Star Trek Destiny Vol. III: Scissione

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Shriek ***
Capitolo 3: *** Destiny viola ***
Capitolo 4: *** Destiny blu ***
Capitolo 5: *** Destiny verde ***
Capitolo 6: *** Destiny gialla e arancio ***
Capitolo 7: *** Destiny rossa ***
Capitolo 8: *** Ricomposizione ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Destiny Vol. III:
Scissione
 
 
LA DESTINY DOVEVA ESPLORARE IL MULTIVERSO,
MA QUALCOSA È ANDATO STORTO
E L’EQUIPAGGIO È STATO UCCISO.
ANNI DOPO, UNA BANDA DI CONTRABBANDIERI
HA ABBORDATO LA NAVE ALLA DERIVA,
VENENDO RISUCCHIATA NEL MULTIVERSO,
SENZA LE COORDINATE DI RITORNO.
AGLI AVVENTURIERI NON RESTA CHE
ESPLORARE UNA REALTÁ DOPO L’ALTRA,
IN CERCA D’INDIZI SULLA VIA DI CASA,
MENTRE CERCANO DI RISCOPRIRE IN LORO
QUELLO SPIRITO CHE CREÓ LA FEDERAZIONE...
 
 
-Prologo:
Data Stellare 2604.64
Luogo: Stardust City, pianeta Freecloud
 
   «Benvenuti a Stardust City, uno dei peggiori covi di feccia e avidità della Galassia. Sono certo che faremo buoni affari!» ghignò il DaiMon Grilk, uscendo dalla navetta nell’affollato e caotico spazioporto. La sua astronave, il mercantile Ishka, era rimasta in orbita.
   «Stavolta l’affare è garantito» commentò Brokk, l’Ingegnere Capo, uscendo subito dopo di lui. «Il vecchio Shamir è un professionista. La sua merce è di prima qualità».
   «Suvvia, non vi fiderete del Sindacato di Orione? Ci servono le armi in pugno, altro che i sorrisi per trattare con quelle canaglie!» avvertì Losira. Uscita per terza, l’avvenente Risiana si pose accanto ai due Ferengi.
   «Ah, ah, non preoccuparti, bellezza! Non sottovaluto i pelleverde!» ridacchiò Grilk, sfiorandosi la frusta neurale che portava appena in cintura. «So che per trattare con loro servono abilità, competenza tecnica e fascino. Io ho la prima, Brokk la seconda... e il fascino ce lo metterai tu, mia cara».
   «Non vedo l’ora» fece l’avventuriera, alzando gli occhi al cielo.
   «E per ridurre al minimo gli imprevisti, faremo un sopralluogo al punto d’incontro, prima che arrivino gli Orioniani» aggiunse il DaiMon. «Voialtri, aspettate qui!» si rivolse alla scorta che attendeva nella navetta. «Sorvegliate la kemocite. Se al mio ritorno ne mancasse un solo grammo, ve la decurterò dagli stipendi!» abbaiò. Per i Ferengi era la peggiore delle minacce.
   Prima di andare, Grilk volle comunque prendere un campione di minerale con sé, nell’eventualità che anche gli Orioniani si presentassero prima dell’ora convenuta. Ficcò il contenitore sigillato in una tasca interna dell’impermeabile, accertandosi che non formasse un rigonfiamento troppo evidente. Con tutti i borseggiatori che c’erano in giro, sarebbe stata un’occasione troppo ghiotta.
   Lasciata la navetta, i tre contrabbandieri si fecero largo a spintoni tra la folla in perenne andirivieni, uscendo dallo spazioporto. Stardust City si aprì davanti a loro, in tutto il suo squallore postbellico. Fino a una quindicina d’anni prima, quello era il più fiorente centro commerciale del settore; ma la Guerra Civile federale aveva cambiato tutto. La ricchezza di Freecloud, un mondo indipendente retto da un’oligarchia mercantile, aveva attirato i Pacificatori come il miele le mosche. Durante gli anni di conflitto il pianeta aveva subito l’occupazione militare, tradottasi nella sistematica spoliazione delle risorse (o come dicevano loro, una “requisizione a tempo indeterminato”). Quando poi i Pacificatori erano stati rovesciati nell’ultima Battaglia della Terra, su Freecloud era scoppiata l’insurrezione popolare. Gli odiati Pacificatori erano stati scacciati dalla loro guarnigione a Stardust City, rifugiandosi sull’astronave in orbita. Ma anziché la fuga, il loro Capitano aveva ordinato un bombardamento orbitale contro la capitale, «per punire i ribelli del loro tradimento». I siluri fotonici avevano aperto crateri ribollenti nel cuore della città, squassando anche i palazzi che non erano direttamente colpiti. Un bilancio completo delle vittime non era mai stato stilato, ma era certo che la maggior parte dei venti milioni di abitanti avesse trovato la morte in quell’inferno. In seguito il responsabile dell’eccidio era stato arrestato, processato e condannato all’ergastolo dal Tribunale di Narendra. Ma i palazzi diroccati erano ancora in piedi, tristi memoriali ormai divenuti ricettacolo d’affari della malavita e scontri clandestini. Molti cittadini, rimasti senzatetto dopo il bombardamento, si rifugiavano ancora nelle loro strutture fatiscenti.
 
   «Insomma, dov’è la vecchia fabbrica di levi-car?!» chiese Grilk, stanco di vagare per i quartieri diroccati. Per l’ennesima volta cavò il d-pad di tasca e consultò il navigatore, cercando di localizzare la destinazione. Qualche passo più indietro, Brokk sedette su un mucchio di macerie per riposarsi dalla scarpinata. Losira esitò, non volendo sporcarsi l’abito; alla fine restò in piedi. I tre stranieri dall’aria smarrita non sfuggirono all’attenzione degli abitanti dello squallido circondario.
   «Ehi, signore, vi siete perso? Per dieci crediti vi porto dove volete! Sono una guida esperta!» si offrì un ragazzo sui quindici anni, sporco e vestito di stracci. A vederlo sembrava Umano, dalla carnagione olivastra e gli occhi leggermente a mandorla.
   «Senti, scugnizzo, non dovresti essere a scuola?» chiese Grilk, degnandolo appena di uno sguardo.
   «Io non vado a scuola, signore» disse il giovane a mezza voce.
   «Ah, no? I tuoi genitori non saranno contenti» commentò distrattamente il DaiMon, sempre lottando con il navigatore.
   «I miei sono morti dieci anni fa, nel bombardamento» mormorò il ragazzo, lo sguardo basso.
   A quelle parole il DaiMon alzò finalmente lo sguardo. «Mi spiace, ragazzo» borbottò, ma non aggiunse altro.
   Incuriosita, Losira si accostò all’orfano e lo osservò attentamente, cercando di farsene un’idea. Il ragazzo di strada le restituì un’occhiata diffidente e non si lasciò avvicinare troppo. Era pronto a fuggire in un vicolo, alla prima mossa sospetta degli stranieri.
   «È davvero sporco e cencioso» si disse la Risiana, arricciando il naso. Sul suo volto, e ancor più sulle mani, c’erano vecchie cicatrici, segno che le ferite non erano state adeguatamente curate. Ed era magro, penosamente magro: le braccia scarne ballavano nelle maniche troppo larghe. I suoi occhi erano quelli di un animale diffidente, abituato a continue fughe; eppure vi brillava una viva intelligenza. «Come ti chiami, ragazzo?» gli chiese Losira, cercando di suonare rassicurante.
   «Talyn» rispose l’orfano, tirando su col naso. «Allora, volete che vi porti alla vecchia fabbrica, sì o no? La tariffa è dieci crediti».
   «Dieci crediti per girare qualche isolato? Te ne do cinque» propose Grilk, interessandosi all’offerta.
   «Dieci, prendere o lasciare. Siete ricchi a giudicare dai vostri vestiti; quel che vi chiedo non è niente per voi» insisté Talyn, osservando la costosa seta tholiana che fasciava Losira.
   «Okay, pago io» decise la Risiana, temendo che il DaiMon lo scacciasse. «Cinque crediti ora, gli altri cinque all’arrivo. Che ne dici?».
   «Affare fatto!» gongolò il ragazzo di strada. Si sputò su una mano e fece per stringergliela, ma si astenne vedendo l’espressione schifata della lady. Ricevuta la prima metà del compenso, si affrettò a fare strada tra gli edifici diroccati. «Venite, signori, da questa parte! Alla vostra destra potete vedere le case popolari, alla sinistra il vecchio centro commerciale. Ovviamente è tutto chiuso dal bombardamento. Adesso ci fanno incontri clandestini di lotta ogni fine settimana. Se vi piace scommettere è il posto giusto!» spiegò, immedesimandosi nel ruolo di cicerone.
   «Grazie, ci basta arrivare alla fabbrica» disse Losira, osservandolo con crescente perplessità. C’era qualcosa di strano in quel ragazzo. Non sapeva cosa, ma intendeva tenerlo d’occhio.
 
   Di lì a poco giunsero dove volevano, all’ingresso della fabbrica abbandonata. Il portone principale era a terra, sfondato; l’interno era immerso nelle tenebre. Avvicinandosi i visitatori udirono squittii misti allo zampettare di animaletti che andavano a rintanarsi. Losira intravide un’arvicola cardassiana e si ritrasse disgustata.
   «Siamo arrivati» disse Talyn. «Posso fare altro per voi?».
   «No grazie, siamo a posto» disse la Risiana. Come promesso gli versò i rimanenti cinque crediti. «Riguardati, ragazzo... buona fortuna» raccomandò, dispiaciuta di doverlo lasciare in quel degrado. In parte le ricordava lei stessa quando, dieci anni prima, era fuggita da Risa per salvarsi la vita, dopo aver perso tutto ciò che possedeva. Nei primi tempi era stata una senzatetto e sapeva quanto fosse dura. Per un ragazzo così giovane, orfano dei genitori, doveva esserlo ancora di più.
   «Grazie, signora!» fece Talyn tutto contento. Fece per andarsene, ma all’ultimo si accostò a Grilk. «Siete qui per incontrare gli Orioniani, vero?» bisbigliò in tono complice.
   «E tu che ne sai, scugnizzo?!» s’insospettì il DaiMon. La sua mano corse istintivamente alla frusta; l’avrebbe accesa al minimo segno di pericolo.
   «Di voi non so nulla, ma questo è un tipico luogo d’incontro dei contrabbandieri» spiegò il ragazzo. «Gli Orioniani vengono sempre qui a sbrigare gli affari. Se volete informazioni su di loro, vi dirò tutto... a un modico prezzo!» si offrì.
   «Questo ragazzo ha il senso degli affari» riconobbe Grilk. «Comunque so già quanto basta sugli Orioniani, quindi non mi servono le tue soffiate. Va’ via, scugnizzo!» ammonì il Ferengi, facendo un’espressione cattiva che gli scoprì i denti appuntiti.
   «Come vuole, signore. Addio, è stato un piacere aiutarvi!» disse Talyn, dandogli inaspettatamente una pacca sulla spalla. E filò via, svanendo con la rapidità di un’arvicola.
   «Strano ragazzo» borbottò il DaiMon. Poi si dedicò a ispezionare l’atrio della fabbrica abbandonata e le immediate circostanze, per accertarsi che non ci fossero sensori. Brokk e Losira lo aiutarono. Quando furono ragionevolmente certi che l’incontro sarebbe avvenuto nella dovuta riservatezza, tornarono all’aperto.
   «Bene, direi che è tutto pronto» commentò Grilk. «Possiamo tornare alla navetta e tra qualche ora sbrigheremo l’affare...» disse, ficcandosi la mano in tasca per tastare il campione di kemocite. Non lo trovò. Sconvolto e oltraggiato, il Ferengi prese a svuotarsi tutte le tasche, borbottando imprecazioni. Alla fine si levò l’impermeabile e lo scrollò con vigore; ancora niente. Allora ebbe un lampo d’intuizione. «Lo scugnizzo! Mi ha borseggiato quando s’è avvicinato!» esclamò, ricordando l’inaspettata pacca sulla spalla. Di certo lo aveva derubato in quel momento, approfittando della sua distrazione.
   Losira guardò il DaiMon con tanto d’occhi. Borseggiare un contrabbandiere era difficile, ma borseggiare un contrabbandiere Ferengi era praticamente impossibile. Eppure doveva essere stato Talyn.
   «Niente male, per un ragazzo di strada» riconobbe Brokk. «Ma se il briccone crede che non possiamo rintracciarlo, si sbaglia di grosso».
 
   Allontanatosi in tutta fretta, Talyn fece molti giri tra i palazzi, ripassando talvolta sullo stesso tratto per confondere eventuali inseguitori. Infine entrò nel relitto di una navetta classe Gryphon, precipitata in strada durante i tumulti di dieci anni prima. Aprì il portello con un codice che lui solo sapeva, richiudendolo accuratamente quando fu dentro. Solo allora tirò il fiato.
   «Vediamo cos’ho guadagnato» commentò, levando di tasca il contenitore sigillato. Non osando aprirlo, nel timore che fosse una sostanza tossica, lo sondò con un tricorder. Poi si recò in cabina, alla postazione scientifica, battendo un paio di volte sull’interfaccia LCARS perché si accendesse del tutto. Scaricò i dati del tricorder, confrontandoli con quelli del database, finché ebbe un riscontro. «Bingo, è kemocite!» gongolò. «I Nausicaani me la pagheranno a peso di latinum».
   «Non se ho qualcosa da dire in proposito!» minacciò Grilk, entrando in cabina. Impugnava la frusta neurale e l’avrebbe usata al primo movimento brusco del ragazzo. Dietro di lui vennero Brokk e Losira, guardinghi.
   «Come mi avete localizzato?» chiese Talyn, più curioso che impaurito.
   «Avevo piazzato una minuscola scheggia di minerale vokaya nella kemocite» rispose il DaiMon. «Devi sapere che la vokaya emette una radiazione innocua, ma facile da rilevare. In pratica mi hai rubato un dispositivo di tracciamento. Era un mio trucchetto per scoprire dove si trovano i magazzini degli Orioniani qui a Stardust City» spiegò compiaciuto. «Ora restituisci il maltolto, svelto!» ordinò.
   Di malavoglia, il giovane gli allungò il campione sigillato. Il Ferengi lo agguantò svelto, facendolo sparire in una tasca.
   «Sono pochi quelli che possono vantarsi di avermi mai derubato» mugugnò Grilk. «Ti meriti una bella punizione, se non altro per farti passare il vizio. Lo sai che, se avessi rubato a un Orioniano, lui ti avrebbe tagliato la mano?».
   «Sì, ho un paio d’amici monchi» confermò Talyn. «Non se la passano bene. Ma tu sei un Ferengi, quindi al massimo mi darai qualche frustata» disse, col tono di chi ne ha già ricevute parecchie.
   «E se invece ti consegnassi alla polizia locale? Chissà quanti altri furti hai compiuto... magari mi becco pure una ricompensa!» gongolò il DaiMon.
   «Non ti conviene portarmi dagli sbirri» avvertì il ragazzo. «Faranno indagini anche su di te e troveranno i tuoi panni sporchi. Se non altro, io posso dirgli che vendi kemocite agli Orioniani. È roba illegale, si va in galera per questo».
   «Piccolo spione! Prima mi derubi e poi osi minacciarmi?!» sbottò Grilk, sul punto di frustarlo.
   «Calmi!» disse Losira, frapponendosi. «Non c’è bisogno di usare la violenza. Talyn, stammi bene a sentire: noi saremo anche contrabbandieri, ma non ti lasceremo andare come se niente fosse. Hai cercato di derubarci, perciò ci devi ripagare in qualche modo. Prima dicevi d’avere informazioni sugli Orioniani, giusto? Parlaci di loro. Se la soffiata sarà buona, ci riterremo risarciti e non verremo più a disturbarti» propose.
   «Ci sto» disse il giovane con un’alzata di spalle. «Vediamo... la banda di Shamir viene sempre alla vecchia fabbrica per combinare gli affari, ma questo già lo sapete. Ciò che forse non sapete è che in questi giorni sta cercando di dar via una partita di cristalli liquidi regaliani avariati. Non ve li avrà promessi come contropartita?».
   A queste parole il DaiMon si morse il labbro. Il suo sguardo era fiammeggiante. «Proprio così! Centoventi litri di prima qualità, così ci ha promesso!» ringhiò.
   «Lo immaginavo. È quel che gli manca per disfarsi del carico. Ha già imbrogliato altre due bande nell’ultimo mese» disse Talyn, facendo di nuovo spallucce. «Voi sareste stati la terza, se non era per me».
   «Sei sicuro di ciò che dici?» intervenne Brokk.
   «Certo. Se l’Orioniano vi darà un campione da analizzare, sarà depurato. Ma se riuscite a sondare il grosso della merce, vedrete che è da buttare» garantì il ragazzo.
   «Questo lo saprò presto. Manca poco all’incontro» disse Grilk, premendosi il comunicatore per controllare l’ora. «Ci andrò con una robusta scorta, nel caso avessimo problemi. Quanto a te, mia cara, voglio che resti qui» si rivolse a Losira. «Così sarai al sicuro... e terrai d’occhio lo scugnizzo fino al mio ritorno».
   «Intesi» annuì Losira. «Sta’ attento, amore».
   «Come sempre» disse il Ferengi, facendole l’occhiolino. L’attimo dopo lui e Brokk lasciarono la navetta.
   «Tu e il DaiMon state insieme?» s’interessò Talyn.
   «Non sono cose che ti riguardano!» sbottò la Risiana, arrossendo leggermente.
   «Come vuoi. Ho visto cose più strane nei bassifondi» disse Talyn, facendo spallucce per la terza volta. Sedette alla postazione scientifica, girandosi i pollici. Ma ben presto si annoiò e prese a consultare il computer.
   «Cosa fai?» s’insospettì Losira, temendo qualche tiro mancino.
   «Studio» rispose il giovane. «Siccome non vado a scuola, devo pur istruirmi in qualche modo. Così studio il database federale di questa navetta. All’inizio leggevo un po’ di tutto, ma ultimamente mi sono interessato all’analisi sensoriale e alla decrittazione dati. Sai, è sempre utile intercettare le trasmissioni altrui. Mi permette di fare l’informatore!» ridacchiò.
   «Vuoi farmi credere che sai usare i sensori?!» si meravigliò Losira.
   «Certo, che ci vuole? Basta seguire le istruzioni. Sto anche facendo i test d’Accademia che ho trovato nel database, così capisco a che livello sono» aggiunse Talyn, con una nota d’orgoglio.
   «Quei test sono per i cadetti a fine corso! Gente molto più grande di te, che ha ricevuto un addestramento professionale!» fece la Risiana, turbata. Davanti a lei c’era uno dei più grandi geni del secolo, o più probabilmente uno dei più grandi bugiardi. Beh, non c’era che un modo per scoprirlo. «Ne faresti uno adesso? Vorrei vederti all’opera... tanto per curiosità».
   «Perché no?» fece il ragazzo, attivando l’oloschermo.
 
   Un’ora dopo Losira era a bocca aperta. Aveva capito ben poco di ciò che aveva visto, perché erano analisi scientifiche che oltrepassavano le sue conoscenze. L’unica certezza era il punteggio finale: 100 su 100 e non le pareva che il ragazzo avesse barato. «Sai, mi spiace davvero che tu non possa seguire un vero percorso di studi» mormorò. «Hai un dono, giovane Umano».
   «Non sono Umano» rispose lui distrattamente, spegnendo l’oloschermo.
   «No? E allora cosa sei?» s’incuriosì l’avventuriera.
   «I miei genitori erano El-Auriani» rivelò Talyn. «Non ricordo granché di loro, ma di questo sono sicuro».
   «Davvero? Il tuo è un popolo misterioso» commentò Losira. «Quasi tutto ciò che so di voi sono voci non confermate. Si dice che siate grandi ascoltatori, che abbiate una tale sensibilità da percepire le alterazioni spazio-temporali...».
   «Sì, l’ho letto anch’io nel database, ma non so se è vero» disse Talyn. «I miei sono morti troppo presto per insegnarmi e da allora non ho più incontrato El-Auriani. Comunque pare che crediamo anche negli incontri predestinati» buttò lì.
   A Losira sembrò un’affermazione tutt’altro che casuale. «Tu ci credi?» domandò, osservandolo attentamente.
   «Boh. Forse alcuni lo sono, ma non saprei come distinguerli dagli altri» rispose il giovane.
   «Credi che il nostro incontro sia predestinato?». Le parole erano chiare nella mente della Risiana, che tuttavia non vi dette voce. Continuò a rimuginarci, mentre passavano le ore. Quando Grilk fu di ritorno era giunta alla conclusione che, predestinazione o meno, avrebbe cercato di fare qualcosa per quel ragazzo così talentuoso.
 
   «Non ci crederai, ma lo scugnizzo aveva ragione!» sbuffò Grilk, appena rientrato nella navetta-rifugio. «Il vecchio Shamir voleva fregarmi. Centoventi litri di merce e non c’era una goccia buona, salvo quella che mi ha fatto analizzare! Ma io ho preteso d’esaminare il resto e l’ho sbugiardato. Congratulazioni ragazzo, mi hai salvato da un pessimo affare!» accennò a Talyn.
   «Gli Orioniani ti hanno dato altri problemi?» chiese Losira.
   «No, ma dubito che d’ora in poi faremo affari» sospirò il DaiMon. «In effetti è meglio se lasciamo subito questa fogna. Si torna fra le stelle, dolcezza!» disse abbracciandola.
   «Uhm, sì. C’è una cosa di cui vorrei parlarti, prima di ripartire» disse la Risiana.
   «Sentiamo!».
   «Lasciaci soli un momento, Talyn» pregò Losira. Il ragazzo obbedì, lasciando la cabina. Allora l’avventuriera si strusciò contro il Ferengi, sussurrandogli all’orecchio. «Quel giovanotto ci è stato molto utile, giusto? Hai ammesso anche tu che ci ha salvati da un pessimo affare...».
   «Sì, e quindi?».
   «È un povero ragazzo di strada, un orfano che non ha niente e nessuno. Se lo lasciamo qui, farà una brutta fine...» spiegò Losira.
   «E dove vorresti che lo portassimo? In un istituto federale?» si accigliò Grilk.
   «Non è a questo che pensavo, caro» disse la Risiana, cominciando a carezzargli le orecchie. «Lo sai che è un El-Auriano? Sai cosa si dice della loro speciale sensibilità. Ed è sveglio: pensa che si è istruito da solo col database di questa navetta. L’ho visto fare analisi sensoriali e decrittazioni degne di un ufficiale della Flotta Stellare» rivelò, continuando a stuzzicarlo. Sapeva per esperienza che l’oo-mox, il massaggio dei lobi, lo induceva ad accogliere quasi tutte le sue richieste.
   «Aaahhh, davvero?» fece il DaiMon, chiudendo gli occhi.
   «Proprio così... se fosse cresciuto in condizioni decenti potrebbe mettere a frutto i suoi talenti, ma qui è sprecato» proseguì Losira, massaggiando con più vigore. «È come un diamante allo stato grezzo: aspetta solo che qualcuno riconosca il suo valore. Sii tu il fortunato cercatore, amore mio! Prendilo a bordo e ti prometto che non te ne pentirai!».
   «Ooohhh... dovrei prendere a bordo il teppistello che mi ha derubato?!» obiettò Grilk, ma la sua indignazione era temperata dal massaggio.
   «Il ragazzo-prodigio che ti ha salvato da una truffa, vorrai dire! E che, se ci curiamo di lui, diverrà il miglior addetto ai sensori che potremmo desiderare!» insisté la Risiana.
   «Uuuuhhh... i tuoi argomenti sono convincenti» disse il DaiMon, riferendosi più all’oo-mox che non alle parole. «Ma avremo problemi legali se imbarchiamo un minorenne senza documenti. Potrebbero accusarci di crimini peggiori del contrabbando» avvertì.
   «Suvvia, falsificare documenti non è mai stato un problema» obiettò Losira. Fece per mordicchiargli delicatamente l’orecchio, ma in quella il Ferengi si scostò bruscamente, per guardarla negli occhi.
   «È chiaro che ti sei già affezionata al ragazzo, e può darsi che tu abbia ragione quando dici che mi sarà utile sull’astronave» ragionò Grilk. «Voglio dargli una possibilità, quindi lo prenderò a bordo... per un periodo di prova. Se righerà dritto, allora potrà restare. Ma sia chiara una cosa: finché è minorenne sarà sotto la tua responsabilità. Se continua a rubare, o mi danneggia in qualunque altro modo, punirò te. Hai capito?».
   «Sì amore, ho capito» mormorò Losira, leggermente pallida.
   «Sei ancora dell’idea di prenderlo a bordo?».
   «Lo sono».
   «Caspita! Allora hai un cuore, dopotutto. Spero solo che non sia la tua rovina» ammonì il DaiMon, lasciandola del tutto. «Ebbene, andiamo! Ho perso fin troppo tempo in questo schifo di pianeta. Mi attendono altri affari e c’è ancora quel carico di kemocite che dovremo pur vendere da qualche parte. Si torna sull’Ishka. Ragazzo!» gridò, aprendo la porta della cabina.
   «Sì, signore?» fece Talyn, che attendeva appena oltre la soglia.
   «Stiamo per risalire sulla mia nave. Lasceremo questo pianeta e probabilmente non ci torneremo più. Losira dice che sei in gamba, quindi ti concedo l’opportunità di seguirci. Sempre che t’interessi» disse Grilk.
   «Seguirvi... nello spazio?!» si emozionò l’El-Auriano.
   «E dove, sennò? Svelto a rispondere, non ho tutto il giorno!» lo pressò il DaiMon.
   «Pensaci bene» disse però Losira. «Se vieni con noi è una scelta definitiva. Dovrai dire addio alla tua patria, a tutti quelli che conosci».
   «Qui non c’è niente per me. Non ho parenti né amici sinceri. Preferisco venire con voi nello spazio» disse il giovane con risolutezza.
   «Allora raccogli le tue carabattole, se ne hai» ordinò Grilk. «Ti do dieci minuti, poi ci trasferiremo sull’Ishka».
   A Talyn bastarono cinque minuti per raccogliere in un borsone quel poco che valeva la pena di portarsi dietro. Dopo di che venne accanto agli altri, pronti per il teletrasporto. «Addio» mormorò, rivolto alla navetta schiantata che gli aveva fatto da casa e da scuola. L’attimo dopo il raggio giallastro dell’Ishka lo prelevò con gli altri. Il passato, con le sue sofferenze e privazioni, era morto. Da quel momento il giovane El-Auriano avrebbe pensato solo al futuro. Un futuro che prometteva di condurlo tra le stelle e forse ancora più lontano...
 

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Capitolo 2
*** Shriek ***


-Capitolo 1: Shriek
Data Stellare 2610.171
Luogo: Spazio Shriek
 
   «Wow... avete mai visto niente del genere?» chiese il Capitano Rivera, osservando lo sconcertante panorama alieno sullo schermo.
   «Mai, signore» rispose Talyn, cui era affidata la postazione sensori e comunicazioni. «E non c’è nulla del genere nel nostro database. Mi chiedo come si siano formati quei corpi celesti e come facciano a restare integri. Qui le leggi fisiche devono essere diverse rispetto al nostro Universo» ipotizzò il giovane El-Auriano.
   Nei sei anni trascorsi da quando i contrabbandieri lo avevano adottato, erano successe molte cose. Nuovi membri erano entrati a far parte della banda, che tuttavia si era trovata sempre più braccata dalle forze dell’ordine. Ma a stravolgere le loro vite era stato il ritrovamento di una nave federale abbandonata e alla deriva, l’USS Destiny. Quando l’avevano abbordata, la nave era stata risucchiata nello Spazio Fluido, la realtà parallela in cui l’equipaggio era stato ucciso. Gli avventurieri se l’erano cavata di stretta misura, subendo gravi perdite: il DaiMon Grilk era morto e così pure l’Ingegnere Capo Brokk. Perciò avevano dovuto riformare la catena di comando, integrando i nuovi arrivati: la dottoressa Giely, unica superstite della Destiny; l’Ingegnere Capo Irvik, un passeggero in viaggio verso la Terra; l’Ufficiale Tattico Naskeel, che dapprima era un concorrente nel recupero della Destiny. Tutti loro dovevano collaborare per tornare a casa; impresa disperata poiché dal computer erano state cancellate le coordinate quantiche di ritorno. Non restava che affidarsi alle coordinate recuperate con un programma di deframmentazione dati: cifre spoglie che non dicevano nulla sulla destinazione. Solo tentandole tutte gli avventurieri potevano sperare nel ritorno.
   Stavolta bastava un’occhiata per capire che avevano raggiunto il cosmo sbagliato. Davanti a loro si stendeva un panorama mozzafiato, eppure disturbante nella sua impossibilità. Una mezza dozzina di pianeti orbitavano a distanza ravvicinata, troppo ravvicinata per non scontrarsi; eppure rimanevano in posizione. La cosa più assurda era la loro forma: erano piatti. Si trattava di dischi perfetti, con la faccia inferiore rocciosa e quella superiore abitabile. La loro inclinazione sul piano orbitale faceva sì che le facce superiori fossero illuminate dalla stella, godendo di un eterno giorno. Ciascun mondo ospitava un ecosistema diverso: l’acqua marina traboccava dall’orlo dei più elevati, cadendo con immense cascate in quelli inferiori. Giunta nel più basso evaporava, risalendo fino al mondo più alto, dove il ciclo ricominciava. Immensi arcobaleni scintillavano tra un disco e l’altro, senza mai sbiadire. I loro colori erano nitidi: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, violetto...
   «Hai detto che qui le leggi fisiche sono diverse?» chiese Rivera, riscuotendosi dall’ammirazione.
   «Devono esserlo o non si spiegherebbero quei corpi celesti» rispose Talyn. «Dovremmo studiare il fenomeno, prima di passare alle prossime coordinate».
   Il Capitano esitò. Erano avventurieri dediti al profitto, non zelanti ufficiali della Flotta Stellare. Non avevano alcun obbligo d’esplorare e mappare gli Universi che visitavano. Inoltre più si attardavano nelle realtà sbagliate e più rischiavano di fare incontri spiacevoli. La condotta più prudente prevedeva di passare immediatamente alle prossime coordinate della lista. Ma Rivera si opponeva a questo, per varie ragioni. In primo luogo era stato un ufficiale della Flotta Stellare, prima che il fato avverso lo trasformasse in avventuriero, e aveva l’esplorazione nel sangue. Secondariamente questi Universi inesplorati racchiudevano grandi possibilità di profitto. Nessuna nave federale era mai stata lì e nessuna vi sarebbe tornata per chissà quanto tempo. Questo costituiva una straordinaria opportunità per un gruppo d’avventurieri ambiziosi e pronti a tutto. Infine Rivera nutriva la vaga speranza che, se fossero riusciti a tornare, avrebbero potuto vendere i dati raccolti sul Multiverso alla Flotta Stellare, in cambio dell’assoluzione per i loro numerosi reati. Forse era solo un’illusione, ma ancora non vi aveva rinunciato. Così, ogni volta che visitavano una nuova realtà, trascorrevano giorni o anche settimane a esplorarla. Finora però i guadagni erano stati pochi e i pericoli molti; il Capitano vedeva avvicinarsi il giorno in cui l’equipaggio avrebbe preteso un cambio di condotta. «Avviciniamoci a quei mondi, analisi sensoriale completa» ordinò, sperando che quel giorno fosse ancora lontano.
 
   Nelle ore successive la Destiny orbitò attorno a quel singolare sistema planetario, esaminandolo da tutte le angolazioni, mentre gli avventurieri cercavano di capire come facesse a tenersi assieme. Sulle prime ipotizzarono che le quattro forze fisiche fondamentali – gravità, elettromagnetismo, nucleare forte e nucleare debole – fossero diverse rispetto al cosmo noto.
   «Questo però non spiega come hanno fatto a formarsi quei dischi» commentò Rivera.
   «Forse non si sono formati naturalmente» ipotizzò Talyn. «Forse sono stati... costruiti da qualche civiltà. Potremmo essere di fronte alla più grande opera d’ingegneria planetaria mai scoperta dopo la Sfera di Dyson».
   A quelle parole l’attenzione generale si spostò dall’analisi fisica alla ricerca di vita intelligente. La Destiny sondò i pianeti in cerca di città e lo spazio circostante in cerca d’astronavi, ma entrambe le ricerche dettero esito negativo.
   «Niente da fare, non rilevo alcuna struttura artificiale» disse Talyn al termine di lunghe analisi. «Però quei mondi piatti ospitano molte forme di vita. Ci sono interi ecosistemi che interagiscono tra loro in modi complessi. Alcuni animali si tuffano giù con le cascate, passando dai mondi superiori a quelli inferiori. Altre creature riescono addirittura a risalire, volando in un modo che non riesco a comprendere. Non sembrano provviste di ali...». Il giovane s’interruppe, aggrottando la fronte.
   «Che succede?» chiese Losira, venendogli accanto per osservare i dati. La Risiana aveva abbandonato il suo vecchio ruolo di tesoriera dell’Ishka, per divenire Primo Ufficiale della Destiny.
   «Uno sciame di creature s’è levato in volo dal mondo superiore e sta venendo qui» avvertì l’El-Auriano. «Volano attraverso lo spazio come se non gli desse alcun fastidio. Il loro sistema di propulsione... ah, non capisco quale sia!» sbottò. Ogni cosa, in quel cosmo alieno, era così estranea che gli mancavano termini di paragone.
   «Sullo schermo, massimo ingrandimento» ordinò il Capitano.
   Talyn visualizzò lo sciame in volo, zoomando fino a inquadrare le singole creature. A vederle parevano una via di mezzo fra insetti e pesci. Degli insetti avevano l’esoscheletro e almeno un paio d’arti segmentati. Le lunghe code guizzanti invece erano più da pesce. «I loro movimenti rapidi e coordinati indicano che seguono una logica di sciame. Saranno qui tra pochi minuti» avvertì il giovane.
   «Qualche riscontro sul database?» chiese Rivera, inquieto.
   «Sto verificando... sì, ce n’è uno!» s’illuminò Talyn, lieto di avere finalmente qualcosa da riferire. Ma il suo sorriso si spense subito. «Sono forme di vita nucleogeniche, capaci di spostarsi da una realtà all’altra senza bisogno di tecnologia. Il loro nome è ignoto; erano dette “Spiriti della Fortuna” nel Quadrante Delta, mentre i federali li hanno soprannominati “Shriek” per via dei loro versi striduli. Sono intelligenti e il loro linguaggio è stato decodificato, quindi possiamo comunicare con loro. Ma non le consiglio di farlo, Capitano... anzi dovremmo andarcene subito» avvertì.
   «Perché?» si allarmò Rivera.
   «Perché il Primo Contatto è stato catastrofico» disse Talyn, scorrendo rapidamente i dati. «Nel 2375 l’USS Equinox dispersa nel Quadrante Delta li contattò, trattenendone alcuni per studiarli. I federali non sapevano che, nella nostra dimensione, gli Shriek sono come in apnea. Quando ne trattennero alcuni con un campo di forza, li uccisero involontariamente. Ma c’è di peggio» aggiunse, sgranando gli occhi mentre leggeva. «Queste sono creature nucleogeniche, vale a dire che trattengono immani quantità d’energia nei loro corpi. Quei disgraziati dell’Equinox scoprirono che potevano usare le loro carcasse come carburante, per viaggiare più rapidi e abbreviare il viaggio di ritorno. Così ne attirarono e ne uccisero intenzionalmente molti altri. Come risultato gli Shriek divennero furiosi e attaccarono a più riprese sia l’Equinox, sia la Voyager che era intervenuta in aiuto. Alla fine distrussero l’Equinox, uccidendo quasi tutto l’equipaggio, mentre la Voyager sfuggì di stretta misura; da allora non ci sono stati contatti».
   «Se ci riconoscono come federali, penseranno che abbiamo invaso il loro spazio con intenti ostili» ragionò il Capitano. «Andiamocene subito!».
   «Mi sto allontanando, ma c’è un problema» disse Shati, la timoniera. «Ci sono sciami più piccoli che vengono da altre direzioni. Non credo di poterli evitare tutti. Quelle creature si muovono a una velocità incredibile, non fanno che accelerare!».
   La Destiny eseguì alcune manovre evasive, ma ben presto si trovò circondata. Gli sciami si erano sparpagliati in gruppetti più piccoli, chiudendo ogni via di fuga. E gli alieni continuavano ad avvicinarsi, nuotando nel loro modo misterioso.
   «Allarme Rosso, su gli scudi!» ordinò Rivera, maledicendo la sua curiosità, che li aveva messi ancora in pericolo. «Talyn, spiegami in che modo distrussero l’Equinox. Come attaccano?».
   «Con tutta l’energia che hanno in corpo possono colpire i sistemi di bordo, mandandoli in sovraccarico» rispose l’El-Auriano, scorrendo affannosamente i dati. «All’epoca aprivano dei portali direttamente all’interno delle astronavi, superando scudi e scafo. Adesso a rigor di logica non possono farlo, visto che siamo già nel loro Universo. Ma con esseri del genere non si sa mai, potrebbero variare la loro struttura atomica per attraversare lo scafo. Suggerisco di far oscillare le armoniche degli scudi, per non dargli il tempo d’adattarsi».
   «Ricevuto» disse Naskeel, l’Ufficiale Tattico. Era indubbiamente il membro più alieno dell’equipaggio, trattandosi di un Tholiano con sei zampe e il corpo cristallino, ma si era dimostrato un ufficiale competente. «Contatto sugli scudi. Gli Shriek stanno variando il loro campo bio-elettrico nel tentativo d’oltrepassarli. Continuo a oscillare le armoniche». Gli scudi della Destiny riverberarono mentre gli alieni premevano a centinaia, cercando d’attraversarli.
   «Questo è un palliativo, prima o poi si adatteranno. Saremo al sicuro solo tornando nel Vuoto» disse Losira, alludendo al cosmo senza stelle in cui la Destiny si rifugiava tra un’esplorazione e l’altra.
   «Plancia a sala macchine, torniamo nel Vuoto. Aprite subito un portale!» ordinò il Capitano.
   «Subito non esiste, quando si seguono le procedure di sicurezza!» protestò Irvik, l’Ingegnere Capo. «Servono almeno venti minuti per aprire una breccia interdimensionale stabile...».
   «Fatelo!» insisté Rivera. Chiuso il canale, si rivolse di nuovo a Talyn: «Che succede se riescono a entrare? Sono un pericolo per l’equipaggio, possiamo affrontarli?».
   «Sono estremamente pericolosi» confermò il giovane, sempre scorrendo il database. «Gli basta un breve contatto fisico per uccidere mediante reazione termolitica. Solo un campo di forza multifasico li può trattenere. I phaser li infastidiscono, più che ferirli; un fuoco concentrato dovrebbe metterli in fuga. Vista la situazione, suggerirei di trattare...» disse, asciugandosi il sudore dalla fronte.
   «Ci proverò, ma prepariamoci al peggio» disse il Capitano. Aprì un canale con tutti i ponti, avvertendo l’equipaggio delle capacità degli alieni e ordinando di armarsi. Anche gli ufficiali di plancia presero i phaser dagli scomparti segreti. Infine Rivera ordinò a Talyn di trasmettere agli Shriek, attivando la matrice di traduzione messa a punto sulla Voyager. Stando ai precedenti, gli alieni erano in grado di percepire la chiamata e rispondere sulla stessa frequenza.
   «Qui è il Capitano Rivera dell’USS Destiny. Vi chiedo d’interrompere il vostro attacco, dal momento che non abbiamo intenzioni ostili. Siamo qui in missione pacifica, siamo semplici esploratori» disse, addomesticando un po’ i fatti. «Se siete contrariati dal nostro arrivo, allora ce ne andremo. Dateci solo qualche minuto per aprire un nuovo portale» tentò.
   «Nessuna risposta» disse Talyn dopo qualche attimo. «Vorrei capire se almeno hanno ricevuto il messaggio. Provo a ritrasmetterlo su altre frequenze...». In quella ci fu uno scossone.
   «Breccia nella sicurezza, gli alieni hanno oltrepassato gli scudi» avvertì Naskeel. «Sono sullo scafo... lo stanno attraversando».
   «Capitano a equipaggio, gli Shriek ci abbordano!» avvertì Rivera. «Teneteli il più possibile a distanza. Usate i phaser, se necessario, ma attenti a non danneggiare la nave. Agli ingegneri ordino di aprire la breccia il prima possibile!».
   Gli avventurieri si guardarono attorno innervositi, con le armi in pugno. Il nemico poteva spuntare ovunque: dal soffitto, dalle pareti. Nessun luogo era al sicuro. Poco alla volta udirono delle strida acutissime, dapprima appena percepibili, poi sempre più forti. Facevano pensare a unghie che graffiano una lavagna. Tutti avrebbero voluto turarsi le orecchie, ma dovevano restare sul chi vive, coi phaser in pugno.
   «Urgh... sono proprio Shriek!» si lamentò Shati, il cui fine udito di Caitiana era torturato dalle strida.
   In quella una sagoma traslucida emerse da una paratia. Poi un’altra e un’altra ancora. Erano Shriek, più vicini e minacciosi di quanto avrebbero voluto vederli. Erano relativamente piccoli: la lunga coda li faceva sembrare più grossi, ma in realtà avevano la stazza di un tacchino. Il loro esoscheletro era di un verde-azzurro cangiante a seconda dei riflessi. L’elemento più inquietante era la testa quasi umanoide, posta su un tozzo collo, con due occhi gialli e una bocca zannuta. Volavano nell’aria con la stessa facilità con cui si libravano nello spazio.
   «Non sparate!» ordinò Rivera ai suoi. Poi si rivolse agli alieni, assicurandosi che la matrice di traduzione rendesse comprensibili le sue parole: «Fermi, non c’è bisogno d’attaccare. Ce ne stiamo andando!» promise. Gli Shriek risposero con le loro strida acute, che parevano chiodi conficcati nel cervello.
   «Dicono che parliamo di pace, ma intanto ci siamo armati» tradusse Talyn dalla sua postazione. «Temo che non ci credano... ah!».
   Uno degli alieni si gettò proprio su di lui, forse attirato dai movimenti della sua mano sui comandi. Al giovane non restò che aprire il fuoco con la mano libera. L’attimo dopo anche Losira e Rivera spararono alla creatura. Tutti i colpi andarono a bersaglio. Lo Shriek lanciò un richiamo acutissimo e si ritirò, scomparendo in una paratia. Ma gli altri due si lanciarono all’attacco, presto seguiti da altri che spuntavano da tutte le parti. Si accese la battaglia, in plancia e non solo: da ogni ponte giungevano rapporti di scontri analoghi.
   I phaser avevano un effetto moderato sugli Shriek: non li uccidevano, ma sembravano infliggergli dolore, inducendoli alla fuga. Purtroppo per ogni invasore respinto ne spuntava un altro; ed era probabile che anche i fuggitivi tornassero ben presto all’attacco. Quanto alle capacità offensive degli Shriek, tutti le constatarono quando uno di loro mise le zampe addosso a un ufficiale ausiliario. Il contatto durò pochi secondi, nei quali il Ferengi gridò come se lo stessero scorticando. Poi l’alieno lo mollò ed egli cadde a terra, morto stecchito. Tutti videro che il suo corpo era rinsecchito, come se l’avessero privato dei liquidi.
   «Capitano, ci sono centinaia di Shriek attorno a noi! Altre migliaia in arrivo! Questa è una battaglia che non possiamo vincere!» avvertì Talyn, gridando per farsi udire sopra le strida degli alieni. Vedendo che uno Shriek stava per colpire Losira alle spalle, lo centrò con un raggio a piena potenza, mettendolo in fuga. Poi saltò agilmente sopra la sua consolle, per recarsi al centro della plancia, dove aveva più libertà di movimento.
   «Mettiamoci schiena contro schiena!» ordinò il Capitano, per evitare che altri fossero attaccati alle spalle. «Plancia a sala macchine, quanto ci vuole per aprire quella dannata breccia?!» chiese poi, sparando a destra e a manca. Non ottenne risposta, ma di lì a un attimo fu il computer a informarlo.
   «Allarme Nero inserito, un minuto all’apertura della breccia» riferì la voce femminile automatica.
   «Un minuto!» si disse Talyn. In quelle condizioni pareva un’ora. E ormai la Destiny era infestata da centinaia di quei mostri. «Anche se andiamo via, resteranno a bordo. Speriamo che il Vuoto gli sia sgradito e tornino a casa loro!» si augurò il giovane, sapendo che altrimenti era tutto perduto.
   Gli avventurieri rimasero schiena contro schiena, formando un cerchio al centro della plancia e sparando all’impazzata contro gli Shriek che uscivano dalle pareti. Le strida degli alieni erano sempre più alte, i loro attacchi sempre più frequenti e rabbiosi. Ormai il tempo era agli sgoccioli.
 
   In sala macchine regnava il caos. Già in condizioni normali la procedura per aprire una breccia interdimensionale era complessa; farlo mentre si combatteva era un’impresa disperata. Gli Shriek svolazzavano ovunque, lanciando strida insopportabili. Ogni pochi attimi calavano sugli ingegneri, cercando di ucciderli. Ne avevano già colpiti due, che giacevano al suolo rinsecchiti come mummie. Irvik e gli altri si erano armati di phaser per respingere gli aggressori, aiutati da una squadra della Sicurezza. Con una mano i tecnici manovravano i comandi per la difficile procedura, con l’altra sparavano agli Shriek. Ogni tanto correvano da una consolle all’altra, approfittando del fuoco di copertura delle guardie.
   Vedendo i raggi phaser che balenavano nella sala macchine, minacciando di colpire il nucleo e altri apparati vitali, l’Ingegnere Capo si sentì morire. Le sue scaglie trascolorarono verso il blu, come accadeva ai Voth quando si spaventavano. Quello non era un viaggio, era un suicidio. Mai come allora temette di non rivedere sua moglie e i suoi figli, che erano rimasti a casa. «Siamo al 50% del potenziale, aprite le griglie di trasferimento ausiliarie!» ordinò, cercando di farsi udire sopra il marasma. In quella si avvide di un nuovo pericolo: gli Shriek si erano distolti dall’equipaggio e avevano preso a colpire le apparecchiature. Trasmettevano una violentissima scossa, tale da danneggiare tutto ciò che toccavano. Presto squillarono gli allarmi, segnalando guasti a cascata.
   «Idioti, non capite che vogliamo solo andarcene? Così ce lo impedite! Che volete fare, esplodere assieme a noi?!» inveì il Voth, all’indirizzo degli alieni. Dato che quelli persistevano negli attacchi, eresse un campo di forza attorno al nucleo, così da proteggere almeno quello. Per un attimo si prese la soddisfazione di vedere gli Shriek che rimbalzavano contro il campo multifasico, stridendo scornati. Poi corse a una postazione diagnostica per rilevare i guasti. Ogni volta che ne trovava uno, lo isolava e cercava di bypassarlo. Ma per quanto la Destiny avesse sistemi ridondanti, non poteva continuare a lungo. Presto i danni sarebbero stati troppo gravi.
   Richiamati dagli allarmi giunsero gli Exocomp, robottini riparatutto simili ad angurie per forma e dimensioni, che svolazzavano grazie a un repulsore gravitazionale. Alcuni Exocomp si misero a riparare i guasti mentre altri, più audaci, affrontarono gli Shriek in una spettacolare battaglia aerea. I robottini colpivano con saldatori e altri strumenti di cui erano provvisti, riuscendo talvolta a respingere gli alieni; ma difficilmente reggevano alle scosse ricevute.
   «Attenzione, rilevata perdita di gravitoni nel generatore primario» avvertì il computer.
   Irvik richiamò un grafico per esaminare il problema. Era una grossa perdita e non c’era modo di sigillarla, non con l’Allarme Nero in corso. Non restava che abortire la procedura. Le sue mani erano già sui comandi, pronte all’arresto manuale d’emergenza, quando si fermò a riflettere. Se rimanevano nello spazio Shriek erano spacciati. L’unica era andarsene subito, sperando che la nave non esplodesse e che gli alieni smettessero di tormentarli. Se tutto andava bene, avrebbero avuto tempo per riparare i danni.
   «Signore, deve interrompere la procedura!» gridò un collega. Indicò il generatore incassato nella parete, che sfrigolava come se dovesse esplodere.
   «No, se rimandiamo la fuga ci distruggeranno!» obiettò l’Ingegnere Capo, mentre la nave sussultava. «Abbiamo una sola possibilità, non ci resta che sperare. Ma voi lasciate la sala macchine, qui basto io. Mi avete sentito? Tutti fuori!» ordinò, sovrastando gli allarmi e il frastuono della battaglia.
   I tecnici evacuarono il salone, seguiti dalle guardie. Irvik rimase solo, alle prese con un generatore gravitonico che perdeva come un colabrodo. Così concentrato era del tutto vulnerabile agli attacchi Shriek. Fortunatamente gli alieni lo ignorarono, presi com’erano dalla battaglia aerea contro gli Exocomp. Il Voth spremette tutta l’energia del nucleo, isolando le linee di trasferimento danneggiate, e la incanalò al generatore gravitonico, sperando che bastasse per raggiungere la soglia critica. Erano all’80% del potenziale... 85... 90... 95...
   «Forza, forza!» esclamò l’Ingegnere Capo, togliendo energia a ogni altro sistema della nave, compresi scudi e armi che ormai erano inutili. Erano al 98%... 99... 100%!
   «Sì, sono un genio!» esultò Irvik, alzando le braccia in segno di trionfo.
   In quella ci fu un’esplosione assordante alle sue spalle. Lo spostamento d’aria lo gettò contro la consolle, facendogli battere la fronte scagliosa, dopo di che il Voth cadde a terra. Perfino gli Shriek si dettero alla fuga, stridendo spaventati. Sconvolto, l’Ingegnere Capo si asciugò il sangue dalla fronte e si girò con fatica, per constatare l’entità del danno. Rimase atterrito nel vedere che una porzione del guscio protettivo del generatore gravitonico era saltata via, mettendo a nudo il nucleo. Era un miracolo che non fosse già esploso, disintegrando la nave... e l’energia era al culmine! Dalla falla brillava un’accecante luce bianca.
   «NOOO!» si disperò il sauro, certo che l’esplosione fosse imminente. Si coprì gli occhi con le mani, rivolgendo un ultimo pensiero ai suoi cari. L’attimo dopo tutto divenne bianco ed egli ebbe l’impressione d’essere strappato via dal suo corpo. 
 

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Capitolo 3
*** Destiny viola ***


-Capitolo 2: Destiny viola
 
   Stordito dal lampo bianco che aveva investito la Destiny, Talyn riacquistò gradualmente i sensi. Il primo a tornare fu il tatto, che gli rivelò d’essere disteso sul freddo pavimento metallico della plancia. Ancora mezzo svenuto, il giovane si mosse debolmente, cercando di capire com’era voltato; alla fine comprese d’essere riverso su un fianco. Olfatto e gusto tornarono subito dopo: sentiva puzza di bruciato e aveva uno strano sapore metallico in bocca. Poi fu la volta dell’udito: sentì il computer che segnalava un guasto.
   «Attenzione, procedura d’Allarme Nero interrotta. Perdita di potenza al generatore gravitonico. Energia principale offline, necessario riavvio del nucleo. Attenzione, procedura d’Allarme Nero interrotta...».
   Queste parole lo colpirono come uno schiaffo, aiutandolo a svegliarsi completamente. Ancora debole e con la testa che girava, l’El-Auriano si alzò a fatica sulle ginocchia. Si tastò attorno, afferrò alla cieca una poltroncina e fece forza per rialzarsi del tutto. Solo allora riacquistò l’ultimo dei sensi, la vista. Si guardò attorno: la plancia era vuota. Non c’era traccia del Capitano e degli altri, che pure erano con lui quando il lampo li aveva storditi. Talyn ricordava perfettamente che erano schiena contro schiena, circondati dagli Shriek.
   «Forse gli Shriek si sono ritirati... ma i miei colleghi?» si chiese il giovane, guardandosi attorno smarrito. Anche se il dovere li aveva richiamati altrove, era strano che lo avessero lasciato lì, svenuto sul pavimento. Che la nave fosse ancora in grave pericolo? E per quanto tempo aveva perso i sensi? Minuti, ore...?
   Man mano che la vista si normalizzava, Talyn notò un’altra stranezza. Dapprima fu lo schermo ad attirarlo: invece di uno spazio nero e senza stelle, com’era il Vuoto, fuori dalla Destiny c’era un’uniforme luminosità violetta. Il giovane stava cercando di capire cosa fosse, quando realizzò una cosa ancor più strana: tutto attorno a lui era violetto. Ogni superficie, dalle paratie metalliche alle poltroncine imbottite, fino alle interfacce LCARS solitamente variopinte, era di una qualche sfumatura viola. Decine, forse centinaia di sfumature diverse, ma tutte riconducili alla definizione comunemente accettata del viola. Alcune superfici erano così scure da risultare quasi nere, altre così chiare da rasentare il bianco; ma osservandole con attenzione anch’esse mostravano una tonalità violetta. Guardandosi le mani, il giovane si avvide che persino la sua pelle appariva di quel colore.
   Il primo pensiero di Talyn fu che doveva avere un problema alla vista. Era impossibile che tutto fosse diventato monocromatico, quindi doveva esserci un difetto nella sua percezione. Forse era una conseguenza dello svenimento... già, ma a cos’era dovuto di preciso? L’El-Auriano non lo sapeva. Il suo ultimo ricordo era il computer che annunciava l’impulso gravitonico. «Allora l’abbiamo lanciato o no? E dove diavolo siamo finiti?» si domandò, guardando lo schermo invaso di luce violetta.
   Ora che si reggeva in piedi, il giovane raccolse il suo phaser, agganciandolo in cintura. Poi si recò alla postazione sensori, per verificare le condizioni della nave e rintracciare l’equipaggio. «Forse le due cose sono collegate» pensò con un brivido. «Forse hanno evacuato la Destiny, lasciandomi qui da solo». Ma no, era impossibile: Losira e gli altri non lo avrebbero mai abbandonato. Ma allora dov’erano?!
   La diagnostica della nave lasciò Talyn ancora più interdetto di prima. C’erano vari guasti e l’energia principale era disattivata, come ripeteva all’infinito il computer. Il supporto vitale era ancora attivo, grazie ai generatori d’emergenza. Dalla sala macchine venivano strane letture: il generatore gravitonico sembrava disattivato, eppure c’era una sorgente non identificata d’energia. Quanto alla loro posizione, di certo non erano più nello spazio Shriek, ma non sembravano nemmeno tornati nel Vuoto. «Che sia una sorta di piega o tasca fra le dimensioni? Forse ci siamo incagliati a metà» pensò il giovane, sentendosi accapponare la pelle. Non aveva idea di come liberare la nave da una situazione del genere. Ora più che mai doveva ritrovare i colleghi, per decidere con loro il da farsi.
   «Talyn a Rivera, mi sente? Talyn a Losira, rispondi per favore!» disse, premendosi più volte il comunicatore, ma non ebbe risposta. Chiamò altri dell’equipaggio, sempre senza fortuna. Allora sondò la nave in cerca di segni vitali. La risposta fu l’ennesimo mistero: c’erano 47 persone a bordo, ovvero circa un sesto del dovuto. Dov’erano finite le altre 250 persone? E che stavano facendo i pochi superstiti? Perché nessun altro era in plancia, in quel frangente drammatico?
   Analizzando i dati, Talyn notò che c’era un segno vitale Voth in sala macchine. Doveva essere Irvik: l’Ingegnere Capo era l’unico sauro a bordo. «Talyn a Irvik, mi sente? Risponda per favore. Se è ferito, faccia uno sforzo!» pregò il giovane, ma ancora una volta ebbe solo silenzio.
   «Basta così. Devo andare subito in sala macchine» si disse l’El-Auriano. Irvik era l’unico che potesse salvarli da quel disastro. Doveva trovarlo, curandolo nel caso che fosse ferito. Già che c’era avrebbe ispezionato l’ingegneria, per capire cos’era quella fonte d’energia sconosciuta. Quanto alla misteriosa tinta violetta dell’astronave, si sforzò d’ignorarla. Se dipendeva da un suo problema alla vista – e come poteva essere altrimenti? – ci avrebbe pensato a fine crisi.
   Presa la decisione, Talyn andò nell’adiacente sala tattica, dove si trovava un armadietto per le emergenze. Prese un tricorder e una torcia da polso, nell’eventualità che gli servissero. Tornato in plancia, stava per scendere quando un acuto stridio gli gelò il sangue. Il richiamo degli Shriek! Dunque erano ancora a bordo! Il giovane impugnò immediatamente il phaser, guardandosi attorno. Lo stridio crebbe d’intensità finché uno Shriek uscì dalla paratia, puntando dritto contro di lui. Talyn reagì in automatico: gli sparò all’istante, si abbassò per evitare l’attacco, si girò e lo colpì di nuovo, mettendolo in fuga. In plancia tornò il silenzio, ma ora il giovane era ancor più spaventato.
   «Quei mostriciattoli sono ancora a bordo! Se non faccio qualcosa alla svelta, uccideranno ciò che resta dell’equipaggio». E se avessero già ucciso la maggior parte dei colleghi, mentre lui era svenuto? Questo spiegava come mai restavano così pochi segni vitali. «Impossibile, qui c’è un solo cadavere» si disse, osservando i resti dell’ufficiale ausiliario ucciso durante l’attacco iniziale. Vagamente rassicurato, imboccò l’ampia scala a chiocciola che conduceva ai ponti inferiori.
 
   Percorrendo la Destiny, Talyn non poté ignorare che ogni cosa gli appariva violetta. Ormai pensava di aver familiarizzato con la nuova astronave, eppure quella tonalità gliela faceva apparire diversa e aliena. In un certo senso era terrorizzante. E c’erano anche dei problemi pratici. Le interfacce LCARS, ad esempio, avevano un preciso codice cromatico che aiutava a distinguere le diverse funzioni. Ora che era tutto viola, di una sfumatura o dell’altra, il giovane aveva difficoltà a usarle. Ma c’erano problemi più pressanti. Per tutto il viaggio se ne stette con il phaser in pugno e i sensi all’erta, casomai gli Shriek lo aggredissero ancora. Ma non udì mai il loro richiamo, né li vide passare nei corridoi. E non trovò neppure vittime a terra. Sembrava proprio che il grosso dell’equipaggio si fosse volatilizzato.
   Giunto finalmente all’ingresso della sala macchine, Talyn prese fiato ed entrò col phaser spianato. Si guardò attorno, pronto a colpire gli Shriek, ma non ne vide nessuno. In compenso c’erano due loro vittime a terra, oltre ai resti di numerosi Exocomp, distrutti nella battaglia. Ma ad attirare la sua attenzione fu un intenso bagliore proveniente dalla parete di fondo. Era una luce bianca... dunque la sola cosa non violetta che avesse visto da quando s’era risvegliato. Doveva essere la misteriosa sorgente d’energia. L’El-Auriano l’analizzò col tricorder, cercando radiazioni nocive. Non ne trovò, anche se c’erano alti livelli di gravitoni. Allora si avvicinò guardingo, continuando le analisi e interrompendosi solo per darle rapide occhiate.
   A vederlo pareva un ammasso di schegge lucenti, più fitte verso il centro. Si trovava in corrispondenza di... no, impossibile! Con un tuffo al cuore, Talyn si avvide che il rivestimento del generatore gravitonico era saltato via, mettendo a nudo il nucleo. Era da lì che promanava la strana anomalia. Solo allora l’intensa luce bianca gli stimolò una nuova domanda: «Perché è bianca? Se ho un difetto alla vista, non dovrei vederla violetta come tutto il resto?».
   Continuando ad analizzarla, Talyn si accorse che lo spazio stesso era stranamente piegato. C’era un pozzo gravitazionale, come quello dei buchi neri... o dei tunnel spaziali. «Un wormhole! Da dov’è sbucato? Dove conduce? Non sarà che gli altri l’hanno attraversato?» si domandò. Lui però non osava entrarci senza prima aver inquadrato la situazione.
   «Be-beep».
   Il fischio lo fece sobbalzare: era vicino, proprio dietro di lui. Sovreccitato, Talyn si voltò, pronto a sparare. All’ultimo istante si trattenne, riconoscendo l’intruso. Non era uno Shriek, bensì uno degli Exocomp adibiti alle riparazioni. La targhetta lo identificava come il numero 64, l’unico rimasto dello stock originale, dato che tutti gli altri erano stati distrutti nello Spazio Fluido e ricostruiti dagli ingegneri. Le peripezie gli avevano fornito più personalità dei comuni Exocomp, tanto da meritarsi un soprannome: per gli amici era Ottoperotto.
   «Ah, sei tu!» fece Talyn, esalando un sospiro di sollievo. «Sei il primo amico che ritrovo. Sai dirmi cos’è successo?».
   «Attacco Shriek. Danni multipli ai sistemi. Sala macchine evacuata. Generatore gravitonico esploso» riferì Ottoperotto. Sebbene gli Exocomp avessero una rozza Intelligenza Artificiale, per elaborare le migliori strategie di riparazione, il loro vocabolario non era molto sviluppato. Talyn comprese che non poteva chiedergli un resoconto dettagliato degli eventi.
   «Piano, piccoletto! Il generatore non è esploso... o sì?» s’interrogò l’El-Auriano, osservando la strana distorsione luminosa. «Avrete anche evacuato l’ingegneria, ma io ho rilevato un segno vitale Voth. Può essere solo Irvik e dev’essere ancora qui. Aiutami a cercarlo!» ordinò.
   Si misero a setacciare il salone, Talyn col tricorder e Ottoperotto con i suoi sensori. Fu il robottino a trovare ciò che cercava, segnalando la scoperta con un sonoro squillo: «Be-beep!».
   «L’hai trovato? E dove si nasconde?» fece l’El-Auriano, correndogli appresso. Vide che l’Exocomp indugiava presso il portello di un tubo di Jefferies. Allora lo aprì e ficcò dentro la testa, illuminando il condotto con la torcia da polso. «Signor Irvik, è qui?!» ululò, la voce che risuonava nei condotti.
   Qualcosa si mosse carponi poco più avanti. «Chi sei? Non uccidermi, ti prego!» disse una voce tremante.
   Al giovane servì qualche attimo per riconoscere la voce dell’Ingegnere Capo. «Non si preoccupi, signore! Sono io, Talyn. Non mi riconosce?» chiese, entrando nel condotto. Finalmente vide Irvik con chiarezza.
   «Ah, sei tu. Che ci fai qui?» chiese il Voth, sempre timoroso.
   «Che domande, cercavo lei!» rispose l’El-Auriano. «La nave è danneggiata e gran parte dell’equipaggio sembra svanito nel nulla. Speravo che lei mi aiutasse a capire che succede. Che ci fa rintanato qui dentro?».
   «Mi nascondo! Gli Shriek ci hanno attaccati, non lo sai? Hanno fatto cose orribili e sono ancora in giro! Se ci trovano ci uccideranno! Dobbiamo trovare un rifugio!» disse Irvik, sovreccitato.
   «So del pericolo, ma non è nascondendoci che risolveremo le cose» obiettò Talyn, sempre più deluso. L’Ingegnere Capo non era mai stato un cuor di leone, ma non era nemmeno un vigliacco. Com’era possibile che ora si rintanasse così? «Venga fuori di qui! Se non facciamo niente, la Destiny potrebbe essere distrutta!» lo esortò.
   «Distrutta? Oh, povero me!» si disperò il Voth. «Non avrei mai dovuto salire a bordo. Sono un civile, io! Un umile pellegrino in viaggio verso il Mondo Perduto. Non avrei mai dovuto farmi dare un passaggio da voi! Mi avete trascinato in questo luogo orribile, dove tutto congiura per uccidermi!».
   «Esca, ho detto!» fece Talyn, afferrandolo per un braccio. Con parecchi sforzi lo indusse a seguirlo fuori dal condotto. Quando furono nuovamente in sala macchine poté osservarlo meglio. L’Ingegnere Capo era in uno stato pietoso. Si era raggomitolato a terra e piagnucolava come un bambino, senza cercare in alcun modo di risolvere i numerosi problemi che li assillavano.
   «Questo non è da lui» si disse Talyn. Nei mesi che avevano trascorso sulla Destiny non lo aveva mai visto cedere ad attacchi di panico, e sì che avevano rischiato più volte la vita. Era come se qualcosa lo influenzasse a livello psichico, riempiendolo di un terrore paralizzante.
   «Influenza psichica... forse è questa la chiave» pensò il giovane. Analizzò Irvik, trovando conferma ai suoi sospetti. Il cervello del sauro era saturo d’adrenalina, cortisolo e altri ormoni della paura. Non c’era da stupirsi che fosse in quelle condizioni. Talyn però non riusciva a capire le cause del fenomeno. Non c’erano tracce di droghe nell’organismo del Voth. Che fosse una vera e propria influenza telepatica? Ma gli Shriek non avevano mai sfoggiato un simile potere.
   «Signore, mi ascolti. Lei è in preda a un attacco di panico. Deve respirare a fondo e cercare di calmarsi» disse l’El-Auriano. «Ora la porto in infermeria, così capiremo cosa c’è che non va...». In quella si bloccò. Avevano un solo medico a bordo, la dottoressa Giely. Se anche lei era tra gli scomparsi, allora non c’era nessuno che potesse visitare il Voth. «Computer, localizza Giely» ordinò il giovane con la gola secca.
   «La dottoressa Giely non si trova a bordo» fu l’implacabile risposta.
   «Mannaggia!» fece Talyn, interrogandosi sul da farsi. Se anche avesse condotto Irvik in infermeria, non era in grado di visitarlo a dovere; men che meno di elaborare una cura. Doveva tenerselo così com’era, spronandolo a fare il suo dovere.
   «Anche la dottoressa è sparita? Povero me, sono spariti tutti!» piagnucolò il Voth. «Siamo soli su quest’orribile nave... lo sapevo che moriremo qui...».
   «Non moriremo, se lei mi aiuta ad affrontare la situazione!» lo esortò l’El-Auriano. «Dunque, l’energia principale è disattivata e ci sono vari guasti, ma la priorità va al generatore gravitonico. Cos’è successo? Lei era qui, avrà visto. Cerchi di ricordare!».
   «Il generatore era in affanno, non riuscivo a dargli energia» mormorò Irvik, sforzandosi di rammentare quei momenti concitati. «Gli Shriek erano ovunque, facevano a pezzi la sala macchine. Le loro strida... che orrore! A un certo punto sono riuscito a caricare il generatore, deviando tutta l’energia disponibile. Stavo per lanciare l’impulso gravitonico dal deflettore, ma qualcosa è andato storto. Il guscio del generatore s’è infranto, pensavo che saremmo morti!» rabbrividì, indicando lo squarcio da cui promanava la strana anomalia.
   «Le emissioni gravitoniche!» s’illuminò Talyn. «Invece d’indirizzarsi alla parabola del deflettore, per formare il raggio, sono fuoriuscite direttamente dal generatore. In pratica abbiamo aperto una breccia all’interno dell’astronave!».
   «Terribile, terribile!» mugolò l’Ingegnere Capo, coprendosi gli occhi.
   «Però non sembra che siamo arrivati a destinazione» ragionò l’El-Auriano. «È come se fossimo in un ascensore bloccato tra due piani, che non riesce ad andare né avanti, né indietro. Siamo intrappolati a metà strada fra gli Universi, in un limbo tra le due realtà. Quella luce viola che circonda l’astronave non è un altro cosmo, sono le pareti del limbo. Credo che fuori dallo scafo non ci sia niente... nemmeno il vuoto». Stavolta fu lui a rabbrividire. Era una situazione così esotica, così allucinante che non riusciva a trovare alcun precedente. Erano davvero arrivati dove nessuno era mai giunto prima... peccato che non riuscissero ad andarsene!
   «Poveri noi! Che possiamo fare, che cosa?!» si disperò Irvik.
   «Vediamo... per usare la metafora dell’ascensore, dobbiamo dare uno scossone che ci rimetta in movimento» rifletté Talyn. «Ma usare il generatore è fuori discussione, considerate le sue condizioni. Abbiamo qualcos’altro in grado d’emettere gravitoni in modo controllato?».
   «Fammi pensare... forse sì» mormorò il Voth. «Ma sarà pericolosissimo, non dovremmo rischiare!».
   «Anche rimanere qui è pericoloso. Se questa strana bolla collassa, saremo cancellati da ogni piano d’esistenza!» avvertì l’El-Auriano. L’unico modo per vincere la paura del sauro, pensò, era prospettargli qualcosa di ancor più terrorizzante.
   «No! Non voglio essere cancellato!» si disperò il poveretto. «Seguimi, ragazzo, dobbiamo setacciare le stive. La nostra sola speranza sono gli emettitori gravitonici».
 
   Di lì a poco i due erano in una delle capienti stive della Destiny, poste nella sezione ad anello dell’astronave. Talyn fu sorpreso di trovarvi alcuni membri dell’equipaggio, che si nascondevano tra i container. Questi sembravano ancor più terrorizzati di Irvik, tanto che il giovane dovette rinunciare alla loro collaborazione. Tornò presso il Voth, riflettendo sull’epidemia di terrore che aveva contagiato tutti. Che fosse da mettere in relazione con la strana deriva cromatica che aveva tinteggiato di viola ogni cosa? Sapeva che i colori possono influenzare le emozioni, ma non fino a questo punto. E perché lui era l’unico immune?
   Mentre Talyn si scervellava su queste domande, Irvik aprì un container dopo l’altro, rovistando freneticamente all’interno. Dopo parecchi tentativi a vuoto trovò quello che cercava. Era uno strano dispositivo simile a una semisfera, o per meglio dire a tre quarti di una sfera. Dalla sua cima s’innalzavano parecchie sottili antenne, di varia altezza; le più alte arrivavano a un paio di metri. Osservando un indicatore sulla semisfera, Talyn si accorse che il congegno era alimentato da un micro-reattore ad antimateria, segno che consumava un’immane quantità d’energia.
   «Questo è un emettitore autonomo di gravitoni» spiegò Irvik. «È talmente complesso che non si può replicare, quindi abbiamo solo la dotazione di bordo. Sono sei in tutto e dovranno bastarci... che c’è?!» s’interruppe, guardandosi attorno terrorizzato. Gli era parso d’udire il richiamo di uno Shriek.
   «Niente, è tutto a posto. Occhi su di me, signore!» lo richiamò il giovane. «Stava parlando degli emettitori. Che significa che dovranno bastarci? Non ne basta uno?».
   «No, tu non capisci!» disse affannosamente l’Ingegnere Capo. «Devo ancora fare i calcoli, ma credo proprio che un solo emettitore non basti a sbloccare l’astronave. Ti ricordo che è servita tutta l’energia del nucleo per portarci fin qui. Ne serve parecchia anche per darci la spinta finale».
   «Quindi che dobbiamo fare? Collimare questi emettitori e attivarli assieme, sperando che bastino?» si accigliò l’El-Auriano. Solo ora iniziava a capire quant’era disperato il piano.
   «Sì, e dovremo anche posizionarli nei punti giusti della nave, affinché il campo sia stabile. Sarà difficile, molto difficile capire quali siano questi punti. Ci vorrà un’analisi quantica-geodetica-subspaziale...».
   Il Voth si lanciò in una dettagliata spiegazione. Talyn cercò di seguirlo, ma ben presto si accorse che non riusciva a stargli dietro. Era buffo, perché era sempre stato abituato a capire al volo i concetti: non per niente si era istruito da solo col database di una vecchia navetta incidentata. Ormai aveva un’opinione piuttosto alta del suo quoziente intellettivo. Ma quella chiacchierata con Irvik fu un bagno d’umiltà. Gli ricordò che quando i Voth proclamavano di avere una scienza superiore, affinata in milioni di anni, non era una vanteria. Quei sauri erano veramente più progrediti dei federali, a un tale livello che Talyn dovette rinunciare a capirci qualcosa. «Okay, signore, così non riesco a seguirla. Mi dica semplicemente dove devo piazzare questi emettitori» mormorò.
   «Ancora non lo so nemmeno io di preciso. Andiamo in astrometria, così potrò fare i calcoli» disse l’Ingegnere Capo.
 
   Anche stavolta il viaggio attraverso la nave fu inquietante. A parte l’onnipresente tinta violetta, la Destiny era immersa in un silenzio di morte. Tutti si nascondevano in preda a un terrore patologico, rifiutando persino di rispondere alle chiamate. Nessuno cercava di contattare gli altri, di collaborare per risolvere i problemi. A quei livelli, la paura aveva un effetto paralizzante. Solo gli Exocomp ne erano immuni, infatti stavano riparando i numerosi danni riportati dall’astronave.
   Giunti nel laboratorio astrometrico, Irvik si tuffò nei calcoli, mentre Talyn lo osservava affascinato. Ma col passare del tempo, il Voth appariva sempre più in difficoltà. Inoltre la paura rischiava in ogni momento di prendere il sopravvento, distraendolo dal lavoro. Più volte l’El-Auriano dovette richiamarlo, chiedendogli di concentrarsi. A un certo punto, vedendolo arenato, si arrischiò a chiedergli qual era il problema.
   «C’è qualcosa che non quadra, le analisi quantiche continuano a oscillare!» spiegò Irvik. «Ho registrato la bellezza di sei valori diversi, non capisco quale sia quello giusto. Mi correggo, sembrerebbe questo» disse indicandone uno, «ma allora non capisco da dove vengano gli altri. È come se ci fossero sei navi, invece che una...».
   A queste parole Talyn sentì come un campanello d’allarme nel cervello. Tutti i quesiti irrisolti – la scomparsa di gran parte dell’equipaggio, la deriva cromatica verso il violetto, l’epidemia di terrore, forse persino l’anomalia in sala macchine – convergevano verso un’unica risposta. «Signore, ho un’idea. Facciamo un’analisi quantica ad ampio spettro e confrontiamo i dati, raggruppandoli in queste sei categorie» suggerì.
   Per un’ora abbondante i due lavorarono di buona lena. Ciò che ottennero furono sei analisi distinte, ciascuna con un quadro coerente di dati. Le sei immagini della Destiny campeggiarono sullo schermo principale, ciascuna con le sue specifiche accanto.
   «È come temevo» mormorò Talyn. «La fuoriuscita incontrollata di gravitoni dal generatore è stata troppo traumatica per la Destiny. Non solo siamo bloccati in una bolla tra gli Universi: abbiamo anche subito una scissione quantica. Adesso ci sono sei versioni dell’astronave, ciascuna con un timbro quantico diverso. Sei versioni sovrapposte, che occupano lo stesso spazio fisico ma esistono a frequenze diverse. Un po’ come il gatto di Schrödinger, che esiste in una sovrapposizione di stati, per cui finché non si apre la scatola per controllare è sia vivo che morto!» commentò, riferendosi a un celebre paradosso della fisica quantistica.
   «Morto? Aiuto, non voglio morire!» sobbalzò Irvik, sempre impressionabile.
   «Ma no, nessuno è morto» lo rassicurò Talyn. «Però ci sono sei versioni dell’astronave che non comunicano fra loro... salvo che in sala macchine, dove s’è originata la scissione».
   Così dicendo il giovane richiamò un’immagine del generatore spaccato, con la strana anomalia luminosa. «Ecco l’origine di tutto. Guardi il pozzo gravitazionale: questo è un tunnel che collega le sei Destiny, come un ascensore che unisce piani diversi. Passando da lì potremo visitare le altre versioni dell’astronave. A questo punto mi pare evidente che l’equipaggio sia smistato fra le varie navi, un sesto per ciascuna. Ecco dove sono finiti gli scomparsi... in realtà non se ne sono mai andati. Siamo sempre tutti a bordo, ma con timbri quantici diversi che c’impediscono d’interagire. Ha mai sentito parlare di un caso del genere?».
   «No, mai» ammise il Voth. «Poveri noi, poveri noi... tutto è perduto!» frignò.
   «Forse no. Se regoliamo bene gli emettitori gravitonici, dovremmo riaccordare i timbri quantici e in tal modo ricomporre la nave. Non è così?» chiese Talyn. Il suo intuito gli diceva di sì, ma aveva bisogno delle cognizioni scientifiche di Irvik per esserne certo.
   «In teoria dovrebbe funzionare» ammise il Voth. «Ma è solo una teoria! Credo che nessuno abbia mai fatto una cosa del genere. O forse è già accaduto, ma nessuno è sopravvissuto per raccontarlo! Lo sapevo, moriremo tutti!» si disperò.
   «La smetta di dire così! Più si convince che siamo senza speranza, più la situazione peggiora!» esclamò l’El-Auriano, cercando di scuoterlo. «Mi ascolti, noi due siamo gli unici che possano sistemare le cose. Deve regolare gli emettitori gravitonici, dopo di che provvederò io a collocarli in giro per la nave».
   «Le navi» corresse Irvik.
   «Come dice?».
   «Ci sono sei Destiny, ciascuna col suo timbro quantico. L’unico modo per riaccordarle è posizionare un emettitore su ciascuna» spiegò l’Ingegnere Capo. «Fortuna che ne abbiamo sei! La loro frequenza dovrà essere attentamente calibrata e anche il momento dell’attivazione dev’essere regolato al millisecondo. Solo facendo tutto ciò alla perfezione abbiamo una speranza di ricomporre la nave. Se tutto va bene ci ritroveremo su un’unica Destiny, con l’equipaggio riunito. Dovremmo anche sbloccarci da questo limbo. Se invece va male... ohiohiohiohiohi!» si lamentò.
   «Lo vedo, non c’è margine d’errore» disse Talyn, mordendosi il labbro inferiore mentre osservava i dati. Anche lui aveva paura, ora che conosceva la situazione: una paura divorante. Ma si costrinse a mantenere la calma, perché se perdeva la testa come Irvik allora sì che era finita. «Faccia i calcoli, signore, e li metta su un d-pad. Così potrò portarmeli dietro attraverso l’anomalia. Ci penserò io a distribuire gli emettitori sulle varie Destiny» promise, osservando i sei vascelli sullo schermo.
   «Bada che il teletrasporto non ha energia. Dovrai spingerli su e giù per la nave, usando i carrelli antigravitazionali» avvertì il Voth.
   «Lo farò» sospirò l’El-Auriano.
 
   Poche ore dopo Talyn e Irvik erano di nuovo in sala macchine. Il Voth aveva superato se stesso, completando i calcoli per ricomporre la nave. Lui stesso regolò i timer degli emettitori, così da risparmiare un compito a Talyn, una volta che questi si fosse messo in marcia.
   «Parliamo un attimo degli orari. Gli Shriek ci hanno attaccati ieri sera, dopo di che siamo stati svenuti tutta la notte, svegliandoci la mattina presto. Adesso che abbiamo ultimato i preparativi sono le due del pomeriggio» spiegò il Voth. «Ho calcolato che per fare i vari giri sulla nave, spingendo gli emettitori sui carrelli antigravitazionali, dovrebbero bastarti otto ore. Mettendo in conto vari ostacoli e imprevisti, ti do il doppio del tempo. Fra sedici ore esatte, quindi alle sei del mattino di domani, gli emettitori si attiveranno simultaneamente. Se per allora non saranno collocati ciascuno al suo posto, cioè in un punto diverso di ogni Destiny, la scissione sarà definitiva. Anche perché una volta consumata la loro carica, non abbiamo energia per ricaricarli. Hai una sola possibilità, ragazzo. Se fallisci sarà la rovina per tutti noi. Oh, povero me! Vorrei tanto aiutarti, seguirti in quest’impresa... ma non ce la faccio, proprio non ce la faccio!» piagnucolò, accasciandosi a terra.
   «Va bene così, è stato bravissimo» lo consolò Talyn. «Da qui in poi me la cavo da solo».
   «Be-beep?» pigolò Ottoperotto, venendogli accanto.
   «Giusto, non da solo!» disse il giovane, confortato. «Tu verrai con me, piccolo amico. Stammi vicino, coi sensori all’erta, e avvertimi se arriva qualcuno».
   Detto questo gli avventurieri fecero gli ultimi preparativi. Il primo emettitore gravitonico andava sistemato proprio lì in sala macchine, davanti alla breccia. Irvik stesso lo posizionò con cura certosina. Gli altri cinque emettitori furono posti su altrettanti carrelli antigravitazionali, poi sospinti attraverso la breccia. Sparirono al suo interno, risucchiati nelle altre versioni dell’astronave.
   «Ora tocca a noi» disse Talyn, rivolto a Ottoperotto. Prese con sé phaser, tricorder e torcia da polso, oltre al prezioso d-pad in cui erano segnate le collocazioni degli emettitori. Inoltre regolò il comunicatore affinché lo avvertisse con una vibrazione, un minuto prima dello scadere del tempo. Così preparato cercò Irvik, per stringergli la mano e ringraziarlo prima di andare, ma lo vide sparire nuovamente nel tubo di Jefferies, in cerca di un’illusoria protezione.
   «A presto, signore. Grazie di tutto!» lo salutò comunque, agitando la mano.
   «A presto, figliolo... sta’ attento ai pericoli!» raccomandò l’Ingegnere Capo da dentro il suo dubbio rifugio, prima di chiudersi dietro il portello.
   Talyn sospirò, dando un’ultima occhiata alla sala macchine. Aveva assaggiato la Destiny viola, dominata dalla paura: ora cosa lo attendeva? Lo avrebbe scoperto subito. «Seguimi, piccolo amico. Vediamo che ci aspetta!» si rivolse a Ottoperotto, che in risposta trillò eccitato. Il giovane El-Auriano e il fedele robottino si addentrarono nella breccia quantica, diretti verso la prossima tappa. 
 

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Capitolo 4
*** Destiny blu ***


-Capitolo 3: Destiny blu
 
   La prima impressione della seconda Destiny fu un deciso cambio cromatico. Stavolta ogni superficie era di colore azzurro, in tutte le sue gradazioni, dal blu oltremare fino al celeste. Talyn si guardò attorno meravigliato: la nuova tinta rendeva la sala macchine quasi irriconoscibile, sebbene null’altro fosse mutato. Era incredibile come i colori condizionassero la percezione dei luoghi, si disse. Sembrava quasi di trovarsi in un acquario.
   «Be-beep! Tutto blu!» trillò Ottoperotto, registrando la stranezza.
   «Hai ragione, piccolo» convenne l’El-Auriano. «Questo non l’avevamo previsto. Mi chiedo se ci siano altre differenze inaspettate. Per esempio lo stato emotivo dell’equipaggio...». S’interruppe, notando un ingegnere Ferengi abbandonato sul pavimento. Era disteso supino e fissava il soffitto con occhi spalancati. Non sembrava rinsecchito come le vittime degli Shriek, anzi pareva decisamente vivo.
   «Ehi, signor Yam, che succede? È ferito?» chiese Talyn, riconoscendolo. Gli venne subito accanto per sincerarsi delle sue condizioni. Poiché l’altro non si alzava, anzi non muoveva un muscolo, gli si inginocchiò a fianco, esaminandolo col tricorder. «Da quel che vedo, sembra che stia bene» commentò. «Perché non si muove?».
   «A che scopo muoversi? È inutile... tutto quel che facciamo è inutile» mormorò il Ferengi, con sguardo perso.
   «So che ha paura, ma non deve lasciarsi sopraffare...» provò Talyn.
   «Paura? Macché, io non ho paura» rispose inaspettatamente l’ingegnere. «Il fatto è che ho compreso la grande inutilità del tutto. I nostri sforzi di arricchirci sono stati vani. Il nostro tentativo di tornare a casa è vano. Non ci aspetta altro che l’oblio. Perché lottare, quando è inutile? Mettiti accanto a me e aspettiamo assieme la fine inevitabile» suggerì. Non c’erano piagnucolii infantili in lui: il suo atteggiamento era improntato a una quieta disperazione.
   Perplesso, Talyn lo esaminò più a fondo. A livello cerebrale rilevò una completa assenza di serotonina, una condizione che negli umanoidi si abbinava a tristezza e depressione. A quel punto anche il suo atteggiamento divenne più comprensibile.
   «Guarda, guarda... sembra che la Destiny blu sia dominata dalla tristezza» disse l’El-Auriano, un po’ a se stesso e un po’ a Ottoperotto. «Comincio a credere che anche le prossime saranno così, ciascuna con un colore base e un’emozione dominante». In quella si bloccò, ragionando sulle implicazioni. Conosceva i colori principali, quelli dell’arcobaleno. Era già passato dal violetto al blu, quindi nell’ordine lo attendevano il verde, il giallo, l’arancione e il rosso, man mano che scendeva lo spettro luminoso. Ma quali erano le emozioni di base, quelle da cui si sviluppavano tutte le altre?
   «Computer, elenca le emozioni primarie!» ordinò Talyn, pensando che era bene premunirsi.
   «Vi sono varie teorie emotive, che individuano un diverso numero d’emozioni primarie» rispose il computer. «C’è la teoria a sei emozioni, a otto, a dodici...».
   «Dimmi quella a sei».
   «Secondo questa teoria esistono sei emozioni primarie e istintive, comuni a quasi tutti gli umanoidi. Tali emozioni possono essere abbinate in coppie d’opposti: rabbia e paura, gioia e tristezza, sorpresa e disgusto» snocciolò il computer.
   «Allora, vediamo. Dopo paura e tristezza mi restano ancora la gioia, la sorpresa, il disgusto... e la rabbia» calcolò il giovane. Se su ciascuna Destiny l’equipaggio era invasato dall’emozione dominante, cosa doveva aspettarsi? I colleghi depressi sembravano totalmente privi d’iniziativa, quindi non lo avrebbero aiutato, ma nemmeno ostacolato. Quelli gioiosi gli avrebbero dato una mano, o così sperava. Dai sorpresi e dai disgustati non sapeva bene cosa aspettarsi, ma confidava che non gli avrebbero dato troppi guai. A preoccuparlo erano i rabbiosi: poteva darsi che lo aggredissero? Che cercassero persino di ucciderlo? D’un tratto la missione gli apparve ancor più disperata. Affrontare gli Shriek era già abbastanza pericoloso; come si sarebbe comportato con i suoi colleghi fuori di senno?
   «Ah, povero me... sarà dura» si lasciò scappare.
   «È vero, questa vitaccia è troppo dura» convenne il Ferengi. «Sdraiati anche tu e aspettiamo la liberazione della morte».
   «No, maledizione! Tu e gli altri sarete anche paralizzati, ma io non mi arrendo!» rimbeccò Talyn. Questo però lo indusse a chiedersi come mai lui non risentiva della scissione quantica. Perché non era invasato prima dalla paura e ora dalla tristezza? Cosa lo rendeva tanto speciale?
   «Forse c’entra il fatto che sono El-Auriano» si disse. «Già, ma che significa essere El-Auriani? Non l’ho mai saputo, i miei sono morti troppo presto...» s’interrogò. Sentendo crescere la tristezza al ricordo di quella perdita, si sforzò di reprimere le emozioni. Quale che fosse l’origine della sua immunità, era un dono da non sprecare. Lui era l’unico che potesse salvare nave ed equipaggio: non doveva lasciarsi sopraffare a sua volta. Dopo aver sistemato tutto avrebbe avuto tempo per interrogarsi.
   «Vieni, Ottoperotto. Non perdiamo altro tempo» disse, ricordando il conto alla rovescia già avviato. Tornò presso l’anomalia, dove lo attendevano i cinque carrelli antigravitazionali con altrettanti emettitori gravitonici. Ne scelse uno a caso e prese a spingerlo, mentre Ottoperotto gli fluttuava accanto, fischiando incoraggiante. «Tu non spingi, eh? Già, non hai le mani!» borbottò Talyn, accorgendosi che scarrozzare i pesanti emettitori in giro per la nave era più faticoso del previsto.
 
   L’El-Auriano e l’Exocomp lasciarono la sala macchine e percorsero vari corridoi, prendendo anche un turboascensore per salire di livello. L’onnipresente blu stava diventando oppressivo; non c’era un centimetro quadrato d’altra tinta. La cosa più impressionante erano i finestroni affacciati sul limbo, che stavolta si presentava come un’uniforme luminosità azzurra. Ogni tanto i viaggiatori incontravano dei colleghi accasciati a terra, privi della voglia di vivere. Talyn dovette scavalcarli, perché non si scostavano neppure per non farsi schiacciare. Restavano immobili, senza nemmeno bere o mangiare. Il giovane si rese conto che, se non ricomponeva la nave, si sarebbero lasciati morire d’inedia. Era un motivo in più per spicciarsi.
   «Siamo quasi arrivati!» si animò, vedendo la porta dell’infermeria. Era lì che andava collocato il secondo emettitore. Entrò con tutto il carrello, lieto d’essere a destinazione, quando vide qualcosa d’agghiacciante. La dottoressa Giely giaceva immobile su un lettino, con lo sguardo vitreo di coloro che avevano perso la voglia di vivere. Sopra di lei aleggiava uno Shriek, che in qualunque momento poteva scendere a ucciderla. La creatura indugiava, come se non sapesse decidersi. Ma quando Talyn entrò in infermeria, lo Shriek gli puntò dritto contro, lanciando il suo stridio che faceva accapponare la pelle.
   Il giovane reagì istintivamente. Mollò il carrello con l’emettitore e vi si nascose dietro, col phaser in pugno, pronto a far fuoco. Il richiamo dello Shriek era sempre più vicino; poi a un tratto si spense. Con molta cautela l’El-Auriano sbirciò da dietro il suo riparo improvvisato: l’alieno non era in vista. Dove si nascondeva?
   «Be-beep! Nemico scomparso!» riferì Ottoperotto, analizzando l’infermeria coi sensori.
   «Dottoressa, scenda dal lettino e venga qui!» chiamò Talyn, temendo che lo Shriek riapparisse. «Non ha visto la creatura? Siamo in pericolo, dobbiamo reagire!».
   «Perché lottare? Tutto è perduto, non resta che arrenderci all’inevitabile» mormorò Giely, trasognata. Non gli venne in aiuto e non cercò nemmeno di nascondersi. Questo non era necessariamente un male, rifletté Talyn, perché in precedenza lo Shriek si era astenuto dal colpirla. Forse non la considerava una minaccia. Ma allora anche lui doveva deporre il phaser e fare il morto, per indurlo ad andarsene?
   D’un tratto l’alieno riapparve, uscendo dal pavimento alle spalle di Talyn. Doveva essere passato dal ponte inferiore per avvicinarsi di soppiatto. Il giovane percepì il movimento con la coda dell’occhio e si girò fulmineo, ma la creatura gli era già addosso e lo colpì al braccio sinistro. Per l’El-Auriano fu un’esplosione di dolore. Mai, in tutta la sua vita, aveva sperimentato qualcosa di simile; e sì che da ragazzo aveva assaggiato la frusta neurale. Fu come immergere l’arto nel metallo fuso. Il dolore gli risalì il braccio e Talyn seppe che entro pochi secondi la reazione termolitica si sarebbe estesa a tutto il corpo, uccidendolo. Non poteva nemmeno ritrarsi, schiacciato com’era tra l’aggressore e il carrello col voluminoso carico. Allora fece l’unica cosa possibile: sparò in testa allo Shriek. Lo colpì dritto in un occhio, a bruciapelo.
   L’alieno lanciò lo stridio più perforante che Talyn avesse mai udito e si volatilizzò attraverso la paratia più vicina. A terra rimasero alcune gocce di liquido: forse il suo sangue, forse umori dell’occhio ferito. Era impossibile stabilirne il colore, dato che appariva blu come tutto il resto. In ogni caso, Talyn non era in condizioni di analizzarlo.
   Il giovane si accasciò a terra, addossandosi con la schiena contro il carrello per non crollare del tutto. Il dolore non era più quello lancinante del primo attimo; si era fatto più basso e pulsante, come quello di un’ustione. Sconvolto, Talyn depose il phaser e si osservò la mano lesionata. Era scura e avvizzita; non riusciva nemmeno a muovere le dita. Se la tastò con la mano buona e poi risalì il braccio, cercando di capire quant’era estesa la lesione. Giudicò che gli arrivasse fin quasi alla spalla.
   «Be-beep! Talyn danneggiato!» fischiò Ottoperotto, agitatissimo. Gli venne accanto, con le lucette che pulsavano di varie sfumature blu. Ma essendo un robot addetto alle riparazioni meccaniche, non poteva soccorrere un ferito.
   «Me ne sono accorto» ansimò il giovane. «Sono stato fortunato: ancora pochi secondi e ci rimanevo secco» si disse. Già, ma come poteva ultimare la missione in quelle condizioni? Così debole e ferito non riusciva nemmeno a spingere il carrello. E dire che era appena al secondo, su un totale di sei! Non poteva arenarsi così presto. «Almeno sono in infermeria. La dottoressa potrebbe curarmi... se solo volesse!» pensò.
   Con un grosso sforzo il giovane si rialzò, puntellandosi col braccio sano. Aggirò il carrello e arrancò verso il lettino. «Dottoressa, mi aiuti. Uno Shriek mi ha ferito, ho bisogno delle sue cure!» supplicò.
   «Non posso curarti. Non posso aiutare nessuno. Siamo tutti condannati» mormorò Giely, senza nemmeno alzare la testa per guardarlo.
   «Eh no, non se la cava così!» protestò Talyn. «Lei è l’unico medico della nave e qui ci sono io, un paziente con una grave lesione. Ha il dovere d’aiutarmi! Quindi non sia pusillanime, si tiri su e faccia il suo dovere!» la esortò.
   «Riparare Talyn! Riparare Talyn!» rincarò Ottoperotto, dando dei colpetti a Giely per costringerla ad alzarsi. A un certo punto le assestò persino una lieve scossa.
   «Va bene, lo farò!» cedette la Vorta. Si alzò dal lettino, permettendo a Talyn di distendersi al suo posto. Preso un apposito strumento, gli tagliò la manica per verificare l’entità della lesione.
   Radunato il coraggio, il giovane osò guardarsi. Come temeva, il braccio era avvizzito fin quasi alla spalla. «Dottoressa, può fare qualcosa? Mi dica di sì!» supplicò, sapendo che altrimenti la sua missione era stroncata sul nascere.
   «Questa è una grave reazione termolitica» diagnosticò Giely. «Se è arrivata in profondità, non mi resta che amputare» avvertì, mentre lo esaminava con uno strumento dopo l’altro. «È una cosa triste, sai? Potresti non tornare più come prima. Un giovane così pieno di vita... mutilato per il resto dei suoi giorni» disse rassegnata.
   «Dottoressa, la prego d’evitare le considerazioni emotive e d’attenersi ai fatti» disse Talyn, maledicendo la depressione cronica della Vorta. «Può salvarmi il braccio, sì o no?!».
   «Tutto considerato, credo di sì» rispose Giely, senza la minima traccia d’allegria. «L’esposizione è stata breve, per cui la reazione non è giunta in profondità. Credo di poter rimediare, ma ti servirà qualche ora di terapia rigenerativa».
   «Ore!» sobbalzò Talyn. «Ma io non posso perdere delle ore, ho una missione da portare a termine per salvare la nave. Devo posizionare quell’emettitore gravitonico nell’infermeria e altri quattro in diversi punti della nave» spiegò. «Solo così potremo sbloccarci da questo limbo!».
   «Capisco... è triste che tu debba affrontare una scelta così crudele» commentò la Vorta. «Quanto tempo ti resta?».
   «Vediamo... quindici ore» rispose il giovane, leggendo il conto alla rovescia sul d-pad.
   «In tre ore posso accomodarti il braccio» promise Giely. «Le altre dodici dovrebbero bastarti, no?».
   «Beh, credo di sì. Io e Irvik ci siamo tenuti larghi, pensando agli imprevisti» ammise Talyn. «Proceda, dottoressa».
   La Vorta si mise all’opera, mentre Ottoperotto vigilava nel caso che tornassero gli Shriek. Ma non ci furono attacchi nelle tre ore successive. In compenso per tutta la durata dell’intervento Giely parlò delle vicende mediche più tristi e deprimenti in cui s’era imbattuta o di cui aveva sentito parlare. Malattie incurabili, sofferenze atroci, mutilazioni e morti sfilarono davanti a Talyn, che già non era dell’umore più adatto ad ascoltarle.
   «... e così anche lui morì» disse Giely, terminando l’ennesimo racconto tragico. «Sai, quando studiavo medicina volevo aiutare le persone. Mai poi ho visto così tanta sofferenza inutile e senza speranza! Così tanti casi incurabili! Un attimo prima stai bene e quello dopo... zac, scopri d’essere spacciato. Ho capito che l’Universo è puro caos, un luogo indifferente in cui nasciamo, soffriamo e moriamo senza scopo. Tutto è effimero: non c’è alcun punto d’arrivo, niente che valga davvero la pena d’ottenere. Anche tu, cosa credi di ricavare con la tua missione? Ben che vada prolungherai le nostre angosce, il nostro viaggio verso il nulla. Non sarebbe meglio arrenderci all’inevitabile?» suggerì.
   «Se facessi un referendum tra l’equipaggio, credo che solo un sesto la penserebbe così» rispose Talyn, riferendosi alle anime afflitte della Destiny blu. «Senti, non so se la vita sia come dici. Ci sono momenti in cui lo penso anch’io. Ma adesso tu e gli altri non siete in grado di pensare con lucidità. Quindi fammi un favore, resta qui in infermeria e non fare cavolate!» esclamò.
   Si guardò il braccio rigenerato, che appariva di nuovo normale, con la pelle sana ed elastica. Non provava più dolore, nemmeno quando se lo tastò con l’altra mano. Fletté le dita senza sforzo, poi mosse tutto il braccio. Aveva recuperato la piena mobilità. «Vieni, Ottoperotto, mettiamoci al lavoro!» disse scendendo dal lettino.
   Tornato al carrello antigravitazionale, l’El-Auriano lo spinse verso il punto che Irvik gli aveva indicato.
   «Non dovresti sforzare il braccio» consigliò Giely.
   «Allora aiutami!» la esortò Talyn.
   Fra tutti e due riuscirono a posizionare il carrello nel punto esatto. Dopo di che Talyn gli tolse energia, facendolo posare a terra. «Bene, il secondo emettitore è in posizione. Vorrei che tu restassi a fargli la guardia, mentre io proseguo il giro» disse il giovane. «Credi di poterlo fare?».
   «Potrei, ma... ha senso? Tanto sono condannata all’infelicità!» si lamentò la Vorta. «Ho la sensazione di non riuscire mai ad accontentare tutti, su questa nave. E al tempo stesso mi pare che niente di ciò che faccio abbia la benché minima importanza. Mi sento come se non potessi mai più essere felice in vita mia. Forse non avrei dovuto abbandonare il Dominio. E forse non avrei dovuto farmi rimuovere la ghiandola dell’eutanasia» confessò. Detto questo, chinò il capo e pianse silenziosamente.
   Quel riferimento alla ghiandola dell’eutanasia, di cui tutti i Vorta erano dotati, inquietò profondamente Talyn. Anche se Giely non l’aveva più, si trovava pur sempre in un’infermeria piena di medicinali d’ogni genere. Ed era una specialista in tossine e veleni: certamente sapeva come somministrarsi qualche intruglio letale anche per la sua resistente fisiologia Vorta. Se l’angoscia e la depressione prendevano il sopravvento, avrebbe potuto...
   «Stammi bene a sentire! In questo momento non ragioni con chiarezza. Nessuno, su questa dannata nave blu, ci riesce!» la scosse l’El-Auriano.
   «Tranne te?» fece Giely, vagamente incuriosita.
   «Tranne me, sì. Non vorrei vantarmi, ma per una volta lo farò!» confermò il giovane. «Non so perché mi è stata data quest’occasione, ma non intendo sprecarla. Quindi porterò a termine la missione, costi quel che costi. Lo devo a questi avventurieri: specialmente Losira, che mi ha salvato da quella fogna di Stardust City e mi ha allevato come un figlio. Quando la Destiny sarà ricomposta, anche questa follia finirà e sarete di nuovo in grado di ragionare. Allora, e solo allora, potrai decidere cosa fare della tua vita. Ma non voglio che tu faccia azioni avventate prima di quel momento. Me lo prometti, Giely? Mi giuri che resisterai almeno finché la nave sarà tornata integra?!» la pressò. Confidava che, a quel punto, l’impulso suicida della Vorta si sarebbe placato.
   «Te lo prometto» disse Giely. «Farò anche la guardia all’emettitore, come volevi. Dodici ore... sì, posso resistere» aggiunse, dopo aver guardato il conto alla rovescia sul piccolo schermo.
   «Splendido! Allora ci vediamo domani. Resisti, mi raccomando! Non te ne pentirai!» garantì Talyn, già in procinto d’andarsene. Per un attimo si chiese se era meglio lasciare Ottoperotto a vigilare sulla vigilante, per impedire che si facesse del male da sola. Ma desistette subito dall’idea. Se voleva davvero farla finita, la Vorta poteva allontanarlo con una scusa. E poi lui aveva bisogno del robottino per affrontare le sfide rimanenti. Soprattutto la Destiny dominata dall’ira, che cominciava ad apparirgli vicina.
 
   L’El-Auriano camminò in fretta per tornare alla sala macchine. Sebbene gli rimanesse ancora molto tempo, non voleva accumulare altri ritardi. Tuttavia doveva anche stare in guardia, col phaser in pugno, pronto ad affrontare gli Shriek. Non poteva rischiare di subire un’altra lesione come quella di poco prima, o peggiore.
   «Ora che ci penso, Giely si trova solo sulla Destiny blu. Ciò significa che se verrò ferito su una delle altre dovrò tornare qui per farmi curare!». Era una prospettiva sconsolante. Il giovane si ripromise di stare ancora più attento alla sua sicurezza. Almeno qualcosa di positivo c’era: gli alieni non stavano più lanciando un assalto totale alla nave, come quello iniziale. Forse anche loro si erano resi conto che distruggere la Destiny, in quel momento, era un’azione suicida.
   «Già, ma gli Shriek sono influenzati alla maniera degli altri?» si chiese il giovane. Forse la loro inerzia era dovuta a questo: paura sulla Destiny viola, depressione su quella blu. Se le cose stavano così, allora le prossime tappe rischiavano d’essere assai più movimentate. Specialmente sulla nave degli iracondi, che ormai era il suo chiodo fisso. Tuttavia, ripensandoci, aveva già subito attacchi Shriek. Forse quegli strani alieni, nativi di un altro Universo, non erano soggetti alle stesse emozioni degli umanoidi.
   Con questi pensieri Talyn giunse in sala macchine, sempre scortato da Ottoperotto. Il salone era esattamente come lo aveva lasciato. I carrelli con gli altri emettitori erano ancora al loro posto. Anche gli ingegneri accasciati al suolo, sommersi dalla tristezza, erano nelle stesse identiche posizioni in cui li aveva lasciati ore prima.
   «Fuori due, ne restano quattro!» disse Talyn per farsi coraggio. Spinse i carrelli nell’anomalia, uno dopo l’altro, finché furono tutti dall’altra parte. Infine si volse a dare un’ultima occhiata al salone monocromatico. «Addio, periodo blu!» esclamò, prima di balzare nell’anomalia.
   «Be-beep!» rincarò Ottoperotto, per poi svanire a sua volta nella distorsione luminosa. 
 

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Capitolo 5
*** Destiny verde ***


-Capitolo 4: Destiny verde
 
   La terza tappa della missione di Talyn confermò le sue ipotesi: ancora una volta l’astronave aveva cambiato colore. Adesso era tutta verde, dalle sfumature più scure alle più chiare, dal colore delle olive a quello dei germogli, tanto che pareva di stare in una foresta. La tinta predominante, ad ogni modo, era un verde veleno che non gli piacque.
   «E adesso che emozione ci aspetta?» sospirò il giovane, rivolgendosi a Ottoperotto. La risposta non si fece attendere.
   «Ehi, tu! Esci subito da qui, la sala macchine non è posto per i lattanti!» berciò uno degli ingegneri, un Dopteriano.
   «Ehi Gort, non mi riconosci? Sono Talyn, vengo spesso qui» obiettò l’El-Auriano.
   «La sala macchine è solo per gli addetti! Abbiamo già abbastanza gatte da pelare con quelle creature disgustose che ci hanno invasi, non possiamo pensare anche ai visitatori!» ribatté l’ingegnere. «Porta via quelle carabattole che ti sei portato dietro. E sta’ attento a dove metti i piedi! Non voglio che lasci impronte sul pavimento. Ho appena finito di lavarlo».
   «Tu hai lavato il pavimento? Ma che diamine...» cominciò Talyn, ma si bloccò nel notare cosa stavano facendo gli altri quattro ingegneri presenti. Invece di ridare energia al nucleo o riparare i sistemi danneggiati, pulivano in modo compulsivo tutte le superfici. Stava per chiedere cosa gli era preso, quando una parola del Dopteriano lo illuminò. «Ho capito, siete in preda al disgusto» disse.
   «Come può essere altrimenti? Tutto, su quest’orrenda nave, è disgustoso!» proclamò Gort, il che parve ingiusto a Talyn, considerando quant’era lussuosa la Destiny. «Il design, l’organizzazione degli spazi, i ruolini di servizio... è tutto sbagliato! E ora che quelle disgustose creature ci hanno invasi, dobbiamo disinfettare ogni superficie... ehi, ti ho detto di non camminare sul pavimento!» protestò, vedendo che il giovane si era avviato con uno dei suoi carrelli.
   «Il carrello è antigravitazionale, io no!» si giustificò l’El-Auriano. «Fammi un favore, tieni da parte gli altri tre emettitori. Tornerò a prenderli tra poco» promise.
   «Quegli aggeggi disgustosi? Io non li tocco nemmeno!» dichiarò Gort. Non era un’affermazione delle più incoraggianti.
   «Ottoperotto, resta tu a fare la guardia» ordinò Talyn, non fidandosi dei colleghi. «Se qualcuno si avvicina agli emettitori, respingilo con una lieve scossa».
   «Be-beep! Ottoperotto di guardia!» promise il robottino, salendo di quota per mimare l’attenti.
   Talyn era ancora inquieto, ma si disse che prima sbrigava la consegna e prima sarebbe tornato. Consultato il d-pad, si diresse verso il luogo in cui andava collocato il terzo emettitore: la sala mensa.
 
   Come spesso accadeva sulle navi federali, la mensa era collocata a prua. Quella della Destiny aveva un grande finestrone, simile al rosone di una cattedrale, che di norma mostrava il nero dello spazio: adesso era affacciato su un’uniforme luminosità verde. Tutto, dai tavoli alle sedie, dal bancone ai replicatori, fino ai cibi stessi, era di qualche tonalità di verde.
   Ora che si trovava lì, Talyn si accorse d’essere maledettamente affamato. Da quanto non mangiava e non beveva? Certo da prima dell’attacco Shriek. Fatti un po’ di conti, erano oltre ventiquattr’ore. Considerando che lo attendeva ancora un lungo viaggio, e che doveva rimanere in forze, decise di fare una breve sosta per ritemprarsi. Prima tuttavia collocò l’emettitore nel preciso punto indicato da Irvik.
   «Beh, cos’è quell’obbrobrio?» chiese una voce acida alle sue spalle.
   Talyn si girò di scatto. Losira era dietro al bancone, equipaggiata con strumenti di pulizia. Stava disinfettando e igienizzando ogni superficie con cura maniacale. Anche altri dell’equipaggio facevano lo stesso in giro per il salone, evidentemente per suo ordine.
   «Ah, immaginavo di trovarti qui!» la salutò il giovane, riferendosi più alla Destiny verde – il regno del disgusto – che non alla mensa.
   «E dove dovrei essere? Questa nave è un porcile pieno di germi!» si lamentò la Risiana, analizzando il piano del bancone con un tricorder. «Guarda, ce ne sono anche qui! Maledetti!» inveì, passandovi sopra uno strano aggeggio. Avvicinatosi, Talyn riconobbe uno strumento usato per sterilizzare le sonde prima di spedirle su mondi alieni.
   «Beh, non stare lì impalato! Prendi gli strumenti e aiutami! Devo fare tutto da sola?» lo sferzò Losira.
   «Scusa, ma adesso proprio non ho tempo. Sono in missione per salvare l’astronave» si giustificò il giovane.
   «Sì, voi uomini dite tutti così! E guarda un po’ a chi tocca fare le pulizie!» strepitò Losira. A Talyn parve ingiusta, dato che l’intero equipaggio della Destiny verde se ne stava occupando.
   Piuttosto che impegolarsi in una discussione infruttuosa, il giovane decise semplicemente d’ignorarla. Passò dietro al bancone, dove c’era la scorta di bibite, e prese un bicchiere con l’idea di versarsi qualcosa. Ma si arrestò davanti a un insolito problema.
   «È verde... sono tutte verdi!» mormorò, passando lo sguardo da una bottiglia all’altra. Tutte le bevande avevano lo stesso colore, il che impediva di distinguerle. Talyn si rimproverò per non averci pensato prima. Anche le etichette erano difficilmente leggibili, dato che le parole verdi si confondevano con lo sfondo verde. Il giovane stava per versarsi una bottiglia a caso, ma si trattenne. Non voleva correre il rischio d’ingurgitare un liquore forte, che lo ubriacasse o lo mettesse perfino KO. Rassegnato, rinunciò alle vere bibite e andò al replicatore.
   Il suo umore migliorò quand’ebbe ordinato un pasto caldo e abbondante. Si portò il vassoio al tavolo più vicino e cominciò a banchettare. Faceva sempre uno strano effetto mangiare cibi totalmente verdi, dalla minestra alla carne. Persino l’acqua era di una tenuissima sfumatura verdolina. Talyn si sforzò d’ignorare la cosa, concentrandosi su odori e sapori, fortunatamente inalterati. Stava cominciando a rilassarsi, quando si accorse che Losira gli era scivolata a fianco e lo esaminava con un tricorder medico. Ogni tanto il congegno faceva dei sonori “bip!”, al che la Risiana leggeva i dati e il suo cipiglio aumentava.
   «Che succede?» chiese Talyn, intuendo che erano guai.
   «Stai mangiando delle porcherie disgustose!» criticò Losira. «Questa roba è piena di mono e digliceridi degli acidi grassi, non lo sai? Fanno malissimo! Ti verrà il colesterolo, il diabete e chissà che altro. Credevo di averti insegnato meglio di così».
   «Ehi, non fare la mamma!» si difese il giovane, che ricordava fin troppo bene i suoi anni da ragazzo di strada, quando riempirsi lo stomaco era un lusso raro.
   «Devo farlo, visto come ti comporti. Via questi veleni!» disse la Risiana, derubandolo del vassoio ricolmo.
   «Ehi, quello è il mio pranzo!» insorse Talyn. Cominciava davvero a perdere la pazienza.
   «Ti ordino io qualcosa di salutare. Uhm, vediamo...» fece Losira. Rimesso il vassoio nel replicatore, riconvertì tutto in energia. Poi cominciò a scorrere il database, in cerca di un menu di suo gradimento. E lì si arenò, perché ogni pietanza le pareva disgustosa, per il sapore o per il valore nutrizionale.
   Mentre la Risiana era bloccata, l’El-Auriano andò a un altro replicatore e ordinò lo stesso pranzo di prima, spazzolandolo in fretta e furia. Quando Losira se ne accorse e gli fu addosso, aveva già finito.
   «Sei incorreggibile!» lo rampognò la Risiana. «Almeno lavati le mani, perché sono sporche in una maniera disgustosa. Sei sporco da capo a piedi, giovanotto!» disse, esaminandolo col tricorder.
   «Hai ragione, sono stato imperdonabile. Vado subito a fare una bella doccia sonica, così mi rimetto a nuovo!» disse Talyn, lieto d’avere una scusa per svignarsela.
   «No, la doccia sonica è troppo poco» obiettò Losira, leggendo i dati con la fronte aggrottata. «Qui ci vuole una terapia d’urto. Andrai in sala decontaminazione: otto ore dovrebbero bastare».
   «Otto ore di raggi ultravioletti!» sobbalzò il giovane. «Questo sì che è poco salutare. Non se ne parla. E poi non posso perdere così tanto tempo. Vedi il timer sull’emettitore gravitonico? Se non posiziono gli altri prima che si azzeri, siamo perduti. In effetti ho già perso fin troppo tempo. Devo andare» disse, muovendo verso la porta.
   «Fermo là!» ordinò la Risiana. Tornò dietro al bancone e cavò qualcosa che doveva averci nascosto poco prima: un phaser. Lo puntò minacciosamente contro l’El-Auriano. «Finora sono stata indulgente, ma hai passato la misura. Ti ricordo che io sono il Primo Ufficiale di questa nave e tu un semplice Guardiamarina. Sei tenuto a obbedire i miei ordini, altrimenti ti sbatto in cella per insubordinazione! Anzi, ti chiuderò in sala decontaminazione e ti terrò lì finché sarai completamente sterilizzato!» minacciò, adoperando un termine ambiguo.
   «Col cavolo che mi faccio sterilizzare!» ribatté Talyn. Lui stesso era munito di phaser, ma non osava estrarlo, essendo già sotto tiro. E anche se fosse stato abbastanza veloce, non voleva scatenare una sparatoria con la sua madre adottiva. Perciò le venne incontro a mani alzate. «Senti, perché non provi a ragionare? Tutto questo disgusto che provi è eccessivo» affermò. «Sei in preda a un’ossessione, non te ne rendi conto?».
  In quella si udì uno stridio che il giovane conosceva fin troppo bene. Uno Shriek uscì dalla parete e aleggiò sulla mensa, guardandosi attorno come se fosse indeciso su chi attaccare.
   «Disgustose creature! Vi ucciderò tutte!» strillò Losira, aprendo il fuoco.
   Temendo per lei, Talyn impugnò il phaser e sparò a sua volta. Non aveva dimenticato le tre vittime che avevano avuto finora, né il suo ferimento di poco prima. La sua manica era ancora tagliata da quando Giely gli aveva curato il braccio, e a parte questo ricordava bene il tormento della lesione. Non voleva che a Losira capitasse nulla di simile, anche perché l’unica dottoressa di bordo si trovava sulla Destiny blu. Così ribaltò un tavolo, ci si nascose dietro e si unì alla sparatoria.
   Lo Shriek cercò più volte di colpire gli avversari, ma questi lo respinsero sempre col fuoco dei phaser. La creatura roteò nell’aria, come impazzita, e scomparve attraverso una paratia. Per un pezzo gli avventurieri rimasero appostati, temendo che tornasse. Ma il tempo passò senza che l’alieno si facesse vivo. Poco alla volta la tensione si stemperò.
   «Disgustosi esseri!» borbottò Losira, uscendo dal riparo dietro al bancone. «Infestano la nave come parassiti. Devo trovare un modo per liberarcene!».
   «Il modo l’abbiamo già trovato io e Irvik» disse Talyn. «Vedi questo emettitore gravitonico? Quando avrò posizionato anche gli altri e il timer si azzererà, gli Shriek usciranno di scena» sostenne. In realtà le cose non stavano esattamente così. Il piano prevedeva di ricomporre la Destiny, liberandola dal limbo; la partita con gli alieni era ancora tutta da giocare. Ma il giovane sperò che la Risiana lo prendesse in parola.
   «Allora... procedete» disse Losira a malincuore. «Però appena avrete finito ti ficcherò nella camera di decontaminazione!» minacciò.
   «Sì, sì» fece Talyn, per scollarsela di dosso. Lasciò di volata la mensa, prima che la Comandante ci ripensasse.
 
   Sulla via del ritorno, l’El-Auriano si rimproverò per aver impiegato anche stavolta più del previsto. «Non avrei dovuto fermarmi a mangiare» si disse. «Certo che, in quel caso, Losira si sarebbe trovata sola contro lo Shriek...» rimuginò. Forse non tutto il male veniva per nuocere. Certo è che si trovava molto indietro sulla tabella di marcia: erano passate sei ore ed era appena a metà del lavoro. Gli restavano dieci ore, in cui poteva scontrarsi con chissà quali altri imprevisti. Si promise di non perdere altro tempo: avrebbe tirato dritto sino alla fine.
   Tornato in sala macchine, Talyn vide concretizzarsi ciò che temeva: gli ingegneri dissennati avevano deciso di disfarsi dei rimanenti emettitori gravitonici. Stavano cercando di portarli chissà dove e solo Ottoperotto glielo impediva. Il robottino affibbiava delle sonore scosse elettriche a chiunque osasse avvicinarsi, emettendo un segnale d’allarme simile a una sirena antiaerea.
   «Adesso t’insegno chi comanda, disgustoso rottame!» minacciò l’ingegnere di nome Gort, brandendo una sorta di bastone elettrificato. Era uno strumento progettato apposta per disattivare gli Exocomp ribelli.
   «Ah, no!» fece Talyn. Non c’era tempo per spiegare la situazione agli ingegneri, e comunque dubitava di riuscire a farli ragionare. Così prese una decisione drastica: estrasse il phaser e li stordì tutti, a partire da Gort. Quando i raggi smisero di balenare, c’erano cinque ingegneri svenuti e un robottino riconoscente.
   «Be-beep! Talyn tornato!» trillò Ottoperotto, ronzandogli attorno tutto contento.
   «Certo, non potevo lasciarti con questi forsennati. E poi il tempo stringe» spiegò l’El-Auriano, ansioso di passare alla prossima tappa. Se continuavano a scendere lo spettro luminoso, come fatto finora, li attendeva la Destiny gialla; e lui immaginava quale sarebbe stata l’emozione dominante.
   «Coraggio, siamo a metà dell’opera!» commentò il giovane per rincuorarsi. Detto questo prese a spingere i carrelli rimanenti nell’anomalia. Aveva appena spinto l’ultimo e si preparava ad attraversarla lui stesso, quando l’ingresso della sala macchine si aprì. Entrò Losira, con il phaser spianato.
   «Mi spiace, ma devo trattenerti» disse la Risiana. «Ho ricontrollato le tue letture, potresti avere il virus del raffreddore. Non ti lascerò in balia di quei disgustosi germi!» promise, come se ne andasse della sua vita.
   «Per mille galassie, è solo un raffreddore!» esplose l’El-Auriano. «Mal che vada avrò il naso che cola. Qui ci sono in gioco le nostre vite, non posso fermarmi!». Senza perdere altro tempo, le girò le spalle e mosse verso l’anomalia.
   «Fermo, è per il tuo bene!» ordinò Losira, perentoria. Dato che lui non l’ascoltava, aprì il fuoco.
   Il raggio stordente colpì Talyn alla schiena, l’attimo prima che questi varcasse l’anomalia. Il giovane sentì una violenta scossa all’altezza delle scapole, da cui s’irradiava l’intorpidimento. «Mi ha sparato» comprese, prima di perdere i sensi. Quando le gambe gli cedettero, egli cadde in avanti, scomparendo nella distorsione luminosa.
   «Bzzzt! Talyn!» fischiò Ottoperotto, preoccupatissimo. Il leale robottino si tuffò a sua volta nell’anomalia, abbandonando la Destiny verde.
   Più indietro, Losira li vide svanire entrambi. Solo allora si soffermò a pensare a ciò che aveva fatto. Avrebbe voluto seguirli, per vedere come stava Talyn, ma qualcosa più forte di lei la teneva confinata lì dov’era. Disgusto... la sua mente era soverchiata dal disgusto per le condizioni della nave. Doveva disinfettarla da cima a fondo, nient’altro aveva importanza. Forse se avesse diffuso qualche agente decontaminante tramite l’impianto d’aerazione avrebbe fatto progressi. Con quest’idea in mente, la Risiana lasciò la sala macchine, senza più pensare a ciò che poteva trovarsi oltre l’anomalia. 
 

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Capitolo 6
*** Destiny gialla e arancio ***


-Capitolo 5: Destiny gialla e arancio
 
   Fu la musica a destare Talyn dallo stordimento provocato dal phaser. Era una musica fatta di percussioni, ripetitiva e spaccatimpani, condita da risate e schiamazzi. Dalla sua posizione coricata il giovane si sentì urtare più volte, il che se non altro accelerò il suo risveglio. I ricordi degli ultimi momenti gli tornarono: l’ossessione di Losira, il proditorio colpo alle spalle.
   «Frell, quanto tempo ho perso?!» imprecò Talyn, drizzandosi a sedere. Si guardò attorno, cercando in primo luogo di capire dov’era. E si trovò in un pandemonio.
   La sala macchine era stata trasformata in discoteca, con luci gialle sparate ovunque. Il nucleo quantico, riattivato, pulsava a tempo con la musica heavy metal. Una turba di scalmanati – gialli come se avessero l’itterizia – ballava e si strusciava come se non ci fosse un domani. Erano una cinquantina di persone, probabilmente tutto l’equipaggio della Destiny gialla. Invasati da una gioia che sconfinava nell’edonismo, vivevano nel presente, ignari sia di ciò che li aveva condotti lì, sia delle prospettive future. Trascinati dal ballo scatenato, finivano continuamente addosso a Talyn. Uno di loro gli pestò una mano, facendolo gridare, ma non si girò nemmeno per vedere cos’era successo.
   L’El-Auriano si tirò subito in piedi, prima di finire calpestato dagli esagitati. «E questa sarebbe la gioia?!» protestò, unico contrariato fra i presenti. Si guardò attorno: era una sorta di rave party e stava per diventare ben di più: i Ferengi avevano iniziato le danze d’accoppiamento. Talyn non aveva la minima intenzione di assistere agli sviluppi.
   «Ottoperotto, dove sei?!» si sgolò, guardandosi attorno.
   «Be-beep!» trillò il robottino, fendendo la calca finché gli fu accanto. Era cosparso di coriandoli e brillantini, tutti rigorosamente gialli. Il giallo, infatti, regnava incontrastato, presentandosi in tutte le gradazioni, dall’oro brunito al canarino, dal limone alla senape.
   «Ah, sei qui!» fece Talyn, confortato. «E gli emettitori?!». Si guardò attorno finché non li trovò: erano stati spinti in un angolo, ancora sui loro carrelli a repulsione. Temendo che gli scalmanati li ribaltassero, il giovane decise di nasconderli in qualche saletta attigua. Giunto vicino al primo, tuttavia, osservò il timer e rimase di sasso. Era rimasto svenuto per cinque ore! Gliene restavano solo altre cinque per completare la missione.
   Sconvolto, l’El-Auriano spinse due carrelli in una saletta di controllo. Stava tornando al terzo, per partire con quello, quando Shati gli si parò davanti. La Caitiana era invasata al pari degli altri e sembrava anche ubriaca.
   «Yu-huuu! Me gusta bailar toda la noche!» lo salutò in spagnolo. Si era fatta qualcosa alla pelliccia, che sembrava più vaporosa del solito. I folti dreadlock le turbinavano attorno a ogni giravolta. La sua tuta di volo era piena di tagli, come se l’avesse graffiata per renderla più provocante. Gli occhioni gialli ardevano come braci.
   «Brava, divertiti con gli altri» disse Talyn, cercando di svicolare. «Io torno subito, eh? Il tempo di fare una consegna all’hangar 1».
   «Ah-ah! Non mi scappi, bel micione!» lo trattenne Shati, afferrandogli la manica rimanente. «La serata è bollente, devi sollazzarti con noi!».
   «Troppo bollente per i miei gusti» commentò l’El-Auriano, accennando ai Ferengi con le loro danze d’accoppiamento. «Devo proprio andare...».
   «Tu mi piaci, anche se sei spelacchiato. Vieni qui, cucciolone!» fece la Caitiana, abbrancandolo. Prima che l’altro potesse obiettare, prese a baciarlo e slinguazzarlo appassionatamente. Poi lo trascinò al centro del salone, cercando di coinvolgerlo in una scatenata macarena.
   «E io che mi aspettavo una tappa facile!» si disse il giovane, traumatizzato. Dopo le ripetute pomiciate aveva dei peli in bocca. Mentre cercava di ripulirsi la lingua, si accorse che il suo labbro inferiore sanguinava per l’eccesso di passione della Caitiana. E dal canto suo, Shati aveva l’aria di avere appena iniziato.
   «Insomma, ora BASTA!» esplose Talyn. Era il momento di rispolverare le tecniche di fuga che gli avevano permesso di sopravvivere a Stardust City. Siccome Shati gli aveva piantato gli artigli nella manica, per non lasciarlo fuggire, il giovane si tolse la maglia, restando in canottiera. Poi le ficcò in testa la maglietta rivoltata, come se fosse un sacchetto, privandola della vista. Infine sgusciò tra gli altri esagitati, troppo presi dalla frenesia per badare a lui.
   «Be-beep!» lo richiamò Ottoperotto, levitando sopra l’emettitore gravitonico per segnalarne la posizione.
   «Grazie, amico!» fece Talyn, arrivando in scivolata. Prese a spingere il carrello con l’emettitore, spintonando quanti si frapponevano. Lasciata quella bolgia che era la sala macchine, ebbe finalmente respiro. Per qualche attimo stette piegato in avanti, ansimante, cercando di raccapezzarsi. Poi il pensiero del poco tempo rimanente lo colpì come una sferzata. Stavolta doveva spingere l’emettitore fino all’hangar 1, ubicato nella sezione ad anello della Destiny. Era una lunga scarpinata, considerando che doveva raggiungere uno dei punti di raccordo tra lo scafo principale e l’anello.
   Ricordando che gli scalmanati avevano riattivato il nucleo, per dare il ritmo al rave, il giovane pensò che forse poteva teletrasportarsi. Speranzoso, spinse il carrello fino alla più vicina cabina di teletrasporto; ma una volta dentro scoprì che il trasferitore era ancora offline.
   «Com’è possibile? Eppure l’energia è tornata!» sbottò il giovane. Poi pensò a che ricadute poteva avere la scissione quantica sul loro sistema energetico. Non poteva darsi che il nucleo, riattivato su una sola Destiny, dovesse alimentarle tutte e sei? Questo spiegava come mai c’era ancora così poca energia. Che fosse corretto o meno, la sostanza era la stessa: bisognava scarpinare.
   «Groan!» fece Talyn, spingendo il pesante carrello verso il punto di raccordo dello scafo. Accanto a lui Ottoperotto fluttuava senza sforzo, incoraggiandolo con i suoi pigolii elettronici.
 
   Giunto finalmente nell’hangar 1, l’El-Auriano consultò il d-pad per vedere qual era di preciso il punto in cui lasciare l’emettitore. Scoprì che quel volume di spazio era già occupato dal Centurion, lo yacht del Capitano. Borbottando imprecazioni, il giovane salì a bordo e decollò, spostando la navicella di pochi metri. Sbrigata anche questa incombenza, fece per uscire; ma passando davanti al replicatore di bordo gli venne un’idea. C’era una cosa che gli sarebbe tornata utile, nel prossimo confronto con Shati. Il giovane la ordinò, sperando che il Centurion avesse abbastanza energia per alimentare il replicatore. Per sua fortuna era così. Ottenuto l’articolo richiesto, se lo ficcò in tasca. Poi scese a prendere il carrello con l’emettitore e lo collocò nel punto prestabilito.
   «Anche questa è andata!» commentò, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Ne restano due, forse ce la facciamo». Temeva ancora il ritorno in sala macchine, ma si consolò pensando che l’anomalia era una via di fuga assicurata. Per lasciare l’hangar tornò al portone interno, che si aprì dal basso verso l’alto al suo passaggio. Ma con sommo disappunto, l’El-Auriano si trovò la strada sbarrata da una folla festante. Gli scalmanati l’avevano seguito dalla sala macchine.
   «Beh, che ci fate qui?!» chiese di malagrazia.
   «Hai detto che saresti andato nell’hangar 1, mi amor» gli rispose Shati, più brilla e accalorata che mai. «Così ho portato gli amici. Più siamo meglio stiamo, giusto?!» si rivolse alla masnada.
   «Giusto!» risposero in coro gli scalmanati, sciamando all’interno.
   «Guardate quanto spazio! È la miglior pista da ballo che potessimo desiderare!» li istigò la Caitiana. «Naturalmente dovremo sgomberare. Tutte queste navette non ci servono, possiamo accatastarle in un angolo».
   «No, buttiamole fuori dalla nave!» propose uno degli invasati.
   «No, mettiamoci alla guida e facciamoci un giro!» propose un altro.
   «Sì, evviva!».
   Qualcuno aprì il portellone esterno, così che l’hangar fu inondato dall’intensa luce gialla del limbo. Solo il sottile campo di forza li separava dalla non-esistenza dell’esterno.
   Atterrito, Talyn si figurò quegli invasati che usavano le navette come bambini in un autoscontro e poi uscivano dall’astronave, perdendosi nel limbo. «Che credete di fare?! Non potete uscire! Siamo in una bolla tra gli universi, non c’è un fuori in cui muoversi!» si sgolò, ma invano. Quelli non lo stavano nemmeno a sentire.
   «Devo fare qualcosa, e subito» si disse, vedendo alcuni colleghi in procinto di salire sulle navette. «Ottoperotto, chiudi il portello esterno e tienilo sigillato!» ordinò, per prendere tempo.
   «Be-beep! Ricevuto» disse il robottino e sfrecciò verso un pannello di controllo. Gli bastarono pochi secondi per richiudere il portello, bloccando l’apertura con un codice.
   Dalla folla si levarono parecchi «Bu-uuuhhh!» contrariati e qualcuno gettò un bicchiere vuoto contro l’Exocomp, mancandolo. Ma erano troppo invasati dalla gioia per provare delusione o rancore. Cominciarono immediatamente a cercare qualcos’altro per svagarsi.
   Volendo allontanarli dalle navette, e in generale da qualunque pericolo, Talyn ebbe un’idea. Salì su una navicella e batté le mani per attirare l’attenzione. «Ehi, raga! Lo sapevate che questa nave ha una piscina? Dico davvero! È una sciccheria!» esclamò, imitando la loro parlantina. «Volete vederla?».
   «Sìììì!» esultarono gli scalmanati.
   «Allora vi ci porto. Seguitemi tutti, eh? Così ci facciamo un bel bagnetto!» li invitò.
   «Sì, evviva!».
   Postosi in testa alla banda festante, che ormai lo riconosceva come guida, il giovane percorse i corridoi curvi della sezione ad anello, tornando in quelli rettilinei dello scafo centrale. Il pittoresco corteo lo seguì fino al salone della piscina. Era una vasta sala rettangolare, che ospitava l’equivalente di una piscina olimpionica. Sui lati c’erano sedie sdraio, tappetini e strumenti di ginnastica, mentre incassati nelle pareti vi erano gli spogliatoi. La sala era in ordine, anche se l’acqua tinta di giallo – come tutto il resto – non era invitante. Per fortuna gli scalmanati non vi diedero peso. Quando videro la piscina eruppero in schiamazzi più forti che mai. Allora Talyn si fece da parte, lasciando che si buttassero a mollo, vestiti o meno che fossero. Questo probabilmente li avrebbe scatenati ancora di più, ma almeno li avrebbe tenuti lontani dalle zone pericolose, come le armerie e la sala macchine, evitando che facessero esplodere la nave. Quanto al pericolo degli Shriek, Talyn non sapeva come evitarlo. Si consolò pensando che, dall’incidente in poi, gli attacchi alieni erano stati rari e sempre rivolti contro avversari armati. La folla festante non rappresentava una minaccia, quindi si poteva sperare che gli Shriek non attaccassero.
   Quando gli parve che fossero tutti nel salone, l’El-Auriano cercò di svignarsela alla chetichella. Ma ancora una volta si trovò il passo sbarrato da Shati. «Ehi, cucciolone, dove credi d’andare?» lo apostrofò la Caitiana. «Resta qui, la notte è giovane!».
   «Veramente ho un impegno urgente...».
   «Che c’è, non ti piaccio? È per via della pelliccia, vero?» fece Shati. «Devi sapere che su Ferasa abbiamo un detto: “Pelliccia folta, cuore caldo!”».
   «Non ne dubito, ma devo proprio andare. Tu resta qui, divertiti anche per me» suggerì Talyn, accennando alla piscina.
   «Non mi piace l’acqua» rispose la Caitiana, tenendosi bene a distanza dagli spruzzi.
   «Già, avrei dovuto immaginarlo» ammise il giovane. «Beh, in tal caso ho qui un regaluccio che ho replicato apposta per te. Ti piacerà, vedrai» disse, levandosi qualcosa di tasca. Era una pallina di erba-gatta.
   «Purrr! Purrr!» fece Shati, andando in visibilio. Agguantò l’erba-gatta e se la strusciò languidamente sul muso, aspirandone l’aroma. «Tu sì che sai come conquistarmi!» sospirò.
   «Eh già, quando mi ci metto...!» ironizzò l’El-Auriano. La prese garbatamente per un braccio e la guidò fino a una sdraio, lasciando che si accoccolasse. «Tu goditi l’erba-gatta, okay? Io torno fra poco con una birra ghiacciata per me e un latte caldo per te» mentì.
   La Caitiana annuì distrattamente, tutta presa dal suo nuovo trastullo. Allora Talyn si allontanò silenzioso ma rapido. Quando fu nel corridoio tirò un sospiro di sollievo.
   «Be-beep?» pigolò Ottoperotto, sempre al suo fianco.
   «Nulla che ti riguardi, amico!» sbottò il giovane. «Sbrighiamoci a tornare in ingegneria. Siamo maledettamente in ritardo».
 
   Tornato di corsa in sala macchine, l’El-Auriano la trovò imbrattata di coriandoli, resti di cibo e drink rovesciati. Si chiese che ne avrebbero pensato gli ipocondriaci della Destiny verde, se avessero visto quello sfacelo.
   «Una ragione in più per farli rinsavire» si disse il giovane, mentre recuperava i carrelli con gli emettitori dalla saletta di controllo. Ormai ne restavano solo due, per le due Destiny rimanenti. «Ancora due colori... e due emozioni» deglutì. Aveva un’idea precisa di quali fossero gli abbinamenti. Guardò i timer: gli restavano due ore e mezza.
   «Fuori quattro, ne restano due!» disse per darsi coraggio. Spinse gli ultimi carrelli nell’anomalia e poi vi entrò a sua volta, seguito da Ottoperotto.
 
   All’uscita Talyn non si stupì di vedere una sala macchine declinata in mille toni d’arancione. Quelli che invece si stupirono furono i presenti, quando lo videro uscire dall’anomalia. Un coro di «Oooohhh!» risuonò nel salone. C’erano incaricati di vari reparti, mischiati alla rinfusa. E tra loro c’era il Capitano Rivera in persona.
   «Talyn! Da dove sei spuntato?! Stai bene? Perché sei in canottiera? Ci sono altri con te? E cosa sono quegli obbrobri?» chiese Rivera a mitraglia, precipitandosi dal nuovo arrivato.
   «È una lunga storia» rispose il giovane, sulla difensiva dopo le ultime esperienze. «Sono lieto di vederla qui, signore. Temevo che l’avrei incontrata solo... più avanti» disse, pensando all’ultima prova che lo attendeva.
   «Che intendi?» incalzò il Capitano. «È dall’incidente che stiamo cercando di capirci qualcosa, ma con gran parte dell’equipaggio volatilizzato è dura. Se tu sai qualcosa, parla!» ordinò. C’era una sorta di frenesia in lui, che lo rendeva iperattivo.
   Tutti erano frenetici, notò Talyn. Lo guardavano come se fosse uno strano animale, lo sfioravano come per accertarsi che non fosse un’illusione. Molti lo subissarono di domande, senza dargli il tempo di rispondere. Ma più ancora di lui, erano gli emettitori gravitonici a destare scalpore. Gli avventurieri li osservarono e poi parlottarono fra loro, scambiandosi impressioni.
   L’El-Auriano decise di restare concentrato sul Capitano. Di tutti i colleghi incontrati fino a quel momento pareva quello più in sé, anche se neanche lui era del tutto normale. Almeno sembrava disponibile all’ascolto.
   «Ottoperotto, resta a guardia dell’ultimo emettitore. Assicurati che non lo smontino» ordinò Talyn.
   «Be-beep! Ottoperotto di guardia!» confermò il robottino, mettendosi a ronzare attorno all’apparecchio in rapidi giri.
   Consultato il d-pad, il giovane si avvide che il penultimo emettitore andava collocato specularmente al precedente, vale a dire nell’hangar 2. Prese a spingere il carrello, mentre si rivolgeva al Capitano: «Le racconterò tutto, signore, ma non posso fermarmi. Ho una missione urgente da cui dipende la nostra sopravvivenza».
   «Sì, non perdiamo tempo!» annuì il Capitano, sempre iperattivo. Lo seguì fuori dalla sala macchine, pendendo dalle sue labbra. Una buona metà dei presenti li seguì, per non perdersi il resoconto.
 
   Attraversare la nave con quel codazzo perennemente sorpreso fu una delle esperienze più strane che Talyn avesse mai vissuto. Erano tutti curiosi come bimbi e avevano un tempo d’attenzione analogamente breve. Gli fecero più volte le stesse domande: a ogni spiegazione si meravigliavano come se l’udissero per la prima volta. Manifestavano il loro stupore senza ritegno, con esclamazioni di sorpresa: «Ma no! Non mi dire! Incredibile! Avete sentito?!».
   Sulle prime Talyn fu lusingato da tutte quelle attenzioni. Ma quando dovette raccontare per la terza volta le sue esperienze, sempre venendo interrotto dalle stesse domande, cominciò a spazientirsi di quel giochetto. La perenne sorpresa non sarà stata perniciosa come le altre manie, ma era forse la più fastidiosa.
   Il bello era che i colleghi non erano strumenti passivi della situazione. Non erano inerti come i paurosi e i depressi, né mono-maniacali come i disgustati e gioiosi. No, loro si davano molto da fare, sia nelle riparazioni della Destiny che nella lotta contro gli Shriek. Erano indubbiamente pieni d’energia; ma non sapevano usarla in modo costruttivo. Perciò erano incostanti nelle parole e nelle azioni. Facevano discorsi saltando di palo in frasca, cominciavano attività che poi non completavano perché qualcos’altro li distraeva. A riprova di questo, quasi tutto il corteo di Talyn si dissolse strada facendo, richiamato da altre faccende.
   «Abbiamo riattivato il nucleo, ma l’energia resta bassa e incostante» disse Rivera quando ormai erano nell’hangar 2. «Certo che lavoreremmo più in fretta, se non dovessimo difenderci dagli Shriek. A proposito, abbiamo scoperto che i fucili polaronici sono più efficaci contro di loro. Siamo anche riusciti a ucciderne qualcuno. La loro biologia è incredibile, sai? Stiamo cercando di studiarli, ma è difficile senza Giely. Pensi di potercela portare?».
   «Preferirei non dover tornare indietro. Ormai il tempo è agli sgoccioli» spiegò Talyn.
   «Davvero?! E perché?».
   «L’ho già spiegato, signore. Mi sono lasciato dietro gli emettitori coi timer regolati per l’attivazione simultanea. Se non faccio in tempo a collocarli tutti, la scissione sarà definitiva» disse Talyn, sistemando con cura l’apparecchio.
   «E quanti te ne restano?».
   «Questo è il penultimo».
   «Quindi ti manca una sola Destiny. Qual è?» inquisì il Capitano.
   L’El-Auriano esitò, incerto se rispondere. Alla fine si arrischiò a vuotare il sacco. «Mi manca la Destiny rossa. E se la teoria delle emozioni basilari è corretta, il sentimento dominante sarà la rabbia» rivelò. Detto questo si riavviò subito verso la sala macchine.
   «Quindi ti troverai su una nave con cinquanta persone pronte a farti la pelle, per non parlare degli Shriek!» notò Rivera, inseguendolo. «Non ti sembra troppo pericoloso?».
   «In qualche modo me la caverò, signore» rispose il giovane, millantando una sicurezza che non aveva. In realtà il pensiero di ciò che l’attendeva lo angosciava, eccome.
   «Ehi, frena! Sono ancora il Capitano della Destiny... anzi, di tutte e sei le Destiny!» rivendicò l’Umano. «Non posso mandarti da solo in una missione suicida. Non lo farei con nessuno degli ufficiali».
   «Non sarò da solo. Ottoperotto mi ha accompagnato per tutto il viaggio» spiegò Talyn.
   «Davvero? Coraggioso, il barilotto!» esclamò Rivera, cedendo di nuovo alla sorpresa. «Ma non è un robot da combattimento e non può aiutarti in caso di pericolo» si riebbe. «Verrò anch’io, con una squadra reclutata da questa Destiny» decise.
   «Questo non farebbe che peggiorare la situazione» obiettò l’El-Auriano. «Se qualcuno passa da una nave all’altra, viene assorbito dal suo timbro quantico. Così, se lei e gli altri passaste alla Destiny rossa diverreste furiosi come quelli che ci sono già. E io dovrei affrontare anche voi».
   «Tu però non sei stato assorbito dai timbri quantici che hai attraversato» notò Rivera.
   «Io ero immune fin dal principio» spiegò Talyn. «Sulla prima Destiny, quella violetta, erano tutti terrorizzati tranne me. Questa situazione si è ripetuta su ogni variante della nave. Per qualche strano motivo, io sono risparmiato dalla scissione. Ma se chiunque altro provasse ad attraversare l’anomalia, stia pur certo che verrebbe assorbito dal nuovo timbro».
   «Incredibile! Davvero incredibile!» ruminò il Capitano, sempre facile alla sorpresa.
   «Però, ora che ci penso, potrei fare qualcos’altro» ragionò Talyn. «Se mi attaccano in sala macchine, potrei attraversare l’anomalia cercando di farmi seguire. Se riesco ad attirare gli inseguitori in una delle altre Destiny, dovrebbero calmarsi. Almeno non saranno così aggressivi».
   «Buona idea, così avrai meno avversari!» approvò Rivera. «Ma ci saranno almeno una cinquantina di persone sulla Destiny rossa e difficilmente saranno tutte in sala macchine. Significa che non potrai svuotare la nave» avvertì.
   «No, infatti» ammise Talyn. «Vediamo un po’ dove devo andare stavolta...» mormorò, consultando il d-pad.
   «Allora?!» fece il Capitano, sempre impaziente.
   «La plancia, come temevo» rabbrividì il giovane. «Sarà il luogo più difficile da espugnare. Gli elementi più aggressivi saranno asserragliati lì dentro».
   «Sono passate più di ventiquattr’ore dall’incidente. Ormai ne sarà rimasto solo uno in piedi» rifletté l’Umano. «Se riesci a stordirlo, è fatta».
   Continuarono a fare piani di battaglia per tutto il viaggio di ritorno, passando anche da un’armeria così che Talyn potesse equipaggiarsi di tutto punto. Giunsero infine alla sala macchine, ancora immersi in una fitta conversazione. S’interruppero quando, all’aprirsi del portone, videro che l’interno era buio, eccezion fatta per l’anomalia in fondo al salone.
   «Beh, che succede?» fece Talyn, temendo l’ennesimo attacco Shriek. Impugnò il phaser ed entrò guardingo. Si addentrò nel salone semibuio, senza capire se ci fosse qualcuno. D’un tratto la luce arancione si accese, accecandolo.
   «SORPRESA!» gridarono in coro i colleghi, uscendo dai loro nascondigli. Mentre era via gli avevano allestito qualcosa a metà tra una festa di compleanno e una d’addio. C’era persino una torta con le candeline, tutta arancione come se fosse fatta di carote.
   «Che vi venga un colpo!» imprecò l’El-Auriano, il cuore che palpitava. «Non fatelo mai più! Sto per ficcarmi in una battaglia, ho i nervi a fior di pelle e voi mi fate questo?!».
   «Be-beep! Emettitore integro» annunciò Ottoperotto, venendogli accanto.
   «Almeno c’è una buona notizia» fece Talyn, andando a ispezionarlo. «No grazie, non voglio una fetta di torta!» aggiunse, respingendo un collega.
   «Ma il sapore è una sorpresa!» obiettò quello.
   «Tutto è stato una sorpresa, da quand’è cominciato questo delirio» obiettò l’El-Auriano. «Ma ora ci porrò la parola fine, in un modo o nell’altro. Vediamo quanto manca... mannaggia, poco più di un’ora. Capitano!» lo richiamò.
   «Che c’è, muchacho?» fece Rivera. Incapace di resistere alle sorprese, s’era unito al party e stava sbocconcellando la torta.
   «Ricorda poco fa, quando parlavamo d’espugnare la plancia dell’ultima Destiny? Mi serviranno i suoi codici di comando per entrare» chiese Talyn.
   Il Capitano esitò, ma per una volta il buonsenso ebbe il sopravvento e gli fornì i codici richiesti. «Pensi di ricordarteli? Li vuoi scrivere per sicurezza?» suggerì.
   «Dimentica che ho una memoria fotografica, Capitano» ribatté il ragazzo-prodigio. «Li ho già memorizzati. Beh, ora devo proprio andare. Non posso perdere un minuto di più».
   «Buona fortuna, allora. Siamo tutti nelle tue mani» ammise Rivera.
   «Farò del mio meglio, signore. A presto!» disse Talyn. Stava per andare, ma inaspettatamente si volse e abbracciò il Capitano, come aspettandosi di non rivederlo. Sorpreso e commosso, Rivera restò in silenzio. Stava facendo ciò che nessun comandante dovrebbe mai fare: mandava il suo elemento più giovane in missione senza copertura, contro una cinquantina di pazzi armati e furiosi. Il rischio per il ragazzo era enorme; ma non c’era alternativa.
   Senza dire altro, Talyn lasciò il superiore e prese il carrello con l’ultimo emettitore. Fece un cenno d’intesa a Ottoperotto e si lanciò con lui nell’anomalia, pronto all’ultima e più pericolosa tappa di quel viaggio straordinario. 
 

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Capitolo 7
*** Destiny rossa ***


-Capitolo 6: Destiny rossa
 
   Sbucando dall’anomalia col phaser già in pugno, Talyn ebbe la prontezza di gettarsi a terra, mentre si guardava attorno alla ricerca di nemici. Come previsto, l’ultima Destiny era impregnata di tinte rosse: dall’amaranto al borgogna, dal corallo al cremisi, dal magenta alla porpora, dal rubino allo scarlatto. La tonalità più diffusa, comunque, era un sinistro rosso sangue che rendeva la sala macchine simile a un mattatoio. Del tutto inaspettata, invece, era la temperatura elevata: dovevano esserci oltre quaranta gradi, segno che qualcosa non andava con i controlli ambientali. Ma il giovane non ebbe tempo di pensarci. Davanti a lui c’erano una decina d’avventurieri, tutti armati fino ai denti: oltre a phaser e fucili polaronici avevano vibro-lame e altre armi da taglio. I loro abiti erano strappati in più punti, i corpi sfigurati per gli scontri con gli Shriek; sui loro volti ardeva una collera bestiale. Non c’era dubbio: la Destiny rossa era il regno della rabbia e dell’odio. Stavolta non c’era margine di dialogo; per arrivare in plancia bisognava combattere.
   «Muori, carogna!» gridò uno degli avventurieri, sparando un colpo che Talyn evitò solo grazie alla sua capriola. Il giovane si nascose dietro un convertitore d’energia. Anche Ottoperotto si affrettò a mettersi fuori tiro. L’emettitore gravitonico, invece, restò inevitabilmente allo scoperto.
   «Fermi! Sono io, Talyn! Mi conoscete, sono uno di voi!» gridò il giovane.
   «Sei uscito dall’anomalia! Sei solo un altro invasore e finirai come loro!» gridò l’avversario, sparando un colpo che danneggiò il convertitore.
   «Non posso lasciare che facciano a pezzi la sala macchine» si disse l’El-Auriano. Era un miracolo che quei pazzi furiosi non avessero già fatto esplodere la nave. Ma non voleva nemmeno uccidere i suoi colleghi e del resto non poteva affrontarne così tanti. Non gli restava che usare la strategia, un elemento che difettava agli invasati. «Ottoperotto, dimmi quando sono a cinque metri da me!» gridò, immaginando che si stessero avvicinando per stanarlo.
   «Be-beep! Cinque metri!» rispose quasi subito il robottino.
   «Mi volete? E allora venite a prendermi!» gridò Talyn, lanciando una granata stordente al di là del suo rifugio. Ci fu un intenso lampo scarlatto e gli avversari furono gettati indietro, semistorditi. Talyn approfittò del diversivo per uscire dal riparo e correre verso l’anomalia. «Seguitemi, se avete fegato!» li sfidò. E scomparve nella distorsione luminosa.
   Gli avventurieri si rialzarono quasi subito, animati da una collera belluina. «L’ho visto, è scomparso lì dentro! Allora si può passare!» gridò uno.
   «Presto, inseguiamolo! Uccidiamolo!» ululò un altro.
   Tutti gli invasati corsero a rotta di collo verso l’anomalia e vi si gettarono dentro, decisi a fare una strage di chiunque avessero trovato dall’altra parte. Ma avevano fatto male i conti. Usciti dalla distorsione, infatti, si trovarono in una sala macchine tinta di toni violetti. Avevano raggiunto la Destiny viola, il regno della paura.
   L’effetto fu dirompente. L’odio animalesco che ardeva in loro si spense all’istante, soffocato da una fosca nube di paura. I loro occhi divennero vitrei, i respiri affannosi, mentre i capelli si drizzavano. Visti da fuori, gli avventurieri parvero sgonfiarsi come palloncini. E il peggio doveva ancora venire.
   «Ah, eccovi qui!» disse Talyn, facendo la voce grossa. Si parò davanti a loro, armato di phaser. Era un rischio calcolato. Se fossero stati ancora pazzi di rabbia lo avrebbero ucciso, ma se avevano cambiato umore... «Siete voi che volevate uccidermi, vero? Poveri illusi! Ora assaggerete la mia vendetta!» minacciò, in tono deliberatamente aggressivo, per spaventarli ancora di più.
   «No! Pietà, non ucciderci!» supplicarono i colleghi. Gettarono via le armi, sopraffatti dal terrore, e si prostrarono chiedendo perdono.
   «Ah, ah! Ma guardatevi, come siete patetici! Correte, conigli! Vi do dieci secondi di vantaggio!» minacciò Talyn, sempre facendo il gradasso. Ovviamente non intendeva mettersi a cacciarli; ma voleva farli allontanare dall’anomalia, così che nessuno la riattraversasse.
   «Oh, poveri noi! Aiuto, qualcuno ci aiuti!» strillarono i poveretti, dileguandosi come topi davanti a un grosso gatto.
   Per rendere più credibile la messinscena, Talyn sparò un colpo in aria. Il suo phaser era settato su stordimento e comunque si accertò di colpire una paratia sgombra. Anche così, il terrore mise le ali ai piedi dei fuggitivi, che svanirono in pochi attimi.
   «Questa resterà negli annali militari» si disse il giovane, godendosi la soddisfazione di aver messo in fuga da solo un intero plotone di armati. Ma il suo compiacimento fu breve. Il pensiero di ciò che ancora l’attendeva sulla Destiny rossa gli spense il sorriso.
   «Va bene, leviamoci il chiodo» pensò l’El-Auriano, riattraversando l’anomalia. Come prevedeva, si trovò sulla Destiny blu, dominata dalla tristezza. Alcuni degli apatici lo guardarono svogliatamente, ma nessuno gli fece domande.
   «È così: devo fare un giro completo per tornare alla Destiny rossa» si disse Talyn. Lo fece di corsa, attraversando e riattraversando l’anomalia così in fretta da non dare agli altri il tempo di fermarlo. Solo sulla Destiny arancione, dominata dalla sorpresa, si arrestò un attimo.
   «Oooohhhh! Com’è andata?!» fece Rivera, più ansioso che mai.
   «Ho attirato alcuni avversari nel regno della paura. Spero che ci restino bloccati» spiegò Talyn. «Mi serve un’altra granata stordente».
   «Eccola qui» fece Rivera, consegnandogli quanto richiesto. «Sicuro di non volere aiuto?».
   «Mi creda, signore: se mi seguiste sulla Destiny rossa peggiorereste solo le cose» ribadì l’El-Auriano. «Impazzireste tutti dalla rabbia e cerchereste di uccidermi. Se volete aiutarmi, restate qui in attesa!». Senza dargli il tempo di rispondere, Talyn riattraversò l’anomalia, tornando nel regno infuocato della collera.
 
   La Destiny rossa era cupa e rovente come la ricordava, ma con sollievo l’El-Auriano trovò l’emettitore gravitonico ancora al suo posto. In effetti la sala macchine era rimasta deserta, il che era logico. Ormai restavano solo una quarantina di persone; forse meno, se alcuni erano stati uccisi dagli Shriek o si erano uccisi a vicenda. Considerata la stazza dell’astronave, i superstiti dovevano essere sparpagliati.
   «Ma scommetto la testa che c’è qualcuno asserragliato in plancia» si disse Talyn. Si recò alla consolle dei sensori interni, scannerizzando l’astronave. C’erano ancora trentacinque segni vitali, più di quanti si aspettasse. Effettivamente erano sparpagliati in vari punti dell’astronave; alcuni parevano asserragliati, altri correvano. Con ogni probabilità stavano contendendo la nave agli Shriek. Questo era un ottimo diversivo, pensò il giovane, passandosi la mano sulla fronte per detergere il sudore. Restrinse il raggio delle analisi alla plancia, senza rilevare alcun segno vitale.
   «Plancia accessibile, be-beep!» trillò Ottoperotto.
   «No, non credo» mormorò Talyn, ampliando i parametri di ricerca per includere gli elementi inorganici. «Strada facendo ho tenuto il conto degli ufficiali. Ce n’è uno che non abbiamo ancora incontrato. E questo caldo infernale mi fa pensare che sia proprio qui». In quella ebbe un riscontro dai sensori interni.
   «Ecco, è come temevo» commentò il giovane. «C’è un Tholiano in plancia, e temo che sia molto arrabbiato. Tanto da cuocere a fuoco lento il resto dell’equipaggio».
   Non per nulla i Tholiani erano temuti in tutta la Via Lattea. Sulla Destiny ce n’era solo uno: Naskeel, il capo della Sicurezza. Il suo ingresso a bordo non era stato dei più felici, dato che si era presentato come concorrente per il recupero dell’astronave. E anche se in seguito, per cause di forza maggiore, aveva accettato di unirsi all’equipaggio, restava una figura ermetica di cui pochi si fidavano. Talyn aveva quasi sperato che la sua fisiologia aliena lo rendesse immune agli effetti della scissione quantica; ma il fatto che stesse arrostendo l’equipaggio indicava il contrario.
   «I Tholiani vivono a 200º C, quindi è meglio non aspettare che Naskeel parifichi la temperatura della Destiny» borbottò Talyn, accedendo ai controlli ambientali. «Vediamo se i codici di Rivera funzionano» aggiunse, inserendoli per sovrascrivere gli ordini di Naskeel ed escluderlo dal comando.
   Per sua fortuna, i codici del Capitano funzionavano. Il giovane ebbe pieno accesso ai controlli ambientali e subito regolò la temperatura sui parametri standard. Poi interdisse a chiunque altro l’accesso a quel sistema, per impedire che il Tholiano ci ficcasse ancora le zampe.
   «Però, comincio a prenderci gusto!» ridacchiò Talyn, passandosi una mano tra i capelli sudati. La temperatura stava già cominciando a scendere. Il giovane prese a interdire tutti gli altri sistemi, per togliere ogni opzione all’avversario. Riuscì persino a sbloccare l’ingresso della plancia. Infine cercò di teletrasportare via Naskeel, ma si scontrò con lo stesso problema già riscontrato: la mancanza d’energia.
   «Be-beep! Quaranta minuti all’impulso!» avvertì Ottoperotto, che era tornato presso l’emettitore gravitonico.
   «Frell, non c’è tempo!» imprecò Talyn. Rinunciato al tentativo di teletrasporto, corse al carrello antigravitazionale. Lo spinse fuori dalla sala macchine, nei corridoi sanguigni. «Avvertimi se arriva qualcuno» ordinò al robottino, e prese a spingere il carico più veloce che poteva.
 
   Quell’ultima corsa attraverso la Destiny fu la più tremenda per Talyn. Il tempo era agli sgoccioli, il caldo ancora asfissiante e in ogni momento rischiava d’incontrare qualche invasato pronto a ucciderlo. Per fortuna Ottoperotto vigilava con i sensori: per due volte rilevò segni vitali in avvicinamento e per due volte il giovane riuscì a svicolare in tempo. Fortunatamente non restavano in molti sulla Destiny rossa, e quei pochi erano assorbiti dalla lotta contro gli Shriek. Le strida degli alieni risuonavano per i corridoi scarlatti, segno che anche loro erano in fermento. Gli acuti richiami erano frammisti al sibilo delle armi a raggi e alle grida rabbiose dell’equipaggio. Tra tutte le Destiny che Talyn aveva attraversato, quella era indubbiamente il principale campo di battaglia contro gli Shriek. A un certo punto vide addirittura le carcasse di due alieni in mezzo a un corridoio, segno che gli avventurieri erano riusciti ad abbatterli. Ricordò le parole di Rivera, secondo cui i fucili polaronici si erano rivelati più efficaci dei phaser.
   «A saperlo prima...» borbottò l’El-Auriano, passando brutalmente sopra i resti delle creature. Proprio non aveva tempo per eseguire una terza deviazione.
   Giunse così alla base dell’ampia scala a chiocciola che conduceva in plancia. La scalinata era abbastanza larga da permettergli di percorrerla col carrello antigravitazionale e il carrello stesso poteva essere regolato per fare le scale. Tuttavia Talyn lo lasciò alla base della scalinata. Prima di portarlo su, infatti, doveva occuparsi di Naskeel.
   Mentre saliva i gradini in punta di piedi, madido di sudore sebbene fosse ancora in canottiera, il giovane rifletté che quella era l’azione più pericolosa della missione, se non proprio di tutta la sua vita. Dopo la prigionia nella biosfera degli Undine si era esercitato senza posa sul ponte ologrammi: la sua mira e i riflessi erano nettamente migliorati. Ma anche così, affrontare un Tholiano inferocito era un’impresa temeraria. Se il tempo non fosse quasi esaurito, non l’avrebbe mai preso di petto.
   Giunto innanzi alla porta già sbloccata, Talyn si nascose di lato per mettersi fuori tiro. Si accostò lentamente, fino a provocarne l’apertura. «Signor Naskeel, è lì?!» gridò, ma non ebbe risposta.
   «È inutile giocare, Naskeel! Tanto so che è lì dentro!» insisté il giovane. «Getti la sua arma ed esca con le mani alzate! Le prometto che non le farò alcun male. In effetti sto cercando di salvarla».
   Finalmente giunse una risposta, sotto forma di versi striduli che il traduttore simultaneo convertì in parole comprensibili, seppure dal timbro metallico. «Nessuna resa! Nessuna trattativa! Questo vascello è ora di proprietà dell’Annessione Tholiana!» proclamò Naskeel.
   «Beh, è tornato alla sua missione iniziale?! Quella è storia vecchia, non ricorda?» ribatté Talyn. «Dopo il primo scontro abbiamo deciso di collaborare. Ora lei è il nostro Ufficiale Tattico! Ha promesso d’esserci leale e di vigilare sulla nostra sicurezza. Lo ha giurato, Naskeel! Non lo ricorda?».
   «Il vascello deve essere epurato! Tutti gli Organici devono essere eliminati!» fu la sconfortante risposta.
   «Andiamo, può fare meglio di così!» tentò ancora l’El-Auriano. «Si vanta spesso d’appartenere a una specie razionale, non offuscata dalle emozioni. Provi a usare la logica e si chieda se la sua condotta ha un senso! Ci troviamo in un limbo; guardi fuori dallo schermo e se ne renderà conto. Come farà a consegnare la Destiny ai suoi superiori? Deve lasciarmi entrare, così porterò la nave fuori di qui. Dopo potrà farmi ciò che vuole!».
   Non ottenendo risposta, Talyn si arrischiò a sbirciare: vide il Tholiano quasi al centro della plancia, che imbracciava un fucile polaronico. Allora ritrasse subito la testa, appena in tempo per sfuggire al raggio mortale. Scintille di duranio sprizzarono dallo stipite. Il giovane imprecò e consultò l’ora: mancavano pochi minuti. Se non piazzava in tempo l’emettitore, tutti i suoi sforzi erano vanificati e la Destiny era perduta. Non gli restava che affrontare Naskeel. E poiché la granata stordente non era efficace contro l’alieno inorganico, avrebbe dovuto ucciderlo.
   «Okay, Ottoperotto, stammi bene a sentire» ordinò. «Sto per affrontare il Tholiano. Se vince lui, è la fine. Se ci colpiamo a vicenda, dovrai pensarci tu a collocare l’emettitore al suo posto. Dovresti avere un tirante in uno dei tuoi sportellini: usalo per tirare il carrello fino alla sua posizione definitiva, davanti al timone. Hai capito tutto? Bene, attaccherò al tre». Il giovane respirò a fondo, pronto a scattare. «Uno... due...».
   Prima che arrivasse al tre, Ottoperotto lo prevenne, schizzando dentro la plancia a una velocità mai vista prima. La reazione di Naskeel fu immediata: aprì il fuoco contro l’intruso. Ma nemmeno lui fu abbastanza veloce da colpirlo. Il robottino sfrecciò attorno al Tholiano in un vorticoso girotondo, obbligandolo a girare su se stesso nel tentativo di abbatterlo. Raggi polaronici colpirono ripetutamente la parte alta della plancia, provocando piogge di scintille.
   Approfittando della distrazione, Talyn scattò a sua volta. Si sporse dallo stipite, mirò al fucile polaronico di Naskeel – che gli volgeva il fianco – e fece fuoco. Il raggio phaser colpì il fucile proprio al centro, spezzandolo in due. Il giovane si ritrasse subito, nel caso che il Tholiano avesse un’altra arma.
   «Be-beep! Naskeel disarmato!» lo informò Ottoperotto, e in effetti dalla plancia non giungevano altri colpi.
   «Bene!» fece Talyn, osando finalmente entrare. Il ponte di comando non gli era mai parso così cupo: i toni rossastri ben si accordavano col Tholiano al suo interno. E sullo schermo principale brillava il rosso intenso del limbo che imprigionava ancora la Destiny. «Ora tu lascerai la plancia, ma senza movimenti bruschi!» intimò.
   «Negativo. Meglio la morte del disonore» rispose Naskeel, senza muoversi di un millimetro.
   «Ah, ma sei cocciuto!» sbottò l’El-Auriano. «E va bene, ti trascinerò io!». Agganciò il phaser in cintura e al suo posto impugnò un’altra arma: la frusta neurale del Capitano. Gliela aveva sottratta poco prima, quando aveva finto di abbracciarlo per la commozione. Forse Rivera gliela avrebbe data spontaneamente, se gliela avesse chiesta. Ma in fondo al cuore, Talyn era ancora il borsaiolo che i contrabbandieri avevano incontrato nelle strade di Stardust City. Dette una violenta sferzata, avvolgendo la frusta attorno alle zampe del Tholiano, e lo trascinò verso il centro della plancia. In circostanze normali, l’alieno inorganico sarebbe stato molto più forte di lui; ma la carica elettrica della frusta lo indeboliva. Anche così il Tholiano era maledettamente pesante. Talyn dovette spremere tutte le energie residue per spostarlo di un paio di passi verso il centro della sala. Quando vide che era all’interno di un cerchio tracciato sul pavimento, disattivò la frusta.
   «Computer, campo di contenimento, autorizzazione Rivera 7-1-7!» ordinò.
   Un campo di forza cilindrico apparve in corrispondenza del cerchio tracciato sul pavimento. Il cerchio abbracciava le tre poltrone centrali della plancia: quella del Capitano, del Primo Ufficiale e del Consigliere. Lo scopo della barriera era proteggere gli occupanti, nel caso in cui la plancia fosse compromessa. All’occorrenza però poteva servire all’inverso, per confinare al suo interno un avversario. Cosa che Talyn aveva appena fatto, ricorrendo a un codice di comando del Capitano. Il Tholiano emise degli schiocchi rabbiosi, impossibili da tradurre, e colpì con violenza il campo di forza, ma nemmeno lui poteva oltrepassarlo. Era imprigionato in quel cilindro d’energia che andava dal pavimento al soffitto.
   «Vittoria!» esultò Talyn, ma in quella il suo comunicatore prese a vibrare. Era l’allarme che aveva inserito a inizio missione, per avvertirlo un minuto prima dello scadere del tempo.
   Trafelato, il giovane corse giù dalla scala a chiocciola, dove lo aspettava il carrello levitante con l’emettitore. Lo spinse su per la scala, col cuore che batteva come se gli dovesse scoppiare nel petto. Ecco, era di nuovo in plancia... girava attorno al campo di contenimento... poi attorno alla consolle del timone. Mezzo svenuto dall’ansia e dalla fatica, il giovane usò le ultime forze per spingere il carrello nella sua collocazione finale, proprio davanti allo schermo rosseggiante.
   Appena in tempo.
   Nell’attimo in cui il carrello si arrestava, l’emettitore gravitonico si attivò. Le lunghe e sottili antenne ronzarono come un diapason, il globo semisferico alla base sfarfallò di luci. Il ronzio crebbe d’intensità fino a diventare insopportabile. Talyn, che era crollato a terra, dovette ficcarsi le dita nelle orecchie; ma continuò a sentire la vibrazione nelle ossa. Osservò il piccolo display alla base del congegno: il consumo d’energia era al picco.
   «Ci siamo. O la va, o la spacca...».
   In quella ci fu un lampo di purissima luce bianca, che spazzò via l’opprimente rosso. Un lampo simile a quello che la Destiny aveva sperimentato un giorno e mezzo prima, nel momento della scissione quantica. In quel bagliore accecante, l’El-Auriano perse i sensi. 
 

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Capitolo 8
*** Ricomposizione ***


-Capitolo 7: Ricomposizione
 
   Quando il lampo bianco si dissolse, Rivera si sentì diverso. L’ansia e lo stupore che lo avevano invaso per un giorno e mezzo si placarono, permettendogli di ragionare con più chiarezza. Guardandosi attorno, si avvide che anche la sala macchine era cambiata. Al posto dell’onnipresente arancione erano tornati tutti i colori, correttamente dosati. Il nucleo quantico, prima al minimo, pulsava nuovamente a piena potenza. E la brillante anomalia era svanita, permettendo di vedere meglio il generatore gravitonico sventrato. Lì accanto era apparso dal nulla un emettitore portatile di gravitoni, e in effetti Talyn aveva detto di aver posizionato il primo in sala macchine, sulla Destiny viola. Ora erano tutti visibili sull’astronave ricomposta.
   Lo stesso valeva per l’equipaggio. Da un istante all’altro, infatti, la sala macchine divenne assai più affollata. Tutti coloro che vi si trovavano, sulle sei Destiny, ora condividevano di nuovo lo spazio. Ed erano tutti guariti dalle loro manie. I paurosi uscirono dai pertugi, i depressi si rialzarono da terra, i disgustati smisero di lustrare ogni superficie. Altri ancora giunsero di lì a poco: i gioiosi reduci dal piscina party, i sorpresi che avevano smesso di girovagare, i collerici che avevano interrotto i combattimenti. Tutti quanti parevano risvegliati da un sogno.
   «Capitano, cos’è successo?» mormorò Losira, ancora frastornata. Depose lo smagnetizzatore manuale con cui stava ripulendo le superfici dalle cariche elettrostatiche, un centimetro quadrato alla volta.
   «Talyn ce l’ha fatta!» rispose l’Umano a voce alta, così che tutti lo udissero. «Aveva promesso di ricomporre l’astronave, dopo che una scissione quantica l’aveva frammentata, e c’è riuscito. Gli dobbiamo la vita. Rivera a Talyn, ottimo lavoro! Come stai?» aggiunse, premendosi il comunicatore. Non ebbe risposta.
   «Adesso dov’è?» si preoccupò Losira.
   «Mi aveva detto che l’ultimo emettitore andava posto in plancia» spiegò Rivera. «Andiamoci subito. Se solo potessi lasciare l’ingegneria al suo capo... Irvik, dove s’è cacciato?!» gridò, esaminando la folla.
   «Eccomi, sono qui!» rispose il Voth, uscendo con qualche sforzo dal tubo di Jefferies.
   «Che ci faceva lì dentro?».
   «Mi nascondevo! Ero terrorizzato, Capitano, ma ora è passato» rispose l’Ingegnere Capo. «Se siamo di nuovo integri, significa che il piano ha funzionato! Ma il ragazzo sta bene?».
   «Sto per andare in plancia a sincerarmene. Irvik, a lei la sala macchine. Cerchi di rimetterla in sesto» ordinò il Capitano.
   «Ci vorrà del tempo, signore. Devo rimediare ai pasticci combinati da sei equipaggi diversi» sospirò il Voth. «Poi ci sono i danni della battaglia, come il generatore gravitonico che è tutto da ricostruire. Temo che non potremo viaggiare nel Multiverso per un po’».
   «Quanto?» chiese Rivera, sulle spine.
   «Settimane, forse mesi. Devo valutare i danni per fornirle una stima più precisa» spiegò Irvik. «Se potessimo recarci a un cantiere spaziale faremmo prima, ma nel nostro isolamento i lavori saranno più lenti».
   «Aspetteremo» sospirò il Capitano, vedendo allontanarsi sempre più il ritorno. «Lei cominci subito la diagnostica». Dopo di che si premette il comunicatore: «Capitano a equipaggio, ascoltate! Ordino a tutti di tornare ai loro luoghi di servizio. Sono esenti i feriti, che possono recarsi in infermeria. E tenete alta la guardia: anche se la Destiny è di nuovo una, abbiamo ancora degli Shriek a bordo. La battaglia non è finita».
 
   Giunti alla base della scala che portava al ponte di comando, Rivera e i suoi incontrarono altri colleghi che stavano tornando al loro posto. Tra loro c’era Shati, reduce dal party selvaggio. La Caitiana aveva le orecchie basse per la vergogna.
   «Ah, Shati, eccoti qui! Per la miseria, che hai fatto alla tuta?!» chiese Rivera, vedendola tutta lacerata. Almeno la pelliccia sottostante offriva una buona copertura.
   «Preferirei non parlarne, Capitano. Le dirò solo che noi della Destiny gialla non abbiamo fatto in tempo a cambiarci, venendo qui» rispose la Caitiana. Accennò a un paio di colleghi che l’avevano seguita, bagnati fradici dalla testa ai piedi.
   «Capisco» fece Rivera, intuendo che era meglio non chiedere i dettagli. «Saliamo, forza».
   Giunti in plancia, gli avventurieri la trovarono deserta a eccezione di Naskeel, ancora imprigionato nel campo di contenimento. Dietro di lui lo schermo era nero, a indicare che la Destiny era uscita dal limbo quantico, tornando nella relativa sicurezza del Vuoto.
   «E lei che ci fa lì dentro?» si accigliò Rivera. «No, non me lo dica... era nella Destiny rossa» indovinò.
   «Temo di sì» rispose il Tholiano, chinando il muso da rapace. «Le mie azioni in quel contesto sono state... discutibili. Ora che sono ristabilito accetterò ogni punizione che vorrà somministrarmi, Capitano».
   «Se punissi tutti quelli che hanno fatto cose discutibili, dovrei castigare l’intero equipaggio, me compreso» rispose l’Umano. «Mi basta la soddisfazione d’averla vista in gabbia». Detto questo si recò alla postazione tattica e disattivò il campo di contenimento, liberando il Tholiano.
   «Dov’è Talyn?» s’inquietò Losira, cercandolo invano con lo sguardo.
   «Là dietro» rispose Naskeel, indicando la postazione del timone. Oltre la consolle svettava l’ultimo emettitore gravitonico, ora disattivato. E sempre da lì dietro veniva un inconfondibile pigolio elettronico: la voce di Ottoperotto.
   Tutti si precipitarono a controllare, aggirando la postazione da una parte e dall’altra. Accanto all’emettitore giaceva l’El-Auriano, inerte. Il fedele robottino gli stava accanto, levitando a pochi centimetri da terra, come per vegliarlo.
   «Talyn!» gridò Losira, atterrita. Si accasciò accanto al giovane e si pose la sua testa sulle ginocchia, cercandone i segni vitali. «È vivo» esalò, dopo aver verificato il respiro e il battito cardiaco. «Losira a infermeria, teletrasporto d’emergenza per Talyn. Prendete anche me» chiese, volendo restargli accanto. Svanirono entrambi nel bagliore azzurro del raggio, nuovamente operativo ora che l’energia principale era ripristinata.
   «Be-beep! Riparare Talyn! Riparare Talyn!» fece Ottoperotto, salendo di quota.
   «Certo che lo cureremo. Tornerà come nuovo» garantì Rivera, recuperando la frusta neurale che Talyn gli aveva sottratto, e che era rotolata a terra quando il giovane era svenuto. «Ma guarda un po’, il ladruncolo!» si disse, scuotendo la testa. Se la riagganciò in cintura, la mente già rivolta alle prossime mosse.
 
   In quella gli avventurieri udirono uno stridio familiare: il richiamo degli Shriek. Subito estrassero i phaser, guardandosi attorno nervosamente. «Ancora?! Quando finirà quest’incubo?!» protestò Shati.
   «Qualcosa mi dice che siamo alla resa dei conti» fece Rivera. Aveva appena parlato che gli Shriek uscirono dalle paratie, a decine. Erano troppi per affrontarli. In un attimo circondarono gli avventurieri, tagliando ogni via di fuga, ma per il momento non attaccarono. Le loro strida risuonarono per tutta la plancia.
   «Credo che stiano cercando di comunicare» comprese il Capitano, lottando contro l’emicrania. «Computer, innesta la matrice di traduzione per il linguaggio Shriek!».
   Di colpo le parole degli alieni divennero comprensibili. «Voi federali non siete cambiati. Anche stavolta avete ucciso molti dei nostri» accusò uno di loro, forse il capo.
   «Eh no, le cose sono cambiate eccome!» obiettò Rivera. «Stavolta siete stati voi ad attaccarci. Voi avete ucciso per primi».
   «Avete invaso il nostro dominio» insisté la creatura.
   «Non abbiamo invaso un bel niente. Siamo esploratori, siamo capitati lì per caso. Anche voi un tempo visitavate il nostro spazio, senza per questo considerarvi invasori» puntualizzò il Capitano.
   «Perché avete deciso di farci visita?» chiese lo Shriek.
   «In realtà non è stata una nostra decisione» ammise Rivera. «Abbiamo perso le coordinate per tornare a casa, quindi stiamo visitando una realtà dopo l’altra. Non intendiamo fare del male a nessuno, infatti è solo quando ci avete attaccati che abbiamo reagito. Tra l’altro è stato il vostro attacco a frantumare la nave nel modo che avete osservato. Ed è stato uno dei nostri a ricomporla, rischiando la sua vita. Così facendo ha salvato anche voi! In quel limbo eravate prigionieri sulla Destiny, ma ora che ci siamo sbloccati dovreste essere in grado di tornare a casa. Non è così?!».
   Gli alieni confabularono fra loro, usando una versione così rapida e contratta del loro linguaggio che nemmeno il traduttore automatico poté renderla comprensibile. Poi alcuni di loro aprirono delle fessure spaziali, simili a piccoli imbuti luminosi, e si tuffarono dentro, sparendo alla vista. Passato qualche secondo fecero ritorno. Discussero con quanti erano rimasti, evidentemente facendo rapporto. Infine il portavoce si rivolse a Rivera, parlando di nuovo con lentezza, per risultare comprensibile.
   «Hai detto il vero, ora siamo liberi di tornare al nostro dominio» disse lo Shriek. «Vogliamo credere che si sia trattato di un tragico incidente. Perciò non vi attaccheremo, né lanceremo rappresaglie contro la vostra gente. Tuttavia vi esortiamo a non visitarci più, a scanso di nuovi incidenti» ammonì.
   «Accetto le vostre condizioni» disse subito il Capitano. «Ma considerando la vostra abilità di viaggiare nel Multiverso, mi chiedo se non potreste comunicarci le coordinate del nostro spazio, che noi abbiamo perduto» si arrischiò a chiedere.
   «Abbiamo promesso di non arrecarvi alcun danno, ma non vi aiuteremo nemmeno, per rispetto verso i nostri caduti» rispose la creatura. «Addio, Capitano. Forse un giorno troverete la via di casa con le vostre forze» augurò. L’attimo dopo aprì una fessura spaziale e vi svanì dentro. I suoi simili lo imitarono: entro pochi secondi erano tutti spariti. Sulla plancia cadde il silenzio.
   «Frell, un’occasione perduta!» imprecò Shati, dando un pugno sulla consolle.
   «Ringrazia che almeno li ho convinti a lasciarci stare» ribatté il Capitano, sebbene anche lui fosse un po’ deluso. «Tutte le sezioni facciano una lista dei danni. Riprendiamo la navigazione standard».
 
   Per la terza volta nel giro di pochi giorni, Talyn lottò per riprendersi dopo uno svenimento. Almeno stavolta si rese conto d’essere steso su un lettino: era un buon segno. Non appena la mente si fu schiarita, inspirò a fondo e sbatté gli occhi, cercando di mettere a fuoco la visione. La prima cosa che vide fu Ottoperotto, che gli levitava accanto. L’Exocomp aveva riacquistato i suoi colori naturali, così come la saletta di degenza in cui si trovavano, segno che la Destiny era ricomposta.
   «Vittoria...» mormorò il giovane, ancora debole.
   Accorgendosi che l’El-Auriano era cosciente, il robottino trillò eccitato, sfarfallando di luci multicolori. Poi emise un suono squillante, come una sirena d’avvertimento. Di lì a un attimo la dottoressa Giely entrò nella saletta.
   «Sei sveglio, finalmente» sorrise la Vorta, accostandosi per visitarlo. «Cominciavamo a preoccuparci. Hai dormito ventiquattr’ore, più a lungo di chiunque altro. Sarà perché ti sei prodigato più di tutti. La Destiny è salva grazie a te» lo informò.
   «Meno male» sospirò Talyn. «Quindi siamo tornati nel Vuoto?».
   «Sì, e una volta ricomposta la nave siamo tutti guariti dalle nostre – ehm – ossessioni» spiegò la dottoressa.
   «E gli Shriek?».
   «Il Capitano ha raggiunto un accordo. Sono tornati nel loro dominio, promettendo di non attaccarci, a patto che non li disturbiamo più» spiegò la Vorta. «Ci stiamo ancora riprendendo dagli scontri. Abbiamo parecchi feriti, ma fortunatamente poche vittime. Ho già dimesso quasi tutti e comunque anche i casi più gravi sono fuori pericolo» disse allargando le mani.
   «Allora è finita» disse Talyn, con un sospiro di sollievo. Finalmente poteva rilassarsi.
   «Ti siamo grati per quello che hai fatto. Sei nel cuore dell’equipaggio, se già non lo eri. Pensa che Ottoperotto era così preoccupato dalle tue condizioni che ti è rimasto accanto per tutto il tempo. Irvik gli aveva ordinato di partecipare alle riparazioni, come tutti gli Exocomp; ma lui s’è rifiutato» rivelò la Vorta.
   «Ma guarda che anarchico!» ridacchiò Talyn, carezzando il suo guscio metallico. «Sono grato dell’interessamento, però non farci l’abitudine a trasgredire gli ordini».
   «Be-beep! Ricevuto» promise il robottino.
   «Anche Losira è stata quasi sempre al tuo fianco. Solo poco fa le ho ingiunto di riposarsi» aggiunse Giely. «Penso che nelle prossime ore riceverai molte visite».
   «Non occorre che resti qui, posso tornare in servizio» disse il giovane, cercando già di alzarsi.
   «Altolà! Cosa credi di fare?» lo fermò la dottoressa, costringendolo a riadagiarsi. «Negli ultimi giorni hai subito stress fisici e mentali spaventosi. Voglio trattenerti in osservazione almeno altre ventiquattr’ore. Ne approfitterò per farti qualche esame. E anche dopo averti dimesso ti farò avere qualche giorno di riposo; te lo sei meritato».
   «Ma...» protestò Talyn, volendo contribuire alle riparazioni.
   «Niente da fare, sono gli ordini del tuo medico» chiarì Giely.
   «Grazie tante, sei l’unico medico che abbiamo!».
   «Appunto».
 
   Nel corso della giornata l’El-Auriano ricevette parecchie visite, soprattutto da parte di coloro che aveva incontrato – e affrontato – nella sua variopinta avventura. La prima ad arrivare fu Losira, che non la smetteva più di scusarsi per avergli sparato alle spalle, rischiando oltretutto di far fallire la missione.
   «Non preoccuparti, è acqua passata» assicurò Talyn. «Però non avertene a male se mangio quel che mi piace».
   Ancor più imbarazzata fu la visita di Shati. La Caitiana non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi. «Senti, tutto quel che ho detto e fatto l’altro giorno non conta, okay? Fa’ conto che non sia mai successo» mormorò, fissando il pavimento.
   «Come vuoi» annuì il giovane. «Anche se, ripensandoci, potremmo darci una possibilità...» la provocò, per il gusto di vedere la reazione.
   «Ho detto che non è successo niente!» ringhiò Shati, alzando il capo per fulminarlo con lo sguardo.
   «Okay, okay, mettiamoci una pietra sopra» convenne Talyn, non volendo tirare troppo la corda con la suscettibile Caitiana.
   Ma la visita più inaspettata fu, a fine giornata, quella di Naskeel. Il Tholiano zampettò nella camera di degenza e rimase fermo accanto al lettino.
   «Ehm, salve» fece l’El-Auriano, incerto su come reagire.
   «Guardiamarina, ha recuperato la piena funzionalità?» chiese l’alieno, con la sua voce tradotta elettronicamente.
   «La dottoressa direbbe che sono convalescente, ma comunque sì, direi che mi sono ripreso» rispose Talyn, curioso di vedere dove sarebbe andato a parare.
   «Questo è positivo. Lei ha rivelato un’inaspettata attitudine alla pianificazione e all’esecuzione di strategie complesse. È persino riuscito a sopraffarmi, cosa che non ritenevo possibile. Questo alveare beneficerà del suo apporto» spiegò Naskeel.
   «Questo... ah, intende l’equipaggio!» comprese il giovane. «Beh, grazie. Detto da lei è un gran complimento».
   «Io non faccio complimenti» chiarì il Tholiano, e si ritirò senza aggiungere altro.
 
   Come annunciato, Giely eseguì un gran numero d’analisi e di test su Talyn. Quando infine lo dimise dall’infermeria, la mattina successiva, non discusse degli esiti. L’El-Auriano ne dedusse che era tutto a posto. Approfittando della licenza divise il resto della giornata tra palestra, ponte ologrammi e relax nel suo alloggio. A sera ricevette una chiamata del Capitano in persona, che gli ordinava di presentarsi in sala tattica.
   Incuriosito e anche un po’ preoccupato, Talyn si rese presentabile e si affrettò a raggiungere il ponte di comando. Data l’ora tarda, in plancia c’erano già i colleghi del turno di notte. Il giovane li salutò di fretta e passò in sala tattica. Qui trovò il Capitano e gli ufficiali superiori già riuniti.
   «Benvenuto, Talyn» lo accolse Rivera. «Alcuni di noi volevano farti una festa a sorpresa, ma ho pensato che tu ne abbia avuto abbastanza, dopo l’ultima missione. Tuttavia non posso esimermi dal ringraziarti a nome di tutto l’equipaggio. Hai affrontato sfide estreme, dimostrando grande maturità. In effetti temo che tu abbia visto i lati peggiori di tutti noi; ma non ti sei lasciato sconfortare. È questa la chiave del gioco di squadra. E la nostra squadra è molto fortunata ad averti. Perciò lascia che te lo dimostri, almeno simbolicamente».
   Così dicendo il Capitano estrasse qualcosa da una scatoletta. «Guardiamarina Talyn, per i poteri conferitimi dalla Flotta Stellare t’insignisco della Medaglia al Valore, in virtù dell’eccezionale salvataggio di questa nave» annunciò, appuntandogli l’onorificenza sulla maglia.
   «Beh, a dire il vero io non sono un vero Capitano della Flotta e tu non sei un vero Guardiamarina... ma il fatto è che ho un’intera scatola di queste nel mio alloggio e devo pur disfarmene» ridacchiò, in tono più colloquiale. «Scherzi a parte, ottimo lavoro davvero, muchacho. Anzi no, da oggi non ti chiamerò più così. Ormai sei adulto» riconobbe, stringendogli la mano. Dati i trascorsi, badò che l’El-Auriano non ne approfittasse per rubargli qualcos’altro.
   «Grazie, signore. Grazie a tutti» disse Talyn, e si ritirò. Mentre lasciava il ponte di comando, il giovane pensò che quell’esperienza gli aveva permesso di conoscere meglio certi aspetti dei suoi colleghi. Ma poteva dire altrettanto di se stesso?
   «Chi sono io?» si chiese. Era forse il ragazzo-prodigio che aveva concertato con Irvik un sofisticato piano per salvare la Destiny? L’inguaribile ottimista che aveva dissuaso Giely dal suicidio? Il devoto figlio adottivo di Losira? Il giovane introverso che era fuggito dal rave party? Il ladruncolo che non perdeva occasione di borseggiare chiunque incontrasse? Il combattente che aveva affrontato Naskeel e gli Shriek? L’El-Auriano dai misteriosi poteri? «Probabilmente tutto questo e altro ancora, secondo le necessità» si rispose. E tornò nel suo alloggio fischiettando allegramente.
 
   Uscito Talyn, gli ufficiali della Destiny rimasero per un po’ in silenzio. Infine Rivera prese la parola: «Signori, so a cosa state pensando tutti, anche se siete troppo cortesi per dirlo ad alta voce. Ebbene, lo chiederò io. Qualcuno ha capito perché diavolo quel ragazzo sia rimasto immune alla scissione?».
   «Mentre era in infermeria gli ho fatto un’infinità di scansioni e di test, ma non ho trovato nulla di anomalo» rispose Giely. «Se c’è una spiegazione fisica, io non riesco a trovarla».
   «Anch’io l’ho analizzato coi sensori, ma non so che dire: sembra perfettamente normale» aggiunse Irvik. «Eppure dev’esserci una spiegazione. Non si resiste a una scissione quantica senza motivo».
   «Forse non c’è un motivo che i sensori possano rilevare» disse Losira, con uno strano sorriso. «È così e basta. È il suo dono... forse un dono di tutti gli El-Auriani».
   «Non ti facevo mistica» si stupì Rivera.
   «Mi limito a prendere atto della realtà» si difese la Risiana.
   «La realtà è che un membro dell’equipaggio ha dato prova di poteri che spettano solo alle entità più formidabili del Multiverso, come i Q» affermò Naskeel. «Stavolta ha posto questo potere al nostro servizio, ma siamo certi che sarà sempre così? Che faremo se un giorno i suoi interessi si opponessero ai nostri?».
   «Se lo trattiamo con amore, sincerità e rispetto, questo non accadrà» lo difese Losira.
   «È quello che speriamo tutti» disse il Capitano. «Ciò non toglie che Talyn si è rivelato molto più potente del previsto. Ragion per cui voglio che d’ora in poi sia discretamente tenuto d’occhio. Se qualcuno di voi notasse qualcosa di strano, mi farà subito rapporto» ordinò. E si augurò con tutto il cuore di non dover mai prendere decisioni basate su questa evenienza.
 
 
FINE
 
 

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