In sixty days

di FanGirlWithK
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Departure ***
Capitolo 2: *** II. Secrets ***
Capitolo 3: *** III. Calls ***
Capitolo 4: *** IV. Mothers ***
Capitolo 5: *** V. Coffee cake ***
Capitolo 6: *** VI. Boredom ***
Capitolo 7: *** VII. Different ***
Capitolo 8: *** VIII. Charm ***
Capitolo 9: *** IX. Long Island ***
Capitolo 10: *** X. Milkshake ***
Capitolo 11: *** XI. Too late ***
Capitolo 12: *** XII. Wayward teddy bear ***
Capitolo 13: *** XIII. Jealousy ***
Capitolo 14: *** XIV. Miss you ***
Capitolo 15: *** XV. Agreement ***
Capitolo 16: *** XVI. Stop, please ***
Capitolo 17: *** XVII. Empty ***
Capitolo 18: *** XVIII. Not so sober ***
Capitolo 19: *** XIX. Empty nights ***
Capitolo 20: *** XX. Scent of home ***
Capitolo 21: *** XXI. Before us ***
Capitolo 22: *** XXII. Chip Clips ***
Capitolo 23: *** XXIII. Again ***
Capitolo 24: *** XXIV. Horrific show ***
Capitolo 25: *** XXV. The worst drawer ***
Capitolo 26: *** XXVI. Most of this life ***
Capitolo 27: *** XXVII. The end of the beginning ***
Capitolo 28: *** XXVIII. When did we break up? ***



Capitolo 1
*** I. Departure ***


00:07 p.m. KST, Incheon, South Korea.
 
«Quindi… Ci vediamo tra sessanta giorni.»
L’imbarco per New York sarebbe stato aperto a momenti, Jackson doveva muoversi.
Si passò una mano tra i capelli biondi, guardando la sorella.
Poi guardò il fidanzato, che non resistette e si buttò quasi a peso morto su di lui, singhiozzando e bagnando la maglia di Jackson di lacrime.
«Jinyoung, l’hai detto trenta secondi fa, ci vediamo tra due mesi.» Nel mentre gli passava una mano sulla schiena come conforto.
Normalmente era sempre sorridente, e il sorriso gli donava moltissimo: portava i capelli neri e la frangia da circa sei anni, inoltre aveva un tono di pelle pallido; quel sorriso dava un tocco di allegria alla sua aura un po’ tetra.
«E se dovesse finire tutto? Insomma, quante coppie ci sono che si promettono amore eterno ma dopo qualche mese senza vedersi non si ricordano nemmeno l’uno dell’altro?»
Entrambi sapevano quanto corretta fosse quella frase, ma il più basso dei due non voleva cedere prima di provarci.
«Stai dicendo di arrenderci ancora prima di provarci? Ancora prima di partire?» Si staccò dall’abbraccio con un malessere interiore da far venire i crampi, per poi carezzare il viso del corvino e asciugargli le lacrime coi pollici.
 
La scena vista da fuori sembrava abbastanza divertente, o quantomeno, Jennie la pensava così: il fratello aveva la carnagione chiara, le orecchie piccole, tantissimi orecchini e un ciuffo voluminoso.
Quel giorno portava una maglietta rossa dell’Adidas, si notava subito, sembrava quasi un ragazzo di strada trovatosi lì per caso. Faceva ridere già così, vederlo consolare una persona più alta di lui completava il quadretto.
Non che lei si facesse notare di meno, il cognato aveva pensato che sembrasse una lampadina, quando era entrato in macchina: aveva un top bianco, così come le scarpe, dei pantaloni di qualche tuta verde lime pastello, una borsetta dello stesso colore e degli orecchini dorati enormi.
In fondo erano fratelli, qualcosa in comune dovevano pur averla.
Sentirono tutti e tre la voce che, attraverso le casse, annunciava che il gate del volo per New York era stato appena aperto.
 
«Non ho mai detto di arrenderci.» Prese il viso del compagno a coppa tra le mani e fece scontrare delicatamente le loro labbra per qualche secondo. Un modo per descrivere tutte le paure che aveva senza bisogno di parlare.
«La gente sta già iniziando a mettersi in fila, vai.» Disse Jinyoung, guardando una trentina di passi avanti.
Si guardarono un attimo negli occhi, sorridendo.
 
Jackson andò ad abbracciare la sorella, che si era messa in disparte.
«Torni a Natale, giusto?» Chiese lei, ricevendo uno schiaffo leggero alla nuca.
«Ovvio, tu cerca di farti trovare, non te ne andare dalle tue amiche.» Ridacchiarono entrambi, poi la ragazza passò la valigia al fratello. «Chiama quando arrivi, non farci preoccupare.»
Lui rispose con un cenno della testa e le diede un bacio sulla fronte.
 
Si sentiva abbastanza in colpa nei suoi confronti: la stava lasciando ad un anno dal diploma, in uno dei momenti più critici della sua vita. È sempre stato una spalla importante per la sorella, sin da quando erano piccoli. Nel momento in cui la famiglia si era trasferita in Corea, capitava spesso che i genitori fossero fuori per lavoro e che loro si ritrovassero dai nonni materni, anche loro sommersi dal lavoro nel loro ristorante. In breve, era Jackson a prendersi costantemente cura di lei.
«Chiama in qualsiasi momento, per qualsiasi cosa, va bene?»
 
Dopo un cenno positivo, Jackson prese la valigia e andò verso il fidanzato, che però mise una mano avanti e lo fece fermare.
«Basta, abbiamo già pianto troppo e tu devi andare, ti amo.»
Non pronunciò altre parole, sarebbe scoppiato di nuovo a piangere, aveva ancora le lacrime secche sulle guance.
Un ti amo, un sorriso e si girò definitivamente, camminando verso il gate.
Non avrebbe avuto neanche lui la forza di sopportare ancora quella sensazione con quell’intensità.
 
«Per forza?» Jennie aveva le labbra serrate, non voleva piangere davanti a suo cognato, voleva farsi vedere forte.
«Vieni qua.» Lui allargò le braccia e lei ci sprofondò volentieri, facendo scivolare qualche lacrima. Finchè non lo sapeva suo fratello andava bene.
«Torneremo presto, tu nel frattempo concentrati sullo studio. E appena ci vediamo voglio conoscere questo corteggiatore.»
Lei rise ironica, pensando alla persona di cui parlava Jinyoung, e si staccò dall’abbraccio.
«E’ negli Stati Uniti anche lui per ora, e non mi corteggia, mi tratta come una sorella minore. Come è giusto che sia.»
Jinyoung aveva chiesto diverse volte il perché di queste parole, pronunciate parecchie altre volte, ma quella non era l’occasione per insistere.
Dagli altoparlanti si sentì una voce comunicare che il gate per Los Angeles era stato appena aperto.
«Direi che anche per me è ora di andare.» Prese il manico della valigia e lo tirò su.
 
«Senti, so come siete fatti voi due… Promettimi che non strapperai il biglietto per New York, vai da lui, qualunque cosa succeda, vedetevi comunque.» La ragazza aveva gli occhi spalancati, uno sguardo supplicante: sembrava quasi avesse un bisogno fisico di sentirsi fare quella promessa.
«Come sai che ho già fatto il biglietto per New York? Lo sappiamo solo io e Jackson.» Con uno sguardo curioso, guardava la cognata, non l’aveva mai vista così seria.
«Chi poteva dirmelo secondo te? Ryeowook, ma non è importante ora. Promettimi che farai quello che ho chiesto.» Fece un piccolo gesto infantile: chiuse la mano lasciando teso il mignolo.
E Jinyoung rispose a quel gesto con la stessa importanza che gli stava dando Jennie.
«Questo non risparmierà Ray dall’essere ucciso.»
Lei alzò le spalle disinteressata. «Non può importarmene di meno.»
Ray, o Ryeowook, era il migliore amico di Jackson: studiava a Los Angeles da un anno e avrebbe ospitato Jinyoung di lì in avanti.
«Vai da tua mamma che è rimasta sola.» Jennie fece un cenno con la mano prima di girarsi e andare via, piano.
 
Jinyoung invece doveva sbrigarsi, quindi si avviò velocemente verso il gate indicato nel grande schermo. Mentre camminava, le parole della cognata si ripeterono nella sua testa e le lacrime tornarono a scivolare sulle sue guance.
 
«Allora? Hai qualche presentimento? Mia figlia non sbaglia mai.» Disse la mamma dei due fratelli appena la piccola dei due tornò in macchina.
«Non ho un bellissimo presentimento in realtà, non so spiegarlo neanche io. Comunque sia non ho voluto niente a nessuno dei due, non voglio condizionarli.»
Jennie possedeva un sesto senso particolarmente sviluppato sin da piccola, non aveva mai sbagliato. La madre, in particolare, aveva sempre fatto molto affidamento sulle parole della figlia.
Per questo queste parole le tolsero tutta l’allegria di qualche attimo prima.
«Staremo a vedere.» Disse, dopo un sospiro, la signora, poi accese l’auto e guidò verso casa.
 
Nel frattempo, due ragazzi partivano verso l’estremo est e l’estremo ovest degli Stati Uniti d’America.
 
 
 
 
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Bentornati o benvenuti <3. Io sono Marika e sono davvero davvero felice di poter dire che questo è il primo progetto "serio"
che pubblico e che sarò felicissima per ogni singola lettura che riceverò.
Ho dedicato quasi cinque anni alla scrittura di questa storia e spero che ogni singolo messaggio che ho voluto
inserire arrivi, anche solo in minima parte, ad ogni lettore che vorrà immergersi nel mondo di "In sixty days".
Per chi ricorda qualcosa della vecchia storia... dimenticate tutto: le fondamenta sono le stesse, ma sono cambiate troppe cose.
Pubblicherò un capitolo a settimana, salvo qualche eccezione considerando l'arrivo dell'estate e di un po' di tempo libero
(che per me arriverà dopo, dato che ho gli esami quest'anno).
Accetto qualunque critica, purchè sia costruttiva. Detto ciò, ci vediamo la prossima domenica ;D
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aggiornamento (10-07-23)
qui avete il link alla playlist su spotify, così nessuno può dirmi che faccio preferenze con l'altra piattaforma.
presto anche quella su youtube <3
le playlist sono aggiornate simultaneamnete ai capitoli, se non prima.
aspetto come sempre le vostre opinioni.

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Capitolo 2
*** II. Secrets ***


08:05 p.m. EST, New York City, United States of America.

First day.

 

Jackson aveva sempre pensato a New York come la città perfetta per chi ha abitudini e segreti da mantenere: una città grigia, con i palazzi alti che creavano continue ombre, si immaginava la gente correre per le strade guardando solo l'asfalto, ragazze sedute su qualche muretto che sfogavano i loro sentimenti più nascosti su un pezzo di carta, uomini di ogni età imbucarsi nei vicoli più bui e uscirne con lo sguardo vittorioso.

Ed effettivamente la sua immaginazione non aveva sbagliato.

Scese dal taxi, dopo aver pagato per la corsa, e guardò il palazzo che aveva di fronte. Vicino la porta d'ingresso, dei capelli rossi spiccavano in mezzo a tutto quel grigiore.

Il ragazzo, che nella testa di Jackson prendeva sempre più le sembianze del suo coinquilino, man mano che si avvicinava rivelò un viso sfilato, occhi di un color miele cangiante, la ricrescita sopra la fronte del suo colore naturale di capelli, e mostrò quei pochi centimetri di altezza che aveva in più rispetto a Jackson.

«Piacere, Mark! Tu devi essere Jackson.» Tese la mano e il biondo la strinse senza esitazione.

«Mark... Liang, giusto?»

Mentre iniziavano a parlare e a conoscersi, entrarono nell'atrio del palazzo e salirono in ascensore fino all'ottavo piano.

Quando arrivarono e Mark aprì la porta, la prima cosa che poté percepire Jackson era un fortissimo odore di cibo thailandese.

«White! Ti ho detto mille volte di accedere la kappa e aprire tutte le finestre quando cucini tu!» Il padrone di casa tolse velocemente le scarpe, lasciandole all'ingresso così come il nuovo arrivato, che fu felice di constatare le abitudini "orientali" degli abitanti della casa.

Si sentì il rumore di una serranda che si alzava e quello di ciabatte che strisciavano.

«Oh! Ma chi...» un ragazzo dai capelli biondo cenere sbucò dalla porta che divideva la zona giorno dalla zona notte, aveva gli occhi spalancati e la bocca socchiusa, sembrava sorpreso. Ma non dispiaciuto.

Jackson alzo la mano e la sventolò delicatamente mentre l'altro, passato il blackout della sua testa, si precipitò verso di lui, stringendogli la mano e presentandosi. «Piacere Kris, tu devi essere Jackson Wang!» iniziò a parlare a trottola, passando da un argomento all'altro nel giro di pochi secondi.

Ad un certo punto, dopo quasi dieci minuti di chiacchere, un ragazzo minuto e dalla pelle lattea si affacciò dalla cucina. «Emh... Ciao, sei Jackson? Cioè, Kris ha urlato questo nome.»

Tutti ridacchiarono, compreso Mark, che era appena tornato dalla stessa porta da cui era spuntato Kris.

«Si, sono io, tu sei?» si avvicinò, lasciando la presa sulla valigia.

«Chiamami pure White.» si strinsero la mano e si sorrisero.

Che poi Jackson stesse sorridendo più per i capelli bianchi del ragazzo di fronte a lui che per cortesia è un altro discorso.

«Mentre loro cucinano, o meglio, mentre White cucina e Mark gli urla contro, ti faccio vedere la casa e magari sistemi le tue cose.» mentre parlava, Kris prese la valigia di Jackson e la posò nella prima delle tre stanze da letto che vide il nuovo coinquilino.

La stanza libera che sarebbe stata occupata da Jackson era tinteggiata di un bianco ottico con sopra dei brillantini verdi, c'erano un letto a una piazza e mezza, un armadio a tre ante, un comò e una scrivania, tutto rigorosamente di colore bianco e verde.

Nella seconda stanza stavano Kris e White, la stanza era tutta bianca e rossa, il primo dei due aveva detto che l'avevano tinta tutti e tre insieme, per passare il tempo. L'ultima stanza era di Mark, ed era tutta azzurra, tutta: anche i quadretti delle foto erano azzurri. Più tardi, a cena, Jackson avrebbe chiesto al diretto interessato perché la stanza fosse completamente di quel colore e lui avrebbe risposto che lo rilassava tantissimo.

C'erano due bagni: uno faceva anche da ripostiglio ed era più piccolo, uno era più grande e c'era uno specchio gigante.

Circa un quarto d'ora dopo aver completato il tour della casa, si ritrovò seduto sul suo nuovo letto.

Prese il telefono e, senza nemmeno farci caso, la prima persona che chiamò fu Jinyoung. «Jackson! Come stai?» aveva la voce palesemente ancora rotta dal pianto, ma sembrava stare bene.

«Bene, sono nella mia nuova stanza, ha le pareti con i brillantini, come piace a te, tu?»

Si sdraiò a pancia in su, i piedi sul cuscino e i capelli biondi che si sparpagliavano a formare una corona. «Tutto bene, sono appena arrivato a casa di Ray, è bellissima e Kevin fa morire dalle risate.» Rispose Jinyoung dall'altro lato del telefono, accompagnando le ultime parole con una piccola risata leggera.

Choi Ryeowook cercava un terzo coinquilino già da qualche mese, e così Jinyoung si trovò una sistemazione.

Kevin Allen invece era... semplicemente il coinquilino di Ray, un pazzo scatenato, un comico nato, un inguaribile romantico della facoltà di lingue cotto follemente della sorella di Jackson dalla prima volta che l'ha vista, quando Jae lo portò in Corea del Sud per le vacanze e li presentò tre anni prima. Un personaggio unico nel suo genere, per farla breve.

«Immagino, Ray mi ha detto che gli scorsi tre esami che ha fatto li ha superati con la lode.» Ed era anche un genio, qualunque cosa facesse.

«Si, me l'hai detto qualche giorno fa, comunque scusami tantissimo ma devo andarmi a fare una doccia, subito. Qui c'è un caldo che si muore.» Entrambi sorrisero, dai lati opposti del telefono, un po' contenti di sapere l'altro sereno, un po' con quell'angoscia, quel groppone in gola, che non scende giù.

Nel frattempo, qualcuno bussò alla porta di Jackson.

«Va bene, anche io devo staccare.» nel frattempo Jackson guardava la sua valigia, ancora a stento aperta, con le cose ordinate a modo del fidanzato.

«Ti amo, buonanotte, da te dovrebbe essere già sera, mangia.»

Jackson rise a sentire la solita frase, quelle piccole abitudini lo facevano star bene. «Ti amo, buonanotte in anticipo e cerca di farti qualche ora di sonno.»

Si dissero un ultimo «ciao» e staccarono la chiamata.

Quando Jackson arrivò in cucina, trovò già tutto pronto. «Scusate se non vi ho aiutato, parlavo col mio ragazzo.» Disse sedendosi, con un leggero senso di colpa per non averli aiutati a preparare.

Kris e White si girarono all'unisono verso di lui, e Mark non poté fare altro che ridere di gusto per le loro espressioni.

«Perché mi guardate così?» Chiese il diretto interessato, dopo aver riempito un bicchiere d'acqua al rosso che stava soffocando dalle risate.

«Hai detto fidanzato? Maschio?» Chiesero di rimando gli altri due, con i sorrisi che gli arrivavano alle orecchie.

«Si, è un problema?» 

Mark rise di nuovo, questa volta in modo molto più contenuto.

«Assolutamente no, tutto il contrario, probabilmente ci saremmo sentiti a disagio se non fosse stato così.» Questa volta parlò solo il ragazzo dai capelli bianchi.

Jackson si pentirà di aver detto di non essere etero. E Mark lo sapeva già, quindi ricominciò a ridere fino a dolergli la pancia.

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Capitolo 3
*** III. Calls ***


08:53 p.m. PST, Los Angeles, United States of America.

First day.

 

«Preparo io la cena.» Dopo aver sistemato tutte le proprie cose, Jinyoung andò in cucina, convinto al cento per cento di cucinare lui la cena per quella sera.

«Non c'è bisogno, tra poco torna Kevin e porta gli involtini primavera.»

Si misero al balcone, parlando del più e del meno, ma Jinyoung sembrava essere lì solo a metà.

I suoi occhi guardavano Ray: era alto quanto lui, aveva gli occhi neri, come il colore dei pastelli, delle ciglia cortissime e delle sopracciglia dal taglio dritto che gli incorniciavano il viso squadrato, le labbra sottili e leggermente allungate, un naso con la punta larga e il collo lungo. Indossava una semplicissima maglia bianca e un paio di pantaloni verdi che Jinyoung ricordava di avergli visto anche due o tre anni prima. In ogni caso stava benissimo.

La sua testa però era da tutt'altra parte: Los Angeles era perfetta per Jackson, lui amava il caldo, amava correre all'alba sulla spiaggia, durante le piccole vacanze che si concedevano a Busan lo faceva ogni giorno, sin da piccolo; amava poter indossare le magliette a maniche corte, poter lasciare le felpe chiuse nell'armadio, poter uscire senza prima affacciarsi per capire se fosse il caso e, eventualmente, come doversi vestire.

«C'è Kevin, ma mi secca aprirgli.» Mentre Ray rideva, Jinyoung scacciò via tutti i pensieri e guardò stranito l'altro.

«Quindi lo facciamo disperare? E poi come sai che è tornato?» chiese, ovviamente curioso.

«Guarda vicino al cancello.» Ray indicò un punto dello spiazzale del condominio, dove Kevin, che si riconosceva dai capelli color miele che sembravano brillare sotto al sole, provava a camminare senza far cadere tutto quello che aveva in mano.

Inutile dire che Jinyoung si sentì un po' più stupido del solito.

Iniziò a ridere quando al povero ragazzo che sembrava un fattorino cadde il telefono. Cercando di bloccare le proprie risate, Jinyoung lo chiamò a gran voce, che si girò verso il balcone.

«Aspetta lì che ti vengo a dare una mano.» Nel girò di un minuto, Jinyoung abbandonò Ray e scese giù, prendendo le tre buste di cibo dalle mani di Kevin, che con gli occhi, piccolissimi e sfilati, lo ringraziò, mentre parlava al telefono con la madre.

Più che altro la stava implorando di staccare, promettendo che avrebbe chiamato una mezz'oretta dopo, mentre lei parlava ignorando il figlio.

Mentre Ray apriva la porta, lui era riuscito a terminare la chiamata e a posare il telefono, sospirando di sollievo.

«Poso le cose e ti saluto per bene, giuro.» Kevin camminò velocemente verso la cucina, seguito da Jinyoung che appoggiò il cibo sulla tavola apparecchiata.

«Ora te lo posso dare un abbraccio.» Dopo un abbraccio veloce ma intenso tra Jinyoung e Kevin, si sedettero tutti a tavola e iniziarono a mangiare, o meglio, a ingozzarsi, avvolti nel silenzio.

Sembrava che non mangiassero da giorni, quando invece avevano mangiato tutti e tre nelle ultime otto ore.

«Buonissimi, comunque sapete che pretendo un tour dei posti migliori dove mangiare prima che inizi l'università, giusto?" si misero tutti a ridere alla domanda retorica di Jinyoung, e Kevin iniziò ad elencare i suoi preferiti in assoluto, poi sparecchiarono velocemente e si spostarono nel soggiorno.

Jinyoung sentiva una sensazione strana, come se mancasse metà di sé stesso, pensava davvero di essere nel posto sbagliato, forse anche al momento sbagliato...

Andò nella propria stanza, guardò la valigia ormai vuota da accantonare da qualche parte e chiuse la porta, appoggiandocisi e lasciando scorrere qualche lacrima silenziosa.

Si sedette sul letto, cercando di riprendersi e osservando la stanza, non aveva avuto un momento per guardarla davvero: era tutta bianca, con i bordi delle pareti colorate di blu, c'era un letto a una piazza e mezza, la portafinestra era grande quasi quanto tutta la parete e c'era un piccolo balcone; l'armadio, bianco, era abbastanza capiente da essere rimasto un bel po' di spazio dopo aver sistemato tutte le sue cose, sotto la scrivania c'erano tre cassetti e sopra c'era una mensola abbastanza lunga.

Volendo far passare il rossore alle guance, andò in bagno a sciacquare il viso.

Quando tornò sentì il telefono squillare: chiuse di nuovo la porta, lo prese in mano e diede due colpi di tosse, fece anche un sorriso prima di rispondere, come se avesse potuto vederlo chi stava dall'altro capo del telefono.

«Jackson! Come stai?» probabilmente avrebbe capito comunque, ma almeno provava ad avere un minimo di entusiasmo.

«Bene, sono nella mia nuova stanza da letto, ha le pareti con i brillantini, come piace a te, tu?» dalla voce sembrava stare bene ed essere tranquillo, Jinyoung era contento di questo.

«Tutto bene, sono appena arrivato a casa di Ray, è bellissima e Kevin fa morire dalle risate.» Fece una leggera risata alla fine, che gli uscì quasi spontanea.

«Immagino, Ray mi ha detto che gli scorsi tre esami che ha fatto li ha superati con la lode.» Il corvino si ricordò di quando Jackson glielo aveva detto, e si ricordò dello stesso Kevin che dieci minuti prima, al telefono, aveva buttato giù tutte le brutte parole che conosceva, dato che una collega gli aveva appena detto che un esame era stato anticipato di due settimane e lui non aveva nemmeno aperto gli appunti.

«Si, me l'hai detto qualche giorno fa, comunque scusami tantissimo ma devo andarmi a fare una doccia, subito. Qui c'è un caldo che si muore.» Era dannatamente vero, Jinyoung aveva la maglietta umida, ed era quasi sera.

Entrambi sorrisero, dai lati opposti del telefono, un po' contenti di sapere l'altro sereno, un po' con quell'angoscia che non scende giù.

«Va bene, anche io devo staccare.» Jinyoung pensò subito a quanto fosse disorganizzato nelle proprie cose e al fatto che probabilmente non aveva sistemato nulla, non aveva nemmeno preso il pigiama forse. Decise di non ricordarglielo, lo rimproverava fin troppo spesso e non era il caso di ripetere la ramanzina anche quel giorno.

«Ti amo, buonanotte, da te dovrebbe essere già sera, mangia.»

Jackson rise a sentire la solita frase del fidanzato, e Jinyoung non poté che sorridere allo schermo del telefono, questa volta senza neanche pensarci.

«Ti amo, buonanotte in anticipo e cerca di farti qualche ora di sonno.»

Si scambiarono un ultimo «ciao» e staccarono la chiamata. 

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Capitolo 4
*** IV. Mothers ***


07:32 a.m. EST, New York City, United States of America.

Second day.

 

«Vorrei non essermi mai svegliato.»

Jackson sospirò subito dopo aver aperto gli occhi, avvolto come un involtino alle lenzuola e con la testa schiacciata contro il cuscino nel tentativo di coprire le orecchie.

Sentì bussare, ancora, alla propria porta e rispose con un mugugno, cercando di uscire dal cumulo di tessuti che era il letto.

Bussarono più forte e a Jackson venne voglia di distruggere la porta. 

«Avanti.» rispose, invece, semplicemente. Aveva ancora talmente tanto sonno da non avere la forza per muoversi, non avrebbe certo cercato quella per lamentarsi o, peggio, urlare.

«Jackson! Alzati ed esci da questa stanza o la faccio esplodere! Non che non lo sembri già ora...» Ridacchiando l'ultima frase, Mark guardò la stanza.

Non fu sorpreso dal fatto che ci fosse una confusione madornale: sapeva da fonti certe che ci avrebbe messo almeno tre settimane prima di ordinare tutte le sue cose senza nessun tipo di compagnia e supporto.

La risposta del biondo non tardò ad arrivare: con un gesto molto semplice lo mandò a quel paese. Mark rise e aiutò l'altro a liberarsi delle lenzuola, per poi sedersi accanto a lui e dargli il «buongiorno».

Jackson, molto lentamente, si alzò e fece una veloce doccia.

Ad un certo punto sentì una risata e si incamminò verso la cucina, dove trovò il rosso che si teneva allo stipite della porta per non cadere, tanto rideva di gusto.

«Che è successo? Anche io voglio ridere.»

Gli altri due coinquilini avevano gli occhi sgranati e non sembravano intenzionati a parlare; quindi si preparò una colazione molto veloce mentre aspettava una risposta.

«Li ho trovati che si stavano per mangiare la faccia, ho fatto l'errore di applaudire e le loro facce sono diventate queste.» Spiegò Mark non appena si tranquillizzò, rubando uno spicchio di frutta dal piatto appena preparato.

Jackson, dopo aver mangiato, si preparò velocemente e uscì.

Non era una persona molto abitudinaria, ma c'erano delle piccole cose, nella giornata, che nessuno doveva togliergli: la prima di queste era correre, e New York sembrava essere perfetta a qualsiasi orario, non c'era mai troppo caldo.

Per quel giorno decise di esplorare un po' la zona per imparare ad orientarsi. Si trovava abbastanza vicino alla facoltà che avrebbe frequentato di lì a qualche giorno, ci andò per sbrigare dei documenti e avere qualche informazione.

In un certo momento tra mezzogiorno e le due del pomeriggio, si ritrovò con una palla di riso fritta in mano, presa in un negozietto decorato all'italiana, seduto sulle scale di un parchetto che non si capiva se fosse pulito o abbandonato.

Si sentiva davvero tranquillo in quel momento, pensava al proprietario del negozietto che lo aveva fatto ridere per almeno dieci minuti di fila raccontando di un cliente che lo aveva fatto uscire fuori di testa, mangiava la palla di riso e beveva il the alla pesca con della musica jazz messa ad un basso volume.

Era così immerso nei propri pensieri che nemmeno si accorse di qualcuno che si avvicinava e si sedeva accanto a lui. Lo fece quando gli arrivò del fumo in faccia, voltò la testa verso quella direzione e si ritrovò Mark davanti, con un sorriso sul volto e la sigaretta tra le dita.

«Volevo farti cadere dalle nuvole in modo delicato, così ho evitato di urlare il tuo nome.» Si scusò, prima di fare un tiro.

«Hai un concetto particolare di delicatezza.» Mentre lui si stropicciava gli occhi, il rosso uscì pacchetto e accendino dalla tasca, e l'altro accettò con un cenno del capo.

«Come mai sei qui?» Chiese Jackson ad un certo punto, preso dalla curiosità.

«Ci vengo ogni tanto, è tranquillo e quando non ho ispirazione mi aiuta. Tu, piuttosto?»

Il ragazzo non sapeva cosa rispondere, ad essere sincero. Aveva semplicemente smesso di guardare il navigatore e si era incamminato verso la sua nuova dimora, più a istinto e memoria che altro. «Non ho idea di come ci sia arrivato, sinceramente, siamo vicini o lontani da casa?»

Mark ridacchiò prima di rispondere, «circa un quarto d'ora se cammini, se corri sono cinque minuti». Continuarono a parlare del più e del meno, fino a quando il telefono del più grande non iniziò a suonare.

«Mamma?» aveva lo sguardo accigliato, si erano sentiti fino a qualche ora prima, perché chiamarlo ora?

«Spiegami perché sono a casa tua e tu non ci sei!» la madre lo sgridò, scherzando ovviamente.

Lui spalancò gli occhi e sorrise, «arrivo ma! Non uscire senza di me.»

«Tranquillo, ci sono Kris e l'altro ragazzo di cui non ricordo mai il nome a farmi compagnia, torna con calma, porta anche il nuovo coinquilino, voglio conoscerlo.»

Staccarono la chiamata e Mark si alzò di colpo, prendendo lo zaino in mano, «vieni con me o resti qui? Io sto andando a casa.»

«Vengo con te.» Anche Jackson si alzò, mettendo il proprio zainetto in spalla, e seguì l'altro.

Era bello sapere di non star rischiando più di perdersi, dopo una giornata.

Quando entrarono dalla porta, sentirono delle voci provenire dalla cucina, e appena varcarono la soglia della stanza, i capelli di Mark divennero un tutt'uno con quelli della madre che lo stava abbracciando. Aveva dei capelli davvero lunghissimi, folti, e tinti dello stesso identico colore di quelli del figlio.

«Tu devi essere Jackson, l'ultimo arrivato.» La donna si rivolse al biondo. Dopo una veloce presentazione dei due, quest'ultimo andò nella propria stanza, doveva rispondere al telefono alla propria mamma.

«Come va tesoro?»

«Mamma, è la terza volta che chiami oggi, va tutto bene, esattamente come quattro ore fa.»

Risero entrambi, ma la prima a smettere fu la donna. «Non posso preoccuparmi per mio figlio? Voglio solo sapere se stai bene.» Il sospirò che ne seguì fece sentire un po' in colpa Jackson per le parole dette in precedenza.

«Scusami. Comunque sì, sono appena rientrato.» Quando terminarono la chiamata, il ragazzo andò a fare una doccia.

Nel momento in cui uscì da bagno, la prima cosa che percepì fu un fortissimo odore di casa.

O meglio, nella sua testa si chiamava odore di casa, comunemente era conosciuto come odore di pollo fritto e cucina cinese. 

 

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Capitolo 5
*** V. Coffee cake ***


06:33 a.m. PST, Los Angeles, United States of America.

Second Day.

 

«Ho preso la torta al caffè, dai, non puoi non alzarti con questo presupposto!»

Solo con quelle parole Ray riuscì a far aprire gli occhi a Jinyoung, che fino a un secondo prima non aveva la minima intenzione di alzarsi o anche solo di rispondergli con "sparisci" o qualcosa di simile.

«Un attimo.» Furono queste le sue parole, dette senza una briciola di volontà, prima di farsi forza e togliersi le coperte di dosso, alzandosi e cambiandosi, veloce come un razzo.

«Ray, hai ventun anni, giusto?» il moro fece la domanda con la testa dentro la maglietta e l'altro riuscì a capirla a stento.

«Sì... perché?» aveva lo sguardo corrucciato, perché quella domanda? E, soprattutto, perché farla alle sei e mezza del mattino?

«La mattina divento un po' più stupido di quanto già non sia.» Un modo carino per non dire che lo aveva sognato e che nel sogno aveva almeno settant'anni e la barba lunga fino all'ombelico.

Quando finì di vestirsi e si lavò la faccia, aprendo bene gli occhi, si accorse che Ray era già andato via dalla sua stanza, quindi si diresse in cucina.

«Oddio, mio unico vero amore, vieni da papà!» Appena entrato, vide quello che i comuni esseri umani chiamano caffè e ci si avvicinò con gli occhi incantati.

«Ragazzi, vi prego ditemi che è buono.» Si sedette, per poi dare il buongiorno a Kevin, che ricambiò con un sorriso tirato mentre si passava una mano tra i capelli già arruffati.

«Lo è, prendi.»

Ovviamente Jinyoung non si fece pregare: bevette metà della tazza di caffè, dopo di che prese un pezzettone di torta e lo affogò nella bevanda, per poi mangiarlo con la sua, tipica, lentezza asfissiante.

Appena terminò guardò l'orologio che era appeso nella parete di fronte a lui e andò in panico: erano le otto e un quarto.

Guardandosi attorno, finalmente sveglio, si rese conto che Kevin non c'era più, probabilmente era già in facoltà con i colleghi a ripassare, e vide Ray uscire dal bagno, sistemato e, quindi, pronto per andare via anche lui.

«Tieni, quella rossa è del cancello principale, quella gialla del portoncino della scala e quella bianca della porta di casa, quella non colorata della tua stanza, anche se non so fino a che punto ti serva.» Ridacchiò e appoggiò il piccolo mazzo di chiavi, che prima oscillava davanti agli occhi di Jinyoung, sul tavolo.

«Ma non ti serve l'apribottiglie?» chiese ad alta voce lui, prendendo le chiavi in mano e osservando il portachiavi, che era, appunto, un apribottiglie.

«Un pensierino da parte mia, sempre serve quando non ce l'hai!» Rispose il più grande urlando, per poi uscire di casa e sbattere la porta, chiudendola.

«Figo.» Si riferiva sia al pensierino che al ragazzo appena andato via, non c'era nessun dubbio nella sua testa.

Doveva alzarsi, e lo sapeva anche lui, l'orologio che continuava a osservare sembrava volerlo picchiare, per questo ci mise solo un quarto d'ora per andare in bagno e prepararsi.

Ne uscì poco meno di un'ora dopo, pulito, profumato, e col telefono in mano, pienamente intenzionato a mettersi sul divano a perdere almeno un'altra mezz'ora di tempo prima di sistemare la cucina e uscire di casa.

La fortuna non girava a suo favore quel giorno, così fu costretto a rispondere alla chiamata della suocera «pronto?»

«Jinyoung, scommetto che sei sul divano a non far nulla, vero? Spero almeno che tu abbia già sentito Jackson.»

Jinyoung non sapeva se ridere, perché sapeva che sua suocera capiva sempre quello che stava facendo anche da una singola parola, o piangere, perché non aveva ancora chiamato il proprio fidanzato e il senso di colpa per il pensiero di qualche minuto prima si sommò a quello scatenato dalla donna.

«Hai centrato, ancora sto dormendo in piedi e tra un'ora ho l'appuntamento nella segreteria dell'università.»

Parlarne gli faceva venire solo più voglia di mettersi le mani nei capelli e gli si corrucciavano gli occhi per il fastidio interiore che provava, ma non poteva farlo, capelli e trucco si sarebbero rovinati subito.

Sentì un sospiro divertito dall'altro capo del telefono «comunque, tutto bene?»

Dopo un resoconto veloce da parte di entrambi, la signora decise che era il momento di staccare. «Cerca di chiamare Jackson, noi ci sentiamo presto, va bene?»

Jinyoung, appena staccò la chiamata, si mise all'opera: sistemò la propria stanza, pulì la cucina e uscì di fretta dalla propria nuova casa. Nell'ascensore, piuttosto che pensare a problemi pratici, come il fatto che non aveva idea di come arrivare nella facoltà dove si trovava la segreteria studenti dell'università, pensò, quasi terrorizzato, alle parole della suocera e chiamò il fidanzato.

Arrivato con soli dieci minuti di ritardo, la camicia mezza sgualcita e il fiatone, riuscì comunque a sbrigare tutto entro l'ora di pranzo, nonostante i continui spostamenti da un punto all'altro del palazzo, grande come un isolato.

Era in quei momenti che si pentiva di non seguire l'esempio di Jackson, che correva almeno mezz'ora al giorno, tutti i giorni.

«Oddio, scu – la giornata non potrebbe andare meglio, pensò ironico, alzando lo sguardo verso la persona contro cui si era scontrato – Ray! Che ci fai qua?» 

Si vide davanti niente di meno che il proprio coinquilino e fece un sorriso smagliante prima di abbracciarlo, consolato dall'avere finalmente qualcuno con cui parlare che conoscesse.

E poi sperava che gli avrebbe dato indicazioni su dove fare un buon pranzo.

«Beh, studio qua, tu immagino sia stato in segreteria, hai già mangiato?»

Jinyoung negò con la testa, così venne preso per il polso e trascinato dall'altro verso l'esterno del palazzo in cui si trovavano.

«Come ti sono andate le lezioni?» chiese il moro, mentre entrambi rallentavano il passo e provavano a sincronizzare la camminata per passatempo.

«Bene, in realtà ne ho avute solo due, anche abbastanza brevi, poi ho passato il resto del tempo in aula studio con i miei amici.»

Jinyoung rise, e l'altro gli fece la linguaccia, spalancando poi gli occhi e sorridendo.

Arrivarono in un bar circa due minuti dopo, e Ray presentò a Jinyoung i suoi amici, che erano quattro o cinque, non ci prestò troppa attenzione.

Comunque, quei nomi restarono nella testa del ragazzo per un minuto scarso, cioè il tempo di entrare e sedersi.

Però una cosa era sicura: Ray aveva buon gusto, sia in fatto di cibo che di ragazzi.

 

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Capitolo 6
*** VI. Boredom ***


00:25 p.m. EST, New York City, United States of America.

Fourth day.


Se Jackson avesse dovuto descrivere il suo primo giorno di lezioni universitarie a New York avrebbe scelto una sola parola: noioso. Una noia quasi soffocante, che non ti fa addormentare ma ti mette un certo senso di ansia per tutto il tempo.

A Seoul si divertiva tantissimo: i corsi che frequentava non erano pieni, non rischiava di finire all’ultimo banco dove capiva una parola su dieci, i professori cercavano di spiegare in modo che chiunque potesse comprendere, erano molto preparati ed erano aperti a qualunque tipo di dialogo, i compagni che aveva conosciuto sembravano personaggi per quanto erano strani e divertenti.

In quel momento si ritrovava a vivere la situazione opposta: i professori non avevano nemmeno chiesto la firma per la presenza, nell’aula sembrava esserci l’eco per quanto era silenziosa, si sentiva solo la voce del professore. Tutti gli studenti sembravano persi nei loro pensieri, anche nei corridoi sembravano divisi in gruppi piccolissimi, la confusione era fatta dai bisbigli.

Si sentiva come dentro una rappresentazione su scala di New York stessa.

«Jackson» era la decima volta che il rosso provava a chiamarlo, ma lui non dava segni di risposta.
«Jackson» aveva provato a scuoterlo, a urlargli nell’orecchio, a togliere qualcosa dal tavolo, ma l’altro non dava il minimo accenno di aver capito che c’era qualcuno seduto vicino a lui.
«Considerami!» Tolse la penna dalla mano di Jackson, che si girò con lo sguardo infuriato verso di lui.

Appena capì chi lo stava infastidendo, il ragazzo si rilassò e fece un sorriso di cortesia.
«Come mi hai trovato? Non hai lezioni?» chiese, riprendendosi velocemente la penna dalla mano del rosso e posandola, insieme a tutto il resto, nella borsa a tracolla.
«Hai fame? Mangiamo insieme.» Mark lo prese per il cappuccio e lo trascinò, letteralmente, fuori dall’aula studio, verso l’ala opposta della facoltà.

Jackson aveva visitato solo due facoltà fino a quel momento: quella dove si trovava la segreteria studenti, cioè quella di giurisprudenza, e quella di ingegneria, dove studiava.
In quel momento si trovava al terzo piano, su una scala che portava ad almeno altri tre o quattro piani più sopra. In realtà Jackson non si era ancora ambientato, la struttura era molto dispersiva e la posizione delle scale che iniziavano e si interrompevano in piani a caso non aiutava.
Era tutto bianco, un po' troppo per la mente creativa di Jackson, che se la immaginava piena di murales e decorazioni appese, probabilmente anche di indicazioni, non capiva davvero come facesse l’altro a sapere dove stessero andando.

E poi c’era vetro, ovunque.
In realtà l’università non aveva nessun difetto, più o meno.
Il vero problema era che Jackson odiava i cambiamenti, soprattutto quelli così rilevanti, e non si era ancora abituato alla città, stava risultando più complicato del previsto prendere in modo positivo quel primo giorno di lezioni.
«Cosa vuoi da mangiare? Resta seduto.» Arrivarono alla mensa e Mark, dopo un’alzata di spalle di Jackson, che avrebbe dovuto significare “quello che prendi tu”, andò velocemente a prendere il cibo.

Mark era un anno più grande di Jackson, ma non si vedeva per niente, anzi, la sua allegria lo faceva sembrare decisamente più piccolo di lui. I capelli rossi gli davano l’aria sbarazzina che dava il tocco finale.

Quella mattina, entrambi appena svegli, si erano scontrati vicino la porta del bagno, e da quel momento Mark aveva fatto un sorriso che si era portato fino a quando non bevette il caffè e non si svegliò completamente, facendolo cadere dalle nuvole e dal mondo dei sogni.
Sembrava tenerci parecchio a lui, e anche se non sapeva perché, era felice di trasmettere un po' di gioia alle persone, se poi era uno come lui ancora meglio.

«Sono tornato!» tornò con due vassoi nelle mani, una persona normale avrebbe fatto cadere tutto prima ancora di prenderli, invece lui era arrivato fresco come una rosa e li aveva praticamente lanciati sul tavolo senza far cadere o rompere nulla.
Il biondo restò per qualche secondo immobile a fissare Mark, come se avesse appena fatto una magia davanti ai suoi occhi. «Jackson? Tutto bene?» gli passò una forchetta davanti agli occhi.

Due ragazze, probabilmente matricole, sedute ad un tavolo vicino, scoppiarono a ridere vedendo quella scena. Si erano immedesimate abbastanza in Jackson, ma vedere tutto dall’esterno faceva ridere.
«Sì… solo… lascia stare. – Jackson ridacchiò sommessamente prima di guardarlo – Mangiamo.» Gli prese la forchetta dalla mano e iniziò a mangiare, senza nemmeno sentire benissimo i sapori dato che aveva un po' di mal di gola.

Mark, che vedeva le due ragazze dietro l’altro piegate dalle risate, fece uno sguardo corrucciato, ma sembravano a posto, quindi non indagò oltre.
«Che succede?» chiese Jackson, coprendosi la bocca mezza piena, poi fece oscillare una polpetta davanti a Mark, che non ci pensò un attimo e la addentò.
Nel frattempo, le due ragazze risero ancora di più, e Mark cercò di capire quanto divertente potesse essere la situazione vista da occhi esterni.
«Niente, – avevano appena terminato di mangiare – comunque io devo andare, ho lezione tra cinque minuti scarsi e per trovare l’aula so già che ci starò un secolo.» Si alzarono entrambi e iniziarono a discutere per decidere se Jackson dovesse tornare la propria metà del conto all’altro o no.
Mentre uscivano, le due ragazze iniziarono ad immaginare piccoli film comici con i due ragazzi come protagonisti, continuando a ridere a crepapelle.

Jackson era leggermente più contento di prima, la mensa sembrava essere l’unica sala di tutto l’edificio, per quello che aveva visto finora, a non essere del tutto privo di colori: era rimasto piacevolmente sorpreso dalla presenza di piccoli quadretti, che adornavano le pareti color salmone, e dai tavolini beige dipinti a strisce bianche.

Quando i due ragazzi si separarono, il sorriso che aveva in volto era un po' più reale di qualche ora prima.

Sorriso che scomparve totalmente dieci minuti dopo l’inizio della lezione successiva: un professore con i capelli grigi e una tuta fluorescente ripeteva a pappagallo quello che era stato scritto, almeno due giorni prima, sulla lavagna a più di una quarantina di studenti, e ognuno di questi era più assonnato dell’altro.

Riuscì a mantenere alta la dignità e a non appisolarsi sul tavolo durante la lezione, ma appena arrivato a casa riuscì a stento a fare una doccia, si addormentò decisamente prima dell’ora di cena.

Forse nemmeno il fuso orario lo aveva aiutato molto ad ambientarsi.

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Capitolo 7
*** VII. Different ***


07:55 a.m. PST, Los Angeles, United States of America.
Fourth day.


«Emozionato?»
Jinyoung trascinava i piedi, lungo la strada, pensando a quanto fosse diverso…
Cosa? Tutto: la gente che gli stava attorno, il modo di esprimersi, la lingua, il sole che accecava, l’odore di salsedine mischiato a quello di bruciato, il suono delle voci di Ray e Kevin.

Aveva ancora gli occhi socchiusi e i capelli arruffati, i due coinquilini lo avevano trascinato giù dal letto solo una mezz’ora prima, la sveglia aveva suonato ininterrottamente per un’ora sfondando i suoi poveri timpani.

«Jinyoung, è ora di svegliarsi!» Kevin gli batté le mani davanti al viso, facendolo cadere dalle nuvole.
«Hey! Dimmi.» Batté le palpebre un paio di volte prima di guardarsi intorno e riprendersi un po’.
Gli altri due scoppiarono a ridere, Jinyoung era ancora traumatizzato dalla separazione con il proprio cuscino.

Ray controllò l’ora sul telefono prima di smettere di ridacchiare.
«Abbiamo ancora un quarto d’ora e siamo qua davanti, tu hai bisogno di un caffè.» Disse mettendo un braccio sulle spalle del corvino.

Attraversarono la strada, arrivando di fronte ad un piccolo chiosco.
Entrando, si ritrovarono immersi in decorazioni a tema natura, foto di famiglia appese e piantine.
Jinyoung osservava, come fosse incantato, ogni cosa che lo circondava: le due ragazze sorridenti che servivano al bancone, i due amici che sembravano quasi parte del posto e il vecchietto che pagava un liquore.

«Hey! Ci fai tre caffè?» Kevin, appoggiato con i gomiti ad un punto appena pulito guardava la cameriera dalla pelle più chiara, impegnata a servire due signore.
Quando finì, la ragazza si sporse verso di lui e gli diede un bacio sulla guancia, esclamando un «buongiorno» in francese e sbattendo ripetutamente le palpebre in modo sensuale, il sorriso divertito che aveva sulle labbra e che le faceva le guance più paffute di quanto non fossero indicavano però che stesse scherzando in modo evidente.

«Subito, mon amour.» Sussurrò qualcosa all’altra ragazza, che aveva dei capelli ricci molto voluminosi, e si girò a salutare gli altri due. «Ciao, tu sei… Park Jinyoung, giusto?»

L’interpellato, tornato alla realtà, abbassò leggermente la testa a mo’ di inchino e rispose. «Sì, sono io, tu invece sei?».
La ragazza sembrava avere un volto molto familiare, a Jinyoung sembrava quasi di conoscerla da anni.
«Piacere, Choi Jinhee, sono la cugina del grandissimo pezzo di merda in piedi accanto a te.» Rispose lei ridendo, dopo di che si girò e iniziò a preparare le bevande per i tre.

Quando uscirono dal chiosco, il sorriso di Jinyoung si spense: per dieci minuti si era sentito tranquillo, quasi come se fosse stato a casa sua, invece in quel momento l’angoscia di esserne lontano diecimila chilometri era tornata a farsi sentire.

Entrarono nella facoltà e si divisero. Aveva visitato la struttura qualche giorno prima e sapeva dove doveva andare, ma gli sembrava di essere lì per la prima volta.
Attraversava i corridoi pensando a quando attraversava quelli dell’università di Seoul, con Jackson che gli arrivava dietro e rischiava di soffocarlo o gli teneva il braccio sulla vita con fare eccessivamente protettivo.

Six years ago…
«Jinyoung-ah! Aspettami!» si vedevano sempre davanti casa di Jinyoung, ma il giorno prima Jackson aveva dormito dai nonni e non poteva arrivarci a piedi, così il nonno lo aveva accompagnato con l’auto. La campanella era appena suonata e stavano entrando tutti, ammassati al cancello, a scuola.
Jinyoung aveva riconosciuto subito la sua voce e si era messo in disparte, fermandosi per aspettarlo.
«Pensavo che non potessi sentirmi.» Disse Jackson, scuotendo i capelli all’altro, che arricciò il naso come infastidito. In realtà anche il minimo contatto fisico con lui gli faceva venire i brividi, già da qualche tempo, forse da sempre.
«Con la tua voce riesci a farti sentire anche alle manifestazioni quando parli normalmente, figurati quando urli. Andiamo, dai.» Gli prese la mano e lo trascinò verso la loro aula.
«Jinyoung-ah.» Jackson strinse la presa sul polso e lo fermò, facendolo girare verso di lui.
«Dimmi Jackson-ah.» Aveva gli occhi ancora socchiusi per il sonno e le spalle ricurve in avanti, sembrava appena uscito dal solito involtino di lenzuola che si creava attorno quando dormiva.
«Hai mangiato?» si guardarono negli occhi quasi in tono di sfida.
«No, dobbiamo entrare.» Jinyoung cercò di tirarlo verso l’aula invano così, quando si lasciarono andare, si trovò la faccia sul petto dell’altro, dato che era appena stato salvato da una caduta spettacolare.
Meravigliosamente ridicola, come direbbero loro.
Iniziò a sentire le guance caldissime senza che nemmeno lui capisse perché, ma non poteva certo farsi vedere imbarazzato.
Lo abbracciò senza pensarci.
Non poteva fare una scelta più sbagliata: il suo profumo gli invase la mente e la sensazione di sentire ogni centimetro del suo corpo contro il proprio gli fece girare un po’ la testa.
Così decise di arrendersi, appoggiarsi al suo petto e aspettare che passasse almeno il rossore alle guance.
«Tutto bene laggiù?» Jackson era solito prendere in giro Jinyoung, in questo caso per il fatto che era molto più basso di lui, anche in momenti impropri con piccole frecciatine.
«Smettila, andiamo a mangiare, voglio il dakgalbi.» Camminò velocemente verso le scale, e Jackson lo raggiunse subito, correndo.
«Sei veloce per essere un nanetto.» Ridacchiò Jackson non appena venne raggiunto sulle scale.
«Non ti sopporto più.» Tutto l’imbarazzo per Jinyoung era passato, sostituito dall’irritazione.
«A proposito, offri tu!» continuò Jackson a voce alta, mentre saltava una finestra delle scale interne per andare nella scala antincendio.
In quel momento era più sveglio che mai, circondato non più da coperte ma da emozioni.

Adesso Jackson era pochi centimetri più basso di lui, ma comunque più veloce e resistente. Inoltre, era quello che più prestava attenzione al cibo, a differenza di qualche anno prima.

E, soprattutto, non sarebbe arrivato all’improvviso, chiedendogli come stesse o se si fosse ricordato di prendere tutto da casa.

Avrebbe dovuto aspettare ancora cinquantasette giorni prima di poter anche solo prendergli la mano e guardarlo negli occhi.

 

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Capitolo 8
*** VIII. Charm ***


consiglio l'ascolto di "tomorrow" di ChanYeol durante la lettura della prima parte.

09:26 p.m. EST, New York City, United States of America.

Seventh day.


«Hey!» Jackson era vestito di tutto punto, indossava una camicia bordeux a pois bianchi con le maniche alzate fino ai gomiti, un jeans semplice dal taglio dritto e dal lavaggio chiaro, delle scarpe in tela nere. Gli orecchini, i due anelli e il solito orologio completavano il look.

«Ciao, come va?» dall’altro lato del telefono c’era uno stanco Jinyoung, o almeno così sembrava dalla sua voce e dal sospiro che aveva tirato dopo aver finito di parlare.
«Mi sto ambientando. Invece da te tutto bene? Non sembri troppo a posto dalla voce.» Era steso sul letto, i piedi che penzolavano al di fuori, e faceva bolle con la gomma che masticava.
«Sto morendo di sonno, sto tornando adesso a casa e non ho la minima voglia di fare nulla.» Probabilmente era per strada, si sentivano i rumori della città in sottofondo.
«Povero, ora vengo a farti le coccole.» Rispose in modo tenero il biondo, cercando di farlo ridere un po’, le note infantili di Jackson avevano sempre fatto ridere l’altro.

Five years ago…
«Che facciamo adesso? Io mi annoio.» Jinyoung era estremamente annoiato: aveva passato più di un’ora dentro il salone di bellezza, dove Jackson si era fatto colorare i capelli di rosa. Quando erano arrivati a casa sua, si era trascinato a forza sino al letto: per lui la noia equivaleva a sonnolenza eccessiva.
In quel momento erano entrambi sdraiati, Jackson con i piedi penzolanti perché non aveva voluto togliere le scarpe, Jinyoung con le gambe incrociate e la testa appoggiata alle gambe dell’altro, i suoi occhi osservavano i capelli rosa pastello, lucenti sotto i raggi del sole che entravano dalla finestra.
«Per cominciare, puoi darmi un bacino.» Rispose Jackson, cambiando timbro di voce, in modo da imitare un bambino, e imbronciando le labbra.
Improvvisamente, Jinyoung scoppiò a ridere, mettendosi a sedere e piegandosi in due dalle risate, lasciando Jackson interdetto e curioso.
«Che succede?» Chiese quindi lui, tornando serio.
«Ricordi la voce di tua sorella quando era più piccola?» Jinyoung continuava a ridere talmente tanto da riuscire a parlare a stento.
Jackson ricordava che la voce di Jennie, fino a qualche anno fa, a volte faceva ridere l’altro tanto da non riuscire a trattenersi, ma non capiva il collegamento tra questo e la risata di quel momento.
«Ecco, l’hai capito, la voce che hai fatto trenta secondi fa è identica.» Entrambi risero un bel po’, mentre Jackson prendeva l’altro in giro per alcune brutte figure fatte a causa di questo suo punto debole. 
Nel frattempo, entrambi memorizzavano, come se stessero facendo una fotografia, le reciproche risate, pensando che quel momento fosse da ripetere all’infinito.
«Io voglio il bacino. E comunque dovremmo fare i compiti, ti ricordo che domani è lunedì.» Jackson si ricompose per primo e, dopo essersi seduto sulla sedia girevole della scrivania ed essersi avvicinato al moro, gonfiò le guance.
Jinyoung sbuffò eccessivamente ricordando i compiti, dopo di che avvicinò le labbra a quelle di Jackson, sfiorandole appena, e ricominciò a sbuffare. Andò dall’altro lato della cameretta e trascinò lo zaino vicino al letto.
«Ora che hai ottenuto il bacio, aiutami a fare matematica, ti prego.»
Jackson annuì senza fiatare, con il cuore fermo in gola e il respiro mozzato. Non riusciva a crederci…

Entrambi sospirarono, sapevano entrambi che mancava ancora più di un mese e mezzo a quel "ora".

«A proposito, è già passata una settimana, come va lì?» chiese il moro.
«In realtà abbastanza bene, te l'ho detto, mi sto ambientando. L’università è una noia mortale, anche perché non sono ancora riuscito a stringere amicizia con qualcuno che frequenti i miei stessi corsi, però Mark, Kevin e White sono simpatici, mi animano la giornata.» Rispose Jackson, pensando al particolare temperamento dei suoi coinquilini.
Sentì il tintinnio di un mazzo di chiavi dietro la leggera risata del fidanzato. «Io stacco, sono arrivato ora a casa e ho bisogno di una doccia, va bene?»
«Va bene, ci sentiamo domani, ti amo.» Jackson si alzò e mise il profumo, mentre aspettava che l’altro salutasse e terminasse la chiamata.
«Ti amo anch’io, a domani.»

Un minuto dopo, il ragazzo era seduto sul bancone della cucina, con un cappottino nero leggero addosso, aspettando che Mark uscisse dal bagno.
Quando lo vide, si alzò di scatto e gli sorrise. «Dove mi porti stasera? Cosa mi devo aspettare?».
«Spero innanzitutto che tu ti diverta, cerca anche di capire quanto ti possa piacere a livello lavorativo il posto, d’accordo?» la voce melodica del rosso quasi lo incantava, a volte lo ascoltava senza realmente capire cosa stesse dicendo.
«D’accordo, andiamo.» Presero entrambi le chiavi della casa e uscirono.

Mark, mentre Jackson premeva il bottone dell’ascensore per arrivare al piano terra, ne approfittò per tenersi a lui, aggrappandosi con un braccio a quello dell’altro.
Il minore capì quanto il gesto dell’altro fosse intenzionale solo qualche ora dopo, mentre parlavano davanti a due boccali di birra.

Erano dentro un locale situato nel quartiere di Chelsea.
Era davvero accogliente, con tutte quelle luci calde e la musica jazz di sottofondo. Il bancone era pieno di sgabelli, ed erano tutti pieni.
Erano le dieci di sera e Jackson poteva vedere intorno a sé persone di ogni età.
«Scusami, ma non ho capito una parola di quello che hai detto.»
Il ragazzo era rimasto per più di dieci minuti a osservare una partita a carte tra due signori e due signore, seduti qualche tavolo distanti rispetto ai due ragazzi. A lato del tavolo, due donne più giovani ridevano probabilmente alle parole dei più anziani, che però Jackson non aveva avuto modo di ascoltare.
«L’avevo capito, ho smesso di parlare almeno cinque minuti fa. Io vado, ti lascio la giacca.» Mark finì di parlare e si alzò, lasciando lo sgabello vuoto e la giacca sulle gambe del più giovane, che non ebbe il tempo di chiedergli dove stesse andando.

Quando però lo sentì salutare e presentarsi al microfono, si girò verso il piccolo palco e vide qualcuno di diverso.
La voce di Mark in quel momento si adattava a pieno a lui, in un modo che Jackson non aveva ancora visto.

Si riprese solo dopo qualche minuto, quando una delle due bariste lo chiamò per chiedergli se potesse passargli il numero del ragazzo sul palco.

Probabilmente ci sarebbe voluto un po’ prima che si abituasse al suono della voce di Mark quando cantava, senza incantarsi.

 

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Capitolo 9
*** IX. Long Island ***


07:13 p.m., Los Angeles, United States of America.

Seventh day.

 

«Alzati! Sei arrivato da una settimana, non puoi già essere stanco.» Ray stava tirando Jinyoung per un braccio, cercando di convincerlo ad uscire con lui.

Effettivamente il ragazzo, morente nel proprio letto, era pronto: Ray lo aveva costretto a prepararsi appena era rientrato a casa. Solo che appena aveva toccato il cuscino con la testa, circa un'ora prima, era crollato.

Quando Ray era arrivato di soprassalto nella stanza, iniziando a scuoterlo come se avesse avuto paura che fosse morto, lui aveva aperto gli occhi di scatto e lo aveva spinto a terra, accorgendosi solo dopo che non era l'assassino che stava cercando di ucciderlo nel sogno.

Dopo diversi minuti di lamentele, si alzò e sistemò i capelli.

«Dove mi porti? Deve essere bellissimo, o pagherai con il sangue le tue azioni.» Jinyoung si rivolse a Ray con voce inespressiva e senza guardarlo negli occhi, impegnati a guardarsi allo specchio: stava cercando, ancora intontito dal pisolino, di sistemare la maglietta bianca dentro i pantaloni color sabbia che indossava.

«Non so quanto ti piacerà il posto, però conoscerai un sacco di gente.» Rispose Kevin, che era appena entrato nella stanza, con tono allegro. «Comunque io vado a prendere ma chérie, ci vediamo direttamente lì.»

Jinyoung era solitamente una persona socievole e sempre aperta a nuove esperienze e a nuove conoscenze, quindi la frase non lo aveva sconvolto troppo, ma...

«Andiamo!» cinque minuti dopo, Jinyoung sedeva nella macchina di Ray ed erano impegnati a parlare di musica.

«Questa non mi piace per niente, ti prego fammela cambiare!» il moro supplicò l'altro, addolcendo l'espressione del viso e il timbro di voce.

«Va bene, va bene. A volte sembri un bambino capriccioso più che uno studente universitario.» Certi modi di fare di Jinyoung non passavano inosservati al coinquilino, che cercava di farci caso il meno possibile.

Era pur sempre il migliore amico di Jackson, aveva praticamente l'obbligo di riferire qualunque gesto o parola anche solo leggermente fraintendibile. Ma preferiva poteva anche sbagliarsi.

"E se invece non ti stessi sbagliando? Potresti star facendo un torto enorme a Jackson, cerca di pensarci." Queste erano state le parole di Kevin quando Ray gli aveva esposto i propri pensieri, il giorno prima.

«Okay, questa mi piace un botto.» Jinyoung fece tornare Ray coi piedi per terra, alzando il volume della radio e iniziando a muoversi e a canticchiare, sincronizzato al ritmo della canzone.

«Ma è vecchissima! È If Ain't Got You?» per circa trenta minuti parlarono solo di quella canzone e di quanto fosse brava Alicia Keys.

«Jinhee! Reviens ici! Je suis fatigué.» Due ragazzi si rincorrevano, dentro un parcheggio, da almeno quindici minuti. I capelli della ragazza, lunghi e lisci, si muovevano continuamente, quando incontravano la luce del sole al tramonto, spuntavano dei riflessi rossicci, nonostante fossero castani.

«Viens me chercher!» rispose lei al povero ragazzo che la inseguiva, dopo essersi acconciata i capelli in una coda. Poi riprese a correre e si nascose dietro un'auto.

«Trovata!» urlò Kevin, prendendola per i fianchi prima che potesse cadere per la sorpresa.

«Perché ti ostini a mettere i tacchi? Tanto lo sai anche tu che prima di mezzanotte saranno messi in auto con le scarpe in tela che tieni nel cofano.» Le disse piano, appoggiandosi all'auto.

Lei si avvicinò di più a lui col corpo e si appoggiò al suo petto, rilassandosi completamente.

«Vorrei sembrare un po' più donna, ogni tanto...»

Kevin la interruppe subito. «Non è vero, innanzitutto perché sai benissimo di essere molto femminile...»

«Basta, c'è Ryeowook, andiamo da lui.» Si separò poco da lui, lo prese per mano e lo trascinò verso l'auto che era stata appena stata parcheggiata.

«Non ricordo uno solo dei vostri nomi, scusami.» Jinyoung era arrivato al sesto Long Island, non ricordava un solo secondo delle quattro ore passate, sapeva solo che gli faceva male la mascella per quanto aveva riso.

Era appoggiato alle gambe di Ray da almeno venti minuti, sentiva il bisogno di aria fresca ma era troppo pigro per uscire fuori.

«Third! E comunque puoi stare tranquillo, posso ripeterlo altre mille volte per te.» Il ragazzo gli sorrise. Third aveva un sorriso bianco e splendente, dei capelli neri come la pece, probabilmente tinti, e gli occhi dello stesso colore. Portava una giacca bordeux dalla stampa particolare, il tessuto a Jinyoung sembrava parecchio costoso. In realtà era solo per quella giacca che stava continuando a parlarci: quando perdeva la lucidità si concentrava su cose a cui normalmente non avrebbe fatto nemmeno caso.

«Jinyoung, come ti senti?» nemmeno Ray era sobrio, per niente. Ogni bicchierino pieno che gli era passato davanti lo aveva preso, da quando era entrato in quel locale anonimo, circa tre ore prima.

In realtà ci andava solo perché tutti i suoi compagni andavano lì, ma se avesse potuto scegliere avrebbe cambiato luogo di incontro anni fa.

«Sì, tutto bene, però ho il naso freddo.» Rispose l'altro, appoggiando la punta del naso all'addome di Ray, alla ricerca di calore.

Improvvisamente il biondo si alzò e si portò dietro anche l'altro: lui aveva bisogno di riprendere un po' di lucidità e Jinyoung aveva bisogno di aria, aveva le guance rosse per il caldo.

«Mi dai un abbraccio?» disse il moro allargando le braccia, mentre si appoggiava al muro, posto distante dall'ingresso.

Nel frattempo, Ray cercava di rallentare il battito cardiaco. «Vieni qua Jinyoung-ah.»

Qualche attimo dopo, quasi respirava meno di prima: le braccia di Jinyoung lo stavano intrappolando in una morsa che lo stava fossilizzando.

«Sai... in realtà non sopporto la confusione, lo stare in mezzo a troppe persone, la musica ad un volume troppo alto, il rumore perenne di bicchieri che sbattono, la puzza troppo forte di sudore... Di solito l'unica cosa che mi fa tornare lucido è abbracciare qualcuno. Quindi per favore fatti abbracciare per due minuti scarsi, poi ti lascio.» Dopo di che, Jinyoung si lasciò andare completamente e si appoggiò all'altro.

Quando il caldo e il mal di testa iniziarono a passare, il moro aprì gli occhi e appoggiò la schiena alla ringhiera dietro. «Come ti senti, Ray?»

«Sicuramente meglio.» Gli sorrise in risposta, anche se sapeva che lui non lo avrebbe notato: era perso nel cielo stellato.

«Dammi le chiavi, andiamo a casa.»

Trenta minuti dopo, Jinyoung stava rimboccando le coperte a Ray, che dormiva già da qualche minuto. Quando fu sicuro di aver sistemato tutto per lui, gli si sedette accanto.

«A Seoul le stelle non si vedono mai. Quando conobbi Jackson lui mi disse che almeno io avevo la fortuna di sapere di che colore fosse il cielo sopra di me. Così qualche anno fa decisi di trovare qualche stella nella mia vita: punti di riferimento, figure importanti. Ora che posso vedere quelle vere, dovrei smettere di pensare in modo infantile ed eliminare le stelle che ho trovato? Oppure dovrei tornare da loro?»

La domanda che si fece Jinyoung quando raggiunse il proprio letto, fu più concreta, più sfacciata e dolorosa: "Cosa mi sta succedendo? Cosa cazzo ho che non va?"

 

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Capitolo 10
*** X. Milkshake ***


07:31 a.m., New York City, United States of America.

Tenth day.

 

Una dolce melodia aveva attivato tutti i sensi di Jackson, facendolo alzare dal letto senza indugiare un attimo. Era domenica, sapeva perfettamente di dover recuperare le ore di sonno perse durante la settimana, ma non poteva riposare proprio con la musica che gli penetrava i timpani.

Non capiva se gli piacesse o no, o meglio, non capiva se il problema fosse la canzone in sé o il fatto che il volume fosse troppo alto per l'orario.

«Buongiorno.» Proveniva dalla stanza di Mark, ed era lì che era appena entrato, chiudendo poi la porta e sedendosi su un pouf.
«Buongiorno a te.» Mark abbassò il volume e si girò, restando seduto sulla propria sedia con le rotelline. Il sorriso che aveva sulle labbra quel giorno era davvero splendente.
«Come ti sembra?» chiese indicando il computer e l'apparecchiatura che aveva sulla scrivania.

«Davvero bella, però la prossima volta non metterla così alta, non so come facciano Kris e White a dormire ancora.» Jackson accompagnò la risposta con una risata e si alzò velocemente. «Hai già mangiato?».

«In realtà no, ma non ho ancora fame, magari tra una mezz'ora mi faccio qualcosa io.» Il rosso riportò l'attenzione alla sua canzone.
«Porto qualcosa io, sto uscendo comunque.» Concluse Jackson, per poi uscire dalla stanza, mentre Mark metteva le cuffie.

Quaranta minuti dopo si trovava nell'ascensore e osservava il vetro che rifletteva la sua immagine: aveva le sopracciglia spettinate, i capelli stranamente arruffati, la maglia che aveva indossato sembrava non essere stata stirata e la collana che indossava aveva il ciondolo al contrario.

Quando entrò a casa e posò una busta sul tavolo, si sentirono dei passi veloci provenire dalla zona notte della casa: pochi secondi dopo, Kris e White erano in cucina: il primo apparecchiava la tavola e il ragazzo dai capelli bianchi, già seduto, tirava fuori la spremuta d'arancia e i waffles.

«Non ingurgitate tutto senza me e Mark, uno dei due ha avuto il pensiero di chiamarlo?» Jackson cercò di non sorridere mentre rimproverava i coinquilini più giovani, che nel frattempo avevano già i propri bicchieri con la spremuta alle labbra.
Esattamente come Jackson si aspettava, i due ragazzi risposero di no, quindi andò a chiamare Mark, che era ancora nella propria stanza, impegnato a maneggiare fili e prese.

Passati dieci minuti, Kris e White si alzarono e presero le proprie cose, «Portiamo qualcosa noi per pranzo, va bene?» urlò il ragazzo thailandese dall'ingresso, mentre indossava il suo amato giubbotto in pelle bianco.

Quando si ritrovarono dentro il centro commerciale entrarono in panico: White doveva comprare qualcosa per la famiglia e gli amici, dato che qualche giorno dopo sarebbe andato da loro e non aveva davvero la minima idea di cosa prendere.

Dopo circa un'ora e mezza, passata tra negozi di souvenir e bancarelle sparse per la galleria, Kris prese l'altro per le spalle e, una volta fuori, lo fece sedere, «Stai qua, arrivo subito.»

Quando tornò, lo trovò con le gambe incrociate e con la testa retta da entrambe le mani.

«Tutto bene?» gli chiese, sedendosi accanto a lui.

White alzò la testa e tutta la stanchezza andò via: l'amico teneva due frappè enormi tra le mani.

«Tutto bene. Quale prendo?» chiese indicando i due bicchieroni. Il contenuto di uno era tutto bianco, lo sciroppo alla fragola e le gocce di cioccolato sulla panna davano un po' di colore. L'altro, invece, era tutto azzurro, anche la panna era azzurra, e c'erano zuccherini ovunque.

Kris gli passò quello bianco, che si rivelò essere alla vaniglia quando prese un sorso della bevanda, e il sorriso che si era formato sul suo volto si allargò.

«Grazie!» gli lasciò un bacio leggero sulla guancia e si alzò, iniziando a camminare avanti e indietro, sempre vicino a Kris.

«Perché ti importa così tanto di me? Perché mi presti tutta questa attenzione?» chiese, dopo qualche minuto di silenzio tra i due.
Non c'era nessuno nel raggio di una decina di metri, gli unici rumori che sentivano erano quelli dei bambini nelle giostre dentro il centro commerciale, e delle pietre che cadevano nell'acqua, due ragazzini stavano giocando vicino al corso d'acqua decorativo.

«Perché mi pia-» Kris venne bloccato subito.
«Lo so che ti piaccio, anche tu mi piaci, abbiamo già affrontato e superato questo pezzo di discussione, non era questa la domanda.»

Kris si mise in piedi e si avvicinò all'altro «No, forse non l'hai capito, io sono pazzo di te.»
Quando lo prese per la vita e lo avvicinò a sé, il ragazzo dai capelli bianchi diventò rosso in volto e sentì dei brividi nei punti in cui l'altro lo toccava.
«Hai intenzione di baciarmi?» cercò di mostrarsi sicuro, anche se sentiva le gambe molli.
«No, ho notato che non gradisci certi gesti in pubblico.» Kris sorrise e gli stampò un bacio sulla fronte, per poi allontanarsi leggermente, carezzandogli la guancia.

«Ti dedico tutte le mie attenzioni semplicemente perché ci tengo, non iniziare a far lavorare i tuoi neuroni in modo sbagliato come tuo solito, non ho secondi fini.»

White guardò l'altro ragazzo con un leggero imbarazzo, «Solo che non ci sono abituato. È la prima volta che qualcuno mi tratta così bene e senza nessun motivo esterno. E tu sei... credo non esista persona più dolce e genuina di te e ho paura di sbagliare, di farti del male o di starmi illudendo.»
Il biondo lo avvicinò di più a sé e lo abbracciò «Non devi spiegarmi nulla, lo capisco.»

Il più basso si scavò uno spaziò nel petto di Kris e decise che quello sarebbe stato per sempre il posto migliore al mondo in cui essere e che sarebbe stato esclusivamente suo.

Quando si guardarono di nuovo negli occhi, qualche attimo dopo, capirono quanto l'essere giovani e stupidi non comportasse necessariamente non saper riconoscere certe emozioni.

-

«Jackson!» era la voce di Mark che lo chiamava, con un tono spaventato.

E lui, non avendo idea di cosa potesse essere successo, in un istante arrivò preoccupato dal bagno al soggiorno «Che succede?»

Appena lo vide, con le gambe appoggiate allo schienale del divano e la testa all'ingiù che penzolava, il suo volto assunse un'espressione confusa.

«Mi sto annoiando troppo! Facciamo qualcosa insieme.» Mark guardò l'altro, facendo un piccolo broncio.

Jackson sbuffò divertito e si sedette accanto a lui nella sua stessa posizione, ridacchiando, «Dimmi cosa vuoi fare, esprimerò ogni tuo desiderio.»

«Ogni mio singolo desiderio?» chiese il rosso sbattendo ripetutamente le ciglia. L'altro gli rispose annuendo.

«Facciamo sesso!» gli sorrise malizioso, dopo di che il suo volto divenne serio, quasi inespressivo.

«Mh... No Mark.» Gli rispose Jackson con un tono che indicava l'ovvietà della frase, lo sguardo confuso.

«Però ci hai pensato!» Mark si alzò e cercò di tirare l'altro «Non noi due, insieme, soli... Io con qualcuno che non sia tu e tu con qualcuno che non sia io.»

Jackson ridacchiò vedendo il coinquilino che gesticolava con movimenti ampi e veloci. «Mark! Il mio fidanzato, partner ed amante si trova dall'altra parte degli Stati Uniti.»

Il biondo non sapeva se ridere a crepapelle o tirargli una ginocchiata.

Alla fine, decise di alzarsi dal divano e trascinare l'altro nel bagno «Io mi faccio la skincare, tu cerca di pensare a qualcosa da fare.»

«Voglio andare dal mio amore, andiamo a Los Angeles: tu vedi il tuo Jinyoung» Mark venne fermato subito.
«Qualcosa di proponibile, Mark. E poi chi è il tuo amore?»

Il rosso decise di arrendersi, almeno in quel momento, e di pensare a qualcosa che potevano davvero fare entro quel pomeriggio.
Avrebbe fatto in modo di andare dal suo amore e di portarci anche Jackson.

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Capitolo 11
*** XI. Too late ***


09:31 a.m., Los Angeles, United States of America.
Tenth day.


Un rumore molto fastidioso gli fece aprire gli occhi per pochi secondi, dopo di che iniziò ad imprecare e mise la testa sotto il cuscino, cercando di coprire le orecchie il più possibile.
Tre minuti esatti dopo, Jinyoung urlò, alzandosi dal letto e spalancando la porta della stanza.

«Buongiorno!» Superando il volume del rumore dell’aspirapolvere, Ray salutò il povero ragazzo, che se avesse potuto lo avrebbe già strangolato, e gli disse che in cucina c’era del caffè ancora caldo.
Jinyoung non aveva idea di che ora fosse, ma alla parola caffè si precipitò per andarne a prendere un po', prima che uno degli altri due coinquilini potesse finirlo.
E, soprattutto, non aveva voglia di urlare contro qualcuno, di nuovo. Aveva appena abbandonato il letto.

«Hey, perché sembri uno di quegli psicopatici del manicomio di Teen Wolf?» Kevin, seduto sul divano e intento a sorseggiare la propria bevanda, fece quasi prendere un colpo all’altro, che non si era minimamente accorto di lui.
«Io lo uccido quel ragazzo.» Rispose semplicemente, per poi spostare una sedia e sedervisi, iniziando a bere il caffè e guardando un punto a caso oltre la finestra.
«Va bene, vedo che questa mattina sei un po' più incazzato del solito.»
La discussione sembrò terminare lì, nessuno dei due spiccicò parola per almeno un quarto d’ora, non si sentiva nemmeno più l’aspirapolvere.
«Che ne pensi di Jinhee?» chiese Kevin all’improvviso, così l’altro si girò verso di lui, per capire cosa intendesse.
«Beh… sai, è la mia ragazza, quindi-» Jinyoung capì e lo interruppe per poter rispondere.
«Avevo capito fosse la tua ragazza dal primo secondo in cui l’ho vista, tranquillo… Sembra una brava ragazza, educata e molto vivace, come te del resto, vi vedo davvero bene insieme.»

I due ragazzi si guardarono negli occhi «Vuoi sapere quello che penso davvero, giusto?» disse il moro, facendo un piccolo sorriso, con gli occhi ancora leggermente chiusi dal sonno, e il biondo annuì.
«Lei sembra pazza di te, ti guarda in un modo tutto suo. Tu, invece… sembra quasi che tu voglia controllarti, non ti avevo mai visto con quello sguardo addosso.»

Kevin e Jinyoung non si conoscevano da chissà quanto tempo, ma una cosa che avevano sempre apprezzato l’uno dell’altro era la sincerità, e la loro amicizia si basava per la maggior parte su questo principio: capitava molto spesso che si chiamassero solo per poter sentire un’opinione sincera al cento per cento riguardo determinati argomenti.

-

«Ciao Ray.» Jackson, dall’altro capo del telefono, sembrava tranquillo, un po’ stanco: effettivamente a New York erano già le sei del pomeriggio, probabilmente aveva passato la giornata a studiare.
«Ciao Jackson, come va?» Ray aveva passato tutta la mattina tra pulizie e studio, erano solo le tre del pomeriggio ma si sentiva già stanco morto.
«Bene, ho già detto che sono tutti pazzi in questa casa? A te come sta andando?» Entrambi sapevano che la domanda poteva avere mille risposte.
«Ti riferisci al mio cuoricino spezzato o al mostriciattolo che mi hai dato in custodia?» Dopo la frase ironica di Ray, risero spontanei.

«A entrambe le cose, innanzi tutto a te.»
Qualche settimana prima che Jinyoung arrivasse a Los Angeles, Ray aveva avuto una brutta batosta: il ragazzo con cui era stato fidanzato per più di due anni lo aveva lasciato.

«Io sto bene, in realtà meglio di quanto mi sarei mai aspettato…» passarono almeno dieci minuti a parlare di Felix, l’ex fidanzato, quando Ray sentì Jinyoung e Kevin urlare dalla cucina.
«Che succede?» anche Jackson aveva sentito.
«Si staranno facendo la guerra con le palline di carta, oppure stanno litigando per qualcosa del frigo. Ignorali.» Era già capitato un paio di volte, quindi Ray non si preoccupava più.

«Jinyoung come sta?» chiese Jackson, con un tono preoccupato.
«Bene, ogni tanto sembra perdersi nella sua testa, però… tutto a posto.»
Jackson non poteva sapere o aspettarsi che il suo migliore amico non gli stesse dicendo alcune cose, perciò non fece minimamente caso al timbro leggermente alto di voce del ragazzo in questione.
«Io stacco, vado a fare una doccia, ci sentiamo presto.»
«Va bene, tu non hai novità?» Ray si sedette nella scrivania, aveva ancora parecchi argomenti da studiare.
«Mhh… no, nessuna novità» Jackson sembrò quasi rifletterci, ma l’amico decise di non prestarci attenzione: se avesse ritenuto ci fosse qualcosa da dire l’avrebbe fatto lui, ne era sicuro.
Staccarono poco dopo.

Nel frattempo, le urla e i rumori nel soggiorno continuavano, quindi Ray decise di andare a controllare prima di iniziare a studiare.
Quando vide i due coinquilini accovacciati dietro delle sedie agli estremi opposti della cucina e il frigo aperto scoppiò a ridere.
«Questa volta cos’è?» chiese ridendo e mettendosi davanti al frigo, dopo averlo chiuso.
«Wurstel.» risposero i due contemporaneamente, guardandosi poi con gli occhi di fuoco.
Ray aprì il frigo e vide che c’era una confezione da tre, così aprì il pacco, prese tre forchette e ne prese due per darli a loro, il terzo lo tenne per sé.
«Adesso siamo tutti felici e contenti.» Andò nella propria stanza ridendo. Ogni volta era la stessa storia.

Four years ago…

Era estate e le loro famiglie avevano deciso, come ormai ogni anno, di passare due settimane delle vacanze estive insieme: quella volta la destinazione era stata la Tailandia.
«Jackson-ah!» quando si sentì chiamare si alzò dalla tovaglia, stordito dal pisolino che aveva appena terminato, e si girò verso il mare: Jinyoung era in acqua e gli stava chiedendo di entrare e giocare con lui.
E lui non poteva certo dire di no, quindi decise di dare fine al riposo e si gettò.

«È congelata l’acqua, cazzo.» Sussurrò a denti stretti Jackson quando arrivò davanti l'altro.
«Sei entrato subito in acqua dopo aver fatto la lucertola per più di un’ora, cosa pretendi?» rise Jinyoung, facendo imbarazzare un po’ l’altro, che non credeva di aver dormito così tanto. In realtà non si era neanche addormentato apposta, ma la sera prima non aveva dormito molto.
«Perché non mi hai svegliato prima per farti compagnia?» chiese Jackson, dopo essersi sommerso per qualche secondo.
«Sei davvero bello quando dormi, perché avrei dovuto svegliarti? Inoltre, ieri sera i nostri genitori ci hanno fatti ritirare davvero tardi, quindi non mi sembrava giusto.»

Il sorriso di Jinyoung fece sciogliere il cuore del ragazzo dai capelli rosa, esattamente come ogni altra volta.


«Jackson, che fai?» chiese Jinyoung, vedendo che il compagno si era immerso.
Non ebbe nemmeno il tempo di ripetere la domanda, inutile dato che non poteva essere ascoltato, che venne preso da dietro e buttato di peso.
«Uffa! Per una volta volevo i capelli asciutti! Non è giusto…» fece un piccolo broncio, e l’altro si avvicinò per pizzicargli le guance.
«Sei tenero quando ti arrabbi.» Alla frase di Jackson seguì un insulto.

Dopo almeno una mezz’ora passata a giocare nell’acqua, i due si calmarono.
«Jinyoung-ah…» Jackson aveva le braccia attorno alla vita di Jinyoung e la sua schiena appoggiata al petto.
Il moro indicava le navi e le barche all’orizzonte, contemplando su quanto apparissero piccole ai loro occhi.
«Dimmi.»
Passò qualche attimo di silenzio, Jinyoung poteva sentire il battito accelerato di Jackson, quindi si girò verso di lui.

«Tutto bene? Il tuo cuore sembra star scoppiando, e hai le guance rosse.» Gli toccò la fronte, che però non era calda.

«Sì, tutto bene, volevo dirti una cosa…» 

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Capitolo 12
*** XII. Wayward teddy bear ***


05:56 p.m., New York City, United States of America.

Twelfth day.

 

Four years ago...

«Si, tutto bene, volevo dirti una cosa...»

Dopo pochi interminabili secondi di silenzio, Jinyoung si girò verso la riva: la madre li stava chiamando, «Me lo dici dopo? Lo sai che se non ci vado ora mi tira per i capelli.»

Jackson annuì, sorridendo leggermente, e seguì l'altro fuori dall'acqua.

-

Jackson stava entrando nel piccolo pub a Chelsea. Era ancora presto, guardandosi attorno trovò solo tre tavolinetti occupati da gente di mezza età e da un gruppetto di giovani seduto al bancone.

Quasi stonavano le due ragazze, sedute lontano da tutti gli altri, sedute in modo composto.

Quella delle due che sembrava più alta aveva i capelli neri come la pece e mossi, raccolti in una mezza coda, l'altra invece si faceva notare per il look particolare: aveva una maglietta casual color arancio fluorescente e un jeans cargo con dei disegni dello stesso colore.

Jackson e Mark andarono al bancone e, dopo aver ordinato qualcosa da bere, si avvicinarono a loro, presentandosi.

«Piacere, io sono Cassandra, lei è Chloé» fu la ragazza dai capelli neri a presentare entrambe, alzandosi e porgendo la mano ai due ragazzi, che si sedettero subito dopo averla stretta.

Chloé, minuta e dai capelli rossi, sventolò leggermente la mano e fece un piccolo sorriso di cortesia.

«Siamo due studentesse del secondo anno della facoltà di lettere moderne, hanno assegnato al nostro corso un progetto per cui, sostanzialmente, ci servono persone di altre facoltà. Se vi interessa un minimo ve ne possiamo parlare meglio, vi daranno anche crediti.»

Jackson guardò la rossa per tutto il tempo, che aveva parlato senza prendere fiato un secondo.

«Grazie per averci notato ma-» Mark, che stava provando a rifiutare la proposta, fu interrotto subito con un pizzicotto alla gamba.

«Diteci di più, i crediti sono sempre crediti.»

Dopo quasi tre ore passate a parlare del progetto e a conoscersi, i quattro si salutarono.

«La rossa all'inizio mi sembrava timida, ma da quando ha rotto il ghiaccio non si è fermata un secondo.» Mentre salivano le scale, dato che l'ascensore era guasto, Mark parlava delle ragazze che avevano conosciuto.

«Invece Cassandra è strana, sembra una di quelle ragazze dark, sempre serie e composte, e ha buon gusto in fatto di moda.»

Jackson aprì la porta di casa, andò subito nella propria stanza e si buttò nel proprio letto.

«Hey Jackson.» Il coinquilino dai capelli bianchi bussò un colpo al bordo della porta e il biondo alzò la testa, per poi fare un cenno con la mano a mo' di saluto «Ti sei rifatto il colore?»

Effettivamente aveva i capelli lucenti e leggermente più corti del solito «Sì, ti piacciono? Comunque io e Kris abbiamo fatto i noodles, hai il piatto nel microonde.»

Jackson annuì e, appena il minore uscì, spinse leggermente la porta e la socchiuse, addormentandosi poco dopo.

Four years ago...

Stavano guardando le stelle, erano seduti su un muretto di fronte all'hotel dove alloggiavano.

I piedi di Jinyoung penzolavano nel vuoto, aveva un sorriso sul volto e guardava l'altro ragazzo, che teneva le gambe incrociate e la testa sulla sua spalla.

«Qui le stelle sono bellissime.» Jinyoung sussurrò la frase prima di portarsi le mani alla bocca.

«Quando la finirai di mangiarti le unghie?» Jackson alzò la testa e diede un colpo alla mano dell'amico, che batté le nocche contro la punta del naso e imprecò.

«Comunque, le stelle sono bellissime da ovunque tu le veda, cambia solo la prospettiva.»

Il moro volse lo sguardo verso l'altro, guardando il suo profilo e i suoi capelli rosa. Certe volte gli sembrava quasi di essere nel vuoto, quando lo guardava e lo vedeva perso nei propri pensieri. Voleva starci lui, dentro la sua testa, senza esserne ai margini.

«Jinyoung-ah.» I due si guardarono negli occhi, Jackson aveva il volto stranamente inespressivo.

«Non sempre si vedono le stelle, ma questo non significa che non ci siano, io le vedevo raramente quando stavo in Cina.»

Jinyoung lo conosceva bene: Jackson parlava di concetti di questo tipo principalmente quando doveva dire qualcosa di importante. Quindi iniziò a sentire un fastidio leggero alla bocca dello stomaco: ansia.

«Che significa?» chiese, facendo in modo che Jackson sospirasse, divertito. «Trova le tue stelle.»

Il moro allora si avvicinò leggermente all'altro e gli lasciò un bacio sulla fronte «Tu sei la prima.».

Entrambi risero, poi si sentì solo il suono dei loro respiri e delle onde del mare, qualche metro più avanti.

«Mi piaci, un casino.»

A Jinyoung drizzarono le orecchie, spalancò gli occhi e dei brividi gli passarono per la schiena, quasi pungevano.

«Lo so.» Rispose, cercando di sembrare tranquillo, mostrando un sorriso da ebete.

«Cosa significa Jinyoung-ah?» chiese lui, ridendo ironicamente e guardando l'altro, leggermente scosso da quelle due parole.

«Che lo so che ti piaccio, e anche tu in fondo lo sai che mi piaci, non sai quanto. Insomma, c'erano tutti i segnali da entrambi i lati, ma dobbiamo rendere le cose complicate perché siamo adolescenti, siamo migliori amici e-»

Jinyoung venne interrotto dalle labbra carnose di Jackson, che aveva preso il suo viso a coppa tra le mani e lo aveva avvicinato a sé.

«Tutto bene?» Jackson, passato qualche secondo, si allontanò di poco.

Jinyoung, che si accorse solo in quel momento di aver tenuto gli occhi serrati per tutti il tempo, batté le palpebre ed annuì energicamente. «Solo questo?»

«Che intendi?» Jackson inarcò le sopracciglia.

«Beh... dai!» il moro fece dei gesti incomprensibili con le mani, frustrato, e l'altro rispose negando con la testa e ridacchiando «Jinyoung-ah, se non parli non ti posso capire.»

«Sei così stupido a volte Jackson-ah...» Jinyoung mise le braccia attorno al collo dell'altro e lo tirò a sé, baciandolo.

«Hai capito adesso?» gli sussurrò, distante pochi millimetri da lui, e Jackson gli tirò un labbro in risposta, anche per fargli capire che doveva smettere di parlare.

Quando riuscirono a trasformare quel bacio pieno di interruzioni bambinesche in qualcosa di più credibile, Jackson tirò il compagno per la vita, avvicinandolo e facendolo sorridere più di quanto già non stesse facendo.

«Capelli di merda...» Jinyoung si allontanò di poco solo per sistemare i capelli al compagno e poter vedere i suoi occhi.

«Che succede?» chiese Jackson, vedendo che l'altro si era incantato.

«Non avevo mai notato quanto fossero belli i tuoi occhi visti da così vicino.» Sembrava che Jinyoung stesse scattando una foto, da come lo guardava.

Jackson sorrise e gli accarezzò la cute «Solo da vicino?» ridacchiarono entrambi, ma dopo qualche secondo a ridacchiare era solo Jinyoung, Jackson aveva invece una mano appoggiata sul collo, tentava di colmare il dolore dello schiaffo arrivatogli.

Quando ricominciarono a baciarsi, Jackson di quel dolore non ne sentiva più una briciola, sostituito dall'adrenalina.

Jackson, malinconico, sognava ricordi.

Intanto, in cucina, c'era giusto un po' di confusione.

«Mark! Smettila!» White pregava il maggiore di smettere di fargli il solletico.

«Ragazzi, silenzio!» Kris uscì dal bagno e urlò quando sentì una suoneria.

White ne approfittò per scappare dalle grinfie di Mark e andò a prendere il cellulare che stava suonando. «E' quello di Jackson, c'è scritto Orsacchiotto Ribelle, se non mi sbaglio è il fidanzato.»

Mark gli prese il telefono dalle mani e andò nella stanza accanto, mentre i due più piccoli alzavano le spalle, dubbiosi. 

 

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Capitolo 13
*** XIII. Jealousy ***


06:42 p.m., Los Angeles, United States of America.

Twelfth day.

 

Appena sentì che la chiamata era stata accettata, iniziò a parlare a macchinetta, «Hey Jackson! Lo so che è tardi ma-» si sentiva che era davvero entusiasta dalla voce, e la persona dall'altra parte del telefono avrebbe voluto ascoltare ancora, ma non poteva spacciarsi per il fidanzato.
«Il tuo fidanzato non c'è, sono Mark.»

Quando Jinyoung si rese conto del nome della persona all'altro capo della linea, drizzò le orecchie.
«Oh... sei il coinquilino di Jackson, giusto?» si sentiva un po' spaesato, fino a qualche attimo prima saltava dalla gioia per il colloquio che aveva fatto, in quel momento invece sentiva una strana, purtroppo non estranea, sensazione dentro di sé. Sicuramente parlare con Mark non lo faceva sentire particolarmente a suo agio.

«Sì, comunque Jackson sta dormendo, se vuoi domani mattina posso dirgli che hai chiamato. Tanto lo sveglio sempre io per quanto casino faccio.» Mark ridacchiò pensando ai risvegli poco piacevoli del coinquilino negli ultimi giorni.

«Ehm... va bene, digli che può chiamare quando vuole.»

«Okay, buona serata allora.» Il rosso sorrideva.
«Buona notte.» Jinyoung chiuse subito la chiamata.

«Hey, tutto a posto?» Ray arrivò all'improvviso dietro di lui e gli appoggiò una mano sulla spalla, il che lo fece sussultare e girare di scatto.
«Sì, perché?» Jinyoung annuì sotto lo sguardo contrariato dell'altro.

«Jinyoung, fino a un minuto fa stavi saltellando in giro per casa, adesso sembri mezzo morto dalla faccia che hai, che è successo?»
Il povero interpellato sembrò scosso dalla risposta ovvia, come se non sapesse di aver cambiato umore.

«Ecco... non lo so, sono stupido, lascia stare.» Rispose, sorpassando Ray e andando in cucina ad aiutare Kevin a cucinare.

Il ragazzo squadrò Jinyoung dalla testa ai piedi «Dove è finita tutta l'adrenalina che avevi prima?»
«In dei capelli squallidamente rossi. – sospirò, capendo di dover calmarsi – Smettila, manchi solo tu. Ti serve una mano?»

La risposta fu negativa, poi Kevin lo prese per le spalle e lo costrinse a sedersi su una sedia.
«Che succede? Ti ho sentito prima, a Ray puoi girarla la frittata, a me no.» Lo sguardo serio di Kevin vinse sulla già debole fermezza di Jinyoung.

«Non lo so in realtà... ho chiamato Jackson per dirgli che avevo fatto il colloquio, ma ha risposto Mark, uno dei suoi coinquilini. Ho avuto subito una strana sensazione, come se ci fosse stato qualcosa che non andava nel fatto che abbia risposto lui. Ma è il suo coinquilino, quindi cosa ci dovrebbe essere di strano?» Sospirò leggermente, sopraffatto dalle proprie sensazioni.

«Magari si tratta di un po' di gelosia? È normale, eri abituato a vederlo ogni giorno, quindi il tuo inconscio pensa troppo.» Kevin gli fece un sorriso, che voleva essere rassicurante.

«Non lo so, sono un idiota. Apparecchio.» Dopo un altro sospiro, si alzò.

-

«Jinyoung-ah!» quando erano da soli, avevano preso l'abitudine di parlare in coreano, la loro lingua madre. In realtà, quando si erano conosciuti, molti anni prima, i due ragazzi avevano stretto proprio con la scusa di essere connazionali.

«Hyung! Entra.» Il minore si tolse le cuffie e si girò verso Ray, che era appena entrato, chiudendosi la porta dietro.
«Che succede?» chiese, mentre l'altro si sedeva sul letto e incrociava le gambe.
«Nulla, non sapevo che fare, così sono venuto da te sperando non stessi già dormendo.»

Jinyoung spense il proprio pc e si sedette vicino al coinquilino.

«Che facciamo?» Ray appoggiò la testa sul cuscino, restando con le gambe penzolanti.
«Non lo so, mettiamo un po' di musica?» il moro prese il telefono, facendo partire Fade Out Lines dalla riproduzione casuale, e si alzò per fare qualche passo.

Tese le mani all'amico, che si alzò incerto e seguì i suoi passi.
«Dai, mettici un po' di spirito!»

Ray allora sorrise e gli fece fare un giro, dopo di che continuarono a ballare e a cantare, ridendo.

«The juice poring well over
Your skins delight
But the shadow it grows
And takes the depth away

Leaving broken down pieces
To this priceless ballet
The shallower it grows.»

Quando partì una canzone più tranquilla, stremati, decisero di sdraiarsi.

Mentre nella stanza risuonava la dolce melodia di I'm Not The Only One, i due ragazzi si guardavano negli occhi, avevano entrambi i piedi fuori dal letto, le braccia distese e il respiro affannato.

«You say I'm crazy» Jinyoung cantò, stonando un po' e facendo ridere l'altro, che gli fece un piccolo applauso ironico «Bravissimo, sei il idolo!»

Ray continuò a prenderlo in giro fino a quando la canzone terminò, e con questa la playlist, i loro respiri erano tornati regolari e le loro menti stavano razionalizzando la situazione.

Quando però Jinyoung si avvicinò un poco, Ray capì che era l'unico a star ragionando.

E gli mancava il fiato, non riusciva davvero ad allontanarsi, si sentiva quasi ubriaco.

Dopo aver, inconsciamente, fatto un bel respiro, guardò Jinyoung, che però aveva gli occhi chiusi.

«Sta già dormendo... Buonanotte Jinyoung-ah.» Lo sistemò sotto le lenzuola e gli passò una mano sulla fronte, togliendogli i capelli da davanti gli occhi. Quando però fece per allontanarsi e uscire dalla stanza, una mano lo prese per il braccio.

«Resti?» sussurrò il minore, cercando di tirare l'altro con la pochissima forza che aveva.

E Ray non poté dire di no.

Nel frattempo, un Kevin vagante per casa in mancanza di sonno, osservò la scena dallo spiraglio della porta, mettendosi una mano nei capelli.
«Perché devo sapere queste cose?» mormorò sottovoce mentre, dentro la stanza di Jinyoung, Ray si metteva sotto le lenzuola insieme all'altro.

Kevin si scosse leggermente i capelli, frustrato, e andò in soggiorno, buttandosi sul divano e prendendo il telefono in mano.
Non avrebbe dovuto dirlo a nessuno, ma c'era una persona a cui non poteva non dirlo.
«Forse la sto facendo più grande di quanto sia...» digitò comunque il numero.

 

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Capitolo 14
*** XIV. Miss you ***


07:15 p.m., New York City, United States of America.

Fifteenth day.

 

«Ho un'idea! Se facessimo un'intervista a confronto? Vi spiego cosa dovremmo fare: io e Cass prepariamo delle domande, ovviamente ci aiutate perché un vostro parere è sempre utile, poi Cass farà le domande a me e Mark o a me e a Jackson e viceversa. Come vi sembra?» Chloé aveva iniziato a parlare a motore appena arrivata e i due ragazzi avevano capito meno della metà delle cose dette.

«Ascolta, potremmo aspettare che arrivi Cassandra e poi ci spieghi l'idea parlando più tranquillamente, okay?» Jackson fece un sorriso leggermente divertito, che la ragazza ricambiò prima di andare ad ordinare un americano.

«Perché me lo stai facendo fare?» sussurrò Mark al compagno, mentre sorseggiava il proprio bubble tea.

«Perché i crediti sono crediti, inoltre devi trovarti qualcosa da fare oltre allo studio e alla musica o morirai solo soletto col tuo computer e la tua attrezzatura.» In quella giornata era davvero impossibile togliere quel sorriso divertito dal volto di Jackson.

«Ma posso fare quello che voglio nella mia vita?» chiese Mark, leggermente disperato.
«Direi di no.» Mentre Jackson sussurrava, arrivò Cassandra.

Quando tutti si sedettero al tavolo e quest'ultima iniziò a parlare, Mark iniziò a pensare che forse l'incontro si sarebbe potuto rivelare piacevole del previsto.

Passata circa un'ora, i quattro decisero di separarsi. Quando le videro uscire dalla porta, Jackson scoppiò a ridere, liberando la risata che aveva trattenuto per tutto il tempo.

«Che cazzo hai?» fu la domanda, più che lecita, del rosso.

«Credo che tu non abbia nemmeno battuto le palpebre quanto avresti dovuto per non perderti nemmeno un movimento dei suoi occhi, è stato favoloso, questa la devo raccontare agli altri.»

Mark non poté far altro che sorridere, divertito da sé stesso, sapeva di aver dato quell'impressione, non poteva dirgli realmente cosa stava pensando. «Comunque, Kris e White dovrebbero essere qua a minuti. Nel frattempo... Sigaretta?»

Jackson annuì e i due andarono fuori dal locale.

«Secondo te ci starei bene come barista qua?» chiese il biondo, quasi sussurrando, gli occhi fissi a guardare una scritta.
«Beh... sì: sei socievole, fai ridere, sei giovane e bello, perché lo chiedi?» Mark si voltò per un secondo verso la strada, osservando le figure dei due coinquilini abbastanza vicine e facendogli un cenno col braccio.
«Perché cercano un barista.» Jackson indicò l'avviso appeso a lato della porta del locale.

Quando gli squillò il telefono, si allontanò leggermente.

«Jinyoung-ah, come è andata? Ti hanno chiamato?» sapeva che il fidanzato aveva già fatto due colloqui: il primo era andato male, per il secondo dovevano chiamarlo quel giorno.
«Niente da fare, non riuscirò a trovare nulla, voglio tornare a Seoul con il mio bellissimo lavoro, i miei amici, la mia famiglia, e te, uff!» a quella frase, Jackson sentì il solito vuoto intorno, quello che sentiva ogni volta che si rendeva effettivamente conto che Jinyoung non era con lui.

«Dai, lo sai che tra un po' ci vediamo. Resisti per me.»
«Lo so, scusami, è solo che mi manchi. Io ti manco un po'?» Jackson lo sapeva che, molto probabilmente, il suo ragazzo, dall'altra parte del Paese, aveva appena avuto una crisi di nervi o aveva pianto.

E il fatto di non poter essere con lui lo stava distruggendo.

«Mi manchi a tal punto che a volte sento di non aver nulla sotto i piedi.»

Entrambi chiusero gli occhi, probabilmente stavano rivivendo uno degli infiniti momenti passati insieme.

«Comunque, tu come stai?» il primo a parlare, dopo parecchi attimi di silenzio, fu Jinyoung.
«Tutto bene, non so se ti ricordi delle due ragazze del progetto di cui ti avevo parlato, oggi le abbiamo riviste.»

Continuarono a parlare per qualche altro minuto, fino a quando Jackson non si sentì toccare la spalla.

«Siamo dentro.» Sussurrò Kris, che era già arrivato, dopo aver fatto un cenno di saluto con la mano, poi andò via.

«Amore scusami, devo andare. Ci sentiamo domani, okay?»

«Mmh... Okay. Quindi ti manco?»

Jackson ridacchiò a quella domanda, fatta già altre tre volte in una sola chiamata.

«Sì... Senti, tu stasera che fai?»
Jinyoung rispose, perplesso «Devo studiare, a giorni ho il primo esame, probabilmente nemmeno dormirò, perché?»

Jackson sorrise, l'dea che gli era appena venuta in mente lo elettrizzava parecchio.
«Chiamami appena sei nella tua stanza, da solo possibilmente.»

Il fidanzato, appena sentì la frase, spalancò gli occhi: poteva immaginarsi qualsiasi cosa, ma sapeva che Jackson aveva un'immaginazione decisamente più fervida della sua.
«Che intenzioni hai?»

«Te l'ho detto, chiamami. Ora devo staccare, ti amo.» E staccò davvero, lasciando Jinyoung a cercare di far girare il criceto nella propria testa per capire quali fossero le intenzioni dell'altro.

Quando entrò, la prima cosa che fece fu andare al tavolo a raccontare ai coinquilini la scena divertente di Mark incantato a guardare Cassandra.
«Oddio! Mark si è innamorato! A quando il matrimonio?»

Quando capì di aver dato iniziò a una discussione che sarebbe durata ore, andò al bancone a prendere qualcosa da bere.

«Gloria! Posso parlarti un attimo?» fece un cenno alla proprietaria del locale, che si avvicinò subito.

In realtà era circa cinque anni più grande di Jackson, ed era una co-proprietaria del posto, insieme al marito e al cognato. La prima volta che Jackson si era seduto al bancone di quel locale, la ragazza si era avvicinata per capire se stesse bene, lui stava fissando Mark che cantava.

Da lì, Jackson iniziò a frequentare il posto quasi ogni giorno.

«Jackson! Dimmi tutto! Intanto come stai?» si sorrisero e si sedettero uno di fronte all'altro.
«Tutto bene, tu? Non ho ancora visto Derek.» Gloria indicò la porta, e Jackson girandosi vide il marito di lei che salutava un altro cliente abituale.

«Comunque bene, di cosa hai bisogno?»
«Ho visto l'avviso sulla porta, quello che dice che state cercando un barista.»

Il sorriso di Gloria divenne tre volte più largo, i suoi capelli biondo rame sembravano risplendere, insieme agli occhi dello stesso colore.
«Sei interessato?» quando Jackson annuì, la ragazza corse dal marito e qualche secondo dopo tornò con lui a braccetto.

«Jackson! È un piacere vederti, non perdiamoci in chiacchiere, hai esperienza?»
L'uomo era davvero alto, quindi quando si sedette Jackson sospirò di sollievo, tutta quell'altezza e lo sguardo minaccioso da uomo mediterraneo gli mettevano un po' di terrore.

«Buonasera a te, sì, ho esperienza, ma in Corea del Sud.»

«Non importa, il caffè e i cocktail sono universali. Sono quattrocentocinquanta dollari la settimana, ci serve coprire il turno di sera, contratto a tre mesi, ti va bene?»

Jackson annuì subito, il calcolo su base mensile era semplice.
«Ovviamente in caso di qualche bisogno da parte nostra ti arriva la tua parte, stai tranquillo. Facciamo una settimana di prova, che ne dici di iniziare adesso?»

Jackson spalancò gli occhi per un bel po' di motivi: si era licenziato ormai più di un mese prima, ricordava metà del lavoro in quel momento, c'era un sacco di gente e Mark aveva iniziato a cantare proprio in quell'istante. «Proprio adesso?» 

 

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Capitolo 15
*** XV. Agreement ***


08:13 a.m., Los Angeles, United States of America.

Sixteenth day.

 

«Jackson! Come mai non hai chiamato ieri?»

Jinyoung era elettrizzato quel giorno, in realtà si sentiva così ogni volta che aveva un esame da affrontare, pensava che il proprio cervello lo facesse sentire in quello stato per evitare di fargli avvertire tutta l'ansia nascosta.

«Scusami, ho fatto una serata di prova ad un pub, quando mi sono ritirato ero davvero troppo stanco anche solo per togliermi i vestiti e mettere il pigiama.» Una risatina leggera accompagnò la risposta di Jackson.

«Tranquillo, come è andata?» Jinyoung era appena entrato nel bar davanti alla propria facoltà, trovando Jinhee, la fidanzata di Kevin, e l'altra ragazza dai capelli ricci, entrambe con due sorrisi enormi.

«I soliti, tra poco arrivano gli altri.» Sussurrò ad una delle due, che era momentaneamente ferma, per poi sedersi ad uno dei tavolini e ricominciare ad ascoltare Jackson.

«Jinyoung-ah!»

«Dimmi Jackson...» rispose con voce tenera, sapeva che il fidanzato si era accorto del fatto che non lo aveva minimamente considerato.

«Cosa c'è più importante di me, si può sapere?» chiese infastidito, poi scoppiarono a ridere nello stesso momento.

«Il caffè, Jackson, il caffè è la cosa più importante al mondo. Comunque devi sapere che mi sono innamorato.» Jinhee si trovava vicina a Jinyoung, aveva portato il caffè e stava ascoltando la conversazione per volere del ragazzo, che quella mattina aveva stranamente voglia di scherzare.

«Si può sapere di chi?» Jackson, ignaro, aveva un vortice di idee non troppo rassicuranti dentro la testa.

«Di Jinhee, la ragazza di Kevin, ti giuro che i suoi caffè sono i migliori del mondo. Quando andremo a vivere insieme la potrò rapire? Così lo prepara lei il caffè.»

La ragazza rise prima di andare all'ingresso a salutare il fidanzato, il quale era appena arrivato.

«Comunque ti devo lasciare, sono appena arrivato alla mia facoltà. Ci sentiamo stasera.»

Chiusero la chiamata mentre Ray e Kevin si sedevano al tavolo.

«Con chi parlavi?» chiese Ray, ancora assonnato.

«Con Jackson, gli ho chiamato io perché ero leggermente preoccupato, ieri mi aveva detto che ci saremmo sentiti la sera stessa ma alla fine non mi ha cercato.»

Two days ago...

"Perché deve rispondere sempre lui? Jackson non può tenerselo addosso quel telefono?" era già la terza volta in due settimane che Jinyoung provava a chiamare il fidanzato e che rispondeva Mark al suo posto.

«Jackson dorme, credo che domani puoi chiamarlo anche presto, ha lezione.»

Nemmeno lui stesso sapeva gli orari precisi delle lezioni di Jackson, non li conosceva neanche quando vivevano ancora in Corea.

Invece, una persona che Jackson conosceva, per puro caso tra l'altro, da due settimane li sapeva.

Credeva che sarebbe impazzito presto se avesse fatto girare troppo il criceto nella propria testa.

«Va bene, grazie. Posso chiederti perché spesso rispondi tu?»

Quel dubbio lo stava assillando, un senso di disagio e preoccupazione gli schiacciava il petto quando pensava al ragazzo dai capelli rossi.

«Ecco, Jackson lascia spesso il telefono in giro, quindi quando qualcuno di noi lo sente, risponde al posto suo. Lo faccio con tutti, e anche gli altri con me.» L'ultima frase sembrò a Jinyoung leggermente incerta, come se chi l'avesse pronunciata non fosse stato sicuro di quello che aveva detto o ci stesse pensando troppo.

Stava per staccare la chiamata quando Mark ricominciò a parlare «Comunque...»

«Dimmi.»

Jinyoung sentì un forte sospiro dall'altro lato del telefono.

«Nulla, scusami Jinyoung, ciao.» Staccò subito la chiamata.

Jinyoung quella notte ebbe decisamente troppi pensieri in mente per riuscire a dormire.

"E se in realtà non lascia mai il telefono in cucina ma è Mark a trovarsi nella sua stanza ogni volta? Jackson non ha mai lasciato il telefono in giro..."

Non sapeva davvero cosa pensare, gli sembrava che ogni sfaccettatura di Jackson stesse cambiando col passare dei giorni. Dentro di lui stava iniziando a crescere il timore che Jackson stesse diventando una persona diversa.

Bussarono alla porta e Jinyoung provò a calmarsi, dato che sapeva che dietro la porta c'era Ray.

Quando il ragazzo biondo si sedette vicino a lui, Jinyoung iniziò a tartassarlo di domande: su cosa dicesse Jackson di quel ragazzo, su cosa facessero quando erano insieme, sul perché Mark rispondesse alle chiamate che arrivavano sul telefono del fidanzato.

Ray gli poggiò le mani sulle spalle «Basta. Calmati. Da quanto ti tormenti con queste domande? Non posso avere le risposte che cerchi, perché non chiarisci con lui?»

«Perché mi direbbe che ragiono come un bambino e che mi pongo gli stessi dubbi che si pone un quattordicenne, e probabilmente ha ragione. A volte mi sento davvero come se non avessi nulla da fare nella mia vita e dovessi pensare solo a lui. Ma mi sembra che senza Jackson ogni cosa che faccio sia inutile.»

Ray lasciò che Jinyoung appoggiasse la testa sulle proprie gambe, mettendosi prima comodo.

«In amore sono tutti bambini.»

Jinyoung non la pensava così, ma annuì lo stesso quando il biondo iniziò a toccargli i capelli.

Dopo pochi minuti, in cui Ray parlò di come il moro avrebbe potuto chiarire col fidanzato, quest'ultimo chiuse gli occhi e si addormentò.

Mentre Kevin lanciava occhiate strane alla fidanzata, che non lo stava considerando dato che doveva servire alcuni clienti, gli altri due ragazzi avevano già finito la colazione.

«Kevin. Tutto bene?»

«In realtà no, non sono sicuro del perché, ma non va per niente bene.»

Ray e Jinyoung capirono subito che ne avrebbero parlato quando sarebbero usciti dal bar, cosa che avvenne molto presto dato che ebbero un buon motivo per farlo.

«Ragazzi, dobbiamo andarcene, subito.» Ray sussurrò mentre si sistemava la tracolla.

Quando videro, appoggiato al bancone, l'ultima persona che si sarebbero aspettati di vedere lì, se ne andarono velocemente.

«Che cazzo ci fa Felix qui?» esclamarono tutti e tre contemporaneamente, scambiandosi sguardi increduli.

Felix, ragazzo basso e dagli occhi vispi, era fino a circa quattro mesi prima il fidanzato di Ray.

Il patto implicito che si firma nel momento in cui ogni coppia si separa prevede che i posti frequentati in modo abitudinario da una persona diventino inaccessibili per l'altra.

E questa regola era stata rispettata, fino a quel momento.

Mentre Ray e Kevin ripresero a parlare, Jinyoung tornò dentro per prendere una bottiglietta d'acqua.

E ciò che vide non gli piacque per niente.

 

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Capitolo 16
*** XVI. Stop, please ***


02:42 p.m., New York City, United States of America.
Seventeenth day.


«Ho finito!» Mark, urlando, arrivò in cucina e abbracciò i tre coinquilini, leggermente perplessi.
«Cosa hai finito?» chiese giustamente Kris, che si era addormentato sulle gambe di White, il risveglio era stato leggermente traumatico, date le urla improvvise.

«La canzone! L’ho finita! Ci ho messo tre settimane, credo sia stato il lavoro più lungo della mia vita, o c’è vicino… Devo chiamare Sunny, così gliela mando e poi la faccio sentire a voi!»
Aveva i capelli di un rosso scolorito e scompigliati, gli occhi gonfi e le labbra secche, però teneva un sorriso enorme che quasi gli illuminava gli occhi e faceva notare meno le enormi occhiaie blu.

«E ho rispettato anche le scadenze!» continuò ad urlare Mark mentre andava nella propria stanza.
Man mano che parlava i ragazzi in cucina lo sentirono sempre meno, fino a non poter più capire quello che diceva.

Nel frattempo, i ragazzi prepararono il pranzo e la tavola, dato che nessuno dei quattro aveva ancora mangiato.

«Hey, volete ascoltarla?» quando Mark tornò, aveva ancora il sorriso sulle labbra, ma non era come prima, e non urlava più.
«Prima sediamoci e iniziamo a mangiare.» White si sedette per primo, abitava con Mark già da due anni e sapeva che il proprietario di casa, che quando fosse davvero felice come un bambino, non lo restava che per più di qualche minuto.
All’inizio aveva provato a chiedergli il perché di questi cambi assurdi di umore, ma il maggiore non aveva mai risposto e col tempo avevano stabilito un tacito accordo per cui non bisognava fare domande troppo scomode.

«Okay, ora vi faccio ascoltare la canzone.» Mark prese il telefono e la fece iniziare.

«Spero di vederti domani, questa speranza mi sta strangolando.»
Appena iniziata la canzone, Jackson si era sentito risucchiato dalla melodia e dalla dolce voce del cantante.

«Non lasciamoci le mani adesso.»
Quelle parole lo stavano pressoché distruggendo, sotto il tavolo le sue gambe tremavano.

«Quella promessa è diventata una bugia.»
Jackson non si era mai fermato a pensare da quando era arrivato a New York, sapeva che se lo avesse fatto sarebbe stato tanto male da non ragionare più.

«Quando vedrò la luce, spero di vedere il tuo sorriso.»
Avrebbe tanto voluto ascoltare quella canzone altre mille volte, nel proprio letto, per lasciar andare tutte le lacrime che non aveva pianto per farsi vedere forte dal fidanzato.
Magari con Jinyoung accanto, a ridere e a prendersi in giro fino a quando non si sarebbero ritrovati con i respiri mozzati per la vicinanza dei loro occhi.

Three years ago…
«Jackson-ah! Smettila!» Jinyoung tornò a ridere, con gli occhi che si spostavano continuamente per seguire i movimenti del fidanzato.
«Cosa? Non sto facendo nulla io.» Entrambi risero. Jackson si era messo in piedi, di nuovo.
Poi si lanciò su Jinyoung, tornando a fargli il solletico.

Quando il moro iniziò a sentirsi mancare il fiato, non ci pensò due volte e fece cadere l’altro per terra, facendolo rotolare giù con un calcio ben assestato sull’ombelico.
«Basta ti prego! Ho le costole rotte, andiamo avanti così da mezz’ora ormai.» Jackson, nel frattempo, si contorceva dal dolore sul pavimento, lasciando uscire imprecazioni mute dalle proprie labbra.
«Dai, non sono così forte.» Jinyoung sporse la testa dal letto per vedere meglio il fidanzato e si ritrovò proprio sopra la sua.
I due si sorrisero e, dopo un bacio volante mandato da Jackson, entrambi si sedettero sul letto, tranquilli.

«Jinyoung-ah…» adesso erano sdraiati, sotto le coperte calde, e si guardavano negli occhi mentre Jinyoung giocava con gli anelli che l’altro aveva al dito.
«Dimmi.» Gli diede un bacio sulla fronte.
«Ti amo.» Un leggero sospiro seguì l’affermazione di Jackson.

«Anch’io, ma perché ci metti quasi sempre tutta quest’ansia nel dirlo?» Jinyoung sorrise e scombinò i capelli rosa confetto del fidanzato.
«Perché è talmente bello che a volte credo che il cuore mi si stia fermando.»
Jinyoung cercò di mostrare in modo teatrale lo scombussolamento che Jackson gli causava ogni volta che gli diceva cose così sdolcinate con una caduta causata da una freccia che arrivava dritta al cuore.

Quando Jackson lo prese per la vita, per evitare di farlo cadere davvero, si ritrovarono così vicini da non poter parlare, le labbra quasi si sfioravano. E infatti Jinyoung si allontanò di pochi millimetri prima di cambiare sguardo e squadrare Jackson. «Jackson-ah, perché non fai quello che sai fare meglio?»

«Pensavo volessi riposare per bene oggi.» Gli occhi del ragazzo dai capelli rosa erano languidi, il fidanzato si scioglieva solo a guardarli.
«Non l’ho mai detto.» Jinyoung si mise seduto sull’altro prima di baciargli la guancia.
Jackson gli avvolse il collo con le mani, tirandolo verso di sé e buttandosi sulle sue labbra con foga.
Dopo di che lo buttò sul letto, mettendosi sopra di lui, e iniziò a martoriargli il petto.


Poi si ricordò che non poteva tornare nel proprio letto, non poteva far tornare Jinyoung come per magia e non poteva sorridere come sorrideva quando c’era lui.

Quindi, appena finito di mangiare, si fece inviare quella canzone con la promessa di non condividerla con anima viva e andò in stanza.
Si appoggiò alla finestra e guardò New York, che a volte non gli piaceva per niente. La vedeva ancora grigia e spenta, esattamente come la prima volta.

«I said I'm coming home
Coming home
I'm coming home, coming home.»


Continuava a canticchiare la canzone da almeno un’ora, aveva le guance rigate e le ciglia umide, le gambe, su cui poggiava la testa, gli tremavano, il silenzio incombeva sulla stanza e le dita torturavano il filo delle auricolari.

Sapeva che avrebbe dovuto mettersi a letto e riposare, il giorno dopo avrebbe avuto un esame, ma non riusciva nemmeno a muoversi per quanto gli doleva la testa.
E non riusciva a smettere di pensarlo.

Ma non poteva chiamarlo, non poteva fargli sapere quanto stesse male.
E sperava davvero che quella sera Jinyoung avrebbe avuto talmente tanto sonno da pensare di chiamarlo l’indomani, perché sapeva perfettamente che non sarebbe riuscito a non rispondere.

Quando riuscì a mettersi sotto le coperte, bagnò il cuscino con nuove lacrime.

«Basta, per favore basta.» sussurrava a qualcosa di indefinito, sperando che avrebbe fatto passare un po' di quel dolore.

 

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Capitolo 17
*** XVII. Empty ***


11:55 p.m., Los Angeles, United States of America.
Eighteenth day.

«Vieni a ballare! Cosa ci fai lì seduto? Magari ti passa anche un po’ questa sbronza, l’hai presa davvero male questa volta!» Kevin e Ray stavano provando a trascinare Jinyoung in pista tirandolo per le braccia e lamentandosi, ma il moro proprio non voleva saperne.
In realtà non era ubriaco, per niente, anche perché aveva bevuto solo una birra.

Però non aveva davvero voglia di divertirsi e fingere sorrisi e risate quella sera. Il suo unico pensiero, per tutta la giornata, era stato il fidanzato, e in realtà non lo stava pensando in modo triste o malinconico, però il pensiero di lui lo stava incasinando, aveva mal di testa da tutta la giornata.
«Ragazzi, davvero, non mi va, per stasera divertitevi voi.»

Ray e Kevin invece erano due spugne quella sera, avevano bevuto davvero troppo oltre il limite, Jinyoung non riusciva a spiegarsi come potessero essere ancora in piedi.
Probabilmente erano le preoccupazioni che avevano in mente a farli ridere in modo così isterico, non l’alcool.

Circa due ore dopo, Jinyoung era praticamente sdraiato sul tavolino che aveva preso il gruppo, osservava i due amici, ancora pieni di energie, che ridevano e ballavano. 
Qualcuno passò dietro di loro, vide quella che sembrava proprio la fidanzata di Kevin ballare, se quel continuo strusciarsi l’una sull’altro in modo così volgare poteva definirsi ballare, con un ragazzo che assomigliava fin troppo a Felix, l’ex fidanzato di Ray.

Gli occhi erano due piccolissime fessure e le labbra erano socchiuse. Il sonno stava decisamente prendendo il sopravvento su di lui.
«Hey, andiamo a casa.» Non si rese nemmeno conto del fatto che i due amici si fossero avvicinati.

«Ho chiuso gli occhi solo per un secondo, non è giusto che li faccio andare via a causa mia.» si disse il ragazzo, allontanandosi dal braccio di Ray, che stava cercando di farlo alzare per andare via.

«Ragazzi è presto, io sono a posto, tornate a ballare, e poi non può guidare nessuno dei tre al momento.» Alzò la testa e guardò i due che avevano ancora l’aura creata dalle loro stesse risate intorno.
«Allora bevi con noi.» Ray sorrise, e quella frase fu abbastanza convincente da far alzare Jinyoung.

Quando però fu avvicinato, quasi con la forza, al bancone, si rese conto che non poteva effettivamente bere con i due amici, erano ridotti fin troppo male per bere ancora.
Solo che cercare di convincerli a non bere e a tornare al tavolo non fece altro che peggiorare la situazione.
«Se riesci a bere dieci shot di tequila senza crollare cinque minuti dopo – Kevin continuò la frase al posto del maggiore - nessuno dei due toccherà una sola goccia di alcool per tutta la serata! Ci stai?»
Jinyoung sospirò e rise ironico. «Ci sto.»
Mezz’ora dopo avevano una birra a testa in mano e ballavano senza fermarsi un secondo.

Alle quattro del mattino Jinyoung e Ray erano appena stati lasciati a casa da Kevin e un amico, Third.
«Tra quei due c’è qualcosa?» chiese il ragazzo mentre guidava verso casa sua.

«Decisamente no, ti ricordi Jackson, Il migliore amico di Ray?» Kevin portò la testa indietro, appoggiandola.
Il guidatore annuì, poi i suoi occhi si illuminarono per un colpo di genio «Non dirmi che Jinyoung è il fidanzato di Jackson!»
Nel frattempo, erano arrivati di fronte casa di Third, che spense l’auto e, dopo aver messo la giacca, scese insieme all’amico.
«Tieni le chiavi, qualsiasi cosa… lo sai, sto qua di fronte, suona.» Gli mise le chiavi dell’auto in mano, chiudendogli il pugno e stringendolo mentre gli rivolgeva un sorriso.
«Tranquillo.» Dopo di che, si salutarono velocemente e andarono nelle due direzioni opposte.

In realtà non è che Kevin avesse voluto lasciare Jinyoung e Ray da soli, ubriachi, nella stessa casa, ma quando aveva visto la propria fidanzata in compagnia dell’ex fidanzato di Ray, al locale, dentro di lui era scattato un campanello d’allarme.
Non ci aveva pensato un attimo, anche perché la mente era tornata un po’ lucida e stava ragionando fin troppo bene, così aveva chiesto a Third di tornare a casa con lui e lasciargli le chiavi per l'eventualità, la fidanzata abitava letteralmente nella casa di fronte.

«Jinhee…» entrò piano dentro casa, la ragazza aveva sempre avuto il vizio di lasciare cancello e porta aperti, quindi non fece nemmeno rumore.
«Jinhee…» l’unica luce accesa proveniva dalla zona notte della casa, e sapeva che i genitori di lei erano partiti qualche giorno prima.

Quando arrivò davanti alla stanza della fidanzata, la scena che vide fece venire a Kevin il voltastomaco: Felix era sdraiato, le teneva i fianchi con le mani piccole, sussurrava il suo nome e la guardava negli occhi mentre entrambi si agitavano uno verso l’altra, Jinhee con una mano si portava i capelli castani indietro e con l’altra si teneva, muoveva il bacino verso il corpo dell’amante, a volte gli graffiava l’addome con le dita, gemeva in modo sempre più vivace e acuto.

Non sapeva se uno dei due si fosse accorto del rumore, in realtà quasi impercettibile, dei suoi passi.

L’aveva toccata così per quasi tre anni, e non riusciva nemmeno a pensare, fino a qualche ora prima, che qualcun altro l’avrebbe fatto. Sentiva ancora la pelle candida e calda della ragazza sotto le sue dita, sotto il suo corpo, ricordava vivamente il suo contorcersi quando lui le sfiorava i capezzoli, quando la lingua toccava i fianchi di lei e vedeva le sue labbra aprirsi in uno schiocco delicato per lasciar andare gemiti di piacere irrefrenabile.

Quando Felix decise di prendere Jinhee di peso e di farla inginocchiare, per poi tirarle i lunghi capelli, Kevin lasciò la casa, non prima di aver fatto sbattere sonoramente la porta che portava in cucina.

Dopo aver buttato giù qualche lacrima e aver tirato qualche pugno allo sterzo, Kevin si sentiva stranamente vuoto.

Il tragitto verso casa fu abbastanza tranquillo, la musica che passavano in radio era allegra, ma non stavano passando le solite Hit estive che tanto odiava, quindi andava bene.

Arrivato a casa, vide i due coinquilini guardare un film comico davanti alla tv, erano seduti sul divano e avevano tutti i cuscini che c’erano in casa attorno, quindi individuò il proprio, lo prese e andò subito via. Loro erano talmente tanto ubriachi da non essersi nemmeno accorti che era tornato.

Ignorò anche il fatto che i loro volti erano a pochi millimetri di distanza, voleva solo dormire e dimenticare la giornata.

"Ray cerca di capire da quasi un anno con chi Felix lo abbia tradito… Possibile che già allora Jinhee e lui fossero amanti?" se così fosse stato, in quel momento non aveva la minima idea di come dirglielo. Sapere di averla avuta tutto quel tempo sotto il naso lo faceva arrabbiare parecchio anche per l’amico, probabilmente Ray non ci avrebbe visto più dalla rabbia, se lo avesse saputo.

Il ragazzo si tirò i capelli e si sedette, prima di rintanarsi nelle lenzuola per avere un po' di conforto.

 

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Capitolo 18
*** XVIII. Not so sober ***


08:01 a.m., New York City, United States of America.
Nineteenth day.

«Kevin! Come mai hai risposto subito? Di solito devo chiamarti due o tre volte per farti svegliare.» Mark era nella propria stanza a vestirsi, quel giorno avrebbe avuto solo una lezione due ore dopo, quindi si stava preparando con calma.
«Non ho dormito in realtà, come mai hai chiamato?»
La risata di Mark fece rilassare Kevin, il solo pensare a lui lo faceva sentire più tranquillo.

«Oggi hai un esame alle otto, mi hai chiesto tu di farti da sveglia, come sempre.»
Il sospiro del biondo fece ridere ancora di più Mark, che quel giorno portava un sorriso più ampio del solito.
«Oddio è vero, comunque resta a farmi compagnia al telefono.» Il respiro di Kevin era diventato improvvisamente affannato.
«Okay, come mai non hai dormito?» Camicia bianca e pantalone nero erano in netto contrasto con lo sguardo allegro e il portamento di Mark, quel giorno si vedeva carino davanti allo specchio.

«Non è importante, ho un esame e non ricordo nemmeno la materia su cui lo devo fare. Tu come stai?»
Mark sospirò, l’amico aveva un vero potere nell’evitare di affrontare discorsi e situazioni non convenienti.

«Tutto bene, ho consegnato il brano ed è piaciuto molto. Sono davvero contento.» Improvvisamente il rosso non si sentì più allegro e non si vide più carino allo specchio, quindi mise velocemente il profumo e uscì dalla propria camera, evitando lo specchio.

Con una mano teneva il telefono, con l’altra prendeva una fetta di pizza della sera prima dal frigo e con gli occhi intimava ai coinquilini di non fiatare.
Jackson aveva la testa appoggiata contro il bracciolo del divano, un occhio era aperto e uno chiuso. Kris era appena uscito dalla doccia e stava mangiando anche lui una fetta di pizza fredda. White era talmente preso dai suoi appunti che non lo aveva nemmeno guardato in faccia.

«Come va con Jackson?»
Mark quasi si strozzò e il ragazzo in questione alzò per un attimo gli occhi, poi crollò nuovamente e gli appunti che aveva vicino caddero per terra, «Fanculo! Che giornata di merda.»
Kevin, al telefono, rise di gusto, «Lui di sicuro sta benissimo.»
«In realtà sta andando proprio bene, non dà segni di cedimento.» Mark finì la sua fetta di colazione e salutò velocemente i coinquilini mentre usciva.

«Almeno lui si salva…»
Mark non osò chiedere, non aveva idea di cosa stesse combinando il fidanzato di Jackson a Los Angeles, ma non voleva saperlo: sapeva che qualcosa stava succedendo, ma non voleva essere schiacciato dai sensi di colpa o entrare in discussioni che non lo riguardavano.

«Io devo staccare Kevin, ci sentiamo più tardi in caso, va bene?» l’auto era decisamente sporca, forse aveva trovato qualcosa da fare prima di andare all’università.
«Va bene, ti chiamo io nel pomeriggio.»
Quando staccarono la chiamata, Mark sorrise, l’istinto gli diceva che i prossimi giorni sarebbero stati pieni di novità.

*

Kris prese il ragazzo dai capelli bianchi per la vita e lo tirò a sé.
«Che cosa hai intenzione di fare? Devo prepararmi, prima di pranzo ho una lezione.» Un brivido leggero gli attraversò la schiena, facendolo allontanare dal busto del più alto.
«Smettila, voglio solo iniziare bene la giornata, me lo concedi un abbraccio?» rispose quest’ultimo e appoggiò il mento sulla spalla di White.
«E’ un metodo troppo banale per iniziare bene la giornata.» Il ragazzo si staccò da Kris per potersi girare, si mise in punta di piedi e gli sfiorò le labbra. «Così va meglio.»

Fece per girare i tacchi e andare verso il bagno quando venne tirato per un braccio e tenuto per i fianchi.
Quando le loro labbra si incontrarono per un bacio più coinvolgente, il più basso si aggrappò al corpo dell’altro avvolgendo le braccia intorno al suo collo.
Entrambi chiusero gli occhi e la mente, si lasciarono andare ad un momento di pace, si sentirono in uno spazio in cui Jackson non era nella stanza accanto e nessuno dei due aveva problemi, dubbi o lezioni da seguire.

Però Jackson si trovava lì e, quando fece per andare nella propria stanza a prepararsi, si ritrovò davanti i due ragazzi, avvolti nella loro bolla di ormoni e sentimenti devastanti, intenti a mangiarsi la faccia.
Questi erano i termini in cui pensò alla situazione mentre tossiva per attirare la loro attenzione e farli spostare dell’unico punto di accesso alla propria camera.

I due si separarono di poco e si guardarono in faccia prima che Kris scappasse in bagno.
«Vi date da fare vedo.» Jackson rise prima di oltrepassare White.
«Non mi ha nemmeno chiesto di-» il thailandese venne interrotto subito.

«Lo so, si vede che ancora c’è un velo di imbarazzo tra voi, aspetta ancora un po’, dovresti sapere meglio di me che Kris non è la persona più estroversa del mondo, presto farete sesso, non preoccuparti.» Dopo il piccolo monologo esplicativo e rassicurante, Jackson sbatté la porta in faccia al minore e vi si appoggiò, mentre i ricordi lo investivano.

Five years ago…
«Non sono ubriaco, sono solo un po’ brillo!» era una delle prime volte che Jinyoung beveva, e ancora Jackson non era riuscito a capire quanto effettivamente reggesse l’alcool.
«Se lo dici tu.» Alla risposta di Jackson seguì una risata leggera.
Ecco, lui… su sé stesso non l’aveva mai capito, aveva sempre bevuto troppo, non aveva nemmeno avuto il tempo di capire quale fosse la soglia oltre la quale diventava ubriaco marcio.
«Scopiamo?» quella era la conferma che Jinyoung non fosse brillo.
«No, torniamo a casa, siamo messi male.» La casa di Jackson era a circa centocinquanta metri dalla casa in cui si stava tenendo il festino, quindi decisero di sorreggersi l’un l’altro e provare a tornare a casa.
Quando riuscirono a fare ritorno e a salire nella stanza del proprietario di casa erano ancora messi male, ma almeno riuscivano a camminare meglio.
«Jinyoung-ah! Che fai?» Jackson si era appena tolto la maglia per il caldo, la sensazione della schiena contro la porta era peggiore di quello che si sarebbe aspettato.
«Stai zitto una volta tanto.» Jinyoung non era lucido, senza alcun dubbio. Sicuramente da lucido non gli avrebbe infilato la lingua in bocca all’improvviso.
«Dovremmo smetterla, lo sai?» sottolineò Jackson mentre gli toglieva la maglia, per poi abbassare le mani sul suo addome.
«Perché? Ci manca qualcosa per caso? L'intimità? La complicità?» interrotto dai propri sospiri, dovuti alle mani dell'altro che non smettevano di torturargli le cosce, Jinyoung sputava parole che sarebbero rimaste impresse a entrambi.
«Ci manca quello che dovrebbero avere due persone che fanno sesso quasi giornalmente…» più il dialogo diventava spinoso, più Jackson aveva paura che quella sarebbe stata l'ultima volta che sarebbero stati così vicini, più tormentava il corpo dell'amico.
«I sentimenti? Jackie, sappiamo entrambi che ci sono.» il suono della zip rimbombò nelle loro orecchie e definì la tensione nella stanza.
Il silenzio si fece pesante, insieme ai sospiri di Jinyoung.
E quando Jackson si avvicinò al suo orecchio, il suo fiato mozzò il respiro al castano, facendogli contorcere la schiena e il bacino verso quelle dita abili. «Io non vedo i tuoi.»
«Non vuoi vederli.»
Nessuno dei due aveva intenzione di lasciarsi andare, ma entrambi avevano il terrore che per l'altro non fosse così. Questa era esattamente la sensazione che non volevano provare.
Alcuni dei segni che si lasciarono quella sera non sarebbero andati via per parecchio tempo. 

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Capitolo 19
*** XIX. Empty nights ***


Los Angeles, United States of America, 09:57 p.m.
Nineteenth day.

«Ho fatto la più grande cazzata della storia, non berrò mai più.» Ray aveva la testa tra le mani, era nel panico più totale.

«Lo dici ogni volta che fai una cazzata da ubriaco.» Lo sguardo che Kevin rivolgeva a Ray da almeno mezz'ora diceva chiaramente "Io te l'avevo detto, e poi hai un bicchiere di scotch in mano."
«Sì, ma questa volta è stata davvero grossa la cazzata.» Nel frattempo, Ray bevette un sorso dell'alcolico nel suo bicchiere.

«Lo so, hai baciato il fidanzato del tuo migliore amico.» Kevin rise mentre ripeteva la stessa frase per la ventesima volta nell'ultima ora.

«La smetti di ripeterlo in modo così brutale?» Lo sguardo di Ray era davvero devastato e l'amico non lo stava aiutando per niente.
«Sappi che non voglio rinfacciartelo, voglio solo ricordartelo.» Fu la risposta, secca e diretta, dell'amico in questione.

«Comunque, lui se lo ricorda?» intervenne Third, che fino a quel momento non aveva fiatato.
«No, o almeno non sembra, stamattina era felice come una pasqua.» I tre ragazzi seduti a quel tavolo sospirarono.

«Beh, potresti tenere il ricordo per te e portarti questa questione fino alla tomba, semplice.» Third tentò un sorriso mentre proponeva l'idea, ma l'unica cosa che ottenne fu uno scappellotto da Kevin.
«Ogni tanto dovresti stare zitto.» I due coinquilini si guardarono, e Ray capì di dover spiegare meglio cosa era successo.

 

One day ago...

«Jinyoung, sei ubriaco marcio, non hai bisogno del caffè, hai bisogno di dormire.» Era almeno la quindicesima volta che Ray cercava di farglielo capire, ma non c'era verso di convincerlo.
«Stai zitto, me lo ripeti tutte le volte e fallisci sempre, non ti sei stancato?»
A quella risposta, Ray corrugò la fronte: non si erano mai ritrovati nella situazione in cui Ray implorava l'altro di andare a dormire, cosa stava succedendo?

«Non capisco di cosa-» Jinyoung lo interruppe abbracciandolo. «Ho finito il caffè, ora puoi portarmi a letto.»
E lui ci provò davvero a portarlo nella sua stanza, ma Jinyoung si era incollato al divano del soggiorno e non c'era verso di farlo spostare da lì.

Passò qualche ora, durante le quali decisero di restare in soggiorno a guardare la tv. Quando Ray riprovò a convincere il moro che fosse il momento di andare a dormire era già mattina.
«Hey, perché mi vuoi portare a letto? Di solito andare a dormire è l'ultimo dei nostri pensieri.»
Ray continuava a non capire. Neanche lui brillava di sobrietà in quel momento, non si poteva certo pretendere che collegasse tutti i fili.
«Certo, forse questa volta non sono in condizioni, ma il bacino della buonanotte me lo puoi dare.» Jinyoung tirò l'amico verso di sé. I loro volti erano decisamente troppo vicini, c'era qualcosa che non andava.
«Jinyoung-ah...» più Ray provava ad allontanarsi, più Jinyoung lo teneva stretto. E nessuno dei due aveva molta forza in corpo.

«Jackson, quando la smetterai di essere così rigido con me? Siamo fidanzati da anni.»
Ray non ebbe il tempo di dire qualcosa, perché la sensazione improvvisa delle labbra di Jinyoung sulle sue era estasiante.
E l'avere tutto quell'alcool in circolo non poteva aiutarlo.
«Ora possiamo andare.» Jinyoung si allontanò leggermente e sorrise.
Quando arrivarono nella stanza si sedettero entrambi al bordo del letto e si guardarono per qualche secondo.

«Perché ho come l'impressione che tu non ci sia?» dopo di che si mise sotto le coperte e chiuse gli occhi.
Ray gli rimboccò le coperte e uscì dalla stanza.

*

«Oddio, non ti ha riconosciuto nemmeno per mezzo secondo.» Kevin teneva ancora un'espressione severa nei confronti dell'amico, sembrava che il racconto non avesse cambiato per nulla la sua idea riguardo la situazione.
«Forse dovrei davvero tenermi questa cosa dentro fino alla morte.» Lo scotch era finito, ma Ray continuava a tenersi il bicchiere vicino alle labbra.
«Jackson dovrebbe saperlo, sei il suo migliore amico, non puoi tenerglielo nascosto.» Kevin sperò davvero in un "hai ragione" che però sarebbe arrivato solo quando sarebbe stato troppo tardi.
«Andiamo? Non vedo l'ora di sprofondare tra le lenzuola.» I due biondi concordarono con Third e decisero di andare a casa.

Quando Kevin e Ray arrivarono, videro l'altro coinquilino girare per il soggiorno con le bacchette tra le mani, il telefono in bilico tra le spalle e l'orecchio e un piatto di ramen appoggiato sul tavolino.
«No Jackson, sei tu che hai voluto fare Ingegneria, non puoi lamentarti del professore che spiega normalmente.» La risata che accompagnò la sua frase confermò ai due ragazzi che Jinyoung stava parlando col fidanzato, così andarono molto velocemente in cucina.
«Ragazzi c'è il ramen già pronto, mangiate!»

Il sorriso che riempì i loro volti quando tolsero il coperchio dalla pentola appoggiata sui fornelli avrebbe fatto capire a chiunque che, qualunque preoccupazione avessero prima, era scomparsa. Ed effettivamente fu così fino a quando non finirono di mangiare e non sentirono un «Io ti amo di più!» urlato dalla stanza accanto.

Quando Jinyoung entrò in cucina per pulire tutto quanto, Ray sembrò quasi scappare dalla stanza.
«È successo qualcosa? Sembrava un razzo.»
La bravura di Kevin a mentire si mostrò in quel momento, riuscendo a trovare subito una scusa per il ragazzo «Ha parecchio da studiare, ti aiuto a pulire.»

Jinyoung gli lanciò la pezza, per poi girarsi e iniziare a sciacquare tutto «Tu asciuga mentre mi dici che hai che non va.»
«Io non ho nulla che non vada.» Rispose con tono serio ma poco convinto.
E la sfida di sguardi, durata due o tre secondi al massimo, fu vinta da Jinyoung.

«La mia ragazza mi ha tradito, credo mi tradisca da prima ancora che ci mettessimo insieme, credo che lo abbia capito perché non ha ancora osato cercarmi. Il ragazzo con cui l'ho trovata è l'ex di Ray, fino a stamattina non sapevo se dirglielo o no, ma non voglio dargli altri pensieri.»
Jinyoung però non era ancora convinto, così lasciò stare la pulizia e si asciugò le mani, togliendo poi la pezza dalle mani dell'altro. «Non è esattamente questo che ti preoccupa...»
Kevin sospirò e si sedette, in modo poco delicato, sul divano.

«Non sento niente, siamo stati insieme per più di tre anni e non mi sento arrabbiato, non mi sento mancato di rispetto o preso in giro, mi sento vuoto, forse mi sento anche leggermente meglio del normale, ma non riesco a capire perché!» si torturava le mani e teneva lo sguardo basso, alcuni attimi sembrava che lo stesse guardando, altri era chiaro che stesse guardando qualcosa che il moro non poteva immaginare.

Jinyoung si sedette e continuò ad ascoltare.

«Jinyoung, l'ho vista nuda, con un altro uomo, ma non ho avuto voglia di prenderli a pugni neanche per un secondo. Giuro che l'ho amata, ma adesso mi sento come se non avessi mai provato nulla, come se non l'avessi mai conosciuta. Quasi non mi riconosco.»

 

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Capitolo 20
*** XX. Scent of home ***


02:11 p.m. EST, New York City, United States of America.

Twenty-first day.
 

«Ragazzi! Ho dimenticato di dirvi una cosa.» Alle parole del ragazzo dai capelli bianchi i tre coinquilini si girarono verso di lui, incuriositi.
«Tra qualche giorno torno in Thailandia, starò lì per una settimana più o meno.»

Dopo aver risposto ad una domanda di Mark, si dedicò al piccolo broncio di Kris. «Cosa dovrei fare una settimana senza di te? Mi annoierò da morire!»
White rise per l'atteggiamento infantile dell'altro «Concentrati sullo studio, il fine settimana potresti passarlo fuori. Magari vai con Jackson e Mark, non dicono mai di no loro.»

Quando Kris, dopo averci riflettuto qualche attimo, annuì, i due si sorrisero e iniziarono a sparecchiare la tavola, infastidendo i due ragazzi più grandi che erano ancora seduti.
«Oddio! Non vi sopporto più.» Jackson si girò e abbracciò White, bagnandogli poi la maglia.

I quattro ragazzi, circa mezz'ora dopo, avevano i vestiti inzuppati e la cucina si trovava in condizioni pessime.

*

Mentre Mark aiutava Jackson a togliere un qualche cibo dai capelli, arrivò una chiamata che fece imprecare entrambi, presi com'erano da quel piccolo lavoro.
«Mark, è il mio, puoi rispondere tu? Se muovo la testa i capelli si ridurrebbero come all'inizio.»

Il ragazzo dai capelli rossi rispose subito quando vide chi stava chiamando. «Pronto?»
«Oh! Io... cercavo Jackson. Sei Mark, giusto?» Dalla voce di Jinyoung traspariva una leggera ansia, e Mark se ne accorse subito.
«Sì, sono Mark, siamo insieme. Ti metto in vivavoce perché non può muovere la testa.»

Mentre Jackson spiegava al fidanzato, ridendo, cosa era successo e cosa stavano facendo, Mark lanciava imprecazioni contro il biondo, dato che non voleva saperne di stare fermo.

«Siete un po' fuori di testa.» Constatò Jinyoung, iniziando a ridere insieme all'altro.

«Come se le guerre tra te e Kevin fatte con le palline di carta stagnola o con le piante di Ray siano normali.»

Al sentire il nome dell'amico, Mark sobbalzò, tirando leggermente i capelli di Jackson.
«Hey! Mi hai tirato i capelli!»
Il ragazzo annuì, cercando di sembrare convincente. «Scusami, mi sono distratto un attimo.»

Il sospiro di Jinyoung dall'altro lato del telefono fece in modo che Jackson non prestasse più attenzione al coinquilino per un altro quarto d'ora abbondante.

*

«Hey Mark! Come stai?»

Mark era stranito da quella chiamata, si erano sentiti appena due giorni prima, non parlava così tanto per chiamata nemmeno con sua madre. «Tutto bene, tu?»

Si sentì un sospiro dall'altro lato del telefono prima della risposta. «Tutto bene. Io...»

Qualche secondo di silenzio precedette le parole del rosso.

«Senti Kevin, lo so che c'è qualcosa che non va, ma se non me ne parli non posso aiutarti. Che succede?»

Ed era vero: già da qualche giorno aveva notato, per quanto si potesse notare dalla sola voce, che Kevin non sembrava sprizzare energia positiva come suo solito.

«Nulla.» Fu la risposta, che non mise in pace la mente di Mark.

«Va bene, allora perché hai chiamato?» chiuse gli occhi per qualche secondo. Il pensiero di Kevin che stava male lo faceva impazzire, e quella ne era la dimostrazione.

«Volevo sentirti, davvero. Sapere che stai bene, che la tua vita sta andando bene, che non hai problemi. Solo questo.»

E Mark avrebbe davvero voluto dirglielo, che stava bene quando sapeva che lui non aveva problemi. Ma sarebbe stato inutile.

«Io sto bene Kevin, ma voglio davvero darti una mano. Che cosa c'è che non va?»

La leggera risata che sentì dall'altro lato del telefono lo fece rilassare per qualche attimo.

«Nulla, adesso nulla, davo andare. Ci sentiamo presto.»

Non ebbe il tempo di rispondere: il bip che sentiva indicava che Kevin aveva già staccato la chiamata.

Il ragazzo, seduto sulla sedia girevole azzurra della propria stanza, buttò la testa indietro, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì, la prima cosa che vide era una foto di lui e Kevin, entrambi mori e con qualche anno in meno sul viso.

Five years ago...

«Kevin! Torna qui!» Mark iniziò a rincorrere l'amico per non perderlo di vista, invano. Quando si guardò intorno, per provare a capire dove fosse l'altro, sentì una strana sensazione di vuoto.

Colmata dopo pochi secondi da un corpo che avvolgeva il proprio. «Ho vinto, non mi hai preso, prepari tu la merenda.» Entrambi risero, poi Kevin fece girare il più grande verso di lui e lo abbracciò per bene.

«Oggi non sei di molte parole, tutto bene?» alzò il viso dell'amico con una mano, ma continuava a tenere gli occhi bassi.

«Tutto bene!» rispose Mark cambiando completamente sguardo e sorridendo all'improvviso.

«Andiamo dentro, altrimenti non preparo nulla.»

Kevin, in risposta, lo caricò sulla propria spalla e cominciò a correre verso casa.

Quando il minore, circa una mezz'ora dopo, lasciò un bacio sulla guancia di Mark, questo si girò con gli occhi spalancati. «Che diamine fai?»

Kevin rise vedendo la reazione dell'altro. «Volevo ringraziarti, per i toast e per sopportarmi sempre.»

I due restarono a guardarsi, i vortici nelle loro menti non erano minimamente visibili.

«Hai pensato a quello che ti ha detto tua madre?» il minore non aveva molta voglia di aprire quel discorso, ma sapeva che, se non l'avesse fatto lui, l'amico avrebbe mandato in fumo il cervello.

«Trasferirmi a New York? Mi ha detto di pensarci sia ora che per l'università. Non lo so Kevin... Dopo una vita passata a traslocare da Los Angeles a Salvador, poi in Paraguay, a Hong Kong, in Corea, di nuovo a Los Angeles e... mi piace vivere qui in Canada, se mi dovessi muovere vorrei farlo solo per tornare a LA.»

I due si avvicinarono e Mark poggiò la testa sulla spalla dell'altro, inspirando l'unico odore che assomigliasse a quello della propria casa negli Stati Uniti e rilassandosi.

«La casa che c'è a New York è di tuo padre, vero?»

Mark rispose con un mugugno di conferma, si mise più comodo sul petto di Kevin e chiuse gli occhi.

«Sono un tuo amico, non un letto, perché mi sfrutti così?»

Le loro leggere risate assomigliavano al chiasso creato dai bambini all'uscita da scuola.

Poi Kevin lasciò un delicato bacio sulla fronte del ragazzo ormai appoggiato sulle sue gambe, ed entrambi sentirono scivolare via gli ultimi sprazzi di infantilità dai loro cuori. 

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Capitolo 21
*** XXI. Before us ***


11:02 a.m. PST, Los Angeles, United States of America.

Twenty-second day.

 

Mentre Jinyoung si allontanava per andare verso l'aula dove avrebbe avuto lezione a momenti, Kevin iniziò a dare colpi di borsa a Ray, sibilando. «Avevi promesso che glielo avresti detto stamattina, sei un codardo! E Jackson? Ti sei forse dimenticato del tuo migliore amico?»

Mentre il povero Ray provava a scappare invano, l'amico si fermò di colpo: apparentemente sembrava stesse fissando il vuoto.

«Hey, che succede?»
Kevin riuscì a rispondere solo con un cenno che indicava qualcosa alle spalle dell'altro.

Quando si girò, Ray impallidì.
Non era una bella sensazione quella che si provava ad avere l'ex fidanzato a pochi centimetri di distanza, soprattutto considerando che aveva occhi taglienti e dolci curve del corpo, e sapeva far uscire dolcissime parole, sempre ben usate.
E tenendo conto che aveva tradito ogni singola persona con cui era stato.

«Ciao Felix.» Si scambiarono un sorriso di cortesia, uno ancora pallido in volto e l'altro con lo sguardo sempre basso, che alzò solo per indicare Kevin.

«Vuoi parlare con me? Non con Ray?»

La risposta fu un "no" secco. Dopo di che il ragazzo si allontanò e Kevin, con uno sguardo interrogativo e un'alzata di spalle, lo seguì.

Nel frattempo, Ray tornò del suo colore normale, nella sua mente però c'erano ancora talmente tanti pensieri che non si interessò minimamente del perché Felix sia andato via con l'amico.
 

Two years ago...

«Ciao, io sono Ryeowook, chiamami Ray. Tu sei Felix, giusto?»
Un ragazzino dai capelli biondi e lilla si alzò, stringendo la mano a Ray. «Sì, sono Felix, spero di essere sopportabile.»
Era un anno più piccolo di lui, infatti andava all'ultimo anno di high school.
I due si trovavano nello stesso bar e nello stesso tavolo perché Ray era appena diventato il tutor del ragazzino.

In circa due ore, Ray capì quanto Felix fosse diverso da lui: era molto estroverso, sempre in movimento, molto curioso, non smetteva un attimo di parlare. Praticamente era la reincarnazione appena maggiorenne di un bambino di quattro anni.

Alla fine di quella lezione, quando vide i capelli lilla sbucare da sotto quelli biondi e un sorriso più delicato degli altri prendere spazio sul suo viso, Ray pensò che rivederlo sarebbe stato particolarmente piacevole.

*

Quando arrivarono in un vicolo cieco, Felix si fermò e Kevin si appoggiò alla parete.

«Ti ha chiesto lei di parlarmi?» lo sguardo indifferente nascondeva tanto rancore.

«Jinhee non mi ha chiesto nulla.» La risposta secca del minore fece capire che non stava mentendo.

«Rispondile. Le manchi.»

Kevin alzò lo sguardo, gli occhi erano improvvisamente colmi di astio «Il fatto che tu sappia che le manco significa che la vedi ancora, da quanto tempo vi vedete?»

L'incertezza negli occhi di Felix durò solo il tempo essenziale affinché Kevin la vedesse.

«Cinque anni circa, la mia prima volta è stata lei.» Felix abbassò lo sguardo e si guardò i piedi.

Kevin accantonò la rabbia per poter riflettere.

«Prima che lei facesse quell'anno in Canada, prima di me e lei, prima di te e Ray...»

«Perché non stai con lei?» in realtà aveva già una mezza risposta in mente, conosceva Jinhee e il fatto che Felix fosse andato da lui solo per dirgli di tornare dall'ex fidanzata a renderla felice gli fece capire tanto.

«Sono più piccolo di lei, immaturo, troppo estroverso... Lei vuole un ragazzo come te: maturo, che sappia sempre come comportarsi, estremamente gentile e sempre a disposizione. È già tanto che faccia sesso con uno come me.»

Kevin scosse leggermente la testa, pensò subito che quella ragazza fosse irrecuperabile.

«Tu sai come è andata tra me e Jinhee?»

Felix scosse la testa, lo sguardo ancora basso. «So la linea generale: lei ha studiato in Canada per un anno per via del lavoro dei suoi, vi siete conosciuti, un tuo amico dai capelli rossi ha saputo che tra voi due c'era una leggera chimica e vi ha fatti incontrare da soli.»

«Mark. - disse Kevin non appena il minore finì di parlare ­- Il ragazzo dai capelli rossi si chiama Mark.»

Ricordò subito che l'amico tinse i capelli di quel colore qualche giorno prima dell'evento citato.

«Non ho conosciuto Jinhee a scuola, l'ho conosciuta in un pub, eravamo ubriachi marci e il giorno dopo trovai questa ragazza dai capelli un po' neri e un po' rossastri nel mio letto. L'unica cosa che ricordo di quella sera è che pensai che lei somigliasse parecchio al mio amico. Ci incrociammo per caso a scuola qualche giorno dopo, ne approfittammo per presentarci per bene e scoprì che era fidanzata con un mio compagno del corso di diritto. Non credo che le sia importato molto del povero Tyler, una settimana dopo mi svegliai a casa sua e ricordavo solo qualche momento della serata prima. Andò avanti così fino a dicembre di quell'anno. Poi, una sera, lo feci con lei senza essere ubriaco, e capì perché mi ritrovavo sempre con lei, così decisi di iniziare seriamente a provarci. Il mio migliore amico capì quali erano le mie intenzioni e parlò con Jinhee, non ho mai saputo di cosa parlarono, ma lei lasciò subito il fidanzato per stare con me.»

I due ragazzi si guardarono negli occhi, il finale scritto nelle loro menti.

«Sapevi già che c'era un'altissima possibilità che ti tradisse, perché stare con lei?»

Kevin sorrise mentre rispondeva con un'altra domanda «Quando non puoi avere ciò che desideri davvero, cosa cerchi di prendere?»

«Ciò che gli somiglia di più di quello che hai intorno, per cui non hai bisogno di superare ostacoli o combattere. Nessuno è disposto a battersi, a spendere molto, per accaparrarsi un falso.»

Non si dissero altro, ma entrambi avevano appena realizzato al cento per cento cosa Ray era stato per Felix.

«Non vuoi uccidermi? Non vuoi picchiarmi? Ho tradito il tuo amico con la tua ragazza e non ho intenzione di ribellarmi.» Felix alzò il tono di voce mentre pronunciava l'ultima frase.

«Ex ragazza. E comunque no, non c'è riscontro nel picchiare una persona solo perché innamorata, a volte peggiora persino le cose. Probabilmente ti stai già logorando dentro abbastanza.» Il maggiore fece per andarsene, ma la presa dell'altro sul polso lo fece fermare.

«Non farti sentire più non equivale a lasciarla, lei non pensa nemmeno che tu sappia di... questo. È preoccupata perché non ti fai sentire da qualche giorno.»

La risposta di Kevin fu un sospiro, l'odore di candeggina del corridoio gli fece ricordare della lezione che probabilmente era appena iniziata. «L'hai capito ora o pensi di avermi sentito?»

«Ti era suonato il telefono prima di entrare in casa, quella sera. Jinhee ama quella canzone, e mi ha ripetuto diverse volte che è la suoneria del tuo telefono. Non so come abbia fatto a non accorgersene, poi hai sbattuto la porta e il cancello prima di uscire, sembrava che volessi farle capire che eri là.»

Kevin non perse nemmeno tempo a chiedere perché non si era nascosto quando aveva sentito la suoneria, sapeva già la risposta.

Felix aveva già lasciato la presa sul polso, quindi andò via.

Quando, la sera, tornò a casa, e sentì la propria suoneria del cellulare, Try di P!nk, risuonare dalle casse dello stereo della cucina, non perse nemmeno tempo a salutare i coinquilini, andò nella propria stanza e batté la porta prima di buttarsi sul letto.

«Where there is a flame, someone's bound to get burned.
But just because it burns doesn't mean you're gonna die.
You've gotta get up and try.»

Schiacciò il cuscino contro le orecchie e serrò gli occhi per impedirsi di piangere.

 

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Capitolo 22
*** XXII. Chip Clips ***


04:43 p.m. EST, New York City, United States of America.

Twenty-third day.

 

«Ragazzi! Io vado!» le parole urlate da White fecero scattare sull'attenti l'udito di Mark, che uscì immediatamente dalla propria stanza e, mentre andava in soggiorno, bussò forte alle porte delle stanze dei due coinquilini.

«Ti serve una mano? Devi portare qualcosa oltre alla valigia?» chiese, guardando intorno al minore se ci fosse qualche bagaglio oltre alla valigia non troppo grande.

«No, tranquillo. Forse sto portando fin troppo. In fondo torno tra nove giorni.» Ridacchiò leggermente mentre chiudeva il lucchetto, seduto sulle proprie gambe.

Nel frattempo, Jackson si affacciò alla zona giorno strisciando i piedi e aggrappandosi allo stipite della porta, Kris superò Jackson e corse ad abbracciare l'amico, che non lo fosse nel senso vero e proprio del termine... era una questione ancora da risolvere.

«Non puoi andartene, questi due sono di una noia mortale.»

White ridacchiò e negò con la testa, guardandolo. «Te l'ho detto, trovati qualcosa da fare e trascinateli con la forza. Jackson, hai l'esame di economia martedì mattina, giusto? Domani e domenica vai con Kris.»

Mark e Jackson accigliarono lo sguardo «Come sai che ho l'esame martedì?»

«I tuoi lamenti mentre Mark provava a farti capire qualcosa. E credo che l'abbia capito tutto il palazzo.»

Mentre gli altri ridevano, Jackson sbuffò, cercando di non farsi contagiare dalle risate.

«Va bene ragazzi, sono in ritardo, devo andare.»

Quando White andò via insieme a Kris, che pretese di portargli la valigia giù per avere una scusa per stare ancora un po' con lui, il rosso volse lo sguardo verso Jackson, che stava già strisciando i piedi verso la propria stanza. «Stavi dormendo quando ti ho chiamato?»

Il coinquilino finse di non sentire, quindi Mark lo tirò per un braccio e lo fece girare verso di lui.

«No. Stavo studiando.» Fu la risposta, data con un tono di voce un po' troppo alto.

«Jackson, di solito non hai problemi, perché non provi a stare un po' più sui libri? L'esame è tra dieci giorni.» Mark aveva aiutato parecchio il biondo in quei giorni, che capiva ma non riusciva a memorizzare una singola parola.

«Di solito non ho problemi perché studio ingegneria meccanica, non economia.» Sorrise ironico mentre tornava a trascinarsi verso la stanza.

«Forse ho un'idea.»

*

«Vai a Los Angeles e consegna personalmente le chiavi, magari puoi anche usarla come scusa per passare due giorni là.»

White aveva pregato Kris di andare a Los Angeles per consegnare le chiavi dell'auto che aveva venduto. E Kris sarebbe andato letteralmente in capo al mondo per lui, quindi accettò.

Non che avesse capito perché doveva farlo, l'unica cosa che gli era rimasta della spiegazione di White era che sua mamma aveva qualche problema che c'entrava con la precisione.

«Non capisco perché devo andare io.» Qualche dubbio ovviamente c'era ancora.

«Perché mia madre mi ha chiesto di fare questa cosa, ma non sa che io sto andando a trovarla e queste devono essere consegnate domenica mattina. Devi controllare che la macchina sia davvero arrivata.»

Il labbro imbronciato e gli occhi spalancati del ragazzo dai capelli bianchi fecero intenerire Kris, che prese le chiavi dalle mani dell'altro. «Va bene, chiederò a Jackson di farmi compagnia, sicuramente andrà a trovare Jinyoung. Anche perché quando ho fatto il cambio nominativi ho messo il suo nome.»

«E Mark? Lo lasciate solo?» Chiese White avvicinandosi all'altro e mettendogli le braccia intorno al collo.

«Domenica ha un congresso e deve presentare un progetto, quindi non può spostarsi. Non avrebbe senso chiederglielo.» Gli lasciò un bacio sui capelli bianchi e uno dietro l'orecchio.

«È arrivato il taxi, vai.»

Il più basso ignorò la frase e non si girò nemmeno a guardare. Tirò l'altro verso di sé e lo attirò in un bacio di cui tentò di memorizzare ogni singola sfumatura: il profumo di fiori di loto del bagnoschiuma, il sapore del cioccolato fondente che Kris mangiava sempre, il movimento improvviso dei suoi denti che mordevano il proprio labbro inferiore e che lo faceva impazzire.

Quando i due si allontanarono leggermente, Kris aveva le guance rosate.

«Ti chiamo appena arrivo a Bangkok.»

Mentre saliva l'ascensore, il ragazzo stringeva le chiavi quasi come se volesse farsi male. «Quanto sono stupido?»

*

«Quindi, hai capito?» Mark guardava il coinquilino mentre gli attaccava l'ultima molletta all'orecchio.

«Ad ogni argomento che riesco a ripetere togli una molletta, chiaro.» Faceva davvero ridere in quel momento: aveva una decina di mollette sulle orecchie e il volto leggermente contorto per il dolore.

Quando finì di ripetere il primo argomento, in modo più o meno accettabile, Mark tolse la prima molletta, e un sospiro di sollievo lasciò le labbra di Jackson.

«Sei andato bene, continua.»

Quando finì di ripetere quei primi dieci argomenti, Mark tolse l'ultima molletta dall'orecchio del povero studente in crisi e scoppiò a ridere.

«Che succede?» gli occhi di Mark gli sembravano spenti quel giorno, vederlo ridere faceva uno strano effetto. Sembrava che stesse ridendo ironicamente o che stesse per piangere.

«Nulla, solo che le tue espressioni di fastidio e di dolore fanno troppo ridere.» Mentre parlava, prese due cioccolatini dalle proprie tasche, porgendone uno all'altro.

«Grazie.» Jackson si alzò per sgranchire le gambe e andò nel balcone per fumare una sigaretta.

«Comunque, oggi Cassandra mi ha chiamato, ha chiesto se volessimo andare al Blue Vibes, c'è anche Chloé.» Mentre parlava, uscì anche lui e prese l'accendino e una sigaretta dalla tasca dei jeans dell'altro.

«Io sono comunque di turno stasera, sarò già là. E tu stasera suoni al pub. Magari questa è la sera buona che tu e Cassandra vi innamorate.» Il biondo rise mentre il sole, ormai debole, faceva brillare i capelli di entrambi.

Lo sguardo serio di Mark fece capire al minore che quello non era un argomento da trattare, quindi rimasero in silenzio per qualche minuto, intanto che fumavano la loro sigaretta.

«Devi andare a fare il colore, i tuoi capelli sembrano paglia.» Disse Mark spegnendo la cicca nel posacenere attaccato alla ringhiera ed entrando.

«Lo so, solo che non mi fido molto dei parrucchieri, dovrei trovare il tempo per farlo da solo.»

Mark si girò verso di lui sorridendo ampiamente. «Posso fartelo io?»

«Va bene, appena prendo la tinta te lo dico.» Ancora un po' stranito dalla richiesta, sistemò la stanza.

Dopo di che, entrambi si prepararono e uscirono.

 

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Capitolo 23
*** XXIII. Again ***


08:52 p.m. PST, Los Angeles, United States of America.
Twenty-third day.


«Possiamo andare?» I tre ragazzi erano stati invitati al compleanno di Third, nella testa di Jinyoung definito come quello con i capelli neri con cui andiamo a bere, si stavano preparando per andare a casa sua.

«Un attimo!» Ray e Jinyoung arrivarono in cucina correndo, il primo doveva ancora lavarsi i denti e il secondo aveva i capelli bagnati.

«Siamo in ritardo! Io vi soffoco col cuscino qualche giorno.» La frase fu ascoltata solo per metà dai due coinquilini, dato che erano insieme nel bagno della cucina e Jinyoung aveva acceso il phon.

Un urletto stridulo di disperazione lasciò la gola del povero Kevin, che andò a mettere il giubbotto mentre aspettava.

«Siamo pronti!» correndo verso l'ingresso, i due ragazzi adocchiarono i rispettivi cappotti e li misero al volo mentre indossavano le scarpe.

Quando entrarono nell'auto di Kevin, Jinyoung si rese conto di avere ancora i capelli umidi e Ray sentì troppa leggerezza, si accorse poco dopo di non aver indossato gli anelli.

*

La prima sensazione che ebbero i tre ragazzi quando entrarono nel giardino della villa del festeggiato fu che, per essere le nove e mezza di sera, era già troppo piena e si sentivano fin troppi odori: alcool, fumo, sudore, cibo spazzatura.

Nel momento in cui entrarono e si trovarono in quello che normalmente era un open space davvero grande, la puzza dell'alcool divenne ancora più fastidiosa e la musica, che da fuori si sentiva già forte, era assordante.

«Okay, qui ci serve qualcosa da bere.» Urlò Ray prendendo gli altri due per mano e cercando di farsi strada verso la cucina.

Un'ora dopo erano ubriachi, esattamente come tutti gli altri invitati, e si scatenavano nel bel mezzo della pista da ballo improvvisata.

Il festeggiato, che era stato avvisato solo in quel momento del loro arrivo, iniziò a cercarli e li trovò in cucina a rifornirsi di gin. «Kevin! Non si saluta il festeggiato quando si arriva ad una festa di compleanno?»

Il nominato, sentendo il proprio nome, si girò e rise. «In realtà ti abbiamo cercato per i primi dieci minuti, poi ci siamo arresi perché nessuno sapeva dirci dov'eri. A proposito, sono salito su e ti ho lasciato il regalo in stanza, per evitare che qualcuno lo rovinasse.»

«La chiave l'hai rimessa nello sportello del bagno?» Chiese Third avvicinandosi all'orecchio dell'altro, che annuì con la testa in risposta.

Kevin conosceva quella villa bene quasi quanto il proprietario: Ray, che abitava a Los Angeles da più di dieci anni e da altrettanto tempo conosceva Third, gli presentò colui che ai tempi era il nuovo coinquilino, Kevin. Il ragazzo corvino strinse, in meno di un anno, con Kevin più di quanto aveva stretto con Ray in tutto quel tempo.

I quattro restarono lì a parlare per qualche minuto prima che un cugino di Third arrivasse e trascinasse tutti e quattro i ragazzi nuovamente in pista.

A fine serata, dopo che Third decise di mandare tutti via con la frase «Festa finita gente! Stanno arrivando i miei genitori!» i pochi rimasti per aiutarlo scoppiarono a ridere.

«Ti eri rotto un po' il cazzo, vero?» chiese divertito Kevin mentre guardava la decina di persone rimaste, tutti amici del festeggiato e parte della loro comitiva: Charlie e Noah, cugini, Avril e Matthew, compagni di università, Roxy e Trisha, le gemelle, Isaac e Jeremiah, gli amici storici.

E poi c'era una ragazza, Kevin non aveva la minima idea di come si chiamasse, ma gli sembrava di averla vista di sfuggita da qualche parte.

Battendo le mani, il neo-ventunenne richiamò l'attenzione di tutti. «Due cose: la prima è che ora voi mi cantate la canzoncina e io spengo le candeline.» Quando finì la frase, la ragazza senza nome accese le ventuno candeline messe su una torta appoggiata sul piano più grande della cucina, non senza qualche difficoltà, e spense alcune luci, iniziando a cantare.

Quando tutti finirono di cantare, Third spense tutte le candeline, la ragazza accese le luci e riuscirono a scattare una foto accettabile tutti insieme, il ragazzo riprese la parola.

«Dicevo, la seconda cosa è che vorrei presentarvi, visto che non tutti la conoscete, Wendy. Siamo fidanzati.»

Kevin spalancò gli occhi. «E tu, stronzo, non mi hai detto nulla? È inaccettabile!» si avvicinò all'amico per dargli uno scappellotto.

«Io ti avevo detto che stavo uscendo con qualcuno. Ci siamo fidanzati tre giorni fa.»

In realtà alcuni dei ragazzi presenti conoscevano Wendy, ma la notizia era nuova a tutti, ognuno di loro si avvicinò per parlare con la neo-coppia.

Dopo qualche minuto, iniziarono a sistemare la casa, e anche quelli che non conoscevano Wendy la presero a cuore nel momento in cui lei urlò, divertita, dalla cucina: «Sono rimaste due bottiglie aperte e piene: vodka lime e gin. Chi vuole venga qua!»

Fu così che la poca lucidità che avevano ripreso Ray e Jinyoung se ne andò via.

*

Quando i tre coinquilini arrivarono a casa, Kevin non perse tempo: la sua unica destinazione era il letto, e ci arrivò pochi attimi dopo essere entrato e aver tolto le scarpe.

Jinyoung e Ray non riuscirono ad arrivare al letto: si stesero sul divano e si piantarono lì per le due ore successive.

«Jackson, andiamo a dormire.»

Appena Ray sentì quella frase, la prima azione istintiva che fece, fu mettere una mano davanti gli occhi come se fosse disperato.

«Andiamo.» Non fece però in tempo ad alzarsi, Jinyoung lo tirò per un braccio, facendolo sedere.

Gli prese il viso con le mani a coppa e lo avvicinò a sé, baciandolo.

E Ray, che anche quella volta non aveva le forze per allontanarsi, si lasciò trasportare dalle labbra di Jinyoung, sottili e screpolate come, ricordò in quel momento, quelle dell'ex fidanzato.

Dopo qualche attimo, il castano si alzò e tese le mani verso Ray. «Andiamo a dormire.»

Arrivati nel letto di Jinyoung, Ray restò in dormiveglia sino a quando il coinquilino non gli diede il bacio della buonanotte rivolto al fidanzato.

Ebbe la forza di alzarsi e andare nella propria camera, evitando per un soffio le braccia del moro che avevano tentato, invano, di intrappolarlo in un abbraccio.

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Capitolo 24
*** XXIV. Horrific show ***


05:16 a.m. EST, New York City, United States of America.
Twenty-fourth day.

«Jackson. Svegliati. Jackson!» Kris stava davvero per imprecare, aveva provato a svegliare il coinquilino in venticinque modi diversi, ma nulla da fare.
La sera prima aveva preso i due biglietti per Los Angeles, dimenticando però di obbligare Jackson ad andare con lui.

«Kris... che ci fai nella mia stanza?» aveva un solo occhio aperto, i capelli biondi arruffati e la voce impastata, ma quantomeno era sveglio.
«Vieni con me a Los Angeles?» chiese il minore con un sorriso sul volto.

La risposta fu uno sguardo curioso «Sei venuto qui solo per dirmi questa cazzata? Non stava parlando sul serio White.» nel frattempo, Jackson si mise a sedere.
Kris, in risposta, gli fece vedere i biglietti.

L'altro spalancò gli occhi e si alzò di scatto «Se l'aereo è alle otto e trenta noi dobbiamo essere fuori tra un'ora, giusto?»
Kris annuì mentre Jackson correva verso il bagno. E rise un paio di volte: il povero ragazzo, per la fretta, aveva avuto circa una decina di incidenti lungo il percorso.

«Hey, siamo davvero andati a LA. Ti mando un abbraccio come buon auspicio per la conferenza di domani, facci sapere come va.» - Jackson
Attaccò il post-it al manico del microonde e prese il proprio zaino prima di raggiungere il coinquilino, che era già al piano terra.

«Io dovrei essere a letto, mi sarei dovuto svegliare tra un'ora per studiare, cosa ci faccio qui?» nel frattempo, la metropolitana si fermò e i due ragazzi scesero.
«Secondo me se guardi il cielo tra qualche attimo passa l'aeroplano con attaccata la foto del culo del tuo ragazzo.» I sorrisi complici sui loro volti sfociarono in una risata.

00:51 p.m. PST, Los Angeles, United States of America.
Twenty-fourth day.

«Comunque sul serio, perché siamo qui?» Jackson osservò le torri-faro, in quel momento spente.
Los Angeles aveva il suo fascino, ma si capiva subito chi fosse appena tornato nella propria città e chi invece non si amalgamava all'ambiente.
Il sole portava spensieratezza, ogni persona sembrava sentirsi chissà quale celebrità.

«Devo sbrigare una commissione per White, ancora non ho capito nemmeno io perché lo stia facendo.»
Lo sguardo divertito di Jackson fece imbronciare l'altro «Non sono così disperato come te.»
Il più grande, a quel punto, rise di gusto «Siamo entrambi qua dopo sei ore di volo, non puoi negare.»

Giusto il tempo di entrare nel taxi che Jackson era già in dormiveglia, pronto per cadere tra le braccia di Morfeo in quelle due ore di confusione che li aspettava.

Il mare era bello anche a New York, ma a Los Angeles ogni singola cosa veniva percepita in modo diverso rispetto al resto del mondo. In quel momento Jackson stava immaginando di essere sulla sabbia a correre. Magari scappando dal fidanzato o inseguendolo.

One year ago...

«Jinyoung! Guarda che ti prendo lo stesso! Stronzo!» Un ragazzo dai capelli dorati, quelli che brillano al sole, ne inseguiva un altro dai capelli corvini. Il corvino correva all'indietro e faceva le linguacce all'altro, finché non si ritrovò improvvisamente schiacciato tra una pietra ed il fidanzato.

Non sentiva nemmeno più le leggere imprecazioni del ragazzo biondo.

Quando il respiro iniziò a regolarizzarsi, notò lo sguardo del ragazzo che aveva di fronte. «Hai finito di guardarmi fisso dalla testa ai piedi?»

«Intanto ringraziami, se avessi fatto un altro metro correndo al contrario avresti la testa spaccata.» Indicò col capo un punto, poco più avanti, dove erano presenti una piccola valle e tante pietruzze.
«E poi, come posso smettere di guardarti?» continuò, prendendolo per la vita e stringendolo di più a sé.

«Jackson, se non la smetti potrei anche non rispondere più di me, sappilo.»

I due ragazzi si guardarono negli occhi.
«Lo giuro su quanto è vero che mi chiamo Jackson Li, tu non mi sfonderai il culetto.»
A quell'affermazione ben esposta, il compagno rispose con uno schiaffo sulla zona di cui si era argomentato.
Entrambi, con gli occhi sbarrati, si allontanarono leggermente l'uno dall'altro.

Poi il moro iniziò a correre, allontanandosi.
«Jinyoung-ah! Appena ti prendo ti spezzo le ossa!»
All'improvviso i due si ritrovarono davanti Ray e Kevin, i due amici, e caddero tutti.
Comico, visto che loro si ritrovavano pieni di sabbia e a pochissimi centimetri si trovavano i loro teli.

07:34 p.m. PST.

«Hai già chiamato Jinyoung? O il tuo amico?» i due ragazzi si trovavano davanti all'hotel dove avrebbe alloggiato Kris per quella sera, e il minore era già sceso.
«In realtà avevo intenzione di fargli una sorpresa, considerato che è una sorpresa anche per me essere qui.» I due si sorrisero. «Allora ti fai sentire tu domani pomeriggio? Dovresti conoscere bene Los Angeles. Se hai problemi chiama. E grazie per avermi fatto compagnia.»

Jackson nel frattempo chiuse lo sportello e abbassò il finestrino. «Tranquillo, a domani.»

09:08 p.m. PST.

Jackson scese dal taxi, dopo aver pagato, con un sorriso enorme: davanti a sé si ergeva il palazzo dove abitava il suo migliore amico da ormai tre anni e dove aveva passato almeno un mese delle ultime tre estati.
Dopo aver aperto il cancelletto d'ingresso principale, mettendo una mano tra le sbarre e premendo il bottone che si trovava dal lato interno, fece qualche passo e trovò la porta della scala aperta.

Quando però arrivò a destinazione, il sorriso che aveva avuto per tutto il giorno si spense.

Jinyoung, con i suoi capelli mori inconfondibili, era appoggiato alla spalliera del divano, e Jackson non poté che pensare che avrebbe voluto solo abbracciarlo e fargli chiudere quegli occhi stanchi.

Ray invece era in piedi, appoggiato alle labbra del moro.

Dopo un solo attimo, Jinyoung spinse via il coinquilino, guardandolo con gli occhi spalancati.
Ray rise, era ovviamente divertito dal rifiuto, ma questo Jackson non poteva saperlo.

«Prima sì e ora no, spiegami perché.»
«Di che stai parlando? Stai male Ray?»

Potevano essere già ubriachi alle quattro del pomeriggio? Jackson sentiva chiaramente che le parole erano biascicate.

Per qualche attimo si perse a pensare, e quando tornò a guardare dalla porta leggermente aperta vide i due ragazzi attaccati l'uno all'altro, si toccavano con una foga che sembrava inesauribile.

Jackson non si chiese nemmeno perché i due non si stessero spostando, se ne andò quando ormai i due erano quasi completamente nudi e le carezze si erano trasformate in un orribile spettacolo.

 

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Capitolo 25
*** XXV. The worst drawer ***


04:26 p.m. PST, Los Angeles, United States of America.
Twenty-fourth day.

Quel pomeriggio Jinyoung si sentiva bene: i capelli mori, baciati dal sole, gli risaltavano gli occhi, in quel momento color miele grazie alla luce assorbita, la leggera abbronzatura gli dava un po' di autostima e quel giorno aveva anche finito di studiare per un esame importante che avrebbe avuto la settimana successiva.

Smise di guardarsi allo specchio e sistemò la scrivania, ordinando gli appunti e buttando i disegni, fatti nelle pause dallo studio, che non gli piacevano proprio.

Provò a chiamare il fidanzato, che però quel giorno non voleva saperne di rispondere, così gli mandò un messaggio.
«Hey, tutto bene? Ho provato a chiamarti più di una volta. Fammi sapere solo se sei vivo, se stai facendo qualcosa di importante mandami solo un'emoji.»
Alzò il volume del telefono e andò a fare una doccia, accendendo prima la musica e alzando il volume di questa al massimo.

Essere solo ogni tanto gli piaceva, anche se soffriva parecchio la solitudine.
Infatti, dopo quasi mezz'ora di karaoke sfrenato, si mise davanti alla tv e, ancora prima di averla accesa, si rattristò senza un motivo vero e proprio, aveva semplicemente pensato ad un film che voleva guardare.

Quando guardò nuovamente il telefono aveva appena ricevuto un messaggio.
«Tranquillo tutto bene, ti chiamo io più tardi va bene?»
Bloccò lo schermo dopo aver risposto con un «va bene, a dopo».

In quel momento si sentì il rumore delle chiavi nella serratura, dopo un attimo un Kevin sconsolato fece il suo ingresso in casa.
«Mamma, ho detto solo che l'ho vista con questo ragazzo, lui è single e non ha nessuna colpa.» dopo aver fatto un cenno con la mano a mo' di saluto a Jinyoung, crollò sul divano.

«Mamma, io sto bene, te l'ho detto solo perché volevo che lo sapessi. Smettila di preoccuparti.»
Un muto sospiro e uno sguardo verso l'alto accompagnarono l'affermazione del ragazzo, che si mise poi a giocare con gli strappi dei jeans che indossava quel giorno.

«Ora capisci che nemmeno una delle cose che pensavi di lei è vera?»
Jinyoung sentì una risata leggera dall'altro lato del telefono, e fu quella a far comparire un piccolo sorriso sulle labbra di Kevin.
Quando terminò la chiamata, il ragazzo era ormai più sdraiato che seduto, e guardò il moro con occhi stanchi.

«Dov'è il bambino?» nell'ultimo periodo il biondo aveva preso l'abitudine di chiamare Ray in questo modo, probabilmente senza un motivo preciso.
In realtà anche Jackson lo chiamava così a volte, ma Jinyoung non era mai riuscito a sapere da dove provenisse questo modo di chiamarlo.
«Non ne ho idea, credo sia uscito, forse è con Third.»

Entrambi ridacchiarono, ma fu più un gesto ironico che altro.
«Secondo te è già marcio?» i due ragazzi si alzarono, uno per fare la doccia, l'altro per andare a mangiare qualcosa in cucina.
«Ancora no, dagli un'altra oretta.»


09:22 p.m. PST

Con la tv accesa davanti e il sottofondo della voce di Kevin che cantava sotto la doccia, Jinyoung scriveva, o quantomeno provava a farlo, qualche parola per una presentazione, che in realtà riuscì a completare solo una settimana dopo.

Quando sentì la porta aprirsi e l'odore di gin invadergli le narici, non pensò nemmeno di girarsi: era decisamente troppo stanco per dedicarsi ad un Ray ubriaco.
Quando però il biondo si era seduto a terra, decise che forse era il caso di spegnere il pc e dedicarsi all'amico. E così fece.

Aveva i capelli scompigliati, le pupille dilatate e le labbra gonfie, la camicia leggermente aperta e un risvoltino dei jeans era arrotolato in modo disordinato. «Sei così bello stasera.»

Jinyoung ignorò le parole dell'altro, prestando invece attenzione a non farlo cadere mentre lo faceva alzare e lo portava nel bagno della cucina. «Spero che ti abbia accompagnato qualcuno.»
Ray rispose con un sorriso «Ero con Third e gli altri.»

Dopo avergli fatto pulire il viso, il moro tornò indietro con il più grande al seguito. Jinyoung si appoggiò allo schienale del divano, Ray prese un medicinale per il mal di testa e si sistemò accanto all'altro, in attesa che questo facesse un minimo effetto.

Dopo qualche minuto, il biondo gli si mise davanti «Non scherzavo prima, stasera sei davvero uno spettacolo, se uscissi così non ci sarebbe persona che ti toglierebbe gli occhi di dosso.»

Jinyoung non poté far altro che ridere: aveva i capelli raccolti in un codino, indossava dei pantaloncini con dei dinosauri stampati e, anche se non si era guardato molto allo specchio, sapeva che le occhiaie in quei giorni erano diventate più scure del solito e che doveva sistemare le sopracciglia.

Ray allora fece un piccolo sorriso e, lentamente, gli sciolse il codino, per poi appoggiare una mano sulla sua guancia e baciarlo.
Senza nessun preavviso.
Così prevedibile.

Dopo un solo attimo per comprendere la situazione, Jinyoung, appoggiando le mani sul petto, spinse via il coinquilino, guardandolo con gli occhi spalancati.
La reazione fu, ovviamente, una risata.
«Prima sì e ora no, spiegami perché.»

Nella testa del minore si era appena aperto un cassetto, prima chiuso a chiave: alcune immagini sfocate iniziavano a tornargli in mente, episodi che fino a quel momento non aveva mai ricordato minimamente. Era bastata solo una frase accompagnata da un piccolo gesto apparentemente insignificante per confondere tutti i propri ricordi.

«Di che stai parlando? Tu stai male.»

Si guardarono per qualche attimo negli occhi, poi Ray tirò l'altro nuovamente a sé, che questa volta non rifiutò. In realtà non aveva idea di cosa stesse facendo, ma per un piccolissimo attimo immaginò che al posto del coinquilino ci fosse Jackson, e questo bastò a farlo precipitare, a disconnetterlo dalla realtà e a lasciarsi andare. Era Ray a fare tutto, anche se quello sobrio non era lui.

Ad un certo punto, si ritrovarono attaccati l'uno all'altro, Ray lo toccava con una foga che sembrava inesauribile e l'unico rumore che si sentiva era quello dello scontrarsi delle loro labbra.

Quando il biondo scostò l'elastico dei pantaloncini dell'altro per poterlo afferrare per i glutei e farlo sedere sullo schienale della sedia, Jinyoung sentì una sensazione di vuoto attraversagli il corpo, per questo cercò di stringersi, più di quanto già non lo fosse, all'altro e si avvinghiò con le gambe al suo bacino.

I due ragazzi erano talmente tanto estraniati dal mondo, forse anche l'uno dall'altro, che non si accorsero minimamente di Kevin che, entrato in soggiorno dalla zona notte, vide la scena e voltò subito lo sguardo verso un'altra direzione. Probabilmente quello che stava vedendo gli sarebbe bastato per qualche tempo.

Ma gli occhi si puntarono su una scena nettamente peggiore: Jackson, da dietro la porta semiaperta, guardava la scena, una lacrima gli solcava il viso e gli occhi neri erano persi nel vuoto.

Kevin strofinò gli occhi e tornò a guardare Jackson, che si era appena voltato per tornare indietro.

Nel tempo in cui corse nella propria stanza per prendere la giacca e tornare indietro Ray e Jinyoung avevano probabilmente cambiato postazione, infatti riuscì ad indossare le scarpe senza sentirsi estremamente a disagio e ad uscire di casa, chiudendo la porta.

____________
❦ note dell'autrice ❦
nel primo capitolo ho inserito il link alla playlist su spotify di In Sixty Days (se leggete questa cosa tra qualche giorno probabilmente troverete anche quello alla playlist su youtube). 
grazie per l'attenzione 𝄞
aspetto come sempre le vostre opinioni (anche sulle canzoni scelte, sì)
 

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Capitolo 26
*** XXVI. Most of this life ***


09:57 p.m. PST, Los Angeles, United States of America.
Twenty-fourth day.

«Jackson!» I capelli biondi, lavati e sistemati appena qualche ora prima, erano già scompigliati per via della corsa.

L'altro ragazzo continuava a camminare verso l'uscita, aveva la mente tanto concentrata sulla scena vista precedentemente che non sentiva nemmeno la voce di Kevin che lo chiamava.

Camminava, ma si sentiva mancare la terra sotto i piedi; si guardava attorno come se cercasse qualcosa, come se vedesse solo nero; non sentiva il rumore delle foglie o degli alberi o delle auto che passavano, ma solo i rumori sordi delle labbra del proprio migliore amico e del fidanzato che si scontravano, dei loro vestiti che strisciavano l'uno sull'altro e venivano scostati dalla pelle con l'aiuto delle mani, dei loro respiri leggermente affannati.

«Jackson!» il nominato venne scosso da uno spasmo quando Kevin lo fermò, tirandolo per un braccio.
Si girò verso di lui, guardandolo con uno sguardo terrorizzato e spaesato.

Si guardarono per qualche istante, il silenzio permise a entrambi di connettere il cervello alla bocca.

«Li hai visti, o non saresti qui.» Disse Jackson dopo aver gonfiato le guance e aver sospirato. In risposta, Kevin abbassò la testa, mantenendo però lo scambio di sguardi.
«So cosa vuoi sapere: sapevo già qualcosa, ma pensavo sinceramente che si trattasse di un rapporto di amicizia che si stava rafforzando, non avrei potuto immaginare una cosa del genere.»

Mentiva spudoratamente, ma in parte no: Kevin in fondo aveva sempre sperato che non si sarebbe mai arrivati ad un episodio del genere.

«Non importa in fondo, forse è stato meglio così.» Atri attimi di silenzio seguirono la sua frase.
Aveva i pugni stretti, la mascella serrata, il corpo rigido di una bambola.

Il dettaglio che spinse Kevin ad abbracciarlo fu il brivido che lo scosse.

Una persona normalmente così tanto resiliente lo stava stringendo come se avesse appena trovato un piccolo appiglio nel vuoto, e questo gli fece rendere conto di quanto siano forti, a volte, le emozioni. Cosa che lui, personalmente, non aveva mai testato.

«Ti va di andarcene da qui?» Jackson si allontanò tentennante e annuì.
Aveva fin troppo bisogno di non pensare a quanto fosse vicina e lontana allo stesso tempo la persona a cui aveva donato completamente sé stesso e la propria vita per quasi tutta la sua durata.

Kevin fece entrare Jackson in un piccolo pub: sembrava molto tranquillo, l'ambiente era rustico e pieno di colori caldi. Una delle pareti era ricoperta di finestre e un'altra era incisa da un dipinto che sembrava quasi rupestre.
I due ragazzi si sedettero ed ordinarono rispettivamente un matcha latte e un macchiato.

«Sei venuto da solo?»
Si aspettava parecchie domande, ma proprio quella no. «Ho accompagnato un mio amico.»

«Non puoi andartene senza dirgli nulla. Ti distruggerebbe, te lo dico per esperienza appena vissuta.»

Jackson alzò lo sguardo, cercando implicitamente una spiegazione.

«Qualche giorno fa sono andato a trovare la mia ragazza, Jinhee, e l'ho trovata a letto con Felix.» Mentre Kevin abbassava lo sguardo, l'altro assumeva un'espressione sconvolta. «Felix? Intendi... l'ex fidanzato di Ray?» in risposta, il minore annuì.

«La mia relazione con Jinhee non era la stessa di quella tra te e Jinyoung, ma in parte so come ti senti, per questo ti dico di parlargli, perché io non l'ho fatto e sto avendo problemi per questo motivo.»

Nel frattempo, i due vennero serviti e Jackson zuccherò il proprio macchiato per poi girarlo con fare nervoso.
«A cosa pensi? Sai che puoi parlarne con me.» Kevin iniziò a giocherellare con il cucchiaino passandolo tra le dita.

Jackson smise di mescolare e sorseggiò la propria bevanda, per poi fare un respiro profondo e serrare leggermente la mascella.

«Conosco Jinyoung da più di dieci anni, sapevo che sarebbe potuto succedere qualcosa del genere. Il che non lo giustifica, però se conosci bene qualcuno sai già se potenzialmente riuscirebbe o meno a compiere determinate azioni.» Strinse leggermente la presa che teneva sul bicchiere e cercò di inspirare.

«Ed è proprio questo che mi fa imbestialire, se penso che l'altra persona sia Ray. Si tratta della stessa persona che voleva bruciare la propria casa solo perché aveva i ricordi con l'ex. Si tratta della stessa persona che fino a qualche giorno fa mi parlava ancora di lui.»

Si mise una mano tra i capelli e tirò alcune ciocche fino a farsi male. Voleva solo riuscire a tornare nel mondo reale, a non rivedere ancora e ancora quella scena nella propria mente, a pensare in modo lucido.
«Sai che non puoi prendertela solo con Ray, giusto?»

Eccome se lo sapeva: il primo pensiero che aveva avuto quando li aveva visti era stato quello di prendere il proprio migliore amico per il collo e metterlo a muro, facendolo soffocare.

«Lo so, Ray avrebbe dovuto avere un po' di rispetto come amico, ma è Jinyoung il mio ragazzo.»


07:58 a.m. PST
Twenty-fifth day.

Cosa sono le emozioni? Cosa sono i sentimenti? Concetti umani, sostanzialmente.

Se qualcuno vuole abbracciare o baciare un'altra persona, se vuole renderla felice, vuole che quella persona guardi solo lui; tutti lo chiamano amore.
Se qualcuno sente brividi e vorrebbe essere al posto di qualcun altro quando le succede qualcosa, tutti la chiamano invidia o gelosia.

Ma chi dice che quello che qualcuno potrebbe pensare sia amore, possa essere scambiato con la semplice attrazione? Chi dice che quella che potrebbe sembrare invidia, non sia semplice desiderio?

Pensava a questo Jackson mentre aspettava che Kevin gli aprisse la porta.

Avevano parlato per parecchio tempo, poi Jackson aveva deciso di non voler dare più fastidio e aveva rassicurato l'altro facendosi accompagnare davanti all'hotel dove alloggiava Kris, poi aveva preso una direzione a caso e aveva vagato per le vie di Los Angeles.

La considerava la città della finzione: la gente si truccava troppo e indossava sempre un abbigliamento eccessivamente formale o stravagante, stavano sempre tutti a scattare foto cercando di sembrare celebrità.
Aveva passato la notte a girare. Los Angeles era una di quelle città che non riposa mai, e per questo la vedeva simile a New York, anche se la notte veniva vissuta in modi diversi.

A New York, entrando in un pub tranquillo a mezzanotte, il primo rumore che sentiva era quello delle pagine dei libri dei ragazzi alle prese con lo studio. A Los Angeles i pub tranquilli sono una rarità.

Appena vide Kevin davanti a sé fece un sorriso di cortesia e lo salutò.
«Non hai dormito, vero?»

Jackson, in risposta, annuì, allargando il sorriso in un'espressione sarcastica.
«Saliamo, dai. Mi serve un po' di fiato da sprecare.»

 

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Capitolo 27
*** XXVII. The end of the beginning ***


08:03 a.m. PST, Los Angeles, United States of America.
Twenty-fifth day.

L'unica cosa in cui sperava Jackson era di non ritrovarsi Jinyoung davanti la porta non appena Kevin l'avrebbe aperta.

Con la sfortuna che aveva addosso, la prima cosa che sentì fu la voce del fidanzato che urlava.
"Dov'è la piastra, Kevin?"
La risposta arrivò da una delle camere da letto. "Kevin è uscito un attimo, dovrebbe essere nel bagno da questo lato!"

Kevin ridacchiò sentendo le pantofole di Jinyoung strisciare contro il pavimento. Rise ancora di più quando Jinyoung, correndo verso il corridoio, si ritrovò a sbattere la faccia contro la porta d'ingresso della zona notte.

"Il tuo livello d'attenzione non è migliorato di una virgola." Jackson aveva accennato un sorriso per un attimo, ma si era spento subito.
Il sorriso che Jinyoung fece in quel momento, invece, riuscì a resistere per qualche intenso secondo.

Voltò lo sguardo incredulo verso il fidanzato, gli occhi erano pietrificati su di lui, che intanto si era avvicinato per controllare il bernoccolo che gli si era formato sulla fronte.
Jackson prese l'altro per il braccio e lo portò in cucina, dove prese del ghiaccio per poggiarglielo sulla fronte.
Jinyoung, superata la fase di shock, mise le mani a coppa sulle guance dell'altro, sorridendo ancor più di prima.

Ma Jackson si allontanò, lasciando cadere anche il ghiaccio. "Non baciarmi, non toccarmi, vorrei che non mi parlassi nemmeno." La sua espressione era congelata, sembrava stesse guardando il nulla.
Jackson aveva notato che il tono della pelle del fidanzato era più pallido dal loro ultimo saluto all'aeroporto di Incheon.

Il sorriso di Jinyoung morì in quel momento. La persona che gli aveva promesso di non lasciarlo mai andare si era appena allontanato da lui, quasi come se fossero due sconosciuti. In quell'esatto istante si rese conto della gravità della situazione. "Come lo sai?"

"Sono arrivato ieri sera, volevo farti una sorpresa. Solo che la sorpresa l'hai fatta tu a me. Davvero non ti sei accorto di nulla?"
Jinyoung abbassò lo sguardo d'istinto. Non aveva nemmeno avuto il tempo di pensarci, a quello che era successo. Sapeva di aver pianto parecchio, durante e dopo. E non aveva fatto altro che pensarci, ma non davvero.
Un sospiro coprì i pensieri di entrambi e Jinyoung alzò lo sguardo verso l'altro.

"E pensare che ancora ti dedicavo canzoni tutto il giorno, mentre tu qua ti divertivi con... – si fermò, sapeva che in qualunque modo l'avrebbe chiamato non sarebbe stato appropriato – lui." un piccolo sorriso ferito si fece largo sul suo viso prima che smettesse di guardare il ragazzo dai capelli neri e lo oltrepassasse per uscire dalla stanza.

Nella sua testa questa scena era decisamente più cruenta, ma la voglia di urlare contro Jinyoung passò nel momento stesso in cui sentì la porta del bagno aprirsi.
Decise di andare via da quella casa prima che la testa gli esplodesse.

*

"Hey, tutto bene? Jinyoung deve averti distrutto." Kris aveva la voce assonnata, probabilmente era stato svegliato dalla chiamata del maggiore qualche attimo prima.
"In modo diverso da quello che pensi, ma sì." si sedette sul divano che si trovava a lato della stanza subito dopo aver appoggiato lo zaino per terra.

"Ah, il volo è stato spostato a domani mattina, hai un altro giorno da passare con il tuo ragazzo. Contento?" disse Kris mentre gli passava una bibita.
Jackson alzò la testa e rivolse uno sguardo inferocito all'altro.

"Credi che se fosse ancora il mio ragazzo sarei qua, Kris?". Dopo di che accettò la bibita e si mise a sedere composto.

Kris iniziò a farsi domande su domande, l'espressione sul suo viso era abbastanza chiara. "Scusami..."
"No, scusami tu, non ho il diritto di prendermela con te... Cosa vuoi sapere?"

Un piccolo sorriso riempì il volto di Kris. "Non c'è il tuo migliore amico qui?"
Ne seguì un colpo di tosse, poi una piccola risata. "Sei furbo, Kris. Dici sempre le cose giuste per destabilizzare le persone."
Lo sguardo del minore però lo convinse a parlare. "Prima di tutto, Jinyoung vive a casa sua."

Il telefono di Kris iniziò a squillare, e Jackson respirò a pieni polmoni, come se si fosse tolto un peso enorme dalle spalle. Solo che non smetteva di far male.
"Rispondo un attimo e arrivo, tu devi ancora dirmi qualcosa." Il ragazzo si allontanò per andare nel balcone della stanza e Jackson stirò la schiena, per poi alzarsi.

Qualche attimo dopo, mentre lui apriva una barretta ai frutti di bosco trovata nel frigo, bussarono alla porta.

Aprendo, si trovò davanti Kevin, che aveva un sorriso tirato, e al suo fianco qualcuno che non si sarebbe mai aspettato di vedere con l'umore che aveva in quel momento. "Third?"

I due ragazzi si salutarono calorosamente. Jackson pensava che, in vita sua, avrebbe visto quel ragazzo solo quando sarebbe stato felice e con tanta voglia di far festa. E di ubriacarsi.

"Non so chi siate ma... potete entrare." Kris era appena rientrato.
Kevin e Third si presentarono ed si accomodarono.
"Non mi hai nemmeno mandato un messaggio. Non ci vediamo da quasi un anno."

Jackson scosse la testa e sorrise. "Ti ho detto che mi sarei fatto vivo appena sarei stato libero. Evidentemente non lo sono." Rivolse uno sguardo a Kevin, che si difese subito alzando le mani. "Gliel'ho detto per sbaglio che eri a Los Angeles. Mi ha minacciato."

Kris rivolse uno sguardo curioso verso Kevin mentre tornava a sedersi sul letto. "Per caso noi due ci conosciamo?"
Kevin negò con il capo, ridacchiando. "Non mi sembra possibile."

"Comunque, stasera siete entrambi liberi, vero? Se non lo siete, liberatevi lo stesso. È il compleanno di Matthew, e gli farà parecchio piacere vederti. Cerca di trascinarti anche Jinyoung, ha detto che non può venire, studia troppo e Ray non ha la minima influenza su di lui."
Kevin si mise una mano sulla fronte, "Okay Third, è meglio se ce ne andiamo ora."
"Va bene, ci vediamo stasera. Ci conto, bellezza." Fece l'occhiolino al più piccolo della stanza e rise, per poi uscire.

"Jackson, vieni un attimo." Kevin si posizionò appena fuori dalla stanza e il nominato lo raggiunse.
"Vieni alla festa, se sei ancora qui a Los Angeles. I ragazzi non ti vedono da quasi un anno, e poi magari ti distrai un po'." i due si guardarono per poi scambiarsi un sorriso.
"Mi hanno spostato il volo, quindi va bene. Ci sono."

Quando Jackson rientrò nella stanza trovò Kris con uno sguardo perplesso. "La cosa da raccontarmi riguarda Jinyoung e il tuo migliore amico, vero? Ho iniziato a fare qualche ipotesi, e nessuna di queste è particolarmente bella." chiese, diretto.

Nel momento in cui Jackson annuì, lo sguardo di Kris si trasformò in un misto di sensazioni, più negative che positive. "Noi due stasera andremo al compleanno di quel Matthew, anche se c'è il mezzo maniaco. Hai bisogno di distarti."

Il maggiore ridacchiò appena, "Intendi Third per mezzo maniaco? È solo un po' più estroverso del normale, ma è etero ed è un tesoro, fidati."
Kris rispose scocciato. "Mai detto il contrario... Aspetta, hai detto etero? Che spreco."
In fondo Jackson non era solo, e in quel momento non poteva esserne più grato. Sapeva che se si fosse ritrovato solo anche per pochi minuti non si sarebbe ripreso per giorni.

 

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Capitolo 28
*** XXVIII. When did we break up? ***


10:44 p.m. PST, Los Angeles, United States of America.
Twenty-fifth day.

Erano appena arrivati e già Jackson aveva voglia di andarsene.
«Hey, gradite?» Un ragazzo iperattivo aveva appena lasciato due bicchieri pieni di un liquido verde-azzurro a Jackson e Kris.
«In realtà non voglio bere, però sono sicuro che troverò di meglio a questa serata, lo sento nell'aria.» disse Kris fingendosi pensieroso e, dopo aver lasciato il proprio bicchiere a Jackson, partì alla ricerca della fonte dell'odore che impregnava tutta la sala.
Jackson, rimasto solo, decise di cercare il festeggiato.

Circa un'ora dopo, Jackson non c'era più. C'era solo un ragazzo biondo, alto nella media e con gli occhi a mandorla ubriaco marcio.
«Forse dovresti darci un taglio, ti ricordo che tra qualche ora torni a New York.» Kevin, arrivato qualche minuto prima, lo aveva fatto allontanare dal gruppo con cui stava facendo un gioco.
In realtà Jackson non aveva capito una parola di tutto quello che gli aveva detto Kevin, tranne che per l'ultima frase.

«Tranquillo, credo di aver appena recuperato un minimo di lucidità vedendo le loro facce.»
con la testa indicò la porta di ingresso.
Jinyoung era appena arrivato insieme ad un gruppo abbastanza numeroso. Aveva i capelli tirati indietro per bene e una delle camicie più belle del suo armadio.

«Ha avuto anche la testa per sistemarsi bene.» una risata amara piegò le labbra di Jackson per un millesimo di secondo.
«Ti giuro che mi avevano detto che non sarebbero venuti.» In sottofondo, la suoneria del suo telefono.
«Magari si sono liberati all'ultimo, non devi scusarti di nulla.»
Kevin avrebbe voluto dire qualcosa per confortare l'amico, ma non appena diede un'occhiata al cellulare, un sorriso da ebete gli illuminò il volto, smise di ascoltare l'altro e lo abbandonò in un istante.

Quando Jackson, che aveva le dita ingarbugliate tra i capelli biondi, incrociò lo sguardo dell'unica persona con cui sapeva che avrebbe potuto avere un minimo di sollievo, si sentì stringere lo stomaco.
Vedere l'espressione serena di Ray era l'ultima cosa che avrebbe voluto vedere. Più di quella di Jinyoung.

Ci mise meno di un attimo a prendere le scale e a cercare una stanza vuota. La confusione in testa e la sensazione di non respirare si stavano facendo più soffocanti ad ogni passo.
Nel momento in cui trovò una stanza libera e chiuse la porta, gli sembrò di essere tornato a respirare davvero. Non si sentiva così bene dal giorno prima.

Si sedette su una panca presente nella stanza e osservò le foto, deducendo subito che fosse la stanza del festeggiato.
Adesso che poteva concentrarsi su sé stesso, sentiva l'alcool bruciargli la gola come se non avesse mai smesso di bere.

Tutti i bicchieri che aveva bevuto quella sera non gli avevano liberato la testa dal groviglio di pensieri che lo assillavano. Sentiva la mente annebbiata, ma non per colpa dell'alcool. E non riusciva davvero a capirci nulla, sciogliere tutti quei nodi sembrava impossibile anche per lui, che aveva sempre risolto i propri problemi e quelli degli altri.
E ne aveva sentite di storie come la sua, ma viverla in prima persona lo stava facendo dubitare di parecchie scelte che aveva preso in passato.

Era così assorto a rimurginare sui propri errori da non accorgersi che un ragazzo dai capelli neri era entrato e si era seduto sul letto.
Quando Jackson si voltò, il suo cuore perse un battito.
«Quanto hai fumato per essere qua dentro?»
Jinyoung inizialmente ignorò la domanda e si distese, sorridendo. «Abbastanza da non essermi accorto che c'eri tu fino a quando non mi sono seduto.»

Si girò verso la panca e diede due colpi con la mano sul letto. «Non sei nessuno per farmi la predica, sei messo male quanto me se non peggio. Vieni.»
Il biondo negò con la testa, per poi guardare fuori dalla finestra. Avrebbe solo voluto avere un buco nero sotto i piedi per poter andare via da quella stanza e da qualunque persona sulla faccia della terra.
«Il fatto che ci siamo lasciati non significa che non possiamo più fare sesso. O essere amici.» Un sorriso illuminò il volto spento di Jinyoung.

Jackson ci aveva fatto caso la sera prima. Nonostante, a differenza sua, Jinyoung si trovasse da circa un mese in una città dove splende perennemente il sole, lui era diventato molto più magro e pallido.

«E quand'è che ci siamo lasciati?» Jackson non poté non notare gli occhi rossi dell'altro, ma preferì non chiedere se fossero così per il fumo o per la stanchezza.
Si alzò per andarsi a sedere vicino a lui, e fu un'azione puramente istintiva quella di sfiorare le sue guance e le sue labbra.

Qualche attimo dopo, si rese conto di cosa stava facendo e si allontanò, così Jinyoung si alzò per poter fronteggiare l'altro.

«Ti ricordi le nostre prime volte?» si guardarono negli occhi, color miele e color seppia.
«La prima volta che abbiamo fatto l'amore, in quella cameretta che con gli anni ha visto tanto di noi. Il nostro primo bacio, ci sconvolse tanto che non riuscimmo a baciarci per la settimana successiva. La prima vacanza da soli, le prime volte che siamo rimasti a casa senza nessun'altro.»
Jinyoung abbassò lo sguardo, non riusciva a reggere il peso delle sue parole e del linguaggio del suo corpo.

Jackson si avvicinò di un passo all'altro, stringendo leggermente i pugni per non sfiorarlo.
«Un mese, senza di te, l'ho passato con il pensiero che ti avrei rivisto e che ci saremmo potuti riscoprire da cima a fondo, goccia per goccia, centimetro per centimetro.»
Jinyoung non riuscì a trattenere una lacrima, che gli solcò il viso; Jackson non riuscì a trattenere la propria mano, che asciugò la sua guancia.

Una risata sarcastica uscì spontaneamente dalle sue labbra. «Avresti almeno potuto dirmi che quelle degli ultimi mesi sarebbero state le ultime volte, mi sarei preparato.»

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