L'Ideale del Paguro

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 26: *** 26 ***
Capitolo 27: *** 27 ***
Capitolo 28: *** 28 ***
Capitolo 29: *** 29 ***
Capitolo 30: *** 30 ***
Capitolo 31: *** 31 ***
Capitolo 32: *** 32 ***
Capitolo 33: *** 33 ***
Capitolo 34: *** 34 ***
Capitolo 35: *** 35 ***
Capitolo 36: *** 36 ***
Capitolo 37: *** 37 ***
Capitolo 38: *** 38 ***
Capitolo 39: *** 39 ***
Capitolo 40: *** 40 ***
Capitolo 41: *** 41 ***
Capitolo 42: *** 42 ***
Capitolo 43: *** 43 ***
Capitolo 44: *** 44 ***
Capitolo 45: *** 45 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


N.d.A. (1)

Storia già pubblicata (sempre da me, duh) su AO3 al seguente link: L’Ideale del Paguro.

L’ho pubblicata su AO3 per intraprendere una sorta di esperimento, dato che là non avevo mai postato nulla ed ero curiosa di sapere come funzionava tutto l’ambaradan dei tag, dei kudos, eccetera. (E anche perché sono stata l’unica ad aver pubblicato una fanfiction di Luca in italiano, traditori della Patria!)

La torno a pubblicare anche qui perché boh. Tanto per avere tutta la mia roba nel mio solito spazio (xD).

A prescindere da dove venga letta, commentata, criticata, spolliciata, eccetera, ogni lettore è sempre il benvenuto, quindi grazie se vorrai addentrarti in questo piccolo viaggio e ti auguro una buona lettura. :)

 

 

N.d.A. (2)

Ai tempi del liceo, quando gli stegosauri camminavano sulla terra e il megalodonte guadava nelle profondità marine, studiai Verga singhiozzando acido sopra ogni pagina dei Malavoglia che mi toccava leggere ed analizzare per la lezione successiva. Nelle verifiche e nelle interrogazioni, mi accontentavo del Sei politico (sì, come no, ti piacerebbe) e attendevo con ansia il momento in cui avremmo finalmente cambiato argomento, dedicandoci ad altri autori più vivaci e stimolanti, come appunto Collodi o de Amicis o anche Leopardi e Manzoni. Sì, persino Manzoni è più divertente di Verga. Però quella dei Malavoglia è una lettura che mi è rimasta. Credevo che sarei stata felicissima di sbarazzarmi della sua memoria, invece ha continuato a farmi compagnia anche a distanza di anni. Magari aspettava solo di venire fuori tramite questa storia. :)

 

Dedico L’Ideale del Paguro ai miei nonnini scomparsi (tutti e quattro, sigh) a cui avrei tanto voluto far vedere l’originale film della Pixar, dato che ritrae un’Italia più loro che nostra. E la dedico anche a tutti gli infaticabili e retti nonnini che hanno fatto l’Italia prima di noi. ^-^

 

Buona lettura!

 

 

p.s. A meno che non mi sia persa qualche informazione, non hanno mai accennato al nome della mamma di Giulia, quindi ho optato per “Sara”.

 


 

L'Ideale del Paguro

 

 

 

 

 

 

 

- Insomma l’ideale dell’ostrica! - direte voi. - Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.

 

(Giovanni Verga, Fantasticheria)

 

 

 

 

 

 

 

 

1

 

 

Ce n’erano a centinaia. Le cupole delle meduse si gonfiavano, raccoglievano l’impulso d’acqua nella loro sacca gelatinosa, e si svuotavano emanando una silenziosa pulsazione violacea che ne faceva vibrare il corpo fino ai tentacoli, frustavano l’acqua e fluttuavano nel nero senza fondo, perdendosi come soffioni al vento.

Luca osservò incantato i loro corpi composti da venature concentriche davvero simili a rami elettrici. Voltò una guancia, seguendo la scia del moto ondoso che spostava le meduse in quell’ambiente intangibile e senza profondità. Spalancò gli occhioni nei quali le luci delle meduse si specchiarono, facendoli brillare come grappoli di stelle, nebulose spaziali di un rosa acceso, galassie in espansione. Rimase senza fiato davanti a quell’incanto. Il battito del suo cuore spalancò un tonfo in fondo al petto e salì a gettargli sangue nelle guance, tingendone il candore.

Le meduse gli nuotarono fra le gambe, fecero solletico alle piante dei piedi, vorticarono attorno alle ginocchia e gli sfiorarono i gomiti, salendo ancora più in alto, radunandosi in sciami e poi tornando a dividersi come nubi che sgocciolano, o come fuochi artificiali che si spengono senza botto, senza alcun rumore. Risucchiarono Luca nel loro silenzio e tennero il suo corpo sospeso nel vortice di quell’ambiente dove non percepiva né caldo né freddo.

Luca aprì le braccia, sbatté le mani come un piccolo paio d’ali. Spinse il capo all’indietro per tendere lo sguardo ancor più in alto e raggiungere la fine del nero, dove i grappoli di meduse si rimpicciolivano, lampeggiando sempre più lontani, fino a scomparire come stelle cadenti. Non c’era fine. Non vide né il fondo né lo specchio della superficie.

Distese il braccio verso una delle meduse più vicine, quella che gli era passata sopra la spalla, strusciandogli i tentacoli sulla guancia, e aprì le punte delle dita scoprendosi sorpreso di non trovare la membrana della pinna a squamargli la pelle rosea.

L’indice toccò la cupola della medusa, e quella esplose come una bolla d’inchiostro, una chiazza di acquerello viola che si allarga sul pelo dell’acqua, sfumando in una nuvola e poi scomparendo, dissolta dal nuoto di altri tentacoli dello stesso colore.

Luca rise. Quello spettacolo strampalato lo divertì, lo invogliò ad agitare le dita per raggiungere una seconda medusa e far svanire pure quella in una nuvola di polvere. Ma il galleggiare di altre meduse gli fluttuò dietro la schiena, catturò la coda dell’occhio e lo spinse a girarsi.

Altri banchi di meduse lo circondavano, nuotando a sciami. Galleggiavano come ninfee che si lasciano muovere dalla corrente lenta e placida di un lago disabitato. Una scia di tentacoli lo sfiorò senza procurargli dolore. Due delle meduse si scontrarono, rimbalzarono all’indietro, scossero le punte dei tentacoli che si erano intrecciati, e proseguirono verso l’alto, unendosi alla spirale senza fine.

Luca rise di nuovo. Un palpito di emozione guizzò in fondo al suo cuore e gli alleggerì il petto, facendolo sentire senza peso come quelle creature che gli nuotavano attorno, sfiorandogli i capelli con i loro tentacoli e rimbalzando dopo aver urtato le sue ginocchia o la sua schiena.

Questa volta distese entrambe le braccia, aprì le mani a coppa, raccolse la luce viola di una delle meduse, ne sfiorò la cupola con i pollici, trovandola soffice, senza nuocerle, e fece per chiudere il tocco, per attraversare i suoi tentacoli con una carezza lenta e profonda.

Dal nulla, una mano emerse dal buio dell’abisso e gli toccò la spalla. Una voce lo ricondusse alla realtà. «Luca.»

 

***

 

«Luca.»

Sentendosi chiamare, Luca si destò dal sogno con un sobbalzo, precipitò dall’ambiente composto d’acqua nera, e ricadde seduto a terra, sul pavimento della camera da letto, circondato non dal riverbero tenue e violaceo delle meduse, ma abbagliato da quello acceso e vibrante del sole che entrava dalla finestra.

Un fischio di vento sospirò attraverso la finestra aperta, fece sventolare la tendina contro il vetro, e distribuì un mosaico di luci che si spezzettò fra le pareti, sulle cornici dei quadri, sulle mensole di libri e animaletti di pezza, e sull’armadio guardaroba. C’era vento, quel giorno, e il sole non era nemmeno troppo caldo, ma Luca e Giulia avevano comunque deciso di lasciare la finestra aperta in modo da rinvigorire l’aria viziata e respirare il profumo frizzante e dolciastro della primavera che proveniva dai giardini fioriti e dalla risacca del mare.

Giulia tirò indietro la mano con cui aveva raggiunto Luca, piegò il gomito sul pavimento, e raccolse le guance fra i pugni chiusi, facendo dondolare la matita fra le dita. «Sognavi ancora a occhi aperti?» Trillò una delle sue risate allegre. «Ti eri imbambolato sulla finestra.»

Luca sbatté gli occhi, orientandosi fra le pareti della camera da letto, fra gli scaffali di libri e fra le mensole stracolme di ninnoli e bambolotti di pezza, ma fece ancora fatica a mettere a fuoco, a riempirsi i polmoni d’aria, a emergere dall’acqua calda e nera dove era fluttuato assieme alle meduse. «Oh, i-io...» Si guardò le mani – mani umane –, strinse le dita, le rigirò sui dorsi, le mosse di nuovo, e non incontrò la resistenza dell’acqua. Non stava galleggiando, si trovava in superficie. Le meduse le aveva solo sognate. «S-stavo solo...» Un piede addormentato cominciò a bruciare. Luca spostò il ginocchio piegato sotto di sé e stropicciò le pagine del libro di Storia adagiato fra le sue gambe incrociate. La penna rotolò giù dal libro, cadde sul pavimento, attraversando i fogli degli appunti sparsi attorno a lui, e sbatté contro il piattino dei cantucci. Luca scosse il capo. Tornò a stropicciarsi le nocche sulle palpebre, abbagliato da un raggio di sole che aveva colpito la ceramica del piattino. «Mi ero imbambolato?» Le luci scoppiettarono e si affievolirono. Luci bianche, non rosa e viola come quelle che erano pulsate fra i tentacoli e sulle cupole delle meduse.

Giulia annuì, sistemando il peso poggiato sui gomiti. Fece dondolare le gambe che teneva piegate verso l’alto, sfogliò una pagina della sua ricerca di Geografia scritta sui fogli di protocollo, e strofinò la matita fra i capelli. «Già la seconda volta, oggi, come dopo pranzo.» Prese un sorso dal suo bicchiere di sciroppo alla menta. Da qualche pomeriggio lei e Luca si rinfrescavano con quello, durante lo studio, per trovare un po’ di sollievo dal caldo che ogni giorno si faceva sempre più intenso e opprimente. «Dev’essere l’aria di primavera, di sicuro.» Indicò la finestra aperta con un cenno del capo. «Vuoi che chiudiamo la finestra? Effettivamente rischia di fare troppa corrente.»

«N-no» rispose Luca. Un brivido di incertezza a fargli tremolare la gola. «Sto bene, sul serio.» Riordinò il libro di Storia che teneva aperto fra le gambe, e si ritrovò a fissare con perplessità i faccioni granitici di Cesare, Pompeo e Crasso, incastonati fra le sottolineature dei paragrafi che parlavano del Primo Triumvirato. Una visione decisamente meno confortante rispetto alle meduse che galleggiavano nello spazio nero e senza fine, o alle nuvole bianche che ogni tanto sfilavano fuori dalla finestra. Luca inspirò a fondo. Si concentrò sul profumo di boccioli freschi e di salsedine, e non sul nauseabondo odore di evidenziatore di cui erano pregne le pagine del libro. «Almeno la finestra aperta fa entrare un po’ d’aria fresca.» Pescò un cantuccio dal piattino, l’ultimo. «Mi concentro meglio.»

Giulia questa volta rise proprio di gusto. «Fa aria al cervello, dici? Mi piace questa filosofia.» Diede un altro dondolio di gambe. Abbandonò la matita fra le pagine della ricerca, recuperò le forbici dall’astuccio e ritagliò le immagini con cui avrebbe abbellito la sua tesina di Geografia. «Quanto ti manca con Storia?»

«Solo un paio di capitoli.» Luca rosicchiò piano il cantuccio, senza una vera fame. Girò pagina passando dai faccioni di granito a una panoramica aerea del Colosseo. «Credevo sarebbe stato peggio, a sentire il numero delle pagine che ci hanno aggiunto dopo l’ampliamento del programma, invece ci sono tante figure, occupano spazio, e c’è meno testo di quello che sembra.»

«Lo vedi» lo consolò Giulia, «stai già imparando i trucchi giusti.»

Luca corrugò un sopracciglio. «Trucchi, dici?» Un alito tiepido gli sfiorò l’orecchio. Il musetto di Nerone si sporse dal letto, annusò il cantuccio, e toccò la guancia di Luca stampandogli un bacio umido che lasciò una traccia di scaglie verdi sotto lo zigomo. Luca inclinò il capo di lato, rise, e gli carezzò la testolina.

Giulia puntò la matita contro Nerone. «Nerone, no, cuccia.» Ingrossò la voce, fece un tono più severo. «Niente biscotti, lo sai, i biscotti ti fanno male.»

Nerone guaì. Abbassò le orecchie, intristito, e si appiattì sul letto, spazzolando la coda sulla coperta. Non protestò oltre.

Luca si asciugò la guancia inumidita, facendo ritirare le scaglie, e strofinò un’altra carezza sulla pelliccia di Nerone, consolandolo. Era strano che si arrendesse così facilmente, senza guaire qualche altro mugolo di protesta, o senza sfoggiare gli occhioni dolci per impietosirli. «Anche Nerone però sembra più insonnolito del solito, non solamente io.»

«È la primavera, te l’ho detto.» Giulia, finito il lavoro con le forbici, andò in cerca della colla stick nelle profondità dell’astuccio. «Ma almeno lui si può godere il riposino sul letto anziché sgobbare tutto il pomeriggio come noi due. Non posso credere che il cane stia sul letto mentre a noi due tocca stare sul pavimento.»

«Sei tu che hai insistito per metterci qui invece che sul tavolo in cucina.»

«Perché persino il tavolo della cucina collasserebbe sotto il peso di tutti questi libri.» Giulia abbandonò la colla sopra l’immagine del trullo che aveva appena ritagliato lungo i bordi. Schiacciò la faccia fra le pagine della ricerca scritta sui fogli di protocollo, e sospirò a lungo, svuotandosi il petto. «Santa mozzarella...» Si rotolò sulla schiena, urtando lo spigolo del vocabolario di Italiano, e spalancò le braccia come un martire in croce. Il nasino solleticato dal raggio di sole entrato dallo spacco della finestra, e i riccioli rossi sparpagliati sotto le spalle. «Altro che aria di primavera. Fra un po’ sarà la mia testa a friggere di brutto. Hai mai visto tanta roba da studiare tutta in una volta? Insomma, d’accordo che è la fine dell’anno, ma a tutto c’è un limite.»

Luca si strinse nelle spalle. «Sono gli esami finali. Non possiamo farci niente, credo.»

«Esami di poveri bambini di terza media, non di quinta superiore.» Girò la guancia per rivolgergli lo sguardo. «Lo sai che una volta valutavano anche Educazione Fisica all’esame? Pensaci, pensa che fortuna! Io e te avremmo avuto la promozione assicurata solo con quella.»

«Non siamo messi poi così male, comunque, pure senza ginnastica.» Luca si spolverò le dita su cui erano rimaste incollate le ultime briciole del cantuccio. Si strinse le tempie fra le nocche e tornò a ingobbirsi sul libro di Storia. Il suo sguardo vagò sul muro di testo striato dalle sottolineature dell’evidenziatore giallo e riprese a vacillare, preda di una vertigine che gli impedì di mettere a fuoco le parole. «Se solo tutti questi imperatori avessero litigato un po’ di meno, però, ci avrebbero risparmiato un sacco di problemi, questo è sicuro.»

Giulia si coprì la bocca per soffocare una delle sue risate più squillanti. «Chiedi a Nerone di darti una zampa con gli imperatori romani. Magari ti aiuta a ricordarli per principio.»

Nerone tirò su il muso e rizzò le orecchie. Gli occhioni luccicarono come a voler dire: mi hai chiamato?

Luca lo consolò con un’altra carezza. Massaggiare la morbidezza del suo pelo rilassava pure lui. «Sono sicuro che se solo potesse parlare ci suggerirebbe qualsiasi risposta.»

«Lo so: i cani sono così saggi.»

«E la tua ricerca come sta andando?»

«Quasi finita.» Giulia tornò a rotolare a pancia ingiù e acchiappò il tubetto di colla abbandonato poco prima. Lo stappò e lo spalmò sull’immagine ritagliata. «Mi resta solo da assemblare le figure. Ma secondo me è venuta bene, sono fiduciosa. Un otto me lo merito come minimo.» Stirò il pugno sopra i trulli incollati sul fronte della pagina, girò il foglio, trovò l’altro riquadro lasciato in bianco, e ci appiccicò sopra la panoramica del Porto di Taranto occupato dalle navi militari. Rivolse a Luca un’occhiata più premurosa. «La tua, piuttosto, è quella che mi impensierisce. Sicuro che non vuoi una mano per finirla?»

«Ah.» Luca sobbalzò e si affrettò a sventolare un gesto di rassicurazione. «N-no, credimi, non mi manca molto.» Mise da parte il libro di Storia, evitò di fissare troppo a lungo i quaderni riempiti con gli esercizi di Geometria, per non sentirsi nauseato, e pescò dal pavimento la brutta copia della sua ricerca sulla Lombardia che aveva consumato ben quattro fogli di protocollo scritti su ogni facciata. Sfogliò una pagina che lui aveva decorato con la facciata del Duomo di Milano. Rilesse quel che aveva scritto e si grattò dietro l’orecchio, non ancora convinto del risultato. «Solo che non credevo ci sarebbe stato così tanto materiale su cui studiare. Ogni volta che apro i libri per ricontrollare qualche data, o qualche nome di città, sbucano fuori altre informazioni che non posso fare a meno di aggiungere, e così diventa ancora più lunga.»

«È solo perché hai scelto una regione difficile» rispose Giulia. «Dico, fra tutte quelle che c’erano, proprio la Lombardia?» Lei si era ingegnata e aveva scelto la Puglia. Il materiale di studio non era eccessivo, ma nemmeno troppo scarno. Si era concentrata con le ricerche sui siti storici, sulle tradizioni locali e sulle attrazioni turistiche, piuttosto che sulle cifre dell’economia e sugli altri dati barbosi che comunque si sarebbe dimenticata da un giorno all’altro. Così aveva potuto dedicare più tempo ed energia alla tesina di Astronomia che avrebbe presentato per il voto di Scienze, che era quello su cui aveva sempre avuto intenzione di puntare il massimo fin da settembre. «Se sceglievi il Molise o la Basilicata saresti riuscito a concluderla già la scorsa settimana.»

«Ma così avrei avuto troppo poco da dire» si giustificò Luca, «e invece spero che venga fuori qualcosa di abbastanza impressionabile e notevole da...»

«Mhm?» Giulia ammiccò con le sopracciglia, esibì uno dei suoi sguardi brillanti di furbizia. «Da risaltare sugli altri?»

«No.» Luca strinse le ginocchia al petto e sospirò. Fu un sospiro che non aveva nulla di speranzoso. «Da compensare il fatto che la prova di Matematica potrebbe non andarmi poi così bene.»

«Rilassati» lo consolò Giulia. «Invece andrai benissimo, vedrai. Se hai problemi ti aiuto io. Posso sempre spedirti un bigliettino facendo finta di...»

«Non posso fare sempre affidamento su di te.»

«Sciocchezze. Sì che puoi.»

«Sarebbe comunque barare.»

«Se collaboriamo non è un barare vero e proprio, è una sorta di mutuo soccorso. Ehi, che idea!» Giulia batté un pugno sul palmo e i suoi occhi ripresero a luccicare come stelle. «Non sarebbe forte se ci fosse anche una prova collettiva, all’esame? Secondo me anche il lavoro di gruppo dovrebbe essere una materia importante, o per lo meno valutabile. Piuttosto, se io invece posso fare ancora un po’ di affidamento su di te...» Spostò un paio di volumi sparpagliati sul pavimento, pescò il sussidiario di Italiano e lo esibì davanti a Luca, mostrando un sorrisone furbo e accattivante. «Dopo avrei bisogno di un pochino del tuo aiuto per finire la parafrasi della poesia.»

Luca sorrise, di nuovo di buonumore al pensiero di spostare la sua concentrazione sulla letteratura anziché sui teoremi di matematica. «Quella di Pascoli?»

«No, Leopardi. L’ultima che abbiamo fatto, quella lunga un chilometro.» Giulia aprì la pagina su cui aveva incollato l’etichetta del segnalibro, fece scorrere lo sguardo sulle colonne della poesia senza fine, e gonfiò un broncio affaticato. «Mi mancano ancora cinque strofe e non capisco più niente, credo di aver perso il filo arrivata a metà. Ci credi che quelli della Terza B hanno dovuto pure studiarsela tutta a memoria? Noi l’abbiamo scampata bella.»

Luca ansimò, soffocato da una stretta di terrore. «E se ce la chiedessero per davvero a memoria, il giorno dell’orale?»

«Escluso.» Giulia scosse la testa. «Non è mai successo. Ma almeno imparando bene la parafrasi potremmo...»

Scattò la serratura dell’ingresso, la porta di casa si aprì con un cigolio, Nerone rimbalzò sulle quattro zampe e rizzò le orecchie, fiero come un bracchetto da punta.

«Ragazzi» li chiamò una voce familiare, «sono a casa.»

Nerone salutò la voce con un abbaio. Balzò giù dal letto, scavalcò il libro di Educazione Tecnica facendo svolazzare un foglio di appunti staccatosi dalle pagine, e ruzzolò fino all’ingresso, ad accogliere Sara.

Anche Giulia si raddrizzò. «Oh.» Spinse le mani in fondo alla schiena e gettò le spalle all’indietro, facendo scricchiolare le vertebre indolenzite. «Mamma è tornata.»

La porta d’ingresso si richiuse. Ci fu il trillo delle chiavi dondolate sulla serratura, lo strofinio delle scarpe sullo zerbino, lo scricchiolare delle buste della spesa, e lo zampettare di Nerone che saltellava contento. «Nerone, eri di nuovo sul letto?»

«Bau!»

Giulia stiracchiò le spalle, stendendo le braccia verso l’alto, e strinse il viso in una smorfia. «Meno male.» Le guance ripresero colorito, esposte alla luce del sole e al giro di corrente risucchiato dall’apertura della porta. «Almeno abbiamo una scusa per fare una pausa. Ci voleva proprio, staremmo studiando da almeno un centinaio di ore.»

Luca adocchiò la sveglia sul comodino, accanto alla lampada a forma di faro. Erano le cinque passate. «Oggi è tornata tardi.»

«Sarà ancora occupata nella ristrutturazione del murale di quella chiesa su a Rivarolo.»

«Ancora?» fece Luca, stupito. «Ma è da Pasqua scorsa che ci lavorano.»

«Lo so, povera mammina. Ma almeno...» Giulia strizzò l’occhiolino, come se si fosse trattato di rivelare un grande segreto. «Fra un po’ sarà estate per tutti, no?» Colsero entrambi la profondità di quella frase, la dolcezza custodita fra le sue parole, e se la godettero proprio come si erano gustati i cantucci e lo sciroppo di menta per merenda. Giulia si alzò dal pavimento con un rimbalzo, di nuovo padrona delle energie che nemmeno i versi di Leopardi erano riusciti a insonnolire, e diede la mano a Luca. «Vieni.» Lo aiutò ad alzarsi, e Luca si concesse qualche secondo per far scricchiolare la schiena indolenzita e per massaggiarsi i polpacci formicolanti. Andarono verso la cucina da cui proveniva il frusciare delle borse della spesa.

«Ciao, mamma.» Giulia sventolò un saluto per aria. «Siamo qui.»

Sara finì di piegare il cappotto, lo poggiò sulla seggiola, e si girò mentre ancora stava pettinando una ciocca di capelli dietro il lobo da cui brillò la luce dorata dell’orecchino. «Oh, eccovi, vi credevo spariti.» Si chinò a baciare la fronte di Giulia e strofinò una carezza fra i riccioli di Luca. Sorrise a entrambi. «Come va lo studio? Stanchi?»

Giulia incrociò le braccia sopra lo schienale di una seggiola e lasciò ciondolare il capo in avanti, esalando un lamento melodrammatico. «Distrutti.»

«Nerone era di là con voi?» le chiese Sara. «Non è salito sul letto, vero?»

«Ehm.» Giulia scoccò uno sguardo complice a Luca, posò l’indice davanti alle labbra. «Ma no, figurati.» Luca si coprì la bocca per nascondere il rossore del sorriso.

Sara assottigliò le palpebre per squadrare il viso di sua figlia, riconobbe l’odore delle sue bugie. «Giulietta.»

«Solo per poco.» Giulia sollevò le mani in segno di resa. «E non ha lasciato peli, te lo giuro.»

Nerone scodinzolò, guardò entrambe, e flesse la testolina di lato, capendo solo che stavano sparlando di lui.

Sara scosse il capo, surclassò la faccenda, e ordinò le borse sul tavolo. «Scusate se ho fatto tardi, ragazzi, ma mi sono dovuta fermare in Posta dopo il lavoro.» Estrasse una vaschetta di alluminio dalla busta di carta e la infilò nel forno spento. «Ho preso dello sformato in rosticceria per farmi perdonare. A pranzo avete mangiato abbastanza?»

Luca annuì, mise in frigo le bottiglie di latte che Giulia gli aveva appena passato. «C’erano gli avanzi della lasagna di domenica.»

«Ancora la lasagna?» Gli occhi di Sara s’inumidirono di una triste colpevolezza. «Oh, ma non era troppo stantia? Potevate lasciarla, se non...»

«No, no, affatto» si affrettò a dire Luca, «era ancora squisita.» Ed era vero. La lasagna migliore d’Italia, secondo la sua modesta opinione. Non che lui ne avesse assaggiate altre.

Giulia usò il gomito per punzecchiargli la spalla. «Solo perché tu la lasagna te la mangeresti anche cruda.» Si alzò in punta di piedi per sistemare i pacchetti di farina nei ripiani più alti della credenza. «Ma perché sei stata in Posta, mamma? C’era qualcosa da spedire?»

«Veramente...» Sara cercò qualcosa nella borsa più piccola, quella di tela con il logo della galleria d’arte. «È arrivato qualcosa per Luca. Ecco...» Gli porse un pacchetto avvolto nella carta gialla tenuta ferma da un intreccio di spago, e gli sorrise, sfoderando uno di quei caldi sguardi materni con cui Luca aveva ormai una certa familiarità. Lo sguardo di una mamma che sa. «Spedito da Portorosso, da parte dei tuoi genitori. Sicuramente sarà qualche vestito nuovo, dato che comincia a fare un po’ troppo caldo per gli abiti invernali.»

Il cuore di Luca singhiozzò d’entusiasmo, le sue guance si accesero per l’emozione. La vicinanza dei suoi genitori riuscì addirittura a scacciare la fatica dello studio e l’ansia per gli esami. «Dai miei genitori?» Raccolse il pacco, accettandolo come una piccola sorpresa, e lo strinse al petto. Sotto lo scricchiolio della carta, incontrò la consistenza soffice e cedevole degli abiti ripiegati.

Sara annuì e cercò ancora qualcosa nella stessa borsa. «E anche qualcos’altro per tutti e due.» Fra le sue mani si materializzò una busta gialla. «Una lettera dal vostro amico.»

Giulia fece cadere a terra la busta di spaghetti e Luca strizzò forte le mani attorno al pacco di abiti. Furono entrambi fulminati dalla stessa scarica di emozione che sfrecciò come una saetta attraverso i loro cuori, gonfiandoli di gioia. «Alberto!»

Giulia scavalcò il pacchetto di spaghetti che le era caduto, corse a battere le mani affianco a Luca, a saltellare sul posto, a caricarsi di quell’allegria elettrica che le bruciava in ogni fibra del corpo. «Oh, apri, apri, dai, apri, dobbiamo leggerla subito.»

Anche Nerone si fece contagiare da quella gioia improvvisa e inaspettata, scodinzolò attorno ai due ragazzi, annaspando con la lingua di fuori, in attesa di chissà quale novità.

Luca soppesò la busta troppo rigonfia per contenere solo qualche foglio di carta. «Però sembra un po’ più pesante di una lettera.» Anche la consistenza era diversa, più rigida.

«Magari ha messo qualche fotografia come l’altra volta» considerò Giulia. «Ecco, aspetta…» Pescò le forbici dal cassetto della cucina – le forbici che usavano per tranciare la pizza o il pollo – e tagliò un’estremità della busta. Fece scivolare fuori il mazzo di foto, le mise in luce sotto la lampada in modo che potesse vederle anche Luca. «Ooh.»

Erano foto scattate alla cucciolata di Machiavelli. La prima ritraeva i gattini tutti allineati contro il ventre color nerofumo della mamma, le orecchie piccolissime e gli occhietti ancora chiusi. In quella successiva ce n’erano solo tre acciambellati fra le pieghe della coperta che imbottiva la cesta di vimini dove erano nati. Poi un’altra foto dove uno dei micetti si era arrampicato a sonnecchiare sul guscio di Caligola; un’altra ancora dove erano tutti radunati attorno a Machiavelli che fissava imbronciato la fotocamera mentre uno dei piccoli gli era appeso alla schiena; e l’ultima dove si riconosceva l’indice di Alberto che strofinava una carezza fra le orecchie del gattino ripreso in primo piano.

Girarono l’ultima delle fotografie. Sul retro bianco, riconobbero la calligrafia di Alberto che aveva scritto: già grandi e forti come tigri!

«Che meraviglia.» Gli occhi di Giulia luccicarono d’incanto e di tenerezza. «Machiavelli ha avuto i cuccioli. Che amori.»

«Davvero.» Luca si soffermò su una delle fotografie, quella con Machiavelli sommerso dalla cucciolata, il broncio scuro e le orecchie schiacciate dal peso del micio che si era arrampicato fino alla sua testa. «Aspetta…» Si grattò la nuca, perdendosi in un vortice di confusione. «Machiavelli ha avuto i cuccioli? Mi sono perso qualcosa?»

Giulia ridacchiò. «No, non lui.» Mostrò la foto con la mamma gatta che ronfava nella cuccia di vimini. «La sua... fidanzatina. Ma sono proprio i cuccioli di Machiavelli, sicuro al cento percento. Guarda quanti sono…» Usò l’indice per contarli nella foto in cui erano tutti allineati. «Sei, sette, otto. Otto! Incredibile, è raro che i gatti ne facciano così tanti. La scorsa estate la gatta del vecchio Bernardi ne ha avuti solo tre. Oh, che idea!» Scoccò verso Sara quello sguardo luminoso di meraviglia ed entusiasmo. «E se ne tenessimo uno qui da noi?»

Sara richiuse la dispensa dove aveva appena sistemato la confezione di spaghetti che poco prima Giulia aveva fatto cascare sul pavimento. «Abbiamo già il cane, Giulietta.»

«Ma gli animaletti domestici non sono mai troppi. E Nerone è bravo con i gatti, non gli abbaia nemmeno contro.»

«Vedremo, Giulia, vedremo.» Sarà andò a occuparsi del filone di pane che ripose sul tagliere per affettarlo e sistemarlo nel cestino. «Ma d’estate avrete sicuramente occasione di vederli tutti i giorni. I gatti di porto non si spostano mai troppo, restano sempre nelle vicinanze. E poi forse papà ne terrà uno.»

«Già» annuì Giulia, «e magari potrebbe chiamarlo Principe.»

Luca le scoccò un’occhiata interrogativa. «Principe?»

«Ovvio» fece lei, «come il Principe di Machiavelli. Sarebbe il nome più perfetto di tutti. Anzi, sai cosa? Dobbiamo dirlo subito ad Alberto.» Raccolse la mano di Luca e imboccò il corridoio. «Vieni, scriviamogli la lettera.»

«Ah-ah, solo un attimo, Giulietta.» Sara smise di affettare il pane e le indicò il tavolo, la borsa ancora piena di provviste. «C’è ancora una busta da finire di svuotare.»

Giulia fece ciondolare il capo verso il basso come poco prima, quando si era disperata sulle poesie di Leopardi. «Ooh, ma maaammaaa

«Ci vorrà solo un minuto.»

Giulia si arrese. Si tenne però stretta al braccio di Luca e si alzò a bisbigliargli all’orecchio. «Va’ a preparare la carta da lettere, io arrivo subito.»

«Do una mano anch’io, se vuoi, così facciamo prima.»

Giulia scosse la testa, fece mulinare un indice verso il pavimento. «Cerca piuttosto di raccogliere più libri che puoi prima che mamma entri in camera, così non vede che abbiamo fatto un macello. Ah, e controlla che ci siano avanzati dei francobolli.»

«No, ho già visto ieri» rispose lui. «Abbiamo usato l’ultimo la settimana scorsa, mi sa.»

«Li prendiamo domani andando a scuola, allora.»

Luca annuì. Tenne stretto il pacco di abiti e sventolò il mazzo di fotografie. «Metto le foto al sicuro.» Si avviò.

Arrivato in camera, si ritrovò a fronteggiare il tragico panorama del pavimento sommerso da libri aperti, quaderni ribaltati, fogli svolazzanti e penne rotolate sotto i letti. Lo scenario che si sarebbe aspettato di trovare se qualcuno avesse infilato un petardo acceso in uno scaffale della libreria, facendolo saltare in aria.

Lo scorcio di primavera visibile dietro le tendine svolazzanti stava a poco a poco cominciando a germogliare. C’era appena stato il cambio di guardaroba, la mattina alla fermata dell’autobus si battevano i denti per il freddo, la scuola non sarebbe di certo terminata il giorno dopo, Luca e Giulia avevano ancora tanto da studiare, tutti i temi da finire, i teoremi di Geometria da memorizzare. Nonostante questo, Luca non si fece scoraggiare. Solo il fatto di poter stringere al petto il dono dei suoi genitori e di poter far scorrere fra le dita le fotografie inviate da Portorosso gli trasmise un senso di speranza rinvigorente, ancor più tiepido dei raggi di sole che striavano le pareti e il pavimento.

Camminò in punta di piedi per non inciampare sulle penne e le matite, scavalcò il vocabolario, raggiunse il suo comodino, e si inginocchiò per aprire lo scomparto dove conservava la sua scatolina dei tesori: un vecchio barattolo di latta che una volta conteneva i Bucaneve Doria. Se si chiudeva gli occhi e se si annusava fino in fondo, si poteva ancora percepire il profumo di zucchero e biscotti al burro di cui erano inevitabilmente impregnati anche gli oggetti al suo interno. Luca ci conservava di tutto: il biglietto del treno che lo aveva portato da Portorosso a Genova, i biglietti usati del bus, il biglietto del cinema di quando lui e Giulia sono andati a vedere Lawrence d’Arabia. E poi ancora incarti di caramelle alla liquirizia, lo scontrino della prima volta in cui aveva ordinato un cannolo al bar, una cartolina ritraente la Lanterna di Genova, il volantino di uno stabilimento balneare di Boccadasse, un ciottolo color turchese che aveva raccolto dal vialetto della scuola, un gessetto avanzato dalla lavagna dell’aula di arte, la prima Bic completamente consumata, e anche un fusillo formato da un impasto tricolore.

Sotto il suo tesoro, tenute ferme da un doppio giro di elastico che diventava sempre più teso, erano impilate tutte le lettere giunte da Portorosso nel corso dell’inverno, assieme alle altre fotografie. La presenza di Alberto vibrava in ogni foglio, in ogni pagina di quaderno utilizzata come carta da lettere, in ogni riga buttata giù con quella scrittura sgangherata.

Luca sfogliò un’altra volta le fotografie appena arrivate, s’intenerì nuovamente davanti ai musetti dei gattini appena nati, e fece cadere un foglio a righe piegato in due, una lettera. Lui e Giulia non si erano accorti che ci fosse anche quella infilata fra le fotografie.

Luca la aprì.

 

Caro Luca…

 

Di nuovo fu facile riconoscere la calligrafia un po’ sbilenca e irregolare di Alberto, udì la sua voce pulsare attraverso le righe e giungere al suo orecchio come un lontano eco del mare. Sentì così sciogliersi quel groppo di emozione che gli aveva chiuso la gola e stritolato il cuore quando Sara gli aveva fatto scivolare la lettera fra le mani. Si sentì fluttuare come poco prima, quando aveva sognato di galleggiare in mezzo alle meduse prive di peso, in quell’ambiente amniotico fatto di pace e silenzio.

Luca si strinse la lettera al petto, rotolò sulla schiena, senza preoccuparsi di aver stropicciato una pagina del suo libro di Storia, e si lasciò scuotere da una risatina allegra e priva di preoccupazioni. Sognò l’arrivo dell’estate, il suo ritorno a Portorosso, quando avrebbe rivisto i suoi genitori, e Massimo, e Machiavelli, e i suoi cuccioli. E Alberto.

Catturato da un soffio di vento passato a solleticargli il naso e a scuotergli i riccioli, Luca si alzò a scostare la tendina, incrociò le braccia sul balcone della finestra, e si affacciò al cielo di Genova che ogni pomeriggio si faceva più limpido, slavato dalla polverosa patina grigia che lo aveva tenuto sporco per tutto l’inverno e che ora si stava gradualmente sciogliendo come la neve squagliata dalle montagne più lontane.

Inspirò a fondo, lasciando che l’aria scendesse fino allo stomaco. Il calore del sole gli solleticò il naso, ma la sua luce non gli fece male agli occhi, gli permise di guardare oltre i tetti di Genova, oltre i palazzi color pastello accostati uno all’altro come tessere di Domino, oltre i comignoli, oltre le antenne televisive. Le terrazze rigogliose di gerani, i panni stesi fra un balcone e l’altro, i gabbiani che stridevano e che volavano in cerchio. In lontananza, la distesa di mare striava l’orizzonte, luccicante e piatta come una lamina di metallo, imboccata dai larghi lastroni di cemento che emergevano dai locali del porto, sormontati a loro volta dalle braccia colorate delle gru che popolavano i cantieri dove le navi riposavano pacifiche.

Il cielo sul mare era terso. Solo qualche irrilevante e innocuo sbuffo di nuvola a galleggiarvi dentro. Un cielo già prossimo all’estate, un cielo carico di speranza. Lo stesso azzurro che in quello stesso giorno splendeva anche fra le case e sulle strade di Portorosso.

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Capitolo 2
*** 2 ***


2

 

 

Alberto spalancò le braccia per raccogliere il nuoto del banco di sardine verso cui era andato incontro, spinse le mani palmate verso lo scuotersi dei pesciolini che si muovevano come un unico grande corpo che vibra, e sbatté forte la coda per spaventarle e indirizzarle dentro la rete.

Le prime sardine toccarono la rete, tornarono indietro come se avessero preso la scossa, e crearono un guizzo che vibrò attraverso l’intero banco, agitando sciami di bollicine ingrossate dal dimenarsi delle pinne e delle code. I pesciolini si divisero, fuoriuscirono dall’abbraccio della rete come i frammenti di un’esplosione, uno scoppio di luce azzurra e argentata. Nuotarono addosso ad Alberto e lo spinsero nella direzione opposta alla rete, gli schiaffeggiarono il muso, gli beccarono le braccia e le gambe, e lo costrinsero a ripararsi gli occhi, lasciandolo accecato per il breve istante di quella fuga.

«Ghn!»

Trascinato, Alberto sbatté sulla rete che gli si deformò attorno. Riaprì gli occhi e individuò alle sue spalle l’orda argentata delle sardine che si sparpagliarono, che rallentarono il nuoto, e che tornarono a ricomporsi. Alberto strinse le zanne, masticò un ringhio di rabbia che gli fece accapponare le scaglie. «Bestiacce.» Frustò la coda addosso alla rete, affondò una sbracciata per darsi la spinta e inseguirle. «Tornate q...» Una zampa gli rimase incagliata fra i nodi della rete, lo imprigionò con uno strattone.

Alberto scosse la coda, tirò di nuovo. La corda gli grattò la caviglia e strinse più a fondo, la rete si tese e fece dondolare la barca che si inclinò sotto il suo peso, sprofondando a poppa con un cigolio. Colto da un bruciante spasmo di irritazione e impazienza, Alberto si afferrò il ginocchio, gettò le spalle all’indietro, sbatté due volte la coda e distribuì una lunga frustata di bolle che schiumò verso la superficie dell’acqua. La corda della rete gli grattugiò le squame e non accennò ad allentarsi, tenendolo prigioniero nella sua ruvida morsa.

Un braccio infranse la superficie, sprofondò nell’acqua, afferrò l’intreccio della rete, e ripescò Alberto dal mare, molle e gocciolante, come se si fosse trattato di una sardina rimasta vittima della loro stessa trappola. Lo fece ricadere sul fondo della barca. Gli schizzi di quel tonfo improvviso investirono Machiavelli che rizzò il pelo e che saltò sulla prua, mettendosi al riparo. Machiavelli si leccò la zampina, appiattì le orecchie, arricciò la coda attorno a sé, e fulminò Alberto con uno sguardo omicida.

Massimo brandì la lama del coltello, gettando un lampo di luce dello stesso colore del sole, e tranciò di netto la rete. «Stai bene?» Liberò Alberto e sbatacchiò le corde gocciolanti e sporche di alghe. «Sei ferito?»

Alberto sospirò, gonfiando il petto ancora attraversato da un cordone della rete. Attirò a sé il braccio che ciondolava fuori dalla barca, e se lo portò davanti alla faccia per ripararsi dalla distesa di azzurro smaltato che gli era lampeggiata contro gli occhi appena tornati alla luce. Sì, nell’orgoglio. Scosse un’anca per sgarbugliarsi dalla rete appena tranciata da Massimo, fece scivolare la coda a bordo, e si mise a sedere per massaggiarsi la zampa. «Tutto a posto, mi ero solo impigliato.»

«Mi hai fatto spaventare.» Massimo si calcò il basco sul capo e rivolse ad Alberto uno sguardo sottecchi, dalla penombra. «Sei rimasto sott’acqua troppo a lungo.»

Alberto soffocò una risatina in fondo al petto. Smise di massaggiarsi la zampa e strusciò il braccio sul muso bagnato, nascondendo il piccolo ghigno che era brillato fra le zanne. «Io sott’acqua posso respirare, te lo ricordo.»

Massimo si strinse nelle spalle. «Dimenticarselo è più facile di quello che sembra.» Rinfoderò il coltello nella cinta, si chinò ad arrotolare le reti che aveva raccolto dentro il gomito, e spiegò uno dei panni di stoffa che conservavano sotto la panca. «Tieni.» Avvolse il panno attorno alla testa di Alberto, gli diede una veloce strofinata alla schiena. «Non prendere freddo. C’è corrente.»

Alberto rise da sotto il panno che gli avvolgeva la testa come un cappuccio. Frizionò i capelli, si asciugò la faccia, e inspirò forte dal naso, riabituandosi alla carezza della brezza di mare soffiata fra i riccioli, alla sensazione tiepida del sole formicolato sulla pelle abbronzata. «Comunque, è sempre il banco che abbiamo rincorso anche ieri.» Si scollò un’alga dalla spalla, ritirò le squame passando il panno asciutto sull’ultimo rivoletto d’acqua che si era sciolto lungo la pelle del braccio, e frustò la coda all’aria, facendola sparire. Lo stesso rapido guizzo con cui erano svanite anche le sardine. «Sono più svelte del solito, sarà la stagione. Sarà qualcosa della primavera a farle nuotare così velocemente, non lo so.» Frizionò il panno anche dietro il collo, lungo le spalle, e lo abbandonò sulla panca. «Ma se ci sbrighiamo questa volta le acchiappiamo.» Si sporse dalla barca. «Sono andate verso...»

«Non avere troppa fretta» gli disse Massimo, paziente. «La fretta e il mare non sono mai andati d’accordo.»

«No, sul serio, se adesso torno a tuffarmi le riacciuffo in un baleno.» Alberto si strinse una spalla, fece roteare il gomito per sgranchirsi le giunture, e si sbilanciò verso il suo stesso riflesso specchiato sul mare, pronto a tuffarsi. «Fammi riprovare.»

Massimo mollò la carrucola delle reti e gli agganciò l’indice attorno alla cinta. «Equilibrio, Alberto.» Frenò il suo tuffo e lo trattenne sulla barca. «Ricorda che il vero compito del pescatore è il mantenimento dell’equilibrio fra mare e terra.» Socchiuse una palpebra, rivolgendogli uno sguardo più affabile e complice. «Tu dovresti esserne un esempio.»

Alberto alzò gli occhi al cielo ma incurvò le labbra in un sorriso, incapace di resistere al pizzicore che gli aveva accaldato le guance. Obbedì, nonostante il sospiro rassegnato. «E io che invece speravo di poter squilibrare un po’ di più la barca caricandola di pesci fino al cielo.»

Massimo premette il piede sul motore, diede uno strattone alla leva. «Intanto pensa a sistemare quelli che abbiamo già preso.» Il motore scaricò una nuvola di fumo color ferro e si accese, allungando un borbottio che fece vibrare l’intera barca. Massimo si asciugò sui pantaloni la mano sporca d’acqua e di olio. Guardò lontano. L’occhio acuto ed esperto che sarebbe stato persino in grado di scavare fra gli scogli e di scendere fino all’oscurità dei fondali, dove non arrivavano nemmeno i raggi del sole. «Fra un po’ poi è la stagione dei totani. Se proprio ci tieni a riempire la barca, allora possiamo anche uscire un paio di volte durante la notte.»

Alberto sgranò le palpebre. «Sul serio?» Batté le mani e si strofinò i palmi, già pregustandosi il momento. E pregustandosi la carne dolce e tenera dei totani cotti alla griglia. «Grandioso! Io di notte vedo benissimo, giuro, posso scendere fino al fondale e...»

«Senza immersioni subacquee.»

«Ooh, uffa.»

Massimo si sfilò i guanti dalla tasca e glieli passò. «Al lavoro, marinaio.»

Alberto accettò i guanti – E che lavoro sia –, e guardò sconsolato verso il punto del mare dove il banco di pesce si era disperso, oltrepassando le boe galleggianti e nascondendosi fra le rientranze degli scogli più vicini, quelli circondati dal volo dei gabbiani. Scavalcò la panca per inginocchiarsi sul fondo della barca e cominciare a raccogliere le sardine che avevano catturato nelle prime ore del mattino. Le suddivise nei tre secchi riempiti d’acqua solo a metà.

Alcuni dei pesciolini si dimenavano ancora, uno di loro riuscì a balzare più in alto degli altri e a cascare di nuovo in acqua, scomparendo con un colpo di coda. La maggior parte stava esalando gli ultimi spasmi di vita. Le pance rigonfie e pulsanti, gli occhi allucinati fissi nel vuoto, le branchie spalancate, e le testoline che spingevano fra le altre in cerca dell’acqua più fresca, di uno spazio buio dove il sole non batteva.

Il moto della barca oltrepassò i piloni bianchi, spalmando la sua scia fra le creste d’onda. La brezza di mare alitò su Alberto, gli attraversò i capelli e gli fischiò nelle orecchie. Lo raggiunse l’odore polveroso del maltempo che fino alla sera prima aveva continuato a sporcare il cielo di Portorosso, il lezzo del guano di cui erano incrostati gli scogli cariati dalle onde, e quello acidulo della spuma di mare tinta dal verde delle alghe che erano galleggiate in superficie durante la bassa marea.

Alberto riempì il primo secchio e divise le altre sardine fra i due rimanenti. Mentre lavorava, rimuginò sulle ultime parole di Massimo, borbottando a bassa voce. «Equilibrio, equilibrio...» Spinse il gomito sul ginocchio piegato, affondò il mento dentro il palmo inguantato, e mostrò quel sorriso ancora un po’ pensieroso a Machiavelli che se ne stava appollaiato a poppa. «Sei tu quello che tiene la barca in equilibrio, oggi, Machiavelli? In fondo...» Gli punzecchiò il pancino foderato di pelliccia. «L’inverno ti ha reso ancora più rotondetto di quello che già sei.»

Machiavelli imbronciò il muso, gonfiò una cresta di pelliccia e scosse la punta della coda arrotolata, allungando un mugugno basso e minaccioso. Squadrò Alberto con occhi che parevano lanterne nel buio: lo stesso sguardo spietato con cui inchiodava le sue prede prima di saltargli in faccia.

Alberto rise, per nulla intimorito. «Scusa, scusa, hai ragione, i gatti rotondetti sono sempre i più carini.» Pescò una sardina dal gruppo, scegliendo una di quelle immobili, e la offrì a Machiavelli come se si fosse trattato di deporre un mazzo di fiori sull’altare di un idolo di marmo. «Ecco, pace fatta?»

Machiavelli alzò gli occhi al cielo, sciogliendo la rigidezza del broncio. Addentò il pesciolino, accettando l’offerta di pace, ma si girò a rosicchiare la sardina senza dare ad Alberto la soddisfazione di godersi le sue fusa. Un gabbiano scese dal cielo, sbatté più forte le ali per immettersi nella corrente sollevata dal moto della barca, e stridette verso le sardine fresche che si dimenavano nei secchi e in mezzo alle gambe di Alberto. Il suo becco ingordo non fu tanto fortunato quanto le fauci di Machiavelli.

Tenendo le mani impegnate col lavoro, Alberto alzò lo sguardo verso il volo del gabbiano, e di nuovo dovette restringere le palpebre per non finire abbagliato dall’azzurro così acceso e vibrante del cielo prossimo a mezzogiorno. In mare aperto, l’aria profumava di dolce, dei germogli fioriti che erano sbocciati sugli arbusti delle isolette circostanti. E profumava anche di sale, della risacca rimestata dalle onde della marea. Il calore del sole gli fece solletico alle guance e alla punta del naso, depose una piacevole scia di brividi sotto gli abiti ormai asciutti. L’orizzonte così terso, una linea netta fra cielo e mare, gli permise addirittura di cogliere le frastagliature delle isolette più lontane, le corone di vegetazione verde che brillavano tutt’attorno ai picchi di roccia.

La primavera ormai era arrivata, l’estate era prossima. E l’idea dell’estate così vicina illuminò altri pensieri, fece affiorare memorie preziose. Chissà se anche a Genova oggi c’è il sole?Di nuovo Alberto tornò a spingere le nocche sotto il mento, a far riposare il capo fintanto che lo teneva reclinato verso l’alto. Lo sguardo vagò fra le nuvolette di pensieri che sbocciarono una sull’altra. Chissà se si vede lo stesso cielo? Un sospiro più lungo e trasportato gli alleggerì il peso sul petto. Lo stesso cielo che ora starà guardando anche...

La barca di Tommaso emerse dall’orizzonte, sfrecciò in direzione opposta alla loro, facendo fuggire il gabbiano, e rallentò, richiamando persino l’attenzione di Machiavelli che si stava leccando i baffi dopo aver divorato la sardina fino alle lische. «Buongiorno, Massimo!» Tommaso lo salutò con una sventolata del braccio, tenendo una gamba piegata sul motore e l’altra mano aggrappata alla ringhiera. «Pesca grossa stamattina?»

Massimo staccò la mano dalla leva del timone e sollevò il braccio per ricambiare il saluto. «Solo qualche pugno di sardine. Ma stasera andiamo a totani per compensare. Ti unisci a noi?»

Tommaso rise, calò la frontiera del berretto. «Il vino e la verdura di contorno per la grigliata li metto io. Non partite senza di me!»

«Ci contiamo.»

La barca di Tommaso sgasò lasciandosi dietro la sua coda di spuma bianca e ribollente, l’onda li raggiunse e li fece dondolare, costringendo Alberto ad aggrapparsi con una mano al bordo per non cadere di schiena. Con la risacca dell’onda giunse anche l’occhiata sbieca di Tommaso, il suo sorriso sbiadito, il suo sguardo velato d’ombra e di diffidenza che era scivolato con cautela su Alberto, come se si fosse trattato di sorvegliare una belva pronta a sguainare gli artigli e ad azzannarti la schiena proprio quando sei di spalle, a tradimento. Quell’immagine era sempre accesa e limpida nei pensieri di Alberto: un guardiano dello zoo che allunga le braccia fra le sbarre e che strofina affettuose carezze sul muso della tigre, ma che all’ora di pranzo apre uno spiraglio della gabbia, molla la bistecca al suo interno, e che esce camminando all’indietro come un gambero, senza darle l’occasione di saltargli alla schiena e di saziarsi con qualcosa di più succulento.

Strinse i pugni, sentì le unghie graffiare la stoffa interna dei guanti.

Dannazione.

Sperava che adattarsi alla vita sulla terraferma sarebbe stato più immediato, o quantomeno più facile. Credeva che, tolto di mezzo Ercole, almeno nei mesi freddi, sarebbe stato più semplice convivere con gli altri pescatori, adattare Portorosso alla sua presenza. In parte era successo, ma non quanto avrebbe voluto.

E se invece non dovesse mai essere abbastanza?

Si strinse nelle spalle, sentendosi d’improvviso così piccolo e solo, anche se sorvegliato da Machiavelli, e anche se circondato dalle sardine che gli rimbalzavano attorno alle caviglie. Si grattò un braccio per scrostarsi di dosso quel disagio. Non era facile come strofinare via l’acqua dalle squame.

E se i miei sforzi non dovessero comunque servire a nulla, anche a lungo andare? Se fossi destinato a rimanere per sempre il Mostro Marino e niente di più?

Credeva di essersi fatto il callo, dopo un intero anno di convivenza, adattamento, fiducia e diffidenza, e invece sguardi simili avevano ancora il potere di ferirlo, di bruciargli attraverso la pelle come il taglio di una lama. O lo sfregio di un arpione. La salda presenza di Massimo però gli dava sicurezza, lo rendeva capace di aggrapparsi e di resistere.

Ma se cominciassero a diffidare persino di lui?

Questo era il suo incubo. La conseguenza peggiore sarebbe stata vedere quella confidenza ritorcersi su Massimo che invece lo aveva preso con sé. Non sarebbe stato giusto. E nemmeno dire a Bruno di fare silenzio serviva a cancellare il sospetto di quegli sguardi che sentiva venirgli dietro quando non era con Massimo, quando sistemava le cassette di pesce fuori di casa, quando pedalava nel suo giro di consegne, o quando la mattina presto usciva a comprare il pane e il latte.

Se solo potessi dare una lezione a tutti quelli che mi guardano storto. Così glielo farei vedere io chi...

Alberto subito scosse il capo all’idea e si diede un colpetto alla guancia con il guanto bagnato.

No, no, niente brighe, Alberto. Basta guai.

Asciugò la traccia d’acqua che aveva sbavato una chiazza di squame sulla pelle del viso. Bastò quel gesto per calmarlo, per dargli la forza di resistere al desiderio impellente e viscerale di attaccar briga. Non aveva più bisogno di attaccar briga, non c’era motivo di difendersi più di così. Adesso poteva contare su Massimo per sentirsi protetto e al sicuro. Avrebbe continuato a lavorare assieme a lui, a pescare, a navigare, a vivere il mare da fuori, come una creatura di terra, e non avrebbe avuto bisogno di altro.

Per una volta, non è un problema mio quello che gli altri pensano di me.

«Bene, direi che qui può andare.» Massimo rallentò, flesse il timone per virare, e fermò la barca sollevando una bassa ala di spuma che zampillò tutt’attorno alla prua. Srotolò la rete dalla carrucola e la tornò a gettare in mare. «E anche le reti sono sistemate.» Dalla chiazza scura che componeva il nuoto delle sardine, il suo sguardo si spostò su Alberto, rivolgendogli una tenera luce d’intesa. «Ti va un’altra nuotata?»

Il cuore di Alberto singhiozzò di gioia, e i suoi occhi brillano del verde più puro.

 

***

 

La Signora Marsigliese contò gli spiccioli e li depose una alla volta sulla mano spalancata di Alberto. «Mille e cinque, duemila, e duemila e cinque.» Richiuse il portamonete. «A posto così, Alberto?»

Alberto serrò il pugno ed esibì un sorriso ancor più luminoso delle monete. «Perfetto, grazie dell’ordine.» Intascò il denaro, inforcò la bici, e si diede la spinta per imboccare la stradina di pietre che scivolava giù in paese. «A domani, Signora Marsigliese!»

La Signora Marsigliese si sporse dall’uscio di casa, seguì la corsa di Alberto con l’occhio esperto di chi è abituato a vegliare sui bambini spericolati. «Sta’ attento lungo la strada» si premurò di dirgli. «Non correre troppo.»

Alberto sventolò un gesto di rassicurazione. «Senz’altro!» Si alzò dal sellino, fece forza sulle gambe per pedalare di buona lena, sfrecciando fra le facciate delle case, e si girò a rivolgersi a Machiavelli che era acciambellato sul carretto, in mezzo alle cassette vuote. «Dritti a casa.»

Machiavelli dondolò sulle zampette, dopo un breve sobbalzo del carretto, e si mise seduto all’angolo, squadrando la schiena di Alberto con la sua solita e perenne espressione di disappunto.

La bici sfrecciò davanti al fornaio, alla piccola bottega di libri usati, e davanti alla casa del Signor Oreste che stava annaffiando i ciclamini sul terrazzo foderato d’edera. Alberto si girò per salutarlo, «Salve, Signor Oreste», senza smettere di pedalare.

Lui gli sorrise. «Ciao, Alberto.» E ricambiò con uno sventolio della mano che non impugnava l’annaffiatoio.

Alberto prese la discesa e scivolò stringendo a singhiozzi la leva del freno. Il carretto svuotato del pesce pesava di meno, così era più facile sbandare e perdere il controllo, nonostante ci fosse Machiavelli a controbilanciare la traiettoria. Alberto si mise in piedi sui pedali e si lasciò trasportare giù sentendosi davvero più leggero, tanto da avere l’impressione di star fendendo l’aria come il volo del gabbiano che aveva braccato le loro sardine per tutta la mattina. La pedalata delle consegne aveva rinvigorito il suo umore, aveva soffiato via i pensieri nebulosi che gli erano brontolati addosso durante l’uscita in barca. Era una giornata fin troppo piacevole per permettere alla voce di Bruno di rovinarla. Una di quelle giornate che preannunciavano l’esplosione di una primavera limpida e soleggiata.

Il venticello sollevato dalla corsa in bici era più speziato e placido rispetto a quello che fischiava in mare aperto. Dalle terrazze che stavano tornando a fiorire proveniva un intenso e fresco profumo di erbe e di polline, assieme a quello un po’ ferroso dell’acqua della fontana che avevano tornato ad accendere in piazza. Vapori più dolci e intimi aleggiavano invece fuori dalle finestre, dalle cucine. Caffè appena gorgogliato dal filtro della moka, il sugo di pomodoro e basilico che ribolle e canta nelle pentole di rame, il bucato al profumo di Sapone di Marsiglia appeso sui balconi, la pastella per la frittura di pesce preparata dalla vecchia Agnese che intanto era seduta fuori casa a sgranare i fagioli freschi nel secchio.

Non c’era nulla per cui valesse la pena restare imbronciati.

Spronato da quel caldo impulso di vitalità, Alberto strinse forte il manubrio, diede un colpetto a un pedale per tornare a portarlo sotto la pianta del piede, e si girò in cerca dell’approvazione di Machiavelli. «Che dici, proviamo a battere il record?» Machiavelli s’irrigidì appiattendosi fra le cassette vuote, sottraendosi al vento della corsa che gli stava arruffando il pelo.

Superato uno dei canali di scolo che imboccavano i tombini a bordo strada, la discesa perse pendenza e la loro corsa perse velocità, facendo rullare le ruote del carretto all’ombra dei portici e davanti alla piccola vetrina del meccanico. Alberto intercettò una scintilla color rosso fiamma proveniente dalla bottega. Frenò di colpo, facendo stridere le gomme della bici sulle pietre del vialetto, e pedalò all’indietro.

Sgranò gli occhi che si persero in una luce d’incanto, allargò un sorrisone sognante che gli s’infossò nelle guance. «Ooh, Machiavelli, guarda...» Si sporse ad appiccicare le mani sul vetro, in venerazione. «Sono arrivate le Vespa nuove.»

Si perse, stregato dai nuovi modelli appena arrivati – tutte moto da risistemare, ma comunque meravigliose – in mezzo a cui spiccava quella rossa che, priva del cavalletto, era sostenuta dal fianco della Vespa color argento che le era parcheggiata affianco. Un sottilissimo strato di polvere appannava l’interno del garage che era deserto, chiuso per l’ora di pranzo. Infoiate nell’ombra, erano sistemate anche vecchie biciclette – alcune appese al soffitto –, assieme a un cofano appena lucidato, valvole e tubi di ricambio per i motori, e persino un modello di Lambretta a cui mancavano la targa e il manubrio.

Alberto sognò, lasciandosi rapire da quello spicchio di paradiso, e agitò le punte dei piedi già immaginando il ronzio della Vespa vibrargli sotto le gambe e la spinta della corsa spalancare due ruggenti ali di vento dietro il suo passaggio. Nonostante tutto, quel sogno era una fiaccola ancora accesa nel suo cuoricino. «Pensa a quando ne avrò una anch’io.» Fece scivolare le mani giù dal vetro, si girò a condividere quella ridacchiata con Machiavelli. «Dobbiamo già cominciare a fare spazio in giardino, e magari a costruire una tettoia, o una specie di rimessa. La cuccia gigante per la Vespa, te la immagini?»

Machiavelli fece roteare lo sguardo e scosse la testolina.

Ad Alberto però pareva proprio di vedersi: si sarebbe caricato Luca e Giulia sul retro e sarebbe sfrecciato per tutta la costiera, viaggiando da un capo all’altro dell’Italia. Sia in lungo sia in largo. E ritorno. E poi avrebbe fatto lo stesso con i restanti Paesi del mondo, tutti quanti, da un polo all’altro del pianeta. Ma non c’era fretta. Gli piaceva l’idea di potersi comprare una nuova Vespa attingendo dal fondo delle sue tasche, di guadagnarsela con il suo sudore, e di guidarla con mani incallite dal lavoro. Non si sentiva più soffocato da quell’impeto di impazienza che una volta era solito annodargli lo stomaco e farlo rabbrividire al pensiero di poter fuggire dalla Riviera, di staccarsi dall’immagine del mare e di tutte le sue spiagge e di tutti i suoi scogli. Ormai non aveva più alcun bisogno di scappare.

Alberto si rimise dritto sulla strada, riallineò la bici al carretto, si diede la spinta per riprendere la corsa, ma un’altra luce proveniente dal garage esterno dell’officina lo fece fermare. Rimbalzò indietro, sballottato dalla frenata improvvisa, e allungò lo sguardo verso il bagliore color verde bottiglia che aveva rapito il suo sguardo.

Di nuovo si ritrovò senza fiato in bocca, con un palpito di emozione guizzato fino in gola. «Ooh.» Sul retro, protetta dall’ombra di una tettoia in lamine d’acciaio, era parcheggiata un’Ape. Quella, assieme ai resti rottamati di una Fiat Seicento su cui stavano lavorando dallo scorso autunno e a cui non avevano ancora rimontato il portellone che giaceva appoggiato al muretto. «Ma quella...» Una nuova fiaccola si accese e si dibatté nei suoi pensieri, illuminando un’idea ancor più viva, tangibile e reale della Vespa parcheggiata in giardino. Un furgoncino Ape. Un’Ape carica del loro pesce, un’Ape che scorrazza per le strade di Portorosso terminando il doppio delle consegne in metà del tempo. Una prospettiva niente male. «Uhm.» Quella sì che era un’idea che non poteva aspettare di annunciare a Massimo. Alberto batté una soffice carezza sulla testolina di Machiavelli, «Reggiti forte, si torna a casa», rimise in moto le gambe e fece volare la bici fino a casa.

Arrivato in cortile, richiuse il portone alle sue spalle, parcheggiò la bici nella rimessa, raccolse Machiavelli per aiutarlo a scendere, e lo depose sul muretto dove Caligola si era accomodato ad abbuffarsi della lattuga e dei gusci di gamberi di cui la sua ciotola era piena. Alberto lo salutò strofinandogli una carezza sul guscio. «Pranzi già, testolina?»

In tutta risposta, Caligola sollevò il muso, ruminò il boccone verde, facendo cadere qualche briciola di gambero secco, e guardò storto Machiavelli che aveva osato avvicinarsi al suo pranzo. Allungò una zampa, spostò la ciotola, e continuò a mangiare in pace, lontano da Machiavelli e dai suoi occhi ingolositi dal profumo dei gamberi.

Massimo finì di districare una delle reti utilizzate quella mattina, la trascinò su una delle griglie, lasciando che gocciolasse e che si asciugasse al sole. Si voltò udendo la svelta camminata di Alberto, lo inquadrò con la coda dell’occhio, mentre aveva ancora la mano impegnata con le funi. «Com’è andato il giro?»

Alberto impennò entrambi i pollici. «Tutto fatto e sistemato.» Si spolverò le mani sbiancate dalla frizione del manubrio, di quella gomma ruvida e consumata. «Però ho le ruote un po’ sgonfie. In salita non riuscivo a filare come al solito. Sai dov’è la pompa della bici?»

Massimo indicò dietro di sé con un’alzata di mento. «In cantina, dietro il secchio dei rastrelli. Fa’ attenzione che non ti vengano addosso mentre li sposti.»

«Ci andrò piano.» Alberto allungò un passo ma lo arrestò a mezz’aria, fulminato da un pensiero che stava quasi per sfuggirgli dalle orecchie. «Oh, ehi, senti...» Fece marcia indietro e sfoderò un largo sorriso di anticipazione. «Stavo proprio pensando a un’idea geniale.»

Massimo finì di arrotolare la rete messa a stendere il giorno prima. Si voltò e corrugò un sopracciglio sotto cui brillò un luccichio di sospetto. «Geniale?» Sapeva che non c’era da star tranquilli quando Alberto se ne usciva con qualche idea geniale.

Ma lui annuì, tutto contento. «Sì, sai, prima sono passato davanti all’officina del meccanico...» Indicò alle sue spalle con un colpo di pollice. «E ho visto che è arrivato in negozio uno di quei modelli di furgoncino, un’Ape, e che quindi potremmo accaparrarcela noi per accelerare le consegne.»

«Uhm.» Massimo passò a occuparsi dei secchi svuotati delle sardine appena vendute. Li impilò uno sull’altro. «Accelerare le consegne?»

«Già» fece Alberto. «Perché no? Sarebbe una specie di investimento, e nemmeno troppo azzardato, dato che ora abbiamo più consegne da fare, più commissioni, e che c’è molto più pesce da trasportare.»

«Uhm» si ripeté il borbottio di Massimo. «E poi chi è che dovrebbe guidare l’Ape?»

Questa era la domanda che Alberto stava aspettando.

Alberto si infilò i pollici sotto la cinta e si dondolò avanti e indietro, tacco, punta, tacco, punta, tirando il petto all’infuori come un galletto che sfila in parata davanti all’intero pollaio. «Io, che domande.»

Machiavelli, lì vicino, lo guardò storto, già rabbrividendo alla prospettiva di dover essere scarrozzato in giro da Alberto alla guida dell’Ape. Persino Caligola sollevò il muso dalla ciotola, lasciando un boccone a metà, per assecondare quell’espressione di perplessità.

Alberto tornò con i talloni a terra e inviò un’occhiata d’intesa a Machiavelli. «Eddai, dammi un po’ di fiducia, almeno tu. Lo sai che guido bene.»

Machiavelli corrugò il muso e soffiò un basso mugugno che gli fece vibrare i baffi.

Massimo, ancora chino sui secchi, scosse la testa, sforzandosi di non rendere palese un mezzo sorriso che aveva un che di accattivato. «Per ora pensa a gonfiare le ruote della bici» gli disse, «e poi si vedrà.»

Alberto batté un saluto sulla fronte, «Agli ordini», e allungò il passo verso la cantina dove tenevano la pompa della bicicletta e gli attrezzi da giardinaggio. Prima le cose importanti.

«Ah, aspetta» lo tornò a fermare Massimo. «Prima che scendi in cantina...» Si appoggiò sul ginocchio e indicò il retro di casa con un’alzata di mento. «È arrivata posta per te, sul tavolo della cucina.»

Alberto sgranò lo sguardo. «Per me?» Rimbalzò all’indietro. Gli occhi luccicarono di emozione e il cuore tambureggiò di impazienza, come quando aveva inseguito le sardine. «Da Genova?»

«Può darsi.» Massimo sistemò il basco fra i capelli e nascose quello sguardo che non volle tradire la sorpresa che lo attendeva. «Va’ a darci un’occhiata, così controlli anche l’acqua sul fuoco. Se bolle abbassa il fornello, ché qua fuori c’è ancora lavoro da fare.»

Alberto non ebbe bisogno di farselo ripetere due volte. Si precipitò in cucina e trovò la busta sul tavolo, affianco al cestello dell’aglio e dei mazzetti di origano che l’erbaiolo gli aveva regalato quella stessa mattina dopo il primo giro di consegne. La strinse fra le dita. Riconobbe i francobolli, i timbri postali, l’indirizzo scritto con la inconfondibile calligrafia di Luca.

Luca!

La giornata divenne ancora più tiepida e luminosa di quanto non fosse già prima.

Alberto controllò i fornelli e alzò il coperchio della pentola. L’acqua non bolliva ancora, ma lui abbassò comunque la fiamma, dato che Massimo non aveva finito con il lavoro in giardino. Corse su per le scale grattando la chiusura della busta, arrivò in cima ai gradini ed era già riuscito a scartare l’involucro, impaziente di estrarre la lettera e di leggerla nel silenzio della camera da letto, dove sarebbe stato ancor più facile evocare la voce di Luca, concentrarsi sulla sua presenza che tornava a farsi ogni giorno più vicina e reale.

Entrò in camera spingendo piano la porta, attento a non far cigolare i cardini, e si mise in punta di piedi per infilarsi con discrezione nella sua quiete, senza disturbare gli ospiti.

Perla socchiuse gli occhi e sollevò il muso ancora un po’ assonnato. Riconobbe la presenza di Alberto, stiracchiò le zampe fra le pieghe della coperta in cui ronfava assieme ai cuccioli, e ruggì uno sbadiglio, tornando ad arricciare la coda attorno ai micetti che stava allattando. Uno di loro emise un pigolio di protesta, tastò attorno a sé con il musetto, urtò un nodo di vimini della cesta, s’infilò sotto la zampa del fratellino che gli era affianco, e si rimise a fare la pappa.

Alberto passò vicino alla cuccia e volse loro un’occhiata d’obbligo, assicurandosi che i micetti stessero bene, tutti vispi e affamati, più grandi ogni giorno che passava. Piegò il ginocchio sul secondo letto che occupava la stanza – il letto che lui stesso si era ingegnato a costruire nel corso dell’inverno – e salì in piedi per raggiungere una delle mensole vicine al guardaroba. La rete cigolò e una delle gambe di legno emise un lungo scricchiolio, ma Alberto non si allarmò. Non aveva ancora finito di lavorarci, e quell’ultimo letto rimaneva comunque il più solido dei sette tentativi precedenti che aveva costruito nel corso della stagione fredda.

I primi tentativi avevano fruttato letti dalle gambe traballanti, letti troppo stretti per potervi incastrare il materasso, letti più alti verso la testa che verso i piedi, letti che si frantumavano in due non appena Alberto provava a sedersi sopra. Letti buoni solo come legna da ardere. Dopo innumerevoli schegge estratte dalle mani, dopo aver trascorso l’inverno a bendarsi le dita ammaccate dai colpi storti di martello, e dopo aver sfaticato per qualche consegna in più in modo da potersi permettere di acquistare altre travi, altri chiodi e altra vernice, Alberto era fiducioso nei riguardi dell’ultimo risultato.

In piedi sul materasso, allungò il braccio per tastare il fondo della mensola. Fece attenzione a non urtare la Coppa della Portorosso Cup, a non ribaltare la pigna di libri lasciati lì da Giulia la scorsa estate, e raggiunse la sua scatolina dei tesori. Un vecchio contenitore di alluminio bacato che una volta conteneva lenze e ami da pesca e che ora Alberto aveva riempito con le lettere ricevute da Genova e con le fotografie spedite da Luca e Giulia. Foto del molo e delle navi da carico, della stazione dei treni, della facciata della loro scuola, del lungomare costeggiato da una distesa di ciottoli color piombo, del centro città gremito di vetrine appartenenti a botteghe e osterie, delle luminarie che avevano appeso durante il Natale, e anche foto colorate dalle decorazioni di Carnevale, quando le nevicate di coriandoli e stelle filanti avevano riempito le strade e le piazze.

Alberto si mise seduto di nuovo senza badare a un secondo cigolio proveniente dalla rete del letto. Spostò le foto, mise ordine fra le lettere per far spazio alla busta nuova, e si appuntò mentalmente di procurarsi una scatola più grande.

Uno dei micetti si separò dai fratellini, risalì il ventre color fumo di Perla, sollevò il musetto e ruggì un miagolio in direzione di Alberto. «Miau!»

Alberto incontrò i suoi occhietti, due spicchi gialli che si stavano aprendo ogni giorno di più, e gli sorrise. «Hai già finito la pappa?»

Il gattino arricciò una smorfia che gli stropicciò il musetto maculato, tale e quale a quello di Machiavelli, e annusò l’aria. Miagolò di nuovo. Si arrampicò ancor più in alto, fino a sbatacchiare la coda sul muso appisolato di Perla, e distese una zampina verso Alberto.

Alberto lo avvolse fra le mani e lo sollevò, nasino contro naso. «Eccolo qui, il mio preferito. Cresci proprio come un tigrotto.» Lo fece acciambellare fra le sue gambe incrociate, dove poteva coccolarselo godendosi le sue fusa, e finalmente spiegò la lettera appena arrivata.

 

Caro Alberto...

 

Sorrise alla calligrafia di Luca, provando la stessa soffice fitta di gioia che gli aveva stretto il cuore quando aveva trovato la busta ad attenderlo sul tavolo. Per fortuna lesse buone notizie. Luca e Giulia sarebbero arrivati a Portorosso con una settimana di ritardo, per via degli esami, ma lo avrebbero aspettato alla stazione, ed entrambi non vedevano l’ora di godersi assieme a lui il resto dell’estate.

Attratto dal sole più luminoso di mezzogiorno, dai cerchi bianchi che battevano sul vetro della finestra, Alberto guardò fuori dalla camera, e la sua vista incontrò il profilo rigoglioso dell’albero che stava ricominciando a gettar foglie, dopo aver trascorso l’inverno spoglio e ingrigito dal freddo. Le nuove gemme si distribuivano fra i rami come filari di smeraldi, ancora piccole ma già pronte a schiudersi e ad accogliere il calore dell’estate. La brezza le agitò, frastagliando un reticolo di sfumature verdi e gialle.

Alberto meditò sul fatto che quello stesso pomeriggio avrebbe potuto srotolare le luminarie, dopo pranzo, prima di andare ad aiutare Massimo in pescheria. Le avrebbe intrecciate ai rami assicurandosi che ogni lampadina facesse luce, rimpiazzando quelle fulminate. Poi avrebbe potato i rami secchi. Avrebbe dato una ripulita alla piattaforma del rifugio, magari stendendo una mano di vernice per rinforzare le assi, e avrebbe anche sostituito i chiodi arrugginiti con quelli nuovi.

Si strinse la lettera al petto, come un piccolo tesoro, sentendola battere come un secondo cuore, e accasciò la schiena sul materasso. Strofinò una serie di morbide carezze sulla pelliccia del cucciolo che stava già imparando a fare le fusa, a differenza di quel marpione di suo padre, e sorrise beato, provando lo stesso senso di appagamento che lo saziava sempre dopo un’abbuffata di pasta.

L’estate era a un tiro di schioppo, viva e tangibile come la lettera che custodiva fra le mani. La prima estate che avrebbe trascorso completamente assieme a Luca e Giulia, senza alcun desiderio di scappare, senza alcun bisogno di nascondersi. La prima vera estate libera dal Regno del Terrore.

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Capitolo 3
*** 3 ***


3

 

 

Luca aprì e strinse i pugni sulle cosce, stropicciò le dita grattando le unghie sulla stoffa dei pantaloni, e sfregò più volte i palmi per asciugarli dal sudore, prima che la sua pelle potesse infradiciarsi e cominciare a mutare. Agitò i piedi sotto il sedile del treno, ma nemmeno il costante dondolio delle gambe riuscì a sfogare il bruciore che gli correva nel sangue. Si alzò per sottrarsi almeno al formicolio di nervosismo e agitazione che scottava in fondo alla schiena. Non ne poteva più di starsene seduto. Scavalcò la valigia che aveva già tirato giù dallo scompartimento portabagagli, compì un paio di passi traballanti per attraversare il piccolo corridoio del vagone e affacciarsi ai finestrini da cui giungeva la gran parte della luce.

Si mise in piedi davanti ai sedili che non erano occupati e posò le mani sul vetro, affacciandosi. Socchiuse gli occhi per resistere alla luce del sole che batteva direttamente sulla finestra intiepidita dal suo calore, per non rimanere accecato dal luccicare dei raggi riflessi dalle onde del mare color turchese, distribuiti nell’acqua frastagliata lungo la costa che arrivava subito dopo la caduta a strapiombo del promontorio su cui il loro treno viaggiava.

Mancava ancora una fermata, l’uscita a Portorosso era il capolinea. Luca però aveva già preparato la sua valigia, aveva allacciato la giacca attorno al manico perché sentiva troppo caldo per indossarla, e si era già portato nel corridoio per essere il primo a saltare sulla piattaforma della stazione dopo l’apertura delle porte, anche se il treno non accennava ancora a rallentare la corsa. Un nodo di tensione gorgogliava in fondo allo stomaco e bruciava a ogni suo respiro, a ogni suo boccheggio: non poteva sopportare di starsene seduto in quelle condizioni.

La gran parte dei passeggeri era scesa alle fermate precedenti, quelle che si distribuivano fra i paeselli della Riviera. Sul treno erano rimaste poche persone, soprattutto bambini come lui e Giulia. Luca si guardò alle spalle per sbirciarli.

Uno dei bimbi, stufo come lui di starsene seduto, andò su e giù per il corridoio, trascinandosi dietro una macchinina di legno legata a uno spago che lui teneva allacciato al polso come un piccolo guinzaglio. Altri erano affacciati alle finestre, ora che il mare si vedeva così bene. Le ginocchia sui sedili, le mani incollate ai vetri, e gli occhioni incantati dalle sfumature blu, bianche e azzurre, che l’acqua assumeva sotto la luce del pomeriggio. Altri erano abbastanza pazienti da sopportare di starsene seduti ai loro posti. Chiacchieravano con le loro voci da pulcini, giocavano battendosi le mani, «con la pipa in bocca, guai a chi la tocca, l’hai toccata proprio…», mentre uno di loro si accontentava di leggere un fumetto in silenzio, tenendo il giornalino aperto sulle ginocchia.

C’era anche qualche adulto. Una coppia anziana stava discutendo, il signore frugava con impazienza fra le borse che teneva raccolte in mezzo ai piedi. «… avevo detto che lo hai riempito troppo», «Invece avremmo potuto prenderne anche qualcuno in più, perché questi li facciamo fuori nel giro di un mese. Anche di meno, se inviti tua sorella a cena come la scorsa volta, quando alla fine ci siamo scolati tutta la bottiglia di Disaronno che sarebbe dovuta durarci fino a Pasqua. Ma scusa, cosa ci costa?», «Costa che è assurdo che torniamo sempre con una borsa in più, come se i soldi mi uscissero dalle orecchie», «Quanto sei tirchio, più invecchi e più peggiori. Per una volta all’anno, poi. Come quella volta a Venezia quando tu insistevi di non…» Ma i loro bagagli non erano molti, considerò Luca. Giusto quelli che sarebbero bastati per far visita alla famiglia, a Genova, per la durata di un fine settimana.

Dai bagagli più gonfi di un signore vestito con un completo estivo proveniva invece un buon profumo di cibo, di pasta fresca, di formaggi stagionati, di salsa di noci, di mostarda, di olio d’oliva, di liquore e di frutta sotto spirito. Era da quando erano partiti da Genova che Luca aveva riconosciuto l’odore salato e fortissimo del pecorino che poi li aveva accompagnati durante tutto il viaggio. Era una pratica comune: pellegrinaggi di cibo in cui ci si riforniva nelle grandi città per poi tirare avanti fino all’anno successivo senza doversi accontentare di quel che vendevano le piccole botteghe di paese.

Nonostante osservare le persone attorno a sé fosse un buon modo per distarsi, Luca proprio non riuscì a scrollarsi di dosso i brividi d’ansia arrampicati sottopelle. Nemmeno quelle scene così intime e familiari riuscirono a donargli un po’ di tranquillità, a farlo sentire partecipe di quel cerchio che si stringeva man mano che il treno si avvicinava a Portorosso.

Tornò a guardare fuori. Salì sulle punte dei piedi, premette una guancia sul vetro rigato, e aguzzò la vista verso la locomotiva, verso il punto del treno più vicino alla loro destinazione.

Il suo sguardo incontrò solo i binari, lo strascico di vapore che si dissolveva lungo gli altri vagoni. Alla loro sinistra le pareti di roccia, alla loro destra lo strapiombo che cadeva sulla spiaggia di arbusti e ciottoli, le curve dei campi su cui si coltivavano i filari di vigne. Il resto dell’orizzonte era la distesa di mare abbagliato dal riflesso del sole, il cerchio volante disegnato da qualche gabbiano, e le punte di scoglio distribuite fra le onde.

Portorosso non si vedeva. Non erano ancora arrivati. E se non fossero arrivati mai più?

Stai calmo, Luca. Luca strinse le dita sul vetro e dovette deglutire per riprendere controllo del suo respiro soffocato. L’interno della bocca era secco e amaro, la lingua pastosa e il mento tremolante. Stai calmo e vedrai che prima o poi ci arrivi. Non si è mai sentito di un treno che non arriva da nessuna parte.

Però quello del viaggio in treno senza fine era stato il suo incubo ricorrente durante le ultime settimane.

Luca sognava di prendere il treno e di non raggiungere mai la stazione giusta, di rimanere imprigionato in una corsa senza fine. Oppure sognava di raggiungere Portorosso, di arrivare a leggerne l’insegna al di là dei finestrini, ma di non riuscire a scendere in tempo, ritrovandosi a sbattere le mani sui portelloni chiusi. Oppure ancora di non riuscire a prenderlo proprio, il treno. Di correre lungo la piattaforma della stazione di Genova, con le gambe sempre più pesanti, i piedi incollati al cemento liquefatto, e di vedere la locomotiva partire, fischiare e seppellirlo sotto il vapore, separandolo per sempre dalla sua famiglia.

E l’ansia di quei sogni lo accompagnava anche al risveglio, collosa e fastidiosa come una patina di sudore impossibile da sciacquare via dalla pelle. Ancora adesso gli sembrava di star continuando a sognare, di essere sommerso dalla nebbia dei suoi incubi.

Se solo ci fosse un modo per assicurarsi di essere sveglio per davvero…

«Si vede già la stazione?» Giulia gli venne vicino, si allacciò la giacca attorno alle spalle, senza infilarvi le maniche, tenendola come una piccola mantella, e quella sua comparsa improvvisa fece sobbalzare Luca, fulminando i suoi nervi già abbastanza tesi.

Luca sospirò a fondo, riguadagnò il controllo, scosse il capo. «No, non ancora.» Scollò le mani dal vetro e si appoggiò di schiena per resistere al leggero dondolio del vagone. «Ma non manca molto, no? Cioè…» Si strofinò il braccio, affondò le unghie solcando rossi graffi sulla pelle. «Non dovrebbe. Credo. Quanto tempo ci mette per l’intera tratta? Non mi ricordo, per farla da Portorosso a Genova quanto tempo ci abbiamo impiegato? Oppure il tragitto è diverso? Non è diverso, non è vero?» Scoccò a Giulia un’occhiata allarmata. «Oppure sì?»

Giulia inarcò un sopracciglio. Riconobbe quella foga, l’ombra dell’ansia a solcargli il viso. «Luca…»

«Ma sei proprio sicura che stiamo andando nella direzione giusta?» Luca tornò a girarsi, a guardare fuori, a fare su e giù dalle punte dei piedi e a stiracchiare lo sguardo verso le rotaie appena sorpassate. «Perché non mi ricordo proprio di questo tratto di rotaie dal viaggio di andata. E nemmeno di quella galleria di roccia che abbiamo sorpassato mezz’ora fa.»

«Luca…»

«Oppure è perché stiamo andando nel verso contrario? È solo quello, vero? Non è perché ci siamo persi, o perché abbiamo preso il treno sbagliato. Insomma…» Si strinse una mano fra i capelli, fino a farsi male, e rosicchiò le unghie delle dita libere, senza riuscire a placare il bruciore saettato in ogni fibra del corpo. «Ce lo avrebbero detto se questo fosse il treno sbagliato, il controllore ci avrebbe avvisati dopo aver timbrato i biglietti, e noi…»

«Luca!» A Giulia venne da ridere, nonostante l’esasperazione. «Calmati.» Posò la mano sul braccio di Luca, senza stringere. Ormai sapeva come approcciarsi alle sue insicurezze, ai tremori delle sue paure. «Va tutto bene.» Massaggiò il punto dove Luca si era graffiato. Un gesto di premura. «Siamo sul treno giusto, siamo sui binari giusti, e stiamo andando nella direzione giusta. Non c’è nulla da preoccuparsi.»

Ma Luca strinse i denti sull’unghia dell’indice che ancora stava smangiucchiando, rosicchiò fino a sentire il sapore del sangue pungergli la lingua. Stropicciò un’espressione ancora persa nella nebbia d’indecisione. «Sicura?»

Giulia annuì. «Sicura sicurissima.»

«Non lo stai dicendo solo per farmi piacere, no?»

«Ti ho forse mai raccontato bugie, io?»

«N-no.» Luca respirò a fondo, sciogliendo il peso sul petto. «No, mai.» Questo riuscì a calmarlo. Almeno un po’.

Due dei bambini che occupavano il vagone, quelli che prima giocavano a battere le mani, attraversarono il corridoio, «Ma quanto manca ancora?», «Poco, ti ho detto», «Poco quanto? Uffa, sono stufo di stare nel treno, voglio andare dalla nonna», «Fra poco scendiamo, lo giuro», e costrinsero Luca a stare più vicino alla parete per non finire urtato dai loro saltelli.

La distesa di mare era una striscia senza fine. Quella vista li aveva sempre accompagnati, a volte a tratti, fin da quando erano partiti da Genova. Però Luca si consolò rendendosi conto che stava cominciando a riconoscere con più convinzione l’ambiente circostante, la forma delle pareti di roccia, i raggruppamenti degli scogli, il colore del cielo striato da nubi color rosa confetto, le frastagliature della costa, le sfumature che assumeva il mare dove l’acqua era meno profonda, di un turchese trasparente come cristallo.

Non riuscì a scollare lo sguardo da fuori, ansioso di veder comparire l’insegna con il nome del paese, la piattaforma della stazione, ma non solo. Luca sapeva quello che i suoi occhi stavano cercando, la sola immagine a cui volevano aggrapparsi. Il promontorio dell’isola, il verde dell’albero, l’ombra della torre. Era in cerca del primo ricordo di Alberto, di quell’estate che era realmente trascorsa come un sogno a occhi aperti.

Il pensiero di Alberto, così fugace eppure così intenso, come un battito del suo stesso cuore, lo ricondusse a un’altra paura, a un’altra ombra. «E se Alberto non ci fosse?»

Giulia fece uno scatto col capo, perplessa. «Cosa?»

Luca si strinse nelle spalle, stropicciò un angolo della camicia fra le dita che stavano tornando bollenti e sudaticce. Spostò il peso da un piede all’altro nel tentativo di sfuggire a quel disagio che gli stava aggrovigliando lo stomaco come un serpente marino. «E se Alberto mi avesse dimenticato?» Un tremore risalì la schiena, lo fece rabbrividire di freddo nonostante il caldo afoso che galleggiava nel vagone. «E se mi trovasse così cambiato da non riconoscermi, e da non voler più essere mio amico?»

Giulia inclinò il capo di lato e strabuzzò gli occhi come quando inciampava in un problema di matematica particolarmente difficile. «Ma cosa dici? Certo che Alberto continuerà a essere tuo amico. E poi vi siete scritti per tutto l’inverno, e ci sono state anche le telefonate.» Sorrise, senza malizia, e gli diede un colpetto d’incoraggiamento sulla spalla. «Se avesse voluto dimenticarti lo avrebbe già fatto.»

Luca sbiancò di colpo, sentendosi ghiacciare le guance. «Che cosa

«Ah!» Anche Giulia trasalì e si tappò la bocca. «C-cioè, no, scusa, non intendevo…» Sventolò la mano per scacciare quelle parole. «Era solo una battuta, Luca, una battuta. Non hai nulla da preoccuparti, sta’ tranquillo.» Si tranquillizzò pure lei. «Fidati, Alberto non potrebbe mai dimenticarsi di te. È proprio grazie alla vostra amicizia che avete guadagnato il coraggio di cambiare le vostre vite. Una cosa così importante non può essere dimenticata nel giro di un solo anno, ti pare?»

«Ma è comunque diverso rispetto all’anno scorso.» Luca guardò in basso, strofinò un piede sulla caviglia. «Hai ragione: le nostre vite ora sono diverse, si sono divise. Noi ci siamo divisi.»

«Esteriormente.» Giulia si batté la mano sul cuore. «Ma dentro siete ancora perfettamente uniti. È per questo che tu stai facendo ritorno a Portorosso.»

Luca scosse il capo. Non era facile farsi capire. «L’anno scorso, io ero importante per Alberto e lui era importante per me perché quassù in superficie noi non avevamo nulla su cui contare se non il sostegno reciproco. L’amicizia di Alberto è stata importante perché ha permesso a me di vincere le mie paure, di prendere il coraggio di staccarmi dal mare e di esplorare anche il resto del mondo, come ho sempre desiderato. E la mia amicizia è stata importante per Alberto perché lo ha salvato dalla solitudine e da…» Ebbe una breve esitazione, gli mancò il fiato. In quel rapido battito di ciglia rivisse quella notte, Alberto rannicchiato in cima alla torre, la sua schiena ricurva, gli occhi colmi di un dolore liquido e tangibile che traballava sotto la luce delle fiamme. Luca deglutì per mandare giù quel groppo amaro e soffocante. «Da tutto quello che ha passato prima di incontrare me.» Guardò alle sue spalle, verso le valigie che lui e Giulia avevano lasciato fra i sedili. «Ma adesso io ho la scuola, ho la mia vita a Genova. E lui ha la sua vita qui a Portorosso assieme a tuo padre. Ora che non sono più importante per lui come lo ero un anno fa, Alberto vorrà lo stesso essere mio amico?»

Lo sguardo di Giulia si rasserenò, comprese la natura di quel timore. E capì anche come fare per scacciarlo. «Per te…» Si fece più vicina a Luca. Le loro spalle si sfiorarono. «Alberto è ancora importante? Tieni ancora alla sua amicizia?»

«Sì!» Luca rispose senza nemmeno aver bisogno di pensarci. Dimenticare Alberto non era nemmeno concepibile. «Sì, ovvio che sì» esclamò, con gli occhioni che luccicavano di determinazione. «Più di qualsiasi altra cosa.»

Giulia annuì. «Allora sono sicura che è così anche per lui. Ascolta, io non so come potesse essere la vostra vita prima di salire in superficie, ma so che tu e Alberto non siete mica diventati amici per…» Gesticolò. «Un puro e freddo interesse, se è così che la pensi. Siete diventati amici perché è così che si trovano gli amici migliori: un po’ per caso, un po’ per destino.» La sua spalla sostenne quella di Luca, come lo aveva sempre sostenuto durante quei mesi a Genova. Giulia gli strizzò un occhiolino d’intesa. «E un po’ perché gli Sfigati come noi sanno sempre come raggiungersi e soccorrersi a vicenda.»

Luca rise alla battuta, colmo di gratitudine. «Se lo dici tu ci credo.» Ma non lo saprò con sicurezza fino a che non rivedrò Alberto con i miei occhi.

«Ma certo che è come dico io.» Giulia si batté la mano sul petto rigonfio. «I miei presentimenti non falliscono mai. Hanno forse mai fallito?»

«No.» Luca fu sincero. «Be’, tranne forse che per…» E si coprì la bocca per nascondere una calda e irrefrenabile risatina.

Giulia colse al volo quel pensiero, arrossì quasi quanto i suoi capelli. Si prese il capo fra i palmi per frenare i ricordi più stridenti che ancora le bruciavano addosso come uno schiaffo appena stampato sulla guancia. «Aargh, no, non dirlo. Lo so, lo so.» Mise le mani avanti come per giustificarsi. «Credevo anch’io che scegliere la Puglia come tesina finale di Geografia sarebbe stata una mossa geniale, ci ho creduto con tutta me stessa.»

«Non te la prendere troppo» la consolò Luca. «Un Sette in Geografia non ti ha di certo rovinato la media. A me poi è piaciuta tanto la tua tesina.» Fu sincero a riguardo. «Era appassionante.»

Giulia sorrise, riacquistò il buonumore. «Ma mai quanto la tua, Signor Lombardia.» Andò a punzecchiarlo con una serie di gomitate. «O da adesso in poi dovrei chiamarti Signor Nove in Geografia

Luca arrossì com’era arrossita lei poco prima, con un sorrisino a tremolargli fra le labbra incurvate. Era arrossito di imbarazzo e anche un poco di orgoglio. Effettivamente, il Nove in Geografia era stata una bella sorpresa. Se non altro era servito a compensare il Sei tirato dell’esame di Matematica.

«Portorosso!»

L’esclamazione del controllore fece trasalire tutti e due, fece esplodere quella bolla che li aveva tenuti isolati dal resto del vagone. Tornarono così anche le voci dei bambini, la loro corsa che li portò con le manine e i visetti appiccicati ai finestrini, e i passi della coppia anziana che si avviò verso l’uscita assieme al carico di bagagli.

Il controllore sorpassò Luca e Giulia. «Capolinea!» esclamò di nuovo. «Capolinea di Portorosso, ultima fermata.» Aprì lo sportello e passò da un vagone all’altro. «Portorosso!»

Una gioia esplosiva e irrefrenabile si arrampicò dai piedi di Luca, risalì le gambe come una indolore scarica elettrica, e si raccolse nel petto, lì dove il cuore accelerò il battito, galoppando rapido. Luca trattenne il fiato. Il respiro singhiozzò in fondo alla gola, come in un principio di pianto. Il flusso di sangue bruciò attraverso le guance imporporate, la bocca si fece ferrosa e impastata.

Portorosso. Siamo arrivati.

Si girò di colpo, incespicò e colpì il ginocchio sul sedile, senza nemmeno preoccuparsi della botta di dolore, e tornò ad affacciarsi al finestrino. Sgranò gli occhi scintillanti e finalmente la vide: la loro isola, la torre diroccata, i raggi di sole che battevano sul suo profilo, rendendolo piatto e scuro, la spuma delle onde che si accavallavano rovesciandosi sulla spiaggia di ciottoli, la folta chioma dell’albero che era un pugno di verde in mezzo a tutto quell’azzurro.

Fra le labbra di Luca sbocciò un largo sorriso caldo proprio come quel sole estivo che stava per accoglierli.

Alberto.

Seppe di essere a casa.

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Capitolo 4
*** 4 ***


4

 

 

Luca fu il primo del suo vagone a saltare giù dal treno e ad atterrare sulla piattaforma della stazione. Per riprendere equilibrio, dovette incrociare i piedi stando sulle punte, dato che la foga della rincorsa lo aveva sbilanciato, e stringere la presa sul manico della valigia, aggrappandosi così a un peso solido che gli impedì di urtare gli altri passeggeri o di ruzzolare a terra. Si guardò attorno, girando più volte su se stesso. La locomotiva si stava raffreddando, e il vapore lo circondò formando una bassa nebbiolina color latte.

Ombre estranee si spostarono attorno a lui, composero i profili dei passeggeri con cui aveva viaggiato e si delinearono nei volti delle persone che erano in attesa lì al capolinea di Portorosso, fermi davanti ai binari.

I bambini balzarono giù dal treno così come era balzato giù Luca. Corsero dagli adulti che li aspettavano, inseguiti dallo scalpiccio dei passi sul cemento e facendo rimbalzare gli zainetti sulle schiene o le valige contro le ginocchia. «Nonna, nonna!» Piccole braccia sventolarono in mezzo alla nebbiolina di vapore. «Nonna, sono qui!»

I nonni si inginocchiarono per spalancare le braccia e accogliere il loro ritorno. «Gioia mia.» Carezze strofinarono i capelli, baci schioccarono sulle guance rosse di gioia, gli occhi luccicarono di commozione. «Gioia mia bella.»

Altre voci più basse popolarono la stazione dei treni. Altre persone si accostarono ai passeggeri appena smontati dai vagoni, mani si tesero e sorrisi si aprirono per condividere un saluto. «Eccoti.» Un uomo si approcciò a una ragazza, le schioccò due baci sulle guance, sorridendole, e raccolse il manico della sua valigia. «Siete arrivati in ritardo. Com’è andato il viaggio?»

Lei si fece aria al volto, massaggiò la spalla. «Un po’ stancante.» Si sbottonò le prime aperture del cappotto, prese a braccetto l’uomo che l’aveva accolta, e sventolò i capelli dietro la schiena. «Uff, non vedo l’ora di togliermi le scarpe. E Marta dov’è?»

«A casa che ci aspetta, le ho detto che non valeva la pena venire qua tutti e due. In compenso avrà già messo su il caffè. Sapessi cosa…»

Davanti a Luca scese pure l’uomo che aveva viaggiato con i bagagli stracolmi di pasta, formaggi e liquori. Una delle borse lo fece inciampare. Uno degli altri passeggeri, sceso immediatamente dietro di lui, lo aiutò sostenendo l’altro manico della valigia. «Oh, caspita, grazie» gli fece l’uomo. «Grazie mille.»

«Si figuri.» Il passeggero che l’aveva aiutato indicò il bagaglio più grosso con un cenno del mento, senza mollare la presa. «Deve pesare un quintale. In che direzione va?»

Per Luca fu spontaneo porsi la stessa domanda. E io in che direzione devo andare? Dov’è che devo guardare? Cos’è che sto cercando?

Si guardò ancora attorno, compì qualche passetto, si alzò sulle punte dei piedi fino a sentire le caviglie bruciare, e aguzzò lo sguardo in mezzo al vapore che si stava diradando. Strinse la presa attorno al manico della valigia a cui era ancora aggrappato. Un pezzo di scoglio in mezzo al mare in burrasca. Forti tremori risalirono le mani sudate, le braccia indolenzite, fino a scuotergli le spalle, trasmettendogli lo stesso senso di instabilità di cui si era ritrovato succube stando in piedi sul treno traballante.

L’uomo dei formaggi e dei liquori si allontanò dalla sua vista, portandosi dietro l’orda di bagagli e l’odore di pecorino piccante. Assieme a lui lasciarono la piattaforma della stazione anche due nonni che tenevano le mani strette a quelle dei nipotini saltellanti.

Davanti alla massa della locomotiva, Luca intercettò il movimento di un’ombra scura che si era spostata di profilo, uno sguardo che si era voltato, una presenza che vibrava in mezzo alle altre e che brillava di una luce propria in mezzo al vapore del treno che la circondava. Lo raggiunse per primo il suo sorriso. Un sorriso spavaldo che Luca conosceva bene. Due occhi del verde più limpido e splendente catturarono il suo sguardo, simili a un lumino che ti raggiunge e che ti guida nell’oscurità della notte, accogliendoti nella ferma sicurezza del suo riverbero.

La mente di Luca si svuotò, divenne uno spazio bianco. Un tuffo al cuore gli bloccò il respiro, sprofondando fino allo stomaco. Una scossa calda e per nulla dolorosa risalì il corpo e batté un palpito di luce che cancellò il resto dell’ambiente, i rumori della stazione, il fischio di raffreddamento della locomotiva, i passi delle persone sulla banchina della piattaforma. Rimase il verde di quegli occhi, il calore di quello sguardo che stava aspettando solo lui.

Alberto sfilò una delle mani dalla tasca, la sollevò e sventolò un saluto, chiamandolo a sé e accompagnando quel gesto con uno dei suoi sorrisi tanto sbruffoni quanto amabili.

La vista di Luca si appannò. Gli occhi scottarono, annacquandosi di lacrime, e il groppo di fiato singhiozzato fino alla gola seppe dargli la scossa, la spinta che gli serviva per schiodare i piedi da terra e correre da lui.

Luca mollò il bagaglio che cadde ai suoi piedi con un tonfo. Tunf! Allungò una prima falcata, attraversò uno sbuffo di fumo evaporato dalla frenata del treno, accelerò, libero da ogni peso, e le gambe volarono da sole, conoscevano la strada da percorrere.

Alberto non fece nemmeno in tempo ad aprire le braccia che Luca gli fu subito addosso. Lo travolse con un piccolo rimbalzo, gli gettò attorno al collo l’impeto violento di quell’abbraccio, e si strinse alla sue spalle ossute e spigolose, ma innegabilmente più larghe rispetto all’anno prima.

E la sicurezza e la solidità del suo scoglio era tutta racchiusa lì, in quell’abbraccio, in quel caldo senso di appartenenza che era il suo ponte fra mare e terra, il laccio che anche da Genova era in grado di tenerlo unito a Portorosso, di guidarlo a casa impedendogli di smarrirsi, attirandolo verso quelle scogliere quei fondali a cui una parte del suo cuore sarebbe sempre appartenuta.

Anche Alberto strinse l’abbraccio. Soffiò una risata che vibrò contro il petto di Luca, solleticandogli l’orecchio. «Ehi.» Gli strofinò una carezza fra i capelli.

Luca rise di rimando, ancora incapace di scollarsi, di scendere dalle punte dei piedi, o di mostrarsi in viso. Premette la faccia sulla spalla di Alberto perché i suoi occhi rigonfi erano prossimi alle lacrime, cacciò indietro un singhiozzo di gioia. «Ehi.»

Sul serio, Luca? riecheggiò la voce di Bruno. Dopo tutti questi mesi lontani da lui, non riesci a cavare fuori niente di meglio da dirgli? La scuola non ti ha proprio insegnato nulla?

Ma andava tutto bene. Un momento simile non aveva bisogno di altre parole, tantomeno della voce di Bruno. A Luca bastava l’abbraccio di Alberto, la familiarità del suo profumo – un profumo di salsedine e di vegetazione selvatica a cui si era aggiunta una nota più familiare di legno verniciato, di caffè caldo e zuccherato, di cucina tiepida, e dell’olio di mandorle che Alberto si spalmava sulle mani per ammorbidire la pelle incallita dal lavoro. Era lui. Era lì. Non lo aveva dimenticato.

«Ehi, Luca.»

Finalmente Luca e Alberto riuscirono a scollarsi, si girarono entrambi verso la voce di Giulia che si era infilata nel loro abbraccio come una fresca brezza proveniente dal mare.

Giulia aveva recuperato entrambi i bagagli, sia il suo sia quello che Luca aveva abbandonato sulla piattaforma. Li posò ai suoi piedi, si spolverò le mani e si cinse i fianchi, sorridendo ai due ragazzi. «Hai intenzione di consumarlo, a forza di stringerlo?» Lo disse ridendo. «Non fare l’ingordo e lasciane un po’ anche per me.»

Alberto scivolò fuori dalle braccia di Luca, piegò un piede dietro l’altro, e affondò un inchino goffo ed esagerato, «Madama», ricambiando però il calore del sorriso.

Giulia si coprì la bocca e rise, diventando rossa sulle guance ancor più dei suoi capelli. Saltò oltre i bagagli, facendo svolazzare la gonna attorno alle caviglie, e anche lei si tuffò ad abbracciarlo, proprio come aveva fatto Luca poco prima. «Quanto mi sei mancato.» Lo strinse forte, gli diede un’affettuosa strofinata ai riccioli. «È bello rivederti, Alberto.»

Dopo una singola e brevissima esitazione, Alberto sciolse un sospiro dal petto e accolse Giulia fra le sue braccia. «Mi siete mancati anche voi.» Accostò la guancia alla sua per rivolgerle un sussurro più flebile. «Grazie per aver badato a Luca.»

Luca si asciugò gli occhi umidi e sorrise, incapace proprio di prendersela come avrebbe dovuto. «Guarda che ti sento.»

Alberto rise assieme a Giulia, ma fu qualcos’altro a coglierlo di sorpresa. «Ma…» Le palpò la cima della testa, salì sulle punte dei piedi, tornò giù, e guardò in basso per assicurarsi che anche lei avesse il peso poggiato sulle piante delle scarpe e che non si stesse tenendo alzata. «Ma guardati.» Sgranò gli occhi accesi di stupore. «Sbaglio o sei cresciuta dalla scorsa estate?»

Giulia esibì un sorrisone gonfio d’orgoglio e impennò tre dita davanti al naso di Alberto. «Di ben tre centimetri. Te ne sei accorto, eh? Infatti non mi sono nemmeno dovuta alzare in punta di piedi per stringerti le spalle. Questo inverno mi sono proprio messa d’impegno.» Compì un passetto indietro, si spazzolò la gonna sgualcita dall’impeto della corsa, e si mise a braccia conserte per darsi arie da finto rimprovero. «Tu, piuttosto, com’è che sei cresciuto così poco? Vuoi davvero cedermi il titolo di spilungona del trio?»

Alberto gonfiò il petto e salì sulle punte dei piedi per mostrarsi più alto di quello che era. «Ti piacerebbe, eh? Ma non illuderti: sto solo prendendo la rincorsa per lo slancio finale. Dammi tempo e vedrai.» Stirò il braccio fin sopra la testa e volse il palmo verso il basso. «Diventerò talmente alto da dovermi abbassare ogni volta in cui passerò sotto la soglia di casa.»

«O da tenere alzato Luca in modo che non si perda in mezzo alla folla. Ecco… hai visto, Luca?» Giulia andò a recuperare il suo bagaglio abbandonato e, passando affianco a Luca, gli strizzò l’occhiolino. «Visto che non c’era nessun motivo di preoccuparsi in quel modo?»

Luca si strofinò la nuca e gettò lo sguardo a terra per nascondere il rossore. «Ehm...»

«Preoccuparsi?» fece Alberto, tornando ad abbassare il braccio. «Preoccuparsi di cosa?» Sghignazzò una risata di scherno. «Di rimanere basso per sempre?»

«No» gli rispose Giulia. «Luca era solo preoccupato di non trovarti qui al nostro ritorno. Aveva paura che tu ti fossi dimenticato di lui, riesci a crederci?»

Luca trasalì. «Giulia!»

«Ah.» Ma Alberto ammiccò con le sopracciglia, esibendo un sorriso alquanto soddisfatto. «Ah, davvero?» Andò a stuzzicarlo con una serie di soffici sgomitate. «Ti sono mancato così tanto?»

«B-be’…» Luca girò il capo stirando il collo di lato e facendo di tutto per non guardarlo negli occhi. «Io, ecco…»

«Ma guarda che io gliel’ho detto» si giustificò Giulia. «Gliel’ho detto che non c’è verso che tu ti dimentichi di lui, nemmeno dovessero campare altri mille anni. Ma aspetta…» Giulia esplorò il panorama circostante. Si alzò per davvero in punta di piedi, tornò a terra, compì qualche saltello in mezzo al vapore residuo che si stava raffreddando, e si portò la mano davanti alla fronte come la vedetta di una nave pirata. I suoi occhi si velarono di preoccupazione. «Ma dov’è papà? Non è che è lui quello a essersi dimenticato di noi?»

Quella frase colpì Luca allo stomaco, fu una fitta breve ma intensa. Si accorse solo in quel momento che Massimo non c’era. E nemmeno i suoi genitori. Anche lui aguzzò la vista in mezzo alle poche persone che non avevano ancora lasciato la piattaforma – qualcuno si era fermato a parlare con il capostazione, e un altro signore stava controllando la tabella oraria. Andò in cerca di visi familiari che non riuscì a trovare, sentendosi un po’ in colpa per non averci pensato prima, per aver indirizzato tutto quel desiderio solo su Alberto.

«Macché» sbuffò Alberto. «Lascia perdere, va’.» Si avviò verso l’uscita della stazione facendo strada agli altri due. «È successo un mezzo macello questa mattina. In pratica, la barca di un certo tizio, quello che va sempre a caccia di merluzzi, si è rotta, ha avuto un guasto al motore, o una roba così, e allora Massimo è uscito con lui per non lasciarlo a terra, dato che aveva un carico urgente da consegnare o qualcosa del genere. Mi ha detto che se non sarebbe rientrato in tempo io sarei potuto venirvi a prendere qui in stazione anche da solo, ma è comunque una bella fregatura che non possa essere venuto di persona.» Rivolse a Giulia uno sguardo sinceramente costernato. «Mi ha detto di dirvi che gli è dispiaciuto da morire.»

Giulia sospirò e si posò una mano sul petto, sollevata. «Fa’ niente, fa’ niente.» Diede un colpetto alla sua valigia, per non farsela sfuggire dalla presa scivolosa, e ritrovò il solito sorriso. «Meglio che sia fuori in mare piuttosto che si sia davvero dimenticato, no?»

«Sarà come dici tu. Oh, aspetta, lascia, ci penso io.» Alberto andò a pescare entrambe le valige dalle mani di Giulia e Luca, se le caricò sul groppone e allargò il sorriso. «Oggi sono al vostro servizio per tutto il tragitto fino a casa.»

Giulia rise, stette al gioco. «E con cosa ci condurrai fino a casa, gentile messere?»

Alberto, una volta fuori dalla stazione, di nuovo sprofondò in un inchino per indicare il carretto delle consegne agganciato alla bici. «Il cocchio è pronto, signore maestà.»

Paonazzi di gioia, Luca e Giulia corsero a sistemarsi sul carretto, stringendosi fra le valige che Alberto aveva impilato vicino alle cassette che puzzavano di pesce. Alberto saltò in sella e imboccò la stradina che portava in paese. La ruota destra del carretto traballava un po’, era da sistemare, se non proprio da sostituire, e Luca dovette aggrapparsi al bordo del carretto per non sentirsi sballottare o per non rischiare di finire addosso a Giulia.

Giulia stiracchiò le braccia verso l’alto. «Aah, questo è il più bel ritorno a Portorosso di tutta la mia vita, giuro.» Cercò nel fondo della sua valigia, gettò via le scarpe e calzò i sandali, sgranchendo le punte dei piedi. Sgambettò sotto le frange della gonna che le danzarono attorno come lunghi petali di stoffa. «Non vedo l’ora di togliermi la gonna e poi sarà proprio perfetto. Anzi…» Batté un pugno sul palmo. Gli occhi arsero, animati da un’antica fiamma che non si era mai estinta. «Diventerà super-perfetto quando potrò passare davanti al naso di Ercole e sbraitargli: ah-ah, hai visto, pallone gonfiato che non sei altro? Siamo ancora assieme per fartela pagare una seconda volta! Anzi, sai cosa?» Si girò verso Alberto e indicò verso le diramazioni della stradina. «Va’ subito a cercarlo invece che portarci dritti a casa. Devo proprio togliermi questa soddisfazione.»

Luca inarcò un sopracciglio, scettico ed esitante. «Non andiamo ad attaccar briga quando non ce n’è bisogno.»

«Rilassati, Luca» lo rassicurò Alberto. «Giulia dovrà aspettare ancora un po’ per ridere in faccia al pesce-gatto.»

Giulia corrugò la fronte, accigliandosi. «E perché?»

Alberto accelerò, si alzò sui pedali lasciando libero il sellino, e superò un incrocio deserto, imboccando la stradina in discesa che costeggiava i filari di vigne cariche di grappoli ancora verdi e striminziti. Le pietre del viottolo scricchiolarono sotto le ruote. La bici curvò attorno alle case più alte, sfilò sotto l’ombra dei panni messi a stendere da un balcone all’altro, davanti agli sguardi dei gatti che si leccavano le zampine stando appollaiati sui terrazzi. Li raggiunse un buon profumo di bucato, di pomodori appena germogliati, e di crostata di albicocche appena sfornata.

«Ercole a quanto pare non si farà vivo, quest’anno.» Alberto non sembrò affatto turbato di dover dare quella notizia. «Solo l’altro ieri ho incrociato Guido, durante il giro per le consegne, e mi ha detto che ci siamo risparmiati quel problema. Almeno per quest’anno.»

Giulia sbarrò le palpebre e stropicciò un’espressione inorridita dalla delusione. «Che cosa?» Si tuffò di schiena fra le valige e le cassette del pesce, sgambettò come una bimba che fa i capricci. «Aaargh, non è possibile, proprio quest’anno che abbiamo consolidato l’alleanza fra noi tre, e che potevamo fargliela pagare con uno spirito nuovo, e che potevamo fargli vedere come non c’è verso di separarci, anche se l’inverno lo passiamo distanti.» Sventolò un pugno contro il cielo. «E proprio quest’anno che potevamo dimostrargli come saremo sempre in prima linea a combattere contro la resurrezione del Regno del Terrore.»

Luca invece fu più sollevato di lei, sospirò a fondo sentendo il petto che si svuotava di quel peso inutile. Ercole era uno di quei problemi che era ben lieto di essersi lasciato alle spalle. Ma anche da parte sua nacque un morboso brivido di curiosità nei confronti di quella faccenda. Fu inevitabile. «Ma allora dov’è che starà, se non verrà qui a Portorosso?»

«In una specie di scuola preparatoria» rispose Alberto, «o di colonia estiva, o di istituto, o una specie di collegio.» Scosse il capo. «Proprio non ne ho idea, guarda.»

Giulia ridacchiò, malefica, e si chinò a bisbigliare all’orecchio di Luca. «Magari lo hanno arrestato e questa è solo una scusa.»

«Magari» commentò Alberto. «No, ha solo qualcosa a che fare con il servizio civile obbligatorio, o qualcosa così.»

«Ah-ah!» Giulia rifilò un cazzotto all’aria, ritrovando il suo solito vigore. «Che vi avevo detto? Vi avevo detto che era un vecchiaccio. Pazienza, vorrà dire che ci rifaremo nei prossimi anni.» Diede un colpetto al braccio di Luca. «Non è vero, Luca?»

Luca ci meditò su, smarrendosi con lo sguardo nella distesa di cielo sporcato di nuvole che gli scorreva sopra la testa. «Ercole che fa servizio civile?» Una viscida scia di brividi gli si arrampicò su per la schiena. «Non riesco proprio a immaginarmi qualcosa del genere.»

«Lo distruggeranno, da’ retta a me» disse Giulia.

Alberto annuì. «Un privilegio che sarebbe dovuto spettare solo a noi.»

«Be’…» Luca preferì schivare l’idea. «Ma se possiamo evitare di andare a cercar guai tanto meglio.»

Giulia scosse il capo. «Sei sempre il solito, Luca. Piuttosto…» Lasciò di nuovo dondolare le gambe fuori dal carretto e scoccò ad Alberto un’occhiata più mite, di una curiosità priva di cattive intenzioni. «Hai detto che Guido è già qui? E c’è anche Ciccio?»

«Sì, tutti e due.» Alberto rimase in piedi sui pedali, lasciando che la bici scendesse per un tratto da sola, che passasse l’architrave di pietra dove faceva più fresco perché i raggi del giorno ci battevano solo per poche ore durante la mattina. «Sono entrati a far parte dell’organizzazione della Portorosso Cup, adesso che sono troppo anziani per parteciparvi.»

«Organizzazione?» domandò Luca. «Quindi faranno tipo i giudici?»

«I vigilanti, o una cosa simile» confermò Alberto. «Più che altro, dovranno stare attenti che i bambini non si passino addosso con le bici, o che non si strozzino con la pasta, o che non affoghino durante la nuotata.»

Giulia si stupì. «Ma credevo che questo compito spettasse a te.»

Alberto smise di pedalare, lasciando che la bici percorresse la discesa per conto suo. Rimase di schiena, senza voltarsi. Per quell’istante di silenzio, fra lui e gli altri due si tese solo il cigolio raschiante della catena della bici e il rullare del carretto traballante.

Luca se ne accorse per primo. Tastò quel suo malessere che gli inasprì la bocca come un morso dato a un frutto marcio. «Alberto?»

Alberto si strinse nelle spalle, un gesto di difesa, poi però seppe buttarla sul ridere. «Sì, be’…» Si girò a sorridere a entrambi, mostrando quella sua faccia di finta indifferenza. «Non è che a tutti i genitori piaccia l’idea di far sorvegliare i propri figli a un mostro marino, sapete com’è.»

«Che cosa?» esclamò Giulia. «Ma tu non sei…» Spalancò una mano verso di lui. «Cioè, insomma, anche se sei…» Gesticolò su e giù, come andando in cerca della sua coda, delle sue pinne e delle sue squame. «E credevo…» Indicò dietro di sé, verso la schiera di case che avevano appena sorpassato. «Credevo che ormai ti avessero accettato, che nessuno avesse più paura di te, e che stando con papà tu…»

Alberto scosse la testa. «Quello che la gente dice e quello che la gente fa sono due cose completamente diverse, purtroppo.»

Gli occhi di Giulia si annacquarono, luccicanti di tristezza. «Oh, Alberto…» Un’ombra le increspò la fronte, corrugò quell’espressione che sfoggiava sempre davanti alle ingiustizie. «Mi dispiace, sul serio.» Gli si avvicinò scivolando sulle ginocchia verso la parte interna del carretto. «Se solo potessi…»

«Naah» la anticipò Alberto, senza farne un dramma.«Non c’è bisogno di avvilirsi così. Non me la sono presa, davvero. E poi in paese sto bene, la situazione non è nemmeno lontanamente tragica come te la immagini. Se non altro…» Entrarono in piazza, accolti dal lento dondolio delle onde che si infrangevano morbide e pacifiche fra i piloni del porto, e sfilarono sotto un’ombra. Alberto alzò lo sguardo verso la statua della fontana, sorrise al pescatore che esibiva trionfante i resti del mostro marino strangolato a mani nude. «Posso andare in giro per la strada senza più la costante paura di essere arpionato.»

Giulia rise, anche lei visibilmente sollevata. «Quello non succederà mai più, te lo prometto.»

Quelle parole attraversarono il petto di Luca proprio come un corso d’acqua che scava e che erode lo scoglio, lasciandovi sopra l’eco scrosciante delle onde. Quando Alberto parlava di sé – del mostro marino – parlava di entrambi. Passandoci davanti, Luca contemplò la mole della statua, quella figura massiccia che un po’ gli ricordava quella del Laocoonte che aveva studiato fra le pagine del suo libro di Storia dell’Arte. Un Laocoonte che però ne esce vittorioso, che ha la meglio sulla serpe marina.

L’estate prima, anche la nonna aveva detto qualcosa in proposito. Alcune persone non lo accetteranno mai.”

Alcune persone non avrebbero mai accettato di deporre gli arpioni, ma Luca scoprì che la statua non gli faceva più paura come un tempo, e nemmeno gli zampilli d’acqua che guizzavano sotto il sole come tanti pesciolini argentati. Innocue scaglie di luce da cui non avrebbe mai più dovuto difendersi.

«Oh, guardate» esclamò una voce lì vicina, «è tornata Giulia.»

«C’è anche Luca!»

Alberto rallentò la pedalata, si girarono tutti e tre.

I bambini del paese li salutarono fuori dalla latteria dove si erano fermati a comprare i coni gelato. «Luca, Giulia!» Sventolarono le mani. Il pallone da calcio fra i loro piedi e due delle loro biciclette poggiate sul muro, vicino alle cassette dell’orto-frutta. «Bentornati!»

Giulia sorrise di rimando. «Ehiii!» Si sporse e si sbracciò per salutarli. «Siamo tornati!»

Luca si fece cogliere da un’irrazionale vampata di timidezza. «C…» Sventolò piano la mano, abbozzò un sorriso ancora cauto e incerto. «Ciao.»

Una delle bambine mostrò il pallone, facendolo rimbalzare sotto la punta del piede. «Stasera venite a giocare con noi?»

«Se viene anche Alberto facciamo quattro contro quattro.»

Alberto impennò il pollice, non se lo fece ripetere. «Contate su di noi!»

Sfrecciarono fuori dalla piazza, e Luca continuò a sorridere, questa volta senza alcuno sforzo, perché la nonna aveva ragione. Non aveva bisogno dell’accettazione del mondo intero. Tutto quello di cui aveva bisogno viaggiava con lui su quel carretto che puzzava di pesce, pedalava sulla bici smangiucchiata dalla ruggine e con le ruote mezze sgonfie. Non contava nient’altro.

«Lo vedi?» disse Alberto, quasi gli avesse letto nel pensiero. «Qui in paese va alla grande.» Strinse forte il manubrio, diede uno slancio di gambe per imboccare la salita. «E poi mi piace di più l’idea di guadagnarmi da solo il rispetto che cerco, invece che prendermelo a prescindere.»

«A prescindere?» fece Giulia. «Che intendi?»

«Ma sì, a prescindere.» Alberto sembrò non avere dubbi a riguardo. «Un po’ come mi sono guadagnato la Vespa vincendola assieme a voi, sudando per averla.» Si girò a sorridere a Luca, dedicò solo a lui la dolcezza di quello sguardo così puro, proprio come se si trattasse di rassicurarlo, di strofinargli una pacca fra i capelli. «Per questo è stato facile decidere di barattarla con qualcosa di ben più importante.»

A Luca mancò il fiato, abbracciato da una stretta al cuore colma di affetto e di gratitudine nei suoi confronti. Inutile negarlo: non sarebbe di certo arrivato lì dove si trovava ora se non avesse mai conosciuto Alberto.

Anche Giulia sorrise. «Sono contenta di sentirtelo dire. Piuttosto…» Guardò in basso, verso le ruote della bicicletta, e verso la salita di ghiaia che stavano percorrendo senza inciampi e senza eccessivi dondolii. «Sei davvero migliorato con la bici, ci stai prendendo gusto.» Ridacchiò dietro la mano. «Cos’è: fai pratica per quando avrai davvero una Vespa?»

Alberto strinse i denti e spremette il manubrio fra le dita. «Io l’ho avuta davvero una Vespa.»

Giulia rise con più gusto. «E per quanto?» Rimbalzò dal carretto al sellino, si aggrappò ai fianchi di Alberto e gli fece il solletico con le punte degli indici. «Due giorni?»

Alberto torse il fianco di lato per sfuggire ai suoi pizzichi. «Sempre meglio di niente. E non mi fare il solletico, o qui finisco per schiantarmi sul serio.»

«Scherzo, scherzo. Stai tranquillo…» Giulia gli diede due pacche sulla schiena, proprio in mezzo a quelle scapole secche e sporgenti come ali di gabbiano. «Guarda che io e Luca ti vogliamo bene lo stesso, anche se non sei diventato uno spericolato motociclista.»

«Aspetta solo di vedere il giorno in cui lo diventerò.»

«E dov’è che te ne andrai, quando avrai di nuovo la tua Vespa?»

«Potremmo andarci in giro tutti e tre assieme, come la scorsa estate.» Alberto tirò su il mento e si premette il pollice sul petto. «Io guido, questo è ovvio. Ma sarebbe un viaggio per esplorare il mondo e poi tornare sapendo di avere un posto che ci aspetta.»

«Ooh.» Anche Luca si concesse di sognare, inebetendosi come quando, durante le notti più limpide, alzava il naso al cielo per proiettarsi sulla luna, per catturare la luce di ogni singola stella del firmamento. «Un viaggio tutti e tre assieme. Sarebbe straordinario. E cosa scegliamo come prima tappa?»

«In tre su una Vespa per viaggiare in giro per l’Italia?» Giulia agitò le gambe, standosene più comoda sul sellino ma senza toccare i pedali, come una piccola amazzone, e stando attenta che le frange della gonna non si impigliassero alla catena. «A parte il fatto che non siamo più bassi e piccoli come l’anno scorso, e che quindi sarebbe più difficile incastrarci tutti e tre senza cadere, ma andare in giro per Portorosso è una cosa, e viaggiare sulle strade nazionali è un’altra.»

Alberto si girò a rivolgerle un’espressione scandalizzata. «Vuoi dire che non possiamo andare in giro in tre sulla stessa Vespa?»

«È il codice della strada.» Giulia si strinse nelle spalle con fare impotente. «Sono le regole, temo.»

«Aaargh!» Alberto lasciò cadere il capo in avanti, picchiando la fronte sul manubrio. «Stupide regole, sempre a mettermi in difficoltà. Ma gliela farò vedere io.»

Giulia si rimise a ridere. «Se non fosse stato per le regole, tu non avresti neanche imparato a mangiare con la forchetta, tanto per cominciare.»

«Sai che tragedia» le rispose Alberto. «Non sarei comunque morto di fame.»

«Però Giulia ha ragione.» Passarono davanti all’oratorio della chiesetta, e Luca riconobbe la stessa Cinquecento che era parcheggiata nello stesso punto del vialetto anche l’estate prima, come se non l’avessero guidata nemmeno una volta da quando lui era partito per Genova. Vide il suo musetto verniciato di giallo scomparire dietro l’angolo della palazzina. Gli venne un’idea. «E se invece andassimo in giro in auto?» Anche lui si sporse fra le valige e le cassette vuote. «In auto possiamo starci in tre, ed è anche più comodo. E sicuro.»

«Ma bisogna avere diciott’anni per guidare un’auto» considerò Giulia. «Ci vorrà un’eternità.»

Alberto si tirò su e si diede una spolverata alla maglietta. «Io ci arrivo prima di voi due, questo è sicuro.»

Luca strinse un gemito fra i denti, per nulla incoraggiato da quel pensiero. «Questo vuol dire che sarà Alberto a guidare?»

Giulia annuì. «Ma prima devi fare la patente.»

«Bene» annunciò Alberto, «allora farò la patente. E poi mi comprerò una Ferrari.» Accelerò di getto nell’ultimo tratto verso casa, slanciò le spalle in avanti già immaginandosi al volante, inseguito da una ruggente scia di fuoco. «Ci farò verniciare una fiammata gigante sulla fiancata, poi le inserirò un motore a ultra propulsione turbo che sputerà fuoco dalla marmitta, e vi porterò in capo al mondo in un millesimo di secondo, ancor più velocemente che col treno.»

Giulia si aggrappò ai suoi fianchi, per non cadere, e gli rise contro la schiena. «Non esiste un’auto del genere.»

«Non esiste per il momento» specificò Alberto. «Perché magari sarò io il primo a costruirla, così sarà esattamente come la voglio.»

«E sarai capace di costruirla per davvero?»

«Io sono capace di costruire qualsiasi cosa. Raccontale, dai, Luca. Raccontale come abbiamo già costruito tutte quelle Vespa quando eravamo sull’isola. Saranno state a centinaia.»

Luca scosse la testa. Il solito Alberto… «Non esagerare, non erano centinaia.»

«Però ne abbiamo costruite tante.»

«Ma andavano tutte in pezzi.»

«Dettaglio trascurabile. Piuttosto, a proposito di costruzioni…» Alberto frenò davanti al portone di casa – finalmente erano arrivati! –, sollevò un gran polverone e si girò a sorridere a entrambi. Il sorriso di chi sta per sbandierare l’annuncio del secolo. «Ho proprio qualcosa di sensazionale da mostrarvi.»

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Capitolo 5
*** 5 ***


5

 

 

Giulia avvolse le mani attorno alle guance infiammate di emozione, spalancò gli occhi brillanti di una meraviglia ultraterrena, e cacciò un gridolino eccitato che la elettrificò fino alle punte dei capelli. «Whoo! Ma è straordinario!» Saltellò attorno al letto nuovo, si chinò a tastare le gambe di legno, strofinò i palmi sui pomi che decoravano l’arco della testiera, percorse la lunghezza della cornice, e rimbalzò sul posto, battendo di nuovo le mani. «E lo hai costruito tutto da solo?» Rivolse ad Alberto quello sguardo galvanizzato di entusiasmo. I riccioli rossi sfiorarono la bocca allargata in un sorriso più brillante dell’argento lunare. «Proprio tutto-tutto?»

Alberto si batté due volte il pugno sul petto, tenendo alto quel suo gonfio sorriso da sbruffone. «Tutto-tutto, dal primo all’ultimo chiodo.» Andò anche lui a strusciare il tocco sulla testiera del letto a cui aveva dato una forma ad arco. Avrebbe voluto inciderci qualche bassorilievo, magari dei fulmini o delle ruote di motocicletta, ma non c’era stato tempo. «Ci mancava poco perché andassi a tagliare la legna direttamente nella pineta. Anche se in effetti ho usato legno di frassino.»

«Grandioso!» Giulia andò ad appendersi alla sua spalla e rimbalzò più volte come una piccola molla. «Non pensavo tu fossi capace di qualcosa di così incredibile.»

Alberto inarcò un sopracciglio. «Ah.» Sogghignò una risata da finto offeso. «Grazie.»

«Ups.» Giulia si tappò la bocca, e il suo rossore assunse una sfumatura d’imbarazzo. Troppo? Troppo. «Cioè, volevo dire…» Sventolò le mani tenendo gli occhi bassi. «Insomma, mi hai capita, no?»

Alberto rise, «Ma sì che ti ho capita», incapace di tenere il broncio.

Dall’altro capo della camera, Luca strusciò una carezza attraverso il manto maculato del cucciolo che teneva accoccolato fra le gambe. Gli strofinò un grattino fra le orecchie, sentendo aumentare le fusa, e anche lui si sporse per inquadrare meglio il letto costruito da Alberto. Lo sguardo affascinato quasi quanto quello di Giulia: effettivamente, nemmeno lui credeva che Alberto sarebbe riuscito a mettere assieme qualcosa dall’aspetto così… stabile. In lui sorse un sorriso spontaneo. «Non sorprenderti troppo, Giulia. Alberto è capace di qualsiasi cosa, quando si mette in testa un’idea.»

Un altro dei gattini emerse dalla cuccia sistemata ai piedi del vecchio letto di Giulia. Scivolò giù dal bordo di vimini, si appese con le unghiette ai pantaloni di Luca, si arrampicò fino al suo ginocchio, e miagolò per attirare la sua attenzione. «Miau!» Dal ginocchio gli scivolò in grembo, spinse il musetto sotto il suo palmo e rubò le carezze al fratellino che nel frattempo si era appisolato.

Luca non si fece pregare e distribuì anche a lui una generosa dose di coccole. «E di sicuro non è uno che molla dopo il primo tentativo fallito, questo è sicuro.»

«Grazie, Luca» commentò Alberto. «Tu sì che mi capisci.»

«E ci si può dormire fin da subito?» Giulia si chinò a premere le mani sul materasso. Compì qualche molleggio, si udì un lieve e innocuo cigolio della rete. «Non è che devi modificare ancora qualcosa? Non vedo l’ora di provarlo.»

«Teoricamente» disse Alberto, «dovrebbe essere a posto.» Guardò in disparte, si strofinò la nuca, e si morse il labbro per farfugliare a bassa voce. «C’è solo qualche pezzo che è avanzato e che non sono riuscito a incastrare perché…»

«Evvai!» Giulia non lo ascoltò oltre. Scollò le mani dal materasso e vi saltò sopra atterrando direttamente a gambe incrociate. Sotto di lei si mosse un dondolio. Si ripeté quel cigolio che ora suonò più come lo scricchiolio di un legno vecchio, ma Giulia quasi non se ne accorse. Balzò a sedere più verso il centro, e i suoi occhi brillarono come costellazioni. «Ooh, ma è comodo.»

Anche Luca si fece cogliere da un brivido di curiosità. «Sul serio?» Posò il micio fra le frange della coperta, lasciando che si accoccolasse in mezzo ai suoi fratelli sorvegliati da Perla che intanto si stava leccando la zampina, seduta fuori dalla cuccia. «Allora voglio provarlo anch’io.» Si alzò in piedi, attraversò il pavimento su cui avevano abbandonato le scarpe e le valige, e andò a sedersi affianco a Giulia. Sedendosi senza rimbalzare, però. «Ooh, è vero.» Sprimacciò le mani attorno a sé, sentendo la schiena rilasciare un piacevole formicolio di sollievo. Dopo le ore trascorse a viaggiare sui durissimi sedili del treno, quel letto pareva proprio un’alcova di piume e seta. «Si sta proprio comodi. Forse…» Si inclinò a destra e a sinistra, scoprendo una leggera pendenza. «È solo un po’ inclinato verso destra, o sbaglio?»

«Dettagli, dettagli» lo liquidò Alberto. «Quello che importa è che resista al peso. E fidatevi…» Scavalcò la cornice del letto, balzò a sedere anche lui, spremendo Luca fra lui e Giulia, e batté il pugno sul materasso. «È solido come una roc…»

Il cigolio delle molle gemette sotto il suo peso. Criii… Le quattro gambe cedettero, si frantumarono in uno schiocco simile al suono di una secca frustata – Crack! –e il letto si schiantò sul pavimento in un ultimo tonfo di gloria. Tunf!

Luca si ritrovò schiacciato fra il peso di Alberto e quello di Giulia, finiti addosso a lui per l’improvviso calo di pendenza. Il poveretto gemette, «Urgh», ritrovandosi con le guance spremute fra le loro spalle.

I pezzi delle gambe rotte rotolarono attraverso la stanza, uno sbatté sulla valigia di Giulia, l’altro si fermò contro il mucchietto di scarpe, e un altro ancora finì per urtare la cuccia dei gattini. I micetti rizzarono il pelo, i più scapparono sotto il ventre di Perla, alcuni si rifugiarono fra le frange della coperta, e solo uno rimase fuori dalla cuccia, appiattendo le orecchie e soffiando contro il pezzo di legno cilindrico che aveva svegliato lui e i suoi fratellini.

Luca stropicciò le guance schiacciate dalle spalle di Alberto e Giulia che gli erano finiti addosso e che ancora non si erano mossi. Spostò una spalla, poi anche l’altra, irrigidì le braccia incollate ai fianchi, incapace di piegare i gomiti, e soffiò un gemito sofferto che fece sventolare un ricciolo di Giulia finitogli fra le labbra. «Uff…» Ora sì che pagava le conseguenze di essere rimasto il più basso del trio.

Anche Giulia s’irrigidì contro il suo fianco. La scosse uno spasmo, un brivido che dal petto raggiunse la sua bocca, trasformandosi in una risata argentina sempre più forte e rumorosa che la costrinse a stringersi lo stomaco per non finire soffocata. «Oh, no!» Cadde di schiena, rotolò sul fianco finendo per sprofondare con la guancia nel cuscino. Si sganasciò negli ultimi spasmi di risa. «Non ci posso credere» esclamò ancora. «Come cavolo è successo?»

Il viso di Alberto si squagliò in un’espressione mortificata, ma nemmeno troppo sorpresa di ritrovarsi a sedere sulle macerie del letto e di assistere ai pezzi delle gambe sparpagliati sul pavimento. «Ecco» annunciò. «Sapevo che sarebbe successo.» Saltellò in disparte per allontanare il peso dal fianco di Luca. Gli sostenne la spalla e gli diede una pacca sulla schiena per aiutarlo a riprendere fiato. «A quanto pare è destino che ogni mia costruzione finisca per sfasciarsi.»

Luca tossicchiò, mosso però da un sentimento di compassione e tenerezza nei suoi confronti. «Su, non ti abbattere» lo consolò. «Forse hai solo bisogno di più pratica, ecco.»

Alberto lasciò ciondolare il capo in avanti, schiacciato dal peso di quel fallimento che nemmeno le parole di Luca erano riuscite a consolare. «E intanto un altro letto si aggiunge alla collezione di quelli da buttare. Oh, be’…» Si alzò a raccogliere i pezzi. Strofinò una carezza sulla testolina del micio che stava ancora tenendo il pelo dritto, minaccioso come Machiavelli sapeva diventare nei confronti di un pericolo. «Se non altro avremo più legna per il prossimo invern…»

«Buttare?» Giulia rimbalzò a sedere tenendo il cuscino spremuto fra le braccia. Lo sguardo serio di chi ha perso qualsiasi voglia di ridere. «Scherzi? Non voglio che lo butti, neanche per idea. Questo è il letto che tu hai costruito per me, e io ci dormirò sopra, a prescindere, costi quel che costi.»

«Ma è rotto» controbatté Alberto. «Ti farà venire il mal di schiena.»

Giulia scosse la testa. «Sciocchezze. Si sono rotte solo le gambe, e questo non mi impedirà certo di starci sdraiata sopra. Basterà limare un po’ quelle ancora intatte, in modo che siano della stessa altezza di quelle rotte. E poi…» Si sporse a guardare verso il basso, e i capelli le scivolarono sulle guance ancora paonazze per l’eccesso di risa. «Non potrà rompersi più di così, no?»

«Non si sa mai.» Alberto finì di raccogliere i pezzi e si ripulì le mani dalle schegge di legno. «Ma lascia che sia io a usare questo, tanto per sicurezza. Tu dormi in quello vecchio, in quello più sicuro.»

«Neanche per idea.» Giulia mollò il cuscino e s’incollò alla testiera del letto. Rizzò il pelo proprio come faceva Machiavelli quando difendeva la ciotola della sua pappa. «Io amo questo letto, tu hai sudato tutto l’inverno per costruirlo, è il più bel regalo che qualcuno mi abbia mai fatto, e io ci dormirò sopra.» Sfoderò un dolce e radioso sorriso di gratitudine che avrebbe potuto illuminare anche l’abisso più buio. «Grazie, Alberto.»

Alberto non poté fare a meno di intenerirsi davanti a quella calorosa vampata di gratitudine dimostrata per qualcosa che era germogliato fra le sue mani. Il cuore si strinse in un caldo e soffice singhiozzo di gioia che gettò sangue alle guance e che tremolò fra le labbra incurvate in un irrefrenabile sorriso d’orgoglio. Era paradisiaco venire riconosciuti e sentirsi apprezzati per il proprio sudore e il proprio lavoro, a prescindere dal fatto che il letto avesse finito per rompersi e schiantarsi sul pavimento. Comprese forse per la prima volta come dovesse essersi sentito Massimo la sera in cui lui e Luca si erano abbuffati con le sue trenette, leccando il piatto fino all’ultimo schizzo di pesto.

«Figurati.» Alberto glielo disse come se fosse stata una cosa da poco. «Mi sembrava il minimo che potessi fare.» Diede le spalle a Giulia e si strofinò la nuca, più impacciato ed esitante del solito. Il suo sguardo vagò fra le pareti della camera che, senza Giulia e Luca a popolarla durante la stagione fredda, gli era sempre apparsa così vuota, anche se poteva sempre contare sulla compagnia dei gatti, e di Caligola, e di tutti i libri e i dischi che erano rimasti sulle mensole. «Anche per ripagarti, sai, dato che sto occupando la tua camera a scrocco.»

«La nostra camera» lo corresse Giulia. «Adesso è la nostra camera, non più solo la mia…» Zampettò al suo fianco per punzecchiargli la guancia. «Fratellone

Alberto stette al gioco, sentendosi attraversare da un palpito di gioia che gli gonfiò il cuore. «Ma quale onore…» Le diede una soffice spallata, appena toccandola. «Sorellina

Giulia rise. Tornò a gettargli le braccia attorno al collo, come dopo l’arrivo in stazione, e gli stampò un affettuoso bacio sulla guancia.

Luca sobbalzò, soffiando un ansito a denti stretti che non seppe come decifrare. Arrossì ancor prima che lo facesse Alberto.

Alberto sgranò gli occhi. Una traccia appena percettibile di squame blu lì dove Giulia aveva posato le labbra. «Ehi, ehi, guarda che così divento rosso.» Stirò il collo di lato e si strofinò la guancia. «Vuoi proprio che mi trasformi in una triglia bollita?»

Giulia gli diede un colpetto fra i capelli. «Scemo. Ma Luca allora dove lo mettiamo a dormire?» Guardò fuori, attraverso la finestra da cui erano visibili i bulbi delle luminarie intrecciate ai rami dell’albero. La luce del giorno, unita allo scuotersi della brezza proveniente dal mare, faceva brillare le foglie di un verde acceso. «Non possiamo di certo farlo andare da solo sulla casa sull’albero.»

«Ah.» Luca scosse il capo, riprese controllo di sé, e sventolò via quel problema. «N-no, veramente…» Indicò la porta della camera che avevano lasciato aperta. «Io in realtà pensavo di stare a dormire giù dai miei, fintanto che sono qui. È giusto che passi più tempo con loro, dato che siamo stati separati tutto l’inverno, e così potrò raccontargli tutto quello che non ho potuto scrivergli nelle lettere, dirgli della scuola, e di Genova. E poi glielo devo…» Spostò lo sguardo verso l’armadio e le mensole dove erano impilati alcuni libri di Giulia, il grammofono, la collezione dei dischi, i pupazzi di stoffa, una scatola di latta un po’ ammaccata, e la Coppa della Portorosso Cup. Sospirò, colto da un’improvvisa stretta di nostalgia. «Considerato tutto quello che anche loro stanno sacrificando per permettermi di vivere la vita che mi sono scelto.»

Giulia e Alberto si guardarono, senza più nessun imbarazzo, e compresero al volo quello a cui si stava riferendo. Tutti i risparmi che Daniela e Lorenzo inviavano a Genova per farlo proseguire negli studi. I sacrifici per comprargli i libri, e gli abiti umani. E il fatto che avessero dovuto riorganizzare la loro vita subacquea, a cominciare dal pascolo dei pesci. La presenza di Luca si era portata via ben più di quel che tutti si aspettassero, e non solo dal lato emotivo.

Al piano di sotto, la porta d’ingresso si aprì e si richiuse. Passi familiari varcarono la soglia, facendo tremolare il pavimento e le pareti, e fecero rizzare le orecchie anche ai gattini che erano tornati a raggomitolarsi nella cuccia.

«Oh!» Lo sguardo di Giulia s’illuminò, splendette come il sole che batteva sulla finestra. «Papà è qui, è tornato. Papà!» Inciampò sui sandali a cui doveva ancora riabituarsi, riprese equilibrio con due rimbalzi, e si precipitò giù dalle scale per volare ad abbracciarlo. «Papà, sono qui! Sono tornata!»

La accolse la bassa e calda voce di Massimo. «Giulietta.»

Alberto sorrise, dopo un sospiro, e alzò la cinta dei pantaloni. «Il capo è tornato.» Fece strada inviando un cenno a Luca. «Vieni, vorrà di sicuro vedere anche te.»

Luca infilò un indice fra le punte delle sue dita, prima che potesse sfuggirgli, e lo trattenne attraverso quella delicatissima stretta di mano. «Alberto.» Aspettò che Alberto si girasse, che potessero guardarsi negli occhi, loro due da soli, dopo tanto tempo. Frugò nei suoi pensieri in cerca di qualcosa di carino da dirgli che potesse compensare quel “Ehi” con cui si erano salutati alla stazione dei treni. Qualcosa come: grazie per aver rinunciato alla Vespa e per aver convinto i miei a farmi studiare a Genova. Grazie per aver accantonato i tuoi sogni permettendomi così di inseguire i miei. Grazie per essere venuto a prendermi alla stazione, per essere ancora qui. Grazie per non avermi dimenticato. Grazie per essere il mio migliore amico. «È…» Indicò le tragiche rovine del letto sfasciato. «È bello il tuo letto. È venuto bene, dico davvero. Mi dispiace che si sia rotto.»

Alberto si rinvigorì, l’aura attorno a lui tornò a brillare, gli occhi scintillarono dello stesso verde che vibrava fra le foglie del loro albero. Per quanto sciocca potesse sembrare, Luca sapeva sempre quale fosse la cosa giusta da dirgli per farlo sentire meglio.

Alberto gli allacciò un braccio attorno al collo, tenendoselo stretto e accostandolo al suo profumo di mare e di cucina buona. «Vieni.» Lo condusse fuori dalla camera. «Massimo vorrà salutarti.»

Scesero le scale, andarono incontro alla voce di Giulia. «Mi sei mancato tantissimo, papà.» La trovarono stretta a Massimo, sostenuta dalla forza del suo braccio da cui lei faceva dondolare i piedi, sgambettando felice. «Quest’anno non vedevo proprio l’ora di tornare qui.»

«Mi sei mancata anche tu, Giulietta.» Massimo diede una spintarella al braccio e le aprì la mano sulla schiena per non rischiare di farla cadere. «Com’è andato il viaggio?»

«Spedito, anche se sul treno faceva più caldo rispetto agli anni scorsi. Ma almeno c’era Luca che mi teneva compagnia, così non mi sono annoiata proprio per niente.»

«Gli esami come sono andati?»

«Alla grande!» Giulia gettò i pugni all’aria e si sbilanciò, incapace di contenere quello slancio di gioia. «Ho studiato proprio sodo, così posso godermi tutta l’estate senza il pensiero di dover recuperare qualcosa a settembre o di arrivare impreparata nella classe nuova.»

«Brava. E la mamma come sta?»

«Bene. Ah! Ma sai che ha ottenuto l’incarico per quella galleria che c’è in centro, quella vicino ai grandi magazzini? Quella su cui stava puntando da due anni. Alla fine ce l’ha fatta. Dal prossimo anno la direzione sarà tutta sua. Be’, non proprio tutta-tutta, ma ha quasi del tutto realizzato il suo sogno, non è grandioso?»

«È una bella notizia. Ma…» Massimo tornò a muovere il braccio, la soppesò. «Sbaglio o sei un po’ cresciuta?»

Giulia sgranò le palpebre, colta da un impeto di stupore. «Si nota così tanto, sul serio? E io che pensavo che fosse solo...»

«Visto, Giulia?» Alberto scese le scale assieme a Luca, pavoneggiandosi come se fosse stato lui ad assemblare quei tre centimetri in più sulla testa di Giulia. «Te l’ho detto che si nota a vista d’occhio. E io non mi sbaglio mai.»

L’occhio acuto di Massimo sorvolò la comparsata di Alberto e si soffermò sulla figura che aveva sceso le scale dietro di lui. «Luca» lo salutò. «Bentornato.»

«Ah.» Da parte di Luca ci fu quell’istinto, brevissimo e scattante, che non era passato e forse mai sarebbe passato, di arricciarsi di poco dietro la stazza di Alberto, di appoggiarsi al suo fianco. «G-grazie, è…» Finalmente cacciò fuori il sorriso che Massimo si meritava di ricevere. «È bello essere tornati.» E lo era per davvero. Luca lo aveva pensato nello stesso momento in cui si era lasciato di nuovo accogliere dal ventre di quella casa, quando ne aveva riconosciuto il profumo, quando aveva varcato la soglia del giardino, quando si era orientato fra le camere, fra le tenui sfumature di luce che striavano i mobili e le pareti ormai familiari quanto i fondali del Mar Ligure.

Massimo mise giù Giulia che nel frattempo andò a strofinare una carezza sulla testolina di Machiavelli che era rientrato assieme al padrone. Massimo appese il cappotto alla gruccia d’ingresso. «Da fuori ho sentito un gran tonfo provenire dalla vostra camera. Non stavate combinando qualche guaio, non è vero?»

Giulia rise. «Abbiamo solo provato a collaudare il nuovo letto che mi ha costruito Alberto.»

Massimo sollevò un sopracciglio, indirizzò quell’occhiata su Alberto. «Hanno ceduto di nuovo le assi?»

«No» gli rispose lui. «Le gambe, questa volta.» Fece schioccare la lingua in un moto di disappunto e incrociò le braccia al petto. «Proprio non so cosa sia potuto andare storto. Eppure le avevo rinforzate.»

«Te l’avevo detto di chiedere a me se ti fosse servita una mano.»

«Ma non mi serviva una mano» si lagnò Alberto. «So cavarmela da solo.»

«Ma il letto mi piace da morire, papà.» Giulia andò ad appendersi al braccio di Massimo, in cerca di approvazione. «E voglio dormirci fin da stasera. Tanto le lenzuola pulite sono già pronte. Che mi costa?»

«Ecco, Massimo…» Alberto stese il braccio verso Giulia. «Convincila tu a non farlo, ché a me non vuole dar retta. Dille che se ci dormirà sopra le verrà la gobba.»

Massimo scosse la testa facendo fatica a trattenere il ricciolo di un sorriso. Le estati sarebbero state di sicuro più movimentate, da adesso in poi. «Hai già disfatto i bagagli?» domandò a Giulia. «Ti serve un aiuto? Mi dispiace di non essere riuscito a passare alla stazione per venirvi a prendere.»

«Tranquillo» lo rassicurò Giulia. «Alberto ci ha detto dell’incidente con la barca. È tutto okay.»

«Le valige non sono state troppo pesanti da trasportare?»

«Ce la siamo cavata bene. Avevamo il carretto.»

Alberto spinse una soffice pacca sul braccio di Luca, richiamò il suo sguardo.

In sottofondo, la voce di Giulia sfumò nel vuoto, «Ah, però, hai presente quel…», divenne irrilevante, un rumore bianco come le fusa di Machiavelli.

Ad Alberto bastò quello sguardo, quell’intesa così complice, per tenere Luca inchiodato a sé, per racchiuderlo in una dimensione che apparteneva solo a loro. Solo grazie a quegli scaltri occhi verdi che non gli avevano lasciato scampo già dalla prima volta in cui avevano sfiorato quelli più scuri e miti di Luca. Per farsi capire bastò uno scatto del capo, un’alzata di sopracciglia a indicare la porta, un guizzo con la mano che imitò un tuffo ricurvo. Bastò quello, non servì altro per capirsi, perché la loro vita era tutta lì. Era quello il filo che teneva giunti i loro cuori, che si tendeva quando si allontanavano, e che vibrava quando tornavano ad avvicinarsi l’uno all’altro combaciando come gusci della stessa ostrica.

Tornò il sonoro, la vocina di Giulia che cinguettava attorno a suo padre che intanto si era messo a riordinare il pentolame appena lavato. «… poi ti ho portato le trofie, e se vuoi possiamo preparare quelle stasera per cena. La mamma preferiva che ti portassi qualcos’altro, perché ha detto tipo: Giulietta, ma con il viaggio in treno rischiano di sciuparsi, o di seccarsi se stanno troppo a lungo al caldo. Però io…»

«Serve aiuto con le valige?» Alberto indicò il piano superiore. «Le valige» ripeté. «Serve aiuto per disfarle?»

«Uh, no.» Giulia scosse il capo, mise a posto lo scolapasta che Massimo le aveva passato. «In realtà no, non credo. Ci vorrà poco: ne abbiamo solo una ciascuno.»

Alberto raccolse la mano di Luca e lo accompagnò nella discesa degli ultimi gradini. «Allora noi usciamo un attimo.» Sventolò le loro mani giunte. «Porto Luca dai suoi, ma ci vediamo stasera per cena.»

La voce di Giulia li inseguì mentre loro erano già sulla soglia di casa. «Guarda che mangiamo le trofie che abbiamo portato da Genova. Non fate troppo tardi: più tempo passa e più diventano stantie!»

Alberto impennò il pollice, sentendo già la pancia gorgogliare e la bocca salivare. «Non cominciate senza di noi.» Spremette più forte la mano di Luca, non gli lasciò scampo. «Vieni.» Valicarono la soglia di casa, uscirono dal portone del cortile, e corsero in strada senza incertezze, verso il brusio delle onde, verso la voce del mare che li chiamava a sé.

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Capitolo 6
*** 6 ***


6

 

 

La strada di pietra scottava, a quell’ora del giorno, irradiata da un sole di giugno sorprendentemente caldo per quel periodo della stagione. Luca quasi non se ne accorse. I suoi piedi nudi volavano, battevano leggeri come ali di farfalla sulla consistenza liscia della via in discesa, e si fecero guidare unicamente dalla corsa di Alberto che li precedeva.

Luca strinse forte la mano di Alberto che, da quando erano usciti dalla casa dei Marcovaldo, non aveva mai lasciato la sua. Con il vento a solleticargli il rossore delle guance, sollevò lo sguardo verso lo sventolio di foglie che brulicava sulle chiome degli alberi piantati a confine della stradina. Tese l’udito verso lo stridere dei gabbiani che volavano sopra i tetti del porto – piccole macchie bianche che si confondevano fra le nubi – e verso lo squillo lento e pacifico delle campane appese alle barche ormeggiate. Il richiamo del mare.

Luca raccolse un’avida boccata di quell’aria salmastra, pulita e freschissima, che gli inasprì la gola e bruciò lungo le narici, per poi annidandosi in fondo al petto ed entrargli nell’anima, risuonando come un fischio e risvegliando quell’angolino del suo cuore che, per quanto distante potesse allontanarsi, sarebbe sempre appartenuto a quelle coste, a quelle scogliere e a quei fondali.

Fu di nuovo la stretta di Alberto, quel guizzo elettrico spremuto fra i loro palmi giunti, a riportarlo con la mente a terra, richiamandolo attraverso il brivido eccitato della sua voce. «Vedrai che faccia faranno i tuoi, quando ti vedranno arrivare così d’improvviso.»

Luca corrugò un sopracciglio. «Aspetta…» Approfittò di quell’attimo di confusione per riprendere fiato fra i boccheggi della corsa. «Mamma e papà non sapevano che oggi sarei tornato a Portorosso?»

«No» disse Alberto, «non gli ho detto nulla, volevo che fosse una sorpresa.» Scavalcò uno dei muretti di pietra per imboccare la scorciatoia che tagliava la piazzetta conducendoli direttamente al mare. La via era pregna di un forte e piacevole profumo di salvia e di rosmarino proveniente dalle terrazze delle case più vicine. «Non sai che fatica che ho fatto per tenere la bocca chiusa e mantenere il segreto per tutti questi giorni. Non ne potevo più.»

Luca atterrò dal piccolo saltello, dopo aver superato anche lui il muro, e si sentì subito meglio. La stessa leggera ed estatica sensazione di sollievo che aveva provato alla stazione, quando aveva lasciato cadere il peso della valigia per gettarsi ad abbracciare Alberto. Fu inevitabile sorridere. Allora è per questo che non c’erano ad aspettarmi alla stazione. «Per fortuna.»

«Uh?» Alberto si girò a guardarlo, sembrò non capire. «Per fortuna che cosa?»

«Prima, alla stazione» rispose Luca, «ho avuto paura quando non li ho visti ad aspettarmi.» Rivisse il freddo brivido di quel timore. «Credevo si fossero dimenticati di me.»

Le labbra di Alberto s’incrinarono in un sorriso di sollievo. Lui scosse il capo e alzò gli occhi al cielo, senza nemmeno stupirsi troppo. «Tu e le tue paranoie» commentò. «Quand’è che imparerai a dire a Bruno di stare zitto anche senza di me?»

Luca sentì le guance scottare nonostante il vento contro. «Sto migliorando, lo giuro.»

Alberto rise di gusto.

Onde azzurre s’incresparono sulla linea d’orizzonte, dove la discesa della stradina s’interrompeva per sprofondare nel piccolo molo occupato solo un paio di barche ormeggiate. I gabbiani appollaiati sui piloni sporcati dalle alghe, e un grumo di reti accatastate sull’unico furgoncino arrugginito parcheggiato davanti al negozio del ferramenta.

Alberto mollò la mano di Luca, saltò in cima a uno dei piloni d’attracco, simulando un piccolo trampolino, compì uno slancio avvitandosi sulla schiena e spalancò le braccia all’aria. «Arrivo, gravità!»

Splash!

Due dei gabbiani che galleggiavano appollaiati fra le onde volarono via e stridettero in protesta. Gli zampilli trasparenti schizzarono fino al cemento della banchina, i cerchi concentrici di spuma si allargarono fino a diradarsi, e il guizzo blu della coda di Alberto si dimenò sott’acqua.

Luca raggiunse l’estremità della banchina, e una piccola esitazione gli irrigidì i muscoli delle gambe, facendo frenare la sua corsa dopo un breve inciampo dei piedi nudi. Si sbilanciò in avanti, si affacciò al suo stesso riflesso che lo osservava con stupore fra le increspature d’acqua smosse dal tuffo di Alberto, e strizzò gli occhi, lasciandosi cadere nel basso specchio di mare sporcato dalle alghe del fondale.

L’impatto con l’acqua fu uno schiaffo freddo che lo assordò, circondandolo poi in un abbraccio che lo accolse nell’ovattato silenzio sottomarino. Lo accompagnò verso il fondo, alleggerì la pressione attorno al suo corpo, e sciacquò via il bruciore del sole e la fatica della corsa.

Luca si lasciò sprofondare. Scivolò sulla schiena, abbandonando ogni resistenza dei muscoli, e sospirò di sollievo, soffiando verso la superficie una doppia scia di bollicine trasparenti. Si godette il sostegno dell’acqua in cui era immerso; il piacevole solletico delle squame che si arrampicarono sotto gli abiti; la sensazione della pelle che si apriva a ventaglio fra le dita; la calda scia di brividi, simili a una innocua scossa elettrica, corsa lungo la schiena fino all’attaccatura della coda che, con il suo slancio, gli donò un nuovo equilibrio.

Sbatté le palpebre. Gli occhi, dapprima appannati, si adattarono alla profondità del mare, alla luce della superficie che fendeva il pelo dell’acqua come una serie di lame e che scendeva fino al tappeto di alghe, dissolvendosi in una polvere dorata.

Un paio di pesciolini più curiosi degli altri gli nuotarono attorno, beccarono la stoffa dei suoi abiti, guizzarono via sbatacchiando la coda, e si rintanarono fra le chiglie delle barche che, dal basso, si erano ridotte a semplici chiazze d’ombra. Dietro la schiena lo raggiunse il solletico delle alghe. Le punte molli e scivolose lo carezzarono come tante piccole dita, danzandogli attorno, sfiorandogli la nuca e le creste delle orecchie.

Luca dilatò le narici, inspirò forte quell’acqua fresca che gli scese fino al petto senza bruciare, gonfiandolo di ossigeno. Fu facile per lui rinfilarsi in quello che era il sacco amniotico che gli aveva donato la vita, il sangue azzurro che gli scorreva in corpo e che batteva nelle profondità del suo petto, dove era annidato l’eco del suo cuore.

Si sentì vivo, si sentì in pace. Si sentì a casa.

«Luca!»

Luca si girò, arrotolandosi fra le punte d’alga, e andò incontro al richiamo di Alberto.

Alberto sbatté la coda, frustando una bianca scia di bolle attraverso l’acqua. Nuotò fra i piloni foderati di alghe e molluschi, schivò le cime di corda a cui erano agganciate le ancore delle barche, e scese verso il punto dove l’acqua si faceva più scura e profonda, dove i raggi di sole si disperdevano. Tornò a chiamare Luca con un sorriso e una vigorosa sbracciata. «Che aspetti?» esclamò, e le vibrazioni della sua voce raggiunsero in fretta le orecchie di Luca. «Vieni!»

Luca gli sorrise di rimando. Inviò un impulso alla base della schiena, sbatacchiò la coda, si sbilanciò, diede una sgambettata a vuoto, facendo un primo tentativo di riabituarsi alla presenza dell’organo, ma fu costretto a tenersi in equilibrio affondando un paio di sbracciate. Guardò indietro, verso la coda sfiorata dalle alghe. Strinse fra le zanne la punta della lingua e corrugò un’espressione concentrata. Frustò uno slancio più deciso che lo spinse verso il basso. Imboccò una corrente rapida e fredda, sentendo i brividi inturgidirgli le squame, e scivolò verso gli abissi inseguendo il nuoto di Alberto, i lampeggi blu e viola che guizzavano agili attraverso le lame di luce penetrate dalla superficie.

Discesero il fondale, sorpassando di tanto in tanto l’ombra di qualche barca che se ne stava ammollo al largo. Al di fuori del mare, li inseguiva il riverbero del sole: un disco di luce che splendeva come un faro su quel glorioso pomeriggio di fine giugno.

Luca si riparò con una zampa, cercando di non fissare troppo a lungo il chiarore accecante della superficie. In mare aperto le nuvole si disperdevano. «I miei genitori stanno bene?» Nuotò più velocemente per affiancare Alberto, rimanendo un po’ a corto di fiato come durante la corsa a piedi nudi sulla stradina di pietre. «Vi siete visti di recente? L’ultima lettera che gli ho spedito era del mese scorso, ed è da allora che non ho loro notizie.»

Alberto fece strada scendendo senza alcuno sforzo attraverso la corrente di acqua fredda che li stava conducendo verso il fondale. Le braccia distese lungo i fianchi, i pugni chiusi, e il corpo in perfetto asse con la coda. «Sempre impegnati, come al solito.» Diede solo un piccolo calcetto all’acqua per rallentare e assecondare il ritmo di Luca. «Pensa che tuo padre si è messo pure a coltivare ostriche, oltre che ad allevare granchi.»

Luca gli scoccò uno sguardo perplesso. «Ostriche?»

«Eggià.» Alberto si abbandonò a un sospiro sconfortato e si girò di schiena, sbracciando a testa ingiù. «Povero, povero Lorenzo, non immagino neanche la noia di doverci stare dietro.»

Luca si strinse nelle spalle, incapace di contenere un piccolo sorriso di nostalgia. «Mio padre è uno a cui basta poco per tenersi impegnato. Beato lui che ha poche pretese, piuttosto.» Guizzando ancora più in basso, aguzzò lo sguardo attraverso i prati di alghe, le zone più scure che si incuneavano fra gli scogli circondati dal nuoto di piccoli e luminosi banchi di pesciolini argentati. Ancora non riuscì a riconoscere la via di casa. «E la mamma, invece?»

Anche fra le labbra di Alberto sorse un sorriso spontaneo che gli fece brillare le zanne. «Oh, lei è dallo scorso autunno che si dispera cercando di trovare qualcuno in grado di badare ai tuoi pesci. Ogni tanto sono sceso io a occuparmene, ma non ho più molto tempo per farlo, considerato tutto il lavoro che c’è da sbrigare in superficie con Massimo.»

«Sul serio?» Gli occhi di Luca scintillarono di stupore e di gratitudine, un sentimento che scese a scaldargli il cuore. «Ti sei occupato tu dei miei pesci?»

«Già.» Alberto gli inviò un’occhiata più acuta e penetrante da sopra la spalla. «Perché?» rise. «Secondo te non ne sarei in grado?»

«Ecco, è solo che…» Luca si concentrò per immaginarsi Alberto a guardia del gregge. Il suo profilo ricurvo, seduto sulla roccia. Il viso raccolto fra i pugni, l’espressione opaca e annoiata che vaga fra i pesciolini sommersi dalle alghe, e il bastone da pastorello a giacere ai suoi piedi. «Non mi sembra esattamente qualcosa di adatto a te. Conoscendoti, a lungo andare ti annoierebbe.»

«Infatti» confermò Alberto, senza prendersela. «Sono capace di resistere solo per un paio d’ore, poi però mi sembra di diventare matto a forza di dover starmene seduto a fissare i pesci che brucano. Per fortuna che ogni tanto qualcuno si allontana, così posso nuotargli dietro con la scusa di doverlo riacchiappare.» Scosse il capo, scansando un fascio d’alghe che saliva fra gli scogli. «Ma non so proprio come tu potessi reggere ogni giorno facendo quella vita. Ci credo che poi è stato facile per te andare in cerca di qualcosa di…» Si morsicò la bocca. «Ehm…» Si strinse nelle spalle con uno scatto, come per nascondersi, rendendosi conto troppo tardi di star per dire qualcosa di indelicato. Schivò lo sguardo di Luca. «Be’,» tossicchiò, «vedrai…» Sbatté la coda per accelerare il nuoto, e sventolò via la questione. «Vedrai che i tuoi pesci se la caveranno. E che i tuoi genitori troveranno qualcuno di più adatto di me per tenerli a bada.»

«Non devi giustificarti con me» gli disse Luca. «Guarda che lo so.»

«Sai cosa?» Alberto tornò a girarsi sulla schiena, nuotando all’indietro, e si mise a ridere stringendo un braccio attorno allo stomaco. «Che troveranno qualcuno di più adatto al posto mio?»

«No» rispose Luca. «So che tu non sopporti rimanere troppo a lungo sott’acqua.» Gli sorrise. «E so che non sei fatto per restartene fermo su uno scoglio soltanto.»

Alberto socchiuse una palpebra e smise di ridere. Il suo mezzo sorriso s’infossò nell’ombra. «Be’,» borbottò, «ti ringrazio per la comprensione, immagino.» Si rimise a nuotare dritto, sostenuto dalle braccia della corrente.

Luca fu assalito da un brivido nel ricevere quella risposta. Incassando quello sguardo un po’ schivo di Alberto, percepì una fitta mordergli lo stomaco. Alberto non gli aveva risposto con cattiveria, ma vi era comunque una sfumatura d’ombra che Luca non riuscì a decifrare, dietro quella sua ultima frase.

Non sei fatto per restartene fermo su uno scoglio soltanto.”

Ti ringrazio per la comprensione, immagino.”

La luce proveniente dalla superficie si spalancò, irradiò il fondale e splendette sulla distesa smeraldina dei campi di alghe smossi dal moto lento delle correnti subacquee. Affiorarono le prime grotte, i giardini di anemoni, le praterie popolate dai banchi di pesciolini che brucavano sorvegliati dai pastori, le coltivazioni di molluschi, e i recinti dei granchi che si arrampicavano nelle rientranze fra le rocce.

Luca provò un tuffo al cuore, e quell’improvvisa vampata di tepore e benessere sprofondò nella pancia, sciolse il groppo allo stomaco e lo rese più leggero attraverso il flusso della corrente che lo stava guidando verso il basso. «Siamo arrivati!» Accelerò lo sventolio di coda, superò il nuoto di Alberto, e scese per primo. Fu facile e naturale riconoscere i suoi luoghi, la vegetazione che cresceva fra gli scogli, i confini dei prati subacquei, i suoi simili che lavoravano appendendo le tende d’alga sulle soglie delle grotte e seminando i campi, inseguiti dalle orde di pesciolini domestici. Fu bello tornare a casa con la consapevolezza di poter riemergere in superficie senza timore, senza disobbedire, senza alcuna colpevolezza a perseguitarlo. Fu bello rendersi conto di appartenere a entrambi i mondi.

Luca e Alberto sorvolarono a nuoto la grotta dei Branzino. Luca riconobbe la signora mentre stava falciando le alghe, delineando i confini del prato, estirpando quelle giallastre, e rastrellando il fondo per mantenerlo morbido e fertile. Le fece piacere rivederla. Quel giorno gli piaceva tutto quello che apparteneva alla sua vecchia vita. «Buongiorno, Signora Branzino!»

Bianca Branzino si voltò distratta verso la voce che l’aveva appena chiamata, rispose senza quasi accorgersene. «Ciao, Lu…» Sgranò gli occhi, le creste delle sue orecchie ebbero un fremito, e la sua schiena irrigidì come se avesse ricevuto una scossa. «Lu…» Fece cadere il falcetto. «Luca?» Diede un colpo di coda e si girò di scatto. Si stropicciò le palpebre, incredula come davanti all’apparizione di un sole sorto a mezzanotte. «Sei tornato?»

Luca rise. Sventolò la zampina palmata. «Saluti suo marito da parte mia.» Nuotò ancor più in là assieme ad Alberto, addentrandosi nel villaggio. Riconobbe altri suoi vicini, alcuni impegnati a radunare i granchietti, altri che sfaccendavano per scrostare i molluschi dagli scogli, e altri ancora che stendevano i panni d’alga sulle griglie disposte fuori casa. Non era cambiato nulla da quando se n’era andato. «Salve, Signora Aragosta!»

Anche lei, mentre aveva ancora le mani impegnate a sistemare gli intrecci d’alga fra le reti, sbatté più volte gli occhi e tese le orecchie come se avesse udito male. «Luca?» Si girò. Sul suo volto era stampata la stessa espressione incredula della Branzino. «Sei tu?» esclamò a voce più alta. «Sei tornato?»

«Giusto oggi!» E Luca scivolò via inseguito da altri sguardi curiosi che si erano levati verso la scia del suo nuoto.

Mentre lui e Alberto si allontanavano, crepitarono voci dalle grotte e dai campi di alghe, scoppiettando una dopo l’altra proprio come bolle. «Hai visto? Luca è tornato.» Voci che lo inseguirono accavallandosi l’una sull’altra come onde sulla spiaggia. «Cosa? Dove?»

«È appena passato.»

«Sul serio?»

«Luca è qui, è tornato.»

«Ma Daniela lo sa? Non ci ha detto niente.»

«Corri, corri a vedere.»

Luca sentì una ridacchiata risalire la gola e singhiozzare fra le sue guance calde di gioia, anche se tutte quelle attenzioni gli parvero eccessive. Si sentì come il pesciolino miracolato che fa ritorno a casa dopo essere sfuggito alle fauci di un pescecane. Più tardi sarebbe tornato a salutare decentemente i suoi vicini e a raccontare loro della sua vita sulla terraferma.

«Eccoci.» Alberto scese fra le grotte, si approcciò alla casa dei Paguro, e chiamò Luca a sé. «Toh, neanche fare apposta…» Indicò il pascolo dove i pesciolini brucavano pacifici. «I tuoi prediletti stanno giusto banchettando nel prato.»

Solo alcuni smisero di smangiucchiare le alghe e si girarono, attratti dalla comparsa di Luca e Alberto. Il primo a sorgere in mezzo agli altri fu il musetto sospettoso di Giuseppe che flesse la testolina prima da un lato e poi dall’altro, tenendo la bocca stretta sul ciuffo verde che stava ruminando.

Riconoscendolo, Luca provò un inaspettato guizzo di gioia che gli balzò in petto come una capriola. «Giuseppe!»

E anche Giuseppe lo riconobbe. Sorrise a Luca, scosse le pinne, e belò di contentezza. «Bee!»

Luca diede un forte colpo di coda per accelerare il nuoto e raggiungerlo. «Giuseppe, sono io!» Spalancò le braccia. «Sono tornato!»

Si aggiunsero anche gli altri pesciolini, emergendo dal prato come tanti fiorellini che sbocciano richiamati dalla luce del sole. Levarono le testoline dai ciuffi di alghe, scossero pinne e code, e belarono uno dopo l’altro, intonando quel gioioso canto di bentornato.

Luca nuotò da loro e raggiunse il prato. «Sono a casa!»

I pesciolini gli sfrecciarono incontro, levandosi in una piccola risacca color azzurro-argento. Lo salutarono sbaciucchiandolo, facendogli il solletico alle guance, guizzando dentro le maniche della camicia e uscendo dal colletto, tenendolo racchiuso in quel caldo vortice d’affetto.

Luca fu preso da una risata irrefrenabile. «Giuseppe, Caterina, Monna Lisa…» Distribuì carezze sulle loro testoline. «Ci siete tutti!» E ce n’erano anche alcuni che non riconobbe, nati con ogni probabilità durante l’inverno. Coccolò anche loro, abbracciò tutti. «Quanto mi siete mancati. Vi sono mancato anch’io?»

Giuseppe gli turbinò attorno alle spalle e belò di nuovo. «Bee!»

Luca era così preso dalle coccole, dai baci dei suoi pesciolini, dalla magia di quel momento, «Piano, piano, mi fate il solletico», circondato da quel vortice di gioia e bollicine, da non accorgersi che Alberto stava nel frattempo sbracciando verso qualcuno, e che una figura lo stava osservando dalla soglia di casa.

 

***

 

Con il cambio di stagione, la vegetazione di alghe selvatiche era diventata intrattabile. Quelle più vecchie, dense e mollicce come spugne, si incuneavano fra le rientranze degli scogli, lì dove nemmeno gli artigli più fini riuscivano a penetrare, e prolificavano assieme agli anemoni costituendo un laudo pasto per lumachine di mare e altri piccoli crostacei che finivano per infestare le grotte e attirare pesci più grossi che poi inevitabilmente andavano a contaminare il pascolo delle sardine domestiche.

Daniela recise i capelli d’alga più sottili, usò la punta curva del falcetto per raschiare via il muschio più fitto che finì per sbriciolarsi fra le sue mani assieme a un pezzo di scoglio. Strinse le zanne in un moto di frustrazione. «Accidenti.» Scartò le alghe recise e si rimise al lavoro, raschiando con maggior foga. Un lavoro simile non era l’ideale per rinvigorire il suo umore che quel giorno era già pessimo. Daniela era irritata perché la falce era smussata, era irritata perché Lorenzo non era d’aiuto, era irritata perché non c’erano mai alghe a sufficienza per tenerla impegnata quanto bastava per distrarla da altri pensieri ben più soffocanti. «Ne hai ancora per molto, laggiù?» esclamò in direzione di Lorenzo. «Mi servirebbe una mano qui con la pulizia delle alghe.»

Il braccio di Lorenzo sventolò da dietro il tetto della grotta. «L’ho sistemata sul retro.» Un movimento fugace come la sua voce.

Daniela si voltò, perplessa, «Cosa?», scorgendo solo per poco il lento dondolio della sua coda.

Lorenzo si era indaffarato dietro la coltura di ostriche che aveva impiantato vicino al recinto dei granchi. Intrecciava le reti, isolava i grappoli di quelle ancora piccole, e usava uno spazzolino da denti comprato in superficie per strofinare i gusci di quelle più grandi, facendoli risplendere. «Che ho lasciato le altre falci sul retro» rispose, senza alzare gli occhi, «se sono quelle che cerchi.»

Daniela curvò un sopracciglio verso l’alto. «No, Renzo, ho solo…» Scosse il capo, sventolò un gesto di noncuranza, e sorvolò la questione, rimproverandosi per essersi aspettata maggiore supporto. «Non importa.» Rinfoderò il falcetto nella cinta, si lisciò la gonna, e lasciò perdere la pulizia delle alghe. Quel pomeriggio proprio non era in vena di sfaccendare.

Nuotò da Lorenzo in cerca di una distrazione. Sperò anche lei di riuscire a trovarla nelle ostriche che mutavano giorno dopo giorno, e che erano già diventate ben più grandi rispetto alle larve che avevano impiantato all’inizio della stagione.

Sfiorò uno dei grappoli appesi agli intrecci di corda, lo rigirò stando attenta a non graffiare i gusci con le unghie, o a separare le conchiglie, e fece scivolare una delle ostriche sul palmo. Sgranò gli occhi, sinceramente sbalordita. «Sono cresciute.»

Lorenzo annuì. «Abbastanza in fretta, sì.» Strinse forte un doppio nodo, nuotò all’indietro e flesse il capo per guardare fino in cima alle reti che salivano fino al tetto della loro grotta. «Forse è l’annata, o forse è la luce giusta, o forse è perché sto attento che le lumache non invadano le reti. Secondo te se lasciassi i granchi liberi le mangerebbero?»

«I granchi non mangiano le ostriche.» Daniela lasciò andare il grappolo di ostriche e alzò i palmi, inasprendo il tono. «E nemmeno io, se è per questo. La prossima volta che intendi iniziare una nuova attività, almeno assicurati che sia vantaggiosa per tutti.»

«Coltivare ostriche mi rilassa.»

«Ma è un lavoro così lento» ribatté Daniela. «C’è così tanto da aspettare.»

Lorenzo si strinse nelle spalle. Un gesto lento in cui cercò conforto. «Ormai aspettare fa parte della nostra vita.» Raccolse il secchiello con il becchime dei granchi ed entrò nel loro recinto, cosparse il mangime fra le alghe basse e richiamò l’attenzione dei crostacei che si precipitarono a pranzare. «Un lavoro lento è proprio quello che ci vuole per non accorgersi del tempo che passa.»

Daniela sentì una fitta di colpevolezza appesantirle il petto e annebbiarle i pensieri.

Per non accorgersi del tempo che passa…

Per non accorgersi dell’assenza di Luca, chiaramente. Si rimproverò per non aver considerato quanto anche Lorenzo sentisse la sua mancanza, così come la soffrivano lei e la nonna. E pure i pesci. Persino la casa soffriva, dalle sue pareti di roccia trasudava un respiro cupo, ed era diventata fin troppo silenziosa. Un silenzio fragile come una bolla di cristallo che minacciava di esplodere solo battendovi sopra la punta di un’unghia. Per questo Daniela aveva cominciato a covare quell’ansia di conservare l’ambiente della grotta e del prato come quando Luca se n’era andato. Ansia di tenere lo scoglio pulito, di pareggiare le punte delle alghe, di sradicare quelle morte, di non permettere alle lumachine di infestare il pascolo o agli anemoni di insinuarsi nelle rientranze dello scoglio. Trascorreva le giornate schiacciata dal costante terrore di scoprire una parte della casa fattasi più buia e fredda, privata del calore che solo Luca era in grado di trasmettere.

Nemmeno le gite a Portorosso, o le visite di Alberto, o le continue rassicurazioni di Massimo erano in grado di allontanare le voci di quei timori, perché l’estate era arrivata e Luca invece non era tornato. La schiuma di mare aveva assunto un profumo più dolciastro, la consistenza dell’acqua era più fluida e tiepida, dalla superficie scendeva una luce più limpida e dorata rispetto a quella spanta dalle grigie e interminabili giornate d’inverno. Ogni respiro preso sott’acqua e in superficie le ricordava che l’estate era giunta, e con l’estate tornavano anche gli ultimi ricordi che aveva condiviso con Luca. L’addio alla stazione, le rade nubi che quel giorno frammentavano i raggi del sole, l’odore ferroso del diluvio scrosciato sul treno in partenza, l’ultimo bacio schioccato sulla guancia di Luca, l’ultima volta in cui si era specchiata negli occhi nocciola di suo figlio che erano brillati di gioia e gratitudine.

Tirati su, Daniela.

Daniela si strofinò gli occhi, s’impettì, e tornò a indossare la sua migliore maschera di determinazione, di mamma coraggiosa. Doveva essere forte per quando Luca sarebbe tornato. «Be’, se hai così tanta voglia di far passare il tempo, allora fammi un favore e va’ a occuparti dei pesci.» Si girò verso il pascolo aperto, ancora distratta dalla crescita delle ostriche – cosa se ne farà Lorenzo di tutte queste ostriche, poi? –, e con la coda dell’occhio intercettò lo sguazzare azzurro-argento dei pesciolini domestici. «Li ho controllati stamattina ed erano… ehi.» I pesciolini sciamarono via, piegarono i ciuffi d’alga sotto il loro nuoto, e si lasciarono dietro solo una nuvoletta di bollicine. «Ma…» Daniela li inseguì con lo sguardo, ma l’orda era già scomparsa dietro le rocce, gemendo qualche belato di eccitazione che risuonò fino alle sue orecchie. «Dove vanno?»

Lorenzo scansò uno degli intrecci di ostriche, ma il suo sguardo era di nuovo distratto e distante. «Avranno visto uno squalo.»

«Non ti ci mettere con le battute» lo rimproverò Daniela, rizzando le squame. «Non è ora di battute.»

«Ma non era una battuta.»

Daniela scosse il capo. «Vado a riprenderli io.» Si rimboccò la gonna e diede uno slancio di coda per andare a riprenderli. «Chissà cosa gli è preso, poi, per nuotare…»

«… mancati. Vi sono mancato anch’io?»

Quella voce così improvvisa fu un colpo al cuore, una botta calda che sprofondò nello stomaco e che la lasciò tramortita, inebetita come si era ritrovata solo poco prima davanti alle incrostazioni delle alghe e alla falcetta smussata.

Giunse di nuovo il belare dei pesci, la gioia di quella risata, «Piano, piano, mi fate il solletico», e la familiarità di quella voce così vicina, troppo vicina.

E pensò che non potesse essere vero, che si trattasse solo di un eco del mare, che era stata la risacca o la bassa marea ad aver scoperto quel ricordo, perché Massimo li avrebbe avvisati del ritorno di Luca, Alberto sarebbe sceso a prenderli per accompagnare lei e Lorenzo alla stazione, Daniela avrebbe indossato i suoi abiti da umana e sarebbe uscita sventolando i capelli alla luce del sole e facendosi strada verso la piattaforma dei treni per correre a riabbracciare suo figlio. E invece lui era lì.

Luca…

Le bastò sollevare lo sguardo appannato dall’emozione, e sporgersi un po’, per andare incontro a quella voce che ridacchiava circondata dal nuoto dei pesciolini in festa, dal vortice delle loro pinne e dal coro dei loro belati.

La raggiunse per primo il profilo di Alberto.

Alberto nuotò più in alto per schivare i pesciolini più vivaci, incrociò lo sguardo di Daniela, le sorrise, sventolò il braccio per chiamarla e indicò verso il basso con l’altra mano. Le sue labbra mimarono: guarda chi c’è, guarda chi vi ho portato.

Daniela sentì quell’avido flusso di emozione crescere e galoppare attraverso il cuore, risalire il petto, stringerle il fiato in gola, e colmarle gli occhi di lacrime bollenti. «Luca!» Si slanciò in avanti com’era capace di fare solo sott’acqua, come non credeva nemmeno di essere più in grado di fare.

Luca calmò i pesciolini distribuendo le ultime carezze, accettando gli ultimi baci, e tenendo le mani aperte sulle loro testoline. Rivolse lo sguardo a Daniela, ritrovò i suoi occhi, le sorrise, un sospiro gli gonfiò la voce di stupore. «Mamma.» Tese un braccio verso di lei. «Mamma, sono…»

L’abbraccio di Daniela lo travolse facendo fuggire tutti i pesciolini. Lei se lo strinse al petto, gli carezzò la testolina prima di scoprire di starlo solo immaginando, prima che quell’illusione potesse svanirle fra le mani come sabbia. Luca, Luca.

«Urgh» gemette lui. «Mamma…» Le batté due volte la mano sulla spalla. «Soffoco…» Il tepore della sua voce le vibrò affianco alla guancia, perché Luca era ancora lì, non era un’illusione, non era sabbia, tantomeno un eco del mare.

Daniela trovò la forza di allentare l’abbraccio. Gli strinse il visetto paffuto, gli stampò un bacio sulla punta del naso. «Luca.» Poi lo baciò sulla fronte, sulla guancia, e di nuovo sul nasino, facendolo ridere come quando era piccolo. «La mia codina, la mia bollicina.» Tornò a stringerselo al cuore, senza trattenere i singhiozzi di gioia che le rimbalzarono nel petto.

Anche le sottili braccia di Luca la circondarono, le dita strinsero sugli abiti, il suo sorriso le toccò la guancia, «Sono a casa, mamma», e un tremolio di gioia vibrò attraverso il suo sospiro.

Daniela rise fra i singhiozzi, stretta in quell’abbraccio che valeva più di tutte le ostriche dei Sette Mari.

Luca era a casa.

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Capitolo 7
*** 7 ***


7

 

 

«Aspetta, aspetta, fammi capire…» Daniela rimase a metà del suo boccone di insalata di mare, facendo cadere una vongoletta dal cucchiaio, e sgranò gli occhi luccicanti di euforia. L’espressione già un po’ brilla per tutto il succo di calamari che si era scolata durante il pranzo per festeggiare il ritorno di Luca. «Vuoi sul serio dire che c’è gente che gioca a calcio davanti a tutta la città?» Mollò la posata e picchiò le mani sul tavolo, elettrizzandosi fino alla punta della coda. «Davanti a una città grande come Genova?»

Luca s’intenerì, sorridendole, e si servì dalla scodella di involtini che la nonna gli aveva appena passato. «Be’, sì, ma non solo.» Ne mise due affianco alla sua porzione di insalata. «Non sono solo quelli che vivono a Genova a seguire le partite, perché c’è un mucchio di gente che viene anche da fuori. Arrivano con le corriere, di solito. Di domenica ce ne sono a decine.»

Lorenzo alzò gli occhi al soffitto e rimuginò su quella scoperta, pensoso, «Cos’è una corriera?», tenendo il cucchiaio di uova di sgombro stretto fra le labbra.

«Ma come fanno a radunare tutta una città in una piazza soltanto?» Daniela corrugò un’espressione perplessa, e anche il suo sguardo vagò attraverso la parete, cercando di materializzare la scena. «Così solo quelli in prima fila riuscirebbero a guardare i calciatori.»

A Luca scappò una risata. Faceva davvero tenerezza vedere la mamma mettere da parte il grigiore delle ansie e abbandonarsi a quel colorato flusso di entusiasmo. «Non giocano nella piazza, mamma. Giocano allo stadio.»

«Ooh, allo stadio.» Daniela strinse i pugni e allargò un sorriso euforico che parve levigare e ringiovanire i tratti del suo volto. «Allo stadio, straordinario. E che cos’è uno stadio?»

Persino Alberto fu costretto a stringersi lo stomaco, a piegarsi in due e a ridere di soppiatto davanti a quella scena. Approfittando della sua distrazione, la nonna gli riempì il piatto con altri involtini di alghe e gamberi. Ogni volta che Alberto scendeva a trovarli, lei gli preparava sempre porzioni da capodoglio, sostenendo che non avesse ancora abbastanza ciccia su quel bel suo faccino.

«Be’, ecco…» Luca spiluccò dal suo piatto, rosicchiò un gamberetto pescato dall’insalata, però il suo stomaco emise un basso e doloroso gorgoglio di protesta. Quel giorno non aveva molto appetito, nonostante Daniela si fosse indaffarata per imbastire una tavolata degna del banchetto di Nettuno. Aveva riempito il tavolo a punto tale da farlo traballare ogni volta in cui vi aggiungeva qualche piatto o qualche ciotola. Insalata di frutti di mare, lumachine in umido, i cetriolini preferiti della nonna, scodelle traboccanti di uova di sgombro, e gli involtini d’alga che a Luca piacevano tanto, quelli con i gamberi. L’emozione della giornata però gli aveva ingarbugliato lo stomaco, e Luca doveva ancora riabituarsi a parlare, respirare e mangiare sott’acqua, dopo tutti quei mesi trascorsi unicamente in superficie. Meglio concentrarsi su qualcos’altro. «Lo stadio è tipo…» Guardò il soffitto della grotta e mimò la forma a uovo disegnando ampi cerchi con le mani. «È davvero una specie di piazza, sì. Ma ha una forma ovale, ed è circondato da file e file di posti a sedere tutti rialzati e concentrici, come uno di quei teatri dell’Antica Roma, ecco.»

Lorenzo, sempre più sbalordito, bevve un sorso del suo succo di calamaro e andò in cerca dell’approvazione di Daniela. «C’erano teatri nell’Antica Roma?»

«E i circhi» puntualizzò la nonna al posto suo. «Non ti dimenticare i circhi.» Sgranocchiò il suo cetriolino di mare e rivolse a Luca un sorriso fiero e compiaciuto. «Ti stai sul serio impegnando negli studi, vero, Bollicina?»

«Devo vederlo!» Daniela tornò a picchiare le mani sul tavolo, ardendo di determinazione. «Devo vederlo con i miei occhi, devo andare allo stadio. Renzo!» Prese suo marito per le guance e gli andò vicinissimo, viso contro viso. «Devi portarmi a Genova, Renzo, dobbiamo andare a vedere la partita allo stadio!»

Lorenzo si strinse nelle spalle, rimpicciolendosi, ma restando imprigionato nello sguardo di Daniela da cui sapeva non esserci scampo. «Tesoro, cosa devi andare a fare allo stadio?»

«Come cosa?» esclamò Daniela. «Devo giocare a calcio nel campo gigante contro tutta Genova.»

Luca si rosicchiò il labbro, provando un po’ di colpevolezza all’idea di infrangere il suo sogno. «Non possono giocarci tutti, mamma.»

Daniela lo guardò di sbieco, «Ah, no?», le guance di Lorenzo ancora spremute fra le sue mani palmate.

«No» confermò Luca, «solo i professionisti. Quelli che lo fanno per mestiere.»

«Cioè, vuoi dire che c’è gente che si guadagna da vivere giocando a calcio?» Daniela lasciò andare il muso di Lorenzo. Spinse le nocche sotto il mento, si adagiò con i gomiti sul tavolo, e smarrì lo sguardo in una nuvoletta di sogni e speranze. «Pensa che fortuna. Credi che io sarei abbastanza brava da diventare una professionista?»

Luca rinnovò il sorriso. «A patto che indossi le scarpe per giocare.»

Alberto finì il suo involtino, si succhiò le dita e rabbrividì. «E a patto che non uccidi nessuno sparandogli una delle tue solite cannonate in faccia.»

«Ehi!» Daniela gli puntò l’indice contro. «Quel metodo ha sempre funzionato.»

Una risata collettiva si sparse sulla tavolata, tenne acceso il buonumore che la illuminava.

Alberto affondò il cucchiaio nelle uova di sgombro che la nonna aveva aggiunto alla sua insalata mista. «Ma sul serio, Daniela, dovresti salire più spesso a Portorosso.» Divorò il boccone e strusciò la mano sulla bocca. «Magari non avremmo lo stadio, ma puoi sempre guardare le partite che danno in televisione. Al bar le fanno vedere ogni domenica. Certe volte anche di sabato. Io e Massimo non ci andiamo praticamente mai, perché il bar si riempie come una betoniera, e poi la domenica è il giorno in cui lui di solito mi insegna a cucinare qualcosa di nuovo. Ma tu ti troveresti bene.» Gli parve proprio di vederla: gli occhi fissi sul televisore, completamente assorbiti dalla luce azzurrina. Daniela che si infervora, che picchia i bicchieri di vino sul bancone del bar, che strilla assieme agli altri pescatori fino a sgolarsi, maledicendo arbitro, calciatori, rete, e palla compresa. Alberto ridacchiò a bassa voce. «Sì, staresti decisamente bene in un ambiente simile.»

Daniela fece spallucce e si rimise composta. «Cercherò di farmi vedere più spesso, d’accordo.» Sostituì uno dei vassoi vuoti, rifornì la tavolata con degli altri involtini di alga. «A patto che tu ti faccia vedere più spesso quaggiù da noi.» Lanciò ad Alberto un’occhiata truce. «O forse non ti piace come cucino?»

Alberto alzò le mani in segno di resa, ma il suo sorriso fu palese. «Mi sono forse mai lamentato?»

La nonna rise. «Bravo ragazzo.» Prese la scodella di cetriolini e gli riempì il piatto per l’ennesima volta. «Eccoti degli altri cetriolini, allora. Così diventerai forte come una piovra.»

Alberto si lasciò sprofondare nel suo posto a sedere e si massaggiò lo stomaco rigonfio. «Nonna, sul serio, ormai sono pieno.»

«Sciocchezze.» La nonna gli sventolò il mestolo davanti al naso. «I ragazzi alla tua età hanno sempre un vuoto di riserva nello stomaco. Su, su…» Batté due volte il manico sul piatto. «Così dai anche il buon esempio a Luca.»

Pure Daniela annuì, non riuscendo proprio a darle torto. «La nonna ha ragione, Luca.» Il suo sguardo, da truce e infervorato, tornò ad addolcirsi, facendosi materno e premuroso. «Non hai mangiato quasi niente, oggi. Sicuro di stare bene?»

Luca strinse i pugni, guardò in basso per schivare gli occhi di sua madre e l’espressione di timore balenata per un attimo anche attraverso il viso di Alberto. «Non è niente, mamma» la rassicurò. «È solo che sono un po’ emozionato. Fra il viaggio in treno e tutto il resto…» Preferì non rivelarle il malessere che aveva provato nel tentativo di riambientarsi sott’acqua, o il fatto che il suo corpo non stesse reagendo come avrebbe voluto, dandogli la nausea, i capogiri, e un lieve ma costante dolore alle ossa, soprattutto alla base della schiena, dove nasceva la coda. È passeggero,si convinse. È solo una fase passeggera, di sicuro. Non è il caso di darle delle preoccupazioni inutili. Si sforzò di smangiucchiare almeno qualche boccone in più. «Se vuoi, mamma, la prossima volta posso sempre portarti un nuovo pallone da calcio.» Cambiò discorso per distrarre Daniela. «Un pallone di pelle colorata, di quelli che vendono nei negozi vicino allo stadio. Dicono che siano molto resistenti.»

Alberto tornò ad arricciarsi dalle risate. «Talmente resistenti da sopravvivere alle sue cannonate?»

Lorenzo scosse il capo. «Non so se sia il caso di farla giocare con un pallone del genere» sospirò. «Sarebbe la volta buona che finisce per uccidere qualcuno.»

«Chissà…» Daniela intrecciò le mani sotto il mento e si strinse nelle spalle, un sorriso sognante ma spavaldo a incurvarle la bocca. «Magari sarò io a venirmelo a prendere, prima o poi.»

«Tu che ti allontani da casa?» esclamò la nonna. «Quasi non ti riconosco.»

«Grazie per la fiducia, mamma.»

«Ma dovrai metterti le scarpe per esplorare la città» puntualizzò Luca. «Genova è, ecco…» Si strofinò il capo, concentrandosi sui ricordi per visualizzarla. Le strade più ampie e spalmate di asfalto, intrecci più fitti dove le auto si ingarbugliano, edifici più alti e più numerosi, le luci colorate delle vetrine, la distesa di mare così ampia e popolata da enormi navi da carico grandi come balene d’acciaio. Gli odori più stantii e grezzi delle periferie, e quelli del centro città in cui si mescolava la dolcezza delle pasticcerie e i vapori speziati dei ristoranti di pesce. «Genova è molto diversa da Portorosso. Ci sono molti più edifici, e molte più strade asfaltate, e molte più auto. Pensa che c’è pure un’automobile gigante che si chiama autobus che può contenere decine di persone. Io e Giulia ci saliamo ogni mattina per andare a scuola.»

«Uhm.» Lorenzo si fissò un piede palmato, meditandoci sopra. «Calzare scarpe per venire in città, eh?»

La nonna invece sorrise con aria soddisfatta e strofinò la testolina di Luca. «Sembra che tu ti stia ambientando bene. Sei già un vero ometto di città.» Gli tenne sollevato il mento. Gli occhi così dolci fissi nei suoi. «Sembri davvero cresciuto da quando sei partito. E non solo nell’altezza.»

Alberto scoppiò a ridere. «Quella abbiamo già appurato che non è ancora abbastanza.» Strizzò l’occhiolino in direzione di Luca. «Luca deve impegnarsi ancora un po’ prima di accontentarsi.»

Luca sobbalzò sul posto. «Oh, be’, se…» Sentì le guance scaldarsi. Se si fosse trovato in superficie, era sicuro che sarebbero arrossite. «Io…» Tornò a strofinarsi la nuca, continuando a sentirsi piccolo come il pesciolino che era. «Sono anche fortunato perché posso sempre contare su Giulia e su sua mamma. È grazie a loro se mi sto ambientando bene e sto imparando così tanto sul mondo in superficie.» Soffiò un sospiro malinconico che però accompagnò con un sorriso di sincera gratitudine. «Anche quando mi sento un po’ lontano da casa.»

Quella consapevolezza s’impadronì di tutti loro. Sguardi più bassi e contemplativi volarono attraverso il tavolo, al di sopra dei piatti del pranzo, e un silenzio partecipe si sostituì al trillo delle posate. Nessuno di loro aveva mai preteso che la lontananza di Luca fosse un vuoto facile da affrontare.

«Il mondo degli umani funziona in modo molto diverso dal nostro» disse ancora Luca, «e ci sono ancora così tante cose che mi confondono, o addirittura che mi spaventano. Però…» Riacquistò un po’ di vigore con il quale sperò di poter consolare anche i suoi genitori. «Però ne vale la pena. A scuola ci insegnano che imparare significa proprio questo: non avere paura di vedere il mondo in maniera diversa da prima, anche se all’inizio ti senti un po’ insicuro di questo cambiamento.»

Alberto esitò davanti a quelle parole. Corrugò lievemente la fronte, abbassò lo sguardo sul suo piatto, grattò un unghia sul bordo del tavolo, e si mordicchiò il labbro inferiore, circondato da un sottile velo d’ombra di cui nessuno sembrò accorgersi.

La nonna sospirò, sognante e nostalgica allo stesso tempo. «Come sei fortunato a essere ancora così giovane.» Colse uno dei cetriolini dal piatto. «Lo sai, quando anche io ero una ragazza, era il mio sogno segreto quello di esplorare città grandi come Genova. Ma anche Roma, e Firenze, e Messina. Napoli!» Sgranocchiò il boccone e gli occhi le brillarono, proiettati sulle luci di un passato distante. «Ah, cos’avrei dato per poter scendere fino a Napoli, almeno una volta. Da piccola giuravo che sarei stata la prima a circumnavigare tutta l’Italia a nuoto per arrivare addirittura fino a Venezia e fermarmi a vivere lì. Che pazzerella che ero.»

Alberto, sbarazzatosi dell’ombra con una rapida scrollata di capo, la guardò con occhi larghi e affascinati. «E com’è che alla fine non è successo?»

La nonna si strinse nelle spalle. «Il mondo era decisamente diverso da adesso, sia fuori sia dentro l’acqua. Il coraggio non era una virtù sempre vista di buon occhio.»

Quella frase attraversò Luca come una stilettata.Coraggio?Si toccò il petto, massaggiando il punto dove era affondato quel dolore. Quindi, secondo la nonna io sarei coraggioso? Ebbe i suoi dubbi.

«Ma non fraintendete» dichiarò la nonna. «Non ho alcun rimpianto. Non mi sono mai pentita delle mie scelte. E non avrei potuto desiderare una vita migliore di quella che ho vissuto finora.»

«Grazie, mamma» commentò Daniela, a denti stretti. «Per un attimo ho creduto che volessi farmi sentire in colpa.»

La nonna rise, per nulla offesa. «Te la prendi per così poco.»

Lorenzo posò una mano su quella di Daniela, la tranquillizzò con uno sguardo d’affetto, placando quel bisticcio sul nascere.

Anche Luca sentì di dover fare la sua parte, e pensò lui a distrarre la nonna. «Ma possiamo sul serio andare a visitare Venezia, se vuoi, nonna. La prossima estate, magari. E dalla terraferma.» Si fece cogliere da un impeto di sano e vigoroso entusiasmo. «Ci andiamo con il treno, così puoi lo stesso realizzare il tuo sogno di vederla con i tuoi occhi.»

La nonna gli sorrise, colma di gratitudine. «Non ho bisogno di visitare Venezia per vedere realizzati i miei sogni.» Gli pizzicò una guancia fra due nocche. «Sapere che tu hai ereditato il mio spirito d’avventura è la soddisfazione più grande.»

Lorenzo corrugò un sopracciglio. «Spirito d’avventura?» Si coprì la bocca con il dorso della mano per ridere con discrezione. «Spirito spericolato, vorrai dire.»

«Visto?» esclamò Alberto, spalancando le braccia. «E poi sarei io il cattivo esempio?»

«Ooh, ma con te il nostro Luca è sempre stato in buone mani.» La nonna passò dallo spupazzare la guancia di Luca a spupazzare quella di Alberto. «Non avrò mai paura per Luca, a prescindere dalla vita che si sceglierà e da dove si troverà, se so che ci sarai tu a portare la sua codina fuori dai guai, quando ne avrà bisogno.»

«Oh. Gra…» Alberto strinse le palpebre per resistere al pizzico sulla guancia. «Grazie, nonna.» Spostò lo sguardo su Luca. «Ma Luca non è tipo da avere bisogno di qualcuno che corra a tirargli la coda fuori dai guai.» Gli fece l’occhiolino. «È un pesciolino cresciuto, ormai.»

Luca esitò, sentendo il calore sbiadire dal viso. Non seppe come interpretare quella frase, o se credere alle parole di Alberto.

Pesciolino cresciuto?

Si guardò le mani palmate, le girò da una parte e dall’altra. Mani così diverse rispetto a quelle che era abituato a vedere in superficie. Mani che impugnavano le penne, che sfogliavano le pagine dei libri, che pigiavano il pulsante dell’autobus per prenotare la fermata, che inforcavano il manubrio della bici, che impastavano la pizza assieme a Giulia, e che facevano le coccole a Nerone. Luca era innegabilmente cambiato – come lo era tutta la sua vita, dopotutto – ma nulla lo convinse di essere cresciuto quanto credevano Alberto, e la nonna, e i suoi genitori.

«Ehi, ehi, voi» s’intromise Daniela. «Andateci piano. Luca sarà anche cresciuto dall’anno scorso, ma non per questo smetterà di essere il pesciolino della mamma.» Lo strinse a sé, accostandolo al calore del suo petto, e gli sbaciucchiò la guancia. «E lo rimarrà per sempre.»

Luca socchiuse gli occhi, si abbandonò alla sicurezza che provava sentendosi avvolto dalle braccia di Daniela. Nemmeno quella sensazione di protezione, però, seppe acquietare il martellio di sensi di colpa che gli batteva sul petto, fastidioso e insistente come un chiodo. È vero, io ho avuto più possibilità di quante ne ha avute la nonna. E se ho potuto realizzare i miei sogni lo devo soprattutto ad Alberto che mi ha dato il coraggio di inseguirli, e alla mamma e al papà che mi hanno concesso di andare a vivere a Genova, anche se questo ha significato lasciare casa. Sono fortunato.Poggiò la fronte sul petto di sua mamma, una sensazione che gli era mancata per tutto l’inverno e che ora gli strinse il cuore, facendogli desiderare di sciogliersi nell’amore di quell’abbraccio. Ho una famiglia che mi supporta, nonostante i sacrifici. Portare avanti questo mio impegno è il modo migliore per ringraziarli, considerato tutto quello a cui stanno rinunciando per me.

«Grazie per essere stati così comprensivi con me» mormorò Luca. «Grazie…» Alzò la fronte per guardarla negli occhi. «Per avermi permesso di andare a Genova.»

Lei gli sorrise di rimando, senza alcuna ombra di rimorso. «Non ringraziare noi» disse. «Ringrazia Alberto.» Lo indicò con un’alzata di mento. «È solo merito suo se ci siamo convinti.»

Alberto ridacchiò di soddisfazione, spinse il petto all’infuori e si lucidò gli artigli sulla spalla. «Dovrei sfruttare più spesso il mio innato carisma, se le cose stanno così.»

Lorenzo si alzò a impilare un paio dei piatti vuoti. «Ma mi sembra che Massimo ti stia già sfruttando abbastanza, Alberto. Come va la pesca?»

Alberto la prese alla leggera. «Oh, suvvia, sfruttare è una parola esagerata. Vedi la nostra più che altro come una…» Spinse la punta della lingua sul palato e fece mulinare la mano, in cerca del termine giusto. «Mutua collaborazione fra mare e terra, ecco.»

«E fate un buon raccolto?»

«Dipende dalla stagione, ma Massimo mi sta insegnando molto, e secondo me anche io sto insegnando qualcosa a lui. Ma posso capirlo.» Alberto si strinse nelle spalle. «Dev’essere difficile per un umano stare dietro alle migrazioni dei banchi di pesce, o capire come funziona il cambio della stagione qui sott’acqua. Potresti entrare anche tu negli affari, sai?» Annuì, sempre più convinto. «Potresti nuotarci dietro, quando usciamo in barca, magari darmi una mano con le reti o con gli inseguimenti, e poi prenderti come compenso una parte di quello che peschiamo.»

Lorenzo impilò un altro piatto e sospirò, nostalgico e avvilito. «Magari avessi ancora le tue energie per nuotare dietro ai banchi di pesci. Poi ora sono più impegnato del solito perché ho installato una cultura di ostriche che si è aggiunta all’allevamento di granchi. Ho le giornate piene, purtroppo.»

«Ah, è vero: ora hai anche le ostriche.» Alberto diede uno slancio di coda e si strofinò le mani. I suoi occhi brillarono di curiosità. «E sono cresciute molto? Devo vederle.»

«Veni, vieni.» Lorenzo mollò i piatti e lo condusse fuori dalla grotta senza farsi pregare. «Non sono ancora maturate completamente, quindi non ti aspettare grandi cose, ma secondo me diventeranno enormi. Spero siano anche buone, ma sono fiducioso, perché mi hanno insegnato che il segreto per renderle ancora più saporite è…»

Le loro voci sfumarono, svanendo assieme ai loro due profili che si dileguarono dietro una nuvoletta di bolle e che attraversarono il recinto dei granchi per andare a sguazzare attorno alle reti delle ostriche.

La nonna rise, finì di occuparsi dei piatti abbandonati da Lorenzo. «Stai attento, Luca» lo ammonì. «O andrà a finire che il papà ti porterà via Alberto.»

Luca provò un freddo e pesante colpo allo stomaco. Deglutì, trovando la bocca amara. Scrollò il capo e si grattò il braccio per scrostarsi di dosso quella sensazione così sgradevole e inaspettata.

Daniela gli toccò la schiena. «Vieni.» Lo condusse in disparte, fuori dalla sala da pranzo. «Ti mostro una cosa.» Si rintanarono in un angolino della grotta più appartato, ma bene in luce. Daniela aveva allestito una piccola nicchia nella roccia per conservare tutti gli oggetti e i regali che Luca spediva loro da Genova. Gliela mostrò, tutta inorgoglita. «Guarda, qui c’è spazio per tutto quello che invii da Genova.» Toccò uno dei soprammobili, il magnete da frigorifero raffigurante la Lanterna di Genova. «Ho scelto di allestirlo in un angolo abbastanza in vista, così è un po’ come averti qui con noi anche quando non ci sei. Mi dispiace solo non poter conservare nessuna delle tue lettere quaggiù senza che si squaglino.» Rise, senza nascondere la tristezza che si celava dietro quella risata.

Luca riconobbe tutti i piccoli regali che aveva spedito da Genova, uno per ogni festività od occasione speciale. Aveva comprato il magnete da frigorifero in una edicola che vendeva anche cartoline per turisti, durante il primo giorno in cui Giulia lo aveva portato a visitare Genova. Si trattava di una incisione a bassorilievo della Lanterna, con una nave da carico che si allontanava dal porto, e la bandiera dell’ex Repubblica Marinara a sventolare sopra il nome della città. Poi ancora un piccolo Babbo Natale sorridente acquistato nelle bancarelle allestite durante il mese di dicembre. Una maschera di Arlecchino composta da scaglie di vetro multicolore. Una Chiave di San Valentino. L’agnellino accovacciato che lui e Giulia avevano ricevuto in regalo quando erano andati a comprare la Colomba di Pasqua in pasticceria. E infine il pupazzetto di Calimero che avevano trovato in una confezione di detersivo per lavatrice.

«È bellissimo, mamma.» Le sorrise. «Sembra proprio una delle mensole che abbelliamo anche in superficie.»

Spostò uno dei ninnoli, e intercettò una scaglia di luce che lo colse alla sprovvista, spiazzandolo e strappandogli il fiato dalla bocca. Dietro i suoi doni era conservato qualcos’altro, anche se meno in vista. La sveglia e la carta da gioco che aveva raccolto e nascosto l’estate prima. Credeva che i suoi genitori se ne fossero sbarazzati.

Li hanno tenuti.

Sfiorò il quadrante della sveglia dietro il quale giacevano le lancette immobili. Fu strano poter di nuovo toccare quegli oggetti. Gli sembrarono rubati a un’altra dimensione, a un tempo fin troppo distante per essere appartenuto alla sua breve vita da adolescente.

Che strano,gli venne da pensare. Credevo che li avessero buttati, o che non volessero neanche più vederli, considerato tutto quello che è successo dopo che li ho trovati. E invece li conservano ancora. Mamma e papà devono sentire tantissimo la mia mancanza, anche se cercano di non farmi preoccupare troppo.

«Mi dispiace non potervi inviare molto di più, quaggiù.» Luca rigirò la Chiave di San Valentino. Era fatta di metallo, semplice ferro rivestito di finto oro, ma l’erosione del sale la stava già intaccando, al contrario dei ninnoli di porcellana che erano solo un po’ sbiaditi. «È difficile trovare qualcosa che non si rovini stando così a lungo sott’acqua.»

«A noi basta avere tue notizie» lo rassicurò Daniela. «E sentire la tua voce, anche se solo con il telefono. E soprattutto sapere che sei al sicuro.» Gli carezzò la guancia. «Al sicuro e felice.»

Luca sorrise, ritrovando la sua spontaneità. «Ma lo sono.» Rimise giù la Chiave e contemplò ancora una volta quegli oggetti così comuni eppure così preziosi. «A Genova imparo un mucchio di cose. Stare assieme a Giulia e a sua mamma non mi fa sentire troppo lontano da casa, anche nei giorni in cui magari sento un po’ di nostalgia.»

«Lo sai che noi saremo sempre qui ad aspettarti se avessi bisogno di tornare. Per qualsiasi cosa.»

«Lo so, mamma.» Quell’immagine era chiara e rassicurante nei pensieri di Luca: lui che tornava a Portorosso, che si lasciava scivolare verso il fondale, che si adagiava sullo scoglio, riposando le membra stanche e ritrovando così le energie per slanciare un nuovo tuffo che lo avrebbe ricondotto in superficie. La sua casa, la sua famiglia, il suo scoglio sicuro. Nulla a che vedere con la prigione abissale in cui si era proiettato un anno prima. «So che voi ci sarete sempre.»

Daniela gli sorrise, gli occhi commossi, e gli schioccò un bacio sulla fronte. I baci quel giorno sembravano non essere mai troppi. «Mangi abbastanza, vero? E hai abbastanza abiti? Quelli che ti abbiamo spedito sono abbastanza caldi?»

«Sì, mamma.»

«Menomale.» Daniela si posò una mano sul petto, sospirando a lungo. «Ah, io la logica del clima terreno proprio non riuscirò mai a capirla.»

«Credevo che ormai foste abituati, tu e papà.»

«Oh, Luca.» Daniela sventolò un colpo di coda, scivolò verso la sala da pranzo. «Magari per noi fosse facile come lo è per te. Lo spirito dell’avventura salta una generazione, a quanto pare.»

«Fa…» Luca storse il naso in una smorfia. «Facile?» Non è che la mia vita sia poi così priva di sforzi. Forse sono io che la faccio sembrare più semplice di quello che è in realtà? «Ma sarebbe bello vedervi più spesso in superficie, ora che è estate. Come ha detto Alberto.» Andò ad aiutare Daniela con i piatti avanzati, quelli che la nonna non aveva ancora portato via. «E anche Massimo vi aspetta sempre, lo sai.»

«Ora che sei tornato, di certo non ci faremo aspettare o pregare, te lo prometto.»

Fuori dalla grotta si mescolò un basso brusio di voci alternato al belare occasionale dei pesci del pascolo. Alberto e Lorenzo stavano ancora studiando la coltura delle ostriche. Rigiravano i grappoli fra le mani, Alberto annuiva a quello che Lorenzo gli spiegava. Quell’immagine catturò lo sguardo di Luca e lasciò il segno. Tornò la salda sensazione di sicurezza trasmessa dall’idea che Alberto fosse il suo ponte fra mare e terra, quel filo che avrebbe sempre saputo tirarlo verso la direzione giusta, impedendogli di perdersi. Luca fu così grato di averlo al suo fianco. «Alberto mi ha raccontato che certe volte è lui che viene quaggiù ad aiutarvi con i pesci.»

A Daniela scappò una risata. «L’intenzione è quella, sì.» Impilò una scodella sull’altra. «Le volte in cui non si perde dietro a Giuseppe e quelle in cui lui e tuo padre si perdono dietro i granchi e le ostriche, per lo meno.»

«Alberto fa del suo meglio.» Anche a Luca venne da ridere. «Non avercela con lui.»

«Ma lo so» lo confortò Daniela. «So che non gli manca la buona volontà, anche se non potrebbe essere più diverso da te.» Ripulì uno dei vassoi, si strinse nelle spalle. «Ma è così che nascono le amicizie migliori, suppongo.»

Le amicizie migliori?meditò Luca. Che strano, è la stessa cosa che mi ha detto anche Giulia. Forse è proprio così, allora.

Lui e Daniela si ritrovarono di nuovo soli. C’era quel silenzio pacato a proteggerli, interrotto solo dallo squillo dei piatti che si toccavano fra loro, e dal soffice brusio proveniente da fuori, schermato dalla quiete dell’acqua e dal dondolio delle tende di alghe. C’era anche quel nodo allo stomaco che Luca sentiva di dover sciogliere, tutte quelle parole che aveva bisogno di cacciare fuori dal petto. «Uhm…» Luca strinse le mani sui piatti impilati, le punte delle unghie graffiarono la pietra. «Mamma, ecco, io…» Girò lo sguardo, schivò gli occhi di Daniela. «Volevo solo dirti… a proposito di quello che è successo l’anno scorso, e tutto il resto…» Si morsicò il labbro. Un formicolio di nervosismo si propagò attraverso le guance e lungo il collo. «Voglio solo che tu sappia che…» Un respiro profondo e refrigerante. Puoi farcela. «Che non è stata colpa di Alberto se io sono finito per salire in superficie, e per scappare in quel modo, e…» Rosicchiò il labbro stretto fra i denti. «E all’inizio un po’ sì, d’accordo, ma…» Sventolò una mano verso Daniela. «Ma non in quel senso. Cioè, lui ha solo voluto aiutarmi. Forse anche lui voleva proteggermi, come avete cercato di proteggermi voi. Anche se in maniera un po’ diversa, e più a modo suo, ecco. Ma Alberto non ha mai avuto brutte intenzioni nei miei confronti. Quindi non…» Trovò la forza e il coraggio di risollevare la faccia, di sostenere lo sguardo di Daniela senza vacillare. «Non avercela troppo con lui.» Svanì ogni insicurezza. «E non pensare che sia colpa sua se ora io vivo in superficie, lontano da qui.» Di nuovo la coda dell’occhio gli cadde al di fuori della grotta, verso il rapido lampo blu del nuoto di Alberto che si era spostato per carezzare uno dei granchi del recinto. «Forse anche Alberto ha bisogno di qualcuno con cui stare ogni tanto qua sott’acqua, anche se vive con Massimo e anche se si sta costruendo un’altra vita in superficie. So che tu e il papà e la nonna ci sarete sempre per me, ma mi prometti…» Lasciò i piatti sul tavolo e rivolse a Daniela un’occhiata di premura. «Che ci sarete anche per lui?»

Daniela gli sorrise, senza dubbi e senza esitazione. Il suo pesciolino era di certo cresciuto rispetto a un anno prima.

Si chinò a posargli un bacino sulla fronte, strofinò il naso sul suo facendolo ridacchiare. «Promesso.»

La quiete s’interruppe, la voce di Alberto si materializzò sulla soglia, «… e ora gli affari spiccheranno sicuramente il volo, una volta che avremo l’Ape con cui fare le consegne al posto della bici», scivolando dentro casa assieme al suo nuoto.

Lorenzo sbucò dietro di lui. «Ape? Come l’insetto?»

«No, è un furgoncino.» Alberto si batté il pollice sul petto. «E la guiderò io, chiaramente. Oh, be’, in realtà non ce l’abbiamo ancora, e non siamo nemmeno andati a parlare con il meccanico per farcene riservare una, ma ormai ho quasi convinto Massimo, quindi è sicuro al mille per mille che prima o poi sarà nostra.»

«Conservate uno spazio sul furgoncino anche le mie ostriche, allora.»

«Geniale» esclamò Alberto. «E non rivolgerti a nessun altro, eh, sennò mi offendo. Ma ora, se non vi dispiace…» Raggiunse Luca, raccolse la sua mano, e nuotò sul dorso portandoselo dietro. «Sono proprio costretto a portarvi via Luca. Ho promesso che lo avrei riaccompagnato di sopra in tempo per l’ora di cena, e io sono un pesce di parola. Ma adesso che è estate possiamo anche organizzare più cene assieme.»

«Abbiamo portato le trofie da Genova» annuì Luca. «Dovete assolutamente venire ad assaggiarle.»

La nonna tornò a sbucare dall’altra stanza della grotta. «Ooh, le trofie» esclamò. «Da quanto tempo che non le mangio.»

«Luca, aspetta.» Daniela inseguì lui e Alberto fino alla soglia di casa. «Ci vediamo a cena, allora?»

Luca sventolò un ultimo saluto verso di lei. «Vi aspettiamo!»

Lorenzo mostrò a Daniela una delle scodelle svuotate. «Dici che posso portare un po’ di insalata di lumachine di mare?»

«No, Renzo» gli rispose Daniela. «Gli umani non mangiano le lumache di mare.»

«Ma credevo che…»

Le loro voci si dispersero, risuonarono fra le pareti della grotta e lì rimasero, mentre Alberto e Luca nuotavano lontani dal fondale, distanti dai prati di alga e dalle cupole delle abitazioni subacquee.

Luca si girò un’ultima volta, c’era ancora qualcuno da salutare. «Ciao, Giuseppe! Mi raccomando, fai il bravo mentre sono via.»

Il pesciolino emerse dalle alghe, sbatacchiò le pinne, «Bee!», felice come quando si erano ritrovati.

Nuotando dietro Alberto, Luca non riconobbe la strada del ritorno. Passarono la grotta dei Branzino, i campi degli Aragosta, uscirono dal villaggio, e andarono nella direzione opposta rispetto a quella da dove erano arrivati, verso una zona del mare distante dalla costa, dal fondale di ciottoli, dagli stormi di gabbiani in volo, e dagli scogli erosi dai flussi delle maree.

«Uhm, Alberto.» Luca si tenne aggrappato alla sua mano, accelerò il nuoto per fiancheggiarlo. «Dov’è che andiamo?» Indicò dietro di sé. «Portorosso è di là.»

«Lo so» disse Alberto. «Seguimi.» Gli rivolse uno sguardo sereno che ispirava fiducia. «Prima ti faccio vedere una cosa.» Sbatté forte la coda e compì un guizzo attraverso una foresta di alghe che si spalancò davanti a lui come la tenda di un palcoscenico.

E, come accadeva sempre, Luca non poté fare altro che fidarsi delle sue parole e nuotare dietro la sua scia.

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Capitolo 8
*** 8 ***


8

 

 

Luca non seppe riconoscere immediatamente la strada subacquea che stavano percorrendo. Un po’ perché era troppo impegnato a dar lavoro ai muscoli per nuotare al passo con Alberto, a inseguire i guizzi blu e viola della sua coda, e un po’ perché certi ricordi il cuore tende ad accantonarli, a soffocarli sotto strati di memorie più dolci e meno dolorose.

I primi ricordi riaffiorarono e bisbigliarono alle sue orecchie quando il fondale subacqueo si alzò di livello, avvicinando il corso del loro nuoto alla superficie del mare, alla luce più chiara del sole, accompagnandoli verso la riva dove l’acqua era di un limpido azzurro turchese, dove le alghe si sfoltivano, brillando di un verde smeraldino, e dove la spiaggia di ciottoli si sbriciolava sotto l’accavallarsi lento e ritmico delle onde di schiuma. Dietro lo specchio di mare su cui galleggiava qualche fogliolina trascinata dal vento, si materializzò il promontorio scosceso dell’isola, la larga chiazza verde della vegetazione che si arrampicava sulla collina, e il profilo diroccato della vecchia torre slanciata contro l’azzurro del cielo.

Luca frenò il nuoto con uno slancio di coda, tirò indietro le spalle e rimase in ammollo, sospeso fra il fondale e il pelo d’acqua della superficie, ritrovandosi con la mente svuotata e un palpito del cuore fermo in fondo alla gola. Non riuscì a crederci. Come non poté credere ai suoi occhi quando vide Alberto proseguire la nuotata senza alcuna esitazione, risalendo leggero attraverso la corrente d’acqua allo stesso modo in cui poco prima era scivolato nella grotta dei suoi genitori, come se si fosse trattato di andare a prendere uno spuntino.

Luca schiuse le labbra, tirò su il respiro, ma scese solo un tonfo di dolore che gli raggelò il fiato nel petto, lasciandolo immobile, incapace di muoversi come se fosse stato immerso nel ghiaccio. L’eco di quella botta fu una risonanza profonda che penetrò nello stomaco come la stretta di un artiglio. L’acqua divenne buia. L’immagine della torre riflessa nei suoi occhi si circondò di una nebbia grigia che nemmeno il caldo sole di fine giugno riuscì a squagliare.

Cosa ci facciamo qui?

Alberto si avvitò su se stesso, ancora sott’acqua, sospeso fra il fondale di alghe e lo specchio azzurro della superficie. Gli sarebbe bastato sollevare la punta del muso per uscire dall’acqua e respirare una boccata di ossigeno. «Che aspetti?» Rise senza l’ombra di preoccupazioni a contaminargli il sorriso. Sbracciò più volte in direzione di Luca. «Vieni, su.» Emerse per primo, seguito in ultimo dallo strascico della sua coda. Si diede una scrollata, ancora con l’acqua alle caviglie, e Luca dal basso scorse il suo corpo che mutava, le squame che si ritiravano, il colore bronzeo della pelle che si arrampicava su gambe e braccia. Alberto tirò fuori le zampe dall’acqua, premette le palme sul suolo di ciottoli, e i suoi piedi asciutti solcarono una doppia scia di impronte verso il confine con il prato.

Ritrovandosi da solo, con il respiro ancora fermo in gola, Luca ricordò qualcosa di importante.

La spiaggia di quell’isola era stato il primo luogo che aveva assistito alla sua prima trasformazione. La spiaggia su cui Luca aveva premuto il suo primo passo con i suoi piedi da umano. La spiaggia che aveva benedetto l’amicizia fra lui e Alberto.

Incoraggiato dal tepore di quei ricordi, Luca raccolse un respiro profondo, sbatté la coda, risalì il fondale, spinse i piedi fra le alghe, chiuse gli occhi ed emerse lasciando grondare l’acqua dai capelli e dalle guance. Sbuffò il fiato dalle narici mutate, di nuovo rosee. Il calore del sole batté sul viso e sulle braccia, il suo piacevole formicolio fece raggrinzire le squame sotto gli abiti e asciugò la membrana fra le sue dita. Luca si passò una mano fra i capelli, strizzò la soffice consistenza dei riccioli e scrollò la mano asciutta. Si gonfiò i polmoni inspirando avidamente il profumo aspro di mare aperto, quello dolce e speziato di macchia mediterranea, dei lauri e dei cipressi che, in quel periodo dell’anno, sotto un sole così generoso, odoravano di miele, e succhiò le labbra ancora bagnate di salsedine.

Anche il mare era più tiepido. Così distanti da Portorosso, non si udivano le campane del porto, i ronzii delle barche, ma solo le strida occasionali dei gabbiani, lo scroscio lento e regolare delle onde che si accavallavano facendo schiuma fra i suoi polpacci ancora rivestiti di squame. Il canto del vento soffiò più forte, risucchiò una zaffata che scosse la chioma dell’albero che cresceva più vicino alla loro torre. La torre rimasta tale e quale a come Luca la ricordava.

Luca batté le palpebre, si stropicciò le ciglia bagnate dell’occhio destro, e si riabituò alla luce della superficie. Levò lo sguardo oltre la cima della torre, oltre la cresta verde dell’albero, fino a fronteggiare la volta di cielo smaltato che rivestiva l’Isola del Mare. Si strinse una mano al petto. «Ooh.» Fu un sospiro di stupore che gli lasciò dentro un inaspettato solco di dolore.

Credeva che non sarebbe mai più tornato lì. Credeva che Alberto non volesse avere più niente a che fare con quel posto. Quel pensiero lo aveva attraversato anche quando, durante il viaggio di ritorno in treno, aveva scorto l’isola da dietro il finestrino. Era convinto che sarebbe stato quello il suo destino: limitarsi a guardare la torre da lontano, a rivivere i ricordi solo attraverso una polverosa patina di nostalgia.

E invece…

«Be’, che hai?» Alberto scrollò le spalle, si sturò un’orecchia e si strofinò la guancia per asciugarsi dalle ultime tracce d’acqua. Rise e arricciò la punta del naso come per fare il verso a Luca. «Sorpreso di trovarti di nuovo qui?»

«Ecco…» Luca giunse anche l’altra mano sul petto, proprio sopra il battito del cuore. «S-sì.» Si schiarì la gola, ancora arricciato nelle spalle. «Sì, un po’ sì, in effetti.» Tirò i piedi fuori dall’acqua, passeggiò sul suolo di ciottoli – lisci e levigati come confetti – che si deformò sotto di lui, per poi attraversare il manto di erba e fiori di trifoglio che gli asciugò le palme facendo solletico fino alle caviglie.

Giunse di nuovo una zaffata di vento che profumava di vegetazione selvatica, di bacche vischiose, e di corteccia resinosa. Luca lo riconobbe, e quel profumo lo riportò indietro, facendo galoppare il cuore e scorrere i ricordi. «Credevo che anche tu non saresti più tornato qui» confessò ad Alberto. «Che non lo volessi.» Gli rivolse uno sguardo addolcito dalla premura, dal timore di ferirlo. «E che non ne avessi più bisogno.» E non posso credere che tu riesca a camminare su questa isola con tutta questa disinvoltura. Tu che hai vissuto questo luogo come una prigione, prima che arrivassi io. O forse mi sto solo preoccupando troppo?

Il sorriso di Alberto assunse una sfumatura d’ombra, si arricciò con un angolo verso il basso. Alberto schivò lo sguardo di Luca, si grattò il capo, e anche lui alzò gli occhi verso l’albero che ombreggiava il fianco della torre. «All’inizio è stata abbastanza dura, non lo nego.» Diede un piccolo colpetto al suolo con la punta del piede nudo, sbriciolando una zolla di terra sabbiosa, e giunse due dita sull’ago di una pianta grassa che cresceva fra gli scogli della spiaggia, senza lasciarsi pizzicare. «Pensa che facevo persino fatica a guardare in questa direzione, verso la scogliera e la torre. Poi però mi toccava sempre più spesso doverci passare vicino, per la pesca con Massimo, o anche quando andavo a trovare i tuoi genitori. Ci ero costretto. Non mi piaceva, ma cercavo di farmene una ragione.» Si strinse nelle spalle, lasciò in pace la pianta grassa, e risalì il breve pendio d’erba, dirigendosi verso la base della torre. «Poi, man mano che il tempo passava, ho scoperto che cominciava a fare sempre un po’ meno male guardare in questa direzione. I brutti ricordi c’erano ancora, chiaro, ma erano più sbiaditi. Oppure, ecco…» Picchiettò una nocca sul palmo, sempre nello stesso punto. «Era come se il dolore ci fosse ancora ma insistesse su una parte del tuo corpo che ormai, a forza di ricevere martellate, si è indurita in un callo.» Lanciò a Luca un’occhiata sbieca da sopra la spalla. «Rendo l’idea?»

Luca si morsicò il labbro che sapeva ancora di sale, ma annuì. «Sì.» Quell’immagine però gli fece male, fu l’ennesimo vuoto allo stomaco. Fu doloroso pensare di non essere stato vicino ad Alberto mentre lui sopportava una tale agonia. «Credo di sì.»

Alberto raggiunse la torre, spinse le mani sul primo gradino della scala fatta di corda e assi di legno, ne controllò la stabilità. «Allora un giorno, dopo l’ennesima volta che mi era toccato guardare in questa direzione, mi sono detto: perché no? E così mi sono deciso a tornarci.» Infilò il piede nel primo gradino. «Non che adesso sia poi così importante.» Offrì la mano a Luca, chiamandolo a sé. «E non è che io abbia poi così tanto tempo da trascorrerci, fra la vita a Portorosso, il lavoro con Massimo, le consegne, e tutto il resto.» Lo aiutò a risalire la prima asse, e poi si arrampicarono assieme. «Ma mi dispiaceva abbandonare completamente questo posto, e vederlo ridursi a una misera rovina. Meglio ricordarlo per le cose belle piuttosto che per le cose brutte, no?»

Luca sorrise senza sforzo. Di certo, racchiusi fra le mura di pietra di quella torre, non mancavano i bei ricordi. Risalendo la scala dietro Alberto, poi, si accorse di come le assi traballassero di meno e di come la corda tesa non emettesse alcuno scricchiolio. Ancora una volta, come davanti al nuovo letto di Giulia, ebbe modo di stupirsi e di rallegrarsi per come le costruzioni di Alberto fossero diventate più solide e meno fatiscenti.

Giunto in cima alla torre, Luca dovette staccare una mano dalla corda della scala per coprirsi gli occhi e parare lo schiaffo di luce giunto da una delle finestre. Riscoprì la familiarità di quel luogo, le nicchie d’ombra incuneate fra la pietra diroccata, gli spazi azzurri del cielo ritagliato dai margini delle finestre, il riverbero polveroso e un po’ stantio che tingeva le pareti di un tenue color sabbia, e il panorama distante, sfiorato dalle tendine aperte, striato dalle nubi color cotone che fluttuavano sopra le altre isolette e sopra la costa.

Luca abbassò la mano. «Ooh!» E i suoi occhioni si colmarono di una meraviglia scintillante. «È tornato tutto a posto.»

Alberto si portò al centro della stanza, spalancò le braccia e compì una mezza piroetta. «Sì, be’, tranne che per il fatto che non colleziono oggetti così assiduamente come una volta.» Lo spazio attorno a lui era in effetti più vuoto. I mucchi di oggetti erano più scarni e più ordinati. Giusto qualche cassetta dell’ortofrutta colma di strumenti scintillanti, la ruota sgonfiata di una bicicletta, travi di legno raggruppate nell’angolo, qualche targa di automobile, e la rete della vecchia amaca raggrumata sotto un ripiano da lavoro simile a quello della loro cucina. Sul ripiano da lavoro, giacevano i resti di una vecchia radiolina sventrata e smontata delle componenti sparpagliate su un foglio di carta scarabocchiato da appunti e da piccoli disegni. «Voglio dire…» Alberto raccolse una rotellina smontata dalla radio, la rigirò fra le dita e la fece rimbalzare sul palmo. «Ora non ho più così bisogno di raffazzonare la roba degli umani, dato che ci vivo dentro.» La rimise giù.

Luca tenne gli occhi alti e compì i primi passi all’interno della torre proprio come la prima volta in cui era entrato in quel luogo, con la stessa sensazione di star camminando in una dimensione sospesa, distante dalla sua casa sul fondo del mare e distante da Portorosso. Raggiunse la parete più colorata, sorrise all’immagine raffigurata su un poster che riconobbe e che sembrò essere appeso lì proprio per dargli il bentornato. «Hai tenuto il nostro poster.»

La Vespa gialla che sfrecciava in uno spazio senza confini, la parola “Libertà” che batteva come un cuore.

E pensare che tutto è partito unicamente da questo. Dal sogno della Vespa. Dal nostro desiderio di libertà.

Alberto aveva aggiunto anche altri poster sulla parete, ecco perché la camera appariva anche più colorata, oltre che più spaziosa.

Oltre al poster della Vespa, Luca ne riconobbe uno delle Fabbriche FIAT, uno delle Ruote Cinzano che sicuramente Alberto aveva rimediato dal meccanico del paese. Poi uno del Martini che ritraeva una bella signora in abito da sera intenta a sorseggiare un cocktail. E anche poster dei film che avevano proiettato nell’unica sala cinema di Portorosso: Vacanze Romane, Spartacus, Il Dottor Stranamore. Ma anche poster pubblicitari degli stabilimenti balneari della Riviera, e pure il manifesto della sagra di paese che elencava tutte le orchestre che vi avevano partecipato.

Luca toccò il poster a lui più caro, il più sbiadito e screpolato, il più familiare. Le sue dita attraversarono l’immagine della Vespa gialla, si soffermarono sulla consistenza ruvida della carta.

E i segni sul muro?

Luca deglutì, vittima di un crampo di dolore sorto a rodergli il petto.

Saranno ancora qui? Alberto li avrà raschiati via o saranno rimasti?

Non volle chiederglielo, il timore di affondare le dita in quella ferita gli fece tremare le ginocchia. Sperò solo che quei ricordi non fossero più causa di dolore per Alberto. Tutto il resto era irrilevante.

Luca compì ancora qualche passo senza staccare gli occhi dai poster, incantato dai loro colori, dai disegni squadrati, dalle grandi insegne cubitali, e inciampò sulla ruota di bicicletta. «Ah!» La afferrò prima che potesse andare a sbattere contro la costruzione più vicina, e inevitabilmente i suoi occhi caddero su una porzione di legno verniciato, su qualcosa che l’anno scorso di certo non era lì. «Oh» esclamò. «Ma questo…» Si inginocchiò a esaminare una testiera ad arco molto simile a quella che era intagliata anche nel nuovo letto di Giulia. Nello stesso cantuccio erano accatastate anche gambe di legno di diverse lunghezze, pezzi di scarto ammucchiati dentro un secchio e, poggiata sul muro, affianco al ripiano da lavoro, c’era anche una rete sbilenca priva di materasso. «Questi sono…»

«Letti?» Anche Alberto si inginocchiò lì affianco per riordinare. Ne approfittò per sistemare alcuni degli attrezzi dentro le cassette dell’ortofrutta. Luca riconobbe alcuni degli arnesi che avevano utilizzato anche per assemblare i vecchi prototipi di Vespa. Cacciaviti, martelli, brugole, lime, mazzi di chiodi e manciate di bulloni. «Sì» annuì Alberto, «sono tutti i tentativi falliti che ho messo assieme prima di costruire quello che c’è in camera di Giulia.» Fece ricadere l’ultimo chiodo nella cassetta degli attrezzi, si ripulì le mani, e posò lo sguardo imbronciato sugli scarti di legno che giacevano sulla parete di pietra. «Ma anche quello sarà da aggiungere al mucchio dei tentativi falliti, suppongo.»

«Giulia sembrava molto intenzionata a tenerselo.»

«Vorrà dire che mi impegnerò per costruire un letto trenta volte più bello. A quel punto non potrà fare a meno di sbarazzarsi di quel rottame che le ho lasciato, poveretta.»

«Ma allora, questo posto…» Luca si rimise in piedi, compì un paio di giri su se stesso tenendo il naso alzato fra le pareti. Solo ora notò che, oltre ai poster, i muri erano tappezzati da disegni fatti a matita o a pastello. Alcuni erano vecchi, risalivano all’anno prima – Luca riconobbe quelli che aveva progettato lui stesso – ma altri erano stati calcati dalla mano più grezza e pesante di Alberto. I modelli di Vespa abbondavano, ma ce n’erano anche di automobili, probabilmente ricalcati dalle riviste di meccanica che strabordavano dalle mensole del vecchio mobile alto fino al soffitto, e anche sezioni di letti, schienali di seggiole, e persino una piccola barchetta con tanto di remi. «Sta diventando un po’ come la tua officina, o il tuo laboratorio segreto.»

«Uhmm…» Alberto si massaggiò il mento, corrucciò la fronte in un’espressione assorta e pensosa. «Laboratorio segreto, dici?» Anche lui si rimise in piedi, compì una mezza piroetta, e i suoi occhi si accesero di entusiasmo, come abbagliati da una realizzazione improvvisa. «Già.» Batté il pugno sul palmo, elettrizzato da quella vampata di entusiasmo. «Già, perché no, diamine? Il mio mega laboratorio super segreto.» Di nuovo spalancò le braccia per indicare l’ambiente circostante, gli scaffali dell’armadio, gli attrezzi da lavoro, e gli scarti dei progetti falliti. «La più ultra fantastica officina di tutti i tempi. Oh, be’, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per sistemarla a dovere.» Puntò l’indice verso l’alto, verso gli spifferi del soffitto. «Penso che una delle prossime cose che farò sarà dare un’aggiustata al tetto, riparare tutte le falle, in modo che non entri acqua qua dentro anche quando piove.»

Luca trasse un sospiro di meraviglia, già riuscendo a immaginarsi quel cambiamento. «Il tetto potrebbe diventare una specie di terrazza, allora.»

Alberto strinse le braccia al petto e rinnovò il sorriso d’orgoglio. «Non male, eh? Se questa sarà la mia officina, la parte di sopra potrebbe diventare il tuo laboratorio. Potresti metterci sul serio un telescopio gigante.» Socchiuse le palpebre e scoccò a Luca una calda occhiata d’intesa. «È il posto migliore per guardare le stelle.»

Le guance di Luca s’infiammarono di emozione, e lui si sentì sciogliere, circondato dall’affetto di quello sguardo. Provò un disperato singhiozzo di gioia nel rendersi conto di come la sua vita fosse ancora così vicina a quella di Alberto, di quanto i loro pensieri fossero uniti, come se le loro anime fossero in grado di parlare attraverso i silenzi, i semplici sguardi. «Perciò io sarò di sopra a osservare le stelle e i pianeti mentre tu sarai quaggiù a costruire la tua…» Com’è che l’aveva chiamata? «Ferrari con il motore a ultra propulsione turbo?»

«Ci puoi giurare. Ecco, vedi…» Alberto andò a cingergli le spalle e lo condusse davanti alla parete per mostrargli di persona lo spazio dedicato ai disegni e ai progetti. «Sto cominciando a ingegnarmi anch’io, ora che non potrò fare sempre affidamento sui tuoi progetti.» Batté la mano sopra il disegno di una Vespa, ritratta sul fianco e di fronte, che aveva incollato vicino a uno dei vecchi progetti di Luca. «Non sono grandiosi? E pensa su quanti altri progetti potremo lavorare durante l’estate, fintanto che sarai qui a Portorosso. Cacciarsi nei guai dopotutto è divertente solo se è un’esperienza condivisa.»

«Cacciarci nei guai?» Luca corrugò un sopracciglio e stirò il capo di lato, allontanandosi dal familiare lezzo di cattive idee in arrivo. La vocina di Bruno riaccese un sospiro dietro il suo orecchio. «Conti forse di cacciarti in qualche guaio solo perché ci sono io a guardarti le spalle?»

Alberto allargò un sorriso che parve sul serio mettere a nudo le zanne aguzze del mostro marino. «Ci puoi scommettere la coda.»

Luca lo guardò storto, emise un lungo sospiro. «Alberto…»

«Scherzo, scherzo.» Alberto strinse il braccio ancora allacciato al suo collo e gli diede una vigorosa strofinata ai riccioli. «Rilassati, secchione. E goditi la vacanza, piuttosto.» Gli lasciò libere le spalle e imboccò i gradini che conducevano al tetto della torre. «La scuola ti sta proprio spappolando la testa.»

Luca si riaggiustò i capelli spettinati e gli andò dietro. «Tu però non mi sembri in vena di vacanza.» Anche lui risalì i gradini a chiocciola. «Sei ancora più impegnato di me.»

«Anche io ho le mie responsabilità da mantenere, lo so.» Alberto si fermò a metà strada, con una mano sulla parete di pietra e un piede più avanti dell’altro. «E Massimo dice che i pescatori non vanno mai in vacanza perché il mare non va mai in vacanza. Ma non mi dispiace affatto la vita che mi sto costruendo qua a Portorosso. Mi sto abituando in fretta.»

«Lo so.» Luca gli sorrise con affetto. «So bene che tu non sei uno che molla o che rinuncia davanti agli ostacoli.»

«Ecco, visto?» Alberto incalzò una corsetta più vigorosa e superò gli ultimi gradini. «E non ho nemmeno intenzione di rinunciare alla nostra Vespa, se è per questo.»

«La nostra Vespa…» Affacciandosi alla luce del sole che batteva sul tetto, gli occhi di Luca tornarono a brillare come quelli di un bimbo sognante. «Sembra trascorso così tanto tempo. E invece è successo solo l’anno scorso.»

Alberto annuì, assecondò il suo sorriso. «L’anno più sensazionale della nostra vita.»

Sulla cima della torre, la vista si spalancò sul mare aperto, sulla costa punteggiata dalle prime luci provenienti dalle case di Portorosso e dalle barche che popolavano il piccolo porto. Le prime sfumature del tramonto già striavano la linea d’orizzonte – spennellate color pesca e color ambra che frastagliavano le loro scaglie fra le creste d’onda e fra le ombre degli scogli che apparivano più scuri e aguzzi.

Luca contemplò quella visione, si smarrì in quella che pareva proprio l’immagine strappata a un sogno lontano. Le prime volte che osservavo Portorosso da quassù, considerò, una vita fra gli umani mi sembrava così irraggiungibile, proprio come un sogno a occhi aperti. E invece sono riuscito a ottenerla. «Lo avresti mai creduto?»

«Uh?» Alberto si approcciò al cornicione della torre, strofinò un piede sulla caviglia opposta. «Che cosa?»

Luca incrociò le braccia sulla pietra. Il gomito sfiorò quello di Alberto, le spalle vicinissime. «Un anno fa, la prima volta che mi hai portato qui…» Affacciandosi al mare, respirò la corrente risalita dalle onde che si infrangevano sui confini dell’isola. Respirò quell’aria fredda che gli intorpidì le guance e la punta del naso. «Lo avresti mai creduto che sarebbe bastato così poco tempo per vedere cambiate le nostre vite? Lo avresti mai creduto che ci saremmo ritrovati a fare una vita così diversa da prima, e che un anno dopo ci saremmo trovati qui a parlarne come se fosse…» Si strinse nelle spalle. «Tipo una pagina di un libro di Storia?»

Alberto socchiuse gli occhi, lasciandosi circondare da quello stesso pensiero. Si appoggiò di sbieco al cornicione, un’anca sul muretto, il braccio piegato vicino a quello di Luca, e le gambe accavallate. «Un anno fa, quando ti ho portato qui…» Batté le palpebre, e il suo sguardo si fece più scuro, assorbito dalle sfumature del tramonto e disperso fra le ombre di un passato nel quale i suoi ricordi stavano scavando. Scosse la testa. «Non è che io abbia pensato molto alle conseguenze, sai. Mi sembrava semplicemente la cosa più giusta da fare.»

«Perché?» gli domandò Luca. «Voglio dire, perché hai…» Sentì quelle parole sdrucciolare sulla lingua e uscire da sole, provando l’irrefrenabile bisogno di snocciolarle fuori dalla bocca. Cosa che non era stato in grado di fare un anno prima. «Perché hai voluto farmi uscire dall’acqua, e portarmi qui, e insegnarmi tutto quello che sapevi sugli umani? Cosa ti ha fatto credere che ne valesse la pena?»

Alberto rise. I suoi occhi verdi splendettero con più risalto in contrasto con il cielo così rosso e scuro. «Che valesse la pena tirarti fuori dall’acqua?»

«No.» Luca fu assalito da una stretta al cuore. «Che valesse la pena essere mio amico.»

Un fremito di stupore attraversò l’espressione di Alberto, rapido come un lampo, come se lui non si aspettasse di ricevere una risposta simile. Poi però sorrise, e fu il gesto più naturale del mondo. «E come avrei potuto non farlo?» disse. «Tu eri com’ero io all’inizio.»

Luca sgranò le palpebre. «Sul serio?» Come era lui all’inizio. E questo gli fece rendere conto di quanto poco sapesse sul passato di Alberto, su chi fosse prima di incontrare lui.

«Sì» confermò Alberto, «una specie. Lo sai, un po’ perso, magari un po’ spaventato, ma troppo curioso per startene buono o stare lontano dalla superficie. Era chiaro che prima o poi avresti finito per uscire dall’acqua.» Gli scoccò un’occhiata d’intesa. «Nemmeno tu hai mai avuto la faccia di un pesce che accetta di rimanere a nuotare attorno allo stesso scoglio per il resto della sua vita.»

«Davvero?» Luca si toccò la guancia. Chissà che faccia aveva in quel momento? «Non lo avrei mai detto.»

Alberto alzò il mento e si batté la mano sul petto, sorridendo con fierezza. «Ma io invece l’ho capito subito. Quindi ho pensato a qualcosa del tipo: ehi, se proprio deve avventurarsi fra gli umani, è meglio che lo faccia in compagnia di un vero esperto, prima di farsi arpionare

Luca si coprì la bocca per nascondere una ridacchiata. «E tu saresti l’esperto?»

«Be’» rise Alberto, «ti ho salvato dagli arpioni, oppure no?» Scollò l’anca dal cornicione, si girò per affacciarsi anche lui direttamente al mare, a braccia incrociate sulla pietra. Si lasciò carezzare dal lieve sospiro della brezza che gli attraversò i riccioli. «O forse mi sono avvicinato a te semplicemente perché non volevo che tu vivessi la superficie come l’avevo vissuta io. Sai, è meglio vivere quassù per scelta e non perché…» Fece spallucce. «Perché ci sei obbligato e basta.» Grattò un’unghia fra le rientranze della pietra, sbriciolò fra i polpastrelli quella polvere simile a gesso. Il suo sguardo si smarrì, si fece distante. «Oppure non ho pensato a niente e ti ho semplicemente trascinato quassù perché mi sentivo sol…» Si morsicò il labbro e si rimangiò le parole con un tossito. «Be’, lo sai…» Sventolò una mano. «Sai che io non mi fermo troppo a pensare prima di fare qualcosa.»

Luca si sforzò di non rimuginare troppo sulle ultime parole di Alberto – ti ho semplicemente trascinato quassù perché mi sentivo solo – dato che era un altro pensiero a dargli il tormento. «Però è vero quello che ti ho detto l’anno scorso, proprio quassù. Se non fosse stato per te…» Si girò, poggiandosi di schiena sul cornicione, con entrambi i gomiti piegati sulla pietra, e reclinò il capo all’indietro per riempirsi lo sguardo con le sfumature bluastre che si stavano spandendo sulla volta celeste, lì dove le prime stelle del vespro brillavano ferme e lucenti come punte di diamante. «Io non avrei mai avuto il coraggio di uscire dall’acqua» confessò. «Non avrei mai avuto il coraggio di scegliere da solo la mia strada. Non avrei nemmeno saputo dell’esistenza di un’altra strada, in realtà. Avrei passato tutto il resto della mia vita a chiedermi come sarebbe stato vivere in superficie, e magari non sarei mai stato realmente felice come lo sono adesso.» Sospirò, sentendo il peso della colpevolezza venirgli addosso e dargli la nausea. «Mi dispiace, Alberto.»

«Uh?» Alberto lo guardò di sbieco, batté le palpebre. «Dispiacerti?» Flesse il capo e inarcò un sopracciglio, confuso. «E per cosa?»

«È che a volte…» Luca si strinse nelle spalle. Si strofinò le braccia sotto le maniche della camicetta, dove i brividi si erano arrampicati, spandendo quel freddo senso di disagio. «Non lo so, a volte mi sembra così ingiusto che tu sia rimasto qui, mentre io sono...»

«Cosa?» Alberto scosse il capo, incredulo, e gli posò una mano sulla spalla. «Ehi, ascolta, non dispiacerti, d’accordo?» Strinse con fermezza, impedendogli di scappare, ma senza fargli male. «Sul serio, non c’è niente da dispiacersi. La scelta è stata anche mia, dopotutto. E io qui sto bene, lo giuro. È chiaro che non è sempre così facile andarmene in giro per il paese come se niente fosse, sapendo di essere un mostro marino fra gli umani, e sapendo che anche gli altri lo sanno. Ma anche io sono stato fortunato di aver trovato Massimo, e con lui non ho paura. Mi sento…» Annuì, quasi stesse parlando a se stesso. «Protetto, ecco.» Si diede una grattata alla nuca, picchiettò il tallone nudo sulle assi del pavimento. «Magari era proprio di questo che io sono sempre andato in cerca, ancor più delle scorrazzate in Vespa in giro per il mondo.» Raddolcì lo sguardo. «E anche io l’ho realizzato grazie a te. Quindi non ne fare un dramma, okay? A Genova non ci sarebbe comunque niente per me.»

«Secondo me invece ti piacerebbe un sacco.» Luca si staccò dalla parete di pietra e compì una piroetta a braccia spalancate. «Vedessi quant’è grande, e quante strade ci sono da esplorare, e persino il mare è diverso, così pieno di navi da carico enormi, diversissime dalle barche dei pescatori che ci sono qui. Ogni volta che le vedo…» Percepì quel sospiro gonfiargli il cuore, scaldargli il petto, renderlo leggero a tal punto da dargli l’impressione di riuscire a raggiungere le stelle solo tendendo l’indice verso il cielo. «Mi fanno pensare a tutto quello che ho ancora da esplorare in giro per il mondo. Quante cose non so e quante cose posso ancora imparare.»

Alberto rise. «Magari da grande diventerai sul serio un esploratore, o un avventuriero, o una cosa così.»

Luca atterrò sulle piante dei piedi e si girò a ricambiare il sorriso. «Assieme a te.»

Alberto fu scosso da uno scatto, un piccolo fremito che tremolò attraverso la curva delle labbra e che risalì il viso, chiazzandogli le guance di rosso e sbocciando in un punto di luce che brillò nelle profondità dei suoi occhi verdi.

Anche Luca percepì quel brivido, quella scossa fra i loro sguardi, quella saetta sfrecciata attraverso il petto. Una scintilla di energia schioccata in fondo al suo cuore, lì dove il loro legame era congiunto in un nodo indissolubile. «C-cioè…» Luca gettò lo sguardo ai suoi piedi, arretrò di un passetto. «Sarebbe noioso esplorare tutto il mondo da solo.» Si diede una strofinata a una guancia e poi di nuovo alle braccia, grattando via quel bruciore che, seppur non fosse sgradevole, lo confondeva peggio dei teoremi di geometria. «Sarebbe decisamente meglio andare in giro assieme: io, te e Giulia. E non per scappare, questa volta.»

L’espressione di Alberto si distese, i suoi occhi si rasserenarono. «Già» mormorò. «Ormai non ce n’è più motivo. Anche io credo che sia più bello viaggiare così, sapendo di avere una casa che ci aspetta se sentiremo il bisogno di tornare indietro.» Strofinò una carezza sui mattoni del cornicione. «Anche se si tratta solo di una torre mezza sgangherata.»

Luca rise, assecondò il suo buon umore, quella pace ritrovata.

Una casa che ci aspetta se sentiremo il bisogno di tornare indietro…

Gli piacque quel pensiero, accolse ben volentieri quell’immagine dentro di sé: la loro torre, la cima brillante come quella di un faro, una luce sempre accesa in grado di guidarli sulla strada giusta; la roccia di uno scoglio a cui appendersi dopo una nuotata; una tiepida spiaggia di ciottoli levigati su cui stendersi, chiudere gli occhi, e farsi scaldare dal sole; un luogo che ti accoglie fin quando non ti senti pronto a ributtarti in mare e a proseguire il tuo viaggio.

Le nuvole color porpora si addensarono davanti agli ultimi raggi del tramonto che ora fendevano l’orizzonte, striando le creste d’onda e stagliandosi verso la costa che si ergeva fino al Monte Portorosso. Altre luci rischiarirono le finestre e le terrazze del paese. Alcune barche fecero ritorno al porto e incrociarono la navigazione con quelle che invece uscivano per la pesca notturna. Scie di spuma bianca segmentarono il mare nero, punti luminosi si distribuirono dietro gli scogli e attorno alle altre isolette che popolavano la costa.

Per Luca fu inevitabile girare lo sguardo su Alberto che era ancora lì affianco a lui, in contemplazione di quel panorama che apparteneva solo a loro due. La sua presenza era ferma e luminosa proprio come una fiaccola nella notte, sicura e familiare come un faro nel buio.

Luca provò di nuovo la stessa emozione che gli aveva attraversato il cuore l’anno prima, l’eccitazione di star vivendo un sogno che si realizza, perché anche Alberto apparteneva alla sua sicurezza, proprio come quell’isola, quello scoglio e quella torre. Anche Alberto era parte di quella casa che avrebbe sempre aspettato il suo ritorno.

Qualcosa toccò il gomito di Luca, attirò il suo sguardo verso il basso, dove il braccio poggiava sul cornicione di pietra. I suoi occhi, ancora un po’ inebetiti dalle luci del tramonto, incontrarono le sfumature color cacao che striavano la conchiglia bianca di un piccolo paguro.

Luca si stupì di quella visione.

Che strano…

Gli porse le dita. Lasciò che il piccolo paguro si arrampicasse da solo sui polpastrelli, e lo sollevò con delicatezza, senza toccare la conchiglia che si trascinava sul dorso. Era grande quanto metà del suo pollice.

Di solito non si allontanano mai così tanto dal mare.

Lo fece camminare fra le sue falangi, da un dito all’altro, e lasciò che le sue chele tastassero la pelle, che si orientassero.

Lo zampettare bagnato del paguro seminò sulla sua pelle delle microscopiche tracce umide color acquamarina. La mente di Luca s’incupì, il suo respiro si fermò, e una nuova ondata di freddo si arrampicò attraverso le braccia nude, solcando una viscida e sgradevole scia di brividi che penetrò fin dentro le ossa.

A scuola aveva studiato che alcuni poeti interpretavano maledizioni e cattivi presagi nel volo dei corvi, nel miagolio dei gatti neri, nello sguardo ipnotico delle mantidi religiose. E ora Luca si ritrovava con un piccolo paguro a giacergli sul palmo della mano; un paguro esausto allontanatosi troppo dal mare e dalla spiaggia; un paguro che aveva tracciato una scia di impronte squamate sulla sua pelle di bambino umano.

Non gli piacque quel presagio. Capì che la sua vita sarebbe cambiata ancora una volta, che un’altra onda si sarebbe abbattuta su di lui, forse la stessa risacca che un anno prima avrebbe dovuto spedirlo negli abissi più profondi. Una catastrofe dalla quale forse nemmeno Giulia e Alberto sarebbero stati in grado di proteggerlo.

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Capitolo 9
*** 9 ***


9

 

 

Giulia serrò il pugno e lo strusciò sulla fotografia che aveva appena incollato alla pagina dell’album: lo scatto rubato di sfuggita a Luca mentre correva in bici lungo la discesa, con gli occhi sgranati e inebetiti, fissi sul flash della macchina fotografica che lo aveva colto di sorpresa. Pescò uno dei pastelli colorati, quello rosso, e ci scrisse sotto la data. 17 luglio. Mirò al pastello blu, per disegnare qualche stellina attorno ai bordi della foto, ma la sua mano urtò malamente l’astuccio, facendo rotolare lontano la matita viola.

Giulia si sporse con un rimbalzo e acchiappò al volo il pastello prima che potesse cadere dalla piattaforma del loro rifugio sull’albero. Trasse un sospiro di sollievo. C’è mancato un soffio.

Guardò di sfuggita oltre il profilo stravaccato di Alberto, verso la finestra aperta della sua camera in cui avevano lasciato la luce accesa. Tese l’orecchio, perché le sembrò che il disco si fosse interrotto.

Per quel breve attimo udì solo il frinire dei grilli, lo scorrere delle forbici con cui Luca stava smussando gli angoli delle fotografie da incollare nel secondo album dei ricordi – L’Album Invernale –, qualche abbaio dei cani del vicinato, e il passaggio occasionale di qualche soffio di vento serale attraverso le foglie dell’ulivo.

Il disco cambiò canzone e riprese a suonare, ricominciando daccapo.

 

Per quest’anno non cambiare

Stessa spiaggia, stesso mare

Per poterti rivedere…

 

Giulia sorrise, rincuorata.

Per fortuna il disco non si era inceppato e non si era rovinato. Non l’avrebbe sorpresa, dato che da una settimana a quella parte non stava ascoltando altro. Solitamente lei e Alberto e Luca si portavano dietro la sua radiolina portatile, quando salivano su al rifugio o scorrazzavano in giro in bici, ma Giulia quella sera aveva tanto insistito per accendere il giradischi, dato che aveva speso i risparmi di tutto un inverno solo per comprarsi il nuovo disco di Mina – Stessa spiaggia, stesso mare.

Giulia tornò a occuparsi dell’album dei ricordi. Sfogliò una pagina all’indietro, e ammirò soddisfatta le foto già incollate e incorniciate dai suoi disegni a pastello, circondate da impronte di porporina o dai tanti pensieri che lei e i ragazzi avevano scritto sotto gli scatti.

 

Magica estate

Questa l’abbiamo lasciata solo perché Alberto ha insistito.

I tramonti più belli…

Sfigati per sempre!

Gelato super-delizioserrimo, yum!

 

Le foto di loro tre che si abbuffavano di gelato le fecero brontolare lo stomaco.

Giulia allungò una mano oltre il piattino delle angurie per raggiungere il pacco di savoiardi, quelli avanzati dal tiramisù che avevano preparato assieme nel pomeriggio e che si erano sbafati dopo cena. Pescò un biscotto, lo rosicchiò lasciandolo poi pendere dalla bocca, e sfogliò il mazzo di fotografie che non aveva ancora selezionato e incollato all’album. Le sue labbra sorrisero. Gli occhi brillarono soffermandosi su una particolare fotografia a cui bastò uno sguardo per catturare la sua attenzione. «Questa non è malvagia.» La sfilò dal mazzo e la espose sotto il riverbero delle luminarie che avvolgevano i rami dell’albero e che ogni tanto, quando passava il vento, oscillavano, traballando come lucciole.

La foto era un po’ sfocata sullo sfondo. Ritraeva il tuffo che Alberto aveva slanciato dalla cima di uno scoglio, tuttavia lo scatto era riuscito a catturare solo il momento in cui gli schizzi d’acqua si erano spalancati attorno a lui come una cascata di gemme di vetro, lasciando il suo corpo solo a metà trasformazione. «Che faccio?» domandò Giulia. «La incollo o la scarto? A me piace. È un po’ sfocata ma secondo me è particolarmente bella proprio per quello.» La girò a destra, a sinistra, e si strofinò il mento osservandola con un cipiglio diverso, più attento e professionale. «Potrebbe risultare una buona fotografia artistica, a pensarci bene.»

Alberto finì di rosicchiare il suo savoiardo, si ripulì le dita sulla maglietta e sollevò il suo micio prediletto che gli stava ronfando sullo stomaco. «Vediamo.» Alzò la schiena dalle assi della piattaforma e sedette a gambe incrociate, stropicciando le pagine di una delle riviste sotto il ginocchio, e dovette inclinare il capo di lato per schivare il filo di una luminaria che aveva appeso troppo in basso. Raccolse la fotografia che Giulia gli aveva teso. La rigirò anche lui, restrinse le palpebre, tirò indietro il viso, stropicciò una smorfia. Non lo convinse. «Ma si vede quasi solo acqua» si lamentò. «Mi si vede a malapena la coda. Si capisce che sono io solo perché c’è tutto questo spazio blu nella parte di sotto.»

Giulia si strinse nelle spalle. «Subito dopo potrei incollarci quella dove tu esci dall’acqua spruzzando la fontanella dalla bocca. Ecco, questa…» Pescò dal mazzo la foto che veniva immediatamente dopo e la fece vedere ad Alberto. «Per renderla una composizione più artistica e aumentare così l’effetto scenico.»

Alberto inarcò un sopracciglio. «L’effetto ridicolo, semmai.» Accettò da Giulia anche la seconda foto. In effetti non riuscì a nascondere un sorriso davanti alla sua immagine emersa dall’acqua, la bocca a spruzzare acqua come una fontana, Giulia che rideva mentre si riparava dagli zampilli, e il polpastrello di Luca a invadere lo scatto, sporcando l’angolo in basso. «E quelle dove siamo tutti e tre in barca invece sono venute?»

«Sono qui.» Giulia sfogliò un paio di fotografie, si soffermò sugli scatti in questione, si morsicò il labbro e gemette. «Acc…» Strinse le ginocchia contro il petto, urtando con il piede una delle pigne di libri che si erano portati dietro assieme agli album e alle riviste di motori. Arrossì di vergogna fino alle punte delle orecchie. «Come non detto» si affrettò a dire. «Io e l’autoscatto non andiamo proprio d’accordo.»

Luca, al lavoro sull’album che avrebbe custodito le fotografie più belle che loro tre si erano scambiati e spediti durante l’inverno, posò lo stick della colla, lasciandolo rotolare nello spazio fra le pagine, e si mise gattoni per sporgersi a sbirciare. «Fate vedere anche a me.» Guardò da dietro la spalla di Giulia e trasse un sospiro di meraviglia. «Ooh, ma questa è carina davvero.» Tese l’indice, sfiorò quella di loro tre tutti assieme sulla barca a remi, con il braccio di Giulia sollevato, la sua mano che reggeva la fotocamera, e i loro sguardi che sorridevano all’inquadratura. «Peccato che tu sei venuta un po’ sfocata. Ma dopo non c’è anche quella dove tu…»

«No!» Giulia le sollevò di colpo, diede una piccola scalciata alla piattaforma e si spinse indietro per sottrargliele da sotto lo sguardo. «Niente.» Una vampata di rosso risalì le sue guance, rendendo il suo viso più lesso di un pomodoro bollito. «Non c’è niente, dopo.»

Alberto sghignazzò. Fece scivolare un braccio sopra la spalla di Giulia e le strappò le foto dalla mano. «Hop!»

«Ehi!» Giulia gli saltò addosso, si arrampicò su di lui, tese le mani verso il braccio che Alberto teneva alzato sopra la testa. «Ridammele, Alberto!» Diede un altro calcetto urtando i libri che a loro volta sbatterono sul piatto di bucce d’anguria. «Ridammele subito!» Ribaltandosi, gli affondò una gomitata nello stomaco.

Alberto gemette, «Urgh», e si accartocciò su se stesso, facendo scappare via pure il micio.

Giulia, con le foto di nuovo fra le mani, si sbilanciò in avanti, sbatacchiò le braccia come ali per riprendere equilibrio, ma si ritrovò troppo vicina al bordo della piattaforma. «Who-ooh!»

Luca fu assalito da una scossa di panico. «Giulia!»

Alberto fu più rapido. Nonostante il dolore della gomitata, rimbalzò a sedere, le agguantò l’orlo dei jeans, frenando al volo la sua caduta, e riportò Giulia sulla piattaforma, come se si fosse trattato di sollevare un gatto per il copino.

Giulia atterrò sulle ginocchia, si portò una mano al petto e recuperò fiato ad avide boccate, ancora un po’ pallida per lo spavento. «Santo pecorino» ansimò. «Credevo che mi sarei schiantata.»

Anche Luca trasse un lungo sospiro di sollievo.

«Naah» la rassicurò Alberto. «Non finché ci sono io a fare la guardia.» Ma la sua clemenza non andò oltre, infatti approfittò di quell’istante di esitazione di Giulia per rubarle le foto dalle mani e riprendere da dove si era interrotto. I suoi occhi s’illuminarono come le lampadine che gli pendevano sopra la testa. «Oh-oh, ma cosa abbiamo qui?» Mostrò la sua fotografia preferita: quella dove Giulia si era ribaltata dalla barca. Lo scatto la ritraeva già mezza in acqua, raggiunta da un braccio di Luca sporto per riprenderla, e Alberto caduto sulla schiena, coda e braccia strette attorno alla pancia per soffocare le risate. «Questo sì che è un gran bel – com’è che lo hai definito prima? – effetto scenico.»

Giulia strappò la foto dalla mano di Alberto. «Piantala.» Ne lisciò gli angoli che si erano spiegazzati. La rigirò su e giù, come per ammirarla da prospettive differenti, quasi sperando che potesse mutare sotto una luce diversa. Si arrese infine a un sospiro di rassegnazione. «Accetto di incollarla nell’album, d’accordo…» Fece sventolare l’indice. «A patto che ci mettiamo anche quella del tuo tuffo dallo scoglio.»

«Quanto sei schizzinosa» la rimbeccò Alberto. «Non è così imbarazzante, dai.» Sfogliò l’album, scorse le pagine già riempite fino ad arrivare a quelle bianche che erano ben poche. «Piuttosto, quanto spazio è avanzato per le altre?»

«Uhm» rimuginò Giulia. «Non molto, in effetti. Abbiamo a disposizione ancora cinque facciate bianche. Facciate, non pagine.» Sfogliò ancora un paio di fotografie avanzate, usò la cima di un pastello blu per strofinarsi i riccioli dietro l’orecchio. «Magari aggiungo ancora quelle con la bici, quelle dei gattini assieme a Caligola, e… ooh!» Girò le foto e mostrò a Luca e Alberto quella delle loro tre mani sovrapposte. «Quella delle nostre mani! Questa è la mia preferita in assoluto, non possiamo lasciarla fuori dall’album.»

Luca posò il micio in mezzo alle pagine dei libri aperti, dato che non vi era un singolo spazio libro sulle assi della piattaforma. Scivolò in avanti con le ginocchia, stando attento a non urtare l’astuccio dei pastelli o il pacchetto di savoiardi, e flesse il capo davanti alla foto sventolata da Giulia. Gli piacque, tuttavia… «Ma non si vedono le nostre facce.»

«È la simbologia che conta» precisò Giulia. «Secondo me dovremmo fare delle altre copie solo di questa qui e conservarne una ciascuno, come…» Annuì con convinzione. «Come un portafortuna, sì.»

Alberto si stiracchiò a pancia ingiù, fece dondolare le gambe sopra la schiena, e sfogliò all’indietro l’album delle fotografie estive. Sfiorò la fotografia dove loro tre erano intenti a divorare i loro gelati e Giulia rideva perché aveva sporcato il naso di Luca con il suo cono alla fragola. Sotto la foto, Giulia aveva scritto: meglio sul naso! «Secondo me dovremmo metterci anche altre cose dentro l’album, oltre le fotografie.»

«Davvero?» fece Giulia. «Tipo?»

«Tipo dei fiori pressati, o anche delle foglie.» Alberto guardò verso l’alto, raggiunse una delle foglioline verdi del loro olivo, la rigirò senza però strapparla. «Magari una presa dal nostro albero. Oppure pezzi delle lettere che ci spediamo, o gli incarti delle caramelle che compriamo dal tabaccaio.»

«E i biglietti del cinema!» esclamò Luca.

Alberto annuì. «E i biglietti del cinema, grazie.» Pescò uno dei savoiardi dal pacchetto, facendo un gran rumore con la confezione. «Oppure…» Azzannò il biscotto, si mise a rovistare fra i libri che tenevano aperti in mezzo agli album di fotografie e in mezzo alle riviste di motori che Massimo gli regalava ogni volta che riusciva a procurarsele. Sfogliò il vecchio libro di Geografia di Luca e Giulia, raggiunse una doppia facciata su cui era ritratta la cartina dell’Italia. «Oppure potremmo già cominciare a scegliere e a ritagliare tutti i modelli di moto e di auto con cui andremo in giro per il mondo.» Si ripulì dal macello di briciole e zucchero che gli impiastricciava la bocca, si succhiò le dita. «E potremmo anche cominciare a elencare tutti i paesaggi di tutti i posti che visiteremo quando io avrò la patente e vi farò scorrazzare da un capo all’altro del pianeta. Ah, sì, perché ho già deciso che io voglio comunque guidare la moto, quindi voi due mi potrete seguire in auto e io faccio strada. Oppure carichiamo la moto sul tettuccio dell’auto.» Si strinse nelle spalle. «Insomma, si vedrà.»

Gli occhi di Luca s’incantarono, e i riflessi dorati delle luminarie si specchiarono nelle profondità delle sue iridi nocciola. «Ooh.» Batté le mani. «Dici che possiamo già cominciare a fare un elenco di tutti i posti che vogliamo visitare?»

Giulia soffiò una risatina. «Vedi che abbiamo fatto bene a portargli il nostro vecchio libro di Geografia?» considerò. «Così anche lui si sente più ispirato.»

«Ma con cosa potremmo cominciare?» Luca raggiunse il libro di Geografia, lo fece strusciare fino a sé stando attento a non sporcarlo con il succo d’anguria gocciolato dal piattino e a non urtare il micio con il gomito. Si mise anche lui in contemplazione della cartina dell’Italia, sotto un punto di luce dove le lampadine non battevano troppo forte. Usò uno dei pastelli di Giulia per indicare la Liguria. «Noi siamo qui, ed effettivamente è un buon punto di partenza se vogliamo girare tutta l’Italia da cima a fondo.» Fece scendere il pastello tracciando il confine della Riviera. «Poi potremmo prendere…»

«Solo l’Italia?» Alberto scosse il capo, si diede arie da rimprovero. «Dovresti essere più ambizioso di così, Luca. Perché accontentarci di una nazione sola…» Voltò la pagina del libro, fece sparire la cartina dell’Italia e spalancò quella del mondo intero. «Quando abbiamo un pianeta intero a nostra disposizione?»

Pure il musetto maculato del gattino si sporse a guardare.

Lo sguardo di Luca, da luminoso ed entusiasta, si sporcò di un’ombra di scetticismo, soprattutto dopo aver spianato le distese sconfinate degli oceani. L’Italia era una terra così piccina e insignificante, messa a confronto con gli altri continenti. «Ma in certi posti non possiamo arrivarci con l’auto o con la moto. Ci sono gli oceani di mezzo.»

«Ci andremo a nuoto, allora.» Alberto non ci vide alcun problema. «E ci caricheremo Giulia sulla schiena per far attraversare anche a lei l’oceano.»

Giulia si sforzò di corrugare la fronte, ma fece fatica a nascondere il sorriso. Anche lei si sentì intrigata. «E fin dove vorresti arrivare nuotando attraverso l’oceano?»

«Fino a dove deciderò di arrivare» ripose Alberto. «Magari fino a qui…» Picchiò l’indice sul Brasile. «O anche qui…» Fece strusciare il polpastrello fino all’Australia. «In questa isola gigante tutta gialla.»

Giulia inarcò un sopracciglio. «L’Australia?»

«Già» annuì Alberto, «mi ispira. Il tuo libro dice che è piena di questi cani giganti che si chiamano canguri. Ne devo vedere uno, assolutamente, e poi lo devo accarezzare. E voglio accarezzare anche un alligatore.» Allungò la mano verso il piattino dell’anguria affettata. «C’è tempo per andare in giro per l’Italia, date retta a me.» Ma si rese conto di come fossero avanzate solo le bucce sgranocchiate, quindi tornò a sprofondare nel pacchetto dei savoiardi e ne pescò tre alla volta. «L’Italia la possiamo vedere quando saremo vecchi, quando non riusciremo a fare neanche tre passi senza farci venire sonno.»

«Ehi, ehi» esclamò Giulia, «parla per te, vecchiaccio.» Gli spinse l’indice sulla punta del naso. «Io avrò abbastanza energia per andare in giro per il mondo anche quando avrò duecento anni.»

«Risparmia le forze fin da subito, allora…» Alberto spinse i savoiardi nel piatto delle bucce d’anguria, dove si era accumulato il succo, fino a che i biscotti non si tinsero di rosso, bevendo come spugne. «Perché non sarò di certo io a trascinarti in giro.»

Giulia meditò sulle bucce di anguria – la metà sbranate solo da Alberto –, e sulle briciole di savoiardi che lui aveva seminato dopo aver divorato quasi l’intera confezione, nonostante la lauda cena di spaghetti alla carbonara che Alberto aveva accompagnato raschiando la mollica di pane sul fondo del piatto, leccando fino all’ultimo goccio di sugo, e terminando il tutto con doppia porzione di tiramisù. Le fece piacere notare come la maestosità del suo appetito non fosse diminuita. Sarebbe stato uno spreco. «Se seguirò il tuo esempio non rimarrò di certo a corto di energie.»

Alberto schiacciò la mano sulla bocca per tenere dentro i biscotti bagnati di anguria, gonfiandosi le guance come un pesce palla. «Ah, shì

«Sì. E non…» Giulia stropicciò una smorfia schifata e rabbrividì fino alle punte dei capelli. «E non intingere i savoiardi nel succo d’anguria, che schifo!»

Luca alzò uno degli album di fotografie per nascondersi e ridere in pace senza farsi rimproverare da Giulia.

«Che c’è?» Alberto si succhiò i polpastrelli. «Che ho fatto di male?» Si asciugò sui calzoncini e si servì con un altro biscotto. «I savoiardi sono troppo secchi, non riesco a mangiarli senza niente.»

«Va’ giù a prepararti il caffè, allora» gli disse Giulia. «Intingili in quello.»

«Fa troppo caldo per il caffè. E poi i savoiardi si spappolano subito quando li intingo in qualcosa di caldo, è snervante.» Alberto sollevò il savoiardo davanti agli occhi, corrugò le sopracciglia, desiderando incenerirlo solo con un battito di palpebre. «Stupidi biscotti, se solo non foste così dannatamente buoni.» Lo sbranò in due soli bocconi.

Giulia scosse la testa. «Colpa tua che ti abbuffi sempre come un ghiottone» lo rimproverò. «Se almeno respirassi fra un boccone e l’altro...»

Il micio che teneva loro compagnia compì uno scatto con la testolina, sembrò acconsentire pure lui. «Miau!»

Giulia rise. «Ecco, visto?» Sollevò il gattino e se lo coccolò, naso contro naso, godendosi il solletico delle vibrisse. Da quando aveva imparato a mangiare dalla stessa ciotola di Machiavelli, quell’unico cucciolo faceva volentieri a meno della poppata quotidiana per separarsi dai suoi fratelli, sfuggire all’occhio vigile di Perla, e seguire i tre ragazzi durante le corse in bici, le gite alla spiaggia, o i pomeriggi più pigri trascorsi sul loro albero. «Persino Principe sa che ho ragione. Vero, cucciolo?»

«Principe?» Alberto strusciò il braccio sulla bocca, inarcò un sopracciglio. «E da quand’è che ci saremmo accordati per quel nome?»

«Non serve mica accordarsi» disse Giulia. «È un nome che viene da sé.» Affidò Principe alle cure di Luca, così lei poté rimettersi a incollare le foto e a decorare l’album. «Te l’ho scritto anche in una delle nostre lettere, ti ricordi? Principe come Il Principe di Machiavelli.»

«Machiavelli era un principe?» domandò Alberto.

«Lui no» rispose Giulia, «però ha scritto un libro che si chiama così.»

«Ma perché dobbiamo proprio chiamarlo Principe?» Alberto fece schioccare la lingua fra i denti. «È così, non lo so, frou-frou

Giulia sollevò il pastello dalla pagina dell’album e se lo batté fra le labbra, pensosa. «Consideriamo altri titoli nobiliari, allora. Preferisci Barone? Duca? Marchese? Conte?» Allargò un sorriso affilato e letale come uno dei coltelli di Massimo. «O magari Visconte

Luca smise di carezzare il gattino ed emise un gemito di dolore, come se quello stesso coltello fosse sprofondato nella sua pancia.

Alberto invece rabbrividì di disgusto, sentendo i savoiardi inzuppati all’anguria risalire le pareti dello stomaco. «P-pri…» Tossicchiò, allentò il bavero della maglietta e si fece aria per riguadagnare colore in viso. «Principe va bene.» Tese le mani per accogliere il micio che nel frattempo, sceso dalle gambe di Luca, era tornato a zampettare da lui. Dopo le consegne e il lavoro in pescheria, di solito ad Alberto piaceva fermarsi a fare amicizia anche con i cani del paese, carezzarli attraverso le ringhiere, donargli gli ossi avanzati dalla cena, e qualche volta aveva anche giocato a palla con il cane del giornalaio. Ma i gatti sarebbero sempre rimasti i suoi animaletti prediletti. I gatti e Caligola, ovviamente. «E di cos’è che parla questo libro?» domandò a Giulia. «È tipo una fiaba? Di quelle con i cavalieri, i draghi e le principesse nei castelli?»

«Non lo so.» Giulia incollò al centro esatto di una pagina bianca la foto delle loro tre mani giunte. «Può darsi.» Dopo avrebbe chiesto a Luca e Alberto di calcare uno stampo delle loro mani per decorare la cornice. «Io non l’ho ancora letto, ma sicuramente un giorno lo farò.»

«Ooh» esclamò Luca, già proiettato nel caleidoscopio di quel nuovo sogno e di quella nuova prospettiva. «Ma magari ce lo faranno leggere a scuola. E ci spiegheranno proprio tutto-tutto sul vero Machiavelli!»

Albero alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Per carità.» Si mise a gambe incrociate, fece dondolare le ginocchia, e lasciò che Principe si girasse col pancino all’insù e che giocasse con le sue dita. «Sarebbe il modo migliore per farlo diventare automaticamente noioso.»

Giulia rise, sventolò verso di lui il tubetto di colla. «Tutta invidia, Alberto.»

«Invidioso?» Alberto si premette la mano sul petto. «Io?» esclamò. «Invidioso di non starmene per otto ore del giorno piantato su un banco con un adulto che mi dice quello che devo leggere e quello che devo scrivere e quello che devo imparare e quello che devo fare della mia vita? Sto crepando d’invidia, guarda.»

«Se venissi a scuola sarebbe un ottimo modo per startene vicino a Luca anche durante il resto dell’anno, non solo d’estate.» Giulia annuì e si rimise a scarabocchiare disegnini. La faccia seria di chi sta scomponendo equazioni algebriche. «Magari sarebbe un buon compromesso.»

Alberto le scoccò un’occhiata sbieca, riconobbe il tono che Giulia sfoderava quando rimuginava su pensieri che non avrebbero nemmeno dovuto sfiorarla. «Cosa stai insinuando?»

Luca sospirò e, per il bene di tutti, sviò la litigata sul nascere. «E pensare che dal prossimo anno nemmeno io e te saremo più in classe assieme, Giulia.» Alzò lo sguardo fra le foglie del loro albero, smarrendosi fra i filari di lampadine simili a sciami di lucciole. Respirò il profumo aromatico dell’ulivo, quello del rosmarino che cresceva in giardino, e quello più dolce dei vapori della cena che ancora aleggiavano dalla finestra della cucina. Tese l’orecchio, lasciandosi raggiungere dalla musica proveniente dal giradischi di Giulia, e un crampo di dolore e nostalgia gli strinse il cuore. Lo aggredì la triste consapevolezza che non si sarebbe più potuto godere una serata simile fino all’estate prossima. Quel senso di tristezza e malinconia assunse una consistenza fredda, umida e concreta, come una colata di pioggia grigia che scroscia inzuppandogli i vestiti e squamandogli la pelle. «Effettivamente sarà più facile sentirsi soli durante le lezioni.»

«Cosa?» Alberto smise di solleticare il pancino di Principe, tirò su la testa di colpo. «Sul serio?» Guardò entrambi, Giulia e Luca, e il suo cipiglio sarcastico mutò in un’espressione sinceramente costernata. «Non sarete più nella stessa classe?»

«No.» Luca scosse la testa. «Con la scuola nuova sarà un po’ diverso.»

«Scuola nuova?» Alberto socchiuse un occhio e guardò verso l’alto. Un lampo di realizzazione balenò attraverso un sospiro. «Ooh, ma allora è per questo che vi hanno fatto fare quegli esami super-ultra complicati? Non ci posso credere, Luca…» Si fece sfuggire una risata spernacchiante. «Hai appena cominciato e già ti fanno sloggiare?»

Luca socchiuse le palpebre. «Non è che mi fanno sloggiare, è solo che passando dalle medie al ginnasio funziona così. Ma in realtà è una buona cosa, credo.» Andò in cerca dello sguardo di Giulia, di un suo appoggio. «Se mi hanno promosso vuol dire che non sto andando poi così male.»

«Sei troppo modesto, Luca» lo rimproverò lei. «Stai andando alla grande, credi a me. E a proposito di cambi di classe…» Giulia mollò lo stick di colla sull’album, spalancò le braccia e si lasciò cadere all’indietro, facendo dondolare le gambe giù dalla piattaforma del rifugio. «Addio classi miste» piagnucolò. «Questa povera ragazza se ne va in esilio in una scuola per signorine per bene.»

La risata di Alberto gracchiò con più forza, tambureggiando fra gola e petto. «Tu?» Dovette asciugarsi qualche lacrimuccia. «Una signorina per bene?»

Giulia lo assecondò senza prendersela in alcun modo. Sorrise, si passò una mano fra i capelli e fece sventolare i riccioli color fiamma. «Ci sono proprio adatta, eh? Ma non temere, Luca…» Si rotolò sulla pancia, i gomiti fra i libri e le mani a coppa sotto il mento. «Non sarai costretto a sentirti troppo solo. Gli istituti sono diversi, ma l’edificio rimane lo stesso, quindi io e te potremo lo stesso vederci fra una lezione e l’altra, o durante la ricreazione. E so che ci saranno anche delle gite in comune. E poi continueremo comunque a vivere sotto lo stesso tetto, e andremo assieme anche alla fermata dell’autobus, e a comprare la merenda al bar.» Scosse la testa facendo dondolare i riccioli sulle spalle. «Non cambierà quasi nulla.»

«Ehi, ehi, Luca» lo chiamò Alberto, con il tono di chi ha ancora voglia di giocare allo scemo. «E se invece tu ti travestissi da femmina? Così potresti andare all’istituto per signorine per bene pure tu.»

Luca corrugò le sopracciglia, si strinse nelle spalle per nascondere le chiazze rosse che gli avevano arroventato le guance. «Non è il caso di scherzare.»

«E chi scherza?» Alberto si preparò un altro savoiardo bagnato di succo d’anguria e si pappò pure quello.

Luca proprio non fu in grado di condividere l’ottimismo di Alberto, tutta quella voglia di riderci sopra. Piegò le gambe contro il petto, circondandole con le braccia, e poggiò il mento sulle ginocchia. «Non so se sarà così facile per me, Giulia» sospirò. «Voglio dire, prima ci sei sempre stata tu, e mi eri anche vicina in classe quando c’era da spiegarmi qualcosa che non capivo, o per aiutarmi con lo studio, o con i compiti, e anche per fare amicizia con i nostri compagni.» Un sospiro gli svuotò il petto, appesantì la nera nube carica di cattivi pensieri. «Ma adesso che io sarò da solo non so proprio se…»

«Ma non sarai mica da solo.» Giulia gli diede un colpetto d’incoraggiamento sul braccio. «Perché basterà solo che tu faccia il mio nome e io sarò lì pronta ad aiutarti in qualsiasi momento. E con qualsiasi cosa, non solo con i libri e con lo studio.» Rifilò un cazzotto all’aria. «Verrò a prendere a pedate chiunque si azzarderà a fare il bulletto con te, si trattasse anche di dover sfondare la porta del bagno dei maschi.»

Alberto annuì senza esitazione. «Per formare una squadra di protezione per Luca mi associo anch’io.» Gli posò una mano sulla spalla, lo guardò fisso negli occhi, e qualsiasi voglia di scherzare sfumò dalla sua espressione fattasi di colpo seria. «Se qualcuno dovesse anche solo provare ad alzare un dito su di te, giuro che salterò sul primo treno e che verrò a gonfiarlo di botte. Anzi…» Strinse la mano che gli avvolgeva la spalla. «Sarei capace addirittura di venire a nuoto fino a Genova pur di tirarti fuori dai guai.»

«Visto, Luca?» lo assecondò Giulia. «Non c’è assolutamente nulla da temere.»

Luca s’intenerì al pensiero di poter contare su di loro, sull’amicizia di Alberto, sulla lealtà di Giulia. Il calore trasmesso dai loro sguardi e dalle loro parole aiutò a sciogliere il nodo di timore che gli ghiacciava il petto. Tuttavia… «Sapete…» Raggiunse la mano di Alberto e se la sfilò dalla spalla. «Forse dovrei anche imparare a difendermi da solo, prima o poi. Sarebbe la cosa migliore. E la più giusta.»

Giulia rise. «Be’, Luca» gli fece, «tu non sei esattamente il tipo che si mette a fare a botte.»

Alberto allontanò lo sguardo.

«Oh!» esclamò Giulia, senza accorgersi di quella sua reazione. «Ci sono!» Alzò il braccio e lo sventolò come quando in classe voleva rispondere per prima. «Potrei insegnarti io.»

Alberto ridacchiò, più che altro per sgarbugliare il nodo di nervosismo accumulato in fondo alla pancia e per dissolvere i ricordi del giorno in cui aveva sul serio fatto a botte con Luca. «Sì, o magari Luca potrebbe entrare in classe trasformato già dal primo giorno, così nessuno si azzarderebbe nemmeno di provare a mettergli le mani addosso.»

Luca strinse i denti, si rosicchiò l’unghia dell’indice. «Ecco, in realtà…»

«Ma dico, ve lo immaginate?» insistette Alberto. «Potrebbe bagnarsi, ricoprirsi tutto di alghe, e trascinarsi nei corridoi con le braccia tese così…» Allungò le braccia in avanti, imitando i morti viventi che una volta aveva visto nel televisore del bar. «Ed entrare in classe facendo tipo: sono il mostro marino emerso dal fondo dell’oceano e sono qui per mangiarviii

«A proposito di questo…» Questa volta Luca non si fece interrompere. «In realtà ci ho riflettuto, sapete, e ho pensato che per me sarebbe meglio, almeno nei primi tempi…» Si morse il labbro ed esitò. Abbassò lo sguardo sulle fotografie sparse, sugli album, su tutti i loro ricordi, e grattò un’unghia fra le assi della piattaforma che Alberto aveva riverniciato durante la primavera. Ingollò quel groppo di tensione, buttandolo giù a fatica. «Sarebbe meglio per me non dire niente a nessuno riguardo la faccenda del mostro marino e tutto il resto.»

Giulia e Alberto sgranarono gli occhi, spalancarono le bocche in muti gemiti d’incredulità, e si slanciarono su di Luca schiacciando le mani fra i libri e le carte geografiche. «Che cosa?»

Luca rimbalzò all’indietro. «È solo…» Si riparò con le mani, senza però riuscire a guardare Giulia e Alberto negli occhi. «S-solo una precauzione.»

Alberto corrugò la fronte. Proprio non riuscì a capire. «Precauzione per che cosa?»

«Ma è assurdo!» esclamò Giulia. «Perché poi dovresti tenerlo nascosto? Nemmeno nella nostra vecchia classe era un segreto. Abbiamo anche fatto quella lezione di scienze tenendoti bagnato e trasformato, te lo ricordi? Non c’è mai stato nessun problema, nemmeno da parte degli insegnanti.»

«Perché c’eri tu con me» le disse Luca. «Ma adesso sarò da solo.»

Giulia scosse la testa, ancora incredula. «Non cambia niente.»

«Sì, invece» insistette Luca. «Cambia eccome.»

Alberto scambiò con Giulia un’occhiata animata da un mutuo scetticismo. Tornò su Luca. «Ma come puoi pretendere di tenere nascosta una cosa del genere?»

Luca si strinse nelle spalle. «Non sarà poi così difficile.» Si trascinò ancora un po’ più indietro, tornò ad abbracciare le gambe piegate contro il petto, e dondolò avanti e indietro. «Basterà evitare di bagnarmi quando gli altri mi vedono. Io e te ci siamo riusciti la scorsa estate. Quasi.» Si strofinò la nuca. Il suo sguardo scavò fra i ricordi e vacillò d’indecisione. «Uh, circa

«Ma se qualcuno dovesse scoprirlo all’improvviso?» fece ancora Alberto, con la speranza di riportarlo alla ragione. «Pensa al disastro, a tutto quello che dovresti poi essere costretto a spiegare.»

«Alberto ha ragione, Luca» annuì Giulia. «Dai retta a noi, una cosa del genere è meglio rivelarla subito, prima che diventi un intralcio troppo grande di cui poi non potrai più sbarazzarti. Lo sai com’è che funzionano queste cose? Come una palla di neve.» Unì le punte degli indici e le fece mulinare, simulando un piccolo vortice. «Cominciano piccole, e poi, man mano che il tempo passa, si ingigantiscono sempre di più. E alla fine, senza neanche accorgertene, ti ritrovi schiacciato da una valanga gelida e soffocante.»

«Già» disse Alberto, carezzando Principe che intanto si era arrampicato sulla sua spalla, «infatti.» Scoccò a Giulia un’occhiata interrogativa. «E che cos’è la neve?»

«È come la pioggia» rispose lei, «ma di ghiaccio.»

«Cade ghiaccio dalle nuvole?» Alberto si strofinò la nuca, sempre più disorientato. «E non fa male?»

«No, è leggera. È fatta come le scaglie della granita.»

«Cioè, mi stai dicendo che a volte la granita cade dalle nuvole?» Alberto alzò gli occhi al cielo, sbatacchiò le palpebre, si proiettò sotto una pioggia di vera granita siciliana. La lingua di fuori e il succo dolce e pungente di limone a riempirgli le guance fino a scoppiare. I suoi occhi verdi si colmarono d’incanto. «Ma è il paradisooo

Giulia rise. «Sì, ma senza lo sciroppo.»

Luca sospirò, nel tentativo di riportare entrambi con i piedi per terra. «Ascoltate.» Comprese i loro punti di vista, riconobbe le loro preoccupazioni, ma per una volta non volle farsi trascinare dalle idee degli altri. Per una volta, avrebbe fatto di testa sua. «Capisco che sia rischioso, e capisco che possa sembrare una pessima idea, ma Giulia…» La guardò con occhi imploranti. «Mi prometti lo stesso che non dirai niente a nessuno? Che terrai il segreto?»

Giulia arricciò un angolo della bocca, ancora dubbiosa, poi però fu costretta a cedere, incapace di resistere davanti agli occhioni da cucciolo sfoderati da Luca. «È ovvio che terrò il segreto, se sei tu a chiedermelo.» Si sporse a sovrapporre una mano sulla sua. Gli trasmise un palpito tiepido e premuroso. «Ma tu invece devi promettermi che ci ripenserai, e che considererai più seriamente il fatto di dire tutto riguardo la tua, ehm…» Lo guardò da capo a piedi. «Riguardo la tua condizione. Che ci ripenserai prima che tutta questa situazione ti si possa ritorcere contro.»

Luca alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Va bene.» Che alternative ebbe? «Te lo prometto.»

Alberto si chinò a mormorare all’orecchio di Giulia. «Non lo farà.»

Luca scosse il capo e fece finta di non aver sentito. «Secondo me siete voi due quelli che vi state preoccupando troppo. Insomma, anche…» Sfilò la mano da sotto quella di Giulia. «Anche se dovesse succedere qualche…» Fece mulinare la mano a mezz’aria. «Qualche incidente…» Non pensarci, non pensarci, non pensarci. «Non è che Genova sia una città di bracconieri o di spietati cacciatori di mostri marini. Mica mi inseguiranno con gli arpioni.»

Alberto si scollò Principe dalla spalla, lo posò in mezzo ai libri, lo carezzò dietro un’orecchia, e indurì lo sguardo in direzione di Luca. «E allora da dove viene tutta questa voglia di tenersi nascosto?»

Luca si morsicò l’interno del labbro, abbracciò più forte le gambe schiacciate al petto, e arricciò le spalle addensando attorno a sé quell’aura buia e fredda che nemmeno le luminarie dell’ulivo riuscirono a penetrare. Poggiò una guancia sul ginocchio, mormorò con un rauco filo di fiato. «Non capiresti.»

Alberto tirò il capo all’indietro con uno scatto, come se Luca gli avesse stampato un violento ceffone dritto sul naso. Serrò i pugni facendo scricchiolare le falangi e conficcandosi le unghie nei palmi. Corrugò la fronte, serrò la mandibola, fece ringhiare una bassa vibrazione fra le punte dei denti, fra quelle che sembrarono davvero essere mutate nelle zanne del mostro marino, anche senza l’acqua a gocciolare dalle squame. Sul suo volto calò un’ombra nera che accese gli occhi di un verde freddo e spietato.

Il vento smise di soffiare, l’aria gelò, i grilli tacquero, il riverbero delle luminarie si offuscò come se una mano invisibile fosse calata su di loro, facendole esplodere una a una. Persino il disco di Mina stridette, mutando in un eco basso, soffocato dalla pesantezza di quell’aria estranea calata fra i rami dell’albero.

Giulia fu percorsa da un brivido che le accapponò la pelle. Guardò prima Luca, poi Alberto, schivando la sensazione raggelante trasmessa dai suoi occhi, e poi di nuovo Luca. Sbatacchiò le palpebre, incredula davanti alle parole insolitamente taglienti di Luca e allo sguardo nero di Alberto, ma quella nebbiolina scura non scomparve. Rimase lì, densa come una bruma invernale, a circondarli e a tenerli divisi.

Giulia tossicchiò. «Ehm…» Meglio rimediare prima che la situazione potesse degenerare. «Ma sapete secondo me qual è la cosa davvero peggiore del cambiare scuola?»

Luca sollevò la guancia dal ginocchio. Lui e Alberto le rivolsero lo stesso sguardo interrogativo.

Alberto inarcò un sopracciglio. I tratti del suo viso si rilassarono e fecero cadere il drappo d’ombra. «No.» Scoccò un’ultima fugace occhiata in direzione di Luca prima di ricomporsi, darsi una spazzolata alla maglietta su cui erano piovute le briciole dei savoiardi, e rivolgersi a Giulia con tono più mite e pacato. «Quale?»

Giulia sospirò, avvilita, e strinse i pugni sulle guance. «Il fatto che dovremo dire addio al nostro telescopio.»

Anche gli occhi di Luca si annacquarono di tristezza. «Ooh, già, è vero.» Venne spontaneo per lui guardare in alto, verso il cielo frastagliato dai rami dell’ulivo, verso la luce ferma e bianchissima della Luna butterata da crateri, verso il suo sogno più grande. «E per un paio di anni non faremo nemmeno più lezioni di astronomia.» Soffiò un altro sospiro sconsolato. «E alla fine non siamo nemmeno riusciti a scoprire cosa c’è al di là delle galassie.»

Giulia si rallegrò con un sorriso di consolazione. «Però abbiamo scoperto un sacco di altre cose.»

Alberto corrugò un sopracciglio. «Ah, sì?» Una vivace scintilla di curiosità animò i suoi occhi tornati in luce. «Tipo?»

Giulia indicò verso l’alto, puntò il cielo trapuntato di stelle, la Luna che se ne stava lì a galleggiare nell’immenso blu, davvero simile a un pesce gigante immerso in un oceano di galassie. «Tipo perché la Luna ha una forma diversa ogni notte, e perché invece certe stelle rimangono sempre le stesse anche a distanza di migliaia di anni. Oh, e anche perché le maree sono influenzate proprio dal ciclo lunare e dalla sua distanza dalla Terra.»

«Cosa?» Alberto strabuzzò lo sguardo e scosse il capo. «Impossibile, non ci credo. Che cosa c’entra il mare con la Luna?»

«Ti dico che è vero.»

«E io ti dico che non ci credo.»

«Sono io che non posso crederci.» Giulia si batté una mano sulla fronte e scoppiò a ridere. «Santo gorgonzola, Alberto, sei un pesce e non sai nemmeno come funziona il mare? Lo sai che sei molto più convincente come umano che come mostro marino?»

«Lo prendo come un complimento.»

«Ma era un complimento.»

«Secondo me non è così tragico» s’intromise Luca. «Voglio dire, abbiamo comunque tutta la vita per scoprire cosa c’è al di là delle costellazioni. E le stelle e la Luna di certo non scompariranno dal cielo da un giorno all’altro.»

«Non si sa mai.» Giulia si mise a cercare qualcosa sotto i libri. Spostò le carte geografiche, le riviste di Alberto, e chiuse uno degli album stando attenta a non sciupare le pagine tappezzate di fotografie. «Ed è per questo che ho deciso di giocare d’anticipo e di trovare fin da subito il posto perfetto dove studiare tutte le risposte che cerco sullo spazio e sulle stelle, prima di vederle piovere dal cielo. Ah!» Sfilò qualcosa da sotto il suo vecchio libro di Educazione Tecnica, lo sventolò sopra la testa. «Trovato!» E mise in mostra un piccolo tagliando simile a uno dei depliant che si trovavano nelle agenzie di viaggio o negli alberghi.

Sul fronte era stampata la fotografia di quella che pareva la facciata di una piccola reggia, o di una villa, affiancata a una seconda fotografia che inquadrava uno scienziato intento a osservare nell’oculo di un telescopio che sfondava il tetto della stanza di forma ovale decorata da grafici raffiguranti i pianeti e le costellazioni.

Gli occhi di Luca tornarono a brillare come quelli di un bambino sognante. «Ooh» sospirò lui, sentendo il cuore gonfiarsi di stupore e di meraviglia. «Ma è un telescopio gigante. Ancora più gigante di quello che avevamo a scuola.» Batté l’indice sull’immagine dello scienziato chino sull’oculo. «E in questo posto ti insegnano a usarlo?»

«Sì» annuì Giulia. «È un istituto che ti fa diventare un vero astronomo, uno di quegli scienziati che sanno proprio tutto-tutto sull’universo e sulle galassie. Ma ci pensi? Pensa a quante cose riusciresti a vedere attraverso un affare così enorme!»

Alberto flesse il capo di lato, si accigliò davanti al piccolo tagliando. Ne sollevò una pagina, tornò a richiuderlo, e lesse il titolo stampato sopra la foto ritraente la facciata dell’istituto. Osservatorio Astronomico di Trieste. «Trieste?» domandò. «E dov’è?»

«È sul mare» rispose Giulia, «come Portorosso e come Genova. Ma non qui in Liguria, è più a est. Ecco, guarda…» Spostò di nuovo i libri e tornò a tirare fuori la carta geografica dell’Italia. Spostò l’indice lungo le regioni del Nord, si fermò sul confine orientale del Friuli. «Si affaccia sul Mar Adriatico, quasi vicino alla Jugoslavia.»

Anche Luca si sporse a guardare la cartina. Poco più sotto Trieste, racchiusa nella stessa laguna a forma di arco, lesse un’insegna che gli suscitò un caldo e piacevole tuffo al cuore. Venezia. «Ed è anche vicino a Venezia.» Affiorarono le parole della nonna, i suoi sorrisi sognanti, il suo desiderio di visitare la città galleggiante.

Alberto rise. «E si trova pure in una regione che porta il tuo nome, Giulia.» Lui invece picchiettò l’indice sulla scritta Friuli Venezia-Giulia. «Magari è proprio il destino che ti sta chiamando.»

Giulia si coprì le labbra e fece squillare un’allegra risata argentina. «Se lo dici tu ci credo.» Le guance lentigginose arrossirono come i suoi capelli. «Lo prendo come un buon auspicio.»

«Uhm» rimuginò Alberto, facendosi insolitamente pensoso. «Però è davvero lontano.» Provò a immaginare la distanza fra Portorosso e Trieste facendo camminare le dita lungo la carta geografica. «Sarà ad almeno un milione di chilometri di distanza da Portorosso. Sei sicura che ne valga la pena? Per un telescopio?»

«Ma è un telescopio gigante, Alberto.» Giulia bacchettò l’indice davanti al suo naso. «Qualsiasi viaggio varrebbe la pena di essere affrontato per un telescopio gigante. Qualsiasi! Poi non sarà un cambiamento poi così esagerato. Anche a Trieste c’è il mare, quindi voi due potrete stare a vostro agio. Non sarà poi così diverso da Genova o da Portorosso.»

«Sì» disse ancora Alberto, «ma se io volessi arrivare a nuoto da Portorosso dovrei fare un viaggio lungo un’eternità.»

«Allora vorrà dire che mi verrai a trovare in Vespa.»

«E per quanto tempo avresti intenzione di startene a Trieste?» Un breve ma intenso lampo di timore fece vacillare lo sguardo di Alberto. «Mica per tutta la vita, no?»

Giulia si strinse nelle spalle. Tenne alto il sorriso, ma il rossore sbiadì dalle sue guance. «Chi lo sa.» Si mise a gambe incrociate, strinse le caviglie facendo dondolare le ginocchia, e guardò di nuovo verso il cielo, facendo scivolare i riccioli dietro le spalle. La Luna si specchiò nelle profondità dei suoi occhi già proiettati verso un futuro nemmeno troppo distante. «Chi può dirlo.»

Luca sentì un groppo di disagio bruciare in fondo allo stomaco e spalancare un vuoto, un senso di perdita e di abbandono che gli gravò sulla pancia come un boccone andato di traverso. Giulia se ne andrà da Portorosso? Il suono di quei pensieri stridette nelle orecchie. E persino da Genova? E io allora dove dovrò andare? Cosa ne sarà di me? E se dovessi ritrovarmi distante persino da Alberto, io…

Giulia tastò la pesantezza dell’aria tornata fredda e difficile da respirare, intercettò lo sguardo dubbioso di Alberto, quello un po’ pallido e spaesato di Luca, e tranquillizzò entrambi. «Ehi, non fate quelle facce» sdrammatizzò. «Intanto manca ancora parecchio prima che io mi ritrovi a dover prendere una decisione simile. In ogni caso, anche se dovessi trasferirmi, non significa mica che abbandonerò per sempre Portorosso. E poi anche Luca potrà venire con me, studieremo assieme all’osservatorio e diventeremo gli astronomi più bravi del mondo. Anzi…» Spalancò le braccia e si sbilanciò all’indietro. «Dell’universo intero!»

Luca ritrovò una spinta di coraggio e di ottimismo. «I più bravi del mondo?» Guardò al di là dei rami dell’ulivo, dei filari di luminarie, dei tetti e delle terrazze di Portorosso. Anche se non riusciva a scorgere l’orizzonte e il confine con il mare, visualizzò la loro isola, la loro torre, quel luogo in cui tutto sembrava possibile, qualsiasi desiderio, persino il sogno più nascosto. «E magari potremo costruire un telescopio enorme anche a Portorosso. Così avremo una specie di laboratorio tutto nostro e potremo osservare le stelle qui, senza doverci nemmeno allontanare da casa.»

«Ooh, è vero!» Giulia batté le mani. Le stelle del firmamento racchiuse nella gioia dei suoi occhi. «Che genio che sei, Luca! Sì!» Lo strinse per le guance, trasmettendogli la stessa scossa arsa in fondo al suo cuore. «Sì, ecco quale sarà il mio sogno! Costruirò un telescopio gigante proprio qui a Portorosso, così potremo guardare le stelle tutti e tre assieme. È troppo perfetto!»

Alberto scosse la testa. Stranamente, fu lui a rimanere con i piedi per terra e la testa distante dalle nuvole. «Proprio non capisco perché dovrebbe servirvi un telescopio gigante per guardare le stelle. Ecco, guarda, io riesco a vederle lo stesso…» Puntò l’indice verso l’alto. «Anche solo con i miei occhi. Ne parlate come se un telescopio avesse il potere, non lo so, di catapultarvi direttamente sulla Luna.»

Giulia mollò le guance di Luca, si mise a braccia conserte e si sporse su Alberto. «E in quel caso te lo faresti piacere?»

Alberto sollevò il mento e allargò il sorriso. «Solo in quel caso.»

I pensieri di Luca erano altrove, distanti dai loro bisticci, ancora proiettati fra stelle e pianeti. «Ma vi immaginate se un giorno ci andassimo per davvero, sulla Luna?»

«Sì» sghignazzò Alberto, «e magari scopriremo che è fatta sul serio come un pesce gigante. E allora voi miscredenti pagherete il pegno.»

«Ah, sì?» Giulia accostò il viso a quello di Alberto. «Io scommetto mille lire che sulla Luna ci andremo prestissimo, ancora prima di quello che credi.»

Alberto assecondò il suo desiderio di sfida, si abbassò fino a sfiorarle il naso con il suo. «E io invece scommetto mille lire che una volta saliti sulla Luna scopriremo che è fatta come un pesce gigante e che è circondata dal nuoto di mille acciughine.»

«Ci sto.» Giulia raschiò un grumo di saliva dalle guance, sputò sul palmo e lo porse ad Alberto.

Alberto fece lo stesso – il suo palmo si squamò di blu – e strinse la mano di Giulia facendo risuonare un sonoro schiaffo fra le dita.

Luca rise. Era bello vederli andare d’accordo, nonostante le litigate.

Rigirò il tagliando dell’osservatorio, sfogliò le quattro pagine plastificate di cui era composto, e tornò a perdersi in quella nuvoletta di pensieri suscitata dalle parole di Giulia. Trieste, l’osservatorio gigante, gli studi sulle stelle e sui pianeti, il sogno di diventare astronomi e di portare un telescopio anche lì a Portorosso.

Provò la stessa sensazione in cui si smarriva le prime volte in cui, dalla loro isola, osservava la costa, le barche dei pescatori, le luci di Portorosso. Quella inguaribile curiosità che ti formicola nel cuore e sotto i piedi, spingendoti a tendere lo sguardo e a compiere il primo passo, unita però alla paura del vuoto, di inciampare lungo la strada e di ritrovarti solo, senza le forze di rialzarsi e di proseguire, o di ritornare indietro.

Precipitare dal cielo e annegare in un abisso senza fine…

«Dici che anche io potrei riuscirci?» domandò a Giulia. «Che sarei in grado di venire con te a Trieste, in…» Luca posò il tagliando dell’osservatorio e tornò ad abbracciare le gambe piegate contro il petto. «In una città ancora più distante di Genova?»

Giulia si asciugò la mano sulla maglietta. Parve stupita di ricevere quella domanda. «Perché non dovresti riuscirci?»

«Non lo so» disse Luca. «È che un posto così distante…» Si strinse alle gambe rannicchiate. Un brivido di timore risalì la schiena ricurva, facendolo sentire piccolo e vulnerabile. Una sardina fra le fauci di un pescecane. «E se poi non dovessi farcela sarebbe ancora più difficile per me tornare a casa, nel caso…» Deglutì. «Nel caso dovessi sentirne il bisogno.» Nel caso dovessi ritrovarmi da solo, in balia di una tempesta che non avevo previsto. Nel caso avessi bisogno di aggrapparmi a uno scoglio sicuro per non sentirmi trascinare verso il fondo.

Alberto e Giulia si guardarono di sbieco, e quell’occhiata valse più di mille parole.

Le solite crisi di Luca: nulla di nuovo, niente di cui preoccuparsi.

Fu Alberto a rassicurarlo. «Ehi, di che ti preoccupi?» Gli schiaffeggiò una pacca sulla schiena. «Tu sei uno di quelli in grado di fare tutto quello che vuoi. Trasferirsi a Trieste non sarà poi così diverso da trasferirsi a Genova.»

«Sul…» Luca torse un braccio per massaggiarsi lì dove l’aveva colpito, ma allo stesso tempo gli sorrise. «Sul serio?»

«Chiaro» confermò Alberto, senza ombra di dubbio. «Insomma, puoi vederlo da te.» Tornò a prendere in braccio Principe, perché il micio si era messo a rosicchiare una delle matite. Mosse le dita fra le sue zampette, lo lasciò giocare con la sua mano e gli strofinò una carezza sul pancino. «Sei già uscito dall’acqua, stai vivendo in mezzo agli umani come se fosse niente, e stai andando pure a scuola. Perché dovrebbe essere così difficile diventare uno scienziato delle stelle o vivere nella città che vuoi?» Sbuffò una risata sarcastica. «Mica sei una cozza che è destinata a rimanere segregata per sempre sullo stesso scoglio dov’è nata, no?»

Quella frase sprofondò nello stomaco di Luca e lo colpì come un pugno nel costato, stritolandogli il respiro, risucchiandogli il sangue dalle guance, e appannandogli la vista di nero.

Mica sei una cozza che è destinata a rimanere segregata per sempre sullo stesso scoglio dov’è nata…

In un lampo, in un battito di palpebre, Luca visualizzò le ostriche di suo padre, quei grappoli di gusci inerti che lì erano stati piantati, lì sarebbero cresciuti, e lì sarebbero stati colti, fra le alghe nate dalla loro stessa muffa. Ma gli tornò in mente anche il piccolo paguro smarrito che aveva incontrato in cima alla torre, così distante dal mare a cui apparteneva. Rievocò l’istante in cui gli aveva porto le dita lasciando che gli zampettasse sulla mano, la scia di squame tracciata dalle sue zampette umide che gli erano camminate lungo la pelle. A Luca venne da pensare che il paguro lo avesse fatto apposta per ricordargli chi fosse, da dove provenisse, e dove sarebbe dovuto rimanere per non perdersi come si era smarrito lui.

Quella botta di smarrimento gli diede la nausea, si strinse in un anello di vertigini, discese la nuca in un formicolio e fischiò attraverso le orecchie. Tornò la voglia impellente di graffiarsi le braccia e scrostarsi dalla pelle quel viscido disagio che non aveva nulla né di buono né di promettente.

Quale destino avrebbe subito? Il destino dell’ostrica confinata nella sicurezza del suo scoglio, o quello del paguro che, allontanatosi dal suo mare, può contare solo su quella fragile conchiglia che gli pesa sul dorso?

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Capitolo 10
*** 10 ***


10

 

 

Luca dovette compiere un salto di lato, aggrappandosi al braccio di Giulia, per schivare l’arrivo di un gruppetto di studentesse che erano corse ridendo lungo il vialetto di ghiaia, valicando poi i cancelli dell’istituto facendo dondolare le cartelle rigonfie di libri.

«… e l’ultima che arriva si becca il banco in fondo!»

«Non vale, sei partita senza avvertire, e poi da quando abbiamo stabilito che era una gara?»

«Ehi, ragazze, io non posso stare nei banchi indietro, sono astigmatica.»

«Ma l’altro anno non eri miope?»

«Vedrai che con il prossimo diventa direttamente cieca.»

Gli schiamazzi delle loro risate si dispersero sotto i filari degli alberi ingialliti dalle luci di primo autunno, dove batteva la penombra gettata dalle ampie pareti dell’edificio a forma di ferro di cavallo.

Le chiacchiere svolazzarono dalle loro bocche proprio come foglie nella corrente, come cinguettii. «Oh, ma c’è Lara. Lara!» Le ragazze raggiunsero un altro gruppo di amiche. Agitarono le mani sopra la testa, salutandosi, e due di loro si buttarono l’una fra le braccia dell’altra. «Siamo in classe assiemeee!» Le trecce infiocchettate svolazzarono dietro le loro spalle, gli sbuffi delle gonne compirono ampie giravolte blu attorno alle loro sgambettate. «Mi sei mancata da morire! Ma si può sapere dove sei stata tutta l’estate?»

Al flusso delle studentesse dell’istituto femminile si mescolò anche quello dei ragazzi dell’istituto maschile. Ondate di uniformi – blu per le femmine e nere per i maschi – che si scontravano, si intrecciavano, e si dividevano in mezzo agli alberi del giardino, lungo il vialetto, dietro i cancelli, proprio come le correnti di due mari differenti sbattono fra di loro al largo di un oceano infinitamente più vasto.

Molti alunni temporeggiavano, nonostante mancassero dieci minuti scarsi al suono della prima campanella. L’ingorgo di ragazzi si accalcò fra le entrate dei due istituti. Si abbracciarono, risero, si abbottonarono le uniformi ancora un po’ sgualcite dopo essere rimaste nel guardaroba per tutta l’estate. Le ragazze strinsero i fiocchi attorno ai capelli legati e si aggiustarono le scarpette di vernice. I ragazzi controllarono il sacchetto della merenda, regolarono l’orologio da polso con quello incorniciato sulla facciata della scuola, e alcuni – quelli che non avevano nemmeno indossato le giacche – rimasero a chiacchierare fra di loro. Le schiene poggiate al muro e i piedi premuti fra le griglie dove erano agganciate le bici. «... quindi io gli ho detto che se me la intendeva rifilare in quel modo poteva anche tenersela, cioè, che mi frega delle trentamila lire, ma è il principio, no? Ti pare che sto lì come un fesso a farmi prendere per i fondelli?», «Sì, sì, immagino», «Ma io te l’ho detto che non dovevi fidarti, che ti mandavo io dal meccanico di mio zio, quello che gli ha sistemato l’autoradio e pure rifatto la carrozzeria quando…» Masticarono gli ultimi bocconi della colazione, qualcuno invece succhiava una mentina. Le loro parole si persero nel costante brusio di voci mescolato allo scricchiolio delle scarpe nuove che premevano sul ghiaieto, lì dove si era già accumulato un primo strato di tappeto autunnale. Foglie rosse, foglie gialle, foglie color ambra troppo umide per sbriciolarsi, inzuppate dalla rugiada del mattino di cui ancora si percepiva il profumo ferroso attraverso l’aria.

Luca strinse forte la mano di Giulia a cui si era tenuto aggrappato dal momento stesso in cui erano scesi dall’autobus. Lo colse un fremito d’ansia che gli irrigidì i muscoli, impietrendolo contro il fianco di lei. Per alleviare quella sensazione di soffocamento, allentò il bavero della giacca che gli stava grattando la gola come un cappio. Si strofinò la mano libera sui pantaloni, asciugandosi dal sudore – un gesto che aveva ripetuto infinite volte, quella mattina, dal momento in cui era sceso dal letto –, preso dal terrore che le sfumature delle squame potessero affiorare lungo la pelle, scintillando di verde sotto le luci del primo mattino e attirando sguardi indiscreti. Sguardi ostili. Sguardi omicidi.

Luca si girò verso la strada asfaltata, dove ormai le orde di studenti scarseggiavano. Un ritardatario scese dalla bici senza nemmeno premere i freni, con la chiave della catena a ciondolare dalle dita, e corse ad agganciarla alle grate. L’ultimo autobus sbuffò un ruggito metallico, ripartì dopo aver scaricato l’ultimo gruppo di ragazzi, e si immise nel traffico mattutino che in quella zona della città, così distante dal centro e dal porto, scarseggiava.

Luca tornò a guardare davanti a sé, oltre i cancelli spalancati attraverso cui lui e Giulia non erano ancora passati, restando immobili proprio affianco alla tabella oraria delle corse degli autobus.

La facciata principale dell’istituto si ergeva davanti a loro, salendo ben oltre le ali laterali delle succursali. L’orologio segnava le sette e quarantacinque, la torretta sbucava da dietro le chiome degli alberi ingialliti che delineavano la stradina di ghiaia, quella più larga, che si immetteva nella sezione maschile, dove le uniformi nere abbondavano rispetto a quelle blu appartenenti a qualche amica, a qualche sorella, a qualche fidanzata corsa a rubare un ultimo bacio prima dell’inizio delle lezioni.

L’aria era fresca, ma non a un punto tale da far battere i denti. Gli odori del porto non arrivavano fin lì, e la barriera del boschetto schermava le correnti di vento soffiate dal mare. Aleggiava invece un delizioso profumo speziato tipico delle mattine d’autunno in cui era ancora possibile percepire il distante sentore salato dell’estate. Ma erano i profumi dolci a prevalere, quelli che uscivano dalla pasticceria aperta nella stradina di fronte. Profumi cremosi e vanigliati delle paste fresche, delle crostate di frutta, e quelli più aromatici del caffè espresso che veniva servito da mattina a sera. Anche Luca e Giulia si erano fermati a comprare la merenda al bar. La loro preferita: Luca una fetta di crostata di albicocche, e Giulia il saccottino al cioccolato.

Luca però fu costretto a massaggiarsi lo stomaco dolorante e a sopprimere un basso mugugno sofferente. Il pensiero di dare anche solo un morso al suo dolce preferito gli diede il capogiro, suscitando un disgustoso conato di vomito.

Si sentiva uno straccio: lo stomaco ingarbugliato, la faccia ghiacciata, una costante pressione a martellargli le tempie, la bocca amara, la gola secca, i piedi di piombo incollati al ghiaieto, e i muscoli di gesso, incapaci di fargli compiere anche un singolo passo distante dal fianco di Giulia. Gli dispiacque rendersi conto di avere ancora la mano sudata, oltre che fredda, perché stringendo quella di Giulia stava sicuramente impiastricciando anche la sua pelle. Giulia però non si sottrasse e non si ribellò a quella stretta. La sua mano era tiepida e asciutta, salda e sicura come un’ancora, ben aggrappata a quella di Luca in modo da infondergli tutto il coraggio di cui aveva bisogno.

Giulia sospirò, e lo spasmo di quel sospiro discese il braccio e si raccolse nella stretta di mano che lei e Luca condividevano. «Eccoci.» Compì un passetto all’indietro per flettere il capo e spingere lo sguardo verso la cima dei cancelli attorno a cui si attorcigliavano alcuni rami d’edera che il custode non aveva ancora estirpato. «Eccoci dunque davanti ai cancelli che spalancheranno la strada della nostra nuova vita.»

Luca strinse i denti, gemendo, e le guance sbiancarono di colpo. «Urgh…» Un’altra coppia di studenti gli passò vicino, gli urtò la spalla, e lui fu di nuovo costretto a incollarsi a Giulia per non sentirsi trascinare dalla corrente, per non soccombere alla sensazione di star andando alla deriva. «Non dirlo in quel modo, ti prego. Non sei per niente incoraggiante.»

Giulia rise, perfettamente a suo agio anche sotto l’ombra del cancello. «Rilassati.» Gli toccò la spalla con la sua. «Prendi un bel respiro e vedrai che andrà tutto alla grande.»

Luca fu solo in grado di buttare fuori l’aria che gli stava scoppiando nel petto. «Chissà perché non riesco a crederci poi così tanto.»

«Perché il tuo passatempo preferito è crearti problemi che non esistono.» Giulia gli diede due soffici colpetti sul petto, in modo da aiutarlo a tenere il busto dritto e le spalle larghe. «Il segreto è mostrarti sicuro di te. Se ci credi tu poi ci credono anche gli altri, è il trucco più vecchio del mondo.»

«Se ne sei sicura…»

«Sicurissima.» Giulia fece scorrere ancora una volta lo sguardo lungo il profilo di Luca. Sollevò un sopracciglio, una ruga di dubbio le increspò la fronte. «Tu, piuttosto, sei sicuro che la nuova giacca non ti stia un po’ troppo larga?» Gliela spolverò all’altezza del taschino, gli pinzò una spallina e gliela aggiustò attorno alla scapola. «Forse avremmo dovuto dire alla mamma di stringertela un po’ qui sulle spalle e anche un po’ sui fianchi. Secondo me sulle spalle ti cade un po’ larga.»

«No» mormorò Luca. «Fidati, è perfetta così.» Anche lui se la sistemò, arrotolando una manica che effettivamente scendeva ben oltre il polso. Però muovendo il braccio non sentì alcuna resistenza della stoffa, nessuna costrizione sul petto e nemmeno dietro le spalle, proprio come voleva. Poteva respirare senza fatica e senza alcuna pressione, anche ora che il fiato era bloccato dal nodo di paura. «Preferisco che sia un po’ più flessibile, sai, nel caso dovessi crescere ancora di qualche centimetro.»

«Ooh» esclamò Giulia, «è un modo indiretto di incoraggiare il tuo corpo a crescere e a riempirla. Mi piace questa filosofia.» Innalzò l’indice al cielo, catturando l’attenzione di una coppia di studentesse che le erano camminate affianco. «È un po’ come dire: ehi, giacca! Io ho intenzione di crescere ancora, quindi vedi di calzarmi giusta ancora per un paio di anni!»

Le due ragazze che l’avevano superata le lanciarono un’ultima occhiata sbieca. Una delle due scosse la testa, l’altra fece mulinare l’indice affianco alla tempia, ed entrambe proseguirono verso l’entrata della loro succursale.

Luca si coprì la bocca e rise, sollevato da quel piacevole formicolio che seppe donare un po’ di colore e un po’ di tepore al bianco delle sue guance. «Mi sta tanto male, dici?»

«Affatto.» Il tono di Giulia si fece sincero e serissimo, non ebbe nulla né di sarcastico né di scherzoso. «Ti dona.» Lei annuì con convinzione. «Ti dà proprio un’aria più matura. Effettivamente le spalline un po’ larghe ti fanno sembrare la schiena più ampia.»

«Anche la tua ti calza bene.»

«Sul serio?» Una scossetta di gioia attraversò la mano che Giulia teneva stretta a quella di Luca. Giulia sollevò un lembo della sua gonna blu bordata di rosso, in tinta con il cravattino annodato sulla camicetta, e la fece sventolare allargando e sgonfiando le frange, proprio come un ventaglio. «Ah, io non mi abituerò mai completamente alle gonne, giuro. Ma questa è un po’ più carina di quella vecchia, in effetti. Se la tengo stretta un po’ qui…» Fece aderire la stoffa attorno alle cosce. «Può davvero sembrare un paio di pantaloni. Se fosse fatta di jeans sarebbe tutto più semplice.»

«Secondo me tu stai bene sia in pantaloni sia in gonna.»

«Grazie, Luca.» Il dolce e bianchissimo sorriso di Giulia fu ancor più luminoso del sole di settembre che quel mattino brillava in un cielo privo di nubi. «È proprio bello sentirselo dire. Vorrei tanto poter ricambiare il complimento, ma non so se sarebbe appropriato.» Rise ancora.

Luca invece si ritrovò a sospirare di nuovo. Diede una ripulita ai pantaloni su cui aveva intravisto qualche pelo di Nerone. «Speriamo che non ci tocchi sul serio fare cambio, come ha detto Alberto.»

Giulia ansimò e divenne paonazza di gioia. «Sarebbe mitico!» Compì un salto e gli afferrò le spalle, gli occhi le brillarono come quando qualche idea geniale le sfrecciava attraverso i pensieri. «A Carnevale dobbiamo fare cambio! Oh, ti prego, promettimi che a Carnevale ci scambiamo le uniformi, dai, sarebbe il travestimento più geniale del secolo!»

Luca si allontanò di un passo, rabbrividendo. «Nemmeno fra un milione di anni» esclamò, di nuovo bianco in viso come la pancia di un pesce. «Sarebbe la maniera più rapida per farci espellere.»

Giulia si strinse il braccio attorno allo stomaco e rise ancora più forte. «Scherzavo, Luca, scherzavo.»

La sua risata e le sue ultime parole però si soffermarono nei pensieri di Luca, soffocarono le luci e i suoni dell’ambiente circostante, e lo trascinarono altrove, a respirare il profumo di foglie d’ulivo, ad ascoltare il canto dei grilli, a sfogliare le pagine degli album di fotografie, a perdersi nel verde smeraldino di uno sguardo che, anche se distante, era sempre con lui, presente come il battito del suo stesso cuore.

Ehi, ehi, Luca”esclamò il ricordo di Alberto, “e se invece tu ti travestissi da femmina? Così potresti andare all’istituto per signorine per bene pure tu.”

Non è il caso di scherzare.”

E chi scherza?”

Ma nemmeno quel ricordo riuscì a rallegrarlo. Anzi, lo caricò di una malinconia ancor più fredda e pesante, perché Alberto era di nuovo lontano da lui, era un’ombra che le scure nuvole della stagione fredda avrebbero nascosto dietro i loro brontolanti gorgoglii carichi di vento e di maltempo. Si sarebbe ridotto a una voce che Luca avrebbe udito solo tramite la cornetta del telefono e attraverso la carta da lettere. Una distante sfumatura blu che nelle notti d’inverno sguazzava nel mare dei suoi sogni, saltando fuori dall’acqua, brillando sotto la luce della luna piena, e sorridendogli dalla cima della loro torre.

Un’altra estate era andata, e con lei un altro saluto scambiato alla stazione dei treni, accompagnato dalla solita promessa di scriversi, di spedire tante foto e mille pensieri, e di ritrovarsi l’anno successivo. Stessa spiaggia, stesso mare, avrebbe cantato uno dei dischi che Giulia aveva lasciato nella camera di Portorosso.

Alberto e Luca si erano abbracciati, prima che lui raccogliesse la sua valigia e che salisse assieme a Giulia sul vagone del treno che già sbuffava, impaziente di ripartire. Stretto fra le sue braccia, Luca aveva chiuso gli occhi e aveva respirato a fondo tutti i profumi di Alberto, segregandoli nella nicchia del suo cuore dove custodiva i ricordi più preziosi, ancor più cari di quelli accumulati nella scatolina dei tesori ricavata dal barattolo dei Bucaneve Doria.

L’estate quell’anno era davvero trascorsa in un baleno, e Luca quasi non si era accorto dello scorrere dei giorni passati al mare o sul loro albero, del sovrapporsi delle nottate trascorse in cima alla loro torre, vegliati dalle braci del fuocherello e dagli sciami di costellazioni. Nessuna frenesia, nessun desiderio di scappare, nessun bisogno di nascondersi dagli abitanti del paese. Anche l’arrivederci alla stazione era stato diverso. Non gli aveva straziato il cuore come era successo l’anno prima, perché Luca era partito con la certezza di riabbracciare i suoi genitori, e di rivedere presto Alberto. Ma non era mai facile separarsi da lui, sciogliere l’abbraccio, distaccare lo sguardo dai suoi occhi umidi, dargli le spalle e partire, assistendo alla visione della stazione che svaniva dietro gli sbuffi di vapore singhiozzati dal treno sempre più rapido e sempre più lontano da Portorosso.

Se solo ci fosse un modo per evitare tutto questo, pensò Luca. Se solo fosse possibile non essere mai più costretti a salutarci…

Luca si strofinò gli occhi con la larga manica della giacca, per impedire anche alla più piccola lacrima di stillare dalle ciglia e di maculare le squame delle sue guance. Spostò lo sguardo su Giulia che gli era ancora affianco, con una mano stretta alla sua e l’altra intenta a rovistare fra i libri sprimacciati nella cartella su cui china per fare ordine. I suoi riccioli, ben spazzolati dietro le spalle, quel giorno brillavano di un rosso splendido e profumavano di mandorle. Erano braci in quel mare di uniformi blu e nere. Un fuoco ravvivato dai colori autunnali che fiammeggiavano anche fra le chiome degli alberi.

Luca sapeva che, qualche giorno prima di partire, prima del saluto alla stazione, Giulia e Alberto si erano confidati lontano dalle sue orecchie. Alberto si era preoccupato per Luca. Lo avevano impensierito i suoi discorsi sulla scuola nuova, sul fatto che non avrebbe più condiviso la classe con Giulia, sulla questione di tenere segreta tutta la faccenda del mostro marino. Non gli era piaciuta l’idea di lasciarlo andare mentre Luca era assalito da tutte quelle incertezze, per questo Alberto aveva fatto promettere a Giulia di badare a lui con ancor più attenzione del solito, di proteggerlo dai malintenzionati, di serbare il suo segreto, e di avvertirlo nel caso fosse capitato qualche guaio, perché la promessa di fiondarsi a Genova a nuoto era ancora bell’e valida, e nemmeno il mare in burrasca avrebbe fermato la sua determinazione di proteggerlo.

Ma Luca sapeva che non avrebbe potuto contare per sempre su Alberto per risolvere i suoi guai. Sapeva che, in mezzo alle raffiche di una tempesta, Alberto non avrebbe potuto ogni volta corrergli appresso con l’ombrello per ripararlo dalla pioggia grondante che altrimenti sarebbe rotolata attraverso le sue pinne e gocciolata dalle sue squame.

Luca sospirò, la mano ancora stretta a quella di Giulia. Non poté fare altrimenti. «Tu e Alberto vi preoccupate troppo.» Trovò il coraggio di guardare più in alto, al di là del cancello, e si riparò dai raggi di sole che ora riuscivano a fendere con più facilità l’aria inumidita solo dagli ultimi riflessi della rugiada. «Me la caverò, sul serio. Il fatto che io abbia un po’ di paura non significa che non possa farcela.» Scoccò a Giulia uno sguardo sbieco. «O no?»

Giulia non ebbe alcun dubbio a riguardo. «Ma certo che ce la farai.» Richiuse i ganci della cartella, dopo l’ultima controllata alla pigna di libri e quaderni, e si diede una grattata alle calze che le arrivavano sopra il ginocchio. «Alberto ha avuto ragionissima, per una volta: tu sei uno in grado di realizzare qualsiasi cosa desideri. Anche se…» Strinse più forte la mano di Luca, e ora fu lei a rabbrividire di incertezza. Guardò Luca attraverso quei dolci occhi da mamma apprensiva che la facevano somigliare a Sara in maniera strabiliante. «Sei proprio sicuro al cento percento su quella cosa di cui abbiamo parlato quest’estate?» Si guardò attorno, schivò i ragazzi che si stavano dirigendo alle entrate e che non guardavano nemmeno dove mettevano i piedi, troppo impegnati a sfogliare i nuovi orari delle lezioni. Giulia si fece ancor più vicina a Luca. La spalla premuta sulla sua, il buon profumo di dentifricio a sfiorargli la guancia mentre lei gli parlava a voce bassissima. «Sei proprio sicuro di non voler dire niente a nessuno del fatto di essere un…» Si morsicò il labbro e sospese la frase a metà. Pesce? Mostro marino? Creatura del mare? A volte nemmeno Luca sapeva più come definirsi.

Lui però non si guardò indietro, non si lasciò corrompere da alcuna indecisione. «Sì.» Rispose alla stretta di mano con maggior sicurezza, senza nemmeno più sentire l’attrito del sudore sfregare fra le dita. «Ormai ho deciso. Ho deciso e voglio mantenere l’impegno.»

«Sai che non sei obbligato da nessuno, Luca» gli disse Giulia. «La pressione che ti stai mettendo addosso deriva solo da te stesso.»

«F…» Luca girò la guancia e allontanò di colpo lo sguardo. Fu dura sostenere il peso di quella verità. «Forse» farfugliò. «Forse è così.» Si grattò la nuca sotto il colletto della giacca. «Ma secondo me è un passo inevitabile, è un ostacolo che prima o poi avrei dovuto comunque affrontare. Lo so che mi sto creando da solo un problema che forse nemmeno esiste, perché se qualcuno dovesse stanare il mio segreto all’improvviso sarebbe decisamente peggio rispetto a scoprire qualcosa in cui io ho deciso di espormi di mia volontà. Però voglio vedere cos’è in grado di fare il me umano, e non il me mostro marino.» Si posò la mano sul petto. «Voglio scoprire per davvero se anche per me è possibile vivere come…» Strinse le dita sulla stoffa, sentendo il bruciore di quelle parole sfrecciare come stilettata dritta al cuore. «Come un ragazzo normale.»

«Ma tu sei normale, Luca.» Giulia gli si piantò davanti. Lo sguardo deciso e la voce ferma. «Il fatto che tu sia diverso non significa che tu sia uno strambo, o che meriti di essere perseguitato e trattato peggio rispetto a me o agli altri ragazzini umani.»

«Ma magari non tutti la pensano così.» Di nuovo gli occhi di Luca caddero sui gruppi di studenti che stavano bighellonando fuori dall’istituto, ridendo, scambiandosi qualche libro, o sbocconcellando dallo stesso sacchetto di biscotti. Uno di loro cinse i fianchi di una bella ragazza bruna che adagiò la tempia sulla sua spalla, lasciandosi tenere per mano e condurre verso l’entrata della succursale. Davanti a quell’immagine così dolce e allo stesso così irraggiungibile, per uno come lui, Luca provò una fitta di dolore che gli lasciò l’amaro in bocca. «Non tutti saranno sempre disposti ad accettarmi come te, Giulia. Questo lo capisco persino io. A Portorosso è stato più facile, perché c’è anche tuo padre a proteggerci, e perché ci sono i miei genitori, e perché è un paese piccolo in cui è facile imparare a fidarsi presto l’uno dell’altro.» Scosse il capo. «Genova non è Portorosso.»

«Ma l’anno scorso, a scuola…»

«L’anno scorso eravamo piccoli. Io ero più…» Luca si tastò i riccioli in cima alla testa, sentendosi quasi in grado di soppesare quei centimetri che si erano aggiunti alla sua altezza. «Ero più bambino di adesso.» Tornò a palpeggiare anche le spalline della giacca che cascavano larghe e pendenti sulla schiena. «E io continuerò a crescere ancora per un bel po’. Cosa succederà quando mi verranno le zanne più lunghe, o gli artigli più spessi? Come reagirà la gente quando il mio aspetto sarà ancora più minaccioso di quello che è adesso?» Una triste vampata di gelo gli ghiacciò il battito in fondo al petto. «Magari è vero che fanno bene ad avere paura di me.»

Giulia sgranò gli occhi, incredula e sbigottita. «Luca…»

«E poi anche io voglio essere in grado di proteggere te» dichiarò lui, «non solo l’inverso. Se io finissi per essere preso di mira, sicuramente saresti presa di mira anche tu, dato che mi sei sempre vicina, e che sei l’unica a sostenermi. Non voglio che succeda qualcosa di simile.» Tornò a guardarla negli occhi, a stringerle la mano sperando che anche la sua presa risultasse abbastanza tiepida e sicura. Una stretta a cui valeva la pena affidarsi. «Non voglio che anche tu finisca per ritrovarti nei guai per colpa mia, quando invece potresti condurre una vita normale se solo io…»

«Normale?» Giulia si rinvigorì. Si guardò attorno, circondata dai gruppetti di ragazze che schiamazzavano, due di loro impegnate a rincorrersi, e dai ragazzi che stavano ancora ciondolando con le spalle fisse al muro e i piedi in bilico fra le grate delle bici. «E chi la vuole una vita normale» sentenziò lei, «soprattutto se significherebbe essere amica di imbecilli bigotti del genere?»

«Bi…» Luca sbatacchiò le palpebre, spaesato. «Bigotti?»

«Luca, ascoltami bene…» Giulia mollò la cartella e strinse Luca per le guance, guardandolo dritto negli occhi, senza alcuna traccia d’ombra a intaccare quella sua espressione così motivante. «Tu e Alberto siete gli amici migliori che io abbia mai avuto e che io potessi mai desiderare. Essere una vostra amica non è mai stato un peso, non è un sacrificio, quindi non pensare mai che per me significhi qualcosa di simile, d’accordo?»

Luca riprese a respirare, «O…», rendendosi conto di aver trattenuto il fiato fino a quel momento. «Okay.» Annuì, anche se imprigionato fra i palmi di Giulia. «Se lo dici tu ci credo.» Ma questa volta ci credette sul serio.

Giulia rinnovò il sorriso. «Sta’ tranquillo.» Gli mollò le guance e gli spolverò una spallina su cui era piovuta una fogliolina rossa. «Rilassati e andrà tutto bene, vedrai. Sii te stesso. Non hai nemmeno bisogno di sforzarti, sei sempre andato alla grande con le…» Ammiccò. «Faccende da umani.»

Quell’ultima frase fu un altro schiaffo sul muso, l’ennesimo vuoto al petto che risucchiò Luca in una spirale di ricordi, conducendolo di nuovo a Portorosso ma alla prima estate vissuta da bambino umano, ai primi ricordi della sua vita in superficie, la prima notte trascorsa lontano da casa, sul rifugio sull’albero. La Luna a vegliare su di loro, il profumo della corteccia dell’ulivo e della cucina di Massimo. Il mare vicino e la rassicurante presenza di Alberto a convincerlo che sarebbe andato tutto bene, che niente avrebbe ostacolato la loro fuga verso la libertà.

Siamo fortissimi come umani.”

Quel ricordo avrebbe dovuto rassicurarlo, ma così non fu, perché Luca ne trasse la certezza di come stesse fingendo di essere qualcuno che non era. Luca non era un essere umano e mai lo sarebbe stato. Non sarebbe mai completamente appartenuto al mare in cui stava nuotando.

Luca tornò a stringersi il petto, lì dove si annidava il grumo nero di quella paura, e la grigia nube di pensieri cattivi tornò a soffocarlo. E se la corrente prima o poi dovesse rispedirmi indietro? Se un giorno arrivasse un’onda più violenta del previsto che finirà per sbattermi di nuovo sullo scoglio da cui provengo? Per me sarebbe la fine. No, non voglio nemmeno pensarci.

«Ci tocca andare, ormai.» Giulia raccolse la cartella che poco prima aveva lasciato cadere. Guardò in alto, verso l’orologio dell’istituto che ormai segnava le otto meno cinque. Diede una spremuta alla mano di Luca, gli trasmise una scossa di incoraggiamento. «Pronto?»

Lo sciame di pensieri si addensò e ronzò con più prepotenza attorno alla testa di Luca, fischiandogli nelle orecchie e pizzicandogli le tempie. Lo scopriranno. Deglutì, ma fu come mandare giù un pugno di sabbia. La vista vacillò, la faccia divenne gelida, lo stomaco si strinse nell’ennesimo nodo che fece salire su il caffellatte bevuto a colazione. Mi scopriranno e mi cacceranno dalla scuola, mi odieranno tutti, mi braccheranno con gli arpioni per appendermi alla parete e poi puniranno anche Giulia per avermi protetto. Sarà un disastro, sarà…

Scosse il capo, si scrollò dalle orecchie quella vocina che riconobbe.

No. Silenzio, Bruno! Invece andrà tutto bene.

«Sì» dichiarò Luca. «Sì, sono pronto.» E questa volta lo era sul serio.

La campanella suonò, suscitò lo schiamazzo degli studenti ritardatari, i lamenti di quelli che se ne stavano appartati contro le mura esterne, e richiamò la corsa di quelli che si trovavano ancora fuori dai cancelli.

Luca strinse la mano di Giulia, e ogni paura sfumò come neve al sole. Valicarono assieme i cancelli della scuola e diedero inizio a un nuovo anno della loro vita.

 

***

 

Alberto spinse il piatto della lama sul canovaccio allacciato in vita, pulì il coltello dal sangue di pesce strusciandolo prima da un lato e poi dall’alto come gli aveva insegnato Massimo, stando attento a non smussare il filo, e le tracce di frattaglie si aggiunsero alle altre macchie di sporco che rivestivano il panno bianco facendolo somigliare alla tavolozza di un pittore.

«… e quindi io gli ho detto che sì, l’accordo era sempre stato quello di due chili a settimana, ma è chiaro che i dentici pesano di più. E ora lo so che non è che tutti possiamo essere dei geni in matematica, ma non ci vuole così tanto a capire che occupano meno spazio dentro le cassette.»

Pescò una spigola dal mucchietto dei pesci, tenendola per la coda, e la sbatté sul ripiano da lavoro della cucina. La raddrizzò – l’occhio vitreo fisso nel vuoto, la bocca socchiusa –, e la tenne ben ferma sotto le dita incerottate per rintracciare i tagli delle branchie e prendere la giusta misura con la lama del coltello.

«E lui mi dice: ma allora perché non mi hai messo le sogliole? E io: forse perché le sogliole non sono di stagione, cocco bello. Se vuoi le sogliole a ottobre accomodati pure, ma non ti aspettare che sia io a tuffarmi per prendertele.»

Principe, acciambellato sul davanzale della finestra, gli rivolse lo sguardo imbronciando il muso maculato, scettico, e scosse le vibrisse come quando tastava l’odore di balle colossali.

Alberto fece roteare gli occhi, un po’ colpevole, e incapace di sostenere quelle truci espressioni d’accusa. «Okay, okay.» Alzò le mani in segno di difesa, tenendo il manico del coltello fra le dita. «Non è che gliel’ho detto proprio in questo modo. Ma ci siamo capiti, no?»

Principe arricciò il nasino in una smorfia. «Miau!» Si leccò la zampina e si pulì dietro l’orecchio che sicuramente gli fischiava a forza di sorbirsi i monologhi di Alberto che stavano andando avanti da tutta la sera, da quando gli ultimi clienti erano usciti dalla pescheria.

Offeso, Alberto si girò in cerca dell’approvazione di Caligola e di Machiavelli che sicuramente avrebbero saputo dargli il sostegno adeguato. «Voi due mi credete, non è vero?»

Machiavelli sollevò il muso assonnato, ruggì uno sbadiglio, attorcigliò la coda attorno al guscio di Caligola, e si rimise a ronfare acciambellato assieme a lui, sprimacciati tutti e due nella stessa cuccia di vimini. Avevano entrambi cenato in anticipo e, impigriti dall’abbuffata, si erano rifugiati al calduccio nella cuccia con l’intenzione di chiudere gli occhietti e di non riaprirli fino alla mattina dopo, soprattutto Caligola che mal sopportava il freddo delle sere autunnali.

Alberto sbuffò imitando uno dei bronci di Principe. «Ma guarda tu che razza di sostegno.» Tornò a occuparsi delle spigole. Prese di nuovo la mira e sguainò il coltello per aria sentendosi proprio un direttore d’orchestra che sta per attaccare la nota d’inizio concerto.

La musica che suonava nel sottofondo della cucina lo ispirava al punto giusto. Sul piatto del giradischi vibravano infatti le note della Traviata di Verdi. Sotto la guida e i consigli di Massimo, Alberto stava cominciando a farsi piacere la musica classica e la musica lirica. Sempre meglio di sorbirsi a ripetizione i dischi di Giulia.

Alberto calò il coltello e affettò la testa della spigola.

Stump!

Sotto il colpo della lama, cedette uno scricchiolio ligneo del tagliere.

Alberto indurì il muscolo del braccio, diede uno strattone con la spalla, ma il coltello spostò solo un altro scricchiolio, senza staccarsi dal tagliere, rimanendo affondato fra il corpo e la testa della spigola. «Forza, razza di…» Strinse la presa fino a che le nocche non sbiancarono sotto i cerotti. Tenne fermo il tagliere con la mano libera e slanciò il braccio all’indietro dando uno strappo più violento.

Il coltello venne fuori, disegnò per aria un arco di luce d’argento, spruzzò uno schizzo di sangue scuro che cadde sul ripiano da lavoro, e spaventò Principe che per difendersi appiattì le orecchie abbassando la testolina fra le spalle.

Alberto riprese equilibrio dopo un solo passo vacillante. Soffiò un sospiro. «Tutto bene» lo rassicurò. «Tutto sotto controllo.» Diede un’altra pulita al coltello con una strusciata sul canovaccio. «Era tutto programmato.»

Un passo si spostò fuori dalla cucina, un viso baffuto e sospettoso si affacciò alla soglia, e la placida voce di Massimo si sovrappose agli acuti della Traviata. «Tutto a posto lì dietro?»

Alberto piroettò su una gamba sola e impennò il pollice. «Benissimo, tutto alla grande.»

Massimo corrugò un sopracciglio. Guardò verso l’alto. «Non avrai spedito un altro coltello su per il soffitto?»

«No, no, macché, ecco guarda…» Alberto mostrò il coltello che brillava quasi quanto il suo sorriso da marpione. «È qui il coltello, visto? Mica sul soffitto.»

Massimo tornò a scivolare nella stanza d’ingresso dove stava sistemando la legna. «Mi raccomando, sta’ attento a non tagliarti.» Si erano fatti consegnare un bancale nuovo proprio quella mattina, ora che la stagione fredda era pienamente avviata e che c’era bisogno di scaldare la casa ogni sera per impedire alle pareti di bersi tutta l’umidità che saliva dal mare e che si addensava durante la notte, facendo calare una nebbia densa e soffocante lungo le strade del paese.

Alberto batté un piccolo saluto militare sulla fronte. «Ricevuto.» Ripeté la stessa piroetta e si rimise davanti al tagliere. Si massaggiò le mani che effettivamente gli bruciavano a causa di tutte le piccole ferite che doveva di continuo foderare con bende e cerotti. Le ferite non erano nemmeno troppo dolorose. Faceva più male il pensiero di dare preoccupazioni a Massimo, dato che era lui quello che si impensieriva davanti anche al minimo graffietto di Alberto. Era Massimo a portare sempre in tasca qualche benda di emergenza, era lui che in farmacia si faceva mettere da parte i disinfettanti migliori, quelli che non bruciavano, ed era lui che non smetteva mai di sorvegliarlo quando si destreggiava con ami e coltelli.

Eppure sto migliorando!

Principe allungò il musetto verso il tagliere, scosse le vibrisse, annusò il pesce decapitato, e miagolò, «Miau!», questa volta non per protesta ma solo per richiamare le attenzioni di Alberto.

Alberto smise di massaggiarsi le dita, resistendo alla tentazione di affondare le unghie e di scollarsi i cerotti dalle ferite. «Pazienta solo un po’.» Riappoggiò il filo della lama sul tagliere, fece strusciare il piatto di lato, scartò la testa della spigola buttandola nel secchio, e girò il pesce per esporre la pancia bianca e gonfia. «Lo sai che posso darti solo le frattaglie.» Ne aprì il ventre, cavò fuori i budelli di scarto, gettò anche quelli nel secchio, ma conservò un pezzettino per Principe. «Ecco qua…» Usò sempre la lama del coltello per posargli il pesce davanti alle zampine, si ritirò con un inchino. «Vostra Maestà.»

Principe attaccò a mangiare, tutto contento, sporcandosi i baffi e sollevando un basso vibrare di fusa. Un micio come lui di certo non si sarebbe più accontentato solamente del latte, soprattutto ora che Perla si era separata dai cuccioli svezzati. Svezzati e migrati verso altre spiagge, per di più. Alcuni erano stati adottati dai bambini che villeggiavano a Portorosso solo per l’estate. Giunto settembre, i cuccioli erano partiti assieme a loro, con il treno, verso città più grandi. Altri invece si erano affezionati ai pescatori del luogo, soprattutto a quelli che gli riservavano qualche carezza e qualche boccone di pesce. Era con loro che i gattini vivevano, sulle barche, fra mare e terra, oppure passando da una terrazza all’altra delle case di Portorosso.

Principe invece era rimasto. Come era rimasto anche quel nome colto dalle stelle di una magica sera d’estate. Non si era mai voluto separare dalla casa dei Marcovaldo, nemmeno quando Perla era tornata a girovagare da una porta all’altra, e nemmeno quando tutti i suoi fratellini erano stati adottati. Non si era mai fatto tentare dalla vita da gatto vagabondo, persino quando si affacciava alla finestra e scorgeva i suoi fratellini intenti a dividersi le sardine donate dai pescatori o a servirsi dalle ciotole di latte lasciate sui balconi più vicini.

Principe ormai aveva conquistato il cuore di Alberto e aveva capito che con lui poteva permettersi di fare il ruffiano, guadagnandosi la pappa più saporita e le frattaglie di prima qualità. Non doveva nemmeno accontentarsi di dividere la cuccia con Caligola e con Machiavelli. Lui preferiva di gran lunga accoccolarsi nel letto con Alberto, standogli acciambellato contro il grembo, in mezzo alle coperte, oppure sul cuscino, con le vibrisse a solleticare il naso del padrone. Oppure amava appropriarsi di un piccolo posto d’onore quando in casa accendevano la stufa a legna per cuocere il pane o il pesce al forno, appisolandosi sul cuscino dello sgabello più vicino al fuoco e soffiando persino in faccia a Machiavelli, le volte in cui provava a sottrargli il trono.

Chi mai avrebbe rinunciato a una tale vita da pascià?

Alberto concluse il lavoro con il pesce. Scartò i budelli, depose la spigola ripulita sul vassoio foderato di carta di giornale, assieme agli altri pesci, e sorrise a Principe, di nuovo in cerca della sua approvazione. «Sono migliorato, eh?» Fece rimbalzare il coltello e lo riacchiappò al volo. «I colpi più letali di tutto Portorosso.»

Principe alzò gli occhi al soffitto e si leccò le zampine, sazio e soddisfatto, indifferente alle esibizioni di Alberto.

Alberto prese un’altra spigola per la coda. «Ora riesco a fare tutto con un colpo solo.» Ciaf! La sbatté sul tagliere. «Il segreto sta nel filo della lama, dicono, ma il mio vero segreto sono i muscoli.» Levò di nuovo il braccio fin sopra la testa, preparandosi a calare il colpo. «Ecco, ecco, guarda qui…»

Un tocco soffice ma fermo gli cinse il polso con le punte delle dita. «Piano, Alberto.» La voce di Massimo lo colse di sorpresa, ma senza spaventarlo. La sua mano guidò il braccio di Alberto verso il basso, gli fece posare la lama sotto le branchie della spigola. «Più in basso.»

Alberto piantò un finto broncio, protestò un po’. «Ma tu lo fai sempre dall’alto.»

«Io lo faccio da quarant’anni.» Di nuovo Massimo aiutò Alberto a dosare correttamente la forza sul manico del coltello. «In basso» ripeté, paziente. «Punta della lama poggiata sul tagliere, e movimento netto del polso…» Simulò il gesto. «Senza spostare il coltello dalla sua posizione iniziale.»

Alberto si arrese con un sospiro. «E va bene.» Quando il tocco di Massimo si separò dal suo polso, diede una sgranchita al gomito, per abituarsi alla nuova postura, e scambiò un ultimo bisbiglio con Principe che aveva assistito impassibile alla scena. «Se il capo dice dal basso, dal basso sia.» Affondò il colpo. La lama sprofondò attraverso la spigola e batté sul tagliere. Toc!

Al toc! del coltello che aveva colpito il legno si aggiunse il toc!toc! di un pugno che bussò alla porta di casa.

Machiavelli fu il primo a reagire, a sollevare il muso insonnolito dalla cuccia, e a tirare le orecchie all’indietro, grugnendo come un cane da guardia.

Massimo e Alberto invece si scambiarono uno sguardo interrogativo.

Alberto controllò l’orologio appeso alla parete. Le otto di sera passate. «Ma chi è a quest’ora?»

Massimo si sciacquò la mano sotto il getto del rubinetto, ripulendosi dalla polvere e dalle schegge di legno, e diede una scrollata alle dita. «Vado io.» Uscì dalla cucina. «Tu intanto continua con il pesce.»

Seguendo Massimo con lo sguardo, Alberto si chinò a sussurrare a Principe. «Speriamo che non sia il rompiscatole delle sogliole.»

Massimo aprì la porta ed entrò un breve risucchio di aria fredda e umida. Qualcuno parlò, un brusio bassissimo che Alberto non seppe decifrare.

Messa da parte l’ultima spigola ripulita, Alberto si fece cogliere da un brivido di curiosità, così abbandonò il ripiano da lavoro, si affacciò alla scena stando riparato dietro la soglia della cucina, e tese l’orecchio per spiare la conversazione.

Anche se la Traviata copriva le loro parole, Alberto non fece fatica a riconoscere la voce di Tommaso. «… ma dice che è disposto a trattare, a patto che voi due vi mettiate d’accordo entro domani, perché in mattinata deve mandare su un carico fino a Genova, e deve sapere se rottamarla o se tenerla qua in officina per lavorarci sopra. Non per metterti fretta, ma io ne approfitterei, se fossi in te.»

«Uhm.» Massimo si passò la mano dietro la nuca, le sue sopracciglia si inarcarono in un’espressione incerta. «E lui dov’è, adesso? In officina?»

«No» gli rispose Tommaso, «ti aspetta al Gabbiano, per questo mi ha mandato a chiamarti.»

«Uhmm.» Nonostante il mormorio un po’ più prolungato, ancora dubbioso, Massimo andò all’appendiabiti e si infilò il basco. «D’accordo.» Staccò anche il cappotto dalla gruccia. «Va’ a dirgli di aspettarmi. Fra dieci minuti sono lì.»

Tommaso annuì. Gli diede una pacca sulla spalla e sorrise. «Fai bene a venire.» Prima di andarsene, buttò l’occhio dentro casa, senza però riuscire a intercettare lo sguardo di Alberto che si era rintanato con un saltello dietro lo stipite della porta.

La porta d’ingresso tornò a chiudersi. Tornò il tepore dell’ambiente chiuso, la musica del disco, e lo scricchiolio della legna appena sistemata nella dispensa dell’ingresso.

Alberto ripulì il coltello sul canovaccio allacciato in vita, parlò con voce abbastanza alta perché Massimo potesse sentirlo anche dalla soglia di casa. «Chi era?» Fece l’indifferente per non dare l’impressione di aver origliato.

«Tommaso.» Massimo si abbottonò il cappotto. «Ha buone notizie: dice che il meccanico ha messo in vendita l’Ape ed è disposto a trattare per farla avere a noi.»

Alberto sgranò gli occhi scintillanti, e le note acute della Traviata gli vibrarono attraverso il cuore, sparando i battiti fino alle nuvole. «Sul serio?» Mollò il coltello e batté le mani, compiendo un salto sul posto. «Grandioso!» esclamò. «E quando possiamo andare a prenderla?»

«Calmo» gli fece Massimo, «non è ancora deciso nulla. Dice che è disposto a trattare, a patto che combiniamo subito l’affare. Ci aspetta all’osteria.»

Alberto tornò con i talloni a terra e con la testa giù dalle nuvole. «Ah.» La fiammata di entusiasmo sfumò, spenta da una zaffata di gelo simile a quella che era soffiata dentro casa quando Massimo aveva aperto la porta. «All’osteria.» Non fece fatica a immaginarsi la scena: il locale stracolmo di pescatori, tutti gli occhi puntati su di lui, l’aria che si incupiva e che si faceva pressante, proprio come una miriade di arpioni indirizzati alla sua gola. «È meglio che io ti aspetti qui, allora.» Fece per tornare in cucina e rimettersi al lavoro. «Intanto finisco di pulire il pesce. E magari accendo la stufa, metto in forno le patate, così quando torni sono già…»

«No» gli disse Massimo. «Vieni anche tu.»

«Cos…» Alberto non riuscì a crederci. Frenò il passo a mezz’aria, bloccato da un tonfo al cuore, e tornò a strabuzzare le palpebre. «Sul…» Si girò e corrugò un sopracciglio, credendo di aver sentito male, che la musica lirica avesse storpiato le parole di Massimo. «Sul serio?»

Ma Massimo annuì con naturalezza, proprio come se non ci fosse stato nulla di strano. «L’Ape sarà tanto mia quanto tua. È giusto che partecipi anche tu agli accordi, se proprio dovrai scorrazzarci in giro per tutto il paese.» Gli rivolse una limpida e accattivante occhiata d’intesa mentre aveva già la mano sul pomello della porta. «O non ti sta bene?»

«No!» Alberto scrollò la testa. «Cioè, sì! Sì, chiaro che mi sta bene.» Si ripulì le mani sullo strofinaccio, se lo sfilò dal grembo e lo lasciò sul bancone. Scattò per volare fuori dalla porta. «Faccio strada!»

«Fermo là.» Massimo lo trattenne pizzicandogli il bavero della maglia fra le punte delle dita. «Prima infilati il cappotto. Fuori si gela.»

Alberto accasciò le spalle in avanti e fece ciondolare le braccia fin quasi a toccare il pavimento. «Ooh, ma non fa freddo, daaai

Massimo prese anche il suo cappotto e glielo avvolse attorno alle spalle, senza voler sentire altre discussioni in merito. «Il cappotto.»

Alberto non poté fare altro che arrendersi.

Riaperta la porta di casa, fu assalito da vampata di brividi che gli accapponò la pelle e che gli strinse un nodo allo stomaco, bloccandogli il respiro e impedendogli di deglutire. Fu spontaneo domandarsi se si trattasse di una scossa di freddo o di una scossa di paura.

Quanta gente ci sarà all’osteria?

La vista vacillò. Divenne opaca e impenetrabile come la nebbia serale che già galleggiava fuori di casa, offuscando i bulbi dei lampioni e le luci provenienti dalle finestre del vicinato. Il cuore accelerò i battiti e gli fece pulsare il sangue nelle orecchie.

Mi guarderanno tutti? Chiaro che sapranno riconoscermi, ora tutti sanno chi sono, ma un conto è vedermi fuori in mare, e un conto è vedermi così al chiuso. Mi cacceranno, mi diranno che non appartengo a Portorosso e che non mi vogliono lì con loro, e poi cacceranno anche Massimo perché mi ha protetto per tutto questo tempo. Sarà disastroso, sarà…

Alberto scosse il capo e si colpì la guancia con uno sberlotto.

Silenzio, Bruno! Per una volta chiudi la bocca!

Indossò l’ultima manica del cappotto e si abbottonò senza però arrivare alla gola, dove la pressione persisteva e dove i sudori freddi gli pizzicavano la pelle.

Va tutto bene. Massimo non gli permetterà di farmi niente, e nemmeno io permetterò che qualcuno faccia del male a lui, se è per questo. Non ho nulla da temere, non mi ammazzeranno mica. Credo. Spero.

Massimo gli posò una pacca di incoraggiamento fra le scapole, «Andiamo, dai», facendolo sobbalzare sul posto.

Alberto buttò fuori il fiato dal petto. Allungò un primo passo in strada, calpestò uno sbuffo di nebbia, ed ebbe un capogiro, sentendosi smarrire in mezzo alla foschia. Gli passò la voglia di far strada come al suo solito, così frenò la camminata e tornò indietro, sulla soglia di casa, aspettando che fosse Massimo a guidarlo verso l’osteria. Si strinse nel cappotto e si accostò al suo fianco, preferendo di gran lunga aggrapparsi a quel senso di sicurezza che sapeva lo avrebbe protetto anche dall’arpione più affilato.

Prima che la porta si chiudesse alle sue spalle, Alberto lanciò un’ultima occhiata dentro casa, incrociò il musetto di Principe che era sceso dal davanzale per zampettargli dietro. Gli sorrise e alzò due dita a formare una V. Andrà tutto bene. Non seppe se avesse rivolto quel pensiero al gatto o a se stesso.

Senza il bisogno di una risposta certa, seguì Massimo lungo le vie di Portorosso. Attraversando l’umidità della nebbia e l’odore stagnante del mare d’inverno, andò incontro a quello scoglio.

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Capitolo 11
*** 11 ***


11

 

 

Il Gabbiano d’Argento era l’osteria più antica di Portorosso – e in effetti anche l’unica – e il luogo di ritrovo più frequentato dai pescatori durante l’inverno, dato che con l’arrivo della stagione fredda il bar in piazza tirava dentro le seggiole e serrava le saracinesche poco dopo l’ora di cena. L’osteria invece rimaneva aperta fino a notte fonda, talvolta fino alle prime luci dell’alba, fino a quando le barche della pesca notturna rientravano dandosi il cambio con quelle che salpavano di mattina buon’ora per andare a fare su le reti dei molluschi.

I pescatori potevano così godere di espresso pronto da mattina a sera, a volte servito persino con la panna, anziché col latte, oppure corretto con grappa di eccezione distillata nelle più rinomate cantine lombarde, e accompagnato dalla migliore focaccia di tutta la Liguria. E inoltre c’era lo sconto sui pasti per tutti quei pescatori che fornivano parte del raccolto che poi finiva cotto in padella.

La qualità del servizio compensava pienamente l’ambiente un po’ tetro e poco illuminato, e il costante odore di vino vecchio che apparteneva alle pareti della locanda come le alghe appartengono al fondo del mare.

Alberto e Massimo valicarono la soglia dell’anticamera da cui proveniva una luce tenue e bruna, filtrata da paralumi di vetro soffiato color ambra. Alberto si strofinò le guance formicolanti, si riabituò presto al tepore e all’asciutto che sostituirono la fredda umidità che aveva respirato in strada durante il tragitto, camminando attraverso la nebbia venuta su dal mare, una bruma bianca e collosa che pareva proprio essergli entrata nelle ossa. Chiuse gli occhi e annusò. Lo stomaco gorgogliò, la bocca s’inumidì, e la tensione del viso si distese in una beata espressione di appagamento. La sua pancia si riempì di un profumo tiepido e avvolgente di cucina casereccia, di stufa a legna, di bruschette abbrustolite e di zuppa di orzo e salame. Un profumo decisamente più invitante rispetto all’acre odore di vino e grappa.

Sempre stando appiccicato al fianco di Massimo che lo aveva guidato durante il tragitto fino all’osteria, Alberto passò l’anticamera ed entrò nella sala da pranzo.

Giunsero i rumori dei bicchieri risciacquati sotto il getto del rubinetto, i gorgoglii della moka da cui sgorgò caffè appena fatto, e il ronzio di un piccolo frigorifero infilato sotto il bancone a forma di ferro di cavallo che occupava un’intera parete della stanza.

Alberto sollevò lo sguardo.

Sugli spigoli delle pareti erano incastonate lampade angolari a forma di conchiglia. Era da lì che proveniva il riverbero color ambra. Ma un basso e traballante riflesso di luce più fredda giungeva anche dallo schermo in bianco e nero del televisore installato sopra il bancone, simile a quello che pendeva dal soffitto del bar in piazza. Passò la sigla del Carosello seguita da uno spot dove tre uomini in abito elegante discutevano su un piccolo palchetto decorato da festoni. Mancava il sonoro, i tre uomini blateravano a vuoto, ma nessuno dei pescatori seduti ai tavoli sembrava particolarmente interessato alla trasmissione. Tutti chiacchieravano, ed era il basso borbottio di voci impastate dal vino e arrochite dal freddo che riempiva l’ambiente.

L’oste attraversò la stanza, portò via i piatti sporchi da un tavolo e andò a servirne un altro deponendo una cesta di pane e versando grappa scura nei bicchierini di due pescatori che ringraziarono con un cenno, continuando poi a parlare fra di loro.

Alberto tornò a chiudere gli occhi, si isolò dal brusio di voci, dai passi dell’oste, dal ronzio del frigorifero, e diede un’altra annusata all’aria, inspirando più a fondo, per orientarsi nell’ambiente. Oltre il prepotente odoraccio di vino vecchio e acidulo, riconobbe il profumo più dolce di caciucco di pesce, di sugo di pomodoro, della polvere di pepe e spezie con cui condivano lo sgombro all’olio. E ancora i vapori cremosi della zuppa di patate, cipolla e prezzemolo, in cui intingevano il pane tostato ricoperto di sottilissima polvere abbrustolita che si sbriciolava non appena ne spezzavi la crosta fra le mani.

Il rumore di passi si avvicinò a lui e a Massimo. Li accolse una voce estranea ma amichevole. «Ah, Massimo!»

Alberto riaprì gli occhi e si ritrovò davanti la figura dell’oste. L’uomo strofinò una mano sul grembiule sporco e sorrise a Massimo mentre stava ancora sorreggendo il vassoio con i piatti e i bicchieri da portare a lavare. «Qual buon vento. Sei passato per un goccio? È tanto che non vieni a trovarci.»

«Veramente cerco Tommaso.» Massimo si sbottonò il cappotto senza però sfilarselo. «È venuto a chiamarmi poco fa, dovrebbe essere già qui che mi aspetta assieme a…»

«Massimo!» Un braccio si levò da uno dei tavoli, sventolò chiamandolo da un angolino della sala da pranzo, quello più buio e isolato, sotto il lampadario avvolto nella rete da pesca decorata con stelle marine essiccate. «Siamo qui, vieni» esclamò ancora Tommaso. «Ti aspettavamo.» Assieme a Tommaso, sedeva una figura in penombra che Alberto non riconobbe. Un uomo che si servì dalla caraffa smaltata, che mandò giù il vino tutto d’un fiato, e che rimase poi leggermente chino sul bicchiere vuoto.

L’oste che li aveva accolti tornò a strofinarsi la mano sul grembiule macchiato, passò il vassoio da un braccio all’altro, e rivolse a Massimo un cenno d’intesa, un’alzata di mento. «Sono subito da voi.» Sfilò in direzione del bancone senza sfiorare Alberto nemmeno con la coda dell’occhio.

Massimo ricambiò il cenno con il mento. «Fa’ con comodo.» Posò la mano sulla spalla di Alberto, e quel contatto lo fece sobbalzare. Massimo percepì quella scossa di tensione, quella sua esitazione. Gli diede una strofinata d’incoraggiamento fra le scapole e si fece seguire all’interno del locale. «Vieni.»

Alberto raccolse un lungo risucchio di fiato dalle narici, s’impettì e affondò un primo passo dietro la camminata di Massimo. Partì bene: spalle larghe, pugni stretti, mento alto e sguardo aperto.

Occhiate estranee sbocciarono da un angolo all’altro dell’osteria e gli si strinsero attorno. La pressione di quegli sguardi ostili e sospettosi si fece pesante da attraversare e soffocante da respirare, simile alla nebbia attraverso cui Alberto aveva camminato rabbrividendo e battendo i denti durante il tragitto da casa al Gabbiano.

Rallentò il passo, ingobbì le spalle, e tornò a fiancheggiare la camminata di Massimo.

Passarono vicino a un tavolo dove tre pescatori chiacchieravano rumorosamente – i bicchieri colmi di vino, le guance rosse, gli occhi ebbri e allegri –, e uno di loro finì di raccontare una barzelletta. «… e così l’infermiere arriva in Piazza San Marco e gli grida: Gino, guarda che se non vieni giù faccio segare il campanile!»

Gli altri due risero di gusto.

Finito di ridere, i loro sguardi volarono su Massimo e Alberto che erano passati lì affianco. Uno di loro diede una gomitata al compare, indicò Alberto con un’alzata di mento, e si chinò a bisbigliare all’orecchio dell’altro. I mormorii si propagarono anche da altri tavoli, pungenti come una sottile pioggerellina di spilli. Nessuno di loro ebbe più voglia di ridere, e anche i chiacchiericci provenienti dagli altri angoli del salone sfumarono in brusii indistinti.

L’atmosfera s’incupì come se un freddo soffio di vento avesse alitato sulle lampadine, spegnendole come candele e facendo calare un drappo di gelo.

Alberto allontanò lo sguardo dagli occhi degli altri pescatori, e si concentrò sulle pareti. Trattenne il fiato, deglutì, e sentì la fronte gelare, colpito da una forte scossa allo stomaco.

Le pareti dell’osteria erano infatti decorate con collezioni di arpioni dalle punte smussate e con vecchie reti che pendevano dai ganci degli ami da pesca. Piccoli quadretti a olio ritraevano pescatori che, rischiariti dalle luci dell’alba, trascinavano le loro zattere sulla spiaggia; navi ormeggiate fra gli scogli foderati di alghe e molluschi; gabbiani che volavano in mezzo alle nubi in tempesta; un pescecane che emergeva dalle acque di un oceano nero e che veniva infilzato dalla prua a sperone di un veliero.

Alberto soffiò l’aria che aveva trattenuto nel petto, sentendosi rabbrividire fino alle ginocchia. Zampettò contro il braccio di Massimo, si appese con le punte delle dita alla manica del suo cappotto, e si tenne riparato dietro di lui.

Camminarono ancora fra i tavoli, schivarono le seggiole che non erano state rimesse a posto, e su di loro volarono altre occhiatacce storte, altri bisbigli piovigginati fra i rumori della cucina. Qualche sguardo si allontanò di scatto, altri visi si nascosero dietro i mazzi di carte, e uno dei pescatori raccolse il suo cappotto, si rinfilò il berretto, e uscì dalla sala.

Nonostante la rassicurante presenza di Massimo a camminargli affianco e a infondergli coraggio, Alberto perse ogni sicurezza. La sua corazza si sbriciolò, e lui si sentì rimpicciolire come un cubetto di ghiaccio che scivola sfrigolando lungo una piastra rovente, fino a dissolversi in una misera nuvoletta di vapore.

Forse non è stata una grande idea portarmi qui…

Giunsero al loro tavolo.

Tommaso si alzò, spostò una sedia per loro e li accolse con un sorriso cordiale, il primo della serata. «Vieni, vieni, accomodati.» Lui andò a sedersi al tavolo affianco dove lo aspettavano altri due pescatori che avevano appena distribuito una mano di carte. Inviò un’ultima occhiata all’uomo nella penombra. «Vi lascio ai vostri affari.»

Massimo raccolse la seggiola spostata da Tommaso, si accomodò. «Eros.»

Eros non alzò la fronte, ci fu solo una rapidissima scintilla azzurra lampeggiata dai suoi occhi che erano brillati nella penombra. «Massimo.» Strinse la mano rugosa sul suo bicchiere appena riempito, bevve d’un fiato il vino rosso e scrutò, da sotto il riverbero ambrato delle lampade a parete, anche il viso di Alberto che si era messo seduto vicino a Massimo. «Ah.» Le folte sopracciglia grigie compirono un guizzo verso l’alto. Le guance velate di barba si raggrinzirono, infossarono l’ombra di una smorfia all’angolo della bocca. «Hai portato dietro anche il ragazzo.»

Alberto serrò i pugni sulle cosce, strinse un basso ringhio in fondo ai molari, e piantò un broncio che la penombra tenne nascosto. Io ho un nome. Tirò un po’ più sotto la sedia, facendola stridere sul pavimento, tanto per far capire all’uomo che non aveva paura di lui e che non aveva intenzione di sloggiare solo perché lì non era gradito. Allontanò gli occhi e tamburellò le dita sulle ginocchia per resistere al bruciante impulso di attaccar briga. Be’, meglio essere “il ragazzo” piuttosto che essere “il Mostro Marino”. Per lo meno questo tizio non sembra avere tutta questa voglia di infilzarmi con lo sguardo.

«Lui è Alberto.» Massimo gli tornò a posare la mano sulla spalla, dandogli il sostegno di cui aveva bisogno. «Mi aiuta fuori in mare e con il lavoro in pescheria.»

Sentendosi al sicuro, così vicino alla presenza di Massimo, Alberto ritrovò la forza di guardare attraverso la penombra frastagliata dalle lampade a forma di conchiglia e dalle reti che pendevano dalle pareti. Incrociò di nuovo il volto di Eros. L’espressione indecifrabile ricamata dalle rughe che raggrinzivano il viso bruciato dal sole, una profonda cicatrice ad attraversargli la barba della guancia destra, le sopracciglia cispose a gettare ombra sull’azzurro ghiaccio degli occhi ristretti, e i baffi a nascondere la linea della bocca.

Alberto cavò fuori quel poco di buona educazione che conosceva e gli porse la mano foderata di bende e cerotti. «Piacere.»

Eros aggrottò un sopracciglio. Posò lo sguardo sulla mano aperta di Alberto. Spostò anche la sua, ma solo per agguantare la caraffa di vino e versarsi un altro bicchiere.

Alberto strizzò un paio di volte la presa a vuoto. Alla fine si arrese e tirò indietro il braccio. Chiaro.Si strofinò la mano sul cappotto, ricordandosi solo in quel momento di averlo ancora addosso. Si slacciò i primi bottoni dalle asole, sventolò il bavero per farsi aria al collo. Perché mai dovrebbe dare la mano al Mostro Marino? Sia mai che gliela stacchi a morsi. Che razza di…

Eros accennò un sorriso assente attraverso l’orlo del bicchiere che teneva ancora fra le labbra. Si passò una nocca sotto i baffi e parlò con voce inasprita dal vino. «E sei tu quindi che ti occupi delle consegne al posto di Giulia?»

Oh, bene, si era riferito a lui direttamente e non tramite Massimo. Buon inizio. Forse c’era ancora una minima speranza su cui contare per far colpo.

Alberto tossicchiò per tornare a guadagnare un po’ di fiato nel petto. «Di solito le faccio in bici, sì.» Raddrizzò le spalle e mostrò uno sguardo aperto, un mezzo sorriso che brillò all’angolo della bocca. «Ma io so già guidare la Vespa, quindi è solo questione di tempo prima che impari a guidare anche un furgoncino, o un’auto normale. Imparo in fretta, io.»

Eros contrasse un sopracciglio e indirizzò quell’occhiata su Massimo.

Massimo annuì. «È molto intraprendente.»

«Vedo.» Eros fissò il fondo vuoto del suo bicchiere e sbuffò. «E anche impertinente, oserei dire.»

Alberto fece cadere il sorriso, tornando scuro in volto, ma sorvolò. Non era la cosa peggiore che si era sentito dire in faccia, dopotutto.

Li raggiunse l’oste, cambiò i bicchieri sporchi, depose un tagliere di bruschette e di fette di formaggio assieme a una ciotola di olive taggiasche infilzate da stuzzicadenti. «Signori, cosa vi porto da bere?»

Eros spinse verso di lui la brocca vuota. «Lasciaci giù un altro quarto di rosso.»

«Subito.» L’oste la mise sul vassoio. «E per il ragazzo? Abbiamo gassosa, limonata, succo d’arancia, Coca-Cola…»

Eros rise e scacciò via quelle proposte con un brusco sventolio di mano. «No, no, macché. Il ragazzo beve con noi.» Guardò Alberto attraverso quei penetranti e indecifrabili occhi azzurri. «O vuoi farmi credere che Massimo non ti ha mai fatto assaggiare un goccio di vino, ragazzo? Neanche a casa?»

Alberto si sentì raggelare, inchiodato sotto quello sguardo che capì sarebbe stato in grado di esporlo con ancor più facilità di una scrosciata di pioggia improvvisa, o di uno schiaffo d’acqua in faccia. Ti sta mettendo alla prova. Non farti trattare da ragazzino, non fargli credere che non hai idea di cosa sta parlando, mostragli di che pasta sei fatto. Spernacchiò una risata a cuor leggero. «Pfft, ma certo che Massimo mi ha già fatto bere vino.» Stravaccò le spalle sullo schienale della seggiola, lasciandovi ciondolare un braccio attorno. Accavallò le gambe sbottonandosi un’altra chiusura del cappotto, ed esibì un gonfio sorriso da sbruffone. «Mi dà da bere ogni giorno, praticamente, anche a colazione.»

Massimo gli lanciò un’occhiata obliqua. L’oste strabuzzò le palpebre e per poco non lasciò cadere il vassoio. Persino Tommaso e un altro dei pescatori seduti al tavolo vicino si girarono a sbirciare la scena.

Alberto si morsicò il labbro, desiderando solo mangiarsi la lingua. Ma che cavolo. Sprofondò contro lo schienale della seggiola, arrossì sentendo le orecchie andare a fuoco. «L-la…» Pescò una bruschetta dal tagliere, trovandola decisamente più appetibile delle olive. «La gassosa può andare.» La rosicchiò per non essere costretto a tenere lo sguardo alto su Eros e sulle altre facce che si erano girate verso di lui.

L’oste alzò le spalle, sfoderò un canovaccio per dare una rapida strofinata al tavolo, e si dileguò. Rimasero loro tre soli, il brusio di voci a circondarli, e gli acquerelli incorniciati a vegliarli dalle pareti.

Eros chiuse un pugno davanti alla bocca e cacciò un tossito rauco e tonante. «Dunque...» Sfilò un fazzoletto dal taschino e si strofinò la bocca. «Tommaso mi diceva che siete interessati a una mia Ape.»

Massimo annuì. «Una di quelle che hai esposto nel garage dell’officina. Quella color verde bottiglia.»

«Sì.» Eros rimise in tasca il fazzoletto. «Ce l’ho ben presente.»

L’oste tornò da loro, depose un bicchiere di gassosa zampillante davanti ad Alberto e servì il vino rosso in una caraffa smaltata uguale alla precedente, decorata dagli stessi fiori disegnati da spennellate di tempera.

Eros servì prima Massimo e poi riempì un bicchiere anche per sé. Contemplò le sfumature del vino che, sotto le luci così basse e calde, apparvero di un intenso color prugna. «In realtà c’è già un tizio di Camogli che sarebbe interessato ad averla.» Bevve un sorso piccolo e schioccò la lingua fra i denti stretti. «Per i pezzi di ricambio, più che altro. La mia reale intenzione era quella di mandarla su a Genova con il carico di domani, per farla arrivare in concessionario, ma mi hanno annullato l’ordine. Il fatto è che per me è sempre più difficile piazzare pezzi da rottamare. Ormai i clienti vogliono subito il piatto pronto. E io ho non ho più le energie di un tempo per stare dietro alle riparazioni in officina.» Espose una mano tremante, chiazzata dalla vecchiaia e prosciugata dalle rughe. Le unghie giallognole e consumate come trucioli di legno. «Le mani non lavorano più bene come un tempo, ahimè.»

Massimo avvicinò il vino alla bocca ma non bevve. «Ma non avevi un ragazzo che ti aiutava con il garage?»

«Lo avevo, appunto» si lagnò Eros. «Ma è partito questo settembre, proprio, ed è andato su a Torino. Gli hanno offerto un contratto in fabbrica e si è dileguato. Furbo, lui. Non posso nemmeno biasimarlo. D’altronde dove vuoi che vada restando qui?» Bevve ancora e puntò quei suoi occhietti di ghiaccio contro Alberto. «Non dare retta a Massimo quando ti promette di farti diventare un marinaio, ragazzo. Non sono questi i mestieri con cui si va lontano. Tempo cinque anni a questa parte e ti ritrovi confinato a fare lo scaricatore di porto.»

Alberto buttò giù un sorso di gassosa che gli punse la gola. Un caldo brivido di rabbia risalì la schiena e gli bruciò sulla nuca, accendendo in lui una fiammella, un vivo senso di protezione nei confronti di Massimo, lo stesso che sentiva provenire da lui quando gli posava la mano sulla schiena. Il desiderio di piantarsi davanti a Massimo, di slanciare la coda e di sguainare zanne e artigli per proteggerlo da quell’estraneo. Sparlino di me quanto vogliono, che facciano pure. Ma se si azzardano a dire anche solo una parola contro Massimo giuro che… «Io non sono un marinaio.» Posò il bicchiere tenendolo stretto con entrambe le mani. La condensa colorò di blu i polpastrelli schiacciati sul vetro. «Tantomeno uno scaricatore di porto. Io sono un pescatore.»

Massimo arruffò i baffi e sorrise d’orgoglio dietro i riflessi del vino color prugna. «La più nobile delle professioni.»

Alberto ricambiò il sorriso, sentendosi infiammare di gioia e d’orgoglio. Ma sì: chi se ne frega degli altri. Cosa mi importa di quello che pensano gli altri?A lui infatti bastava far sorridere Massimo, ricevere quei miti ma sinceri sguardi di approvazione, per sentirsi felice e appagato come non mai. Bastava quello per farlo sentire a casa, nel luogo a cui ora apparteneva.

Eros si strinse nelle spalle. «Se ci tenete tanto ad avere quell’Ape, io sono anche disposto a vendervela. Il resto sono affari vostri.» Pescò un’oliva infilzata da uno stuzzicadenti. «In cuor mio però mi sento di dirvi che non ne vale la pena, perché dovreste comunque darla in mano a qualcun altro per le riparazioni.» Trangugiò l’oliva e sbandierò lo stuzzicadenti come la bacchetta di un maestro di scuola. «Ci sono da sostituire le ruote, da rifare la vernice, sistemare gli specchietti, e dare un’aggiustata al radiatore. Ultimamente poi anche la marmitta aveva cominciato a singhiozzare di brutto. Se potessi lavorarci io allora sarebbe tutta un’altra questione. Potrei farvi un prezzo di favore. Ma così sarebbe come mettervi fra le mani un ferro vecchio.»

Alberto sollevò un sopracciglio, solleticato da un’idea che gli rischiarì la mente, dissolvendo i cattivi pensieri e soffiando via le nubi del suo malumore. «E se invece…» Passò l’indice attorno all’orlo umido del bicchiere di gassosa, sfregò i polpastrelli fra loro per dissolvere la sbavatura di squame, e tintinnò l’unghia sul vetro. «E se invece fossi io ad aggiustarla? Ad aiutare te…» Strinse i denti, tossicchiò e si corresse. «Ad aiutare lei con le riparazioni, intendo?»

Gli uomini del tavolo affianco, quelli seduti assieme a Tommaso, smisero di chiacchierare e un paio di loro si girarono. Persino l’oste che era appena passato per servire il caffè ai giocatori di carte lanciò un’occhiata ad Alberto. Tornò a riversarsi quella fine pioggerellina di sguardi che però non erano più ostili, né freddi come ghiaccio né pungenti come spilli.

Alberto li ignorò. Gli occhi calmi e attenti rivolti a quelli di Eros che lo scrutavano ancora con una vena di dubbio. «Lei prima ha detto che il ragazzo che la aiutava si è trasferito, no? Potrei sostituirlo io, per il tempo che serve per riparare l’Ape. E così posso coprire parte delle spese con la mia – com’è che si chiama? – mano di lavoro?»

«Manodopera» lo corresse Massimo.

Alberto annuì. «Quella mano lì, insomma. Se da qui a un mese non dovessimo riuscire a combinare niente, allora lei si terrà l’Ape e se ne farà quello che vuole.» Piegò il gomito sul tavolo, si spinse in avanti con la spalla, e snudò tutto il candore del suo sorriso più accattivante. «Mi sembra un’offerta ragionevole, no?»

Sguardi affascinati ma anche esterrefatti volarono da un pescatore all’altro, nessuno escluso. L’oste arrestò il movimento del braccio, smettendo di passare lo strofinaccio umido sul tavolo appena sparecchiato, e anche lui trattenne il fiato in attesa della risposta. Gli uomini del tavolo di Tommaso avevano deposto i mazzi di carte per girarsi e seguire la trattativa. Qualcuno bisbigliò ricevendo in cambio una ridacchiata, e per quell’istante di silenzio si udì solo lo sgocciolio del lavandino e il ronzio del frigorifero proveniente da sotto il bancone.

L’unico sguardo che ancora non aveva smosso una ruga, scettico e per nulla impressionato, era proprio quello di Eros. «Uhm.» Eros sfilò la mano dal suo bicchiere di vino, si grattò la lunga cicatrice che s’infossava fra le rughe della guancia. «Hai mai messo le mani su un motore, ragazzo?»

Il viso di Alberto s’illuminò come il sole di luglio. «Sì, ovvio!» No, Alberto, non è vero. «Cioè, circa.» Giunse una fulminea ma pungente occhiata di Massimo. «Uhm, più o meno.» No, non è vero neanche questo. Alberto scosse il capo, espose le mani incerottate e chinò lo sguardo colpevole. «Okay, non esattamente. Però…» Si picchiettò l’indice sul petto e sfoderò il suo sorriso più convincente. «Però imparo in fretta, questo è sicuro, l’ha detto anche Massimo. E lei potrebbe insegnarmi un po’. Facciamo una cosa del tipo che lei mi spiega e io eseguo.» Gesticolò fra lui ed Eros. «Un lavoro mente-e-braccio, una cosa così. È fattibile, no? Ed è vantaggioso per tutti. Il lavoro fisico non mi spaventa, lo giuro, sono più forzuto di quello che sembro.»

«Uhm…» Eros squadrò con scetticismo il fisico spilungone e mingherlino di Alberto, ignorò qualche bisbiglio proveniente dagli altri tavoli, e increspò le sopracciglia. Tornò a rivolgersi a Massimo. «E com’è questo ragazzo, Massimo?» Bevve l’ultimo sorso di vino. «È affidabile?»

La grande mano di Massimo scese a battere sulla spalla ossuta di Alberto. «Lavora sodo.» Massimo rispose senza alcuna incertezza. «Ed è instancabile. Se ultimamente gli affari vanno bene è solo grazie a lui, per questo possiamo permetterci di spendere qualche lira in più per il camioncino. Te lo cedo volentieri per un paio di ore al giorno, se può imparare qualcosa di utile.»

Imparare qualcosa di utile, appunto. Alberto assottigliò le palpebre. Il suo sorriso brillò nell’ombra, solleticato da una calda frenesia, da un’immagine sempre più viva, così vicina da poterla toccare solo allungando la punta dell’indice. Imparare qualcosa di utile per quando potrò tenere una Vespa tutta mia, o per quando dovrò progettare un’auto dal doppio motore ultra-turbo con cui portare Luca fino in capo al mondo.

Eros annuì. «Allora si può fare.» Tornò a tirare fuori il fazzoletto appallottolato e ci tossì dentro. «Mandalo da me nel pomeriggio, magari dopo le consegne. Lo metto al lavoro sull’Ape e vedrai che in capo a un mese o due te la facciamo tornare come nuova. Poi posso anche cedervela.» Rimise il fazzoletto nella giacca. «Spese di manodopera escluse, chiaramente.»

Alberto sgranò gli occhi che brillarono come due stelle – Ce l’ho fatta? L’ho convinto? Avremo l’Ape? – e trasse un lungo sospiro che gli prosciugò tutto il fiato dal petto. «Sul serio?» Strinse i pugni e li slanciò verso il soffitto. «Grandioso! Non se ne pentirà, glielo giuro.» Aprì una mano, sputò sul palmo, facendolo diventare blu, e porse la stretta a Eros. «Affare fatto, allora.»

Eros stropicciò una smorfia allibita sotto i baffi. Guardò il luccichio delle scaglie brillate sotto la luce delle lampade, spostò quell’occhiata su Massimo.

Anche Alberto guardò Massimo – ma che ho fatto?

Massimo bevve dal suo bicchiere e socchiuse una palpebra verso Alberto, facendosi capire al volo.

Alberto afferrò il messaggio e si morsicò il labbro, come quando gli scappava qualche frase impertinente davanti ai clienti della pescheria. Tirò indietro il braccio e si asciugò la mano sul cappotto. Come non detto.

In compenso, diverse risatine giunsero dagli altri tavoli dell’osteria. «Accidenti, Massimo…» Uno dei pescatori allentò il bavero del maglione, picchiettò sul tavolo il mazzo di carte con cui stava giocando. «Altro che scaricatore di porto. Questo qui è da mandare a Milano, a fare il ragioniere. L’arrampicatore sociale!» Rise di nuovo e diede una gomitata al suo vicino. «Ci rende tutti ricchi. Una testa così è un peccato che vada sprecata.»

Il suo vicino annuì. «Oppure lo si manda a Torino, anche lui.»

«Già, perché no» ribatté l’altro, «ma mica a lavorare in fabbrica. Lo candidiamo come prossimo erede degli Agnelli.»

Risate più forti si sparsero anche fra gli altri tavoli, mescolandosi allo sfogliare delle carte da gioco e al tintinnio delle brocche con cui i pescatori continuavano a riempirsi i bicchieri di vino.

Alberto arricciò il naso, confuso. Agnelli? «E cosa c’entrano le pecore?»

Le risate questa volta crepitarono, sfacciate e fragorose, facendo vibrare le pareti, tanto che persino Massimo dovette tossicchiare dietro il pugno per nascondere la sua.

Alberto continuò a non capire. Tutti ridevano e lui non sapeva nemmeno quello che aveva detto. Forse ho raccontato una barzelletta senza saperlo? Devo ridere anch’io? «Ma che ho detto?» Guardò Massimo, andò in cerca di aiuto. «No, sul serio, che ho detto?»

Massimo scosse il capo e lasciò che Eros gli servisse dell’altro vino.

«In ragazzo mette di buon umore» disse uno dei pescatori che sedeva allo stesso tavolo di Tommaso. Soppresse un’ultima ridacchiata. «Dovresti portarlo qui più spesso, Massimo. Così rallegra l’atmosfera.»

Quella dichiarazione illuminò lo sguardo di Alberto e lo sparò sulla Luna, facendolo galleggiare attorno alla sua orbita assieme ai banchi di sardine che risplendevano in una notte dai mille colori. Quelle parole così semplici sfrecciarono attraverso il petto, riecheggiarono nel cuore – dovresti portarlo qui più spesso, portarlo qui più spesso, più spesso –, e lo fecero sentire libero e felice come la volta in cui si era lanciato assieme a Luca dalla scogliera della loro isola, saltando dalla rampa a bordo della loro Vespa, quando aveva creduto di poter toccare la volta celeste solo allungando il braccio verso le nuvole.

Ora sì che avrebbe potuto sul serio camminare sulla Luna. Altro che telescopio!

Respirò a pieni polmoni quella sensazione di completezza, la sicurezza di aver raggiunto un traguardo tanto voluto e tanto sofferto, dopo averlo desiderato e inseguito come aveva agognato la vittoria della Portorosso Cup.

Era una piccola conquista, quella di sentirsi più vicino agli abitanti di Portorosso, ma per lui valeva più di qualsiasi coppa, più di qualsiasi premio in denaro, più di qualsiasi Vespa. Se avesse battuto anche solo una volta le palpebre, era sicuro che si sarebbe ritrovato il viso inondato da copiose lacrime di commozione.

I pescatori accostarono i tavoli e avvicinarono le seggiole. Aggiunsero le caraffe di vino avanzato, raccolsero tutte le bruschette in un’unica cesta, e si fecero portare anche dei grissini assieme ad altre fette di formaggio. «Qui bisogna festeggiare l’occasione. Ecco, ecco…» Uno di loro versò il vino in un bicchiere pulito. «Offrigli un po’ di vino.» Lo depose davanti ad Alberto. «E per davvero, questa volta.»

Gli occhi di Alberto tornarono a illuminarsi. «Uuh, vino!» Lui allungò le mani e arrivò a sfiorare il bicchiere prima che Massimo glielo sfilasse da sotto il naso.

«Niente vino» disse Massimo. «Non ha l’età.»

«Ooh, bazzecole» brontolò il pescatore che teneva ancora in mano la caraffa. «Io la mia prima bevuta di vino l’ho fatta che ero ancora nella culla. Sai com’è che faceva mio padre? Intingeva il ciuccio nel vino e poi me lo dava da succhiare.»

Tommaso rise di gusto. «Questo spiega molte cose.» E anche altri si unirono a lui.

Massimo invece tornò a scuotere il capo, non volle sentir ragione. «Non dategli da bere. Se poi si addormenta sul tavolo mi tocca riportarlo a casa di peso.»

«No, no, non mi addormento.» Alberto giunse le mani e lo implorò facendo occhioni da cucciolo. «Lo giuro che non mi addormento.»

Un’energica manata batté sulla spalla di Massimo. «Oh, come se per te fosse un problema portare pesi, Massimo. Ecco, ragazzo, serviti e bevi.» Gli allungarono un altro bicchiere di vino. «Un goccetto ti farà bene. Il vino fa buon sangue.»

«Ma lui il sangue buono ce l’ha già» esclamò il pescatore che si era appena servito dalla cesta di grissini. «È pur sempre italiano, anche se è un mostro marino.»

Alberto accettò il bicchiere ma le sue mani compirono uno scatto improvviso, facendo stillare una goccia che gli rigò la nocca del pollice e che scese lungo la pelle solcando una riga di squame blu.

Le risate s’interruppero di colpo. Calò un gelo talmente fitto che persino il riverbero delle lampade perse calore. L’oste fece cadere un calice. Ci fu il crash! del vetro esploso in mille pezzi e il tintinnio dei cocci più piccoli sparpagliati fra le piastrelle del pavimento. Qualcuno si alzò per aiutarlo a raccogliere i pezzi fra i tavoli e le seggiole. Qualcun altro tornò ad allontanare lo sguardo, come avevano fatto quando Massimo e Alberto erano entrati nell’osteria, e altri tossicchiarono per celare l’imbarazzo.

Massimo scoccò un’occhiata dura e severa all’uomo che aveva pronunciato la battuta. Raggiunse il braccio di Alberto, fece sfilare il tocco dietro la sua spalla e strinse leggermente sulla stoffa del cappotto per fargli sentire la solidità del suo sostegno. Un gesto che sembrò proprio dire: non avere paura, se qualcuno s’azzarda a toccarti ti prendo per mano e ti porto via. Nessuno ti farà mai nulla di male, con me sei al sicuro.

Di nuovo ci fu solo il silenzio, i passi dell’oste che si allontanavano dai tavoli, il gocciolare del lavandino, il ronzio del frigorifero, e la fredda brezza notturna che scricchiolava sui vetri delle finestre annerite dal buio e offuscate dalla nebbia.

Alberto fece tamburellare le unghie sul vetro del bicchiere. Si affacciò al suo riflesso specchiato sulla superficie del vino, al suo viso da ragazzo che, davanti a quelle parole, a quell’accusa – … anche se è un mostro marino – non sembrò contare nulla.

Perché tu rimarrai sempre un mostro marino,gli suggerì la voce di Bruno, che ti piaccia o meno. Tu non sarai mai come loro, a prescindere dalla pelle che indosserai in mezzo agli umani.

«Altro che italiano.» La voce di uno dei pescatori che sedevano contro il bancone, sotto i riflessi azzurrini del televisore privo di sonoro, riecheggiò nel silenzio, facendo voltare tutti. L’uomo tenne alto il suo bicchiere di vino, come per celebrare un brindisi. «Ormai lui è di Portorosso.» Strizzò l’occhio in direzione di Alberto. «Oppure no, ragazzo?»

Alberto venne scosso da un altro scatto improvviso. «Ecco…» Di Portorosso? Io? Sul serio? «Io...»

«Sciocchezze.»

Quella seconda voce, così brutale e improvvisa, fu un doloroso tuffo al petto. Alberto sentì il suo cuore infrangersi emettendo lo stesso crash! secco e cristallino del bicchiere che poco prima era caduto sul pavimento.

La voce di Bruno riemerse, odiosa e insistente: ora si rimangeranno tutto, vedrai. Ed Eros si rimangerà pure la proposta di farti lavorare in officina. È inutile che ci speri, caro Alberto. Tu non potrai mai fare parte di questo paese, a prescindere da quanto lo desidererai e a prescindere da quanto ti impegnerai per farti accettare dagli altri pescatori.

Quello stesso tizio che aveva parlato per ultimo si alzò dal suo tavolo, raccolse una seggiola e si mise a sedere affianco a Eros, proprio di fronte ad Alberto. Frugò nella tasca del suo cappotto trapuntato, andò in cerca di qualcosa. «Non si è mai visto un abitante di Portorosso che non sappia giocare a Scopa.» Picchiò sul tavolo un mazzo di carte da gioco. «O preferisci Briscola, ragazzo?» Batté due dita in cima al mazzo. «A te la scelta.»

Alberto riguadagnò colore in viso, sentendosi però ancora smarrito in quella trottola di confusione. «Eh?»

Gli arrivò una manata sulla spalla, ben più energica di quelle di Massimo, «Su, su, ragazzo», tanto da fargli rimbalzare il fiato fuori dai polmoni. «Mettiti d’impegno, ché oggi diventi uomo.»

«Un vero uomo che non ha mai bevuto vino?» commentò uno di quelli che stavano sgranocchiando dal tagliere di formaggi. «Bah!»

Massimo tornò a proteggerlo tramite un mormorio. «Non dargli ascolto.» Ma Alberto ne ebbe abbastanza di nascondersi sotto la sua ombra, di aggrapparsi al suo braccio e di tenersi protetto contro il suo fianco le volte in cui si sentiva minacciato.

Vogliono il Mostro Marino?

Alberto strinse forte le mani attorno al bicchiere di vino che ancora reggeva fra le dita.

E allora avranno il Mostro Marino!

Incollò le labbra all’orlo, gettò la testa all’indietro, e si scolò il vino tutto d’un fiato.

Mentre beveva, sentì un conato di vomito raggomitolarsi in fondo alla gola, pungergli la bocca e accapponargli la pelle. Strizzò gli occhi lacrimanti. Il vino era disgustoso. Sapeva di aceto andato a male mescolato allo sciroppo di mirtilli dentro cui hanno messo in ammollo un pugno di chiodi di garofano. Avrebbe voluto sputarlo ma combatté il conato e in qualche modo riuscì a succhiarlo fino all’ultima goccia senza vomitarlo.

Finito di bere, Alberto sbatté sul tavolo il bicchiere vuoto e strinse un gemito fra i denti. Una goccia colò dall’orlo, gli rotolò fra le dita, fece affiorare un sottilissimo strato di squame che, in contrasto al color prugna del vino, sfumarono di viola, facendo danzare i riflessi luminosi sul vetro ripulito.

Alberto strusciò il dorso della mano sulle labbra per non rendere palese la sua smorfia di disgusto. Strinse le palpebre e sostenne lo sguardo allibito dei pescatori. «Squi-si-to.»

Nessuno fiatò. Rimasero tutti muti come pesci, Eros e Massimo compresi.

Alberto riprese fiato dalle narici, si sfilò il cappotto di dosso – la botta di vino era già salita a ovattargli la testa e ad accaldargli la faccia come una vampata di fuoco –, rilassò le spalle sullo schienale della seggiola, e fece scorrere il pollice lungo il fianco del mazzo di carte, fingendo tono indifferente. «Allora, mi insegnate a giocare a Spazzola, sì o no?» Socchiuse le palpebre. Un tagliente lampo di furbizia gli attraversò gli occhi. «O avete troppa paura di perdere contro il Mostro Marino?»

Qualcuno fischiò. Qualcun altro si scambiò una pacca sul braccio, qualche risatina sparsa. Altri invece si fecero serissimi. Sui loro volti, calarono le stesse espressioni che sfoggiavano quando si armavano di reti e di arpioni per uscire in mare e tornare con le barche cariche di montagne di pesci boccheggianti.

L’uomo che aveva sfidato Alberto fece cenno ad altri due compari, li chiamò a sedersi affianco a lui, si impadronì del mazzo di carte, le distribuì equamente, e guardò Alberto dritto negli occhi. L’espressione cupa ma il sorriso appagato di chi può vantarsi di aver portato a casa il pesce più grosso dell’intero Mar Ligure.

Alberto sorrise di rimando, raccolse il suo mazzo di carte e accettò la sfida.

Finita la serata, persino gli arpioni appesi alla parete avevano smesso di fargli paura.

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Capitolo 12
*** 12 ***


12

 

 

Dopo aver esaminato i titoli di tutti i libri sistemati nella colonna di destra dello scaffale, Giulia salì un altro gradino. Rimase immobile, un po’ in bilico, aspettando che la scaletta smettesse di traballare sotto i suoi piedi, e posò l’indice sul dorso della prima copertina allineata nello scompartimento di sinistra, uno di quelli che non aveva ancora controllato. Si accigliò. Scorse tutti gli autori leggendo un titolo dopo l’altro.

Jack London, Jules Vernes, Lewis Carroll, J. M. Barrie, C. S. Lewis… tutti titoli e autori capaci di solleticare la sua curiosità, soprattutto se uniti ai colori delle copertine e alle immagini raffigurate sul fronte dei romanzi.

Per studiarlo con più attenzione e per leggerne la trama sulla quarta di copertina, Giulia pinzò uno dei volumi fra due dita, diede un piccolo strattone per riuscire a sfilarlo dallo scaffale, e resse i libri che lo affiancavano per evitare che si inclinassero o, peggio, che crollassero sul pavimento. Fece lo stesso con diversi romanzi.

Le copertine erano decorate da ritratti spennellati a tempera, o ad acquerello, o addirittura a carboncino. Raffiguravano lupi ululanti circondati da boschi innevati; ragazzine in gonnella che rincorrevano conigli vestiti con il panciotto; velieri di pirati che solcavano i mari in tempesta; maestosi leoni che ruggivano contro bellissime streghe di ghiaccio; bambini in pigiama che volavano verso isole incantate; e giganti che coglievano mele dai rami degli alberi da frutto.

Tutte immagini e situazioni ricche di fascino, eppure nessuna che faceva realmente al caso suo.

«Uff»sbuffò Giulia, sempre più sconsolata. «Niente. Nemmeno qui c’è qualcosa di fattibile.» Rimise a posto l’ultimo libro che aveva sfogliato, una collezione delle favole dei Fratelli Grimm. Si alzò sulle punte dei piedi, stringendo forte le mani sulle sbarre della scaletta, per resistere al dondolio, e tese lo sguardo verso il buio fondo della mensola, dietro la fila di libri che aveva appena scandagliato, per scoprire se per caso potesse esserci anche una seconda ammucchiata di volumi. Nulla. Riappoggiò il peso sulle piante dei piedi e si abbandonò a un sospiro scoraggiato. «Laggiù com’è la situazione?» Si sporse verso il basso, in direzione di Luca che stava reggendo le gambe della scaletta sulla quale lei si trovava in bilico. «Trovato qualcosa di interessante?»

Luca tenne ben salde le sbarre fra i pugni, in modo che la scala non dondolasse e che quindi Giulia non rischiasse di cadere. Quando fu certo di non percepire più alcun traballio o alcuna vibrazione, staccò una mano e la usò per cercare fra i libri sistemati nello scaffale inferiore, nella mensola che si trovava proprio davanti al suo naso.

Si trattava di libri di diverso spessore, di diversa altezza e di diverso colore, appartenenti tutti a edizioni e a collane differenti. Luca e Giulia avevano scelto appositamente quella libreria, dato che la maggiore varietà di libri compensava il caos e il disordine che regnavano fra gli scaffali sistemati alla rinfusa.

Luca inclinò la testa di lato per leggere i nomi degli autori, lasciandoli sfilare davanti ai suoi occhi. Bram Stoker, Vladimir Nabokov, Ray Bradbury. Sollevò lo sguardo in cerca di Giulia. «Deve essere per forza letteratura italiana, hai detto?»

Giulia si strinse nelle spalle. «Sì e no, teoricamente.» Sfogliò un paio di pagine del libro che reggeva fra le mani – La Collina dei Conigli di Richard Adams. «Non c’è un vero e proprio obbligo. La Lazzaro ha detto che possiamo scegliere un libro qualunque, a patto che sia narrativa, s’intende. Ma quelle delle altre classi, sai, le ragazze che l’hanno avuta prima di noi, hanno detto che lei ha una predilezione per la narrativa italiana.» Chiuse il volume e lo rimise giù, incastrandolo per bene in mezzo agli altri libri. «Il che è anche abbastanza prevedibile, dato che insegna Italiano e che quindi tende a dare voti più alti se si sceglie un autore italiano.» Scese di un gradino, tornò al livello di prima, ma questa volta cercò nello scaffale di destra anziché in quello di sinistra. La sua voce stridette in un ringhio di frustrazione. «Santa ricotta…» Il suo indice rimbalzò con maggior rapidità da un dorso all’altro, libro dopo libro. «Quanto odio quando i prof si mettono a complottare questi giochetti subliminali alle spalle degli studenti. E io devo assicurarmi che la mia tesina venga assolutamente impeccabile, dato che devo recuperare il Cinque e Mezzo che mi ha rifilato nell’ultimo compito di analisi del testo. Devo lasciarla assolutamente senza fiato, ma non è mica facile trovare il libro perfetto per una missione del genere.» Ne estrasse uno color verde muschio, un po’ più spesso degli altri, di cui Luca non riuscì a leggere il titolo. «Mi sembrano tutti, non lo so…» Giulia lo girò sulla quarta di copertina. I suoi occhi corsero attraverso le righe della trama e si fecero più cupi. «Tutti così scontati.»

«Uhm.» Anche Luca si rimise a sbirciare fra i libri. Arricciò un angolo della bocca, meditabondo. «E le tue compagne di classe cos’hanno scelto?»

Giulia emise uno sbuffo seccato. «I soliti prevedibili e noiosissimi titoli che scelgono tutte.» Rimise a posto anche quell’ultimo libro. «Edmondo de Amicis, Emilio Salgari, qualcuna se n’è infischiata della regola della narrativa italiana e si è accontentata di un banalissimo Roald Dahl, e per di più si sono tutte rifornite alla biblioteca della scuola, lasciandola mezza vuota.» Sfilò solo lo spigolo di un libro dalla copertina gialla e luccicante. I suoi occhi caddero sul prezzo, e una botta di vertigini per poco non la fece cadere dalla scaletta. «E così a noi poveracci tocca svuotarci le tasche in libreria.»

Luca provò a consolarla con un sorriso d’incoraggiamento. «I soldi spesi per i libri non sono mai soldi spesi male.»

«Non potrei essere più d’accordo.» Giulia rimise a posto il libro usando le punte delle dita, come se si fosse trattato di maneggiare una statuina di vetro soffiato, e reclinò il capo all’indietro per guardare fino in cima allo scaffale che toccava il soffitto della libreria. «Ma rimane il fatto che non ho ancora trovato quello che fa al caso mio.»

«Quaggiù magari c’è ancora qualcosa.» Luca mollò la presa dalla scaletta per inginocchiarsi e far scorrere le dita fra i titoli che erano sistemati nello scompartimento più basso, quello che toccava il pavimento. «Vediamo un po’: Dante, Petrarca, Calvino, Manzoni, D’Annunzio, Pirandello…» Sgranò gli occhi, il suo sguardo s’illuminò di speranza. «Ehi, questi sono tutti italiani.» Passò a Giulia uno dei volumi, Il Barone Rampante di Calvino. «Quindi potresti…»

«Sì, italiani e anche incredibilmente difficili.» Giulia saltò giù dalla scaletta, si diede una spolverata ai jeans, e accettò comunque il Barone Rampante che Luca aveva pescato per lei. Lo aprì al centro. «Se voglio stupire la Lazzaro con una tesina perfetta, il minimo che possa fare è scegliere un libro che sono sicura di capire fino in fondo.» Corrugò la fronte. Le bastò leggere un paio di paragrafi per rievocare attorno a sé la trottola di vertigini e confusione. «E questi sono tutti testi da quinta o da quarta liceo.»

«Troppo…» Luca tornò ad accovacciarsi, si spostò di un passetto. «Difficili, dici?» Continuò a cercare sulla stessa fila, partendo dallo spazio vuoto lasciato dal Barone Rampante. Scoprì altri titoli: La Divina Commedia, Lo Zibaldone, Il Decameron, Il Fu Mattia Pascal, Il Piacere, Il Visconte Dimezzato, Il Deserto dei Tartari… tutti testi che lo affascinavano ma che allo stesso tempo gli incutevano un buio e pressante brivido di insicurezza, lo stesso sentimento di rispetto e soggezione che lo portava a chinare il capo quando si ritrovava a camminare in mezzo agli studenti dell’ultimo anno.

Si morsicò il labbro e tremolò come una foglia. Chissà se anch’io un giorno sarò in grado di leggere libri del genere?

Posò Il Fu Mattia Pascal e raccolse un libro dalla copertina nera che era schiacciato fra altri due romanzi più alti e più grossi. Lo girò per ammirarne l’immagine sul fronte e si ritrovò a sobbalzare, soffocato da un breve ma intenso e inaspettato singhiozzo al cuore.

Sulla copertina era raffigurato un quadro che ritraeva una nave di pescatori in balia di una tempesta in mare. Le onde nere e accavallate come creste taglienti, il cielo notturno illuminato da un ramo di fulmine che si districava fra il gonfiore dei nuvoloni, e due pescatori intenti a gettare le reti al vento e a tirare le cime di corda per domare le vele.

 

I Malavoglia – Giovanni Verga

 

Luca provò di nuovo quella stessa scossa che lo aveva pizzicato quando aveva preso il libro in mano, sussultando di fronte all’immagine di copertina. Una scossa di presentimento. Un cattivo presagio che gli diede la nausea, che gli appannò lo sguardo e che lo allontanò dall’ambiente circostante, separandolo da Giulia e dagli scaffali di libri.

Sfogliò le pagine del romanzo fra le dita tremolanti e infreddolite dal sudore. Solo muri di testo, nemmeno un’illustrazione. Lo girò sul dorso per leggere la quarta di copertina, per scoprire qualcosa di più, per accostarsi a quella voce che pareva proprio chiamarlo a sé tramite l’odore acidulo delle pagine, della carta appena stampata.

Che cos’è questo libro?

Un rumore di passi si spostò nella sala adiacente. Un fruscio cartaceo sbatté sul banco della cassa, e una voce rauca tonò senza troppa grazia fra le pareti della libreria. «A quadretti da cinque, avevi detto?»

Luca sobbalzò, schiacciandosi il libro al petto, e per poco non si morse la lingua. Si girò verso la voce che si era sicuramente rivolta a lui, dato che – Luca e Giulia esclusi – non c’erano altri clienti in libreria.

Il libraio spinse gli occhiali alla radice del naso. Picchiettò una nocca in cima alla risma di fogli di protocollo che aveva posato sul bancone assieme al resto del materiale ordinato da Luca e Giulia. «I fogli protocollo li volevi a quadretti da cinque millimetri?»

«Ah.» Luca allentò la stretta attorno al libro che teneva ancora schiacciato al petto. Soffiò il fiato che aveva trattenuto dopo lo spavento, e forzò un sorriso di cortesia. «S-sì.» Scrollò il capo e si strofinò una guancia per riprendere colorito in volto. Rimise giù il libro dei pescatori e del mare in burrasca. Liberandosi di quel peso, di quella tensione che ancora gli bruciava fra le mani, di nuovo sentì schioccare quella strana scossa di energia, dopo essersene separato. Si asciugò i palmi sudaticci sulla maglia, sbarazzandosi di quel formicolio, e raggiunse il libraio che lo aspettava dietro il bancone, lasciando Giulia da sola nella sua ricerca fra i mobili gonfi di tutti quei libri ancora in attesa di essere scoperti ed esplorati.

È solo un po’ di stanchezza, si convinse. Sono solo un po’ stanco perché sta per finire il primo trimestre e perché abbiamo ancora tanto da studiare nonostante l’arrivo delle vacanze di Natale. Tutto qui. Ho visto il mare e la barca sulla copertina e ho solo sentito un po’ di nostalgia, è normale, non c’è nulla di strano. Nulla di cui io debba preoccuparmi.

Il libraio aveva ammucchiato il materiale sul bancone, vicino alla cassa e vicino a un piccolo distributore di segnalibri decorati con le più belle frasi di Shakespeare. Luca controllò che ci fosse tutto. Fogli protocollo, matite HB dalla punta già temperata, un nuovo quaderno a righe da utilizzare per gli appunti e i temi di Italiano, la carta velina per copiare le mappe di Geografia, e le mine di compasso per le lezioni di Geometria. Tutto a posto, non mancava nulla. La Coccinella era una libreria caotica, talvolta organizzata alla rinfusa, e pure distante da casa, ma era sempre fornitissima.

«Grazie.» Luca posò il mazzo di matite, dopo aver controllato per una seconda volta la durezza della punta, e sorrise al libraio. «È tutto quello che cercavo. Mi dispiace averle dato tanto lavoro.»

«Macché, macché.» Il libraio sventolò la mano. «Non c’è nessun problema.» Spaziando fra le pareti deserte della bottega, la sua espressione si ammorbidì. «Anzi, mi avete proprio fatto un grande favore a venirmi a trovare, oggi. Pensa che siete i terzi clienti in tutta la giornata, da quando ho aperto stamattina. I terzi! E pensare che dicono che quest’anno i libri saranno i regali di Natale più gettonati in tutto il Paese. Bah!» Si passò una mano attraverso i radi capelli grigi. «Chissà poi dove le tirano fuori queste statistiche. I cervelloni delle università ne hanno di tempo da perdere, a quanto pare.»

Luca si guardò attorno e, scoprendo quanto il libraio avesse ragione a riguardo, venne assalito pure lui dalla sua stessa tristezza.

Quel giorno la libreria era un mortorio, nonostante fosse il sabato pomeriggio della prima settimana di dicembre. Gli unici movimenti provenivano da fuori la vetrina, dove si incrociavano i tragitti di tutte le persone che popolavano le vie del centro. Stretti nei cappotti invernali e imbacuccati sotto i berretti di lana, gli abitanti di Genova sfilavano sotto i portici, adocchiavano di tanto in tanto il cielo buio e annuvolato, entravano e uscivano dai negozi, si infilavano nel calduccio dei bar, sfogliavano i giornali appena acquistati in edicola, si passavano a vicenda i borsoni di carta colmi di regali e pacchetti, spiluccavano dai sacchetti di caldarroste comprate alle bancarelle, si accodavano davanti agli sportelli della banca, e soprattutto si soffermavano davanti alle luci della gioielleria allestita recentemente di fronte alla Coccinella. Quel gran trambusto ovattato di voci, di passi e di campanelli di biciclette, pareva provenire da uno spazio distante e isolato dall’ambiente della libreria. Dava a Luca l’impressione di trovarsi all’interno di una bolla che fluttuava sul fondo di un mare deserto e silenzioso.

Da quando erano entrati, incrociando il passo con un gentile signore anziano che aveva tenuto la porta aperta per loro, Luca e Giulia erano rimasti gli unici clienti, ed era già passata un’ora piena da quando avevano messo piede in libreria. Giulia aveva spiegato a Luca che la scarsa affluenza verso quella zona della città era dovuta all’avvicinarsi del Natale. Tutti infatti camminavano nella direzione opposta, verso il centro storico, dove le luminarie rosse e verdi abbondavano, dove avevano appena allestito le bancarelle e i mercatini di artigianato, e dove quella stessa sera avrebbero acceso l’Albero che era stato decorato in piazza. Persino Sara era stata impegnata tutto il giorno, e aveva dovuto rinunciare ad accompagnare i due ragazzi in libreria. Lei infatti era una delle responsabili della direzione artistica che si era occupata di allestire il presepio fuori dal Municipio. Avrebbe tanto voluto uscire assieme a Luca e Giulia, comprare loro i libri, offrirgli magari una cioccolata calda, portarli a pattinare sulla pista di ghiaccio, ma le festività la rendevano sempre più impegnata del solito, poveretta.

«Le dispiace se cerchiamo ancora un po’ fra i libri?» Luca allineò la risma di fogli protocollo e vi posò sopra il quaderno a righe, in modo che sul bancone occupassero meno spazio possibile. «Oppure deve chiudere? Se deve chiudere il negozio, allora…»

Il libraio alzò le mani prima che Luca potesse finire. «Fate pure con comodo.» Sfogliò il registro di cassa, pescò una matita e si mise a scarabocchiare qualche appunto fra le colonne. Tornò ad aggiustarsi gli occhialini che erano di nuovo scivolati lungo il naso. «Tanto puoi vedere da te che non ho fretta. Se avete bisogno che vi cerchi qualcosa ditemi pure.»

«Ecco…» Luca indicò dietro di sé, verso la figura distante di Giulia che era intenta a gattonare davanti agli scompartimenti più bassi, quelli che non avevano ancora esplorato. «La mia amica in realtà cercava qualche romanzo di letteratura italiana per scriverci sopra una piccola tesina. Ma un libro non troppo difficile, qualcosa più per ragazzi, ecco.»

Il libraio smise di scrivere sul registro di cassa. «Che classe fate?»

«A settembre abbiamo cominciato la prima del ginnasio.»

«Avete provato con De Amicis? Cuore?» Il libraio tamburellò la matita e corrugò le sopracciglia, mise ordine fra gli scaffali della sua mente che con ogni probabilità erano ricchi e caotici come la sua stessa libreria. «Oppure Salgari, Sandokan, o anche Gian Burrasca

«Lei cercava qualcosa di un po’ più, ecco…» Luca si strofinò la nuca. Non seppe come esprimersi per non risultare scortese. «Un po’ più originale.»

La voce di Giulia li raggiunse dall’altra stanza. «Qualcosa che non sia scontato!»

Luca annuì per assecondarla. «Qualcosa che non sia scontato, ecco.»

«Uhmm…» Il libraio posò la matita, si strofinò la punta del mento sbarbato, e si guardò attorno, scandagliando però i libri collocati nelle mensole più alte, quelle su cui la luce artificiale batteva con più forza. «I libri di per sé ci sono, basta solo cercare bene. Quelli più in vista sono effettivamente i più venduti e i più prevedibili. Avete guardato se c’è qualcosa che vi può interessare fra i libri di seconda mano?»

Luca venne colto da un moto di stupore che gli fece sgranare le palpebre. «Seconda mano?»

Il libraio annuì e stese la punta dell’indice per indirizzarlo verso un piccolo stanzino vicino, una nicchia in ombra illuminata solo dal debole riverbero di una lampadina a parete, dato che fino a lì non arrivavano nemmeno le luci che oltrepassavano la vetrina della bottega. Luca non ci aveva mai fatto caso. Collocato in quel modo, di mezzo livello più basso rispetto al resto della libreria, infilato proprio dietro il bancone e celato dalla porticina che rimaneva sempre socchiusa, gli era sempre apparso come un archivio privato o uno sgabuzzino delle scope.

«Di là, nello stanzino laterale» spiegò il libraio, «ho allestito una piccola parete con tutti i libri usati che ogni tanto i clienti mi portano qui in bottega. Di solito li sistemo sui tavoli, sotto i portici, ma di questi tempi piove troppo spesso, non voglio rischiare che si rovinino, così li ho trasferiti dentro. Vai.» Gli fece cenno con il mento. «Va’ a dare un’occhiata, magari trovi qualcosa di interessante.»

«Oh.» Luca si avviò di gran passo, girandosi però per ringraziare il libraio attraverso un sorriso raggiante. «Grazie.» Lasciò il bancone, scese i tre piccoli gradini che conducevano allo stanzino segreto, spinse la porticina socchiusa, e si ritrovò a respirare un’aria più fredda ma priva di umidità. Camminò fra le basse pareti di quel locale che somigliava a un seminterrato, alla cantina di Portorosso dove Massimo conservava la riserva di vino e di olio d’oliva. Il soffitto basso, le pareti poco più larghe di un corridoio, solo una lampadina accesa a compensare la mancanza delle finestre, e un unico vecchio armadio di mogano a occupare il muro più largo.

Luca compì un solo passo per accostarsi al mobile, e anche in questo caso, com’era successo con le mensole del salone principale, dovette reclinare il capo all’indietro e alzarsi sulle punte dei piedi per riuscire a scorgerne la cima.

Gli bastò un’occhiata, il tempo di un battito di palpebre, per accorgersi di come quei libri fossero diversi rispetto a quelli fra cui lui e Giulia avevano frugato per tutto quel tempo. I volumi freschi di stampa erano soffocati l’uno contro l’altro, bisognava far forza sulle dita per sfilarli dagli scaffali, e le loro copertine luccicavano, senza un singolo grano di polvere a opacizzarle. Questi invece erano sistemati alla rinfusa. Alcuni erano dritti, sorretti dalle placche dei reggilibri. Altri giacevano sul fianco, ribaltati su quelli affianco che erano impilati a formare colonne di tre o quattro volumi ciascuna.

Luca pescò un libro a caso, una vecchia biografia di Otto von Bismarck a cui però mancava la sovraccoperta. Dovette aprirlo per leggerne il titolo e l’autore. Passò il tocco attraverso la carta ruvida e vecchia, strofinò i polpastrelli che si erano sporcati d’inchiostro, e inspirò l’odore di polvere proveniente dalle pagine ingiallite dal tempo.

Anche le condizioni degli altri libri erano le medesime: le copertine consumate e raggrinzite; le sovraccoperte mancanti o tenute assieme dal nastro adesivo; le pagine stropicciate dall’eccessivo sfogliare, alcune fattesi sottili e fragili come foglie secche; e gli angoli smussati su cui non era più possibile leggere i numeri. Persino inspirando il loro profumo la differenza era palpabile rispetto ai volumi collocati nella sala centrale della libreria. I libri freschi di stampa odoravano di inchiostro vergine, di carta plastificata. Questi invece celavano profumi più intimi e nascosti, di polvere, della naftalina che si annida nei guardaroba, di vecchie soffitte intaccate dall’umido, oppure di certi aromi dolci e liquorosi che si assaporano nei salottini dei piccoli appartamenti di periferia, quelli dove i soprammobili sono decorati da centrini di pizzo e dove i centrotavola sono sempre colmi di caramelle e cioccolatini. Odori di mille vite vissute e di storie raccontate infinite volte.

Luca rimise giù la biografia di Bismarck. Sollevò i libri che erano caduti sulla stessa mensola, ne spostò un paio, e sentì una nuova botta di scoraggiamento piovergli sulle spalle.

Non vi era logica nel collocamento dei volumi. Non erano in ordine alfabetico, e nemmeno raggruppati per genere o per autore. Sarà dura trovare immediatamente quello che cerchiamo. In compenso, i prezzi erano davvero convenienti. Scritti a mano sopra i vecchi codici a barre, oscillavano fra le cinquecento e le duemila lire. Un ottimo compromesso per le loro magre finanze da studenti ginnasiali.

Continuando a far rimbalzare le dita da un libro all’altro, Luca trovò di tutto: narrativa italiana e straniera, storica e contemporanea, autori come H. G. Welles, Charles Dickens, Hermann Hesse, Luis Sepúlveda, Umberto Eco, Salvatore Quasimodo, ma anche molta saggistica, professori e giornalisti di cui non aveva mai sentito parlare. Trovò persino libri di cucina, manuali di uncinetto e di giardinaggio, almanacchi lunari, e persino libri di poesia appartenenti ad autori come Baudelaire, o ancora raccolte di racconti di Lovecraft, vecchi testi di filosofia come L’Apologia di Socrate, e persino il De Bello Gallico di Cesare.

Luca tentennò, assalito dalle vertigini che gli sdoppiarono la vista.

C’è da perdersi.

Avrebbe voluto sedersi sul pavimento, a gambe incrociate, circondandosi di colonne di volumi alte fin sopra la sua testa, e mettersi a sfogliare quei libri uno a uno, preso dall’irrefrenabile curiosità di scoprire cosa raccontassero, quali segreti celassero le loro storie, e in quali luoghi misteriosi lo avrebbero trasportato con immagini e parole.

Scosse la testa per non farsi rapire da quella fantasia. Concentrati, Luca, concentrati.Cambiò scaffale, scegliendone uno più basso. Soffiò sulla fila di libri, innalzò una nuvola di polvere, tossì, e usò una manica del maglione per pulire lo strato grigio che opacizzava i fianchi delle copertine. Cercò fra un volume e l’altro stando attento a non sgualcire quelli con le pagine più fragili. Non è il momento di perdersi fra le nuvole, e poi ricordati che sei qui per cercare un libro adatto a Giulia, non per sguazzare nelle tue fantasie.

Scartò il De Rerum Natura, I Promessi Sposi, Guerra e Pace, Emma, La Fattoria degli Animali, fino a posare il tocco su un libro che catturò la sua attenzione perché era più alto rispetto a tutti gli altri volumi sistemati sul medesimo scaffale, e arrivava a toccare la cima della mensola.

Luca lo sfilò.

Il libro aveva la copertina rigida, ma foderata di pelle morbida e un po’ raggrinzita agli angoli, dove la tinta blu scoloriva. Al centro era incastonato un piccolo specchietto, circondato a sua volta da una cornice dentro cui era raffigurata l’immagine di un burattino dal naso a punta che sorreggeva una pigna di libri sottobraccio.

 

Le Avventure di Pinocchio – Carlo Collodi

 

Luca rimase frastornato da quella scoperta. Pinocchio? Era più che certo di aver già udito quel nome e di aver già posato lo sguardo sul naso a punta di quel burattino di legno, sul suo berretto a forma di cono. Forse a Portorosso, fra i libri accatastati sulle mensole della camera di Giulia, o forse in un’altra libreria, o anche nella biblioteca della scuola.

Cominciò a sfogliarlo, e scoprì una miriade di illustrazioni incorniciate fra le pagine di testo. Si soffermò sull’immagine dove Pinocchio riceveva una mela e l’abbecedario, dove scorrazzava per le strade del paese salutando un signore baffuto vestito in abiti leggeri, privo della casacca.

L’attrazione fu inevitabile e immediata. Un vivo impulso elettrico che lo spinse a girare altre pagine, a smarrirsi fra parole e figure. Ma fu anche un sentimento più caldo e accogliente rispetto a quello provato poco prima reggendo fra le mani il libro di cui per fortuna si era già scordato il nome, quello che ritraeva i pescatori succubi del mare in tempesta, quell’immagine poco rassicurante a cui preferiva non pensare più di tanto. Se il libro dei pescatori era stato una sberla di acqua gelida, Pinocchio fu una carezza che accolse Luca nel suo tepore, facendolo sentire protetto e al sicuro come quando si rintanava fra le braccia di Daniela.Lo incoraggiò a chiudere gli occhi, a rilassare il respiro, e ad abbandonarsi senza sforzo nella corrente di quel viaggio.

Senza nemmeno accorgersene, Luca si ritrovò a passeggiare per le strade sterrate che si intersecavano fra vecchi casolari di pietra costruiti fra stalle, botteghe e fienili. Alzò lo sguardo per godersi il panorama della campagna toscana, il verde dei filari di viti arrampicati su per le colline e l’oro dei campi di girasoli, e sollevò la mano per ripararsi dal sole. Tenne stretti i libri di scuola raccolti sottobraccio, scosse il sacchetto di zecchini dorati, affondò le mani nella terra umida per seppellire le monete nel Campo dei Miracoli, accelerò la corsa per inseguire le risate degli altri ragazzini che si accalcavano ridendo davanti al teatro dei burattini.

Un burattino parlante in mezzo ai bambini. Luca accolse quel pensiero tramite una spirale di speranza e di triste rassegnazione, proprio lo stesso profumo dolce e acre che poteva inspirare attraverso le pagine del libro consumato dal tempo. Un mostro marino fra gli umani…

Lo raggiunse un forte ruzzolone di passi in corsa. Giulia saltò i tre gradini, atterrò al centro dello stanzino strusciando le suole sul pavimento e facendo sventolare il rosso dei capelli, e innalzò le braccia al soffitto per esibire la sua conquista. «Eureka!»

«Wah!» Luca trasalì. Quel sobbalzo improvviso lo costrinse a far rimbalzare il libro da una mano all’altra e poi a schiacciarselo contro il petto per evitare di farlo cadere a terra, di vederlo esplodere in una cascata di fogli colorati. «Giulia» ansimò. «Che spavento. Ma cosa…»

«Udite, udite!» Giulia innalzò un braccio fin sopra la testa e mirò l’indice al soffitto. «La qui presente Giulia Marcovaldo ha appena trovato la soluzione più geniale del secolo e anche dell’intero millennio! La più grande scoperta dopo l’acqua calda e la ricetta della pizza!»

«Uh, cosa…»

«Guarda un po’ qui.» Giulia allungò il libro davanti al naso di Luca, riempiendogli il campo visivo con quell’indolore schiaffo di colore rosso. «Ta-daaan! Ecco il libro con cui mi aggiudicherò la lode in Italiano.»

Luca dovette arretrare di un passo e sbatacchiare più volte le palpebre per mettere a fuoco il titolo illuminato dal riverbero così fiacco e polveroso che regnava fra le pareti dello stanzino seminterrato.

 

Pippi Calzelunghe – Astrid Lindgren

 

Sulla copertina era raffigurata una ragazzina con le treccine rosse e una gonna di pannolenci. Assieme ad altri due bambini come lei, viaggiava sulla groppa di un cavallo a pois, davanti a un panorama composto da casette di campagna color pastello circondate da un boschetto nordico.

Luca flesse il capo di lato. «Lind…» Con incertezza, fece sdrucciolare fra le labbra quelle sillabe sconosciute. «… gren?» Si grattò dietro l’orecchio, ancora accigliato dal dubbio. «Non mi sembra un nome italiano.»

«No, infatti» confermò Giulia, «l’autrice è svedese, a quanto pare.»

«Ma sicura che vada bene? Avevi detto che…»

«Che la Lazzaro ha un occhio di riguardo per i temi scritti sulla letteratura esclusivamente italiana.» Giulia abbassò il libro da davanti la faccia di Luca, annuì due volte. «Lo so, è vero. Ma con questo libro non posso fallire, sembra scritto appositamente per me. Insomma, guarda…» Aprì il libro e ne sfogliò le pagine in modo che anche Luca potesse guardare assieme a lei. Sorpassarono un capitolo dopo l’altro. Scoprirono altre raffigurazioni: i tre ragazzini che cucinavano assieme; che si travestivano indossando abiti di tre misure più grandi; che scendevano da una collina facendo a gara con una scimmietta; che navigavano su una barchetta a remi; e che costruivano un fortino di lenzuola simile a una tenda degli indiani d’America. «Una ragazzina ribelle, un po’ maschiaccio, un po’ combinaguai, che condivide le giornate giocando con altri due ragazzini come lei. Io non ho una scimmia, e vado in giro in bici anziché su un cavallo a pois, ma più o meno è la stessa cosa.» Si soffermò sull’immagine di Pippi che sorrideva, stretta fra le braccia di un uomo gigante dal viso buono, vestito con abiti da pirata. «Poi suo padre è un pirata e il mio è un pescatore. E lei ha pure i capelli rossi!» Giulia chiuse il libro, se lo strinse al petto, e saltellò da un piede all’altro, incapace di contenere quella scarica di emozione che le aveva acceso le guance di un vivo color porpora. «Sarò la prima alunna di tutto l’istituto a prendere una lode con la Lazzaro anche se la mia tesina non sarà su un libro italiano. Passerò alla Storia, da’ retta a me. Secondo me è un segno del destino che io abbia trovato questo libro.»

«Segno…» Anche il libro che Luca teneva stretto al petto emanò un battito di vita, un eco di richiamo che risuonò fino al suo cuore. «Del destino, dici?» Anche quella era una storia che pareva essergli capitata sotto gli occhi proprio perché guidata dalla mano del destino, dalla sconosciuta provvidenza che già più di una volta si era intromessa nel suo cammino.

«Anche tu hai trovato qualcosa di bello?» Giulia si sporse, fece inclinare il libro a Luca per leggerne il titolo. «Ooh, Pinocchio! Che bella edizione, tutta rilegata in pelle.» Ne carezzò il dorso un po’ sbiadito e raggrinzito dal tempo. «Dove l’hai trovata?»

«Qui…» Luca guardò verso la mensola dello scaffale dove era rimasto un piccolo spazio vuoto. «In mezzo a tutti i libri usati.»

«Be’, è tenuto molto bene per essere di seconda mano.» Giulia guardò sul retro, individuò il prezzo scritto con il pennarello. «Oh, e costa pure poco. Possiamo prendere anche questo, se vuoi, tanto i soldi ci bastano di sicuro.»

Luca sorrise, abbagliato dalla ricchezza di quel tesoro che sorreggeva fra le braccia. «Ed è un bel libro?»

Giulia annuì. «Assolutamente. Io l’ho letto alle elementari, ma lo leggono praticamente tutti, prima o poi. Tu non hai mai…» Sobbalzò a occhi sbarrati, come se si fosse ricordata all’improvviso di qualcosa di importante, e si portò una mano alla bocca. Arrossì. «Ops.» Si strinse nelle spalle, rimpicciolendosi per l’imbarazzo. Solo in quel momento le fu chiaro che Luca non poteva averlo letto. «Scusa, scusa, scusa, non volevo essere sgarbata, lo giuro. È che a volte persino io mi dimentico che sei…» Si sporse a sbirciare verso il salone centrale della libreria, intercettò la figura del libraio al lavoro dietro il bancone. Abbassò comunque la voce. «Be’, lo sai.»

Il libraio non pareva comunque prestare attenzione ai loro discorsi. Posò la cornetta del telefono, dopo aver scambiato qualche parola con l’altro capo della linea, si aggiustò gli occhialini alla radice del naso, e si rimise a scarabocchiare qualcosa sul registro di cassa, chino dietro la risma di fogli protocollo ancora impilati sul bancone.

Per Luca non ci fu motivo di offendersi. «Non fa niente, davvero. Anzi…» Rivolse a Giulia un dolce sorriso di gratitudine. «Se vuoi lo prendo come un complimento. Se te ne dimentichi persino tu, significa che sono un bambino terreno abbastanza convincente.»

Giulia trillò una delle sue ridacchiate più allegre. «Direi decisamente di sì.» Fece scorrere lo sguardo lungo il profilo di Luca e gli strofinò una mano fra i capelli. Ora persino lei doveva mettersi sulle punte dei piedi per riuscire a raggiungere la cima della sua testa. «Anche se non più tanto bambino, ormai.»

«Già» mormorò Luca, non esattamente rallegrato da quella prospettiva. Sto crescendo. Il tempo non si ferma, mentre io… «Forse è vero. Ma quando si tratta di imparare, o di scoprire cose nuove che per molti sembrano scontate…» Riaprì il libro e lo sfogliò fino a raggiungere l’illustrazione di Pinocchio a passeggio in mezzo agli altri scolari. «Io mi sento davvero come un bambino, quassù in superficie.»

«Ma sentirsi un bambino non è mica una cosa brutta» lo consolò Giulia. «I bambini hanno delle capacità più sorprendenti di quanto un adulto possa anche solo immaginare. Sono curiosi, sempre entusiasti di scoprire qualcosa di nuovo, fanno mille domande e imparano in fretta. Ecco…» Batté di nuovo la mano sul libro. «Se leggessi Pinocchio lo vedresti con i tuoi occhi.»

«Sul serio?» Anche Luca ne era sempre più convinto. Il tesoro di carta racchiuso fra le sue mani brillò proprio come una montagnetta di monetine dorate, riempì di luce i suoi occhioni incantati. «E di cosa parla esattamente?»

«Di un burattino.» Giulia lo riportò su una delle prime facciate, sull’illustrazione dove Pinocchio prendeva vita, ancora privo di gambe e braccia, sotto lo scalpello di Geppetto e davanti al suo sguardo strabuzzato dallo stupore. «È la storia di un burattino parlante che prende vita quando viene intagliato nel legno da un falegname vecchio e solitario, e che poi viene messo alla prova per dimostrare di meritarsi di diventare un bambino umano come tutti gli altri.»

«Ooh.» Luca ricominciò a sfogliarne le pagine alternate fra disegni e muri di testo, sprigionando quell’intenso profumo di carta vecchia e di legno laccato. «Un bambino vero.» Un bambino vero,tornò a pensare. Un vero bambino umano che non deve stare attento all’acqua, che non deve nascondersi per non sentirsi diverso dagli altri, e che non deve avere paura degli arpioni e delle reti da pesca.

Sotto i suoi occhi corsero tutte le altre immagini, frammenti colorati di quella storia che pareva essere stata scritta per lui e lui soltanto. Pinocchio che fa le linguacce a Geppetto; Pinocchio che si brucia i piedi nel fuoco; Pinocchio che litiga con l’ombra del Grillo Parlante; Pinocchio che passeggia guidato dal Gatto e la Volpe; Pinocchio che posa un bacio sul naso di Mangiafuoco, attorniato dagli altri burattini come lui; Pinocchio a letto, malato, e vegliato dalla Fata dai Capelli Turchini; Pinocchio che, assieme a Lucignolo, salta a bordo del carretto trainato dagli asinelli e guidato da un ometto bianco e grasso; e infine Pinocchio che fugge dalle fauci del pescecane che prima di lui si era inghiottito anche il povero Geppetto.

Le immagini gli parlarono attraverso le pagine colorate, sbiadite dal tempo, ma ancora vive e palpitanti. Le parole lo chiamarono a sé, si accostarono al suo orecchio bisbigliando un mormorio caldo e invitante come la frizzante e profumata brezza di primavera che soffia sulla spiaggia. Luca capì che in quel libro c’era tutto di lui. Tornò ad avvolgerlo fra le braccia, a stringerselo al petto, proprio sopra il cuore, e seppe che già gli apparteneva come gli apparteneva il suo stesso respiro.

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Capitolo 13
*** 13 ***


13

 

 

Erano ormai le sei di sera passate. I negozi, le botteghe e le edicole stavano gradualmente serrando le saracinesche. Le luci dei bar si stavano spegnendo una dopo l’altra, lasciandosi sostituire dai lampioncini che venivano accesi fuori dai ristoranti e dalle trattorie, dove erano affisse le lavagnette con il menù del giorno. I filari delle luminarie bianche e oro lampeggiavano fra un balcone e l’altro, dove erano esposte anche numerose ghirlande composte da agrifoglio e da finti fiocchi di neve, e si specchiarono sulle finestre degli appartamenti attraverso cui si intravedevano le luci multicolore degli Alberi di Natale appena decorati.

Una moltitudine di persone camminava in direzione opposta al centro storico dove si era appena conclusa la cerimonia di accensione dell’Albero installato davanti al Municipio. Donne e uomini facevano dondolare borse gonfiate dai pacchetti regalo comprati ai mercatini di artigianato, dalle scatole di dolciumi, e dai pezzi di presepio da aggiungere alle collezioni vecchie di decenni. Molti di loro adocchiarono il cielo annerito dal buio della sera e dal maltempo. Arricciarono il naso quasi fossero stati in grado di tastare l’acre e ferroso odore del diluvio che si sarebbe presto sfogato sui tetti e fra i comignoli fumanti. Nell’aria infatti ristagnava un pesante odore di pioggia invernale, di cenere di sigaretta, di cappe di camini affumicate, di tombini, e del caffè espresso che stavano ancora servendo nei bar più vicini, quelli che non avevano ancora chiuso. Le persone accelerarono il passo, si affrettarono a raggiungere le fermate degli autobus e i parcheggi delle auto, e alcuni si infilarono al riparo sotto i portici, attraversando le tenui luci delle vetrine che si erano dimezzate rispetto alle prime ore del pomeriggio.

Luca dovette compiere un passo indietro e schiacciare la schiena contro il muro della Coccinella per non finire investito da un signore stretto in un impermeabile nero che, calcatosi un berretto dello stesso colore sulla fronte, pareva non essersi nemmeno accorto di loro. Strinse al petto la busta di carta dentro cui il libraio aveva impacchettato tutto quello che lui e Giulia avevano acquistato: il materiale scolastico e i due romanzi, Pinocchio e Pippi Calzelunghe.

Nella tasca della sua giacca sentì pesare e risuonare la manciata di monetine avanzate, dato che il libraio era stato gentile e aveva fatto loro lo sconto. Proprio gli zecchini di Pinocchio, gli viene istintivamente da pensare. Ma di certo non aveva alcuna intenzione di andare a fare un buco nella terra, seppellirli, e aspettare che germogliassero in un albero di monetine dorate.

Affianco a lui, Giulia si abbottonò le ultime chiusure del cappotto e si girò ad adocchiare la porticina della libreria dalla quale erano appena usciti. «È stato generoso a farci lo sconto su tutto, considerato che oggi i suoi affari sono andati un pochino a rilento.» Si annodò la sciarpa attorno al collo, ne rimboccò le pieghe, soffiò sulle mani chiuse a coppa e se le strofinò per placare un’umida e penetrante vampata di brividi. «Magari verremo più spesso a prendere qui i libri e tutto l’occorrente per la scuola. È un signore simpatico.»

Luca annuì e sorrise. «Già.» Diede una sbirciata alla busta di carta dentro cui spiccava il colore blu della copertina di Pinocchio che occupava la gran parte dello spazio. Lo colse una calda vampata di gioia che gli fece dimenticare persino del cielo nero di nubi e dell’aria pregna dell’odore di pioggia. Non stava più nella pelle all’idea di poter tornare a casa e di mettersi subito a leggere il libro. Era la stessa irrefrenabile eccitazione che gli capitava di provare prima di assaggiare un nuovo gusto di gelato o prima di scartare una lettera di Alberto. «Tua mamma sarà già tornata a casa?»

«Uhm, dubito.» Giulia si diede una strofinata alle guance già arrossate dal freddo, tirò su col naso, sollevò la sciarpa per soffocarvi dentro il battere dei denti, e allungò lo sguardo al di là delle persone che camminavano loro davanti. Nei suoi occhi si specchiarono i filari di luminarie che incorniciavano finestre e balconi. «Oltre alla cerimonia di apertura aveva anche una specie di intervista per promuovere una mostra o una cosa così.» Fece spallucce, senza preoccuparsene troppo. «Mi sa che ci tocca cenare da soli. Peccato. Niente pizza, stasera. Ma ci sono delle uova avanzate in frigo, quindi possiamo prepararci una frittata al formaggio da leccarsi i baffi.»

«Siamo ancora in tempo per l’autobus?» Luca si tese sulle punte dei piedi e aguzzò lo sguardo per orientarsi fra i colori delle ghirlande e fra i coni di luce diffusi dai lampioni che fiancheggiavano le entrate delle locande. Andò in cerca di un orologio, magari del campanile più vicino. «Che ore sono?»

«Dovremmo farcela.» Giulia gli indicò il quadrante dell’orologio che era appeso sotto il cornicione della gioielleria. «Quasi le sette.» Si aggiusto di nuovo la sciarpa attorno al bavero del cappotto, fece sventolare i riccioli rossi dietro la spalla, e annuì, sempre più convinta. «Sì, per prenderlo lo prendiamo, ma dobbiamo sbrigarci, anche perché ci sarà un fracasso di gente, dato che è sabato sera.» Raccolse la mano di Luca, aspettò che una signora appena uscita dal calzolaio passasse loro davanti, e allungò una prima falcata di corsa per uscire da sotto i chiostri. «Corriamo, presto» esclamò. «Prima che…»

Il cielo s’illuminò, attraversato da un ramo di fulmine viola che lacerò i nuvoloni con un sonoro scrash! Quel primo tuono si schiantò al di là dei tetti, abbagliò gli occhi sgranati di Luca che aveva sentito il cuore schizzare in gola, fece sobbalzare i passanti più vicini, spaventò un cagnetto al guinzaglio che guaì rannicchiandosi dietro le gambe della padrona, e splendette sulle facciate degli edifici abbelliti dalle decorazioni natalizie che erano appena state appese.

Un primo e improvviso scroscio di pioggia si rovesciò sulle tegole dei tetti, picchiettò sulle grondaie sollevando un eco sordo e metallico, e spalancò una serie di chiazze scure fra le mattonelle dei marciapiedi, fino a bagnare completamente le strade del centro.

Con il braccio disteso e la mano stretta a quella di Giulia, Luca si ritrovò sbilanciato sul ciglio del marciapiede, inspirò l’aria più fredda che soffiava al di fuori dei portici, e venne colpito dalle prime gocce di pioggia, dure e fredde come sassolini. Alcune gli bagnarono la manica del cappotto. Altre gli pizzicarono il dorso della mano, fecero ramificare sottili scie di squame, e s’infossarono lì dove le dita si intrecciavano a quelle di Giulia.

Schiaffeggiato da quella visione così improvvisa e inaspettata, e ancora frastornato dallo schianto di tuono che lo aveva fatto ansimare, Luca inchiodò la corsa strusciando le suole sulle mattonelle già umide, sbilanciò il peso all’indietro, e rimase in bilico sul bordo del marciapiede. Mollò la mano di Giulia, si strinse il polso bagnato di pioggia, e schiacciò il braccio al petto, nascondendolo sotto la busta di carta della libreria. Arretrò e si rintanò contro la vetrina della Coccinella, nascosto dietro il cammino affrettato dei passanti.

Prese una boccata di fiato umido e ferroso. Deglutì, sentendo la bocca secca e amara. Si asciugò una goccia di sudore gelato rotolata giù da una tempia, e strinse entrambe le braccia attorno alla busta, facendo scricchiolare le unghie sulla carta. La vista divenne offuscata, lo sguardo si appannò di grigio, tramutando in ombre tutte le persone che lo circondavano, e un cerchio di vergini gli si strinse attorno alla testa, dandogli il capogiro.

Pioggia. Era scoppiato a piovere. Acqua. Acqua di cielo.

Anche Giulia, investita in pieno da quel primo scroscio di diluvio, si riparò tirando il braccio sopra la testa. Spremette a vuoto la mano tesa all’indietro, quella che fino a qualche istante prima era unita al palmo di Luca, e si accorse di averlo perso. Arrestò la corsa in mezzo alla stradina, attorniata dal flusso di persone che si stavano dividendo e distribuendo sotto i tetti degli edifici, e si girò a chiamarlo. «Luca!» Sventolò lo stesso braccio che aveva sollevato per ripararsi dalla pioggia. «Che aspetti?» esclamò di nuovo. «Corri! Dobbiamo correre alla fermata prima che venga giù il diluvio!»

La vibrazione di un sospiro sommesso tremolò fra le labbra secche e bianche di Luca. Il cerchio di vertigini si strinse, lo risucchiò in una fredda e soffocante spirale di panico che gli si allacciò alla gola come una mano artigliata. Luca deglutì a fatica, ma il fiato gli rimase incastrato in fondo alla lingua diventata pastosa. La vista vacillante si sdoppiò, e lui riuscì a distinguere solo il rosso dei capelli di Giulia, un fuoco che fiammeggiava in mezzo al grigio della pioggia e al nero degli ombrelli e degli impermeabili che sfilavano attorno al suo braccio sventolante.

Luca fece di no con la testa. Staccò una mano dalla busta di carta e la sollevò davanti a sé. Le gocce di pioggia lacrimarono dalle dita umide, scivolarono lungo la pelle, evocarono una doppia riga di squame che si frammentò fra le falangi, e rotolarono fin dentro il polsino del cappotto, umettandone il tessuto.

Giulia sgranò gli occhi e realizzò. Calò il braccio, si portò la mano alla bocca e ansimò. «Oh no.» Impallidì anche lei, colpita da quella visione come poco prima era stata colpita dallo schioppo del tuono.

Un altro brontolio proveniente dalle nuvole, più basso e prolungato rispetto allo schianto precedente, sollecitò le persone ad affrettare il passo. Qualcuno rise, qualcun altro si lamentò, altri ancora imprecarono e coprirono le borse di carta in modo da proteggere i pacchetti regalo. Tacchi picchiettarono sul marciapiede, cappotti sventolarono, sciarpe svolazzarono, le persone si ripararono sotto i chiostri, si abbottonarono le giacche e si avvolsero agli impermeabili. Altri, i più furbi e previdenti, spalancarono gli ombrelli che si erano portati sottobraccio per tutto il pomeriggio.

Luca si strofinò la mano umida. Si schiacciò al muro fino a battere i talloni sullo zoccolo della parete, camminò di un passo di lato per infilarsi nello spazio strettissimo che s’incuneava fra la libreria e la sartoria vicina, e batté la nuca sul ferro della grondaia che scendeva fra i due edifici. Il vicolo puzzava di fogna, ma almeno le gocce di pioggia non ci arrivavano nemmeno sospinte dal vento.

Giulia tornò indietro. Riattraversò la tenda di pioggia, rientrò sotto il riparo dei portici, e raggiunse Luca nel vicolo, lontano persino dalle luci delle vetrine. «Luca, stai bene?» Diede una scrollata alla testa, scollò una ciocca bagnata dalla guancia, si strofinò le mani sul viso umidiccio, e strusciò la manica del cappotto sotto il naso. «Ti sei bagnato?» Piccolissime gemme di pioggia gocciolarono dai riccioli rossi e le caddero sulle spalline del cappotto.

Luca strinse le labbra tremanti, gettò lo sguardo ai suoi piedi. «Non è nulla.» Si grattò ancora una volta la mano che prima si era bagnata, e continuò a farlo anche quando fu asciutta, fino ad affondare le unghie e a solcare profondi e brucianti segni rossi fra le nocche e attorno al polso.

Si guardò attorno. Lo scrosciare della pioggia a fischiargli nelle orecchie, la mente annebbiata dallo spavento improvviso, e gli occhi appannati dalle vertigini che gli impedirono anche solo di spostare un passo dal vicolo o di sollevare le spalle dal muro.

La gente cominciava ad avere fretta di andarsene, di sfollare i negozi, di lasciare il centro, di raggiungere le fermate degli autobus e di tornare a casa. Si accalcarono, molti si urtarono a vicenda per aggiudicarsi lo spazio più asciutto sotto i portici da cui l’acqua cominciava a grondare formando una tendina di perle trasparenti. Gli abiti bagnati sfregarono fra di loro. La pioggia sbrodolò dai teli degli ombrelli, cadde sui berretti delle persone vicine, alimentò le scie d’acqua che venivano calpestate da scarpe altrui, da passi sempre più rapidi e noncuranti, raccolse lo sporco incrostato fra le mattonelle della strada, e scivolò giù per i tombini.

Luca rabbrividì. Si aggrappò alla busta di carta che teneva ancora schiacciata al petto. «E adesso come facciamo?»

Giulia sospirò e si fece aria al viso ancora umido. «Ci tocca aspettare che finisca di piovere, mi sa.» Si mise affianco a Luca, più vicina alla vetrina illuminata. Le spalle poggiate al muro gonfio di umidità e i talloni a premere sullo zoccolo della parete. «O almeno che la mamma finisca di lavorare, così può venirci a prendere lei. Oppure io posso andare a comprare un ombrello e tornare a prenderti. Uhm…» Frugò in una delle sue tasche, scosse il tintinnio delle monete. «Speriamo che i soldi avanzati bastino. Tu quanti nei hai? Forse se li mettiamo assieme ce la facciamo.»

Ma Luca non la ascoltava nemmeno. Una botta di tristezza e malumore gli piovve addosso, fredda e viscida proprio come il diluvio che si stava rovesciando dal cielo. «Mi dispiace, Giulia.» Il suo mormorio era appena percettibile al di sopra del continuo martellare della pioggia. «Se non fosse per me tu potresti anche correre alla fermata e tornare a casa in tempo.»

Giulia la buttò sul ridere. «E bagnarmi da capo a piedi facendo così infuriare la mamma? Ma figurati: non è mica un dramma.» Si mise più comoda, la schiena rilassata alla parete e le mani infilate nel calore delle tasche. Nemmeno i gorgoglii del maltempo riuscirono a guastare il suo ottimismo. «Aspetteremo un po’.»

«Avrei dovuto aspettarmelo» disse ancora Luca, per nulla consolato. «Avrei dovuto prevederlo.» I brividi d’ansia erano scivolati via, sciacquati dal suo corpo proprio come lo sporco veniva raschiato via dallo scorrere della pioggia lungo la strada e i marciapiedi. Tuttavia gli lasciarono addosso un pesante sconforto che lo fece sentire ancora peggio rispetto a quando si era ritrovato a tremare, schiacciato dalla morsa di panico. Luca ricominciò a grattarsi la mano. Ficcò le dita sotto la manica e strofinò a fondo fino a ferire quella pelle che non gli apparteneva. «Avrei dovuto pensare io a portarmi dietro un ombrello o almeno un impermeabile.»

Giulia scosse la testa. «Siamo usciti subito dopo pranzo, e il cielo non era nemmeno annuvolato. Non potevamo prevederlo.» Si mise più vicino a lui, gli toccò la spalla con la sua e si chinò in cerca del suo sguardo. «Non è colpa tua, credimi, è proprio il clima di Genova che è imprevedibile, che cambia nel giro di un’ora. Capita spesso nelle città di mare, sai, per via di tutti i venti e le correnti che si mescolano sulla costa.»

«Appunto per questo io dovrei essere in grado di prevederlo.»

Fra i due ragazzi calò un silenzio cupo come le nuvole che brontolavano nel cielo. Un malessere tale da far sfumare persino il sorriso di Giulia e da raffreddare l’innato rossore delle sue guance.

Quel vuoto si riempì con ogni rumore del centro cittadino: la pioggia che ora scrosciava con più prepotenza e che grondava nei tombini, gorgogliando come attraverso lo scarico del rubinetto; i passi che schiaffeggiavano le pozzanghere appena formate fra le rientranze delle mattonelle; il diluvio che rimbalzava sui teli degli ombrelli; il vociare più insistente delle persone che sfilavano sotto i portici; lo sfrecciare di una bicicletta; le saracinesche metalliche, gracchianti e arrugginite, che venivano abbassate davanti alle vetrine; e ancora il minaccioso ruggito dei tuoni che insistevano al di là dei tetti più alti, dove le nuvole rendevano il cielo nero come a notte fonda.

Luca e Giulia si scambiarono uno sguardo consapevole e demoralizzato. Non sarebbe stata una faccenda rapida, e di certo il cielo non avrebbe chiuso i rubinetti nel giro di qualche ora. Nubifragi del genere erano capaci di andare avanti senza sosta anche per un’intera settimana.

Giulia scollò le spalle dal muro della libreria, si sporse in cerca di un bar che avesse ancora le luci accese. «Ci conviene andare in un bar a chiamare la mamma.»

Luca tenne il capo basso, la faccia grigia e mortificata. Annuì senza alzare gli occhi da terra. Strinse le spalle e schiacciò al petto la busta dei libri. La consistenza della carta umidiccia gli scricchiolò fra le dita.

Giulia raccolse una sua mano. La avvolse al sicuro, nel tepore morbido e asciutto delle sue dita, e gli sorrise. «Vieni.» S’incamminò stando sotto i portici. «Intanto che aspettiamo ti offro una cioccolata calda. Vedrai come ti tirerà su!» Corsero incontro alle luci del bar più vicino, attirati dal profumo di cioccolata calda, di caffè macchiato, e di pasticcini alla crema.

Rovinarsi la cena, quella sera, sarebbe stato l’ultimo dei loro problemi.

 

***

 

Uno scroscio di pioggia si rovesciò sul vetro della finestra, simulando il trambusto di una manciata di ghiaia gettata su una lamina di metallo. Il vento fischiò, fece tremolare le tapparelle abbassate per metà, e quel risucchio d’aria acquietò la prepotenza del diluvio che stava scrosciando senza tregua sui tetti e fra le vie di Genova. Da quando Luca e Giulia erano usciti dalla libreria, dopo essere stati sorpresi sotto i portici dal primo improvviso colpo di tuono, aveva continuato a piovere per tutta la sera. E stava continuando a piovere anche ora che era notte fonda.

Luca inclinò la torcia e indirizzò il fascio di luce contro la sveglia che ticchettava sul comodino. L’una e mezza di notte.

Subito dopo cena, lui e Giulia si erano sintonizzati sulle previsioni del meteo che trasmettevano alla radio, e non era stato un ascolto incoraggiante. Gli esperti infatti avevano dichiarato che le piogge e i temporali non sarebbero cessati per tutta la settimana, e che forse i capricci del maltempo si sarebbero protratti addirittura fino alla Vigilia di Natale. Il periodo peggiore per addossare su Luca un carico di preoccupazioni che andavano ad aggiungersi a quelle che già provava nei confronti dei compiti scolastici, dello studio, e del mantenimento di una buona media di voti.

Luca abbassò la torcia, soffocandone la luce sotto le coperte, e sospirò, sentendosi sconfortato e impotente come un bimbo che cerca di scacciare i nuvoloni solo soffiandovi sopra. E quindi ora dovrò anche preoccuparmi di avere sempre l’ombrello con me, di indossare abiti che si asciugano in fretta, e di evitare la calca e la folla quando esco e quando entro da scuola, o quando salgo sull’autobus, per non rischiare di bagnarmi davanti a tutti, dato che nessuno sa che sono un mostro marino, nemmeno i miei compagni di classe.

Il brontolare di quei pensieri lo stava tenendo sveglio da tutta la notte, ancor peggio del tambureggiare dei tuoni fuori dalla finestra. Luca era tormentato a tal punto da quelle voci che, dopo aver spento le luci, invece che ficcarsi sotto le coperte e lasciare che una bella dormita schiacciasse quei pensieri, si era chinato sotto il letto, dove teneva custoditi i suoi libri e la sua scatolina dei tesori, e aveva pescato il volume di Pinocchio che aveva comprato quello stesso pomeriggio.

Aveva messo le batterie alla torcia, per non essere costretto ad accendere la lampada del comodino e in questo modo svegliare Giulia che, dall’altro lato della cameretta, già dormiva come un sasso. Aveva poi spalancato il libro sul cuscino, aveva indirizzato il cono di luce fra le sue pagine, e si era tirato le coperte fin sopra la testa, stendendo le gambe e reggendosi sui gomiti. Spaventato dal temporale, Nerone era saltato sul letto e gli si era acciambellato contro il fianco. Dopo un lungo sbadiglio, si era addormentato velocemente quasi quanto Giulia. Ora il dolce e regolare ronfare del suo respiro si sovrapponeva allo scroscio continuo della pioggia che veniva interrotta solo di tanto in tanto da qualche sberla di vento.

Luca allontanò lo sguardo dal riflesso blu cupo della finestra, dal ritaglio di cielo notturno che filtrava attraverso la tapparella abbassata solo per metà. Si rimboccò le coperte attorno alle spalle, quasi per proteggersi dai fischi di vento e dal rimbombo che l’ultima vampata di pioggia aveva sbattuto contro il vetro, e grattò una carezza dietro un’orecchia di Nerone, quel corpicino di calore che gli dormiva affianco.

Nerone si destò con uno sbadiglio. Si stiracchiò, spolverò una scodinzolata fra le coperte, e leccò una mano di Luca per ringraziarlo, facendolo ridacchiare per il solletico. Tornò ad acciambellarsi contro di lui e si appisolò nuovamente dopo un lungo sospiro soffiato dal nasino umido.

La torcia inclinata indirizzò il fascio di luce sulla mano di Luca che Nerone aveva appena leccato. Nello spazio fra pollice e indice, brillarono le sfumature verde-acqua delle squame che si erano sovrapposte al candore della pelle rosea.

Un sordo palpito di angoscia risuonò in fondo al petto di Luca, lasciandolo spiazzato davanti a quella visione che lo frastornò quasi si fosse trattato di un fenomeno sconosciuto, come avesse appena assistito alla caduta della Luna dal cielo. Fu lo stesso soffocante rimbalzo di paura che aveva provato quel pomeriggio, dopo essere stato sorpreso dallo schianto del tuono davanti alla facciata della libreria.

Non era la prima volta che assisteva alla crescita delle squame dopo un’affettuosa leccata di Nerone, eppure visse quel fenomeno tramite un sentimento nuovo, diverso e sgradevole, estraneo al suo corpo. Provò un capogiro davanti al luccicare verde delle scaglie marine. Un risucchio di nausea nello stomaco, lo stesso che lo faceva diventare grigio in volto prima di un compito in classe.

Tornò a vivere lo spavento di quella sera. Le fredde gocce di pioggia che erano cadute sulla manica del cappotto, che gli avevano punto la mano, e che erano rotolate lungo la pelle, fino al polso, tracciando sottili scie di squame fra le nocche. Sottili e pericolose crepe sulla sua maschera di ragazzo umano.

Luca scosse il capo. Si asciugò la mano umida sulla camicia del pigiama, e si ripromise di non pensarci più per quella notte.

Raccolse di nuovo la torcia, ne indirizzò il fascio contro Pinocchio aperto sul cuscino, sfogliò una pagina e si rimise a leggere, in cerca di una distrazione e di una consolazione. Dopotutto, quel libro era stata l’unica conquista positiva all’interno di quella giornata così disastrosa.

Da quando si era messo a leggerlo, Luca non era più riuscito a staccargli gli occhi di dosso, e ora aveva già abbondantemente superato la metà del romanzo. Attraversò un nuovo punto di svolta tenendo il fiato sospeso in fondo al petto, dove il cuore batteva lento e carico di aspettativa.

La Fata dai Capelli Turchini aveva messo al lavoro Pinocchio, dopo averlo resuscitato, e ora cominciava ad apprezzarne gli sforzi e i progressi. Per premiarlo, gli aveva promesso di esaudire il suo desiderio e di trasformarlo in un bambino vero, acconsentendo di far partecipare al miracolo anche i suoi amici e i suoi compagni di classe. Ma nei pensieri di Pinocchio c’era spazio solo per un amico in particolare, l’unico che davvero avrebbe voluto fosse lì presente assieme a lui, per questo si era affrettato ed era corso a cercarlo nonostante la diffidenza della Fata.

Luca sfogliò la pagina e si ritrovò davanti a un’illustrazione che apriva il nuovo capitolo. Pinocchio e Lucignolo si trovavano assieme sul ciglio della strada di sterrato, riparati dal tetto di un casolare contadino, mentre venivano raggiunti da un carro trainato da pariglie di asinelli e popolato da una nidiata di giovani ragazzini, tutti scappati di casa proprio come Lucignolo. Appollaiato sul cocchio, il postiglione grasso e bianco come una palla di burro reggeva le redini e sorrideva ai due ragazzi, invitandoli a salire e a partire per il Paese dei Balocchi.

 

Io rimango, – rispose Pinocchio. – Io voglio tornarmene a casa mia: voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i ragazzi perbene.

Buon pro ti faccia!

Pinocchio! – disse allora Lucignolo. – Dai retta a me: vieni via con noi e staremo allegri.

 

Luca accostò il dorso della mano alla bocca e rise a bassa voce. Non poté trattenersi. Poi però si rese conto che nella scia di quella risata si celava qualcos’altro, un retrogusto amaro che gli lasciò la bocca cattiva, come le volte in cui beveva del caffè di dubbia qualità, quello che sapeva di fondi di moka vecchia e macchiata di nerofumo.

Ancora una volta, ritrovò in Pinocchio un frammento della sua vita. Lesse e gli sembrò di star leggendo di se stesso, di un legame e di un’amicizia che gli appartenevano.

Posò le punte delle dita sul nome di Lucignolo, lo attraversò con il suo tocco. Gli venne incontro un’immagine, un chiaro e vivace fuocherello che bruciava nel freddo di quella notte di pioggia, un raggio di sole che bucava i nuvoloni marmorei, un ombrello che si spalanca sotto il diluvio e che accorre a proteggerlo. Lo stesso ombrello che aveva sperato di vedere comparire quello stesso pomeriggio, quando il temporale lo aveva bloccato sotto i chiostri, fuori dalla libreria.

Luca chiuse gli occhi e rabbrividì, immaginandosi nuovamente schiacciato contro l’umidità del muro, aggrappato all’intonaco scrostato, a trattenere il fiato e a rimanere immobile per non finire urtato dalla camminata dei passanti, o pizzicato dagli zampilli d’acqua schiaffeggiati dalle suole delle scarpe e dai tacchi degli stivali.

Oggi mi sono preso proprio un bello spavento.

Fu proprio perché quel giorno aveva provato tanta paura che i suoi pensieri lo condussero nel luogo dove più si sarebbe sentito protetto e al sicuro.

Luca si estraniò dal profumo di lenzuola pulite in cui era avvolto, si distaccò dal corpicino caldo di Nerone che gli ronfava contro il fianco, e si tuffò nell’oceano colorato dei suoi pensieri, vegliato dal sole della sua immaginazione così fervida.

Il carro trainato dalle pariglie di asinelli si trasformò in una Vespa scintillante; la promessa di raggiungere il Paese dei Balocchi suonò come il loro sogno di girare il mondo da un luogo all’altro, rincorrendo la loro libertà, senza abissi in cui sentirsi soffocare, senza torri in cui rimanere reclusi per il resto dei loro giorni; e la spavalda voce di Lucignolo mutò in quella ancor più entusiasta di Alberto.

“… Luca, ma ci pensi? Ogni giorno visiteremo un posto nuovo, e ogni notte dormiremo sotto i pesciolini. Nessuno che ci dica quello che dobbiamo fare. Saremo tu e io, là fuori, liberi.”

Rivivendo quel ricordo, Luca sorrise, sentendo il viso intiepidirsi e il cuore accelerare. Riassaporò quel sorso di libertà che era in grado di respirare solo quando correva o nuotava affianco ad Alberto. Si sentì proprio come allora: lo stupore fisso nei suoi occhioni incantati, un sospiro di meraviglia ad alleggerirgli il petto, una forte scossa a guidarlo dietro la corsa di Alberto, e la gioia di tuffarsi dalla scogliera, di sguazzare da un’onda all’altra, verso la costa di Portorosso, sapendo di star percorrendo la strada giusta.

Ignorando il fatto che quel ricordo appartenesse a solo due estati prima, Luca pensò: quanto eravamo giovani.

Andò avanti a leggere.

 

Pinocchio montò: e il carro cominciò a muoversi: ma nel tempo che i ciuchini galoppavano e che il carro correva sui ciotoli della via maestra, gli parve al burattino di sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli disse: – Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai!

 

Bastò quell’ultimo paragrafo per squagliare tutto l’entusiasmo suscitato dagli ultimi ricordi, per spegnere il sole che brillava il giorno del suo primo arrivo a Portorosso.

Luca rabbrividì, colpito da un violento tuffo al cuore, e strinse forte la mano facendo tremolare la luce della torcia. La voce di Bruno,realizzò. Anche Pinocchio è perseguitato da Bruno come me.

Fuori brontolò un singhiozzo di temporale, ma Luca quasi non se ne accorse.

Sentì freddo, nonostante le coperte tirate fin sopra la testa e nonostante il corpicino peloso di Nerone acciambellato al suo fianco. Non si trovava più nella sua camera di Genova, al riparo nel letto. Era di nuovo a Portorosso, sulla cima della scogliera della loro isola, la mattina in cui era scappato. Lo splash! del tuffo di Alberto infranto fra le onde, il vento a pizzicargli le guance e a scuotergli i capelli, la distesa di mare azzurro a spalancarsi davanti alla sua vista, e le casette color pastello distribuite sulla costa che non gli era mai parsa così vicina, così raggiungibile.

In un orecchio, la voce di Lucignolo che lo incitava: Tuffati, Luca!”

Nell’altro, la voce del Grillo Parlante che lo ammoniva: Non farlo, Luca, o te ne pentirai. Pensa ai tuoi genitori, pensa a quanto si preoccuperanno, pensa al fatto che loro stanno solo cercando di proteggerti. Se vai là fuori non potrai più tornare indietro. Niente e nessuno sarà in grado di salvarti dai pericoli del mondo esterno, nemmeno Alberto.”

Ma Luca aveva messo a tacere Bruno, aveva scacciato il Grillo Parlante dalla sua spalla. Si era lasciato incantare dalle parole di Alberto, era saltato sul carretto degli asinelli, e aveva seguito Lucignolo lungo la strada che conduceva al Paese dei Balocchi.

Però siamo sopravvissuti entrambi,meditò Luca, ritrovandosi di nuovo sotto le coperte, le gambe distese lungo il letto e il fascio della torcia puntato sul libro.Ci siamo salvati dagli arpioni, dalle reti, da Ercole, dai pescatori di Portorosso, da tutti i pericoli da cui la mamma e il papà mi avevano messo in guardia e da cui volevano proteggermi.

Una raffica di pioggia frustò la tapparella e tambureggiò sulla finestra. Luca girò lo sguardo, incrociò il lampo di un tuono che brillò in lontananza, senza alcun rumore, illuminando il vetro rigato d’acqua e infiltrandosi fra le righe della saracinesca mezza abbassata.

Di nuovo venne assalito da una scia di brividi che scossero persino le coperte in cui era avvolto.E se i pericoli in realtà non fossero solo i pescatori e gli arpioni?Si rimboccò il lenzuolo attorno alle spalle, ma nemmeno quel solitario gesto di conforto servì a farlo sentire meglio. Dopotutto, nemmeno la mamma e il papà conoscevano la superficie, prima di venirmi a cercare. Quindi potrebbero esistere dei pericoli di cui nemmeno loro potevano essere consapevoli. Pericoli che esistono ancora e da cui nemmeno loro possono proteggermi. E se io fossi ancora dentro l’illusione del Paese dei Balocchi? Un respiro più sommesso vibrò in fondo alla sua gola. E se finissi per rendermene conto troppo tardi, quando ormai sarà impossibile tornare indietro?

Luca scosse il capo e si stropicciò gli occhi appesantiti dalla giornata così lunga, sfiancati dalle ore trascorse a leggere al buio. Santa mozzarella. Questo è sicuramente Bruno che sta parlando. Oppure sono io? Proprio non lo capisco. Magari fosse facile rendersene conto anche quando non c’è Alberto a suggerirmi di farlo stare zitto.

E a tormentarlo, oltre a Bruno, c’era ancora quella frase del libro che pareva proprio essersi staccata dalla pagina per venirgli incontro.

 

“… hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai! Te ne pentirai…”

 

Quelle parole gli martellarono le tempie, insistenti e dolorose come un’emicrania.

Per alleviare quel peso, Luca fece ciondolare il capo in avanti e posò la fronte su quella tiepida di Nerone. Gli strofinò la pelliccia per consolarsi, per compensare quel bisogno di stringersi a qualcuno. Chiuse gli occhi. Rivolse i suoi pensieri all’unica persona che avrebbe voluto lì affianco. «Quanto mi manca.» Cercò rifugio negli scuri occhi di Nerone che, anche se non splendevano di verde come quelli di Alberto, erano altrettanto buoni e altrettanto rassicuranti. «Tu cosa fai quando ti manca qualcuno, Nerone?»

Nerone inclinò la testolina di lato, sollevò un’orecchia, e allungò il muso per leccare la punta del naso di Luca.

Questa volta, Luca accolse il suo piccolo bacio senza riluttanza. Rise per il solletico. «Sì, hai ragione» gli disse. «Non devo avvilirmi così.» Si strofinò il naso umidiccio, e ci fu un pensiero che lo attraversò di sfuggita. Un pensiero che Luca decise di ignorare, facendo finta di non averlonemmeno formulato:per fortuna che sul naso non sono riuscito a vedere la comparsa delle squame.

Spense la torcia, richiuse il libro e lo infilò sotto il cuscino, sprimacciò l’imbottitura per mettersi comodo, e lasciò che Nerone girasse su se stesso per tornare ad accoccolarsi contro di lui. Raccolse le ginocchia in grembo, chiuse gli occhi e si assopì cullato dal battito ovattato della pioggia sul vetro, dal rombo dei tuoni che si stavano allontanando verso il mare, e dal fischio del vento che stava diventando più basso, più simile a un ululato.

Si addormentò regalando ad Alberto i suoi ultimi pensieri e il suo ultimo doloroso battito di triste nostalgia.

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Capitolo 14
*** 14 ***


14

 

 

Nonostante non si sentisse più né i piedi né i polpacci, Alberto trovò comunque la forza di reggersi al manubrio della bici e di spingere le ultime sofferte pedalate lungo la salita che conduceva al retro della pescheria. Soffiò un ansito rauco, compose una densa scia di condensa che andò a squagliarsi contro la sua spalla. Non smise di pedalare nonostante il dolore alle ginocchia. Strinse i denti, tirò su le spalle schiacciate dalla stanchezza e dalla fatica, e sbatacchiò gli occhi per individuare il portone di casa attraverso la bassa nebbia della sera.

Attorniato dalla vegetazione che era più rada, data la stagione fredda, il portone gli apparve come un miraggio: distante, offuscato e ancora irraggiungibile. Alberto non fu in grado di giudicare se fosse l’abbondanza della nebbia a ingannare il suo sguardo, o se fossero solo gli occhi sfiancati e brucianti a giocargli brutti scherzi. Però sorrise. Davanti a quell’apparizione – il maniglione di ferro, le ante di legno, gli intrecci d’edera aggrappati alle rientranze delle assi, il muretto adiacente –, il sollievo fu immediato. Persino la pressione sui muscoli si alleggerì.

Inseguito dal cigolio del carretto che si era trascinato dietro per tutto il giorno, Alberto guadagnò le forze che gli servivano per alzarsi dal sellino della bici, slanciare le spalle in avanti, darsi l’ultima energica spinta sui pedali, e superare la facciata della pescheria, raggiungendo finalmente il portone sul retro.

Prima ancora che la bici si fosse fermata del tutto, Alberto staccò un piede dal pedale e lo tese verso il basso. Quasi arrivato, quasi arrivato, ci sono quasi. La punta della suola rimbalzò sulla strada, ma lui smontò anche con l’altra gamba e zampettò in bilico sulle scarpe a cui era sicuro non si sarebbe mai completamente abituato. Dopo l’ultimo inciampo si ritrovò con le caviglie incrociate, si sbilanciò e crollò addosso al portone di casa, appendendosi con entrambe le mani al maniglione di ferro.

Alberto gemette, distrutto, cotto dalla stanchezza. I capogiri lo attorniarono, gli gonfiarono la testa e gli diedero le vertigini, accentuando l’impressione di essere sballottato dal dondolio delle onde marine. Brividi di freddo trascinati dalla nebbia s’insinuarono sotto il cappotto e gli morsicarono la pelle. Il bruciore dei muscoli si risvegliò, pizzicandolo soprattutto su spalle e polpacci, e i boccheggi affannati alimentarono lo strato latteo della nebbia circostante.

La bici s’inclinò e gli cadde addosso, riuscendo a evitare il crollo sulla strada dato che era ancora sostenuta dal traino del carretto.

Alberto non se ne preoccupò. La lasciò lì, anche se il manubrio gli si era conficcato nell’anca e anche se una delle ruote gli era passata sopra un piede. Continuò a recuperare fiato a grandi affanni, ignorò il bruciore alla gola, e sbatté di nuovo le palpebre per orientarsi attraverso lo sciame di vertigini che gli lampeggiava attorno.

Scrollò il capo, si strofinò la nuca sotto il bavero del cappotto, dove la tensione si stava irrigidendo, e tirò su col naso sentendo la collosa umidità della sera scendere, comprimere i polmoni e affondare fra le costole la sensazione di aver ricevuto un pugno in pieno petto.

Di nuovo aggredito da una vampata di brividi, si strofinò le spalle, batté i denti, e sentì sorgere il dolore persino in fondo alla mandibola. La pedalata così affrettata gli aveva massacrato le gambe, e il tragitto dall’officina fino a casa non era proprio una scampagnata nel prato.

Alberto spostò la bici, se non altro per levarsi il manubrio dal costato, e fece scendere le braccia verso i piedi per massaggiarsi le caviglie.

Uno scricchiolio sinistro si arrampicò lungo la schiena ricurva, dandogli l’impressione che le vertebre si fossero sgretolate una a una.

Alberto affondò le mani incerottate alla base della schiena, fece rimbalzare le spalle all’insù, sbatté la testa sul portone, e strinse i denti per ingoiare un gemito di dolore che gli fece vedere le stelle, tutte le costellazioni che quella sera erano nascoste dalla cappa di nebbia risalita dal porto.

Era a pezzi. Si sentiva la schiena dura come se gli avessero infilato un manico di scopa al posto della spina dorsale. Sentiva le braccia spappolate per il continuo sollevare pesi e per tutte le ore trascorse a manovrare le spazzole di ferro con cui aveva raschiato la vernice vecchia dalla carrozzeria dell’Ape. Le vesciche sulle mani bruciavano e continuavano a spurgare persino sotto le bende che Alberto cambiava almeno due volte al giorno. Non serviva comunque a nulla perché, anche usando i guanti, i cerotti si sporcavano continuamente con l’olio per motori, e quindi bastava poco perché si scollassero dalla pelle.

Alberto soffiò l’aria che aveva trattenuto dopo quell’ultimo sforzo. Riguadagnò un briciolo di forze, fece scivolare la nuca contro il legno del portone, e socchiuse gli occhi verso la luce del lampione più vicino. Circondato dall’impenetrabile e grigio strato di nebbia, il suo bulbo luminoso appariva freddo e distante.

Quella visione lo fece sentire ancora più distrutto, scoraggiato, e privo di forze.

Comincio a credere che Eros ci stia prendendo gusto nel vedermi sgobbare come un somaro.

Ma non aveva nessuna intenzione di mollare. Non ne aveva mai avuta. Alberto era disposto ad accettare di tutto, qualsiasi fatica, qualsiasi sforzo, pur di conquistarsi la fiducia di Eros e di continuare a lavorare per lui, imparando così tutto quello che voleva sapere sulle macchine e sui motori.

Però oggi è stata tosta. Alberto infilò una mano incerottata sotto il cappotto e tornò a massaggiarsi la spalla, dove il dolore più acuto si annidava e premeva come un chiodo. Fece roteare il gomito, spalmò il massaggio lungo l’avambraccio formicolante per scioglierne la tensione. Di nuovo un lungo sospiro soffiato dalle narici vibrò attraverso le ossa del costato indolenzito e appesantì la pressione sullo sterno. Me la sta proprio facendo sudare, questa dannata Ape. Neanche fosse una Lamborghini...

Quella mattina, finito il lavoro in barca assieme a Massimo, Alberto era partito subito per le consegne, sfrecciando come un treno di casa in casa per non perdere nemmeno un secondo di tempo. Svuotato il carretto e depositati i guadagni in cassa, era corso in camera da letto per darsi una sciacquata al viso, asciugarsi fino all’ultima squama, e cambiarsi gli abiti impregnati di sudore e dell’odore di mare aperto. Aveva pranzato strappando giusto un paio di morsi a un panino di formaggio e prosciutto, e poi era tornato a montare in bici per volare fino in officina dove Eros lo aveva messo immediatamente al lavoro, come tutti i pomeriggi, riprendendo da dove si erano interrotti il giorno prima. E di lavoro ce n’era ancora molto, nonostante si trattasse di un furgoncino piccolo come un’Ape.

Il primo compito di Alberto era stato quello di raschiare la vernice vecchia e screpolata e di smerigliare il vetro del parabrezza. Aveva poi sostituito la ruota anteriore, dopo tre giorni trascorsi nel tentativo di riparare quella vecchia che si era forata. La parte più scabrosa era stata la cucitura del sedile sfilacciato, dato che si trattava di un lavoro che richiedeva pazienza e precisione, più che forza fisica. Alberto si era bucato le dita innumerevoli volte, per questo era stato costretto a bendarsi le mani fino alle unghie. Le vesciche si erano aggiunte dopo. Finito il lavoro su ruote e vernice, c’erano stati gli specchietti da sostituire. Non c’era stato verso di riparare quelli vecchi, dato che continuavano a pendere o a inclinarsi nonostante tutti i tentativi di incollarli alle portiere. Anche il meccanismo di chiusura del portabagagli era da sostituire, e anche quello avrebbero dovuto smontarlo dal catorcio d’Ape da cui stavano recuperando tutti gli altri pezzi, specchietti e ruote comprese.

Quel giorno Alberto sperava finalmente di poterla mettere in moto per la prima volta, di udirne il dolce ruggito e di inspirarne l’odore di benzina e pelle nuova. C’era però ancora l’olio da rabboccare. Controllando la tanica di scorta nel magazzino, avevano scoperto di essere a secco, così Eros aveva spedito Alberto da un suo collega meccanico che aveva il garage fuori paese, per fare scorta. Approfittando del fatto che la bici di Alberto fosse ancora agganciata al carretto per le consegne della pescheria, Eros gli aveva anche infilato in mano una banconota da diecimila lire e lo aveva fatto tornare indietro pure con quattro taniche di benzina da dieci litri ciascuna. Una sfaticata da fargli sfiatare l’anima dal petto.

Ma Alberto non aveva guaito nemmeno un lamento. Aveva tenuto la testa alta e aveva continuato a fare il suo dovere, a eseguire gli ordini di Eros, e a lavorare sull’Ape come se si fosse trattato di curare, strigliare e infiocchettare un cavallo da parata da esibire alla fiera regionale.

Stava venendo bene, di questo poteva essere orgoglioso. E anche Eros pareva soddisfatto.

Solo un paio di settimane, pensò Alberto, già godendosi il sollievo e perdendosi nell’estasi di quella prospettiva. Fu facile a quel punto visualizzare l’Ape nella luce del giardino di casa invece che reclusa fra le ombre polverose che abitavano l’officina. Devo resistere solo per un altro paio di settimane, come ha detto Eros, poi potrò portarmela a casa e godermi il frutto di tutto questo lavoraccio.

Alberto sollevò il bavero del cappotto, premette la stoffa alla bocca, annusò. Spinse il palmo contro la punta del naso e annusò anche la mano incerottata e annerita d’olio soprattutto attorno alle nocche, dove i calli si erano induriti.

Arricciò le labbra in una smorfia, riconoscendo l’odore metallico di officina, di olio per motori e di carburante. Quell’odore che ormai gli si era incollato addosso come una seconda pelle – terza pelle, considerando anche quella da pesce. Un odore che non riusciva proprio a mandare via, per quanto si lavasse e nonostante andasse ogni giorno a sguazzare in mare senza nemmeno togliersi i vestiti.

Chissà se oltre alla fatica riuscirò anche a sbarazzarmi di questa puzza? Oh, be’, poco male.

Tenne la mano accostata al naso e si diede una strofinata prima alla punta e poi alle guance, lì dove la pelle stava ghiacciando.

La puzza di garage è l’ultimo dei miei problemi, dopotutto.

Si strofinò le maniche del cappotto e batté di nuovo i denti. Il freddo stava tornando a crescere, salendo dalle gambe affondate nello strato di nebbia, e i muscoli erano di nuovo intorpiditi, a forza di starsene fermo a temporeggiare sul portone di casa invece che pensare a infilarsi nel calduccio della cucina.

Meglio che mi dia una mossa prima di non essere più in grado di allungare un singolo passo dentro casa.

Si tenne aggrappato al manubrio della bici, usandolo come sostegno. Diede un colpo di gomito al portone, ne aprì uno spiraglio, e spostò un primo passo per entrare nel giardino posteriore. Poggiò il piede a terra. Una scarica di dolore gli fulminò la gamba, lo fece inciampare, e Alberto si ritrovò di nuovo a capitombolare fra le ruote della bici.

Fu di nuovo costretto ad accasciarsi sul manubrio. Prese fiato, gettò altra condensa dalla bocca, e strinse i denti, combattendo l’impulso di chiamare Massimo e di farsi portare dentro in braccio. Ne avrebbe davvero avuto bisogno…

Massimo non arrivò, ma in compenso si presentò qualcun altro in suo soccorso.

Di soppiatto, silenzioso e impalpabile proprio come il galleggiare della nebbia che lo circondava, Principe sgusciò fuori dallo spiraglio del portone di casa, schivò la ruota della bicicletta, strusciò la schiena inarcata sui pantaloni di Alberto, e sollevò il musetto verso di lui. «Miau

Ad Alberto venne un colpo. «Ah! Pri…» Compì un passetto di lato per non rischiare di calpestarlo. «Principe, sei qui fuori?» Riguadagnò un po’ del suo smalto – bastava la compagnia del suo caro gattino per far fargli ritrovare le forze – e si chinò per strofinargli una carezza fra le orecchie. «Massimo non ti ha ancora dato la pappa? O aspettavi me per cenare?»

Principe piegò la testolina di lato per scivolare da sotto la carezza di Alberto e imbronciò il muso, imitando uno degli sguardi acuti e inquisitori ereditati da Machiavelli.

Alberto ricambiò la smorfia. «Che c’è?» sbottò. «Perché mi guardi così? Non è che stavi solo aspettando che io mi accasciassi sulla strada?» Raccolse la bici caduta e, incitato dalla necessità di mostrarsi forte e tosto davanti a quel brontolone di Principe, riuscì a dare un colpetto più deciso al portone e a valicare l’entrata di casa. «Sfiduciato. Non sono mica stanco, che credi? Volevo solo fermarmi a prendere un po’ d’aria fresca, tutto qui.»

Principe sollevò il musetto. Scosse le vibrisse, tastò la nebbia, l’umido odore di alghe e di salsedine sorto dal mare, quello più amaro dei caminetti che fumavano sui tetti del vicinato, e strinse gli occhi per aguzzare lo sguardo verso il cielo tarpato dalla coltre grigiastra oltre cui non si scorgeva nemmeno la luce della Luna.

Aria fresca? L’importante era esserne convinti.

Alberto tenne aperto lo spiraglio del cancello, accennò una riverenza. «Dopo di lei, Maestà.»

Principe zampettò nel giardino, aspettò che Alberto chiudesse il portone, e lo precedette dentro casa, verso la luce della cucina, verso la musica proveniente dal giradischi di Massimo, e verso il buon profumino di aglio caramellato diffuso dalla cena che era quasi pronta in tavola.

 

***

 

Alberto si chiuse alle spalle la porta d’ingresso, vi si accasciò di schiena, rinunciò allo sforzo di tenere le gambe dritte, lasciando ballonzolare le ginocchia in avanti, e soffiò un basso latrato di sollievo che gli prosciugò l’aria dai polmoni. Si sfilò il cappotto e fece tre tentativi di seguito per appenderlo alla gruccia. Impresa ardua, dato che non riusciva a sollevare il braccio più in alto della spalla.

Compì un’ultima fatica, slanciando la mano come se si fosse trattato di dover lanciare una rete in mare, e al quarto tentativo fece centro, assicurando il cappotto all’appendiabiti. Di nuovo però fu costretto a stringersi l’avambraccio e a spalmare un massaggio lungo il muscolo dolorante e irrigidito, dal gomito alla spalla. L’indomani sarebbe stata una conquista anche solo far scivolare una gamba fuori dalle coperte, ne era più che certo.

Principe gli zampettò fra le caviglie, si fermò nell’anticamera, sotto il tenue riverbero proveniente dalla cucina, e si girò a guardarlo, come aspettandosi di essere seguito. Miagolò di nuovo, «Miau!», e fece strada verso la cucina, attirato dai violini della Gazza Ladra di Rossini che stava vibrando sul giradischi di Massimo.

Ancora poggiato di schiena sulla porta, Alberto si alzò sulle punte dei piedi, chiuse gli occhi e fiutò l’aria di casa. Lo accolse il piacevole tepore della stufa accesa, i vapori della cena quasi pronta, quei profumi che scesero fin nello stomaco per colmare il buco di fame e stanchezza, alleviando ogni dolore. Profumi dolci e pungenti di aglio, olio e peperoncino. Una scossa all’anima che lo fece quasi commuovere per il sollievo.

Si lasciò attrarre dalla scia di profumo e ciondolò verso la cucina come un sonnambulo, preceduto dal zampettare di Principe e guidato dal rapido e ritmico toc!toc!toc del coltello di Massimo che stava affettando i cubetti di soffritto sul tagliere. Alberto sospirò, avvilendosi: se solo fosse stato in grado di raccogliere le forze per sedersi a tavola e mettersi a mangiare! Eppure la tentazione di salire in camera, di tuffare la faccia sul cuscino, di tirare la coperta fin sopra la testa, di stiracchiare le gambe indolenzite e di abbassare le palpebre gonfiate dalle occhiaie, era più forte e insistente persino del lamentoso gorgoglio del suo stomaco affamato.

Perché non hanno ancora inventato un sistema per poter mangiare mentre si dorme?

«Bentornato.» Udendo la porta chiudersi e i passi di Alberto raggiungere la soglia della cucina, Massimo posò il coltello affianco al tagliere, accese il gas sotto la padella con l’acqua per gli spaghetti, e si girò a rivolgergli un piccolo sorriso di bentornato. «Com’è andato il lavoro oggi?» Machiavelli, accoccolato sul davanzale della finestra, socchiuse un occhio, inquadrò Principe e Alberto, sbadigliò, arricciò la coda attorno al corpicino acciambellato, e si rimise a ronfare tenendo però le palpebre socchiuse e lo sguardo vigile.

Scosso dalla voce di Massimo, Alberto scrollò la testa e si diede una stropicciata agli occhi appannati dai lampi di stanchezza. Non si era nemmeno reso conto di aver già raggiunto la cucina. Tirati su, Alberto, tirati su! Impennò i pollici incerottati e unti di olio lubrificante. «Alla grande.» Strinse i denti, ignorò la frustata di dolore improvviso che si era schiantata alla base della schiena, e indurì le spalle per non dare a vedere che stava faticando persino a tenere le braccia alzate. Si atteggiò come al suo solito, ma era dura sopportare il peso della sua corazza da smargiasso, ora che i suoi muscoli erano ridotti in poltiglia e che si sentiva le ossa sbriciolate come grissini secchi. «Eros dice che stiamo andando veloci, molto più del previsto, e che non credeva che gli sarei stato così utile.» D’accordo, non lo aveva proprio detto con queste precise parole, ma era più che ovvio che lo pensasse. «E dice che se continuiamo con questo ritmo possiamo anche portare l’Ape a casa entro una settimana o due, giusto il tempo di provarla e di assicurarci che tutto sia a posto e che le riparazioni tengano abbastanza a lungo.» Questa invece era la verità.

Massimo annuì, visibilmente compiaciuto, e si strofinò la mano sul canovaccio sporco che teneva allacciato in vita. «È una buona notizia.» Si rimise ai fornelli. Alzò la fiamma sotto la padella più larga e bassa, unta da un generoso strato d’olio. Strusciò il coltello sul tagliere, lasciò cadere l’aglio sminuzzato che subito si mise a sfrigolare e a gettar fumo, agguantò il manico della padella e la fece oscillare avanti e indietro, spargendo un buon profumo di soffritto. «E tu come ti senti?» Il suo tono si fece più basso e premuroso. «Sei stanco? Hai faticato molto?»

Alberto si posò una mano sul petto e strabuzzò gli occhi. «Stanco?» Fece di tutto per mostrarsi indignato davanti a quell’accusa. «Io? Pff, per niente, proprio.»

Massimo, imitato da Machiavelli, scoccò un’occhiata di complicità a Principe. Principe fece roteare lo sguardo e mimò un’espressione che pareva proprio dire: lo so, lo so, sono tutte balle. Così Massimo annuì e sorvolò. «Vieni a tavola, allora.» Ormai aveva imparato a riconoscere e ad accettare gli impulsi d’orgoglio di Alberto. Sapeva quanto fosse importante assecondarli, ed era facile comprenderlo. Dopotutto, era stato un ragazzo anche lui. «Fra poco è pronto. Sarai affamato.»

«Sicuro» rispose Alberto. «Dammi solo…» Appoggiò la spalla allo stipite della porta e guardò verso la cima delle scale, dove in camera lo attendevano il suo cuscino, il materasso così soffice su cui stendere le gambe stanche e sgranchire i piedi doloranti, e la coperta da avvolgersi attorno alle spalle, lasciandosi accogliere come nel calore di un abbraccio in cui potersi addormentare sicuri e protetti. Una visione ancor più paradisiaca di un prato popolato da Vespe selvagge, o di una scia di luce dorata che ti conduce fino alla superficie della Luna. «Vado solo un attimo a…» Si avviò. Compì il primo passo zoppicando, si fermò a strofinarsi la base della schiena dove il dolore assumeva la consistenza acuta e pressante di un pugno di chiodi conficcato nelle ossa. Rivolse l’indice tremolante al piano di sopra. «Solo un attimo in camera a cambiarmi i vestiti. E a sedermi cinque minuti.»

Massimo rinnovò quell’occhiata così saggia e consapevole prima con Principe e poi anche con Machiavelli. Sollevò il coperchio dall’acqua che ormai bolliva e cantava nella pentola, assecondando l’allegria dell’opera di Rossini. «Ma non vuoi nemmeno un piatto di spaghetti prima di andare a dormire?» Tuffò un mazzo di spaghetti fra le bolle fumanti.

«Dormire?» Alberto si rimise dritto e fece l’offeso, si finse inorridito. «Chi ha mai detto che vado a dormire? Non vado mica a dormire, vado solo a dare una sciacquata alla faccia e a far riposare le gambe.» E la schiena, e le spalle, e le braccia, e gli occhi. «Dammi solo cinque minuti e ti raggiungo.»

Massimo affondò il mestolo nella pentola, rigirò gli spaghetti rammolliti, e rise sotto i baffi, già riuscendo a prevedere la scena. Una scena che in qualche modo aveva già vissuto solo qualche giorno prima.

Anche tre giorni prima Alberto aveva assicurato che si sarebbe riposato solo per cinque minuti, giusto il tempo che Massimo avrebbe impiegato per finire di cuocere il minestrone di orzo e fagioli. E quei cinque minuti alla fine gli erano serviti per sedersi affianco al calduccio della stufa e assopirsi sulla panca della cucina, quella sotto cui conservavano la legna di scorta. Finito di mescolare il minestrone e di grattugiare il Parmigiano, Massimo si era girato e aveva trovato Alberto addormentato di schianto, con ancora il cappotto addosso, Machiavelli a ronfargli vicino alla faccia e Principe acciambellato contro la sua pancia. Scrutando più attentamente il suo viso segnato da profonde ombre di stanchezza e dalle occhiaie violacee che gli gonfiavano le palpebre, Massimo non aveva proprio avuto cuore di svegliarlo, così se l’era caricato sulla spalla, lo aveva portato in camera, e gli aveva rimboccato le coperte lasciandolo dormire in pace.

Dopo quel giorno, Massimo aveva cominciato a pentirsi di aver permesso ad Alberto di lavorare in officina. Però poi Alberto lo aveva tanto supplicato di permettergli di terminare il lavoro sull’Ape che proprio non ce l’aveva fatta a proibirgli di andare al garage di Eros, a patto che non saltasse mai più né pranzo né cena.

«Come dici tu.» Massimo strusciò il coltello sporco sul canovaccio, colse un baccello di peperoncino dalla mensola delle spezie e si mise a sminuzzare anche quello sullo stesso tagliere su cui poco prima aveva affettato l’aglio. «Allora ti aspetto per cenare.»

«Certo che mi aspetti per cenare.» Alberto si aggrappò al corrimano, risalì il primo gradino. «E non cominciare senza di me. Ho una fame che non ci vedo.»

«Mi fa piacere sentirtelo dire.» Massimo cercò di non preoccuparsi troppo, anche se non gli era difficile immaginare come si sarebbe evoluta la situazione. «Ma ricorda che domani ci alziamo presto. Filippo ci ha chiesto di aiutarlo a controllare le reti delle vongole giù al largo. Sveglia alle cinque, mi raccomando.»

«Urgh…» Alberto zoppicò, scivolando fra il primo e il secondo gradino, e dovette appendersi con entrambe le braccia al corrimano per evitare di crollare, schiacciato dal peso di quella tragica notizia. Ebbe un capogiro. Sveglia alle cinque. «Va…» Nonostante le vertigini, annuì. «Va bene.» Si consolò pensando al fatto che, quando avrebbero avuto l’Ape, tutte queste fatiche sarebbero sfumate come nebbia al vento. Niente più consegne in bici, niente più doppio turno in pescheria, niente più sfaticate in officina. Solo un altro paio di settimane. Solo un paio di settimane e ogni goccia del suo sudore sarebbe stata ampiamente ripagata. «Sveglia alle cinque. Ricevuto.»

«Ah.» La voce di Massimo tornò a bloccarlo prima che Alberto potesse riprendere la scalata dei gradini. «Aspetta un attimo, quasi mi dimenticavo.» Smise di sminuzzare il peperoncino e, posato il coltello, si girò in cerca dello sguardo di Alberto, con l’aria di chi sta per annunciare qualcosa di importante. «Oggi, mentre eri fuori, è arrivata posta per te da Genova. Pensavo di riuscire a dartela a pranzo, ma alla fine hai mangiato fuori.»

Alberto compì uno scatto che gli fece stringere la presa sul corrimano. «Per me?» Strano, pensò. Di solito la posta mi arriva sempre a inizio settimana. «Da Genova?» Ma i suoi occhi brillarono e il suo sorriso si distese da guancia a guancia, ravvivando il pallore del viso. Quella prospettiva scintillò ancor più della carrozzeria riverniciata dell’Ape, emanò un profumo ancor più dolce e invitante del soffritto di aglio e peperoncino. «Lettere di Luca e Giulia?»

«Non solo.» Massimo raschiò il tagliere, rovesciò il peperoncino nella padella foderata d’olio bollente, e sollevò lo zampillio dei fiocchi d’aglio caramellati. «C’è anche un pacco.» Il fumo del soffritto annuvolò la cucina.

«Un pacco?» Un formicolio di curiosità pervase Alberto, si mescolò al gioioso impulso di quella sorpresa, e gli fece persino dimenticare della stanchezza dei muscoli e del dolore alle ossa. «E di cosa? Cibo?» Ooh! Magari è davvero cibo! «La cioccolata e i dolci di marzapane dell’ultima volta?» Si sfregò le mani. «Ora che siamo così vicini al Natale…»

«Non lo so» gli rispose Massimo. «Può darsi.» Sempre celando sotto i baffi il sorrisetto di chi sta custodendo la luce di un segreto prezioso, alzò il braccio e raccolse il pacchetto bollato dal ripiano più alto della cucina, dove lo aveva riposto in modo che non si sporcasse. Lo allungò ad Alberto. «Aprilo e scoprilo.»

 

***

 

Alberto strinse il pacco contro il petto, custodendolo come un secondo cuore, come la perla più preziosa dei Sette Mari, ed entrò in camera dopo aver percorso le scale avanzando di due gradini alla volta – in barba ai polpacci doloranti –, troppo impaziente anche per fermarsi a chiudere la porta dietro di sé.

Attraversò la cameretta, scavalcò la radiolina attorniata da un paio di fogli su cui aveva scritto l’elenco delle frequenze che da lì si ricevevano meglio, schivò un mucchio di abiti sporchi che non aveva ancora buttato nel cesto della lavanderia, e si chinò a raccogliere il libro di corse e motori che era riuscito a procurarsi tramite l’edicola di paese. Lo ripose sul comodino, fra le riviste di moto, le colonne di dischi – alcuni comprati di tasca sua –, e i vari album da disegno riempiti con i suoi schizzi, tutti ritraenti per lo più modelli di Vespa, auto da corsa, miglioramenti per la barca da pesca, e progetti per un futuro ed eventuale tatuaggio.

Cadde a sedere sul letto, facendo rimbalzare il materasso, e il sollievo alle gambe e alla schiena fu immediato. Una sensazione che lo proiettò in Paradiso, per la durata di quei brevi istanti in cui gli parve proprio di morire, di galleggiare fra le stelle, e di adagiarsi a riposare fra gli sbuffi di nuvola.

Alberto scrollò il capo e tornò sulla Terra. Doveva restare sveglio. Gli spaghetti di Massimo, si incoraggiò. Pensa che giù ti aspettano gli spaghetti di Massimo e vedrai com’è facile restare sveglio.

Però sospirò, sconfortato, perché trovarsi seduto sul letto – così morbido e comodo! – adiacente alla cuccia dove Caligola dormiva beato, rintanato nel suo guscio, non era propriamente l’aiuto di cui aveva bisogno.

Alberto si stropicciò gli occhi, li riaprì uno alla volta, sbatté le palpebre sentendoli ancor più gonfi e acquosi di prima. Risucchiò un sorso d’aria dal naso e compì un ulteriore sforzo per cadenzare il respiro.

Spero sul serio di riuscire a schiodarmi dal letto per scendere a cena. Ma ce la farò a scendere le scale? Se Massimo fosse costretto a venirmi a prendere di peso sarebbe umiliante.

Principe entrò in camera passando attraverso lo spiraglio della porta rimasta socchiusa. Andò a sedersi ai piedi del letto e si mise a fissare Alberto, paziente e silenzioso, quasi aspettandosi di vederlo crollare dal sonno. Quasi in attesa di una sua imminente disfatta.

Alberto soffocò uno sbadiglio contro la mano e squadrò lo sguardo sospettoso di Principe. Lo affrontò a muso duro. «Guarda che è inutile che mi fissi in quel modo.» Tornò a sprimacciarsi le palpebre, insistendo con una nocca alla radice del naso. Sentiva come se qualcuno gli avesse soffiato in faccia una nuvola di sabbia. «Non ho alcuna intenzione di addormentarmi, e non c’è verso che stasera io salti la cena, considerato tutto quello che c’è da lavorare domani.» Infatti, non esiste proprio che salti la cena. Ho bisogno anch’io di carburante, proprio come una moto o un’auto. E poi come posso pretendere di mettere su muscoli se non mangio nemmeno? Ecco, forse la conseguenza peggiore di tutta questa situazione è proprio la perdita dell’appetito. Ma poi passa, vero? Diamine, spero che mi passi presto. Per distaccarsi da quelle voci così antipatiche e per schivare la comparsa sempre in agguato di Bruno, Alberto cominciò a scartare il pacco foderato di francobolli. «Quindi puoi anche smetterla di atteggiarti come se non aspettassi altro che andare a fare la spia a Massimo.»

Principe fece roteare lo sguardo. Girò attorno alla cuccia di Caligola e balzò sul letto per andare ad accoccolarsi al fianco di Alberto.

Alberto sfilò il contenuto dal pacco e si ritrovò a stringere fra le mani un libro foderato da una morbida copertina di pelle blu, un po’ sbiadita e raggrinzita all’altezza degli angoli. Al centro della copertina, spiccava un quadretto ovale che incorniciava il ritratto di un burattino dal naso a punta che reggeva sottobraccio una pigna di libri.

Alberto lesse il titolo. Pinocchio? E riscoprì in quel nome uno stupore familiare.

Alzò lo sguardo verso una delle mensole inchiodate alla parete. Trovò a sorridergli lo stesso burattino ritratto sulla copertina del romanzo. Un altro Pinocchio, un Pinocchio vero, intagliato nel legno lucidato di lacca, vestito con abitini rossi, seduto fra i libri e il giradischi di Giulia. Le manine tese in avanti, le gambe dritte, lo stesso cappello a punta che indossava anche sulla copertina del romanzo, e lo sguardo sorridente fisso nel vuoto.

Alberto gli scoccò un’occhiata perplessa. Chissà perché sono tutti fissati con questo povero pupazzo? Cos’avrà poi di così speciale? Il naso a punta? Si strinse nelle spalle e, senza ulteriori indugi, aprì il volume.

Un foglietto scivolò fuori dal libro e gli svolazzò in grembo. Alberto lo girò. Recitava un messaggio scritto a penna blu dalla calligrafia di Luca.

 

Mi fa pensare a noi. Buona lettura e buon Natale! – Luca

 

Per Alberto fu inevitabile sorridere, sentire le guance pizzicare di emozione e il petto colmarsi di una sensazione di pace e appagamento. Fu semplice immaginare di avere Luca lì affianco. Gli bastò leggere quelle poche righe scritte da lui per udire la sua voce e sentirsi capace di raggiungere la sua mano solo allungando il braccio. Se solo fosse stato possibile…

Questo libro gli ricorda noi due, ha detto. Allora anche Luca ogni tanto pensa sul serio a me. Le mani strette sul libro furono colte da un fremito. Il cuore singhiozzò un palpito più pesante e addolorato. Se solo sapesse quante volte io penso a lui. E quante volte gli saliva la tristezza sapendolo a Genova, da solo – in compagnia di Giulia, d’accordo – a combattere tutte quelle difficoltà da cui Alberto non poteva proteggerlo, o ad affrontare tutti quei cambiamenti di cui lui non poteva essere partecipe.

Quasi avesse fiutato la sua malinconia, Principe gli salì in grembo, posò una zampetta sulla pagina del libro aperto, e spinse la testolina sotto la mano di Alberto, reclamando qualche coccola.

Alberto lo accontentò subito, incapace di resistere alle sue ruffianate. Bastò carezzare la pelliccia del suo gattino e ricevere qualche fusa in cambio per riguadagnare il buonumore. «Che dici?» gli domandò. «Diamo un’occhiata?» Sfogliò la pagina del frontespizio e raggiunse la prima facciata del primo capitolo. Si mise a gambe incrociate – ristabilendosi velocemente dopo un singolo spasmo di dolore – per stare più comodo. «Pinocchio sarà anche un povero pupazzo che fa venire la fissazione a tutti, ma se Luca dice che questo libro gli ricorda noi due deve essere per forza eccezionale.»

Principe approvò ronfando più forte. Sprimacciò un massaggio sui pantaloni di Alberto e si acciambellò fra le sue gambe incrociate. Le orecchie dritte e attente, lo sguardo concentrato sul romanzo.

Alberto inclinò il libro in modo che potesse guardare anche lui. Gli mostrò la prima illustrazione che ritraeva un semplice ciocco di legno adagiato sulla seggiola di un falegname, vicino a un banco da lavoro molto simile a quello che Alberto stesso aveva allestito nella sua torre-officina.

 

Come andò che maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino”

 

Cominciò a leggere e, proprio come per magia – la benevola e generosa magia di una Fata dai Capelli Turchini –, la stanchezza e i dolori si volatilizzarono.

 

***

 

Prima che la cena fosse pronta, Alberto riuscì a leggere i primi due capitoli di Pinocchio, poi Massimo lo chiamò giù perché gli spaghetti erano già pronti e impiattati, e lui non si fece pregare.

Scese e si abbuffò di spaghetti cotti al dente come piacevano a lui – gli era persino tornato l’appetito! – annegando poi la mollica di pane nel fondo di olio su cui galleggiava il peperoncino sminuzzato. Assieme all’appetito tornò anche la degenerante sensazione di stanchezza. L’abbuffata accrebbe il sonno, lo ingrossò come la risacca del mare. Gli offuscò la vista, gli otturò l’udito, proprio come se al posto della testa gli fosse cresciuta una boccia piena d’acqua, e alimentò il bisogno di risalire in camera, di appoggiare la guancia sul cuscino e di addormentarsi di schianto.

Ma c’era il libro ad attenderlo sul comodino. C’era il segnalibro – il fogliettino spedito da Luca – che sbucava alla fine del secondo capitolo.

Fu così che, terminata la cena, sparecchiata la tavola, lavati i piatti e data la buonanotte a Massimo, Alberto riuscì chissà come a trovare la forza di tenere accesa una lucina e di continuare a leggere standosene rintanato sotto le coperte.

Senza neanche accorgersene, giunto oltre la metà del romanzo, crollò di faccia sulle pagine aperte. Già profondamente addormentato, rotolò sul fianco, strinse Principe a sé, rannicchiò le ginocchia al ventre e, vegliati entrambi da Machiavelli, ronfarono come ghiri fino alla mattina successiva, fino a quando non fu ora di balzare giù dal letto e di uscire in mare per il lavoro.

Durante la notte, Alberto aveva sognato.

Aveva sognato vecchie e polverose botteghe di falegnami; grilli parlanti rompiscatole che si chiamano Bruno; uomini con il muso di gatto e la coda di volpe; carri trainati da asinelli che calzano stivaletti e guidati da omini di burro che tirano dritti fino al Paese dei Balocchi, dove ci si lancia dalle scogliere senza paura di farsi male, dove Vespe selvagge rombano fra i campi di girasoli, dove migliaia di acciughine colorate sguazzano nel cielo, e dove lui e Luca sarebbero potuti rimanere assieme, addormentarsi ogni notte sotto il Pesce-Luna, e svegliarsi ancora uno affianco all’altro, con la certezza di non doversi mai più separare, né d’estate né d’inverno.

Un sogno a occhi aperti. Il più bel sogno che avesse mai potuto desiderare.

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Capitolo 15
*** 15 ***


15

 

 

Davanti alla soglia dei cancelli spalancati, ombreggiati dall’esplosione di verde e rosa che la primavera aveva fatto germogliare fra gli alberi che confinavano il vialetto della scuola, Luca strinse forte la mano aggrappata a quella di Giulia, trasmettendo anche a lei quello spasmo di violento terrore che lo aveva colto alla sprovvista, facendogli singhiozzare il battito in gola. S’irrigidì come un pezzo di scoglio, pietrificato dallo sconcerto. I piedi incollati a terra, gli occhi sgranati e abbagliati da un lampo d’ansia, e un brivido di paura conficcato nella nuca, freddo come una spina di ghiaccio, che lo bloccò come era già accaduto durante il primo giorno di scuola.

Come il primo giorno di scuola, appunto. Il ciclo si sarebbe chiuso allo stesso modo in cui si era aperto. Luca avrebbe dovuto aspettarselo. Avrebbe dovuto immaginare che l’ultimo giorno di scuola avrebbe comportato qualche sgradevole sorpresa, come l’anno prima, durante l’ultimo giorno degli esami di Terza, quando i suoi compagni di classe avevano liberato tutte le ranocchie dell’aula di Scienze, lasciandole popolare i bagni e le aule.

Luca si sarebbe aspettato di tutto. Tutto meno che assistere alla scena che gli si palesava davanti, più angosciante e distorta di un quadro di Dalì.

Le magnolie erano fiorite bene, quell’anno. Una delicata esplosione di rosa confetto – nuvole da sogno distribuite fra il verde dei cipressi – che ravvivava l’atmosfera dei giardini, e che offriva un’ombra non troppo buia ai ragazzi che camminavano senza fretta fra le stradine districate nel complesso di edifici scolastici.

Ai tre ragazzi radunati attorno alla torretta della fontana se ne aggiunse un quarto che passò al compagno un secchio vuoto e un sacchetto multicolore. Non indossavano le giacche delle uniformi, tranne uno di loro che se l’era allacciata attorno alle spalle con un nodo delle maniche. Gli altri avevano sbottonato i polsini delle camice e si erano arrotolati le maniche fino ai gomiti, in modo da non bagnarsi con gli schizzi spruzzati dal sifone della fontana o zampillati dalla pozza che si era formata attorno alla grata di scarico.

Il ragazzo che aveva appena ricevuto il sacchetto multicolore strappò la chiusura della confezione, estrasse un palloncino viola, lo avvolse attorno al sifone della fontana, e fece segno al compagno di svitare l’erogatore.

L’acqua corse in abbondanza, gonfiò il palloncino e ne dilatò la gomma, rendendola più chiara e traslucida.

Il ragazzo alzò la mano. «Okay, okay, basta.» Sganciò il palloncino dalla bocca del sifone, lo annodò facendo rotolare qualche rigagnolo d’acqua fra le dita, e gettò il gavettone pronto nel secchio deposto a terra. Un secchio già stracolmo di altri palloncini gonfi e umidicci.

Il quarto ragazzo, quello appena arrivato, raccolse il manico del secchio, lo soppesò alzandolo giusto di una spanna da terra, e tornò a posarlo affianco alla fontana. «Pieno.»

«Portane un altro.» Il ragazzo biondo, quello che gestiva l’erogatore della fontana, allentò il bavero della camicia e strusciò il braccio nudo sulla fronte sudata. Inviò un cenno di mano al compagno. Il gesto di chi ha fretta di andare avanti. «Un altro secchio, forza, ché ce ne sono ancora da gonfiare.»

«Te ne ho appena portato uno vuoto. Toh…» Il compare gli indicò il secchio vuoto, l’arco del manico sorretto dal terzo di loro. «Quello che ho appena passato a Michele.»

«Sì, ma a me serve una mano per portare via quello pieno.» Quello che reggeva il secchio pieno riprovò a sollevarlo, lo agguantò con entrambe le mani, diede uno strappo di spalle e, dopo uno sbuffo, fu costretto a poggiarlo di nuovo a terra e a massaggiarsi le braccia. «Pesa una tonnellata.»

Uno dei suoi amici andò ad aiutarlo. Reggendo il secchio in due, si dileguarono mescolandosi alla piccola folla di ragazzi che stavano affluendo verso le due entrate della scuola. Le porte erano spalancate, dato che da più di un mese avevano smesso di attivare il sistema di riscaldamento. Quella mattina, l’allegro cinguettio delle ragazze era ancora più acuto e vivace. Lo svolazzare delle gonne si dibatteva fra le loro gambette proprio come una danza di petali smossi dal fresco e mite vento di primavera.

I due ragazzi rimasti alla fontana si rimisero al lavoro e, ripartendo da un palloncino giallo, cominciarono a riempire anche il secchio vuoto. «L’ala destra è già coperta?»

«Mancherebbe la terrazza, quella della succursale delle ragazze.»

«Ma dalle finestre possiamo?»

«Non da quelle più alte.» Il ragazzo lanciò il palloncino pieno dentro il secchio. «Solo da quelle più basse. Ad altezza d’uomo.»

«Quindi solo dal piano terra.» L’altro sfilò un palloncino color arancio dalla confezione e lo agganciò alla bocca della fontana. Parve deluso e amareggiato. «Ma che senso avrebbe?»

L’altro fece spallucce. «Poco male. Ci trinceriamo.»

«Guerra fra succursali?» Il ragazzo annuì, esibì un sorriso radioso che già si pregustava lo spettacolo. «Mi piace.» Svitò l’erogatore, gonfiò il gavettone arancio.

Anche il compare rise, assecondò l’ambiziosa follia delle sue idee. «Usiamo gli elastici della ginnastica per costruire una mega-fionda, e vedrai che spettacolo ne esce.»

Risero entrambi come citrulli. Finirono di preparare il palloncino arancio e si scambiarono un batti cinque facendo schioccare un piccolo schiaffo fra le mani umidicce.

La mano di Luca invece era ancora appesa a quella di Giulia, e lui si trovava ancora pietrificato lì sul posto, sentendosi la faccia fredda proprio come l’acqua che scivolava lungo il ferro della fontana. «C-che…» Davanti ai suoi occhi, altri palloncini vennero riempiti, allacciati e, ancora gocciolanti, vennero accumulati uno sopra l’altro dentro il secchio che fino a qualche istante prima era ancora vuoto. Ora invece era circondato da una pozza d’acqua che si stava allargando anche sotto le scarpe dei ragazzi. Rivoletti trasparenti rotolarono fra le crepe del cemento e andarono a scurire lo sterrato che, diventato umido e molliccio, venne calpestato dalle impronte degli altri studenti. Luca deglutì, colto da uno spasmo di terrore che riuscì finalmente a schiodargli le suole da terra, permettendogli di compiere un passetto all’indietro. «Che combinano?»

Giulia inarcò un sopracciglio. Assistette alla scena mostrando una faccia allibita, ma non grigia di panico come quella di Luca. «Gavettoni?» Senza mollargli la mano, si spostò per lasciar passare un gruppetto di ragazze che erano smontate dall’autobus arrivato subito dopo il loro. Guardandosi alle spalle, notò una coppia di ragazzi che stava trasportando un altro secchio, anche quello ricolmo di palloncini colorati. I ragazzi ridacchiarono fra loro, e uno dei due indicò le ragazze che avevano appena oltrepassato i cancelli della scuola. Giulia arricciò una smorfia all’angolo della bocca, già fiutando l’odore di guai. «E io che ero convintissima che questa fosse una di quelle scuole dove li proibiscono. Uhm…» Tamburellò l’indice sulle labbra. «Forse possono tirarli a patto di rimanere fuori dai cancelli e dalle mura scolastiche? Oppure stanno facendo tutto all’insaputa dei professori? Comunque è strano che le mie compagne di classe non mi abbiano detto niente. Di solito quelle pettegole sono sempre le prime a far circolare questo genere di voci.»

In seguito alla rauca risata di uno dei due ragazzi, il suo amico lanciò un fischio che sorvolò tutte le voci del giardino. «Ehi, Greta!»

Una delle ragazze che avevano appena valicato i cancelli, quella con la lunga coda di cavallo corvina legata da un nastro color melograno, si girò verso il richiamo. «Cosa?»

Un lampo blu sfrecciò dal braccio del ragazzo. «Al volo!» Disegnò un arco che sorvolò le teste delle altre ragazze, si schiantò sul petto di Greta, ed esplose in una cascata di pezzi di gomma e di zampilli d’acqua che la inzupparono, facendo sobbalzare anche le sue amiche vicine.

La poveretta gemette e allargò le braccia. «Aaargh!» Assistette impotente all’acqua che grondò lungo la camicetta, che gocciolò dal cravattino, e che scese a bagnarle le frange della gonna. Greta strinse i pugni, corrugò la fronte diventando rossa quasi quanto il nastro che le legava i capelli, e scagliò una lacerante occhiata di fuoco in direzione del ragazzo che l’aveva colpita. «Razza di stupidi cretini!»

I due ragazzi si sbellicarono dalle risate.

Le compagne di Greta, quelle che si erano allontanate dopo l’esplosione del gavettone, si asciugarono dalle poche gocce d’acqua che le avevano raggiunte, «Che idioti», sbatacchiarono le scarpe impiastricciate di sterrato fangoso, «E meno male che il prossimo anno hanno la Maturità», e riaggiustarono le trecce e i codini dietro le spalle.

Greta era ancora troppo furiosa per pensare ad asciugarsi. Gli occhi neri di rabbia e le guance di fuoco. «E io ora come entro in classe, me lo spiegate? Carlo!» Si girò verso i ragazzi della fontana, mentre quelli che avevano fatto partire il gavettone fuggirono in mezzo agli altri studenti senza smettere di ridere. «Carlo, questa è un’idea tua, vero? Tua e di quel tuo cervello da gallina, scommetto!»

«Io?» Uno dei due ragazzi della fontana, quello biondo, alzò le mani per difendersi – pure lui aveva ridacchiato –, e arretrò di un passo, respinto dalla furia dirompente di Greta. «Io non ho fatto niente. Mi vedi che sono qui.»

«Oh, tu, razza di…» Greta spinse la sua cartella fra le braccia di una delle compagne. Si rimboccò le maniche della giacca e corse addosso al biondo. «Se ti prendo ti strangolo!»

La lite si disperse in una risata collettiva a cui si aggiunsero gli scricchiolii delle corse dei ragazzi che si affrettarono a entrare in aula, e gli sgorghi della fontana con cui continuarono a riempire altri gavettoni, palloncino dopo palloncino, secchio dopo secchio.

Giulia scosse il capo davanti a quello spettacolo. «Che razza di imbecilli perdigiorno» commentò. «Si ingegnano solo quando c’è da dare fastidio agli altri.» Strinse la mano di Luca per condurlo lontano. «Vieni, mettiamoci più sotto, va’, così almeno evitiamo gli schizzi.»

«M-ma» balbettò Luca, «ma quindi…» I suoi occhi erano fissi, incapaci di scollarsi dai frammenti di quella scena. Le ragazze ridevano, anche se bagnate sulle calze e sulle gonne, e il ragazzo biondo cercò di far pace con Greta, le offrì un fazzoletto che lei rifiutò, dandogli la schiena, alzando il mento e annodando le braccia al petto. Luca si rosicchiò le unghie. Nonostante quel giorno fosse accaldato quasi quanto una mattinata di luglio, brividi di freddo gli si arrampicarono lungo la schiena e gli fecero ballare le ginocchia. «Ma quindi tirano i palloncini d’acqua addosso a tutti? Proprio tutti-tutti?»

«Tutti-tutti» annuì Giulia, «temo di sì. Maschi e femmine, dalla Prima alla Quinta.» Alzò lo sguardo verso le finestre della facciata più vicina. Si riparò la fronte dai raggi di sole che quel giorno erano accecanti, anche se erano a malapena le otto del mattino. «Anche negli altri istituti lo fanno. È una sorta di tradizione. Una stupida tradizione, ma pur sempre tradizione è.» Si sporse da dietro lo spigolo dell’edificio per scrutare attraverso l’orda dei ragazzi e in questo modo orientarsi per individuare le uscite delle ali laterali. «Poco male. Vorrà dire che per oggi uscirò dall’ingresso secondario della mia succursale, invece che venirti incontro come al solito qui nella via principale.» Fece mulinare l’indice per aria. «Mi toccherà fare tutto il giro esterno, e a quell’ora c’è sempre un macello di gente perché si accalcano tutti verso la pizzeria, ma dovrei riuscire a raggiungere la fermata del bus in tempo, prima della corsa delle due, per lo meno. Facciamo che ci troviamo già lì?»

«A-aspetta…» Luca smise di smangiucchiarsi le unghie ma tenne stretto il pugno davanti alla bocca. «Tu uscirai…» Flesse un sopracciglio in un’espressione perplessa che gli colorò le guance di un malsano colorito cinereo. «Uscirai dall’ingresso secondario della tua succursale? E non c’è un altro modo di evitare i palloncini d’acqua?»

«Temo di no, non in queste condizioni. Ma sta’ tranquillo.» Giulia gli spremette due volte la mano per incoraggiarlo. «Se ti affretti a correre stando ben vicino alle mura vedrai che non ti prenderanno troppo di mira.»

«Pre…» Luca vacillò all’indietro, colpì il muro con le spalle. Si sentì mancare. «Prendermi troppo di mira?»

«Il segreto è come per i cacciatori: evita a tutti i costi il contatto visivo e allora…» Giulia mozzò la frase sulla punta della lingua. Nei suoi occhi si accese un abbaglio, un lampo di realizzazione improvvisa che la accecò ancor più di quel sole che batteva sulle file di finestre tirate a lucido. «Oh!» Guardò Luca, gli guardò attraverso, già immaginandosi quello che una sberla d’acqua spalmata sulla sua faccia avrebbe potuto rivelare. «Oh, no.» Prima sbiancò, poi tornò paonazza. «Tu non puoi…» Si guardò attorno, le mura, i gradini, il giardino, il cancello, di nuovo in cerca di una soluzione o di una via di fuga. «Ma se tu…» Mosse il braccio su e giù, a indicare il profilo di Luca. «Però dovresti…» Scagliò l’indice verso i ragazzi della fontana. «Ma se loro…» L’indice volò a puntare il cielo, poi Luca, poi il secchio dei gavettoni, e poi di nuovo Luca. «E non… oh…» Giulia affondò la mano fra i capelli e si morsicò il labbro inferiore fino a farlo diventare bianco. «Oh, cavoli» ringhiò. «Oh, per mille sardine!» La sua esclamazione improvvisa fece svolazzare via una coppia di tortore. «Santa ricotta e provolone e tutte le mozzarelle del mondo, Luca!»

Giulia si guardò dietro la schiena. Mollò la mano di Luca, gli strinse le spalle, e lo portò al riparo nella zona del muro più in ombra e più isolata, lontana dalle grate delle biciclette e distante dall’entrata che conduceva in palestra, dove i ragazzi facevano capannello. Guardò Luca negli occhi, gli trasmise la sua stessa vena di panico. «Te l’avevo detto, Luca, te l’avevo detto che tenere nascosto il tuo segreto sarebbe stato catastrofico. È la valanga, Luca!» Gli avvolse le guance fra le mani sudaticce. «Questa è la valanga che ti torna indietro!»

Fra le mani di Giulia, la faccia di Luca rabbrividì e si deformò in una molle e grigia maschera di terrore.

Circondato dall’odore ferroso di acqua di fontana, frastornato dai colori dei palloncini rigonfi che rimbalzavano l’uno sull’altro all’interno dei secchi e fra le mani bagnate degli studenti, Luca fu aggredito da un’immagine fredda e nitida. La valanga di neve che rotolava lungo il pendio della montagna, che ruggiva ingrossandosi, la sua ombra che si spalancava come una bocca e che lo inghiottiva, rovesciando la sua onda su di lui. La neve lo schiacciava sotto il suo peso, gli soffocava il respiro entrandogli nel naso e nella bocca, e gli impediva anche solo di alzare un braccio o di agitare la mano per richiamare l’aiuto di qualcuno. Lo sguardo di Luca vacillò. «Io…» Luca ricominciò a tremare, vide tutto grigio, i respiri affrettati gli stritolarono il petto facendolo già sentire sepolto sotto il muro di neve. «Io…» Sono perduto.

«No, no, ascolta» gli fece Giulia, quasi gli avesse letto nel pensiero. «Non sei ancora perduto, non precipitiamo le cose, possiamo ancora rimediare. Okay.» Lei per prima, con l’aiuto di un respiro profondo, riguadagnò il sangue freddo di cui entrambi avevano bisogno. Tornò a guardarsi indietro e intanto sprimacciò la giacca di Luca, gli aggiustò colletto e spalline tanto per tenersi occupata mentre pensava. «Okay, d’accordo, manteniamo la calma, non è ancora il momento di farsi prendere dal panico. Penso io a proteggerti, sta’ tranquillo. La situazione è ancora risolvibile.» Corrugò le sopracciglia, si fece pensosa, ingegnandosi alla ricerca di una soluzione. «Risolvibile, sì, ma come?» Si batté una nocca sulla tempia. «Pensa, Giulietta, pensa.»

Intanto che Giulia si scervellava, Luca strinse la presa sul manico della cartella, indirizzando così le sue preoccupazioni a un altro aspetto di quella tragedia. «Non posso farmi bagnare.» Si premette la cartella al petto e si strinse al peso dei libri, dei quaderni, di tutto il sudato lavoro di un anno. «Se mi inzuppassero la cartella sarebbe un disastro. C’è il libro che devo restituire alla biblioteca, e anche la ricerca che devo consegnare a lezione di Educazione Civica. Se i fogli si bagnassero si squaglierebbero tutti, non riuscirei a consegnare il compito in tempo, prenderei un brutto voto, e potrei essere rimandato, e…»

«Dimenticati dei voti.» Giulia tornò a girarsi verso di lui, e ora il suo sguardo rosso di ansia sfumò in una vena compassionevole. «Dimenticati dei compiti e dimenticati della ricerca o della pagella. Qui si tratta della tua stessa vita, Luca. Sei tu che devi ripararti, non i libri. Anzi, sai che ti dico?» Guardò di nuovo indietro, ma questa volta oltre i cancelli della scuola, verso la fermata dell’autobus, verso quel tratto di marciapiede che si stava spopolando, dato che anche gli ultimi studenti erano saltati giù dal mezzo o erano appena scesi dalle biciclette. «Forse siamo ancora in tempo.»

«I…» Luca premette le spalle alla parete, assecondando un brivido che gli suggeriva di proteggersi. «In tempo per cosa?»

«Per l’autobus.» Giulia tornò a prenderlo per mano. «Vieni.» Slanciò una falcata di corsa che portò entrambi fuori dall’ombra. «Sali sull’autobus e torna a casa, prima che riparta.»

«Cosa?» Luca piantò i talloni a terra e strusciò le suole sullo sterrato, arrestando la fuga. «Tornare a casa? Ma perché?»

«Perché è la soluzione più sicura.» Giulia si fermò assieme a lui, ma comunque non gli mollò la mano. «A fine giornata la scuola si trasformerà in un campo di battaglia più annacquato del Delta del Po, e se tu rimanessi coinvolto sarebbe apocalittico. Se invece torni a casa allora non correrai rischi, non ti succederà niente.»

«Ma…»

«Tanto oggi è l’ultimo giorno, non è che ci siano compiti in classe o lezioni importanti. Non ti perdi nulla.»

«Non posso saltare la scuola, Giulia.» Luca scosse il capo. I piedi ben saldi a terra e il braccio ancora avvinghiato attorno al peso della cartella che teneva schiacciata sul petto. «Non oggi. Te l’ho detto che devo consegnare la ricerca di Educazione Civica, e ho anche da restituire il libro in biblioteca.»

«Dai tutto a me, ci penso io. Andrò in biblioteca e poi parlerò con il tuo professore, mi inventerò qualcosa, gli consegnerò io la ricerca e gli dirò che ti sei sentito male all’improvviso e che…»

«Ma devo farmi interrogare in Matematica.»

Giulia esitò. «Eh?» Sbatacchiò più volte le palpebre e flesse il capo di lato, frastornata da quell’ultima rivelazione. «Come? Cosa vuol dire che devi farti interrogare?»

«Oggi…» Luca guardò verso l’entrata della sua succursale, ombreggiata dal filare di cipressi attorno cui erano radunati gruppi di ragazzi fra cui riconobbe anche qualche suo compagno di classe. «Oggi non posso mancare, Giulia, proprio per niente al mondo. Lo sai che l’ultimo compito di Matematica mi è andato male, vero?»

«Oh.» Giulia allentò la presa di mano, ma ancora si rifiutò di lasciarla. «Sì, me lo avevi detto. Quel Cinque che ti ha un po’ abbassato la media. Ma hai ancora la sufficienza, no? Non è la fine del mondo, dovresti essere a posto.»

«Sì, a posto» specificò Luca, «ma non abbastanza a posto. Ho chiesto di persona al mio professore di interrogarmi oggi, proprio all’ultima ora, per poter recuperare l’insufficienza e tenere così una buona media anche con il resto dei voti della pagella. Se mancassi gli farei un torto, e magari continuerebbe ad avercela con me per tutto il prossimo anno. Capisci…» I suoi occhi annacquati di panico formularono una supplica nei riguardi di Giulia. «Capisci perché non posso assolutamente saltare la scuola, oggi?»

«Ma se tu…»

L’ultimo autobus fermo sul ciglio della strada serrò le porte a soffietto. Il mezzo rombò, richiamando lo sguardo di Giulia e Luca, e poi sgommò, s’immetté fra le poche auto che componevano il traffico, e sparì dopo aver svoltato la rotonda, facendo sfumare così l’ultima possibilità di fuga.

Giulia sospirò un lamento abbattuto. Si arrese all’evidenza che Luca non aveva scampo. «Ma come farai se dovesse…» Tornò a pizzicare fra i denti un angolo della bocca. Socchiuse le palpebre, lo squadrò di nuovo da capo a piedi. «Se dovesse succederti qualcosa?» Fu la stesso scetticismo che aveva provato un paio di anni prima, quando lo aveva visto presentarsi il giorno della Portorosso Cup, deciso ad affrontare anche da solo tutte e tre le gare. Compresa quella di nuoto.

Luca!” aveva esclamato quella volta. “Questa è una pessima idea!”

Una pessima idea, appunto.

Quell’eco le tornò indietro, spalancò un’immagine chiara e limpida come l’aria di quella mattina di giugno: un palloncino che colpiva la testa di Luca, la corona d’acqua a gocciolargli dai capelli, le squame arrampicate lungo la guancia, i rivoli a scendere lungo il collo, a bagnare gli abiti, e a imprimere l’immagine del Mostro Marino negli sguardi degli studenti circostanti.

Guardando Giulia negli occhi, tenendosi aggrappato alla sua mano, Luca venne attraversato dallo stesso pensiero e dalle stesse immagini. «I-io…» E anche dagli stessi ricordi. Ricordi che lo ricondussero alle prime paure di Portorosso, ai sospiri d’ansia nel sapere di trovarsi in mezzo agli umani, e al timore di farsi smascherare. Tornò il costante monito di doversi tenere distante dall’odore dell’acqua e dagli zampilli della fontana. Il bisogno ricorrente di strofinarsi la pelle, di assicurarsi che fosse asciutta e rosea, priva di squame.

Perché se dovesse scappare anche solo un riflesso, pensò Luca. Se solo una squama dovesse incrociare l’occhio sbagliato… l’occhio di chi sarebbe capace di farmi del male. Solo una. Ne basterebbe una soltanto e io «Io devo correre il rischio» annunciò. «Io…» Riguadagnò un po’ di coraggio aggrappandosi al peso della cartella che in qualche modo seppe caricarlo della forza di cui aveva bisogno. «Io mi sono creato questo guaio e…» Chiuse gli occhi, raccolse un lungo sospiro. «E io lo affronterò fino in fondo. Non voglio scappare. Se ho scelto questa vita è proprio perché non voglio sentire più il bisogno di dovermi nascondere. Quindi non fuggirò.»

La fronte di Giulia s’incrinò in un’espressione ancora incerta, ma i suoi occhi si rasserenarono davanti alle parole di Luca. Era ancora preoccupata, ma lo sguardo di Luca, seppure un po’ pallido, bruciava di determinazione. Fu rassicurante. «D’accordo.» Forse stavolta era lei quella a preoccuparsi troppo. «Allora ascolta, facciamo così…» Indicò i ragazzi che si stavano ancora rifornendo alla fontana. Li aveva raggiunti uno dei bidelli che si era piantato lì con le braccia conserte, l’aria marziale di un Carabiniere armato di scopettone, e che stava snocciolando un predicozzo davanti a cui i ragazzi arretrarono a capo basso e a mani alzate sulla difensiva. «Gli imbecilli non potranno cominciare a tirare gavettoni prima dell’ultima ora. Le regole sono queste.»

«Sul serio?» Luca si ricordò della povera Greta e del suo bagno anticipato. «Anche se prima hanno…»

«Quello era un tiro di prova» lo anticipò Giulia. «Possono permettersi di farlo solo con i ragazzi e le ragazze che conoscono, ma la vera e propria sarabanda non avrà inizio prima dello squillo dell’ultima campanella, quindi abbiamo tutto il tempo di organizzarci e di stabilire un piano di fuga, in modo che non ti sfiori nemmeno una singola goccia d’acqua.»

«E come?»

«Semplice.» Giulia spostò l’indice verso la succursale di Luca, l’entrata adiacente a quella della palestra. «Quando suona l’ultima campanella, tu non uscire subito, trattieniti un po’ in classe o nei bagni, in modo che la mira degli idioti si sposti soprattutto verso le uscite e non sugli ingressi delle succursali.» Fece sgambettare le dita per aria, simulando una corsa al volo. «Poi attraversa il giardino più in fretta che puoi, e raggiungi l’entrata della sede femminile. Io ti aspetterò lì. Ma non ti muovere fino a che non mi vedi e fino a che non ti faccio segnale, mi raccomando. Ti verrei anche a prendere alla tua entrata, ma non ci conviene, dato che dovrei comunque riattraversare il giardino due volte e rischierei solo di attirare troppo l’attenzione. Sarebbe inutilmente azzardato. Ti faccio strada all’interno della mia sede e poi usciamo assieme dalla porta secondaria.»

«Quella che dà sulla pizzeria?»

«Esatto» annuì Giulia, «proprio quella.» Sfilò la mano da quella di Luca e si chinò a raccogliere la cartella che aveva lasciato cadere ai suoi piedi. «Forse non riusciremo a prendere l’autobus in tempo, e quindi ci toccherà camminare un po’, ma sempre meglio dell’alternativa, giusto?»

«Sì.» Luca cercò di non pensare troppo all’alternativa. «Giusto.» Intanto già puntava all’entrata della sede femminile spolverata dalla caduta di petali delle magnolie. I gradini di pietra scalati dalle ragazze con le gonne svolazzanti, i capelli legati dai nastrini, le giacchette allacciate attorno alle spalle o tenute sottobraccio, la scia di profumo floreale e vanigliato che aleggiava sempre attorno ai loro gruppetti. Luca si strofinò i capelli. In lui sorse un dubbio scomodo. «Ma sei sicura che io possa entrare nella tua succursale?» Non dovrò sul serio infilarmi una gonna per avere il permesso, no?

Giulia annuì senza esitazione. «Se sarai con me nessuno farà storie, credimi. E poi succede di continuo, anche se nessuno lo vuole ammettere. Un sacco di ragazzi si intrufolano per venire a trovare le mie compagne, a fare ciccì e coccò, e tutte quelle cose lì.» Gli batté la mano sulla spalla e strinse la presa. «Andrà tutto bene.»

«Sicura?» Luca non lo era affatto. «Non voglio metterti nei guai per un problema mio.»

«Sono io quella che non vuole che tu finisca nei guai.» Giulia gli diede una spolverata alle grinze della giacca, un’ultima aggiustata alle spalline che gli cadevano ancora larghe. Quell’anno non avrebbe più avuto altre occasioni di farlo. «Perciò tu non pensare troppo ai gavettoni e concentrati solo sulla tua interrogazione di Matematica.» Strizzò l’occhiolino. Gli rivolse un sorriso dolce e raggiante di ottimismo. «Al resto penserò io.»

Luca acconsentì senza questionare oltre. Il piano di Giulia era sensato e realistico, ma lui si sentì comunque afflitto da una moltitudine di sentimenti contrastanti, correnti d’acqua di diversa intensità da cui si sentiva sballottato come nel bel mezzo di una tempesta in mare. Era grato di poter contare sull’aiuto di Giulia, ma…

Ma tutti questi problemi non esisterebbero nemmeno se io fossi stato sincero sulla mia natura fin dal primo giorno di scuola.

Quell’ultimo pensiero fu un colpo allo stomaco che gli fece raggelare il sangue.

O se non fossi entrato proprio a far parte della vita di Giulia.

Ricominciò a grattarsi sotto le maniche della giacca, a combattere quel prurito, quel bisogno di scrostarsi dal corpo una parte della sua natura che non poteva cambiare ma che cominciava a stargli sempre più stretta, come gli abiti che doveva sostituire di anno in anno a causa del suo corpo che maturava e della sua statura che cresceva.

Prima di avviarsi verso la sua classe, Luca guardò in alto, verso il cielo, sollecitato da una sgradevole sensazione di disagio. Il brivido che di solito provava quando la vocina di Bruno si accostava al suo orecchio per ingannarlo. Lo stesso sconforto che provava la mattina quando, appena sveglio, apriva le finestre e annusava l’odore di pioggia in arrivo, realizzando quindi che per lui la giornata si sarebbe complicata e che avrebbe rischiato di finire nei guai alla minima distrazione.

Ora non pioveva. Il sole di inizio giugno splendeva come un faro, il cielo era terso, senza nemmeno uno sbuffo di nuvola all’orizzonte, e il vento secco e scarso preannunciava l’arrivo di un’estate calda e priva di perturbazioni, come avevano accennato alla radio la settimana precedente.

Allora cos’è che mi dà tutta questa nausea? Luca rimase sotto il muro dell’edificio, dove più sarebbe passato inosservato, e marciò a capo basso verso l’entrata della scuola. Si diede un’altra grattata al collo tremante. Cos’è questo brutto presagio che proprio non riesco a mandare via?

Luca non poteva saperlo, ma vi erano nuvole in agguato che non aspettavano altro che addensarsi, di farsi scrollare dal vento, e di spremergli addosso ogni singola goccia della loro sciagura più nera. E, questa volta, non ci sarebbe stato alcun ombrello in grado di ripararlo da quella catastrofe.

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Capitolo 16
*** 16 ***


16

 

 

La campanella dell’ultima ora era squillata da un pezzo, e la scuola ormai era mezza svuotata. Lo scheletro di un alveare abbandonato nell’incavo di una quercia ombrosa.

Le aule erano deserte, popolate solo dal sottilissimo eco della corrente d’aria che sibilava fra le tendine delle veneziane, e odoravano già della prima mano di varechina che era stata strofinata su banchi e seggiole. Le lavagne erano invece ancora impolverate di gesso, riempite con gli ultimi appunti, le liste dei compiti delle vacanze, dei libri da leggere, e alcuni armadi erano rimasti aperti dopo essere stati svuotati dei quaderni di scorta, delle stecche e dei goniometri di Educazione Tecnica, e delle borse di Educazione Fisica.

Nei giardini invece si assisteva ancora a un discreto movimento.

Qualcuno dei ragazzi strizzò le maniche della camicia che si era bagnata durante la battaglia di bombe d’acqua, «Giuro che stasera la mamma me le suona di brutto», mentre qualcun altro si sfilò le scarpe e appese i calzini ad asciugare sul ramo di uno degli alberi, «Per una volta all’anno? Vedrai che non farà troppe storie, su». Le esplosioni dei gavettoni erano ormai cessate, tranne che per qualche munizione a scoppio ritardato che ogni tanto veniva lasciata cadere dalla finestra dell’aula di Musica, una di quelle che non erano ancora state scandagliate dai bidelli. Sotto il balcone, infatti, quella zona del marciapiede rimaneva il più bagnata, e i rivoli d’acqua scorrevano pigri, disperdendosi fra le grate del tombino da cui pendeva qualche pezzo di gomma colorata.

Il vero massacro si era consumato subito dopo lo squillo dell’ultima campanella, e gli sfortunati reduci, troppo fradici per prendere l’autobus o per attraversare a piedi il centro città, avevano deciso di non affrettarsi e di asciugarsi godendosi il sole di primo pomeriggio che splendeva alto al di sopra delle punte dei cipressi.

Gli studenti che si erano fermati lì dopo le lezioni schiamazzarono lanciandosi addosso i calzini bagnati, «Bomba in arrivo!», alcuni si rincorsero, «… già asciutto! Com’è possibile che sei già asciutto?», «Rimediamo subito!», altri si sfilarono le giacche delle uniformi, lanciando anche quelle sui rami degli alberi, e si fermarono a chiacchierare all’ombra, «Quanto ti hanno dato per ‘sta estate?», «Oh, il solito, ma per fortuna il prossimo anno cambiamo il prof di Mate, quindi non servirà nemmeno fare tutti gli esercizi», «Parla per te, io non ho intenzione di dimenticarmi tutto», «Stai insinuando di aver seriamente imparato qualcosa?».

Le ragazze camminarono in punta di piedi e schivarono le pozze più larghe, quelle color caffellatte, che maculavano le stradine di sterrato. «Guarda che schifo che hanno combinato quei degenerati», «La schizzinosa sarai tu. E divertiti, per una volta. Sei più frigida di una suora». Se ne infischiarono del codice scolastico – tanto era l’ultimo giorno –, si liberarono di scarpe e calze, si sciolsero le trecce, «Arriviamoooo!», e attraversarono a piedi nudi il prato bagnato, imperlato di acqua e colorato qua e là da qualche pezzetto di palloncino che non era stato raccolto. Raggiunsero i gruppetti di amici che si erano già accomodati sotto le magnolie, in quel tappeto di petali rosa, e si misero sedute a gambe incrociate sulle coperte da picnic, «Chi vuole un sorso?», accettando i bicchieri di aranciata appena versata, «Io, io!», «Qui, anche per me», «Mamma, che sete, ci voleva proprio». Brindarono al termine dell’anno scolastico e si aggiornarono con gli ultimi pettegolezzi di corridoio.

Luca compì un passo stando appiccicato al muro dell’edificio, dopo essere appena sgusciato fuori dalla porta della succursale. Calpestò una delle pozze d’acqua dentro cui galleggiava ancora un pezzo di palloncino rosso. Tirò il piede all’indietro e tornò a curvare le spalle dietro lo spigolo della parete per tenersi coperto e sbirciare senza essere notato. Allungò solo la punta del naso fuori dall’ombra.

Fiutò l’odore di terra umida, di erba bagnata, delle magnolie in fiore, dello smog che si era addensato lungo la strada che passava davanti ai cancelli, e anche quello dolciastro di tutta la gassosa e le aranciate che gli studenti stavano stappando per festeggiare la fine delle lezioni.

Si guardò attorno per scandagliare la situazione che regnava nei dintorni, per capire se la zona fosse libera e sicura.

Magari è vero che il peggio è passato. Sarà pure servito a qualcosa aspettare in classe fino a quest’ora.

Il giardino era pacifico ma non deserto. C’erano ancora dei ragazzi, radunati o a coppie o in piccolo gruppi, a passeggio sotto gli alberi o accomodati sul prato, con le giacche calcate sotto il sedere. Erano tutti tranquilli. Quei pochi che prima si erano rincorsi ora si erano fermati ad abbeverarsi alla fontana.

Qualcuno aveva con sé la radiolina portatile, l’aveva sintonizzata su una stazione rock che trasmetteva canzoni che Luca non riconobbe. Le chiacchiere sparse degli studenti, sopratutto delle ragazze, si sovrapposero alla musica, trillanti e allegre come cinguettii. «… e per quest’anno alla fine abbiamo deciso di andare in montagna, dato che mia zia ci lascia la baita», «In montagna d’estate? Dio mio, che triste», «Secondo me invece è il massimo. Mi evito tutta l’afa, i mosconi, le zanzare», «Ma niente bagno al mare, e niente feste», «Non è che io di mio sia sempre stata una gran festaiola». Alcuni erano sdraiati in mezzo al prato, con le gambe distese fra le margheritine e l’erba falciata. Alcune delle ragazze coglievano mazzolini di fiori che poi intrecciavano ai capelli, spiluccavano dal pranzo offerto dai ragazzi. «Vuoi un pezzo?», «Ooh, grazie, amore», morsicarono gli stessi panini, «Mmm, questo prosciutto è favoloso», succhiarono dalle cannucce delle stesse bottigliette di Coca-Cola. Certi si lasciarono trascinare dalla musica della radio e si misero a ballare a piedi nudi. «Se Mariuccia non può far festa quest’estate allora gliela facciamo in anticipo qui», «Una festa come quella dell’anno scorso, magari, quella gigante che abbiamo organizzato giù da Pier», «Quella che è durata fino alle cinque di mattina?», «Alza la musica, alzala un po’». Le ragazze si unirono alle danze, tennero per mano i ragazzi, le gonne disegnarono ampie giravolte attorno alle loro gambe, sorrisi illuminarono i volti già abbronzati dal sole, e tutti respirarono a pieno petto quell’aria calda e profumata di una primavera che aveva già il sapore dell’estate.

Luca tenne l’occhio vigile su di loro, diffidente e distaccato, anche se non sembrava proprio che i ragazzi guardassero nella sua direzione. Nessuno si era accorto della sua presenza.

Strano però che siano ancora qui invece che essere già tornati a casa…

Probabilmente anche loro si erano trattenuti per sviare il fuoco incrociato della battaglia di gavettoni. Nessuno di loro aveva gli abiti o i capelli eccessivamente bagnati, infatti, tranne che per i vestiti già appesi ai rami. Forse avevano deciso di prendersela comoda in attesa che giungessero gli autobus del primo pomeriggio, quelli che conducevano in centro anziché alla stazione, o forse stavano semplicemente approfittando dell’ultimo giorno di scuola per godere fino in fondo della compagnia reciproca, prima dell’arrivo delle vacanze che li avrebbe tenuti distanti per tutta l’estate.

Poco male. Se la godessero tutta, quell’ultima giornata, ogni singolo minuto. Non era loro che Luca stava cercando.

Luca fece tamburellare le dita aggrappate al ruvido spigolo dell’edificio, spostò il peso da un piede all’altro sentendo le gambe bruciare di impazienza e il cuore soffocarlo a forza di battere sempre più rapidamente.

Andiamo, Giulia, andiamo.

Aguzzò di nuovo lo sguardo, scandagliò il panorama verde e azzurro del giardino, la cercò nei pressi dell’uscita della sua succursale, sotto le nuvole rosa cosparse dai rami delle magnolie.

Dove sei?

Una sfumatura rossa fiammeggiò fuori dall’entrata della sede femminile, catturò lo sguardo di Luca e preannunciò la comparsa di Giulia. Giulia trotterellò giù dalla scalinata di pietra, balzò giù dall’ultimo gradino, pettinò la manciata di riccioli che le erano finiti davanti agli occhi, e sventolò un ultimo saluto sorridente verso le compagne da cui si era appena separata.

«Buone vacanze!»

«Ciao, Giulietta! Buona estate anche a te!»

Luca provò un tiepido guizzo di sollievo che per quel breve istante gli fece dimenticare degli altri studenti, del pericolo dei gavettoni, e dell’odore ferroso e vicinissimo di acqua di fontana.

Giulia!

Quasi avesse intercettato l’eco di quel pensiero, Giulia girò lo sguardo, incrociò quello di Luca, e i suoi occhi nocciola brillarono, ormai catturati. Giulia slanciò di nuovo il braccio sopra la testa, compì un rimbalzo che fece oscillare gli sbuffi della gonna attorno alle ginocchia, poi però si guardò attorno, si sporse dal marciapiede, tornò indietro di un passo, lanciò un’ultima occhiata dietro di sé, verso la cima della scalinata, e chiamò Luca attirandolo con rapidi sventolii di mano. Lo sguardo teso d’ansia gli suggeriva: corri, corri, sbrigati, la via è libera.

Luca annuì. Non ebbe bisogno di farselo ripetere.

Travolto dall’urgenza di correre da lei e di sentirsi al sicuro, Luca agguantò la cartella che aveva appoggiato a terra, staccò una prima falcata, scrollò dalla suola la pellicola di gomma rossa che era tornato a calpestare nella pozza d’acqua, allungò il primo passo che lo condusse fuori dall’ombra dell’edificio, e si lasciò sommergere dalla violenta luce del pomeriggio, dal dolce profumo di polline e di erba falciata.

Immaginarsi il resto fu facile: Luca avrebbe attraversato il giardino in sole quattro, massimo cinque lunghe falcate di corsa, sfrecciando rapido come un delfino che fende le onde. Avrebbe preso Giulia per mano, si sarebbe lasciato condurre all’interno della sua succursale, ed entrambi si sarebbero portati al sicuro, al riparo dai gavettoni, dalle sberle d’acqua, dagli sguardi ostili e minacciosi che avrebbero potuto fargli del male. Nulla di più semplice.

Dalla radiolina portatile che i ragazzi tenevano sul prato, l’antenna a sbucare in mezzo alle bottiglie di gassosa e ai sacchetti di carta rigonfi di panini al prosciutto, giungeva il ritornello di una canzone che questa volta Luca riconobbe. Can’t buy me love dei Beatles. In seguito, le volte in cui Luca avrebbe ripensato a quel giorno, a quell’incidente, a quello spavento, nel suo orecchio sinistro si sarebbe prolungato ancora una volta il fischio sordo di quelle note, l’eco distorto di quella canzone che avrebbe per sempre provocato in lui un doloroso sussulto al cuore. Quello sarebbe rimasto il ricordo più vivido di quell’incidente. Un ricordo che lo avrebbe raggiunto con un brivido tutte le volte in cui avrebbe sentito passare la canzone alla radio, costringendolo a cambiare stazione o a spegnerla.

Luca era slanciato in avanti, verso Giulia, verso l’imbocco della stradina che attraversava il giardino, quando intercettò di sfuggita, solo con la coda dell’occhio, il lampo verde sfrecciato da dietro il muro della palestra, dov’era rimasto in agguanto per tutto quel tempo.

La macchia verde si allargò, volò come un bolide, gli fischiò dietro l’orecchio, riempì il suo campo visivo, e lo colpì in piena guancia. Fu una botta molle, fredda e umida, che si dilatò contro l’orecchio sinistro, otturandogli l’udito e offuscandogli la vista per quella frazione di secondo in cui lui aveva ancora la gamba sollevata, a metà fra il ciglio del marciapiede e la ghiaia della stradina.

Il gavettone esplose. Splash! E lo assordò, come se qualcuno gli avesse premuto la bocca sull’orecchio e avesse risucchiato lo stampo di un bacio appiccicoso e perforante.

Lo scoppio dell’acqua gli inondò la faccia, suscitò un gemito sommesso. «Ghn…» Gli invase le labbra, facendogli succhiare un sapore di ferro e di gomma, gli accecò l’occhio sinistro e gli schizzò i capelli. Fredde gocce rotolarono lungo la guancia, sollevarono uno strato frammentato di squame colorate, piovvero dall’arco dell’orecchio, dilatandone la cresta, e scivolarono lungo il gonfiore del collo, cadendo sotto il bavero sbottonato della camicia, fino alla sporgenza della clavicola.

Luca frenò il principio di corsa, mollò la cartella che cadde con un tonfo, e si aggrappò con entrambe le mani alla parte sinistra della faccia, torcendosi in avanti come se avesse ricevuto un cazzotto nello stomaco.

Da sotto le dita umide, sbatacchiò le palpebre che assorbirono l’acqua, si abituarono in fretta alla sua consistenza, e smisero di bruciare. L’occhio si tinse di giallo, l’iride di un bronzo acceso, e la pupilla si allungò a formare uno spicchio color inchiostro.

Luca riuscì a trarre il primo respiro, lo assorbì dalla narice umana e lo sfiatò da quella marina. Buttò fuori aria umida creando un suono lungo e raschiante che vibrò fino in fondo alla mandibola, fra le zanne aguzze che erano brillate in mezzo alle labbra contratte in quella sbieca smorfia di sgomento.

Si sfilò le mani dalla faccia, le aprì davanti a sé, e le trovò maculate di verde. Solo un accenno di pinna distesa a ventaglio fra le falangi della mano sinistra, quella più bagnata.

L’acqua gocciolò dalle ciocche dei capelli d’alga – plic, plic, plic –, piovve sulla cresta dell’orecchia, e la pinna fremette, compì un piccolo spasmo involontario che le servì ad asciugarsi da sola e allo stesso tempo a sbarazzarsi di un pezzo di palloncino verde che era rimasto incastrato.

Muovendosi, sbatacchiandosi come l’ala rotta di un uccellino, la sua pinna evocò una scintilla di luce che catturò gli sguardi di tutti i ragazzi radunati sul prato. Le loro chiacchiere s’interruppero di colpo, tranne che per un ragazzo che, al momento del botto, era di schiena e non aveva assistito all’esplosione del gavettone. «Che c’è?» Seguendo gli sguardi degli altri, le loro espressioni paralizzate dallo sconcerto, si girò verso la scena. «Si può sapere che avete…» E pure lui si ritrovò ammutolito. Gli occhi larghi e imbambolati su Luca che non si era ancora mosso di un passo.

E intanto la radio continuava la sua sua canzone – Can’t buy me love, Everybody tells me so, Can’t buy me love –, alternata al cinguettio di qualche passero, sovrapposta al rombo di un’auto che aveva attraversato la strada fuori da scuola, e disturbata dallo sbattere di un portone distante.

Il secondo respiro di Luca fu più faticoso e gorgogliante, risucchiato da una narice umana e dall’altra trasformata, per di più ancora invasa d’acqua. E lui ancora non fu in grado di schiodare i piedi da terra, di allontanarsi, di realizzare – Cos’è successo? Cosa… – o anche solo a mettere a fuoco la scena che lo circondava, tutti quegli sguardi fissi su di lui, come in attesa.

Luca ritrovò gli occhi di Giulia allo stesso modo in cui li aveva trovati quando lei era scesa dai gradini e lo aveva chiamato a sé. Giulia teneva ancora le mani protese in avanti, immobili, ma senza più alcun potere di attirarlo e di proteggerlo. I suoi occhi scuri si gonfiarono di panico, la sua faccia sbiancò, le mani ebbero uno spasmo e volarono a sovrapporsi davanti alla bocca, soffocando un ansito di terrore che Luca quasi non udì, a causa dell’eco sordo dello scoppio che ancora si stava propagando nel suo timpano.

Altra acqua colò lungo il viso di Luca, infossandosi lì dove le squame più spesse si raggrinzivano.

Scosso, Luca sollevò la mano destra, quella più asciutta, e si toccò la guancia bagnata. Percorse la consistenza molle e frastagliata delle squame che erano sorte sulla pelle, raggiunse le labbra, arrivò all’angolo della bocca, spinse le dita più sotto e tastò la punta aguzza delle zanne. Poi più su, oltre lo zigomo, superò la cresta dell’orecchia e affondò il tocco fra i capelli d’alga. Sobbalzò, gemendo per lo spavento.

Espose la mano alla luce del sole e la scoprì bagnata, sporca delle squame color acquamarina. La pelle tesa fra le dita proprio come la gomma liscia e trasparente del palloncino che gli era esploso in faccia.

Il panico fu una botta di gelo, un secondo scoppio d’acqua – Oh, no! – che gli offuscò la vista di nero.

Una ragazza bionda, una di quelle che si erano sfilate le scarpe e che fino a qualche istante prima ridevano e cantavano assieme alla radiolina, fece cadere la bottiglietta di Coca-Cola. Si coprì anche lei la bocca, come aveva fatto Giulia, e lanciò un urlo acuto, «Aah!», che spaccò il silenzio come se fosse esploso un gavettone fatto di vetro anziché di gomma.

Quel grido perforò il petto di Luca, gli stritolò il cuore, e spalancò in lui un vuoto di terrore, una spirale che lo risucchiò in un nero e freddo vortice di ricordi.

La ragazza aveva gridato. Grida. Grida di terrore. Grida di terrore rivolte contro di lui.

Nonostante il cielo privo di nubi, la luce del sole si offuscò, e i suoi raggi si raffreddarono. Soffiò un sibilo di vento gelido, le foglie degli alberi divennero grigie come cenere, e il giardino si pietrificò, piatto e irreale come uno scatto fotografico.

Sospinto da quel colpo al cuore, Luca si ritrovò catapultato a due estati prima, nella piazza di Portorosso, sotto la pioggia, proprio al termine della corsa così vicino al mare che avrebbe potuto dargli rifugio. I pescatori a circondare lui e Alberto, le cime acuminate degli arpioni puntate contro di loro, la pioggia grigia e dura a grondargli addosso, a bagnare le squame, a percorrere i loro spaventosi musi da Mostri Marini, e a rabbuiare le facce pregne d’odio degli uomini che li stavano minacciando con le reti spalancate e pronte a inghiottirli. Le madri spaventate tenevano i figli coperti e protetti fra le braccia. I bambini tremavano, si erano aggrappati alle gonne, e guardavano lui e Alberto con occhi terrorizzati, gli occhi di chi sta cercando di svegliarsi da un incubo.

Erano in trappola.

Ci fate molto disgusto e orrore, perché voi siete dei mostri.”

Dei mostri… perché era questa la natura di Luca. Lui era un mostro. Un mostro che non avrebbe dovuto trovarsi lì, in una scuola, a giocare al ragazzo umano. Non sarebbe mai dovuto uscire dal mare. Era quello il suo posto: ancorato allo scoglio in cui era nato, allo scoglio a cui sarebbe sempre appartenuto.

Rivivendo lo splash! molle e gommoso del palloncino che gli era esploso in faccia, di quella sberla fredda schiantatasi sulla sua guancia, Luca evocò l’immagine di un’onda che si gonfiava, che s’innalzava, e che si abbatteva su di lui. Quell’onda lo seppelliva sotto la sua massa d’acqua e lo risucchiava indietro, verso il fondo del mare, scaraventandolo sullo scoglio a cui apparteneva e dal quale non avrebbe mai dovuto separarsi.

Luca si coprì la faccia con entrambe le mani, torse le spalle in avanti per nascondere la metà deformata del suo viso e per rimpicciolirsi davanti alla pressione di quegli sguardi che ancora non lo mollavano. Scappò via. Scappò senza pensare, senza fermarsi nemmeno quando la voce di Giulia lo rincorse da lontano.

«Luca!»

Ma Luca non ascoltò e non si fermò. Corse senza sapere dove andare, sotto quale scoglio nascondersi, o quale corrente imboccare per farsi trascinare più lontano possibile.

Nemmeno il Sette e Mezzo guadagnato con l’ultima interrogazione di Matematica avrebbe potuto consolarlo dopo un simile disastro.

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Capitolo 17
*** 17 ***


17

 

 

Da quando era fuggito dal giardino, calpestando il ghiaieto bagnato, seminando impronte grigie lungo il marciapiede, e reggendosi la faccia gocciolante fra le mani, Luca non aveva mai smesso di correre, non si era fermato nemmeno per tirare fiato o per guardare in quale direzione stesse andando, tutto per paura di togliersi le dita dal viso e far risplendere le squame alla luce del Sole. Non si fermò nemmeno dopo aver valicato l’ingresso della sua succursale, dopo aver imboccato il lungo corridoio deserto del piano terra, e dopo aver mirato alle porte dei bagni che venivano subito dopo le file di aule.

Luca boccheggiò da sotto le mani ancora premute sul lato della faccia che continuava a bruciare per il freddo impatto con l’esplosione del gavettone. Compì una curva del corridoio, sdrucciolò sul pavimento umido di detersivo, dato che il bidello aveva appena passato lo scopettone, e cadde picchiando una mano e un ginocchio sulle piastrelle. Ansimò a denti stretti, ma non badò al dolore. Slanciò una spinta sulle gambe, fece attrito con le suole che strusciarono singhiozzando, e sfrecciò divorando l’ultimo tratto del corridoio.

Superò le porte spalancate delle aule vuote, attraversò l’odore di strada e di giardino proveniente dalle finestre aperte, quello del sapone spruzzato sul legno di formica, quello della varechina al limone con cui avevano già lucidato il linoleum, e con la coda dell’occhio scorse la figura del bidello che attingeva dal secchio per lavare via le formule chimiche dalla lavagna del laboratorio di Scienze.

«Ehi!» Quell’esclamazione di protesta lo inseguì assieme a uno sventolio dello straccio umido di schiuma. «Ho appena pulito, qui!»

Ma Luca non lo ascoltò.

Spinse con più forza sulle gambe che cominciavano a bruciare assieme al petto. Affannò le ultime falcate di corsa, raggiunse la porta del bagno dei maschi, vi spinse la spalla contro, si tuffò in quell’ambiente bianco e azzurrino che odorava di detergente, sorpassò la fila di lavelli, spalancò la porta di uno degli stalli, e si chiuse dentro a chiave.

Clack!

Le sue gambe vacillarono, deboli. Luca indietreggiò di un solo passo e si accasciò seduto sulla tavoletta abbassata del gabinetto. Ingollò la prima lunga boccata di fiato dopo l’agonia di quella corsa disperata. Strinse i pugni umidicci. Le nocche sbiancarono e le unghie graffiarono la stoffa dei pantaloni.

Batté i denti, tremò da capo a piedi, impastò la lingua secca sul palato sentendo la bocca ancora invasa dal saporaccio di ferro e di gomma. Tenne le labbra socchiuse per far passare più aria, affanno dopo affanno, e strizzò le ciglia da cui rotolò qualche rivolo di acqua e sudore.

Attraverso il buio delle palpebre serrate, il mondo gli girò attorno come una trottola. La guancia sinistra pizzicava. L’orecchio continuò a fischiare, e quel suono assordante si prolungò come un lungo spillo piantato nel cranio, da tempia a tempia.

Inspira, espira.

Le vertigini si acquietarono, ma non le boccate di fiato che proseguirono ancora rapide e dolorose come una serie di pugni sullo sterno. L’affanno gli grattò la gola, gli squassò il petto rigonfio, scese ad annodargli lo stomaco in un groviglio di nausea che rese la sua faccia bianca come le pareti da cui era circondato.

Luca riuscì a staccare un pugno dalla stoffa dei pantaloni, aprì gli occhi e schiuse le dita davanti a sé. La mano era pallida e tremava, ma almeno era asciutta.

Affondò le dita fra i capelli. Al tatto erano ancora un po’ umidi. Frizionò qualche ciocca, tastò la morbidezza dei riccioli alternata a qualche sbavatura di mollicce alghe marine.

Scosso da uno spasmo di angoscia, Luca guaì. Staccò la mano dai capelli e prese a strofinarsi la faccia, affondò le unghie, scavò nella pelle e scorticò la consistenza molle e frastagliata delle squame da pesce.

Sparite, sparite, sparite, sparite.

E ancora non era abbastanza.

Attaccato alla parete dello stallo c’era il distributore della carta igienica. Luca srotolò un lungo lembo che gli cadde sulle ginocchia. Raggrumò la carta formando una palla grossa quanto un suo pugno, si frizionò la bocca, il naso, la guancia, la fronte, e insistette nell’orecchio, attorno al padiglione circondato dai riccioli castani. Lì dove ancora fischiava l’eco del gavettone esploso, lo splash! dell’acqua che gli aveva perforato il timpano, la melodia distorta della canzone dei Beatles, e lo strillo della ragazza che si era portata le mani alla bocca mentre i suoi occhi si riempivano di panico davanti all’apparizione del Mostro Marino.

Luca strappò dell’altra carta igienica e la aggiunse alla palla diventata umida e malleabile, spappolata fra i tremori delle sue dita. Continuò a strofinarsi, a insistere sugli stessi punti della guancia, sotto il lobo dell’orecchio tornato umano, e alla radice dei capelli, dove l’acqua faceva più fatica ad asciugarsi.

Inspirò altra aria dal naso. Fece uno sforzo e la trattenne più a lungo, fino a che i polmoni non minacciarono di scoppiare. La buttò fuori fino in fondo, fino a prosciugarsi. Cadenzò il fiato, rallentò i battiti del cuore, frenò il senso di vertigini che cominciava a trottolargli attorno con meno insistenza.

Va tutto bene.

Si strofinò ancora, anche se ormai il pugno di carta igienica andava a frizionare solo sulla sua pelle di ragazzo umano.

Va tutto bene, tutto bene. Non è successo niente, niente, assolutamente niente. Non mi hanno visto, non mi hanno scoperto, nessuno ha capito quello che è successo, nessuno mi sta inseguendo, nessuno ora vuole uccidermi, nessuno vuole braccarmi e arpionarmi. Non mi succederà niente, è stato solo un incidente. Solo un incidente. Sì, un incidente, nient’altro. Non possono averlo capito, sono al sicuro. Al sicuro.

Soffiò e rabbrividì, mentre quel pensiero sfumava dalla sua mente, suonando così irreale e distante.

Al sicuro…

Ma Luca non si sentì al sicuro. Per niente.

Smise di strofinarsi il viso. La mano irrigidì e lasciò cadere il pezzo di carta appallottolata che rimbalzò fra i suoi piedi e che giacque sul pavimento tirato a lucido senza emettere il minimo rumore. Una caduta tragica e silenziosa come la bruciante coltellata di tristezza e disperazione che gli era affondata nel petto, lacerandogli il cuore.

Luca sollevò i piedi poggiandoli sull’orlo del gabinetto, abbracciò le gambe piegate, si rannicchiò premendo la schiena al cassonetto dello scarico, e spinse la faccia fra le ginocchia. Strizzò la stoffa dei pantaloni fra le dita. Soffocò il singhiozzo di un lamento che lo raggiunse con un crampo di dolore allo stomaco, facendolo rabbrividire e facendolo sentire piccolo e indifeso. Uno scricciolo impaurito che non può contare su nulla se non sulla protezione delle sue stesse fragili mani, su quell’abbraccio solitario in cui Luca avrebbe tanto desiderato annegare pur di non dover affrontare la voragine di paura che lo avrebbe aspettato quando sarebbe stata ora di sollevare la faccia, di riaprire gli occhi, di rimettersi in piedi e di camminare fuori dal bagno, andando incontro alle fauci di un mondo che gli aveva appena ringhiato addosso.

Luca sollevò di poco il capo, solo per strofinarsi una nocca all’angolo degli occhi, anche se non aveva versato alcuna lacrima. La nostalgia provata era comunque lacerante. Sorse come una marea e lo risucchiò al sicuro, in un fondale tiepido e quieto, nel conforto di un luogo non troppo lontano, nel calore di un legame che gli era sempre vicino.

Strinse più forte la presa attorno alle gambe, tornò ad affondare il viso fra le ginocchia, chiuse gli occhi e respirò più lentamente, boccata dopo boccata.

Arricciato nella sua nicchia di dolore, s’immaginò avvolto dalle braccia di sua mamma, al sicuro, protetto. Il suo profumo di mare a circondarlo, le sue carezze fra i capelli, i suoi sussurri di conforto a sfiorargli la guancia. Ma s’immaginò anche aggrappato al braccio di Alberto, nascosto dietro il suo fianco, appeso a quella mano a cui sapeva di potersi affidare nei momenti in cui si sentiva perduto.

Eppure era esistito un tempo in cui anche Luca era riuscito a dimostrarsi più forte, a cacciare fuori un coraggio che non credeva nemmeno di possedere. Un tempo in cui era riuscito a tenere il viso alto persino davanti all’arroganza di Ercole, a non arretrare nemmeno davanti alle minacce dei pescatori di Portorosso, e a proteggere Giulia e Alberto nonostante la paura.

Era successo tanto tempo prima, in una realtà che non sapeva più come ricreare. Era successo a un Luca che stava lentamente smettendo di esistere. O che semplicemente non poteva esistere senza Alberto al suo fianco.

Forse è vero che non posso sperare di farcela da solo, di cavarmela senza Alberto.

Luca fece scivolare una guancia sul ginocchio, guardò fisso il vuoto davanti a sé, il bianco lucido delle piastrelle e quello opaco della parete dello stallo. Aveva la vista appannata. Si strofinò gli occhi.

Forse è vero che io non appartengo al mondo degli umani.

Fu un pensiero crudele. Ma un pensiero ancor più doloroso gli trafisse il petto, cadde come un arpione sprofondato nel cuore.

Forse è vero che non sarei mai dovuto…

Un familiare ruzzolio di passi in corsa raggiunse la soglia del bagno, una strusciata di suole stridette sulle piastrelle lucidate, un poderoso colpo batté sulla porta dello stallo. «Luca!» Fra le pareti del bagno deserto risuonò una voce ansiosa e affannata che Luca non tardò a riconoscere. «Luca, sei qui?» esclamò Giulia. «Rispondi, ti prego, dimmi che sei qui, dimmi che stai bene!»

Luca boccheggiò. «G…» Irrigidì le braccia attorno alle gambe avvinghiate al petto. «Giu…» Scosse il capo, destandosi, e si diede un’altra strofinata alla guancia arrossata da tutta la carta igienica che ci aveva grattugiato sopra. Fece scivolare un piede giù dalla tavoletta. Si accostò alla porta guidato da un battito che, dopo aver udito la voce di Giulia, aveva smesso di far male, di tremare di paura. «Giulia?»

Un soffio di sollievo attraversò la barriera della porta. «Sono io.» Le suole di Giulia scricchiolarono sul pavimento. La sua presa fece pressione sulla maniglia dello stallo, la agitò su e giù, scosse la porta avanti e indietro senza riuscire ad aprirla. «Luca, apri la porta, fammi entrare. Sei ferito?»

«N-no.» Luca si strusciò la mano sotto il naso e tirò su un respiro. Si piegò a raccogliere la palla di carta igienica e la gettò nel cestino. Affondò altri graffi, uno dopo l’altro, attraverso la guancia sinistra, asciutta ma bollente. Non gli importava nemmeno di farsi del male. Voleva solo che quel disagio finisse. Non si è visto nulla, non si è visto nulla, non si è visto nulla, nemmeno Giulia ha visto niente. «Sto bene» mentì. «Non è successo niente, sto bene.»

«Allora apri la porta.»

«No.» Luca tornò a schiacciare le ginocchia al petto, a spingere entrambi i piedi contro l’orlo del gabinetto, e a spremere la schiena contro il cassonetto dello scarico. Vi s’incollò come una cozza s’incolla al suo scoglio. «Non voglio.»

Giulia sospirò, ma non era più così allarmata. «Luca, sei al sicuro, ci sono solo io qua fuori, te lo giuro.»

Luca ansimò. «Allora…» Fece di nuovo fatica a cadenzare il fiato, a non sentirsi soffocato dalla sua stessa voce mozzata dalla tensione. «Allora aspettami giù.»

«Io non scendo se non ci sei anche tu con me.»

«Non serve.» Luca deglutì, senza riuscire a disfarsi del saporaccio di ferro e terrore. Si grattò il dorso della mano fin sotto il polsino della giacca. «Ti ho detto che sto bene.»

«Allora aprimi» insistette Giulia, «così ce ne andiamo assieme.»

Luca scosse il capo e strizzò gli occhi. Il suo cuore galoppò, terrorizzato dall’idea di esporsi, di uscire e di ritrovarsi inchiodato da miriadi di occhi puntati contro di lui. Occhi in grado di scavare sotto la sua pelle e di stanare il suo segreto. «Non voglio uscire.»

«Luca…» Dopo quel sospiro, da parte di Giulia giunse un silenzio più prolungato. Dal corridoio, una porta si aprì e si chiuse. Seguì il rumore di passi ben cadenzati, passi da adulto, accompagnati dal cigolio delle ruote del carrello che veniva trascinato lungo le piastrelle. I passi si allontanarono, sfumarono in un eco e svanirono. Giulia tornò alla carica. «Luca, ti prego, apri la porta» lo supplicò. «Siamo nel bagno dei maschi, io non dovrei nemmeno essere qui, rischio solo che mi sbattano fuori a calci.»

«B-be’, allora…» La pancia di Luca si torse in un groviglio di vergogna e di sensi di colpa. Quella confusione sciamò fino alla testa, annebbiandogli la mente. «Allora va’ via, ti ho detto.» Si girò sul fianco, si schiacciò ancora una volta contro il cassonetto dello scarico, quasi desiderando di sprofondarvi dentro e scomparire come un pesciolino rosso gettato nelle fogne. «Lasciami da solo.»

Giulia grugnì un ringhio di impazienza. «Luca!» Picchiò un pugno sulla porta. Lo stallo tremò e Luca trasalì per lo spavento. «Luca, fammi entrare, non te lo ripeto più. Guarda che la cosa di sfondare la porta del bagno dei maschi vale anche per te, non solo per gli altri.»

Luca mandò giù un amaro e stopposo groppo di fiato e saliva.

Gli bastò un battito di palpebre per immaginarsi la scena: Giulia che scaraventava un calcio sulla serratura del bagno, la maniglia che saltava in aria, sbriciolandosi, e la porta che crollava con un tonfo. La sagoma di Giulia si materializzava sulla soglia. Vive fiamme di rabbia le bruciavano attorno e le scuotevano i riccioli sulle spalle. I pugni serrati ai fianchi, gli occhi lividi di rabbia, e le pareti che le si sgretolavano attorno, incapaci di sostenere la poderosa aura della sua forza ereditata da Massimo.

Luca considerò che sfidare la sua pazienza sarebbe stata una pessima idea.

Sospirò e seppe di non avere alcuna alternativa, se non quella di arrendersi. «Va…» Per raggiungere la porta, gli bastò distendere le gambe intorpidite, posare i piedi a terra, e darsi un piccolo slancio di spalle. «Va bene.» Agguantò la maniglia, pinzò il meccanismo di chiusura fra due dita. «Ora apro.» Lo fece scattare – clack! «Ma guarda che non serve che tu…»

Giulia travolse la porta, si fiondò nel gabinetto, lasciò cadere entrambe le cartelle – tunf! – e inghiottì Luca nel suo abbraccio.

Entrambi scivolarono all’indietro, e Luca tornò a cadere sulla tavoletta abbassata. Giulia strinse forte la presa su di lui, rimanendogli rovesciata addosso. Le mani aggrappate alla sua giacca, il viso schiacciato sulla sua spalla, i riccioli a invadergli la guancia, e il suo respiro tiepido a vibrargli affianco all’orecchio.

Ci fu un altro tunf! La porta dello stallo sbatté sulla parete, tornò indietro con un cigolio, e rimase socchiusa, immobile.

Anche Giulia e Luca rimasero immobili, avvinghiati in quell’abbraccio avido e un po’ opprimente in cui però Luca riuscì a sentirsi bene. Le braccia di Giulia erano decisamente più accoglienti rispetto al cassonetto dello scarico.

Luca chiuse gli occhi, abbandonandosi finalmente al soffice senso di sicurezza di cui aveva bisogno. Strinse la giacca di Giulia, inspirò il profumo di mandorle dei suoi capelli, si lasciò solleticare dai riccioli rossi che gli erano finiti fra le labbra e sul naso.

Giulia fu scossa da un brivido. Le sue braccia strinsero la presa, fino a strappargli il fiato dalle costole. La fronte spinse fra la spalla e l’incavo del collo, il suo respiro sommesso gli vibrò contro il petto. «Stai bene.» Gli strofinò una carezza fra le scapole, lungo la curva della schiena. «Stai bene.» Le labbra disegnarono un piccolo sorriso a sfioro della guancia di Luca. «Bene.»

Luca buttò fuori il fiato. Si sforzò di consolarla. «S-sì.» Le posò una mano sulla spalla e gliela strofinò. «Sto bene.»

Giulia sospirò, rinvigorita dal sollievo, e finalmente si scollò da lui. «Ti ho portato la cartella.» Gliela mostrò. Giacevano entrambe sul pavimento, la sua e quella di Luca, davanti alla porticina rimasta socchiusa. «Ti era caduta.»

Luca rise, liberandosi dal groppo d’ansia, e allo stesso tempo si sorprese di come Giulia fosse rimasta lucida e previdente anche in una situazione simile, durante una tale emergenza. Cosa non avrebbe fatto senza di lei…

Giulia gli avvolse le guance, ma con delicatezza, senza spremergliele come faceva di solito, e gli fece sollevare lo sguardo. Gli scostò una ciocca di capelli dalla fronte. «Non ti sei fatto male, vero?» Gli fece voltare il viso prima da una parte e poi dall’altra. «Dove ti hanno colpito? Solo sulla guancia?»

Luca ansimò. «Oh.» Colpito. Quel pensiero lo attraversò con sgomento, gelandogli lo stomaco, quasi se ne fosse appena ricordato. Mi hanno colpito, è vero. È per questo che sono scappato. Il palloncino, l’acqua. La mia faccia. «Io…» Luca strizzò gli occhi, si allontanò dal ricordo prima che le immagini gli lampeggiassero di nuovo in testa. Si affidò al tocco fermo ma prudente di Giulia, alla sensazione della sua pelle tiepida, al palpito che percepiva attraverso le sue dita. «Sì…» Inspirò, espirò. Riaprì gli occhi sul bianco del bagno. «Sì, solo lì.»

«Ma che hai fatto al viso?» Giulia glielo tornò a girare sul lato sinistro. «Queste sono…» Sfiorò il rossore dei graffi. Luca gemette a denti stretti. «Sì che sei ferito.» La voce di Giulia tornò tesa, in allarme. «Guarda qui che…»

«No.» Luca sovrappose le mani a quella di Giulia, si affrettò a coprirsi la guancia. «Questi…» Si girò verso il muro e di nuovo si rannicchiò, rimpicciolendosi. Abbassò lo sguardo, provò una vergogna gelida e viscida. Non poté credere a quello che stava per dire. «Questi li ho fatti io.»

Giulia compì uno scatto indietro, incredula e frastornata. I suoi occhi si colmarono di un riflesso liquido, addolorati. Raggiunsero la soglia delle lacrime. «Oh, Luca…»

Luca scosse di nuovo il capo, e questa volta si strofinò senza usare le unghie, solo con il dorso della mano, con la speranza di far sbiadire il rossore dalla pelle e di cancellare così quell’espressione afflitta dal viso di Giulia. «Non è nulla, credimi.»

Giulia lo abbracciò di nuovo. Posò un bacio piccolo, morbido e tiepido, lì dove la guancia era ferita dai graffi, come si fa con i bambini per cancellare il dolore. «Va tutto bene» gli sussurrò. «Tutto bene. È passato.» Le sue carezze gli raggiunsero la nuca, le punte delle dita attraversarono i capelli. «Toh.» Giulia singhiozzò una risata ancora un po’ tesa, esibì il lembo di gomma verde pescato da dietro l’orecchio di Luca. «Guarda qui, hai ancora un pezzo di palloncino.» Lo gettò nel cestino. Dopo una spolverata alle mani, Giulia tornò scura in volto, una smorfia rabbiosa le vibrò fra i denti. «Che razza di stupidi sconsiderati.» Un’aura elettrica le bruciò tutt’attorno. Le guance s’infiammarono e la fronte contratta gettò ombra sugli occhi. «Ma dico, ti sembra normale? Tirare gavettoni di sorpresa in piena faccia! E se ti fosse esploso negli occhi? Poteva anche accecarti!» E infatti tornò a controllarlo, a sfiorargli la palpebra sinistra e a esporgli l’occhio alla luce. «Non ti hanno mica accecato, vero? Fa’ vedere bene l’occhio.»

«Ci vedo bene.» Era il fischio nell’orecchio a preoccuparlo. «Sta’ tranquilla.»

«Ma io non ci vedo dalla rabbia.» Giulia strizzò i pugni e scagliò un’occhiataccia di fuoco fuori dal bagno. «Quanto vorrei prenderli a calci. Anzi, sai che ti dico? Che ora vado fuori e gliele suono di santa ragione.» Si rimboccò le maniche della giacca blu che teneva sbottonata per il gran caldo. «Gliela do io la lezione che si meritano.» Scagliò una pedata sull’anta, spalancandola davanti a sé, e affondò un pesante falcata fuori dallo stallo. «Così vedremo se avranno ancora tutta questa voglia di fare gli idioti e di mettersi a tirare bombe d’acqua come se…»

«No!» Luca le acchiappò la mano e la fermò in tempo. In lui sorse la stessa tremante frenesia che lo aveva rincorso durante la fuga in corridoio, guidato solo dal desiderio di nascondersi e di rendersi invisibile. «No, ti prego, ti scongiuro, lascia perdere, non complichiamo le cose. In fondo è solo acqua.»

Lo guardo di Giulia tornò ad ammorbidirsi, riguadagnò un po’ della sua luce. «Ma non per te.» Rinunciò al pestaggio. Chiuse la porta accostandola, senza far scattare la serratura della chiave. Si chinò su Luca, lo sostenne con una mano sulla spalla. «Per te non è solo acqua, Luca.»

Luca emise un sospiro grave davanti a quella verità. Certo che lo sapeva. Sapeva che per lui non era solo acqua. Come sapeva anche che la colpa di quel guaio era sua. Per questo non riusciva ancora a trovare il coraggio di uscire dal bagno. Si sentiva troppo responsabile. Uscire, calpestare il marciapiede bagnato, respirare l’odore di acqua di fontana, e affrontare gli sguardi inorriditi degli altri studenti avrebbe significato fronteggiare le sue colpe, e Luca era troppo codardo da sentirsi in grado di farlo. «Hanno scoperto tutto?» Si strofinò il naso. Gli occhi bassi e grigi di vergogna. «Mi hanno visto, vero? Hanno visto…» Si sfiorò la guancia sinistra arrossata dai graffi. Sotto le dita, la sensazione calda e liscia della pelle da ragazzo, ma il ricordo delle squame frastagliate gli trasmise un brivido raggelante che lo fece sbiancare. «Hanno visto la mia faccia?» Hanno visto il Mostro Marino.

Giulia scosse la testa. Fu più ottimista. «Secondo me no. Non possono aver fatto in tempo a realizzare. È successo tutto troppo in fretta.»

«Ma ho sentito una ragazza urlare.» Urlare. E l’eco di quell’urlo ondeggiava ancora nell’orecchio di Luca, assieme al fischio dell’esplosione. Una ragazza ha urlato, perché è così che si reagisce davanti ai mostri. Si urla.

«Le ragazze urlano di continuo.» Giulia si appoggiò di schiena alla porta. Un piede accavallato all’altro, e le mani affondate nelle tasche della giacca. «Urlano quando prendono un bel voto, quando passa alla radio la loro canzone preferita, quando vengono salutate dal ragazzo più carino della classe. Una volta l’ho visto succedere, giuro, quando quel Leonardo Livoli della Terza C si è tolto la camicia nel cortile, davanti a mezza scuola, e c’erano le ragazze che ancora po’ si sarebbero buttate giù dalla finestra pur di vederlo meglio. Ecco…» Rise e gli diede una pacca sulla spalla. «Magari quella ragazza ha gridato solo perché ti ha trovato super-carino.»

Luca corrugò la fronte. Proprio non riuscì a rallegrarsi all’idea. «Non è il caso di scherzarci.»

Giulia ammosciò il sorriso. «Scusa.» Si strinse nelle spalle, ferita. «Stavo solo cercando di…»

«No.» Luca scosse la testa, si strofinò i capelli. «No, scusami tu. Io…» Avrebbe voluto mordersi la lingua. «Io avrei dovuto darti retta. Avrei dovuto rivelare subito il mio segreto invece che… cacciarmi in questo guaio.» Lo colpì un’altra fredda botta di demoralizzazione. Luca tornò a stringere una gamba contro il petto e a premere la fronte sul ginocchio, a farsi piccolo. «Mi dispiace, Giulia.» Eppure pensavo sul serio che sarei stato in grado di farcela. «È tutta colpa mia.» Credevo davvero di riuscire a condurre una vita da ragazzo normale.

«Va tutto bene.» Giulia gli fece scivolare le braccia attorno alle spalle e tornò a stringerlo. Il corpo di Luca era ancora rigido contro il suo. Gli strofinò la schiena per aiutarlo ad acquietarsi. «È stato proprio un brutto spavento, vero? Ma è tutto okay, te lo prometto.» Una piccola pacca di incoraggiamento fra le scapole. «Ci sono io che ti proteggo, no?»

Luca annuì, sorrise di rimando. C’è Giulia che mi protegge, sì. Eppure, l’estate precedente si era ripromesso che si sarebbe dimostrato abbastanza forte da cambiare le cose.

«Ascolta…» Giulia sciolse l’abbraccio e gli indicò la porta chiusa. «Nel tempo che ho impiegato per recuperare la cartella, attraversare il giardino e raggiungerti, non ho sentito nessuno gridare Mostro Marino!, oppure Inseguite il mostro!, o Tirate fuori gli arpioni!»

Luca si sentì mancare all’idea. «O…» Venne di nuovo spontaneo immaginarsi le schiere di studenti piazzati fuori dall’edificio per tendergli l’agguato con reti e arpioni. «Okay, credo di…»

«Quindi secondo me nessuno di loro può aver realizzato quello che è successo. E anche i ragazzi che erano lì e che ti hanno intravisto…» Giulia fece mulinare una mano per aria. «Magari crederanno che si sia trattata di una sorta di allucinazione collettiva, o di un riflesso del sole, o di un qualche effetto strano creato dall’acqua che ti ha colpito. Ecco.» Picchiò il pugno sul palmo. I suoi occhi riacquistarono la solita vivacità. «Ci sono, che idea! Potremmo far circolare la voce che si è trattato solo di un grosso abbaglio, di una deformazione creata dalla gomma del gavettone.»

«Cosa?» Effettivamente non è una cattiva idea. Ma in pratica sarebbe fattibile? «Ma sei sicura?»

Giulia annuì. «Lascia fare a me.» Si tambureggiò il pugno sul petto. «Farò girare la voce giusta ed entro il prossimo anno nessuno si ricorderà più nulla di quello che è successo.»

Luca inarcò un sopracciglio, ancora perplesso. «Sicura?»

Ma Giulia era già convintissima e trionfante come le volte in cui risolveva un complicato problema di Geometria. «Garantito.»

Luca soffiò un lungo sospiro, si affidò alla speranza di riuscire a crederci, che potesse funzionare. Credeva in Giulia, ma nemmeno la fiducia nei suoi confronti riuscì a cancellare una simile paura. «Lo sai, è strano…» Si massaggiò la nuca, sentendosi abbastanza stabile da riappoggiare entrambi i piedi sul pavimento. «Credevo che problemi del genere ce li fossimo lasciati indietro a Portorosso, a due anni fa.» Uno sbuffo fece sorgere l’amarezza di un sorriso. «E credevo che sarebbe bastato un Ercole solo a complicarci la vita.»

Giulia scosse il capo facendo dondolare i riccioli sulle spalle. «Purtroppo di Ercole ne è pieno il mondo.» Sorrise, ma anche lei non nascose una certa rassegnazione dietro quella considerazione. «Ce li dobbiamo sopportare sia a Portorosso sia a Genova, temo.»

«Anche questa è un’altra di quelle cose che avrei dovuto prevedere.»

«Ma mica dovrai sempre affrontare da solo tutte queste difficoltà» lo consolò Giulia. «Perché nel mondo potranno anche esserci milioni di Ercole, ma finché noi tre ci sosterremo a vicenda, niente e nessuno potrà mai farci del male.»

«Già.» Ma io un giorno sarò in grado di proteggere Alberto e Giulia come loro fanno di continuo con me? Luca ebbe i suoi dubbi. Dubbi più che fondati. Sarò mai degno di questa amicizia? E il pensiero di dover rinunciare a entrambi, di perdere Giulia e Alberto per colpa della sua codardia, era una paura ancor più terrificante di mille gavettoni.

«Ti è un po’ passato lo spavento?» gli domandò Giulia. «O hai ancora paura di uscire?»

«N-no» rispose Luca. «No, ora…» Strinse i pugni sulle ginocchia e raddrizzò la schiena. «Ora mi sono un po’ calmato.» Respirò con maggior libertà, e questa volta non fece fatica a essere sincero. «Sto meglio.» Si sporse, ma dietro di Giulia la porta era chiusa, e lui non riuscì a distinguere e a separare i radi rumori che provenivano dal corridoio ormai deserto. «Ma i ragazzi sono ancora…» Si morsicò il labbro.

Giulia comprese al volo. «Prendiamo la strada che ti ho detto prima, quella della mia succursale.» Raccolse le cartelle dal pavimento, aprì uno spiraglio della porta, e porse la mano a Luca. «Tu rimani vicino a me e vedrai che non ti noteranno nemmeno.»

Luca accettò la presa. Vi si aggrappò forte. «Non ti hanno seguita fin qui, vero?»

«La via è libera.» Tenendosi stretti per mano, entrambi uscirono dai bagni e si immisero nel corridoio irradiato dal sole, profumato dall’aria primaverile, e lucidato dalla varechina per pavimenti.

Nonostante fosse ancora intimorito, Luca riuscì a farsi coraggio, a camminare senza nemmeno guardarsi troppo attorno, e a ricordarsi di continuare a respirare anche dopo aver udito passi distanti, qualche porta sbattuta, o un vago brusio di voci proveniente dall’aula magna. Era dura restare integri quando ci si sentiva così spogli. Fu una chiara immagine ad apparirgli in testa: un piccolo paguro privato della sua conchiglia che è costretto ad avventurarsi sul fondo del mare senza alcun rifugio dentro cui ripararsi, circondato da vaste e scure foreste di alghe e braccato dalle ombre di pesci infinitamente più grandi di lui.

Giulia tornò a ridere. Fece dondolare la mano intrecciata a quella di Luca. «Ehi, lo sai cosa sarebbe un vero spasso?»

Luca distolse lo sguardo dalle aule vuote. «Che cosa?»

Giulia indicò fuori da una delle finestre aperte. Le sfumature degli alberi del vialetto splendevano verdi e rigogliose, mescolandosi alle scaglie perfettamente azzurre del cielo di primo pomeriggio. «Se ora si mettesse pure a piovere.»

Luca lasciò ciondolare il capo in avanti, ma comunque rise assieme a lei. «Sono sempre più convinto che oggi potrebbe succedere proprio di tutto.»

«Ehi, ma siete stati tu e Alberto a decidere di emergere proprio in una regione dal clima capriccioso come la Liguria.»

«Vorrà dire che la prossima volta che organizzeremo una fuga ce ne andremo in Sicilia o a Napoli. O in Puglia.»

«Andare in Puglia senza di me?» Giulia si posò la mano sul petto, offesa. «Traditori. Dovete portarmi assieme a voi, sennò non vale.»

«Magari portandoti a nuoto sulle nostre schiene?»

«E senza pagare il pedaggio.»

Si addolcirono la bocca con una risata priva di pensieri, riuscendo finalmente a rallegrarsi. Uscirono da scuola con le cartelle sottobraccio, le mani ancora unite, la paura passata, e solo tanta voglia di fare le valige, di prendere il treno, di partire per Portorosso, e di godersi l’estate che si meritavano, dimenticandosi dei loro guai fino a quando l’autunno non li avrebbe nuovamente separati.

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Capitolo 18
*** 18 ***


18

 

 

Alberto affondò la forchetta negli spaghetti allo scoglio, ne arrotolò una generosa porzione, tirando su cozze, vongole e gamberetti, e si ficcò il boccone fra le fauci, masticando con rabbia e voracità. Piegò il gomito sul tavolo, spinse il pugno contro la guancia rigonfia, masticò ancora, e rivolse quello sguardo nero di malumore all’Ape parcheggiata nel giardino di casa, sotto i filari delle vigne non ancora mature, quelle che crescevano affianco al capanno degli attrezzi dove lui e Massimo tenevano la bici e il carretto. La bici su cui, nonostante i futuristici sogni e le gloriose speranze, Alberto avrebbe dovuto continuare a pedalare ancora per qualche tempo.

Alberto inghiottì il boccone e soffocò un digrigno, percorso da un brivido di rabbia che ormai da mesi non gli riusciva di far sbollire. «Stupide regole.» Tornò ad affondare la forchetta negli spaghetti, li arrotolò facendo stridere il piatto. «In barba al codice della strada e in barba a quelli che hanno deciso che devo avere diciotto anni per guidare un’auto.» Divorò il boccone, sperando in una consolazione, ma nemmeno il delizioso sughetto di frutti di mare riuscì a riportare un po’ di dolcezza nella sua bocca inacidita. «L’Ape non è nemmeno un’auto, poi, dai» continuò a lagnarsi. «Ancora un po’ ed è più piccola di una Vespa.»

Giulia, le punte della sua forchetta strette fra le labbra, flesse il capo di lato, si sporse dal tavolo raggrinzendo le pieghe della tovaglia sotto il braccio, e squadrò anche lei l’Ape color verde bottiglia da una diversa prospettiva. «Però ha un aspetto decisamente migliore della tua vecchia Vespa.» Si sfilò la forchetta dalla bocca e la puntò su Alberto. Gli rivolse un’occhiata incredula ma meravigliata. «Ma sul serio l’hai aggiustata e tirata a lucido tutta tu? Proprio tutto da solo?»

Alberto fece cadere la maschera di malumore. Spinse il petto all’infuori, premette il manico della forchetta sullo sterno, e allargò un sorriso smagliante di orgoglio. «Tutto da solo.»

Massimo, dopo aver sorseggiato dal bicchiere di vino bianco versatogli da Lorenzo, corrugò un sopracciglio cisposo e scoccò ad Alberto un’occhiata obliqua ma abbastanza eloquente.

Alberto si sgonfiò come un pesce-palla che ritira gli aculei. Corresse il tiro ma non rinunciò a quel vago sorrisetto di consolazione. «Okay, okay…» Alzò i palmi. «Un po’ mi ha aiutato il meccanico. Ma sul lato pratico ho fatto davvero tutto-tutto io, usando solo le mie belle e abili manine.» E sventolò le dita incerottate e indurite dai calli che lui amava esibire come medaglie di guerra.

Luca si sporse a osservarle, stando attento a non tirare giù la tovaglia e a non urtare col gomito la cesta del pane. Sgranò gli occhi luccicanti, affascinato, dimenticandosi persino degli spaghetti che ancora gocciolavano dalla sua forchetta. «Dev’essere stato faticosissimo.»

«Ah!» esclamò Alberto, fingendo tono indignato. «Nemmeno un po’.» Gli giunse un’altra occhiata di Massimo. «D’accordo, d’accordo» si corresse di nuovo Alberto. «Solo un pochettino. Ma ormai ho capito praticamente tutto di come funzionano i motori e i radiatori, e tutte quelle cose lì.» Arrotolò un altro gomitolo di spaghetti, punzecchiò le vongole che galleggiavano sul fondo di olio e prezzemolo. «Quindi sarei capacissimo di costruirne uno da solo a partire proprio da zero, come se fosse niente, davvero.»

«Ooh!» Luca tornò a cadere sulla sua seggiola – l’oleosa forchettata di spaghetti a gocciolargli dalla mano –, ma i suoi occhi erano ancora smarriti nell’incanto di quella prospettiva, alti verso i fili di luminarie che si specchiavano nelle sue pupille come sciami di costellazioni inesplorate. «Costruire un altro furgoncino» sospirò, arrossendo per l’emozione. «Quanto sarebbe bello!»

«Sì» commentò Giulia, trattenendo una ridacchiata, «a patto che poi non ti aspetti che io ci salga sopra.»

Alberto alzò la punta del naso, dandosi arie da smorfiosa offesa. «Be’, te ne pentirai, perché un giorno diventerò il pilota più abile e veloce di tutta Portorosso. Anzi…» Mangiò il suo boccone di spaghetti e sguainò la forchetta verso l’alto. «Dell’Italia intera!»

Giulia si strinse lo stomaco e scoppiò a ridere. Fu una risata gioiosa e cristallina, senza ombra di cattiveria. Quando ebbe finito di sganasciarsi, girò la sua forchetta e stuzzicò la guancia di Alberto con il manico. «Prima impara a guidare, e poi ne riparleremo.»

«Io so già guidare.» Alberto si scansò e tornò a piantare il broncio. «Il fatto che non me lo lascino fare non significa che io non ne sia in grado.» Pescò una fetta di pane dalla cesta e spezzò la mollica per raschiare l’olio dal bordo del piatto. Mentre masticava, il suo sguardo tornò inevitabilmente a scivolare verso l’Ape color verde bottiglia che oscillava, come nuova di zecca, sotto le sfumature bluastre di quella sera d’estate, attorniata dalle luminarie che pendevano dai rami del loro ulivo e che si intrecciavano ai filari delle viti.

Alberto si abbandonò a un sospiro lungo e sconsolato. I suoi grandi occhioni verdi s’inumidirono, avviliti, persi nell’adorazione di quella bimba tanto amata e tanto sudata che non poteva ancora essere completamente sua.

Vedendola scintillare sotto la luce così chiara e trasparente delle lampadine al neon, si rese conto di quanto fosse venuta bene: gli specchietti raddrizzati, il fanalino senza nemmeno una crepa, le ruote nere e gonfie al punto giusto, le ammaccature livellate, e la vernice rifatta di fresco. I rombi del suo motore erano le fusa più dolci, il profumo di pelle nuova era inebriante come il polline in primavera. Peccato che Alberto non potesse ancora godersela in alcun modo, solo le volte in cui era Massimo a mettersi alla guida e a portarlo in giro per il paese sapendolo al sicuro sul rimorchio posteriore, circondato dalle cassette di pesce.

Massimo non gli aveva nemmeno permesso di andare fino alla stazione e di prelevare Luca e Giulia dopo il loro arrivo con il treno. Eppure sarebbe stato così conveniente impilare le valige nel portabagagli e sfrecciare a tutta velocità verso casa. Massimo però era stato intransigente, non aveva ceduto alle suppliche di Alberto nemmeno davanti alla sua promessa di non superare mai i quaranta all’ora e di prestare la massima attenzione a ogni curva e a ogni incrocio.

Prima la patente” gli aveva detto, “e poi potrai scorrazzare in tutta libertà.” I patti erano questi, e Alberto non era proprio stato in grado di controbattere.

Alberto sbuffò, allungò il braccio oltre il vassoio dentro cui i gusci d’ostrica galleggiavano in mezzo alla poltiglia di ghiaccio sciolto, e raggiunse di nuovo la cesta del pane. «Come se servisse sul serio una patente per dimostrare di saper guidare un’auto o una moto.» Tornò a raschiare la mollica sul fondo del piatto, rendendolo bianco e lucido come appena lavato. «Scommetto che ci sono migliaia di adulti che hanno la patente ma che sanno comunque guidare molto peggio di me che non ce l’ho.»

Giulia si versò dell’acqua, dopo essersi fatta passare la brocca da Daniela, e scosse il capo mimando un sorriso sarcastico. «Non vedo l’ora di scoprirlo.»

Luca annuì, «Anche io», rosso di entusiasmo, perché lui invece era sincero.

Alberto divorò la fetta di pane fino all’ultima briciola, si succhiò le dita, ripulì le mani sul tovagliolo per asciugarsi le squame, e si concesse di protestare ancora un po’. «E pensare che l’ho guadagnata praticamente tutta io, sudando ogni giorno in officina.»

«Non dire praticamente» lo corresse Massimo. «L’hai guadagnata tu, senza obiezioni e senza mezzi termini.»

«Già» sbuffò Alberto, per nulla lusingato, «ma se avessi saputo che avrei dovuto aspettare così tanto tempo prima di poterla guidare non mi sarei affannato con tutta questa furia.» Incrociò le braccia sul bordo del tavolo, urtando il suo piatto che tintinnò contro la bottiglia di vino più vicina, e spinse il mento sopra i pugni sovrapposti. «Avrei potuto prendermi più tempo per aggiungerci qualche abbellimento, magari.»

«Abbellimento?» Giulia posò il suo bicchiere d’acqua, si strusciò il braccio sulle labbra, e lanciò ad Alberto un’occhiata scettica. «Del tipo?»

Alberto allargò un ghigno ardente di entusiasmo. «Tipo delle fiammate giganti verniciate attorno alle ruote.»

Massimo impilò i piatti sporchi che Lorenzo lo aveva aiutato a raccogliere. «Niente fiammate, Alberto.»

«Concordo.» Pure Daniela annuì e, attraverso le sfumature opache del Pinot Grigio che oscillava fra le pareti del suo calice, squadrò il profilo dell’Ape che era stata presente alla cena come un silenzioso e modesto ospite d’onore. Corrugò un sopracciglio. «Il rosso con il verde sarebbe inguardabile.»

Massimo finì di raccogliere anche le posate. «Non solo per quello.»

Alberto tirò su il mento dalle braccia incrociate, ammiccò con le sopracciglia. «E invece delle saette?»

Massimo scosse il capo come quando gli aveva proibito di mettersi al volante dell’Ape. «Nemmeno le saette.»

Alberto non demorse. Accostò la sedia a quella di Massimo, giunse i polpastrelli di pollice e indice come se stesse reggendo qualcosa, una biglia o un piccolo sassolino raccolto sulla spiaggia. «E dei simpatici pesciolini che fanno le bolle?» Lo ammaliò con uno dei suoi sorrisi più teneri con cui sarebbe stato in grado di sciogliere tutte le nevi delle Alpi. «Sarebbero un buon marchio pubblicitario per la pescheria.»

L’espressione di Massimo si ammorbidì. Finito di impilare piatti e posate, bevve un altro sorso di vino bianco, «Quelli vedremo», nascondendo un sorriso sotto i baffi.

«Ah!» Alberto slanciò i pugni al cielo e rimbalzò sulla sedia come se quella conquista stesse già splendendo fra le sue mani. «Evvai!»

Luca finì l’ultimo boccone dei suoi spaghetti allo scoglio, raccolse i gusci vuoti delle vongole e li rovesciò nello stesso vassoio dove giacevano quelli più grandi delle ostriche. «E chiederai al meccanico di insegnarti anche a verniciare i disegni sulla fiancata, quindi?»

«Non c’è bisogno che me lo insegni» rispose Alberto. «Io so già farlo di sicuro. Gli chiederò giusto di darmi un’occhiata, magari, tanto per essere sicuro di star disegnando nei punti giusti e che si mantenga una certa – com’è che si dice? – prospettiva anche guardando da angolature differenti.»

«Ma allora, Alberto…» Lorenzo sgranocchiò un grissino e si rivolse ad Alberto con tono stupefatto. «Stai ancora continuando a lavorare dal meccanico?» Sventolò il mezzo grissino verso di lui. «Ecco perché ti si vede sempre meno spesso in giro, dopo le consegne.»

Alberto rinnovò il sorriso, si spolverò il petto che era tornato a gonfiarsi di fierezza, e annuì. «Sì, ci vado ancora un paio di ore nel pomeriggio, quando magari in pescheria c’è meno lavoro da fare e io sono più libero.»

Lorenzo finì il suo grissino e sfoggiò un sorriso partecipe e compiaciuto. Il sorriso di un uomo che sa dare valore all’impegno e al duro lavoro. «Sei stato proprio fortunato ad aver trovato qualcuno che ti stia insegnando così tanto sui motori.»

Giulia si tenne poggiata sui gomiti – in barba alle buone maniere –, intrecciò le mani sotto il mento e strizzò l’occhiolino in direzione di Alberto. «Che abbia la pazienza di insegnarglielo, piuttosto.»

«Ehi» protestò Alberto, «guarda che io sono un ottimo allievo. Imparo in fretta.»

«Quindi hai deciso che da grande diventerai un meccanico?» Giulia alzò gli occhi verso gli intrecci di rami e luminarie. S’impensierì, e i suoi occhi scuri si ombreggiarono di malinconia. «Che strano, e io che ti ho sempre immaginato al lavoro in mare assieme al papà.»

«Ehi, ehi, vacci piano.» Alberto la frenò mettendo le mani avanti. «Mica ho detto che smetterò di fare il pescatore, tantomeno che smetterò di andare in mare assieme a Massimo. Ma magari imparare un secondo mestiere potrebbe essermi utile in futuro, quando sarò un po’ più grande. Quando avrò la Vespa.» E di nuovo, dopo un sospiro di cui ormai riconobbe il dolce e squisito sapore di speranza, i suoi occhi s’incantarono e si persero fra le luci e i colori di quella fantasia, di quel sogno che non era mai sfumato e che era sempre in grado di fargli battere il cuore come un bimbo davanti al primo amore. «Quando avrò bisogno di più risparmi possibili per potermela comprare e mantenere da solo.»

Quel sogno infatti era tornato palpabile e vivo come un tempo. Per Alberto era di nuovo facile chiudere gli occhi e immaginarsi a bordo della Vespa. La presa stretta sul manubrio, un fresco vento di libertà a soffiargli in faccia e a scuotergli i riccioli, il dolce rombo del motore a ronzargli dietro l’orecchio, l’azzurro del cielo a stagliarsi davanti a lui, e il Sole a rincorrerlo attraverso strade d’asfalto e di sterrato, campi verdi e dorati, e città confinate da montagne e costeggiate dal mare.

Ad Alberto era capitato sempre più spesso di ritrovarsi a sguazzare fra le immagini di quella fantasia, durante quelle ultime settimane trascorse al lavoro con Eros, circondato dalle Vespe da aggiustare, da quelle da rottamare, e da quelle da spedire nei concessionari di Genova o di Torino. Anche per questo era stato spontaneo rimanere legato a quei pomeriggi in officina, anche dopo aver concluso il lavoro sull’Ape.

Il giorno dopo aver portato il furgoncino a casa, Alberto si era comunque presentato puntuale al garage, dopo le consegne e il lavoro in pescheria, e aveva trovato Eros da solo, ingobbito sul ripiano delle smerigliature, un po’ dolorante perché non era stato capace di sollevare da sé il cofano che avrebbe dovuto incastrare sul muso di un’Alfa Romeo che, secondo il modesto parere di Alberto, valeva tre volte l’intera baracca. Eros era parso sorpreso di rivedere Alberto, senza impegno e senza preavviso.

E tu cosa fai ancora qui?”

Come cosa? Sono venuto a lavorare ancora un po’.”

Nessuno ti ha chiesto di venire.”

L’ho deciso da solo, infatti. Allora, cos’è che facciamo di bello, oggi?”

E quel loro piccolo gioco stava andando avanti da mesi. Ogni volta che Alberto si presentava in officina, Eros lo accoglieva brontolando, piantando il muso, e gesticolandogli contro come se si fosse trattato di scacciare una mosca fastidiosa. Continuava a ripetergli quanto fosse un ragazzino impertinente, sfacciato e rompiscatole, “E faresti bene a levarti dai piedi, prima di combinare qualche disastro a cui io di certo non rimedierò al posto tuo”. Ed era proprio perché Eros lo trattava così duramente che Alberto aveva capito quanto in realtà gli facesse piacere averlo lì con lui. Nonostante le maniere brusche e il carattere scorbutico che accompagnavano i suoi insegnamenti, Alberto stava imparando moltissimo da lui. Eros aveva persino cominciato a lasciargli una piccola merenda come premio dopo il lavoro. Sempre una calda tazza di espresso con una fetta della sua focaccia preferita. Ogni volta gliela sbolognava dicendogli che erano gli avanzi del giorno prima, e che lui non l’avrebbe mangiata in ogni caso, e che gliela stava cedendo solo per evitare che andasse buttata. Ma anche solo annusandola si poteva capire quanto la focaccia fosse dolce e freschissima, ancora tiepida di forno e talmente morbida da sciogliersi in bocca come burro.

Alberto non si sarebbe mai azzardato a lamentarsi di una vita simile. «Potrei unire le due cose» annunciò, già sedotto da quella prospettiva. «Potrei diventare una sorta di pescatore-meccanico.»

Luca lasciò la sua forchetta, batté le mani, e si fece trasportare dal suo entusiasmo. «O un meccanico-pescatore.»

Ad Alberto brillarono gli occhi. Gli parve proprio di immaginarsi: un braccio muscoloso e tatuato avvolto da una rete da pesca e l’altro levato sopra la testa a brandire una massiccia chiave inglese a mo’ di scettro. La sua casa sarebbe stata una dimora suddivisa fra il locale della pescheria e un garage pieno zeppo di auto e di moto. La sua sarebbe stata una doppia vita come quella che conducevano i supereroi di cui ogni tanto leggeva le storie quando in edicola gli davano in omaggio l’albo di fumetti assieme al quotidiano. Di giorno, un pescatore che solca il mare guidato dai venti di burrasca e vegliato dal canto dei gabbiani; di notte, un misterioso meccanico che lavora nel buio della sua officina, progettando moto spara-fulmini e auto che rasentano la velocità della luce. «Questa sì che potrebbe essere una professione da super-mega-tosti.»

Daniela si piegò di lato e rise di gusto. «Be’, Alberto…» Tornò su col viso, pettinò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e gli rivolse uno sguardo ancora divertito ma incoraggiante. «Uno come te, con la tua intraprendenza e con le tue capacità, di certo non si ridurrà mai a morire di fame.»

Giulia batté due energiche pacche sulla spalla di Alberto, fiera quasi fosse stato merito suo. «Alberto non morirà mai di fame e nemmeno di appetito, se è per questo.»

«Concordo» annuì Alberto. «E a proposito di morire di fame…» Sistemò la forchetta nel piatto vuoto dove era avanzato solo qualche guscio di gamberetto e qualche coriandolo di prezzemolo incollato alla leggera sbavatura d’olio che sporcava il fondo di ceramica. Si stravaccò sulla seggiola, lasciandosi scivolare con la schiena verso il basso, e sorrise beato, massaggiandosi lo stomaco appagato. «Questa è stata la migliore spaghettata della mia vita, giuro.»

«Vero, vero.» Giulia raccolse la lunga conchiglia di una cozza che le era avanzata nel piatto e la succhiò leccandosi il pollice. «Anche io era da tempo che non mangiavo così bene.»

Luca annuì di rimando, comprese appieno quello stato d’animo. «È sempre così complicato trovare il tempo di godersi il cibo, con tutti gli impegni che abbiamo quando siamo a Genova.» Il suo sguardo sognante vagò verso il cielo, in cerca della Luna che quella notte era piena a tre quarti. Si orientò fra i colori del giardino frastagliati come scaglie di uno stesso mosaico – il verde smeraldo delle foglie, l’oro delle lampadine e il blu della notte. I profumi della spaghettata di pesce, dell’olio d’oliva e del vino bianco appena stappato, si mescolavano a quelli del prato umido, dei germogli delle viti e della brezza salmastra. Luca approfittò di quella pace per chiudere gli occhi e concedersi forse il primo pieno respiro della giornata – lui e Giulia erano tornati a Portorosso quello stesso pomeriggio, e non avevano avuto nemmeno il tempo di disfare le valigie. Rilassando le spalle sullo schienale della seggiola e stiracchiando i piedi nudi fra i ciuffi d’erba che crescevano attorno alle gambe del tavolo, si abbandonò a quella sensazione di pace e benessere che lo fece sentire a casa, riunito a una parte di sé che inevitabilmente sarebbe sempre appartenuta a quei luoghi, a quei fondali, a quel piccolo paesino di mare. «D’estate è tutta un’altra storia. Possiamo godercela senza doverci preoccupare di altro.»

Alberto ridacchiò. «Non temete, voi due» disse, rivolto sia a Luca sia a Giulia. «Ci penserò io a saziarvi con tutte le abbuffate che ci meritiamo. Nel frattempo…» Si versò un bicchiere d’acqua e alzò un brindisi fin sopra la testa. «Grazie per gli spaghetti super-squisiti, Massimo.»

Massimo picchiettò un angolo del tovagliolo sotto i baffi, fece il modesto. «Ma dobbiamo ringraziare soprattutto Lorenzo per le ostriche.»

Lorenzo arrossì, intimidito da quella vampata di emozione, e si strofinò la nuca, impacciato come un ragazzino che riceve un complimento da una bella ragazza.

Persino Daniela increspò un piccolo sorriso di approvazione nei suoi confronti. «Sì, in effetti non erano niente male.» Pescò uno dei gusci dal vassoio in cui le poche rimanenti scaglie di ghiaccio galleggiavano sul fondo d’acqua. Lo rigirò davanti al naso, picchiettò l’unghia sul dorso grigio, rugoso come la corteccia di un albero. «Se sono piaciute persino a me che di solito le detesto…»

Lorenzo si posò una mano sul petto e trasse un sospiro amareggiato. «Hai sul serio così poca fiducia nelle mie capacità di allevatore?»

Daniela si strinse nelle spalle e rimise giù il guscio. «Non credevo che in questi mari si riuscissero a coltivare delle ostriche così buone, tutto qui.»

«Però forse è stato davvero un peccato concedercele per la cena di stasera.» Massimo raccolse gli spicchi di limone prosciugato che erano disseminati in mezzo ai gusci delle ostriche, li mise tutti dentro il piatto dove avevano ammucchiato le conchigliette delle vongole e le bucce degli scampi. «Se le avessi conservate, sicuramente avresti guadagnato il primo premio alla fiera o all’esposizione annuale. Erano davvero eccellenti.»

Ma Lorenzo scosse il capo. «Di fiere ne organizzano di continuo» disse senza alcun rancore, senza preoccuparsi minimamente della questione. «Mi rifarò il prossimo anno. E poi, nessun primo premio potrà mai valere quanto una bella serata condivisa con la famiglia.» Sorrise, e per quell’attimo i suoi occhi brillarono di una luce dolce e sognante, la stessa che era solita rapire lo sguardo di Luca. «Questa è sicuramente la soddisfazione più grande che potessi mai chiedere, e il premio più grande che potessi vincere.»

Daniela e Luca si guardarono, sorrisero, imitati poi anche da Alberto che acconsentì in silenzio, ancora stravaccato e cullato dal dolcissimo sapore delle ostriche che aveva succhiato una dopo l’altra, come ciliegie, prima di tuffarsi sul piatto di spaghetti.

Giulia sospirò e arrossì per l’emozione. «Aaaw, quanto sei dolce, Renzo. Allora ne assaggio un’altra anch’io…» Pescò proprio una delle ultime due ostriche che erano avanzate in mezzo al ghiaccio sciolto. «Così ti dimostro in pieno tutto il mio apprezzamento.»

Alberto le punzecchiò il fianco. «Sta’ attenta a non mordere una perla.»

Risero tutti. E una risata era proprio quello quel che ci voleva per concludere una cena così maestosa. Tutta a base di pesce, naturalmente.

Secondo i piani iniziali, sarebbe dovuta essere una cena per inaugurare le ostriche di Lorenzo e per festeggiare il suo raccolto, approfittando del ritorno di Luca e di Giulia a Portorosso. Poi però Daniela si era lamentata perché a lei le ostriche non piacevano – nemmeno Giulia ne andava matta, in tutta onestà – e aveva protestato dicendo che non aveva alcuna intenzione di ridursi a mangiare pane e formaggio per tutta la sera. E così, per accontentare tutti, la cena si era trasformata in un vero e proprio banchetto di pesce.

Come antipasto si erano spazzolati le ostriche di Lorenzo, servendole già aperte su un vassoio largo quanto la metà del tavolo, e adagiandole su un letto di ghiaccio tritato. Per condirle, ci avevano spremuto sopra il succo dei limoni freschi che Massimo coltivava sul balcone assieme al basilico e al rosmarino.

Al vassoio di ostriche si era poi aggiunta una pentolata gigante di spaghetti allo scoglio conditi con cozze, vongole, scampi e gamberi. Tutti frutti di mare che Massimo si era procurato personalmente, primizie su cui era riuscito a ottenere l’esclusiva allungando una generosa mancia al suo amico pescivendolo di Rapallo. Prelibatezze che lui da solo non sarebbe mai stato in grado di cavare fuori dal mare, frutti di mare così dolci e teneri da squagliarsi in bocca come nespole mature. Gli spaghetti erano stati poi guarniti con spicchi d’aglio e pomodorini, e infine conditi con l’olio d’oliva spremuto a freddo di cui Massimo e Alberto avevano fatto scorta durante l’ultimo viaggio sul Lago di Garda.

Tutto quel ben di Dio era stato servito dopo aver stappato del vino bianco di eccezione: un Pinot Grigio proveniente da cantine friulane che Massimo aveva conservato appositamente per un’occasione speciale come quella. Non era di certo andato sprecato.

«Comincio a sparecchiare, intanto.» Massimo bevve l’ultimo sorso dal suo bicchiere e raccolse i piatti impilati. «Vi va un espresso?»

«Aspetta, aspetta.» Lorenzo si alzò a suo seguito. «Ti aiuto con i piatti.»

«No, no, nemmeno per idea.» Massimo gli poggiò la mano sulla spalla, lo invitò a rimettersi comodo. «Che figura ci farei a farti sfaccendare? Oggi siete ospiti d’onore.» Facendoli scivolare nell’incavo del gomito, impilò i piatti unti d’olio e prezzemolo, fece un mazzo di posate sporche, e sollevò pure il vassoio da cui si ergeva la montagna di conchiglie d’ostrica, incastrandolo fra la spalla e la guancia. Flesse il capo di lato per non urtare una delle luminarie più basse e si diresse verso la cucina. «Metto su il caffè.» Come c’era da aspettarsi, Massimo era inarrestabile.

«Oh, e per noi invece c’è il gelato!» Alberto si piegò sotto il tavolo, raggiunse la cassetta riempita con il ghiaccio tritato che era avanzato dal letto per le ostriche, ed esibì la vaschetta di gelato che era andato a comprare in latteria poco prima che chiudesse. «Ho preso fiordilatte e zabaione. Non sono gusti troppo stravaganti, e così accontentiamo tutti.»

Luca sgranò gli occhi luccicanti di golosità. «Buonooo!» Sentì subito la bocca annacquarsi e il pancino colmarsi di gioia.

«Aspetta, aspetta.» Pure Giulia si sporse a prendere qualcosa che aveva conservato sotto il tavolo. «Abbiamo qualcosa anche noi.» Fece spazio fra i bicchieri, la bottiglia del vino e la cesta del pane, e picchiò sulla tovaglia la giara bianca e blu della Fabbri. «Ta-daaan! Amarene della Fabbri!» Strofinò una carezza sul tappo sigillato. «Le ho comprate a Genova giusto il giorno prima di prendere il treno. Queste sono ottime sul gelato, e qui in paese non le trovo mai.»

Alberto preparò le scodelle e sguainò i cucchiai. «All’attacco, allora.»

I tre ragazzi si servirono a volontà, e Luca e Alberto si radunarono vicino a Giulia che si occupò di riempire le scodelle di gelato.

Alberto strinse le mani attorno alla sua ciotola, seguì con impazienza le cucchiaiate che si sovrapponevano davanti ai suoi occhi, alternando fiordilatte e zabaione, e innalzando una montagna di gelato che non pareva mai grande abbastanza da placare il suo appetito. «Ancora un po’.» Le fece cenno col cucchiaio. «Ancora una cucchiaiata. Ancora mezza. Ancora…»

«Vacci piano, ghiottone.» Giulia gli sporcò la punta del naso con uno sbuffo di gelato al fiordilatte. «Guarda che deve bastare per tutti.»

«Ce n’è un chilo intero, Giulia.» Alberto si leccò il naso sporco, facendolo diventare da bianco a blu. «Letteralmente.»

Giulia scosse la testa ma rise. Finita di riempire la ciotola di Alberto, passò a quella di Luca. «Almeno lascia spazio nella scodella per poterci aggiungere lo sciroppo di amarena.»

«Lo faccio stare, lo faccio stare.» Alberto si sgranchì le dita, acchiappò la giara di amarene, strinse forte il tappo fra i palmi, gonfiò i muscoli delle braccia, e diede forti strattoni con la spalla per svitarlo. Provò una seconda volta, una terza, e dovette sbatacchiare all’aria la mano già rossa e dolorante. «Stai certa che lo faccio stare senza problemi.» Strinse i denti e tornò all’attacco.

Daniela si concesse un altro bicchiere di Pinot versatole da Lorenzo. Oggi si festeggiava, non c’era bisogno di trattenersi. Ma nemmeno il piacevole tepore delle sorsate di vino riuscì a distrarla dalle preoccupazioni nei riguardi di Luca, come era capitato l’estate prima, quando si era impensierita perché aveva notato il suo scarso appetito. Gli strofinò una carezza fra i capelli. «Tu hai mangiato abbastanza, Luca?» Toccandogli la guancia, gli rivolse un dolce e apprensivo sguardo da mamma. «Sicuro che ti è bastato solo un piatto di spaghetti?»

Luca le sorrise senza sforzo. «Sto bene, mamma.» Ringraziò Giulia per il gelato e assaggiò una prima cucchiaiata di zabaione. «Era un piatto enorme.» Il gelato era dolce e squisito, cremoso al punto giusto e con un leggero retrogusto di liquore. Una goduria che lo rimise al mondo. «E poi ho voluto lasciare apposta un po’ di spazio per il gelato.»

Daniela sorrise a sua volta, visibilmente sollevata, e gli pizzicò la punta del naso. «Non congelarti il nasino, però.»

Luca ridacchiò come un bambino.

Finito di riempire anche la sua ciotola, Giulia si accorse che Alberto stava ancora lottando contro il barattolo di amarene che non voleva saperne di aprirsi. Alberto diede altri due strattoni con le mani che sdrucciolarono ogni volta, picchiettò il barattolo sullo spigolo del tavolo, schiacciò la giara al petto, trattenendola fra i polsi, e tornò a gonfiare i muscoli degli avambracci per far cedere il tappo. «Forza, forza, stupido coso.»

Giulia scosse il capo, gli porse la mano aperta. «Da’ a me.»

Alberto brontolò qualche protesta, «Guarda che è tre ore che ci provo», poi però allontanò lo sguardo e le cedette il barattolo.

Giulia sputò su un palmo, lo avvolse attorno al tappo, diede un secco strattone col polso – pop! – e scoperchiò la giara, sprigionando un dolce e pungente aroma di amarene sciroppate. Sfoggiò un sorriso sgargiante e affidò ad Alberto il corpo del delitto. «Ecco a lei, gentile messere.»

Alberto bruciò per l’imbarazzo, serrò la mandibola e piantò uno dei suoi soliti musi da offeso. «Non darti tutte quelle arie.» Agguantò la giara, ruotò la sedia e diede la schiena a Giulia. «Te l’avevo allentato io.» Rovesciò una cascata di sciroppo sulla montagna del suo gelato.

Giulia raschiò il fondo della vaschetta dove era rimasta giusto qualche traccia di fiordilatte. Adocchiando lo spettacolo di Alberto, non seppe trattenersi dal ridere. «Ehi, ehi, vacci piano.» Sparò la prevedibile battuta. «Mettici un po’ di gelato su quelle amarene.»

Alberto si girò a farle la linguaccia. «Quanto sei spiritosa.» Aggiunse un’altra cucchiaiata di amarena alla sua scodella. «Non potevi servirci una battuta un po’ meno prevedibile?»

«Prevedibile come te?» controbatté Giulia. «Possibile che devi esagerare con ogni piatto che mangi?» Ed era vero. Alberto esagerava sempre, non conosceva mezze misure, e se non abbondava non era soddisfatto, come quando si trattava di spolverare il Parmigiano sui maccheroni alla bolognese. Non si fermava fino a quando non si ritrovava con una quantità di formaggio alta quanto il Monte Bianco a ergersi fra i bordi del piatto.

Alberto si strinse nelle spalle. «Non è che esagero per il gusto di esagerare.» Passò a Luca la giara delle amarene. «È solo che oggi ho bisogno di consolarmi per la faccenda dell’Ape. Mi è rimasto il chiodo. È da quest’inverno che non me ne faccio una ragione. Concedimelo, dai.»

Giulia si prese la fronte, rise e scosse la testa. «Santo gorgonzola, Alberto.» Assaggiò una prima cucchiaiata di gelato al fiordilatte. «Proprio non cambierai mai.»

«Cambiare, io?» Alberto si appoggiò col gomito sul tavolo, sporse le spalle verso Giulia e arrivò a sfiorarle la punta del naso con il suo. «Senti chi parla. Non hai ancora finito il repertorio dei formaggi per le tue imprecazioni? Sta diventando un tantino…» Affilò il ghigno. «Stagionato.»

Lorenzo si strozzò con il cucchiaio di gelato che Luca gli aveva fatto assaggiare.

Luca si coprì la bocca, soffiò una risata che lo fece arrossire, e si ritrovò ad assecondare Alberto. «Alberto ha ragione, Giulia.» Si servì dalla giara di amarene che era arrivata fra le sue mani. «Ora dovresti passare a qualcos’altro. Magari ai prosciutti e agli insaccati.»

«Oppure faresti prima a imparare qualche parolaccia vera» sghignazzò Alberto. «Sarebbe anche ora.»

«Sì, certo.» Giulia succhiò dal suo cucchiaio e gli rivolse il manico contro. «E magari me le insegni tu.»

«Oh!» Gli occhi di Luca si accesero, illuminati da un’idea geniale. Alzò la mano come faceva in classe per prendere la parola. «Potremmo chiedere ai signori del bar di insegnarcele.»

Lorenzo si strofinò il tovagliolo sotto i baffi e scoccò al figlio un’occhiata di rimprovero. «Luca.»

Luca si strinse nelle spalle e abbassò lo sguardo, «Scusa, papà», ma il sorriso rimase a increspargli le labbra.

Alberto rise e spolliciò verso Daniela. «Oppure ce le facciamo insegnare da Daniela» propose. «Andrà a finire che diventerà ancora più aggiornata dei pescatori, a forza di frequentare l’osteria tutte le domeniche per guardarsi la partita in televisione.»

Daniela fece oscillare il Pinot avanzato fra le pareti del suo bicchiere. Corrugò la fronte, sventolò una manciata di capelli dietro la spalla, e strinse i denti in un ringhio simile a quelli che le annerivano il viso quando era trasformata sott’acqua. «Sfido io a non aggiornare il repertorio delle parolacce, ora che il Genoa è retrocesso in Serie B.» Tracannò l’ultima sorsata di vino.

Un’altra ridacchiata collettiva si sparse lungo il tavolo, alternandosi allo squillo dei cucchiai che ripulivano le scodelle di gelato.

Daniela picchiò la mano sulla tovaglia. «Non ridete!» sbraitò. «Non c’è niente da ridere, è una tragedia nazionale!»

Alberto si allacciò un braccio attorno allo stomaco e scoppiò a ridere più forte degli altri. Dopo aver riguadagnato fiato, si sporse a sgomitare il fianco di Luca. «Tua mamma è uno spasso, Luca.»

Luca leccò lo sciroppo di amarena dal suo cucchiaio e si rallegrò rendendosi conto di quanto fosse vero. Il rapporto di Daniela con gli umani e con la vita in superficie era molto cambiato rispetto ai primi tempi, quando lei stentava a riconoscersi in quella pelle così diversa rispetto a quella sfoggiata sott’acqua. Negli ultimi anni, Daniela aveva imparato a fidarsi, sorrideva più spesso, aveva ammorbidito la corazza protettiva, ed era anche meno in pensiero nei riguardi di Luca e di tutto quello che gli capitava di affrontare a Genova, lontano dalla sua famiglia. Luca ne era sollevato. Era felice che la sua seconda vita a Genova avesse smesso di essere un peso e una fonte di angoscia per i suoi genitori.

Un lungo e sconsolato sospiro di Lorenzo riportò un po’ d’ombra sulla tavolata. «Non me ne parlate.» Giochicchiò con il tappo di sughero che era rotolato fino a lui. I suoi occhi erano persi e avviliti come quelli di un cucciolo abbandonato fra i bidoni sul ciglio della strada. «Daniela sale tutte le domeniche per andare al bar o in osteria, e a me invece tocca rimanere sempre a casa da solo.»

Daniela inarcò un sopracciglio e gli lanciò un’occhiata sbieca. «Potresti venire anche tu a vedere la partita assieme a me, sai.»

«Non mi piace il calcio» le rispose Lorenzo. «È troppo rumoroso, così frenetico. Tutti a correre dietro a una palla su cui non riesci nemmeno a posare lo sguardo. Mi mette angoscia.»

«Ooh, povero Renzo.» Giulia lo consolò con una serie di soffici e affettuose pacche sulla spalla. «Suvvia, non ti abbattere. Pensa che è un po’ come quella canzone. Ecco.» Batte un pugno sul palmo. I suoi occhi si accesero di un entusiasmo effervescente. «Potrei cantartela per tirarti su di morale.»

Alberto affondò la faccia fra le mani e si accasciò davanti alla sua scodella di gelato. «Giulia, non cantare.»

«Perché, perché…» Giulia sventolò gli indici per aria come un direttore d’orchestra. «La domenica mi lasci sempre sola, per andare a vedere la partita di palooone…»

Alberto strizzò le dita fra i capelli e fece stridere i denti in un basso latrato di agonia. «Giulia, ti scongiuro…»

«Perché, perchééé…» Giulia saltò in piedi sulla seggiola, agguantò il collo della bottiglia vuota e la accostò alla bocca per simulare un microfono. «Una volta non ci porti pure meee!»

Luca si strinse la pancia e per poco non cascò dalla sedia per il gran ridere. «Però qui è l’inverso.» Si asciugò le lacrime dagli occhi. «È la mamma che va a vedere la partita e il papà che rimane a casa ad annoiarsi.»

«Che problema c’è?» Giulia tornò a sedersi composta, riappoggiò la bottiglia sul tavolo e si spolverò le mani. «La riadattiamo.»

Massimo riattraversò il giardino, si chinò nuovamente per non urtare la solita luminaria troppo bassa, e ritornò al tavolo con le tazzine dell’espresso disposte sul vassoio. «È pronto il caffè.» Si propagò un caldo e fragrante profumo di caffè appena sgorgato. Massimo posò la prima tazzina davanti a Lorenzo. «A Lorenzo la prima, per ringraziarlo delle ostriche.»

Gli occhi di Lorenzo s’incantarono come facevano davanti al suo gregge di granchi. «Ooh, caffè.»

Una scossa di allarme invece scintillò attraverso lo sguardo di Daniela. «Renzo, vacci piano con l’espresso.» Accettò anche lei la tazzina da Massimo. «Non voglio venirti a recuperare sul tetto come l’ultima volta.»

«Papà, papà.» Giulia si appese alla manica di suo padre, la tirò un paio di volte. «Ti sei perso la mia esibizione canora, papà, dovevi sentirmi prima mentre cantavo. Diglielo, Luca, diglielo quanto sono stata brava. Vuoi sentirmi di nuovo mentre canto?»

«Sicura che c’era solo sciroppo di amarena nel tuo gelato?» Alberto inclinò la scodella che Giulia aveva già ripulito, eccezion fatta per una mezza amarena che giaceva sul fondo sporco di bianco. «A sentirti si direbbe che tu ti sia scolata metà bottiglia di vino.»

Giulia gli scagliò l’indice sulla punta del naso. «Mi stai forse dando dell’ubriacona?» Si fece nera in volto, potenti fiamme di rabbia a danzarle attorno ai capelli dello stesso colore. «Come osi?»

«Non ci sarebbe niente di male, sai.» Alberto scansò il dito di Giulia dal naso. «Il vino fa bene al sangue. Anzi, ora che mi ci fai pensare…» Rivolse lo sguardo a Massimo, sfoderando il suo sorriso più ammaliante ed educato, per ingraziarselo, e intanto già adocchiava la seconda bottiglia di Pinot, quella ancora mezza piena a cui avevano rimesso il tappo di sughero. «Io posso bere un goccio di vino, Massimo? Solo un po’, solo per provarlo. Non ho mai assaggiato quello bianco, e il profumo mi sembra migliore di quello rosso.»

Massimo corrugò un sopracciglio, ci pensò un po’ su, mormorò un brontolio, poi però annuì. «Ma solo un bicchiere.» Si sedette e soffiò sulla sua tazzina di espresso. «E bevi piano, sorsi piccoli, non tutto d’un fiato.»

«Vino?» Luca si girò di colpo verso Alberto. Non credette alle sue orecchie. «Sul serio bevi il vino?»

Anche Giulia ne fu stupefatta. «E da dove viene questa novità?»

«Ooh, andiamo» protestò Alberto. «Perché fate tutta questa cagnara?» Riempì a metà quello che prima era stato il suo bicchiere d’acqua. Assaggiò il Pinot a piccoli sorsi, come gli aveva detto Massimo, fece schioccare la lingua sul palato e si leccò con gusto l’angolo della bocca. Il vino bianco gli piacque di più di quello rosso. Era più dolce e più fruttato, gli ricordava il sapore della cedrata, anche se più aspro e meno frizzante. Lo fece oscillare come aveva visto fare Daniela, e ne bevve un altro po’. «Che c’è di strano se anch’io bevo un po’ di vino? Ce l’ho nel sangue.» Si atteggiò da uomo vissuto, parlò proprio come i pescatori dell’osteria. «Sarò anche un mostro marino ma sono pur sempre italiano. La prima volta l’ho assaggiato all’osteria, quando io e Massimo siamo andati a trattare per farci mettere da parte l’Ape.»

Giulia sgranò gli occhi e trasse un sospiro scandalizzato. «Ma allora è vero che anche tu stai frequentando l’osteria, e non solo Daniela.»

Luca invece sbatacchiò gli occhioni colmi di una luce incantata. Il cuore batté forte per l’emozione e per la curiosità. «E cosa si fa all’osteria?»

«Di solito si chiacchiera.» Alberto bevve ancora un goccio di Pinot e succhiò il labbro umido fra i denti. «Si beve un po’ di vino, si assaggia il pesce appena pescato, e – ah! E mi hanno anche insegnato a giocare a Scopa.»

«Quindi parli tutto il tempo con i grandi.» Luca si fece più vicino a lui, preso all’amo proprio come un pesciolino curioso. «E di cosa parlate?»

Alberto s’impettì come un galletto, tirò su il mento e sfoggiò un sorriso pomposo. «Di robe da grandi, ovvio.» Si diede un po’ di arie. «Soprattutto di barche, di mare, di reti, di lavoro, di costruzioni, del meteo, e di carte. Di affari, insomma.»

«Di…» Giulia corrugò un sopracciglio e soffiò una risata sarcastica. «Affari?»

«Ovvio.» Alberto tambureggiò il pugno sul petto sporto all’infuori. «Affari da uomini tosti.»

Massimo scosse il capo e sorseggiò la sua tazzina di caffè. «Per lo meno le volte in cui Alberto riesce a rimanere sveglio fino a tardi e a non addormentarsi sul bancone.»

Le risate crepitarono e rumoreggiano attraverso l’intera tavolata, facendo vibrare il vetro dei bicchieri. L’unico a non ridere fu Alberto. Lui infatti diventò rosso come un’aragosta bollita, a punto tale che avrebbe potuto far evaporare il bicchiere di vino che reggeva fra le mani.

Dopo un singhiozzo disperato, Alberto si voltò verso Massimo. «Che cavolo, Massimo!» Il luccichio dei suoi occhi si sciolse in un’espressione tradita. «Dovresti essere dalla mia parte, almeno tu.»

«Scherzavo.» Massimo gli posò la mano sulla spalla, strofinando leggermente. «Ma lo sai che mi preoccupo quando vedo che ti sforzi troppo.» Il suo sguardo si rifece serio e premuroso. «Lavori tutto il giorno, e almeno la sera dovresti rimanere a casa a riposarti. Dovresti avere più riguardo nei confronti di te stesso.»

Alberto fece roteare lo sguardo, ma non si sottrasse al tocco, accettò quelle attenzioni. «Ma non sono mica stanco, lo giuro.» Batté piano la mano su quella di Massimo, sentendosi in dovere di rassicurarlo come quando andavano fuori in barca e lui rimaneva sott’acqua troppo a lungo o s’incagliava con la coda nelle reti. «Se vado a giocare a carte mi rilasso. Giocare a carte mica è un lavoro. Anche quello è un modo di riguardarsi.»

Lorenzo tornò a sospirare e poggiò una mano sotto il mento. «Sveglio fino a tardi per giocare a carte…» Scosse la testa con disappunto. Bevve dell’altro caffè. «Sai, Alberto, alla tua età c’era solo una cosa in grado di tenere sveglio fino a tardi anche un dormiglione come me.»

Daniela sgranò le palpebre e arrossì di botto. Gettò lo sguardo in disparte e giochicchiò con i capelli per nascondere quella curva di sorriso fin troppo palese.

Massimo soffiò una risata più serena. «Ma non sono solo le carte a tenerlo sveglio, credi a me.» Spostò lo sguardo verso la finestra della cameretta che si affacciava al loro ulivo. La luce era spenta, ma la fila di luminarie delineava la lunghezza del ramo che univa la finestra al rifugio sull’albero. «Certe mattine, le volte in cui mi toccava salire fino in camera per svegliarlo, lo trovavo sempre con il viso addormentato su un libro, sull’ultimo che gli avete spedito da Genova.» Si strinse nelle spalle. «Magari Alberto ha dormito così poco, in questo periodo, proprio perché rimaneva sveglio a leggere fino a tardi.»

Alberto sobbalzò, non più rosso di vergogna ma bianco di panico. Si morsicò il labbro, frenando una protesta sulla punta della lingua, e le sue guance tornarono ad arroventarsi per l’imbarazzo.

Luca ansimò di gioia. «Sul serio?» Un forte palpito risuonò in fondo al petto, i suoi occhi brillarono come la larga Luna che li vegliava dal cielo, e quell’emozione inaspettata lo elevò fino alle stelle. «Hai letto Pinocchio? L’hai letto per davvero?»

Alberto fece tremolare il labbro che teneva stretto fra i denti. «Urgh.» Nascose lo sguardo e tamburellò le dita sulla tovaglia impolverata dalle briciole di pane. «Be’…» Non avrebbe voluto che Luca lo venisse a sapere. Non gli piaceva sentirsi così esposto. «Un…» Si strofinò la nuca. «Un po’» farfugliò. «Qualche volta.» Buttò giù quel che rimaneva del vino.

Massimo invece finì il suo caffè. «Avete fatto bene a spedirglielo. Mi fa piacere vedere Alberto interessarsi anche a qualche attività più…» Si accigliò, in cerca delle parole più delicate. «Riflessiva della pesca, della meccanica, o dei giochi di carte. Dovreste inviargli più spesso qualche libro, se questo gli è piaciuto così tanto.»

«Io gli spedisco volentieri tutti i libri che vuole» disse Giulia. «Basta solo che sopravvivano prima che Luca li consumi tutti a forza di leggerli e di stra-leggerli. Certi sono talmente consumati che le pagine ancora un po’ ti si sbriciolano fra le dita.»

Luca era talmente infervorato dall’entusiasmo di poter condividere qualche altro libro con Alberto che nemmeno fece caso all’ultimo commento di Giulia. «Ma quali altri libri potrebbero piacere ad Alberto?»

«Oh!» Giulia picchiò la mano sul tavolo facendo tremare tazzine e bicchieri. «Ho trovato!» Slanciò l’indice contro Alberto. «Potresti leggere anche tu Pippi Calzelunghe! Modestamente…» Sventolò una ciocca di capelli rossi dietro la spalla, si rimirò le unghie come una gran dama. «È stato il mio più grande successo di tutto l’anno scolastico, dato che mi ha fatto guadagnare la lode in Italiano e il primato in assoluto su tutta la scuola.»

«Primato?» domandò Alberto. «Quale primato?»

Luca si chinò a suggerirgli all’orecchio. «Nessuno prima di Giulia aveva mai preso la lode con un libro che non fosse di un autore italiano.»

Alberto annuì, «Ooh», non del tutto convinto.

«Ci sono un mucchio di libri che potrebbero interessare anche ad Alberto» tornò a intervenire Massimo, e per un attimo anche il suo viso si rinvigorì di una freschezza giovanile, memore di un tempo passato. «Quando avevo la vostra età, i miei preferiti erano senza dubbio i romanzi di Emilio Salgari.»

«Buuu!» Giulia chiuse una mano a coppa attorno alla bocca e gli fece il verso. «Sei troppo scontato, papà, buuu

«Ad Alberto piacerebbero» controbatté Massimo, sempre più convinto. «Sono molto avventurosi. Oppure Gian Burrasca. O Rosso Malpelo. Un po’ gli somiglia.»

Alberto scacciò via quell’idea con entrambe le mani. «Per carità.» Spedì un occhiolino a Giulia. «Di rossa ne basta una sola in famiglia.»

«Lo so, lo so.» Giulia affondò le dita fra i capelli, fece fluire un’abbondante manciata dietro la spalla, e quello sventolio fiammeggiò sotto le luci della sera, sfumando in un acceso rosso rubino che la riempì d’orgoglio. «Non tutti possono godere del privilegio dei capelli rossi, purtroppo. Oh, ma se devi leggere altri libri, allora scegli quello che vuoi, basta solo che non sia Cuore.» Si strinse le mani dietro la nuca e schiacciò la fronte sul tavolo, sentendo insorgere il mal di testa che aveva dovuto sopportare tutte le volte che era stata costretta a sfogliarne le pagine. «Una noia micidiale» gemette. «Credevo davvero che non sarei mai riuscita ad arrivare alla fine, a forza di sbadigli. Un libro del genere dovrebbe chiamarsi Fegato, anziché Cuore. E a Luca è pure piaciuto!» Slanciò il braccio verso di lui, ancora incredula. «Si è persino messo a piangere.»

«Sul serio?» Alberto incrociò le braccia sul tavolo e vi sprofondò con il mento. «Hai pianto per un libro?» Inclinò il capo di lato per andare in cerca dello sguardo di Luca. Rise, ma senza cattiveria. «Non credevo nemmeno fosse possibile una cosa del genere.»

Luca guardò verso il basso, oltre le briciole della tovaglia a quadri, oltre i riflessi cristallini dei bicchieri sporchi di vino, oltre il verde distribuito dalle foglie attraverso cui brillavano le luminarie. Non fu proprio in grado di sostenere gli occhi di Alberto e le parole di Giulia. «Per uno dei racconti, in realtà.» Strinse le ginocchia sotto il tavolo, incrociò le braccia al petto, si strofinò le spalle e affondò le dita fra le pieghe della camicetta, come se si fosse trattato di rintanarsi nel suo guscio sicuro. Ebbe freddo. D’un tratto si sentì fragile, triste e vulnerabile. Un piccolo paguro privo della sua conchiglia. Era un pensiero difficile da affrontare, faceva ancora molto male. «Sangue Romagnolo è una storia commovente.»

Giulia sputacchiò una risata. «E per cosa?» gli domandò. «Per tutto il discorso del patriottismo e dei buoni sentimenti verso le generazioni che ci hanno preceduto?»

«No.» Luca socchiuse le palpebre, grigio in volto, e tenne lo sguardo chino. «Si è sacrificato per sua nonna, l’ha protetta come lei aveva sempre protetto lui quando era piccolo…» Lo attraversò un respiro tremolante, un soffio al cuore. «È stato un bel gesto.»

Coperti da un velo d’ombra, Daniela e Lorenzo furono i primi a incrociare uno sguardo più intenso e consapevole. Le parole di Luca colpirono entrambi.

A Giulia invece scappò un’altra risatina che la fece sbilanciare dalla seggiola. «Ma dai, solo per quello? Non ti facevo tipo da…» Giulia sgranò gli occhi, trafitta da un pensiero improvviso, e la sua risata s’interruppe di colpo, come un tossito strozzato. «Oh!» Si tappò la bocca con entrambe le mani. Impallidì di colpo e pigolò con voce soffocata da quel singhiozzo di panico e vergogna. «Scusa.» I suoi occhi vacillarono e s’inumidirono di colpevolezza.

Calò un silenzio cupo che raffreddò la brezza serale, addensò l’umidità trattenuta dal fogliame del giardino, mise a tacere il distante canto dei grilli, e rabbuiò il cielo, nonostante le luci dello sciame di stelle e la Luna a tre quarti a regnare sovrana.

Gli sguardi di tutti si distanziarono l’uno dall’altro, come in cerca di una nicchia solitaria, di un rifugio in cui contemplare quel mite cordoglio.

Alberto andò giù con le spalle, spalmandosi contro lo schienale della seggiola, e fece tintinnare un’unghia sul suo bicchiere di vino svuotato, tanto per distrarsi, per non pensarci troppo, per non sentirsi schiacciare da quel silenzio.

Lorenzo posò una mano su quella di Daniela. Gliela strofinò con affetto, le sorrise per consolare i suoi occhi umettati.

Massimo fu l’unico in grado di tenere lo sguardo alto. La postura solida e integra di quando affrontava una tempesta al largo. Rimproverò Giulia con una delle sue rare espressioni più dure. «Giulietta, modera i toni.»

Il pallore di Giulia sfumò in una bluastra tinta di vergogna che le risalì le guance, si raccolse fra le palpebre tremolanti, e le annacquò lo sguardo. Il suo dolore fu ancor più palese di quello di Luca. «Scusami, Luca.» Tese una mano verso di lui, ma la fermò a uno sfioro dalla sua spalla. «Non volevo, te lo giuro, mi è scappato. Non pensavo…»

Luca scosse il capo. «Non fa niente, sul serio.» Le sorrise e, nonostante il velo di tristezza, fu un sorriso sincero. «Va tutto bene, non ti devi preoccupare troppo. Sto bene.»

Ma nemmeno Giulia riuscì a consolarsi, nemmeno per lei fu facile ricordare quel che era successo.

Daniela si sporse a strofinare una carezza di consolazione fra i capelli di Luca.

Luca percepì la vicinanza del suo profumo, riconobbe la morbidezza di quel gesto, e sentì il cuore stringersi di dolore e nostalgia. Le toccò la mano, andò in cerca di quel contatto. Daniela capì e lo strinse forte fra le sue braccia, gli baciò la fronte e la tempia, coccolandoselo al petto. Luca avrebbe avuto tanto bisogno di affondare il viso contro la sua spalla, di aggrapparsi alla stoffa del suo vestito, e di versare qualche lacrima. Solo qualcuna. Gli sarebbe bastato quello per sentirsi un pochino meglio.

Ma anche Giulia aveva bisogno di essere consolata. Fu Alberto a capirlo per primo, e fu lui a batterle una compassionevole pacca sulla spalla. «E poi dicono a me che non ho peli sulla lingua, eh, Giulietta?»

Giulia tirò su col naso, si diede una strofinata agli occhi umidi, e si sforzò di riguadagnare il sorriso. «Sì, e nemmeno da altre parti, se è per questo. Sbaglio…» Allungò la mano per stuzzicagli il naso. «O potrebbero cominciare a crescerti i baffi da un giorno all’altro? Sarebbe anche ora, ormai.» Una scintilla malefica le attraversò le zanne del sorriso. «E sai che questo vorrebbe dire che potresti presto cominciare a somigliare a…»

«A Massimo!» Alberto si tirò indietro e si coprì bocca e naso. Tornò a bruciare di imbarazzo come quando era saltata fuori la faccenda del libro. «Anche Massimo ha i baffi» protestò. «E pure Lorenzo ha i baffi. A tutti sbucano i baffi, prima o poi.»

«Sì» lo rimbeccò Giulia. «Crescono a loro che sono adulti grandi e forti. Uhm, ma forse…» Si strofinò il mento, meditabonda. «Ancora prima di pensare ai baffi, dovresti cominciare seriamente a impegnarti per mettere su un po’ di muscoli. Insomma…» Gli palpeggiò l’avambraccio. «Com’è possibile che sollevi pesi tutto il giorno e che rimani comunque così mingherlino? Hai le braccia che sembrano grissini.»

«È la pubertà, Giulietta.» Fu Massimo a intervenire in difesa di Alberto. «È stato così anche per me. Prima si cresce in altezza e poi in tutto il resto.»

Alberto si mise a braccia conserte e annuì tenendo le spalle larghe. «Visto?»

«Pfft» tornò a ridere Giulia. «In tutto il resto?» Le sue labbra s’inarcarono in un sorriso ebbro e sciocco che le infiammò le guance e che la elettrizzò fino alle punte dei riccioli. «Proprio tutto-tutto?»

Lorenzo e Massimo si guardarono sottecchi.

Alberto batté due volte le palpebre, spaesato. Poi finalmente afferrò l’allusione e s’infiammò di vergogna. «Giulia!» Pestò le mani sul tavolo, si sporse a ringhiarle in faccia. «Razza di…» L’imbarazzo gli si sbrodolò addosso come salsa piccante. «Ti sembra il caso...»

Daniela si massaggiò la fronte, camuffò dietro la mano un sorriso inappropriato ma inevitabile. «Bambini, non litigate.»

Lorenzo diede una gomitata a Massimo e si alzò a mormorargli alla spalla. «Ora sì che bisticciano come fratelli. Non vorrei essere nei tuoi panni per tenerli a bada.»

«Suggerimenti?»

«Spedisci uno dei due negli abissi. Quel trucco funziona sempre.»

Alberto pescò il tappo di sughero odorante di vino e lo lanciò a Giulia. «La colpa è sua!»

Giulia spiegò il tovagliolo davanti a sé, «Ah!», e si parò dalla caduta del tappo. «Villano!» Raccolse il cucchiaio sporco di gelato e lo sguainò contro Alberto come una spada. «È così che si colpiscono le signorine?»

«Quali signorine?» Anche Alberto impugnò il suo cucchiaino, sfoderò la sua migliore maschera di sfida. «Non vedo nessuna signorina, qui.» E fece scontrare il suo cucchiaio con quello di Giulia.

Cleng!

Giulia scoppiò a ridere. Slanciò il braccio in avanti, urtando la bottiglia di vino vuota, e fece volare un lampo d’argento dal suo cucchiaio. «In guardia!» Cleng! Batté un altro colpo su quello di Alberto.

«Troppo lenta.» Alberto usò la mano libera per pizzicarle la pancia. «Punto per me.»

«Wha!» Giulia si massaggiò il fianco e ripartì all’attacco. «Non vale!» Acciuffò il tappo di sughero, gettò il braccio all’indietro e mirò alla spalla di Alberto. «Ti faccio vedere io, così impari a barare!» Continuarono a lottare, e le loro risate e imprecazioni si alternarono allo squillo delle posate che si scontravano, allo sventolio dei tovaglioli che paravano i colpi, e al tintinnio del tappo di bottiglia che finiva sempre per cadere sui bicchieri e sulle tazzine del caffè.

Pure Luca si lasciò contagiare da una breve e tiepida risata che soffiò contro la spalla di Daniela, ancora avvolto dal suo abbraccio e dal suo profumo familiare. Cercò di tirarsi su, di non sentirsi troppo triste durante una serata allegra come quella.

Dopo avergli di nuovo carezzato i capelli, Daniela gli strofinò una nocca sulla guancia, cercò di regalargli un po’ di buonumore. «E a te invece quando sbucheranno i baffi, eh, Bollicina?»

Luca sorrise e scosse il capo. «Mamma…»

«Ah, non vedo proprio l’ora di vederti.» Daniela indicò Lorenzo con un’alzata di mento. «Ma se sei come il papà allora sei un tardivo. Quando ci siamo conosciuti non li aveva ancora. Quanto eravamo giovani...»

Lorenzo si toccò i folti baffi castani e sfoggiò un’espressione perplessa. «Ma se ti sono sempre piaciuti i miei baffi…»

«Uhm, sì.» Daniela annuì. «In effetti fuori dall’acqua hanno un certo fascino.»

«Solo fuori dall’acqua?»

Risero assieme. Una risata spensierata di cui Luca non riuscì a sentirsi partecipe, nonostante lo sforzo di sorridere. Il suo umore era guastato, ormai, e nemmeno la dolcezza del gelato guarnito di sciroppo con cui aveva concluso la cena riuscì a colmare il senso di amarezza che era sorto assieme a quel pensiero. Alla consapevolezza che non avrebbe mai più rivisto la nonna.

Era successo in primavera, senza alcun segnale che lo preannunciasse, però lui lo aveva saputo più tardi, al termine della scuola. Daniela, Lorenzo e Massimo infatti si erano accordati con Sara per non far trapelare la notizia fino a lui, per tenergliela nascosta almeno fino all’inizio dell’estate, in coincidenza con il suo ritorno a Portorosso. Avevano deciso così per evitare di turbarlo e quindi di compromettere la sua concentrazione a scuola, dato che gli ultimi mesi erano sempre i più faticosi e impegnativi.

Luca lo aveva saputo solo la settimana prima di tornare a Portorosso, un paio di giorni dopo l’incidente del gavettone. E la notizia lo aveva colpito proprio allo stesso modo: una stordente botta in faccia, molle e fredda, che lo aveva assordato e spogliato di ogni sua difesa.

Poi Luca era riuscito a sfogare un po’ di quel dolore piangendo fra le braccia di Giulia, lasciandosi consolare, ma ormai il solco di quella perdita era ben scavato dentro di lui, perché la nonna non c’era più, e assieme a lei era scomparso anche il suo sogno di viaggiare attraverso il mare di tutta l’Italia, di visitare Napoli, Messina e Venezia. Luca non avrebbe mai più potuto portarla a Venezia con il treno. Era stato questo il primo e assurdo pensiero che aveva formulato dopo aver ricevuto la notizia: non posso più portare la nonna a visitare Venezia.

Altri pensieri si erano susseguiti e alternati ai singhiozzi con i quali aveva soffocato il dolore delle lacrime. Era stato anche grazie all’aiuto della nonna, ai suoi incoraggiamenti, alle sue rassicurazioni rivolte a Daniela e Lorenzo, se Luca aveva intrapreso quella nuova vita. La nonna che era stata la prima complice delle sue scorribande in superficie, ancora prima di Alberto. E ora Luca non avrebbe più potuto portarle le trofie e gli altri regali da Genova, non avrebbe più potuto renderla fiera raccontandole dei suoi studi e dei suoi voti, non avrebbe più potuto farla sorridere di orgoglio come succedeva quando condivideva con lei le sue nuove scoperte.

La nonna se n’era andata, e con lei se n’era andata anche una parte del cuore di Luca, lasciando un vuoto freddo e triste in fondo al suo petto. Un pezzo del suo scoglio di appartenenza si era sgretolato, e Luca seppe che da quel momento in avanti sarebbe stato più difficile stringere la presa e rimanervi appigliato quando si sarebbe sentito scivolare via, trascinato dalle correnti di quel mondo ancora così vasto e sconosciuto che ogni giorno scopriva nuovi modi per minacciarlo con le sue fauci da pescecane.

 


 

N.d.A.

La Partita di Pallone, di Rita Pavone: ♪♪♪

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Capitolo 19
*** 19 ***


19

 

 

Alberto raccolse un pezzo di legno dalla catasta, uno dei rami secchi caduti dal loro albero lì sull’Isola del Mare, e lo gettò fra le braci del fuoco. S’innalzò uno sciame di scintille rosse e bianche che si gonfiarono in un nugolo vorticante che poi si disperse andando incontro al buio della notte.

Luca si accostò al fuoco, distese le braccia, si strofinò le mani, e spalancò le dita che si tinsero di arancio, scaldate dal piacevole tepore delle fiamme. La nuotata da Portorosso all’isola lo aveva sfiancato più del solito, e lui non aveva nemmeno avuto occasione di riposarsi dopo il viaggio in treno. Ecco perché quella notte si ritrovava a patire tutto quel freddo e quei brividi, nonostante la cena di spaghetti gli tenesse ancora il pancino bene al caldo. «È vera quella cosa che prima Massimo ha detto su Pinocchio?» Quel ricordo riuscì a rinvigorirlo più del fuoco del falò, sciolse ogni brivido, brillò nei suoi occhi dove le fiamme si specchiavano. «Che ti è piaciuto tanto e che restavi alzato fino a tardi solo per leggerlo?»

Alberto si spolverò le mani dalle schegge di legno. «Sicuro.» Non c’era più imbarazzo nel suo sguardo o alcuna incertezza nella sua voce. Ammetterlo non fu più così tragico. «L’ho letto quasi tutto d’un fiato, dalla prima all’ultima riga.» Puntò l’indice su Luca e ingrossò la voce per darsi un certo tono. «Ma non è vero che mi addormentavo di faccia sulle pagine, eh.»

Luca si coprì la bocca e ridacchiò, perché ormai aveva imparato a riconoscere l’ombra delle bugie di Alberto, anche quelle più innocenti. Gli parve proprio di vederlo: Alberto stiracchiato sul letto, un piede a sbucare dalle coperte, un braccio a ciondolare verso il pavimento e l’altro infilato sotto il cuscino. Il gonfiore della guancia schiacciata sulle pagine illustrate, e le labbra socchiuse da cui passava un leggero russare. Un’immagine da farlo squagliare di tenerezza.

«E poi non l’ho letto mica una volta soltanto.» Alberto s’infilò i pollici sotto la cinta dei pantaloni, passeggiò a gran passo attraverso i riflessi delle fiamme, e sollevò un piede nudo per grattarsi la caviglia. «Anche adesso lo rileggo di continuo, e ogni volta mi piace sempre di più.» Rise di gusto. «Le parti dove Pinocchio finisce nei guai sono le migliori.»

Luca tornò ad avvicinare le mani al fuoco e a sprimacciarle, sentendo ancora le dita intorpidite dal freddo. «Ma Pinocchio finisce sempre nei guai.»

«Già» annuì Alberto, «per questo fa ridere. Ma perché…» Balzò a sedere sul cornicione di pietra, fece dondolare una gamba verso il basso, raccolse il ginocchio al petto e vi appoggiò il mento sopra. Rivolse lo sguardo alle luci di Portorosso che brillavano quasi quanto la trapunta di stelle di cui era foderato il cielo notturno. «Forse dubitavi che sarebbe potuto piacermi così tanto?»

«Ecco…» Luca si strinse nelle spalle. Rattrappì le mani davanti al fuoco. «È solo che non pensavo ti avrebbe appassionato fino a questo punto. Forse è perché tu non sei esattamente un…» Si mordicchiò l’angolo della bocca. «Un tipo da libri.»

Alberto sollevò il mento dal ginocchio, si girò a guardarlo.

Sentendosi trafitto da quello sguardo, Luca si riparò dietro le mani. «Scusa.» Accidenti. Questa è proprio la serata delle lingue lunghe e impertinenti. «Scusa» balbettò ancora, sentendo le guance pizzicare di vergogna. «Non volevo dirla in questo modo. Te la sei presa? Non volevo che te la prendessi, non era per prenderti in giro, mi dispiace.»

Ma Alberto sciolse la tensione con una risata spontanea. «Rilassati, testolina. Mica me la sono presa.» Avvolse un braccio attorno alla gamba piegata e tornò a poggiare il mento sul ginocchio. Si diede una grattata dietro l’orecchio e sotto il bavero della camicetta. «Non c’è niente per cui prendersela. Non hai detto niente di male.»

Luca sospirò, «Oh», e distanziò lo sguardo per non rendere palese il tremolio del suo sorriso. «Oh» ripeté. «Bene, allora.» Si allontanò di un passetto dal fuoco, perché ora cominciava ad avere troppo caldo.

Alberto torse il braccio all’indietro per grattarsi anche lungo la schiena. Gli abiti erano ancora un po’ umidi – dopo le nuotate notturne facevano sempre più fatica ad asciugarsi nell’immediato –, e la nuova camicetta di flanella gli dava un po’ di prurito rispetto ai normali abiti da lavoro.

Guardò al di là della distesa di mare, verso la costa contornata dalle poche luci traballanti distribuite fra le casette di Portorosso. Forse anche Giulia e Massimo erano già andati a dormire. Luca e Alberto li avevano comunque rassicurati di non aspettarli alzati. Finita la cena, erano entrambi scesi in mare ad accompagnare a casa Lorenzo e Daniela. Da lì, erano poi nuotati in direzione dell’isola senza nemmeno aver avuto bisogno di accennare alla cosa, senza aver spiccicato una singola parola a riguardo, proprio come se avessero compreso entrambi quello di cui avevano bisogno solo scambiandosi uno sguardo. Bisogno del loro rifugio, della loro solitaria compagnia. Bisogno di uno dell’altro.

«Nemmeno io lo credevo, sai?» Alberto si attraversò i riccioli con una manata, si massaggiò la nuca. «Nemmeno io pensavo che sarei riuscito a farmi piacere così tanto la lettura di un libro.» Fece spallucce. La gamba oscillò giù dal cornicione, la punta del piede nudo strusciò sul pavimento di legno. «Nemmeno io credevo di essere un tipo da libri, e probabilmente è vero che non lo sono, più che altro perché non riesco proprio a starmene fermo senza avere qualcosa da fare fra le mani. Ma c’è sempre una prima volta, no?» Annuì all’idea. «E magari ce ne saranno anche altre.»

Luca si fece galvanizzare dall’idea, si ritrovò elettrificato da quella nuova prospettiva. «Allora te ne spedirò sicuramente altri» esclamò. «Oppure potremmo anche andare a cercare dei nuovi libri assieme. Anche per…» Arricciò le spalle e chinò lo sguardo, colto da un improvviso e inaspettato moto di timidezza. «Sai, no, per fare qualcosa di diverso dal solito.»

Alberto gli rivolse uno sguardo che il riflesso del fuoco rese ancora più caldo. Un sorriso più quieto e premuroso, diverso dai suoi soliti ghigni gonfi di arroganza. «Mi piacerebbe.»

Luca strizzò le mani sull’orlo della camicia, provò un sussulto di gioia che lo scaldò più delle fiamme del falò. «Davvero?»

Alberto rinnovò il sorriso, dandogli questa volta la sua familiare sfumatura da sbruffone, e allargò le braccia. «Sono forse uno che racconta balle, io?»

«Ecco…» Luca ce la mise tutta per non ridacchiare. «A volte sì, dai, un pochino.»

«Ma non questa volta.» Alberto si mise la mano sul cuore e tirò su il mento in una posa solenne. «Non per le cose serie. E non se si tratta di te, soprattutto.»

Quell’ultima affermazione attraversò il petto di Luca suscitando in lui uno strano singhiozzo, un ansito che si aggrovigliò in fondo allo stomaco, lì dove quell’improvvisa e languida macchia di calore si era dilatata.

I loro sguardi si catturarono a vicenda. Luca sprofondò nel verde degli occhi di Alberto, s’incantò davanti al suo viso su cui traballava il calore delle braci, sfumature rosse che donarono alla sua pelle gli stessi roventi abbagli del bronzo. Pure Alberto percepì il palpito di quell’esitazione. Quel cambiamento dell’atmosfera che si era addensata, resa elettrica e vibrante grazie alla scossa che era zampillata fra i loro sguardi come una delle scintille del falò.

Alberto si diede un’altra grattata alla nuca. Sviò l’argomento per non essere costretto a pensarci troppo. «Chissà» tossicchiò, «magari mi è piaciuto così tanto perché è come hai scritto tu sul bigliettino che c’era fra le pagine. Effettivamente, fa davvero pensare a noi.» Balzò giù dal cornicione, strofinò i palmi sui pantaloni, e si affacciò incrociando le braccia sulla pietra. Guardò le stelle, il mare aperto dove si specchiavano. Lungo la costa già si intravedeva la scia luminosa di qualche barca che stava uscendo per la pesca notturna. La Luna gonfia a tre quarti era l’occhio più vigile, il faro più splendente. «Sai, tutto il discorso su quella sorta di desiderio di sentirsi libero, di girare il mondo senza doversi legare a nessun luogo, di vivere come ti pare, di non conoscere alcun limite, di non avere nessuno che ti dice quello che devi fare delle tue giornate, o come devi comportarti, o quali amici puoi e non puoi frequentare.» Sospirò. Fra le sue labbra svirgolò un sorriso incantato. «Nessun confine.»

Luca annuì e anche lui guardò verso l’alto, verso quella Luna su cui aveva sempre proiettato tutti i suoi sogni. «Nessuna pressione.»

Alberto gli fece l’eco: «Nessun obbligo».

«Nessuna responsabilità.» Anche Luca sorrise e si gongolò all’idea. Si lasciò trascinare da quelle parole fin troppo preziose da poter custodire fra le sue fragili manine. «Una vita troppo bella per essere vera. O comunque per durare per sempre.» Si accostò ad Alberto, si affacciò a sua volta dal cornicione di pietra che gli parve proprio essere diventato più basso rispetto all’anno prima. La brezza che profumava di salsedine e di prato umido lo accolse con una carezza. «Secondo me, una vita del genere finirebbe per perdere significato, a lungo andare.»

Alberto scosse le spalle. «Chissà» rispose. «Forse è così.» Si strofinò il fianco del naso e tirò su il fiato. «O forse no. Non puoi saperlo se non l’hai provata nemmeno una volta. E poi… perdere significato, bah.» Sventolò una mano a mezz’aria. «Per perdere significato prima devi trovarlo» borbottò. «Ma io so già chi sono, so dove vivo, so da dove vengo, e so quello che sto facendo. Cosa dovrei sapere più di così? Quale altro significato dovrei cercare nella mia vita?»

«Magari chiedilo al Grillo Parlante» propose Luca. «Lui che sembra sempre sapere tutto…»

«Già.» Alberto sogghignò e gli sbatacchiò due pacche sulla spalla. «Oppure lo chiedo direttamente a Bruno.»

Risero entrambi. Una risata complice, impossibile da contenere, che li riportò indietro, ai loro ricordi più preziosi.

Dopo aver riguadagnato fiato, Alberto si stropicciò un occhio. «Dico, ma te lo immagini Pinocchio che strilla Silenzio, Bruno! ogni volta in cui il Grillo Parlante si intromette per rompergli le scatole?» Si sganciò un bottone della camicetta, si fece aria al collo. Un’altra sghignazzata gli fece ballonzolare la gola. «Sarebbe esilarante.»

Luca aveva ancora le guance arrossate dalla risata, «Uhm…», però fu un’altra realizzazione a formicolargli dietro la nuca, lì dove sbocciavano le sue idee più brillanti e i suoi pensieri più contorti. «Il Grillo Parlante è una sorta di coscienza, di voce della ragione.» Guardò verso l’alto e fece tamburellare l’indice sul labbro inferiore. «Mentre Bruno è quella voce che ti avverte di un pericolo che in realtà non esiste. Quindi Bruno è una sorta di Anti-Grillo-Parlante.»

«Solo che schiacciare la voce di Bruno non è facile come schiacciare il Grillo Parlante.» Alberto si allontanò dal cornicione e andò a gettare un altro legno fra le braci. Pescò un bastoncino lungo e stretto dalla catasta, lo usò per ravvivare il calore del falò, per rimestare lo sciame di scintille che danzarono vivaci davanti ai suoi occhi. «Ma anche la storia del Gatto e la Volpe, se ci pensi…»

Luca si girò a scoccargli uno sguardo interrogativo. «Il Gatto e la Volpe?»

«Sì» annuì Alberto. «Anche loro potrebbero far pensare un po’ a noi due. La coppia combinaguai…» Diede in pasto al fuoco anche il bastoncino carbonizzato, si spolverò le mani, e allargò un sorriso brillante e spavaldo. «Mi pare proprio di vederci.»

Luca tornò a guardare verso l’alto, verso l’immensità della notte. Si perse come succedeva sempre quando s’incantava sulla luce di un’idea, sul bocciolo di un pensiero che sta per fiorire. «Il Gatto e la Volpe.» Effettivamente… «Sai che non ci avevo proprio pensato?»

Alberto ridacchiò. «Com’è che si dice? Ti ho…» Strinse le mani e spalancò i pugni, simulando una doppia esplosione. «Aperto un mondo.»

«Ma tu lo fai sempre.» Quella frase scivolò con naturalezza fra le labbra di Luca, limpida e rinfrescante come acqua di sorgente. «Per ogni cosa.»

Alberto tornò a camminargli vicino – la sua lunga ombra proiettata dalle braci scoppiettanti – e fece guizzare le sopracciglia in un’espressione piacevolmente stupita. «Sul serio?»

Luca annuì. «Tu sei l’unico.» Continuando a tenere gli occhi alti sulla volta celeste, sulla Dama Luna e sull’infinita vastità delle costellazioni, compì un mezzo giro su se stesso, in punta di piedi. Si guardò attorno e fu pervaso dalla stessa sensazione che aveva provato la prima volta in cui era salito sulla cima della torre, sentendosi un po’ spaesato, un po’ intimorito, ma ogni giorno più confidente ed entusiasta nei riguardi di tutte le meraviglie del mondo terreno che c’erano ancora da esplorare. «Sei l’unico che riesce sempre a farmi vedere un aspetto del mondo di cui ignoravo anche solo l’esistenza.»

I grandi occhioni nocciola di Luca si fecero incantare dalla distesa del mare, dalle luci distribuite fra le case e le alture di Portorosso, dal bianco globo della Luna specchiata sull’acqua nera e frastagliata dalle onde che si accavallavano attorno alle punte di scoglio, per poi disperdersi nelle profondità del fondale. Era così facile, per quei suoi occhi sognatori, innamorarsi sempre come la prima volta. C’erano le stelle a sedurli, a riempirli di una meraviglia che si rinnovava sempre, a ogni battito di ciglia rivolto alla sconfinata vastità del cielo notturno.

Raggiunto dal soffio della brezza e colto da un brivido di freddo, Luca spostò il peso da un piede all’altro. Il pavimento scricchiolò sotto le sue palme nude, ma lui non se ne preoccupò. Le assi della piattaforma erano nuove, allineate alla perfezione e verniciate di fresco, proprio come Alberto aveva promesso l’estate prima. Un tetto così resistente avrebbe impedito all’acqua piovana di inondare la zona interna della torre, di squagliare le carte dei suoi progetti e di rovinare le sue costruzioni. Ormai il suo era un laboratorio vero. Sulla cima della torre non avevano ancora installato un telescopio, come si erano ripromessi di fare, ma ci sarebbe stato spazio anche per quello.

Luca si strofinò le braccia incrociate e si strinse nelle spalle, di nuovo azzannato da un morso di freddo. Però è strano che io senta così tanto freddo. Le scorse estati non capitava mai, nemmeno a quest’ora di notte. Sciolse la tensione delle spalle, e così si accorse che gli dolevano, soprattutto alla base del collo e in mezzo alle scapole. Che sia davvero perché ho nuotato troppo a lungo dopo tanto tempo che non mi tuffavo in mare? Forse sto solo pagando la conseguenza di questo sforzo, come l’anno scorso quando ho avuto tutta quella nausea e i dolori alla coda. Era plausibile, ma non fu comunque un pensiero rassicurante.

Pizzicato da un’energia magnetica che lo attirava a sé, calda e vibrante come il fuoco che bruciava dietro di lui, Luca sentì il bisogno di voltare lo sguardo.

Alberto lo stava ancora fissando. Un gomito piegato sul cornicione, il mento sprofondato nel palmo della mano, e il capo leggermente inclinato. Lo sguardo incantato e inebetito. La stessa espressione che mostrava quando appiccicava il naso alle finestre dell’officina meccanica o alla vetrina della pasticceria.

Luca si sentì attraversare da quell’occhiata, risucchiato da un trasporto del tutto estraneo rispetto agli sguardi che Alberto era solito rivolgergli. Non fu una sensazione sgradevole. Fu tiepida e dolce, si annidò dove il cuore batteva i suoi palpiti più intimi, ma lo confuse.

Luca deglutì e trovò la gola secca. La voce gli uscì in un soffio, «Che c’è?», che tremolò fra le labbra irrigidite.

Ci fu la scia di un lungo silenzio, il frusciare degli alberi, l’accavallarsi delle onde sulla spiaggi di ciottoli, il quiete scricchiolio delle braci, il riflesso rossastro delle fiamme a danzare sui loro volti, poi Alberto prese un corto respiro dal naso e mormorò: «Secondo te chi dei due è chi?»

Frastornato, appena ripescato dalle nuvolette dei suoi pensieri, Luca sbatacchiò le palpebre. Non capì. «Come, scusa?»

«Fra noi due…» Alberto si tolse la mano da sotto il mento e indicò entrambi. «Chi è il Gatto e chi è la Volpe?»

Luca aveva ancora la bocca aperta. «Oh.» Fa sul serio? È una domanda vera? «Io non…»

«Non sai quante volte io abbia desiderato davvero essere un gatto.» Alberto stiracchiò le braccia in avanti e si accasciò di petto. Reclinò il capo esibendo un sorriso beato e appagato, proprio uno di quelli che sbocciavano fra le sue labbra dopo un’abbuffata. «Pensa alla pacchia di una vita così. Ronfare tutto il giorno, essere viziato e coccolato da tutti, e godersi il semplice fatto di essere una creaturina capace di rimanere carina e amabile anche quando fa i capricci. Farei carte false per essere un gatto, lo giuro.»

Luca sorrise, abbandonando ogni tensione, e scosse il capo. «Quindi io sarei la Volpe?»

«Può essere, sì.» Alberto scrollò le spalle e tamburellò le dita sulla pietra. «Perché no?»

«Non lo so…» Luca storse un angolo della bocca, incerto. «Non mi ci vedo.» In realtà ci volle poco per assemblare quell’immagine: la pelliccia fulva che cresceva al posto delle squame, la folta coda da volpe che sbucava al posto di quella da pesce, e un paio di furbi e acuti occhietti gialli incastonati in un muso che non conosceva timori o intimidazioni. «Secondo me tu sei molto più volpe di me. Hai più carisma, di sicuro. E sei quello intraprendente.»

«Ma come?» sogghignò Alberto. «Non eri tu la mente fra noi due?»

«Farsi venire certe idee e avere poi l’audacia di applicarle sono due faccende differenti.» Luca si appoggiò col fianco alla cinta di pietra. Incrociò le braccia al petto e si diede un’altra strofinata alle spalle, sotto le maniche. «Da quando ci siamo conosciuti, sei sempre stato tu quello a guidarmi, e a incoraggiarmi quando avevo paura, a dimostrarmi che anche io sono in grado di essere coraggioso, o a rendere qualcosa possibile solo credendolo, inseguendo i tuoi desideri a qualunque costo. Sei tu che riesci sempre a dire a Bruno di stare zitto. Sei tu quello che volge ogni situazione a suo favore, anche quella più disperata. Fidati…» Non ebbe più dubbi. «La Volpe sei tu.»

Lo sguardo di Alberto si fece freddo dopo essersi sciroppato quella spiegazione. La fronte rigida e gli occhi di nuovo distanti, più bui. Non parve affatto contento di vedersi sotto una simile luce. «Sai, ogni tanto anche i pescatori al bar me lo dicono» confessò. «E lo dicono anche a Massimo.» Alzò gli occhi al cielo – un’espressione esasperata – e tornò a poggiare un pugno sotto il mento. «Scaltro come una volpe; furbo come una volpe; ha proprio un muso da volpe, il tuo ragazzo, eh? Ma io non mi sono mai sentito molto volpe. E in realtà non mi piace nemmeno l’idea di esserlo.»

«Secondo me loro lo intendono davvero come un complimento.»

«Ma non io. Pensaci: le volpi sono maligne. Sono furbe solo quando si tratta di ingannare, di imbrogliare, di manipolare o di rubare.» Alberto tirò su il petto dal cornicione, si spolverò la camicetta. «Io invece voglio essere migliore di così. Piuttosto che ridurmi a essere una volpe, preferisco di gran lunga ritrovarmi a fare il Lucignolo di turno, anche se poi fa una brutta fine. Uhm…» Si morse il labbro, vi batté una nocca sopra e, accigliandosi, scavò fra i ricordi delle illustrazioni che gli capitava di sfogliare ogni volta in cui rileggeva il romanzo. Scosse il capo e trasse la sua conclusione. «A pensarci bene, nemmeno lui è una compagnia poi tanto raccomandabile.»

Luca rimase colpito. Le parole di Alberto accesero in lui una luce che rispecchiava proprio quel nome evocato dal buio della notte. «Lucignolo…» Anche lui si ritrovò immerso nei ricordi. Tornò alla notte di temporale in cui aveva puntato il fascio della torcia fra le pagine del libro, illuminando per la prima volta la figura di Lucignolo. Luca aveva fatto scivolare le dita attraverso l’illustrazione che raffigurava lui e Pinocchio davanti al carro degli asinelli, e quel soffice tocco lo aveva ricondotto proprio ad Alberto. Si era riacceso in lui il desiderio di farsi prendere per mano e di seguirlo dovunque volesse condurlo, di affidarsi a ogni promessa fioccata dalla sua bocca, di lasciarsi stregare da quel sogno di libertà e di ribellione da cui era già stato contagiato. «A me Lucignolo piace» disse Luca. «La gente secondo me è troppo ingiusta con lui.» Si tenne stretto fra le braccia ancora incrociate al petto. Si abbandonò a un sospiro avvilito. «Mi è così dispiaciuto, alla fine, quando si è trasformato in un asinello e poi è morto. È vero che ha trascinato Pinocchio nei guai, ma lo ha fatto solo perché credeva sul serio di rendergli la vita più facile, di realizzare un suo desiderio. Non di certo per ingannarlo. Non era cattivo, era solo…» Scosse le spalle. «Be’, un ragazzo giovane. E un po’ ingenuo.»

«Ehi, ehi» rise Alberto. «Ma anche noi siamo ancora ragazzi giovani, vacci piano.» Fece rimbalzare una spallata su di lui. «O hai già così tanta voglia di crescere e di diventare un vero bambino umano?»

Magari fosse possibile. Luca formulò quel pensiero ancora prima di accorgersene, ancora prima di rendersi conto che gli avesse attraversato la mente, quasi lo stesse covando da tempo, quasi non avesse aspettato altro che sbocciare dietro il suo orecchio. Lo spaventò. Però, fu anche inevitabile considerare, se potessi sul serio essere un ragazzo vero... un ragazzo umano…

«Ma sta’ tranquillo, Luca.» Alberto si batté due volte la mano sul petto, serio e solenne come un cavaliere che porge il suo giuramento davanti al re. «Sarò anche il tuo Lucignolo, ma non ti rapirò per portarti nel Paese dei Balocchi, te lo prometto. A meno che non sia tu a chiedermelo.»

Luca rise. Fu tuttavia una risata che gli punse la lingua e che gli accapponò la pelle, lo mise a disagio come il desiderio di potersi svestire della sua pelle di pesce e di diventare un vero ragazzo terreno. «Non è che anche a me piaccia poi così tanto l’idea di essere associato a Pinocchio» disse. «Nonostante sia circondato da tante persone e da tante creature che gli danno buoni consigli e che cercano di aiutarlo, Pinocchio combina un guaio dietro l’altro, disobbedisce, e soprattutto finisce sempre per coinvolgere nei suoi guai anche quelli che invece vogliono solo il suo bene.» Geppetto che aveva dovuto vendere la casacca per comprargli l’abbecedario, e che poi aveva patito sia il freddo sia la prigione sia la solitudine; la Fata dai Capelli Turchini che era morta di dolore dopo essere stata abbandonata da lui; il Grillo Parlante finito schiacciato sotto il suo colpo di martello; i suoi compagni di scuola rimasti coinvolti nei bisticci e nelle baruffe; e infine il povero Lucignolo che era morto da asinello perché, al contrario di Pinocchio, non aveva fatto in tempo a salvarsi. L’idea di essere associato a Pinocchio non era per nulla incoraggiante. «Spero almeno di riuscire a crescere un po’ più in fretta di lui» sospirò Luca. «E soprattutto di tenermi lontano dai guai.»

«Lontano dai guai…» La voce di Alberto si fece vicina, profonda, e insolitamente seria. «E dalle bombe d’acqua che piovono dal cielo.»

Luca sbiancò. Le assi di legno si sbriciolarono sotto i suoi piedi, la torre si disintegrò, il suo corpo in caduta libera precipitò in mare e sbatté la faccia sulla stessa barriera d’acqua che si era schiantata sulla sua guancia dopo l’esplosione del gavettone. Schiuse le labbra secche come sabbia. «Co…» Quel soffio di voce gli graffiò la gola. «Cosa?» Si girò di colpo verso Alberto. Gli occhi sgranati, la faccia grigia, e lo sguardo incredulo. «Come fai a…»

Alberto non sembrava turbato in alcun modo: i gomiti incrociati sulla cinta di pietra e le spalle sciolte. Anche lui si voltò a guardare Luca in viso, separato solo dal lento e caldo riflesso delle fiamme. Flesse le punte delle sopracciglia verso l’alto. I suoi occhi brillarono in un’espressione abbastanza eloquente da non aver bisogno di altre parole, di alcuna giustificazione.

Luca capì che Alberto sapeva già tutto. L’agguato dietro il muro della palestra, l’esplosione del palloncino, la sua faccia trasformata davanti agli studenti, e la fuga in bagno. Nonostante fosse ancora stordito, non se la prese. «Oh.» Ci fu però lo schiaffo dei ricordi, il lampo verde sfrecciato dietro la nuca, la sberla d’acqua in pieno volto, il fischio nell’orecchio – Can’t buy me love, love, love, can’t buy me... –, la sensazione delle gocce fredde rotolate fra le increspature delle squame, e lo strillo della ragazza vibrato fino al timpano.

Luca inspirò a lungo, batté le palpebre, e si staccò da quei suoni e da quelle immagini a cui aveva promesso di non ripensare almeno per tutta la durata dell’estate. Spinse forte le piante dei piedi sul pavimento di legno, smosse uno scricchiolio che lo riportò sulla torre, al sicuro, vicino al calore del fuoco, e affianco ad Alberto. «Lo hai saputo, allora.»

Alberto sbuffò. «Certo che l’ho saputo.»

«M-ma come» balbettò Luca, «chi te l’ha…» Eppure non l’ho detto né a mamma né a papà.

«Me l’ha detto Giulia, ovviamente. Perché?» Alberto gli scoccò un’occhiata più fine e inquisitoria. «Preferivi rimanesse un segreto?»

«Non è questo.» Luca irrigidì le spalle, gli diede la schiena e innalzò una corazza difensiva. Profonde unghiate gli solcarono la pelle delle braccia. «È che ormai è passato, e non è il caso di parlarne.» Per la prima volta, fu lui a dire una bugia. «Non fa più male.»

«Ma lo fa a me.» Alberto strinse i pugni e fece scricchiolare le falangi incallite. «Che maledetti» sbottò. «Maledetti e codardi.» Tirò su le spalle, si passò una mano fra i capelli e grattò una nervosa strofinata alla nuca. Lo sguardo buio, la fronte aggrottata, e un basso ringhio di rabbia a vibrare fra i denti serrati. «Se ci fossi stato io lì gli avrei dato la lezione che si meritavano. Gliele avrei suonate di santa ragione, proprio, da fargli pentire anche solo di aver preso la mira su di te.» Si adirò come si era adirata Giulia quel giorno nel bagno, bruciando sotto la stessa nera fiammata d’ira a cui bastava sfiorarti di striscio per ustionarti.

Cavoli, considerò Luca, ripensando alle parole di suo padre. È proprio vero che stanno cominciando ad assomigliarsi sempre di più. «Allora è stato molto meglio che tu non fossi lì mentre succedeva.» Infatti altre immagini poco rassicuranti gli balenarono in testa: Alberto che tremava di rabbia davanti agli aggressori, gli occhi verdi fiammeggianti d’ira, un ringhio di minaccia a gorgogliare in fondo alla gola, le zanne del Mostro Marino che emergevano anche senza il tocco dell’acqua, una zampata di vendetta che si abbatteva su coloro che avevano fatto del male a Luca e che poi…

Luca scrollò la testa e dissolse la nuvoletta di pensieri in cui quelle immagini erano affiorate. Gli era già capitato di cacciare Alberto nei guai, di vedere la sua vita messa a rischio per un suo atto di codardia. Non sarebbe mai più dovuto accadere. «Alberto, ascolta…» Si strinse una mano sul petto e tenne lo sguardo chino, schiacciato dalla colpevolezza. «La colpa è stata anche mia. Avrei dovuto dare retta a te e a Giulia, l’estate scorsa, e palesare immediatamente la mia identità e la storia del mostro marino. Se lo avessi…»

«Ma non è colpa tua, Luca» ribatté Alberto. «Non sei stato tu a tirarti in faccia il palloncino da solo. Non sentirti responsabile per la cretinaggine degli altri, credimi, non ne vale la pena.»

«Ormai non ha più importanza.» Luca scosse il capo. «Ormai non posso più tornare indietro.»

«Potresti, invece.»

«E come?»

«Svelando una volta per tutte la faccenda del mostro marino.» Alberto sciolse i pugni e ammorbidì lo sguardo. Le ombre di rabbia svanirono e misero in luce un’espressione più rassicurante. «Guarda che la cosa che ti ho detto l’anno scorso vale ancora. La maggior parte delle tue paure sono solo gli inganni di Bruno, fidati. Ecco: fai come Pinocchio.» Tese un braccio e simulò uno slancio, soffiò una risatina che avrebbe dovuto essere di conforto. «Prendi un martello, o sfilati la scarpa e schiaccialo, una buona volta.»

Luca non si sentì per nulla confortato. «Non è così facile.» Non è facile se non ci sei tu a farmi credere che sia possibile. «Non è facile come credi perché la vita che conduco a Genova è diversa da quella che vivo qui a Portorosso, Alberto.» Inevitabilmente l’occhio tornò a cadergli sulle luci del paese. Piccole luci che traballavano fra le rientranze della costa e attorno all’altura del monte su cui erano coltivati i filari delle viti. Luci timide e calde come fiaccole a petrolio. Luci molto diverse da quelle che splendevano sul porto di Genova, su quella città sempre vigile plasmata su roccia, ferro, cemento ed edifici color pastello. Un faro che volgeva su un mare infinitamente più vasto. «Se anche tu vivessi là capiresti» disse Luca. «Non è facile avere due facce come le ho qui dove tutti mi conoscono. E ci sono così tante cose che non avevo considerato quando…» Quando ho voluto avventurarmi in un’impresa più grande di me. Quando ero piccolo e ingenuo come Pinocchio. «Quando sono partito. E forse avrei dovuto pensarci un po’ più a fondo. Sai…» Fece roteare lo sguardo. «Studiare le alternative.»

«Invece no» controbatté Alberto, «perché è sempre stato quello il tuo problema. Tu pensi troppo, Luca.» Camminò attraverso i riflessi dondolanti delle fiamme così basse e scure. «Ti crei problemi dove non ce ne sono.»

«Be’, sai…» Pure Giulia gli aveva detto qualcosa di simile. Gli aveva detto che il suo passatempo preferito era crearsi problemi che non esistevano. Ma questo problema esisteva, e Luca lo fronteggiava ogni volta in cui tuffava le mani sotto un getto d’acqua, ogni volta in cui era costretto a spalancare un ombrello sotto la pioggia, ogni volta in cui si affacciava al mare e si ritrovava ad ascoltare il canto scrosciante delle onde, a inspirare il pungente odore di alghe e salsedine, e a schivare ogni schizzo che avrebbe potuto metterlo nei guai davanti agli occhi sbagliati. «La paura di morire non è esattamente un problema da poco su cui posso sorvolare. Non posso trascurarlo con così tanta leggerezza.»

«Lo supererai, non ti preoccupare» lo rassicurò Alberto. «Di questo sono sicuro al mille percento.» Dando la schiena al fuoco, tenendo anche lui lo sguardo alto e rivolto all’argento della Luna, la sua voce s’incupì. «Concentrati sul futuro, piuttosto, se sei ancora in cerca di un obiettivo da raggiungere. Concentrati su questo, invece che rimuginare su qualcosa che è già stato e che ormai non puoi cambiare.» Le sue parole risuonarono in maniera diversa nell’ambiente che pareva essersi svuotato del fischio del vento, dello scrosciare delle onde e dello scricchiolio delle braci. «Hai superato migliaia di difficoltà, Luca. Migliaia di pericoli e migliaia di ostacoli.» Si mise a braccia conserte, irrigidì le dita affondandole nelle maniche della camicetta blu, dondolò avanti e indietro sui talloni. «Riuscirai anche in questo. E se proprio sentissi di non riuscire a farcela…» Gli rivolse lo sguardo. Un bagliore d’affetto attraversò il verde dei suoi occhi. «Lo sai che puoi sempre fare ritorno qui.»

Luca sentì su di sé la stretta pressione di quell’atmosfera che si era addensata e caricata di tensione. Lo percorse un brivido, una quiete elettrica alimentata dallo scoppiettare delle braci e dalla brezza che si era fatta più pungente e penetrante. «Qui a Portorosso?» Scrutando il profilo di Alberto su cui danzavano le sfumature del falò, ebbe un capogiro, si sentì brillo persino lui che non aveva neanche annusato il vino. Forse era l’aria del mare aperto a dargli alla testa, forse era il bruciore del fuoco a farlo sentire così accaldato, forse era la presenza di Alberto a stordirlo, ma a Luca non importò di lasciarsi andare, di svuotarsi da certi pensieri, di dire qualcosa di stupido. Se c’era una sera in cui avrebbe potuto permettersi di dire qualcosa di stupido, era proprio quella. «O qui da te?»

Alberto sbarrò le palpebre, frizionò le unghie nella stoffa delle maniche, e irrigidì le spalle, ammutolito.

Dietro di lui, le braci del fuoco si frastagliarono – frush! –, ci fu un rigetto di scintille, un vortice di luce che si specchiò sulla guancia di Alberto, lo scricchiolio più acuto e secco di un legno che si era frantumato, e poi di nuovo l’abbassarsi delle fiamme, una luce rossa e viva.

Calò un silenzio surreale che si strinse allo stomaco come una morsa di ferro. Alberto lo interruppe con un lungo sospiro. «Tu cosa vorresti?» domandò a Luca. «Quale alternativa sceglieresti?» Compì un passetto per avvicinarsi a lui, ma rimase di profilo. «Se io non mi trovassi più qui, se io non ci fossi ad aspettarti…» Sciolse le braccia conserte e si strofinò le mani sui calzoncini. «Tu torneresti lo stesso a Portorosso?»

Luca stropicciò una smorfia con la punta del naso. «Che domande» rispose. «Certo che sì. Qui a Portorosso c’è la mia casa, ci sono i miei genitori. Non ho mai rinnegato questa vita, Alberto, anche se me ne sono allontanato.» Si posò la mano sul cuore, sul battito che ora pareva davvero somigliare al ritmico accavallarsi delle onde fra gli scogli. «Fa parte di me. Non potrei mai abbandonare completamente questo paese e questo mare.»

«E abbandonare me? Se…» Alberto allontanò lo sguardo, si strofinò la nuca con gesti rapidi e nervosi, e ora fu lui quello a rimpicciolirsi sotto la luce del fuoco. «Se per esempio…» Si sfilò la mano dai riccioli e la fece mulinare a mezz’aria. «Mettiamo caso che un giorno tu dovessi decidere se seguirmi o meno, anche a costo di dover lasciare Portorosso, tu lo faresti?»

Luca tirò indietro il viso, frastornato come se avesse ricevuto un colpo. Lasciare Portorosso…

Il pensiero di non avere più le luci di quel paese a guidarlo e ad accoglierlo gli fece tremare le gambe, spalancò un vuoto sotto i suoi piedi e lo risucchiò nell’intangibile oscurità degli abissi da cui non sarebbe potuto emergere nemmeno nuotando a perdifiato. «Perché me lo stai chiedendo, Alberto?» Non gli piacque la piega che stava prendendo quel discorso. «Hai forse intenzione di…» Deglutì. La bocca era secca e amara. «Di andartene?» Perché ci siamo messi a fare questo discorso? È assurdo. Fossi stato zitto prima…

Alberto tornò a girarsi, la guancia a sfioro della spalla, e inchiodò Luca sotto la pressione di un’occhiata buia e carica di mistero. «E se lo facessi per davvero?»

Luca venne travolto da una vampata di gelo. «Alberto, cosa…»

«Se io un giorno decidessi di andarmene…» Con soli due passi, Alberto gli si piazzò davanti. Rivolse l’indice al cielo. «Poniamo…» Spostò il dito, indicò prima Luca e poi se stesso. «Poniamo il caso che io mi tenga sul serio la Vespa, questa volta, e mettiamo che io un giorno venga fino a Genova a prenderti e che ti dica: Luca, salta su ché ce ne andiamo. E mettiamo che poi io ti portassi in un posto dove…» Spalancò il braccio verso le luci di Portorosso. «In un posto dove non dobbiamo essere costretti a starcene separati per tutto l’anno tranne che per questi tre miseri mesi. Tu cosa faresti? Salteresti sulla Vespa o mi scaricheresti?»

Luca tenne fermo il contatto visivo. Trattenne il fiato e rimase immobile, sapeva di non poter cedere nemmeno di un battito di ciglia. Lasciare Portorosso. Salire sulla Vespa e partire assieme ad Alberto. Andarcene in un posto dove possiamo stare assieme tutto il tempo che vogliamo. Si convinse che Alberto lo stesse solo mettendo alla prova. Sicuramente non stava parlando sul serio. O sì? «Tu mi chiederesti sul serio di seguirti?»

Alberto scosse il capo. «Non rigirare la frittata, non è quello che ti ho chiesto.»

«E allora rispondimi prima tu.»

«No, non vale, io te l’ho chiesto per primo.»

«Alberto!»

«Sì.» Alberto strizzò i pugni. Un fremito di tensione risalì le braccia e gli indurì le spalle. «Sì, soddisfatto? Io lo farei. Se un giorno dovessi decidere di andarmene, tu saresti il primo a cui chiederei di seguirmi.» Gli si avvicinò di un altro passo, «Rispondimi tu, adesso», e Luca si ritrovò con la schiena al muro. L’aureola di fuoco danzò attorno alle spalle di Alberto, ingigantì la sua figura, oscurò le ombre sul suo viso. «Tu mi seguiresti?»

Luca strinse le mani con cui si era aggrappato alle rientranze della pietra. Rimpicciolì davanti ad Alberto, succube del suo sguardo e prigioniero di quei pensieri che non seppe ordinare e distinguere l’uno dall’altro. Era una situazione troppo assurda da razionalizzare.

Andarcene. Eppure si trattava di un desiderio che già conosceva, un pensiero che anni prima aveva già formulato. Ma ora era tutto così diverso. Ma andarcene alla conquista di cosa? Io ho lasciato Portorosso per cercare tutte le risposte che qui non posso trovare, per imparare tutto quello a cui non mi sarei nemmeno avvicinato, se fossi rimasto sott’acqua. Ma nemmeno io conosco quello che sto inseguendo. Le mie uniche preoccupazioni adesso ruotano attorno alla scuola, allo studio, ai bei voti, al tenermi lontano dai gavettoni volanti, e a capire come potrò mai cavarmela quando diventerò grande. A capire quello che dovrò fare della mia vita se vorrò continuare a camminare anche da solo nel mondo degli umani. Non c’è più tempo per i sogni a occhi aperti, per le fughe senza meta, per i salti in Vespa dalle scogliere. Lo realizzò con un tale rammarico da straziargli il cuore. Quell’epoca è finita. Se proprio voglio riporre i miei sogni su qualcosa, devo almeno assicurarmi che sia fattibile. Un sogno concreto e realistico. Un altro pugno di dolore gli fece vacillare lo sguardo. Un sottilissimo velo di pianto sorse a pungergli gli occhi. Anche se Alberto non potrà farne parte.

«Non possiamo andarcene, Alberto.» Luca si allontanò dall’ombra di Alberto. Si strofinò il braccio sulle palpebre, riprese il controllo, e distolse lo sguardo prima di combinare qualche guaio, prima di ritrovarsi succube delle follie di Alberto, prima di farsi nuovamente rapire da quei selvatici occhi verdi che, non poteva negarlo, avrebbe davvero inseguito fino in capo al mondo. «Ormai è finito il tempo in cui potevamo scappare senza conseguenze. Io non voglio questo. Non è il futuro che desidero, non dopo tutti gli sforzi che compio ogni giorno per tenermi stretto quello che ho guadagnato in questi anni, e non dopo quello che anche altre persone stanno sacrificando per aiutarmi a raggiungere i miei sogni.» Io non voglio rimanere un ingenuo, non voglio comportarmi da ingrato. Non voglio fare la fine di Pinocchio. «E sono sicuro che anche per te è lo stesso.» Raddolcì lo sguardo. Gli rivolse un sorriso che avrebbe dovuto essergli di conforto e che avrebbe dovuto ricondurlo alla ragione. «Sono sicuro che nemmeno tu vuoi questo.»

Ma Alberto irrigidì, attraversato da un sospiro, da uno spasmo di dolore che incrinò quella corazza forgiata proprio dal riflesso delle fiamme che gli bruciavano sulla pelle color bronzo. Gettò lo sguardo al pavimento, afflitto e sconfitto come un soldato che crolla in ginocchio sul campo di battaglia sporco del suo stesso sangue. «D’accordo.» Diede le spalle a Luca, riattraversò la cima della torre e s’infilò una mano sotto l’orlo della camicetta per grattarsi il fianco. Indurì il tono e ripeté: «D’accordo, ho capito».

Luca tastò l’ombra nera del suo malumore, quell’aura respingente che ormai conosceva più che bene. «Cosa…» Di nuovo torse la punta del naso in una smorfia. «Non…» Squadrò Alberto con incomprensione. Non riuscì a capire cos’avesse detto di male. «Non te la sarai mica presa?»

«Che c’è?» sbottò Alberto. «Ti ho detto d’accordo.» Pescò un legno dalla catasta, lo rigirò, lo lasciò cadere, ne agguantò uno più piccolo e ritorto e lo gettò con noncuranza fra le braci. «Ti sembra che me la sia presa se ti ho detto d’accordo

«Ma sei tu che hai…»

«Senti, chiudiamola qui, va bene?» Alberto si spolverò le mani. Un gesto sbrigativo per disfarsi di quel discorso che gli aveva inasprito la voce e imbronciato il muso. «Fine della discussione. Non mi va di litigare.»

Dio, Luca proprio non lo sopportava quando si comportava così. «Sei tu che hai cominciato.»

«E infatti la sto chiudendo qui.» Le sfumature del fuoco, ravvivate dal legno appena consumato dalle braci, schiarirono il viso di Alberto e abbagliarono i suoi occhi lucidi, forse per il vino che aveva bevuto a cena. «Punto e basta.» Alberto si diede una strofinata al naso continuando a fissare le fiamme. Il luccichio dei suoi occhi traballò e si smarrì. Una luce ancora arrabbiata, ma pregna di una tristezza liquida e profonda. Aveva l’aria un po’ brilla, in effetti.

Luca scosse il capo prima di farsi prendere dalla compassione. «Non dovresti continuare a bere vino.» Tornò a piegare le braccia sopra il cornicione, si affacciò di nuovo al mare. Si tenne distante. «Ti fa dire cose strane.»

Alberto sbuffò. «Io dico sempre cose strane.»

«Ancora più strane del solito, allora.» Luca prese un lungo sospiro e acquietò i nervi, si costrinse a rimanere calmo per non peggiorare la situazione. Almeno lui. «Basta che non lo fai diventare un vizio.» I bollori sfumarono sul nascere e scivolarono via dal sangue. Si sentiva troppo esausto per sforzarsi di rimanere arrabbiato. Il peso della stanchezza infatti tornò ad aggravarsi. Esposto così apertamente al vento della sera, al mare sempre più nero e alla Luna sempre più alta e fredda, Luca rabbrividì. Si strofinò le braccia e batté i denti, graffiato da uno spasmo di gelo e umidità.

Nonostante fosse distante, Alberto non tardò ad accorgersene. «Hai freddo?»

Luca scosse il capo ma si tenne stretto nelle spalle. Lo sguardo schivo e distante. «Sto bene.»

«Stai tremando.»

«Alberto…»

«Vuoi una coperta?»

«Io…» Luca sgranò gli occhi, frastornato, ma almeno si decise a girarsi verso Alberto. «Cosa?»

Alberto rivolse l’indice verso il basso. «Se vuoi una coperta.» Pure lui sembrava essersi acquietato. La mano libera affondata nella tasca dei calzoncini e le spalle sciolte, prive di tensione. Nessun broncio a immusonirlo o a tenergli la fronte aggrottata. «Giù ne ho un paio.»

«Tu…» Luca flesse il capo di lato e si strofinò dietro l’orecchio. Continuò a non capire. «Tu hai delle coperte quassù?»

«Sono sempre utili» spiegò Alberto. «Certe volte, quando mi fermo qui nei pomeriggi per lavorare ai progetti o alle riparazioni, può diventare freddo all’improvviso, soprattutto dopo una nuotata. Fare su e giù dal mare d’inverno non è facile come d’estate, sai. E così ne ho portate un paio nel caso abbia bisogno di scaldarmi.» Sollevò le sopracciglia. «Allora, ne vuoi una, sì o no?»

Luca tornò a gettare lo sguardo ai suoi piedi. «N-no.» Ora fu lui a innalzare una corazza respingente, senza nemmeno capirne il motivo. Ma la colpa era di Alberto: era lui a farlo sentire così confuso! «Sto bene, ti ho detto.» Si diede un’altra nervosa strofinata alle braccia nude che erano rabbrividite di nuovo, anche se non più per il freddo.

Alberto alzò gli occhi al cielo, si passò una mano fra i capelli, parlò con tono pacato e paziente. «Be’, io invece comincio ad avere freddo.» Ora era lui quello a sembrare l’adulto, fra i due. «E non ho intenzione di congelarmi.» Imboccò i gradini, scese giù un saltello alla volta. «Torno subito.» E scomparve assieme alla sua ombra proiettata dal fuoco e assieme al soffice eco dei suoi rimbalzi a piedi nudi.

Luca si ritrovò da solo, unicamente in compagnia del dondolio delle fiamme e dello scricchiolio delle braci. Una fitta di rimorso gli rese la bocca amara e il cuore pesante, nauseandolo. Si pentì di aver parlato in quel modo ad Alberto, di essersi dimostrato così scostante nei confronti delle sue premure. Strizzò i pugni e si picchiò le nocche sulle tempie. Stupido, stupido, si rimproverò. Perché mi sono comportato così? Perché ora sono io quello a essere diventato così scontroso? Magari Alberto voleva solo fare pace e io invece l’ho respinto. Avrebbe voluto rimediare, avrebbe voluto dirgli che gli dispiaceva, ma seppe già che non ci sarebbe riuscito. Una consapevolezza che lo confuse ancor di più. Perché sta diventando tutto così complicato? Si accasciò di petto sulla cinta di pietra, demoralizzato e schiacciato dalla confusione, dalla coda di stanchezza che quella giornata infinita si trascinava dietro. Perché il tempo non può essersi fermato a due estati fa? A due estati prima, infatti. Quando sembrava davvero che bastasse una fuga in Vespa per risolvere ogni loro problema.

Alberto ricomparve in cima alla torre, sempre accompagnato dal soffice schiaffeggiare dei piedi nudi sul legno verniciato. Andò a sedersi davanti al fuoco, raccolse le ginocchia al petto, spiegò la coperta e se la rimboccò attorno alle spalle.

Luca ruotò la coda dell’occhio per sbirciare. Si ritrovò a osservare un fagottino avvolto in un largo panno di lana cotta color mattone reso ancor più rosso dalla tinta delle fiammelle davanti a cui Alberto si stava riscaldando. Fu inevitabile sorridere. «Ma allora è proprio vero che quassù hai delle coperte.»

Alberto arricciò un angolo della bocca verso l’alto. «Ne dubitavi?»

«Non me lo aspettavo» confessò Luca. «Però…» Meditò su quanto fosse cambiato quel posto. Cambiato come erano cambiati lui e Alberto. «Hai le reti dei vecchi letti, hai le coperte.» Picchiettò il tallone nudo sul pavimento. «E hai pure il tetto nuovo. Potresti trasformare questa torre in un albergo, prima o poi.»

«E non mi rubare l’idea, eh?»

Risero entrambi, senza sforzo e senza alcun rancore.

Ma il brivido di quella risata improvvisa si arrampicò su per i piedi scalzi di Luca, gli fece ballare le ginocchia, gli graffiò la schiena, e lo costrinse a tremare di nuovo. I piedi si arricciarono, intorpiditi sulle punte. I denti batterono più rumorosamente, le labbra sbiancarono, e le unghie solcarono un ruvido strato di pelle d’oca.

Per la seconda volta, Alberto non tardò ad accorgersene. «Ehi, Luca.» Luca non fece nemmeno in tempo ad alzare lo sguardo, o a rispondergli, che Alberto aprì un lembo della coperta e gli fece spazio affianco a sé. «Dai...» Diede uno sventolio allo spigolo di stoffa, incitandolo. «Vieni sotto prima di trasformarti in un pesciolino surgelato.»

Luca non poté fare altro che arrendersi.

Andò a sedersi, accettò il pezzo di coperta, si avvolse nella lana cotta che era ruvida ma calda, trovando un immediato sollievo ai brividi, e strinse le gambe al petto per non rischiare di toccare Alberto. Compì un piccolo rimbalzo di lato facendo scricchiolare il pavimento. Non volle nemmeno rischiare di sfiorargli la spalla con il gomito o di urtargli la gamba con il piede. Tenne lo sguardo girato, distante, fisso sulla danza del fuoco, in modo da non incrociare alcun contatto visivo.

Gli era vicino, indubbiamente più vicino di quanto non gli fosse stato durante la cena e durante la nuotata da Portorosso all’isola. Luca chiuse gli occhi, inspirò piano, e riconobbe il suo profumo di salsedine, di mare aperto, di acque selvagge e di onde impetuose. Udì il soffio flebile e un po’ ruvido del suo respiro. Percepì il lento e ritmico alzarsi e abbassarsi delle sue spalle che, muovendosi, sfregavano leggermente sulla lana della coperta.

Luca si morse il labbro inferiore, strizzò le dita fra le pieghe della stoffa, e incassò una calda fitta al cuore che appagò tutta la nostalgia provata a Genova e che colmò quel senso di mancanza che gli era pesato sul petto durante tutto l’inverno.

Un respiro più lungo gli sprofondò nella pancia, accese in lui un battito che si propagò bruciando fino alle punte dei piedi.

Turbato, Luca spostò la gamba e urtò il piede nudo di Alberto. Quel contatto improvviso gli diede la scossa, facendolo gemere di sorpresa e asciugandogli la gola. Gli girò la testa. Il respiro si appesantì e annodò un groppo caldissimo alla bocca dello stomaco, lì dove era sceso a raccogliersi il profumo di Alberto nel momento in cui Luca lo aveva inspirato così da vicino.

Luca strinse più forte i denti sul labbro, piegò il capo in avanti, contro le ginocchia, e si rimboccò la coperta attorno alle spalle per tenersi nascosto e lontano dalle vibrazioni del suo corpo.

Era una situazione assurda. Solo un paio di anni prima non avrebbe esitato ad appoggiare la spalla alla sua, a rannicchiarsi al suo fianco e a farsi stringere per combattere il freddo. Invece ora sentiva che non sarebbe stato giusto, che si sarebbe trattato di un gesto poco appropriato. Un gesto proibito e riprovevole come strillare una parolaccia nel giardino della scuola, o anche peggio. Un gesto dietro cui avrebbe potuto celarsi una qualche pulsione sconosciuta.

Allora è vero.

Luca stropicciò la coperta fra le dita, sgranchì le punte dei piedi e succhiò dal labbro il sapore di mare e di gelato all’amarena. Fece di tutto per distogliere l’attenzione da quel gomitolo di pensieri che non sapeva come sgarbugliare.

È vero quello che ho provato quando ci siamo rivisti, quando ci siamo riabbracciati alla stazione. È vero che fra me e Alberto qualcosa è cambiato. Se ne sarà accorto anche lui? Per questo si sta comportando in modo così strano, e per questo è stato così facile attaccar briga e bisticciare? Forse si è stufato di me, è questo?

Ma per Luca il legame con Alberto era ancora troppo prezioso. Non poteva permettersi di perderlo, non per una paura così sciocca. Doveva rimediare subito. «Alberto, riguardo…» Inspirò fra le labbra. La gola fremette, ancora in tensione, e le spalle irrigidirono sotto il peso della lana. «Riguardo la cosa che ci siamo detti prima…»

Alberto, le braccia avvolte attorno alle gambe e il mento poggiato sulle ginocchia, curvò un sopracciglio senza però distogliere gli occhi dal fuoco. «Mh?»

Luca rilassò le dita arpionate alla coperta, si strofinò un polpaccio. «Sai, no, tutta la faccenda di lasciare Portorosso, e di andare da qualche altra parte, di stare assieme sempre e non solo d’estate. Io…» Guardò verso la Luna per darsi coraggio, per attingere dalla sua infinita e celestiale saggezza. «È chiaro che vorrei venire con te e che ti seguirei se decidessi di stare via per un po’, di viaggiare in altre città, di esplorare tutti quei posti che abbiamo sempre desiderato visitare. È come abbiamo detto l’anno scorso, ti ricordi?» Una delle ultime sere che lui, Alberto e Giulia avevano trascorso sul rifugio sull’albero. Anche durante quella sera Luca aveva osservato lo stesso cielo e aveva rivolto le sue speranze alla stessa Luna. «Quella sera che abbiamo esplorato le carte geografiche assieme a Giulia.»

Alberto rise, rallegrato anche lui dai riflessi luminosi di quella memoria. «Sì, mi ricordo.»

«Ecco» gli spiegò Luca. «Io verrei con te, ma a patto di tornare. Sì, insomma…» Tamburellò le dita strette attorno alle gambe e scosse la testa. «Non se si dovesse trattare di scappare.»

«No, no.» Alberto sembrò capirlo. «Chiaro che no.»

Luca annuì. «Non sarebbe giusto nei confronti di tutti quelli che ci aiutano e che ci sostengono ogni giorno, non ti pare?» Continuò a insistere anche a rischio di suonare fastidioso, ma doveva assicurarsi che Alberto non la prendesse sul personale. «E secondo me non sarebbe giusto nemmeno nei confronti di noi stessi.»

«Infatti» gli rispose Alberto, «chi mai ha parlato di scappare per sempre?» Di nuovo pescò un bastoncino di legno dalla catasta e rigirò le braci che si stavano assopendo. «Nemmeno io intendevo in quel modo.»

«Oh.» Luca annuì. Le fiamme ravvivate gli bruciarono le guance e splendettero attraverso le sfumature nocciola dei suoi occhi. «Bene, allora.»

«Già.» Alberto succhiò fiato dalle narici e si strusciò il braccio sul naso. «Bene.» Gettò il bastoncino nel fuoco.

Luca fece dondolare le ginocchia e tossicchiò. «L’importante è che ci siamo chiariti, giusto?»

«Direi di sì.» Lo sguardo di Alberto finalmente gli scivolò addosso. Il vivo rossore delle fiamme a danzargli sulla guancia color bronzo. «Ma tu ti fideresti? Insomma, non avresti paura a viaggiare con me a bordo della nostra Vespa?»

Le labbra di Luca s’incresparono in un piccolo sorriso carico di ricordi. «Solo se prometti di non saltare più giù da una scogliera.»

«Cosa?» esclamò Alberto, inorridito. «E dov’è il divertimento se non lo faccio?»

«Alberto…»

«Scherzavo.» Alberto gli diede una piccola spallata da sopra la coperta. «Non correrei mai più pericoli del genere, sapendo di dover badare a te.»

«Mi fido.» Luca parlò senza impiccio, senza alcun formicolio a bruciargli dietro la nuca e senza nessuna nota di amarezza a pungergli la lingua. Questa volta fu certo di non star covando alcuna seconda intenzione nei suoi confronti. «E mi fiderei anche di viaggiare con te in giro per il mondo, se è per questo.»

«Dopo tutto questo tempo riesci ancora a fidarti di me?» Alberto spernacchiò una delle sue solite risate da gradasso. «Mi fa piacere.»

«Ma io mi fiderò sempre di te, Alberto, a prescindere.» Quella era una certezza su cui Luca sapeva di poter sempre fare affidamento. «So che tu non mi inganneresti mai.»

Alberto gli diede un colpetto d’anca. «Nemmeno se mi sbucasse una coda da volpe al posto della coda da pesce?»

Risero di nuovo assieme, e in quell’istante tornarono bambini. Due sciocchi e ingenui pesciolini che guardano il mare dall’alto, che sorridono davanti all’immagine della costa colorata dalle casette del paese, e che già si immaginano padroni del mondo, liberi e felici come delfini che fanno le capriole fra le onde.

«Se ci pensi» disse Luca, una volta placate le risa. «Quello che facciamo noi due è proprio l’inverso di quello che fanno il Gatto e la Volpe. Il Gatto e la Volpe ti promettono una vita facile, ma ti imbrogliano. I veri amici invece ti incoraggiano e ti sostengono anche verso quelle strade che sembrano più faticose e difficili da affrontare. Ti mostrano la strada giusta quando tu non riesci a trovarla, quando tutto ti sembra troppo difficile per essere affrontato da solo.» Un sospiro. «Quando è facile rischiare di cadere nelle trappole degli imbroglioni.»

Le labbra di Alberto rimasero curve in quello che sembrava proprio un dolce sorriso di sollievo. Gli occhi s’incantarono sul profilo di Luca. «Ed è per questo che ti fidi ancora di me?»

«Sempre.» Quelle parole attraversarono le labbra di Luca con la stessa facilità con cui le attraversava il suo stesso respiro. «Non smetterò mai di fidarmi.»

Alberto esitò. Le mani strinsero sulla coperta e i tratti del volto irrigidirono, quasi non osasse sperare. «Perché?»

«Perché…» Luca si girò verso di lui senza alcuna soggezione, senza più il timore di guardarlo negli occhi. «Noi due siamo amici.» Accennò un fioco sorriso. Adesso era lui quello che non osava più sperare. «Giusto?»

Gli occhi di Alberto rabbuiarono. Le fiamme del falò si abbassarono e sfumarono un’espressione più dura attraverso il suo viso che, per la durata di un soffio di vento, divenne estraneo e distante. «Già…» Voltò la guancia. Affondò le unghie nella coperta e le sue dita sbiancarono per la tensione. «Amici…» Fu un mormorio bassissimo, ma Luca riuscì comunque a udirlo, come riuscì a percepire la freddezza del suo tono, quella barriera respingente che era tornata ad addensarsi attorno ad Alberto come una nera foschia.

Luca sobbalzò, stordito da quella reazione. Cosa...

Alberto tornò a strofinarsi il naso, si chinò a grattarsi le gambe, le caviglie, fece dondolare le ginocchia avanti e indietro, e dimenò una spalla per sfilarsi la coperta di dosso. «Tieni.» Avvolse anche la sua porzione attorno a Luca. Gli diede due sbrigative pacche sulla spalla. «Copriti bene.» Imitò la gestualità di Massimo, le premure che usava con lui. «Se prendi freddo Daniela mi uccide.» Si mise in piedi con uno slancio, stiracchiò le braccia verso l’alto, flesse il capo di lato per grattarsi sotto il bavero della camicetta, e si allontanò dal calore del fuoco. Tornò ad affacciarsi, a incrociare le braccia sul cornicione della torre, a volgere lo sguardo al mare che era buio come lo erano diventati i suoi occhi.

Luca sollevò il lembo di coperta che gli era scivolato davanti alla faccia. Sbatacchiò le palpebre, ancora frastornato dalla reazione di Alberto e dalla sua lontananza improvvisa. Ma… cos’è successo? Il dolore di un dubbio gli accoltellò il cuore. È qualcosa che ho fatto? Ho detto qualcosa di male? Oggi proprio non riesco a capirlo.

Era la verità: quel giorno non riusciva a comprendere Alberto, ma in realtà non riusciva a comprendere nemmeno se stesso.

Uno sciame di brividi gli risalì la schiena, pungendogli il viso e le braccia, e distaccandolo da quei pensieri. Luca schiacciò le ginocchia al petto e si infagottò nella coperta, andò in cerca dello stesso sollievo che aveva provato quando se l’era avvolta attorno alle spalle, ma fu diverso. Fu diverso perché Alberto non era più al suo fianco, perché alzandosi e allontanandosi aveva spalancato un vuoto che nemmeno il calore del fuocherello riuscì a intiepidire.

Di nuovo Luca percepì quel senso di oppressione stringersi attorno al cuore. Arricciò i piedi, mosse le punte delle dita sfregandole sulla lana, lo stesso scatto con cui poco prima aveva urtato il tocco di Alberto, generando quella piccola scossa. Gli venne in mente qualcosa di importante.

La pelle di Alberto era tiepida, quando ci siamo toccati. Lui non è mai rabbrividito, non ha mai battuto i denti, non si è strofinato le braccia nemmeno una volta.

Soffiò il fiato che aveva trattenuto. Il peso di quella considerazione gli crollò sulle spalle ricurve.

Non ha mai avuto freddo. È sceso a prendere la coperta solo per lasciarla a me. Ma allora perché non riesco a sentirmi felice? Dovrei essere contento quando Alberto si preoccupa per me, no? E invece non capisco più niente. Prima mi avvicina, poi mi respinge, poi si mette a dire cose strane e a prendersela con me per qualcosa che non so nemmeno di aver fatto.

Sentiva come se con quei reciproci gesti di premura e con quegli sguardi schivi si stessero rincorrendo a vicenda, per poi respingersi non appena gli capitava di sfiorarsi.

Tipo il gatto col topo? rimuginò Luca. No, il gatto e il topo non giocano in questo modo. Il gatto raggiunge il topo e se lo mangia. Noi due siamo come…

Come un gatto e una volpe. Un gatto e una volpe che si rincorrono fra le ombre di un bosco. L’immagine lampeggiò nitida e palpabile nella mente di Luca: la volpe inseguiva il gatto, gli mordeva la punta della coda, il gatto si girava a soffiare e le stampava una graffiata sul muso. La volpe scappava, ma il gatto decideva di inseguirla, di saltellarle attorno, di posare il nasino sul muso ferito, e di tornare a fuggire quando la volpe avrebbe ricominciato a scodinzolare. Così erano diventati loro due: la volpe scema e il gatto ancor più stupido.

Confortante.

E un po’ di conforto era proprio ciò di cui Luca aveva bisogno.

Tornò a rannicchiarsi sotto la coperta, accostò il naso a un lembo di lana, chiuse gli occhi e ne inspirò il profumo, concedendosi quello che avrebbe desiderato fare prima stringendosi al fianco di Alberto.

Profuma come lui.

Luca distinse ogni nota che componeva quella melodia: salsedine, olio per motori, foglie di basilico fresco, caffè tostato e stufa a legna. Era un profumo inebriante e delizioso. Gli scese fino in pancia riempiendola di un calore saziante, lo stesso trasmesso dal dolce vapore di un buon piatto di pasta. Caricò Luca di una tensione che lui avrebbe voluto sfogare sprofondando nel petto di Alberto, aggrappandosi con le mani alla sua schiena, annegando nel suo abbraccio, respirando contro la sua spalla, e sfiorandogli il collo con le labbra e la punta del naso come succedeva quando si stringevano alla stazione dei treni. Le volte in cui Luca era costretto a soffocare le lacrime in fondo alla gola e a inghiottire tutto il dolore di quella separazione. Ma quello che ora cercava era un abbraccio in cui restare, non un abbraccio da cui staccarsi per dire addio.

Non dovrei pensare a lui in questo modo.

Una fredda botta di sensi di colpa gli raggelò il sangue e gli accapponò la pelle, nonostante la coperta.

Non dovrei vedere Alberto sotto questa luce. Lui è il mio migliore amico, ed è anche un maschio. Due maschi non fanno queste cose.

Era una colpevolezza che in qualche maniera aveva già provato. Era successo la prima volta in cui aveva respirato l’aria della superficie, quando aveva sgranato gli occhi verso il cielo ritrovandosi ad ansimare di stupore davanti al bianco delle nuvole, alle chiome degli alberi, allo stridere dei gabbiani e al profumo speziato del vento estivo che gli era soffiato fra i riccioli. È sbagliato.” Questo aveva detto la prima volta in cui si era ritrovato trasformato, asciugato dal sole, steso a pancia ingiù sulla spiaggia dell’isola, stordito come un tonno appena sganciato dall’amo della canna da pesca. Tutto quello che la mamma e il papà gli avevano sempre insegnato, tutto quello su cui si erano sempre raccomandati, tutto quello che gli avevano vietato… Alberto era stato in grado di ribaltarlo in un solo fatale e irrimediabile istante.

Forse è per questo che Alberto si sta allontanando da me.

Dopo un sospiro, Luca lasciò cadere il capo in avanti. La fronte sulle ginocchia e i capelli illuminati dal fuoco.

Forse anche lui ha capito che qualcosa è cambiato. Forse si è accorto che anche io mi sto comportando in maniera diversa nei suoi confronti, e così preferisce starmi lontano per non sentirsi strano pure lui. Oh no...

Si posò la mano sulla bocca, morso dal panico. Sorsero gli stessi brividi di paura che lo aggredivano quando la voce di Bruno si accostava al suo orecchio per ingannarlo.

E se non volesse più essere mio amico? Ecco perché ha fatto quella smorfia strana quando gli ho detto “perché noi due siamo amici”. Ma no, non può succedere, ce lo eravamo promesso. Ci eravamo promessi di rimanere amici per tutta la vita. Sul serio è bastato così poco per fargli dimenticare della nostra promessa? E pensare che io invece ho così tanta paura di perderlo.

Colto dall’impulso di raggiungerlo, di tenerselo stretto, Luca si girò a guardarlo.

Alberto...

E gli mancò il fiato.

La luce gettata dalle fiamme così rosse batté sulla schiena e lungo il fianco di Alberto, delineò i tratti del suo corpo irrobustito, l’ampiezza delle spalle, la lucentezza della sua pelle color bronzo, e proiettò una lunga ombra dai suoi piedi accavallati.

Fu facile per Luca rendersi conto di quanto Alberto fosse cresciuto, osservandolo sotto la luce di quello che pareva proprio il caldo riverbero di un lumino a petrolio. E fu anche facile rendersi conto di come lo stesse guardando in maniera diversa rispetto a quando erano bambini. Si soffermò sulla sua schiena più larga, sulle braccia incrociate che, a dispetto di quello dichiarato da Giulia, avevano sul serio guadagnato le curve di qualche muscolo, e sui tratti del viso un po’ più asciutto su cui però splendevano gli stessi occhi verdi che non erano mai cambiati. Occhi che adesso, rivolti al mare e bagnati dalla luce della Luna sospesa su di loro, luccicavano di una malinconia liquorosa e tangibile.

Le guance di Luca andarono a fuoco e la testa si annebbiò, soffocata da una luce opaca ed eterea. Luca immaginò che fosse quella la sensazione che si prova dopo una lunga e pungente sorsata di vino.

Oh...

Il cuore batté un tonfo sordo e soffocante, talmente improvviso e violento che Luca dovette strizzare una mano sul petto per frenare l’eco di quel colpo. Ebbe voglia di piangere, di aggrapparsi ad Alberto e di farsi stringere per colmare quel doloroso senso di mancanza, per non sentirsi sprofondare in quel vortice di confusione senza fondo.

Non precipitò nel vortice, ma precipitò invece fra le pagine di Pinocchio. Le parole del romanzo lo attraversarono ed evocarono l’immagine di Lucignolo.

 

“… ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte.”

 

Alberto Scorfano… il suo Lucignolo. Un Lucignolo che un tempo gli aveva davvero porto la mano per avventurarsi assieme a lui verso il Paese dei Balocchi, in un luogo dove sfrecciavano Vespe selvagge, dove ogni notte avrebbero dormito sotto un cielo di acciughine, vegliati dal Pesce-Luna e protetti dalla vicinanza reciproca.

E invece tutto quello che abbiamo trovato sono state reti, arpioni, pescatori assetati di sangue, e le mie paure ossessive a dividerci e a minacciare la nostra amicizia.

Però ne erano usciti, e lo avevano fatto assieme. Non avevano fatto la fine dei merluzzi appesi all’amo, né quella dei somarelli venduti per la pelle da tamburo. Potevano ancora percorrere assieme quel viaggio, tenersi per mano, chinarsi ad aiutarsi dopo una caduta, e guidarsi a vicenda attraverso lo sconfinato mondo degli umani anziché in quello degli sciocchi burattini che non vogliono crescere.

Le loro strade erano diverse, poteva sembrare che si fossero divise, ma Luca non aveva mai smesso di percepire la vicinanza con Alberto, perché Alberto era quel globo di luce che si accendeva per lui ogni volta in cui Luca lasciava Portorosso, la fiamma che gli indicava la strada da percorrere quando vi faceva ritorno. Era il faro tanto agognata dai pescatori e dai naviganti. Quella luce che ti raggiunge in mezzo al mare in burrasca, che ti guida verso la spiaggia più sicura, e che ti conduce verso lo scoglio più solido a cui appenderti quando persino le sferzate delle onde ti rigettano.

Luca si chiese se quella luce sarebbe sempre stata in grado di raggiungerlo le volte in cui si sarebbe smarrito, le volte in cui sarebbe inciampato lungo la strada, le volte in cui gli abissi si sarebbero spalancati minacciando di inghiottirlo verso il loro fondale. Si chiese se sarebbe per sempre rimasta accesa per lui.

 

***

 

Un’altra estate volò via, si dileguò come il battito d’ali di un gabbiano che migra trascinato dalle correnti dello Scirocco, inseguendo l’ultima dorata scia di sole estivo che conduce dove il mare è sempre tiepido, di un azzurro turchese, e dove la macchia di vegetazione non cessa mai di verdeggiare e di profumare di miele e di polline.

Quella notte sulla torre, Alberto indossava una camicetta di flanella a maniche corte di una tinta a quadri blu e azzurri. Massimo aveva tanto insistito perché si vestisse elegante per la cena, e lui lo aveva accontentato, anche se si era dovuto controllare per tutta la serata, sforzandosi di non grattarsi troppo e di non continuare a sgualcire il colletto. La notte, tornato dall’isola, aveva ripiegato la camicetta con cura e l’aveva infilata nel cassettone del guardaroba dove teneva gli abiti che non fossero quelli da lavoro o da nuoto. Poi se n’era dimenticato, e non l’aveva più indossata per tutto il resto dell’estate.

A settembre inoltrato, giunse l’ora di svuotare il guardaroba e di sostituire gli abiti della stagione calda con quelli della stagione fredda. Alberto si rimboccò le maniche, sorvegliato da Principe e Machiavelli, e si mise all’opera sparpagliando pile di maglie, camice e pantaloni su tutto il pavimento, le ordinò una sull’altra e di nuovo le distribuì fra gli scompartimenti dell’armadio. La settimana prima, Giulia e Luca erano saltati sul treno ed erano partiti per Genova. Alberto era di nuovo da solo, e la camicia blu era sparita.

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Capitolo 20
*** 20 ***


20

 

 

Luca incespicò sull’ultimo gradino dell’autobus scolastico, ruzzolò lungo il marciapiede urtando le spalle degli studenti che gli si erano accalcati attorno, impazienti di scendere, e fu costretto ad aggrapparsi al palo della luce più vicino per non inciampare una seconda volta e per non cascare a terra, finendo così calpestato dai ragazzi che continuavano a camminare e a radunarsi senza prestargli alcuna attenzione.

Le loro voci crepitarono e gli risuonarono nelle orecchie, «… aspetta, aspetta, stiamo vicini. Hai tu i blocchi per gli appunti, no?», si alternarono allo scalpiccio delle suole e al borbottio dell’autobus che non aveva ancora spento il motore, «Ma torniamo indietro con gli stessi autobus?», «Sapevo che facevo male a mettermi il cappotto pesante, scommetto che quando usciamo si scoppierà dal caldo», «Dove cavolo ho messo il cartellino?».

Luca strinse forte le braccia attorno alla consistenza liscia e fredda del palo della luce. Si assicurò che le gambe smettessero di vacillare, raddrizzò la schiena combattendo un tremolio, si diede una sistemata alla giacca sgualcita e una spolverata ai pantaloni, e si sentì finalmente capace di reggersi in piedi senza alcun sostegno.

La strada odorava di smog, di rugiada sciolta e di cemento bagnato. Luca si guardò attorno, circondato dalla calca di uniformi nere indossate dai suoi compagni. Scorreva poco traffico, in quella zona della città. Solo un paio di auto sfilarono a passo d’uomo dietro i due autobus che erano stati parcheggiati sul ciglio del marciapiede, proprio sotto l’ombra proiettata dal complesso di edifici che emergeva fra i filari di alberi già vestiti del loro più sgargiante cappotto autunnale.

Luca si sentì protetto, così camuffato in mezzo alla massa di studenti disinteressati che gli offriva riparo da occhiate che sarebbero potute risultare più ostili e sospettose. Compì un passetto all’indietro e si creò un rifugio dietro la schiera di spalle e teste oltre cui non riusciva a intravedere quello che c’era al di là della strada, nemmeno salendo sulle punte dei piedi e aguzzando lo sguardo verso le vetrine delle botteghe. Non che avesse tutta questa voglia di emergere dalla folla e di mettersi in mostra in mezzo agli altri studenti. Dopo l’incidente del gavettone, l’urgenza di tenere un basso profilo era ancora più forte, soprattutto quando si trovava mescolato anche ai ragazzi delle altre classi.

Luca strinse al petto la cartella che aveva riempito solo con quel poco materiale che gli sarebbe servito per prendere appunti. Compì un altro passetto in disparte, per non farsi pestare i piedi, e urtò di nuovo lo stesso palo della luce a cui si era aggrappato appena sceso dall’autobus. Si tenne distante. La guardia alta e lo sguardo cauto. Si isolò dai ragazzi che si erano presi per mano, da quelli che si stavano radunando a gruppetti, da quelli che erano andati incontro alle braccia sventolanti dei professori che stavano richiamando l’ordine, e da quelli che invece si stavano dirigendo verso il secondo autobus che non aveva ancora aperto le porte.

«… a me è salita la nausea. Tu non hai nausea? Te l’avevo detto che io dovevo stare nei sedili davanti se…», «… avrò studiato per almeno cinque ore filate ma ancora non capisco un tubo di quel teorema. Non è possibile che io sia l’unica testa di legno che…», «… poi abbiamo passato il resto della vacanza a Pompei, ed è stata la mamma a insistere, perché dice che nei prossimi anni a scuola faremo…»

Luca raccolse una fresca e pungente boccata di fiato, sperando di placare i lievi tremolii che avevano ricominciato a formicolargli fra le gambe. Si convinse che non c’era alcun bisogno di essere così impauriti e paranoici. L’anno scolastico era partito bene. Non sembravano girare voci scomode sul suo conto. I suoi compagni di classe, di ritorno dalle vacanze, lo avevano accolto come al solito, con la stessa simpatia e spontaneità di sempre. Non lo avevano cacciato, braccato, ostracizzato, e nemmeno i professori lo avevano trattato diversamente. Nessuno pareva sospettare di nulla, tanto che l’intero incidente del gavettone ora gli appariva come l’ombra di un incubo in cui solo ogni tanto si sentiva risucchiare.

Forse è vero che io sono stato l’unico a prenderla così male.

Si massaggiò il collo. Stirò il capo di lato per sciogliere la tensione ancora così rigida attorno alle spalle.

Forse è vero che ne ho fatto una tragedia per nulla. Forse è vero che ormai si sono tutti dimenticati dell’incidente, anche quelli che erano lì in giardino e che hanno visto quello che è successo.

Ma nemmeno quel pensiero fu in grado di rassicurarlo. Isolato dal resto della scolaresca, Luca si strinse nelle spalle e ricominciò a grattarsi sotto la manica della giacca senza nemmeno rendersi conto di aver infilato le dita sotto la stoffa. Non era facile sbarazzarsi di quella viscida sensazione che costantemente gli accapponava la pelle ordinandogli di stare all’erta, come gli era impossibile dissolvere quel bisbiglio che gli suggeriva di farsi crescere un secondo paio di occhi in modo da risultare ancor più vigile e da reagire a qualsiasi segnale di pericolo, a qualsiasi subdolo agguato, a qualsiasi lampo colorato sfrecciato dietro l’orecchio.

Dovrò passare tutta la vita così, da adesso in poi?

Si sentì impallidire per la demoralizzazione.

Non è una gran bella prospettiva. Mi sembra di essere diventato come era la mamma all’inizio.

Scosse il capo all’idea, evitando così che il pensiero della mamma potesse addossargli una tristezza e una nostalgia ancor più grave.

Luca si aggiustò la pinza del cartellino identificativo che doveva indossare durante ogni gita e ogni uscita extrascolastica. Si allontanò dalla protezione del palo della luce, e si orientò tendendo lo sguardo verso il secondo autobus che avevano parcheggiato dietro quello su cui aveva viaggiato lui con la sua classe. Le porte a soffietto si aprirono e liberarono l’orda blu di uniformi femminili, calze bianche che sgambettarono sotto le frange delle gonne, nastrini fra i capelli, e sorrisi illuminati dalle tepide luci di quella fresca mattinata d’autunno.

Un braccio s’innalzò dal gruppo e sventolò sopra le teste delle altre studentesse. «Luca!»

Riconoscendo quel timbro di voce, il cuore di Luca singhiozzò per il sollievo. Luca s’intrufolò fra le spalle dei ragazzi, zampettò lungo il marciapiede lasciandosi guidare dal riflesso dei capelli di Giulia che fiammeggiavano nel mare di uniformi nere e blu degli altri studenti. La chiamò anche lui. «Giulia!» E tese il braccio per raggiungerla. «Sono qui!»

I due ragazzi si strinsero le mani e intrecciarono le dita fino a far aderire i palmi, allacciandosi come due tessere di puzzle che combaciano nella perfezione del loro disegno.

Giulia si portò la mano libera al petto, prese fiato dopo essere saltata giù dal bus e aver corso spremendosi fra le spalle delle sue compagne. «Fiuuu, che fortuna, ci siamo trovati subito.» Si rimboccò la sciarpa, e la lana assorbì la condensa del suo fiato caldo. Anche lei si guardò attorno. Rimbalzò sulle punte dei piedi e tese la mano libera davanti alla fronte per aguzzare la vista oltre le teste di tutti i ragazzi che popolavano il marciapiede. «Siamo in tanti, eh? Chi avrebbe mai detto che sarebbero serviti due autobus per portarci tutti. Com’è andato il viaggio?»

Luca sorrise. «Abbiamo fatto solo venti minuti di strada, Giulia.»

«Be’, è un viaggio pure questo.» Giulia scese dalle punte dei piedi compiendo però un saltello di entusiasmo. «Cioè, ma ci pensi che fortuna? La prima gita dell’anno, ed è proprio con le nostre due classi unite. È il destino che vuole incoraggiarci, ci sta proprio facendo capire che stiamo partendo con il piede giusto.»

Luca corrugò un sopracciglio. «Piede giusto?» Spostò lo sguardo in direzione dell’edificio che presto avrebbe spalancato le porte per la scolaresca. Storse il naso, già succube di un doloroso conato di nausea. «Mica tanto giusto.» Fu più che certo che non si trattasse di un segno del destino, ma di una plateale presa in giro gracchiata dalla voce della provvidenza, dato che… «Fra tutti i posti in cui potevano scegliere di portarci…» Sulla grigia e moderna facciata di cemento, ombreggiata dalle chiome rossicce degli aceri che crescevano lungo il filare, spiccava l’insegna blu dell’istituto di ricerca: il disegno di un pesciolino che sbucava dalle onde del mare e che compiva una capriola schizzando spruzzi d’acqua dallo slancio della coda. «Proprio un istituto di ricerca sulle specie marine e sulla biodiversità acquatica?»

Bruno si accostò al suo orecchio, le labbra gelide e la voce affilata come il filo di una cozza: è una trappola, gli bisbigliò. È una trappola, Luca! È tutto organizzato. In realtà si ricordano tutti dell’incidente del gavettone della scorsa estate, e ora ti hanno portato qui apposta per avvolgerti in una rete, per ficcarti in uno degli acquari, e per tenerti prigioniero per sempre. Farai la fine del merluzzo allo spiedo, vedrai. Ti taglieranno la coda e ci cucineranno la zuppa, poi ti scorticheranno le squame dalla pancia e le venderanno per decorarci i gioielli delle ricche signore.

Luca deglutì e compì un passo indietro, piantando i talloni fra le mattonelle del marciapiede. Irrigidì la mano attorno alla presa di Giulia. Una violenta scossa di terrore risalì il braccio e gli succhiò ogni goccia di sangue dalle guance.

Giulia si accorse di quell’esitazione, del pallore sbiancato sulla faccia di Luca, della scossa di gelo schioccata fra i loro palmi giunti. «Ehi, tranquillo.» Gli spremette la mano due volte e gli strofinò un massaggio fra le nocche. «Tanto i pesci saranno dentro alle teche. Mica ti aggrediranno. E mica ci faranno fare il bagno dentro gli acquari.» Volse gli occhi al cielo e si grattò dietro l’orecchio. «Credo.»

La fronte di Luca si stropicciò in una grigia espressione d’allarme. «Ma sarà comunque tutto pieno di vasche, di pesci, e di acqua. E forse anche di pescatori.» Sfilò la mano da quella di Giulia e si prese la faccia fra i palmi. Il suo sguardo vacillò, tutto il suo ottimismo finì risucchiato in un abisso color pece, i gelidi artigli di quel brutto presagio gli strinsero la gola e penetrarono la pelle, mozzandogli il fiato. «E se uno degli acquari dovesse rompersi all’improvviso? E se l’acqua finisse per investirmi, trasformandomi davanti a tutti?»

Giulia socchiuse una palpebra. «Cosa…»

«E se quelli che lavorano qua dentro scoprissero chi sono e decidessero di catturarmi e di espormi assieme a tutti gli altri pesci?» Una mano di Luca risalì la faccia e affondò la presa fra i capelli. «E io non sarei nemmeno bravo a fare il pesce da acquario, mi annoierei a morte a forza di andare su e giù lungo lo stesso punto, e così si stuferebbero di me, mi scaricherebbero nella spazzatura, oppure mi venderebbero a uno di quei ristoranti per turisti per cucinare una zuppa con la mia coda, e poi…»

«Ehi, ehi, Luca!» Giulia gli avvolse le guance sbiancate. Lo fissò dritto negli occhi. Lo sguardo fermo, autoritario, ma incoraggiante. «Silenzio, Bruno.» Aveva proprio bisogno di sentirselo dire, in effetti. «Nessuno ti catturerà, nessuno cucinerà una zuppa con la tua coda, nessuno ti metterà dentro una vasca di acquario, e nessuno ti costringerà a nuotare su e giù nello stesso punto per il resto della tua vita.»

Luca si concentrò sugli occhi nocciola di Giulia, sulla ferma luce del suo sguardo, sul tepore delle sue mani. Si tenne aggrappato a lei e a quelle sensazioni, in modo da non sentirsi precipitare nel buio dell’abisso. «S-scusa…» Inspira, espira. Va tutto bene. «Scusa» le disse di nuovo. «Hai ragione. Sto…» Un altro respiro profondo. I brividi gli scivolarono via dalla pelle, le mani tornarono tiepide e il viso riprese colorito. «Sto solo esagerando.»

Giulia rilassò i tratti del volto, flesse le labbra in un sorriso rassicurato, e lasciò andare le guance di Luca. «Sta’ tranquillo.» Gli aggiustò il bavero della giacca e gli spolverò una spallina. L’uniforme ora gli calzava quasi a pennello, e non cadeva più così larga attorno alla schiena, tanto che Giulia cominciava a dubitare che potesse durargli fino alla Maturità. «Ascolta, è normale che tu sia un po’ agitato dopo quello…» Lanciò un paio di occhiate attorno a sé. Accostò la mano alla guancia e abbassò la voce. «Dopo quello che è successo l’estate scorsa. Ma finora è andato tutto liscio, no? Nessuno ti ha dato rogne.»

Luca soffiò un sospiro. «N-no.» Fu una magra consolazione che comunque seppe essergli di aiuto. «No, effettivamente no.»

Giulia annuì. «E allora vedrai che continuerà a essere così. Ecco…» Gli porse di nuovo la mano. «Tienimi la mano e stai vicino a me. Non permetterò che ti accada nulla.»

Luca accettò la stretta di Giulia, grato per l’aiuto ma anche un pochino imbarazzato da quel bisogno. «Come sempre.»

Giulia sollevò le mani intrecciate e sfoggiò un sorriso allegro e smagliante. «Come sempre.»

Luca strinse la mano di Giulia, si diede coraggio tramite quell’appiglio che non tardava mai di farlo sentire al sicuro e, dopo un bel respiro, seguì il gruppo di studenti e valicò l’entrata dell’istituto.

Lui e Giulia entrarono circondati dal cammino degli altri ragazzi, dalle loro chiacchiere, e guidati dai professori che tenevano le braccia alzate per farsi raggiungere. «State uniti» si raccomandarono. «State uniti e non disperdetevi, non cominciate a girovagare e soprattutto comportatevi bene.»

L’ingresso dell’istituto odorava di detersivo per vetri, di acqua salmastra, e di carta plastificata. Pareti alte e strette, intonaco bianco e lucente come appena verniciato, e una lunga piastrellata color acquamarina che ramificava fra i saloni celati dalla penombra. Il corridoio era tappezzato da poster che ritraevano l’habitat marino delle Cinque Terre, le diverse famiglie di crostacei che popolavano le scogliere, e varie tabelle con le temperature registrate durante l’anno. Disegni raffiguranti acque stratificate in zone più buie e rocciose man mano che si scendeva verso il fondale, fotografie a colori di subacquei che salutavano da dietro foreste di anemoni, e fotografie in bianco e nero di vecchie barche da pesca. E ancora trofei custoditi dietro teche di vetro, attestati incorniciati, collezioni di coralli essiccati e di spugne di mare, e persino la riproduzione di un’antica tuta da palombaro.

Superato il corridoio, raggiunsero l’ambiente chiuso e più buio di uno dei saloni occupati dagli acquari da cui venivano proiettati i riflessi bianchi e azzurrini delle luci al neon. Li accolse un silenzio fitto in cui era facile udire il soffice rimbombo dei passi, il basso crepitare dei loro mormorii, e il costante ronzio delle ventole e dei filtri d’acqua. Anche l’odore delle pareti cambiò, si fece salato e pungente, l’aria fredda e densa come quella che si respira durante una mattinata invernale.

I ragazzi alzarono i nasi per sbirciare oltre le teche più alte, altri si accovacciarono per affacciarsi a quelle sistemate a una spanna dal pavimento, altri ancora si incantarono e sospirarono di meraviglia, sgranarono gli occhi davanti ai riflessi verdi e blu che ondeggiavano fino al soffitto. «Ooh, quanti pesci», altri rabbrividirono e batterono i denti, «Qui dentro fa freddino, in effetti», «Ti avevo detto che ti conveniva metterti su il cappotto pesante», «Se vuoi ti presto la mia sciarpa».

La guida li condusse da una stanza all’altra, anche quella composta da pareti di vetro dietro cui gli sciami di pesciolini si spostavano formando piccoli banchi color azzurro-argento. Le punte delle alghe oscillavano sospinte dalla corrente dei filtri, una murena riposava sotto il riparo di un finto ponte medievale, granchietti zampettavano fra gli scogli e rosicchiavano la sabbiolina del fondo, e minuscoli grappoli di bollicine gorgogliavano sulle superfici d’acqua.

La dottoressa vestita con il camice dell’istituto compì qualche passo all’indietro per fronteggiare i ragazzi e sollevò la mano a indicare gli acquari che si ergevano fin sopra la sua testa. «Il nostro è un centro di ricerca, di catalogazione, e di conservazione dei dati.» I riflessi dell’acqua blu si specchiarono sulle lenti dei suoi occhiali. «Ma anche di studio dell’habitat marino e delle specie che lo popolano. Vedetelo anche come un centro di cura. Capita spesso infatti che molti acquari regionali, centri ittici, negozi di animali, o semplici collezionisti, si affidino ai nostri veterinari per le cure dei pesci tenuti in cattività.»

Si aggiunse una seconda guida – un uomo, questa volta – che condusse parte dei ragazzi verso uno dei saloni adiacenti. «Da qui potete anche dividervi e visitare le vasche che più vi piacciono, assicuratevi solo di essere sempre accompagnati da uno di noi o da uno dei vostri insegnanti. Prendete pure appunti e fate tutte le domande che volete. Ecco, a chi interessasse, questo è…»

Le classi si mescolarono, maschi e femmine si radunarono a gruppetti. Le uniformi blu si frammentarono in mezzo a quelle nere, e viceversa.

Luca e Giulia rimasero uniti. Si fecero spazio e raggiunsero la dottoressa che stava parlando davanti alle vasche dentro cui crescevano gorgonie di un rosso rigoglioso. «Queste sono formazioni arborescenti che comunemente crescono sulle scogliere liguri. Anche questa è una specie che rientra nel nostro programma di conservazione, considerato che…»

Per Luca fu facile distrarsi. Spostò lo sguardo in alto, oltre le teste degli altri ragazzi, e si soffermò sul contenuto di ogni singola teca, cominciò a riconoscere i lenti movimenti ondulatori delle alghe, i colori sgargianti delle stelle marine, e le formazioni degli scogli, le stesse da cui, fuori dalla sua grotta, coglieva le lumachine e i gamberetti assieme a suo padre. Il silenzio racchiuso fra le pareti così strette e il costante ronzio dei filtri accrebbe l’irrespirabile sensazione di staticità di cui la sala era pregna. L’acqua infatti, seppur limpida e pulita, non vibrava di vita come avrebbe fatto in mare aperto. Le castagnole nuotavano lente e pigre, sfilavano davanti ai vetri, boccheggiavano, ruotavano gli occhi vitrei verso i musi dei visitatori, e tornavano a nascondersi dentro i finti castelli di plastica, lontane dalle luci dei neon. Gli acquari erano cubicoli assemblati come i mattoncini di un’unica costruzione. Teche in cui i pesciolini insonnoliti dalla noia e storditi dalle luci si trovavano in ammollo come calzini da lavare.

Luca sfiorò uno dei vetri.

Le vasche erano munite di termometri, pompe a ventola, misuratori di salinità, e cartellini su cui erano scritti i nomi delle specie e il numero di esemplari contenuti in ciascuna teca. Era tutto catalogato. Tutto efficiente e sicuro, triste e artificioso.

Comincio sul serio a credere che sia stata una cattiva idea per me partecipare alla gita.

Un sospiro di demoralizzazione gli scaricò sulle spalle tutto il peso di quegli acquari luminosi, di quell’acqua sterile, di quella sabbia di gesso.

Mi sarei volentieri risparmiato uno spettacolo del genere.

«Oh, Luca!» Giulia gli pinzò la manica fra le dita, lo condusse verso gli acquari della parete opposta, e puntò l’indice verso l’alto. «Guarda che belle queste alghe qui!» Si soffermarono assieme davanti a una delle teche dentro cui ondeggiava una formazione di cerianti gialli. «Cosa sono?» Lo sguardo stupefatto di Giulia si specchiò sul vetro. «Tipo anemoni? Che tanti tentacoli, sembrano quasi dei fiori.»

Proprio vicino all’acquario dei cerianti, davanti a quello dei pesci tamburo, sostava un gruppetto di ragazze più isolate, distratte e chiacchierone. Erano in quattro.

«… no, no, ma non puoi capire. Siamo andati a prendere il gelato, no, dopo il cinema e tutto, dopo che ci siamo separati anche dal gruppetto di Valeria.» La ragazza sventolò un codino dietro la spalla e gesticolò facendo oscillare il fascio di bracciali che le bendava il polso. «E Gio’ è stato tipo troppo carino, perché alla fine siamo rimasti fuori fino a tardi, dato abbiamo approfittato del parco che era vuoto, e siccome avevo freddo lui mi ha dato anche la sua giacca, e quando mi ha riportato a casa poi…» Il suo sguardo cadde di striscio su Luca che, assieme a Giulia, stava guardando attraverso le vasche della stessa parete.

Il volto della ragazza si fece di colpo serissimo, e dalle sue guance sbiadì la rubizza tinta di emozione che le aveva infiammate mentre chiacchierava. La ragazza si coprì la bocca e si chinò a mormorare all’orecchio dell’amica. «Ehi, senti» le fece. «Non ti girare subito, ma quello qua vicino non è…»

«Chi?» E, a dispetto della raccomandazione, le altre tre si girarono all’unisono.

Luca sobbalzò, trafitto da quelle occhiate che gli erano piovute addosso come un’improvvisa e violenta scarica di grandine. Si riparò dietro la spalla di Giulia e aprì una mano davanti al volto per coprirsi.

Una delle altre tre ragazze fu meno discreta. «Oh, sì, sì» squillò la sua vocina acuta. «Ho capito chi è.» Strattonò la manica dell’amica. «È lui, sì, è quello del gavettone. Quel Luca Paguro.»

«Quale gavettone?»

«Ma sì, dai, quello che è diventato tutto verde quando glielo hanno lanciato in faccia.»

«Che?» Quella che si era tenuta la sciarpa allacciata attorno al collo si lisciò le frange della gonna. «E quando sarebbe successo, scusa?»

«Lo scorso anno. L’ultimo giorno, proprio.»

«Esagerate.» Quella più vicina alle vasche, illuminata di profilo dai neon che splendevano sulle sue trecce bionde, strinse le braccia al petto, dandosi arie da maestrina. «Non è vero che è diventato tutto verde. Gli è solo rimasta incollata la plastica addosso alla faccia e allora è sembrato che fosse diventato verde pure lui.»

«Tu eri lì?»

«No, ma Lisa conosce una che era lì quando è successo, ed è stata lei a dirmelo.»

«Guarda che non è un’esagerazione.» La ragazza che aveva fatto partire il discorso riprese a gesticolare e a far tintinnare i bracciali di perle. «Pure Erica era lì in giardino, perché si era fermata dopo le lezioni con il gruppo di Michi, e lei dice di aver visto benissimo, proprio alla luce del sole. Ha detto che gli si è davvero deformata tutta la faccia…» Fece mulinare l’indice affianco alla tempia. «E che gli sono cresciute le pinne, come una specie di mostro marino.»

«E tu credi a quella pallonara di Erica?»

«Che scema.» Una delle quattro sfilò un tubetto di Polo dalla tasca. «I mostri marini mica esistono. E comunque, anche se esistessero…» Fece saltare una mentina in bocca, «Cosa verrebbero mai a fare a Genova?», e ne offrì un’altra all’amica.

«Lo dici tu che non esistono.» La ragazza che aveva accettato la Polo succhiò la caramella e parlò fra un rosicchio e l’altro. «Ma una volta, un amico del vicino di casa di mia cugina, uno che fa il pescatore giù in Sardegna, ha raccontato che è uscito in mare una sera con suo padre e che…»

«Ma scusa, mostri e gavettone a parte, perché Luca è sempre in giro con Giulia?»

«Giulia chi?»

«Giulia Marcovaldo, quella della Seconda A.» La ragazza dei bracciali di perle prese a braccetto una delle altre tre e la tirò indietro, allontanandosi da orecchie indiscrete. «E abbassa la voce. Vuoi che ti sentano?»

«È vero.» Quella che aveva tirato fuori le Polo annuì e diede un’altra succhiata alla mentina. «Sono sempre appiccicati, quei due. Ma è impossibile che siano in classe assieme, a prescindere. Magari è un amico d’infanzia o una cosa così.»

«Sarà solo il suo ragazzo.»

«Ma se vivono assieme…»

«Allora sarà suo fratello.»

«Come fa a esserlo se hanno il cognome diverso?»

«Però è vero che vivono assieme.» Anche la bionda annuì, tutta convinta, e si rimise a braccia conserte. «È stata Chiara a dirmelo.»

«Io però so che Giulia ce l’ha per davvero un fratello.»

«Sì, ma non vive mica a Genova. È di fuori. Vive in quella specie di villaggio di pescatori giù in Riviera, quel paesino dove lei va sempre d’estate con il treno.»

«E tu com’è che sai tutte queste cose?»

«Guarda che le sanno tutti. Aggiornati.»

«Ma se Luca non è il fratello di Giulia, allora perché vivono assieme?»

«Ve l’ho detto che secondo me è il suo ragazzo.»

«O il suo promesso sposo.»

«O solo il suo paggetto.» E tutte e quattro chiocciarono un coro di risate da degne ochette da giardino.

Un viscido brivido di disagio risalì la schiena di Luca e lo punse alla base della nuca, facendogli stridere i denti. Forse era meglio se avessero insistito con la storia del gavettone e della faccia deformata, piuttosto che mettersi a spettegolare su fidanzati, promessi sposi e paggetti da compagnia.

Pure Giulia si lasciò scappare un micidiale ringhio di irritazione in direzione delle quattro. Un’occhiata che avrebbe potuto incenerirle. Giulia tornò a stringere la mano di Luca, lo accolse nella sua protezione. «Vieni, Luca.» Si allontanò dalla parete di vasche e lo condusse verso la sala adiacente. Tenne il mento alzato e il broncio corrugato in quella buia maschera di malumore. «Lasciamo perdere le chiacchiere di quel branco di oche, non è posto per noi.»

«Allora è vero che l’hanno saputo.» Luca si tenne appeso alla mano di Giulia, sentendosi però sciogliere per la demoralizzazione che si faceva più opprimente a ogni passo compiuto. «Tutta la scuola ha saputo dell’incidente con il gavettone.»

«E, come avevo programmato io, lo hanno preso tutti come un colossale abbaglio. Te l’ho detto, non pensarci più.» Giulia scosse la testa. «Non ne vale la pena.»

«Io…» Luca sentì pesare la sua mano avvolta da quella di Giulia. Percepì la pressione di quel legame, solido come una catena allacciata al polso, e per la prima volta sentì bruciare l’impellente bisogno di separarsi da lei. Sciolse la presa e si asciugò la mano sulla giacca. «Io devo stare un po’ da solo.» Le diede le spalle, gettò lo sguardo a terra, si diede una grattata sotto il colletto dell’uniforme, e allungò il passo in mezzo ai gruppetti di studenti che ignorarono il suo passaggio.

Il richiamo di Giulia tentò un ultimo flebile approccio. «Luca…»

Ma ormai lui era già disperso in mezzo agli altri ragazzi. Luca passò a grattarsi la mano che fino a qualche istante prima era unita a quella di Giulia, incollò lo sguardo sulle piastrelle color acquamarina, distese il braccio e divaricò le dita sotto i riflessi provenienti dagli acquari. Le luci al neon gli colorarono la pelle di azzurro, dandogli l’impressione che la membrana di squame si fosse dilatata fra le falangi e arrampicata sotto la manica della giacca. Luca soffiò il fiato trattenuto. Il cuore rallentò e le guance s’intiepidirono. La stretta di panico allentò la presa attorno alla gola, rendendolo di nuovo capace di respirare senza affanno.

Scomparve anche il fischio nelle orecchie. Tornò il sonoro, lo scalpiccio di suole, il chiacchiericcio dei ragazzi, e la voce della guida. «… e talvolta ci occupiamo anche di reintegrare gli esemplari alla vita subacquea, soprattutto quelle specie che sono costantemente minacciate dai pericoli sempre più frequenti della pesca intensiva. Chiaramente tutte quelle che vedete sono specie appartenenti al Mar Mediterraneo che vanta una grande biodiversità sia per quanto riguarda…»

Luca tirò su lo sguardo e si orientò fra le vasche che lo circondavano.

Un ragazzo si separò da uno dei gruppetti, si chinò ad affacciarsi a una delle teche più basse, una di quelle popolate dalle stelle marine e dai granchietti che abitavano la scogliera mediterranea. Scarabocchiò qualche scritta sul suo blocco di appunti. «Solo specie del Mediterraneo, ha detto.» Fece tamburellare la penna sulla teca dei pesci cardinale. Scosse il capo e sbuffò, amareggiato. «Che barba. E io che speravo sul serio di trovare qualcosa di più interessante.»

I suoi compagni gli risero dietro. «E perché?» Uno di loro gli diede un colpetto col piede. «Cos’è che speravi di venire a vedere? I delfini? Le balene dei Caraibi? Una sirena?»

«Che spiritoso» controbatté quello accovacciato. «Speravo in qualcosa che non fosse per lo meno troppo banale.» Si rimise in piedi e aggiustò la montatura degli occhiali. «Pesci del genere li si può vedere di continuo anche solo andando a fare un bagno giù a Boccadasse. Dico, ma vi immaginate che forza se esistesse qui un acquario dove collezionano ed esibiscono tutti i pesci e gli squali e i coralli del mondo?»

Un altro di loro si strinse la mano attorno allo stomaco e sghignazzò. «Sì, e pure i pinguini, magari.»

«Magari.» Il ragazzo che aveva preso appunti richiuse il suo taccuino, guardò verso gli acquari più alti, e spinse di nuovo gli occhiali all’indietro. Un banco di pesci donzella si specchiò sulle lenti. «Magari sì, perché no? Quello sì che sarebbe un posto in cui varrebbe la pena venire a fare una gita. Ci sarebbe da perdersi, in un acquario del genere.» Sventolò la penna attorno a sé. «Altro che pesciolini e granchi del Mediterraneo.»

«Be’, sogna ancora un po’, allora.» Gli altri non sembrarono prenderla con lo stesso entusiasmo. «Se davvero a qualcuno venisse in mente di aprire un acquario del genere, un giorno, di certo non si sprecherebbe mai di costruirlo proprio qua a Genova. Lo metterebbero su a Roma. Lì dove hanno tanti turisti da spremere.»

«Appunto. Avere un acquario del genere qui sarebbe un bel pretesto per attrarre più turisti.»

«Ma perché sei fissato con la cosa di attirare turisti?»

Uno dei tre si chinò a mormorargli all’orecchio. «Magari si sta esercitando per quando si candiderà da assessore comunale.» Gli diede una gomitata. «Farebbe carriera.»

«E bravo a chi lo vota.»

Risero fra di loro, giovani e spensierati, come poco prima avevano riso anche le ragazze.

Luca si distanziò dalle loro voci. Spremette un paio di volte la mano a vuoto, prese familiarità con la sensazione di mancanza provata dopo essersi separato dalla presa di Giulia. Si allontanò dalle zone della sala dove gli studenti si erano accalcati. Vagò fra le pareti di vetro, guadò in mezzo ai riflessi oscillanti delle luci al neon, si lasciò catturare di tanto in tanto dal moto ondulatorio di qualche alga dai colori più vivaci o dallo spostamento dei pesci più piccoli che nuotavano in banchi.

Si calmò. Trasse respiri lenti e calmi, e sciolse il formicolio dall’ansia che lo aveva aggredito davanti alle porte dell’istituto di ricerca.

Il peggio è passato, si convinse.

Luca credeva che, ritrovandosi circondato da tutte quelle vasche, dalla pressione dei vetri, dal peso di tutta quell’acqua, si sarebbe sentito soffocare, scoprendosi esposto e vulnerabile come le volte in cui camminava vicino a una fontana. Invece la tensione si ammorbidì, e lui si mise finalmente a suo agio, anche in un ambiente simile.

Allungò passo dopo passo davanti alla composizione di teche, fece scivolare i piedi lungo le piastrelle color acquamarina, silenzioso come se stesse avanzando a lenti e regolari colpi di coda. Socchiuse gli occhi, e le figure dei ragazzi che gli erano attorno mutarono in ombre distanti e offuscate. Distese le braccia lungo i fianchi e schiuse le mani. Scosse le dita, e gli parve proprio di percepire la resistenza della densa acqua salata attraverso la membrana delle pinne palmate. Fluì indisturbato in mezzo agli altri studenti che gli galleggiavano attorno come fasci di alghe che venivano inclinati dal passaggio del suo nuoto. Persino le loro voci suonarono distanti, isolate, racchiuse da bolle d’aria che fluttuavano sulla sabbia del fondale.

Lasciandosi cogliere da un formicolio di curiosità, Luca sbirciò le facciate degli acquari, lesse i cartellini che erano affissi vicino ai termometri: gattucci, pesci trombetta, pesci tamburo, pesci cardinale, e ghiozzi.

È vero, realizzò. Sono tutte specie del Mediterraneo. Tutti pesci che almeno una volta gli era capitato di incrociare e di rincorrere sott’acqua.

Si alzò in punta di piedi e si affacciò alle teche dove riconobbe le specie di scogliera, quelle che si annidavano più vicino alla superficie, dove il fondale era basso e le acque erano chiare e tiepide, irradiate dal sole.

Nacchere di mare, stelle marine rosse, aragoste, cicale di mare, gamberetti delle rocce, ortiche di mare, castagnole rosse.

Scese sulle ginocchia, accovacciandosi, e fronteggiò gli acquari dentro le quali invece custodivano le specie che popolavano le acque più profonde. I neon erano bassi, le luci scure, la vegetazione di alghe fitta e priva di anemoni colorati.

Luca posò le punte delle dita sulla teca dove era specchiato il suo riflesso. La sfiorò con garbo per non disturbare l’ospite al suo interno e per non lasciare impronte sul vetro. Attraversò il nome contrassegnato sul cartellino e sorrise.

 

Scorpaena scrofa

 

Si sorprese di emozionarsi per qualcosa di così piccolo e sciocco. Eppure successe. Scorpaena scrofa, ripeté nella sua mente. Uno scorfano di fondale.

Lo scorfano sonnecchiava in una nicchia fra gli scogli, perfettamente mimetizzato fra le rocce scure e spigolose, cariate dall’erosione dell’acqua salmastra. Socchiuse una palpebra e ruotò l’occhio verso lo sguardo di Luca affacciato alla sua misera casetta.

Luca gli sorrise. Sventolò la mano. «Ciao.»

Lo scorfano sbatté gli occhi gelatinosi, scosse le pinne, sbatté un colpo di coda, sollevò uno sbuffo di sabbia, una nuvoletta color ocra che lo sommerse, e si nascose ritirandosi sotto la roccia, lontano dalle attenzioni di Luca. Uno scorfano decisamente meno amichevole di colui che portava il suo nome.

Luca scosse il capo e si rimise a gambe dritte, tirandosi anche un po’ su di morale. Si convinse di non lasciarsi sommergere dalla nostalgia, di non pensare troppo ad Alberto, di non smarrirsi immaginando cosa avrebbe pensato lui di tutta quella situazione.

Tornò piuttosto a concentrarsi sulla voce della guida, sulla lezione che stava tenendo davanti a una delle vasche più larghe dell’intera parete. «… è il nostro unico esemplare, ed è sotto la nostra osservazione da poco più di due mesi, ma la quantità di studi che siamo riusciti…»

Luca si fece spazio fra le spalle di due ragazzi e si sporse verso l’acquario, individuò la targhetta identificativa e lesse il nome dell’esemplare.

 

Eledone cirrhosa

 

Un moscardino bianco.

La dottoressa proseguì la sua spiegazione. «… il moscardino bianco può adattarsi a fondali di diversa profondità, generalmente sabbiosi, e proprio per questo ha sviluppato tecniche mimetiche eccezionalmente pronte anche se messe a confronto con le altre specie appartenenti all’ordine degli Octopoda che si distinguono in natura proprio per il loro mimetismo.»

Una delle ragazze, una fra quelli che stavano prendendo appunti, alzò la mano. «Come i camaleonti?»

«Esatto» annuì la dottoressa, «proprio come i camaleonti. Dai nostri studi più recenti poi abbiamo dedotto che questi mutamenti del loro aspetto non avvengono solo per cacciare le prede o per difendersi dai predatori, quindi per una pura esigenza di sopravvivenza, ma anche in base ai cambiamenti emotivi dell’esemplare. Il moscardino bianco è infatti molto intelligente, e possiede un livello di consapevolezza pari quasi a quello di…»

Luca si affacciò alla teca del polpo, più ampia e spaziosa rispetto a quelle che ospitavano le altre specie. L’immagine del suo riflesso si sovrappose a quella del moscardino aggrappato con i tentacoli agli scogli. Anche lui, come lo scorfano di fondale, non sembrò particolarmente interessato all’intrusione del suo sguardo.

Mutare il proprio aspetto…

Le ultime parole della dottoressa riecheggiarono nei pensieri di Luca.

Un animale in grado di comportarsi sia da preda sia da predatore. Un animale che muta di proposito il suo aspetto per proteggersi dai pericoli e per adattarsi all’ambiente che lo circonda.

Luca posò le punte delle dita sulla teca e carezzò il vetro, quasi sperando di raggiungere il moscardino e di raccogliersi con lui nella familiarità di quella natura che in qualche modo condividevano.

Come ti capisco, Signor Moscardino. Anche io faccio qualcosa di simile. Anche io cambio il mio aspetto esteriore per adattarmi all’ambiente che mi circonda.

Spostò lo sguardo attorno a sé.

Anche io lo faccio per mescolarmi ai predatori che altrimenti mi braccherebbero e minaccerebbero di farmi del male.

Lo circondavano visi giovani e sorridenti, mani che impugnavano penne e quaderni anziché arpioni e reti. Individui tutt’altro che minacciosi, eppure…

Predatori che anche adesso mi circondano.

Lo affiancò una presenza mite e familiare, un dolce profumo di mandorle e un baluginio rosso fuoco specchiato sul vetro della teca. Il viso di Giulia si sporse da sopra la spalla di Luca e si affacciò a sorridere al moscardino bianco. «Hai trovato un amico?»

Luca sbatacchiò le palpebre, dissolse le bolle dei suoi pensieri sciamanti, scese dalle nuvole, e si riabituò con naturalezza alla rassicurante presenza di Giulia che gli era affianco. «Mi piacerebbe pensarlo.» Tornò a incrociare lo sguardo del polpo, ne carezzò l’immagine, provò di nuovo nei suoi confronti quella triste compassione. «Ma non mi sembra molto interessato a fare amicizia con me.»

Giulia rise. «Ed è stato lui a dirtelo? Oh! Ma non mi dire che…» Bisbigliò all’orecchio di Luca. «Non dirmi che lui ha capito chi sei soltanto guardandoti.»

«No» rispose Luca. «Certo che no. Non credo, almeno.» Storse un sopracciglio. «Spero. Ma anche…» Si strinse nelle spalle e si grattò la nuca, sentendo di nuovo sorgere il bisogno di nascondersi. Si sentì così sciocco. «Be’, anche se lo capisse, dubito che andrebbe a fare la spia.»

«Potresti convincerlo a tenere il segreto» propose Giulia. «Dici che ti capirebbe? Intendo…» Indicò prima Luca poi il polpo. «Se vi trovaste tutti e due sott’acqua, riusciresti a parlare con lui?»

Luca scosse la testa. «Non direttamente, no. Magari potrei capire le sue intenzioni e il suo stato d’animo osservando come si comporta e come reagisce alla mia presenza, ma non potrei parlargli come sto parlando ora con te. Nemmeno con gli altri pesci posso farlo.»

«Ooh» sospirò Giulia, avvilendosi. «Che peccato.» Scribacchiò qualche appunto sul suo quaderno, ma le rimase addosso quella triste maschera di afflizione. «Chissà quante cose interessanti potrebbe raccontarci.»

Luca rise. «Non essere troppo delusa. Se ci pensi, nemmeno tu puoi parlare con i cani, o con i gatti, o con gli altri animali che vivono sulla terra.»

«Uhm.» Giulia arrestò lo scorrere della penna. «Già.» Richiuse il quaderno e se lo strinse al petto. «Già, hai ragione. Non ci avevo proprio pensato.» I gruppi di studenti migrarono verso le vasche dei crostacei, così Luca e Giulia si ritrovarono più isolati dal resto della scolaresca. Giulia piroettò un paio di volte su se stessa, facendo roteare la gonna, e salì sulle punte dei piedi come per lasciarsi fluttuare in mezzo alle vasche e alle spirali di pesciolini argentati. «E non avrei nemmeno mai pensato che ci avrebbero portati in un posto così incredibile.» Riatterrò sulle suole. «Insomma, d’accordo che è solo un istituto di ricerca e che non è esattamente un acquario turistico, ma guarda quanti pesci! Osservarli così di persona è tutta un’altra storia rispetto a vederli sui libri. Ce ne sono…» Sgranò gli occhi scintillanti. «A galassie!» Strinse i pugni e compì un saltello sul posto. «Sì, proprio a galassie. Galassie di pesci, proprio come dice sempre Alberto. Ehi, Luca, te lo immagini?» Gli tirò la manica senza però riuscire a staccare lo sguardo dagli acquari che la circondavano. «Ti immagini che forte sarebbe se esistessero galassie di pesci anziché galassie fatte solo di stelle? Adesso sì che capisco perché Alberto insiste tanto a proposito, e giuro che non lo prenderò mai più in giro per averla sempre pensata in questo modo. Sarebbe davvero troppo forte esplorare uno spazio dove nuotano un’infinità di pesci colorati tutti diversi fra loro.»

Luca si lasciò trasportare nella scia del suo entusiasmo. Evocò i ricordi di un tempo in cui immaginare qualcosa di simile era ancor più semplice. «Ma non hai bisogno di andare nello spazio per studiare i pesci. Ti basterebbe andare al mare, oppure potresti diventare una di quelle ricercatrici che esplorano tutti gli oceani del mondo alla ricerca di nuove specie. Anche in questo caso saresti circondata da un’infinità di pesci.» Ridacchiò. «E si tratterebbe di certo di un sogno più fattibile rispetto allo scoprire una galassia popolata da acciughine colorate.»

«Uhmm…» Giulia tamburellò una nocca sulle labbra, pensierosa. «Una ricercatrice che va per mare» rimuginò, sempre più intrigata. «Un’esploratrice degli oceani e una studiosa di tutte le specie di pesci.»

Di nuovo Luca le sorrise. Riconobbe l’ardore nei suoi occhi, quella scintilla di curiosità e quell’innata fame di conoscenza che apparteneva anche a lui e che quindi si sentiva in dovere di assecondare. «Ti piacerebbe?»

Giulia batté le mani e di nuovo compì un salto facendo rimbalzare i riccioli sulle spalle. «Sarebbe grandioso! Lo sai, è buffo…» Flesse il capo all’indietro per guardare ancora più in alto. Si pettinò una ciocca di capelli finita davanti agli occhi, i riflessi azzurri degli acquari danzarono attraverso le sue guance lentigginose. «Per tutto questo tempo ho sempre pensato che da grande avrei scelto un lavoro che avesse a che fare con lo spazio, con le stelle e con i pianeti, dato che sono sempre state quelle le mie più grandi passioni. Però più cresco e più mi rendo conto di come nel mondo esistono tante altre cose meravigliose che vale la pena studiare ed esplorare. E con questo non intendo dire che non mi piaceranno più i pianeti e i telescopi e tutto il resto, ma solo che…» Fece spallucce. «Che potrei anche cominciare a considerare qualche alternativa, un po’ come Alberto che si sta esercitando anche a fare il meccanico oltre al pescatore. Dici che sarebbe possibile, secondo te?» Indirizzò su Luca un’occhiata carica di aspettativa. «Che se io mi mettessi a studiare il mare e i pesci sarebbe come tradire le stelle?»

Luca si coprì la bocca e rise. «Non credo che sia possibile tradire le stelle.»

«Non si sa mai» sentenziò Giulia. «Magari, per vendetta, durante la prossima Notte di San Lorenzo me ne pioverà una in testa.»

«Vorrà dire che sarò io a impegnarmi nello studio delle galassie per trovare il modo di impedire alle stelle di caderti addosso.»

«Conto su di te, eh. Ma pensaci, Luca…» Di nuovo Giulia tornò a incantarsi, a salire sulle punte dei piedi, a spalancare le braccia, a fluttuare in mezzo a foreste di alghe, rapita da galassie d’acqua e da nebulose di pesciolini colorati. «Pensa a quanto sarebbe bello. Io nel mare, tu nello spazio, e Alberto sulla terra. Sarebbe proprio la combinazione perfetta che ci terrebbe sempre tutti e tre uniti, anche quando saremo distanti.»

Quell’ultima frase fu uno schiaffo in faccia a Luca. «Distanti…» Fu ancor più ovvio rendersi conto di quanto il tempo scorresse velocemente, di come si accorciasse la distanza che lo separava dal suo futuro più prossimo, da tutte quelle decisioni e da quei cambiamenti che lo avrebbero separato da Giulia, da Portorosso, dai suoi genitori, e da Alberto.

Trovare la mia strada e proseguire da solo. Giulia lo fa sembrare così semplice. Però questo mondo le è sempre appartenuto. Per me è diverso.

Si aggrappò con una mano al petto, lì dove il peso di quei dubbi si faceva doloroso e palpitante. Arricciò le spalle tremolanti.

Ho sempre creduto che la parte più difficile sarebbe stata semplicemente trovare il coraggio di uscire dall’acqua, e invece le difficoltà non sono mai cessate di esistere, sono semplicemente… mutate. E se per me dovesse continuare a essere così per sempre? E se io non dovessi mai riuscire a trovare il vero mondo a cui appartengo? Che sia una sorta di punizione? Il contrappasso che devo subire per essere uscito dall’acqua?

Sciolse il pugno dalla stoffa della giacca e distese il braccio in avanti, divaricò le dita sotto i riflessi verdi e azzurri provenienti dalle vasche illuminate.

E se anche io in realtà appartenessi a un posto come questo?

Di nuovo si ritrovò affacciato alla schiera di vasche, costretto a fronteggiare la sua smorfia di timore e d’incertezza riflessa sul vetro degli acquari.

Se certe persone sapessero che io non sono chi dico di essere, magari non ci penserebbero due volte a infilarmi in un acquario come questo e a tenermi in mostra, guardandomi proprio come io guardo le stelle tutte le notti. E come sto guardando adesso questi pesci.

Compì un passo avanti, si separò da Giulia, e tornò a posare le punte delle dita sulla fredda superficie di vetro che lo separava dalla nicchia del moscardino bianco. Incrociò lo sguardo con quello vigile e consapevole del polpo. Questa volta però fu diverso.

Il moscardino ruotò le pupille su di lui, due perline nere e lucide come gocce di petrolio. Un bagliore si accese nelle profondità del suo sguardo. La consapevolezza di come Luca si stesse prostrando davanti a lui tramite quell’espressione così pietosa e disperata, quasi stesse invocando un aiuto o implorando una risposta. Il moscardino fremette, gonfiò la sua testa bulbosa, contrasse i tentacoli aggrappati alle rientranze dello scoglio, e mutò fondendosi con l’ambiente, come se il suo corpo avesse bevuto in un singolo sorso ogni colore e sfumatura delle rocce e della sabbia. Scomparve.

Luca si ritrovò di colpo specchiato sul vetro, affacciato alla sua immagine proiettata all’interno dell’acquario. Anche lui ora era immerso nell’acqua distillata dai filtri e attraversata dalle minuscole bollicine che gorgogliavano fra le ventole. Acqua statica e senza correnti, colorata da neon freddi che distribuirono sul viso di Luca la stessa tinta verde-azzurra che si arrampicava sulla sua pelle quando era bagnato. Luca si avvolse una mano attorno alla gola e trasse un sospiro agonizzante, sentendosi soffocare, in trappola, proprio come se lui si fosse trovato prigioniero nella teca al posto del polpo. In trappola fra le pareti di vetro, incastrato fra gli scogli come una delle ostriche di suo padre, quelle che l’estate appena trascorsa avevano servito sul vassoio foderato di ghiaccio tritato e che poi avevano succhiato una dopo l’altra, innalzando una montagna di gusci vuoti che infine avevano restituito al mare.

Un’ostrica destinata a fossilizzarsi sulla roccia su cui era nata. Uno sciocco paguro che si era disfatto della sua conchiglia e che ora si scopriva troppo piccolo e debole per cavarsela senza la protezione della sua vecchia e insostituibile casetta.

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Capitolo 21
*** 21 ***


21

 

 

Seduta al tavolo della cucina, le ciabatte ai piedi e la tazzina di caffè a fumare vicino al blocco di fascicoli, Sara staccò la penna dal documento che stava compilando, si pettinò una ciocca rossa attorno all’orecchio, e rivolse a Giulia un’occhiata interrogativa ma animata da una scintilla di stupore. «Un acquario?» Giulia e Luca l’avevano sorpresa mentre era intenta a riempire i moduli per l’affitto delle sale che aveva prenotato per una delle sue prossime mostre. Era stata una fortuna averla trovata a casa a quell’ora del pomeriggio. Di solito non c’era mai quando i ragazzi rientravano da scuola.

Giulia si sfilò le scarpe dai piedi e le lanciò all’angolo dello sgabuzzino – era talmente elettrizzata che, appena entrata, non si era nemmeno fermata in ingresso per togliersele –, si srotolò la sciarpa dal collo, abbandonandola su una delle seggiole, e sbottonò la giacca dell’uniforme. Annuì più volte, saltellando da un piede all’altro, incapace di frenare i brividi di eccitazione che la facevano tremare come una fiammella. «Sì, sì, un acquario come quelli veri.» Spalancò le braccia come a voler racchiudere l’intera cucina. «Un acquario grande, con le luci al neon, e i coralli, e gli scogli, e pieno di pesci colorati, tutti diversi fra loro. Ma non pesci troppo grandi, ovvio, e nemmeno i pesci che abbiamo visto all’istituto, perché quelli sono solo pesci da allevamento o da pesca sportiva.» Strinse le punte dita come reggendo un oggetto delle dimensioni di un uovo. «Però ci sono un sacco di pesciolini da compagnia, sai, quelli che vendono nei negozi di animali domestici. Quelli sarebbero perfetti da tenere in casa.»

Sara increspò la fronte, scettica, e tamburellò la penna sul plico di carte. «Ma i pesci domestici non sono un impegno da poco, Giulia.» Prese un sorso di espresso, sfogliò una pagina, e ricominciò a scrivere. «E poi abbiamo già Nerone in casa.»

Nerone, sentendosi chiamare, spostò la testolina da sotto la mano di Luca che si era chinato a carezzarlo e ad accogliere le sue feste di bentornato. Il cane rizzò le orecchie, si leccò il nasino, allargò gli occhioni luccicanti in direzione di Sara che lo aveva nominato, e riprese a scodinzolare, aspettandosi chissà cosa.

Giulia smise di rimbalzare e si pettinò una manciata di riccioli dietro la spalla, non trovandoci nulla di particolarmente preoccupante. «Ma Nerone è un membro della famiglia, mamma. È tipo il nostro fratellino minore. I pesci invece sarebbero una cosa diversa, si tratterebbe di studiarli, di fare qualche esperimento. Sarebbe amor di scienza, mamma.» Giunse le mani e si accostò a Sara allargando gli stessi occhioni bisognosi e luccicanti che poco prima aveva sfoderato anche Nerone. «Vuoi forse negare alla tua figlioletta un po’ di sano amor di scienza?»

Sara storse il naso. «Amor di scienza?» Fiutò l’odore di una delle strampalate idee di sua figlia che le erano fin troppo familiari. «Esperimenti?» Guardò Giulia di sbieco, sospettosa ma a suo modo intrigata. Un mezzo sorriso ben nascosto nell’infossatura della guancia. «E che esperimenti dovresti fare con i pesci, Giulietta?»

«Ancora non lo so» le rispose Giulia, «ma lo scoprirò di certo quando avremo l’acquario. Dai, mamma.» Strinse più forte le mani giunte, fino a farle sbiancare, e di nuovo rimbalzò sul posto, facendo dondolare i riccioli ancora carichi di elettricità e scintillanti come braci. «Non costerebbe nemmeno troppo. Abbiamo già il vecchio acquario in cantina, quello che il nonno usava per le aragoste. Potremmo portarlo su, dargli una ripulita, tornare a riempirlo e aggiungere i filtri. È un peccato che prenda la muffa e la polvere giù in cantina, è uno spreco.»

«E poi dove dovremmo metterlo?» insistette Sara. «In soggiorno ormai non c’è più spazio.»

«Mettiamolo nel corridoio d’ingresso, lì.» Giulia puntò l’indice verso il corridoio. «Tipo in anticamera. Farebbe un figurone, anche su un livello estetico. Dai, mammina, tu sei un’artista, dovresti capire certe cose.»

«Uhm.» Sara si strofinò la fronte per nascondere una flebile smorfia di cedimento. Nemmeno lei era immune alla furbizia di Giulia, e sua figlia ormai aveva imparato a riconoscere i giusti fili da tirare per condurla dalla sua parte. Rabbonirla con le sue moine da ruffiana, chiamarla mammina, spiattellare un bel discorso tirando in ballo il suo lato artistico, l’amor di scienza, l’espressione dei propri impulsi creativi. Ma c’è ancora qualcosa che… «E Luca invece cosa ne dice?»

Luca, sentendosi coinvolgere nel discorso, frenò le carezze che stava grattando sul pancino di Nerone. «I…» Sollevò il capo e si indicò il viso, confuso. «Io?»

Lo sguardo di Sara nei suoi confronti fu affettuoso e comprensivo. Tornò serio solo dopo essersi rivolto a Giulia. «Sicura che a lui andrebbe bene avere dentro casa un acquario con i pesciolini?»

Luca si ritrovò spiazzato e ammutolito, gli occhi fissi nel vuoto e la mano ferma sul tiepido pancino di Nerone. Non seppe come rispondere né come reagire davanti a quelle parole. Chiaramente si era soffermato a pensarci, una volta fuori dall’istituto di ricerca, e ci aveva rimuginato anche guardando fuori dal finestrino dell’autobus durante il viaggio di ritorno, imbambolandosi sul traffico attorniato dal fogliame d’autunno. E ancora non sapeva darsi una risposta.

Giulia si strinse nelle spalle. «Cosa ci sarebbe di male?» fece. «Se ne abbiamo… oh!» Adocchiò Luca e si portò la mano alla bocca come quando le capitava di dire qualcosa di inopportuno. «Oh, intendi…» Scosse il capo. Andò ad aiutarlo a tirarsi su, gli diede sostegno con qualche pacca sulla schiena. «Ma mamma, Luca non è mica quel genere di pesce. Luca è uno di noi.» Altre due pacche ben assestate sulla spalla. «E mica mi sognerei di metterlo nell’acquario e di fargli qualche esperimento. Figurati se lui non lo sa.» Gli sorrise, e nei suoi occhi brillò un luccichio complice che implorava il suo sostegno. «Giusto, Luca?»

Luca sobbalzò. «Oh.» Gli fu ancora difficile sgarbugliare quella matassa di pensieri, spolverare il velo di paura che annebbiava i suoi sentimenti. «Io, ecco…» Però era certo di non voler deludere Giulia, e non voleva nemmeno permettere a simili angosce di prendere il sopravvento sulla sua vita. Tantomeno sulla vita degli altri. «Anche secondo me sarebbe bello avere un acquario.» Strinse le mani in grembo e stropicciò i polsini della giacca che non si era ancora sfilato di dosso. Incurvò un dolce sorriso di accondiscendenza, ma i suoi occhi velati di dubbio scivolarono verso il pavimento. «E Giulia ha ragione, sarebbe interessante poter studiare i pesci ogni giorno. Potrebbero esserci anche utili per le ricerche scolastiche.»

«Visto?» Giulia gli allacciò il braccio attorno alle spalle e gli tambureggiò due pacche sul petto, come faceva Alberto. «Lo dice anche Luca che sarebbero utili per la scuola. Se è per la scuola ne vale sicuramente la pena.»

«Mhm.» Sara si alzò dal tavolo, si massaggiò la schiena, andò a mettere la tazzina di caffè sotto il getto del rubinetto, si sciacquò le mani, e impilò in dispensa i piatti che erano posti ad asciugare sulla griglia. «Ciò non toglie che i pesci d’acquario sono un bell’impegno, Giulia, soprattutto quelli di acqua salata.» Spiegò il canovaccio e asciugò il ripiano. «Ci sono i costi del mangime, della sabbia, dei filtri, del sale per l’acqua, e bisogna tenere ben curata la teca, pulirla costantemente. È una responsabilità non da poco.»

«Ma io e Luca siamo responsabili.» Giulia indicò entrambi. «Siamo sempre stati responsabili, vero? E prendiamo seriamente ogni compito che ci viene assegnato e ogni esperimento nel quale ci cimentiamo.»

Sara annuì. «Questo è vero.» Ripiegò il canovaccio e si pose davanti a Giulia con sguardo più rigido, anche se non inscalfibile. «Ed è per questo che, se volete tanto avere un acquario in casa, allora dovrete saperlo guadagnare.»

Giulia e Luca strabuzzarono gli occhi. «Guadagnare?» Persino Nerone abbaiò, «Bau!», assecondando il loro stupore.

Sara annuì di nuovo e andò al frigorifero. «Facciamo così.» Da sotto la luce azzurrina tirò fuori il vasetto di marmellata alle fragole, il vassoio del burro, e dispose tutto sul tavolo assieme a un coltello dalla lama curva. «Durante il sabato e la domenica, io vi assegnerò qualche lavoretto da fare in casa, e vi darò una piccola paghetta.» Scartò la busta del pane fresco, allineò le due baguette sul tagliere e le fece a fette. «Se sarete parsimoniosi, potrete utilizzarla per compare e mantenere i vostri pesciolini e gestire l’acquario da soli.» Impiattò le fette di pane, mise anche quelle sul tavolo, vicino al burro e alla marmellata, e in un battibaleno la merenda per i ragazzi fu pronta. «Intesi?»

Giulia s’infiammò di gioia. Slanciò le braccia verso il soffitto e saltò a pie’ pari lanciando un gridolino di vittoria. «Ah-ah!» Atterrò seguita dalla criniera di riccioli che le rimbalzarono sulle spalle. «Intesi!» Si gettò di nuovo ad abbracciare Luca, schiacciò la guancia rossa di emozione sulla sua, e scosse entrambi con una risata. «Ce l’abbiamo fatta, Luca, ce l’abbiamo fatta! Avremo l’acquario, avremo tutti i pesciolini del mondo e anche di più!»

Anche Luca rise, ma più piano. «Ma dobbiamo ancora cominciare a mettere da parte i soldi. Dovremo lavorare sodo.»

Giulia gli toccò la spalla con un pugno, uno di quei gesti d’incoraggiamento trasmessi da Alberto. «Sarà un gioco da ragazzi, vedrai. Tempo un paio di settimane e potremo permetterci un acquario grande quanto il Colosseo.» Il suo sguardo incantato si proiettò fra le luci e i colori di quel sogno. Gli occhi abbagliati dai neon, il viso tinto dalle sfumature dell’acqua azzurra. «Ooh, non vedo l’ora!»

Luca annuì, lasciandosi contagiare dal magnetico entusiasmo di Giulia. «Già.» Richiamato dall’invitante profumino di pane fresco appena affettato, andò a sedersi a tavola, cominciò a spalmare un ricciolo di burro su una fetta di baguette, e fece vagare lo sguardo verso l’alto, già proiettandosi fra le immagini di quella scena futura non troppo lontana. Si smarrì in mezzo al verde delle alghe e alle scintille color pastello della sabbiolina smossa dal nuoto dei pesci e dallo zampettare dei granchietti. «Non vedo l’ora.»

Giulia, prima di concedersi la merenda, volò ad abbracciare sua mamma. «Grazie, mamma, grazie!» trillò. «Vedrai, io e Luca ti lasceremo a bocca aperta. Saremo bravissimi!»

Sara le arruffò i capelli, «Non lo metto in dubbio», e le schioccò un piccolo bacio sulla guancia. «Mettetecela tutta, mi raccomando.»

Finito di spalmare il burro, Luca passò alla marmellata di fragole, raccolse con l’indice una goccia di confettura caduta sul bordo del piatto, e si succhiò la punta del dito. L’immediata comparsa delle squame gli chiuse la bocca dello stomaco in un groppo che gli soffocò il fiato. La vista vacillò. Pensieri più cupi si sovrapposero come i nuvoloni di un temporale.

Un acquario in casa… dei pesci in casa… la sua faccia costretta ad affacciarsi di continuo sul vetro della teca, tutte le volte in cui avrebbe distribuito il mangime sulla superficie dell’acqua. E il riflesso del suo viso proiettato fra le alghe e le bollicine soffiate dal filtro ogni volta in cui avrebbe attraversato il corridoio.

Riuscirò a resistere?

Però Giulia era così galvanizzata all’idea che Luca non osò obiettare e sgonfiare le sue speranze. Distolse lo sguardo dal suo indice umettato dalle squame, strinse il manico del coltello da burro, e raccolse un lungo respiro di determinazione.

Ma sì: chiaro che resisterò. Sarò forte. Sarò forte e ragionevole, e anche io mi darò da fare per guadagnare i soldi che ci serviranno per l’acquario.

Addentò un primo morso alla fetta di pane, burro e marmellata. Masticò il pane stopposo, succhiò il burro amaro e colloso, e fece schioccare sul palato la lingua pizzicata dalla marmellata acidula.

Di nuovo quel presagio. Di nuovo i brividi trasmessi dalla solita sensazione di pericolo, la stessa che lo aveva accerchiato e tormentato il giorno in cui si era preso il gavettone in faccia. Di nuovo la vocina di Bruno a bisbigliargli all’orecchio, a scoraggiarlo, e a smontare ogni sua sicurezza.

In quel tranquillo e tiepido pomeriggio di settembre, Luca e Giulia intrapresero la loro piccola Odissea, e Luca non poté fare a meno di sentirsi un piccolo Ulisse disperso per mare, un naufrago sballottato dalle correnti ostili, distante da casa, spiaggiato su terre dove lo attendevano agguati e insidie.

Gli venne da chiedersi quanto tempo ci avrebbe impiegato per meritarsi di rivedere la sua bella Itaca. Quanto tempo e quanti sforzi ci sarebbero voluti per sentirsi nuovamente a casa.

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Capitolo 22
*** 22 ***


22

 

 

Giulia distribuì sul palmo aperto le monetine che Sara aveva consegnato loro come paghetta prima di uscire per andare al lavoro. Le contò e sorrise, ragionevolmente soddisfatta. Lasciò cadere gli spiccioli dentro un vecchio barattolo di borotalco che lei e Luca usavano come salvadanaio – una donna avvolta in un asciugamano sorrideva sotto il marchio del prodotto –, e ci avvitò il coperchio di latta verde, sigillando il loro piccolo tesoro.

Sollevò il barattolo che ora, dato il peso eccessivo, era costretta a reggere con entrambe le mani. Lo accostò all’orecchio e lo scosse. Giunse uno squillo trascinato e ovattato che riempì le pareti quasi fino all’orlo, senza riuscire a spostarsi più di troppo. Giulia rinnovò il sorriso che assunse una luce raggiante. Il barattolo era talmente pieno che sarebbe stato difficile aggiungere denaro ancora per molto. Mancava poco al raggiungimento del loro obiettivo. Le sembrava facile da acchiappare proprio come era facile farsi cullare dal suono delle monetine che trillavano fra le pareti di latta: una melodia gioiosa come le campane della domenica o come i sonagli che cantavano sulle ghirlande di Natale. La colmava di speranza.

Quel fine settimana, incoraggiati dal peso sempre più ingente del barattolo dei risparmi, Giulia e Luca si erano dati da fare, e i lavoretti di casa erano risultati meno faticosi del solito. Anzi, l’aria d’autunno li aveva resi persino piacevoli: una rinfrescante e tonica attività fisica per sciogliere i muscoli e rinvigorirsi dopo tutti quei pomeriggi trascorsi chini sui libri di scuola. I ragazzi avevano tenuto aperta la porta della terrazza e avevano canticchiato assieme alla radio lucidando i mobili impolverati; avevano smangiucchiato mandarini succosi e profumatissimi dopo aver finito di riordinare i piatti che erano stati messi ad asciugare sul ripiano della cucina; ed erano anche scesi in cantina a recuperare il vecchio acquario di aragoste per prendere le misure e vedere così se avrebbe davvero potuto essere sistemato nel corridoio. Avevano deciso di spostare il mobiletto del telefono e di liberare spazio sotto uno dei quadri di Sara, uno di quelli a lei più cari che si era sempre rifiutata di vendere o di cedere alle gallerie d’arte – il panorama di una spiaggia al tramonto su cui brillavano le luci soffuse di un paesino all’orizzonte composto da tante casette dalle tinte pastello. Quella sì che sarebbe stata la dimora ideale per i loro futuri pesciolini!

Giulia mise giù il barattolo, lisciò un angolo del centrotavola che si era sgualcito sotto il suo peso, e attraversò il soggiorno. La corrente d’aria che giungeva dalla porta della terrazza le solleticò le guance e le pizzicò le narici inebriate dal profumo di foglie rosse e umidicce che proveniva dalla strada.

Il fruscio del vento si accavallò al sonoro della televisione che avevano lasciato accesa. “… per colpa di un cretino che s’è tolto i pantaloni, non si fa più lo spettacolo, non si fa. Ma queste son cose dell’altro mondo, son cose da…”

Giunta in cucina, Giulia raccolse una seggiola e la usò per salirci in piedi e arrampicarsi fino al ripiano superiore della dispensa. Frugò fra i barattoli di vetro e le lattine etichettate ammassate nella penombra. Si accigliò, crucciata dal dubbio di quella scelta. «Vediamo un po’…» Inclinò un barattolo color senape per controllare la data di scadenza segnata sul tappo. «Abbiamo carciofini, cipolline, funghetti. I funghetti sono meglio dei carciofi, secondo me.» Pescò il barattolo dei funghetti sott’olio e si girò a sventolarlo verso Luca. «Luca, che dici? Facciamo con cipolline e funghetti?»

Luca dispose la grande terrina di vetro affianco alla piana di legno che avevano già incastrato sopra il tavolo della cucina su cui erano allineati il barattolo del sale, il tubetto di origano, e la scodella dentro cui stava fermentando la schiumetta del lievito. Increspò la fronte in un’espressione scettica. «I funghetti sulla pizza?»

Giulia annuì. «Sì, perché no?» Rigirò di nuovo il barattolo. «L’origano poi gli darebbe un sapore ancora più forte. Ora che siamo in pieno autunno è l’ideale. Mangiare cibo di stagione fa bene allo spirito.»

Luca storse un’altra smorfia poco convinta, un ricciolo all’angolo delle labbra. «Urgh…» Nel frattempo ordinò sul tavolo anche gli altri ingredienti per l’impasto: la brocca dell’acqua, il sacco della Farina Manitoba, e la bottiglia dell’olio. Dopo aver richiuso il cassetto più basso della dispensa, l’occhio gli cadde sulle sfumature oro e arancio provenienti dalla porta lasciata socchiusa sulla terrazza.

Era domenica. Tinte rosse e gialle scivolavano lungo i vetri e che si frastagliavano fra i ricami delle tendine, incorniciando il panorama pomeridiano di un autunno ormai inoltrato. Tuttavia non faceva freddo, per questo Luca e Giulia avevano lasciato aperte persino le finestre del soggiorno, e non solo la porta della terrazza. La quiete era tale che gli angoli delle tendine sventolavano solo di poco, come petali smossi dal mite tepore di una brezza. Erano gli ultimi singhiozzi di un’estate ormai insonnolita che stava stiracchiando gli ultimi sbadigli prima di rintanarsi nel suo letargo.

In soggiorno avevano lasciato accesa la televisione, e il brusio del sonoro sorpassava i sospiri del vento e il rombo di qualche motocicletta proveniente dalla strada.

Sul Secondo Canale stavano trasmettendo un vecchio sceneggiato di Totò.

“… e modestamente a me mi si apron tutte le porte, portone e portelle, chiaro?”

Mi fai schifo, schifo, sei sempre lo stesso.”

Luca e Giulia non lo stavano nemmeno seguendo, ma il volume in sottofondo teneva loro compagnia, dato che in casa erano da soli – Nerone sonnecchiava pacifico nella sua cuccia –, ed era una buona alternativa al ronzio distante del traffico e ai boati occasionali che si innalzavano dagli altri appartamenti e dal quartiere del Marassi quando il Genoa segnava un goal.

Luca scosse il capo, prima di incantarsi troppo sulle calde luci del sole distribuite fra le finestre, e tornò a occuparsi della pizza. Unse d’olio la terrina dove avrebbe lavorato l’impasto. «E se invece optassimo per qualcosa di un po’ più semplice?» propose. «Abbiamo già mangiato polpettone a pranzo, e non vorrei appesantire troppo lo stomaco.»

«Ma oggi è domenica» sospirò Giulia. «E la regola della domenica è che lo stomaco non tiene conto di quello che entra.»

«Giulia…»

«E va bene, va bene.» Giulia alzò le mani in segno di resa. «Vada per la pizza semplice.» Rimise a posto il barattolo di funghetti, richiuse la dispensa, e scosse il capo con disappunto. «Ridurmi a cucinare una tristissima Margherita, per di più di domenica…» Saltò giù dalla seggiola. «Il forno si vendicherà, credi a me.»

Luca rise e cercò di non visualizzare troppo la scena. «Sbaglio o in frigo è avanzato un po’ di prosciutto cotto? E se mettessimo quello?»

«Mhm…» Giulia si strofinò il mento, pensosa. «Pizza con prosciutto cotto e mozzarella?» Ritrovò il sorriso, riguadagnò il solito entusiasmo, e batté il pugno sul palmo. «Andata!» Saltellò fino al frigorifero per prendere tutto quello che le serviva. «Allora io intanto lo tagliuzzo, così siamo a posto. Il lievito è pronto?»

«Credo di sì.» Luca sbirciò la scodella dentro cui avevano lasciato i grani in ammollo. La schiumetta abbondava e scoppiettava in superficie. «Ha già fatto la schiuma sulla superficie.»

«Allora comincia a impastare.» Giulia si armò di coltello, tagliere e piattino. Scoperchiò la vaschetta delle mozzarelle. «Io intanto penso al resto.»

«Agli ordini.» Luca spolverò il ripiano di legno per quando sarebbe stata ora di impastare, pesò la Farina Manitoba, la setacciò, la svuotò dentro la terrina unta d’olio, e ci aggiunse il sale e il composto di lievito. Un po’ di lavoro manuale era proprio quel che ci voleva per distrarre la mente affaticata dallo studio che aveva accumulato durante il resto della settimana. Non gli dispiaceva affatto.

Dall’altro lato del tavolo, Giulia scoperchiò due barattoli di passata di pomodoro, preparò il tagliere per affettare la mozzarella, e srotolò l’incarto di prosciutto cotto. Si mise al lavoro anche lei.

Luca inclinò la brocca e aggiunse l’acqua, un po’ per volta, al mucchietto di farina dentro cui aveva scavato un piccolo cratere. Affondò le punte delle dita dov’era ancora asciutta, ne capovolse un mucchietto senza farsi toccare dai rivoli d’acqua che erano ramificati fino alle pareti della terrina, venne sfiorato da una goccia opaca e si morse il labbro, pregando che l’umidità dell’impasto non mutasse le sue mani e che non facesse sbocciare le squame.

Rigirò un altro grumo di farina e lo ribaltò contro la parete unta d’olio. Gli arrivò addosso uno sbuffo bianco, come uno starnuto della terrina. Luca saltò all’indietro – le mani rigide e impolverate di bianco – e l’occhio gli cadde sul tessuto della camicetta sfiorata da quella bassa folata così improvvisa.

Luca la spolverò con il gomito, la trovò pulita, e sospirò per il sollievo. Nemmeno una macchia sulla stoffa di flanella composta da quadri blu e azzurri.

Era la camicia di Alberto, quella che lui aveva indossato la notte in cima alla torre, quella pregna del suo profumo e del profumo del mare. Quella che Luca aveva sottratto dalla sua camera e che poi aveva infilato nel fondo della valigia, in modo che nessuno la scoprisse, portandola poi a Genova con sé.

Luca non avrebbe mai creduto di essere capace di un’azione simile, di un gesto così riprovevole. Eppure, nonostante la vergogna, non era riuscito a pentirsene.

Non avrebbe mai osato chiedere ad Alberto di lasciargli portare via la sua camicia, certo che no. Come avrebbe mai potuto giustificare una simile richiesta? Magari confessandogli qualcosa del tipo: “Alberto, senti, ho bisogno che tu mi cedi uno dei tuoi abiti perché, quando mi trovo a Genova, ogni tanto sento il bisogno di sentirti più vicino a me. Le lettere e le telefonate ormai non mi bastano più, e quindi avere affianco il tuo profumo mi aiuterebbe ad alleviare tutta la nostalgia che provo standoti distante”.

Se Alberto avesse udito quella confessione, sicuramente si sarebbe sentito rivoltato. Avrebbe considerato Luca uno strambo, un pervertito. Lo avrebbe ripudiato, guardandolo con schifo e orrore, e forse non avrebbe più voluto avere niente a che fare con lui, evitando persino di guardarlo in faccia.

Luca non avrebbe potuto sopportarlo. Per lui era impensabile immaginarsi una vita senza Alberto, per questo aveva mantenuto segreto quel suo gesto.

Ed è per questo che Alberto non lo verrà mai a sapere.

Si tenne a debita distanza dal tavolo e dagli sbuffi della farina, sgranchì le dita impolverate, e ricominciò a lavorare sul miscuglio che non era ancora diventato un vero impasto.

Giulia, finita di tagliuzzare la mozzarella, si asciugò le mani con un canovaccio. «Sai cos’è che sarebbe davvero da provare un giorno di questi?» Non aspettò risposta e passò ad affettare il prosciutto. «La pizza con le acciughe, quelle sott’olio. Peccato che in casa non le abbiamo mai, ma secondo me sarebbe tipo una cosa super deliziosa. Ricordiamoci di aggiungerle alla lista della spesa. Oh, e invece la pizza con gli spinaci?» Sbatacchiò la lama a cui era rimasta incollata una strisciolina di grasso. Scosse la testa. «Non so perché la gente si lamenta così tanto degli spinaci. Per me gli spinaci sono…»

Luca temeva di essere scoperto, che Alberto si accorgesse della sparizione della camicia, che lo chiamasse per chiedergli se lui sapesse qualcosa in merito. Non era successo. E nemmeno Giulia sembrava sospettare di nulla. Non aveva fatto domande nemmeno quando gliel’aveva vista addosso, anche se era di almeno due taglie più grandi di lui e anche se le spalline gli cadevano quasi fino ai gomiti.

Magari crede che sia un regalo di mamma e papà. Magari pensa che me l’abbiano presa così larga per farla durare più a lungo.

Meglio così. Ma in realtà era raro che Luca la indossasse durante il giorno. Aveva paura che strapazzandola troppo avrebbe fatto sbiadire il profumo originale. Di solito la tirava fuori la notte, si addormentava abbracciandola, stendendola fra il cuscino e la guancia, proprio sotto il naso. Gli capitava di farlo quando la nostalgia si gonfiava come una marea, quando il bisogno della vicinanza di Alberto si faceva doloroso e insostenibile.

«… quella volta al ristorante in cui ci hanno messo la burrata al posto della mozzarella.» Giulia finì di affettare il prosciutto. Lo tolse dal tagliere e lo distribuì sul piattino. «Peccato che la burrata costa un botto, altrimenti…»

E quelle ondate di tristezza e nostalgia erano sempre più frequenti, si accavallavano proprio come la risacca che nelle mattine tempestose si abbatteva sulla battigia, frantumando la schiuma di mare fra gli scogli.

Nelle ultime settimane Luca si era ritrovato preda di un’inquietudine elettrica che lo perseguitava, somigliando alla nuvoletta di un temporale che sta per esplodere e infiammare il cielo a suon di fulmini. Gli capitava sempre più spesso di rabbrividire, di soffocare con il suo stesso fiato e di ritrovarsi con le mani rattrappite dalla tensione. Sensazioni che si erano intensificate dal giorno in cui avevano visitato l’istituto di ricerca sulla biodiversità marina. E pensare che lui e Giulia stavano lavorando così duramente proprio per potersi permettere l’acquario e i pesciolini.

Già, i pesci dell’acquario…

Giulia intanto aveva recuperato un cucchiaio con cui dopo avrebbero distribuito la passata di pomodoro sull’impasto. «… la mozzarella è freschissima, ma secondo me questo prosciutto è un po’ stantio.» Le sue parole attraversavano le orecchie di Luca senza lasciare traccia. «Oh, be’, se prenderà il sapore della passata di pomodoro di certo non si renderà immangiabile. Non me lo ricordo mai, ma la passata va condita prima di stenderla sull’impasto? Dobbiamo cucinare il soffritto in padella? Oppure va bene anche se – ehi, Luca.» Mise giù il cucchiaio, accostò la mano alla bocca e alzò il tono. «Luca?»

Luca sobbalzò. «Eh?» Una nube di farina schizzò fra le sue dita. «Co…» Sbatacchiò le palpebre, dissolse la nebbiolina di pensieri, e la cucina tornò in luce. «Cosa?»

Giulia rise, indicò la terrina dentro cui le mani di Luca erano affondate. «Che combini con l’impasto? Versaci ancora un po’ d’acqua, così è ancora troppo asciutto.»

«Oh.» Luca rigirò una mano impolverata di bianco. «S-stavo…» No, no, niente acqua, ti prego, basta acqua. «Stavo solo impastando un po’ più lentamente.» Sbatacchiò le dita per non lasciare impronte sulla brocca e aggiunse solo un’altra piccola versata d’acqua. «Per non fare troppi grumi.»

«Ma devi spremere con più convinzione, allora.» Giulia mimò il gesto, strizzò l’aria con movimenti ampi e profondi. «Affonda tutte le mani, non solo le punte delle dita.»

Luca tornò a morsicarsi il labbro e le parlò senza riuscire a guardarla in viso. «In realtà vorrei evitare di bagnarmi troppo.»

«Ma allora come fai a… ooh.» Giulia fece mulinare un indice verso la terrina. «Intendi, per le mani da… ma guarda che non sarebbe mica una tragedia. Anzi, secondo me sarebbe quasi meglio.» Prese la scodella dove prima avevano messo il lievito in ammollo, la portò all’acquaio. «Magari le mani palmate ti aiutano a impastare meglio.»

Luca avrebbe dovuto riderci su, scherzarci assieme a Giulia, ma non ne fu in grado. Il pensiero di mutare forma, di farsi riempire lo sguardo dalle sfumature delle sue squame, di tastarne la consistenza molle e frastagliata, lo raccapricciava quasi quanto l’idea di dover affondare la mano in un secchio di fango di palude. «Preferirei davvero evitare di farlo.»

«Sicuro?» Giulia aprì il getto del sifone, diede una sciacquata alla scodella. «Io se fossi in te ne approfitterei di continuo.»

«Giulia…»

«Oh, a proposito!» Giulia chiuse il rubinetto e asciugò la ciotola. «Stavo pensando a quando avremo l’acquario, i pesci, e tutto il resto.» Saltellò di nuovo al tavolo, poggiò le mani sulla piana da lavoro in legno e si sporse verso Luca. «Forse potremo anche fare a meno dei termometri e dei misuratori di salinità per tenere l’acqua sotto controllo. Potresti controllarla tu, di tanto in tanto, e così saremmo sicuri che sia proprio perfetta.»

«I-io?»

«Ma sì, è naturale. E pensa a quanti soldi potremmo risparmiare. Tipo…» Raccolse lei la brocca, aiutò Luca nell’impasto versando dell’altra acqua nella terrina di farina. «Se tu assaggiassi l’acqua, o se infilassi la testa nella teca e se provassi a respirare assieme ai pesci, saresti in grado di capire se l’acqua va bene o va male, giusto?»

«Io…» Gli occhi di Luca s’impallarono sul getto d’acqua che zampillò in mezzo al cratere di farina, formando perle di un bianco opaco che rotolarono fino alla pareti di vetro unto. «Immagino di sì. Ma è...»

«È un’idea geniale!» esclamò Giulia. «E lo so che non dovrei mettermi a fantasticare troppo, dato che non abbiamo ancora i pesci in casa, e che fare troppe anticipazioni porta solo scalogna, ma mi sento già un sacco gasata all’idea di avere l’acquario. La gita all’istituto è stata proprio illuminante, e sono sempre più convinta che da grande diventerò una ricercatrice subacquea o una biologa marina. Tu mi ci vedi?»

«Ecco…» Per distrarsi da quelle immagini – mare, pesci, acqua, fondali, scogli e coralli – Luca ricominciò a impastare, a ficcare le mani nella farina senza toccare le zone d’acqua. Raccolse un grumo abbastanza solido, della consistenza del pongo, e lo spremette fra le falangi. «Direi di sì.»

«Sul serio? Intendo…» Giulia rovesciò dell’altra acqua. «Tu che sei un mezzo pesce dovresti riconoscere meglio di tutti chi è adatto o meno a condurre una vita in mare.»

Luca fece una smorfia. Comincio a non saperlo più nemmeno io.

Giulia invece continuò a fantasticare. «… e ogni tanto penso che sarebbe proprio bello provarci.»

«Pro…» Luca compì uno scatto col braccio, smettendo di impastare, e urtò il sacco della farina ancora aperto. «Provarci?» Solo in quel momento si rese conto che aveva smesso di ascoltarla. «Provare a fare cosa?»

«Lo sai.» Giulia sorrise e fu uno dei suoi sorrisi da sognatrice. Grappoli di luce racchiusi fra le ciglia. La brocca di vetro avvolta dalle mani e i riflessi dell’acqua a danzarle sul candore della pelle. «A essere un pesce come te e Alberto.»

Luca sbiancò, la faccia gli divenne di ghiaccio. Incassò quel colpo doloroso come una testata data a uno scoglio e nauseante come un piatto di vongole avariate.

Giulia invece rise, mise in mostra i denti bianchi come perle, il rossore che le aveva spolverato le guance lentigginose. «Dai, non dirmi che anche tu ogni tanto non hai mai pensato a come sarebbe fare cambio fra di noi. Io mi ci sono immaginata almeno un milione di volte. Per i capelli, soprattutto.» Diede una spallata ai riccioli. «Secondo me anche sott’acqua ne avrei tantissimi, magari color corallo.»

«Be’, non è…» Luca strizzò i pugni, fece rabbrividire quello spasmo fino alle spalle indurite di tensione. «Non è un’esperienza poi così eclatante come credi.» Ricominciò a impastare. Spinse via un grumo di farina attraversato da un rivolo d’acqua, scrostò un mucchietto che era rimasto incollato alle pareti della terrina, sbatacchiò le dita sporche ma non ancora squamate, e tornò ad affondare i polpastrelli. «Non in questo modo.»

«In quale modo?»

«Essere come me e dovere comunque fare finta di essere qualcun altro.»

«Ma magari io non terrei il segreto.»

Le mani di Luca sprofondarono nella farina e lì rimasero. Lui tirò su la faccia bianca come sale e fissò Giulia con l’espressione di un triste disgraziato che ha appena ricevuto una coltellata in pancia dalla propria madre. «Cosa?»

Giulia fece spallucce, continuò ad aggiungere acqua. «Che secondo me non sarebbe così terribile far sapere anche agli altri chi sei veramente.» Non ci fu malizia nella sua voce. Cinguettò lo stesso tono che usava per raccontare della propria giornata a scuola, di una nuova idea per l’arredamento della loro cameretta, di un cane che aveva carezzato lungo la strada. «Ecco, se io fossi come te, magari sfrutterei il fatto di poter stare sott’acqua per diventare una ricercatrice ancora più brava. Pensa a che fortuna poter trattenere il fiato quanto voglio e poter immergermi a qualsiasi profondità, fino a dove non arrivano nemmeno i palombari. Farebbero tutti a gara per farmi lavorare con loro.»

Luca storse la punta del naso. Aprì e strizzò le mani impolverate di farina, arricciò le spalle tremanti, soppresse un profondo e penetrante bruciore alla bocca dello stomaco, e grugnì un farfuglio a denti stretti. «… scilochéunfaicomisisent…»

Giulia sollevò di nuovo la brocca, inarcò un sopracciglio. «Cosa?»

Luca si morse la bocca. Inspirò forte dal naso, e il peso dell’aria scese fin dove il fuoco gli stava divorando la pancia. «Che lo dici solo perché non sai come ci si sente.» Riprese a impastare. Le mani affettarono la farina, la ribaltarono, i pugni strinsero e le nocche picchiarono il vetro della terrina. Sbuffi bianchi schizzarono sul ripiano di legno. «Secondo te a me non piacerebbe essere qualcun altro?» Un gesto ancor più brusco, e il gomito di Luca urtò il sacco di farina lasciato aperto. «Secondo te a me non piacerebbe poter scegliere chi essere, invece che essere costretto a tenermi addosso questo aspetto?»

Giulia sgranò gli occhi. «Luca.» Adesso fu lei quella a perdere colore dalle guance, ad assumere la faccia di chi è appena stato schiaffeggiato. «Cosa stai…»

«Secondo te ne varrebbe sul serio la pena?» A Luca bruciò la bocca. Un martellio costante pestò sulla fronte, una spina di ghiaccio gli si conficcò nella nuca, il brivido discese la schiena, la vista si annebbiò, e quella foschia gli appannò i pensieri. Dalle sue labbra sdrucciolarono parole taglienti come la lama con cui Giulia aveva affettato il prosciutto. «Secondo te vale la pena una vita intera passata con il costante pensiero di doversi guardare le spalle dovunque io vada? È chiaro che per te sarebbe facile, tu non hai mai provato il terrore di avere gli arpioni puntati addosso.»

«Luca...»

«E non sai come ci si sente a non voler più essere quello che sono.» Braccia e mani tremarono, bruciarono per la tensione, quel gorgoglio scese fino a far ballare le ginocchia, ma Luca continuò a impastare, a schiacciare tutta quella rabbia sotto i pugni, a seppellirla sotto la farina. «E a non poter fare comunque nulla per cambiare le cose.» Luca spremette un gesto più brusco, sbatté il gomito sul bordo della terrina e urtò di nuovo il sacco della farina.

«Ah!» Giulia allungò le braccia verso il sacchetto che si era inclinato. «Attent…» Il sacchetto le sdrucciolò fra le dita e si ribaltò sulla terrina dell’impasto.

Tunf!

La valanga di farina sommerse le mani di Luca, esplose in una nuvoletta bianca che emerse dalla scodella, coprì la pasta molliccia, e impolverò le pareti della terrina, salendo fino ai gomiti di Luca. Una nebbiolina opaca si dilatò sotto le lampade della cucina e divise i due ragazzi.

Cadde il silenzio.

La televisione continuava a chiacchierare in sottofondo. Dal soggiorno giungeva lo sfrigolio di un rumore bianco, dell’audio scadente, di un melodioso accento del Sud Italia.

“… ti piaccio?”

Perbacco se mi piaci. Sei affascinante, sei conturbante, e oserei dire se mi è permesso… adiacente.”

Il sacchetto della Manitoba frusciò, dai bordi slabbrati piovigginò dell’altra farina, e l’intero pacco finì di ammosciarsi, rovesciando sul ripiano di legno quel che era avanzato del suo contenuto.

Altra polvere di farina alimentò la nebbia che era brulicata fra il tavolo e il lampadario, sfiorò il naso di Luca e lo solleticò, bruciando attraverso il suo respiro.

Luca rimase immobile. Gli occhi fissi sulle mani che la farina aveva reso bianche e gonfie, come se stesse calzando un buffo paio di guanti di lana. Batté le palpebre, assemblò i frammenti delle immagini: il sacchetto rovesciato, l’impasto della pizza sommerso dalla cascata di farina, le sue mani bianche, e quel nugolo che si era dilatato come una nebbia, offuscando l’ambiente circostante della cucina e coprendo anche l’espressione stravolta di Giulia, le sue labbra ancora socchiuse in quell’esclamazione che le si era spezzata sulla lingua.

Luca contrasse le dita formicolanti, chiuse i pugni facendo piovigginare dell’altra farina sull’impasto ormai rovinato, serrò la mandibola e ringhiò un gemito gutturale. «’ccidenti.»

Si precipitò al lavello. Spinse il gomito sulla leva del sifone, evocò il getto e ci tuffò le mani sotto. L’acqua sciolse la farina, generò un ingorgo bianco e pastoso sul fondo dell’acquaio, raggiunse la pelle di Luca, frammentò le squame verdi-azzurre fra le dita e spalancò la membrana della pinna fra le nocche.

Luca trasalì e un gemito gli andò di traverso. «Ah!» Lo inghiottì il buio, uno spazio nero. Una vampata di gelo penetrò fino alle ossa e gli chiuse lo stomaco, affondando una pugnalata di nausea nella pancia. I suoi pensieri si spensero, divennero un rumore bianco come quello della televisione. Ebbe un capogiro. La sua mente si staccò dal corpo e gli risparmiò lo strazio di quel dolore.

La vista si sdoppiò e divenne una patina sporca di grigio. Un fischio si prolungò attraverso le orecchie, creò una forte e dolorosa pressione sulle tempie, come due chiodi conficcati nel cranio. Il respiro bloccato gli torse lo stomaco in un nodo soffocante, dandogli l’impressione di non riuscire a trarre nemmeno un singhiozzo di fiato, né col suo naso da umano né col suo naso da pesce.

Luca si ritrovò immobile, sommerso dal buio. Fissò le sue mani trasformate e vacillanti, terrorizzato come se non fossero state parte di lui, come se si fosse trattato di un appendice da tagliare e da gettare nell’immondizia. Mani da pesce sotto il getto del rubinetto aperto, inondate dall’acqua che gorgogliava mentre veniva risucchiata nello scarico del lavello, nel buco nero in cui Luca si sentì precipitare, squagliarsi e disperdersi come la farina che gli era colata fra le pinne.

Un eco distante lo chiamò, gli venne vicino. «… ca.» Una mano si posò sulla sua spalla, «Luca», e lo fece sobbalzare. Nonostante quel singhiozzo di spavento, Luca riuscì a staccarsi dall’immagine delle mani attraversate dal getto del lavandino, dal gorgoglio risucchiato nell’occhio nero dello scarico. Si girò verso la voce di Giulia. Anche gli occhi di lei erano liquidi di paura, ma fermi in una forte espressione di vicinanza e di premura. «Stai bene?»

Il fischio si abbassò, fu meno penetrante, anche se ancora mescolato allo scroscio dell’acqua che scorreva, e finalmente abbandonò le orecchie di Luca, permettendo alla voce dei suoi pensieri di riemergere. Bene? Sto bene? Lo sguardo vacillò, vuoto e frastornato. Perché me lo chiede? Cos’è successo? Stavo solo impastando la pizza. La pizza, . Poi è caduta la farina. È solo caduta la farina, nient’altro. La farina per la pizza.

«S…» Luca deglutì, ma il fiato gli s’incastrò fra le pareti della gola asciutta. Si guardò di nuovo le mani, le vide brillare, umide del getto d’acqua che aveva distribuito le squame fino ai polsi. «Sì?» I rivoli trasparenti corsero fra le falangi tenute unite dalla membrana delle pinne cresciute fra una nocca e l’altra. Le sfumature verdi-azzurre brillarono di una luce diversa sotto il lampadario della cucina. Una luce fredda e surreale che lo stordì come un’altra botta al cranio, come un altro getto di farina esploso in faccia, come un altro gavettone schiantatosi sul naso.

Luca mosse le dita. Le sentì reali, le sentì sue. Sotto le squame scorreva il sangue e pulsavano le vene. Non erano più un appendice da staccare e da gettare nell’immondizia. Si rese conto di come, anche strappandosi le mani dalle braccia, anche raschiandosi le scaglie come una triglia da esporre sul banco del pescivendolo, non avrebbe mai smesso di essere quello che era.

Una disperata botta di pianto gli infiammò le guance, gli gonfiò gli occhioni di lacrime. Un respiro sommesso traballò fra le labbra sbiancate. «No.» Luca tolse una mano da sotto il rubinetto e usò il lato asciutto del polso per tapparsi un occhio e arrestare sul nascere il flusso delle lacrime. Singhiozzò un vagito sofferente, da straziare l’anima. «No, non sto bene.» La bolla esplose. Zampillarono i primi singhiozzi, all’inizio corti, poi sempre più ravvicinati e prolungati. Il bruciore delle lacrime gli invase le palpebre, gocciolò dalle ciglia, piovigginò sulle guance che mutarono al contatto, e quella sensazione di calore e di sconfitta si sciolse fino al mento.

Anche Giulia si commosse. Strinse la mano ancora appoggiata alla spalla tremante di Luca, le vennero gli stessi occhi umidi e impotenti di un guerriero sconfitto. Spense il sifone del rubinetto. «Su.» Lo cinse in un abbraccio, «Vieni qui», e gli fece poggiare il capo sulla sua spalla.

Luca si abbandonò all’abbraccio di Giulia, sfiorato dai suoi capelli, consolato dal tepore della sua guancia tiepida, circondato dal profumo di mandorla e vaniglia e anche da quello del sapone spray con cui poco prima aveva spolverato i mobili del soggiorno. Troppo esausto per resistere e per sforzarsi di soffocare i singhiozzi di pianto, cedette. Si aggrappò alla sua schiena con le zampe ancora bagnate, strizzò gli occhi versando qualche altra lacrima bollente, e si arrese al desiderio di sprofondare in quell’abbraccio e di rimanerci. Lì era al sicuro. Niente avrebbe potuto fargli del male.

Giulia lo coccolò tenendoselo stretto al petto. Lo cullò avanti e indietro, dondolò sui piedi. «Stai tranquillo.» Gli strofinò la schiena. Carezze calde e forti. «Stai tranquillo, va tutto bene.» Lo consolò con voce flebile e ferita. «Mi dispiace, Luca.» Sulla guancia, il tocco del suo respiro era tiepido e profumava di fragola, della gomma da masticare che aveva succhiato subito dopo pranzo. «È colpa mia. Ho parlato a sproposito, non avrei dovuto dire quelle cose.» Giulia strinse più forte le braccia. «Hai ragione: io non ho idea di cosa significa essere te.» Gli diede una scossetta e lo tirò su di morale con una risata stentata. «Tutto questo tempo e ancora non ho imparato a frenare la lingua quando esagero. Dici che sono proprio senza speranze?»

Luca tirò su col naso e scosse la testa sfregando la fronte sulla spalla di Giulia. Anche lui strinse più forte l’abbraccio. Tremò stando appeso a quell’unico appiglio che gli impediva di perdersi alla deriva, risucchiato dalle onde di quel pianto irrefrenabile.

Il frigorifero ronzava attraverso il silenzio che aveva riempito la cucina. Il lavello gocciolò, una motocicletta rombò sgommando fuori dalla porta della terrazza, un fruscio di vento più forte spostò l’angolo della tendina e fece dondolare i riflessi di luce rossastra specchiati sul legno laccato dei mobili.

Giulia raccolse un respiro profondo. Le sue braccia salde attorno al corpo di Luca, il petto premuto sul suo, il battito del cuore lento e regolare, la voce dolce ma di nuovo sporcata da un’ombra di preoccupazione. «Che succede, Luca?» Le fu chiaro che non poteva trattarsi solo della litigata sullo scambio di ruoli, della battuta sul diventare un pesce come lui e Alberto, o dell’incidente della farina rovesciata. «È da un po’ che ti comporti in modo strano, ma non posso aiutarti se non mi dici cosa ti preoccupa.» Smise di strofinargli la schiena, voltò il viso sfregando una ciocca di capelli fra le loro guance. «Non vuoi, uhm?» Il suo sussurro gli carezzò l’orecchio. «Possiamo trovare una soluzione assieme.»

Una stilettata bruciante trapassò il cuore di Luca, evocò un altro singhiozzo. Una soluzione? Luca respirò più forte. Si tenne avvinghiato a Giulia per paura di perdersi, di sentirsi precipitare nell’abisso. Le appiccicò la faccia alla spalla per non doverla guardare negli occhi. Quale soluzione? Non esistono soluzioni.

Giulia tornò a massaggiarlo fra le scapole. «Problemi con la scuola?»

Luca fece subito no con la testa.

«Problemi con…» Giulia esitò. «Con Alberto?»

Luca irrigidì e affondò le unghie da creatura marina nella lana della sua maglia.

C’erano problemi con Alberto? Come avrebbe dovuto rispondere? No? Sì? Forse?

Non nutriva dubbi sul fatto che Alberto facesse parte di quelle turbe che gli stavano dannando l’anima. Ora che conducevano vite così diverse, ora che il rapporto che condividevano con il mare era cambiato, ora che Luca non riusciva più a decifrare quello che provava nei suoi confronti, a decifrare come si sentiva standogli affianco.

E se tutti questi cambiamenti dovessero finire per allontanarci? Magari è sempre stato questo il nostro destino: quello di ritrovarci sempre più distanti l’uno dall’altro. Avrei dovuto capirlo. Io e Alberto non siamo mai stati compatibili, siamo sempre stati troppo diversi, sia fuori sia dentro l’acqua. Il nostro destino non è mai stato quello di trascorrere assieme il resto delle nostre vite. La nostra amicizia è nata come un atto di ribellione e tale rimarrà, ecco perché è così difficile portarla avanti.

Era questa realizzazione a straziarlo, a soffocargli il respiro, a torcergli la pancia e ad accoltellargli il cuore.

Allora perché mi fa così male pensare a una vita senza di lui?

Da piccolo non aveva trovato difficoltà nell’ammetterlo, nel confessarlo guardando Alberto negli occhi. Era successo alla stazione dei treni, la prima estate in cui si erano incontrati, il primo autunno in cui si erano separati.

Non ce la faccio senza di te.”

Ma alla fine Luca era montato sul vagone e se n’era andato, e Alberto era rimasto. Alberto lo aveva incoraggiato a dovere, gli aveva assicurato che ce l’avrebbe fatta, che sarebbero rimasti l’uno affianco all’altro anche trovandosi così distanti. Ora l’eco di tutte quelle promesse suonava come un inganno. Forse Luca si si era sbagliato, aveva frainteso per tutto quel tempo. Forse era sempre stato Alberto quello a non aver mai avuto realmente bisogno di lui.

Luca ruppe i singhiozzi attraverso un sospiro mortificato. «Scusa.» Come conati di nausea, gli tornarono indietro tutte le crudeltà che aveva rivolto a Giulia, tutto quello di cui l’aveva accusata ingiustamente. «Scusa, Giulia, non dovevo dirti quelle cose. Non è colpa tua se io mi sento così.» Sollevò la fronte, si strofinò il braccio sugli occhi e asciugò le squame sbocciate sulle guance. «Mi dispiace.»

Giulia scosse il capo e di nuovo gli strofinò la schiena. «È passato» lo rassicurò. «Va tutto bene.» Sciolse l’abbraccio, andò a prendere lo strofinaccio che aveva ripiegato sullo schienale di una seggiola. «Ecco, ti aiuto.» Raccolse le mani squamate di Luca e gliele asciugò frizionando con cura fra ogni dito e su ogni nocca.

Lo sguardo di Luca si allontanò da quello spettacolo. Vagò distante, cadde sul tavolo, sulla farina rovesciata, sull’impasto rovinato, sulla boccetta dell’origano, sul piattino con la mozzarella affettata e il prosciutto tagliato a striscioline. Tutti quei buoni ingredienti con cui avrebbero dovuto preparare la loro pizza della domenica. «La pizza» mormorò. Il miagolio di un gattino ferito. «Ho rovinato l’impasto.»

Giulia sorrise e di nuovo scosse la testa. «E che problema c’è? Quello si rimedia in fretta.» Finì di asciugargli le mani che tornarono soffici e tiepide. «Vedrai, ce la caveremo. Basterà aggiungere un po’ d’acqua in più, tutto qui. Potremmo fare due pizze invece di una, e quello che avanza ce lo portiamo come merenda a scuola. Se vuoi impasto io, se tu non te la senti.»

Luca lasciò ciondolare il capo in avanti, e la fronte tornò a cadere sulla spalla di Giulia. «Sono un buono a nulla.»

«Ssh.» Giulia gli grattò una carezza fra i capelli. «Non dire queste cose. Ecco.» Lo lasciò, ma solamente per andare al frigorifero. Pescò due bottigliette di Coca-Cola, si armò di cavatappi, poi raccolse la mano asciutta di Luca, placandone gli ultimi tremori, e gli fece attraversare la cucina, conducendolo verso la terrazza del soggiorno. «Usciamo un attimo in terrazza. Hai bisogno di una bella boccata d’aria.» Gli sorrise senza sforzo. Il sorriso di chi conosce il trucco giusto, di chi sa esattamente come rimediare e come uscire da ogni guaio. «Vedrai come ti farà sentire meglio.»

Sorpassarono il soggiorno, sfilarono davanti alla televisione, ai suoi riflessi di luce grigiastra, al faccione di Totò che continuava a blaterare.

“… la prima notte in collegio dalle suore. Sì, me l’ha raccontata a me. La sanno tutti, la sanno…”

Uscirono in terrazza dove non fecero fatica a sentirsi subito meglio. Li accolse l’aria tiepida di un autunno speziato; il sole basso, tondo e carico di colore come un’arancia matura; le ombre allungate di quei pomeriggi che già cominciavano ad accorciarsi; i gabbiani che stridevano e che volavano in cerchio sopra i comignoli, sparendo poi attraverso la tinta rosa delle nubi color confetto; e il profumo della pianta dei limoni e dei germogli di basilico e di rosmarino che crescevano sul balcone.

Giulia stirò le braccia sopra la testa, stropicciò una smorfia di sollievo e respirò a pieni polmoni quell’arietta frizzante come la Coca-Cola che zampillava allegra nelle bottigliette fresche di frigo. Accolse quel bel sole che ravvivò i riflessi color fuoco fiammeggiati fra i suoi riccioli e che mise in risalto le lentiggini sopravvissute all’abbronzatura estiva. «Come si sta bene, qua fuori.» Tornò a far cadere le braccia lungo i fianchi, si accostò al muretto del balcone su cui avevano messo a sventolare una vecchia bandiera del Genoa. «Quest’anno saremo fortunati, dicono. Non sarà un inverno troppo freddo. E anche le piogge non saranno così tragiche.» Premette le mani in cima al muretto e si diede la spinta. «Un problema in meno a cui pensare, no?»

Luca intercettò quel suo saltello e gli venne un colpo, già immaginandosela per terra. «Ah!» Si slanciò in avanti e le acchiappò un lembo del maglione. «Attenta!»

Ma Giulia rise, per nulla in pericolo, perfettamente a suo agio con una gamba a ciondoloni verso la strada. Lo sguardo spensierato di una bimba che è appena montata sull’altalena del parco. «Luca, sta’ tranquillo.» Gli carezzò la mano con cui l’aveva fermata, gli parlò come si parla a un genitore petulante. «Va tutto bene, rilassati. Fa’ come me, respira a fondo, così…» Si posò il fianco della mano sotto lo sterno, tirò su le spalle, inspirò dal naso e buttò fuori dalla bocca. «Su, prova.»

Nonostante un tremolio di esitazione, Luca accettò di lasciarle andare la maglia. Socchiuse le palpebre, fece come Giulia gli aveva detto: inspirò dal naso, espirò dalla bocca, e ripeté per tre volte di seguito. Si concentrò sul battito del suo cuore che tornò regolare, sull’aria fresca che gli attraversò le narici, sul profumo di erbe e di foglie di limone, sull’umidità della bottiglia fredda di frigo sorretta dalle sue dita, sui colori pastello dei palazzi che componevano il vicinato, sul tenue sole autunnale che irradiava le facciate delle case, e sullo stridere dei gabbiani affamati che migrarono verso i quartieri del molo.

Si affacciò dal balcone.

Le strade erano deserte, tranne che per le auto parcheggiate, per qualche moto che passava di tanto in tanto, per le biciclette agganciate alle grate del condominio di fronte, e per un signore anziano che stava facendo scorrazzare il cane sotto i filari di alberi rossicci.

C’era silenzio. Più silenzio e meno traffico del solito. Ma era normale: quella era una domenica di partita, e i genovesi che non si erano accalcati a tifare fra gli spalti dello stadio erano raccolti nei salotti a guardare la diretta in televisione. Bandiere del Genoa erano affisse su ogni finestra, su ogni balcone e su ogni terrazza, come sulla loro. Bandiere che però sventolavano a singhiozzi, data la quasi assenza di vento. L’oceano blu e rosso di una città crepitante di aspettativa e sospesa in quell’aria di tensione attraverso cui ogni sospiro pesava come una cannonata.

Giulia stappò le bottigliette di Coca-Cola, ne restituì una a Luca, e lui bevve un piccolo sorso di soda. Era dolce, pungente e rinfrescante, assolutamente deliziosa.

Lo circondò una bava di vento al profumo di spezie, di mare e di limoni, che gli fece provare la stessa dolorante fitta di nostalgia che lo aveva aggredito poco prima, quando si era rintanato nell’abbraccio di Giulia. Quella triste sensazione di perdita e di abbandono lo trascinò giù dalla terrazza di casa, lo elevò fra le nuvole color rosa confetto, e gli permise di fuggire verso Portorosso.

Sicuramente anche la mamma stava guardando la partita. Forse si trovava al bar o all’osteria e stava tifando assieme ai pescatori, riempiendo un bicchiere di vino dopo l’altro, sgranocchiando noccioline e affettati, e sbraitando addosso al televisore che ronzava appeso al soffitto, circondato da filari di bandierine rosse e blu. Luca si sentì davvero in grado di inspirare l’odore di vino rappreso sul fondo dei bicchieri, quello del legno del bancone maculato dalla colla degli aloni e impolverato dalle briciole di grissini. Udì lo squillo dei calici, lo schiumare della moka di caffè, i tonfi dei pugni che picchiavano sul tavolo a ogni passaggio mancato, e i ruggiti di esultanza per ogni rete messa a segno.

Forse il papà era rimasto a casa da solo a badare ai pesci o a dar da mangiare ai granchi, oppure quel giorno aveva deciso di salire a Portorosso assieme a Daniela e di godersi anche lui una domenica in superficie, alla luce di quelle che sarebbero state le ultime giornate di bel tempo. Forse anche lui adesso stava familiarizzando con i pescatori che gli avrebbero offerto dell’espresso o una lauda infornata di castagne di stagione che Lorenzo aveva scoperto di amare alla follia.

Luca bevve un altro sorso di Coca. Le immagini dei suoi genitori sbiadirono. Comparve il ricordo di Alberto.

Chissà lui cosa starà facendo?

Era sicuro che Alberto non stesse trascorrendo la domenica in solitudine. Forse stava coccolando i gatti, o stava giocando a pallone con i ragazzi del paese, o magari era corso in bici fino alla spiaggia, o più probabilmente si trovava in compagnia di Massimo. Forse stavano cucinando assieme. Magari Alberto stava stendendo la pasta all’uovo, come poco prima Luca e Giulia stavano mescolando l’impasto della pizza, allietato in sottofondo dalla musica di Paganini invece che dalle battute di Totò.

Luca si domandò a cosa stesse pensando. Chissà se pensa a me, era questo il reale dilemma che lo aveva attraversato come il lampo di un arpione gettato all’aria. L’ennesimo arpione che si ritrovò a schivare per non finire infilzato e per non soccombere sotto l’atrocità di quel dolore.

«Va un po’ meglio?» Giulia succhiò un sorso dalla sua bottiglietta, fece dondolare la gamba che ciondolava giù dal balcone, e spiluccò una fogliolina dalla pianta di basilico. «Hai ripreso colorito, per fortuna.»

Luca scese dalla sua nube di pensieri. Inspirò profondamente, dentro dal naso, fuori dalla bocca, e fece del suo meglio per rilassare i nervi, per sciogliere la tensione sulle spalle, e per acquietare il battito del cuore. «Sì.» Non doveva farne un dramma, non era necessario. Si godette l’aria fresca, come gli aveva consigliato Giulia. Quel maestoso e casereccio panorama di autunno che avrebbe illuminato ancora per poco le loro giornate. «Sì, ora sto meglio. Decisamente.» Sorrise senza sforzo. «Grazie, Giulia. Ci voleva davvero un po’ di aria fresca.»

Giulia rigirò un’altra fogliolina di basilico. Chinò lo sguardo ombreggiato dai capelli scivolati sulle guance. «Mi dispiace.» Adesso era lei quella che dava l’impressione di dover essere consolata. «Non vorrei fosse colpa mia, dato che ti ho trascinato dentro la faccenda dei pesci e dell’acquario. Non vorrei che fosse per questo che tu ti stai affaticando troppo, fra la scuola e anche tutto il resto.»

«No.» Luca fece oscillare la bottiglietta mezza piena. Scosse il capo. «No, credimi, non è colpa tua.» Si morse l’angolo delle labbra. «È solo…»

Giulia sembrò capire al volo. «Un po’ di nostalgia?»

Luca si strinse nelle spalle, inspirò a lungo. «Forse.» Bevve ancora dalla bottiglietta. Spolverò uno buffo di farina che gli aveva sporcato la camicia blu. «Forse è davvero così.» Gli tornò in mente quello che Giulia gli aveva detto quando si trovavano ancora in cucina: È da un po’ che ti comporti in modo strano, ma non posso aiutarti se non mi dici cosa ti preoccupa”. Lo aggredì una fitta di sensi di colpa. «Si nota così tanto? Intendo…» Grattò l’unghia sull’etichetta della bottiglia. «Che sono un po’ diverso dal solito?»

Lo sguardo di Giulia si fece pensieroso, di nuovo in apprensione. Lei rivolse gli occhi alla zona più alta del cielo, sgombera da bandiere, comignoli e antenne televisive. «Sei sempre fra le nuvole, molto più del solito. E quando non lo sei sembra di vederti camminare sugli aculei. Non volevo dirti nulla per non spaventarti, ma Luca…» Si pettinò una ciocca dietro l’orecchio, gli rivolse una calda e vicina occhiata d’intesa. «Sai che se ci fosse qualcosa che ti turba allora puoi parlarne con me, vero?»

Luca inghiottì un amaro groppo di fiato, tornò in apnea. Senza nemmeno rendersene conto, il tocco della mano libera strinse un lembo della camicetta di Alberto. Fu un attimo, ma bastò per suscitare la voglia di dirle tutto, di sputare ogni parola, di prostrarsi e di lasciar cadere il peso soffocante di quei segreti. In un attimo arrivò e in un attimo svanì, effimero come un colpo di pinna in mezzo al mare. Non le disse nulla. «Vedrai che starò meglio.» Anche Giulia sarebbe rimasta inorridita da quella confessione, anche lei lo avrebbe guardato con occhi disgustati. E Luca non voleva perderla, tanto quanto non voleva perdere Alberto. «Una volta che avremo finalmente l’acquario potremo rilassarci, e vedrai che anche io migliorerò.»

Giulia sorrise, visibilmente sollevata, e si sporse a strofinargli i capelli. «Questo è lo spirito.»

Luca annuì. Un gesto molle e arrendevole. Quante volte si era ritrovato ad affrontare gli stessi dilemmi, le stesse situazioni?

Avremo la Vespa e tutto andrà meglio; andrò a Genova a studiare e tutto andrà meglio; verrò promosso e tutto andrà meglio; avremo l’acquario e tutto andrà meglio.

E puntualmente si ritrovava a sbattere il naso su un altro muro, a inciampare su un altro sasso, a vacillare sul bilico di un altro precipizio.

Sarà così per sempre? Per tutta la vita?

Poggiò i gomiti sul bordo della terrazza, si sporse, si lasciò avvolgere dalle carezze del vento che ora cominciava ad alzarsi, a emettere fischi più prolungati, e a mescolare gli odori aspri provenienti dal porto.

Avrò davvero la forza di resistere a tutto questo?

Luca si perse nel mare di quel cielo rossastro popolato da gabbiani, da comignoli, da antenne televisive, da fili del bucato, e si costrinse a non pensarci più. Ne aveva abbastanza di drammi. Le domeniche non erano fatte per i drammi. Per quelli bastavano i rimanenti sei giorni della settimana.

Il bar-sport affacciato al vialone principale era ancora aperto e carico di luci e di profumi. Da sotto la tenda a righe giunsero grida di esultanza, fischi, rauche risate che si alternarono agli squilli dei bicchieri che trillavano l’uno sull’altro e che finivano sbattuti sui tavoli. Qualcuno passò in auto e fece strombazzare il clacson. Sfrecciò anche un signore in bicicletta, viaggiando nella direzione opposta, che slanciò un braccio e sbraitò una di quelle parolacce che a Luca non era permesso nemmeno sussurrare.

Uno dei gattini randagi che girovagavano fra i bidoni rizzò una cresta di pelo e soffiò verso quel chiasso, saltò giù da una cassetta dell’orto-frutta e corse a rintanarsi fra i vicoli strozzati dalle pareti dei condomini.

Anche le altre case e gli altri appartamenti, quel pomeriggio, avevano lasciato le finestre aperte. Le tendine tirate solo a metà e qualche panno a stendere sui fili del bucato. Giungevano chiacchiere, risate e farfugli fra i quali spiccavano le voci gracchianti delle vecchie signore e i vagiti di qualche bimbo piccolo. L’eco delle televisioni che trasmettevano la partita, le grida di gioia di chi stava facendo il tifo e i lamenti di chi brontolava di fare silenzio. E ancora lo spadellare di stoviglie che venivano rigirate, tolte dalle grate e posate sui fornelli, lo sbatacchiare dei mestoli e il cigolio delle sfogliatrici che macinavano la pasta all’uovo. Lo sfrigolare della pastella di pesce. Il profumo del ripieno di zucca e salsiccia infagottato nei ravioli che poi sarebbero stati rosolati nel burro, guarniti con foglie di salvia, scaglie di Parmigiano, e serviti a cena assieme alla crostata della domenica.

Dal Marassi si innalzò un boato micidiale. Uno stormo di gabbiani si frammentò contro il disco del sole sempre più basso, e il cane del vicinato attaccò ad abbaiare contro una bicicletta il cui passaggio era scricchiolato sulle foglie secche che non erano ancora state spazzate dal vialetto.

Luca e Giulia finirono le loro bottigliette di Coca. Rientrarono in casa, rifecero daccapo l’impasto della pizza, lo stesero spalmandoci tanto pomodoro, come piaceva a loro, e foderandolo con tutta la mozzarella e tutto il prosciutto che avevano tirato fuori dal frigorifero. Mentre la pizza cuoceva nel forno, e il suo profumino di origano e di mozzarella fusa andava propagandosi come un dolcissimo incantesimo di buonumore, i due ragazzi si accoccolarono sul divano, alzarono il volume della televisione, e risero delle disavventure di Totò.

Una tranquilla domenica italiana.

 

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Capitolo 23
*** 23 ***


23

 

 

Le mani di Giulia, irrigidite e arrossate dalle sferzate di vento invernale, strinsero la latta ammaccata del loro piccolo e preziosissimo tesoro che profumava di borotalco e di sogni gloriosi. Lo stesso disegno della stessa signora sorridente avvolta da un asciugamano spiccava sullo sfondo verde muschio. Giulia scosse il barattolo senza quasi riuscire a udire il rumore del suo contenuto. Giusto un fruscio metallico, qualche scricchiolio delle banconote, e poi nulla. Non c’era da stupirsi: era pieno quasi fino a scoppiare. Dopo aver aggiunto l’ultima paghetta, i ragazzi avevano compiuto un notevole sforzo per riuscire ad avvitare il coperchio fino in fondo.

Giulia sollevò il barattolo e sovrappose la sua immagine all’insegna del negozio di pesci la cui tendina azzurra era srotolata fra la bottega del barbiere e la panetteria.

 

Acqua-shop Rizzi

 

Buttò giù un groppo di tensione che le si incastrò in fondo alla lingua. Il formicolio di un dubbio la fece rabbrividire sotto l’imbottitura del cappotto. «Basteranno?» Giulia abbassò il barattolo e andò in cerca di Luca, di una sua occhiata di approvazione, di un sostegno, anche solo di un cenno di conferma. «Basteranno, vero? Abbiamo risparmiato abbastanza. Sì che basteranno, devono bastare, insomma…» Un sorrisetto agitato tremolò fra le labbra screpolate dall’aria fredda. «Quanto potranno costare dei semplici pesciolini, no? Sono solo pesciolini d’acquario, mica stiamo andando a comprare una balena o uno squalo martello. Secondo te quanto potrebbe costare uno squalo martello?»

«Oh?» Luca si strinse nel cappotto, accostò il bavero alla bocca per non respirare il vago sentore di smog e l’aria umida che gli aveva schiaffeggiato la faccia poco dopo essere smontato dall’autobus. «Io, ecco…» Guardò anche lui verso l’alto, andò incontro all’insegna del negozio, attratto dal lampeggiare di quell’unico neon su tutta la via. «Io non…» Si strofinò la nuca, impacciato come quando non conosceva una risposta durante un’interrogazione. «Non mi sono mai posto il problema.»

Giulia scosse le spalle. «Be’, scommetto che volendo potremmo permetterci pure quello. Voglio dire…» Si guardò attorno, circospetta nei confronti delle poche persone che popolavano la strada – la signora della panetteria che passava la scopa sull’ingresso, la commessa dell’edicola che usciva a sistemare i giornali sulle grate, il fattorino delle pizze che parcheggiava la moto davanti al ristorante. Giulia scoperchiò il barattolo di latta, sprigionando un polveroso e vanigliato profumo di borotalco, ed espose alla luce lo scintillio degli spiccioli fra le quali si riusciva a intravedere l’angolino colorato di qualche banconota di piccolo taglio. «Hai mai visto tanti soldi in una volta sola?» I suoi occhi splendettero proprio come monete appena coniate. «Siamo stati proprio dei grandi a mettere assieme un bottino del genere.»

Pure Luca sorrise, accogliendo quella soddisfazione che lo gonfiò d’orgoglio. «Si è trattato solo di un po’ di disciplina, tutto qui. Disciplina e parsimonia, come ha detto tua mamma.»

E infatti quelli custoditi nel barattolo di borotalco erano tutti soldi che Luca e Giulia avevano guadagnato con il loro sudore e i loro sacrifici, cavandoli dalle proprie tasche e accumulando le paghette che Sara consegnava loro dopo i lavoretti del sabato e della domenica. Giulia e Luca si erano ingegnati anche con altre strategie. Invece che spendere i soldi della merenda per il saccottino al cioccolato e la crostata di albicocche, si concedevano solo una brioche, la più economica, e la dividevano durante la ricreazione, infilando poi nel barattolo le monetine avanzate. Si erano infine aggiunti i soldi guadagnati anche con altre commissioni, spazzando le foglie secche dal vialetto del condominio, portando a spasso il cane del Signor Olivieri, e facendo la spesa per la Signora Molinari che era ferma a letto con una gamba ingessata. Nel giro di un paio di mesi, il barattolo si era riempito fino all’orlo.

Giulia batté due carezze sul tappo di latta. «Comincio a pensare che io e te condividiamo un vero e proprio talento per questo genere di cose.» Sgomitò il braccio di Luca e sfoderò un gran sorrisone da guancia a guancia. «Altro che esploratori marini e astronauti spaziali. Io e te dovremmo diventare uomini d’affari, oppure dei banchieri. Faremmo carriera.»

Luca alzò gli occhi al cielo. «La carriera più noiosa del mondo. Secondo te…» Venne interrotto dallo scampanellio della porta del negozio di pesci che venne aperta dall’interno. Un signore uscì reggendo contro il petto una busta di carta. Si aggiustò il berretto, salutò dietro di sé, accompagnò la porta, imboccò il marciapiede attraversando le luci proiettate dalla vetrina del panettiere, e si dileguò verso il parcheggio di moto più vicino. Luca deglutì. Travolto da una folata di vento, si strinse nuovamente nel cappotto e soffermò lo sguardo sulla vetrina della bottega ittica, sugli adesivi a forma di onde, su un poster ritraente una scogliera circondata da pesci multicolore che nemmeno lui seppe riconoscere, sulle vasche di teche vuote a cui erano appesi i cartellini dei prezzi, e di nuovo sull’insegna al neon che bruciava di azzurro sopra la porta d’ingresso. «Dici che possiamo entrare subito o…»

Giulia annuì. Strusciò un braccio sotto il naso infreddolito, tirò su il fiato, e corrugò una delle sue espressioni più agguerrite e cariche di determinazione. Con una mano resse il barattolo del loro tesoro, con l’altra si aggrappò alla presa di Luca. «Siamo pronti.»

Luca annuì di rimando. Chiuse gli occhi, staccandosi dal panorama della strada che lo circondava, e fu facile visualizzare la realizzazione di quel sogno.

Acquari su acquari con cui avrebbero riempito tutta la lunghezza del corridoio, innalzandoli dal pavimento al soffitto. Una miriade di luci azzurrine, blu e turchesi, a risplendere fra le pareti del soggiorno. Banchi di pesciolini colorati che avrebbero fluttuato come sciami di farfalle attorno alle foreste di coralli rossi e di anemoni gialli, sguazzando fra le lunghe alghe verdi mosse dal respiro dei filtri e dalle correnti di bollicine. E ancora vasche abitate da greggi di granchietti, di gamberi e di lumache di mare che avrebbero allestito la loro dimora fra le rientranze degli scogli – scogli veri, mica quelli di plastica, eh! – che Luca e Giulia avrebbero poi decorato con statuine di palombari e con i pupazzetti trovati nelle confezioni di detersivo. Avrebbero anche disseminato ciottoli di vetro scintillante e conchiglie di madreperla attraverso il fondale di sabbia dorata. Torri diroccate, anfore, pontili di legno e castelli medievali avrebbero offerto riparo ai pesci più grossi che, radunandosi in famiglie e moltiplicandosi, avrebbero tenuto loro compagnia per generazioni e generazioni, invecchiando assieme ai due ragazzi.

Luca cominciò a credere che avrebbero fatto meglio a noleggiare un camion per potersi portare a casa tutto quel bottino. Contrattempi che capitano, quando si hanno a disposizione tanti di quei soldi da far invidia al tesoro di Vittorio Emanuele, dopotutto. Ma se la sarebbero cavata, come sempre. Lui e Giulia riuscivano sempre a trovare una soluzione per sgarbugliare qualsiasi loro problema.

Giulia spremette la mano attorno a quella di Luca e gli trasmise un brivido di entusiasmo. Affondò un passo, attraversò in una sola falcata l’ultimo spazio che li separava dall’entrata del negozio, e guidò Luca al suo interno. «Andiamo a prenderci la nostra meritata galassia di pesci!» Spalancò la porta, fece trillare il campanello, ed entrambi valicarono la bottega di pesci, la caverna delle meraviglie, l’androne dei tesori.

Fu l’ultimo passo che li condusse al compimento del loro sogno.

 

***

 

Il Signor Rizzi allineò le monetine che Giulia e Luca gli avevano affidato dopo aver consegnato il barattolo di borotalco. Le impilò una sull’altra, ergendo colonne di spiccioli che barcollavano come la Torre di Pisa. Pescò le banconote di piccolo taglio, ne lisciò i bordi stropicciati, separò quelle da mille lire da quelle da duemila lire. Batté le cifre sulla calcolatrice e, intanto che le dita volavano sui tasti, con la mano libera scribacchiò i risultati su un blocchetto di appunti che aveva poggiato sopra il catalogo dell’attrezzatura ittica per i pesci di acqua salata. Sollevò lo sguardo dalla colonna di calcoli, fece scorrere l’indice sulla tabella dei prezzi, sfogliò una pagina plastificata del catalogo, mormorò qualcosa a fior di labbra, e riprese a scuotere la penna e a incolonnare cifre su cifre con calligrafia sempre più fitta.

Giulia e Luca, da dietro il bancone del negozio, strinsero forte le mani ancora giunte e trattennero il fiato, assistendo a quel rituale in religioso e rispettoso silenzio. La presa incatenata fra le dita fredde e sudaticce fu salda, ma un brivido risalì le loro braccia, tremolando fino alle spalle.

Ci fu un altro trillo – ting! – di una monetina lasciata cadere sulla pila degli spiccioli da cinquecento lire, e quell’eco ronzò attraverso le pareti del negozio, riempiendone il silenzio. Un altro mormorio del Signor Rizzi e di nuovo il ticchettare delle sue dita sulla tastiera della calcolatrice.

Giulia e Luca si guardarono di striscio. Nei loro occhi sgranati e velati di penombra si specchiò lo stesso brivido di indecisione, un tremolio che fu in grado di sgretolare le immagini di tutte quelle certezze che era stato facile assemblare quando si trovavano fuori dal negozio, quando il barattolo di borotalco era ancora custodito fra le loro mani, gonfio e pesante di denaro. E quando non c’era ancora il ticchettio della calcolatrice a mitragliare le loro orecchie.

Luca compì un guizzo con le sopracciglia e, aggrappandosi alla mano di Giulia, le scoccò un’occhiata che pareva proprio volerle dire: ma basteranno i soldi, vero?

Giulia si rosicchiò il labbro inferiore. Spremette due volte la mano di Luca e annuì: sì, sì che basteranno. Gli abbiamo portato un tesoro degno della caverna di Ali Babà. Almeno un gamberetto riusciremo a portarlo a casa, no?

Non basteranno nemmeno per un pezzo di scoglio, date retta a me.

Bruno, chiudi la bocca e sta’ alla larga dalle nostre chiacchiere mentali.

Sì, ecco, Bruno: stattene buono e zitto.

Il Signor Rizzi raggiunse il termine della colonna di calcoli, tagliò una linea netta, tirò la somma, spostò le torri di monete e suddivise il denaro in due gruppi. «… e dunque se contiamo quello che vi andrà via per la sabbia, per il mangime, per il filtro, per la pompa, per il termometro, per i sali e i minerali, per lo scoglio e le alghe di abbellimento – quelle più economiche, come avete chiesto voi – direi che il totale effettivo che rimane per i pesci veri e propri è…» Spinse davanti a Giulia e Luca il denaro avanzato che non aveva trattenuto affianco al blocco di appunti. Una banconota da duemila lire più qualche monetina, la torre più bassa. «Cinquemila lire, non di più.»

Luca e Giulia sciolsero la stretta di mano, spalancarono le bocche in muti gemiti di agonia, ed entrambi sentirono le braccia cascare per la delusione. «Cinquemila lire?» Anche l’eco della loro esclamazione rimbalzò fra le pareti del negozio e vibrò attraverso il vetro degli acquari come prima erano squillati i trilli delle monetine impilate una sull’altra.

Giulia si accasciò fin quasi a squagliarsi sul marmo del bancone. «Solo cinquemila lire?» Raccolse una manciata di capelli che le erano finiti davanti agli occhi, piegò un gomito per risollevarsi, e si strofinò la fronte ingrigita da quella botta di sconforto. «Così poco? Com’è possibile?»

Luca accostò la mano alla bocca e si rosicchiò l’unghia dell’indice. «Ma ne è proprio sicuro?» E noi che ci eravamo illusi con tutte quelle speranze… Lo sguardo gli cadde sulla misera colonnina di pochi spiccioli sotto cui giaceva l’unica banconota da duemila lire. E che ci siamo impegnati così tanto per risparmiare tutti quei soldi.

Il Signor Rizzi, richiuso il taccuino e spenta la calcolatrice, si sfilò gli occhiali e rimise il tappo alla penna. «Siete proprio intenzionati a diventare dei collezionisti con i fiocchi, eh, picinin?» Rise sotto i baffi, intenerito dalla serietà di quei due ragazzini che, subito dopo aver valicato la soglia della bottega, avevano rovesciato il barattolo di denaro sul bancone dandogli l’impressione di volersi portar via mezzo negozio. «Ma non vi preoccupate, anche i migliori partono sempre da zero. E poi…» Alzò il braccio a indicare le vasche che riempivano le pareti, i mazzi di alghe finte che decoravano il soffitto attraversato dalle reti in cui erano inguaiate stelle marine, conchiglie e pesci di plastica. «Ci sono un sacco di bellissimi pesciolini che potrete permettervi anche con cinquemila lire.»

Giulia raddrizzò le spalle che poco prima aveva accasciato sul bancone. Si rinvigorì come un girasole investito dal calore del giorno. «Sul serio?» Si guardò attorno, in alto e dietro di sé, mirando agli acquari che riempivano le pareti. Teche su teche attorniate dai poster che pubblicizzavano i retini, i condizionatori d’acqua, e dagli attestati di vendita che il Signor Rizzi conservava dietro cornici di vetro. Gli occhi nocciola si riempirono d’azzurro. Banchi di pesciolini rossi e bianchi attraversarono le profondità tinte di turchese, soffiarono grappoli di bollicine e scossero i ciuffi di alghe che crescevano nel verde delle rocce. «Per esempio?»

«Voi che genere di pesce avevate in mente?»

«Ecco, qualcosa…» Giulia si grattò dietro l’orecchio. La fronte di nuovo stropicciata in una sottile ma profonda ruga d’indecisione. «Qualcosa di particolare, magari qualcosa di esotico e di colorato. Giusto, Luca?»

Luca annuì. «Sì, magari qualche pesce che non si trova qui nel Mediterraneo.» Pure lui si girò a innalzare lo sguardo fra le pareti illuminate dai neon e scosse dal lieve ma continuo ronzare dei filtri. «Qualcosa tipo…» Lasciò il bancone, schivò una piccola composizione piramidale formata da tubi e tubi di mangime per pesci, si chinò per non sbattere la testa su una rete di coralli essiccati che pendeva dal soffitto, e andò a indicare una delle vasche dentro cui nuotavano i pesci dalle scaglie più colorate. «Tipo questi qui.» Pesci rossi striati di nero beccavano il mangime dalla sabbia assieme ad altri esemplari bianchi e gialli la cui forma ricordava quella delle ali di una farfalla.

«Un Pesce Farfalla o un Pesce Angelo?» Il Signor Rizzi rinnovò quella grassa risata da mattacchione. «Con cinquemila lire?»

Giulia batté le mani e allargò un sorriso illuminato di speranza. «È fattibile?»

«Oh, sì» rispose lui, «se volete comprarvi la pinna caudale.» Quella del Signor Rizzi era proprio una risata da bonaccione. La risata di uno di quei vecchietti che al bar ti rimproveravano per aver gettato una brutta mano di carte ma che poi, dopo la sconfitta, ti offrivano da bere come consolazione. «Volete la pinna caudale, picinin? Oh, io ve la vendo senza problemi.» Uscì da dietro la nicchia del bancone, allontanò un carrellino su cui aveva raccolto i vasetti di plastica forata dentro cui crescevano tanti germogli di arbusti da acquario, e affiancò Luca davanti alle teche dei Pesci Farfalla e dei Pesci Angelo. «Quelli così colorati e così graziosi sono anche i più costosi, purtroppo. Ma come mai tutto questo astio nei confronti dei pesciolini del nostro caro Mediterraneo? Vi stanno proprio antipatici?»

«No» rispose Giulia. «Non è questo. È che…»

«Possiamo dare un’occhiata in giro, intanto?» Luca indicò il resto del negozio, il piccolo corridoio che si allungava fra le pareti illuminate dai neon, e sfoderò un sorriso mite ed educato, senza però poter ignorare quell’innato brivido di curiosità che era bruciato lungo il collo. «Se non le dispiace, s’intende.» Al brivido di curiosità si aggiunse un fremito di pericolo, quel bisbiglio dietro l’orecchio che lo intimava ad allontanarsi e a schivare certi argomenti ancora troppo pericolosi. Discorsi sui pesci del Mediterraneo, sullo studio dei fondali e delle scogliere, sugli oceani che si estendevano sull’altra metà del mondo.

Il Signor Rizzi fu più che lieto di accontentarlo. «Guardate tutto quello che c’è da guardare, picinin.» Fece mulinare l’indice attorno a sé. «Ogni cosa che nuota è in vendita e non ha di certo modo di scappare via, quindi sentitevi liberi di scegliere con calma.»

Giulia annuì, esibendo una delle sue espressioni da gran simpaticona. «Il mio amico è un vero esperto di pesci.» Strizzò l’occhiolino in direzione di Luca. «Quindi sono sicura che il suo fiuto innato lo poterà sulla strada giusta.»

Luca ricambiò al volo l’occhiolino di Giulia e intanto si addentrò nella bottega, distanziandosi dalle loro chiacchiere.

«Ma anche tu mi sembri particolarmente entusiasta» le disse il Signor Rizzi. «Lo sai, è curioso che ragazzini come voi si interessino all’ittica. Di solito i giovani d’oggi coltivano tutt’altre passioni. Aah, sentitemi, parlo proprio come un vecchietto. Ma sono più giovane di quello che sembro, te lo assicuro, non fatevi ingannare dai capelli grigi.» Rise di nuovo.

Giulia non fece fatica ad assecondare la sua allegria. «Per la verità, anche io ho cominciato a interessarmi realmente di pesci solo da poco.» I passi scricchiolati sotto le sue scarpe da tennis si spostarono davanti alle teche. «Però è stata una vera e propria folgorazione. È successo giusto un paio di mesi fa, durante una gita scolastica.»

Luca salì sulle punte dei piedi, sbirciò attraverso le teche tinte dall’azzurro dei neon e dal verde delle alghe, e fronteggiò un banco di alborelle che fuggirono non appena intercettarono il riflesso del suo viso. Scese sulle ginocchia. Si accovacciò davanti agli scaffali riempiti da decorazioni e abbellimenti di ogni forma e dimensione, proprio gli stessi su cui lui e Giulia avevano fantasticato: statuine in finto bronzo a forma di sirena, fari diroccati, castelli di mattoni, velieri spiaggiati, giare e anfore da seppellire sotto la sabbia, e grotte a forma di conchiglia.

La voce di Giulia intanto continuava a raccontare a ruota libera. «Ci hanno portato a visitare un istituto di ricerca sulla biodiversità acquatica. Non so se lo conosce, è quello su a…»

Luca tornò in piedi, il naso all’aria, e compì un paio di giri su se stesso, stordito dal freddo abbaglio dei neon e smarrendosi in mezzo all’oscillare delle alghe e allo scuotersi di quelle pinne e quelle code così lunghe, simili a veli. Riprese equilibrio e tornò davanti alla parete su cui era assemblata una colonna di vasche più piccole dentro cui cresceva una colonia di Gamberi Pulitori.

Vedendo il suo viso affacciarsi, un altro banco di pesci si frammentò. Quell’esplosione di colori, simile a un silenzioso fuoco d’artificio, divise i fasci di alghe e spalancò la visuale sulla parete posteriore, dove l’acqua delle teche brillava di un azzurro diverso, simile al turchese.

Teche verdi dove crescevano foreste di alghe fini come capelli; teche rosse dove le stelle marine riposavano aggrappate alle rientranze degli scogli; teche multicolore dove i coralli componevano un ambiente che pareva rubato a uno dei più preziosi giardini d’Oriente.

La voce di Giulia, così distante, sembrava provenire proprio da quei fondali, da quello spazio remoto. «… ed è come se mi si fosse aperto un mondo, perché non pensavo che lavorando in mezzo ai pesci e a tutte le specie acquatiche si potessero imparare così tante cose interessanti.»

«Ah, sì» esclamò il Signor Rizzi. «Lo conosco bene, quel centro. Di tanto in tanto anch’io ci collaboro.»

Luca si concesse di girovagare ancora per un po’. Quei discorsi lo respinsero come un nugolo di elettricità statica, pungendogli la pelle e formicolando sotto gli abiti.

Esplorò pareti dove erano allineati i cataloghi degli accessori per acquari, e poi ancora scatole di filtri di ricambio, lampade al neon, mangimi per tutte le specie e di tutti i gusti, esche essiccate, retini, pompe idriche, reattori e refrigeratori, ventole, schiumatoi e termometri.

«Certe volte è proprio grazie a loro che mi procuro certi esemplari che poi rivendo qui in negozio.» Anche il Signor Rizzi si lasciò trascinare da una parlantina simile a quella di Giulia. «Ma ci si consulta anche per tante altre cose. Lo scorso anno purtroppo in una delle mie vasche è esplosa una brutta epidemia di ictio. È stato grazie ai loro veterinari se ho risolto il problema. Dopotutto, prendersi cura di così tanti pesci è un lavoro tanto appassionante quanto faticoso, soprattutto se si è quasi completamente soli come me. I pesci sono creature ricche di fascino ma anche molto delicate. Ricordatevelo bene, quando comincerete a prendervi cura dei vostri.»

«Lo faremo, ha la mia parola.»

«Bravi. Vedrete poi quante belle soddisfazioni vi daranno, quando avrete fatto un po’ di pratica. Aah, magari fossi anch’io un po’ più giovane di così, dato che tutto questo impegno comincia un po’ a pesare, man mano che passano gli anni.»

Spostandosi ancora, Luca scoprì vasche più piccole e dall’odore stagnante, di acquitrino, dove crescevano pesciolini minuscoli, delle dimensioni di girini. E ancora vasche cubiche e isolate dove invece galleggiavano pesci rossi dal pancione gonfio, probabilmente in procinto di partorire.

«Ma mi piangerebbe il cuore se fossi costretto a cedere questo posto alle mani del primo che capita» sospirò il Signor Rizzi. «L’ho tirato su tutto da solo, sai? Dalla prima all’ultima vasca, dal primo all’ultimo esemplare.»

«Sul serio?» L’esclamazione di Giulia suonò stupefatta e incredula. «E non ha proprio nessuno che la aiuta?»

«Non tanto quanto ne avrei bisogno, no. Certe volte posso contare su mio nipote, ma lui lavora ai cantieri del porto, spesso anche a bordo delle navi, e non è sempre in città. Poi ha la sua vita, e non posso certo pretendere miracoli. Ma se conosci qualcuno disposto a darmi una mano qui in negozio non esitare a presentarmelo, d’accordo?»

«Uhm.» Giulia ci rimuginò borbottando a bassa voce. «Qualcuno disposto ad aiutarla a gestire tutti questi pesci? Effettivamente non… oh!» In lei tornò ad accendersi quella scintilla che Luca vide brillare anche se era girato di spalle. «Ma se proprio le serve una mano in più, io potrei venire ad aiutarla. D’inverno forse sarà un po’ difficile, con la scuola, i compiti, i lavoretti in casa, e tutto il resto. Però d’estate io… acc…» Ci fu lo schiocco di uno schiaffetto sulla fronte. «No, mi sa che anche d’estate sarebbe impossibile, dato che io scendo sempre a trascorrere le vacanze da mio padre. Accidenti, sarebbe proprio bello, però, passare un po’ di tempo qui e imparare ancora più cose sui pesci e sugli acquari.»

Sfumature color blu elettrico si stagliarono da uno spazio più distante e distaccato dal resto del negozio. Quei rami di luce si stiracchiarono lungo il pavimento e si proiettarono fino ai piedi di Luca, distraendolo una volta per tutte dalle voci di Giulia e del Signor Rizzi.

Luca si guardò alle spalle, ancora circospetto – acquari su acquari, cespugli di alghe, scaffali riempiti da confezioni colorate, banchi di pesci a svolazzare nelle vasche d’acqua, e nessuna presenza ad affiancarlo. Seguì la scia di luce blu e si allontanò dalla zona centrale della bottega. Più andava avanti e più si allontanava dall’odore della cera per mobili, del ferro delle monetine e dell’olio spalmato sui cardini della porta d’ingresso. Inspirò a lungo dalle narici. Si riempì degli aromi dell’acqua salmastra, dei minerali, della sabbia e delle alghe mollicce.

In fondo alle ombre del corridoio individuò uno stanzino più piccolo, il ritaglio di un cantuccio che gli trasmise la stessa tiepida ed eccitante sensazione di segretezza che aveva provato valicando il seminterrato della libreria, in un lontano pomeriggio di qualche anno prima, ritrovandosi circondato da scaffali e scaffali gonfi di libri di seconda mano. Comprese che quello era un luogo a cui si accedeva tramite il negozio di pesci, ma che in realtà apparteneva a una dimensione a se stante e che custodiva chissà quali meraviglie proibite.

Luca esitò e rimbalzò di un passetto sul posto. E quella?

La luce blu gli sommerse i piedi, e come un’onda del mare si arrampicò sulla stoffa dei jeans, gli scivolò dietro le caviglie e catturò gentilmente il suo cammino, facendolo proseguire senza timore, attirandolo verso i sussurri di quel luogo, spalancando gli scrigni dei suoi tesori segreti.

Le voci di Giulia e del Signor Rizzi ormai erano lontane, mormorii ovattati dalle teche, echi in fondo al mare. «… ma non dovrebbe mancarti molto per finire la scuola, giusto?»

«Un paio di anni, se non ci saranno incidenti di percorso.»

«Voleranno in un baleno, te lo assicuro.» Bolle d’aria che scoppiettarono senza lasciar nulla. «Fino ad allora, considera la mia offerta sempre valida. E poi potrai comunque venire qui a trovarmi quando vorrai, e chiedere tutti i consigli e i pareri che ti serviranno per il vostro acquario e per i vostri pesciolini.»

«Davvero?» Si udì il battito di mani di Giulia, lo scricchiolio delle scarpe che erano singhiozzate sul pavimento dopo un suo rimbalzo. «Oh, grazie, grazie, grazie infinite, Signor Rizzi, non potevo chiedere di meglio! Ecco, ora che ci penso, c’è un’altra cosa che vorrei sapere su…» E l’allegria della sua voce tornò a sfumare lontana dall’abisso.

Luca scoprì la fonte di luce blu. La soglia di uno stanzino coperto da una tenda di perline di vetro attraverso cui la luce si frammentava in una serie di raggi, scomponendosi in una cascata di indaco e di azzurro, una miriade di scaglie colorate che ondeggiavano e che si mescolavano, nonostante l’assenza di correnti d’aria. Lì davanti, il profumo di acqua di mare, di alghe e di scoglio bagnato, era intenso e pungente, lo stesso che si respira sulla spiaggia durante la bassa marea, quando le pellicole di alghe foderano le rocce levigate e impellicciano i carapaci dei granchietti nascosti sotto le conchiglie.

Luca puntò i piedi a terra, rabbrividendo di soggezione. Guardò in mezzo alle scarpe sommerse dall’ondeggiare di quel riverbero blu, proprio simile a quello che regna sul fondo del mare.

Irrigidì le braccia lungo i fianchi e di nuovo si guardò alle spalle, ma era da solo.

Sollevò una mano, sfiorò la tenda ma senza toccarne le perle di vetro. Arretrò di un passetto tenendo però il braccio alzato e le dita distese, bagnandosi sotto quella luce che compose sulla sua pelle dei giochi di luce simili a un manto di squame. Squame blu e viola arrampicate lungo il candore della sua veste di ragazzo umano. Squame più simili a quelle di Alberto che alle sue.

Per quanto sciocco che fosse, fu proprio quel pensiero a dargli il coraggio di cui aveva bisogno.

Luca affondò il braccio attraverso la tenda. Le perle di vetro erano fredde e lisce, si frammentarono con facilità e scricchiolarono fra le sue dita. Luca scivolò nell’apertura, socchiuse gli occhi per respingere l’improvvisa botta di blu che gli aveva colpito le ciglia, valicò la soglia dello stanzino e sprofondò fra le sue pareti luminose e profumate di salsedine.

Il suo cuore singhiozzò. Un tonfo caldo vibrò attraverso il petto, gli schiuse la bocca in un ansito di emozione che lo lasciò frastornato. Le labbra aperte e gli occhi sgranati, sommersi da tutto quel blu.

Era lo stesso palpito di emozione che Luca provava quando d’estate faceva ritorno a Portorosso e quando si tuffava in mare dopo tutti quei mesi trascorsi unicamente in superficie. Luca strinse i pugni tremanti e si aggrappò con forza a quel legame che lo condusse a casa, che lo riunì a quella parte della sua anima che viveva attraverso i fruscii delle onde, che nuotava fra le foreste di alghe, e che respirava assieme ai fischi dello Scirocco che sospirava fra gli scogli.

Luca abbracciò quel caldo e straziante senso di appartenenza e di familiarità, socchiuse gli occhi umettati di emozione, sollevò un sorriso fra le guance spolverate di rosa, si alzò sulle punte dei piedi e fluttuò circondato dallo spettacolo che gli si era palesato davanti.

Ce n’erano a centinaia. Centinaia di meduse bioluminescenti popolavano tante vasche da riempire le pareti dal pavimento al soffitto, fin dove l’occhio non riusciva ad arrivare. L’ambiente era buio, privo di lampadari o finestre. L’unica fonte di luce era proprio quella generata dalle cupole delle meduse e dai neon di tutti quegli acquari che riempivano i muri senza lasciare neanche uno spigolo libero.

Sciami di meduse di una tinta violacea si mescolavano e fluttuavano sotto i raggi di neon blu sparati dalle cornici delle vasche, leggere come lanterne di carta lasciate libere nel cielo notturno. Fiaccole in processione, fuochi artificiali senza botti. Le meduse si riempivano d’acqua, si sgonfiavano rabbrividendo fino alle punte dei tentacoli, e quell’impulso faceva brillare i cerchi concentrici delle loro cupole. Le cupole si scontravano senza emettere rumore, i fasci di tentacoli si intrecciavano, si districavano, e le meduse tornavano a separarsi, galleggiavano fino in cima alle vasche e poi tornavano a scendere, di nuovo sfiorandosi con quelle che invece salivano come palloncini.

Luca reclinò il capo all’indietro e arretrò di un passo per riuscire a guardare fino in cima. Spinse il piede fra le piastrelle ma non trovò la resistenza dura del pavimento. Colto da una vertigine, precipitò in uno spazio vuoto che però lo sostenne, braccia d’acqua tiepida lo avvolsero proprio come in fondo al mare. Le barriere delle teche si smaterializzarono, l’acqua nera colmò lo stanzino facendo svanire soffitto e pavimento, e le meduse si mescolarono fra loro senza sbattere su alcun confine. Acqua tiepida e accogliente, un fluido amniotico attraverso cui i respiri si nutrivano di vita.

Anche Luca fluttuò assieme alle meduse, circondato da tutto quel blu, da quei vortici di tentacoli, dalle pulsazioni di luce rosa e viola che si specchiarono nei suoi occhioni larghi di meraviglia.

Fu come la prima volta in cui aveva sollevato il naso fuori dall’acqua, la stessa sensazione di incanto in cui si era sentito elevare guardando il cielo azzurro, di un azzurro così diverso da quello del mare.

Luca tese il braccio verso lo sciame di meduse più vicino. Spalancò la mano, attraversò i filamenti morbidi dei tentacoli, carezzò una delle cupole che si adattò alla forma del suo palmo, e trattenne il fiato, ricordandosi di quel sogno, il primo che aveva condiviso assieme ad Alberto. Il rombo della Vespa fra le gambe, lo slancio verso il cielo, il vento fra i capelli, le braccia tese ad accogliere le luci della galassia di acciughine stellari, e la mano spalancata sulla soffice e tiepida superficie del Pesce-Luna.

Luca chiuse gli occhi, respirò a pieno petto, e respirando sorrise, toccato dalle quieti e pacifiche pulsazioni del cuore che aveva sentito palpitare attraverso la cupola della medusa.

Quel respiro non ebbe nulla a che vedere con la sensazione di costrizione e soffocamento di cui si era ritrovato vittima quando si era recato in visita all’istituto di biologia marina. Per questo fu facile abbandonarsi, rilasciare la tensione dei muscoli, ammollare le spalle, e perdersi con lo sguardo attraverso quelle immagini che in qualche maniera sentiva di aver già vissuto.

Le meduse…

Fu allora che le riconobbe. Le meduse del suo sogno, di una primavera lontana, la prima trascorsa a Genova. Le meduse che anche allora lo avevano accolto nel loro infinito oceano di luce blu, facendolo galleggiare e poi guidandolo per ritrovare la corrente che lo avrebbe riportato a casa, a Portorosso.

Luca girò il capo, inseguì la scia luminosa di uno sciame che gli era vorticato alle spalle. Alzò la punta del naso e i suoi occhi catturarono fino all’ultimo lampeggio viola, ogni scossetta di luce ronzata fra i tentacoli che andavano mescolandosi. Sollevò un piede – nudo! Senza la scarpa! – e flesse il ginocchio per far spazio al nuoto di una scia di meduse che gli circondò i fianchi e che gli sfiorò i gomiti, facendogli il solletico.

Luca ridacchiò e tornò ad allungare il braccio verso una delle meduse più vicine.

La medusa si gonfiò d’acqua, si sgonfiò rimanendo sospesa davanti al suo viso, emanò un impulso di luce viola che ramificò attraverso la cupola e che poi scese facendo vibrare i tentacoli.

Le dita di Luca la raggiunsero, sfiorarono i bordi della cupola così molle e fragile, risalirono la forma tonda che andava irrigidendosi, e quel tocco raccolse il suo battito di luce, lo sentì scendere fino in fondo al petto, dove risuonò di vita e si mescolò al suo stesso respiro. Il battito di un cuore.

Dal nulla, una mano emerse dal buio dell’abisso e gli toccò la spalla. Una voce lo ricondusse alla realtà. «Luca.»

Luca precipitò dal buio, «Ah!», venne risucchiato fuori dal tepore dell’acqua in cui era in ammollo, e batté i piedi – le scarpe di nuovo addosso – sul pavimento dello stanzino segreto. La calda mano di Giulia ad avvolgergli la spalla, le pareti irradiate dai neon blu, e gli acquari di meduse a circondarlo. Il volto di Luca si specchiò sul vetro. L’espressione spaesata e gli occhi ancora assenti, prigionieri di un’altra dimensione. Il moto perpetuo dei tentacoli di luce attraversò il suo riflesso, ascese verso gli acquari più alti, quelli di cui non si scorgeva la cima, e le meduse fluttuarono leggere e silenziose come soffioni al vento, di nuovo confinate dai vetri, di nuovo prigioniere del loro silenzio.

La mano di Giulia lo scosse assieme allo squillo entusiasta della sua voce. «Luca, corri a vedere! Il Signor Rizzi ha trovato dei pesciolini abbastanza economici che possiamo permetterci. Cinquemila lire basteranno per uno solo, ma per il momento direi che – ooh.» Pure lei si lasciò cogliere da un lungo sospiro di stupore. Sollevò lo sguardo, spalancò gli occhi incantati, compì una piroetta per inseguire i vortici di tutte le meduse che le nuotavano attorno, e ansimò di meraviglia. «Ma queste sono…» Scese dalle punte dei piedi e spalancò le braccia come per racchiuderle tutte. «Sono meduse!» Corse davanti a una parete di vetro. Si affacciò allo spettacolo e alle sfumature viola e blu che le colorarono il viso. «È incredibile, non ne avevo mai viste così tante tutte in una volta. Non si riesce nemmeno a contarle. È una cosa…» Tese la mano. Le dita sfiorarono il vetro e arretrarono senza toccarlo, come se Giulia fosse stata punta dal timore di disturbare il loro nuoto, di interrompere il loro respiro bioluminescente, di far esplodere la bolla di quell’incantesimo.

In fondo allo sguardo di Giulia rimase la luce fissa di quel fascino, ma lo zampillare del suo fuoco si acquietò. L’entusiasmo sempre così effervescente fu sostituito dalla tacita e rispettosa contemplazione di quello spettacolo che mai prima di allora aveva attraversato lo specchio dei suoi occhi. «Non sapevo che il Signor Rizzi avesse anche le meduse, qui in bottega. E che fossero così tante.» Giulia compì un passo all’indietro, facendo scivolare il suo riflesso giù dal vetro. Ritrovò il sorriso e lo rivolse a Luca. «Hai proprio naso per queste cose, vero? Lo dicevo che sei fenomenale. Come le hai trovate?»

«Oh.» Luca mosse le labbra inumidite dal sapore di salsedine e di alghe spugnose. Mosse le punte dei piedi contro l’interno delle scarpe e si riabituò alla sensazione del pavimento sotto le suole, al respiro freddo che gli pungeva le narici. «I-io ho…» Indicò il riflesso di luce blu che tingeva le piastrelle, facendole somigliare a un fondale. «Io ho solo seguito la luce, in realtà.»

Giulia rise. «Be’, in effetti di luce ne fanno parecchia.» Si affiancò a Luca, ed entrambi rimasero con il naso per aria. Le stesse espressioni incantate che si materializzavano solo davanti al cielo colorato di Capodanno, alla prima nevicata di stagione, alla fioritura dei meli e degli albicocchi durante la primavera. «Meduse bioluminescenti.» Giulia diede una spallata a Luca e si alzò a ridacchiare affianco alla sua guancia. «Chissà se anche tu sei in grado di brillare nell’acqua buia, eh, Luca?»

Luca spalancò gli occhi, travolto da una sassata di ricordi che credeva di aver letteralmente sepolto negli abissi. Ricordi di occhi lattiginosi, di sorrisi dai denti sottili e seghettati, di ventri sporgenti e traslucidi, di un cuore dalle pulsazioni scarlatte.

Luca, devi dargli un pugno sul cuore. Esatto, la cosa rossa, colpiscila, più forte!”

Luca rabbrividì come era rabbrividito allora. Dovette strofinarsi le braccia per scrostarsi di dosso tutto il gelo e la paura che aveva provato quella terribile notte. «Se è ereditario allora non mi sento di escluderlo.»

«Cosa?»

«Niente.» Luca non aveva alcuna intenzione di rievocare il ricordo dello Zio Ugo, non in un momento del genere. Piuttosto… «Dov’è il Signor Rizzi?»

Giulia indirizzò un cenno del capo alla tendina di perle. «Alla cassa, a mettere assieme tutte le monetine che gli abbiamo rifilato, poveretto.» Raccolse una manciata di riccioli, li pettinò dietro l’orecchio, e giochicchiò con una ciocca resa color rame da quell’ambiente fatto di acqua blu. «In effetti, forse sarebbe stato meglio passare prima in banca e farcele cambiare con delle banconote. È solo che è stato così poetico portare il barattolo con le monetine. È stato un po’ come consegnargli letteralmente il peso dei nostri sforzi, no?»

Luca rise, ripensando ai forzieri finti che aveva individuato fra le decorazioni per gli acquari. «Sì, è vero.»

«Oh, ehi, sai una cosa?» Giulia compì un rimbalzo, raccolse le mani di Luca e le sollevò fra loro. Nei suoi larghi occhioni luccicanti di entusiasmo si specchiarono gli sciami di meduse, i lampeggi rosa e viola. «Sai che il Signor Rizzi mi ha offerto un piccolo lavoretto qui assieme a lui per quando sarò più grande? Magari per quando la scuola sarà finita e io starò studiando per diventare una ricercatrice subacquea o una esploratrice degli oceani. Non è grandioso? Pensa a quante cose potrei imparare avendo a che fare tutti i giorni con i pesci.» Spremette due volte le mani aggrappate a quelle di Luca e compì un altro saltello sul posto. «Sicuramente diventerei la migliore di tutti, e sarà ancora più facile per me ambientarmi quando partirò per mare ed esplorerò tutti gli oceani del mondo.»

«Pa-partire…» Anche Luca si tenne aggrappato alle mani di Giulia, a quella presa che ora sembrava sfuggirgli. «Per mare?»

Giulia annuì. «Per te e Alberto non sarà nemmeno troppo difficile venire a trovarmi, no?»

«Oh» soffiò Luca. «Quindi hai…» Il vuoto spalancato sotto i suoi piedi non fu più una tiepida sensazione di leggerezza che gli permise di galleggiare e di fluttuare assieme alle meduse, ma uno spazio scuro e ostile che lo risucchiò. Acqua nera e sterile, priva di vita. «Hai davvero deciso di…»

Un braccio divise le perline, scostò la tenda, e attraverso quello spazio sbucò il viso baffuto del Signor Rizzi. «Siete qui, picinin? Vi siete…» Il Signor Rizzi usò l’altro braccio per ripararsi dall’improvvisa luce blu, guardò verso il soffitto, e sotto i suoi baffi sbocciò un sorriso che, distendendosi, levigò ogni ruga e ravvivò una scintilla nelle profondità dei suoi occhietti anziani. «Ooh, vedo che avete scoperto il mio tesoro nascosto.» Lasciò andare la tenda di perle che si riassemblò con uno scroscio morbido. Raggiunse una parete dello stanzino e toccò il vetro di una delle teche. Lo sguardo orgoglioso e consapevole, perfettamente in grado di sostenere la luce di ogni medusa. «Che ne pensate? Uno splendore, non è vero?»

Giulia sfilò le mani da quelle di Luca e batté un piccolo applauso. «Mille volte di più!» Gli saltellò vicino, lo bacchettò con l’indice. «Ma così non vale, Signor Rizzi. Teneva nascoste tutte queste belle meduse e non ha detto niente?» Rise coprendosi la bocca. «Immagino che queste non siano in vendita nemmeno per tutto il tesoro del Papa.»

Il Signor Rizzi ridacchiò assieme a lei. «Direi che è così, sì.» Fece scivolare la mano giù dal vetro e la giunse all’altra dietro la schiena. «Queste sono le uniche creature in tutto il negozio a non essere in vendita.» Pure lui, camminando con il petto all’infuori, le guardò con occhi laccati di fascino e ammirazione. Uno sguardo attraverso cui era possibile leggere ogni ricordo, vivere ogni sforzo compiuto per far crescere quello sciame di luce rosata, per tener vivo ogni singolo respiro che pulsava attraverso i fasci di tentacoli. «Sono il mio piccolo tesoro. Il mio orgoglio e la luce dei miei occhi. E non le baratterei per nulla al mondo.» Si strofinò la nuca e un po’ si rimpicciolì, circondato dal peso di tutte quelle vite, da quei cuoricini di gelatina che dipendevano da lui e lui soltanto. «Forse è anche per questo che faccio così tanta fatica ad arrendermi all’idea di dover cedere il negozio, prima o poi. Senza la mia bottega, dove mai potrei tenere le mie ragazze, ahah

Luca sentì crescere il fascino provato nei confronti di quell’arzillo vecchietto che pareva davvero aver deposto uno spicchio della sua anima in quelle vasche, nell’acqua dentro cui le meduse galleggiavano e pulsavano di vita come frammenti del suo stesso cuore.

Luca schiuse le labbra. «Ecco…» C’erano tante di quelle domande che gli frullavano in testa, tanti di quei dilemmi su cui si stava interrogando. Avrebbe voluto chiedergli come mai aveva scelto proprio le meduse. E perché così tante? Perché erano così preziose? Cosa rappresentavano per lui? Cosa avrebbero dovuto rappresentare per Luca? Come mai stavano risultando essere un’immagine così ricorrente nei suoi sogni e nelle sue fantasie? Perché ogni volta Luca si sentiva trascinare dal loro stesso vortice e galleggiare in mezzo al loro nuoto? Avrebbe dovuto seguirle? E dove lo avrebbero condotto? «Ecco, io vorrei chie…»

«Ma noi invece abbiamo trovato qualcosa che è in vendita» esclamò Giulia, «e che è anche perfetto da portare a casa con noi.» Corse a prendere Luca per mano. «Vieni, vieni ché ti mostro.»

Trascinato dalla corsa di Giulia, «Who!», Luca si sbilanciò, ruzzolò di un paio di passi senza però cadere, strinse la presa attorno alla mano che lo guidava, ed entrambi i ragazzi tornarono a tuffarsi sotto la tenda di perline, uscendo così dallo stanzino illuminato dai neon blu e popolato dalle infinite vasche di meduse rosa e viola.

Fecero ritorno a quella zona del negozio dove gli acquari erano abitati da banali pesciolini di fiume e di scogliera, dove le vasche non superavano le loro teste, e dove il silenzio era riempito dal ronzio dei filtri e dal gorgogliare delle pompe.

«Ecco.» Giulia frenò la corsa davanti alle teche assemblate sopra lo scaffale dove erano esposti i mangimi e i tubi di sali minerali. «Guarda, guarda qui che belli che sono.» Indicò il vetro senza toccarlo. Scaglie di luce verde, blu, bianca, nera e gialla si muovevano al suo interno, distribuendosi fra le alghe e infilandosi sotto le rientranze dello scoglio. «Pesci Damigella. Il Signor Rizzi dice che sono facili da allevare, e costano davvero poco. Okay, cinquemila lire ci basteranno per uno soltanto, ma uno è sempre meglio di niente, no? E poi sono colorati, proprio come volevamo noi. Quale scegliamo?» Spremette due volte la mano di Luca. «Dai, dai, scegline uno tu, uno carino.»

Luca si concesse qualche istante per osservare i pesciolini mentre nuotavano tranquilli fra le alghe, scontrandosi di tanto in tanto, e riprendendo poi a circolare attorno allo scoglio. Uno di quelli bianchi e neri andò a rifugiarsi dentro la nicchia scavata nella roccia. Un altro di loro, blu e giallo, sbatté il muso sulla statuina a forma di forziere del tesoro, boccheggiò a vuoto, nuotò davanti alla facciata della teca, incrociò lo sguardo con quello di Luca – uno sguardo un po’ ebete e impallato che gli ricordò sorprendentemente quello di Giuseppe –, per poi sbattere un guizzo di coda, accelerare, e fuggire via.

Erano esemplari davvero molto graziosi che risaltavano in mezzo agli altri, dando l’impressione di essere preziosi come ninnoli di cristallo soffiato.

«Prendiamo…» Luca ne individuò uno più quieto e isolato rispetto agli altri, uno di quelli intenti a beccare il mangime caduto fra i grani di sabbia. Squame verdi gli striavano la pancia e sfumavano in una tinta indaco – un blu molto più scuro rispetto a quello dei suoi fratellini – lungo il dorso e fra le venature delle pinne. Luca lo indicò senza ulteriori indugi. «Quello.» Sfoderò un sorriso radioso. Il sorriso di chi accoglie un vecchio amico, di chi ritrova la luce del proprio cammino. «Quello laggiù, quello affianco alle alghe, quello più vicino al fondale. È lui.» Finalmente anche Luca fu capace di assaporare tutta la gioia trasmessa da Giulia, la dolce conquista dei loro sacrifici e il risultato dei loro sforzi. «È lui il nostro pesciolino.»

Giulia batté le mani. «Perfetto. Allora è aggiudicato.» Si girò a sventolare il braccio in direzione del Signor Rizzi che nel frattempo li aveva raggiunti. «Sentito, Signor Rizzi? Quello vicino alle alghe, quello che se ne sta buono a fare il riposino sul fondale.»

«Agli ordini.» Il Signor Rizzi preparò la vaschetta di polistirolo, il sacchetto di plastica, ed estrasse il retino dalla tasca del grembiule. «Dunque abbiamo detto che volete anche un scoglio, un rametto di alghe finte, l’arredo a forma di galeone, e… ah, ora che ci penso.» Si fermò davanti a una delle vasche cubiche più piccole, quelle affiancate dalle sale parto dei pesci rossi. «Volete prendere anche qualche animaletto ornamentale? Magari una lumachina, o qualche gamberetto, o un paguro?»

Giulia e Luca si guardarono allibiti. Fu inevitabile. «Un paguro?»

Dopo quel breve singhiozzo di panico, Luca flesse le punte delle sopracciglia e rivolse a Giulia uno sguardo bruciante d’intesa. E se avesse capito che…

Giulia scosse immediatamente il capo, ricambiando quell’occhiata così complice e perspicace. No, no, tranquillo, impossibile che abbia capito.

La voce del Signor Rizzi non suonò alterata in alcun modo. «Di paguri ne vendo in gran quantità assieme ai coralli e alle spugne di mare.» Fu chiaro che non si celasse alcun secondo fine dietro le sue parole. «I collezionisti, soprattutto quelli con acquari molto grandi, li sfruttano sia per una questione ornamentale sia per tenere pulita la sabbia, gli scogli, e anche per ricreare un ambiente più accogliente per i pesci. Sono molto utili per risparmiare sulla pulizia dell’acquario, dato che loro svolgono gran parte del lavoro.»

Giulia si chinò a sbirciare dentro la vasca cubica, quella dove i crostacei zampettavano sul fondo trasparente, privo di sabbia o rocce. «Sarebbe bello se potessimo tenerne anche noi qualcuno» rimuginò. «E sarebbe anche una buona compagnia per il nostro pesciolino, dato che dovrà accontentarsi di rimanere da solo ancora per un po’. Però…» Estrasse il barattolo di borotalco che aveva riposto dentro il cappotto. Lo scosse, e si udì lo squillo triste e solitario di una singola monetina sbattuta sulla superficie di latta. «Mi sa che non possiamo più permetterci nemmeno un granello di sabbia con quello che ci è avanzato.»

«Allora facciamo così» le propose il Signor Rizzi. «Ve ne regalo uno io, nessun costo aggiunto.» Rise. «A patto che poi veniate sempre a rifornirvi da me per tutto quello che vi servirà per l’acquario, d’accordo, picinin

«Aha!» Giulia impennò i pollici e ricambiò il sorriso. «Aggiudicato, affare fatto!»

Il Signor Rizzi annuì. «Allora vi metto tutto in un unico sacchetto. Ecco, il pesciolino verde e blu, avete detto?» Immerse il retino nell’acqua e dragò fino a recuperare il Pesce Damigella che Luca e Giulia avevano scelto.

Luca osservò la scena attraverso lo stesso sguardo estraniato con cui si era incantato davanti allo spettacolo delle meduse. Questa volta, però, gli si chiuse il respiro e lui si sentì soffocare. Tornò la sensazione di prigionia e costrizione che aveva provato stando in mezzo ai freddi acquari del centro di ricerca. La sensazione di avere un paio di mani gelide allacciate attorno al collo e una rete sempre più stretta a strozzarlo nella sua guaina, tenendolo prigioniero.

Il Pesce Damigella venne pescato dal fondale ed estratto dalla vasca d’acqua. Saltellò e boccheggiò all’interno del retino. La sua pancia si gonfiò e sgonfiò, e gli occhi spauriti si spalancarono sul vuoto. Il Signor Rizzi lo immerse nel sacchetto di plastica che aveva già riempito d’acqua. Lì dentro il pesciolino riprese fiato, diede un colpo di coda, e nuotò come nuotava nell’acquario. Sbatté il muso sulla plastica, tornò al centro e girò in tondo, incapace di fare altro.

Luca si sentì raggelare, colpito dal forte schiaffo di un ricordo.

I nuvoloni grigi che avevano gonfiato il cielo durante la Portorosso Cup, Alberto trasformato sotto la pioggia, il suo corpo intrappolato nella rete che Ercole gli aveva lanciato addosso, e il momento in cui Luca aveva allungato il braccio per raggiungerlo, acchiapparlo per mano, e condurlo in salvo.

Quante volte anche io e Alberto abbiamo rischiato di fare una fine simile?

E quante altre volte ancora sarebbero stati in grado di salvarsi a vicenda da ogni rete che si sarebbe spalancata su di loro?

 


N.d.A. (1)

E comunque… cinquemila lire, a quei tempi, erano davvero un fracasso di soldi (u.u).

 

N.d.A. (2)

E siamo finalmente giunti in pari con la pubblicazione su Ao3! \(^-^)/

Questo significa che gli aggiornamenti da adesso in poi saranno sì abbastanza regolari, ma non più quotidiani. Un grazie anticipato a tutti coloro che decideranno di continuare a seguirmi, o qui o altrove.

 

p.s. A tutti i lettori che mi stanno leggendo e seguendo (ammesso che ce ne siano xD), mi piacerebbe davvero molto ricevere qualche opinione/commento/critica riguardo la storia fino a questo punto. Ma nessuna pressione, ovvio. ;)

Buon proseguimento e alla prossima!

 

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Capitolo 24
*** 24 ***


24

 

 

Giulia rovesciò dentro la teca l’ultima delle brocche d’acqua che aveva riempito al rubinetto della cucina. Lo scroscio sprofondò nello spazio d’acqua che già colmava l’acquario, sollevò un piccolo vortice di bolle schiumanti che scosse il fascio di alghe finte, accerchiò lo scoglio adagiato sui grani di sabbia colorata, fece dondolare la prua del galeone pirata che giaceva all’angolo, e risalì le pareti di vetro, facendo stillare qualche gocciolina fuori dal bordo.

Giulia scrollò la brocca, assicurandosi che nemmeno una singola goccia andasse sprecata. Tenne ben saldi i piedi sulla cima dello sgabello su cui era arrampicata, e si sporse per tendere lo sguardo fino all’estremità opposta dell’acquario illuminato per il momento solo dal lampadario del corridoio d’ingresso. Lei e Luca erano riusciti a incastrare la teca proprio nel punto che si erano prefissati, sotto il quadro di Sara, quello che ritraeva la barca a remi spiaggiata sotto i raggi rossastri del tramonto, affiancata da un grumo di reti sporche di alghe e attorniata da una scia di impronte che si allontanavano verso i lumini di un paesello costruito sul promontorio poco distante.

Giulia annuì e sorrise, pienamente soddisfatta del risultato. «Ecco fatto.» Scosse di nuovo la brocca, e solo un’ultima gocciolina scivolò dal becco di vetro, infrangendosi sulla superficie limpida. «Direi che di acqua ce n’è a sufficienza.» Balzò giù dallo sgabello. «E la temperatura…» Si chinò davanti a uno spigolo dell’acquario, si accigliò, e picchiettò l’unghia sul quadrante del termometro. «Sì, anche questa è a posto. Come va con le presa per i filtri?»

Luca, gattoni sul parquet del pavimento, districò i cavi della corrente, quelli appartenenti al filtro, alla pompa e alle luci al neon. Ne sollevò uno, lo rigirò davanti allo sguardo corrugato d’incertezza, e lo accostò alla doppia presa installata sopra lo zoccolo della parete. «Quasi finito» annunciò. «Sto solo…» Spinse dentro la prima presa. Sbatacchiò il cavo appartenente alla seconda, in modo che non si formassero nodi, e infilò pure quella nello spazio sottostante. «Ecco.» Salì sulle ginocchia e si spolverò le mani. «Ora dovrebbe accendersi tutto.»

«Proviamo subito.» Giulia fece scorrere i cavi della corrente fra le mani, in cerca dei rispettivi pulsanti di accensione, quello dei filtri e quello delle luci al neon.

Nerone zampettò attraverso il corridoio, sniffò attorno al mobile di sostegno dove avevano collocato l’acquario, e storse il naso riconoscendo l’odore estraneo. S’infilò sotto i cavi, raggiunse Luca ancora inginocchiato davanti alle prese della corrente, gli grattò i pantaloni e spinse il muso sotto una sua mano, scodinzolando e annaspando per reclamare qualche carezza.

Luca rise e non si fece di certo pregare. «Ci aiuti anche tu, Nerone?»

Giulia impugnò gli interruttori, poggiò i pollici sui pulsanti di accensione, senza premere, e compì un passetto all’indietro per avere una buona visuale su tutta la lunghezza dell’acquario. «Trattenete tutti il fiato.» Corrugò le sopracciglia. «Eee…» Fece pressione sui pulsanti. «Azione!»

Click, click!

Un ronzio vibrò attraverso la barra dei neon. La luce si accese, traballò un paio di volte, e abbagliò l’acqua. Seminò scintille azzurre sui ciottoli di vetro distribuiti sulla sabbia del fondale, splendette sulla vernice dorata del galeone naufragato, frastagliò sfumature verdi fra gli ondeggi delle alghe, e addensò ombre scure dentro i pori dello scoglio a forma di grotta.

Si azionò anche la ventola della pompa. Il filtro risucchiò l’aria, rilasciò una lunga scia di bollicine, come un filo di perle, che gorgogliò fino all’angolo in alto, dove l’acqua era scossa da un ronzio più intenso.

Termometro, filtro dell’acqua, misuratore di salinità, condensatore, decorazioni, e fondale di sabbia e ciottoli… non mancava nulla!

«Evvai!» Giulia batté le mani e prese a saltellare, scoppiettante di entusiasmo. «Tutto perfetto e funzionante.» Affondò una mano fra i capelli, sventolò le ciocche dietro la spalla e rimirò le unghie tenendo alto quel suo largo sorriso di trionfo. «Siamo dei geni, non c’è che dire. Be’, non c’era nemmeno da metterlo in dubbio: io e te assieme saremmo anche capaci di far funzionare una centrale nucleare, se lo volessimo.»

Luca, strofinate le ultime carezze sulla testolina di Nerone e rialzatosi dal pavimento, si affiancò a Giulia per ammirare il risultato finale. Pure lui si lasciò travolgere da un caldo e profondo sospiro di meraviglia. «È stupendo.» Riflessi verdi e dorati si specchiarono nei suoi occhioni stregati dal lieve ondeggiare delle alghe e dal luccicare del galeone piazzato affianco alla grotta di scoglio. La lieve corrente respirò attraverso l’acqua così cristallina in cui i sali avevano appena finito di sciogliersi. «Con le luci accese fa tutto un altro effetto. Poi avevi ragione, qui in corridoio fa proprio un figurone.»

«Che ti avevo detto?» cinguettò Giulia. «Sembra proprio fatto apposta.» Tornò ad accostarsi alla teca, si chinò di nuovo davanti al termometro e si strofinò il mento. «Ma dici che dobbiamo tenere acceso il filtro dell’acqua per un po’ di tempo prima di farci nuotare il pesciolino? Magari l’acqua non è ancora del tutto pronta, e il sale potrebbe non essere ancora completamente sciolto.»

«Vediamo…» Anche Luca si avvicinò, andò incontro al panorama marino ritratto sul quadro di Sara, all’odore dell’acqua salmastra e del Vetril con cui avevano lucidato la teca. Salì sulle punte dei piedi, allungò il braccio e intinse nell’acqua le punte delle dita. Le squame si arrampicarono fino alle nocche, e i riflessi delle loro sfumature verdi-azzurre si frammentarono lungo la superficie del vetro. Luca si portò la mano alla bocca, diede una succhiata alle dita bagnate, poi premette il palmo sulle narici e inspirò forte, proprio come avrebbe fatto sott’acqua. «No, è a posto.» Si strofinò il naso, si asciugò la mano sulla maglia e la pelle tornò normale. «Direi che può andare, sia il livello di sale sia la temperatura mi sembrano al punto giusto.»

Giulia sgranò gli occhi. Sovrappose le mani alla bocca socchiusa, spezzando un sospiro di sollievo che le rimase sospeso fra le labbra. «Oh, Luca.» Due gonfi lucciconi le traballarono fra le ciglia.

Luca, sentendosi trapassare da quello sguardo d’amore così improvviso e inaspettato, arrossì di botto e si riparò dietro lo stesso braccio che aveva allungato dentro l’acquario, senza capire. «Che… che cosa c’è?»

«Come cosa?» Giulia indicò Luca e poi l’acquario. «L’acqua!» Ripeté lo stesso gesto per altre tre volte, sempre più velocemente. «L’acqua, Luca! Hai toccato l’acqua e ti sei trasformato senza andare in crisi. Ce l’hai fatta, Luca!» Gli saltò davanti, gli strinse le guance fra le mani arroventate di entusiasmo, e sorrise. «Non hai idea di quanto fossi preoccupata per te, dopo l’incidente della farina e della pizza, perché credevo ti fosse rimasta addosso la paranoia di quel giorno e che non mi dicessi nulla per non farmi spaventare, e invece stai bene.» Lo inghiottì in un avido abbraccio. «Stai bene.» Strinse ancora più forte, fin quasi a soffocarlo, e rimbalzò sulle punte dei piedi. «Meno male, meno male, mi hai proprio tolto un peso dal cuore.»

Nonostante fosse al sicuro fra le braccia di Giulia, Luca si ritrovò a vacillare nel vortice sollevato dal peso di quelle parole. Giulia era preoccupata? Sorse una breve ma intensa vampata di sensi di colpa. Ed è stata in pena per me da quando c’è stato l’incidente della farina? Per tutto questo tempo? Si sentì da schifo.

Luca fece scivolare le braccia attorno ai fianchi di Giulia e la strinse a sé. Si affidò all’appiglio della sua vicinanza, della sua amicizia, ma divenne a sua volta un sostegno. Fu come quel giorno d’autunno, quando lui e Giulia si erano abbracciati in cucina, fra il tavolo sommerso dalla farina rovesciata e il lavello gocciolante sotto cui Luca aveva gettato le mani. Ma ora si sostennero a vicenda. «Va tutto bene» la rassicurò, senza poter fare a meno di chiedersi quanto fosse sincero a riguardo. «Va tutto bene, stai tranquilla.» Le strofinò la schiena. «Sto bene.» Rise per tirarla su. Per tirare su entrambi. «Quella volta è stato solo un incidente. E poi capita a tutti di avere dei giorni più bui di altri, vero?»

«Vero.» Giulia sciolse l’abbraccio e annuì. Il sorriso sempre lì a illuminarle il volto. «Vero, hai ragione. Forse questa volta sono stata io quella a preoccuparsi troppo.»

Tuttavia, il ricordo di quel giorno, di tutte le lacrime che aveva ingoiato, e di quei sospiri di nostalgia, evocò un brivido attraverso il cuore di Luca. Già, forse siamo stati entrambi a preoccuparci un po’ troppo per quell’incidente. Ma davvero posso definirla una crisi superata? Si morsicò il labbro. Ma sì, ovvio che è superata. Deve esserlo per forza. Non posso farmi sempre abbattere per così poco. E soprattutto devo cominciare a imparare a tirarmi su da solo, da ora in poi, perché Alberto e Giulia non potranno sempre esserci al mio fianco. Non potrò fare per sempre affidamento su di loro, tutte le volte che cadrò. È questa la verità. Devo semplicemente imparare a rialzarmi da solo.

«Allora, che aspettiamo?» Nonostante la grigia nuvoletta di angosce sempre in agguato, Luca non ebbe intenzione di lasciarsi contagiare da quel malumore. Recuperò la scatolina di polistirolo che avevano riposto con cura sul mobile, senza sballottarla e soprattutto tenendola distante dal naso di Nerone. La scoperchiò e portò alla luce la busta d’acqua dove il Pesce Damigella nuotava assieme al piccolo paguro. «Anche loro due si saranno stufati di galleggiare nel sacchetto. Inauguriamo la nuova casetta?»

«Assolutamente» disse Giulia. «Ma prego…» Estrasse lei il sacchetto e lo porse a Luca. «A te l’onore.»

Luca sorrise, impaziente e carico di un’emozione sfolgorante. Salì sullo sgabello, slacciò il sacchetto di plastica, adagiò la busta sulla superficie d’acqua illuminata dall’azzurro dei neon, la inclinò, senza preoccuparsi di bagnarsi le mani che tornarono a squamarsi, e lasciò che il Pesce Damigella trovasse da solo la sua strada, che ne seguisse il flusso, e che sprofondasse da solo nella sua nuova dimora. Luca sollevò maggiormente il fondo del sacchetto, gli diede un’ultima scrollata, e fece scivolare giù anche il paguro che, al contrario del pesce rimasto sospeso fra le alghe, rotolò fino al fondale dell’acquario e cadde sul dorso, sollevando uno sbuffo di sabbia.

Il piccolo paguro scosse le zampette, dondolandosi avanti e indietro. Trovò un appiglio fra le alghe finte, vi si aggrappò con le chele, si rialzò da solo, e zampettò attorno alla piantina, dando inizio all’esplorazione della sua nuova casetta.

Anche il pesciolino cominciò a esplorare. Dapprima apparve spaesato, forse stordito dal viaggio, dalla ricomparsa della luce dopo quel breve periodo trascorso nel buio della scatola che lui sicuramente doveva aver vissuto come un’eternità. Nuotò attraverso le alghe, sbatté sul vetro della teca, boccheggiò, scosse le pinne e si accostò all’angolo, alla corrente del filtro. Le bollicine lo respinsero. Il pesciolino diede un colpo di coda e accelerò, oltrepassò di nuovo la piantina, scese verso il fondo e si acquietò. Nuotò attorno allo scoglio, diede qualche beccata fra le rientranze della roccia, e scese ancora fino a fronteggiare il galeone pirata.

Giulia e Luca si chinarono a osservarlo. Gli occhi splendenti e animati da scintille di fascino. «Che ne pensi?» disse Giulia. «Dici che gli piaccia la sua nuova casetta?»

Il Pesce Damigella nuotò al di sopra del galeone pirata, si fermò affianco alla grotta di scoglio, e cominciò a brucare fra i grani di sabbia, sputacchiandone qualcuno.

Luca annuì. «Secondo me la adora. Vedrai, si abituerà in fretta.»

Finito di beccare fra la sabbia ancora sprovvista di mangime, il Pesce Damigella raggiunse il piccolo paguro e gli si fermò davanti, senza toccarlo, senza aggredirlo, solo guardandolo attraverso la stessa espressione impallata con cui si era orientato fra il galeone e le alghe.

Giulia sgomitò il braccio di Luca. «Guarda, guarda.» Indicò la scena. «Anche loro due stanno già facendo amicizia. Il Signor Rizzi ha avuto proprio ragione: abbiamo fatto bene a prendere anche il paguro assieme al pesce. Così si terranno compagnia a vicenda, oppure… no, ecco!» Fece schioccare il pugno sul palmo. «Ecco, è un po’ come se il paguro fosse il cagnolino del pesce. Dici che può essere?»

Luca inarcò un sopracciglio. «Ecco…»

«Bau!» La risposta arrivò da Nerone che si era alzato su due zampe per allungare il nasino verso l’acquario.

Giulia gli porse il braccio, si lasciò leccare la mano. «Che c’è, Nerone?» Fece la solita vocina che usava per parlare con lui. «Sei geloso del nuovo pesciolino?» Si inginocchiò a grattargli le orecchie. «Cagnolino sciocchino, lo sai che rimarrai sempre tu il preferito della casa. Ecco…» Lo prese in braccio e lo sollevò davanti alla teca. «Guarda che bello. Di’ ciao al tuo nuovo fratellino. Questo non è un pesce che si mangia, però, eh, proprio no.»

I vispi occhietti di Nerone seguirono il nuoto del pesciolino. «Bau!» Nerone scodinzolò come un matto e annaspò con la lingua di fuori, quasi gli stesse sorridendo attraverso il vetro.

Anche lo sguardo di Luca si fece assorbire, fisso sulla scena che si stava svolgendo all’interno del loro acquario nuovo di zecca.

Il Pesce Damigella compì qualche giro attorno al paguro e poi si allontanò per addentrarsi nella zona ancora inesplorata della teca. Il piccolo paguro si ambientò a modo suo. Scosse le chele, tastò le alghe finte, scavò in mezzo alla sabbia, avanzò urtando la prua del galeone, scavalcò una pietruzza di vetro, e raggiunse le rientranze dello scoglio. S’infilò nella nicchia più profonda, quella che formava l’ambiente della grotta, poi si rintanò nella sua conchiglia e stette buono a riposare per conto suo, lasciando fuori solo le punte delle zampette, quasi fosse diventato anche lui una semplice decorazione.

Quella visione gettò addosso a Luca una fredda e irrazionale vampata di tristezza.

Il paguro sul fondale. Il paguro nella sua conchiglia. Il paguro che non nuota, che non esplora, che non si allontana, e che pensa solo a restare al sicuro dentro la protezione dal suo guscio.

Posò le punte delle dita sul vetro, attraversò l’immagine del suo stesso riflesso sovrapposto a quello della conchiglietta a spirale.

Ma questa è la sua natura. Anche volendolo, non è qualcosa che si può cambiare. Non dovrebbe rattristarmi in questa maniera.

Giulia mise giù Nerone e continuò a chiacchierare. «… per quanto tempo ha detto che sarebbe da tenere a digiuno?» Luca si era perso a tal punto nei suoi pensieri da non essersi nemmeno accorto che Giulia aveva ripreso a parlargli. «Per un giorno solo? Facciamo fino a domani sera? Oppure…»

«Conchiglie.»

«… a me sembra che sia in ottima forma, nonostante il viaggio nel sacchetto, e – cosa?» Giulia sbatacchiò gli occhi, confusa. «Conchiglie, hai detto? Quali conchiglie?»

Luca indicò il paguro che riposava sotto lo scoglio. «Le conchiglie per il paguro» spiegò. «Dovremmo procurarcene un po’ e lasciargliele sul fondale. I paguri, quando crescono, escono dalla loro conchiglia e ne indossano una più grande e adatta alle loro dimensioni. Di solito trovano quelle nuove sulla spiaggia o fra gli scogli, ma lui che vive nell’acquario non può procurarsele da solo. Dobbiamo pensarci noi.»

Giulia allungò un sospiro. «Ooh, è vero. Ecco una cosa a cui non avevo proprio pensato. Meno male che ci sei tu, Luca.» Gli picchiettò una mano sulla spalla. «Vedi, lo avevo detto che tenere un acquario in casa avrebbe aperto i nostri orizzonti e sincronizzato le nostre menti.»

«Si…» Luca si grattò dietro l’orecchio. «Sincronizzato?»

«È deciso, allora!» Giulia impennò il braccio al soffitto. «Questa domenica ci facciamo una gita giù al porto o giù alla spiaggia e raccogliamo una bella manciata di conchiglie per il nostro pagurino. Le più belle, le più sgargianti, e le più confortevoli di tutta Genova. Gli rifacciamo tutto il guardaroba.» Pizzicò Luca con un’altra serie di soffici e innocue gomitate. «Il guardaroba per il paguro, ma te lo immagini? Vivrà proprio come un re.»

«Già» rise Luca, accogliendo ben volentieri quella prospettiva. «Persino meglio di noi, ancora un po’.»

«Oh, aspetta, aspetta» esclamò Giulia, «non sono solo le conchiglie a mancare per finire di assemblare l’acquario.»

«Davvero?» fece Luca, stupito. «Cos’è che manca?» Eppure abbiamo preso proprio tutto. I filtri, il sale, le decorazioni, la sabbia…

«Manca l’elemento più essenziale di tutti.» Giulia premette l’indice sulla punta del naso di Luca. «L’unica e sola ragione di vita.» Lo guardò fisso negli occhi. I suoi erano incandescenti come braci. «La quintessenza dell’anima di questo pesciolino, la sua fiamma vitale, la linfa che gli scorre in corpo.»

Luca incrociò gli occhi sul dito che Giulia teneva premuto sul suo naso. Tornò a guardare la sua amica e rabbrividì, senza sapere cosa pensare o cosa aspettarsi dalle sue idee strampalate. «Giulia, mi fai paura.»

Giulia rise, gli tolse il dito dal naso e indicò il pesciolino che era salito a boccheggiare sul pelo dell’acqua. «Ma il suo nome, no?»

«Ooh.» Quell’espressione così tesa si sciolse dal volto di Luca. «Il suo nome» sospirò lui, riguadagnando colore sulle guance. «Giusto. Ma quale potremmo…» E bastò un unico fulmineo sguardo fra lui e Giulia per far capire a entrambi che non esistevano dubbi riguardo una simile decisione.

Giulia annuì e corse in camera. Ribaltò il cassetto dove conservavano le scorte del materiale di scuola, e pescò una delle etichette – una delle più grandi – che usavano per contrassegnare i libri e i quaderni. Lei e Luca la decorarono con la porporina, temperarono i pastelli per colorare una cornice composta da tante spirali azzurre, una miriade di onde spumose che erano popolate a loro volta da stelline rosse, come quelle che si raggruppano sugli scogli.

Incollarono l’etichetta sul vetro dell’acquario, nell’angolo in alto a sinistra, in modo da coprire la vista dei filtri.

A lettere maiuscole, scrissero il nome del pesciolino. Il nome perfetto, l’unico e solo.

 

BRUNO

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Capitolo 25
*** 25 ***


25

 

 

Luca fece scivolare l’indice dal tabellone degli orari dell’autobus e girò lo sguardo alle sue spalle, travolto da un’improvvisa e pungente folata di vento. Annusò l’aria, la capricciosa corrente primaverile che gli era appena soffiata fra i capelli, pizzicandogli le orecchie e sdrucciolando sotto il bavero della giacca. Nonostante il tanfo del traffico, l’odore di caffè e cotoletta impanata proveniente dai ristoranti, e il lezzo acidulo del mare proveniente dai quartieri del porto, gli bastò qualche respiro profondo per tastare il sapore del diluvio in arrivo, degli ululati di vento gravidi di pioggia.

Luca si sporse, stando in bilico sul ciglio del marciapiede da cui era appena sceso un signore avvolto da un impermeabile, e guardò oltre la piazza della stazione, oltre il parcheggio di motorini, oltre il tettuccio di qualche auto di passaggio, oltre la coda del tram che era appena sparito dietro la curva dello stradone, e oltre i palazzi frammentati sull’orizzonte.

Lo sorpresero nuvole color piombo già così basse da essere perforate dalle antenne dei condomini e attraversate dai cavi della corrente. Uno stormo di gabbiani scompose la formazione a punta di freccia, attraversò i fiochi raggi di sole tarpati dalla foschia, e si allontanò. Una zaffata più violenta delle altre spazzò via il cappello di una signora, sbatté sulle tende dei chioschi, e fece vorticare qualche cartaccia contro i tombini.

Luca rabbrividì, sbiancando come un lenzuolo. Lo stomaco si aggrovigliò in un nodo di panico e quel fremito scese fino alle ginocchia traballanti, spalancando sotto i piedi un nero spazio vuoto che lo risucchiò nel suo oblio.

Sta per diluviare.

Si allontanò dal tabellone orario senza nemmeno preoccuparsi di controllare l’arrivo della sua prossima corsa. Si rintanò sotto la tettoia della fermata, rannicchiandosi nell’angolino, affiancato da una signora anziana accompagnata dal suo carrellino della spesa e coperto da altri due ragazzi che reggevano due borsoni marchiati dallo stemma di un circolo di calcetto. Anche loro presero a lamentarsi. «… e mi sono dovuto sorbire la predica di mezz’ora, sempre la solita solfa, perché si è impuntata che se mi segano anche al prossimo compito in classe posso – no, ma sta per piovere?» Il ragazzo guardò in alto, attraverso le lamine trasparenti annebbiate dai nuvoloni, e diede una ruminata alla gomma da masticare. «Seriamente?»

L’altro s’infilò il cappuccio del giaccone e tirò su la zip, molleggiò sulle ginocchia. «Te l’avevo detto che prima di tornare a casa ce la beccavamo tutta in testa»

«Bon, ma se per domani torna il sole si gioca lo stesso la partita nel campo fuori, no?»

«Sempre se non si formeranno le pozze nell’erba.»

Luca strinse al petto il sacchettino dentro cui il Signor Rizzi gli aveva impacchettato il mangime per Bruno. Guardò anche lui di nuovo verso l’alto, attraverso il vetro della tettoia trasparente, e attraverso il velo di panico che gli aveva annacquato le palpebre tremolanti e annerite di terrore.

Un’altra sferzata di vento si abbatté sui tralicci del tram, scosse le chiome degli alberi che solo da qualche settimana avevano ripreso a verdeggiare, e addensò davanti al sole i gorgoglii delle nubi color fumo, raffreddando fino all’ultimo raggio.

Un nubifragio improvviso. Il primo della stagione.

Quando Luca era uscito di casa, nel primo pomeriggio, il sole splendeva come aveva splenduto per tutta la mattina. Sceso dall’autobus e giunto al negozio del Signor Rizzi, si era sollevato qualche alito di vento. Prima di valicare lo scampanellio della porta, Luca si era soffermato ad annusare l’aria, riconoscendo il tipico odore ferroso di acquazzone, quello che zampilla anche attorno alle fontane o che risale dagli stagni. Gli alberi del vialetto si erano inchinati sotto le prime raffiche di vento, le tende dei negozi erano rabbrividite, e le ombre gettate dagli edifici erano rabbuiate, allungandosi.

Sbrigate le commissioni e uscito dalla bottega, lo avevano accolto i primi nuvoloni. Una lunga coltre color piombo che aveva brontolato dietro i tetti e che aveva coperto le gru installate nel cantiere navale.

Luca aveva creduto di riuscire a rincasare in tempo. Se avesse saputo che sarebbe scoppiato a piovere non sarebbe nemmeno uscito di casa, avrebbe chiesto a Giulia di andare a comprare il mangime al posto suo e lui sarebbe rimasto a casa a occuparsi della pulizia dell’acquario.

Una volta fuori dal negozio di pesci, Luca era corso fino alla fermata dell’autobus sperando di fare in tempo, ma nemmeno affannarsi e imboccare le scorciatoie in mezzo ai vicoli aveva migliorato la situazione. Non aveva con sé né un ombrello né l’impermeabile. Ora la cappa di maltempo si era spalancata su tutta Genova e lui era fregato.

I primi singhiozzi di pioggia lacrimarono dal cielo e tambureggiarono sulle lamine plastificate della tettoia. Le gocce rigarono la pendenza, si rincorsero a vicenda, e a quelle se ne aggiunsero altre in rapida successione, sempre più veloci, sempre più vicine, che ingrossarono il flusso e che sbrodolarono dal riparo, formando una tendina di perle trasparenti che picchiettò sul marciapiede, scurendone la superficie di cemento.

Luca si tappò la bocca, soffocò un ansito, e schiacciò la schiena contro la parete del riparo. Si sentì mancare.

Oh, no.

Attorno alla fermata dell’autobus la gente continuò a spostarsi, il traffico a scorrere. Le auto cominciarono ad accendere i fari. Gli pneumatici delle motociclette scrosciarono sull’asfalto già bagnato da quel primo e scuro strato di pioggia polverosa. La signora anziana sfilò un ombrellino pieghevole dal suo carrellino della spesa. I due ragazzi con i borsoni del calcetto scartarono altre gomme da masticare. «… garantito che non mi fa uscire dalla panchina fino al Secondo Tempo», «Dipende da come sarà messo Simone. L’altro giorno mi ha detto che la caviglia ha ricominciato a fargli male, e se continuerà…», e Luca precipitò nei ricordi, tornò a quella lontana sera d’inverno fuori dalla libreria. Anche quella volta era rimasto pietrificato dalla paura. La schiena appiccicata al muro del negozio e la busta dei libri stretta al petto.

Ma no, non è come quella volta.

Non fu come allora, perché non c’era Giulia assieme a lui. Nessuno a coprirlo, nessuno a nasconderlo, nessuno a proteggerlo.

Un uomo senza ombrello o berretto attraversò la strada, giunse correndo sotto la tettoia della fermata, si scusò per la fretta, «Permesso, permesso, scusate», urtò un altro signore che gli rispose a tono, «Almeno guarda avanti», si diede una scrollata ai lembi del cappotto bagnato, «Scusate, scusate, credevo di non fare in tempo. È già passato il Ventidue?», e alcuni schizzi di pioggia finirono addosso a Luca.

Luca arretrò, calpestò la cartaccia di qualche caramella che era rotolata fuori dal cestino, e si ritrovò rannicchiato nel cantuccio, dove si annidava la puzza di polvere e di cenere di sigaretta.

Un autobus uscì dal traffico, si fermò davanti alla tettoia, spalancò le porte, scaricò un gruppo di persone e ne caricò altrettante. Scesero una donna che con una mano reggeva il braccio della sua bambina e con l’altra la busta della spesa; due ragazzini con le custodie delle chitarre a tracolla; e un signore anziano infagottato sotto una sciarpa di flanella. Le persone spalancarono gli ombrelli, scrollarono gli impermeabili, pestarono le suole sulle pozzanghere già formate, si urtarono le spalle, e s’infilarono sotto la tendina di gocce d’acqua che aveva accelerato la sua caduta dalla tettoia.

Non fu difficile immaginare quello che sarebbe successo: il diluvio sarebbe esploso e avrebbe continuato a grondare su Genova per tutta la sera, per tutta la notte, e forse anche per tutto il giorno successivo. Luca non aveva l’ombrello, non indossava l’impermeabile, non era in compagnia di Giulia che potesse coprirlo, e non poteva nemmeno chiamare Sara perché venisse a recuperarlo in auto, dato che sarebbe rimasta fuori città per tutto il fine settimana. Non c’era nemmeno l’asciutta sicurezza dei portici a proteggerlo come era successo durante l’acquazzone fuori dalla libreria. Di lì a poco il vento si sarebbe alzato, le zaffate di pioggia gli avrebbero schiaffeggiato la faccia, il diluvio gli avrebbe inzuppato gli abiti e lo avrebbe trasformato davanti a tutta la piazza, a tutta Genova. Luca si sarebbe così ritrovato circondato da una folla di volti inorriditi e di occhi spaventati, come era già successo quel giorno a scuola dopo lo scoppio del gavettone. Facce scandalizzate, grida di orrore, sguardi minacciosi rivolti contro di lui e dita puntate sulle sue fattezze da mostro marino.

No!

Si spalancò una voragine di buio. Le persone scomparvero, dissolvendosi in una miriade di ombre che sfumarono all’aria come cumuli di nebbia. Le nubi scesero dal cielo, inghiottirono la strada, circondarono le facciate dei palazzi, e spensero le luci delle vetrine, dei fari delle auto e dei lampioni.

Luca gemette dietro le mani premute sulle labbra. Un brivido ghiacciato gli morse la bocca dello stomaco.

No, non può succedere di nuovo. Avevo promesso che non sarebbe mai più accaduto nulla di simile!

Slanciò una prima falcata di fuga, urtò uno dei ragazzini, «E sta’ un po’ attento!», innalzò il braccio sopra la testa, sfrecciò sotto la tendina di gocce d’acqua che gli grandinò sulla manica della giacca, e sfuggì agli sguardi della gente che, troppo impegnata a spalancare gli ombrelli e a controllare gli orari dell’autobus, non fece caso a lui.

Batté le suole sul cemento, sull’asfalto, travolse un grumo di pilucchi di polline che si erano accumulati davanti allo sbocco di un tombino, attraversò la piazzetta guidato dalla luce verde del semaforo, schivò il muso di una Opel che fece stridere i freni a uno sfioro dalle sue caviglie, tagliò la strada a una bicicletta, strinse più forte le braccia per proteggere il sacchetto con il mangime per i pesci, e piegò il capo contro il petto per non finire mitragliato dal getto di pioggia ancora troppo debole per inzupparlo.

Pestò una pozzanghera. Schizzi di fango gli sporcarono l’orlo dei jeans e rimbalzarono fino alle ginocchia.

Luca respirò ad affanni risucchiando tutto l’odore del fumo, della polvere, del polline, della terra bagnata, dello smog, e quello delle piadine che un chioschetto vendeva vicino alla fermata dell’autobus.

Qualche tiepida goccia di pioggia gli rotolò fra i capelli, scivolò sulla fronte, e raschiò una riga di squame dalla tempia alla guancia, costringendolo a tapparsi la faccia e a grattarsi la pelle. Luca serrò i denti, stridendo un gemito. Allungò gli ultimi slanci di corsa in mezzo ai fianchi delle persone che scesero dalle strisce pedonali e che si allontanarono dalle scie dei fari per ripararsi contro i muri degli edifici.

Sbirciò da sotto la mano premuta sul viso e individuò il colore rosso della prima cabina telefonica caduta sotto il suo occhio, quella vicina al chiosco dell’edicolante che stava ritirando le griglie dei giornali e serrando le saracinesche.

Una cabina!

Il suo faro, la sua luce, la sua salvezza.

Luca montò sul marciapiede, spinse la spalla contro la cabina, e travolse la porta di vetro plastificato tappezzata da adesivi e dalle scritte scarabocchiate con pennarelli indelebili. Inciampò sul bordo rialzato, urtò la parete interna del cubicolo, sbatté la spalla sulla scatola telefonica e finì catapultato all’angolo. Lasciò che la porta rimbalzasse e si richiudesse da sola, che sigillasse all’esterno il frastuono del traffico e lo scroscio della pioggia sempre più assordante.

Schiacciò le spalle contro lo spigolo del cubicolo e vi strusciò sopra la schiena e i capelli, incollandosi come una stella marina si aggancia allo scoglio. Una mano aggrappata alla parete, per sorreggersi, e l’altra stretta attorno al sacchetto del mangime che era ancora asciutto nonostante la corsa sotto la doccia di pioggia.

Luca annaspò per riprendersi. Il fiatone s’ingrossò, le nuvolette di fiato bianco si frammentarono fra le sue labbra e si sciolsero fra le pareti, addensando l’umidità racchiusa in quel misero cubo d’aria che avrebbe dovuto dargli rifugio. Ma la sensazione di soffocamento lo accerchiò, le mani sempre più strette attorno alla sua gola, la pressione delle dita di ghiaccio a sprofondare nella carne.

Le pareti si appannarono, riducendo le persone che camminavano all’esterno a delle semplici ombre fluttuanti attraverso la tenda di pioggia. Luca si massaggiò la gola. Respirò a fatica, assalito dalla puzza di plastica, di impronte fangose, di cenere di sigaretta, di gomme da masticare alla frutta, di tutta l’acqua piovana che era già scrosciata in strada e di tutta quella che stava per rovesciarsi dai nuvoloni che avevano appena cominciato a scrollarsi.

Calmati.

Luca strizzò gli occhi per sopprimere la sensazione della vista vacillante. Il fiatone aumentò, gli grattò la gola, gli pizzicò la lingua e gli pesò sul petto. I tremori discesero la schiena, gli fecero ballare le gambe, gli indolenzirono le ginocchia e bruciarono attraverso i polpacci.

Calmati, Luca, devi calmarti. Non è ancora successo niente, ma devi metterti al riparo prima che esploda il putiferio. Un riparo vero, non questa cabina. Devi pensare a come tirarti fuori da questo guaio, ma lo sai che non puoi ragionare a mente lucida se cominci a farti prendere dal panico. Ti prego…

La tensione gli rattrappì i nervi, le mani formicolanti e sudaticce arpionarono il sacchetto di mangime, e le unghie stropicciarono la carta.

Ti prego, fai uno sforzo.

Un altro rivolo di pioggia si sciolse dalle ciocche di capelli e gli attraversò la tempia.

Luca usò la manica del cappotto per asciugarsi, ma la stoffa umida gli grattò la pelle, lasciandola ancora più bagnata.

Accostò le dita tremanti alla guancia ghiacciata, fece scorrere il tocco lungo la curva del viso, e incontrò la consistenza molle e frastagliata delle squame che gli sbavavano la pelle dal mento all’orecchio.

Luca ansimò di terrore – oh no! –, represse un conato di nausea e si sentì sprofondare nel pavimento della cabina.

Fu tutto come allora, come con l’incidente del gavettone. La stessa stordente sensazione di ricevere una sberla fredda e molle in pieno viso, di finire assordato dall’acqua penetrata dell’orecchio e di inspirare le gocce rotolate dentro le narici, sfiatando un gorgoglio come dopo essere emerso dal mare.

No!

Luca mollò il sacchetto del mangime che cadde ai suoi piedi, affondò le unghie nelle guance, si grattò fino a quando lo stridio di quel bruciore non lo estraniò dal rimbombo di tutti quei pensieri che gli stavano martellando il cranio.

No, no, no, no, no, no, non di nuovo, ti prego!

Riaprì gli occhi. Lo sguardo vacillò, scosso dal panico e dal fiatone, e la vista si tinse di rosso. I suoi affanni boccheggianti rimbombarono nel cubicolo, un lungo fischio gli perforò l’orecchio, e una doccia di brividi ghiacciati scese lungo la schiena, ancor più viscida e umida della colata di pioggia che stava picchiettando sulle pareti trasparenti della cabina telefonica.

I ricordi risucchiarono Luca e lo catapultarono alla domenica della pizza, quando si era ritrovato paralizzato allo stesso modo nella cucina di casa. Le mani trasformate sotto il getto dell’acqua, la poltiglia di farina a colare nello sgorgo del lavello, i tremori ad accerchiarlo, il fiatone a vibrare fra labbra e gola, la nausea a gorgogliare nello stomaco, e gli occhi allucinati infossati in un baratro di terrore.

Sempre così.

Luca era di nuovo in trappola. Nessuna via di fuga, nessuna salvezza, nessuna mano a tendersi per afferrarlo e riportarlo a galla.

È sempre così che va a finire.

Luca batté gli occhi velati da lacrime che rimasero in bilico fra le ciglia, guardò fuori dalle pareti appannate e rigate di pioggia, e il paesaggio così grigio mutò.

Non si trovava più all’interno di una cabina telefonica, nella piazza della stazione, ma dentro a un acquario. Un acquario come quello di Bruno, come una delle teche che popolavano il negozio del Signor Rizzi, o una delle vasche giganti su cui aveva alzato lo sguardo durante la gita all’istituto di biologia marina.

I filari di alberi – alberi su cui stavano gemmando le prime foglioline primaverili – vennero investiti da una violenta sferzata di vento e pioggia, si tramutarono così in foreste di alghe che oscillarono, attraversate da un’improvvisa corrente d’acqua. Il cielo annuvolato dal diluvio si tinse di un blu abissale. I fari delle automobili e degli autobus si trasformarono in bulbi bioluminescenti che pendettero sui musi delle creature che popolavano i fondali inesplorati, dove le carcasse di balena giacevano e marcivano, fino a ridursi a polvere d’ossa.

Le figure delle persone si allungarono, annerirono come ombre, vennero anch’esse raccolte dalla corrente d’acqua e assunsero forme di squali che si radunarono in cerchio e circondarono la cabina telefonica, quel piccolo acquario che dava rifugio a Luca. Al povero pesciolino in trappola.

Uno degli squali scansò un fascio di alghe con un colpo di coda, nuotò più vicino alla cabina, spalancò la bocca e mise in mostra la doppia fila di denti aguzzi.

Luca gemette di spavento, trafitto dal rossore di quegli occhi iniettati di sangue. «Ah!» Frenò quel grido tappandosi la bocca, sbatté la nuca alla parete, e calpestò la carta del sacchetto che ancora giaceva ai suoi piedi.

Un secondo squalo accelerò il nuoto, picchiò il muso sulla cabina e spalancò una ragnatela di crepe che scricchiolò attraverso il vetro plastificato. La bestia agitò la coda, girò attorno. Un altro squalo emerse dall’oscurità, urtò lo spigolo della cabina, allargò le crepe, e l’intera parete minacciò di sbriciolarsi, di esplodere in una cascata di frammenti, e di rovesciare su Luca una gigantesca ondata d’acqua, esponendolo così alle fauci delle belve, a quella voragine nera che non aspettava altro che inghiottirlo per sempre.

Luca si tappò gli occhi con entrambe le mani. Prese a battere i denti, a respirare a singhiozzi. Le energie lo abbandonarono, risucchiate da una vampata di terrore. La paura si tramutò in un artiglio acuminato che gli si aggrappò alla gola, soffocandolo e tenendolo schiacciato all’angolo, senza lasciargli alcuno scampo, alcuna via di fuga.

Sono in trappola.

Lo aggredì un vortice di pensieri ancor più feroci e spietati degli squali che nuotavano fuori dalla cabina.

Lo sono da sempre. Sono sempre stato un pesce in trappola che ha creduto di essere più coraggioso di quello che in realtà è, ecco perché non potrò mai essere davvero libero, ecco perché mi perdo di continuo in un mare di squali da cui non so difendermi. Posso cambiare la mia pelle quanto voglio, posso rimanere trasformato in questo aspetto anche per tutto il resto della mia vita, ma non potrò mai cambiare la natura di quello che sono. Io non sono uno squalo e non sono nemmeno un umano. Io sono un pesce. Un piccolo pesce nato e vissuto attorno a uno scoglio. E sono stato così stupido da credere di potermela cavare in un mondo che invece non aspettava altro che divorarmi. Che stupido…

Soffiò un lungo e triste sospiro di rassegnazione che in qualche maniera riuscì a placare i battiti del cuore, ad acquietare la bufera di pensieri, ma anche a curvarlo sotto il peso di una terribile realizzazione.

Sono stato proprio uno stupido a credere di potercela fare.

Con calma – molta calma – staccò una mano tremante dal viso, la infilò nella tasca del cappotto, scosse la consistenza fredda e tintinnante degli spiccioli che gli erano avanzati dopo aver comprato il mangime per Bruno. Aprì la mano. Contò mentalmente le lire che gli giacevano sul palmo.

Basteranno.

Luca sollevò la schiena dalla parete della cabina, calpestò il sacchetto del mangime, raggiunse la scatola telefonica, alzò la cornetta, e inserì una moneta alla volta nella fessura del ricevitore. Una moneta da cinquecento lire sdrucciolò fra le sue dita sudate, ma Luca fu abbastanza svelto da riacchiapparla al volo e da far tintinnare la cascata di spiccioli nel contenitore.

Accostò l’indice alla tastiera dei numeri in rilievo.

Un numero, si disse. Ma quale numero?

Si sorprese del fatto che il primo numero che pensò di digitare non fosse quello di Giulia, della loro casa di Genova, ma quello di Alberto, della casa giù a Portorosso. E il bisogno di Alberto era così forte che bastò il pensiero sfuggente dei suoi occhi verdi, del suo profumo di mare, per straziargli il cuore di nostalgia, per far rimbombare il tonfo di quel dolore fino in fondo all’anima.

Il ricordo di Alberto riaccese una luce, il tremolio di una brace accesa in cima alla loro torre, il mite fuocherello di un’estate lontana, la sua espressione ombreggiata dalla notte. La Fiaccola di Lucignolo. “Poniamo il caso che io mi tenga sul serio la Vespa, questa volta” aveva detto Alberto. E mettiamo che io un giorno venga fino a Genova a prenderti e che ti dica: Luca, salta su ché ce ne andiamo. E mettiamo che poi io ti portassi in un posto dove non dobbiamo essere costretti a starcene separati per tutto l’anno tranne che per questi tre miseri mesi. Tu cosa faresti? Salteresti sulla Vespa o mi scaricheresti?”

E Luca gli aveva detto di no. Con la schiena schiacciata al muro di cinta della torre, messo alle strette, aveva guardato Alberto negli occhi, senza vacillare, senza lasciarsi intimidire da quel freddo silenzio che era sceso fra di loro, e aveva scosso la testa.

Non possiamo andarcene, Alberto.”

Gli aveva detto che stavano crescendo, che avrebbero dovuto assumersi le responsabilità della loro nuova vita, che i tempi in cui avrebbero potuto scappare senza conseguenze erano finiti, e che non era fuggendo che avrebbero risolto i loro problemi e le loro angosce.

Però se ora tornasse a chiedermelo…

In lui si fece strada la convinzione che sarebbe stato in grado di rimangiarsi ogni parola pronunciata quella notte. Per questo era facile immaginare di accostare il telefono all’orecchio, di comporre il numero di Portorosso, e di aggrapparsi alla voce di Alberto, dicendogli…

D’accordo, Alberto. Andiamocene. Vieni e portami via. Saltiamo sulla Vespa, partiamo, e andiamocene in un posto lontano, dove saremo io e te assieme, senza nessun problema al mondo, come avevamo sognato quando eravamo piccoli, quando bastava essere uno vicino all’altro per sentirci felici e al sicuro. Portami dove vuoi tu, anche nel Paese dei Balocchi. Sii la mia Volpe, il mio Lucignolo, ma resta per sempre al mio fianco, dove potrò sempre raggiungerti e stringerti la mano quando mi sentirò precipitare negli abissi.

Luca raccolse un lungo respiro, affaticato dall’aria umida e dalla puzza di pioggia e di cenere di sigaretta, e pigiò la prima cifra sulla tastiera.

Zero.

Sfiorò il numero successivo, tirò indietro l’indice e si morse il labbro. Le immagini di quel che sarebbe successo gli corsero davanti, sovrapponendosi proprio come gocce di pioggia.

Il telefono avrebbe squillato a Casa Marcovaldo, giù a Portorosso. Chi avrebbe risposto? Alberto o Massimo? Quella telefonata improvvisa, in un orario così insolito, li avrebbe sorpresi dopo il ritorno dal lavoro in pescheria, sicuramente. Forse Alberto era appena tornato dall’apprendistato in officina. Lui e Massimo si stavano accingendo dunque a preparare la cena, a far bollire l’acqua per la pasta, a rosolare il soffritto per il sugo, ad affettare il pane, a pestare le foglie di basilico nel mortaio, o a curare le spigole che avrebbero venduto il giorno dopo.

Probabilmente Alberto era esausto, dopo una giornata di lavoro così intenso. Troppo esausto per permettersi di sprecare tempo ed energie dietro i problemi e i piagnistei di Luca. La vita di Alberto andava avanti, rapida e inarrestabile come una barca su cui soffia il vento in poppa, e Luca non ne faceva più parte. Non si trovava più a bordo di quella barca, ormai.

Perché dunque Luca avrebbe dovuto coinvolgere Alberto nei suoi problemi? Perché avrebbe dovuto affibbiargli questo peso, la responsabilità di consolarlo e di alleviare le sue pene? Non ne aveva più il diritto.

Già, non ne ho più il diritto.

Luca si morse il labbro fino a succhiare il sapore del sangue, strinse la mano sulla cornetta e ne graffiò la plastica.

Non ne ho più il diritto perché Alberto non fa più parte della mia vita.

Quell’ultimo pensiero sprofondò con la prepotenza di una coltellata al cuore.

Non spetta più a lui alleviare il peso di un dolore che ormai non ci accomuna più in nessun modo.

Luca batté le palpebre. Si strofinò gli occhi con il dorso della mano, risucchiò le lacrime in bilico fra le ciglia, e tornò con i piedi saldi sul pavimento della cabina telefonica. I lacci delle scarpe un po’ allentati dalla corsa così frettolosa che lo aveva catapultato lì dentro, gli orli dei jeans umidicci dell’acqua di pozzanghera.

Guardò fuori, attraverso le righe di pioggia che scendevano sempre più rapide dal tettuccio della cabina.

Paesaggio urbano. Un autobus azionò i tergicristalli, sgasò una nuvoletta di smog e abbandonò la fermata; una motocicletta parcheggiò sotto la tettoia della stazione; passanti riparati dagli ombrelli attraversarono le strisce pedonali e sfilarono sotto le luci dei semafori; le saracinesche dei bar cominciarono ad abbassarsi; e lo scampanellare del filobus svoltò l’angolo e uscì dalla piazza.

Tutto normale. Luca non si trovava in un acquario. Niente abissi, tantomeno squali feroci. In compenso, davvero tanta pioggia.

Di nuovo lucido e consapevole, Luca compose il numero della casa di Genova.

Giulia rispose dopo soli tre squilli. «Pronto, qui Casa Marcovaldo.»

«G…» Luca si strofinò di nuovo gli occhi e tirò su col naso. La voce di Giulia gli aveva attraversato il cuore – una sfrecciata calda e improvvisa – suscitando un singhiozzo di emozione e di dolore inaspettato. «Giulia.»

«Luca?» Qualcosa si mosse dall’altro capo della linea, uno sfregamento, come se Giulia avesse spostato la cornetta da un orecchio all’altro. «Luca, sei tu?» Una nota di allarme s’infilò nella sua voce che però suonava ancora troppo distante. «Dove sei? Da dove stai chiamando?»

«Da…» Luca tossicchiò. Allentò il bavero della maglia che si stava facendo stretto, soffiò un fiotto di fiato che si condensò in una nuvoletta bianca. «Da una cabina telefonica. Sono…» Buttò giù un groppo di saliva. «Sono in stazione.»

«In stazione?» Ci fu un’altra esitazione da parte di Giulia. «Ma cosa ci fai lì? Credevo fossi andato dal Signor Rizzi a comprare il mangime per Bruno.»

«Ecco…» Luca fece cadere lo sguardo per terra, dietro di sé, sul sacchetto cascato nell’angolo, sporcato di acqua grigia e gonfiato dal tubetto di mangime ancora impacchettato al suo interno. «S-sì, ci sono stato. Poi però sono tornato in stazione per prendere l’autobus e…» Respirò più forte, con maggior fatica. «E per tornare a casa, ma poi è…» Lo scroscio della pioggia aumentò di intensità e colò lungo le pareti della cabina, spingendo Luca a guardare verso l’alto e a compiere un passetto all’indietro, soffocato di nuovo dal terrore che il tetto potesse sfasciarsi sotto il peso del diluvio. «Poi però sono…» Ansimò. Le labbra raggelarono, socchiuse, e il fiato gli andò di traverso, strappandogli le ultime sillabe dalla lingua. Non riuscì ad andare oltre.

«Sei?» La voce di Giulia vibrò contro il suo orecchio. «Sei cosa?» Rimase il suo ultimo appiglio per non crollare. «Luca?»

Luca strinse il pugno libero contro il fianco, affondando le unghie nel polsino della manica, e tirò su un respiro sofferto. La bocca tremolò e le palpebre si gonfiarono, pizzicando come le guance.

Non poteva parlare, non poteva. Se avesse parlato poi sarebbe scoppiato a piangere, e non doveva succedere.

«Luca, ti prego» lo implorò Giulia, attraversata pure lei da un brivido di timore. «Rispondimi, non farmi spaventare. Stai bene? Cosa sta succedendo?»

Luca respirò a fondo, a lungo. Gli occhi ancora alti sul tettuccio della cabina. «Giulia…» Si tappò la bocca per frenare un singhiozzo. Lacrime bollenti sgorgarono dalle palpebre, si sciolsero lungo le guance, gli rigarono la mano ed evocarono due scie di squame fra le dita e le nocche. Luca premette il braccio sul viso, lasciò che fosse la manica del cappotto ad assorbire ogni goccia di pianto. Singhiozzò di nuovo. Gemette un minuscolo e disperato grido d’aiuto. «Mi vieni a prendere?»

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Capitolo 26
*** 26 ***


26

 

 

Luca spinse la cornetta del telefono contro l’orecchio, usò la mano libera per attraversare la fronte addolorata dall’emicrania, e affondò il tocco fra i capelli ancora tiepidi e umidicci, soffici per le ripetute soffiate di phon con cui si era asciugato da capo a piedi non appena aveva rimesso piede in casa. «Te l’ho detto» sospirò, rivolto al ricevitore, «non è una tragedia, non è successo niente di grave e io sto bene. Si è trattato solo un brutto spavento, tutto qui.»

Ma la voce di Alberto squillò allarmata contro il suo orecchio. «Uno spavento così brutto che ti ha paralizzato fuori casa e che ti ha costretto a chiamare Giulia e a farti venire a recuperare mentre eri in lacrime, imprigionato in una cabina telefonica nel bel mezzo di un nubifragio?»

Luca strinse i denti per sopprimere un gemito. Posò di nuovo le dita fra i capelli asciutti, accasciò il capo in avanti sbattendo la fronte sul ginocchio, e soffiò un altro sospiro, avvilendosi, schiacciato dai ricordi ancora così vividi, così grigi e così bagnati. «Per favore, non rigirare il dito nella piaga.»

«Se lo sto rigirando è perché…» La voce di Alberto tentennò e tornò subito alla carica. «Perché a quanto pare è una piaga ben più grande di quello che sembra, ecco perché.» Anche lui si concesse un sospiro sconfortato. «Luca…» Il tono più quieto ma non meno angosciato. «Non sono scemo. Secondo te non riesco a sentire quando c’è qualcosa che non va? Secondo te non dovrei preoccuparmi?»

Luca sollevò un lembo della coperta fin sopra la testa, tirandola giù come un cappuccio, e se la rimboccò attorno alle spalle ricurve da cui la stoffa stava scivolando. «Ma non c’è niente che non va, Alberto.» In questo modo nascose la camicia blu che aveva indossato dopo aver gettato i vestiti fradici di pioggia nella cesta della biancheria e subito dopo essersi asciugato con il phon. Represse un bruciante palpito di imbarazzo come se Alberto fosse stato in grado di vedergliela addosso sbirciando attraverso i fori della cornetta telefonica.

Non si sa mai…

L’idea di chiamare Alberto era stata di Giulia, perché Luca non voleva allarmarlo, non voleva che venisse a sapere nulla su quella storia. E anche perché si era vergognato di aver reagito così male a quell’incidente, di essersi fatto sopraffare dal panico e di essere quasi annegato nel mare delle sue lacrime, incapace anche solo di far scivolare la punta del piede fuori dalla cabina telefonica nel quale si era tenuto nascosto dopo aver chiamato Giulia in suo aiuto. Giulia aveva comunque fatto di testa sua e aveva telefonato a Portorosso mentre Luca si trovava ancora in bagno a cambiarsi gli abiti e a finire di soffiarsi il phon su squame e capelli. Ora si erano scambiati il turno, il bagno era occupato da Giulia, e il telefono era passato in mano sua.

Udendo la voce di Alberto, Luca si era sentito subito meglio e si era calmato, ma in realtà aveva smesso di piangere già prima di essere salito in casa.

Dopo aver ricevuto la sua chiamata, Giulia era saltata in bici ed era sfrecciata a prenderlo. Raggiunta la piazzetta della stazione, lo aveva trovato ancora rannicchiato nella cabina telefonica su cui la pioggia scrosciava come il soffione della doccia fa sulle pareti di vetro. Si era gettata ad abbracciarlo e lo aveva tenuto stretto fino a quando Luca non si era fatto passare i singhiozzi, come era successo quel pomeriggio nel bagno della scuola. Poi lo aveva infagottato per bene sotto due strati di impermeabile, gli aveva calcato in testa un berretto da pescatore, lo aveva caricato nel portabagagli della bici, e aveva pedalato fino a casa, incurante del diluvio che le aveva inzuppato i riccioli, infangato scarpe e pantaloni, e ghiacciato le guance e il naso. Luca aveva trascorso tutto il viaggio dalla stazione fino a casa tenendo le braccia allacciate alla pancia di Giulia e il viso schiacciato sulla sua schiena, nella speranza che nessun passante si accorgesse del suo muso di pesce e delle squame sbocciate sotto il berretto. Grazie al Cielo l’acqua che gli era grondata addosso non era stata così abbondante da fargli sbucare pure la coda.

«Alberto, ascolta…» Luca strusciò il braccio sotto il naso, raddrizzò le spalle indolenzite dalla tensione, fece tamburellare le dita sul tavolino del soggiorno e giochicchiò con un ricciolo del cavo telefonico. «Mi sono solo fatto prendere dal panico perché è scoppiato a piovere all’improvviso e io ero uscito senza ombrello e senza impermeabile. Mi sono un po’ bagnato, e mi è tornato in mente quando…» Si morsicò il labbro, affondò le unghie nella gomma del cavo, e le immagini che si susseguirono davanti ai suoi occhi furono fredde e penetranti proprio come gocce di pioggia. Nuvole, diluvio, arpioni, strada bagnata, Alberto ingarbugliato nella rete, occhi minacciosi e impauriti puntato su di loro, la piazza gremita da pescatori assetati di sangue, e il mare troppo distante per offrirgli rifugio. «Sì» tossicchiò, «mi sono tornati in mente i brutti ricordi.» Luca si grattò la guancia ancora tiepida, allungò i graffi fin sotto il bavero della camicetta, e spostò lo sguardo alle sue spalle, verso le sfumature azzurrine provenienti dall’acquario di Bruno. Il lento oscillare dei riflessi color acquamarina seppe calmarlo. «E quindi ho reagito peggio di quello che avrei dovuto. Si è trattato solo di questo, credimi.»

«Ma nessuno ti ha fatto del male, vero?» La voce di Alberto gli era vicinissima attraverso la vibrante cornetta del telefono. «Nessuno ti ha scoperto? Ti hanno aggredito?»

«No, Alberto.»

«Guarda che vengo lì a scazzottarli se…»

«Non devi venire a scazzottare nessuno, Alberto.» Luca sospirò e si diede un’altra massaggiata alla fronte, placando le martellate di un brutto mal di testa in agguato. «Sto bene, te l’ho detto. Non serve che ti preoccupi.»

«E come faccio a non preoccuparmi, Luca?»

«Io, ecco…»

«Luca…» La voce di Alberto suonò dura e seria, quasi da adulto. «Sei sicuro che è stata solo la pioggia a mandarti in crisi?» Un’esitazione. «Non è che è successo anche qualcos’altro?»

Luca ansimò facendosi piccolo sotto l’abbraccio della coperta. «Pe…» Deglutì. «Perché?» Si rosicchiò il pollice e guardò oltre le sfumature azzurrine dell’acquario, verso la zona più fonda del corridoio, verso la porticina del bagno dalla quale Giulia non era ancora uscita e dietro cui ruggiva l’eco del phon. «Cos’altro sarebbe dovuto succedere?»

«Sono io che te lo sto chiedendo.» Il tono di Alberto si ammorbidì, ma rimase saldo e protettivo come una mano stretta attorno alla spalla. «Guarda che a me puoi dirlo.»

Tenendosi avvolto dalla coperta, rintanato nel suo nido di stoffa – le ginocchia rannicchiate contro il bordo del tavolino e i piedi arricciati dentro le pantofole –, Luca rabbrividì come era rabbrividito all’interno della cabina telefonica.

Posso dirglielo?

Gli si annebbiò la vista. Il respiro si accorciò, il martellio del cuore gli batté nelle orecchie, una morsa di panico gli schiacciò il petto, e pungenti brividi di gelo gli accapponarono la pelle.

Sì, avrebbe potuto dirglielo. Avrebbe potuto rendersi capace di quello che non era stato in grado di fare quando aveva avuto la possibilità di sollevare il telefono della cabina e di chiamare Alberto in suo soccorso.

Avrebbe potuto rivelargli come avesse cominciato a sentirsi soffocare in mezzo agli umani, come nemmeno la vicinanza con il mare o il sostegno di Giulia riuscissero più ad attenuare le sue angosce. Avrebbe potuto confessargli della straziante nostalgia che provava pensando a lui, di tutte le notti in cui si era addormentato immaginando di essere avvolto fra le sue braccia e cullato dal suo respiro lento. O di come, ogni volta in cui chiudeva gli occhi e provava a immaginare il suo futuro, gli anni avvenire, tutto ciò che scorgeva era l’oblio di un fondale nero, privo di vita, dove nemmeno l’inquietante sorriso dello Zio Ugo riusciva a lampeggiare. E di come, anche nuotando verso l’alto, agitando la coda e allungando le braccia sopra di sé, si ritrovava sempre a sbattere il muso sugli scogli aguzzi, senza mai riuscire ad afferrare i colori della superficie, o a scorgere i raggi del sole e il tepore del giorno.

Posso davvero permettermi di confessargli tutto questo?

La camicia di Alberto era così soffice sulla sua pelle appena asciugata. Il suo profumo era così vicino, la sua voce limpida al di là della linea telefonica. La sua presenza sbriciolò ogni difesa di Luca, ma lo fece anche sentire al sicuro, quel che bastava per permettergli di crollare e di aprire il suo cuore, di confessare ogni singola parola, di vomitare fuori tutto quel dolore, di scaricarlo come i nuvoloni stavano scaricando il loro grigio e freddo diluvio su tutta Genova.

Luca quindi chiuse gli occhi, raccolse un breve respiro dal naso, strinse la presa attorno alla cornetta, aspettò che il cuore rallentasse, che i brividi si placassero, «Io…», e spezzò un vagito fra le labbra, «Io, ecco…».

La porta del bagno si spalancò e cigolò senza chiudersi. Un click!, e il ruggito del phon venne messo a tacere. Passi nudi schiaffeggiarono il parquet del corridoio, un’ombra attraversò i riflessi azzurrini dell’acquario, il profilo di Giulia si materializzò sulla soglia del soggiorno accompagnato dal fiammeggiare dei suoi capelli appena asciutti e spazzolati. «Che dice Alberto?» Giulia sfilò la spazzola dai riccioli, sventolò qualche ciocca lontana dalle guance arrossate dalla nube di vapore da cui era emersa, e i capelli le caddero dietro le spalle coperte solo dalle sottili maniche della canottiera. «Viene qui, vero?» Sputacchiò via un altro ricciolo che le era entrato fra le labbra e sollevò l’orlo dei calzoncini di spugna che le stavano cascando attorno alle anche. «Gliel’ho detto io che può venire qui anche immediatamente se…»

«No!» Dopo quel sobbalzo improvviso, Luca si massaggiò il ginocchio sbattuto sul tavolino e coprì il ricevitore in modo che Alberto non sentisse. «No, non…» Strinse i denti e abbassò la voce, di nuovo pervaso da un’ondata di insicurezza. «Non è necessario che venga. Io…» Scosse la testa e scacciò via un istintivo brivido d’irritazione. «Insomma, siete voi che ne fate una tragedia per…»

La voce di Alberto gracchiò qualcosa da sotto la mano di Luca ancora avvolta attorno alla cornetta.

Giulia emise un sospiro esasperato e alzò gli occhi al soffitto. Raggiunse Luca trascinandosi dietro un profumo dolce e tiepido di shampoo alla camomilla, si impadronì del telefono e lo accostò alla guancia. «Allora che combini?» Srotolò il cavo del ricevitore che le si era incastrato attorno al polso, infilò la spazzola sotto l’orlo dei calzoncini, e passò la cornetta da un orecchio all’altro. «Sei riuscito a tranquillizzarlo? Se solo avessi saputo…»

«Che cosa combino io?» abbaiò la voce di Alberto, così alta che persino Luca riuscì a udirla. «Che cosa combini tu, piuttosto. Lo sai che la responsabilità di Luca è tua quando siete lì a Genova.»

Giulia fece stridere le unghie sulla cornetta e strinse i denti. «Oh, certo» ringhiò, «perché ora riesco anche a controllare la pioggia, a quanto pare.»

Luca tese la mano verso di lei. «Ragazzi…»

«Non far finta di non capire» esclamò Alberto, sempre contro l’orecchio di Giulia. «Perché non lo hai fatto uscire almeno con l’ombrello, si può sapere?»

«Perché quando è uscito di casa c’era un sole che spaccava le pietre.» Giulia slanciò il braccio al soffitto come per invocare la testimonianza divina. «Chi poteva immaginarlo che sarebbe scoppiato a piovere?»

Luca arrivò a sfiorarle il braccio ancora tiepido di doccia. «Giulia, ascolta…»

«Be’» sbottò Alberto, nonostante avesse perso un po’ di tono, «e se si fosse imbattuto in un altro agguato? Come l’anno scorso con il gavettone?»

Giulia stropicciò le estremità delle sopracciglia in un’espressione di stizza. «Sai, non è che la gente va in giro per strada con i secchi di gavettoni.»

«Se tu fossi stata lì con lui almeno si sarebbe risparmiato la crisi.»

«E dove credi che io sia, adesso?» Giulia piantò l’indice verso il pavimento e pestò il piede nudo sul parquet. «Qui con lui, al contrario di te che sei solo capace di sbraitarmi addosso e di accusarmi per qualcosa che…»

«Ragazzi!» Il grido di Luca rimbalzò fra le pareti del soggiorno, squillò attraverso la cristalleria che decorava le mensole, destò Nerone che sollevò il muso dalla cuccia, e l’eco di quel piccolo rimbombo si mescolò al costante ronzio del filtro dell’acqua – bzzz – proveniente dall’acquario allestito nel corridoio.

Il lento e regolare tic, toc dell’orologio a pendolo scandì il cupo e freddo silenzio che era piombato su tutto l’appartamento.

Luca rannicchiò le ginocchia contro il tavolino, si coprì la bocca con il dorso della mano e arrossì da sotto il cappuccio della coperta, imbarazzato dal suono della sua stessa voce, dallo squillo di quel grido così insolito. Grufolò un paio di tossiti e recuperò il controllo. «Sentite…» Dosò per bene i respiri – aria dentro, aria fuori – proprio come aveva fatto per placare i singhiozzi di pianto quando si era trovato prigioniero della cabina telefonica. «Apprezzo che voi vi preoccupiate per me e tutto il resto. Ma non voglio che litighiate.» Si rimboccò la coperta e scosse la testa. «Non per un problema che ho causato io.»

Giulia fece scivolare la cornetta dall’orecchio alla guancia, flesse il capo di lato mostrando un’espressione più mite ma ancora addolorata. «Luca…»

Il telefono, attraversato dalla voce di Alberto, «Te l’ho detto che gli sono ricominciate le paranoie», tornò a vibrare fra le sue dita.

Luca fece roteare lo sguardo e si massaggiò la fronte martellata dall’ennesimo rimbombo di emicrania. «Non mi sono ricominciate le paranoie» sospirò. «Ho solo…» Hai cosa, Luca? Le paranoie, ecco cosa. «Sto bene, lo giuro.» Alzò le mani in segno di resa. «E giuro anche che starò più attento, soprattutto ora che è cominciata la primavera e che il clima è così imprevedibile.»

Giulia si avvicinò di un passo. «Luca…» Si accostò con le sue premure, con la dolcezza trasparita dai suoi occhi nocciola, circondata dal profumo di borotalco e di shampoo alla camomilla. «Sai che io e Alberto ci preoccupiamo solo per il tuo bene, e…»

«Allora non litigate più.» E soprattutto smettetela di trattarmi come se io non fossi in grado di badare a me stesso. Anche se in effetti è vero. «Se davvero volete il mio bene, allora smettetela di bisticciare e fate la pace.»

Giulia corrugò un sopracciglio, arricciò una smorfia di dubbio ed esitazione. Alzò gli occhi al soffitto, arresa. Fece rimbalzare la cornetta da una mano all’altra e la tornò ad accostare all’orecchio. «Sentito, Alberto?»

«Sentito, sentito» replicò lui, sfilandosi la corazza e posando a sua volta l’ascia di guerra. «Pace?»

«Pace fatta, d’accordo.» Giulia sollevò la mano aperta per siglare il giuramento solenne. «Prometto di non attaccare più briga. E prometto anche di stare più attenta a Luca, da ora in poi.»

«Tenetevi d’occhio a vicenda, piuttosto» puntualizzò Alberto. «Anche tu ti sei bagnata, no? Sicura di non esserti presa un accidenti?»

Giulia avvolse la mano attorno alla guancia arrossita di emozione, e la curva delle sue labbra si sciolse in un sorriso intenerito. «Aaaw, ma sei proprio dolcino-dolciotto a preoccuparti per me. Sta’ tranquillo, fratellone, sto benissimo. Ecco…» Si chinò verso Luca per cedergli il telefono. «Ti passo Luca, così intanto finisco di asciugarmi i capelli e di vestirmi. Ah…» Ancora curvata in avanti, tornò a premere il telefono sulla guancia e si pettinò una ciocca svolazzante dietro l’orecchio. «E da’ un bacio a papà da parte mia. Salutamelo tanto.»

«Agli ordini.»

Rasserenata, Giulia passò il ricevitore a Luca. «Tu rimani buono qui.» Gli strofinò la testa ancora incappucciata dal lembo di coperta. «Io finisco di sistemarmi e poi magari metto su qualcosa di caldo, okay?»

Luca raccolse il telefono con entrambe le mani, «O-okay», ma ancora non lo appoggiò all’orecchio. Prima di vederla scomparire in corridoio, si girò verso Giulia che era già arrivata alla soglia del soggiorno. «Ah, Giulia…» Il suo richiamo la fece fermare. «Grazie…» Luca inspirò, rilassò la tensione accumulata sulle spalle, placò le pulsazioni dell’emicrania, e distese un piccolo ma sincero sorriso di gratitudine che gli ridiede colore alle guance. Fu finalmente in grado di parlare a cuore aperto, senza la morsa dell’ansia ad attanagliargli la gola. «Grazie per essere venuta a prendermi.» Il suo sguardo si soffermò sui capelli ancora umidi e spettinati di Giulia, sul viso arrossato dalla doccia fuori programma, sugli abiti di ricambio che aveva staccato dalle mollette del bucato. «Mi dispiace che tu ti sia presa tutta quella pioggia.»

Giulia sorrise, spontanea, come se quel problema non fosse nemmeno esistito, e sollevò due dita a forma di V. «Orzo per due?»

Luca annuì e ricambiò il gesto. «Orzo sia.» Giulia s’infilò in corridoio e i suoi passi si dissolsero in direzione della cucina. Rimasto solo, Luca chiuse gli occhi, si strinse nella coperta, e parlò al telefono. «Alberto?»

Un fruscio dall’altro capo della linea. «Sono tutto qui per te.»

Luca si concesse il tempo di un respiro, di un brivido tiepido, per riabituarsi alla sensazione della voce di Alberto giunse a solleticargli l’orecchio. «Scusa se prima ho gridato.» Sgarbugliò il cavo del ricevitore e guardò per terra, afflitto da un crampo di amara colpevolezza. «Non avrei dovuto. Tu e Giulia vi stavate solo preoccupando.»

«Ehi» ridacchiò Alberto, «che male c’è? Sarebbe strano il contrario, piuttosto. Ogni tanto ci vuole un po’ di sana rabbia, fa circolare meglio il sangue e schiarisce le idee. Ora ti senti un po’ meglio, vero?»

«Sì.» Luca si strofinò il naso, tenne alti gli angoli del sorriso. «Sì, ora sto meglio, sul serio.» Però assieme al sollievo insorse pure un’ondata di tristezza, lo stesso peso di ghiaccio che gli si era rovesciato addosso quando si era trovato all’interno della cabina telefonica, quella stessa straziante nostalgia che lo aveva quasi convinto a comporre il numero di Alberto per farsi venire a recuperare da lui anziché da Giulia. Luca girò lo sguardo verso il corridoio, verso l’acquario di Bruno, attratto dall’ondeggiare azzurro dei neon che, in qualche maniera, spandendosi sulle pareti e lungo il pavimento, lo ricondussero a casa, proprio come stava facendo la voce di Alberto. «Alberto, ascolta, non…» Luca sventolò via la questione con un cenno di mano, sentendosi comunque in dovere di rassicurarlo. «Non ti preoccupare troppo per quello che è successo oggi, d’accordo? Vedrai che non è niente. Starò solo soffrendo un po’ di nostalgia perché fra un po’ sarà estate, perché gli ultimi mesi di scuola sono sempre i più pesanti, e perché ultimamente ho avuto molto da studiare, e anche perché il brutto tempo mi mette di cattivo umore.» Tutto ciò non suona molto di conforto. «Ma sono sicuro che quando tornerò a Portorosso mi sentirò meglio.»

«Sicuro che ti sentirai meglio.» Alberto non sembrò nutrire alcun dubbio a riguardo. «Ma non voglio comunque che tu ti strazi l’anima e che tu soffra inutilmente. Guarda che la mia promessa è ancora valida. Basta solo che tu faccia un fischio e io salgo sul primo treno per venire lì da te. E se non ci sono treni vengo su a nuoto.»

Luca sorrise. «Lo so, Alberto.» Ma sentì che dietro quel sorriso si celava l’ombra di un dubbio, di un dilemma vecchio tanto quanto la loro amicizia. «Lo so che lo faresti.» E lo so che mi sentirei subito meglio nell’averti qui vicino a me. È per questo che non posso permetterti di raggiungermi. Non devo abituarmi all’idea che sarai sempre tu a risolvere ogni mio problema. Devo imparare a cavarmela unicamente con le mie forze. «Ma non sarà necessario, te lo giuro, perché sarò io a tornare da te.» Si morsicò la lingua. «Cioè…» Avvampò come un’aragosta bollita. «Sì, cioè, a tornare a Portorosso.» Si strofinò la nuca, a capo basso, e arricciò le dita dentro l’imbottitura delle pantofole. Il bruciore gli divorò le guance. «Da te, da mamma e papà, da Massimo, dai gatti. In quel senso

Alberto rise. «Ovvio» gli disse. «Ovvio che tornerai da me.» Ci fu un tossicchio, una piccola esitazione anche da parte sua. «Ovvio che tornerai da me in quel senso. Nel senso qui da noi. Qui a Portorosso.»

Udendo Alberto ridere così spontaneamente, a Luca sembrò davvero di averlo lì vicino a lui, come se si fosse trattata di una di quelle notti d’estate che ancora amavano trascorrere da soli in cima alla loro torre. Si sentì in grado di stringersi al suo fianco, di levare gli occhi verso il cielo stellato, verso l’occhio vigile della Luna, e di potergli dire tutto, confessandogli ogni dubbio, ogni paura.

Luca fece scivolare la mano sotto la coperta, raggiunse la stoffa della camicetta, quel profumo che lo avvolgeva come una seconda pelle. «Mi manchi, Alberto.» Strinse la mano. Le dita tremolarono come la sua voce. «Tanto.» Inghiottì il fiato e frenò il principio di un pianto che era salito a pizzicargli le guance e le palpebre. Ma quelle sarebbero state lacrime diverse da quelle che aveva versato in solitudine. Lacrime di tutt’altro sapore, lacrime dolci e pungenti. Lacrime che lo avrebbero alleggerito da quel peso, che lo avrebbero lasciato libero di confessare tutto, la mancanza che aveva sempre provato standogli distante, il bisogno della sua vicinanza, e di quanto si vergognasse nell’ammetterlo.

Alberto inspirò un sospiro dall’altro capo della linea. «Ehi, ma anche tu mi manchi, testolina.»

Luca sorrise, ma fu un sorriso triste. Riconobbe il suono di quel sospiro, quel modo che aveva Alberto di mostrarsi più forte di quello che era. Per Luca fu dura recepire quel dolore, ma non poté fare a meno di sentirsi sollevato nel realizzare che anche Alberto soffriva almeno un pochino la sua mancanza. «Che sciocchi che siamo» ridacchiò. «Tutti questi anni e ancora non ci siamo abituati all’idea di – ah!» Raddrizzò la schiena e resse il telefono con entrambe le mani, come per non lasciarselo sfuggire. «Alberto, aspetta, prima che mi dimentichi…» Strinse i denti e si concesse il tempo di un sospiro per darsi coraggio. Ora veniva la parte difficile. «Devi farmi una promessa.»

«Anche mille.»

«Me ne basta una.» Luca chiuse gli occhi. Attraverso il buio calato fra le sue palpebre, si sforzò di non immaginarsi la scena. «Non dire niente alla mamma e al papà di quello che è successo oggi, della pioggia, della telefonata, e di tutto il resto. Soprattutto fa’ che la mamma non venga a sapere niente, lo sai che anche lei si agita troppo per nulla.»

Ci fu un breve silenzio da parte di Alberto. A Luca parve proprio di poter scorgere il suo cipiglio di incredulità fissarsi sulla cornetta del telefono. «Come faccio a non dirglielo? Se…»

«Se venissero a sapere che mi è successo…» Luca fece mulinare la mano. «Sì, insomma, che mi è successo quello che mi è successo, di certo si spaventerebbero, e potrebbero anche decidere di farmi tornare a Portorosso. Potrebbero costringermi, capisci? Manca poco alla fine dell’anno scolastico, e non voglio mollare tutto per colpa di uno spauracchio da niente.» Non era del tutto convinto che quello che stava subendo si potesse definire “uno spauracchio da niente”, ma decise di sorvolare. «Me lo prometti, Alberto?» Slargò i suoi luccicanti occhioni da cucciolo come se Alberto fosse stato in grado di vederli e di cadere nel loro incantesimo. «Per favore.»

Alberto mozzò una sillaba e tacque di nuovo. Si udì un breve fruscio – la sua mano che stringeva la cornetta – e un piccolo stridio dei denti, il fiato trattenuto che borbottò in fondo al petto. Poi però gli bastò un sospiro per cedere. «Va bene, va bene, lo prometto» si lagnò di controvoglia. «Ma tu mi devi promettere invece che non ti allontanerai più troppo da casa senza Giulia e che da ora in poi ti porterai dietro un ombrello in ogni caso, anche con il sole a spaccare le pietre e con trenta gradi all’ombra. Promesso?»

Luca alzò gli occhi al soffitto ma non protestò. Sapeva che sarebbe stato inutile discuterne. «Promesso, d’accordo.»

Alberto ridacchiò, «Su, su, forza e coraggio», una risata che aveva la stessa energia di una pacca sulla schiena. «Pensa piuttosto a quante cose faremo assieme quest’estate, quando tu e Giulia tornerete a Portorosso. Vedrai, ci penserò io a farti dimenticare tutte queste rogne.»

«Conto su di te.»

«Lo so, lo so» si vantò Alberto. «Sono sempre il migliore per queste cose.»

Luca sorrise, lasciandosi intrigare. «Hai già in mente qualcosa?»

«Assolutamente.» La voce di Alberto si animò di una scintilla, splendette come se non avesse aspettato altro che ricevere quella domanda. «Stavo pensando proprio di modificare un po’ il motore dell’Ape e magari di aggiungere degli alettoni in modo da renderla un po’ più aerodinamica e – ah! E pure di sostituire le ruote con dei modelli più larghi e spessi, così da renderla più stabile in curva. Non che abbia molta importanza, dato che il mio prossimo obiettivo è quello di farle spiccare il volo.»

Luca si massaggiò la fronte e le tempie, lasciandosi però solleticare da una risata. «Non oso nemmeno immaginarmelo.»

«Immaginalo, invece» controbatté Alberto. «Immaginalo finché vuoi, anche perché tu e Giulia sarete seduti sul retro e collauderete il primo volo assieme a me.»

«Devo smetterla di inviarti libri sulle costruzioni di Leonardo da Vinci» considerò Luca. «Ti fanno venire in mente idee troppo strampalate.»

«Cheee?» Alberto lanciò un gridolino inorridito. «Vorrai dire le idee più geniali del millennio, altro che strampalate

«Lo vedi che non è poi così tragico leggere qualche libro, di tanto in tanto?»

«Te lo concedo. Ma lo sai che i libri di favole rimarranno sempre i miei preferiti.»

«Ce la metterò tutta per trovare qualcosa di meno pericolante, allora. Tipo… oh!» Luca sollevò l’indice verso un pensiero geniale appena sbocciato sopra la sua testa. «Tipo le Favole di Esopo. Quelle ti erano piaciute, no? Magari potrei trovare qualcosa di Fedro, questa volta. Sono molto simili, e sono tutte storie brevi, così riuscirai a leggerle d’un fiato senza distrarti troppo.»

«Basta solo che siano favole piene zeppe di gatti» si rassicurò Alberto. «E piene di volpi.»

Scese un rispettoso silenzio d’intesa in cui entrambi capirono di star pensando alla stessa cosa. Le stesse immagini fioccarono davanti ai loro occhi, ricordi preziosi bisbigliarono alle loro orecchie e li ricondussero a un passato non troppo lontano. Un sorriso più roseo e spontaneo fiorì sulle labbra di Luca. «Perché ti fanno pensare a noi due?»

«Ooh, Luca» sospirò Alberto. «Come se avessi bisogno di leggere un libro per riuscire a pensare a – ah! Ecco un’altra cosa che ho trovato da fare quest’estate! La prima cena che passeremo assieme vi farò assaggiare gli gnocchetti alla romana che Massimo mi ha appena insegnato a cucinare. Be’, teoricamente sono ancora nel forno, e nemmeno io li ho ancora provati, ma basta sentire il profumo per capire che sono una delizia.»

«Hai la cena in forno?» Luca si sporse a lanciare un’occhiata all’orologio che ticchettava sopra l’angolino della televisione, affianco al mobile della libreria. Solo in quel momento si accorse dell’ora tarda. «Cielo, scusa, non mi ero nemmeno accorto che si fosse fatto così tardi. Ti lascio andare a mangiare, allora, starai morendo di fame.»

«E quando mai io non muoio di fame?» Risero tutti e due. «Ma è stato bello sentirti, Luca, a prescindere…» Uno strofinio ruvido. Forse si era grattato la testa. «Be’, a prescindere dalla circostanza. Sta’ tranquillo, okay?» Alberto raddolcì il tono. La pacca sulla schiena si trasformò in un’affettuosa strofinata fra i capelli. «Vedrai che andrà tutto bene. Se te lo dico io ti fidi, vero?»

«Sempre.» E Luca glielo aveva assicurato anche in cima alla loro torre, sotto la trapunta di stelle, con la Dama Luna a benedire quel giuramento e a vegliare sulla loro amicizia. Io mi fiderò sempre di te, Alberto.”

«Lo sai che di te mi fiderò sempre.» Luca strinse il telefono accostato alla guancia, si concesse quei pochi ultimi istanti per rimanere aggrappato ancora un po’ alla presenza di Alberto, prima di abbassare il ricevitore e lasciarlo andare, spegnendo quella luce e soffiando sul tepore di quel conforto. «Ciao, Alberto.»

Si salutarono e riappesero la chiamata.

Luca rimboccò la coperta di lana, la strinse per bene attorno alle spalle – non aveva sofferto il freddo nemmeno per un istante, stando al telefono con Alberto –, sentendola pesare come un sudario che però lo proteggeva e lo aiutava a sentirsi al sicuro. Piegò le ginocchia al petto, vi posò una guancia sopra, e avvolse le gambe in un abbraccio, cullandosi avanti e indietro, avanti e indietro, come un bambino triste.

Dal corridoio giunse l’eco dello spadellare che Giulia stava muovendo dalla cucina. Pentole rimosse dalle grate del lavello, le tazze disposte sul vassoio, i cucchiaini sfilati dal cassetto delle posate, e lo scoppiettio di accensione del fornello a gas.

Sara non era in casa. Era partita il giorno prima per tenere una mostra nel Sanremese, e sarebbe rimasta fuori per tutto il fine settimana, tornando solo la domenica sera. Quindi i ragazzi erano da soli.

Luca girò il capo poggiando l’altra guancia sulle ginocchia, chiuse gli occhi, accostò il naso al bavero della camicetta blu, e inspirò il profumo di Alberto che era ancora vivo e palpitante, nonostante tutto il tempo che era trascorso dall’ultima notte in cui l’aveva indossata. E dal giorno in cui Luca l’aveva portata via da Portorosso. Ma Luca l’aveva indossata poche volte. Talmente poche da poterle contare sulle dita di una mano. Aveva troppa paura che il profumo di Alberto svanisse. Quando si trattava di doverla riporre nel guardaroba, la infilava sempre nei cassetti più profondi, e sempre avvolgendola in una busta di nylon, in modo che Sara non rischiasse di lavarla assieme al resto dei suoi abiti.

Ma quella sera Luca aveva ceduto. Aveva scartato la camicetta dall’involucro, l’aveva indossata dopo aver gettato gli abiti bagnati nel cesto della biancheria sporca e subito dopo essersi passato il soffio del phon su ogni singola squama.

Si dondolò ancora un po’, beandosi del semplice fatto di sentirsi così vicino alla presenza di Alberto. Inspirò a fondo il profumo di salsedine, di foglie di basilico e di olio per motori. Fu facile aggrapparsi alla voce di Alberto, a quell’eco di risata che ancora gli vibrava dietro l’orecchio, lì dove aveva tenuto poggiato il telefono. Fu facile immaginare di stringergli la mano e di lasciarsi trascinare a Portorosso, lì dove giaceva l’altra metà del suo cuore.

In cucina, la Bialetti gorgogliò, i cucchiaini tintinnarono sui piattini, e passi felpati dalle pantofole percorsero il corridoio. Giulia attraversò la soglia del soggiorno reggendo il vassoio su cui aveva disposto le due tazze di caffellatte fumante. «Per fortuna era avanzato un po’ di latte in frigo» annunciò. «Credevo di averlo finito stamattina, ma c’era ancora mezza bottiglia infilata proprio in fondo, dietro i cetriolini.» Aveva finito di asciugarsi i capelli e li aveva legati in una disordinata e vaporosa coda di cavallo che le dondolava sopra il largo colletto del maglione rosso che di solito indossava solo durante le oziose serate del fine settimana. Giulia scalciò via un cuscino che era caduto dal bracciolo del divano e si fece spazio. «Però devo ricordarmi di aggiungerlo alla lista della spesa. Domani dobbiamo assolutamente prendere minimo due litri, in modo che ci avanzi fino a lunedì.» Si sedette a gambe incrociate sul pavimento, sistemò il centrotavola del tavolino da caffè e ci poggiò il vassoio sopra. «Ecco, tieni.» Offrì una tazza a Luca. «Occhio ché scotta.»

Luca accettò con un sorriso. «Grazie.» Avvolse le mani attorno alla ceramica bollente, inspirò il vapore dolce e aromatico dell’orzo che era simile a quello del miele e del cacao, e gli bastò il tocco di quel tepore, l’umido solletico sulla punta del naso, per farlo sentire meglio. Sorseggiò l’orzo dolce al punto giusto, come piaceva a lui. Si leccò le labbra e soffiò un sospiro, liberandosi del peso che gli si era ammassato nel petto.

Giulia pescò il cuscino che prima aveva scalciato, se lo sprimacciò dietro la schiena, strinse le gambe incrociate sotto il tavolino e sventolò la coda di cavallo dietro la spalla. «Alberto che dice?» Raccolse la sua tazza dal vassoio, soffiò sul vapore che s’inclinò. «È riuscito a tranquillizzarti almeno un po’, sì? Te l’avevo detto che fargli una telefonata era la soluzione migliore.»

Luca sospirò una seconda volta. «Ora sto bene.» Fece tamburellare le dita sulla tazza e schivò lo sguardo di Giulia. «È come ha detto lui: vedrai che quando tornerò a Portorosso mi passerà tutto.»

«Io però sono ancora un po’ preoccupata, in verità.» Giulia compì un piccolo saltello, si fece più vicina a lui urtandogli la gamba col ginocchio. «Luca, sei sicuro…» Flesse il capo in avanti. I suoi occhi lo cercarono, apprensivi e addolorati come si erano mostrati quando lo avevano trovato in lacrime nel cantuccio della cabina telefonica. «Sei proprio sicuro che non ci sia nient’altro, dietro a tutto questo? Qualcosa che non mi hai detto?»

Luca strinse le spalle sotto la coperta, incassando il violento peso di quelle parole che erano saettate attraverso il petto.

Acc… pure Giulia?

Si rosicchiò le unghie.

Sia lei sia Alberto mi hanno fatto la stessa domanda. Il mio stato d’animo è davvero così trasparente? Oppure sono loro due quelli a essere diventati fin troppo perspicaci nei miei confronti?

Giulia gli sfiorò la spalla avvolta dalla coperta. «Ormai è da troppo tempo che fai sembrare queste tue angosce come qualcosa di temporaneo.» La voce bassa e premurosa come lo era stata la volta in cui lo aveva consolato dopo l’incidente della pizza, quando erano rimasti abbracciati vicino al tavolo sporcato dalla farina rovesciata. «Dici di stare bene, che ti passerà tutto, poi però questi episodi si ripresentano sempre. Sei proprio sicuro che non ci sia qualcosa che non va?»

Luca scosse il capo, piegò la spalla per farla scivolare da sotto il suo tocco. «Giulia…»

«Non è che qualcuno ha scoperto il tuo segreto?» insistette lei. «È successo qualche altro incidente a scuola?»

«No.»

«Qualcuno fa il gradasso con te, forse? Se vuoi ci penso io a dargli una lezione.»

«No, no, niente di tutto questo, lo giuro.» Luca chiuse gli occhi, strinse le mani attorno alla tazza bollente. «È solo…» Un tremolio gli attraversò il respiro, gli spezzò le parole sulla lingua.

«Solo cosa?» Giulia spostò il tocco lungo la sua schiena ricurva, lo sostenne con un’energica strofinata. «Ehi, lo sai che a me puoi dire tutto. Ti ascolto.»

Luca si rosicchiò il labbro umettato di caffè d’orzo. Trattenne il respiro, sentendo accumularsi di nuovo il peso di quel segreto, di quella confessione, di tutti i singhiozzi che aveva inghiottito piangendoci sopra. Trovò il coraggio di guardarla negli occhi, si affidò alla dolcezza della loro luce, alla bontà trasmessa dal suo buffo viso puntellato di lentiggini. «Giulia, io…» La corazza si sgretolò, incrinata dalla voce di Alberto con cui si era appena confidato, disciolta dagli scrosci di pioggia che lo avevano travolto fuori casa, screpolata dai singhiozzi che gli avevano martoriato il petto quando Luca si era ritrovato intrappolato nella cabina. «Tu…» Raccolse un respiro profondo, fece tintinnare le unghie sulla tazza bollente, si smarrì fra gli arabeschi di vapore profumato. «Tu credi che io appartenga sul serio a questo mondo?»

Giulia si tirò indietro di scatto. «Eh?» Sbatacchiò le palpebre, frastornata e allibita davanti all’assurdità di quella domanda. «Cosa…»

«Qui in superficie, intendo» specificò Luca. «Secondo te io ho…» Si passò una mano fra i capelli ancora tiepidi di phon, massaggiò il collo irrigidito di tensione. «Ho il diritto di condurre una vita normale, da ragazzo normale, anche se…» Scrollò le spalle. «Anche se non lo sono?»

Giulia rimase basita dinnanzi a una simile questione. Il palmo ancora aperto sulla schiena di Luca e la tazza d’orzo a fumare nell’altra mano.

Per quegli istanti ci fu solo il silenzio, lo scricchiolio della ceramica bollente, il ticchettio dell’orologio a pendolo, il ronzio dell’acquario proveniente dal corridoio, e la sensazione umida e profumata del vapore che sorgeva dalle loro tazze.

Giulia ruppe il silenzio attraverso un sospiro. «E quando mai non ne hai avuto il diritto?» disse. «Io credevo…» Poggiò la tazza sul vassoio, salì sulle ginocchia e fronteggiò lo sguardo di Luca. «Luca, ormai credevo che questi discorsi ce li fossimo lasciati indietro. Credevo che tu non avessi più bisogno di sentirti dire qualcosa del genere. Pensavo che fosse scontato.»

«Be’» farfugliò lui. «A quanto pare non lo è.» Non più come lo era una volta, almeno.

«Lo hai detto anche ad Alberto?» gli domandò Giulia. «Questa cosa, intendo, questo…» Stropicciò fra le dita una manica del maglione. «Questo tuo dubbio…» Gli indicò il telefono con un cenno del capo, un guizzo delle sopracciglia. «Lui lo sa? Ne avete parlato?»

Luca arricciò la punta del naso. Parlato? «Che senso avrebbe parlarne con Alberto?» Il succo del problema era proprio quello, dopotutto. «Le nostre vite ora sono del tutto diverse. La situazione in cui viviamo è completamente differente. Anche se mi confidassi…» Raccolse un lembo della coperta e la chiuse attorno al petto, in modo da nascondere il blu della camicetta. «Lui come potrebbe aiutarmi?» Scosse il capo, avvilito e rassegnato. «Non capirebbe.»

Lo sguardo di Giulia si smarrì fra i vapori dell’orzo. Gli occhi lontani e sfuggevoli come quelli di una Sibilla che rigira le pietre divinatorie, che pesta le erbe essiccate nel mortaio, e che accende bastoncini di incenso per evocare le immagini di un passato oscuro e distante. «Ora ho capito.»

«Capito?» Luca tornò a voltare la guancia, guardò Giulia attraverso il vapore. «Capito cosa?»

Giulia scese dalle ginocchia e si lasciò cadere seduta. «Qualche estate fa…» Tornò a raccogliere il cuscino, se lo sistemò sulle gambe incrociate, vi affondò i gomiti e raccolse la sua tazza con entrambe le mani. «Quando eravamo sul rifugio sull’albero, e avevamo già fatto un discorso simile, quando tu avevi confessato di voler tenere nascosta la tua identità nella scuola nuova, e quando Alberto ti ha detto che era una decisione assurda tu gli hai risposto proprio così.» Scrutò attraverso il fumo proprio come se fra gli arabeschi di vapore si fossero riassemblate le immagini di quella notte, tutti i loro ricordi e le loro parole. «Gli hai proprio detto “Non capiresti”, con lo stesso tono. E Alberto ti ha lanciato quell’occhiata tremenda.» Bevve dalla sua tazza e storse le labbra, come se avesse appena sorseggiato aceto. «Ora capisco sul serio a cosa ti stessi riferendo.»

Quel ricordo si rovesciò addosso a Luca come uno scroscio del diluvio che fuori casa stava ancora inondando tutta Genova. Luca tornò sul loro rifugio, circondato dal profumo di foglie di ulivo e di vernice per legno. Ripensò all’occhiata truce di Alberto, quello sguardo che lui aveva schivato. All’aria che si era raggelata nonostante l’afa di fine luglio. Solo ora fu in grado di rendersi conto quanto la sua frase dovesse aver ferito Alberto. «È stato così tremendo? Quando…» Un brivido di timore gli chiuse lo stomaco. «Quando l’ho detto?»

Giulia si strinse nelle spalle, fece tamburellare le unghie sulla tazza. «Per lui.» Annuì tenendosi curva sotto quella nuvola di tristezza. «Per lui sicuramente deve esserlo stato. Almeno un po’.»

Nonostante non ci fosse alcun tono di accusa da parte di Giulia, Luca si sentì lo stesso sprofondare, inghiottito dal rimorso. «Che stupido.» Affondò le mani fra i capelli, strinse la nuca, lì dove il peso di quel ricordo bruciava e martellava, e picchiò la fronte sul ginocchio. «Che stupido sono stato. Ancora una volta…» Inspirò a fondo dal naso, aggredito da un perforante conato di nausea. «Ancora una volta ho pensato solo a me stesso. E non a lui.» Lo sguardo si perse, vacillò nel vuoto. «Non mi merito Alberto.» Luca fece un altro tentativo di salvarsi, di aggrapparsi ad altri ricordi di loro due assieme. Ricordi felici. «Non mi merito un amico come lui che…» Le sue braccia strette al torso di Alberto durante i salti in Vespa dalla scogliera, le loro mani giunte per darsi coraggio, le loro grida di esultanza durante una corsa lungo il pendio dell’isola, la sua semplice ma rassicurante vicinanza sotto il cielo stellato. «Che continua a sopportarmi anche se io…» Lo schiaffeggiò un altro ricordo. Il ricordo di un lontano e cupo tramonto rossiccio. I piedi nudi sui ciottoli della spiaggia, gli occhi di Alberto bagnati di dolore, la sua coda blu che svaniva inghiottita dall’accavallarsi delle onde. «Io…»

«No, no, su.» Giulia gli strofinò la spalla. «Su, su, non è vero che non lo meriti.» Una piccola pacca di incoraggiamento. «Solo il fatto che tu ti preoccupi dimostra che la tua amicizia è sincera. Ma è anche ovvio che queste cose vanno chiarite, e fidati se ti dico che non è mai troppo tardi per parlarne. Puoi ancora confidarti con lui. E magari scopriresti che in realtà lui ti capisce più di quello che credi. Magari Alberto non sta vivendo la tua stessa situazione, ma forse anche lui ha sofferto i tuoi stessi dubbi per tanto tempo, in passato, quando…» Un fremito di esitazione le incrinò la voce. «Quando ancora non vi conoscevate.»

Luca incassò un altro colpo all’anima.

Quando ancora non ci conoscevamo…

Non era un’immagine facile da visualizzare. Chi era stato Alberto prima di conoscere Luca? Da quali fondali era arrivato prima di emergere in superficie? Quale esistenza si era lasciato alle spalle decidendo di vivere assieme a Massimo e agli umani?

E se fossi sempre stato io quello che non è mai realmente riuscito a capire Alberto, e non il contrario?

«Io…» Luca si abbandonò a un piagnucolio sconfortato e di nuovo scosse la testa, schiacciato da tutto quel peso che ormai sentiva di non essere più in grado di sostenere. «Io non so più cosa pensare, Giulia.»

Invece lei gli sorrise, sembrò addirittura tranquillizzarsi. «Hai ragione» gli sorrise, «forse è un po’ troppo da affrontare tutto in una giornata sola.» Gli passò un’affettuosa carezza fra i capelli e gli aggiustò la coperta attorno al capo. Un gesto protettivo. «Sei stanco, vero? Hai una faccia.»

Luca tirò su col naso e le sorrise da sotto il cappuccio di lana. «Sopravvivrò.»

«Chiaro che sopravvivrai» rise Giulia. «Intanto occupiamoci di un problema alla volta, tipo – oh!» Fece schioccare le dita. «Tipo possiamo controllare le previsioni alla tele per vedere se ci saranno altri acquazzoni durante la prossima settimana. Così ci organizziamo per tempo.»

«Forse è un po’ tardi per le previsioni.» Di nuovo Luca lanciò un’occhiata all’orologio incastonato vicino al mobiletto del televisore. «Dovrebbe essere già cominciato il…»

«Ora si vedrà.» Giulia gattonò oltre il tavolino da caffè, raggiunse il televisore e pigiò il pulsante di accensione.

Dallo stereo fischiettò un’allegra melodia di flauti e di squilli di tromba, sullo schermo in bianco e nero si susseguirono illustrazioni raffiguranti i canali di Venezia navigati dalle gondole, i cavalli del Palio di Siena, il porto di Napoli, e gli archi monumentali di una Roma antica.

«Acc…» Giulia si schiaffeggiò la fronte, ringhiò di frustrazione. «Mancate per un soffio.»

Luca scosse le spalle finalmente alleggerite dal peso di quella giornata disastrosa. «Pazienza.» Soffiò sulla sua tazza e si concesse di sorseggiare il suo orzo in santa pace. «Il Carosello è meglio di niente.»

La sagomina di una nave pirata attraversò l’oceano che era una semplice distesa di tempera grigia. Un mostriciattolo più simile a un drago che a una sirena emerse dalle acque, si accomodò su uno scoglio, e si strofinò la schiena con una spazzola da bagno, badando ai fatti suoi.

Uno dei pirati della ciurma, quello che si era appena tracannato un’intera bottiglia di Marsala, andò a lagnarsi dal Capitano slinguazzando un aspro e marcato accento siciliano. “… un mostro marino vedo!”

Luca per poco non sputò l’orzo. Strinse le labbra, si gonfiò le guance, buttò giù il sorso, si picchiò il pugno sul petto, e si strozzò scatarrando un tossito dietro l’altro.

“… quello è un mostro autentico, non vedi?” Il Capitano della ciurma indicò il drago marino, e l’inquadratura si restrinse sulla medaglietta di garanzia appuntata sul pancione squamato. “Ha persino il certificato di garanzia.”

Giulia spalancò le palpebre e sbiancò. Per poco non le cadde la mandibola. «Non è possibile.»

Capitano!” Il pirata del Marsala puntò il dito sul mostro, sul muso che si era gonfiato dopo aver inghiottito il suo compare. “Il qui presente mostro marino tassativamente si rifiuta di dischiudere le gengive! Lo possiamo torturar…”

Giulia si tuffò sul televisore, pestò tre volte la mano sui tasti, alzò inavvertitamente il volume – “… ma cosa vuoi torturarlo, tu! Porta paz…” –, picchiò il pugno sul pulsante d’accensione, e lo spense.

Sullo schermo calò il buio. Attraverso la scatola del televisore martoriato dai pugni serpeggiò uno scricchiolio cavernoso che fece eco attraverso l’intero soggiorno. Fuori dalle finestre inondate dal diluvio brontolò il gorgoglio del temporale che stava salendo dal mare. Giulia e Luca nemmeno respiravano. In sottofondo, solo l’incessante scroscio della pioggia, l’altrettanto incessante ronzio dell’acquario, e il silenzio gravoso di quella maledizione che non era proprio possibile esorcizzare dalla vita di Luca.

Giulia, ancora china sul televisore, grugnì un gemito di esasperazione. «Se non è un malocchio, questo…» Girò lo sguardo da sopra la spalla. Ammiccò con le sopracciglia e consolò Luca rivolgendogli un sorriso sghembo. «E tu ce l’hai il certificato di garanzia?»

Luca si morsicò l’interno del labbro. Un singhiozzo di risa gli gonfiò le guance, tornò a scendere e gli tambureggiò nel petto. Un formicolio più tiepido tornò a propagarsi, a risalire la pancia, a infiammargli il viso diventato paonazzo, e squagliò ogni sua resistenza. Luca si torse di lato e si sganasciò dal ridere fino alle lacrime, fino a sentire male ai denti e alla pancia. Poco dopo, si unì anche la risata di Giulia. Risate argentine che furono in grado di coprire persino i brontolii del maltempo, il tambureggiare della pioggia sui vetri, e l’eco di tutti i singhiozzi che erano stati versati in quello schifo di giornata.

Per quella sera… tutti a nanna senza Carosello.


 

N.d.A.

Non per dire, ma lo spot del Carosello con il mostro marino esiste davvero: ♡♡♡.

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Capitolo 27
*** 27 ***


27

 

 

Luca e Giulia si alzarono dalle rispettive seggiole – Luca premette un ginocchio sull’imbottitura di paglia per sporgersi ancora più in là –, e spinsero le mani fra le grinze della tovaglia a quadri. Sgranarono gli sguardi sul braccio che Alberto aveva disteso sul tavolo, in mezzo ai bicchieri e al vassoio dei pasticcini, lasciandosi bruciare la pelle dai raggi di sole frastagliati dal fogliame del giardino. «Oooh.» I loro occhi si infiammarono di meraviglia proprio come se Alberto avesse spacchettato una seconda confezione di dolcetti alla crema.

Dopo essere rimasto senza fiato, Luca fu il primo a recuperare l’uso della parola. «Ma è proprio un tatuaggio vero?» Ecco spiegato perché Alberto fosse venuto a prenderli alla stazione indossando una giacca con le maniche lunghe, nonostante il gran caldo che si respirava quel pomeriggio. Aveva voluto tenere in serbo la sorpresa fino al loro arrivo a casa. «Proprio vero-vero?» insistette Luca. «Di quelli che non spariscono mai?»

Alberto alzò il mento e sollevò un gran sorrisone carico di orgoglio. Strizzò il pugno a vuoto, gonfiò e sgonfiò il muscolo del braccio in modo da far muovere i bordi del tatuaggio che gli ballava sulla pelle color bronzo. «Vero-verissimo, parola mia.» Allungò l’altra mano per raggiungere il vassoio dei pasticcini, pescò un occhio di bue alla marmellata di lamponi, e lo divorò in due soli bocconi, parlando con le guance gonfie. «E shtai shicuro che mi duvevà finché campo.» Si leccò le labbra imbiancate dallo zucchero. «E anche oltre.»

Giulia non riuscì nemmeno a battere le palpebre, estasiata da quella visione che le aveva infiammato il volto già arrossato da un sole di giugno eccezionalmente caldo. Sfiorò il braccio di Alberto, lo percorse dal polso al gomito, senza però toccare i segni di inchiostro nero che in certi punti, lì dove scavalcavano i tendini, erano ancora un po’ gonfi. «E non ti ha fatto male?»

Alberto arricciò il naso in una smorfia inorridita. «Pfui.» Si succhiò le dita sporche di zucchero, lucidò le unghie sulla spallina della maglietta. «Io ho la pelle da squalo. Giuro che non ho sentito nemmeno il minimo brivido.»

La tenda della soglia di casa sventolò, scostata dal passaggio di Massimo che uscì dalla cucina seguito dal zampettare di Machiavelli. Massimo raggiunse il tavolo del giardino, inclinò il capo per non urtare la solita liana di luminarie spente, strinse il manico della brocca di limonata appena spremuta, e corrugò un sopracciglio cisposo, scoccando ad Alberto una bassa occhiata di rimprovero. «Alberto…» La puzza di quella piccola bugia non aveva tardato a raggiungere il suo naso e ad arruffargli i baffi.

Alberto gettò gli occhi in disparte e arrossì. Usò le dita che si era appena lucidato sulla spalla per grattarsi il capo. Rise nonostante il rimprovero di Massimo «Non così tanto da meritare di essere preso in considerazione, lo giuro.»

Massimo scosse il capo, ma sotto i suoi baffi sbocciò la curva di un irrefrenabile sorrisino. «Ecco qua, ragazzi.» Posò la brocca di limonata dentro cui i cubetti di ghiaccio trillarono e oscillarono assieme alle fettine di limone. «Rinfrescatevi.»

Giulia si rimise a sedere composta, sorrise a suo padre e riempì subito un bicchiere per Luca. «Grazie, papà.» Avevano apparecchiato con il servizio di bicchieri nuovi, quelli lunghi con disegnati sopra i papaveri. «Non sai che sete che ho. Che abbiamo. Ce la siamo portata dietro per tutto il viaggio, vero, Luca?» Riempì anche un bicchiere per sé, facendoci cadere dentro pure qualche cubetto di ghiaccio. «Ci hanno infilati proprio nel vagone con i finestrini rotti, per tutto il viaggio. Tutto il viaggio con i finestrini chiusi! Ci credo che ci siamo quasi sciolti dal caldo.»

Machiavelli, uscito di casa assieme a Massimo, raggiunse l’ombra del gazebo di viti, si accucciò affianco a Caligola, nel fresco dei ciuffi d’erba maculati di fiordalisi e margherite. Principe scavalcò il guscio di Caligola che, intento a rosicchiare le foglie di un dente di leone, non badò a quell’intrusione. Il micio si arrampicò su una delle valige abbandonate sotto le gambe del tavolo e giochicchiò con il laccio di una chiusura. Si ribaltò sulla schiena, rosicchiò l’estremità del laccio di cuoio, scalciò all’aria urtando il muso imbronciato di Caligola, si arrotolò sul pancino, compì un balzo fra i denti di leone, e si gettò sulla coda di Machiavelli.

Machiavelli appiattì le orecchie, spalancò le fauci e gli soffiò in faccia. Principe rizzò la pelliccia ma arretrò. Sconfitto come un legionario costretto a deporre la sua spada, tornò ad accoccolarsi in solitario. Si mise a giocherellare con i lacci delle scarpe che Luca e Giulia avevano gettato affianco alle valigie subito dopo aver attraversato il giardino ed essersi seduti al tavolo.

Luca bevve un sorso della sua limonata ghiacciata – non aveva ancora assaggiato i pasticcini –, e il suo sguardo scivolò nuovamente e inevitabilmente sul tatuaggio di Alberto.

Era ancora più grande di quello di Massimo, o forse era solo il braccio più sottile di Alberto a farlo sembrare tale. Un arpione sorretto alla base dalle chele di un grosso scorpione la cui coda acuminata era attorcigliata all’asta in legno. La cima ricurva dell’arpione perforava una rete da pesca che, lacerata dal suo passaggio, si sfilacciava e, spalancandosi, andava a riempire la parte superiore dell’avambraccio. I brandelli di corda, scomponendosi e dilatandosi, si tramutavano gradualmente in spumose e ricciolute creste d’onda accavallate l’una sull’altra.

Luca ne era rimasto folgorato dal primo istante in cui Alberto si era sfilato la giacca, gonfiando il muscolo del braccio e mettendo il disegno in bella mostra sotto la luce del sole. «E il tatuaggio si vede anche quando sei trasformato?»

«Ovvio!» Alberto piegò a sé il gomito, si grattò attorno alle zone dove era ancora visibile la crosta di qualche cicatrice, tornò a distendere il braccio e ruotò il polso a destra e a sinistra, in modo da far muovere la coda dello scorpione. Anche i suoi occhi si laccarono di una luce assorta, stregata da cotanta bellezza, come se quella fosse stata la prima volta in cui si ritrovava ad ammirarlo. «All’inizio anche io avevo qualche dubbio, ma il tatuatore da cui sono stato è un tipo forte – è lo stesso che ha fatto il tatuaggio a Massimo –, e lui chiaramente sa tutto di me, della faccenda del mostro marino, della mia pelle che muta, e così ci siamo ingegnati prima di metterci all’opera.» Tornò ad allungare la mano sul vassoio di pasticcini. «Abbiamo scelto apposta l’inchiostro più scuro di tutti in modo che risaltasse anche attraverso le squame.» Indugiò fra il pasticcino con la granella al pistacchio e quello decorato da una ciliegia candita. «Avevamo addirittura pensato di bagnarmi il braccio e di tatuarmi direttamente sulla pelle di pesce.» Scelse quello al pistacchio e se lo fece saltare in bocca. «Ma io ho preferito evitare, perché sicuramente avrei finito per spaccargli qualche ago.» Finito di masticare, si strusciò la mano sulle labbra. «Così abbiamo fatto prima un paio di prove sulla pelle umana, abbiamo fatto passare qualche giorno, poi ho provato a bagnarmi. Ci è sembrato tutto a posto, così siamo andati avanti e lo abbiamo terminato. Chiaro: per una settimana ho evitato di bagnarmi e di trasformarmi troppo, in modo da far guarire la pelle senza strapazzarla. E poi sono andato avanti un mese spalmandomi l’olio di mandorle ogni giorno, in modo che non rimanessero cicatrici e che la pelle si ammorbidisse. Ma l’acqua di mare secondo me l’ha fatto guarire ancora più in fretta e ora è assolutamente perfetto.» Diede uno schiaffetto all’avambraccio e tornò a gonfiare il petto all’infuori. «Il più bel tatuaggio che il mondo abbia mai visto.»

Bevuta la sua limonata quasi fino al fondo, Luca posò il bicchiere e si leccò l’angolo della bocca riarsa ma finalmente dissetata. Giulia aveva ragione: il viaggio in treno quell’anno era stato asfissiante. Quella si prospettava come un’estate rovente. «E il disegno lo hai scelto assieme al tatuatore?» Sollevò due mani come a reggere un grosso libro fra i palmi. «Aveva tipo uno di quei libroni con tutti gli schizzi fra cui scegliere? Oppure te lo ha consigliato Massimo?»

«Macché.» Alberto si tambureggiò il pugno sul petto. «Il disegno è tutta opera mia.»

Giulia per poco non si strozzò con il mini-cannolo che aveva appena addentato. «Lo hai disegnato tu?»

Alberto si strinse nelle spalle, sfoderò il sorriso di chi la sapeva lunga. «Non potevo mica accontentarmi di tatuarmi addosso uno scarabocchio del primo che capita, no? È da anni che ci lavoro su.»

Giulia inarcò un sopracciglio. «Che ci lavori?» Finì il suo cannolo. «E dove?»

«Come dove?» Alberto pescò un bignè al rum assieme a un cestino di uva e crema pasticcera. «Sul mio mega galattico taccuino dei tatuaggi.» Se ficcò entrambi i dolcetti in bocca e sospirò un gemito d’estasi. Combinazione perfetta.

Luca fece dondolare il suo bicchiere sul cui fondo era avanzato solo un dito di limonata. I trilli del ghiaccio e di qualche semino di limone crepitarono fra le pareti di vetro, sollevarono un fruscio squillante e argentino che si sposò alla perfezione con la melodia della chitarra e dei tamburini proveniente dal giradischi lasciato acceso sulla finestra della cucina. Massimo aveva tenuto il balcone aperto per far passare corrente, in modo che il vapore gorgogliato dal pentolone di rame in cui stava ribollendo la confettura di albicocche si disperdesse e non rischiasse di sporcare le pareti o di imbrattare le tendine con il profumo colloso di polpa di frutta e di zucchero sciroppato.

Luca indugiò ancora sui resti della sua limonata, ripensò alle ultime parole di Alberto. «Sei davvero incredibile, Alberto. Prima il pescatore con Massimo, poi le costruzioni sull’isola, poi ancora l’apprendista dal meccanico, e ora anche un esperto di tatuaggi.»

«E di cucina» puntualizzò Giulia. «Non dimenticarti che ai fornelli ormai è diventato il più abile e buongustaio di noi tre.»

Luca rise. Si appoggiò sul gomito, il mento a riposare sul pugno, e guardò Alberto attraverso una patina di eterea contemplazione, la stessa che era luccicata attraverso i suoi occhi quando a scuola, a lezione di Storia dell’Arte, avevano studiato gli affreschi di Michelangelo. Quel giorno Alberto sprigionava un’aura radiosa, ancora più del solito. Forse era la maggior età ad aver levigato i tratti più marcati del suo volto, ad avergli irrobustito le spalle. Forse era la musica di sottofondo che riecheggiava alla perfezione con le corde della sua anima, accendendo attraverso il suo sorriso una luce limpida e vibrante come i frammenti di rugiada che traballavano fra le verdissime foglie di vite arrampicate sul gazebo. «Chissà se c’è qualcosa che ancora non sai fare?»

Alberto si ripulì dalle briciole dei pasticcini, si diede le solite arie da sbruffone. «Io sono capace di fare tutto. Mi basta solo pensare a qualcosa che voglio fare e – trac! – ecco che la imparo senza neanche battere ciglio.» Però poi increspò le sopracciglia e ci pensò su. «Ma…» E attraverso la scia di quei pensieri sospesi e galleggianti piovigginarono anche le note della musica che proseguiva, vibrando sul piatto del giradischi.

Carezzato dai pizzichi della chitarra e dal fruscio argentino dei tamburini, Alberto si girò verso il balcone della cucina da cui fuoriuscivano i vapori della confettura ribollente.

Il disco rallentò e cambiò traccia, passò da La Ballata di Miché a La Canzone dell’Amor Perduto.

Alberto si fece assorbire da quelle canzoni con occhi umettati da una tristezza che non gli apparteneva ma che in qualche maniera faceva lo stesso parte di lui. Incurvò le labbra in un sorriso malinconico che sapeva di sale, di lacrime. «Suonare la chitarra.» Si grattò di nuovo la pelle attorno al tatuaggio, poco più sopra il polso, dove si torceva la coda dello scorpione, e annuì. «Non so ancora suonare la chitarra, ecco una novità che mi piacerebbe imparare.»

Massimo scosse la testa e bevve dal suo bicchiere di limonata. «Tutta colpa di De André.»

«Tutta colpa tua che mi hai regalato il suo disco per Natale.» Alberto gli si accostò e lo stuzzicò con un paio di gomitate. «Altro che Pavarotti, eh? Eh?» Massimo infatti gli aveva regalato un suo disco per Natale, su consiglio del commesso del negozio di musica che gli aveva assicurato quanto fosse popolare fra i giovani. Alberto se n’era subito infervorato. Aveva ascoltato quel disco tante di quelle volte che considerava un miracolo il semplice fatto che non si fosse ridotto alle dimensioni di un’ostia. «De André sì che è un genio» annuì Alberto, senza alcuna traccia di dubbio. «Un vero poeta.»

Luca socchiuse gli occhi e, guidato dalle parole di Alberto, si fece a sua volta trascinare dalla scia di quella musica così toccante eppure così semplice. Limpida e fresca come acqua di sorgiva, dissetante come la limonata con ghiaccio che aveva appena sorseggiato. Sarebbe stato straordinario udire qualcosa di simile attraverso le mani di Alberto. «Quanto sarebbe bello vederti suonare la chitarra.»

«Già.» Il tono di Alberto si avvilì. «Ma non con queste mani, mi sa.» E infatti le mostrò. Scosse le dita indurite dai calli e annerite fra le grinze delle nocche, dove le tracce di olio per motori e per le catene da bici non andavano via nemmeno a strofinarle con l’acquaragia. «A forza di tirare reti, di bucarmi con gli ami, o di sporcarmi di olio e di smontare motori, ormai ho le dita completamente desensibilizzate. Pizzicare le corde di una chitarra sarebbe disastroso.» Sdrammatizzò alzando le spalle. «Ma almeno posso ancora disegnare. Vedrete quanti altri tatuaggi progetterò.»

All’ombra del tavolo, Principe ingarbugliò fra le zampine i lacci delle scarpe di Luca. Rosicchiò quello che gli era rimasto incastrato all’unghia, si arrotolò di nuovo su se stesso, finì addosso a una delle due valigie, e quella cascò vicino a Caligola e Machiavelli, facendo grugnire di frustrazione il vecchio gatto brontolone.

Giulia rise davanti a quella scena. Si chinò a sgarbugliare i lacci dal corpicino di Principe – che ormai si era fatto grande e cicciotto quasi quanto quello del padre –, e lo prese in braccio, lasciando che si acciambellasse in grembo e che si godesse le sue carezze a suon di fusa. «Ma non ci avevi mai detto niente del tuo taccuino dei tatuaggi, in tutti questi anni.» Scosse il capo ma sorrise, nonostante il disappunto. «Che traditore, Alberto. E pensare che fra noi tre non dovrebbero esserci segreti.»

«Non vi ho mai detto niente perché dovevo ancora perfezionare la tecnica» si giustificò Alberto. «Poi è pieno di schizzi e di bozze insignificanti, nulla che valesse sul serio la pena di essere mostrato. Fra tutti quelli che ho messo assieme nel corso degli anni ho scelto il migliore e – bum! – eccolo qua.» Di nuovo innalzò il braccio destro come un trofeo. «Proprio come lo avevo sognato, e anche meglio.»

Luca finì di smangiucchiare il suo pasticcino glassato e si succhiò l’indice, senza badare alla comparsa delle squame. «E lo hai progettato sulla base di cosa?»

«Del suo significato» rispose Alberto. «Vedete…» Tornò a distendere il braccio davanti a Giulia e Luca, chiuse il pugno per gonfiare i tendini del muscolo. «La rete da pesca è il luogo in cui sono stato pescato e il luogo a cui ho scelto di appartenere.»

L’indice di Giulia percorse la lunghezza dell’arpione, dal fondo dell’asta di legno alla cima della punta di metallo, senza più il timore di toccargli la pelle. «Quindi l’arpione rappresenta papà?»

«No, Massimo è la rete. Io sono l’arpione.» Alberto usò l’altra mano per mimare una sfrecciata attraverso l’aria. «L’arpione che va sempre dritto a colpo sicuro. Per questo l’arpione buca la rete, proprio perché una volta la rete rappresentava le mie paure e la mia prigionia, tutti quei pericoli che mi minacciavano. Ma ora anche la rete è cambiata, e ha assunto un nuovo scopo, ed è per questo che qui…» Tracciò piccoli cerchi attorno alla zona sotto il gomito, dove la rete si sfilacciava e i brandelli andavano a gonfiarsi, tramutandosi in riccioli di spuma di mare. «Ho voluto che i pezzi di corda tranciata si trasformassero in onde del mare. È un po’ come dire che anche Massimo è cambiato da quando ha conosciuto me.»

Massimo strusciò una nocca sotto i baffi umettati di limonata. Borbottò una ridacchiata. «Credo sia impossibile per chiunque non cambiare almeno di un poco dopo averti conosciuto.»

«Visto?» sorrise Alberto. «Ora infatti Massimo non è più la rete che vuole farmi prigioniero, ma è diventato una sorta di secondo mare in cui posso sguazzare libero anche se sono fuori dall’acqua.» Si strofinò la nuca. «O almeno…» Fece mulinare la mano, come a sgarbugliare tutto il groviglio di quelle ultime parole, e la sua espressione di stropicciò di incertezza. «Sì, insomma…» Gli giunsero addosso le occhiate stranite di Giulia e Luca. Alberto parò le mani avanti per sventolare via la discussione. «Sentite, mi piaceva l’arpione che buca la rete, okay? E se non significa niente chissene.»

Luca rise. Non ebbe bisogno di essere convinto oltre.

Giulia invece continuò a rimuginarci. «Uhmm.» Con una mano massaggiò il pancino di Principe che si era arrotolato sulla schiena, e con l’altra si strofinò il mento. «La rete bucata.» La stessa espressione assorta che mostrava quando si concentrava su un problema di Geometria. «La rete bucata che si trasforma proprio perché trafitta dal passaggio inarrestabile dell’arpione che, lacerandola, ha cambiato la sua natura e il suo scopo.» Annuì e approvò. «Può starci, sì.» Raccolse Principe con entrambe le mani e strofinò il naso sul suo. «E tu che dici, eh, Principe? È bello il tatuaggio del tuo padrone. Sì, sì, proprio bellissimo.»

Luca, riguadagnato un sano brontolio di appetito dopo essersi dissetato a dovere con un secondo bicchierone di limonata, fece per pescare una sfogliatina alla panna dal vassoio dei pasticcini. Tuttavia lo sguardo tornò a cadere sul tatuaggio di Alberto, sulla rete trafitta dall’arpione, sui brandelli di corda che, gonfiandosi, assumevano la consistenza della spuma di mare. Perché c’era ancora qualcosa che non avevano considerato… «E lo scorpione?» Lasciò perdere la sfogliatina alla panna e allungò invece il tocco verso il braccio di Alberto. Esitò, rattrappì le dita come se avesse sfiorato il calore di una brace incandescente, e si limitò a tenere gli occhi sgranati sul grosso scorpione nero che pareva proprio star lanciando l’arpione attraverso la rete. Le grandi chele aggrappate all’asta e la coda acuminata aggrovigliata attorno al polso di Alberto. «Questo cosa rappresenta?»

Alberto strinse il pugno, e pure lui si chiuse in un quieto e tiepido silenzio contemplativo interrotto solo da un’occhiata fulminea scambiata fra lui e Massimo.

Attraverso il cortile soffiò un venticello caldo e speziato che sapeva di polline, di confettura di albicocche, di bassa marea. Dalla finestra della cucina, il disco cambiò traccia e passò a La Ballata dell’Amore Cieco.

Incoraggiato dalla salda vicinanza di Massimo, dalla fermezza del suo sguardo, Alberto riguadagnò un po’ di luce in fondo agli occhi. L’espressione mite ma seria. Il sorriso amaro, pungente come il morso con cui prima si era divorato il pasticcino al rum. «Lo scorpione è il contrario della rete da pesca» spiegò. «Per questo si trova nella direzione opposta.» Si grattò la pelle attorno al tatuaggio, le grinze del gomito. «Lo scorpione è il luogo da cui provengo. Per questo è aggrappato alla base dell’arpione, e non alla punta, proprio perché rappresenta le mie origini.»

Massimo piegò il capo in un breve ma eloquente cenno di assenso. Sorseggiò dell’altra limonata e rimase in silenzio. Lui naturalmente sapeva già tutto. Non aveva bisogno di alcuna spiegazione a riguardo.

Giulia alleggerì l’atmosfera con una risatina. «E io che credevo avesse a che fare solo con il tuo segno zodiacale. Se sei nato a novembre, dovrebbe proprio…»

«Infatti il mio segno zodiacale è sul serio lo Scorpione.» Alberto si sporse a punzecchiarle la guancia. «Mia cara Leoncina di agosto.» Risero entrambi.

Luca invece si distrasse, dolce e sognante Cancro venuto al mondo nel mese di luglio. Fece dondolare le gambe dalla seggiola, spostò lo sguardo verso lo strato di fogliame che rivestiva il tetto del gazebo, e i suoi occhi s’incantarono, perdendosi fra gli spicchi di cielo azzurro e i giochi di luce che traballavano come gocce di rugiada. Lo scorpione, meditò. Lo scorpione rappresenta il passato di Alberto? No. No, non lo scorpione...

Strinse i pugni raggrinzendo le pieghe della tovaglia. Un brivido gli penetrò la schiena e gli irrigidì le spalle.

Ma il pesce-scorpione. Lo scorfano.

A guizzargli in mente fu il ricordo di uno sbuffo di sabbia gonfiato da un rapido battito di pinna caudale. Il muso bitorzoluto dello scorfano di fondale che aveva schivato gli occhi di Luca affacciati al vetro della teca, la sua sagoma che era nuotata attorno allo scoglio e che si era rintanata in una rientranza, mimetizzandosi con la roccia dello stesso colore. Lo scorfano che aveva intenerito il cuore di Luca e che aveva suscitato in lui una forte e lacrimante nostalgia nei confronti di Alberto, di quella parte di se stesso che inevitabilmente sarebbe sempre appartenuta al mare e che durante l’inverno giaceva insonnolita nei fondali di Portorosso, anziché saltare sul treno assieme a lui e seguirlo fino a Genova.

È questa la parte di se stesso da cui Alberto è fuggito? si chiese ancora Luca. La parte che si è lasciato indietro? Il tuffo al cuore fu una mazzata. L’asprezza della limonata rimontò dallo stomaco, bruciandogli il petto. Quella parte che è anche legata a me?

Fu grato del fatto che Alberto riuscisse ad affacciarsi al suo passato e a parlarne senza più dannarsi, proprio come era successo la sera di qualche anno prima, durante il loro primo ritorno assieme alla torre sull’Isola del Mare, quando Luca aveva alzato lo sguardo sulle pareti, trovandole ancor più luminose di come le aveva lasciate. Prive di ombre e di segreti.

Tuttavia vi era pur sempre una parte di sé – una crudele parte di sé – che ne soffriva, che si sentiva tradita, che non poteva fare a meno di suggerirgli come Alberto gli avesse voltato le spalle.

Il mare è il luogo dove io e Alberto ci siamo incontrati. Il luogo dove siamo nati entrambi. Il luogo di cui ancora adesso sento il richiamo, nonostante la mia vita sulla terraferma. E Alberto ora ne parla come se fosse una parte di se stesso a cui potrebbe anche rinunciare. Ma se Alberto ora può benissimo fare a meno del mare, di quel luogo che ancora accomuna le nostre vite…

Lo attraversò uno spasmo gelido, come se una mano invisibile avesse pescato un cubetto di ghiaccio dal fondo della brocca e glielo avesse lasciato scivolare sotto il colletto della camicia.

Significa forse che può fare anche a meno di me?

Giulia fece leccare a Principe uno schizzo di crema alla vaniglia che le aveva sporcato l’indice dopo essersi servita con un piccolo babà. «Niente da dire sul tatuaggio che è proprio fantastico, davvero.» Scoccò ad Alberto una volpina occhiata d’intesa. «Ma stento a credere che un tale simbolismo sia tutta farina del tuo sacco, Alberto. È un discorso fin troppo intellettuale per essere uscito dalla tua bocca.»

Alberto si premette la mano sul petto e trasse un ansito melodrammatico. «Sei molto crudele, sapientona che non sei altro.»

Massimo si versò dell’altra limonata. «Io vi avevo assicurato che far leggere qualche altro libro ad Alberto lo avrebbe aiutato a spalancare i suoi orizzonti.»

«Però non vale che tutto questo talento Alberto se lo tenga solo per sé» protestò Giulia. «Anche io voglio un tatuaggio disegnato da lui.»

Alberto collaudò una dura espressione da vero adulto responsabile e bacchettò Giulia con l’indice. «Aspetta di avere diciott’anni pure tu e poi ne riparliamo.»

«Ooh, ma daaai.» Giulia si appese al braccio di Alberto, lo fece dondolare avanti e indietro come una bimba che fa i capricci. «Manca più di un anno intero, non ce la farò a resistere così tanto.»

Luca scosse le spalle – il brivido si era sciolto – e la buttò sul positivo. «Ma così hai ancora un bel po’ di tempo per sceglierlo con tutta calma.»

«Oppure…» Pure Giulia riguadagnò una solare spinta di ottimismo che le ravvivò la luce degli occhi. «Potremmo sceglierne uno assieme e disegnarlo assieme, magari tatuandolo per primo su Alberto, tanto per essere sicuri. E poi ce lo facciamo uguale tutti e tre, quando anche io e Luca avremo compiuto diciotto anni.»

Alberto storse un sopracciglio, ma riuscì a stento a nascondere un sorrisino intrigato. «Hai intenzione di ridurre la mia pelle a una sorta di tela da disegno? Sei proprio figlia di tua madre.»

«Magari.» Giulia gli mollò il braccio, si strinse il viso fra i pugni e allungò uno sbuffo. «Magari anch’io avessi il talento di mamma nel disegno. Quand’ero piccola mi insegnava volentieri, ma ci sono proprio negata. Però tu…» Flesse il capo, facendo scivolare i riccioli lungo la spalla, e si accigliò, concentrandosi di nuovo sul tatuaggio di Alberto, ma questa volta con aria più assorta. «Tu hai una mano proprio niente male, lo sai? Oh, ci sono!» Picchiò il pugno sul palmo. «Potremmo far vedere a mamma qualche tuo disegno, e così lei potrebbe darti qualche dritta o qualche consiglio per il prossimo tatuaggio.»

«Attenti, però» li ammonì Massimo. «Se davvero Alberto vorrà farsi un secondo tatuaggio, dovrà mettere in conto di prepararsi a riceverne anche un terzo.»

Alberto, Giulia e Luca strabuzzarono le palpebre ed esclamarono all’unisono: «Un terzo?»

Luca, intimorito, accostò la mano alla bocca come quando gli saliva l’impulso di rosicchiarsi le unghie per placare i brividi di paura. «E c’è proprio una specie di legge che lo impone?»

Massimo se la rise. «È solo una vecchia tradizione.» Posò il suo bicchiere di limonata. «Il numero dei tatuaggi deve sempre essere dispari. È una vecchia usanza legata al mondo dei marinai e all’epoca dei pirati.» Anche lui flesse il gomito chiamando il braccio a sé, come aveva fatto Alberto. Strinse il pugno, irrigidì il muscolo e gonfiò il disegno che ritraeva il mostro marino infilzato dalle punte del tridente. «Un tatuaggio inciso quando salpi» spiegò, «uno quando arrivi alla tua destinazione, e uno quando fai ritorno a casa. Per questo il numero pari porta sfortuna. Se un marinaio ha addosso un numero pari di tatuaggi, significa che non ha mai fatto ritorno a casa.»

Alberto alzò l’indice per puntualizzare. «Che non ha ancora fatto ritorno a casa.»

«Già» lo assecondò Giulia, «che regola scema.» Raccolse Principe e lo tornò a posare in mezzo all’erba, dove il micio poté ricominciare a giochicchiare con i lacci delle scarpe e a infastidire Machiavelli e Caligola. «Secondo me se la sono inventata i tatuatori per riuscire a scucire più soldi dai clienti creduloni. Tipo, quanto tempo è concesso che passi dal secondo al terzo, prima che la sfortuna cominci a pioverti addosso? Non ha alcun senso.»

Gli occhi di Luca non tardarono a smarrirsi, ad affacciarsi a immagini che ritraevano galeoni antichi, vele nere marchiate da teschi, pirati con uncini al posto delle mani, bende sugli occhi e braccia tappezzate di tatuaggi. «Però se fosse vero sarebbe affascinante. Anche se un po’ inquietante.»

«Sono solo vecchie superstizioni» li rassicurò Massimo. «Nulla da prendere troppo sul serio. Devi essere tu a decidere quanti saranno, Alberto.»

«Tre mi sembra un numero più che accettabile.» Alberto pescò tre dei pasticcini avanzati nel vassoio: una sfogliatina alla panna e due bignè al cioccolato. Li soppesò sul palmo e annuì. «Il tre è davvero un gran bel numero, dopotutto.» Li divorò in un sol boccone.

Luca annuì, trovandosi subito d’accordo. Il tre era sempre stato il loro numero fortunato.

«Però tu ne hai sempre avuto solo uno, papà.» Giulia indicò il braccio di Massimo, il mostro marino trafitto. «Questo significa che in un certo senso tu non sei mai arrivato alla tua destinazione dopo essere salpato per mare?»

Massimo si strinse nelle spalle. «Per quel che mi riguarda, mi è sempre piaciuta l’idea di vedere la mia vita come un viaggio costante, senza partenza e senza destinazione.» Strofinò una carezza affettuosa fra i riccioli di Giulia, distese i baffi in un caldo sorriso paterno. «E il mio viaggio consiste nel rendere Portorosso un luogo sicuro e florido dove voi ragazzi possiate crescere senza che vi manchi mai nulla.»

Giulia rise da sotto la grande e sicura mano di Massimo. «Ma questo è un viaggio metaforico, papà.»

«È comunque un viaggio di tutto rispetto.»

Luca scese dalle nuvole, scompose le immagini dei pirati e dei galeoni, e si riagganciò alla conversazione. «Però Alberto non è tipo di accontentarsi di viaggi metaforici, questo è sicuro.»

Alberto sorrise d’orgoglio, ingrassato come un polletto da quel complimento. «Questo è sempre stato scontato, direi. Ma non ho comunque intenzione di lasciarvi indietro e di rinunciare a voi due anche quando si tratterà di partire alla scoperta del mondo.» Tastò una tasca della camicetta. «Ed è per questo che…» Vi infilò la mano dentro, strofinò sul fondo, corrugò un sopracciglio, e passò alla tasca sul fianco opposto. «Ed è per questo che…» Si alzò dalla seggiola e si torse per frugare anche nelle tasche dei calzoncini. «Ma dove cavolo l’ho…» Grugnì e passò alla tasca successiva.

Luca inclinò il capo, spaesato. «Ed è per questo che cosa

«Che cerchi?» Giulia si sporse a guardare, incuriosita anche lei da quel frugare senza fine. «Dai, dai, fa’ vedere.»

«Se solo riuscissi…» Alberto raggiunse qualcosa e serrò la presa. «Ah-ah!» I suoi occhi s’infiammarono e il suo sorriso splendette da guancia a guancia. «Tenetevi pronti a rifarvi gli occhi con la seconda mega-novità di quest’estate, eee…» Sfilò quel qualcosa dalla tasca, e lo esibì sorreggendolo sui palmi aperti. «Ta-daaan!»

Un cartoncino rosa grande quanto una sua mano. La protezione plastificata, i timbri azzurri, il Sigillo dello Stato, la grande I racchiusa da un cerchio, e una frase a caratteri maiuscoli: PERMIS DE CONDUIRE.

Luca spalancò le palpebre e fu il primo a realizzare. Dovette tapparsi la bocca per frenare un gridolino di eccitazione che risuonò in fondo al petto, rendendo le sue guance rosse come ciliegie. «Non ci credo!» Quel gemito di emozione gli strozzò il fiato. I battiti del cuore gli galopparono in gola e nelle orecchie. «Hai…» Allungò la mano per sfiorare il cartoncino plastificato ma tirò subito le dita indietro, temendo di scottarsi. Quello era il Fuoco Sacro, la Fiamma degli Dei. «È davvero…»

«Hai proprio…» Pure Giulia si strinse le guance arroventate, elettrizzandosi fino alle punte dei capelli. «Hai fatto la patente!»

Luca tornò a sfiorare il libriccino, a tirare di nuovo la mano indietro, a rimirare la patente di Alberto piegando il capo da un lato e dall’altro, ancora troppo stordito per riuscire a metterla bene a fuoco. «Ma è vera?»

«Vera-vera.» Alberto gliela porse. «Guarda e tocca, miscredente.»

Le mani di Giulia la acchiapparono per prime. Giulia aprì il cartoncino, sgranò gli occhi sui francobolli argentati, sulla fototessera, tornò a chiuderlo e a innalzarlo verso la luce del sole. «È proprio vera.» La spinse fra le mani di Luca, «Guarda qui, Luca, guarda, tocca. Ahah!», e si gettò ad abbracciare Alberto. «Bravo, Alberto!» Gli scaricò due poderose pacche sulla schiena. «Ma quand’è che l’hai presa? Non ci avevi detto niente. E nemmeno tu, papà.»

«Ho solo tenuto il segreto» si giustificò Massimo. «Alberto ha tanto insistito perché fosse una sorpresa.»

Giulia spremette un altro abbraccio attorno ad Alberto e gli tambureggiò un pugno sulla spalla. «Ero certa che ce l’avresti fatta.»

Alberto si cinse le mani sui fianchi e spinse il petto all’infuori. «Sono o non sono un maggiorenne a tutti gli effetti, ora? Credevate sul serio che mi sarei accontentato di andare in giro in bici per tutta la vita?»

Le mani di Luca tremolarono, caricate di quel peso così irrilevante eppure così gravoso. «No.» Rigirò la patente di Alberto, la aprì anche lui, liberando una zaffata odorante di inchiostro fresco, tornò a chiuderla, e sorrise. «No, uno come te di certo non si sarebbe mai accontentato.»

«Visto?» confermò Alberto. «E pensate a quanti viaggi potremo fare assieme da adesso in poi. Vi scarrozzerò in lungo e in largo, e poi potremo davvero commemorare ogni viaggio con un tatuaggio diverso.»

Giulia rise e sciolse l’abbraccio. «A patto che prima li sperimentiamo su di te.»

Massimo annuì. «E a patto che tu non vada oltre i sessanta chilometri orari, come promesso.»

«Però, Alberto,» commentò Giulia, «se persino papà acconsente a farti guidare con me e Luca a bordo, significa che come pilota non sei proprio da buttare.»

«Non stupirti troppo, Giulia» disse Luca. «Alberto ha sempre nutrito un talento naturale per la guida.» Circa. «Ma ora che ci penso…» Si strofinò la nuca e corrugò un sopracciglio. «Con che cosa andremo in giro? Anche se prendessimo un’altra Vespa, non potremo lo stesso starci in tre.» Il suo sguardo scivolò verso la piccola baracca costruita affianco alla tettoia della bici, attratto da una scintilla color verde bottiglia. Luca stropicciò una smorfia carica di dubbio. «E sulla tua Ape…»

Alberto assottigliò le palpebre e lo incenerì con un’occhiataccia. «Cos’ha che non va la mia bellissima Ape?»

Giulia si tappò la bocca e sputacchiò una risata da sciocchina. «Il disegno dei pesciolini che fanno le bolle, tanto per cominciare.»

«Non è quello» controbatté Luca. «È che, ecco…» Le tre ruote così sottili, la struttura così instabile, i traballamenti che scuotevano la carrozzeria quando superava un dosso, e l’abitacolo dentro cui c’era spazio solo per uno di loro. «Non mi sembra molto adatta ai lunghi viaggi.»

«Lunghi viaggi?» Alberto, superato il cipiglio di incertezza, annuì con convinzione. «Ooh, ora capisco.» Si chinò a cingere Luca sotto il suo braccio e lo attirò a sé, accostandolo al suo salmastro profumo di mare, a quello di benzina bruciata e a quello speziato di origano sminuzzato. Il suo respiro era dolce, profumava di crema al rum e di limonata fresca. «Allora anche tu stai già mettendo in programma di arrivare fino in capo al mondo.» Gli arruffò i capelli. «Mi piace questa mentalità, Luca, e giuro che farò di tutto per assecondarla.»

«Oh» pigolò Luca. «Gra…» Abbassò lo sguardo, un pochino imbarazzato da quella vicinanza così improvvisa, e si sentì rimpicciolire sotto la forza di quell’abbraccio che premeva attorno alle sue spalle. «Grazie, Alberto.» Con l’intento di distrarsi, l’occhio gli cadde di nuovo sul tavolo sporco di briciole di pasta frolla, sulla patente che giaceva fra i bicchieri sporchi e il vassoio dei pasticcini avanzati.

Luca lesse con maggior attenzione quello che era scritto sul cartoncino rosa, sotto i timbri azzurri e i francobolli argentati.

 

Alberto Marcovaldo

 

Un sospiro gli mozzò il fiato.

Alberto…

Colto alla sprovvista, Luca incassò quell’inaspettato colpo al cuore.

Marcovaldo?

Poi però fu facile sorridere, nonostante quella prima esitazione.

Ma certo. È naturale che abbia assunto ufficialmente il cognome di Massimo. Ormai è proprio suo figlio a tutti gli effetti.

Giulia si sporse dall’altro capo del tavolo per prendere d’assalto quello che era avanzato nel vassoio dei pasticcini. «Sarai anche diventato maggiorenne, Alberto, ma sei rimasto il solito ghiottone di un tempo. Guarda qui…» Inclinò il vassoio di carta dove c’erano più briciole che paste intere. «Ti sei spazzolato tutti i pasticcini!»

«Non fare la lagna» le rispose Alberto, «anche tu ti sei rimpinzata a dovere.» Indicò gli unici due rimasti. «E poi ne ho comunque lasciati due.»

«Sì» ribatté Giulia. «Un babà al rum e quello con la ciliegia candita che a me…»

Ma Luca era troppo distante per poter prestare attenzione ai bisticci di Alberto e Giulia. Il sorriso gli sbiadì dalle labbra, i pensieri s’incupirono. Allora è a questo che Alberto si stava riferendo quando ha fatto tutto quel discorso sul tatuaggio? Il luogo in cui è stato pescato…

L’occhio si spostò dalla patente al braccio con cui Alberto gli stava ancora tenendo strette le spalle. Il braccio tatuato.

Il luogo da cui proviene…

«… nemmeno quando le mettono nella cassata» continuò a blaterare Giulia. «E pure il babà al rum è troppo forte.»

«Il rum non lo senti nemmeno, credimi.» Alberto le porse il vassoio. «To’, spolveralo con lo zucchero che è rimasto sul fondo e vedrai che non…»

La voce di Alberto vibrava sotto l’orecchio di Luca, come il suo respiro. E Luca lo sentiva così vicino, con il suo profumo dolce e acre, con il tepore della sua pelle bruciata dai baci di sole, eppure era anche più distante rispetto a un tempo.

Che sia per questo che sto cominciando a sentirmi sempre più lontano da lui? Perché Alberto sta voltando le spalle a quell’unico elemento che ci accomunava?

Quel pensiero gli scaricò addosso il peso di una tristezza gelida e infinita.

Ma è ovvio, prima o poi me lo sarei dovuto aspettare. Le nostre strade stanno divergendo, stanno prendendo direzioni completamente opposte. Sono così diverse e…

Un tonfo di dolore gli succhiò il fiato dalla gola.

E incompatibili?

Alberto aveva infatti rinunciato allo scorpione, alla parte di sé stesso che proveniva dal mare. Con la forza del suo arpione aveva bucato e riplasmato la rete, rendendola il suo nuovo oceano. La sua era una vita piena e appagante, nonostante andasse contro quella che avrebbe dovuto essere la sua vera natura. Ce l’aveva fatta. Si era costruito una casa in cui avrebbe sempre trovato rifugio e protezione. Una casa in cui sarebbe sempre stato al sicuro.

Una casa di cui io non potrò fare più parte? rimuginò Luca. È sul serio questo che sta succedendo? Io e Alberto ci allontaneremo sempre di più, fino a che la presenza reciproca non sarà più indispensabile. Ci dimenticheremo l’uno dell’altro, e magari io mi dimenticherò persino di Portorosso. È questo il prezzo?

Luca stirò il collo di lato, irrigidì le spalle e si sottrasse alla stretta di Alberto che si era fatta soffocante, l’ennesima pressione attorno alla gola, l’ennesimo chiodo sprofondato in mezzo al petto.

È questo il prezzo che sarò costretto a pagare per aver deciso di lasciare il mare?

Alberto gli sfilò il braccio dalle spalle senza accorgersi di quel suo brivido, si diede un’aggiustata alla camicetta e si assicurò di aggiudicarsi l’ultima parola nel bisticcio fra lui e Giulia. «… ti rifarai la bocca, dato che per stasera ho già preparato gli gnocchetti alla romana, come vi avevo promesso. Piuttosto…» Riacchiappò la patente e se la infilò nella tasca dei calzoncini. «Io e te scendiamo dai tuoi, Luca?»

Luca boccheggiò un gemito. «Eh?» Sbatté le palpebre, uscì dalla nebbia, e si orientò in mezzo alle luci che brillavano attraverso il fogliame del giardino. Si aggrappò alla musica che cantava dal giradischi, e al profumo di marmellata che fumava dalla finestra della cucina. «Co…» Si era estraniato a tal punto che ora gli pareva di essersi appena risvegliato da un sogno. «Cosa?»

«Se andiamo dai tuoi genitori.» Alberto si alzò dalla seggiola, stiracchiò le braccia e si sgranchì una spalla. «Abbiamo temporeggiato anche troppo. È tutto il giorno che ti aspettano. Colpa dei pasticcini che ci hanno distratto. Magari li andiamo a prendere e saliamo tutti e quattro per cenare qui da noi, ci sta, no?»

«Oh.» Come un sonnambulo che non ha alcun controllo sul suo corpo, Luca si alzò a sua volta dalla seggiola. «Oh, sì.» Spinse i piedi nudi nel prato, mosse le dita fra i ciuffi di erba fresca, inspirò a fondo per riguadagnare fiato in gola e colorito sulle guance. «Sì, ci sta.»

Quando si separarono, Giulia aiutò Massimo a riportare dentro la brocca vuota, i bicchieri bagnati dagli avanzi di limonata, e rassicurò Luca di non preoccuparsi per le valigie da disfare.

Luca e Alberto uscirono dal cortile di casa e imboccarono le stradine di Portorosso che a quell’ora del pomeriggio erano per lo più deserte, eccezion fatta per il Signor Oreste che riordinava le cassette di frutta sul retro della bottega, per tre gabbiani che si erano fermati a beccare il marciapiede fuori dalla panetteria, e per qualche gatto che sonnecchiava all’ombra delle piante, al riparo dalla canicola che, con l’approcciarsi della sera, si stava rendendo più sopportabile. Presto la piazza si sarebbe riempita di ragazzini, i pescatori di ritorno dal mare avrebbero occupato le seggiole del bar, e l’oste avrebbe cominciato a distribuire i primi aperitivi sui tavoli maculati di vino e ricoperti di carte da gioco.

Luca rallentò il passo – la strada bollente sotto le piante dei piedi – e si guardò attorno, incontrando lo stesso paesaggio che lo aspettava ogni estate. Però lo colse un altro brivido, lo stesso che lo aveva punto e da cui si era sottratto quando Alberto gli aveva avvolto il braccio attorno alle spalle, attirandolo a sé. Sorse di nuovo la fredda sensazione di non appartenere più a quei luoghi, di sentirli estranei come un paio di scarpe troppo strette. Tornò il presentimento di come tutto fosse cambiato, di come fosse diverso, e di come non sarebbe mai più tornato come una volta.

Ora che ci penso…

Nemmeno le casette del vicinato gli apparvero familiari come un tempo. I fiori piantati negli orticelli formavano composizioni che lui non aveva mai visto, le lenzuola messe a stendere sulle terrazze erano colorate da fantasie a lui estranee, i profumi troppo speziati provenienti dalle cucine gli punsero il naso, e pure le voci che chiacchieravano dai balconi aperti giungevano come versi di animali sconosciuti.

Questa sarà l’ultima estate che trascorrerò a Portorosso sapendo di avere un porto sicuro in cui fare ritorno. Ma a settembre comincerà l’ultimo anno di scuola. E dopo?

Entro l’estate successiva anche lui si sarebbe ritrovato maggiorenne. Avrebbe varcato l’età adulta. Quel pensiero avrebbe dovuto farlo sentire libero.

Perché allora non è così? Forse è normale che succeda, almeno all’inizio. Forse dovrei chiedere ad Alberto come ci si sente a essere maggiorenni. Lui non mi sembra poi così angosciato dalla novità. Però no, per lui è diverso. Alberto è già libero. Ha pure la patente. Potrebbe saltare in auto e andarsene in giro per il mondo quando vorrebbe. Ma allora perché non lo ha ancora fatto?

Considerò che era proprio come stava scritto nel suo tatuaggio: Alberto era stato in grado di fare della terraferma il suo nuovo mare, ribaltando la condizione di prigionia nella quale invece Luca si sentiva cadere sempre più a fondo. Alberto non sembrava per nulla intenzionato a lasciare Portorosso. La sua faccia non aveva nulla dell’espressione cupa che aveva mostrato quella notte, quando lui e Luca si erano confidati in cima alla torre, e gli occhi brilli di Alberto erano tornati a proiettarsi verso il desiderio di aggrapparsi al manubrio della Vespa e di scappar via, come quando erano piccoli.

Paradossale come ora fosse Luca quello a ritrovarsi di nuovo preda di quell’irrefrenabile bisogno di fuggire, di gettarsi alla ricerca di un luogo dove poter respirare a pieno petto e dove riprendere fiato. L’aria di Portorosso non era più in grado di dissetarlo.

E se fossi davvero io quello a chiedergli di andarcene? Come avrei voluto fare la scorsa primavera, quando non ho avuto il coraggio di dirglielo per telefono. Cavoli, mi andrebbe bene persino se si dovesse trattare di andarcene sulla sua Ape. Ma Alberto cosa risponderebbe?

Gli avrebbe detto di no, di sicuro. E Luca ne avrebbe sofferto.

Infatti, si disse. Soffrirei proprio come deve aver sofferto Alberto quella notte sulla nostra torre, quando ero stato io a dirgli che non lo avrei seguito.

Luca ficcò le mani nelle tasche dei calzoncini, serrò i pugni e si strinse nelle spalle, rattrappendosi come un piccolo paguro che si rintana nella sicurezza del suo guscio. Non si era sentito così in trappola nemmeno quando da piccolo aveva rischiato di essere spedito negli abissi.

Camminarono ancora, circondati dallo stridere dei gabbiani svolazzanti, sormontati dal cielo di un azzurro abbagliante, privo di nuvole, che si stagliava al di là delle casette color pastello che, nella zona così vicina al porto, si facevano più rare e distanziate. Oltre ai profumi pepati di caciucco e di sugo al basilico che aleggiavano fuori dalle finestre e dai terrazzi, Luca percepì l’odore del mare sempre più vicino e penetrante.

Un conato di nausea gli ribaltò la pancia.

Luca allentò il bavero della maglietta, si grattò sotto la stoffa, dove lo pizzicavano le minuscole goccioline di sudore e dove sapeva che sarebbero presto sbocciate le squame.

Si accostò al fianco di Alberto, temporeggiando. «Mamma e papà non sanno niente di quello che è successo qualche mese fa a Genova, vero?» Cercò di ingannarsi, di convincersi che sarebbe passato tutto, e che, una volta sceso in mare e lasciatosi stringere dalle braccia di sua mamma, si sarebbe sentito meglio. «Sai, no, la storia della pioggia, della mia crisi dentro la cabina, poi la telefonata, e…» Frenò le parole sulla punta della lingua, batté le palpebre per dissolvere le immagini di quella giornata terribile che era ancora capace di destabilizzarlo. «Non gli hai detto nulla?»

Alberto rallentò la camminata per rimanere al passo con Luca. Lo osservò per un po’ con quel suo nuovo e inciso muso da adulto, con quegli occhi che avrebbero dovuto trovarsi in possesso di una qualche consapevolezza che Luca ancora ignorava, nelle sue vesti da minorenne. Scosse il capo. «Nulla di nulla, te lo giuro, come mi avevi chiesto tu.» Calciò via un sassolino che rimbalzò sul muro del tabacchino. «Sono stato di parola.»

Luca si svuotò da un lungo sospiro di sollievo. Il primo della giornata. «Grazie» mormorò. «Grazie per aver mantenuto la promessa.» Non che avesse mai messo in dubbio la lealtà di Alberto. «Però ci ho pensato, ora che è tutto passato e ora che è anche passata la paura.» Si grattò la nuca, fece il vago. «Forse potrei anche dirglielo, magari…» Strinse le dita fra i capelli. «Magari non proprio tutto nei minimi particolari, ma almeno accennarglielo, perché…» Alzò le spalle. «Non ha senso che rimanga un segreto, no?»

Alberto annuì. «È la cosa migliore, credi a me.» Gli rifilò una soffice pacca fra le scapole. «E vedrai che dopo ti sentirai meglio anche tu.»

«Ma mi sento già meglio.» Luca incrociò le braccia, se le strofinò come quando faceva freddo, si poi grattò sotto le corte maniche della maglietta, e infine si sfregò i palmi sui calzoncini, come per asciugarsi da una patina di sudore inesistente. «Te l’avevo detto anche quando ci siamo sentiti al telefono, ti ricordi?» Allontanò lo sguardo per non dover fronteggiare il peso di quella colossale bugia. «È stato solo un incidente. Solo un malumore passeggero.»

«Sicuro?» Alberto si chinò in avanti, senza smettere di camminare. Arricciò il naso come un mastino che fiuta il terreno. «Sicuro che sia proprio tutto finito?»

«Sì.» Luca annuì, però rispose senza guardarlo negli occhi. Non ne ebbe il coraggio. «Sì, ora sto bene, sul serio.» E non ne ebbe il coraggio perché anche quella era una bugia. Credeva che fare ritorno a Portorosso lo avrebbe aiutato a sentirsi meglio, e invece stava addirittura peggio. Cercò di non fissarsi troppo sul braccio destro di Alberto, sul suo tatuaggio, su tutti quei pensieri e su tutte le novità che recava con sé quel disegno così bello. Cercò invece di tirarsi su di morale. «Ma sei gentile a preoccuparti così per me.» Gli rivolse un sorriso più dolce e soprattutto sincero. «Ti stai proprio calando bene nel ruolo di maggiorenne, vero?»

Alberto rise. «Be’…» Strizzò l’occhiolino. «Non manca poi molto perché anche tu arrivi a farmi compagnia.» Gli diede una pacca tale da farlo sobbalzare. «Corriamo, dai!» Compì un rimbalzo sui piedi nudi, slanciò le gambe verso il mare che ondeggiava al di là del pontile di legno, e travolse il volo innalzato dai gabbiani che si erano radunati a beccare la strada fuori dalla panetteria.

In quella corsa circondata dallo svolazzare delle piume bianche e grigie, Luca riuscì a vederlo. Fu ancora in grado di scorgere l’ombra del ragazzino che Alberto era stato e che in qualche maniera viveva ancora in lui. Udì il richiamo schiaffeggiato dai suoi piedi nudi che volavano lungo la strada di pietre. Sorse in lui il bisogno di inseguire quelle lunghe e secche gambe abbronzate che lo avrebbero condotto lontano, in un luogo che Luca sentiva non sarebbe mai stato in grado di raggiungere da solo.

Alberto distese le braccia, giunse le mani, e si tuffò dal pontile.

Splash!

Dietro gli schizzi bianchi e azzurri frammentati dalla sua immersione, avvenne il distacco, si spalancò una distanza incolmabile, e la macchia del suo blu scese verso il fondale, mentre Luca si trovava ancora in superficie.

Luca frenò la corsa strusciando i piedi nudi sul pontile di legno umido e tiepido. Si affacciò, esitando come aveva esitato la prima estate dopo la sua partenza e il suo ritorno, quando si era estraniato davanti alla sua stessa immagine riflessa sullo specchio di mare, scoprendosi spaesato dopo tutti quei mesi trascorsi in superficie.

Adesso il mare gli sembrava un corpo d’acqua così freddo. Persino buio, nonostante la luce del giorno ancora alta, nonostante le sfumature turchesi galleggiate fra le onde, e nonostante l’oscillare dei fasci di alghe verdi che germogliavano fra i piloni.

Coraggio. Luca serrò i pugni, si impose di staccare i piedi dal pontile e di tuffarsi nonostante i brividi di paura, nonostante quel groppo in gola che proprio non gli andava giù. Coraggio, Luca, tuffati. È solo acqua. È solo il mare. È il mare di Portorosso, qui nessuno ti farà del male, anche se ti trasformi. È l’acqua in cui sei nato, perché dovresti averne paura? Perché?

Il bianco cerchio di onde infranto dal tuffo di Alberto si dissolse. L’acqua fece dondolare l’unica barchetta ormeggiata, si accavallò sui piloni incrostati di alghe e molluschi, e leccò la parete di cemento che sprofondava fra gli scogli.

La macchia blu si rimpicciolì, sventolò un colpo di coda, attraversò la tenda di alghe, e tornò su, infrangendo la superficie per una seconda volta. «Vieni, Luca!» Alberto sventolò il braccio gocciolante. «Andiamo!»

Luca si ripeté che sarebbe stato facile, che si trattava solamente di scendere in mare, di riabituarsi a percepire il moto delle onde come un abbraccio protettivo, come la sua casa, superando così tutto quello che era capitato a Genova, dimenticandosi di tutte le volte in cui l’acqua era stata causa di sciagura.

E poi andrà meglio.

Alberto batté la coda fra i grumi di spuma, compì un giro attorno a un pilone, tornò a voltarsi e a inquadrare Luca che ancora non si era mosso. Accostò la mano palmata alla bocca, lo chiamò una seconda volta. «Che aspetti?» La luce del sole scivolò e splendette sul tatuaggio che era sul serio visibile nonostante la pelle squamata di blu. «Tuffati!» Tornò a immergersi e sparì dietro il piccolo zampillo sbatacchiato dalla cresta della sua coda.

Davanti a quella visione, Luca si sentì raggelare fino alla bocca dello stomaco. Gli venne da tendere il braccio, da spalancare la mano e da afferrare l’immagine di Alberto che si allontanava, che sprofondava in mare senza alcuna esitazione, rimpicciolendosi e disperdendosi assieme al rassicurante tepore della sua presenza.

Era la sua fiaccola che si spegneva. Era la lanterna di Lucignolo che si affievoliva, che saltava sul carretto degli asinelli e che lasciava Luca indietro, nel bel mezzo della strada di ghiaieto che tornava a essere buia e nebbiosa, anziché rischiarita dallo sguardo di Alberto che sapeva sempre dove girarsi e quale direzione imboccare.

No!

Luca allungò un passo, guidato dalla torsione di quel dolore lancinante.

No, non lasciarmi indietro, non voglio perdermi di nuovo!

Il piede scivolò dal pontile, la caviglia si torse, il tuffo infranse la superficie del mare – splash! – e l’impatto lo assordò.

Luca venne attraversato dal formicolio del suo corpo che mutava, della sua coda che si allungava, delle squame che si sovrapponevano sotto gli abiti, e delle pinne dilatate fra le dita. Strizzò gli occhi e si lasciò sprofondare dove l’acqua era più fredda, un luogo ostile e inospitale. Rami di alghe si allungarono, lo circondarono come braccia e lo inguainarono in una rete che lo trascinò ancor più in basso, dove la corrente era statica e dove il respiro gli schiacciava il petto, anziché alleggerirgli il cuore.

Qualcosa di ruvido gli grattò la guancia e la spalla.

Luca schiuse gli occhi nell’acqua scura, si voltò verso quella sensazione sgradevole e viscida che lo aveva graffiato.

Era sprofondato fra le cime di corda che tenevano ancorata l’unica piccola barchetta ormeggiata nel porto. Erano state quelle a essergli passate sopra la spalla e ad averlo graffiarlo. Corde sfilacciate e vecchie, incrostate di alghe, di piccole conchiglie e di paguri che zampettarono via, ritirando le chele nei gusci e sfuggendo al pericolo.

Anche loro erano destinati a soffocare in quello stesso mare dove erano nati e dove sarebbero morti, sgretolandosi come sabbia e trasformandosi in schiuma che il vento avrebbe soffiato via, dissolvendo fino all’ultima bollicina.

 


N.d.A.

Uuh, un ligure infervorato di De André? Non se lo aspettava nessuno, proprio, lol. Ma non serve essere liguri per poter apprezzare della buona musica (u.u).

 

Ah! Approfitto di questo spazio per condividere un piccolo headcanon a cui tengo molto e che so non troverà mai spazio di sviluppo nel corso di questa storia.

Per come la vedo io, i tatuaggi di Alberto saranno davvero tre. Il primo è quello che si è visto qui, quindi la composizione dell’arpione, della rete, dello scorpione, eccetera, e questo sul braccio destro. Il secondo sarà la P della Piaggio, a mo’ di stemma, sulla caviglia destra. E il terzo sarà un ritratto di Lupo Alberto sulla scapola sinistra, ma disegnato solo sui contorni, in modo che si tinga di blu quando è bagnato, proprio come la pelliccia originale (che in effetti è azzurra, ma ‘sti cazzi xD).

Lupo Alberto è stato creato *sbircia Wikipedia* negli Anni Settanta, quindi a livello di tempistica dovrebbe rientrarci perfettamente, dato che il nostro Alberto sarebbe ancora sulla tarda ventina. Ce lo vedo tantissimo a leggere i fumetti di Silver! (*-*)

E niente, solo questo. :)

Grazie a chi sta leggendo/seguendo, e arrivederci al prossimo capitolo!

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Capitolo 28
*** 28 ***


28

 

 

Giulia spalancò le braccia sott’acqua, sforbiciò le gambe per darsi la spinta verso l’alto, schiuse gli occhi nonostante il bruciore che le appannava la vista, andò incontro alla bianca e vibrante palla del sole che splendeva oltre la superficie, e sfiatò dalle narici una doppia scia di bollicine che si frantumarono lungo le sue guance.

Divaricò un’ultima scalciata di gambe, infranse la piatta superficie del mare e, accolta dall’improvviso abbaglio del sole, sputò uno zampillo d’acqua. Gettò la testa all’indietro e ingoiò un avido risucchio di fiato, «Aaah», per gonfiarsi il petto dopo l’apnea della risalita. Usò entrambe le mani per raccogliere la massa di capelli bagnati e gettarli lontano dal viso, liberandosi così la vista. Sfarfallò le ciglia fradice, si diede una strofinata all’occhio che bruciava di più, tirò su col naso, e agitò le gambe per rimanere a galla.

Un’onda bassa e soffice le carezzò la schiena, infrangendosi all’altezza delle spalle ricoperte di lentiggini. Una coppia di gabbiani stridette, abbandonò il picco di scoglio su cui si erano appollaiati per andare a caccia di granchietti, e volarono entrambi verso l’orizzonte, incontro ai piloni del porto, alle casette di Portorosso distribuite sulle frastagliature della costa poco distante.

Giulia annaspò, riguadagnò fiato, e succhiò il bruciante sapore di salsedine di cui erano impregnate le labbra. Scalciò qualche sforbiciata più decisa per restare a galla, e si girò verso Alberto che divaricò una sbracciata, fendette la piccola cresta d’onda innalzata dal tuffo di Giulia, e la raggiunse con un solo colpo di coda.

Giulia gli sorrise, il cuore gonfio ed eccitato, e slanciò le braccia verso il cielo. «Di nuovo!» Cadde di schiena. Sgambettò per tornare in equilibrio, e con sole tre bracciate raggiunse Alberto, urtandogli la pinna della coda.

Senza nemmeno aspettare che lui fosse pronto – e quando mai non lo era? – infilò i piedi dentro le mani che Alberto aveva giunto a formare una coppa, gli fece scivolare le braccia sopra le spalle squamate, si aggrappò alla stoffa della maglietta bagnata, e piegò le ginocchia contro il suo petto, mettendosi così rannicchiata, preparandosi per l’ennesimo tuffo. «Di nuovo, di nuovo!» Giulia molleggiò su e giù, già pronta allo slancio. «Ancora più in alto, spingimi più in alto che puoi, mille volte più in alto di adesso!»

Alberto tenne alto il muso per non rischiare di prendersi una ginocchiata sul mento. «Mi hai forse scambiato per un trampolino vivente?»

«Ooh, dai» si lamentò Giulia, «non fare la lagna, Signor Pesce.» Appiattì per bene i piedi sulle mani palmate di Alberto. Le braccia cinte attorno al suo collo fremettero di impazienza. «Dammi di nuovo la spinta, così stavolta ti faccio vedere come so fare la capriola all’indietro.»

Alberto fece cadere il sorriso e la rimproverò con un’occhiataccia sbieca. «No, Giulia.» Rafforzò un tono più rigido. «Scortatelo. Niente capriola all’indietro.»

Giulia fece schioccare la lingua con aria di sufficienza. «Ma guarda che ho già calcolato che ce la faccio benissimo.» Sfilò un braccio dalla spalla di Alberto e puntò l’indice verso l’alto. «Ho preso la misura quando sono atterrata dall’ultimo tuffo, e sono sicurissima che verrebbe assolutamente perfetto.»

Alberto scosse il capo. Allentò la presa delle mani giunte sotto i piedi di Giulia, scivolò con le spalle all’indietro, e sventolò la punta della coda fuori dall’acqua. «Se la tua intenzione è quella di romperti la testa allora non contare su di me.»

«Non mi rompo la testa.» Giulia tornò a cadergli addosso, distese di nuovo le braccia per rimanergli aggrappata alle spalle. Petto contro petto, le ginocchia schiacciate sul suo ventre, e gli stessi occhioni imploranti di un cucciolo che prega di essere accudito e coccolato. «Dai, Alberto, non farti pregare. Poi oggi non ci sono né onde né vento, non può succedermi niente di tragico. E, anche se mi succede, ci sei tu che mi vieni a recuperare, giusto?»

Alberto sostenne con fermezza lo sguardo di Giulia. «Niente capriola all’indietro, Giulia.» Aggrottò la fronte senza però riuscire nell’intento di far apparire più minaccioso il suo musetto da mostro marino. Risultò solo un goffo tentativo di imitare una delle espressioni di rimprovero di Massimo. «Punto e basta.»

Sospirando, Giulia alzò gli occhi al cielo. Ed era un cielo terso, senza la minima nuvola a sbavarlo. Su una cosa aveva avuto ragione: il mare quel giorno era piatto come vetro, e il sole vi si specchiava come una perfetta sfera bianca. «Niente capriola, e va bene. Però voglio lo stesso fare un altro salto.» Tornò a schiacciare i piedi sulle mani di Alberto, a premere le ginocchia contro il suo petto, e a rannicchiarsi nella posizione di lancio. Di nuovo tremolò d’impazienza. Copiosi rivoli d’acqua gocciolarono dai riccioli e le rotolarono sulle spalline del costume da bagno. «Al tre?» Molleggiò una prima spinta. «Uno…»

Alberto indurì le spalle, gonfiò i muscoli delle braccia e andò più a fondo con le mani. «Due…» Caricò la spinta. «Tre!» E sparò Giulia verso l’orbita planetaria.

Giulia spalancò le braccia gocciolanti, piroettò davanti ai raggi del sole che si frastagliarono sugli schizzi cristallini e che luccicarono attraverso la cascata dei suoi riccioli color rame. «Whooo-ooh!» La sua risata squillò gioiosa. Gambe e braccia si dimenarono come le impazienti ali di un uccellino che spicca il primo volo della sua vita, e infine giunse la discesa, il poderoso splash! che infranse l’acqua – Alberto rise e gemette allo stesso tempo –, e lo spalancarsi di un basso cratere di onde schiumose.

Un gabbiano che galleggiava in santa pace sfuggì alla cannonata di Giulia. Sbatacchiò le ali perdendo qualche piuma, volò in cerchio, le starnazzò addosso, come per protesta, e andò ad appollaiarsi sul picco dello scoglio più vicino.

Gli schizzi del tuffo piovigginarono fino alla loro barca a remi. Qualche goccia maculò il legno delle assi, bagnò il muso di Principe che, imbronciato, scrollò i baffi e andò a rintanarsi sotto la panca. Pure Luca rannicchiò le gambe e si rintanò nell’angolo, rabbrividendo per quello sfioro così ravvicinato. Per un pelo.

Luca usò un lembo della sua maglietta per strofinare il legno bagnato. Tornò a distendere le gambe all’asciutto, rattrappì le dita dei piedi, le sgranchì, e strinse le mani a pugno, strizzando la stoffa dei calzoncini. Si fece aria al viso accaldato dall’afa e impallidito a causa di quel piccolo singhiozzo di spavento. Distolse lo sguardo dalla visione di Alberto che si era allacciato le braccia attorno allo stomaco per sbellicarsi dal ridere dopo il disastroso tuffo di Giulia, e si chinò invece a spiare Principe che si era rannicchiato all’ombra della panca. «Meno male che almeno loro due sanno come divertirsi, vero, Principe?»

Principe arruffò i baffi. Girò su se stesso, avvolse la coda attorno al corpicino acciambellato nel cantuccio, sbadigliò, e chiuse gli occhietti per sonnecchiare e tenersi al riparo dalla canicola.

Anche Luca annaspò per il gran caldo. Allentò il colletto della maglietta, si fece aria alla gola, grattò via le minuscole goccioline di sudore che cominciavano a fiorire attorno alla sporgenza della clavicola, e alzò il braccio per parare la luce del sole che gli martellava sulla testa. «Magari fosse così facile ripararmi, ma mi sa tanto che per me non c’è spazio sotto la panca.» Le poche e deboli onde innalzate dal tuffo di Giulia e dalle codate di Alberto rotolarono fino alle pareti della barca, la fecero dondolare, e costrinsero Luca ad aggrapparsi al bordo per non perdere l’equilibrio.

Il sole del pomeriggio sguainò le sue lame sulla distesa del mare e sparpagliò una serie di frammenti di luce che sbatterono anche sugli occhi di Luca, accecandolo come un’esplosione di cristalli di vetro. La sua vista si affaticò a un punto tale che gli fu difficile persino mettere a fuoco gli scogli più vicini, le sagome delle barchette ormeggiate, o i profili delle casette distribuite sulla costa poco distante.

Era domenica, l’ultima di agosto, e faceva ancora tremendamente caldo. L’estate quell’anno teneva strette le sue zanne fino all’ultimo, non ne voleva proprio sapere di allentare la presa e di cedere il palcoscenico all’autunno che ormai era proprio dietro l’angolo e bussava timidamente alle porte di settembre.

Tutta Portorosso a quell’ora sonnecchiava. Nessuno aveva voglia di starsene fuori a boccheggiare, tranne che per qualche signora che usciva a ritirare i panni del bucato o a controllare i calderoni di pomodori bolliti che fumavano e gorgogliavano nei cortili delle case. Era infatti giunta l’ora di cominciare a imbarattolare le passate e la verdura sott’olio, in modo da riempire gli scaffali delle dispense con le scorte per l’inverno.

Gli anziani erano anche indaffarati dietro la pulizia delle cantine. Bisognava spolverare i catini, le giare e le pompe per prepararsi alla macerazione dell’uva e alla fermentazione del vino, dato che la vendemmia sarebbe cominciata entro poche settimane.

Nemmeno i bambini erano ancora usciti a giocare in piazza. Stavano aspettando che scendesse un po’ di fresco, che il sole calasse verso l’orizzonte, che il cielo imbrunisse, e che alitasse qualche soffio di venticello. Non volevano di certo rischiare di fare la fine di lucertole stecchite sotto le pugnalate del sole.

Luca, Alberto e Giulia avevano quindi deciso di approfittare di uno degli ultimi caldi di agosto, di quella che forse sarebbe stata la loro ultima domenica di assoluta libertà, per trascorrerla completamente assieme. Per staccarsi dall’aria stantia che si respirava fra le strade del paese, avevano deciso di salpare sulla barca a remi e di uscire in mare a divertirsi come ai vecchi tempi, come quando erano piccoli, proprio come se si fosse trattato di prendere per mano la loro controparte bambina e di dirle: dai, giochiamo ancora per un po’, prima che la corazza da adulto si indurisca come il carapace di un insetto, impedendoci di spalancare le ali e di spiccare il volo.

Luca sperava che quel pensiero lo incoraggiasse, che lo coinvolgesse, e che risvegliasse quella parte del suo cuore che era rimasta assopita per tutto l’inverno, e invece aveva trascorso tutto il pomeriggio senza riuscire a strapparsi nemmeno una risata dalle labbra. Non era certo il modo migliore per concludere quell’estate.

Alberto sbatacchiò un colpo di coda per raddrizzarsi, e sciolse la stretta delle braccia dalla pancia che gli doleva per tutte le risate che aveva sputacchiato dopo aver assistito al tuffo di Giulia. Affondò una sbracciata, si sporse a sbirciare fra le frastagliature della schiuma di mare che si spansero fino a dissolversi contro di lui e alla base degli scogli. Soffiò un lungo fischio, guardò in direzione di Luca. «Che sberla, eh?» Gracchiò gli ultimi singhiozzi di risata.

Luca scosse le spalle e ostentò un sorriso, sforzandosi di non mostrarsi più cupo di quel che già era. «È stato artistico, a modo suo.» Si asciugò la fronte con il braccio e usò il bavero della maglietta per arieggiarsi il collo. «Panciata a parte.»

Alberto alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. «Umani…» Scivolò sulla schiena, sforbiciò le gambe, e si allontanò dai cerchi di onde in modo che, emergendo, Giulia non rischiasse di sbattergli addosso.

Luca avvolse le gambe in un abbraccio, piegò le ginocchia contro il petto e vi poggiò il mento sopra. Lo sguardo assente, stordito dal gran caldo, ma quella vaga sfumatura sognante fissa sull’immagine di Alberto.

Era stata una fortuna poterselo tenere vicino per tutto il pomeriggio. Ed era anche per questo che non ci avevano pensato due volte ad approfittare di quella domenica miracolosa. Ma fu anche a causa di quel pensiero che la tristezza di Luca crebbe come la risacca di una marea scura e limacciosa.

Persino quando Alberto non era fuori in mare con Massimo o al lavoro dal meccanico era difficile aggiudicarsi il privilegio della sua presenza, dato che i genitori e i nonni del paese gli chiedevano sempre di sorvegliare i bambini quando andavano a nuotare in spiaggia o quando si mettevano a scorrazzare nei dintorni del porto, giocando a cavallina sui pontili o saltellando da una bitta all’altra. Alberto non se l’era mai sentita di rifiutare. Ormai, dopo tutti quegli anni vissuti lì a Portorosso, si era conquistato una fama ben retribuita. E tutta sfornata di tasca sua, come aveva sempre desiderato.

Un primo grappolo di bolle germogliò fino alla superficie del mare e si dissolse fra i residui della schiuma schiaffeggiata dal tuffo di Giulia.

Luca si sporse, facendo inclinare la barca a remi, e scorse l’emersione di Giulia, lo spalancarsi delle sue braccia, l’azzurro del costume da bagno, il rosso dei suoi capelli che si dilatò approcciandosi al pelo dell’acqua come…

Come una medusa, già.

Luca scosse il capo e fece immediatamente scomparire quel pensiero che affiorò e che venne risucchiato negli abissi della sua mente come il tenebroso ululato di un fantasma che era meglio lasciare indisturbato.

Giulia infranse la superficie dell’acqua, sputò uno zampillo, risucchiò una boccata di fiato a pieni polmoni, e di nuovo innalzò i pugni al cielo per esultare di gioia. «Mitico!» Fece ricadere le braccia con uno splash! e si girò verso Luca, sorridendogli. «Mi hai vista, Luca?» Aveva i capelli incollati alle guance scottate dall’abbronzatura e puntellate dalle lentiggini. «Mi hai vista anche tu, eh? Hai visto che tuffo gigante che ho fatto?»

Luca sorrise, sforzandosi di non rimuginare troppo sullo schianto della panciata. «Ti ho vista, Giulia, ti ho vista.» Batté un piccolo applauso. Bastò il buonumore di Giulia per far svanire i fantasmi delle meduse, le ombre dei cattivi pensieri. «Sei stata grande.»

Alberto le nuotò vicino. «Stai bene?» Scivolò sul fianco e le porse la coda, in modo che Giulia potesse aggrapparsi intanto che riprendeva fiato. «Te l’ho detto di non agitare le braccia in quel modo quando ti tuffi. Ho sentito rimbombare la panciata fin nel cervello.»

Giulia sbuffò e tirò su il mento. «Sto benissimo, era tutto programmato.» Affondò una mano fra i capelli bagnati e districò i riccioli che le erano finiti davanti agli occhi. «Colpa dei capelli.» Sputacchiò qualche ciocca e si pettinò le restanti dietro le orecchie. «Quando sono per aria mi vanno negli occhi, e così non riesco a misurare bene la distanza prima di cadere in mare.»

«Così impari a non indossare gli occhialoni e la cuffia.»

«Non voglio la cuffia.» Giulia scaricò un piccolo pugno sull’acqua. «La cuffia è per i bambini, e io non ho più dieci anni. Ecco, aspetta…» Si sfilò uno degli elastici per capelli che teneva allacciati attorno al polso, lo porse ad Alberto, e sgambettò per girarsi di schiena. «Aiutami a legarmi i capelli.» Li raccolse dalle spalle e li chiuse dentro un pugno. «Così non mi vanno in faccia.»

«Ti faccio la coda?»

«Sì, ma fammela bassa» rispose Giulia. «E stringi forte. Ahi! Non così forte.»

«Stessi ferma.» Alberto pinzò l’elastico di Giulia fra le punte dei denti, si accigliò, le sgarbugliò i capelli destreggiandosi con le mani palmate che sprofondarono nella massa di riccioli bagnati. «Ti ricordo che sto facendo tutto con gli artigli da pesce e non con le dita da umano.»

Giulia spernacchiò una risata. «Non è che le tue dita da umano siano poi tanto più delicate.»

E pure Alberto rise a quell’ovvietà.

Sporgendosi dal suo cantuccio e dalla barchetta a remi, Luca fu di nuovo in grado di notare come il tatuaggio di Alberto fosse visibile anche adesso che era trasformato. L’inchiostro nero ben acceso attraverso le sfumature blu-viola delle squame. L’estremità ricurva dell’arpione puntata verso la spalla, il solito grasso scorpione aggrappato con le chele alla base dell’asta, e la rete sbrindellata che spandeva le sue corde e le sue onde fin sotto la manica della maglietta.

Nonostante la prepotente luce del sole a bruciargli la pelle, nonostante l’afa a comprimergli il petto, e nonostante i riflessi abbaglianti che, rimbalzando sull’acqua, gli davano il capogiro, Luca rabbrividì, colto da un malessere improvviso che lo costrinse a rannicchiarsi proprio nello spigolo di prua, ad allontanarsi dall’odore dell’acqua salmastra e dal suo riflesso specchiato sulla piatta superficie del mare.

Luca quel giorno non aveva nemmeno allungato la punta del piede fuori dalla barca, non si era neanche sporto per cogliere una conchiglietta rosa che Giulia aveva recuperato fra gli scogli e che aveva voluto donargli, tanta era la paura di cascare in acqua. Non provava alcun desiderio di tuffarsi e di sguazzare come un pesciolino che rimbalza fra le rapide di un fiume in piena. Nemmeno la salda e sicura presenza di Alberto riusciva a incoraggiarlo. Nemmeno la gioia che lui e Giulia condividevano nuotando allegri come due giovani delfini che fanno le capriole fra le onde riusciva a contagiarlo.

Quello stato d’animo non costituiva una novità. Luca infatti aveva trascorso tutta l’estate oppresso dalla perenne angoscia di tuffarsi in mare e di scendere al suo villaggio, anche se si trattava pur sempre di far visita a casa, di riabbracciare i suoi genitori, di scambiare quattro chiacchiere con i vicini, e di portare a spasso il gregge di pesci. Non era stato in grado nemmeno di tornare all’Isola del Mare e di salire sulla torre assieme ad Alberto, se non per un paio di volte. E la solfa di cui si ritrovava vittima era la medesima: il respiro gli comprimeva il petto, la faccia sbiancava, un cerchio di vertigini gli ronzava attorno alla testa, la vista si sdoppiava, e i piedi tremavano, impazienti di sloggiare prima che il pavimento avesse potuto sbriciolarsi e fagocitarlo negli abissi.

Era ricominciato. Luca aveva ricominciato a sentirsi disgustato di fronte al riflesso della sua forma trasformata, al suo muso da pesce, agli occhi gialli e anfibii, alle creste che sventagliavano sotto la massa di capelli d’alga. Si era ripresentato quel frenetico bisogno di grattarsi, di scrostarsi le squame di dosso e di sbarazzarsi di quella parte di se stesso che cominciava a stargli stretta come l’uniforme scolastica che faceva fatica ad abbottonare fino all’ultima asola e le cui maniche ormai non arrivano nemmeno ai polsi.

Si era ripresentato l’occhio nero della voragine, proprio come aveva temuto sarebbe potuto accadere a giugno, non appena aveva fatto ritorno a Portorosso. Era ricomparsa la sensazione di vuoto frantumata sotto i suoi piedi, il terrore che il mare potesse spalancarsi e risucchiarlo nella sua voragine, imprigionandolo negli abissi e impedendogli di tornare a Genova, di continuare a camminare su quella strada che anni addietro aveva cominciato a percorrere pur non sapendo dove l’avrebbe condotto.

Luca si rannicchiò e affondò la faccia nelle ginocchia bruciate dal sole. Strizzò forte le unghie sulla stoffa dei calzoncini, soppresse uno spasmo di freddo nonostante il vento caldo che profumava di sale e di rocce bollenti.

Lo accerchiò il terrore di ritrovarsi a brancolare nel buio, in una strada fatta di nebbia e di silenzio. Un luogo che nemmeno la luce di Alberto sarebbe stata in grado di rischiarire. Un luogo dove nemmeno Alberto avrebbe potuto tendere il braccio, raggiungere Luca, e tirarlo a sé, condurlo al sole come anni prima lo aveva estrapolato dall’acqua del mare e sbattuto sulla spiaggia.

È la fiamma di Lucignolo.

Luca boccheggiò un altro affanno, buttò giù un amaro e pastoso groppo d’ansia che batté un doloroso colpo sullo sterno.

È la fiamma di Lucignolo che si sta spegnendo, e io non so più come fare per riaccenderla o per ritrovarla.

Era la stessa sensazione di freddo e di perdita che aveva provato quando la nonna se n’era andata. Quando Luca aveva visualizzato un pezzo di scoglio sgretolarsi, trasformarsi in sabbia, privandolo di un appiglio a cui affidarsi quando si sarebbe sentito trascinare alla deriva, quando non si sarebbe sentito in grado di rimanere a galla nemmeno con le pinne e con la coda.

E ora non so più a quale scoglio dovrei appendermi per non sentirmi precipitare.

Rivoletti di sudore si sciolsero dalle tempie e dalla curva del collo, gli spolverarono la pelle di un colorito verde-azzurro, e gli inumidirono il bavero della maglietta che cominciava a prudere e a stargli stretta, a suscitare quella voglia di infilare le dita sotto gli abiti e di scalfirsi a suon di unghiate.

Luca si costrinse a inspirare a fondo. Riaprì gli occhi, sbatacchiò le ciglia, rimise a fuoco il cielo azzurro, il mare turchese, le macchioline dei gabbiani in volo, e gli spigoli degli scogli simili a scuri denti cariati.

Scivolò sull’altra estremità della panca, distese le gambe arrivando a toccare l’ombra della trave opposta, sgranchì i piedi stando però attendo a non urtare Principe che sonnecchiava all’ombra, e si fece aria al viso, senza comunque conquistare alcun sollievo. Alzò di nuovo gli occhi verso il cielo talmente azzurro e terso da accecarlo. Invocò un ricciolo di nuvola, un soffio di vento, e la sua preghiera cadde nel vuoto.

I gabbiani che volavano in cerchio frammentarono la formazione, imboccarono una corrente e si fecero trascinare verso la riva. Qualcuno scese sugli scogli, beccò fra le rientranze per accaparrarsi i granchietti che, dopo la bassa marea, si erano arrampicati sulla roccia bagnata e foderata di alghe spugnose simili a muschio. Alcuni beccarono i bocconi più grandi, sbatterono le ali e sbraitarono contro quelli che si erano accostati per rubare loro il pasto dal becco. Si alzarono di nuovo in volo e decollarono verso Portorosso, verso le file di piloni attorno ai quali l’odore della bassa marea era stagnante come quello che aleggia da un acquitrino. Odore di fango limaccioso, di vongolette marce, di guano secco, di crostacei abbrustoliti dal sole.

Anche Luca quel giorno si sentiva un crostaceo abbrustolito dal sole. Un’aragosta che bolle nella pentola a pressione. Un paguro che crogiola in una pozza di fanghiglia incandescente e che, friggendo, getta fumo dalla punta della sua conchiglia.

Anche lui avrebbe avuto tanto bisogno di tuffarsi, di affondare qualche sbracciata, di giocare fra gli spruzzi assieme a Giulia e Alberto, ma il pensiero di lasciarsi scivolare in acqua era ancora più angosciante dell’idea di fare la fine dell’astice bollito.

Devo resistere, si incoraggiò, stringendo ancor più forte le dita fra le pieghe dei calzoncini. Si tratta solo di questo. Devo resistere e non dare a vedere che sto soffrendo in questo modo. Ormai manca poco alla fine dell’estate, non dovrò tenere su questa farsa ancora per molto. Basterà convincere Alberto e Giulia che l’unico motivo per cui non entro in acqua è perché non ne ho voglia. E non perché ne sono terrorizzato.

Alberto e Giulia erano i suoi migliori amici, la sua famiglia. Odiava mentire a loro che erano le persone più care della sua vita.

Ma non c’è altra soluzione.

Sgarbugliati i riccioli di Giulia e raccolta la massa di capelli in una coda fradicia che cadde a grondarle fra le scapole, Alberto strinse l’elastico e le batté una soffice zampata sulla spalla. «Ecco fatto, madame

«Fatto?» Giulia torse un braccio verso la nuca, si tastò i capelli legati, sfoderò un’espressione rosea di soddisfazione, e tornò a slanciarsi in una sgambettata di allegria. «Allora voglio subito un altro tuffo!»

«Ancora?» Alberto si massaggiò la spalla, sprimacciò le giunture, e fece roteare il gomito. «Vuoi proprio che mi si stacchino le braccia a forza di spararti in aria? D’accordo che mi sono cresciuti i muscoli, ma…»

«Allora fammi fare un tuffo subacqueo.»

«Tuffo subacqueo?» Alberto tirò il capo all’indietro, storse un sopracciglio e dilatò le narici come se avesse appena fiutato odore di bruciato. Poi però rise. «E sarebbe?»

«L’ho brevettato in questo preciso momento» spiegò Giulia. «In pratica…» Puntò gli indici verso il basso. «Tu mi prendi per mano, scendi giù fino al fondale…» Appiattì le mani e flesse i polsi per mimare una risalita. «Poi nuoti su di corsa, più veloce che puoi, fai uno slancio fuori dall’acqua, come quando cavalchi le onde, e fai saltare anche me.» Batté le mani spruzzando uno schizzo limpido e cristallino tanto quanto il suo sorriso. «È geniale!»

«Quindi…» Il sorriso di Alberto cadde. I suoi occhi rabbuiarono. «Il piano è quello di trascinarti fin nell’acqua fonda?» Alberto scosse il capo, si allontanò con una sola sbracciata, si aggrappò alle rientranze dello scoglio più vicino, ci arrotolò la coda attorno, e sbatacchiò la maglietta bagnata, ma senza asciugarsi e senza mutare forma. «Te lo scordi.» Il tono di chi non ammette repliche. «Se ti portassi fin giù rischieresti di rimanere senza fiato.»

«Guarda che so trattenere il respiro.» Giulia sgambettò sollevando dietro di sé una scia di schiuma, andò ad aggrapparsi allo stesso scoglio, e si asciugò il viso con una manata. «Si tratterebbe di quanto?» Stropicciò le nocche sugli occhi irritati dall’acqua di mare. «Dieci secondi? Quindici al massimo.» Si sporse in avanti e aggrottò la fronte. Il viso a un soffio da quello di Alberto, tanto da potersi specchiare nel verde dei suoi occhi. «Secondo te non sono in grado di trattenere il respiro per quindici secondi? È già un miracolo che non mi siano sbucate le branchie, a forza di starmene sempre con voi due.»

«La risposta resta no.»

«Ooh, ma daaai, Albertooo.» Giulia sbatacchiò le mani in acqua per schizzarlo. «Si può sapere da quand’è che sei diventato così paranoico?»

«Non si tratta di paranoia.» Alberto schivò gli schizzi, circumnavigò lo scoglio, e andò a spremerle un pizzicotto sul naso. «Si tratta di puro e semplice senso di responsabilità. Lo capirai quando anche tu diventerai grande.»

«Oh-ooh» lo scimmiottò Giulia. «Ma guarda, guarda il Signor Maggiorenne come ha già imparato a darsi delle arie.» Mollò la presa dallo scoglio, scivolò sul dorso, e ridacchiò scalciando qualche schizzo su Alberto. «Abbassa la cresta e tutte le pinne, Signor Maggiorenne. Devi ancora imparare a pagare le tasse.»

Alberto si allontanò dagli spruzzi d’acqua ma rise, non tardando a riacquistare il buonumore, e intanto scoccò una sottilissima occhiata carica di furbizia in direzione di Luca. «Se ci fosse Luca a tenerti l’altra mano allora sarebbe più facile farti saltare in alto.»

Luca sobbalzò e sgranò le palpebre sciupate dal caldo, «Cos…», risvegliandosi così bruscamente dal suo torpore.

«Ecco, sentito?» Giulia affondò una sbracciata, si avvicinò alla barchetta e giunse le mani in preghiera. «Dai, dai, Luca.» Il pigolio stridulo e dolciotto con cui, da piccola, ammaliava sia Massimo sia Sara. «Tuffati e vieni anche tu, così giochiamo assieme.»

Luca storse il naso. Strinse l’abbraccio attorno alle gambe, puntò i talloni nudi sul bordo della panca su cui era seduto, e compì un saltello per rannicchiarsi nel cantuccio di prua. «Se si tratta solo di incoraggiare Giulia a rendersi partecipe di qualche pazzia, allora preferisco di gran lunga starmene qui all’asciutto.»

«All’asciutto a fare cosa?» Alberto si mise a braccia conserte, socchiuse una palpebra e lo guardò di traverso. «A friggere al sole come una triglia? Si sente odore di grigliata fino a qui. Se ti spruzzo un po’ di limone sai che delizia.»

«Sto benissimo.» Luca allentò il bavero della maglietta, distolse lo sguardo per sbuffare l’ennesimo boccheggio salito ad arroventargli le guance. Si asciugò di nuovo il sudore dalla fronte, sbavando sotto il braccio un sottilissimo strato di polvere acquamarina, e si fece aria al collo, scacciando dalla sua mente una carrellata di immagini che ritraevano aragoste affumicate servite su vassoi d’argento, spiedini di polipi ficcati a bollire in paioli gorgoglianti, e grappoli di cozze che si spalancavano come bocche agonizzanti, stecchite dal vapore del soffritto in cui erano messe a rosolare. «Non sto friggendo come una triglia.»

«E allora non farti pregare.» Alberto sbracciò all’indietro, scivolò sul dorso, e sbatacchiò la coda sulla superficie del mare. «È solo una nuotata veloce, dai. Facciamo fare il tuffo a Giulia e poi tu puoi anche tornartene a fare il barboso noioso per i fatti tuoi.»

Le labbra di Luca caddero schiuse in un gemito strozzato, la sua faccia accaldata si contrasse in un’espressione perplessa. «Barboso noioso?»

«Dai, Luca, dai» tornò a insistere anche Giulia. «Fatemi fare il tuffo subacqueo. Il tuffo subacqueo, Luca!» Mulinò le braccia, saltellando su e giù fra i grappoli di bolle. «Ti prego, ti prego, ti prego.»

Il cuore di Luca si sciolse di compassione e nel suo sguardo vacillò un luccichio, una frecciatina di sensi di colpa che gli saettò attraverso il petto. Luca scoprì di non avere alcuna intenzione di fare un torto a Giulia, di deludere quel suo viso rosso di emozione, quei suoi occhi scintillanti di aspettativa. E poi il caldo era così opprimente e doloroso, il sole picchiava con tale insistenza sulla sua testa abbrustolita, e l’acqua aveva un aspetto così puro e fresco, invitante come un morso strappato a un ghiacciolo dopo una lunga corsa in bici.

«E va bene.» Luca si alzò dalla panca. Gli bastò compiere un solo passo – il legno scricchiolò – per sporgersi dal bordo della barchetta a remi. «D’accordo.» Stese una gamba e sgranchì il piede nudo. «Ma solo un tuffo, okay?» La punta del piede toccò la superficie che, venendo in contatto con il sudore bollente, scaricò una scossa fredda. Un primo strato di squame si sovrappose al rosa della pelle e si arrampicò fino alla caviglia. «E niente di troppo pericoloso.»

Giulia mulinò le braccia e sventolò i pugni, euforica. «Yuu-uuh!» Lei e Alberto si scambiarono un batti-cinque.

A occhi chiusi, senza foga, senza impazienza, Luca scivolò in acqua, solo sciogliendo la tensione dei muscoli e accasciandosi sulla piatta e morbida superficie del mare che si divise in silenzio, fluendogli addosso come un drappo di velluto.

Ci fu il blurp! della risacca d’acqua salita a inzuppargli i capelli e a inondargli le orecchie, spalancandole a ventaglio, e poi il piccolo ciaf! delle sue gambe che caddero per ultime dal bordo della barca.

Sott’acqua, Luca chiuse gli occhi ma respirò a fondo, si riempì il petto di una sensazione fredda e aspra che lo attraversò in un palpito vibrante di vita. L’acqua fresca sulla pelle sudata fu una tale delizia da fargli rabbrividire le squame di piacere, dalle creste delle orecchie fino alla base della coda.

Riaprì gli occhi, batté le palpebre, e le pupille si dilatarono, spicchi di inchiostro tagliati nella tinta rubizza dell’iride marina.

Luca si riabituò facilmente anche alla sensazione della coda. La sventolò un paio di volte, si girò a guardarne la punta che aveva agitato i capelli d’alga affiorati dagli scogli del fondale, e sorrise mettendo in mostra le punte dei denti aguzzi. Spalancò le braccia, divaricò le mani palmate, avanzò di un paio di spinte, facendosi aiutare da una corrente più tiepida e leggera che rese più facile il raggiungimento della superficie, ed emerse fra Alberto e Giulia.

Strinse gli occhi per non finire abbagliato dal lampo del sole, scrollò la testa, sfiatò dalle narici, inspirò a pieni polmoni l’aria più tiepida e asciutta, e fronteggiò il muso di Alberto sulle cui labbra si era incrinato un fine sorriso di compiacimento.

Alberto gli si accostò. Torse la coda attorno al busto di Luca, lo attirò a sé, e lo stuzzicò con un piccolo colpetto di nocca sulla fronte. Quel gonfio e spavaldo sorriso di soddisfazione sempre lì a far splendere le sfumature dei suoi occhi color smeraldo. «Ma buondì, Signor Paguro.»

Il cuore di Luca cedette di un palpito e lui si ritrovò stecchito, avviluppato e sorretto dalla coda di Alberto, sfiorato dal suo respiro salmastro, e divorato da quegli occhi che, anche nella loro forma marina, rimanevano gli stessi, inconfondibili. Così vicino e trasformato, Alberto emanava un profumo talmente buono e penetrante da stordirlo. Aspro e salato come l’interno di una conchiglia, ma dolce e speziato come la prima leccata succhiata da un cono gelato allo zabaione.

Il sorriso di Luca tremolò in un’espressione ebete e incantata, il suo stomaco gorgogliò, stretto dall’emozione, e il cuore accelerò, accaldandogli il petto e le guance. «Buondì, Signor Scor…» Si pizzicò il labbro fra le punte dei denti, abbassò gli occhi di colpo e gettò un tossicchio imbarazzato. «Ehm, Marcovaldo.»

Alberto gli sorrise. «Direi che è un buon nome, vero? Meglio del precedente, di sicuro.» Gli fece scivolare la coda da dietro la schiena e lo lasciò libero. Il suo sguardo si distanziò e galleggiò verso l’alto. Volò lontano come volavano tre dei gabbiani che si erano sollevati dagli scogli e che ora tenevano le ali spalancate dentro un alito di vento che li avrebbe condotti verso la costa, o verso un mare più grande. Alberto fece scivolare un respiro sognante fra le labbra. «Alberto Marcovaldo.» Tamburellò un’unghia sulla bocca arricciata, come gustandosi quel sapore ancora estraneo ma per nulla sgradevole. Annuì, parve deciso. «Sì, mi ci potrei abituare più in fretta del previsto.»

Lo sguardo di Luca invece vacillò, trovandosi nuovamente distante dagli occhi di Alberto. Luca agitò le gambe nell’acqua che era tornata a farsi fredda e pesante. Fu di nuovo aggredito dal terrore di perderlo, di non essere più in grado di rintracciare la sua fiaccola nel buio, di non poter più accostare la mano al suo tepore.

Giulia rise di gusto, vittoriosa, e sbracciò per infilarsi fra i due ragazzi e raccogliere le loro mani palmate. «Dai, dai, forza!» Sbatacchiò forte le gambe per portarseli dietro. «Fino agli abissi, tutti e tre assieme!»

Alberto sprimacciò la mano nella sua e batté un colpo di coda. «Prendi fiato.»

Giulia obbedì e si gonfiò le guance e il petto. Luca e Alberto si scambiarono un cenno di intesa e scivolarono sott’acqua. Le braccia distese, i muscoli sciolti, ma le mani ben salde attorno a quelle di Giulia, una ciascuno.

Luca e Alberto nuotarono piano, prudenti. Oscillarono sotto il pelo dell’acqua, tanto vicini al tepore della superficie che, agitando le code, le cime delle creste potevano fendere piccole onde e gettare zampilli all’aria.

Luca ruotò la coda dell’occhio che, scavalcando la scia color rubino allungata dalla chioma di Giulia, intercettò il segnale di Alberto, il suo sguardo guizzato verso l’alto.

Luca annuì. Accelerò il nuoto, strinse forte la mano di Giulia, e infranse la superficie in un unico slancio.

Il viso lentigginoso di Giulia splendette di gioia, accolto da un abbagliante e caldo bacio di sole. «Yee!» Le sue mani scivolarono da quelle di Luca e Alberto, sbatacchiarono schizzi d’acqua come perle, si tesero e la guidarono nella discesa di un tuffo che perforò una piccola onda. Giulia riemerse dopo una sola sgambettata, sputacchiò un’altra fontanella d’acqua e raccolse fiato per gettarlo subito fuori in un gridolino di esultanza. «Ancora!» Affondò due sbracciate, nuotò attorno ad Alberto, si aggrappò alla sua spalla e lo fece dondolare assieme a lei. «Ancora, ancora, è stato grandioso! Più a fondo, questa volta, più in alto!»

Alberto rise, scosse la testa, poi però la accontentò e le porse la mano. «Forza, Luca.» Strizzò l’occhiolino nella sua direzione. «Facciamole vedere di cosa siamo capaci.»

Quel piccolo e brillante sguardo di complicità attraversò il petto di Luca e lo alleggerì di un peso, gli fece battere il cuore come era successo quando si era ritrovato avvolto dalla sua coda, così vicino al profumo delle sue squame e al solletico del suo respiro.

Luca si sentì finalmente in grado di godersi il calore di un sorriso spontaneo e autentico, quello che aspettava da fin troppo tempo. Alzò gli occhi verso la palla del sole, sollevò una zampa gocciolante e si riparò da quei raggi a cui sorrise come se solo in quel momento si fosse scoperto in grado di vederli per davvero.

Scie di un’estate dorata che stava per giungere al termine ma che lo avrebbero accompagnato anche durante il suo ritorno a Genova, scaldandolo con il loro solletico, con i loro ricordi, ogni volta in cui lui avrebbe sentito il bisogno di chiudere gli occhi e di proiettarsi sulle spiagge di Portorosso, in compagnia delle due persone più preziose della sua vita.

Luca nuotò da Giulia, le raccolse di nuovo la mano e scodinzolò, elettrizzato anche lui dalla prospettiva di un altro tuffo. «Andiamo!»

Alberto annuì. «Dentro il fiato.»

Giulia inspirò dalla bocca, li precedette agitando le gambe per immergersi, e tutti e tre tornarono a sprofondare in acqua.

Luca e Alberto questa volta mollarono le briglie e si lasciarono andare. Nuotarono più rapidamente per prendere una rincorsa decisa, strinsero le mani di Giulia, inarcarono le schiene, e compirono un tuffo più ampio che, una volta emerso in superficie, si specchiò fra le creste d’onda. Il sole in faccia, la vegetazione degli scogli a sfumare l’azzurro del cielo, la macchiolina di qualche gabbiano a svolazzargli attorno, e la costa vicina e sicura colorata dalle casette che vegliavano sui loro giochi.

Luca rise per primo, e il dolce sapore di quella risata lo fece tornare bambino, quando anche per lui era facile guizzare da un’onda all’altra e tuffarsi dalle scogliere senza alcun pensiero ad annuvolargli il cuore.

Splash!

Ricaddero in mare.

Lasciata la mano di Giulia, Luca sprofondò. Si avvitò su se stesso, circondato dal vortice di bollicine schiumose, e scoppiò in un’altra risata che gli svuotò il petto, permettendogli di respirare fino in fondo alla pancia, lì dove le sue angosce furono libere di sciogliersi, trascinate via dalla rapida corrente di quel tuffo.

Giulia emerse per prima. Alberto invece compì un giro attorno a un piccolo scoglio subacqueo, intercettò lo sguardo di Luca da dietro l’oscillare delle alghe, si fece abbagliare dalla luce del suo buonumore, e sbracciò per chiamarlo a sé. «Vieni, Luca!»

Risalirono entrambi, slanciarono un tuffo verso il cielo e si incrociarono sotto i raggi del sole.

Giulia rise, innaffiata dall’acqua grondata dai loro corpi e dai loro abiti. Distese le braccia verso l’alto senza però riuscire a toccarli, entusiasta come una bambina che tenta di acchiappare le farfalle che le svolazzano sopra la testa.

Luca e Alberto ricaddero in acqua. Le bianche scie del loro nuoto si incrociarono, le code si sfiorarono in una soffice carezza così intima. Luca si girò e incrociò nuovamente lo sguardo di Alberto, i suoi occhi verdi, il suo sorriso sfrontato, e finalmente riuscì a bearsi di quel senso di appartenenza e di serenità che aveva rincorso per tutta l’estate, senza mai riuscire a raggiungerlo.

Si diede dello sciocco per averlo cercato nel posto sbagliato per tutto quel tempo.

Forse non è mai stato di Portorosso che avevo bisogno, ma solamente di loro due.

Sbucò fuori dall’acqua, spalancò le braccia come faceva quando era piccolo, quando amava immaginare di essere un giovane gabbiano capace di valicare qualsiasi scoglio e di attraversare i cieli di tutto il mondo. Alzò il viso squamoso alla luce del sole, distese le dita fra gli sbuffi di vento che sentiva traballargli attraverso la stoffa degli abiti ma che non erano abbastanza forti da asciugarlo. Respirò a pieni polmoni l’aria della costa, della vegetazione selvatica. Aria di casa.

Finché ci saranno Alberto e Giulia, io saprò sempre a quale mondo appartengo. Sono loro il mio vero porto sicuro. Sono loro la luce che mi guiderà sempre nella direzione giusta.

Di nuovo in acqua, Luca nuotò fino al fondo, dove la luce era più scura e le alghe più basse e rarefatte. Curvò su se stesso e si diede una buona spinta. Puntò la superficie, la sagoma oscillante del sole, e già fu in grado di visualizzare l’ennesimo tuffo, l’arco di luce verde-azzurra slanciato dal suo corpo, lo sgocciolare dell’acqua dalla sua coda e dalle sue pinne, il calore del giorno a solleticargli le squame del viso.

Rilassò le braccia lungo i fianchi, strinse i pugni, socchiuse le palpebre per prepararsi a infrangere lo specchio d’acqua e ad affacciarsi alla luce, e frustò un ultimo slancio di coda.

Un crampo lancinante lo azzannò alla base della schiena. «Argh!» Luca si avvitò su se stesso, inseguì il bruciore di quel morso. «Cosa…» Quell’ultima spinta che si era dato perforò l’acqua, lo sbilanciò in volo, e lo fece precipitare verso il cerchio di onde che si era accavallato dopo la sua emersione.

Luca sventolò le braccia, torse la schiena dolorante, e inviò alla coda un impulso che si fermò alla base, lì dove il nodo del crampo premeva e gli ghiacciava i muscoli. La coda! Luca realizzò e sentì il singhiozzo di quel dolore spremergli il cuore in un battito di terrore. Non riesco a muoverla!

Il senso di vuoto gli risucchiò lo stomaco, il vento gli perforò le orecchie e l’aria accolse il suo corpo in caduta libera. Un gabbiano gli starnazzò davanti. La sua macchia bianca e grigia volò via facendo spalancare lo sguardo allucinato di Luca sulla superficie di uno scoglio in avvicinamento. «Aah!»

Lo scoglio gli esplose in faccia.

Stump!

Luca incassò il dolore di una tuonata che risuonò attraverso il cranio, picchiò sul petto, mozzandogli il fiato, e gli sbatté in faccia una galassia di accecanti stelline da capogiro.

Luca gemette, «Uurgh…», tagliuzzandosi le labbra sulla roccia spigolosa. Tastò la consistenza dura e bagnata della roccia che sapeva di sale e di molluschi, inghiottì lo scricchiolio dei denti sbriciolati, il sapore ferroso del sangue mescolato a quello gommoso delle alghe. Strinse le mani. Un forte bruciore si diramò sui palmi e sulle braccia.

Sbatacchiò l’occhio, quello che non premeva sulla roccia. La vista stellata si tinse di rosso, un rosso caldo e liquido che rotolò fra le palpebre e che scese lungo il profilo della guancia su cui bruciava il dolore di una ferita più lunga e profonda.

Attraverso quella vista tinta di rosso e ancora maculata dallo scoppio di qualche scintilla di luce, Luca scorse Giulia in ammollo, il gesto fulmineo con cui lei si portò le mani alla bocca, soffocando un grido agghiacciato.

«Luca!»

Un lampo blu sprofondò in acqua, Alberto sfrecciò fra le onde e gli venne incontro.

Attorno allo scoglio dove Luca era atterrato si mescolò un’onda, morbida come una carezza di velluto, che risalì la sua schiena, raccolse il suo corpo inerte, e lo trascinò giù dalla roccia. Luca affondò le unghie, si spaccò due artigli ma compì comunque quell’ultimo tentativo di appendersi alle rientranze e di resistere. Si graffiò ancora lungo le braccia, sulla guancia e fra le labbra, e soffiò un ultimo spasmo di fiato che lo svuotò di ogni forza e di qualsiasi volontà.

Il mare spalancò la bocca e lo inghiottì nel suo silenzio.

Una nuvoletta di sangue si sparpagliò davanti alla sua vista, lo stesso effetto creato da un pennello pregno di tempera rossa che viene immerso in un bicchiere di acqua limpida.

La testa di Luca pulsò di dolore, le ferite bruciarono, le orecchie fischiarono, e la sua vista si oscurò, facendosi buia come il fondale verso cui stava sprofondando.

L’ultima immagine che lampeggiò fino ai suoi occhi fu la figura di Alberto che lo raggiungeva, il suo braccio tatuato che si allungava attraverso la nuvoletta di sangue, la sua zampa palmata che si spalancava, i suoi occhi terrorizzati che lo cercavano e che lo imploravano di resistere, e la sua bocca che pronunciava un farfuglio ovattato e incomprensibile.

Luca lasciò ciondolare il capo di lato e si abbandonò, raggiunto da un’altra immagine sfilata di fianco alla sua guancia.

Le ostriche. Le ostriche sullo scoglio. Nidi di ostriche dal dorso raggrinzito come corteccia si fondevano alla roccia sporca di alghe, di scheletri di conchiglie, tanto da diventare tutt’uno con quelle rientranze, con quegli spigoli, con il mare dentro cui erano nate e germogliate.

Un respiro gli attraversò il petto dolorante, gli si fossilizzò dentro proprio come quell’immagine, come l’ombra di quel presagio e di quella persecuzione.

Le ostriche…

Una zampa gli agguantò la maglietta, lo attirò a sé, e con uno strattone lo riportò in superficie.

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Capitolo 29
*** 29 ***


29

 

 

Giulia avvolse il sacchetto del ghiaccio in un canovaccio preso in prestito al bar della piazza, lo soppesò, e lo spinse piano fra i riccioli castani di Luca, stando però attenta a non coprire direttamente il rossore che spiccava sul bianco della fronte, dove il livido cominciava a scurirsi, a formare una nebulosa violacea attorno alla ferita che gli aveva sfregiato la pelle. «Ti verrà un bernoccolo grande quanto un’arancia, vedrai.» Frizionò piano. «Ma consoliamoci: poteva andare molto peggio.»

Luca strizzò gli occhi e soffocò un gemito a denti stretti, punto dal freddo e dal dolore alla testa.

Giulia se ne accorse. Allentò la pressione e spostò il sacchetto del ghiaccio un po’ più in alto, dove già tastava il gonfiore di un piccolo bozzo, grande non quanto un’arancia ma più come un mandarino. Si chinò per andare in cerca del viso imbronciato che Luca teneva nascosto. «Ti brucia tanto?» Goccioline d’acqua piovigginarono dai capelli rossi ancora legati nella coda di cavallo che le aveva pettinato Alberto. Inumidirono le spalline della maglietta che Giulia aveva indossato sopra il costume da bagno subito dopo essere rimontata in barca. «Fa ancora molto male? Sta’ tranquillo.» Gli strofinò un massaggio sulla schiena ricurva e avvolta dall’asciugamano. «È tutto okay, vedrai che guarirai presto.»

Luca rattrappì i piedi nudi e si rannicchiò contro lo schienale di una delle seggiole allestite fuori dal bar. Aveva scelto quella più isolata e nascosta, quella affianco alla colonna del portico su cui era appeso il cartellone dei Gelati Motta. «Sto bene.» Si strinse nell’asciugamano di spugna che si erano fatti prestare dal Signor Moretti. Tirò su col naso, rabbrividì perché a quell’ora della sera si stava alzando un po’ di vento, e allontanò lo sguardo da quello di Giulia, cercando di non focalizzarsi troppo sul bruciore della sua rabbia e sul freddo proveniente dal sacchetto di ghiaccio adagiato fra i suoi capelli. «Lo so che guarirò presto. È solo una botta.»

«E la guancia?» Giulia gli sfiorò una gote che, rigata dall’acqua sciolta dall’impacco di ghiaccio, era mutata leggermente, come spolverata di tempera color acquamarina. Percorse la lunghezza dei sottili graffi color sangue che slabbravano le squame. «Anche la ferita si sta gonfiando, non solo il bernoccolo.»

Luca stirò il collo di lato e si sottrasse. «È solo un graffio, Giulia.»

«Ma ti sei graffiato anche sulle braccia, guarda qua.» Giulia sollevò un lembo dell’asciugamano, scoprì la spalla nuda di Luca, e gli sfiorò la pelle. La sua carezza così lieve scese lungo il bicipite sfregiato da ferite uguali a quelle visibili anche sulla guancia. «Dev’essere successo quando hai provato ad aggrapparti.» Lo tornò a coprire, infagottandolo per bene, come un bimbo che sta per ricevere il bacio della buonanotte, e scosse il capo. «Colpa delle cozze che si annidano sugli scogli, per questo ti sei tagliuzzato così tanto quando hai sbattuto. Quelle bestiacce hanno dei gusci che sembrano rasoi. Che cavolo, ma dove è andato a cacciarsi Alberto?» Cambiò mano per tenere fermo l’impacco di ghiaccio fra i capelli di Luca, guardò dietro di sé, verso la tenda tirata davanti alla porta del bar, e sbatacchiò a terra un piede inciabattato, impaziente. «Quanto ci vuole per trovare uno straccio di disinfettante? Sapevo che era meglio se ci fossi andata io.»

Luca allontanò lo sguardo da Giulia, dalla sua espressione che, nonostante l’ombra di nervosismo nei confronti di Alberto, non riusciva a camuffare quella profonda e scura ruga di paura che non si era più sciolta dal suo viso da quando aveva assistito all’incidente, alla botta sullo scoglio e alla caduta in acqua.

La piazza era più movimentata rispetto a quando erano salpati in mare. Una tiepida brezza serale soffiò fra le tende delle botteghe e fece traballare i filari di bandierine tricolori che avevano affisso per la Portorosso Cup di quell’anno e che ancora non erano stati smontati. Stava calando la sera. La luce del sole così bassa distribuì lungo i muri degli edifici calde tinte color mattone e color pompelmo. La Signora Agnese si affacciò dalla terrazza per ritirare i panni messi a stendere, la nipotina sbucò da dietro la sua gonna e inclinò l’annaffiatoio per bagnare i gerani che fiorivano fra le grate del balcone.

Un paio di pescatori seduti ai tavoli del bar picchiettarono i mazzi di carte, «Solo fortuna», «Sì, ma domani voglio la rivincita», li rinfilarono in tasca, finirono le loro tazzine di caffè, prosciugarono l’ultimo cicchetto di grappa alla prugna, si rinfilarono i berretti, lasciarono una manciata di spiccioli sul tavolo – uno di loro si girò a sventolare un saluto verso un signore appena passato in bici –, e attraversarono la piazza per dirigersi al porto e prepararsi a salpare per la pesca notturna.

Uno dei bambini che stavano giocando a calcio scaricò un tiro poderoso sulla palla. «Pallaaa!» La palla volò sopra le teste dei suoi amici, rimbalzò davanti ai pescatori, picchiò un tonfo sulla parete della latteria, e tornò indietro, schizzando nell’acqua della fontana.

I pescatori brontolarono qualche rimprovero, sventolarono una manata verso il colpevole, ma i bimbi risero e si scusarono.

Il colpevole corse a nascondersi dietro il portiere. Una delle ragazzine della squadra opposta trotterellò fino alla fontana, si allungò per riacchiappare il pallone, lo fece rimbalzare un paio di volte per sgocciolarlo, e lo rimise in campo con una ginocchiata.

Un altro bimbo uscì dal bar attraversando lo sventolio della tenda a righe. Reggendo in mano gli stecchi di due gelati preconfezionati, attraversò la piazzetta, schivò una pallonata che gli era volata sopra la testa, e andò a godersi la merenda assieme a un altro ragazzino che lo stava aspettando seduto sotto i portici, affianco alle biciclette. Le gambe incrociate e un album di figurine aperto sulle ginocchia. I due amici lo sfogliarono assieme, succhiarono i loro cremini al cioccolato, e solo un paio di volte alzarono gli occhi sulla partita.

I bambini calciarono un altro passaggio. La palla schizzò verso la porta, il portiere si tuffò, parò il colpo, volò qualche «Nooo!» alternato agli «Evvai!» della squadra opposta, poi però tutti si rimisero a giocare tranquilli, senza ulteriori grida esuberanti o altre cannonate che avrebbero potuto bucare persino la Luna.

Erano certamente più quieti del solito, pur giocando e divertendosi. Anche loro fiutavano l’arrivo dell’autunno, di quell’aria fresca e speziata che la settimana successiva li avrebbe accompagnati fino alla stazione dove ognuno di loro sarebbe saltato sul treno per tornare in città, lontano dalle abbuffate di gelato, dalle partite di calcio giocate fino al tramonto, dai bagni in spiaggia, dalle infinite pedalate in bicicletta, e dai manicaretti cucinati dalle loro nonne.

Pure gli anziani signori del paese erano consapevoli di questo cambiamento. Ecco perché esitavano a protestare persino quando la palla dei bimbi finiva fra i vasi di fiori o quando le loro folli corse in bicicletta rischiavano di travolgere i panni del bucato.

Ma quel pomeriggio gli abitanti di Portorosso avevano avuto un’altra buona ragione per scuotersi e per stringersi in un comune sentimento di apprensione e di timore. Era successo quando avevano visto Luca, Alberto e Giulia far ritorno in paese conciati in quelle condizioni.

I tre ragazzi erano smontati in fretta dalla barca a remi senza nemmeno preoccuparsi di assicurarla alla bitta. Giulia e Alberto avevano sorretto Luca ancora gocciolante e trasformato – come lo era pure Alberto – ed erano corsi in piazza in cerca dell’aiuto di qualche adulto. Si erano spiegati scambiandosi le parole con la grazia e la coerenza di due ballerini che si pestano i piedi a vicenda. Avevano farfugliato qualcosa a proposito di un tuffo, di uno scoglio, di Luca, della sua testa, di una ferita, di un aiuto, per piacere. Luca aveva solo avuto la forza di mugugnare qualche lamento, di stringere le braccia attorno alle loro spalle, e di sbatacchiare le palpebre insanguinate scrollando via gli sciami di stelle sbocciati da quel dolore che gli aveva appannato la vista dopo il tuono di quella caduta rovinosa.

Massimo non era in paese, non sarebbe tornato fino a tarda sera, per questo i ragazzi non erano corsi a casa da lui. Il proprietario della drogheria gli aveva chiesto un passaggio, approfittando del bagagliaio dell’Ape, per farsi aiutare a distribuire le conserve da vendere negli empori fuori Portorosso.

Ma gli adulti che i ragazzi avevano trovato in piazza non avevano certo esitato a dare loro soccorso. Per prima cosa aveva fatto sedere Luca, lo avevano asciugato, avevano dato loro l’impacco di ghiaccio tirato fuori dal freezer dei gelati, in modo da alleviare il dolore del bernoccolo, e ora Alberto era salito dalla padrona del bar per procurarsi un po’ di disinfettante da strofinargli sulle ferite che avevano appena smesso di sanguinare sulle braccia e sulla guancia.

Bel modo di finire le vacanze.

Luca si strinse nell’asciugamano e guardò per terra, senza alcun desiderio di raddrizzare le spalle o di sciogliersi quel broncio dalla faccia.

Quell’incidente era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, e non aveva fatto altro che peggiorare il suo umore già abbastanza cupo. Non lo confortava nemmeno la consapevolezza che di lì a qualche ora il pettegolezzo avrebbe fatto il giro di tutta Portorosso.

E questo vuol dire che entro la fine della giornata lo verranno a sapere anche mamma e papà.

Il Signor Moretti uscì dal bar facendo sventolare la tenda dietro di sé. Raccolse e impilò sul vassoio le tazzine di caffè e i bicchierini di grappa abbandonati dai pescatori, intascò la mancia, strofinò il panno umido sul tavolo, e inviò un cenno col mento in direzione di Giulia e Luca. «Come va qui, ragazzi?» Sbatacchiò il panno umido e lo rinfilò nel grembiule. «Luca come sta? Si è un po’ ripreso, sì? Ora va meglio?»

Giulia increspò le sopracciglia in un’espressione poco convinta. «I graffi non sanguinano più.» Sollevò l’impacco di ghiaccio, diede una sbirciata fra i riccioli di Luca, premette il fagotto un poco più in basso, e raccolse la coda di cavallo facendola sventolare da una spalla all’altra, ancora gocciolante. «Ma il bernoccolo sta cominciando a gonfiarsi di brutto. È quello che mi preoccupa.»

Il Signor Moretti le rivolse un sorriso di conforto. «Se si gonfia va bene, credi a me» la rassicurò. «Vuol dire che sta sfogando il trauma e che è già in via di guarigione.»

Giulia scosse il capo. «Chissà perché non mi consola.»

«Oh, ma Luca invece farebbe bene a consolarsi.» Il Signor Moretti attraversò la nuvoletta grigia brontolata dal malumore di Luca e gli batté una mano sulla spalla ricurva. «Animo, animo, si è trattato solo di un brutto spavento, da’ retta a me. Sai quante volte mi è capitato e quante volte l’ho visto capitare. Ma sei fortunato: sotto i capelli il bernoccolo non si vedrà nemmeno troppo. Ora l’importante è che tu lo tenga bene al freddo almeno fino a fine giornata.»

Tommaso, seduto pochi tavoli più distanti, abbassò La Gazzetta, corrugò le sopracciglia grigie e cispose per inquadrare la situazione, scandagliando le facce preoccupate dei due ragazzi, e scosse il capo. «Secondo me la cosa migliore sarebbe stata quella di tenere la testa sotto l’acqua» disse. «L’acqua è meglio del ghiaccio se si tratta di bernoccoli.»

«Se si trattasse di acqua corrente» puntualizzò il Signor Moretti. «Ma oggi il mare è piatto come vetro, non sarebbe servito a niente.»

«Già, ora che ci penso…» Tommaso alzò gli occhi al cielo e si strofinò il mento sbarbato. «Come ha fatto Luca a sbattere sullo scoglio, se non ci sono né onde né vento? Gli sono andate le alghe negli occhi o si è solo distratto?»

Giulia si morsicò il labbro, rabbrividì, facendo più pressione con le dita sull’impacco di ghiaccio, e scoccò a Luca un’occhiata sbieca.

Luca affondò le unghie nell’asciugamano ma, anziché prenderla male, forzò un sorriso e cercò di mostrarsi cordiale. In fondo, stavano solo cercando di aiutarlo. «Grazie per il ghiaccio, Signor Moretti.» Ignorò la domanda di Tommaso e tornò a rimboccarsi i lembi dell’asciugamano per proteggersi dai brividi di freddo che nemmeno la canottiera asciutta riusciva a placare. «E anche per l’asciugamano.»

Il Signor Moretti ricambiò il sorriso attraverso cui sfumò il tiepido rossore del tramonto. «Figurati, figurati.» Resse il vassoio con un braccio solo e si asciugò la mano sul grembiule. Rivolse lo sguardo ai ragazzini che giocavano, alle loro risate, agli archi disegnati dal pallone che volava da un piedino all’altro. «È normale essere così attrezzati, quando ci sono tanti ragazzini a cui badare. Aah, non posso credere che la prossima settimana sarà già settembre.»

«Quest’anno l’estate è proprio volata in un baleno.» Tommaso sfogliò una pagina di giornale e scosse il capo con disappunto. «Eppure dicono che più si invecchia più il tempo trascorre lentamente.»

«A chi hai dato del vecchio? Oh, be’, sicuramente le giornate torneranno a essere un po’ più monotone, ora che i ragazzi svuoteranno il paese.» Il Signor Moretti scostò la tenda della porta d’ingresso ma si soffermò sulla soglia. «Sicuri che non avete bisogno di altro?»

Giulia alzò gli occhi al cielo. «Sì.» Soffiò uno sbuffo, sventolando via un ricciolo umido dalla fronte, tornò a picchiettare il piede a terra, e sporse lo sguardo verso l’entrata del bar. «Abbiamo bisogno che Alberto si faccia vivo con il disinfettante.»

«Chi mi chiama?» Alberto sbucò da dietro la tenda, rimbalzò davanti al Signor Moretti che trasalì e poggiò la mano sulle tazzine sporche per non farle cascare dal vassoio. I due si scambiarono un breve cenno di saluto, e Alberto volò al tavolo di Giulia e Luca reggendo un pugno di cotone e una boccetta di vetro marrone.

«Eccoti, finalmente.» Giulia raccolse una mano di Luca e gliela guidò sull’impacco di ghiaccio, in modo che fosse lui a reggerlo. «Hai trovato?» Tese il braccio verso Alberto e si fece dare la boccetta. «Fa’ vedere.» La sollevò verso la luce – una scintilla bruna si specchiò sul vetro –, e la rigirò un paio di volte, in cerca dell’etichetta scrostata. «Ma cos’è?» Corrugò la fronte. «Com’è scuro. Sicuro che sia disinfettante?»

«Tintura di iodio» spiegò Alberto, «niente disinfettante. Maddalena aveva solo questo da darmi.» Alzò un piede nudo per grattarsi la caviglia. «Brucerà un po’ di più e gli rimarrà la pelle sporca per una settimana, ma è meglio di niente. È quello che usavano i soldati in guerra, mi ha detto.»

«Uhm.» Giulia svitò il tappo della boccetta, sprigionando un odore acidulo e pungente. Strappò un batuffolo di cotone dal grumo grande quanto un pugno, e lo inzuppò. «Forse stasera dovremmo fargli degli impacchi alle erbe, magari con la salvia.» Poggiò il cotone bagnato sulla guancia di Luca che, al contatto, strizzò le palpebre e sibilò un gemito fra i denti. «Sai, per il gonfiore.» Perché in effetti la sua faccia si stava gonfiando all’altezza dello zigomo, dove il rossore si stava incupendo in un livido violaceo.

«Ma la salvia va bene per le infiammazioni» le disse Alberto, «come quella volta che mi è venuta la gengivite e Massimo mi ha dato le foglie da masticare. Per i bernoccoli e i lividi ci vorrebbe l’arnica.»

Luca soffiò un lungo respiro dalle narici. «Non mi servono gli impacchi.» Riaprì gli occhi laccati di dolore e di amarezza. Occhi cerchiati da un’ombra di umiliazione. «Non serve…» Giulia picchiettò il batuffolo dove gli sfregi erano più larghi e ravvicinati. Passò alle braccia, scostando un lembo dell’asciugamano, e Luca non poté fare altro che allontanare di nuovo lo sguardo da quello spettacolo pietoso. «Non serve agitarsi per così poco» borbottò. «Vi ho detto che sto bene.» Ma non era vero. Luca non stava affatto bene. Era ancora stordito e sconvolto, non tanto per il dolore del bernoccolo o per il bruciore delle ferite, ma per aver subito quella perdita di controllo durante il nuoto, per il crampo che gli aveva morsicato la schiena e paralizzato la coda durante il tuffo, per la sensazione di vuoto che gli aveva prosciugato lo stomaco durante la caduta, e per il lampo che lo aveva accecato dopo lo schianto sulle pareti aguzze dello scoglio.

Fu un’altra immagine a lampeggiargli in testa e ad appannargli la vista. Il mare che schiudeva le sue onde, che spalancava le sue zanne d’acqua, e che lo sputava fuori con disprezzo, come un boccone andato di traverso, come il nocciolo di un frutto marcio, come un grumo di catarro espulso da un tossito.

Quindi è questo che sono diventato? Un frutto di mare marcio? Uno sputo da rigettare come catarro sporco e purulento?

Ed era proprio così che si sentiva, dopo quell’incidente.

«Sentito?» sminuì Alberto, e quel suo tono di sufficienza fu l’ennesimo sfregio bruciato sulla pelle di Luca. «Lo dice anche Luca che sta bene.» Scansò Giulia con un soffice colpo d’anca, rimboccò l’asciugamano attorno alle spalle di Luca e gli fece aria al viso. «Smettila di scocciarlo e piuttosto lascialo respirare. È di questo che ha davvero bisogno.»

Giulia strizzò il batuffolo che le lasciò le dita sporche di rosso. Le sue guance ribollenti d’ira assunsero proprio il colore della tintura di iodio. «Lo sto disinfettando, se non ti dispiace.»

«Non che serva a un granché, sai.» Alberto incrociò le braccia al petto e si poggiò col fianco al tavolino, si diede un’altra grattata alla caviglia usando il piede opposto. «L’acqua di mare è salata, è un disinfettante naturale.»

«Ma che cavolo stai dicendo?»

«Sto dicendo che è il caso che faresti meglio a calmarti un po’.» Alberto alzò le mani e placò l’ondata d’ira che lampeggiava dagli occhi di Giulia. «D’accordo, d’accordo, Luca si è preso una brutta botta in testa, e allora?» Venne distratto da un corale grido di esultanza lanciato dai ragazzini che giocavano a calcio. Uno di loro aveva segnato un goal e gli altri si erano gettati ad abbracciarlo. Alberto sospirò. «Sapessi quante volte gli capiterà di nuovo, sia dentro sia fuori dall’acqua.»

Giulia sbarrò gli occhi, incredula e sbigottita. «Ti sembrano cose da dirsi?» Pestò un passo davanti a lui, stritolò i pugni, facendo sgocciolare dell’altro iodio fra le dita, e gli ringhiò in faccia. «Come puoi essere così insensibile?»

«Non sono io a essere insensibile» controbatté Alberto, senza neanche un brivido di esitazione, «sei tu quella che la sta facendo troppo tragica. Ecco…» Slanciò un braccio a indicare il fagottino di tremiti a cui si era ridotto Luca. «Magari sei tu quella che gli mette in testa tutte queste paranoie.»

«Io?» sbraitò Giulia. «Ah, ora la colpa è mia. Geniale.» Sbatté il batuffolo di cotone sul tavolo e si mise a braccia conserte, impettita. Il muso duro e per nulla intimorito dalle sfacciatissime accuse di Alberto. «Secondo te chi è che sta vicino a Luca quando gli salgono le crisi, eh? Di certo non tu.»

«Già» sbottò Alberto. «E non di certo per colpa mia.»

Le guance di Giulia persero colore come se Alberto le avesse rovesciato in faccia un bicchiere di cubetti di ghiaccio. «Cosa stai insinuando?»

Alberto corrugò la fronte. Un’ombra gli accese gli occhi di un verde inferocito. «Lo sai benissimo cosa sto insinuando.» Fu lui a stringersi nelle spalle e a distogliere lo sguardo per primo. Si grattò il braccio tatuato. «Che se Luca non fosse mai…» Affondò le unghie nella pelle e azzannò il labbro inferiore fra gli incisivi.

Dal centro della piazza rimbalzò il tonfo secco della palla che centrò una delle colonne del portico. Si innalzò qualche gridolino di incitamento lanciato dai ragazzini che ripresero a correrle dietro, poi però un alito di vento discese i tetti spioventi, fece traballare i filari di bandierine, raggelò lo scroscio continuo zampillato dalla statua della fontana, e addensò le nuvole serali, oscurando la luce del cielo.

Assordato dalle ultime parole di Alberto che ancora gli fischiavano nelle orecchie, Luca inspirò dal naso, strizzò le unghie sull’impacco del ghiaccio, e inghiottì lo stesso brivido che lo aveva trafitto subito dopo aver sbattuto la testa sullo scoglio. Quella vampata di gelo che precede il crampo di dolore.

Pure le secche e nodose mani di Tommaso fecero scricchiolare le pagine di giornale, fremendo sotto quella tensione che si era fatta densa ed elettrica come il vento che precede i ruggiti di una tempesta di fulmini. Tommaso ripiegò La Gazzetta, se la infilò sottobraccio, calcò il basco in testa, e oltrepassò la tenda del bar, ritirandosi al sicuro prima di assistere all’inevitabile sfacelo.

Giulia strinse i pugni sulle braccia che teneva ancora conserte e incollate al petto. Resistette con un broncio al lampo di minaccia scaricatole addosso dagli occhi di Alberto. «Sì?» Le sue guance s’incupirono, rosse come mattoni, ancor più fiammeggianti dei suoi boccoli che, bagnati, scintillavano come pietre di granato. «Dai, continua, forza. Dillo.» Alzò il mento. Torse un feroce ringhio di sfida che tremolò fino in fondo ai molari. «Se Luca non fosse mai cosa

Alberto smise di strofinarsi il braccio ma piantò le unghie nella pelle tatuata, solcando dei segni rossi alla base dell’arpione, lì dove anche lo scorpione serrava la morsa delle sue chele. «Hai capito.» E quel mormorio di Alberto fu letale e crudele proprio come il veleno di uno scorpione. «Hai capito benissimo quello che voglio dire.»

«Oh, sì» sbottò Giulia. «Io sì che ho capito benissimo.» Scansò una sedia con una pedata. «Sei tu quello che non ha capito proprio un accidenti di niente.» Pestò un passo davanti ad Alberto, e stirò le punte dei piedi per potergli ringhiare davanti al naso. «Sei tu quello che non ha mai capito un tubo di tutta questa situazione.»

Luca fece scivolare l’impacco di ghiaccio dalla tempia. «S…» Si grattò il braccio ferito e coperto dall’asciugamano. Le sue unghie si macchiarono di disinfettante. «S-smettetela…» Fu un soffio troppo flebile perché potessero udirlo.

«Chiaro» grugnì Alberto, sostenendo senza sforzo lo sguardo di Giulia che ardeva dal desiderio di incenerirlo. «Non ho capito mai un tubo perché io sono rimasto quello scemo, ovvio.»

«Ma che ca…» Giulia spalancò le braccia e sgranò un’espressione esterrefatta. «E chi lo ha mai detto?» strillò. «Ti sembra che io l’abbia mai detto?»

«Ma l’hai pensato.»

«Allora sta’ attento la prossima volta che ti trasformi, Alberto» lo rimbeccò Giulia. «Vedrai che ti sbucherà una bella coda di paglia al posto della coda di pesce. Ma qui stiamo parlando di Luca, e non di te.» Andò a stringergli la spalla coperta dall’asciugamano, e Luca sobbalzò come se avesse preso la scossa. «È il tuo migliore amico» insistette Giulia, ma questa volta moderando il tono. «Come fai a non preoccuparti?»

«Lo sai» le disse Alberto. «C’è una bella differenza fra il preoccuparsi per lui e il farsi venire le paturnie

«Be’, magari se ogni tanto anche tu ti facessi venire qualche paturnia almeno daresti l’impressione di averla a cuore più di così.»

«Ma io ce l’ho a cuore.» Alberto andò ad aggrapparsi all’altra spalla di Luca, tanto per dimostrarglielo, e gli trasmise un tremore che gli fece accapponare la pelle. «Ed è proprio perché ce l’ho così tanto a cuore che evito di farmi assalire dal panico e di agitarlo più di quello che è già.»

«Hai mai pensato che magari avrebbe bisogno di sentirsi dire altro da te?»

«So benissimo quello che Luca ha bisogno di sentirsi dire.»

«Ma davvero?» Giulia assottigliò le ciglia ancora umettate dall’acqua di mare. Sguainò una delle sue occhiate più truci. «E io che credevo che fossero finiti i tempi in cui tu credevi di sapere meglio di tutti cos’è meglio per Luca.»

«Infatti…» Alberto mollò la spalla di Luca, schiacciò i pugni ai fianchi, gonfiò i muscoli dei bicipiti, e calò il muso su Giulia. Una sfrigolante saetta di tensione schioccò fra i loro sguardi imbufaliti. «A quanto pare ora sono cominciati i tempi in cui sei tu quella che crede di sapere meglio di tutti cos’è…»

«Smettetela di litigare!» Il grido di Luca si schiantò come un tuono e lacerò la nube di tensione che si era condensata sopra i tavoli del bar.

In piazza, il pallone da calcio cadde di nuovo nella fontana, schizzò la faccia di un bimbo che non si preoccupò nemmeno di asciugarsi, impietrito come gli altri, come la statua del pescatore che vegliava su di loro. Anche i due ragazzini seduti sotto i portici rimasero senza fiato. Uno di loro addentò il suo cremino, diede un colpo di spalla all’altro che richiuse l’album di figurine, ed entrambi inforcarono le biciclette per sfrecciare via. Il giornalaio e il pescatore che stavano chiacchierando all’ombra della bottega si girarono verso i tavolini del bar, la Signora Agnese tornò ad affacciarsi dalla terrazza, e pure il Signor Moretti sbucò da dietro la tenda d’ingresso per sbirciare.

Luca non ci badò. Quelle occhiate non lo scalfirono nemmeno, gli scivolarono addosso come il fastidioso polline di un soffione sventolato sotto il naso.

Si morsicò il labbro, annaspò dalle narici facendosi paonazzo quasi quanto i capelli di Giulia, e soppresse i gorgoglii in fondo allo stomaco che bruciava ancor più delle ferite spalmate di tintura di iodio.

Si stava ripetendo la messinscena già accaduta la primavera precedente, quando Alberto e Giulia avevano bisticciato al telefono sempre con il pretesto di proteggerlo, di gareggiare su chi si stesse preoccupando di più, su chi lo avesse più a cuore. Ma questa volta sarebbe stato diverso. Questa volta, Luca si sarebbe impuntato e non si sarebbe rimangiato neanche una sillaba. «Quante volte ve lo devo dire di non mettervi a bisticciare per un problema che ho creato io?» Tirò su il capo e corrugò le sopracciglia. Gli occhi iniettati di rosso come lo iodio che gli colava dalla ferita sullo zigomo. «Se avete qualcosa da dire allora ditela a me e soprattutto smettetela di darvi addosso.»

Alberto rilassò la tensione dei pugni, ammosciò la contrattura delle spalle, e il suo grugno si sciolse in un’espressione basita, priva di ombre. Fu costretto a sbatacchiare più volte le palpebre per riconoscere quel Luca che ora gli si palesava davanti.

Giulia scese dalle punte dei piedi, schiuse le labbra che ancora bruciavano per tutto l’odio sputato su Alberto, «Luca…», poi però si rimangiò il fiato e storse un sopracciglio. Guardò Luca alla stessa maniera, come se davanti a lei si fosse materializzato il profilo di un estraneo. Scrollò la testa, si riprese da quel lampo di stordimento, compì una piroetta per dare le spalle ad Alberto, slanciò i capelli umidicci dietro la spalla, e tornò ad affilare il ringhio, scoccandogli un’occhiata in cagnesco. «Be’, te lo scordi che io adesso mi metto a fare la pace.» Cacciò fuori una linguaccia.

Alberto fece lo stesso: girò sui talloni nudi, diede le spalle a Giulia, gonfiò il petto e piantò le braccia conserte. «Lo stesso vale per me.» Ricambiò la linguaccia.

Giulia sbuffò, in un moto di stizza, e fece tamburellare le dita sugli avambracci. «Bel maggiorenne dei miei stivali» lo provocò. «E meno male che ora dovresti essere tu l’adulto fra noi tre.»

Alberto scosse la testa per nascondere un sussulto, colto sul fatto. Rimise a posto la seggiola che poco prima Giulia aveva urtato con la pedata, e inspirò a fondo per riguadagnare freddezza e controllo. Era lui l’adulto, adesso, non era forse così? «Non posso credere che stiamo sollevando un tale macello solo per uno stupido incidente.»

«Non è uno stupido incidente se Luca si è fatto del male.»

«Guarda che schiantarsi sugli scogli non è mica una tragedia.» L’occhiata che Alberto rivolse a Giulia non fu più così pungente e provocatoria, si era sbarazzata di quell’innato impulso attaccabrighe. «Sul serio a te non è mai capitato di inciampare sull’erba o nei sassi? È come ha detto il Signor Moretti: chissà quante volte gli è già successo di sbattere il muso sugli scogli e quante altre volte gli ricapiterà. Sono cose che semplicemente succedono, tutto qui.»

Luca scosse il capo. «E non succederanno mai più.»

«Già» annuì Alberto, atteggiandosi da sapientone dinnanzi a Giulia. «Sentito?» Compì un piccolo scatto col capo. «Aspe’…» Si girò verso Luca. «Cosa?» Storse la bocca e arricciò la punta del naso, tastando l’acre olezzo di guai in arrivo. Irrigidì spalle e pugni innalzando una corazza difensiva. «Cosa vuol dire che non succederanno mai più?»

«Che ne ho abbastanza di tutto questo.» Luca tornò a inspirare fra le labbra pregne del sapore del mare, labbra che bruciavano per i graffi screpolati dopo lo schianto sullo scoglio. Strinse i denti sotto i quali riuscì ancora a tastare lo scricchiolio sabbioso della roccia che si sgretola. «Basta» sibilò, inghiottendo un amaro e nauseabondo miscuglio di rabbia ed esasperazione. «Basta, è finita.» Gli tremò il mento, e Luca non riuscì a capire cosa avrebbe preferito: se scoppiare a piangere per la disperazione o se piegarsi dal ridere per il sollievo, sentendosi finalmente in grado di sputare quel peso dallo stomaco. «È finito il tempo in cui potevo ancora permettermi di tenere il piede infilato in due scarpe.»

Alberto flesse il capo di lato e si sturò un orecchio, «Il piede infilato dove?», convinto di esser diventato sordo, o rincitrullito, o entrambe le cose.

«Cosa stai dicendo, Luca?» Giulia invece aveva capito benissimo, glielo si leggeva in quella faccia diventata bianca come una mozzarella. Si approcciò a Luca, cauta. Un passetto leggero. Allungò una mano arrivando però solo a sfiorargli una spalla tremante. «Quale piede in due scarpe? Di cosa stai parlando?»

«Che sapevo che prima o poi mi sarei ritrovato a questo punto» rispose Luca. «Sapevo che prima o poi sarebbe arrivata l’ora di decidere. E lo sapevamo tutti e tre.» Si sfilò l’asciugamano dalle spalle. «Per tutto questo tempo…» La lieve brezza serale soffiò sulle sue braccia nude, traballò sotto le maniche della canottiera ormai asciutta. La sua pelle da umano s’indurì, carezzata da una scia di brividi. «Per tutti questi anni ho solo fatto finta di non rendermene conto, ma adesso è arrivato il tempo di decidere, di assumermi pienamente ogni responsabilità.» Luca si alzò dalla seggiola – l’impacco di ghiaccio cascò ai suoi piedi – e ignorò la mano che Giulia aveva teso per sostenerlo e aiutarlo. Non c’era più niente e nessuno che potesse aiutarlo, ormai. «O pesce o umano.»

Luca fronteggiò l’abbaglio rossastro e sanguigno del tramonto, gli zampilli della fontana, le mani del pescatore che strangolavano il mostro marino. Fronteggiò il peso di ogni sua scelta, di ogni suo passo, e seppe di non essersi mai sentito così in pace con se stesso se non in quel momento, dopo essersi spogliato di ogni illusione.

Luca raccolse un lungo respiro. «Anni fa ho preso una decisione.» Strinse i pugni e tornò indietro, fronteggiò il se stesso più piccolo, quel bimbetto sciocco e avventuroso capace di sgranare gli occhioni luccicanti davanti alla semplice vista di un fiore, di arrossire tendendo l’orecchio verso la scia di musica vibrata sotto l’ago di un giradischi, o di squittire di emozione dopo essersi divorato una forchettata di trenette. Quel bimbo che ora Luca avrebbe tanto voluto chinarsi ad abbracciare per attingere dalla sua forza, per sentirsi impavido come credeva di essere allora. «Anni fa ho deciso di lasciare Portorosso e di vivere in superficie. Ed è qualcosa che ho deciso io. Quando ero piccolo non conoscevo ancora pienamente le conseguenze che avrebbe comportato questa mia scelta. Ma ora sì.» Una goccia di iodio mescolata al sangue fresco gli scivolò dal taglio sullo zigomo, percorse la curva della guancia fino al mento, e cadde in silenzio come una lacrima. «Ora conosco le mie responsabilità, conosco il prezzo di questo compromesso, e ho intenzione di pagarlo fino in fondo.»

È il mare che mi sta punendo, finalmente l’ho capito.

Fu così ovvio che Luca si sentì stupido per non averlo realizzato prima.

Ma adesso è tutto chiaro.

Represse il dolore di un tonfo al petto, dove quella consapevolezza picchiava e faceva male.

Ecco perché non riesco più a sentirmi a casa quando mi immergo, ecco perché mi sento un estraneo e un impostore persino quando scendo da mamma e papà. È questa la vera conseguenza della mia scelta. È il prezzo che devo pagare per aver deciso di staccarmi dallo scoglio su cui sono nato. È un prezzo tremendo ma lo devo accettare. È il prezzo che mi è stato lasciato in conto quando ho deciso di vivere da essere umano e non più da mostro marino. Continuerò a pagarlo per il resto della mia vita, ma mi sta bene. Questa volta non farò le cose a metà.

Luca batté le palpebre gonfie e umettate di dolore. Evocato dal rosso di quel tramonto così violento, lo abbagliò il lampo di un ricordo.

Questa volta non mi tirerò indietro.

Non si sarebbe tirato indietro perché già sapeva cosa significava sperimentare il dolore di un simile senso di colpa. Già una volta gli era capitato di dimostrarsi troppo codardo per assumersi la responsabilità delle sue scelte, il peso delle sue decisioni, e di nascondersi per colpa delle sue paure e del suo egoismo.

Non capiterà mai più qualcosa di simile.

Non avrebbe mai più permesso al dolore di bagnare gli occhi di Alberto. Non avrebbe mai più affrontato lo sguardo ferito di chi sa di avere perso tutto, di non avere altro a cui affidarsi per rimanere a galla se non il mare che scroscia fra le sue gambe e che accoglie l’ultimo sventolio della sua coda.

Questa volta… mi assumerò le conseguenze delle mie decisioni fino alla fine, senza lasciare che nessun altro paghi al posto mio.

«Se il mare non mi vuole più…» Luca dovette strusciarsi il braccio sul viso perché neanche una singola lacrima si staccasse dalle ciglia. Nonostante tutto tremava, perché quelle parole gli facevano male, perché dentro di sé qualcosa stava sgretolandosi. Una parte di lui, una scaglia della sua anima, il tassello di un mosaico che, scollandosi e rotolando via dal suo cuore, fece diramare una lunga crepa che frantumò il disegno nella sua interezza. «Allora io accetto il suo rifiuto. Io non nuoterò e non metterò mai più piede in acqua…» Un ultimo respiro. L’ultima coltellata al petto, quella fatale. «Per tutto il resto della mia vita.»

Giulia e Alberto si guardarono inorriditi. Le espressioni di due pesci strozzati dall’amo e a cui manca l’acqua per respirare. Giulia sgranò gli occhi, compì uno scatto con le sopracciglia e inviò ad Alberto uno sguardo complice che lo implorava: digli qualcosa, ti scongiuro, fallo ragionare, non puoi davvero permettere che Luca blateri simili assurdità.

Alberto si strinse nelle spalle e scosse la testa, ancor più sconfitto e impotente di lei. E cosa vuoi che faccia?

Nulla, ecco cosa potevano fare. Non potevano più fare nulla se non tornare a far scivolare gli sguardi su Luca, sulla stazza della sua schiena scura e tremante che, in contrasto al rossore del tramonto, appariva ancor più salda di quella di Alberto, forse persino di quella di Massimo, e assistere impotenti allo sbriciolarsi di quella voragine che si era spalancata fra di loro.

Le mani di Giulia, ancora unte di tintura di iodio, gocciolarono, proprio come sanguinando, e macchiarono il cemento fuori dal bar.

E fu con quel presagio, con quella macchia dello stesso colore del sangue, che Luca si preparò a lasciare Portorosso e a tornare a Genova per trascorrervi l’ultimo inverno. L’inverno del castigo. Il primo che avrebbe trascorso completamente privo della sua identità di Mostro Marino.

Nulla sarebbe mai più stato come un tempo, per nessuno di loro tre.

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Capitolo 30
*** 30 ***


30

 

 

Nuovo autunno, nuovo settembre, nuovo inizio, nuovo anno scolastico. L’ultimo. L’ultimo e il peggiore. L’anno delle decisioni irrevocabili, l’anno di demarcazione, l’anno del castigo e dell’espiazione. L’anno della Maturità.

Luca un pomeriggio si era per davvero seduto alla scrivania di camera sua, aveva strappato una pagina dal quaderno degli appunti di Trigonometria, si era spremuto il cuore e le meningi, e aveva stilato un fitto elenco di epiteti che avevano finito per riempire l’intera facciata. Poi aveva accartocciato il foglio e lo aveva lanciato nel cestino. Era capitato il giorno prima della riapertura delle scuole. Aveva compiuto quel gesto quasi sperando di esorcizzare dal suo cuore quel peso così gramo che recava con sé il ritorno sui banchi e la clausura data dalle pareti della classe. L’odore umido dell’intonaco fresco, come di tufo, quello pungente del detersivo strofinato sulle piastrelle e sul legno di formica, e quello asfissiante di polvere di gesso e di libri nuovi.

Quello era il primo anno in cui Luca si era sentito strangolare dalle mani di quell’odore, mentre di solito lo accoglieva come una carezza lieve, avvolta attorno alle guance, in grado di suscitare in lui un brivido crepitante, l’ebrezza di ricominciare, e di accendere quell’innato solletico di curiosità che era da sempre brillato in fondo ai suoi occhi.

La mattina del rientro gli era successo per la prima volta di fermarsi sul ciglio dell’aula bloccato dalla convinzione di non riuscire a compiere un solo passo di più. Si era fatto superare dai suoi compagni che quasi gli erano passati sopra i piedi pur di travolgere la soglia dell’aula, gettare le cartelle sulle seggiole, e aggiudicarsi i banchi migliori. Alla fine Luca ci era riuscito. Si era aggrappato al manico della cartella, aveva trattenuto il respiro, e aveva varcato la soglia, un po’ arreso e un po’ sconfitto.

Aveva risposto agli appelli dei professori che come al solito si erano raccomandati con gli studenti di non temporeggiare, e di ingranare subito con lo studio e di darci dentro con i compiti in modo da non rimanere indietro con nessuna materia. Aveva appiccicato le etichette sui nuovi libri e sui nuovi quaderni, aveva temperato le matite, aveva riempito l’astuccio di penne, si era scelto un banco infilato in un cantuccio abbastanza in luce ma anche vicino alla porta d’uscita, in modo da sentirsi più al sicuro. Da lì aveva cominciato a seguire le lezioni che ormai si susseguivano da un paio di mesi, accavallandosi l’una all’altra, molli e stagnanti come le onde di una bassa marea acidula e acquitrinosa nella quale Luca non si sentiva in grado di spalancare le pinne e di scuotere la coda per darsi lo slancio, per godersi il flusso della corrente che avrebbe dovuto condurlo rapido verso il suo futuro, verso oceani infinitamente più vasti della classe in cui era confinato.

Se Luca chiudeva gli occhi e pensava al suo futuro, tutto quello che scorgeva era una pozza scura e fangosa incuneata fra l’asfalto e il marciapiede, lì dove sguazzavano le suole dei passanti e dove venivano lasciati galleggiare i mozziconi di sigaretta e le cartacce di caramelle.

Non era esattamente l’immagine più incoraggiante con cui cominciare l’anno scolastico.

«… ma sono soprattutto gli ideali a introdurlo alla scrittura, alla lettura, a intraprendere studi che poi determineranno tutto il suo percorso professionale.» Il Professor Marinelli sfogliò una pagina del suo manuale, si alzò da dietro la cattedra accompagnato da un fruscio stridente della seggiola, giunse il pugno libero dietro la schiena e proseguì nella lettura sfilando davanti ai banchi della prima fila, gettando ombra sulle teste chine degli studenti ancora un po’ insonnoliti. «E a incidere così profondamente sul suo stile che ancora non ha nulla a che vedere con quello degli autori veristi già affermati.» Si aggiustò gli occhialini sul naso. Un abbaglio di luce proveniente dalla griglia di neon attraversò le lenti tonde e splendette sulla leggera calvizia attorno alla quale cresceva una rada coroncina di capelli color grigio topo. «Ma quali sono questi ideali?» Si sfilò gli occhialini, li fece roteare reggendoli per una stanghetta, e guardò verso il soffitto, come decifrando la risposta fra i rigagnoli di pioggia distribuiti sui vetri delle finestrelle. «Dunque troviamo ideali romantici, ideali patriottici. Vi è infatti una profonda attenzione nei riguardi della realtà contemporanea che lo circonda e dalla quale proviene.» Tornò a infilarsi gli occhialini e sfogliò un’altra pagina. «Consideriamo dunque i primi anni del…»

Luca sospirò e girò lo sguardo altrove, troppo distratto per starlo a sentire. Strinse il pugno sotto il mento, sorreggendosi il capo, e fece scivolare l’altra mano fino alla penna abbandonata affianco al libro aperto. La rigirò fra le dita, ne picchiettò la cima sulle labbra ammosciate in un’espressione grigia e demoralizzata. L’occhio gli cadde sul quaderno spalancato sotto il libro. Le righe bianche. Non aveva preso nemmeno un appunto dall’inizio della lezione. Questa sua noncuranza avrebbe dovuto preoccuparlo, eppure non lo scalfiva nemmeno di un brivido.

Luca trasse un sospiro più lungo, si sforzò di far leva sui gomiti, di raddrizzare le spalle ricurve, e di sconfiggere il peso di quel suo malumore. Continuò a picchiettare la penna sul labbro, scuotendola come una bacchetta magica nella speranza di evocare uno stimolo, una motivazione, una scintilla di entusiasmo, scacciando infine il brontolio di quei pensieri più nuvolosi che gli ricordavano che, terminato quell’ultimo anno di scuola, avrebbe dovuto decidere cosa farsene della sua vita. Avrebbe dovuto allungare il piede in uno spazio vuoto dentro cui scorgeva solo una voragine nera, senza luce e senza fondo. Una voragine ancor più buia dell’abisso dove dimorava lo Zio Ugo.

«… i suoi costanti spostamenti verso città culturalmente e intellettualmente più stimolanti.» Il Professor Marinelli camminò ancora addentrandosi fra le file dei banchi. I tacchi dei mocassini schioccarono sul linoleum lucido come uno specchio. Era la prima ora, e dal pavimento saliva ancora il gradevole profumo del detersivo al limone che era stato strofinato il pomeriggio prima. Il passaggio del professore costrinse due ragazzi a smettere di chiacchierare e a infilare il naso fra le pagine del libro, fingendo di non aver perso il segno. «Ma l’esplorazione di questi nuovi contesti lo avvicina anche a quello che potremmo definire “pessimismo sociale”. Verga nasce nobile e agiato, ma ciò non gli impedisce di volgere attenzione a quella che è la prima realtà in cui si ritrova a crescere e che non…»

Il buio degli abissi e il viscido ricordo dello Zio Ugo trascinò inevitabilmente Luca a Portorosso, all’estate appena trascorsa.

Quello era stato il primo anno della sua vita in cui Luca aveva quasi gioito all’idea di fare i bagagli, di correre alla stazione, di montare sul treno e di far ritorno a Genova. Il primo anno della sua vita in cui, separandosi da Alberto, non aveva fatto alcuna fatica a soffocare le lacrime e il dolore. L’abbraccio di arrivederci era stato freddo, più un’abitudine che un bisogno. Luca si era staccato frettolosamente, aveva gettato lo sguardo ai suoi piedi, gli aveva dato le spalle senza nemmeno voltarsi a scorgere che faccia avesse Alberto mentre si salutavano, mentre il fischio del treno si allungava e mentre la nebbia di vapore si innalzava, separando le loro strade e le loro vite.

Nel comportarsi in quel modo, Luca si era sentito una carogna, un vigliacco e un ingrato. Ma nemmeno quei sensi di colpa erano stati tanto dolorosi quanto lo era stata la sensazione di raccapriccio e di orrore che aveva provato per tutto il corso dell’estate affacciandosi alla superficie del mare, fiutandone l’odore stagnante e salmastro durante la bassa marea, o ritrovandosi a saltare come una scheggia perché raggiunto dagli schizzi infranti sulla banchina, o tremando di terrore anche solo all’idea di infilare in acqua la punta dell’alluce, tramutandosi in una creatura in cui ormai non si riconosceva più.

«Una idealizzazione della società preindustriale, dunque» continuò a blaterare il Professor Marinelli, giunto in fondo all’aula. «Dopo Storia di una Capinera che lo avvicina al pubblico borghese, e con Vita dei Campi che è uno specchio di…»

L’incidente dello scoglio non aveva fatto altro che peggiorare la situazione, come era immaginabile. Dopo averlo saputo, dopo averlo visto tornare a casa con le braccia tumefatte di lividi, la guancia gonfiata dalla ferita, e il bernoccolo a sbucare dai capelli, Daniela aveva dato di matto. Si era rifiutata di far tornare Luca a Genova, voleva tenerlo lì con sé, non si fidava a saperlo lontano, distante dalla sua protezione e dalle sue premure. Aveva persino scoperchiato nuovamente la minaccia di spedirlo negli abissi, se avesse osato disobbedirle.

Era stato Massimo ad averla riportata alla ragione. Lorenzo non aveva nemmeno provato ad approcciarla, conosceva fin troppo bene le conseguenze della furia di sua moglie. Massimo quindi l’aveva ascoltata, l’aveva lasciata sfogare, le aveva tenuto la mano sulla schiena che aveva tremato a ogni sillaba, a ogni singhiozzo di tensione, poi però, una volta calmata, aveva preso le parti di Luca, aiutato anche da Giulia e da Alberto. Tutti e tre avevano tirato in ballo il discorso dell’ultimo anno di scuola, della Maturità, dell’ultimo sforzo, della ricompensa che sarebbe giunta dopo tutti quegli anni di studio e di fatica. E così Daniela non aveva potuto fare altro che chinare la testa fra le mani e cedere. Aveva aiutato suo figlio a riempire la valigia, a controllare che non mancasse nulla, lo aveva accompagnato fino alla stazione dei treni e aveva ingoiato una lacrima a ogni bacio di arrivederci stampato sulle sue guanciotte.

«… e con esso cambia lo stile narrativo» continuò a scandire il Professor Marinelli, risalendo il fondo dell’aula e dirigendosi verso la lavagna attraversando la doppia fila di banchi e musi annoiati, «cambia la voce narrante, cambia la presentazione e lo sviluppo dei personaggi che si rendono in grado di esprimere…»

Ecco quindi che Luca si ritrovava di nuovo a Genova, come ogni anno. Ora persino lui cominciava a credere che aver lasciato Portorosso fosse stata una pessima idea. Cominciava a pentirsi di quella decisione, ripudiava quella paura che lo aveva convinto che l’inizio dell’autunno e della scuola avrebbero rinvigorito il suo stato d’animo e gli avrebbero schiarito le idee.

Luca arricciò il naso infreddolito, rabbrividì, e si rimboccò il colletto dell’uniforme invernale, dandosi una strofinata alla spalla irrigidita dall’umidità, perché l’approcciarsi della stagione delle piogge non aveva fatto altro che peggiorare la situazione già tragica di suo.

Il professore scribacchiò qualcosa alla lavagna, poche parole chiave – pessimismo sociale, impersonalità, cambio di registro –, e tornò a gettare il gessetto nella vaschetta. «Se qualcuno di voi avesse la cortesia e l’accortezza di rammentare le precedenti lezioni su Dante, potrebbe anche considerare come questa sia una caratteristica ricorrente a cominciare proprio dai suoi scritti, dalla sua Magna Opera.» Si spolverò le mani. La nuvoletta bianca non fu così intensa da sporcargli la giacca di tweed color tortora. «Il cambio di registro avviene proprio per ricreare l’immersione adeguata in un determinato contesto sociale e culturale. Ecco perché, passando da Inferno a Purgatorio a Paradiso, possiamo…»

Luca sbadigliò dietro una mano e si stropicciò gli occhi incassati fra le nere grinze delle occhiaie.

Quella mattina proprio non gli riusciva di ingranare. Stava assistendo alle lezioni come un sonnambulo, complici le notti insonni che trascorreva brancolando nella buia nebbia sollecitata da tutti quei pensieri cattivi e velenosi. Si stupì del fatto che la sua faccia insonnolita non fosse ancora crollata sul banco e non si fosse squagliata fra le pagine del libro aperto.

I passi del Professor Marinelli compirono un altro giro in mezzo ai banchi. «… il primo documento verista, precedente persino a Vita dei Campi, come ne abbiamo discusso giovedì scorso. La vera e propria svolta nell’intera antologia di Verga.» Si fermò. «Bassi.» Batté il tacco per richiamare l’attenzione di Bassi, lo interloquì senza aspettare alcun cenno di affermazione. «Rispondi tu in modo sensato.»

Bassi tirò su la fronte dal braccio. «Uh, sì, ecco.» Si stropicciò gli occhi come Luca aveva fatto poco prima. «Vita dei Campi, quello…» Socchiuse una palpebra per inquadrare la risposta esatta. «Di giovedì scorso?» Il viso del professore era inscalfibile, una maschera di pietra, l’indecifrabile faccione di un idolo. Bassi tossicchiò e decise comunque di andare avanti. «Dunque era…» Spostò due libri, sfogliò fra gli appunti che erano svolazzati fuori dalle pagine del quaderno. «Quello delle miniere di zolfo. Uh, Rosso…» Si grattò dietro l’orecchio. «Spelacchiato?»

Giunse una pioggerellina di risate assieme alla truce occhiata lampeggiata dagli occhialini del professore.

Bassi, alternando un colorito cadaverico a quello paonazzo, azzardò un secondo tentativo. «Rosso Malocchio?» Si morsicò il labbro.

Crepitarono risate più convinte, provenienti soprattutto dal fondo dell’aula.

Il Professor Marinelli scosse il capo. Purtroppo per Bassi, lui non ci trovava nulla da ridere. «L’idea migliore sarebbe quella di rispondere in modo sensato e possibilmente corretto, Bassi.» Si allontanò e aprì il registro che teneva sotto il suo libro di testo. «Il goffo tentativo di Bassi ci indirizza su Rosso Malpelo.» Tracciò uno sbuffo, un segno rosso su una casella del registro, un graffio sanguinante affianco al nome di Bassi. «Quello delle miniere di zolfo. Almeno un particolare lo hai centrato, seppur azzardandolo.»

Bassi si sporse, si accorse di quello sbuffo e, proprio come se la penna gli avesse sfregiato una ferita sanguinante in pieno viso, si accasciò e soppresse un grugnito di frustrazione. Ferraro, seduto affianco a lui, lo consolò con una pacca sulla spalla.

Il Professor Marinelli richiuse il registro e proseguì la lezione. «Ebbene egli già possiede tutte quelle caratteristiche che deve contenere un buon documento verista per potersi considerare tale.» Ma, a questo giro di banchi, ogni suo passo cadenzò una scarica elettrica che pungeva ogni alunno a cui passava affianco, paralizzandolo e sciogliendone il respiro non appena gli dava le spalle. «L’appartenenza a uno stato sociale popolano, l’impersonalità, la regressione linguistica…»

Quelle stesse parole e quegli stessi passi invece attraversarono Luca senza alcun dolore, senza indurire alcun callo, come pioggia. Come tutta la pioggia che in quel preciso istante si stava rovesciando sulla città.

Luca spostò le nocche dalla guancia al mento, si resse il capo per guardare verso l’alto e inquadrò le finestre a soffitto gonfiate da bitorzoli di nuvole e inondate dall’acquazzone che tambureggiava sui doppi vetri. Un suono assai più minaccioso dei passi del professore, una condanna ben più palpabile di un segno rosso sul registro di classe.

Come se la lezione di Letteratura Avanzata non fosse bastata a caricarlo di sufficiente angoscia, la giornata era già partita male perché, non appena Luca aveva valicato i cancelli della scuola, era scoppiato a piovere. E quello che si era scatenato si preannunciava come un diluvio biblico. Una tempesta che avrebbe spurgato la sua furia fino a sera inoltrata. Le nuvole infiammate dai lampi, violente secchiate di pioggia a mitragliare gli edifici e a spennacchiare le chiome degli alberi ingialliti dall’autunno.

Luca non aveva tempo di concentrarsi su Verga, sul Realismo Italiano, o sulla successiva lezione di Storia. Tutte le sue preoccupazioni era rivolte allo studio di uno stratagemma che gli avrebbe permesso di arrivare a casa asciutto e integro. Sia fisicamente sia emotivamente.

La stagione delle piogge era cominciata presto, quell’anno. Anche se a dirla tutta era già ottobre, quindi non c’era nulla di eccezionalmente anomalo.

In casa si erano organizzati come al solito. Le galosce erano sempre pronte sotto la porta d’ingresso, messe ad asciugare affianco al calorifero, e sulla gruccia erano sempre appesi gli impermeabili, quello di Luca e quello di Giulia, assieme ai cappotti di trapunta pesante. Tutte le sere, quando Luca si sfilava le galosce e le lasciava sgocciolare sullo zerbino, ogni giorno più scure, ogni giorno più infangate, le vedeva come il simbolo della sua imminente disfatta. Il costante promemoria della sua condizione di reietto, delle sue menzogne, della sua seconda vita, di un’identità che non sarebbe mai riuscito a spellarsi di dosso.

«… dei Vinti» esclamò il Professor Marinelli, spingendo un’enfasi maggiore. «Una prima testimonianza si ha da una lettera datata Milleottocentosettantotto all’amico Salvatore Paolo Verdura. Aprite i libri di testo», pescò lo scatolone dalla cattedra e lo passò al primo ragazzo della fila, «e intanto cominciate a passare lo scatolone dei romanzi per coloro che hanno prenotato il comodato.» Strinse un pugno davanti alle labbra sottili, tossicchiò facendo ballonzolare le rughe del mento, e alzò le sopracciglia come per scrutare da sopra le lenti degli occhialini. «Ho in mente un lavoro, che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita…»

Leggendo direttamente dal testo, la voce del professore si inspessì, riempì le pareti dell’aula e vibrò fin giù nello stomaco, rendendo impossibile ignorarlo persino con il fracasso della pioggia a crepitare sulle finestre del soffitto.

Pure Luca si ritrovò a guardarlo, a seguire la sua camminata lenta, lo sfogliare delle pagine, nonostante avesse perso il filo del discorso, e non poté fare a meno di impietosirsi per il povero Bassi che si era buscato quel segno rosso solo per una risposta sbagliata, pescata poi così alla sprovvista. Sarebbe potuto capitare a chiunque.

I ragazzi delle altre classi li avevano messi in guardia dal Professor Marinelli, durante le riunioni in Aula Magna, o durante le pause fra una lezione e l’altra, o durante la ricreazione, quando i corridoi si affollavano e gli studenti si mescolavano per scambiarsi le gomme da masticare o per prestarsi i compassi o per rubarsi le penne. Avevano spifferato quanto fosse un gran rompiscatole, e di quanto li avrebbe fatti sudare per arrivare a guadagnarsi un misero Sei bagnato. Ed era un individuo che non conosceva mezze misure. A uno studente mediocre preferiva di gran lunga uno studente svogliato ma consapevole del suo disinteresse. Questo lo portava a concentrare tutte le sue energie solo sugli studenti che riteneva realmente meritevoli di attenzioni. Studenti che si rivelavano sempre assai pochi. Uno o due per classe, nelle annate più fruttifere.

Lo scatolone passò di mano in mano, qualcuno lo cedette senza attingervi, perché già in possesso del libro, e cominciò a scivolare anche fra gli studenti della seconda fila.

La voce del professore intanto proseguiva nella lettura. «… non ti pare che per noi l’aspetto di certe cose non ha risalto…»

Uno scroscio di pioggia più violento, simile a un pugno di sassi scagliato su una lamina di metallo, spinse Luca a guardare verso l’alto, ad andare incontro alla pioggia che non cessava e che continuava a far vibrare il doppio vetro delle finestrelle invase dal buio dei nuvoloni.

Luca boccheggiò. Si strofinò la gola per massaggiare quel groppo di panico che gli aveva bloccato il respiro.

Ti prego, ti prego, Signor Cielo.

Giunse le mani e strinse forte le dita tremolanti, fino a far impallidire le nocche, raccogliendosi in quella preghiera solitaria e disperata. La sua faccia ancor più bianca del gesso che sporcava la lavagna.

Piovi quanto vuoi, questa mattina, te lo concedo. Ma almeno chiudi i rubinetti quando dovrò uscire e tornare a casa. L’ombrello ce l’ho, e pure le galosce. Mi basta che la pioggia non sia così forte da arrivarmi in faccia o sulla schiena. Per piacere. Fammi questo favore e te ne sarò grato per sempre.

Non era un buon segno, quello di mettersi a parlare con le nuvole e con la pioggia. Forse la botta in testa sullo scoglio gli aveva fatto male per davvero. Forse stava diventando matto.

A infierire sul suo stato d’animo già abbastanza turbato, quell’anno alla sua classe era stata assegnata una delle aule in piccionaia. Le finestre erano incastonate sul livello del pavimento, ingabbiate da grigie grate protettive attraverso cui bisognava allungare il braccio per raggiungere i maniglioni. Sul soffitto erano ritagliate due finestrelle a doppio vetro, impossibili da aprire, su cui la pioggia, quando batteva, sollevava un baccano infernale, come una mitragliata di grandine che si schianta su lamiere d’acciaio.

Quelle finestre lo terrorizzavano. Suscitavano in lui le fantasie più macabre e catastrofiste.

Ogni volta in cui Luca le osservava, soprattutto durante i giorni di pioggia, riusciva con chiarezza a visualizzare il diluvio che si accumulava, il peso della pioggia che sbriciolava le cornici, il doppio vetro che esplodeva, l’acqua che si riversava fra le pareti dell’aula, trasformandola in un acquario. Le onde salivano, travolgevano seggiole e banchi, inghiottivano gli studenti, sommergevano pure Luca che però poteva respirare, al contrario dei suoi compagni, e che allo stesso tempo assumeva le sue sembianze da pesce, rivelando la sua identità e il suo segreto.

Pure in quel momento si sentiva schiacciato dal peso di tutta quella pioggia. La testa ottusa come una boccia piena d’acqua. Una boccia in cui Luca si ritrovava a galleggiare, mentre le sue membra si facevano pesanti e inerti, i pensieri si appannavano, le orecchie fischiavano e la vista si offuscava, risucchiandolo in un freddo e scuro mare di nebbia in cui lui…

«… ro. Pst, ehi!» Qualcuno dietro di lui stropicciò qualcosa e scagliò una pallina di carta che gli rimbalzò sulla schiena. «Paguro, svegliati!»

Luca trasalì e rimbalzò sulla seggiola, «Cos…», succhiato fuori dal suo vortice di acqua nera e pensieri soffocanti. Scrollò il capo. Torse il braccio dietro di sé, si tastò il colletto, senza riuscire a trovare la pallina di carta già cascata a terra, e si girò verso la voce di Zorzi. Lo sguardo ancora assente e appannato da una nebbiolina di confusione. «Che c’è?»

Zorzi sfilò un libro dallo scatolone che gli era appena arrivato sul banco. «Che fai, si può sapere?» Un cipiglio d’irritazione a corrugargli la fronte. «Dormi in piedi?»

«Io…»

«Prendi il libro, svelto.» Zorzi gli allungò lo scatolone che, ormai mezzo vuoto, si poteva reggere anche con una mano sola. «E fai passare.» Lo scosse fino a che Luca non si decise a raccoglierlo.

Luca fece come detto. Pescò il primo libro che gli cadde sotto mano e passò il resto dello scatolone ai banchi davanti. Rigirò il romanzo – la copertina nera e flessibile – sul fronte, e lo espose alla luce dei neon che battevano sul suo banco.

Sgranò gli occhi allucinati dal titolo, dall’immagine di copertina, dal colore nero della cornice, da tutto, e di nuovo tornò a precipitare in uno spazio di acqua scura e gelida che gli attanagliò la gola e che gli squarciò un doloroso vuoto in fondo allo stomaco, rendendogli il viso più bianco della calce.

La barca ritratta ad acquerello, il mare grigio in burrasca, le vele sbrindellate dalle raffiche, le reti gettate fra le onde di schiuma che si sbriciolavano al vento, le facce dei pescatori imbrunite dal sole e squagliate da grida di terrore, e il cielo annuvolato dalla tempesta che li sovrastava.

Le mani di Luca sudarono, le braccia tremarono e il cuore accelerò, trafitto a morte. Gli fu impossibile sostenere un tale peso.

Non è possibile.

 

I Malavoglia

Giovanni Verga

 

Luca si accasciò, sbatté la fronte sul banco, senza alcuna voglia né intenzione di tirarsi su, e strinse i pugni accartocciando un angolo del quaderno fra le dita sudaticce.

Ora ricordava. Gli tornò in mente tutto. E i ricordi che lo pervasero furono ancor più tragici e prepotenti di un’ondata di pioggia precipitata dal soffitto dell’aula.

Quel libro era già passato fra le mani di Luca, gli aveva già dato la scossa e già gli aveva bisbigliato all’orecchio i suoi segreti, il suo significato più nascosto.

Era accaduto anni prima, lo stesso giorno in cui aveva stretto per la prima volta Pinocchio fra le dita, quel pomeriggio di dicembre che lui e Giulia avevano trascorso rintanati fra gli scaffali vecchi e nuovi della libreria in centro.

Quella volta, Luca aveva ignorato la scossetta di tensione che lo aveva punto dopo aver sfiorato il libro dei pescatori. Lo aveva riposto sulla mensola e si era allontanato, sfregandosi le braccia e scrollandosi di dosso quel brivido che era sicuro non avrebbe mai più dovuto rivivere sulla sua pelle.

Ed ecco che ora invece gli tornava sotto il naso, come una burla o una pernacchia. Freddo e assordante come un gavettone esploso nell’orecchio.

L’universo deve proprio avercela con me.

Luca tirò su la faccia. Fece scorrere il pollice fra le pagine, inspirò il profumo della carta vecchia, di seconda mano, dell’inchiostro polveroso che era stato sfregato da altre mani e su cui erano stati versati mille altri sospiri.

Chiuse gli occhi, e fu un altro ricordo a rimbalzargli in mente. A parlargli fu una frase pronunciata da Giulia tanto tempo prima. Giulia gli aveva svelato come certi libri ti cercano e ti vengono incontro. Sono predestinati a far parte di te e della tua vita, come le amicizie più sincere e più preziose.

Allora è un segno del destino se questo libro continua a capitarmi di continuo fra le mani?

Di nuovo Luca si soffermò sulla copertina così nera; sulla spuma del mare in burrasca, indistinguibile dai cumuli di nuvole; sul senso di gelo e di orrore trasmesso da quelle onde feroci e affamate come fauci; sulle espressioni scure e terrorizzate dei pescatori che issavano le funi e che sorreggevano le vele lacerate dalle unghiate del vento.

Se solo si trattasse di un libro dall’aspetto più amichevole…

«Ma Fantasticheria è pur sempre una novella-manifesto» continuò a spiegare il Professor Marinelli, «un’introduzione al Ciclo dei Vinti. Ed è grazie al Ciclo dei Vinti, come ci suggerisce la parola Ciclo, che si sviluppano e che si esplorano aspetti diversi di un solo ideale.» Passò di nuovo fra i banchi e sventolò il libro sopra la testa di Girardi. «Girardi, dopo un’attenta analisi di Fantasticheria, come vi avevo chiesto di prepararvi per oggi, quale deduzione ne trarresti?» Diede una spinta agli occhialini. «Di quale ideale sto parlando?»

Girardi raddrizzò le spalle e tossicchiò, come punto fra le natiche. «Ecco…» Sollevò una pagina di quaderno, diede una sbirciata fra gli appunti, ma rispose con voce ferma, senza le incertezze che avevano fatto inciampare Bassi. «Ci sarebbe la metafora delle formiche spazzate via dal colpo dell’ombrello…»

«Scava più a fondo, Girardi» lo incoraggiò il professore. «Sforzati. Non smettere di pensarci.»

«Dunque…» Girardi sfogliò ancora, fece mulinare la mano. «Più avanti c’è tutto quel discorso sulle ostriche e degli scogli. Del fatto che le persone sono gettate nel mondo come le ostriche che germogliano sullo scoglio dove vengono coltivate e da cui non possono scappare.»

«Allietaci dunque con una lettura del passaggio.» Il Professor Marinelli gli inviò un cenno di assenso e alzò il mento a indicare il libro di testo. «Aiutati pure con il libro di testo.»

«Ecco…» Girardi si alzò in piedi, urtò la seggiola, la rimise a posto, e sfogliò il libro fino a trovare la pagina giusta. «… l’ideale dell’ostrica, direte voi» cominciò a dettare, «proprio l’ideale dell’ostrica. E noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là…»

Due compagni dietro il banco di Luca si spostarono, si udì lo scricchiolio della seggiola perché uno di loro si era chinato e ora bisbigliava alla spalla dell’altro. «Ma tu stai capendo qualcosa?»

«Neanche una virgola, guarda.»

«A che cavolo ci serve sapere questa roba qui, poi? Potrebbero farci fare più ore di laboratorio. Quello sì che sarebbe tempo ben speso.»

Il Professor Marinelli andò alla lavagna, pescò il gessetto che aveva usato prima, e scrisse in grande quello che Girardi aveva appena finito di dettare dal libro di testo.

 

IDEALE DELL’OSTRICA

 

«L’Ideale dell’Ostrica.» Il professore sottolineò per tre volte la parola “OSTRICA”, e picchiettò il gessetto sulla lavagna, richiamando anche l’attenzione dei più distratti. «Gli uomini, secondo la visione cinica e pessimista di Verga, vengono gettati in questo mondo e vi crescono proprio come creature del mare.»

Luca incassò un altro colpo, un’altra fitta al petto, la stessa che lo aveva soggiogato e incollato allo schienale della seggiola quando aveva posato gli occhi sulla copertina del libro.

Creature del mare…

Tirò su il capo, spalancò le palpebre da cui sbiadì la scura ombra delle occhiaie e da cui svanì il riflesso grigio e oscillante della pioggia che continuava ad annaffiare le finestrelle del soffitto. Fu proprio come volgere lo sguardo alle prime luci dell’alba, all’inaspettato sorgere di un sole di cui fino a pochi istanti prima ne ignorava anche solo l’esistenza.

«Certi di noi nascono pesci» spiegò il professore, «e trascorrono la vita nell’eterna lotta per la sopravvivenza, sfuggendo alla caccia degli squali e trasmettendo la stessa natura alla loro progenie. Certi nascono squali, e la loro vita è dedita alla caccia di pesci più piccoli per cibarsene e in questo modo serbare il loro status di potere.» Di nuovo serrò le mani dietro la schiena, facendo rimbalzare il piccolo libro di testo. «Altri ancora nascono ostriche.» I suoi passi schioccarono e scandirono il cupo silenzio che era calato fra le pareti dell’aula. «Vengono depositati su uno scoglio, come semi, e lì germogliano, per rimanerci tutta la vita. Non cacciano, non esplorano, non nuotano e non fuggono dai predatori. Tutto ciò che hanno e su cui possono contare è lo scoglio su cui sono nati i loro simili che li circondano.» Il suo sguardo e quello di Luca si incontrarono, incrociandosi di striscio. «E non vi è altro destino per loro se non quello di morire da ostriche.» Perché persino il professore si scottò con l’ardore che bruciava dagli occhi di Luca, persino lui fu catturato da quel bagliore di venerazione che si beveva ogni sua parola, ogni sua sillaba. «Un parallelismo fra natura e società umana, dunque. È un destino crudele, eppure inevitabile, imposto per il semplice mantenimento dell’equilibrio che deve regnare in ogni forma del creato. La Morale del Pugno Chiuso.» Sfilò un braccio da dietro la schiena e tirò su il pugno attraverso cui era possibile scorgere le nocche nodose e le chiazze della vecchiaia. «Ecco cosa ci insegna questo ideale. Gli uomini sono proprio come le dita di una mano. Un pollice nasce pollice, e potrà così coprire solo il ruolo di pollice. E lo stesso vale per l’indice, per il mignolo. Se le dita non si sottomettono all’importanza del loro ruolo, l’intera mano perde il suo scopo, non può funzionare.»

Uno dei ragazzi seduti in prima fila, Manfredi, uno di quelli più attenti, ridacchiò amaramente. «Ma è sul serio una morale ancora valida? Voglio dire…» Si stravaccò sulla seggiola, la gamba a ciondoloni sul ginocchio, e rigirò la matita fra le dita. «Perché dovrei crederci?» Fece spallucce. «Sono cose che non succedono più, Professore. Il figlio di un muratore non farà per forza il muratore, e il figlio del contadino non è che sarà condannato a fare il contadino solo perché lo mettono a zappare fin da piccolo. A cosa ci serve studiare questa roba se ormai non ha più senso applicarla anche nella vita vera?»

Il suo compagno di banco si chinò a bisbigliargli all’orecchio. «Lo dici solo perché hai troppa fifa di ritrovarti a scrostare le cappe dei camini come il tuo vecchio.»

Manfredi stritolò la matita fra le unghie, e qualche scheggia di legno si screpolò sul banco. «Se non chiudi la bocca ti faccio ingoiare la lingua e tutti i denti, ti avviso.»

Il Professor Marinelli gli passeggiò affianco, incupì un broncio d’irritazione. «Prima di tutto, assicurati di imparare questa roba che ti viene assegnata e che c’è scritta nel libro, Manfredi.» Sfilò il registro da sotto il libro di testo e glielo fece cadere in testa. «E poi potrai anche permetterti di azzardare simili insinuazioni.»

«Ahu.» Si sparse una serie di ridacchiate di fondo, mentre il povero Manfredi prese a strofinarsi la testa, grufolando un grugnito a denti stretti. «Okay, ma darmi il registro in testa era totalmente non necessario.» Pure il suo compagno sghignazzò.

«Anzi» incalzò il professore, illuminato da un’idea improvvisa, «visto che ti piace così tanto criticare la roba di Verga, per la prossima settimana avrai il compito di leggere proprio La Roba, novella di Giovanni Verga successivamente raccolta in Novelle Rusticane, e di scrivere un bel tema riassuntivo in contesto a quello che studieremo oggi.»

«Ma…»

«Per la prossima settimana, Manfredi.»

Manfredi sbuffò alzando gli occhi al cielo. Lasciò cadere la mano dai capelli che si era massaggiato, raccolse la matita e non poté fare altro che segnarsi l’appunto.

Il Professor Marinelli scosse la testa, riappropriandosi di quell’espressione di costante disappunto. «Ricorda che il privilegio di criticare ci viene concesso solo se conosciamo a fondo l’oggetto della critica stessa.» Sventolò il registro che poco prima aveva dato in testa a Manfredi. «È vero, non tutti i libri che leggiamo parlano al nostro cuore, non tutti risuonano con le frequenze della nostra vita, non tutti si pongono come un faro sulla nostra strada, ma possono comunque risultare uno spiraglio che ci permette di affacciarci e di comprendere l’esistenza di qualcun altro. Qualcuno di vicino, qualcuno di lontano. Forse non arricchiranno la nostra conoscenza, ma accresceranno il nostro senso critico, e di conseguenza…»

A Luca bastò un battito di palpebre per estraniarsi. Si allontanò dalla voce del professore che ora era un flebile soffio d’aria, una manciata di sabbia gettata fra le spirali di vento, e strinse le mani sul corpo flessibile del libro, ritrovandolo proprio lì, palpitante e vivo come un respiro fra le dita.

L’acquerello sulla copertina gli trasmise sia uno straziante e nostalgico senso di appartenenza sia una dolorosa e soffocante sensazione di prigionia. Una mano che strangola e l’altra che sorregge la schiena, strofinando profonde carezze fra le scapole. Fu lo stesso brivido che Luca aveva provato quel giorno in libreria assieme a Giulia, quando aveva sfilato il volume dallo scaffale e lo aveva fronteggiato per la prima volta. Anche allora era stato chiamato dalla sua voce.

Allora è questa? si domandò. È questa la risposta di cui sono sempre andato in cerca?

«… se ora tornate tutti a prendere in mano l’estratto di Fantasticheria, dedurrete che…»

La risposta è sempre stata racchiusa in questo libro? Non posso credere che sia così facile e ovvio. Non posso credere che tutto quello che cerco e di cui ho bisogno per mettermi l’anima in pace mi sia letteralmente piovuto fra le mani. Eppure…

Il professore tornò a passare fra i banchi e, alla pari di un Mosè che spalanca le acque, evocò lo sventolio delle pagine sfogliate dalle mani degli studenti, fece chinare i loro sguardi e fece scorrere i loro occhi sulle righe di testo dettate dalla cadenza regolare della sua voce. «uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto.» Un passo schioccante risuonò alle spalle di Luca. «O per brama di meglio.» Un altro colpo di tacco vibrò dietro il suo orecchio e gli attanagliò il petto, bloccandogli il respiro. «O per curiosità di conoscere il mondo.»

Luca sudò freddo. La faccia bianca e ghiacciata. Gli occhi sgranati e affacciati a una realtà che gli si palesava davanti come uno specchio. Il pesce più piccolo, o più incauto, o più egoista, che ha voluto staccarsi dagli altri per brama di un posto migliore, per la vaghezza dell’ignoto… quelle parole parlavano di lui, le sentì pizzicare attraverso le corde della sua anima e affondare il tocco nella parte più dolente del suo cuore, come era già successo leggendo Pinocchio.

Un altro passo del professore – stump! – e la sua ombra gli scivolò addosso. «Il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò.» Il Professor Marinelli si fermò affianco al banco di Luca. Sollevò il mento e spinse gli occhialini alla radice del naso. Da dietro le lenti tonde su cui erano spanti i riflessi delle luci al neon, i suoi occhietti scuri, infinitamente più saggi, perspicaci, vissuti e consapevoli di quelli di Luca, lo scrutarono e gli scavarono dentro come se fossero stati in grado di rintracciare la luce di ogni sua squama, o di tastare la membrana delle sue zampe palmate, o di scorgere ogni slancio della sua coda pinnata. «E i suoi più prossimi con lui.»

Luca inghiottì a vuoto, vittima di una violenta fitta allo stomaco che gli fece accapponare la pelle. Fra di loro rimase a galleggiare la scia di quello sguardo, l’ombra di quel pensiero e di quelle parole, la vibrazione di quell’istante che apparteneva solo a loro due. Luca era un pesce boccheggiante preso all’amo, un granchio incastrato nella rete, un polpo esangue sbattuto sugli scogli.

Non può avere capito…

Il Professor Marinelli incalzò il passo, si allontanò dal suo banco, diede una scossetta al suo libro di testo, e riprese la lettura. «E sotto questo aspetto vedete che il dramma non manca…»

Libero dalla pressione di quell’ombra e schiodato dalla luce dei suoi occhietti così scuri e penetranti, Luca si posò la mano sul petto e lo svuotò di un lungo sospiro.

Il profilo del professore si allontanò, migrò verso la fila di banchi affianco, e lasciò libera la visuale della lavagna su cui erano scarabocchiati gli appunti che aveva elencato a inizio lezione, compresa la scritta più grande, a caratteri maiuscoli.

 

IDEALE DELL’OSTRICA

 

Luca spostò il romanzo dei Malavoglia, chiuse il libro di testo, sfogliò il suo quaderno degli appunti fino a trovare una pagina vuota, segnò la data di quel giorno, e ricopiò l’insegna. IDEALE DELL’OSTRICA. Lo sottolineò per tre volte come aveva fatto lo stesso Professore, vi tamburellò la penna sopra, e tornò a guardare in alto, verso le finestrelle a soffitto inondate dall’acqua grigia del diluvio.

Per tutto il resto della giornata, quel sentimento gli rimase addosso, freddo e appiccicoso proprio come acqua piovana. La sensazione di essersi accostato di un passo alla risoluzione dei suoi problemi o alla sua totale disfatta. O a entrambe le cose.

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Capitolo 31
*** 31 ***


31

 

 

Luca si arrotolò sul fianco, dando le spalle alla parete della camera. Rannicchiò le gambe al ventre spiegazzando il copriletto, sprimacciò il cuscino sotto la guancia, allentò il bavero del maglione che per poco non lo soffocò, e sfogliò un’altra pagina dei Malavoglia che stava leggendo da tutto il pomeriggio. Era la copia che aveva ricevuto in comodato dalla scuola ma che alla fine lui aveva deciso di comprare. Si umettò l’indice, lisciò l’angolo di una paginetta che era spiegazzata, consumata e scolorita dalle continue ditate, considerato il numero delle volte in cui aveva già letto e riletto quel libro.

Fino alla nausea” sarebbe stata una risposta appropriata. Ma la nausea sorprendentemente cessava proprio nel momento in cui Luca vi si immergeva. Quando si addentrava fra le povere case paesane di Aci Trezza, quando passeggiava lungo la spiaggia composta di sabbia molle e friabile, e non di ciottoli levigati come i litorali liguri. Oppure quando si riuniva con la famiglia dei Malavoglia a consumare piatti miseri, pane e cipolla, erbe amare, e quando assieme a quella povera gente respirava l’odore di cucina vecchia, sparlava dei membri della famiglia, fantasticava su illusioni, piangeva per i debiti, per la Provvidenza naufragata, per i morti, e per il carico di lupini andato disperso. Eppure tutti loro continuavano ad alzarsi all’alba e a spaccarsi la schiena di lavoro, giorno dopo giorno, nonostante le sciagure, senza osare sperare in qualcosa di meglio.

Una raffica di pioggia più violenta frustò i vetri della finestra.

Nerone, accucciato sotto la scrivania, fra i piedi di Giulia, tirò su il muso, rizzò le orecchie, annaspò di paura e mugugnò un lamento terrorizzato.

Anche Luca finalmente si decise a staccare gli occhi dalle pagine del libro.

La tapparella, abbassata solo per metà, traballò, agitata dagli scossoni del vento. Lungo il vetro della finestra grondò una pioggia grigia e polverosa. Nuvole talmente dense da non permettere di scorgere i palazzi o le terrazze del vicinato, nemmeno aguzzando lo sguardo. Solo il picco di qualche comignolo e i filari frastagliati delle antenne telefoniche.

Luca si stropicciò gli occhi gonfi e affaticati, sbatacchiò le palpebre umide e soppresse qualche lampeggio di stanchezza. Si era immerso nella lettura subito dopo pranzo, dopo aver aiutato a sparecchiare la tavola, e da allora non aveva più chiuso libro. Era andato a rannicchiarsi sul letto in modo da sentirsi al sicuro e da non farsi distrarre dalla bufera che pestava i suoi pugni d’acqua sulle finestre e che graffiava i vetri con i suoi freddi artigli di vento. Non aveva affatto bisogno di sentirsi demoralizzare ancor più di quello che già era.

La seggiola della scrivania compì un mezzo giro e cigolò. Giulia staccò la penna dal quaderno, interrompendo lo scorrere degli appunti, fece sventolare i capelli lontano dal viso che era rimasto chino sotto la lampada per tutto quel tempo, e si piegò a strofinare una carezza sulla testolina di Nerone, a consolare i suoi annaspi di paura. Il maltempo e i temporali mettevano sempre Nerone in agitazione, lo rendevano ansioso e irrequieto, ma la compagnia dei ragazzi lo aiutava a calmarsi, per questo Sara aveva acconsentito che lo facessero restare in camera durante lo studio.

Nerone leccò la mano di Giulia, sbadigliò, compì un giro su se stesso, e tornò ad acciambellarsi ai piedi della padrona. Si rimise a ronfare tranquillo nonostante il baccano occasionale del diluvio che continuava ad accanirsi sulla finestra.

Giulia si pettinò un ricciolo lontano dalla guancia e fece scivolare lo sguardo verso il tremolio delle tapparelle, verso il gocciolare sempre più abbondante dell’acquazzone, verso le nuvole talmente dense che parevano sbuffi tossicchiati dai caminetti del vicinato. Soffiò un sospiro stanco e demoralizzato. «Tempo da lupi…» Tirò su col naso e strusciò la manica del maglione sul viso. La sua carnagione si era impallidita, priva di lentiggini, slavata dall’abbronzatura estiva. In compenso aveva guadagnato qualche sbavatura di stanchezza che ora le ombreggiava le palpebre rigonfie.

Luca assecondò il suo sconforto con un secondo sospiro. «Eppure alle previsioni avevano assicurato che non avrebbe piovuto, questo fine settimana, e che si sarebbe solo annuvolato.»

«Ci azzeccano solo quando si tratta di cattive notizie.» Giulia rosicchiò la cima della penna. Fece dondolare la gamba accavallata, si piegò per grattarsi il piede sotto l’imbottitura felpata della pantofola che, a ogni rimbalzo, faceva dondolare le orecchie da coniglietto rosa. «Che barba. Fra tutti i giorni in cui doveva decidere di mettersi a diluviare…» Spinse i gomiti fra le pagine del quaderno e strinse le tempie fra i pugni. «Proprio durante il ponte. E noi che ci eravamo organizzati così bene per passare qualche giorno in totale libertà.»

Luca sorrise alla beffa di quel dispiacere. Ne erano usciti entrambi amareggiati. «Questo deve proprio essere il nostro anno sciagurato.»

«Basta che l’anno della sciagura si presenti una volta ogni ottanta e io sarei più che soddisfatta.»

Quel giorno era un venerdì, il Primo Novembre, il Giorno dei Morti. Luca e Giulia erano a casa da scuola, e da due giorni pioveva ininterrottamente, eccezion fatta che per qualche singhiozzo di tregua che si palesava sempre durante le ore notturne.

Approfittando del Ponte di Ognissanti, i ragazzi avevano programmato una piccola vacanza fuori città. Nulla di eccessivo o di eclatante, solo qualche gita per rilassarsi e per staccare i pensieri dallo studio. Una gita al Porto Antico, magari, per scattare qualche fotografia al mare e alle barche, e per gustare dell’ottima frittura di pesce. Poi una scampagnata al giardino di Villa Doria portando Nerone al guinzaglio, o anche al Parco Storico di Villa Duchessa dove avrebbero potuto stendere la coperta sul prato tappezzato di foglie secche e godersi il mite sole del pomeriggio, tutti i colori dell’autunno e i profumi speziati provenienti dalle caffetterie. E poi avrebbero concluso la serata al parco di divertimenti per un giro sugli autoscontri e sulla ruota panoramica, abbuffandosi di frittelle e di zucchero filato.

I ragazzi avevano stilato una bella lista segnando un asterisco vicino alle attività che proprio non volevano farsi mancare. Poi erano andati a fare la spesa per comprare tutto l’occorrente per il pranzo al sacco, i panini, i succhi di frutta, le liquirizie della Haribo, le preferite di Giulia, e il nocciolato della Novi di cui Luca andava ghiotto. Ma nulla. Piani saltati. Ci tenevano così tanto, ma la pioggia aveva rovinato ogni progetto e aveva sciolto qualsiasi loro aspettativa, proprio come se si fosse trattato di lasciar cadere il foglietto del programma in una pozzanghera di fango – era quella l’immagine ricorrente che più spesso era rimbalzata nella testa di Luca. E ora erano condannati a starsene tarpati in casa per tutto il fine settimana. Fino a lunedì, quando gli sarebbe toccato l’inevitabile ritorno a scuola, maltempo o meno.

Luca già rabbrividì all’idea. «Speriamo solo che lunedì torni bel tempo.» Dopo l’incidente della cabina telefonica dell’anno precedente, Luca non si sentiva mai tranquillo quando si trattava di uscire di casa sapendosi perseguitato dall’ombra dei nuvoloni in agguato. Certe volte gli capitava di portarsi l’ombrello sottobraccio o di indossare il cappuccio dell’impermeabile nonostante non si intravedesse nemmeno la sbavatura di una nuvola.

Giulia però annuì, sfoderò il suo innato ottimismo. «Tornerà di certo. Il bello della pioggia è che prima o poi finisce sempre. Ma vediamola dal lato positivo.» Fece scorrere lo sguardo lungo le colonne di libri e quaderni ammucchiati sulla scrivania, illuminati dalla lampada, impilati davanti al piccolo orologio e ai portapenne, tanto che Giulia era stata costretta a sistemare l’agendina e l’astuccio in cima alla torre di volumi più vicina per mancanza di spazio sul banco. «Ora che siamo costretti a rimanere tarpati in casa, possiamo approfittarne per studiare un po’ di più e per metterci in pari con i compiti.» Giulia inforcò la penna, sfogliò una pagina del manuale di Algebra, ricopiò qualche formula sul quaderno tappezzato di equazioni, e si rimise al lavoro. «Giuro che quest’anno Algebra mi sta proprio facendo impazzire. Ma forse è colpa mia, me la sono lasciata troppo indietro perché ho indirizzato tutte le mie attenzioni scientifiche sul nuovo programma di Geologia. Non credevo mi avrebbe appassionata così tanto, sai? Voglio dire…» Sventolò la penna come una bacchetta e, proprio come sotto l’effetto di un incantesimo, le sue guance sorridenti riguadagnarono un colorito più vivace. «Rocce, sassi, minerali, lava, terremoti. Credevo sarebbe stata una barba e invece c’è tanta di quella roba da imparare che non sto più nella pelle ogni volta che cominciamo un nuovo capitolo.»

Distogliendo lo sguardo dalla finestra, Luca stropicciò il libro fra le mani per non farsi sopraffare dai sensi di colpa. È chiaro che il vero motivo per il quale siamo costretti a starcene in casa è per colpa della mia diversità e delle conseguenze del mio aspetto. Giulia non si sarebbe mai fatta fermare da un po’ di pioggia, avrebbe potuto comunque uscire a godersi la gita.

Immaginò che la pioggia caduta sul vetro sciacquasse via ogni suo pensiero negativo, che alleggerisse il peso del libro che reggeva fra le mani… che evocasse il profumo di mare della camicetta blu che, nascosta sotto il maglione, anche quel giorno lo avvolgeva come una seconda pelle. «Mi piacerebbe poterti dare una mano con l’Algebra.» Si strofinò la nuca, rise a cuor leggero. «Ma non so quanto potrei esserti d’aiuto. Effettivamente, anche io sono rimasto un po’ indietro con il programma.»

«Nulla di irrecuperabile, tranquillo.» Giulia diede un colpetto di penna per sfilarsi un ricciolo da davanti il naso. «Ma magari potrai lo stesso darmi una mano con Letteratura, dato che ultimamente ti vedo particolarmente preso.»

Istintivamente, come per proteggere una parte di se stesso che era appena stata denudata, Luca si schiacciò il libro al petto. «Io…»

«Sul serio, Luca, è un vero miracolo che quel libro ormai non si sia fuso con le tue mani.» Giulia lo disse facendo vibrare fra i denti una delle sue simpatiche risate da topolino. «Si può sapere quante volte lo hai già letto? Almeno un centinaio, di sicuro.»

Luca fece roteare lo sguardo. «Meno di quelle che credi.» Ma più di quelle che credevo di essere in grado di fare. Perché non era solo la lettura dei Malavoglia ad avergli trasmesso tutto quel fervore.

Nel giro di un mese, infatti, Luca si è sbranato avidamente tutta l’antologia di Verga, da La Lupa a Rosso Malpelo, da Amore e Patria a Nedda, da Vita dei Campi a Tigre Reale, dalle Novelle Rusticane a Storia di una Capinera, e ovviamente tutto il Ciclo dei Vinti, opere compiute e non. Ma era solo l’Ostrica di Fantasticheria e dei Malavoglia a stargli avvinghiato al collo, a strillargli nell’orecchio in quella maniera così ossessiva e viscerale: “È di te che sto parlando! È solo me che devi seguire!”

Luca strofinò l’angolino di una pagina fra i polpastrelli. Una sbavatura di dolce malinconia gli annacquò lo sguardo e gli tremolò fra le labbra. «Sicuramente leggere Verga non è così facile e intuitivo come lo era con Pinocchio

«Ma a sentirtene parlare sembra altrettanto interessante» considerò Giulia. «Conti di basare sui Malavoglia la tua tesina?»

«Tesina?»

«Ma sì, ovvio, per la Maturità.» Giulia abbandonò la penna che cadde sulle pagine inchiostrate di equazioni di secondo grado. Incrociò le gambe, si strinse le caviglie, fece oscillare le ginocchia, e si dondolò a destra e a sinistra facendo cigolare la seggiola girevole. Il suo sguardo, per nulla angosciato nonostante le bluastre tracce di stanchezza a sciuparle le palpebre, galleggiò fra le pareti della cameretta che lei e Luca, per aiutarsi con lo studio, avevano tappezzato di brevi mappe concettuali, formule di Trigonometria, sezioni di terriccio per Geologia, coniugazioni latine, colonne di vocaboli e di verbi irregolari per le lezioni di Inglese, e mille linee temporali per le interrogazioni di Storia. «Io conto di poter basare la mia su qualcosa che potesse girare tutt’attorno alla Biologia Marina, alla questione del mare, dei pesci, delle scogliere, dato che è quella la strada che ho deciso di intraprendere dopo il diploma, ma non è così facile assemblare tutte le materie. Eppure è un argomento così vasto, se ci pensi. Ma per fortuna i professori mi stanno aiutando, e mi hanno detto che non è necessario far rientrare proprio tutte le materie per ottenere un buon voto. Ma io voglio stupirli, e sono sicurissima di far ancora meglio di quello che tutti credono. Aah…» Si lasciò cadere all’indietro, contro lo schienale imbottito, e affondò le mani fra i riccioli. Diede una piccola scossa come a voler oliare gli ingranaggi del cervello. «Se solo non ci fosse di mezzo tutta questa stupida Algebra. Per fortuna che questo è l’ultimo anno, eh, Luca?»

Luca ingoiò un piccolo crampo al cuore. «G-già.» Un nodo di fiato che lo costrinse a strofinarsi la gola, ad affondare unghiate più profonde e dolorose. «Sì, meno male che è l’ultimo.»

Luca si mise a sua volta a gambe incrociate sul copriletto, facendo ballonzolare il materasso. Diede le spalle a Giulia e fronteggiò la finestra inondata di pioggia. Le pagine del romanzo schiacciate fra le sue dita fredde e sudaticce. Gli occhi annacquati da una paura grigia come quella pioggia che in quell’istante vedeva grondare attraverso il vetro.

L’ultimo anno.

Quelle parole – quella sentenza – gli rimbombarono nella testa proprio come l’insistente e doloroso picchiettare del diluvio.

L’ultimo anno di scuola. Anche io devo cominciare a pensare al resto dei miei studi. Alla tesina. Al mio futuro. Giulia sembra essere così sicura di sé e della sua decisione, come se le bastasse stringere la mano per conquistare qualsiasi cosa desidera. Ma io posso dire lo stesso di me?

Inspirò, strinse le braccia. La molle consistenza del libro scricchiolò fra le sue mani.

Poi ultimamente è così difficile concentrarmi su qualcos’altro, quando tutto quello che ho in mente è questo libro che non mi dà tregua.

Tornò a osservarlo, con la sua copertina nera, la barca ribaltata fra i bianchi sbuffi d’onda, i nuvoloni spaccati dai fulmini, le braccia dei pescatori ingarbugliate fra le reti, le loro facce terrorizzate dalla bufera. La stessa bufera che si era abbattuta anche su Luca dal giorno in cui aveva posato il naso su quel libro sventurato.

La stessa bufera che ha fatto naufragare anche la Provvidenza, per davvero. E che in qualche modo ha fatto naufragare il destino di tutto il resto della famiglia.

Sospirò e si picchiettò la copertina molle sulla fronte.

Forse sono così ossessionato da questo libro perché anche io sento di aver fatto qualcosa di simile. Al contrario della mia famiglia, ho voluto a tutti i costi separarmi dallo scoglio dove sono nato, come un’ostrica che adesso si ritrova in balia dei mari più grandi dai quali mamma e papà mi avevano sempre messo in guardia. Mari gonfiati da onde in burrasca che forse finiranno per trascinarmi indietro, nel luogo da cui sono venuto. Oppure mari che mi divoreranno, perché sono pieni di pericoli, di squali…

Gli stessi squali che aveva immaginato quando si era ritrovato intrappolato nella cabina telefonica. Squali che, nuotando, dividevano le foreste di alghe, indirizzavano su Luca i loro occhietti iniettati di sangue, spalancavano la bocca contro le pareti della cabina, sbattevano il muso sul vetro facendo scricchiolare ragnatele di crepe che poi si sarebbero infrante e…

Luca scosse la testa e si allontanò dal ricordo. Non ne poteva più di farsi assalire dalle memorie di quel giorno disgraziato.

Si concentrò sul libro.

Tornò a sfogliarne le pagine, raggiunse il segno lasciato poco prima, e si immerse fra i paragrafi finali, quelli più tragici.

Il povero e sfortunato ‘Ntoni faceva ritorno nella casa di Aci Trezza. Sconfitto, senza meta, senza scopo, senza futuro, privo di identità o di un qualsivoglia senso di appartenenza.

 

Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse viste mai; fino il cane gli abbaiava, perché non l’aveva conosciuto mai…”

 

Nessuno lo riconosceva più come uno di famiglia. Non apparteneva più al paese, ai suoi cari, e persino dal cane non riceveva altro che ringhiate e diffidenza. Il silenzio di quei luoghi era diventato una prigionia, una punizione e un castigo. E tutto per aver osato sperare di meglio, solo per aver staccato la mano dallo scoglio e per essersi tuffato nella corrente di un mare troppo ostile per una misera ostrichetta come lui.

Luca abbassò il libro. Il suo sguardo cadde inevitabilmente su Nerone che sbadigliò e che si rimise a dormire, su Giulia che aveva ripreso a studiare, a far scorrere la penna sotto il cono di luce giallina proiettato dalla lampada della scrivania. Gli occhi socchiusi e assorbiti dai calcoli, i capelli legati dietro le spalle, la punta della lingua stretta fra i denti, e un’espressione di profonda concentrazione a corrugarle le sopracciglia.

Tutto regolare. La solita scena familiare a cui Luca assisteva e partecipava ogni pomeriggio dopo scuola. Eppure, quel giorno nulla gli sembrava familiare come lo era stato un tempo.

E se fosse proprio questo il mio destino?

Luca si aggrappò al libro, se lo strinse al petto in un impeto di paura. Il suo unico scoglio, la sua unica ancora, il suo unico senso di appartenenza.

Magari anche a me un giorno toccherà subire una sorte simile. Un giorno tornerò a Portorosso e non riuscirò più a percepirla come la mia casa, come è già cominciato a succedere la scorsa estate, ancor prima dell’incidente dello scoglio. Farò ritorno in città e nessuno mi riconoscerà più, nemmeno Alberto, o Massimo. In superficie non ci sarà più posto per me, e non potrò nemmeno far ritorno in mare perché mamma e papà mi ripudieranno per aver preferito la vita degli umani. Dovrò convivere con l’eterno bisogno di nascondermi, di spostarmi da un luogo all’altro, di fuggire senza meta, perché non ci sarà più posto per me, né in mare né sulla terra. Tornerò a essere lo stesso reietto che ero quando mi sono presentato in superficie con le sembianze da Mostro Marino.

Il Mostro Marino… quel Mostro Marino che ancora viveva in lui e che Luca si stava tanto sforzando di nascondere, di tenere sepolto sotto la sua pelle umana, ma di cui non si sarebbe mai sbarazzato come avrebbe potuto fare con un paio di vecchie scarpe logore e troppo strette.

Non voglio più vivere da Mostro Marino, ma non posso nemmeno far finta di non esserlo. Che creatura repellente. Diventerò una sorta di Mostro Marino che ha provato a integrarsi, che ha osato credere di poter far parte degli umani, e che invece sarà costretto a infilare la coda fra le gambe, a chiudersi nel suo guscio, a rotolare fra gli scogli, a farsi raccogliere dalle onde, a scivolare attraverso le foreste di alghe, e a far ritorno nel fondale da cui è emerso. Sconfitto e umiliato. Tornare indietro. Far ritorno in mare…

Luca strizzò gli occhi e scosse più volte la testa, punto da una gelida scossa di terrore.

No, no, no, no, e poi no. Ormai per me tornare in mare è inconcepibile. Ho già deciso che è fuori discussione, che non tornerò mai più a infilare nemmeno la punta di un piede in acqua. Però…

Rattrappì i piedi sul copriletto, si pizzicò il labbro fra i denti, fece tamburellare le unghie sulla copertina del libro, attorniato da un formicolio di disagio.

Però nemmeno questo mi sta rendendo più sereno. Nemmeno questo rifiuto sta risolvendo i miei problemi. Non mi sento in pace. Per niente.

Inspirò, si gonfiò il petto e lo svuotò, uscendone più debole e sconfitto di prima.

E allora cosa ne sarà mai di me?

Luca aveva già preso la decisione di non far ritorno in mare. Credeva che, accettando solo una delle sue due identità – l’identità umana – avrebbe posto fine a quel conflitto e a ogni sua pena. Così non era stato.

E allora cosa mi toccherà fare? Scappare?

Quel pensiero gli attraversò la mente con una tale semplicità e naturalezza da spaventarlo.

Soppressa la scia di brividi, Luca rotolò supino, la testa sul cuscino e la schiena sul copriletto, e volse gli occhi al soffitto su cui oscillavano i riflessi d’acqua spanti dalla finestra inondata dal diluvio.

Chiudendo gli occhi e concentrandosi sul rapido e regolare scroscio della pioggia sul vetro, avrebbe davvero potuto immaginare di trovarsi all’interno di un acquario. Un acquario dentro cui annegare o in cui rimanere a galla come un pezzo di spugna secca.

Ecco a cosa penso ogni volta in cui mi sento soffocare in questa maniera. Ogni volta in cui sento avvicinarsi la minaccia degli abissi, penso solo a scappare.

E ad Alberto. Perché la mano di Alberto era l’unica a cui Luca si sarebbe affidato se si fosse trattato di compiere un salto nel vuoto, di lanciarsi da una scogliera, e di tendere il braccio verso una presenza sicura che sapeva non lo avrebbe mai lasciato crollare nell’oscurità.

Luca si staccò dal peso del libro, spalancò il braccio lasciando cadere il romanzo sul letto, infilò il tocco sotto la prima chiusura del maglione e raggiunse la consistenza più sottile della camicetta a quadri blu. Vi si aggrappò con una presa avida e bisognosa, la stessa con cui certe notti, da piccolo, si appendeva all’abito di sua mamma dopo aver fatto un brutto sogno e aver sfogato la paura piangendo sul suo petto. Respirò forte. Andò in cerca di quel senso di sicurezza che gli trasmetteva il semplice fatto di immaginare di avere Alberto lì affianco, disteso assieme a lui sul letto della sua cameretta. Le braccia avviluppate al suo torso, le gambe intrecciate come alghe, il solletico delle punte dei piedi, la guancia a riposargli sul petto, il profumo di mare a stuzzicargli il naso, e il suo lento respiro a intiepidirgli il collo.

Però Luca storse il naso perché fu diverso, perché la sensazione di sicurezza e di protezione era incrinata, come se fosse stato presente un lacero sulla camicetta che permetteva agli spifferi di infilarsi sotto la stoffa e di pizzicargli la pelle. Pur chiudendo gli occhi, pur accostando il naso al bavero e inspirandone il profumo di mare, e di benzina, e di origano sminuzzato, il sollievo in cui si aspettava di abbandonarsi non arrivava. E questo colpo fu ancor più doloroso da incassare di una mazzata allo stomaco, di uno schianto di faccia sbattuto sulla parete di uno scoglio, di un gavettone esploso sulla guancia.

Il profumo di Alberto diventava ogni giorno meno intenso, meno percettibile, meno vicino.

Oppure sono solo io che non riesco più a sentirlo vicino come una volta perché Alberto è sempre più distante da me. E non solo in senso fisico.

Luca allentò la presa dalla stoffa della camicetta, sfilò la mano da sotto il maglione e lasciò cadere il braccio lungo il letto. Lo sguardo fisso al soffitto, le palpebre bordate di grigio, gli occhi tristi e acquosi come spicchi di quel cielo che da giorni lacrimava ininterrottamente.

Forse, ciò che davvero mi spaventa è che Alberto sta diventando una presenza sempre meno indispensabile per la mia fuga.

Un singhiozzo rimbombò fino alle radici del cuore.

È sul serio di questo che si tratta?

Visualizzando un’ipotetica fuga, anche intrapresa aggrappato alla mano di Alberto, Luca non riusciva comunque a scorgere alcuna luce, alcuna landa da esplorare, nessun mare da attraversare, nessuna catena montuosa da scavalcare, nessuna strada sterrata circondata da campi di girasoli, nessun trampolino che avrebbe potuto condurli fino alla superficie della Luna, a galleggiare assieme alle acciughine colorate.

Scappare, scappare, scappare, sempre scappare. E poi che cosa? Non sono più piccolo, devo smettere di comportarmi da ingenuo. So benissimo che non ci sarà nulla ad aspettarmi.

Molto più semplice era invece immaginare le conseguenze che sarebbero derivate dalla sua fuga, tutto il dolore che avrebbero provocato la sua mancanza e la sua assenza. I pianti disperati della mamma, i rimorsi del papà, la solitudine di Giuseppe e degli altri pesciolini, e il dolore inconsolabile di Giulia. Persino Nerone ne avrebbe sofferto. Si sarebbe appiccicato ogni giorno alla finestra e avrebbe tenuto lo sguardo fisso sulla strada, scodinzolando alla camminata di ogni passante, con la speranza di riconoscere il viso di Luca sotto qualche berretto, o di fiutare il suo odore solo spingendo il muso fuori di casa.

No, non potrei mai vivere così, sapendo di essermi lasciato alle spalle tutto questo.

Luca raccolse il volume dei Malavoglia che aveva abbandonato affianco a sé, sul copriletto gualcito, e lo sollevò davanti allo sguardo. Provò lo stesso brivido di soggezione che gli aveva punto il collo nel momento in cui, seduto sul banco di scuola, lo aveva sfilato dallo scatolone.

A Luca bastò socchiudere le palpebre per ritrovarsi in classe, a respirare l’odore di gesso e di detersivo per pavimenti, sprimacciato sulla sua seggiolina di legno, le spalle ingobbite, l’ombra del Professor Marinelli proiettata sul suo banco, i suoi occhietti puntati su di lui come due intelligentissime e perspicaci scintille di luce in grado di scavargli dentro e di spolpare ogni sua singola squama colorata.

“… e i suoi più prossimi con lui.”

Luca deglutì, mandò giù quel groppo asciutto e amaro che rimbombò in fondo allo stomaco e che gli tornò indietro come lo sguardo così acuto e penetrante scagliato dagli occhietti scuri del professore mentre aveva pronunciato quella frase, fissando Luca attraverso quell’ombra di oscura consapevolezza.

I suoi più prossimi con lui.

Così aveva detto. Così era scritto.

Questo significa che io non sarò l’unico a patire le conseguenze delle mie scelte e dei miei errori.

C’era già stato un tempo in cui Luca si era ritrovato a rimuginare su qualcosa di simile. Tuttavia, quella volta, le sue mani tenevano stretto un altro libro. Un libro più alto, dalla copertina più morbida e dalle pagine più colorate e ingiallite dal tempo. Un libro che profumava di polvere di inchiostro, di lacca per legno, di stoffa vecchia, di liquore raffermo e di cucina buona.

Pinocchio.

Un tiepido e resinoso odore di braci che fumano, la brezza notturna a risalire dai sospiri del mare, le ultime lucine a traballare dalle finestre e dalle terrazze di Portorosso, lo splendore della Luna a tingere il cielo di argento, infiniti sciami di stelle racchiusi negli occhi di Alberto.

Quella volta sulla torre. Tutto quello che io e Alberto ci siamo detti. Il Gatto e la Volpe? No. Lucignolo e Pinocchio. Ma io non volevo paragonarmi a Pinocchio, non volevo credere di essere come lui. Perché anche Pinocchio fa come l’ostrica ribelle. Anche lui si è staccato dalla casa da cui proveniva e in cui sarebbe cresciuto sicuro e protetto. E sono sempre stati gli altri a pagare le conseguenze del suo egoismo.

Sollevò di nuovo I Malavoglia, ne sfogliò le pagine che, anche senza l’aiuto delle figure, riuscirono a evocare gli ululati di un mare in burrasca, i gelidi schiaffi delle onde, gli scricchiolii della nave spezzata, lo sbrindellare delle vele strappate, le grida disperate degli uomini che crollavano in mare, finendo inghiottiti dagli abissi più neri.

E adesso torna anche qui. Anche qui c’è sempre la stessa immagine di me stesso: il pesciolino ribelle che non provoca altro che guai a quelli che fanno parte della sua vita. Allora si è sempre trattato di questo? È una condanna che è già stata decisa tanto tempo fa, senza che io me ne rendessi conto?

«Ora che ci penso, però…» La voce di Giulia ripescò Luca dal dondolio delle onde, diradò l’oscurità dei nuvoloni, e lo ricondusse nella tiepida e asciutta sicurezza della loro cameretta che profumava di tappezzeria, di libri nuovi, e di biscotti di pasta frolla. Giulia alzò lo sguardo verso una delle mappe concettuali che avevano appiccicato alla parete, quella raffigurante gli strati di dolomite e di roccia calcarea. Rosicchiò il tappo della penna e fece dondolare le gambe dalla seggiola. «Siccome nel programma di Geologia di quest’anno è compreso anche quello avanzato di Astronomia, potrei fare una sorta di strappo alla regola e inserire qualcosa di quello, nella mia tesi. Potrei ingegnarmi e trovare comunque il modo di collegare tutto a Biologia Marina.» Si strofinò la penna fra i capelli. «Potrei scrivere una sorta di tesi sulle stelle marine.» Arricciò un ghigno e trillò una risatina ebbra. «Eh-eh, le stelle marine, eggià.»

Nerone approvò con un abbaio. «Bau!»

«Esilarante, vero, Nerone?» Giulia si sfregò le mani. Il suo sorriso si allargò e i suoi occhi riacquistarono il solito barlume di brillante entusiasmo. «Esilarante e assolutamente geniale. Oh! Ci sono!» Batté le mani. Lo schiocco fu tale da far trasalire sia Luca sia Nerone. «Sai chi mi potrebbe aiutare a combinare le due cose? Quelli dell’Osservatorio di Trieste! Sicuramente là saranno dei super-esperti sia di mare sia di stelle. Potrei scrivergli una lettera e dirgli che sto lavorando alla tesina di Maturità, e che mi servirebbe qualche consiglio per – c’era il loro indirizzo sull’opuscolo, sì? E anche il numero di telefono, se non sbaglio.» Fece ruotare la seggiola, allungò il piede, inciampò sulla cartella abbandonata affianco alla cuccia di Nerone, rimbalzò per massaggiarsi la caviglia, e zoppicò fino alla parete della libreria. «Ma dove lo avrò mai…» Di nuovo stabile su entrambi i piedi, Giulia si allungò sulle punte, distese le braccia sopra la testa, tambureggiò le dita sui dorsi dei libri più grossi, mormorandone i titoli a fior di labbra. Ne sfilò qualcuno, lo rigirò, e lo tornò ad allineare assieme agli altri. Raccolse lo sgabello e ci salì sopra. Tirò giù due vecchie scatole di scarpe che utilizzava per conservare i ricordi preziosi, spostò il trofeo che aveva vinto nella gara di staffetta organizzata dalla scuola, e si sporse verso la zona più fonda degli scaffali. Ammucchiò colonne su colonne di libri e di vecchi quaderni, e aguzzò la vista. «Deve sicuramente essere rimasto dentro uno degli album fotografici delle estati scorse. Cavoli» sospirò, colta da uno sconforto improvviso, «speriamo solo che io non l’abbia dimenticato a Portorosso, altrimenti dovrò dire ad Alberto che me lo spedisca, ma chissà se lui riuscirà mai a trovarlo in mezzo a tutte le cianfrusaglie che ci lasciamo indietro ogni anno.»

Nonostante Giulia avesse nominato Alberto e Portorosso, non furono quelle parole a colpire Luca, a fargli provare un guizzo in fondo al petto. «Hai ancora l’opuscolo dell’osservatorio?»

«Certo che ce l’ho ancora.»

«Ma…» Luca lasciò scivolare I Malavoglia sul letto, si mise a sedere. «Credevo non ti servisse più. Credevo che ormai avessi deciso di andare a studiare Biologia Marina, e non Astronomia.»

«Sì, lo so.» Giulia raccolse dallo scaffale uno dei loro vecchi album fotografici e sfogliò le prime pagine. «L’opuscolo infatti l’ho tenuto per te.» Si rivolse a Luca con la solita dolcezza, con il solito sorriso di chi sarebbe stata in grado di regalargli la Luna e tutte le stelle. «Non hai sempre detto che il tuo sogno era quello di continuare a studiare lo spazio e la Luna, anche dopo la scuola? Oh! Oppure hai trovato qualcos’altro anche tu? Magari un nuovo interesse, una nuova missione, un nuovo scopo.» Giulia rimise a posto l’album, saltò giù dallo sgabello, e compì un paio di rimbalzi sul posto, facendo sventolare i capelli che, anche se legati, sprigionarono una scia di scintille come braci accese, come i suoi occhi infervorati di entusiasmo. «Dai, dai, racconta, racconta. È qualcosa di bello? Di avventuroso?»

Luca scosse la testa. Si sentì quasi in colpa nel doverla deludere. «In realtà non è che abbia molto da raccontare. È ancora…» Distese le mani sul copriletto, il tocco si soffermò sul romanzo abbandonato lì affianco. «È ancora così difficile pensarci. E qui si tratta del mio futuro, della mia vita da adulto, non è una decisione che posso prendere con leggerezza.»

Giulia frenò i rimbalzi. «Uhm.» Alzò gli occhi al soffitto, corrugò un sopracciglio, ci pensò su, poi annuì. «Sì, un po’ lo capisco.» Si appoggiò col fianco allo spigolo della scrivania e si mise a braccia conserte. «Ed è anche vero che non è facile concentrarsi su molto altro…» Il suo sguardo infiacchito dalla stanchezza e dal maltempo scivolò sulla montagna di libri e di quaderni, sulla manciata di penne sparse fra gli appunti su cui erano disseminati trucioli di matita e briciole di gomma da cancellare. «Quando tutto quello di cui dobbiamo preoccuparci ogni giorno sono i compiti e le interrogazioni. Colpa di tutto lo studio che ci appioppano.» Giulia si pettinò un ricciolo lontano dalla guancia, flesse il capo di lato e squadrò la copertina dei Malavoglia che, così nera e lucida, spiccava sull’azzurro del copriletto. «Voi da quanto tempo siete su Verga? Pensa che noi non l’abbiamo nemmeno cominciato, siamo ferme su Manzoni da un mese. E lo stiamo pure studiando in parallelo con il Paradiso di Dante, ci credi?»

Luca annuì. «Sì, pure noi stiamo facendo così.» E quel fatto lo demoralizzò e lo divertì allo stesso tempo. «Come se non fosse già tutto abbastanza complicato.»

Pure Giulia decise di buttarla sul ridere. «Come se non fosse già tutto abbastanza noioso, vorrai dire.» Si staccò dalla scrivania, andò a tuffarsi a braccia spalancate sul letto di Luca, nella sua solita posa da martire in croce. Lo sguardo fisso sul soffitto, le gambe dondolanti, e i capelli sparpagliati sotto le spalle. «Che fregatura che di tutta la Divina Commedia possiamo portare solo il Paradiso, all’esame. Quanto mi manca l’Inferno – chi mai avrebbe detto che sarei stata capace di pronunciare una frase simile? Ma quello sì che era divertente. Tutti quei diavoletti, e le torture, e il contrappasso… dici che faccio la figura della sadica a parlare così?»

«No. Anche se…» Luca ci rimuginò sopra, riuscendo a scorgere il bagliore di una scintilla distante ma non del tutto estinta. «Il Paradiso potrebbe essere un buon collegamento con l’argomento delle stelle, se ci pensi.»

«Oh!» Gli occhi di Giulia si accesero come fiaccole. Proprio gli occhi di Dante resuscitati dinnanzi all’angelico splendore di Beatrice. «È vero! Geniale, Luca.» Rimbalzò a sedere. «Questa devo proprio segnarmela.» Nell’impeto di quel salto, il suo ginocchio urtò I Malavoglia, così Giulia, per non sgualcirlo o per non rischiare di strapparne qualche pagina, lo raccolse e lisciò gli angoli della copertina flessibile. I suoi occhi s’incantarono, anch’essi assorbiti dalle scure sfumature del mare, dalle lame di spuma argentata, dallo sventolio delle cime di corda simili a quelle che Massimo faceva asciugare nel giardino di casa giù a Portorosso. «Chissà quand’è che anche noi passeremo a Verga? Se questo libro ti piace così tanto, deve sicuramente valere la pena di essere letto.» Sorrise a Luca. Lo incoraggiò con un piccolo colpetto sulla spalla. «Conto su di te nel caso non dovessi cominciare a capirci un tubo e nel caso avessi bisogno di qualche ripasso extra, eh?»

Luca si strinse nelle spalle, colto da un improvviso moto di imbarazzo. Nemmeno lui fu sicuro di potersi giudicare adeguato come Giulia credeva che fosse. «In realtà non sono poi così convinto di averlo capito come dovrei.»

«Ma come?» rispose lei. «Anche se lo hai praticamente imparato a memoria?»

«Leggerlo e capirlo sono due cose differenti. Non lo so, Giulia, ho come l’impressione…» Luca raccolse il romanzo ceduto dalle mani di Giulia, lo rigirò un paio di volte, e si grattò dietro l’orecchio, crucciato da quel dubbio che gli rodeva l’animo da settimane, ormai. «Ho come l’impressione di star cercando un significato che voglio vedere solo io, e che in realtà esiste solo dentro di me.»

«Non è mica una cosa brutta.»

«Ma se mi aspetto che questo libro mi dica solo quello che io voglio sentirmi dire, allora è un po’ disonesto, non trovi?»

Sulla finestra si abbatté uno schianto di vento che fece traballare le tapparelle ma che allo stesso tempo risucchiò un rigetto di pioggia e acquietò lo scroscio dell’acquazzone.

Fra le sicure e tiepide pareti della cameretta calò un silenzio di raccoglimento e contemplazione. Il letto su cui Luca e Giulia sedevano era una barchetta appena sballottata fuori dalla furia di una tempesta e che ora, scampata alla minaccia dei cavalloni, galleggiava in una zona quieta dove i due ragazzi potevano respirare, abbracciarsi, consolarsi, guardarsi fra di loro, e guardare indietro, verso il pericolo da cui erano fuggiti.

Giulia interruppe il silenzio con un sospiro. «Credi…» Guardò la pioggia che colava lungo il vetro della finestra. Tornò sull’acqua che invece era spennellata sulla copertina del romanzo. Un’acqua altrettanto scura e altrettanto minacciosa. «Credi che abbia qualcosa a che vedere con quello che ti è successo quest’estate? Sai, no, l’incidente dello scoglio, la paura dell’acqua e del mare, e…» Si mordicchiò il labbro, accelerò il dondolio delle gambe ed esitò come quando si domandava se fosse il caso di frenare la lingua oppure no. «E tutto quel discorso che hai fatto qualche giorno prima di lasciare Portorosso.»

Luca inspirò ancor più a lungo, ancor più a fondo, e si rifugiò nelle spalle rannicchiate come un guscio. Grattò le caviglie incrociate, fece dondolare le ginocchia, guardò fuori, oscillò avanti e indietro, incapace di frenare quel formicolio di nervosismo e indecisione. «Non lo so.» Ma lui conosceva benissimo la risposta. Certo che la conosceva. Certo che il suo malessere aveva tutto a che fare con quell’ultima estate trascorsa a Portorosso. «Forse» farfugliò. «Forse è vero. Ma io…» Si grattò la nuca e ancora tenne lo sguardo chino, incapace di incrociare quello di Giulia, di sostenere il peso dei suoi occhi fin troppo perspicaci. «Può darsi che io…»

«Ma non lo dicevi sul serio, vero?» gli domandò lei. «Quando hai detto che non saresti mai più sceso in mare per tutto il resto della tua vita…» Accennò un sorriso d’incoraggiamento, seppur titubante. «Magari è stata solo la paura del momento a farti parlare così. E magari ti serviva solo un po’ di tempo per riprenderti dallo spavento, per assimilarlo. Adesso che sono passati un paio di mesi dovrebbe andare un po’ meglio, che dici?»

Il ricordo di quel giorno travolse Luca proprio come l’onda che l’aveva sputato fuori dal mare. Un gelido schiaffo alla schiena che lo aveva scaraventato di pancia e di faccia sullo scoglio. Lo sciame di stelle a sfumargli la vista, il bernoccolo a pulsare fra i capelli, la guancia tumefatta dal dolore, il sapore ferroso e salmastro dei denti sbriciolati, e la sensazione calda e appiccicosa del sangue che era gocciolato dalle braccia e dai palmi graffiati.

Luca annaspò e trattenne il fiato. Ricacciò in fondo al petto il bruciante desiderio di scoppiare a piangere come era quasi successo la stessa sera del fattaccio fuori dal bar della piazza, davanti alla fontana del pescatore che, inondata dal rosso del tramonto, pareva proprio zampillare sangue.

Luca succhiò un respiro attraverso il labbro inferiore per frenare il flusso di lacrime che già sentiva mozzargli la gola e pesare in bilico fra le palpebre brucianti. «Non lo so, Giulia.» Si arrotolò sul fianco, rannicchiò le ginocchia al ventre e strinse le gambe in un abbraccio tremante. Anche da piccolo lo faceva, raggomitolato nella sua nicchia in fondo al mare, nelle più buie notti d’inverno, quando l’acqua diventava fredda e nera come pece, ed echi sconosciuti ululavano fra le alghe agitate dalle correnti più impetuose. Luca allora piangeva, chiamava la mamma o la nonna, e si addormentava cullato dai loro sussurri confortanti, stretto fra le loro braccia così salde e sicure. «Non riesco più a capire nulla di quello che mi sta succedendo né di quello che sto provando. So che vi sto dando tante preoccupazioni. A te, alla mamma, al papà, ad Alberto, e per questo mi dispiace. Non sai quanto male mi fa vedervi così in pena per me.» Affondò le unghie nei pantaloni. Forti tremori gli rattrappirono le dita, gli sbiancarono le nocche, e salirono fino al petto, perforandogli il cuore come la lancia di un arpione. «Però so anche che il pensiero di tornare in mare fa ancora più male. E il pensiero di doverlo riaffrontare fa ancora troppa paura persino per pensarci.»

«Ma non devi affrontarlo da solo, Luca» lo rassicurò Giulia. «E nessuno pretende che tu superi questa paura da un giorno all’altro. Ascolta…» Gli posò una mano sulla spalla, ma senza fare pressione. Il suo tocco profumava di camomilla, delicato come un’ala protettiva. «Vedrai che quest’estate sarà tutto più facile. Quando torneremo a Portorosso e ci sarà anche Alberto, ti aiuteremo noi. Faremo un passetto al giorno, uno alla volta, magari bagnandoti poco, senza nemmeno scendere in mare, e vedrai che per quando l’estate sarà finita allora tu…»

«E allora cosa, Giulia?» Luca non fece nemmeno in tempo a rendersi conto – e a pentirsi – di aver sbottato un tono così brusco. Era quello il nervo dolente. Era tutto lì il nocciolo della questione. «Cos’è che dovrò fare?» Il cuore accelerò, le mani sudarono, gli occhi s’infossarono nel buio. «Cosa ne sarà di me? Dove dovrò andare quando l’estate sarà finita?»

«Dovunque tu deciderai.» Giulia gli rispose con una naturalezza disarmante. «Potrai tornare qui a Genova con me, oppure andare a Trieste, o anche rimanere a Portorosso, dovunque.»

«Ma…» Luca inghiottì. Un rauco affanno gli raschiò la voce. «Ma se…» Si ripresentò quella pressione sul petto, la sensazione di aver un paio di mani allacciate attorno alla gola, di ritrovarsi in trappola, incapace di emergere dal buio dell’abisso e di raggiungere l’acqua più limpida dove poter essere libero di riprendere fiato. «Ma se io non dovessi…» Accostò una mano alla bocca, si rosicchiò le unghie fino a sentire il sapore del sangue. «E se non dovessi mai riuscire a…» Spasmi più violenti lo attraversarono da capo a piedi, rimpicciolirono il suo corpicino che, seppur cresciuto, tornò a essere quello del bimbo un po’ pauroso che anni prima era stato cavato fuori dal mare.

Giulia, la mano ancora posata sulla sua spalla, riconobbe la natura di quei brividi, quel modo che Luca aveva di indurirsi, come rinchiudendosi nel carapace di un crostaceo, quel modo di difendersi dal dolore che gli pioveva addosso come grandine. «Luca…» Sovrappose la mano alla sua. Luca non la respinse, così Giulia la strinse, massaggiò quel tocco tiepido e asciutto fra le sue dita raggelate dalla paura. «Qui non si tratta solo della paura di entrare in mare, non è vero?» Un silenzioso fremito di Luca la incoraggiò a strofinare ancora un po’. «E secondo me c’entrano ancora tutte le paure di cui abbiamo già parlato l’anno scorso, prima di passare l’estate a Portorosso.» Raddolcì il tono. «Ho ragione o no?»

Luca si morsicò il labbro asciutto. «F…» E ancora il suo sguardo era fisso nel vuoto. «Forse. Io…» Sballottato dal reflusso di quei ricordi – la cabina inondata di pioggia, la corsa in bicicletta, la telefonata ad Alberto, il ritorno a Portorosso, il tatuaggio e la patente, lo schianto sullo scoglio, il capogiro che lo aveva stordito e fatto ricadere in mare –, Luca tentennò. «Uh, credo? Perché…» Girò la guancia e schiacciò la faccia sul cuscino. «Se ci pensi…» Si aggrappò con una mano a quella di Giulia, e con l’altro braccio si avvinghiò alle ginocchia schiacciate al ventre su cui quel dolore batteva senza tregua, come la scia di una nausea. «Se ci pensi, il solo fatto che io non sia ancora riuscito a disfarmi di queste angosce significa che i miei problemi sono davvero irrisolvibili come appaiono.»

Giulia scosse il capo. «Nessun problema è irrisolvibile.» Glielo disse con convinzione, con lo sguardo calmo e fiducioso di chi la sa lunga. «Non è forse come ci insegnano a lezione di Matematica e di Scienze? Certe volte, un problema ci sembra irrisolvibile solo perché lo stiamo guardando dalla prospettiva sbagliata.»

«Ma come facciamo…» Luca si rotolò sulla schiena. Si guardò le mani tremanti. Manine che restavano così piccole, fragili e impotenti, qualsiasi forma assumessero, dentro o fuori dall’acqua. «Come faccio a cambiare la prospettiva se non riesco a vedere nient’altro che questo?»

I loro respiri si mescolarono e si sovrapposero allo scrosciare più morbido e regolare della pioggia che ticchettava come una serie di ditate pestate sul vetro. Un basso tremolio della tapparella, un guaito stridulo di Nerone, e poi di nuovo il silenzio e il rumore del diluvio sulle tegole dei tetti e sulle cappe dei comignoli.

Giulia tornò a raccogliere la mano di Luca, gliela strinse e piegò lo sguardo verso il pavimento, nascosta dietro la coda di cavallo fluita davanti alla spalla. Così aggrappata a Luca, il viso basso e in ombra, la pelle del viso sbiadita dai grigi riflessi della pioggia, i primi segni di sconfitta cominciarono a incrinare anche la sicurezza del suo sguardo.

Giulia inspirò. Aprì e strinse la mano fra le dita di Luca. Ricondusse entrambi alla realtà. «Alberto come la pensa?»

Quella stretta di mano e quelle parole scaricarono una scossa rovente sulla pelle di Luca. Uno schiocco elettrico, ormai familiare, che gli pinzava la bocca dello stomaco e che gli bruciava il collo ogni volta in cui sentiva pronunciare il suo nome, ogni volta in cui inspirava il suo profumo attraverso la camicetta, ogni volta in cui chiudeva gli occhi ed evocava l’allegria del suo sorriso, lo splendore delle sue iridi verdi e selvagge. «Alberto?»

Giulia annuì. «Gliene hai parlato, ultimamente? Quand’è stata l’ultima volta in cui vi siete scritti?» Storse un sopracciglio, gli rivolse un’occhiata obliqua e già consapevole, fin troppo perspicace. «Dimmi la verità.»

Luca avvampò e strizzò la mano sudata sul copriletto. Era davvero da tanto tempo che non scriveva una lettera ad Alberto. Da troppo. Ma non per un suo capriccio. Tutte le volte in cui si sedeva alla scrivania, i fogli allineati, il francobollo già incollato alla busta, e la penna inforcata fra le dita, si bloccava. Il braccio s’irrigidiva, i pensieri si congelavano, e la mente si spalancava in uno spazio bianco e vuoto da cui non riusciva ad attingere una singola parola, neanche la sbavatura di un sentimento. Nulla da dirgli, nulla da raccontargli. C’era solo quel soffocante terrore di essere respinto, memore di quel saluto così freddo e brusco con cui si erano dati le spalle dopo la partenza di Luca dalla stazione di Portorosso.

«Un po’.» Luca si mise a sedere, incrociò le braccia al petto e si strofinò le spalle, aggredito da un’improvvisa e bruciante vampata di sensi di colpa. Il suo sguardo schivò quello di Giulia e cadde verso il basso, verso il pavimento attraversato dall’ombra delle gambe del letto. Sotto il letto era ancora custodita la scatola dei Biscotti Doria, quella dove Luca conservava i ricordi preziosi, le sue collezioni di oggetti, e le lettere di Alberto. Una scatola intaccata da un lieve strato di polvere, dato che non veniva scoperchiata da fin troppo tempo. «È da un po’ che non ci sentiamo, in effetti. È che, sai…» Luca si passò una mano fra i capelli, si grattò il capo, scosse le spalle, fece il vago dondolando avanti e indietro. «Con tutto quello che abbiamo da studiare, con i compiti, e i rientri del pomeriggio…» Tutte balle campate per aria, ovviamente. «Poi sicuramente anche Alberto sarà impegnato, sia con Massimo sia con il lavoro dal meccanico, e tutto il resto. Non sarebbe giusto scocciarlo con i miei problemi.»

«Scocciarlo?» Giulia sgranò gli occhi, sbatacchiò le palpebre. La sua bocca cadde congelata in un’espressione esterrefatta, come se Luca le avesse appena confessato di non voler più mangiare neanche una cucchiaiata di gelato per il resto della sua vita. «Luca…»

«E poi a cosa servirebbe?»

«Perché non dovrebbe servire?»

«Perché lo hai visto anche tu…» Luca tirò su un respiro più aspro. Un crampo gli pugnalò il cuore. Lo sguardo afflitto da quel dolore si appannò, affacciandosi a qualche mese prima, a quel pomeriggio disastroso, ai riflessi cristallini dei loro tuffi in acqua, al dolore rosso e caldo delle ferite gocciolate sulla guancia e sulle braccia. «Dopo l’incidente dello scoglio…»

Guarda che schiantarsi sugli scogli non è mica una tragedia” aveva sdrammatizzato Alberto. “Sul serio a te non è mai capitato di inciampare sull’erba o nei sassi? È come ha detto il Signor Moretti: chissà quante volte gli è già successo di sbattere il muso sugli scogli e quante altre volte gli ricapiterà. Sono cose che semplicemente succedono, tutto qui.”

Luca scosse il capo, più amareggiato che arrabbiato. «Hai sentito anche tu quello che Alberto mi ha detto, non è vero?»

«Era preoccupato» lo difese Giulia. «Ecco quello che ho sentito io.»

«No.» Gli occhi di Luca si gonfiarono e bruciarono, il mento traballò e le labbra si riempirono del sapore del sale. Luca attirò di nuovo le gambe a sé e affondò la faccia fra le ginocchia, frenando quell’impulso prima di vederlo traboccare senza ritegno. «No, non lo era.» I suoi gesti sbrigativi. La facilità con cui era riuscito a dargli le spalle, a battergli qualche pacca schiena ricurva, senza nemmeno soffermarsi con lo sguardo sul bernoccolo o sulle ferite che Giulia stava disinfettando. «Nemmeno Alberto è riuscito a capire quanto quell’incidente mi abbia turbato. E non si è trattato della botta in testa, o dei graffi sulle braccia, ma di…» Luca affondò le punte delle dita fra i capelli, fece risalire il tocco fin sopra la tempia ed esitò, come punto da un ago. Il fantasma del bernoccolo certe volte gli doleva ancora, quando ripensava al lampo di quell’incidente. «Di tutto il resto.» Di come ho perso il controllo sott’acqua, di come il mare mi abbia rigettato. «Ecco perché non ha senso parlarne con Alberto.» Altre immagini ancor più dolorose gli schiaffeggiarono il naso. Il tatuaggio di Alberto, quell’arpione che sfrecciava lontano lasciando Luca indietro, spalancandosi una libertà che ormai apparteneva solo a lui. «Ecco perché sono convinto che nemmeno lui mi saprebbe capire.»

Giulia sospirò, questa volta anche lei svuotandosi il petto e ammosciando il peso che le gravava sulle spalle. Ma non si diede per sconfitta. «Alberto ha reagito in quel modo perché certe volte è talmente scemo da aver paura dei suoi stessi sentimenti.» Compì un piccolo rimbalzo – il materasso cigolò sotto il suo peso –, si accostò a Luca e tornò a far scivolare la mano sulla sua. «Lo so che deve essere stato orribile per te vederlo sminuire tutto il tuo dolore, ma forse lo ha fatto solo per non farti spaventare, per incoraggiarti.» Lo strofinio tiepido delle sue dita fra le nocche fu una magra consolazione. «Oppure lo ha fatto solo per non dare a vedere quanto fosse preoccupato pure lui. Lo sai che Alberto è uno a cui piace far credere di avere sempre tutto sotto controllo. Luca…» Giulia usò entrambe le mani per raccogliere quella di Luca e sollevarla fra i loro sguardi, custodendola come un piccolo cuore che batte, come un uccellino impaurito da proteggere. Gli sorrise. «Proprio perché si tratta del tuo rapporto con il mare non c’è nessuno che possa capirti meglio di Alberto.»

Luca scosse il capo. Cacciò indietro le lacrime, tirò su col naso, separò il tocco da quello di Giulia e si strusciò la manica sul viso. «Comincio a crederci sempre di meno, a questo punto.»

Giulia si abbandonò a un altro sospiro, ma non era del tutto sconfitta. Raddrizzò il volume dei Malavoglia che giaceva sul copriletto affianco a loro, ne attraversò la copertina nera e lucida, si soffermò sull’immagine del mare, della barca ribaltata, dei pescatori che, nonostante il terrore e il pericolo, non cessavano di sostenersi e di aiutarsi, e si fece venire un’idea.

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Capitolo 32
*** 32 ***


32

 

 

Il treno che aveva sbuffato e grufolato per dieci minuti buoni sfogò un lungo fischio e gettò un ristagno di vapore bianchissimo che invase la banchina e seppellì le gambe di quelle persone che si erano attardate sul binario per sventolare gli ultimi saluti in direzione dei passeggeri appena montati sui vagoni.

Il capostazione fischiò due volte, fece mulinare il braccio, percorse al contrario la piattaforma del binario, e allontanò quelli che ancora indugiavano o che tendevano gli sguardi verso i finestrini appannati dal fumo.

Un ultimo fischio della locomotiva, uno stridio delle ruote d’acciaio, e il treno ingranò un primo saltello, poi un altro, e un altro ancora, a cadenza sempre più ravvicinata, fino a che la sua lunga coda di metallo non sfilò rapida davanti alle facciate dei palazzoni di periferia, per poi scomparire trascinandosi dietro un ritmico scampanellio.

Luca torse il collo all’indietro per guardare il treno curvare e scomparire. Per assicurarsi che lasciasse libero il binario per il treno che sarebbe giunto dopo.

Le persone intanto si dispersero, e assieme ai loro passi sciamò un lieve chiacchiericcio di sottofondo. La condensa dei fiati si mescolò agli sbuffi del vapore appena macinato dallo scarrozzare del treno.

Luca fece dondolare su e giù le ginocchia, come stesse andando in bicicletta, e così sfogò un po’ del formicolio che gli bruciava sotto i piedi e lungo i polpacci. Strinse le braccia conserte al petto. Sfregò le maniche del cappotto, si strofinò i palmi, vi alitò dentro una bolla di fiato, si massaggiò le guance congelate, e batté i denti. Era dicembre e lui moriva dal freddo. Oppure i suoi erano solo brividi d’ansia. O entrambe le cose.

Luca si alzò dalla panchina tanto per non dover continuare a soffrire la sensazione dei piedi in fiamme e dello stomaco attorcigliato in un gomitolo di agitazione. Si strofinò i jeans – le cosce gli si erano ghiacciate a forza di star calcate sulla pietra –, e compì un paio di giri attorno al vaso decorativo dentro cui fioriva una piccola Stella di Natale che avevano piantato in mezzo all’aiuola sempreverde. Schivò un gruppetto di persone che trasportavano borse e borsoni gonfi di pacchi colorati, di confezioni di pasta e di barattoli di conserve, di bottiglie di vino e di liquore, e andò ad affacciarsi al tabellone degli orari affisso fra le porte vetrate degli uffici.

Seguì con il dito la riga della corsa che lui e Giulia stavano aspettando. Fermò l’indice sull’orario di arrivo, e alzò lo sguardo verso l’orologio a parete per metterlo a confronto con l’ora segnata dalle lancette.

Dieci minuti. Mancavano ancora dieci minuti, e i treni non erano mai in orario, specialmente sotto le feste. Luca non aveva alcun motivo di mangiarsi le unghie per l’agitazione. Si trattava solo di aspettare con pazienza.

Un altro variopinto flusso di persone risalì i gradini del passaggio sotterraneo. Il basso tunnel di scale parve proprio rigurgitare quella folla che saltellava, correva, inciampava, e frenava per chinarsi a raccogliere i pacchetti caduti nell’impeto di foga. Qualcuno si urtò a vicenda, scoppiò un piccolo bisticcio. Altre persone si scambiarono le valige stracolme, infilarono i manici dei sacchetti più leggeri negli incavi dei gomiti, e controllarono i lacci degli zaini infagottati sulle schiene. I bambini più discoli, quelli che si rifiutavano di tenere i genitori per mano, si rincorsero lungo la piattaforma, vennero rimproverati da strilla che li ammonirono di stare alla larga dai binari e di comportarsi adeguatamente.

Poche persone battevano i denti dal freddo. Però molte si infilarono i guanti, si annodarono le sciarpe al collo, e si fecero aria al viso con i berretti di lana.

Altri, come Luca, raggiunsero le tabelle affisse alla parete e confrontarono gli orari con quelli segnati sui loro orologi da polso.

Una delle porte degli uffici si aprì, si richiuse, e fece tintinnare la ghirlanda di agrifoglio appesa sotto l’architrave. Tante altre decorazioni abbellivano la Stazione di Brignole che era addobbata a festa come il resto della città. Corone di agrifoglio affisse sulle finestre e sulle terrazze dei palazzi affacciati al binario; grappoli di sonagli sulle maniglie dei negozi e fra le grate dei chioschi; fiocchi di neve finta spruzzati sulle vetrine dei giornalai e dei tabacchini; intrecci di luminarie colorate che salutavano chi partiva e che accoglievano coloro che arrivavano.

Da fuori la stazione proveniva un dolce e burroso profumo di frittelle di mele e di noccioline caramellate. Le stavano cuocendo sotto i chiostri appena fuori Brignole, dove i baracchini stavano distribuendo cioccolatini, frutta secca, pasta di mandorle, e stecche di torrone.

Ma nemmeno l’avvolgente e tiepido profumo dei dolci o i tenui colori delle luci natalizie aiutarono Luca a distendere i nervi, ad acquietare i pensieri, e a placare i brividi di ansia.

Soffici passi gli si accostarono al fianco, la voce di Giulia gli venne in soccorso. «Pieno zeppo di gente, oggi, eh?» Pure lei si rimboccò la sciarpa e si strofinò le mani infreddolite.

Luca sporse lo sguardo all’indietro, oltre la piccola aiuola. La loro panchina si era liberata, e una coppia di anziani signori che stava trascinando due valige alte fino alle ginocchia l’aveva già presa di mira. «Non preferisci rimanere seduta?» domandò Luca. «Tanto manca ancora un po’ prima che arrivi il treno.»

Giulia si strinse nelle spalle, sorrise e si aggiustò il berretto spingendo qualche ricciolo sotto l’orlo di lana. «Io ho le gambe giovani, mi sembra doveroso lasciare le panchine libere agli adulti e ai vecchietti. Soprattutto a quelli che si stanno trascinando dietro le valige più grandi.» Tese una mano davanti alla fronte e compì una mezza piroetta per orientarsi in mezzo alla folla che stava tornando ad accalcarsi sulla piattaforma. «Poveretti, hanno tanti di quei pacchetti e tante di quelle borse che mi sembrano degli asinelli da soma.»

«A Natale è normale» rispose Luca. «Immagino sia anche per questo che ci sia così tanto traffico qui in stazione.»

«Avremmo dovuto immaginarcelo, dato che anche in autobus la situazione non era di certo migliore di questa.» Giulia si spalmò un piccolo schiaffo di esasperazione lungo la fronte, soffiò un lungo fiotto di fiato bianco. «Giuro, credevo che sarei rimasta schiacciata come una sardina. Ancora un po’ e non riuscivamo neanche a scendere, ricordi? Speriamo che tornando indietro la situazione migliori almeno un pochetto.»

«Non vederla così tragica» la consolò Luca. «Se ci sarà troppa gente, allora torneremo indietro a piedi.» Molleggiò sui piedi per tenere i muscoli al caldo. «Ci faremo una camminata. Non siamo poi così distanti da casa.»

«Se ci fosse la mamma sarebbe tutto più semplice» sospirò Giulia. «Avrebbe potuto accompagnarci lei con l’auto.»

Luca annuì, e comprese che l’amarezza di quel sospiro non riguardava solamente il traffico o gli autobus stracolmi.

Giulia e Luca avrebbero trascorso il Natale da soli. Sara era stata chiamata a Trento per dirigere l’allestimento dei presepi nel centro cittadino e anche per presenziare una mostra di beneficenza. Sarebbe rincasata solo dopo il termine delle Feste.

Questa volta fu Luca a sospirare. «Povera Sara.» Si strofinò le braccia incrociate e scosse il capo con disappunto. «Lavorare anche a Natale…»

Giulia invece annuì senza farsi mancare un profondo cipiglio di irritazione. «Già, uno sfruttamento bell’e buono, non è vero? Qualcuno prima o poi finirà per ribellarsi.»

«O per scatenare una rivoluzione.»

«E noi saremo i primi a imbracciare le armi!»

Luca ridacchiò, tornò a battere i denti. «Però per ora preferisco concentrarmi su problemi un po’ più semplici.» Per esempio sul treno che non è ancora arrivato.

«Lo vedi?» Giulia sventolò un lembo della sciarpa dietro la schiena, strizzò l’occhiolino in direzione di Luca. Il sorriso che le si infossò nella guancia le spruzzò sulla pelle un vivace colorito di ottimismo. «Forse la soluzione migliore è sempre stata quella di far venire qua Alberto. Peccato, però. Se fosse venuto in auto, saremmo stati liberi di scorrazzare in giro per la città senza doverci preoccupare degli orari dei treni o della folla sugli autobus. Uhm, anche se…» Guardò in alto, si accigliò, fece tamburellare il dito sul labbro e scosse la testa. «No, ora che ci penso, preferisco decisamente fare la fila per l’autobus piuttosto che ritrovarmi a viaggiare su un’auto guidata da Alberto.»

Luca rise, ma fu una risata aspra e tremolante, scossa da forti brividi di nervosismo che gli accoltellavano il cuore a ogni respiro e che gli torcevano lo stomaco come se si fosse ritrovato la pancia ingabbiata in una guaina di ferro.

Dieci minuti. Meno di dieci minuti e il treno sarebbe giunto a destinazione. Meno di dieci minuti e Alberto sarebbe smontato dal vagone, avrebbe attraversato la banchina, dividendo la folla, e sarebbe andato incontro a Luca e Giulia. Meno di dieci minuti e Luca lo avrebbe rivisto, incassando il dolore di quella pugnalata, di quella lama che sentiva lì, in bilico sullo stomaco, tesa e vibrante, pronta ad affondare il colpo letale nel momento in cui i loro sguardi si sarebbero incontrati in mezzo ai profili degli estranei e circondati dalla nebbiolina di vapore.

Ma perché ho così tanta paura di rivedere Alberto? si domandò Luca. Se penso poi che è da mesi che mi trascino dietro questa confusione e questo malumore. Credevo che il pensiero di rincontrarlo mi avrebbe tirato su di morale, che mi avrebbe dato quel coraggio di cui ho bisogno per risollevarmi una volta per tutte. E invece mi sembra addirittura di stare peggio.

Bruno venne in suo soccorso. La sua presenza maligna gli scivolò dietro la spalla, la sua vocina tagliente gli pizzicò l’orecchio: è chiaro che tu abbia paura di rivedere Alberto, Luca. E non ti biasimo affatto, considerando com’è andata a finire fra voi due la scorsa estate, prima di separarvi.

Luca deglutì a vuoto, pietrificato da quelle parole e raggelato dallo schiaffo di quel ricordo.

Si ripeterà davvero quello che è capitato la scorsa estate a Portorosso?

Quello che era capitato al termine dell’estate, quando lui e Alberto si erano separati alla stazione di Portorosso dimostrando tutta quella freddezza.

Staccandosi dall’abbraccio di Alberto, Luca si era affrettato a raccogliere la sua valigia, a posare il solito bacio di arrivederci sulle guance di mamma e papà, e a montare sul treno assieme a Giulia, gettandosi alle spalle tutte le disavventure che erano state protagoniste di quell’estate. Tutti quei dolorosissimi ricordi da cancellare, magari per sostituirli con memorie più dolci che Alberto avrebbe aiutato a costruire proprio durante quelle vacanze di Natale che avrebbero trascorso assieme a Genova.

Ma allora perché non riesco a crederci?

Luca strinse gli occhi e trasse un respiro che fu una stilettata al petto.

Perché non riesco a trarre neanche un minimo di conforto dall’idea di rivedere Alberto? E se fossi così nervoso proprio per questo? Magari mi sto agitando perché mi sto rendendo conto che la presenza di Alberto non sarà d’aiuto come lo sarebbe stata un tempo. Quindi nemmeno la nostra amicizia non è più importante come lo era una volta? Oh, che razza di confusione…

Luca si rimboccò il cappotto – un istintivo gesto di protezione –, sospirò all’interno del bavero che assorbì la condensa del suo fiato, e guardò attraverso il panorama velato dalla foschia addensata dal vapore dei treni in arrivo e in partenza, ombreggiato dalla folla che incrociava il passo sulla piattaforma, e incupito dal cielo color piombo che attorniava i palazzoni della periferia.

Passanti chiacchieravano tenendosi per mano e scambiandosi i bagagli, bambini saltellavano fra le gambe dei genitori, amici si abbracciavano, ragazze salivano sulle punte dei piedi e gettavano le braccia al collo di ragazzi che si chinavano a baciarle e a solleticare loro le guance.

Un grave senso di malinconia scrosciò addosso a Luca, freddo, appiccicoso e sgradevole come un diluvio invernale. Quindi finisce così? Fra me e Alberto è tutto finito? Tutto distrutto? Un’amicizia che sarebbe dovuta durare per sempre si è ridotta a sbriciolarsi nel giro di un’estate per colpa di uno stupido incidente e per colpa delle mie stupidissime paure?

Bruno, che non si era mai allontanato da dietro il suo orecchio, non tardò a ridacchiare, maligno, e a sussurrargli le solite cattiverie: ma come, Luca? In fondo non era questo quello che avevi sempre desiderato? Per tutti questi anni non hai fatto altro che lamentarti di quanto il tuo umore dipendesse fin troppo dalla vicinanza con Alberto e dal vostro rapporto. Per tutto questo tempo non hai fatto altro che desiderare di essere capace di stargli lontano senza provare nostalgia, senza che il bisogno di averlo affianco ti straziasse l’anima. Eccoti accontentato, dunque. Desiderio esaurito! Incontrerai Alberto, trascorrerete assieme le vacanze di Natale, tutto ti sarà indifferente, e voi due vi saluterete come se non fosse mai accaduto nulla, come due perfetti estranei. E lo hai voluto tu, Luca, ricordatelo.

Luca, bruciando di terrore e ricacciando un conato di nausea in fondo alla pancia, picchiò i pugni sulle tempie, strinse forte le palpebre fino a farle lacrimare, e scosse il capo per sopprimere la tortura di quella vocina. Silenzio, silenzio, silenzio, silenz…

Il fischio del capotreno perforò i pensieri di Luca. «Allontanarsi dai binari!»

Il capotreno marciò in senso opposto ai vagoni che stavano rallentando, singhiozzando gli ultimi sbuffi di vapore. Sbracciò e gesticolò verso le persone che si erano ammucchiate davanti ai binari, e indirizzò dure occhiate di ammonimento a quelli che tentavano di sporgersi verso la locomotiva ormai scomparsa dietro le colonne che sorreggevano le tettoie di cemento. «Indietro» strillò. «Indietro tutti, fate spazio, treno in arrivo!» Un ultimo stridio delle ruote sui binari, e il treno rilasciò un lungo e latteo getto di tensione che investì le gambe della folla, costringendo qualcuno ad arretrare. «Treno in arrivo, allontanarsi dai binariii

Luca staccò le nocche dalle tempie e inghiottì un singhiozzo sbigottito. «Oh!» Si era ritrovato talmente assorbito dal vortice delle sue ansie e dalla voce di Bruno da non essersi nemmeno accorto dell’arrivo del treno alla stazione e della sua fermata sul binario.

«È arrivato!» Fu Giulia a rimbalzargli affianco, a strattonargli la manica della giacca, a farsi spazio in mezzo ai fianchi della gente, e a entusiasmarsi per entrambi. «Portiamoci avanti, presto, prima che la folla si accalchi.»

Luca sgranò gli occhi spaesati sulla folla, su quella massa di cappotti colorati, di facce sconosciute, di sciarpe sventolanti, di scarpe che schioccavano sul cemento e di valige che venivano trascinate dietro le gambe. Una massa che si scomponeva e che si ricomponeva come la magica ruota di un caleidoscopio, come l’esplosione di un fuoco d’artificio, come una galassia che si espande e che torna ad agglomerarsi, a formare stelle, pianeti e soli.

Il peso di Giulia gli era aggrappato al braccio ed era lei a sostenerlo, impedendogli di finire assorbito in quell’ingorgo di voci che, mescolate agli ultimi e affaticati respiri del treno, soffiarono un lungo fischio bianco attraverso cui Luca era incapace di udire persino i suoi stessi pensieri, o il battito del suo cuore, o lo spezzarsi del suo fiato fra le labbra.

Un primo gruppetto di persone arretrò, guidato dalle sbracciate e intimato dalle occhiatacce del capotreno. Si allontanò dalla caduta del binario e permise in questo modo la discesa delle persone che stavano per smontare.

Il fumo si diradò. Gli addetti in uniforme salirono i gradini, spalancarono le porte scorrevoli, ed evocarono il rovesciarsi dei passeggeri, la potenza di un torrente in piena che spacca la roccia ghiacciata e che inonda la valle. Un torrente dentro cui ora viaggiava un banco di pesciolini di diverse grandezze e di tanti colori diversi. Cappotti sventolarono, sciarpe sbatacchiarono al vento, cappelli cozzarono sulle teste altrui, borse e valige strusciarono fra le gambe e vennero lasciate cadere, tacchi rimbalzarono, suole scricchiolarono sul cemento, braccia si tesero e si raggiunsero a vicenda, sorrisi s’illuminarono, e fiati divennero subito bianchi per il gran freddo che si respirava alla stazione.

La vista di Luca si congelò, come si congelò anche il suo respiro che ruppe un’ultima bolla bianca fra le labbra screpolate, per poi interrompersi e rimanere sospeso in fondo al petto. Il cuore batté un ultimo tonfo, e il suono che giunse alle sue orecchie gli sembrò il più triste, solitario e malinconico dell’universo. Era l’eco del mare che fruscia fra le spirali di una conchiglia abbandonata fra le dune di una spiaggia deserta.

Anche Luca si sentiva allo stesso modo. Una conchiglia abbandonata sul bagnasciuga. Un pesciolino alla deriva in quell’oceano di passi, di volti estranei, di occhi che non erano quelli di cui aveva bisogno, che non appartenevano a colui che stava cercando. Quell’unica persona che la sua anima stava chiamando a gran voce.

Un fremito scosse la folla e arricciò gli ultimi arabeschi di vapore, come una spazzata di vento che crolla su un mucchio di foglie secche, sparpagliandole.

I passeggeri appena smontati dai vagoni cominciarono a dividersi e a radunarsi in piccoli gruppi o a coppie, imboccarono i gradini sotterranei, oppure proseguirono lungo la piattaforma del binario seguendo le indicazioni per le uscite, trascinandosi dietro i loro bagagli e caricandosi i borsoni sulle schiene.

Brillò una fiaccola.

Attraverso la patina grigia che rivestiva lo sguardo così fisso e colloso di Luca, bruciò una fiammella, una di quelle piccole e vivaci, alimentate a petrolio, che si dibattono come farfalle fra le pareti di vetro color miele di quelle vecchie lanterne che pencolano dalle prue delle barche e dei pescherecci. Una lanterna che dondola fra le dita dure ma gentili di un pescatore che emerge dalla nebbia e che ti si avvicina, rischiarendo la strada e puntando il raggio di luce verso la direzione giusta, verso la via da imboccare per raggiungere il porto più sicuro, la quiete dopo la tempesta che non è riuscita a inghiottirti.

Luca, ancora sorretto dalla presa di Giulia, ansimò di meraviglia. I suoi occhi si allagarono di lacrime cristalline che rimasero in bilico, sciacquando ogni traccia di dolore dal suo sguardo.

Eccola, la fiaccola! La Fiaccola di Lucignolo che gli veniva appresso e che stava brillando solo per lui.

Quella fiamma riaccese il battito del suo cuore, donò calore al petto che, dapprima contratto di freddo, ora si gonfiò di una gioia incandescente. Ridonò colore alla vista, a quegli occhi che si accesero proprio come quelle luci colorate che luccicavano su ogni cornicione e terrazzo della città. Gli infiammò le guance della felicità più pura, brillò attraverso un sorriso che era rimasto nascosto per troppo tempo.

Alberto si muoveva a suo agio fra la folla. Avanzava con quella camminata confidente e baldanzosa che si apriva la strada con sicurezza senza però pestare i piedi agli altri o urtare loro le spalle. Si fermò per dare la precedenza a una coppia di anziani appena smontati dal vagone – il signore si tolse il cappello per ringraziarlo, e la signora gli sorrise con la sua bocca carica di rossetto. Si girò verso un gruppetto di bambini che gli erano trotterellati attorno alle gambe, si piegò a raccogliere la bambola che era caduta a una delle bimbe, allungò il braccio per rendergliela, «Grazie, signore», e la salutò con un sorriso e uno sventolio di mano.

Alberto diede un colpetto di spalla all’unico bagaglio che reggeva con un braccio solo – il gomito piegato, il borsone a rimbalzargli sulla schiena a ogni passo – e voltò la guancia. Anche lui si era accorto di uno sguardo più pressante che insisteva su di lui con la forza di un magnete, e che lo evocava come la voce di un incantesimo. Anche lui non fece fatica a distinguere il viso familiare di Luca in mezzo a tutta quella folla. E si emozionò come ogni volta, come succedeva ogni estate alla stazione di Portorosso, prima della corsa che li avrebbe riuniti in un abbraccio.

Il verde dei suoi occhi germogliò, fresco come le sfumature di un giovane abete spruzzato di rugiada. Il sorriso si distese, s’infossò nelle guance abbronzate, plasmò un’espressione di infinita dolcezza che fece risplendere la sua aura dorata in mezzo alle ombre fuligginose di tutti quegli estranei che gli zampettavano attorno.

Alberto tirò su il braccio libero e sventolò la mano in direzione di Luca. Ripeté lo stesso gesto che aveva compiuto per chiamarlo l’estate dopo la loro prima separazione, quando si erano ritrovati e riuniti fra le onde dello stesso mare, pur avendo deciso di imboccare il flusso di due fiumi completamente differenti.

Fu proprio quel gesto così semplice a commuovere Luca. Rendersi conto quanto per loro due fosse facile e spontaneo ritrovarsi. Quanto poco bastasse per tornare a essere i due bambini curiosi, avventurosi e spericolati che tanti anni prima avevano sbattuto la testa l’uno sull’altro, per poi decidere di prendersi per mano e di non lasciarsi più andare.

Sulla polverosa e umida piattaforma di Brignole, Luca guardava Alberto venirgli incontro ed era come guardarlo per la prima volta. Come il giorno in cui Alberto gli aveva sorriso attraverso lo specchio di acqua di mare dietro cui Luca lo aveva visto mutare per la prima volta. Fu un palpito fondo, caldo e viscerale, lacerante ma per nulla doloroso, che gli ribaltò il cuore come era successo in cima alla loro torre qualche anno prima. Quella notte, lo sguardo di Luca aveva sfiorato il profilo di Alberto abbagliato dalla danza rossa delle braci. Era rimasto senza fiato dinnanzi alle sfumature bronzee della sua pelle, davanti al senso di protezione e sicurezza trasmesso dalle sue spalle così ampie e cresciute, davanti alle ombre del suo sguardo malinconico rivolto all’argento della Luna e ai lumini di Portorosso.

Era successo quando Luca si era innamorato di Alberto senza nemmeno saperlo.

Quella dolce e calda vampata di commozione permise a Luca di sgretolare la sua corazza difensiva, e lui se la lasciò cadere di dosso con lo stesso sollievo provato dai tanti passeggeri che spalancavano le dita doloranti e che gettavano borsoni e valige ai loro piedi, sulla piattaforma.

Luca scivolò via dal braccio di Giulia, sciolse la presa dalla sicurezza del suo scoglio, si fece accogliere da una tiepida onda sorta dal mare, e si tuffò senza paura nella sua corrente.

Non seppe quante falcate di corsa gli ci vollero per raggiungere Alberto. Non lo seppe e non le contò nemmeno, non gli interessavano. Sapeva solo che i suoi piedi erano ali di gabbiano che si stiracchiarono nella corrente, che volarono lungo la piattaforma di cemento, e che schiaffeggiarono l’aria per raggiungere al più presto la corrente più rapida, sentendosi innalzare verso colui che lo stava aspettando con le braccia già spalancate.

A riunirli fu la botta di quell’abbraccio ingordo e dirompente.

Le braccia di Luca si gettarono attorno alle spalle di Alberto, il viso sprofondò nel suo petto, nel suo rifugio più sicuro, e le labbra sbatterono su un bottone della giacca scamosciata. Gli entrò il sapore di ferro in bocca. Con il naso sepolto nella stoffa, Luca inspirò avidamente quel profumo forte, liquoroso, di legno resinoso, di cuoio consumato, della tappezzeria del treno, di tutta la strada che Alberto aveva calpestato e di tutti gli odori che lui stesso aveva respirato durante il viaggio.

Luca fece sprofondare le dita nel tessuto della giacca, strinse forte le braccia attorno alle spalle di Alberto che erano più difficili da circumnavigare. Forse a causa degli abiti invernali che ne inspessivano la stazza, o forse perché era lui a essersi irrobustito, o forse ancora perché erano le braccia di Luca a essersi assottigliate, a essere regredite a quelle del bambino che tanto gli mancava e che tanto avrebbe voluto riavere indietro.

Luca e Alberto si tennero stretti in mezzo alla folla, sommersi fino alle caviglie dal vapore sfiatato dal treno, e quello fu lo stesso abbraccio di riconciliazione che li aveva riuniti da piccoli alla stazione di Portorosso. Fu anche diverso. Quella di Luca fu una gioia più sfacciata e senza ritegno. C’era quella presa violenta attorno all’ampiezza delle sue spalle, le gambe così tese da bruciargli, il viso che respirava ad affanni contro il suo petto, disperandosi dal desiderio di rintracciare una salvezza fra le braccia di Alberto che lo avevano accolto e che, per quel singolo istante, erano state capaci di placare la bufera che tempestava nella sua testa.

Il petto di Alberto si mosse sotto la sua guancia, e ci fu un lieve sfregamento, forse per un suo sospiro, o per una sua piccola risata. Alberto sfilò un braccio dal torso di Luca, gli strofinò una carezza fra i capelli, «Ciao, testolina», e il suo respiro gli solleticò l’orecchio. Aveva la voce un po’ più ruvida, forse perché inasprita dal freddo e dall’aria chiusa del treno, ma era inequivocabilmente la sua. La stessa voce che sarebbe sempre andata dritta al cuore di Luca, con la sicurezza e la precisione di un arpione che fende le onde.

Luca, scosso dal suono della sua voce, sorrise e gemette un piccolo singhiozzo.

Le sue braccia strinsero e rabbrividirono, preda di un unico desiderio, del solo bisogno di farsi prendere per mano e di farsi portare lontano.

Portami via.

Luca inspirò forte quel singhiozzo che gli pizzicò le palpebre, che gli riempì la bocca del sapore aspro delle lacrime, e che gli soffocò la gola, sciogliendosi fino alla pancia, lì dove era racchiuso tutto l’amore che provava nei confronti del suo migliore amico.

Andiamo via, Alberto, andiamocene. Torniamo a salire sul treno, subito, adesso, immediatamente, e scappiamo lontano da qui. Portami dovunque, dove vuoi tu, in qualsiasi posto, non m’interessa, basta solo che tu mi prendi la mano e che non la molli più. Fallo sparire, Alberto.

Luca spinse di più sulle punte dei piedi. Un violento tremore risalì la schiena e irrigidì le braccia che aveva avvinghiato alle forti spalle di Alberto.

Fai sparire tutta questa confusione, portami fuori dalla nebbia e fai tornare tutto com’era una volta, quando eravamo felici. So che solo tu lo puoi fare. Solo tu.

Li raggiunsero i familiari e inconfondibili passi di Giulia che, separando la folla e intrufolandosi nella pace sazia del loro abbraccio, interruppero i pensieri di Luca e lo risucchiarono fuori da quel vortice. «Però…» Giulia rallentò la piccola corsa, si fermò, spostò il peso da un piede all’altro, e sventolò un lembo della sciarpa sul viso arrossato mentre nuvolette di fiato bianco si squagliarono fra le sue labbra distese in un caldo sorriso di benvenuto. «Ti ha stanato subito nonostante tutta questa calca. Luca ha più fiuto di un segugio, quando si tratta di te, Alberto.»

Alberto rise di gusto. «Altro che segugio.» Compì un passo all’indietro e spalancò le braccia per mostrare come Luca rimaneva lo stesso incollato al suo busto. «Per caso ha fatto la muta durante l’inverno e si è trasformato in un polpo?»

Luca ridacchiò, la guancia ancora premuta sul suo petto, poi però allentò la presa delle braccia e cercò di darsi un contegno, di tirarsi su. «Scusa.» Compì anche lui un passetto indietro, strusciò la manica del cappotto sotto il naso, raccolse le mani in grembo e guardò per terra. Un sorrisino di imbarazzo gli tremolò fra le labbra, fragile come una fogliolina scossa dal vento. «Scusa, ho esagerato.»

Alberto si chinò a toccarlo con una spallata. «E secondo te non mi fa piacere sapere che sei felice di vedermi?»

«Ehi» squittì Giulia, «ma guarda che anche io sono felice di vederti!» Questa volta fu lei che si gettò ad abbracciare Alberto, ad avvolgerlo con il suo dolce profumo di camomilla e cannella, a stampargli un sorriso sulla guancia, e a mormorargli all’orecchio. «Grazie, Alberto.»

Alberto parve stupito, pur accettando quell’abbraccio, sorreggendola, e sorridendole a sua volta. «E di cosa?»

«Per essere qui.» Giulia scese dalle punte dei piedi, allentò la stretta tenendo però sempre le braccia avvolte alle spalle di Alberto, e rinnovò quel sorriso che brillava più di tutte le luminarie che coloravano la città in festa. «Sei il regalo di Natale più bello, davvero.» Si batté una mano sul petto e sospirò a cuor leggero. «Poi sono così sollevata di vedere Luca di nuovo felice. È da quando siamo tornati dalle vacanze estive che faccio fatica anche solo a strappargli un sorriso. Ma ora che ci sei tu starà di nuovo benissimo, ne sono certa.»

«Ovvio che starà benissimo.» Alberto inviò una furba strizzata d’occhio in direzione di Luca. «Far star bene Luca è la mia specialità.»

Ma Luca, nonostante il calore di quello sguardo e il sollievo di quelle parole, venne lo stesso attraversato da una breve fitta di sensi di colpa.

Guardò di nuovo in basso, in mezzo ai piedi. Rievocò la disperazione di quell’abbraccio, il modo in cui si era aggrappato ad Alberto, come nel mezzo di una burrasca, proiettando sulla sua presenza tutto quel bisogno di fuggire che gli gorgogliava nel petto da mesi. Se ne vergognò. Sentì di non meritarsi nessuno dei suoi sorrisi, nemmeno uno di quegli sguardi d’affetto con cui Alberto aveva alleviato il suo cordoglio. Non posso credere di aver pensato a tutte quelle cose. Si strofinò gli occhi umidi e sorrise verso il pavimento, tristissimo. Chiedere ad Alberto di andarcene? Per andare dove, poi? E per fare che cosa? Sono stato io a dirglielo, quella notte sulla torre, che scappare non risolverà mai più i nostri problemi. Niente più salti in Vespa dalle scogliere, Luca, ricordi? Tieni i piedi a terra e piuttosto consolati del fatto che Alberto sia qui con te. Anche se…

Strinse le mani che teneva intrecciate in grembo, si grattò le nocche infreddolite e screpolate dal freddo, e venne punto da un’altra esitazione, da un altro senso di colpa che gli venne addosso come una sberla d’acqua fredda.

Quando ho abbracciato Alberto, sono stato così felice di vederlo e di riaverlo qui con me perché ho visto in lui la possibilità di scappare, di una via di fuga. Non per una vera amicizia.

Strinse i pugni conficcando le unghie nella pelle. Strizzò gli occhi, inspirò quel sapore amaro di sconfitta, contenne tutta la vergogna provata nei confronti di se stesso, di quei pensieri e di quei sentimenti che germogliavano nella parte più egoista del suo animo. Quella autentica.

È proprio vero che non mi merito la sua amicizia.

«Che peccato però che non potrai incontrare anche la mamma.» Giulia si aggiustò i riccioli pettinati sotto il berretto di lana, si rimboccò la sciarpa, si strofinò le mani, soffiò dentro i palmi per scaldarsi, e si guardò attorno. Ora che la folla dell’ultimo treno si stava sparpagliando, era più facile leggere i cartelli delle uscite, specchiarsi sulle porte vetrate degli uffici, e individuare le gallerie dei passaggi sotterranei. «Non sai quanto sarebbe ansiosa di conoscerti. Con tutto quello che le abbiamo sempre raccontato di te…»

«Ma non sarà mica l’unica volta in cui verrò a Genova a trovarvi.» Alberto si chinò a raccogliere il borsone che, nell’impeto dell’abbraccio condiviso con Luca, aveva lasciato cadere a terra. Piegò il braccio all’indietro e tornò a caricarselo sul groppone. «Ci sarà sicuramente una prossima volta. E un’altra ancora, e – oh, e le hai mostrato la foto del mio tatuaggio?»

«Altroché!» Giulia batté le mani e compì un rimbalzo, elettrizzandosi al sol pensiero di regalargli quella bella notizia. «E ha detto che lo adora, che è un disegno assolutamente eccezionale, e pensa che vorrebbe addirittura sfruttarlo come soggetto per uno dei suoi prossimi quadri. Con il tuo permesso, s’intende.»

«E c’è da chiederlo?»

«Io già non vedo l’ora di scoprire cosa ne verrà fuori.» Giulia incalzò il passo di marcia e fece strada ai due ragazzi verso l’uscita più vicina. «Ma a casa ti faremo vedere tutte le altre opere della mamma, e – argh! Giusto, a casa!» Si schiaffeggiò una mano sulla fronte. «Mi sa che dobbiamo sbrigarci, se vogliamo tornare a casa in autobus. La prossima corsa arriva fra dieci minuti.» Gettò una rapida occhiata all’orologio incorniciato da una ghirlanda di agrifoglio. «Corriamo!»

Non corsero, ma tutti e tre affrettarono il passo.

Luca scivolò a destra per non sbattere il naso sulla schiena di un signore che si era chinato a raccogliere il taccuino che gli era caduto, incespicò su un mucchio di pacchi e valige che circondavano una coppia ferma a guardare il tabellone orario, e si affrettò a zampettare dietro alla camminata di Giulia, come un pulcino che si affanna a rincorrere la mamma chioccia.

Il braccio di Alberto gli scivolò attorno alle spalle e lo attirò a sé, al suo profumo, alla morbidezza della sua giacca. Luca ebbe giusto il tempo di singhiozzare un sussulto che Alberto gli affondò una carezza dietro la nuca, attraversò con uno strofinio i suoi capelli umettati dal maltempo, e si chinò a sfiorargli la guancia con la punta del naso, con labbra tiepide che gli mormorarono: «Come stai, Luca?»

Luca provò una fitta in fondo al petto che non seppe come interpretare. Lo addolorò e lo commosse allo stesso tempo, straziandogli il cuore e annacquandogli gli occhi. «Me…» Quanto sperava di sentirsi ricevere quella domanda. «Meglio.» Si rannicchiò sotto il braccio di Alberto e si strinse al suo fianco, senza più vergogna, senza alcun senso di colpa. Sospirò e socchiuse gli occhi, toccato dallo stesso piccolo sorriso di appagamento che gli distendeva le labbra prima di coricarsi sotto le coperte dopo una lunga e faticosa giornata. «Meglio, ora che sei qui.» E non gli importava se si trattava di un sentimento egoista. Luca era felice di avere Alberto lì con lui, si sentiva tranquillo e sereno nell’averlo affianco. Si sentiva protetto. Ed era solo questo che voleva che contasse.

Alberto strinse il braccio che gli aveva avvolto attorno alle spalle. Continuando a camminare più lentamente rispetto alla marcia di Giulia, tenne il viso basso, le labbra accostate ai capelli di Luca, il solletico del suo respiro così vicino all’orecchio, alla sua pelle. «Te l’avevo promesso che quando ne avresti avuto bisogno io sarei schizzato qui immediatamente, anche a nuoto.» Rise. «Ma il viaggio in treno è decisamente più conveniente della strada via mare, o no?»

Luca scosse il capo. «Non in senso economico.»

E questa volta risero entrambi. Risero e finalmente Luca si lasciò andare, abbandonandosi alla beata e pacifica sensazione trasmessa dall’abbraccio di Alberto. Chiuse gli occhi, affidandosi alla guida dei suoi passi, mise a tacere la voce di Bruno, e si sforzò per davvero di non pensare a nient’altro. Dopo mesi di angosce, finalmente giunse un raggio di sole, una carezza, un’ala protettrice, la sensazione che tutto sarebbe andato per il meglio e che lui non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi. Luca accolse quel sentimento nel suo cuore proprio come aveva accolto la gioia del Natale che li circondava, che riempiva la città di luci e canti, e che tutti e tre, lui, Alberto e Giulia, avrebbero festeggiato assieme per la prima volta.

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Capitolo 33
*** 33 ***


33

 

 

Alberto si chinò davanti all’acquario. Si affacciò alle luci del neon azzurrino, alla fila verticale di bolle che gorgogliava dalle pale del filtro. Scrutò il relitto del galeone pirata, la grotta di scoglio, l’oscillare delle verdi alghe finte a cui si era aggiunto qualche altro ciuffo color corallo, e si accigliò per individuare i colori verde e blu del Pesce Damigella che era nuotato attorno alla roccia, facendosi desiderare. I loro sguardi si incrociarono. Il pesce scosse un rapido colpo di coda, si nascose dietro le alghe, risalì i rami oscillanti, e andò a beccare la superficie dell’acqua, come aspettandosi di trovare una spolverata di mangime.

Lo sciame di bollicine smosso dal moto del pesce venne risucchiato dal filtro e distribuito attorno al rettangolo dell’etichetta un po’ più sbiadita rispetto al giorno in cui era stata appiccicata alla teca dell’acquario.

Alberto posò l’indice sull’etichetta, percorse il rilievo ruvido della porporina, la cornice composta dalle onde a spirale, e si soffermò sul nome del pesce contrassegnato dalla calligrafia maiuscola di Giulia. La smorfia di disappunto fu inevitabile. «Come vi è venuto in mente di chiamarlo proprio “Bruno”?» Si tirò su di spalle e si sfregò le mani sui jeans. «Con tutti i nomi che esistono al mondo.» Si slacciò la giacca – in casa faceva abbastanza caldo dopo la scarpinata per strada e la risalita delle scale – e si posò la mano sul petto. «Persino chiamarlo come me sarebbe stata un’idea mille volte migliore. E sarebbe stato un ottimo compromesso per combattere la nostalgia.»

Giulia accese le luci dell’Albero – un Albero di Natale modesto ma grazioso e ben curato, poco più alto della sua testa, imbellettato da stelle filanti argentate, lumini rossi e bianchi, e palline scarlatte. Svuotò la borsa con i doni che Alberto aveva portato da Portorosso e li dispose sotto i rami più bassi, vicino ai pacchetti già infiocchettati ed etichettati che abbellivano l’angolo del soggiorno più vicino alla pendola a parete. Giulia annuì alla considerazione di Alberto. «Sì, ma lui se ne sta sempre zitto, dato che è un pesce. Quindi nessun nome era più adatto di “Bruno”.» Strinse un fiocchetto che si era allentato, rigirò l’etichetta di un pacco che conteneva una bottiglia di distillato di prugne, e alzò le mani in segno di resa. «E poi non prendertela con me, siete stati tu e Luca ad avermi attaccato questa fissa del Silenzio Bruno

Alberto si cinse i fianchi, scosse la testa ma rise. «La morale è di dire a Bruno di stare zitto quando rompe le scatole» spiegò, «quindi se è già muto di suo non ha molto senso.» Lanciò un’altra occhiata all’acquario, sentendosi sfiorare dalle sfumature oscillanti delle alghe attorno a cui gorgogliavano le bolle del filtro. Increspò le sopracciglia. Si soffermò sul fondale, sulla sabbia colorata, sul relitto del galeone spezzato in due, e sullo scoglio a forma di grotta dentro cui Bruno era andato a rintanarsi. Notò qualcun altro. Un altro ospite. Una creaturina che se ne stava buona e tranquilla a sputacchiare la sabbiolina del fondale e a tastare la base delle alghe tramite le sue chele. «Ma quello…» Alberto tornò a chinarsi davanti alla teca, allungò le dita senza però toccare il vetro. Sfiorò l’immagine dell’animaletto che, seppur piccolo e silenzioso, si era guadagnato la sua piena attenzione. «Avete anche un…»

Alberto non fece in tempo a considerare la presenza del piccolo paguro che un paio di zampette gli rimbalzarono sulla gamba, «Bau!», accompagnate dall’abbaio di Nerone che reclamò le sue attenzioni scodinzolando, girandogli attorno, grattandogli l’orlo dei jeans, tornando a saltellargli sulle ginocchia, e annaspando con la lingua di fuori.

Il vocione di Giulia lo rimproverò a dovere. «Nerone!» Giulia finì di sistemare i pacchetti sotto l’Albero, strinse le mani ai fianchi, e picchiettò il piede a terra seppellendo Nerone sotto il suo sguardo di minaccia. «Cuccia, Nerone, non si disturbano gli ospiti. Non hai già avuto abbastanza coccole e carezze quando siamo rientrati?»

«Lascialo, lascialo.» Alberto si chinò a strofinargli le orecchie e la testolina. Sembrò estasiato dall’esuberanza del cagnolino appena conosciuto. «Che fastidio vuoi che mi dia?»

«Scusalo» sospirò Giulia, strofinandosi la fronte, «di solito non è così appiccicoso.»

«Non fa niente, te l’ho detto» la rassicurò Alberto. «Di sicuro sentirà l’odore dei gatti, o del pesce. O di entrambe le cose.» Alberto, accovacciato sul pavimento, aprì entrambe le mani e accolse le feste di Nerone, donandogli mille carezze grattate sulla schiena e anche sul pancino. «Dovrai proprio farci l’abitudine, mio piccolo amico pulcioso. Io sono quello dei gatti e del pesce. Ma non mi mangerai mica, vero?»

Nerone non se lo mangiò, «Bau!», ma in compenso gli salì con le zampe sulle ginocchia e prese a leccargli la faccia, il naso e le guance, facendogli diventare il viso blu e squamoso.

Alberto rise di quell’invasione. Si asciugò la faccia e ricambiò l’affetto di Nerone con un’altra carezza fra le orecchie.

Intenerita da quella scena così pura e gioiosa da cui si sarebbe davvero potuto ritrarre un bel quadretto da incorniciare e da appendere sopra l’Albero di Natale, oppure da custodire sotto i suoi rami, come una figurina del presepio, come il dono dalla carta più scintillante, anche Giulia si disfò delle rigidezze da brava padroncina di casa e si lasciò andare a un sorriso spensierato. «Nerone forse non ti mangerà» disse, «ma io e Luca abbiamo qualcosa da far mangiare a te.» Si girò verso l’ingresso della cucina da cui si era appena interrotto il tintinnio delle stoviglie e dei piatti che venivano rimestati. «Luca!» lo chiamò. «Hai preparato?»

Ci fu il seghettare di un coltello su un impasto morbido e un altro squillo di piatti. «Tutto pronto.» Il braccio di Luca sventolò chiamandoli dalla soglia della cucina. «Venite pure in cucina.»

Alberto strofinò l’ultima coccola sul pancino di Nerone e si rialzò dal pavimento, scettico ma intrigato. «Cosa state confabulando, voi due?»

Giulia allargò un sorriso smagliante. «Ora lo vedrai.» Prese Alberto sottobraccio, come preparandosi a una danza, e lo condusse in cucina.

Luca dispose due piattini sul tavolo. Su di uno era adagiata una fetta di panettone butterata di canditi, uvetta, e foderata da una crosta di zuccherini e mandorle caramellate. Sull’altro piattino, invece, un’abbondante spolverata di zucchero a velo faceva da lenzuolo a una lunga e candida fetta di pandoro.

Luca fece spazio e si rintanò in un cantuccio, saltellando da un piede all’altro e stropicciandosi le maniche per l’irrefrenabile eccitazione che gli aveva tinto le guance di rosso.

«Coraggio…» Giulia sfilò il braccio da quello di Alberto, raccolse la seggiola disposta proprio davanti ai due piattini, e lo invitò a sedersi mostrando un’espressione tanto zuccherosa e accattivante quanto lo erano i canditi e la crosta mandorlata del panettone. Batté una soffice carezza sullo schienale. «Ora mettiti comodo, concentrati, e dicci quale dei due mangeresti per primo.»

Alberto si ritrovò esterrefatto davanti a quella situazione. Arricciò la stessa smorfia che gli aveva fatto storcere il naso dopo aver letto il nome di Bruno sulla teca dell’acquario. «Ma veramente?» Poi però dovette ammettere che vedere Giulia e Luca tanto irrequieti per qualcosa di così sciocco suscitava in lui un certo formicolio di tenerezza. «Sul serio credete che anche standomene a Portorosso io non abbia mai mangiato né panettone né pandoro?» Accettò la seggiola e si mise comodo, a capotavola, come l’ospite d’onore, senza farsi pregare oltre.

«Non l’abbiamo mai messo in dubbio» rispose Giulia. «Anche perché papà sa preparare una crema allo zabaione che accompagnata con il pandoro e il panettone è talmente buona che dovrebbe essere illegale.» Giunse le dita sulle labbra e schioccò all’aria un sonoro bacio da chef.

Luca annuì. Smise di saltellare e di stropicciarsi le maniche. «Però non ci hai mai detto quale preferisci» aggiunse. «E in effetti non c’è mai stata nemmeno l’occasione di parlarne.»

Giulia sollevò il piede sul bordo di una seggiola, dando alla gonna una forma a ventaglio, e impennò un braccio al cielo come il più valoroso dei condottieri. «Ma l’epica battaglia fra pandoro e panettone è una tradizione natalizia secolare che verrà rispettata e onorata anche fra le mura di questa umile casetta. Su, su…» Gesticolò con impazienza verso Alberto. «Spalanca le fauci e fornisci il tuo verdetto, Signor Marcovaldo.»

Alberto grufolò una piccola ridacchiata divertita e stette al gioco.

Si rimboccò la manica fino al gomito, sgranchì le dita incallite dal lavoro, distese il braccio sopra il tavolo, e spalancò la mano verso i due piattini, come un incantatore che si accinge a sfoggiare il suo numero più strabiliante.

Luca e Giulia si appesero al bordo del tavolo, salirono sulle punte dei piedi, si stiracchiarono in avanti, aguzzarono lo sguardo per non farsi sfuggire neanche il minimo brivido di Alberto, e trattennero il fiato come se la loro stessa esistenza dipendesse da quella scelta.

Alberto si mordicchiò il labbro, facendosi paonazzo. Per lui fu dura contenere uno scoppio di risa.

Spostò la mano sopra la fetta di panettone.

Giulia sbarrò le palpebre e i suoi occhi si accesero come fari, come un paio di luci cadute dall’Albero di Natale.

Alberto andò sul pandoro.

Luca si mangiò le unghie e squittì come se dita invisibili gli avessero pizzicato il fondoschiena.

La mano di Alberto si spostò più rapidamente da un piattino all’altro, senza fermarsi, stuzzicando così Giulia e Luca che scattavano a ogni suo gesto. Alberto rise di gusto, pensando che avrebbe potuto andare avanti in quel modo anche per tutto il giorno, divertendosi come se la spassava quando faceva dondolare uno spago di lana davanti al muso di Principe.

Verdetto finale!

Alberto si fiondò sul piatto del panettone, acchiappò la fetta e la sbranò in soli tre morsi. La pasta freschissima si sciolse come burro, le mandorle caramellate si frantumarono come pezzi di torrone, e i canditi, anche se un po’ gommosi, erano dolci come caramelle e profumavano di limone e di scorza d’arancia.

Luca affondò le mani fra i capelli e si disperò. «Oh, nooo

Giulia invece slanciò un balzo che arrivò quasi a toccare il lampadario. «Ah-ah!» Atterrò e tambureggiò i pugni sul petto, esultando vittoriosa. «Evvai! Panettone, lo sapevo. Luca…» Allungò la mano verso di lui, la strinse e la riaprì: il gesto di uno strozzino che attende paziente di riscuotere la somma dovuta sulla soglia di casa. «Su, su, paga il pegno.»

Luca sospirò, sconsolato, poi però si ritrovò costretto a frugare nella tasca dei pantaloni. «Un patto è un patto.» E cedette a Giulia una monetina da cinquecento lire.

Alberto intanto si leccò le labbra, pigiò l’indice sul fondo del piatto, raccolse le briciole delle mandorle, qualche candito, uno zuccherino, e si succhiò le dita bluastre. «Mi stupisce solo il fatto che voi due vi siate posti la questione» commentò. «È chiaro che fra i due preferisco il panettone.» Elencò sulle punte delle dita. «Il panettone ha i canditi di frutta, e l’uvetta, e le mandorle, e gli zuccherini, e tutto quello che uno vuole buttarci dentro. Il pandoro a confronto è così blando. Ma…» Tornò a sgranchire la mano e adocchiò la fetta di pandoro innevata dalla generosa spolverata di zucchero a velo. «Se proprio insistete…» Ammiccò in direzione di Giulia e Luca, e si servì pure con la fetta di pandoro. «Di certo se mi offrite una fetta di pandoro non ve la tirerò in faccia.» Lo divorò gonfiandosi le guance come un pesce palla e impolverandosi le dita e le labbra di zucchero a velo.

Giulia intascò onestamente le sue cinquecento lire. «Almeno assicurati che ti avanzi un po’ di spazio per la cena di stasera.» Scrollò le spalle e si aggiustò il cerchietto fra i riccioli. «Anche se non credo sia il caso di preoccuparsi, quando si ha a che fare con un pozzo senza fondo come te.»

«E quando mai mi hai visto senza appetito?» Alberto finì di succhiarsi pollice e indice. «Allora…» Si alzò dalla seggiola, batté le mani, si strofinò i palmi, e un brontolio del suo stomaco già si pregustò il pasto che sarebbe seguito. «Cos’è che cuciniamo di buono?»

«Fermo là, ghiottone.» Giulia frugò dentro i cassetti della cucina, raccolse delle borse di tela, di quelle che usavano per la spesa, e sfilò una lista da sotto uno dei magneti del frigorifero. «Prima dobbiamo uscire a fare la spesa, dato che il frigo piange. Dunque…» Estrasse una matita dalla tasca dei pantaloni, la usò per pettinarsi una ciocca dietro l’orecchio, e poi scorse la lista con la punta di grafite. «Per la Vigilia vanno le trippe, però dobbiamo anche andare a ritirare lo zampone in macelleria, e ci sono pure da prendere le lenticchie, anche se per quelle possiamo aspettare, dato che sono da preparare per Capodanno. Uhm, no…» Tamburellò la matita sul labbro, guardò il soffitto e scosse la testa. «Ripensandoci, prendiamo pure quelle, va’, perché poi rischiamo di non trovarle più. Per fortuna almeno le patate per il purè sono già in casa, quindi non dobbiamo preoccuparcene.»

Alberto rise e andò a riprendere il cappotto. «Neanche dovessimo sfamare una balena.»

«Considerate le dimensioni del tuo stomaco…» Giulia gli rivolse la matita contro. «Non è un’ipotesi da escludere. E non mi distrarre, per cortesia. Dunque, abbiamo detto che poi c’è anche da prendere latte, burro, Parmigiano, noce moscata…»

«E non ti dimenticare le trenette!» Alberto e Luca si aiutarono a vicenda con sciarpe e cappotti e si rinfilarono le scarpe. Tornati a casa dalla stazione, i tre ragazzi si erano concessi un caffè veloce che avevano sorseggiato con dei dolcetti di pasta di mandorle tanto per rifocillare Alberto dopo il viaggio, così ora si sentivano di nuovo carichi e pronti a ripartire per le spese serali. «Lo zampone per secondo, d’accordo» disse Alberto, «ma come primo piatto dobbiamo assolutamente preparare le trenette al pesto.»

Luca si annodò la sciarpa attorno al collo. «Ma a Natale non andrebbero i tortellini?»

«No, Luca» lo corresse Giulia, «ti confondi con Capodanno.»

«Trenette al pesto aggiudicate, allora» esclamò Alberto. «Come ho detto io!»

«Sì, ma pesto fatto come?» Giulia ripiegò la lista della spesa dentro il portafogli e mise le borse di tela sottobraccio. «Al basilico, come al solito?»

Alberto storse un sopracciglio. «E con che cosa, sennò?»

«Non ti sei stufato di mangiare sempre quello?» Giulia precedette i due ragazzi per raggiungere la soglia di casa. «Potremmo farlo con le noci, tanto per cambiare.»

Luca sgranò gli occhioni luccicanti di golosità e trasse un ansito di meraviglia. «Esiste il pesto di noci?»

«E pure quello con i pistacchi» confermò Giulia, «se proprio vogliamo essere puntigliosi.»

La faccia di Alberto assunse l’espressione di qualcuno a cui sono appena stati spalancati i gloriosi e celestiali cancelli del Paradiso dietro i quali zampillavano ruscelli di cioccolata e fiorivano margherite di zucchero. «Li devo assaggiare tutti

«E come dolce, invece?» Luca indicò verso la cucina. «Panettone e pandoro li abbiamo già. Ci sarebbe da comprare il torrone, oppure la frutta secca?»

«Che genere di frutta secca?» gli domandò Alberto.

«Di solito datteri…» Luca elencò sulle punte delle dita. «Noci, fichi…»

«Torrone, torrone.» Alberto alzò la mano e la sventolò prima che si potesse sollevare qualsiasi dubbio a riguardo. «Torrone senza ombra di dubbio.»

«Conosco io la pasticceria giusta dove troveremo tutto quanto» disse Giulia. «Speriamo solo sia ancora aperta, ma non è il caso di dubitarne, dato che oggi è l’ultimo sabato prima di Natale, e chiudere i negozi sarebbe un suicidio economico.»

«Io vi porto dove volete a fare spese.» Alberto batté una soffice pacca sulla testolina di Giulia. «Basta solo che tu e Luca non vi allontaniate troppo. Ricordate che siete sotto la mia stretta responsabilità.»

Giulia storse un mezzo ghigno e si sottrasse alla sua mano. «Ma senti, senti il Signor Maggiorenne.» Questa volta fu lei a rifilargli una pacca sulla nuca. «Vedo che hai ancora abbassato la cresta e le pinne, eh, Signor Maggiorenne?»

«Quando avrai anche tu diciotto anni allora potrai fare tutto quello che vorrai, Signorina Minorenne» la rimbeccò Alberto. «E soprattutto gusterai da te la gloriosa e ineguagliabile sensazione di vivere da maggiorenni.»

«Luca, le chiavi.» Valicata la soglia di casa, Giulia si girò, prese Alberto a braccetto e fece cenno a Luca, rimasto indietro rispetto a loro due, di sfilare le chiavi dalla toppa. «Tira giù le chiavi e assicurati di fare doppio giro.»

Luca annuì e finì di abbottonarsi il cappotto. «Agli ordini.» Fu lui dunque a uscire di casa per ultimo. Sventolò un ultimo saluto a Nerone e all’acquario di Bruno, chiuse la porta, fece doppio giro, tirò giù le chiavi, e voltò lo sguardo verso Giulia e Alberto che stavano già scendendo lungo le scale del condominio.

Nella solitudine del pianerottolo, Luca fu punto da un sospetto. Gli parve per un attimo, solo per un attimo, di aver scorto una sottilissima scintilla di intima intesa nello sguardo che Alberto e Giulia si erano scambiati dandogli le spalle. Quasi come se avessero aspettato altro che trovarsi distanti dall’attenzione e dalla presenza di Luca per approcciarsi l’un l’altro e scambiarsi quell’occhiata così complice e così misteriosa.

Ma doveva essere stata solo una sua impressione.

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Capitolo 34
*** 34 ***


34

 

 

Alberto arrestò una falcata in mezzo alla strada, facendo strusciare le suole sulle mattonelle del marciapiede e strizzando i manici delle buste che reggeva fra le dita. Luca e Giulia, dopo quella frenata improvvisa, gli urtarono le spalle, «… e persino io e Luca credevamo sarebbe stato un disastro, poi invece – ehi!», senza però riuscire a smuoverlo, mentre la massa di persone che gremiva le vie del centrò continuò a fluire loro attorno, inarrestabile davanti alle luci delle vetrine, sfilando fuori e dentro le porte dei negozi. La folla era un fiume in piena che proseguiva la sua inarrestabile cavalcata verso valle, e i tre ragazzi erano semplici sassolini rimasti incastrati nella sabbia del suo letto limaccioso.

«Ehi, Alberto.» Giulia gli diede uno strattone alla manica della giacca. «Ci sei? Si può sapere che t’è preso?»

Alberto non si accorse nemmeno di lei e del suo richiamo. Il suo sguardo scavalcò la carreggiata, le luci proiettate dai lampioni e dai negozi, scivolò sopra il luccichio dell’asfalto incrostato di nevischio su cui, negli spazi liberi, si riflettevano i colori delle decorazioni appese ai tettucci dei chioschi di legno. Si soffermò su un’unica vetrina illuminata di bianco che, anche se chiusa, spiccava fra la bottega del calzolaio e quella del ferramenta.

Alberto allargò quel suo magico sorrisone da bambino innamorato, sentendo il cuore gonfiarsi e schizzare fino all’orbita della Luna. Sgranò le palpebre. I suoi occhi si accesero proprio come i filari di luminarie intrecciati sui balconi e sulle facciate dei palazzi. Le guance s’infiammarono come se si fosse tracannato un’intera caraffa del vin brulè che i venditori ambulanti stavano distribuendo assieme alle tazze di cioccolata calda e ai cesti di caldarroste. «Che Bruno mi fulmini!»

Alberto mollò le borse fra le mani di Giulia e Luca, slanciò due sgambate di corsa, attraversò la strada facendo scricchiolare l’asfalto maculato dal poco nevischio che era sopravvissuto all’umidità della notte, pestò l’involucro di una frittella, schivò le coppiette che si erano fermate a sbirciare le bancarelle che vendevano l’argenteria artigianale, e saltò sul marciapiede opposto. Appiccicò mani e naso alla vetrina e si impennò sulle punte dei piedi. La sua faccia si squagliò in un’ebete espressione di pura estasi. «Meraviglia delle meraviglie, gioia dei miei occhi, anima mia e anima bella!»

Sulla scalinata che dava accesso a una scuola di musica, proprio affianco alla bottega del calzolaio, stava cantando un coro di voci bianche. In quel preciso istante, dalle loro gole si innalzò un corale e angelico «Oooh!» che spalancò sulla strada un raggio di luce bianca e divina, circondando pure Alberto.

Attorno a lui germogliarono dolci e paffute nuvolette di zucchero filato; colombe spiccarono il volo; angioletti dai riccioli d’oro strimpellarono le loro arpe e soffiarono i loro flauti; fiumi di latte e miele sgorgarono a cascatelle zampillanti; e sciami di farfalle dai mille colori migrarono verso il cielo attraversato da un enorme arcobaleno multicolore. Nemmeno una ballata di De André batteva una sensazione tanto inebriante!

Alberto era in Paradiso, doveva esserci finito di sicuro. E l’angolo di Paradiso era proprio quello che stava ammirando al di là della vetrina del negozio di motociclette su cui aveva appiccicato naso e mani.

Vespe. Vespe ovunque, le più scintillanti e nuove di fabbrica che avesse mai visto. Un tale splendore da poter far invidia a una scuderia popolata dai più lussureggianti stalloni d’Oriente. Vespe verdi, rosse, blu, gialle, bianche, argento… talmente tante da riempire la vista e da riempire pure un’intera parete della bottega, quella più spaziosa.

E poi ancora, allestita sulla parete opposta, una grata di trespoli su cui erano appese giacche da motociclista in pelle, in jeans, e in tessuto scamosciato. Scaffali alti fino al soffitto ricolmi di scatoloni di stinchiere, stivaloni di cuoio, guanti, caschi di ogni colore e forma, mazzi di adesivi da applicare sulla carrozzeria e sui paraurti. E poi ancora taniche su taniche di olio per motori, di lubrificanti antigelo, catene di ricambio, qualche piccola ruota di scorta per i tandem, imbottiture per manubri e sellini, e pure qualche altro modello di moto. Moto non fighe quanto la Vespa, ma comunque di una bellezza dignitosa e rispettabile. Qualche modello di Ciao e pure qualche Porter.

Ad abbellire il negozio, fotografie in bianco e nero di motociclisti barbuti che trincavano boccali di birra in sella ai loro destrieri di ferro. Una panoramica del Gran Canyon; una collezione di placche della Route 66; un memorial della Ventimiglia con due piloti che esultavano dalla loro decapottabile davanti al panorama di una scogliera; e infine, in un angolo, sotto una teca era custodito il pezzo di un motore radiale a nove cilindri che una volta Alberto aveva visto sezionato sulle pagine di una rivista.

Nonostante la porta fosse chiusa – il cartello “Torno subito” appeso alla maniglia –, anche in quel negozio era possibile respirare l’aria natalizia, oltre i profumi di pelle nuova, di giacche di cuoio, delle suole di gomma degli scarponi, della moquette dei tappetini, della plastica dei caschi, e del lubrificante per le catene.

Tutti i modelli di Vespa erano circondati da filari di luci rosse e verdi che attorniavano anche il bancone della cassa. Palline di plastica in stile finto-cristallo dondolavano dai manubri degli scooter. Fiocchi di neve di carta biancheggiavano sugli scaffali su cui erano esposti i caschi e le taniche d’olio. Un’enorme ghirlanda di agrifoglio con su scritto “Buon Natale” pendeva dai bulbi del lampadario. Un pupazzo di Babbo Natale munito di occhiali da sole sedeva a cavallo di una Vespa rossa, quella che troneggiava in cima al branco, quella più vicina al piccolo abete addobbato da pacchetti regalo grandi quanto noci.

Alberto sprimacciò le mani sul vetro, soffiò qualche alone di fiato dal naso così appiccicato, saltellò da una gamba all’altra come se avesse avuto i piedi infilati in un tappeto di braci incandescenti, e quella sua aura elettrizzata fece voltare qualche passante. Lo guardarono tutti con espressioni stranite e affascinate, le stesse che si mostrano davanti a un animale esotico fuggito dalle gabbie dello zoo.

«Ditemi che non sono morto» ansimò Alberto, il cuore a mille e i lucciconi in fondo agli occhi. «Ditemi che non lo sono, perché devo esserlo per forza. Sono morto, sono stato sparato in Paradiso, e adesso mi basterebbe solo spingere la porta e valicare i suoi cancelli per godermi il resto dell’eternità nella più totale e perfetta beatitudine.»

Giulia e Luca si destreggiarono con le borse che Alberto aveva abbandonato fra le loro braccia. Luca chinò il capo in avanti per scusarsi con coloro a cui la sua corsa aveva tagliato la strada. Giulia gli raccolse una manica della giacca, lo condusse giù dal marciapiede, ed entrambi attraversarono la strada per raggiungere Alberto.

Loro non corsero, la folla glielo impediva. A quell’ora di sera – l’ultimo sabato prima di Natale, per di più – la gente si stava affannando per gli ultimi acquisti. I loro capelli e i loro cappotti illuminati dalle decorazioni ai neon bianchi, verdi e blu, e le loro facce arrossate dagli affanni di quell’ultima fatica festiva.

Giulia schivò la foresta di piccoli abeti che avevano invasato affianco ai chioschi di artigianato, quelli che profumavano di bucce di mela, di legno resinoso, di muschio e di erbe di montagna. Luca si aggrappò alla mano di Giulia per non perdersi. Passò affianco alla capannina dove vendevano i presepi intagliati a mano, urtò per sbaglio la statua di un San Giuseppe a grandezza naturale, e dovette tenerla ferma per evitare che gli cascasse addosso.

Quando raggiunsero l’altro lato della carreggiata, trovarono Alberto ancora incollato alla vetrina delle moto.

Luca rimboccò sotto il braccio la borsa della spesa con il latte e il Parmigiano, si separò da Giulia e si accostò ad Alberto, affacciandosi pure lui alla vetrina del negozio. «Hai trovato qualcosa che ti piace, Alberto?»

Un fruscio scricchiolante alle sue spalle. «Ma guarda tu se doveva proprio mollarci addosso tutte le borse.» Giulia fece passare da una mano all’altra i pacchetti con la pasta e con gli ingredienti per il pesto. «Come se non pesassero già abbastanza quelle che…» Dopo un singolo battito di palpebre, il suo sguardo imbronciato cadde su Luca e Alberto, sulla vetrina alla quale erano appiccicati. «Una bottega di moto?» Si accorse di come i piedi di Alberto saltellassero sul posto, di come un alone di fiato si fosse formato attorno alla punta del suo naso, di come tutto il suo corpo vibrasse di eccitazione quasi gli avessero sparato un ramo di corrente elettrica su per la schiena, e di quanto brillassero i suoi occhi, come la prima volta in cui lo aveva visto abbuffarsi di trenette al pesto. Giulia si coprì la bocca e, intenerita, soffiò una risata incontenibile. «Non posso credere che ti elettrizzi come un bambino per così poco, Alberto. Come se anche a casa non fossi costantemente circondato da automobili, da motociclette o da motori.»

«Ma guarda quante Vespa, Giulia!» Alberto si staccò dalla vetrina e spalancò le braccia verso il negozio. Gesticolò come a voler racchiuderle tutte in un unico abbraccio. «Guarda quante ce ne sono! E tutte nuove di zecca, per di più, così lucide e scintillanti! Neanche al garage di Eros ho mai assistito a un tale splendore tutto in una volta. E non c’è nulla del genere nemmeno quando andiamo a fare le commissioni giù a Rapallo o a Camogli.» Tornò ad abbandonarsi a un sospiro d’estasi. «Aaah, cara Genova…» E incollò di nuovo mani e faccia al vetro. I suoi occhi si colmarono di tutta quella meraviglia ultraterrena. Il cuore palpitò e gli scaldò il petto come succede a un ragazzino che scopre il battito del primo amore. «Sono qui da nemmeno un giorno e sono già perdutamente innamorato di te.»

Luca scosse il capo. «Innamorato delle Vespa, vorrai dire» rise. «Come al solito.»

Alberto sollevò un sopracciglio e ammiccò verso di lui, con quella sua furba espressione da faina. «Sei forse geloso, Luca?»

Luca trasalì, paonazzo, «Cos…», e andò a sbattere contro Giulia che seppe sorreggerlo.

«Se almeno ti decidessi a comprarla per davvero, questa benedetta Vespa…» Giulia raccolse la mano di Luca e spostò entrambi nella zona più interna del marciapiede, per lasciar passare la gente che camminava dietro di loro e che entrava e usciva dalle porte scampanellanti dei negozi. «Invece che scodinzolarci dietro come un cagnolino ogni volta che ne vedi passare una.»

«Guarda che io me la prendo sul serio una Vespa, prima o poi, eh» controbatté Alberto. «Rossa.» Spalancò le mani come a distendere la sua immagine davanti agli occhi. «Color rosso fuoco, con le fiammate e le saette sul tubo di scappamento. E con gli alettoni per potenziare il doppio motore turbo che installerò io personalmente. Poi vi caricherò su tutti e due e vi porterò in giro per il mondo. Tutti e tre sulla stessa Vespa.» Sventolò via quel problema che, a detta sua, era del tutto irrilevante. «In barba alle regole e al codice della strada.»

Giulia si prese la fronte, libera dai capelli tirati indietro dal cerchietto, e scosse la testa, solleticata dal formicolio di un’altra risata. «Sempre meglio con la Vespa sputa-fiamme che con la tua Ape e i suoi pesciolini sputa-bollicine.»

«Ehi!» Alberto le scagliò l’indice addosso. Lo sguardo truce e omicida. «La mia Ape è meravigliosa, okay?» Si strinse un pugno al fianco, s’impettì per apparire più grosso, e si chinò a stuzzicare la guancia di Giulia con la punta dell’indice. Un gran sorriso da marpione a biancheggiargli in bocca. «E poi non mi sembra che tu e Luca vi siate lamentati poi così tanto, la scorsa estate, quando ho passato ogni santo pomeriggio a scarrozzarvi su e giù per tutta Portorosso.»

Luca, sbiadito il rossore dalle guance, si spazzolò un lembo della giacca e annuì, senza riuscire a dargli torto. Ricordò con nostalgia i pomeriggi trascorsi sul retro dell’Ape, con i capelli al vento, il sole a baciargli la pelle, un cono gelato a sciogliersi fra le dita, e le loro risate a disperdersi fra i tornanti del Monte Portorosso. «Effettivamente, il tuo stile di guida è migliorato. O, almeno…» Fece spallucce. «Si è fatto decisamente più coscienzioso rispetto a un tempo.» E furono quelle ultime parole, quel “rispetto a un tempo”, ad attraversare le labbra di Luca lasciandovi sopra un sapore dolce-amaro, suscitando in lui un moto di tristezza e malinconia.

Rispetto a un tempo…

Luca ci pensò con dispiacere. Quel discorso gli fece rendere conto di come una parte di Alberto – la prima a cui Luca si era legato, quella che aveva inseguito e che poi lo aveva condotto fuori dal mare – era forse scomparsa per sempre, sbriciolata assieme al suo molle carapace da bambino, abbandonata come una muta.

«Però, Alberto…» Giulia si mise a braccia conserte, le borse a penzolare dalle pieghe dei gomiti, e si massaggiò la punta del mento. Una palpebra socchiusa e una scintilla di scetticismo a brillare fra le ciglia. «Io stento a credere che con tutto quello che guadagni e con tutto quello che risparmi tu non ti possa ancora permettere una Vespa tutta tua. E non necessariamente nuova di zecca come queste qui, ma nemmeno un catorcio come quella di quell’estate là. Una via di mezzo, ecco.»

Il sorriso di Alberto fremette di furbizia. «Magari posso davvero permettermela.» Fu come se, dietro i suoi scaltri e verdissimi occhi da volpe, si celasse la forza di un segreto inestimabile e inconfessabile. «Magari posso permettermela ma decido lo stesso di non comprarmela perché sto risparmiando per qualcosa di ancora più colossale di una Vespa.» Fece scivolare le mani dalla vetrina del negozio, le giunse dietro la schiena, marciò come un galletto da parata. «Magari qualcosa per non lasciare appiedati voi poveri minorenni senza patente.»

Luca lo rincorse, inseguendo quel brivido di curiosità sorso in fondo al petto. «E sarebbe?»

«Ooh» esclamò Giulia. «Ci sono!» Picchiò una gomitata sulla spalla di Alberto. «Una Lambretta!»

Alberto la trucidò con un’occhiata sbieca. «Sciacquati la bocca, razza di blasfema!»

Giulia se la rise. «Sta’ tranquillo, Alberto, sta’ tranquillo.» Smise di sgomitarlo e prese a tempestarlo di pacche sulla spalla. «Te la regaleremo noi una belliiissima Lambretta. Tutta bianca, magari un po’ arrugginita, con il sellino spellato…»

«E allora io, quando si tratterà di partire per un’avventura, ti lascerò a piedi.» Alberto si schiacciò l’indice sul naso e le fece la linguaccia. «Così impari, ecco.»

«Uhmm.» Giulia socchiuse le palpebre e chiocciò una risatina intrigata. «E dov’è che ci porterai, quando si tratterà di partire per un’avventura?»

Alberto distese il braccio sopra la testa, puntò l’indice oltre le luminarie a forma di fiocchi di neve e di palline natalizie. «Fino in capo al mondo.» Il cielo era troppo nuvoloso perché si potessero scorgere le stelle della sera. «E poi anche fin sulla Luna. E anche oltre.»

Giulia si rimboccò la sciarpa. Spostò la borsa della spesa da una mano all’altra perché cominciava a pesarle. «E poi?»

Alberto accettò di sorreggere la borsa al posto suo. «E poi torniamo indietro.»

Giulia accelerò la camminata, attraversò i vapori provenienti dai forni delle caldarroste, saltellò sul nevischio scricchiolante. «E poi ancora?»

«E poi facciamo benzina e torniamo a ripartire.» Colorato dalle luci attorcigliate attorno agli abeti, lo sguardo di Alberto scivolò verso il basso e andò in cerca di quello di Luca. Fu uno sguardo mite, più adulto e consapevole rispetto a un tempo, che ritrovò quello stesso Luca un po’ incantato e un po’ smarrito che aveva scoperto a sguazzare attorno agli oggetti degli umani tanti anni prima, quando si erano incontrati in fondo al mare. Riscoprì quella stessa espressione spaesata e intimidita dall’ignoto che certe volte Luca era ancora capace di mostrare quando salivano sulla loro torre per rimirare il panorama dalla cima dell’isola. «Ti piacerebbe, Luca?»

Luca compì un piccolo sobbalzo con le spalle, come risvegliato. «Eh?» Precipitò dalla torre e venne raccolto da una risacca delle onde che lo ricondusse in mezzo a Giulia e Alberto. «Co…» Accelerò di un saltello, per non restare indietro, e calciò inavvertitamente un cartoncino a forma di stella cometa caduta da uno degli abeti. «Cosa?»

Lo sguardo di Alberto viaggiò fra le vetrine colorate. Tante meraviglie che di certo non trovavano spazio nelle modeste botteghe di Portorosso. Negozi di abiti alla moda; sartorie con le pareti tappezzate di tutti i colori dell’arcobaleno; negozi di biciclette moderne e scintillanti; negozi di lampadari di cristallo; negozi di mobili antichi di cui si sentiva il profumo di resina e di cera fin da fuori; e poi ancora gelaterie tenute aperte nonostante la stagione; e infine tanti bar da cui si diffondevano i profumi di caffè tostato, schiuma di latte, cacao, e paste fresche. Fu proprio con lo sguardo rapito da tutto quel ben di Dio che Alberto soffiò un mormorio lasciandosi dietro una malinconica scia di fiato bianco. «Ti piacerebbe se ci prendessimo una Vespa, se ci montassimo sopra, e se ce ne andassimo in giro per il mondo senza meta, senza preoccupazioni, pensando solo a esplorare, a divertirci, e a dormire sotto le stelle? Il viaggio in Vespa dei nostri sogni, come ai vecchi tempi.» Si rivolse a Luca più con la premura di un fratello maggiore che con la spavalderia di un migliore amico. Nonostante la gioia selvaggia con cui si erano ritrovati e abbracciati alla stazione, nonostante gli attimi di spensieratezza che avevano condiviso in casa, Alberto aveva fiutato fin troppo bene quella nebbia scura che circondava Luca, quell’aura respingente che lo separava da lui come un rigido vento autunnale che spazza via tutti i profumi dell’estate. Non avrebbe mai permesso al vento di portargli via Luca. «Non sarebbe fantastico?»

Gli occhi di Luca brillarono, sfumarono in una tinta ambrata sotto tutte quelle luci, e poi le sue labbra si schiusero, risposero senza nemmeno pensarci. «Sì.» Perché era quella la risposta più ovvia, la più naturale, la più ragionevole. C’era stato un tempo in cui l’aveva giudicata assurda, eppure ora gli suonava come la più scontata.

Luca si appoggiò con il braccio a quello di Alberto, divisi solo dal tessuto dei cappotti. Le mani, entrambe aggrappate ai manici delle borse, si sfiorarono, ma bastò quel contatto, quello strofinio delle nocche infreddolite, per procurargli un po’ di sollievo. Straziato dalla bellezza di quel sogno ormai irraggiungibile – lui e Alberto a cavallo della Vespa, padroni del mondo, della strada e della loro vita –, Luca rabbrividì, fragile e vulnerabile come un piccolo pesciolino disperso alla deriva. Sentì il bisogno di un appiglio, di un pezzo di scoglio a cui aggrapparsi per non precipitare nell’abisso. «Sì, fantastico.»

Davanti a loro si aprì scampanellando la porta di una bottega che vendeva ninnoli e soprammobili di porcellana. La signora appena uscita sventolò un saluto alle sue spalle, «Grazie, ci vediamo alla prossima», e i tre ragazzi la schivarono per poi proseguire sul marciapiede su cui aleggiavano i profumi speziati della bancarella che vendeva strudel di mele fatto in casa.

Alberto, incoraggiato da uno sguardo di Giulia, insistette. Strofinò le nocche fra quelle di Luca, gli impedì di allontanarsi. «E dove ti piacerebbe che ti portassi?»

Luca scosse la testa. «Dovunque.» Districò le dita dal manico della borsa, si appese con le punte delle falangi alla manica di Alberto, e compì un passo ancor più vicino a lui, poggiando la tempia sulla sua spalla. Esalò un sospiro affaticato, soffocandosi con quel groppo di pianto a cui sarebbe bastato poco per traboccare dai suoi grandi e tristi occhioni gonfi di dolore e nostalgia. «Dovunque vuoi tu.»

Dove vuoi tu, Alberto, dovunque. A me basta sapere che tu sarai vicino a me e allora saprò di essere nel luogo più sicuro e felice del mondo. Però non illudermi…

Strinse gli occhi, sfogando tutto quel dolore nella stretta con cui si teneva aggrappato al braccio di Alberto.

Non illudermi con un sogno che ormai è irraggiungibile persino per te che una volta sei stato capace di condurmi persino sulla Luna. Concedimi questo sogno, Alberto. Concedimelo e non svegliarmi mai più.

La loro passeggiata lungo il marciapiede superò la gradinata che dava accesso alla scuola di musica, quella occupata dal gruppo di coristi le cui scie di voci si disperdevano per ogni via nonostante il chiacchiericcio dei passanti.

I coristi erano vestiti con gonne, pantaloni e maglioni bianchi, color panna. Proprio gli stessi angioletti che abitavano le nuvolette sognanti che ogni tanto si propagavano fra i pensieri di Luca. Le sciarpe rosse, spille di agrifoglio o di vischio puntate sui taschini, le labbra socchiuse in piccole O, gli occhi concentrati sulle pagine degli spartiti aperti fra le mani. Stavano intonando Astro del Ciel, e le loro voci risuonarono attraverso l’animo ferito di Luca, coprirono il silenzio dei tre ragazzi interrotto solo dallo scricchiolio dei passi sul marciapiede e dallo sventolio degli ultimi fiocchi di neve abbastanza secchi e asciutti da potergli galleggiare attorno, impigliandosi ai loro abiti e pizzicando le guance e i nasi.

Lungo la via, la gente si spostava sotto i giochi di luce colorata e cristallina che roteavano attorno alle sfere di Natale, o che diramavano dalle stelle comete, o che tintinnavano sui sonagli appesi alle ghirlande di agrifoglio. Si lasciavano attirare dai profumi dolci e caramellati delle bancarelle di dolciumi, dallo scoppiettare delle frittelle che friggevano, e dallo scuotersi dei cioccolatini incartati nei sacchetti assieme alla frutta secca e al torrone.

Luca si asciugò gli occhi, tirò su col naso, ficcò le mani nelle tasche del cappotto, facendo ballonzolare le borse dai polsi, e tenne lo sguardo basso. L’espressione mogia e per nulla rallegrata dalla luce di quei canti o dal riverbero colorato di tutti i filari di neon che li sovrastavano. Nessuna immagine di quel panorama seppe ravvivare la luce dei suoi occhi dove sarebbero dovuti dimorare solo gioia e incanto.

Alberto e Giulia non tardarono ad accorgersene. Sollevati gli sguardi da Luca, li incrociarono fra loro e capirono al volo quello a cui stavano pensando, anche solo battendo le ciglia.

Fu lo stesso sguardo di complicità che si erano scambiati fuori casa, appena usciti dall’appartamento, poco prima di imboccare le scale, quando avevano lasciato indietro Luca appioppandogli la scusa di recuperare le chiavi dalla toppa. Si ritrovarono di nuovo risucchiati in quella scia di apprensione e tensione che faceva loro fremere le labbra e stringere i pugni, e che ancora non potevano né esprimere né sfogare. Non con Luca lì davanti.

Giulia calcò qualche boccolo sotto il cerchietto di feltro verde, in tinta con il cappotto. Tossicchiò due volte per richiamare l’attenzione di Alberto, fece su e giù con le sopracciglia, alzò il mento, indicò Luca spalancando le palpebre, e stirò la mascella come ingoiando un piccolo digrigno. Dai, Alberto, digli qualcosa, tiralo su di morale. Si morsicò il labbro e diede altri colpetti con il mento. È per questo che ti ho fatto venire fino a qui. Non vedi anche tu in che condizioni è, poveretto? Aiutami a risolvere tutta questa dannatissima situazione.

Alberto adocchiò Luca che, così appiccicato alla sua spalla, non si stava accorgendo di quello strampalato scambio di sguardi e di smorfie. E Alberto, dopo aver intercettato il pensiero di Giulia, dopo aver ricambiato quell’espressione mezza impotente e mezza disperata, scosse la testa. E cosa dovrei fare? Cosa vuoi che gli dica? Diede una piccola scrollata al braccio a cui Luca era appoggiato, senza però scansarlo. Lo vedi anche tu che sono qui con lui, no? Più di così? Io mica ho la bacchetta magica per fargli splendere il sorriso sulla bocca, no?

Giulia alzò gli occhi al cielo, si spalmò una manata sulla faccia, ed esalò un sospiro esasperato. Ho capito. Tocca sempre fare tutto a me.

«Luca, ascolta…» Giulia frugò in una delle borse della spesa che teneva sottobraccio. «Ho un compito super-importante fatto apposta per te.» Cambiò borsa e scavò più a fondo, come un coniglietto che gratta la terra. «Ci sarebbe lo zampone da andare a ritirare in macelleria, ma la mamma per fortuna lo aveva già prenotato il mese scorso per assicurarsi una delle primizie del Signor Ruggeri. Ci sarebbe da fare la fila, però, quindi… ah!» Sfilò una ricevuta di pagamento e gliela sventolò sotto il naso. «Ecco qui lo scontrino. Va’ a metterti in coda fuori dalla macelleria e poi fatti consegnare lo zampone. È già tutto pagato, ed è a nome della mamma, quindi devi solo dare la ricevuta al Signor Ruggeri e lui sa già tutto quello che ci serve.» Spinse lo scontrino fra le mani di Luca e impennò il pollice per incoraggiarlo. «Facilissimo, no?»

«Oh.» Luca rigirò la ricevuta avanti e indietro, si accigliò. «Ma io…»

«Vai, vai, su.» E intanto Giulia lo stava già spingendo a suon di colpetti fra le scapole. «Così io e Alberto ne approfittiamo per qualche altra commissione qui nei dintorni.»

Luca tentò una frenata con i talloni che strusciarono sul nevischio sporco. Si girò a pigolare una mezza protesta. «Perché devo essere proprio io quello ad andare da solo in macelleria?»

Alberto si alzò sulle punte dei piedi fino a che il ciuffo di capelli non sfiorò una delle luminarie più alte che Luca non sarebbe riuscito a toccare nemmeno stendendo un braccio oltre la testa. «Perché magari riesci a intrufolarti fra le persone in fila e a saltare qualche posto…» Assottigliò un ghigno malefico che, all’ombra delle labbra attraverso cui sembrarono essere sbucati due finissimi baffetti, ebbe un che di familiare. «Piccoletto

Il broncio di Luca si ammosciò in un brontolio talmente basso da non creare nemmeno condensa. «Non è divertente.»

«Ma è sicuramente conveniente.» E Giulia lo incoraggiò con un’ultima spintarella sulla schiena, indirizzandolo verso la coda di persone ferme sotto le luci della macelleria che aveva tenuto le porte aperte. «Su, su, ché io e Alberto ti aspettiamo qua fuori. Non ti perdere.»

Alberto si asciugò una finta lacrimuccia e sventolò la manica del cappotto a mo’ di fazzoletto, piagnucolando un addio melodrammatico. «Buon viaggio, marinaio.»

Luca fece roteare lo sguardo. Si rimboccò la sciarpa, fece scivolare il manico della borsa nella piega del gomito, spremette la ricevuta dentro il pugno che poi accostò al petto, come un piccolo tesoro, e zampettò diligentemente in fondo alla fila di persone, dietro una vecchietta che stava discutendo con il marito che nel frattempo le elencava quel che era avanzato dalla lista della spesa.

Il coro allineato sulla gradinata della scuola di musica intanto era passato alla canzone successiva. I coristi avevano sfogliato gli sparititi e ora stavano intonando le prime note di Tu scendi dalle stelle.

Giulia si strofinò le braccia, rabbrividì, poi sollevò un lembo della gonna per grattarsi le calze che le davano prurito.

Alberto, assicuratosi che Luca fosse al sicuro fra le persone raggruppate davanti alla macelleria, continuò a guardarsi attorno, lasciandosi ancora una volta stregare dai colori delle luminarie, dal movimento di tutta quella gente che gli fluiva attorno come turbini di foglie raccolti e deposti dal vento. Sorrise tendendo l’orecchio verso le voci angeliche del coro, dilatò le narici fiutando i profumi delle pasticcerie, alzò la punta del naso e compì qualche piroetta per raggiungere con lo sguardo le cime degli edifici che, di così alti, non ne aveva mai visti nemmeno a Portorosso, o a Camogli, o a Rapallo.

Giulia scrutò quel suo acuto sguardo da segugio. Notò come alla fine, al di là delle bancarelle di dolci e oltre le girandole delle luminarie, si soffermava sempre alle sue spalle, sulla vetrina delle bottega di moto dietro cui erano allineate le Vespa, gli scaffali con i caschi, i giacconi, gli stivali, gli accessori per la carrozzeria, e tutto quello di cui necessitava un vero centauro. Rise, intenerita da quei suoi sognanti occhioni da bambino che il tempo non sarebbe mai riuscito a invecchiare. «Hai l’aria di uno che non aspetta altro che tornare indietro e svaligiare quel negozio di moto.»

Alberto scodinzolò come un volpacchiotto che stana la gallinella più grassa del pollaio. «Cosa non darei per portarmene a casa anche una soltanto. Ma onestamente, non saprei da dove cominciare…» Di nuovo salì sulle punte dei piedi e piroettò più volte su se stesso, facendo scricchiolare il nevischio. «E non fraintendere, Luca mi racconta sempre tutto di questa città, di tutto quello che fate e di tutto quello che c’è da vedere.» Atterrò sui talloni e scosse il capo. «Ma non avrei mai creduto che Genova fosse così diversa da Portorosso.»

«Decisamente più affollata, questo è sicuro.»

«Già, è questo il bello.»

Un venditore ambulante con il grembiule macchiato di caramello fuso si approcciò e offrì a entrambi un incarto di mandorle candite che fumavano come appena scrostate dal paiolo. «Gradite un assaggio? È in omaggio.»

Alberto accettò ben volentieri, ne offrì anche a Giulia, ed entrambi si rifecero la bocca con quelle mandorle così dolci e pastose da squagliarsi in bocca come cioccolatini.

Addolcita da quel boccone, la vista di Alberto si rischiarì, limpida come il cielo più terso, come la stella più luminosa. «Se avessi saputo che Genova mi sarebbe piaciuta così tanto, sarei venuto a trovarvi sicuramente ben prima di adesso.»

Giulia fece saltare in bocca due mandorle, le sgranocchiò con gusto, e si succhiò le dita. «Ma anche tu hai detto che questa non sarà di certo la prima e unica volta che visiterai Genova.»

«No, no, infatti.» Alberto cedette a Giulia quel che avanzava nell’incarto. «Però credo che continuerò a vedere Genova solo come una città “da vacanza”, e non come qualcos’altro. E non fraintendermi, è sul serio fantastica, ma ormai credo che per me sarebbe difficile vedere come la mia casa una città che non sia Portorosso.» Scosse le spalle. «A prescindere.»

Giulia sorrise. Trangugiò l’ultima mandorla e gettò l’incarto appallottolato nel cestino. «Cominci davvero a parlare come papà.»

«Vivere con lui mi starà insegnando qualcosa, o no?»

Ed entrambi asserirono in silenzio.

Spirò un filo di vento, il nevischio pizzicò le loro guance, e le tende dei negozi dondolarono, accentuando le ombre e oscurando i neon delle luminarie.

Fra di loro si propagò un silenzio più freddo e difficile da respirare, nonostante i bollenti profumi degli impasti caramellati e nonostante le dolcissime note del coro di voci bianche. Senza Luca, Giulia e Alberto si ritrovarono soli per davvero, sormontati da una nuvoletta di pensieri che cominciò a incupirsi, a sciogliere loro addosso una pioggerellina di brividi di paura. Entrambi provarono il bisogno di aggrapparsi alla presenza reciproca, a ricordi confortevoli e familiari che avrebbero saputo dare loro il coraggio che occorreva per intraprendere quel discorso lasciato germogliare nei loro cuori dal momento in cui si erano rincontrati. Era ormai tempo che sbocciasse.

Lo sguardo di Giulia venne attirato dalla bancarella dei presepi intagliati a mano, dalle capanne di legno e di muschio, dai buoi e dagli asinelli che donavano conforto a quel piccolo fagottino che riposava nella mangiatoia di paglia. Quella visione così semplice e innocente la guidò sulla strada giusta. «Papà come sta a casa?»

Alberto infilò le mani nelle tasche del cappotto, vi frugò dentro come se stesse scuotendo un qualche contenuto, facendo agitare le buste dei regali che gli dondolavano dai polsi, poi però tornò a girovagare per le sue, senza allontanarsi troppo da Giulia. «Un po’ triste.» Si chinò ad ammirare l’esposizione di stecche di torroni, dei dolcetti di marzapane a forma di frutta. «Sai, sicuramente deve essergli dispiaciuto rimanere da solo per Natale. Per fortuna però qualche amico dell’osteria andrà a fargli visita, si faranno una bevuta per la Vigilia. E anche il pranzo, poi, da quello che ho capito lo passerà assieme ai genitori di Luca che verranno su a Portorosso per tutta la giornata.» Raddrizzò le spalle. «Ma il prossimo anno ci rifaremo, vedrai.» Annuì, convinto come non mai, e si spolverò una spallina sporcata dal nevischio. «Il prossimo anno faremo Natale da noi, giù a Portorosso, e allestiremo un banchetto degno del Marchese di Carabas. Tutti assieme. Tua mamma compresa.»

Giulia annuì e gli trotterellò vicino. «Così nessuno si sentirà solo.»

«Già» confermò Alberto. «Né solo né triste.» Sfilò i pugni dalle tasche e scosse le borse che contenevano i regali confezionati per i loro genitori. «Nessuno dovrebbe sentirsi né solo né triste a Natale.»

Per Massimo avevano scelto il quarantacinque giri dell’Aida di Verdi, una delle poche opere che mancavano alla sua collezione. Per Sara un nuovo set di carboncini da disegno. Per Daniela un centrotavola in vetro soffiato a forma di delfino, da far crepare d’invidia Bianca Branzino. E infine per Lorenzo una moka Bialetti abbastanza capiente da far sgorgare tanto di quel caffè da durare per tutti i novanta minuti di calcio che era costretto a sopportare nelle domeniche di partita, quando accompagnava Daniela al bar di Portorosso e pure lui era costretto a sorbirsi gli sbraiti del tifo, i pugni pestati sul tavolo, e i grugniti di frustrazione dopo un goal mancato.

I regali che avevano scelto erano modesti ma simbolici e, a detta di Alberto, azzeccatissimi. Già si pregustava le loro facce estasiate quando li avrebbero scartati davanti ai loro occhi!

In mezzo alla folla scorrazzò un cagnetto dal pelo color cioccolato tenuto al guinzaglio da una signora indaffarata con buste e borse della spesa. Il cagnetto annusò per terra, si soffermò vicino a un tombino, leccò una cartaccia unta, scese dal marciapiede, tirò il guinzaglio per separarsi dalla folla, e raggiunse i piedi di Alberto.

Il suo musetto scosse le vibrisse, risalì le scarpe, la stoffa dei jeans, e il cagnolino scodinzolò e annaspò tenendo la lingua di fuori, quasi gli stesse sorridendo. La stessa reazione con cui Nerone aveva accolto Alberto sulla soglia di casa nel momento in cui si erano incontrati per la prima volta.

Alberto sorrise al cagnolino color cioccolato, si accovacciò, «Ciao, piccino», e gli porse la mano per farsi annusare.

Il cagnolino rispose abbaiando. Scodinzolò più rapidamente, allungò il musetto umido, sfiorò con la lingua le dita di Alberto, ma il guinzaglio e la voce della padrona lo chiamarono indietro. «Teo.» Pure il profilo della padrona scese dal marciapiede. La donna sollevò un lembo del cappotto che rischiò di finire inzaccherato nel nevischio sciolto, e tornò a rimproverare il cucciolo. «Teo, vieni via, non disturbare questi ragazzi.»

Il povero Teo piagnucolò, infilò la coda fra le gambe, ma obbedì e fece marcia indietro.

La signora chinò il capo e, reggendosi il berretto, accennò un sorriso di scuse. «Scusatelo.» Arrotolò il guinzaglio alla mano e accompagnò via il cagnetto. «Su, Teo, fai il bravo, così torniamo a casa e mangiamo la pappa che abbiamo appena comprato.»

Alberto sorrise, si tirò in piedi, si spolverò le ginocchia, e aprì davanti allo sguardo la mano che Teo aveva quasi leccato. La rigirò, immaginando quello che sarebbe successo se si fosse umettata, cosa sarebbe capitato se fossero affiorate le squame, come era successo a casa dopo la leccata di Nerone.

Qualche gemito di spavento? Qualche ansito di stupore? Probabile. Alberto però non provò alcun timore, nessun turbamento. Non sentì affiorare alcuna ansia di nascondersi, nessun bisogno di difendersi. Non avrebbe avuto alcun motivo di evitare un contatto del genere.

Al contrario di qualcun altro…

«E Luca, invece?» Rinfilate entrambe le mani nelle tasche, Alberto si girò verso il profilo di Giulia. Il gelo ancora solido, fra di loro. Un respiro pungente e un pugno in fondo al petto. Una profonda ombra di preoccupazione ad annerirgli le palpebre socchiuse. «Luca come sta?»

Giulia trattenne il respiro. Serrò i pugni dentro le tasche del cappotto, strinse gli occhi, e irrigidì come per proteggersi da un colpo, da un dolore improvviso incassato proprio in fondo al cuore.

Eccolo lì, infatti, il vero punto della questione. Ecco perché avevano sollevato tutte quelle sceneggiate per tenersi distanti da Luca, lasciandolo indietro lungo la rampa di scale, e mandandolo a ritirare lo zampone in macelleria. Lei e Alberto dovevano parlare. Da soli. E non c’era tempo da perdere. Dovevano farlo subito. Immediatamente.

«Ora sta un po’ meglio.» Giulia sciolse i pugni dentro le tasche, rilassò la tensione delle spalle, e diede un calcetto a terra. Non ebbe ancora la forza di guardare Alberto negli occhi. «Effettivamente, dopo che vi siete rincontrati e dopo che ha potuto abbracciarti si è un po’ rinvigorito. Ma è vero quello che ti ho detto questo pomeriggio alla stazione, e anche quello che ti ho scritto nelle lettere. È tutto l’autunno che faccio fatica anche solo a farlo sorridere o a tirargli su il morale. E se sta male lui poi sto male anch’io.» I suoi occhi s’inumidirono, afflitti da quel solitario e irrimediabile cordoglio. «Sta diventando una situazione insostenibile.»

Alberto grugnì un sospiro bianco e denso. Stropicciò la fronte in una profonda ruga di dolore. «Avrei dovuto immaginarlo.» Si diede una grattata alla nuca. Adesso era lui quello propenso a schivare gli sguardi di Giulia. «Anche la scorsa estate effettivamente si è comportato in modo strano per tutti quei mesi che siamo stati assieme. Prima le paranoie con l’acqua, tutte le volte che ha preferito evitare di tuffarsi e trasformarsi, e poi anche l’incidente con lo scoglio. Credevo fosse una sorta di depressione del momento. Credevo che c’entrasse qualcosa con il fatto che fosse un po’ triste perché fra noi va sempre a finire così.» Alzò gli occhi al cielo, fece dondolare il capo di qua e di là. «Sempre tutto un tira e molla, un ciao e un addio, un andare e venire. Credevo che cominciasse a pesargli.» Che cominciassi a pesargli io. «Ma se dici che nemmeno dopo essere tornato qui a Genova si sta riprendendo…»

«No, infatti» confermò Giulia. «Ed è come dici tu. Anche io credevo che il suo sarebbe stato un malessere passeggero, che gli sarebbe durato giusto il tempo di un’estate e poi morta là.» Si strinse nelle spalle con fare impotente. «E invece…» Si strofinò le braccia, proteggendosi dal pizzicore di una bassa alitata di vento che aveva scosso le tendine delle bancarelle. Il suo sguardo venne attratto da quella più vicina, dalla capannina dei presepi artigianali. Coppie di buoi e asinelli, agnelli e pecorelle in quantità, i Re Magi sui cammelli, pastorelli inginocchiati, mangiatoie di paglia vera, e persino una fontanella azionata a batteria che sgorgava acqua fresca e zampillante. Quella visione fu l’ennesimo brivido che spalancò un vuoto nello sguardo già buio ed afflitto di Giulia. «Poi, come se non bastasse, si è pure aggiunta questa storia che non vuole più mettere piede in acqua, nemmeno se si tratta di dover scendere a casa dai suoi…»

«Aspetta…» Pure Alberto sgranò gli occhi, parve ancor più basito di lei. «Non gli è ancora passata?»

«Macché.» Giulia si aggiustò i riccioli sotto il cerchietto – l’umidità li rendeva sempre gonfi e ribelli – e si lisciò le frange della gonna che continuava a prudere perché lei non si sarebbe mai abituata all’idea di indossare quella al posto di un paio di pantaloni. «Continua a insistere che la sua vita in mare è finita, che non si farà sfiorare nemmeno da un’onda, e che non si avvicinerà mai più nemmeno al porto. Capisci, non è una situazione da prendere alla leggera.» Si mise a braccia conserte e scosse il capo, di nuovo più determinata che mai a risolvere la questione. «E io ormai non riesco più a stare con le mani in mano senza far niente. C’è bisogno di una soluzione drastica e immediata che possa ridargli la serenità di un tempo.»

Alberto socchiuse una palpebra e storse il naso. «Quindi…» Compì un passetto distante – crunch! – e ci andò cauto. Non gli ci volle troppo per capire che anche lui sarebbe stato coinvolto nei piani di Giulia. «Che idea ti saresti già fatta per risolvere la questione?»

«Veramente» rispose Giulia. «Io speravo che fossi tu a suggerirmi una soluzione.»

«Io?»

«Sì. Alberto…» Giulia compì un passo, accorciò la distanza fra di loro senza però ancora sfiorarlo. «Ascolta, in questi mesi ci ho riflettuto molto e ho pensato che forse…» Gli raccolse una mano. Alberto glielo lasciò fare, ma da parte sua fu un gesto molle e passivo, non reagì alla stretta. «Ho pensato che a Luca forse farebbe bene tornare a casa per un po’, giù a Portorosso. Sai, rilassarsi, stare con i suoi genitori.» Fu Giulia a stringere la mano. A guardarlo nelle profondità degli occhi. «Stare con te.»

Alberto irrigidì il braccio sentendo un violento brivido trafiggergli la nuca e scaricare una scossa rovente fino alle punte dei piedi. Si morsicò il labbro, gettò lo sguardo a terra. Quell’irritante e doloroso bruciore sconosciuto gli ribollì in fondo allo stomaco, accapponandogli la pelle. «Ma quest’anno non avete la Maturità?» Sfilò il tocco dalla mano di Giulia, si strofinò i palmi sui jeans, e le diede le spalle, affacciandosi senza alcun interesse alla vetrina della sartoria. Tutto pur di evitare il contatto con i suoi occhi. «Se avete gli esami e tutto il resto…»

«Appunto» gli disse Giulia. «Luca potrebbe approfittare di un periodo come questo, dato che siamo ancora in inverno, e rilassarsi come si deve prima di affrontare una fatica del genere.» Scoccò un pungente cipiglio d’irritazione in direzione di Alberto che nel frattempo le aveva dato le spalle e non accennava a voltarsi. «E poi che razza di discorso sarebbe?» Raggiunse il suo fianco. «La salute e la felicità di Luca valgono molto di più degli esami e della scuola.»

«Ma come?» Alberto si allontanò dalla vetrina, rincorso dai passetti di Giulia. Si infilò le mani nelle tasche, calciò via un sassolino, e fece finta di non star nemmeno ascoltando tutto quello che lei gli diceva. «E non è proprio per ottenere tutto questo che Luca ha rinunciato alla sua vita a Portorosso?»

Le guance di Giulia s’infiammarono. Il suo piccolo ringhio d’ira accumulò una lieve condensa ribollente. «Non ci ha affatto rinunciato.» Stupido scemo che non sei altro! avrebbe voluto aggiungere. «Ha solo deciso di intraprendere una strada diversa, ma le due cose non devono per forza cozzare in maniera così brutale. E nemmeno le vostre due vite sono destinate a farlo.»

La corazza di Alberto non cedette e non cedette nemmeno lui. Sguardo schivo e marcia alla ceca, senza mostrare alcuna reazione davanti alle parole o agli sbuffi di Giulia.

Giulia ritentò, «Sul serio non t’importa di vederlo stare bene?», perché non poteva credere che Alberto fosse così passivo davanti a un problema di Luca.

«E cosa vuoi che faccia, Giulia?» Alberto frenò il passo e si voltò. Il viso più cupo, la sua ombra più larga, la voce inasprita dal freddo. «Che cosa vuoi che gli dica? Se nemmeno io so che cosa gli sta passando per la testa. Voleva tanto giocare al ragazzo umano? Be’, ecco…» Slanciò un braccio verso la fila di persone ferme fuori dalla macelleria. «Ecco, ora è accontentato.»

Giulia tirò indietro la faccia come se Alberto le avesse mollato un ceffone. Anche la sensazione che le rimase stampata addosso fu la stessa. Il momento in cui il freddo dell’impatto si ritira per lasciar spazio al bruciore, l’istante in cui la guancia comincia a chiazzarsi di rosso e gli occhi allucinati si allargano, allagandosi di lacrime che tuttavia non sgorgano, restando in bilico fra le ciglia. «Come puoi dire una cosa simile?» soffiò con un filo di fiato. «Io…» Scosse la testa. Si prese la fronte con entrambe le mani e sprimacciò le tempie come quando realizzava qualcosa di importante. «Santa mozzarella, lo sapevo…»

«Sapevi?» Alberto sbatacchiò le palpebre. Il suo sguardo tornò in luce, anche se fievole. «Sapevi che cosa?»

«Quest’estate» spiegò Giulia, «quando c’è stato l’incidente dello scoglio, e tu hai reagito in quella maniera, sminuendo tutto, senza nemmeno consolarlo, o occupandoti delle sue ferite…» Scosse di nuovo la testa, si massaggiò il collo come per alleviare un forte dolore, e soffiò un lungo sospiro demoralizzato. «Sapevo che tu e Luca stavate covando qualcosa.»

Alberto tornò indietro, si tuffò anche lui nello stesso ricordo di Giulia. La luce rossiccia che era scesa ad abbracciare la piazza del paese, Luca infagottato nell’asciugamano e rannicchiato sulla seggiola del bar, Giulia con le mani sporche di tintura di iodio, gli insulti che erano volati fra lei e Alberto, e quei pochi sguardi con cui Alberto aveva a malapena sfiorato Luca. Tutto il dolore che aveva provato vedendolo ferito e tremante dopo averlo ripescato dall’acqua sporca del suo stesso sangue. «Io e Luca non stavamo covando un bel niente» disse Alberto. «È solo che…» Si morse il labbro, ansimò, e tornò a gettare lo sguardo sul marciapiede, colto da un’esitazione improvvisa. «No, niente.»

«Cosa?» Giulia gli tornò ad avvicinarsi, sempre con cautela ma con maggior fiducia e sicurezza. «Dimmi» gli fece. «Ti ascolto.»

«Niente, ti ho detto.» Alberto le diede le spalle e strinse le mani affondate nelle tasche. Fece proprio la scenata del pesce che va a rintanarsi in una nicchia fra gli scogli. L’aria attorno a lui si oscurò, i colori delle luminarie appassirono, le voci dei passanti e dei coristi si affievolirono, e persino i dolci profumi dei torroni e delle frittelle divennero acri e stantii. «Smettila di stressarmi.»

Giulia strinse i pugni, paonazza, e rabbrividì di rabbia fino alle punte dei riccioli, perché finalmente riuscì a riconoscere quella sfumatura del carattere di Alberto… l’ombra di quel ragazzino che non era ancora cresciuto anche se credeva di esserlo. «E allora tu piantala di tenere tutti questi segreti. Basta già Luca per quello.» Gli saltellò davanti. «Allora…» Si piantò con le braccia conserte e tambureggiò un piede a terra. «Mi spieghi cos’è che sta succedendo per davvero?»

«Io…» Ritrovandosi inchiodato dallo sguardo di Giulia, messo alle strette contro la parete della drogheria, Alberto non ebbe scelta. «È solo che…» Però un brivido lo fece esitare. «Che io…» Sorse un groviglio allo stomaco, le ginocchia tremolarono, le spalle rimpicciolirono, e gli occhi caddero sul marciapiede spolverato di nevischio color catrame. La sua corazza si sbriciolò, denudò ogni insicurezza. «Anche io credo di…» Alberto si aggrappò al braccio destro, quello tatuato, e si grattò la manica del cappotto. «Di avere un po’ di paura, Giulia.»

Giulia esitò. Il rossore sbiadì dalle sue guance, il cuore rallentò i battiti, la ruga di stizza si riassorbì nella fronte. Tutto si aspettava meno che questo. Tutto si aspettava meno che Alberto ammettesse una sua paura.

Alberto raddrizzò il capo e prese un lungo respiro per svuotarsi il petto e liberarsi di quel peso fattosi insostenibile. «Ho paura per quello che sta succedendo a Luca, e ho paura di non poter essere in grado di fare niente per aiutarlo a uscire da questa dannata situazione.» Si strinse una mano sul petto, come a voler giurare sul suo stesso cuore, e guardò Giulia dritta negli occhi. «Sul serio credi che io non mi sia spaventato dopo l’incidente dello scoglio? O dopo aver sentito Luca spiattellare tutti quei discorsi sul volersi tenere lontano dall’acqua e sul non voler rimettere mai più piede in mare?»

Giulia sostenne il peso di quello sguardo ma, trovandosi di nuovo a fronteggiare il viso più duro e adulto di Alberto, venne colta da un brivido. «Non ho mai messo in dubbio che anche tu non fossi stato in pena per lui.»

«E lo sono anche per me stesso. Perché se Luca…» La voce di Alberto ebbe un cedimento, si fece più ruvida. «Perché se Luca dovesse sul serio rinunciare per sempre al mare, e alla parte di lui che è ancora legata a Portorosso, allora…» Le dita strinsero il cappotto, le nocche sbiancarono, e il braccio tremò come la sua gola e come la sua bocca attraverso cui la condensa si frantumava. «Allora quanto poco ci vorrà prima che decida di rinunciare anche a me?»

Una luce abbagliò lo sguardo di Giulia. Le sue ciglia sbatacchiarono e distribuirono quella scintilla che finalmente le permise di vederci chiaro, di scorgere la forma di quella paura che si era annidata nell’animo di Alberto.

Attorno ai due ragazzi la folla continuava a districarsi fra i vicoli, sfiorava le loro ombre e passava sopra le loro impronte senza guardarli di striscio, come fossero stati invisibili, seppur circondati dalle luci colorate degli abeti e dai lampeggi dei neon provenienti dalle insegne delle botteghe.

Il bianco canto del coro sovrastò il grigio vociare dei passanti, le note si allungarono e si elevarono al cielo, malinconiche come squilli di campane. Quella melodia lieve come una nevicata si condensò in una nebbiolina di scintille argentate e si specchiò negli occhi umettati e un po’ disperati di Alberto. Lì le scintille traballarono, fisse come lacrime appena stillate.

«Sul serio valgo così poco nei confronti di Luca?» Alberto strusciò un braccio sul viso, tirò su un respiro tremolante dal naso, irrigidì spalle e pugni mostrando lo sguardo di chi si sta sforzando di rimanere integro. «Sul serio gli basta così poco per poter fare a meno di me?»

Pure Giulia provò una fitta di tristezza davanti a quelle parole così dolorose. «Ma non è così di sicuro.» Ostentò un passo, tese il braccio, sfiorò la mano di Alberto. «Alberto…»

«Come puoi dirlo?» Alberto si sottrasse senza farsi toccare. Il sibilo di un ringhio s’insinuò nel tono della sua voce che era tornata ruvida e graffiante. «Per te è facile vederla solo dal tuo punto di vista. Se tu fossi come noi allora lo capiresti quant’è difficile.»

Giulia aggrottò la fronte. «E ti ho mai dato l’impressione di non volervi capire, anche se non sono come te e Luca?»

«Accettarci è una cosa» controbatté Alberto. «Capirci è un altro paio di maniche.»

«Aiutami tu, allora.» Giulia inspirò e riguadagnò la calma. «Spiegamelo.» Un altro passetto. «Spiegami cos’è che dovrei capire.»

«Capiresti quanto mi ferisce il modo in cui Luca sta rinunciando a questa parte della sua identità, perché è come se si vergognasse di quello che è, dei suoi simili, dei suoi genitori.» Alberto mandò giù un groppo di fiato che gli fece un nodo allo stomaco. «E di conseguenza anche di me. Ed è sempre stato così.» Soffiata una lunga scia di condensa bianca, Alberto si voltò, finse di guardare attraverso la vetrina del calzolaio, si grattò le braccia strofinando a fondo le unghie sul tessuto della giacca. «È una sensazione che ho sempre avuto e che non sono mai riuscito a levarmi completamente di dosso, fin dalla prima estate in cui ci siamo separati.» Lasciò che il suo sguardo scivolasse nell’ombra. «Anche se poi l’ho lasciato andare.»

Giulia si fece raccogliere da quell’ombra. Tornò anche lei a quel giorno, al momento del loro primo addio, al fischio del treno in partenza, alla pioggia che si era mescolata alle lacrime, e al sole che aveva illuminato il triste sorriso dei due ragazzi ancora così giovani. «Tu lo hai lasciato andare perché gli hai sempre voluto bene» disse. «E gliene vuoi ancora, Alberto. Per questo è così importante per te vederlo felice, anche a costo di rinunciare a un tuo desiderio, com’è successo durante la nostra prima estate assieme. Ascolta, è normale che tu abbia sofferto separandoti da Luca. Ed è normale che tu ne soffra ancora oggi. Ma stai tenendo duro, e tutto per la sua felicità. Dovresti essere fiero di te stesso per essere riuscito a costruire e a mantenere un’amicizia come la vostra.» Gli sorrise, sperando in una consolazione. «Questo non dovrebbe bastare, secondo te?»

Il lampo di un pensiero oscuro sfrecciò attraverso la mente di Alberto. Magari non più. Alberto accolse quel pensiero con timore. Si affacciò alla vetrina illuminata del calzolaio. Attraverso l’immagine del suo riflesso, scorse quel meschino sentimento di gelosia che un tempo aveva quasi guastato la sua amicizia con Luca. Non fu più così sicuro di essersene sbarazzato come credeva. Magari non mi basta più come mi bastava una volta.

«Durante le prime estati» spiegò Alberto, «quando Luca tornava a Portorosso e ci raccontava di tutto quello che facevate, della scuola, della sua nuova vita qui a Genova…» Annuì senza ombra di dubbio. «Io ero felice per lui. È chiaro che lo fossi. Però…»

Si lasciò raggiungere dalle immagini di un altro ricordo. Quel pranzo giù nella grotta dei suoi genitori, quando la nonna era ancora assieme a loro. Quel giorno Alberto aveva ascoltato i racconti di Luca, aveva visto i suoi occhi brillare e affacciarsi alle immagini di Genova, della scuola, a esperienze che lui non poteva raggiungere e condividere. Già allora aveva cominciato a percepire quella discrepanza fra la sua vita e quella di Luca.

«Però c’era sempre quella parte di me – quella stupida e piccolissima parte di me – che non poteva fare altro che bruciare di frustrazione notando quanto fosse facile per Luca sentirsi felice e realizzato anche senza di me. E non fraintendermi, anche allora sapevo che non mi aveva dimenticato.» Si passò una manata fra i riccioli. «Sapevo che anche io in qualche maniera stavo facendo la stessa cosa, andando avanti senza di lui, cominciando a costruirmi una vita in cui potessi sentirmi felice e realizzato a prescindere dalla sua vicinanza o dalla sua presenza a Portorosso. Però…» Scese a strofinarsi la nuca con insistenza. «Però essere entrambi dei pesci, avere quel qualcosa in comune, ci ha sempre aiutati a mantenere una sorta di contatto anche nei momenti in cui eravamo distanti, capisci? E ora che tutto questo rischia di scomparire…» Si sfilò la mano da dietro il collo e gesticolò come per cercare di acchiappare le parole giuste. «Ora che Luca sta rinunciando proprio a quella parte di se stesso che ancora lo accomuna a me… è come se mi stesse facendo un torto.» Si picchiettò la mano sul petto. «È come se stesse dicendo: “Io non ho più bisogno di quella parte di me che mi tiene unito ad Alberto, quindi prima o poi potrò anche abbandonarlo e andare avanti con la mia vita come se fra di noi non ci fosse mai stato nulla”.» E Alberto conosceva bene quella sensazione. Era lo stesso senso di vuoto e di solitudine che aveva provato quando suo padre aveva cominciato ad allontanarsi, quando il tempo in cui soggiornava alla torre si era accorciato, fino a ridursi a un’assenza costante, al fantasma di un’ombra, a un graffio sul muro.

Anche se estranea a quei ricordi, Giulia si sentì raggiungere dalla fitta di quel dolore. Lo sciolse dal petto con un sospiro. «Alberto…» Tentò un altro approccio, un altro passetto. «Tu credi sul serio che in tutti questi anni tu e Luca siate rimasti amici e abbiate continuato a volervi bene solo per il fatto di essere entrambi due pesci?»

«Che ne so?» sbuffò Alberto, riguadagnando una spinta del suo caratterino. «Forse?»

«Non è così, testa di legno.» Giulia scosse il capo. «Non è così proprio per niente. E se adesso Luca sta avendo un conflitto con se stesso e con quella parte della sua natura non è di certo per fare un torto a te.»

«Perché sta succedendo, allora?»

«Perché è spaventato» gli rispose Giulia. «E se davvero io non posso comprendere le sue paure, come sostieni tu, allora magari dovrebbe spettare proprio a te il compito di alleviare i suoi dubbi e di rassicurarlo.»

Alberto aprì la bocca, fece per parlare, ma un singolo gemito gli si spezzò sulla punta della lingua, costringendolo a richiudere le labbra. Scosse il capo esalando uno sbuffo frustrato, si ficcò le mani nelle tasche, e tornò a dare la schiena a Giulia, innalzando fra di loro una barriera di silenzio.

Ostacolata da quel suo atteggiamento respingente, Giulia fece stridere un ringhio che le infiammò la faccia e le orecchie. «Siete proprio dei citrulli, tutti e due» sbottò. «Se solo parlaste più apertamente l’uno con l’altro allora evitereste di farvi del male in maniera così inutile e insensata.»

«Io…» Farci del male, realizzò Alberto. Far del male a Luca, o a Giulia. No, tutto meno che questo. «Ascolta, mi dispiace.» Gli venne la bocca amara, le guance asciutte. «Mi dispiace, va bene? Non intendevo…» Sbirciò da sopra la spalla. «Sì, insomma, io non intendevo farti sentire un’estranea in tutto questo. So che non lo sei. È solo che… che mi fa male vedere Luca ridotto in queste condizioni.» Di nuovo slanciò il braccio verso la fila della macelleria che si erano lasciati lontani. «E mi fa male saperlo troppo distante perché io possa fare qualcosa per aiutarlo quando avrebbe più bisogno di me.» Si guardò le mani. «Odio questa sensazione.» Mani dure e incallite che erano capaci di fare di tutto. Tirare reti, rimestare padelle, disfare un motore, calcare tatuaggi sotto la pelle. Tutto meno che proteggere Luca. «Odio sentirmi impotente davanti a quelli a cui voglio più bene e che dovrei essere in grado di proteggere. Odio rendermi conto di essere inutile in tutto questo.» Scosse il capo con aria sconfitta. «Inutile per far sentire meglio Luca e inutile per risolvere i suoi tormenti.»

Gli occhi di Giulia si umettarono di compassione. «Ma non è vero che sei inutile. Alberto…» Giulia gli raccolse entrambe le mani. Mani di cui conosceva la forza e la solidità. «Tu più di chiunque altro sapresti essergli d’aiuto. Se solo gliene parlassi…»

«Cambierebbe poco» rispose Alberto. «O rischieremmo solo di peggiorare la situazione, di metterci a litigare. Lo sai che…» Guardò le loro mani giunte. Sorse una fiammata d’imbarazzo. «Be’, lo sai anche tu che esprimermi a parole non è mai stato il mio forte.» Le sfilò da quelle di Giulia e sventolò via la questione. «Lo sai che non sono mai stato un genio quando ci sono di mezzo tutte queste faccende sentimentali.»

Giulia ridacchiò senza cattiveria. «Con me te la stai cavando alla grande, direi.»

«Perché tu non sei Luca.» Ogni sfumatura di imbarazzo sbiadì. Alberto tornò di colpo serio. «E se dovessi affrontarlo direttamente, rischiando di dire anche solo una parola sbagliata…» Alzò l’indice. «O rischiando di combinare l’ennesimo macello, o di turbarlo ancora di più rispetto a quello che è adesso…» Tagliò l’aria con un netto gesto della mano. «No» ribatté scuotendo la testa, fin troppo cocciuto – e fin troppo impaurito – per cambiare idea. «No, escluso, ho troppo da perdere. E non ho intenzione di rischiare tutto in una situazione fin troppo delicata sia per lui sia per me.» Prima che Giulia avesse occasione di controbattere, Alberto la guardò negli occhi, assunse quella sua espressione sincera e spassionata che avrebbe potuto commuovere persino un pesce-cane. «Ma ti giuro che non mento quando ti dico che ho sul serio intenzione di fare tutto quello che è in mio potere per aiutare Luca a uscire da questa situazione.»

Giulia gli sorrise, senza nutrire alcun dubbio a riguardo. «Ma lo so, Alberto» lo rassicurò. «Lo so che gli vuoi bene. E lo so che hai sempre avuto buone intenzioni nei suoi confronti. Ascolta, se tu hai paura che Luca rinunci a se stesso, o al mare, o se hai paura che una volta finita la scuola lui poi non tornerà più a Portorosso da te, allora…»

«Che lui torni o non torni a Portorosso a questo punto cambia poco» le disse Alberto. «La vita è sua e deve essere lui a decidere cosa farne. Io non voglio cambiare Luca, non voglio che lui diventi qualcuno che non è, e non voglio che faccia la vita che faccio io per il semplice fatto che siamo entrambi pesci. Non voglio cambiarlo, perché lo so che Luca è sia uguale sia diverso da me, ma allo stesso tempo non voglio che lui cerchi di diventare qualcosa che non è.» Si guardò attorno e, per quel breve e distratto battito di palpebre, un brivido di raccapriccio gli si arrampicò lungo la schiena. La strada così piena di gente… «E Luca non è un umano.» Così piena di umani…

Umani che uscivano dalle luci azzurrine della pescheria infilando nelle borse gli incarti in cui erano impacchettati pezzi di sgombro e mazzi di gamberi, oppure che annodavano i sacchetti contenenti i polpi da far bollire con le patate lesse. Umani che si tenevano per mano e che si infilavano sotto la tendina d’entrata della libreria dandosi il cambio con quelli che ne uscivano sfogliando le pagine dei romanzi appena acquistati. Umani che si prendevano a braccetto, che passeggiavano davanti alle bancarelle offrendosi le noccioline o facendo riposare il capo l’una sulla spalla dell’altro. Umani che piroettavano sotto i mazzetti di vischio intrecciati ai campanelli, che li indicavano ridacchiando, quasi burlandosi, ma che poi intrecciavano le dita inguantate, salivano sulle punte dei piedi, e si scambiavano baci affettuosi ritrovandosi con le labbra sorridenti e le guance spolverate di un rosa acceso. Tutto sotto gli sguardi di altri umani che sorridevano inteneriti.

Tutte cose da umani che io e Luca non potremo mai fare assieme.

Fu un pensiero che Alberto formulò senza nemmeno accorgersene, ma che allo stesso tempo gli fece male quanto un arpione conficcato nel cuore.

«Luca è quello che è, a prescindere» disse infine Alberto, quasi per scacciare l’eco di quel dolore che gli rimbombava nel petto. «E il fatto che viva fra gli umani non lo rende umano come loro. Un conto è fare la vita che vuole, e un altro è disprezzare completamente la sua natura. Perché se Luca rinnega il mare, allora rinnega anche se stesso. E se rinnega se stesso allora è come se stesse rinnegando anche me.» Inspirò e strinse la mano sul petto, lì dove il dolore si accumulava e pestava come un martello sull’incudine. «E questo mi fa malissimo.»

Ci fu un breve silenzio da parte di Giulia, le labbra schiuse attraverso cui passava solo un filo di condensa, gli occhi lucidi e attenti, ma frastornati da tutta quella valanga di parole che mai avrebbe creduto di udire dalla bocca di Alberto. Parole che le sciamarono attorno proprio come se le luminarie natalizie avessero preso vita e, assieme ai radi fiocchi di neve, avessero cominciato a galleggiarle attorno come fiammelle, come misteriosi fuochi fatui. «Lo so bene che non faresti mai del male a Luca.» Dietro di lei si innalzò un piccolo applauso rivolto ai coristi che però alle sue orecchie passò del tutto inascoltato. «E forse è vero che Luca sta sbagliando a comportarsi in maniera così schiva, nell’essere così testardo nei confronti delle sue decisioni.» Raccolse un ricciolo color rubino e se lo pettinò sotto il cerchietto. «Ma forse anche tu ti stai sbagliando, Alberto.» Il suo sguardo si spostò verso la vetrina di un negozio di giocattoli che, davanti a un tale discorso, in una simile situazione, le trasmise una malinconia lancinante. «Forse non è vero che Luca sta cercando di rinnegare la sua natura. Solo perché ora il suo rapporto con il mare lo fa sentire debole e confuso, non significa che…»

«E invece ti dico che è proprio così.» Alberto s’incaponì, tornò bambino. «So che Luca sta cercando a tutti i costi di sbarazzarsi della sua pelle di pesce. Glielo si legge in faccia.»

«Come fai a dirlo?»

«Lo riconosco» rispose Alberto. «E lo riconosco perché all’inizio anche io ero così.»

«All’inizio?» Un passo di Giulia fece scricchiolare il nevischio secco. «All’inizio…» Soffiò un sibilo di fiato, «Quando?», sentendo quel respiro scendere a pizzicarle lo stomaco, pungente e fastidioso come un senso di colpa, come una curiosità illegittima.

Sotto le luci delle vetrine e i lampeggi dei filari formati da stelle comete, gli occhi di Alberto s’impossessarono di un’ombra diversa, affacciandosi a un passato remoto. Vacillarono come se la sua mano fosse sprofondata in un corpo d’acqua dentro il quale non s’immergeva da fin troppo tempo. «Prima di incontrare Luca.»

L’aria attorno a loro si congelò e trattenne ogni profumo, ogni suono, ogni battito di vita che attraversava la strada al di fuori di quella bolla di cristallo che si era condensata nel loro silenzio. I sensi si attenuarono, tutto si rese flebile come avvolto dalla sorda e nebbiosa patina di un sogno. Sbiadì il profumo caramellato delle mandorle tostate, si allontanò l’eco delle voci bianche che cantavano Gloria in Excelsis Deo, si appannarono le lucine colorate che ora parevano lampeggiare da dietro un vetro incrostato di ghiaccio. E dentro a quella bolla di vetro vi rimasero racchiusi solo Alberto e Giulia, proprio come in una palla di neve finta, una di quelle che scuoti e che, senza emettere alcun rumore, sbriciolano la loro incantata polvere bianca su un panorama di casette, alberelli e campanili.

Il silenzio li accolse. Il silenzio li prese per mano e li accompagnò attraverso la scia di quel dolore che avevano sempre evitato di toccare, come una ferita ancora fresca che se sfiorata sanguina ancora.

Alberto inspirò e si adattò nello spazio del suo silenzio come faceva quando s’immergeva in acqua e spalancava la prima sbracciata di nuoto fra gli schizzi delle onde. «Un tempo anche io ero convinto che giocando in superficie, fingendo di essere un umano come gli altri, imparando tutto quello che c’era da sapere sul loro mondo, sarei stato più felice.» Grattò le mani nei fondi delle tasche. «Speravo in questo.» Si girò e passeggiò lento lungo il marciapiede. «Speravo che mi avrebbe aiutato a dimenticare quello che sono, a dimenticare il luogo da cui provengo, a dimenticare tutto quello che…» Le labbra raggelarono e gli occhi si estraniarono, svuotandosi della loro luce. Alberto tornò in sé dopo una rapida scrollata del capo. «Tutto quello che ho passato.» Si grattò la manica della giacca. La manica destra, quella sotto cui si nascondeva il tatuaggio, lo scorpione aggrappato all’arpione. «E a dimenticare tutti i brutti ricordi legati al mare. Ma non è stato così.»

Giulia fiutò l’acre olezzo di quel malumore che fece soffrire pure lei, stringendole il petto in una morsa di compassione. Inseguì Alberto calpestando le sottilissime impronte spremute sul nevischio che incrostava il marciapiede. Gli si avvicinò, volle rincuorarlo, fare tutto ciò che era in suo potere per alleviare il suo dolore. «Alberto…»

«Fingermi qualcuno che non sono non mi ha causato altro che guai.» Alberto non le diede l’occasione di farlo. «E non voglio che una cosa simile capiti anche a Luca.» Arrestò bruscamente la camminata. «Non voglio che lui patisca tutto l’inutile dolore che ho patito anch’io.» Si lesse nel suo sguardo la luce di una forza protettiva che non aveva nulla a che vedere con i capricci del bimbo geloso che era stato un tempo. Nei suoi occhi palpitò un coraggio che sarebbe stato capace di solcare i Sette Mari, di valicare l’onda più alta e minacciosa, e di attraversare le profondità oceaniche più fredde e buie pur di raggiungere Luca e di proteggerlo fra le sue braccia. «Non lo permetterò mai.»

Abbandonata quella scia di compassione nei confronti di Alberto, Giulia ne rimase impressionata, di stucco. Lo guardò e fu come trovarsi davanti a un’altra persona. Inspirò quell’aria quieta che li circondava e provò un tiepido e accogliente senso di protezione nel percepire la vicinanza di Alberto. Si sentì al sicuro. E in passato Giulia aveva sempre riposto fiducia in Alberto, nonostante le follie, i guai, e il contagioso spirito spericolato. Fu facile e naturale immaginarlo: Alberto si era scrostato di dosso quella giovane buccia di ragazzino per sprigionare la vera luce rimasta a germogliargli nell’anima in tutti quegli anni. Un bocciolo che spalanca i suoi petali e che sprigiona il suo vero profumo. E il profumo di Alberto era inciso e potente come il suo profilo. Spalle salde a cui aggrapparsi nel momento del bisogno, forti braccia da cui farsi sostenere dopo una caduta, lo sguardo leale e affidabile, plasmato però sul musetto ancora buffo e amabile del ragazzino svampito e sboccato che anni prima era emerso dal mare per travolgere le loro vite con la prepotenza e l’imprevedibilità di un’onda anomala.

«Sei cresciuto, lo sai, Alberto?» gli disse Giulia. «E non solo in altezza.» Gli diede un piccolo colpetto sulla spalla, sorrise. «O in muscoli.»

Pure Alberto ritrovò la scintilla di un sorriso. «Ehi, ma quelli non sono mai abbastanza, ti pare?»

Giulia scosse il capo, si rifece seria. «Quello che hai trascorso prima di incontrare Luca…» Si girò verso la doppia fila di persone che ingolfava l’ingresso della macelleria dove l’immagine di Luca era svanita, fagocitata dalla calca. «Credevo che almeno lui lo sapesse» confessò. «Che glielo avessi raccontato.»

Alberto scosse le spalle. Strusciò una mano sotto il naso, tirò su un respiro acre, grattò per terra la punta della scarpa, e si rimpicciolì, tornando a mostrarsi più vulnerabile di quel che avrebbe voluto essere. «Forse non è mai stato così importante.» Si girò e si passò un’altra manata fra i capelli. «O magari sono io quello che ha sempre evitato che fosse importante. Anche io ho creduto che lasciarmi il passato dietro le spalle e cercare di dimenticarmelo fosse la soluzione migliore per non soffrirne più. La soluzione migliore e la più semplice.» Compì solo qualche passetto e andò ad affacciarsi alle luci della vetrina più colorata, quella del negozio di giocattoli. «Ma a quanto pare il passato trova sempre un modo per raggiungermi e acchiapparmi proprio quando meno me lo aspetto.»

«Ti fa…» Giulia incassò quel sordo e freddo dolore al posto suo. «Ancora molto male pensarci?»

Alberto fece di nuovo spallucce. «Qualche volta.» Lo disse sorridendo, ma si capì come fosse uno dei suoi sorrisi coraggiosi. Giulia glielo vide riflesso sulla vetrina colorata del negozio, affacciato alle barchette intagliate, ai pupazzi a forma di orsacchiotto, alle bambole in gonnella, ai trenini che viaggiavano sulle rotaie di legno. «Solo ogni tanto.»

«Oh, Alberto…» Giulia gli si accostò. «Mi dispiace» mormorò. «Non avevo nessun diritto di chiedertelo. E non voglio costringerti a parlarne se tu…»

«No, no» fece Alberto. «Va tutto bene. È okay, sul serio. So che di te e Luca posso fidarmi. E lo so che non dovrebbero esserci segreti fra noi tre.» Socchiuse le palpebre su cui calò un’ombra. Prese un respiro più lungo e triste. «Solo che…»

Giulia svirgolò un sorriso comprensivo. Sembrò capire. «Che ancora non te la senti?»

Alberto si morsicò il labbro. «Forse.» E di nuovo parve rimpicciolirsi, mentre il suo sguardo si rifugiava fra i colori della vetrina addobbata dalle luci natalizie. Pacchi d’oro e d’argento erano disseminati fra i giocattoli, luci natalizie lampeggiavano lungo le rotaie di legno su cui correva il trenino, le bamboline indossavano berretti rossi, neve finta era spruzzata in cima al faro attorno a cui galleggiavano le barchette a vapore, e un Babbo Natale cavalcava la sua slitta appesa al soffitto. Tutte quelle immagini colmarono Alberto di una tristezza infinita. «Forse è così.»

«Allora non voglio che tu ne parli per forza, se ti fa star male» gli disse Giulia. «Farti soffrire è l’ultima cosa che voglio.» Gli si accostò ancora di un passetto minuscolo, quel che bastava per sfiorargli la spalla con la sua. Lei e Alberto si scrutarono attraverso i reciproci riflessi specchiati sulla vetrina, di fronte a due orsacchiotti che, accomodati sotto il piccolo Albero di Natale, si tenevano la zampina. Incoraggiata dalla tenerezza di quell’immagine, pure Giulia allungò la mano, sfiorò la manica di Alberto, scese un poco, gli toccò le dita senza però stringere, solo carezzandogli le nocche ruvide ma calde. «Però voglio comunque che tu sappia che, se un giorno tu avrai bisogno di parlarne…» Annuì. «Io ti ascolterò.»

Finalmente Alberto si girò facendosi guardare negli occhi senza alcun timore di mostrarsi vulnerabile davanti a lei. Le sorrise. «Grazie.» Raccolse la mano di Giulia, accettò la stretta, si tenne ben saldo. «Grazie per esserci sempre quando…» Una calda scossa d’affetto attraversò le loro dita intrecciate. «Quando sento di averne bisogno.»

Giulia sorrise e fece riposare la tempia sulla spalla di Alberto. Circondata dalle luci rosse e verdi, dal profumo delle caldarroste e delle mandorle tostate, dal coro delle canzoni natalizie, si abbandonò a quell’attimo di gioia ancor più pura della neve appena caduta. «Aaah.» Scosse il capo, e i suoi riccioli, tenuti malamente dal cerchietto di feltro, fluirono lungo il braccio di Alberto. «Che scemi che siamo» ridacchiò. «Se solo ci parlassimo in maniera così civile solo un po’ più spesso…»

«Naaah» si lagnò Alberto, assecondando la sua risata. «Troppo banale, troppo scontato, troppo noioso. E poi a me litigare piace un sacco.»

«A patto che poi facciamo sempre la pace.» Giulia tenne il capo poggiato sulla spalla di Alberto, gli strinse forte la mano e gli carezzò il braccio. Standogli così vicina fu facile inspirarne la sinfonia di profumi, riconoscere la sfumatura dolce e salata che apparteneva anche a Massimo, alla loro casa di Portorosso, al mare in cui anche Giulia era cresciuta. La neve finta che abbelliva la vetrina era caduta anche attorno al faro giocattolo che s’illuminava per davvero, irradiando il disco di vernice azzurra in cui galleggiavano le barchette a remi e quelle a vapore. Tramite quell’azzurro, quel mare finto, Giulia tornò all’ultima estate che i tre amici avevano trascorso assieme, all’ultima nuotata e all’ultima litigata. «Mi dispiace per quest’estate.» Abbassò gli occhi, colta da un rimorso improvviso. «Mi dispiace averti dato del citrullo insensibile.»

Alberto ridacchiò. «Scuse accettate.» Le spremette più volte la mano. «E a me dispiace averti accusata delle paranoie di Luca. Ero solo arrabbiato, ma lo so che non sei tu il problema. Non l’ho mai creduto davvero.»

«Però il problema rimane, purtroppo» sospirò Giulia. «Anche se nessuno di noi due ne è la causa.»

«Sì» mormorò Alberto. «Questo lo so.» Si girò verso di lei. «Giulia, ascolta, tu lo sai che io sarei il primo a prendere Luca per mano e a portarmelo dietro, se questo davvero servisse a farlo sentire meglio. Ma non servirà.» I suoi occhi rabbuiarono, la voce assunse un tono grave e amareggiato. «Non è di me che Luca ha bisogno.» Luca non ha mai avuto bisogno di me.

«Magari sì, invece.» Giulia alzò la mano libera come a parare una protesta che ancora non era stata sollevata. «D’accordo, d’accordo, nemmeno io voglio costringerti parlare di tutto questo con Luca, se tu non te la senti, o se hai paura di peggiorare la situazione. Però mi devi almeno fare una promessa.»

Alberto storse un sopracciglio. «Quale?»

«Che se fosse lui a chiederti di tornare a Portorosso con te, dopo Natale» rispose Giulia, «tu non gli dirai di no. Devi promettermi che lo prenderai per mano, che lo caricherai sul treno assieme a te, e che ve ne tornerete a casa assieme.»

«Giulia…»

«E promettimi che se avrai qualcosa da dirgli, allora gliela dirai chiaramente, senza girarci attorno, senza aspettare che sia davvero troppo troppo tardi per sistemare le cose. Devi promettermelo, Alberto.» I suoi occhi bruciarono di determinazione. «Devi promettermi che farai qualsiasi cosa per Luca, per farlo stare anche solo un pochino meglio di come si sente ora. Ormai vi conosco, che credi? Conosco tutti gli stupidi giochetti con cui vi fate del male a vicenda.» Scosse il capo facendo dondolare i riccioli sulle guance arrossate. «E non voglio che nessuno di voi due soffra per qualcosa che invece è possibilissimo risolvere assieme.»

«Non vuoi che nessuno di noi due soffra?» Alberto parve sorpreso davanti a quell’affermazione. «Questo vuol dire che sei preoccupata anche per me?» Sorrise, ma allentò la presa di mano. «Che cara.»

«Ma è ovvio che sono preoccupata anche per te.» Giulia strinse le dita e gli impedì di sottrarsi. «Secondo te non dovrei esserlo?»

«Per quale motivo dovresti

«Ma è naturale che lo sia.» Giulia tornò a farsi più vicina, a non permettergli di scappare, e lo guardò dritto in viso. Lei aveva due occhi che erano un limpido specchio di sincerità. «Sei mio fratello.»

Alberto a quel punto non ce la fece a reggere, abbattuto da quell’improvvisa e dirompente botta di emozione che gli sprofondò nel petto e che alleggerì ogni fibra del suo corpo, come una ventata di frizzante e profumata aria primaverile. Il suo sguardo vacillò. Gli occhioni larghi e acquosi come quelli di un bimbo che sta per scoppiare in lacrime. Le labbra tremolarono, scomposero un’espressione indecisa fra lo spezzarsi in un impeto di gioia o lo sciogliersi in un moto di disperazione. Alberto tremò. Venne aggredito dal terrore che tutta quella felicità appena ricevuta potesse venirgli sottratta, rubandogli quella luce, quel calore, e rendendo il suo animo di nuovo freddo e vuoto.

Nel suo cuore risuonò lo squillo d’argento dei sonagli natalizi, si propagò l’eco delle voci bianche che allungarono la nota fino a toccare le più alte nubi del cielo. La strada e i vicoli s’illuminarono. Si accesero tutti gli Alberi di Natale del mondo, il vischio fiorì, una dorata tempesta di stelle comete scalfì il cielo e piovve sui tetti imbiancati. I campanelli delle ghirlande di agrifoglio intonarono un inno celestiale, attirarono la discesa degli angioletti del Paradiso che sbatacchiarono le loro ali piumate, strimpellarono le loro arpe e soffiarono nei loro flauti. La neve più bianca e incontaminata si sbriciolò dalle cime delle montagne, danzò attorno a Giulia e Alberto come polvere incantata, brillò in un vortice di zucchero. Uno sciame di gioia accecante che spinse Alberto a strofinarsi gli occhi per evitare che le lacrime grondassero in abbondanza, bagnandogli le guance e spalmando sul volto uno strato di squame.

Alberto sforzò un sorriso per non sentirsi precipitare. «Lo sai che…» Diede un’altra strofinata agli occhi e tenne il braccio accostato a una guancia arrossata. Il cuore gonfio e appagato. «Lo sai che questo è il più bel regalo di Natale che tu potessi mai farmi?» Sentirsi chiamare “fratello” così, senza il tono sarcastico che lui e Giulia usavano per chiamarsi “fratellone” o “sorellina”… credeva che non sarebbe mai capitato. Credeva che non si sarebbe mai meritato di ricevere un simile dono, di vivere un momento così perfetto.

Giulia sorrise, inorgoglita, ma forse nemmeno lei era così consapevole di tutto il bene che aveva appena deposto nel cuore di Alberto. «Ancora meglio di una Vespa?»

«Ancora meglio di mille Vespa.» Alberto le avvolse una mano attorno alla nuca, intrecciò le dita ai riccioli rossi, le fece posare la fronte sul suo petto, tenendosela stretta, e le baciò i capelli che profumavano di camomilla, di zucchero caramellato, e di nevischio sciolto. Le sussurrò alla guancia. «Anche tu sei la mia sorellina.»

Attraversata da quel tiepido mormorio, Giulia venne colta da un brivido caldo e profondo, un battito che la rimise al mondo.

Giulia strinse forte le braccia attorno al torso di Alberto, spinse la guancia sul suo petto, rise sentendosi scoppiare di felicità, quasi temendo che il cuore avrebbe potuto sfuggirle attraverso i singhiozzi di quella risata così libera. Non avrebbe mai creduto che fosse possibile provare tanta gioia e tanto sollievo allo stesso tempo.

La gente che passeggiava loro attorno non badò a quell’abbraccio specchiato anche sulla vetrina del negozio di giocattoli. Le loro voci parlottarono, si mescolarono allo schioccare dei passi, allo scricchiolio del nevischio e degli impacchi infilati nelle borse, al coro che ora si era messo a intonare Adeste Fidelis. I lampeggi delle luminarie si attenuarono, quasi per non disturbare quell’angolino di pura felicità attorniato dai profumi di pasticceria, di caffè tostato, ma anche da quelli più acri e umidi del banco del pesce, e da quello del nevischio che, sciogliendosi, veniva calpestato dalle impronte fangose dei passanti sulle cui suole restava ogni tanto incollata qualche foglia di agrifoglio.

Circondata dalle braccia di Alberto, rasserenata dal suo profumo di mare, cullata dal suo respiro che batteva lento sotto l’orecchio, Giulia chiuse gli occhi umettati di gioia, strinse forte l’abbraccio attorno al corpo saldo di suo fratello, e impresse nella sua memoria quello che sarebbe rimasto uno dei ricordi più felici della sua vita.

Nel mezzo del parlottare estraneo della gente che camminava loro attorno, si avvicinarono passetti affrettati e familiari accompagnati dallo scricchiolio di una busta di plastica e da una vocina affannata dalla corsetta. «Scusate se ci ho messo tanto, ma c’era un sacco di fila, e anche quando sono riuscito ad arrivare al bancone ho perso tempo perché la signora davanti a me si è messa a litigare con il macellaio perché diceva che il prosciutto che gli aveva tagliato non era abbastanza…» Luca montò sul marciapiede e arrestò il passo. Compì un piccolo rimbalzo col capo, perplesso ma non allarmato, e rimase lì fisso con la busta di plastica a penzolare dalla mano. «Cosa…» Flesse il capo di lato. Sbatacchiò gli occhi davanti all’immagine di Giulia e Alberto così avvinghiati. «Cosa combinate, voi due?»

Giulia arrossì, ancora circondata da un braccio di Alberto, e si coprì la bocca per ridere.

Alberto rispose a tono, spavaldo come al solito. «Come cosa?» Alzò l’indice verso la ghirlanda di agrifoglio appesa sotto il cornicione del negozio di giocattoli. «Ci stavamo sbaciucchiando sotto il vischio.»

Giulia rise di nuovo e gli mollò un piccolo calcetto sulla caviglia. «Non è vero, scemo.»

Luca, lo sguardo alto e gli occhi ancora fermi sulla ghirlanda puntellata di bacche rosse, storse il naso. «Uhm, ma quello non è nemmeno…» Scosse il capo. «Non importa.» Raggiunse Giulia, le consegnò il sacchetto con lo zampone, e inviò una smorfia raccapricciata in direzione di Alberto. «E poi con tua sorella?»

Alberto sporse all’infuori il petto e sbuffò condensa dalle narici. «Già, perché?» sbottò. «Non sarai mica geloso?» Spalancò un sorriso smagliante e ammiccò con le sopracciglia. «Magari preferisci che mi sbaciucchi con te?»

Luca sbiancò come un cencio. «Veramente…»

«Quanto sei esigente» fece Alberto. «E va bene, va bene…» Prima che potesse sfuggirgli, Alberto cinse un braccio attorno alle spalle di Luca, lo attirò a sé e incastrò un piede fra i suoi, intrappolandolo. Gli fece scivolare una mano lungo la guancia – Luca rabbrividì al contatto –, raggiunse la punta del mento, gli fece sollevare il viso, e si specchiò nei suoi bellissimi e strabuzzati occhi nocciola. I nasi vicinissimi, l’umido respiro a toccare le labbra dell’altro. Quello di Alberto profumava del caffè che avevano sorseggiato prima di uscire. «Vorrà dire che mi sbaciucchierò anche con te.» Chiuse gli occhi e accostò la bocca a quella di Luca.

Luca cacciò un urlo di terrore e bruciò d’imbarazzo fino alle punte delle orecchie. «Aaargh!» Schiaffò le mani sulle labbra di Alberto e lo spinse via. «Smettila di dire queste cose indecenti!»

«Indecenti?» Alberto si massaggiò la bocca rimasta asciutta e si posò la mano sul petto, indignato. «Un bacio da parte mia sarebbe indecente? Sei proprio senza cuore, Luca.»

Luca si affrettò a gettare lo sguardo per terra. «Sai bene cosa intendo.» Si strofinò le guance che ancora bollivano di vergogna e confusione, si strinse nel cappotto, e sgattaiolò via, furtivo, accertandosi che nessuno avesse assistito alla scena.

Alberto rise a cuor leggero. «Dai, Luca.» Incalzò una corsetta e gli andò dietro. «Vieni qui, ché scherzavo.»

«Non si scherza su queste cose.»

«Allora fermati e facciamo la pace.»

«Non voglio fare la pace.»

«Niente pace?» Alberto si accostò a Luca e gli diede un colpetto con la spalla. «Proprio sotto Natale? Blasfemo… guarda che poi vai all’Inferno.»

Luca lo spinse via di nuovo. «Lasciami in pace, Alberto!»

Alberto rise come uno zuccone. Accelerò il passo, raggiunse di nuovo Luca, gli tornò ad avvolgere le spalle, lo spettinò e se lo tenne incollato addosso nonostante qualche spintarella sul petto di protesta. Alberto si girò in direzione di Giulia, le fece l’occhiolino e alzò due dita a forma di V. Lascia fare a me, la rassicurò il suo sguardo. Non permetterò che gli capiti mai niente di male.

Giulia strinse le mani attorno alla busta della macelleria e sospirò, rasserenandosi, certa che Luca fosse in buone mani.

Ma davvero le mani di Alberto, per quanto forti siano, sapranno proteggerlo da qualsiasi pericolo?

Un soffio di nevischio le si infilò sotto il bavero. Giulia, colta da un brivido, si strinse nel cappotto e si girò verso le luci del negozio di giocattoli, tornando a specchiarsi fra i colori della vetrina.

Lo sguardo le cadde di nuovo sul faro giocattolo, sullo specchio di mare azzurro che lo circondava, sulle barchette di legno che galleggiavano fra le onde spennellate con l’acquerello.

Quella visione le torse lo stomaco, lasciandola senza fiato. La avvolse un’ombra nera e fredda. L’ombra di un presagio. Il presagio che di lì a breve sarebbe capitato qualcosa. Qualcosa che avrebbe di nuovo messo alla prova la loro felicità e la loro amicizia. Qualcosa che forse nemmeno il coraggio di Alberto sarebbe stato in grado di affrontare e di vincere.

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Capitolo 35
*** 35 ***


35

 

 

Alberto fece scivolare l’indice lungo il vetro plasticato che proteggeva il tabellone degli orari del treno. Giunse all’arrivo della sua corsa e, per confrontare l’ora, rivolse lo sguardo al solito orologio a parete affisso sopra la porta di uno degli uffici.

Tristi residui delle decorazioni delle festività pendevano dal quadrante dell’orologio, ora che sia Natale sia Capodanno avevano fatto esplodere i loro colori che poi si erano estinti proprio come le luccicanti bolle di fuochi artificiali. I filari delle luminarie erano spenti; le foglie degli agrifogli cominciavano a scurirsi e a indurirsi all’altezza delle punte; le bacche del vischio erano appassite e raggrinzite; e i sonagli delle ghirlande erano diventati opachi come occhi assonnati.

La porta dell’ufficio più vicino si aprì e si chiuse – ne uscì un signore che reggeva una valigetta e una serie di cartelle gialle sottobraccio –, e la ghirlanda appesa alla maniglia dondolò, fece squillare il grappolo di campanelli che però non sembravano più cantare sprigionando la stessa allegria che li aveva illuminati durante le feste.

Pure l’aria che si respirava sotto le tettoie della stazione si era appesantita, densa e asfissiante come nebbia, come il vapore sfiatato dalle frenate dei treni in corsa. Nessun profumo di caldarroste, o di mandorlato, o delle frittelle spolverate di zucchero che i chioschi distribuivano appena fuori dalle porte della stazione. Persino l’odore del nevischio calpestato era più acidulo, come ferro arrugginito. Acqua sciolta dalla bocca di una fontana intasata che singhiozza zampilli lattei e stagnanti.

Uno degli altoparlanti si accese e gracchiò il suo richiamo. «Attenzione.» Il naso di qualche passante si alzò fra le colonne di cemento, inseguendo l’eco di quella voce. «Il treno delle undici e dieci, in direzione La Spezia Centrale, è in arrivo sul Binario Tre. Attenzione. Il treno delle undici e dieci, in direzione La Spezia Centrale, è in…»

Alberto fece scivolare l’indice giù dal tabellone degli orari, distolse lo sguardo dall’orologio, dopo essersi assicurato di non essere in ritardo, e ignorò l’annuncio dell’altoparlante che comunque non riguardava la sua corsa. Si piegò ad agguantare le maniglie del borsone, se lo caricò sulla schiena con un solo slancio, compiendo uno sforzo maggiore rispetto al giorno in cui era giunto a Genova, e si addentrò assieme a Luca e a Giulia in mezzo ai gruppetti di persone per raggiungere la piattaforma dove il treno per Portorosso lo stava già aspettando.

Passeggiando in mezzo alla gente, Alberto notò come i capannelli fossero più scarni rispetto a quelli in cui si era dovuto infilare il giorno in cui era smontato dal vagone, calpestando il suolo di Genova per la prima volta.

I passeggeri si strinsero in abbracci vigorosi, si confortarono strofinando affettuose pacche fra le spalle. «Mi raccomando, scrivimi ogni giorno, eh.»

Alcuni di quelli che erano già montati sui vagoni si sporsero dai finestrini e vennero salutati dallo sventolio di mani inguantate. «Fai buon viaggio.»

«Mi raccomando, copriti bene, farà freddissimo quando arriverai.»

«Di’ alla mamma di non preoccuparsi, penso io a Fabio quando tu non ci sei.»

«Torna a trovarci presto. Ti aspetteremo in qualsiasi momento, okay?»

«Non ti sei dimenticato la borsa con le focacce, no? Quelle della nonna che…»

Bimbi infagottati nelle loro sciarpette e cappottini si tuffarono fra le braccia dei nonni in partenza, si fecero sbaciucchiare, strofinare i capelli, e asciugare le sottili lacrime di cordoglio scese a rigare le gote arrossate.

«Mi raccomando» si assicurò una nonnina, «fa’ la brava e ubbidisci sempre alla mamma.»

La bimba tirò su col naso. «Torna presto, nonna.»

«Ma sì che torno presto.» La nonnina la abbracciò con affetto. «Io e il nonno torniamo prestissimo, e vedrai quanti bei regali che ti portiamo.»

Certi correvano. Urtarono qualche spalla, rischiarono di pestare qualche piede, si aprirono la strada fra i gruppetti più affollati, «Scusate, permesso, permesso», e si volatilizzarono in direzione del loro binario.

Qualcuno appena uscito dal tabacchino si soffermò sulla soglia, temporeggiando, e mettendosi a sfogliare il quotidiano appena comprato.

Una signora corse dal capostazione reggendo fra le mani il suo biglietto e una cartina spiegazzata. «Scusi, posso chiedere a lei?» Gli indicò un punto sulla carta. «Forse ho sbagliato tratta, perché mi sono un po’ persa. Per scendere a Novi Ligure devo prendere…»

Alberto sorpassò la scena. Strinse la presa sulle maniglie del suo borsone e gli diede una piccola spintarella di schiena per incastrarlo fra le scapole dove, come al solito, rimbalzava a ogni sua falcata di passo.

Il peso del borsone era aumentato rispetto all’inizio della vacanza e del suo soggiorno lì a Genova. Ma era naturale, dato che ora conteneva anche tutti i regali destinati a Massimo, a Daniela, e a Lorenzo. Inoltre Alberto si era assicurato di riempirlo con ingenti scorte di tutte quelle prelibatezze – dolci, liquori, sughi per pasta, caffè di prima qualità – che non avrebbe mai trovato né a Portorosso né nei dintorni del paese.

Non che quel peso fosse una fatica insostenibile per i suoi muscoli. Difatti, ad Alberto bastava reggere il borsone con un solo braccio piegato dietro la schiena. L’altra mano comodamente infilata nel calduccio della tasca della giacca.

Una disinvoltura tale che a Giulia venne da chinarsi per squadrarlo con circospezione, insospettita dal dubbio che il suo borsone non fosse pieno quanto avrebbe dovuto. «Sicuro di aver controllato bene la borsa?»

Alberto alzò gli occhi al cielo. «Sì.» Diede al borsone un colpetto di spalla. «Controllata e ricontrollata.»

«Hai messo dentro tutto?»

«Tutto quanto.»

«E non hai dimenticato niente?» Giulia aguzzò un cipiglio attraverso la fronte sgombera dei riccioli tenuti indietro col cerchietto. «I regali per i grandi?»

Alberto annuì senza nutrire il minimo dubbio. «Tutti impacchettati e al sicuro. Il disco per Massimo, il centrotavola per Daniela, e la moka gigante per Lorenzo.»

«E con le tue altre cose sei a posto?» Giulia schivò una delle panchine di pietra, accelerò il passo per affiancare Alberto, e si diede una strofinata alle braccia infreddolite dall’umidità mattutina. «Hai preso lo spazzolino da denti? Non è che ti sei dimenticato il pigiama?»

«C’è tutto, sta’ tranquilla» continuò a rassicurarla Alberto. «Non ho dimenticato niente.»

«E per il viaggio invece hai tutto quello che ti serve?» Gli occhi di Giulia assunsero una sfumatura più dolce e apprensiva. «Hai i fazzolettini? E dell’acqua? I panini e la cioccolata nel caso ti venisse fame?»

Alberto non poté fare a meno di scoppiare a ridere davanti a una tale petulanza da parte di Giulia. Non era da lei. «Sono a posto, Giulia, rilassati.» Scosse la testa, attraversò i riccioli con un colpo di mano, e allo stesso tempo si fece scappare un altro singhiozzo di risata, intenerito. «Per mille sardine, sei peggio di tuo padre.»

E Giulia sorrise raggiante, sentendosi sciogliere di orgoglio davanti a quel complimento. «Be’, ho imparato dal migliore.»

Giunsero alla piattaforma del binario dove il loro treno li stava già aspettando, fermo ma caldo e sbuffante. Il treno sibilò un soffio, esalò una nuvola del suo fiato bianco che investì i piedi dei ragazzi e che si dissolse all’altezza delle loro caviglie. I portelloni erano già aperti e qualcuno stava già salendo, si sorreggeva con la maniglia, aiutava con le valige i passeggeri vicini, e poi spariva all’interno del vagone, riducendosi a una sagoma che da fuori si vedeva scivolare dietro la fila di finestrini scuri.

Anche Luca, Alberto e Giulia arrestarono il passo. Lanciarono un’ultima occhiata all’orologio che però non aveva ancora scoccato il giusto orario della partenza, concedendo loro qualche minuto in più per salutarsi. Ma era sempre così difficile dirsi addio. Non c’era mai abbastanza tempo, e non sarebbero mai esistite le parole adatte.

Alberto strinse la presa tremante attorno alle maniglie del borsone, trasse un lungo sospiro, si svuotò di quel peso che gli opprimeva il petto. «Be’.» Si diede una strofinata al naso, guardò per terra, grattò il cemento con la punta della scarpa. «È l’ora, mi sa.»

Pure Luca gettò lo sguardo ai suoi piedi, investito dalla fredda ombra di quell’addio che penetrò sotto i suoi abiti e che graffiò una scia di brividi lungo la schiena ricurva. «Sì.»

Giulia annuì. «Già.» Raccolse una manciata di capelli tenuti indietro dal cerchietto, li pettinò dietro la spalla, e si strofinò la nuca. Sospirò anche lei, gonfiando una bolla di condensa. Un sospiro avvilito tanto quanto i suoi occhi umidi. «È l’ora.»

Da un altro binario si innalzò il fischio del capotreno. «Allontanarsi dai binariii!» Si aggiunse lo stridere della locomotiva che sfiatò il suo sbuffo di partenza, e la marcia dapprima lenta poi sempre più veloce e regolare del treno che imboccava la curva, che aggirava le colonne, e che usciva dalla stazione.

La leggera corrente sollevata da quella corsa raggiunse i ragazzi, sventolò loro addosso l’odore della polvere, del nevischio sporco, del ferro, della cenere e della fuliggine proveniente dai comignoli che sbucavano in cima ai grigi palazzoni della periferia.

Il passaggio del treno fu una freccia scoccata attraverso il cuore di Luca. Luca singhiozzò, stropicciò le maniche della giacca fra le dita, arrivando a graffiarsi le nocche che bruciarono tanto quanto il suo petto gonfio di dolore, già sofferente per quel senso di perdita che stava per svuotargli l’anima. Strinse gli occhi, tenne il viso basso, incapace di farsi guardare in faccia da Alberto, vergognandosi di quegli occhi così tristi e miserabili, incapaci persino di sfiorare il suo profilo.

Giulia rabbrividì sotto quella scura e umida nuvoletta di cordoglio. Strofinò una carezza sulla schiena di Luca, gli sorrise, e poi sorrise anche ad Alberto, aprendo uno spiraglio di luce fra le nubi.

Alberto sorrise a sua volta. Poggiò a terra il suo bagaglio e distese il braccio verso di lei. Giulia capì. Spalancò le braccia, gli si gettò addosso e annegò nel suo petto, rievocando il calore dell’abbraccio che si erano scambiati prima di Natale, in centro città, davanti al negozio di giocattoli, sotto le bacche dell’agrifoglio, circondati dal lampeggiare delle luci natalizie e dal profumo delle noccioline candite.

Giulia incastrò i piedi fra i suoi, gli si avvinghiò al torso come quella sera e sorrise attorniata dal profumo della sua giacca, intiepidita dalla luce di quel prezioso ricordo che avrebbe per sempre custodito in una nicchia del suo cuore. «Fa’ buon viaggio, Alberto.» Gli batté una pacca sulla schiena. Un gesto decisamente più consono da parte sua. «E mi raccomando, telefonaci non appena arrivi a casa, così sappiamo che sei giunto sano e salvo.»

Alberto annuì strofinando la guancia sui suoi riccioli rossi. «Promesso, promesso.» Scostò un lembo della sciarpa di Giulia che si era sgualcito fra di loro. «Tirerò su la cornetta ancora prima di togliermi le scarpe e di disfare la valigia.»

«Ma almeno assicurati di essere entrato nella casa giusta.»

Risero entrambi. Fu una risata triste, ma seppe saziarli a dovere.

Pure Luca forzò un sorriso, pur non riuscendo ad assecondare la loro allegria. Gli fu difficile sollevare le spalle, raddrizzare la schiena, esporre il viso alla luce e lasciar cadere la corazza di quella nicchia che gli offriva una protezione dal dolore che lo avrebbe raggiunto di lì a poco. Se ne stette in silenzio nel suo cantuccio, temporeggiò, evitò di guardare l’orologio e il ticchettio delle sue lancette che avanzavano inesorabilmente. Intrecciò le dita sul grembo, stropicciò le maniche della giacca, dondolò avanti e indietro sui talloni, lasciò vagare lo sguardo fra i passanti, lo fece scivolare lungo il profilo del treno di cui non riusciva a scorgere né l’inizio né la fine. Si affacciò al suo riflesso specchiato su uno dei finestrini e gli venne incontro la scintilla balenata dai suoi occhi arrossati e umettati di nostalgia. Si affrettò a strofinarli. Tirò su col naso, si strinse nel cappotto, girò il viso dall’altro lato, tenendosi la guancia coperta, e soffiò un tremante sospiro di tensione che si condensò in una nuvoletta bianca davanti alla punta del suo nasino arrossato.

Da sopra la spalla di Giulia, attraverso il solletico dei suoi riccioli e il loro profumo di shampoo alla camomilla, Alberto sbirciò in direzione di Luca, intercettò lo sfregare continuo delle sue dita sulla giacca, il dondolio delle sue ginocchia, il pallore del suo viso, il rosicchiare costante sul labbro inferiore, e il suo sguardo umido e sfuggente. Gli vide piovere addosso quel triste dolore troppo grande per essere sostenuto da un corpicino piccolo come il suo. «E tu non mi saluti, Luca?»

Luca trasalì. «Oh!» Conficcò le unghie nelle maniche della giacca e arrossì di botto all’altezza delle guance. «I-io, ecco…» Indicò il treno, indicò dietro di sé, fece mulinare il dito, e si grattò la testa, tornando ad arricciare la tremolante postura delle spalle. «Io stavo per…»

Giulia sciolse per prima l’abbraccio e scivolò in disparte, strizzando a Luca un occhiolino d’intesa. Seppe cosa fare.

Alberto porse le braccia a Luca. «Dai.» Lo incitò scuotendo le mani verso di sé. «Vieni qui, testolina.»

Luca inspirò più forte attraverso i denti ancora serrati attorno al labbro. Quel respiro così aspro gli bruciò nel petto, sprofondò come un masso nello stomaco, disintegrò ogni suo ritegno, gli fece tremolare il mento, e gli annacquò la vista.

Si fiondò ad abbracciarlo, gli allacciò le braccia attorno al torso, e sprofondò con la faccia nel suo petto per non dargli modo di scorgere quella sua espressione così pietosa. Ma lo fece anche per potergli respirare nella giacca, per sigillare dentro di sé ogni profumo di Alberto, ogni sfumatura del suo ricordo, tutta quella vicinanza di cui avrebbe avuto bisogno per affrontare quei mesi che sarebbero trascorsi senza averlo affianco.

Luca rabbrividì contro il corpo di Alberto. Affondò le dita fra le pieghe della sua giacca, strinse le braccia tanto da percepire un piccolo spasmo di resistenza da parte di Alberto, e infilò le gambe fra le sue, impedendogli di indietreggiare anche solo con la punta di un piede. Era sicuro che, se avesse avuto la coda di fuori, non avrebbe esitato ad aggrovigliarla attorno alla sua schiena, impedendogli di saltare sul treno e di partire.

Alberto si ritrovò circondato dai suoi tremori, percepì la rigidezza di Luca, riconobbe quel bisogno di stargli avvinghiato per non sentirsi precipitare. Gli strofinò la schiena – sono qui, sono qui con te – e sorrise sfiorandogli i capelli con le labbra, sapendo di dover rimanere forte per entrambi. Si chinò a parlargli all’orecchio. «Grazie per avermi fatto visitare Genova.» Il tiepido tocco del suo sorriso si spostò sulla guancia di Luca. «Avevi ragione, è proprio una città fantastica. Sono stato contentissimo di averla vista assieme a te.»

«Oh.» Luca allentò la stretta delle braccia. «Pre…» Scollò il petto da quello di Alberto, sprimacciò le nocche sulle palpebre umettate di emozione. «Prego.» Accennò un dolce sorriso di gratitudine che si specchiò negli occhi di Alberto. «Grazie per essere venuto a trovarci» gli disse. «Grazie per aver trascorso il Natale assieme a me e a Giulia. È stato bello stare di nuovo tutti e tre assieme, anche se non è ancora estate.»

«Dovrete farci l’abitudine più spesso, allora.»

«Abitudine?»

«Ma sì» fece Alberto. «A vedermi qua in giro.» Strofinò un’altra pacca di incoraggiamento fra le scapole di Luca, e il suo sorriso si fece ancor più largo e radioso. «Non vedo già l’ora di tornare a trovarvi di nuovo, così potremo esplorare tutti quei posti che non siamo potuti andare a visitare in questi giorni. Magari la prossima volta verrò giù in auto, così avremo tutto il tempo e lo spazio del mondo. Potremmo viaggiare lungo tutta la costa, dormire dove ci capita, fare un bagno a ogni fermata, mangiare gelato anche a pranzo e cena.» Gli toccò la spalla con un soffice pugnetto. «Non sarebbe grandioso?»

Luca deglutì, «Sì», sentendosi addolorare da quei pensieri e da quelle idee. Tutte quelle immagini fin troppo belle per potersi materializzare fra le sue fragili manine. «Sì, grandioso, davvero.»

Alberto gli sorrise, schiuse le labbra, fece per snocciolare qualche altra spavalda rassicurazione delle sue, quando uno dei gruppetti di persone che popolavano la piattaforma si divise, ne uscì un signore vestito in giacca e cravatta che accelerò la corsa, si girò a scusarsi con quelli che aveva travolto, saltò sul vagone più vicino, urtò anche la spalla di Luca, «Scusi, mi scusi», e svanì all’interno del treno.

Luca si sbilanciò, intrecciò i piedi fra quelli di Alberto e gli finì addosso, crollando fra le sue braccia che lo sostennero senza sforzo. «Attento.»

Luca, scosso dalla voce di Alberto che aveva vibrato così vicina al suo orecchio, si appigliò alle sue braccia, «Scusa», e tornò a irrigidirgli addosso.

Questa volta pure Alberto si lasciò trascinare dall’impeto di quell’abbraccio. Affondò il viso nella spalla di Luca, lo strinse tanto forte che quasi lo sollevò da terra, e di nuovo il suo respiro tiepido e profumato di caffè gli parlò alla guancia. «E tu mi aspetterai, Luca, mh?» La sua mano risalì la schiena, gli massaggiò la nuca, gli trasmise un brivido caldissimo che formicolò dietro le orecchie. «Farai il bravo?»

Luca ansimò, soffocato da quell’abbraccio così improvviso e intenso. «S…» Deglutì, scoprendo la gola asciutta e il petto pesante, e gli annuì contro la spalla. «Sì.»

«E resisterai ancora qualche mese senza di me?»

Luca annuì di nuovo ma senza aggiungere parola, solo stringendo forte le braccia, trattenendo il respiro, tremando contro il torso di Alberto, assalito dai crampi al cuore e dal bruciore agli occhi.

Contagiato dal dolore di quella separazione, Alberto gli strofinò un’ultima carezza fra i capelli. Allentò la pressione delle braccia e compì un passo indietro.

Luca scosse forte la testa senza scollargli la faccia dal petto. Tornò a stringere le braccia, disperato, e lo attirò a sé con prepotenza, squittendo un gemito di dolore, terrorizzato dall’idea di ritrovarsi senza uno scoglio a cui appendersi. E ancora non era abbastanza. Solo in quel momento poté rendersi conto di quanto dovesse soffrire Alberto durante ogni partenza da Portorosso, quando era Luca a sciogliere l’abbraccio e a montare sul vagone, dandogli la schiena e viaggiando verso l’incertezza che li avrebbe tenuti separati per tutto l’inverno.

Alberto non si sognò di lasciar andare Luca, ma anche lui soffrì a causa di quell’abbraccio così agonizzante. Ogni tremito di Luca e ogni suo piccolo sospiro era uno spillo che andava a conficcarsi nel suo cuore.

Frastornato e impotente davanti al crollo di Luca, Alberto sollevò lo sguardo e andò incontro a Giulia, implorando un aiuto, un consiglio, una qualsivoglia di reazione che avrebbe sgarbugliato entrambi dalla rete di quel pasticcio.

Fra lui e Giulia tornò a calare la buia foschia della sera di dicembre in cui erano usciti a fare spese. Galleggiò la polvere di nevischio e aleggiò il vapore delle noccioline caramellate, lampeggiarono le luminarie colorate, e si spalancò il chiarore delle vetrine in mezzo a cui avevano passeggiato e inspirato gli odori del centro città.

Tornarono i loro sospiri di apprensione, le loro inquietudini e i loro dubbi nutriti nei confronti di Luca. Tutte le promesse sigillate sotto la testimonianza dei presepi e la benedizione delle ghirlande di agrifoglio.

Però mi devi almeno fare una promessa” gli aveva detto Giulia.

E Alberto l’aveva squadrata con scetticismo. “Quale?”

Che se fosse lui a chiederti di tornare a Portorosso con te, dopo Natale, tu non gli dirai di no. Devi promettermi che lo prenderai per mano, che lo caricherai sul treno assieme a te, e che ve ne tornerete a casa assieme. E promettimi che se avrai qualcosa da dirgli, allora gliela dirai chiaramente, senza girarci attorno, senza aspettare che sia davvero troppo troppo tardi per sistemare le cose. Devi promettermelo, Alberto. Devi promettermi che farai qualsiasi cosa per Luca, per farlo stare anche solo un pochino meglio di come si sente ora.”

Da parte di Giulia si ripeté la stessa insistenza. I suoi occhi si tesero sulla scena, spostandosi da Alberto a Luca, da Luca ad Alberto, come a volergli dire: dai, guardalo, non vedi che ti sta praticamente implorando di farsi portare via con te? Mantieni la promessa e comportati da adulto come avevi giurato, Signor Maggiorenne.

Sentendo sulle sue spalle il peso di quella promessa e udendo la vocina del proprio onore che lo incitava, Alberto si gonfiò il petto, tenne ben salde le braccia attorno a Luca, e annuì con lo sguardo: ci puoi scommettere che manterrò il mio giuramento. Sono un pesce e un adulto di parola.

«Luca, ascolta» gli disse. «Prima che io vada, c’è…» Allentò di poco l’abbraccio, in modo che fosse possibile separarsi e guardarsi negli occhi. Andò in cerca di un contatto. «C’è una cosa che voglio chiederti.»

«Una…» Pure Luca riuscì a scollare la fronte dal petto di Alberto e a strofinarsi la manica sugli occhi per schiarirsi la vista. «Cosa?» Però le braccia tornarono ad avvilupparsi al suo torso, le mani strizzarono le pieghe della giacca, solleticate da un presentimento che gli suggeriva di prepararsi a ricevere un impatto, un colpo che avrebbe potuto scaraventarlo a terra. «Che cosa?»

Alberto gli indicò il treno con un cenno del capo. «Vuoi venire giù con me?»

Luca sgranò gli occhi, e le iridi nocciola acquistarono il bagliore di una sfumatura viva e rubizza. Un gemito di stupore si spezzò fra le sue labbra screpolate dal freddo. «Ve-venire…» Fra tutti gli impatti che avrebbe potuto immaginare, quello era decisamente il più inaspettato. Per quell’attimo, sotto i suoi piedi si spalancò un senso di vuoto che lo fece sprofondare. Giù? Giù in acqua? Giù negli abissi? Il nero delle acque più profonde gli vibrò attorno, pronto a spalancare le sue fauci e a inghiottirlo. «Giù?» domandò Luca con vocina tremula. «Cioè, nel senso…» Tuttavia brillò una lucina. Una fiaccola che era sempre rimasta accesa ad attendere il suo ritorno. «Nel senso di tornare a Portorosso? Di tornare a Portorosso con te adesso

«Sì» gli rispose Alberto. «Perché no?»

«Ma io…» Il formicolio di quel desiderio punse la pelle di Luca con maggior insistenza, risalì il volto e gli tinse le guance di un rosso più acceso e speranzoso. Una speranza che lo avrebbe spinto a dirgli di sì senza pensarci due volte, che lo avrebbe incoraggiato ad aggrapparsi alla mano di Alberto, a saltare sul treno assieme a lui, e a far ritorno a Portorosso, alla culla della loro amicizia. Ma non può essere così facile. Deve per forza esserci qualcosa che io… «Ma non ho il biglietto.»

«Che importa?» Per Alberto sembrava tutto così semplice. «Lo facciamo adesso. Per quello che costa…»

«Non ho nemmeno la valigia» insistette Luca. «Tutti i miei vestiti, tutte le mie cose…»

«Possiamo andare a casa, preparare un bagaglio veloce, poi tornare qui in stazione e prendere il treno dopo, magari quello di stasera.» Alberto fece spallucce. «Tanto che fretta c’è? Ora più ora meno…»

«Ma…» Luca esitò di nuovo, colto da un brivido, da un campanello d’allarme che lo pizzicò dietro l’orecchio. Era tutto troppo bello per potersi realizzare, e gli stava scivolando sotto il naso con una facilità irreale e disarmante. Doveva per forza esserci un tranello sotto. La voce di Bruno venne in suo soccorso e gli suggerì di stare in guardia, persino se si trattava di dover diffidare di Alberto. «Perché?»

Alberto si guardò attorno, si lasciò distrarre dalla gente che passava, dal capotreno che parlottava con uno dei passeggeri. Diede un calcetto al pavimento sfiorando il borsone rigonfio. «Così.» Si passò una mano attorno alla nuca, strofinò i riccioli, fece quel suo muso da finto tonto. «Per il gusto di farti un viaggio in treno. Per prenderti una vacanza. Deve per forza esserci un motivo?»

«L’ho appena fatta, la vacanza.»

«Lo so, ma così potresti venire giù a trovare i tuoi genitori. Stare con loro, rilassarti un altro po’ prima che ricominci la scuola.»

«Ma la scuola ricomincia la prossima settimana.» Luca scosse la testa, irremovibile. «Ormai è troppo tardi per prendersi una seconda vacanza.»

«Secondo me invece ti farebbe un sacco bene concederti qualche giorno di riposo in più.» Alberto si infilò le mani nelle tasche, grattò sul fondo, compì qualche passetto su e giù, adocchiò l’orologio alla parete con fare distratto, tanto per essere sicuro di avere ancora tempo. «Eddai, mica è una tragedia. Si tratterebbe solo di una settimana o due, mica di un anno intero. Ti inventi una scusa.» Sghignazzò una risata. «Magari che ti sei beccato l’influenza, o la polmonite, o un’ulcera perforante, o una schifezza del genere, e nessuno potrebbe fare storie a riguardo. Vieni giù a Portorosso, ti riposi, scacci qualche brutto pensiero dalla testa, ti rilassi, metti il cervello in carica, trascorri qualche giornata con i tuoi genitori, con i tuoi pesci, e poi magari potremmo anche andare a farci qualche nuotata assieme.» Nei suoi occhi si accese una scintilla diversa, più pura e più giovane, degna di tutta la fiducia che Luca era in grado di offrirgli. «Potremmo passare un po’ di tempo da soli sull’isola come ai vecchi tempi.» Pure nel suo cuore bruciò il tepore di quella speranza. «Non sarebbe mica male, no? Potremmo progettare qualche costruzione nuova, oppure potremmo farci dei giri in bici fuori paese, e per te sarebbe l’occasione ideale per pensare a tutto meno che ai libri, allo studio, e agli esami di Maturità. Altrimenti ti va in pappa il cervello, credimi. Vedrai che sarà anche più facile ritornare a scuola, se ti sarai rinvigorito per bene.» Incitò Luca con un soffice colpetto sulla spalla. «Passerai gli esami come se niente fosse, da’ retta a me.»

«Ma…» Luca si strofinò il braccio, si morse il labbro, e scoprì di essere tentato. «Ma io…» Accidenti, se era tentato! Sentì il fuoco di quella tentazione ardergli nella pancia e accelerare i battiti del suo cuore. Però la vocina di quel sospetto non gli diede pace, gli punzecchiò il collo, gli tirò l’orecchio, lo rese inquieto. Luca riprese a stropicciarsi le maniche fra le dita sudate, spostò il peso da un piede all’altro, e abbassò gli occhi davanti ad Alberto, come se fosse stato difficile fidarsi della sua parola. «Perché me lo stai chiedendo?»

Il sorriso di Alberto si raffreddò. Dal suo viso si sciolse ogni spavalderia, i tratti della sua espressione si indurirono nell’adulto che il tempo stava lentamente plasmando in lui. «Perché non voglio vederti stare male.»

Il cuore di Luca guizzò in un sussulto. Un singhiozzo che riempì col suo calore quel triste vuoto che gli stava rodendo la pancia.

Sullo sguardo di Alberto calò un’ombra che lo isolò dall’ambiente della stazione, dal sottilissimo strato di vapore proveniente dai treni in partenza, dall’aria grigia e polverosa di quella mattinata così umida, e dal continuo scorrere delle persone che marciavano loro attorno. Quel fragile drappo di oscurità sulla sua pelle bruna mise in risalto la premura dei suoi occhi che riuscirono a brillare e a scaldare nonostante il freddo che li circondava. «C’è qualcosa che non mi stai dicendo, non è vero, Luca?»

Luca sbiancò e s’impietrì, come se Alberto avesse affondato una mano nel suo petto e gli avesse strizzato il cuore.

Alberto non gli diede occasione di difendersi o di sottrarsi al suo sguardo. «Non credere che io non l’abbia capito» gli disse. «Ti conosco fin troppo bene.» E lo consolò con un tiepido sorriso. «Dopo tutti questi anni, sarebbe piuttosto strano se non sapessi interpretare il tuo malumore o le tue preoccupazioni.»

«Se…» Luca strinse le braccia al petto, si strofinò le spalle irrigidite, e azzardò un passetto all’indietro, innalzando una barriera difensiva. «Se mi stai forse accusando di starti tenendo nascosto qualcosa, allora…»

«Non ti sto accusando di un bel niente, Luca.» Il tono di Alberto fu deciso ma tutt’altro che aggressivo. «Tutto quello che so è l’unica cosa che voglio è rivederti sorridere come un tempo. E non te l’ho visto fare nemmeno una volta da quando sono qui.» Fece un sospiro. «E nemmeno la scorsa estate, se è per questo.»

«Io…»

«Non ti sto accusando di niente, te lo giuro» insistette Alberto. «E non è di certo per farti un interrogatorio né per metterti alle strette che ti sto dicendo di venire giù a Portorosso con me.»

Luca gettò lo sguardo ai suoi piedi. «Perché dovrei seguirti, allora?»

«Per permettermi di aiutarti.» Alberto compì un passetto più vicino. «Di aiutarti a risolvere qualsiasi cosa ti stia dando il tormento frullandoti per la testa.» La sua presenza raggiunse Luca e lo pervase col suo profumo di mare, con il tepore del suo respiro lento, con la ruvidezza della sua voce così calda e confortante. «Possiamo affrontarlo assieme, Luca. Non è necessario che ne parliamo subito, se non te la senti. Ma magari stando di nuovo più vicini troveremo una soluzione.»

«Vi…» Luca corrugò la fronte. «Vicini?» Lo spiffero di un sospetto s’insinuò nel suo cuore, freddo e tagliente come la corrente invernale che si respirava nei pressi del porto. «Allora è per questo che hai accettato di venire a Genova a trascorrere le vacanze?» Quel brivido gli irrigidì i muscoli delle spalle. I suoi pugni strinsero, affondarono le unghie nelle maniche della giacca, e dagli occhi così tristi balenò una luce di ostilità. «Per tenermi d’occhio? Perché sapevi che non mi sarei comportato come al solito?»

«Ehi.» Alberto mise le mani avanti, ma mantenne lo sguardo alto e un’espressione leale. «Non farla sembrare così brutta, adesso. Sono venuto a trascorrere le vacanze qui a Genova perché avevo voglia di vederti e di trascorrere del tempo con il mio migliore amico.»

«E per vedere se mi sarei comportato in modo strano e preoccupante.»

«Strano e preoccupante come quest’estate, d’altronde» controbatté Alberto. «Nemmeno quest’estate ti sei comportato come al solito, Luca. E anche quando a settembre sei tornato a casa, poi… poche lettere, poche telefonate.» Inarcò un sopracciglio. Il suo tono assunse una lieve sfumatura di rimprovero. «Credevi che non mi fossi accorto di niente?»

Luca inspirò, trattenne il fiato bruciante. «Credevo che non t’importasse.»

«Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?»

«Io…» Quel forte bruciore formicolò attraverso il petto di Luca, lo costrinse a strofinarsi le braccia con maggior insistenza, a scrostarsi di dosso il peso soffocante di quel senso di colpa – come aveva anche solo potuto pensare male di Alberto? –, quando un’altra pressione lo raggiunse e gli premette sulla schiena. L’insistenza di uno sguardo che aveva sempre sorvegliato la scena, orecchie che si erano tese verso le loro parole, una bocca che era rimasta muta per tutto quel tempo se non per qualche sospiro di apprensione.

Luca si girò, e il suo sguardo cadde su quello di Giulia.

Giulia compì un sobbalzo, trafitta da quell’occhiata. Si voltò di scatto, giocherellò con un ricciolo per nascondere il viso, aggiustò il cerchietto, si rosicchiò le unghie, e grattò a terra la punta del piede, lo stesso gesto di nervosismo compiuto anche da Alberto poco prima.

Fu allora che Luca capì. E, capendo, venne colpito da una fredda stilettata allo stomaco che gli aggrovigliò la pancia in un gomitolo di rabbia, dolore e delusione nei confronti dei suoi due migliori amici che non avrebbero dovuto covare segreti nei suoi confronti, ma che avevano tramato alle sue spalle per tutto quel tempo. Una complicità che forse era cominciata ben prima delle vacanze di Natale e dell’arrivo di Alberto a Genova.

L’idea non è stata di Alberto, realizzò Luca, sentendo il nero dolore di quel pensiero rimbombargli nel cuore. L’idea è stata di entrambi. È stata Giulia a convincere Alberto a venire qua a Genova per Natale. E magari è stata anche sua l’idea di dire ad Alberto di chiedermi di tornare con lui a Portorosso. Altrimenti perché Alberto me lo avrebbe proposto? Non avrebbe avuto senso. Per tutto questo tempo, per tutti questi giorni trascorsi assieme…

Strinse e rilassò i pugni bianchi di tensione. Le forze lo abbandonarono, scivolarono via dal suo corpo come un’onda che si ritira dalla spiaggia, lasciando la sabbia nuda e scura.

Tutto solo per arrivare a questo?

Luca lasciò ciondolare il capo in avanti, rilasciò un lungo sospiro che lo svuotò di ogni speranza.

Era troppo bello per essere vero. E io che per un istante mi sono anche illuso. Ma allora Alberto e Giulia hanno sempre tramato alle mie spalle? No. No, di certo non lo hanno fatto con cattiveria.

Si strofinò il braccio, tornò ad arricciare le spalle in quel piccolo guscio dentro cui si sentiva protetto.

Di certo si stanno comportando in questa maniera solo perché sono davvero preoccupati per le mie condizioni. Dovrei sentirmi sollevato da questo. Dovrei sentirmi al sicuro sapendo di avere loro due che mi sostengono quando mi trovo in difficoltà.

Strizzò la manica fra le dita e si morsicò il labbro. Il ferroso sapore del sangue penetrò la bocca, gli punse le guance, ed evocò un caldo e disgustoso conato di nausea.

Allora perché non riesco proprio a fare a meno di sentirmi irritato da tutta questa situazione?

«Io…» Luca strinse le mani sul grembo, compì un passo all’indietro, prese una distanza definitiva da Alberto. «Io non posso.»

Le palpebre di Alberto compirono un piccolo scatto, un suo sopracciglio s’inarcò in un’espressione stordita. «No?»

Luca scosse la testa. «So che sei preoccupato per me» gli disse. «E so anche che non mi sto comportando come…» Intrecciò le punte delle dita e rigirò una suola sul cemento. «Come mi comportavo una volta. E mi dispiace che tu e Giulia e mamma e papà vi stiate preoccupando così tanto per me. Ma non posso tornare con te a Portorosso. Proprio perché è l’ultimo anno di scuola e proprio perché gli esami di Maturità sono così importanti, non posso permettermi di saltare nemmeno una lezione. Sarebbe fin troppo irresponsabile da parte mia.» Accennò un sorriso, provò a essere più convincente, a ravvivare quel tono di voce così cupo. «E poi, se venissi con te giù a Portorosso, non credo proprio che riuscirei a rilassarmi o a riposarmi a dovere, sapendo di avere tutti i compiti e lo studio che mi aspettano qui a Genova. Sul serio, Alberto…» Annuì, senza comprendere chi dei due stesse cercando di convincere. «Va bene così.»

Lo sguardo di Alberto si soffermò su quello di Luca, questa volta senza alcun sostegno proveniente da Giulia, e gli offrì un’ultima possibilità. «Sei sicuro?»

«Sì.» Luca rispose senza esitazione, perché un’altra paura era sorta nel vortice dei suoi pensieri. Una seconda motivazione che lo spingeva a tenersi lontano da Portorosso e dal suo mare che gli aveva soffiato la vita nelle branchie e nei polmoni.

Tornare a Portorosso…

Accettare la mano di Alberto, affidarsi alla salda presa del suo braccio, aggrapparsi a lui e lasciarsi condurre nel rifugio di casa sua, al sicuro, dove si sarebbe sentito protetto e dove nulla avrebbe potuto fargli del male.

Tornare a Portorosso e poi magari rendermi conto di non riuscire più a staccarmene.

L’azzurro e limpido mare di Portorosso si tinse di nero; onde alte e aguzze come zanne rovesciando le barche del porto, spezzarono i loro remi e sbrindellarono le loro vele; nuvoloni grigi gonfiarono le guance bitorzolute, sbuffarono zaffate impetuose che travolsero i marinai e i pescatori, e sbatterono i relitti delle imbarcazioni sugli scogli divorati dall’erosione, dove le ostriche brulicavano, moltiplicandosi di generazione in generazione, senza mai staccarsi dalla roccia.

Se tornassi a Portorosso proprio ora, rischierei di non poter più tornare indietro. E farei la fine dell’ostrica, dell’ostrica costretta a rintanarsi sotto lo scoglio perché è stata rigettata dal mare dove ha provato a tuffarsi senza conoscere il mondo che la aspettava. No.

Un brivido ghiacciato risalì il collo, gli azzannò la nuca, gli gelò la faccia e gli sbiancò le guance.

No, io non voglio questo.

«Poi non è il caso di farne un dramma.» Luca si disfò di quei cattivi pensieri rivolgendo ad Alberto un sorriso rassicurante, anche se tremolante d’incertezza. «L’inverno passerà in fretta, e l’estate arriverà in un baleno. Quando finalmente avrò dato gli esami e la scuola sarà finita, avremo tutto il tempo del mondo per divertirci e stare assieme come ai vecchi tempi.» Si girò e andò in cerca dell’appoggio di Giulia. «Non è vero, Giulia?»

Lei ripeté quel sobbalzo che l’aveva scossa anche poco prima. «Ah! S…» Sfilò le dita dai riccioli. «Sì, è…» Sventolò le mani senza però riuscire a guardare Luca negli occhi. «È proprio vero.»

Ma Alberto insistette. «Tu lo sai che io ci sarò sempre ad aspettarti, se sentirai il bisogno di tornare a Portorosso, in qualsiasi momento, non è vero?»

«Sì.» Questa volta la risposta di Luca fu spontanea e sincera. I suoi occhi limpidi e luminosi non temettero di sostenere lo sguardo così vicino di Alberto. «Sì, lo so, Alberto.» Gli sorrise a cuore aperto, lasciando che quel calore gli alleggerisse l’anima, che lo facesse sentire libero e felice come quando da piccolo guizzava da un’onda all’altra rincorrendo la scia blu sbatacchiata dalla coda di Alberto. «Mi fido di te.»

Alberto arricciò un mezzo sorriso da furbacchione. «Sempre?»

Luca annuì senza esitare. «Sempre e per sempre.»

Il fischio del capotreno si innalzò fino alle tettoie del binario, perforò il vapore soffiato dalle locomotive, e propagò il suo eco fra i colonnoni di pietra. «In carrozzaaa

A Luca mancò il fiato, provò un tuffo al cuore. Oh no. «Di già?» E un senso di perdita che lo fece vacillare nel vuoto.

La calca si affrettò a disperdersi, a sventolare gli ultimi saluti, a schioccare gli ultimi baci, a correre verso i portelloni aperti, con i bagagli a rimbalzare fra le gambe, e a saltare sui vagoni.

Alberto anticipò un fremito di Luca e tornò ad avvolgerlo con entrambe le braccia, dato che il borsone giaceva ancora ai suoi piedi. Gli strofinò i capelli, gli cullò le spalle avanti e indietro, e inspirò forte contro la sua spalla, gonfiando il petto sul suo. Questa volta fu lui quello a dar l’impressione di far fatica a staccarsi e a non volerlo lasciare andare. «Studia sodo, okay, testolina?» Rise, e la vibrazione di quella risata solleticò anche il petto e la guancia di Luca. «Ma attento a non friggerti il cervello, altrimenti poi chi è che si farà venire in mente le idee più geniali, fra noi due?»

Luca strinse l’abbraccio, accoccolò il viso contro la sua spalla, gli sfiorò il collo con la punta del naso e sprofondò nel suo delizioso profumo acidulo e speziato di origano, di salsedine e benzina. «Lo farai tu che sei la mia Volpe.»

Alberto spremette la guancia su quella di Luca – una guancia così soffice e calda – tanto da fargli percepire il tiepido e umido tocco delle sue labbra affianco all’orecchio. «Sarò la tua Volpe se tu rimarrai per sempre il mio Gatto.»

Luca percepì la scossa di quel brivido attraversargli la guancia, scendere lungo il collo, avvolgerlo come la carezza più calda, e squagliare ogni sua difesa. Salendo sulle punte dei piedi, tenendosi avvinghiato a quella stretta così dolorosa e soffocante, Luca strizzò gli occhi e faticò a contenere il bruciore delle lacrime, a ignorare il lacerante battito del cuore a cui sarebbe bastato un singolo singhiozzo per soffocarlo.

Gli venne da domandarsi quante altre volte lui e Alberto sarebbero stati costretti a sopportare i dolori di quelle innumerevoli separazioni. Gli venne da chiedersi quante altre volte sarebbe stato capace di sopportare la visione delle loro mani che si lasciavano.

Il secondo e più insistente fischio del capotreno li costrinse a sciogliere l’abbraccio.

Alberto si chinò a raccogliere il suo bagaglio, gli diede un colpetto di spalla per farlo stare in equilibrio sulla schiena, reggendolo sempre con un braccio solo, e sventolò la mano libera per rivolgere l’ultimo saluto a Luca e Giulia. «E non cacciatevi nei guai mentre sarò via, d’accordo?»

Giulia affiancò Luca, si passò la manica del cappotto sugli occhi, e batté un saluto militare sulla fronte. «Agli ordini, Signor Maggiorenne.»

Luca tirò su col naso, si diede un contegno, e sventolò la mano. «Fa’ buon viaggio, Alberto.»

Alberto seguì la direzione della folla, si addentrò in mezzo alle persone che cominciavano a risalire le porticine dei vagoni e a scomparire fra i corridoi del treno. La sua schiena si rimpicciolì in quel mare di figure estranee.

Vedendolo andar via, Luca sentì la scia di un forte dolore tendersi all’interno del suo cuore, come se si fosse aperto uno strappo nel petto che si faceva più largo man mano che Alberto compiva un passo distante da lui.

Il cuore si fece pesante come un macigno, gli occhi si gonfiarono, lucidi come grosse perle di rugiada, e il respiro gli si mozzò in fondo alla gola.

Girati.

Le gambe tremarono e lo strappo nel petto continuò ad allargarsi. Dal cuore ferito stillava una goccia di pianto a ogni passo che Alberto compiva, allontanandosi da lui.

Girati, Alberto. Girati e torna indietro, ti prego. Torna indietro, vieni a prendermi per mano e a farmi salire sul treno con te, anche se io ti ho detto di no. Almeno guardami…

Ma Alberto continuò a camminare, a calpestare i riccioli di vapore sfiatati dalla locomotiva, e a far rimbalzare il borsone sulla schiena. Altre persone si sovrapposero alla sua immagine, riempiendo e offuscando la vista di Luca che si appannò proprio come succedeva quando si trovava sull’orlo delle lacrime.

Girati e guardami un’ultima volta, ti prego. Dammi almeno questa speranza. Illudimi. Fammi credere che anche per te separarci è difficile quanto lo è per me.

Si strinse la mano sul petto, lì dove il dolore era più acuto e penetrante.

Ti prego.

Scivolò in avanti di un passetto.

Solo una. Solo una speranza.

Ma Alberto non si girò. La folla gli si strinse attorno e lui svanì in mezzo alla gente, mescolandosi ai passi degli estranei.

Il treno fischiò, i portelloni si chiusero, e la voce dell’altoparlante ne annunciò la partenza. «Attenzione. Allontanarsi dai binari. Sul Binario Tre, è in partenza il treno da Genova in direzione…»

Il cuore di Luca pianse un sibilo cristallino e si spezzò in due, giacendo sbriciolato in fondo al petto. Cocci privi di vita su cui vibrò una folata di vento siderale talmente fredda da ghiacciargli il sangue, paralizzandolo proprio come lo scoppio di un secondo gavettone dritto sul naso. Quell’addio lo svuotò a un punto tale da privarlo delle lacrime da versare, o delle energie da disperdere se non per restarsene lì impalato, affiancato da Giulia e circondato da una marea di estranei che gli scivolarono attorno senza nemmeno guardarlo di striscio.

Il treno sbuffò, ingranò la marcia e partì con uno stridio, dapprima lento e poi sempre più rapido.

Un umido e polveroso sbuffo di quella corsa soffiò in faccia a Luca, gli sbatacchiò sulla guancia il bavero della giacca, gli fece rimbalzare qualche ciocca di capelli fra le ciglia, e lo punse come una scossa.

No!

La realizzazione fu rovente e fulminea.

No, devo inseguirlo!

Luca allungò un primo passo, lento, con le ginocchia che ancora gli ballonzolavano e il cemento che tremolava sotto il peso della suola. Ne compì un altro. Accelerò, incurante delle spalle estranee che gli capitava di urtare e della gente costretta a scansarsi per lasciarlo passare, e alzò lo sguardo verso gli scuri finestrini del treno in corsa che si ridussero a lame di luce sfreccianti annebbiate dalla coltre di vapore.

L’agonia di quella separazione lo soffocò come l’impeto di una risacca, di una di quelle onde aspre che ti colgono alla sprovvista, frantumandosi sulla tua faccia e riempiendoti la bocca e le narici di schiuma di mare. Fu il dolore della prima separazione, della prima volta in cui lui e Alberto si erano detti addio senza poter contare sulla certezza di rivedersi di nuovo.

Però no, realizzò Luca. Non è come quella volta. È anche diverso. Adesso sono io a rincorrere Alberto, e non l’inverso.

Eppure in fondo al suo cuore spezzato si spalancò la triste sensazione di non star rincorrendo Alberto, ma il nulla. Non c’era infatti alcun viso familiare affacciato al finestrino, nessun braccio teso, nessuna mano aperta da poter raggiungere e toccare per un’ultima volta. Rimaneva solo il ricordo di Alberto, del suo ultimo sorriso, della sua sagoma che si voltava e che si rimpiccioliva, abbandonando Luca alla sua solitudine e al suo vuoto.

Luca inciampò su un ultimo passo e si fermò. Il treno emise un fischio, imboccò la curva, e la zaffata di aria e polvere sollevata dalla sua corsa lo investì di traverso, sparpagliando qualche cartaccia fra le sue gambe tremanti.

Inutile, si rese conto Luca. Gli occhi vuoti e disperati come quel pensiero. Sarebbe inutile inseguire Alberto. Anche raggiungendolo e tornando a Portorosso assieme a lui, non cambierebbe niente.

Luca recuperò fiato a grandi boccate e abbassò lo sguardo sulla mano che teneva spremuta sul petto.

Ormai non esiste più nulla che possa farci tornare come eravamo un tempo.

Le labbra ingrigite dal freddo, la condensa frammentata davanti al naso, il petto ingrossato dal fiatone, e la mano aggrappata alle vibrazioni del cuore dolorante e frantumato.

Alberto se n’era andato e assieme a lui era franato quel pezzo di scoglio che avrebbe potuto accogliere Luca in salvo durante una burrasca.

Ora sì che sono davvero una misera e indifesa ostrica che galleggia fra le onde di un mare in burrasca.

Proprio quando le lacrime in bilico fra le ciglia furono lì per sgorgare e rigargli il viso, lo affiancò una presenza mite, una voce tiepida che gli attraversò il cuore con gentilezza, acquietandone i tremori. «Sta’ tranquillo.» Giulia gli sorrise. Sovrappose la mano alla sua, senza stringergliela, solo rassicurandolo con la sua vicinanza. «Lo rivedremo presto» disse. «E poi ci sono sempre le lettere e le telefonate. Ed è come hai detto tu: l’estate arriverà in un baleno, e allora recupereremo tutto il tempo del mondo per stare assieme.» Strinse le dita, gli strofinò una soffice carezza fra le nocche. «Non farti abbattere.»

Luca sbatacchiò le palpebre e riassorbì il bruciore delle lacrime. Abbassò lo sguardo sulla mano di Giulia avvolta attorno alla sua, e un brivido, un impulso istintivo simile all’antipatica voce di Bruno, gli ordinò di sottrarsi, di dar retta a quella scossa di gelo di cui era stato vittima nel momento in cui aveva intercettato quella scintilla di complicità nello sguardo che lei e Alberto si erano scambiati alle sue spalle.

Luca rattrappì le dita e irrigidì il tocco. Poi però con sommo orrore si rese conto di non avere altro appiglio su cui fare affidamento, nessun’altra mano a cui aggrapparsi per poter rimanere a galla fra le onde di quella tempesta che ogni giorno lo sballottavano come una conchiglia vuota. «Giulia…» Perché c’era ancora qualcosa che lo tormentava. Qualcosa che aveva bisogno di chiederle. «Io…» Perché tu e Alberto avete pensato a tutto questo alle mie spalle? Perché non mi avete detto niente? Siete preoccupati per me? Dovrei preoccuparmi anch’io? Oppure c’è qualcosa che ancora mi state tenendo nascosto? Forse siete voi che non mi avete detto tutto quello che c’era da dire. «Tu e Alberto…»

Il treno lanciò il suo ultimo fischio. La sua coda scarrozzò lungo i binari e sparì dietro la colonna su cui era appeso il cartello che indicava l’uscita più vicina. La sua scomparsa lasciò visibile solo il panorama del binario all’aperto, la piattaforma su cui erano disseminate le poche persone rimaste a terra, le lontane facciate dei condomini di periferia che ora apparivano così tristi e grigi. I fili di luminarie spente e le decorazioni di Natale appassite come fiori senz’acqua.

Luca mandò giù un groppo di fiato, resistette al tunf! di quel vuoto sprofondato nel petto, e si aggrappò alla mano di Giulia. «No, niente.» Avvolto dalla sicurezza di quell’appiglio, c’era solo una cosa che sentiva di dover dire. «Torniamo a casa.»

Ma la parola casa sciolse un sapore acre sulla sua lingua. Una parte di se stesso, della sua casa, era rimasta assieme ad Alberto e stava viaggiando verso quella dimora da cui Luca aveva deciso di staccarsi. Una parte di se stesso che Luca non fu più sicuro di essere in grado di raggiungere e di rendere nuovamente sua.

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Capitolo 36
*** 36 ***


36

 

 

Su tutta Genova soffiava un’acre e dolciastra aria di primavera. Tuttavia si trattava di un vento capriccioso che scuoteva i vetri delle finestre, che sbatacchiava le tende, che faceva volare via i berretti, che scoperchiava i bidoni della spazzatura, che strappava i soffioni dai prati e che spennacchiava i petali dai rami dei ciliegi. Un vento che non prometteva nulla di buono. Un vento che di certo non faceva sperare in una primavera floreale e ben soleggiata, profumata dal polline e dai prati gocciolanti di rugiada, allietata dal fischiettare spensierato dei pettirossi e delle cinciallegre, e colorata dal giallo delle mimose e dal rosa dei peschi.

Anche dal mare sorgeva il presagio di una di quelle primavere tempestose, cariche di fulmini e di grandine, che avrebbero preceduto un’estate torrida – forse ancor più di quella precedente –, che non avrebbe goduto della frescura di rade nuvolette bianche o del sollievo di un mite venticello pomeridiano. Quella si sarebbe rivelata un’estate spennellata dall’azzurro di un cielo terso e sconfinato, arricchita da tutto l’oro che il sole avrebbe saputo donare. Ma Luca non scorgeva il minimo raggio di sole nel suo orizzonte. Solo un vasto e interminabile mare di nuvoloni gonfi, gravidi e bitorzoluti, che risucchiavano la vista nei loro gorgoglianti vortici del color del piombo.

Gli stessi nuvoloni che gli si palesavano davanti anche in quel triste e solitario pomeriggio di fine marzo.

Luca sollevò i piedi dal pontile di cemento, raccolse un ginocchio contro il petto, abbracciando la gamba piegata, e premette le suole delle scarpe sul fianco della bitta su cui si era seduto, isolato in una zona del Ponte Etiopia dove la vista si spalancava sul mare aperto, popolato dal traffico delle navi e accerchiato da una cornice di palazzi e dalle braccia delle gru disseminate fra gli edifici dei cantieri.

Luca rabbrividì al passaggio di una graffiante folata di vento. Si strofinò le guance arrossate, tirò su col naso, e sollevò un lembo della giacca davanti alla faccia per tappare l’odoraccio che ristagnava nella zona industriale del porto. L’odore nauseabondo di nafta si mescolava a quello pungente e gelido del mare aperto. Un mare selvaggio gonfiato dalle correnti di un vento aspro e dalla voce cattiva. Una voce attraverso cui già riecheggiavano gli ululati e i ruggiti di una tempesta che era in agguato sulla linea d’orizzonte, dove la nebbia aleggiava somigliando a una fitta cappa di cenere.

Bassi stormi di gabbiani discesero le correnti vacillanti, lanciarono strida di richiamo, volano in cerchio attorno ai tralicci delle gru, cosparsero le loro ombre sulle banchine chiazzate dal guano e sui ponti delle navi da carico. Alcuni rimbalzarono a terra, zampettarono sul cemento andando in cerca di qualche pesce sfuggito ai carichi, altri si appollaiarono in cima ai lastroni di pietra e beccarono i molluschi e i granchietti che si erano arrampicati lungo gli strati di alghe spugnose.

Alle spalle di Luca ulularono le turbine delle navi ancora sveglie. Le carrucole gracchiarono. Passi instancabili e ininterrotti schiaffeggiarono il cemento del pontile, andando su e giù, e alternandosi all’impetuoso vociare degli operai e dei marinai.

«… passa! Ti ho detto che di lì non passa, devi aspettare che ti portino di…»

«Fermi! Fermi con le cime! Dobbiamo ancora…»

«Sgomberate la zona! Portate le transenne! Le voglio tutte qui sul molo!»

Luca girò la guancia per sbirciare.

Gli operai erano formichine laboriose sommerse dall’ombra della nave da carico che avevano ammainato quella stessa mattina sul Ponte Etiopia. Gli uomini con indosso gli elmetti e i giubbotti catarifrangenti si stavano dando da fare issando dei grossi carichi dal ponte dell’imbarcazione. Pezzi squadrati e colorati che somigliavano a enormi mattoncini Lego.

«Ma porca miseria!» sbraitò un vocione più impaziente degli altri, un uomo con il viso imbrattato di nafta e sudore che stava reggendo un mazzo di transenne attorno alla spalla. «Mezz’ora di ritardo!» Slanciò il braccio libero verso i magazzini più vicini. «Mezz’ora di ritardo, questi incompetenti! E fra mezz’ora vedrai come scoppia il…»

La sua voce venne mitragliata da uno stridere metallico somigliante a quello di una motosega appena azionata. Trambusto di ferro che cigola, di una carrucola che macina tralicci d’acciaio fra i suoi denti squadrati. Tonfi fracassanti dei carichi che venivano slacciati dal ponte, smontati, e lasciati cadere sulle piattaforme. Il rombo dei muletti che venivano azionati, che svanivano dietro una nuvoletta di benzina bruciata, e che venivano condotti verso i magazzini dei cantieri.

Tutti rumori attraverso cui Luca riusciva a malapena a udire lo schianto delle onde che si frammentavano fra i roccioni accatastati sulla lunga lingua di cemento che imboccava la superficie del mare. Un mare che ora era una vasta e infinita distesa color grigio cenere, increspata dal bianco delle onde e attraversata dal passaggio di molte altre navi che impedivano di scorgere le frastagliature della costa sbriciolata in acqua o gli allungamenti dei pontili che ramificavano sulle altre zone del porto.

Due onde si scontrarono, batterono le loro mani d’acqua, disseminarono all’aria una pungente pioggerellina di schiuma dalla quale Luca dovette ripararsi sollevando il braccio davanti al viso girato di lato.

Il grigio lembo di mare si ritirò, emise un gorgoglio frusciante, e riprese a dondolare leccando il fianco verdognolo del pontile.

Luca diede una strofinata alla manica umidiccia. Si stropicciò gli occhi infiacchiti dalla stanchezza e rabbuiati dal maltempo rispecchiato nell’oscurità delle sue iridi. Fiutò l’odore vicinissimo di salsedine. Il suo cuore fremette, batté un palpito di paura che formicolò attraverso le guance per poi acquietarsi senza ulteriori agitazioni, perché situazioni simili erano diventate un’abitudine fin troppo ricorrente. Ormai era raro che riuscissero a scalfire le sue emozioni, e le giornate che si ripetevano lì al porto erano sempre le stesse, uguali e fugaci come grani di sabbia fatti scivolare dai solchi di un pugno.

Luca usciva da scuola, passava a casa solo per spolverare un po’ di mangime nell’acquario di Bruno, per riempire la ciotola di Nerone, per disfarsi dell’uniforme, e poi andava subito al porto, certe volte a piedi e certe volte in autobus. Attraversava le zone più rumorose dei cantieri navali, sceglieva uno dei pontili, di solito quello meno affollato, individuava la bitta più isolata, meglio ancora se si trattava di una di quelle piantate all’estremità del lungo lastrone di cemento, e ci si accovacciava sopra a gambe incrociate. Lasciava poi che lo sguardo spaziasse sul mare, che il dondolio delle onde si specchiasse nella lucida fermezza dei suoi occhi, e che i fischi del vento accompagnassero i suoi respiri malinconici.

Agli albori della primavera, quando era cominciata quell’abitudine, Luca si recava più spesso a passeggiare sul lungomare, alla spiaggia, seminando le sue impronte fra i sassolini più sottili, respirando l’odore delle alghe essiccate dal sole, dei rami di legno marcio trascinati dalla bassa marea. Poi però era giunta la fatica, crudele e soffocante come un paio di braccia aggrappate alle sue fragili spalle. Luca si era presto reso conto di quanto camminare lo infiacchisse, di quanto il pensiero di vagare a vuoto, su e giù, affiancato dall’incessante fruscio scoppiettante delle onde di schiuma, si concretizzasse giorno dopo giorno in un doloroso peso sul petto. E di quanto gli facesse male osservare il mare con occhi umidi e bisognosi, tendere il braccio senza riuscire a raggiungerlo, allungare la gamba privo del coraggio di immergere in acqua anche solo la punta del piede.

Così dalla spiaggia era migrato verso il porto, dove la distesa di mare era più vasta, immobile e sconfinata, e dove gli era più facile raccogliersi nella bolla del suo silenzio, lasciando che i fischi del vento spazzassero via i brontolii delle sue turbe e che dissolvessero i neri nuvoloni del suo malessere.

Ma ormai nemmeno quei lunghi e soporiferi pomeriggi trascorsi al porto erano in grado di offrirgli la carezza di una consolazione. Non lo consolavano come non lo consolava più nemmeno la semplice vista del mare, o quella delle stelle o della Luna. Un tempo era così facile. Le rare notti in cui la nostalgia gli stringeva il cuore e pizzicava agli angoli delle palpebre, era semplice sopprimerla affacciandosi alla finestra, volgendo lo sguardo al cielo gremito di costellazioni, e immaginare di raggiungere Portorosso solamente allungando l’indice verso la Luna che vegliava su di lui, dovunque si trovasse. La stessa Dama Luna che sicuramente stava vegliando anche su Alberto da dietro i rami del loro ulivo.

Niente. Niente sembrava più risultare una valida cura per lenire quel malessere che gli divorava lo stomaco e che gli pesava sulla testa come il cielo gonfio di diluvio che proprio quel giorno brontolava al di là dei palazzoni appartenenti al cantiere navale.

Luca si riparò da un’altra folata di vento che gli pizzicò le guance e le labbra, distese la mano davanti alle palpebre socchiuse, aprì gli spazi fra le dita infreddolite, e si aggrappò con lo sguardo alla grigia linea d’orizzonte dove poche navi galleggiavano sotto i bitorzoli delle nubi color piombo.

Dopo un lungo sospiro che gli fece traballare il mento, Luca affidò al mare una preghiera silenziosa: riportami a casa.

Scosse subito la testa e allontanò lo sguardo prima che il mare potesse sul serio rapirlo e trascinarlo a Portorosso.

No, non è vero che voglio tornare a casa. E non è vero che quello di cui ho bisogno è tornare a Portorosso. Morirei di vergogna a presentarmi in queste condizioni.

Sarebbe morto di vergogna nel presentarsi conciato in quel modo davanti ad Alberto.

Luca volse lo sguardo alle spalle, proprio per guardarsi indietro, per andare alla ricerca dei ricordi di quel giorno d’inverno nemmeno troppo lontano in cui era stato di nuovo il fischio di un treno a separarlo da Alberto. L’occhio non gli cadde sul viso del suo migliore amico, ma sulle facce estranee degli uomini che popolavano il pontile.

Uno di loro, uno di quelli vestiti con i gilet arancioni, si allontanò da sotto l’ombra della gigantesca nave da carico ammainata al pontile, calò l’elmetto sulla fronte sporca di nero, e sventolò la bandiera segnaletica verso gli uomini che lavoravano a bordo. «Diamoci una mossa con quel carico! Svelti, svelti, accelerare!»

Il rombo di un muletto fece trotterellare via un gruppo di operai, e la nuvoletta di smog investì le gambe di quelli che stavano camminando attorno al primo carico giallo già fatto scendere dal ponte della nave.

L’autista del muletto si sporse dal suo posto di guida e gettò un’occhiata verso il carico che stava per issare. «Guardatemi se sono messo dritto abbastanza!»

«Avanza, avanza!» Uno dei colleghi sbracciò nella sua direzione. «Ché qua ci pensiamo noi.»

«In magazzino sono pronti?»

«Hanno detto che stanno finendo di spostare ma che ci sono già spazi liberi.»

«Dannazione, avrebbero dovuto sistemare tutto ieri. Inviategli un messaggio e ditegli di muoversi, non abbiamo tutto il pomeriggio, e questa qui deve riprendere il largo entro domattina.»

«Se la pioggia non si mette di mezzo…»

Si accese un secondo rombo più sottile, simile al frullare di un ingranaggio, e il braccio della gru si spostò compiendo un movimento ad arco. La sua ombra attraversò il gruppetto di uomini, il gancio d’acciaio dondolò un paio di volte e calò sul mucchio di container colorati impilati sul ponte della nave. Gli operai a bordo sbracciarono per guidarne i movimenti e issare così il secondo carico.

«Giù, giù, cala, cala ancora.»

«Indietro! State indietro, occhio alle cime, sistemate bene quelle cime!»

Luca dovette spingere la testa all’indietro, indirizzare al cielo la punta del naso, e aggrapparsi con entrambe le mani ai freddi bordi della bitta per restare in equilibrio e riuscire così a inquadrare la nave nella sua interezza. Lo punse un senso di vertigine in fondo allo stomaco, e lui si sentì rimpicciolire davanti alla stazza di quel mastodonte di metallo.

Ieri non c’era qui al porto. Dev’essere arrivata nella notte, oppure stamattina.

Ma non erano le navi che a Luca interessava andare ad ammirare nella solitudine di quei pomeriggi. Era solo il mare a interessargli. Quella spianata distesa di acqua grigia, laminare e solitaria, che gli riempiva gli occhi, rendendoli liquidi, colmi di malinconia. Una malinconia straziante che lo inseguiva e lo avvolgeva proprio come una triste e piangente nuvoletta di pioggia. Uno stato d’animo da cui si sentiva perseguitato, ecco perché Luca aveva preso l’abitudine di scappare e di rifugiarsi al porto. Una parte di lui sperava di ritrovare la pace proprio nell’elemento dove aveva abbandonato un pezzo del suo cuore, strappandoselo dal petto e scagliandolo negli abissi come un pezzo di conchiglia rotta.

Nessun operaio aveva mai sollevato proteste nel vederlo ciondolare lì in mezzo ai cantieri – eccezion fatta per qualche occhiata storta e per qualche bisbiglio mormorato fra colleghi –, così pericolosamente vicino ai lavori da cui comunque Luca aveva imparato a tenersi a debita distanza.

Anche quel giorno si era ripetuto tutto come al solito.

Subito dopo la scuola, Luca era passato a casa giusto per il tempo di posare la cartella, di sfilarsi l’uniforme, e di indossare la camicia di Alberto sotto la giacca pesante. In casa non c’era nessuno. Sara era al lavoro, e Giulia era rimasta a scuola per frequentare le lezioni pomeridiane, così Luca si era cambiato le scarpe ed era sceso a prendere l’autobus che lo avrebbe condotto fino al porto.

Per lui era stato facile familiarizzare con quell’ambiente, e nel giro di pochi giorni era riuscito a crearsi un buon cantuccio isolato dove la vista si spalancava proprio sul mare aperto. Poteva rimanerci per ore intere. A volte sceglieva il Ponte Somalia, a volte quello Eritrea. Sempre quello dove regnava il trambusto più scarno. Ma di trambusto ce n’era sempre parecchio nei quartieri industriali di Genova. Navi che arrivavano e navi che salpavano; carichi che venivano issati e carichi che venivano smontati; uomini che salivano e uomini che scendevano. Una visione che donava a Luca un bizzarro conforto. Gli donava la consapevolezza che il mondo stesse continuando a far girare gli ingranaggi, a prescindere dal suo stato d’animo calcificato in quella fitta nebbia senza uscita.

«Mi serve un cambio quaggiù!»

«Arretra, arretra, indietro! Vai, vai, ché è fissato bene, metti la retro, ti guido io.»

«Fermi ancora con la gru! Fermi fino a quando non vi diciamo noi!»

«Attenti là sotto! Sgomberate la zona, piazzate le transenne!»

Per questo motivo Luca era capace di attardarsi al porto anche fino al calare del sole, standosene solo accucciato sulla sua bitta, a pensare, a fissare il mare, e a immaginare quello che stava avvenendo al di sotto della sua superficie e al di là delle sue onde.

I suoi occhi, che un tempo brillavano della tinta nocciola più vispa e scintillante, si erano ridotti alla stregua di due paludi melmose in cui Luca guadava agonizzando come quel pesciolino ribelle che era sempre stato. Il pesciolino che aveva osato troppo, che era guizzato fuori dalla corrente del suo fiume, che era caduto al di là della sua sponda sicura, e che adesso si ritrovava prigioniero in una pozzanghera di fango dove era capace solo di dimenare la coda al vento e di boccheggiare sul fondo limaccioso. Non poteva più fare nulla per liberarsi da quella prigionia, se non attendere che la pozza si prosciugasse e che le sue squame si seccassero, ponendo fine a quella sua triste e lenta agonia che da mesi gli stava logorando l’anima.

Gli operai rimisero in azione la gru. Si propagò un cigolio sinistro, come se il carico fosse traballato o sdrucciolato dai cardini, seguito dal grido rauco di uno degli uomini che diede ordine di fermarsi.

Luca avrebbe dovuto spaventarsi. Avrebbe dovuto voltarsi, assicurarsi che gli uomini fossero al riparo e che lui stesso fosse ancora al sicuro, da una tale distanza, ma non provò nulla, se non un brevissimo e insignificante sobbalzo in fondo al petto. Ormai era diventato indifferente a tutto ciò che lo circondava.

Indifferente persino alle cose a cui tenevo di più al mondo…

Erano infatti settimane che Luca non toccava libri. Questo era l’unico pensiero ancora capace di rodere un briciolo di rimorso nel suo cuoricino, anche se non era sufficientemente profondo da scuoterlo e da spingerlo a dare una svolta alla situazione.

Luca in classe era diventato distratto e taciturno. Le pagine degli appunti rimanevano bianche e intonse. Gli capitava sempre più spesso di non eseguire i compiti per casa, di saltare i rientri, e persino di marinare le lezioni preparatorie per gli esami di Maturità, ritirandosi lì al porto e dileguandosi per interi pomeriggi senza nemmeno avvisare a casa.

Giulia era molto in pena per il suo rendimento e soprattutto per il suo stato d’animo così freddo e scostante. Durante i primi tempi era solita tempestarlo di domande. “Dove sei stato? Perché fai sempre così tardi? Perché non hai avvisato che uscivi? Luca, questo tuo atteggiamento ci sta seriamente preoccupando e siamo tutti in pensiero per te”. Ma alla fine anche lei si era arresa, aveva smesso di assillarlo, e aveva finito per demoralizzarsi quasi quanto lui, realizzando quanto fosse diventata impotente davanti a quell’irrefrenabile e rovinoso scivolone di Luca.

Sfiorato da una carezza di vento, Luca strinse le dita sulla stoffa dei jeans e alzò gli occhi verso lo stridere dei gabbiani che volavano in cerchio. Provò una lieve vertigine nel momento in cui la sua vista si spalancò sulla sconfinata distesa di nuvole color fumo.

Come se non bastasse, non è solo Giulia che sto facendo impensierire.

Difatti, persino a scuola i professori si stavano preoccupando per questa franata così brusca e inaspettata del rendimento di Luca. Il Professor Marinelli in maniera particolare, dato che lui si era preso Luca in simpatia sin dall’inizio dell’anno. Ed erano state proprio le lezioni su Verga a legarli. Fra tutti gli studenti della classe, era sempre stato Luca quello a tempestare il professore di domande, a fermarlo spesso nei corridoi, dopo lo squillo della campanella, per discutere dei passaggi che non aveva compreso, e anche per farsi consigliare qualche lettura di approfondimento. Luca si era sempre dimostrato uno studente così entusiasta, partecipe e promettente. Il primo della classe durante le verifiche e la mente più brillante durante le interrogazioni orali e le discussioni aperte.

E poi c’è stato il crollo.

Come a sottolineare la gravosità di quel pensiero, Luca si abbandonò a un lungo e sofferto sospiro e fece crollare la fronte sul ginocchio. Arricciò le spalle in un guscio protettivo e grattò nervosamente la stoffa dei jeans.

Solo qualche giorno prima, terminata la lezione, firmato il registro e congedata la classe, il Professor Marinelli aveva preso Luca in disparte, accompagnandolo in un cantuccio del corridoio, lo aveva squadrato con freddezza da dietro il baluginio dei suoi occhialini, e gli aveva ordinato di parlargli chiaro e tondo della natura dei suoi problemi, di confessare se ci fosse qualcosa che lo turbasse e che lo stesse distraendo dai suoi studi, “Perché un calo di rendimento da parte di uno studente come te, Paguro, è allarmante, oltre che profondamente irritante”.

Luca si allontanò dal ricordo e scosse il capo come si era ritrovato a scuoterlo quel giorno davanti al professore.

Poveretto.

Si appoggiò con la guancia sul ginocchio. Gli occhi opachi e paludosi assorbirono il vuoto, lasciarono che i ricordi gli scivolassero addosso come acqua fredda e sporca, facendolo rabbrividire.

Chissà quante aspettative aveva nutrito su di me, chissà quante soddisfazioni si aspettava, quali risultati credeva che io potessi raggiungere. Si morse il labbro per reprimere il pizzicore delle palpebre e per inghiottire il groppo annidato in fondo alla gola. E invece l’ho deluso.

Una spazzata di vento freddo e tagliente si abbatté sul molo, fece stridere i tralicci della nave mercantile, ululò attraverso il tremolio delle impalcature, e innalzò le creste delle onde che, schiantandosi fra le rocce di contenimento che circondavano il pontile, si sparpagliarono come una scarica di diluvio.

Qualcuno degli operai che stavano lavorando attorno ai carichi della nave finì annaffiato dalla doccia improvvisa, grugnendo di frustrazione. «Maledizione anche al vento, ora!»

Uno dei colleghi accelerò il passo e andò ad aiutare quelli che stavano calando il carico successivo. «Te l’ho detto che è il caso di sbrigarsi prima che venga giù il diluvio.»

Le nuvole brontolarono e si addensarono all’orizzonte. Calò una nebbia color fuliggine che circondò i profili delle navi al largo, gli edifici che popolavano il porto, i bracci delle gru, e le estremità degli altri pontili già sommersi dal dondolio delle onde sempre più alte e aggressive.

Il vento insistette, violento e prepotente. Stridette nelle orecchie, bruciò le guance costringendo Luca a stringere i lembi del cappotto e a infagottarsi per non ridursi a un ghiacciolo. La punta arrossata del naso scivolò dentro il bavero e sfiorò la camicetta di Alberto, il tessuto di flanella e il tepore del suo profumo familiare che, anche se lieve, era sempre capace di spremere una fitta in fondo al suo cuore.

Pure quel giorno Luca stava indossando la camicia sotto la giacca. Aveva cominciato a portarla con una certa regolarità dopo Natale, dopo il giorno in cui Alberto era partito da Genova. Lo faceva per colmare il vuoto, per alleviare il dolore, per poter credere di avere ancora Alberto affianco a sé e di poter trarre sollievo dalla sua vicinanza. Tuttavia, anche respirando attraverso la stoffa, anche tenendo la camicia accostata al naso, abbracciandola e chiudendo gli occhi, Luca non riusciva più a rintracciare alcuna sfumatura di Alberto. Tutto quello che percepiva era solo un sottile e fastidioso odore di naftalina, quello che si annidava nel fondo del guardaroba, assieme all’odore più acre e ferroso raccolto dalle continue sferzate del vento umido che ogni giorno accompagnava il suo cammino verso il porto e che riempiva il silenzio di quei pomeriggi lunghi e solitari.

Inutile. Ormai la luce di Alberto si era estinta.

Una fiaccola nel buio. Era questa la speranza di cui Luca andava in cerca recandosi ogni giorno al porto, scrutando attraverso il moto delle onde e aguzzando la vista verso l’orizzonte, lì dove il mare si fondeva con il cielo. Ma ad attenderlo non vi era alcun lumino che bruciava traballando fra le pareti di una lanterna, chiamandolo a sé e guidandolo fuori da quella nebbia che gli offuscava la mente. Per questo era sempre più facile perdersi e brancolare nel buio. Ed era anche per questo motivo che, guardando verso l’orizzonte nuvoloso, tendendo la mano e immaginando di afferrarlo, la distanza che lo separava da Portorosso gli appariva così vasta e incolmabile.

È la fiaccola di Lucignolo che si è spenta.

Era questa l’impressione che attanagliava i pensieri di Luca, era questa l’immagine ricorrente che tormentava i suoi sogni: un lumino che vibra, fioco e sofferente, e che si estingue, annerendo le pareti di una lanterna che giace abbandonata sulla battigia di una spiaggia deserta.

Luca strinse l’abbraccio attorno alle gambe rannicchiate sulla base della bitta, voltò il capo poggiando l’altra guancia sulle ginocchia, e sulle sue labbra avvizzite dal maltempo sbocciò un sorriso triste e nostalgico.

Lo raggiunse un ricordo lontano, risalente a uno dei periodi più felici e spensierati della sua vita. Un ricordo che profumava di brezza estiva, di foglie d’ulivo, di succo d’anguria, di briciole di savoiardi, e della colla che lui e Giulia e Alberto avevano spalmato dietro le fotografie da appiccicare sul loro album. Fu un ricordo attraverso il quale gli occhi di Alberto brillavano del verde più limpido e sincero. La sua voce così calda e vicina, anche se ruvida. “Sarei capace addirittura di venire a nuoto fino a Genova pur di tirarti fuori dai guai.”

Dinnanzi alla burrasca che imperversava sul porto e alle raffiche di vento che rimestavano i nuvoloni color piombo, ora a Luca quella promessa suonava così lontana, così futile ed effimera.

Che illuso…

Perché anche tuffandosi in mare, anche nuotando nelle acque gelide e infrangendo la dura schiuma delle onde, sarebbe stato impossibile per lui e Alberto raggiungersi a vicenda.

Ormai non c’è più niente che mi renderà in grado di rintracciare la strada di casa.

La lanterna si era estinta. Il faro che un tempo era stata la loro torre sull’Isola ormai era crollato, riducendosi a un ammasso di rovine. Tutti gli scogli frammentati sulla costa si erano sbriciolati, privando Luca di ogni appiglio e condannandolo ad affogare nelle nere profondità dell’oceano.

Un lampo silenzioso cadde dal cielo, screpolò le nubi che spennellavano l’orizzonte, e atterrò lontano dal porto, rilasciando il suo eco brontolante solo dopo un ennesimo schianto delle onde sui piloni della banchina.

Il braccio della gru più vicina stridette e issò il suo carico dal ponte della nave, qualcosa si ribaltò ed emise un frastuono metallico, il muletto venne messo in moto e allungò un rombo singhiozzante, e gli operai corsero facendo schioccare i passi affrettati sul cemento ancora asciutto.

«Sta per venire giù un putiferio!»

«Attenti al carico! State indietro, lasciate spazio, sistemate le transenne!»

«Svelti, svelti, diamoci una mossa prima di non riuscire a vedere a un palmo dal naso!»

Fin troppo assorto dal brontolio dei suoi tormenti, Luca quasi non si accorse delle voci degli operai, del loro affannoso scambio di parole. Aveva ben altro per la testa, ed erano le nubi di un’altra burrasca a ingrigirgli lo sguardo. Una burrasca non poi così diversa da quella che lampeggiava in lontananza e che stava per spremere ogni sua goccia di pioggia lungo tutta la costa. Un’altra tempesta era in agguato, scuotendo i battiti del suo cuore che, al solo pensiero, rabbrividiva di terrore.

Di lì a pochi mesi Luca avrebbe dovuto affrontare la sessione di esami, il termine della scuola e il raggiungimento della Maturità.

Ma dopo cosa ne sarà di me?

Valicare quell’ostacolo era una prospettiva che lo terrorizzava tanto quanto lo avrebbe spaventato allungare un passo nel vuoto. L’insicurezza gli rodeva l’animo e lo rendeva ancor più distante da Giulia e da Alberto che invece sembravano possedere una padronanza così salda della loro vita e del loro futuro. E se alla distanza che si era spalancata fra di lui e i suoi migliori amici si aggiungeva pure quella che lo divideva dalla sua casa…

Sul serio potrò ancora contare su Portorosso come mia spiaggia sicura? Se Alberto è sempre stato la mia fiaccola, Portorosso è sempre stato il mio scoglio. Uno scoglio su cui ora non posso più fare affidamento perché mi è diventato estraneo e ostile, come quello su cui ho sbattuto la scorsa estate, dopo essere stato rigettato dal mare.

Rievocando quell’episodio, Luca si strofinò la guancia, sgonfiò la bruciante e umiliante sensazione della ferita che gli sembrava ancora aperta e sanguinante. Si bagnò le labbra per succhiare il sapore salmastro della roccia che si era sgretolata fra i suoi denti dopo la caduta e l’impatto che gli aveva fatto perdere i sensi, strappandogli il fiato dal petto.

E adesso che ho rinunciato alla mia vita sott’acqua, non avrò nemmeno alcuna casa a cui fare ritorno se anche il mondo degli umani finisse per rigettarmi come ha fatto il mare.

Sentendosi perduto, nutrendo di nuovo l’impressione di essersi ridotto a un paguro senza conchiglia, a un’ostrica alla deriva, Luca si affidò all’unica presenza che sapeva avrebbe potuto aiutarlo.

Strinse le braccia conserte al petto, si aggrappò alle spalle, fece scivolare il naso dentro il bavero della camicetta blu, e invocò un aiuto, formulò una preghiera che ora somigliava a un eco disperso nel vuoto.

Alberto…

E ancora non gli fu possibile percepire la sua vicinanza come avrebbe voluto. Ancora non fu capace di udire la sua risata gioiosa e sfrontata, o di perdersi nel verde dei suoi occhi, o di annegare nel tepore del suo abbraccio forte e saldo, in grado persino di sollevarlo da terra.

Luca tornò all’ultimo giorno che avevano trascorso assieme. Il loro ultimo saluto e il loro ultimo abbraccio, quando lui si era avvinghiato ad Alberto con tutta quella foga, come per impedirgli di andarsene. Luca aveva bisogno di lui. Ne aveva bisogno tanto quanto il suo stesso cuore aveva bisogno dell’aria per poter continuare a battere e a respirare.

Ma alla fine aveva accettato di separarsi da Alberto. Si era rifiutato di tornare a Portorosso assieme a lui. Luca aveva stretto i denti, aveva voluto dimostrarsi forte – o almeno aveva fatto finta di esserlo –, e aveva permesso che Alberto sciogliesse l’abbraccio e che percorresse il binario della stazione, disperdendosi in mezzo alle facce estranee della folla. Alberto aveva proseguito il suo cammino e non si era nemmeno girato a guardare Luca per un’ultima volta. Aveva allontanato da lui il tepore della sua fiaccola, e tutto nella vita di Luca era tornato a farsi freddo e buio.

Freddo e buio proprio come una giornata di pioggia.

Un brontolio più ravvicinato fece vibrare le crepe color piombo che frammentavano il gonfio tappeto di nuvole. Dopo quel singhiozzo, il cielo pianse una prima lacrima di pioggia che precipitò sul porto e atterrò in testa a Luca, dura e fredda come un sassolino di ghiaia.

Pizzicato da quel brivido improvviso, Luca si destò dal torpore in cui si era rannicchiato per tutto il pomeriggio.

Cosa…

Luca affondò il tocco fra i capelli soffici, raggiunse il punto dell’impatto, tastò una consistenza umida e scivolosa, ed espose le dita alla grigia luce del tardo pomeriggio. Una botta di panico gli sprofondò nello stomaco, suscitando un bruciante e violento conato di nausea.

Oh, no.

Le punte delle sue dita squamate scintillarono nonostante l’assenza del sole. Riflessero una sfumatura color acquamarina nelle profondità dei suoi occhi infossati in una nera ombra di terrore.

Pioggia?

La cadenza della pioggia accelerò – plic, plic, plic. Le gocce colorarono altre parti della sua mano, scesero fra gli spazi delle falangi, umettarono la stoffa della giacca, rotolarono fra i capelli che mutarono al contatto, e gli scivolarono lungo la fronte, rigandogli le guance e arrivando a toccare gli angoli delle labbra. Luca spostò la punta della lingua. La pioggia era tiepida, sapeva di ferro e di polvere. Era una lama fra le guance.

Non è possibile.

Il cuore si gonfiò, martellante di paura, e gli soffocò il respiro, pulsando fin nelle orecchie.

Luca strinse e riaprì la mano puntellata di pioggia, squamata dalle macchioline verdi-azzurre che avevano reso i suoi palmi più lisci e scivolosi. Un capogiro gli sdoppiò la vista, gli sbatté in faccia una scazzottata di ricordi che tanto si era sforzato di dimenticare. Il lampo verde del gavettone schiantatosi sulla sua faccia, l’esplosione molle e fredda che gli aveva assordato l’orecchio, gli sguardi allibiti e le grida terrorizzate dei suoi compagni di scuola, ma anche il diluvio che lo aveva sorpreso alla fermata dell’autobus, la corsa disperata in mezzo ai rombi del traffico, i singhiozzi di pianto che gli erano sobbalzati in bocca dopo essersi rinchiuso nell’angolino della cabina telefonica, fra le isolate e tristi pareti del suo piccolo acquario.

Un’altra volta?

Dietro di lui, gli operai e i marinai che lavoravano al molo si dettero una mossa, spostandosi con maggior foga. «Attenti alle rampe!» I loro passi accelerarono e le loro voci, arrochite dalle graffiate del vento così aspro, rimbombarono attraverso il picchiettare delle prime gocce di pioggia.

«Occhio che qui già si scivola!»

«Fermi! Fermi con quel carico, lasciatelo lì dov’è!»

«Ferma la gru!» Uno di loro sventolò le braccia, lanciò segnali verso la cabina della gru che nel frattempo si era immobilizzata. «Sgomberate il ponte!» Attraversò il pontile e inviò gli stessi segnali anche ai colleghi corsi lì vicino. «Via tutti, via! Fuori i teli di copertura!»

«I teli di copertura!» Uno degli altri operai gli fece da eco, raccolse un gilet catarifrangente appeso a una delle transenne e lo indossò, brillando sotto l’oscurità della cappa di nuvole. «Sentito il Capo? Fuori i teli di copertura e restate nei limiti delle transenne!»

Nuove gocce d’acqua piovvero su Luca. Freddi pizzichi gli caddero fra i capelli, sulla fronte, sulla punta del naso, dietro le orecchie, nell’incavo del collo. Scivolarono dentro il colletto della giacca, dilatarono le macchie di squame sotto gli abiti, e spansero la graffiante scia di un brivido lungo la curva della schiena. Nonostante gli abiti invernali a proteggerlo, Luca si sentì avvolgere dall’umidità, da una viscida e disgustosa sensazione simile alla colla sulla pelle.

Luca si liberò della pressione del fiato e gonfiò fra le labbra una bianca bolla di condensa. Sopportando il peso del cuore pregno d’ansia, dei battiti che gli rimbombavano nello stomaco e che gli avevano riempito la bocca di un sapore pastoso e amaro, balzò giù dalla bitta, si rannicchiò dietro la sua base, e si tastò più volte il fondoschiena, sopra l’orlo dei pantaloni, in cerca della coda.

Non la trovò.

Un flebile soffio di sollievo gli alleggerì la pancia e gli intiepidì le guance. Per fortuna. Si dissolse pure la nebbia rossa che gli aveva bagnato la vista durante quel lampo di terrore. Almeno questa. Luca si morsicò il labbro. Però…

Però non aveva né l’ombrello né il cappuccio, e la giacca che indossava non era nemmeno impermeabile. Gli sarebbero bastati pochi istanti sotto il diluvio per far mutare ogni squama e ogni pinna del suo corpo.

Si riparò come poteva: tirò fin sopra la nuca il colletto della giacca e aprì la mano libera fra le ciocche di capelli ancora soffici e asciutti. Si sporse da dietro la bitta, individuò uno spazio del pontile sgombero dal passaggio degli operai e dei marinai appena smontati dalla nave da carico, e slanciò una prima incerta falcata di corsa che lo espose al vento rigettato dal continuo accavallarsi delle onde.

Correndo, la pioggia gli atterrò in faccia, penetrò le palpebre, offuscò la vista, pizzicò la fronte, gli congelò le guance e gocciolò da dietro le orecchie. Luca si premette una mano sul viso, sfregò le guance fino a gemere per il bruciore, ma più strofinava e più dilatava la viscida sensazione di umidità, frizionando pinne su squame e mutando il suo aspetto.

No, no, no, non così!

Frenò la corsa, incrociò le mani dietro il collo e si rannicchiò a terra. La posizione di chi sta combattendo un gran mal di pancia – le spalle rattrappite, le ginocchia schiacciate sul ventre, il costante tambureggiare del cuore a squassargli il petto, il respiro sempre più rapido e soffocato, e la scia di fiato condensato dissolto fra i tremori delle labbra.

Devo fare qualcosa.

Strinse le mani. Le punte delle dita spinsero sulla scivolosità dei palmi, incontrarono la resistenza delle pinne che avevano cominciato a dilatarsi fra una falange e l’altra.

Devo mettermi al riparo. Devo coprirmi. Se qualcuno mi vedesse…

Si rimise in piedi, nonostante l’incessante battito della pioggia, e allungò un’altra falcata di corsa.

Se mi vedessero…

Arrestò il passo e congelò il respiro in fondo al petto, succube di quella colata d’acqua da cui non c’era scampo, memore di tutte le innumerevoli situazioni in cui si era ritrovato a tremare per la stessa paura e ad affannarsi per tentare di rimanere all’asciutto.

Già… se mi vedessero?

Lo scroscio della pioggia accelerò. Le gocce si inspessirono, dure e fredde come grani di ghiaia. Gli si sciolsero addosso, attraversarono la stoffa degli abiti, ed evocarono il formicolio dello strato di squame arrampicato sulla sua pelle da ragazzo. Luca si arrese a un sospiro impotente e sconsolato. Le spalle schiacciate dal peso di quella disgrazia e lo sguardo chino, rivolto al cemento del pontile scurito dal continuo sovrapporsi dell’acqua. Pure la sua voglia di reagire si squagliò come quelle nubi nere che stavano rovesciando tutte le loro lacrime sul mare e sulla costa.

Anche se mi vedessero…

Arricciò il naso squamato, dilatò le narici appiattite, ed esalò un altro respiro di condensa fra le punte dei denti aguzzi. Lo sguardo estraniato e i pensieri rimbombanti come il brontolio del temporale in avvicinamento.

Cosa cambierebbe?

Attorno a Luca si mossero ombre, si spostarono i passi affrettati degli uomini che lavoravano al cantiere, e si mescolarono grida sempre più infervorate. «Ma proprio oggi doveva venire giù?», «Chiama quelli del turno di dopo, digli che portino le luci, quelle alimentate coi generatori», «Avverti i mulettisti». Qualcuna delle voci gorgogliava per via dell’acqua sempre più abbondante che gli aveva invaso le labbra. «Non farli muovere fino a che non transenniamo tutto!».

Luca strinse i pugni ai fianchi. L’acqua discese le braccia e i polsi, diramò fra le nocche, mutò le dita e gli inspessì le squame. Si ritrovò aggrappato al vuoto, a una spiazzante sensazione di perdita e smarrimento che spalancò un abisso sotto i suoi piedi.

Ogni volta. Ogni volta finisce così…

I capelli d’alga si infoltirono, sbocciarono e si moltiplicarono come fiori, sostituendosi alle ciocche castane. La pioggia gli grondò dietro le orecchie, rotolò segnando le curve delle guance infreddolite, raggiunse il mento e gocciolò dalla punta. Le creste delle orecchie fremettero e scrollarono via qualche perla d’acqua condensata fra le grinze delle pinne. Luca strinse la bocca e affondò i denti aguzzi nel labbro inferiore che sapeva di ferro, di scoglio e di alghe bagnate.

Sono stanco.

Sbatté le palpebre. Le iridi nocciola si tinsero di rosso, le pupille si allungarono e assunsero la forma di spicchi. L’acqua piovana si raccolse agli angoli degli occhi, raccolse i tiepidi lucciconi delle lacrime fiorite come rugiada, e alimentò le scie di squame dilatate sulle guance infreddolite.

Sono così stanco di scappare senza meta.

L’operaio appena smontato dal muletto corse al di là delle transenne, attraversò l’ombra della nave da carico, e inviò uno sventolio di bandiera ai marinai rimasti a bordo, mentre la sua voce riecheggiava sotto il crepitare dell’acquazzone. «… di corda!» Si aggiustò l’elmetto sulla fronte per ripararsi dalla pioggia traversa. «Sono da fare su le cime di corda! Lontani dalla prua, ditegli di rimanere lontani dalla prua, sgomberate il pontile! Ehi, ragazzo!»

Luca non si accorse nemmeno che quell’esclamazione era rivolta a lui. Non se ne rese conto neanche quando l’uomo gli venne incontro, correndo verso la sua figura china, attorniata dalla lieve nebbiolina evocata dal grigio e vaporoso zampillare della pioggia.

«Cosa stai facendo lì impalato?» Lo raggiunsero i suoi passi schiaffeggianti, i suoi affanni umidi. Una mano bagnata calò e gli agguantò la spalla. «Vieni via, svelto!» Lo fece girare. «Non vedi che sta per diluvia…»

Accadde in fretta. Gli occhi scuri e nuvolosi dell’uomo incrociarono quelli bronzei di Luca, larghi e lucidi a un punto tale da poter riflettere la pallida e sgomenta espressione di chi gli stava di fronte.

Lo spavento improvviso paralizzò la faccia dell’uomo, la rese pallida e rigida come uno stampo di gesso. Le rughe della sua espressione si contrassero, stropicciate da un rapido e ancora attonito sfarfallio delle palpebre. Le labbra socchiuse ammutolirono e gli occhi si dilatarono, squagliandogli il viso in una grigia maschera di orrore.

La grande mano posata sulla spalla di Luca strinse la presa e poi la mollò, come se avesse toccato del ferro rovente. L’uomo scartò all’indietro. «Ah!» Inciampò sui suoi stessi piedi, perse l’equilibrio, capitombolò a terra, aprì i palmi dietro di sé e strusciò le suole sul cemento bagnato. «Mo…» I suoi occhi si tramutarono in lucidi specchi di terrore. La gola sobbalzò e latrò un grido di stomaco. «Mostro!»

Luca provò un sussulto, un brivido di stupore. Lo punse una piccola scossa che fu in grado di scuoterlo dal suo torpore. «Co…» Di nuovo lucido, rischiarito dalla nebbia di pensieri che gli aveva appannato la testa, squadrò gli edifici del porto, i profili delle navi, le braccia delle gru, le figure distanti degli operai che popolavano il pontile, e la faccia dell’uomo su cui era calata quella nera ombra di orrore. «Cosa…» Mostro? «Io…» Luca distese le dita, dilatò le pinne sotto il cadere della pioggia, e affondò entrambe le mani fra i capelli. Li trovò ancora più zuppi, adesso che la pioggia era aumentata. Sottili rivoletti gli attraversarono la fronte e gli gocciolarono davanti alla vista, tornando a spalancare quella cupa zona d’ombra che lo inghiottì nella sua oscurità. Oh no.

«Giorgio!» Un altro degli operai che lavoravano al cantiere si separò dal gruppo e corse a soccorrere il poveretto tremante che era ancora spalmato sul cemento della piattaforma. «Giorgio, cos’è successo?» esclamò. «Perché sei caduto?» Si chinò a raccoglierlo. «Sei inciampa…»

«Mo…» L’uomo compì un altro rimbalzo all’indietro, cadde fra le ginocchia del compare, e scagliò l’indice tremante su di Luca, incapace di staccargli di dosso gli occhi allucinati. «Mostro marino!»

Quel colpo arrivò al cuore di Luca davvero come la sfrecciata di un arpione. Una botta ancor più dolorosa di una testata battuta su uno scoglio. Mostro marino, mostro marino, mostro marino, continuava a bisbigliargli la caduta della pioggia. Sono solo un mostro marino. «No!» Luca tese le zampe palmate in un disperato tentativo di approccio. «No, io non sono…» La coda crebbe, slanciò un’involontaria frustata alla pioggia, e schizzò un pugno di gocce d’acqua dalle pinne. «Non voglio farvi del ma…»

Il secondo operaio si prese la faccia e lanciò un grido acuto e lacerante. «Aaah!» Cadde di schiena, piagnucolò un gemito scomposto, e si riparò dietro il braccio.

«Stai indietro!» L’altro raccolse l’asta della bandiera che aveva usato per indirizzare i comandi verso i marinai della nave e la scagliò in direzione di Luca, come la lama di una spada o la punta di un arpione. Il torrente di pioggia gocciolò dall’elmetto, gli bagnò il viso scurito da una tremolante espressione di minaccia, gli incollò i capelli attorno agli occhi abbagliati da un terrore primordiale. Il respiro affannato gli gonfiò le vene del collo e gli fece ballonzolare il pomo d’Adamo. «Non ti avvicinare!» Sventolò l’estremità dell’asta e affettò più volte l’aria opaca e pregna di umidità. «Indietro, indietro

«Mostro!» L’altro riuscì a sollevarsi da terra, inciampò, cadde sui palmi, tornò a slanciarsi in avanti, e corse sbracciando verso i colleghi che nel frattempo si erano girati verso le grida. «Mostro! Al mostro! Mostro marino!»

Tenendo la zampa spalancata davanti a sé, smosso dalla speranza di poter fermare la fuga dell’uomo e arrestarne le urla, Luca sentì qualcosa spezzarsi e depositare una manciata di freddi detriti senza vita lì dove avrebbe dovuto pulsare il tiepido battito del suo cuore.

Mostro… mostro… mostro marino. Quante volte se l’era sentito gridare addosso? Quante volte quelle parole lo avevano ferito più di mille arpioni? Quante volte si era sentito morire, schiacciato dagli stessi sguardi colmi di odio e di terrore? Quante volte aveva resistito e quante volte aveva creduto di poter dimostrare il contrario, di rendersi parte di un mondo che invece non faceva altro che tempestarlo di minacce?

Troppe.

Luca strinse i pugni, rabbrividì sentendosi consumare da una brace che fece ribollire il sangue fino alle tempie. In lui cominciò a bruciare il desiderio di reagire, non più il bisogno di nascondersi.

No, basta nascondersi.

Luca denudò le punte delle zanne in un basso ringhio gutturale.

Non ho più intenzione di nascondermi. Ne ho abbastanza di vivere in un modo che mi costringe a farlo.

Contrasse le grinze del muso e socchiuse gli occhi che, sommersi dalla caduta della pioggia, brillarono come tizzoni nella nebbia.

Troppe volte ho voluto tenere nascosta la mia identità, troppe volte mi sono ferito da solo per aver rinchiuso questa immagine nella gabbia del mio cuore.

Inarcò la schiena, conficcò gli artigli palmati nel cemento, indurì la pelle squamosa, rizzò le pinne sotto gli abiti gocciolanti, frustò la coda all’aria e spalancò un lampo verde-azzurro che per quell’attimo lo accecò ed evocò un ricordo lontano, un timore che aveva già confidato a Giulia tramite una vocina titubante che ormai non riconosceva più come sua.

Cosa succederà quando mi verranno le zanne più lunghe, o gli artigli più spessi? Come reagirà la gente quando il mio aspetto sarà ancora più minaccioso di quello che è adesso?”

Luca schiuse le fauci e rantolò un bianco ruggito di minaccia e di agonia. Un latrato che gli spezzò il cuore, triste come un eco solitario in fondo al mare.

Magari è vero che fanno bene ad avere paura di me.”

Una saetta precipitò fra le acque del porto, illuminò il cielo e spalancò l’ombra di Luca su tutti i presenti. I suoi occhi si accesero come braci, le gocce di pioggia fremettero gocciolando dai ventagli delle pinne.

Per tutto questo tempo ho creduto di essere un’ostrica fra gli squali. Ma forse il vero squalo…

Luca contrasse le zampe conficcate nel cemento sbriciolato del pontile e slanciò la coda davanti a sé. La coda ricadde a terra, strusciò un lungo solco, frammentò una curva di schegge e polvere che schizzò in faccia al poveretto ancora accasciato sotto la sua ombra.

Sono sempre stato io!

«Via!» Luca sradicò una zampa dal cemento, sollevò il braccio e graffiò una scia luminosa davanti al viso dell’operaio paralizzato a terra, strappandogli un lamento dalla gola. «Vattene via, stammi lontano

Come spintonato da quel ruggito, l’uomo rimbalzò all’indietro, cadde di schiena, si riparò dietro il braccio, e piagnucolò fra un affanno e l’altro, pallido come un cencio e soffocato da lacrime che tremolarono fra le palpebre socchiuse. Lasciò cadere il manico della bandiera segnaletica sguainata per proteggersi. Clack! Si avvitò su se stesso, cadde di petto, incapace di reggersi sulle gambe, e tese il braccio verso il gruppo di operai già raggiunti da quello appena fuggito. «Aiut…» Strusciò le suole a terra, si diede una spinta sul ginocchio, e schiaffeggiò le prime falcate di corsa nelle pozzanghere appena formate. «Aiuto!» Anche la sua figura sfocò attraverso la nuvola di pioggia, rimpicciolendosi verso il gruppetto di persone che si stavano radunando attorno al suo compare, quello scappato per primo. «Aiuto! Aiuto!» L’operaio sventolò le braccia al cielo. «Al mostro!»

Luca sbatacchiò gli occhi ancora abbagliati dal fulmine che poco prima gli era caduto alle spalle. Rallentò gli affanni che battevano sulla bocca socchiusa, che si frammentavano fra le punte delle zanne, e che gli pulsavano sulle tempie. Le pinne delle orecchie fremettero e sgocciolarono altri rivoli di pioggia, punzecchiate dal diluvio sempre più insistente.

Il tuono che aveva acceso il rosso dei suoi occhi e spremuto la rabbia dal suo cuore si ritirò con un brontolio, sciolse l’ira dal muso di Luca e spense le scintille che brillavano fra le punte aguzze dei suoi denti.

Ma…

Luca sollevò una zampa palmata, la strinse, notò come le unghie fossero spuntate e sporche di briciole di cemento. La fissò frastornato, come se non gli fosse appartenuta.

Cos’è successo?

La pioggia gli bagnò la membrana tesa fra le falangi, sciolse le scaglie di cemento, gocciolò a terra, e riempì i solchi scavati nella superficie del pontile.

Cosa…

Luca girò lo sguardo, catturato da un guizzo della sua stessa coda. La lasciò cadere a terra, e quella atterrò sul segno più lungo raschiato dallo slancio precedente, sbriciolò dell’altro cemento e fece zampillare l’acqua piovana che si era già accumulata nel punto dove il solco era più profondo.

Luca si tappò la bocca con entrambe le mani, cadde sul fianco, arrotolò la coda attorno a sé e guaì un gemito pentito e addolorato. Cos’ho fatto?

«È laggiù!»

La nebbiolina di pioggia si divise. Il gruppo di uomini, quasi tutti con indosso le stesse divise da operaio e gli stessi gilet catarifrangenti, si sparpagliò lungo la superficie del pontile. Qualcuno si affacciò alle onde, qualcun altro guardò in alto, verso il fianco della nave da carico, e altri sventolarono sbracciate per richiamare tutti verso la zona da cui erano giunti i due fuggitivi.

«Laggiù, laggiù, è sbucato da là!»

«Prendetelo, non lasciatelo fuggire!»

«Catturate il mostro!»

Come aggredito da un secondo schioppo di tuono, il cuore di Luca sobbalzò raggelò in fondo al petto. Brividi di terrore si arrampicarono sotto gli abiti inzuppati di pioggia e incollati alla pelle squamata. Il bianco rimbombo del temporale e il forte odore di maltempo lo catapultarono indietro, all’interno di un ricordo inondato da un nubifragio estivo e tormentato da un ghigno crudele, dalla cima di un arpione rivolto contro di lui.

“… dovrò uccidere dei mostri marini!”

Inseguito dalla scia di quella risata malvagia, Luca riconobbe il nauseabondo odore di pericolo, il nodo di terrore allo stomaco, e il disperato bisogno di scappare per avere salva la pelle.

Devo tornare in mare.

Rannicchiato sulle quattro zampe, si tuffò oltre il pontile, scivolò fra i grandi lastroni di roccia bagnati dalla caduta delle onde, si strappò un lembo dei pantaloni, sbatté un braccio fra le estremità aguzze, si aggrappò alla spalla, soffiando un gemito di dolore fra i denti, e crollò fra le fauci del mare.

Sott’acqua lo accolse un silenzio ovattato, l’oscurità calata dietro i suoi suoi occhi strizzati, e l’abbraccio freddo e ostile di un mare sporco e soffocante.

Luca batté la schiena su un pilone, e quel colpo lo spinse a riaprire gli occhi e a riempirsi i polmoni con un lungo respiro che comunque non riuscì a saziarlo.

Lo circondavano fasci di luce grigia e opaca che giungevano dalla superficie bucherellata dagli spilli della pioggia. Alghe fitte e scure come fango tappezzavano gli scogli e i lastroni di roccia caricati dall’erosione, popolati da foreste di molluschi che si annidavano nelle rientranze e da cui proveniva un forte e appiccicoso odore di guano e di conchiglie marce.

Luca sbatté uno slancio di coda, distese le braccia lungo il torso per farsi scivolare verso il basso, e sfiatò una doppia scia di bolle dal naso appiattito. Inalò a pieno petto quell’acqua scura e cattiva, e a stento represse un conato di nausea. Fu come respirare direttamente dalla marmitta di un’automobile.

Allontanatosi dalla superficie, attraversò una foresta di cime di corda a cui erano assicurate le imbarcazioni più piccole, scrollò una gamba per districare i rami di alga che si erano aggrovigliati alla scarpa, gettò una sbracciata contro un sacchetto di plastica trascinato dalla corrente, schivò la catena di un’ancora, e si rifugiò contro la chiglia della nave da carico, in una zona scura e fredda dove la pioggia non riusciva a penetrare.

Luca appiattì la schiena alla chiglia e spalancò un braccio contro la superficie di ferro ruvido e scrostato. Con l’altra mano si aggrappò al petto che sobbalzava a ogni suo affanno, soffrendo per quell’acqua inquinata dalle alghe stagnanti e impuzzolentita dalle perdite di nafta. Rabbrividì, come faceva in superficie quando lo investiva una zaffata di vento invernale, sentendosi prigioniero di quel mare privo di luce e privo di vita. Arrotolò la coda attorno a sé, si rannicchiò come fanno i pesciolini appena nati nella loro alcova, strizzò le palpebre brucianti e risucchiò il peso delle lacrime, attanagliato dal lancinante dolore del rimorso. Cos’ho fatto? Rivisse i palpiti della sua rabbia, le grida degli uomini e la loro fuga davanti alle sue unghiate e al suo ringhio di minaccia. Cos’ho fatto? Cos’ho fatto? Se solo potessi tornare indietro e…

Ma Luca già sapeva che non si può tornare indietro per rimediare a certi errori.

«È sceso in mare!»

Luca rivolse lo sguardo a quel grido ovattato proveniente dal pontile.

Scorse le sagome offuscate di tutti coloro che si stavano radunando per andare in cerca di lui e che si affacciavano per scovarlo fra le onde di schiuma. Attraverso quell’acqua scura, stagna e fredda, udì le loro voci mescolarsi allo scroscio della pioggia che zampillava sulla superficie.

«È sparito.»

«No, è andato di qua, ne sono sicuro.»

«Ma che cos’era? Un mostro?»

«Un mostro marino, ecco cos’era! L’ho sempre detto che esistevano.»

«Dobbiamo avvisare qualcuno, qualcuno deve chiamare i Carabinieri.»

«La Protezione Civile, altro che i Carabinieri.»

«Ti ha ferito?»

«No, ma ci ha provato. Ha solo avuto il tempo di ringhiarmi in faccia. Maledetta bestiaccia…»

«Facciamo evacuare il porto, immediatamente.»

«Avvisate tutti quanti, avvisate pure il Maresciallo. Se è ancora qui lo prenderemo.»

«Andiamo!» Molti scomparvero, inseguiti dal rimbombo della loro corsa e dallo schiaffeggiare dei loro passi dentro le pozzanghere.

Luca si ritrovò a sprofondare ancora più in basso, appesantito dagli abiti invernali e dalle scarpe che gli strozzavano le pinne dei piedi, impedendogli di tenersi a galla. Strinse le mani e fece pressione per rimanere aggrappato alla parete rugosa della chiglia. Vi poggiò la fronte sopra, sulla superficie resa fredda e scivolosa dagli strati di alghe, e si abbandonò, privo di forze, del coraggio di riemergere, della forza di mettersi in salvo. Gli scappò un singhiozzo. E poi un altro. Luca pianse su quell’odore melmoso e salmastro che gli dava il voltastomaco. L’acqua in cui era immerso era uno spazio buio e senza fondo come il suo futuro.

Sono in trappola.

Non si sprecò nemmeno di guardare verso l’alto. Concentrò la vista sulla superficie della chiglia a cui era appoggiato, strofinò la zampa sul metallo consumato, sulla vernice screpolata, e il suo tocco attraversò quei fasci di alghe simili a capelli che ondeggiavano fra i gusci di ostrica che, fossilizzandosi l’uno sull’altro, avevano assunto lo stesso colore degli scogli.

Ho creduto che essere diverso si sarebbe rivelata la mia forza. Ho creduto che il mio legame con Alberto e con Giulia mi avrebbe dato il coraggio di superare tutte le difficoltà che comporta vivere in superficie, in mezzo agli umani.

Luca tornò a chiudere gli occhi, a versare lacrime tiepide, a premere la fronte su quel freddo muro da castigo.

Ho sempre saputo che questo mondo non mi avrebbe mai accettato completamente per quello che sono. Ma credevo che il supporto delle persone come Giulia mi sarebbe bastato a darmi coraggio anche nei momenti di difficoltà, anche quando mi sarei di nuovo sentito un reietto. E alla fine non è stato così.

Si guardò la zampa palmata e distese il braccio fasciato dalla manica della giacca. Da troppo tempo non si guardava così attentamente da sott’acqua.

Perché io non apparterrò mai al mondo della superficie e non smetterò mai di essere un pesce, anche se continuerò a rinnegare la mia natura per tutta la vita.

I fasci di alghe oscillarono, avanti e indietro, inchinandosi come filoni di grano sospinti dal vento. I granchietti zampettarono fra le ostriche e le conchiglie a forma di cono. Uno dei paguri sgusciò fuori dalla sua casetta, attraversò il prato di alghe che cresceva sul metallo della chiglia, e raggiunse la mano di Luca.

Luca distese le dita e lasciò che le chele del piccolo paguro lo tastassero. Lo accolse nel suo palmo come anni prima aveva fatto con il piccolo paguro in cima alla torre sull’Isola del Mare, durante quello che era stato il suo primo ritorno a Portorosso dopo la sua partenza per Genova.

Quella visione fu lo schianto di un tuono della stessa tempesta che stava ruggendo fuori dall’acqua. Un lampo che precipitò sulla superficie del mare e che illuminò il muso di Luca increspato ora in un’espressione più ferma e consapevole.

Però c’è un modo per tornare indietro.

Luca scalciò l’acqua e si disfò delle scarpe. Dimenò le braccia per sfilarsi la giacca, e si diede una scrollata per allentare la pressione dei jeans e della camicia di Alberto, gli unici abiti che gli rimasero addosso.

Sventolò la coda, rizzò le creste delle pinne, molleggiò gambe e braccia, scaldò i muscoli raggrinziti, e si staccò dalla parete della chiglia per sporgersi e allungare la vista verso il mare aperto, quello spazio scuro come una notte senza stelle e senza Luna.

Luca nuotò fra le cime di corda, attraversò i fasci di luce grigia e risalì la superficie mitragliata dalla pioggia. Inarcò un piccolo tuffo e si prese in faccia la sberla di un’onda innalzata dal vento.

Splash!

Tornò a cadere in mare, strinse i pugni, distese le braccia lungo il torso allineato alle spinte della coda, e accelerò il nuoto.

Slanciò un altro tuffo fra i cavalloni, e ad arrivargli in faccia fu il freddo e dolce getto di pioggia appena versato dal cielo. Respirò l’aria dura e tagliente della superficie, indirizzò lo sguardo verso i nuvoloni grigi che in lontananza si fondevano alle onde da cui risaliva la nebbiolina della pioggia zampillante, e distese le braccia in avanti per accompagnare la discesa.

Fendette la superficie, uscì dal porto senza guardarsi indietro, e imboccò la strada della tormenta che lo avrebbe ricondotto dove tutto era cominciato, a Portorosso, a quello scoglio sicuro su cui l’ostrica avrebbe potuto far ritorno per incunearsi alle sue rientranze e non staccarsene mai più.

 

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Capitolo 37
*** 37 ***


N.d.A.

Quindi sì… dalla regia mi informano che quest’anno una delle tracce della Prima Prova di Maturità è stata tratta dalla Nedda di Verga. Ma li mortacci, non è che posso tornare anche io a ripetere la Maturità? Sia mai che riesca combinare qualcosa di meglio rispetto a com’è andata la volta in cui è toccata pure a me. Ma solo io me la sogno ancora la notte? (*rabbrividisce in Sessantatre*)

Il mio è stato l’anno di Magris, tanto per dare un’idea di quanto vecchia io sia.

Colgo l’occasione per augurare il mio più grande sostegno a tutti i maturandi di quest’anno, a tutti coloro che stanno affrontando la sessione di esami universitari, a tutti quelli che lavorano sodo nonostante il caldo infernale di questi giorni, e naturalmente anche ai vacanzieri (beati voi!).

Un abbraccio e buona lettura! (^-^)


 

37

 

 

Sara affondò una mano tremante fra i capelli, pettinò all’indietro quelli che erano rimasti incastrati fra l’orecchio e la cornetta del telefono, arricciò un boccolo fra indice e pollice, lo sfregò con insistenza fra i polpastrelli – un gesto di nervosismo ereditato anche da Giulia – e passò a rosicchiarsi le unghie. Annuì più volte facendo dondolare gli orecchini dorati. «Sì» annuì di nuovo, rivolta a chi la stava ascoltando dall’altro capo della linea. «Sì, da questa mattina, esatto.» Aggiustò il centrino di pizzo che si era spiegazzato sotto il ricevitore del telefono, depennò un numero dall’agendina, ne sfogliò una pagina, vi tamburellò la penna sopra, afflitta dai tremori che le scuotevano la mano, e spostò lo sguardo verso l’acquario di Bruno che illuminava la parete opposta del corridoio.

Bruno nuotò attraverso la foresta di alghe, scese a beccare la sabbia, circumnavigò il relitto del galeone, e si rintanò al sicuro nella rientranza dello scoglio dove anche il piccolo paguro da compagnia sonnecchiava pacifico all’interno della sua conchiglia.

La visione del pesciolino custodito al sicuro fra le pareti della sua teca aumentò la sensazione di irrequietezza che stava consumando l’animo di Sara. Accelerò i battiti del suo cuore afflitto dall’ansia, caricò i suoi pensieri di un’angoscia in cui la povera donna si sentì sprofondare, come in balia di un mare in burrasca, di un vortice di onde che ti trascina sempre più in basso, dove le acque sono nere, gelide e letali.

Se solo fosse stato possibile tenere così al sicuro tutti i pesciolini che abitavano la loro casetta…

«Sì» disse ancora Sara, rispondendo a chi la stava interloquendo. «I suoi insegnanti hanno detto che questa mattina ha risposto a tutti gli appelli, e anche mia figlia ha confermato che è entrato a scuola assieme a lei, quindi…» La voce dall’altro capo la interruppe, vibrò attraverso la cornetta. Sara sospirò, affranta, e annuì per l’ennesima volta. Un gesto sterile e meccanico, l’unico che si sentiva in grado di compiere. «Sì, certo. No, ieri sembrava tutto tranquillo, non sembrava affranto, o diverso dal solito. Per questo siamo così preoccupate.»

Resse la cornetta del telefono con entrambe le mani e rivolse di nuovo lo sguardo all’acquario di Bruno, quasi sperando di distrarsi, di lasciarsi incantare dal lento e costante scuotersi delle sue pinne, dalla scia di bollicine sfrigolate dal filtro, dalle sfumature color acquamarina che vibravano attraverso il tubo del neon, ma in qualche maniera si sentì ancora peggio. Appeso sopra l’acquario, ritrovò il quadro che aveva dipinto negli anni della sua giovinezza vissuta a Portorosso. Ora quel panorama che lei stessa aveva catturato con i suoi occhi e spennellato dalle sue mani le sembrò così crudele e profetico. Le impronte che si allontanavano dalla barca, che percorrevano la spiaggia di ciottoli, che si rendevano più scure sotto i bagliori rossi del crepuscolo, che si dirigevano verso le luci bianche del paesino distribuito fra gli scogli e i promontori della costa, e che si disperdevano, rimpicciolendosi, fino a scomparire del tutto dalla vista.

L’interlocutore dall’altro capo del telefono le porse ancora qualche domanda a cui lei rispose ancora una volta con un cenno del capo. «Sì.» Sara si passò una mano sulla fronte, si massaggiò le tempie su cui cominciava a pulsare il doloroso eco di un’emicrania, e sforzò un tremolante ma sincero sorriso di gratitudine. «Sì, la ringrazio, se potesse farmi sapere qualcosa al più presto gliene sarei infinitamente grata. Il numero da richiamare è sempre questo. È segnato sul… sì? D’accordo, allora. Grazie infinite per l’aiuto. Certo.» Di nuovo annuì. Un barlume di speranza le addolcì le labbra ancora incurvate in un sorriso traballante. «Sì, lo speriamo anche noi.» Soffiò un sospiro grave, «Arrivederci», e mise giù il telefono. La cornetta le sdrucciolò dalla presa e lei dovette afferrarla con due mani, snodarsi il cavo dal polso, e compiere tre tentativi di seguito prima di riuscire a incastrarla nel ricevitore.

Giulia tese il braccio, pronta a frenare la caduta del telefono che fortunatamente non arrivò. Ritirò il passetto appena compiuto, tirò indietro la mano, e ricominciò a rosicchiarsi le unghie. Lo sguardo rivolto a sua mamma bruciava di ansia e di speranza allo stesso tempo. «Allora?» Smise di mangiucchiarsi le unghie ormai consumate, si sbottonò le prime chiusure dell’uniforme scolastica in cui si sentiva soffocare, e sgualcì l’orlo della gonna fra le dita, spostando ripetutamente il peso da un piede all’altro. «Cosa dicono?» A risponderle fu un brontolio del vento che rovesciò un’innaffiata di pioggia contro la finestra alle sue spalle. Giulia non se ne accorse nemmeno. Si accostò a Sara guidata da un gonfio battito del cuore che fremeva di aspettativa. «Sanno dov’è? L’hanno trovato?»

Sara si rassegnò a un altro sospiro e spinse all’indietro i capelli che le erano scivolati sulle guance. Si strofinò la nuca, massaggiò il collo indurito dalla tensione che le aveva ingrigito le guance e scavato due profonde occhiaie violacee. «No, non sono ancora riuscita a trovarlo da nessuna parte.» Sfogliò di nuovo l’agendina, fece scorrere la penna sui numeri che aveva già chiamato e contrassegnato, e increspò le sopracciglia andando in cerca di qualche altro nominativo che avrebbe potuto esserle d’aiuto. «Né a scuola, né alla libreria, né al bar dove vi fermate sempre a comprare la merenda. Solo i suoi insegnanti delle lezioni della mattina confermano di averlo visto in classe, come è scritto anche sui registri.» Scosse il capo. «Poi più nulla.»

Giulia si morsicò il labbro e affondò le unghie nella stoffa della gonna. «E il…» Un feroce schianto di vento, questa volta impossibile da trascurare, s’infranse sulla finestra, costringendola a rimangiarsi un ansito di spavento.

Scossa e pallida in volto, Giulia si girò. Gli occhi sgranati e un soffio di fiato in bilico fra il biancore delle labbra.

La cascata di pioggia sputata dal vento si rovesciò sul terrazzo, inclinò le foglie dell’alberello di limoni, mitragliò le piantine di basilico, inondò la vetrata rabbuiata dai grigi riflessi del maltempo mescolati a quelli azzurri e ondeggianti spanti dall’acquario di Bruno.

Nerone si precipitò fuori dal soggiorno, ruzzolò attraverso il corridoio, sgusciò fra le gambe di Giulia, saltò sopra un piede di Sara, e si gettò sulla porta d’ingresso, grattando lo stipite e mugugnando una serie di lamenti in direzione della maniglia.

Giulia deglutì, riguadagnò fiato e, passato il brontolio del diluvio, si riprese dallo spavento improvviso. «E hai chiesto anche al Signor Rizzi?» Buttò l’occhio sull’agendina che Sara teneva aperta sul soprammobile, andò in cerca di un numero di telefono che non riconobbe fra le righe depennate. «Magari dopo scuola Luca ha deciso di andare al negozio per comprare il mangime per Bruno, poi è scoppiato a piovere e lui ha preferito non muoversi da lì per non…» Frenò le parole sulla punta della lingua, rapita dai ricordi, e stropicciò lo sguardo in un’espressione attanagliata da quel terribile dubbio. «Per non andare in cerca di guai.» Una raffica di immagini le piovve addosso, violenta e inarrestabile come l’acquazzone che si stava consumando su tutta Genova. Luca senza l’ombrello. Luca inzuppato dalla pioggia, la coda aggrovigliata attorno al corpicino rannicchiato nell’angolo di una cabina telefonica, i suoi occhi colmi di lacrime, singhiozzi di terrore a scuotergli la schiena ricurva, e il respiro affannato a comprimergli il petto.

Sara annuì, levandole ogni dubbio. «Sì, il Signor Rizzi è l’ultimo a cui ho telefonato, ma anche lui non lo ha visto.» Guardò Giulia negli occhi e sospirò, specchiandosi nello stesso timore dipinto fra le ombre del viso di sua figlia. «Ed è impossibile che gli sia sfuggito, dato che ormai vi conosce bene.»

Giulia strinse il labbro pizzicato fra i denti, affondò le mani fra i capelli e sfregò un’energica grattata di capo. «Oh, per mille mozzarelle, Luca…» Dove sei mai andato a cacciarti?

Nerone abbaiò tre volte di seguito, girò su se stesso, e tornò a grattare la porta.

Sara gli lanciò un rimprovero al volo. «Nerone, cuccia.» Si mise a braccia conserte, fece tamburellare le dita, andò su e giù un paio di volte, e inarcò un sopracciglio di nuovo in direzione di Giulia. «Sei proprio sicura che non sia rimasto a scuola, magari in una delle aule studio?» Le stava pensando tutte. «Quand’è stata l’ultima volta che lo hai visto?»

Giulia picchiettò l’indice sul labbro inferiore. «Ecco…» Alzò gli occhi al soffitto, scavando fra i ricordi più recenti di quella mattinata. Ricordi che odoravano di gesso per lavagne, di inchiostro di china, e di detersivo per pavimenti. «Stamattina a scuola, a ricreazione, quando ci siamo incontrati in corridoio perché lui doveva passarmi il vocabolario per il compito di Italiano.» Nerone ricominciò ad abbaiare e questa volta non si fermò. «Poi però dovevamo incontrarci anche dopo le lezioni del rientro, ma – Nerone!»

Nerone mugugnò un lamento di protesta, ma si calmò. Sventolò la coda, rizzò e abbassò le orecchie, inclinò la testolina di lato e fissò Giulia attraverso un’espressione triste e sconvolta che pareva proprio dirle: “Sciocca padroncina! Perché non capisci quello che sto cercando di dirti?”

Nonostante l’ansia rivolta al pensiero di Luca, nel cuore di Giulia s’insinuò un battito di compassione anche nei confronti del suo cagnolino. Che strano, però. Giulia prestò maggiore attenzione agli occhietti lucidi di Nerone, alla coda che non aveva mai smesso di dimenarsi, alle zampette che rimbalzavano sul pavimento come se avessero avuto il fuoco sotto. Gettò lo sguardo verso la vetrata alle sue spalle, quella che dava sul terrazzo inondato dall’acquazzone e travolto dalle raffiche di vento. Durante il maltempo non è mai così agitato. Di solito va a rintanarsi nella sua cuccia o sotto il letto, e non ne viene fuori fino a che non smette di piovere. Allora perché adesso sembra che voglia fare di tutto per uscire? «Fai il bravo, Nerone, su.» Ci mancavano solo le paranoie del cane, adesso. «Usciamo dopo a fare una passeggiata.» Giulia si accovacciò e tese una mano per chiamarlo a sé. «Ora mettiti a cuccia.»

Nerone ignorò il richiamo. Ululò, tornò ad appiccicarsi alla porta, ne grattò la base, e si accucciò piantando il muso proprio fra lo stipite e la cornice, dove sapeva che si apriva sempre il primo spiraglio quando le chiavi giravano e la serratura scattava.

Giulia scosse il capo, si rimise in piedi, stropicciò le mani in grembo, e tornò a concentrarsi sul pensiero di Luca, sull’ultimo ricordo che conservava di lui. Un’immagine offuscata dalla grigia patina di un malessere che il poveretto si trascinava sulle spalle da mesi. «Oggi dovevamo vederci subito dopo il rientro» spiegò, «alla fermata dell’autobus, come al solito. Ma lui non c’era, così sono andata dai suoi compagni di classe e loro hanno detto che ha saltato le lezioni del pomeriggio.»

«Uhm.» Sara tornò a passarsi una mano fra i capelli. Lo sguardo pensoso rivolto al soffitto. «Forse è sul serio ancora a scuola, dopotutto. Forse si è solo fermato alla vostra biblioteca a studiare e ora non può muoversi a causa della pioggia.»

«Impossibile, mamma.» Giulia non nutriva alcun dubbio a riguardo. «Luca deve per forza essere tornato a casa dopo le lezioni della mattina. Guarda…» Indicò la gruccia del corridoio, quella sistemata affianco al calorifero dove di solito mettevano le galosce ad asciugare. La giacca di Luca era l’unica a mancare. «La sua giacca pesante non è appesa. Questo vuol dire che Luca è passato qui a casa e che poi è tornato fuori, e che ora è incastrato chissà dove per colpa del maltempo. Ascolta…» Si posò la mano sul petto afflitto dall’ansia. «Posso andare io a cercarlo. Posso tornare a scuola a chiedere a qualcun altro, ai suoi insegnanti o agli inservienti, o posso anche andare dal Signor Rizzi per scoprire se è passato lì nei paraggi, e…»

«No, Giulia.» Sara andò alla gruccia e sganciò il suo cappotto. «Tu resta in casa.» Infilò la prima manica. «Una di noi due deve per forza rimanere qui, nel caso Luca tornasse o chiamasse al telefono per farsi venire a prendere dovunque sia rimasto bloccato.»

«Una di noi due deve rimanere qui?» Giulia storse un sopracciglio e arricciò la punta del naso in una smorfia sospettosa. «Perché? Tu dov’è che stai andando?»

«Esco a fare la denuncia ai Carabinieri.» Sara finì di abbottonarsi il cappotto. Richiuse l’agendina, la infilò nella borsetta, e frugò sul fondo per controllare di avere tutto quello che le serviva per uscire. «Se Luca è in pericolo allora non c’è un minuto da perdere, a prescindere dalle sue condizioni e a prescindere dal fatto che qualcuno potrebbe venire a conoscenza del suo segreto.»

Giulia le rimbalzò affianco e slanciò un braccio al soffitto. «Allora vengo con te!»

«No, Giulietta.» Sara le posò una mano sulla spalla. Lo sguardo dolce e comprensivo, ma fermo. «Ti ho già spiegato che una di noi due deve rimanere in casa, per sicurezza. Senza contare il fatto che con un tempaccio del genere rischieresti solo di ammalarti.»

Giulia aggrottò la fronte, serrò i pugni, e sottrasse la spalla al tocco di sua mamma. Sostenne il suo sguardo senza cedere. «E secondo te io mi dovrei preoccupare di un po’ di pioggia quando di mezzo c’è la vita di Luca?»

Sara abbassò le palpebre e si concesse un altro sospiro. «Giulietta, per favore…» Andò alla porta stando attenta a non calpestare la coda di Nerone. Girò la maniglia, aprì uno spiraglio cigolante. «Lascia che…»

Nerone schizzò fuori e ruzzolò giù per le scale del condominio.

«Nerone!» Giulia lo rincorse, quasi rischiando di travolgere Sara che ebbe solo il tempo di trasalire e di sgranare gli occhi sulla scena. Una volta fuori, nel corridoio del condominio, Giulia si appese alla grata che dava sulla tromba delle scale. «Fermo!» Si sporse e aprì una mano a coppa attorno alla bocca. «Nerone, torna qui!»

Nerone si fermò a metà gradinata. Guardò su, verso la padrona, abbaiò più volte, scodinzolò, e ricominciò a scendere saltando due scalini alla volta.

Per Giulia divenne chiaro che stesse cercando di dirle qualcosa, che la stesse chiamando apposta per farsi inseguire. Digrignò i denti, batté i pugni sulla ringhiera, si maledisse per non averlo capito prima, e corse di nuovo in casa. I capelli le sventolarono dietro come un lampo rosso.

Sara, che nel frattempo non aveva nemmeno avuto il tempo di staccare la presa dalla maniglia, inseguì quella corsa con sguardo ancora strabuzzato e vagamente allibito. «Giulia…»

Giulia strappò il suo impermeabile dalla gruccia, si infilò la prima manica, la sbatacchiò, non badando al fatto di star sgualcendo l’uniforme scolastica, e tornò a precipitarsi fuori casa.

La voce di Sara la rincorse, severa e autoritaria come quando Giulia era bambina. «Giulia, torna subito qui!»

Giulia si aggrappò al corrimano e imboccò la discesa delle scale. «Scusa, mamma!» Galoppò da un gradino all’altro, calzò anche l’ultima manica, abbottonò l’impermeabile, e raggiunse Nerone che la accolse con un abbaio, «Bau!», che sembrò volerle dire “Era ora!”.

Il cagnolino si rimise a correre.

Giulia accelerò, tirò su il cappuccio, vi ficcò sotto i riccioli che le erano sventolati sulle guance, sfrecciò dietro la fuga di Nerone, «Nerone, aspettami!», ed entrambi si tuffarono sotto l’acquazzone che li attendeva fuori casa.

 

***

 

Nerone rallentò la corsa che non si era mai arrestata da quando era fuggito di casa. Ripresosi dagli affanni, appiccicò il muso alla lunga via di cemento annerito dalla pioggia, socchiuse gli occhietti per concentrarsi sulla scia di odore che stava inseguendo, sventolò la coda gocciolante, girò attorno a una bitta del pontile, disseminando una scia di impronte fangose, e proseguì la ricerca infilandosi sotto una delle transenne che delimitavano la zona di scarico del Ponte Etiopia.

Due operai, impegnati a spingere un carico di pallet impilati su un carretto, gli camminarono affianco. Uno di loro nemmeno si accorse del cagnetto. L’altro sollevò il cappuccio della cerata, gli rivolse uno sguardo sbieco e spaesato, poi però alzò le spalle e riprese la sua marcia e il suo lavoro.

Nerone raggiunse il confine di una pozzanghera color tè, vi tuffò il naso dentro, starnutì, si grattò una zampa sul muso bagnato, e si soffermò ad annusare anche le ruote di un muletto posteggiato sul confine del pontile, subito dopo la zona transennata. Dopo un guaito di frustrazione, Nerone sfrecciò fra le gambe di un gruppetto di operai. Gli uomini nemmeno si accorsero di lui, impegnati com’erano a blaterare fra di loro, «… martedì scorso sarebbe dovuto arrivare. Ma ti ricordi che ci avevano già avvisati di tutta questa marea di ritardi e di…», e a indicare uno dei carichi appena giunti al cantiere navale, uno di quelli composti da enormi blocchi colorati simili a giganteschi mattoncini di Lego.

Dall’alto del cielo, i bitorzoli di nuvole si gonfiarono, tambureggiarono come uno stomaco che brontola, e scaricarono una raffica di pioggia che investì di traverso la corsa di Nerone.

Nerone, bagnato a tal punto che il manto color cioccolato era diventato nero, staccò il muso dalla superficie del pontile, rivolse gli occhietti lucidi al cielo in tempesta, alle braccia delle gru sommerse dalla coltre color fumo, alle mastodontiche sagome delle navi di cui non riusciva a scorgere le cime, e tirò le orecchie all’indietro, mugugnando un tremolante lamento intimorito.

Ai confini del pontile, risucchiate dagli ululati del vento, le onde si innalzarono e si schiantarono sulle lastre di roccia, gettando all’aria duri e gelidi zampilli di schiuma. L’acqua nera sommerse le bitte d’attracco e si ritirò con un fruscio, frammentandosi poi sulle chiglie delle navi attraccate al porto e sballottate dal maltempo.

Nerone strizzò le palpebre per sopportare il vento, si scrollò di dosso uno strato di pioggia – il pelo arruffato e la bandana a gocciolargli sul petto –, e riprese a zampettare lungo il pontile, ad annusare il cemento da una pozzanghera all’altra.

Passi in corsa inseguirono la scia delle sue impronte di fango. Giulia calpestò la pozzanghera dentro cui Nerone aveva starnutito, schivò una delle transenne del cantiere, e schiacciò una mano sul cappuccio dell’impermeabile sbatacchiato dalla corrente d’aria, non riuscendo comunque a tenere all’asciutto i suoi riccioli inzuppati. Inspirò a fondo, fino a farsi scoppiare i polmoni, e lanciò un grido, «Nerone!», che le sfondò il petto e le graffiò la gola arrochita da tutto il fiatone che aveva accumulato da quando si era messa a rincorrere il cane per ogni vicolo della città, fino ad arrivare ai cantieri industriali del porto. «Nerone, rallenta!» Giulia lasciò andare il cappuccio che le ricadde sulle spalle. Accelerò la corsa, incurante del mal di piedi, del bruciore ai polpacci, delle sferzate del vento e dei pizzichi della pioggia che le grondava lungo il viso, appannandole la vista già offuscata da tutto quel grigio. «Fermati, torna qui! Non…» Si passò una mano bagnata sulla fronte, facendo gocciolare dell’altra pioggia lungo le guance ormai gelide e paonazze, e annaspò disperata, succhiando tutto il sapore ferroso del diluvio che le era grondato lungo il collo e penetrato sotto gli abiti, nonostante l’impermeabile. «Dove mi stai portando, si può sapere?»

Nerone finalmente le diede ascolto e frenò la fuga. Si voltò verso Giulia, separato da lei solo dal continuo rovesciarsi della pioggia, e la chiamò con una sventolata di coda e con un abbaio. «Bau!» Si addentrò lungo il pontile che si distendeva attraverso il mare così grigio e gonfio da sembrare anch’esso fatto di cemento. Un mare che si fondeva con i nuvoloni talmente bassi da schiacciare le creste delle onde che si accavallavano e che si ingrossavano sempre di più, sospinte dai feroci ululati del vento.

Giulia, morsa da un brivido sulla nuca, arrestò la corsa e si aggrappò con una mano all’impermeabile, accostando il colletto ai tremori della bocca annaspante.

Nei suoi occhi sgranati si specchiarono i vaporosi ruggiti della tempesta. Giulia sbatté le palpebre abbagliate da un lampo che era brontolato all’orizzonte. Le ciglia lacrimarono gocce di pioggia che si sciolsero lungo le gote e che sbrodolarono dal mento tremolante. Le nubi marmoree le soffocarono lo sguardo, gli artigli del vento le mozzarono il respiro, e il gelo del diluvio le fece battere i denti. Il cuore accelerò e i brividi la scossero fin nelle ossa, rendendo le sue gambe incapaci di proseguire, di allungare anche solo un altro passo dentro quella burrasca che avrebbe potuto sollevarla e sbatterla in mare aperto solo starnutendole addosso un singolo soffio d’aria.

Giulia strinse i pugni bagnati, serrò i denti in un digrigno, e si lasciò scaldare da un palpito di forza e determinazione.

Dinnanzi a lei, Nerone stava dimostrando un coraggio ai limiti dell’immaginabile, tanto da sembrare tutto un altro cane, e non il cucciolo che piagnucolava anche davanti al più mite brontolio di temporale o al più scarno rovescio di pioggia. Stava affrontando le sue paure per il bene di Luca, per riportarlo a casa sano e salvo. Anche Giulia avrebbe dovuto dimostrarsi all’altezza di quella missione.

«Aspettami.» Giulia si scrollò di dosso ogni brivido di paura, cancellò dalla sua mente tutte le immagini che la ritraevano scaraventata via dal vento e dispersa nelle nere profondità del mare, e ricominciò a correre. «Non allontanarti troppo, sto arrivando!»

Avvicinandosi al termine del pontile, Giulia incrociò diversi gruppetti di operai che, infagottati nei loro gilet catarifrangenti, brillavano come lucciole nella notte. Saltò oltre una pozzanghera color fango, incrociò il passo con tre uomini che stavano trascinando un carico fissato su un carrello, e inciampò su un mucchio di tubature impilate affianco alle transenne che delineavano la zona percorsa dai muletti. «Acc…» Rimbalzò su un piede solo, si massaggiò la caviglia, e sbatté la spalla contro la schiena dell’operaio più vicino.

L’uomo si voltò, sollevò l’elmetto grondante di pioggia, e le scoccò una dura occhiata di rimprovero annerita dall’ombra delle nubi. «Sta’ un po’ attenta, ragazzina.»

Giulia riappoggiò il piede a terra e chinò il capo. «Mi scusi.» Si rimise a correre e a inseguire Nerone che stava nuovamente scomparendo dalla sua vista. Scavalcò la bitta a cui era fissata una delle cime di corda che tenevano la nave ancorata al porto, e di nuovo passò in mezzo a un gruppo di operai e marinai che furono costretti a sparpagliarsi per non farsi travolgere. «Scusate, scusate» farfugliò Giulia. In bocca le entrò l’acidulo odore di mare in tempesta, quello della segatura e della nafta versata. «Perdonatemi, cerco solo il mio cane che…» La sommerse un’ombra ancor più tetra di quella gettata dalla cappa di maltempo. Un’ombra attraverso cui vibrava un respiro d’acciaio e dentro cui pulsava un cuore che grugniva come un motore.

Giulia spinse il capo all’indietro, socchiuse le palpebre e distese una mano davanti alla fronte per respingere il rovesciarsi della pioggia. Spalancò lo sguardo fino alla cima di quella nave gigantesca sopra la quale uomini piccoli come mosche si spostavano e sbracciavano verso il braccio di una gru e verso i carichi non ancora smantellati.

Un ruggito del vento la investì, la fece rattrappire sotto il cospetto della nave, e di nuovo Giulia venne assalita da un brivido, da una vertigine. La raggiunse una vocina che le bisbigliò di andare avanti perché si trovava sulla strada giusta, stava inseguendo la stessa scia percorsa da Luca. Anche Luca aveva viaggiato fino al porto. Aveva calpestato lo stesso pontile di cemento, aveva respirato la stessa aria soffocata dai fumi di nafta, aveva spalancato gli occhi sugli stessi nuvoloni, aveva tremato sotto lo stesso vento. E si era bagnato sotto lo stesso diluvio.

Luca…

Da lontano, Nerone alzò il muso al cielo e ululò un latrato più lungo e lamentoso.

Giulia raddrizzò il capo e lo rintracciò. Una piccola macchiolina scura circondata dalla grigia e opaca nebbiolina di pioggia. «Nerone, torna qui, ti ho detto!» Si rimboccò l’impermeabile e corse nelle scarpe ormai zuppe che pesavano come mattoni e che emettevano uno squish! a ogni sua falcata. Correndo lei, attaccò a correre anche Nerone. «No!» Giulia tese il braccio e spalancò la mano verso il profilo rimpicciolito del suo cagnetto. «No, non ricominciare a scappa…»

Dalla nebbia emerse un altro capannello di operai e di marinai, ma questi erano più isolati e si trovavano all’interno della zona transennata. Erano i più vicini al fianco dell’enorme nave da carico e gli unici protetti dalle cupole di due ombrelli neri.

Giulia riconobbe ancora una volta i gilet arancio degli operai, i loro elmetti dello stesso colore, ma qualcuno se l’era sfilato per far correre una mano fra i capelli bagnati, per indicare verso il mare, annuire, muovere la bocca e assecondare il trambusto in cui si mescolavano le voci di tutti gli uomini radunati nello stesso spiazzo.

Giulia rallentò la corsa e tese l’orecchio, assicurandosi di non perdere di vista la scena. Le voci degli uomini erano ancora troppo affrettate e troppo disturbate dagli scrosci di pioggia per risultare comprensibili.

Ma cosa succede?

Nerone puntò le transenne e fece per infilarsi fra le gambe di tutti quegli estranei.

Giulia anticipò le sue intenzioni. Quella visione le diede la giusta motivazione per raggiungerlo e fermarlo una volta per tutte. «Nerone, no!» tuonò. «Fermo lì dove sei!»

Raccolto l’ordine della padrona, Nerone miracolosamente obbedì e rimase immobile. Si fece raggiungere e addirittura prendere in braccio.

Giulia lo strinse contro il petto addolorato dal fiatone, e fu come raccogliere una grampata di panni bagnati appena estratti dal cestello della lavatrice. Gli carezzò mille volte il manto fradicio, gli aprì una mano sotto il pancino accaldato e sentì il suo cuoricino battere all’impazzata, rapido come un ronzio. «Cane cattivo.» Lo rimproverò con rabbia e sollievo allo stesso tempo. Gli aggiustò la bandana zuppa di pioggia, gli strofinò le orecchie gocciolanti e gli baciò la testolina, fin troppo contenta di averlo acchiappato per potersi fingere in collera ancora a lungo.

Nerone mugugnò e le leccò la guancia già bagnata. Giulia arricciò la punta del naso e gli tenne la mano premuta sulla testolina. «No, no, non fare il ruffiano con me, adesso, è tutto inutile.» Gli spinse l’indice sulla fronte, in mezzo agli occhietti ancora lucidi di impazienza. Lei corrugò la fronte e ingrossò il tono. «Ti sembra questo il modo di scappare di casa e di correre per mezza Genova con un tempaccio del genere, quando anche Luca è…»

«Era qui, vi dico!» Da quella distanza le fu possibile udire le voci degli operai e dei marinai che erano radunati attorno a un altro uomo che stava scarabocchiando qualcosa su un taccuino. L’uniforme nera come l’ombrello sorretto dal suo compare che indossava la stessa uniforme priva del gilet arancio. Le bande rosse a striare la lunghezza dei pantaloni, gradi dorati cuciti sulle spalline, la fiamma dell’Arma dei Carabinieri a brillare sul fronte del copricapo.

Giulia strinse l’abbraccio attorno a Nerone e tenne gli occhi fissi sulla scena, su quei gesti infervorati e su quelle voci rauche da cui era impossibile distogliere l’attenzione.

L’operaio che si era tolto l’elmetto puntò entrambi gli indici a terra e arretrò di un passo. «Proprio in questo punto, ma è sbucato fuori dal nulla, e non so come abbia fatto. Non so nemmeno come abbia fatto io a non accorgermene prima.»

«Gli abiti!» si intromise un secondo operaio. «Perché aveva addosso degli abiti normali, ecco perché. Abiti da…» Si strinse nelle spalle, perplesso come se non potesse credere alle sue stesse parole. «Da ragazzino.»

Uno dei marinai riparati dal secondo ombrello corrugò la fronte e si mise a braccia conserte, distaccandosi con noncuranza. «Un mostro con degli abiti da ragazzino?» Sogghignò e scosse il capo. «Voi siete matti.»

L’operaio – quello che aveva rivolto gli indici a terra – serrò i pugni ai fianchi e pestò un passo davanti al marinaio diffidente, sbraitando a un soffio dal suo naso. «Non ci prenderesti per matti se anche tu ti fossi ritrovato davanti a quella cosa

«Che genere di abiti indossava?» Il carabiniere che stava prendendo appunti voltò una pagina del suo taccuino. «Abiti da cantiere? Aveva un giubbotto come il vostro?»

«Nossignore, Signor Maresciallo.» Un operaio, quello i cui occhi erano ancora traboccanti di una paura liquida e viscerale, rigirò l’elmetto fra le mani e deglutì. «Abiti civili, da studente. Un paio di jeans, scarpe da tennis, mi sembra, e una giacca scura.»

«Blu» specificò un suo collega. «La giacca era blu.»

«No, secondo me era grigia.»

«È stato difficile pensare agli abiti, Signor Maresciallo.» Un altro di loro sbuffò. Svirgolò un sorriso tremolante dietro cui ancora si celava una fragile ombra di terrore. «Era quello che stava sotto i vestiti a preoccuparci.»

«Sì, sì.» Il Maresciallo prese ancora qualche appunto, scambiò uno sguardo basso e complice con il collega che lo stava tenendo al riparo sotto l’ombrello. Nessuno dei due sembrò dare troppo credito alle testimonianze del gruppetto. «Un mostro orrendo, questo l’ho capito.»

«Un mostro venuto dal mare,» specificò uno dei marinai, ignorando il cipiglio di quello che poco prima aveva denigrato tutta la faccenda. «Ci scommetterei una mano.»

«Un mostro marino» esclamò un operaio. «Sì, sì, ecco cos’era!»

Quell’ultima sentenza trapassò il petto di Giulia, riaprì vecchie ferite, e le fece sanguinare il cuore. Mostro marino? Giulia si portò una mano alla bocca per contenere un ansito di terrore che le ghiacciò lo stomaco. I ricordi si tinsero di rosso, e lei non riuscì più a capire se la vista fosse appannata a causa della pioggia o per via del pianto imminente che stava per sgorgare dalle palpebre rigonfie. Oh no, Luca… Le fu impossibile allontanare l’udito dalla conversazione.

«… e aveva le squame» intervenne un altro degli operai, infilandosi in mezzo al gruppo. «Proprio come quelle dei pesci.»

«Squame verdi…» Uno di loro si indicò la schiena. «Verde chiaro, questo me lo ricordo bene.»

«Io invece mi ricordo che erano blu. Sulla testa erano blu, folte come un cespuglio di alghe.»

«Io lo ricordo meglio.»

«Come fai a dirlo?»

«Perché è a me che quel coso ha ruggito in faccia!»

«Ma anche io ero lì quando sono venuto a recuperarti da sotto le sue zampe, e ti assicuro di aver visto bene delle squame blu.» L’operaio si rinfilò l’elmetto e annuì. «E se non erano blu erano azzurre, ecco.»

Il Maresciallo alzò le spalle. «Facciamo verde-acqua e accontentiamo tutti.» Segnò anche quella nota sul suo taccuino, ma subito dopo rivolse una smorfia al suo collega che in tutta risposta rise sotto i baffi. «E ditemi ancora di queste zanne…»

«Zanne aguzze!» L’operaio, quello con la faccia bianca come latte e gli occhi iniettati di paura, artigliò la manica del collega e gli scosse il braccio. «Diglielo, Giorgio, diglielo che razza di zanne aveva. Saranno state grosse così…» Giunse le dita per mostrare una lunghezza ampia quanto un suo piede. «E mi ha ringhiato in faccia, tanto quasi da strapparmi il naso dal viso.»

«E gli occhi!» Il suo compare si segnò il contorno degli occhi lucidi e sgranati. «Occhi come lanterne, Maresciallo. Mi ha guardato con una ferocia tale che pareva potesse bruciare l’intero pontile. E aveva anche le unghie che saranno state grandi come quelle di un orso, garantito.»

«E la coda!» L’altro tornò a scuoterlo. «Digli della coda!»

«Ah, sì, ecco, e anche la coda a lancia!» L’uomo si batté due colpi in fondo alla schiena. «Con le pinne sulla punta e tutto il resto. Però era una punta talmente dura da scalfire il cemento, ecco, ecco, guardi là, Maresciallo.» Indicò la zona fuori dalle transenne, e tutte le facce presenti si girarono per guardare nella stessa direzione puntata dal suo dito. «Guardi che razza di solco che ha fatto laggiù.»

«Per questo insisto a dire che era un mostro marino» lo assecondò il marinaio che aveva assistito alla scena dal ponte della nave. «Uno di quelli che escono dall’acqua solo quando piove, come mi raccontava il mio vecchio.»

L’altro marinaio gli fece il verso. «E com’è che qui non se ne sono mai visti prima d’ora?»

«Perché forse ce lo siamo portati dietro con il carico.» L’altro indicò la nave che riempiva il suo intero campo visivo. «Ragionateci, la nave questa mattina arriva in porto, e nel pomeriggio sbuca dal nulla questa creatura. È chiaro che doveva essersi nascosto in mezzo al carico, o forse si era aggrappato alla chiglia dopo essere emerso dagli abissi.»

«Ma allora potrebbe essere ancora nei paraggi, anche se ora sembra sparito.» Uno degli operai si fece audace e strinse il braccio del Maresciallo, arrestando lo scribacchiare della sua penna. Gli occhi lucidi e supplichevoli. «È pericoloso, Signor Maresciallo, qui non c’è da scherzare, c’è da far evacuare tutto il cantiere, immediatamente.»

«Calma, calma.» Il Maresciallo si sottrasse alla sua presa – il collega inclinò l’ombrello per tenerlo riparato dalla pioggia – e gesticolò per acquietare anche quelli che gli stavano annuendo dietro. «Questo saremo noi a stabilirlo.» Girò pagina e scarabocchiò ancora qualcosa. «Ripetete con esattezza a che ora c’è stato l’avvistamento e fornitemi i nominativi di tutti quelli che…»

Nerone si dimenò contro il petto di Giulia, spinse le zampette sul suo braccio e tornò a balzare sul pontile.

«Nerone!»

Giulia non poté fare altro che rimettersi a correre. Si allontanò così dal gruppo e si lasciò indietro le voci degli uomini mescolate al trambusto della pioggia, ai sibili del vento fra i tralicci d’acciaio, e agli scrosci delle onde frammentate dagli schiaffi della bufera.

Lasciatasi alle spalle l’ombra della nave da carico, raggiunse una zona priva di bitte e sgombra dalle barche, dove il pontile si assottigliava, incorniciato da lastroni di roccia aguzza che permettevano il disperdersi e il ritirarsi della risacca marina.

Nerone si fermò poco più indietro del termine del pontile, incollò di nuovo il naso al cemento bagnato e girò più volte su se stesso, continuando ad annusare e a sventolare la coda gocciolante.

Giulia lo raggiunse. «Fermo dove sei, oppure…» Il suo sguardo cadde sul suolo che Nerone stava annusando, sulla stessa zona indicata poco prima dall’operaio che aveva giurato di essere stato aggredito dal Mostro Marino.

Giulia si accovacciò, incurante della pioggia che andò a rovesciarsi sulla sua schiena ricurva, simile al getto della doccia, e toccò i solchi individuati da Nerone. La consistenza del cemento rotto e bagnato si sfaldò sotto le sue dita, e le briciole impastate dalla pioggia le rimasero appiccicate alla pelle come polvere di gesso. Strofinò le dita e squadrò i solchi più piccoli disseminati attorno a quello più lungo e ricurvo.

Le fu facile visualizzare la scena. Il diluvio riversava il suo getto freddo e improvviso sul corpo di Luca, mutandone la forma. Luca si ritrovava circondato dagli sguardi scandalizzati degli operai, attanagliato da un terrore che conosceva e che aveva provato fin troppe volte nel corso della sua vita. Luca si piegava in avanti, affondava gli artigli nel cemento e ne sbriciolava le scaglie fra le pinne. La coda frustava la pioggia davanti agli operai, il lampo verde-azzurro li faceva arretrare, la punta ricadeva sul pontile e strusciava il solco più profondo, innalzando una curva di polvere e detriti. Le punte dei denti aguzzi si schiudevano e vibravano, gemendo un latrato di minaccia e di agonia. Gli occhi gialli e fiammeggianti come fiaccole nella nebbia.

Luca…

Giulia strinse il pugno bagnato e sporco di polvere di cemento. Riportò alla mente l’unica volta in cui aveva visto non Luca ridotto in quelle condizioni, ma Alberto. Le zanne schiuse in un ringhio di minaccia, gli artigli rattrappiti, le pinne ritte, l’acqua a gocciolare dalla coda, la sua figura ingigantita dal fiammeggiare del tramonto, e gli occhi a brillare sotto l’oscurità delle nuvole scarlatte. Luca poteva sul serio essersi reso capace di qualcosa di simile?

Cosa ti è successo?

Seguendo Nerone, Giulia giunse fino all’estremità del pontile, il confine sovrastato dal rigurgito del mare che si accavallava, che si spalancava, che veniva risucchiato fra le rocce. La pioggia gli si rovesciava dentro e ne ingrossava le onde. Mitragliando i cavalloni, generava una fitta nebbia color fumo che andava ad alimentare le nubi illuminate dal battito di qualche fulmine caduto all’orizzonte, dietro i palazzi più alti che crescevano lungo la costa del porto.

Nerone frenò le zampette a ridosso di una cresta di schiuma che era scivolata lungo l’estremità della banchina. Abbaiò più volte, mugugnò un latrato sofferto, e si accucciò a pancia ingiù. Gli occhi tristi e sconsolati rivolti al mare aperto, al cielo scuro, al gonfiore delle nuvole e ai lampeggi brontolanti che si facevano via via più ravvicinati e prossimi alla costa.

Anche Giulia raggiunse il termine della banchina. Strinse le mani sulle ginocchia tremanti, respirò a grossi affanni, si scollò una ciocca dalle labbra bagnate – il sapore ferroso della pioggia mescolato a quello della salsedine –, e puntò lo sguardo al mare che, così ingrossato e nero come il piombo, la impressionò. Ma nulla poteva impressionarla più delle parole che poco prima aveva udito dalle bocche degli operai del cantiere.

“… venuto dal mare.”

Unghie come quelle di un orso.”

Zanne aguzze e coda con le pinne.”

Squame come quelle di un pesce. Squame verdi e azzurre.”

Un mostro!”

Un mostro emerso dal mare.”

Un mostro marino!”

Giulia deglutì e si fece rigida. Il petto pesante e lo stomaco raggelato da quella realizzazione che si era abbattuta su di lei come una sberla d’acqua fredda.

Luca ha sempre avuto ragione a non fidarsi completamente di noi umani. Ha sempre saputo che sarebbe potuto capitare qualcosa di simile. Ha sempre immaginato che prima o poi sarebbero ricomparse certe persone pronte a fargli del male pur di non accettarlo nel nostro mondo.

I sensi di colpa la annientarono. La travolsero con la stessa ferocia sprigionata da quelle onde che stavano sommergendo gli scogli della costa.

Lo ha sempre saputo e io ho ignorato le sue paure. Che razza di amica sono? E se ora non dovessimo più riuscire a trovarlo…

Nerone abbassò le orecchie, reclinò la testolina all’indietro e ululò al cielo. Anche lui piangeva per il suo amico disperso.

Giulia si chinò a prenderlo in braccio, lo strinse al petto e lo coccolò strofinando una carezza dietro l’altra attraverso la pelliccia fredda e fradicia. Inondata dal diluvio e dagli zampilli provenienti dagli schianti delle onde, volse lo sguardo lontano, dove il cielo era più scuro e dove i sottili rami di fulmine crepavano le nuvole e sprofondavano fra gli accavallamenti delle onde, illuminando le barche che galleggiavano sulla linea d’orizzonte che delimitava la zona del porto.

Affrontando quello scenario, succube dei discorsi degli operai che ancora le ronzavano nelle orecchie, sporcata dalla polvere di cemento che scricchiolava sotto le unghie, Giulia poté chiudere gli occhi, rintracciare il filo di quel legame che ancora la teneva unita a Luca, e visualizzare nettamente la scena che si era svolta al porto dopo l’esplosione del diluvio.

Luca trasformato davanti agli occhi strabuzzati di tutti gli uomini lì presenti, le sue zampe aggrappate al muso da pesce nel disperato tentativo di asciugarsi. La sua figura china e tremante che arretrava, la coda slanciata per proteggersi, le grida dei marinai e la loro fuga dinnanzi all’apparizione del Mostro Marino. Luca dunque si ritrovava da solo, si guardava attorno per individuare una via di fuga, ma altri uomini accorrevano in soccorso di quelli da cui si era difeso. La pioggia inarrestabile, i passi sempre più numerosi a popolare il pontile, le transenne a bloccare il passaggio verso le strade del centro città, il mare come unica salvezza. Così Luca si lasciava trascinare dagli ululati della tempesta, scivolava fra le fauci delle onde, sprofondava negli abissi del porto, attorniato dai piloni e dalle ancore delle barche, e allora…

E allora…

Giulia spalancò gli occhi sul mare aperto, sull’orizzonte racchiuso dall’insenatura del porto, sulla linea di confine dove nuvole e onde diventavano una cosa sola. La assalì un dubbio. Un’ipotesi fin troppo assurda per essere vera, ma l’unica in grado di donarle una scintilla di speranza.

No, non può essere, non può averlo fatto.

Corrugò un sopracciglio, trattenne il fiato senza la certezza di poterlo ritrovare.

Oppure sì?

Luca poteva davvero essersi spinto a nuoto fino a Portorosso?

«Picinin

La sorprese una voce, un accento melodioso e familiare che seppe distinguersi in mezzo al trambusto blaterato dagli operai e dai marinai ancora radunati attorno agli ombrelli neri dei due Carabinieri.

Giulia si girò.

Bloccato dalla seconda fila di transenne che gli operai stavano distribuendo sul confine del pontile, circondato dalle figure estranee vestite con giubbotti impermeabili, e sorvegliato dai volti scuri nascosti dalle ombre degli elmetti, un viso familiare si materializzò al riparo di un ombrello a quadri. I baffi grigi spolverati sotto il naso, gli occhietti chiari e preoccupati incastonati fra i ricami delle rughe, e la mano libera sventolata in direzione di Giulia per richiamare la sua attenzione e per farsi trovare anche dietro la nebbiolina di umidità che rasentava il suolo di cemento. «Lo avete trovato?» esclamò il Signor Rizzi.

Giulia si ritrovò a bocca aperta per lo stupore. Il Signor Rizzi è qui? Si è preoccupato a tal punto da raggiungermi al porto? Ma certo. La telefonata della mamma deve averlo allarmato molto. Anche lui deve essersi affezionato a Luca dopo tutto questo tempo. «N…» Scostò una ciocca umida che le era scivolata fra le labbra. «No.» Si portò la mano attorno alla bocca e riguadagnò un tono più alto. «No, non ancora, Signor Rizzi!» Giulia si aggrappò al corpicino fradicio di Nerone che non aveva mai distolto gli occhietti dall’orizzonte del porto. Lo riparò sotto un lembo dell’impermeabile e anche lei guardò il mare che, anche se ruggente e minaccioso, ora non le faceva più così paura. Lo scrutò con occhi sicuri e consapevoli. Scrollò le ciglia che gocciolarono lungo le guance a cui i riccioli erano incollati come striature di ruggine.

La pioggia salmastra le inondò il viso arrossato, gli artigli del vento le graffiarono le guance, gli schizzi delle onde si abbatterono sui lastroni di roccia, e la spuma grigia rotolò fino a sommergerle le scarpe. Nulla di tutto ciò fu più in capace di turbarla. Ora sapeva cosa fare. «Ma so dove dobbiamo cercarlo.»

 

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Capitolo 38
*** 38 ***


38

 

 

Massimo strinse la mano attorno alla cornetta del telefono, trafitto da un pungente fremito di allarme e di timore, e arrestò il respiro in modo da udire con chiarezza quello che la voce di Giulia stava farfugliando freneticamente dall’altro capo della linea. «Va bene, Giulia, ma adesso calmati, sennò non riesco a… sì.» Annuì due volte. «Sì, ti sto ascoltando. Calma.» Fu lui il primo a mantenere placido il suo timbro di voce, come per incoraggiare Giulia a fare lo stesso, quasi sperando di trasmetterle anche solo una parte della sua freddezza di spirito. «Con calma.» Immaginò di avere la figlia lì davanti, seduta al tavolo della cucina. Il visetto paonazzo di agitazione, le labbra tremanti, il respiro affannato dall’ansia, gli occhi lucidi e traboccanti di panico. Un’immagine tanto dolorosa da provocargli un istintivo e paterno crampo al cuore, e da suscitare in lui un disperato bisogno di averla affianco per poterla consolare con un abbraccio. «Respira, parlami con calma, e vedrai che andrà tutto bene.» Le folte sopracciglia di Massimo s’incresparono. La sua espressione velata dalla penombra della cucina si fece più grave. «Certo.» Massimo lasciò parlare Giulia ancora per un po’. Non era nuovo ai suoi incontrollabili attacchi di frenesia, ma era la prima volta che la sentiva così agitata, così in preda a un’ansia fuori controllo. «Certo, certo» le disse con tono rassicurante. «Anche la mamma ha detto così? Sicura?»

Giulia blaterò ancora dall’altro capo della linea. Accennò qualcosa a proposito del mare ingrossato, del porto transennato, di una tempesta imminente, della pioggia sempre più abbondante, e della città già sommersa dal diluvio.

Massimo scosse la testa. «No, qui da noi non ancora.» Solo in quell’istante spostò il capo, facendo attenzione a non urtare i mazzi di rosmarino e i cespi d’aglio appesi sopra il davanzale della cucina, e scrutò il paesaggio che si palesava fuori dalla finestra, racchiuso fra lo spacco delle tendine davanti a cui erano appollaiati Machiavelli e Principe.

Si affacciò a un cielo gonfio e grigio, screpolato dalle ramificazioni delle nuvole tanto basse da essere perforate dai comignoli delle case del vicinato. Un cielo fin troppo scuro, considerato che l’imbrunirsi della sera era ancora ben lontano. I gabbiani volavano bassi, in cerchio, e dondolavano come fragili formine di carta sballottate dal vento. I panni puliti sbatacchiavano dalle terrazze del vicinato – qualcuno era già corso di fuori per staccarli dai fili del bucato –, e una densa corrente elettrica aveva allungato ombre dense e tempestose fra le mura del vialetto.

Massimo arruffò i baffi, capace di fiutare il ferroso odore di tempesta in avvicinamento anche da dentro casa. «Non si è ancora messo a piovere, ma effettivamente sembra che ci sia una bella burrasca in arrivo. Anche al porto hanno dato l’allerta proprio un’ora fa, e c’è già il divieto di scendere in spiaggia.»

Fuori dalla finestra della cucina, il vento si ingrossò, sollevò una nuvola di polvere dalla strada e la fece sbattere sul vetro.

Machiavelli girò il muso di scatto e appiattì le orecchie, grugnendo un soffio di minaccia. Principe smise di leccarsi la zampina, compì un saltello impaurito e urtò il manico di una padella che sbucava dal lavello della cucina. Il micio scosse la coda, scavalcò il tagliere del pane, schivò le bottiglie della passata di pomodoro, e balzò giù dal davanzale, andando ad accucciarsi sotto una delle seggiole, al riparo. Il corpicino rigonfio, una cresta di pelliccia ritta sulla schiena. Gli occhi accesi e vigili, sempre rivolti alla finestra scurita dal maltempo e schiaffeggiata dalle spire della corrente.

Massimo diede le spalle alla finestra e tornò a concentrarsi sulla voce di Giulia che continuava a parlargli al di là della linea telefonica. «Sì» le disse. «Sì, certo che staremo attenti. Ci metteremo in moto fin da subito. Manderò tutti gli uomini e i pescatori disposti ad aiutarci nell’avvistamento e nelle ricerche. Hai la mia parola, Giulietta, faremo tutto il possibile.»

Il farfugliare di Giulia si acquietò e il suo respiro rallentò, regolarizzandosi.

Massimo ne fu sollevato. Sotto i suoi baffi sbocciò un minuscolo ma autentico sorriso di incoraggiamento. «Sì, anche io ti voglio bene.» Si fece di nuovo freddo e serio, consapevole che il pericolo si faceva più grave con il trascorrere del tempo e con l’ingrossarsi della bufera. «Però promettimi che tu e la mamma continuerete lo stesso le ricerche anche lì a Genova. Se dici che lo hanno visto al porto e se è vero che hanno già avvertito i Carabinieri, allora potrebbe essere in pericolo. Se è davvero sceso in mare come credi, noi qui faremo tutto il possibile perché arrivi sano e salvo a casa.» Annuì ancora una volta. «Lo so, sì» ripeté. «Sì, ma certo che ti richiamo appena succederà qualcosa. Ce l’hai il numero del bar del Signor Moretti, non è vero? Se non ti rispondiamo qui in casa allora prova a chiamare anche da lui. Sicuramente ci sarà qualcuno che ti darà nostre notizie.» Soffiò un sospiro che gli rafforzò la voce, la stessa con cui era solito consolare Giulia da piccola, quando a scuola prendeva un brutto voto o quando cascava dalla bici. «Non ti preoccupare, Giulietta. Starà bene, te lo prometto.» Ne era più che certo. «Sì, ti prometto che non gli succederà niente di male. Ti avviserò subito. Sì, anche voi. Di’ alla mamma di non preoccuparsi, andrà tutto bene.» Allentò la presa attorno alla cornetta, «A dopo», e riappoggiò il telefono al ricevitore.

Il ding! trillato dall’incastro risuonò fra le silenziose e scure pareti della cucina, fece sobbalzare Alberto che fu punto da una scossa rovente penetrata dietro la nuca, dopo essere rimasto vigile e in tensione, a un passo da Massimo, per tutta la durata della telefonata.

Alberto deglutì, sentendo la gola seccarsi e lo stomaco diventare di ghiaccio. Restrinse le spalle, irrigidì le braccia conserte, e rattrappì le mani ficcate sotto le ascelle: la posa che assumeva ogni volta in cui si sentiva in pericolo, ogni volta in cui insorgeva l’urgenza di proteggersi e di rizzare gli aculei nei confronti di una minaccia incombente, fredda e tempestosa come il cielo che si stava gonfiando sopra i tetti di Portorosso.

Alberto si diede una strofinata alle lunghe maniche della maglia per placare i brividi corsi sulle braccia. Schiuse le labbra per liberare il bruciore del fiato che aveva trattenuto durante tutta la telefonata, e indurì i polpacci per resistere alla tentazione di compiere un passo indietro, di allontanarsi dalle cattive notizie che già vedeva ritratte sul volto afflitto di Massimo. Avrebbe voluto astenersi dal porre domande – sapeva già che le risposte non gli sarebbero piaciute – ma l’ansia del dubbio era ben più insopportabile da sostenere. Così Alberto prese coraggio, raccolse le forze e si fece avanti, anche se pallido. «Cos’è successo?» Quel brutto presentimento si materializzò alle sue spalle nella scarica di un tuono che brontolò fra i grumi di nuvole.

L’eco del rombo si abbatté sul tetto della casa, scosse la porta d’ingresso, fischiò fra gli spifferi, fece scricchiolare le pareti della cucina, e spaventò persino Machiavelli che si rizzò sulle quattro zampe e che si allontanò dalla finestra graffiata dagli artigli del vento.

Alberto inghiottì fiato a vuoto e si sentì raggelare in viso, soffocato da un oscuro presagio. Lo stesso presagio di cui si era ritrovato vittima quando, udendo il telefono squillare, aveva posato il coltello con cui stava affettando il pane per la cena, si era precipitato nell’anticamera della cucina per rispondere, ritrovandosi però paralizzato davanti all’apparecchio, incapace di sollevare la cornetta e di accostarla all’orecchio, come per paura di prendersi una scossa, di rimanere folgorato dalla nuvoletta di cattive notizie che si annidava al di là della linea.

Massimo guardò fuori dalla finestra. Attese che l’ululato del vento si acquietasse, increspò una delle sue espressioni stoiche e indecifrabili, e si passò la mano dietro la nuca, grattandosi il capo. Si girò allontanandosi di qualche passo dalla mensola del telefono. Lo rivelò ad Alberto dandogli la schiena. «Luca è scomparso.» Persino le sue spalle mastodontiche non riuscirono a sostenere il peso di una tale notizia.

Alberto percepì tutta l’energia di quel fulmine appena caduto attraversargli le ossa, scendere fino alla pancia, squassargli lo stomaco, e rizzargli la pelle d’oca dietro il collo. «Sco…» Deglutì senza riuscire a inumidirsi la bocca diventata secca come carta. «Scomparso?» L’ombra di quel presentimento si concretizzò, gli si riversò addosso come uno di quei freddi nuvoloni che annerivano la finestra affacciata sul temporale in arrivo. «Cosa vuol dire scomparso?» Rincorse Massimo nell’anticamera che precedeva il corridoio. «E quando? Come?» Gli si parò davanti, mettendosi fra lui e la porta d’ingresso. «E da quanto tempo?»

Massimo guardò alle sue spalle, verso la finestra della cucina sempre più tetra. Fece di tutto per schivare gli occhi di Alberto. «Da questa mattina, sembrerebbe. Giulia e sua madre hanno chiamato la scuola e in altri posti, ma sembra che nessuno sappia dove si trovi. Forse ha lasciato la città.» Corrugò la fronte in uno sguardo grave e penetrante, lo stesso con cui soppesava il mare ogni mattina prima di salpare con la barca. «E pare che si stia dirigendo qui a Portorosso.»

Alberto, al suono di quella dichiarazione, provò un palpito di sorpresa. «Qui?» Riportò alla mente tutte quelle volte in cui lui e Luca avevano sparato battute sul fatto di salire a nuoto da Portorosso a Genova nel caso Luca avesse avuto bisogno di aiuto o avesse sofferto di troppa nostalgia. A quei tempi sembrava divertente immaginarselo, ed era facile riderci sopra a cuor leggero. Adesso non lo era più. E se invece fosse stato lui a tuffarsi in mare per raggiungere me? Alberto si augurava con ogni grammo della sua anima che quella fosse rimasta solo una fantasia da giovani e sciocchi ragazzini. «Ma è stata Giulia a dirtelo?» esclamò. «E lei come fa a saperlo? Come fa a esserne sicura se non lo ha visto e…»

«Perché qualcuno purtroppo lo ha visto.» Massimo andò a calzare i suoi stivali da pesca riposti sotto la cassapanca in ingresso. Machiavelli riconobbe il segnale che il padrone stava per uscire in barca. Uscì da sotto il tavolo della cucina e andò a girare attorno a Massimo, strofinò la schiena sulle sue gambe per farsi porgere il braccio e così salirgli sulla spalla. «Giulia mi ha detto che qualcuno potrebbe averlo visto al porto.» Ma Massimo gli posò la mano sulla testolina e lo acquietò. Niente gatti in barca, per quella sera. «Mentre pioveva.»

Alberto soffocò un gemito in fondo alla gola. Mentre pioveva? «I-intendi…» Alle sue spalle gorgogliò un altro rombo di tuono che gli rimbombò in fondo al petto. «Intendi che lui era…»

Quel lampo di temporale brillò fra le pareti della casa e accese gli occhi di entrambi, si riflesse in quelli immobili di Massimo e in quelli sgranati di Alberto, permettendo loro di scambiarsi un silenzioso sguardo di mutua consapevolezza. A quel punto fu facile immaginarsi la scena. Troppo facile, considerato il fatto che qualcosa di simile era già stato vissuto da entrambi proprio lì a Portorosso.

Alberto provò ad aggrapparsi alla speranza che fosse tutto un errore, un malinteso, e che Luca in realtà si trovasse al sicuro e soprattutto all’asciutto. Ma fece fatica a sradicarsi dalla mente l’immagine di Luca disperso in mare, preda della burrasca che gli mulinava attorno e delle onde che lo risucchiavano nel fondo degli abissi, dove la luce non arrivava. «Ma non possiamo saperlo di per certo.» Non può essere, non può essere, non può averlo fatto, non lui, non uno come Luca che si tiene sempre lontano dai guai e che riflette sempre cinquanta volte prima di compiere un’azione anche solo lontanamente spericolata. «E se hai detto a Giulia di continuare a cercarlo a Genova significa che…»

«Questo è perché non c’è tempo per perdersi in dubbi, e dobbiamo affidarci a ogni probabilità.» Finito di indossare gli stivali, Massimo si calcò il basco sulla testa. «A Genova è già scoppiato il diluvio. La tempesta si sta rapidamente avvicinando anche qui, e fidati se ti dico che sommergerà il paese ben prima di stasera.» Dicendo questo, scrutò di nuovo lo scorcio di cielo visibile attraverso lo spacco delle tendine. «Questo è un temporale primaverile, perciò sarà breve ma molto violento. Il mare si ingrosserà, e anche se Luca è un nuotatore non è comunque al sicuro. Rischia di perdersi o anche peggio.» Sganciò il pastrano dall’appendiabiti, infilò il braccio nella manica e chiuse ogni bottone. «Perciò organizzerò fin da subito una squadra di pattuglia e una di salvataggio. Radunerò più uomini che posso, usciremo con le barche e con i pescherecci più resistenti, faremo dei giri di pattuglia attorno al porto e gli andremo incontro, salvandolo prima che possa rimanere incastrato in alto mare. E poi…» Staccò dalla parete la lanterna a petrolio, ne girò la vite e le accostò un fiammifero acceso, evocando lo sbatacchiare di una piccola fiammella. «Io dovrò andare ad avvisare Lorenzo e Daniela.» Rivelandolo, una sfumatura più cupa gli vibrò attraverso la voce, come se dietro quelle parole vi fosse celato un dolore nascosto, un’afflizione che solo il cuore di un genitore era in grado di comprendere.

Alberto sgranò lo sguardo. «Cosa?» Schizzò davanti a Massimo, gli premette le mani sul petto prima di dargli l’occasione di spingere la porta e di compiere il primo passo in strada. «No, no, macché, sei pazzo? Non puoi andare a dirlo ai suoi, li spaventeresti a morte.»

Massimo si scansò a destra e a sinistra, ma Alberto lo bloccò in ogni direzione. «Se Luca è davvero in pericolo allora i suoi genitori devono essere i primi a saperlo.» Questa volta sul suo volto calò un’ombra scura e intransigente. «Senza contare il fatto che loro potrebbero essere la soluzione migliore per ritrovarlo, dato che sono in grado di cercarlo anche sott’acqua e che possono percorrere a nuoto la tratta fino a…»

«Ma quello posso farlo io!»

Massimo forzò la presa attorno al manico della lanterna e sollevò un sopracciglio. Persino Machiavelli e Principe, lui ancora rifugiato sotto il tavolo, si scambiarono un’espressione spaesata.

Alberto non tardò ad approfittarsi di quell’attimo di generale cedimento. È la mia occasione. Raccolse un respiro profondo, e con aria fresca nei polmoni sentì crescere la confidenza di cui aveva bisogno. «Dammi retta.» Però già tremava di impazienza. Senza nemmeno accorgersene, fece scivolare un piede in direzione della porta, pronto a scattare fuori di casa, a sfrecciare fra le vie del paese e a tuffarsi in mare, tempesta o meno. «Dammi retta, per favore, lascia che sia io ad andare in cerca di Luca, e voi invece restate qua attorno al porto a monitorare la situazione con le barche e anche a tenere d’occhio il telefono nel caso Giulia avesse notizie da Genova.»

Massimo socchiuse le palpebre, e nei suoi occhi comparve una luce, forse il bagliore di una convinzione, anche se minuscola, che però lui rifiutò scuotendo la testa, irremovibile come quando correggeva Alberto sul suo modo di tagliare il pesce o di guidare l’Ape. «No, Alberto. Escluso.»

«Ma…»

«È troppo pericoloso, e io non posso permetterti di correre un simile rischio.»

«Lo so che è pericoloso» rispose Alberto, «ma per Luca lo è ancora di più di quanto non lo sia per me. Luca passa quasi tutto l’anno fuori dall’acqua, il suo corpo non è allenato e lui non nuota più bene come un tempo.» Si premette la mano sul petto ribollente, sul cuore galoppante. «Io invece sì. E nuoto anche meglio di Lorenzo e Daniela, se è a questo che stai pensando. Se Giulia ha ragione e se Luca sta davvero nuotando verso Portorosso, allora sarà di sicuro già in balia della tempesta, non potrà mai raggiungere il paese in tempo. Solo io avrei la forza di raccoglierlo e di tirarlo in salvo in superficie. E se come dici tu non abbiamo neanche un minuto da perdere, allora devi darmi subito il permesso di andare.» Un lampo silenzioso illuminò la finestra e si specchiò negli occhi imploranti di Alberto che, accesi da un tale abbaglio, resi ancor più brillanti della lanterna che Massimo reggeva fra le dita, riuscirono a esprimere tutto il coraggio di cui era capace il suo animo palpitante. «Te ne prego.»

Massimo tirò il capo indietro con uno scatto, e la lanterna gli dondolò dalle dita tremolanti.

Alberto lo aveva pregato, e Alberto non si abbassava mai alle suppliche. Si stava sicuramente disperando dal bisogno di andare in cerca di Luca, dall’urgenza di trarlo in salvo.

Massimo guardò per un’ultima volta fuori dalla finestra della cucina, guardò Alberto, arruffò i baffi, e infine guardò la lanterna che reggeva in mano, le pareti color miele dentro cui danzava l’ombra della fiammella appena accesa.

Dopo quell’esitazione iniziale, dopo un tremore della mano che non aveva il potere di trattenere Alberto, Massimo non poté fare altro che cedere, incapace di controbattere e di deludere la disperata supplica di quegli occhioni brucianti di coraggio. «D’accordo.»

Alberto sentì un caldo soffio di sollievo gonfiargli il cuore e colmargli il petto di una sensazione tiepida e leggera. I tremiti si placarono, il formicolio di impazienza si attenuò, e un principio di sorriso gli sfiorò le labbra, anche se il pallore olivastro non era ancora del tutto sbiadito dalle sue guance. «Sul serio?»

Massimo annuì, e ignorò quel bisbiglio che gli suggeriva di rimangiarsi le parole, perché di ragazzi dispersi ne bastava uno soltanto nell’arco della stessa giornata. «D’accordo, Alberto, va’ a prendere Luca.» Indicò fuori dalla finestra con un’alzata del mento. «Va’ a prenderlo e riportalo a casa.» Un altro schianto del vento fece tremare le finestre, ululò al di fuori della porta di casa, scricchiolò lungo la stradina di sterrato e sibilò fra i rami degli alberi e i tralicci della vigna. Gli occhi di Massimo s’incupirono. «Però io devo comunque avvisare Lorenzo e Daniela di quello che sta succedendo. Da genitore a genitore, so che è la cosa giusta da fare, so che devono essere messi al corrente.» Guardò Alberto attraverso il tiepido bagliore della lanterna. «E so che è quello che vorrei anch’io se dovesse capitare qualcosa di simile a te o a Giulia.»

Alberto non ebbe tempo di gongolarsi sul significato di quell’affermazione, sul fatto che Massimo non avesse esitato a porlo sullo stesso piano di Giulia. Poté solo arrendersi al compromesso di una incorruttibile ragionevolezza. «Ricevuto.» Si sfilò scarpe e calzini, arrotolò gli orli sgualciti dei jeans, si sgranchì le dita dei piedi, compì un paio di rimbalzi per molleggiare le ginocchia, e si massaggiò i polpacci per scaldare i muscoli. «Allora io volo.» Spalancò la porta, finendo investito da una zaffata di aria polverosa e pungente che odorava di ferro e di salsedine, e sventolò un cenno a Massimo in direzione del mare. «Ma sta’ attento anche all’isola, oltre che al porto. Quando troverò Luca, lo poterò sulla torre e ti farò segnale da là.» Slanciò una prima falcata di corsa. «Di’ anche agli altri di tenere d’occhio la zona.»

«Alberto…»

«Cosa?» Alberto frenò prima di varcare la soglia di casa e scoccò a Massimo un’occhiata interrogativa da sopra la spalla.

Fra i loro sguardi si allungò un silenzio fitto come nebbia. Le sfumature provenienti dalla lanterna, calde e traballanti, ravvivarono le ombre grigie gettate dai nuvoloni, intiepidirono l’aria raggelata dall’umida corrente della burrasca risalita dal mare.

Massimo strinse la presa attorno al manico della lanterna e indurì la postura delle spalle, proteggendosi da quell’impatto che nemmeno la sua stazza tanto possente era in grado di respingere. Gli occhi luccicarono da sotto la ruga delle sopracciglia, si macchiarono di un’ombra di sconfitta. Il suo era lo sguardo di un genitore in conflitto fra il desiderio di fidarsi del proprio figlio, e il bisogno di tenerlo al sicuro, a qualunque costo. Nemmeno un individuo tutto d’un pezzo come Massimo era in grado di domare una simile tempesta. Ma Massimo si fidava di Alberto. Si fidava della sua determinazione, del suo coraggio, della sua lealtà, del legame così saldo che condivideva con Luca, e di quell’amicizia che lo avrebbe condotto fino a lui. Sapeva che avrebbe compiuto le scelte giuste per entrambi.

«Fa’ attenzione.»

La lanterna che Massimo impugnava fra le dita bruciò più intensamente, e quella fiamma riempì di luce le pareti di vetro color ambra. Si trattava di un bagliore appena nato, tiepido, e quasi immobile, eppure fu un’immagine che colmò Alberto di fiducia, quasi quanto erano state in grado di fare le parole di Massimo. Gli bastò quel contatto così fugace per capire che sarebbe stata la luce di quella lanterna a indicargli la strada giusta da percorrere per raggiungere Luca e per tornare a casa assieme.

Alberto sorrise e annuì. Il cuore batté gonfio di determinazione, e una scarica di coraggio arroventò ogni fibra del suo corpo. «Torneremo.» Imboccò la porta di casa. I piedi nudi scivolarono leggeri come pinne di delfino. «Torneremo a casa assieme, lo giuro.»

Un batuffolo a chiazze scure sgusciò fra le sue caviglie e si piazzò sulla porta di casa, impedendogli di uscire. Principe si sedette su un gradino dell’uscio, arruffò i baffoni ereditati da Machiavelli, piantò un broncio dall’aria ancor più contrariata di quelli sfoggiati da suo padre, e pigolò un profondo miagolio di protesta. «Miau

Alberto si stupì di quell’interferenza. «Principe.» Tenendo ancora il piede alzato, si sporse a destra e a sinistra, come Massimo aveva fatto prima con lui. Principe non lo lasciò passare, così Alberto piegò la gamba per scavalcarlo, ma il micio tornò a spostarsi, bloccandogli nuovamente la strada. Alberto corrugò la fronte, squadrandolo con impazienza. «Andiamo, fa’ il bravo, lasciami passare.»

Principe gonfiò la pelliccia, appiattì le orecchie, fece guizzare la punta della coda in un moto di nervosismo, e tenne Alberto inchiodato sotto la mira dei suoi truci occhi gialli, senza dare il minimo cenno di voler obbedire.

Passato il primo attimo di smarrimento, Alberto gli lesse nel pensiero e venne colto da un tiepido palpito di tenerezza. «Ooh, ho capito.» Si cinse i fianchi e si chinò in avanti, per nulla intimorito dall’espressione così severa e autoritaria del suo gattino. «Sei preoccupato perché sto uscendo nel bel mezzo di un temporale, non è vero?»

Principe schiuse le fauci in un miagolio lungo e lamentoso. «Miauuu.» Si infilò fra le gambe di Alberto, gli girò attorno alle caviglie, inarcò la schiena strusciandola sulla stoffa dei jeans, e gli premette la fronte sotto il ginocchio, impedendogli di scendere i gradini e di andare incontro al cielo foderato dalle nuvole e ai gorgoglii del temporale.

Alberto si accovacciò a carezzarlo. «Sta’ tranquillo» lo rassicurò. «Tornerò presto, te lo prometto. Ma Luca ha bisogno di me, quindi devo essere coraggioso, anche se mi toccherà affrontare la tempesta con tutti quei tuoni spaventosi.» Gli raccolse il musetto fra le mani chiuse a coppa. «Non mi faranno alcun male, te lo giuro.»

Ma Principe raddrizzò le orecchie, e i suoi occhietti si fecero umidi e preoccupati quasi quanto quelli di Massimo. Fra lui e Alberto corsero fiumi di pensieri e di ricordi, perché Principe conosceva bene il terrore che Alberto covava nei confronti dei temporali. Ricordò ogni notte trascorsa a fare le fusa per consolare i suoi tremori, a placare il suo respiro affannato, e a vegliare su di lui, raccolto fra le sue braccia e acciambellato sul suo ventre, al riparo sotto le coperte mentre i fulmini brillavano attraverso la finestra e la pioggia mitragliava le tegole. Alberto non poteva di certo affrontare un tale pericolo senza il suo sostegno!

Ad Alberto bastò scrutare il musetto del suo micio per recepire tutte le sue ansie. Lo attirò a sé e lo abbracciò proprio come durante una di quelle notti. «Tornerò presto, te lo prometto.» Lo carezzò lungo la schiena. I baffi a fargli il solletico sulla guancia, le fusa a sfiorargli l’orecchio. «E magari questa sarà la volta buona in cui smetterò di avere paura dei temporali una volta per tutte» rise. «Sarebbe anche ora, ormai, no?»

«Miau

Alberto mise giù Principe e lo strofinò in mezzo alle orecchie. «Mi raccomando, bada a Massimo e a Machiavelli, mentre sono via.» Si rialzò e si batté la mano sul petto rigonfio. «Ora sei tu il responsabile della casa, in mia assenza.» Con un solo balzo scese dai gradini dell’ingresso, attraversò il giardino – l’erba fredda e gli alberi frustati dal vento –, e valicò il portone. L’ultima immagine che scorse, prima di svoltare l’angolo, fu quella degli occhi preoccupati di Principe. Occhi che, davvero simili alle fiaccole di una lanterna, lo sorvegliarono fino a quando la sua corsa non accelerò lungo il vialetto, per poi scomparire in direzione del porto.

Correndo a piedi nudi per le strade di Portorosso, senza alcun bisogno di levare il naso verso il cielo annuvolato, fu facile per Alberto fiutare l’odore della tempesta in arrivo e del mare ingrossato dalla burrasca. Udì il cigolare di un’ultima finestra che si chiudeva. Si guardò attorno e notò che tutte le case del vicinato avevano le saracinesche abbassate, le tende erano arrotolate, i trespoli del bucato erano spogli, e le corde vibravano e fischiavano al passaggio di ogni folata di vento. Anche il bar era chiuso, le seggiole e i tavolini erano stati accostati alla parete, il giornalaio aveva ritirato le grate dei quotidiani, e il fruttivendolo aveva trasferito dentro la bottega tutte le cassette di verdura che di solito erano esposte nella piazzetta. Nessun gabbiano circolava in volo, e nessun gatto vagabondava per strada.

Gli ululati di vento più violenti attraversarono le chiome degli alberi, si schiantarono sulla stradina di pietra, innalzarono vortici di polvere e gli scricchiolii delle foglie strappate ai cespugli, costringendo Alberto a ripararsi il viso con un braccio per non finire accecato.

Alberto tese lo sguardo al di là del cielo color cemento, brulicante di rumori sempre più forti, gorgoglianti come una pancia che borbotta, e andò in cerca del porto, delle barche a cui appartenevano i dondolii delle campane che udiva squillare anche da quella distanza.

All’orizzonte, al di là dei comignoli e delle antenne delle case, lo accolse la prima linea di mare increspato dalle onde. Una striscia di piombo che si infrangeva sul grigio cenere delle nuvole spennellate in cielo. Un mare famelico e ingordo che forse si era già inghiottito Luca nelle sue budella.

Alberto si sentì raggelare da quel pensiero.

Resisti, Luca.

Si sfilò la maglia pesante e se la gettò alle spalle, lasciando che il vento la facesse volare via.

Caddero le prime gocce di pioggia. L’impatto freddo e umido, pungente come pizzichi di spillo, gli bagnò la maglietta, scivolò lungo il braccio destro, evocò la crescita delle squame che gli rigarono la pelle di blu e che attraversarono il tatuaggio, dalla punta ricurva dell’arpione fino alla base sorretta dalle chele dello scorpione.

Precipitarono altre gocce, sempre più grosse e sempre più ravvicinate. Annebbiarono il paesaggio, le facciate delle case, e macularono la stradina di pietra.

Alberto sfregò un pugno sulle guance bagnate, le sbavò di blu, e quel contrasto scuro e un po’ selvatico donò ai suoi occhi una scintilla di luce viva e fiammeggiante, ma dal calore mite e rassicurante. Una fiaccola nella notte. Una lanterna nell’oscurità.

Sto arrivando a prenderti!

Giunto al porto, Alberto batté i piedi nudi sulla piattaforma di legno, si slanciò dal pontile e si tuffò in mare – splash! – innalzando un ampio anello di spruzzi grossi e bianchi come sassi.

Trasformato all’istante, sbatté la coda sott’acqua, compì un’ampia curva fra le alghe e le chiglie delle navi ormeggiate, allineò le braccia al torso, spinse il nuoto controcorrente, e fendette un primo tuffo fra le onde che si infransero attorno al suo corpo diventato rapido e letale proprio come lo scocco di un arpione.

L’acqua rotolata lungo i suoi pugni e le sue braccia attraversò il nero del tatuaggio che spiccava in netto contrasto con il blu della sua pelle di pesce. L’arpione teso attraverso il gonfiore del muscolo, i brandelli della rete da pescatore dilatati come una ragnatela sotto la manica della maglietta, e la coda dello scorpione ritorta attorno al polso.

Il tuffo di Alberto tornò a cadere in mare, già fuori dalla zona del porto.

Le nubi del temporale si agglomerarono, i bitorzoli color piombo sfregarono scariche di fulmini che brillarono sulla superficie del mare e che accentuarono la caduta della pioggia. Uno zampillare sempre più rapido e incontrollabile si mescolò alle onde alte e feroci, zanne ingorde pronte a divorare e a trascinare negli abissi qualsiasi creatura si fosse posta davanti al loro tagliente e letale respiro di salsedine.

Contrastando ogni forza della natura, Alberto imboccò la via del mare aperto, tuffo dopo tuffo, sbracciata dopo sbracciata, e pregò non fosse già troppo tardi.

 

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Capitolo 39
*** 39 ***


39

 

 

Luca spalancò le braccia indolenzite, distese le mani palmate fendendo l’acqua in cui era immerso, e slanciò un tuffo che infranse la superficie delle onde. L’improvviso getto di pioggia gli schiaffeggiò il muso, gli inondò le narici, e gli invase le palpebre socchiuse, annebbiandogli la vista riempita dal grigio delle nuvole e dal nero della distesa di mare aperto.

Strinse le zanne, soffocò il lamento di dolore scaricato da ogni muscolo del suo corpo, e spinse le braccia in avanti per mantenere l’equilibrio, nonostante la pesantezza della coda. Quello sforzo gli costò un violento strappo alle spalle che gli impedì di accelerare il nuoto come aveva fatto quando aveva compiuto il primo tuffo per uscire dal porto di Genova. Anche l’acqua divisa dal suo passaggio era più dura da attraversare, più fredda e collosa, quasi si rifiutasse di lasciarlo fuggire.

Sospeso fra cielo e mare, Luca assorbì un respiro fra le zanne. Le narici si riempirono dell’odore ferroso della pioggia mescolato a quello più aspro della salsedine, del mare aperto. Un mare ancora gelido e appesantito dalla morsa dell’inverno, nonostante la primavera avesse già compiuto i suoi primi timidi passetti.

Lo sforzo di quel respiro gli succhiò ogni energia dal corpo. Le forze lo abbandonarono, il singhiozzo d’aria gli soffocò il petto, e Luca ricadde fra le onde a peso morto.

Splash!

Assieme all’impatto lo colpì un capogiro, una vertigine simile a quelle che provava in superficie dopo una corsa a perdifiato su per le gradinate della scuola o del condominio di casa.

Il peso della fatica lo accerchiò, costringendolo in balia delle raffiche della corrente che sballottandolo lo trascinarono verso il basso, dove l’acqua si tingeva di un blu pesto, ostile e impenetrabile, soffocante come una cappa di fumo. Luca non aveva mai nuotato in quelle condizioni, nemmeno durante la sua vita di creatura marina, perché la mamma e il papà gli avevano sempre impedito di avventurarsi fuori casa o di far pascolare i pesci durante le tempeste così violente. E ora Luca si ritrovava sulle spalle pure l’immenso sforzo di dover domare l’agilità del suo corpo da pesce dopo tutti quei mesi trascorsi unicamente nella sua forma umana. Ai batticuori della fatica si aggiungevano pure quelli del terrore che aveva provato fuggendo dagli operai del cantiere navale. Una paura che ancora gli bruciava nel petto e che gli appannava la testa, impedendogli di pensare lucidamente, di orientarsi nel fondale, e persino di ricordarsi l’aspetto che avrebbero dovuto assumere il mare e il cielo.

Da quanto tempo sto nuotando?

Assecondato dal flusso della corrente, Luca si allontanò dalla superficie, rimase sospeso aiutandosi con l’equilibrio della coda e l’oscillare delle braccia, e recuperò il fiato e la vista. Era circondato dall’oscurità, da quella che appariva come una notte nuvolosa senza né Luna né stelle. Nessuna formazione di scogli, né foreste di alghe, né banchi di pesci, e nemmeno il suolo del fondale era visibile. Luca non aveva modo di capire dove si trovasse.

Quanto spazio avrò percorso? I suoi pensieri rimbombarono, disturbati dal brontolare dei tuoni e dal galoppare del suo cuore. Da Genova fino a Portorosso… è un tragitto che ho sempre e solo percorso con il treno, sulla terraferma. Mai a nuoto. E anche se il mare fosse più calmo di così, io…

Luca si avvolse le spalle e rabbrividì. Il mare alla deriva era freddo, odorava di acqua invernale, di ghiaccio sciolto, di boccioli acerbi e di stagno raffermo. Inalò a lungo e il fiato non arrivò a riempirgli i polmoni, rimase bloccato in fondo alla gola, strozzandolo come un singhiozzo andato di traverso. Quella sensazione soffocante lo allarmò, lo fece sentire in trappola.

Devo tornare in superficie.

Lasciandosi guidare dalla luce di una saetta precipitata fra le onde, Luca frustò uno slancio di coda, nuotò verso l’alto, emerse, e venne accolto dallo schianto del fulmine che era caduto fra i cavalloni, illuminando i bitorzoli delle nuvoli e l’infinita distesa di mare color piombo.

Luca stirò il collo di lato per non venire schiaffeggiato da un’onda improvvisa. Tossì. Dilatò le narici per cadenzare il respiro, e forzò le palpebre a rimanere aperte nonostante il continuo rovesciarsi del diluvio fitto come una nebbia d’ottobre. Si guardò attorno e scoprì che anche fuori dall’acqua gli era impossibile orientarsi. Il cielo rigonfio nascondeva la costa, e le nuvole erano così ingrossate dal vento che sembravano sciogliersi nel mare in burrasca.

Ci sono troppe nuvole, la pioggia è troppo fitta. Starò sul serio andando nel verso giusto?

Luca sbatacchiò le palpebre, mentre l’acqua piovana continuava a gocciolargli dalle orecchie a cresta e a scivolargli in bocca. Aveva un sapore diverso, tiepido e dolciastro, in contrasto alla gelida e aspra acqua di mare.

Avrò preso la direzione giusta? Non riesco nemmeno a ricordarmi da che direzione sono arrivato.

Un’onda gli schiaffeggiò il muso. Un’altra si innalzò dietro di lui e gli si abbatté sulla schiena, dandogli uno spintone che lo fece di nuovo precipitare verso il fondo.

Sommerso dal silenzio, paralizzato dal gelo, Luca era di nuovo sospeso sott’acqua, al buio, atterrato dalla spiazzante sensazione di star compiendo un viaggio all’interno della centrifuga di una lavatrice.

Credevo che nuotando sott’acqua sarebbe stato più facile orientarmi, ma è tutto talmente buio che non riesco neanche a capire se sono vicino alla costa. E se le onde così forti mi impediscono anche solo di rimanere a galla in superficie…

Il successivo slancio di coda fu debole e rigido, ma lo accompagnò lo stesso verso la superficie e lo aiutò a compiere solo qualche piccolo tuffo che saltellava a singhiozzi, come un ciottolo fatto rimbalzare in un laghetto. Ogni salto si faceva più basso, ogni codata più incerta, e ogni sbracciata meno profonda.

E con tutta questa pioggia…

Luca continuò a saltare, ad annaspare, a tremare di freddo e di fatica, sempre più a corto di fiato e di energie, incapace di distinguere l’acqua piovana da quella marina.

Se almeno smettesse di piovere…

Si propagò un altro brontolio del temporale, un rombo che si unì al frastuono delle onde.

Se solo smettesse anche solo per un momento. Solo per il tempo che mi servirebbe per…

Il fulmine esplose e lo accecò, brillando su un panorama immutato, la stessa acqua e lo stesso cielo.

Luca strizzò gli occhi, sospeso nell’arco di un tuffo, e si riparò dietro una zampa. Un’onda gli crollò addosso, di prepotenza, e lo sbatté di nuovo verso il fondo del mare, facendolo roteare su se stesso fino alla nausea, dandogli la sensazione di star fluttuando in un incubo dal quale non riusciva a svegliarsi. Non aveva scampo.

E adesso? fu spontaneo domandarsi. Cos’è che dovrei fare? Risalire la superficie per l’ennesima volta e tentare un’altra cavalcata fra le onde? Ma dopo? Dovrei comunque nuotare alla cieca, dato che ormai mi sono perso e non so più né quale direzione prendere per arrivare a Portorosso né quale sia la strada per ritornare a Genova. Allora dovrei rimanere sott’acqua?

Riaprì gli occhi, e l’oscurità che gli si palesò davanti lo fece desistere da quell’idea. Era troppo buio. Luca si trovava in mare aperto e non aveva alcun punto di riferimento. Se fosse sceso fino al fondo per smettere di nuotare e per far riposare i muscoli avrebbe rischiato di congelare o di soffocare, ritrovandosi schiacciato da un ambiente con scarso ossigeno.

Soffocare… soffocare… soffocare…

I suoi pensieri tornarono indietro, evocarono qualcosa che gli era già stato detto anni prima.

Queste cose cominciano piccole,” lo aveva ammonito Giulia, una sera sul loro albero, dopo che lei e Alberto si erano allarmati venendo a scoprire che Luca avrebbe tenuto segreta la sua identità di Mostro Marino nella nuova scuola. “E poi, man mano che il tempo passa, si ingigantiscono sempre di più, e alla fine ti ritrovi senza neanche accorgertene schiacciato da una valanga gelida e soffocante.”

Una valanga gelida e soffocante, appunto. La stessa valanga che Luca aveva alimentato con le sue insicurezze e con le sue paure. Ed era quella la sensazione che Luca stava provando, stritolato dal peso delle onde e del cielo in tempesta. La sensazione di non potersi mettere in salvo e nemmeno di poter tendere il braccio per chiamare aiuto e farsi tirare fuori da quella catastrofe. Era la risacca di un’onda che si abbatteva sugli scogli, lo schianto di un cavallone su una spiaggia spoglia.

Ed è solo colpa mia.

Luca chiuse gli occhi. Affiorò il calore delle lacrime, si dissolse nel mare e nel freddo, svanì come il suo respiro sempre più flebile.

Lo raggiunse lo stesso pensiero che lo aveva aggredito e circondato prima di scappare dal porto, l’immagine dell’ostrica attaccata allo scoglio. Tornò lo spietato mondo di Verga, tornarono i Malavoglia, la nera copertina del libro consumato dal ripetuto sfogliare delle pagine, i pescatori incapaci di domare la tempesta, la Provvidenza alla deriva proprio come lo era Luca che ora non aveva alcuno scoglio a cui appendersi e nessuna spiaggia su cui stendersi.

Sprofondò. Tuttavia, mentre si lasciava scivolare verso le nere budella del mare, Luca si appese a un’ultima luce, una scintilla, una fiammella che ancora si rifiutava di spegnere, anche se non la sentiva più bruciare dentro di sé.

Eppure avrei tanto voluto…

Ingoiò un groppo di lacrime.

Un’ultima volta…

Avrebbe tanto voluto riabbracciare Alberto. Era lui la fiaccola che Luca si rifiutava di spegnere. Era lui la speranza che gli era sempre venuta incontro durante le crisi, durante gli attimi di smarrimento, sotto i cieli di pioggia e i venti di burrasca.

Anche solo un’ultima volta…

Lo spoglio e oscuro fondo del mare si avvicinava, e il pensiero di non poter mai più rivedere Alberto era ancor più doloroso della morsa di gelo nella quale Luca stava sprofondando.

Solo per…

Era una pugnalata al cuore, un chiodo nell’anima, l’ennesimo scocco di arpione.

Per dirgli che io…

Luca distese il braccio verso l’alto, divaricò la mano per afferrare la poca luce grigia che penetrava la superficie del mare.

Che io voglio ancora…

Avvenne il miracolo. In mezzo al buio, attraverso la membrana di pelle spalancata fra le sue dita, splendette una scintilla blu, si accese una luce, un barlume nell’oscurità.

Un eco lo chiamò dal baratro. «… caaa!»

Un battito rimbalzò nel petto di Luca e pulsò fino alle tempie, trasmettendogli una sensazione di stordimento simile a una puntura di elettricità statica.

Luca batté gli occhi. La nebbia si dissolse, e le lame di luce provenienti dalla superficie delinearono le ombre subacquee.

Il bagliore violaceo, quella sfumature che vibrava e ondeggiava come il globo di una fiammella, gli stava venendo incontro, facendosi sempre più larga e luminosa. «… u… ca! Lu…» Un lampo di temporale brillò dalla superficie. Un grido esplose come lo schiocco di un fulmine. «Lucaaa!»

Luca ansimò. I primi brividi di stupore sgretolarono la sua paralisi.

Ma cosa…

Fu ovvio pensare a un’allucinazione, a un inganno delle sue orecchie e a un’illusione dei suoi occhi bruciati dalle raffiche di pioggia, consumati dalla stanchezza e abbagliati dal temporale. Oppure doveva essere la mancanza di ossigeno al cervello. Un meccanismo di difesa del suo cuore che stava cercando di consolarlo per la durata dei suoi ultimi battiti. Perché quello che vedeva non poteva essere reale. Non poteva star sul serio accadendo quel che pensava, perché era impossibile che quello fosse…

Alberto?

Luca assorbì un respiro e riuscì a spingere il fiato fino in fondo al petto, nonostante il dolore al costato. Strinse il pugno aggrappato all’acqua, inarcò la schiena, sventolò la coda per spingersi verso l’alto, combattendo il flusso di corrente che insisteva a trascinarlo verso il basso, e costrinse il suo corpo a tornare a galla, a sporgersi verso il bagliore bluastro che lo stava raggiungendo.

Alberto è qui? Ma no, impossibile, me lo sto immaginando. Perché come potrebbe essere che… come poteva immaginare che io…

Al guizzo blu del suo nuoto in avvicinamento si unì la chiara e limpida luce verde che scintillava nei suoi occhi. «Sto arrivando, Luca!» Gli stessi occhi che erano accorsi in aiuto di Luca sotto la pioggia, quando erano piccoli. Le stesse mani che avevano infranto la barriera d’acqua e che lo avevano afferrato e riportato in superficie l’estate dell’anno prima, quando Luca era colato a picco dopo l’impatto con lo scoglio. E ora quelle stesse mani erano di nuovo spalancate e tese verso di lui. «Sono qui!»

Realizzato che quell’immagine era reale, che la voce di Alberto gli stava venendo incontro, e che la luce che credeva estinta non si era mai spenta, Luca si lasciò travolgere da una bollente e irrefrenabile vampata di emozione.

«Alberto…»

Quel nome scivolò con naturalezza fuori dalla sua bocca, riaccese un battito in fondo al suo petto, lo scosse come era stata in grado di scuoterlo fin dalla prima volta in cui gli era vibrato fra le labbra.

Luca dimenò la coda e sbatacchiò le braccia, si ribellò all’acqua che lo teneva prigioniero, raccolse tutta l’energia sorta da quel palpito, e ritrovò una forza che solo Alberto era in grado di evocare dall’ombra delle sue paure e delle sue insicurezze. Affiorò dalla valanga.

No, io non voglio morire!

Serrò le zanne in un ringhio e nuotò ancor più in alto, verso la luce.

Non voglio che finisca così, sono ancora io il padrone del mio futuro.

Tese il braccio fino a sentire una scossa frustargli la spalla, spalancò la zampa per afferrare le onde della superficie, e fece scendere tutto il fiato fino in fondo al petto.

Io…

«Alberto!»

Io voglio vivere!

«Albertooo!»

Lo schianto di un’onda gli si abbatté sul muso, lo catapultò di nuovo verso il fondo, lo affogò in una corrente dentro la quale Luca si avvitò su se stesso, ingoiato da un bianco vortice di bolle. L’impatto con l’acqua dura e fredda come cemento gli ricordò davvero la testata sullo scoglio e lo stordimento che era seguito. L’esplosione bianca, lo sciame di stelle, il fischio nelle orecchie, la sensazione di star lentamente dissolvendosi in mare come schiuma.

Il vortice che teneva Luca imprigionato si divise, fece avanzare una presenza. Due zampe gli afferrarono le braccia, una coda si avvolse attorno al suo busto, sostenne il suo peso, e un tepore familiare lo circondò in un abbraccio avido e protettivo. Capelli d’alga a solleticargli il naso, un respiro soffocato nell’incavo del collo, un profumo di origano e benzina, la voce di Alberto a riecheggiargli nell’orecchio. «Luca…» Lo chiamò a sé attraverso un affanno di sollievo. «Oh, Luca…»

Luca riaprì gli occhi, stordito ma al sicuro, come circondato da una bolla, calmo come se tutto al mondo fosse tornato al posto giusto, perché ora nulla poteva più fargli del male, né la terra né il mare né il vento.

Alberto gli strinse le braccia attorno alle spalle e la coda attorno al busto, scosso da un brivido. Sollevò il capo strusciando la guancia sulla sua, unì la fronte a quella di Luca e incontrò il suo sguardo. A guardarlo furono gli stessi occhi colmi di terrore che Alberto aveva mostrato il giorno dell’incidente sullo scoglio, quando si era tuffato per salvarlo, recuperando il suo peso molle dall’acqua annuvolata dal sangue.

In un impeto di apprensione, un impulso tanto spontaneo e ardente da potersi solo definire amore, Alberto strinse le guance di Luca fra i palmi e inchiodò lo sguardo al suo, impedendogli di tornare a crollare nel buio. I loro respiri si mescolarono, mentre entrambi rimasero sospesi nel vortice della corrente, solo guardandosi, annegando non verso il fondale ma l’uno negli occhi dell’altro.

Luca sorrise senza sforzo. Fu un sorriso ebbro ed esausto. Il sorriso di sollievo che ti tremola sulle labbra dopo il risveglio da un incubo. Fu in quell’istante che Luca comprese di non star delirando, di non essere svenuto e precipitato in fondo al mare, e che una realtà vissuta affianco ad Alberto valeva mille volte un qualsiasi sogno a occhi aperti.

Alberto…

Ma Alberto non sorrise e non si disfò di quell’espressione così scossa e allarmata. Non c’era tempo per contemplare sguardi o per riprendere fiato. La tempesta non era ancora passata.

Alberto srotolò la coda dal torso di Luca, si voltò passandosi le sue braccia attorno alle spalle e stringendosele sul petto, caricandosi il suo peso sulla schiena come se si fosse trattato di portarlo a cavallina. «Sono qui, Luca.» Scosse la coda, spinse il peso in avanti e risalì la corrente, sfrecciando verso la superficie. «Sono arrivato, sei al sicuro. Ma tu continua a tenere duro. Ora ti porto in salvo.»

Luca mugugnò quella che avrebbe dovuto essere una risposta di assenso. L’accelerazione improvvisa gli succhiò un vuoto in fondo allo stomaco, e lui fu costretto a stringere più forte le braccia e a premere la fronte dietro il collo di Alberto per non sentirsi strappare via dall’impeto dello slancio.

«Resta sveglio!» La voce e gli affanni di Alberto turbinarono assieme all’acqua che si era spalancata attorno alla scia del suo nuoto. «Così, bravo. Respira. Continua a respirare, andrà tutto bene.» Frustò un colpo di coda, un’ultima accelerata, e raggiunse il chiarore opaco della superficie, una luce grigia infranta dagli scrosci della pioggia che zampillava sulle creste d’onda. Alberto si girò per parlare più vicino all’orecchio di Luca. «Luca, ascolta!» esclamò. «Non posso nuotare completamente sott’acqua, ho bisogno di riemergere per orientarmi e per essere sicuro di star andando nella direzione giusta. Siamo proprio controvento, ci prenderemo qualche onda in faccia. Io continuo a tenerti, ma tu reggiti forte, okay? Sta’ tranquillo ché non ti lascio andare.» Spremette una zampa attorno ai polsi di Luca incrociati sul suo petto. Irrigidì i muscoli delle scapole che, roteando come ali, lo sostenevano. «Non ti lascio, mi hai sentito?»

Luca irrigidì l’abbraccio e annuì sfregando la fronte fra i suoi capelli. «Mhmf…»

Alberto accennò un sorriso. Gli parve una risposta più che accettabile. «Bravo.» Il suo timbro di voce tornò sicuro e rassicurante. «Non ti lascio per nessuna ragione al mondo, lo giuro.»

Luca provò un caldo soffio al cuore nel sentirsi rivolgere una frase così semplice eppure così toccante.

Ma non fece neanche in tempo a rallegrarsene che subito giunse l’impatto con la superficie.

Splash!

Il tuffo di Alberto spaccò la curva di un’onda, sfidò la spinta del vento e il mitragliare della pioggia.

Luca serrò le palpebre, si strinse forte ad Alberto, gli affondò le unghie nella maglietta, tese i muscoli delle braccia attorno alle sue spalle gonfiate dallo sforzo, e trattenne il fiato sentendo lo spostamento delle sue scapole ossute e sporgenti pungergli la pancia.

La voce di Alberto gli vibrò lungo il torso. «Reggiti, Luca!» Di nuovo caddero in mare. «Siamo vicini» annaspò Alberto. «Ci siamo quasi.» Un’altra sua doppia sbracciata condusse di nuovo entrambi verso la superficie. «Ti porto a casa.»

Quella parola – casa – fece sbocciare la virgola di un sorriso fra le labbra di Luca, e lui si adagiò nel suo tiepido conforto.

Durante il tuffo successivo, Luca trovò il coraggio di socchiudere gli occhi grondanti di pioggia. Scorse così una serie di lumini che punteggiavano l’orizzonte annuvolato, come tante lucciole che danzavano su un prato di nebbia. Riconobbe quei filari di luci simili a fiamme di candela. Erano luci che appartenevano a ricordi felici, a estati lontane, a scorpacciate di gelato, a gite in barca, a pedalate fra le case, a nottate trascorse sotto la luce della Luna, circondati dal profumo di foglie d’ulivo, dallo sfogliare dei libri, e da risate da bambini.

Portorosso.

Un’altra caduta, un altro duro impatto con la superficie, un altro risucchio del vortice di bolle.

Il nuoto di Alberto accelerò. Luca sentì il suo corpo irrigidirsi e tendersi come una freccia, le sue squame indurirsi come un carapace. Le sue spalle si muovevano roteando ritmicamente e spalancandosi sotto la stretta irremovibile delle sue braccia.

Riemersero.

Un ramo di fulmine screpolò le nuvole e precipitò dietro un promontorio che emergeva fra le punte di scoglio. L’Isola del Mare. Il lampo brontolante illuminò il fianco di vegetazione, le chiome degli alberi frustati dal vento, e la torre che comparve nella sua interezza, chiara quasi fosse stato giorno, talmente vicina che a Luca sarebbe bastato tendere un braccio per poterla toccare.

L’isola.

E fu grazie alla speranza trasmessa da quella visione che Luca trovò la forza di resistere, di tenersi stretto alle spalle di Alberto che non avevano mai smesso di sostenerlo, e di farsi guidare verso una casa che gli avrebbe sempre dato rifugio, anche durante le tempeste più feroci.

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Capitolo 40
*** 40 ***


40

 

 

Alberto spalancò un passo sott’acqua, attraversando la risacca rotolata indietro dalla spiaggia, e premette il piede pinnato sul fondale, facendolo sprofondare fino alla caviglia nel suolo composto da ciottoli e da molli ciuffi d’alga che gli danzarono attorno ai polpacci. Frustò la coda all’aria. Mantenne salda la presa di entrambe le mani sulle braccia di Luca allacciate alle sue spalle, e avanzò ancora compiendo un lento passo affaticato dalla presa collosa del fondo marino. Strinse i denti per sopportare lo sforzo, indurì i muscoli delle spalle per far sì che il peso di Luca non gli scivolasse dalla schiena. Ignorò l’acuto scricchiolio delle ginocchia, sbuffò una bolla di fiato fra le zanne tremanti, e affondò un altro passo. Risalì la lieve pendenza dell’isola scavalcando la cresta di un’onda che gli si era infranta fra le gambe appesantite dai jeans. Chinò il capo per resistere alla caduta traversa della pioggia – sferzate di una ferocia tale che sembravano volerlo ricacciare in mare – e finalmente, stremato e sconquassato dal fiatone, esalò un rauco sospiro che svuotò ogni tensione dalle sue costole doloranti.

«Aaah…»

Alberto crollò sulla spiaggia dell’isola, bagnato non più dall’acqua di mare da cui era appena emerso, ma dal diluvio incessante. Una pioggia fitta ma più tiepida rispetto alla morsa costringente delle onde e al flusso delle correnti vorticanti contro cui aveva dovuto combattere per portare Luca in salvo.

Privo di forze e con il suo migliore amico accasciato affianco a lui, Alberto dilatò le narici inondate dall’acquazzone – la guancia schiacciata sul tappeto di ciottoli levigati –, mosse le labbra tastando il sapore ferroso della pietra, strinse le zampe sui sassi, temendo di essere risucchiato dall’accavallarsi delle onde che regolarmente gli crollavano sulle gambe e sulla coda, e chiuse gli occhi. Le orecchie a cresta fremettero, scosse dai fischi del vento che ululava fra gli scogli, dal fruscio spanto dalla vegetazione dell’isola, dal gorgogliare del temporale che brillava dietro le nubi, e dallo scroscio della pioggia che stava tornando a farsi fredda e pungente come una cascata di ghiaia.

Riguadagnato il fiato dopo un ennesimo affanno, lo stordimento di Alberto svanì, dissolvendo la nuvoletta di scintille e il fischio delle vertigini. Alberto si succhiò le labbra pervase dal sapore della pioggia e dei sassi bagnati, un sapore dolciastro e polveroso che stava lavando via quello acre della salsedine. Inspirò forte dalle narici appiattite. Il petto si gonfiò premendo sulla consistenza dei ciottoli, le rocce più aguzze gli punsero il costato, dolorose fitte gli penetrarono i muscoli addominali dandogli la sensazione di avere un coltello che saliva e scendeva dal suo stomaco a ogni boccata di fiato. Quella sfaticata batté qualsiasi sforzo mai compiuto in vita sua, dalle consegne in bici, alla pesca in barca, e persino alle faccende in officina.

Alberto inviò un impulso di energia alla base della coda, tanto per assicurarsi di averla ancora attaccata al corpo, e la sentì sbattere su qualcosa, qualcosa che gli giaceva contro il fianco, freddo e bagnato come lui.

Alzò la guancia dal suolo di ciottoli. Fece sfarfallare le palpebre gocciolanti di pioggia e, guidato dai lampeggi che brillavano fra le nuvole, riguadagnò la vista, si orientò, e riconobbe la figura che gli giaceva affianco, con una gamba accavallata alla sua, le code intrecciate, ma al sicuro sotto il peso del suo braccio.

Anche Luca respirava a singhiozzi, sofferente. La guancia schiacciata sui sassi della spiaggia, la bocca socchiusa, gli abiti scuri incollati al corpo, i tremiti a scuotergli le pinne, e un’espressione di profondo dolore a stropicciargli le grinze del muso. Ma almeno respirava, almeno era in salvo. Almeno era vivo.

Alberto si concesse solo il tempo di un minuscolo sorriso per gioire del semplice fatto di averlo con sé. Luca. Strinse ancor più forte il braccio avvolto attorno al suo torso, come per paura che un’onda potesse cadergli addosso, raccoglierlo dalla spiaggia, e trascinarlo di nuovo negli ingorghi del mare in burrasca. Non avrebbe permesso più a niente e a nessuno di portarglielo via.

Come richiamato dalla stretta di Alberto, Luca si ridestò. Sbatté gli occhi inondati dalla pioggia che grondava dai capelli d’alga e dalle squame del muso. Una scintilla baluginò dalle sue iridi color bronzo, incrociò lo sguardo di Alberto e guadagnò un impulso di luce. Quel contatto gli lasciò addosso un’espressione tramortita e sospesa nel suo stupore, come se nemmeno Luca riuscisse a credere di essere sfuggito alla tempesta, di trovarsi avvolto dal braccio di Alberto, e di essergli rimasto aggrappato durante tutta la nuotata fino all’isola. Come se si fosse trovato a galleggiare fra la veglia e il torpore di un sogno.

Alberto gli sorrise. Si infiammò di gioia come sempre gli succedeva quando lui e Luca si ritrovavano dopo aver sofferto la reciproca mancanza, dopo aver colmato il vuoto che li aveva tenuti divisi. «Ehi.»

Dopo un profondo affanno vibrato lungo le pinne e le squame, anche Luca sorrise senza sforzo, nonostante fosse un sorriso un po’ sghembo e distorto dalla guancia rigonfia e schiacciata contro i ciottoli. «Ehi.» Richiuse gli occhi. Crollò sotto il peso della stanchezza e crollò anche il suo sorriso, mentre la tensione delle sue spalle si rammollì sotto il braccio di Alberto che gli fasciava il torso.

Non si dissero nient’altro perché non c’era nient’altro da dire, nient’altro da aggiungere o da commentare, solo da ricordare. Ricordarono assieme lo stesso abbraccio e la stessa felicità che avevano provato il giorno in cui si erano ritrovati, l’estate successiva alla loro prima separazione. Era quello il dono della loro amicizia. Ogni sguardo celava uno stupore sempre identico al loro primo incontro, ogni abbraccio regalava un battito di affetto che si rinnovava di volta in volta, come una fiamma che non cessa mai di bruciare.

Luca si rotolò sulla schiena e volse lo sguardo all’oscurità del cielo, sempre protetto dal braccio di Alberto fasciato attorno ai sobbalzi del suo ventre. Socchiuse le palpebre per resistere all’annaffiata della pioggia che non accennava a diminuire, esalò un lungo sospiro che gli gonfiò la pancia, e solo per un breve istante le squame del suo viso si distesero in un’espressione serena e rappacificata, priva di ombre. Poi però i suoi occhi socchiusi si riaffacciarono al tappeto di nuvole, assorbirono l’oscurità del maltempo, i lampeggi dei tuoni più distanti e silenziosi. Sul suo muso riapparve un’ombra di sofferenza, una ruga di dolore soffocante quasi quanto il mare tempestoso da cui lui e Alberto erano appena emersi.

«Siamo morti?»

Alberto camuffò un ansito tramite un rauco singhiozzo di risata che gli pizzicò il fondo dello stomaco. «No.» Di nuovo strinse il braccio attorno al torso di Luca e affondò gli artigli nella stoffa fradicia della sua camicia, tanto per percepire la regolarità dei suoi respiri, per convincersi di quella verità. «No, non lo siamo.» Ma dovremmo esserlo. Diamine, se dovremmo esserlo. E di brutto, anche.

Il temporale gorgogliò un brontolio simile a un tossito.

Alberto alzò la guancia dalla spiaggia e guardò in alto, come Luca, verso l’oscurità del cielo tarpato dai nuvoloni. Lo sorprese un ramo di fulmine che cadde dietro l’isola, illuminandone la scogliera, la salita erbosa, gli alberi inclinati dal vento, e il profilo ingrandito della loro torre carica di ombre e di segreti.

Alberto rabbrividì, già pensando alla fatica che lo aspettava. Irrigidì i muscoli indolenziti, strinse il braccio attorno a Luca, raccolse quel che avanzava della sua riserva di fiato, e si preparò a compiere un ultimo sforzo.

 

***

 

Alberto infilò il piede pinnato nell’ultimo gradino della scala dondolante che si arrampicava lungo il profilo della torre. Si aggrappò con la mano bagnata al bordo del pavimento, strinse forte gli artigli fino a sentire le nocche scricchiolare, e gonfiò il braccio avviluppato al torso di Luca per sostenere il suo peso e aiutarlo così a valicare quell’ultimo ostacolo. «Eccoci, Luca» boccheggiò. «Tranquillo. Siamo…» Le ginocchia incontrarono la solidità delle assi di legno. Alberto mollò la tensione dello sforzo, si accasciò sul pavimento, esausto, e urtò una vecchia ruota di bicicletta che crollò e che fece cadere una pila di vecchi barattoli di vernice, facendoli rotolare sotto il tavolo da lavoro. Con la guancia premuta a terra, Alberto chiuse gli occhi e si svuotò i polmoni, gorgogliando un lungo latrato. «In salvo.»

Fuori dalla torre, un tuono accese il cielo. Lo scrosciare della pioggia aumentò, i fischi del vento sibilarono attraverso gli spifferi del tetto e fecero traballare le serrande della finestra.

Alberto e Luca si ritrovarono accasciati come sulla spiaggia, privi di forze, tremanti per il fiatone, mentre una scura pozza d’acqua cominciò a sgocciolare dagli abiti zuppi e ad allargarsi attorno ai loro corpi.

Alberto riguadagnò fiato. «Siamo in salvo, Luca. Siamo…» Indurì le spalle e fece leva sui gomiti. «Al sicuro. Ora ti…» Una fitta di dolore gli trapassò la schiena, spezzò i tremiti del suo sforzo, e lo fece crollare di petto. «Ora ci asciughiamo.» Anche se stremato dalla fatica, Alberto non si fece fermare. Si strofinò il braccio sul muso, tirò su col naso inghiottendo l’odore limaccioso di scogli e di acqua di mare. «Ora ci asciughiamo e vedrai che starai bene.» Confortò Luca con una pacca sulla schiena. «Tranquillo.» Raccolse ogni briciolo di energia in suo possesso. Compì un ulteriore sforzo per piegare le gambe e staccare il petto dal pavimento – lo sforzo più grande però fu quello di dover sfilare il braccio dal corpo di Luca –, si alzò in piedi, barcollò e picchiò la spalla sulla parete. Altra acqua gli gocciolò dalle pinne e dagli abiti zuppi. «Ora prendo le coperte.» Scivolò lontano dal muro e zoppicò verso l’armadio che occupava la parete opposta al tavolo da lavoro. «Adesso ci asciughiamo e ti metto subito al caldo.» Non riuscì proprio a frenare la parlantina, le parole galoppavano come un torrente in piena. «Vedrai…» Alberto raggiunse l’armadio. «Vedrai come ti sentirai meglio dopo esserti asciugato.» Spostò la cassetta degli attrezzi, fece cadere due rotoli di filo di rame, senza nemmeno preoccuparsi di raccoglierli, e spinse le braccia verso il fondo.

Ai suoi piedi caddero il quadrante di un orologio, un manuale sui motori, due brugole, e una scatolina di bulloni. I bulloni esplosero e rotolarono fra le assi del pavimento, emettendo il suono scrosciante di una pioggerellina di grandine.

Alberto non se ne preoccupò e continuò a cercare. Sorrise. O, almeno, si sforzò di farlo. Non era facile sollevare le labbra, data la tensione che gli contraeva il viso e il fiatone che gli tremava in bocca. «Ho ancora le coperte di quell’estate là, te le ricordi? E tu che mi avevi anche preso in giro per averle sistemate quassù. Ma te l’avevo detto o no che prima o poi mi sarebbero tornate utili?» Si spostò, calpestò un bullone e lo calciò via. Allungò le braccia verso lo scaffale più alto e continuò a cercare. «D’accordo, nemmeno io avrei immaginato che le avrei tirate fuori proprio in una situazione come questa, ma a quanto pare è proprio vero che le idee più strambe sono le migliori.» Affondò le zampe nella vecchia amaca che aveva ammucchiato vicino ai barattoli di pennelli, e fu costretto a sgarbugliare i nodi dagli artigli. «E noi due lo sappiamo bene, vero?» Un lampo di temporale penetrò gli spazi fra le serrande, illuminò le pareti della torre, e aiutò Alberto a individuare un fagotto di tessuto colorato che giaceva proprio sul fondo dello scaffale. «Trovate.» Alberto pescò la prima coperta in cima alla pila. Si diede un’asciugata veloce, strofinò testa e braccia, frizionò la stoffa della maglietta e dei jeans sgualciti, e poi andò giù fino ai piedi nudi. «Ecco…» Scrollò la testa, arricciò il naso abbronzato, e passò una manata fra i folti riccioli asciutti. «Ecco fatto, Luca.» Pescò un’altra coperta e si voltò. «Ora ti…»

Il riverbero grigio e acquoso spanto dalla caduta della pioggia, proveniente dall’entrata della torre e dalle aperture fra le serrande, oscillava sul corpo di Luca ancora accasciato sul pavimento, circondato dalla pozza sgocciolata dagli abiti di entrambi, immobile come Alberto lo aveva lasciato prima di alzarsi. Le gambe rannicchiate contro il ventre, la punta della coda a pendere verso la discesa della torre, un braccio piegato attorno al muso, il respiro fin troppo flebile e singhiozzante a scuotergli le pinne, e un’espressione di profonda sofferenza a raggrinzirgli le palpebre serrate.

Alberto gemette, colpito da un pugno di panico che gli raggelò la bocca dello stomaco. «Oh no.» Si precipitò da Luca. Gli raccolse le braccia molli e inerti, lo trascinò al centro del riparo, lontano dai rimbalzi della pioggia che colpivano la torre di traverso, e si affrettò ad avvolgerlo in un doppio giro di coperta.

Lo strofinò per bene, frizionò sugli abiti e sui capelli, fece scivolare un lembo della stoffa dalla sua guancia e scoprì il suo visetto umano, bianco e sofferente. Le labbra grigie, le palpebre nere e abbassate, le ciglia unite che fremevano a ogni spasmo del suo corpo congelato.

Alberto gli toccò una guancia – ghiacciata. Gli diede un’altra strofinata alle spalle e alla schiena, gli raccolse le mani che giacevano a peso morto, ci alitò sopra e sfregò fra le dita, salendo poi lungo le braccia e di nuovo giù verso i palmi rattrappiti. «Scaldati, Luca, scaldati, forza.» Pinzò un lembo di coperta asciutta e lo usò per continuare a strofinare con più forza, preso dall’urgenza di sentire il respiro di Luca farsi più profondo e regolare, di vedere i suoi occhi schiudersi e assorbire la luce che ancora non riusciva a raggiungerli e a destarli. «Andiamo, andiamo, Luca, coraggio» grugnì Alberto. «Scaldati, ti prego, fa’ uno…»

Scrash!

Un tuono secco e violento, simile a una martellata scaraventata su una lamina di metallo, si schiantò fuori dalla torre e ne fece tremare le pareti, squassando pure il cuore di Alberto, «Ah!», che trasalì di terrore.

Il lampo si spense. Il brontolio del tuono si ritirò fra gli scrosci delle onde, mentre Alberto si era già ficcato sotto la coperta prima ancora di essersi reso conto di essere sobbalzato per la paura.

Fuori dalla finestra tappata, le raffiche di pioggia crebbero abbondanti, il vento gridò i suoi feroci ululati, e gli scrosci del mare ingrossato si infransero sugli scogli della spiaggia, risalendo la parete scoscesa dell’isola.

Alberto, infagottato dentro il nido di coperta e appiccicato al freddo e ancora umidiccio fianco di Luca, rabbrividì e batté i denti, nauseato dalla sensazione del cuore in gola, incapace di placare gli spasmi di paura talmente violenti da strozzarlo. Rimpianse di non avere affianco il soffice corpicino di Principe da poter stringere, e di non poter far affidamento sulle sue fusa per calmarsi.

Superato un respiro più lungo e profondo, Alberto sbirciò attraverso una fessura delle coperte, squadrò il riverbero bluastro proveniente dall’entrata della torre, la caduta traversa della pioggia, il tambureggiare dei fulmini che ramificavano fra i nuvoloni, e il ruggire del mare mosso.

La mente di Alberto viaggiò e dissotterrò un ricordo dopo l’altro. Ricordi vissuti sempre in cima a quella torre, nei silenzi della sua solitudine, durante le notti in cui non aveva nessuno a cui stringersi durante i temporali. Durante quelle notti, Alberto si avvolgeva nella coperta e si rannicchiava da solo in un cantuccio. Poi, quando il cielo si apriva e sorgeva la luce del giorno, lui tornava allo scoperto e si ritrovava altrettanto solo, accolto dal cinguettare degli uccellini, dall’odore della pioggia passata, da quello di prato bagnato, e da quello del fondale ribaltato e delle alghe sbattute sugli scogli della spiaggia.

Ma c’erano anche le volte in cui, pur avendo qualcuno affianco, Alberto si sentiva comunque più solo che mai. In quelle occasioni, stringeva forte le palpebre per frenare le lacrime, si mordeva l’interno delle guance per ingoiare i singhiozzi, sopportava certe parole ancor più dolorose e spaventose del temporale che fiammeggiava fra le nuvole.

Ormai sei grande, Alberto. Devi cominciare ad affrontare le tue paure e a cavartela da solo, perché io non sarò sempre qui a reggerti le spalle e ad asciugarti le lacrime quando tremerai di terrore. Non ci sarò io come non ci sarà nessun altro, perché né la terra né il mare si fermeranno a venirti in soccorso quando avrai bisogno di aiuto. Impara ad accettarlo, Alberto. Impara ad accettare questa legge prima che sia troppo tardi. Vedrai, ti renderà più forte. Un giorno mi ringrazierai per avertelo insegnato.”

Dal suo animo rimontò un conato di rabbia e di tristezza, il bisogno disperato di dimostrargli il contrario.

Come se questo potesse mai servire a farlo tornare…

Ma non era per dimostrare qualcosa a un certo qualcuno che Alberto aveva attraversato il temporale per soccorrere Luca in mare aperto. Non era per questo che lo aveva strappato dalle fauci della tempesta, non era per questo che era saltato di onda in onda reggendo il suo peso sulla schiena, non era per questo che aveva rischiato la sua stessa vita pur di trarlo in salvo. Lo aveva fatto perché Luca era il suo migliore amico, e perché Alberto avrebbe preferito farsi piantare un arpione nel cuore piuttosto che lasciarlo in balia del pericolo.

Già. Infatti, gli venne da pensare, contenendo un minuscolo sbuffo. Il mio migliore amico…

Era di questo che Alberto cercava di convincersi, provando però un inspiegabile moto di frustrazione. Lo stesso bruciore che aveva provato qualche giorno prima di Natale, la sera delle compere, passeggiando per le vie di Genova, quando aveva assistito allo spettacolo di tutte quelle coppie di umani uniti a braccetto, o stretti per mano, o accoccolati sotto i mazzetti di vischio. La sera in cui si era reso conto che una felicità simile non sarebbe mai potuta esistere per lui e per Luca.

E allora lasciami sognare, anche solo per una notte.

Alberto strinse ancor più forte le braccia attorno al sottile torso di Luca, intrecciò le gambe alle sue, strofinò i piedi fra le sue caviglie, aderì con il petto alla sua schiena e affondò il viso sotto la sua nuca, dove il profumo dei suoi capelli era dolce e rassicurante, eppure non abbastanza intenso da riuscire ad allontanarlo dai ricordi, da scacciare quelle voci maligne che non cessavano di perseguitarlo.

«Silenzio Bruno, silenzio Bruno, silenzio Bruno…»

Alberto andò avanti a bisbigliarlo fino a che la sua voce non si assottigliò, sostituita dal respiro profondo e assopito di un sonno che lo aveva già rapito.

La stanchezza si appesantì, calò la mano per chiudergli gli occhi, gli circondò le spalle e gli schiacciò la schiena, soprattutto al centro delle scapole, dove Alberto aveva sorretto il peso di Luca durante tutta la nuotata. Alberto sprofondò in un sonno tormentato dalle voci del passato ma acquietato dalla presenza di Luca affianco a sé. Un sonno senza sogni, buio come la notte che sarebbe presto calata sulla loro isola e sulla loro torre, stringendosi attorno a loro e imprigionandoli come una seconda e infausta tempesta.

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Capitolo 41
*** 41 ***


41

 

 

Alberto non fu sicuro di cosa l’avesse svegliato. Forse l’ennesimo schiaffo del vento sbattuto sulle ante della finestra, o l’accavallarsi più lento e regolare delle onde che schiumavano fra le rocce della spiaggia, o ancora il tremolare della torre annaffiata dall’incessante frastuono della pioggia, oppure il respiro sibilante di Luca che, rabbrividendo lungo la schiena, si trasmetteva anche al suo petto.

Alberto aprì gli occhi, e la sua vista si ritrovò invasa da uno sciame di scintille scoppiettanti. Bianche e abbaglianti, erano le stesse che erano solite stordirlo dopo una corsa a perdifiato o dopo una lunga e pesante nottata di sonno ininterrotto.

Ancora in bilico nella nebbia che regnava fra sonno e veglia, respirò a fondo, strinse le braccia attorno al busto di Luca, arricciò le punte dei piedi fra le sue caviglie, spostò la guancia infilando il viso nell’incavo della sua nuca, e inspirò più piano fra le labbra poggiate a sfioro della sua pelle. Trovò conforto nel suo profumo dolce e nel tepore della sua semplice vicinanza.

Alberto strizzò le palpebre in una smorfia dolorante, mugugnò un gemito lamentoso e, facendo leva sui gomiti, tirò su la testa dalle coperte.

Urgh.

Le scintille vorticarono, lo costrinsero a battere gli occhi. Una scossa di emicrania gli perforò la fronte, discese la nuca, e sparse un dolore acuto lungo la schiena, indurendo i muscoli che Alberto aveva forzato per sostenere il peso di Luca durante il tragitto di ritorno compiuto a nuoto, cavalcando onde così alte da non riuscire a vedere oltre la cima delle loro creste.

Alberto stropicciò le palpebre, si spalmò un massaggio sulle tempie, attraversò i riccioli con una manata, scese a grattarsi il collo, e fece sparire le scintille che lo avevano stordito.

Che male…

La sua vista, di nuovo limpida, cadde sulla finestra sprangata, scossa da uno degli ultimi singhiozzi di temporale brillati fra le fessure della serranda.

L’ululato di vento si ritirò, risucchiato dalle fauci del mare. La pioggia smise di cadere di sbieco, pur continuando a scrosciare in abbondanza, e il brontolio del tuono si allontanò, otturato dalle nuvole che oscuravano il cielo già buio come fosse stata notte fonda. E forse lo era per davvero.

Alberto sospirò, finse di consolarsi accantonando il ricordo del mare ingrossato dalla burrasca. Almeno ha smesso di soffiare così tanto vento. Forse il peggio è passato. Però…

Rabbrividì fino all’osso. Incrociò le braccia e si strofinò la pelle raggrinzita dal freddo, grattandosi fin sotto le maniche della maglietta.

Però si muore dal freddo. Che sia il caso di accendere il fuoco?

Si guardò attorno. Assottigliò le palpebre e mise a fuoco le pareti per quanto glielo permettevano le righe di luce bluastra che penetravano dalle fessure delle serrande. Il tavolo di legno, gli scaffali occupati dai barattoli di vernice e lacca, i pannelli tappezzati dai poster e dalle carte raffiguranti tutti i suoi progetti. Fu facile immaginare qualche scintilla schizzare fuori dalle braci, accendere la torre in un’enorme vampata di fuoco, e carbonizzarla come un fiammifero.

Alberto arricciò la bocca. No, qua dentro non posso di certo mettermi ad attizzare falò. Rischierei di incendiare tutta la baracca, o che il fumo si accumuli fra le pareti, soffocandoci. Però, almeno la lanterna…

La individuò sul fondo dell’armadio dove aveva rovistato in cerca delle coperte.

Se non altro per fare un po’ di luce…

E la lanterna fu davvero un’immagine rassicurante, l’unica in grado di scacciare tutte quelle ombre e quelle voci che lo avevano tormentato durante il sonno.

Alberto spostò la mano, il suo tocco scivolò fra le pieghe delle coperte e incontrò qualcosa, il corpicino di Luca che gli dormiva affianco soffiando solo qualche sibilo fra le labbra socchiuse. A quella vista, una fitta gli straziò il cuore. Alberto gli rimboccò la coperta attorno alle spalle, gli massaggiò la schiena, si chinò per essere certo di sentirlo respirare, e solo in quel momento si accorse di come il suo petto salisse e scendesse al passaggio dell’aria.

Avvilito, distante da lui come se ci fosse ancora l’intero oceano a dividerli, gli scostò una ciocca dalla fronte. Luca…

L’aspetto di Luca era migliorato, anche se non si poteva di certo definire fiorente. Aveva smesso di tremare, ma era ancora molto pallido in volto. Alberto lo toccò per sentire se bruciasse di febbre, e trovò la sua guancia fresca ma non congelata come lo era stata nell’istante in cui si erano ricongiunti in mare aperto. Lo sguardo disteso e pacifico di un bambino addormentato, non una singola smorfia di dolore a contaminarlo. Il peggio era passato; Luca se la sarebbe cavata.

Nonostante quella consolazione, Alberto indugiò col tocco sulla sua guancia, scese lungo il profilo del viso, incapace di scollarsi, e lo chiamò pianissimo. «Luca?» Si chinò più vicino a lui. «Luca, sei sveglio?»

Il respiro di Luca fu attraversato da un fremito. Le ciglia si strinsero in un’espressione scura e sofferente, i pugni si chiusero sotto le coperte, e anche le gambe si rattrappirono.

Davanti a quel breve e intenso brivido di malessere, Alberto stesso fu vittima di un crampo di dolore. Provò l’irrefrenabile desiderio di tornare a infilarsi sotto le coperte, di stringersi a Luca e di assorbire ogni suo spasmo, di sciogliere tutto il freddo che lo teneva prigioniero, di scacciare le ombre che lo tormentavano, e di placare così tutti quegli incubi che lo avevano spinto alla fuga.

E così fece. Alberto scivolò in silenzio sotto le coperte e si strinse Luca al petto, intrecciò le mani alle sue, incastrò le ginocchia fra le sue gambe e poggiò il capo sulla sua fronte.

Così vicino a lui, senza più gli affanni della paura ad appannargli la testa, lo pervase un desiderio bizzarro e sconosciuto. Un fuoco nascosto gli bruciò nella pancia e fiammeggiò fino al petto, formicolò lungo la sua pelle accaldata e gli diede la sensazione di essere sommerso dal solletico di una foresta di alghe sottilissime e pungenti.

Alberto deglutì, trovò la bocca asciutta, e si scoprì incapace di staccare gli occhi dal volto addormentato di Luca. Fece scendere le nocche lungo la curva del suo viso, indugiò all’angolo delle labbra e si bloccò, accorgendosi di quanto fosse forte quel desiderio, a un punto tale da fargli male, perché Alberto soffriva del bisogno di accostare il viso al suo, di respirare il suo stesso respiro, di sentire Luca sciogliersi fra le sue braccia, di farlo arrossire di gioia e di vederlo smarrirsi nel suo sguardo, in un luogo che sarebbe appartenuto a loro due soltanto, un luogo dove sarebbero stati in grado di elevarsi fino alla Luna solo stringendosi la mano e correndo a piedi nudi come quando erano piccoli.

Scosse il capo: una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere. Luca non era come lui, dopotutto.

Alberto si limitò a poggiare la fronte su quella di Luca, a chiudere gli occhi per percepire il suo tiepido respiro, il regolare alzarsi e abbassarsi del suo petto, e intanto gli passò le punte delle dita su e giù lungo la schiena – un tocco piacevole ma poco invadente, le stesse carezze che regalava a Principe e a Machiavelli per ingraziarseli e per suscitare le loro fusa. Coccolandolo come il più prezioso dei tesori, realizzò che quell’abbraccio e l’affetto di quelle carezze era tutto quello di cui avrebbe dovuto accontentarsi, perché il suo era un desiderio proibito e irrealizzabile.

Ma mi sta bene così.

Piuttosto che rischiare di perderlo un’altra volta, piuttosto che provare di nuovo tutta quella paura che lo aveva attanagliato dopo averlo recuperato in mare, quando aveva creduto di non farcela a portarlo in salvo, quando lo aveva visto accasciarsi sul pavimento della torre… non aveva bisogno di nient’altro, gli bastava ringraziare il Cielo di poterlo di nuovo tenere al sicuro fra le sue braccia. Tutto il resto non era importante.

Consolato da quei compromessi, Alberto tornò ad assopirsi.

A questo punto, anche io posso tornarmene a dormire fino a domani mattina.

Si accoccolò al calduccio e rilassò il respiro, già sentendosi rapire dalla dolce e opaca nuvoletta di sonno che calò e gli si addensò attorno, isolandolo dal fruscio delle onde e dalla caduta della pioggia.

Tanto è da pazzi pensare di tornare a Portorosso entro questa notte, con Luca ridotto in queste condizioni e con la pioggia ancora così fitta. Aspetta…

Lo trafisse una realizzazione improvvisa, saettante come uno schioppo di tuono.

Portorosso!

Spalancò gli occhi e spezzò un gemito fra i denti.

Portorosso, il porto, Massimo! Devo fargli segnale con la lanterna, devo fargli sapere che ho trovato Luca e che siamo in salvo qui sull’isola!

«Oh, cavoli…»

Alberto calciò via le coperte – naturalmente senza dimenticarsi di tornare a coprire Luca –, si affrettò poi a raggiungere la finestra, spalancò le imposte senza temere gli sbuffi di maltempo, dato che ormai non pioveva più di traverso, tese una mano davanti alla fronte, respingendo solo qualche graffiata di vento, e guardò verso l’orizzonte, puntando la costa.

La pioggia continuava a rovesciarsi in abbondanza. Formava un’ombra color fumo che spumeggiava fondendosi alla superficie del mare, coprendo così le cime degli scogli e appannando le luci delle barche che galleggiavano attorno al porto.

Anche l’altura del paese era puntellata da lumini che traballavano dalle finestre delle case. Uno in particolare, più rosso e intenso degli altri, lampeggiava a intervalli regolari, e catturò nell’immediato lo sguardo di Alberto.

Alberto non fece fatica a capire di cosa si trattasse. Era la luce che stava cercando. Era il segnale di Massimo.

Massimo!

Si rimise a frugare fra gli scaffali dell’armadio, scansò i barattoli di chiodi e di cacciaviti, recuperò la lanterna, spalancò il cassetto del tavolo da lavoro, pescò dal fondo una scatola di fiammiferi, e ne sfregò uno sulla carta abrasiva, gettando scintille che gli pizzicarono le dita tremanti. «Andiamo, andiamo.» Si rosicchiò il labbro. «Accenditi…»

Il fiammifero prese fuoco. Alberto lo avvicinò allo stoppino della lanterna, aspettò che l’olio facesse presa, che la fiammella si mettesse a danzare fra le pareti di vetro color ambra, e tornò davanti alla finestra.

Speriamo che anche lui mi riesca a vedere, con tutta questa pioggia…

Girò e rigirò più volte la manovella che regolava l’intensità dell’olio, alzò e abbassò la fiaccola per rispondere al segnale di Massimo, e aspettò. Il tambureggiare del suo cuore in attesa era una scossa che gli pulsava nel sangue, dal petto alle tempie.

La luce sulla costa reagì. Anch’essa si alzò e si abbassò, rispose al segnale trasmettendo ad Alberto l’immagine rassicurante di Massimo che sventolava il braccio in direzione dell’isola e che gli sorrideva da sotto i baffi.

Alberto sospirò, rincuorato e alleggerito dal peso di quella preoccupazione.

E almeno adesso giù in paese sanno che siamo tutti e due al sicuro, così possono anche smettere di pattugliare il porto e di cercare Luca lungo la costa. Speriamo che avvertano anche Giulia, così si tranquillizza.

Spostandosi, mosso dal solo desiderio di tornare a rannicchiarsi sotto le coperte e di sonnecchiare fino alla mattina dopo, Alberto attraversò il fascio di luce che aveva riempito la stanza e rischiarito il fagotto in cui Luca era ancora imbozzolato. Aiutato dalla luce, Alberto scoprì qualcosa di lui che prima non aveva fatto in tempo a notare. Uno spazio di colore blu che non sapeva a cosa potesse appartenere. Non di certo alle squame di Luca.

Alberto raccolse il manico della lanterna, andò a inginocchiarsi davanti a Luca stando attento a non puntare la luce sul suo viso addormentato, e sollevò un lembo della coperta. Rimase di sasso.

Ma questa…

Luca indossava la sua vecchia camicia a quadri blu e azzurri, quella che Alberto credeva di aver perduto qualche estate prima.

Questa è la mia vecchia camicia, quella che… ma no, impossibile. L’avevo persa chissà dove fra i vestiti del guardaroba, era…

L’aveva sempre avuta Luca.

Alberto rimase stordito come se avesse ricevuto una botta in testa.

Ma perché Luca l’ha portata via? Perché non mi ha detto niente? Per tutto questo tempo, lui…

Ripensò agli innumerevoli abbracci scambiati durante i loro innumerevoli saluti. Le strette di Luca si erano fatte più ingorde, con il trascorrere degli anni. C’era quel suo modo di aggrapparsi ad Alberto quasi a volere strappare il ricordo del suo profumo, del suo calore, e di avvolgerselo attorno come un abito, trovando così conforto nei periodi più bui e freddi.

Lui ha sempre sentito la mia mancanza?

Al gelo dello stupore si sovrappose l’amarezza dei sensi di colpa.

Luca aveva avuto un bisogno disperato della sua vicinanza, tanto da spingersi a quella folle fuga, e Alberto era sempre stato così cieco e superficiale da non accorgersene. Aveva sempre e solo considerato i suoi desideri, la paura di perderlo. Aveva messo a tacere quella parte di se stesso che avrebbe tanto voluto portare Luca via da Genova solo per placare la sua solitudine, senza rendersi conto che la sofferenza di quella distanza era condivisa da entrambi.

E Giulia gliel’aveva detto. Anche lei aveva intuito che qualcosa fosse cambiato fra i due, e che l’unico modo per alleviare il reciproco dolore era parlarsi apertamente. Alberto aveva negato fino all’ultimo, ignorando le parole di Giulia e scostandosi da Luca per timore di uscirne ferito e deluso. Essere ricambiato da Luca con lo stesso sentimento? Impossibile. Meglio non farsi illusioni.

Giulia, ascolta” le aveva detto, “tu lo sai che io sarei il primo a prendere Luca per mano e a portarmelo dietro, se questo davvero servisse a farlo sentire meglio. Ma non servirà. Non è di me che Luca ha bisogno.”

Incassò un palpito di dolore così forte da rimanere senza fiato, come se un sasso gli fosse sprofondato fra le costole.

E invece Luca ha sempre avuto bisogno di me. Mi ha sempre cercato e io sono sempre stato così egoista da non accorgermene, perché pensavo soltanto a quanto lui mancasse a me.

Quindi Luca era scappato da Genova per andare in cerca di Alberto. Si era addentrato nella tempesta perché aveva avuto bisogno del suo aiuto. Era per colpa di Alberto che aveva rischiato di morire.

Alberto si morsicò la bocca per ingoiare un singhiozzo.

Se solo ci fossimo parlati.

Si sentì rimpicciolire come una semplice ombra carbonizzata dal fascio della lanterna.

Se solo io lo avessi ascoltato per davvero. Se fossi stato in grado di capirlo. Se avessi insistito di più e lo avessi portato con me a Portorosso, lo scorso Natale, allora forse tutto si sarebbe risolto, e Luca non avrebbe mai commesso questa pazzia. Che stupido…

Strizzò i pugni graffiando la stoffa dei jeans, il respiro gli tremò fra le labbra.

Non merito davvero di considerarmi un adulto. Non merito nemmeno di considerarmi suo amico.

Una prima lacrima gli si staccò dalle ciglia, piovve sulla guancia, e il tocco umido e tiepido sulla pelle lo sorprese, facendolo sobbalzare.

Alberto si strofinò il viso, ma altre lacrime si sovrapposero e gli squamarono guance e dita. Si tappò il viso con entrambe le mani e trattenne il fiato. Un sapore aspro e salato gli scivolò sul labbro pinzato fra i denti.

Dannazione.

Il pianto bruciava senza dar cenno di fermarsi, così Alberto prese la lanterna, si rialzò dal pavimento e si allontanò da Luca, quasi per paura che lui potesse svegliarsi e scoprirlo ridotto in quello stato. Trascinò i piedi nudi fino alla finestra, e fu di nuovo come galleggiare sballottato dalla tempesta e sconquassato dalle onde, soffocando per lo spavento, tirando fiato per il sollievo, ma restando imprigionato nella centrifuga di quella realizzazione così inaspettata.

Alberto posò la lanterna sul cornicione di pietra e ci salì sopra senza fatica. Strinse le gambe al petto, piegò un gomito sul ginocchio e si appoggiò al palmo della mano sbavato di lacrime e colorato dalle squame. Guardò Portorosso annacquata dalla tenda di pioggia e dal velo del suo pianto. Le luci pallide della costa, quelle dondolanti delle piccole barche da pesca, la lanterna di Massimo che sarebbe rimasta accesa per loro fino a quando non avrebbero fatto ritorno a casa.

Altre lacrime gli grondarono lungo la pelle del viso, la rigarono di blu e gocciolarono fino al mento. Alberto si affrettò a strofinare, a tapparsi gli occhi e a frenare il gocciolio delle lacrime che continuavano a scioglierglisi addosso.

Ringhiò di frustrazione: stupide lacrime.

Premette entrambe le mani sulla faccia. Un forte crampo al cuore – un’azzannata di sensi di colpa – fece rimbalzare i primi singhiozzi che sfuggirono rapidamente al suo controllo.

Vegliato dal lento e caldo dondolio della lanterna, dal profumo di olio bruciato, dalla presenza sicura e rassicurante di Luca che dormiva lì nella torre, dove tutto era cominciato, Alberto smise di lottare e si lasciò andare a quel pianto amaro, silenzioso e senza freni. Un pianto doloroso e consapevole. Un pianto da adulto. Il primo della sua vita.

 

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Capitolo 42
*** 42 ***


42

 

 

Luca riprese conoscenza, emerse dalla nebbia del suo sonno come gli scogli affiorano in superficie dopo il ritirarsi dell’alta marea. Stropicciò gli occhi, venne trafitto da una scossa di dolore acuto alla radice del naso che lo fece gemere e rattrappire. Senza accorgersene, strinse le mani su qualcosa di soffice che lo avvolgeva e che gli solleticava i piedi e il collo. Una coperta.

Luca socchiuse le palpebre, superò il dolore dell’emicrania e, attraverso le ciglia umettate, lo raggiunse una prima sfumatura di caldi colori traballanti. Colori tenui, arancioni e gialli, che si distribuivano su un’alta parete di pietra.

Inspirò. Per primo riconobbe l’odore di salsedine che non era più così prepotente come in fondo al mare. Assieme a quello lo raggiunse un odore diverso ma altrettanto familiare di pareti di pietra umida, di lacca per legno, di vernice, di ferro arrugginito, di petrolio bruciato, e della stoffa in cui era avvolto.

La voce dei suoi pensieri rimbombò come un eco: dove sono?

Era certo di non trovarsi più in mezzo alla tempesta, anche se era capace di sentirla imperversare in lontananza, come dietro un vetro, come quando a Genova lui e Giulia si affacciavano alla finestra della cameretta per rincorrere il gocciolare della pioggia. Era ancora udibile il fischio occasionale del vento, il rovesciarsi del diluvio, e il regolare infrangersi delle onde sugli scogli.

Il mare, realizzò. Anche io ero in mare. C’era la tempesta, e i fulmini, e tutte quelle onde…

Luca sfilò una mano da sotto la coperta. Spalancò le rosee dita da ragazzo umano che vennero irradiate da sfumature tenui, simili a quelle spante da un fuocherello che brucia pacifico e innocuo nella nicchia di un caminetto.

Sono asciutto.

Strinse, riaprì, e rigirò la mano per assicurarsi di non avere qualche squama nascosta.

Sono fuori dall’acqua.

Abbassò il braccio e mise a fuoco l’ambiente racchiuso dalle pareti di pietra. Un tavolo da lavoro sporco di chiazze di vernice e sormontato da cassette degli attrezzi; una bicicletta smontata; barattoli rovesciati; bulloni spanti sul pavimento; cassette dell’ortofrutta riempite da carte ripiegate, manuali e vecchi giornali; un armadio a parete dagli scaffali stracolmi; i muri tappezzati da poster pubblicitari, poster del cinema, e…

Un profondo ed elettrico crampo al cuore lo strappò del tutto alla foschia del sonno.

Il loro poster della Vespa. La Vespa che pareva sfrecciare fuori dalla carta, e la parola “Libertà” che bruciava di luce propria.

La nostra torre? Sono…

Sempre più confuso, Luca sbatacchiò le palpebre doloranti e si strofinò la testa ancora gonfiata dal fruscio delle onde.

Sull’Isola del Mare? Ma come…

I ricordi si schiarirono, sovrapposero nuove immagini. Il cielo grigio del porto, le nuvole che avevano preso a gorgogliare su Genova, le prime gocce di pioggia che gli avevano punto la pelle, le rauche grida di spavento dei marinai e degli operai, la fuga verso il mare, il tuffo in quell’acqua sporca e oleosa, il nuoto affaticato dalle onde ingrossate che lo avevano respinto trascinandolo verso il fondo. Una chiazza buia si era dilatata nella sua testa, aveva spento ogni suono e cancellato ogni pensiero, chiudendogli gli occhi e rallentandogli il respiro. Allora era annegato.

Ma come sono arrivato fino a qui?

Batté le palpebre e fu abbagliato da un lampo di colore blu, anch’esso emerso dal vortice di ricordi. Quella luce plasmò il muso di Alberto. I suoi occhi verdi splendevano nell’oscurità del mare, le sue braccia si allungavano verso il corpo fluttuante di Luca, le sue zampe gli avvolgevano le guance, le loro fronti si toccavano, e quel contatto congelava un attimo sospeso in cui esistevano solo loro due.

Alberto.

Ma quel nome suonava ancora così flebile e distante.

È stato lui a portarmi in salvo.

E poi c’era stata la risalita in superficie, i salti fra le onde, i brucianti schiaffi d’acqua, e la nuotata in direzione della torre illuminata dai lampi del temporale.

Allora ci siamo riusciti. Abbiamo sul serio raggiunto l’isola.

Luca si strofinò il naso ghiacciato, rimboccò la coperta e rabbrividì, sentendosi pericolosamente solo e vulnerabile, privo della possibilità di stringere le braccia attorno alle spalle di Alberto e di farsi così sostenere nel flusso della corrente avversa.

Ma Alberto è…

«Bentornato fra noi, piccolo fuggiasco.»

Luca sussultò, «Ah!», si girò verso l’angolino della torre da dove la voce lo aveva chiamato, e sollevò la mano, rimanendo abbagliato dalla luce più intensa della lanterna che brillava sul davanzale della finestra aperta.

Alberto sedeva sul cornicione. Una gamba a penzoloni e l’altra raccolta contro il petto, il piede nudo a sfiorare il pavimento, e la schiena poggiata sulla pietra. Il riverbero rossiccio della fiaccola avvolgeva il suo profilo, donandogli un’aureola calda e opaca che lo faceva somigliare a una figura scivolata fuori dalla bruma di un sogno. Dietro di lui, a riempire il ritaglio della finestra, una tenda di pioggia argentea cadeva incessante, rovesciandosi in un mare nero come il cielo notturno. All’orizzonte, simili a tante lanterne distribuite sulla costa, le luci di Portorosso brillavano come stelle cadute dalle nubi.

Alberto sollevò il mento dal palmo e sorrise a Luca. Tuttavia fu un sorriso esitante, come se stesse celando l’ombra di una paura che non era ancora passata. «Ti sei fatto una bella dormita, sì?»

Luca sbatté più volte le palpebre senza riuscire a muovere la bocca torta in un muto gemito di stupore. Le guance formicolanti e il cuore gonfio. Ancora non poteva credere che Alberto fosse lì davanti a lui. Alberto! Quello stesso pomeriggio si trovavano a chilometri di distanza, e invece ora… «Io ho…» Strinse le mani sulla coperta in cui era avvolto. Una coperta color arancio, di morbida lana cotta. Una delle coperte che Alberto conservava nella torre. Era stato lui a mettergliela attorno? «Io ho dormito? Ma come…» Un’altra botta di emicrania gli martellò la nuca e gli strappò le parole dalla bocca. Luca si strofinò la testa, e scoprì che era anche il braccio a fargli male. E le spalle, e la schiena, e le ginocchia, e i polpacci, e le piante dei piedi. «Da quanto tempo siamo qui?» gemette. «Come ci siamo arrivati?»

«A nuoto.»

«A nuoto?» Di nuovo Luca ripercorse i ricordi. L’impatto con l’acqua del porto. Acqua acidula, sporca e stagnante, odorante di nafta, e la fuga verso le correnti fredde che lo avevano sospinto verso il mare aperto, di un blu pesto, dove emergendo poteva odorare il diluvio tiepido e ferroso. «È vero, io sono scappato da Genova.» Lo disse con una naturalezza spiazzante, come se quel fatto non lo riguardasse. «È scoppiato a piovere mentre io mi trovavo al porto, tutti quegli uomini mi hanno visto, hanno cominciato a urlare. Io mi sono spaventato e allora…» Rivisse il momento, lo stesso colpo al cuore e la stessa agghiacciante sensazione di trovarsi in trappola, schiacciato dagli sguardi degli uomini, dai loro volti truci, dai loro occhi iniettati di odio e di terrore. Rabbrividì, e assieme a quel brivido sorse anche un altro ricordo. La sua pelle annaffiata dalla pioggia, le squame sbocciate sul muso raggrinzito, il ringhio che gli era tremato fra le zanne, il cemento sbriciolato fra gli artigli, la vista iniettata di sangue, e la rabbia che, ribollendo dallo stomaco, gli aveva rizzato le pinne sulla schiena.

Luca si tappò la bocca e sbiancò, travolto da una fredda vampata di rimorso. Cos’ho combinato? Se solo avesse potuto tornare indietro. Dio, se solo ci fosse stato un modo per tornare indietro e per cancellare ogni secondo di quella giornata catastrofica…

Alberto fece scivolare le gambe giù dal cornicione, restando però seduto. Entrambi i piedi nudi a toccare il pavimento, lo sguardo rivolto a Luca, e la luce della lanterna a tingergli la pelle di bronzo e ad allungare la sua ombra sulla parete di pietra. Mostrò uno sguardo dolce e apprensivo. Il riflesso della fiaccola traballava nella limpidezza dei suoi occhi. «Come ti senti?»

Luca credette di non aver mai ricevuto una domanda più difficile in vita sua, nemmeno durante un’interrogazione di Latino. Come mi sento? Confuso, stordito, sconvolto. Un lungo sospiro gli appesantì il petto dolorante. E incredibilmente deluso da me stesso. Optò per la risposta più semplice e immediata. «Mi fa male tutto.» Tornò a massaggiarsi braccia e gambe sotto la coperta. Ogni strofinio gli costava una smorfia e una fatica immane, come spostarsi in un ambiente fatto di spilli. I muscoli ridotti in poltiglia, il petto in fiamme, le ossa sbriciolate, e una forte pressione a martellarlo in fondo alla schiena, in corrispondenza dell’attaccatura della coda.

«Per forza che ti fa male tutto» sogghignò Alberto, riacquistando una scintilla di buon umore. «Hai nuotato nel bel mezzo della tempesta del secolo. Persino uno squalo si sarebbe spaccato le ossa nell’attraversare onde simili.»

«Ma adesso è passata?» Luca tornò a spostare lo sguardo fuori dalla finestra. Vide solo la pioggia fittissima che gli impediva di allungare lo sguardo verso la costa e di mettere a fuoco le luci più distanti. Tese l’orecchio. Lo scroscio allungato del diluvio e quello più breve e ritmico delle onde che si infrangevano sulla spiaggia. «Non sento più tanto vento.»

Alberto annuì. «Il vento si è acquietato, ma sta comunque continuando a piovere e il mare è ancora mosso.» Restando seduto, si girò di schiena, incrociò le gambe sul cornicione della finestra, e tese la mano davanti alla fronte come la vedetta di un galeone che scruta la rotta dalla cima dell’albero maestro. «Noi siamo in salvo, ma la tempesta durerà fino a domattina, garantito. È meglio che restiamo qui, almeno fino a che non torna fuori il sole e il mare non si è dato una calmata.» Sbirciò Luca da sopra la spalla. «E tu di certo non puoi nuotare fino a Portorosso in quelle condizioni.» Avvitò la chiavetta della lanterna per alzare la fiaccola e fare più luce. «Hai bisogno di riposare.»

Luca stette quasi per dargli retta, ma gli fu impossibile ignorare il gesto che Alberto aveva appena compiuto, quello di alimentare la fiammella della lampada. Quella fuoco accese una luce nuova anche dentro di lui. Quell’immagine era tutto ciò che aveva sempre sognato, era la salvezza in cui aveva sperato anche quando si era sentito in procinto di annegare. Era il compiersi di un destino. «Perché hai acceso la lanterna?»

Alberto la indicò con il mento. «Faccio segnale a Massimo.» Picchiettò l’indice sul vetro. «Così in paese sanno che ti ho trovato e che stai bene, e potranno anche interrompere le ricerche.»

«Ricerche?» Luca scrollò il capo. «Qua… quali ricerche?» Sgranò gli occhi, afflitto da un dubbio. «Mi stavate cercando?»

Alberto tornò con un ginocchio contro il petto e la mano sotto il mento. «Come credi che io sia stato in grado di trovarti?»

«Ma come facevate a sapere che mi trovavo in mare?» insistette Luca. «Sono scappato da Genova così all’improvviso, senza dire niente a nessuno. Cioè…» Si morsicò il labbro e si coprì la bocca con il dorso della mano, desiderando mangiarsi la lingua. Solo ora, pronunciandola, rendendola reale e tangibile, si rese conto di quanto suonasse male quella sentenza e di quanto riprovevole fosse stata la sua fuga. «Uhm, io…» Gettò lo sguardo in disparte e si grattò la nuca. «Volevo dire…» Tirò su un lembo di coperta e si rannicchiò sotto la stoffa, schiacciato dalla vergogna e incapace di sostenere lo sguardo di Alberto.

Alberto sollevò le sopracciglia in uno sguardo sufficientemente eloquente. Non infierì oltre. Sapeva che non ce n’era bisogno. «Giulia ci ha avvisati per telefono nel pomeriggio» gli disse, «subito dopo essersi accorta che non eri né a casa né a scuola. Non so bene come, ma ha capito immediatamente che tu eri scappato in mare, e così anche noi ci siamo dati da fare per cercarti.»

Luca emerse da sotto il cappuccio di coperta. «Voi?»

«Noi di Portorosso, già.»

«Tutta Portorosso? Tutto il paese…» Luca fece scivolare la coperta dalle spalle e strabuzzò gli occhi. «A cercare me?»

Alberto tornò a mettersi a gambe incrociate, fece dondolare le ginocchia e sollevò un mezzo sorriso di compiacimento. «Sei sorpreso? Secondo te non saremmo dovuti rimanere sconvolti dopo aver saputo della tua scomparsa?» Sollevò un cenno del capo per indicare alle sue spalle, verso gli opachi grappoli di luce che tremolavano fra le insenature della costa. I suoi occhi rabbuiarono. «Secondo te io sarei dovuto rimanere con le mani in mano, magari sorseggiando un caffè e distraendomi con qualche partita a carte, aspettando che fossi tu a rifarti vivo da solo?»

«Non pensavo che lo avreste saputo anche qui» confessò Luca. «L’ultima cosa che volevo era causarvi delle preoccupazioni.»

«Allora come prima cosa non saresti mai dovuto scappare.» Alberto sfoderò uno sguardo più duro. «Ci hai spaventati a morte, Luca.»

Luca abbassò d’istinto gli occhi, come quando veniva rimproverato dai suoi genitori. «Scusami. Non…» Un respiro timido e tremolante. «Non l’ho fatto apposta. È solo che per una volta…» Tornò a stringersi sotto la coperta. Un gesto di protezione spontanea. «È solo che per una volta non ho badato alle conseguenze delle mie azioni. Non ho pensato a quello che sarebbe potuto succedere se fossi fuggito. Non ho proprio pensato a niente. Sono…» Sospirò di nuovo. «Sono scappato e basta.» E non riusciva ancora a pentirsene.

«Be’» ridacchiò Alberto, «per una volta hai avuto la meglio su Bruno e anche su di me. Così però non vale, Luca, mi hai battuto sul tempo.» Strizzò l’occhiolino. «Non ero io quello che doveva farsi la strada a nuoto da Portorosso a Genova, e non il contrario?»

Luca scosse la testa, per una volta determinato a non farsi contagiare dalla giovialità di Alberto. «Non c’è niente da ridere» sbottò. «Hai ragione: sono stato un incosciente e uno sconsiderato. Non avrei mai dovuto fare una cosa simile.» La nausea dei sensi di colpa rimontò lo stomaco. «Non sarei mai dovuto scappare.»

«Questo è poco ma sicuro. Allora…» Alberto spinse il pugno sulla guancia, reclinò il capo e corrugò un sopracciglio, di nuovo serio. «Mi spieghi che t’è preso?»

Luca si pizzicò il labbro fra i denti e schivò lo sguardo inquisitorio di Alberto. «Niente» si affrettò a rispondere. «Non mi è preso niente. È stato solo…» Era stanco, le parole gli si impastavano sulla lingua, ed evocare quei pensieri non faceva altro che gravare il peso che gli tremava sulle spalle doloranti. Il conflitto che lo aveva spinto alla fuga infatti era ancora lì che lo tormentava e che gli brontolava sopra la testa come il temporale che lo aveva quasi inghiottito, ecco perché Luca non riusciva ancora a pentirsi di quella fuga. Sapeva che la paura che lo aveva spinto a scappare non era ancora estinta. «Senti, lasciamo stare, d’accordo?» disse. «Ormai non è più importante.»

«Ma a me sì che importa» insistette Alberto. «E tanto, anche.»

«Ti ho detto che adesso non ne voglio parlare.»

«E quando avrai intenzione di farlo?»

«Non lo so.» Luca stropicciò la coperta fra le dita. «Domani?» Arricciò le spalle. «Uh, forse? Anche se…» Contraendo i muscoli della schiena, gli piombò addosso tutto il peso della fatica appena passata. D’improvviso, si sentì esausto e svuotato. E l’ultima cosa che desiderava era rivivere quei momenti terribili. «Ti prego, Alberto.» Esalò un lungo sospiro di sconforto. «Non ne parliamo e basta.» Raccolse le pieghe della coperta, se le sprimacciò attorno alle gambe rannicchiate. «Fammi solo dormire, così domani me ne ritorno a Portorosso, e poi a Genova, e allora potremo tutti dimenticarci di questa storia assurda.»

«Dimenticarcene fino a quando?» Il tono di Alberto si ammorbidì, senza però riuscire a rasserenarsi. «Solo fino a quando tu non troverai un’altra occasione per renderti partecipe di una follia simile?» Spalancò un braccio fuori dalla finestra. «Fino a quando non troverai una seconda occasione per covare una fuga come questa?»

«Ti ho già detto che non lo rifarò mai più.»

«E allora spiegami perché lo hai fatto adesso. Dammi un motivo per crederti.» Scivolò giù dal cornicione. «Uno solo.» Compì un passo, seguito dall’allungarsi della sua ombra rossiccia. «Dammi anche solo un motivo per fidarmi di te e per lasciarti tornare a Genova senza farmi credere che un giorno ti ritroverò alla deriva come oggi.»

Luca schiuse le labbra e si sforzò di snocciolare una risposta, una qualsiasi giustificazione. Paura e vergogna gli frenarono le parole sulla lingua. «Io non…» Si prese la faccia fra le mani e scosse la testa. «Io non credo di avercelo.» Respirò pesantemente e tornò a farsi piccolo, incapace di sollevare lo sguardo da terra. «Non credo di avere alcun motivo di credere che una cosa del genere non tornerà a succedere.»

L’espressione di Alberto si rattristò, come se si fosse sempre aspettato quel genere di risposta. «E questo dovrebbe tranquillizzarmi, secondo te?» Dalle sue parole non trasparì nessun tono accusatorio. Non sembrava arrabbiato, solo tremendamente preoccupato. «C’entra forse qualcosa la scuola?»

«N…» Luca si strofinò il naso e tornò a scuotere il capo. «No.»

«C’entra qualcosa quello che…» Alberto strinse i pugni, sopprimendo una fitta di amarezza. «Che hai detto a Giulia?» Non poté fare a meno di bruciare di gelosia, sapendo che Luca si fosse confidato con Giulia anziché con lui.

Luca compì uno scatto col capo. «A Giulia?» squittì. «Ma come…» Sgranò gli occhi che finalmente si erano scollati dal pavimento. «Tu come fai a sapere che…» Esitò con un sussulto. «Voglio dire…» Scosse il capo e si riprese, perché ormai era trascorso il tempo dei segreti. Ritrovando una spinta di coraggio, si levò le coperte di dosso, raddrizzò le gambe ignorando lo scricchiolio delle ginocchia e le fitte ai muscoli, e si alzò in piedi. Anche la sua ombra si allargò sulla parete, rendendo l’ambiente più buio, i suoi occhi più tetri. «Cosa ti ha detto Giulia?»

Alberto sbuffò. «Non quanto avrei voluto.» Rimase impassibile, per nulla intimidito dall’improvviso scatto di Luca. «Ma mi ha detto che il tuo umore è decisamente peggiorato dopo Natale, e anche che hai quasi del tutto smesso di parlarle, mentre almeno prima eri in grado di confidarti se c’era qualcosa che non andava.»

Luca si grattò le braccia infreddolite e si affrettò a rispondergli senza però riuscire a guardarlo negli occhi. «Ma non c’è niente che non va.»

«E tutte quelle fisime sul fatto di essere un pesce in mezzo agli umani?» lo rimbeccò Alberto. «Sul fatto di non sentirti più parte del mondo in superficie? Tutte quelle paranoie che anche l’estate scorsa ti hanno spinto a tenerti lontano dal mare e dall’acqua?» Lontano da me, ecco cosa avrebbe voluto dirgli. Tutte quelle paure che ti hanno spinto a tenerti lontano da me. «Perché non me l’hai detto, Luca? A Natale…» Compì un altro piccolo passo che fece scricchiolare il pavimento sotto i suoi piedi. «Tutti quei giorni trascorsi assieme…» E quello gli apparve davvero come un altro tempo. Una bolla di ricordi custoditi sotto una campana di vetro cristallizzata dalla neve, appannata dal dolce profumo di mandorle caramellate, colorata dalle luminarie e illuminata dalle risate di loro tre assieme. «Avevi mille occasioni per confidarti.»

Azzannato da un freddo e nauseabondo crampo di sensi di colpa, Luca fece fatica persino a sbirciare in direzione di Alberto, a decifrare la sua espressione. «Sei arrabbiato?»

«No» rispose Alberto. «Deluso però sì. Perché non mi hai detto niente, Luca? Potevamo parlarne. Potevo aiutarti.»

Luca scosse la testa e guardò alle sue spalle. «Non mi avresti capito.»

«Io?» sbuffò Alberto, e ora tutta quella delusione gli si specchiò in faccia. «Secondo te io non sarei stato in grado di capirti?»

«No» confessò Luca, «perché tu non hai mai avuto i miei stessi problemi. Tu una casa l’hai trovata, sai già a quale mondo appartieni.» Gli si annacquò la vista, gli pizzicarono le palpebre, e il cuore si strinse, come strozzato da un nodo. «Non hai più nessun bisogno di continuare a sforzarti per adeguarti al mondo degli umani.»

Alberto corrugò la fronte. «E secondo te per me è stato facile adeguarmi?» sbottò. «Guadagnarmi questa casa? Guadagnarmi questa sicurezza?»

«Guadagnarti?» Luca strusciò un pugno sugli occhi, e il suo sguardo arrossato cadde sul braccio destro di Alberto, sul suo tatuaggio. Fissò il disegno, l’intreccio di significati che si celava dietro quei simboli – l’arpione, lo scorpione alla base e la rete sbrindellata dalla punta –, e ritrovò una spinta di audacia. «Tu non sei come me, Alberto.» Lo disse pianissimo, quasi fra sé e sé. «Per te è stato fin troppo facile rinunciare alla parte di te che viene dal mare.»

Alberto trasalì, tirò indietro il capo e sgranò le palpebre, schiaffeggiato dalla crudeltà di quelle parole e rimpicciolendosi sotto le sfumature rossastre della lanterna. Le labbra gli tremarono, mute e paralizzate. Raccolto un respiro e riguadagnato fiato, serrò i pugni e tornò a infiammarsi, a provare il bruciante desiderio di esplodergli addosso. Ma pazientò. Concesse a Luca il beneficio di spiegarsi, l’occasione di rimangiarsi quello che aveva appena detto. «Ma cosa stai dicendo?»

«Sto dicendo che io e te non siamo uguali.» Luca gli scagliò addosso quell’estraneo sguardo di accusa. «Non fingere di capire quello che sto provando, perché non è vero. Tu non ti sei lasciato niente alle spalle, non hai rinunciato a nulla quando sei venuto a vivere in superficie, perché non hai mai avuto niente da perdere.»

Questa non gliela perdonò. «Luca…» La penombra si addensò attorno ad Alberto, il calore della lanterna gli bruciò sulla pelle e sembrò trasformarlo. Gli occhi di un verde acceso, feroce e fiammeggiante. La fronte aggrottata, i denti digrignati, i pugni tremanti incollati ai fianchi, e le unghie conficcate nella carne. Non sarebbe stato in grado di simulare una faccia così sconvolta e imbufalita nemmeno se Luca gli avesse mollato un pugno sul naso. «Guarda, Luca, bada a come muovi la bocca o qui finisce male, ti avviso.»

Ma Luca non si spaventò affatto. Non aveva paura di Alberto, né del suo lato umano né del suo lato da pesce. «E secondo te non ho ragione?» gli rispose. «Tu non hai avuto nessuna difficoltà a rinunciare a quello che eri pur di rifarti una vita in mezzo agli umani.»

«Io non ho rinunciato proprio a un bel niente, razza di imbecille.» Alberto si picchiò una mano sul petto. «Io non ho mai rinunciato alla parte di me che viene dal mare. Non mi faccio prendere dal panico ogni volta in cui tocco l’acqua o che mi affaccio al mare. È di questo che si è trattato, secondo te?» Si accostò di un passo a Luca, ingigantendosi. Un’ombra scura gli calò sul volto. «Credi davvero che io abbia rinunciato a quella parte di me solo perché adesso vivo fra gli umani?» Slanciò il braccio tatuato a indicare una parete della torre. «Solo perché mi sono disfatto del nome di un bastardo che mi ha scaricato quando ero piccolo, quando non avevo niente e nessuno su cui contare?» I suoi occhi luccicarono, trattennero roventi lacrime di rabbia e risentimento. «Solo perché se non avessi imparato a cavarmela da solo ora non sarei nemmeno qui a raccontarlo?»

«Per te è sempre stato facile.» Sembrava che Luca non stesse nemmeno a sentirlo. «Perché non hai mai avuto nessuna consapevolezza dei rischi che correvi. E se ora puoi vivere fuori dall’acqua senza pericoli, in mezzo agli umani, è solo perché sei stato pescato da Massimo.»

«No, Luca.» Il tono di Alberto fu fermo e glaciale. «Nessuno mi ha pescato. Io sono uscito dall’acqua da solo, perché non ho avuto scelta. Tu sei quello che sei stato pescato da me, altrimenti non avresti mai avuto nemmeno il coraggio di mettere il naso fuori dal mare.» Socchiuse le palpebre. «Non te lo dimenticare.»

«Be’» farfugliò Luca, trafitto da quello sguardo, «e io non ti ho…» Superato l’attimo di incertezza, Luca strizzò i pugni e ingrossò la voce. «E io non ti ho mai chiesto di farlo, se proprio la metti così. Perciò non provare a farlo passare come un gesto altruista.»

«Cosa…»

«Tu non l’hai fatto per me, Alberto.» Gli occhi di Luca bruciavano attraverso l’oscurità della torre, riflettevano anch’essi la calda luce traballante della lanterna. «L’hai fatto solo per te stesso, solo per disfarti della tua solitudine. Anche tu saresti rimasto per sempre qui sull’isola, se non ci fossi stato io a correrti dietro.»

Sui due ragazzi precipitò un silenzio spettrale. I sibili del vento penetrarono gli spifferi delle pareti, la fiamma della lanterna si rimpicciolì, e le ombre si allungarono. Un gorgoglio delle nuvole gettò una violenta zaffata di pioggia contro il fianco della torre. Le assi del tetto tremolarono e le onde ingrossate schiaffeggiarono la spiaggia, venendo poi di nuovo risucchiate in mare.

Ci fu un fruscio, un acquietarsi del cielo notturno foderato di nubi, e anche il lumino della lanterna si rinvigorì.

Di nuovo in luce, gli occhi di Alberto vacillarono, ancora un po’ annacquati dal principio di pianto che lo aveva quasi tradito poco prima, durante la sfuriata. L’oscurità gli scivolò di dosso, le grinze della fronte si distesero, e il suo sguardo scivolò sul pavimento, sconfitto e frustrato come quello di un guerriero costretto a deporre la spada e a inginocchiarsi sul suolo di guerra. «Bene.» Abbassò le palpebre e raccolse un lungo respiro dal naso, arricciando una smorfia di disgusto. «D’accordo, allora. Se è così che finisce fra noi, allora la facciamo finire qui e tanti saluti.» Si girò, dando la schiena a Luca, si spolverò una spallina e si mise a braccia conserte. «Non rivolgermi mai più la parola.»

Luca mozzò un gemito fra i denti, reprimendo un gelido conato di nausea che precipitò con un tonfo in fondo allo stomaco.

Vedendo Alberto voltargli le spalle, allontanarsi, chiudersi nella sua solitudine sguainando la promessa di tranciare per sempre il loro legame, Luca si rese conto di quanto orrore gli provocasse la prospettiva di una vita senza di lui. Si rese conto che parlargli in quel modo fosse stato uno degli errori più madornali della sua vita, peggio che scappare a nuoto da Genova.

«No, aspe…» Luca sollevò una mano e compì un passetto, nella speranza di raggiungerlo. «Alberto…» Ma non ci fu verso di destarlo. «D’accordo, d’accordo» insistette Luca, sdrucciolando su quell’appiglio. «Mi dispiace, non intendevo dire così. Non te la prendere.» Avrebbe tanto desiderato rimangiarsi quello che aveva appena detto, ma già anni addietro aveva imparato che certe parole non possono essere cancellate. «Ascolta, mi dispiace, va bene? Mi dispiace, non volevo accusarti in quel modo. Non è con te che ce l’ho.»

«Ah, no?» Alberto voltò lo sguardo da sopra la spalla. Mostrò una faccia nera e adirata, le zanne serrate e le unghie conficcate nelle braccia conserte. «Ma adesso io ce l’ho con te

Luca arretrò di un sobbalzo, scottato da quell’accusa. «Ehi» esclamò. «Ora non farmi passare come il cattivo della situazione.»

«Ah, chiaro» ribatté Alberto. «Perché sono io il cattivo in tutta questa situazione, ovvio. Perciò scusami tanto, Luca.» Si posò una mano sul petto e tirò su il mento, sarcastico. «Scusami tanto se ti ho tirato fuori dall’acqua, e scusami tanto se ti ho offerto un’alternativa alla grandiosa vita che facevi prima.»

Luca avvampò – il viso in fiamme, gli occhi ardenti, e un rauco ringhio gutturale serrato fra i molari. «Ma tu che ne sai?» strillò, sull’orlo delle lacrime. «Che ne sai di com’ero prima di incontrare te? Non hai mai saputo niente di niente della mia vita.»

«Non fare finta di non capire di cosa sto parlando.» Alberto gli puntò il dito contro. «Ti sei sempre e solo lamentato della vita che facevi prima di conoscere la terraferma.»

«Pe-perché…» Luca gettò lo sguardo ai suoi piedi. «Perché la davo per scontata.» E il ricordo dei giorni sereni e felici della sua infanzia trascorsa sott’acqua lo avvolse in un freddo e inaspettato abbraccio di nostalgia. «Se io fossi rimasto a vivere in mare almeno mi sarei risparmiato tutto questo. Invece guardami: ora non so più chi sono, non so più in cosa sto sperando, non so più dove sto andando e non so più che cosa fare della mia vita. L’unica cosa che sono in grado di fare è dare infinite preoccupazioni ai miei genitori, a Giulia, e…» Ed tutta colpa di Alberto. Quel pensiero gli pulsò nelle tempie. Un bollente e doloroso fiotto di rabbia. «E tutto questo non sarebbe mai successo se tu mi avessi lasciato dov’ero!»

«Lasciato dove, di preciso?» sbuffò Alberto. «Lasciato a una vita che ti avrebbe comunque spinto a chiederti per sempre come sarebbe stato decidere di prendere coraggio e di salire in superficie?»

«Forse…» Luca si strofinò un pugno sugli occhi accecati dall’ira. Ancora niente lacrime. «Forse mi sarei sempre chiesto come sarebbe stato vivere in superficie, è vero, ma almeno non avrei sofferto tanto.» La sua voce mutò in un flebile mormorio pregno di sensi di colpa. «E soprattutto non avrei fatto soffrire anche…»

«E invece sì.» Alberto non stette nemmeno a sentirlo. «Tutto questo patire e rimpiangere ti sarebbe comunque arrivato addosso. E lo sai perché, Luca?» Compì un altro passo. La luce della lanterna gli bruciò attorno come un fuoco e accentuò l’oscurità che gli segnava il volto. «Perché uno come te i problemi se li crea da solo, a prescindere.»

«S…» Luca si strinse le mani al cuore, rintanandosi. «Stai zitto.» Quell’accusa gli crollò addosso come una sassata. Non si sarebbe mai aspettato una tale crudeltà da parte di Alberto.

Ma Alberto inveì. Scovato il solco nelle difese di Luca, vi si tuffò a capofitto, come aveva fatto quando si era trattato di domare le onde della tempesta. «Dentro o fuori dall’acqua…» Scosse il capo. «Non sarebbe cambiato proprio niente.»

Luca si girò e si strinse nelle spalle. «Stai zitto.» Si afferrò il polso tremante per trattenersi dal gettarsi su Alberto e dallo stampargli un cazzotto sui denti. «Zitto.» Un primo velo di lacrime risalì la vista e lo accecò.

«Quelli come te non cambiano!» Le accuse di Alberto continuavano a cadere e a ferirlo, fredde e pungenti come grandine. «Saresti lo stesso rimasto un codardo fin troppo preso dalle sue paure per trovare il coraggio di cambiare qualcosa.»

Il cuore di Luca si frantumò ed emise un eco sordo che gli ghiacciò il petto. Ormai spezzato, incapace di trattenere tutto quel dolore, Luca rovesciò il capo all’indietro, e la sua voce si lacerò in un lamento straziante. «Lo so.» Singhiozzò senza controllo. Lasciò che le lacrime sgorgassero abbondanti, che sbrodolassero lungo il profilo delle guance e che gocciolassero dal mento, frammentandosi fra le ciglia come scaglie di acquamarina.

Alberto esitò, spiazzato e senza più fiato da gettare. Sperava che Luca si arrabbiasse, sperava di scuoterlo e di vederlo reagire, ma non voleva che accettasse così facilmente tutte quelle accuse. E di certo non era sua intenzione farlo piangere.

Rintanato nel suo angolino di ombre e dolori, Luca avvolse un braccio attorno agli occhi e continuò a lacrimare e a singhiozzare. I suoi gemiti riempirono il silenzio della torre. Le sue lacrime si accavallarono come onde e si sciolsero sul viso squamato, creando quell’effetto tragico e allo stesso tempo meraviglioso.

Le sbavature della pelle verde-acqua riflessero la luce della lanterna che stava continuando a brillare indisturbata sul davanzale della finestra. Luca aprì entrambe le mani sulla faccia, tirò su col naso, passò ripetutamente i pugni sotto le palpebre traboccanti, ma le lacrime non si fermarono e non si asciugarono. Mutarono anche gli occhi. La dolce e calda sfumatura nocciola delle iridi si accese di rosso, la pupilla si allungò dilatandosi nel giallo che aveva sostituito il bianco. «Lo so che sono un codardo.» Pur singhiozzando fra un respiro e l’altro, la voce di Luca suonò incredibilmente forte e ferma. «E lo so che non…» Si diede un’altra stropicciata alle palpebre annacquate. «Che non ce l’avrei mai fatta senza di te. Per questo so che non potrò mai cavarmela da solo se io e te dovessimo…» Un ennesimo singhiozzo ricacciò indietro le sue parole. «Se saremo distanti e se non dovessimo mai più…» Si sentì di nuovo sprofondare nel buio ripensando alle accuse di Alberto, al modo in cui gli aveva dato le spalle minacciandolo di non rivolgergli mai più la parola. «Mai più…» Luca tornò a coprirsi la faccia ricominciando a versare lacrime e singhiozzi sulla prospettiva di quell’incubo.

Una vita senza Alberto era un’immagine fin troppo spaventosa da affrontare. Forse era proprio quella la paura da cui Luca era scappato. Forse era per quello che il suo cuore lo aveva spinto a fuggire da Genova e dai cambiamenti che sarebbero giunti con il termine della scuola. Non si era trattata di una fuga verso Portorosso. Era sempre stata una fuga verso Alberto.

Ma Luca di certo non avrebbe mai potuto confessargli quella verità. Di certo non avrebbe potuto confessargli che, quando si era ritrovato in procinto di annegare, il suo ultimo pensiero era volato verso il ricordo di Alberto, invocandolo come una preghiera. Quante cose Luca non avrebbe mai trovato il coraggio di dire e confessare! La vita pretendeva davvero troppo da un pesciolino fragile e pauroso come lui.

Avrei dovuto saperlo, pensò Luca con rammarico. Avrei dovuto immaginare che non sarei mai stato all’altezza della vita che mi sono scelto.

La tempesta, dal mare, aveva finito per soffiare e scaricarsi all’interno della loro cara torre. A gocciolare sul pavimento non era più la pioggia sbilenca, ma le lacrime di Luca; a scuotere le pareti non erano più i brontolii dei tuoni, ma i suoi singhiozzi inconsolabili.

Nemmeno Alberto sapeva cosa fare per uscire da quella burrasca. Un formicolio di disagio gli chiuse lo stomaco, e il cuore gli si strinse di paura davanti all’immagine di Luca che piangeva così disperato, senza freni. Luca stava piangendo per qualcosa che lui gli aveva detto. Alberto lo aveva fatto piangere di dolore anziché rassicurarlo e proteggerlo dalle sue paure, come si era sempre promesso di fare.

Com’è possibile che siamo arrivati a questo? A causarci tanto male reciproco? «Luca…» Roso dal rimorso, Alberto si approcciò a Luca con cautela. «Mi… mi dispiace, non volevo dirti quelle cose.» Scosse il capo. «Non avrei dovuto. Ascolta, prima ero solo arrabbiato, ma adesso non lo sono più.» Tese una mano e riuscì a raggiungerlo, a sfiorargli il viso, desiderando solamente asciugare tutte quelle lacrime. «Non piangere, su.» Le lacrime di Luca scottavano. Toccandogli la guancia, anche Alberto si bagnò, e le punte delle sue dita si spolverarono di squame blu e viola. «Si sistemerà tutto, te lo prometto.»

Luca fece scivolare un pugno dalla guancia squamata, socchiuse gli occhi che ora, al pensiero di avere Alberto di nuovo così vicino, luccicavano di speranza. Forse non era ancora tutto perduto?

Luca prese fiato fra le labbra umide e tremolanti, libero di respirare a pieno petto. Reclinò leggermente il capo, sciolse la tensione delle spalle lasciando che la mano di Alberto si distendesse sulla sua guancia, gli sfiorò il palmo con la punta del naso, e fece scivolare lo sguardo sulle dita bagnate dalle sue stesse lacrime. Solo in quel momento si accorse di come anche la mano di Alberto fosse mutata, di come le squame bagnate stessero luccicando per aver raccolto il peso del suo pianto.

Gli venne un colpo.

Quel contatto, quella trasformazione, rappresentò per Luca il culmine della loro natura, quel lato del legame con Alberto che non avrebbe mai cessato di esistere e che in quel momento gli faceva tanta paura.

Sei un pesce, Luca, gli suggeriva la vista delle squame, e tale rimarrai, anche se ti sforzerai di apparire umano. Ecco cosa significava quella vicinanza con Alberto che, invece di confortarlo, lo angosciava.

Attanagliato da quei pensieri, Luca si strappò la mano di Alberto dalla guancia e gemette, come se ne fosse rimasto ferito. Arretrando, inciampò sul grumo della coperta rimasta sul pavimento, urtò lo spigolo del tavolo da lavoro, rimbalzò per non cadere, e si rintanò nell’ombra. «Spiegami una cosa.» Riguadagnata un po’ di rabbia, Luca si strusciò il fianco della mano sulla guancia, sbavando le squame sullo zigomo, e riassorbì il flusso delle lacrime. «Perché a Natale mi hai chiesto di venire con te? Di tornare a Portorosso?»

Alberto si ritrovò con la mano bloccata a mezz’aria. Lo sguardo scosso di stupore si proiettò nei mesi passati, ritornò alle memorie di quel giorno alla stazione di Genova. «Perché eri in condizioni improponibili.» Abbassò il braccio, avvilito dal ricordo di quel triste, grigio e nebuloso pomeriggio d’inverno. «Come potevo accettare di lasciarti da solo in quel modo?»

«Però alla fine l’hai fatto.»

«Ehi!» protestò Alberto, parandosi con un gesto delle mani. «Ora non rifilare la colpa su di me. Sei stato tu a non volermi seguire.»

«Perché non eri davvero tu quello che mi voleva portare via.»

«Cosa...»

«È stata Giulia a chiedertelo, non è vero?» lo accusò Luca. «È stata lei a chiederti di portarmi via con te, e a cercare di farla sembrare una tua idea.» Riportò alla mente tutti gli sguardi e i sussurri di complicità che Alberto e Giulia si erano scambiati durante le vacanze di Natale. Segnali a cui Luca non aveva dato importanza, nonostante i sospetti, e che solo alla fine aveva saputo collegare, decifrandone il significato, la malignità del tradimento. «Credevate che non me ne fossi reso conto, quando per tutte le vacanze non avete fatto altro che complottare alle mie spalle?»

«Io…»

«Anche tu hai confidato a Giulia un mucchio di segreti che invece a me hai tenuto nascosti.»

«Ma quelli non…» Alberto alzò gli occhi al soffitto e fu costretto ad arrendersi con un sospiro. «Okay, va bene, va bene, lo ammetto.» Mise le mani avanti. «L’idea di riportarti a Portorosso è stata di Giulia, ed è stata lei a dirmi di chiedertelo. Ma alla fine te l’ho proposto, no?» Allargò le braccia. «Che differenza fa di chi è stata l’idea? La possibilità di seguirmi te l’ho data comunque.»

«Ma non lo volevi per davvero.»

«No.»

Luca sentì quel “no” esplodergli addosso come un gavettone ghiacciato, come lo schianto di una delle onde che aveva dovuto combattere per attraversare la tratta di mare. Rimase tramortito. Gli occhi gialli infossati nel nero dell’ombra, le labbra tremule, e il petto raggelato.

Alberto scosse il capo e non faticò a portare avanti quella dichiarazione. «No, hai ragione» gli confessò. «Non volevo che tu tornassi a Portorosso con me. Ma non per il motivo che credi tu, Luca. Non lo volevo perché sapevo che in fondo non lo volevi nemmeno tu. Pensa a tutti i tuoi sacrifici, a tutto il tuo impegno, a tutto il tuo lavoro e a tutto quello che hai studiato negli ultimi anni… come avrei mai potuto aiutarti a mandare a monte tutto questo? Sapevo che riportandoti a casa avrei solo assecondato una tua stupida paranoia e che sarebbe stato solo un modo per aiutarti a…» Gesticolò a mezz’aria per pescare le parole più adatte. «Ad auto-sabotarti. Magari sul momento mi avresti ringraziato, ma alla fine mi avresti odiato per avertelo permesso, credimi.»

Luca non stette nemmeno ad ascoltare la giustificazione di Alberto. Le sue parole erano un fischio lungo e penetrante, e alla prima botta di sbigottimento si sostituì una lenta e dilaniante afflizione. Gli era bastato quel “no” rimbombante per farlo sentire di nuovo disperso e abbandonato, in balia della tempesta e soffocato dal buio degli abissi. Allora è così? si disse. Alberto mi sta sul allontanando? Con la complicità di Giulia, per di più? Le lacrime riaffiorarono. «Lo sapevo.»

Alberto si accorse del suo sguardo di nuovo umido, della sua voce fioca e spezzata dal respiro soffocato. Si affrettò a giustificarsi. «Ma di certo non stavo cercando di allontanarti da me. Luca…» Come a voler sottolineare la veridicità delle sue parole, si avvicinò di un passo. «Se non ti ho voluto riportare a Portorosso è stato perché ho sempre avuto fiducia in te. Io sapevo che saresti stato comunque in grado di superare le tue ansie, di dare gli esami e di finire la scuola, anche senza il mio aiuto. Io so che tu sei più forte di quello che credi, Luca. Infinitamente più forte. E anche Giulia lo sa, e pure i tuoi genitori. E non riesco a credere che tu rimani l’unico che non è ancora in grado di rendersene conto, anche dopo tutte le difficoltà che hai affrontato e tutti gli ostacoli che hai superato.»

«Be’, a quanto pare…» Luca strinse le braccia al petto, si grattò la pelle d’oca e tirò su col naso. «A quanto pare io non sono così forte. Non sono mai stato forte come credevate tutti, e questa ne è la prova.» Girò lo sguardo alla parete, incapace di guardare Alberto negli occhi. «Quindi avete sempre sbagliato a credere in me.»

Alberto si rimangiò un ringhio, spazientito. «Sei proprio…» Si spalmò una manata sulla faccia, si grattò la testa e tornò a mettere le mani avanti, ormai arreso. «Guarda, se ti sta bene continuare ad autocommiserarti per il resto della tua vita allora fa’ pure. Arrangiati. Ma non t’azzardare a darmi la colpa per quello che è successo a Natale o per quello che avrebbe potuto succedere dopo. Non è di tornare a Portorosso che avevi bisogno.»

Luca schiacciò i pugni ai fianchi, inspirò un violento fremito fra i denti serrati, ed esplose in un pianto furioso. «Ma avevo bisogno di te

Un ultimo tuono spaccò il cielo annuvolato e si schiantò in mare. Una sferzata di vento si abbatté sul fianco della torre, investì la lanterna e ne inclinò la luce, facendo calare il buio.

Alberto si ritrovò assorbito dall’ombra. Perse ogni sicurezza, rimpicciolendosi davanti a Luca che invece si era innalzato nel suo ruolo di accusatore.

La rabbia di Luca sgorgò in un pianto irrefrenabile e incontrollabile, solcò la sua espressione segnata da un dolore profondo. Gli occhi accesi come la fiaccola della lanterna che, rinvigorita, era tornata a illuminare le pareti e ad allungare le ombre della torre. Il respiro arrochito dai singhiozzi soffocati, il volto mezzo mutato, e lo splendore delle squame color acquamarina in contrasto al bronzo delle iridi.

Luca scosse il capo – un gesto rassegnato. «Perché, Alberto?» Le lacrime continuarono a scendere e a colorargli le guance, ma lui non si preoccupò di asciugarle. Le più grosse caddero fra i suoi piedi nudi – plic, plic, plic – chiazzando il pavimento di legno. «Perché sei salito sul treno? Perché sei partito? Perché mi hai lasciato solo? Non hai avuto il minimo ripensamento, neanche dopo avermi chiesto di tornare a Portorosso.» Sfregò le mani sulle guance e si tappò gli occhi. «Non hai fatto neanche uno sforzo a separarti da me.» Non riuscì a raccogliere le lacrime che, sciogliendosi fra le dita, scesero a squamargli pure le braccia. «Perché per te è sempre così facile dirmi addio?»

Alberto sussultò, tramortito da quell’accusa, e si affrettò a scuotere la testa. Gli occhi traboccanti di un dolore inconsolabile. «No, Luca, no…» Gli si avvicinò. Sentì il bisogno di raggiungerlo, di allontanare da Luca quell’idea folle, di spiegargli che non era vero, che non era mai stato così e mai lo sarebbe stato.

Luca gli diede le spalle per non guardarlo avvicinarsi. Arretrò fino alla parete per non farsi impietosire dal suo sguardo, per non cascare nell’ennesimo tranello dei suoi occhi da cui si era lasciato ingannare fin troppe volte. Non voleva ascoltarlo. Ne aveva abbastanza delle sue giustificazioni. «Perché sei tornato a Portorosso senza nemmeno guardarti indietro?»

L’ombra di Alberto si allargò su di lui. «Luca, zitto e guardami.» Un altro passo accompagnò quell’ordine secco e intransigente.

Luca affondò le mani fra i capelli e si strinse la testa ribollente di rabbia. Il suo pianto straziato rimbombò fra le pareti della torre. «Perché per te è così facile fare a meno di me

Alberto compì l’ultimo passo che li separava. Afferrò Luca per le guance bagnate di lacrime, lo costrinse a girarsi, e sbatté le labbra sulle sue.

Luca compì un saltello e spalancò gli occhi, paralizzandosi come se avesse preso la scossa. E quella scossa gli trafisse il cuore, ne arrestò il battito, e spalancò un lampo di luce che lo abbagliò, riempiendogli la vista di scintille scoppiettanti.

Un’intensa sensazione di bruciore si propagò lì dove le sue labbra arricciate si erano scontrate con quelle di Alberto. Quella chiazza di calore così intenso si arrampicò sul viso di Luca, gli rese le guance incandescenti, raggiunse le orecchie facendole diventare paonazze. Il battito del cuore accelerò, galoppò sfrenato nel petto e gli ronzò nel cranio. I suoi occhi mutati, ancora gonfi di lacrime, si riempirono di una luce traballante dentro cui si specchiò il riverbero rossiccio della lanterna, una tinta di un intenso rosso granato che ravvivò la sua iride marina.

Cos’era successo?

Luca rattrappì le mani incollate ai fianchi, strizzò gli occhi e trattenne il fiato, rigido, assordato da un rumore bianco che aveva preso a fischiargli nelle orecchie.

Fu Alberto ad allentare la pressione dei palmi attorno alle sue guance e a separare il bacio per primo.

Libero, ma ancora incredibilmente confuso, Luca ingoiò una sorsata di fiato e riprese a singhiozzare, straziato dalla disperazione. Provò un’intensa fitta di dolore al petto da cui però zampillò qualche battito di piacere – una spruzzata di acqua fresca sulla pelle febbricitante. Luca continuò a piangere, e le sue lacrime rotolate sul viso bagnarono le mani squamate di Alberto ancora avvolte a coppa attorno alle sue guance.

Alberto inspirò, chiuse gli occhi e tornò a baciarlo. Questa volta fu diverso. La sua lingua gli scivolò fra le labbra, schiuse con naturalezza il lucchetto della sua bocca, e risucchiò ogni singhiozzo del suo fiato, bevendosi tutto il suo dolore. Si mescolò un intreccio di sapori, tutta l’acqua di mare che Luca aveva ingoiato durante la traversata, ma anche il gusto dolciastro e delizioso delle sue lacrime.

Alberto mosse la bocca sulla sua – lo stesso gesto che faceva quando affondava una leccata al suo cono gelato –, e trasmise a Luca una scossa di terrore e di piacere che lo tenne paralizzato, evocando in lui un’altra copiosa colata di lacrime.

Luca si sciolse nel caldo turbine di quel bacio. Un grumo di brividi gli torse lo stomaco, le ginocchia tremarono, le gambe divennero molli come gomma e cedettero, trascinandolo verso il pavimento.

Alberto lo sostenne, impedendogli di squagliarsi a terra, e lo spinse contro il muro.

Luca sbatté un colpo di reni non contro la pietra, ma contro qualcosa che gli scricchiolò sulla schiena. Le braccia pietrificate lungo i fianchi, le dita rattrappite, il viso raccolto fra le mani di Alberto, e la bocca appesa alla sua. Si ritrovò in balia di un fuoco che, dalle labbra, scese a sciogliersi nella pancia e a bruciargli nel petto, continuando a sgorgare e a sfogarsi attraverso il flusso delle lacrime che accentuava la sensazione di soffocamento, di estasi e di ebbrezza. Era una sensazione troppo sfiancante da sostenere per il suo cuoricino già abbastanza strapazzato.

Muoio. Fu il pensiero più ovvio, il più lampante e razionale. Muoio, muoio, muoio… sto morendo.

Eppure, nonostante stesse morendo fra le braccia di Alberto, mai si era sentito così vivo.

Alberto affondò un altro bacio. Respirò su di Luca urtandogli la punta del naso, e fu come se con quel bacio gli stesse bevendo il fiato dalla bocca, succhiandogli il dolore dall’anima, liberandolo dal peso di tutta quell’agonia che lo tormentava. Il suo fiato gli attraversò il cuore, gli donò la sua aria e lo salvò dal nero che altrimenti lo avrebbe inghiottito.

Luca divaricò le mani per aggrapparsi alla parete su cui era schiacciato, e di nuovo spremette fra le dita quello scricchiolio cartaceo su cui aveva sbattuto. Non ebbe bisogno di girarsi o di aprire gli occhi per capire di cosa si trattasse. Era il poster della Vespa, perché da lì lui e Alberto erano partiti e lì erano tornati, sempre guidati dalla parola “Libertà” che pulsava attraverso la carta. E la libertà ritratta nel loro poster era la stessa che Luca stava assaporando in quel momento, attraverso il bacio di Alberto. Era la libertà che aveva sempre inseguito dal primo momento in cui era corso dietro al lampeggiare blu guizzato dalle sue squame, al verde di quegli occhi scaltri che non gli avevano lasciato scampo.

Le loro labbra si separarono emettendo uno schiocco molle e umido.

Luca inghiottì una lunga boccata di fiato che gli bruciò la gola. Respirò ad affanni, rallentò, e il flusso di lacrime cessò, smettendo di rotolare fra le dita di Alberto.

Le loro bocche erano ancora vicinissime. Lo strofinio dei nasi, il leggero contatto fra le loro fronti, i respiri mescolati – quello di Luca ancora singhiozzante –, le ciglia sfarfallate sulle palpebre dell’altro, e gli occhi che finalmente riuscirono a incontrarsi attraverso la penombra.

Alberto gli tenne il volto sorretto, non se lo lasciò sfuggire, e gli ripeté una delle prime cose che gli aveva detto il giorno in cui si erano incontrati, il giorno in cui lo aveva tirato fuori dall’acqua. «Respira.» Le sue nocche gli carezzarono le guance squamate, raccolsero le lacrime che erano gemme di mare. «Respira» ripeté. «Respira, va tutto bene. Tranquillo.»

Luca fu finalmente in grado di risollevare lo sguardo. Non annegò più nel mare delle sue lacrime, ma nello sguardo di Alberto. Riscoprì lo stesso senso di meraviglia ed estasi – e anche un filino di paura – del giorno in cui aveva messo per la prima volta il naso fuori dall’acqua, quando aveva respirato il suo primo sorso di aria della superficie. Un respiro nuovo e rigenerante. La stessa sensazione che aveva provato baciando Alberto.

Sprofondando nel verde dei suoi occhi, Luca fu attraversato da un palpito elettrico, il sospiro d’incanto che aveva tratto la prima volta in cui aveva osservato il cielo fuori dall’acqua. La forma bianca e spumosa delle nuvole, le sfumature smeraldine degli alberi smossi dal vento, il volo dei gabbiani e la luce del sole.

Fu grazie al calore di quello sguardo e di quei ricordi che Luca si rese conto che non c’era nulla di sbagliato in quello che stava succedendo. Andava tutto bene. Andava sempre tutto bene quando Alberto era affianco a lui. La fiaccola di Lucignolo era tornata a risplendere. Il suo scoglio sicuro era emerso dalle acque della burrasca e gli avrebbe offerto un appiglio al di fuori di quella tempesta. Ma spettava solo a Luca decidere di aggrapparsi e di affidarsi al suo aiuto, senza più alcun timore.

Guidato da uno slancio d’amore spontaneo e irrefrenabile, Luca si scollò dal muro, saltò sulle punte dei piedi, tuffò le braccia attorno alle spalle di Alberto, gliele allacciò al collo, e lo baciò di sua iniziativa. Fu il suo modo per ringraziarlo di averlo portato in superficie e di avergli regalato la possibilità di un’altra vita.

Nell’istante in cui le loro bocche tornarono a unirsi, quando i battiti dei loro cuori s’intrecciarono, l’ambiente della torre esplose e si riempì di un’acqua tiepida, amniotica e impalpabile, nella quale i loro corpi abbracciati galleggiarono assieme, circondati da sciami di meduse bioluminescenti, proprio quelle che erano solite popolare i sogni di Luca, trasportarlo in una dimensione dove non esistevano dolori e angosce, dove i suoi occhi potevano riempirsi di una luce eterea e di una meraviglia sconfinata. Anche Luca si sentiva così: leggero e impalpabile come una medusa, libero di fluttuare in un cielo-mare in cui sguazzavano banchi di acciughine bioluminescenti, tutte radunate attorno al pesce-Luna padrone di quella dimensione che apparteneva solo a lui e ad Alberto.

Alberto gli si aggrappò ai fianchi, inspirò forte dal naso, affondò i denti nella carne delle sue labbra e lo baciò con avidità, senza più vincoli o timidezze a contenere il bruciore del suo desiderio.

Sbilanciandosi all’indietro, inciamparono entrambi sulle pieghe della coperta che ancora giaceva sul pavimento.

Separarono il bacio con uno schiocco. Alberto guardò all’indietro, sgambettò per mantenere l’equilibrio, «Who-ooh!», strinse Luca a sé, ed entrambi precipitarono a terra.

Sbatterono le fronti. «Ouch!» L’incantesimo delle meduse si spezzò, e i loro corpi fluorescenti esplosero, dissolvendosi in un luminoso vortice di bolle polverose. Si ricompose l’ambiente della torre. La tiepida luce della lanterna che traballava sulle pareti di pietra, i poster appiccicati al muro, il tavolo da lavoro cosparso di bulloni e chiodi, infiniti barattoli e cassoni riempiti con gli attrezzi di Alberto, e la pioggia che non aveva mai cessato di frusciare fuori dalla finestra aperta.

Ripresosi dalla botta alla fronte, Luca scosse la testa e si diede una strofinata. Si accasciò sul petto di Alberto e si abbandonò a una ridacchiata euforica, circondato dalla luce delle meduse e dei pesci-stella che ancora gli galleggiavano attorno come farfalle.

La risata di Alberto si unì immediatamente alla sua. «Oh, diamine.» Gli strofinò la fronte, lì dove si erano scontrati. «Stai bene?»

Luca gli rispose ridendo. Riprese fiato sentendo il petto di Alberto sobbalzare assieme al suo.

Oh, sì.

Adagiò la guancia su di lui, chiuse gli occhi, e si beò della sensazione delle braccia di Alberto che lo circondavano, proteggendolo. Si godette il semplice fatto di avere l’orecchio poggiato sul battito accelerato del suo cuore, di essere avvolto dal suo forte profumo di mare e di legno laccato. Sorrise, imprimendo per sempre nella sua mente uno dei ricordi più felici della sua vita.

Mai stato meglio.

Luca gli scivolò giù dal petto, si girò sul fianco, rannicchiandosi, e lasciò che Alberto lo circondasse in un abbraccio e che intrecciasse le mani alle sue. La schiena aderente al suo torso, le gambe accavallate e aggrovigliate alla coperta sgualcita, il respiro di Alberto fra i capelli, e le carezze delle sue dita a strofinargli le nocche.

Nella torre regnava la pace più assoluta. La pioggia cadeva dritta e regolare, il vento si era acquietato e aveva cessato di scuoterne le mura. Le onde si accavallavano sulla spiaggia, ne carezzavano le rocce e si ritiravano, evocando l’immagine di una morbida coperta che viene fatta scorrere su un materasso. Il riverbero rossiccio della lanterna traballava indisturbato sul davanzale della finestra, riempiva le pareti della torre e ne illuminava l’ambiente come un fuocherello innocuo e gentile che scaccia le ombre malvagie e che protegge dall’oscurità.

La pelle di Alberto era ancora più lucente e bronzea, baciata dalla fiaccola che pareva alimentata dai battiti del suo cuore. Luca fece scorrere lentamente il tocco sulle braccia di Alberto che lo tenevano avvolto, gli carezzò l’avambraccio destro, indugiò sul tratto scuro del tatuaggio che pulsava di vita propria, mosso dal ritmo lento dei suoi respiri. La rete arpionata, le chele dello scorpione aggrappate alla base dell’asta, il pungiglione della coda arrotolato al polso solido e carico di vene. Luca aveva ormai smesso di percepire quell’immagine come una minaccia.

Il luogo da cui proviene e il luogo in cui è stato pescato. In qualche modo, anche Luca sentì di essere stato protagonista di un miracolo simile a quello di Alberto. Anche lui era stato pescato da quelle stesse braccia che ora lo tenevano avvolto, più sicure di qualsiasi spiaggia e di qualsiasi porto.

Ritrovato quel calmo senso di pace che tanto gli era mancato, Luca realizzò quanto negli anni quel desiderio fosse cresciuto dentro di lui. Si rese conto di quanto avesse sperato in un abbraccio diverso da quelli di addio e di bentornato che lui e Alberto erano soliti scambiarsi sulla piattaforma della stazione. Aveva sempre fatto in modo di tenerlo nascosto, non aveva mai osato crederci, eppure ecco che si era realizzato. Luca era grato di quel legame ritrovato. Sentiva di trovarsi nel luogo più sicuro del mondo, come quando Alberto lo aveva salvato dalla tempesta, solo qualche ora prima, e come quando da piccolo si stringeva a lui per farsi coraggio durante le corse in bici o durante i salti in Vespa dalla scogliera. Nulla poteva fargli del male, né mare, né cielo, né terra. Le stelle sarebbero potute piovere dal cielo, le nuvole avrebbero potuto scatenare un putiferio tale da spazzare via alberi e città, i mari avrebbero potuto ingrossarsi a tal punto da sommergere le montagne, e Luca non avrebbe comunque avuto paura di nulla finché avrebbe tenuto le mani strette a quelle di Alberto.

Dalle braccia, Luca fece scivolare i polpastrelli lungo i polsi e dentro i palmi di Alberto. Con delicatezza li schiuse, intrecciò le dita alle sue, strofinò il tocco fra le nocche dure e incallite, simili a nodi di corteccia. Mani ben diverse dalle sue, sciupate solo dallo sfogliare dei libri. Quelle di Alberto erano consumate dallo strofinio dei guanti, sfregiate dalle cicatrici lasciate degli ami da pesca e dai coltelli con cui ogni tanto si tagliuzzava. Luca percorse i segni bianchi delle cicatrici, indugiò sui calli rugosi annidati fra le falangi, e meditò su quante volte lui stesso avesse fatto affidamento su quelle mani, su quante volte si fosse agganciato alla loro presa, lasciandosi sempre guidare nella direzione giusta, quella che lui da solo non avrebbe mai avuto il coraggio di percorrere.

Alberto respirò fra i suoi capelli. Il petto si gonfiò e si sgonfiò aderendo alla schiena di Luca, e le sue dita strinsero quelle più bianche e sottili che lo stavano carezzando. «Le mie mani sono molto interessanti?»

Luca sorrise. Accostò le labbra alle sue nocche, ne percepì il profumo salmastro e delizioso. «Mi piacciono tanto le tue mani.»

Una risata vibrò lungo il torso di Alberto. «Così mi ingelosisco.»

Arrotolandosi fra le sue braccia, Luca si girò sull’altro fianco e seppellì il viso nella spalla di Alberto. Le sue carezze fecero su e giù lungo la schiena, risalirono il collo distribuendo una scia di caldi brividi sulla pelle nuda, e si arricciarono alle ciocche di capelli, solleticandogli l’orecchio.

Luca soffiò un mugugno di piacere. Avvolse le braccia attorno ai fianchi spigolosi di Alberto, intrecciò le gambe alle sue, sollevando il ruvido strofinio dei jeans asciutti, e sfregò i piedi nudi fra le sue caviglie.

Un altro profondo respiro da parte di Alberto. «Scusa» gli mormorò all’orecchio. «Ho i piedi freddi?»

Luca scosse la testa. Non era mai stato tanto al caldo in tutta la sua vita.

Fuori dalla torre, i nuvoloni di maltempo singhiozzarono gli ultimi brontolii di temporale, ma i due ragazzi nemmeno se ne accorsero.

Luca chiuse gli occhi, sollevò il mento sulla spalla di Alberto, fece scivolare il naso nell’incavo del suo collo, socchiuse la bocca e respirò le note dolci e acerbe di tutti quei profumi che gli erano appartenuti anche quando era più piccolo. Gli stessi profumi che Luca aveva respirato l’estate prima, in mare, quando Alberto lo aveva attirato a sé con la coda; gli stessi che gli avevano stretto lo stomaco e fatto girare la testa la notte in cui Alberto lo aveva avvolto nella coperta sul tetto della loro torre.

Luca scoprì il profumo del mare d’inverno, aspro e freddo – lo stesso sapore che avevano le sue labbra, ripensò con un pizzico di emozione gorgogliato in fondo alla pancia. Però notò anche l’odore ferroso di garage, di benzina, di olio antiruggine, e poi i profumi più dolci e familiari della cucina di Portorosso, il basilico e il rosmarino, i pomodori freschi e l’impasto di pane all’olio. Alberto era tutte queste cose messe assieme: era il mare selvatico e impetuoso, era la libertà e la ribellione dei motori, ed era la rassicurante familiarità della cucina di casa. E questo lo portò a pensare che…

«E adesso?» mormorò Luca, avvilendosi con un sospiro.

Alberto rabbrividì fra le sue braccia, ma un ghigno salì a incrinargli le labbra. «Non dirlo a Daniela.»

Luca rise a bassa voce.

«No, no, sul serio, non sto scherzando» disse Alberto. «Se tua mamma viene a saperlo mi uccide. Sarebbe anche capace di tagliarmi la coda.» Fece roteare lo sguardo. «Per non dire qualcos’altro.»

Ma Luca non se ne preoccupò, incapace di visualizzare una scena simile. «Stai tranquillo» lo rassicurò. «La mamma non ti farebbe mai del male. Ti vuole troppo bene.»

Ridacchiarono assieme, a cuor leggero, senza più imbarazzo e nervosismo, e Luca tirò su col naso sbarazzandosi degli ultimi residui di lacrime. A pianto passato, lo pervase una calma tiepida che gli riempì la testa di una nebbia bianca e innocua, seppur pesante. I pensieri ancora sconnessi e la vista ancora disturbata dal luccicare delle stelle scoppiettanti. Fu come scendere dall’ambiente vacuo e gassoso di una nuvola. Fu difficile orientarsi e ritrovare un equilibrio. «Ma tu credi che sia sbagliato?»

«Che cosa?» gli fece Alberto. «Tagliarmi la coda? Certo che è un crimine.»

«No, no, intendo…» Luca strinse le braccia e stropicciò le dita sulla maglietta di Alberto. «Quello che abbiamo fatto. Questa…» Arrossì come se la fiamma della lanterna gli fosse bruciata sulle guance. «Questa cosa.» La parola “bacio” era ancora troppo irreale se associata all’idea di lui e Alberto assieme. «Sicuro che vada tutto bene?»

Alberto strinse le spalle in uno scatto. «Perché non dovrebbe?»

«Sai cosa voglio dire» disse Luca. «Non piacerà a tutti, se dovessero scoprirlo. Non tutti saranno disposti a… ad accettarci.» Assurdo: sembra davvero di essere tornati all’epoca della caccia ai mostri marini. «Penseranno che sia sbagliato. Che io e te siamo sbagliati.»

«E cosa ci importa di quello che pensano gli altri?» Alberto non sembrò nemmeno sfiorato da quella preoccupazione. «Ci è mai importato che agli altri non andasse bene quello che facevamo? Ci siamo mai fatti fermare da quello che pensavano di noi?»

«N…» Luca corrugò un sopracciglio. «No.» Anche se, detta così, quella frase non aveva per nulla un suono incoraggiante. «No, effettivamente no.»

Alberto fece spallucce e gli sfregò un’altra carezza sulla schiena. «E allora sarà così anche stavolta. In fondo non stiamo facendo niente di male, ti pare?»

Luca scosse la testa, ma non ne fu del tutto sicuro. «Perché io e te dobbiamo sempre trovare il modo di crearci tutte queste difficoltà?» sospirò. «Perché finiamo sempre per cacciarci in guai simili?»

«Cacciarci nei guai?» esclamò Alberto, con tono stridulo e indignato. «Vivere la propria vita non è cacciarsi nei guai. Non siamo noi che ci complichiamo la vita. Sono gli altri che si inventano dei motivi squallidi e assurdi per complicarla a noi.» Accostò la guancia a quella di Luca. «E poi il senso del proibito è sempre stata la nostra specialità.» Gli sorrise, spavaldo. «Siamo o non siamo il Gatto e la Volpe?»

«Lucignolo e Pinocchio» puntualizzò Luca. «Io e te siamo Lucignolo e Pinocchio, non il Gatto e la Volpe.»

«Sicuro?» Alberto gli pizzicò la punta del naso. «Guarda che non puoi dire le bugie, sennò ti si allunga il naso.»

Risero tutti e due, tornando bambini, e finalmente i loro occhi scintillanti di gioia si incontrarono nella penombra offuscata dal colore rossiccio della lanterna.

Alberto abbassò lo sguardo e tossicchiò. Per un attimo sembrò arrossire pure lui, rabbrividire di disagio, come se la situazione fosse diventata troppo seria. «Ma a te…» Con il pollice strofinò piccole carezze sulla guancia di Luca. «Ma a te sta bene? Intendo…» Si morse il labbro. «Questa cosa» balbettò. «Quello che è successo…» Scosse il capo e riguadagnò una spinta di sicurezza. «Perché se agli altri non piace e non sta bene non m’importa un accidenti, ma se a te non è piaciuto allora non dobbiamo per forza…»

«No!» Luca sussultò, stupito di quella reazione così spontanea. «Cioè sì, io…» Annuì e posò lo sguardo sulle loro mani di nuovo intrecciate. «A me sta bene, sul serio. Anzi, credo…» Strinse più forte le dita fra quelle di Alberto e soffiò un sospiro rassegnato. «Credo che prima o poi sarebbe successa per forza una cosa simile. Era inevitabile.»

Alberto impennò un sopracciglio. «Sul serio?» Incollò il petto al suo, gli fece scivolare le braccia attorno ai fianchi e gli fece il solletico. «Ma allora lo ammetti che un po’ ci speravi, eh, vecchio furbastro?»

Luca torse la schiena, difendendosi dal solletico, e spinse le mani sul petto di Alberto. «M-ma certo che ci speravo.» Si morsicò la lingua, bruciando di imbarazzo. «Cioè, uhm…» Tornò ad arrotolarsi, a dargli la schiena, e sbirciò Alberto da sopra la spalla. Lo stomaco chiuso in un nodo di aspettativa. «Tu invece no?»

«Secondo te?» Alberto poggiò la fronte fra i capelli di Luca e si strinse forte a lui. «Oh, Luca, Luca» sospirò, sconsolato ma anche sollevato. «Perché non me l’hai detto prima? Ci saremmo risparmiati tante di quelle rogne e di litigate inutili. E tu avresti anche fatto a meno di stare così male per tutto questo tempo.»

Luca scosse il capo. Un pensiero simile gli sembrava ancora troppo assurdo. «Come potevo dirtelo? Come potevo…» Però poi pensò anche a quanto dolore gli avesse causato il semplice fatto di averlo tenuto nascosto. «Come potevo confidarti una cosa del genere?»

«E a chi altri avresti dovuto dirlo?»

«Avevo troppa paura.» Luca tornò ad aggrapparsi alle braccia che Alberto aveva incrociato sulla sua pancia. «Non riuscivo nemmeno a capire se stessi davvero desiderando qualcosa di simile o se la stessi semplicemente confondendo con l’ennesima confusione. Se poi tu avessi, non lo so…» Strinse le spalle. «Se tu fossi rimasto disgustato da me e mi avessi detto “Luca, questa cosa è sbagliata e abominevole” sarebbe stato l’ennesimo dolore. Gli insulti e le minacce degli umani possono anche starmi bene, ormai credo di averci fatto l’abitudine, ma un tuo rifiuto o un tuo abbandono…» Di nuovo si fece piccolo e fragile nell’abbraccio di Alberto, succube di un pensiero straziante. «Perdere te sarebbe stato troppo.»

«E ti ho forse mai dato l’impressione di volerti allontanare?» disse Alberto. «Luca, anche se io non avessi voluto questo», strinse più forte le braccia, «non sarei mai potuto essere disgustato da te. Ti avrei detto “No, grazie” e morta là.»

Luca si consolò con un sorrisetto. «Non ci credo.» Socchiuse una palpebra e sbirciò di nuovo all’indietro. «Queste cose non sono mai così semplici. È impossibile risolverle con un semplice “Morta là”.»

«Ma tu che sei infinitamente più sveglio di me avresti dovuto capire già da un pezzo che non aspettavo altro che questo» rispose Alberto. «Ti ho dato un milione di indizi.»

«Indizi?» Luca s’incuriosì, così tornò ad arrotolarsi sull’altro fianco per guardare Alberto dritto in viso. «Tipo quali?»

«Tipo a Natale, la sceneggiata sotto il vischio.» Alberto alzò gli occhi e simulò un sospiro melodrammatico. «Ma tu sei stato così crudele da respingermi.»

«Ma quello…» Luca sgranò gli occhi, incredulo. «Che cosa?» esclamò. «Tu volevi seriamente baciarmi? E comunque non era nemmeno vischio, era agrifoglio.»

«Fa lo stesso.»

«Pensavo fosse uno scherzo.»

«Io ti avrei baciato per davvero.»

«Ma eravamo in mezzo alla strada, e c’era tutta quella gente.»

«Che m’importa?» sbottò Alberto. «Te l’ho detto che non m’interessa quello che gli altri pensano, soprattutto se si tratta di me e te.»

«Guarda che a me non sarebbe andato bene baciarti in mezzo alla strada nemmeno se tu fossi stato una ragazza.»

Alberto fece roteare lo sguardo, ignorò quell’ultimo commento. «E poi c’è stato anche quel giorno dell’incidente dello scoglio, quando eravamo fuori in mare.»

«E quando?» domandò Luca. «Quando poi siamo andati al bar e mi hai portato il disinfettante?»

«No, prima» specificò Alberto. «Quando eravamo ancora in acqua e io ti ho circondato con la coda.»

Luca aprì la bocca ma ammutolì, sbigottito. «Pensavo stessi solo giocando.»

Alberto sbuffò. «Se per te quello è giocare» commentò. «E comunque, tanto per essere chiari, non c’è verso che io sia disgustato da te, in nessuna situazione.»

Luca sentì il petto stringersi per l’emozione, attraversato da un battito più intenso del suo cuoricino che era singhiozzato di gioia e di sollievo. «Sul serio?»

Alberto annuì due volte di seguito. «Sul serissimo.» Gli passò una nocca lungo la curva del viso che, seppur gonfio e arrossato, era tornato asciutto. «Nemmeno adesso che hai la faccia di chi ha appena pianto l’intero Mar Mediterraneo.»

Luca si nascose dietro la mano di Alberto ma ridacchiò. «Sono così orribile a vedersi?»

«Be’» rise Alberto. «Almeno adesso hai chiuso i rubinetti.» Raccolse con il pollice l’ultimissima lacrima appena zampillata dalle sue ciglia. Il suo tocco fresco indugiò sulla guancia di Luca, alleviò il rossore. Lo guardò negli occhi e fu uno sguardo così dolce e appagante. Trasmise a Luca tutta la serenità e la quiete di cui aveva bisogno. «Ti senti un po’ meglio, ora, sì?»

Luca sorrise. «Sì.» Strofinò un pugno sugli occhi ancora umidi, ma tornati al loro aspetto umano. «Sì, in effetti sì.» Piangendo e sfogandosi, aveva rigurgitato tutto quel dolore come catarro cattivo. Ma a consolarlo c’era anche il calore di quel bacio che ancora gli bruciava sulle labbra, dolcissimo, e che gli batteva nel petto come un secondo cuore. Luca posò la mano su quella che Alberto gli aveva aperto sulla guancia, e ripensò a tutto quello che gli aveva detto. Tutti i segnali che non aveva colto, tutte le volte in cui Alberto aveva provato ad avvicinarsi in quel modo senza che Luca se ne fosse accorto, e tutto il tempo che entrambi avevano trascorso nell’ombra di quella sciocca incomprensione. «Quindi anche tu ci speravi davvero?» Scottato da un’improvvisa vampata di timidezza, Luca strinse la mano su quella di Alberto e si nascose dietro. «Speravi in questo, uhm, almeno un po’?»

Il viso di Alberto si distese, riempiendosi di una luce placida e rilassata, come se anche lui si fosse finalmente liberato di un peso insopportabile. Si accostò a Luca e gli posò le labbra sulla fronte. «Non hai idea di quanto.»

Luca chiuse gli occhi e adagiò la guancia sul suo braccio. «Allora anche tu avresti potuto dirmelo chiaramente, invece che tenerlo segreto.»

«Forse…» Le mani di Alberto tremarono e s’irrigidirono, come per timore di farsi sfuggire la presa, di perdere Luca in un’altra burrasca. «Forse anche io ho sempre covato il terrore di perderti per sempre.»

Sorprendentemente, Luca si sentì rincuorato da quella dichiarazione così inaspettata. Adesso era lui quello a sostenere Alberto, a consolare i suoi timori e a scacciare le sue ombre. «Lo sai…» Soffiò una risata dolce e leggera. Spostò le gambe fra quelle di Alberto e gli solleticò i piedi nudi. «Lo sai che questa è la prima volta?»

Alberto sbirciò dalla penombra. «Prima volta di cosa?»

«Che lo ammetti» rispose Luca. «Che ammetti ad alta voce di avere paura di qualcosa.» E scoprì di amare quel lato più fragile e vulnerabile di Alberto, tanto quanto amava il suo lato più forte, intrepido e spavaldo.

Alberto lo strinse in un abbraccio. «Ora è passato.» Arricciò le labbra sulla sua guancia, il suo respiro gli trasmise una scia di brividi tiepidi e piacevoli dietro l’orecchio. «Ora non ce l’ho più.»

Anche se al sicuro fra le braccia di Alberto, Luca provò una scossa al cuore, la stessa che lo aveva trafitto quando si era svegliato fuori dal mare, accorgendosi che comunque la tempesta non era cessata, e che tornando a Genova le nuvole si sarebbero di nuovo addensate sopra di lui, facendo ricominciare tutto daccapo. Se solo fosse stato possibile per lui e Alberto rimanere così, abbracciati nella sicurezza della loro torre per il resto dei loro giorni. «Io però ho ancora paura, Alberto.»

«E di cosa?» gli domandò lui. «Sai che non devi avere paura di niente se ci sono io che ti proteggo.»

«Ma non so se…» Luca strinse i pugni sulla maglietta di Alberto. Dentro di lui formicolò il desiderio di confessargli tutto quanto, ogni dubbio e ogni paura, nonostante la vergogna. «Non so se qualcuno sarebbe mai capace di proteggermi da una cosa come questa.»

«E non vuoi dirmi di cosa si tratta?»

Luca seppellì il viso contro il suo petto ed esitò, rigido e rattrappito proprio come un piccolo paguro nella sua conchiglia. Lo sfogo di quel pianto però gli aveva sciacquato la testa, ripulendola da tutto il fango che l’aveva inquinata, e adesso era più facile affacciarsi al lago dei suoi pensieri senza rischiare di rimanere con i piedi incollati nel fondo di una palude sporca e limacciosa. La superficie era tornata limpida, piatta come uno specchio. E se c’era qualcuno che si meritava una spiegazione, se c’era qualcuno in grado di affacciarsi a quel lago e di comprenderne le ansie più profonde e nascoste, era proprio Alberto. «Va…» Luca si arrese con un sospiro. «Va bene, io… io te lo dico. Però…» Sgusciò fuori dal suo abbraccio e si mise seduto. «Però tu in cambio mi prometti che non riderai? Che non mi prenderai in giro e che la prenderai seriamente?»

Alberto alzò la mano in segno di giuramento. «Croce sul cuore.» Si sedette pure lui e si segnò il petto. «Parola di pesce, di pescatore, e di tutto quello che vuoi.»

Luca annuì, si strinse il braccio e si grattò fin sotto la manica della camicetta. «D’accordo.» Guardò in basso. Deglutì, nonostante la bocca asciutta. «Io…» Chiuse gli occhi, strizzò le unghie sulla stoffa della manica, raddrizzò la schiena e raccolse un lungo e incoraggiante respiro dal naso. «Io sono l’ostrica, Alberto.»

Alberto compì un saltello sulle ginocchia su cui era seduto e scrollò il capo. «Eh?» Strabuzzò lo sguardo come se fosse di colpo diventato sordo. «Tu sei…» Usò il mignolo per sturarsi l’orecchio. «Che cosa?»

«Io sono l’ostrica.» Luca si posò la mano sul petto, lì dove il peso di quella paura lo tormentava come un chiodo conficcato fra le costole. «L’ostrica di Verga, quella dei Malavoglia. Sono nato su uno scoglio ed è lì che sarei dovuto rimanere, perché non c’è altro modo per me di sopravvivere. Ho creduto di essere un pesce più grande di quello che sono, mi sono buttato in una corrente che alla fine mi ha rigettato, e ora non so più a quale mondo appartengo.»

Alberto sollevò le sopracciglia, socchiuse le labbra ma rimase zitto, disperso in una nuvoletta di confusione che gli aveva appannato lo sguardo e aggrottato la fronte in un’espressione perplessa. Fece per parlare, ma gli riuscì solo una spernacchiata simile a uno starnuto. Si tappò la bocca e le sue guance si gonfiarono. Cominciò a ridere piano, un gemito dopo l’altro, poi si torse in avanti e, non riuscendo più a trattenersi, scoppiò in una fragorosa risata liberatoria.

Luca avvampò di imbarazzo e indignazione. «Alberto!» E gli aveva anche promesso di non ridere!

Ma Alberto lo ignorò. Si schiaffeggiò la mano sulla fronte e continuò a ridere come un allocco. «Una…» Si ribaltò all’indietro. «Un’ostrica…» Cadde di schiena, si strinse la pancia, si arrotolò finendo aggrovigliato nella coperta, e rise ancor più forte. «Oh, diamine.» Si asciugò le lacrime. «E io che per un attimo ho davvero creduto che si trattasse di qualcosa di serio.»

«Ma è davvero una faccenda seria» ribatté Luca, «e non c’è niente da ridere. Io ho deciso di lasciare il mare e Portorosso per andare in cerca della vita che ho sempre sognato, ed è per questo che ho così tanta paura di tornare indietro. Perché ho il terrore di scoprire che sarei sempre dovuto rimanere qui, invece che fuggire verso una vita che non mi appartiene. Ma ho anche paura di abbandonare per sempre il mare, di dimenticarmi del luogo da cui provengo, e di ritrovarmi così senza alcuna sicurezza e senza più un appiglio.»

Alberto sollevò un lembo della coperta che gli si era incagliata attorno alle spalle. «Ma le scorse estati tu non sei mai…»

«Le scorse estati eravamo piccoli e ingenui, Alberto» disse Luca. «Era facile andare avanti e indietro perché ci bastava fare affidamento l’uno sull’altro per sentirci al sicuro e per poter credere di avere l’intero mondo sotto controllo. Ma adesso, se saremo separati e io…» Di nuovo quella paura gli strinse lo stomaco e gli raggelò le guance. «E io non so più se potremo…» Ora che torneremo a separarci, ora che la scuola finirà, ora che io sarò ancora più distante da te, ora che forse sarò costretto a dire addio per sempre a Portorosso. E a dire addio pure a te. «Se potremo ancora…» Sentì riaffiorare le lacrime. Si toccò la guancia e le labbra, dove ancora formicolava il calore dei baci di Alberto e delle sue carezze. Sarò sul serio in grado di dirti addio dopo tutto questo? Perché la vita deve essere così ingiusta con noi due? «Lo vedi perché è così complicato? È da quando me ne sono reso conto che non riesco a trovare una soluzione.»

«Trovare una soluzione a questo?» Alberto si rimise seduto. Il suo sguardo si fece serio, ogni sbavatura di risata svanì dalla sua voce. «Luca, per mille mozzarelle, tu…» Si spalmò una manata sulla fronte. «Tu non sei un’ostrica. E nemmeno una cozza o una vongola, se è per questo. Si può sapere chi è che ti ha messo in testa un’idea assurda come questa?» Ma la risposta era fin troppo lampante. «Non è che lo hai letto in un libro e da lì non sei più riuscito a togliertelo dalla testa? Non sarebbe la prima volta.» Si picchiettò un dito fra i capelli. «Te l’ho detto che se leggi troppi libri poi ti va in pappa il cervello.»

Luca sussultò. Il suo animo era davvero così trasparente e facile da leggere? O era Alberto quello fin troppo perspicace nei suoi confronti? «Be’» farfugliò. «Sì. In effetti sì, però… però non è solo il libro, credimi» si affrettò ad aggiungere. «È tutto quanto, capisci? È il modo in cui è cambiata la mia vita, tutto quello che ho imparato sulla superficie e sugli umani, tutte quelle cose che ora mi fanno vedere il mondo in maniera diversa.» Spostò lo sguardo lungo le pareti della torre e si soffermò sul poster della Vespa, quello più prezioso. «Sento che è come se questo destino non aspettasse altro che venirmi incontro, come se mi avesse teso un agguato per tutti questi anni, come per impartirmi una sorta di punizione per essermi allontanato dal mare e dalla mia casa. Insomma, guarda come sono cambiato.» Allargò le braccia. «Guarda come la mia vita è cambiata da quando mi sono trasferito a Genova, da quando ho cominciato a nuotare per conto mio. E se un giorno dovessi finire per nuotare così in là da non avere più la forza di tornare indietro, quando avrò bisogno di aiuto?» Com’è successo oggi, dopotutto. «Cosa ne sarà di me? Non potrò sempre contare sul fatto che ci sarete tu e Giulia a venirmi a ripescare.»

«Ma sì che potrai, invece.» Ogni traccia di ironia era svanita dallo sguardo di Alberto. Anche lui era più serio che mai. «Certo che potrai fare sempre affidamento su di noi, Luca. Io e Giulia ci saremo sempre quando avrai bisogno di qualcuno che ti sostenga e che ti…» Sventolò una mano in direzione della finestra. «Che ti faccia da scoglio nel caso dovessi andare alla deriva come oggi. E poi tu non sei affatto come un’ostrica.» Scosse il capo con decisione. «Non sei uno che rimane fermo sullo scoglio a fare la muffa. Non lo sei mai stato.»

Luca inarcò un sopracciglio, strinse le braccia al petto in un gesto protettivo e puntò lo sguardo sul pavimento. «Ma prima tu hai detto che…»

«Lascia perdere quello che ho detto prima» lo interruppe Alberto. «Prima ero arrabbiato. Lo sai che mi instupidisco sempre quando mi arrabbio.»

Ma Luca affondò una mano fra i capelli, per nulla consolato. «Io non so più chi sono, Alberto.»

«Te lo dico io chi sei» gli rispose Alberto. «E di sicuro non sei un’ostrica. Piuttosto sei…» Andò a posargli le mani sulle spalle. «Sei un paguro.» Gli diede due energiche pacche alle braccia e annuì, sempre più convinto. «Ecco, sì, sei proprio come un paguro che decide di cambiare conchiglia quando quella vecchia gli sta troppo stretta. Magari non troverai subito una nuova e perfetta, e quindi certe volte ti capiterà di non avere nessuna protezione sulla schiena. Ma è proprio in casi come quelli che io, e Giulia, e i tuoi genitori, e tutti gli altri, ti staremo vicini per proteggerti e per farti da scudo nel caso ti trovassi in pericolo.»

Luca sbatacchiò le ciglia. Rifletté a fondo su quella similitudine, sul significato di quelle parole. «Un paguro?» Non lo dice solo perché è anche il mio cognome, no?

Tornò indietro al suo primo ritorno a Portorosso, alla prima estate trascorsa in paese dopo la sua partenza per Genova. Lui e Alberto erano tornati sulla torre, erano saliti fino in cima e Luca aveva spalancato lo sguardo sul tramonto che stava calando sul mare, tingendo la costa di un tenue rosso pastello. Qualcosa gli aveva toccato la mano, qualcosa di piccolo. Luca aveva schiuso le dita e aveva accolto il piccolo paguro sul suo palmo. Era rabbrividito, aveva interpretato quell’incontro come un brutto presagio, era convinto che gli avrebbe portato sfortuna, che il mare stesso avesse inviato quella piccola creatura per metterlo in guardia. Un piccolo paguro fuori dal mare. Il paguro che avrebbe cambiato conchiglia, come Luca aveva spiegato a Giulia il giorno in cui avevano allestito l’acquario per Bruno. Adesso tutto stava cominciando a riavere un senso.

«Alberto, mettiamo caso…» Luca raccolse le mani che Alberto gli aveva battuto sulle spalle e le tenne strette a sé. Adesso non temeva più il suo giudizio. Si diede dello sciocco per averlo temuto in primo luogo. «Mettiamo caso che io continui sul serio a vivere quassù in superficie, assieme agli umani, ma lontano da Portorosso. E mettiamo caso che io però non riesca a trovare quello che stavo cercando quando me ne sono andato.»

«Lo troverai, ne sono sicuro.»

«Ma questa è un’ipotesi, sto cercando di prepararmi psicologicamente al peggio, quindi lasciami finire.» Luca si schiarì la voce. «Se io mi ritrovassi lontano da qui, in un mare di guai da cui sento di non poter uscire da solo, come oggi…» Si chiuse nelle spalle, proteggendosi da un’improvvisa vampata di gelo e paura. «Se dovessi sentire che tutto sta andando male, se dovessi sentire un forte bisogno di tornare a casa perché altrimenti mi sentirei schiacciare dal dolore e dalla nostalgia e dalla solitudine… cosa dovrei fare? Come si risolve un problema del genere?»

«Io correrei da te, proprio come ho fatto oggi.» Alberto rise e indicò fuori dalla finestra. «Magari prima di permetterti di avventurarti in una bufera. Verrei da te, ti consolerei rassicurandoti sul fatto che i momenti bui capitano a tutti ma che alla fine si risolvono. Ti aiuterei a trovare una soluzione e ti starei vicino fino a che non saresti di nuovo in grado di riprendere a nuotare per conto tuo.»

«Ma…» Luca corrugò un sopracciglio. Non era ancora convinto. «Come faresti a raggiungermi sempre? Insomma, se io mi trovassi a Genova, o a Trieste, o addirittura fuori dall’Italia…»

«Con la Vespa ci arriverei in un baleno.»

«Lo vedi che non mi ascolti? Ti sto dicendo che…»

«Sei tu che non ascolti me.» Alberto scosse il capo. «Non posso credere di star per dire una cosa del genere, ma su questa faccenda Giulia ha proprio ragione: dovresti essere tu quello intelligentone fra noi due, ma di queste cose non capisci proprio un tubo.»

«Ehi!»

«Quanto ti ci vuole per capire che io ti raggiungerei anche sulla Luna, se tu dovessi avere bisogno di me?» Alberto strinse più forte le mani di Luca ancora custodite fra le sue. Chinò il capo, nascondendo lo sguardo nell’ombra. Parlò con tono più basso. «Quanto ti ci vuole per capire che tu per me sei la cosa più…»

«Non potrei mai chiederti una cosa simile, Alberto.» Luca sfilò le mani dalle sue, richiamò le ginocchia al petto e strinse l’abbraccio attorno alle gambe piegate. «Qui a Portorosso hai Massimo, hai il tuo lavoro, hai tutte le tue responsabilità con il meccanico, e con gli altri pescatori, e persino con i bambini da sorvegliare in spiaggia. Hai tutta la tua vita. Non potrei mai chiederti di mollare la tua vita per correre a risolvere un problema solo mio.»

«Ma anche tu sei parte della mia vita, Luca.»

Quella frase attraversò il petto di Luca come una carezza, rimbombò in fondo al cuore e gli trasmise una potente fiammata di emozione.

Sei parte della mia vita…

Ebbe un effetto incredibile su di lui, talmente toccante che quasi lo fece di nuovo scoppiare in lacrime.

Lo sguardo di Alberto era aperto e sincero. «Non dovrai mai credere che per mantenere la nostra amicizia io dovrò per forza rinunciare a qualcosa. Non dovrai mai pensare che il nostro legame sia solo un peso, perché non lo è.» Fece un sospiro. «Per questo sono venuto a cercarti, Luca. Per questo ripeterei anche un milione di volte quello che ho fatto oggi, ed è per questo che non avrò mai paura di niente se si tratterà di doverti tirare fuori dai guai.» Raccolse le guance di Luca fra le mani. Il riverbero della lanterna a colorare i loro volti e a danzare nelle profondità dei loro occhi. «Io voglio che tu continui per sempre a far parte della mia vita, a prescindere da dove ci troveremo e da quanto distanti saremo.» Sorrise. «Tu non vuoi?»

Gli occhi di Luca scintillarono, commossi più che mai. «S-sì. Anche…» Luca ricacciò indietro le lacrime. «Anche io…» Sorrise, e le sue guance si spolverarono di rosa. «Anche io voglio che tu continui a fare parte della mia vita. A prescindere da quello che farò e da quello che succederà.» Sovrappose la mano a quella che Alberto gli aveva posato sulla guancia, deciso a non lasciarla mai più. «Questa è l’unica certezza su cui sento di poter contare.»

Alberto gli rivolse uno sguardo rassicurante. «Potrai contarci per sempre, te lo prometto.» Gli scostò i capelli dalla fronte. Le ombre tratteggiate dalle sfumature della lanterna donarono al suo volto dei tratti più incisi e cresciuti. «Ti prometto che terrò per sempre accesa questa lanterna per te.»

Luca socchiuse una palpebra. «Per tutta la vita?»

Alberto alzò il mento, spinse il petto all’infuori e annuì, più solenne che mai. «Per tuuutta la vita.»

«Ma allora…» Luca chinò lo sguardo, schiacciato dal rimorso e dall’eco di tutte quelle cattiverie che gli aveva sputato addosso durante la litigata. «Allora non è vero?»

Alberto sembrò non capirlo. «Che cosa?»

Luca si aggrappò alla mano di Alberto, si rintanò dentro il suo palmo e si morse il labbro per contenere un doloroso singhiozzo di pianto. «Non è vero che per te è facile fare a meno di me?»

La faccia di Alberto assunse l’espressione di chi non sa se ridere di sollievo o se piangere di disperazione. Così Alberto fece l’unica cosa in suo potere. Travolse Luca in un abbraccio, ed entrambi finirono di nuovo accasciati, sulla coperta, uniti come un corpo solo, i battiti dei loro cuori intrecciati nella più splendida e triste delle melodie. Già una volta si erano abbracciati provando tanto dolore, durante la loro prima separazione, quando avevano sperimentato per la prima volta la paura di non rivedersi mai più.

Luca si appese all’abbraccio di Alberto, scacciò tutto quel dolore sopprimendo un sospiro vibrante contro la sua spalla. Decise di non preoccuparsi di quello che sarebbe successo il giorno dopo. Per una notte, i suoi sogni non sarebbero stati tormentati dal pensiero della scuola, degli esami, e di tutto quello che sarebbe venuto dopo. Quella notte sarebbe appartenuta solo a lui e ad Alberto. Quella notte, il loro mondo era tutto lì, nella loro torre e nella loro isola, dove tutto era cominciato.

Alberto gli strofinò la schiena. «Ti fa ancora male tutto?»

Solo ora che glielo faceva notare Luca si rese conto che sì: i muscoli pizzicavano come se fossero stati imbottiti di aghi e le ossa scricchiolavano scaricando piccole scosse di dolore ogni volta in cui piegava un ginocchio o ruotava un polso. «Sì.» Stropicciò una smorfia. «Parecchio.»

Alberto raccolse la coperta su cui si erano accasciati e gliela rimboccò attorno alle spalle. «Fa’ la nanna sotto le coperte, allora.» Gli grattò una carezza fra i capelli. «Domani dovrai essere in forze per nuotare fino a Portorosso. Ma vedrai che la tempesta sarà passata. Anche adesso non tira più vento.»

Provando ad allungare lo sguardo fuori dalla finestra, Luca si accorse di come l’abbraccio di Alberto fosse talmente stretto da impedirgli di sollevare le spalle. Lo intenerì quella sua indole tanto premurosa. «Non serve che mi stai così appiccicato.»

«Scherzi?» Alberto tornò a sfoderare quel suo tono stridulo e scandalizzato. «Sei ancora convalescente. Conciato come sei, devo essere io quello pronto a proteggerti in qualsiasi istante.»

«Proteggermi da chi?»

«Come da chi?» Alberto rattrappì le mani ad artiglio e sguainò un sorriso aguzzo da guancia a guancia. «Dai mostri marini in agguato.» Tempestò Luca di solletico, ed entrambi risero rotolandosi nel loro abbraccio.

Le gambe intrecciate, le mani giunte, lo strofinio delle carezze, e lo sguardo di Luca tornò a posarsi sulle braccia di Alberto che lo circondavano, sul tatuaggio che ora gli trasmetteva un senso di libertà e di protezione. Sentì che era stato proprio lo scocco di quell’arpione a venirgli incontro e a pescarlo nella sua rete. Sentì che quel simbolo ora apparteneva un po’ anche a lui.

«Alberto?»

Alberto respirò a fondo, già quasi assopito, nonostante i buoni propositi di rimanere sveglio a fare la guardia. «Mhm?»

Luca si strinse a lui. «Grazie per avermi salvato.» Tornò a commuoversi, a sentire gli occhi inumidirsi e pizzicare di emozione. Il cuore gonfio di amore e gratitudine. «Grazie per avermi tirato fuori dall’acqua.» Nemmeno a lui fu chiaro se si stesse riferendo a quel giorno stesso o al loro primo incontro. Ma non era importante.

Alberto gli attraversò i capelli con una carezza, gli soffiò un piccolo e tenero bacio sulla fronte, strofinò il naso sul suo, e strinse più forte l’abbraccio.

Prima di crollare addormentato, Luca riuscì ad adocchiare un’ultima volta il poster della Vespa che ora gli si palesava sotto una luce del tutto differente, proprio come il tatuaggio di Alberto.

C’era stato un tempo in cui Luca aveva creduto che l’amicizia fra lui e Alberto non sarebbe potuta durare perché era nata come un atto di ribellione e tale sarebbe rimasta, costando loro dolori e sacrifici. Ma non era vero. La loro amicizia non era mai stata un atto di ribellione, ma un puro e semplice desiderio di libertà, per questo era destinata a durare per sempre.

Rassicurato da quell’ultimo pensiero, Luca si addormentò, e immediatamente dopo si addormentò anche Alberto. Si addormentarono abbracciati, protetti dalle mura della loro torre dentro la quale viveva ancora il ricordo dei due bambini che erano stati e che ancora si tenevano per mano. Vegliati dalla fiaccola della lanterna, attesero assieme l’alba del giorno dopo, quando il sole sarebbe tornato a splendere sul loro cammino.

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Capitolo 43
*** 43 ***


43

 

 

Luca discese la pendenza del prato che foderava il versante della loro isola. Scrollò i piedi nudi per disfarsi delle squame sbocciate a contatto con la spolverata di pioggia depositata sull’erba dal temporale della notte prima, e affondò i primi passi attraverso i lisci ciottoli della spiaggia. Alzò una mano davanti alla fronte. Si riparò da una soffiata di vento e respinse un forte raggio di sole che lo accecò, adesso che non c’erano più le nuvole a schermare il suo biancore.

I gabbiani stridettero – grida ancor più forti del ritmico scrosciare delle onde –, volarono in cerchio e planarono sulla spiaggia per andare a beccare le alghe trascinate fra gli scogli dalla tempesta ormai passata. Due di loro, i più feroci e affamati, si gracchiarono in faccia, si litigarono i resti di un piccolo granchietto, sbatacchiarono le ali perdendo qualche piuma, e spiccarono di nuovo il volo per unirsi ai compagni che invece erano andati ad appollaiarsi fra le cime degli scogli scoperti dalla bassa marea.

Luca volse lo sguardo ancor più in alto, verso la sommità del cielo che era tornato limpido e luminoso, terso come una spennellata di smalto azzurro. Il sole del mattino era ancora basso, racchiuso fra i fianchi di due colli, ma la sua luce era già distribuita su tutta la costa bagnata da un mare calmo e cristallino, non più grigio e ruggente, minaccioso come una bocca aguzza e affamata. Non vi era alcuna memoria della tempesta che si era scatenata il giorno prima, se non il forte odore di erba bagnata, quello delle alghe seccate al sole, e una brezza pungente che, al ritmo delle onde, scuoteva la vegetazione verdissima che cresceva a macchie sulle isolette vicine e sui promontori della costa.

Che mattinata…

Scosso dai brividi e rimpiangendo il calduccio delle coperte, Luca sfregò le mani prima sui jeans asciutti e poi sotto le maniche della camicetta di Alberto che gli cadeva larga attorno alle spalle, come al solito. In compenso il tessuto aveva riguadagnato il suo profumo originale. Forse non era mai sbiadito veramente, e Luca aveva solamente perso la capacità di raggiungerlo.

Ma ora va tutto bene, pensò Luca, ricordandosi dell’abbraccio che lo aveva circondato prima di addormentarsi e dentro il quale si era risvegliato quella stessa mattina.

Un fruscio di passi superò il prato d’erba e calpestò i ciottoli dietro di lui. La voce di Alberto lo estraniò dai ricordi della notte passata. «Ma guarda un po’ che splendida giornata che è saltata fuori.» Anche Alberto si affacciò al mare. Stiracchiò le braccia sopra la testa, sgranchì le dita dei piedi, sciolse i muscoli delle gambe, e si girò a sorridere a Luca, di umore raggiante, come se non avesse conservato alcuna memoria delle disgrazie capitate il giorno prima. O di tutto il resto. «A quanto pare è vero che ogni tanto quello che ci vuole è proprio una bella tempesta per spazzare via qualche nuvola dal cielo.»

Luca provò un improvviso brivido di timidezza, un pizzicore di disagio che lo spinse ad abbassare gli occhi e a ritirarsi davanti al distacco di Alberto, a quei suoi sguardi che non sembravano nemmeno considerare tutto quello che era capitato fra loro due. E se fosse proprio così? si domandò. E se me lo fossi sognato? E se tutto quello che è successo ieri notte fosse solo un mio delirio? «G-già.» Luca stropicciò l’orlo della camicetta, sfregò i piedi fra i sassi levigati, concentrò lo sguardo su un ramo spezzato che oscillava sulla schiuma delle onde, intrappolato fra gli scogli più vicini alla spiaggia. «È proprio vero.»

Il sorriso di Alberto si affievolì, un’ombra di apprensione si depositò in fondo ai suoi occhi. «Sicuro di riuscire a nuotare da qui fino a Portorosso?» gli domandò. «Hai ancora tanti dolori?»

«No, no.» Luca scosse la testa e abbozzò un tremolante sorriso di rassicurazione. «Sto meglio, davvero.»

«Sicuro?» insistette Alberto. «Se vuoi ti porto sulla schiena.»

«Sto bene, Alberto, sul serio.» Una nuotata sulla sua schiena gli sarebbe bastata per il resto della sua vita. «Solo che…» Solo che erano altri pensieri a preoccuparlo.

Luca si girò a guardare la torre, la sua cima diroccata attraverso la quale i raggi del primo mattino si frammentavano. Gli venne da chiedersi se non fosse stato più sicuro per lui rimanere lì sull’isola, dato che tornando a Portorosso avrebbe dovuto affrontare tutte le conseguenze della sua fuga, del suo gesto così sconsiderato, fra cui anche l’ira funesta di… «Urgh…» Si coprì la faccia, scosso da un violento spasmo di paura che anticipò quel dolore. «La mamma mi ucciderà.»

Alberto scoppiò a ridere, visibilmente sollevato. «Oh, sì» gli disse. «Vedrai che ti ucciderà a suon di baci e abbracci, tanto sarà contenta di rivederti.»

«Poveretta.» Luca scosse il capo, amareggiato e afflitto dai sensi di colpa. «Chissà quanto l’ho fatta preoccupare. Lei e anche il papà…»

«Si saranno ingoiati la loro buona dose di ansia, questo è certo.» Alberto alzò il mento a indicare la costa lontana colorata dalle minuscole casette di Portorosso. «Ma Massimo avrà saputo tranquillizzarli, vedrai. Ieri sera ha pur sempre ricevuto il mio segnale dall’isola. Avrà sicuramente fatto sapere a tutti che ti ho tirato in salvo e che sei stato con me tutta la notte.»

Luca arricciò una smorfia che gli bruciò le guance e le orecchie. E chissà perché credo che questa notizia li abbia impensieriti ancora di più. Io e Alberto da soli, assieme per tutta la notte… non siamo più bambini, dopotutto.

La nebbia del sonno si diradò, i ricordi vennero a galla proprio come gli scogli scoperti dalla marea.

La fiaccola della lanterna che aveva tinto di rosso le pareti della torre, la pioggia che non aveva mai cessato di scrosciare fuori dalla finestra aperta, il gocciolare delle lacrime amare e salate come il mare in cui Luca era quasi annegato. I baci attraverso cui il suo respiro si era mescolato a quello di Alberto, la sensazione calda e umida della bocca sciolta sulle sue labbra, le carezze e gli sguardi scambiati nel buio, i loro cuori uniti in un unico battito, e le mani giunte sotto la coperta. La pelle di Alberto era tiepida e callosa, emanava un profumo dolce e acidulo che Luca si sentiva ancora addosso, confortevole come il tepore di casa e inebriante come le bollicine che scoppiettano sulla superficie di un vino frizzante.

Anche alla luce del giorno, Luca si rifiutava di credere che si fosse trattato solo di un sogno, o di un delirio dovuto al fatto di essersi preso troppe onde in faccia.

Ma allora perché Alberto sta evitando di parlarne?

Alberto andò a bagnarsi i piedi fra le onde che si accavallavano sulla riva della spiaggia. La spuma di mare gli s’infranse fra le caviglie, morbida come una carezza di velluto. «Chissà che ore saranno, poi?» Sollevò un piede pinnato, lo scosse, riportandolo alla forma umana, e tornò indietro, all’asciutto. «Mi sono dimenticato che quassù sulla torre non ho nemmeno un orologio. Non uno funzionante, per lo meno. Ma secondo me se ci sbrighiamo riusciamo ancora a farci offrire la colazione al bar. Ieri non abbiamo nemmeno cenato, ti rendi conto? Ho talmente tanta fame che mi divorerei una balena intera. Ti fermi a pranzo in paese prima di ripartire per Genova, vero?» Puntò lo sguardo verso il mare aperto e fece per tuffarsi per primo. «Anche perché non ci sono treni in partenza prima di…»

«Alberto, aspetta.» Luca infilò la mano nella sua e lo bloccò arricciando le punte delle dita. Aspettò che Alberto si girasse e guardò in basso, schivando i suoi occhi, improvvisamente imbarazzato. «Prima di tornare a Portorosso» farfugliò, «prima che tutto torni com’era, c’è una cosa che…» Si morse l’interno del labbro, raccolse un profondo respiro incoraggiante. «Che vorrei chiederti.»

«Uh?» Alberto arretrò. I piedi all’asciutto e lo sguardo non più rivolto all’orizzonte, ma a Luca. «E quale?»

«Ecco, noi…» Luca tenne lo sguardo inchiodato sui suoi piedi, di nuovo sopraffatto dai ricordi della sera prima, dalla stessa vampata di emozione che gli aveva appannato la testa e fatto ribollire il sangue durante i loro baci. «Noi cosa siamo, adesso?»

Alberto sollevò le sopracciglia. Corrugò un’espressione assorta e pensierosa, la stessa che gli avrebbe imbronciato la fronte davanti a un compito in classe di Matematica, se ne avesse mai svolto uno. «Uhm.» Si picchiettò l’indice sul labbro e si rimirò nella sua interezza, prima le gambe, poi la schiena, e anche la cima della testa. «L’ultima volta che ho controllato eravamo entrambi due pesci.»

«No» rispose Luca. «Intendo…» Strinse le punte delle dita fra le sue. «Cosa dobbiamo dire a tutti, quando torneremo? Dovremo per forza far sapere quello che è successo ieri qui sull’isola o possiamo anche far finta di nulla?» Trattenne il fiato. «Cioè, se tu non vuoi che si sappia posso anche capirlo, e…»

«Che non si sappia cosa?» gli fece Alberto. «Che hai pianto come un disperato? Ooh, ma tranquillo, tranquillo.» Sfilò la mano da quella di Luca, se la posò sul cuore e usò quella libera per tracciarsi una croce sulle labbra. «Ho la bocca cucita.»

Luca s’infiammò fino alle punte dei capelli e cacciò uno strillo indignato. «Alberto!» Perché si deve sempre divertire a complicare le cose?

Alberto ridacchiò di gusto. Una risata da furbastro. Era ovvio si stesse solo divertendo a prenderlo un po’ in giro. «Tu cosa credi sia successo, ieri?» Il suo sguardo, seppur sereno e luminoso, si fece più serio. «Cosa credi che siamo diventati, io e te?»

«N…» Luca arretrò di un paio di passi. «Non…» Strinse le braccia al petto. «Non lo so.» Si grattò fin sotto le maniche della camicetta. «Per questo te l’ho chiesto. Di solito sei sempre tu quello che ha la risposta pronta per tutto.»

Di nuovo i pensieri di Luca tornarono ad affacciarsi alla notte appena passata, a tutto quel turbine di emozioni sconosciute e inaspettate che ancora faticava a metabolizzare.

Poteva sul serio sperare che qualcosa del genere tornasse a ripetersi?

«Di solito…» Luca si stropicciò gli orli della camicia, sfregò un piede sulla caviglia, si grattò dietro l’orecchio. «Di solito sono gli innamorati a baciarsi. Gli, uh, amanti? Cioè, fidanzati?» Oh, cavoli, è tutto così confuso e imbarazzante. «E lo fanno più volte, sì, insomma…» Si strinse nelle spalle, incapace di credere all’audacia di quelle parole che gli stavano scivolando fra le labbra. «Non solo una volta ogni tanto, e…»

«Più volte?» Alberto si premette una mano sulla pancia e scoppiò in una risata fragorosa. «Sei proprio un ingordo. Lo dicevo io che sei un ragazzo pieno di esigenze.»

«Veramente…»

«E così…» Alberto gli si accostò di un passo, ammiccò con le sopracciglia. «Vorresti un altro bacio?»

«Sì.» Luca trasalì, fulminato dalla sua stessa risposta. «Cioè, no!» Si tappò la bocca e avvampò. Lo stomaco in subbuglio e il petto gonfio e palpitante come un tamburo. «Uhm, ecco, io…» Socchiuse una palpebra. «Sì?» Nonostante la faccia gli stesse andando a fuoco, riuscì ad assemblare un’espressione per lo meno dignitosa. «Ma solo se lo vuoi anche tu…» Tossicchiò e riguadagnò un certo contegno. «Per favore?»

Un’onda più alta delle altre si infranse sulla spiaggia, distribuì un velo di spuma bianca fra i ciottoli levigati, si ritirò in mare attraverso un lento fruscio a cui seguì un silenzio interrotto solo dal continuo stridere dei gabbiani e dall’occasionale passaggio del vento fra i rami dell’albero che troneggiava sul paesaggio dell’isola.

Luca deglutì – gli si era seccata la bocca dopo l’ultima parlantina. Strinse i pugni ai fianchi e irrigidì la schiena, sforzandosi di non abbassare lo sguardo e di non distogliere gli occhi da quelli di Alberto. Si concentrò come faceva fra i banchi di scuola – sulla sua fronte s’infossò l’ombra di un minuscolo cipiglio – e provò a decifrare le intenzioni di Alberto tramite la sua espressione immobile, leggendo attraverso quella strana luce che si rifletteva sul suo viso imbrunito dal sole di primo mattino.

Alberto inspirò. Sollevò un piede e compì un primo lento passo che accorciò la distanza fra lui e Luca.

Trafitto da una violenta scossa al cuore, Luca sbiancò e compì un saltello all’indietro, caricandosi di panico e fremendo di aspettativa. Il cuore accelerò, batté all’impazzata, e la voce dei suoi pensieri scatenò una bufera che mise a tacere qualsiasi altro suono attorno a lui.

Sta… sta venendo a baciarmi?

Un altro passo di Alberto, un altro spostamento dei ciottoli, e il cuore di Luca rimbalzò in gola come un boccone andato di traverso. Le orecchie bruciarono, lo stomaco si aggrovigliò in un nodo ribollente, le ginocchia dondolarono, e i pugni tremanti si bagnarono di sudore.

Stiamo per baciarci di nuovo, sta per succedere! Aspetta, ma cos’è che devo fare? Come ieri. Sì, faccio come ho fatto ieri. Ma cos’è che ho fatto ieri? Ieri è stato Alberto a prendere l’iniziativa, ma la terza volta sono stato io. E se non mi riuscisse più di fare la cosa che ho fatto ieri? Che faccio? Devo muovere la bocca o lascio che faccia tutto lui? Ma quanto devo muoverla? E non è che a un certo punto diventa osceno? E se poi mi manca il respiro? Ma si riesce a respirare mentre ci si bacia? Non me lo ricordo. E se mi manca il fiato? E se mi prude il naso? E se mi viene da starnutire? Non posso starnutirgli in faccia. Oh, no, e le mani? Devo anche pensare a dove mettere le mani! Sui suoi fianchi? No, sulle spalle. Ma ci arrivo alle sue spalle? Devo chiudere gli occhi o devo tenerli aperti? Che faccio, che faccio, non so che fare. Perché non hanno ancora inventato un manuale su come ci si bacia? Oddio, sta arrivando!

Luca strizzò gli occhi, si impennò sulle punte dei piedi, trattenne il fiato, e si allungò verso Alberto offrendogli le labbra stropicciate.

A raggiungerlo non fu un suo bacio, ma le punte delle sue dita che gli si posarono sulla bocca. «Lo avrai.»

«Co…» Luca riaprì gli occhi. Il viso di Alberto si materializzò attraverso la vista appannata e lampeggiante. «Cosa?»

Alberto gli sfilò le dita dalle labbra. «Avrai il tuo bacio, Luca. Ma non adesso.» Alzò l’indice al cielo. «E solo a una condizione.»

«Co-condizione?» Luca, ancora stordito e succube delle palpitazioni accelerate che gli strozzavano la voce, scese dalle punte dei piedi e si strofinò la bocca formicolante. «Quale condizione?»

«Torna a Genova» gli disse Alberto, talmente solenne da essere quasi irriconoscibile. «Torna a Genova, finisci la scuola, dai i tuoi esami e prendi la Maturità. Dopo fai quello che vuoi e che ti senti di fare. Resta a Genova, vieni qua a Portorosso, torna ad abitare con i tuoi genitori o con il tuo traslucido zio, vai a Trieste a studiare le stelle, o trasferisciti direttamente sulla Luna, tutto quello che preferisci.» La luce nei suoi occhi era ferma e intensa, sincera e affidabile, priva di insicurezze. «Ma promettimi che quest’estate darai i tuoi esami.»

Luca sbatté di nuovo le palpebre e si ritrovò circondato da un nuovo vortice di dubbi. Gli venne da chiedersi come mai per Alberto fosse così importante saperlo di nuovo a scuola e impegnato negli esami. Che stesse cercando di tenerlo distante da lui? «Perché?» gli domandò, animato dalla speranza di sentirsi contraddire. «Perché è così importante, Alberto?»

«Perché sei vicino tanto così…» Alberto avvicinò indice e pollice come a reggere un sassolino fra le punte delle dita. «Per raggiungere quel traguardo. Hai lavorato duramente per tutti questi anni solo per arrivare a questo.» Scosse la testa. «E io non ti permetterò di buttare tutto alle ortiche solo per una temporanea crisi esistenziale.»

Luca ci meditò su. Fu più facile alla luce del giorno. Tornare a Genova. E, per la prima volta dopo tanto tempo, non gli apparve più come un’ipotesi troppo spaventosa e insormontabile. Tornare a scuola. Dare gli esami. Prendere la Maturità. E dopo… «Vuoi davvero che io torni a Genova e che finisca la scuola anche se…» Bastò poco per scoraggiarlo, per rendersi conto che tornare a Genova avrebbe significato separarsi di nuovo da Alberto. «Anche se quello che deciderò di fare dopo il diploma ci terrà separati per il resto delle nostre vite?» Il solo pensiero era più doloroso di una pugnalata al cuore, più spaventosa del pensiero di riaffrontare la tempesta. «Sul serio vorresti che io finissi la scuola anche in questo caso?»

Alberto abbassò le palpebre allungando un gramo sospiro. Chinò il capo, si grattò il collo, si girò di fianco per nascondere il conflitto che si era dipinto sul suo volto. «È ovvio che non vorrei mai più separarmi da te» confessò. «Ma io ti conosco, e so quanto la scuola è importante per te, e non voglio che tu ci rinunci solo perché io ti vorrei tutto per me. È chiaro che soffro da morire quando io e te siamo lontani.» Un sorriso purissimo gli incurvò le labbra, ridonò luce ai suoi splendidi occhi verdi. «Ma ho fiducia in te, Luca.» Andò a scompigliargli i capelli con una carezza. «E so che un cervellone come te prima o poi riuscirà a trovare un modo per far combaciare le nostre vite, anche se continueranno a essere tanto diverse. E anche se così non fosse…» Scosse la testa. «Ti voglio troppo bene per permetterti di rinunciare ai tuoi sogni per colpa mia.»

«Oh» singhiozzò Luca, colto alla sprovvista. «M-mi…» Arrossì, attraversato da quell’inaspettata confessione di affetto. «Mi vuoi bene?»

Alberto volse gli occhi al cielo. «Chi lo sa.» Si voltò di spalle, si ficcò le mani nelle tasche dei jeans, rigirò il piede nudo fra i ciottoli, calciò un sassolino e si circondò di un’aria da finto tonto. «Magari anche di più.»

Luca provò un singhiozzò al cuore che lo fece sprofondare in una bianca e morbida nuvoletta di pura felicità che aveva lo stesso profumo dello zucchero filato. Mi ha sul serio detto quello che penso?

«Ma qualunque cosa deciderai» gli disse Alberto. «Qualsiasi strada sceglierai di percorrere, Luca, voglio comunque che tu sappia che io per te ci sarò sempre, e che correrò da te fino in capo al mondo, se avrai bisogno del mio aiuto.» Alzò gli occhi verso la torre. Una bava di vento gli attraversò i riccioli. I riflessi del cielo primaverile tinsero i suoi occhi di malinconia. «E che io sarò sempre qui ad aspettarti se vorrai tornare indietro.»

Luca si sentì soffocare dalla pressione di quel discorso diventato fin troppo serio. La trovò una responsabilità troppo pesante da addossare a quelle che rimanevano pur sempre le spalle di un ragazzo così giovane. «Non sei costretto a promettermi qualcosa del genere, Alberto.» E lo pensava sul serio. «Non ti chiederei mai di addossarti una simile responsabilità.»

«Infatti, non serve che tu me lo chieda» rispose Alberto. «L’ho deciso io da solo, come ti ho detto ieri.»

«Ma ieri eravamo sconvolti tutti e due, così…» Luca si strofinò la testa. «Non lo so.» Alzò le spalle. «Così presi dal momento. E ci siamo promessi così tante cose che…»

«Tutte cose che io non intendo rimangiarmi.»

«Le nostre vite saranno ancora molto lunghe, Alberto.» Spero. «E noi siamo ancora poco più che ragazzini. Anche se le nostre intenzioni sono sincere, non possiamo legare le nostre vite a delle promesse strette durante una brutta notte di paura.»

«Ma qui non si tratta solo della promessa che io ho fatto a te.» Alberto si posò la mano sul cuore e alzò il mento. L’aria attorno a lui s’illuminò, donandogli un aspetto nobile e valoroso. «Si tratta anche della promessa che ho fatto alla nonna. Quindi ne va del mio onore.»

«Alla nonna?» E il pensiero della nonna fu un’inaspettata ondata di dolcezza e di calore che rinvigorì il cuoricino martoriato di Luca. Riportare a galla il suo ricordo fu bello come era bello farsi abbracciare da lei quando era piccolo, o come era bello regalarle le ghirlande di alghe e gustare gli involtini di gamberi che preparavano assieme.

«Ma sì, ovvio» annuì Alberto. «Non ricordi? Anni fa ho promesso alla nonna che ti sarei sempre stato affianco e che sarei sempre corso da te quando si sarebbe trattato di tirarti fuori dai guai, e intendo mantenere quel giuramento fino alla fine dei miei giorni.»

Luca sentì sbocciare un caldo sentimento di gratitudine rendendosi conto di come anche Alberto non avesse mai smesso di essere legato al ricordo della nonna. Gli ricordò il fatto che Alberto era soprattutto parte della sua famiglia. «Allora mi sa proprio che non ho scelta» sospirò. «Dovrò per forza rimboccarmi le maniche e studiare sodo per i mesi che mi restano.» E devo ancora cominciare a scrivere la tesina. Sarà dura. Ce la farò sul serio entro giugno?

«Su, su, non farla così tragica.» Alberto andò a battergli una pacca sulla schiena. «Pensa piuttosto alla ricompensa che ti aspetta. Se verrai promosso e se prenderai il diploma, allora ti sarai guadagnato un altro bacio, promesso.»

Incoraggiato da quella prospettiva, Luca sentì che il traguardo della Maturità si era reso più fattibile. La sua forma più definita e la sua luce più vicina, tanto che gli sembrava di poterla raggiungere solo allungando il braccio.

Sorrise anche lui, ammiccò in direzione di Alberto. «E dopo di quello?»

«Magari un altro ancora.» Alberto ricambiò l’occhiolino. «Questa volta per festeggiare la tua ammissione all’università.»

«Ecco, ma magari la prossima volta avvertimi prima di…» Una nuova vampata di rossore si cosparse sulle guance di Luca. «Sì, ecco, lo sai, no?» Prima di sbattermi le labbra sulla bocca senza preavviso.

«Uuh?» Sul volto di Alberto ricomparve quel lucente e aguzzo ghigno da marpione. «Prima di cosa?» Gli pizzicò la guancia. «Di slinguazzarti?»

Luca, indignato e ribollente di vergogna, si tappò le orecchie e strizzò gli occhi. «Alberto!»

Alberto quasi si soffocò per il gran ridere. «Su, su.» Tornò a battergli una serie di pacche fra le scapole. «Vedrai che ce la farai. O i miei baci non sono una motivazione abbastanza incoraggiante?»

Luca volle sul serio sperare che potessero esserlo. «Io non sono come te, Alberto.» Non era un pensiero facile. «Lo sai che basta poco per demoralizzarmi.»

«E secondo te anche io non ho i miei dubbi o le mie paure quando devo affrontare qualcosa di nuovo e di sconosciuto?»

«Non lo dai molto a vedere.»

«Ma comunque non significa che non ci siano.»

«Io non so se ce la farò mai da solo, Alberto. Senza qualcuno che…» Abbassando gli occhi ai suoi piedi, a Luca venne in mente come lui avesse compiuto il suo primo passo sulla terraferma su quella stessa spiaggia, sospinto proprio dalla mano di Alberto. «Senza qualcuno che mi dia la spinta quando mi sento bloccato o che mi tenga la mano quando mi sento cadere.»

«Ma non dovrai mica essere da solo» gli rispose lui. «Avevi gli stessi dubbi e le stesse paure anche la prima volta che sei partito per Genova, e invece guarda: te la sei cavata alla grande. Che credi, che essere forti e coraggiosi significhi fare sempre tutto da soli? Solo Massimo è abbastanza forte e in gamba da fare tutto da solo. Ma secondo me essere forti significa soprattutto essere in grado di fidarci delle persone che ci vogliono bene e che ci guidano per la strada giusta, anche se non sempre sembra la più facile.»

Luca sgranò le palpebre, colpito da un’illuminazione improvvisa.

La strada giusta che non sempre è la più facile?

E quel pensiero gli ricordò un discorso che lui e Alberto avevano intrecciato anni prima, sempre in cima alla loro torre, dove avvenivano i miracoli.

Lucignolo e Pinocchio, il Gatto e la Volpe… ma i veri amici sono l’opposto del Gatto e la Volpe. Il Gatto e la Volpe ti promettono la via più facile per raggiungere la pacchia, ma ti ingannano. I veri amici ti guidano verso la strada giusta, anche se a volte sembra quella più complicata e irta di ostacoli. Ed è per questo che non ti lasciano soli e che sono lì a tenderti la mano nel caso dovessi inciampare durante il tragitto. È questo che sta facendo Alberto, allora.

Ed era per questo che Luca non avrebbe dovuto avere paura di tornare a Genova e di riprendere a camminare per la sua strada. Ora sapeva che ci sarebbe sempre stata una mano pronta a tendersi per aiutarlo a rialzarsi qualora fosse caduto.

«Sei cresciuto, lo sai, Alberto? E intendo…» Percorse il suo profilo, da capo a piedi. Non poté fare a meno di soffermarsi sull’ampiezza delle spalle e sulla solidità della sua schiena. «Al di là dell’altezza.»

Alberto sorrise. Si grattò il braccio tatuato con fare imbarazzato. «Sì, non sei il primo che me lo dice. Dovrò cominciare a crederci pure io, a questo punto.»

Luca rise, visibilmente sollevato e raggiunto da un altro pensiero sempre sbocciato dal ricordo della notte prima. Ripensò a quanto si fosse sentito protetto fra le braccia di Alberto, addormentandosi contro il suo petto e risvegliandosi con il suo respiro fra i capelli. Il luogo più sicuro al mondo. Da piccolo non aveva mai provato una sensazione simile, pur standogli affianco. Della loro giovinezza trascorsa assieme, Luca ricordava il brivido delle esperienze proibite, l’eccitazione di partire per un’avventura, la gioia di esplorare ogni giorno una nuova follia. Adesso invece si beava di quel senso di pace e di appagamento di cui aveva bisogno per alleviare i dolori del suo cuore tormentato. Di una cosa era ormai certo: Alberto sapeva sempre come farlo sentire bene.

Alberto lo precedette. «Coraggio, secchione.» Immerse i piedi in acqua. Un’onda salì e mutò la sua pelle fin sotto le ginocchia. «Prima torniamo a casa e prima potrai metterti al lavoro per guadagnarti i tuoi baci.»

Luca, guadagnata una spinta di audacia, gli trotterellò affianco. «E se invece fossi tu quello che dovrà guadagnarsi i miei baci, da ora in poi?»

«Oh-ooh.» Alberto gli scoccò uno sguardo da sopra la spalla – gli occhi scintillanti e il ghigno sempre lì ad affilargli le labbra. «E da dov’è che arriva tutta questa audacia, Signor Paguro?»

«Ma è facile.» Luca gli passò davanti, sorrise, e pronunciò una delle sue frasi preferite. «Me l’hai insegnata tu.»

Splash!

Sprofondò in mare, raccolse un lungo respiro senza più sentirsi soffocare, riempiendosi il petto di vita, e accolse senza paura la sua trasformazione. Rise di gioia quando l’arrampicarsi delle squame sotto i vestiti gli solleticò le braccia e la schiena, e piroettò su se stesso una volta ricresciuta la coda. Luca era a casa, era di nuovo parte del mare, come era anche parte della terraferma. Non sarebbe stato mai più costretto a scegliere, non avrebbe mai più dovuto decidere fra due vite che già in principio non erano mai state distinte l’una dall’altra.

Perché non non esiste nessun Luca Pesce e nessun Luca Umano…

Luca spalancò le braccia, sventolò la coda, compì una giravolta all’indietro, e rise di pancia circondato dall’argento delle bolle, dal verde delle alghe, e dall’azzurro del mare.

Esiste Luca e basta.

«Vieni, testolina!» Alberto gli sguazzò davanti – un lampo violetto che si divertiva a fare le capriole nelle profondità di un mare che ormai non faceva più paura –, e lo chiamò con una sbracciata. «Vediamo chi arriva prima!» Emerse dalla superficie, scavalcò un’onda, tornò a tuffarsi in mare gonfiando una bianca nebulosa di bolle, e nuotò senza sforzo, guidando Luca come nel momento in cui era giunto a salvarlo.

Nuotando nella sua scia, Luca rifletté sul fatto che era stata sicuramente la nonna, su dal Cielo, ad aver mandato Alberto da lui la notte prima, facendoli ricongiungere nella tempesta. Era stata la nonna ad averli guidati in salvo verso l’isola, ed era stata lei a vegliare su entrambi per tutta la notte e a tenere acceso il fuoco della lanterna con cui si erano scaldati.

Aspetta, se la nonna ci ha sorvegliati per tutta la notte…

Luca si tappò la bocca, morendo improvvisamente di imbarazzo.

Avrà visto anche tutto il resto?

Ma quella preoccupazione svanì così com’era arrivata. La nonna sarebbe stata la prima ad approvare e a incoraggiare quello che era successo fra lui e Alberto, di questo Luca era più che certo.

A loro si accostò un ronzio, il ruggito di un motore che fece disperdere un banco di sardine che nuotava poco distante, e sopra i due ragazzi sfrecciò l’ombra scura di una barchetta da pesca.

Luca e Alberto saltarono fuori dall’acqua, socchiusero le palpebre per non rimanere abbagliati dalla luce improvvisa, respirarono l’odore di nafta bruciata – Luca starnutì –, e si girarono entrambi verso la barca di Tommaso e di Giacomo che aveva appena incrociato la loro traiettoria.

Tommaso si girò, distese una mano davanti alla fronte, spalancò gli occhi, si sporse dalla poppa, e li chiamò sventolando il berretto. «Eccovi!» Fece segno a Giacomo di invertire la rotta.

La barchetta borbottò, rallentò, compì una curva disegnando una scia bianca fra le onde, e Luca e Alberto le si accostarono.

Tommaso salì con un piede sulla balaustra ed esibì un gran sorriso splendente di sollievo. «Alberto!» lo chiamò. «L’hai trovato, allora.»

Pure Giacomo sorrise dalla postazione del timone. «Ben fatto, ragazzo.»

«Che sollievo vederti sano e salvo, Luca.» Tommaso si rinfilò il berretto, e il suo sguardo roseo si posò su Luca. «Non sai quanto eravamo preoccupati. Siamo stati in pensiero per tutta la notte.»

Prima che Luca potesse balbettare una qualche giustificazione, Alberto gli circondò le spalle con un braccio, gli batté la zampa sul petto, e cantilenò un tono sciolto e rilassato, come se non fosse capitato nulla di grave. «Era andato a godersi una rinfrescante vacanza nell’abisso profondo. Ogni tanto ci vuole.»

Tommaso arruffò i baffi in un sorriso eloquente, come se avesse saputo, come se non fossero necessarie altre spiegazioni. «Sbrigatevi a tornare in paese, ché vi stanno tutti aspettando. Noi vi raggiungiamo subito.»

Alberto batté un saluto militare. «Agli ordini.» Raccolse la mano di Luca, si rimise a nuotare e lo condusse verso il profilo della costa, dove l’acqua si faceva più limpida, tiepida, e mossa dalla corrente che soffiava e sibilava fra le insenature del litorale. «Sentito?» gli fece. «Ci aspettano tutti.»

Luca sospirò, già preparandosi al peggio. «Chissà perché non mi incoraggia per niente.»

Alberto sorrise, scosse il capo, e accelerò il nuoto.

Superate le boe che delimitavano il porto, Luca e Alberto spinsero la testa fuori dall’acqua, valicarono i piloni foderati di alghe e conchiglie, raggiunsero lo stridere dei gabbiani che svolazzavano attorno alle barche che, dondolando, componevano una sinfonia di scampanellii. Si avvicinarono ai profumi del paese, alle facciate delle case color pastello, alle terrazze fiorite, al verdeggiare del colle bagnato dalla pioggia del giorno prima, allo scampanare della chiesetta, e al brusio delle voci che popolavano il porto.

Luca tese lo sguardo, superò Alberto, e le sue orecchie a cresta fremettero riconoscendo una serie di voci familiari – voci che gli straziarono il cuore, ora che aveva rischiato di perderle per sempre.

Mamma?

Al porto era radunato mezzo paese. Il primo che Luca notò in mezzo alla folla fu Massimo, per via della stazza che spiccava sopra le teste degli altri. Lorenzo gli era affianco, tremante di ansia, intento a strofinare una serie di carezze sulle spalle ricurve di Daniela, a mormorare qualcosa sotto i baffi, e a spostare di continuo gli occhi da sua moglie al mare, andando alla ricerca di uno schiudersi delle onde, di un musetto familiare sorto dalla scia di luce mattutina. Daniela sedeva su uno dei piloni d’attracco. La fronte raccolta fra i palmi, i capelli riversi sulle guance rosse di pianto, tremiti incomprensibili balbettati fra le labbra, e lo sguardo rassicurato da qualcuno che si teneva accovacciato davanti a lei, parlandole, annuendole, e carezzandole le mani. Qualcuno che Luca conosceva. Capelli color fiamma, orecchini di perle pinzati ai lobi, gli stessi dolci e compassionevoli occhi di Giulia, e un’espressione da mamma preoccupata a ombreggiarle il viso segnato da una terribile notte insonne. Sara!

Anche altra gente si spostava, giungeva dalle vie del paese, scambiava qualche parola con quelli già radunati al porto e si univa alla veglia. C’era persino il Signor Moretti del bar in piazza, e l’oste del Gabbiano d’Argento, e le due anziane, e un paio di bambini che, arrampicati sugli alberi delle barche ormeggiate, facevano da vedetta.

Alberto si entusiasmò davanti a tutta quell’attesa che brulicava su Portorosso come una bassa nebbiolina di elettricità. Tornò a stringere la mano di Luca, accelerò il nuoto, compì due piccoli tuffi sollevando uno splash! della coda, e accostò la zampa libera alla bocca. «Ehiii, genteee!» Aspettò che tutti si girassero, che sgranassero gli occhi – quelli di Daniela e di Lorenzo furono i primi a puntare il mare –, e sventolò la mano giunta a quella di Luca. «Guardate cos’è finito nella mia rete!» esclamò. «Tirate fuori le griglie: questa sera abbiamo un pesce d’eccezione da fare allo spiedo!»

Daniela si alzò con uno slancio, gli occhi rossi, il viso gonfio di pianto, qualche squama a sbavarle le occhiaie scavate da una terribile notte insonne, e superò le persone che la circondavano ricevendo qualche sorriso e qualche pacca di rassicurazione sulla schiena. I suoi piedi nudi volarono verso il confine della banchina e il suo riflesso si specchiò nell’acqua del porto.

Splash!

Subito dopo di lei si tuffò anche Lorenzo, ed entrambi dragarono le acque basse, trasformati solo fino alla vita, lì dove ancora si toccava e dove le barche più piccole galleggiavano come ciocchi secchi.

«Luca…»

«Luca!»

Luca provò un sussulto di commozione in fondo al cuore nell’udire le loro voci e nell’incrociare i loro sguardi stravolti dal dolore di averlo perso e dal sollievo di averlo ritrovato. In un battito di ciglia, la paura di essere sgridato venne sostituita da un amaro senso di colpa e di compassione nei confronti dei suoi genitori. Forse, anche quella era una prova che stesse finalmente diventando adulto.

«Mamma!» Luca si separò dalla zampa di Alberto, si diede uno slancio di coda, e tese le braccia verso i suoi genitori, trattenendo a stento le lacrime. «Mamma, papà! Sono…»

L’abbraccio dei suoi genitori lo inghiottì in un caldo e sicuro bozzolo di amore e protezione. Luca sprofondò con il viso nel petto di Daniela. I suoi capelli morbidi gli solleticarono le guance, le forti braccia lo strinsero fino a togliergli il fiato. «Luca…» Tutto il dolore di Daniela era palpabile tramite i suoi singhiozzi, i rimbalzi della sua voce, i tremori delle sue carezze. «Luca, Luca…»

Di nuovo Luca sentì il cuore stringersi e singhiozzare di colpevolezza. Le palpebre pizzicarono, la vista si appannò, un artiglio di pentimento gli strozzò la voce. «Scusa.» Anche lui la abbracciò forte, affondò le dita palmate nella stoffa dei suoi abiti, e si sentì tornare piccolo, come il giorno in cui aveva riabbracciato i suoi genitori dopo la sua prima fuga. «Scusa, mamma» singhiozzò. «Non lo farò più.»

Daniela scosse il capo. Gli baciò le guance, la fronte, la punta del naso, e lo tornò a stringere.

Lorenzo posò il capo su quello di Luca, non smettendo mai di strofinargli la schiena. «Va tutto bene.» Lo disse a entrambi. «Sei a casa, Luca, siamo di nuovo assieme. Va tutto bene.»

Luca rise di gioia e di sollievo, non potendo fare altro che dargli ragione.

Poco distante da loro, un lieve accavallarsi delle onde accompagnò lo spostamento di Alberto, il suo nuoto che scivolò all’indietro come per non intralciarli.

Daniela fu più rapida. Allungò una mano, lo acchiappò al volo, e inghiottì pure lui in quell’abbraccio di amore senza confini. «Grazie.» Baciò pure lui, «Grazie», e finì di piangere sulla sua spalla. «Grazie, Alberto.»

Alberto le sorrise. Accettò il suo abbraccio e le strofinò una zampa sulla spalla. «Di nulla.»

«Lucaaa!»

Trafitto da quel richiamo, Luca riaprì gli occhi e si sporse quel che bastava per scorgere un’altra testa rossa dividere il gruppetto di paesani, correre davanti a Sara e a Massimo, e sventolare le braccia per aria. «Luca, Alberto!» I riccioli color fiamma scompigliati dalla corsa, gli occhi annacquati da stille di lacrime, e un’altra faccia di chi non aveva dormito per tutta la notte. «Arrivo, sono qui!»

Luca sussultò, scaldato da un profondo battito di emozione. «Giulia?»

Splash!

Pure Giulia si tuffò nella bassa riva del porto, sputacchiò l’acqua che aveva ingoiato, divise i capelli che le si erano incollati alla faccia, scalciò e sbracciò per raggiungerlo, sollevando una fitta nuvoletta di schizzi bianchi. «Oh, Luca, sei qui! Stai…» Arrancò, sdrucciolò sul pavimento di alghe, riprese equilibrio, e annaspò. «Stai bene!» Gettò le braccia attorno alle spalle di Luca e lo strinse forte a sé, forse con ancor più avidità di Daniela. «Grazie al Cielo.» Lo cullò avanti e indietro. «Grazie al Cielo. Non sai che paura.»

Gli occhi di Luca erano ancora spalancati, increduli di vederla lì. «Giulia.» La circondò con le sue braccia squamate, senza però stringere. «Sei qui? Ma non eri a Genova?»

Giulia sollevò il capo e afferrò Luca per le spalle. Il viso rosso di pianto e gli occhi lucidi e indignati. «E come potevo starmene a Genova con le mani in mano mentre tu eri disperso in mare chissà dove? Io e la mamma abbiamo preso il primo treno e siamo riuscite ad arrivare qui già ieri notte.»

«Oh…» Fu tragico il fatto che Luca non trovasse nulla di meglio da dirle. Ma forse non ce n’era bisogno.

Ricambiò il forte abbraccio di Giulia e chiuse gli occhi. Circondato e sostenuto da lei, dai suoi genitori, dall’affetto di tutta Portorosso, e da quella splendida mattina priva di nubi e oscurità, Luca si rese conto di quanto Alberto avesse avuto ragione su di lui.

Luca avrebbe sempre avuto uno scoglio sicuro su cui fare ritorno, qualora si fosse smarrito. Portorosso non era una roccia estranea, nuda e spigolosa come quelle dove si annidano le ostriche, ma era invece una spiaggia sicura, un ventre caldo e fertile dove la vita scorreva e prolificava, crescendo ogni giorno come cresceva lo stesso Luca.

Non era la maledizione dell’ostrica; era la benedizione del paguro. Era la sua vita ideale.

Era l’Ideale del Paguro.

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Capitolo 44
*** 44 ***


44

 

 

«L’Ideale del Paguro?» Giulia abbassò la prima pagina della tesi, quella da cui aveva appena letto il titolo firmato da Luca, e ridacchiò, solleticata da un brivido di curiosità e di compiacimento nei confronti dell’amico. «Hai intenzione di stupire tutta la commissione d’esame con una specie di parodia dei Malavoglia, o una cosa del genere?»

«Uhmm…» Luca staccò le dita sbavate di inchiostro dai tasti della Olivetti, e sgranchì le mani che cominciavano a fargli male, dopo tutte le ore trascorse a scribacchiare appunti a penna e a batterli successivamente a macchina. Allungò le gambe sotto la scrivania, si stiracchiò spalmandosi sullo schienale della seggiola, sfilò i piedi dalle pantofole e fece roteare le caviglie intorpidite. «Più o meno.» Ruotò il torso a destra e a sinistra, fece scricchiolare la schiena indurita come un manico di scopa, e si piegò di lato per massaggiarsi le cosce che si erano addormentate dopo essere rimasto seduto così a lungo. «Diciamo che è una mia personale reinterpretazione in antitesi con l’archetipo tradizionale di Verga. In pratica…» Sfilò la pagina dalla macchina da scrivere e la aggiunse al fascicolo che successivamente avrebbe fatto rilegare. Pescò un foglio bianco dalla risma, lo arrotolò al rullo della Olivetti, poi spostò due dei manuali di Letteratura da cui stava studiando, per evitare che il loro peso stropicciasse le pagine svolazzanti, e rimise una manciata di matite nel portapenne che si era ribaltato sul vocabolario. «Verga ci ha insegnato che ognuno in questo mondo possiede un ruolo prestabilito a cui è impossibile sfuggire.»

«La Morale del Pugno Chiuso?»

«Esatto» annuì Luca, «proprio quella. E poi c’è l’Ideale dell’Ostrica, naturalmente.» Appaiate le risme di appunti e impilati gli eserciziari di Latino, Luca intrecciò le mani sotto il mento, stando attento a non sgualcire gli altri quaderni sotto i gomiti. Fece cadere lo sguardo sulla sua copia dei Malavoglia che occupava un posto d’onore sulla scrivania: quello affianco al sacchetto di caramelle al miele da cui attingeva quando sentiva le energie venire meno dopo una sessione di studio particolarmente intensa. «Lui è il primo a paragonare gli uomini a creature del mare, no? E allora perché non reinterpretare questa sentenza vedendola sotto un’altra prospettiva? Se è vero che le ostriche se ne stanno appiccicate al loro scoglio per tutta la vita e che vengono divorate non appena provano a separarsene, perché non vedere gli uomini come qualcosa di diverso? Magari come dei paguri.»

Giulia alzò gli occhi al soffitto, si strofinò il mento e increspò le sopracciglia, meditabonda. «Ma anche i paguri vivono sugli scogli.»

«Non necessariamente» le rispose Luca. «Pensaci, il paguro è un animale più coraggioso e intraprendente di quello che appare. Cresce costantemente, si sposta di scoglio in scoglio e di spiaggia in spiaggia. È lui a scegliersi la propria conchiglia, usandola come rifugio, ed è lui a decidere di cambiarla quando comincia a calzargli troppo stretta.» Si girò verso la porticina della camera lasciata socchiusa. Anche da lì era possibile scorgere i riflessi dell’acquario allestito nel corridoio, il ronzare dei filtri, l’oscillare delle alghe, il nuoto lento di Bruno, e le sfumature color cacao del loro piccolo paguro che sonnecchiava dentro la cava di scoglio. «Il paguro non si accontenta, il paguro si evolve e si adatta. Poi non è detto che debba per forza viaggiare di continuo. Può anche darsi che trovi una spiaggia più carina e accogliente delle altre e che decida di fermarsi lì. Altrimenti, avrà sempre la sua conchiglia su cui fare affidamento, anche in alto mare. E il bello è proprio questo.» Si indicò la schiena. «Quella conchiglia che lui si porta sulle spalle è appartenuta ad altri paguri prima di lui, quindi è un po’ come se l’eredità di quella sicurezza passasse di paguro in paguro, come se quello fosse un modo per portare sempre con sé una parte della sua famiglia d’origine. È il loro modo di dirsi: rimango con te anche quando non ci sono. Ma la cosa fondamentale è che sarà sempre il paguro stesso a scegliersi la propria strada e il proprio destino. Sarà lui a decidere se andarsene o se restare. È questo che lo contraddistingue dalle ostriche. Ed è questo quello che distingue l’uomo di Verga dall’uomo moderno.»

«E forse…» Giulia posò gli appunti, tenne alto il sorriso che la calda luce del giorno faceva risplendere. «Forse è anche quello che distingue il Luca Vecchio dal Luca Nuovo.»

Luca arricciò una smorfia impensierita, perché anche lui aveva riflettuto su qualcosa di simile, appena tornato a casa dopo la fuga e appena ripresi in mano i libri che, alla luce della sua crescita, parevano raccontare storie del tutto nuove. «Sì, ci ho pensato anch’io, quando ho cominciato a chiedermi se fosse poi così corretto proiettare tutto quello che mi è successo sulla filosofia di un autore soltanto. Però…» Raccolse il romanzo dei Malavoglia, così consumato che quasi gli si sbriciolava fra le dita, come un pacco di foglie secche, e lo rigirò. «Però poi ho dedotto che non c’è nessuna differenza fra il Luca Nuovo e il Luca Vecchio, e nemmeno fra il Luca Terreno e il Luca Marino.» Attraversò con una carezza l’immagine sbiadita della barca di pescatori ribaltata dalla tempesta. «Sono entrambi parte della stessa persona, sono due entità inscindibili. Vederli come due individui separati è stato l’errore che mi ha causato tanti problemi e tanta sofferenza, perché all’inizio mi ero fatto prendere da questa idea che vivendo in superficie sarei dovuto diventare un Luca diverso.» Posò il libro. «Ma non è così.» Raccolse la tesi stampata – solo la prima bozza su cui aveva già appuntato aggiunte, tagli e correzioni – e sfogliò una pagina alla volta. «Non devo vivere una vita diversa solo a causa del mio aspetto e delle mie origini. Io sarò sempre una creatura del mare, è qualcosa che non posso cambiare, ma questo non significa che devo rinunciare a vivere come un essere umano. Devo semplicemente imparare a gestire l’equilibrio fra queste due realtà. Si trattava solo di comprenderlo e di accettarlo. Niente di più.»

Giulia si coprì la bocca per trattenere una risata irrefrenabile simile a una di quelle di Alberto. «E ti è bastata una sola notte di crisi per capire tutto questo?»

«Uhm…» Luca sbirciò da dietro le pagine, improvvisamente rosso di imbarazzo, e tamburellò le dita sulla carta. «Dici che è un ragionamento fin troppo pretenzioso?»

Giulia scosse il capo e trillò una nuova risata. «Mai.» Si sporse da sopra la scrivania per strofinare i capelli di Luca, quella sua dolce testolina santa. «Lo sai che per me non esiste il troppo. Vedrai, farai un figurone all’orale.» Il suo sorriso si rasserenò, assunse una sfumatura materna e protettiva. «E sono contenta di vederti più tranquillo e sicuro di te riguardo il tuo futuro.»

Luca ricambiò il sorriso. «Anche io sono contento di sentirtelo dire. Però, lo sai…» Distratto dalla calura che stava cominciando ad appesantire l’aria chiusa della camera, Luca si guardò attorno. Le tende attraversate dai raggi di sole; le pareti tappezzate fino all’ultimo centimetro da schemi e mappe concettuali; le lenzuola dei letti stropicciate dal peso dei libri che lui e Giulia non erano riusciti a impilare sulle scrivanie; i barattoli di penne e matite ammassati sugli scaffali dell’armadio da cui avevano dovuto togliere qualche cornice e qualche peluche; i disegni di Educazione Tecnica sparpagliati sul pavimento assieme ai compassi, alle squadre, e alle briciole di gomma da cancellare; e infine Nerone che poltriva pacifico nella sua cuccia. «C’è un’altra cosa che ho realizzato» disse Luca, lasciandosi avvolgere dal senso di familiarità che gli trasmettevano quelle immagini. Il suo piccolo e prezioso mondo destinato a espandersi sempre di più. «A me non interessa essere un paguro, o un’ostrica, o qualsiasi altro animale marino. Io sono io, e non c’è nulla può cambiare questa realtà.» Si strinse una mano sul petto, dove il cuore tambureggiava lo stesso eco, sia dentro sia fuori dall’acqua. «Spetta solo a me accettarla. L’unica cosa su cui adesso mi concentrerò sarà continuare a vivere come me stesso, a inseguire i miei sogni, e a crescere come individuo, circondato dalla mia famiglia e da voi che siete i miei migliori amici.»

Nerone alzò il muso e rizzò le orecchie. «Bau!»

Luca si scusò tramite una risata accondiscendente. «Sì, anche da te, Nerone. Se un giorno tornerò a sentirmi smarrito come è successo quella volta, ora saprò di avere sempre il mio scoglio sicuro su cui fare ritorno, anche se non avrò nessuna conchiglia sulle spalle.» Porse le braccia a Nerone che era corso da lui per farsi sollevare in grembo. «Quella notte, quando sono scappato, non ho solo rischiato di perdere la mia casa. Ho rischiato di perdere me stesso.» Accettò una leccata di Nerone e, carezzandogli la testolina, lasciò che gli si acciambellasse sul ventre. «Non voglio che capiti mai più.»

«E non succederà, te lo garantisco io» gli promise Giulia. «Né io né Alberto lo permetteremo.»

«Ecco, forse anche voi due dovreste imparare a preoccuparvi un po’ di meno nei miei confronti.»

«Mai!» Giulia pescò la sua copia della Divina Commedia e gliela sbatacchiò in testa. «Rassegnati, questa è una delle poche cose che non cambieranno mai, nemmeno quando avremo novant’anni. E a proposito di cose che non cambieranno mai…» Affilò uno sguardo più sottile. «Ti ricordo che agli esami non verrai valutato solo con Letteratura. Ci sono anche tutte le altre materie da preparare, e tu sei come al solito indietro con il ripasso di Trigonometria, Signor Paguro.»

«Urgh.» Luca strinse Nerone a sé e batté la fronte sulla scrivania, squagliandosi di disperazione sopra i libri, i quaderni, e gli appunti che inondavano i due tavoli congiunti. Gorgogliò un lamento straziato. «Non me lo ricordare, ti prego.»

Giulia alzò gli occhi al soffitto, tenendo però alto il sorriso, e diede una sistemata ai fogli svolazzanti che rischiavano di cascare dalla scrivania. «Ho capito, ho capito.» Sventolò i riccioli dietro la spalla e li legò in una gonfia e scompigliata coda di cavallo. «Ti ci vuole una bella carica di energie prima di passare al sodo.» Scavalcò una risma di disegni di Tecnica, mise a posto uno dei compassi per non rischiare di calpestarlo, e valicò la soglia della cameretta. «Metto su il caffè, così poi ripassiamo assieme. Ah, e ricorda che fra un’ora è il mio turno con la Olivetti!»

Luca sollevò un pollice senza però alzare la testa dal tavolo. «Ricevuto.» Fu lieto di potersi concedere quell’attimo di pausa per riprendere fiato e per coccolare Nerone che gli era ancora accoccolato in grembo. Aveva proprio bisogno di far riposare i neuroni, di rallentare i pensieri e l’assorbimento di informazioni, e di staccare gli occhi dalle pagine imbevute di scritte, dato che la vista gli si sdoppiava dopo aver letto solo qualche riga.

Non è che sto cominciando ad aver bisogno degli occhiali da vista?

Era comunque difficile trovare un modo per distrarsi fra le quattro mura della cameretta che, nel corso dell’anno scolastico, lui e Giulia avevano trasformato in una vera e propria aula studio dove trascorrevano i pomeriggi riempiendo gli eserciziari con i problemi di Trigonometria, ripassando date di Storia, traducendo versioni di Latino, recitando a memoria formule di Fisica, e lavorando a turno con la vecchia Olivetti di Sara. Per comodità, avevano unito le due scrivanie al centro della stanza, in modo da poter ammassare libri e quaderni, e in questo modo studiare assieme ogni pomeriggio, aiutandosi con l’alternanza delle materie, e allo stesso tempo lavorare alle tesine da esporre all’orale finale. Le loro due classi erano sì diverse, ma i programmi rimanevano pur sempre uguali. Ormai era maggio inoltrato, gli esami erano alle porte, ed entrambi sapevano di doversi rimboccare le maniche e di spremere il meglio delle loro capacità per veder maturare i frutti che avevano seminato durante la loro intera carriera scolastica.

Luca sfogliò con soddisfazione il fascicolo contenente le pagine già battute a macchina della sua tesi, e sentì il cuore gonfiarsi di orgoglio e gli occhi brillare di speranza e aspettativa.

Stava venendo proprio bene. Merito degli studi assidui degli ultimi mesi, ma anche merito del Professor Marinelli che si era offerto di aiutarlo e di guidarlo nella sua composizione. Anche quell’evento era stato motivo di gran sollievo per Luca: rivedere quella minuscola ma sincera scintilla di fierezza brillare dietro gli occhialini del vecchio professore di Lettere quando il suo rendimento era tornato a spiccare il volo e quando i suoi voti avevano ricominciato a lievitare. E come si era emozionato, il professore, quando era venuto a sapere che Luca avrebbe basato la sua tesi proprio su Verga! A Luca era quasi parso di scorgere una velatissima traccia di rossore sbavare la pallida spigolosità delle sue guance.

Luca fece scendere Nerone dal grembo – anche lui era stato uno di quelli a festeggiare il suo ritorno, dopo la fuga –, si alzò per stiracchiare le gambe e sgranchire la schiena, e andò ad aprire la finestra per far prendere aria alla camera.

Scostata la tenda, Luca si affacciò al panorama del carruggio, alle terrazze del vicinato da cui provenivano i profumi dolciastri delle piante fiorite e quelli più freschi dei panni messi a stendere. Passò una leggera brezza sorta dal quartiere portuale. I gabbiani si innalzarono dai tetti, volarono attorno alle antenne televisive, e si rimpicciolirono dietro le verdi chiome infoltite che erano fiorite su tutto il vicinato. Luca si scostò una manciata di ciocche dalla fronte e si godette il venticello primaverile che gli pizzicò le guance e gli rinfrescò gli occhi stanchi. La tempesta ormai trascorsa aveva spazzato via le ultime grigie nubi invernali, accogliendo un sole bianco e luminoso che bruciava appeso a un cielo tinto dell’azzurro più vibrante.

Luca incrociò le braccia sul davanzale, reclinò il capo facendolo riposare sulla spalla, e il suo sguardo prese il volo e si smarrì, donandogli quell’espressione dolce e sognante che faceva luccicare come stelle i suoi splendidi occhi nocciola.

Quante volte Luca aveva guardato fuori da quella finestra perdendosi nello sciame colorato dei suoi sogni a occhi aperti. Quante volte aveva chiuso le palpebre e si era sentito sollevare da una spira di vento, una corrente che lo avrebbe fatto viaggiare fra le nuvole e condotto fino a Portorosso, lasciandolo poi cadere fra le braccia di Alberto.

Un piacevole tepore gli colorò le guance, ancor più caldo del sole pomeridiano che splendeva su tutta Genova. Un fiotto di emozione accelerò il battito del suo cuore. Un sapore dolce e frizzante come un sorso di gassosa gli si posò sulle labbra, spingendolo a sfiorarsi l’angolo della bocca e ad abbandonarsi a un’altra scia di ricordi.

Durante il viaggio di ritorno in treno da Portorosso a Genova, Luca aveva aspettato di essere da solo con Giulia e poi non aveva saputo trattenersi oltre. Le aveva raccontato dei baci, di tutto quello che lui e Alberto si erano confessati, e di tutto quello che era capitato durante la nottata trascorsa in cima alla torre. Com’era immaginabile, Giulia si era elettrizzata di entusiasmo. Era saltata in piedi sul sedile, aveva cominciato a battere le mani, a gettare i pugni all’aria, a ululare canti di vittoria, e a strillare gridolini di gioia che avevano fatto voltare più di un passeggero. A Luca era dispiaciuto stroncare il suo entusiasmo, ma non aveva avuto scelta. Nemmeno lui infatti riusciva a capire se fosse cambiato qualcosa nel suo rapporto con Alberto.

E se quello che era capitato sulla torre fosse stato solo frutto dell’emozione del momento? Certo, il pensiero di potersi scambiare altri baci era allettante, ma Luca sapeva che la sua relazione con Alberto era destinata a essere tutt’altro che semplice e scontata. Una volta terminata l’estate, Luca sarebbe andato all’università, mentre Alberto sarebbe rimasto a Portorosso. Non avrebbero potuto fingere di essere una normale coppietta felice, come quelle che si vedevano nei film o sui manifesti pubblicitari. La relazione fra lui e Alberto non sarebbe mai stata una strada facile da percorrere, non lo era mai stata dal primo momento in cui si erano incontrati, dal primo giorno in cui avevano scoperto la loro amicizia, ma Luca non avrebbe più avuto paura di perderlo o di essere costretto a rinunciare a lui. A prescindere da dove si sarebbero trovati e dalla vita che si sarebbero scelti, sapeva che Alberto ci sarebbe sempre stato ad aspettarlo, e che avrebbe spalancato un abbraccio di benvenuto per accoglierlo ogni volta in cui Luca avrebbe sentito il bisogno di tornare a casa.

E a proposito di gente che aspetta a Portorosso…

Fra Alberto e Sara era capitato qualcosa di bizzarro, la mattina in cui avevano fatto ritorno in paese.

Una volta usciti dall’acqua, tutti avevano circondato i due ragazzi, si erano premurati di coprirli con asciugamani e di offrire loro del caffellatte bollente con tanto zucchero per aiutarli a rinvigorirsi dopo la nuotata e la notte trascorsa a digiuno. Le vecchie signore avevano strofinato i capelli di Luca, dandogli il bentornato, e i pescatori avevano ricoperto Alberto di complimenti e di pacche sulla schiena per essere stato così in gamba da aver attraversato una tale tempesta e da aver riportato a casa l’amico sano e salvo.

Anche Sara si era avvicinata e, dopo aver ricambiato il suo abbraccio e aver ricevuto due baci schioccanti sulla fronte e sulla punta del naso, Luca si era ricordato che quello sarebbe stato il primo vero incontro fra lei e Alberto. I due si erano sorrisi, “Ciao, Alberto. Sono Sara, la mamma di Giulia”, e si erano stretti la mano, “Io sono Alberto. Finalmente ci incontriamo”. Ancora con la mano avvolta nella sua, incapace di lasciarla, Sara si era voltata verso Massimo. Gli aveva rivolto uno sguardo misterioso, gli aveva mormorato: “Lui è…”, e Massimo aveva annuito, mantenendo però un solenne silenzio, custode di un segreto che né Luca né Alberto né Giulia erano riusciti a decifrare.

Allora gli occhi di Sara si erano fatti acquosi e malinconici, ma a Luca erano sembrati in qualche modo più giovani, come proiettati su una luce distante ma mai estinta. Sara aveva sfilato la mano da quella di Alberto, gli aveva gettato le braccia attorno alle spalle, lo aveva attirato a sé sprofondando con il viso nel suo petto, e di tanto in tanto, respirando forte, a singhiozzi, l’avevano sentita sussurrare: “Bentornato. Bentornato a casa”, felice come se avesse atteso quell’incontro da tutta una vita.

Chissà a cosa si stava riferendo?

A strappare Luca dai suoi pensieri, dai suoi sogni a occhi aperti e dal suo continuo rimuginare, fu il gorgoglio schiumante della moka e il buon profumo di caffè espresso proveniente dalla cucina.

Luca rialzò i gomiti dal davanzale della finestra, si stropicciò gli occhi alla luce del sole, inspirando forte il profumo di mare, di fiori, e di sapone di Marsiglia proveniente dalla strada, e nemmeno la vista delle scrivanie sommerse dai libri e dei fogli svolazzanti sparsi sul pavimento riuscì a scoraggiarlo.

Non temeva più il suo futuro. Non avrebbe mai più avuto paura di voltare pagina e di tuffarsi in un nuovo capitolo della sua vita, perché…

Ti prometto che terrò per sempre accesa questa lanterna per te.”

Era quella la sua speranza, il suo scoglio, la sua luce eterna, il suo faro nella burrasca. Finché Alberto avrebbe tenuta quella lanterna accesa per lui, Luca non avrebbe mai più rischiato di perdersi.

Finché sarebbero esistiti un mare in cui nuotare, una terra da esplorare, e un cielo stellato in cui rifugiarsi durante i lunghi sogni a occhi aperti, sarebbe andato tutto bene.


 

N.d.A.

Felice Halloween, cari lettori, e arrivederci all’ultimo capitolo! (^-^)/

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Capitolo 45
*** 45 ***


45

 

 

Alberto si assicurò di tenere bene aperta una mano sulla schiena di Luca e l’altra sulla schiena di Giulia. Li guidò passo dopo passo lungo la stradina che conduceva al retro della pescheria, dove di solito parcheggiavano le biciclette e l’Ape per le consegne. Era lui che di tanto in tanto si sporgeva per esaminare il terreno, facendo loro schivare i sassi e le piccole buche, in modo da non farli inciampare. Loro due non ci sarebbero riusciti da soli: avevano gli occhi chiusi.

«Più dritti, dritti così.» Per paura che potesse sbattere sullo spigolo della casa più vicina, Alberto guidò Giulia con entrambe le mani. «Per di qua, ancora più avanti, Giulietta.» Però ora fu Luca quello che gli sfuggì e che rischiò di scontrarsi contro un bidone della spazzatura. Con uno scatto fulmineo, Alberto lo acchiappò al volo e lo ricondusse sulla retta via. «No, Luca, troppo a destra.»

«Eh?» Luca staccò una mano dal viso, tenendo però le palpebre strizzate, e tastò l’aria davanti a sé. «Per di qua?» Compì un passetto più corto e traballante. «Ma non siamo ancora arrivati?»

«No» rispose Alberto. «Non ancora.»

Giulia alzò le mani dagli occhi e socchiuse le ciglia inondate dal sole. «Ma possiamo almeno aprire gli occhi?»

«Nemmeno per sogno.» Alberto le tornò a far mettere la mano sul viso. «E non vi azzardate a sbirciare.»

«Ma comincia a girarmi la testa a forza di brancolare nel buio.» Giulia allungò una gamba senza però avanzare, tastò la stradina di pietra con la punta del sandalo. «Stiamo almeno andando nella direzione giusta? Non è che ci farai finire in un fosso?»

Alberto sbuffò, fingendosi indignato. «Donna di poca fede. Resistete ancora qualche passo, e…» Fermò entrambi. Corse loro davanti, fin sotto l’ombra della tettoia, e si strofinò le mani per sfogare l’eccitazione che gli ribolliva nel sangue. «Preparatevi a rifarvi gli occhi davanti alla più maestosa meraviglia dell’universo…» Aspettò che Luca e Giulia aprissero gli occhi, e spalancò le braccia a indicare l’automobile azzurra che riposava pacifica sotto la tettoia del garage. «Ta-ta-ra-daaan! Salutate e inchinatevi dinnanzi alla maestosità della mia bella bimba!»

Luca si stropicciò gli occhi, dato che erano ancora un po’ appannati dopo essere stati chiusi così a lungo. Sgranò le palpebre, le sbatacchiò un paio di volte, e mise a fuoco l’automobile che occupava il posto di solito destinato all’Ape. Era un modello piccolo, compatto e squadrato, che somigliava quasi a una scatola di biscotti. «Una Seicento?» Non poté fare a meno di notare come fosse dello stesso color celeste della Vespa comprata anni prima con i soldi della vincita della Portorosso Cup. Anche le incrostazioni di ruggine e le ammaccature sulla carrozzeria sembravano le stesse.

«Una Seicento di seconda mano, per di più.» Giulia le si avvicinò e appoggiò la borsetta sul cofano. Squadrò l’auto in lungo e in largo, salì sulle punte dei sandali, strofinò la superficie rugosa del tettuccio, e si accovacciò per picchiettare le nocche sui cerchioni. «È questa la novità megagalattica di cui non hai fatto altro che blaterare da settimane?» Si voltò – i riccioli le sventolarono sulla guancia – e rise spernacchiando ad Alberto una piccola linguaccia dispettosa. «Non avresti potuto scegliere un modello più proletario di questo.»

Alberto strinse le braccia conserte e arrossì gonfiando le guance in un piccolo broncio. «Oh, be’, scusami se io rimarrò per sempre un poveraccio proletario con le tasche bucate, le mani sporche, e la puzza di ferro sui vestiti, mia cara…» Si chinò a sorridere davanti al viso di Giulia, naso a naso, e ammiccò con le sopracciglia. «Signorina Futura Studentessa Universitaria.»

Giulia diventò rossa quasi quanto i suoi capelli, e sentì il petto gonfiarsi di orgoglio ed euforia. «Scherzavo, scherzavo.» Ridacchiò e diede un’affettuosa strofinata ai capelli di Alberto. «Non mi permetterei mai di prenderti in giro in quel senso.»

Alberto le scoccò un’occhiata sbieca. «Solo in quel senso?»

Giulia ignorò il suo ultimo commento. «Ma la Seicento è un modello così, non lo so…» Ci pensò su. «Squadrato.» Girò attorno all’auto, raddrizzò uno specchietto laterale, si soffermò sul parabrezza posteriore su cui era appiccato un adesivo sbiadito – lo stemma di una radio locale –, e sfregò i polpastrelli sulle ammaccature incrostate di ruggine. «Potevi almeno sceglierti una Uno, o una Cinquecento. Le Cinquecento sono così carine.»

«Ehi!» protestò Alberto. «Anche la mia bambina è splendida. Mille volte più splendida di una Cinquecento. E soprattutto…» Le batté due pugni sul cofano. «È solida come una roccia d’acciaio.»

Cleng!

Il paraurti si scollò dal muso.

Crush!

Crollò a terra, innalzando un nuvolone di polvere, e per poco non schiacciò i piedi di Luca che finì di rimbalzo fra le braccia di Giulia.

Giulia si portò le mani alla bocca, tossì una risata irrefrenabile. «Oh-oh.» Si rivolse ad Alberto tramite uno sguardo che era a metà fra ilarità e compassione. «Oh, Alberto…»

Alberto si fece paonazzo, ma non parve nemmeno troppo sconvolto. Sbuffò come se si fosse trattato di un incidente da poco, come se non fosse stata la prima volta in cui assisteva a una simile tragedia. «Fa sempre così.» Raccolse il paraurti, ci soffiò sopra per ripulirlo dalla polvere, e lo rigirò per incastrarlo di nuovo al suo posto. «È normale che faccia così. Ma non è niente, basta rimetterlo su.» Strinse i denti e gli rifilò un paio di calci. «Rimetterlo…» Si aiutò anche con qualche pugno ben assestato. «Su! Su, bello, su.»

Luca e Giulia, guardandosi sottecchi, sogghignarono, e Luca scosse il capo.

Un ultimo sforzo, un ultimo pugno, e Alberto riuscì nell’impresa. «Ecco.» Raddrizzò la schiena e, riguadagnato il suo solito sorriso da spavaldo, si spolverò le mani. «E vedrete che un’auto del genere rimarrà intera fino a che io non avrò ottant’anni.»

Giulia sgomitò Luca per farsi assecondare. «Sì, e a ottant’anni ti vedremo andare in giro per Portorosso…» Si ingobbì, fece finta di sventolare un bastone da passeggio. «Con il cappello calcato davanti agli occhi e il bastone che sventola fuori dal finestrino.»

«Chi lo sa.» Alberto si strofinò il mento e sorrise arricciando un solo angolo della bocca, come quando cominciava a frullargli in testa un’idea strampalata delle sue. «Quasi quasi… così diventerei una sorta di leggenda del paese.»

Luca si coprì la bocca, ma fu lo stesso incapace di contenere una risata nell’immaginarsi una scena simile. «E chissà se sui sedili posteriori ci sarà un po’ di spazio per me e per Giulia?»

«Sui miei sedili posteriori ci sarà sempre spazio per te e per Giulia, anche quando avremo ottant’anni. E dopo, quando voi due sarete troppo vecchi per essere scorrazzati qua e là con le nostre scorribande giovanili, finalmente mi prenderò una Vespa e girerò il mondo per i fatti miei.» Si appoggiò a sedere sul cofano, strizzò l’occhiolino. «Ma adesso non posso lasciare voi due appiedati, no? Sarebbe crudele e insensibile.»

«Appiedati» sospirò Giulia. «Eggià.» Si aggiustò le pieghe sgualcite della gonna di jeans e allentò il colletto della camicetta, distraendosi dall’ombra di avvilimento e dispiacere che era scesa a scurirle lo sguardo. «Io mi accontenterei di girare il mondo anche a piedi, giuro, se solo questo ci permettesse di rimanere assieme per tutta la vita.»

Luca provò una fitta al cuore, un improvviso sussulto di dolore che rese la sua bocca amara e pungente. «Già…» Allontanò lo sguardo e si strofinò le braccia per ripararsi dal freddo improvviso trascinato da quelle parole che erano calate su loro tre come una nuvola di maltempo, nonostante il sole di luglio a bruciare dietro i comignoli. «Tutti e tre assieme.»

Il sogno della loro vita, il più bello in cui sperare. Un sogno che non si sarebbe potuto avverare il giorno dopo, e nemmeno quello dopo ancora.

Alberto sarebbe rimasto a vivere a Portorosso, a lavorare in mare assieme a Massimo, e anche a far pratica nell’officina meccanica assieme a Eros. Giulia invece sarebbe rimasta a Genova a studiare Biologia Marina e anche ad aiutare il Signor Rizzi nella gestione del negozio e degli acquari durante il fine settimana, come lui le aveva promesso. Mentre Luca si sarebbe trasferito a Trieste, negli alloggi degli studenti, per frequentare il corso di laurea in Scienze Astronomiche.

Tre realtà distinte che però facevano parte di un unico mondo: Giulia il mare, Alberto la terra, e Luca il cielo.

Tutti e tre sarebbero per sempre rimasti collegati da quel magico e luminoso filo conduttore che avrebbe tenuto uniti i loro universi e le loro vite. Se uno di loro si fosse smarrito, agli altri due sarebbe bastato tirare il loro capo del filo per ricondurlo sulla retta via.

Anche Giulia si mise a sedere sul cofano della Seicento, affianco ad Alberto. Tirò fuori dalla borsetta gli occhiali da sole e li usò come fermacapelli, spingendo i riccioli lontano dalla fronte e facendoli cadere dietro le spalle. Frugò ancora, in cerca di qualcos’altro, e strappò la linguetta di nastro adesivo dal sacchetto di carta dentro cui il tabaccaio aveva impacchettato una grossa manciata di rondelle di liquirizia, le sue preferite. Ne offrì a Luca e ad Alberto. Tutti e tre necessitavano di un pizzico di dolcezza. «Sarà dura tornare a separarci dopo quest’estate, eh?»

«Già.» Alberto srotolò la sua rondella di liquirizia e la succhiò come uno spaghetto scotto. Esitò nel rivolgersi a Luca. Ogni volta che posava lo sguardo su di lui, ogni volta in cui incrociava la luce dei suoi occhi, una pungente sfrecciata di dolore dardeggiava attraverso il suo cuore, ricordandogli che presto avrebbe dovuto nuovamente rinunciare alla sua vicinanza, al suo profumo, alla sua voce, alle sue risate. «Allora è proprio deciso, uhm?» Finì la sua liquirizia e ne pescò un’altra dal sacchetto. «Sei proprio sicuro di voler andare fino a Trieste? A un milione di chilometri da qui?» Toccò Luca con una spallata di incoraggiamento. «Mi toccherà circumnavigare tutta l’Italia per venirti a prendere, nel caso dovessi soffrire di un’altra crisi mistica.»

Giulia sgranò gli occhi, inorridita, e gli mollò un cazzotto. «Alberto!»

«Ahu!» Alberto si massaggiò la spalla. «Che c’è?» frignò. «Che ho detto? Mi sto preoccupando per lui, no? Mi sto preparando a ogni evenienza.»

Luca sorrise e scosse la testa, per nulla angosciato. «Sta’ tranquilla, Giulia.» Anche lui si concesse di gustarsi un’altra liquirizia. «Nemmeno io ci tengo ad avere un’altra, ehm…» Com’è che l’ha definita, Alberto? «Crisi mistica.» Alzò lo sguardo all’orizzonte puntellato dal volo dei gabbiani, sbavato dalle rade nuvole bianche, e colorato dalle facciate delle casette del vicinato. Dalla piazza del paese si innalzarono il canto delle campane, le risate dei bambini che giocavano a calcio, e il ronzio di qualche barca che veniva messa in moto per prendere il largo e andare a pesca. I soliti profumi, i soliti colori, i soliti suoni – l’unica casa nella quale il cuore di Luca avrebbe dimorato. «E poi, sapere di poter contare su voi due mi fa stare molto più tranquillo.» Poggiò la mano sul cofano dell’auto su cui anche lui si era seduto. Fece scivolare il tocco vicino ad Alberto e gli sfiorò le dita, facendolo girare. «Non avrò mai più paura di perdermi, nemmeno nel mezzo di una tempesta.»

Alberto ricambiò il suo sorriso, uno sguardo d’orgoglio. Rispose al tocco della sua mano, intrecciò le punte delle dita alle sue, lo carezzò fra le nocche, e l’accensione di quel calore fece rivivere a entrambi i ricordi che avevano illuminato l’inizio della loro nuova estate.

Dopo aver concluso gli esami scritti, dopo aver sostenuto l’orale e dopo aver ricevuto le votazioni finali, Luca e Giulia avevano salutato i vecchi compagni di classe partecipando alla festicciola allestita nel giardino dei due istituti, strafogandosi di Coca-Cola, di tartine al tonno e di pasticcini alla panna. Si erano poi sbarazzati per sempre delle uniformi scolastiche – gabbiani che si scrollano di dosso il piumaggio da pulcino e che spalancano le nuove ali da adulti per spiccare il volo verso le terre più lontane e inesplorate. Avevano preparato i bagagli per l’estate ed erano partiti per Portorosso come ogni anno, questa volta accompagnati anche da Sara.

Giunti alla stazione, erano stati accolti da mezzo paese, da filari di bandierine e da decine di festoni colorati che celebravano l’ottenimento del diploma e il compimento della loro Maturità.

Avevano ricevuto mille complimenti e altrettante congratulazioni da parte di tutti. Daniela era scoppiata in lacrime non appena Luca aveva posato il primo passo giù dal vagone del treno. Lei e Lorenzo non la finivano più di abbracciarlo, di tempestarlo di baci, e di ripetergli quanto fossero orgogliosi di lui. Anche Luca aveva finito per commuoversi davanti a tanto entusiasmo. Come si era commossa pure Giulia che si era ritrovata avvolta dall’abbraccio di entrambi i genitori, riuniti dopo tanto tempo e accomunati dall’infinito amore per la figlia.

La stessa sera del loro arrivo avevano festeggiato con tutti i crismi allestendo una grande tavolata nel giardino di casa, sotto le luminarie, e il banchetto era proseguito fino a notte fonda, con fiumi di brindisi e montagne di piatti succulenti. Daniela aveva persino acconsentito che Luca assaggiasse il suo primo bicchiere di Prosecco. A Luca era bastato annusarlo per giudicarlo terribile, e infatti aveva accantonato il calice dopo un’unica sorsata, rinunciando a finirlo.

Ma non era stato il vino a inebriargli la testa, a spalancargli il cuore, a infiammargli il sangue e a umettargli lo sguardo, durante quella serata così magica.

Una volta conclusa la cena, Luca e Alberto si erano allontanati da soli, con la scusa di sistemare in cucina i vassoi svuotati e i piatti sporchi. Poi erano usciti per il retro, allontanandosi dalle chiacchiere che continuavano a cinguettare allegre dal giardino. Avevano gironzolato per le vie del paese illuminate dalla Luna, dal fioco riverbero dei lampioni, e Luca aveva ottenuto il bacio che si era ampiamente guadagnato. E poi un altro. E un altro ancora. E un altro ancora dopo. Una galassia di baci al sapore di focaccia al rosmarino, di pesto al basilico, di caffè espresso, e di gelato al pistacchio, succhiati da labbra sorridenti ed ebbre di Prosecco. Baci sotto i rami del loro ulivo; baci spalmati contro le tiepide mura delle case illuminate dalle luci delle terrazze; baci stesi sul prato della loro isola; baci abbracciati sott’acqua, con le code attorcigliate e grappoli di bollicine a circondare la loro lenta discesa verso il soffice fondale di alghe. Baci schioccati su labbra ridenti. Sussurri soffiati sulle guance, rosicchiati sui lobi, dietro le orecchie, brividi di piacere scesi lungo il collo, i nasi sfregati, e tiepide carezze arrampicate lungo la schiena. Baci infiniti e interminabili. Tanti baci quante erano le costellazioni che avevano vegliato su di loro per tutta la notte.

Ce ne sarebbero stati altri? Luca non poteva ancora dirlo, ma era abbastanza sicuro che non avrebbe dovuto aspettare troppo per scoprirlo.

«Non ti preoccupare, Alberto» disse Luca. «Non sarà necessario circumnavigare a nuoto tutta l’Italia per venire a soccorrermi, te lo prometto.» Guardò di nuovo verso il cielo, ancor più in alto, dove le nuvole sparivano, e si riparò dal sole estivo aprendo una mano davanti alla fronte. «Sono sicuro che mi troverò bene in una città come Trieste. È l’ideale. Avrò il mare vicino, quindi non mi sentirò troppo fuori luogo, e potrò andare a nuotare quando voglio.» Anche perché ho promesso alla mamma che nuoterò almeno tre volte a settimana, in modo da tenere allenata anche la mia forma marina. «E poi non vedo l’ora di realizzare il mio sogno.» Giunse le mani e guardò al di là dell’azzurro dietro il quale si celavano la Luna, le stelle, e un’infinità di galassie che a lui già sembrava di poter raggiungere e svelarne così ogni segreto. «E studiare Astronomia all’osservatorio, e scoprire tutto quello che c’è da imparare sulle stelle e sui pianeti. Peccato solo che il Professor Marinelli mi abbia scoraggiato dall’intraprendere una carriera simile.»

Giulia si stupì. Rimase a bocca aperta, con mezza rondella di liquirizia in mano. «Sul serio?»

«Sì» annuì Luca. «Lui avrebbe preferito che io continuassi con Letteratura. Pensa che la mia tesi di Maturità gli era piaciuta così tanto che l’aveva inviata come raccomandazione all’università di Pisa.»

«All’università di Pisa?» Giulia esitò. «Aspetta.» Storse un sopracciglio. «Non mi dire che…» Allungò un ansito sconvolto. «Non mi dire che ti aveva raccomandato alla Normale.»

«Uhm.» Luca si grattò la testa e si sforzò di ricordare quel particolare che comunque gli era sembrato insignificante. «Sì» annuì. «Sì, credo fosse proprio quella.»

Giulia fece cadere il sacchetto di liquirizie. Afferrò Luca per le guance, sgranò le palpebre assorbendo il suo riflesso nelle profondità degli occhi allucinati. «E tu hai rifiutato la raccomandazione per entrare alla Normale di Pisa? Oh, Luca…» Scosse il capo con disappunto. «Come hai potuto farlo? C’è gente che venderebbe l’anima pur di ottenere un’occasione simile.»

«L’ho fatto perché il mio sogno è quello di studiare Astronomia.» A Luca sembrò una risposta talmente ovvia. «Che c’è di male?»

Alberto scoppiò a ridere. Lui non sembrò affatto sconvolto. Anzi, quella rivelazione lo rese ancor più fiero di Luca. «Non stupirtene troppo, Giulietta.» Raccolse il sacchetto di liquirizie che le era cascato dalle mani. «Ormai dovresti sapere che Luca non è tipo da far decidere agli altri il proprio destino.» Addentò una rondella e gli inviò una strizzata d’occhio. «Lui la sua conchiglia se la sceglie da solo.»

Luca si sentì arrossire davanti a quell’affermazione che alle sue orecchie suonò come una vera e propria dichiarazione d’amore, l’unica che aveva bisogno di custodire nel suo cuore.

Ciò non tolse il fatto che Luca fosse sinceramente dispiaciuto di aver dato quella delusione al Professor Marinelli, soprattutto dopo aver ricevuto da lui tanto aiuto e tanto appoggio nella preparazione degli esami. Durante la loro ultima sessione di studio, a tesi ultimata, il professore gli aveva proposto la raccomandazione, ma Luca aveva declinato e gli aveva confidato la sua intenzione di studiare Astrofisica. Lo shock del professore era stato tale che Luca aveva creduto che potesse rimanere fulminato da un infarto. Il Professor Marinelli era infatti sbiancato come un teschio, si era passato più volte la mano tremolante attraverso i radi capelli grigi, si era sfilato gli occhialini, aveva sprimacciato le palpebre e la radice del naso, e aveva scosso la testa mentre le guance gli si erano accese di un intenso e iracondo rosso mattone.

Paguro, non puoi farmi questo.”

Luca aveva creduto che sarebbe stato capace di scaraventargli i fogli in faccia, pur di fargli cambiare idea.

Non renderti partecipe di un simile oltraggio, di questo affronto a ogni buon senso. Un potenziale come il tuo investito nella direzione sbagliata sarebbe solo un vergognoso spreco di risorse.”

Emerso dai ricordi, Luca sospirò. «Paguro, non puoi farmi questo» disse, facendo eco al professore. «È proprio così che mi ha detto. Come se qui si trattasse del suo futuro anziché del mio.»

Questa volta fu Giulia a venirgli in soccorso. «Non avercela troppo a cuore.» Accavallò le gambe e, facendo dondolare il piede, la gonna le sventolò attorno alla caviglia. «I professori lo fanno di continuo. Scaricare le loro frustrazioni su noi poveri studenti, intendo.»

«Quanto mi è dispiaciuto deluderlo, però.» Luca era sincero a riguardo. «Forse è vero che stava solo cercando di aiutarmi. Il Professor Marinelli dice che secondo lui non durerò a Trieste, che sono più portato per gli studi classici e umanistici che per quelli scientifici.» Annuì a se stesso, animato da tutta la buona volontà che gli bruciava in corpo. «Ma ce la metterò tutta.» E non vedeva l’ora di dimostrarlo al mondo intero. «E di tanto in tanto potrei anche tornare a trovarlo, giusto per rassicurarlo sulla mia situazione.»

«Sì» esclamò Alberto. «E poi ridergli in faccia!»

Giulia sventolò un pugno all’aria. «E sbandierargli davanti al naso la tua tripla laurea di scienziato spaziale e dirgli: ah-ah! Te l’avevo detto che ci sarei riuscito, alla facciaccia tua!»

«No.» Come al solito, fra i tre fu Luca quello a mantenere un atteggiamento pacato e razionale. «Voglio farcela semplicemente perché voglio farcela e basta. Non ho intenzione di prendermi la rivincita su nessuno.»

«Ehi, ehi.» Giulia lo incoraggiò con uno schiaffetto sulla spalla. «Ma tu sarai sempre in grado di fare tutto quello che vorrai, perciò non farti mai dire da nessuno quello che puoi o che non puoi fare, a prescindere dai tuoi voti e dalle tue inclinazioni.» Scosse le spalle e si tuffò in bocca un’altra liquirizia. «Se vogliamo chiamarle così.»

«Già» annuì Alberto. «E se per caso qualcosa dovesse andare storto durante il percorso…» Pure lui tese una mano davanti alla fronte, per ripararsi dal sole, e volse lo sguardo alle casette del paese che coloravano la zona della piazza imboccata dalle stradine di pietra e percorsa da qualche passante e da qualche bicicletta. «Ci resta sempre Portorosso su cui contare, come dicono in quel film.»

«Sono abbastanza sicura che fosse Parigi» puntualizzò Giulia. «Avremo sempre Parigi, ecco com’era quella citazione.»

«Be’, ma Portorosso è più bella di Parigi.» Alberto affondò la mano nel sacchetto delle liquirizie e si ingozzò divorando quattro rondelle alla volta. «Chi la vuole Parigi?» Si succhiò le dita facendole diventare bluastre. «Si tengano pure Parigi.»

«Tanto le cose non andranno male a nessuno di noi tre.» Giulia prese il sacchetto delle liquirizie dalle mani di Alberto, lo ribaltò, lo scosse e, trovandolo vuoto, soffiò uno sbuffo di disapprovazione. «Quindi non c’è bisogno di portare scalogna.»

«Ma saremo sul serio in grado di cavarcela?» domandò Luca. «Anche se siamo cresciuti, saremo pur sempre divisi. Lo so che può suonare come un sentimento un po’ ingenuo, ma a me è sempre piaciuto pensare che la nostra forza derivasse proprio dalla nostra unione.» Sospirò, sentendo il petto appesantirsi. «E mi chiedo se da soli saremo in grado di essere all’altezza delle vite che ci siamo scelti.»

Alberto corrugò la fronte. «All’altezza?» Lui non lo capì, mentre da parte di Giulia arrivò uno sguardo più comprensivo e consapevole. «E da quando in qua bisogna essere all’altezza della propria vita?»

«Be’» gli disse Luca, «ma lo sai…» Tornò a grattarsi il capo. «Sono cose a cui dovremo cominciare a pensare, adesso che siamo quasi adulti a tutti gli effetti. E ultimamente anche alla tv e sui giornali non fanno che parlare di altro, di responsabilità personali, di scelte collettive e…»

«Cheee?» esclamò Alberto, strabuzzando un’espressione inorridita. «Non starai mica parlando di tutte quelle stupide proteste, no?»

E Luca ammutolì, stringendosi nelle spalle e non sapendo realmente cosa pensare in merito. Non era proprio sicuro che il termine “stupide proteste” fosse il più adatto a descrivere quello che stava succedendo in tutto il Paese.

Il clima era molto teso, infatti gli adulti avevano fatto loro promettere che si sarebbero tenuti lontani dalle grandi città, nonostante i loro propositi di trascorrere l’estate a zonzo per l’Italia. Giravano brutte voci. Voci pesanti. Sommosse, rivolte, proteste nelle piazze, scontri con le forze dell’ordine, attacchi ai politici, occupazioni nelle università e scioperi nelle fabbriche. Non c’era da stare sereni.

«Anche io in realtà sono un po’ preoccupata per quello che sta succedendo.» Giulia piegò il gomito sul ginocchio accavallato e spinse il pugno sotto il mento. «Ma anche demoralizzata.» Si mise a giocherellare con la collanina che portava al collo, un semplice filo d’argento da cui pendeva una perla bianca – il suo regalo di Maturità da parte di entrambi i genitori. «Che barba» sbuffò. «Proprio durante la nostra estate speciale doveva scoppiare una rivoluzione?»

«Ma quale rivoluzione, Giulia.» Alberto non nascose il suo tono seccato. «Quelli non sono rivoluzionari, sono…» Gesticolò a mezz’aria. «Viziati e sfaticati perdigiorno che non hanno voglia di lavorare, tutto qui. Vedrete che passerà presto.»

«E io non ho intenzione di aspettare che passi standomene seduta sul cofano di un vecchio macinino e fissando il vuoto per il resto dell’estate.» Giulia balzò giù dal cofano della Seicento, appallottolò il sacchetto vuoto, e si cinse i fianchi, a spalle larghe, come faceva quando era piccola. «Allora, pronti o no per la nostra epica avventura?» Calò gli occhiali da sole sul naso e sfoggiò un gran sorriso d’incitamento. «Io davanti con Alberto!»

Alberto e Luca incrociarono uno sguardo.

Alberto sorrise. Infilò una mano nella tasca dei jeans e sfilò le chiavi dell’auto a cui aveva appeso un ciondolo a forma di Vespa. Le fece roteare attorno all’indice e allargò il ghigno splendente. «E l’ultimo chiude la porta!»

Luca tese la mano ad Alberto, si fece aiutare per smontare dal cofano, ma le sue gambe, una volta a terra, tremolarono, e il suo sguardo fece fatica a scollarsi dalle facciate delle case e dai tetti di Portorosso. «Ma non abbiamo nemmeno una cartina. O sì?» Socchiuse una palpebra e si rivolse ad Alberto. «Ce l’abbiamo una cartina, vero?»

Alberto batté una mano sul tettuccio dell’auto. «È tutto impacchettato nel retro.»

Luca sospirò, avvilito. «Quindi tocca a me starmene spremuto fra i bagagli?»

Giulia trillò una risata e gli mostrò una piccola linguaccia. «Così impari a essere rimasto il più basso dei tre, Piccoletto.»

Luca fece roteare gli occhi ma le risparmiò il broncio. «Non era divertente all’inizio e non lo è nemmeno adesso.» Si portò sul retro dell’auto. «Se solo…» Tastò la portiera, il finestrino, si alzò sulle punte dei piedi, tornò a scendere, batté entrambe le mani sulla carrozzeria, e ancora non trovò la maniglia posteriore. Insorse un’ondata di panico che gli strinse lo stomaco. «Oh, no» ansimò. «Dov’è la porta?» Fece il giro dell’auto, tastò ancora come sperando che un’apertura si materializzasse sotto le sue mani sudaticce, e cominciò a vedere doppio per la confusione. «La portiera, la maniglia… come si fa ad aprire? Alberto!» La sua voce stridette in un piagnucolio. «Alberto, ti hanno venduto un’auto senza gli sportelli posteriori, non posso salirci, Alberto, Giulia, non lasciatemi qui!»

«Luca…» Alberto incrociò le braccia sopra il tettuccio dell’auto. Solo una minuscola smorfia tradì il suo sforzo di non ridere. «Luca, è una tre porte. Il sedile.» Glielo indicò. «Apri la portiera davanti e tira il sedile.»

«Oh.» Luca fumò di imbarazzo. «Giusto, sì.» Zampettò sul davanti, fece come detto e aprì la porta. «Una tre porte, ora ricordo.» Scansò una delle valige e si infilò nei posti di dietro, sommerso dal profumo di tappezzeria appena lavata emanata dai sedili. Si guadagnò una strofinata alla testa da parte di Giulia, come un bimbo che ha bisogno di essere consolato. Luca pensò che mai in tutta la sua vita avrebbe immaginato di poter essere felice come in quel momento.

Quando furono tutti e tre a bordo, Alberto mise in moto dopo soli quattro tentativi di accensione. «Bene, bene.» Batté le mani e strofinò i palmi. Un forte odore di benzina bruciata invase l’abitacolo accaldato dal sole. «Abbiamo i bagagli, le cinture di sicurezza…»

Giulia spalancò la porticina del cruscotto piena zeppa di cassette registrate. «E le cassette per l’autoradio!»

«E gli spuntini per il viaggio?»

«Presenti anche quelli.» Giulia mostrò l’interno del suo zaino gonfiato da barrette di cioccolata, sacchetti di patatine, pacchi di biscotti, caramelle in quantità, crackers, e panini imbottiti avvolti nel cellophane. «A tonnellate, Capitano.»

«E le cartine?»

«Quante ne vuoi.» Giulia sbottonò la tasca esterna dello zaino e sfogliò le cartine fra le dita. «Nord, Sud, Centro, e Isole comprese.» Si girò a passarle a Luca. «Luca fa da navigatore.»

Luca spalancò sulle ginocchia la cartina dell’Italia Settentrionale, restrinse le palpebre, avvicinò e allontanò il viso, e di nuovo si scoprì in difficoltà nel mettere a fuoco le scritte. Avrebbe decisamente dovuto procurarsi un paio di occhiali da vista, una volta tornato dal viaggio. «Faccio da navigatore a patto che non andiamo a più di sessanta all’ora.»

«Buuu!» Alberto ingranò la marcia, avanzò uscendo dall’ombra della tettoia, e si girò a fare la linguaccia a Luca. «Buuu! Silenzio, Bruno, buuu. Non metterti a fare il guastafeste.»

«Questo sono io, non è Bruno che parla.»

«Allora ecco il nuovo tormentone dell’estate: silenzio, Luca!»

Giulia abbassò il finestrino e si sporse di fuori. Il sole specchiato sulle lenti scure degli occhiali e il calore del pomeriggio a bruciare sulla spolverata di lentiggini che le colorava le guance e il naso. «L’estate migliore di sempreee

Anche Alberto allungò la testa fuori dal finestrino – i riccioli al vento, il sole a baciargli la pelle scura, gli occhi verdi luccicanti di emozione –, e lanciò un ululato di esultanza. «Si parteee!» Suonò due volte il clacson, sgasò, e accelerò facendo strusciare le gomme sullo sterrato.

Sbalzato contro lo schienale del sedile e allontanata una delle valige che gli era caduta in grembo, Luca allentò la cintura di sicurezza e si girò verso il polverone che si era ingrossato dietro di loro, lungo la pendenza della strada in discesa. Guardò Portorosso che si rimpiccioliva e che si allontanava attraverso il vetro rigato a cui era appiccicato l’adesivo sbiadito e mezzo scrostato di Radio Babbaleo. Guardò i confini di Portorosso sentendo gli occhi appannarsi e il sorriso scaldargli le labbra come la prima volta in cui aveva salutato quello stesso mare e quello stesso cielo, promettendo di fare ritorno.

Non era un addio. Portorosso era il suo scoglio, era il suo faro nella burrasca. Non avrebbe mai più avuto paura di vedere spenta quella fiaccola eterna. Anche in mezzo alla tempesta, per lui ci sarebbe sempre stata una luce da inseguire, una mano da raggiungere, un braccio a cui aggrapparsi, un sorriso a cui affidarsi. Un bacio in cui sperare.

 

 

 

 

 

Fine

 


N.d.A.

Ed eccoci alla fine, cari lettori. :)

Ringrazio fin da subito tutti coloro che stanno leggendo questo messaggio e che mi hanno accompagnata durante questo viaggio che non è stato poi così breve come avevo programmato. Ho cercato di vivere la scrittura di questa fan fiction senza troppe pretese, più come un esperimento. Ma devo ammettere che questo progetto mi ha appassionata più del previsto, e infatti ne è uscita una bella sleppa, nonostante i miei propositi di farla durare poco (chi mi segue da un po’, su altri fandom e su altri lidi, sa che non sono nuova a queste deviazioni di programma). Spero comunque con tutto il cuore di aver emozionato un pochino anche tutti coloro che hanno voluto dare una piccola sbirciata al suo contenuto, e che vi siate divertiti a leggere come io mi sono divertita a scrivere.

E dunque, in questo epilogo, lasciamo i nostri eroi che, a bordo della mitica Seicento, si accingono a uscire silenziosamente da questo florido e pittoresco Dopoguerra per entrare nel panorama più burrascoso degli Anni di Piombo. Ma questa è un’altra storia. Una storia alquanto stuzzicante, non trovate? Chissà, magari un giorno sarò proprio io a scriverla!

Mi piacerebbe davvero molto continuare a giochicchiare un altro po’ con questo fandom, quindi potrei tornare a visitare queste spiagge molto presto e, se ci sarà qualcuno a tenermi compagnia tramite la lettura delle mie storie, sarò ancora più entusiasta di far ritorno a Portorosso assieme a voi. (^-^)

 

Bene. Ringrazio ancora calorosamente tutti quelli che hanno letto L’Ideale del Paguro (non so effettivamente quanti siamo noi italiani, quindi forse sto parlando a vuoto, ma ‘sticazzi xD), e ancora una volta dedico la conclusione di questa storia ai miei cari nonnini che spero possano leggere le mie parole anche su nel Cielo. :)

 

Vi auguro tutti i libri, la pasta e i gelati del mondo.

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