The pursuit of Love

di RanmaFanwriters
(/viewuser.php?uid=1232071)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Natural love ***
Capitolo 2: *** First Love ***
Capitolo 3: *** Perfect Love ***



Capitolo 1
*** Natural love ***


Natural love
 
di Giorgi_b

 

- § -



Glossario:
 
Fusuma: pannelli verticali rettangolari che scorrendo ridefiniscono la struttura delle stanze, o fungono da porte, all'interno delle abitazioni tradizionali.
Engawa (o en): una stretta veranda che corre intorno agli edifici tradizionali giapponesi.
Kata: nelle arti marziali giapponesi sono una serie di movimenti codificati che rappresentano varie tecniche di combattimento, in modo da evidenziarne i principi fondanti e le opportunità di esecuzione ottimali.
Karategi: kimono indossato dai praticanti del karate.
Otōsan: papà.
Okāsan: mamma.
Kitsune: significa volpe e nella mitologia giapponese appartiene alla categoria degli yōkai, spiriti demoniaci.
Kunoichi: ninja di sesso femminile.
Aikidoka: praticante dell’aikido.
Hina: bambole ornamentali tradizionali che vengono regalate alle bambine e tramandate di generazione in generazione dalle donne di famiglia. Le più pregiate e costose sono di porcellana dipinta a mano.
Shin-yuu: amico fraterno.
Ki (o Qi): è il nome dato all'energia interna del corpo umano ma non solo: esprime il concetto delle energie fondamentali dell'universo, di cui fanno parte la natura e le funzioni della mente umana. Nelle arti marziali giapponesi ed orientali, l'essere umano è vivo finché è percorso dal ki dell'universo e lo veicola scambiandolo con la natura circostante: privato del ki l'essere umano cessa di vivere e fisicamente si dissolve.
Dō: significa letteralmente “ciò che conduce” nel senso di “disciplina” vista come “percorso”, “via”, “cammino”, in senso non solo fisico ma soprattutto spirituale. È un suffisso usato spesso nelle arti marziali giapponesi per significare l'evoluzione dell'arte marziale da pura e semplice tecnica di combattimento a disciplina formativa volta a realizzare nel praticante un'elevazione di tipo spirituale ed esistenziale, utilizzando la tecnica marziale come strumento di perfezionamento delle abilità e delle capacità psicofisiche del praticante.
 

- § -



Akane si svegliò poco dopo l’alba, nell’ora magica che tinge tutto di rosa, con un sogno ancora tiepido impigliato tra le ciglia come un pesce in una rete. 
Sbadigliò seguendone i contorni confusi che si affrettavano a sbiadire: giocava insieme a lui rotolando su un prato, i vestiti profumati di erba appena tagliata, le dita tra i capelli corvini, guance e labbra irritate per i baci sfregati su un principio ispido di barba. Poi il rifugio sicuro di un abbraccio, il naso affondato nel suo collo caldo, pelle d'oca e sussurri - la mia preferita sei tu, Akane - solletico e risate e carezze e coccole. Un bel sogno. 
Si stiracchiò stropicciandosi gli occhi.
Il silenzio della casa ancora assopita, intanto, amplificava i piccoli suoni promuovendoli a rumori: cinguettii, sgocciolii, scricchiolii e ticchettii rivendicavano la propria esistenza alzando la voce, in un concerto per piccole cose di cui Akane era l’unica spettatrice.
Tra un fruscio, un ronzio e un sogno già dimenticato, le arrivarono lontani i tonfi ovattati di piedi sul pavimento del dojo. Si alzò di scatto dal letto, corse alla finestra e vide le fusuma della palestra spalancate. Come ogni mattina, lui era lì. 
Con il cuore e i capelli scarmigliati, pigiama e occhi ancora abbottonati, uscì in tutta fretta dalla stanza, si sedette sul corrimano delle scale e scivolò veloce fino al pian terreno. 
Attraversò il giardino e, discreta come un’ombra, strisciò in un angolo della stanza senza riuscire a trattenere un sorriso. Akane sapeva che lui l’aveva percepita, eppure, senza un fremito di ciglia, senza il minimo cenno, proseguì concentrato i suoi kata a occhi chiusi. 
Si incantò a guardarlo con la bocca leggermente socchiusa e un’espressione ammirata: fendeva l’aria con fluidi movimenti decisi e rapidi, talvolta lenti e leggiadri, i gesti delle mani come merletti leziosi. Akane non si lasciò ingannare dalla grazia con cui li eseguiva, pur trovandosi a debita distanza, poteva sentire il violento spostamento dell’aria sulla pelle e sui capelli; la forza e l’energia che si propagavano da quella danza erano frustate millimetriche di artigli affilati. Come faceva? Come riusciva ad emanare un’aura al tempo stesso magnifica e letale?
Si librò con grazia un metro sopra lo sguardo ammirato di Akane, sfidando la gravità volteggiò nell’aria imitando un petalo di sakura al vento, mentre i lunghi capelli neri, in contrasto con il candore accecante del karategi, si avvitavano intorno al suo corpo assecondandone le movenze eleganti, in un passo a due preciso e armonioso.
Akane attese il sorriso che lui le rivolse dopo aver raccolto l’asciugamano da terra per detergersi la fronte e, a quel punto, finalmente, gli corse incontro con una risata argentina. Lui la fece roteare per la stanza tenendola saldamente per le mani, poi la sollevò in alto, ridendo felice con lei e guardandola con tutta la tenerezza del mondo. La testa le girava mentre brividi e solletico rispondevano alla scia di piccoli baci che le lasciò dal ventre fino al collo facendola scivolare piano contro di lui finché non si trovarono occhi negli occhi e continuò a girarle quando, cullandola tra le braccia, le accarezzò una guancia con il pollice e con leggerezza posò le labbra sui suoi occhi e sulla punta del naso.
Intanto, le cicale già cantavano lo struggimento dei propri sensi e una brezza leggera alitava nel dojo il profumo intenso dei tigli bagnati di rugiada. Akane chiuse gli occhi inebriandosi di quell’odorosa carezza estiva, si rannicchiò ancora di più tra le sue braccia e pensò che non sarebbe mai stata più felice di così.
In quel momento di pura estasi fu folgorata dalla consapevolezza di amarlo alla follia e, in cuor suo, promise solennemente: da grande sposerò il mio papà.
Aveva cinque anni, due sorelle maggiori, due genitori e le era appena caduto un dente. 
 
«Otōsan non può sposarti, baka, è già sposato con Okāsan!». Nabiki sedeva sul letto con le gambe incrociate e il mento poggiato sulla mano mentre Akane, alla scrivania, cercava di colorare dentro gli spazi la figura di un gattino sul suo libro di scuola. 
«Lo so che è sposato con Okāsan», le disse piccata «e comunque baka sarai tu!» sputacchiò dal buco del dente mancante. «Quando lei diventerà brutta, vecchia e rimbambita, lui cercherà una moglie più bella e intelligente e allora sposerà me!» concluse con un’espressione soddisfatta.
Nabiki affilò un sorriso perfido: «Sì, può darsi. Ma vorrei ricordarti che Kasumi è la figlia bella e io sono quella intelligente. Non credi che sceglierebbe una di noi prima di te? Ammettiamolo, tu sei la figlia di scorta!».
Il pastello nero nelle mani di Akane continuò la sua strada solitaria ben oltre il bordo delle orecchie del gatto lasciando una riga scura lungo tutto il foglio.
Diamine! Nabiki aveva ragione! Qual era il proprio ruolo in quella famiglia? Ma soprattutto, qual era il suo posto nel cuore del padre?
«Otōsan, mi vuoi bene?!».
Aveva corso a perdifiato per le scale ignorando le proteste di sua madre, aveva attraversato il giardino come un proiettile ed era entrata nel dojo ansimante interrompendo le lezioni della Scuola di Lotta Indiscriminata Tendo. Lui si era voltato sorpreso poi, scioltosi in un sorriso, l'aveva presa in braccio e, facendole il solletico con i baffi, le aveva mormorato all’orecchio: «Sei la mia bambina preziosa, come potrei non volerti bene?».
Lì per lì, la risposta l’aveva tranquillizzata, ma, seduta sull’engawa del dojo con le gambe che penzolavano fuori, mentre continuava a guardarlo in tralice, maestoso e fiero, impartire lezioni ai suoi allievi, Akane rifletté accigliata che avrebbe dovuto faticare parecchio per sbaragliare la concorrenza di femmine perfette che circondavano suo padre.  
Divorata dalla gelosia, passò mentalmente in rassegna le rivali. 
Kasumi, quasi nove anni, era la classica principessa di papà; lo viziava e lo coccolava in ogni modo possibile. Braccio destro della mamma, era imbattibile in ogni attività casalinga ed era sempre gentile con tutti. 
Nabiki, sei anni e mezzo, furba come una kitsune e ossessionata dalla ricchezza, passava molto tempo con suo padre a giocare a shogi e, sebbene fosse ancora solamente una bambina, lo aiutava a tenere in ordine i registri del dojo
Digrignò i denti e si accigliò. Accidenti, quelle due erano davvero straordinarie. Il cuoricino infantile di Akane faticava ad identificare i sentimenti contrastanti che provava nei loro confronti, perché se da una parte era talmente orgogliosa delle sorelle da vantarsi ai limiti dell’antipatia con i suoi compagni di scuola, dall’altra era capace di pensieri davvero truci e capricci nefandi ogni qualvolta la eclissassero dall’attenzione paterna.
Un canto familiare la distrasse dai suoi pensieri. Sua madre stava innaffiando i maestosi cespugli di ortensie azzurrine a ridosso del muro della casa, un grande cappello di paglia la proteggeva dal sole estivo.  Fiore tra i fiori, alzò i suoi begli occhi color miele e la salutò con la mano con un gesto buffo e dolce. Akane rispose a quel saluto con un enorme sorriso sdentato, poi tornò a guardare dentro il dojo e colse suo padre immobile con un’espressione da ebete a bearsi della vista di sua moglie. 
Akane alzò gli occhi al cielo sospirando. Inutile girarci intorno, a una spanna sopra di lei, Nabiki e persino Kasumi, c’era l’imperatrice incontrastata del cuore di papà: Okāsan
Secondo il suo giudizio da bambina, nonostante avesse un’età indefinita - che Akane aveva catalogato come “da mamma” - una fisicità nella media - appunto, “da mamma” - e fosse sempre accurata nell’abbigliamento e nel trucco - ancora: “da mamma” - insomma… nonostante fosse una donna assolutamente normale, Akane dovette ammettere con un sentimento confuso di invidia mista ad orgoglio che fosse di gran lunga la più bella, buona, intelligente e dolce di tutte le madri di sua conoscenza e quindi, in realtà, piuttosto eccezionale.
Il sorriso era il suo asso nella manica, aveva qualcosa di magico, ipnotico. Lo aveva capito dalle reazioni di suo padre ogni volta che Okāsan arricciava le labbra, da come lasciasse frasi a metà indugiando sui denti candidi quando si scoprivano all’improvviso o da come rimanesse senza fiato irrigidendosi e trasformandosi nell’ago di una bussola che tendeva sempre in un’unica e sola direzione: lei
Incrociò le braccia abbandonando il mento sul petto e sospirò, laconica. 
Ora che ci rifletteva, Akane stessa era spesso vittima del sorriso di sua madre; quante volte si era ritrovata a riordinare la propria camera o a finire tutti gli edamame, senza un lamento e senza rendersene conto, a causa di quell’arma terribilmente dolce e persuasiva? Come diamine faceva quella donna? Li ipnotizzava?! Era forse una yōkai incantatrice? Per un attimo la certezza di conquistare suo padre vacillò, già sentiva le lacrime pizzicarle gli occhi. Invece fece un respiro profondo e un cipiglio battagliero si affacciò sul suo volto infantile e paffutello. 
D’accordo, Okāsan era Okāsan, ma non c’era da scoraggiarsi. Akane lavorava sulla lunga distanza, aveva tutto il tempo per diventare grande e scalzarla dal cuore di suo padre. Contro le sorelle, invece, poteva farcela, partiva in ritardo ma combatteva ad armi pari. 
Cosa posso fare per avere Otōsan tutto per me? 
Si voltò a studiare il suo obiettivo stringendosi le ginocchia al petto. 
Suo padre era un uomo piuttosto affascinante, senza dubbio il più bello che avesse mai visto, aggiunse fiera tra sé. Alto e atletico, aveva lunghi capelli corvini che Okāsan spesso si divertiva a intrecciare come quelli dei guerrieri cinesi. Ultimamente si era fatto crescere due folti baffi per dimostrare qualche anno in più, ma ad Akane non piacevano particolarmente perché le pizzicavano la pelle. Quando sarebbe diventata sua moglie glieli avrebbe fatti tagliare.
Aveva una voce profonda e calda, perfetta per raccontare le storie rocambolesche di gioventù degli anni di addestramento; ogni tanto beveva troppo sakè liberando una personalità stupidina che la divertiva ma la metteva anche un po’ a disagio. 
Non si arrabbiava mai, l’aveva visto infuriato solo una volta che era tornata da scuola con un ginocchio sbucciato perché, durante un litigio, un compagno di classe l’aveva fatta cadere con una spinta. Allora Akane l’aveva visto trasfigurarsi in un oni e ne aveva avuto timore; poi Okāsan era intervenuta con un sorriso strategico rassicurandolo sul suo perfetto stato di salute ed era tornato il solito Otōsan, seppur molto rabbuiato. 
Per concludere, Soun Tendo era un sensei molto amato e rispettato e questa, secondo lei, era indubbiamente la caratteristica principale di suo padre. Akane era affascinata dalla pazienza con cui impartiva gli insegnamenti, innamorata dell’autorevolezza che emanava, incantata dalla saggezza dei consigli che dispensava e, purtroppo, gelosissima anche delle attenzioni che aveva nei confronti dei suoi allievi. 
Sospirò esasperata, non poteva farci nulla, era più forte di lei e non ne andava fiera. La brama dell’esclusività dell’affetto di Otōsane la conseguente gelosia erano bestie nere che le mordevano le viscere trasformandola in una versione cattiva e irrazionale di se stessa; bastavano però una carezza e una rassicurazione di suo padre per farla sgonfiare come un palloncino e tornare ad essere la bambina adorabile e allegra che era. Per sfortuna sua e del suo equilibrio, Otōsan era circondato da pretendenti; certo, nessuno tanto pericoloso quanto la madre e le sorelle, ma quel nugolo di discepoli scodinzolanti non andava sottovalutato.
Improvvisamente arrivò l’illuminazione: come aveva fatto a non pensarci prima?! 
Non appena gli ultimi allievi si congedarono, Akane gli corse incontro, lo guardò con un’espressione seria e determinata, si inginocchiò solennemente ai suoi piedi e, portando la fronte sulle mani poggiate sul pavimento, declamò con voce ferma: «Otōsan, sensei, insegnami! Voglio diventare come te: sarò l’erede della Scuola di lotta indiscriminata Tendo!».
Nel lungo silenzio che seguì, Akane aprì gli occhi e sbirciò i piedi nudi di suo padre, immobili sul pavimento del dojo. Ansiosa di cogliere la sua reazione, salì con lo sguardo alle caviglie, le ginocchia, poi, sempre più in fretta, cosce, ventre e, infine, il volto. 
Gli occhi di Otōsan erano fiumi in piena di lacrime silenti. Si alzò di scatto preoccupata di aver detto qualcosa di sbagliato, invece lui la abbracciò stringendola forte e tra i singhiozzi le sussurrò: «Oh, bambina mia, non sai quanto mi rendi felice!».
Era fatta! Se Kasumi era la figlia bella e dolce, Nabiki quella scaltra e intelligente, lei sarebbe stata la guerriera forte e coraggiosa.
A partire dal giorno dopo, Akane si allenò insieme a suo padre ogni giorno, mattina e sera; passava ore di grazia da sola con lui, i suoi occhi e la sua attenzione puntati su di sé, si beava dei suoi sorrisi e dei suoi complimenti, ma anche dei suoi rimproveri, perché Otōsan era un sensei eccezionale: severo e giusto, gentile e fermo. Kami, quanto lo ammirava! 
Ciò che quel giorno aveva detto di impulso per convincerlo ad allenarla si trasformò ben presto in una grande verità: Akane voleva davvero diventare come lui, voleva volteggiare leggiadra nel vento, emanare forza e grazia, essere magnifica e letale, dominare i segreti del ki
Purtroppo, nonostante la sua ferrea buona volontà, si manifestarono piuttosto presto in lei una robusta goffaggine e una forza fisica davvero fuori dal comune. Un’accoppiata micidiale. 
Akane si ritrovava spesso a pensare che forse la grazia di Kasumi o la furbizia di Nabiki sarebbero state più adatte alle arti marziali… allora sprofondava in una spirale di pensieri cupi e negativi immaginando che, presto o tardi, anche suo padre avrebbe tratto le stesse conclusioni iniziando ad addestrare le sorelle ed escludendola dal ruolo che si era ritagliata. Invece, quando tra i pensieri di Akane si facevano strada immagini di Nabiki versione kunoichi e Kasumi aikidoka, lui sembrava percepire la nuvola nera che la avvolgeva e con un abbraccio, un sorriso e le parole giuste la faceva di nuovo sentire unica, indispensabile e insostituibile.
Succedeva spesso che durante l’esecuzione dei kata più semplici, affiancata da suo padre, un calcio incontrollato o un pugno vagabondo colpissero Otōsan che, mai come in quell’anno di allenamenti con lei, sfoggiò così tanti lividi e occhi neri. Quando a cena Nabiki non mancava di fare qualche battuta velenosa sulle sfumature cromatiche degli ematomi paterni, un nodo si stringeva intorno alla gola di Akane e le lacrime cominciavano a sgorgare, allora lui la consolava promettendole allenamenti più consoni alla sua personalità. 
Padre e figlia impararono presto che spaccare tavolette di legno a mani nude era senza dubbio la sua specialità e nei pochi mesi che seguirono in casa Tendo ben pochi oggetti domestici sfuggirono all’entusiasmo traboccante della forza di Akane: la scoperta del suo talento si tradusse in tavoli incrinati con le zampe riparate grossolanamente, doghe del parquet sostituite, mensole cadute e rimontate storte, gradini della scala sfondati; persino la tradizionale vasca da bagno di legno non fu risparmiata e fu prontamente sostituita con una più resistente in gres.
Eppure, Otōsan non si arrabbiava mai, la guardava divertito con infinita benevolenza e sotto quello sguardo Akane si sentiva potente, fiera, invincibile. 
Prima di addormentarsi si ritrovava a pensare che, tutto sommato, le dispiaceva un po’ per Kasumi e Nabiki: del resto era ormai evidente che, tra loro, fosse lei la preferita! Quando poi Otōsansi fosse stancato di Okāsan - si augurava il più tardi possibile per quella poveretta di sua madre - Akane lo avrebbe sposato e insieme avrebbero condotto la Scuola di Lotta Indiscriminata Tendo, felici e contenti.
Un giorno di aprile, poco prima delle vacanze primaverili, tornando da scuola insieme a Kasumi e Nabiki, trovò la casa deserta, il dojo chiuso e freddo e un misero biglietto sul tavolo della cucina.
Siamo usciti. Torneremo”. 
Si passarono in silenzio le scarne parole tra le mani scritte velocemente con la grafia di Otōsansenza sapere bene come interpretare quell’assenza. Quando poi le prime lacrime cominciarono a sgorgare dai suoi occhi, le sorelle fecero a gara per farla smettere convincendola che certamente i genitori avevano avuto una commissione improrogabile da svolgere e che banalmente avessero dimenticato di avvisarle prima. Forse erano andati a una di quelle noiose e lunghe riunioni dell’associazione di quartiere di cui Otōsanera membro onorario. Sì, decise che era certamente così; si asciugò gli occhi e spostò la propria attenzione sulle sue consuete attività pomeridiane: compiti, merenda, giochi. 
Più tardi, poco prima dell’ora di cena, quando di solito si allenava con suo padre, Akane riprese a piagnucolare e Kasumi la consolò preparando un brodo di miso, riso e wurstel bolliti a forma di polpo, i suoi preferiti. Mangiarono in un mutismo carico di angoscia. Akane sentiva l’amaro delle lacrime mischiarsi al sapore del cibo. Dove erano finiti Otōsan e Okāsan? Perché non tornavano? Le avevano abbandonate? Si lasciò distrarre dalle storie buffe raccontate da Nabiki e per un po’ pensò ad altro.
Più tardi sistemarono dei futon in soggiorno e si addormentarono in silenzio, mano nella mano.
Fu svegliata da suo padre quando il buio aveva già inghiottito ogni cosa. Non riuscì a vedere l’amato volto di Otōsan, più scuro dell’oscurità della notte, ma le si ghiacciò il sangue nelle vene sentendo la sua voce grave, vuota e spaventosa raccontare assente, a lei e alle sue sorelle, come quella mattina qualcosa all’improvviso si fosse rotta dentro Okāsan
Come lui avesse chiamato l’ambulanza quando l’aveva trovata incosciente riversa sul pavimento della cucina. 
Come si fosse spenta lentamente tra le sue braccia in ospedale senza mai riprendere coscienza.
Senza nemmeno concedergli un ultimo saluto.
Akane non capiva niente. Rotta? Riversa? Spenta? Immaginò una bambola hina con le fattezze di sua madre cadere e andare in mille pezzi, il suo bel volto chiaro sfregiato da crepe, le braccia strappate, i capelli scollati. Pensò al suo sorriso che illuminava le stanze. Guardò dentro suo padre e trovò solo una bussola impazzita. 
«Ma… ma quindi la ripareranno?» chiese confusa e spaventata con un filo di voce. Nessuno rispose.
Non ricordava molto delle ore successive al fatidico annuncio, non ricordava le persone che erano venute a stringere le mani a suo padre, che avevano dato un buffetto affettuoso a loro tre, inginocchiate immobili alle sue spalle. 
Ciò che invece non avrebbe mai dimenticato era il volto di cera di suo padre quando, al rientro dalle funzioni funebri, disse solo tre parole: «Sono molto stanco». Fece scorrere dietro di sé la fusuma della propria stanza e non varcò quella soglia per settimane. 
La casa, allora, si immobilizzò in un silenzio di pietra e anche le piccole cose persero l’audacia di far rumore. 
Fuori, l’arroganza della primavera che sbocciava, delle ortensie che fiorivano, dei sakura che tappezzavano di prepotente bellezza il giardino intorno allo stagno. Dentro, invece, l’inverno. 
Akane si sentiva terribilmente sola, le sue sorelle erano diventate ombre che si fondevano nel buio: Kasumi, posseduta dallo spettro gentile di sua madre, scivolò senza alcuna esitazione nel ruolo vacante di angelo del focolare e Nabiki si indurì, affilando gli occhi ed i suoi aculei, perdendosi nei libri contabili del dojo
Col trascorrere immobile delle ore, dei minuti, dei secondi, l’aria prese la stessa consistenza del silenzio. Ad Akane sembrava di respirare sassi. 
Quando la nostalgia e la solitudine si facevano insopportabili, si sdraiava davanti a quella fusuma chiusa e con le orecchie tese cercava di carpire i respiri, i sospiri, i gemiti sordi che riempivano la stanza. 
Per quanto si sforzasse non percepiva più nulla di quella che era stata la forza di suo padre, ciò che c’era dall’altra parte della porta la terrorizzava. Avrebbe voluto entrare e dirgli: “Non preoccuparti, Otōsan, tra qualche anno sarò grande abbastanza per sposarti, Kasumi si prenderà cura di noi e Nabiki penserà ai conti del dojo. Saremo con te per sempre!”. Ma quella pozza putrida e stagnante di dolore le faceva paura, così rimaneva fuori a sperare che suo padre prima o poi uscisse di nuovo sorridente, amorevole e spensierato.
Qualche volta raschiava con l’unghia sulla carta tesa dell’anta scorrevole e piagnucolava piano: «Otōsan, vieni a insegnarmi?». Dopo un tempo indefinito misurato in clessidre di lacrime, una voce flebile e rotta rispondeva: «Un’altra volta, Akane», oppure: «Aspettami nel dojo, arrivo tra poco». E lei, fiduciosa ed emozionata, aspettava, aspettava, aspettava. 
Lo aspettava fino a saltare la cena, fino ad addormentarsi per terra ma lui non arrivava mai, e lei, senza perdersi d’animo per quell’ennesimo rifiuto, tornava a cercarlo sdraiandosi ancora davanti alla sua stanza. Kasumi provava a smuoverla spedendola in giardino a giocare, ma appena sua sorella si chiudeva in cucina, Akane tornava lì, dal suo amato Otōsan.
Non lo avrebbe lasciato solo, non gli avrebbe permesso di rarefarsi e sparire.
Spesso faceva un incubo ricorrente che la portava a infilarsi nel letto di Nabiki o Kasumi nel bel mezzo della notte; nel sogno c’erano i suoi genitori inginocchiati di spalle, Okāsan canticchiava pettinando Otōsan come l’aveva vista fare tante volte e, nonostante la piega innaturale del collo di sua madre e la voce piatta e cantilenante la spaventassero, la voglia di abbracciarla era più forte e così, un piede dietro l’altro, Akane cercava di avvicinarsi. Tuttavia, per quanto si sforzasse, non riusciva a muoversi di un passo e l’angoscia che già serpeggiava nel suo petto si tramutava presto in panico e disperazione. A quel punto, richiamato dal suo pianto e dalle grida terrorizzate, Otōsan si alzava in piedi, si voltava verso di lei e in quel momento Akane si rendeva conto con orrore che il suo adorato padre si era tramutato in una gigantesca e grottesca bambola hina. Senza poter fare nulla lo guardava inciampare e cadere e ogni volta si svegliava urlando, giusto un istante prima che toccasse il pavimento, prima che si rompesse esplodendo in un milione di pezzi. 
Un pomeriggio, mentre scimmiottava a memoria i kata che aveva visto eseguire centinaia di volte da Otōsan, lo squillo del telefono risvegliò il suo interesse. Sentì la voce gentile di Kasumi rispondere e facendosi tutta orecchi uscì dal dojo per ascoltare meglio. 
«Buongiorno, piacere di conoscerla! Io sono Kasumi, la figlia maggiore». Il tono cordiale ed educato fece accrescere la sua curiosità e aumentare il passo mentre si avvicinava quatta alla casa. 
«La ringrazio, sì, è così… ci manca davvero molto, specialmente a lui». Akane sentì nelle parole della sorella la venatura appena accennata di un lamento, poi Kasumi si schiarì la voce e tagliò educatamente la conversazione: «Vedo se può prendere la telefonata. Un momento, prego». 
Akane si infilò nell’ingresso, seguì il lungo cavo telefonico che si srotolava nel corridoio sinuoso come un sottile serpente d’acqua e, dopo pochi passi, sentì Otōsan singhiozzare con una voce arrochita per il troppo silenzio, ma commossa, calda, vibrante: «Oh… shin-yuu! Che bello sentirti!». Sbirciando dallo spiraglio lasciato aperto, fece appena in tempo a verificare che quell’uomo scosso dai singulti, scarno, scarmigliato, sdraiato sul tatami con la cornetta all’orecchio fosse proprio Otōsan, che Kasumi aveva già chiuso la fusuma, escludendola dalle emozioni di suo padre e rendendola gelosa di quel telefono più di quanto già non fosse. Urlò e batté i piedi per la frustrazione.
«Akane, dove ti eri cacciata? È ora di fare il bagno, che ne dici?» disse sua sorella con un tono dolce che però non ammetteva repliche.
«Con chi sta parlando, Kasumi?» chiese prossima al pianto, divorata dalla curiosità. Chi era lo shin-yuu che aveva bucato il muro di gomma dietro il quale si era rifugiato suo padre? Chi era lo sconosciuto che era riuscito dove lei aveva fallito?
«Non ho capito bene il nome, la linea era molto disturbata. Chiamava dalla Cina, pensa! Mi ha detto che è un vecchio amico di Otōsan, un compagno di addestramento che voleva fargli le condoglianze. Ora fila a farti il bagno!»
La mattina dopo suo padre non era più nella propria stanza. Akane trattenendo il respiro emozionata lo trovò con le gambe e le braccia incrociate seduto sull’engawa a osservare il giardino. Si avvicinò cauta e si accorse che stava bisbigliando qualcosa; arrivata alle sue spalle colse poche parole: «…sta addestrando il suo unico figlio tra il Giappone e la Cina. Amore mio, so che non sei d’accordo, ma fidati di me, è l’unico modo per salvare il dojo e la scuola. Andrà tutto bene, vedrai, ci siamo fatti una promessa solenne e intendiamo mantenerla». 
Quando Otōsansi accorse della sua presenza sussultò e tacque; poi sorrise e le fece cenno di avvicinarsi. Mentre gli si accoccolava in grembo come fosse un gattino, Akane ignorò la propria voce interiore che le domandava allarmata come mai lui non l’avesse percepita poco prima. Che fine aveva fatto il suo ki, la sua energia magnifica e letale?
«Con chi parlavi, Otōsan?». Lui non rispose e si irrigidì.
Akane alzò gli occhi e lo trovò invecchiato: le guance scavate, mal rasate, i capelli spettinati con qualche filo argentato e cerchi scuri che gli ingoiavano gli occhi. Deglutì intimidita. Che ne era stato del suo imperturbabile sensei, del suo bellissimo Otōsan? Strizzò gli occhi, si fece coraggio e subito partì all’attacco: «Andiamo ad allenarci? Sai che l’altro giorno con un colpo sono riuscita a incrinare un mattoncino? Guarda, non mi sono quasi fatta niente!». 
Lui prese delicatamente la manina graffiata che gli veniva sventolata sotto il naso e la strinse tra le sue sospirando corrucciato, poi baciò i tagli e i piccoli lividi che si erano formati dove la destra si era accanita contro il mattone. 
«Akane, piccola mia, non devi più allenarti, non pensare all’eredità del dojo e della Scuola di Lotta Indiscriminata, sono solo sciocchezze! Da oggi in poi non sarà più una tua preoccupazione: ho sistemato tutto io!»
«M-ma… ma a me piace a-allenarmi…» “con te” rimase lì, a galleggiare sulle sue lacrime, sospeso tra loro come un palloncino, sebbene fosse pesante come un macigno. «Io… s-sono la figlia forte e co-coraggiosa…» la sua voce si spense guardando l'espressione di suo padre; nella limitata esperienza da bambina quale era, Akane non avrebbe saputo darle un nome, se non profonda tristezza. 
Lui sospirò e fece un sorriso stanco, le posò una mano sulla testa scompigliandole i capelli e sussurrò con voce rotta: «Sei così determinata, forte e testarda… se fossi nata maschio saresti stata l’ometto di casa, un eccellente artista marziale, l’erede perfetto…» 
Akane era confusa, non sapeva se rallegrarsi o rattristarsi. Cosa significavano quelle parole? Forse che dal momento che era una femmina non era una degna erede? Che in un bambino quelle che erano qualità, in una bambina erano difetti? Non le voleva più bene? Lui sembrò quasi leggerle nella mente e la abbracciò: «Akane, lo sai che ti voglio bene, sei e sarai sempre la mia bambina preziosa. Potrai diventare certamente una brava artista marziale, ma vedi…» la voce perse risolutezza «Io non sono più… da quando okāchan… diciamo… diciamo che ho smarrito la mia forza vitale. Non riesco più… Non posso più insegnarti il . Almeno non adesso» tagliò corto. 
Akane sentì crollarle il mondo addosso e lui dovette intuirlo perché continuò con dolcezza, accarezzandole i capelli: «Bambina mia… non sei tu il problema, sono io. Lo capisci?» 
No, non lo capiva. E forse non voleva nemmeno capire. Cosa pretendeva da lei, aveva appena sei anni! Correndo tra le lacrime in camera sua, sapeva solamente che avrebbe continuato ad allenarsi, che sarebbe diventata brava quanto e più di quel figlio maschio che - ora lo sapeva - Otōsan avrebbe voluto al posto suo. Ma poi cosa avevano i maschi più delle femmine? Lei li odiava i maschi! 
Akane si guardò dentro e vide un gigantesco buco nero a forma di suo padre. Lui, che aveva riempito e addolcito ogni giorno della sua vita fin da quando aveva memoria, con poche parole affilate come rasoi si era tagliato fuori dal suo amore, incurante del buio in cui la lasciava.
Ardendo di volontà, con il cuore infranto e la faccia affondata nel cuscino inzuppato di lacrime, Akane giurò a se stessa che sarebbe diventata una grande, fiera e invincibile artista marziale anche senza l’aiuto di suo padre. Anzi, senza l’aiuto di nessuno: lo avrebbe fatto da sola, perché lei era la figlia forte e coraggiosa, l’unica, insostituibile, indispensabile, imprescindibile erede della Scuola di Lotta Indiscriminata Tendo.

 
 


Non so se sia vero, ma c’è quel luogo comune che dice che ogni donna sia perdutamente innamorata di suo padre e che, nel bene e nel male, per tutta la vita cercherà qualcosa di lui negli uomini che incontrerà. Con TigerEyes abbiamo convenuto che, in effetti, Soun, Tofu e Ranma abbiano parecchie caratteristiche in comune e allora perché non raccontare Akane e la sua ricerca dell’amore in una raccolta in tre atti? Quando anche Moira78 ha detto di sì, non potevo crederci: è stato un sogno che si avverava! (Grazie ragazze, vi amo!)
Un ringraziamento e un abbraccio come sempre a voi lettrici e lettori per essere arrivati fin qui, spero vi sia piaciuta, fateci sapere cosa ne pensate!
A presto,
 
Giorgi_b

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** First Love ***


First Love
di Moira
 
 
- § -
 
 
 
Glossario:
Otōsan: Papà.
Dojo: Luogo dove si praticano le arti marziali.
Daifukumochi: Dolce giapponese composto da riso glutinoso e marmellate di vario tipo, tra cui quella di fagioli rossi detta azuki.
Miso: Condimento ottenuto da semi di soia gialla fermentati.
Kata: Movimenti usati nelle tecniche di combattimento delle arti marziali.
Kami: Divinità della religione shintoista.
Karategi: Divisa per praticare il karate.

 
- § -
 
 
Non sono gelosa di mia sorella. Io non sono gelosa di Kasumi...

Se lo ripeteva nella mente, Akane, mentre si guardava allo specchio e spazzolava i capelli con gesti lenti e meccanici. All'inizio aveva incontrato qualche nodo, ora le setole della spazzola filavano come se fossero divenuti seta.

Tofu era un uomo adulto, eppure era anche un ragazzino. Tofu era il medico integerrimo e affidabile, ma anche l'adolescente insicuro che si emozionava davanti a una ragazza molto più giovane di lui. Tofu era...

Era quello arrivato in città l'anno prima, cui era andata a dare il benvenuto con Kasumi approfittando di una distorsione al polso. Voleva impressionare suo padre, ma aveva colto il suo sguardo terrorizzato quando aveva impilato persino troppe tavolette perché potesse spaccarle lui stesso con un colpo ben assestato. E aveva bevuto, dissetandosi, l'espressione stupita e ammirata nei suoi occhi scuri di solito velati dalla tristezza o dalla malinconia.
Un attimo prima di leggervi l'orrore.

Akane non era riuscita a dissimulare una smorfia di dolore e Otōsan era uscito precipitosamente dal dojo per chiamare Kasumi a gran voce, solo per tornare da lei e controllarle il braccio con le lacrime agli occhi: "Ti fa molto male, piccola mia?".

Piccola. Piccola mia...

Sì, erano bastate quelle parole a farle salire un nodo in gola, perché cominciava a sentirsi di nuovo come quando era piccola e avere l'amore e l'approvazione di Otōsan era il suo unico scopo nella vita. Anche ora, che passava ripetutamente la spazzola e le dita tra le ciocche che ormai superavano le spalle, poteva avvertire quello struggente sentimento infantile. Dolce, come i daifukumochi che mangiavano la domenica; amaro, come il miso che aveva assaggiato una volta in cucina. 

Perché a volte si sentiva strappata in due, quasi i propri piedi tirassero in direzioni opposte: da una parte la sua infanzia, dove la perdita della mamma l'aveva prostrata, ribaltato il suo mondo e convinta a trovare uno scopo nella vita che rendesse orgoglioso suo padre. Dall'altra, la necessità fisiologica di lasciarsi alle spalle quella sorta di porto sicuro per far fronte a quel nuovo, strano sentimento che sembrava agguantarle il cuore ora con l'intenzione di carezzarlo, ora con quella di stritolarlo senza pietà.

E il viso giovanile e al contempo maturo di Ono Tofu si sovrapponeva sempre più spesso a quello di Otōsan, la cui immagine era sempre presente, ma sfumava nei contorni di un affetto paterno. Ciò che sentiva quando il suo medico le sorrideva o le poneva una mano sul capo, invece...

All'inizio aveva davvero pensato che si trattasse di qualcosa di simile all'amore che provava per il papà. E, d'altronde, il buon dottore non la trattava forse con la medesima tenerezza?

La tenerezza...

La tenerezza di quelle mani grandi e calde che potevano farle una fasciatura perfetta come quella che aveva alla caviglia, consentendole di stare in piedi davanti allo specchio come una sciocca a pettinarsi senza provare dolore; la tenerezza che svaniva, quasi come per magia, quando lo guardava di nascosto impegnarsi in qualche kata nel quale quelle stesse mani sembravano voler afferrare l'aria e trattenerla, le gambe si piegavano contraendo ogni singolo muscolo per sostenersi in modi diversi.

La spazzola affondò di più, tanto che la sentì premere contro il cuoio capelluto in maniera quasi dolorosa, afferrò un nodo rimasto in profondità e lo sciolse strappando di certo alcuni capelli al suo passaggio. Le punte ricaddero sulle spalle e Akane le osservò con occhio critico: no, di certo non erano più lunghe di prima, casomai ora erano meno folte, visti i poveri resti che occhieggiavano scomposti tra le setole.

Quel pomeriggio, quando era giunta zoppicando fino al cortile posteriore dove sperava di trovarlo ad allenarsi, era rimasta quasi senza fiato: stava facendo un esercizio che non aveva mai visto fare neanche a suo padre e che lei stessa non aveva mai provato in quel modo.

Ono Tofu, avvolto nel suo solito kimono marrone, stava facendo delle flessioni sostenendosi con il solo dito indice, il corpo teso come un fuso che si alzava e si abbassava, l'espressione algida dietro gli occhiali e neanche una goccia di sudore sulle tempie. Il codino che tratteneva i capelli sembrava a sua volta quasi immobile, come se l'uomo stesse convogliando la sua facoltà di movimento solo al gomito che si piegava costantemente, mentre l'altro braccio rimaneva dietro la schiena.

Era gelata ed era avvampata nello stesso momento, il ghiaccio nelle gambe che si rifiutavano di collaborare e muoversi e il fuoco sul viso. Non aveva mai provato nulla di simile per suo padre. Perché, in quel caso, stava cominciando a maturare in lei l'insana quanto assurda voglia di allungare una mano per toccare il torace di quell'uomo così concentrato solo per accertarsi che i muscoli fossero ben tesi anche lì e sui bicipiti che non poteva vedere e persino sulla coscia che si puntellava grazie alle dita dei piedi ben salde a terra.

Forse aveva emesso un qualche suono di sorpresa, mentre si portava le mani alle labbra, perché quel corpo si era finalmente rilassato e lui le aveva sorriso. E che i kami la fulminassero se capiva come mai avesse adorato e allo stesso momento odiato quel sorriso.

"Ciao, piccola Akane, cosa ti è successo?".

Piccola. Piccola Akane.

"Non sono più così piccola, ho quattordici anni!", disse allo specchio mentre tirava forte un'altra ciocca con la spazzola come se avesse potuto indurla davvero ad allungarsi fino a diventare come quelle di Kasumi. Magari in quel mondo alla rovescia dietro al vetro sarebbe accaduto.

Già, Kasumi.

Da parecchio si era resa conto che Ono Tofu non sorrideva allo stesso modo a Kasumi. Perché con lei rideva, rideva forte, come se la sorella maggiore avesse qualcosa di divertente disegnato sulla faccia o dicesse barzellette tutto il tempo, invece di riservargli un saluto educato prima di spiegare come la piccola Akane si fosse fatta male per l'ennesima volta.

All'inizio aveva riso anche lei, assieme a Kasumi e al medico che pareva trovare nel suo scheletro Betty l'assistente ideale. Oh, aveva metodi davvero molto carini per non spaventare i piccoli pazienti! Come ad esempio disinfettare e mettere le fasciature all'ossuta compagna invece che a lei, oppure cominciare a ballare tenendola come fosse una dama in carne e non solo ossa, vestita di tutto punto.

Akane era stata molte volte sul punto di dirgli che lei ormai era troppo grande per spaventarsi e che non sarebbe stato certo un po' di disinfettante o un batuffolo di cotone a intimorirla. Però le sue visite erano così divertenti che la piccola Akane aveva avuto il sopravvento e si era goduta lo scherzo di quell'uomo che si comportava come un ragazzino, raccontandone le divertenti gesta al suo papà.

E tuttavia, qualcosa si stava incrinando sempre di più man mano che i mesi passavano e tredici anni diventavano quattordici. Aveva cominciato a vedere Kasumi che sbocciava come un fiore, diventando la donna che di certo era stata sua madre alla stessa età. E quando la vedeva accanto a Ono, non le sembrava affatto che la differenza di età fosse così pronunciata: perché lui sembrava più giovane e Kasumi a tratti più grande.

Quasi dovessero incontrarsi a metà strada.

Quella consapevolezza l'aveva travolta una notte di un paio di mesi prima, mentre sognava sua madre. Odiava ammetterlo, ma aveva bisogno di rivedere le poche foto che tenevano in casa per ricordarla: la maggior parte le custodiva suo padre nella propria stanza, quasi palesarle potesse far aumentare troppo il dolore mutandolo in quello del giorno stesso della sua morte.

Eppure, nel suo sogno, la mamma era bella e reale, forse persino più bella di quanto fosse stata davvero. C'era tanta dolcezza nei suoi occhi che guardavano Otōsan, il quale ricambiava nella stessa maniera! In quegli occhi c'era amore allo stato puro, ma un amore profondamente diverso da quello che entrambi riservavano a loro, le tre figlie rimaste orfane di madre troppo presto.

Lo sguardo di una donna a un uomo. Lo sguardo di una madre o di un padre.

Akane si era svegliata nel cuore della notte con gli occhi pieni di lacrime, desiderando afferrare e trattenere la visione bella e vera prima che svanisse. Ma si stava già sciogliendo in stille salate che cadevano sulle coperte e sul pigiama. E virava in un sentimento di consapevolezza che con lei non c'entrava nulla.

Lo sguardo di Tofu per la piccola Akane era quasi paterno.

Perché faceva così male? Lei aveva ancora accanto il suo papà e stava diventando ciò che lui agognava: la sua degna erede! Quindi, perché le importava tanto che un uomo molto più giovane la guardasse in un modo simile? Non le stava certo togliendo qualcosa, né sostituendosi a Otōsan.

Sospirò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi e arrendendosi all'evidenza che i propri capelli non fossero lunghi come quelli di Kasumi, perché per comodità li accorciava spesso e li teneva legati, così da muoversi più liberamente. E non si sarebbero mai allungati come per magia spazzolandoli nervosamente e persino spezzandoli nella foga. Sarebbero rimasti lì, a superare di poco le spalle, e non li avrebbe d'improvviso sentiti ondeggiare sulla schiena: per quello avrebbe dovuto attendere mesi. Forse persino anni.

Nulla in lei era come Kasumi, né Ono Tofu le avrebbe mai rivolto uno sguardo invisibile dietro agli occhiali sempre appannati, come se il tasso di umidità sulla sua faccia aumentasse alla presenza della sorella maggiore. E non rideva neanche come se fosse in preda alle convulsioni. Né si metteva a fare cose strane come volteggiare per lo studio con Betty fra le braccia.

Quel giorno, per la prima volta in un anno, Akane era andata da lui senza Kasumi e ne aveva avuto la prova: il dottore era stato dolce e ineccepibile, però non aveva usato quelli che aveva sempre creduto dei trucchetti per tranquillizzarla.

Perché il motivo di quel suo comportamento goliardico non era lei, ma sua sorella.

"Da dove sei saltata, questa volta? Oh, no, fammi indovinare! Hai tirato un calcio al muro!". Il tono era divertito, ma Ono sembrava un fratello maggiore

o un padre

che tenta di ammonire la sorellina scavezzacollo, con il dito giocoso che si agitava fino a sfiorarle la punta del naso. Inducendola a chiudere gli occhi e desiderando che indugiasse più a lungo.

Impazzita, sono impazzita.

"Io... ho solo cercato di... stavo tentando...". E da quando in qua farfugliava? Davanti al dottor Tofu, poi! Di colpo, le era mancata Kasumi. Si era sentita scoperta lì con lui, vulnerabile come mai le era capitato in sua presenza.

"Non importa, Akane. Ora stendi bene la gamba così che possa fasciarla. Hai avuto un bel coraggio a venire qua da sola, ma sei stata anche un po' incosciente. Sarebbe stato meglio che ti fossi fatta accompagnare da... da...". Aveva cominciato a balbettare, il dottore, inciampando su un nome fin troppo familiare.

Inconsciamente, Akane aveva scoccato un'occhiata a Betty, interrogandosi e rispondendosi quasi subito: senza Kasumi, lo scheletro rimaneva uno strumento didattico in uno studio medico, muto e senza vita. Persino inquietante.

Ono Tofu aveva delle belle mani. Non grandi come quelle di suo padre... o forse sì? Decisamente, però, sembravano più le mani di un pianista che di un medico o di un appassionato di arti marziali. No, guardandole meglio le aveva notate, quelle meravigliose imperfezioni: sì, erano affusolate ed eleganti ma anche maschili. Non era un callo quello sull'indice, vicino al polpastrello? E il pollice della mano sinistra, che stava facendo girare con l'aiuto della destra la benda sulla caviglia, non riportava forse un piccolo cerotto?

"Che c'è, ti sto facendo male?", la voce l'aveva fatta sussultare così forte che il piede si era mosso e lui aveva dovuto posare una di quelle mani sulla gamba perché rimanesse ferma. Il brivido le risalì su, fino all'anca, molto oltre la schiena per soffermarsi dietro al collo. Decisamente, tutto ciò non era normale. Se il dottore avesse notato la pelle d'oca avrebbe fatto una misera figura!

"No, sto bene, era solo... un po' di solletico. La benda mi faceva il solletico". Era stata l'unica cosa di senso compiuto che le fosse passata per la mente.

"Da come la guardavi sembrava che ti stessi avvolgendo intorno qualcosa che non avevi mai visto. Oh, forse perché ho cambiato fornitore e queste sono più scure!", aveva commentato alzando il rocchetto per osservarlo meglio. "Dovrebbero essere più morbide, giusto?".

"Sì", aveva risposto meccanicamente. "Molto... belle... ehm... morbide. Volevo dire... morbide". Kami del Cielo! Aveva detto 'belle' al posto di 'morbide' e quell'aggettivo ne era uscito come una carezza. Perché le sue mani erano morbide come una carezza. Altro che le bende nuove!

Il medico aveva terminato di fasciarle la caviglia e lei sentiva a malapena il dolore nel tamburo che era il suo cuore, martellante nelle orecchie e persino dentro agli occhi. "Prova a scendere, piccola Akane, e dimmi se riesci a camminare".

Piccola. Era bastato quello per sbalzarla fuori dal sogno. Un sogno che era anche un incubo, perché Tofu non aveva dato cenno di comportarsi in maniera anomala, ma era stato professionale e gentile come un medico con un paziente adulto. E senza la presenza di...

"È permesso? La porta era aperta... Akane, sei qui?". Le mani che tanto l'avevano affascinata, per fortuna già lontane dalla caviglia, si erano contratte nell'aria, gli occhiali si erano appannati all'istante ed era avvenuta la trasformazione. Alla fine Kasumi si era accorta della sua assenza e l'aveva seguita.

"Ka... Ka... Ka... suuuumi!? Ma che sorpresa, come mai da... queste parti?!". Ad Akane era parso quasi di sentire un inesistente gemito di frustrazione provenire dal teschio contrariato di Betty, quando il suo padrone l'aveva afferrata e piazzata davanti alla sorella maggiore. "Come vedi la piccola Akane sta benissimo, eh? No, non lei, ma Akane, la caviglia! Ahahahahahaah!".

E l'aria quasi sensuale che lo aveva avvolto nella professionalità impeccabile era stata sostituita dai modi ridanciani e goffi con i quali manovrava Betty, indicava le bende sulla sua caviglia e si teneva la nuca mentre rideva istericamente.

Akane riaprì gli occhi che aveva chiuso, avvicinandosi alla propria immagine come per cogliere il colore preciso delle iridi: "Quindi? Non la fissa certo con lo sguardo adorante che aveva papà nei confronti di mamma! Non riesce neanche a fissarla perché va fuori di testa!".

E tuttavia, era stato quel modo di guardarsi dei suoi genitori che l'aveva fatta sentire per anni in competizione con le due sorelle più grandi, lei, la più piccola, forse il maschio mancato cui papà voleva lasciare la palestra.

Ora di quella competizione non era rimasto nulla: aveva vinto, stava dando all'uomo della sua vita ciò che desiderava: il futuro del dojo, pur senza il suo aiuto. Nonostante la sua richiesta di non preoccuparsene più, infatti, lei non si era arresa e aveva continuato da sola guadagnandosi spesso occhiate e sorrisi che la ripagavano di tutti gli sforzi e le lacrime.

E adesso? Adesso che finalmente stava riuscendo nell'intento si sentiva sconvolta perché Ono, un maschio che non era suo padre, non la guardava come voleva? E da quando le interessava qualcosa di soggetti dell'altro sesso che non fossero Otōsan?!

Da quando si era resa conto che la gentilezza dietro quelle lenti era per lei come una carezza nell'anima; da quando aveva cominciato a chiedersi, non senza imbarazzo, quanto fossero sviluppati i suoi muscoli così forgiati dagli allenamenti; da quando, giusto un'ora prima, si era resa conto che la sua voce calma e la mano sulla caviglia mandavano piccole ma inequivocabili scosse lungo il suo intero essere, scuotendolo al pari di un fuscello al vento.

Akane gettò il viso fra le mani, respirando a fondo, trattenendo a stento la struggente e incomprensibile voglia di piangere, perdendo la presa sull'inutile spazzola piena di capelli strappati: ne udì a malapena il tonfo sul pavimento. Lei odiava gli uomini. Lei aveva passato l'intera vita a cercare di compiacere suo padre quasi si scusasse inconsciamente di essere nata femmina. Lei si stava finalmente redimendo grazie alla sua passione per le arti marziali. E ora... di colpo desiderava... no, anelava la presenza di un ragazzo dolce che la chiamava 'piccola' e che perdeva la testa per sua sorella.

Kasumi, quella perfetta che aveva preso le redini della casa e quasi occupato il posto di sua madre. Kasumi, che aveva almeno dieci anni meno di Ono, ma sembrava perfetta per lui: entro qualche anno, la differenza si sarebbe notata ancora meno.

E lei era sempre l'ultima, quella della competizione impossibile, quella che aveva scelto la disciplina fisica che pure amava per prendere le redini del dojo. Non sarebbe tornata indietro, mai. Anche perché ci sarebbe voluta un'altra vita per diventare femminile e bella come Kasumi: non avrebbe mai mandato in visibilio un uomo come Tofu, al massimo si era guadagnata qualche sguardo timido e sorrisetti affettati da alcuni compagni delle medie che non considerava nemmeno.

E Ono era la versione più giovane di suo padre, realizzò facendo un passo indietro e quasi inciampando sulla spazzola. Perché tentava di renderli più lucidi? E d'improvviso desiderava lasciarli crescere perché fossero come quelli di Kasumi? Lei non era Kasumi tanto quanto Ono non era Otōsan.

Eppure...

Eppure Akane poteva crescere e diventare carina, con la chioma lunga e sciolta quando non si allenava. Eppure Ono si allenava con passione nei momenti liberi come suo padre non faceva da anni. E lei... gli voleva bene. Tanto, tanto bene.

Le braccia si avvolsero intorno al suo corpo e, prendendo un respiro tremulo, immaginò di trovarsi lì, nello studio del buon medico, nel profumo leggero del disinfettante e del tè verde che teneva nel cucinino attiguo. Immaginandolo mentre muoveva giocoso le braccia scheletriche di Betty e le ossa facevano un rumore secco una contro l'altra.
E, per la prima volta in vita sua, Akane pianse per qualcuno che non era sua madre. Pianse per il suo cuore di ragazzina che si sarebbe spezzato lentamente ma in maniera inesorabile. Pianse perché non aveva una mamma con la quale confidarsi. Pianse perché non avrebbe potuto farlo con le sue sorelle. E pianse per quello che non sarebbe mai potuta essere.

Quando il pianto si ridusse a pochi, sparuti singhiozzi, Akane si sentì sciocca e rise di sé asciugandosi gli occhi. Non era da lei comportarsi così, né starsene davanti allo specchio osservando e pettinando i capelli invece di legarli, infilare il karategi e andarsene nel dojo, fosse anche per rompere qualche tavoletta con le mani finché la caviglia non fosse guarita.

Alle sue spalle, dalla finestra entrò un raggio di sole che si adagiò sulla superficie di vetro, illuminando la sua immagine quasi volesse confermare i suoi pensieri: lei non sarebbe stata un semplice riflesso di Kasumi.

Un giorno, sarebbe stata in grado di risplendere di luce propria.

Con quella nuova consapevolezza che la rinvigorì di colpo, Akane infilò le dita nella chioma maltrattata, quasi volesse farle una carezza per scusarsi. La riavviò dolcemente e afferrò l'elastico sul comodino per raccoglierla in una coda alta.

Un giorno... sì, un giorno... forse...

Voltò finalmente le spalle allo specchio, ma concedendosi un ultimo svolazzo malizioso a fior di labbra, come un sorriso sfuggente: tutto sommato, i capelli poteva lasciarli crescere. Cosa ci sarebbe stato di male, alla fine? Sarebbe diventata Akane dai capelli lunghi, non una copia sbiadita di Kasumi. Ed entro tre o quattro anni, Ono avrebbe finalmente notato anche lei...



Un grazie speciale a Tiger Eyes e Giorgi_b per avermi coinvolta in questo progetto: Tofu è sempre stato uno dei personaggi che mi intrigava di più e ho adorato poterlo approfondire un po' grazie a loro. Inoltre, è stato un onore e un divertimento per me scrivere con due Autrici di tale calibro. Grazie di questa bellissima opportunità!
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Perfect Love ***


Eccoci arrivati al terzo e ultimo atto di questa raccolta di oneshot. Ringrazio dal profondo del cuore Tillyci per la consulenza sulla caratterizzazione di Akane (e non solo), Moira78 per la betalettura e Giorgi_b sia per la betalettura, sia soprattutto per aver avuto l’idea di questo viaggio introspettivo e aver reso partecipi sia me che Moira nella sua stesura. Grazie infinite, ragazze, vi abbraccio tutte!
Nella speranza che anche questa os possa piacere come le precedenti, auguro buona lettura a chi passerà di qui!

PS: tutti le citazioni dei dialoghi sono tratte dalla New Edition del manga!




PERFECT LOVE

di
Tiger Eyes





Sei il mio ‘niente’
quando la gente mi incontra con lo sguardo sperduto
e mi chiede: “A cosa stai pensando?”.

(Pablo Neruda)



Akane osserva dalla finestra il motivo in carne e ossa a causa del quale la sua vita è precipitata da un giorno all’altro.
Il modo in cui salta, come se fosse senza peso. Il modo in cui schiva gli affondi, come se conoscesse in anticipo le mosse dell’avversario. Il modo in cui i suoi pugni fendono l’aria, quasi diventando tutt’uno con l’aria stessa.
Il modo in cui ride e sorride, beffardo e arrogante.
Il loro ospite è il suo nuovo incubo. Perché non bastava Tatewaki Kuno a perseguitarla. Non bastava l’orda di spasimanti che ogni mattina rischiava di farla arrivare tardi in classe. Non era sufficiente nemmeno il fatto che il dottor Tofu continuasse a ignorare l’evidenza, che lei è cresciuta, è un’adolescente, ormai, quasi una donna, non più una bambina scavezzacollo.
No, tutto questo non era abbastanza, evidentemente. I kami dovevano piazzarle anche un fidanzato non richiesto fra i piedi, perché la sua esistenza fosse definitivamente rovinata. Un cretino immaturo e odioso, oltretutto, l’esatto opposto dell’uomo cui lei anela. Peggio di così non è concepibile, eppure sente che i guai sono solo all’inizio, anche se non riesce a immaginare cosa possa andare ancora più storto.
Akane richiude stizzita la finestra facendo sbattere l’anta e torna a sedersi alla scrivania. L’equazione la sta fissando dalla pagina del libro di matematica da una mezz’ora buona: nero su bianco, la sta sfidando a concentrarsi su numeri e incognite nonostante il baccano che proviene dal giardino. Ogni tanto i vetri tremano, come intimoriti dalle minacce e dai colpi ben assestati che infrangono la tranquillità di quel pomeriggio assolato.
E la propria, da quando la sua vita è finita in frantumi per colpa di quei due.
Ignorali, Akane. Quello là, soprattutto. Non è il tuo fidanzato. Non è. Il tuo. Fidanzato. È un perfetto estraneo e tale rimarrà, prima o poi Otōsan se ne farà una ragione e lo manderà via insieme a quello scroccone dell’amico. Papà non ha bisogno di un erede maschio, perché ci penserai tu a mandare avanti la palestra. Giusto?
Giusto.
Così era stato deciso. O meglio, così lei aveva deciso. Non ne avevano mai parlato, in effetti, lo aveva dato per scontato. Il padre, del resto, non aveva mai fatto parola della promessa sugellata col suo ‘migliore amico’. In ogni caso, Akane ha ampiamente dimostrato al genitore di tenere alto il nome dei Tendo nel panorama delle arti marziali, quindi non ha importanza quanto quel Ranma sia più forte e agile di lei, migliorerà ancora in futuro, non ha dubbi, dunque Otōsan non ha nulla da temere: lei se la caverà da sola come ha sempre fatto.
Akane prende un profondo respiro un pochino rinfrancata e poggia risoluta la matita sul quaderno.
“Ridammela, padre degenere! Quella fetta è mia!”.
La punta si spezza con uno schiocco attutito e vola fino al bordo della scrivania, mentre il moncherino lascia sul foglio immacolato uno sfregio sfumato.
“Non ci penso nemmeno, è l’ultima!”.
Infila per la terza volta la matita nel temperino e la ruota esasperata fino a ottenere la punta agognata.
“Ridammela, ho detto, ladro che non sei altro!”.
“Dov’è finito il rispetto che devi a tuo padre, eeeeh?!”.
Akane chiude gli occhi e conta. Conta a denti stretti fino a dieci. Poi fino a venti. Poi fino a trenta, ma non ci arriva nemmeno: un fracasso tremendo la induce ad alzarsi di slancio dalla sedia e a spalancare di nuovo l’anta della finestra per capire cosa sia accaduto, stavolta. Ed eccoli là, quei due imbecilli dei loro ospiti: hanno frantumato – di nuovo – la lanterna di pietra. E nonostante ciò, continuano a riempirsi la bocca di anguria e a sputarsi addosso i semi delle rispettive fette, tra un calcio volante e l’altro, perché di mollare la propria parte di frutto non ci pensano nemmeno. Se è per questo, evitare di litigare come bambini di cinque anni per una qualsiasi scemenza basta già a capire che razza di idioti suo padre ha avuto il coraggio di far entrare in casa loro.
Akane si volta e cerca uno dei manubri da cinque chili sul pavimento, lo afferra e torna alla finestra, cercando di prendere bene la mira, stavolta. Ma anche se la traiettoria è perfetta e quel maniaco di un baka è distratto dal genitore, lo vede scansarsi all’ultimo istante, schivando sia il suo attrezzo che un calcio rovesciato del padre, per poi contrattaccare a sua volta con un calcio che manda il signor Saotome a volare fin sotto un pino. Vorrebbe credere con tutte le sue forze che lo scemo abbia evitato il suo attacco per puro caso, ma sa bene purtroppo che non è così.
Ranma si volta difatti verso la sua finestra, il volto cosparso di semi di cocomero, e tirando con gli indici gli angoli della bocca le fa una linguaccia, dissipando ogni dubbio.
“È inutile, Akane, sei una pippetta, non riuscirai mai a colpirmi, rassegnati!”.
Sente la faccia percorsa all’istante da una vampata di calore così violento da temere che possa prendere fuoco.
“Lo vedremo, brutto idiota!”.
Furente fino alla punta della lunga chioma, cerca frenetica l’altro manubrio e quando infine lo trova sotto il letto si precipita alla finestra pronta a lanciarlo, ma il cretino non c’è più. Si sporge più che può guardando a destra e a sinistra, ma del maniaco nemmeno l’ombra: i rumori ora si sono spostati nei pressi dello stagno.
Akane chiude di slancio l’anta di vetro sbattendola un’altra volta con furia e si getta a sedere sul letto, abbandonando l’attrezzo accanto a sé per prendersi il volto fra le mani, i gomiti puntellati sulle ginocchia.
È talmente sconfortata che ha voglia soltanto di piangere.
Quello non è il mio fidanzato, non è il mio fidanzato, non lo è, non lo sarà mai!
Ma per quanto lo ripeta a se stessa, quel concetto pare non entrare nella testa di nessun membro della casa, a parte il diretto interessato.
Akane scuote il capo, amareggiata. Cosa è saltato in mente al suo adorato papà? Come ha potuto prendere una decisione del genere nei confronti delle sue figlie e arrivare perfino a imporla? Senza consultarle. Senza nemmeno avvertirle, anzi mantenendo segreta per anni una promessa che non teneva in alcun conto i loro sentimenti.
Come ha potuto fare questo a lei?

(Scegli quella che ti piace di più, sarà la tua promessa sposa)

Ha persino negato loro la possibilità di obiettare: le ha messe in fila come mercanzia esposta in una vetrina e le ha presentate lasciando a quell’estraneo la decisione su quale di loro sposare, neanche fossero davvero prodotti in vendita in un negozio.
Akane si asciuga una lacrima col palmo di una mano e si butta di schiena sul letto a fissare il soffitto, un braccio a coprire la fronte.
È anche vero che il padre viene da un’epoca in cui i matrimoni combinati erano la norma, lui stesso e la mamma si erano sposati senza nemmeno conoscersi e nonostante ciò si erano innamorati. Ma ormai la fine del millennio è vicina, Otōsan non può continuare a ragionare come ai suoi tempi e considerare le sue figlie semplice merce di scambio. Né dare per scontato che ciò che è accaduto tra lui e la mamma possa accadere a una delle figlie e al loro ospite.
Non è solo veder annullata la tua volontà che ti brucia, vero? C’è dell’altro…
Akane chiude gli occhi, lasciando stavolta che la lacrima abbandoni le ciglia per fuggire lontano.
Sì, c’è qualcosa che supera perfino la frustrazione per essere stata trattata come un oggetto: è stato rendersi conto che a suo padre non importava chi quel Ranma scegliesse come fidanzata, purché fosse una di loro.
Una qualunque.
Quella consapevolezza l’aveva quasi annientata. Tutti quegli anni trascorsi a massacrarsi di allenamenti che piovesse, nevicasse o il sole sciogliesse l’asfalto, a vincere sfide sempre più ardue contro avversari tre volte più grossi di lei, a dimostrare in ogni modo possibile che il sesso non conta, conta solo la determinazione. E che lei, anzi, era perfino meglio del maschio che suo padre non aveva mai avuto. Tutti quegli anni a cercare la sua approvazione… per cosa? Per vedersi sfilare la palestra da sotto al naso dal primo venuto che dimostrava di essere abbastanza bravo nel kenpō. Suo padre aveva già deciso chissà quanti anni addietro di lasciare il dojo al figlio del suo amico, che una di loro praticasse o meno le arti marziali non aveva alcuna importanza. E a quanto pare che l’erede in questione fosse talentuoso, nemmeno.
Akane porta il braccio a coprire gli occhi e si morde il labbro pur di impedire ad altre lacrime di testimoniare quanto suo padre l’abbia delusa. Il suo mito, il suo idolo, colui che da bambina aveva deciso ingenuamente di sposare una volta cresciuta era caduto dal piedistallo su cui lo aveva innalzato il giorno in cui Ranma e il signor Genma avevano messo piede in casa loro. E non era il solo.

(Scegli quella che ti piace di più, sarà la tua promessa sposa.
Oh, sarà sicuramente Akane, vero?
Sì, sembri fatta apposta per lui!
Non scherziamo! Perché proprio io?
Non sei tu quella a cui non piacciono i ragazzi?
Pensa che fortuna, Ranma è per metà ragazza!)


Anche le sue sorelle l’avevano delusa. A differenza loro che sembravano entusiaste all’idea, lei aveva fatto capire chiaramente di essere contraria a un fidanzamento combinato con uno sconosciuto. Invece, appena si erano rese conto che Ranma era troppo giovane per una e troppo bizzarro per l’altra, avevano scaricato in tutta fretta il fardello sulle sue spalle. Da Nabiki c’era da aspettarselo, ma da Kasumi? Come aveva potuto proprio lei farle una cosa del genere, senza tenere in conto la sua volontà? Ancora adesso sente la punta acuminata del tradimento trapassarle il cuore e a scoccare questa freccia immaginaria è stata proprio colei che si era sostituita alla mamma in tutto e per tutto.
Scosta il braccio dal volto per tornare a guardare il soffitto, dove la luce aranciata del tramonto allunga sempre più le sue dita.
Tradita dalla sua intera famiglia, che in un attimo ha deciso il suo futuro. E più veemente è la sua opposizione, più forti sono le loro risate di scherno.
Akane si alza a sedere di slancio, le mani aggrappate al bordo del letto, gli occhi fissi sui propri piedi.
Come uscire da quella situazione disastrosa? Fare finta di nulla non sembra funzionare, forse l’unica soluzione è dimostrare a tutti quanto lei e quello là siano incompatibili. Ogni tanto Akane immagina suo padre in sala da pranzo oppure nel dojo che si rivolge all’amico fraterno comunicandogli a occhi chiusi, l’espressione greve, le braccia conserte: spiacente, Genma, i nostri figli non vanno d’accordo, sono come cane e gatto, lo hai visto anche tu, il fidanzamento è rotto. Ma sarebbe una soddisfazione di breve durata: suo padre potrebbe sempre far fidanzare Nabiki con quel Ranma e lei perderebbe la palestra. Se le cose restassero così, invece, sarebbe lei a ereditarla, ma è una magra consolazione.
Tuttavia è più forte di lei, non riconoscerà mai quel fidanzamento, perché quello là non è il suo fidanzato, anche se ormai l’intera scuola, anzi, l’intero quartiere lo considera tale. Lei non è impegnata, soprattutto non con un maniaco pervertito. Anche perché il suo cuore palpita per un altro, l’unico che ritenga degno di lei: un uomo, tra l’altro, non un ragazzino. Il problema però è sempre lo stesso: il suddetto ancora non si è accorto che lei è cresciuta. È più alta, più formosa e soprattutto i capelli hanno superato in lunghezza persino quelli di Kasumi! Eppure la chiama ancora piccola e la tratta come se avesse otto anni. Quanto era stata sciocca a illudersi che sarebbe bastato diventare ‘Akane dai capelli lunghi’ per catturare lo sguardo di un uomo che gli occhi li ha sempre avuti solo per sua sorella: ogni volta che Kasumi fa il suo ingresso nello studio medico, Akane diventa invisibile. A quel punto non le resta che togliere il disturbo e lasciare il dottore a parlare con Betty mentre oneechan ride pacata delle sue bizzarrie.
Nulla è cambiato da quando il dottor Tofu ha aperto il suo ambulatorio non lontano da casa loro, a parte la lenta presa di coscienza, da parte di Akane, che può farsi crescere i capelli fino alle caviglie e magari un giorno superare Kasumi in altezza, comunque le lenti del dottore non si appanneranno mai per lei, la sua bocca non balbetterà mai frasi senza senso, le sue mani non afferreranno mai le braccia scheletriche di Betty per improvvisare qualche passo di danza.
Akane si alza e torna mesta alla scrivania, prende posto sulla sedia girevole e rimane a guardare fuori dalla finestra il cielo che vira dal turchese al rosso fuoco.
Di tutti i mosconi che le ronzavano attorno, perché doveva perdere la testa proprio per l’unico esemplare maschile che non l’ha mai considerata e mai lo avrebbe fatto?
Perché è bello, forte, virile, gentile e ti ricorda tuo padre quando era giovane. Ammettilo, hai proiettato su di lui le caratteristiche di papà e le hai ingigantite.
Sì, forse ha idealizzato un pochino il dottor Tofu, però le sue molte qualità sono innegabili, non troverà mai un uomo altrettanto perfetto per lei. Se solo l’avesse guardata anche una volta soltanto come guardava Kasumi! Cosa doveva fare per suscitare in lui un minimo di interesse? Se ci fosse riuscita, non soltanto si sarebbe liberata in un colpo solo di quel Ranma e dei tanti spasimanti che a scuola continuavano a sospirare per lei, ma sarebbe stata felicissima di lasciargli condurre la palestra! Solo il dottor Tofu, a suo giudizio, era davvero degno di prendere le redini del dojo, solo a lui lo avrebbe permesso. Anche se forse non vi avrebbe mai messo piede, preferendo curare i malati. Tanto meglio, la palestra l’avrebbe portata avanti lei!
Ma per lui esisteva solo Kasumi. Sarebbe esistita sempre e solo la sua dolce e ingenua sorella maggiore.
Riprende in mano la matita che ormai è diventata un terzo della sua lunghezza e osserva le equazioni senza davvero vederle.
La verità è un boccone amaro che le è andato di traverso molto tempo fa, ma anziché inghiottirlo o sputarlo, ha lasciato che finisse per strozzarla. Non ha speranza, col dottore, è ora che se ne faccia una ragione, così come si sono finalmente arrese le orde di pretendenti che pensavano sul serio di conquistarla sfidandola a batterli nelle loro discipline sportive. Che assurdità. Era però un’assurdità che alla fine risultava utile come allenamento, se solo ogni giorno non avesse rischiato di entrare a scuola in ritardo per colpa di quegli esuberanti corteggiatori. E poi la gente aveva anche il coraggio di stupirsi che lei odiasse i ragazzi, come poteva non detestarli? La sua vita era diventata un inferno quasi dal primo giorno di scuola e la colpa era stata unicamente di quel pallone gonfiato di Kuno Tatewaki.
Per fortuna hanno smesso di tormentarmi da quando…
La matita si spezza di netto tra le dita e Akane, dapprima stupita, lascia poi cadere con un sospiro le due metà e le briciole di legno sul quaderno ancora aperto.
Quel Ranma almeno un’utilità l’aveva avuta, dopotutto, benché lei non avesse certo avuto bisogno del suo aiuto per tenere a bada tutti quegli invasati: il finto fidanzamento aveva quantomeno convinto i suoi appassionati fan a desistere dal conquistarla o chiederle un appuntamento. E questo ora le permetteva di entrare a scuola perfino in anticipo, senza corse rocambolesche, né combattimenti intralcianti. L’utilità di quel maniaco però finiva lì e, in ogni caso, detestava più lui che tutti i ragazzi del Furinkan messi insieme.
Allunga una mano verso il portapenne e prende una matita nuova di zecca, con la gomma ancora candida sul fondo, e inizia a saggiarne la punta col pollice.
Quel maledetto l’aveva ingannata facendo credere a tutti, appena arrivato, di essere una ragazza. E lei, in buona fede, gli aveva persino offerto la propria amicizia.

(Sono Ranma Saotome, vi chiedo scusa…
Io sono Akane, spero che diventeremo amiche)


Invece, in bagno, aveva rivelato il suo vero volto.

(Scioglie la chioma e sfila via il karategi, felice di aver trovato un’amica con cui condividere la passione per le arti marziali e non un fidanzato mai visto prima. Non vede l’ora di fare quattro chiacchiere a mollo nell’acqua bollente con la nuova venuta, curiosa di scoprire i posti che ha visitato in Cina e gli allenamenti cui il padre l’ha sottoposta. Chissà quanto avrebbe potuto imparare da lei!
Sorride perfino, quando fa scorrere con una mano l’anta di legno, un asciugamano tenuto sotto l’altro braccio, la bocca che si schiude e il respiro che muore sul nascere insieme al sorriso.
Un ragazzo si erge davanti a lei, un piede sul bordo della vasca, in procinto di uscire, i pettorali bene in evidenza.
E non solo.
Sbatte le ciglia, convinta che i vapori del bagno le abbiano giocato un brutto scherzo. Per quello, forse, la sua mente accantona l’imbarazzo per indurla a fare ciò che mai avrebbe immaginato di fare in vita sua: lo squadra dalla testa alla caviglia per essere davvero sicura di aver visto
bene, perché anche lui ha una treccia, dopotutto. Ma quando lo sguardo si sofferma all’altezza del bacino deve arrendersi.
Sì, è un ragazzo, è
inequivocabilmente un ragazzo.
E lei è talmente scioccata dall’aver visto per la prima volta in vita sua un maschio nudo, da perdere su quella soglia l’uso della parola.


Invece di stenderlo a mani nude, come giustamente le aveva suggerito Nabiki, si era limitata a richiudere l’anta, rivestirsi e uscire dal bagno. Quell’idiota l’aveva destabilizzata a tal punto da farla battere in ritirata. Lei, che mai si era tirata indietro davanti a una sfida.
Maledetto…
Aveva preso a pretesto quella doppia umiliazione cocente – essere vista nuda da un ragazzo e fuggire davanti al nemico – per rovesciargli poi addosso i peggiori insulti e rifiutarsi categoricamente di fidanzarsi con un maniaco pervertito, ma il motivo per cui lo detestava visceralmente era ben altro.

(Meno male che sei una ragazza, non sopporterei di essere battuta da un ragazzo…)

Aveva perso contro un maschio. E quel che era peggio, aveva perso due volte. Prima in palestra – in quello che avrebbe dovuto essere un semplice allenamento per saggiare le capacità della loro ospite e che invece era diventato un combattimento vero e proprio, almeno da parte sua – e poi in bagno, quando aveva preferito abbandonare il campo di battaglia, piuttosto che affrontare l’avversario. Quelle erano state le vere umiliazioni. Essere battuta nel suo stesso dojo – con una facilità disarmante, per giunta – e darsi a una fuga precipitosa nella sua stessa casa.

(Sono Ranma Saotome, vi chiedo scusa…)

No, non ti scuso, non ci penso nemmeno. Hai dimostrato a mio padre di essere talmente superiore a me nelle arti marziali, che adesso Otōsan è convinto più che mai che la palestra sarà in buone mani solo se sarai tu a guidarla. Tu, non io. Perché io non raggiungerei il tuo livello nemmeno se mi allenassi per altri cento anni. Sei inarrivabile, Ranma, è questo che fa più male, perché se non riuscirò a batterti, sarò costretta davvero a sposarti, pur di non perdere il dojo.

(Ehi, Ranma, dove stai andando?
In Cina! Troverò il modo di tornare definitivamente come prima, non è il momento di pensare a fidanzarsi, questo!)


Allora perché è ancora qui? Cosa lo trattiene? Nemmeno lui è d’accordo con quel ridicolo fidanzamento, che aspetta dunque ad andarsene?

(Quando sorridi sei carina)

La punta della matita si spezza, stavolta, sotto la pressione del polpastrello, ma lei ci fa caso a mala pena.
Perché glielo aveva detto? Solo per consolarla?
Ma anche fosse, a te che importa?! Non cambia nulla!
Una folata di vento le scosta alcune ciocche di capelli dalla fronte e Akane solleva il viso perplessa, sicura di aver chiuso la finestra, poco prima. Invece contro la luce pomeridiana si staglia quella faccia da schiaffi appollaiata sulle tegole fuori da quella stessa finestra, una mano poggiata contro l’anta aperta, che la osserva col suo solito, detestabile sorriso sghembo. Come qualche sera prima, quando dopo il bagno aveva indossato il pigiama e si era osservata in uno specchio constatando che sì, lei aveva proprio un bel sorriso. Peccato che quel cretino fosse apparso dal nulla a rovinarle il momento.

(Che fai, ridi da sola? Sei matta?)

A ben pensarci, quella sera non si era chiesta cosa ci facesse Ranma sul suo davanzale, per cui per una volta si sarebbe trattenuta evitando di torcergli il collo.
“Che vuoi?”, lo aggredisce balzando in piedi e sbattendo i palmi sulla scrivania, prima che lui si faccia scappare di bocca un’altra cattiveria.
“Ancora nervosetta? Ti ho riportato una cosa che hai perso in giardino…”, le dice ironico tenendo immobile sulla punta di un indice il manubrio che lei gli aveva lanciato. Un manubrio da cinque chili che lei deve afferrare saldamente con l’intera mano, per sollevarlo.
Maledetto…
Lei odia i ragazzi. Ma odia lui più di chiunque altro, Tatewaki incluso. Odia la sua sicurezza, la sua boria, perfino più della facilità con cui balza su un tetto o schiva i suoi attacchi annoiato come se evitasse una mosca molesta.
Akane afferra l’attrezzo e lo getta sul letto incurante se cadrà o meno a terra.
“Grazie tante, ora puoi anche andartene”.
E non tornare mai più, magari…
“Ecco, veramente…”, indugia invece Ranma a disagio, portando il braccio dietro la testa per grattarsi la nuca. I capelli neri come una notte senza luna mettono ancora più in risalto le iridi dal colore anomalo. Chissà perché, oltre a cambiare sesso, l’acqua fredda cambia anche colore di occhi e capelli: rosso semaforo e blu esuberante per la versione femminile, nero tenebra e blu cenere per la versione maschile. È come se nei suoi occhi fossero racchiusi i due volti del mare: acceso e brillante d’estate, scuro e agitato d’inverno.
Akane trasale nel rendersi conto di averlo fissato troppo a lungo e distoglie lo sguardo stizzita per posarlo sulla libreria di fianco a lei.
“Beh, allora? Che c’è?”, lo esorta, seccata in realtà più con se stessa per avergli prestato attenzione più di quanto meritasse.
“Stavi facendo i compiti?”.
Gli getta un’occhiata di sufficienza e si accorge che Ranma sta osservando il libro lasciato aperto, per fortuna, non lei. Incrocia allora le braccia al petto, un sopracciglio inarcato a rimarcare quanto la sua pazienza sia vicina a esaurirsi.
“Non è ovvio? Ma non sono riuscita a concentrarmi con tutto il baccano che avete fatto tu e tuo padre!”.
“Ah, ehm… mi dispiace…”, afferma lui con l’aria del cane bastonato.
Non gliela racconta giusta, è troppo remissivo, vuole sicuramente qualcosa.
“Perché mi hai riportato il manubrio? Cosa vuoi in cambio di questa… gentilezza?”.
“Ecco, mi… mi aiuteresti con la matematica?”, le chiede impacciato rigirandosi gli indici senza osare guardarla in faccia. “E anche con la storia… e la letteratura… Io ho sempre viaggiato da che ho memoria, ho frequentato raramente la scuola, sono molto indietro in tutte le materie, a parte… beh, educazione fisica…”, confessa assumendo ora l’espressione di un cucciolo smarrito. “Se non recupero in fretta, verrò bocciato ed è la volta buona che mio padre mi abbandona sul serio in mezzo ai boschi a sfamare i lupi…”.
Come riesce Ranma a passare in un battito di ciglia da super macho a uccellino caduto dal nido è qualcosa che la lascia ogni volta basita. Akane chiude gli occhi e si porta una mano a coprirli, incredula davanti a una faccia tosta di tale portata. Non sa se prestar fede alla confessione allucinante che gli ha appena fatto, una parte di lei vorrebbe spedirlo in orbita a suon di pugni o con un calcio ben assestato e che si arrangi da solo, il fulgido erede della scuola di lotta indiscriminata Saotome. Ma c’è un’altra parte – una parte che s’intenerisce facilmente e che per questo Akane ha soprannominato “Kasumi” – che non riesce a ignorare una sincera richiesta d’aiuto, anche se viene dal più idiota degli idioti.
“E va bene, d’accordo… ma solo per questa volta”, lo ammonisce tornando a guardarlo. “Prima e ultima, capito?”.
Lui spalanca gli occhi sorpreso: evidentemente si aspettava un netto rifiuto, non una rapida capitolazione.
“Grazie! Vado a prendere la mia cartella!”, le annuncia saltando subito dopo giù dal primo piano. Ma lei sta ancora fissando il punto dove il baka con la media scolastica più bassa dell’intero istituto Furinkan era solo un istante prima. Perché la parte di lei che non riesce a ignorare una richiesta di aiuto, adesso non riesce a ignorare la nuova sfumatura che hanno assunto quelle sue iridi così particolari: quella della gratitudine. Dopo mesi trascorsi a essere guardata solo come una ragazza da conquistare o un trofeo da vincere, per lei è una novità assoluta essere guardata da un ragazzo come si guarda un amico che non ti lascia solo, nel momento del bisogno: con gli occhi
(luminosi)
traboccanti di riconoscenza.
No, lui non deve guardarla così, come se fossero amici. Non sono amici. Al massimo possono essere alleati contro quegli scellerati dei loro genitori. Ma amici no, lei non può essere amica di un ragazzo.
Perché no?
Akane torna a sedersi quasi con cautela, come per assaporare quella nuova, bizzarra sensazione che si fa strada nel petto: un amico maschio? Possibile, per una come lei che aveva giurato odio eterno nei confronti dei ragazzi? Di certo, se come ospite e nient’altro Ranma fosse rimasto a lungo in casa loro, alla fine avrebbe dovuto quantomeno provare ad andarci d’accordo, anche solo per quieto vivere.
Se ci vai d’accordo, però, tuo padre penserà che sei interessata a lui e non te lo leverai più di torno!
Vero anche questo, tuttavia…

(Io sono Akane, spero che diventeremo amiche)

Il suo sguardo di poco prima le ha fatto tornare alla mente la sua espressione stupita, perfino… emozionata, di fronte a quella semplice domanda il giorno che era piombato in casa loro in versione femminile. Non ci aveva pensato, in effetti, ma Ranma ne aveva mai avuti, di amici, con la vita vagabonda che aveva condotto sino a quel momento? Probabilmente no. Probabilmente, lei è la prima persona che gli ha teso una mano, senza chiedere nulla in cambio.
Ma poi hanno… ha rovinato tutto. Sì, lei. Detesta ammetterlo, ma ha mandato lei tutto a rotoli nel momento in cui si è sentita umiliata, usata, messa da parte, rovesciando su Ranma una colpa che in fin dei conti non aveva.
Non è colpa sua se è nato maschio.
Non è colpa sua se si trasforma in una femmina.
Non è una colpa avere un talento smisurato per le arti marziali.
E probabilmente non ha ancora lasciato quella casa solo perché per la prima volta nella sua vita Ranma ha un tetto sopra la testa e tre pasti al giorno, può frequentare la scuola e condurre un’esistenza normale. Un po’ di stabilità, finalmente. E lei, pur di liberarsene, lo rispedirebbe in mezzo a una strada, privandolo di tutto questo.
Akane lascia fuggire via dalle labbra un sospiro affranto.
Forse… forse è stata un po’ precipitosa. Magari… beh, magari potrebbe anche tollerare la sua presenza, giusto per dargli il tempo di assestarsi, farsi degli amici, anche una ragazza… Del resto, non dovrebbe essere difficile per uno carino come lu…
Sgrana gli occhi, mentre un ingranaggio nel suo cervello s’inceppa.
Ca… carino?!
L’ha… pensato sul serio?
Beh, brutto non è davvero, almeno questo puoi ammetterlo, no?
La vocetta di Nabiki s’intromette come una fastidiosa zanzara che svolazza molesta nella sua mente.
Va bene, d’accordo, ha un bel viso, nulla da ridire su questo.
Bel viso? Tutto qua? Dai, su, che persino il dottor Tofu perde il confronto!
E va bene, accidenti!, ammette con se stessa pestando un piede per terra. Certe volte non può fare a meno di osservarlo, soprattutto quando si allena in giardino con addosso quella canottiera striminzita, ma lo fa solo per cercare di capire e assimilare le sue tecniche, nient’altro!
Ah, non per goderti lo spettacolo? Ma a chi vuoi darla a bere?
Beh, grazie tante, pratica arti marziali, per forza ha un fisico prestante, ma non è certo l’unico, anche il dottor Tofu ce l’ha!
Ma il dottore è fuori dalla tua portata. E poi diciamocelo, differenza di età a parte, se anche ti guardasse in modo diverso, non resisteresti a lungo accanto a uno come lui: i ragazzi carini e coccolosi non fanno per te. Questo è il vero motivo per cui finora hai respinto tutti i tuoi pretendenti.
N-no, non è vero!
Quindi vorresti un ragazzo che fosse tale e quale al tuo ortopedico? Bello, atletico e di animo gentile?
Esattamente!
Bugiarda.
Akane fa appena in tempo ad aggrapparsi al bordo della scrivania per non scivolare dalla sedia.
Perché bugiarda? Il dottor Tofu è il suo ideale, l’uomo perfetto per lei, nessuno potrebbe stargli a paragone! Si è fatta persino crescere i capelli per catturare la sua attenzione, nonostante la intralcino negli allenamenti e nei combattimenti!
Sì, sei una bugiarda. Non resisteresti un giorno accanto a un ragazzo tutto gentilezze e carinerie, perché sarebbe una noia letale, proprio come lo sono i ragazzi della scuola che ti fanno rivoltare lo stomaco con i loro approcci romantici!
Non è vero, a lei piacciono i ragazzi cortesi e premurosi, quale ragazza potrebbe mai trovare attraente un arrogante attaccabrighe con la sensibilità di un elefante?
E tutte le lettere d’amore strappate? Gli inviti a uscire rifiutati? I pugni e i calci elargiti?
È diverso, non le interessavano i mittenti e a volte ha dovuto usare le maniere forti per farlo capire ai più caparbi.
Perché nessuno era paragonabile al buon dottore, vero?
Esatto, nessuno è e sarà mai come lui.
Perché, allora, non sei più andata a trovarlo da sola con una scusa qualsiasi?
Perché il ciclone Saotome è piombato in casa sua e non le ha dato un attimo di tregua? Da quando quel Ranma ha varcato il vialetto d’ingresso, lei non ha più avuto un momento di pace!
Non ti sei annoiata, dunque…
Non di certo, no.
Anzi, è stato anche stimolante, non è così?
Sì, può darsi…
Hai scoperto grazie a lui di avere dei limiti come artista marziale che adesso vuoi a ogni costo superare. E poi che non tutti i ragazzi ti idolatrano cadendo come pere nashi ai tuoi piedi…

(E per tua informazione, il mio corpo è più sexy del tuo!
Non me ne frega un bel niente di Akane! È manesca e testarda, te la lascio più che volentieri!)


Akane stringe i pugni al ricordo della magra figura che il baka le ha fatto fare prima davanti alla sua famiglia, poi davanti ai suoi compagni di scuola.
Odioso! Supponente! Ma chi si crede di essere?!
L’unica persona sincera che tu abbia forse mai incontrato: quanti hanno il coraggio di dire davvero quello che pensano? È l’unico ragazzo di tua conoscenza che non ha timore di dar fiato alla bocca, nonostante le botte che prende da te. A proposito, ha toccato con mano il tuo vero carattere e non è ancora fuggito…
Solo perché non ha un posto dove stare.
Sicura? In sedici anni lo ha forse mai avuto?
D’accordo e con ciò?
Ha scelto di restare e non è solo per convenienza o perché glielo ha imposto suo padre. Potrebbe andarsene quando vuole e nessuno potrebbe fermarlo, lo hai visto tu stessa.
Ma questo… che significa? Non è interessato a lei come lei non è interessata a lui, è l’unica cosa su cui sono d’accordo!
E il kenpō dove lo metti? Di tutti quelli che conosci, è l’unico coetaneo che pratichi sul serio le arti marziali. Si allena perfino con te, anche se sei solo tu a guadagnarci.
E va bene, è un fenomeno nelle arti marziali, non si rompe se lo pesta come un mochi e fisicamente è pure niente male, quindi?
Hai dimenticato che ti guarda dritto negli occhi, quando i ragazzi della scuola abbassano imbarazzati i propri e fuggono via appena accenni una risposta.
Il modo in cui le tiene testa.
Nessuno le ha mai tenuto testa.
Ma soprattutto, non ti considera una bambolina da proteggere.
Ci mancherebbe! Lei non ha bisogno della sua protezione, non ha bisogno della protezione di nessuno!
Per lui, sei una sua pari.
Akane si alza in piedi e si guarda intorno come se non riconoscesse la sua stessa stanza. L’aria sta diventando soffocante, anche se la finestra è spalancata.
Una… una…
Non sei piccola. Non sei fragile. Non sei indifesa. Non sei inferiore. Sei una ragazza tosta. Uno come lui non avrebbe interesse a battibeccare con te se non lo trovasse stimolante. E anche tu.
Fa qualche passo verso la porta, torna indietro, si avvicina alla libreria, si volta verso il letto, il fiato che diventa sempre più corto.
Io?! No! Io non trovo affatto stimolante un maniaco pieno di sé, è assurdo!
Quando lo hai capito?
Cosa, per tutti i kami?!
Che Ranma è perfetto per te.
Il fiato diventa un grumo di gelatina, come di gelatina diventano le sue gambe, perché di punto in bianco decidono di non sostenerla più.
Akane si accascia sul pavimento, scuotendo la testa.
No, non è vero, è semplicemente ridicolo!
È questo il vero motivo per il quale lo detesti tanto. Perché dentro di te sai in realtà che tuo padre, anche se nel modo sbagliato, ha trovato il ragazzo perfetto per te.
Scuote ancora la testa, ma sempre più debolmente.
No… non è vero…
Quando lo hai capito, Akane?

(Che diavolo ci fai qui?
Mmmm… a quanto pare stai bene!
Non dirmi che volevi cercare di tirarmi su? Lascia perdere…
Perché dici così? Oh, il collo è a posto!)


Le era corso dietro nonostante il collo storto per assicurarsi che stesse bene, le aveva fatto la linguaccia per farla reagire e poi si era allenato con lei nel dojo. E dopo i ‘racchia’ e gli ‘scema’ sussurrati a mezza bocca

(Quando sorridi sei carina)

l’aveva sorpresa con quella frase buttata là con noncuranza e lei aveva pensato lì per lì che l’avesse fatto per deconcentrarla e vincere lo scontro. Nonostante un tipo come lui non perda occasione per insultarla. E cercarla, e seguirla, ovunque lei vada.

(Vuoi litigare?
Oh, così ci siamo. L’atteggiamento aggressivo ti si addice molto di più)


Gli aveva dato dell’idiota per quella frase, ma ora che ci pensa, non era forse un altro modo per farle capire che in realtà, sia col broncio che col sorriso, lui la trova carina?
Non aveva mai tentato di piacergli. Non aveva mai finto di essere ciò che non era, come col dottor Tofu. Eppure il suo carattere violento non lo spaventa. Ecco perché con lui, solo con lui…
…riesci a essere te stessa.
Allora è vero? Ranma è perfetto per lei? Ma anche fosse…
Un bussare insistente alla porta la scuote dal suo torpore, facendole trovare la forza di alzarsi in piedi mentre si asciuga in fretta una lacrima che non si è accorta di aver versato.
“Avanti”, dice con tono deciso pensando di ritrovarselo di fronte quando il pomello gira e la porta si apre.
“Sorellina, non hai sentito Kasumi che ci chiamava da basso? È pronta la cena! Che fai qui al buio?”, le chiede Nabiki con una mano ancora sul pomolo e l’altra poggiata su un fianco.
Lei sbatte le ciglia, rendendosi conto solo in quel momento che il sole è tramontato da un pezzo e nella stanza sono scese le tenebre.
“Io…”, balbetta gettando un’occhiata ai compiti che ancora attendono lei e Ranma sulla scrivania.
“Akane, tutto bene? A che stai pensando?”.
Che io non lo ammetterò mai. Mai.
Prende un respiro profondo a occhi chiusi, prima di tornare a rivolgersi alla sorella con una nuova, devastante consapevolezza impressa nel cuore e nel sorriso.
“A niente”.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4033526