Orizzonte

di Glenda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** "Soave" ***
Capitolo 3: *** "Relazione" ***
Capitolo 4: *** "Vento" ***
Capitolo 5: *** "Scheletri" ***
Capitolo 6: *** "Dàrbrand" ***
Capitolo 7: *** "Freddo" ***
Capitolo 8: *** "Valanga" ***
Capitolo 9: *** "Apnea" ***
Capitolo 10: *** "Infelice" ***
Capitolo 11: *** "No" ***
Capitolo 12: *** "Mòrask" ***
Capitolo 13: *** "Stupore" ***
Capitolo 14: *** "Tana" ***
Capitolo 15: *** "Thièl" ***
Capitolo 16: *** "Tu" ***
Capitolo 17: *** "Verità" ***
Capitolo 18: *** "Amico" ***
Capitolo 19: *** "Sfida" ***
Capitolo 20: *** "Karìma" ***
Capitolo 21: *** "Previsioni" ***
Capitolo 22: *** "Albero" ***
Capitolo 23: *** "Fratelli" ***
Capitolo 24: *** "Incoscienza" ***
Capitolo 25: *** "Propaganda" ***
Capitolo 26: *** "Trappola" ***
Capitolo 27: *** "Proteggere" ***
Capitolo 28: *** "Perdono" ***
Capitolo 29: *** "Trattare" ***
Capitolo 30: *** "Òraviy" ***
Capitolo 31: *** "Mediatore" ***
Capitolo 32: *** Conclusione ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Se un tempo mi avessero chiesto come mai desideravo tanto andare a vivere nella capitale, probabilmente avrei risposto “per via dell’orizzonte”.

Sembra assurdo, ma è proprio così.

A Mòrask, la mia città natale, non si sta bene, non lo si è mai stati, ma nel mio pensiero d’allora partire non era legato alla ricerca di un’occasione, di un lavoro, di un avvenire, ma proprio a quel desiderio quasi fisico di guardarsi intorno e vedere solo infinito.

Il contrario di quel che dicevano i miei nonni, genitori, amici.

I nativi del Dàrbrand non possono fare a meno di quel recinto di protezione che sono le montagne: “se rimani senza” – mi ripetevano - “ti perdi”.

Non credo di essermi perso, e tuttavia oggi capisco cosa comporta l’ansia di orizzonte.

Fin da quando si è piccoli qualcuno ci protegge da essa: gli insegnanti che ti costringono in fila per due, l’ora dei compiti, l’ora della merenda, non parlare con gli sconosciuti e porta rispetto agli adulti… e così via, mentre cresci.

Le regole non sono nate per reprimere, sono nate per contenere, come le montagne.

Eppure, ogni volta che salgo quassù e guardo questa distesa di tetti ai miei piedi, e l’estuario del fiume che sembra già mare, e le nuvole che corrono, io sento di riempirmi di orizzonte, e so che sarà l’ansia di orizzonte la causa di tutti i miei problemi.

Qualche mio collega a questo punto direbbe che io non ne ho, di problemi: io li creo.

E forse è vero.

Ma sempre per potermi sedere qui.

Sempre per potermi portare l’orizzonte dentro i polmoni.

Prima o poi mi ci perderò davvero.

 

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Capitolo 2
*** "Soave" ***


Adrian Vesna non la amava, la politica. O, almeno, non rientrava nei suoi interessi. Ma lavori come quelli non si rifiutavano, se non altro per il bene del proprio conto in banca.

In verità molte cose non gli erano chiare, prima tra tutte il perché un partito dovesse pagare una guardia del corpo privata ad uno dei propri membri, quando, fondamentalmente, nel grande circo del potere anche il più insignificante portaborse andava in giro con la scorta.

Ma quelli che lo avevano contattato per l'incarico gli avevano garantito che tutto avrebbe acquistato senso nel momento stesso in cui avesse conosciuto il signor Dolbruk di persona.

Noam Dolbruk, il giovane fondatore di “Orizzonte”, movimento di cui Adrian ideologicamente sapeva poco o nulla, salvo che quella candidatura a sorpresa aveva portato parecchi voti a “Liberi Insieme” - partito d’opposizione in lenta scalata - e rafforzato l’immagine di Zjam Kàrkoviy, leader di prestigio ma di fascino pari a zero.

Noam Dolbruk, venuto fuori dal nulla, figlio di una terra di conflitti, faccia pulita e sorriso adorabile, telegenico per natura, che riusciva sempre - pur novellino com’era - a spaccare l’opinione pubblica a metà e alla fine tirare l’acqua al proprio mulino. Insomma: l'uomo più discusso del momento, anche e soprattutto dopo la fuga di notizie che rendeva nota la minaccia di morte ricevuta da anonimi.

Tutto sommato era curioso di incontrarlo: trovava che osservare dal vero una persona conosciuta attraverso i sentito dire ed i filtri mediatici fosse un interessante esperimento sociale, che esulava da una trita routine alle calcagna di ricchi industriali o personaggi in affari di dubbia trasparenza. Era bravo ad osservare, era il suo dono: era immune all’inganno delle apparenze, alle costruzioni, a tutto ciò con cui l'umanità si sforzava di camuffarsi per apparire migliore.

Eppure, quando quel giovane alto coi capelli rossi entrò dalla porta facendo “Ciao” con le dita non poté che restare per un momento stranito.

Non reagì al gesto di Adrian di porgergli la mano: se ne avvide in ritardo e buttò là uno “scusi” privo di imbarazzo, per poi stringerla vigorosamente ampliando il suo già largo sorriso.

“Sono Noam.” disse, e per un momento sembrò che a quella presentazione non ci fosse davvero da aggiungere altro.

Se c'era una costruzione d'immagine dietro a un ingresso simile, Adrian non riusciva a vederla.

“Signor Dolbruk,” intervenne l'uomo che era entrato alle sue spalle “le presento Adrian Vesna, l'uomo che da oggi si occuperà della sua sicurezza personale.”

“È un piacere.” formalizzò Adrian con educazione, ma lui nel frattempo sembrava starli ignorando entrambi ed era andato a sedersi su una delle poltroncine che facevano cerchio attorno al tavolo, sprofondandoci comodo.

“Che incarico fastidioso, Adrian. È sicuro davvero che le interessa?” e nel dirlo continuava a sorridere placido, con l'aria di qualcuno che non è completamente presente nel “qui e ora” e in qualche angolo della mente sta passeggiando altrove.

Adrian sedette davanti a lui.

“Di solito questa è una cosa che non mi si chiede. Mi si chiede se sono disponibile e a che prezzo.”

“Oh. Capito.” e si stropicciò il mento “Ma io invece gliel'ho chiesto.”

“Allora le risponderò come meglio posso: non ci sono incarichi che mi interessano o non mi interessano, principalmente perché ciò che succederà domani non è prevedibile. Ci sono incarichi che accetto ed altri che no. Questo mi risulta di averlo già accettato.”

Noam annuì e per un attimo si fece più serio. Non propriamente “serio”, in vero. Solo senza una vera e propria espressione sul volto.

“Glielo hanno detto che non ero d'accordo?”

Adrian fu sincero.

“No, ma lo intuivo. Mi sono chiesto come mai un uomo della sua posizione non fosse già fornito di una scorta personale. E mi hanno detto che conoscere lei sarebbe stato sufficiente a capirlo.”

“E lo ha capito?”

“Me lo spieghi lei.”

“Mm.” si tirò su col busto e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, ora meno rilassato “Va bene. Ci provo. Io non sono venuto a vivere a Noravàl per trovarmi in una posizione. Quello è capitato. Io mi sono trasferito qui per poter vivere, serenamente, dentro la città. Mi piace stare con la gente, mi piace chiacchierare con chi non conosco, mi piace prendere il treno e correre al mattino sulle scale che vanno su al belvedere… Mi fido di tutti. Mi fido e mi piace. La fiducia è un gesto di responsabilità: più ne dai, più ne ricevi, più responsabilità ti assumi. Il solo pensiero di macchine con vetri oscurati e persone che allontanano la gente al mio passaggio mi fa venire la claustrofobia!”

“Ma adesso ha ricevuto una minaccia di morte.”

Noam diede in una sana risata.

“Lei lo sa da dove vengo, vero?”

“Dal paese dove muore un sindaco all'anno.” rispose Adrian, senza enfasi.

“Un po' meno di uno all'anno, in vero. Ma sì. Se si desse credito ad ogni minaccia che si riceve, Mòrask, anzi no, l’intero Dàrbrand sarebbe una terra blindata.”

Lo è ogni volta che qualcuno che non ci è nato deve passarci – pensò Adrian tra sé, ma si trattenne.

“Io sono un bersaglio facile.” fece Noam allargando le braccia “Direi quasi un bersaglio banale. Se qualcuno avesse voluto ammazzarmi, lo avrebbe fatto da tempo senza prendersi la briga d'avvertirmi. E se anche fosse… io rischio di saltare in aria con una bomba messa su un tram più o meno da quando sono nato!”

“Osservazione sensata. Ma è vero anche che le persone con cui lavora non hanno la sua stessa esperienza di vita, e non vogliono problemi.”

“Ha ragione.” disse, gettando un’occhiata al suo accompagnatore, che era rimasto un poco in disparte “E questo è il motivo per cui ho acconsentito di incontrarla, e lo stesso per cui le ho detto che sarà un lavoro fastidioso. Io rispetto profondamente la paura degli altri, ma ciò non significa che debba diventare la mia. Un compromesso funziona quando se ne esce soddisfatti da due parti, non quando entrambi i contraenti accettano una sconfitta parziale.”

Adrian annuì ed abbozzò un pallido sorriso.

“D'accordo, Signor Dolbruk. Sì: ora penso che questo incarico mi interessi.”

“Davvero?”

“Proteggere qualcuno che non ha voglia di essere protetto, giuro che non mi era mai capitato!”

Noam scoppiò a ridere. Chissà cosa c'era di tanto divertente? Eppure aveva una risata fresca, di cuore: sembrava che quella risposta lo avesse divertito davvero.

“Perfetto. Benvenuto ad Orizzonte, Adrian.”

 

***

 

Quell'uomo gli piaceva: lo trovava ingenuamente spontaneo, pur se nei suoi atteggiamenti non ci fosse nulla di davvero ingenuo; anzi, semmai sembrava che il suo fosse uno stato raggiunto, conquistato.

E tuttavia bastarono poche ore perché Adrian si rendesse conto di aver accettato un incarico improbabile, e che il suo essere lì era quasi umoristico.

Nel breve tragitto che lo portò fuori dall'anonimo edificio in cui si erano incontrati, Noam Dolbruk riuscì ad attirare l'attenzione almeno un paio di volte, si fermò a parlare con tre persone che non avevano certo l'aria di essere suoi conoscenti, e appena uscito sul portone si accomodò a sedere sui gradini consultando qualcosa sul telefono, disinvolto, a suo agio.

Forse avrebbe dovuto fargli presente che se quell'incontro avesse voluto essere meno riservato, avrebbero potuto vedersi direttamente alla sede del partito, o persino sotto casa sua… e lo avrebbe fatto, se di fronte avesse avuto qualcun altro. Dirlo a lui, in quel momento, gli pareva più paradossale della situazione stessa.

“Ok, posso farcela!” constatò ad un tratto Noam balzando in piedi “Devo spicciarmi, però.”

Parlava del treno, presumibilmente, visto che si stava dirigendo deciso verso l’ingresso della metropolitana. Lo aveva pure detto. Gli piaceva “vivere dentro la città, prendere il treno, andare a correre”… Santo cielo, sembrava finto! Era come se fosse uscito da un romanzo. O da un cartone animato, forse. I suoi colori, il sorriso sgargiante, quella sfacciata “presenza scenica”…

D'un tratto ricordò alcuni articoli che aveva letto su di lui giorni prima. Com'è che lo chiamavano, un po' con scherno e un po' con dolcezza? Il “soave Dolbruk”. Era indubbio che quell'aggettivo fosse scelto bene: sembrava che glielo avessero ritagliato addosso. A volte i giornalisti ci sapevano proprio fare, con le parole.

Ma lui, lì, in piedi sulla gradinata, non era un giornalista e nemmeno un disegnatore di fumetti, e doveva prendere una decisione.

Corrergli dietro? Pessimo: avrebbe significato rendersi – e renderlo – ancora più visibile di così.

Seguirlo a distanza? Ridicolo: era il cliente, non l’oggetto di un’investigazione.

Pensò che queste valutazioni avrebbero dovuto essere state già fatte, a tavolino, e concordate col diretto interessato… e invece l'unica cosa di cui avevano parlato era stata… quale? Alla fine, nessuna. Non avevano deciso proprio niente, e lui si era lasciato trascinare dai discorsi di quell'uomo, dalle sue stranezze, dal suo carisma.

No, non era corretto parlare di “carisma”: Noam Dolbruk non era carismatico, non parlava come un uomo di pubblico, non aveva il magnetismo del leader né la terminologia e l'atteggiamento di chi ammalia le folle. Eppure adesso gli era ben chiaro come ottenesse tanto seguito: aveva fatto perdere il filo persino a lui, a lui che era così abituato a tenere sotto controllo ogni cosa.

Lo vide imboccare quasi al volo la scala mobile, voltarsi un attimo a guardare qualcosa – cosa? Lui, forse? O solo un pensiero, un’immaginazione? – e poi sparire nella grande bocca scura del sottopassaggio.

Adrian sospirò. Estrasse il telefono, impostò la destinazione e andò a riprendere la propria macchina.

 

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Capitolo 3
*** "Relazione" ***


A Noam piaceva rientrare a casa. Gli piaceva l'atmosfera che c'era a quell'ora, specialmente nella bella stagione, quando il sole si abbassava dietro i tetti e si sentiva ancora qualche voce di mamma che richiamava i bambini per cena. Erano rarità strappate la tempo che gli ricordavano il luogo da cui veniva, il suo quartiere pieno di grida becere e sbarbatelli per strada: eppure parte della gioia dell'aprire la porta e salire le scale era data proprio dal non trovarsi più lì.

Quell’appartamento l'aveva preso in affitto quando era arrivato a Noravàl senza un lavoro e con pochi soldi in tasca, ragazzo scappato da un paese privo di opportunità, e con una fuga ancora più grande chiusa in valigia.

Ora che soldi non gliene mancavano, l'aveva comprato e fatto ristrutturare. Scelta discussa, dato che avrebbe potuto acquistare una casa più centrale, magari più grande, che gli permettesse di pensare ad una famiglia, per esempio. Ma da quel posto non aveva avuto il coraggio di staccarsi: sarebbe stato come tagliare un altro ponte, ripetere il gesto con cui sei anni prima era salito su quel treno, ed era un ricordo che faceva ancora male.

Un giorno un giornalista gli aveva chiesto se il suo impegno in politica fosse un'espiazione per essere fuggito dal Dàrbrand: formulata così, era un'ipotesi banale, ma nella banalità aveva colto qualcosa di determinante. La ragione che lo aveva spinto ad andarsene era strettamente legata a ciò che lui era e che faceva adesso.

A quella domanda, aveva risposto ciò che amava ripetersi e credere: che se ne era andato per ansia d'orizzonte. Era stata l'unica risposta che gli fosse possibile dare per evitare di mentire, e Noam non amava le menzogne.

Non si era ancora tolto le scarpe quando sentì il campanello suonare.

Sulla porta c’era Adrian Vesna, ma sul momento faticò a riconoscerlo. Era diverso da come lo aveva visto nemmeno un paio di ore prima: sembrava decisamente più giovane, portava occhiali da vista, la t-shirt di un gruppo rock, scarpe da ginnastica consumate e a tracolla una borsa di pelle gonfia e sformata.

“Buonasera! Disturbo?”

Noam lo tirò in casa.

“Signor Vesna, che sta facendo… ?”

Era la prima volta che non lo chiamava col proprio nome: per lui era un segno di evidente difficoltà.

“Lei dovrebbe quantomeno chiedere chi è, prima di spalancare la porta.” eluse lui “D'ora in poi, almeno questa piccola accortezza me la conceda.”

“Che significa questo… ” travestimento, pensò, ma disse “...cambio di look?”

Adrian frugò nella borsa, tra plichi di libri, ed estrasse un portafogli, da cui tirò fuori un documento.

“Faccio quello che lei mi ha chiesto e che i suoi colleghi, del resto, mi avevano preannunciato. La sorveglio 24 ore su 24 senza intralciare la sua vita. O la sua immagine di uomo che si muove liberamente per la città e si fida di tutti.

Pronunciò l'ultima proposizione con un tono che Noam non seppe decifrare: non era critico o dispregiativo, ma c'era dentro qualcosa di stonato.

Il documento riportava una foto di Adrian forse d'un paio di anni più giovane, un nome fittizio, un indirizzo, timbro e firma dell’impiegato comunale di turno.

“In questa identità sono Yiv Bàmen, uno studente fuori sede, ho preso in affitto un appartamento al piano di sotto. Sono sicuro che saremo ottimi vicini e ci capiterà spesso di andare a correre insieme sulle scale del belvedere o di incontrarci sullo stesso treno. Compromesso, signor Dolbruk.”

Noam sbatté gli occhi, fissi sul documento falso.

“Le faccio un caffè.” disse, atono “Le va il caffè? O preferisce altro?”

Non lo lasciò rispondere e si diresse all'angolo cucina, accendendo la macchina da espresso. La mano gli tremava un po', e una cucchiaiata di caffè finì a terra. Si chinò con la spugna in mano, e rimase qualche attimo così, piegato sul pavimento, assorto in un pensiero.

Poi si alzò e fissò Adrian dritto negli occhi.

“Mi faccia capire:” disse “lei pensa di cambiare identità così come cambia i vestiti, per potermi seguire nelle diverse situazioni della mia vita?”

Lui annuì.

“Tendenzialmente è così che lavoro quando il cliente vuole discrezione o quando mi viene chiesto di mantenermi in incognito per far uscire una minaccia allo scoperto. È la mia specialità. Io posso diventare quante persone desidero, e quante volte al giorno lo voglio. Un trasformista, questo dicono di me. E posso garantirle, signor Dolbruk, che a volte lei stesso non saprà riconoscermi.”

Pronunciò quelle parole senza orgoglio, con distacco.

Forse le aveva dette migliaia di volte.

Forse non vi vedeva nulla di pazzesco.

Noam, invece, avvertì un nodo di dolore stringerlo alla gola.

“Ma questo non è affatto bello!” proruppe “Lei così… mi chiede di fingere con i miei amici, con la gente che frequento… e soprattutto mi chiede di fingere con lei! Con chi dovrei relazionarmi io? Con Adrian Vesna la guardia del corpo, con… Yiv lo studente… o con chi altro?”

“Lei non ha bisogno di relazionarsi.” rispose Adrian, con un'impassibilità disarmante “Io devo solo proteggerla. Non le è chiesto di avere alcun tipo di rapporto con me.

Noam pensò che cose del genere si potessero dire solo nei film, e non lì, in casa di una persona vera, che respira e ti guarda. Eppure si rendeva conto che altre volte nella vita gli erano capitate situazioni almeno vagamente simili.

Pensò al suo primo discorso elettorale: si era così stupito quando Kàrkoviy lo aveva messo in contatto con chi glielo avrebbe scritto… era caduto dalle nuvole come un ingenuo: non riusciva a immaginare quanto di convincente potesse esserci in un discorso, se ciò che ci era stato messo dentro non era reale. Reale per lui: detto come lo avrebbe detto lui, sforzandosi – anche - di dirlo con le stesse parole con cui pensava, che non era facile nemmeno per i poeti, figuriamoci per uno sconosciuto che non lo conosceva.

Alla fine quel discorso era stato scritto benino, era chiaro e non retorico, e lui lo aveva imparato a memoria la sera prima, perché non aveva senso parlare alla gente senza guardarla negli occhi: ma poi gli occhi degli altri la memoria gliel'avevano fatta perdere e lui aveva detto quello che voleva, con le sue parole, le esitazioni, le incespicature del suo pensiero: la punteggiatura segreta che distingue il vero dal falso. E lo avevano applaudito a lungo.

“Ogni contatto umano è una relazione. Possiamo investirci o meno, ma non lo possiamo ignorare. Qualsiasi incontro apre una scatola, e ciò che ci verrà messo dentro non può essere preventivato in anticipo, così come non si può preventivare come, quando e se la scatola verrà richiusa.”

Adrian rifletté giusto un attimo.

“Nel mio lavoro si preventiva l'ampiezza della scatola, signor Dolbruk, e questo definisce in partenza quanto può contenere.”

Il modo in cui aveva accolto la sua metafora e l'aveva rovesciata per smontarla era stato indubbiamente brillante.

Noam sorrise.

“Ho capito. Allora, scatola predefinita. Ok. Ma ogni relazione implica due o più elementi.”

“Questo non è un problema. Non sono qui a decidere come lei debba porsi nei miei confronti: non è in mio potere farlo. Le ho solo detto che se le è difficile relazionarsi con un uomo che si nasconderà tra la folla per proteggerla, non deve sforzarsi a farlo. La discrezione è una mia specialità. Sarò nella sua vita sempre, ma lei non mi vedrà quasi mai.”

A quelle parole Noam avvertì un brivido corrergli lungo la schiena.

“Le parole sempre e mai non dovrebbero essere usate con leggerezza.”

Adrian si alzò spostando la sedia senza il minimo rumore.

“Stia tranquillo,” disse “la leggerezza non fa parte di me.”

Si diresse verso il punto luce della cucina e cominciò a guardare all'interno della plafoniera.

“Ok.” fece tra sé, ed andò ad aprire borsa con cui era entrato estraendone qualcosa.

“Che fa?” chiese Noam.

“Sistemo le cimici. Siccome vivo al piano di sotto, dovrò pur sentire se qua dentro accade qualcosa.”

“Eh? Sta scherzando? La prego, mi dica che sta scherzando!”

“Non si preoccupi.” fece Adrian completamente estraneo a quella reazione emotiva “Terrò sotto controllo questa stanza perché è aperta sull'ingresso. Non avrà microfoni in camera da letto.”

“L'intimità non è solo sotto le lenzuola!”

Adrian interruppe per un attimo il suo lavoro e lo fissò con un'espressione mista tra stupore ed irrisione.

“Scusi, ma lei che razza di personaggio pubblico è?”

Era la prima volta che Noam si sentiva etichettare così direttamente come “personaggio pubblico”, e quell'espressione, udita tante volte, su di lui gli suonava strana, dispregiativa.

Eppure era esattamente ciò che lo definiva, e non solo in quel momento della vita.

Non era mai stato una persona che riusciva a rimanere defilata dal mondo: mettersi in mostra gli veniva naturale, lo aveva fatto a scuola, all'università, nelle manifestazioni a piazza Vittoria e anche qui, pur se, quando era partito, si ERA ripromesso di evitarlo.

Era sempre stato più forte di lui, e non si trattava solamente di politica: anzi, forse la politica ne era un aspetto marginale. Cosa c'era allora che gli rendeva tagliente la domanda di Vesna? Non ne era sicuro, ma avvertiva in qualche modo in quell'espressione il sottinteso che la sua vita si svolgesse su una specie di palcoscenico, che ci fosse un copione da imparare, un po' come per quella storia del discorso. Lui non si sentiva un “personaggio” pubblico: sentiva, piuttosto, che buona parte della sua vita aveva necessità di essere pubblica per essere vissuta davvero.

Ma era difficile spiegarlo, specie a qualcuno che aveva appena messo in chiaro di non voler essere ad alcun titolo suo amico.

Rimase in silenzio, lo lasciò lavorare.

Ogni tanto guardava dalla finestra il cielo scurirsi e pensava che tutto sommato anche quella era stata una bella giornata. Anzi bellissima. Oppure pessima.

I bilanci non tornavano mai.

Adrian fece molte prove audio, si mosse un paio di volte dalla casa all'appartamento di sotto, poi disse di nuovo “ok”, ma non a lui, e cominciò a mettere in ordine le sue cose.

Solo allora Noam si accorse che desiderava ancora togliersi le scarpe.

Andò in camere da letto, gettò la cravatta sul comodino, tornò in soggiorno a piedi nudi e si distese sul divano, quasi come se l'ospite non fosse più lì.

“E quindi, lei lavora senza relazionarsi mai?” fece, buttando uno sguardo al soffitto, le mani intrecciate dietro la testa.

“Mai.”

Con un rumore di cerniera la borsa si chiuse.

“E come fa?”

“Io potrei farle la domanda contraria.”

Noam chiuse gli occhi.

“Io le saprei rispondere.”

Rimasero in silenzio abbastanza a lungo da permettere ai suoni della strada di raggiungerli dalle finestre. Una donna gridava qualcosa che non si capiva, nella sua voce c'erano rabbia e vitalità.

Era buio, ormai.

“Per me tutto è relazione.” disse Noam, con dolcezza “Non c'è niente senza. Senza relazione non sta in piedi quasi nessuna attività umana: nemmeno l'arte si sorregge senza qualcuno che ne gode. E la politica, principalmente, esiste per questo. Esiste perché gli esseri umani hanno messo giù le clave per cercare di entrare in un tipo di relazione che fosse d'incontro e non di scontro. Chi dimentica questo, chi dice che la politica si basa sull'economia, o sulla potenza, o sulla lotta di classe, non fa che fare a fette il punto di partenza. La politica è fatta dalle relazioni: ciò di cui ha bisogno l'essere umano per stare bene è di relazioni funzionanti. Per cui, io per primo devo costruire relazioni che funzionino. Purtroppo non sempre mi riesce bene, ma non può chiedermi di non farlo, nessuno può. Non sono un personaggio pubblico, sono una persona che è fatta del suo rapporto con la gente.”

“… ed è per questo che si fida di tutti?”

Stavolta quella nota stonata non c'era, o, almeno, Noam non l'avvertì.

“È per questo che mi fido di tutti.”

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Capitolo 4
*** "Vento" ***


Seguire Noam Dolbruk era come stare al passo col vento.

Gli era venuta in mente quella metafora una mattina mentre un turbine di polvere gli aveva annodato i piedi sulla cima del belvedere e si era chiesto come si potesse stupirsi di un paesaggio visto quasi ogni giorno.

Forse la differenza stava proprio in quel sollevarsi di foglie introno alle loro gambe, e al modo in cui il vento le muoveva, e si era rivisto per un attimo quando, bambino, si fermava su simili pensieri.

Noam Dolbruk era leggero come il vento, e altrettanto mutevole, imprevedibile, pericoloso.

Non si poteva semplicemente seguirlo nella sua vita quotidiana: per stargli dietro si doveva provare a seguire i suoi pensieri, ed il vento quell'uomo lo aveva nella testa.

Non sapevi mai cosa avrebbe fatto di nuovo ed imprevisto quel giorno, quale scandalo avrebbe sollevato una sua dichiarazione buttata là come un sasso sull'acqua, con chi si sarebbe seduto a cena quella sera, in quale ricevimento diplomatico avrebbe fatto da intrattenitore o in quale locale fumoso e anonimo lo avrebbe recuperato mentre ballava o beveva in compagnia di sconosciuti che ignoravano la sua faccia.

E poi il suo tempo, che sembrava aver rubato ore a dio, così pieno di cose, di cose, di cose e di idee, di idee, di idee…

Qualcuno voleva uccidere un individuo così?

Niente di più normale.

Un individuo così poteva essere ucciso senza lasciare una traccia in tutto ciò che aveva toccato?

Decisamente no.

Aveva cominciato col domandarsi chi potesse volerlo togliere di mezzo, e col tempo quel pensiero aveva cominciato ad affascinarlo, fino a chiedersi che faccia potesse avere il nemico ideale di uno come Noam Dolbruk. Era un'altra creatura di volatile inconsistenza? O un essere presente, compatto, radicato alla terra?

Ci voleva tutta la sua conquistata fermezza per dirsi che non esistono amici o nemici ideali, e tutto avviene per giri di potere e interesse che sono bel lontani dagli archetipi di bene e male o di luce ed ombra. Ed un pensiero gli frullava per la testa: che la versione più sensata dei fatti fosse che quella minaccia di morte non fosse mai stata formulata, e si trattasse di una mossa pubblicitaria del partito stesso. Altrimenti si sarebbero impegnati di più, ad esempio, affinché la notizia rimanesse nascosta. Invece era circolata, per quanto le alte sfere puntualmente glissassero o smentissero. Potevano aver progettato tutto: prima candidavano un darbrandese nelle loro fila per raccogliere i voti dei progressisti, poi mettevano in giro la storia della minaccia e si affrettavano a mostrarsi protettivi ricavandone un bel guadagno di immagine, e infine tutto si sarebbe sgonfiato in una bolla di sapone. Realistico.

Ma quando si era con Noam era facile distrarsi dalla realtà.

O ritornare ai pensieri che si avevano da bambini.

O a quelli che si hanno la notte quando metà della nostra coscienza è già presa dal sonno.

Noam Dolbruk era un ponte sul tempo.

Viveva la vita come se lo avesse tutto a disposizione, diventava un vecchio, un adulto o un bambino, in barba ad ogni legge cronologica, a seconda delle persone con cui parlava, e confondeva se stesso e gli altri in un incantesimo senza fine.

Ma da questa padronanza del tempo il suo passato era escluso.

Da quel che si sapeva pubblicamente di lui, la sua gioventù era stata la più ordinaria della terra. Vita difficile in una terra difficile, studi, lavori saltuari e poi l’emigrazione nella capitale. Niente altro, e questo era strano, ancora più strano per il fatto che quell’uomo così trasparente e incline alla conversazione pareva sviare l’argomento ogni volta che gli si chiedeva della sua vita a Mòrask.

Perché? C'era qualcosa che non doveva essere saputo? E, se si, come mai nessuno aveva provato a scoprirlo? Eppure, non c’era niente di più facile, in una società in cui tutto è in piazza, che raccogliere informazioni su un singolo individuo, per di più popolare.

Forse non erano fatti suoi.

Ma forse si.

Perché se la minaccia era vera (e non aveva ancora abbastanza elementi per escluderlo) allora c’erano cose che magari avrebbe dovuto sapere.

O invece no, perché lo avrebbero fuorviato, gli avrebbero tolto oggettività.

Accidenti.

E a tutto questo si aggiungeva – ogni giorno – la fastidiosa sensazione di trovarsi incastrato in un compito emotivamente complicato (lo odiava) e oltretutto svalutante per la propria professionalità.

Non si poteva proteggere chi non voleva essere protetto… e poi, davvero, da chi doveva proteggerlo? Ovunque si muovesse, qualunque cosa dicesse, sembrava che mai – nessuno - riuscisse a provare dell'odio reale per lui.

Adrian aveva dovuto imparare a distinguere le sensazioni attorno a sé e ai suoi clienti, sapeva sentire la tensione nell'aria, captare le minacce, gli istinti, i sentimenti negativi… e no, intorno a Noam non ne leggeva nessuno. E lui si tuffava nella vita come se nemmeno il rischio d'essere investito da una macchina, o d'ammalarsi o di rompersi una gamba fossero reali: come se il suo tempo fosse eterno.

Era frustrante.

 

***

 

Erano passate sei settimane dall'inizio di quel lavoro, quando la donna col cappello arrivò a ingarbugliare le cose. O forse a dare un briciolo di senso al suo essere lì, almeno per qualche giorno.

L'episodio di per sé fu impagabile: se Adrian avesse cercato ulteriore conferma che il suo cliente provava un perverso piacere ad essere un bersaglio ambulante, quella scena glielo avrebbe assicurato.

Il palazzo del parlamento era un edificio antico, circondato da un giardino diviso in due aree: una era aperta, con un viale che dava accesso all'ala più antica dell'edificio, l'altra era cintata, e dava su quello che un tempo era stato l'ingresso di servizio mentre adesso fungeva da porta principale. Poiché il palazzo, nella sua ala più antica, era oggetto di visite guidate, nell'area del giardino aperta al pubblico si snodava la fila dei visitatori in attesa alla biglietteria. Il contrasto tra quella folla chiassosa e variopinta e le forze dell'ordine che blindavano la cancellata a pochi metri di distanza era affascinante, o almeno così pensava Adrian mentre, nelle vesti di turista, scrutava i movimenti di Noam. Probabilmente il suo sguardo fu il primo a notate il cane dal pelo fulvo che correva trascinandosi dietro un guinzaglio, e stava andando ad infilarsi tra le sbarre della recinzione. Lo inseguiva una ragazza con un grosso cappello, che lo stava richiamando indietro, ma la bestiola non pareva avere nessuna intenzione di obbedire; era evidente che il grappolo di gente in giacca e cravatta che si scambiava convenevoli era più interessante.

Noam vide il cane correre entusiasta per quel tratto di giardino che gli era stato proibito, si staccò dal crocicchio di colleghi e, con una mossa veloce e inaspettata anche per la bestiola stessa, agguantò il guinzaglio al volo, lo tirò verso di sé, afferrò l’animale per la collottola e se lo caricò in braccio.

La gag durò pochi attimi, poi Noam individuò la padrona che si sbracciava oltre il cancello e si diresse verso di lei. Ecco: se adesso qualcuno avesse voluto sparargli, o se la donna fosse stata una terrorista, non ci sarebbe stato il tempo e il modo di fare niente. Queste cose gli facevano venire i nervi! Avrebbe voluto gridargli qualcosa – spaventarlo, magari - ma non poteva “per contratto”: l'anonimato era la condizione tassativa a cui quell'omino bizzarro accettava protezione.

Maledisse i suoi capricci tra i denti, e si avvicinò di alcuni passi, per tenere sotto controllo la situazione.

La ragazza col cappello era giovane, trent’anni, forse meno. Adrian la osservò e si trovò a pensare contemporaneamente due cose: che non era pericolosa e che non era la padrona del cane. Quando tese la mano verso il guinzaglio che Noam le porgeva, lo fece con affettazione, quasi con studio, non come un gesto abituale, e questo dettaglio spinse Adrian a chiedersi cosa ci facesse una donna nei giardini del palazzo del parlamento con un animale che non era suo.

“La ringrazio davvero tanto!” cinguettò lei “Non so cosa gli è preso, ha dato uno strattone e non sono riuscita a tenerlo… !”

Non stava dicendo la verità: anche il modo in cui si esprimeva sembrava un copione studiato a casa. Ma ovviamente Noam non era attento a quel genere di particolari: era troppo preso nel suo hobbY di piacere alla gente.

“O forse voleva fare amicizia con me!” disse.

“Le piacciono i cani?”

“Gli animali mi piacciono tutti.”

La donna sorrise con grazia: il suo sorriso era appena un po' storto, ma quel piccolo difetto lo rendeva accattivante e lei ne era consapevole. Si passò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, fingendo un imbarazzo che non provava, e intercettò lo sguardo del suo interlocutore alla ricerca di un cenno di complicità.

“Sta flirtando.” pensò Adrian. Perché? Indubbiamente Noam era un uomo di fascino e di certo si trovava in situazioni simili molto spesso, ma un siparietto del genere era troppo assurdo per non essere una messa in scena. E poi lei aveva qualcosa che non lo convinceva: c'era troppa cura in ogni dettaglio della sua figura, dall'abito che indossava al modo in cui aveva truccato il viso, allo smalto sulle unghie e persino al modo in cui muoveva le mani… non era il tipo di persona che era uscita per portare un cane a passeggio: era il tipo di persona che era uscita per un appuntamento importante curandosi però che questo non si notasse troppo.

Avrebbe voluto continuare a studiarla ancora un po’, ma Noam tornò sui suoi passi e lui non poteva perdere tempo: un attimo dopo l'ingresso dei parlamentari, sarebbe entrato da una porta secondaria per trovare un nuovo punto di osservazione sul suo cliente.

Mantenere quel ruolo defilato era la cosa più faticosa che gli fosse mai capitata durante un lavoro: doveva essere sempre di corsa, sempre pronto a cambiare personaggio, e nonostante la sua abilità, c'erano sempre dei punti morti, in cui, per forza di cose, doveva perdere Noam di vista. Non avrebbe dovuto rammaricarsene, era stato lui a volere così, ma situazioni come quella appena verificatasi gli facevano pensare che, se fosse accaduto qualcosa proprio mentre non si trovava pronto ad intervenire, lo avrebbe vissuto come un grosso smacco.

 

***

 

La sera di quella giornata, rivide di nuovo la ragazza col cappello.

Era seduta qualche sedile più indietro, sul treno con cui, nei panni del giovane Yiv, tornava a casa alla stessa ora di Noam.

Ma era ben diversa dalla donna che aveva osservato al mattino; portava un paio di Jeans, una t-shirt anonima, una borsa di pelle sdrucita, e sembrava attenta a tutto ciò che LE accadeva intorno: a un paio d'occhi così vigili non sarebbe sfuggito il volo d'un moscerino, figuriamoci un cane!

Eppure era senz'altro lei, ed anche in quella veste aveva curato ogni minimo dettaglio del proprio aspetto, in un'apparenza di finta trascuratezza. La trovava bella: senza il cappello, sulla sua tesa spiccavano delle ciocche di colori innaturali, una viola, una rossa, una blu, disposte qua e là, tra i suoi capelli, in un ordine solo apparentemente casuale; il suo sguardo era arguto, la fronte testa, accigliata, e c'era qualcosa di provocatorio nel modo in cui scrutava la gente.

“È quella di oggi.” sussurrò a Noam, seduto nel sedile accanto.

“Eh? Di che parli?”

Si davano del tu solo in quel breve tragitto: vicini di casa, forse amici, non potevano mantenere le distanze, e questo metteva Adrian vagamente a disagio.

“Della donna del cane. Quella che ti ha avvicinato stamattina.”

Noam fece per girarsi indietro, ma lui lo fermò con un colpo di gomito.

“Discrezione. Non voglio che si accorga che la osserviamo.”

Noam si strinse nelle spalle, e cercò di individuare nella folla la figura a cui Adrian si riferiva.

“Io non la vedo” constatò.

“Forse non la riconosci. È seduta in fondo, sul sedile centrale. Ha una borsa nera, i capelli colorati.”

“Ma va'! Non è lei.”

“Ne sono sicuro. L'ho guardata bene, e su queste cose è difficile che sbagli. Non mi piace che sia qui. Era già abbastanza improbabile ciò che è accaduto col cane.”

“Cosa c'è di improbabile in un cane che scappa?”

“Il fatto che il cane non fosse suo, per esempio.”

Noam rifletté, perplesso.

“Perché credi che non fosse suo?”

“Tu non hai mai avuto cani, vero?”

“No.”

“Mio padre ne ha avuti fino a cinque. Credimi: non era suo.”

Noam si voltò di nuovo a guardare di sottecchi la ragazza del sedile di fondo.

“Ok, ti credo. Comunque non è lei. Non essere sempre così sospettoso, Adrian.”

Provava sempre uno strano fastidio quando lo chiamava per nome. Pronunciava il suo nome spesso, anche quando non era necessario, come se fosse un modo per dare più forza a ciò che diceva, e lui non sapeva spiegarsi perché, ogni volta, gli succedesse di ripetersi nella testa le lettere di quel nome una ad una, come se non fossero diventate un'abitudine. Adrian: dopo i vent'anni quasi più nessuno lo aveva chiamato così. Forse perché aveva pochi amici, forse perché tra gli amici che aveva il dare importanza ai rispettivi nomi era qualcosa di inusuale. Quando Noam lo chiamava per nome, provava la stessa sensazione di piacere e contemporaneamente di violazione che aveva provato quando una volta era stato chiamato così da una sua insegnante.

Scesero alla loro stazione, e la donna rimase a bordo.

Adrian la seguì con gli occhi, ma non ci fu alcuno sguardo di rimando. Eppure era certo di non essersi sbagliato.

“A domani, signor Dolbruk.” lo salutò sulla porta.

Non c'era nessuno nella strada, eccetto loro.

“Dovremmo darci del tu più spesso, Adrian.” disse Noam, a bruciapelo.

Lui avvertì di nuovo quel fastidio: a volte quell'uomo era così ingenuo da non accorgersi di banalità come l'incidente del cane, altre gli sembrava che leggesse le sue incertezze e gliele sbattesse in faccia a posta.

Finse indifferenza.

“Mi creda, non sono una persona formale. Non uso il pronome di cortesia in rispetto al suo ruolo o ai nostri rapporti, ma per convenzione di lavoro: mi hanno insegnato che serve a mantenere il giusto distacco.”

Noam sembrò colpito da quella risposta. Rimase un attimo in silenzio, come se stesse soppesando la sua affermazione.

“Ok.” prese atto “Lo capisco. A me invece, fin da bambino, hanno sempre insegnato che si usa il pronome di cortesia per una forma di rispetto. Così io, che ero un bambino diligente, ho sempre fatto come mi si diceva. Crescendo, però, ho cominciato a pensare che spesso dietro quel presunto rispetto si nasconde la disuguaglianza. Dando del lei a qualcuno si pone deliberatamente l'interlocutore un gradino sopra di noi, anche senza ce ne sia il motivo. L'altro, di rimando, finisce per fare lo stesso. Alcuni se ne compiacciono. Altri proverebbero disagio se questo non avvenisse. Io, per come sono fatto, penso che non ci sia nessun motivo per cui dovrei mettere qualcuno un gradino sopra di me, o perché dovrebbe mettermici… a meno che non lo voglia fare, appunto, per prendere le distanze. Quindi, se veramente gli uomini sono tutti uguali, il pronome di cortesia si riduce ad avere proprio la funzione che gli attribuisce lei, soltanto quella: allontanare le persone. Fosse per me, darei del tu a tutti!”

Sorrise di quel suo sorriso largo e solare.

C'era poco da fare: era invadente e autoreferenziale, ma non riusciva a non piacergli.

“Se trova gradevole darmi del tu, per me non è un problema.” disse “Quanto a me, preferisco giocare i miei ruoli. Dopotutto me lo ha chiesto lei: per essere discreto non posso essere un uomo solo, e quindi non può pretendere di avere sempre davanti quello che accondiscende alle sue preferenze.”

Abbozzò un sorriso, e girò la chiave nella toppa.

“Passi una buona serata.”

 

***

 

Non fu una buona serata. Se non altro per lui.

Erano circa le dieci quando si accorse che Noam non era più in casa. Il rumore della TV accesa lo aveva ingannato, oppure era stato lui ad assopirsi senza rendersene conto, vinto dalla stanchezza degli ultimi giorni? Non era strano che gli saltasse il grillo di uscire improvvisamente, anche a notte fonda, invitato da questo o da quello, ma gli aveva sempre mandato un messaggio di cortesia, e credeva che la convenzione fosse ormai parte dell’accordo. Accidenti a lui. Entrò nell'appartamento senza provare alcun senso di colpa nel violare la privacy del suo cliente, anzi, ne ricavò per un attimo un lieve piacere che stemperò la rabbia: era stufo di corrergli dietro! Se non ne voleva saperne di essere protetto, doveva aveva il coraggio di dirlo ai suoi colleghi e smettere di trascinarlo in situazioni che danneggiavano la sua professionalità; non gli era mai capitato di fallire in un incarico… perché doveva rovinarsi la carriera per uno che preferiva agire di testa propria?

Eppure non riusciva a liberarsi di quella sensazione di ansia: era stato superficiale, non aveva saputo valutare opportunamente l'uomo che aveva di fronte, quindi, se a quello sciroccato fosse successo qualcosa, sarebbe stato un suo errore.

Per un attimo gli tornarono in mente le parole di suo padre: “Ogni responsabilità cercata al di fuori da te è comunque una scusa.”

Doveva capire dove accidenti fosse andato! Conosceva i luoghi che frequentava con i colleghi, e i due o tre locali dove amava passare le serate, ma non si era mai fatto problemi ad andarci con lui al seguito. Al contrario, una sera erano stati persino a bere insieme.

C'erano informazioni su di lui che gli erano state nascoste? Adrian pensò ad una donna: del resto era poco probabile che Noam non ne avesse una, o più d’una! Eppure non gli era parso un argomento di cui facesse mistero.

“Imbecille!” imprecò alla notte.

Entrò nel piccolo studio e cominciò a rovistare tra i cassetti della scrivania e le carte in disordine… e lì trovò qualcosa di inaspettato. Un biglietto. Per lui. “Sono andato alla Casa Stellata. Posto sicuro.” e un emoticon sorridente. Dio, un emoticon. Ma a che cazzo di gioco pensava di giocare?

Ora si trattava di capire dove e soprattutto cosa fosse quella “Casa Stellata”, ma niente che internet non potesse dirgli, ed era chiaro che Dolbruk non aveva deliberatamente intenzione di nasconderlo, altrimenti non avrebbe lasciato quell'indicazione: voleva solo fare qualcosa, o incontrare qualcuno, senza la sua presenza.

“Una donna.” pensò di nuovo. Gli pareva l'ipotesi più sensata, o forse era l'unica che, ai suoi occhi, potesse giustificare il comportamento di Noam almeno un po'.

 

***

 

Invece una donna la incontrò lui.

Bella, con gli occhi attenti, nessun cappello e nessun cane, i capelli corti variopinti e una macchina fotografica professionale, appostata dietro una finestra del piccolo edificio che sorgeva in corrispondenza del punto che il navigatore gli aveva indicato come “Casa Stellata – centro educativo residenziale per minori.”

Le fu alle spalle senza che lei potesse neppure accorgersene.

“E adesso mi dirai chi sei.” le disse, atono, ma con una severità che aveva imparato ad usare quando voleva mettere in soggezione qualcuno.

Lei sussultò, ma fu solo un istante: inaspettatamente si voltò di scatto e cercò di colpirlo. Adrian fu più veloce, le afferrò un polso, girandole il braccio dietro la schiena.

La ragazza lanciò un grido: “Cacciati le mani in culo, razza di cafone!”

“Senti chi parla. Non è forse una cafonata bella e buona spiare attraverso le finestre?”

La lasciò andare, ma standole abbastanza addosso da impedirle un tentativo di fuga.

“Chi accidenti sei?” proruppe lei fissandolo dritto negli occhi.

“La domanda l'ho fatta prima io. E credo di aver diritto a una risposta, oppure ti porto dritta alla centrale di polizia, dato che è da stamattina che stai pedinando qualcuno.”

L'affermazione la colse sul vivo: probabilmente lo scoprire di essere stata notata aveva smontato la sua sicurezza di sé.

“Non ho fatto nulla di male: sto solo lavorando.” estrasse dalla tasca un tesserino e, quasi che quel gesto le avesse fatto ritrovare la grinta, proclamò: “Karìma Mirèl, giornalista, lavoro per Scheletri nell'armadio.

Adrian soffiò fuori l'aria e sentì la tensione sbollire tutta insieme, quasi svuotandolo.

“Una giornalista.” disse “E io chissà che mi pensavo!”

“E tu, invece,” lo aggredì lei, rinvigorita “chi cazzo… ”

Non fece in tempo a finire la frase che la voce di Noam, comparso alle loro spalle come un fantasma, li fece voltare entrambi.

“Ok. Adesso o sparite tutti e due o entrate. E guai a chi fa qualsiasi cosa che potrebbe farvi apparire fuori posto, perché ve la faccio scontare. Pure a te che non so chi sei. Chiaro?”

Girò le spalle e i due lo seguirono dentro la casa: un'ondata di musica e odori li travolse. La stanza era poco più grande di un'aula di scuola, invasa di bambini di forse dieci anni e di adolescenti brufolosi che ballavano goffamente, gridavano, saltavano, e si lanciavano pezzi di cibo. Vecchie luci natalizie a intermittenza facevano le veci di luci psichedeliche, un giovanotto con lunghi capelli biondi e grossi occhiali manovrava un impianto stereo e un manipolo di adulti sembrava star sorvegliando affinché la baldoria non degenerasse.

“Che cos'è?” fece Karìma, d'istinto.

“Un centro educativo, dice la rete.” rispose Adrian.

Noam ignorò volutamente il loro scambio di battute e andò invece incontro ad una ragazzina vestita di bianco, con grossi denti sporgenti e occhi enormi, che lo guardava con aria offesa.

“Non stai andando via, vero? Hai promesso di stare tutta la sera!”

Lui sorrise.

“E ogni promessa è debito.” poi accennò col capo ad Adrian e la ragazza, con un sorriso che parlava da solo “Ma ho degli amici molto gelosi. O molto impiccioni.”

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Capitolo 5
*** "Scheletri" ***


“Insomma, che posto era, quello?”

“Lei ha perso il diritto di fare domande nel momento in cui si è finta ciò che non è, signorina-col-cane.”

“Andiamo, signor Dolbruk, sono una giornalista, mistifico per mestiere e devo – devo – essere invadente, altrimenti non lavoro. Se non lo capisce lei…”

“Che significa se non lo capisco io?”

“Lei che campa sulla sua immagine, andiamo!”

“Oh, per la miseria, che brutta idea si è fatta di me!”

“Allora la smentisca, sono tutta orecchi, ho un sacco di cose da chiederle. Non abbia timore, persino la sua guardia del corpo mi considera inoffensiva!”

In effetti Adrian si era mostrato stranamente accondiscendente: le aveva pure permesso di salire in macchina ed ora lei, dal sedile di dietro, lo stava tormentando con quell’interrogatorio snervante. Snervante perché era risentito. Con Karìma Mirèl. Con Adrian. Ma anche con se stesso, senza capire bene il perché.

“Non ho timore. Non di lei, mi creda.”

“E di cosa ne ha?”

Noam sospirò. Quella che avrebbe dovuto essere una serata di gioia era diventata l’ennesimo gioco delle parti: lui bloccato nel suo ruolo, e quei due… quei due, beh, due personaggi di passaggio, che non avevano davvero interesse a conoscerlo.

Meglio, pensò in quel momento. Tutto sommato meglio così.

Non aveva mai raccontato a nessuno dei suoi rapporti con la Casa Stellata. Forse era una stupidaggine, eppure avrebbe preferito se quello fosse rimasto un luogo solo suo. Non ne aveva parlato neppure agli amici… Ma poi, poteva dire di avere amici? Conosceva quasi tutta la città, e tutta la città conosceva lui: aveva attorno centinaia di persone che lo invitavano, lo chiamavano, ricercavano la sua compagnia, ma non aveva stretto veri rapporti di intimità con nessuno. Tranne, appunto, con coloro che lavoravano in quel posto. Almeno un po’.

Alla Casa Stellata era stato assunto pochi mesi dopo essere arrivato, solo e smarrito, a Noravàl: una laurea in scienze della formazione e qualche esperienza pregressa gli erano serviti come titoli d’accesso. Era stato per lui il luogo dove aveva stretto relazioni come era abituato a concepirle: relazioni come quelle che aveva prima di lasciare Mòrask, fatte di conflitti, di rabbia, di lealtà e di passione. Anzi, probabilmente era stata proprio l’influenza di Mòrask a spingerlo a cercare impiego in un posto così: aveva bisogno di trovarsi in qualche modo coinvolto con vite a disagio, con situazioni di degrado che non sembravano trovare spazio nelle strade limpide della capitale. Una volta un vecchio – forse uno degli stessi che gli avevano parlato delle montagne – gli aveva detto che se anche un giorno fosse riuscito a partire, non avrebbe mai potuto andarsene davvero. Forse era solo una suggestione creata dallo smacco di vivere in un paese abbandonato da Dio, ma i suoi compaesani, specie gli anziani, finivano sempre per l’attribuire alla città qualcosa di magico e di vagamente maledetto.

Noam non credeva alle maledizioni: non era andato via con l’idea di fuggire, ma con quella di costruire e la politica era stata solo stato lo sbocco naturale di quel desiderio. Eppure si rendeva conto che certe scelte rispecchiavano un senso di colpa. Certe volte, avrebbe tanto voluto dimenticare; ma non si poteva dimenticare qualcosa che si era costretti a nascondere, e smettere di nascondere significava distruggere tutto ciò che era riuscito a costruire fino ad allora.

Scheletri nell’armadio, già. Scheletri.

“Io sono un educatore.” disse, eludendo l’ultima domanda e risalendo all’indietro nella conversazione “Prima della candidatura, lavoravo lì. Sono affezionato ai ragazzi e al personale, e loro lo sono a me, quindi tengo i contatti. Ma detesto l’eventualità che questo aspetto della mia vita privata smetta di essere privato.”

Questa volta anche Adrian alzò un sopracciglio.

“Perché?” chiese la donna.

Le parole non ebbero bisogno di farsi cercare a lungo.

“Perché è una roba paraculo.” disse, senza mezzi termini “Ed io provo l’orticaria per le paraculate, signorina-col-cane.”

“Karìma.”

“Karìma,” gli fece eco, atono “l’attenzione all’infanzia è una paraculata. I diritti delle donne sono una paraculata. Le giornate istituzionali contro la violenza, il bullismo, l’omofobia, il ricordo di questa e quella strage, e la lotta alla fame nel mondo: sono. tutte. paraculate. Viviamo di immagine, ha ragione lei. Quindi. Quindi io sono, di fatto, un educatore, ed un educatore eletto in parlamento che partecipa ad una festa nel centro per minori in cui lavorava è una paraculata colossale. E no, non si tratta di salvaguardare la privacy dei ragazzi o la mia, né si tratta di una modestia che non ho: si tratta, semplicemente, di fare in modo che il mio progetto politico non cerchi di abbellirsi sfruttando immagini che, beh… che non sono attaccabili. Che sono banalmente e tiepidamente condivise da tutti. Poi magari lei mi dirà che è una divoratrice di bambini, apprezza i mariti violenti e trova il razzismo una forma di pulizia, ma…” fece un mezzo sorriso “immagino che se lo pensasse non ne farebbe pubblicità.”

La vide annuire più volte e sorridere.

“Lei è delizioso dal vivo ancora di più che in tv.”

Poi il sorriso scomparve, come riassorbito dalle linee del suo volto.

“Lei è delizioso, nonostante il suo scheletro nell’armadio sia parecchio ingombrante.”

La guida di Adrian rimase liscia e rilassata, ma lo sguardo cercò lo specchietto in tralice.

“Perché nessuno sa che suo padre è una delle vittime dell’attentato al traforo del Nòdoask? Lei ha una tragedia alle spalle che sarebbe la più nobile delle ragioni per lottare contro il terrorismo. Invece Orizzonte nasce come movimento per il dialogo con i separatisti e lei stesso ha richiesto l’inserimento della proposta per lo statuto autonomo del Dàrbrand nel programma di Liberi insieme. C’è un bel controsenso in questo, o comunque una storia più complessa di quel che sembra: scusi se mi interessa.”

“Io non…”

Stava cercando le parole, che stavolta non vennero. Ne aveva trovate solo una manciata, e non riusciva a farle uscire… quando la macchina accostò dolcemente al marciapiede.

“Credo che lei sia arrivata a destinazione, signorina Mirèl.” fece Adrian, lapidario “Chiami pure un taxi e vada a fare il suo sciacallaggio da qualche altra parte, evitando di infastidire ulteriormente il mio cliente.”

 

***

 

Non se lo aspettava.

Non si aspettava che gli sarebbe accaduto – e così presto – di trovarsi a provare sollievo perché Adrian aveva tenuto qualcuno alla larga da lui.

“Il solo pensiero di persone che allontanano la gente al mio passaggio mi fa venire la claustrofobia”: gli aveva detto nemmeno due mesi prima.

Nemmeno due mesi.

Che coerenza del cazzo.

Si sentiva stordito, come diviso a metà: da un lato il desiderio di fingere che tutto andava bene, richiudere nell’armadio il suo scheletro e augurarsi che Adrian non facesse domande, dall’altro quello di essere onesto e confessargli che sì, quella donna lo aveva messo in difficoltà, ma non per via di uno scheletro da nascondere, quanto per i ricordi che quello scheletro gli rinfacciava, puntandogli un dito contro come nella scena di un film dell’orrore a basso budget.

Nel dubbio, fece la cosa che era meno da lui: rimase zitto. E poiché nemmeno Adrian disse niente – lui, almeno lui sì, restava fedele al personaggio – il percorso fino a casa proseguì in un silenzio completo e perfetto. Pieno di scheletri. Sovraffollato.

Lasciarono la macchina nell’autosilo – lo spiantato Yiv non aveva la patente - e proseguirono a piedi.

Ancora silenzio, ma rotto da un piacevole rumore di tuoni che borbottavano in lontananza.

Presto sarebbe piovuto.

“Mi dispiace.” disse Noam, all’improvviso.

Adrian non si voltò e mantenne il passo costante.

“Di cosa?”

Ecco, di cosa. Di un sacco di roba e di niente. Non lo sapeva nemmeno lui, ma sentiva di provare quel sentimento e forse non era rivolto ad Adrian.

O forse un po’ sì.

“Di essere essere uscito senza avvisare, credo.”

“Crede.”

Non c’era punto interrogativo in quella frase: solo attesa.

“Di essere superbo. Di sfidare tutti continuamente solo per il gusto di smontare le certezze altrui.”

Adrian tacque di nuovo, per il tempo di alcuni passi.

“Io apprezzo il suo gusto di smontare le certezze altrui, ma poiché, dal punto di vista di chi la guarda, lei sembra invece averne moltissime, è poi chiaro che qualcuno cerchi di attaccare le sue.”

“Io… davvero sembro questo?”

“Magari non lo fa apposta, ma ciò che la gente vede è un uomo che è sempre a proprio agio, qualunque cosa faccia o dica, uno che si espone senza provare alcuna forma di imbarazzo, uno che non si crea problemi ad assumere la leadership: e questo non si fa senza certezze.”

Noam rifletté qualche attimo. Non poteva negare che Adrian avesse ragione: in qualche modo, anche quando voleva essere solo spontaneo, anche quando non cercava le attenzioni degli altri, finiva per trovarsi sotto i riflettori. E, purtroppo, la cosa gli piaceva. Per questo, pur non impegnandosi attivamente per farlo, non faceva mai niente per non farlo. Era così anche da ragazzo: negli anni del liceo, non era stato lui a proporsi come rappresentante, ma poi lo era stato per cinque anni; non aveva fondato lui il movimento di cui era stato membro fino alla fuga da Mòrask, ma ne era diventato, di fatto, il punto di riferimento; finiva sempre per mettere la sua faccia ovunque ci fosse bisogno di ottenere approvazione, e quell’approvazione era la sua trappola: era più forte di lui.

“Il problema” continuò Adrian “è che quelli come lei sembrano finti. Quindi invincibili. Per questo quella donna ha creduto di poter dire qualsiasi cosa, certa di non poterla in nessun modo ferire.”

Ferire.

Quanto era pesante quel verbo, e quanto si sentiva addosso quel peso, quella sera.

“A me non interessano i fatti suoi, a meno che non interferiscano col mio lavoro. Ma lei è più vulnerabile di quel che crede alle ferite e meno lungimirante di quel che crede nelle sue, ehm, relazioni. Perciò mi permetta di tenerle alla larga personaggi di quel calibro, Noam.”

Sentire pronunciare il suo nome fu un sollievo.

 

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Capitolo 6
*** "Dàrbrand" ***


L’attentato al traforo del Nòdoask.

Adrian, come di certo molti altri, ricordava quella storia più che per la tragedia (quattro morti e altrettanti feriti: niente di particolarmente epico rispetto a eventi simili nel Dàrbrand) quanto per il dibattito mediatico che aveva sollevato. Per settimane non si era parlato d’altro; all’improvviso, dalla sera alla mattina, un individuo su due era diventato un esperto di politica desideroso di elargire il proprio parere non richiesto: chi dava la colpa al movimento separatista, chi sollevava questioni ecologiche, chi riteneva che i darbrandesi non avessero alcuna responsabilità e che dietro l’attacco terroristico si nascondesse una questione di appalti, chi, più semplicemente, si riempiva la bocca di slogan facili contro una minoranza linguistica che proprio “non voleva integrarsi”. Adrian lo trovava irritante, per questo aveva smesso da anni di accendere la tv o di leggere i giornali: l’umanità che commentava se stessa era sgradevole, prevedibile, ripetitiva e persino coloro che possedevano una reale preparazione su questo o quell’argomento di fronte a eventi drammatici cedevano alla retorica più trita. Quel senso di compassione facile mescolata all’altrettanto facile puntare il dito per il semplice gusto di gridare più degli altri gli dava sui nervi: gli lasciava un senso di appiccicaticcio, come d’umidità… e così tutt’oggi, della storia del Nòdoask ricordava solamente quella fastidiosa impressione.

Ma poter ricordare solo questo era un privilegio, lo sapeva: il privilegio di non vivere “nel paese dove muore un sindaco all’anno” (Un po’ meno di uno all’anno, in vero – aveva detto Noam Dolbruk con sfacciato candore). Lui invece ci era nato, e suo padre era morto nell’attentato del traforo. Davvero questo evento non interferiva col suo lavoro? Noam non si era espresso in merito, anzi, non si era espresso proprio: non aveva commentato, né confermato, né smentito. E Adrian non voleva “farsi gli affari degli altri”, ma conosceva gli esseri umani abbastanza bene da sapere che ci sono cose di cui non si è in grado di parlare.

Così aveva dovuto informarsi.

La “questione Dàrbrand” era una di quelle situazioni geopolitiche difficili da sbrogliare: impossibili da comprendere, secondo Adrian, se non guardate a decenni di distanza, con l’occhio di uno storico e non di un contemporaneo. Regione rimasta a lungo isolata per via del contesto geografico, aveva un’identità culturale e linguistica a se stante e solo nell’ultimo secolo era entrata a far parte della Repubblica del Kònorrand, con una decisione per lo più unilaterale. Ma una parte dei darbrandesi era stata in principio possibilista, nella speranza che l’annessione desse il via ad una rinascita economica.

Le cose erano andate diversamente e un ventennio dopo la regione si era autoproclamata autonoma con un referendum il cui risultato non era mai stato riconosciuto dal governo centrale. Al contrario. La politica della Repubblica era sempre stata reticente alle reiterate richieste di ottenere parziali forme di indipendenza, ed ogni proposta di legge in questa direzione aveva finito con l’essere affossata attraverso una strategia ormai diventata peculiare: rimandare sempre la questione “a tempi migliori”. Ma i tempi migliori non erano arrivati, il terrorismo separatista si.

Il traforo del Nòdoask era stata una questione molto discussa fin dalla presentazione del progetto: la galleria avrebbe consentito il passaggio di autostrada e ferrovia attraverso i monti Mor-Darèuk e quindi un collegamento diretto e veloce non solo tra Mòrask e Noravàl, ma anche tra la capitale e l’alta valle del Norav, nonché i valichi di confine. Una “grande opera” ad alto valore simbolico, che aveva acuito i contrasti già in corso e il dibattito all’interno della comunità darbrandese stessa: indubbiamente il passaggio dell’alta velocità avrebbe portato respiro ad un’area del paese svantaggiata, dall’altra poteva configurarsi come un’ulteriore forma di sfruttamento, oltre ad apparire ai separatisti “duri e puri” un sistema per affossare il senso di identità di un popolo.

Ma tra raccolte firme, manifestazioni, minacce, e l’omicidio di un ingegnere locale che aveva difeso a spada tratta il progetto, il traforo era stato portato a termine.

Il giorno dell’inaugurazione una bomba aveva causato quattro morti, tra questi Fidòr Dolbruk, 62 anni, capostazione, presente al taglio del nastro come rappresentante dell’azienda ferroviaria regionale del Dàrbrand. Niente di segreto, niente di rilevante: i nomi delle vittime erano stati sbattuti senza pudore sui giornali; ovvio che Karìma Mirèl avesse fatto i suoi collegamenti e fiutato una storia interessante. Magari una bella storia strappalacrime, chissà qual era il suo gusto. Non aveva mai letto un articolo di “Scheletri nell’armadio”, non lo attirava proprio: il target gli sembrava quello del lettore medio che sfoglia qualcosa nella sala d’aspetto dello studio medico o sulla poltrona del parrucchiere. E comunque non era quello il suo problema: veniva pagato per proteggere un uomo da un pericolo concreto, non per tenere pulita la sua immagine o al sicuro la sua privacy.

Allora perché aveva scaricato quella ragazza sul ciglio della strada? Perché aveva reagito in modo così protettivo di fronte alla totale assenza di minacce? La risposta la sapeva e non gli piaceva per niente: aveva voluto intervenire per dimostrare di poterlo fare, per dimostrare all’ “uomo che non voleva essere protetto” che invece c’erano situazioni in cui aveva bisogno di protezione.

Sbagliato.

Il modo in cui si stava evolvendo quel rapporto era sbagliato.

Lui non poteva permettersi di mettersi in competizione con un cliente, o peggio, di avere qualcosa da dimostrargli. Non era pagato per dimostrare niente, doveva solo svolgere bene il suo lavoro. E al diavolo le maledettissime relazioni… Ma doveva capire se la questione sollevata dalla Mirèl fosse solo un dettaglio struggente del passato di un personaggio famoso oppure l’interesse di lei (e la reazione di Noam) suggerissero qualcosa di più.

E poi.

E poi c’era quel dettaglio stonato, a cui all’inizio non aveva dato peso e a cui, dopo le parole della giornalista, aveva finito per darne – senza alcuna ragionevole correlazione – un poco di più.

C’era il modo in cui Noam era comparso alle sue spalle in totale silenzio, quella sera, mentre lui era intento a studiare lei. Il modo in cui non si era accorto della sua presenza finché non era stato a pochi passi da loro. Cosa non impossibile se qualcuno avesse voluto farlo di proposito, dato che la sua attenzione era focalizzata sulla donna e su cosa stava accadendo oltre le finestre: ma era evidente che Noam non lo aveva fatto di proposito. Dove aveva imparato a muoversi così, un uomo che faceva tanto rumore ad ogni passo, sempre?

Forse stava diventando paranoico. Non era – e non doveva essere – un “cacciatore di scheletri”, lui.

Doveva solo svolgere bene il suo lavoro.

Svolgere. Bene. Quel. Dannato. Lavoro.

***

 

Noam Dolbruk aveva chiamato il suo movimento Orizzonte perché amava riempirsi gli occhi di spazio, questo era un aneddoto che gli piaceva ripetere, e, come molte altre delle cose che diceva e faceva, non si trattava di qualcosa di costruito a posteriori per fare audience: corrispondeva a una sua necessità reale che quasi sconfinava in una dipendenza.

Ogni giorno che dio metteva in terra, che piovesse o fosse bello, che il vento di mare tagliasse la pelle o il sole picchiasse feroce, che fosse in ottima forma o esausto, Noam saliva 357 gradini per andare a sedersi al belvedere che si affacciava sull’estuario del Norav e restare un po’ lì coi suoi pensieri. Se aveva voglia e tempo faceva la scala di corsa, come forma di allenamento, e, arrivato in cima, si tratteneva a leggere un libro o ad ascoltare musica in cuffia, se invece la giornata che aveva di fronte era fitta di impegni, allora si alzava all’alba e restava lassù solo qualche minuto, il tempo – diceva – di fare scorta di respiri.

Adrian era tenuto ad accompagnarlo, ma tra le bizzarrie a cui era stato costretto ad adattarsi, trovava questa la più piacevole. La scalinata che portava al belvedere era un percorso rasserenante: sole a chiazze filtrato da chiome di alberi disposti a regolare distanza, profumi decisi di piante da fiore che un’efficiente amministrazione comunale teneva in perfetto ordine, e un gradevolissimo silenzio. Agli orari preferiti di Noam non c’era mai molto movimento: qualche turista (ma i più preferivano salire con l’ascensore panoramico), i podisti mattutini e pochi abitanti del quartiere di Noravàl alta che volevano tenersi in forma. Turisti a parte, Noam conosceva tutti, e sarebbe stato anche piuttosto logico se fossero stati gli altri a riconoscere lui, invece era esattamente il contrario. Noam ricordava nomi, volti, persino abitudini di emeriti ignoti con la precisione di uno stalker e teneva un’improbabile rete di relazioni con i “frequentatori abituali delle scala” così come si fa con i clienti di un bar di quartiere. Salutava tutti. Più persone salutava, più si sentiva in pace col mondo. “Faccio scorta di sorrisi” - diceva. Già. Come di respiri. E coi sorrisi ed i respiri ci voleva cambiare il mondo e a volte sembrava non rendersi conto di trovarsi intrappolato in un gioco di potere che era troppo più grande di lui. Quando metteva in mostra con tanta ingenuità questa sua inclinazione all’utopia, agli occhi di Adrian cessava di essere di essere l’irritante politico in carriera che lo sfidava con i suoi colpi di testa e si trasformava nello strano uomo intravisto per la prima volta quella sera davanti alla giornalista: vulnerabile, a disagio e incapace di rispondere a domande dirette sul proprio passato. L’uomo che aveva davvero bisogno di essere protetto. Non sapeva bene da cosa, però.

Il belvedere era anche diventato il luogo dove più spesso parlavano, ogni volta che – e capitava spesso - rimanevano soli. Adrian si rendeva conto di odiare ed amare quelle occasioni: gli era piacevole conversare in modo disteso con lui (che, dopo quella volta in cui, quasi per infastidirlo, gli aveva detto “se trova gradevole darmi del tu, per me non è un problema” aveva archiviato qualsiasi tipo di formalità, anche in situazioni istituzionali, figuriamoci lì), ma era convinto che dare spago a quel rapporto fosse un’arma a doppio taglio: lo rendeva meno lucido e a lungo andare poteva rischiare di fargli abbassare la guardia. Ma con chi temeva di abbassare la guardia? Con dei presunti attentatori o con Noam? Già il porsi quella domanda la diceva lunga… E tuttavia non ci riusciva proprio: quando lui cercava la sua confidenza, a qualsiasi titolo, finiva per ascoltarlo con minor distanza di quel che avrebbe voluto: la distanza che avrebbe dovuto permettergli di valutare l’entità del pericolo, anziché fidarsi delle valutazioni poco oggettive della persona che avrebbe dovuto considerare in pericolo.

Come accadde quella maledetta sera: quella in cui la valanga si staccò dal fianco del monte e cominciò a rotolare.

 

***

 

“Mi faccia capire: perché mai proprio lei dovrebbe andare a Mòrask?”

Noam si era seduto sullo schienale della sua panchina preferita, quella in cui le ombre della sera arrivavano più tardi: era da poco calato il sole ma c’era ancora molta luce, nell’aria odori e colori di un inverno in declino.

“Te l’ho detto, perché a marzo ci saranno le amministrative: Liberi Insieme ha un candidato e Zjam vuole che concordiamo una campagna elettorale.”

“Zjam…” l’attitudine di Noam a chiamare tutti per nome a volte lo costringeva a far mente locale “Intende Kàrkoviy?”

Noam sollevò il pollice in segno di conferma.

“Lei non è un pubblicitario, né è mai stato un consulente politico o un esperto di comunicazione, che mi risulti.”

“Ma sono il solo darbrandese con un seggio in parlamento.”

Lo disse senza nessuna partecipazione nella voce, e Adrian comprese.

“D’accordo,” parafrasò “la sua presenza fa audience.”

Noam ripeté il gesto del pollice alzato.

“Magnifico. L’uomo che pensa che lei sia in pericolo di vita le chiede di andare a presenziare a chissà quante occasioni pubbliche nella terra del terrorismo. Idea brillantissima: non ho parole.”

“Non è la terra del terrorismo.

Si lasciò scivolare lungo lo schienale e saltò a sedere fianco a fianco con lui.

“Non lo è, Adrian.”

La maledettissima arma del suo nome.

“Anche se sì: mio padre è morto nell’attentato al traforo del Nòdoask.”

Se l’intenzione di Noam era quella di spiazzarlo o di metterlo a disagio, ci era riuscito. Non aveva parlato per mesi della questione dal famigerato incontro con la giornalista ed ora la tirava fuori così, come un inciso tra parentesi: perché? Che diavolo passava per la testa di quell’uomo? In che modo funzionavano i suoi pensieri?

Adrian fece appello a tutta la sua professionalità: lo guardò negli occhi e si dispose ad ascoltarlo nel modo più attivo e al tempo stesso meno coinvolto di cui fosse capace.

“Perché me ne parla adesso?”

“Perché tu non mi chiedi di farlo, ma il pensiero è per te una fonte di preoccupazione, ed io non voglio che ti preoccupi di qualcosa per cui non vale la pena preoccuparsi. Specie se ti chiedo – e te lo sto chiedendo – di accompagnarmi in questa trasferta.”

Sorridente e impassibile. Disarmante come sempre. Il “soave Dolbruk”.

“Perché è così convinto di essere al sicuro?”

Noam si stropicciò la punta del naso, poi strizzò gli occhi al sole che era giusto calato all’altezza delle loro facce.

“Cosa pensi dei secessionisti?”

“È una domanda che dovrei farle io, dato che devo accompagnarla a casa loro.” rimandò indietro lui, non per eludere, ma per cogliere l'occasione di capire alcune cose che ancora non gli erano chiare. La linea politica di Liberi insieme non era certo filo-separatista, anche se, rispetto all’attuale partito di governo, era sempre stata molto più aperta a un confronto, ma Orizzonte come movimento dove si collocava? Noam non aveva mai pronunciato dichiarazioni a favore dell’indipendenza del Dàrbrand, anzi, era sempre stato estremamente cauto a questo proposito, dettaglio importante – come aveva giustamente colto Karìma Mirèl – per un uomo senza peli sulla lingua, e per di più darbrandese.

“Vuoi davvero sentirmi ciarlare di politica anche in privato?”

“No. Voglio sentire l'opinione di Noam Dolbruk quando non deve parlare davanti a una folla o ad una telecamera.”

“Pensi che sia un'opinione diversa?”

“Penso – sperando di essermi meritato almeno un po’ della sua fiducia - che sia un'opinione che non deve sottostare ai compromessi.”

Noam rise.

“Ma non ti ho detto che mi fido di tutti?” scherzò “Non c’era proprio nulla che ti dovevi sforzare di guadagnarti!”

Poi inspirò profondamente, si fece serio.

“Sai, in realtà io non amo la parola compromesso. Forse perché tutti ci vediamo una parte di rinuncia, da un lato e dall’altro. Una specie di venirsi incontro a metà strada di cui però alla fine non si è davvero contenti.”

“La politica è compromesso per forza di cose.”

“Forse. Io però preferisco pensare che la politica sia piuttosto una serie di esperimenti. So che non è un bel concetto, ma, purtroppo, al di là dell’ideale che ci sta dietro, ogni tentativo di cambiamento va sperimentato. Tu mi dirai che si sperimenta sulla pelle degli altri, ed è così. È per questo che quando ho ricevuto quella minaccia c’è stato un momento in cui mi sono sentito quasi… sollevato.”

“Sta cercando di dirmi di essere felice di sentirsi in pericolo.”

Non lo chiese, lo constatò.

“Vuoi che ti risponda di sì per potermi dire che sono pazzo?”

“Non le dirò che è pazzo: se ne compiacerebbe. E comunque ha cambiato discorso. È evidente che anche lei non ha voglia di rispondere alla sua stessa domanda.”

O forse no. Forse Noam si perdeva semplicemente nei suoi giri di parole. Voleva dire una cosa, poi gliene veniva in mente un’altra e non si soffermava a fare ordine. Tanto sapeva che sarebbe stato ascoltato lo stesso, e fino alla fine: sapeva (o ci si era pigramente abituato) di avere il potere di tenere in ostaggio i suoi interlocutori.

“Non è vero che non ne ho voglia. O, almeno, non è vero che non ho voglia di rispondere a te. Quando ho accettato di candidarmi per Liberi Insieme ho rilasciato una dichiarazione: ho garantito di non avere nessun coinvolgimento col movimento secessionista (che poi per i più è tristemente sinonimo di terrorista). Ma tu lo hai capito che non è vero. E non perché io mi senta in qualche modo secessionista. Il fatto è che chiunque sia nato e cresciuto a Mòrask non può non essere coinvolto col secessionismo, è inevitabile. Immagina di far parte di una setta, o di un clan, o semplicemente di una banda di amici: hai sempre diviso con loro l'aria che respiri, ti sei nutrito dello stesso cibo, ti sei sempre vestito in un certo modo, hai sempre usato certe espressioni… non ti si può chiedere all'improvviso di smettere di essere ciò che sei sempre stato, e questo non significa che vuoi essere per sempre membro di quel gruppo, ma semplicemente che ti senti diverso, e la trasformazione, anche quando la si desiderasse, è un processo lento. A Mòrask tutti sono almeno un po' secessionisti, perché almeno in qualcosa sono dei diversi e a questa diversità sono legati. Inoltre, non ci è mai stata resa la vita facile: la nostra identità, la nostra cultura, la nostra lingua sono sempre stati visti come qualcosa da inglobare oppure da estirpare. Non volete integrarvi è una frase troppo facile per liquidare il problema. Io non credo che la secessione sia una soluzione: penso che finirebbe solo con l'affossare la regione economicamente e danneggiare, d’altro canto, gli abitanti dell’alta valle del Norav, che con il Dàrbrand non hanno nulla in comune e che si sentirebbero tagliati fuori dal mondo a causa nostra. Condanno il terrorismo perché condanno la violenza, ma ne comprendo benissimo le motivazioni, e comprendo ancora meglio l'ostilità della mia gente verso chi li governa: è un odio che non è unilaterale, è stato troppo spesso attizzato di proposito ed incrementato da chi credeva di averne un tornaconto. È molto più facile ottenere i fondi per un traforo, quando quel traforo diventa un’opera ideologica prima che una banale attività imprenditoriale. Ma il linguaggio dell’odio non va alimentato: va disinnescato. Orizzonte vuole fare questo. Io voglio fare questo.”

“E non pensi che proprio questo ti abbia reso un bersaglio dei terroristi?”

Noam si strinse nelle spalle, sorrise.

“No.”

C’era tanta sicurezza in quel no così come in quel sorriso. Una sicurezza non semplicemente ingenua. Una sicurezza solida, una sicurezza contagiosa.

“Quella minaccia non è arrivata dai terroristi. Adrian, fidati di me.”

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Capitolo 7
*** "Freddo" ***


Quella sera il cielo aveva colori tiepidi e soffusi, ma in realtà faceva freddo.

Non come a Mòrask, ovviamente.

A Mòrask il freddo era vero freddo. Cattivo ed onesto come un pugno in faccia.

A Noravàl no.

A Noravàl anche l’inverno era morbido, come erano morbide le linee del paesaggio, i larghi fianchi dell’estuario e le nuvole paffute. Ma il freddo si infilava sinistro sotto le giacche, tra le dita delle mani, nella testa: spesso aveva forma di vento di mare, altre di umidità densa, ed il guaio era che non te ne accorgevi finché la pelle non cominciava ad arrossarsi e i brividi a solleticare la schiena.

Così era quella sera, sul belvedere: il freddo scendeva e scendeva, mentre lui parlava e parlava, e non sapeva se voleva parlare e parlare ancora, all’infinito, finché Adrian fosse rimasto ad ascoltarlo, o se desiderava solo che un qualche dio gli togliesse la voce, e lo facesse per sempre.

 

***

 

Era stata una brutta giornata, piena zeppa fin dal mattino di quel freddo di cui non si era accorto.

Si era recato alla sede del partito, di buon ora, convocato da Kàrkoviy. Solita routine.

Zjam gli aveva già accennato altre volte di avere progetti per le amministrative, ma i suoi propositi, così come le sue promesse, erano – ormai Noam lo aveva capito fin troppo bene – sempre a tempo indeterminato: se ne parlava, sì, ma come due bambini parlano di cosa faranno da grandi.

Era pienamente consapevole che questo atteggiamento gli avrebbe reso difficile ottenere che la questione “statuto autonomo del Dàrbrand” fosse trasformata da anonimo “punto 25” nel programma elettorale a effettiva proposta di legge, specie finché fossero rimasti il partito d’opposizione, ma si rendeva anche conto che la sua presenza poteva assumere un peso: il suo ruolo era l’essere diventato il collega propositivo di Zjam, quello che cercava di trasformare le speculazioni in tentativi, e siccome Zjam non era il tipo di uomo che temeva di essere scavalcato dalle nuove leve, col tempo avevano stabilito un buon sodalizio. Politicamente, Noam non lo stimava molto: era il tipico personaggio che dava un colpo al cerchio e uno alla botte, e le scelte di Liberi insieme rispecchiavano la sua leadership; tuttavia lo riteneva una persona onesta e sinceramente disposta a correre qualche rischio, purché le conseguenze non danneggiassero troppo la sua immagine. La popolarità era, ahimè, il suo punto debole, forse sentiva il bisogno di lasciare un segno per non essere dimenticato, forse si sentiva vecchio, in ritardo, ma questa brama, quasi ansia, di attenzioni era la principale ragione per cui aveva sostenuto tanto la candidatura di un darbrandese bizzarro che aveva raccolto attorno a sé in meno di un paio di anni un movimento di proporzioni inaspettate. I voti dei sostenitori di Orizzonte erano stati una risorsa per Liberi insieme, Noam era finito in parlamento e le principali proposte del suo movimento inserite nel programma. Programma migliorabile, certo, e “paraculo” da diecimila punti di vista, ma che era, appunto, privo di linguaggio d’odio, cosa che non si poteva dire per alcuni degli uomini che sedevano al momento alla guida della nazione. Dunque, bene così. Zjam era il male minore, ed era, da molti punti di vista, una persona generosa e accogliente.

Dunque, quel mattino.

Ufficio di Kàrkoviy.

Freddo furfante e infido, di inverno che sembrava voler già finire.

“Carissimo, ho una notizia che ti farà senz’altro piacere!” gli aveva detto, e poi gli aveva spiegato un sacco di cose che no, non gli avevano fatto piacere, o invece sì, ma avevano anche permesso a quel freddo di infiltrarsi piano piano nelle sue ossa.

Umidità.

Il partito non era mai riuscito ad avere un candidato sindaco a Mòrask, e la ragione, ad uno sguardo superficiale, era semplice.

A Mòrask chi aspirava alla poltrona doveva trovarsi in una di queste due condizioni: o essere un darbrandese doc con una qualche fama alle spalle tale da meritare il rispetto dei propri concittadini, e quindi aver acquisito il diritto a candidarsi sotto l’egida di un qualsivoglia partito dell’odiato governo, o essere un “gambemolli” (soprannome attribuito all’inizio agli abitanti della costa e nel tempo a tutti coloro che non fossero nati e cresciuti nel Dàrbrand) di idee centraliste estreme, ben finanziato e mosso dalla “nobile causa” di porre fine alla piaga del terrorismo. Questi ultimi, in genere, non duravano a lungo. Negli ultimi 50 anni ne erano morti sei: cinque per attentato, e uno in un incidente stradale (e per quanto fosse stato accertato che l’auto era uscita fuori strada perché il guidatore era ubriaco, anche su questa disgrazia si favoleggiava di omicidio).

Da qui le macabre battute a cui Noam aveva dovuto fare il callo, stabilendosi a Noravàl.

Ad uno sguardo superficiale era semplice vedere molte cose.

Vedere il Dàrbrand come diviso a metà tra “la brava gente” e i terroristi, dove la brava gente doveva essere difesa, anche usando il pugno di ferro; vedere le persone divise in due fazioni, due e solo due, i buoni ed i cattivi; oppure vederne solo una, i darbrandesi come corpo unico o come un concetto: popolo di violenti, di briganti e di selvaggi, che parlavano lingue incomprensibili e disprezzavano il confronto con l’altro, chiunque esso fosse.

Quel mattino.

Il sorriso ostentato di Kàrkoviy.

Un cielo primaverile oltre le finestre.

Ma inverno, ancora inverno.

“Il professor Màrna è un uomo in gamba. Non è nato nel Dàrbrand ma ci vive da più di trent’anni e insegna diritto costituzionale all’università di Mòrask. Scrive per L’informatore. È disposto a proporre la sua candidatura se noi lo sosteniamo.”

A Noam non interessavano le credenziali, anzi, detestava la catalogazione degli individui in base alla lunghezza dei curriculum vitae, tuttavia in quella presentazione c’era almeno un elemento che faceva ben sperare: quell’uomo aveva scelto di vivere a Mòrask, non di utilizzarla come trampolino di lancio per una carriera politica futura data la carenza di rivali sul campo.

E allora perché avvertiva quel fastidio da qualche parte tra il petto e lo stomaco che non gli permetteva di condividere l’entusiasmo di Zjam?

“Vorrei che andassi a conoscerlo e che studiaste insieme una strategia.”

Sì, aveva senso. Dovevano fare così. Invece…

“Noam, qualcosa ti preoccupa?”

No, niente, assolutamente niente. Era una splendida notizia.

“Pensavo ne saresti stato contento: se Liberi insieme riuscisse a piazzare un proprio sindaco a Mòrask, sarebbe un passo fondamentale per realizzare i tuoi progetti, no?”

Certo. L’anonimo punto venticinque del programma. E tanti altri che non ricordava più a che livello della lista stessero. Eppure forse Zjam faceva sul serio. Perché non avrebbe dovuto crederlo?

“È vero. Sono solo…”

Sincero. Voleva essere sincero.

“… un po’ preso alla sprovvista, ecco. Non metto piede a Mòrask da sei anni.”

“Veramente? Pensavo che la tua famiglia vivesse ancora là. Non hai dei parenti?”

Sincero. A metà.

“Non siamo in buoni rapporti.”

Zjam sorrise di un sorriso bonario, quasi paterno. Gli piaceva quando sorrideva così.

“Non essere in buoni rapporti con te è impossibile!” disse “E il professor Màrna non potrà che pensare lo stesso!” gli batté una mano sulla spalla “Parlaci, Noam. Se non lo fai tu, chi altri?”.

Dio, che umidità!

 

***

 

Quella sera il cielo aveva colori di malinconia.

Come il viso di Adrian che lo ascoltava parlare, parlare e parlare.

Il viso di Adrian era sempre color malinconia, anche se faceva il possibile perché non si vedesse. Il viso di Adrian era il viso di un uomo che non è felice del proprio riflesso nello specchio. Ma era anche il viso di una persona che non si sarebbe stancata di starlo a sentire finché lui ne avesse avuto bisogno. L'attenzione che Adrian prestava agli altri era presenza pura, disinteressata e senza giudizio. Pur nella sua mancanza di coinvolgimento apparente, Noam la trovava una forma di amore.

“Fa proprio freddo, stasera.”

“Lei trova? A me sembra tiri solo un po’ di vento. Quest’anno la primavera arriverà presto.”

“A Mòrask forse c’è ancora la neve.”

Si strinse nella giacca, rovesciando il colletto all’insù.

“Se ha freddo, perché non rientriamo?”

C’erano cose che avrebbe voluto dirgli.

Cose che non poteva.

Ci pensò, ed un lungo brivido gli percorse la schiena.

“Noam… si sente bene?”

La mano di Adrian si posò dolcemente sulla sua spalla.

“Sì.” si sforzò di sorridere lui “No. È che ho un problema con… con questo viaggio. Non con Mòrask o col partito. Col viaggio proprio.”

Lui non incalzò con altre domande: come al solito rimase solo in silenzio ad aspettare.

“Non voglio salire su quel treno. Non voglio prendere quell’autostrada. Non voglio passare da quella galleria.”

Adrian non sollevò la mano dal punto in cui era appoggiata: la lasciò esattamente così, bloccata in una tranquillizzante immobilità.

“Beh, finché il suo problema non è il timore che qualcuno le spari, mi pare che siamo messi benino, no?” sorrise appena, con ironia gentile.

C’erano cose che non poteva dire.

Su quella galleria.

Sulla famiglia con cui non era in buoni rapporti.

Sul cosa lo rendesse tanto sicuro (era sicuro?) che non fossero stati i terroristi a minacciarlo.

Su Mòrask e il suo sortilegio.

Sulle montagne da cui era impossibile andarsene davvero. Anche se te ne eri andato.

“Per sua fortuna per raggiungere la maggior parte dei luoghi al mondo non esiste una strada sola.” fece Adrian, scherzoso, eppure con nella voce la stessa solidità della sua mano “E io adoro guidare: mi rilassa. Non ho mai fatto la strada panoramica dell’alta valle del Norav, che dicono sia molto bella: nove, dieci ore, a seconda del tempo e del traffico, e nemmeno una galleria. Come la vede?”

Che è proprio vero che sei bravo a “proteggere”, avrebbe voluto dire.

E ancora, Che ti sono grato.

E altro. Che però non poteva.

“Sarà meraviglioso.”

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Capitolo 8
*** "Valanga" ***


Quando la valanga cominciò a rotolare.

Quando si rese conto di essere stato coinvolto in un gioco perverso di cui non gli erano state lette tutte le regole.

Quando si rese conto che avrebbe potuto anche tirarsi indietro e dire di no.

E invece non disse di no.

...

Perché Noam non aveva detto di no?

Perché aveva accettato quella richiesta pericolosa e stupida di cui oltretutto – era evidente – non era affatto contento?

Prima o poi glielo avrebbe detto, forse. Così come gli aveva detto di suo padre e dell’attentato del Nòdoask. Noam non era uno che mentiva, al massimo era uno che smetteva di parlare prima di giungere al punto in cui spettava all’interlocutore fare la domanda scomoda. Ma col tempo le dava da solo, le sue risposte scomode, e anche quella volta lo avrebbe fatto in un momento casuale, fuori luogo, forse quando non serviva più.

Lui funzionava così. Non lo faceva apposta, non era una strategia calcolata per tenere gli altri sulla corda o per divertirsi a fargli sgranare gli occhi: lo faceva inconsapevolmente e non si accorgeva del modo in cui manipolava l’attenzione e l’emotività di chi gli stava attorno: elettori, colleghi di partito, vicini di casa, sconosciuti. Lui.

Ma se Noam non dava le risposte giuste nel momento in cui servivano, c’era qualcun altro che invece poteva farlo. Che era in dovere di farlo.

Questo pensava mentre veniva ammesso nell’ufficio di Segùr Òraviy, il suo diretto committente, brillante giovanotto in carriera, portaborse di Kàrkoviy, e, per Adrian, anche il figlio di Kàmil Òraviy, proprietario del Gruppo Òraviy, nella cui squadra di sicurezza aveva lavorato per anni.

“Sono venuto a chiedere qualche chiarimento in merito alla mia posizione.” iniziò “Se mi permette qualche minuto…”

“Vesna, per la miseria! Lei è sempre rigido come uno stoccafisso! Si metta comodo e prenda un caffè, abbiamo tutto il tempo del mondo!”

Si conoscevano tiepidamente, ma abbastanza da essere in confidenza, erano circa coetanei e si erano trovati più volte a condividere un pacchetto di sigarette o a scambiarsi chiacchiere oziose: di lui sapeva che non aveva alcun interesse nell’industria informatica e dunque non intendeva prendere le redini dell’impresa paterna, che aveva una laurea in economia e nutriva ambizioni politiche, ma non si sarebbe immaginato di incontrarlo alle dipendenze del leader di Liberi inisieme. Non avevano proseguito alcuna frequentazione dopo che Adrian aveva lasciato le dipendenze della Òraviy, ma poiché Segùr aveva cieca fiducia nelle valutazioni del padre a proposito di risorse umane, quando gli era stato richiesto di reclutare una guardia del corpo privata capace di “diventare invisibile” per un membro del partito si era rivolto senza indugio a lui.

“Io ho meno di mezz’ora.” fece Adrian in risposta al plateale e poco realistico commento sul tempo “Devo accompagnare il signor Dolbruk a…” (a salire una scala? No, non suonava bene) “A fare delle commissioni.”

“Su e giù dal belvedere, eh?” Segùr rise, divertito “Le avevo detto che le avrei affidato un incarico che l’avrebbe strappata alla monotonia, e lei non voleva credermi. Allora, avevo ragione o no? Non trova che il signor Dolbruk sia un uomo sorprendente?”

Era molto di più che “sorprendente” – avrebbe dovuto dirgli, se fosse stato in vena di aprire quello spinoso argomento - era autentico. Generoso, trasparente, altruista, onesto e molte altre cose. Noam era una persona che si faceva fatica a credere reale, ma dopo tutti quei mesi a contatto con lui, Adrian avrebbe potuto scommettere sulla sua completa buona fede.

“Lo è.” si limitò a dire, deviando il discorso “Ma non è dell’originalità di Dolbruk che sono venuto a parlare, quanto, piuttosto, della… originalità di certe scelte del Partito, che mi hanno lasciato perplesso.”

Segùr depose sul tavolo due tazze di caffè. Si era fatto arredare l’ufficio come se fosse un monolocale alla moda, piccole comodità comprese: la macchinetta da espresso con le sue tazzine di ceramica impilate - perché il caffè non si beve nella plastica, mai – l’armadietto dei liquori con una sola bottiglia, intonsa, ma certamente dall’etichetta pregiata, lampade d’atmosfera, poltrona molleggiata, scrivania di design, ci mancava giusto un divano letto per fare di quel luogo il potenziale pied a terre per incontri clandestini. Ma quel ragazzo non aveva bisogno di portarsi le amanti in ufficio, salvo non lo trovasse a qualche titolo divertente: il padre possedeva mezzo Vàltrad!

Kàmil Òraviy era il classico magnate dalla doppia faccia: filantropo in pubblico, feroce coi dipendenti. L’agenzia di sicurezza privata di cui Adrian era socio lo considerava il proprio cliente migliore, sia perché offriva ingaggi duraturi e frequenti sia perché, tutto sommato, lavorare per lui era poco faticoso e a basso rischio: chi mai aveva il coraggio di mettersi contro Kàmil Òraviy? Piuttosto c’era da stare attenti che non fosse Kàmil Òraviy a mettersi contro qualcuno! Il teatrino della sorveglianza, le guardie del corpo personali, la security in azienda e sulla porta di casa erano solo facciata: servivano a rimarcare uno status, erano una vetrina, nulla di più. Per Adrian questo non era mai stato un problema: il suo ruolo non comportava interazione ma osservazione e, tutto sommato, meno stima nutriva per il cliente meglio era.

E Segùr, invece? Segùr gli era sempre parso un giovane intelligente desideroso di emanciparsi dal padre ma al tempo stesso incastrato in una mitizzazione della sua figura, non come riferimento affettivo quanto come simbolo di autorità. Si era sorpreso nello scoprirlo segretario di Kàrkoviy, uomo, quest’ultimo, che basava la sua popolarità sull’essere un volto noto e rassicurante, non certo su un’aura di potere personale.

Forse Segùr aveva bisogno proprio di questo: di scrollate di spalle e di superficialità. Ma se la superficialità comportava mettere a rischio la vita di un uomo per una manciata di voti, beh...

“Dica pure. Cosa, esattamente, la preoccupa?”

Segùr sorrideva pacato, la pelle pallida e i lineamenti regolari lo portavano a dimostrare meno dei suoi anni e la luce del mattino alle sue spalle amplificava quell’effetto.

“Mòrask.”

Non c’era molto altro da aggiungere.

“Ah, capito. Capito.” Segùr fece un cenno di sufficienza con la mano che Adrian trovò indisponente.

“Signor Òraviy,” scandì, grave “Lei mi ha assunto perché uno dei vostri ha ricevuto minacce di morte. Non è il mio compito né ho gli strumenti per capire da chi provengano tali minacce e quanto siano da considerare pericolose, né ho la sfera di cristallo per prevedere se qualcuna di esse verrà concretizzata mai, però Noam Dolbruk è il primo rappresentante del Dàrbrand ad essere stato eletto in parlamento e voi avete chiesto da lui una pubblica dissociazione da qualsiasi forma di terrorismo. Dico bene?”

Segùr sollevò entrambe le sopracciglia.

“Il minimo per candidarsi sotto il nostro simbolo. Liberi Insieme ripudia la violenza.”

“Lasciamo da parte la retorica di partito. Il suo capo pretende che il mio cliente si rechi nel luogo potenzialmente più pericoloso per lui: un darbrandese che ha scelto Noravàl come patria elettiva e si è dichiarato apertamente ostile al terrorismo separatista, in trasferta a Mòrask. Perché avete pensato di dovergli imporre una guardia del corpo se poi lo esponete a questo rischio senza battere ciglio?”

“Il suo cliente, eh…?” Segùr si stropicciò il mento con aria sorniona. “In ogni caso,” proseguì “lei usa un linguaggio troppo aggressivo. Il suo capo pretende, dovergli imporre… Per quanto possa essere stravagante, il signor Dolbruk è molto più testardo di quel che sembra: in questo, risponde meravigliosamente allo stereotipo darbrandese. Mi creda, nessuno potrebbe costringerlo a fare niente che non vuole: se non fosse stato disponibile ad accettare la sua, emh, compagnia, non avrei potuto affidarle questo lavoro. Ma Noam è anche un uomo di estrema, quasi eccessiva gentilezza: gli dispiaceva che Kàrkoviy potesse preoccuparsi, o peggio, che si sentisse responsabile per averlo messo nelle condizioni di venir minacciato.”

“Ed è per eccessiva gentilezza che ha accettato di fare questo viaggio?”

“Che vuole che ne sappia io? Saranno fatti suoi. O fatti suoi e di Kàrkoviy, e nessuno dei due, mi creda, è solito condividerli con me.”

Lo disse distrattamente, ma con una punta di fastidio nello sguardo.

“Non capisco. Vi siete preoccupati di assumere me, e poi…”

Per la seconda volta gli venne il sospetto che quelle minacce non esistessero affatto, che si trattasse di semplice mossa propagandistica.

“Ascolti, Vesna: né io, né chi si occupa di fare per noi queste valutazioni sospetta che Noam Dolbruk corra un reale pericolo. I terroristi non hanno mai annunciato le proprie mosse, non fa parte del loro modus operandi. È ben più probabile che si tratti di qualche hater in cerca di popolarità, o di una controversia personale di cui il suo… cliente non vuole parlare. Mi auguravo che, in una circostanza del genere, avrebbe condiviso eventuali informazioni almeno con lei, ma devo prendere atto che non è così. Il partito non ritiene che qualcuno attenterà alla vita del signor Dolbruk, ma d’altro canto non potevamo ignorare la questione e fare finta di niente.”

“Ho capito. Mi avete messo qui per vostra assicurazione.”

Come fa tuo padre, in fondo.

“Scomodo ma necessario.”

“Il signor Dolbruk direbbe paraculo.”

Segùr scoppiò a ridere.

“Dolbruk, Dolbruk…” cantilenò “L’uomo che lascia il suo segno ovunque va…”

Aveva un tono bonario, dolce, ma non c’era bonarietà nella sua espressione. Al contrario, quasi durezza.

“Non mi interessa cosa ritiene o non ritiene il partito. Mi avete affidato un incarico, spetta a me anche la valutazione del rischio. Mi è evidente che il signor Dolbruk non si tirerà indietro, a meno che non siate voi a chiederglielo, dunque intendo prendere le mie precauzioni.”

“Su questo, ha carta bianca. Le ho mai detto il contrario?”

Adrian annuì tra sé e sé.

“Bene. Allora questa è la procedura. Per tutta la durata del tragitto, il mio cliente ed io ci renderemo irreperibili. Nessun cellulare, nessun navigatore satellitare. Nessun team, nessun portaborse, niente stampa. Lostaff si muoverà autonomamente. Non faremo sapere in anticipo né gli orari in cui ci sposteremo né dove pernotteremo. Non sarà reso pubblico in anticipo alcun programma di impegni istituzionali. Una volta in città, sarà Dolbruk a prendere contatto con voi e con il vostro candidato. Programmerà ogni cosa da solo, senza bisogno di consultarsi con nessuno: dopotutto è lui il maestro dell’imprevedibilità, e conosce Mòrask più di quanto ciascuno di noi possa sognarsi di conoscerla.”

Stavolta fu Segùr ad annuire più volte, meccanicamente.

“Ma sì, ma sì. Non ho nulla da obiettare. Riferirò.”

 

***

 

Si sentiva preso poco sul serio.

No, si sentiva preso proprio per i fondelli.

Ma chi si credeva di essere quello stupido figlio di papà?

Adrian diede forma ai suoi pensieri schiacciando una cicca di sigaretta sotto il piede, e poi maledisse se stesso una, due, tre volte.

Non era da lui perdere la pazienza. Non era da lui nemmeno sentirsi svalutato: non era riuscito a farlo sentire tale neppure Noam, con tutte le sue vaporose parole e i suoi grilli per la testa.

Noam, Noam, sempre Noam.

Segùr, con le sue dannate allusioni, aveva colto nel segno e colpito il peggiore dei punti deboli: aveva finito col rendere quell’incarico una faccenda personale. Che fosse accaduto per sfida, o per orgoglio o semplicemente perché quell’ometto eccessivamente gentile era davvero la prima brava persona che gli era capitato di proteggere, fatto stava che il distacco professionale di cui si era sempre fatto forza era andato progressivamente a farsi fottere.

Tutto è relazione. Dannate relazioni e accidenti a lui. A Noam. A Segùr.

Doveva scrollarsi di dosso tutte quelle peregrinazioni mentali e restare concentrato sui fatti. Fare il conto di ciò che sapeva e dei pezzi mancanti.

Era vero che non spettava a lui indagare su chi avesse minacciato Dolbruk e perché, ma doveva almeno selezionare i possibili scenari a cui andare incontro.

La noncuranza di Segùr, che pure lo aveva assunto, poteva significare tre cose: primo, la minaccia non era mai esistita e la sua presenza serviva a far fare bella figura al partito, che non avrebbe mai potuto, una volta che la notizia era diventata pubblica, ignorare il problema; secondo, Segùr Òraviy non sapeva realmente come stavano le cose e il suo compito, come lui aveva fatto intuire non senza disappunto, era solo smaltire la burocrazia; terzo, Kàrkoviy non si preoccupava affatto dell’incolumità del suo collega e si dava altre priorità, come ottenere un seggio nella città più controversa del paese. Del resto - si trovò a pensare con lucido turbamento - a chi, nella storia, non avevano fatto comodo i martiri? Un uomo amabile come Noam, così sfacciatamente idealista e per di più giovane era il morto perfetto da sbattere in faccia agli avversari.

Ma Noam era sicuro che i terroristi non fossero una minaccia per lui.

Fidati di me, gli aveva detto. Fidati di me.

“E tu, Noam, ti fidi? Oppure ha ragione Segùr e c’è qualcosa che avresti dovuto dirmi e mi hai taciuto? Qualcosa che non stai considerando un pericolo e invece, maledizione, potrebbe esserlo?”

Si sorprese a dargli del tu nei suoi pensieri. E dire che a lui avrebbe fatto così piacere…

Ma chi era, Adrian Vesna, nei pensieri? Era lo studente Yiv? Era l’anonima guardia giurata che faceva la ronda all’ingresso del palazzo parlamentare? Era il turista nella capitale? O quale altro degli innumerevoli personaggi che aveva interpretato, pur di non essere – mai più, mai più – il piccolo, vulnerabile e feroce ragazzino che un giorno aveva distrutto la propria stessa vita?

Agitò con energia la testa, come se dovesse scrollarsi della pioggia dai capelli, come un cane bagnato.

Doveva restare concentrato solo sui fatti.

Aveva accettato un incarico: paraculo o non paraculo, lui lo avrebbe svolto alla perfezione.

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Capitolo 9
*** "Apnea" ***


Partirono il mattino presto, con la prospettiva di arrivare in serata. Il tragitto da Noravàl a Mìmat era veloce grazie all’autostrada, la quale procedeva ancora un po’ oltre, costeggiando il fiume, fino ad interrompersi per lasciare posto ad una viabilità decisamente più scomoda. L’alta valle del Norav era percorsa solo da strade strette e nodose, che da lì si inerpicavano sui Mor-Darèuk fino al valico che permetteva l’accesso alla regione del Dàrbrand. Da lì la strada scendeva verso Mòrask.

Noam apprezzava molto il fatto di dover viaggiare così a lungo, e non solo perché questo gli avrebbe evitato il passaggio attraverso il traforo, ma anche perché la durata dello spostamento avrebbe fatto da ponte tra le due diverse realtà a cui sentiva di appartenere.

Durante le prime ore fu colloquiale e allegro: cambiava le frequenze sull'autoradio e cercava musica che gli piaceva, raccontando aneddoti di vita legati a questo o quel pezzo, commentando i testi, o chiedendo ad Adrian informazioni sui suoi gusti. Ma in realtà si sentiva arido, persino falso: dava fiato alla bocca per tenere impegnati i pensieri e non permettere alla tensione che gli stirava ogni muscolo del corpo di emergere in modo evidente: di divenire visibile a lui, ad Adrian Vesna, al quale aveva assicurato di essere sereno, di non avere alcuna paura.

Non aveva paura.

Aveva paura.

Quando arrivarono in vista della catena montuosa, la voglia di parlare si era esaurita, così come quella di raccontarsi che sarebbe andato tutto bene. Nell’abitacolo solo le canzoni e le voci degli speaker coprivano il silenzio di un paesaggio che si faceva sempre più selvaggio, abbandonato.

La strada saliva, saliva. L’angoscia saliva, saliva.

Non aveva paura.

Aveva paura.

Accidenti.

Loro non possono capire.” disse, ad un tratto.

Posò la tempia sul finestrino, fissando le montagne che incombevano su di loro.

“A chi si riferisce, esattamente?”

“A Zjam. A Segùr. Al partito. A tutti coloro che raccontano la storia degli altri senza saperla raccontare bene. E che mi hanno messo in una situazione scomoda. Non era questa la veste in cui, un giorno, avrei voluto tornare qui.”

“Ma lei ci è voluto tornare. Poteva dire no, e, visti i precedenti, nessuno si sarebbe scomposto per questo. Dunque: perché non ha detto no?”

Amava la franchezza di Adrian, quel suo non girare intorno alle cose, quel suo non essere mai equivoco. E prima o poi a quella domanda doveva pur rispondere. Ma una risposta non equivoca, diretta come la ferrovia che non aveva voluto percorrere, lui ce l’aveva? Forse no. Forse le sue risposte somigliavano più alle strade che si inerpicavano sui Mor-Darèuk. E non andava bene, non sarebbe andato tutto bene: se non si sentiva saldo neppure sui propri piedi, come poteva illudersi di essere il supporto di un altro?

Adesso avrebbe potuto raccontare che la colpa era nella maledizione di Mòrask.

Tornava a Mòrask perché ci doveva tornare, punto.

Non aveva detto di no, perché non poteva.

Una bella spiegazione spiritosa ed imbecille. Una spiegazione romantica. Un’altra bugia.

“Ho accettato perché sono folla-dipendente” buttò là.

“Cosa?”

“Quando mi viene chiesto di espormi, di metterci la faccia, io… non riesco a dire di no. Ho bisogno, un bisogno quasi carnale, di stare nei pensieri della gente, nell’immaginario della gente. Ho bisogno di sentire che la gente mi apprezza, che si fida di me, colleghi di partito compresi” (e non riesco a sopportare – non gli disse – di essere odiato nella mia terra natale). “Desidero essere cercato, essere un punto di riferimento, rispondere a richieste d’aiuto: desidero sentirmi indispensabile. A volte cerco di ripetermi che il mondo va avanti anche senza di me, e cerco di convincermi che questo sia un pensiero sano, che mi aiuterebbe a vivere con meno frenesia, ad avere più potere su me stesso. E a dire qualche no in più. Qualche no giusto, come sarebbe stato questo. Ma la verità è che l’idea mi spaventa, perché io… non voglio essere sostituibile.”

Non era mai riuscito a mettere in parole quella sensazione così lucidamente: le frasi gli si erano formate in testa chiare, perfettamente corrispondenti a quello che sentiva. Per un attimo pensò di doverlo ad Adrian, alla sua dote silenziosa di mettere ordine nei pensieri degli altri.

Nello sguardo di lui passò un'espressione che per un attimo gli parve di tristezza, poi, nello stesso battito di ciglia, scomparve.

“La celebrità non ci rende indispensabili, Noam” disse “Lei cerca la celebrità perché le piace pensare che la gente abbia bisogno di lei, pensa di essere importante nelle loro vite, pensa di poter fare la differenza. Ma non c'è nulla di più illusorio.” scalò la marcia su un’ampia curva, che la macchina affrontò delicatamente così come delicata era la sua voce “A volte, in questi giorni, osservandola, ho pensato a mio padre. Era professore di matematica, e quando andò in pensione non riusciva a sopportare di non avere più alcun peso nelle vite di tutti quegli studenti per cui era stato una guida, un punto di riferimento. Così si riempì la casa di allievi a cui dava ripetizioni, spesso gratuitamente, solo per sentirsi dire bravo, per godere dell'idea di essere ancora indispensabile a qualcuno. E lo sembrava davvero: i suoi studenti, le loro famiglie, lo adoravano, gli facevano regali, lo celebravano. Poi si ammalò. I primi giorni i suoi allievi vennero a trovarlo spesso. Il secondo mese molti si limitavano ad una telefonata di cortesia. Il terzo mese la casa era tornata vuota. Il professore non poteva più insegnare, dunque non era più utile a nessuno. Mio padre è stato malato per tre anni. È stato sempre solo. Gli unici che gli sono rimasti accanto fino in fondo siamo stati io e mia madre. Celebrità e affetto sono due cose ben diverse: l'affetto non chiede nulla, non c'è bisogno di essere bravi per averlo. Ma la celebrità appaga di più, perché alla fine nessuno di noi vuole davvero essere amato per ciò che è: vogliamo tutti essere amati per ciò che vorremmo essere. La celebrità è un bel vestito messo addosso all’insoddisfazione.”

Le parole di Adrian, pure nella crudeltà di ciò che stavano esprimendo, suonavano di una dolcezza quasi ammaliante e lui si rese conto di trovarsi, forse per la prima volta nella vita, senza parole. Senza nulla da ribattere per difendere il suo pensiero. No: senza nessun desiderio di farlo.

La confidenza di Adrian – la prima che gli avesse mai fatto - non chiedeva replica: galleggiava nell’abitacolo con una spiazzante, meravigliosa assolutezza.

Noam desiderò che si voltasse e gli ripetesse le stesse cose guardandolo negli occhi, ma lo sguardo del guidatore era rivolto alla strada che si snodava come un grosso serpente, le mani sicure sul volante che muoveva con un’attenzione calma: di cura.

Sul viso di Adrian non c’era il minimo segno dell'emozione che invece aveva travolto così potentemente lui.

Apnea.

Ecco cosa gli veniva in mente guardandolo.

Adrian Vesna era come una persona rimasta per qualche ragione senza respirare.

Come se avesse perso il ritmo del respiro del mondo.

Per troppi anni.

Ma in quell’apnea aveva imparato ad ascoltare il respiro degli altri.

Noam pensò che avrebbe voluto allungare una mano e comprendere, che avrebbe voluto essere lasciato entrare in quel mondo senza aria, per capire come si potesse sopravviverci, come lui facesse, ma in quel momento si rendeva conto che ogni tentativo del genere sarebbe stato visto come una violazione.

Come la maggior parte di coloro che vivevano in disarmonia, Adrian aveva bisogno di “ruoli”: nel suo ruolo riusciva a condurre una vita che funzionava, ad essere persino eccellente in ciò che faceva, a ritagliarsi uno status che gli permetteva, per star dietro alla metafora che si era costruito nella mente, di tenere la testa dentro una boccia per i pesci.

Noam sentiva che non avrebbe mai permesso a nessuno di romperla: sarebbe stato come cercare di ucciderlo.

Ma si poteva vivere dentro una bolla afona, tagliando tutto fuori, aggrappato alla ripetitività dei propri compiti, reiterando ogni volta quella tragica pantomima del proteggere questo o quello, quando questo o quello erano niente altro che nomi di carta assegnatigli dal caso?

Per Adrian le persone di cui doveva difendere la vita – la vita! – a volte mettendo a rischio persino la propria, erano davvero semplicemente incarichi, che si sarebbero susseguiti caso dopo caso, fino alla vecchiaia?

Come faceva?

Il pensiero lo turbava.

E lo turbava ancora di più l’essere lui un incarico tra gli incarichi, in un momento in cui sentiva solo un disperato bisogno di essere altro.

Aveva paura.

Aveva paura.

“Questa è l’alta valle del Norav.”

Paura di smettere di respirare.

“Da qui inizia la strada panoramica.”

Il sole stava scomparendo dietro le montagne. Tramonto, ma sembrava già sera.

 

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Capitolo 10
*** "Infelice" ***


Il tempo era cambiato rapidamente. Da quando la strada si era incuneata tra le montagne, il cielo si era scurito, e non solo per l'ora tarda: nuvole spesse si erano addensate sui picchi e scendevano sempre più basse, borbottando roche, man mano che il loro viaggio proseguiva.

Finalmente scoppiò il temporale.

Per Adrian fu come un sollievo: quel cielo denso, rumoroso, gli aveva dato una fastidiosa sensazione di oppressione; pareva la testa di un grosso dio che non riusciva a sfogare un dolore. Ora qualcosa si era strappato, e il dolore si rovesciava fuori, a secchiate, sulla strada e sui vetri dell’auto, ma nel cadere giù già non era più dolore, era piuttosto rabbia e energia: aveva qualcosa di possente… non aveva mai visto piovere così.

Ad Adrian, che non aveva mai oltrepassato i Mor-Darèuk e che di Mòrask possedeva solo vaghe immagini trasmesse in televisione, quel paesaggio sembrava voler confermare tutti gli stereotipi del Dàrbrand: durezza, violenza, vigore. Ma Noam non aveva proprio nessuna di quelle caratteristiche: morbidezza al posto dell’asprezza, dolcezza contro aggressività, orizzonti anziché alte pareti di roccia.

“Certo che con un tempo così non si vede un accidente!” commentò, senza sgomento, aumentando la velocità dei tergicristalli.

Da un paio d’ore il suo compagno di viaggio si era fatto strano: più silenzioso del solito, ma soprattutto fisicamente teso, come se il sedile fosse diventato scomodo e l’abitacolo troppo stretto.

“Allora fermiamoci un po’.” disse “Accostiamo di lato e riposiamoci.”

“Siamo persi in mezzo al niente, dove vuole fermarsi?”

Lui accennò con la testa fuori dai finestrini, lavati prepotentemente dallo scroscio.

“Dai, accosta un attimo, non mi sento molto bene.”

Adrian rallentò, uscì dalla carreggiata e spense il motore nello sterrato che costeggiava una distesa di prato ripida, che risaliva verso le pendici dei monti.

A macchina ferma, il rumore della pioggia sui vetri sembrava il chiacchiericcio di un ruscello che scorre.

“Durerà per poco ancora. La primavera, quando vuole sostituirsi all’inverno, quassù fa così. Noi diciamo che il cielo si lava. Quando la pioggia finisce si vedono le stelle, non c’è più l'ombra di una nuvola, e tutto è così limpido che sono le notti giuste per dormire all'aperto.”

“Dormire all'aperto… ” fece eco Adrian perplesso “In marzo, in cima ai monti.”

“Dormire all'aperto. In marzo. In cima ai monti.” gli fece il verso Noam, con nella voce un'allegria triste “Capisci perché vi chiamiamo gambemolli?”

“Lo posso anche capire. Ma per il momento sta ancora piovendo.”

“Smetterà.” Noam si massaggiò la fronte con le mani, poi alzò la testa verso il vetro, dove l’acqua scivolava, effettivamente, un poco più lenta “Sta già smettendo, guarda…”

Con naturalezza, e prima che Adrian facesse in tempo a realizzare quali fossero le sue intenzioni, aprì lo sportello, uscì, e in due lunghi passi superò il basso fossato che divideva lo sterrato dal prato.

“Porca puttana! Che le prende?”

Lo rincorse d'istinto, e lo afferrò per il polso come se si trattasse di acciuffare un bambino ribelle o, davvero, di strappare qualcuno a un pericolo mortale.

“Dio!” esclamò Noam, la testa rivolta per aria, mentre la pioggia gli lavava il viso “Perché non può essere tutto così semplice?”

“Lei è matto! Mi sto facendo la doccia!”

Stringeva il suo il braccio e non capiva perché non riusciva a far forza; non capiva perché non lo lasciasse lì, a lavarsi da capo a piedi, razza di deficiente; non capiva perché quell'uomo così irreale riuscisse a coinvolgerlo in pagliacciate simili senza che lui finisse per vergognarsi di se stesso, o di entrambi; non capiva perché si sentiva la gola stretta, il petto soffocato.

“Noam, la prego… !”

Lui si lasciò trascinare indietro docilmente e rientrarono macchina.

I loro abiti erano bagnati fradici: erano bagnati i sedili, faceva freddo.

“Sì, hai ragione, sono matto… ” sospirò Noam, la voce ridotta a un sussurro “Ma soprattutto, sono una persona pericolosa. Non avresti dovuto essere qui. Non avresti mai dovuto accettare questo incarico.”

Hai ragione - pensò Adrian – tu sei pericoloso. Tu stai diventando pericoloso per me.

Tuttavia pacatamente rispose: “Si traquillizzi. So valutare la pericolosità degli incarichi che accetto. Quelli meno pericolosi sono i meno interessanti. E lei non è matto. È solo infelice.”

Gli occhi chiari di Noam si spalancarono, fissi come se quelle parole gli stessero sospese davanti e lui potesse leggerle.

“Scusami.” disse.

Poi, come se si fosse appena svegliato da un sogno, guardò Adrian, i suoi capelli inzuppati, le condizioni dell’abitacolo...

“Che pasticcio. C'è un rifugio a due passi da qui. Conosco… conoscevo bene il proprietario. Ci possiamo fermare per la notte, o ti prenderai un malanno a causa mia.”

“Se lo prenderà anche lei, checché stia giocando alla favola del darbrandese che sfida i gambemolli come me. Tra parentesi: non ci riesce.”

“Quindi ok? Facciamo tappa?”

“Noam: se lei desidera rendere questo viaggio il più lungo possibile – e non mi dica che non è così, perché offenderebbe le mie capacità di osservazione – per me non è un problema. Lo chieda pure, ma lo faccia in modi meno stupidi.”

 

***

 

 

È solo infelice, gli aveva detto, e mai come nel momento in cui glielo aveva detto quel fatto gli era stato tanto chiaro.

Tutta quella luminosità, gli entusiasmi facili, la leggerezza di cui il Noam Dolbruk “pubblico” si ammantava, erano in qualche modo il riflesso di una sofferenza, e quel dolore rendeva più splendente la luce che mostrava all’esterno.

La sua energia incontenibile, il suo desiderio di fare tanto, troppo (“folla-dipendente”, già, “eccessivamente gentile”, e quant’altro) avevano radici in una ferita. Votato alla gente, disposto a dire sempre di sì, ma terrorizzato di non essere all'altezza, e soprattutto lì, nella terra dove era nato. Quanto era spaventosamente fragile, e quanto avrebbe voluto davvero poterlo proteggere.

Ma non era cosa che lui poteva fare: nessuno poteva farlo per nessuno.

Ripensò a ciò che aveva raccontato a Noam a proposito di suo padre. Anche lui, avrebbe voluto proteggerlo: proteggerlo dalla penosa scoperta che tutto ciò che aveva fatto nella vita, il suo impegno nella scuola, la sua devozione per i giovani, alla fine fossero solo un mucchietto di cenere. Avrebbe voluto fargli sentire che, mentre il mondo in cui aveva sempre creduto d'essere al centro, gli crollava addosso, c'era pur sempre lui a restargli accanto, a tenergli la mano. Ma aveva dovuto scontrarsi con la delusione che per le persone come suo padre l'amore di pochi non bastava, anche se si trattava di quello della propria famiglia. Di chi Noam cercava disperatamente l'approvazione, la fiducia, l'amore? Solo della “folla” da cui dipendeva? No, ovviamente. C'era qualcosa di sepolto nel luogo in cui si stavano imprudentemente recando, e Adrian non sapeva se fosse opportuno andare a scavare per tirarlo fuori: eppure Noam aveva chiesto che lo accompagnasse lui e non lo aveva fatto perché temeva per la propria vita. Solo adesso capiva quanto fosse grande la fiducia che gli aveva concesso in esclusiva, l'uomo che diceva di fidarsi di tutti.

Rimasero in silenzio per i pochi minuti di strada che li condusse davanti ad un casolare rustico con l'insegna che lo indicava come albergo, ma che di albergo non aveva l’aria. Il posto appariva desolato, soprattutto dopo quella pioggia che aveva disegnato chiazze più scure sulle pareti in corrispondenza di grondaie che stavano ancora buttando fuori acqua come fontane: ma Noam aveva previsto bene, il temporale era cessato.

Le finestre erano tutte chiuse: Adrian pensò che fosse improbabile che in quel posto abitasse qualcuno al di fuori della stagione estiva. Invece, dopo pochi istanti dal suono del campanello, la porta si aprì, e un uomo alto e grosso, dai capelli e barba fulvi, comparve sulla soglia.

Adrian cercò di trattenersi dal pensare che il suo aspetto confermava anch’esso abusati stereotipi: quanto Noam aveva l'aria accogliente, tanto questo individuo emanava durezza e diffidenza. Eppure, a osservarli bene, i loro occhi erano molto simili: avevano la stessa sfacciata vivacità, la stessa acquamarina limpida, troppo chiari, troppo acquatici per essere aggressivi.

“Ho già chiuso la cucina.” disse, con una voce quasi fievole che stonava con la sua mole.

Mise a fuoco la vista nella penombra, strizzò le palpebre, le sbatté.

Sund rork! Noam!”

Poi gridò altre due o tre parole in quella lingua tagliente e del tutto incomprensibile, afferrò il suo compagno di viaggio quasi di peso, lo trascinò dentro casa e lo abbracciò come si abbraccia un figlio tornato dalla guerra.

 

***

 

Il proprietario del rifugio, che si era presentato come Vòrkne, li sistemò nelle due stanze migliori, e, per una forma di cortesia rivolta ai loro abiti bagnati e alle abitudini gambemolli-cittadine, si preoccupò di accendere il riscaldamento che, aveva detto a bella posta, in quella stagione aveva già spento da un pezzo. L’albergo era completamente vuoto. Le camere erano piccole e scarsamente arredate, ma questo fece sì che si scaldassero in fretta. La moglie dell’albergatore (forse tirata giù dal letto, data la grossa cuffia di bigodini in testa), si preoccupò di preparare del cibo e si prese la briga di cucinare un piatto tipico del luogo, sulla cui ricetta intrattenne Adrian come un’operatrice del turismo che si rispetti. Alla faccia della cucina già chiusa, era chiaro che li stavano trattando come ospiti speciali. Noam era un ospite speciale: per tutta la durata di quella cena né lui né Vòrkne dissero molto, ma quest’ultimo non finiva di guardarlo, come se dovesse studiarlo o, più semplicemente, riconoscerlo.

Andarono a dormire presto, stanchi del viaggio, ma erano passate poche ore quando Adrian si svegliò, forse per un cigolio delle imposte o un soffio di vento. Per un attimo si maledisse: aveva sviluppato una naturale attitudine a stare sempre all’erta che anche quando la razionalità gli diceva che tutto era sotto controllo. I suoi sonni erano di carta velina.

Si affacciò nel corridoio, e si accorse che la porta della camera di Noam era aperta; magari era stato questo a interrompere il suo riposo, e tuttavia, contestualmente, si fermò di nuovo a pensare a come quell’uomo avesse interiorizzato una sorta di abitudine a muoversi in silenzio: camminava lieve, senza pesare sul suolo.

Nella stanza dove avevano cenato c’era una luce accesa.

Sapeva che non era professionale, ma non si sforzò di trattenersi: da quando era iniziata quella faccenda aveva già violato il proprio stesso codice più volte, ed era inutile continuare a fare finta.

Si sentiva come impigliato in quella vita non sua, e il guaio era che non era sicuro di volerne uscire.

Non comprese molto di ciò che i due si stavano dicendo, ma sentire Noam parlare la sua lingua d’origine era affascinante: sulle sue labbra il darbrandese aveva una strana musicalità, per quanto spigolosa, e Adrian si trovò a pensare che quell’uomo riusciva veramente ad addolcire ogni cosa; chissà se anche Kàrkoviy l’aveva pensato, chissà che la sua presenza lì non sarebbe riuscita ad addolcire anche i conflitti. Ma va là! Il sonno interrotto e tanta acqua nelle ossa rendevano tutto meno lucido, persino i desideri: figuriamoci se c’erano delle sincere intenzioni di conciliazione nei piani di Liberi insieme. Non ce n’erano e non ce ne sarebbero state mai. Noam era per il partito uno strumento pubblicitario e non erano le aspirazioni di un idealista come un altro a far girare la politica, ma il denaro della gente come gli Òraviy. La cinica verità, ancora più chiara ai suoi occhi dopo nove ore su quella strada impossibile, era che un Dàrbrand autonomo, o in regime di semi-indipendenza, non faceva comodo a nessuno, che il libero passaggio attraverso il traforo del Nòdoask era centrale per l’economia dell’intera Repubblica, e che il gioco non valeva la candela, almeno finché il terrorismo fosse rimasto un problema circoscritto là dentro, tra quelle montagne inospitali.

Povero Noam.

Dalla posizione in cui si trovava non poteva vederlo in viso, vedeva solo la schiena di Vòrkne, ma fu contento di sentire la sua voce più distesa rispetto a qualche ora prima, e la prossemica dell’interlocutore esprimeva una relazione cordialmente paterna.

Sentì un rumore di bicchieri, sentì Noam ridere. Parlarono a lungo.

Poi Vòrkne fece una domanda e lui rispose “no”. E lo ripeté una seconda e una terza volta. “No”. “No”. E la terza volta gli sembrò quasi una preghiera.

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Capitolo 11
*** "No" ***


Noam conosceva ogni stanza di quel rifugio, avrebbe potuto chiamare per nome una ad una persino le pietre a vista: vent’anni di vacanze con la sua famiglia, vent’anni di gite fuori porta, vent’anni di suo padre che annunciava “E oggi, per premio, tutti a cena da Vòrkne!”. Vent’anni, appunto, di cene da Vòrkne. Cene in cui suo padre, per qualche ora, smetteva di parlare di politica per godersi la compagnia e i liquori. Cene in cui, una volta diventato adulto, era stato lui a parlare di politica, coi suoi fratelli e con chiunque altro fosse presente, strappando definitivamente al padre quella sana pausa della mente. Cominciando a sbagliare.

Vòrkne lo aveva abbracciato con un calore che aveva stemperato le sue ansie; non poteva essere certo di quell’accoglienza, quando aveva scelto di fermarsi lì, anche se un po’ lo aveva sperato. Vòrkne lo aveva fatto sentire come una persona che torna a casa, non come una spia del governo infame che viene a fare l’imbonitore.

Però non riusciva a dormire.

Innanzi tutto per i brividi, che gli percorrevano la schiena nonostante la doccia calda e il riscaldamento acceso per l’occasione: prendersi tutta quella pioggia era stata una mossa veramente cretina, e si sentiva in colpa nei confronti di Adrian che aveva fatto le spese, ancora una volta, di uno dei suoi colpi di testa.

Ma in quell’auto stava soffocando. Le montagne lo stavano soffocando.

La lieve fluorescenza dell’orologio appoggiato sul comodino indicava le tre di notte, e lui si stava ancora girando nel letto. Decise di alzarsi e andare in cucina a prepararsi qualcosa di caldo, era abituato a muoversi in quel luogo come a casa propria, Vòrkne non si sarebbe offeso.

Invece Vòrkne era sveglio, seduto sul divano con una luce da lettura e un bicchiere di vino in mano, gli occhiali a mezza luna calati sul naso e uno dei grossi gatti di casa acciambellato a fianco.

“Il piccolo Noam non dormiva perché non aveva mai sonno… Il Noam adulto perché?”

Lo disse nella loro lingua, che si era trattenuto, per rispetto verso Adrian, dall’usare durante la cena. Vòrkne detestava dover parlare in lingua Vàrnava, ma ci era tenuto per lavoro: avendo aperto un’attività sul versante ovest dei Mor-Darèuk, metà del suo turismo veniva dall’alta valle del Norav o dal basso Tàlvrand. Quando i suoi ospiti, invece, salivano da Mòrask, o comunque dall’altopiano, si poteva permettere – diceva – di parlare come mangiava, e (questo quando voleva essere poetico) di parlare in una lingua che dava corpo alle cose, non come quella cantilena troppo morbida e piena di vocali che sapeva di palude.

Era con pensieri così che avrebbe dovuto confrontarsi, e quello di Vòrkne era solo uno sbeffeggio poco ostile: il meglio, non il peggio, di ciò che avrebbe incontrato.

Perché Noam amava la lingua dar-breuk, ma amava anche le vocali larghe e dolci del mare.

Noam amava Mòrask, ma amava anche, per scelta e profondamente, Noravàl.

“Anche il Noam adulto spesso non ha sonno perché vuole fare troppe cose, Vòrkne. Ma non è questo il caso.”

“E allora siediti qua e raccontami che caso è questo.

Si alzò, indicandogli di sedere al suo posto, e scomparve per un attimo in corridoio: tornò con una bottiglia che Noam conosceva bene, e ne versò subito due generosi bicchieri.

“Quest’annata è stata ottima per l’artemisia.”

Noam annusò il liquore e si sentì pizzicare il naso. Chissà quanti gradi aveva quella roba! Ovviamente, né lui né lo stesso Vòrkne lo avrebbero mai saputo, dato che raccogliere (e distillare, principalmente) l’artemisia dei Mor-dareuk era diventato illegale da quando era stata dichiarata specie protetta. I darbrandesi di alta montagna imputavano anche questi provvedimenti alla tirannia del governo e nessuno si era mai davvero informato sulla problematica ambientale: si è sempre fatto così, con che diritto ci viene vietato? Erano questioni piccole, ma raccontavano una storia.

“Non so se sono pronto a finire steso sotto il tavolo.”

“Steso sotto il tavolo? Per un bicchierino? Ecco perché non dormi e hai una faccia che sembra quella di uno fantasma triste!”

Noam rise e buttò giù la sua Artemisia tutto d’un fiato.

Meraviglioso.

Adorava quella sensazione di calore lungo lo sterno e nella testa, adorava ritrovare sapori che lo facevano sentire ancora parte di una comunità.

Vòrkne non parve soddisfatto e versò di nuovo.

“Devo accertarmi che tu non mi sia diventato un gambemolli” disse “Il nostro unico rappresentante decente deve pur essere in grado di vincere una sfida all’ultima goccia!”

Noam svuotò anche il secondo bicchiere e diede in un sospiro enorme.

“Il vostro solo rappresentante decente, eh?” sorrise “Vostro di chi?”

Vòrkne lo guardò affabilmente, anche se quell’espressione da brav’uomo posato non gli impedì di bere per la terza volta.

“Mio di sicuro.” disse “E di tanta gente per bene che non si è mai sentita rappresentata. Ma non avresti dovuto sparire in quel modo, Noam. Sparire nel nulla, non una lettera, non una notizia. Persino il numero di telefono hai cambiato! Perché?”

“Davvero mi stai chiedendo perché? Tu lo sai come sono andate le cose… Sparire è stata la scelta più generosa che io potessi fare. Vigliacca, sì. Ma non nei loro confronti. Mi hanno detto che se non ero dei loro ero contro di loro, che avrei dovuto dimenticarmi che esistevano. Ho rispettato quel desiderio.”

Afferrò la bottiglia, si versò altro liquore senza troppa attenzione alla quantità e bevve ancora.

“Ehi, ehi” scherzò Vòrkne “Non prenderla troppo sul serio la battuta sulla sfida, eh!”

“Ma così poi magari dormo, no? E, comunque, Vòrkne, l’artemisia di quest’anno sarà pure ottima, ma la trovo meno forte del solito!”

L’altro rise di cuore, ma intanto trovò opportuno rimettere il tappo al suo tesoro.

“Però, ragazzo mio,” proseguì, blando “anche tu sei un pochino rigido. In momenti drammatici, certe cose si dicono, ma non si pensano fino in fondo. Nessuno qui ti odia.”

Tu non mi odi. Il resto è… solo confusione. Ed io non sono pronto a far chiarezza nella confusione. So cosa il nocciolo duro del Dàrbrand pensa di me: uno che è diventato un damerino di città, un opportunista, un venduto… Nella migliore delle ipotesi un ingenuo strumentalizzato dal governo centrale. Ma sosterrò il candidato sindaco di Liberi insieme, Vòrkne. Lo farò con tutto l’impegno e la buona fede che posso, e riuscirò a convivere con il disprezzo della mia gente, se in questo modo posso ottenere per loro un vantaggio più grande. Ci devo credere almeno io, perché per costruire un ponte tra due luoghi ci vuole una persona che ami nello stesso modo entrambi quei luoghi. Non un guerriero, non un giudice, ma un mediatore. Io voglio essere quel mediatore, anche a rischio di dormire di meno!”

In barba a quell’accorata serietà, Vòrkne scoppiò in una risata clamorosa.

“Dio, ma ti senti quando parli? Sei di una dolcezza imbarazzante. Come si fa a voler del male a te?”

Noam desiderò confidargli delle minacce ricevute, del ruolo di Adrian a suo fianco e del timore che il trovarsi lì potesse essere poco più di un buco nell’acqua, perché i darbrandesi diffidavano delle promesse (e come dargli torto) e non c’erano molti darbrandesi tra le fila di Orizzonte. Ma desiderava anche credergli, perché quello che gli aveva appena fatto era un signor complimento, e lui aveva tanto bisogno di parole come quelle, soprattutto pronunciate da qualcuno che le pronunciava nella sua lingua.

“Ascolta me, Noam: ci sono tante persone che sarebbero felici di rivederti. Persone che sarebbero pronte ad aiutarti, persino.”

“Non è una buona idea. Starò a Mòrask solo qualche giorno, il minor tempo che mi è possibile. Rincontrare te è stato già concedermi un bel regalo.”

Vòrkne sbattè la sua grossa mano sul tavolo, ma non con rabbia, solo con confusa insofferenza.

“Nah, andiamo, testa di pietra che non sei altro! Non puoi tornare a Mòrask e non vedere tua madre!”

“Mia madre mi ha detto che per lei sono morto, Vòrkne.”

“Sono scemenze, figliolo, per la miseria! Posso parlarle io…”

“No.”

Scosse la testa, le lunghe ciocche rosse ondeggiarono sulla sua fronte come a amplificare quel movimento.

“E Thièl? Non vuoi sapere nemmeno che sta facendo Thièl?”

“No.”

Noam cercò i suoi occhi e gli rivolse un sorriso di arresa tristezza.

“No.”

 

***

 

Quando Noam si svegliò era già mattino inoltrato.

Si rese conto che la sveglia doveva aver suonato diverse volte, ignorata. Forse era diventato davvero un gambemolli, forse l’artemisia non faceva più per lui, ma quei tre bicchieri avevano messo a tacere tutti i pensieri, e adesso si sentiva riposato, nonostante una sorta di ovattamento alla testa. La camera era invasa da strisce di luce che gli scuretti non riuscivano a chiudere fuori: la finestra era esposta ad est, nessuna barriera al sole che si alza; Noam spalancò i vetri per fare entrare aria nella stanza e nei polmoni: come aveva previsto, nessuna traccia di nubi, cielo sgombro di un azzurro invadente, quel tipo di luminosità che fa strizzare gli occhi.

Pensò che Adrian dovesse essere sveglio da un po’ ed infatti un attimo dopo distinse la sua voce e quella di Vòrkne, anche se erano troppo distanti perché potesse capire cosa stessero dicendo.

Li trovò all’esterno: Adrian stava togliendo dal parabrezza dell’auto fiori e foglie che la pioggia e il vento avevano depositato lì, mentre Vòrkne, con una bottiglia in mano, stava insistendo perché “accettasse un souvenir dei Mor-dareuk che non avrebbe trovato in nessuna distilleria nemmeno a pettinare tutto il Dàrbrand.”

“Alla buon ora, ragazzo mio!” lo accolse con tono gioviale.

“Buongiorno…” salutò Noam stropicciandosi il naso “E scusami, Adrian. Ho fatto tardi…”

“Si fa tardi quando si ha un appuntamento.” puntualizzò lui, senza interrompere il suo lavoro.

E di appuntamenti non ne avevano.

Non con persone.

Con luoghi, semmai. O con ricordi.

“Ci offri la colazione, Vòrkne?” cambiò discorso, sfoggiando un sorriso sfacciato “Ormai siamo qua ad approfittare dell’ospitalità!”

“L’ho già fatto, che ti credi? Manchi solo tu. Peccato che il signor Vesna sia così ligio che non ha voluto assaggiare il mio caffè corretto perché deve guidare. Diglielo che da qua a valle son giusto due curve rispetto a quelle che avete fatto a salire!”

“Giusto due, già…” fece eco Noam, dondolando il capo.

Adrian intanto aveva alzato il naso verso il cielo, appoggiando la schiena al fianco dell’auto.

“È proprio come aveva detto.” constatò “Un cielo lavato.” Poi si voltò verso di lui e abbozzò un sorriso cordiale “Lei come sta?”

In quella richiesta c’era una premura inaspettata e benefica. Non era uno di quegli intercalare a cui ci si aspettava di sentir rispondere “bene, grazie”, e il fatto che gli ponesse una domanda simile davanti a Vòrkne metteva in evidenza quanto Adrian fosse capace di capire, quanto gli fosse chiaro che quel viaggio, Vòrkne, le curve per Mòrask, il cielo di quel mattino e la doccia sotto la pioggia della notte prima fossero parte di un unico, grande problema. Di nuovo desiderò raccontargli ogni cosa, ogni singola cosa. Il Fronte, ciò che lui aveva rappresentato per la politica extraparlamentare di Mòrask, suo padre, l’attentato del Nòdoask, le parole di sua madre. Thièl. Maledizione, Thièl.

“La tua domanda non si merita una risposta di circostanza.” disse “Quindi. Quindi non so. Stamattina sono sereno, ieri sera non lo ero. Ci sono cose in questi luoghi che… che credo di avere rotto. Me le sono lasciate alle spalle senza aggiustarle. E non so se sono aggiustabili. Sono infelice, è vero. E sono anche felice, è paradossalmente e contemporaneamente vero anche questo. Come sia possibile non lo so… ” con lo sguardo coinvolse anche Vòrkne “ma qualcuno qui mi ha detto sono il solo rappresentante decente che questa gente ha, quindi adesso metto da parte il Noam felice e il Noam infelice e mando avanti il Noam che sa fare bene il suo lavoro. Ce la fai a sopportarmi?”

Adrian annuì lentamente.

“Anche io so fare bene il mio lavoro.”

 

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Capitolo 12
*** "Mòrask" ***


AVVISO ai miei 25 lettori (no, un po’ meno, non ho le pretese di Manzoni): è estate! (Urrà) Si va in vacanza sperabilmente dove internet prende meno possibile e il mondo è disconnesso… quindi gli aggiornamenti estivi saranno molto diradati. Ciao a tutti!

 

 

Superato il valico, la strada scendeva lungo un versante che si apriva sull’altopiano, rendendo visibile, in distanza, il profilo della città.

Noam prese un lungo respiro sprofondando nel sedile, la testa lasciata andare all’indietro.

Sund rork…” esclamò “Mòrask!”

Adrian aveva già sentito pronunciare quell’esclamazione da Vòrkne, quando aveva riconosciuto l’ospite sulla porta.

“Che significa?”

“Oh, scusa.” Noam ritrovò il suo sorriso ineffabile “Sund rork è un intercalare comune, ma suppongo sia intraducibile. Sta un po’ tra l’essere sorpreso nel suo lato piacevole e l’ansia di quella sorpresa, non so se mi spiego. Tipo quando ti selezionano per un concorso ma poi la dimostrazione vera è ancora tutta da dare. Abbiamo un sacco di espressioni intraducibili: sono quelle che mi piacciono di più. Beh, suppongo sia così per qualsiasi altra lingua, in verità, perché diverse comunità sviluppano modi diversi di definire le cose: non diversi sentimenti, quelli immagino siano universali, ma diversi modi di percepirli e quindi di dirli. Sai, il mio nome è anche lui una di queste parole che perdono un sacco nel passaggio da una lingua ad un’altra: dol bruk significa qualcosa come ritornare a casa, ma non casa intesa come famiglia né come comunità… è più la sensazione di entrare in un posto quotidiano, che ti dà benessere, in cui stai comodo: per farla facile, quella sensazione di quando apri la porta di casa e dietro ci trovi il gatto. È una parola bellissima, ed io la amo!”

“Mi piace sentirle parlare in dialetto.” confessò “Lei mette qualcosa di morbido dentro parole stridenti. Viene voglia di starla a ascoltare, sa? Anche alle tre del mattino… ”

Non voleva nascondergli di aver origliato la sua conversazione con Vòrkne. Del resto, non aveva capito una parola e Noam lo sapeva.

“Si dice lingua dar-breuk, per carità!” scherzò, con un punto esclamativo volutamente esagerato “Se ti sentono chiamarla dialetto sei un uomo morto! E comunque: se stanotte ti fossi unito a noi avrei tradotto per te.”

“Oh, ne sono certo. Lei è un uomo educato. Ma avrei interrotto la vostra conversazione, che, di fatto, non aveva nulla a che fare col mio lavoro. Dico bene?”

Noam diede in un’ariosa risata.

“Non avresti dovuto accettarlo, questo lavoro… ” cantilenò, con ben altra leggerezza rispetto al giorno precedente “Però sono felice che lo abbia accettato, perché tu mi fai sentire solido. Ti dimostrerò la mia gratitudine svelandoti lati di Mòrask di cui neppure gli autoctoni immaginano la bellezza! Ti va?”

Adrian aveva conosciuto molte persone brave a lusingare, persone che sapevano fare il commento giusto nel momento giusto, fare leva sul dettaglio giusto, trovare l’espressione giusta, ma quell’affermazione lì – tu mi fai sentire solido – buttata in mezzo al discorso quasi come un inciso o una parentesi trascurabile, era veramente un complimento grandioso. Impegnativo, ma grandioso.

“Mi va. Purché lei non mi renda troppo scomodo guardarle le spalle mentre fa da guida turistica.”

“Giuro sulla mia testa.”

“No, per favore. La tenga al sicuro, la sua testa: ne va della mia reputazione!”

Il sole era sfacciatamente brillante e l’abitacolo dell’auto si stava scaldando. La città era ormai a due passi: l’atmosfera aspra e cupamente verde delle montagne, il silenzio immobile e l’intrinseco senso di insicurezza di quelle strade nodose (reti di metallo a contenere intere pareti di roccia, coi cartelli sbiaditi “pericolo di frana”) avevano fatto posto a un paesaggio ben più urbanizzato, per quanto con un sentore di trascuratezza diffuso: centri abitati periferici, la cui vita gravitava intorno a quella di Mòrask, qualche borgo dalle caratteristiche architettoniche antiche, forse meta turistica, alcune zone industriali e molto spazio vuoto, cantieri lasciati a metà, ampie distese di terreno, forse coltivato forse no. Passandoci proprio sotto, ad Adrian non sfuggì l’insegna sul grosso complesso che si trovò sulla sinistra non appena la pendenza si fu completamente esaurita: “Òraviy e soci”.

“Mm… non pensavo che avesse filiali anche qui.” commentò.

“Chi?”

“Il gruppo Òraviy.” sondò il terreno per vedere quanto Noam ne sapesse “L’azienda di famiglia del segretario di Kàrkoviy.”

“Ah, beh.” constatò Noam, con scarso interesse “Negli ultimi cinquant’anni aziende come quella sono spuntate come funghi in tutto il Dàrbrand, con un certo fastidio da parte della popolazione montana, che però si è appellata al protocollo di tutela ambientale per fare in modo che non si potesse costruisse sopra una certa altitudine. Insomma, come non si può produrre il liquore di Artemisia, non si possono nemmeno estrarre metalli rari dai Mor-Darèuk: ragionevole, no?” e gli strizzò l’occhio.

“Metalli rari, eh?”

“Sì. Dal punto di vista geologico il Dàrbrand ne è piuttosto ricco, è secondo solo alla regione del Thierrand, dunque la repubblica del Kònorrand, a livello teorico, ha avuto tutto da guadagnare dall’annessione. A livello teorico. Nei fatti, non è così. Questa è solo retorica del separatismo, va riconosciuto, perché la verità è che nessuno ci guadagna nulla, tranne chi le industrie già le possiede. Non è una questione di governo, ma di capitale, e le due cose, anche se non sempre è facile pensarlo, sono – o dovrebbero essere – entità con interessi piuttosto diversi. È vero che il denaro influenza le scelte politiche, nella stupida speranza che quel denaro incrementi la ricchezza dell’intera nazione. Come si dice? Mettere in moto l’economia. Ma questa è una…”

“Paraculata.”

Noam scoppiò a ridere.

“Non era la parola che stavo per dire, ma sì!”

“E che parola stava per dire?”

“Oh. Stavo per dire una storia vecchia. Quanto l’umanità, o, almeno, quanto la prima industrializzazione. È dalla costruzione del primo telaio che una manciata di padroni detta legge sugli altri sbandierando lo slogan della produttività e dell’offrire lavoro (che poi offrire non è per niente un termine adatto, secondo me: fa di una necessità una specie di concessione). Se un qualsiasi governo cerca di imporgli delle regole – ossia cerca di impedire a questa gente di fare sempre e assolutamente ciò che gli pare - la risposta è sempre la stessa: porteremo le nostre fabbriche altrove. Apriti cielo: quasi che la prospettiva fosse la fine del mondo. Ma non lo è. Che vuoi che gliene importi dell’incremento del prodotto interno di una nazione a coloro che, pur cittadini di quella nazione, non vedono nulla di quel prodotto? Magari la soluzione a molti problemi non è produrre all’infinito inseguendo il miraggio di una crescita di cui, francamente, il tornaconto in termini di felicità individuale non si è ancora visto. Magari la soluzione è de-crescere. Magari è dare valore al tempo anziché farlo diventare denaro. Magari l’ambizione giusta non è guadagnare di più, ma lavorare di meno.”

Ecco un tipico esempio dei discorsi con cui si è guadagnato il suo calzante soprannome, pensò Adrian. Un discorso che partiva concreto, persino con qualche luogo comune, e poi sconfinava in roba più più vaga, che tuttavia aveva molto di intimo e di personale. Spesso – se ne era accorto riascoltando, in retrospettiva, tanti suoi interventi pubblici – non erano le cose che diceva a colpire nel segno, ma il modo in cui le diceva: con un investimento emotivo evidente che però non comportava l’alzare la voce, con una convinzione che però non diventava retorica: sembrava sempre che stesse parlando con qualcuno seduto al bar al suo stesso tavolino, qualcuno a cui voleva onestamente trasmettere un pensiero ma che non aveva alcun bisogno di persuadere. Alcuna pretesa di persuadere.

“Scusa. Questo sembrava un comizio. Che rompiballe devo essere!”

“Affatto.”

“Comunque mi piacerebbe davvero vivere in un mondo in cui tutti hanno un sacco di tempo libero. Tempo per fare e anche per non fare. Tempo per le cose belle.”

“Le cose belle vanno sapute coltivare anche quando il tempo non c’è. O peggio, quando le circostanze non ci sono. Ma dal mio punto di vista trovo che lei ci riesca piuttosto bene.”

Lo pensava davvero.

“Quindi Segùr è figlio di questa gente qua…” riprese Noam, accennando ad un’altra fila di capannoni e fabbriche, che però esibivano loghi di aziende diverse “Buon per lui. O magari no.”

Possibile che non avesse fatto il collegamento prima d’ora? Incredibile ma, ohimè, probabile.

“Bene la fiducia incondizionata nel prossimo, ma da un uomo che accetta la candidatura nelle fila di un partito mi aspetterei almeno che avesse un’idea, seppur vaga, delle persone con cui collabora.” gli fece presente, con educata schiettezza “E degli interessi con cui ha a che fare, soprattutto. È una buona misura di prudenza: una misura politica, direi.”

“… Che però rende la politica più difficile. Si fanno meno compromessi coi pregiudizi, e io vorrei poter dire che ai pregiudizi sono immune, ma non è così.”

Guardò fuori dal finestrino, come a cercare nel paesaggio che gli scorreva accanto un altro interlocutore. O una conferma. O una smentita.

“Tutti hanno pregiudizi verso la gente del Dàrbrand, e la gente del Dàrbrand ha pregiudizi verso tutti. Se nessuno abbassa la guardia per primo siamo fregati.”

Uno sbiadito cartello stradale, bilingue, annunciò “Benvenuti a Mòrask”.

L’orologio sul cruscotto segnava mezzogiorno e pochi minuti.

“Penso che possiamo iniziare a pensare a dove fermarci.” disse Adrian “Immagino che, prima di affrontare i suoi numerosi appuntamenti, lei voglia almeno smontare il bagaglio.”

Avevano concordato di lasciare il più ampio margine all’improvvisazione e quella misura di prudenza era piaciuta a Noam fin da subito, così come l’idea di ridurre al minimo i contatti con lo staff: i loro telefoni erano rimasti spenti per tutta la durata del viaggio, con buona pace di Kàrkoviy che non ne aveva gioito.

“Vero.” fece Noam lottando con la cintura di sicurezza per estrarre il cellulare dalla tasca dei pantaloni “E visto che mi hanno affibbiato una trasferta ad alto rischio abuserò della mia posizione per avere una finestra aperta sulla mia piazza preferita!” spippolò velocemente sul telefono in cerca dell’hotel che aveva in mente “Eh, i benefici di una carica pubblica! A vent’anni guardavo gli edifici affacciati su piazza Xolk pensando a quanto costassero al metro quadrato, e adesso prenoto una camera all’Universale. È straniante, sai?”

Scherzava, ciarliero e entusiasta come nei suoi momenti migliori: le ombre del giorno precedente sembravano proprio essersi dileguate, come il temporale inaspettato che aveva lavato il cielo.

“Piazza Xolk è piena di respiro: il mio piccolo orizzonte personale. E poi ci sono dei lampioni che sembrano rimasti in piedi dal secolo scorso e che quando c’è nebbia tingono tutto di rosa: in certe sere creano un’atmosfera surreale. Ma non credo troveremo nebbia: a scapito di ogni mia previsione, la primavera è arrivata presto anche qui!”

Compose il numero dell’albergo, prenotò, come da piano, a nome di Adrian, e poi, nel giro di pochi minuti, venne sommerso dalle notifiche e dovette rispondere ad una serie infinita di telefonate.

 

***

 

L’ultima volta che si era trovato in una situazione così bizzarra era appena un ragazzo, il suo primo incarico per l’agenzia: vestito con gli stessi abiti e lo stesso trucco da idiota di un attorucolo di vent’anni che spopolava nelle fiction per adolescenti. Aveva un paio di stalker che lo spaventavano, anzi, no, a ricordare bene spaventavano sua madre, una donna invadente e improbabile, e lui era stato messo lì, a fare da diversivo. Umiliante, ma ben retribuito. Ai tempi aveva giudicato quel ragazzetto un imbecille patentato: oggi, a più di dieci anni di distanza, lo rivedeva con gli occhi della mente e gli faceva quasi pena, così intrappolato nella rete della popolarità, con due genitori che succhiavano da lui come vampiri un po’ di fama riflessa, e tanta, tanta confusione nella testa, confusione tra ciò che voleva essere e ciò che gli veniva chiesto di essere, tra se stesso e il personaggio che interpretava, con una paura che se lo divorava ogni giorno, tra minacce e lettere d’amore, assalti di fan e cattiverie.

Era strano come si fosse ritrovato a pensare a lui – come diavolo si chiamava? Lo aveva dimenticato - mentre usciva dall’Hotel Universale pochi minuti prima di Noam e si dirigeva – con addosso lo stesso cappotto, la stessa iconica sciarpetta a righe e la coppola di lana perfettamente giustificata dal clima di Mòrask – in una direzione diversa da quella che avrebbe percorso il suo cliente solo pochi minuti dopo.

Per una volta, era stato Adrian a prediligere l’opportunità di separarsi: a Noam, che si muoveva in una città che conosceva meglio delle proprie tasche, una guardia del corpo alle calcagna non era altrettanto utile quanto un perfetto imitatore capace di confondere le idee a chiunque avesse voluto sapere esattamente chi si trovasse dove. E poi, nessuna informazione a nessuno, ogni notte un albergo diverso, e un programma concordato praticamente un giorno per l’altro.

Quel pomeriggio avrebbe incontrato di persona Lant Màrna, che si era prestato al gioco con ottimo spirito e lo aveva invitato amichevolmente a casa propria, rivelandosi più elastico di quanto entrambi si fossero immaginati.

Ciò nonostante, non poteva negare a se stesso che quei brevi tragitti in cui Noam avrebbe dovuto spostarsi da solo gli erano causa di una certa tensione. Non si trattava solo di timori razionali, era più una questione di atmosfera – di pregiudizi, forse, gli stessi dai quali anche lui non era immune – che permeava quella città, all’apparenza quieta, fin troppo “educata”, quasi esteticamente opposta alle caratteristiche con cui venivano dipinti i suoi abitanti, ma di fatto sfuggente, come se la vera Mòrask non fosse visibile, come se ci fosse un’altra città sepolta sotto le sue fondamenta. Probabilmente era la sua visione da “straniero” a confonderlo: ciascun luogo poteva essere conosciuto solo vivendoci dentro, non passandoci attraverso con gli occhi di un turista o di un lavoratore in trasferta. Ma conoscere quella città – quella invisibile e sommersa - forse significava anche conoscere Noam.

Vagò a piedi per circa il tempo che lui avrebbe impiegato per arrivare a destinazione, convergendo poi nel medesimo luogo in modo da ripetere lo stesso gioco al ritorno, ma quando raggiunse la meta si trovò di fronte una sorpresa che non gli fece piacere: seduta sotto una pensilina del tram, dall’altro lato del viale su cui si affacciava l’abitazione del professor Màrna, con le gambe accavallate e un falso sguardo al cellulare che teneva in mano – l’attenzione altrove, tutto intorno a sé – c’era Karìma Mirèl, bella e disinvolta in un’infantile minigonna scozzese, come una studentessa svogliata che aspetta chissà chi.

Si sottrasse al suo campo visivo e si diresse verso di lei: la giornalista si accorse della sua presenza solo quando il tram stridette sulle rotaie e lui, mentre una piccola folla scendeva e qualche maleducato spintonava per salire, si sedette al suo fianco.

“Immagino che sia qui per via del suo lavoro, signorina. Io, purtroppo, invece, per metterle i bastoni fra le ruote. Lo sa, vero?”

Dopo un primo sussulto, che però si impegnò per celare, lei diede in un ampio sorriso.

“Adrian Vesna! Che piacere vederla! Certo che lei ha la dolcezza di uno yogurt scaduto: poteva almeno salutarmi, o chiedermi come sto, dato che l’ultima volta che ci siamo visti mi ha scaricata in mezzo ad una strada! I convenevoli fanno sempre piacere, anche quando sono falsi!”

Aveva labbra tinte di un rosso opaco e occhi scuri e affilati, da gatto, con lunghe ciglia curve; si scoprì di nuovo a pensare che fosse una donna bellissima, di quelle bellezze che fingono di non essere tali: bellezze insidiose. C’era qualcosa che la rendeva simile a Noam, pur se lei era tanto terrestre quanto lui era aereo: entrambi erano persone che si trovavano a proprio agio nell’avere gli sguardi altrui addosso, entrambi erano di quella razza che amava fare luce. Lui, invece, era cresciuto nell’ombra degli altri, aveva imparato a nascondersi in quell’ombra e, quando era stato abbastanza forte da venirne fuori, di quell’ombra aveva fatto un mestiere.

“So essere un maestro di convenevoli, ma mi è più utile essere diretto, dunque lo sarò: la sua presenza qui per me è un problema, perciò sloggi.” abbozzò un sorriso artificioso “per cortesia.

A quella frase, Karìma rise con franchezza: “Vede che invece è spiritoso? Facciamo così: mi tolgo subito dai piedi, se lei mi accompagna per pochi minuti. Facciamo due chiacchiere: scommetto che le cose che ho da raccontarle le saranno molto più utili di quanto potrebbero essere a me le poche che vorrei sapere da lei! Le proporrei un caffè, ma mi rendo conto che non è in vena… ”

“Sto lavorando.”

“Anche io.”

“Ma dal suo lavoro non dipende la sicurezza di nessuno. Semmai il contrario.”

“Ecco, appunto. Mi spieghi di più, per fare in modo che io possa evitare di far danni. Le giuro che mettere in pericolo qualcuno è l’ultimo dei miei interessi, specie se si tratta di uno così carino come il signor Dol…”

Adrian la interruppe fulminandola con uno sguardo, poi le afferrò il braccio e la forzò ad alzarsi con scarsa delicatezza.

“Va bene, va bene. Ma togliamoci di qui ed evitiamo di fare nomi.” sospirò “Non capisco se lei è stupida o lo fa apposta.”

Entrambe le cose, forse.

“Per la miseria, lei è veramente la negazione della galanteria!”

 

***

 

Contro ogni previsione, accettò quel caffè.

Parlare in strada non gli era sembrato opportuno, troppe orecchie in giro, troppi sguardi da sorvegliare: a pochi metri dalla pensilina, all’angolo di due strade, c’era un baracchino arrangiato – assolutamente fuori luogo in quel quartiere elegante – con un tavolino di plastica e persino un ombrellone aperto a riparare da raggi inesistenti di un sole appannato di marzo, mentre un vento gelido sembrava volerlo buttare giù senza mai riuscirci. Il gestore era intento a seguire una partita sullo schermo di un telefonino: il suo repertorio offriva panini strabordanti di salse, dolcetti da prima colazione che nessuno quel mattino aveva comprato e una macchinetta da caffè casalingo; li accolse parlando darbrandese stretto e Adrian si fece capire quasi a gesti. Non riusciva a credere che a Mòrask ci fosse gente che non conosceva la lingua ufficiale, eppure Noam glielo aveva detto: uno dei principali problemi che sperava potesse essere risolto da una parziale autonomia riguardava proprio la scelta della lingua d’istruzione; la legislazione vigente imponeva infatti a molti bambini cresciuti parlando solo lingua dar-breuk di imparare a leggere e scrivere in una lingua diversa: la cosa non era frequente a Mòrask, dove ormai quasi ogni famiglia era bilingue, ma sulle montagne il problema era reale.

“Che poi io ritengo che imparare la lingua Vàrnava sia fondamentale per muoversi nel mondo, ed è pure una lingua tanto bella!” (c’era qualcosa in cui Noam non trovasse del bello?) “Ma tutti la studierebbero più volentieri se la sentissero come un arricchimento e non come una privazione!” (il solito conciliatore, che forse si illudeva, ma magari no… )

Di fronte a due bicchieri di plastica, in una posizione che gli permetteva di vedere benissimo il portone della casa di Màrna, e sotto gli occhi distratti di un ometto che forse non capiva nemmeno bene la loro lingua, Adrian si sentiva piuttosto tranquillo.

Nascosto in bella vista, per usare un luogo comune.

“Senza cattiveria, signorina Mirèl,” (ma in realtà un poca sì) “Mi sono documentato sulla rivista per cui lavora, e, francamente, che lei scriva storie acchiappa-pubblico sul mio cliente non mi riguarda. Magari è un fastidio per lui, ma questo è un problema suo o, al massimo, della dirigenza del partito e di chi ne cura la propaganda. Il mio problema è che mi sto occupando della sicurezza di un uomo che ha ricevuto delle minacce, e la presenza di una giornalista curiosa tra i piedi mi rende il lavoro più complesso. Esistono le conferenze stampa, esistono i talk show, esistono le tribune politiche per sciacallare: pedinare un uomo invece è stalking.”

La donna sorrise con un solo lato della bocca.

“Non tutti hanno facile accesso alle tribune politiche e affini, signor Vesna. E comunque io non scrivo di politica: io scrivo storie di gente. Io curioso nella vita segreta dei personaggi pubblici.”

Era il suo modo più elegante per ammettere che un inviato di “Scheletri nell’armadio” non sarebbe mai stato invitato ad una conferenza stampa con un minimo di serietà!

“Perché, allora, invece di fare informazione non ha scelto di scrivere romanzi?”

Il volto di Karìma si adombrò, fino a risultare persino serio.

“Quanti romanzieri conosce che campano del proprio lavoro? Deve aver visto un bel mondo, lei!”

“Mi scusi. Non intendevo fare i conti in tasca a nessuno.”

“Bene. Meno male che un minimo di educazione le è rimasta.”

Si era sinceramente rabbuiata: Adrian la trovò una reazione eccessiva e per un momento si domandò cosa ci fosse sotto; ma non era lì per darsi a congetture di psicologia.

“Allora, che cosa c’è di così importante che crede di dovermi dire?”

“Eh no, prima lei.” lo fissò con i suoi due occhi color caffè tornati d’un tratto di buon umore. “È vero che Noam Dolbruk non voleva saperne di essere scortato? E come mai ha cambiato idea?”

Per la miseria, le interessavano davvero i dettagli “romanzeschi” della vita del suo cliente! Adrian appuntò mentalmente di non acquistare mai e poi mai un numero di “Scheletri nell’armadio”, ma al tempo stesso catalogò per la seconda volta quella donna nello settore dei “fastidiosi-non-pericolosi”.

“Dovrebbe chiederlo a lui e sono sicuro che la incanterebbe con una serie di bellissime frasi adatte ad essere trascritte pari pari come sono, senza correggergli una virgola… per poi arrivare a non darle la risposte che vuole.”

“Infatti l’ho chiesto a lei.”

“Pensa che io sia capace di entrare nella testa del mio cliente?”

(Magari. Magari.)

“No. Credo solo che lei veda cose che altri non vedono. Si capisce da come osserva. E da un paio di altre cose, come, per esempio, il sapere quando è il momento di scaricare una donna in mezzo ad una strada perché ha toccato il tasto sbagliato… e sono pronta a scommettere che lei non sa – o almeno non sapeva, quella sera - un accidente della storia del Nòdoask.”

Bel colpo. Forse doveva analizzarla ancora un po’ prima di collocarla tra i non pericolosi.

“Allora?” incalzò lei, sorriso smagliante e provocatorio “Non prova a darmi almeno la sua interpretazione?”

La sua interpretazione.

Ne aveva formulata una? Ma sì, lo aveva fatto. Solo che non l’aveva mai verbalizzata.

Voleva parlarne con quella donna? Perché no: poteva essere un buon sistema per studiarla.

“Credo che il signor Dolbruk non trovi spaventosa l’idea di aver ricevuto una minaccia. Al contrario, credo che lo faccia sentire un po’ più in pace con se stesso.”

Karìma smise di sorridere e gli rivolse tutta la sua attenzione.

“Ci pensi. È nato e cresciuto in un paese dove la presenza del terrorismo è diventata abitudine, ma ha deciso di trasferirsi a Noravàl, dove impegnarsi in politica non è come giocare alla roulette russa e dove la sicurezza delle propria persona viene data per scontata. Io suppongo che, a prescindere dal caso specifico, quando un uomo lascia il paese da cui proviene per andare a star meglio, per forza di cose provi qualche senso di colpa. Sentirsi in pericolo è l’alibi del signor Dolbruk per non averne.”

“Wow.”

(Atona, senza né entusiasmo né sarcasmo.)

“Wow che?”

“Lei è psicologo?”

“No. Mi prende per i fondelli?”

“Per niente. Mi piace questa espressione: alibi contro i sensi di colpa. Posso segnarmela?”

Estrasse un quadernetto con sagome ridicole di gatti grassi e prese appunti. Era uno scherzo o cosa…?

“Ma che cazzo…?”

“Ah, bene bene… esiste qualcosa che la innervosisce, allora. O che almeno le fa arricciare le sopracciglia! Evviva, quell’espressione le dona!”

“Si può sapere a lei che importa? Ho risposto alla sua domanda. Ora mi dica quel che pensa di dovermi dire e facciamola breve.”

Era a disagio, e non era solito che qualcuno riuscisse a farlo sentire così: era forse per via del modo in cui lei lo guardava? Per il sospetto di essere preso in giro? Perché sentiva che gli sfuggivano dei dettagli (di nuovo)? O solo, semplicemente, perché una donna bellissima stava flirtando con lui?

Karìma strappò un foglio dal suo quadernetto: ci scrisse su un indirizzo web.

“FDL: Fronte per il Dar-breuk Libero. Amichevolmente Il Fronte. Mai sentito nominare? È una specie di gruppo filo separatista: nel Dàrbrand ne esistono parecchi, ma questo è di gran lunga il più sostenuto. È gente che agisce in clandestinità, ma una decina di anni fa hanno promosso una serie di proteste e di boicottaggi alla luce del sole (in genere pacifici, anche se questo non è bastato a dissipare il sospetto che tra loro militino anche terroristi o filo terroristi). Poi sono tornati nell’ombra, anche se sono parecchio attivi sul web. L’indirizzo che le ho dato è quello di un blog molto popolare affiliato a loro: articoli in realtà innocenti, ma che forse, per gli addetti ai lavori, dicono più di quel che c’è. Il blog infatti viene oscurato puntualmente un mese sì e l’altro anche ed ogni volta riappare in una nuova veste. Non che le autorità preposte si siano mai prese la briga di perderci troppo tempo, altrimenti avrebbero dovuto ammettere di star effettuando un’operazione di censura… e la libertà d’espressione è un diritto, no?” gli strizzò l’occhio, ma rimanendo seria “Io lavorerò pure per stampa spazzatura, signor Vesna, ma so fare le mie ricerche, e sono riuscita a risalire all’identità di alcuni dei blogger più attivi. Di uno, in particolare: Thièl Dolbruk, 30 anni, nato a Mòrask; ha avuto qualche problemuccio con le forze dell’ordine quattro o cinque anni fa, per aver partecipato a manifestazioni violente, poi pare abbia messo la testa a posto. Salvo l’essere diventato uno degli ideologi di punta di FDL.”

Ripose il suo assurdo quaderno da scuola materna nella borsa e sfoggiò di nuovo il suo rosso sorriso di trionfo.

“E poi non mi dica che questa non è una storia interessante.”

Adrian rimase per un attimo stordito, con quel foglio volante tra le dita che pesava come piombo.

“Dolbruk è un cognome darbrandese piuttosto comune.”

(Ma il nome Thièl no, e lui lo aveva sentito pronunciare appena la notte precedente.)

“Ma sì, ovvio. Per questo vorrei incontrarlo: per mettere insieme un po’ di pezzi. Peccato che la sua ultima residenza risalga a qualche anno fa e non sia mai stata aggiornata. Magari potremmo chiedere allo sfuggente Noam se lo conosce… ma anche in un caso del genere mi incanterebbe con una serie di bellissime frasi per poi arrivare a non darmi la risposte che voglio, giusto?”

“Perché condivide queste informazioni con me?”

Non lo stava facendo gratis, non era possibile. Trovava forse eccitante provare metterlo in difficoltà? Sembrava, in effetti, assolutamente appagata di quel giochetto.

“Perché non dovrei?” fece, di rimando, puntandogli gli occhi negli occhi.

Adrian scosse la testa, si alzò.

“Io non capisco. Si annoia, forse? Spera che io approfondisca la questione per lei? Non è il mio ruolo. I fatti privati del mio cliente, sono i fatti privati del mio cliente: se colui che mi paga per proteggerlo non li condivide con me, il problema non è mio.”

“Ma non è lui che la paga per essere protetto, no?” Dio, quella donna era peggio di un cane che non molla l’osso! “E comunque il signor… emh, il suo cliente è piuttosto pazzo a non condividere certi dettagli…”

Continuava a provocare, voleva fargli perdere la pazienza… Maledizione: si stava divertendo, e lui non aveva intenzione di essere l’intrattenimento di una matta in cerca di sfide.

“Buona giornata, signorina Mirèl. Come da accordi spero di non rivederla in giro.”

 

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Capitolo 13
*** "Stupore" ***


La prima cosa che Noam pensò nel trovarsi davanti quell’uomo altissimo dalla larga fronte ombrosa fu che avesse begli occhi. Occhi accoglienti. Ed effettivamente si sentì molto “accolto” nel sedersi su un divano morbido, davanti ad una tazza di tè, in un vasto salone pieno zeppo di libri (la libreria occupava due intere pareti) e una luminosità velata e calda ottenuta grazie all’effetto di un tendaggio giallino teso a coprire l’enorme porta a vetri che affacciava sul balcone. Molta luce, in modo da rendere quel luogo adatto alla conversazione, ma non diretta, per non danneggiare i volumi per i quali il proprietario pareva mostrare un certo amore, oltre a considerarli, evidentemente, un dettaglio d’arredamento degno d’essere sfoggiato.

Noam non era tipo da convenevoli, ma gli piaceva perdersi in lunghi discorsi sul niente per il desiderio di creare atmosfere socialmente piacevoli, specie se l’interlocutore gli dava spago, e così avvenne in quel caso: dopo un’ora di chiacchiere oziose, non si era neppure reso conto del tempo che era passato.

Lant Màrna era un uomo tanto formale all’aspetto quanto informale nella conversazione: sessant’anni, divorziato, due figli che potevano avere – disse – circa l’età di Noam, che lavoravano entrambi a Noravàl perché a Mòrask “non c’erano abbastanza opportunità” ma soprattutto – sospettava – non c’era quel tipo di bella vita a cui aspiravano due giovanotti single in cerca di compagnia. Egli, invece, originario della capitale, si era trasferito a Mòrask subito dopo la laurea perché gli era stato offerto un dottorato, poi al dottorato erano seguiti altri assegni di ricerca, fino al conseguimento della cattedra, che deteneva da dieci anni e che non aveva intenzione di lasciare finché non l’avessero costretto con la forza ad andare in pensione. Tutta la famiglia della sua ex-moglie era darbrandese: sua suocera parlava solo lingua dar-breuk e non aveva mai digerito che la figlia avesse sposato un “gambemolli con la puzza sotto il naso”, ma – gli confidò scherzando - non era per divergenze politiche che il loro matrimonio era finito, quanto per ragioni che avevano nomi, cognomi e fascino.

Poi gli raccontò del suo lavoro come scrittore per L’informatore, che era stato la strada attraverso cui si era appassionato alle problematiche legate al separatismo e si era avvicinato alla politica. Ultimamente aveva pubblicato un libro sulle peculiarità culturali di regioni geograficamente isolate e aveva intrapreso degli studi sulla compatibilità tra i principi della Costituzione e le autonomie locali.

Era stato Kàrkoviy a prendere contatto con lui per chiedergli la sua disponibilità a candidarsi per le amministrative.

“Ma io desideravo prima di ogni cosa parlare con lei, perché senza il suo appoggio esplicito, una mia candidatura non è nemmeno in discussione.”

Lo disse con un pacato sollevamento delle sue ampie sopracciglia, ma l’affermazione in sé fu lapidaria.

Noam sbatté le palpebre: questo Zjam non glielo aveva detto! Pensava di essere stato mandato a concordare una strategia, non a fare reclutamento e si sentì all’improvviso investito di un ruolo non previsto, e che non desiderava avere.

“Non le sembra di starmi attribuendo una responsabilità un po’ troppo… emh… pesante?”

“Io me ne attribuisco una pesante altrettanto se accetto, non crede? Mòrask è Mòrask. Ma io amo questa città quanto penso la ami lei, e se ho considerato l’idea di imbarcarmi in questa avventura non è per il prestigio di Liberi Insieme, ma perché lei mi piace.”

Franco e diretto: Noam si sentì arrossire. Accidenti, perché era così maledettamente sensibile ai complimenti?

“Cosa ho fatto per meritarlo?”

Màrna gli rivolse uno sguardo gentile, ma così focalizzato su di lui che lo fece sentire piccolo.

“Una notte di dieci anni fa, un giovanotto molto creativo riempì le strade di Mòrask di sagome di cartone. Me lo ricordo come fosse ieri. Alba di gennaio, ci svegliammo con la neve… e con centinaia di silhouette di figure umane a grandezza naturale sparpagliate per le strade della città. Quanti anni aveva, signor Dolbruk? Venti?”

Noam abbassò gli occhi, quasi turbato dal ricordo che gli veniva sbattuto in faccia.

“Più o meno…”

“Più o meno.” Màrna sorrise “Fu fantastico, sa? Tutti, quel giorno, si aspettavano che il Fronte avrebbe fatto la sua mossa. Tutta la città sapeva che non sarebbe stato fermo a guardare. Ma quello, nessuno se lo immaginava. Era una trovata così innocente, così smaccatamente buona da essere un colpo basso. Un colpo basso candido e inattaccabile. Se ripenso ai commenti dell’allora amministrazione, alle facce delle forze dell’ordine costrette a smantellare quell’istallazione sotto la neve che veniva giù come Dio la mandava, alle risate che ci facemmo in ateneo, giuro che mi si allarga il cuore. Epocali, gli omini di FDL. Ma credo si sarebbe dovuto dire i suoi omini.”

Già, perché era stato lui a chiamarli così: “Ci avete vietato di riunirci a manifestare per ragioni di sicurezza, ma non c’è nulla di pericoloso in un sit-in di omini di carta.”

Quell’inverno, stava frequentando il secondo anno di scienze dell’educazione, e la politica era già il suo pane quotidiano da tempo: del resto, non sarebbe potuto essere altrimenti, vista la famiglia in cui gli era capitato di nascere. Ma da quando si era iscritto all’università, le discussioni quotidiane con suo padre si erano amplificate; lui gli aveva trasmesso la sua visione dei problemi (anzi, del Problema, sarebbe stato più corretto dire) ma non la stessa visione dei mezzi per affrontarlo: “intellettuale di merda” era l’epiteto più affettuoso con cui lo apostrofava e “venditore di soluzioni facili” il più doloroso.

Facili? Magari. Noam le trovava difficilissime.

Era facile afferrare un megafono e gridarci dentro, incitando la gente a spaccare tutto; era difficile trovare una strada che non prevedesse di spaccare proprio niente.

Il desiderio di distruggere era banale, quasi atavico: ma lui proprio non ce l’aveva. Tra le migliaia di desideri luminosi e impazziti che gli affollavano i pensieri, quello più grande di tutti era solo che gli esseri umani smettessero di urlare. E Noam non urlava mai, infatti: se la voce altrui si alzava, la sua si abbassava, e diventava così flebile che alla fine erano gli altri a dover abbassare la propria per riuscire a capirlo. Eppure, possedeva un dono che suo padre i suoi compagni di lotta nemmeno si sognavano: la gente si impigliava nelle sue parole. Non doveva neppure sforzarsi, gli bastava davvero poco per trovarsi al centro dell’attenzione, e piano piano si era accorto che mettersi al centro dell’attenzione era il modo più diretto per spegnere le urla: quando lui apriva bocca, gli altri stavano zitti. Un assai futile motivo per intraprendere una carriera politica, ma così era andata.

Gli omini erano stati la prima tappa importante.

La terza domenica di gennaio – ogni maledetto gennaio dall’annessione in poi – a Mòrask si celebravano i festeggiamenti per la nascita della Repubblica. Mai ricorrenza era stata più odiata. Certo, i darbrandesi erano intolleranti anche rispetto alla vendita di dolci che non fossero rigorosamente locali durante le feste comandate, alla diffusione di tradizioni “straniere”, al concerto di fine anno trasmesso dal teatro dell’Opera di Thièrna e a centomila altre naturali contaminazioni che venivano interpretate come attacchi alla propria individualità culturale. Ma la Festa della Repubblica era il pomo della discordia, in quanto in quell’occasione una figura rappresentativa a caso, inviata dal governo centrale - spesso completamente inconsapevole del carico d’odio che la sua presenza suscitava - veniva a Mòrask, “timbrava il cartellino” con un discorso patetico, e a causa sua la città veniva blindata da cima a fondo per giorni neanche fosse una prigione a cielo aperto. Non del tutto a torto, in verità, dato che una volta lo sfortunato ospite era stato ammazzato con un colpo di pistola mentre era intento a porgere alla cittadinanza i suoi “saluti istituzionali”.

Ogni anno, la terza domenica di gennaio, la gente si riuniva per manifestare: una specie di “festa” parallela, in piazza Vittoria, nel cuore dell’antica Mòrask, dove i separatisti, i difensori della purezza della lingua dar-breuk, e più semplicemente gli scontenti a vario titolo si incontravano e si lamentavano: il sacro e inalienabile diritto alla protesta.

L’anno degli Omini era stato un anno difficile per Mòrask: la richiesta che l’utilizzo del futuro traforo prevedesse una tassa di passaggio da versare alla provincia del Dàrbrand era stata rifiutata, alcune aziende del territorio avevano chiuso i battenti per una serpeggiante crisi economica e la stagione turistica invernale era partita male… Così l’amministrazione locale, onde evitare le agitazioni che già si profilavano all’orizzonte, in occasione della festa aveva emanato un’ordinanza che vietava qualsiasi tipo di corteo, raduno o altro evento pubblico, ai fini della sicurezza.

La popolazione si era indignata e FDL si era fatto carico di quel malcontento: la manifestazione si sarebbe fatta lo stesso, si sarebbe fatta ad ogni costo, si sarebbe fatta a prezzo di scontrarsi con la polizia, e “cosa saranno mai un paio di manganellate rispetto alla nostra libertà…!”

Allora lui aveva detto la sua, che era qualcosa del tipo: “Non ha senso farsi male per il semplice gusto di fare muro contro muro. Anzi, non ha proprio senso farsi male e fare male solo perché sì. Il nostro desiderio non deve essere quello di rompere in naso ad un poliziotto, né quello di vantarsi di esserselo fatto rompere, ma quello di esprimere un dissenso ed essere guardati. Non dobbiamo aggredire, dobbiamo sorprendere.”

Suo padre gli aveva dato di gambemolli (quello non gliel’aveva ancora mai detto), ma che importanza aveva quando poteva contare su Thièl? Quando erano insieme, lui e Thièl si sentivano capaci di qualsiasi cosa. Erano bastati alcuni complici all’interno del Fronte, tra cui il proprietario di uno scatolificio e un amico che gli aveva procurato litri di vetrificante, e poi si erano messi al lavoro: giorni a ritagliare sagome, a irrigidirle e a impermeabilizzarle, perché le previsioni parlavano di tempesta di neve in arrivo e del gennaio più freddo degli ultimi vent’anni.

Il freddo era arrivato, la tempesta per fortuna no: solo fiocchi leggeri, dolci, che pian piano si erano fatti grandi fino ad attecchire e imbiancare le strade. Ricordava quella lunghissima notte, il gelo che tagliava la pelle, il cielo così nero che sembrava che tutte le stelle si fossero spente, il silenzio (e le risate trattenute di suo fratello, in quel silenzio), odore di acqua e oscurità nell’aria e loro due come piccoli fantasmi smarriti, tremanti per la temperatura e per l’eccitazione, con la paura di essere scoperti e il senso di grandezza che emanava da ciascuna sagoma posizionata nel punto giusto, fiera di se stessa come se si trovasse al centro del mondo. Una, due, centinaia: il lavoro di una notte intera che lo aveva fisicamente distrutto, emotivamente appagato e infine reso ciò che era stato per molti anni a venire. Un punto di riferimento. Un leader.

Lasciò scivolare via quel ricordo, come se lo avesse tenuto stretto più di quanto gli fosse permesso. Cosa avrebbe fatto, se avesse potuto tornare indietro? Avrebbe avuto il coraggio di agire diversamente? Di sottrarsi a quel ruolo in tempo? Amava ancora quegli anni, ciò che aveva cercato di fare, l’attivismo, i sogni, l’ammirazione, i suoi legami. E al tempo stesso li odiava. Odiava ogni singolo istante, odiava tutto, sé stesso compreso.

Lei è solo infelice.

Perché Adrian non era lì? Avrebbe potuto partecipare a quell’incontro, lo avrebbe aiutato a capire che tipo di persona fosse Lant Màrna, lui era così bravo a leggere le intenzioni della gente, e se fosse stato al suo fianco magari quell’uomo non avrebbe avuto la disinvoltura di rivangare vicende di cui non avrebbero dovuto nemmeno parlare.

Di cui lui non voleva parlare.

“Mi sono pubblicamente dissociato da qualsiasi contatto con FDL, professor Màrna. Se lei cerca in me qualcosa che non c’è, forse lei e Kàrkoviy vi siete fraintesi.” detestava trovare sostegno nelle frasi fatte che gli erano tanto ostiche, ma in quell’istante erano l’unica via d’uscite che aveva “Liberi Insieme desidera proporre un candidato sindaco per Mòrask, e questo è tutto. Se lei avesse qualche tipo di simpatia per il Fronte, sta parlando con l’uomo sbagliato.”

“Credo di star parlando proprio con quello giusto, invece” Màrna aveva occhi sorridenti sotto quelle sopracciglia spaventosamente severe: come era possibile? “E sì, ho avuto qualche simpatia per il Fronte, negli anni in cui lei ne è stato, di fatto, la guida.”

“Non ne sono mai stato la guida.

Invece si: senza che nessuno lo avesse ammesso in modo esplicito, i membri storici gli avevano ceduto progressivamente la leadership. Ma senza mai cedergliela davvero. E senza dirgli mai la verità.

Contraccambiò quello sguardo sorridente cercando di mettere nel prprio tutta la franchezza (e un po’ il dolore) che il ricordo dei suoi omini di carta meritava.

“Senta, professore: noi non dovremmo aver nemmeno iniziato questo discorso. Se crede che io abbia anche solo una possibilità di realizzare qualcosa di buono per Mòrask e non mi ha invitato qui per rivangare storie che io mi sono impegnato a rinnegare davanti a tutti coloro che rappresento, per favore, non mi costringa a avventurarmi in un terreno scivoloso. Ho lasciato il Fronte molti anni fa, e per tutti loro sono simpaticamente un traditore della causa. Ero, come ha detto anche lei, appena un ragazzo, ed io e Kàrkoviy abbiamo concordato di non fare pubblicità a questa vicenda. A Liberi Insieme serviva una faccia che facesse da ponte tra loro e la comunità darbrandese e a me serviva un sostegno per realizzare un progetto che non potevo portare avanti senza appoggi in parlamento: potrebbe essere la strada sbagliata, questo non lo so, la politica purtroppo è fatta di esperimenti che a volte falliscono, ma se non si è capaci di cambiare strada quando si sta girando in tondo, non siamo coerenti, siamo solo testoni.”

Màrna annuì.

“Ed io approvo la sua scelta, infatti. Però una cosa gliela devo dire:” e si lasciò sfuggire una risata sommessa “lei non ha affatto cambiato strada, anzi, sta continuando a fare quello che avevo apprezzato già allora: lei applica, reiteratamente, la… tecnica dello stupore: chiamiamola così!” tornò serio, severo come la sua fronte scura “Mi permetta di parlarle senza peli sulla lingua: con i separatisti convinti, quelli che vedono nel governo centrale il nemico e la chiamano traditore lei non ha – scusi la durezza - nessuna speranza. Con chi vede nel terrorismo il peggiore dei pericoli e con chi si serve di questa paura per tenere il paese nella minaccia di trovarsi in un costante stato di guerra, neppure. Ma queste due categorie non sono la maggioranza della popolazione. Quello che riesce a fare lei è attirare quella maggioranza: lei, con i suoi modi così inusuali e i suoi atteggiamenti imprevedibili – uno tra i tanti, l’essere seduto sul mio divano anziché al tavolino di una bella sede ufficiale – riesce a catturare l’attenzione degli indifferenti, e poi a mantenerla, giorno dopo giorno, proprio come un oratore che sa quando è il momento di cambiare il tono della voce per svegliare quelli che, in fondo all’auditorium, si sono addormentati. E lo fa senza progettarlo, il che la fa apparire più efficace e più autentico. Insomma: lei sta rendendo la politica un po’ più pop, che, detto così, non le sembrerà quella gran lusinga, ma è esattamente quello di cui qui abbiamo bisogno: che la situazione del Dàrbrand diventi un argomento popolare, di cui si chiacchiera davanti ad un caffè. Ha idea di quanta gente, persino all’università, non sappia neppure da dove sia nato il movimento separatista? E di quanti, fuori dal Dàrbrand, non abbiano nemmeno chiaro del perché il terrorismo esista? Ma in tanti si chiedono chi sia quest’uomo grazioso comparso dal niente che parla di questa storia facendola sembrare all’improvviso importantissima. Così importante da ricevere egli stesso una minaccia e – letteralmente – fare finta di non averla mai ricevuta. Stupore, Dolbruk. Questa è la sua risorsa. Lei continua a farci svegliare al mattino con le piazze invase da omini di carta.”

Ricordò la prima volta che Adrian lo aveva chiamato “personaggio pubblico”, a come lui si era schermito, quasi difeso. E però quell’uomo gli stava giusto dicendo che non era importante cosa realmente lui avesse da dire: era il “personaggio pubblico” ad avere un valore. Davvero non aveva da offrire proprio altro? Davvero il suo ruolo doveva essere questo: essere il volto giusto per portare alla ribalta il problema del separatismo? In fondo, anche Karkoviy lo aveva voluto con sé per una ragione simile. Lui era la faccia nuova di Liberi Insieme, quello che serviva al partito per allargare il suo elettorato al bacino del Dàrbrand e ai vari astensionisti che si lasciavano incantare dalla novità e dalla giovinezza. Lo sapeva e lo aveva lucidamente accettato: eppure, a volte gli faceva quasi male sentirselo confermare, e non perché il ruolo di frontman non gli stesse bene, ma perché il “personaggio” non esisteva: quel personaggio era lui.

Sospirò, si strinse nelle spalle.

“Se, per essere dei nostri, lei mi sta chiedendo di costruire altri omini di carta, non vedo perché no: sono bravo a ritagliare.”

Lant Màrna stavolta rise apertamente.

“È bravo in parecchie altre cose.”

No.

Non era bravo a capire se quell’uomo fosse la persona giusta per ciò che gli stava proponendo, ad esempio.

Non era bravo a prevedere se quella che stavano per fare era una mossa vantaggiosa o solo molto pericolosa.

Il professor Màrna aveva simpatizzato per FDL: questo lo rendeva un candidato accettabile o un venduto da punire? Il suo aver scelto Mòrask come città d’elezione, i suoi articoli, la sua credibilità universitaria lo avrebbero tenuto al sicuro, oppure la candidatura con Liberi Insieme lo avrebbe trasformato in un complice del sistema?

Per un attimo desiderò condividere quei dubbi col diretto interessato.

Non lo fece.

“Le devo chiedere che ciò che ci siamo detti oggi non esca mai da queste mura.”

Perché non lo faceva?

“Per il bene di entrambi, evitiamo di rimescolare nel torbido.”

Perché non voleva riconoscere quella paura. La paura che Mòrask era Mòrask. La terra del terrorismo. La città dove muore un sindaco all’anno.

“Il Fronte non cerca poltrone, Liberi Insieme non cerca alleanze scomode ed io… beh, credo che né l’uno né l’altro sappiano davvero cosa è bene per questa città. Non che lo sappia io, ma magari lei ha la vista più lunga. E da me avrà tutti gli omini che vuole.”

Che bello sguardo, però.

“Oh, lei se non altro sa che urlare più forte degli altri non serve a granché.” disse Màrna “Sta un passo avanti a molti. Sono onorato di giocare nella sua squadra.”

Che bello sguardo accogliente.

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Capitolo 14
*** "Tana" ***


Erano tornati in albergo entrambi esausti, per ragioni diverse che non si erano raccontati. Durante la cena, Noam aveva parlato insolitamente poco, ogni tanto si sfilava gli occhiali, si stropicciava gli occhi, sorrideva e ripeteva “Che giornata lunga!”, perciò Adrian tutto si aspettava fuorché sentirsi proporre, solo un paio di ore dopo: “Andiamo a fare un giro: è importante vedere Mòrask di notte”.

Avrebbe voluto rispondere che era stanco, che non c’era nessuna urgenza di fare i turisti, che passeggiare per la città per svago non era una scelta sicura, che quel pomeriggio aveva dovuto sbarazzarsi di una ficcanaso un po’ troppo troppo astuta e non era affatto certo di essersene sbarazzato davvero ed altre cose così… Invece non disse niente, si rimise le scarpe, il cappotto, la sciarpa e via dietro a quell’uomo fatto di vento a cui non era in grado di dire un solo, maledetto no.

Era contagioso, il vento di Noam: anche in quella città sfuggente e sottilmente ostile, la sua energia riempiva tutti gli angoli.

“Ecco, mettiti qua in mezzo: non ti sembra che tutti gli edifici siano piccoli e insignificanti? E pensa quando c’è nebbia!”

(In piedi al centro di piazza Xolk, di fronte all’hotel).

“Il sistema di portici di Mòrask è il più esteso del Kònorrand: qui nevica o piove per nove mesi all’anno e i portici sono la salvezza di quelli come me che perdono sempre gli ombrelli!”

(A passeggio lungo un porticato deserto, odore vitreo, di grotta, tutto intorno).

“Ma di notte diventano la terra di chi ha voglia di passeggiare da solo senza esserlo… ci trovi sempre almeno un gatto randagio, o, a volte, un uomo randagio che ti fa compagnia senza fare domande.”

(C’erano, in effetti, diversi gatti: a caccia di avanzi davanti a locali chiusi o in cerca, anche loro, di compagnia per la serata).

“Questa è Piazza Vittoria, l’ombelico di Mòrask. Prima dell’annessione era il centro della vita civile per eccellenza: quello è il vecchio Palazzo Ducale, questa colonna, invece, il punto da cui partivano le 4 strade principali… solo che una delle quattro non c’è più: ai tempi in cui non esisteva il concetto di piano regolatore, qualcuno ci ha costruito in mezzo…”

La colonna era lunga e stretta, quasi un’antenna che cercava di ricevere segnali da chissà dove: pochi fronzoli, solo marmo scuro e liscio, salvo sul basamento, che era invece decorato con motivi floreali ed animali e riportava un’iscrizione in lingua dar-breuk. Noam si accorse che Adrian stava cercando di leggerla, e intonò una canzonetta in rima, lieve e malinconica, come una ninna nanna.

“I versi scritti là.” spiegò, in risposta allo sguardo interrogativo dell’interlocutore “Una canzone popolare anonima cantata dai montanari… o dagli ubriachi che barcollano a casa dopo una festa a ballo. I bambini di Mòrask ci crescono insieme, la conosciamo tutti.”

“Cosa significa?”

“Questo passaggio nello specifico dice qualcosa del tipo l’incoscienza ti salverà la vita, pur se, anche in questo caso, forse incoscienza è una traduzione imperfetta.”

Sorrise e intonò altri versi, passeggiando attorno alla colonna. Sembrava davvero di ascoltare la nenia di una madre che vuole addormentare il figlio e la voce di Noam era sempre troppo morbida, di una morbidezza a tratti intima, imbarazzante.

“In fondo, questa canzone non è altro che una lista delle cose che l’autore trova salvifiche per gli esseri umani, ma dice parecchio della gente di qua. È culturalmente istruttiva.”

“Me ne traduca qualcuna, così mi istruisco anche io.”

“Beh, andando in ordine nel testo…” fece mente locale “ci salveranno la vita: la resistenza (intesa proprio come resistenza alla fatica), le radici, l’incoscienza, la disobbedienza, l’ironia e la purezza.”

“Lei condivide?”

Noam si strinse nelle spalle e si sedette sul basamento, poco rispettoso dell’iscrizione che andò a coprire con le sue gambe distese in avanti. Buttò il capo all’indietro, il naso verso il cielo.

“Non so. Dipende sempre dal modo in cui vogliamo leggere le cose. I darbrandesi, come è tipico di tutti i popoli poco abituati a ricevere visite, sono un po’ testardi e rischiano di abbracciare dei valori solo affinché siano un appannaggio personale che li distingue dagli altri. Disobbedienza a che o chi, per esempio? Io sono il primo che disobbedisce spesso e volentieri a centomila cose: ma quando la disobbedienza è solo il modo per dire che non ci sta bene nulla, allora diventa in qualche modo il suo contrario. Voglio dire: si è anticonformisti finché il nostro anticonformismo è espressione di una personalità… ma se l’anticonformismo diventa solo un gridare non vogliamo essere come voi, beh, allora tutti gli anticonformisti diventano conformisti a loro volta, e ne nascono i soliti schieramenti, sempre gli stessi: i pro ed i contro, i filo e gli anti. Per questa strada, anche la disobbedienza diventa solo una moda, o un sistema piuttosto infantile di darsi un’identità. E avere radici non sempre ci salva: a volte ci condanna, a volte ci fa pensare che non ce ne potremo andare mai.”

Saltò di nuovo in piedi, spalancò le braccia come se volesse abbracciare qualcosa di troppo grande.

“Ma ironia e purezza, accipicchia, quelle sono due parole meravigliose davvero!”

Il grosso orologio dell’ex Palazzo Ducale batté le una.

Dio, che cosa stavano facendo lì?

Che ci faceva, lui, Adrian Vesna, un uomo ordinario, metodico, razionale, in piedi in mezzo ad una piazza deserta, incantato ad ascoltare una specie di creatura amena che spiegava i versi di una canzone popolare?

Distolse lo sguardo da Noam, lo fece vagare tutto intorno, a cercare Incoscienza, Resistenza, Radici, Disobbedienza, Ironia e Purezza tra le mura delle case, nelle finestre chiuse, per le strade che si diramavano dalla piazza e giù lungo la strada che avrebbe dovuto essere una delle arterie della città ed era stata chiusa, soffocata da qualcuno che un giorno, distrattamente, in un gesto di banale egoismo, ci aveva costruito su… Dov’era, veramente, quella città? Dov’era il cupo cuore di Mòrask, dove erano i pericoli, la ferocia, il terrorismo? Passeggiandoci in mezzo, la sola cosa che Adrian aveva avvertito era un senso di struggente, lenta perdita. Malinconia e solitudine. Assenza. Ma era la città a emanarle, o era Noam?

“È sempre così desolata Mòrask, di notte?”

“Sempre. Per questo ti ho detto che era importante uscire anche se eravamo stanchi. Di notte, Mòrask è il regno del silenzio. Quando vivevo qui, passeggiare a quest’ora mi piaceva tantissimo, perché di giorno Mòrask non è affatto una città di silenzi!”

“Beh, nemmeno lei è un uomo di silenzi!” gli sfuggì.

Noam si mise a ridere di gusto.

“Hai ragione, però mi piacciono le atmosfere in cui si può parlare sottovoce.”

Piacevano anche a lui. E gli piaceva che Noam riuscisse persino a ridere sottovoce.

“E comunque, mentre la Mòrask-visibile-agli-occhi col buio si svuota, si riempie l’altra Mòrask: la Mòrask rovesciata dove ho imparato ad addomesticare il rumore. Vuoi vederla?”

No, Noam: guardati, accidenti, sei sfinito. E domani ti aspetta una giornata più impegnativa di questa. Dovresti andare a dormire. Dovresti fermarti un po’, lasciar calmare il vento, riposare.

“Va bene. Dove mi porta?”

 

***

 

Il vicolo era veramente stretto, veramente squallido, veramente opprimente: la location ideale per un film dell’orrore o per immaginare chissà quali sordide vicende. Al primo piano c’erano moltissime finestre, ma a livello della strada ben poche porte. Noam ne spinse una, e quella si aprì al suo tocco, immettendo su una scala che scendeva nel seminterrato, per fortuna caldamente illuminata.

Precedette Adrian con la sicurezza di chi si trova a casa e lo guidò fino ad un’altra porta, dalla quale provenivano voci e musica.

“Questo è il K-32,” disse, con lo stesso tono con cui aveva presentato al suo interlocutore piazze e monumenti “uno dei posti che frequentavo ai tempi dell’università. Quando le strade si spopolano, si riempiono Le Tane.”

“Eh?”

Non era sicuro di aver capito bene.

“Le Tane” ripeté Noam, mentre un’ondata di calore e di odori non ben distinguibili li travolgeva “Ossia, i locali non ufficialmente tali. Quelli che molti anni fa erano club privati o addirittura abitazioni scelte come luoghi di ritrovo, ma che poi hanno allargato il giro e tutti conoscono. Nessuno di questi posti ha mai ottenuto una licenza per vendere alcolici, per ballare o per suonare, ma nessuno si preoccuperà mai di chiederla, o scoppierà la rivoluzione. Altro che separatismo!”

Oltre la spalla di Noam, Adrian si affacciò su uno stanzone che poteva essere stato una cantina o una taverna, col soffitto basso e concavo e le pietre a vista, tavolini sparsi gremiti di bicchieri attorno a cui grappoli di persone chiacchieravano fitte fitte, strumenti musicali abbandonati qua e là, e, in corrispondenza di una specie di grosso arco, una serie di mensole che esponevano una vasta collezione di bottiglie e un lungo tavolo di legno che faceva da bancone.

“Le tane vengono anche chiamate la Mòrask sotterranea perché quasi tutte sono costruite in spazi come questo. Ma ve ne sono alcune anche ai piani superiori: una delle più popolari sta al terzo piano di un edificio che è occupato da vent’anni, e che ha una vista bellissima sui tetti. Ma il K-32 resta il mio posto preferito.”

Si diresse verso colui che fungeva da barman, chiese una bottiglia, strizzò l’occhio ad Adrian: “Non hai assaggiato l’Artemisia, e stasera non devi guidare”.

Il tizio al banco sembrava un bambino: Adrian si chiese se avesse l’età per berli, gli alcolici, prima che per venderli, ma mentre il ragazzo gli allungava bottiglia, cavatappi e due calici (un sistema decisamente self service!) un altro individuo – forse il padre, a giudicare dalla somiglianza – gli si affiancò dietro il bancone improvvisato e studiò Noam con curiosità.

“Ehi, ma ci conosciamo, io e te?”

“Temo di no. Non sono di qui.”

L’uomo parve non voler approfondire la questione, tuttavia scrollò la mano in un gesto di sufficienza e sfoderò un largo sorriso a cui mancava un dente.

“Sì, come no.” fece, alludendo alla bottiglia “Nessun forestiero ordinerebbe quello! E poi, chi li vede mai i forestieri, qua sotto?”

Noam si limitò a ricambiare il sorriso, pagò il conto e cercò un tavolo libero: ce ne era uno piccolo in un angolo dove l’acustica si faceva migliore e il cicaleccio scomposto di un branco di ragazzetti ubriachi al centro della sala era abbastanza distante.

“Perché ha scelto di mentirgli?” domandò Adrian.

Noam stappò la bottiglia e riempì i calici di entrambi.

“Perché non sono venuto a bere con vecchie conoscenze, sono venuto a bere con te.”

Altra bugia.

“Vino di casa: spensieratezza in forma liquida.” sollevò il bicchiere in alto e ci guardò attraverso, ma non con l’aria di chi sta esaminando il colore del vino, quanto con quella di un bambino assorto nelle proprie fantasie “È una delle cose che a Noravàl mi mancano di più. Alla salute!”

Che quella roba facesse del bene alla loro salute era discutibile: 15 gradi nascosti a meraviglia, che dopo il primo bicchiere si facevano già sentire. Per quanto avesse accettato di fare il turista, Adrian non aveva alcuna intenzione di abbassare la guardia, tanto meno per il piacere di alzare il gomito, così lasciò il suo secondo calice a metà.

Noam no, ma questo già lo sapeva.

Sul suo terzo o quarto bicchiere un ometto prese da terra una fisarmonica ed attaccò a suonare una melodia così struggente che qualcuno dei giovani festaioli lanciò un improperio al suo indirizzo; tuttavia, quella roba smaccatamente languida si intonava bene all’atmosfera di quel posto: un’atmosfera da ritrovo abituale di anarchici spiantati, dove aveva perfettamente senso che chiunque, senza chiedere il permesso di nessuno, potesse prendere uno strumento e mettersi a suonare quel che gli pareva, senza la pretesa o il desiderio di ricevere applausi.

“Senti, Adrian…” Noam riempì il bicchiere di nuovo, ma anziché bere cominciò a far scorrere il dito sul bordo, producendo uno strano suono “Perché non sei venuto con me, oggi?”

Domanda troppo assurda e risposta troppo ovvia: Adrian guardò la bottiglia mezza vuota e si convinse che il suo accompagnatore dovesse proprio smettere.

“Perché non è il mio lavoro.”

“Ma se la prossima volta che devo incontrare il professor Màrna, o qualcun altro, ti chiedessi di accompagnarmi, lo faresti?”

“Me ne dovrebbe spiegare bene la ragione.”

Noam appoggiò le braccia sul tavolo, reclinandoci la testa in mezzo e Adrian si chiese se la sua risposta non fosse stata un po’ troppo brusca.

“Che dice: me la spiega?” chiese, con più dolcezza.

“Tu sei più bravo di me a ascoltare le persone.” mormorò Noam, quasi in cantilena “Tu riesci a ascoltare i loro pensieri. Tu mi aiuteresti a capire le intenzioni di chi ho di fronte.”

Adrian sapeva da tempo di avere a che fare con un uomo molto più insicuro di come voleva apparire, ma l’esibizione nuda e cruda della vulnerabilità lo turbava sempre.

“Ehi, ehi,” provò ad alleggerire “dov’è andato a finire l’uomo che si fida di tutti?”

L’altro sollevò appena la testa dalla posizione in cui l’aveva appoggiata, ma abbastanza per guardalo in viso.

“Di te mi fido di più.” (serissimo)

L’uomo con la fisarmonica aveva smesso di suonare e adesso la banda di compagnoni stava intonando un coro accompagnato alla chitarra. I più grandi tra loro non dovevano avere vent’anni: allegri, caotici, felicemente stupidi come solo a quell’età si può essere. Erano belli nel loro colorato disordine.

“Credo che si sia fatto davvero tardi…”

Noam sollevò il bicchiere e fece per portarlo alle labbra.

“La bottiglia dice di no.”

Adrian intercettò la sua mano a mezz’aria.

“E la persona di cui lei si fida dice di sì.”

 

***

 

La strada per tornare all’hotel, percorsa a notte fonda, senza tappe turistiche e con un compagno di passeggiata molto più ubriaco di quanto non volesse dare a vedere, fu più lunga di quel che Adrian avesse sperato, anche scegliendo il percorso più breve. C’era però una luna pallida in cielo, che ore prima non era visibile e che invadeva la strade di un chiarore soffuso. Noam ogni tanto si divertiva a camminare in equilibrio sulla cornice del marciapiede, per dimostrare di essere perfettamente lucido, ma il modo in cui stendeva le braccia di lato preoccupandosi di rimanere stabile non facevano che rimarcare il contrario. Era freddo, un freddo secco e frizzante, che non dava fastidio: o forse era solo il calore della Tana che gli era rimasto nelle ossa a fargli sembrare quel clima stranamente piacevole.

Adrian non era mai stato una persona di compagnia: locali, bevute tra amici, serate “brave” non avevano fatto parte della sua storia di adolescente misantropo e non avevano trovato un posto nemmeno nella sua attuale routine di uomo saldo e rispettabile, capace di destreggiarsi in occasioni sociali e di ricoprire qualsiasi ruolo gli venisse richiesto. In realtà, ad Adrian le forme di aggregazione della maggior parte degli esseri umani erano scarsamente tollerabili e per fortuna non gli erano capitate molte situazioni in cui ci si fosse trovato incastrato, salvo le odiate circostanze formali, come le feste di laurea o i matrimoni degli amici, da cui aveva iniziato a defilarsi col passare degli anni. Amici, poi. Quali amici? Le poche persone che aveva chiamato così erano sparite dalla sua vita nel momento in cui aveva scelto la strada che lo aveva portato ad essere ciò che era. Scelta stupefacente proprio per loro: il pacifico, insicuro, timoroso Adrian che si iscrive all’accademia di polizia, che decide di imparare ad usare un’arma, di mischiarsi ad una tipologia di persone a cui mai, mai nessuno lo avrebbe avvicinato, e farlo di punto in bianco, inaspettatamente, senza dare spiegazioni. A diciannove anni se ne era andato da casa, e poi, lentamente, con metodica cura, aveva tagliato i pochi ponti che aveva alle spalle uno ad uno. Capiva così bene Noam. Capiva la difficoltà di tornare in un luogo dove forse restava ancora la traccia di una vecchia immagine di sé e dovercisi confrontare: che poi l’immagine fosse amata o odiata non faceva differenza, era ugualmente dolore. Però, lui nella sua città natale non aveva più nessuno: Noam invece aveva ancora una famiglia, degli amici. E forse un fratello di nome Thièl, che non voleva incontrare.

Più volte, durante quel tragitto, Adrian provò il desiderio di fargli delle domande, di rompere una volta per tutte quello strano equilibrio per cui si trovava a essere trattato da lui come la persona più vicina che avesse, ma a ricevere sempre le informazioni importanti in ritardo e quasi per casualità.

Di te mi fido di più”, gli aveva detto, ma la fiducia di Noam, la sua fiducia verso tutti, non aveva nulla a che fare con il permettere agli altri di affacciarsi sulla sua vita, quella “sotterranea e rovesciata”, come le tane di Mòrask. Noam dava per scontata la bontà del genere umano, erano tutti ben intenzionati fino a prova contraria, ma nella sua “tana” non si poteva entrare. La prima volta che si erano incontrati, gli aveva detto che la fiducia comportava una responsabilità, ma lui per primo non permetteva agli altri di prendersi delle responsabilità nei suoi confronti. Non sapeva chiedere aiuto. Non sapeva coltivare rapporti esclusivi. Insomma: gli somigliava.

Sbucarono in piazza Xolk dall’angolo opposto a quello su cui si affacciava l’hotel, e Noam lo precedette tagliandola in diagonale: non si sorprese né si allarmò per la presenza di tre individui che sembravano avere tutta l’aria di aspettare qualcuno.

Adrian sì, ma non fu abbastanza veloce da impedire il lancio di una pietra che Noam scansò per pura fortuna, o per scarsa precisione del lanciatore.

La parole, però, non riuscì a scansarle.

“Tornatene da dove sei venuto, traditore del cazzo!”

Adrian non vide la reazione di Noam: il suo corpo si mosse da solo, seguendo una procedura consolidata. Prima che l’aggressore potesse dire o fare altro, lo afferrò sbattendolo faccia a terra, e con la mano libera estrasse la pistola, che puntò in direzione degli altri due.

Nell’attimo di paralisi generale che seguì quel gesto, ebbe modo di rendersi conto, alla luce degli sparuti lampioni rosati, di avere di fronte due ragazzi che potavano avere forse venticinque anni… quello che aveva immobilizzato, qualcuno di più, ma pure lui doveva essere al massimo un coetaneo di Noam.

“Chi siete.” fece, ma senza alcun punto di domanda e senza alcuna intonazione della voce.

“Fattelo spiegare da lui…!” biascicò il tizio disteso, poi si sforzò di liberarsi, e, quando si rese conto di non esserne in grado, riprese “Per Dio, Noam! Sei diventano proprio un gambemolli di merda! Hai pure bisogno del cane da guardia!” e poi proseguì nella propria lingua, sottolineando in questo modo di aver pronunciato la prima frase apposta perché anche Adrian capisse.

Quest’ultimo gli premette la faccia a terra costringendolo a chiudere la bocca a meno che non volesse mangiarsi la polvere del selciato.

“Ti ho fatto una domanda.”

“Andiamo, volevamo solo parlare, amico…” intervenne uno degli altri due, con un’insicurezza nella voce che lo rendeva tutt’altro che autorevole.

“A me invece è sembrato che foste venuti a cercare una rissa, amico.”

L’altro fece un passo indietro alla ricerca di una via di fuga, ma Adrian lo prevenne.

“Non muoverti di lì. Dovete qualche spiegazione alla polizia.”

Già. La polizia. Perché diavolo Noam non aveva ancora preso il telefono e chiamato qualcuno? Gli sembrava normale essere assalito per la strada? Si aspettava lo facesse lui, con una mano impegnata a bloccare un energumeno e l’altra a tenere sotto tiro i suoi compari? Avrebbe voluto voltarsi, vedere cosa stava facendo, che espressione aveva… ma non poteva allentare la concentrazione.

“Vaffanculo, pure con gli sbirri vai a braccetto adesso!”

Aveva di nuovo parlato in lingua Vàrnava per mettere in difficoltà il suo interlocutore: che stronzo.

“Stai zitto.”

Adrian gli afferrò il braccio e glielo torse dietro la schiena: l’uomo urlò di dolore.

“Adrian!”

La voce di Noam.

Ma non sembrava la solita voce di Noam.

O forse sembrava la stessa di quella notte, quando aveva imprecato conto la pioggia “Dio, perché non può essere tutto così semplice.”

Ecco un’altra cosa che faceva sottovoce: gridare.

“Adrian, ti prego. Non… Non c’è nessun problema.”

Non c’era nessun problema? E quali erano i problemi, se non quelli? Di quali fottutissimi problemi avrebbe dovuto occuparsi lui, se non di quelli? Per che cosa era stato assunto? Per che cosa era lì?

“Li conosco. Siamo…ehm…eravamo… amici. Puoi lasciarlo andare, per favore?”

Era lì per proteggere la sua vita: lo pagavano per questo, e invece era diventato l’uomo che proteggeva quello che Noam voleva proteggere, e senza che lui gli dicesse di che si trattava. Che frustrazione! Allentò la presa, lasciò che il suo “prigioniero” si alzasse in piedi, ma non abbassò la pistola.

“Lei rimanga lì dov’è.” disse a Noam, con una durezza forzata.

Lui non si mosse, in compenso l’uomo appena rimesso in libertà si affiancò ai suoi compagni quasi a serrare le fila: sul volto gli erano rimasti il brutto segno di una sfregatura contro il terreno e una punta di arroganza poco convinta.

“Ciao Marùsz.” (le parole di Noam da dietro le spalle) “C’è qualcos’altro che mi volevi dire, o ti sei sfogato abbastanza?”

Nello sguardo dell’uomo passò un ombra che parve di tristezza, o forse di delusione. Gli altri due, invece, erano visibilmente spiazzati e intimoriti dal contesto.

“Cosa vuoi che ti dica con questo qua che minaccia di spararmi?”

“Non ti sta minacciando, sta facendo il suo lavoro.” (e meno male che almeno questo glielo riconosceva!) “Mentre io sto cercando di fare il mio. Perciò, se hai qualcosa di politicamente dibattibile da dirmi, sono a disposizione…”

“Non c’è nulla da dibattere. Noi combattiamo, non dibattiamo. Men che meno coi leccaculo del governo!”

Adrian sentì Noam dare in una vaga risata, una delle sue, piena di respiro, ma c’era anche tanta amarezza dentro.

“Ehi, vedi che non ti senti poi così minacciato? Sono contento. Andatevene, dai…”

Andatevene dai. Come se non avessero provato a spaccargli la fronte con un sasso!

“Signor Dolbruk, non posso permetterle di ignorare l’accaduto.”

Noam fece alcuni passi e si avvicinò fino a poter appoggiare una mano sul braccio di Adrian ancora sospeso a mezz’aria: teso a puntare una pistola contro niente, perché non si poteva sparare sui fantasmi altrui…

“Ti prego. Non rendermi le cose ancora più dure di quanto lo siano già…”

Più dure, meno dure, ma che cazzo diceva?

Erano altre le cose che avrebbe dovuto dire.

Chi erano.

Perché lo avevano aggredito.

Karima aveva ragione. “Il suo cliente è piuttosto pazzo a non condividere certi dettagli…”.

E pazzo era lui, che abbassò l’arma e rimase fermo a guardare quei tre bastardi sparire nella notte.

 

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Capitolo 15
*** "Thièl" ***


Dopo che Marùsz e gli altri due (si ricordava di loro, ma, per quanto si sforzasse, gli sfuggivano i loro nomi) si erano dileguati, Adrian lo aveva trascinato in albergo con urgenza, e con la frase “Lei mi deve delle spiegazioni”. Ma poi, una volta che la porta della hall si era chiusa, non aveva più detto niente: si era invece rivolto al receptionist, gli aveva chiesto qualcosa di caldo da bere e poi si era abbandonato a sedere su una poltrona ad aspettare che la bevanda fosse pronta.

Noam era rimasto in piedi immobile, rendendosi conto di quanto gli girasse la testa: aveva bevuto molto, era esausto e la tensione che si stava sgonfiando stava portando con sé via anche le ultime energie che gli erano rimaste.

“Vada a dormire.” quasi gli ordinò Adrian.

Percepiva le parole come rallentate, e altrettanto rallentate erano le sue azioni. Ci mise un po’ a decidere che invece desiderava restare con lui.

“Non vuoi le spiegazioni…?”

“Se potesse guardarsi allo specchio, saprebbe perché non gliele chiedo adesso.”

Ma anche Adrian avrebbe dovuto guardarsi allo specchio: stanco, la fronte tesa, la postura testa, tese persino le mani quando presero la tazza che gli era stata portata, teso il cenno di ringraziamento rivolto al receptionist. Solo la sua voce rimaneva placida: quella sembrava proprio che non potesse tendersi mai e Noam se ne era lasciato tranquillizzare tante volte.

Ma quella sera no.

“Senti… ehm… sei… sei sempre stato armato, tutto questo tempo?”

Adrian per poco non si strozzò con la tisana.

“Che razza di domanda è?”

Era una domanda importante. E la risposta era importantissima.

“Vada a dormire.” gli intimò di nuovo, con voce ferma.

Noam non disse altro, ma non si mosse.

“Signor Dolbruk,” fece allora Adrian (era tantissimo che non lo chiamava così, e quella sera lo aveva già fatto due volte) “io ho gran rispetto della sua intelligenza, nonostante un attimo fa lei mi abbia dato qualche ragione per dubitarne. Dunque, come pensava che io potessi proteggerla? Facendo la voce grossa?” si prese una pausa, posò la tazza sul tavolino, socchiuse gli occhi, sprofondò nello schienale della poltrona “Ovviamente sono sempre stato armato e ovviamente, se questo la preoccupa, ho il permesso per il porto occulto.”

Quasi che il problema fosse il permesso!

Ma Adrian aveva ragione: come aveva fatto e non pensarci mai? La colpa doveva essere proprio di quella voce salda, dei suoi silenzi privi di pretese, del fatto che gli fosse sempre apparso la persona più rassicurante della terra, il che non andava d’accordo con l’immagine di un uomo capace di sfoderare una pistola.

“Hai mai sparato a qualcuno?”

“Miseria! Le domande dovrei fargliele io, e gliele sto risparmiando solo per premura verso la sua salute.”

Noam si stropicciò il viso con le mani e diede in una risata nervosa.

“Sì. Scusami. Le spiegazioni.” si accertò che il portiere di notte fosse tornato dietro il bancone, intento a fare qualcosa col cellulare, sonnacchioso “Marùsz lo conosco da quando eravamo ragazzi. Non ci siamo più sentiti dopo che ho lasciato Mòrask, ma, come ti ho già raccontato, non ho tenuto nessun contatto negli ultimi sei anni, neppure con la mia famiglia, per ragioni che ti sono grato che tu non mi abbia mai chiesto. Anche gli altri due li conoscevo, ma di vista, amici di amici. Tutta la famiglia di Marùsz ha idee separatiste estreme e perciò qualche divergenza tra noi c’è sempre stata, ma una cosa, un tempo, l’avevamo in comune: la convinzione che il governo è marcio, gli sbirri sono marci, e tutto ciò che è autorità agirà sempre a svantaggio della gente di Mòrask, o, per dirla in modo più adolescenziale, ogni autorità è per sua natura malvagia. Poi ci sono state esperienze che mi hanno portato a mettermi in discussione e a fare una scelta che per le persone che frequentavo allora è inconcepibile, offensiva, vigliacca o peggio. Quando ho accettato di tornare qui, sapevo che avrei dovuto scontrarmi con situazioni del genere: sapevo di tornare nelle vesti di un venduto, un corrotto, un traditore, un leccaculo del governo e altre robe così. Niente che io non possa incassare: lo avevo messo in conto.”

“No.” fece Adrian, lapidario “Lei non aveva messo in conto un bel niente, o, se lo aveva fatto, non aveva condiviso le sue valutazioni con me. Prima che partissimo, mi ha detto che era sicuro che le minacce che aveva ricevuto non provenivano da Mòrask, mi ha chiesto di fidarmi di lei, mi ha chiesto di farlo a scatola chiusa. L’ho fatto. Le sue intuizioni si sono rivelate sbagliate. Deve solo ringraziare che io fossi armato: eravamo in due contro tre e lei non era in grado di difendersi in nessun modo, dato che si teneva in piedi per grazia ricevuta.”

“Fai le cose più gravi di quanto siano. Ok, forse volevano riempirmi di botte, ma credimi, un occhio nero o il naso rotto erano il peggio che potesse capitarmi. Marùsz non è un assassino!”

Adrian sollevò la schiena dalla poltrona e lo fissò con uno sguardo incerto tra lo sgomento e la rabbia.

“Pensa veramente che una sassata in testa non possa ammazzare nessuno?”

Lui sfuggì quello sguardo e sorrise con dolcezza.

“Nah, non era un lancio né abbastanza forte né abbastanza preciso. E a Mòrask le sassate nei litigi si danno via come i confetti ai matrimoni. Sai che fanno i bimbi di qui quando nevica? Giocano a pallate di neve, ma riempiendo la palla con un sasso, oppure con le zolle di terra ghiacciata. Nessuno c’è mai morto… anche se una volta un mio compagno di classe è finito in ospedale… ”

Adrian colse il suo tentativo di sdrammatizzare e la sua fronte si fece appena più distesa.

“E poi si lamenta per i pregiudizi!” esclamò “Uno che sente una storia del genere e non è nato a Mòrask che deve pensare? Che i darbrandesi apprezzino che i propri figli giochino a chi si spacca la testa per primo?”

Noam rise.

“Lo so, lo so! Hai ragione. Tutti gli stereotipi nascono da qualcosa di reale. Solo che i pregiudizi poi si allargano a tutti, ti si appicciano addosso e parlano di te: di un te che non sei, capisci?” gettò lo sguardo fuori dalle vetrate della hall, scosse la testa, la sua voce si fece vaga, sognante “Non ho mai tirato una palla di neve, né col sasso né senza. Non ne ero, letteralmente, capace: un fallimento totale per un darbrandese figlio di darbrandesi. Odiavo anche fare a botte, benché in qualche rissa ci sia finito. Sai quella storia di voler piacere per forza alla gente, no? Era come se i miei coetanei e persino mio padre si aspettassero da me che ogni tanto menassi le mani, e che il fatto che io lo evitassi gli facesse – lo so, pare assurdo a dirlo così – dispiacere. Così a volte mi buttavo nella mischia anche io e ogni volta ne prendevo molte di più di quante ne dessi. E tuttavia, alla fine, a farmi male non erano i lividi delle botte prese, ma il ricordo delle poche date. Sono cresciuto a Mòrask e, a dispetto di ogni stereotipo, la violenza mi ha sempre fatto paura: più che paura di esserne vittima, paura di trovarmi nella condizione di esercitarla. Per questo il sapere che tu porti un’arma con te mi ha turbato, e per questo ti ho chiesto se hai mai sparato a qualcuno. Ma hai ragione di nuovo: avrei dovuto immaginarlo.”

Adrian fece un lungo respiro e soffiò l’aria fuori, stancamente.

“Lei è davvero…” lasciò la frase sospesa, a galleggiare tra loro. Cambiò discorso. “Sì, ho sparato quattro volte. Solo una volta una persona è rimasta seriamente ferita, ma era una situazione di emergenza. Non ho mai sparato per uccidere e infatti nessuno è mai morto.”

“E… e come sei finito a fare questo mestiere?”

“Questa è una domanda a cui non risponderò. È un problema?”

Noam scosse il capo, quasi scusandosi con gli occhi.

“No.”

“Vada a dormire, ed io sposto il check out di questo albergo.” disse Adrian “Non punti la sveglia, domattina. Il mondo andrà avanti anche senza di lei.”

 

***

 

I giorni che seguirono furono meno intensi ma non per questo più sereni.

Noam visitò la sede di Liberi Insieme, incontrò Màrna diverse volte, insistette per presentarlo ad Adrian (anche se quest’ultimo si rifiutò sempre di essere presente alle loro conversazioni), e accettò di parlare in pubblico per una rete locale, mossa che immaginava gli avrebbe portato più infamia che sostegno, e che, invece, inaspettatamente non fece troppo rumore, anzi, gli valse alcuni messaggi di incoraggiamento che lo fecero sentire bene. Adrian si era preoccupato che un gesto simile, rendendo plateale sua presenza a Mòrask, potesse rivelarsi pericoloso, ma sarebbero ripartiti a breve, quindi le tempistiche minimizzavano i rischi, e, del resto, dopo l’episodio di piazza Xolk, Noam era stato molto attento a non commettere imprudenze, sforzandosi di tenere comportamenti a basso profilo che andavano contro la sua stessa natura.

Per quanto davanti ad Adrian continuasse a minimizzare, si era spaventato, e quella paura si era trasformata in uno sciame impazzito di sospetti e di ripensamenti che gli assediavano i pensieri: e se quello di Marùsz fosse stato un avvertimento? Se il Fronte – ammesso che esistesse ancora un Fronte – avesse deciso di compiere qualche gesto eclatante? Se la strategia di Kàrkoviy avesse esposto ad un pericolo il professor Màrna? Quanta gente lo odiava, a Mòrask? Stava rendendo le persone che aveva intorno oggetto dello stesso odio? Lant, Zjam, Adrian stesso?

Quest’ultimo, poi, da quella sera non aveva allentato la tensione un solo istante: era sempre guardingo e iper-vigile, anche nei momenti in cui sarebbe stato naturale rilassarsi. Noam si chiedeva come facesse: gli sembrava davvero, come gli era capitato di pensare una volta, un uomo che riusciva a vivere senza respirare. Che aveva rinunciato a respirare.

Rientrare a Noravàl sarebbe stato un bene per entrambi.

Al di là di qualsiasi forma di rimorso o di nostalgia, voleva davvero tornare alla città che aveva scelto come propria. Voleva uscire dal recinto di quei monti, voleva l’orizzonte.

Non si aspettava che la cosa che aveva temuto, evitato, (desiderato?) durante ciascuno di quei giorni, gli piombasse addosso senza che avesse fatto niente perché accadesse.

Non si aspettava che a cercarlo sarebbe stato lui.

Era mattino presto, l’indomani sarebbero partiti e nel primo pomeriggio era invitato a casa del professore per salutarsi e fissare le tappe della loro collaborazione futura: ci sarebbe stato anche Zjam in collegamento telefonico.

Il cielo era coperto e Noam si affacciò alla finestra per vedere se stesse piovendo: non pioveva, ma qualcosa era invece piovuto sul davanzale durante la notte.

Capì al primo sguardo di cosa si trattasse e chi lo mandasse. Nessuno, tranne Thièl, sarebbe stato capace di far volare un aeroplano di carta fino ad atterrare perfettamente sulla finestra del secondo piano: l’oggetto e il modo in cui era stato recapitato erano già una firma.

E infatti non c’erano firme dentro il foglio che spiegò sulle ginocchia rabbrividendo: c’era solo una frase “Ti devo parlare”, accompagnata da un disegnetto inequivocabile che gli suggeriva il posto. Anche se non ci sarebbe stato bisogno di suggerirlo. Dove altro avrebbero potuto incontrarsi? I fratelli, i vecchi amici, le persone che hanno in comune solo il passato tendono sempre a ricercare anche i luoghi del passato, come se questo li riportasse indietro a tempi in cui tutto andava bene, quando invece non andava bene proprio niente.

Thièl.

Maledizione, Thièl.

A qualsiasi altro incontro avrebbe potuto sottrarsi, a chiunque altro avrebbe potuto dire no, tranne a lui. Chissà se lo sapeva. Chissà se era consapevole del potere che esercitava o se aveva solo fatto un tentativo. Chissà se immaginava quanto gli mancasse.

Rimase per lunghi minuti seduto sul bordo del letto a fissare quel foglio disteso, con le pieghe precise, ben visibili, che lo avevano trasformato un piccolo velivolo messaggero: riusciva a rivedere le dita di Thièl che piegavano la carta e la trasformavano in cose… rane, barchette, uccelli… Riusciva a vederlo bambino, mentre soffiava sulla punta di un aereo come quello e poi lo lanciava in aria, sempre nella direzione che voleva, seguendo i giochi del vento, più in alto e più lontano di chiunque dei loro amici sapesse fare.

Noam era il maggiore di cinque fratelli e per tutta la vita gli era stato insegnato che l’amore va diviso in parti uguali, che nessuno merita più attenzioni degli altri. Ma con Thièl non gli era mai riuscito: lui era stato il suo affetto speciale. Compagno d’infanzia, di giochi, di giovinezza, infine di politica: tra loro correvano due anni ma erano cresciuti come gemelli, tutti gli altri erano arrivati molto dopo. Non c’era nulla che ricordasse fino a sei anni prima che non avessero pensato insieme, costruito insieme o fallito insieme: non aveva mai nemmeno immaginato una vita senza Thièl.

Ma poi la vita se ne era andata per i fatti suoi e aveva distrutto l’immaginazione, anzi no, una bomba aveva distrutto l’ingresso di una galleria, e quattro uomini, e il suo mondo, e tutto.

Ripiegò il foglio lungo i suoi tracciati: un aereo elegante, perfetto, crudele.

Dove erano volate le ali di Thièl?

Lui gli stava offrendo l’unica occasione di saperlo.

Doveva incontrarlo.

Voleva incontrarlo.

 

***

 

Si separò da Adrian nello stesso modo di sempre: stessi abiti, due direzioni diverse per arrivare nello stesso luogo, e si sentì l’uomo più ingrato della terra nel momento in cui cambiò strada, spense il telefono e si avviò verso il Parco della Ferrovia. Quello era stato il luogo suo e di Thièl, il luogo in cui avevano giocato da bambini, quello dove avevano stappato le prime birre comprate con la complicità di un amico più grande, quello dove avevano parlato di politica e fabbricato castelli in aria a notte fonda, col gelo nelle ossa e un nero petrolio attorno o sotto una arrogante stellata estiva, il luogo dove avevano collocato il primo omino di carta e quello della prima volta che si erano urlati contro… Per Noam aveva una colorazione affettiva complicata, dove la benevola nostalgia dell’infanzia si mescolava a qualcosa di più torbido, che gli metteva urgenza e allo stesso tempo paura nei passi.

Non voleva portarci Adrian.

(Adrian che adesso si stava dirigendo a casa di Màrna, attenendosi ai piani fatti insieme, fidandosi di lui).

Forse invece avrebbe dovuto portarcelo.

Chiamarlo, dirgli la verità, permettergli di accompagnarlo: era lui era quello bravo a capire le intenzioni delle persone.

Ma proprio perché non conosceva le intenzioni di Thièl non poteva chiedere il suo aiuto.

Chi era adesso suo fratello? Dove lo avevano portato il Fronte, l’attentato del Nòdoask, loro padre, la maledizione di Mòrask, la vita coi suoi giri contorti e le sue trappole?

Si rese conto che la sua camminata era diventata quasi una corsa, sentiva uno strano affanno nel respiro, un desiderio di arrivare subito, di fare ciò che era da fare e poi fuggire in fretta, ma quando i suoi occhi si affacciarono sulla familiare distesa d’erba e terra battuta, invasa dalla luce bassa di un pomeriggio offuscato, si sentì inchiodato lì, i piedi pesanti, la testa pesante, pesanti il cielo, le nuvole gonfie e i pensieri. Le due altalene di legno, vecchie e intramontabili, si stagliavano controluce sulla spianata deserta (nessun bambino a giocare, che strano) e su una delle due, seduto di spalle, suo fratello: una schiena come tante, e inconfondibile.

Da quanto era lì? Da quel mattino? Non gli aveva dato un appuntamento, solo un luogo.

Noam si guardò in giro: non c’era anima viva, salvo un paio di vecchietti in distanza, su una panchina, uno col giornale in mano, l’altro che gettava qualcosa agli uccelli da un sacchetto di carta posato sulle ginocchia. La promessa di pioggia doveva aver scoraggiato i frequentatori abituali, che in verità non erano mai stati molti. Il Parco della Ferrovia non era certo il miglior giardino di Mòrask: due sole altalene, uno scivolo che pendeva di lato e che nessuno (nemmeno negli ultimi sei anni) aveva mai sostituito, brutti giri di notte, troppi cani lasciati liberi di giorno. Solo i figli degli abitanti del quartiere lo frequentavano, e nemmeno tutti.

Il silenzio fu rotto dal passaggio del treno. Noam girò appena la testa sulla scarpata ferroviaria e pensò che dall’altro lato dei binari c’era la sua vecchia casa: gli sarebbe bastato salire la passerella pedonale per vederla… la stessa passerella che aveva attraversato senza voltarsi indietro nel suo ultimo giorno a Mòrask.

Percorse i metri che gli restavano con dolorosa lentezza: si sedette sull’altalena vuota, chiuse gli occhi.

Thièl si diede una piccola spinta, Noam sentì i cardini stridere disperatamente, poi i piedi di suo fratello bloccare quel movimento piantandosi a terra, sicuri.

“Sei poi riuscito a fare il giro della morte, Noam? Ne hai trovate, di altalene, a Noravàl?”

La sua voce calda, irriverente e piena di certezze.

Maledizione, Thièl.

Aprì gli occhi per guardarlo: sembrava così cambiato (invecchiato, indurito), eppure tutti i minuscoli dettagli che facevano sì che il suo viso fosse il suo viso erano rimasti identici. Gli stava sorridendo – sul mento e su un lato della bocca quelle piccole fossette che avevano in comune – ma quel sorriso non era né allegro né triste, né di sfida, né di coraggio: era un sorriso che aveva smesso di parlargli sei anni prima, e mentre non riusciva a smettere di fissarlo, Noam continuava a fissare il baratro che si era aperto tra loro.

“Sì, ci sono molte altalene a Noravàl.” disse “Ma a fare il giro della morte non ci ho più provato. Mi sono convinto che non sia una buona idea.”

“A me pare che invece ci provi eccome.”

“Detta così sembra quasi una minaccia.”

Thièl smise di sorridere.

“Non lo è. Ma Mòrask non sono io, e il Fronte non sono io.”

“E cosa sei tu per il Fronte?”

“Ti interessa?”

Sì.

No.

Cosa hai fatto Thièl? Hai ammazzato qualcuno? Sei un terrorista?

Il pensiero gli fece girare la testa: diede una piccola spinta all’altalena, e il dondolio della testa si mise in linea col dondolio del mondo.

“Come sta la mamma?” cambiò discorso.

Thièl rimase un po’ in silenzio, non capiva se per tenerlo sulla corda o cosa.

“I primi anni sono stati difficili, ma adesso sta meglio. Ha trovato un lavoro, frequenta un uomo, uno dei nostri.” non gli piacque il tono con cui sottolineò le ultime parole “Certo, non è stato bello scoprire cosa ne fosse stato di suo figlio da un servizio al telegiornale, dopo quattro anni senza notizie, ma la conosci, se n’è fatta una ragione.”

E tu, invece?

“Dzjorzj? Le ragazze?”

“Oh, loro una ragione non se la sono fatta mai. Del fatto che tu te ne sia andato, intendo. Penso che non ti perdoneranno. Eppure, come avrei dovuto aspettarmi, hanno tutti seguito la tua strada. Insomma, se lo ha fatto Noam, andrà bene, no? Tu li hai abbandonati, ma sei sempre tu quello che va bene. Dzjorzj ha preso il diploma da geometra e lavora a Mìmat, Alma e Trèxia sono scappate ancora più lontano: sono a Kòr a fare l’università e tornano si e no una volta l’anno. Sei un’influenza negativa permanente.”

Rimarcò forte quella frase, ma non riuscì a imprimerci la cattiveria che avrebbero richiesto.

Noam saltò giù dall’altalena atterrando a piedi pari.

“Influenza negativa perché li ho spinti a pensare che i monti Mor-Dàreuk si possono anche superare oppure perché ho deciso che la lotta politica di nostro padre non era politica ma fanasismo?”

Anche Thièl balzò in piedi, fronteggiandolo.

“Non dirlo mai più. Stai ficcando la mano in un vespaio.”

“Sto cercando la strada meno sanguinosa per cambiare il destino di Mòrask.”

Thièl diede in una tragica risata.

“Il destino di Mòrask! Il destino di Mòrask! Ma ti rendi conto delle cazzate che dici? Pensi che ai tuoi amichetti di riviera, con la puzza sotto il naso e il culo pesante, importi qualcosa del destino di Mòrask? Gli interessa solo avere una bella etichetta da attaccare sul pacchetto per dire che ci hanno provato, che sono delle brave persone e meritano di sedersi al posto di quegli altri pezzi di merda che ci stanno già, per poi continuare a trattarci come cittadini di serie B e a trattare il Dàrbrand come il loro discount! Lo sai quanti imprenditori gambemolli hanno costruito le proprie fabbriche qui da quanto te ne sei andato? Lo sai che aprire aziende a Mòrask costa meno perché siamo tutti terroristi e quindi gli investimenti sono pericolosi? I fondi della Repubblica per lo sviluppo della regione vanno nelle tasche di questa gente qua, non della manodopera che impiegano… eppure possono vantarsi di aver portato lavoro, di aver messo in moto l’economia, e sventolare con fierezza la bella etichetta. Non ti accorgi di essere una di quelle belle etichette? Come può l’uomo intelligente che era mio fratello non rendersene conto?!?”

Noam aveva immaginato spesso di dover rispondere a quelle accuse: sapeva anche come farlo, aveva messo in ordine i pensieri migliaia e migliaia di volte, ma davanti a lui non c’erano le accuse, c’erano la rabbia di suo fratello, la delusione di suo fratello, e tutta la sua vecchia vita, i suoi tentativi falliti, suo padre. Il destino di suo padre. E il senso di colpa che si mangiava ogni cosa, anche quei pensieri pensati e ripensati, e le parole con cui avrebbe potuto rispondere: chiare, lucide, sicure. Tutte, tutte divorate in un sol boccone.

“Ti prego.” disse solo “Non gridare. Ti sto ascoltando.”

“Ma porca puttana!” Thièl colpì con un pungo i pali che tenevano in piedi le altalene. Noam sussultò come se il colpo fosse stato rivolto a lui “Dove, dove pensi di poter andare, con tutte queste stronzate infinite? Il parlamentare gentile, quello che cerca il compromesso, che provoca senza ostilità, che sorride sempre e non si arrabbia mai, il soave Dolbruk! Ma andiamo! Ci avevi già provato. Ci avevi provato ed è stata una catastrofe! E ciò che mi fa ancora incazzare è che io ti ho persino sostenuto! Te, ed il tuo maledetto carisma, quello che hai rubato a nostro padre anche se lo neghi, quello con cui hai influenzato i nostri fratelli ed i nostri amici comuni, ed il movimento in cui i nostri genitori avevano investito tutto… per fare cosa? Un cazzo di niente: solo per urlare a modo tuo che non eri d’accordo!”

“Thièl…” La voce di Noam si era ridotta appena ad un sussurro, e quella di suo fratello gli sembrava un fiume in piena, una tempesta che infuria… come quella di Fidòr Dolbruk, come quella sua eterna, insoddisfatta ferocia: il loro conflitto infinito, che non riusciva a finire nemmeno dopo che uno dei due era morto.

“Papà aveva ragione: hai spezzato il Fronte in due con la tua patetica idea che si potessero influenzare le scelte del governo solo esternando il nostro malcontento! Con le tue bravate come le sagome di cartone, gli striscioni, gli scioperi, i flash mob e tutte le tue cazzate da intellettuale hai costretto a uscire allo scoperto un sacco di persone che avrebbero dato il meglio di sé nella lotta clandestina, hai illuso quella gente che un’altra strada fosse possibile quando non c’era nessuna altra strada e tu lo sapevi: volevi solo appagare il tuo desiderio di stare al centro dell’attenzione! Hai manipolato il Fronte per portarlo nella tua direzione, hai fatto apparire nostro padre come un fanatico violento, hai spinto a desistere dalla lotta tanta gente che sarebbe stata pronta a morire per l’indipendenza del Dàrbrand ed hai reso la vita più facile al governo e agli sbirri… e sai cos’è il peggio? Che sei pure convinto di essere stato onesto! Tu manipoli gli altri in continuazione e non ti rendi neanche conto che lo fai: ma quando dirigi le intenzioni di qualcuno, influenzi i suoi ideali, lo porti dalla tua parte, tu per primo devi sapere dove vai e come ci andrai, perché ti stai assumendo la responsabilità anche per loro. Quando smonti un movimento come il nostro dall’interno e di fatto ne assumi la leadership, devi dargli una direzione, devi, devi sapere che cosa vuoi: invece, Noam, tu hai sempre saputo solo quello che non volevi! Non volevi il terrorismo, non volevi che qualcuno si facesse male, non volevi che la lingua e la cultura dar-breuk sparissero, non volevi che gli industriali della capitale prosciugassero le risorse del Dàrbrand senza che a noi ne venisse niente, non volevi le restrizioni al nostro diritto di manifestare, ma non volevi nemmeno l’indipendenza, non volevi svantaggiare la gente dell’alta valle del Nòrav, non volevi il boicottaggio dei lavori al traforo… e alla fine, che cazzo volevi? Non lo sai nemmeno adesso! Stai solo cercando di impedire che le cose che trovi sbagliate accadano, ma non ti accorgi che sei incastrato in una posizione in cui, per evitare che queste accadano, permetterai di rimandare all’infinito la possibilità che ne accadano altre. Dialogando con loro, li aiuti a procrastinare per sempre. Collaborando, gli dai un alibi. Partecipando, li legittimi. Così alla fine quelli di Liberi Insieme potranno salire al governo e dire abbiamo persino candidato un darbrandese, noi siamo quelli buoni… e mettere a tacere ancora per un po’ la nostra gente. Rimandare, rimandare e rimandare. Ed io tuttora non so sei un venduto, un illuso, o solo un imbecille!”

Un altro treno sfrecciò lungo i binari: attraversando la stazione lanciò in aria il suo fischio lamentoso. Rumore su rumore.

“Non è vero che non so cosa voglio, Thièl.” lo guardò negli occhi e lo fissò con tutta la sicurezza che gli rimaneva “Io voglio trattare con voi.”

“Dio, ma che cazzo dici!!!”

Quanto era diventato bravo a gridare. Gridava con la voce, con gli occhi, con il corpo. Dentro e fuori di lui ogni cosa gridava.

“Che cazzo dici, Noam! Tu vuoi solo farti ammazzare! Sai cosa pensa di te la gente del Fronte? Sai cosa pensano i membri di decine di altri movimenti di cui non sai nemmeno l’esistenza? Che sei un corrotto che ha sfruttato le informazioni che possedeva sui separatisti per fare carriera, che se non prendiamo provvedimenti ci venderai tutti quanti, che sei una minaccia per noi!”

“E tu che pensi?”

Thièl esitò, colto sul vivo, e la voce di Noam si inserì in quell’incertezza.

“Se avessi voluto vendere qualcuno, lo avrei fatto prima, quando poteva ancora servire a qualcosa. E ancora mi pento, e non posso smettere di pentirmi, per non averlo fatto. Ma sono venuto qui da solo, ingannando la persona che ha l’incarico di proteggermi. Tu cosa pensi, Thièl? Lo voglio sapere.”

“Penso che tu non abbia nemmeno una chance e che se mai ne avessi qualcuna sarebbe solo più pericoloso per te.”

“No. Ti sto chiedendo cosa pensi di me. Non mi merito più nemmeno una briciola della fiducia che mi hai dato dieci anni fa?”

Lo sguardo di Thièl si fece di ghiaccio.

“Per meritarla avresti dovuto difendere la tua posizione, sfruttare la leadership che avevi e portare avanti la tua linea nonostante ciò che era successo. Anche contro di me. Invece sei scappato e ci hai mollati tutti qui, quando avresti dovuto essere l’adulto!”

Forse fu quella parola a far precipitare tutto, o forse il peso delle cose tenute dentro per sei anni si fece semplicemente insostenibile, ma per la prima volta Noam si accorse di sentirsi rimbalzare nelle orecchie la propria stessa voce: si sentì gridare.

“NO, non è così! Io NON dovevo essere l’adulto!!! Nostro padre era l’adulto. Lui doveva, ma non essendone capace, allora ci ho provato io. Ci ho provato a impedirgli di fare una cosa sbagliata ed orrenda: SBAGLIATA ED ORRENDA, mi senti, Thièl? Ci ho provato nel solo modo che mi è venuto in mente e non ci sono riuscito! Pensi che avrei potuto sopportare un fallimento del genere?!? Limitarmi a prenderne atto e rimanere a vivere a Mòrask, a fare politica a Mòrask, a difendere le mie posizioni contro quelle di un maledetto martire della causa? Continuare a guardarvi in faccia, incontrarvi per strada, sapendo ciò che sapevo? Non sono fuggito per paura del vostro odio: il vostro odio è un dolore che posso sopportare! Sono fuggito per paura di quello che non sono riuscito a fare, paura di quello che mi è sfuggito di mano, della valanga che nelle mie mani doveva essere solo un granello…e per il terrore, il terrore di non poter controllare le conseguenze della mia dannata capacità di trascinare gli altri, di manipolarli, dici tu. Pensi che io sia un traditore del mio paese perché mi sono alleato con Liberi Insieme? Pensi che io voglia vendere qualcuno per ottenere potere personale? Pensi che io sia solo un imbecille? Pensa pure. Io sono sicuro che una soluzione esista, se siamo disposti a guardare le cose anche dall’altro lato delle montagne. Interessi, giochi di potere, giri di denaro, procrastinazioni, certo che ci sono: ma se lo scopo è distruggere tutto prima di ricostruirci sopra non si va da nessuna parte. Pensi che io sia un corrotto per questo? Pensa pure. E per chiamare una buona volta le cose col loro nome, Thièl: volete farmi saltare in aria per questo? Fate pure! Non ne ho paura. Te lo ripeto: il vostro odio non mi fa paura!”

Sull’ultima sillaba, il pugno di Thièl lo colpì in pieno viso: Noam rovinò a terra, i suoi occhiali volarono lontano, nella polvere dello sterrato. In un attimo suo fratello gli fu addosso, ma Noam si tirò velocemente in piedi e gli rese il colpo.

“Bravo.” incassò lui con un sorriso di sfida “Ma questo è il tipo di gioco in cui ho sempre vinto io.”

Non voleva battersi con Thièl. Non lo aveva mai voluto nemmeno da bambini. Non voleva sentirlo gridare, non voleva sentirsi gridare. Non voleva sapere la verità, non voleva, non voleva. Ad ogni pugno che riceveva pregava forte dentro di sé che lui stesse zitto, che lo lasciasse all’oscuro, che finisse di picchiarlo e se ne andasse. Ad ogni pugno che restituiva desiderava abbracciarlo, e supplicarlo di restare al suo fianco, di sostenerlo come prima che tutto crollasse.

Poi sentì chiamare forte il suo nome e nello stesso istante un colpo di Thièl alla bocca dello stomaco lo fece piegare a terra.

Quando si tirò su con la vista appannata e il sapore del sangue nella bocca, suo fratello non c’era più: c’era Adrian.

 

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Capitolo 16
*** "Tu" ***


Adrian non si toglieva dalla testa la strana sensazione di turbamento che gli aveva trasmesso Noam fin dal mattino: eppure, la settimana era trascorsa senza ombre e fino alla sera prima stavano scherzando davanti a un bicchiere di vino. Non erano più tornati sulla conversazione avuta la notte dell’aggressione ed anzi nei giorni seguenti Noam era stato particolarmente attento e accondiscendente, al punto da fargli credere che tutto sommato si fosse spaventato anche lui e che questo avrebbe reso, da allora in poi, il suo lavoro più facile.

Ma quel giorno, pur ben nascosta dietro una maschera da Noam-personaggio-pubblico particolarmente esuberante, una strisciante inquietudine si affacciava tra un sorriso e l’altro, tra un discorso-fiume e l’altro, nei piccoli momenti di silenzio e nel suo sguardo quando credeva di non essere guardato.

Adrian aveva cercato di formulare le sue ipotesi: il dispiacere di lasciare una seconda volta Mòrask, il timore di mettere il professor Màrna in una posizione di rischio una volta che fosse stata resa nota la sua candidatura, magari un po’ di ansia anticipatoria per il collegamento telefonico con Karkoviy, che Noam stimava come uomo ma che trovava poco lungimirante come politico.

Tutte ragioni ugualmente credibili, tutte ugualmente banali: banali per uno come Noam, banali per intaccare la sua fiduciosa leggerezza, banali, persino, per non essere dette a viso aperto.

Dunque, che cosa si agitava in quella testa? Forse solo l’umore di un sogno, o uno dei pensieri cupi che lo assalivano di tanto in tanto, come durante il loro viaggio in macchina, e che forse sarebbero sgusciati fuori in qualche bizzarra manifestazione emotiva o, al contrario, si sarebbero stemperati da soli, tornando a dormire in profondità.

Niente di nuovo o di diverso.

Eppure non riusciva a mettere a tacere il tarlo che lo rodeva: che Noam quel giorno gli stesse attivamente nascondendo qualcosa. Era appena un’impressione, ma lui era sempre stato bravo a svelare le menzogne. O le omissioni, che era più complesso, ma non così difficile con una persona che aveva imparato a conoscere tanto bene.

Così, quando non lo vide arrivare nella tempistica consueta sotto casa di Màrna, fu rapido ad allarmarsi: passarono solo pochi minuti – lo spazio di un intoppo per strada, un’informazione data a uno sconosciuto o una scarpa slacciata – prima che si affrettasse a telefonargli: “Il numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile...”

Fu come se lo avesse già saputo o previsto.

Non pensò che Noam potesse essere arrivato in anticipo e fosse già salito dal professore, non pensò che qualcuno lo avesse riconosciuto e lo avesse fermato per parlargli, non pensò neppure – la peggiore delle ipotesi – che fosse stato di nuovo aggredito.

No, Noam sapeva di voler fare qualcosa che lui non avrebbe approvato, così lo aveva fatto senza dirglielo, ancora una volta, razza di idiota!

Innanzi tutto doveva capire dove si fosse diretto: per fortuna, prima di partire per Mòrask era riuscito almeno a convincerlo a dargli l’accesso al suo telefono per rintracciarne la posizione; questo gli permise di risalire al luogo in cui il cellulare era stato spento: non troppo lontano da dove si erano separati.

Data l’avversità del suo cliente a microfoni o localizzatori, lì terminava l’aiuto che la tecnologia poteva fornirgli, ma il centro di Mòrask non era immenso.

Raggiunse di corsa il punto in cui era cessato il segnale: una via commerciale, trasandata ma animata, poco lontana dall’ultimo hotel in cui avevano alloggiato. Noam aveva proceduto dritto per poi svoltare da qualche parte o era tornato indietro? In che tipo di posto poteva essere andato e perché? Pensò ad alcuni dei luoghi che gli aveva mostrato, pensò alle Tane, pensò che forse aveva deciso di incontrare la sua famiglia e voleva farlo da solo. Ma pensò anche ai tre balordi di qualche notte prima, a quel Marùzs di cui diceva d’essere stato amico: quanta altra gente del genere Noam conosceva lì? Di quanta non doveva fidarsi e invece – imprudente com’era – si fidava?

“Mi scusi,” chiese ad un tizio con un carrello di caldarroste allestito sul marciapiede “per caso ha visto passare un uomo vestito come me?”

Gli occhi della gente erano il migliore strumento di ricerca che possedeva e Noam – per grazia o per sventura – non era il tipo di persona che passava inosservata.

Ripeté la domanda molte volte, ad ogni individuo che gli paresse avere una buona visuale sulla strada o lo sguardo più attento di altri, finché un uomo accoccolato per terra con il berretto buttato tra le gambe richiamò la sua attenzione.

“L’ho visto io, uno vestito come te” biascicò in una lingua varnava stentata “ma aveva i capelli rossi.”

Giocherellò col berretto facendo tintinnare le poche monete che c’erano dentro in un gesto eclatante: Adrian si chinò verso di lui estraendo il portafogli.

“Dimmi in che direzione è andato.”

Il mendicante sfoggiò un sorriso sghembo.

“Se sei generoso ti dico anche dove era diretto.”

Adrian non aveva idea di come potesse saperlo o se stesse solo approfittando della situazione per portare a casa la paga della giornata, ma gli sventolò una banconota sotto il naso.

I piccoli occhi dell’uomo brillarono: “Ha preso quella svolta laggiù, a destra, vedi?” e gli indicò un largo incrocio a meno di un centinaio di metri “La strada va da due parti sole: o al parco ferroviario o alla passerella pedonale per la stazione.”

Adrian lasciò cadere il denaro nel cappello e riprese a correre.

E intanto i pensieri correvano più di lui.

La stazione.

Un padre ferroviere.

L’attentato del Nòdoask.

La paura di attraversare la galleria.

Un fratello di nome Thièl, ideologo del Fronte per l’indipendenza del Dàrbrand.

La sassata, le accuse di tradimento, quella frase: “noi combattiamo, non dibattiamo.”

L’insistenza perché la polizia non venisse chiamata.

Quel dolore muto, il suo dolore segreto.

Tutto raccontava una storia torbida, di cui quello stupido incosciente gli aveva nascosto l’essenziale.

Dove accidenti sei?

In che guaio ti trovi?

Pensieri di corsa, pensieri affannati.

Che diavolo hai fatto di me, Noam?

Non sono stato lucido, ed è colpa tua.

E ancora,

No, è colpa mia.

Se ti accade qualcosa, è colpa mia.

Aveva sbagliato tutto, fin dal principio. Aveva sbagliato ad accettare di lavorare per una persona capace di esercitare su di lui un fascino indiscutibile, aveva sbagliato a farsi intrappolare in una sfida con lui, a mettersi in competizione per dimostrargli di essere un passo avanti, di poterlo, a sua volta, sorprendere. Di poterlo capire. E ci era riuscito: aveva finito per capire troppo, per guardare il suo cielo, per sentire le sue ferite. Per volergli bene.

La strada finì in un incrocio a T, bloccata da un alto muro che la separava dai binari. A destra il percorso saliva lievemente verso una collinetta artificiale ricca di verde, mentre a sinistra una via stretta correva lungo la ferrovia, fino a raggiungere un ponte pedonale di ferro. Da che parte andare? Intorno non c’era nessuno, solo un borbottio di nuvole gonfie.

Passò un treno a grande velocità, fischiando: non si fermò in stazione, sferragliò via.

Nel silenzio innaturale che seguì, gli parve di sentire delle voci: venivano dal parco.

Gli sembrò di sentir gridare.

Non poteva distinguere le parole, ma corse ugualmente in quella direzione.

 

***

 

Avrebbe fatto in tempo a inseguire l’uomo biondo che fuggiva via, avrebbe fatto in tempo a fermarlo: ma tra loro c’era Noam piegato a terra, che cercava di rimettersi in piedi senza riuscirci e perdeva sangue dal naso, con gli abiti sporchi di chi si è ripetutamente rotolato nella polvere, i pantaloni strappati sul ginocchio e la faccia di uno che non può essere lasciato solo.

Adrian lo soccorse, estrasse un fazzoletto, gli tolse via il sangue dal viso.

“Grazie… non è niente…” mormorò lui, intercettando la sua mano con un tiepido sorriso.

“Stia zitto e mi faccia vedere.”

Diede un’occhiata d’insieme alle sue condizioni: oltre al naso sanguinate, aveva una piccola ferita sul labbro inferiore, un ginocchio e i palmi delle mani che portavano i segni di una brutta caduta, ma per il resto non c’era apparentemente nulla di grave.

“Ce la fa ad alzarsi?”

Noam annuì, ma dovette farsi aiutare per tirarsi su.

“Chiamo un taxi. La porto al pronto soccorso.”

Lui scosse la testa e nel farlo emise un flebile lamento, portandosi una mano all’altezza del collo.

“Ohi ohi…” mugolò “che botta…” cercò di muovere le spalle e le braccia, come ad accertarsi che funzionassero ancora “Ma tutto bene, nulla di peggio d’una caduta dalle scale, e molto meglio delle palle di neve col sasso…”

Molto meglio un corno: quello non era un gioco da bambini.

“Piuttosto…” continuò “mi aiuti a trovare i miei occhiali? Ti vedo tutto sfocato… sembri immerso in una grossa nuvola!”

Cosa aveva da sorridere? C’era un abisso dietro quel sorriso. Eppure non la smetteva di tenere in piedi quella farsa, nonostante la ferita sul labbro non lo aiutasse.

Adrian si guardò intorno, adocchiò il riflesso delle lenti volate ai piedi dell’altalena, raccolse gli occhiali e glieli sistemò sul naso con delicatezza.

“Wow. Ora va bene.”

“Non che non va bene. Non va bene un cazzo.”

Noam lo guardò senza cambiare espressione: docile, svuotato.

“Lei avrebbe dovuto essere a casa del professor Màrna. Lei avrebbe dovuto essere al sicuro. Lei avrebbe dovuto…”

L’altro ciondolò malinconicamente il capo, e si nascose il viso nel palmo della mano.

“Va tutto bene, Adrian. Non è successo niente. Va bene così.”

Adrian si sentiva la testa scoppiare.

Il sollievo di averlo trovato sano e salvo, il risentimento per l’ennesima menzogna di Noam, la rabbia verso lo sconosciuto che lo aveva ridotto così, la compassione per quell’angoscia densa che si sarebbe potuto toccare, la vacuità del suo sorriso inutile, quella coperta troppo corta, piena di buchi che erano strappi dell’anima, la profonda frustrazione che provava, il proprio senso di impotenza gli si agitavano dentro tutti insieme e fomentavano un desiderio esasperato di urlare, urlare, urlare...

“Maledizione, Noam! SEI UN CRETINO!!!” esplose.

Lui sbattè le ciglia, rimanendo per un istante come stordito.

Nel silenzio che seguì, ad Adrian sembrò di sentir riecheggiare la sua stessa voce infinite volte.

Poi Noam smise di sorridere e lo guardò con un'espressione indefinibile, ma d’un tratto più calma, quasi rasserenata.

“Puoi ripeterlo?”

Non era una sfida: in quelle parole non c’era nessuna provocazione, al contrario, era una sincera richiesta. Adrian sentì la sua rabbia sgonfiarsi di colpo, afflosciarsi lasciandolo vuoto, e in quel vuoto provò fastidio per la propria stessa reazione, per aver permesso all’emotività di prendere il sopravvento.

“Sei un cretino.” ripeté, senza più nulla dello slancio di poco prima.

Noam mormorò un timido “grazie” e lo abbracciò.

Che gli saltava in testa, adesso?

Dio, odiava non riuscire a capirlo! Odiava non sapere come comportarsi, come rispondergli, odiava non essere capace – come credeva di aver sempre saputo – di entrare nella mente degli altri. Che cosa era successo in sua assenza? Cosa significava quel gesto, e perché stava tremando così? Che cosa – che cosa, dannazione – gli aveva fatto quell’uomo?

“Non sapevo le facesse piacere sentirsi dare del cretino.” cercò di stemperare la tensione, avvertendo di nuovo quel fastidio verso se stesso. Noam gli parlò da sopra la sua spalla, sentiva la sua voce quasi nell’orecchio, sembrava non avere intenzione di sciogliere quell’abbraccio.

“Ma no…” mormorò “mi piace che mi abbia dato del tu.”

Era vero, non se ne era nemmeno accorto.

“E mi piace, sì, che lo abbia fatto per darmi del cretino. Che è la verità ed è giusto incassare, è una cosa che fa bene. È così che funziona un rapporto normale, no? È così che dovrebbero fare gli amici, i parenti, le persone vicine. Esserti, appunto, vicine, anche se pensano che sei un cretino. Amarti lo stesso.” la sua voce era così incerta, così sul punto di tremare anche lei “Ma se ne sono andati tutti, Adrian. Le persone che avrebbero dovuto chiamarmi col mio nome, e amarmi e criticarmi, se ne sono andate tutte. Ci sei soltanto tu.”

Non avrebbe mai più potuto dargli del lei.

“Sei anni a Noravàl, cercando sempre, sempre, di aggiustare le cose rotte, di ricostruire i ponti che mi ero bruciato alle spalle. Sei anni in cui il polline sul belvedere ha continuato a sembrarmi la neve di Mòrask, mentre io volevo distinguerle, e riuscire a amarle entrambe. Essere amato da entrambe. Ma non è servito a niente, non serve mai niente, intorno a me è soltanto vuoto. Sono circondato dalle attenzioni della gente, ma hai ragione tu… al mio fianco non c’è nessuno. Non c’è nessuno che mi possa insultare senza smettere di essere legato a me. Che mi possa dare un pugno senza smettere di volermi bene. Non ho più diritto, io, ad uno schiaffo che mi vuole bene.”

Non avrebbe mai più potuto dargli del lei.

Mai, accidenti a lui.

“Esistono schiaffi che vogliono bene?”

Noam si staccò lentamente da lui e allargò le braccia in un gesto di quieta rassegnazione.

“È quando non li senti più che impari cos’è la solitudine.”

La solitudine.

L’uomo più luminoso del mondo che parlava di solitudine.

Che brutta accoppiata. Che ossimoro stonato.

Noam non era fatto per la solitudine: non ne meritava una briciola.

Lui meritava la solitudine: non Noam.

“Ti sei appena guadagnato la seconda persona singolare.” disse “Quindi, almeno da questo momento in poi, vorrei che non considerassi la solitudine un tuo problema.”

Noam diede in una risata leggera, ma i suoi occhi non ridevano affatto.

“E tu ti sei appena guadagnato un armadio pieno di scheletri. Vuoi guardarci dentro, Adrian? Giuro che ti racconterò ogni cosa. Ogni. Maledetta. Cosa.”

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Capitolo 17
*** "Verità" ***


Raccontare ogni maledetta cosa.

Le due altalene ciondolavano piano, mosse dal loro peso.

Si era seduto lì stancamente ed Adrian aveva fatto lo stesso, ma sistemandosi dal lato opposto, in modo da poterlo guardare in faccia.

Raccontare.

Ogni.

Maledetta.

Cosa.

Non sapeva se sarebbe stato solo straziante o se in fondo gli avrebbe fatto bene, ma per la prima volta sentiva un feroce bisogno di dire la verità, e voleva dirla a lui.

Cominciare sarebbe stato l’ostacolo più duro, perciò partì dalla fine: dalla cosa più difficile, da quel dolore atroce che non avrebbe mai addomesticato.

“Mio padre, Fidòr Dolbruk, è morto nell’esplosione della galleria sotto il monte Nòdoask. Ma non è stato una vittima, lui era l’attentatore. Una volta ti dissi che chi è nato a Mòrask non può non essere coinvolto nel secessionismo…ma la storia della mia famiglia va oltre il semplice coinvolgimento: io sono cresciuto immerso nella retorica separatista, la politica è stata il perno della mia vita, passivamente prima e attivamente poi. Fin da piccolo ho vissuto a contatto con i più accesi dissidenti darbrandesi, che a volte si incontravano a casa nostra, nel nostro seminterrato, per cospirare di cose che, nonostante fossi appena un bambino, iniziavo già a capire. Scivolavano in casa mia di notte con il silenzio dei fantasmi, attratti dal carisma di mio padre come insetti dalla luce, e prima dell’alba sparivano. È stato così che ho imparato che per essere al sicuro bisogna essere capaci di non fare rumore, di camminare senza peso, di diventare invisibili… Eppure, già allora, io desideravo, invece, che qualcuno mi vedesse. Che mio padre e mia madre mi vedessero. Ma non poteva succedere, perché per mio padre la politica era la vita intera, annebbiava tutto il resto, e per mia madre invece la vita era lui, lui con la sua luce abbagliante e la sua passione che spazzavano via ogni cosa. Le piccole quotidianità, la scuola, gli abiti puliti, le mie amicizie, i successi e gli insuccessi, erano dettagli poco importanti di cui mi occupavo io: li gestivo per me e per Thièl, mio fratello minore, l’uomo che hai visto poco fa. In seguito, ho avuto questo ruolo anche per gli altri tre, che sono nati quando ero già un adolescente e quando ormai avevo ben chiari sia gli ideali di mio padre sia i miei. Credo sia stato proprio grazie agli occhi dei miei fratelli che mi sono reso conto di quanto in famiglia il vero carisma non fosse quello di mio padre, ma il mio. Ed io me ne sono servito per definire me stesso in opposizione a tutto quello che di lui detestavo: dove lui gridava, io abbassavo la voce, dove lui alzava le mani, io sorridevo, dove lui incitava, io argomentavo, dove lui divideva io conciliavo, e se il personaggio del soave Dolbruk è stato mai una costruzione, quella costruzione non è nata con Orizzonte, è nata lì. A quindici anni ho cominciato a partecipare alle riunioni clandestine di FDL, il Fronte per il Dar-breuk Libero, il più attivo e numeroso tra i tanti gruppi più o meno secessionisti che pullulano nel mio paese. Mio padre era uno dei capi della cellula di Mòrask, e la posizione sua e dei suoi compagni è sempre stata piuttosto radicale: il governo centrale era a tutto tondo un nemico, e la resistenza ad ogni costo era l’unica strada percorribile. Ho contribuito a numerose azioni di sabotaggio, alcune delle quali forse ricordi anche tu perché hanno avuto un qualche impatto mediatico: il taglio della corrente durante l’inaugurazione della nuova centrale elettrica, il blocco del passo del Sùrbruk, il furto dei materiali da costruzione durante la realizzazione della tangenziale di Mòrask. Ho partecipato a tante manifestazioni che sono degenerate in scontri armati, mi sono trovato più volte a scappare dalla polizia, ho subito pestaggi ben peggiori del paio di pugni che mi ha dato oggi mio fratello: le autorità non sono mai tenere con chi protesta e non c’è molta differenza se davanti a loro hanno uomini adulti con le spalle larghe o ragazzini spiantati, il che non aiuta il partito della conciliazione… non è facile scendere a compromessi con chi ti ha spaccato il naso, a volte senza che tu avessi fatto proprio niente. Dunque, quando sento frasi come i separatisti (o peggio, i darbrandesi, in blocco) sono tutti violenti non ce la faccio a non essere almeno un po’ di parte. Lo sapevi che i due terzi delle forze dell’ordine del Dàrbrand non è costituito da gente nata nel Dàrbrand? C’è una ragione anche per questo, chi lo nega è ipocrita. Ma tu sai anche che non credo nello scontro aperto, né nella violenza, né, nemmeno, nella dissidenza passiva. La lotta politica come la praticava mio padre per me era solo l’espressione di una frustrazione: magari ci faceva sentire un popolo, magari rafforzava un senso di identità o forse permetteva a qualcuno di vendicarsi per qualche ingiustizia subita, ma poi, a conti fatti, produceva una sola cosa, odio che si somma all’odio, conflitti esacerbati senza fine, e nessuna, nessuna possibilità di cambiamento. Alle scuole superiori, come membro del comitato studentesco, iniziai a occuparmi di piccoli conflitti interni all’istituto: non me ne rendevo quasi conto, ma quando si trattava di risolvere un problema, studenti ed insegnanti venivano a cercare me. La capacità di essere visto che mi aveva reso il punto di riferimento di tutti i miei fratelli diventò la mia caratteristica peculiare, e la mia arma. Cominciai ad entrare sempre di più in contrasto con i metodi di mio padre e con l’impronta che aveva dato a FDL, e non so bene come mai, forse perché non è vero che la politica è rabbia, forse perché la gentilezza a volte paga, o forse perché molti, negli anni, si erano stufati di reiterate battaglie inutili, ma in tanti, in troppi cominciarono a vedere in me un leader. Mio padre credo mi odiasse e al tempo stesso mi stimasse: ero diventato esattamente quello che desiderava da me e dicevo esattamente le cose che non desiderava. Litigavamo ogni santo giorno, soprattutto quando – e tu sai quanto purtroppo sia frequente – Mòrask veniva colpita da un atto terroristico: lui giustificava sempre, io non giustificavo mai; lui puntava il dito sulle motivazioni, io sulle conseguenze; lui parlava di eroi ed io di familiari delle vittime. Abbiamo sempre avuto una visione diversa del dolore e della paura: per lui erano sentimenti che potevano essere manipolati per fini politici, per me erano solo sentimenti… come dire… sbagliati. Da cui le persone, qualunque fosse il loro lato della barricata, andavano protette. Litigavamo, e più lo vedevo intraprendere una deriva che portava alla violenza, più cercavo di ingegnarmi nello sfoderare idee sorprendenti, e strappargli seguaci portandoli dalla mia parte. Mio fratello Thièl stava sospeso tra noi: amava mio padre molto più di quanto lo amassi io… ma credo amasse me un po’ più di quanto amava lui. Devo avergli fatto passare anni davvero difficili, povero Thièl, sempre tirato in mezzo, sempre pronto a difendermi a viso aperto per poi biasimarmi in privato, ma sempre al mio fianco in ogni iniziativa che prendessi, anche la più idiota. E poi le cose sono precipitate e io…”

Non si era interrotto dal momento in cui aveva cominciato a parlare e si sentì come stordito da se stesso.

Respirare.

Respirare.

Ma non era seduto al belvedere di Noravàl: il suo sguardo era ancora lì, ad un istante prima che le cose precipitassero, e non c’era nessun orizzonte davanti, solo una voragine profonda.

Adrian lo guardava in silenzio, ma era come se guardasse dentro quella stessa voragine con lui.

“Le cose sono precipitate ed io non sono stato capace di capirlo in tempo. Da anni si discuteva del traforo del Nòdoask, di proteste ce n’erano già state tante: proteste a sfondo ecologico, a sfondo economico, a sfondo politico. Anche io, alla guida di una parte del Fronte, avevo organizzato alcune dimostrazioni: un sit-in che aveva bloccato i lavori per qualche giorno e il boicottaggio delle linee ferroviarie nazionali: poca cosa, dato che nel Dàrbrand ci si spostava solo con i treni dell’azienda ferroviaria regionale, per cui mio padre lavorava. Io non ero, in verità, contrario: ho sempre creduto che vivere arroccati non fosse la strada giusta, che Mòrask avesse solo di che guadagnare da un collegamento più veloce con la costa e che della galleria avrebbero beneficiato tutti gli abitanti dell’alta valle del Norav, che parlano lingua varnava e non hanno nulla a che vedere con la comunità darbrandese. Ma non mi piaceva che un’opera di interesse pubblico fosse diventata una specie di simbolo, una prova del nove per decidere chi stesse da una parte e chi dall’altra, per contare i buoni e i cattivi. Per non parlare del fatto che il sistema di pedaggi dell’autostrada non avrebbero portato alcun tornaconto economico alla regione e che i piani per la nuova ferrovia non prevedevano che essa potesse essere utilizzata anche dai nostri treni locali. Non avrei dovuto prendere quella posizione: oggi, a mente lucida e con un po’ di esperienza in più, so che avrei dovuto schierarmi semplicemente e apertamente a favore, rimandando i progetti di contrattazione a data da destinarsi, come fa Zjam. Invece, la mia indecisione fece pendere l’ago della bilancia del Fronte verso una posizione di aperta ostilità. Mio padre e alcuni suoi compagni ne approfittarono per tirare le fila e riprendere in mano un movimento che si stava sfaldando in due… Non so come e quando l’attentato fu progettato, non so nemmeno se lui avesse mai preso parte prima ad atti terroristici e a questo punto non lo saprò più. Ma allora era il capostazione di Mòrask e avrebbe dovuto presenziare all’inaugurazione della galleria come rappresentate dell’azienda, si trovava in una posizione favorevole per offrirsi di…”

Si interruppe di nuovo.

Guardò il cielo, dove il sole si stava facendo basso.

Pensò che in quel momento avrebbe dovuto trovarsi a parlare con Màrna, che Zjam si sarebbe preoccupato, o offeso, che sarebbe stato bello che le cose fossero state tutte semplici - da fare e anche da spiegare - e che invece nulla era semplice, tranne il fatto che Adrian fosse lì e continuasse ad ascoltarlo senza domandare niente.

“…non so nemmeno offrirsi di fare cosa…! Da quel momento in poi, è tutto molto confuso e io stesso faccio fatica a rimettere gli eventi in ordine. Stress post traumatico, direbbero i terapeuti: ma io non posso permettermi il lusso di raccontare questa storia ad un terapeuta, e tu sei il primo con cui ne parlo.”

Si diede una spinta coi piedi e l’altalena lo portò in alto, e in basso, e ancora in alto. Lasciò che il movimento si fermasse da solo, lasciò che fosse quello a dargli il tempo.

“Io ero lì, quando il tunnel è saltato in aria.” si appese alle corde dell’altalena e le strinse fino a farsi diventare rosse le nocche delle mani “Non avrei dovuto esserci, e ancora oggi non so cosa cazzo io abbia creduto di fare. Ovviamente nessuno mi aveva informato… non funziona mai così. Non sono i movimenti ad organizzare attentati, sono gli individui… e questa è la ragione per cui ti dissi d’essere certo che la minaccia verso di me non provenisse dai terroristi: i terroristi del Dàrbrand non sono un gruppo, non minacciano e non rivendicano, e ancora non so se questo li renda più o meno pericolosi rispetto ad un sistema organizzato. Tuttavia, sono sempre i movimenti a fomentare le azioni delle teste più calde. Ma sto divagando, Adrian. È che… è difficile. Sono venuto a sapere dell’attentato quando la cerimonia stava per iniziare… non ricordo nemmeno come o da chi. In pochi minuti ho dovuto prendere atto che mio padre stava per diventare un assassino e che coloro che ne erano a conoscenza lo avrebbero lasciato fare. Che io ne ero a conoscenza e dovevo decidere cosa fare. Lucidamente sapevo qual era la scelta ragionevole: dovevo prendere un telefono, allertare le forze dell’ordine, denunciarlo. Invece sono andato là. Mi sono presentato là, mi sono infilato tra la folla in qualche modo, mi sono avvicinato più che potevo fino a poterlo guardare negli occhi, farmi vedere. Cosa volessi ottenere, davvero non lo so. Pensavo di spingerlo a ripensarci solo con la mia presenza? Non ero riuscito a dissuaderlo da una sola convinzione per tutta la vita, che illuso. Forse volevo solamente rinfacciargli qualcosa, farlo esitare, metterlo in difficoltà, pregarlo, fargli pateticamente compassione… Invece ho fatto una sola cosa, Adrian. L’ho reso una vittima tra le vittime, senza riuscire a salvare nessuno.”

Lasciò scivolare le mani lungo le corde, arreso.

Respirare.

“Mi ricordo l’esplosione, mi ricordo tutta quella polvere negli occhi e nel naso, la paura di soffocare, la voce di un compagno di mio padre che grida cose che mi arrivano ovattate, le sue mani che mi strattonano e mi trascinano via. È grazie a lui che nessuno ha mai saputo che mi trovavo sul luogo dell’attentato. Mi disse una frase penosa del tipo Fidòr avrebbe voluto così. Che stronzata. Fidòr avrebbe voluto non morire. Io avrei voluto che non morisse… e che non morissero nemmeno gli altri. Non so cosa è successo davvero in quei secondi immensi, Adrian, non lo so. Nessuno lo saprà mai, come nessuno sa che una delle quattro vittime è anche il carnefice. Quello che mi hanno riferito è che il piano è andato storto per colpa mia, che mio padre non è riuscito a salvarsi perché voleva allontanare me. Mia madre mi ha detto che per lei ero morto insieme a lui, che non dovevo più considerarmi suo figlio, e Thièl si è schierato con lei. Quella notte ho lasciato Mòrask. Forse tu penserai che avrei dovuto raccontare la verità alla polizia, che sto ancora coprendo un crimine… l’ho pensato anch’io, ma non ci sono riuscito. Non l’ho fatto quando avrei potuto salvare quattro persone, farlo dopo avrebbe solo significato cercare di mettere una stupida pezza sui miei sbagli, rovinando per sempre la vita di mia madre e dei miei fratelli. O forse, semplicemente, non volevo raccogliere altro odio: mi sentivo già odiato abbastanza e temevo che non ne avrei sopportato di più. Sono venuto a vivere a Noravàl e sono stato di parola: nessuno a Mòrask ha saputo più nulla di me. Mi ero ripromesso di stare alla larga dalla politica, di trovarmi un buon lavoro e ricominciare da capo. Anche a fare questo non sono riuscito: in genere sono molte più le cose che non mi riescono che quelle che mi riescono.”

Si sforzò di abbozzare un sorriso e sentì il taglio sul labbro bruciare. Risentì il pugno di Thièl, le parole di Thièl. Manipolatore, traditore, venduto, illuso.

“Ho fondato Orizzonte perché ho incontrato molti darbrandesi emigrati come me a Noravàl, che si sentivano cittadini della Repubblica, persone che speravano di poter chiamare casa ogni luogo di questo paese. E perché volevo cercare di riparare le cose rotte e perché, sì, sono folla-dipendente. Zjam aveva bisogno di una nuova fonte di popolarità, io dei numeri per essere eletto e portare avanti i miei progetti legalmente. Mio fratello e molti altri mi accusano di aver fatto a pezzi il movimento e poi di essere scappato, di essere diventato una specie di spia che vuole sfruttare le informazioni che ha sul separatismo per avvantaggiare il governo. Vorrei poterli smentire, invece hanno ragione. Io voglio davvero sfruttare ciò che so di FDL per ottenere… beh, per ottenere esattamente ciò di cui mi accusano e che, invece, in passato, non sono riuscito a fare affatto: spezzare il movimento a metà e trascinare una parte di loro con me. Lo posso fare e lo devo fare. Non posso parlare di questo con Karkoviy, ci sono cose che non gli posso dire: denunciare queste persone, schierarmi da un solo lato, significherebbe negarmi la mia sola possibilità. Devo guadagnarmi la loro fiducia come parlamentare, non come cospiratore, e devo farlo da solo. Senza il loro appoggio, persino uno statuto autonomo sarebbe percepito come calato dall’alto. Ma affinché il mio progetto non rimanga solo l’anonimo punto 25 del programma, devo poter offrire al governo una contropartita: devo garantire un basso livello di rischio, devo minimizzare la possibilità di azioni terroristiche. Devo trattare col Fronte, e posso farlo solo non avendo paura: mettendoci la faccia e correndo dei rischi in prima persona senza nascondermi dietro le premure degli altri, come ho fatto oggi ed altre volte. Perché siccome l’incoscienza ci salverà, io devo essere disposto a mettere in posta la mia sicurezza per ottenere il loro rispetto. Scusami, Adrian.”

Un tuono rotolò tra le nuvole, ma distante, attutito.

Adrian si alzò in piedi.

“È solo incoscienza o è senso di colpa?” chiese, quasi senza espressione nella voce.

Noam abbassò gli occhi, lo sguardo rivolto ai piedi, piantati a terra a bloccare il movimento dell’altalena: sentiva lo sguardo dell’altro su di sé, come se potesse vedergli attraverso.

“Ti senti in colpa per le vittime dell’attentato e ti metti volontariamente in pericolo per espiazione?”

Detto così, non suonava affatto bene: ma era la verità.

“Ti chiedo di fare una cosa per me.” La mano di Adrian calò all’improvviso sulla sua testa, scompigliandogli i capelli: calda e solida. “Lascia i sensi di colpa a coloro che hanno realmente desiderato fare del male. Non chiamare colpa l’aver desiderato salvare la vita a quattro persone. Non chiamare colpa l’averci provato: non è giusto.”

Avrebbe voluto che quella mano non si muovesse più da lì: era come se quel semplice gesto gli riconoscesse il diritto a non essere sempre lui l’adulto.

Lo aveva desiderato tante, tante volte.

“Tu” disse Ardrian, con dolcezza “Tu devi dare un grande valore alla tua vita, perché, come hai detto, sei nella posizione per fare cose che nessun altro potrebbe fare.” sorrise “E perché sei la persona migliore che io abbia conosciuto, Noam.”

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Capitolo 18
*** "Amico" ***


Noam si sentiva in colpa.

Uno che aveva rischiato di saltare in aria sotto una galleria per impedire un attentato. Uno che era sempre disposto a lasciarsi ferire per non ferire. Uno che rinunciava a dormire per inseguire il sogno di mettere tutti d’accordo. Uno che quando faceva a pugni sentiva dolore per quelli dati e non per quelli presi.

Quanto era distorta la mente umana, e quanto i sentimenti avevano un peso diverso per ciascuno!

Il senso di colpa di Noam gli faceva male, un male cane. Lo faceva sentire sporco.

E gli faceva anche rabbia, perché un uomo così non avrebbe dovuto avere il diritto di provarlo.

Noam non aveva idea di cosa significasse avere una colpa, ipotizzava soltanto di averla: anche quel sentimento in lui era dolce e stemperato. Che diritto aveva di lasciarsi divorare da un rimorso che aveva radici tanto pure e lievi? Uno come Noam non era in grado di comprendere, né tanto meno di provare, il senso di colpa nudo e crudo, quello che inquina ogni singolo pensiero buono, ogni singola azione fatta a fin di bene, perché Noam non aveva mai provato – e forse non ne era neppure capace – il desiderio feroce di fare del male a qualcuno. Adrian sì, lo conosceva bene: gli era bastato provarlo una volta per lasciarsene avvelenare, per assecondarlo fino alle estreme conseguenze, per segnare per sempre, con una singola, dannata scelta, l’intero corso della sua vita. Chi non aveva provato quella sensazione, chi non aveva mai visceralmente sperato e voluto il dolore di un altro, non aveva idea di cosa significasse essere colpevoli.

Credere di esserlo era solo un’altra faccia dell’insicurezza; la vera colpa era altro e non era compatibile con una sincera fiducia nel futuro, la vera colpa era un marchio a fuoco che contaminava il corso dei giorni e inchiodava al passato, la vera colpa non era gentile tristezza: era disprezzo di sé. Ma questo a Noam non avrebbe mai potuto spiegarlo: non avrebbe capito. Corruzione, sporcizia, oscurità non erano parole di Noam e Noam non era fatto per comprenderle. Se Adrian lo avesse capito da subito, forse, davvero, avrebbe scelto di non accettare quell’incarico, ma non aveva voluto crederci: nessuna forma di potere, pensava allora, era immune all’immoralità, non era possibile sedere in parlamento ed essere anche, realmente, una brava persona. Forse sarebbe stato meglio se avesse potuto continuare a crederlo, forse sarebbe stato meglio non trovarsi mai a camminare a fianco di qualcuno che riusciva a farlo sentire un uomo migliore.

 

***

 

Il rientro a Noravàl non fu un rientro nella normalità: fu il rientro in un tipo di vita emotiva che Adrian non pensava possibile per sé. Quel pomeriggio al parco ferroviario di Mòrask – di cui Noam non aveva più parlato, né in modo esplicito né per sottintesi - aveva stravolto completamente l’equilibrio su cui si era basata fino ad allora la loro relazione, ed il salotto di Noam era diventato la cosa più simile ad una casa che Adrian avesse mai avuto.

Ogni sera, a meno che lui non lo trascinasse con sé alla Casa Stellata o in qualche locale a tirare tardi, si trovavano seduti sul divano del suo appartamento – quello dove, un giorno, Noam si era disteso a piedi scalzi chiedendogli “dunque lei lavora senza relazionarsi mai?” – e restavano a parlare davanti ad una birra, si raccontavano cose, pianificavano. Adrian non aveva mai pensato di potersi interessare alla politica, ma Noam gli chiedeva aiuto esplicitamente, faceva affidamento sui suoi pareri, lo consultava prima di prendere iniziative, lo metteva a parte delle direttive di partito, delle conversazioni con Kàrkoviy, di ciò che pensava di fare e di come voleva farlo, quasi che lui non fosse la sua guardia del corpo quanto il suo più stretto collaboratore. Lo aveva trascinato di peso nel suo progetto, ed Adrian ci si era lasciato trascinare, senza opporre la resistenza che avrebbe pensato opportuna solo sei mesi prima.

Sei mesi appena: possibile? Gli pareva di conoscere quell’uomo da un’eternità. Offrendogli di guardare dentro il suo “armadio pieno di scheletri”, Noam aveva rovesciato tutto, aveva incasinato tutto e adesso era lui che si sentiva in difetto, che non era capace di ricambiare la fiducia che gli era stata concessa, che gli teneva dei segreti.

Segreti privati, che non lo riguardavano (ma forse un po’ si) e segreti che invece lo riguardavano troppo, e che non si sarebbe mai permesso di tenergli prima, quando quello era solo un lavoro.

Le sue indagini su Thièl Dolbruk, ad esempio.

Quelle che portava avanti in ogni momento libero, in ogni ritaglio di tempo in cui Noam non era con lui, e di cui Noam non avrebbe mai dovuto sapere, perché si sarebbe opposto e avrebbe detto che no, che le minacce non provenivano da lui, che ne era certo.

Ma se da un lato anche Adrian aveva valide ragioni per crederlo, dato che quel giorno al parco se Thièl avesse davvero voluto uccidere suo fratello ne avrebbe avute tutte le opportunità, dall’altro non aveva i dati necessari per comprendere cosa fosse realmente FDL: Thièl Dolbruk poteva ben esserne uno degli ideologi - un semplice blogger o un terrorista, vai a saperlo - ma, stando alle informazioni ottenute da Karima e alle proprie ricerche personali, il movimento non aveva un nucleo compatto, e nulla escludeva che al suo interno vi fossero elementi in cerca di vendetta, come quel Marùsz, per dirne uno, o teste calde desiderose di visibilità, o persone convinte che colpire un darbrandese “passato dall’altro lato della barricata” veicolasse un messaggio propagandistico non ignorabile.

Noam aveva esplicitato che il suo intento era quello di ottenere dal Fronte una qualche sorta di collaborazione, o, quantomeno, di tregua, e Adrian non intendeva certo ostacolarlo, al contrario, gli aveva promesso di sostenerlo: ma, nella sua aperta e ostentata incoscienza – omaggio ai valori di Mòrask o peggio – il suo imprudente e autolesivo amico non si sarebbe preoccupato di approfondire se e dove si celassero i rischi, dunque doveva farlo lui. Nella sua posizione era questo il maggiore aiuto che poteva offrirgli: se c’era una breccia nel Fronte, se c’era margine di contrattazione, se una mediazione era possibile e, soprattutto, se nel perseguirla c’era un pericolo, lui lo avrebbe scoperto.

La mossa più ovvia era proprio entrare in contatto con Thièl, ma rintracciarlo non si stava rivelando per niente semplice: del resto, non era uno sprovveduto, era riuscito a comunicare con Noam in segreto proprio sotto il suo naso, militava in un movimento clandestino da quando era piccolo, non sarebbe stato affatto facile trovarlo se lui non voleva farsi trovare. Gli articoli pubblicati on-line che Karìma gli attribuiva non permettevano, di fatto, di risalire ad un’identità: si era reso conto subito di avere a che fare con gente in gamba, il blog era completamente anonimo e gli autori si proteggevano bene, impossibile risalire a qualcosa o qualcuno.

Chissà quali erano le fonti di quella svitata che si divertiva a fare l’investigatrice! Probabilmente anche lei la sapeva più lunga di quanto volesse far credere e gli aveva gettato qualche briciola sulla strada per coinvolgerlo nel proprio giochetto. Ricordò come le erano brillati gli occhi nel momento in cui si era resa conto d’essere riuscita a fargli perdere la pazienza: dio, che donna irritante! Eppure, in quel mare di irritazione, affiorava, a tratti, un altro sentimento: la curiosità di sapere perché lo facesse, e perché avesse scelto proprio quella storia, e quell’uomo… se si trattasse solo di casualità, del fascino che Noam indiscutibilmente esercitava, o di un desiderio più perverso di scherzare col fuoco.

In ogni caso, le informazioni che gli aveva dato erano corrette, le aveva verificate: Thièl Dolbruk risultava ancora residente presso l’abitazione della madre, ma non viveva più lì da anni e nemmeno lui era riuscito, anche attingendo ai propri contatti nelle forze dell’ordine, a risalire all’attuale domicilio. Gli era stato confermato che quattro anni prima era stato fermato e trattenuto dalla polizia per aver preso parte ad una rissa durante una manifestazione contro i finanziamenti per la costruzione di un impianto estrattivo nella valle di Sad-Brask. Adrian conosceva il luogo: ci erano passati durante la discesa verso Mòrask ed era stato allora che Noam gli aveva parlato dei metalli rari e delle fabbriche che erano spuntate come funghi nell’altopiano del Dàrbrand.

Il caso si era chiuso lì, la parte lesa non aveva sporto denuncia, Thièl era stato rilasciato e in seguito non si era fatto più coinvolgere in vicende simili: non, almeno, che fossero note alle autorità.

Adrian aveva scoperto che aveva un diploma in telecomunicazioni, che era stato per molti anni commesso in un negozio di telefonia, che poi si era messo in proprio come tecnico informatico per varie piccole aziende di Mòrask, e che infine era stato per un periodo non ben definito a Mìmat, lavorando per lo studio di geometra di cui era socio Dzjorzj Dolbruk, il fratello minore: ma negli ultimi due anni nessuna notizia di lui, eccetto gli articoli che Karìma riteneva essere suoi.

Adrian li aveva letti tutti con cura: distaccati, taglienti, nessuna retorica, solo una sfilza di dati e di commenti ai dati. Non sembravano testi di propaganda, quanto analisi economiche molto precise riguardanti una serie di questioni che dovevano stargli a cuore: la destinazione dei fondi per lo sviluppo delle industrie locali che “locali” non erano affatto, l’apertura nel Dàrbrand delle sedi dislocate di molte grosse aziende col solo scopo di abbassare il costo della manodopera, l’annosa questione del traforo che, con il pretesto di strappare Mòrask all’isolamento, l’aveva resa di fatto una succursale di Noravàl.

Ma, in fondo, ad Adrian questo non interessava: la sola cosa che aveva bisogno di capire era quanto Thièl avesse influenza, o quanto almeno fosse in grado di sapere o prevedere, sul movimento e fino a che punto potesse garantire che la vita di Noam fosse al sicuro.

 

***

 

Dedicare tempo a quelle ricerche era tutt’altro che facile.

In verità, sarebbe stato difficile dedicare tempo a qualsiasi cosa.

Da quando erano tornati da Mòrask, lavorare per Noam era diventata un’esperienza immersiva e totalizzante: l’energia e l’entusiasmo coi quali si era reso famoso si erano, se possibile, ulteriormente amplificati, fino a diventare incontenibili. Adrian a volte finiva per domandarsi se il merito o la colpa non fossero anche suoi, e per sorprendersi all’idea che quel sospetto gli facesse piacere.

Ogni giorno che dio metteva in terra, Noam faceva cento progetti e poi ne avviava duecento: ogni giorno aveva qualcuno con cui era importante parlare (e spesso non si trattava di impegni istituzionali, ma di contatti privati con persone o gruppi che volevano semplicemente sapere di più sui di lui e sulle sue intenzioni), aveva interviste da rilasciare a blogger sconosciuti, inviti a assemblee universitarie, interventi presso feste o eventi culturali locali (perché l’estate si faceva sempre più vicina, e Noravàl si riempiva di iniziative, più o meno visibili, ma tra le quali Noam tendeva a non fare distinzione) e soprattutto una corrispondenza infinita da smaltire. Aveva avuto l’idea suicida di rendere pubblico un indirizzo mail, che, neanche a dirlo, si riempiva molto più velocemente di quanto potesse essere svuotato: sembrava impossibile che un uomo solo riuscisse a evadere tutta quella corrispondenza e non lo avrebbe mai creduto neppure Adrian, se non lo avesse visto coi propri occhi. Noam aveva il potere di spremere il tempo di ciascun giorno come un’arancia, senza preoccuparsi (e forse era quello il suo trucco) di conservare un respiro per alzarsi il giorno dopo, e tuttavia ogni sera, ogni sacrosanta sera, aveva ancora voglia di sedersi su quel divano e parlare con lui.

Lo voleva al suo fianco sempre, pretendeva di averlo accanto anche quando la presenza di un non addetto ai lavori sarebbe risultata inopportuna, e non gli aveva mai più chiesto di fingersi qualcun altro. Dove c’era Noam Dolbruk ci si doveva aspettare di trovare Adrian Vesna, con buona pace di chiunque osasse mettere in dubbio la necessità che fosse così: tutti ormai lo sapevano e figuriamoci se poteva non saperlo Karìma Mirèl.

Erano gli ultimi giorni di un luminoso maggio quando si rifece viva, con tanto di cappello di paglia ma senza cane (perché una donna come quella – pensò Adrian – non avrebbe mai potuto averlo, un cane. I cani erano creature fatte per persone domestiche, che cercano radici, mentre lei era mutevole e randagia).

“Signor Vesna, che fortuna incontrarla!” (sorriso sfacciato da frase fatta) “Come sta?”

“Se sta cercando Dolbruk, al momento è in diretta radio su Nòraval Notizie… ” (sorriso che faceva il verso al suo) “a rispondere a domande sulle amministrative di ottobre. A questo tipo di interviste credo risponderebbe di cuore anche a lei!”

“E come mai se ne sta qua tutto solo ad aspettarlo come ai vecchi tempi? Credevo che il suo adorabile amico ormai non prendesse nemmeno il caffè senza di lei!”

Adrian desiderò liquidarla con una risposta al vetriolo, poi però si fermò a pensare – gli capitava spesso, ultimamente – a quale mossa sarebbe stata più utile a Noam, e stemperò la stizza in una pacata scrollata del capo.

“Vede, Karìma? Lei purtroppo non fa che confermare i miei pregiudizi. Dei progetti del signor Dolbruk non le importa un fico secco. Le importa di come vive la sua vita, di quando o con chi prende il caffè, o di cosa abbia fatto o non fatto prima di essere l’unico uomo politico che da centodiciotto anni ad oggi – Cento. Diciotto. Anni. – tenta di trovare una soluzione che non sia puramente repressiva alla questione del separatismo del Dàrbrand. Che lei ignori del tutto questo, che per lei sia solo il mio adorabile amico, me lo lasci dire, è offensivo.”

Karìma sollevò le sopracciglia come se quelle parole avessero colpito una specie di bersaglio invisibile, ma superò subito la défaillance esplodendo in un riso impetuoso.

“Nah! Il soave Dolbruk che si offende? Sarebbe fuori dal personaggio!”

“Lui no. Io.”

Lei lo squadrò in un misto di perplessità e interesse.

“Veramente? Per interposta persona?”

Adrian fece spallucce.

“Se lui non si offende quando dovrebbe farlo, è giusto che qualcuno dispensi un po’ di vaffanculo al suo posto, no?”

Karìma scoppiò di nuovo a ridere, frustando l’aria con la mano.

“Ma sì, ma sì! Gli amici servono a questo! E voi due siete diventati proprio amici. Siete troppo carini, giuro!”

E che diamine, ma perché doveva essere sempre così zuccherosa? Colpa della rivista per cui scriveva o del cappello?

Adrian non fece in tempo a risponderle per le rime (o a decidere definitivamente di mandarla a farsi fottere), che lei proseguì al trotto.

“Scommetto che le ha svelato un bel po’ di segreti. Fiducia e diffidenza sono sentimenti che si vedono ad occhio nudo. Si vedono sulle facce e persino sulla schiena, sa? Sono pochi i sentimenti che si vedono pure sulla schiena!”

Ma che cazzo diceva?

“Però ora mi risponderà che non sono affari miei” (appunto) “ed invece lo sono, creda a me: perché io e lei ci possiamo dare una mano a vicenda, caro Adrian!”

Chiamami un altra volta “caro” “adorabile” o “carino” e ti tiro il collo, pensò.

“Non mi pare proprio. Io sto proteggendo un uomo, e lei gli vuole rovinare la carriera.”

Karìma aggrottò la fronte.

“Non è vero.” (quasi risentita)

“No?”

“Io non rovino le persone, semmai le rendo più simpatiche. Lei dovrebbe riuscire a capirmi, visto che, come me, fa un lavoro che la costringe ad avere sempre a che fare con i ricchi idioti. La vita di quella gente lì è una melma, e lo scandalo da telefilm è il meglio, non il peggio, che si possa mettere in risalto di loro.”

“Ma Noam non ha bisogno di lei per essere reso più simpatico, e questo la infastidisce a morte.”

“Non è…”

La interruppe.

“Noam la infastidisce perché ha conquistato una posizione di spicco, ma non è né ricco né idiota: dunque, per trovarsi lì dove si trova, deve aver commesso per forza qualcosa di orribile. Perché se così non fosse, non dovrebbe esserci: in alto arrivano solo i ricchi ed idioti oppure i corrotti e i malvagi, giusto? In alto stanno le brutte persone, gli approfittatori, i raccomandati, quelli che ‘sotto la maschera niente’... altrimenti, se il successo fosse davvero riservato alle persone dotate di qualità, agli intelligenti e ai meritevoli, tra loro ci dovrebbe stare anche lei. È questo che pensa, no? Lei si sente privata di un riconoscimento che le spetterebbe: si sente svalutata ed è piena di risentimento verso un mondo che non valorizza le sue doti.” Si fermò, compiaciuto di fronte all’espressione contrita di lei. “Anche io sono bravo a leggere i sentimenti: non importa se in faccia o sulla schiena.”

“Vada al diavolo!” sbottò.

“Dunque anche lei ha qualcosa che la innervosisce. Evviva, quest’espressione le dona!”

Una vampata di rossore esplose sul suo viso.

“Razza di stronzo! Ma chi ti credi di essere? Sarai anche un buon osservatore, ma non sai niente di me!”

Chi ti credi di essere. Che buffo senso di deja-vu.

“Ma guarda un po’. Anche io sono passato a dare del tu a Noam perché mi sono incazzato… ”

Lei sbatté le ciglia, stordita. Il rosso le donava.

“Una volta Noam mi ha fatto incazzare moltissimo, e in quel momento siamo diventati amici. Già. I segreti che supponi io sappia, e che non smentirò di sapere, non c’entrano niente. Ho saputo che eravamo amici perché mi sono incazzato con lui, e ci si incazza davvero solo per i nervi scoperti, per quello che ci fa male, per ciò a cui si tiene.”

Karìma si morse un labbro. Sembrava turbata. Autentica.

“Vai centomila volte al diavolo, Adrian Vesna.” sentenziò, scandendo le parole.

Poi girò i tacchi e se ne andò a spalle dritte, ondeggiando i fianchi lungo la strada.

 

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Capitolo 19
*** "Sfida" ***


“Per tutti i diavoli dell’inferno, che ti è saltato in testa?!”

Quel mattino Zjam lo aveva fatto convocare in fretta e furia ed adesso Noam stava lì, nel salotto di casa Kàrkoviy, seduto al tavolo rotondo dove tante volte avevano preso il tè con tanto di moglie e figlia di lui, e che invece era coperto da svariate testate giornalistiche che presentavano quasi tutte la stessa notizia in prima pagina, in varie declinazioni.

«Elezioni a Mòrask: è sfida aperta tra Noam Dolbruk e i principali gruppi industriali del paese»; «Fondi per lo sviluppo del Dàrbrand, le parole di Dolbruk: “Il risultato di quegli investimenti deve ricadere sul benessere della regione”»; «L’impegno di Dolbruk e Màrna: “No all’apertura di nuove aziende non amministrate dalla nostra gente”»; «Il candidato sindaco sostenuto da Liberi Insieme chiede l’adeguamento degli stipendi allo standard nazionale per il personale impiegato nelle industrie dislocate nel Dàrbrand»; «Orizzonte dice no allo sfruttamento delle risorse dei monti Mor-dareùk senza approvazione dello statuto autonomo» e via così, con toni più o meno gonfiati, parole più o meno fedeli, plausi o critiche: ma la sostanza era quella, ed era la verità.

Era accaduto durante la prima tribuna elettorale in cui il professore si era ufficialmente presentato come candidato per la poltrona di primo cittadino a Mòrask: Lant aveva sollevato subito la spinosa questione dei fondi per lo sviluppo delle aree economicamente arretrate e Noam gli aveva dato spago, arrivando alla fatidica affermazione che, in caso di vittoria, l’amministrazione Màrna avrebbe negato i permessi di estrazione ai grandi cartelli che spadroneggiavano nel Dàrbrand, salvo il soddisfare una serie di requisiti che prevedevano, di fatto, un ritorno economico per la regione stessa.

Apriti cielo: nemmeno si fosse trattata di una dichiarazione di guerra! Il giorno successivo i media si erano scatenati, travolgendo un impreparato Kàrkoviy, che per la prima volta si trovava a fare i conti con l’idea che aveva sempre dato per buona solo sulla carta: la possibilità di dover prendere in mano apertamente la questione “Dàrbrand” e di doverne fare un cavallo di battaglia per le future elezioni politiche, volente o nolente.

“Ti rendi conto della bomba che hai appena sganciato, in piena campagna elettorale?”

Sì – pensava Noam - ma l’incoscienza ci salverà, e sperò che il solito, rilassato sorriso bastasse ad alleggerire la tensione.

“Eddai, Zjam! Le vuoi vincere o no queste le amministrative? Mi hai chiesto di espormi, e nel farlo mi hai chiesto di accattivarmi l’elettorato dei miei concittadini… pensavi bastasse essere darbrandese di nascita perché il gioco fosse fatto?”

Un’ombra passò sul volto di Kàrkoviy. Lo pensava, altroché. Così come aveva pensato che una trasferta a Mòrask, qualche discorso brillante e una bella faccia avrebbero fatto il resto. Non li conosceva proprio, i darbrandesi.

“Hai minacciato gli uomini più potenti del paese!”

Se Zjam, nella sua ordinaria posatezza, era capace di alzare il tono, lo aveva appena fatto.

Noam smise di sorridere: gli era successo più volte di vedere il suo collega nervoso, in agitazione, irritato, ma mai nei suoi confronti o a causa sua. Certo, gli era capitato di metterlo in imbarazzo, di spingerlo a dissociarsi da alcune sue prese di posizione o di dover mediare davanti ad una telecamera con parole come “il signor Dolbruk è libero di esprimere la propria opinione: Liberi Insieme non chiede ai suoi membri di recitare il verbo del partito”. Ma, a conti fatti, aveva sempre sostenuto che far parlare di sé – anche in modo controverso – portasse popolarità, e ogni screzio tra loro si era sempre risolto tutto in una scrollata di spalle.

Quel giorno era diverso: Noam sentiva la rabbia di Zjam, sentiva la sua frustrazione per esser stato scavalcato, sentiva la paura (quella paura che conosceva bene) che le cose sfuggissero dal suo controllo. Ma sentiva anche che si stava sforzando di non essere aggressivo con lui, e gliene era grato.

“Non credo di averli minacciati. Ho solo sottolineato l’ovvio… l’ovvio, almeno, per chi vive e lavora nel Dàrbrand.” (no: l’ovvio per suo fratello) “Questa era la sola promessa che poteva far presa sulla mia gente. Per ottenere il supporto di un popolo che rivendica la propria autonomia, l’unica mossa valida è dimostrargli che dalla rinuncia a quell’autonomia ha qualcosa da guadagnare…”

L’unica mossa valida per far presa su quella parte del Fronte che non si fondava su un puro e semplice nazionalismo, ma che basava la propria lotta su rivendicazioni più concrete: gli stessi che erano stati dalla sua parte una volta, gli stessi che potevano essere manipolati. Chissà se anche Thièl sarebbe stato disposto a sostenerlo, se davvero fosse riuscito a far abbassare la cresta a gente come gli Òraviy e compagnia bella.

“Se quelli che stai additando come i tuoi attuali nemici decidessero di abbandonare il Dàrbrand e portare i propri interessi altrove, i darbrandesi non ne avrebbero alcun vantaggio.”

“Ma non lo faranno, perché sarebbe l’equivalente che concedergli l’indipendenza. Per quali ragioni storiche credi che l’annessione del Dàrbrand sia stata così fortemente voluta?”

“Noam,” lo sguardo di Kàrkoviy si fece più scuro “anche noi riceviamo finanziamenti da loro.”

“Possiamo farne a meno.”

Zjam sbatté il palmo della mano sul tavolo.

“Dannazione! In che mondo vivi?”

Noam socchiuse gli occhi e prese un profondo respiro.

“Quando mi hai chiesto di collaborare con te, sapevi benissimo in che mondo vivo… e in che mondo avevo vissuto.”

Non voleva litigare. Eppure lo aveva sempre saputo che prima o poi sarebbero arrivati a questo. Aveva accettato di collaborare con lui perché Liberi Insieme era il male minore, perché Zjam non era un conservatore e non si opponeva ai cambiamenti… ma sapeva che non sarebbe stato nemmeno lui a spingerli. Voleva solo tenersi il suo posticino comodo in cui invecchiare tranquillo, con un’immagine intatta e una posizione sicura. Noam non amava strappare qualcuno dalle proprie sicurezza, sapeva bene cosa significava essere strappato via, anche se non aveva mai saputo cosa volesse dire sentirsi al sicuro.

“Mi dispiace.” disse.

Sembrava che Kàrkoviy non desiderasse udire altro e ritrovò subito un sorriso pacificatore.

“E meno male che almeno ti dispiace!” esclamò “Ma in qualche modo possiamo ancora sistemare tutto, basterà…”

Noam scrollò vigorosamente la testa: il sorriso di Zjam gli rimase congelato sul viso.

“Mi dispiace, ma a me non importa niente di vincere queste amministrative.”

“Non ti importa niente di… Noam, che stai dicendo?”

Lo guardò come per aver conferma di aver capito male.

“A me non interessa vincere le amministrative.” ripeté lui “E non mi interessa che Liberi Insieme passi da partito di opposizione a partito di governo. Non mi interessa del favore di Òraviy o di chi per lui, né dell’andamento dell’economia: non mi interessa nemmeno, per quanto possa apparire brutto da dirsi, di fare il bene dell’umanità.”

Esitò, respirò di nuovo a fondo, come per darsi il tempo di quel respiro per decidere se continuare o meno a parlare.

“Io voglio fermare il terrorismo nel Dàrbrand, Zjam.”

Le spalle di Kàrkoviy ebbero un sussulto, come se quelle parole gli apparissero completamente nuove, impreviste. Come se non ci avesse mai pensato.

“Tu… cosa?”

“Io voglio fermare il terrorismo nel Dàrbrand.” scandì, con voce solida “Ci saranno altri che penseranno a tutte le belle cose che si possono fare per rendere il mondo un posto migliore, ma io voglio fare questo, e lo voglio fare proprio perché so in che mondo vivo: perché penso di poterci riuscire.”

 

***

 

Quello che lui voleva.

Fermare il terrorismo nel Dàrbrand.

Trattare col Fronte.

Scendere a patti coi separatisti.

Ci erano volute le parole di Thièl per capirlo.

Suo fratello aveva ragione: i suoi ideali politici erano nati da un’opposizione, opposizione a suo padre, al clima in cui viveva, alla violenza, al rumore, alle restrizioni del governo centrale, al recinto troppo stretto dei Mor-dareùk e a centomila altre cose. Aveva sempre lottato solo contro ciò che non voleva.

Ci era voluto Thièl.

Ci erano voluti la sua rabbia e i suoi pugni. Ci erano voluti i suoi aeroplani di carta e le altalene.

E tuttavia, se Thièl era stato il mezzo, non era suo il merito: il merito era di Adrian.

Adrian che era riuscito a vederlo, nonostante tutte le menzogne e le omissioni.

Adrian che gli aveva detto di dar valore alla propria vita, perché lui era l’unico nella posizione di fare qualcosa che nessun altro avrebbe potuto fare.

Adrian che lo riteneva la persona migliore che avesse conosciuto.

Adrian che gli aveva appoggiato una mano sulla testa.

Era quasi paradossale che proprio lui, che un giorno gli aveva detto che nessuno è indispensabile, gli avesse offerto l’alibi per sentirsi tale almeno per un po’.

Noam sapeva di essere piccolo: sapeva che con le sue sole forze non avrebbe cambiato il destino di Mòrask, che non avrebbe segnato il corso della storia e non avrebbe, probabilmente, nemmeno mai ottenuto lo stramaledetto statuto autonomo e realizzato tutti i bei propositi coi quali era stato fondato Orizzonte: ma poteva essere l’uomo verso cui gli estremisti del Dàrbrand avrebbero accettato di allungare una mano, perché li conosceva e perché ci era riuscito una volta.

Doveva solo farlo di nuovo, e questa volta non fuggire.

Lasciò casa di Zjam con un forte senso di oppressione al petto, ma coi pensieri lucidi.

Adrian lo aspettava in macchina, perché sulla sua presenza a quella conversazione Kàrkoviy aveva messo il veto assoluto.

Come al solito gli bastò un attimo per leggere la situazione.

“Vuoi parlare o preferisci la musica?” lo accolse, tenendo tra le dita un paio di cd.

“Veramente avrei preferito un bicchiere di vino!” scherzò Noam “un liquore, della droga pensante, ma siccome devi guidare, vabbè…!”

“Ehi,” gli diede un amichevole pacca sulla spalla “non sei tenuto a sorridere quando non ti senti sorridente, non te l’ha ordinato il dottore.”

“Mm…” lui si stropicciò la testa “Già.”

Prese i cd dalla mano di Adrian, lesse i titoli delle tracce, ne mise uno nell’autoradio. Una canzonetta banale si diffuse nell’abitacolo.

“Però portami davvero a bere qualcosa.”

Adrian mise in moto.

“Come ti pare. Ma è mezzogiorno, non fare il darbrandese.”

“Non fare il gambemolli.”

Kàrkoviy abitava fuori città, in una villa in collina, e la strada offriva una bella vista panoramica sul mare. Molto cielo, molto orizzonte.

“Ho conosciuto Zjam per colpa di una manifestazione che avevo organizzato io. Avevamo allestito una specie di palcoscenico delle lamentele al Parco della Memoria. Chiunque voleva poteva prendere il microfono e raccontare di quando aveva avuto bisogno di aiuto e di come il sistema sociale non aveva fatto ciò che avrebbe dovuto fare. Giorno e notte, h24, in diretta web. Non avevamo nemmeno mezza autorizzazione per farlo, ma, nell’indifferenza generale, abbiamo resistito quasi tre giorni. È pazzesco quanta gente trovi irresistibile l’idea di denunciare un’ingiustizia che sente di aver subito, e di farlo davanti a tutti… dopo il secondo giorno la partecipazione era diventata non ignorabile, ci hanno fatto sgomberare e io ho ricevuto una multa che nemmeno due anni d’affitto. Non l’ho mai pagata: Zjam ha ottenuto retroattivamente tutti i permessi, con la sola condizione di poter parlare a tu per tu con me. Le elezioni politiche erano vicine, Orizzonte aveva un progetto ma non i numeri per presentare una lista, Kàrkoviy era il leader di un partito in crisi ma aveva prestigio e la quasi certezza di essere rieletto: ho trattato con lui per l’inserimento di alcune nostre priorità nel programma di Liberi Insieme. Sapevo che non poteva essere un’alleanza duratura e immaginavo – anche se ho sempre sperato di no – che anche Zjam, per trovarsi dove si trovava, non potesse essere un uomo del tutto pulito. Ma è sempre stato gentile con me, ed io sono fin troppo sensibile alla gentilezza. Mi sono affezionato. Credo di volergli bene e mi sento in colpa di aver agito alle sue spalle. Ma mi sento anche indignato per il fatto che mi abbia confermato apertamente di ricevere finanziamenti dalle stesse persone che in questo momento io devo, per forza di cose, attaccare. Più sono abituato ad essere odiato, più mi fa male.”

Adrian aveva ascoltato quel racconto col consueto silenzio pieno di attenzione.

“Tu pensi che non ci sia nulla di intermedio tra l’odio e l’amore?”

Amava le sue domande: non si capiva mai in che direzione volessero andare, o dove ti volessero portare.

“L’indifferenza…?”

“L’indifferenza non è un sentimento. È più uno stato d’animo neutro a cui puoi sovrapporre cose. Ma penso che si possa rispettare senza amare, oppure stimare odiando moltissimo. E soprattutto, penso che si possa voler bene a qualcuno anche disapprovandolo, o persino detestandolo fino a desiderare, che ne so…” lo guardò in tralice “di spaccargli un labbro.”

Amava quella dote di staccarlo da se stesso: di fargli immaginare le sue stesse emozioni provate da altri.

“Io non conosco Kàrkoviy.” riprese “Come non conosco tuo fratello e nessuno dei tuoi amici di Mòrask. Ma a volte penso che tu abusi delle parole odio ed amore, come se fossero sentimenti definitivi, implacabili e terrificanti. Proprio tu che in ogni cosa che fai o dici cerchi la dolcezza e le sfumature. Ammettiamo che Kàrkoviy sia molto arrabbiato con te e che le vostre posizioni non possano conciliarsi mai più: basta questo per parlare di odio?”

Lo stava ad ascoltare come un ragazzino che ascolta i consigli di un adulto.

“E tu… che abbracci tutti, che dici di fidarti di tutti, che cerchi l’affetto della gente, che lo ricambi, che vorresti fare gli altri contenti: basta questo per parlare di amore?”

No.

Non che non bastava.

Quello che provava per Adrian, invece, quello sì: era senz’altro una forma di amore.

“Credi che io abbia fatto una mossa sbagliata?” chiese a bruciapelo.

“Credo che tu abbia fatto una mossa coraggiosa e, guarda un po’ la novità, pericolosa. E credo che come al solito la cosa sotto sotto ti piaccia, perché – altra novità – metterti in pericolo ti fa sentire in pace con te stesso…”

“Ma…?”

“Ma se io non sapessi chi sei, se tu non fossi l’uomo onesto che conosco, dall’esterno penserei che questa è tutta una trovata pubblicitaria: le solite dichiarazioni buttate al vento per attirare l’attenzione, per far parlare, le solite manovre politiche da talk show. Sicuro che il professor Marna non abbia in mente proprio questo?”

Sincero come sempre: Adrian non giudicava e non blandiva, lui prendeva atto e poi riferiva quel che vedeva.

“Ecco uno dei mille motivi per cui dovrei sempre parlare con te prima di fare qualsiasi cosa.”

“Su questo ti sbagli. È la tua spontaneità che è una garanzia, per me. Grazie a dio, tu non sei un calcolatore, e sono sicuro che intendi davvero fare esattamente ciò che hai promesso. La domanda che dovresti porti, piuttosto, è in che modo lo farai.”

“Mm…” touché. “Ci devo pensare…”

Adrian scrollò la testa e un sorriso storto comparve su un lato della sua bocca.

“Alla faccia del vivere il presente, eh? Mi correggo. Dire che non sei un calcolatore è riduttivo: nelle scommesse scoperte sei campione mondiale!”

Noam scoppiò in una risata e il groppo che aveva in gola si sciolse definitivamente.

Adrian aveva su di lui anche quel potere, già…

 

***

 

Noam pensava che solo nei film potesse accadere di trovarsi una grossa macchina coi vetri scuri parcheggiata sotto casa e di vedersi venire incontro un uomo alto come un armadio, con tanto di occhiali scuri e completo, che gli chiedeva se gentilmente poteva accettare un invito per una “chiacchierata informale”. Quella sì che era la situazione in cui non si sarebbe stupito nel vedere Adrian tirare fuori una pistola…! Invece Adrian prese la parola al posto suo, e si rivolse all’ingombrante messaggero con la disinvoltura di chi parla ad una vecchia conoscenza.

“Prima di accettare un invito così improvviso credo che il mio cliente gradisca delle presentazioni. Non ti risponderà si grazie a scatola chiusa.”

L’omone diede in una fioca risata che non rese meno severi i tratti del suo viso, ma, per una forma di gentilezza, si tolse gli occhiali e tese la mano a Noam.

“Ma certo, mi perdoni, signor Dolbruk. È che immaginavo si aspettasse già questa richiesta.”

Noam fece correre lo sguardo da lui ad Adrian, e viceversa, con una domanda sospesa negli occhi.

“Il signor Òraviy desidera parlarle.” chiarificò allora l’uomo “Di persona e in privato. Se non ha nulla in contrario, l’accompagno da lui.”

“Senza alcun rispetto del tempo del mio cliente” si intromise Adrian “che potrebbe avere altri programmi per la serata… ”

“Vesna, non fare il pignolo!” e sul suo volto c’era un’espressione che pareva dire pensa a quante volte ti sei trovato nella mia stessa situazione.

“Va bene, d’accordo.” tagliò corto Noam “Posso rimandare eventuali altri programmi.” e strizzò l’occhio ad Adrian.

“La ringrazio. Mi avevano informato che lei è un uomo molto conciliante.”

“Il signor Dolbruk è un uomo pure troppo conciliante” commentò Adrian, e, prima che l’altro potesse intervenire, aprì lo sportello posteriore “ovviamente sono tenuto ad accompagnare il mio cliente ovunque tu voglia portarlo, Vìrnosz. Il signor Òraviy non se ne farà un problema: sa come lavoro.”

Si scambiarono un’occhiata eloquente.

“Il signor Òraviy lo ha preventivato e la tua presenza è gradita, Vesna. Ci mancherebbe altro!”

 

***

 

Nonostante quasi tre anni in politica, c’erano cose che continuavano a mettere Noam a disagio. Tra di esse c’erano le macchine troppo grandi col sedile davanti lasciato vuoto, l’ostentazione del lusso e la farsa della sicurezza, e durante quel breve tragitto dovette sforzarsi per convivere con tutte e tre. Ma soprattutto si sforzava di immaginare Adrian al posto del tizio che era venuto – letteralmente – a prelevarlo sotto casa.

Sapeva che aveva lavorato per Kàmil Òraviy e che aveva fatto parte della sua scorta personale per anni, ma Noam percepiva sempre un sottile disprezzo quando gli parlava di quel mondo, e lo aveva percepito anche un attimo prima, quando si era relazionato con l’ex collega. Un giorno gli aveva detto che fare la guardia del corpo non era una vocazione ma solo un mestiere e che, anzi, “preferiva lavorare persone di cui non aveva stima”, che comunque gente come quella avrebbe sempre trovato qualcuno disposto a proteggerla, e allora tanto valeva lo facesse lui. Tanto valeva lo facesse lui. Che era un po’ come dire che il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo. Che era come dire che non gli importava poter pensare di se stesso che faceva qualcosa di buono o di bello. Questa idea lo aveva sempre turbato un po’, almeno quanto lo turbava l’idea di venir investito della responsabilità della vita di qualcuno senza provare per quel qualcuno alcuna forma di sentimento.

E lo turbava di più l’idea che Adrian non fosse consapevole di poter fare la differenza, che non avesse la più pallida idea di quanto la sua presenza lo avesse sostenuto, rasserenato, influenzato.

Scesero dalla macchina ai piedi di una villa che rispecchiava il peggiore dei cliché, partendo dalle siepi di bosso nel giardino e dai vialetti di ghiaia bianca per finire alla scalinata di marmo e alle statue a grandezza umana di un kitsch imbarazzante. Noam si chiedeva come si potesse vivere in un posto del genere, e si chiese anche se invece i padroni di casa non ci vivessero affatto, ed usassero quella location solo per mettere a disagio gli interlocutori scomodi.

Quel giorno era lui l’interlocutore scomodo, ma chissà quanti altri ne erano passati di là, chissà quante volte uomini come Kàmil Òraviy avevano mandato a chiamare un disgraziato che aveva osato alzare una voce contro di loro con la naturalezza con cui un professore infastidito chiama l’alunno indisciplinato alla cattedra.

Vìrnosz si fermò ai piedi della scala (tanto sulla porta principale c’erano altri due uomini, più immobili delle improbabili statue di dubbio gusto) e fece cenno ad Adrian di trattenersi, ma lui lo ignorò. Noam se ne sentì sollevato.

Un altro individuo, ingessato in un completo da serata di gala, li accompagnò in glaciale silenzio per un dedalo di sale - sui cui arredi da museo Noam evitò di soffermarsi - finché non fu davanti ad una porta aperta da cui proveniva molta luce, e annunciò i due ospiti al padrone di casa.

Dall’interno, la voce argentina e quasi dolce di Kàmil Òraviy lo sorprese, contrastando bruscamente con l’austerità dello studio, dell’uomo in completo e di quell’atmosfera da inquisizione (ma non con la bella luce del pomeriggio, che invadeva lo studio del Grande Capo con la sfacciataggine che solo il sole di certe belle giornate sa avere).

“È una gioia conoscerla di persona, signor Dolbruk! E mi voglia scusare per lo scarso preavviso!”

Prima che potessero affacciarsi sulla soglia, il padrone di casa si era alzato da un largo divano angolare ed era andato loro incontro, porgendo la mano a Noam e afferrando la sua vigorosamente.

“Ed è un piacere anche rivedere lei, Adrian, benché avrei preferito che qualche volta fosse passato per un saluto: lei sa che provo un perverso piacere nell’essere adulato e sarebbe stato molto gentile da parte sua assecondarmi!”

Adrian abbozzò un sorriso di cortesia.

“Non sono quel tipo di persona. Sono piuttosto il tipo che porta a termine il suo lavoro e poi toglie il disturbo come se non fosse mai passato. Se non sbaglio lei mi apprezzava esattamente per questo.”

Si guardavano dritti negli occhi con una diffidenza affabile, consapevoli l’uno dell’intelligenza dell’altro.

“Lo so, lo so, ed è quasi un peccato, perché lei è un eccellente conversatore. Quasi come il nostro promettente parlamentare, qui. Non pensa anche lei, signor Dolbruk?”

Gli rivolse un’occhiata amabile e Noam si sentì per un attimo inchiodato da quello sguardo. Pensò che Kàmil Òraviy fosse indiscutibilmente l’uomo più soverchiante che avesse mai incontrato: altissimo, spalle larghe, lineamenti perfetti, un sorriso accattivante ma pieno di sottintesi, il portamento di chi ha la certezza di essere guardato e non teme alcun giudizio. Sembrava irreale: preso tutto di un pezzo dalla copertina di una rivista, dalla locandina di un film, e messo lì… Finto: ma con due occhi di ghiaccio così affilati che sembravano poter guardare anche l’invisibile e mettevano paura. Era stato quell’aspetto ad aiutarlo a divenire Kàmil Òraviy, o era stato l’essere Kàmil Òraviy a portarlo a costruirsi quell’aspetto?

“Oh, mi perdoni. Non l’avrò mica messa in imbarazzo?”

Noam si riscosse, sfoderò il migliore dei suoi sorrisi.

“Assolutamente. È stata piuttosto la modalità dell’invito a mettermi in imbarazzo, se si può dire.”

Uno ad uno e palla al centro.

“Mi scuso anche per questo,” (nessun reale dispiacere nella sua voce, al contrario, un divertito compiacimento) “ma avevo davvero molta, molta urgenza di parlarle. Per la stima che ho di lei, mi creda!”

Quell’uomo era pericoloso e non voleva nascondere di esserlo.

“Infatti sono qui.”

E rimase lì, in attesa, cercando di mantenere fermo il sorriso e non abbassare lo sguardo.

Òraviy fece spazio sulla porta, e lo invitò ad entrare. L’uomo che li aveva accompagnati era scomparso come un fantasma, senza rumore.

“Preferirei che parlassimo da soli” disse, guardando in tralice Adrian.

“Io preferirei di no.” tagliò corto Noam.

“Di cosa ha paura, signor Dolbruk?”

Mellifluo, terribilmente gentile.

“Dei conflitti.” rispose.

“Oh, ma io detesto i conflitti. Non ci sarà alcun conflitto tra le mura di casa mia.”

“Non ci sono segreti tra Adrian e me. Voglio che resti. ”

Òraviy annuì con lentezza, poi lo squadrò da capo a piedi con quei due occhi incredibili, attenti, troppo attenti, ma troppo, troppo distanti.

“Lei è proprio giovane. Quanti anni ha, se posso permettermi?”

“Trentadue.”

“Trentadue. L’età di mio figlio.”

Lo disse con distacco, senza nessuna forma di tenerezza paterna. Noam pensò a Segùr: come si faceva a vivere nell’ombra di un padre simile? Ad essere qualcuno, nonostante un padre simile? Da un genitore così, non era possibile sperare di essere visti e per esistere c’erano due sole strade: sfidarlo o fuggire. Segùr era fuggito. Lui aveva fatto prima una cosa e poi l’altra.

“Trentadue,” ripeté “e così pieno di risorse. Complimenti. Ma lasci che le dica una cosa, lo prenda come un consiglio da parte di chi ha più esperienza di lei: è importante avere dei segreti. I segreti tengono al sicuro non solo noi, ma soprattutto le persone con cui scegliamo di non condividerli.”

Noam rimase di nuovo per un attimo bloccato, incerto se dovesse interpretare quella frase come una non richiesta perla di saggezza o come una minaccia. Fu Adrian a sciogliere l’impasse.

“Se il signor Òraviy desidera parlare con te, non vedo perché dovrei intromettermi. Stai tranquillo, conosco perfettamente questo posto e le persone che lavorano qui. Non c’è luogo più sicuro.”

Òraviy sfoggiò un sorriso d’approvazione al suo indirizzo e lui ricambiò, ma con gli occhi cercò Noam, che comprese benissimo. Se Adrian avesse voluto ascoltare quella conversazione, lo avrebbe fatto: niente di più semplice per uno come lui, che aveva lavorato in quella casa per anni.

 

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Capitolo 20
*** "Karìma" ***


“Non fare quella faccia da sono scontento di me stesso: ti assicuro che sei stato inattaccabile, avresti meritato una standing ovation!”

Ma doveva essere stato davvero duro sostenere quella conversazione.

“Alzare i toni non è da me. Non volevo risultare aggressivo.”

“Aggressivo? Dammi retta, tu l’aggressività non sai nemmeno dove sta di casa.” Stappò un’altra birra e gliela porse “Quindi guardami negli occhi e ripeti: quell’uomo è uno stronzo ed io sono stato molto elegante!”

Da dove gli veniva tutta quella leggerezza? La voglia di scherzare, di strappare al suo amico un sorriso, di parlare di quel pomeriggio come due pettegole parlano dell’ultima avventura amorosa?Doveva essere colpa del divano. Delle birre, della sera, della stanchezza, ma soprattutto del divano. Era così facile sprofondarci dentro, lasciare fuori il resto, sentirsi a casa.

Noam era questo. Noam era casa.

“Sono stato elegante?”

“Elegantissimo.”

Noam prese il tappo della bottiglia e cercò di fare canestro nel cestino. Mancandolo di brutto.

“Questo invece non era granché elegante.”

“Eh no…!” bevve dalla bottiglia e si svaccò tra i cuscini, con le gambe lunghe distese in avanti e la testa riversa al soffitto “Lo ha trovato normale, capisci? E gli sembrava anormale che io fossi sorpreso! Ma che dico, sorpreso. Basito. E anche indignato, ma l’indignazione è arrivata dopo, deve essere per questo che non l’ho saputa gestire bene.”

Adrian invece non si era stupito affatto, ed in realtà – ma questo evitò di dirlo – anche a lui appariva piuttosto paradossale l’idea che Noam fosse caduto dalle nuvole alla proposta di Òraviy: che non avesse neppure messo in conto l’eventualità di riceverla, una proposta del genere.

Aveva lanciato una sfida ad uno degli uomini più potenti del paese, un uomo che da solo poteva comprarsi mezza nazione: quell’uomo lo invitava ad un rendez-vous privato, e gli offriva una cifra a molti zeri come “amichevole” scambio di favori… Che c’era di non prevedibile? Il solo imprevisto in quella faccenda era proprio la reazione di Noam. Doveva averlo pensato anche Òraviy!

“Mi ha detto Abbia l’umiltà (Dio, l’umiltà!) di affidarsi a chi è più esperto di lei, ed io le cambierò la vita! Ti rendi conto? Cambiare. La. Mia. Vita. Come se i suoi maledetti soldi potessero fare questo!” si tirò su con la schiena e sostenne la sua argomentazione gesticolando con entrambe le mani “Se i soldi – i suoi, i miei, quelli del partito – fossero sufficienti a cambiarmi la vita, negli ultimi tre anni sarebbe già cambiata! Ma non cambia, Adrian. È proprio in questo modo che la vita non cambia mai!”

Era davvero arrabbiato, sembrava che avesse appena assistito ad un ingiustizia cosmica ed Adrian trovava quel suo improbabile sdegno meraviglioso.

Gli sarebbe proprio piaciuto che persone come Karìma Mirèl avessero potuto ascoltarlo, assistere a quella spontanea ed eroica protesta con i loro occhi, in una dimensione privata, lontano dai riflettori, come era concesso a lui… ! Ma fuori da quella stanza, nulla di questo era credibile, e nessuno rimane pulito in un giro di milioni: nemmeno il candido, soave Dolbruk.

“Non è esattamente ciò che hai risposto? Che la tua vita cambierà nel momento in cui sarà cambiata anche quella della tua gente?” gli tolse la bottiglia dalla mano e la appoggiò al sicuro sul tavolino, dove ormai ce ne erano diverse altre “Tra parentesi: chi te le scrive le battute? È bravo il tuo sceneggiatore!”

Finalmente a Noam scappò una risata.

“Ne apriamo un’altra o passiamo al liquore? Stasera non devi guidare!”

Già. E forse per questo motivo si era lasciato andare troppo; sentiva la testa ovattata, i pensieri sfilacciati: era diventato così difficile distinguere il se stesso guardia del corpo in servizio seduto a fianco del suo cliente dal se stesso afflosciato su un divano a fianco di un amico…

“Che pensi dovrei fare, Adrian?”

E quella benedetta domanda arrivava tutte le volte – colpa del divano, ma sì, solo colpa del divano – e continuava tutte le volte a colpirlo, perché Noam di idee ne aveva mille, duemila, tremila, ma si comportava come se una sua sola risposta avesse più peso di quelle mille, di quelle duemila, di quelle tremila.

“Hai fatto la scelta che andava bene per te. Hai detto di no.”

“Ma tu che avresti fatto?”

Che avrebbe fatto.

Beh, innanzi tutto avrebbe temporeggiato, nel tentativo di capire cosa ci fosse sotto.

Kàmil Òraviy non aveva chiesto a Noam una ritrattazione, non l’aveva attaccato in pubblico, anzi, gli aveva offerto del denaro e promesso il rispetto di tutte le normative che, in caso di vittoria, l’amministrazione Màrna avesse voluto introdurre, in cambio di un’esclusiva per le attività estrattive sui Mor-darèuk. Un buon piano per sbarazzarsi in blocco della concorrenza.

Forse, se Noam fosse stato anche solo un po’ più manipolativo, avrebbe potuto cercare di sfruttare la situazione per liberarsi di qualche avversario, incassare un successo parziale e pensare al gruppo Òraviy più tardi.

Ma Noam non era proprio fatto così.

Ancora una volta, come gli era successo spesso in passato, Adrian pensò a quanto quell’uomo eccessivamente gentile non avesse alcuna possibilità di spuntarla. Detestava quella sensazione: avrebbe voluto davvero sostenerlo, credere che potesse farcela, che il suo testardo entusiasmo potesse lasciare un segno nel mondo. Ma il mondo veniva segnato da ben altre vite, da ben altre indoli. Noam poteva solo sperare di rimanere pulito e coerente a se stesso, e lui poteva solo sperare di riuscire a proteggerlo.

“Cosa avrei fatto io non ha importanza. I darbrandesi dicono che La purezza ci salverà e tu pensi che, se fossi venuto meno a questo principio, non avresti più avuto la forza di provare a trattare con FDL. Che poi è la cosa che vuoi. Non è forse così?”

Noam sorrise ad arrossì.

“Accidenti.” disse “Sentirlo dire da te suona bello.”

“Anche il mio sceneggiatore è bravo.”

 

***

 

Dopo una giornata così ci voleva una sigaretta.

Adrian non era un fumatore abituale, aveva iniziato in polizia, per imitazione, ma presto l’atto di fumare era diventato l’espressione di un’emozione non altrimenti codificata: qualcosa che stava a metà fra la ribellione e la rassegnazione, una specie di ondeggiamento tra l’una e l’altra, e il fastidio fisico che ne conseguiva.

Quel pomeriggio, aveva desiderato di spaccare la faccia a Kamil Òraviy, e provare quel desiderio così irrazionale eppure così viscerale lo aveva scosso: Òraviy non aveva fatto nulla di diverso da ciò che ci si poteva aspettare da un uomo nella sua posizione, era stato disturbante e presuntuoso esattamente come sempre in tutti gli anni in cui era stato al suo servizio, ma per Adrian non era mai stato un problema. Al contrario: quel suo essere così respingente era esattamente ciò che lo metteva a proprio agio sul lavoro.

Ma Òraviy si era divertito a punzecchiare Noam, a farlo sentire piccolo, inesperto, in balia di poteri più grandi che non poteva contrastare, a cercare di demolire sottilmente la sua disperata fiducia nella possibilità che il mondo potesse andare da qualche altra parte rispetto a dove era sempre andato. Una disperata fiducia, già: ma colorata, trascinante, piena di luce.

Voler distruggere quella fiducia era come voler distruggere il piacere di guardare le cose belle. Perché le cose belle a volte non servono e niente, non cambiano un accidente e durano dall’oggi al domani: ma ti aiutano ad alzarti la mattina.

Diede un ultimo, lungo tiro.

La luna era alta, che ore erano? Le due? Le tre?

Non era rientrato nel suo appartamento: dopo aver dato la buonanotte a Noam era sceso sotto il portone di casa a prendere aria.

Fumare. Ondeggiare tra rassegnazione e ribellione per un po’.

Schiacciò il mozzicone sotto la scarpa, e nel rialzare la testa si accorse di una presenza imprevista sull’altro lato della strada, sotto il lampione.

Per la miseria, ci mancava anche lei! Quella giornata non voleva avere fine…

“Ciao Adrian! Sveglio?”

Se non altro, niente cappello.

Attraversò la strada e le andò incontro.

“Ciao Karìma. Magari sto dormendo e mi sei apparsa in sogno. Dio, ma ti accorgi di che domanda del cazzo mi hai appena fatto?”

Lei sorrise, ma meno sfacciatamente del previsto.

“Noam dorme?”

“Lo spero.”

E che razza di risposta era la sua? Aveva fegato a lamentarsi delle domande altrui!

Però sì, sperava davvero che Noam dormisse, perché troppo spesso Noam non dormiva, assorbito in troppe cose. Figuriamoci quella notte.

Karìma intanto aveva puntano il dito verso il portone.

“È buffo… su quel campanello risulti ancora come Yiv Bàmen. È un nome molto bello, Yiv. È arioso. Però di questa copertura non ne hai più bisogno da mesi…”

“La minaccia di essere denunciata per stalking ti fa un baffo, eh?”

Non era arrabbiato, al contrario, qualcosa di quella situazione, in quel momento, lo stava distraendo da altri pensieri. Perché non poteva avere anche lui, naturalmente, quel tipo di pensieri? Perché non poteva compiacersi come avrebbe fatto qualsiasi uomo davanti ad una bella donna che viene a cercarlo a quell’ora? Magari doveva solo lasciarsi andare a quel giochetto e vedere dove li avrebbe portati. Magari quella giornata sarebbe finalmente finita.

“Certo che è stato grande. Non me l’aspettavo.”

“Eh?”

“Il tuo adorabile amico. È stato grande. Si è messo contro i Tre Boss senza fare una piega, come se fosse pure normale!” e rise.

Adrian alzò il sopracciglio. Ancora una volta Karìma mostrava di sapere qualcosa in più di lui.

“I Tre Boss?”

“Ma dai!” lo guardò con un’espressione mezza sorpresa che in realtà voleva rimarcare la propria superiorità “Òraviy, Pàramiy e Komt, i tre pezzi grossi che hanno ottenuto la gestione dei fondi per lo sviluppo del Dàrbrand e che, per inciso, si dividono il paese. Gli Òraviy con il monopolio dell’informatica, ma in realtà dell’intero sistema delle comunicazioni, i Pàramiy coi trasporti e i Komt, beh… il Banco di Credito Commerciale del Tàlvrand ti dice qualcosa?” sorrise, si fece una domanda da sola e si rispose “E no, ovviamente Noam Dolbruk non riuscirà a fare nulla di ciò che ha minacciato. Ma la sua mossa potrebbe portare conseguenze interessanti, come, per fare un esempio, portare l’attenzione su in che modo questa gente ha ottenuto quelle concessioni, o su fino a che punto, in realtà, abbiano fatto illegalmente trust per sbattere fuori tutti gli altri… Scheletri nell’armadio, insomma!”

Di nuovo, Adrian si trovava a chiedersi la stessa cosa.

“Perché condividi queste informazioni con me?”

Lei gli strizzò l’occhio, ma non aveva la faccia di una che stava scherzando.

“Perché mi piaci.”

Adrian esitò, colto sul vivo: lei se ne accorse e completò il suo affondo.

“Sì sì, mi piaci proprio nel senso che intendi. Ma non solo in quello.”

Guardò verso la facciata della casa ed anche Adrian seguì quello sguardo. La luce alla finestra del terzo piano era ancora accesa, che accidenti faceva Noam?

“Mi piaci perché mi tieni testa, perché sei sveglio, sei ombroso e molto più arrabbiato di quello che sembri.”

“Arrabbiato?”

“Sì. C’è tanta rabbia dietro quei tuoi modi calmi e sicuri. Rabbia che non lasci uscire perché non ti senti in diritto di farlo. Non ho idea del perché, ma del resto sono fatti tuoi, no?”

Dove voleva andare a parare adesso? Giocava a fare la psicologa?

Eppure, eppure…quella rabbia stava lì e lei la vedeva. Quella rabbia che lui aveva cercato di seppellire. Quella rabbia che gli era montata dentro per anni e che, un giorno, senza pensare alle conseguenze, aveva lasciato libera di agire. La rabbia che aveva distrutto la sua vita.

Proteggere uno come Noam era bello e facile, ma proteggere uno come Noam non avrebbe dovuto spettare a lui.

“Allora? Ti ho fatto un po’ incazzare?”

“No.”

“Peccato, così diventavamo amici.”

Seria.

“Ehi, non è mica una regola che per essere miei amici bisogna farmi incazzare.” disse, con una dolcezza che nemmeno lui si sarebbe aspettato “Beh, magari se eviti di fare la stronza con una certa persona a me cara che non desidera mettere in piazza i suoi scheletri guadagni dei punti, però!”

Karìma rise con un po’ di amarezza.

“Senti, lascia stare. In realtà volevo solo fare un po’ di commedia per vendicarmi dell’ultima volta, perché con le tue parole hanno mi hai ferita, ed è molto sgradevole essere feriti da persone che ci piacciono. Però hai colto nel segno. È vero che mi sento più intelligente degli altri, credo che il mondo non mi abbia dato il riconoscimento a cui avrei diritto e sono invidiosa di tutti coloro che, senza meriti apparenti, hanno ottenuto quello che non ho ottenuto io. Fin da ragazza ho dovuto arrangiarmi da sola: non ho mai avuto nessuno che mi spingeva, ed ho sempre dovuto contare solo sulle mie capacità. Borse di studio alle superiori, poi l’università fuori sede, i soldi che non bastavano per pagare l’affitto. Ma per i miei professori e i miei colleghi io ero un’eccellenza, ero Karìma che capiva le poesie al volo, Karìma che superava ogni esame col massimo dei voti, Karìma che aveva un dono veramente speciale per la scrittura e che vinceva un premio dietro l’altro. Così ho finito per convincermi che sarei diventata qualcuno, magari una critica letteraria o una scrittrice di successo. Ma il mondo non gira così. Dopo la laurea, cercai di ottenere un assegno di ricerca, ma la risposta fu che dovevo aspettare. Aspettare cosa? Beh, che nella commissione d’esame ci fosse almeno un professore disposto a raccomandarmi. Ero brava, sì… questo lo dicevano tutti: perciò se volevo restare a far ricerca, ponti d’oro. Gratuitamente, però. Provai a mandare una mia raccolta di racconti ad una serie di editori, senza successo, poi provai con l’auto pubblicazione e fu un flop totale. Quanto alle case editrici, ne ho girate tante: contratti a termine da due soldi per scrivere risvolti di copertina in cui il tuo nome nemmeno compare, un capitolo su un manuale scolastico se sei fortunata. Poi, tra una correzione di bozze e l’altra, incappi in opere vergognose che devi quasi riscrivere da capo, ma gli autori sono i rampanti figli di certe persone, e i loro romanzi dalla sintassi sgangherata e quattro aggettivi in croce saranno i best-seller della prossima estate. Così ho lasciato perdere questo tipo di ambizioni. Preferisco fare stampa spazzatura che vivere in un mondo di gente spazzatura. Scheletri nell'armadio non sarà una gran rivista, ma almeno mi permette di scrivere quello che mi pare. E se i miei bersagli mi fanno arrabbiare tanto meglio.”

Cominciava a capire. Karìma preferiva essere la numero uno in un settore che non amava, piuttosto che l’ultima ruota del carro nel mondo a cui avrebbe voluto appartenere. Ma una cosa, invece, non la capiva…

“E perché Noam ti fa arrabbiare? Non credo lo meriti.”

“Oh. Noam Dolbruk mi fa arrabbiare proprio perché non fa arrabbiare nessuno… anche se stavolta mi sa che ci è riuscito!”

Diede in una risata forzata.

“Tuttavia, nonostante io abbia sinceramente apprezzato la sua ultima mossa, no: lui non mi piace affatto.”

Lo sguardo di Karìma era cambiato: erano improvvisamente spariti sia l’arroganza sia quella sensazione di permanente secondo fine.

“Non mi piace perché è di una bellezza perfetta e autosufficiente, a cui non c’è nulla da togliere o da aggiungere, e io diffido della troppa bellezza. L'umanità è difettosa, Adrian: l'umanità è sporca, è indecisa, cade nelle trappole, imbroglia e cede ai compromessi. Deve esserlo per sopravvivere. L’uomo che proteggi sembra voler negare questo: lui è quello sulla cui coerenza metteresti la mano sul fuoco, è quello che deve conservare ad ogni costo la propria purezza e che non ha paura di correre dei rischi, anzi, li cerca... ma ciascuno di quei rischi lo rende così poco affidabile! Come ci si può fidare di qualcuno che non tiene davvero al proprio interesse personale, che ostenta di non tenerci mai? Senza attaccamento alla propria felicità individuale, senza un egoismo sano e necessario, non si può pretendere di lavorare per la felicità altrui.”

Accidenti, Karìma era davvero più intelligente degli altri.

La sua non era la banale critica di un delatore, non era nemmeno l’espressione di una diversa posizione politica: era l’osservazione attenta di qualcuno che guarda in profondità l’animo umano. Adrian non si era mai posto da un punto di vista del genere.

E però lui amava quella troppa bellezza. Amava il fatto che Noam fosse così e non fosse in grado di essere altrimenti. Forse era ancora colpa del divano (e di Mòrask, e di quel giorno) o forse no, forse tutto era iniziato molto prima, quando aveva accettato quel compito per curiosità e per noia, perché trovava intrigante l’idea di proteggere qualcuno che non voleva essere protetto: ma aveva smesso di essere lucido da un pezzo, non poteva essere lucido nei confronti dalla sola persona che riusciva a chiamare amico.

“Adrian… ?”

Karìma aveva detto qualcosa che lui non aveva sentito, smarrito dentro quel pensiero.

“Scusa, ero distratto. Sì, capisco quel che vuoi dire, e…”

“Scommettiamo che ti dimostro che sono più in gamba di te?”

Adesso aveva di nuovo il suo sorriso indisponente e provocatorio. Difficile capire quale dei due volti gli piacesse di più. Il guaio era che, probabilmente, gli piacevano parecchio entrambi.

“Davvero? Cosa scommettiamo?”

“Che se vinco accetti di fidarti di me.”

“Una posta un po’ alta…”

“Sì, ma quel che c’è in ballo è pur sempre la sicurezza di una persona che ti sta a cuore!”

Adrian sentì un veloce brivido attraversargli la schiena e per un attimo si chiese se quella fosse una minaccia. Karìma se ne accorse e scrollò la testa.

“Iniziamo male, uomo pieno di pregiudizi!”

Estrasse qualcosa dal portafogli, gli porse un biglietto.

“Sono certa che non hai idea di come metterti in contatto col fantomatico Fronte e che tu voglia farlo, perché non puoi lasciare questa pista non battuta.”

Maledizione, se era più intelligente degli altri!

“Quanti punti vale sapere dove si trova il misterioso Thièl?”

 

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Capitolo 21
*** "Previsioni" ***


“Ma certo che puoi prenderti dei giorni di ferie: anzi, devi!”

E invece era strano perché, in quasi un anno, Adrian non aveva mai chiesto un solo momento libero, mai, nemmeno sotto le feste, come se non avesse niente di importante da fare oltre che occuparsi di lui, come se non avesse una vita. Noam si era sentito persino in colpa, si era chiesto che tipo di contratto avesse sottoscritto col partito e aveva insistito tante volte perché si prendesse una vacanza, ma lui aveva sempre risposto sbrigativamente di no.

Per questo quella richiesta lo aveva allarmato.

“Va tutto bene, vero?”

In fondo sapeva davvero poco della sua vita privata e Adrian non ne parlava mai.

“Ma dai, sto chiedendo delle ferie, non un permesso per lutto!”

La risposta, quanto più voleva avere un tono rassicurante, tanto meno lo convinse.

Non era bravo come Adrian a leggere i pensieri degli altri, ma era stato un cospiratore troppo a lungo: capiva quando qualcuno gli stava mentendo.

“È normale che un po’ mi preoccupi, dato che hai tutta l’aria di uno che sta cercando di non dirmi qualcosa…”

Adrian abbozzò un sorriso che lasciava trasparire un pizzico di ammirazione.

“Niente male! Sono felice se diventi bravo a smascherare i trabocchetti altrui, vista la gente che ti piace provocare.” gli strizzò l’occhio “Ma non ci provare con me, non hai speranze.”

Aveva il viso disteso, l’aria rilassata, gli stessi modi rassicuranti di sempre. Cosa non andava allora? Era la richiesta inaspettata a stordirlo, o semplicemente, dopo tutto quel tempo, lo spaventava l’idea di trovarsi con le spalle scoperte? Volle escludere quest’ultimo pensiero. No, lui non aveva paura, non ne aveva avuta quando aveva militato con FDL, non ne aveva avuta di fronte a esplicite minacce.

Eppure, di paura si trattava.

Paura che fosse Adrian a non fidarsi di lui.

Paura di essere solo la persona che viene protetta, di non poter essere mai lui, quello solido. Di poter solo ricevere senza aver nulla da dare in cambio.

“Se avessi bisogno del mio aiuto, me lo chiederesti…?”

“Stai tranquillo.” (quante volte glielo diceva? Appariva proprio così poco tranquillo? E lui che si illudeva del contrario!) “Va tutto bene. Non ho da un pezzo più nessuno a cui debba correre in soccorso, escludendo una vecchia zia un po’ fuori di testa la cui cura non spetta a me, e con la quale, per inciso, non sono mai neppure andato d’accordo. Quindi non c’è nessuno da cui possano arrivarmi cattive notizie, nessuno per cui stare in pensiero.” si corresse, abbozzò un sorriso gentile “Tranne te, intendo.”

“Allora promettimi almeno di non stare in pensiero.”

“Questo non accadrà perché ho già parlato con Segùr. Ci sarà qualcun altro che si occuperà temporaneamente della tua sicurezza.”

“Ho cambiato idea, non ti ci mando, in ferie!”

“Cretino.”

Amava quella parola, e non perché “gli facesse piacere sentirsi dare del cretino” ma perché era il modo di rimarcare una specie di patto, un legame tra loro.

Eppure, in quel momento, avrebbe voluto sentire quel legame un po’ meno unilaterale.

Gli aveva raccontato cose che non aveva confessato a nessuno: gli aveva messo in mano, letteralmente, il suo passato, i suoi ex compagni, la sua famiglia, la sua carriera. Lo aveva fatto senza riserve, non aveva avuto dubbi: si era buttato nel vuoto certo di trovare una rete di sicurezza.

Sicuro che Adrian fosse la sua rete di sicurezza.

E non sapeva nulla di lui.

***

 

Recarsi alla sede del partito era divenuto un po’ più ostico dopo l’incrinatura con Zjam. Benché quest’ultimo non fosse più tornato sulla questione, specie dopo l’impennata di popolarità scatenata dal “piccolo incidente diplomatico”, era stato l’atteggiamento di numerosi altri colleghi ad essere cambiato: se prima lo guardavano con la sufficienza con cui si guarda l’impiegato giovane che deve ancora imparare come va il mondo, o al massimo con quel poco di simpatia che si rivolge agli idealisti e ai sognatori, ora sentiva di avere puntati addosso occhi diversi, davanti ai quali aveva guadagnato al tempo stesso in rispetto e in ostilità. Sapeva che nessuno aveva mai scommesso sulle sue capacità: l’unico ad aver investito su di lui era stato proprio Kàrkoviy, per quanto gli avesse sempre attribuito un ruolo principalmente di facciata. Ma quel ruolo glielo aveva cambiato quando gli aveva chiesto Mòrask a sostenere un candidato palesemente filo-indipendentista, che dieci anni prima aveva simpatizzato per il Fronte.

Di questo Noam era consapevole, gli era stato chiaro nel momento stesso in cui aveva incontrato Lant: si domandava, invece, quanto lo fosse a Zjam.

La “sfida” ad Òraviy e compagnia non era stata la sua prima “mossa rischiosa”, era solo stata quella che aveva dato nell’occhio: ma accettare di sostenere Màrna, fare propaganda per lui, stringere reti di legami con la comunità degli emigrati darbrandesi sparpagliati nella Repubblica, l’intero lavoro dei suoi ultimi quattro mesi di vita erano stati tutti piccoli rischi impilati uno sopra l’altro, come tanti piccoli mattoni. Ed era un rischio per Lant essersi candidato a quelle amministrative, perché il terrorismo più radicale avrebbe potuto vederlo come un complice dell’odiato governo centrale, ma era un rischio anche vincerle, perché se mai Màrna fosse stato eletto, non avrebbe potuto permettersi di starsene fermo a fare l’uomo immagine per Liberi Insieme.

“Avevo proprio voglia di parlare un po’ da solo con lei, signor Dolbruk.”

“Noam.”

“Avevo proprio voglia di parlare un po’ da solo con lei, Noam.”

Aveva sempre trovato Segùr una persona difficile: difficile perché tanto più era alla mano, gioviale e persino spiritoso, tanto più teneva gli altri a debita distanza, e lui in particolare. Ancora lo chiamava “signor Dolbruk”, o solo “Dolbruk” quando era distratto o di fretta: eppure erano coetanei – lo aveva confermato persino suo padre – e collaboratori da tre anni!

Non somigliava affatto ad Òraviy senior, e Noam non aveva neppure ipotizzato una parentela finché non era stato Adrian a fargli fare il collegamento: piccolo, slavato, formale ma non troppo, con un sorriso bonario e un po’ sornione, Segùr appariva freddamente amabile, non amabilmente spaventoso! Le due grigie fessure degli occhi, però, quelle sì, a guardarle bene le aveva prese da lui.

“Beh, in effetti sono proprio da solo e ci vorrei restare per questi pochi giorni, guardi un po’…!”

Ci aveva provato, Noam, ad abolire il pronome di cortesia con lui, ed era stato apertamente ripreso: ci era rimasto quasi male. Ciò non significava che quel giovanotto non gli desse confidenza nella conversazione, al contrario: erano una buona spalla l’uno per l’altro, a Segùr piaceva stuzzicarlo, a volte prenderlo un po’ in giro ma non risparmiava neppure i complimenti e le parole di approvazione, solo che esigeva, nel linguaggio come nei fatti, che ciascuno di loro rimanesse nel proprio spazio.

“Non ci provi nemmeno: il nostro sistema di sicurezza prevede i sostituti, e per una volta, la prego di cuore di non voler essere l’eccezione… ” fece un piccolo sorriso che illuminò la sua pallida faccia lunghetta “che non vuol sempre dire essere eccezionale, sa? A volte vuol dire anche essere un gran rompimento di…” fece un gesto di intesa con la mano “E qui mi taccio!”

Noam scoppiò a ridere.

“Sì, sono un rompiballe, lo so!” poi interruppe la risata d’improvviso “E tuttavia, non l’ho ancora mai ringraziata di aver assunto Adrian per… gestire uno come me. È davvero… un piacere lavorare con lui, e mi rendo conto di non avergli reso la vita affatto facile.”

“Sono molto bravo a fare previsioni a medio e lungo termine.” Segùr non aveva smesso di sorridere, ma il tono di voce era diventato di colpo serio “in politica, come nei rapporti tra le persone. Per questo, a differenza del signor Kàrkoviy, sapevo quanto lei fosse pericoloso nel momento stesso che ha messo piede qui. Pericoloso per Kàrkoviy, che la vede solo come l’incantevole idealista da strumentalizzare, pericoloso per il Partito, per il paese, e indubbiamente per se stesso.”

Noam spalancò gli occhi, spiazzato, e si guardò intorno quasi istintivamente, a cercare un viso conosciuto che gli facesse da supporto: il corridoio era deserto. Del resto era mattino presto, Adrian l’aveva scaricato lì prima di partire (Dove andava? A fare cosa?) e nessuno sarebbe arrivato alla sede del partito a quell’ora di domenica. Non c’era passione politica capace di intaccare il giorno festivo.

Forse, davvero, solo quella di Segùr.

Perché non aveva mai notato la maniacale dedizione di Segùr? Ogni volta che si era recato lì, lui c’era ad ogni conferenza stampa, tribuna politica, consulto, riunione, emergenza, occasione mondana che coinvolgesse Kàrkoviy, non era mai mancato. Si trattava di devozione ad un ideale o di lealtà ad un individuo? E perché – si trovò a chiedersi all’improvviso – perché quel ragazzo brillante non era mai figurato tra i candidati di Liberi Insieme?

“Adiamo a sederci comodi nel mio ufficio.” stava dicendo Segùr, mentre apriva la strada “Vuole un caffè? Ho comprato dei pasticcini, immagino che le faccia piacere accompagnarli con qualcosa di caldo…”

Che accidenti stava succedendo?

E dove accidenti stava andando, Adrian?

A sistemare una faccenda di eredità, aveva detto, e si erano guardati senza crederci: ma Noam era stato zitto. Aveva scelto di stare zitto.

Maledizione.

“Mi sono fermato da Beràna, hanno la migliore meringa di Noravàl. Adoro Beràna: non pensa anche lei che sia un’eccellenza del nostro territorio?”

Quel parlare vacuo lo faceva rabbrividire, tuttavia si sforzò di rimanere sullo stesso tono.

“Ha sentito il bisogno di comprare delle meringhe perché deve dirmi qualcosa di terribile?” scherzò “Guardi che so incassare bene: non mi serve la dolcezza preventiva!”

“Scacci subito questa illusione. Le ho comprate perché ne avevo voglia. Ho sempre voglia di pasticcini quando lavoro la domenica mattina, a prescindere da cosa devo o non devo dire.” Aprì la porta con il vassoio ancora incartato in equilibrio sull’altra mano “Si accomodi.” disse “Non voglio approfittare del tempo libero di nessuno.”

Gli diede le spalle: la sua figura rigida si amalgamava troppo bene con le linee falsamente semplici, ma in realtà studiate in ogni dettaglio, di quella stanza. Noam si trovò a riafferrare un pensiero che lo aveva sorpreso mentre si trovava nel salotto di Kàmil Òraviy: come aveva fatto Segùr a crescere e diventare visibile? E si sentiva tale o stava ancora lottando perché qualcuno si accorgesse che esisteva? Si domandò se quel ragazzo distaccato ed iper-efficiente non avesse intrapreso la carriera politica per appagare un desiderio di riconoscimento, di emancipazione dall’ombra del padre, se non avesse cercato il sostegno di Kàrkoviy essenzialmente per questo, e se Kàrkoviy, invece, pur così diverso da Òraviy, non lo avesse relegato nel medesimo ruolo: l’uomo che sta dietro le quinte, prezioso per lui, invisibile per tutti.

Segùr preparò del caffè e ne porse una tazza a Noam.

“Lei niente zucchero, giusto?” ricordava anche questo, come ricordava mille altri dettagli delle persone che lavoravano nello staff di Zjam “Una goccia di liquore ce la vuole?”

Noam rifiutò con un cenno della testa. Segùr era bravissimo a amplificare l’impazienza: probabilmente era una tattica per mettere l’interlocutore in una posizione di debolezza… anche questo doveva averlo imparato da un maestro d’eccezione.

“So che mio padre ha voluto incontrarla” attaccò, finalmente “e immagino che lei pensi che io voglia parlare di questo. Beh: non lo pensi.”

Il suo viso si fece scuro, per un attimo quasi malinconico.

“Se vuole che non lo pensi, mi dica di cosa desidera parlare, invece di girarci intorno.” Noam cercò di sorridergli con tutta la dolcezza che poté “Mi creda, mi piacerebbe che lei volesse solo un po’ di compagnia in un’uggiosa domenica mattina, ma poiché non è così, allora nemmeno io voglio abusare del suo tempo libero, Segùr.”

Lui si irrigidì per un attimo, e nel suo sguardo passò un fugace lampo di rabbia.

“Vede cosa non va in lei, Dolbruk? Pretende di piacere a tutti, di andare bene a tutti, e si arrampica sugli specchi per riuscirci anche quando non è possibile. È irritante.”

Girò nervosamente il cucchiaino nella tazzina, in cui aveva versato – lui sì – zucchero in abbondanza.

“Scommetto che anche con mio padre ci avrà provato, e scommetto che lui le avrà pure fatto credere di esserci riuscito. Kàmil è così: falso fino nel midollo. Nulla di ciò che dice è vero.” esitò, guardò il liquido roteare nella tazza con un’espressione ambigua “Tranne le minacce.”

“Si è fatto un’idea sbagliata di me.” obiettò Noam, colto sul vivo “Amo piacere a tutti, non lo pretendo. Semplicemente, se devo scegliere tra averla vinta ed essere gentile, preferisco la seconda opzione. Ma tra il fare ciò che ritengo giusto e il riuscire a piacere agli altri, ho già preso la mia decisione, e – visto che lei è informato sui fatti – sa bene che è per questo che suo padre ha voluto incontrarmi.”

Segùr annuì, sorseggiando il caffè.

“Bravo. Così va meglio. Faccia lo stronzo un po’ più spesso e forse riuscirà ad essermi simpatico. O pensa davvero di affrontare i ‘Tre Boss’, e l’elettorato del Dàrbrand, e i terroristi, e chissà chi altri indossando la faccia del soave Dolbruk di cui tutti si innamorano senza possibilità di scampo?”

Addentò una meringa e rimase in silenzio a masticarla piano.

Noam non riusciva a opporgli altre parole: per la seconda volta in pochi giorni, si sentiva messo di fronte alla consapevolezza di non essere così benvoluto nel partito come aveva immaginato fino ad allora.

Segùr ruppe il silenzio, e la sua voce era diventata seria, fredda ma soffice, così come i suoi occhi, così lontani eppure così tristi.

“Io ho molta stima di Zjam Kàrkoviy.” disse “Lo rispetto e gli sono affezionato. Ma in questo frangente anche lui, come troppi altri, è abbagliato dalla prospettiva di un cambiamento che non porterà nulla di buono. E la colpa è sua, sua e di questa sua dolcezza fastidiosa, e delle sue illusioni, e dello sfacciato e dannoso carisma con cui sembra riuscire a far credere a tutti che i miracoli siano possibili. Crede di poter far eleggere Màrna come sindaco di Mòrask? Beh, questo sì, purtroppo lo credo anche io. Crede, come crede Kàrkoviy, che questo apra le porte ad un grande cambiamento? Che alle prossime elezioni Liberi Insieme otterrà la maggioranza e potrete festosamente lavorare alla promozione di uno Statuto autonomo del Dàrbrand? Se lo crede, lei è un idiota o, se non altro, un egocentrico patentato. Eppure, lei è nato e cresciuto a Mòrask, è un uomo colto, sa come funziona il mondo e come funziona la sua città.”

Noam fece per dire qualcosa, ma un rigido gesto di Segùr lo bloccò.

“Sono molto bravo a fare previsioni, già. Ma in questo momento Kàrkoviy è talmente affascinato da lei che non è in condizioni di ascoltarle. Dunque le illustrerò la mia teoria direttamente: se Màrna viene eletto, non sopravvivrà al primo anno di mandato. Verrà ammazzato come è successo prima di lui a tutti coloro che sono apparsi a qualche titolo collusi col governo e che non sono abbastanza corrotti da essere protetti, o da stare a Mòrask il meno possibile. Lei invece, a Noravàl e sotto scorta, magari se la cava. O magari no: ma siccome le piace così tanto mettersi in pericolo, la sua sorte è un suo problema. Andiamo invece alle conseguenze che mi interessano di più: di fronte all’ennesimo attentato, i nostri avversari coglieranno la palla al balzo per affossare il partito dimostrando agli occhi di tutti che coi terroristi non c’è modo di discutere perché mordono la mano di chi gliela tende. I potenti che lei ha attaccato tagliano i fondi a Kàrkoviy, Liberi Insieme crolla e lei consegna per sempre la Repubblica a quella gente a cui ci siamo opposti fino ad oggi, la gente che vede la sua terra come un covo di malviventi e di debosciati e che con quelli come voi intende usare il pugno di ferro, la gente che forse alle prossime elezioni avremmo una speranza di sorpassare, se nessuna delle mie previsioni si avverasse.”

“Ma, Segùr…”

“Niente ma. Mi ascolti e non sia testardo, la prego. Non le parlo così per antipatia personale, ma per una valutazione oggettiva: se vuole tenere tutti al sicuro, se non vuole sulla coscienza un morto ed un disastro politico senza precedenti, faccia in modo che il professore perda queste dannate elezioni amministrative.”

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Capitolo 22
*** "Albero" ***


Adrian non immaginava che avrebbe rivisto tanto presto quel posto.

Eppure con un po’ di lungimiranza avrebbe potuto pensarci.

Dove era finita la sua vantata lungimiranza?

Era andata a farsi fottere già in quella notte di pioggia, quando per la prima volta era arrivato lì, quando il suo solo pensiero era cosa potesse passare nella testa di un uomo che si butta in mezzo a un diluvio gridando contro il cielo, e perché quel gesto tanto assurdo gli sembrasse così pieno di dolore e di bellezza...

“È venuto a fare la scorta di artemisia, signor Vesna? Immagino che dopo averla assaggiata sia difficile farne a meno!”

Il padrone di casa sfoderò un sorriso sornione, incorniciato dal rosso ispido della barba.

“In verità…”

“In verità, Vòrkne, è venuto a parlare con me. Vero?”

Vòrkne non si girò neppure verso la persona che gli era apparsa alle spalle.

“Niente vi vieta di bere mentre parlate.”

Sorrise di nuovo ad Adrian e fece largo sulla porta, permettendogli di trovarsi finalmente faccia a faccia con l’uomo che aveva cercato per mesi. Un uomo nascosto in piena vista, proprio nel luogo dove per la prima volta aveva sentito pronunciare il suo nome.

“Fai gli onori di casa, Thièl, e non farmi fare brutta figura!”

Il giovane allargò le braccia in segno di benevolo assenso.

“Ma sì, ma sì! Gli amici di Noam sono sempre i benvenuti. Ci sto.” rise, e il suo viso si illuminò di una luce arrogante “Ti aspettavo prima, Adrian.” e gli allungò la mano “Se vuoi stare al mio passo devi essere più veloce!”

Adrian afferrò quella mano e lo fissò dritto negli occhi: erano tanto simili a quelli di Noam, ma più scuri, più notturni.

“Non so ancora se devo o non devo stare al tuo passo. Non avrei bisogno di parlarti, se già lo sapessi.”

“Ragionevole. Quindi andiamo di sopra e parliamo. Artemisia sì o artemisia no?”

 

***

 

Thièl Dolbruk era uno degli uomini più intriganti che avesse mai incontrato: somigliava a Noam, aveva lo stesso taglio di labbra, gli stessi segni d’espressione, lo stesso volto pulito, con sopracciglia morbide, fronte morbida, contorni morbidi, ma la sensazione che quei due trasmettevano era del tutto diversa: se la morbidezza di Noam lo faceva apparire rassicurante, quella di Thièl insospettiva, ed era continuamente contraddetta dalla velocità dei suoi movimenti, dall’attenzione con cui controllava il proprio spazio personale e dalla precisione con cui i suoi occhi si posavano sulle cose. Bellissimo, forse più del fratello: appena più alto, spalle più ampie, fisico atletico, capelli biondi arruffati e una maglietta mezza manica indossata in barba alla temperatura.

“Svuota le tasche, sii gentile.” con due dita fece l’esempio, mostrando l’interno delle tasche dei propri pantaloni “Evitiamo la situazione imbarazzante di una perquisizione. Tra parentesi, qualsiasi messaggio esca da questa stanza, io lo saprò. Ma preferisco prevenire che curare. ”

Adrian appoggiò il cellulare, spento, su una cassapanca e replicò il gesto delle tasche.

“Se avessi voluto spiare te, non lo sapresti. Ma in un caso del genere non mi sarei presentato.”

“Splendido! Allora sei venuto fin quassù solo per l’onore di conoscermi: sono lusingato!” diede in una risata insolente e si gettò a sedere sul letto, a suo agio “Scommetto che Noam non sa che sei qui.”

Adrian non diede seguito a quella conversazione: non intendeva permettergli di condurre il discorso dove avesse voluto perchè aveva l’impressione che ne sarebbe stato capace.

“Che lo sappia o meno, l’importante è che non sia con noi, dato che dall’ultima conversazione con te ha rischiato di ricevere solo qualche osso rotto.”

Thièl ridusse gli occhi a due piccole fessure, poi sorrise e puntò il dito fuori dalla finestra.

“Vedi quell’albero là?”

Lo guardò: doveva essere un grosso faggio, o qualche pianta affine. Ora che focalizzava l’attenzione sul paesaggio, si rese conto che si trovavano probabilmente nella stanza dove aveva dormito Noam quando si erano fermati.

“Una volta uno dei gatti di Vòrkne era salito lassù. Era ancora un micetto, e Noam si era convinto che non sarebbe riuscito a scendere. Decise che sarebbe andato a salvarlo lui e si arrampicò per riprenderlo. Aveva dodici anni, forse tredici, e non era un atleta, non lo è mai stato. Conclusione: precipitò da qualche metro di altezza, frattura scomposta a una gamba, due mesi di gesso e fine delle vacanze per tutta la famiglia, mentre il gatto, spaventato da tanto fracasso, saltò giù da solo e non si fece proprio niente. Queste sono le cose per cui si rompe le ossa mio fratello: non certo per una scazzottata con me. E quello che non ha ancora imparato in tanti anni è: uno, se non sei capace di fare qualcosa difficilmente salverai qualcuno che sa farla meglio di te; due, bisogna guardare anche in basso.”

“In basso…?”

“In basso. Verso chi rimane ai piedi dell’albero.”

Sbuffò verso l’alto, soffiandosi via una ciocca di capelli dalla fronte. Adrian pensò che poteva somigliargli, a un gatto: con l’aria imperturbabile, ma in realtà pronto a tirare fuori le unghie, o a balzare via.

“Non sono venuto per parlare della vostra infanzia.” (falso, gli sarebbe piaciuto lasciarlo continuare) “Sono venuto a chiederti che intenzioni avete.”

“Io o il Fronte?” lo sfidò, con un sorriso enigmatico. Da gatto, appunto.

“Come se non sapessi che ne sei l’ideologo di punta. Ho letto i tuoi articoli.”

“Ah, beh. Scoprire questo non era difficile. Dammi qualcosa di più se vuoi dimostrarmi quanto vali.”

“Non devo dimostrarti quanto valgo. Non è una sfida.”

“Peccato. E io che invece avevo fatto i compiti. Mm… vediamo, vediamo.” fece ruotare un dito nell’aria come a riavvolgere un filo “Adrian Vesna, 35 anni il mese scorso, nato a Drìamor, paesello di quindicimila anime sulle colline del Vàltrad, figlio di Fèrnes Vesna, matematico e docente di scuola superiore, e Roxàna Tàlviy, veterinaria; studi scientifici, iscritto alla facoltà di ingegneria, che però hai lasciato improvvisamente, nonostante i risultati eccellenti, un mese dopo la morte di tuo padre. Mm… scommetto che ti eri iscritto all’università solo per farlo contento; sarebbe un classico: ci sono cascato anche io, in senso contrario. Noam no: lui ha fatto sempre di testa sua…”

Fu tentato di interrompere quello sfoggio di presunzione, ma si contenne: lasciarlo parlare era anch’esso un modo per avere informazioni di rimando e fargli abbassare la guardia.

“Dunque. Lasci gli studi ed entri all’accademia di polizia, miglior tiratore del tuo corso, ma resti in servizio solo due anni, poi ti dimetti e entri in un’agenzia di sicurezza privata. Non sto a fare la lista delle persone a cui hai parato ripetutamente il culo, per finta o per davvero: sarebbe solo ribadire l’ovvio, tanto lo sai di aver lavorato per una manica di bastardi.”

Il suo viso si incupì e poi schiarì di nuovo.

“Com’è proteggere la vita di uomini che non meritano di essere salvati, Adrian?”

Com’era…

Per un attimo desiderò dirglielo, a quello sbruffoncello che pontificava sulle vite altrui.

Desiderò dirgli, anche solo per vedere che faccia avrebbe fatto, che salvare chi non lo merita era il destino che si era scelto proprio per aver avuto la presunzione – la stessa che aveva lui – di sapere chi lo meritasse e chi no. Che proteggere suo fratello – il suo straordinario fratello che era completamente incapace anche solo di pensare il male, figuriamoci di farne – era un compito ben peggiore che “parare il culo a quei bastardi”, perché non era un compito fatto per lui, perché lo faceva sentire una brava persona, e lui non voleva sentirsi una brava persona.

Ma non rispose e lasciò che la provocazione cadesse nel vuoto.

“Però fin qui non ti ho detto nulla di sorprendente, vero?” proseguì Thièl, spavaldo “Non ho dovuto neppure violare qualche legge sulla privacy per sapere queste cose di te. È notevole, Adrian: il tuo sembra proprio un percorso trasparente, e tu un uomo senza macchia che non sbaglia un colpo. C’è un solo dettaglio più cupo in questa vita quasi banale: a quindici anni, durante un viaggio di istruzione nel parco nazionale di Bam sui monti Roxavàl, assisti alla tragica morte di un compagno di classe, Ròbul Purèl, precipitato da una scarpata. Gli atti del processo aperto contro la scuola non riportano la tua testimonianza: mutismo post-traumatico, dicono. Due anni senza parlare, finché tuo padre non si ammala di cancro e… beh, probabilmente questo avrà cambiato la tua situazione emotiva. Ma io non sono psicologo. Mi domando solo come tu sia potuto entrare in polizia senza dover superare una perizia psichiatrica, ma è pur vero che eri minorenne e forse non hanno potuto accedere a queste informazioni. Io invece sì.”

 

***

 

Sprofondare.

Adrian si sentì sprofondare.

Nel suo passato, nei suoi anni senza voce, in quel crepaccio, negli occhi spalancati di Ròbul, negli occhi di suo padre e di sua madre che non avevano mai saputo la verità, quella verità che, per amore loro, era rimasta nascosta al mondo.

Faceva freddo, il vento tagliava le dita, non avrebbe voluto essere lì.

Eppure aveva dovuto andarci, perché Ròbul aveva deciso che ci sarebbero andati, e se Ròbul decideva, gli altri ubbidivano.

Lui ubbidiva.

Adrian Vesna non sapeva disobbedire.

Adrian Vesna era il ragazzo che studiava, il ragazzo che parlava educato, il ragazzo che non mentiva agli adulti, che amava i genitori, che rispettava gli insegnanti, che diceva grazie e buonasera, che non rispondeva male a nessuno, che abbassava lo sguardo quando gli si parlava e non sapeva dire di no.

Come era finito lì?

Lui non voleva esserci.

Faceva maledettamente freddo.

Eppure era aprile… Com’era possibile che ci fosse un freddo simile?

Le scarpe scricchiolavano sul terreno, le dita dolevano, e tutto quel vento…

O forse no, forse non era freddo, e non c’era vento.

Forse era lui che era precipitato troppo in fondo, troppo in fondo…

Aiutami, Adrian.

Vide gli occhi sbarrati di Ròbul che avevano paura… com’era possibile che Ròbul avesse paura?

E lui che guardava le sue mani e la terra che precipitava e tutto che precipitava.

Sprofondare.

 

***

 

“Cosa ti aspetti che dica, che sei stato bravo? Che sono colpito, ammirato, spaventato? Qual è lo scopo di questa pantomima? Vorrei fosse chiaro a te, prima che a me.”

Gli era costato un grande sforzo mantenere il controllo e ritornare a galla, ma quell’uomo protervo e autocompiacente aveva bisogno di essere ridimensionato: lui non era lì per giocare una partita a scacchi, né per prendere atto della sua intelligenza, era lì nella speranza che avessero almeno un interesse in comune. Thièl Dolbruk, invece, sembrava intrappolato a recitare una parte, come se dovesse sentirsi ad ogni costo riconoscere qualcosa: la leadership che era sempre stata di Noam? Il ruolo di capofamiglia? Di guida del movimento? O solo la superiorità intellettuale tra loro due?

“Non è importante cosa sai di me,” sottolineò “perché il mio compito non è proteggere informazioni: è proteggere tuo fratello.”

“Le informazioni sono fondamentali nel proteggere qualcuno. Se ne avessi avute di più, avresti intercettato il mio messaggio, quel giorno a Mòrask.”

“Vero solo in parte. Forse avrei intercettato il messaggio, ma poi che ne avrei fatto? Avrei impedito a Noam di incontrarti?”

“Avresti dovuto.” adesso era maledettamente serio “Sei tu che devi fare scelte come questa, anche quando lui non è d’accordo. Venire qui senza informarlo, al momento, è stata la sola mossa giusta che tu abbia fatto. Tu devi impedirgli di fare il cazzo che vuole, se veramente ti preme la sua vita.”

L’ombra delle sopracciglia aggrottate si era stesa sui suoi occhi: aveva il volto teso, stanco, come se pronunciare quelle parole gli pesasse molto.

“Mio fratello è un egoista. Un egoista in buona fede, ma senza un briciolo di rispetto per le scelte degli altri. Per questo non devi farti scrupoli nel non rispettare le sue.”

Aveva cambiato completamente tono: come poteva un uomo mutare espressione così in fretta? Sembrava davvero un attore che toglieva la maschera a comando.

“Ti faccio un esempio semplice. Se uno come me decidesse di ammazzarlo…” lo disse con la freddezza di chi trovava quell’eventualità del tutto realistica “e se per farlo dovesse ammazzare anche te… beh, nel caso che Noam riuscisse a ipotizzarlo, o ad accorgersene (e ci riuscirebbe, perché è molto più sveglio di quello che vuole far credere), troverebbe il modo di seminarti e di impedirti di rischiare la tua vita per proteggerlo. Se ne fregherebbe delle conseguenze: della tua reputazione sul lavoro, della tua frustrazione per il fallimento, persino del tuo senso di colpa e del tuo dolore se lui dovesse morire davvero. Noam è così: per prima cosa pensa a quello che è giusto per lui, poi alla cosa che lo fa soffrire di meno, e ai sentimenti degli altri ci pensa dopo. O non ci pensa. Ma il sacrificio, l’eroismo cavalleresco e quella roba là sono cose che vanno bene in un romanzo o alla televisione. Nella vita vera, non puoi rifiutarti di considerare anche i sentimenti di chi ti cammina a fianco: chi muore non è l’eroe, l’eroe è chi resta, e mio fratello somiglia a mio padre più di quanto voglia ammettere. Nemmeno Fidòr Dolbruk ha mai guardato ai piedi dell’albero.”

Un ritratto che non faceva piacere stare ad ascoltare, ma che Adrian sapeva quanto fosse corretto.

D’un tratto gli parve di riuscire a capire perfettamente tutta la sua frustrazione: Thièl si era sentito lasciato indietro, prima da un padre che si era fatto saltare in aria, poi da un fratello che era andato a combattere la sua crociata altrove facendosi terra bruciata alle spalle, e nessuno dei due si era voltato per un attimo a guardarlo prima di fare la propria scelta.

Pensò con forza alla cruda sentenza di Karìma: “pur di conservare la sua purezza non ha paura di correre dei rischi, anzi, li cerca... ma ciascuno di quei rischi lo rende così poco affidabile”.

Thièl si era appoggiato ad un fratello inaffidabile: inaffidabile perché non lo aveva preservato dall’angoscia di vederlo salire in cima ad un albero. Perché, col pretesto di proteggerlo, non lo proteggeva affatto. Anzi, lo aveva lasciato solo davanti al dolore di un perdita ed esposto, ripetutamente, alla paura di subirne un’altra.

“Tu invece sei il tipo di persona che guarda ai piedi dell’albero, non è così, Thièl? Prima di agire, ti procuri tutte le informazioni che ti servono, pianifichi ogni mossa e ne prevedi le conseguenze.”

Il giovane parve apprezzare quel riconoscimento. Sorrise.

“Si può dire di sì. Nella misura in cui mi è possibile.”

“E non hai mai ammazzato nessuno.”

Le sopracciglia di Thièl si sollevarono all’unisono in un’espressione che significava, più o meno: era qui che volevi arrivare? Ma sorrideva ancora.

“Non intendo rassicurare né te né mio fratello facendo professione di pacifismo. Non sono un pacifista, credo nella lotta, e la lotta non si fa con gli striscioni e i manifesti. Tuttavia, la tattica del terrore non è la mia preferita, anzi, credo serva a poco. Non sono i singoli individui a far girare il mondo, sono i capitali, e morto un capitalista ce ne saranno altri a ballare sul suo cadavere.” allargò le mani in un gesto di placida rassegnazione “Ma sono un criminale informatico che opera nel Fronte, sì: ho coperto terroristi, deviato indagini, cancellato prove… e non so quanto Noam ti abbia svelato di sé, ma nessuno potrà mai scoprire di lui nulla che lui non dica, perché chiunque cercasse non troverebbe niente. Tabula rasa.”

Niente scheletri per Karìma, insomma.

“Ho capito. E lo hai fatto per il bene del Fronte, non certo per la carriera di Noam.”

“Esatto. Tanto quella finirà da sola, come tutti i fenomeni di questo tipo. Orizzonte farà parlare per un po’, farà nascere qualche speranza in chi non ha il polso della situazione, sarà oggetto di una serie di tentativi di strumentalizzazione, poi svanirà nel nulla e avanti il prossimo. Noam non è un pericolo per noi e, purtroppo, non lo sarà mai nemmeno per la gente contro cui si è messo. Non che io non abbia apprezzato il gesto, ma non ha le risorse né lo spirito giusto, punto.”

“Quindi non è stato il Fronte a minacciarlo.”

Thièl si portò teatralmente una mano alla fronte e scoppiò in una risata plateale.

“Per la miseria, no! Ci pensi tanto ridicoli? Al prossimo giro, lascio pure il mio biglietto da visita!” Rideva, ma la sua risata era vuota.

“Noam non corre pericoli da parte vostra?” incalzò Adrian.

“Per quanto possa garantire io: no. Ammazzare uno che ha militato nelle nostre fila, che è stato un simbolo per una parte del Fronte e che ha ancora il rispetto di molti significherebbe non aver pianificato affatto. Significherebbe fare il gioco stesso di Noam: spaccare l’unità del movimento. Nessun attentato è fine a se stesso: per correre il rischio, se ne devono prevedere delle ricadute vantaggiose in proporzione. La morte di uno come Noam, invece, avrebbe per noi solo svantaggi, non ultimo il creare una specie di simbolo da additare per farci apparire dei mostri. Quindi, se era su questo che volevi essere rassicurato, tranquillo: il tuo protetto non è un obiettivo. Certo, non posso avere il quadro completo: FDL è pieno di fanatici, come ve ne sono in tutto il Dàrbrand, in centomila micro movimenti che spuntano come funghi ogni giorno. Ma contro singoli invasati penso tu possa bastare, no?”

La naturalezza con cui parlava dei pro e dei contro di attentati ed omicidi politici aveva qualcosa di surreale, eppure non poteva negare che quell’uomo gli suscitasse una certa ammirazione. Era razionale, consapevole, e gestiva perfettamente quel dialogo, nonostante una posizione emotivamente scomoda.

“Bene. Sono lieto di sentirtelo dire.”

Thièl si voltò verso la cassapanca e fece per restituirgli il telefono, ma non lo trovò. I suoi occhi corsero su Adrian, che abbozzò un sorriso, tirando fuori il cellulare dalla tasca della giacca.

“Sono molto più veloce di quello che pensi.” disse “E un passo avanti a te nel controllare l’ambiente in cui mi muovo. Durante la nostra conversazione, ci sono stati due momenti in cui ti sei distratto: il primo, quando hai guardato verso l’albero: è chiaro che l’impatto di quel ricordo ti ha deconcentrato per qualche attimo. Il secondo, quando mi hai rivelato cose di me che mi hanno momentaneamente turbato: ti sforzavi di leggere cosa mi passasse per la testa e hai perso il tuo controllo sul resto. In uno dei due momenti, mi sono ripreso il telefono. Nell’altro, se avessi voluto o dovuto, avrei potuto attaccarti per primo, e il vantaggio mi sarebbe bastato.”

Lo sguardo di Thièl tradì un barlume di rispetto.

“Le informazioni sono sempre utili.” concluse Adrian “Ma, nel proteggere la vita di un uomo, prontezza di spirito e di azione lo sono di più.”

L’altro annuì, pensoso: avrebbe potuto scommettere che stava ripercorrendo nella sua mente i momento che gli aveva appena indicato, per capire quando esattamente si fosse lasciato cogliere in fallo. Poi ritrovò il suo sorriso sfrontato: estrasse dalla tasca un pezzo di carta, ci scrisse su un numero.

“Se si tratta della sicurezza di Noam, puoi contattarmi qui. Tu, non lui. Farò ciò che è in mio potere fare. In cambio, dimenticati di avermi incontrato.”

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Capitolo 23
*** "Fratelli" ***


Mi scuso per la lentezza nel postare, ma ci sono stati dei problemi tecnici ^_^

Ora dovrei poter tenere ritmo settimanale fino alla fine di questa storia, che si avvia al suo epilogo...

 

Capitolo 22 – “Fratelli”

 

Segùr.

Lant.

Le amministrative.

Perdere quelle dannate amministrative.

Le meringhe, il caffè, la tiepida domenica di settembre.

Segùr completamente solo in un ufficio vuoto.

Le sue previsioni.

Il suo disprezzo.

...

Noam vagò tutto il giorno per la città senza avere l’energia di fare niente, sorvegliato a distanza da uno sconosciuto assegnato alla sua sicurezza, e il fatto stesso che non trovasse quella situazione imbarazzante la diceva lunga sul suo stato emotivo.

Avrebbe tanto voluto chiamare Adrian, chiedere alla sua voce salda di mettere ordine nella sua testa, trattenerlo dal seguire il filo dei suoi pensieri che si aggrovigliavano in una matassa informe.

Ma ogni volta che tirava fuori il telefono si ripeteva che, se lui aveva avuto bisogno di andare da qualche parte e mentirgli, allora era meglio non cercarlo, anzi, era meglio che non sapesse proprio niente… e non capiva se era premura, la sua, o solo stupida ripicca; se non voleva imporgli la sua presenza o se voleva tenergli un segreto.

Il ricordo della conversazione di quel mattino continuava a torturarlo.

Nessuno gli aveva mai parlato di morte con tanta naturalezza.

Di quella di Lant. Della sua.

Nessuno gli aveva mai detto, parafrasato nella sua disarmante e dolorosa semplicità, “se ti ammazzano non me ne importa niente: te la sei cercata”.

Nessuno lo aveva mai accusato di star mettendo a rischio la vita di un’altra persona.

Un giorno aveva detto ad Adrian che la politica era una serie di esperimenti che spesso si facevano sulla pelle degli altri… ma non così: lui non voleva farlo.

Eppure, fin da quando aveva accettato di sostenere Màrna, aveva saputo che non stava più mettendo in pericolo solo se stesso. Lant correva un rischio maggiore del suo, perché ci sarebbe stato lui, a Mòrask, e avrebbe portato il peso delle scelte di entrambi. Non solo: Segùr aveva ragione nel pensare che il partito avversario avrebbe colto un qualsiasi attacco contro un sindaco filo-separatista come un perfetto assist per affossare ogni futura possibilità di dialogo, e questo era vero anche senza bisogno di uccidere nessuno… Minacce, incidenti, proteste di piazza – tutte cose che Noam sapeva ci sarebbero state – potevano essere strumentalizzate per dimostrare che i darbrandesi non desideravano scendere a compromessi, che erano le solite teste di pietra con cui era inutile trattare.

D’altro canto era anche possibile che annoverare tra le proprie fila un martire portasse una pioggia di consensi a Liberi Insieme…

Sentì la testa girare.

Non così, non così. Così non andava bene.

Era entrato in politica per colpa di un dannato, inutile martirio: lo aveva fatto per impedirne altri. Come aveva potuto mettersi nella posizione di aprire la strada a questa eventualità?

Màrna ne era cosciente, certo: Màrna aveva fatto una scelta e accettato la posta in gioco. Ma, maledizione, anche suo padre l’aveva fatto.

All’improvviso gli risuonarono nella mente le parole dell’uomo che lo aveva soccorso quel giorno, ovattate e confuse dalle grida dei superstiti, dal crepitio delle fiamme e dal fischio che gli trapassava la orecchie: Fidòr avrebbe voluto così. Avrebbe voluto cosa? Che suo figlio ne uscisse vivo o che una galleria crollasse, uccidendo quattro persone? Avrebbe voluto non morire? O invece voleva proprio morire e che la sua morte diventasse simbolo di una rinnovata lotta? E cosa voleva, Lant Màrna? E lui? Cosa voleva lui? Lui voleva restare vivo, fare cose, incontrare persone, avere amici, guardare orizzonti, invecchiare. Lui amava la vita. E allora perché giocava a vivere sul filo del rasoio, come gli rimproverava Segùr e come gli aveva rimproverato anche Adrian?

Gli sembrò che le macerie gli crollassero addosso, gli sembrò di cadere: gli sembrò di risentire sulle braccia le mani ruvide che lo avevano trascinato fuori dalla galleria, e quella voce, le parole che aveva detto. Papà – aveva detto – papà. Papà. E poi i pensieri che non erano diventati parole, tutti quei pensieri, la matassa aggrovigliata che era rimasta lì, che sarebbe rimasta lì per sempre, a fare la muffa, a ristagnare, a contaminare ogni cosa. Volevo salvarli tutti. Volevo salvare te - tutti quei pensieri annodati, quei pensieri pietrificati, sempre lì, sempre lì… - Ti odio. Non morire. Ti amo. È colpa mia. Papà. Thièl. Dove sei, Thièl.

Gli sembrava di sentire quelle mani, quella voce: “Fidòr avrebbe voluto così”.

Che cosa ne so, io, di quello che avrebbe voluto Fidòr? Che cosa ne sappiamo, maledizione? Cosa voglio, io? Cosa voglio fare? Perdere queste elezioni? Vincerle? Salvare qualcuno? Salvare me?

Invece sulle sue braccia c’erano altre mani, ed un’altra voce.

“Signor Dolbruk, si appoggi a me… faccia come le dico… ”

Cosa stava succedendo?

La vista si era completamente appannata. Vedeva solo l’ombra della guardia del corpo che lo aiutava a sedersi sul bordo del marciapiede (con che nome si era presentato? Che vergogna, lo non ricordava… ).

“Si stenda: deve appoggiare la testa per terra, così. Mi sente?”

“Sì… ”

Appena si trovò sdraiato, le immagini cominciarono a ritrovare la forma.

“Va meglio?”

“Sì… ”

“Bene.”

Sopra di lui, nuvole sfilacciate nel cielo pallido di un tardo pomeriggio di settembre.

Sotto di lui, l’asfalto ruvido e la giacca dell’uomo di cui aveva smarrito il nome.

Intorno, un capannello di passeggiatori domenicali.

“Pressione bassa?”

Mise a fuoco lo sguardo: il suo soccorritore si era chinato su un ginocchio ma stava a distanza, come a volergli lasciare spazio attorno, e si stava preoccupando di tenere lontano anche il resto dei curiosi.

“Mia moglie ha spesso di questi mancamenti, so come funziona. Respiri più lentamente che può e resti fermo finché la vista non torna nitida. Sta molto scomodo?”

No, non stava scomodo, e quell’uomo era premuroso e sicuro di se stesso. Fu contento che fosse lì.

“Mi scusi…” mormorò “la prego, non si offenda… potrebbe ripetermi il suo nome?”

 

***

 

“Devo riconoscere che lei ha svolto il suo compito magistralmente… mi ha salvato dal rompermi la testa su un marciapiede o qualcosa del genere! I marciapiedi sanno essere ben più pericolosi dei terroristi, sa? E restano sempre impuniti!”

La sua guardia del corpo temporanea – che si chiamava Klet Ròxaviy, e che non si era affatto offeso per quella mancanza di attenzione – si era rivelata una persona spiritosa ed acuta; del resto, come gli aveva spiegato Adrian, la parte più importante del lavoro nella sicurezza stava nella capacità di “leggere gli altri”, e quell’uomo aveva, se non altro, “letto” il suo malessere in tempo, soccorrendolo prima che lui potesse perdere conoscenza e rovinare a terra.

Dopo che Noam si era ripreso, Klet si era offerto, più per formalità che per reale preoccupazione, di accompagnarlo al pronto soccorso, ma poi aveva convenuto con lui che si era trattato di un episodio di poco peso, spiegabile col superlavoro e la carenza di sonno.

Da parte sua, Noam sapeva di non aver bisogno di un medico: il suo mancamento non aveva a che fare con un problema di salute… semplicemente, le parole di Segùr lo avevano sbattuto indietro di sei anni, portato a rivivere cose e beh… era andata come era andata.

“Sono lieto di constatare che le è tornato il buon umore. Giuro che stava riuscendo a smentire tutto ciò che si dice di lei in un solo pomeriggio!”

Klet era un uomo tra i cinquanta e i sessanta, dietro l’aspetto stereotipato nascondeva un carattere affabile, poca affezione per un lavoro ad alto livello di stress e tanta voglia di un pensionamento anticipato: ma ci teneva ad essere gentile, come se questo fosse ancora parte integrante del suo intervento di primo soccorso.

“Davvero? E che si dice di me?”

“Le cose che avrà sentito mille volte. Che è solare, divertente, che sorride sempre, che è uno straordinario intrattenitore, che tiene testa in qualsiasi conversazione ma nessuno riesce a farle perdere la pazienza. Le solite cose… ”

“Il soave Dolbruk, eh già… Così poco darbrandese che ci si impegnano tutti di brutto per vedermi arrabbiato. E io invece non mi arrabbio:” allargò le braccia e gli strizzò l’occhio “semmai svengo!”

L’altro sorrise.

“Qualcuno oggi l’aveva fatta molto arrabbiare?”

“No. Solo intristire. Ma lei ha ragione: ho rischiato di smentire le stereotipo, e questo non è affatto bello!”

“Perché?”

“Perché lo stereotipo mi piace: ci tengo ad assomigliargli.”

 

***

 

Noam non avrebbe mai potuto immaginare che una giornata tanto disgraziata potesse concludersi in quel modo: era appena sceso dalla macchina, seguito dal suo accompagnatore, quando, per la seconda volta in poche ore, sentì la testa girargli e il fiato mancare.

“Li conosce, signor Dolbruk?”

Klèt era avanzato di un passo, ponendosi, prontamente, tra lui e le tre persone che stavano sedute sui gradini del portone, con l’inequivocabile atteggiamento di chi sta aspettando qualcuno.

Noam non riuscì a rispondere subito, forse perché era confuso, turbato, emozionato e molto altro, o forse perché la domanda era mal posta: quella giusta avrebbe dovuto essere: “Li riconosce?”.

Forse no, accidenti.

Forse, se non li avesse incontrati lì, sotto la sua casa, forse, se li avesse incrociati tra la folla, sperduti in una qualche città, non ne sarebbe stato capace, tanto erano diversi. Tanto gli anni erano passati.

“Dzjorzj…”

Credette di parlare, ma la voce gli uscì così smorzata che Klèt gli appoggiò una mano sulla spalla e chiese:

“Si sente di nuovo male?”

Lui scosse appena la testa, mentre il giovane si era alzato in piedi, imitato subito dalle due ragazze, e gli stava andando incontro.

“N-no…” farfugliò Noam “E non si preoccupi… Sì, li conosco. Li conosco tutti e tre.”

Ma prima che potesse finire di parlare, una delle due gemelle (Era Trèxia o era Alma?) gli corse incontro e lo abbracciò di slancio.

“Noaaam!” (era Trèxia: quella era assolutamente la voce di Trèxia) “Sei bellissimo!”

Gli afferrò il viso tra le mani e gli stampò un bacio sulla gota, e poi un altro, saltando sul posto come una bambina impazzita di gioia. Accidenti, era lei ad essere bellissima: la ragazzina tutta ossa e complessi si era trasformata in una donna slanciata ed energica, con un atteggiamento del corpo che irradiava entusiasmo.

Finalmente Noam si sentì tornare il respiro e il suo viso si illuminò di un sorriso emozionato e confuso.

“Trèxia…”

Lo sguardo corse da lei a Alma, che era rimasta indietro, poi di nuovo a Dzjorzj. Era diventato incredibilmente alto, un po’ impacciato e spigoloso, l’unico in famiglia ad avere ereditato la barbetta ispida del padre e i suoi zigomi severi: ma lo sguardo era ancora quello troppo timido dell’adolescente che fuggiva la compagnia e amava intagliare il legno in solitudine.

“Perdonaci l’improvvisata,” la sua voce si era fatta adulta, roca e calda “ma siccome tu non ti sei degnato di cercaci in tutti questi anni, alla fine lo abbiamo fatto noi.”

Noam arrossì, colto in fallo, ma il rimprovero faceva ben poco male se messo a confronto con la gioia di rivederli.

“Signor Ròxaviy,” sorrise con orgoglio “le presento i miei fratelli!”

 

***

 

Trèxia non smetteva più di fare giri panoramici della casa, in preda ad un’eccitazione festosa che faceva risaltare di più l’immobilità quasi statuaria di Alma, che si era seduta in punta di una sedia e si era mossa solo per scegliere cosa versarsi da bere tra le numerose alternative che Noam aveva disposto in tavola. Non avevano mai amato l’essere confuse l’una con l’altra e loro madre per prima, del resto, detestava quello che chiamava il “giochino borghese” di vestire le figlie con gli stessi abiti, figuriamoci poi due gemelle! E però, erano davvero due gocce d’acqua: avevano dovuto impegnarsi molto negli anni per distinguersi e ci riuscivano solo grazie a quella prossemica così contrastante.

“Certo che, con lo stipendio che prendi, potresti pure darci una mano con l’affitto, eh? Studiare fuori sede è un salasso!”

Per fortuna Trèxia era spudorata e diretta: Noam ne aveva bisogno. La sua sfacciataggine lo salvava dai non detti e dal vago turbamento degli altri due. Sforzò una risata, mentre Alma arrossiva e lo nascondeva incassando la testa nelle spalle.

“Trè, ti prego! Come se queste fossero le cose importanti da…”

Ridere per dare l’impressione che tutto andasse bene. Che quei sei anni non fossero passati.

Cosa avrebbe dovuto dire? Qualunque risposta, qualunque umile giustificazione gli sarebbe suonata falsa. Dov’era mentre le sue sorelle riempivano una valigia e partivano per Kor? Come l’aveva presa loro madre, come aveva reagito Thièl? Erano state ostacolate? Sostenute? Erano state trattate come due fuggiasche, due codarde, come lui? E, soprattutto, aveva diritto di chiederglielo?

“S-sì… hai ragione… ” balbettò, imbarazzato, rivolto a Trèxia “avrei dovuto pensarci io…”

Ma non era quella la questione, e forse anche la sua espansiva sorella si aggrappava a frasi fatte perché nessuno di loro aveva gli strumenti per riempire l’abisso degli anni.

“… però posso rimediare, se me lo permettete…”

Stavano seduti nel suo salotto, con la luce dolce della sera che sbiadiva lenta oltre la grande vetrata di un appartamento così diverso dalla casa in cui erano cresciuti, e parlavano del niente per tenersi in equilibrio sul baratro; Noam lo percepiva al di sotto di ogni pensiero: il baratro di un padre morto e di una verità che lui, Thièl e loro madre avevano nascosto.

Pregò che non la sapessero mai.

Che la maledizione di Mòrask non li intrappolasse mai.

“Credevo che non voleste avere più niente a che fare con me.” disse, d’un tratto.

Dzjorzj sbuffò.

“Sei un po’ sbrigativo nell’arrivare a conclusioni e mi risulta che la nostra opinione non sia mai stata chiesta.” si mordicchiò nervosamente un’unghia. “Ma dopotutto per te conta solo quella di Thièl, e Thièl è un imbecille.”

Sentir pronunciare quel nome gli diede un brivido, ma Dzjorzj lo pronunciava con la beata normalità con cui avrebbe dovuto essere pronunciata una frase del genere. La beata normalità di chi non abita un mondo pieno di scheletri.

“Cazzo, sono stato cresciuto da due imbecilli: come ho fatto a venir su così maturo, intelligente e bravo a vivere?”

Sul suo viso si aprì un sorriso ironico: dio, quanto era bello vederlo così.

Come erano belli, tutti e tre.

“Bravo a vivere… ” fece eco Noam “un’espressione meravigliosa. No, non te l’ho insegnato io.”

“Appunto.”

Esisteva un mezzo per ristabilire un contatto che ignorasse una terrificante, colossale menzogna? E quanto diritto aveva di essere amato nonostante quella?

Noam non riusciva a parlare: non riusciva a fare altro che guardarli, cercando invano gli anni della loro vita che si era perso. Davvero non aveva avuto altra scelta che perderli?

I suoi fratelli.

La sua famiglia.

Cosa sapevano di lui?

Cosa gli aveva raccontato Thièl?

Doveva chiederglielo?

Con che razza di diritto poteva?

Finché Alma ruppe lo stallo.

“Porca puttana, Noam, mi sei mancato da morire!”

Quello sbotto improvviso lasciò tutti di sasso, compresa Trèxia, che si bloccò sul posto con la mano a mezz’aria a contemplare un qualche soprammobile che l’aveva incuriosita.

Alma, invece, si era appena sbarazzata del turbamento collettivo e si ergeva solida nel silenzio che era riuscita a creare, il silenzio di cui Fidòr non era capace, il silenzio e il sottovoce che Noam aveva costruito per loro, tutti i giorni, per anni, prima di sparire senza chiedere la loro opinione.

“Perché non ci hai più cercati?”

Si alzò dalla sedia su cui era rimasta rigida e scomoda per tutto il tempo e lo fronteggiò.

“Io lo avrei voluto fare, ma non potevo. Fino a due anni fa non sapevo nemmeno se fossi vivo!” aveva occhi sicuri, di una donna sicura, brava a vivere nella sua timida fermezza, brava a dire il non detto, e a dirlo per tutti “I lutti si devono affrontare e noi lo abbiamo fatto: ma quando non sai se la persona che ti manca è viva o morta, rimani disarmata e non puoi andare avanti né indietro, e tu, tu ci hai paralizzati in quella situazione!”

Noam abbassò la testa, sprofondando ancora di più tra i cuscini del divano, ma Alma si chinò sulle ginocchia alla sua altezza.

“No: guardami in faccia, Noam. Perché ci hai lasciati paralizzati? Sarebbe bastato un addio: saremmo stati capaci di affrontare un addio. Io lo sarei stata.”

Noam si sentiva svuotato e impotente: non aveva le frasi giuste, non aveva i gesti giusti, non aveva un accidente. Avrebbe voluto abbracciarla, dirle che anche a lui era mancata, forse spiegarsi ma tutti i suoi strumenti, il corpo, gli sguardi, la voce, erano cose vacue e inutili. Si sentiva il più piccolo dei quattro, il più piccolo dei piccoli, il bambino rimproverato, ma anche il bambino cercato, perdonato, accudito.

I suoi fratelli non gli stavano chiedendo di fare l’adulto, volevano solo essere visti.

Essere visti.

Come si poteva essere visti essendo i fratelli di Noam Dolbuk?

Come avevano imparato ad essere bravi a vivere?

Quando aveva smesso di guardarli?

Si sentiva così egoista.

(Oh, Segùr, maledizione, sono così egoista?)

Si sentiva stanco, svuotato, sfinito.

Quella terribile e straordinaria domenica gli pesava sulle spalle, gli ottundeva i pensieri: il confine tra passato e presente era così sottile, e lui si sentiva sospeso su quel confine con una nebbia umida nella testa, nel petto e nella gola, e un grande desiderio di farla uscire fuori…

“Mi dispiace.”

Sottovoce.

“Mi dispiace.”

Non riusciva a pronunciare nessun altra parola, tante ce ne erano.

“Mi dispiace.”

Anzi no, non ce n’era proprio nessuna.

Noam scoppiò a piangere.

“Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!”

Alma lo abbracciò.

“Mi sei mancato.”

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Capitolo 24
*** "Incoscienza" ***


Adrian non si aspettava davvero che, tornando a Noravàl, avrebbe conosciuto di persona anche tutti gli altri fratelli di Noam, e fu grato di non trovarsi di fronte a persone impegnative quanto Thièl!

Per fortuna, il giovane Dzjorzj Dolbruk era fatto di tutt’altra pasta: ragazzotto posato, con la testa sulle spalle e poche idee ma concrete, come compare casa a Mìmat e mettere al più presto su famiglia. Aveva un posto di lavoro sicuro e una compagna con cui intendeva sposarsi a breve, nessuna nostalgia di Mòrask e soprattutto nessun interesse nella politica: di attivismo ne aveva le tasche piene, e, per quel che lo riguardava – diceva con franchezza ed ironia – avrebbe dato il voto a suo fratello solo il giorno che gli avesse promesso di inventare un sistema capace di azzerare il carico di cartacce che gli ingolfavano l’ufficio. Adrian non sapeva fino a che punto Dzjorzj fosse a parte della storia di famiglia, ma quell’astensionismo e quel disinteresse ostentati (in chiara opposizione alla scelta di vita di Noam e, per vie diverse, di Thièl) lo rendevano ai suoi occhi innocuo e rassicurante.

Le due sorelle giocavano un ruolo diverso: Trexìa affermava di sostenere il progetto politico del fratello con toni da adolescente infervorata, prometteva che sarebbe tornata a Mòrask per votare e si schierava senza mezze misure, come solo a quell’età si riesce a fare, mentre Alma, più cauta, non si pronunciava apertamente, ma Adrian la sentì dire a Noam, mentre stava ripartendo per Kòr, che, comunque fossero andare le cose, sarebbe stata dalla sua parte, a prescindere da cosa mamma e Thièl avrebbero detto.

A rigor di logica, Noam avrebbe dovuto esserne felice, o almeno più in pace con se stesso e con la paura di essere odiato, e in certi momenti indubbiamente lo era: se non altro lo era stato finché loro erano rimasti suoi ospiti e lo era quando parlava dell’imminente matrimonio di Dzjorzj, di Alma che studiava medicina ed era in pari con tutti gli esami, di Trexìa che partecipava alle nazionali di ginnastica artistica… Ma poi, quando usciva dal ruolo del fratello orgoglioso e tornava a vestirsi di quello del giovane politico sulla cresta dell’onda, allora Adrian si accorgeva che c’era qualcosa di diverso in lui: non necessariamente qualcosa di sbagliato, ma di alterato, di obliquo.

Se parlava dei suoi progetti, ad esempio, e usava il verbo al futuro, lo faceva con troppa fermezza e senza puntini di sospensione, quasi che non pensasse di potersi più permettere le esitazioni, le illuminazioni improvvise, i cambi di tono e gli ariosi “poi vederemo” che lo avevano sempre caratterizzato: un osservatore qualsiasi lo avrebbe trovato maturato, pronto ad affrontare la sfida che gli si prospettava, insomma esattamente ciò che un uomo nella sua posizione avrebbe dovuto essere, soprattutto in quel momento storico. Ma Adrian non poteva non sentire che, laddove qualcosa si era aggiustato, qualcos’altro doveva essersi rotto: che non era quella la faccia che Noam aveva scelto di portare in quell’avventura, quando aveva accettato di buttarcisi in mezzo e di diventarne il protagonista.

C’era stato più di un momento in cui si era chiesto se fosse opportuno parlargli di cosa era andato a fare sui monti, ma voleva davvero tradire la garanzia data ad un uomo che si era offerto di aiutarlo e che era, al tempo stesso, così sottilmente pericoloso? E poteva contare sul fatto che Noam, di fronte alle rassicurazioni del fratello, non commettesse imprudenze? Thièl era stato chiaro: lui non era il Fronte, anche se si trovava in una posizione favorevole per interpretare, e probabilmente influenzare, la volontà della maggioranza. Le elezioni amministrative erano vicine, il clima di Mòrask era tutt’altro che sereno, i notiziari riferivano di continui subbugli, scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, università occupate e lavoratori in sciopero, con slogan che alla fine concordavano tutti su un solo concetto: non serviva un nuovo sindaco, serviva l’indipendenza. No, non era il momento giusto per le trattative: quella fase doveva essere lasciata passare, e, che Màrna vincesse o meno, ogni tentativo di mediazione andava ripreso ad acque calme.

Dunque, a conti fatti, doveva stare zitto.

Lucidamente scelse di star zitto.

Lucidamente, già.

E che cosa, lucidamente, Noam stava scegliendo di non dire?

Quanto era diventata difficile quella parola.

Peggio.

Quanto gli era diventata antipatica.

 

***

 

Se la primavera, quell’anno, era arrivata presto, presto arrivò – e improvviso - l’autunno. Un autunno gelido, brumoso e bagnato. Dall’oggi al domani la temperatura ebbe un crollo di dieci gradi e iniziò a piovere tanto, ma così tanto da mandare in tilt il traffico e far saltare grondaie e tubature.

Sembrava che la città avesse cambiato umore: ad un settembre quasi estivo si era sostituito un ottobre letteralmente invernale. Chissà come si stava a Mòrask? E chissà se Thièl Dolbruk ostentava ancora le sue magliette smanicate a dimostrare di non aver paura di nessuno, nemmeno del clima?

Noam invece aveva già tirato fuori la giacca di lana, quella che portava il giorno in cui si erano conosciuti, così dimessa e modesta da stonare sul completo d’ordinanza. Noam non era proprio tipo da completo: era fatto per i contrasti e le spiegazzature, ma era sempre stato bravissimo a riempire di informalità e di leggerezza anche i propri vestiti.

Quel giorno un po’ meno, però, e forse era per questo, non per il freddo fuori stagione a cui non si era ancora adattato, che una volta arrivato alla sede del partito, esitava a togliersi quella sua giacchetta che aveva odore di stazioni affollate e di mattine affacciate al belvedere.

Lo fece con una strana cautela, appendendola all’attaccapanni.

“Noam.” gli disse Adrian, appoggiandogli una mano sulla spalla “Che c’è che non va?”

Lui si prese un attimo, come se la risposta dovesse essere calibrata bene.

“Niente.” sorrise “E se qualcosa non andasse, è niente lo stesso. Le elezioni sono tra dieci giorni. Quello che non va lo vedrò dopo.” un’ombra passò sul suo viso “Ormai.” aggiunse.

Ormai, ecco.

Ormai, in quegli ultimi giorni, sembrava diventata la parola di Noam.

Pesava sui suoi gesti, sulle sue parole, nei suoi occhi.

Gli rendeva indispensabile tenere addosso quella giacca fatta di treni e di vento.

Ormai era una parola antipatica almeno quanto lucidamente.

Zjam Kàrkoviy e Segùr Òraviy li aspettavano nella sala riunioni: tavoli a ferro di cavallo e veneziane a lamelle orientabili che quel giorno sarebbe stato saggio aprire, dato il buio che c’era.

Perché mai nei luoghi in cui si gioca a fare la Storia ci devono sempre essere quei dettagli da ridicolo senso di segretezza, come una serranda mezza abbassata, un vetro opaco o delle tende tirate? Erano il corrispettivo d’arredo degli occhiali a specchio sui visi dei suoi colleghi, una mascherata patetica per darsi un carisma che non si possiede, per raccontarsi un po’ di favole, un po’ di bugie sul mondo e su se stessi.

Dio, se odiava gli occhiali a specchio!

Odiava le tende, odiava i vetri oscurati, odiava quel mondo – quello di Noam ed il suo, così simili in questo grottesco particolare – e in quel momento gli parve così chiaro perché fosse rimasto tanto colpito da lui quasi un anno prima: era chiaro nel suo ricordo Noam che faceva “ciao” con le dita della mano e si presentava per nome proprio nonostante il completo e la cravatta, e quel gesto e quel nome erano diventate le sole cose vere in un mare di nulla.

In quella sala c’era troppa gente e c’era il nulla: quindici persone dalle facce grigie, dieci delle quali parlamentari da più legislature e tra loro l’unico ancora lontano dal pensionamento – ma non per questo meno grigio – era Segùr.

L’atmosfera era greve e assonnolita, eppure Kàrkoviy sembrava di umore raggiante.

“Che ti devo dire, Noam? Cedo all’evidenza e mi congratulo: è chiaro chi sia qua dentro il genio della propaganda!”

La capacità di Kàrkoviy di cambiare umore e bandiera come cambiava le cravatte era imbarazzante, ma probabilmente lui non se ne rendeva conto. Non dovevano rendersene conto nemmeno i suoi colleghi – o forse sì, e ne sapevano trarre i propri vantaggi – altrimenti non era spiegabile come quell’uomo potesse occupare ancora la posizione che occupava. Erano bastati i risultati dei sondaggi dell’ultimo mese per fargli mettere da parte ogni timore di perdere i propri appoggi finanziari: il miraggio di tornare in auge come leader del primo partito che riusciva a smuovere l’elettorato di Mòrask doveva averlo abbagliato.

“Con questi numeri, Màrna ha la vittoria in pugno!”

Tra i presenti aleggiava una stanca indifferenza: Kàrkoviy doveva averli convocati solo per precisare l’ovvio e appagare un po’ del proprio ego e l’espressione di ciascuno di loro emanava un grande desiderio di trovarsi da un’altra parte.

Noam, intanto, valutava i dati che gli erano stati messi sotto gli occhi, quasi incredulo lui stesso: tanto era diligente nel rispondere alle centinaia di mail che riceveva, altrettanto era incostante nell’occuparsi della propria immagine. Quando era stata l’ultima volta che aveva consultato i risultati di un sondaggio? Forse il mese prima, e Adrian era pronto a scommettere che gli paressero passati pochi giorni.

“Se mi permettete…” Segùr si alzò in piedi, quasi fosse necessario quel gesto per avere l’attenzione “io non canterei vittoria tanto presto.” un mormorio serpeggiò da una bocca all’altra “Sondaggi positivi, ok. Ma che valore dobbiamo dare al caos in cui è piombata la città? Per la gente che scende in piazza, Màrna è un nemico al pari dei suoi rivali, perché per loro sono le elezioni stesse ad essere un sopruso: non possiamo pensare che dichiarazioni fatte in un clima di serenità corrispondano a scelte reali da fare in un clima di terrore.”

“Non essere disfattista, Segùr!” esclamò Kàrkoviy ostentando una risata “Il peggio può sempre capitare, ma per fare progetti è necessario guardare la parte piena del bicchiere!”

Segùr annuì vistosamente.

“Questo è vero. Dunque di quale progetto siamo venuti a parlare, oggi?”

Al suo vicino di posto scappò una risata.

“Di come muoverci per la questione dei finanziamenti a certe imprese, per esempio” Kàrkoviy, duro, sapendo di star toccando un tasto dolente.

Il suo interlocutore non si fece intimidire: si rimise seduto, ma senza abbassare lo sguardo.

“Questa è una questione molto importante, che credo dovremmo affrontare a elezioni vinte. In un momento come questo, invece, dobbiamo fare progetti che ci assicurino di vincerle.”

Sul volto di Noam si dipinse un inquieto stupore: troppo inquieto per trattarsi di semplice sorpresa.

“So che questa valutazione potrà sembrare insolente” proseguì il giovane Òraviy “ma chi andrà a votare a fine mese non vota realmente né per il professor Màrna né per Liberi Insieme: vota per Dolbruk. Se davvero gli astensionisti di Mòrask stavolta si alzeranno dal divano, lo faranno per fare un favore a lui. Non gli interessa chi sarà il sindaco di Mòrask, non si stanno schierando per un’ideologia, seguono una leadership: un concittadino affascinante che raggiunge la popolarità, un darbrandese – uno di loro – che porta Mòrask fuori da Mòrask. I separatisti duri e puri non si smuoveranno per questo: queste elezioni non sono un banco di prova politico, sono un grande concerto, e lei…” fissò negli occhi Noam senza l’accenno di un sorriso e Adrian avvertì uno sciame di non detti attraversare quello sguardo “è la rock star. Quindi, per esempio: io ritengo che dovrebbe fare al più presto la valigia ed andare là a interpretare il suo ruolo.”

“No.” Adrian aveva parlato prima di rendersi conto di farlo (eh, lucidità antipatica) “La sua è una proposta irragionevole. Mòrask in questo momento è un luogo impraticabile per il signor Dolbruk. Dovremmo, anzi, preoccuparci di garantire un’adeguata sicurezza a Lant Màrna.”

“Valutazione che non spetta a lei” lo rimbrottò Segùr.

Kàrkoviy intervenne a calmare le acque.

“Ce ne siamo già occupati, Signor Vesna: la logistica è stata curata in ogni dettaglio.” poi si rivolse a Noam “Per quel che riguarda un’eventuale tua presenza a Mòrask, invece, preferirei evitarla…”

Adrian lo ringraziò con lo sguardo.

Noam rimase qualche attimo in silenzio, come se stesse mettendo in ordine i pensieri.

“Per me è ok.” disse.

Cercò gli occhi di Segùr e, ad un tratto, fu come se gli altri presenti nella stanza sparissero.

“Per me ok.” ripeté “Non intendo ripararmi dietro Lant, preferisco che sia Lant e ripararsi dietro di me.”

Frase molto da Noam: peccato che per Noam non fosse una frase a effetto: si sarebbe messo davvero a fare da scudo a qualcuno!

“Mancano dieci giorni, quel che è stato fatto è stato fatto.” intervenne Kàrkoviy “Trovo che una tua trasferta adesso sia solo un surplus di impegno e di spese, oltre che un rischio evitabile…”

Noam gli sorrise con sincera dolcezza, ma continuò a guardare Segùr.

“Sei gentile, Zjam, ma ad un egocentrico come me ogni tanto bisognerebbe dire in faccia che se proprio gli piacciono i rischi la sua sorte è un suo problema!”

Il volto di Segùr scolorì.

Da dove veniva tutta quella tensione?

Cosa era accaduto tra quei due?

“C’è una frase incisa ai piedi della colonna che segna il centro di Mòrask: Arbràsk'a thraxudràddi” proseguì Noam “l’incoscienza ti salverà la vita, dove Incoscienza però è una traduzione solo parziale. Perché arbrask – incoscienza – non è semplice avventatezza… è più quello che fai quando, messo in certe circostanze, le tue gambe e le tue mani si muovono da sole, ignorando pericoli e conseguenze. Tu lo sai che potresti anche fare diversamente: sai che potresti fermarti e fare delle previsioni. Ma è inutile, non ci riesci. Io sono quel tipo di incoscienza. Se posso fare cose per cui la gente di Mòrask me lo riconoscerà, sarò solo un passo avanti nel tendergli la mia mano.”

Lo aveva detto anche a lui, una volta.

Aveva detto che voleva usare l’incoscienza – arbrask, l’incoscienza di Mòrask – per guadagnarsi la fiducia della propria gente.

Ma non era così, e lo aveva appena dichiarato apertamente, davanti a tutti; non c’era nessun piano, nessun calcolo preliminare: lui non riusciva a fare a meno di quell’incoscienza.

Per questo poteva solo sfruttarla.

Oramai.

 

***

 

Lasciarono la sede del partito che il sole stava tramontando: aveva smesso di piovere e il grigio delle nubi lasciava filtrare a tratti un rosa intenso quasi innaturale.

Stavano raccogliendo i propri ombrelli quando Segùr li raggiunse nell’atrio, mosso da una strana fretta.

“Noam…!”

Lui si voltò e esitò sulla soglia, attendendo il seguito: il rettangolo della porta aperta non bastava a rischiarare l’ambiente, e Segùr sembrava una silouette scura e piccola, poco più che un’ombra.

“Ascolti, io…” ma si interruppe e fece un cenno di noncuranza con la mano, come se qualcosa l’avesse improvvisamente trattenuto o riscosso “Nah, niente di importante.”

Noam si scurì appena in viso, poi abbozzò un sorriso turbato.

“È la prima volta che mi chiama spontaneamente per nome, e non è niente di importante? Sicuro?”

L’altro abbassò lo sguardo: non glielo aveva mai visto fare prima.

“Volevo solo dirle che non deve intendere le mie parole come una forzatura, ritengo solo che…”

“Nessuna forzatura.” lo interruppe Noam, come se avesse l’urgenza di mettere dei puntini sulle i, o di liberarlo da un dubbio “Lei si aspettava da me una scelta, ed io l’ho fatta. Questa è solo la conseguenza.”

Che accidenti era accaduto tra quei due?

Non riusciva a guardare Segùr Òraviy senza avvertire una sensazione di angoscia e quasi di paura, mentre Noam gli parlava come se al di sotto di ogni parola ne passassero mille.

Segùr si aspettava una scelta.

Che scelta?

Non stavano parlando dell’andare o non andare a Mòrask.

Quella era la conseguenza.

Pensò all’Incoscienza-che-non-era-solo-avventatezza.

Pensò all’albero.

***

 

“Voglio andare su al belvedere.” disse Noam “Mi accompagni?”

Lo avrebbe accompagnato in capo al mondo, ma a Mòrask avrebbe proprio preferito evitarlo.

Il parco era impregnato di freddo e acqua e tutti gli odori erano più forti, i gradini erano cosparsi da uno strato di larghe foglie cadute, un po’ gialle, un po’ rosse: caldi colori autunnali. Dalle chiome degli alberi ogni tanto qualche residuo di pioggia e Noam si scrollava le gocce dai capelli agitando la testa come un cane bagnato.

Non c’era molta gente, in un giorno come quello.

Raggiunsero la cima della scalinata coi polmoni gonfi di umidità.

“Se volevi salire fin qui per dirmi che non vuoi attraversare la galleria non ce n’era bisogno.” provò a scherzare Adrian (e non ne aveva voglia, accidenti) “Facciamo come l’altra volta.”

“Già, già! È vero che eravamo qui quando ti ho parlato della galleria. Ritualizzazione involontaria, o semplicemente bisogno di aria quando prendo decisioni difficili?”

“Ti pare di aver preso una decisione difficile? A me sei parso anche troppo sbrigativo.”

Noam incassò e fece un respiro profondissimo, stendendo le braccia verso l’alto.

“C’è qualcosa che dovrei sapere?” incalzò Adrian “Qualcosa che riguarda te e Segùr Òraviy?”

“Te lo dirò se tu mi dici quando hai smesso di respirare.”

Lui si strinse nelle spalle e fece un sorriso storto: ecco che cercava di mandarlo a perdersi nei suoi soliti discorsi inconsistenti e fumosi per non dovergli rispondere. E però quanto li amava.

“Respiro piuttosto bene in verità. Non fumo, mi alleno. Soprattutto non bevo, sai?”

Sperò che Noam si mettesse a ridere, invece si lasciò cadere sulla panchina, facendo vagare lo sguardo sulla città appannata dalla foschia.

“Dico sul serio, Adrian. Quando ci siamo conosciuti, una delle prime cose che ho pensato è stata che tu non respirassi.” invece sembrava che fosse lui, in quel momento, ad essere a corto di aria "Secondo me, respiro è una delle parole più belle e terribili del mondo. In lingua dar-breuk c’è il verbo ondrèude, che non è solo respirare ma anche qualcosa di vicino allo star bene. Insomma, sono cresciuto parlando una lingua in cui il concetto di respirare non coincide con un semplice meccanismo corporeo ma quasi con la ricerca del proprio benessere: se ti alzi al mattino e non desideri niente di particolare, non vai alla ricerca di niente che sia buono per te… beh… quello, per un darbrandese, è un giorno in cui non stai respirando.”

“E questo per te è giorno di linguistica, Noam?”

Stavolta riuscì nell’intento e Noam scoppiò in una risata.

“So che non mi risponderai, Adrian…” riprese, come se il discorso iniziato non fosse mai stato interrotto “perché pensi che non serva a niente, e va bene così. Quello di cui spesso ho paura, però, è che tu non ti fidi abbastanza di me. Che io per te sia rimasto sempre l’avventato, bizzarro, imprevedibile Noam: onesto e simpatico, sì, ma da proteggere perfino da se stesso. L’uomo che non può essere un punto di riferimento per nessuno, perché pretende di esserlo per tutti. E io a volte invece vorrei esserlo per te. Ma anche questa deve essere una forma di egoismo, in fondo… ”

Guardò davanti a sé, dove si stendeva il “suo” panorama, l’angolo di mondo che Noam si era scelto per non sentirsi in trappola: ondrèude, respirare.

Raccontargli del giorno in cui aveva smesso di respirare.

Avrebbe dovuto?

Avrebbe potuto?

Sapeva perfettamente quando era successo: era quando, messo in una determinata condizione, le sue gambe e le sue braccia avrebbero dovuto muoversi da sole, e non lo avevano fatto.

No, lui non aveva quell’arbrask: lui non era Noam.

Lui ci era riuscito benissimo, a fermarsi: e la sua vita era sprofondata.

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Capitolo 25
*** "Propaganda" ***


“Ma che accidenti è successo? Siamo per caso due bestie feroci, Lant ed io?”

Noam ricordava Mòrask transennata e invasa dalla polizia, ricordava quell’atmosfera blindata che aleggiava in piazza Vittoria ad ogni Festa della Repubblica, ma lo spettacolo cupo che si spalancava davanti ai suoi occhi andava oltre ogni peggiore immaginazione. C’erano in giro più truppe antisommossa che abitanti!

“Nella visione di chi allestisce la scena, non siete voi le bestie: sono tutti gli altri.” commentò Adrian con un sorriso indolente.

“Porca miseria, mi sento in imbarazzo!”

Ma non era solo imbarazzo.

Era qualcosa di più vicino alla vergogna: vergogna di essere la causa dello scempio fatto alla sua città e vergogna nei confronti di chi trattava la sua gente come un branco di criminali, di chi aveva ridotto Mòrask ad una specie di zona di guerra, ovvero vergogna per le stesse persone con cui lavorava, per il lato della barricata da cui aveva scelto di trovarsi, e, in sostanza, per se stesso.

Si immaginò a vent’anni, quando ancora aveva il diritto di indignarsi apertamente, quando era lui a sfidare gli scudi ed i manganelli con uno striscione sollevato, quando disponeva omini di carta per le strade sotto la neve: come si sarebbe posto il Noam di allora di fronte al Noam politico che si presentava lì a fare campagna elettorale, a imbonire coi buoni propositi, a promettere cambiamenti e a chiedere alla gente di accettare, di fatto, i suoi compromessi? Che idea si sarebbe fatto di un uomo che parla a debita distanza, tenuto al sicuro da staccionate e divise? Davvero c’era una possibilità di non perdere ogni credibilità, in quelle condizioni? E i suoi colleghi, il governo, l’amministrazione, la polizia… credevano davvero che questa pagliacciata significasse “sicurezza”? Pensavano di proteggere la sua vita?

“Lo so cosa stai pensando…” disse Adrian strappandolo alla sue rimuginazioni.

“Davvero? Prova.”

“Che sono tutte paraculate.”

A Noam sfuggì un sorriso.

“Eheh… Già. Il mio dubbio è se dovrei starci o no. Se dovrei…”

“Se dovresti cosa, Noam? Ignorare ogni precauzione, per quanto esagerata sembri, per dimostrate di avere sufficiente arbràsk? Non ne hai bisogno. Sei comunicativo abbastanza da ignorare le barriere emotive, figuriamoci due palizzate…”

Noam si stropicciò la testa e arrossì.

“Wow.”

Mòrask sul finire d’ottobre era gelida e grigia: gli alberi avevano già perso quasi tutte le foglie trasformandosi in ampie ragnatele scure che si intrecciavano sui viali, il cielo era costantemente coperto di nuvole gonfie e la pioggia cadeva spesso, lenta e metodica, a cordicelle sottili talvolta quasi impercettibili, ben diversa dagli improvvisi e vertiginosi temporali primaverili. Solo le montagne in lontananza tingevano l’atmosfera di un amabile azzurrino. Ci sarebbe voluta la neve per restituire alla città la sua fatata aura invernale.

A volte Noam si chiedeva se non fosse a causa di quell’assenza di colori che il Dàrbrand abbondasse tanto di persone coi capelli rossi: la natura doveva pur distribuire un po’ di luce da qualche parte. Di certo, lui ne sentiva il bisogno, perciò aveva messo in valigia gli abiti più variopinti che aveva: righe, quadretti e maglioni dalle tinte calde. Niente abiti da cerimonia, per parlare in pubblico a Mòrask: e quella sarebbe stata, davvero, la prima volta che avrebbe parlato in pubblico a Mòrask, la prima da quando se ne era andato, la prima in un ruolo che non era quello dell’agitatore. L’altro lato della barricata. Dio. Si sentiva così confuso…

Svuotò lentamente la valigia riponendo le sue cose ad una ad una nell’armadio a muro del piccolo appartamento in cui si erano sistemati. Avevano cambiato di nuovo strategia: niente alberghi, a quel giro, ma un anonimo buco in affitto al terzo piano di uno stabile per i due terzi vuoto, poco distante dal Piazza del Campanile, dove si sarebbe tenuto il comizio l’indomani.

Sarebbero rimasti lì due sole notti, forse persino una soltanto: Adrian era convinto che fosse meglio trattenersi in città solo lo stretto necessario ed era disposto a ripartire a manifestazione finita, a costo di guidare l’intera notte, se nessuno li avesse trattenuti.

“Andiamo a farci un giro.” disse Noam, richiudendo l’armadio e indossando al volo un maglione oversize di un rosso sfacciato “A mangiare qualcosa. A bere.” gli strizzò l’occhio “Soprattutto a bere!”

“Hai un discorso domani.”

“Ecco. Ho un discorso domani!”

Confuso.

Si sentiva così confuso.

Tutto stava rotolando, tutto era velocemente rotolato fino a portarlo lì, ad avere un discorso domani.

Era stata la sua decisione (o la sua non-decisione) a portarcelo.

Aveva ricevuto una richiesta da Segùr, aveva avuto paura delle sue previsioni, aveva per un momento sinceramente pensato di assecondarlo.

Poi aveva incontrato i suoi fratelli, Trexìa ed Alma che credevano in lui, Dzjorzj che continuava a dargli fiducia, nonostante quello che tutti e tre dovevano aver passato a causa sua.

Non poteva tirarsi indietro.

Che avrebbe pensato Thièl? Che non era capace neppure di affrontare le conseguenze della sua fuga?

No, lui doveva dimostrare che non era stato tutto inutile.

Doveva vincerle, quelle elezioni.

Doveva accettare il rischio, anche se quel rischio coinvolgeva Lant.

Eppure, ogni volta che gli tornavano alla mente le parole di Segùr si rivedeva in quella galleria: fumo e macerie e tutto il mondo che crollava.

Perché Segùr lo aveva voluto a Mòrask?

Perché, se il suo desiderio era che Màrna perdesse?

Voleva fargli pagare il rifiuto della sua complicità?

Voleva metterlo nella condizione di aver paura?

Ma perché, perché allora lo aveva trattenuto sulla porta chiamandolo per nome, per poi non dirgli ciò che forse per un attimo aveva desiderato di dirgli?

E che cosa, maledizione, aveva desiderato di dirgli?

Tutto era confusione.

Aveva bisogno di scivolare nebbiosamente nel domani.

Aveva bisogno di abbracciare quella confusione.

“Stasera devo uscire Adrian. Con te o senza.”

“Non mi sfidare, testa matta.”

Simulò una buffa faccia implorante.

“Per favore…?”

Adrian sbuffò e si rimise svogliatamente il cappotto, abbozzando un sorriso che somigliava ad una mano sulla spalla.

“Non avrò pietà per nessun lancia-pietre.”

 

***

 

Al K-32 faceva tremendamente caldo e c’era moltissima gente, tanto che Adrian guardava Noam con l’espressione risentita di chi si sente trascinato in una brutta situazione. Sedettero di fronte al tavolo-bancone (che si era allungato di un paio di assi in più, sostenuti con un’impalcatura improvvisata), schiacciati e spintonati da ambo i lati, e Noam dovette fare qualche acrobazia per sfilarsi il maglione e legarselo in vita.

“Sarebbe questa la tua sfida alla paraculaggine delle transenne?”

“Può darsi!”

Adrian si sforzava di essere ironico, ma Noam avvertiva che lo stava assecondando per fargli piacere e che essere lì gli costava un grande sforzo. Era all’erta, nervoso, con gli occhi ovunque: la sua tensione vibrava nell’aria.

“Ti hanno mai detto che a volte ti comporti come un adolescente cretino?”

“Mm… credo che tu me lo abbia detto spesso e in svariati modi!”

“E invece di meditarci su, te ne fai un vanto.”

“Sì. Mi piacciono gli adolescenti cretini!”

I due o tre barman improvvisati non avevano ancora rivolto loro la parola: non c’era urgenza di chiedere le consumazioni a tutti in serate come quelle, tanto era chiaro che l’incasso finale avrebbe pareggiato il bilancio della Tana per il resto del mese!

Tuttavia, quando l’uomo della volta precedente si accorse di loro i suoi occhi si strinsero in due piccole fessure.

“Mi ricordo di te, forestiero” disse, avvicinando la grossa testa a quella di Noam e abbassando il tono, nonostante il largo vociare di sfondo richiedesse di fare altrimenti “Quella sera avrei dovuto riconoscerti, ma ho fatto mente locale solo dopo.”

Lo sguardo di Adrian ebbe un guizzo, ma Noam gli fece cenno di stare tranquillo.

“Chi avresti dovuto riconoscere? Il personaggio che hai visto in TV o lo studente che ha fatto qui la sua festa di laurea?”

“Entrambi, figliolo: ma è il primo dei due che forse non si trova dove dovrebbe essere.”

Adrian fece un cenno di approvazione, ma contemporaneamente si irrigidì.

“Invece questo è proprio il luogo in cui voglio essere” fece Noam “ed oggi non intendo raccontare balle né all’oste né ad altri.” si aggiustò sullo sgabello e alzò lievemente la voce, permettendo ai vicini di sentire.

Il volto dell’uomo si fece cupo. Quello di Adrian pure.

“Perché oggi e non la volta scorsa?”

“Perché la volta scorsa ero venuto per bere con lui.”

E inclinò la testa in direzione dell’amico.

“E stasera… ?”

Noam sfoderò il migliore dei suoi sorrisi.

“Stasera sto facendo propaganda!”

Indicò una bottiglia ad uno dei ragazzi con l’inequivocabile gesto di riempire un bicchiere.

“Mi correggo, stasera sono venuto a bere, ma anche a fare propaganda.” rivolse lo sguardo alle persone più vicine di cui aveva inesorabilmente catturato l’attenzione “Io non amo la propaganda, e amo ancora meno coloro che fanno propaganda in continuazione dicendo che non è così: la gente che fa propaganda parlando di musica, di letteratura, persino del tempo… A me piace dire le cose che mi vanno, mi piace parlare con la gente, mi piace – e pure un po’ troppo – parlare per il gusto di farlo, ohimè! Ma se vengo in una Tana di sabato sera, mi siedo, ordino da bere e non tengo nascosta la mia identità, beh, questa è chiaramente propaganda.” spaziò con gli occhi sulla sala quasi a constatare l’entità dell’effetto delle sue parole, ma incontrò quelli di Adrian, che aveva finalmente capito il suo piano e stava scuotendo impercettibilmente la testa “Non ho niente da temere da questo posto.” dichiarò Noam, facendo cenno con un dito al suo bicchiere vuoto “Non ho niente da temere dalla gente di Mòrask. Questa è ancora casa mia.”

Il ragazzo dietro il bancone, che era rimasto per un attimo fermo ad ascoltare, gli versò del vino “E come dirgli di no?” ridacchiò, rivolto prima all’omone e poi a Noam “Alla salute di Noam Dolbruk e delle tane!”

Noam batté il fondo del bicchiere sul tavolo, in un gesto che venne imitato da qualche altro dei presenti, poi lo vuotò in un solo sorso.

“Alla salute delle tane!” esclamò.

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Capitolo 26
*** "Trappola" ***


“Alla salute delle tane!” disse Noam, e ogni cosa andò avanti da sola, come se non potesse andare in altro modo che così.

Come se fosse già tutto previsto.

Quella volta aveva progettato tutto, quella volta sì che era stato capace di pianificare: e lui non aveva intuito un accidente.

“Alla salute delle tane!”… e poi gli bastarono poche altre frasi – ma pronunciate in quel modo così autentico, leggero e sicuro insieme, rispettoso e sfacciato insieme – per trasformare il K-32 nel palcoscenico del comizio più strepitoso a cui Adrian avesse mai assistito.

Noam parlava con la sua voce morbida, che non saliva mai di tono ma che era dappertutto, ed in una manciata di minuti era diventato una presenza non ignorabile, catturando l’attenzione del locale intero. Le persone gli si raggruppavano intorno, gli facevano domande e lui rispondeva con la solita sorridente semplicità, senza orpelli, senza compiacimento, senza nessuna paura nel dire “non lo so” o “non posso”. Era completamente alieno alla retorica delle promesse e alle posture studiate: prima seduto sullo sgabello addossato al bancone, poi, per poter essere sentito meglio, seduto con le gambe penzoloni sul bordo di un tavolo, visibilmente a proprio agio e visibilmente felice di essere lì, parlava con assoluta spontaneità sia delle cose che aveva fatto che di quelle che non era riuscito a fare, dei suoi progetti ed anche, senza ombra di vergogna, di ciò che gli faceva paura.

Il popolo della Tana lo ascoltava rapito: l’ex-leader di FDL che ancora incantava la gente di Mòrask, l’uomo che che faceva paura a Kàmil Òraviy e che Zjam Karkoviy era disposto ad assecondare pur di averlo dalla propria parte, il ragazzo gentile e un po’ confuso che approdava a Noravàl da immigrato e ci fondava il movimento più creativo di tutti i tempi.

Era magico, era travolgente, era assoluto.

Nessun Kàrkoviy, Òraviy o Thièl sulla terra aveva alcuna possibilità di misurarsi con lui.

La serata scivolò con naturalezza dalla politica alla convivialità, due chiacchiere, due bicchieri di troppo, qualche canzone: la Mòrask sotterranea non era un pericolo, per Noam, era un alleato.

“Perché non andiamo in un’altra tana?” fece un ragazzotto che doveva essere un universitario ed aveva sommerso Noam di domande prendendo persino appunti “Ti facciamo parlare col nostro collettivo!”

Si davano già tutti del tu.

Si chiamavano per nome.

“Volentieri!” fece Noam “La propaganda è propaganda!”

E via da un locale all’altro, per tutta la notte, in situazioni sempre più affollate, più caotiche e più alticce.

Alle cinque del mattino, Adrian era l’unico rimasto lucido, l’unico che non si era lasciato sfuggire neppure un dettaglio e l’unico testimone attendibile degli eventi di una nottata che avrebbe reso superfluo ed insipido qualsiasi altro discorso.

Noam era un maledetto genio: non solo aveva trasformato il suo viaggio a Mòrask da una vuota comparsata ad un piano di auto promozione ad effetto, ma, mettendosi all’apparenza in pericolo, si era invece costruito una rete di sicurezza. Nessuno, l’indomani, - transenne o non transenne – lo avrebbe guardato come una marionetta del Governo: Adrian non poteva che prendere atto e ammettere che era stato un passo avanti a tutti.

 

***

 

“Pensi di dormire un paio di ore o nel tuo piano diabolico c’è il presentarti a parlare in pubblico con quella faccia?”

Ma quale faccia…! Noam era radioso.

“Devo ancora smaltire la sovra-eccitazione,” rispose “ma tu, invece, è bene che riposi un po’: non sarò io a dover avere cento occhi domattina.” Guardò l’orologio “Emh, stamattina!”

“Sei pazzo, lo sai?”

“Sì, sì, un adolescente cretino…” cantilenò con sufficienza.

“No. Proprio pazzo.”

Noam sospirò e fece spallucce.

“Vado a farmi una doccia. Tu dormi, però. Davvero.” incrociò il suo sguardo, erano entrambi esausti “Ah… e mi dispiace.”

Adrian non capiva di cosa si dispiacesse, se dell’averlo tenuto in piedi tutta la notte o di aver di nuovo scelto la strada più pericolosa per ottenere uno scopo: ma nessuna di queste cose l’aveva fatta da solo.

“Promettimi che se Màrna vince queste elezioni, smetterai di scusarti per tutte le cazzate che fai” gli disse “Sei oggettivamente pazzo, ma io sono stato il tuo complice. Potevo decidere di non esserlo.”

Noam sfoderò un sorriso stanco e riconoscente.

“Già!”

Sentì lo scroscio dell’acqua che veniva giù da quella doccia sgangherata, il lamento della caldaia in funzione che borbottava come se non fosse stata accesa da secoli, un motorino smarmittare dalla strada, e, avvolto da quel miscuglio di rumori, finì per scivolare nel sonno.

Si svegliò nel sentire i passi di Noam in corridoio: credeva fossero passati pochi minuti, invece l’orologio gli segnalò che erano le otto del mattino. Si accorse di essersi addormentato vestito, sul letto rifatto e che Noam gli aveva appoggiato addosso una coperta e chiuso le imposte, da dietro le quali adesso filtrava una luce timida.

“In teatro è sconsigliato mangiare prima di salire su un palcoscenico, sai?” disse Noam, facendo capolino dietro la porta “Ma io ho bisogno almeno del caffè!”

“Ma sì!” gli tenne dietro Adrian “Il politico più discusso del paese, sotto scorta e prima di una comparsa pubblica ad alto rischio vuole fare colazione al bar, perché se proprio si deve morire, vogliamo farlo con un po’ di caffeina nel sangue, no?”

Si guardarono e scoppiarono a ridere.

Noam era casa, pensò di nuovo, e gli tornò in mente una cosa che lui gli aveva detto un giorno: “Il mio nome significa qualcosa come ritornare a casa, ma non intesa come famiglia né come comunità… è più la sensazione di entrare in un posto in cui stai comodo, quella sensazione di quando apri la porta e dietro ci trovi il gatto.”

Si avviarono verso piazza del Campanile sotto una pioggerellina lieve, quasi impercettibile, e nella testa una sensazione di sospensione del tempo, quel momento di immobilità prima che tutto cominci a correre.

E tutto stava davvero per iniziare a correre, anche se ancora non lo sapevano.

Alle nove e trenta erano davanti al posto di blocco, superavano le transenne, si avvicinavano al palco. Tanti poliziotti e pochissima gente. Una troupe della televisione locale in posizione.

Era domenica mattina e la città sembrava ancora addormentata.

Alle nove e tre quarti squillò il telefono di Noam.

Adrian lo sentì rispondere con cordiale allegria, poi vide il suo sguardo scurirsi.

“No” disse “Non ti muovere di lì. Sì, sì… chiama Segùr” “Sì, io sono già qui, sembra tutto tranquillo…” “Ma chissenenfrega, se ne faranno una ragione” il suo tono salì di un poco, ma si costrinse a controllarsi per non dare nell’occhio “Non ti muovere di lì, per la miseria!”

Quando attaccò il telefono, Noam era pallido come uno straccio.

“Che succede?”

Lui si guardò intorno e si accertò che non ci fossero orecchie indiscrete a portata di voce.

“C’è qualcosa che non va… ” rimase qualche istante pensieroso, poi riprese con una innaturale fermezza “Adrian, dobbiamo andare immediatamente a casa del professor Màrna. Sta accadendo qualcosa che non mi piace.”

“Sii più preciso: chi era al telefono e cosa ti ha detto?”

“Era Lant. L’uomo che deve accompagnarlo qui non si è ancora presentato, e mi ha riferito che già da ieri sera ha notato strani movimenti intorno a casa sua: all’inizio non gli aveva dato peso, ma stamattina ha messo insieme i pezzi e si è spaventato. Gli ho detto di chiamare subito Segùr per capire cosa sia successo alla sua scorta e di non uscire di casa per nessuna ragione. Tutto questo non va bene.”

Non andava bene, certo. Ma il panico che aveva colto Noam era sproporzionato rispetto ai fatti che gli stava esponendo. Fino alla sera prima se ne andava in giro per le tane senza nessun timore, che gli prendeva adesso?

“Io sono qui per proteggere te: figurati se, essendo a conoscenza di un pericolo, acconsento ad andargli incontro!”

“Maledizione, ti prego! Ti rendi conto di…” esitò, gli tremarono le labbra “Temo che qualcuno possa volere Lant morto!”

E glielo diceva adesso? Su che basi lo pensava? Gli aveva di nuovo taciuto delle informazioni determinanti? Aveva forse comunicato con qualcuno del Fronte? Possibile?

“Cazzo, Noam, cosa sai che io non so? Pretendi di essere aiutato parlando per enigmi?”

Noam si paralizzò sul posto, stordito dalla sua reazione, ma non era quello il momento per preoccuparsi di aver urtato la sua sensibilità.

“Segùr temeva…” incespicòSegùr mi aveva messo in guardia sul fatto che Lant potesse essere nel mirino del terrorismo.”

“E come faceva ad avere questa informazione?” incalzò Adrian “Da quali fonti l’ha ricevuta?”

“Non lo so. Mi disse solo che, per evitare il rischio, avremmo dovuto perdere le elezioni! Andiamo a veder cosa succede, Adrian. Ti prego! Se accade qualcosa a Lant è colpa mia!”

“Colpa mia, colpa tua, le solite stronzate, Noam! Se c’è un pericolo, qualsiasi pericolo, non puoi chiedermi di portatici in mezzo!”

Gli occhi di Noam si spalancarono. Dio, quanto sembrava perso e indifeso, rispetto a poche ore prima.

“Allora, vacci tu, Adrian.” pronunciò quelle parole come se gli fossero costate tutto il fiato che aveva “So che ti sto chiedendo di correre un rischio, e lo odio, ma tu sei preparato ad affrontarlo, Lant no.” non gli lasciò il tempo di ribattere, anticipò la sua reazione “Sì, lo so che tu sei qui per proteggere me, ma qui ci sono anche decine di poliziotti, le transenne, le telecamere. Sono al sicuro. Vai a vedere che succede. Ti prego.”

Quante volte aveva già detto “Ti prego” in quei minuti?

Quante volte, da quanto si conoscevano?

Almeno ogni volta che aveva ignorato un rischio, almeno ogni volta che si era lasciato ferire da qualcosa o qualcuno, almeno ogni volta che aveva voluto costringerlo a non dirgli di no.

Non dirgli di no.

“Non ti muovere di un passo.” disse “Nemmeno se qualcuno te lo chiede. Nemmeno se ricevi telefonate che ti spingerebbero a farlo. Anzi, non rispondere proprio al telefono, che è meglio. Giura.”

Alle dieci, Adrian attraversò le transenne a ritroso.

L’antico orologio del campanile emise il suo suono metallico da carillon.

 

***

 

L’auto sobbalzava sui sampietrini delle vie del centro di Mòrask, mentre la mente di Adrian sobbalzava tra una congettura e l’altra.

Perché Segùr temeva un attentato e perché lo aveva detto a Noam, anziché a lui? La scorta di Lant ne era a conoscenza? Cosa era accaduto ai suoi colleghi? E perché, di fronte ad un sospetto del genere, Segùr aveva insistito per mandare Noam a Mòrask? Pensava forse che la sua presenza potesse distogliere l’attenzione da Màrna? Sapeva qualcosa a proposito del passato di Noam e si era fatto l’idea che il Fronte non avrebbe agito contro di lui? Era una spiegazione plausibile.

Ma il Fronte era fatto di tante anime, era pieno di teste calde e di imprevedibili: Thièl glielo aveva detto.

Non aveva ancora pensato, prima di allora, che gli sarebbe davvero servito quel numero, che avrebbe dovuto chiedergli aiuto. Ma se non ne sapeva qualcosa lui, chi altri?

Thièl non lasciò fare al telefono nemmeno il secondo squillo.

“Problemi?” esordì.

“Qualcuno.”

“Non da parte nostra.” fu rapido a asserire.

“Allora vorrei scoprire da parte di chi.”

“Spiega.”

Adrian gli raccontò ogni cosa, mentre continuava a guidare verso casa di Màrna.

“Ok. Ho capito.” la voce di Thièl era calma ma autorevole, non aveva il tono strafottente che ricordava dalla loro prima ed ultima conversazione: doveva essere abituato a telefonate come quella “Ti sto mandando l’accesso alle telecamere di sorveglianza della filiale 2 della Banca Centrale di Mòrask, che sta a 50 metri dall’edificio in cui abita il professore, e a quella della gioielleria Dànask, sull’altro lato della strada. Incrociando le immagini dovresti avere una buona visuale.”

Dalla rapidità della sua reazione, Adrian sospettò che avesse preparato quel piano da tempo.

“Da luogo in cui mi trovo non posso intervenire, ma mi procuro un contatto sul posto.”

Alle dieci e sette minuti, Adrian accostò sul ciglio della strada e seguì i link inviati da Thièl: dalla telecamera della Banca si vedeva bene un buon tratto di strada. La via era piuttosto popolata, per essere domenica mattina, e le immagini non erano abbastanza fuoco da distinguere un atteggiamento corporeo da un altro, un’intenzione da un’altra, una persona da un’altra.

Non, almeno, se quelle persone fossero state tutti degli sconosciuti: ma non era così.

Le mani di Adrian serrarono il piccolo schermo del telefono: con le dita incerte catturò un fotogramma, lo ingrandì, e all’improvviso si rese conto nella terribile trappola in cui era caduto.

L’individuo appostato davanti ad una vetrina di moda, a due passi dal portone di casa del professore, era Vìrnosz, il suo ex collega, l’uomo dello staff di Òraviy!

Come in una tragica epifania, ad Adrian fu tutto chiaro: Noam rifiuta la tangente di Òravy, Segùr viene incaricato dal padre di indurlo a perdere le elezioni per toglierselo dai piedi, Noam rimane fermo sulla sua posizione e anzi, la sfida ai tre Boss fa schizzare Màrna in testa ai sondaggi, Segùr allora convince Noam ad andare a Mòrask con il ricatto emotivo che il professore possa essere in pericolo, Vìrnosz spaventa Màrna, che naturalmente contatta Noam, il quale, essendo già in stato di allerta, prega Adrian di andare in soccorso del collega… E lui, maledizione, per l’ennesima volta lo aveva accontentato, Segùr lo sapeva benissimo. Le sue dannate previsioni.

Alle dieci e nove minuti l’auto di Adrian stava sfrecciando pericolosamente per la strada a ritroso.

Bucò un semaforo rosso, ignorò una precedenza, qualcuno gli imprecò dietro.

Adrian non sentiva niente.

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Capitolo 27
*** "Proteggere" ***


*** Ho voluto postare questo capitolo oggi per ritualizzare un po’ il giorno di Natale… pensierino per i miei due lettori! ^_^ Ci vediamo ad anno nuovo! ***

 

La fastidiosa pioggerella era cessata e dalle nubi si era affacciato un piccolo spiraglio di sole.

Lentamente, la piazza si era popolata: all’inizio dell’evento mancava meno di mezz’ora.

Noam non si era quasi mosso dal luogo in cui aveva scambiato le ultime parole con Adrian: guardava le persone accalcarsi alle transenne e riconobbe qualcuno dei ragazzi incontrati durante la notte; riconosceva bene anche quelli che erano lì per fischiare e protestare (sguardi noti, prossemica nota, era stato anche lui uno di loro); poi c’erano i curiosi, quelli che si erano avvicinati perché non sapevano neppure cosa stesse accadendo, e se quel palco fosse stato montato per una celebrzione, uno spettacolo teatrale o un concerto. Noam poteva indovinare i pensieri dietro ciascuno di quei visi, ma non aveva nessuna voglia di inseguirli. La sua mentre era occupata da Adrian, da Màrna, dal desiderio di vederli sbucare tagliando in due il cordone di polizia mentre dicevano niente, tutto bene, falso allarme.

Tutto gli sembrava distante e irreale: lui così piccolo e insignificante, il palco all’improvviso enorme, incombente, e davanti a sé gli abitanti della sua città; alle sue spalle, da qualche parte, stampa e televisione pronti a manipolare quell’evento per conto di questo o di quello, come era sempre stato da quando c’era lui oltre le transenne, con gli striscioni tesi, a fischiare il politicante di turno; tutto intorno, poliziotti in uniformi scure, dietro scudi scuri, con occhi scuri, nero fuori e nero dentro, barricati in se stessi per sentirsi più forti degli altri.

Da qualche parte, altrove, l’unica persona di cui sentiva di potersi fidare.

Come poteva pretendere che Mòrask si fidasse? Come poteva, in quell’atmosfera, aspettarsi dagli altri il salto nel vuoto più grande: la fiducia in lui?

Pensò a suo padre, a che cosa avrebbe detto, che cosa avrebbe fatto nel vederlo lì. Ma era un pensiero stupido: se Fidòr Dolbruk fosse stato vivo, ogni cosa sarebbe andata diversamente, non avrebbe perso Thièl, non avrebbe visto Noravàl, non avrebbe…

Poi all’improvviso qualcuno gridò.

Erano i poliziotti, c’era qualcuno che fischiava, e poi sentì la voce di Adrian: si voltò in quella direzione e lo vide saltare la transenna mentre il cordone cercava di ricomporsi, scompaginato e confuso. Correva verso di lui gridando il suo nome, facendogli segno di muoversi, di andargli incontro, e c’era un’urgenza disperata in ogni suo gesto, in ogni fibra del suo corpo.

Noam fece per muoversi, ma si rese conto di essere completamente pietrificato.

Cos’era quel terrore negli occhi di Adrian?

Perché Lant non era lì?

Era morto?

Cos’era successo?

Si sentì sopraffare dal panico.

Per un lunghissimo momento, vide se stesso correre: sapeva di essere fermo, eppure da qualche parte nella sua mente stava correndo, ed era una corsa senza speranza, e sopra la sua testa non c’era più il cielo piovigginoso di quel mattino, non c’erano la cima del campanile e il piccolo spiraglio di sole, c’era solo il soffitto buio e incombente del traforo del Nòdoask.

Adrian lo afferrò per un braccio, lo strattonò e lo spinse avanti a sé gridando qualcosa.

Poi il mondo esplose alla loro spalle.

 

***

 

Cos’era accaduto, quel giorno?

Credeva di non ricordarlo così bene.

Invece le immagini erano lucide, le sensazioni erano lucide, tutto era perfettamente nitido e chiaro.

L’ingresso della galleria era gremito di gente, e anche allora c’era la polizia a tenerla a distanza, perché non ci si deve accalcare in una galleria, no, è pericoloso (perché voi siete pericolosi, voi darbrandesi incivili e testardi, sempre pronti a ricorrere alla violenza): ma il pericolo era già all’interno, e Fidòr era di certo felice, quella volta, che ci fossero scudi e manganelli tra lui e la sua gente venuta a curiosare, e che vicini a lui ci fossero solo i suoi due bersagli: l’allora sindaco di Mòrask, che aveva permesso e caldeggiato i lavori, e il vice ministro dei trasporti in persona (quale onore per la città!), tronfi e tirati a lucido davanti al nastro rosso da tagliare.

Noam si era fatto strada tra la calca, riconosceva i volti, molti erano lì per protestare, come avrebbe fatto lui se non avesse saputo…

Era arrivato davanti alle transenne correndo, sì, ora se lo ricordava bene, le immagini erano in ordine, definite e lontane.

Le guardava da distanza – da dove? - era come vedere se stesso dall’esterno.

Un poliziotto gli si era parato davanti: lo aveva ignorato, che si levasse di mezzo, lui aveva fretta, suo padre stava per uccidere, suo padre stava per morire, cosa ci faceva quell’imbecille sulla sua strada? Gli aveva dato una spallata per passare, quello aveva reagito, l’aveva colpito… ma Noam conosceva tutti, lì: era ancora il leader di FDL, un leader non ufficiale ma indiscusso, nessuno poteva aggredirlo senza che qualcun altro intervenisse.

E qualcuno intervenne, infatti, non ne vedeva l’ora: in pochi attimi scoppiò la rissa…

Lui aveva continuato a correre, era entrato nella galleria, Fidòr lo aveva visto, aveva gridato con le mani.

Vattene, allontanati, via da qui… Gli stessi gesti disperati di Adrian.

E poi il mondo era esploso alle spalle di Fidòr Dolbruk, e lui aveva fatto in tempo a incrociare i suoi occhi, a vedere le sue labbra muoversi.

A sentire la sua ultima parola.

Noam.

 

***

 

“Signor Dolbruk! Coraggio, venga con me!”

Qualcuno lo stava conducendo da qualche parte, non vedeva niente, un fischio acuto gli trapanava le orecchie, era senza fiato.

Dov’era la mano di Adrian che un attimo prima gli stringeva il polso?

No, il polso glielo aveva lasciato, lo aveva spinto avanti, aveva detto corri, poi c’era stata l’esplosione.

Dov’era Adrian?

Noam gridò il suo nome, una volta, due, tre… ma non riusciva a sentire la sua stessa voce.

Erano le orecchie a non funzionare, o il suono a non uscire?

Sentiva le sirene della polizia, le sirene delle ambulanze, e tutto era ovattato, lontanissimo.

“Si calmi, va tutto bene, è al sicuro!”

Qualcuno lo sosteneva, gli parlava con gentilezza, chi era? Non riconosceva quella voce.

Dov’era Adrian?

Perché nessuno gli rispondeva?

Stava gridando?

Era certo di aver aperto la bocca per farlo, una volta, due, tre… sempre la stessa parola, la sola parola che riusciva a pronunciare.

Adrian.

Adrian.

Adrian.

 

***

 

Quando Noam aprì gli occhi, si trovò a fissare un soffitto azzurrino in una timida luce serale. La prima sensazione che gli venne incontro fu un odore che veniva dal passato e gli fece comprendere dove si trovava. L’ospedale di Mòrask: ci era stato una sola volta, da ragazzo, quando era precipitato da un albero durante le vacanze a casa di Vòrkne; frattura della tibia, aveva dovuto finire sotto i ferri perché l’osso tornasse dritto, e i suoi genitori si erano così arrabbiati che, anziché stargli accanto a consolarlo, lo avevano lasciato da solo per tutti i giorni di degenza.

Il ricordo sfumò in fretta, e il presente tornò ad affacciarsi ai suoi pensieri.

L’esplosione.

Adrian.

Balzò a sedere e la stanza cominciò a girargli intorno: si portò le mani alla testa come se quel gesto potesse fermare il movimento.

“Non così. Piano.”

Alzò lo sguardo lentamente, quasi seguendo quel consiglio, e lo spostò nella direzione della voce. Sulla porta c’era un giovanotto in camice, paffuto e rotondo, con un sorriso simpatico sulle labbra.

“Come sta?”

Noam aveva una sola domanda annodata in gola, ma era troppo stordito per parlare: guardò invece verso la finestra, come per cercare di orientarsi nel tempo. Buio, ma questo non diceva granché in pieno inverno.

L’altro interpretò quello sguardo.

“Ha dormito diverse ore. I soccorritori hanno dovuto somministrarle un farmaco perché lei era in pieno attacco di panico… le è capitato altre volte?”

Noam sollevò le sopracciglia, sempre più smarrito: la situazione gli sembrava onirica. Era appena esplosa una bomba o no? Di cosa stavano parlando?

“No, credo di no… o forse… si, qualcosa, una volta… ma che importa?”

L’uomo lo guardò con dolcezza, prese uno sgabello e si sedette al suo capezzale: un medico, a vedere quello che c’era scritto sulla targhetta cucita sulla tasca del camice. Molto giovane, però. Noam pensò fugacemente a Alma. Un giorno anche lei avrebbe potuto trovarsi in una situazione così, a sorridere ad un paziente confuso che desiderava solo una risposta confortnate alla domanda difficile che non riusciva a formulare.

“Ehi,” lo apostrofò affabilmente “siete tutti vivi, quindi stia tranquillo. Sono qui per occuparmi di lei e darle le rassicurazioni di cui ha bisogno.”

Noam si morse il labbro.

“Adrian… ” mormorò soltanto.

Lo sguardo del medico si fece serio, ma senza essere reticente o allarmante.

“La bomba era posizionata sotto il palco, a quanto attualmente si sa. Dalle deposizioni dei primi testimoni, il signor Vesna ha spinto a terra lei ed ha cercato di farle da scudo. Non ha riportato ferite gravi, ma ha dovuto subire un piccolo intervento. Inoltre, cadendo ha battuto la testa, perciò deve rimanere 24 ore in osservazione per sospetto trauma cranico.” incrociò gli occhi spaventati di Noam e accennò un sorriso “Lei è stato molto fortunato. Fortunato a non essere ancora salito su quel palco, e fortunato che il suo collega l’abbia allontanata in tempo: quei pochi metri hanno fatto la differenza.”

Il medico non lo disse, ma il resoconto parlava chiaro.

Doveva ad Adrian la vita.

“Posso vederlo?”

L’altro annuì.

“Prima le misuro polso e pressione e mi accerto che lei sia in grado di reggersi in piedi. Poi l’accompagno.”

 

***

 

Il ronzio inquietante dei macchinari, il silenzio asettico, le piccole luci al neon erano per Noam repertorio da film: non avrebbe mai immaginato di trovarsi a paragonare quell’immaginario alla realtà e trovarlo, tutto sommato, così poco differente.

Quel luogo, del resto, era più simile ad un set cinematografico che ad un ospedale: l’ala dove erano stati ricoverati entrambi era stata svuotata, c’erano solo il medico col sorriso cordiale e diversi poliziotti in tenuta d’assalto, posizionati all’ingresso e di pattuglia lungo il corridoio.

L’atmosfera era surreale e inquietante, come surreale e inquietante era la consapevolezza di essere appena sopravvissuto ad un attentato, attentato in cui una delle persone che gli erano più care al mondo aveva rischiato la vita al posto suo.

Si avvicinò al letto in cui giaceva Adrian, il dottore gli batté delicatamente una mano sulla spalla e li lasciò soli.

Lui sembrava dormire, aveva il volto pallido ma disteso e un grosso cerotto sul lato destro della fronte. Quando avvertì il movimento della sedia che veniva spostata, aprì gli occhi.

“Ciao, stai bene?” sussurrò con una voce così velata che non sembrava sua.

Noam affondò la testa tra le mani e non riuscì a rispondere.

Avrebbe potuto essere morto. Avrebbero potuto essere morti entrambi.

“Noam…?”

“Mi dispiace…”

“Ti dispiace? Per una volta che la cazzata non l’hai fatta tu?”

Nonostante quel tono debolissimo, c’era un sorriso nascosto tra le sue parole, ma Noam si sentiva soffocare. Avrebbe voluto piangere. Tremare. Urlare. Invece rimaneva paralizzato.

“Ehi, che hai? Ci è andata di lusso, siamo vivi e nessuno si è fatto male.”

“Tu, tu ti sei fatto male!”

“Un paio di punti qua e là non è farsi male. Contano più o meno come una sassata in fronte, e a Mòrask le sassate si danno via come i confetti.

“Trauma cranico. Intervento. Sei bianco come uno straccio…”

“Noam.”

“… preferivo toccasse a me.”

“Lo so. E io no. Non puoi essere sempre tu quello che si butta tra le fiamme e lascia gli altri a guardare.”

Lasciare gli altri a guardare.

Lasciare gli altri con quella domanda difficile annodata in gola.

“Sono felice di essere riuscito a proteggerti,” proseguì Adrian, e la sua voce era dolce e placida “perché un mondo dove tu ci sei è molto migliore di un mondo in cui non ci sei. È il mio modo di chiedere perdono.”

“Chiedere… perdono, Adrian?”

“Esatto. Chiedere perdono.”

 

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Capitolo 28
*** "Perdono" ***


Chiedere perdono.

A chi?

Non lo sapeva, ma sapeva che l’uomo che stava seduto al suo fianco era la ragione per cui desiderava farlo.

Aveva avuto paura: una paura feroce e profonda, un tipo di paura che non pensava di essere capace di provare. Le sue emozioni, positive o negative che fossero, non erano mai state abbastanza forti da fare male. Né, in realtà, abbastanza da fare bene. Le aveva addormentate vent’anni prima.

Noam aveva visto giusto: lui aveva smesso di respirare, lo aveva fatto per sentire meno dolore, per addomesticare il cuore e insegnargli ad obbedire. Per sopravvivere.

Ma mentre correva in macchina temendo di non fare in tempo, mentre immaginava quello che sarebbe accaduto a Noam se non avesse fatto in tempo, Adrian si era trovato tutto ad un tratto a sentire fin troppo bene ogni cosa.

A pensare di essere disposto a qualsiasi cosa, pur di salvare la vita del suo unico amico.

Ci era riuscito, e adesso stava respirando.

Forse era l’effetto dell’anestesia o forse il colpo alla testa, ma gli sembrava di non essere mai stato così in pace.

Avrebbe dovuto fare mente locale, rimettere insieme i pezzi, capire cosa fosse successo davvero e progettare la prossima mossa, invece la sua mente era vuota e ariosa, il cuore era leggero, leggeri anche i pensieri, era assolutamente e limpidamente sereno.

Perdono a chi.

A Noam, per non essere la brava persona che meritava di avere a fianco.

A se stesso, per aver pensato di non meritare di esserci, e invece l’esserci stato aveva fatto la differenza.

“Proteggere te è bello e facile” disse “È un istinto, è un desiderio. Mi rende felice farlo non solo perché siamo amici, ma anche perché vorrei essere come te. Avrei voluto essere te, tanti anni fa.”

Aveva davvero voglia di raccontare quella storia?

Di sprofondare ancora?

Noam aveva gli occhi stanchi e fissava con espressione colpevole il cerotto sulla sua tempia. Sembrava aver perso la sua capacità di riempire il silenzio di parole vaghe, era scosso e spaventato: doveva essere stato terribile per lui, rivivere il momento peggiore della sua vita.

Voleva raccontargli il momento peggiore della propria?

Sì, a lui sì, perché non si affronta la morte per una persona con cui non si è disposti a condividere il momento peggiore della propria vita. Perché Noam non doveva pensare mai più di non avere la sua fiducia.

“Hai ragione tu: c’è stato un giorno in cui ho smesso di respirare” cominciò “e forse questo è il momento più fuori luogo per mettere in piazza i fatti miei… ma vorrei che tu sapessi perché è successo.”

Noam si strofinò gli occhi col dorso della mano: si assestò sulla sedia e sforzò un esile sorriso.

“Ventiquattro ore di osservazione:” disse “abbiamo un sacco di tempo.”

Come accidenti faceva a sorridere in quel modo, nonostante qualcuno avesse appena cercato di ammazzarlo? Soave Dolbruk sempre, anche dopo che gli era esplosa accanto una bomba.

“Quando respiriamo” iniziò Adrian “c’è un momento, tra l’inspirazione e l’espirazione, in cui anche i polmoni si fermano. In quell’istante, tecnicamente non stiamo respirando, ma siamo vivi. Io mi sono fermato in quello spazio lì, ed è accaduto il giorno in cui un ragazzo è morto per colpa mia.”

Rivolse lo sguardo al soffitto, non voleva vedere come avrebbe reagito Noam, non voleva che qualcosa lo trattenesse dal raccontargli quella storia: era partito dalla fine per impedirsi di tornare indietro.

“Non sono sempre stato quello che conosci: non sono sempre stato – com’è che dici tu? - solido. Forse non lo sono nemmeno adesso, ma sono bravo ad apparire tale. C’è stato un tempo della mia vita, invece, in cui apparivo esattamente quel che ero: un ragazzino smarrito e insicuro, del tutto incapace di difendersi da solo. Non so se fossi più o meno felice, non posso valutarlo: ho perso l’abitudine a voltarmi indietro. Ero il figlio per bene di genitori per bene, abituato a chiedere per favore e a dire grazie, e da questa educazione non si sgarrava: farlo sarebbe stato un tradimento, ed io ero cresciuto sentendomi questa responsabilità dentro le ossa. Non ne faccio una colpa alla mia famiglia, erano brava gente, erano fatti così, si sentivano appagati e al caldo nelle loro piccole formalità, nella bella impressione che davano agli altri. E comunque, quel che si è, o che si diventa, non è mai davvero una questione di come si è stati cresciuti: probabilmente, nasciamo sicuri o insicuri a seconda di quale numeretto si è pescato dal sacco e si diventa per metà quel che cerchiamo di diventare, per l’altra metà quello a cui la vita ci costringe, come è accaduto a te, che sei nato persona di silenzi e sei diventato il leader davanti a cui stanno zitti gli altri. Non sono mai stato bravo a dire no – adesso sì, e forse tu, da questo punto di vista, sei la mia unica eccezione – non avevo idea di cosa volesse dire ribellarsi, aggredire, o anche solo proteggere se stessi. Davo sempre la precedenza a questo pensiero: cosa si aspettano gli altri da me? Cosa desiderano? Chi devo fare contento oggi? Ma quando da bambini non si mette se stessi al centro del mondo, significa che qualcosa è andato storto, e quel piccolo errore non smetterà di influenzare il tuo passaggio sulla terra, per quanto tu cerchi di correggerlo. Andare a scuola, fare sport, giocare coi miei coetanei per me era solo sofferenza: ogni ingiustizia che subivo – a volte, persino quelle che subivano gli altri - per me si trasformava in un dolore muto di fronte al quale non riuscivo nemmeno ad arrabbiarmi, mi bloccavo come un giocattolo rotto. Ma dovevo fare finta che tutto andasse bene, perché non volevo che qualcuno si accorgesse del difetto, di quell’errore impercettibile che faceva di me un diverso. Ora, tutti i bambini diversi prima o poi incontrano il proprio persecutore: il mio si chiamava Ròbul, un amico d’infanzia, figlio di amici dei miei, che frequentava la mia stessa scuola; era un ragazzo irruente e aggressivo, ma intelligente, allegro e pieno di vita, che riusciva sempre a trovarsi al centro dell'attenzione. Tutti pensavano che fossi fortunato ad essere suo amico, ed io fingevo di crederlo, mentre dentro lo detestavo: la sua stessa esistenza era il mio incubo. Non lo dissi mai ai miei genitori, non so cosa temessi, forse che loro non volessero intaccare la relazione con la famiglia di lui, forse che, semplicemente, si accorgessero che c’era un problema, che io potessi essere un problema. Perciò non lo allontanai mai, continuavo a frequentarlo fingendo indifferenza e ogni volta che sentivo crescere l’odio dentro di me mi convincevo che stavo facendo il mio dovere, il dovere di essere il bravo ragazzo di cui nessuno si sarebbe mai lamentato. In adolescenza, Ròbul assunse il ruolo di capobranco, a scuola e fuori; nessuno dei miei compagni osava mettersi contro di lui: ci chiedeva di fare cose – prove di coraggio o di forza, piccoli furti, umiliazioni, cattiverie – che non erano nulla di trascendentale se guardate con gli occhi di oggi, ma che allora mi parevano mostruose. Chi non ci stava ne prendeva di santa ragione, e io non potevo tornare ogni giorno a casa con una scusa diversa per nascondere un occhio nero. Lo disprezzavo e desideravo liberarmi di lui, ma il mio desiderio si scontrava contro la sua ferocia e la mia debolezza. Poi ci fu il viaggio d’istruzione a Bam, in un campo avventura ne parco naturale. Non volevo andarci, pensai anche di fingermi malato, sapevo cosa sarebbe successo; ma non ebbi il coraggio di fare neppure quello. La notte Ròbul decise che dovevamo uscire di nascosto nel bosco, sul sentiero che costeggiava il fiume: nessuno di noi osò rifiutare, sarebbe stato come rendersi il suo bersaglio per il resto dell’anno scolastico. O forse nessuno voleva farlo, forse a tutti stava bene così tranne a me: non lo saprò mai. Faceva un freddo terribile: sono stato tante volte in luoghi freddi, ho trascorso notti all’aperto per lavoro, fatto addestramenti sotto la neve, ma non ricordo di aver mai più provato un freddo come quello. Lungo il sentiero si apriva una voragine nera, sentivo il vento fischiare e l’acqua scorrere sul fondo, pensavo che stessimo rischiando di morire tutti per colpa di un imbecille, che eravamo anche noi degli imbecilli, eppure non tornavo indietro. Ad un tratto devo aver perso il passo, perché mi accorsi di essere rimasto solo, ma non avevo il coraggio di chiedere aiuto: l’idea che gli adulti sentissero e mi scoprissero mi sembrava peggiore che morire assiderato. Ad un tratto Ròbul tornò sui suoi passi e venne verso di me: rise e mi disse di muovere il culo, che se mi facevo beccare eravamo tutti fregati; gli andai dietro, mentre lui si divertiva a staccarmi di qualche metro ogni volta e poi tornarmi incontro per ripetermi che ero lento. Il giorno prima aveva piovuto, il terreno era sdrucciolevole e il sentiero franò sotto i suoi piedi. All’inizio sentii solo il rumore, poi lo sentii gridare: era rimasto appeso ad una radice, alle sue spalle solo oscurità e quel rumore di acque lontane. Tirava vento, un gelo che tagliava le dita. Ròbul gridò “Dammi la mano, tirami su!”, ed io mi chinai sulle ginocchia, e lo guardai dall’alto in basso mentre si teneva su con tutta la forza che aveva. Guardai le mie mani: rosse, screpolate, ferite da quel freddo impossibile. Lui disse: “Aiutami, Adrian!”, e aveva gli occhi spalancati, che non sembravano suoi, ed io ricordo di aver pensato che sì, avrei potuto farcela: che se mi fossi sporto un po’ potevo afferrarlo, che forse avevo la forza sufficiente per tirarlo su. E nello stesso momento pensai anche che non lo meritava, pensai che se fosse sprofondato laggiù, se fosse sparito per sempre, io sarei stato meglio. Tutti sarebbero stati meglio. La sua voce mi chiamò una volta ancora, poi sentii il boato del terreno che cede. Il mio braccio non si era allungato: ero rimasto immobile lì, curvo sull’orlo del baratro, a guardare il buio che lo inghiottiva. I soccorsi lo ritrovarono poche ore dopo, non ci fu niente da fare. Nessuno seppe mai come erano andate le cose: quella notte smisi di parlare, e non lo feci più per due anni. Mutismo da trauma, dissero gli psicologi: ma la ragione era un’altra, e la ragione è che se quello che senti è niente, allora è meglio che le parole facciano un passo indietro, che non ci provino nemmeno, a dare forma al niente, perché il niente è meglio lasciarlo in pace, è più buio di quel crepaccio, nel niente ci puoi solo sprofondare. Ho visto calare nella terra la bara di un ragazzo di 15 anni, un mio coetaneo, un mio compagno, senza avvertire nessuna tristezza, nessuno sgomento, nessun senso di colpa: solo vacuità. Non so se sono mai stato capace di provare sentimenti forti, tuttora mi chiedo se amassi davvero mio padre e mia madre o semplicemente fossi anche io assuefatto a quel posto al caldo da cui avevo paura di uscire. Comunque stessero le cose, da quel giorno le mie emozioni si sono addormentate, ed ho deciso che andava bene così, che dovevo trasformare questo dato di fatto in qualcosa che avesse un senso. Io non ho mai avuto stima dei poliziotti, dei militari, né di chiunque trovi sano o piacevole tenere un’arma in mano, ho sempre pensato che in polizia e nell’esercito si raccolgano le peggiori persone: superbi, frustrati, insicuri che sperano di sfuggire a se stessi, sadici, violenti, maniaci del controllo, e via e via. Ma ho deciso di entrarci, perché quel lavoro deve pur farlo qualcuno, e allora preferivo essere il migliore dei peggiori che sistemarmi in una vita tranquilla di cui non mi sentivo degno. In polizia ho resistito poco, per i motivi che ti ho appena elencato. Sono passato alla sicurezza privata: anche in quel caso, proteggere persone che reputavo pessime mi faceva sentire bene, era come una forma di espiazione, era costringermi ad imparare che non sta a me decidere chi merita o meno di essere salvato. Sentendomi sporco sono rimasto a galla: sono riuscito a sopravvivere anche non respirando. Poi ho conosciuto te. Ho accettato di farti da guardia del corpo animato dal pregiudizio che tutti gli uomini di potere fossero marci a qualche livello e volevo scoprire quanto e in che modo lo fossi tu, che sembravi gettare fumo negli occhi a tutti, che sembravi così finto ed improbabile. E tu hai…Tu hai stravolto ogni cosa, Noam. In pochissimo tempo sei riuscito a sabotare, pezzo dopo pezzo, il mio lavoro di una vita. Senza avere nemmeno una volta il dubbio che aprirti in quel modo con me potesse essere un pericolo, che io potessi tradirti, mi hai consegnato i momenti più tragici del tuo passato e nel farlo hai riportato a galla il mio: lo hai scoperchiato come si scoperchia una vecchia botola ed hai sollevato un sacco di polvere. Ci si soffoca, in tutta questa polvere… io ho creduto di soffocarci. Tu non hai idea di quanto mi faccia male il tuo senso di colpa: il senso di colpa di un uomo che quella mano l’ha allungata eccome, anche se ha fallito. L’ha allungata allora, ed altre mille volte, e soprattutto, lo avrebbe fatto al posto mio, quel giorno, a costo di precipitare anche lui. Ti invidio. Vorrei essere te. Ma non ne sono capace: io non sono capace di allungare una mano per salvare tutti, io non sono uno le cui mani, di fronte ad un’emergenza, si muovono da sole. Io non sono per niente istintivo, per niente votato al sacrificio, per niente eroico. Ma riesco ad esserlo per te. Così, in questo modo… io posso permettere a te di continuare ad essere ogni giorno, meravigliosamente arbràsk. Questo è respirare, Noam: ed è per questo che per te, io…”

Non sapeva come proseguisse quella frase: forse doveva lasciarla semplicemente lì, a galleggiare tra i suoni innaturali della strumentazione medica.

Sentì Noam alzarsi dalla sedia: durante tutto il tempo del suo racconto, Adrian non si era mai voltato a guardarlo. Prima che potesse farlo, sentì la sua mano posarglisi sulla testa.

“Stavolta sta a me.” sorrise “…Posso essere io, per una volta, quello solido?”

Lo diceva e gli tremavano le dita.

Eppure sì: certo che poteva.

Poteva prendersi tutta quella storia, il suo passato, quel braccio che non si era allungato in tempo, Ròbul, il nido sicuro in cui i suoi genitori si erano rinchiusi, le buone maniere, la solitudine, la sporcizia, l’apnea, la bomba.

Noam poteva prendersi tutto quanto, e non sarebbe mai sprofondato.

Era per questo che le sua mani potevano pure tremare.

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Capitolo 29
*** "Trattare" ***


Adrian si era addormentato.

Noam pensò che quella era la seconda volta, in pochi giorni, che lo guardava dormire, e che questa era una sensazione strana: aveva vegliato più volte su ciascuno dei suoi fratelli, da bambino aveva ascoltato in segreto le conversazioni di suo padre e i suoi compagni mentre tutti lo credevano a letto, era abituato ad essere quello vigile, - “il piccolo Noam che non dorme”, diceva Vòrkne – ma con Adrian non era mai capitato: Adrian non aveva mai ceduto il controllo prima, era sempre stato lui quello che rimaneva con gli occhi aperti.

Si sentiva forte: era sconvolto, il mondo gli tremava sotto i piedi, non sapeva cosa gli sarebbe accaduto domani e dopodomani, cosa avrebbe fatto Lant, dove sarebbe andato a finire il suo progetto, come sarebbe cambiata la sua vita dopo essere stato ad un soffio dal perderla, eppure in quel momento gli sembrava che tutto andasse bene.

La fiducia di Adrian gli avrebbe permesso di fare qualsiasi cosa.

Non aveva più paura.

Si stava facendo sera, Noam sentì dei passi nel corridoio; il silenzio era così assoluto che ogni piccolo suono arrivava amplificato e al tempo stesso dilatato. Riconoscere delle voci, e poi delle parole, fu quasi disturbante, come un risveglio brusco da un sonno ovattato.

“Come sarebbe a dire che non ho l’autorizzazione? Ma lo sa chi sono io?”

Un attimo dopo, un poliziotto stava scortando Zjam Karkoviy fino alla stanza di Adrian.

Noam si alzò stancamente dalla sedia e gli andò incontro sulla porta, sfoderando il suo sorriso più rassicurante: si aspettava di dover sdrammatizzare, e si sentiva anche in grado di farlo, invece Zjam lo osservò per un attimo con sguardo incredulo e grato e poi lo abbracciò.

“Noam!” esclamò, incurante della presenza dei poliziotti e del giovane medico, che era rimasto qualche passo indietro “Dio, Noam, Noam, perdonami!”

“Sto bene, Zjam.”

Non sapeva cos’altro dire, gli pareva che gli fosse sfuggito un passaggio.

Zjam fece un passo indietro, gli tenne le mani sulle spalle, continuò a guardarlo come se la sua riposta avesse bisogno di una conferma.

“Sì, grazie a Dio. Se ti fosse accaduto qualcosa, io… ”

Adesso davvero non capiva.

Era fin troppo sensibile alle manifestazioni di affetto e si rendeva conto che questo offuscava la sua capacità di leggere tra le righe. Kàrkoviy però non aveva intenzione di tenergli nascosto qualcosa, al contrario, non appena riuscì a mettere da parte l’emozione e recuperare il suo abituale contegno placido e sicuro, chiese ed ottenne di parlargli in privato, a porte chiuse e con la sorveglianza a debita distanza.

“È colpa mia.” disse, tutto d’un fiato, con l’espressione rammaricata di un attimo prima “Non riesco a non pensare che sia solo colpa mia.”

Noam provò a scherzare.

“A meno che tu non sia un bombarolo a mia insaputa, immagino di no.”

“Non hai proprio capito.” fece lui, scuotendo la testa, mortificato “Sono stato io a far mettere in giro quelle minacce, Noam. Doveva essere una mossa pubblicitaria. Doveva servire solo ad attirare l’attenzione. E invece… Invece… ”

Zjam abbassò la testa e non aggiunse altro. Per la prima volta a Noam sembrò di vederlo in tutta la sua disperata piccolezza: un uomo arrivato al capolinea, che non vuole sparire nel nulla, che sogna di lasciare una grande eredità e che pure sa benissimo che quello che lascerà sarà solo il ricordo sbiadito di un pacifico e monotono politico, incapace di grandi slanci, incapace di grandi cambiamenti, incapace di grandezza.

Una mossa pubblicitaria.

Come in un film.

Come se la politica fosse un gioco.

E per lui lo era: lui giocava alla politica da dietro una scrivania, nelle interviste, nei talk show, in qualche inutile vertice fatto di vuote parole o in un programma lungo quaranta pagine che nessuno avrebbe letto mai. La politica era il suo mezzo per essere qualcuno, per non essere un anonimo tra gli anonimi, e i suoi progetti a lungo termine si fermavano al giorno successivo: che ne sapeva di vita e di morte? Di minacce vere, di attentati, di repressioni? Zjam Karkoviy incarnava tutto il bene e il male di Noravàl: l’ideale di una vita tranquilla, dove la violenza si leggeva solo nei libri, e la presunzione di essere migliori degli altri senza essersi mai sporcati le mani, senza coraggio.

Gli faceva pena: gli dispiaceva vederlo così colpevole e spaventato di fronte a quella realtà che aveva sempre guardato come a qualcosa di innocuo e distante, così incapace di prendere atto della situazione, così palesemente impotente. Ma sapeva anche che quell’abbraccio era vero, che la sua angoscia era stata vera, che il suo sollievo era vero: l’affetto per lui era vero.

Si può amare chi non si stima? Sì. Adrian aveva ragione di nuovo.

Noam scoppiò in una risata clamorosa, che riempì la stanza e alleggerì ogni cosa, anche il suo cuore.

“Mi hai fatto minacciare per fare audience?!? Oh dio, ma sei veramente un idiota da premio oscar!”

Kàrkoviy spalancò gli occhi in un’espressione di sollievo sbigottito.

“Cazzo, me lo potevi almeno dire: magari stavo al gioco! Sono bravo sul palcoscenico, lo dite sempre tutti: se era questo che volevate da me, potevate fare in modo che mi divertissi anche io!” si fece più serio “Ma pazienza, sai? Tutto sommato io ed Adrian ci siamo riusciti, a divertirci lo stesso.”

Adesso il volto di Zjam era una maschera di confusione: non sapeva se quello che stava ricevendo era un perdono o un franco e meritato vaffanculo.

“Noam, ti prego… hai rischiato la vita a causa mia. Puoi almeno mandarmi al diavolo come si deve?”

“Mm… se è questo che ti aspettavi di sentirti dire, ok: vai al diavolo, Zjam. Va meglio?”

La sua voce era calma e gentile, solo un po’ turbata.

“Sono un coglione.”

“Un po’ sì. Ma seriamente, pensi che senza la storia delle minacce tutto questo non sarebbe accaduto? Ma va’!” Noam scrollò la testa, mantenendo però un quieto sorriso sulle labbra, malinconico residuo della risata di poco prima “Zjam: io sapevo fin dall’inizio che quelle minacce non provenivano dai separatisti del Dàrbrand. Lo sapevo perché li conosco bene, più e meglio di quanto tu sai. Tu pensi di aver manipolato me, io ho pensato e sperato di servirmi di te. Non hai nessuna colpa. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, ne hai una: quella di non aver mai desiderato fare assolutamente niente. Perché propaganda, comizi, salire nei sondaggi, essere eletti, e rieletti e ancora rieletti sono proprio niente. Niente finché non sono strumenti per cambiare le cose, e non è importante se il cambiamento è impercettibile o clamoroso perché quella differenza tra il prima e il dopo, a prescindere dalla misura, è tutto. Tu vuoi rimanere fermo, Zjam, e finché la tua aspirazione è rimanere fermo, non sei tu ad essere un pericolo per me: sono io ad esserlo per te.” lo guardò con occhi sicuri “Qualcuno ha pensato che io fossi pericoloso. Al punto da volermi uccidere. Splendido. Lo sarò. Farò di questo attentato il mio strumento. Tirati indietro finché sei in tempo.”

Kàrkoviy si tormentava le dita delle mani, assediato dai suoi pensieri.

“Ho paura, Noam.”

“Anche io. Sarebbe preoccupante il contrario. Ma la fortuna è che posso percorrere la mia strada con o senza l’appoggio di Liberi Insieme, e non smetterò di essere tuo amico per questo.”

 

***

 

Noam uscì dall’ospedale solo quando anche Adrian venne dimesso.

Era una fredda mattina di luce polverosa.

La polizia che li scortava, la macchina scura che era venuta a prelevarli, i curiosi a decine e decine, la stampa nazionale in massa, gli davano un senso complessivo di soffocamento, come se la sua intera vita fosse appena stata messa al tempo stesso sotto migliaia di riflettori e sotto una campana di vetro.

Non poteva biasimare nessuno: del resto, la sua intera vita era davvero appena cambiata e – da sotto quei riflettori, da sotto quella campana di vetro – adesso quella piccola vita aveva l’attenzione del mondo intero. Non ne avrebbe mai più avuta altrettanta.

Passò tra i cordoni di giornalisti che sventolavano microfoni, urlavano il suo nome, chiedevano dichiarazioni, mentre i poliziotti li tenevano a distanza.

“Ho qualcosa da dire.” esclamò, fermandosi di colpo ed ottenendo l’attenzione generale.

Col permesso degli uomini della scorta, si avvicinò al primo microfono allungato verso di lui.

“Fronte per il Dar-breuk Libero: voglio trattare con voi.”

Ci fu un attimo di silenzio completo: respiro ed orizzonte.

Dopodiché una valanga di domande gli piovve addosso.

Noam sfoderò il migliore dei suoi sorrisi.

“Fronte per il Dar-breuk Libero.” ripeté, soavemente “Io desidero con tutto il cuore trattare con voi.

 

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Capitolo 30
*** "Òraviy" ***


Non fu facile rimettere in ordine i pensieri e ripercorrere tutti gli ultimi eventi all’indietro, riconsiderare dettagli che gli erano sfuggiti e riempire gli spazi vuoti: ma era quello che Adrian sapeva fare. Era lo spazio in cui – oltrepassato il punto di crisi che gli aveva fatto temere di perdere tutto in un solo attimo – si sentiva una mossa avanti agli altri: quegli altri che avevano cercato di fregarlo e per fortuna avevano fallito, perché a loro mancava un dettaglio, non sapevano del suo contatto con Thièl Dolbruk. Thièl era stato la variabile imprevista nel piano del nemico: era grazie a lui che aveva riconosciuto Vìrnosz, era grazie a lui che aveva capito cosa stesse veramente succedendo ed era tornato indietro appena in tempo.

Già in ospedale, quando l’effetto dell’anestesia si era attenuato e aveva ripreso lucidità, la sua mente aveva iniziato a lavorare senza tregua per ricostruire quella torbida vicenda.

Tutto era iniziato quando Noam era stato trascinato a sorpresa a casa Òraviy: quel teatrino non era stato allestito per ottenere qualcosa da lui, ma per gettare fumo negli occhi ad Adrian stesso.

Kàmil Òraviy era un uomo finemente intelligente: di certo era consapevole fin dal principio che Noam non avrebbe ceduto ad un tentativo di corruzione, ma soprattutto conosceva Adrian, e sapeva che avrebbe origliato il loro dialogo. Così si era dato da fare per impersonare al meglio il ruolo del grande industriale che pensa di poter ottenere l’amicizia di tutti aprendo il portafogli, e gli aveva riconfermato l’immagine del bravo marionettista che lui già ben conosceva.

Era stato in gamba: Adrian ci era cascato in pieno e lo aveva catalogato come un problema minore, un ostacolo che si sarebbe riproposto più e più volte sulla strada di Noam, e che avrebbe provato a muovere i fili dei suoi innumerevoli burattini – Kàrkoviy compreso – per i suoi profitti personali, ma non un pericolo per la vita di nessuno.

Invece Òraviy era un buon conoscitore della psiche umana, e si era servito di suo figlio per inculcare in Noam il solo timore che avrebbe potuto intaccare la sua integrità, prima e meglio di qualsiasi tangente: il sospetto che sostenere Màrna equivalesse a rendere il professore un bersaglio dei terroristi. Su questo timore aveva fatto leva per spingerlo a fargli perdere le elezioni.

Se Màrna avesse perso, infatti, i Tre Boss avrebbero apertamente dimostrato che gli operai del Dàrbrand stavano dalla loro parte e che le accuse di sfruttamento erano in realtà solo una messinscena politica.

E però Noam si era assunto il rischio e aveva proceduto per la propria strada, dunque Kàmil Òraviy era passato al piano B: un attentato nel Dàrbrand che non avrebbe sorpreso nessuno, e aveva già nel movimento separatista il capro espiatorio ideale. In fondo le minacce c’erano state e le imminenti amministrative avevano creato il clima giusto, anzi, forse era stato lui stesso a gettare benzina sul fuoco per inasprire gli animi: possedeva la metà delle fabbriche dell’area industriale di Mòrask e aveva alle sue dipendenze migliaia di operai che non aspettavano altro che un’occasione per scendere in piazza.

Ma qui l’opera di Òraviy padre si fermava e cedeva il posto ad un piano ben più ignobile: era stato Segùr a spingere Noam a tenere quel comizio, lo aveva convinto agendo sul senso di colpa che Noam provava per non aver accettato il consiglio di tirarsi indietro, sulla paura che Màrna corresse un rischio che invece – per via di quella arbràsk che Segùr aveva imparato a conoscere bene – voleva correre lui.

Non solo: una volta a Mòrask, aveva allestito tutto affinché Noam si trovasse da solo nel momento dell’esplosione, e ci era riuscito perché li aveva studiati entrambi con una accuratezza psicologica degna di un analista comportamentale.

Aveva creato una situazione che potesse insospettire e spaventare Màrna, poi aveva dato istruzioni errate alla scorta in modo da isolarlo: sapeva che il professore avrebbe avvertito Noam prima di tutti, e che Noam si sarebbe allarmato e avrebbe voluto andare in suo soccorso.

Ma sapeva benissimo anche che Adrian glielo avrebbe impedito, e sapeva che Noam si fidava solo di lui, ed avrebbe insistito affinché andasse là, a costo di restare scoperto.

Un sottile manipolatore, degno figlio di suo padre.

Sarebbe stato un attentato pulito: nessun danno collaterale, un solo morto e dei colpevoli perfetti su cui puntare il dito.

 

***

 

Quando Segùr rientrò a casa, quella sera, non era ancora informato che Noam e Adrian erano già tornati a Noravàl. Adrian si era adoperato bene affinché non lo sapesse.

Non appena si fu chiuso la porta alle spalle ed ebbe acceso la luce, lo trovò ad attenderlo in mezzo al salone d’ingresso, immobile in piedi, con una ferocia ben controllata nello sguardo.

Segùr sobbalzò come se fosse appena stato morso da un serpente.

“Vesna…! Che diavolo…”

Ma non c’era reale sorpresa nella sua voce, solo paura, e, in qualche angolo più profondo, cupa rassegnazione.

“Siediti, Oraviy.” gli intimò Adrian seccamente, indicandogli una sedia che aveva preventivamente spostato al centro della sala, con evidente intento intimidatorio.

Segùr ondeggiò sulle gambe, si guardò alle spalle come alla ricerca di una via di fuga, ma scartò subito il pensiero: sapeva con chi aveva a che fare. Obbedì.

“Raccontami come sono andare le cose,” lo fronteggiò Adrian, guardandolo dall’alto in basso “e cerca di essere preciso: voglio capire bene che percorso ha fatto la tua mente distorta, prima di decidere cosa devo fare di te.” roteò lo sguardo per la stanza, poi lo riportò su quello dell’interlocutore “Ah, e se per caso stessi pensando a come puoi spuntarla, ti informo che tutte le telecamere di sorveglianza di questo stabile sono state disattivate, che nessuno sa che io sono qui, e che se provi a chiamare aiuto ti ammazzo.”

“Vesna, io non capisco di cosa…”

Adrian lo fulminò con gli occhi e gli puntò la pistola dritta in faccia.

“Non provare a prendere per il culo me.”

Segùr soffocò un grido. Si rendeva conto che colui che lo stava minacciando non aveva più nulla a che fare con l’uomo metodico che aveva lavorato per suo padre senza mai aver bisogno di estrarre quell’arma, l’uomo con cui aveva condiviso chiacchierate e sigarette. In quel momento, nonostante l’apparente freddezza, la persona che aveva di fronte gli appariva pericolosa e sinceramente disposta a premere il grilletto.

“Maledizione, io avevo provato ad avvertirlo!” esplose Segùr nascondendosi la testa tra le mani “Stupido, stupido Dolbruk! Doveva solo seguire il mio consiglio e tirarsi indietro in tempo!”

 

***

 

Ad Adrian sembrava di vedersi dall’esterno, come se potesse osservare la scena attraverso una delle telecamere che aveva manomesso.

Perché era andato lì?

Per sapere come erano andate le cose?

Per sentirsi dire in faccia dove aveva sbagliato?

Per costringerlo a confessare?

No.

Era andato lì mosso da una sola emozione: la rabbia.

Rabbia per il modo in cui Segùr aveva approfittato della fiducia di Noam.

Rabbia per come lui stesso aveva permesso alla fiducia di Noam di illuminare tutto, cancellando le ombre che avrebbe dovuto scorgere da tempo nei gesti e nelle parole di quell’uomo.

Rabbia per essersi sentito strumentalizzato, raggirato, impotente.

Avevo provato ad avvertirlo. Doveva solo seguire il mio consiglio.

“Consiglio?! Quale cazzo di consiglio? Quello di perdere le elezioni?” Adrian desiderò colpirlo e trattenne a fatica la mano “Non era un consiglio, era una minaccia, come quelle di quel pezzo di merda di tuo padre!”

Le spalle di Segùr tremavano, ciò nonostante trovò il coraggio di alzare di nuovo lo sguardo.

“Non l’ho minacciato, magari avessi potuto: non avevo alcuna leva per farlo! La mia unica possibilità era spaventarlo, e l’unico modo era indurlo a credere che stava mettendo in pericolo qualcun altro! Che altro potevo fare con un uomo che non ha alcuna paura di morire? Ho sperato che, temendo per la vita di Màrna, quel pazzo si sarebbe tirato indietro!”

Aveva la voce smorzata, ma dentro di lui tutto urlava. Adrian non aveva mai visto un’espressione simile sul volto di Segùr: per un attimo pensò che quell’uomo fosse sempre stato solo il precario involucro di una furia dirompente e che prima o poi sarebbe esploso. Forse anche adesso, davanti a lui. Ne aveva colpa? Magari no, ma non gliene importava niente: se non era sua la colpa per il numeretto che aveva pescato dal sacco, per come la vita lo aveva modellato, per ciò che suo padre lo aveva reso, sua era la responsabilità di aver scelto di condannare a morte un uomo. Nessuno lo aveva costretto: aveva deciso lui.

“È stato Kamil Òraviy ad orchestrare tutto?” disse “Voglio sapere ogni cosa.”

Segùr fu scosso da un brivido, abbassò gli occhi di nuovo.

“Se anche avessi provato, non avrei potuto impedirlo…”

Stavolta la mano di Adrian fu più veloce del suo autocontrollo: uno schiaffo colpì il giovane in pieno viso.

“NON AVRESTI POTUTO? Ti rendi conto di che cazzo stai dicendo? Tu non hai voluto farlo! Ti bastava dirlo a Noam, ti bastava dirlo a me! Ma hai preferito essere complice di quel bastardo di tuo padre: non posso credere che non te ne venisse un tornaconto! Cosa ti ha offerto, eh? E non provare a dirmi che avevi solo paura: Kamil Òraviy non avrebbe certo fatto ammazzare suo figlio! Nella peggiore delle ipotesi avrebbe messo i bastoni tra le ruote alla tua carriera, ma probabilmente per te la vita di un uomo vale di meno!”

Segùr tremava come una foglia: sembrava davvero troppo piccolo, troppo fragile e inetto per aver fatto ciò che aveva fatto. Ma lo aveva fatto. Aveva scelto, maledizione. Anche le persone piccole – lo sapeva bene – sapevano fare scelte terribili.

“Mio padre ha grandi interessi nel Dàrbrand, in particolare ha in ballo un grosso affare con gli impianti estrattivi nella valle di Sad-Brask. Il sindaco uscente, Mìleuk, è un suo uomo di fiducia ed in questi anni ha lavorato per ottenere la modifica della normativa che impedisce l’estrazione dei metalli rari dalle pendici delle montagne. Un cambio della guardia sarebbe stato estremamente dannoso… mentre un attentato avrebbe creato una situazione di emergenza che avrebbe presumibilmente portato allo stallo il rinnovo dell’amministrazione. Non solo, avrebbe determinato un giro di vite contro FDL, ovvero il principale responsabile degli scioperi nell’area di Sad-Brask. Ma, Vesna, tu non hai capito: non era Dolbruk il bersaglio. Da lui mio padre sperava di poter ottenere comunque qualcosa in futuro, lo considera ingenuo e manipolabile. Inoltre, se fosse morto non gli sarebbe stato vantaggioso passare per quello che aveva avuto di che discutere con un giovane martire mitizzato dall’opinione pubblica. La vittima designata era Lant Màrna.”

Questo Adrian non se l’aspettava.

Ripercorse il ragionamento che lo aveva portato alle proprie conclusioni: cosa gli era sfuggito?

Ma sì. Gli era sfuggito Segùr Òraviy. Gli erano sfuggiti l’invidia, la frustrazione e la calibrata follia di un uomo intrappolato tra due figure di autorità che avevano deciso, deliberatamente o meno, di trasformarlo in un fantasma.

“Sei stato tu…” disse quasi a se stesso “Tu hai mandato Noam a Mòrask. Tu hai deciso chi dovesse morire…”

Segùr si morse le labbra.

“Sì.” profferì “Io ho deciso chi dovesse morire, ed ho deciso di sacrificare quello che aveva già scelto di voler fare il martire, ben prima che lo scegliessi io.”

“FIGLIO DI PUTTANA!” esplose Adrian “Noam ti credeva un amico!”

Lo colpì col calcio della pistola e lo fece rovinare a terra: poi gli fu addosso e lo prese a pugni finché non gli fece sanguinare il naso.

Non era andato lì per uccidere un uomo. Allora perché gli stava puntando la pistola alla fronte?

Segùr non ebbe alcuna reazione: chiuse gli occhi preparato al peggio, non provò a difendersi, non provò a parlare, attese immobile come una bambola di pezza afflosciata: solo il tremito del suo corpo lo faceva sembrare vivo.

Una bambola di pezza, già, ecco cosa era quell’inutile e minuscolo uomo. Una bambola nelle mani del padre e poi di Zjam Kàrkoviy: un burattino che aveva cercato di affrancarsi facendo la più efferata delle scelte, preferendo essere un assassino piuttosto che niente.

Meritava di morire per questo?

Adrian pensò per un istante che se avesse avuto il coraggio di premere il grilletto forse lui sarebbe stato meglio. Tutti sarebbero stati meglio.

E Noam, invece?

Noam avrebbe detto “Ti prego. Non rendermi le cose ancora più dure di quanto lo siano già.” ed avrebbe appoggiato la mano sul suo polso, come quella notte a Mòrask.

Come se tutto andasse bene.

Lasciò scivolare il braccio lungo il fianco e si alzò lentamente in piedi, rimettendo la pistola nella fondina.

“Complimenti” disse, atono “Sei stato bravo nelle tue previsioni. Volevi togliere un ostacolo dalla tua strada e invece hai creato un mito. Forse ti dovremmo pure essere riconoscenti…”

Gli girò le spalle e si avviò alla porta.

Mentre se la sbatteva dietro, lo sentì scoppiare a piangere.

 

***

 

“Perché condividi queste informazioni con me?”

Quante volte era stato lui a porle quella domanda? Così tante che era quasi diventato un rito tra loro. Ma adesso era Karìma a farla, confusa e sorpresa da quelle rivelazioni inaspettate ancora di più che dal fatto che Adrian avesse accettato di parlare con lei dopo gli ultimi eventi.

“Perché sei abbastanza pazza da voler mettere in piazza questi scheletri. Io non posso farlo: non mi schiererò apertamente contro il Gruppo Òraviy: so di non avere alcuna possibilità in tribunale, oltre al fatto che tutte le prove che possiedo sono state ottenute illegalmente. Non posso permettermi di imbarcarmi in questa battaglia: il mio compito è sostenere quella di Noam.”

Karìma sorrise con un solo lato della bocca.

“Quindi, se io scrivessi un articolo – supponiamo – in cui ipotizzo che l’attentato di Piazza dell’Orologio sia stato progettato da qualcuno che aveva interesse a non rinnovare l’amministrazione di Mòrask, perché il sindaco uscente stava facendo dei favoritismi a certi gruppi industriali, tu non avresti nulla in contrario…”

Adrian la guardò negli occhi serio.

“Sei consapevole che dandoti queste dritte mi sto servendo di te, perché questo è esattamente ciò che voglio, vero?”

“Ehi, mi prendi per un’idiota?”

Lui scrollò la testa e sorrise.

“Probabilmente solleverai un polverone che si sgonfierà presto, e Kàmil Òraviy ti rovinerà la carriera. Ma la gente capace di guardare un poco oltre il proprio naso saprà cosa è successo davvero.”

Karìma fece spallucce.

“Nah… uno come Kàmil Òraviy non perderà nemmeno un minuto del suo prezioso tempo per rovinare la carriera di una giornalista scandalistica o per mettersi contro una rivista-spazzatura. Magari. Almeno avrei il mio momento di gloria. Invece ci farà solo apparire ancora più spazzatura di ciò che siamo già: gente che inventa scenari improbabili per vendere un paio di copie in più. Ed io, tra parentesi, farò il possibile per farglielo credere: non mi interessa la politica, mi piace solo rendere le vite degli altri… più interessanti! Se poi mi denuncia per diffamazione…” fece una faccia contrita e imbronciò le labbra “presenterò pubbliche scuse, smentirò tutto, prometterò di fare ammenda giurando su mia madre e piangerò miseria!”

Era incredibile quanto riuscisse ad essere sfacciata.

“Non dubito delle tue qualità di attrice.” ridacchiò “Purtroppo.”

Karìma gli strizzò l’occhio, poi si alzò in punta di piedi e gli piazzò un bacio sulla fronte.

“Sei proprio adorabile, Adrian Vesna.”

E tu sei fastidiosa e incorreggibile, pensò lui. Ma pensò anche che quello che le doveva non aveva prezzo: se lei non gli avesse dato il contatto di Thièl, in quell’attentato Noam sarebbe morto.

Non l’aveva nemmeno ringraziata.

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Capitolo 31
*** "Mediatore" ***


Noam era quasi stordito nel rimettere piede in casa propria.

L’aveva lasciata solo quattro giorni prima, eppure gli sembrava diversa: più bella.

L’essersi trovato a un passo dalla morte, l’aver temuto per la vita di una persona a lui così cara, l’aver rivissuto il passato, rivisto gli occhi di suo padre, avevano scombussolato tutto, ma forse avevano anche rimesso ordine. Amava la sua città natale con tutto il cuore, amava la strana umanità che la popolava, amava le tane, amava la lingua dar-breuk, ma il sacrificio non era amore. Amore era difendere la vita che si era scelto, ed in cui voleva rimanere, perché lì erano le radici che gli avrebbero dato la forza di ricostruire. Non aveva più paura della “maledizione delle montagne”: avrebbe potuto andare e venire da Mòrask, avrebbe potuto persino riuscire ad attraversare quella galleria, ma la sua casa era a Noravàl.

Lasciò a terra il bagaglio, si chiuse la porta alle spalle, e finalmente si ritrovò solo.

Sapeva che sotto il palazzo c’era la polizia e che per molto tempo – almeno finché fossero durate le indagini – sarebbe stato trattato come un sorvegliato speciale. Pazienza. Non aveva urgenza di sapere: forse non ne aveva nemmeno il desiderio. Non sentiva il bisogno di assolvere o condannare nessuno. Le cose erano andate come spesso vanno, una volta da un lato della barricata, una volta dall’altro. La vita è una ruota che gira.

Spalancò la finestra e diede aria al salone: anche il freddo della pianura gli sembrò cambiato.

Niente umidità.

Si sfilò le scarpe e in quel momento il suo telefono squillò: era Kàrkoviy.

Non aveva molta voglia di rispondere, ma la suoneria insisteva e insisteva.

“Ciao. Dimmi.”

La voce dall’altro capo sembrava piena di urgenza.

“Guarda la televisione, subito: è importante!”

Quasi meccanicamente Noam obbedì. Lasciò le scarpe sulla soglia e sprofondò sul divano, mentre lo schermo si accendeva.

«Notiziario straordinario».

Che altro doveva succedere di straordinario? Ogni cosa era stata fin troppo stra-ordinaria, negli ultimi tempi.

Lesse le frasi che scorrevano sulla banda.

«Messaggio dai terroristi del Dàrbrand a tutte le agenzie stampa del paese: il movimento separatista prende le distanze dall’attentato.»

Noam aggrottò le sopracciglia.

Possibile?

FDL non rivendicava gli attentati. Tanto meno li smentiva. Mai comunicare con quelli là – diceva sempre suo padre – mai abbassarci al loro livello. Mai ingrassare la loro stampa pilotata e il loro gusto per il sensazionalismo. Era la regola.

Diede volume alla tv, cominciò a scorrere i canali nel desiderio di capire cosa effettivamente fosse stato detto.

Fu facile.

Tutte le reti trasmettevano la stessa registrazione, un messaggio audio breve e secco, con una voce distorta artificialmente:

«Il Fronte per il Dàr-breuk Libero disapprova l’attentato del 20 ottobre in piazza dell’Orologio e nega ogni collegamento con chi l’ha organizzato. Riferite al signor Dolbruk che siamo disposti a trattare con lui.»

“...”

Noam lasciò cadere a terra il telecomando, gli occhi spalancati in un’espressione di gioia stupefatta.

 

***

 

L’atmosfera era talmente paranoide da metterlo a disagio. Nemmeno quando era stato trasportato quasi di peso alla residenza di Kàmil Òraviy aveva visto un simile livello di circospezione e sospetto, gli pareva di stare dentro un film di spionaggio.

Nonostante avesse passato in politica gli ultimi tre anni della sua vita, non gli era mai capitato di partecipare ad un vertice al dipartimento della pubblica sicurezza e di trovarsi allo stesso tavolo del presidente della repubblica, seduto tra il capo della polizia di stato e il ministro dell’interno. I suoi occhi cercavano continuamente Adrian, come se dallo sguardo di rimando potesse attingere tutta la sicurezza che gli serviva, ma spesso finivano per incrociare quelli di diversi sconosciuti che costituivano – da anni e a sua insaputa – la Commissione per il Contrasto al Terrorismo.

Il Fronte doveva far proprio paura, si trovò a pensare con ironia triste: se Thièl lo avesse saputo ne sarebbe stato fiero!

Da parte sua, era invece certo che quella segretezza e quel tono da consiglio di guerra non facessero bene a nessuno, tanto meno ad una presunta lotta al terrorismo: al contrario, finché ci fosse stata una lotta e i separatisti del Dàrbrand fossero rimasti dei nemici da cui guardarsi le spalle, niente sarebbe mai cambiato.

Ma una cosa sì, era cambiata: per la prima volta si trovava ad avere l’autorità di esporre la sua opinione da una posizione di forza.

“Come le è già chiaro, signor Dolbruk, il Fronte per il Dar-breuk libero si è dichiarato disposto ad aprire una trattativa con lo stato, se a condurla sarà lei.”

A parlare era stato un uomo anziano, seduto al fianco del presidente, che gli era stato presentato come il coordinatore della commissione.

“Abbiamo avuto qualche riserva sul cedere o meno a un compromesso con gente di quel calibro, ma diciamo pure che la maggioranza di noi ha preferito, visti gli eventi recenti, leggere in questo gesto una forma di apertura anziché un ricatto. Quello che abbiamo bisogno di sapere in questa sede, però, è se lei vuole questo compito.”

Che domanda “paraculo”, pensò Noam: gli serviva la liberatoria su carta bollata per permetterglielo, non potevano mica fare la figura di mandare a discutere con dei “pericolosi criminali” una celebrità mediatica sopravvissuta a un attentato!

“Mi risulta d’esser stato io chiedere a loro di trattare con me, non viceversa.” profferì, pacatamente “Ci mancherebbe pure che mi tirassi indietro.”

“Ci perdoni” intervenne il presidente in persona “Ma noi siamo tenuti a chiederlo. Le stiamo conferendo un ruolo che la mette in una posizione difficile, e lei ha già rischiato molto.”

“Non ho paura di chi vuole aprire un dialogo con me. O almeno: non voglio averne. Se non prendiamo come punto di partenza almeno un po’ di fiducia nelle buone intenzioni altrui, non è possibile avviare nessuna trattativa…”

Ci fu un attimo di silenzio, poi il capo della Polizia prese la parola.

“Le forniremo tutte le informazioni che le servono sui terroristi…”

Noam lo interruppe con un cenno della mano.

“No.” disse “Mi fornirete tutte le informazioni che mi servono sui separatisti. Che è parecchio diverso.”

Incrociò lo sguardo di Adrian, sorrise.

“Sapete cosa serve per essere un buon mediatore? È necessario pensare che entrambe le parti abbiano assolutamente ragione. Finché darbrandese sarà per voi sinonimo di terrorista, loro non potranno essere altro che questo. Finché voi sarete per loro il governo corrotto e sfruttatore, non potrete essere altro che questo. Non sono un illuso: sono cosciente che una soluzione che renda contenti tutti probabilmente non esiste, o almeno non esiste in questa epoca. Ma ciò non significa che non possiamo aggiustare un paio di cose rotte, e per farlo dobbiamo cominciare con lo sporgere il naso fuori dal nostro giardino e guardare che orizzonte vedono gli altri. Io credo di essere molto bravo a guardare orizzonti.”

 

***

È necessario pensare che entrambe le parti abbiano assolutamente ragione!” Adrian rideva di cuore, mentre Noam sprofondava tra i cuscini del divano, esausto “Il tuo sceneggiatore non ne sbaglia una!”

“Sono contento che tu apprezzi, ma…” soffiò via dagli occhi una ciocca di capelli “uff, che fatica!”

Adrian allargò le braccia a sottolineare l’ovvietà di quell’affermazione.

“E sei solo al principio. Pensa quante volte dovrai discutere con quella gente là e quante altre dovrai schivare sassate.” si diresse all’angolo cucina con la disinvoltura di chi si muove in casa propria “Ti faccio il caffè.”

Noam seguì i suoi movimenti mentre accendeva la macchina da espresso, caricava il filtro e metteva in posizione le tazzine: gli venne in mente il giorno in cui si era presentato lì nei panni di un giovane studente, e lui aveva compiuto quegli stessi gesti, ma il caffè si era rovesciato sul pavimento.

Io devo solo proteggerla – gli aveva detto Adrian – Non le è chiesto di avere alcun tipo di rapporto con me.

E lui aveva protestato, e aveva detto che tutto è relazione, che ogni rapporto apre una scatola, che non si può sapere cosa ci verrà messo dentro e tante belle parole così, parole dette per cercare di colmare una distanza che lo metteva in difficoltà, parole di cui riempirsi perché non voleva ammettere che in realtà aveva paura: paura di quell’uomo che sembrava non respirare.

Parole di cui non conosceva nemmeno il vero valore, perché cosa significasse mettersi in relazione glielo aveva insegnato Adrian.

“Starò attento.” disse, all’improvviso.

L’amico si sedette accanto a lui, posando le tazzine sul tavolo, e lo guardò con aria interrogativa.

“Ti prometto che starò attento. Non farò il martire né l’eroe, non farò nessuna cazzata, non ti metterò mai più nella situazione di dover temere per la mia vita. Mi credi?”

Lui sollevò le sopracciglia e rise di nuovo.

“No!”

“Adrian…!”

“Ma sta’ tranquillo: non sono preoccupato, perché io sono un po’ più sveglio di te, anche se il tuo sceneggiatore è più bravo del mio!”

Noam finse un’espressione corrucciata, che durò pochi secondi per sfociare in una risata calorosa.

Amava quelle risposte, amava quei momenti, amava sentirsi così al sicuro.

Adrian era respiro.

Eppure nel suo passato c’era qualcosa che lo aveva fatto “smettere di respirare” e Noam non aveva più trovato il coraggio di parlarne.

“Senti…”

Ma di cosa avrebbe poi dovuto parlare? Della colpa che non aveva e dei rimorsi che non avrebbe dovuto provare? Scemenze. Al suo posto, lui si sarebbe sentito esattamente nello stesso modo.

C’era una sola cosa che voleva dirgli, e gli sembrava l’unica importante.

“Senti. Potresti, d’ora in poi, non pensare che proteggere me non è quello che dovresti fare, perché non fa parte del tuo percorso di espiazione? Potresti pensare che invece è proprio quello che dovresti? Perché io ho bisogno di te. Comunque vadano le cose, e qualunque cosa scelga di fare di conseguenza, io… ho davvero tanto bisogno di te.”

Adrian sorrise con dolcezza.

“Se questo era il modo del soave Dolbruk per offrirmi un contratto di lavoro nella sua nuova e delicata posizione, spiega al tuo sceneggiatore che non ha bisogno di tanti giri di parole.”

 

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Capitolo 32
*** Conclusione ***


Se mi chiedessero perché lavoro da anni al fianco di Noam Dolbruk – con tutta la fatica, i rischi e le difficoltà che questo comporta – risponderei con una sola parola: ondrèude.

È un verbo dàr-breuk che non significa solo respirare, ma anche qualcosa di simile allo stare bene.

Fin da bambino ho sempre cercato di essere invisibile, di non essere notato da nessuno: ma in realtà quello che desideravo di più al mondo era essere capace di fare la differenza per qualcuno.

Quello che avrei voluto sentirmi dire era: “Io ho davvero bisogno di te”.

Quando si è capaci di sentire troppo bene ogni cosa, persino il rumore degli schiaffi che prendono gli altri, due sono le scelte: o diventare abbastanza forte da intercettare quegli schiaffi o imparare a non sentire più niente.

Io presi la seconda strada.

Ma quando sei convinto che ciò che provi è niente – perché tu sei niente – allora davvero nessuno avrà bisogno di te, e si può anche smettere di respirare.

...

Ricordo benissimo qual è stato il momento in cui ho smesso di respirare.

Ma ricordo meglio e di più quello in cui ho ricominciato a farlo.

 

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