Satiri. Ho dovuto lavorare tutta la notte per confezionare questo vestito, forse il primo che non ho disegnato sul quaderno dei bozzetti e quindi ignoto alla serpe che me l’ha sottratto. Certo, se dovessero eleggere un vincitore che non sia Sonia, sarebbe tutto più facile. Almeno lei non otterrebbe quello per cui mi ha ingannata, tradita ed insultata.
Uno dei due addetti alla sicurezza alza una mano e ferma Alessio. È un omone con i capelli a spazzola castani e il collo taurino. «Si identifichi, prego.»
Alessio estrae dal taschino la sua carta d’identità e la porge all’omone. «Sono Alessio Tancredi. Credo abbia sentito parlare di me.»
L’omone scambia un’occhiata con il suo compare, più tarchiato del primo, ma anche più muscoloso.
«Pensavo che i modelli entrassero dall’ingresso principale.»
Alessio fa spallucce. «Odio i flash dei fotografi e la calca prima di una sfilata. Mi deconcentra e finirà molto male: potrei inciampare e cadere, magari precipito giù dalla passerella e mi schianto contro qualche ospite d’eccezione in prima fila. Mi etichetteranno tutti come un disastro ambulante e non verrei mai più chiamato ad una sfilata, la mia stella si spegnerà per sempre e l’unico posto in cui potrei lavorare sarà in un fast food, dove qualche cliente scortese mi tirerà addosso la senape perché lui voleva il ketchup nel suo panino.»
I due tizi fissano Alessio con la bocca semiaperta e lo sguardo vacuo.
Devo ammettere che ha inventato una storia degna dei miei peggiori film mentali: e io sono una maestra dei film mentali. Se solo lo volesse, Tikki potrebbe scriverci un’antologia.
L’omone col collo taurino indica me. «E… lei? O lui?»
Chino il capo in modo che la visiera mi copra il viso.
Alessio schiocca le dita. «È la mia assistente. La perdoni, è molto timida, ma quando si tratta di sfacchinare, non si risparmia mai. Non potrei andare da nessuna parte senza di lei.»
«Senza autorizzazione, non posso farla entrare.»
«Allora io vado via. E lei, mio caro amico, dovrà giustificare la mia assenza al preside dell’Accademia Bellerofonte, agli organizzatori della serata e, soprattutto, a mio padre che è uno dei principali finanziatori.»
«I-io…»
Alessio mi cinge le spalle con un braccio e ci voltiamo. «Manderò anche un esposto, sottolineando quanto il servizio sia stato sgarbato nei miei confronti.»
«Si fermi, signor Tancredi.» È la voce dell’altro membro della sicurezza. «Se garantisce lei per la signorina, può passare.»
Alessio si dipinge in faccia un sorriso trionfante. «Con le buone maniere si ottiene tutto.»
Superiamo i due sorveglianti e ci addentriamo nel padiglione.
Un lungo corridoio si affaccia in diversi camerini per la preparazione di modelli e modelle che parteciperanno alla sfilata. In fondo, si apre il backstage.
C’è un’umidità che fa paura. Mi sento già sudata, ancor prima di iniziare. Ho anche le gambe che mi tremano.
Alessio mi sussurra nell’orecchio. «Rilassati. La parte difficile è superata.»
«Dubito fosse questa la parte difficile.»
«Fidati di me.» Mi strizza l’occhio. «In ogni caso, mi prenderò io l’intera responsabilità di quello che accadrà.»
«Sai che non te lascerò fare mai.»
«E, invece, sì, mia cara. Tu potresti rischiare l’espulsione, cosa fuori discussione. Io, invece, mi beccherò solo una lavata di capo e potrei saltare un paio di sfilate.»
«E ti sembra poco?»
«Non è la fine del mondo. Come hai potuto constatare, me la cavo abbastanza bene a discutere. E mio padre è anche più bravo di me.»
Incrocio indice e medio. «Spero che tu abbia ragione.»
Ci infiliamo nel camerino di Alessio e chiudiamo la porta.
La fase uno del piano è completata.
 
***
 
Un venticello tiepido filtra dalla finestra socchiusa del camerino. Da un po’ di tempo le giornate alternano mattinate calde ed afose a serate piuttosto fredde.
Alessio sta facendo la spola tra il backstage che precede la passerella, le grosse aree riservate alle modelle di accompagnamento e alle loro truccatrici e il camerino, per accertarsi che io mi trovi ancora qui.
Non lo vuole dare a vedere, ma è angosciato dalla possibilità che qualche ospite non desiderato entri all’improvviso qui dentro e mi scopra. Non saprei dire, però, se teme di più un eventuale scandalo nel trovare una giovane imbucata oppure che mi caccino in malo modo.
Io comunque non ho intenzione di starmene tutto il tempo qui a rigirarmi i pollici. La sfilata inizierà a breve e i Satiri potrebbero attaccare da un momento all’altro.
Tre colpi bussano alla porta. Ne seguono altri due brevi e uno lungo.
È il segnale.
Apro la porta, dinnanzi a me si palesa il professor Ursi in completo elegante. Per stasera ha deciso di rinunciare agli occhiali da intellettuale, cosa che gli dà un’aria più da uomo d’affari.
«Buonasera, professore.» Mi scosto di lato per farlo entrare.
In risposta ottengo un mugugno. È palese che abbia ancora dei dubbi riguardo il piano che, suo malgrado, lo vede coinvolto fino al collo. Uno come lui non avrebbe mai agito in questo modo, creando sotterfugi pur di imbucare una mia creazione, una mia vera creazione, alla sfilata soppiantando l’eventuale vincitore. Ma è anche vero che lui odia le ingiustizie e, alla luce della testimonianza di Alessio, non ha potuto chiudere un occhio sull’infamata orchestrata da Sonia.
Ursi comincia a camminare in tondo per il camerino, ogni volta che si ferma davanti allo specchio scuote il capo e si sistema la cravatta come se questo gesto lo aiutasse a scacciar via l’ansia.
«Tutto questo è una follia, Marinette.»
«Lo so, professore. E se lei decidesse di non aiutarmi, lo capirei e… sono disposta a rinunciare al mio piano.»
Ursi si pinza la radice del naso. «Davvero lo faresti? È da quando Alessio me l’ha proposto che mi chiedo fin dove sei disposta a spingerti.» Sospira e si siede sulla sedia di fronte allo specchio. «Non so nemmeno perché ho accettato di aiutarvi: questa… cosa va ben oltre una semplice bravata da ragazzini.»
Se solo sapesse che sono qui per tutt’altro. «Non posso darle torto, professore.»
«Oltretutto, sei il ritratto della tranquillità. Come ci riesci?»
Faccio spallucce. «Mi duole ammetterlo, ma non è la prima volta che mi imbuco ad un evento dove non dovrei essere. Quando ero a Parigi, mi travestii da ragazzo solo per poter partecipare ad un party esclusivamente per maschi organizzato nella casa del ragazzo di cui ero…» Mi schiarisco la voce. «Del ragazzo che mi piaceva, dando vita a Marinò, con tanto di baffi e occhialoni buffi. Inutile dirle che mi scoprirono quasi subito. Però, a ripensarci, fu anche divertente.»
«E io che credevo che fossi una ragazza seria e pacata.» Gli sfugge una risatina. «Ora scopro che sei abile quanto una spia.»
Faccio eco alla sua risata. «Non direi proprio. Sono un disastro ambulante. Solo di recente ho iniziato a lavorare sul mio autocontrollo. All’epoca, agii solo perché annebbiata dalla mia cotta, ora lo faccio per un senso di giustizia.»
Ursi pare convincersi alle mie parole ed annuisce in silenzio.
In fondo, il vero motivo che mi spinge ad agire stasera è quello: il senso di giustizia. Solo che il mio obiettivo non è Sonia, ma i Satiri dell’Anarchia.
Stasera colpiranno e io voglio farmi trovare pronta.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Alessio si sistema il cravattino di seta nera appuntato al colletto. Lancia un ultimo sguardo alla sua immagine riflessa nello specchio. «Come sto?»
Sorrido. «Sei perfetto.»
Alessio si volta. «Detto da te, vale dieci volte di più rispetto al giudizio degli altri.» La sua espressione diviene seria. «Ricorda, dopo la mia presentazione sfileranno le raga—»
«Le ragazze della collezione estate. Poi, sarà la volta della presentazione delle prossime date e, infine, sfilerà il capo vincitore della gara.» Gli picchietto la spalla. «Tranquillo, ricordo tutto.»
Alessio mi tira a sé e mi abbraccia, accarezzandomi la schiena. «Andrà tutto bene.»
«Lo so. Nel caso non dovesse, darò a te tutta la colpa. Sappilo.»
Alessio si stacca dall’abbraccio e schiocca la lingua. «Sei terribilmente furba.» Abbassa la maniglia. «Fa attenzione.»
Gli rispondo facendogli l’occhiolino. La porta si chiude.
«Perdonami, Alessio, ma non potevo coinvolgerti ulteriormente,» mormoro a voce bassa.
Seguendo il piano architettato da Portanova, l’attacco dovrebbe iniziare proprio a cavallo tra la fine della sfilata e la presentazione delle nuove date, nel momento in cui l’affluenza degli invitati sarà al culmine.
Mi spoglio della tuta da addetto alla manutenzione, apro lo zaino e indosso la tuta bianca e rossa che utilizzo di solito per le ore di educazione fisica.
Tikki svolazza intorno a me. «Cosa farai se qualcuno dovesse sospettare di te?»
«Tutto questo piano è un azzardo, Tikki.» Il polso accelera. «Ma, sai come si dice: “La fortuna aiuta gli audaci”.»
«E a te l’audacia non manca di certo.»
Calzo le scarpe e infilo il berretto sulla testa, nascondendo a dovere i capelli. Metto lo zaino in spalla, lascio che Tikki si nasconda all’interno della giacca ed esco.
Faccio un passo verso l’uscita posteriore, mi fermo. Prima che cominci il tutto, vorrei almeno dare un’occhiata alla passerella; non so se un’occasione del genere mi ricapiterà molto presto.
Passo davanti allo stand con le modelle pronte a sfilare, nessuno tra staff e tecnici sembra badare a me. Mi accosto al tendone e sbircio verso l’esterno.
La platea è gremita di ospiti; gioielli, pagliette e lustrini apposti sui vestiti eleganti brillano sotto le luci di grandi faretti colorati fissati al soffitto. Delle torce a fuoco circondano la passerella, creando un ambiente molto suggestivo.
È uno spettacolo fantastico, mi piange il cuore al pensiero di dovervi rinunciare.
Arretro di un passo, ma mi blocco. In prima fila, sul lato opposto della passerella, è seduta Letizia. Alla sua sinistra, siede un tipo ben piantato, spalle e collo larghi, completo nero; alla destra, invece, c’è la ragazza che lei ha etichettato come sua cugina, vestita con un abito dorato, una cascata di riccioli biondi le incornicia il volto.
Letizia ha di nuovo quell’atteggiamento strano dell’altro giorno. È sempre stata piena di energia, pimpante e con la lingua affilata; stasera sembra spenta. Ha la coda ai capelli e porta una semplice camicetta bianca, pantaloni e scarpe basse. Occhiaie profonde le solcano il viso e il punto vita è fin troppo magro. Qualcosa non va.
  Schiaffeggio il tendone e mi allontano. Con tutti i problemi che ho, non posso soffermarmi anche sulle angosce di Letizia. Magari, quando tutto sarà finito le potrei parlare…
Scaccio via il pensiero e allungo il passo. Ho i minuti contati; finora tutti gli attacchi degli anarchici sono stati effettuati con una precisione chirurgica. Oggi dovrebbe essere quello più eclatante, sono certa che spaccheranno il secondo.
Raggiungo la porta tagliafuoco, abbasso il maniglione ed esco all’esterno. I due energumeni che pattugliavano l’ingresso sono spariti. Come aveva previsto Portanova nei suoi appunti, avevano l’incarico di sorvegliare chi entrava solo fino ad un certo punto della serata, poi si sarebbero dovuti spostare sul lato della passerella, lasciando questo spazio sgombro.
Il parcheggio sul retro è ancora deserto fatta eccezione per l’auto di Alessio e un’utilitaria color argento. A qualche metro dall’ingresso, c’è la zona di carica-scarico merci, ma anch’essa è vuota.
Strano: è da lì che dovrebbero arrivare i furgoni che trasportano gli abiti della serata. Alcuni li avranno già scaricati, ma gli altri?
Un rombo cupo di motore giunge dal vicolo che conduce allo spiazzale. Sono due furgoni bianchi, dall’andatura lenta.
Lancio uno sguardo intorno a me. Sulla sinistra c’è un basso muretto sormontato da una spoglia siepe. Non è un granché, ma spero mi nasconda a dovere. Mi acquatto e sbircio il parcheggio.
I due furgoni accostano di sbieco dietro l’auto di Alessio. I due autisti smontano dai rispettivi posti, si scambiano un cenno e vanno ad aprire i portelloni posteriori. Un coro di voci gracchianti, cavernose e squillanti si solleva dagli interni dei furgoni. Insulti, improperi di ogni tipo e schiamazzi di scherno si alternano nella cacofonia di voci.
Piegata sulle ginocchia mi sposto fino all’angolo del muretto e allungo il collo. Il gruppetto di uomini stanno imbracciando fucili d’assalto, mitragliette, coltelli e tirapugni.
Ognuno di loro indossa una maschera nera con le più disparate fantasie colorate di rosso.
Ci siamo.
Faccio uscire Tikki dalla fodera della giacca.
Scocca una rapida occhiata al gruppetto di Satiri e mi guarda preoccupata. «Ti prego, Marinette. Fa attenzione.»
Annuisco. «Tikki, trasformami.»
«Che diavolo è?» urla uno dei Satiri.
Il lampo di luce che accompagna la trasformazione deve averli messi in preallarme.
Spicco un salto e atterro sul tettuccio di uno dei furgoni. Gli anarchici caricano le loro armi.
Uno di loro mi indica. «È quel ragazzo di cui parlava il capo.»
Il compagno vicino toglie la sicura alla pistola. «Facciamogli passare la voglia di giocare.»
Balzo su un trio vicino prima che riescano a puntarmi contro i loro fucili; assesto sui primi due un calcio sulle loro tempie, atterro di schiena sull’asfalto. Spingo con le braccia a terra, mi rizzo in piedi e tiro un montante sul terzo.
«Non sparate!» urla uno dei due autisti. «Ci sentiranno.»
Bene. Se non possono usare armi da fuoco, saranno costretti ad affrontarmi corpo a corpo.
Una dozzina di coltelli, pugnali e tirapugni luccicano tra le mani dei Satiri. Mi hanno circondata. Agguanto il braccio di quello più vicino a me, con uno strattone lo proietto su altri due compari e rovinano tutti a terra come birilli da bowling.
Due Satiri mi aggrediscono da due lati opposti, uno di loro cala dall’alto il pugnale. Salto a sinistra, la lama mi passa a un pelo dallo stomaco e colpisce la spalla dell’altro, che urla di dolore.
Altri tre Satiri si accalcano alle mie spalle. Mi piego sulle ginocchia e scivolo sotto le gambe di uno, lo sgambetto e provoco un effetto domino per cui anche gli altri finiscono a terra. Strappo via dalle mani di un anarchico il fucile, lo sollevo oltre la mia testa e lo scaglio contro il tizio più lontano. Il calcio del fucile lo prende in pieno sulla testa e lo manda nel mondo dei sogni.
Mi volto. In piedi è rimasto solo un Satiro, gli altri giacciono a terra doloranti o spaventati dal mio show.
Questo tipo ha il fisico tozzo e dei riccioli di barba ispida che gli fuoriescono dalla maschera. Apre e chiude le mani per esibire i suoi tirapugni dorati.
Gli faccio segno di colpire, in modo da provocarlo. Lui ringhia come un mastino e carica a testa bassa. Schivo un diretto, gli afferro il braccio e gli tiro un pugno sulla gola; dalla sua bocca spira un rantolo. Gli stringo la mano e gliela rigiro dietro la schiena. Gli pianto un tacco sul fondoschiena, mandandolo a sbattere contro il furgone.
Lo tiro per il colletto della maglietta, lo giro e gli afferro la carotide, l’altra mano a tappargli la bocca. Una ginocchiata nello stomaco e si piega carponi senza cacciare un urlo.
Rantola e sputa a terra. «Non… non puoi fermar…» Aspira più aria che può. «Dentr… dentro ce ne sono altri, misc… mischiati alla folla.»
Lo spingo con la punta del piede sul fianco e lo costringo a mettersi supino. Mi piego su un ginocchio che gli premo sullo sterno. «Dimmi un po’, ti sei guardato in torno? Eravate in dieci o forse di più ma non ho nemmeno un graffio. Credi che abbia paura di qualche vostro compare infiltrato lì dentro?»
Gli levo la maschera.
Il tizio ha due occhiaie viola e gli zigomi pronunciati che disegnano un volto scavato.
Strabuzza i suoi occhietti castani. «Ti… ti prego non farmi altro male…» 
Lo libero dal ginocchio. «In gruppo fate i superiori, ma presi singolarmente siete un branco di vigliacchi, così come il vostro capo. Dimmi dove lo posso trovare.»
«Non… non lo so. Solo gli autisti dei furgoni lo sanno.»
Mi volto a guardarli. Sono ancora a terra, ma diversi di loro si stanno riprendendo.
Afferro il tizio per il colletto, con l’altra mano indico il gruppo di Satiri. «Ora dirai ai tuoi compari di ritirarsi. Altrimenti, verrò di nuovo e non sarò benevola come adesso. Sono stata chiara?»
«Sì… sì, ti prego lasciami andare…»
Lo accontento. Mi rialzo, apro lo yo-yo e dirigo il fascio di luce verso le armi a terra. La magia del Miraculous le risucchia tutte. Senza quelle, sono del tutto indifesi e non potranno fare del male ad anima viva. Raccolgo lo zaino e salto via.
Ora devo solo aspettare le loro prossime mosse.
 
***
Come avevo previsto, il tipo con la barba non ha perso tempo e subito si è rialzato in piedi non appena sono sparita alla sua vista.
Appollaiata sul tetto del padiglione, attendo che cada dritto nella trappola che ho architettato per lui e per il questore. Stringo tra le dita lo smartphone che userò per inchiodarlo e assicurarlo alla giustizia. La città merita un leader delle forze dell’ordine migliore di un uomo corrotto dalla sua stessa ambizione.
Il tizio con la barba claudica fino ai suoi compari, alcuni ancora privi di sensi, altri storditi ed incapaci di riuscire a comprendere quanto successo. Si china in avanti e schiaffeggia uno dei due autisti dei furgoni. Assicuratosi che non è in grado di reagire, fruga nella sua tasca e pesca un mazzo di chiavi.
Gira i tacchi e corre zoppicando al furgone, si infila dentro e parte.
Perfetto.
Mi piego sulle ginocchia e spicco un salto; stendo lo yo-yo, avvolgendolo intorno al collo di un lampione, e atterro senza far rumore sul tettuccio del furgone in movimento.
Mi stendo prona, allargo le braccia e agguanto le due estremità per evitare di scivolare via.
Il furgone accelera lungo una stradina che conduce verso la periferia della città. Sul fondo, si erge un prefabbricato dall’aria abbandonata, poche luci stradali illuminano il tratto che conduce ad un’entrata il cui cancello è stato divelto. Ampie folate mi sferzano il viso e mi intirizziscono le guance.  
Il furgone procede sullo sterrato, la strada dissestata provoca degli scossoni che rimbombano dal tettuccio nel mio stomaco. Dal terreno sale un olezzo di ferro battuto e fogna.
Il furgone si ferma davanti ad un ampio ingresso, un cordone rosso e bianco, che forse serviva per sigillare l’edificio da visite, penzola da una colonna in ferro e svolazza agitato dal vento.
Il tizio smonta dal posto di guida e si trascina all’interno dell’edificio, borbottando qualcosa sulla sua paga o qualcosa del genere. Credo che resterà molto deluso.
Mi sollevo sulle ginocchia e mi guardo intorno. La desolazione totale mi circonda. Se prima avevo una certa tempra alimentata dalla fiducia che riponevo negli uomini al servizio del Signor Tancredi, ora me la dovrò cavare da sola.
Salto giù e seguo a distanza il Satiro, puntando i piedi per fare meno rumore possibile. Un corridoio con le finestre sporche e una moquette deturpata dallo scorrere del tempo conduce a una sala con un macchinario posto al centro.
Diversi scatoloni imballati ed impolverati mi offrono un’adeguata copertura. Accendo lo smartphone ed imposto la modalità video. Avvio la registrazione.
Seduti sul nastro trasportatore ci sono il questore Giovanni Portanova e il gigante che ho affrontato in passato durante le due scorribande degli anarchici.
Il tizio con la barba avanza verso di loro, a metà strada si inginocchia. «Abbiamo seguito le sue indicazioni, signore. Ma quella ragazza…» Raschia con la gola e sputa a terra. «Quella ragazza è un demonio.»
Portanova guarda il gigante inarcando un sopracciglio. «Ragazza? Dunque, la causa delle nostre sciagure è una semplice ragazza che ama vestirsi in modo sciocco?»
Stringo il pugno. Tra un po’ vedrai quanto sciocco sembrerai tu quando avrò finito di prenderti a schiaffi.
Portanova scuote la testa. «E gli altri dove sono?»
«Catturati. Sono fuggito prima che arrivassero i rinforzi.»
«Quali rinforzi? Sono io che gestisco l’ordine in questa città…» Sventola una specie di walkie-talkie con il display a colori. «Non ci sono state segnalazioni, quindi nessuno sarebbe giunto lì per arrestarvi.»
Il tizio si prona. «Le assicuro che c’erano. Quando la ragazzina mi ha sopraffatto, i nostri uomini che erano all’interno hanno urlato nei microfoni chiedendo aiuto perché stavano per essere sopraffatti.»
Portanova si ficca un mozzicone di sigaretta spenta tra i denti. «Sei un idiota.» Fa un gesto pigro e volta il capo.
Il gigante si alza in piedi ergendosi in tutta la sua colossale figura. Avanza a passi pesanti con un ghigno dipinto sul volto. 
Il tizio alza le mani. «La prego! Ho fatto tutto quello che—»
Il gigante apre il palmo, una nube nera si manifesta dalle dita e avvolge la gola del tizio.
Che diavolo…
La nube si intensifica fino a formare un vero e proprio cappio che si stringe; il tizio rantola finché la sua voce non si riduce ad un flebile sussurro. La nube intorno si dissolve e lui crolla a terra, l’incarnato è diventato violaceo.
Sono sgomenta. Quel gigante possiede dei poteri soprannaturali…
Questo spiega il motivo della sua forza devastante in grado di tener testa ai poteri del mio Miraculous. Chiudo gli occhi e mi accorgo di tremare. Non riesco a capire se sia per ciò che ho visto o per la paura di affrontare di nuovo quel tipo. Anche se ho scoperto dei suoi poteri, non ne conosco la natura, men che meno fin dove possono spingersi.
Poggio il palmo su una pila di scatoloni impolverati, torno ad inquadrare i miei due obiettivi.
Portanova si toglie il mozzicone da bocca e lo schicchera via. «So che sei qui, ragazzina. Fatti vedere, non essere codarda. O forse hai troppa paura per quello che hai visto?» Ride. «Ne dubito, onestamente. Ritengo che anche tu, come me, abbia delle abilità speciali, qualcosa che trascende la semplice comprensione umana.» Si alza e si spolvera i pantaloni grigi. «Ho ragione? Credo proprio di sì.»
Il gigante prende a passeggiare intorno al corpo esanime. Tre passi avanti, batte un piedone a terra, ruota il corpo e compie tre passi nella direzione opposta.
Continuo la registrazione. Una goccia di sudore mi cola dalla fronte: dalle parole del questore, mi sembra di capire che il gigante risponde solo su suo comando. È lui a tenere in mano le briglie: sottomettendolo, vincerò anche il gigante.
Portanova si picchietta un dito sulla tempia. «Le persone comuni non possono capire ciò che guida noi esseri speciali. Queste abilità sono dei doni riservati a pochi eletti. Siamo stati scelti, mia cara. Io, però, ho deciso di far fruttare meglio ciò che avevo a disposizione. Io ho scelto di schiacciare l’insolenza dei poveri stolti; ho plasmato a mio piacimento i pensieri dei cittadini ed ora sono pronto a farmi eleggere da loro come unico eroe. Anche mia moglie si pentirà di avermi lasciato solo.»
Fermo la registrazione, il cellulare salva in memoria il filmato. Ho abbastanza materiale per inchiodarlo. Questo video, insieme a tutte le foto e gli appunti che ho fotografato nel suo appartamento, sono la chiave per voltargli contro l’intera opinione pubblica e le altre autorità che gestiscono le forze dell’ordine.
Apro lo yo-yo e vi ripongo dentro lo smartphone.
Prendo un lungo respiro. Vorrei tanto evitare uno scontro diretto, ma temo di non avere scelta. Per estirpare la minaccia di Portanova, devo privarlo dei suoi poteri o continuerà a perseguitare me e Milano.
Esco dal mio nascondiglio e mi paleso di fronte ai miei due avversari.
Il gigante ghigna. «Sei finita.»
Portanova porta la mano lungo il fianco, con le due coppie di dita forma una V e il gigante si ferma. «Non ancora. Voglio prima conoscere meglio la mia nemesi mascherata.»
Sorrido. «Vuoi procedere con le presentazioni? Io conosco già il tuo nome, Giovanni Portanova.» Mi indico col pollice. «Tu, invece, puoi chiamarmi Stiletto.»
«Sembri molto sicura di te, Stiletto. Ma non capisco dove appoggi questa tua sicumera, visto che nei due scontri precedenti hai sempre avuto la peggio.»
«Sono stata colta di sorpresa. Non succederà di nuovo.»
Portanova schiocca le dita.
Il gigante carica ringhiando a denti stretti. Inclina in avanti il busto e balza nel tentativo di placcarmi. Pianto i piedi a terra, mi piego all’indietro e poggio i palmi a terra. Il gigante mi vola sopra e mi manca del tutto; si va a schiantare contro una montagna di scatoloni e li manda in frantumi, schiocchi di ogni tipo si levano nell’aria, assieme al rumore di vetri che va in frantumi.
Mi risollevo e mi volto. Due calici d’argento piombano a terra, rimbalzano contro i miei piedi e rotolano via. Dalla matassa di carta, cartone e polistirolo sbuca la testa pelata del gigante, gli occhi gli sono diventati neri, pupilla e sclera si sono fusi in un’unica tonalità. Con una sola sbracciata si libera della roba che lo circonda e sbuffa; le sue braccia vibrano, i grossi muscoli delle braccia e del collo si contraggono spinti dalla furia crescente.
Alle mie spalle, Portanova scoppia a ridere. «È inutile, Stiletto. Lui trae forza dalla mia voglia di rivalsa su questa società che mi ha incatenato ad una scrivania e mi ha condannato all’oblio. Anni e anni di frustrazione mi hanno donato la forza necessaria a brandire questo potere.»
Il gigante si avvicina lento e minaccioso. Sfioro con i polpastrelli lo yo-yo, ma ci ripenso. Sarebbe inutile contro di lui, devo sfruttare la superiorità nell’agilità se voglio avere qualche speranza.
Il gigante irrigidisce le mani, una nebbiolina corvina stilla dai polpastrelli. Si anima e si ingigantisce borbottando come se fosse della pasta lievitata. Il gigante stringe le dita e la nebbia diventa solida, formando una scure grande quanto una pala da giardino.
Il gigante la mulina sopra la sua testa e cala la lama dall’alto ad una velocità impressionante. Mi sposto di lato appena in tempo, la scure si pianta nel terreno e vi apre uno squarcio. Il gigante non perde tempo, la estrae da terra e carica un altro attacco, mirando al mio petto. Arretro schivando ogni colpo, la mia giacchetta sembra immune alla lama affilata ma comunque vibra ad ogni colpo.
Le mie spalle battono contro un muro. Sono alle strette.
Il gigante ghigna, sfoderando dei denti da cui stillano gocce nere come pece. Solleva l’ascia oltre la spalla, stringendola con entrambe le mani e cala il colpo.
Incrocio le braccia davanti al viso, mi chino leggermente ed impatto contro il manico della scure. Muscoli ed ossa esplodono per il dolore, e io vengo sbattuta a terra dallo slancio.
Mi massaggio gli avambracci. Ho già il fiato corto, mentre lui sembra non avvertire la minima fatica nonostante l’immensa forza bruta che ha impresso nei suoi colpi. Ho fatto un errore di valutazione: non sono più agile, nonostante la palese differenza di mole.
Mi rialzo in piedi e faccio un passo indietro. Ho gli arti che bruciano così come la pelle, ma non posso mollare.
Prendo un passo di rincorsa e gli sferro un calcio in faccia. Il gigante geme per il dolore, la sua mandibola manda uno schiocco. Gli afferro i lati del collo, sollevo le ginocchia e lo colpisco di nuovo al mento. La sua testa effettua una frustrata all’indietro. A mezz’aria, tiro a me le gambe e le stendo di scatto, piantandogli entrambi i tacchi nel petto.
Il gigante resta in piedi, ma arretra e barcolla. Sembra sorpreso dalla mia offensiva.
Prendo un’altra rincorsa, salto e lo colpisco a piedi uniti alla bocca dello stomaco. Lui barcolla ancora, una gamba gli oscilla; sembra in equilibrio precario.
Gli corro addosso, salto, gli giro attorno alla testa avvolgendogli intorno le braccia e lo trascino a terra, la sua nuca sbatte a terra con un tonfo. La scure si smaterializza, lasciandosi dietro una nebbiolina scura che si dissolve in un soffio.
Metto mano allo yo-yo e avvolgo il cavo intorno al busto del gigante che sembra inerte, privo di vitalità. Non ha perso nemmeno una goccia di sangue, è chiaro che non sia umano.
Giro il capo ed inchiodo Portanova con lo sguardo. «Dicevi?»
Lui comincia ad applaudire, senza perdere il suo sorriso beffardo. «I miei complimenti. Ti avevo sottovalutato. Non accadrà più.»
Allarga le braccia e spalanca la bocca. Dei crepitii giungono dal corpo del gigante, le sue membra si dissolvono in tanti piccoli frammenti che fluttuano in aria. Iniziano a vorticare formando una sorta di mulinello, poi schizzano in avanti come proiettili, crivellando il busto di Portanova.
I suoi arti sono sconvolti da spasmi continui, i suoi occhi strabuzzanti si spaccano di capillari violacei e si ingrandiscono fino a diventare delle biglie lucide.
La tempesta di frammenti si arresta e Portanova ritrova il suo ghigno. Dalla sua schiena sbucano un paio di braccia muscolose e nere, si piantano sulle sue spalle e fanno pressione per far uscire il mezzo busto di una creatura mostruosa. Spalanca le fauci e urla rabbiosa facendo tremare mura e pavimento del fabbricato.
Dalla testa si dipartono due corna arcuate, dalle cui punte sprizzano scintille azzurre. Sul petto massiccio risalta il simbolo del pavone rovesciato, in rosso, come se fosse un marchio impresso a fuoco.
La creatura cinge le braccia di Portanova con le sue, gli stringe i polsi e tra le mani del questore si manifesta un’arma ad asta lunga. La agita e pianta la lama nel petto del Satiro, che svanisce; dalla punta sprizzano altre scintille. Un’alabarda.
La mia schiena è scossa da brividi freddi. Non ho mai visto in vita mia qualcosa di più spaventoso di questa roba, nonostante tutti gli akumizzati che ho affrontato.
Portanova solleva di nuovo l’alabarda e la cala a mezz’aria, una lama di vento sferza in avanti e si abbatte su di me. Vengo catapultata sul muro alle mie spalle, la schiena striscia sulla parete. Fitte di dolore si propagano lungo l’intera spina dorsale.
Mi alzo sui gomiti a fatica.
Portanova avanza lento, brandendo l’alabarda ora nella mano destra ora nella sinistra.
Non ho altra scelta che ricorrere al mio potere.
Lancio lo yo-yo in aria. «Lucky Charm!»
Dal bagliore rosso si manifesta un libro antico. Mi cade tra le braccia. Il titolo recita SIMBOLI ESOTERICI E PAGANI.
È lo stesso libro che ho consultato in biblioteca settimane fa.
Portanova emette una specie di singulto rantolante. «Vuoi battermi a colpi di cultura?»
Cala di nuovo l’alabarda dall’alto, ma stavolta riesco a saltare appena in tempo. Mi appendo ad una trave che regge il soffitto, il libro sottobraccio. Salto di trave in trave e raggiungo un luogo più buio, così da guadagnare qualche secondo di tempo.
Osservo la copertina del libro. Fu Alessio a trovare la corrispondenza tra il simbolo del pavone e quello tatuato sul collo del gigante; ora si trova sul petto di quella creatura.
Alesso disse che la cultura pagana lo associava alla superbia, uno dei sette vizi capitali.
Un sentimento che Giovanni Portanova sembra aver abbracciato in pieno, vista la sua ambizione a coprire cariche importanti in città, sacrificando e calpestando anche l’incolumità di innocenti cittadini.
«Dove ti sei nascosta, ragazzina?» La voce di Portanova si fa sempre più cupa e grottesca. «Vieni a giocare.»
Mi premo il libro sulla fronte. Il primo attentato dei Satiri fu l’attacco alla metropolitana. All’epoca io avevo già incontrato Portanova, in quel negozio dove…
Il pendente!
Anche lì c’era il simbolo del pavone. All’inizio non ci facevo caso perché era rovesciato, ma ora tutto torna. E i poteri che questo pendente dona si fondano sui sentimenti di rivalsa di Portanova.
E io conosco un potere in grado di manipolare i sentimenti creando creature mostruose; il suo simbolo è proprio il pavone…
Quella creatura è un sentimostro.  

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Salto da una trave all’altra in modo da non svelare la mia posizione. Il sentimostro comandato da Portanova continua a scagliare lame di vento verso l’alto nella speranza di colpirmi. Una delle travi si è inclinata sotto la forza bruta del potere di quell’alabarda.
Non posso affrontarlo mentre è al suo pieno potere. Devo riuscire a strappargli il pendente, romperlo e liberare l’amok imprigionatavi. Non si merita tanta grazia da parte mia, ma vorrei evitare di colpire forte il questore.
L’ombra del sentimostro emette un ruggito. «Dove diavolo sei?»
Quindi ha mantenuto una certa indipendenza come quando i due corpi erano separati e il sentimostro si era manifestato in quel gigante dalla forza bruta.
Balzo giù da una trave e atterro silenziosa su una scatola incellofanata. Un altro ruggito del sentimostro fa oscillare le lampade a neon. Il volto di Portanova è screziato da vene scarlatte: più resta legato al sentimostro, più il suo animo viene corrotto. Per aver attecchito in modo così decisivo, ci doveva essere già un serio problema nella mente del questore.
Attendo che mi dia le spalle, prendo bene la mira e gli scaglio il tomo che avevo con tutta la forza che ho. Il libro rotea, ma il sentimostro si volta di scatto e lo afferra. Lo sbatte a terra, Portanova solleva l’alabarda e la cala con furia sulla copertina. Scarica una serie di colpi finché non è soddisfatto.
Sta perdendo il senno.
Entrambi sollevano lo sguardo su di me. Impugnano l’alabarda a quattro mani e caricano. Salto a destra, il fendente dall’alto mi manca di un soffio, lo spostamento d’aria che provoca mi sferza il viso e brucia.
Il sentimostro si separa per un attimo da Portanova e scaglia un pugno che mi colpisce in pieno petto. Volo all’indietro come una bambola di pezza, atterro sul nastro trasportatore con le braccia scomposte.
Muovo gli arti, mille spilli mi pungono in tutto il corpo. Devo ringraziare il potere del Miraculous se ora non ho tutte le ossa rotte. Quel pugno aveva una potenza spaventosa.
Il sentimostro si riunisce al suo padrone, abbatte al suolo l’alabarda nera e la terra trema. I finestroni del fabbricato vibrano fino a frantumarsi, milioni di frammenti di vetro piovono dall’alto. Un’aura viola circonda i due e li protegge dalle schegge.
Portanova scatta in avanti, cala l’alabarda ancora e ancora. Continuo a schivare senza riuscire a rialzarmi. Lancio lo yo-yo, ma il sentimostro lo intercetta, serrandolo nel pugno. Dà uno strattone e mi tira a sé.
Mollo la presa appena in tempo e, sfruttando lo slancio, pianto i piedi su una colonna. Mi rituffo a proiettile contro Portanova e gli mollo una testata alla base del mento. Lui cade di schiena, il sentimostro si libra in volo separandosi di nuovo dal suo corpo.
Devo sfruttare il momento. Frugo nelle tasche del questore: a parte un mazzo di chiavi e il portafoglio, non ha niente. Nessun pendente, maledi—
Un altro montante mi colpisce sotto alla mascella e mi fa volare tra alcuni scatoloni. L’atterraggio stavolta è stato morbido, ma la testa adesso mi gira come se fossi sulle montagne russe.
Accidenti, che male!
Gli orecchini cinguettano un bip. È il segnale che a breve la trasformazione terminerà.
L’urlo del sentimostro riecheggia tra le mura. Salto di nuovo sulle travi in alto e mi nascondo alla sua vista. Balzo su un’altra adiacente e mi calo tra due scatoloni, di fianco ad un manichino spoglio.
Non posso batterlo se non trovo il pendente e ho troppo poco tempo per farlo. Poggio il mento sullo sterno e respiro, chiudo gli occhi. Un’idea disperata mi attraversa la mente.
È una follia, ma al momento non vedo altre soluzioni.
«Ritrasformami,» sussurro. Dal fascio di luce si manifesta Tikki, metto la mano a coppa per farla atterrare.
Recupero un biscotto dalla pochette – per fortuna porto sempre con me una scorta – e glielo porgo. «Ho bisogno che tu faccia una cosa per me.»
Tikki addenta il biscotto. «Farò più in fretta che posso.»
«Non parlo di recuperare le energie, ma di qualcosa di più… pazzo.»
«Che hai in mente, Marinette?»
Mi metto le mani tra i capelli. «Portanova non ha con sé il pendente, quindi non posso liberarlo dall’amok. È molto probabile che lo tenga ancora conservato in quella teca, a casa sua. Io da qui non posso muovermi, ma tu puoi raggiungerlo facilmente e portarlo da me.»
Tikki spalanca i suoi occhioni blu. «Vuoi che ti lasci sola con quel mostro? Non se ne parla proprio.»
«È l’unico modo, Tikki. Portanova deve pensare che io sia ancora qui, o mi cercherà per tutta la città mettendo a rischio le vite di innocenti.» Sospiro. «Me la caverò. Ho fiducia nel fatto che sarai più rapida di un fulmine e tornerai prima che Portanova mi abbia trovato.»
«Marinette, io…» Esita, una zampetta gli copre la bocca. «Non posso…»
Chiudo le mani intorno al suo corpicino e faccio aderire la mia fronte con la sua. «Fidati di me.»
Le consegno un altro biscotto.
Tikki sbatte le palpebre. Spicca il volo e schizza fuori la fabbrica.
Ora, devo solo prendere tempo.
 
***
 
Dal casino che stanno provocando, Portanova e il sentimostro devono essere furiosi con me per essermi nascosta. Polvere e briciole di polistirolo aleggiano per l’ambiente.
«Dove sei?» urla Portanova.
Se non faccio qualcosa finirà per trovarmi. Devo distrarlo.
Raccolgo tutto il coraggio che ho. «Cos’hai intenzione di fare adesso? Scatenerai quel mostro contro la città e poi ti ergerai a difesa dei cittadini per fermarlo? Sei disposto a far soffrire povere anime innocenti pur di raggiungere i tuoi scopi?»
«Che cosa ne sai tu? Nessuno si è mai interessato di quello che volevo io. Il mio unico obiettivo era vivere nella gloria con una donna al mio fianco. Ma questa donna mi ha voltato le spalle, perché io non ero più sufficiente per lei. E allora l’ho punita, come punirò tutti i Satiri. E come punirò anche te.»
Altri scatoloni volano in aria. Erano piuttosto vicini al punto dove mi trovo io.
Ho bisogno di un’idea. In fretta. «Potevi dimostrarle che si sbagliava in tanti altri modi.»
Portanova prorompe in una risata tonante. «Cosa ne vuoi sapere tu?»
Afferro il manichino. È solo un mezzo busto tenuto su da una sbarra verticale, ma è più che sufficiente per tentare un diversivo.
La furia del sentimostro continua ad abbattersi sull’ambiente circostante.
Mi spoglio della tuta, restando in intimo, e vesto il manichino. Lego stretto l’elastico dei pantaloni in modo che non cada.  Il risultato sembra abbastanza soddisfacente.
Mi accovaccio dietro al manichino e attendo.
Gli scatoloni di fronte vengono disintegrati dai colpi dell’alabarda.
Uno…
La polvere si solleva, le scintille della lama crepitano.
Due…
I passi di Portanova si avvicinano nella coltre di polvere, che man mano si dirada.
Tre!
Spingo il manichino in avanti. Le rotelle sotto corrono e stridono. Passa accanto a Portanova e al sentimostro che si avventano su di lui con tutta la furia che hanno.
I colpi dell’alabarda lo riducono in frammenti. L’ultimo fendente dall’alto si pianta dritto nel ventre del mezzobusto.
Le braccia di Portanova tremano. «Dammi la tua energia.» Il volto gli si contrae in una smorfia. «Perché non funziona?»
Il sentimostro si volta di novanta gradi ed inchioda i suoi occhi fiammeggianti su di me. Anche Portanova si volta e mi fissa sbigottito. «Tu…» Mi punta contro l’indice. «Che fine ha fatto il tuo costume?»
Reggo il suo sguardo.
Portanova sogghigna. «Credi che mostrandoti così, indifesa, mi farai provare pietà?» Le quattro mani si serrano intorno all’impugnatura dell’alabarda. «Hai volato troppo vicino al sole ragazzina.»
Arretro di un passo, le spalle toccano il muro, la parete ruvida gratta sulla mia pelle nuda.
Portanova e il sentimostro levano l’alabarda oltre la loro testa.
Tendo i muscoli. Scatto verso il basso in una mossa avventatissima, infilo una gamba tra quelle di Portanova e gli calcio una caviglia. Scivolo alle sue spalle e inizio a correre, ma una mano mi artiglia i capelli. Scosse elettriche mi pervadono il corpo. Lacrime mi rotolano sulle guance.
È la fine…
«Marinette!»
La voce di Tikki! Un puntino rosso cala da un finestrone infranto e schizza nella mia direzione.
«Trasformami!» Il lampo rosso mi avvolge con il suo calore. Il sentimostro lancia un rantolo e molla la presa.
Effettuo una capriola e atterro sui tacchi. I miei fantastici tacchi a spillo.
Nella mano stringo il pendente. Tikki ce l’ha fatta. Siamo a fine gioco. 
Carico il pugno. Il pendente si circonda di un’aura viola, trema. In un attimo, vola via e va a posarsi nel palmo aperto di Portanova.
Se lo mette al collo e soffia aria dai denti digrignati. «Pensavi fosse così facile? Sei stata un’avversaria molto ostica, ti avevo sottovalutato, Stiletto. Ma hai commesso un errore e ora conosco anche il volto angelico che si nasconde sotto quel cappuccio e dietro quella mascherina.» Muove un passo in avanti. «Ricordo bene il giorno in cui ci siamo incontrati in quel negozietto e ti ho strappato di mano il pendente; è come se fosse stato un incontro voluto dal destino.»
Agito le braccia e scuoto le gambe a turno. I muscoli sono appena intorpiditi, ma non sento dolore. Posso reggere un altro round. Purtroppo, lui sa che il mio unico obiettivo sarà puntare al pendente che porta al collo, ma non ho scelta.
Ciò che è certo è che non posso affrontarlo alla cieca, senza avere una strategia.
Afferro lo yo-yo e lo lancio in aria. «Lucky Charm!»
Delle luci bianche si sollevano dai miei piedi e mi cingono il corpo, l’oggetto in alto brilla come un diamante costringendomi a socchiudere le palpebre. Il bagliore rosso si attenua e due spade dalla lama ricurva calano giù. Le afferro per l’elsa.
È la prima volta che il Lucky Charm mi suggerisce di lottare contro il mio avversario come se fosse un vero e proprio duello.
Quand’è così…
Mulino le due spade roteando i polsi e attendo che sia Portanova a fare la prima la mossa.
Lui non si fa attendere e carica il solito colpo dall’alto. Incrocio le due spade ed intercetto la lama dell’alabarda. Con un calcio lo spingo via e mi getto in avanti. Portanova spazza il fendente con l’asta, il sentimostro tende un braccio nel tentativo di afferrarmi. Hanno entrambi la forza paragonabile a quella di una mandria di tori ma i loro movimenti sembrano più lenti di prima.
Colpisco la mano di Portanova con l’elsa della spada sinistra, gli scaglio una gomitata sul mento e affondo con tutto il mio peso l’altra spada verso il sentimostro.
È come affondare un coltello nell’aria, lo slancio mi proietta a terra.
Come ho fatto a mancarlo?
Balzo all’indietro, la punta dell’alabarda passa a pochi centimetri dal mio viso, la ventata mi sferza il naso.
Accidenti, un colpo del genere mi avrebbe staccato la testa se mi avesse colpito.
Il sentimostro allarga entrambe le braccia, Portanova invece tiene i gomiti stretti ai fianchi, l’alabarda è ben salda tra le sue mani.
Lancio in aria una spada e la afferro riversa. Mulino una serie di fendenti laterali e dall’alto, ma la guardia di Portanova resta ben salda.
L’ultima parata mi fa perdere la presa su una spada che mi vola a terra alle spalle del sentimostro.
Un bip dagli orecchini mi segnala che il tempo della trasformazione inizia ad esaurirsi.
Impugno l’elsa a due mani e attacco a testa bassa. Portanova cala l’alabarda in difesa; lo anticipo e uso l’asta come trampolino. Salto oltre la sua testa ritrovandomi faccia a faccia col sentimostro. Carico un colpo diagonale ma anche questo va a vuoto e mi ritrovo di nuovo con le ginocchia a terra.
Stavolta ero sicura di non poterlo mancare.
Portanova si gira e si esibisce nel suo solito ghigno, bava nera gli cola dai lati della bocca, le sclere si stanno riempiendo di venature. Il sentimostro imita la sua espressione.
Non posso aver sbagliato mira. Il sentimostro è fatto di pura energia: diventa materiale solo durante i suoi attacchi, altrimenti è impossibile colpirlo.
Devo costringerlo a sferrare dei colpi e l’unico modo è mettere alle strette Portanova.
Un altro bip cinguetta dagli orecchini, mi restano solo quattro minuti.
Eseguo un’altra spazzata diagonale; Portanova ruota l’alabarda per intercettarla, ma a mezz’aria calo la spada e carico un montante dal basso. La lama gli striscia sul volto e gli procura un taglio. Roteo il busto, sollevo una gamba e lo colpisco alla tempia con il tacco.
Portanova finisce a terra, trascinando con sé anche il mezzobusto del sentimostro.
Finalmente ho fatto breccia nelle sue difese. I suoi movimenti iniziano ad essere lenti, oltre che prevedibili.
Il sentimostro serra anche lui le mani sull’alabarda. È diventato tangibile e, dunque, vulnerabile.
Portanova si rialza. Un largo lembo di pelle si è strappato all’altezza dello zigomo e ora gli penzola davanti alla bocca. L’area dello strappo stilla sangue bordeaux. La corruzione è arrivata fino alle sue viscere.
In coppia, sollevano l’alabarda dietro la schiena. «Muori!»
Salto in avanti, evito la lama e stendo il braccio in tutta la lunghezza: la punta della spada affonda nel fianco del sentimostro, che lancia un lamento.
Portanova barcolla sulle gambe, come se avesse avvertito anche lui il colpo. Scatto in avanti, roteo su me stessa, la lama descrive un arco in aria, si abbatte sul braccio del sentimostro mozzandoglielo.
La bestia urla di dolore, Portanova gli fa eco mormorando una sfilza di imprecazioni. Mulina l’alabarda, retta anche dalla mano del sentimostro, ma i movimenti sono molto meno fluidi.
Pianto i piedi a terra, fletto le ginocchia e paro il colpo in un fragore di ferro. Scarto di lato e piazzo un altro fendente a due mani: sotto uno zampillo di scintille, l’alabarda crolla a terra, insieme al braccio superstite del sentimostro.
Portanova arretra, il viso della bestia ora è una maschera di terrore mentre si osserva i moncherini.
Tendo una mano e strappo dal collo del questore il pendente. Lo getto a terra e lo calpesto col tacco.
Una piuma viola si libra nell’aria. Agguanto lo yo-yo e la imprigiono in esso. «Niente più malefici da parte tua.»
Riapro lo yo-yo e la piuma svolazza via, candida come una nuvola.
Recupero le due spade e le lancio in aria. «Miraculous!»
Uno sciame di coccinelle riempie l’ambiente, mi avvolge con il suo calore e scompare così come si era manifestato.
Il pendente a terra ora si rivela essere un semplice medaglione in cuoio, senza alcun simbolo marchiato sopra. Al centro della stanza, è ricomparso il corpo del Satiro assorbito dall’alabarda. È ancora privo di sensi.
«Cos… cos’è successo? Dove mi trovo?»
Mi volto. Portanova è inginocchiato a terra, il suo volto è tornato ad avere sembianze normali, privo anche dello squarcio che gli avevo provocato. Gli occhi strabuzzanti guizzano per la stanza fino a soffermarsi su di me.
Mi avvicino a lui e lo afferro per il colletto. «Buonasera, signor questore.»
Lui ansima. «C-chi sei?»
«Non ha importanza. Immagino che in questo momento la sua memoria faccia un po’ di capricci su quanto successo negli ultimi mesi. Beh, ad ogni modo, questa amnesia non la salverà dall’essere processato come mandante di attentati terroristici e per concorso in omicidio.»
«C-cosa? Lei è matta! Io sono il que—»
«Non m’importa un accidente di chi sia lei.» Lo mollo. «Rifletterà meglio sui suoi desideri. Così non ci sarà una prossima volta.»
Gli tiro un pugno sul muso e lo mando al tappeto.
Game over.
 
***
 
Stendo lo yo-yo e raggiungo la cima di un grattacielo, a fianco del parafulmine.
Da qui riesco a vedere l’intera città di Milano; una sensazione di déjà-vu mi pervade. È proprio come quando ero a Parigi, dopo una strenua lotta contro un sentimostro. In quelle occasioni, ero solita arrampicarmi sulla cima della Tour Eiffel ed assaporare la dolcezza del panorama.
Stavolta però sono sola, non c’è Chat Noir al mio fianco. E non sono nemmeno Ladybug, ma Stiletto, una versione della supereroina più feroce, più determinata, più aggressiva.
Gli orecchini emettono un bip. È il penultimo.
Inspiro a pieni polmoni l’aria fresca della notte, chiedendomi quale versione di me stessa vorrò diventare una volta tornata ad essere Marinette. Questa storia mi ha insegnato che non esiste un approccio perfetto per qualsiasi minaccia mi si ponga davanti, che sia una compagna di scuola o un mostro che plasma la volontà di un uomo.
Ho la necessità di adattarmi, di volta in volta, alle avversità che mi si parano davanti. Ma non voglio più farlo con l’insicurezza che mi imbrigliava le ali. Proseguirò per la mia strada con la determinazione che ho acquisito, forte di avere sempre dalla mia parte persone che mi sosterranno. I miei genitori, Tikki, la nonna, Alya…
Sono loro le mie fondamenta e da loro trarrò la mia forza.
Gli orecchini pigolano l’ultimo bip.
Devo sbrigarmi altrimenti mi ritroverò in cima al grattacielo senza possibilità di scendere, con indosso solo la biancheria intima.
Sorrido tra me e me. Almeno nell’essere un’eterna pasticciona, non cambierò mai.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Verso la spremuta d’arancia, il bicchiere si riempie fino all’orlo. Ne assaporo un sorso e mi lecco le labbra. Fresca e zuccherata al punto giusto.
Aggiro la penisola della cucina e raggiungo la nonna seduta sul divano. Mi accomodo a gambe incrociate. Tikki si poggia sul bracciolo, Leon la segue e balza al posto di fianco al mio.
Nonna Gina alza il volume della tv.
Il giornalista sta raccontando nei minimi dettagli i fatti degli ultimi giorni. «…gli inquirenti hanno così potuto arrestare i membri del gruppo noto come i Satiri dell’Anarchia, grazie al supporto di un eccellente servizio di sicurezza organizzato da Bruno Tancredi, noto imprenditore nel campo della moda, nonché stimato concittadino.»
L’inquadratura si sposta sul padre di Alessio, sfoggiante il suo solito cipiglio severo, circondato da una miriade di microfoni puntati nella sua direzione. «Sono molto soddisfatto di come la situazione si è risolta senza che nessuno si sia fatto male, sebbene mi dolga il fatto che la serata di moda sia andata a monte.»
Una giornalista fuori campo prende parola. «A detta dei testimoni, c’erano Satiri infiltrati tra gli ospiti.»
Tancredi annuisce. «Una fonte anonima mi ha avvertito tempestivamente del piano di attacco. Ignoro come questa persona sia venuta a conoscenza di tali piani, ma ciò non è di mio interesse. La ringrazio con tutto il cuore per il supporto e per l’aiuto che mi ha fornito. Ringrazio inoltre il mio personale servizio di sicurezza che ha gestito in maniera esemplare la situazione, impedendo qualsivoglia mossa avventata da parte dei terroristi.»
La stessa giornalista lo incalza. «Cosa intende fare ora che la serata è saltata?»
«Ho già provveduto all’organizzazione di un’altra sfilata, che però sarà riservata a determinati ospiti. Farò un’accurata selezione a riguardo, in quanto è mia volontà che questa cancelli del tutto il fallimento dell’altra sera.» Tancredi solleva le mani. «Se volete scusarmi ora…»
Sfila in mezzo alla calca di giornalisti, i quali continuano a seppellirlo di domande, e si infila nella sua auto scura.
Prendo un sorso di aranciata. «Mi sono fidata della persona giusta.»
Nonna Gina mi scocca un’occhiata incuriosita. «Voglio sperare che anche tu sia invitata in questa serata esclusiva.»
«Probabilmente, se glielo avessi proposto, il signor Tancredi avrebbe invitato volentieri Stiletto, anche solo come atto di riconoscenza. Ma dubito che conosca Marinette Dupain-Cheng.»
«Però, tu sei in confidenza con suo figlio. Uscite insieme, giusto?»
Il succo mi va di traverso. Tossisco.
Nonna Gina emette un mugugno. «Non dirmi che non ti piacerebbe.»
«Certo che mi piacerebbe, è ovvio. Ma non me l’ha ancora chiesto. E…» Picchietto gli indici uno contro l’altro. «Dubito che Alessio abbia parlato di me al padre, almeno in quel senso lì; e anche se fosse, non avrebbe comunque motivo di invitarmi a quel party.»
«Mai dire mai, mia cara. Dovresti aver imparato che le persone riescono sempre a stupirti in qualche modo.»
Tikki interviene. «Concordo con tua nonna, Marinette.»
Leon le fa eco abbagliando.
Sollevo un sopracciglio. «Ora ti sei alleato anche tu con loro due?» Alzo gli occhi verso il soffitto. «Ora sono sola contro tre, non è giusto.»
Scoppiamo a ridere in coro.
Le immagini del telegiornale mostrano l’ex questore Giovanni Portanova in manette, scortato da due agenti della polizia e altrettanti carabinieri.
La voce del giornalista fa da sottofondo al servizio. «Nonostante la dichiarazione di innocenza da parte di Giovanni Portanova, gli inquirenti sono venuti in possesso di video, immagini e appunti che inchiodano l’ex capo della questura di Milano come mandante degli attacchi perpetuati dalla banda dei Satiri dell’Anarchia. In uno dei video, racconta il tenente dei carabinieri, Portanova è affiancato da un uomo corpulento e minaccia uno dei suoi adepti per il fallimento dell’attacco al padiglione di moda.» Viene mostrato a schermo un identikit del gigante, affiancato da un frame estratto dal video che ho filmato. «Diversi testimoni hanno confermato che l’uomo dalla stazza enorme sia anche colui che ha ucciso il sindaco durante l’assedio al municipio. Non si hanno ancora notizie riguardo il presunto arresto di quest’uomo; seguiranno aggiornamenti.»
Finisco di bere il succo. «Buona fortuna.» Innalzo il bicchiere verso la tv. «Chi glielo dice ora alle forze dell’ordine che quel tizio si è nebulizzato quando ho purificato l’amok?»
Nonna Gina spegne la tv e stiracchia le braccia. «Quando verrà l’occasione, dovrai spiegarmi per bene come funziona questo meccanismo di piume, farfalle e mostri. Vorrei evitare di ricaderci la prossima volta che torno a Parigi.»
Copro con una mano una risatina. «Ti assicuro che ci sono determinati processi ancora avvolti nell’ombra anche per me che ci lavoro da due anni ormai.» Volto il capo verso Tikki. «Per esempio, l’ultimo lucky charm mi ha lasciata alquanto interdetta. Non tanto per il fatto che fossero due spade, quanto per l’effetto che ha generato quando l’ho evocato. Tu sai qualcosa a riguardo?»
«I tuoi poteri crescono insieme a te. Più andrai avanti, maggiori saranno i benefici che otterrai quando richiamerai a te il potere del Miraculous. Suppongo che avrai notato anche che la durata del lucky charm è incrementata rispetto al passato.»
«In effetti sì…»
Nonna Gina indica col pollice la tv. «Sei sicura che quel pagliaccio di Portanova non ricordi il tuo volto?»
Scuoto la testa. «Il mio Miraculous ha cancellato ogni influenza negativa che il sentimostro gli provocava e gli anche cancellato i ricordi dal momento in cui ha iniziato ad usufruire dei poteri del pendente. E poi, dubito che qualcuno gli creda. In fondo, non conosce nemmeno il mio nome.»
Leon posa la sua testa sul mio ginocchio, il suo pelo mi solletica la pelle. Lo accarezzo.
Nonna Gina mi cinge il collo con le braccia e mi bacia sulla fronte. «Come hai intenzione di muoverti ora che possiedi questo nuovo alias?»
«Stiletto ha completato il suo lavoro. Resterà il simbolo del mio cambiamento, della mia unione profonda con il Miraculous, ma preferisco tornare ad essere la semplice Ladybug. Nel tempo che passerò a Milano e quando tornerò a Parigi, interverrò solo se lo riterrò strettamente necessario. Credo ormai di essere in grado di riconoscere quando è il momento.»
«Non potrei essere più orgogliosa di te, tesoro. Ora, però, devi farmi un grandissimo favore.» Inchioda su di me i suoi occhi celesti. «Quando tornerai a scuola, dovrai dimostrarti superiore a quella vipera che si è appropriata del tuo duro lavoro. L’incuranza è il maggior disprezzo.»
«Lo ricorderò, nonna.»
 
***
 
Rientrando nell’Accademia, mi sembra di essere tornata a quando varcai per la prima volta il cancello all’ingresso. All’epoca non c’erano ancora graffiti di stampo anarchico che imbrattavano le mura, l’istituto risplendeva per la sua importanza e la tranquillità regnava sovrana nei corridoi.
Adesso è come allora.
I gruppetti di studenti che si accalcano fuori alle aule parlottano tra loro; dalle poche parole che riesco a cogliere, la maggior parte di loro si sofferma sulle partite di campionato e sull’imminente finale di Champions League che si giocherà proprio qui, a Milano, allo stadio Meazza.
Del tizio dei volantini non ve n’è più traccia. Dopo il fallimento del piano di Portanova, deve aver capito che non era saggio farsi vedere in giro per l’Accademia.
Salgo le scale che conducono alla mia classe.
Sembra che a nessuno importi granché dell’annullamento della serata che avrebbe sancito il vincitore della gara di moda.
Bruno Tancredi, in accordo con la giuria e con il preside dell’istituto, ha deciso di rimandare al prossimo anno la collaborazione con lo studente più meritevole. Per premiare l’impegno, il professor Ursi ha deciso di trasformare i giudizi della giuria in voti che faranno media con la valutazione finale nella sua materia. Chi non ha preso parte alla gara, invece, potrà decidere se sottoporsi ad un’interrogazione faccia a faccia con lui per dare a chiunque l’opportunità di avere un voto in più.
So che sarà dura – soprattutto se Ursi terrà bene a mente ciò che volevo fare la sera della sfilata –, ma ho tutta l’intenzione di lavorarci su per ottenere il voto che merito.
Imbocco il corridoio, mi fermo accanto alla scultura di Bellerofonte. In tutto questo ritorno al passato, anche Alessio non circolerà più per questi corridoi. È vero che ho il suo numero, ma poterlo vedere ogni giorno qui era diverso. Ormai non posso non ammettere che provo qualcosa di forte per lui, anche se non ho ancora capito cosa. Forse affetto, forse qualcosa in più.
Se dessi voce ai miei pensieri con Tikki o la nonna, sono sicura che mi suggerirebbero di chiamarlo e chiedergli se possiamo vederci. Sarebbe il test definitivo per comprendere se sono veramente cambiata rispetto alla ragazzina timida ed impacciata che proveniva da Parigi, delusa da ciò che poteva diventare la sua prima cotta e che non sarà mai.
Infilo la mano in tasca e stringo tra le dita lo smartphone. Riprendo a camminare.  
Sull’uscio ci sono Richard e Juan. Poverini, loro sono sempre stati molto gentili con me e io li ho messi da parte nel momento in cui avrei avuto più bisogno del loro appoggio.
Richard è di spalle. Saluto Juan con la mano, lui apre la bocca e fa un cenno col capo a Richard che si volta all’istante. Entrambi scattano nella mia direzione e mi avvolgono in un abbraccio.
Ricambio con affetto. «Non mi aspettavo quest’accoglienza.»
«Forgive us, Marinette.» Richard ha i muscoli in tensione. «Dovevamo capire che Sonia era una rotten apple.»
L’abbraccio si stringe ancor di più lasciandomi senza fiato. «Piano, ragazzi. Così mi soffocate.»
Si allontanano, ma Juan mantiene le sue mani strette nelle mie. «Siamo rimasti sconvolti quando l’abbiamo saputo. Avrei voluto dirgliene quattro in tutte le lingue che conosco e avrei voluto vedere come l’avrebbero trattata gli altri, ma il preside l’ha sospesa per il suo comportamento, quindi—»
«Sospesa?» Ha parlato anche di “altri”. «In quanti sanno quello che ha fatto?»
«Tutto l’istituto. E sono tutti dalla tua parte ovviamente.»
«È stato Alessio a far circolare la voce?» Mi sentirà quando lo chiamerò. Lo avevo pregato di non dirlo a nessuno…
Richard scuote la testa. «In realtà, è stata Letizia a farlo.»
«Letizia?»
Juan allarga le braccia. «Da non crederci vero? Già alla sfilata mi sembrava diversa, ma oggi, se la vedessi, faticheresti a riconoscerla.» Si scosta dall’entrata. «Dà un’occhiata.»
Faccio un passo all’interno dell’aula. Letizia è seduta composta al suo banco, il mento poggiato sul palmo. Indossa una semplice canotta rosa, degli shorts e un paio di ballerine; niente lustrini, niente bracciali, niente accessori. Non ha il solito atteggiamento da diva, non è nemmeno interessata alla sua manicure. Si limita solo a fissare il muro davanti.
«Scusatemi.» Cammino nell’aula, salutando gli altri miei compagni e raggiungo il mio banco. Vi adagio sopra la borsa a tracolla e vado da Letizia.
Lei solleva uno sguardo vacuo su di me. Ha gli occhi cerchiati, i suoi boccoli biondi sono legati sulla testa con una semplice matita. Non l’ho mai vista senza nemmeno un filo di trucco, ma, nonostante ciò, è bellissima lo stesso.
«Cosa vuoi?» chiede con un filo di voce.
«Chiederti come stai.»
«Perché?»
«Perché mi interessa.» Ed è la verità. Già la sera della sfilata mi aveva incuriosita il suo atteggiamento passivo, il suo nervosismo.
Letizia abbassa lo sguardo. «Credevo fosse chiaro. Ti facevo più intelligente, Dupain-Cheng.»
Almeno non mi ha chiamata baguette. È già un grandissimo passo avanti. «Ho saputo quello che hai fatto…» Mi schiarisco la voce. «Anche se ne ignoro il motivo, volevo ringraziarti.»
«Non occorre…»
«Sì, invece. Sei l’ultima persona che mi aspettavo potesse fare una cosa del genere. Magari lo hai fatto solo per fare dispetto a Sonia, ma—»
«Non l’ho fatto per questo.» Tira su col naso. «Ho provato sulla mia pelle cosa significa subire un’ingiustizia del genere.»
«Cosa ti è successo?»
«Mia cugina…» Gli occhi di Letizia si rabbuiano. «Ha cercato volutamente di sabotare il mio lavoro. E prima che tu dica qualcosa,» solleva l’indice, «sappi che per la prima volta nella mia vita ho seguito il consiglio di una persona. Te.»
«Me? Vuoi dire che…» Mi siedo al banco di fianco.
«Che stavo cercando di lavorare da sola al progetto. Ma mia cugina ha pensato che volessi metterla da parte e così ha cercato di boicottarmi. Alla fine, ho dovuto rinunciare a partecipare.»
«Mi dispiace.» Mi mordo il labbro. «A quanto pare, abbiamo subito la stessa sorte.»
Letizia si strofina un occhio. «Già, ma almeno tu avevi Alessio a sostenerti. Io, invece, non avevo nessuno.»
Le sorrido. «Ora hai me.»
«Non essere sciocca, Dupain-Cheng. Ti ho trattata come spazzatura da quando sei arrivata. Nessuno perdonerebbe mai un trattamento simile.»
«E invece ti sbagli. Io non sono come gli altri.» Recupero dalla tasca il pendente che ho preso da Portanova. Lo porgo a Letizia. «Non sai quanti problemi mi ha creato questo affare. In biblioteca ho trovato dei libri che parlano di antiche maledizioni scagliate su oggetti simili: credo proprio che anche questo sia stato oggetto di una maledizione. Ma, ora, sono riuscita a liberarlo e, alla fine, mi ha portato fortuna perché sento di essere riuscita ad ottenere ciò che volevo.»
Letizia esita. «E… cosa volevi?»
«Volevo cambiare.» Allungo la mano. «Prendilo. Magari porterà fortuna anche a te.»
Letizia lo afferra con una mano tremolante. Lo rigira tra le dita e fa un versaccio. «È orribile.»
«Hai ragione. Lo è davvero. Però, ora è tra le mani di una ragazza che lo farà splendere.» Le faccio l’occhiolino.
Il cellulare della tasca vibra. «Scusami.»
Lo prendo e lo sblocco. È la notifica di un messaggio di… Alessio!
Spero per lui che sia un messaggio di scuse.
SALVE MADEMOISELLE. LA INVITO UFFICIALMENTE A PRENDERE PARTE ALLA SERATA DI GALA ORGANIZZATA DA MIO PADRE, PER QUESTA SERA. DESIDERO CHE LEI SIA LA MIA DAMA.
Rileggo il messaggio due volte. Strizzo le palpebre per assicurarmi che sia vero.
In alto, l’app dei messaggi mi segnala che Alessio sta scrivendo altro.
P.S. SE TE LO STESSI CHIEDENDO, È UN APPUNTAMENTO.
Non posso crederci.
«Beh, che aspetti?» La voce di Letizia mi riporta alla realtà. «Accetta, no?»
«Non so cosa indossare.»
«Dopo la scuola ti porto a rinnovare il tuo look da ragazzina appena uscita dall’asilo. Ci vuole qualcosa di più maturo per una serata del genere. Non vorrai mica presentarti come la fatina dei denti?»
«Dici sul serio?»
Letizia si mette al collo il pendente, l’ombra di un sorriso le compare sulle labbra. «Avrò parecchie cose da insegnarti.»
«Non vedo l’ora.»
 
***
  
Per la serata, il signor Tancredi ha affittato un’intera sala ristorante che si trova al secondo piano di un locale all’interno della Galleria di Piazza Duomo.
L’ingresso è affollatissimo, tra fotografi che sparano flash a tutta forza e fan accaniti che sperano di scorgere qualche loro idolo entrare all’interno.
Mi avvicino alla calca. Non ho proprio idea di come passare. Alessio mi ha spiegato che devo semplicemente dire il mio nome ad uno dei due bodyguard che sorvegliano l’ingresso delimitato da un cordone rosso.
Mi infilo in mezzo a un paio di fotografi, impegnati a scattare foto alla lussuosa automobile nera che si è fermata poc’anzi sulla strada e sgattaiolo verso l’ingresso. Camminare su questi tacchi è un’impresa, quando ero trasformata sembrava una passeggiata.
Inciampo su qualcosa, ma riesco a raggiungere uno dei due energumeni. È lo stesso che accolse me e Alessio al padiglione della moda, qualche sera fa.
Gli faccio un cenno con la mano affinché si avvicini a me. «Sono Marinette Dupain-Cheng!» gli urlo nell’orecchio.
Lui solleva un sopracciglio e mi squadra da capo a piedi. Non so se sia perché ho qualcosa fuori posto nel mio outfit o perché mi ha riconosciuta. Annuisce, sgancia il cordone e mi invita a passare.
Una cascata di flash mi investe, qualcuno grida di voltarmi dalla sua parte. Accidenti, non sono una modella!
Chissà se sarà questa la vita che mi aspetta quando…
Scuoto la testa e allontano il pensiero. Basta fantasticare sul futuro, basta film mentali e voli pindarici.
Entro nel locale; un tappeto blu notte conduce ad un ascensore sul fondo di uno stretto corridoio con le pareti a specchio.
Mi soffermo a guardare la mia figura: stento a riconoscermi conciata così. Letizia mi ha trascinata dal suo coiffeur di fiducia e gli ha dato indicazioni precise su che tipo di acconciatura farmi, senza darmi la possibilità di esprimere la mia opinione: il risultato è una cascata di capelli corvini mossi e vaporosi.
Sul trucco, Letizia è stata più indulgente, sebbene non abbia voluto sentire ragioni su un tocco di mascara dark con rossetto abbinato.
Per fortuna, la ricerca dell’outfit è stata breve: Letizia ha optato per farmi indossare un top bianco che lascia scoperto l’addome, un giubbottino di pelle e dei leggings a vita bassa anch’essi in pelle.
Sulle scarpe sono stata risoluta: un paio di scarpe con il tacco a stiletto.
Non mi aspettavo che anche Letizia potesse cambiare atteggiamento nei miei confronti così in fretta; mi sono imposta di andarci con i piedi di piombo, per evitare altre prese in giro o cocenti delusioni, ma sono piuttosto ottimista. Ha subito una batosta che le è costata anche l’umiliazione davanti a suoi familiari, proprio su quello a cui pare tenere di più. Dunque, ha intrapreso questo nuovo cammino e io sono disposta ad aiutarla.
Soddisfatta del mio look premo il tasto per richiamare l’ascensore. Entro nella cabina.
Strofino i palmi contro le cosce. La serata è tiepida e non umida, ma io li ho lo stesso sudati. Sono nervosa.
Le porte dell’ascensore si aprono. La sala allestita è stupenda: immersa appena nella penombra di luci azzurre, una breve passerella taglia in due la sala. I tavoli sono disposti lungo il perimetro, al centro è stato lasciato libero uno spazio, dove forse si posizioneranno gli stilisti che presentano i loro capi.
La cupola in alto è adorna di stelle scintillanti, sotto sono raffigurati i principali marchi di moda mondiali, compresa la farfalla che simboleggia la casa di moda di Gabriel Agreste.
Scendo i tre scalini.
Un cameriere in livrea, con i capelli biondi tenuti fermi dalla lacca, mi viene incontro e si inchina. «Buonasera, signorina Dupain-Cheng. La prego di seguirmi, il signor Tancredi vuole conoscerla.»
Mi indico. «A me?»
Il cameriere spalanca una mano. «Certamente.»
Annuisco e lo seguo. Mi conduce accanto ad una tavolata rotonda, con almeno una decina di sedie disposte intorno.
Il signor Tancredi è in piedi accanto al finestrone che affaccia sul Duomo; accanto a lui una donna con lunghissimi capelli neri e una sciarpa Burberry intorno al collo regge un calice di champagne e sorride.
Tancredi le dice qualcosa e mi viene incontro. «Marinette Dupain-Cheng, finalmente ti incontro.» Tende la mano. «Bruno Tancredi.»
Gliela stringo. «È un onore conoscerla, signor Tancredi.»
«Alessio mi ha parlato molto bene di te e sono lieto di constatare che non esagerava affatto.»
Chino la testa. «Alessio tende a sopravvalutarmi un po’ troppo.»
«Ne dubito, Marinette. Posso affermare con certezza di non aver mai conosciuto una ragazza della tua età che abbia tanto vigore, ingegno e coraggio.» Si porta una mano al petto. «Ti porgo i miei più sentiti ringraziamenti per tutto il tuo sostegno.»
Sbatto le palpebre. «Sostegno per cosa?»
Tancredi strizza l’occhio, un gesto che anche il figlio è solito fare. «Te l’ho già detto: nella mia vita ne ho viste di tutti i colori. Complimenti per gli stivali, ti donano molto» Sulle sue labbra si disegna un sottile sorriso. «Goditi la serata, te lo meriti.»
Si volta e torna a parlare con la donna, che alza il calice nella mia direzione e mi rivolge un sorriso bianchissimo.
Resto inebetita per un istante. Bruno Tancredi mi ha riconosciuta, sa che io sono Stiletto. Dovrei essere terrorizzata al pensiero che possa dirlo al figlio o alla stampa e, invece, ne sono sollevata. Ha dimostrato di essere la persona giusta in cui porre fiducia in un momento in cui mi sentivo sola a combattere contro tutti.
Una mano si posa sulla mia spalla. Mi volto e mi ritrovo faccia a faccia con Alessio. «Buonasera, Marinette.»
Sul suo viso si forma la solita fossetta di quando sorride.
«Buonasera, Alessio. Ho appena avuto il piacere di conoscere tuo padre.»
«Mmh, credo che tu abbia fatto colpo su di lui.» Leva un indice e fa un giro su sé stesso. «Che ne pensi?»
Indossa l’abito che avevo confezionato su misura per lui, quello con cui avrebbe sfilato al posto del vincitore della gara. Proprio come pensavo, il look sportivo gli calza a pennello; la camicia bianca risalta i suoi colori scuri, i pantaloni gli fasciano alla perfezione le sue gambe toniche.
«Sei perfetto.»
Alessio inclina la testa di lato. «Tu lo sei di più. Scommetto che avrai tutti i riflettori puntati addosso quando sfilerai insieme a me.»
«Io farò cosa?»
«Ehi, sei l’autrice di questa meraviglia. È giusto che sia tu a presentare l’abito.» Mi porge una mano. «Che ne pensi, francesina?»
Sono certa di avere le guance colorate di cremisi, il cuore mi batte forte nelle tempie e la salivazione mi si è azzerata. È un’opportunità unica, l’occasione per fare quel salto in una vita nuova, quella che sognavo da tempo.
Stavolta, non lascerò che le mie insicurezze prendano il sopravvento. Stavolta, andrò fino in fondo, succeda quel che succeda.
Prendo la mano di Alessio. «Sono pronta.»
Fine
 
 
 
  
Angolo Autore:
Salve gente. Siamo giunti al termine di questa storia, semplice ma che mi ha dato comunque molta soddisfazione nello scriverla: innanzitutto, ho avuto modo di sperimentare la prima persona e descrivere il mondo filtrato dal punto di vista di Marinette è stato divertente e, a tratti, illuminante. In secondo luogo, mi ha permesso di esplorare meglio un periodo di vita della protagonista che avevo trascurato nell’altra opera e che mi ha dato sempre l’idea di avere qualcosa di incompleto.

Per me, questo arco narrativo esprime tutto ciò che vorrei vedere in Marinette: la sua maturazione e un modo tutto nuovo di approcciarsi alle difficoltà.
Non so se questa sarà effettivamente l’ultima storia che scriverò su Miraculous: il fandom è pieno di opere ben fatte ed è molto difficile trovare idee originali da poter plasmare, soprattutto in relazione a come si sta sviluppando la serie originale. Comunque, preferisco non serrare alcuna porta, l’ispirazione potrebbe arrivare in qualunque momento.
Concludo ringraziando tutti voi che siete giunti fin qui, siete il carburante che alimenta ogni storia che scrivo, correggo e pubblico. Grazie di cuore.
Vi saluto, augurandovi un felice Natale.
Alla prossima,
Nike90Wyatt

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