Viaggio attraverso la foresta incantata

di Koa__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Magia ***
Capitolo 2: *** Il Coraggio ***
Capitolo 3: *** La Lealtà ***
Capitolo 4: *** La maledizione spezzata (Prima parte) ***
Capitolo 5: *** La maledizione spezzata (Seconda parte) ***



Capitolo 1
*** La Magia ***


Viaggio attraverso la foresta incantata













 

“Non è tanto per la sua bellezza che una foresta resta impressa nei cuori degli uomini, quanto per quel sottile qualcosa, quella qualità dell’aria che emana dai vecchi alberi, che così meravigliosamente cambia e rinnova uno spirito stanco"
Robert Louis Stevenson






 

La Magia



 

L'ultima volta che aveva visto Alec, Magnus era stato sin troppo sbadato. Una disattenzione che avrebbe maledetto nei giorni a venire; non ricordava come fosse vestito, quali fossero state le sue ultime parole e non gli aveva dato nemmeno un bacio di arrivederci. Erano malapena le otto del mattino e già stava tardando, la console Penhallow lo aveva convocato prestissimo nella sua abitazione privata per rinforzare le difese e poi sarebbe dovuto andare subito a New York. Nonostante vivesse ad Alicante da più di un anno, negli Stati Uniti aveva ancora tantissimi clienti che richiedevano i suoi costosi servigi, ragion per cui aveva comprato un bilocale lì a Brooklyn che aveva adibito a ufficio e dove riceveva tre volte a settimana. Quel giorno aveva l'agenda piena di appuntamenti, ma siccome si era svegliato troppo tardi aveva salutato Alexander di corsa, aprendo per lui un portale per Stoccolma e poi scappando via come un fulmine. Suo marito doveva infatti andare all'Istituto di lì per controllare la situazione, pareva infatti che stessero capitando eventi molto strani, forse a opera di un demone superiore.
«È una faccenda complicata» gli aveva detto la sera precedente a cena, aggiungendo che sarebbe dovuto andarci l’indomani. Sarebbe stato un viaggio molto breve, probabilmente di un paio di giorni. Per questo, quando la sera era rientrato e non lo aveva trovato, non si era preoccupato: neanche il suo silenzio era insolito e poi c’era una forte differenza di fuso orario, ci stava che se ne fosse dimenticato. Capitava che si perdesse nel lavoro per ore senza rendersi conto del tempo che passava, soprattutto se si trovava lontano da Idris. Quindi Magnus, esausto per la giornata, si era messo a dormire e non ci aveva più pensato. Aveva iniziato davvero a preoccuparsi la notte successiva, Alec non soltanto non aveva ancora fatto ritorno dalla Svezia, ma non si era neanche mai fatto sentire. Questa era una cosa che proprio non succedeva, ovunque si trovasse ogni giorno gli mandava almeno un messaggio, anche se breve e soltanto per fargli presente che era vivo e stava bene. Neppure quella sera arrivò un messaggio dal suo cellulare. Verso la metà del mattino successivo, Magnus aveva iniziato ad andare nel panico, Alexander non chiamava da tre giorni, era chiaro che in quella missione qualcosa fosse andato storto. Dopo un rapido controllo nel suo ufficio ad Alicante e aver avuto la certezza che neppure con i suoi assistenti si era fatto sentire, aveva fatto un rapido giro di telefonate. Aveva chiamato qualche stregone suo amico che abitava in Norvegia e tutti lo avevano indirizzato verso il sommo stregone di Stoccolma. 

«Mio marito non risponde al telefono e non riesco nemmeno a localizzarlo con la magia» aveva detto, senza lasciar trapelare l’agitazione così come evitando che la voce tremasse in maniera eccessiva. «È l'inquisitore degli Shadowhunters, sarebbe dovuto venire da voi per un’indagine su strani eventi. Forse a opera dei demoni.» 
«Non so niente di attacchi demoniaci» aveva mormorato quello in risposta, lasciando Magnus confuso e spaventato. «Ti conviene parlare con il direttore dell’Istituto, è il solo a poterti dare delle risposte concrete. Se vuoi venire qui a cercarlo sappi che per me non c’è alcun problema, quando sarai qui chiama se hai bisogno di me.» Magnus non poteva proprio dire di non aver apprezzato la sua disponibilità, non erano molti gli stregoni così aperti nei confronti dei Nephilim e tra la sua gente erano ancora in troppi quelli che guardavano con differenza il figlio di Lilith che ne aveva addirittura sposato uno. Aveva anche trovato il suo suggerimento di chiamare il direttore dell’istituto di Stoccolma piuttosto saggio, quasi si era ritrovato ad alzare la cornetta, ma all’ultimo aveva desistito dal farlo. Era vero che avevano firmato gli accordi, che i rapporti tra i Nascosti e gli Shadowhunters erano migliorati al punto che adesso anche Idris aveva un proprio Sommo Stregone, ma non tutti i figli dell’angelo erano aperti e disponibili nei suoi confronti e lui, il direttore dell’Istituto di Stoccolma, non lo aveva mai neanche visto. Il lavoro che lui e Alexander stavano facendo in questo senso era una paziente opera di convincimento. Il mondo, così come gli aveva detto una volta il suo dolce confettino, non lo si cambiava in un pomeriggio. Ragion per cui, prima di fare alcunché, era andato a Brooklyn perché se c’era una cosa che negli ultimi due anni aveva imparato era che durante una crisi niente era meglio che affidarsi alla propria famiglia. Il fatto che la suddetta famiglia fosse composta per la maggior parte da Nephilim e che uno di loro fosse addirittura il Parabatai di Alec, andava ovviamente a suo vantaggio. Certo, non poteva dire che la prima cosa che avesse fatto fosse stata quella di usare le risorse degli Shadowhunters per cercare suo marito, in effetti la prima era stata litigare con Jace. 


«Saresti dovuto venire qui come prima cosa e invece scopro che mio fratello è sparito da ben tre giorni» lo aveva rimproverato quel biondino supponente, lanciandogli un’occhiata truce. Erano sempre andati più o meno d’accordo, anche se non avevano stretto un vero rapporto di amicizia. Qualche volta avevano discusso, ma non avevano mai davvero litigato, non come avevano fatto in quei primi minuti di accesa discussione. Fu Magnus il primo a gettare la spugna, alla fine Jace aveva ragione, sarebbe dovuto andare da loro molto prima. Se non l’aveva fatto era stato soprattutto perché non voleva fare la figura del marito paranoico che appena gli capita di non sentire l’uomo che ama per ventiquattr’ore, va nel panico. Non era un qualcosa che faceva parte del suo carattere, anche perché nell’ultimo anno e mezzo era successo che i rispettivi lavori assorbissero lui e Alec al punto da costringerli a trascorrere del tempo separati; aveva fatto l’abitudine ai suoi viaggi in giro per il mondo. Questa volta però era diverso, se aveva paura era anche colpa della strana sensazione che gli faceva formicolare la nuca e che non prometteva niente di buono. A tutti gli stregoni capitava di fare sogni premonitori o di avere delle visioni che consentivano di vedere più chiaramente il futuro, ma in questo caso se chiudeva gli occhi e si concentrava non vedeva un accidenti di niente e nessun sogno popolava il suo riposo. Non faceva che ripetersi che in realtà il suo non aver avuto premonizioni fosse un aspetto positivo, di solito le visioni di uno stregone preannunciavano eventi infausti, ma se invece erano i suoi poteri ad avere qualcosa che non andava? Magari era per questo che non riusciva a localizzarlo. Il suo potere non derivava dalle rune, come per gli Shadowhunters, ma dalla magia dei demoni. Nulla era davvero in grado di impedirgli di trovare qualcuno, neanche le rune di blocco. Probabilmente era l’ansia a rendere più fiacca la sua magia. D’altronde era talmente agitato che neanche riusciva a stare fermo, non dormiva da più di trenta ore, aveva mangiato poco o niente e neppure giunto all’Istituto, con Isabelle che controllava quei fastidiosissimi schermi, era stato in grado di calmarsi.
«Quando l’hai visto l’ultima volta?» aveva domandato Izzy, armeggiando con una tastiera. Stava facendo ricerche su casi di attacchi demoniaci in Svezia, ma sino ad allora non era uscito niente di rilevante.
«L’altra mattina» aveva risposto Magnus, lasciandosi cadere su una sedia e affondando il volto tra le mani. Tremavano e anche la voce era fastidiosamente roca, si sentiva un perfetto idiota incapace di controllarsi. Ma si trattava di Alexander, come poteva non preoccuparsi? Inspirando lentamente e mettendosi meglio a sedere, riprese a raccontare, doveva essere preciso se voleva aiuto: «Eravamo entrambi in ritardo, dovevo andare dalla console Penhallow per rinforzare le sue difese, ho aperto un portale per Alec, avrebbe dovuto portarlo di fronte all’Istituto di Stoccolma. Mi ha salutato e lo ha attraversato. Non lo sento e non lo vedo da allora.»
«Magari è semplicemente molto impegnato» aveva osservato Simon, intanto che Clary annuiva concorde. Magnus la guardò con affetto, ancora non si era abituato al suo ritorno e di tanto in tanto si stupiva quando se la trovava davanti. Era stata senza memoria per un anno, durante il quale aveva vissuto un’esistenza da mondana, frequentando la scuola d’arte di New York. Poi un giorno le era tornata la vista, ovvero la capacità di vedere attraverso gli incantesimi e con il passare dei giorni aveva iniziato a ricordare, da allora lei e Jace non si erano più lasciati. Era felice per loro e anche per Simon e Izzy che ormai erano una coppia consolidata. Ci pensò per un istante o due, salvo poi venire nuovamente dominato dall’agitazione.
«Non Alec!» negò, vibratamente rimettendosi in piedi e scrollando il capo con vigore. «Persino quando è andato in Brasile, con tutti i problemi che avevano laggiù, trovava il tempo di chiamarmi, anche solo per la buonanotte. Vi dico che è successo qualcosa, non è da lui sparire così.»
«Dai dati che ho trovato non risultano eventi significativi che giustificherebbero la presenza dell’Inquisitore. Se esistono, i file sono secretati» li informò Isabelle. Magnus non riuscì a non notare che, nonostante l’impedimento alle sue ricerche, non sembrava contrariata. Stranamente pareva orgogliosa, di suo fratello per la precisione. Quando avevano proposto la carica di Inquisitore ad Alec, la seconda più alta di Idris, erano stati tutti molto fieri di lui. E il suo adorato fiorellino era molto rigoroso nel proprio lavoro, quindi di ciò che faceva in ben pochi ne erano a conoscenza.
«E quindi che si fa?» mormorò Clary, dondolando sui talloni intanto che giocherellava con il proprio stilo come se fosse stato una matita.
«Semplice: chiamo il direttore dell’Istituto di Stoccolma e vedo cos’ha da dirmi, nel caso organizziamo una missione di ricerca.» Izzy non ci aveva impiegato molto per prendere il telefono e fare quella chiamata, era stato sufficiente andare nel proprio ufficio, perché in quel modo avrebbe avuto ancora più privacy. Ci aveva messo ancor meno tempo per iniziare a inveire contro il suddetto direttore. Sembrava infatti che Alec non fosse mai arrivato e che nessuno avesse pensato di avvisare Idris.
«Credevamo avesse altro da fare» aveva risposto quello, intanto che Isabelle inveiva con ancora più determinazione, urlando e sbattendo i pugni sul tavolo. Anche lui era arrabbiato, in effetti era a dir poco furioso. Quando mai il suo fiorellino aveva mancato alla parola data? Sapeva che lui e quel Nephilim, di cui ignorava il nome, avevano parlato al telefono la sera prima che Alec partisse per la Svezia, restandoci per una buona mezz’ora; quindi perché non avvisare? Magnus se lo stava domandando intanto che vedeva Clary prendere stilo e telefono e attivare la runa di localizzazione. Non era pratico al cento per cento delle rune degli Shadowhunters, sapeva distinguerle perché Alec glielo aveva insegnato, ma il suo interesse era più che altro legato al fatto che suo marito avesse il torace interamente ricoperto di quei segni e che ognuno di essi fosse particolarmente sensibile al tocco. Sapeva che, se attivate, certe rune conferivano maggior forza o abilità, altre invece servivano per localizzare. Osservando le espressioni di Clary farsi largo attraverso i suoi occhi chiusi, non gli ci volle molto per capire che non stava funzionando a dovere. Era tutt’altro che confortante.

«Qualcosa non va, biscottino?»
«Non riesco a trovarlo» replicò lei. «Può essere perché sta dall’altra parte del mondo. Adesso prova Jace a localizzarlo, nessun legame è più forte di quello dei Parabatai» aveva spiegato lei, annuendo con un sorriso dolce, che Magnus trovava anche tanto rassicurante. Jace aveva afferrato il proprio stilo e lo aveva passato sulla runa che condivideva con Alec. Il loro legame era il più forte di tutti, Clary aveva ragione e Magnus questo lo sapeva bene dato che il suo confettino era quasi morto per via di quella stupida faccenda dei Parabatai. Però almeno riuscivano a trovarsi con molta più facilità. Se soltanto Jace non fosse stato così odioso e se non ce l’avesse avuta ancora con lui, come se il suo obiettivo fosse quello di farlo sentire in colpa, magari avrebbe anche potuto ringraziarlo per essersi offerto di cercarlo. Decise invece di tacere e appoggiare il sedere su una scrivania che ben conosceva, in effetti ci avevano anche fatto sesso là sopra. In quel momento si trovavano infatti tutti quanti nell’ufficio di Isabelle, lo stesso che un tempo era stato di Alec, Jace era seduto in poltrona davanti a un camino acceso e scoppiettante, teneva gli occhi chiusi e le labbra serrate. Forse quel biondino aveva ragione a odiarlo, aveva aspettato troppo e non era neanche riuscito a spiegare perché i suoi poteri avessero fatto cilecca. Magnus non volle pensarci in quel momento, così come evitò di soffermarsi sulle possibili conseguenze del suo indugiare in certi pensieri negativi, in quel momento non gli importò neanche delle liti con il fratello di Alec, sperava solo che funzionasse.

 

In effetti si ritrovò ad ammettere che era merito di Jace se non era ancora andato nel panico. Suo marito era letteralmente svanito nel nulla, non dava notizie di sé da quasi tre giorni e non era mai neanche arrivato in Svezia. Era in ansia, anzi molto più di questo, era spaventato a morte, ma i Parabatai potevano sentirsi a vicenda e Jace era stato molto chiaro a riguardo: Alec era vivo. Una delle ragioni per cui non si era allarmato, gli aveva detto tra un insulto e l’altro, era perché non aveva percepito nulla di particolarmente preoccupante provenire dall’altra parte del legame. Stando a quanto diceva, oltretutto, stava anche bene.
«Lo sento» aveva detto a un certo punto, spezzando il silenzio di quella stanza. Ansiosi, gli occhi di tutti si spostarono su di lui. «Percepisco paura, incertezza e… non so mi sembra assurdo.»
«Che cosa?» lo incalzò. «Che succede ad Alexander?»
«Ho la strana sensazione che sia felice, molto felice in realtà. Felice come dopo la sua prima volta o dopo il matrimonio, quel tipo di felicità.» Magnus serrò i denti, stringendo i pugni. Lo aveva già detto che era snervante tutto quello? Già trovava imbarazzante l’idea che quando facevano l’amore, il suo Parabatai lo intuisse da chissà che cosa, ma ora doveva pure quantificare la loro felicità?
«Non ha molto senso in effetti» arguì Isabelle, meditabonda, forzandolo a tornare al presente. La sua osservazione era corretta, non aveva granché senso che Alec stesse bene. Se era stato rapito si presumeva che fosse spaventato, giusto?
«Magari l’hanno drogato» osservò Simon, con fare saggio «alcune droghe danno una sensazione simile. Credetemi, mi sono strafatto di plasma una volta.»
«Se gli hanno dato qualcosa, questo non lo so» se ne uscì invece Jace, alzandosi dalla poltrona con uno scatto agile. «Si trova però in Europa, ne sono sicuro. Dove, non ne ho idea. Direi di iniziare a cercare andando a Stoccolma, una volta attraversato l’oceano sarà più facile per me localizzarlo. Sono sicuro al cento per cento che non sia nulla di grave, per quel che ne sappiamo lo stesso direttore potrebbe averci mentito.» Questo poteva anche essere in effetti, non ci aveva pensato finora perché era vero che gli Shadowhunter tendevano a essere omertosi e a nascondere certe cose ai Nascosti, ma in questo caso si trattava dell’Inquisitore mandato da Idris. Anche se Magnus non si fosse allarmato tanto presto, la console Penhallow e il Clave avrebbero voluto avere notizie di lui e avrebbero mandato degli agenti a indagare. Qualunque cosa stessero facendo lassù, non gli pareva un piano ben congegnato.
«Qualunque cosa sia successa io vado» proruppe Magnus, agitando le mani come a voler fare un incantesimo. Avrebbe fatto apparire una borsa per il viaggio e si sarebbe cambiato d’abiti perché ricordava che a Stoccolma in quella stagione faceva piuttosto freddo. All’ultimo momento, però, la voce di Isabelle lo interruppe.
«Noi veniamo con te!» esclamò, decisa, intanto che tutti quanti annuivano. Oh, non se ne stupiva affatto.
«Sei sicura di poterti allontanare, mia cara?» domandò rivolgendosi direttamente a Izzy.
«L’edificio non crollerà se mi assento qualche giorno, lascerò il comando a Underhill e comunque sarò a un portale di distanza. Ora la mia priorità è scoprire cos’è successo a mio fratello e in ogni caso non ce la faresti mai da solo, ti servirà uno Shadowhunter per entrare in Istituto. Non daranno accesso a uno stregone qualsiasi spuntato dal nulla.»
«Ehi!» si inalberò, lisciandosi la giacca e sollevando il mento come a volersi dare un tono. «Io non sono uno stregone qualsiasi, sono il Sommo Stregone di Alicante, che è la città degli Shadowhunter.»
«Va bene, Sommo Stregone dei miei stivali» ironizzò Jace, sedando la discussione. «Tagliamo corto e prepariamoci a partire. Il mio Parabatai è disperso e per quello che ne so potrebbe anche essere nelle mani di un sadico bastardo in questo momento.» Magnus evitò di ribattere e fargli presente che voleva trovarlo tanto quanto lui, forse persino di più. Perché in effetti quel biondino saccente aveva ragione: trovare Alec era la priorità al momento e non dovevano perdere tempo in chiacchiere. Quindi scelse di tacere e pensare al proprio equipaggiamento. Anche dopo che rimase solo, una volta che gli Shadowhunter e Simon si erano dispersi così da darsi appuntamento entro un quarto d’ora, evitò con tutto quanto se stesso di cedere alla paura. Non faceva che ripetersi che Alec era vivo, che era quella la cosa più importante. Sapeva che, essendo immortale, un giorno avrebbe dovuto dirgli addio e rimanere solo, ma non era ancora il momento. Era troppo presto, prima avrebbero dovuto vivere una vita felice uno accanto all’altro. Erano sposati da appena un anno, non poteva perderlo di già. Lasciandosi cadere sul divanetto dell’ufficio di Isabelle, Magnus affondò il volto tra le mani, percepì il freddo del metallo degli anelli sulla pelle accaldata del viso. Si ricordò della sua fede nuziale, di tanto in tanto si ritrovava ad accarezzarla, a girarla attorno al dito più e più volte, era un gesto che lo calmava. Quel giorno, chiudendo gli occhi, cominciò ad accarezzare l’anello di famiglia dei Lightwood, nella speranza che facesse il miracolo. Non riuscì davvero a calmarsi, ma non era soltanto per via della scomparsa di suo marito, c’era qualcosa nell’aria di molto insolito. Percepiva un’elettricità strana, era come se avesse la sensazione che stesse per succedere qualcosa di importante, ma non aveva idea di cosa potesse essere. In passato gli era capitato di provare cose simili, di fare sogni premonitori o percepire formicolii strani, ma erano sempre state sensazioni negative. Questa stranamente era positiva. Magnus non riuscì a darsi una spiegazione valida e, cambiatosi d’abito, si ritrovò a percorrere i corridoi senza più voler pensare a niente.

 

 

Il direttore dell’istituto di Stoccolma era un omaccione con una chioma di capelli biondi legati da un elastico a formare un codino, una folta barba dello stesso colore e due occhi azzurri freddi come il ghiaccio, che li avevano squadrati uno per uno dopo che aveva spalancato il pesante portone della chiesa. Si chiamava Erik o così aveva dichiarato Isabelle, aveva una costellazione di minacciose rune che gli impreziosivano le braccia scoperte e aveva abbaiato un mezzo insulto a denti stretti quando si era trovato quel folto gruppo di Shadowhunters alla porta, accompagnati da uno stregone e un vampiro.
«Tu sei il diurno?» aveva chiesto, scrutando Simon con sospetto. Non si erano materializzati direttamente dentro l’Istituto, Izzy aveva detto che era da maleducati entrarci senza essere stati invitati prima. Quindi Magnus aveva scelto come punto di arrivo l’esterno della chiesa Cattolica dove questo era situato. Come sempre gli Istituti dei Nephilim erano costruiti dentro antichi edifici religiosi, questo si affacciava sul mar Baltico e aveva una spettacolare vista del sole che si rifletteva sulla superficie dell’acqua, creando stupefacenti giochi di luce. Quell’Erik doveva aver capito tutto riguardo Simon, a vederlo era chiaramente un vampiro e considerato che era pieno giorno e che lui se ne stava sotto al sole di metà mattina… Beh, ci sarebbe arrivato chiunque.
«Sono io, signore» mormorò Simon, deglutendo a fatica intanto che non distoglieva lo sguardo da quel tizio alto due metri.
«Ho sentito parlare di te» borbottò e aveva un modo di fare rude e spiccio, una voce roca e profonda che incuteva timore. Quando dopo qualche istante posò gli occhi su di lui, squadrandolo da capo a piedi e addirittura inarcando un sopracciglio nel notare la capigliatura a porcospino, Magnus sentì un qualcosa di spiacevole agitarsi dentro lo stomaco. Era come se lo stesse giudicando e non gli piaceva affatto.
«Tu invece sei il marito dell’Inquisitore?» gli chiese poco dopo e forse era soltanto paranoia, ma non stava usando un tono accusatorio? Sapeva che i tempi erano cambiati anche per i figli dell’angelo e che ormai l’omosessualità era vissuta in maniera più aperta, anche grazie al suo confettino e al suo coming out che aveva ispirato moltissime persone, ma quello pareva quasi avercela con lui. Furono i secoli di esperienza che aveva alle spalle, a evitare uno scontro. Aveva imparato che era più saggio non sfidare uno Shadowhunter quando questi sembra avercela con te e poi non aveva tempo da perdere: doveva trovare Alec.
«Magnus Lightwood Bane, Sommo Stregone di Alicante» si presentò, sorridendo in maniera affabile, chinando il capo intanto che fingeva una leggerezza che non aveva.
«Siete tutti Lightwood?» domandò questi. In risposta alzò gli occhi al cielo, ma come si faceva a non conoscerli? Erano forse gli Shadowhunters più famosi del mondo!
«Lightwood» disse indicando Izzy che lo salutò con un sorriso tirato, agitando le dita a mezz’aria. «Questa tutta ginger che ha l’aria di chi vuole farti un ritratto a carboncino, è una Fairchild mentre il biondo dall’aria scema è un Herondale. Presente no?» continuò, sarcastico. «Bellocci, sguardo che uccide… Hanno paura delle anatre!»
«Gli Herondale hanno paura delle anatre?» domandò Erik, scettico, probabilmente pensava che lo stesse prendendo in giro, ma era la pura verità.
«Oh, per Lilith, ma certo che sì! Una volta Will Herondale ha…»
«Tutto questo è molto interessante» lo fermò Jace, frapponendosi tra loro. «Ma noi siamo qui per trovare Alec Lightwood, l’Inquisitore. Il mio Parabatai.» Erik non rispose, continuò a fissarlo assottigliando lo sguardo e dopo qualche attimo di silenzio si scostò dall’ingresso, lasciandoli passare. Non li invitò neppure ad accomodarsi, semplicemente fece loro strada attraverso i corridoi senza aggiungere altro. Non era certo simpatico o accomodante, persino i Nephilim parevano a disagio di fronte a un comportamento così scostante e loro erano cresciuti con Maryse, che per la maggior parte della sua vita era stata fredda come il ghiaccio. Non appena oltrepassò l’ingresso le sue attenzioni vennero catapultate nel luogo in cui si trovavano, Magnus non aveva visitato molti Istituti in vita sua. Era stato una volta in quello di Londra, per via degli Herondale e di Tessa, ma il solo motivo per cui aveva fatto così tanto avanti e indietro da quello di New York era perché si era innamorato di Alec e all’epoca della guerra contro Valentine e Jonathan li aveva aiutati ogni volta che ne avevano bisogno, ma in passato gli era capitato di andarci solo per rinforzare le difese e venire pagato. Il suo vivere ad Alicante non aveva cambiato molto le cose, ogni grande città aveva il proprio Sommo Stregone e, per intrattenere i rapporti con i direttori dei vari Istituti, ci pensavano gli stregoni locali. Per questo motivo si stupì nel trovare un luogo tanto silenzioso e austero, era abituato a enormi sale formicolanti di persone. Qui invece c’erano infiniti corridoi che si snodavano su e giù per lunghe scalinate che percorsero per minuti e minuti in religioso silenzio rotto unicamente dai ticchettii delle loro scarpe, sino a quando non arrivarono in una stanza con molti schermi e diversi computer. Non era granché diversa rispetto a quella di Brooklyn, la differenza era che questa era deserta.
«Non molto popolato questo posto, eh» scherzò Simon, trasudando imbarazzo da tutti i pori e guardandosi attorno con l’aria di chi sta maledicendo se stesso per essere entrato in un luogo del genere. Era un po’ l’effetto che ai Nascosti facevano i luoghi sacri dei Nephilim, trasudavano potere angelico da ogni mattonella e su di loro di tanto in tanto aveva un effetto straniante, era come se l’istinto ti suggerisse costantemente di scappare.
«Ho fuori due squadre» li informò Erik, toccando uno degli schermi e facendo apparire una mappa davanti a loro. Riportava in maniera piuttosto fedele, o almeno così aveva detto quel tizio, ogni metro di quell’Istituto.
«Una di queste sta cercando l’Inquisitore, anche se con scarso successo.»
«Avete raccolto qualche indizio?» domandò Jace, mentre sullo schermo un punto preciso si illuminava di un’intensa luce rossa. «Quando ho ricevuto la vostra telefonata ho fatto subito una ricerca. Le telecamere esterne hanno fatto in tempo a riprendere questo» disse, toccando un secondo schermo, sul quale immagini registrate mostravano un portale che si apriva e Alexander che ne usciva sano e salvo. Almeno non era sparito nel limbo, era già un’ottima cosa. Non che questo lo preoccupasse di meno o non lo facesse sentire più in colpa, al contrario aveva ancora l’impressione che tutti lo accusassero di essere il solo responsabile di quanto accaduto.
«L’inquisitore è effettivamente arrivato, ma dopo qualche istante le telecamere sono saltate. Ho fatto partire una diagnostica, ma ci vorrà del tempo per avere delle risposte. Grazie all’angelo i sensori perimetrali hanno retto e allora ho visto questo, c’è stato uno sbalzo di energia esattamente qui» disse, toccando lo schermo sopra al quale c’era la mappa dell’Istituto, facendo apparire un altro punto luminoso, questa volta molto più intenso rispetto al precedente.
«Eravamo tutti fuori a caccia» disse, indicando l’esterno della chiesa. «I due uomini di guardia non si sono resi conto di niente. Il primo sbalzo di energia è più modesto ed è senz’altro di un portale che…»
«Il mio portale» puntualizzò Magnus, incrociando le braccia al petto. «Ha funzionato correttamente, ma guardate» disse, indicando l’esterno della chiesa, toccando uno schermo che sfarfallò appena. «Lo stesso punto si illumina di nuovo qualche attimo più tardi, ne è stato aperto un altro e molto più potente dei miei. Forse quella luce è quella che ha fatto saltare le vostre telecamere.»
«Quindi Alec è arrivato e poi è andato via di nuovo?» domandò Isabelle, confusa.
«E dove? Ma soprattutto, un portale aperto da chi?» intervenne Jace, stava facendo tutte le domande giuste. Le stesse che anche Magnus poneva a se stesso, quelle alle quali aveva una folle paura di rispondere. «A parte gli stregoni non sono molte le persone che possono aprire un portale di quelle dimensioni, ma l’avete visto? L’energia che ne è scaturita è incredibilmente potente, neanche Magnus sarebbe capace di una cosa simile. L’essere che ha rapito il mio Parabatai è un qualcuno contro il quale scontrarsi potrebbe essere molto pericoloso, se non letale.» Tralasciando il fatto che gli dava fastidio il modo in cui aveva sminuito i suoi poteri, neanche fosse stato uno stregonuccio di poco conto e non il figlio di un Principe dell’Inferno, proprio mentre parlava però era stato accarezzato da un’idea. Una un po’ folle e senz’altro assurda, ma era la sola spiegazione che aveva in quel momento di grande confusione. E poi non avevano altre alternative, la verità era che Jace non aveva affatto torto. Ancora mal tollerava il modo in cui lo guardava, neanche lo stesse incolpando di qualcosa e la sola idea gli faceva saltare i nervi. Però doveva ammettere che aveva ragione su un punto: chi aveva fatto scaturire tutta quell’energia era un qualcuno di incredibilmente potente, molto più di uno stregone. C’era una sola cosa che poteva fare giunto a quel punto, quindi vorticò su se stesso e si incamminò in direzione dell’uscita.
«Dove crede di andare quello?» tuonò Erik «ehi, stregone!» Quando si sentì chiamare in quel modo, Magnus si voltò indietro e vide gli occhi di tutti puntati su di lui.
«Fuori!» esclamò «a controllare le linee di energia. Non sapremo chi ha rapito Alexander fino a che non capiremo che cos’è quella luce.» A quel piano nessuno parve obiettare, nemmeno Erik che, annuendo, fece loro strada in direzione dell’uscita. Una fortuna, pensò Magnus, considerato che aveva la sensazione di trovarsi in una sorta di labirinto.


 

Scoprirono che le linee di energia presenti all’esterno della chiesa per una parte erano quelle tipiche della magia degli Asmodeo, ovvero la stessa grazie alla quale Magnus aveva aperto e chiuso il portale, ma per un’altra parte si trattava di un qualcosa di completamente diverso. Gli intrecci erano molto chiari e non fu per niente difficile distinguere i suoi incantesimi da quelli altrui, a essere incredibile era il fatto che quel qualcosa di sconosciuto che si accavallava alle sue linee di energia sembrava non appartenere a nessun demone nello specifico. Ed era questo a essere strano, oltre che impossibile. In quattrocento anni di vita aveva imparato a riconoscere i Principi dell’Inferno o tutti coloro in grado di aprire dei portali, questi non erano poi molti alla fine dato che la maggior parte finiva sulla terra usando passaggi già aperti. Quando Alec gli aveva parlato di strani eventi a Stoccolma, Magnus si era fatto un’idea un po’ vaga, ma ora che analizzava quelle insolite linee di energia si rendeva conto che non poteva esserci niente di più diverso da un demone infernale. Era sicuro che non fosse niente del genere aver rapito Alec, anzi, per certi versi… Cielo, era assurdo, ma tutto quello gli ricordava i portali che Clary era in grado di aprire grazie alle sue rune speciali. Come giustificare una cosa simile? Non ne aveva davvero idea. Sconfortato, non appena ebbe finito di praticare quell’incantesimo, le mani gli ricaddero lungo i fianchi e le fiammelle blu di magia smisero di formicolargli tra le dita. Guardava fisso nel vuoto intanto che, martellante, un pensiero si faceva largo nella sua testa. Alec aveva parlato in maniera molto generica, ma non aveva spiegato molto sul perché dovesse andare in Svezia. Che problemi avevano in quell’Istituto?
«Allora?» lo incalzò Jace, distogliendolo dai propri ragionamenti. Magnus sollevò lo sguardo su di lui, soffermandosi forse per un istante di troppo a fissarlo: era agitato e faceva di tutto pur di non darlo a vedere. Fra tutti, quel biondino petulante era probabilmente il solo a capirlo davvero. Il suo nervosismo lo si intravvedeva chiaramente nelle maniere ancora più spicce che usava. Forse per istinto, teneva salda la mano sull’elsa della spada angelica che aveva agganciata in vita e i suoi sensi erano in allerta. Era evidente che stesse cercando di trattenersi dal radere al suolo quel posto per trovare suo fratello, ma non ne era poi così sorpreso. Lo aveva già visto prima, Jace e Alec in questo senso erano due Parabatai esemplari. Detestavano di per sé l’idea di rimanere separati a lungo, anche per questo Jace li veniva a trovare spesso ad Alicante oppure era Alec ad andare a New York. Quando capitava che la separazione fosse forzata, come in questo caso, entrambi diventavano insopportabili.
«Perché avete richiesto l’aiuto dell’Inquisitore?» domandò inaspettatamente Magnus, rivolgendosi direttamente a Erik e provocando in Jace un certo disappunto. Come la maggior parte degli Shadowhunter, Alec compreso, detestava essere ignorato.
«Un demone superiore? Un attacco?»
«Beh, in effetti nessuno di noi ha capito di cosa si trattasse. Tuttora io non ne ho idea» mormorò l’uomo, abbassando il capo con fare colpevole. Sembrava aver abbandonato i modi di fare rudi di poco prima, lasciando spazio a un imbarazzo palpabile. Si stava grattando la nuca, stava sulle spine, era agitato e forse si sentiva anche un po’ responsabile di quanto successo. Magnus conosceva quel mondo fin troppo bene, sapeva che ora la console avrebbe potuto anche levargli il posto di direttore. A lui, però, non fregava un accidenti di niente considerato che suo marito era sparito senza lasciare traccia.
«Ci sono stati dei furti» riprese Erik, dopo qualche attimo di indugio. «Alcune armi sono state rubate, ma non sappiamo chi sia stato o perché. E poi anche strani eventi: gli allarmi che suonavano inutilmente, oggetti spariti e cose simili.»
«Armi di che genere?» indagò Isabelle, attenta. Anche lui se l’aveva trovata una cosa strana, le armi nei Nephilim erano ben conservate e loro vi tenevano particolarmente perché era ciò che utilizzavano per compiere la loro missione sulla terra ovvero tenere lontano il male. Era impossibile che queste svanissero nel nulla.
«Spade angeliche, un paio di mazzafrusti, diverse spade corte, un arco e parecchie frecce. Tutto scomparso quattro giorni fa. So per certo che non è stato nessuno dei miei Shadowhunters, le spade che prelevate vengono regolarmente registrate e se anche l’Adamas si incrina, le portiamo dalle Sorelle di Ferro perché vengano riforgiate. Siamo molto attenti in questo senso.» 

«Non può essere stato qualche Nascosto?» indagò invece Simon, anche questa era una possibilità, sebbene molto remota.
«Possibile» annuì Clary, sebbene non sembrasse pienamente convinta. «Ma chi ha sangue di demone nelle vene o ha una malattia o una maledizione demoniaca, come vampiri e lupi mannari, non può usare le spade angeliche come facciamo noi, quindi che senso avrebbe rubarle? Secondo me è stato un altro Shadowhunter e chiunque sia ha fatto sparire nel nulla anche Alec; sei d’accordo, Magnus?»  
«Direi di sì, biscottino» annuì, regalando un sorriso amaro. «Mi sembra chiaro che i due eventi siano collegati. Inoltre c’è la faccenda delle linee di energia.» Non aveva ancora una risposta a questo, si era fatto qualche idea, ma ognuna di esse pareva insensata o forzata. Il guaio era che ogni persona che si ritrovava a fronteggiare in quel momento pretendeva da lui una chiarezza che non poteva dare.
«Parla, Magnus» lo esortò Isabelle, dura e spiccia, ricordandogli tanto la Maryse dei primi tempi. Si somigliavano in maniera incredibile, ma quando Izzy diventava determinata a ottenere qualcosa, sembravano ancora più simili. «Cos’hai scoperto?» Beh, non molto a dire il vero e si ritrovò a dirglielo, rilasciando al contempo un grande sospiro.
«Le linee di energia sono chiare: c’è una magia sconosciuta che si sovrappone alla mia e non si tratta di niente di demoniaco.»
«Ma se non sono i demoni chi può essere stato?» borbottò Simon, senza capire. «Forse sono state le fate, anche se la nuova Regina Seelie sembra essere più ben disposta della precedente nei confronti degli Shadowhunters.»   
«Lo escludo, conosco i loro incantesimi» negò Magnus, scrollando il capo. «Questo è diverso e, so che può sembrare assurdo, ma l’energia che ho trovato assomiglia a quella dei tuoi portali, Clary.» A fronte di quella rivelazione, nel gruppo scese il silenzio. Magnus notò il modo in cui anche Erik aveva sollevato lo sguardo in direzione della ragazza dai capelli rossi, fissandola come se soltanto allora si fosse reso conto di chi avesse davanti. Tutti gli Shadowhunters sapevano del suo straordinario potere legato alle rune, aveva anche riferito al consiglio le sue abilità, mostrandole a chiunque glielo chiedesse. Molte di quelle che aveva creato, come la runa anticoncezionale, * erano diventate parecchio famose e molte Nephilim la utilizzavano. Presto però era diventato evidente che l’abilità di creare portali e quella di irradiare pura luce angelica dalle mani fosse un qualcosa che soltanto lei riusciva a fare, probabilmente aveva anche fare con il sangue di Ithuriel che le scorreva nelle vene.
«Cosa stai cercando di dire? Io non…»
«Lo so, biscottino» mormorò Magnus, comprensivo. Per un istante venne dominato dall’istinto di abbracciarla e darle conforto, o cercare in lei un sostegno di cui aveva un disperato bisogno. Invece serrò i pugni e si limitò a farsi avanti di un passo, parlando con voce chiara: «Non penserei mai che tu possa fare qualcosa ad Alexander, dico solo che l’energia che ho trovato era angelica e questo può voler dire qualsiasi cosa. Anche che la tua teoria sullo Shadowhunter sia corretta. So che finora tu sei stata la sola a riuscire a creare portali da una runa, ma magari qualcuno è stato in grado di aprirne uno e forse questa stessa persona ha un piano che comprende molte armi e l’Inquisitore. Può essere tutto in questo momento.»
«Va bene, qualunque cosa sia, la cosa importante adesso è capire dov’è finito Alec» tagliò corto Jace, piazzandosi nel mezzo di quel piccolo capannello che avevano formato sul sagrato della chiesa e agendo come se volesse prenderne il comando. Non che la cosa lo sorprendesse, nonostante avesse rifiutato la direzione dell’Istituto per darla ad Alexander, aveva sempre avuto l’indole di agire di testa propria e trascinare tutti quanti con sé.
«Cos’hai in mente?» chiese Erik.
«A New York non riuscivo a rintracciarlo, se non ha attivato la runa di blocco dovrei riuscire a capire dove si trova.» Jace estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni il proprio stilo e lo passò sulla runa di localizzazione, aveva evitato di usare il legame Parabatai perché sapeva che poteva essere pericoloso e ancora stentava ad utilizzarlo. Alec era quasi morto una volta ed entrambi avevano giurato che non avrebbero mai più rischiato di spezzare il legame in quel modo, ma che avrebbero trovato sempre un’altra strada. Eppure Jace fremeva per fare quel passo, non lo diceva, ma riusciva a percepire la sua tensione, la frustrazione di non riuscire a essere di aiuto. La stessa che lo portò a gettare a terra lo stilo con stizza poco dopo. Anche in questo poteva capirlo, i suoi tentativi di capire dove fosse continuavano a fallire miseramente.
«Non sento niente!» sbottò, arrabbiato con se stesso.
«Jace, sai bene che questo può voler dire che ha attivato la runa di blocco. Non cerchiamo strane spiegazioni, se non riusciamo in questo modo, useremo i computer, quell’energia sarà riapparsa da qualche altra parte nel mondo.» Clary aveva perfettamente ragione e mutamente, Magnus ringraziò il suo buonsenso e l’innata capacità che aveva di pensare in maniera razionale e trovare sempre la soluzione giusta a ogni problema che le si parava davanti. Dovevano soltanto seguire l’energia e avrebbero trovato anche Alec.
«E se così non fosse?» replicò Jace, agitando le mani in aria come se fosse impazzito. «Quello che abbiamo visto non era un comune portale, magari lui è qui, ma non è qui.» Magnus riuscì a capire quello che stava dicendo soltanto perché era il più vecchio di tutti e aveva la mente abbastanza allenata da essere in grado di afferrare anche i più contorti ragionamenti.
«Stai forse suggerendo che Alexander sia in un’altra dimensione?» gli domandò con voce incredula. «Perché è semplicemente ridicolo. Esistono dimensioni demoniache e in una siamo anche stati, ma non esistono “Altre dimensioni”» borbottò Magnus, incrociando le braccia al petto. E se anche fossero esistite non aveva la minima idea di come arrivarci, era Ragnor l’esperto di portali dimensionali, non lui. ** Ma quel cetriolo andato a male aveva pensato bene di farsi ammazzare! La risposta a quel problema non era così tragica, se c’entravano gli angeli era più probabile che Jace fosse confuso, che la loro magia interferisse con rune e il rintracciamento, anche con il legame Parabatai a dirla tutta.
«So quello che sento» si intestardì Jace, indurendo le espressioni del volto.
«Quello che senti ora come ora potrebbe non valere un accidenti di niente» gli fece presente Magnus, alzando la voce. Lo stava facendo proprio infuriare! «Se ci sono gli angeli di mezzo, Dio solo sa perché, allora potrebbero interferire con le tue preziosissime rune e il tuo santissimo e intoccabile legame Parabatai dei miei stivali!» Non avrebbe voluto essere tanto acido e neanche avrebbe dovuto prendersela con Jace, in fondo avevano lo stesso obiettivo e come aveva detto si rendeva conto di quanto fosse spaventato. Il fatto però era che quel biondino lo irritava, pensava sempre di avere ragione e non accettava critiche di alcun genere né tollerava di essere contraddetto. E comunque sapeva benissimo che gli stava dando la colpa di quello che era successo, forse non lo aveva ancora espresso a parole, ma era dall’inizio di quella brutta faccenda che gli lanciava strane occhiate. Era colpa sua e come poteva non esserlo? Aveva aperto il portale, probabilmente lo aveva spedito chissà dove senza rendersene conto. E poi aveva aspettato tre giorni prima di allarmarsi, avrebbe dovuto muoversi prima, forse avrebbe potuto salvarlo, forse… Forse non si sarebbe sentito così terribilmente in colpa e spaventato. Lo sapeva già da solo, questo, non era il caso che arrivasse uno Shadowhunter a ricordarglielo. Proprio per questo non riuscì a essere comprensivo e accomodante, sebbene si rendesse conto del fatto che Jace fosse spaventato tanto quanto lui e vivesse nell’incertezza, aveva come una rabbia che gli ribolliva nello stomaco e che non era capace di trattenere.
«Tu dici così solo perché sei geloso del rapporto che ho con lui, lo sei sempre stato» proruppe Jace mentre Clary accanto a lui alzava gli occhi al cielo e Isabelle già si frapponeva per sedare una, ormai piuttosto probabile, discussione.
«Io geloso di te?» rise, forzando un divertimento che non aveva. «Io? Il sommo Magnus Bane geloso di un ragazzino petulante e saccente? Ma per favore, casomai è vero il contrario. Fin dal giorno in cui ho conosciuto tuo fratello non mi hai mai sopportato.»
«E facevo bene a detestarti!» esclamò lui, rabbioso. «Guarda che hai combinato, il mio Parabatai è scomparso a causa tua. Tu hai aperto il portale, tu lo hai spedito chissà dove.»
«Ma come ti permetti? Tu, brutto idiota, brutto…» Magnus non aveva mai usato la propria magia contro un qualcuno che non gli avesse fatto un torto o che non avesse tentato di ucciderlo, non era quel tipo di stregone. In quel momento però la rabbia che nutriva nei suoi confronti era talmente tanta, che non soltanto mentre parlava aveva esibito il marchio da stregone e un paio di stupendi occhi da gatto avevano dato bella mostra di sé, ma aveva chiaramente sentito un formicolio tra le dita. Stupido Nephilim! Come osava accusarlo di gelosia? Come si permetteva di far ricadere tutta quanta la colpa su di lui? Non aveva fatto niente di fuori dall’ordinario, ma ciò che faceva ogni giorno ovvero aprire un portale e aveva funzionato, Alec era arrivato a Stoccolma tutto intero, solo che qualcuno lo aveva rapito, che colpa aveva di questo? Come se non fosse già abbastanza insopportabile il pensiero che l’uomo che amava con tutto quanto se stesso fosse sparito nel nulla, e che magari in quel preciso momento qualcuno lo stesse torturnando con l’intento di ucciderlo lentamente. Il giorno in cui lo aveva sposato aveva promesso a se stesso che avrebbe protetto il suo amore a costo della vita e il pensiero che Alexander gli fosse scomparso da sotto gli occhi senza che se ne rendesse conto… Beh, non c’era bisogno di Jace e dei suoi giudizi lapidari, Magnus già si sentiva sufficientemente responsabile da sé. Era un idiota, ma era un idiota arrabbiato ed era sicuro che se un fulmine non fosse caduto dal cielo a pochi metri da dove si trovavano, facendogli venire per altro un infarto, probabilmente avrebbe sfoderato un qualche incantesimo, finendo con il trasformare Jace in un rospo.

 

Fu Simon il primo a farsi avanti, tipico della sua personalità l’essere terrorizzato da un qualcosa, ovvero un fulmine che cadeva in un cielo perfettamente sereno e privo di nubi, ma l’andare comunque avanti. Subito dietro di lui c’era Clary con le sue due spade dalle lame corte e Isabelle, che aveva sfoderato la frusta e pareva pronta a farla schioccare. Jace invece teneva in mano una spada angelica, ora illuminata. Erik era invece rimasto indietro, anche lui aveva l’arma sguainata, ma si guardava attorno con fare circospetto come se da un momento all’altro si aspettasse un attacco di qualche tipo. Il fulmine era caduto al centro della piazza antistante la chiesa, a pochi metri dal portone. A Magnus era venuto istintivo guardare verso il cielo, sebbene sapesse che quel lampo di naturale avesse ben poco. Era stato talmente potente d’aver lasciato una bruciatura sulle mattonelle del sagrato, al cui centro c’era una macchia più chiara, che scoprirono essere un foglio nell’esatto momento in cui Simon si chinò per prenderlo in mano. Era un messaggio di fuoco, o la sua versione angelica e parecchio scenografica perlomeno.


 

“Solo la Magia e il Coraggio potranno oltrepassare il ponte. Appianando le divergenze e unendo le loro forze, la Lealtà verrà salvata e ciò che egli protegge al mondo verrà svelato.”








 

Continua



 

*Per chi fosse arrugginito con i libri, ricordo che questa runa viene creata per davvero. Se ne fa menzione in Dark Artifices.
**Nei libri viene detto che Ragnor è un esperto di portali dimensionali.

 

Note: La storia è ispirata alla puntata 3x08 della serie TV “Merlin”, intitolata “The Eye of the Phoenix”. In quell’episodio Arthur deve superare alcune prove per recuperare un oggetto di grande valore, ma per farlo gli viene detto che dovrà servirsi anche della forza (rappresentata da Gwaine) e della magia (rappresentata invece da Merlin), lui invece personifica il coraggio. Ci saranno alcune similitudini, sebbene nessun Re Pescatore e nessun Tridente magico da recuperare.

 

Mi è stato fatto notare da un utente che ha recensito la mia traduzione a questa storia su AO3, che avevo commesso un errore: avevo scritto che Stoccolma si trova in Norvegia, quando è invece in Svezia. Ovviamente lo sapevo, è stato un lapsus micidiale del quale mi scuso. Dovrei averlo corretto ovunque.
Koa

 

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Capitolo 2
*** Il Coraggio ***


Il Coraggio






 

Quando la voce tremolante di Simon Lewis ebbe finito di leggere il messaggio di fuoco, questo si incendiò, finendo a terra in un cumulo di cenere. Per allora il silenzio era sceso sul sagrato della chiesa antistante l’Istituto di Stoccolma dove un piccolo drappello di Nascosti e Shadowhunters si era radunato. In lontananza poteva sentire i rumori della città farsi sempre più distanti, i suoni del traffico e della natura si mescolavano al vociare dei passanti. Più in là ancora, in direzione del mare, le sirene dei vaporetti esibivano sbuffi di fumo bianco che sporcavano un cielo altrimenti azzurro. Non faceva caldo, ma era passato mezzogiorno e il sole conferiva alla pelle bianca di Jace Herondale un piacevole tepore. E adesso, si chiese ripensando a quell’enigmatico messaggio, cosa sarebbe successo? Gli angeli proprio non li capiva, li aveva sempre invocati pregandoli di proteggere coloro che amava oppure ringraziando Raziel ogni giorno per ciò che aveva concesso loro, dando da bere il proprio sangue a Jonathan Shadowhunter. Da quando avevano cancellato la memoria di Clary facendola diventare una mondana, però, Jace aveva smesso di capirli. E ora che Alec era scomparso e che tracce di magia angelica lasciavano supporre che fossero stati proprio loro a farlo sparire, li comprendeva ancor meno. Aveva bisogno di calmarsi, anche se ormai era difficile persino il semplice concentrarsi senza esplodere di rabbia. Chiuse gli occhi e inspirò lentamente, accarezzato dalla brezza marina che spirava da sud riuscì a portare dentro di sé una pace che da ore sembrava sfuggirgli. Non era solo colpa loro, più di tutto, Jace rimproverava se stesso per quanto successo; come poteva non essersi accorto di niente? Aveva scaricato addosso a Magnus tutte le responsabilità, ma la verità era che lui non c’entrava. Se anche avesse commesso un errore, comunque sapeva che non avrebbe fatto nulla per fare del male all’uomo che amava. Contrariamente a lui, che in più occasioni aveva perso la testa, era anche stato bravo a mantenere la lucidità necessaria e ad andare in cerca di Alec senza lasciarsi dominare dalle emozioni. Jace non era sicuro di star facendo altrettanto bene, il che era ben più grave considerato che uno Shadowhunter non avrebbe mai dovuto lasciarsi influenzare dai sentimenti. Invece che restare freddo e ragionare con logica, aveva accusato Magnus di essere geloso. Era stato un modo per non pensare, per scaricare su qualcun altro la propria frustrazione. Clary gli aveva lanciato uno sguardo di fuoco quando aveva accusato suo cognato di una cosa stupida come la gelosia, probabilmente gli avrebbe anche fatto una bella ramanzina, se quel fulmine non fosse piombato dal cielo a pochi metri da loro. Quando Simon aveva letto il messaggio, un pizzico di speranza gli aveva fatto sussultare il cuore. Era perso senza il suo Parabatai, era come se continuasse a girare a vuoto, quasi sentisse dentro di sé una mancanza asfissiante. Eppure era vivo, forse non era stato in grado di rintracciarlo, ma neanche gli angeli potevano frapporsi a un legame sacro come quello tra i Parabatai. La runa c’era ancora, questa era la sola consolazione che possedeva, ciò che lo spingeva ad andare avanti. Era a quel punto che i suoi pensieri si inceppavano e un tarlo si insinuava dentro la sua mente: e se stesse sbagliando anche a sentirlo oltre che a cercarlo? Si era intestardito sul fatto che Alec potesse essere finito in un’altra dimensione, ma in realtà era quasi sicuro che non fosse così.
«Cosa pensate voglia dire?» mormorò Clary, riportandolo bruscamente al presente. Jace volse lo sguardo al mucchietto di cenere che stava ai piedi di Simon, aveva smesso di leggere, ma la sua voce ancora gli rimbombava nelle orecchie. Cos’era quello che aveva appena sentito? Forse una sorta di indovinello? Magia, coraggio e lealtà, erano tre virtù molto importanti, due delle quali tipiche degli Shadowhunters, ma la magia invece non lo era. O, meglio, i Nephilim utilizzavano la magia angelica, che era molto diversa rispetto a quella dei demoni e molto più finalizzata a sconfiggere il male. Posando gli occhi su Magnus si disse che a quel punto era ovvio dove avrebbe potuto trovare la magia nel loro gruppetto, quello che non riusciva a non chiedersi era dove si trovasse Alec di preciso e perché gli incantesimi di uno stregone fossero una parte fondamentale per ritrovarlo. Che fosse protetto da barriere magiche? Poteva anche essere, ma da quando gli angeli ne usavano? In effetti però avrebbe spiegato perché riusciva a sentirlo, ma non a localizzarlo.

«La prima delle tre credo si riferisca a Magnus» disse Simon, indicando il suddetto. «Nessuno è più magico di lui mentre il coraggio penso sia tu, Jace.»
«Cosa? E perché dovrei essere io, scusa?» si impuntò, anche se in realtà aveva senso, ma era nervoso e trovava molto più consolatorio dare contro a chiunque. «Potrebbe essere Izzy o persino tu, sai?»
«Io non credo» gli diede manforte Clary, ovviamente lei stava dalla sua parte. Non lo faceva con cattiveria e non ne era davvero geloso, nonostante si divertisse a convincere entrambi del contrario. Però di tanto in tanto pensava che se Simon fosse stato uno Shadowhunter invece di un vampiro quei due sarebbero diventati Parabatai, perché si completavano a vicenda e ragionavano nello stesso identico modo. In effetti c’erano momenti in cui in loro rivedeva se stesso e il rapporto che aveva con Alec, anche loro erano molto uniti e si trovavano a loro agio uno a fianco all’altro, anche per questo non riusciva a stare calmo.
«Il messaggio diceva “Appianando le divergenze” ricordate?» proseguì Clary, testarda. «E voi due non avete fatto altro che litigare da quando il nostro amico è scomparso.»
«Penso tu abbia ragione, biscottino» intervenne anche Magnus, ma non sembrava davvero convinto. Di certo non ne era contento, e come poteva esserlo? Lo aveva attaccato dal primo minuto in cui era arrivato in Istituto!
«Penso tu abbia ragione, biscottino» lo scimmiottò Jace, facendo delle smorfie e beccandosi una gomitata di Clary nello sterno, gli aveva anche sussurrato un: “Piantala” a mezza bocca, di modo che soltanto lui potesse sentirla, ma lo sguardo omicida che gli aveva rivolto era piuttosto ovvio.
«Anche se fossimo noi due» continuò, massaggiandosi lo sterno. «Il messaggio non spiega dove dovremmo iniziare a cercarlo e poi che significa che io sono il coraggio? A questo punto se lo stregone è la magia, Alec dovrebbe essere la lealtà. Ma perché? Cos’ha a che fare tutto questo con la sua scomparsa? Il messaggio diceva anche che sta proteggendo qualcosa, ma che cosa?» Jace non si aspettava davvero delle risposte a tutte quelle domande, neanche lui aveva idea di cosa volesse dire. Gli angeli agivano per vie misteriose e in quel momento non riusciva a pensare che ne esistesse una più misteriosa di quella. Era certo di una cosa però: Clary aveva ragione, anche se al momento la sola idea di dover collaborare con Magnus gli faceva venire l’orticaria, e lo faceva anche sentire in colpa perché nonostante si rendesse conto di star sbagliando, continuava a trattarlo male, era la sola cosa sensata al momento.
«Di qualsiasi cosa si tratti la scopriremo presto» se ne uscì Isabelle, indicando con il mento un punto imprecisato alle loro spalle. Non fu necessario voltarsi per sapere quello che stava succedendo, un battito di ciglia più tardi, una bellissima luce calda lo avvolse. Jace sentì tutte le rune attivarsi e illuminarsi, aveva la sensazione che quel poco del sangue di Ithuriel che aveva nelle vene stesse scorrendo ancora più velocemente. Grazie a quello era più abile e veloce di un comune Shadowhunter, ma quando quella luce lo avvolse, Jace si sentì invincibile. E allora chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal calore e baciare da una beatitudine che non aveva mai sperimentato prima. Quando tutto svanì e si ritrovò a sbattere le palpebre, ancora accecate, Stoccolma era sparita. Non era più nel piazzale antistante l’Istituto, ma in una radura circondata da alberi verdeggianti. Al suo fianco c’era Magnus, era avvolto in un cappotto bordeaux pieno di lustrini con dei pantaloni di pelle aderenti e in quel momento si guardava attorno dandogli le spalle. Jace pensava che fosse un po’ meno scintillante rispetto al solito e che i suoi capelli apparissero ancora più flosci, ma un’angoscia come quella che di certo stava provando, avrebbe piegato anche il più gelido degli stregoni immortali. Decise che distogliere le attenzioni da lui fosse una buona idea e quindi guardò verso il basso, notò che stava appoggiando i piedi su un prato verdeggiante, umido di brina. Il sole filtrava a fatica attraverso la fitta schiera di altissimi alberi che li circondavano, era giorno, ma erano all’ombra e faceva anche freddo. Non aveva la minima idea di dove si trovassero, ma se le teorie di Magnus erano corrette, l’angelo doveva averli trasportati altrove.


«Non siamo in una dimensione infernale, questo è sicuro. In genere quelle sono molto meno accoglienti di così» osservò il suo compagno di viaggio, voltandosi verso di lui soltanto allora. Fu in quel momento che notò che aveva il glamour abbassato, un paio di occhi da gatto color ambra lo fissavano intensamente. Era sempre un po’ inquietante quando gli stregoni mettevano in risalto la loro parte demoniaca, ma quel giorno stranamente sentì uno sfrigolio strano dentro lo stomaco. Sembrava eccitazione, anche se non aveva granché senso.
«Che c’è?» gli chiese poi, notando che era indietreggiato e che lo fissava con occhi sgranati. Lo sfrigolio non se n’era andato, anzi aumentava.
«Il glamour… Voglio dire i tuoi… Il marchio da stregone è esposto.»
«Davvero?» replicò lui in risposta, sembrava sorpreso in effetti, come se non se ne fosse reso conto sino a quel momento. Non era un qualcosa che mostrava poi così spesso a dire il vero, gli era capitato di vederli in passato, ma era sempre stato per pochi attimi e il più delle volte mentre compiva un incantesimo. Con uno schiocco di dita, Magnus materializzò tra le proprie mani un piccolo specchio che utilizzò per controllare che stesse dicendo la verità. Lo vide arricciare le labbra e sforzarsi come se stesse provando a nasconderli, ma qualsiasi cosa stesse facendo non sembrò funzionare perché qualche istante più tardi lo specchio sparì e lui, innervosito, incrociò le braccia al petto.
«Penso che i glamour non funzionino qui. Ovunque qui sia» sentenziò. Jace annuì, rendendosi conto del fatto che avesse ragione. Non ne comprendeva il motivo, ma per sicurezza era meglio controllare che le sue rune avessero un qualche effetto. Iniziò dal un semplice glamour quindi estrasse lo stilo dalla tasca dei pantaloni, ma sorprendentemente la runa si attivò da sola, illuminandosi di luce angelica.
«Wow e quello cos’era?»
«Stavo provando a vedere se avevi ragione, ma la runa si è attivata da sé» spiegò, notando che adesso questa era illuminata, ma che niente era successo al proprio corpo. D’accordo, il “Niente glamour” valeva anche per lui, ma a quanto pareva i suoi poteri erano aumentati. Jace chiuse gli occhi e si concentrò su qualcos’altro, la runa della forza si attivò immediatamente senza che lo stilo avesse neanche sfiorato la pelle. Per testarla, si avvicinò a una grossa roccia che stava loro accanto e senza troppa fatica la sollevò fin sopra la propria testa.
«Va bene» mormorò Magnus. Pareva visibilmente colpito dal suo gesto, ma subito un qualcosa di radicalmente diverso adombrò il suo sguardo. «Questo luogo dev’essere speciale.»
«Mh, beh» borbottò, senza davvero sapere cosa dire. Si guardò attorno come a voler cercare di capire se anche gli altri avevano dei problemi a riguardo, ma notò soltanto allora che erano soli. «Dove sono tutti?» Non si aspettava per davvero una risposta a quella domanda, anche perché inconsciamente lo sapeva: se lui e Magnus erano le persone destinate a trovare “La Lealtà”, allora gli altri erano rimasti a Stoccolma.
«Penso che il messaggio dell’angelo fosse letterale, Shadowhunter» se ne uscì Magnus, iniziando a guardarsi attorno come se cercasse di capire in quale direzione procedere. «Temo tocchi a noi due salvare Alexander.»
«Se è così muoviamoci» mormorò, con fare spiccio, sfoderando la spada ed entrando nel bosco, gli era sembrato di intravedere un sentiero appena dopo il limitare e comunque dovevano iniziare da qualche parte. Certo, ragionò facendo qualche passo, quel posto non gli trasmetteva niente di buono. Poteva anche non essere una dimensione infernale, ma almeno se fossero stati a Edom sapeva cosa aspettarsi ovvero orde di demoni inferociti, qui aveva la sensazione che letteralmente qualsiasi cosa sarebbe potuto spuntare da dietro il tronco di un albero. Non che avesse paura, ovviamente, non impersonificava forse il coraggio? 


 

Camminarono a lungo, senza avere idea di dove stessero andando, ma con la certezza che dovessero continuare. Potevano aver inceduto per ore o giorni, Jace a un dato momento si rese conto che non aveva la minima idea di quanto tempo fosse passato. Il bosco era molto fitto, composto da altissimi alberi di sequoie e larici che consentivano di rado alla luce del sole di filtrare attraverso le fronde. A brulicare sul terreno c’era una quantità di vita delle più straordinarie forme e dimensioni, Jace ne era inevitabilmente affascinato. Era una foresta magica, tanto che a tratti aveva avuto l’orribile sensazione di trovarsi all’interno della corte dei Seelie. Quell’impressione, però, subito era svanita perché in quei casi si sentiva a disagio, come se ogni filo d’erba lo stesse sorvegliando. Adesso invece stava bene, anzi era più potente che mai. Piccoli arbusti crescevano lungo quello che era a tutti gli effetti un sentiero battuto. Cespugli di rovi pieni di more e bacche, che Magnus aveva rubato in un paio di occasioni lanciandosele in bocca come se fossero stati popcorn. I funghi erano giganteschi mentre i fiori avevano dei colori tra più sgargianti. Gocce di resina grandi come pugni gocciolavano giù dai pini e poi favi penzolavano dai rami dei lecci, con il viavai incessante delle api che ronzavano, cariche di polline. C’erano farfalle enormi e coloratissime, uccellini che cinguettavano, esseri magici sfuggenti che con la coda dell’occhio riusciva a catturare. Era piuttosto sicuro di aver visto una Pixie a un certo punto e quella che gli era passata di fianco prima era probabilmente una Ninfa.
«Questo posto è davvero strano» commentò Magnus a un certo momento, spezzando il silenzio teso che era sceso su di loro dopo che avevano lasciato la radura. Stavano continuando a seguire il sentiero perché inoltrarsi tra gli alberi era escluso, già faticavano a stare una strada battuta, ma non avevano proprio mai parlato.
«In che senso?» replicò Jace, brandendo la spada e spezzando così l’ennesimo cespuglio di rovi che intralciava il tragitto.
«Non so se te ne sei accorto, Shadowhunter, ma questa foresta è incantata.»
«Certo che l’ho capito, per chi m’hai preso?» replicò, piccato. Non era mica cieco!
«Beh, avrai senz’altro notato che ci sono sia creature Seelie che Unseelie. Unicorni e Satiri che vivono uno a fianco dell’altro? Questo sicuramente è un luogo unico nel proprio genere, forse una terra di confine. Non lo so, non ho mai visto niente di simile in vita mia.» Jace avrebbe voluto rispondere dicendogli che era una novità anche per lui, che non gli era mai successo di trovarsi in una situazione del genere, ma proprio quando stava per parlare, ciò che avrebbe avuto da dire gli morì sulla punta della lingua. Il sentiero volgeva a sinistra e, oltre un altro paio di alti alberi, la strada si apriva al di fuori della foresta dove un pallido sole illuminava l’erba fresca. Jace accelerò il passo, forse erano arrivati, forse… Di nuovo le parole morirono in gola ancora prima di nascere, non erano arrivati proprio per niente. Si trovavano invece al limitare della boscaglia, la quale si apriva su un precipizio che aveva tutta l’aria di essere profondo quanto il cratere di un vulcano. Sulla riva opposta della montagna, a una cinquantina di metri, il sentiero continuava, ma per arrivarci avrebbero dovuto superare un ponte fatto di corda e assi di legno. Niente di complicato, se soltanto questo non fosse stato sorvegliato da un tizio che, appoggiato a un bastone, ora li osservava con un sorrisino salace. Non era alto più di un metro ed era chiaramente una creatura magica, ma Jace non era sicuro a quale specie appartenesse.
«Finalmente siete arrivati, voi due!» esclamò questi, rimproverando entrambi con un’occhiataccia. Sembrava piuttosto impaziente perché batteva freneticamente un piede a terra e ora aveva puntato in direzione di entrambi il rugoso ramo d’albero che aveva in mano e che usava come sostegno.
«Tu» disse indicando Magnus, il quale subito si irrigidì. «I tuoi abiti brillano e anche le tue palpebre. Perché?» chiese, rudemente.
«Mi piacciono le cose che luccicano» ribatté lui, alzando un sopracciglio. «La cosa ti causa problemi, per caso?»
«Per quanto me ne può fregare… solo che lui lo aveva detto» rispose, enigmatico.
«Lui chi? E poi tu chi sei? Una fata?» si azzardò a chiedere Jace e lo stregone al suo fianco sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Che aveva detto di tanto strano? A suo modo di vedere era una domanda lecita.
«Ehi dico, ti sembro forse una fata?» sbottò questi, irritato, indicando se stesso con un gesto plateale della mano.
«Non vedi che è un Leprecauno?» gli fece presente Magnus, intanto che quel tizio sollevava il cappello che aveva sopra la testa, mostrando con orgoglio la pelata ed esibendosi in una sorta di buffo inchino. A ben guardarlo in effetti non ne aveva proprio l’aspetto. Niente orecchie a punta, niente fiori o foglie, nessuna somiglianza ad alberi o piante di varia natura e soprattutto pareva del tutto privo della grazia tipica delle fate. Al contrario era bassetto e molto nervoso, vestiva interamente di verde, portava un cappellone dello stesso colore e aveva una folta barba che arrivava fino a terra.
«Leprecauno?» ripeté Jace, confuso «significa che siamo in Irlanda?» * Ma perché? Fino a un attimo prima erano in Norvegia… D’accordo erano entrati in un portale o, meglio, il portale si aveva completamente avvolti e trasportati altrove. Anche se in effetti non sembrava propriamente un portale, considerato che se ne oltrepassi uno senza sapere dove conduce finisci nel limbo. Erano forse nel limbo? Jace non lo sapeva, ma se così era non se l’era mai figurato in questo modo.
«Puoi ben dirlo che siamo in Irlanda» annuì il Leprecauno, con fierezza. Era né più né meno uno gnomo, ma da quelle parti si facevano chiamare in un’altra maniera, ovvero Leprecauni e andavano molto fieri della loro identità. Guai a confondere gnomi e Leprecauni! Per distinguersi quest’ultimi si vestivano di verde, erano ancora più avari rispetto ai loro simili, stavano tutto il tempo a trafficare con la loro pentola d’oro che custodivano gelosamente. Jace non era sicuro del perché uno di loro stesse a guardia di un ponte invece che pensare ai propri affari.
«Tzé, una fata…» sputò questi, ancora risentito. «E pensare che voi Nephilim dovreste essere quelli intelligenti, ma forse tu sei un’eccezione, Jace Herondale» disse e poté giurare di aver sentito Magnus sghignazzare al suo fianco. Quel maledetto rideva di lui, come si permetteva?
«Ehi, come conosci il mio nome?» si inalberò, in effetti quello era l’ultimo dei suoi problemi attuali.
«So molte più cose di quelle che credi, Shadowhunter. Senz’altro ne so molto di più voi sul vostro amico scomparso» concluse, furbescamente, accennando a un ghigno sarcastico. Gli gnomi, e i folletti irlandesi in particolare, erano famosi per le loro prese in giro. Si divertivano alle spalle della gente dopo aver fatto loro degli scherzi o avergli rubato questo o quello, erano delle scimmie dispettose e quel tizio probabilmente sapeva davvero qualcosa riguardo Alec. Se così era, avrebbe anche potuto rassicurarli, non era il caso di ridere in quel modo.
«Marito, prego» lo corresse Magnus, incrociando le braccia al petto visibilmente risentito. Si intestardiva molto su quella definizione e con tutto quello che ancora passavano per farsi accettare come coppia mista e omosessuale, poteva capire l’oroglio con cui aveva replicato.
«Quello che è» borbottò quel tizio, quindi sollevò il bastone a mezz’aria e con la punta indicò l’altra parte del ponte. «Colui che rappresenta la lealtà si trova in una torre a due giorni di cammino da qui. Il percorso che vi attende è accidentato, si snoda attraverso le Terre Perigliose ** popolate da demoni, fate malvagie e tentatrici, pericolose creature ben diverse da quelle che fino a qui avete incontrato. Per sopravvivere dovrete unire le vostre forze, diventare ciò che ora non siete e che, a ben vedere, non siete mai stati.» A quel punto il Leprecauno si spostò, lasciando loro libero accesso. Jace e Magnus si guardarono negli occhi, aveva già capito che dovevano collaborare, ma aveva l’orribile sensazione che questa loro unione arrivasse a toccare corde che fino ad allora aveva fatto di tutto per non sfiorare nemmeno. Ed era questo a preoccuparlo davvero. Distogliendo lo sguardo, Jace prese a camminare senza guardarsi indietro. Erano arrivati circa a metà del ponte fatto di assi di legno e corde, quando la voce del folletto che li chiamava da lontano, fece voltare entrambi: «Ehi tu, stregone spilungone» gridò questi, Jace non riuscì a trattenere una risatina intanto che Magnus sbuffava.
«Che c’è?» replicò, voltandosi.

«Ciò che ti aspetta alla fine del viaggio è molto più dolce di quanto tu non possa immaginare.»
«Che diavolo vorrebbe dire?» sbottò, facendo per tornare indietro, ma Jace lo fermò tenendolo per una spalla. Non era il caso di far innervosire quel tipetto indisponente o avrebbe potuto anche impedire loro di passare.
«Seguite il sentiero!» urlò il Leprecauno in risposta, la sua voce si spense nella fitta coltre di nebbia scesa improvvisamente sulle loro teste. Non avevano neanche fatto in tempo a fare un passo che il folletto era sparito, la sua risata beffarda aveva riecheggiato a lungo e poi era scomparso. Erano soli in una terra sconosciuta e potevano fare affidamento unicamente su chi avevano accanto.


 

Oltrepassato il ponte si resero conto che era quasi sera e che avevano camminato per gran parte della giornata, quindi stanchi e con i piedi gonfi, scelsero un punto nel quale accamparsi. Non aveva senso mettersi a correre, perché due giorni per arrivare a quella famigerata torre erano molti da percorrere a piedi. Ovunque Alec si trovasse stava bene, la runa che lo legava a lui non era scomparsa e Jace non aveva percepito nessun lancinante dolore. Al contrario, quegli strani sentimenti che provava sin da quella mattina, ovvero un miscuglio di paura e felicità, non avevano smesso un solo attimo di fargli vibrare il cuore. Adesso non doveva fare altro che riposarsi in attesa del sorgere del sole. Jace si ritrovò a benedire Magnus e i suoi poteri da stregone perché quando finalmente si misero d’accordo sul posto migliore nel quale accamparsi, impresa per altro non facile considerato che neanche su quello si erano detti d’accordo, decisero per una piccola radura accanto a un fiumiciattolo, Magnus aveva fatto apparire un’enorme tenda di superlusso dove avrebbero potuto riposare.
«Wow!» fischiò di approvazione notando la ricercatezza dell’arredamento. C’erano due letti singoli con pesanti coperte, morbidi materassi e pigiami puliti. Diverse lanterne erano sparpagliate ovunque e illuminavano una radura altrimenti buia. Da una parte, oltre i letti, c’era un separé e dietro di esso una vasca da bagno piena di bollicine. Al centro della tenda, invece, oltre a un fuoco magico che riscaldava dal freddo, si poteva trovare un tavolo imbandito di cibarie. Magnus aveva appena finito di innalzare una barriera protettiva, quando Jace iniziò a spogliarsi, lasciando cadere il giaccone di pelle sul letto. Non voleva abusare della runa della resistenza, ogni Shadowhunter sapeva che quando si era in missione non bisognava usarle se non era necessario. Dormire quando si poteva e mangiare in abbondanza, questo era quello che avrebbe dovuto fare perché non sapeva quando avrebbe avuto un’altra possibilità di riposarsi. E poi il suo compagno di viaggio gli stava offrendo tutto quello su un piatto d’argento, perché non approfittarne? Doveva ricaricare le batterie e distendere i nervi, cominciare da un bel bagno caldo era la cosa migliore. Fu ciò che fece, senza fare troppi complimenti e accettando anche il cibo caldo che gli aveva offerto e che, a suo dire, aveva comprato a seguito di una lauta mancia a una taverna non molto distante. Jace avrebbe giurato su quanto di più sacro che lo aveva rubato, ma non disse comunque niente, al contrario lo ringraziò timidamente. Ancora una certa tensione si tendeva tra loro, avevano parlato davvero poco, giusto lo stretto necessario o qualche stupido convenevole. Si sentiva in imbarazzo e non tanto per la gentilezza e l'ospitalità di Magnus, ma perché lo aveva accusato di cose inesistenti fino a qualche ora prima mentre adesso il sapere di dover unire le forze lo metteva a disagio. E in più c’era quella sensazione che non passava, uno sfrigolio strano nello stomaco che provava ogni volta che lui lo guardava. Neanche questo era un qualcosa a cui era abituato. Decise di non pensarci sopra troppo, aveva bisogno di dormire e quindi si buttò sul letto, cadendo infine in un sonno profondo.

 

Jace Herondale non poteva proprio dire di aver trascorso una notte serena, se aveva riposato era stato unicamente per via della stanchezza. Le foreste erano rumorose, ma quella lo era molto di più di quelle di Idris che ben conosceva. Nonostante le barriere di Magnus li avessero protetti dalle creature magiche, aveva comunque la costante impressione di essere osservato. Era stato spiacevole, aveva commentato subito dopo che il suo compagno di viaggio aveva fatto sparire la tenda e loro si erano incamminati in direzione dell’imbocco del sentiero, che si immetteva alla fine della radura nuovamente nel bosco. Magnus non aveva neanche fatto in tempo a rispondere, il primo attacco da parte dei demoni arrivò a quel punto. La spianata di erba verde e fresca non era esageratamente grande, ma li trovò comunque allo scoperto, senza un riparo di fronte a un branco di creature demoniache sbucate letteralmente dal nulla, ma soprattutto li trovò poco coordinati. Si trattava di una ventina di demoni, Jace vi si buttò in mezzo a testa bassa senza neppure mettersi d’accordo su come agire. Non lo aveva mai fatto in tutta la vita, non gli venne neanche da pensare a cosa avrebbe dovuto dire allo stregone che gli stava alle spalle e con il quale, in teoria, avrebbe dovuto unire le forze. Era abituato a lottare con Alec, che lo capiva con uno sguardo e gli parava sempre il fianco esposto. Il suo Parabatai spesso lo precedeva nei movimenti, era dentro la sua testa e nella lotta la loro sincronia era perfetta. Da soli, quei venti demoni li avrebbero uccisi tutti in un batter d’occhio. Con Magnus fu più complicato, quasi impossibile a dirla tutta. Ognuno agiva per sé, senza alcun tipo di coordinamento e con modi di lottare del tutto differenti. Spesso si scontravano, dando modo ai loro nemici di farsi ancora più sotto e metterli in difficoltà. C’era stata un’occasione in cui aveva addirittura perso la spada angelica per colpa di un movimento imprevisto da parte di Magnus, e aveva dovuto fare un salto mortale all’indietro per andarla a recuperare. In risposta, lo stregone aveva anche sbuffato come se gli stesse dando dell’esaltato che desidera unicamente mettersi in mostra. Jace si era sentito ribollire di rabbia, ma aveva taciuto per far fuori il demone che gli stava di fronte e che, a quanto pareva, moriva dalla voglia di staccargli la testa.
«Mettiamoci d’accordo!» urlò lo stregone a un certo momento, «ne sono rimasti otto, tu prendi i quattro di sinistra e io i quattro di destra. Va bene?»
«Ok» annuì Jace, brandendo la spada e facendola roteare un paio di volte prima di lanciarsi addosso a un demone che gli stava arrivando da sinistra. Aveva caricato a gran velocità, aprendo le fauci e soffiandogli addosso quel fiato che sapeva di morte. Jace gli amputò la testa con un colpo netto di spada. Quindi si dedicò agli ultimi tre rimasti. Avrebbe dovuto portare più armi con sé, pensò maledicendo se stesso, intanto che squarciava il torace di uno e passava a quello successivo. Ci mise un bel po’ prima di farli fuori tutti e quando si girò in cerca di Magnus si rese conto che la sua metà di demoni era stata letteralmente vaporizzata, tanto che uno strato impalpabile di cenere si era depositato sul prato. I vantaggi di essere il figlio di un Principe dell’Inferno, immaginò. La cosa strana era che non sembrava felice della vittoria ottenuta, se ne stava invece in ginocchio a terra, teneva la testa di un demone tra le mani e piangeva disperato. Jace non ci mise che un istante a rendersi conto che qualcosa non andava. Non sembrava esser stato ferito, il che era il primo aspetto positivo considerato che non aveva la minima idea di come curare uno stregone. Eppure non stava bene, la sua sembrava sincera commozione per la morte di un demone.

«Che succede?» gli chiese, avvicinandosi di qualche passo, ma comunque mantenendo una certa distanza. Lui non alzò neppure il viso per guardarlo, non gli prestò alcuna attenzione, ancora piangeva e pareva non importargli di altro che di quell’essere, o di ciò che ne rimaneva.
«Lo hai ucciso» lo sentì mormorare quando gli fu abbastanza vicino. «Tu lo hai ucciso!»
«Certo che l’ho fatto» disse, quasi ridendo. Non avrebbe dovuto? Nel senso, lui ne aveva fatti fuori altrettanti agitando le mani in maniera molto più teatrale di quanto lui non eseguisse salti e piroette, era forse invidioso perché arrivato per primo? E comunque quello non era il momento di dispiacersi per una cosa del genere, avevano ancora due giorni di viaggio davanti e di esseri come quello ne avrebbero trovati degli altri molto presto, se non si fossero dati una mossa.
«Lui non è un demone, io lo amavo e tu l’hai ucciso!» gridò, con quanto fiato aveva in corpo. La sua voce riecheggiò per in quella radura, stormi di uccelli volarono via dalle fronde degli alberi e, per un istante, tutto si quietò in un silenzio drammatico. «Io lo amavo e tu lo hai ucciso» sussurrò, di nuovo, cantilenando quelle parole mentre le lacrime non smettevano di solcargli il viso. Jace si era sbagliato, non era dispiaciuto perché era arrivato per primo a far fuori quel demone, era disperato per la sua morte. Aveva capito bene, giusto? Aveva detto che lo amava. E questo era davvero troppo strano perché non ci fosse qualcosa sotto. Per istinto indietreggiò di qualche passo quando Magnus si alzò in piedi con uno scatto agile, se riuscì a evitare la sfera di energia che gli lanciò addosso fu unicamente per via dei suoi riflessi da Shadowhunter. La palla di magia bluastra che aveva tentato di colpirlo aveva agitato i suoi capelli dorati e, in risposta all’averlo mancato, lo stregone aveva emesso uno sbuffo stizzito e quindi sibilato un insulto a mezza bocca.
«Ma che fai? Sei impazzito?» gli chiese, parando altri colpi con la lama angelica ed evitandone invece alcuni con qualche salto agile. Sì, quello non era proprio l’uomo che conosceva e che poteva chiamare cognato, gli era successo qualcosa. Ma cosa? Se aveva detto di amare quella creatura voleva dire che era convinto che fosse Alec o magari un qualcosa gli stava facendo credere di provare dei sentimenti per un qualcuno di diverso da suo marito. Ma il veleno dei raull non causava allucinazioni, quindi doveva trattarsi di qualcos’altro.
«Hai ucciso il mio unico amore, il mio Alexander e pagherai per questo.» Nel dirlo aveva urlato, con ancora più cattiveria rispetto a prima. Avanzando con fare sicuro sull’erba non più fresca. I demoni morti che gli stavano ai piedi di tanto in tanto venivano spinti lontano dalla potenza delle sue sfere magiche mentre, in altre occasioni, venivano polverizzati. Doveva pensare alla svelta perché avanti di quel passo lo avrebbe ucciso per davvero. Cosa poteva essere stato a causargli un miraggio del genere? Fu allora che si ricordò delle parole del Leprecauno: aveva definito la foresta che avrebbero dovuto attraversare come un luogo incantato pieno di pericoli. Terre Perigliose, le aveva chiamate così e aveva anche aggiunto che avrebbero trovato fate malvagie pronte a incantarli e a far vedere loro cose orribili. Doveva essere stato vittima di una di quelle fantasie, non c’era altra spiegazione. Il che significava che c’era una fata nei dintorni e che questa lo aveva irretito in qualche modo.
«Magnus, concentrati, sei stato stregato» tentò di dire, ma lui di nuovo gli lanciò contro una palla di fuoco, che riuscì a evitare per puro miracolo. «Alec è vivo.»
«Menti per salvarti la vita, ma io ti ho stanato.»
«Ti sto dicendo la verità!» esclamò Jace, disperato. «Lui è vivo, guarda» aggiunse, scoprendo la spalla sinistra e mostrando la runa che simboleggiava il legame Parabatai. «Se fosse morto sarebbe sparita e poi non lo ucciderei mai. Stiamo parlando di mio fratello, è il mio migliore amico e darei la vita per salvare la sua.» A fronte di quelle parole, Magnus parve tentennare. Aveva smesso di camminare e lanciare incantesimi, adesso guardava fisso nel vuoto. Non lo aveva convinto, serviva qualcosa di più potente, un… Lo vide in quel preciso momento, lo sguardo cadde in basso, all’altezza dei polsi. Magnus aveva un bracciale molto strano che penzolava giù sulla mano. Ne aveva diversi, in effetti, forse per questo all’inizio non ci aveva fatto caso. Sembrava di un materiale naturale come fili d’erba o… rami d’albero, ma certo! Le fate agivano in questo modo quando avevano necessità di irretire qualcuno, ma non erano in grado di avvicinarsi. La fata si era tenuta lontano e manipolava la sua mente, facendogli credere ciò che non era vero. Arrivare a prenderlo non sarebbe stato facile, quindi Jace decise che la cosa migliore era approfittare del suo momento di distrazione. Scattò in avanti con un movimento deciso, Magnus ne fu talmente sorpreso che non oppose resistenza. Si lasciò buttare a terra e spingere contro il terreno freddo e umido, ma quando gli bloccò entrambe le mani, impedendogli di lanciare incantesimi, questi iniziò a scalciare. Si beccò una ginocchiata in pancia, fino a quando non diede un sonoro strattone a quel dannato bracciale, lanciandolo lontano.
«Ti prego dimmi che non vuoi uccidermi.»
«Lo vorrò se non scendi subito dal mio inguine, Shadowhunter!» Oh, grazie al cielo, pensò rotolando via e stendendosi sull’erba, sfinito. Lo aveva stancato più quello, che la battaglia contro i demoni. Magnus pareva stanco tanto quanto lui, aveva usato un bel po’ di energia e neanche lui aveva dato segno di volersi alzare. Al contrario aveva allargato le braccia, inspirando l’aria frizzante e ora stava ammirando il cielo terso del primo mattino.
«Sei stato incantato dalle fate a proposito.»
«Mh» mormorò, annuendo con consapevolezza. «Lo immaginavo. Non è un dramma. Beh, a parte il fatto che ho baciato un demone.»
«Andiamo» scherzò Jace, ridacchiando. «Ti sei fatto di peggio in vita tua.» Lui in risposta soffiò fuori uno sbuffo divertito, probabilmente sapeva che aveva ragione, ma comunque non lo diede troppo a vedere. Al contrario si alzò subito in piedi, schioccando le dita e cambiandosi d’abito. Il lungo cappotto bordeaux che aveva indossato fino ad allora era stato sostituito da una giacca nera con ricami d’argento, mentre le ciocche dei capelli erano diventate rosa e spiccavano in quella pettinatura a porcospino.
«Molto meglio» commentò, aggiustandosi il ciuffo. «Ah, se lo dici ad Alexander ti trasformo in un’anatra, così avrai paura di te stesso.» Jace rabbrividì al solo pensiero, non dubitava che lo avrebbe fatto se avesse rivelato a suo fratello di quella piccola disavventura. Per quanto lo divertisse l’idea di prendere in giro Magnus con quella storia da lì all’eternità, era sicuro che non avrebbe mai azzardato tanto. Alec era drammaticamente insicuro sulle questioni sentimentali e aveva la tendenza a diventare geloso e a costruirsi castelli in aria per un nonnulla. Non voleva certo essere lui la causa di una crisi matrimoniale ad appena un anno e mezzo dal lieto evento, quindi si ritrovò ad annuire concorde. Sarebbe stato il loro piccolo, sporco segreto. Molto sporco, considerato cosa c’era nella bocca di quei cosi.
«Comunque grazie, Jace» se ne uscì Magnus, esibendosi in un inchino teatrale e incamminandosi in direzione del sentiero. Lo aveva chiamato per nome! E senza storpiarlo o far finta di non ricordarlo. L’ultima volta che era successo probabilmente era stato al matrimonio, quando si erano accorti che Clary era sparita e allora i novelli sposi erano accorsi in suo sostegno, Magnus lo aveva anche abbracciato, dicendogli di non preoccuparsi e che sarebbe andato tutto bene. Jace sorrise, l’idea che lo avesse ringraziato in questo modo senza usare stupidi nomi storpiati, gli scaldava un qualcosa di indefinito al centro del petto.
«Prego» mormorò. Lo stregone però era già lontano e sembrava non volerlo neppure aspettare. Jace si levò in piedi in tutta fretta, correndogli appresso per non rimanere indietro. Stranamente era contento. 


 

C’era una cosa che in tutte quelle ore non era proprio passata, la strana sensazione che provava ogni volta che Magnus posava gli occhi su di lui. Stava ancora cercando di decifrare per quale motivo si sentisse tanto scombussolato e siccome non trovava una risposta sensata, fu ciò su cui ragionò nelle ore a venire. I glamour ancora non funzionavano e Magnus manteneva quel suo sguardo da gatto, con tanto di iridi color ambra e fascino felino. Jace ne era turbato e non avrebbe dovuto esserlo, non in questo modo perlomeno. Ne era così ossessionato che poteva comodamente dire di aver fatto di tutto pur di evitare il suo sguardo anche mentre erano impegnati a fare tutt’altro che camminare in rigoroso silenzio. Non era stata una mattinata facile né tantomeno noiosa, ma aveva passato la maggior parte del tempo a procedere a fatica lungo quell’accidenti di sentiero, facendosi strada attraverso cespugli di rovi che diventavano sempre più fitti. Tagliava rami d’alberi a ripetizione e più ne falciava, più si convinceva che fosse tutto inutile e che questi diventassero sempre di più. Se non fosse stato ben allenato avrebbe avuto già male al braccio, da quanto aveva brandito la spada. Jace, però, alla fatica non ci pensava. Ringraziava l’angelo che non avessero incontrato altri demoni o fate assassine, e tanto gli bastava almeno per il momento. Avevano avuto un problema con una pixie che aveva rubato l’anello di matrimonio di Magnus, sfilandolo dal suo dito e poi scappando nel fitto della foresta, al di là del sentiero. Jace l’aveva rincorsa per miglia, fino a quando quella stramaledetta non aveva gettato il suddetto anello nuziale in una pozzanghera e lui era stato costretto a gettarvisi dentro, sporcandosi di fango dalla testa ai piedi. La cosa tragica di tutto era che a Magnus era stato proibito di lanciarsi in quella pozza sporca. Delle radici gli si erano attorcigliate attorno alle caviglie, impedendogli i movimenti mentre un satiro seduto su una roccia, intento a suonare il suo flauto e a guardarli con aria di sufficienza, aveva dichiarato che avrebbe dovuto essere il Nephilim a buttarsi là dentro per recuperarlo, perché se lo stregone avesse toccato l’acqua sarebbe morto all’istante. Alla fine per colpa di quel tuffo inaspettato aveva maledetto Magnus e tutta la sua stirpe, mantenendo il broncio anche quando lui per ringraziarlo lo aveva ripulito dalla testa ai piedi con un po’ di magia. No, non aveva detto un accidenti di niente ed era tornato indietro nella speranza di non aver perso l’orientamento e ricordare dove fosse il sentiero. Jace poteva comunque dire di essersi vendicato una mezzora più tardi quando un falco, beh non era sicuro che lo fosse, ma di certo si era trattato di un essere volante a lui sconosciuto, gli aveva rubato la spada posandola sulla cima di un altissimo albero. Sulle prime aveva lanciato imprecazioni affatto degne di un figlio dell’angelo, poi però aveva sorriso maligno quando Magnus era stato obbligato da un fungo parlante, forse era un fungo perché neanche di questo poteva dirsi sicuro, ad arrampicarsi fin lassù per recuperare la spada angelica. Probabilmente era stato peggio del fare il bagno in una pozza lurida, ma questo Jace si era guardato bene dall’osservarlo. Il suo compagno di viaggio non era certo un Nephilim allenato che poteva usare rune a suo piacimento per potenziare le proprie abilità, inoltre il fungo parlante aveva specificato che non avrebbe dovuto usare la magia, pena la morte di entrambi. Era piuttosto comico, doveva ammetterlo, ma anche tragico soprattutto quando a Magnus era sfuggita la presa, rischiando di cadere da più di dieci metri d’altezza. Jace non era sicuro di come avrebbe detto ad Alec che suo marito era morto per colpa di un piccione e un fungo parlante, ma per fortuna poi era riuscito a riprendere la salita senza ulteriori intoppi. Se arrivare in cima era stato complicato, scendere era stato peggio e a nulla erano valsi i tentativi di Jace di aiutarlo, abbaiando ordini su come fosse meglio muoversi. Era nuovamente stato minacciato di venire trasformato in un’anatra, a fronte di quell’intimidazione si era improvvisamente zittito lasciando che facesse tutto quanto da sé. Alla fine, Magnus se l’era cavata con un banale graffio sul braccio e la camicia strappata, alla quale aveva riparato con uno schiocco di dita. Dopo l’ennesimo cambio d’abiti e un’altra buona dose di insulti che si erano urlati vicendevolmente contro, erano ripartiti.

 

Le avventure non propriamente piacevoli che avevano vissuto in tutto l’arco di quella faticosa giornata avevano ottenuto come risultato l’aver perso una quantità di tempo spropositata dietro a questioni che alla fine non erano altro che sciocchezze. Jace era più arrabbiato che mai con quella stupida foresta e le sue strambe creature che ogni due per tre spuntavano da dietro un angolo, pronte a dargli fastidio. In effetti, però, era arrabbiato soprattutto con se stesso. Quello sfrigolio allo stomaco non aveva accennato un solo istante a volersene andare, anzi persisteva e lo tormentava con sempre più ferocia. Più Jace ci ragionava sopra e più si ripeteva che doveva riguardare Alec. Da quando era arrivato in quella strana foresta aveva la sensazione che il loro legame Parabatai fosse ancora più profondo, che potesse percepire le emozioni di suo fratello con ancora più intensità. Era come se quel pezzetto dell’anima di Alec che stava dentro al suo corpo non fosse più relegato in fondo al suo stomaco, ma ben più presente dentro al suo cervello. Fu proprio con l’intenzione di toccare con mano questo legame potenziato, e anche per esasperazione doveva ammetterlo, che a un certo momento smise di camminare, ficcò con forza la spada nel terreno e si mise a sedere sul tronco di un albero caduto che stava di traverso al sentiero, impedendo loro di proseguire. Di norma lo avrebbero saltato agilmente, ma Jace quella volta rinunciò all’idea di andare avanti, Magnus già lo stava osservando con una punta di divertimento.
«Stanco, Shadowhunter?» lo provocò il suo beffardo compagno di viaggio. Si divertiva piuttosto spesso a stuzzicarlo, ma era praticamente certo non era realmente arrabbiato con lui, sebbene ne avesse tutte le ragioni. Non gli aveva mai chiesto scusa per averlo accusato della scomparsa di Alec o per aver insinuato che fosse geloso di lui, non aveva neppure smesso di sbraitargli contro a ogni buona occasione o di contestare tutte le proposte che suggeriva, persino quelle con le quali in teoria si sarebbe trovato d’accordo. Era più forte di lui e se Clary fosse stata lì lo avrebbe certamente obbligato a essere gentile. Avrebbe avuto ragione, pensò Jace, incrociando le gambe e rilassando la postura. Ora però non poteva pensarci.
«Zitto, devo sentire» sussurrò, chiudendo gli occhi intanto che prendeva lunghi e profondi respiri. Percepiva la terra bagnata che sporcava la corteccia sotto al suo sedere, inumidirgli i pantaloni. Aveva l’odore di erba nelle narici e quello intenso e dolciastro di un grosso fiore viola alto almeno cinque metri, i cui petali gli accarezzavano una tempia. Inspirò una seconda volta ancora più lentamente mentre svuotava la testa da ogni pensiero e si concentrava su suo fratello. Aveva bisogno di calma per scavare a fondo dentro se stesso e cercare quel punto di confine dove finiva Jace e iniziava il suo Parabatai.
«Cosa devi sentire?»
«Alec» disse a voce bassa. Era suonata come una risposta, ma forse era più un’invocazione a suo fratello, un modo per richiamare la sua attenzione ovunque egli si trovasse al di là di quei rovi. Ovviamente tanto bastò perché Magnus si mettesse in allarme. Se fino ad allora era stato in piedi a una certa distanza, subito gli fu vicino, in ginocchio di fronte a lui.
«Sta bene, vero?»
«Sta bene» replicò, aprendo un occhio e spiandolo di traverso «ma c’è una cosa che devo capire quindi ora sta’ in silenzio.» E Magnus lo fece, obbedendo a quanto gli aveva detto e sedendosi tra l’erba bagnata di rugiada, non meno agitato né per davvero rassicurato. Nonostante l'apparenza giocosa e disinteressata, quello stregone petulante aveva ancora paura di perderlo. E Jace poteva capirlo forse meglio di chiunque altro, ma invece di fargli comprendere realmente cosa provava in quel momento, decise di tacere. Forse più tardi avrebbe detto tutte quelle parole che gli erano rimaste incastrate in gola e che non si azzardava a dire, ora doveva pensare soltanto ad Alec. Magnus lo guardava intensamente, ma questa volta non si sentiva a disagio. In effetti, Jace era già altrove. A essere incredibile fu il fatto che non avesse bisogno di usare lo stilo né di ricorrere a incantesimi da stregone per amplificare il contatto, questo era già molto più forte di quanto non fosse di solito. Per certi versi il legame dei Parabatai restava ancora un mistero perché, a seconda delle persone, funzionava in modo diverso. C’era chi era in grado di sentirsi con molta più facilità, chi invece faticava. Alcuni avevano una grande affinità di coppia, altri molto meno. Lui e Alec appartenevano alla categoria di chi aveva un legame intimo e profondo, ma quello che sentiva adesso era diverso da tutto ciò che aveva sperimentato in precedenza. In alcuni momenti, come quando Magnus lo guardava con i suoi occhi da gatto, aveva la sensazione che l’anima di Alec fosse molto più presente rispetto a quanto non fosse di solito. I suoi stessi sentimenti, che percepiva in un miscuglio di felicità e paura, così com’era da qualche giorno a questa parte, erano ancora più definiti. Queste erano cose che già sapeva, ma chiudere gli occhi e concentrarsi gli diede modo di comprendere ciò che aveva bisogno di sapere. Alec era lì con lui e gli bastò crederci perché se lo trovasse davanti. Era come se lo vedesse dietro le palpebre chiuse, non era un sogno o l’illusione di una fata, era incredibilmente reale. Aveva la strana sensazione di galleggiare nel vuoto, in una sorta di limbo inconsistente fatto di un’atmosfera gelatinosa. Non c’era nulla attorno a loro, non vedeva il luogo in cui era tenuto prigioniero, ma soltanto la sua anima a volare a mezz’aria. Subito cercò di capire se aveva qualche ferita o se riusciva a notare segni di corde o catene ai polsi, ma nulla di tutto questo gli saltò agli occhi. Era sempre il solito, soltanto un po’ più sorridente di quanto non ricordasse.
«Stai bene? Sei ferito?» chiese, in un sussurro. Sapeva già la risposta, ma aveva bisogno di sentirselo dire. Avrebbe anche voluto toccarlo e abbracciarlo per accertarsi che tutto quello fosse reale, ma aveva la brutta impressione che se lo avesse anche solo sfiorato, il contatto sarebbe svanito.
«Sto bene, non sono ferito» annuì lui, deciso. Non smetteva di sorridere, notò. Aveva tante domande, troppe forse per quel momento fugace. Quindi si concentrò su quanto di più urgente aveva: accertarsi che fosse vivo e fargli sapere che sarebbe arrivato prestissimo.

«Io e Magnus siamo vicini, stiamo arrivando» cercò di rassicurarlo, memore di quella paura che ancora sentiva provenire da lui.
«Lo so, lui me l’ha detto» replicò Alec, misterioso. Lui chi? Come faceva a sapere dove si trovavano? Certo quella non era una foresta magica comune, ma ugualmente era assurdo. A essere ancora più strano era proprio Alec, pareva sereno e in pace con se stesso. Simon aveva ipotizzato che potesse essere drogato, ma Jace si rese conto che non era un sentimento falsato da una sostanza illegale, ma pura e semplice gioia di vivere. Alec era stupendamente felice, la sprizzava dagli occhi sorridenti ed era come se ogni tessera di quel complicato puzzle che era la sua vita fosse finalmente andata a posto.
«Chi te lo ha detto? Il demone?»
«No» negò Alec, scrollando il capo e sorridendo. «L’angelo.»
«L’angelo?» ripeté, ancora stentando a crederci. Magnus aveva avuto ragione nel dire che era magia angelica quella che aveva portato via Alec da Stoccolma, sulle prime Jace non aveva proprio voluto crederci. E ancora adesso non aveva idea del motivo per cui gli angeli avrebbero dovuto far sparire l’inquisitore degli Shadowhunter, per portarlo in una torre protetto da una foresta pericolosa come quella. Non aveva minimamente senso.
«Devi dire a mio marito che lo stiamo aspettando» aggiunse, intanto che la sua voce diventava un’eco lontana. «E che lo amo, digli che lo amo.» Poi le immagini svanirono e Jace si ritrovò a sbattere le ciglia, portandosi una mano a coprire gli occhi perché infastidito dalla luce che filtrava attraverso le fronde degli alberi. Davanti a lui, a meno di un palmo dal suo naso, Magnus Bane lo guardava con aria preoccupata. 

 

Dovette raccontargli quanto successo per ben due volte e non fu sufficiente, perché quello stregone diffidente credesse a quanto da minuti stava inutilmente cercando di fargli capire. Jace lo obbligò a usare la magia, dandogli il consenso d'entrare nella sua mente ed estrapolare quanto appena vissuto. Soltanto allora parve convincersi, non che questo fosse effettivamente servito a dargli la spinta necessaria ad andare avanti in quell’assurdo viaggio attraverso la foresta incantata, era stato utile soltanto a far sì che crollasse a terra, affondando il volto tra le mani. Non era sicuro che stesse piangendo, se così era lo mascherava perfettamente, ma il dolore e la confusione erano cose che era in grado di notare nonostante si impegnasse a darsi un tono. Vedere Alec dopo giorni doveva aver fatto crollare quella granitica resistenza che aveva costruito attorno a sé per non morire dalla paura. Si era tenuto tutto dentro e ora il dolore era esploso davanti ai suoi occhi. Jace mai prima di allora si era sentito così tanto impotente, avrebbe voluto aiutarlo e fare qualcosa di utile per farlo sentire meglio, ma non era mai stato molto bravo con le parole. Aveva sempre preferito la spada ai bei discorsi sui sentimenti, Clary avrebbe saputo cosa dire, pensò. Probabilmente lei avrebbe detto che se non era capace di esprimersi, allora poteva agire dato che in quello era tanto bravo. Sì, Clary avrebbe detto così. Jace decise di lasciare le parole per un altro momento e scelse di abbracciarlo. Un abbraccio sentito, soffocante, rassicurante. Fu incredibile, ma parve funzionare davvero perché dopo qualche attimo, Magnus si riscosse tornando a essere l’uomo pimpante e propositivo che era sempre stato. 
«Andiamo, forza! O il mio forellino invecchierà nel frattempo» trillò, entusiasta. Tutta quella felicità lo aveva un attimo sconvolto, sì ed era probabile che se ne sarebbe andato per davvero, obbligandolo ad alzarsi da quel tronco, se la sua voce non l’avesse fermato.
«Ti chiedo scusa» disse a voce ben alta, gli uscì un po’ dal cuore e questa volta sì, che era a disagio soprattutto perché Magnus si era voltato e ora lo stava fissando. Dannati occhi da gatto!
«Avevi ragione sugli angeli, anche se non capisco il perché di tutto questo.»
«Non preoccuparti, qualcosa mi dice che lo sapremo presto» lo rassicurò lui.
«E mi dispiace anche per averti accusato di essere geloso e di averti incolpato della scomparsa di Alec, so che non faresti mai niente per ferirlo, è solo che…»
«Che è più facile prendersela con qualcun altro, che ammettere di essere preoccupati per chi amiamo.» In quel momento gli sembrò incredibilmente saggio ed era straordinario questo aspetto della sua personalità, a tratti sembrava un ragazzino che badava solo alle frivolezze e quello dopo pareva un vecchio di mille anni, incredibilmente saggio e consapevole di come va la vita. Ecco, Magnus gli sembrò proprio in questo in quei frangenti.
«Anch’io me l’ero presa con te quando non avrei dovuto» riprese, qualche istante più tardi. «Non volevo fare la parte del marito ansioso, perciò ho aspettato così tanto prima di venire da voi, ma non immaginavo niente del genere» commentò, infine, ridacchiando intanto che indicava il bosco attorno a loro. Jace sorrise in rimando, e chi avrebbe mai potuto immaginare che sarebbero finiti in un luogo strambo come quello? Rise ancora al pensiero di funghi parlanti e uccellacci ladri, ma il suo divertimento si spense subito dopo.
«Lo avrai capito anche da te, ma i miei poteri sono aumentati da quando mi trovo qui.»
«L’ho notato, sì» mormorò Magnus, sedendosi al suo fianco sul tronco e iniziando a giocherellare con i petali di un fiore che, accarezzati, emisero come una piacevole melodia. Fiori canterini, ovviamente, era forse finito in quel cartone animato che Clary gli aveva fatto vedere una volta? Quello di Alice qualcosa? Perché quel posto ne aveva tutta l’aria in effetti.
«Anche il mio legame con Alec è più intenso, in genere percepisco i sentimenti a un livello base: felicità, ansia, preoccupazione, paura… Ho ben presente quanto riescano a essere intensi, credimi la vostra luna di miele è stata piuttosto complicata da gestire.» In tutta risposta, Magnus scoppiò in una fragorosa risata di fronte alla quale Jace non riuscì a trattenersi, ridacchiando a sua volta.
«Non mi scuserò per i dieci giorni di sesso più belli della mia lunga vita, Shadowhunter!»
«Oh, non farlo proprio con me» scherzò di nuovo lui. «Al vostro ritorno, Alec aveva quell’espressione da: “Se fossi una donna sarei già incinta”. Immagino che siano i quattrocento anni di esperienza a letto.»
«Mh, può essere sì. Ma guarda che quattrocento anni non vogliono dire proprio niente, sono stato con gente che ne aveva ottocento e a letto era una vera frana. Non ti va sempre bene ecco, ma tuo fratello rende tutto più facile ed eccitante.»
«A proposito di questo» mormorò, visto che erano entrati in confidenza poteva anche permettersi di chiederglielo. «Cosa rappresentano i tuoi occhi da gatto per lui?» Magnus lo guardò di traverso, era chiaro che se non si fosse aspettato una domanda del genere e Jace dal canto proprio poteva anche capirlo, era la prima volta che indagava in quel modo nella loro vita privata. Per quanto ne sapeva poteva anche odiarli, sebbene quello sfrigolio lasciasse intendere ben altro.
«Perché lo vorresti sapere?»
«Da quando hai il marchio esposto… Beh, quando ti guardo provo cose che non ho mai provato prima per te.»
«Che tipo di cose?» indagò Magnus, questa volta un po’ scettico. Aveva arricciato le labbra e assunto un’espressione curiosa.
«Anzitutto sappi che non sono emozioni mie, ma di mio fratello. E hanno a che fare con l’eccitazione, ti dico soltanto questo.»
«Beh» sussurrò lui, facendo spallucce intanto che si alzava dal tronco e si allontanava di qualche passo. «Se lo vuoi davvero sapere, Alec è attirato dai miei occhi da gatto, quando facciamo l’amore vuole sempre che tolga il glamour. Quindi quella percepisci è piuttosto probabile che sia eccitazione sessuale.» Oh… OH! Cavolo, sì, beh, in effetti aveva perfettamente senso. E bravo il fratellone, questa cosa non gliel’aveva mai detta, non che gli avesse rivelato altro della sua vita sessuale con Magnus, al contrario aveva detto poco o niente, riservato com’era non c’era da stupirsene. Non era come con Isabelle che non mancava mai di far presente a tutti quanto straordinario fosse Simon a letto, come se gliene fosse importato qualcosa di quel vampiro sotto le lenzuola, poi. Alec era sempre stato il più riservato della famiglia, ma doveva ammettere di essere felice per lui.
«Sai» esordì Jace, attimi più tardi, alzandosi dal tronco su cui era rimasto seduto per tutto quel tempo. «All’inizio non mi piacevi.»
«Oh, lo so, Shadowhunter. Non piaccio mai a voi Nephilim, comunque non subito.»
«Eri andato a letto con mio fratello e, diciamocelo, la tua reputazione ti precede. Ero preoccupato per lui, ma poi ho capito quanto lo amavi e adesso sono felice che abbia trovato te. Non te l’ho mai detto, Magnus, ma sei una brava persona. Un po’ eccentrico, ma bravo.» Detto questo, Jace lo abbracciò di slancio. Come gli avrebbe fatto notare lui stesso minuti più tardi, si erano abbracciati due volte nel giro di cinque minuti. Ben oltre i loro standard fatti di silenzi e pacche sulle spalle imbarazzate. Forse non era il caso di dire ad Alec neanche questo, oltre del bacio al demone. In effetti negli istanti a venire si dimenticò anche di essersi appuntato mentalmente una cosa del genere, perché successe proprio in quel momento. La fitta coltre di rovi che impediva loro il passaggio svanì come per incanto, lasciando libero il sentiero. Allora, la speranza tornò potente in lui e Jace riuscì a vedere uno scorcio tra gli alberi che diventavano via via sempre più radi e la foresta lasciare spazio a una distesa di erba fresca. Scambiandosi un’occhiata complice con Magnus, iniziarono a correre, entrambi consapevoli del fatto che Alec sarebbe stato là fuori. Quando uscirono dalla foresta, il sole stava tramontando dietro la linea del mare in lontananza. Riuscivano a vederlo molto chiaramente, l’oceano era là a chilometri e chilometri di distanza. Era colorato d’arancio e di rosa, ed era bellissimo! Sfumature dorate illuminavano i contorni di un Magnus, che per tutto il tempo non aveva distolto lo sguardo dalla sola costruzione che si stagliava in solitaria tra loro e il mare: una torre altissima che svettava tra i campi erbosi di erica e brugo, sulle colline verdi d’Irlanda. Si trovava alla fine di una vallata lunghissima, non molto lontana dal mare. Sarebbe occorso un altro giorno di cammino per arrivarci ed era probabile che avrebbero incontrato ancora demoni e fate assassine, Jace scelse di non abbattersi. Alec era là, adesso lo poteva vedere. Il viaggio suo e di Magnus attraverso la foresta incantata, stava per finire.



 

Continua
 




 

*I Leprecauni sono praticamente degli gnomi della foresta, ma sono tipici del folclore e della mitologia irlandese. Vengono anche soprannominati “Folletti” e vestono interamente di verde.
**Terre perigliose: è così che vengono chiamate nella puntata di Merlin a cui questa storia è ispirata.

 

Note: La foresta incantata è una metafora, ovviamente, non è un caso che i rovi si infittiscano con il loro silenzio e poi scompaiano quando si parlano a cuore aperto. Mi sono divertita a inserire molte creature magiche, la maggior parte prese dalla mitologia di Shadowhunter, alcune da Alice nel “Paese delle meraviglie” (come i funghi parlanti o i fiori che cantano) mentre il Leprecauno alla guardia del ponte fa parte della trama della storia, che ricordo essere ispirata a un episodio di Merlin: "The Eye of the Phoenix". Anche la definizione di “Terre Perigliose” fa parte di quell’episodio.

Un ringraziamento alle tre, davvero tre di numero, persone che tra Efp e Wattpad stanno apprezzando questa storia. Il prossimo capitolo, dedicato ad Alec, sarà l’ultimo. Sono già a buon punto con la stesura e finalmente capirete cosa gli è successo e perché.
Koa

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Capitolo 3
*** La Lealtà ***


La Lealtà




 

“Solo la Magia e il Coraggio potranno oltrepassare il ponte. Appianando le divergenze e unendo le loro forze, la Lealtà verrà salvata e ciò che egli protegge al mondo sarà svelato.”
Viaggio attraverso la foresta incantata, capitolo 1






 

Alec era bloccato in quella torre sperduta tra le verdi colline d’Irlanda da ormai sei giorni. Non che nel frattempo si fosse annoiato, anzi aveva avuto il suo bel da fare, ma all’ennesimo tramonto ammirato sospirando, si ritrovò ad ammettere che stava iniziando leggermente a spazientirsi. Pensare che gli era stata addirittura offerta la possibilità di tornare indietro dopo appena cinque minuti essere arrivato, ma onestamente come poteva anche solo immaginare di andarsene? Se l’avesse fatto non si sarebbe sentito a posto con la coscienza e avrebbe finito addirittura con l’odiare se stesso. Quando Magnus avrebbe scoperto la verità riguardo la sua presenza lì, sicuramente lo avrebbe perdonato per essere scomparso senza neppure avvisare. Non che non sentisse la sua nostalgia, suo marito gli mancava da morire. Non era più abituato a stare così tanto senza di lui, anche quando i suoi viaggi di lavoro duravano un solo giorno trovava comunque il tempo per scrivergli. Ma in quello stupido posto il telefono non prendeva e comunque "Lui" gli aveva proibito di mandare messaggi, anche quelli di fuoco. Sosteneva che la ricerca della verità di Magnus e Jace necessitasse più tempo rispetto a quanto ne aveva avuto lui per abituarsi alla nuova realtà che stava vivendo, Alec dalla propria pensava che potesse addirittura avere ragione. Non che si fosse mai sognato di contraddirlo e comunque anche avesse provato a chiamare, “Lui” se ne sarebbe accorto e gli avrebbe fulminato il telefono all’istante. D’altronde pareva pienamente consapevole di tutto quello che accadeva, era come se fosse onnipresente in ogni angolo di quella vallata d’Irlanda, sebbene si fosse fatto vedere una volta soltanto. Non che fosse stupito dell’onniscienza di un angelo. 


 

Era iniziato tutto sei giorni prima, di buon mattino Alec si era preparato per il breve viaggio che lo avrebbe portato a Stoccolma. Non aveva previsto di starci per più di due giorni, di conseguenza il bagaglio che si sarebbe portato era piuttosto piccolo. Dopo essersi vestito e aver bevuto una tazza di caffè caldo, aveva salutato suo marito ed era sparito oltre il portale. Non aveva davvero voglia di andare, ma era lavoro e come avrebbe potuto rifiutarsi? C’era da dire che si era sentito sin da subito piuttosto rilassato, molto più che in altre occasioni. Quando era dovuto andare in Brasile aveva perso la testa dietro alla miriade di problemi che avevano avuto, questo al contrario pareva un caso relativamente semplice. Avevano perso alcune armi angeliche, fatto di per sé molto insolito e inoltre Erik Lovelace, il direttore dell’Istituto di lì, aveva riferito anche di alcuni eventi inspiegabili, di cui però non aveva sottolineato la natura. Alec, pensando a un’intrusione o tutt’al più a un furto perpetrato dall’interno da qualche Shadowhunter ribelle, aveva deciso di andarci perché la sparizione di lame angeliche era comunque un evento che meritava di essere approfondito. Dopo essersi ritrovato sul piazzale antistante la chiesa che ospitava l’Istituto della città, però, era accaduto qualcosa di molto strano. Un’intensa luce lo aveva avvolto, Alec ricordava di aver fatto appena in tempo a coprirsi gli occhi che si era ritrovato in un luogo sconosciuto e verdeggiante, ai piedi di un’altissima torre in pietra. Osservandola dal basso si convinse che doveva trattarsi di una costruzione piuttosto antica, aveva un aspetto fatiscente e non avrebbe scommesso un singolo dollaro sulla sua effettiva tenuta. Senz’altro non aveva alcuna intenzione di entrarci, si disse, rabbrividendo. Tenendosi ben alla larga da quella torre, si era deciso a esplorare i dintorni, esibendosi in incerti: “C’è nessuno?” che avevano riverberato per tutta la lunga vallata. Anima viva gli aveva risposto.

 

Alec era piuttosto sicuro che al di là delle siepi che delimitavano la piccola radura antistante quella costruzione pericolante ci fosse il mare, perché sentiva chiaramente le onde infrangersi sulla battigia. Dalla posizione in cui si trovava non riusciva a vederlo, ma c’era odore di salsedine nell’aria. Per un istante fu quasi tentato di oltrepassare lo sterpaio e andare a vedere con i propri occhi, invece che fare qualche passo in avanti, però, rimase fermo dove stava. A parte le siepi di mirto incolte riusciva a scorgere cespugli di erica e di brugo, mentre un prato verde si estendeva per chilometri nella direzione opposta a quella dell'oceano. Il suo sguardo curioso si perse nell’ammirare il paesaggio sconfinato fatto di colline e talvolta anche di campi di lavanda, riuscì a notare anche una foresta all’orizzonte, ma si disse che non aveva nessuna intenzione di andarci. Era davvero molto lontana, a un giorno di cammino o forse di più e ad ogni modo dubitava potesse trovare un qualche aiuto laggiù. Al momento aveva altro a cui pensare come il cercare di capire dove si trovasse. A memoria non ricordava di aver mai visitato un luogo simile in vita sua, non era a Idris e nemmeno a New York o in una qualsiasi altra città popolosa. Se così fosse stato, se fosse riuscito a trovare almeno un villaggio avrebbe potuto capire come raggiungere l’Istituto più vicino e quindi avrebbe avuto un modo per tornare a casa. Ma Alec continuava a essere solo, senza traccia di paesini o case sperdute e, a distanza di minuti, ancora non aveva idea di come avesse fatto a finirci. Che Magnus avesse sbagliato ad aprire il portale? Si chiese, salvo poi scacciare immediatamente il pensiero. Oltre al fatto che era uno stregone potente e molto capace, che non aveva davvero commesso un errore da quando lo conosceva, ricordava di essere effettivamente arrivato a destinazione. Un edificio religioso con una bella croce sopra al tetto si era aperto davanti ai suoi occhi, non appena arrivato a Stoccolma. Soltanto che subito dopo era sparito dentro a quella luce ed era ricomparso in un luogo misterioso, che gli pareva in tutto e per tutto il soggetto di un quadro d’autore. Pareva uno di quei dipinti che Clary era solita abbozzare sulle tante tele che ammonticchiava nella propria stanza. Non poteva dire che fosse un brutto posto, al contrario era molto più che piacevole: il sole era caldo, c’era un delicato profumo di fiori nell’aria e dal mare spirava un venticello fresco. Se solo non fosse stato così confuso e spaventato, probabilmente sarebbe riuscito a godersi la natura. Al momento, tuttavia, fiori e piante erano l’ultima cosa che aveva in mente. I pensieri più assurdi stavano già iniziando ad affollarsi; era stato rapito? Questo era sicuro, non era capitato dentro a un portale di quelle dimensioni per sbaglio, inoltre vi era anche entrato senza sapere dove questo conducesse. Era dunque finito nel limbo? Alec non lo sapeva, ma senza dubbio non se l’era mai immaginato in questo modo. Non sembrava esserci traccia di demoni o creature malvagie e, chiunque lo avesse rapito, ancora non si era palesato. Per il momento non sembrava esserci nulla di pericoloso là attorno, anzi non poté proprio negare ci fosse come un’aura magica dai toni piacevoli. C’erano anche delle creature Seelie, perché era sicuro di aver notato un unicorno in lontananza che con passo placido si era diretto verso la spiaggia. Però l'atmosfera che aleggiava era ben diversa da quella sensazione di stordimento ovattato che provava ogni volta che entrava nella corte Seelie, quella era tutto sommato sgradevole, qui invece si sentiva benissimo. Magnus avrebbe amato essere accanto a lui, nonostante adorasse immergersi nel caos di New York o venisse catturato dall’eccentricità tipica di certe metropoli orientali, suo marito adorava i luoghi tranquilli dai panorami suggestivi. E lì era tutto così silenzioso… L’aria era pulita e i suoni della natura erano rilassanti, al punto che ebbero il potere di scacciare ogni traccia di paura. Più profondamente ispirava, meglio si sentiva. Era come se avesse raggiunto la perfezione e fosse finalmente riuscito a sfiorarla dopo tanta fatica. Era magia, ma una delle più pure che avesse mai avuto la fortuna di percepire. C’erano senz’altro creature magiche là attorno, teoria che venne consolidata quando una pixie gli volò a un palmo dal naso. Questa si era fermata a guardarlo per un istante, ma poi era sfrecciata via di nuovo a gran velocità.
«Ehi, tu» aveva tentato, inutilmente, dato che quella era sparita dalla sua visuale in meno di un istante. Aveva anche provato a inseguirla: magari là tra i cespugli ce n’erano delle altre, ma fu allora che l’angelo gli apparve.

 

Alec non ne aveva mai visto uno, non era stato fortunato quanto Clary che ne aveva incontrati addirittura due. Per un momento fu tentato di non crederci, di pensare che fosse un’illusione. Quando però iniziò a percepire un calore avvolgente dentro lo stomaco e una sconfinata sensazione di pace interiore, capì che quello che galleggiava a mezz’aria e che occupava gran parte dello spazio antistante l’ingresso della torre con le sue magnifiche ali bianche, contornate da un alone dorato, era un angelo vero e proprio. Quando atterrò a meno di un metro da lui, ripiegando le ali dietro la schiena, Alec ebbe modo di osservarlo più da vicino. Lui lo stava guardando dritto negli occhi, era bellissimo e di una purezza ultraterrena che lo incantò. La cosa più simile che avesse visto era stata una luce su uno schermo, la volta in cui Jace e Clary avevano salvato Ithuriel dalla prigionia di Valentine, anni prima, ma di certo non era stato sufficiente a farsi un’idea di come fossero realmente. Aveva ammirato, estasiato, certi ritratti di Raziel o di altri angeli sui libri o sui dipinti, molti pittori si erano prodigati a cercare di catturare la loro superiorità, ma in quei frangenti comprese che nessuno avrebbe mai potuto neanche lontanamente avvicinarsi.
«Shadowhunter!» esclamò l’angelo, rivolgendoglisi direttamente. Aveva una voce potente eppure dolce al tempo stesso, come di amore assoluto. Alec notò che aveva ricci capelli biondi sopra la testa, indossava una sorta di armatura fatta di cuoio sopra a una tunica bianca mentre, alla vita, portava una spada. Chi era? Qual era il suo nome e perché gli si rivelava in quel modo? Gli esseri come lui scendevano sulla terra solo se chiamati e anche allora era facile scatenare la loro ira. Clary aveva evocato Ithuriel una volta, ma oltre ad averlo salvato, aveva con lui un legame di sangue. Alec invece si rese conto che non aveva alcun legame speciale con nessuno che non fosse Jace, quindi cosa poteva mai volere da lui? Non lo sapeva; si ritrovò semplicemente al suo cospetto e con l’infantile voglia di allungare le dita per poterlo toccare da vicino, accertandosi così che fosse effettivamente a un palmo dal suo naso. Non lo fece, al contrario strinse le mani a pugno facendole ricadere lungo i fianchi. Alec ignorava quanti esseri umani avessero sperimentato un qualcosa di simile prima di lui, scioccamente si chiese se tutte quelle persone avessero provato quel miscuglio di sensazioni diverse che andava dalla paura alla felicità. Decise di non pensarci e, inspirando lentamente, rivolse le attenzioni all’essere celeste che ora lo guardava da dietro ai suoi ricci biondi.


 

Tutto ciò che Alec Lightwood sapeva degli angeli lo aveva letto nei libri, sebbene quanto di più concreto aveva imparato, glielo aveva insegnato Clary con i suoi racconti. La maggior parte delle leggende che giravano a riguardo avevano la stessa valenza delle favole per i mondani. Erano né più né meno che esseri mitici che parlavano per enigmi, spesso durante i sogni, i cui messaggi erano quasi sempre di difficile interpretazione. Fu proprio questo su cui si concentrò negli attimi a venire. Se voleva capire davvero dove fosse finito e perché, avrebbe dovuto porre le domande giuste.
«Chi sei?» si azzardò a chiedere, facendosi piccolo piccolo nella speranza che l’angelo non si arrabbiasse con lui. Forse non era una domanda prettamente sensata, ma la curiosità aveva prevalso di molto sulla logica.
«Gabriel è il mio nome» replicò questi. «Sono l’arcangelo messaggero e ne ho uno da consegnare a te.» Un messaggio? Da parte di chi? Chi poteva essere tanto potente da usare un angelo come Gabriel per dire qualcosa a un semplice e banale Shadowhunter? Certamente non si trattava di un essere mortale, neanche un Principe dell’Inferno sarebbe stato tanto sfacciato da utilizzare un arcangelo come postino. Avrebbe voluto saperne di più, ma invece che pensarci ancora, decise di concentrarsi sul lato più pratico della vicenda. Anche se glielo avesse detto non sarebbe cambiato granché, era la sostanza a contare in quel momento.

«Quale messaggio?» domandò, confuso e curioso in egual misura. Gabriel non gli sembrava ostile, ma oltre alle cose che dicevano, erano anche le loro espressioni a essere criptiche. Sentì un moto di paura strizzargli lo stomaco, quando gli angeli mandavano messaggi non era mai davvero un buon segno. Che si trattasse di Dio o di chissà chi, se avevano qualcosa da dirti era perché erano arrabbiati con te. Alec, però, sentiva di non aver fatto nulla di sbagliato. Era forse per l’alleanza con i Nascosti? In fondo erano per metà demoni e spesso, pur avendo sangue di angelo come le fate, erano ambigui. Magari volevano punirlo per aver permesso loro di entrare nelle sacre stanze dei Nephilim, a Idris.


«La maledizione va spezzata» replicò l’angelo, in modo enigmatico, mandando all’aria tutte le sue teorie. No, non era per i Nascosti, ma per una maledizione, sebbene non avesse idea di quale questa potesse essere o su chi fosse stata lanciata. Ma più di tutto: Alec che poteva avere a che fare con una cosa del genere? E come poteva spezzarla? Non era uno stregone, aveva dei semplici poteri da Nephilim e neanche potenziati come quelli di Jace o Clary. Forse l’angelo aveva commesso un errore, magari aveva preso lo Shadowhunter sbagliato. Anche se forse… magari era lui a essere stato maledetto! Nah, impossibile, pensò allontanando quella paura. Se così fosse stato, Magnus se ne sarebbe accorto.
«Non sono uno stregone, non so spezzare le maledizioni» ammise, quasi vergognandosi. «Sono solo un Nephilim, forse con i poteri di Jace o quelli di Clary potrei aiutarti, ma non possiedo niente di speciale.» Senz’altro aveva rapito la persona sbagliata, sebbene gli sembrasse assurdo il pensiero che gli angeli avessero centrato male il bersaglio.
«Riuscirai a farlo, Alexander» ribatté «ma solo quando Lealtà, Magia e Coraggio si uniranno. Insieme spezzerete l’incantesimo che colpisce questo luogo.»
«Ga-Gabriel» balbettò, a disagio nel rivolgersi in quel modo a un essere celeste. «Signore, io non capisco» ammise, di nuovo vergognandosi e arrossendo visibilmente sulle guance. Si sentiva un cretino a non capire, probabilmente presto si sarebbe arrabbiato con lui. 

«Vai nella torre» rispose invece l’angelo, calmo, indicando con un dito la cima dell’alto edificio. «Proteggi ciò che contiene. La loro magia è allo stremo delle forze, non potranno difendersi ancora per molto. I demoni seguitano ad attaccare, ogni notte in una moltitudine che sembra non avere fine. Muta per sempre il loro tragico destino, Alexander.»
«Quindi sono qui per salvare qualcuno» annuì, comprensivo. Ora era tutto più chiaro. Era venuto per aiutare altre due persone a spezzare una maledizione. Forse Magia e Coraggio lo stavano aspettando in cima a quell’edificio.
«Bene, lo farò!» esclamò, determinato. «Ucciderò tutti i demoni che vuoi, Gabriel» disse Alec, con fierezza. Era il suo compito, d’altra parte. Era nato per sconfiggere il male, si era allenato tutta la vita per farlo al meglio delle sue possibilità, non poteva rifiutarsi se era addirittura un angelo a chiederglielo.
«Ma chi devo proteggere?» si azzardò a domandare, ancora un po’ confuso. Questo, non lo aveva detto.
«Coloro che sono stati maledetti sono il sangue del vostro sangue, giovane Shadowhunter» disse l’angelo con fare solenne e, nel notare la maniera in cui aveva parlato, ebbe la strana sensazione che avesse addolcito i toni. Il sangue del loro sangue? Suo e di chi?
«I figli tuoi e dello stregone Magnus Bane» aggiunse, quasi gli avesse letto nel pensiero. I figli… Che cosa?
«M-ma io e Magnus no…» balbettò, si sentiva a disagio ed era confuso. Continuava a non capirci un accidenti di niente e aveva sempre l’impressione che l’angelo stesse proprio sbagliando persona. Lui? Che doveva proteggere due bambini sotto una maledizione che, guarda caso, erano figli suoi? Era impossibile che potesse essere vero. Lui non aveva mai… Con una donna, non aveva mai fatto l’amore con nessuno che non fosse Magnus.
«Lui arriverà» disse ancora l’angelo. «Così come il Nephilim nelle cui vene scorre la stessa essenza di mio fratello Ithuriel.»
«Jace» annuì Alec, comprensivo. Il quadro si stava via via completando, sebbene a fatica. «Jace e Magnus verranno qui e mi aiuteranno e spezzare la maledizione? E i miei figli saranno liberi?»
«Esatto» disse l’angelo. «Ma ti avverto che puoi andartene, il mio non è un obbligo. La scelta deve essere tua, potrai tornare da dove sei venuto e dimenticare tutto questo. Oppure potrai decidere di restare, aspettare chi è destinato a stare al tuo fianco e salvare la tua progenie.» Scappare? Lui? Mai! 

 

Alec Lightwood non aveva ancora pensato ad avere un figlio. Lui e Magnus avevano accennato alla cosa, ma a dire il vero non avevano fatto un discorso serio, perché negli ultimi tempi il lavoro aveva assorbito entrambi e comunque preferivano godersi il matrimonio, almeno per il momento. Non correndo il rischio di rimanere incinti, avevano semplicemente rimandato la questione. D’altra parte, stare con uno stregone aveva anche dei vantaggi a cui avrebbero dovuto rinunciare con un neonato al seguito. La sua vita al momento era fatta di cene a Parigi, colazioni a Tokyo e di domeniche trascorse sulle calde spiagge del Messico. Non aveva neanche idea di come si crescesse un bambino, figurarsi due. Ancora non sapeva come fosse possibile che quegli esserini fossero al mondo, ma come poteva pensare di abbandonarli? Era fuori discussione che facesse una cosa tanto abominevole. Non li aveva neppure mai visti, ma sentiva già di amarli con tutto quanto se stesso, non avrebbe potuto lasciarli soli in un posto del genere. Gabriel aveva detto che i demoni li attaccavano di continuo e che la loro magia era allo stremo, quindi avevano i poteri di Magnus. Dovevano essere bambini speciali, forse per questo li volevano. Beh, qualunque fosse la ragione, non poteva lasciarli soli.
«Rimarrò» annuì, deciso.
«Non sono stupito» replicò Gabriel, sorridendo compiaciuto. «Rappresenti la lealtà per una ragione.»
«Vorrei solo avvisare Magnus che…»
«No!» lo interruppe bruscamente l’angelo, mostrando soltanto allora e, per la prima volta, una discreta rabbia che ebbe il potere di spaventarlo. Il cielo si era rabbuiato all’improvviso e un lampo era caduto a pochi metri da dove si trovavano. «Jonathan e lo stregone figlio di Asmodeo avranno un percorso da compiere, il loro viaggio attraverso la foresta incantata deve ancora cominciare. Non provare a contattarli.»  
«Ho capito!» No, in realtà non ci stava capendo un accidenti di niente, ma si ritrovò ad annuire e basta. Se non poteva telefonare a Magnus e neanche mandargli un messaggio di fuoco, doveva aspettare il loro arrivo. Ma a questo punto rimaneva solo una cosa, c’era un particolare che voleva sapere: «Vorrei farti una domanda, Gabriel: questi bambini come sono nati? Da chi sono nati? Noi siamo disposti ad accoglierli, ma è impossibile che abbiano il nostro sangue. Gli stregoni sono sterili e inoltre io non…» 
«Siete stati benedetti, Alexander» lo interruppe l’angelo, salvandolo dall’imbarazzo. «I vostri bambini nascono dall’amore che vi lega, sono l’unione delle vostre essenze. Per metà Nephilim, per metà stregoni.» Per metà… Questo era impossibile! E assurdo, oh, era la cosa più assurda che avesse mai sentito. Per essere degli stregoni si doveva essere figli di un demone, gli stregoni stessi non potevano avere figli e in più erano due uomini, come avevano potuto... Quello che stava dicendo era assurdo.
«L’inganno di Asmodeo ai tuoi danni, il sacrificio che eri pronto a compiere per il bene dello stregone non è passato inosservato ed è stato giudicato. Tu sei stato giudicato. I bambini sono la vostra benedizione, la tua benedizione, giovane Shadowhunter.» Era stato giudicato? Gli angeli avevano visto quello che aveva fatto per Magnus e lo avevano benedetto? Oh, per la miseria! Oh per la santissima miseria! 

 

Le benedizioni erano praticamente una leggenda, perché nessuno era sicuro che fossero mai esistite. Per i demoni era diverso dato che le antiche maledizioni, sebbene fossero rare, popolavano la terra fin dall’alba dei tempi. I Principi dell’inferno erano angeli caduti dopo la rivolta di Lucifero, ma contrariamente agli esseri celesti avevano tutti gli interessi di unirsi ai mortali. Quando questo succedeva, davano vita a un’antica maledizione, uno stregone più potente di tutti gli altri. Magnus era un’antica maledizione. * Così come la sua amica Tessa Gray, nel cui sangue però scorreva anche quello dei Nephilim. Era molto più facile che i demoni si prodigassero per riempire il mondo con la loro progenie, ma gli angeli non avevano mai dato segno di essere interessati a riempire il mondo di benedizioni, anche perché gli Shadowhunter stessi erano tecnicamente già figli loro, già combattevano in loro in nome. Si diceva però che le benedizioni fossero dei Nephilim più potenti di un qualsiasi altro, molto più di Jace e Clary che comunque avevano abilità fuori dal comune. Ma anima viva ci aveva mai creduto per davvero, erano soltanto storie. E ora scopriva che lui e Magnus erano stati benedetti? Già ma che voleva dire? Alec non lo sapeva, era soltanto certo del fatto che dopo aver sbattuto le palpebre, l’angelo era sparito.
«I vostri figli sono la nostra benedizione» aveva ribadito, quando il suo corpo era scomparso, la sua voce era riecheggiata per minuti in quella verde vallata e si era ritrovato solo, con troppe domande e uno strano senso di felicità a divorargli lo stomaco.

 

Nella foga del momento, Alec aveva fatto caso a malapena alla quantità di armi sistemata appena oltre l’ingresso della torre. Eppure quelle se ne stavano alla base delle scale, gettate con molta meno cura di quanta non ne avrebbe dedicata uno Shadowhunter competente, erano proprio spade di puro adamas. C’erano anche molte frecce, un paio di mazzafrusti e addirittura un arco. Nei giorni a venire le avrebbe associate a quelle stesse che erano sparite dall’Istituto di Stoccolma, evidentemente gli angeli le avevano prese da lì, ma in quei frangenti a tutto pensò tranne che a quello. Era corso su per le scale alla più non posso, senza neppure fermarsi e nonostante, all’ottantesimo gradino, il fiato stesse reclamando pietà. Non poteva fare soste, doveva vederli. Le parole dell’angelo ancora gli giravano in testa e lui faticava a crederci, erano davvero i suoi figli quelli di cui aveva gli parlato? Ancora gli sembrava così assurdo. L’idea stessa di aver ricevuto una benedizione era impensabile e lo era soprattutto per aver fatto un qualcosa che aveva sempre considerato come un atto non poi così degno di nota. Alec non aveva più pensato al doloroso momento in cui aveva ceduto al ricatto di Asmodeo, lasciando Magnus. Era stato uno dei momenti più bui della sua vita e preferiva dimenticarlo. Però mai lo aveva considerato un sacrificio degno d’essere lodato. Lo aveva fatto perché era giusto, era impensabile continuare a vivere sapendo che l’uomo che amava non si sarebbe mai più sentito completo. Avrebbe rinunciato a tutto per lui e all’epoca, nonostante il suo cuore gli avesse urlato ripetutamente di non farlo, riteneva che fosse l’unica soluzione plausibile. Alec aveva vissuto quei giorni di devastante sofferenza con la consapevolezza che non se ne sarebbe mai pentito, ma intanto che volava su per quei cento gradini con i suoi figli che lo aspettavano, si rese conto di aver avuto ancora più ragione. Il suo sacrificio era valso a qualcosa che andava oltre ogni immaginazione, e ora era stato benedetto. 

 


«Oh!» esclamò una volta giunto sulla soglia. A un certo punto le scale erano finite e si era ritrovato in una stanza circolare. Sebbene non fosse troppo grande in quanto a dimensioni, pareva accessoriata di tutto. Un letto a baldacchino stava al centro e aveva tutta l’aria di essere molto comodo mentre, proprio davanti a esso, era stata posizionata una culla. Doveva esserci anche un bagno minuscolo che si apriva sulla destra rispetto all’entrata, ma sulle prime non ci fece caso. In verità si era bloccato là all’entrata, non riusciva a distogliere lo sguardo dal lettino per neonati a pochi metri da lui. Era così reale, si disse scioccamente, ancora in piccola parte convinto che si trattasse di un sogno. Davanti al letto c’era una culla, sembrava di pregiata fattura: aveva una struttura in legno imbottita di morbidi cuscini, le piccole lenzuola erano bianche mentre una copertina, calda e morbida, teneva i due piccoli al riparo dal freddo. Sopra di essa era stato cucito con fili d’oro il simbolo degli Shadowhunter, era la runa dell’angelo a simboleggiare la loro appartenenza ai Nephilim. Perché loro erano anche figli suoi, ricordò Alec, erano davvero là dentro ed erano reali. Vivi e sorridenti, sgambettavano come forsennati e, oh cielo, erano belli da togliere il fiato! Sembravano stare bene, osservò notando che non c’era alcun segno di ferite. Ognuno vestiva con una tutina azzurra, su tutte e due erano state ricamate delle lettere: i nomi dei bambini. Quello più a sinistra si chiamava Max mentre il secondo Rafael. ** Alec si avvicinò con fare cauto, dosando i gesti e tenendo le labbra ben serrate, quasi evitando di respirare troppo rumorosamente per non spaventarli. Erano svegli e ora lo guardavano con occhi grandi e curiosi. Somigliavano molto a Magnus e non soltanto per gli spruzzi di magia che uscivano loro dalle dita, in maniera per altro piacevolmente incontrollata, ma soprattutto per via del colore della pelle, più ambrato rispetto al suo e al taglio degli occhi, tipicamente orientale. Avevano qualcosa anche dei Lightwood e dei Trueblood. Max aveva la forma del viso identica a quella di Alec e Rafael invece aveva i suoi stessi capelli. I bambini tuttavia avevano un particolare che con la sua famiglia c’entrava ben poco e che sulle prime lo fece sussultare, a ricordargli in maniera incredibile il suo stregone erano proprio i loro sguardi. Avevano lo stesso marchio! Il simbolo degli Asmodeo erano occhi da gatto del colore dell’ambra che non avevano smesso un solo istante di seguire i suoi movimenti. Alec fu accarezzato da un pensiero, intanto che si faceva ancora più vicino. I bambini sembravano possedere le migliori qualità di entrambi, come se gli angeli avessero scelto ciò che avevano da offrire e avessero giocato, creando quelle creature. Era possibile una cosa del genere? In passato avrebbe detto che era una fantasia, ma gli accadimenti dell’ultimo anno e mezzo, e ciò che la stessa Clary pareva essere in grado di fare grazie alle rune, gli ricordava che niente era davvero impossibile quando c’erano gli angeli di mezzo. Alec fece un altro passo in avanti, ritrovandosi a torreggiare sopra la culla. Il primo dei due, Max, iniziò a sorridergli e ad agitare le manine quasi volesse essere preso in braccio. Che strano, era come se per istinto avessero capito chi fosse, quasi lo avessero riconosciuto all’istante. Alec girò attorno al lettino, con più calma, si sporse sopra di esso e a voce sussurrata disse: «Ciao, sembra che io sia vostro padre. Assurdo, vero?» I piccoli smisero improvvisamente di agitare gambe e braccia, iniziando a fissarlo come se fossero stati incantati da una stregoneria. Poi cominciarono a ridere.

 

«Ti hanno riconosciuto!» esclamò una vocetta roca alle sue spalle. Alec sobbalzò, spaventato. Non aveva armi con sé, ma l’addestramento lo spinse a voltarsi di scatto e ad alzare la guardia, mettendosi di fronte alla culla così da riuscire a proteggerla nella maniera migliore. Quando però si girò, posando gli occhi su quello che pareva a tutti gli effetti un Leprecauno, spalancò la bocca e abbassò i pugni stretti. Gli gnomi, anche quelli irlandesi, forse li si poteva accusare di avarizia, ma non erano cattivi.
«Tu chi sei?» chiese, posando un braccio teso sopra la culla come se volesse ancora difendere i suoi figli. Max e Rafe, tuttavia, non parevano affatto spaventati, al contrario sembravano felici di vederlo, come se fossero abituati alla sua presenza.
«Il guardiano del ponte!» esclamò questi, come se quella frase di per sé potesse rispondere a tutte le domande. In realtà non spiegava un bel niente, ma i Leprecauni erano rissosi e orgogliosi per natura, quindi evitò di farglielo notare, scegliendo un più saggio silenzio.
«Ho visto l’arrivo dell’angelo» spiegò, entrando nella stanza con la sua camminata claudicante, appoggiandosi al rugoso bastone che teneva saldamente stretto in una mano. «E, sai, in attesa che la Magia e il Coraggio si decidano a portare le rispettive terga al mio cospetto, ho pensato di venire a controllare. Avrai molte domande.» Molte? A centinaia in effetti e Gabriel aveva risposto sì e no a un paio. Magari quello gnomo ne sapeva di più.
«Tu sapevi dei bambini?»
«Ma certo» rispose il Leprecauno, facendosi ancora più avanti. Quando si avvicinò al lettino, si alzò sulle punte dei piedi e iniziò a far ondeggiare sopra di essa una sorta di sonaglio fatto interamente d’oro. I bambini presero a urlare di felicità, agitando le manine. Adesso era evidente che lo conoscessero.
«Amano le cose che brillano» disse, senza smettere di agitare quel rudimentale sonaglino, che creava degli spettacolari luccichii sul soffitto. Max e Rafael ne parevano rapiti. Quelle parole, pronunciate con affetto, suscitarono in Alec un piccolo sorriso.
«Come il loro padre» sussurrò, parlando fra sé. Quando il Leprecauno si voltò, squadrandolo da capo a piedi, al punto che sembrava voler giudicare il suo vestiario fatto di abiti monocolore, Alec si sentì in dovere di specificare: «L’altro padre, lo stregone. Lui adora le cose che brillano, è sempre luccicante. Gli abiti, il trucco… Penso abbiano preso da lui.» Amava l’idea che somigliassero a Magnus, che avessero qualcosa di lui che andasse al di là dei tratti somatici.

«Somigliano anche a te» disse il Leprecauno, accennando a un sorriso. «Ad ogni modo sono arrivati un paio di mesi fa, circa» spiegò lo gnomo, senza smettere di farli giocare né di distogliere lo sguardo dai piccoli. «L’angelo ha detto che sono sotto una maledizione e che non possono uscire dalla torre. Aveva anche detto che presto i suoi genitori sarebbero venuti a prenderli, ma nell’attesa ce ne siamo presi cura noi della foresta. Io di solito vengo la mattina, ma qui ci sono centinaia di creature tra fate, pixie, fauni… Sono venuti tutti a trovarli e a dare una mano.»
«Grazie per quello che avete fatto» mormorò Alec, non li avrebbe mai ringraziati abbastanza. Se erano vivi e in salute, era soprattutto per merito di quelle creature. Quasi però se ne sentì in colpa, se solo avesse avuto idea sarebbe venuto prima a salvarli e invece erano rimasti soli per tutto quel tempo, circondati da individui che non erano la loro famiglia.
«Grazie dal profondo del cuore» mormorò, chinandosi su Max e Rafe e accarezzando la fronte di entrambi con le punte delle dita. Sotto al suo tocco caldo avevano cominciato a sbadigliare sonoramente. «Non ne sapevamo niente. Io ero a Stoccolma e poi mi sono ritrovato qui, Gabriel mi ha detto tutto e ancora fatico a credere che siano miei.»
«Per come la vedo, Shadowhunter, è una fortuna che tu sia arrivato» mormorò il Leprecauno, dando sfogo a tutta la sua preoccupazione e assumendo improvvisamente un’espressione più grave. Aveva riposto il sonaglio nella tasca della giacca verde che indossava e aveva appoggiato entrambe le mani sul bastone. «La notte arrivano orde di demoni pronti ad attaccarli, questi piccoli si difendono come possono e noi li aiutiamo sempre, ma servirebbe un gambe lunghe come te. Le loro barriere magiche hanno protetto l’intera vallata per settimane, ma ultimamente vacillano. Sono esausti e i demoni entrano sempre più spesso anche durante il giorno.» Il Leprecauno sospirò, c’era amarezza sul suo viso e una paura che si tratteneva dal mostrare, quasi provasse una sorta di pudore nel farsi vedere spaventato. «Avrai un bel da fare con quegli esseri» riprese, indicando l’esterno che si intravvedeva da una finestra. «I tuoi figli sono creature uniche nel loro genere, per metà Shadowhunter, per metà stregoni e per di più sono nati grazie a una benedizione. Non è mai successa una cosa simile nella storia, proprio mai» negò quello, scrollando il capo e picchiando il bastone a terra. Questo fece uno schiocco secco nella stanza, accanto a lui Max si agitò, ma Alec portò una mano sul suo pancino accarezzandolo delicatamente così da calmarlo.
«Io l’ho detto all’angelo: i demoni li vogliono e sono sempre più aggressivi, ma lui dice che soltanto voi altri potete spezzare l’incanto. Spero solo che i tuoi compari si sbrighino ad arrivare.»
«Lo spero anch’io» mormorò Alec, con fare meditabondo. Quindi era così che stavano le cose, erano intrappolati là dentro perché i demoni li volevano, non stentava a credere a una cosa del genere. Le benedizioni erano talmente rare, che tutti avevano creduto fossero una leggenda per secoli ed era certo che se anche lo avesse raccontato, praticamente nessuno gli avrebbe creduto. E invece eccole lì, le sue due benedizioni pensò, sorridendo dolcemente.
«Ah, se hai bisogno di me chiedi pure alle fate e io arriverò in un lampo. E stai attento alle pixie o ti ruberanno anche le mutande.» Alec ridacchiò, ringraziandolo con un cenno, prima che questi sparisse giù per le scale. I bambini si erano addormentati profondamente. Rimasto solo, crollò sul letto a peso morto, guardando il soffitto di quella torre. Quante cose in una sola mattina… Era iniziata come una normale giornata e ora si ritrovava padre di due gemelli speciali, bloccato in un posto sperduto chissà dove. Oh beh, almeno questo lo aveva capito. Considerato che lo gnomo era vestito di verde, allora era un Leprecauno e quindi era in Irlanda. Non aveva idea di quanto tempo sarebbe rimasto lì, ma Jace e Magnus sarebbero arrivati e poi, insieme, avrebbero spezzato la maledizione. Alec non aveva idea di come si potesse fare, ma non vedeva l’ora che succedesse. Non vedeva l’ora che Magnus li vedesse e che tutti insieme potessero tornare a casa come la famiglia che sarebbero stati. Determinato a fare qualcosa di utile e, con lo stomaco che già brontolava, si alzò di scatto dal letto. Era ora di esplorare la torre!


 

I giorni a venire furono caotici, in futuro Alec avrebbe ricordato il suo mendicare aiuto alle fate per un paio d’ore di sonno e l’essere perennemente esausto. Le creature magiche di tanto in tanto venivano a trovarlo e lo aiutavano con i bambini, e non li avrebbe mai ringraziati abbastanza per questo. Aveva chiesto a una delle fate se poteva occuparsi di Max e Rafael durante la notte mentre lui era fuori a uccidere demoni, si sentiva più sicuro se sapeva che con loro c’era qualcuno. La lotta era estenuante e Alec non aveva mai desiderato avere accanto il suo Parabatai come in quei momenti. Certi giorni durava anche fino all’alba e, solamente allora, stremato, si buttava sul letto e dormiva per l’intera mattinata. Quando non veniva svegliato dal pianto dei bambini che dovevano essere cambiati, era quel Leprecauno a fare rumore con il suo dannato sonaglino scintillante. Alec non se ne lamentava troppo, presto non sarebbe stato più solo e tutto quello sarebbe finito, era l’unica speranza che aveva. La sola cosa che tenesse a bada la paura di fallire, il timore che uno dei demoni arrivasse fino in cima alla torre, prendendo i bambini. Per questo, le sue tecniche di lotta erano diventate meno brutali con il passare delle notti, più tattiche. Pensava sempre a Jace, a come avrebbe fatto da solo contro tutti quei demoni e faceva alla stessa maniera. Suo fratello era sempre pieno di risorse e quindi si immaginava di essere come lui e uccideva un demone dopo l’altro, cercando di sprecare meno frecce possibili, preferendo la spada. Stava diventando sempre più bravo anche a gestire i bambini, sebbene si fosse reso conto fin da subito che fosse molto più facile decapitare demoni raul che cambiare pannolini. Le creature Seelie e Unseelie che popolavano la vallata si erano dimostrate tutte molto collaborative e gentili, Alec poteva scommettere che il merito di tanta armonia tra di loro fosse dell’angelo, ma ugualmente era loro molto grato. Tanto per fare un esempio, le Pixie non erano sempre ladre. Davano anche da mangiare ai bambini e li facevano giocare intanto che Alec dormiva, anche se ogni tanto gli rubavano un bottone dalla camicia o gli facevano sparire lo stilo, che infatti aveva iniziato a portare sempre con sé. Senz’altro, poi, era stato esilarante quando il Leprecauno gli aveva insegnato come cambiare i pannolini a Rafe e Max, e il tutto senza usare la potente magia degli gnomi. All’inizio era stato un discreto disastro, non c’era creatura magica che non lo prendesse in giro per la sua totale incapacità o per la quantità di volte che i piccoli gli avevano vomitato addosso, dopo la pappa. Alec stesso aveva iniziato a pensare che non avesse poi tutte queste qualità come padre, ma con il tempo era migliorato e ora riusciva a cavarsela da solo in ogni situazione. Aveva imparato come cullarli, come dar loro il biberon, aveva capito che era meglio non ondeggiare troppo se avevano appena mangiato, un’epifania che gli aveva cambiato la vita. Per farli addormentare, la sera, cantava loro una canzone così che i sogni che facevano potessero essere il più possibile sereni. Non era sicuro di essere perfettamente intonato, ma quella ninna nanna l’aveva sentita cantare da sua madre Maryse a tutti i suoi fratelli e fare lo stesso per quei piccoli era stato istintivo. Al termine di ogni giornata, poi, dopo averli sistemati nel lettino e aver dato loro un bacio, aspettava che i demoni arrivassero e allora la sua lotta per difendere coloro che già amava con tutto quanto se stesso, iniziava. 

 

Era il tardo pomeriggio del sesto giorno, quando arrivarono. Nonostante avesse sperato di vedere le loro sagome spuntare all’orizzonte praticamente ogni volta che si ritrovava a guardare speranzoso oltre la linea delle siepi di mirto, che delimitavano la radura antistante la torre, fu costretto ad ammettere di non essersi accorto subito che qualcuno si stava avvicinando. In genere era sufficiente guardare fuori da una delle due finestre, per capirlo, dato che la vegetazione non consentiva di nascondersi con particolare accuratezza, considerato che per la maggior parte era popolata di arbusti d’erica. Quel giorno, tuttavia, Alec era stato fintanto distratto. Il piccolo Max aveva pianto per l’intero pomeriggio e a riguardo si era scervellato su come farlo sentire meglio. Erano colichette, non era granché esperto a riguardo, ma un fauno glielo aveva urlato dal fondo delle scale, aggiungendo di massaggiargli il pancino così che potesse tacere per l’amor dell’angelo, così aveva aggiunto poi, sparendo tra la vegetazione. Anche quando aveva smesso di piangere, Alec non si era sentito comunque a proprio agio. Se Jace e Magnus si erano fatti più vicini, lui non li aveva proprio visti perché impegnato. Aveva appena posato Max nella culla, dando un’occhiata anche a Rafe, che però sembrava assolutamente tranquillo, quando si era stiracchiato i muscoli indolenziti della schiena. Passando accanto alla finestra aveva notato soltanto un luccichio tra i cespugli, che aveva immediatamente attirato la sua attenzione. Non gli ci era voluto molto per capire che una pixie gli aveva rubato una freccia. Era successo spesso, aveva pensato ricordandosi delle numerose volte in cui era corso giù per le scale alla stessa identica maniera.
«Ridammela, dannata fata!» aveva esclamato, affrettandosi in direzione del luccichio, che già aveva superato le siepi, arrivando sino alla spiaggia. Non si allontanava mai troppo dalla torre, non voleva lasciare i piccoli soli, ma quel giorno giunse fino al bagnasciuga perché sapeva che ogni arma era fondamentale quando si combatteva contro orde di demoni. Inoltre il sole stava già calando, questo voleva dire che presto sarebbero arrivati. Alec dedicò un’occhiata al tramonto, al cielo che diventava arancione e alla brezza marina che si faceva più pungente e sospirò, avrebbe davvero voluto godersi di più la bellezza di quel posto, ma se non era a uccidere demoni, stava cambiando pannolini. Non aveva proprio il tempo per oziare. Quando abbassò gli occhi notò che la sua freccia stava lì, tra i sassi bianchi della spiaggia. Si guardò anche attorno, ma la pixie che gliel’aveva portata via era svanita nel nulla. Dannate fate!
«State lontano dalle mie armi! Avete capito?» urlò, brandendo quel piccolo oggetto come se fosse stata una spada vera e propria. Lo stavano di certo ascoltando e probabilmente avevano anche iniziato a ridere di lui, lo facevano spesso in effetti.

«Giusto perché lo ricordiate» gridò e la sua voce venne di nuovo portata via dal vento, spegnendosi in un’eco lontana. «Difendo anche voi con queste» aggiunse, calpestando il terreno con ancora più forza. Marciava diretto alla torre, che vide non appena si fu districato attraverso i rovi. Spuntato al di là siepe, Alec alzò il viso e fu allora che li vide: Jace e Magnus stavano entrambi davanti all’entrata e guardavano con curiosità dentro la porta lasciata aperta. Nella foga della corsa non l’aveva chiusa, dannazione! Il sole era già calato e quelli erano certamente dei demoni che avevano assunto le fattezze di persone a lui note, non era la prima volta che lo facevano o che alcune fate annoiate gli causavano allucinazioni. Sulle prime, notando il modo in cui insistevano per guardare all’interno della vecchia torre, Alec si irrigidì. Non lo avevano ancora notato e allora in risposta strinse la presa sulla sola arma che aveva tra le mani, la freccia era troppo sottile perché gli desse soddisfazione tenerla a quel modo, non era come l’elsa di una lama angelica, perfetta per essere impugnata. Inoltre era davvero troppo poco per uccidere due demoni mutaforma e il resto delle armi era oltre quella porta, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per farli fuori tutti e due. C’era da dire, però, che quei demoni sembravano stranamente confusi e si guardavano attorno come se non capissero dove si trovassero, forse sarebbe stato più facile del previsto.
«Non l’avete ancora capito?» urlò, rabbioso, facendo sussultare entrambi mentre brandiva nuovamente quella punta di freccia. I due demoni si voltarono in sua direzione, erano insolitamente spaventati e quando avevano sentito la sua voce avevano sobbalzato in maniera vistosa. Alec aveva visto chiaramente le espressioni di quel finto Magnus cambiare nell’arco di qualche istante, dallo stupore alla gioia in meno di un battito di ciglia. Il falso Jace mostrava sentimenti non poi tanto diversi; che strano, sembravano sollevati di vederlo.
«State fermi dove siete e non vi azzardate a entrare nella torre. Vi avevo avvertiti di non prendere più le loro sembianze, ma sappiate che vi state divertendo alle spalle del Nephilim sbagliato.»
«Alec, siamo noi» disse subito quello che dei due somigliava a Jace, aveva un tono implorante che lo colse di sorpresa. Il fatto che avessero parlato non era strano, qualche volta lo facevano salvo poi scoprire subito il loro inganno, i demoni erano talmente subdoli che tentavano in tutti i modi di convincerlo a farlo entrare con quei mezzucci. 
«Io e Magnus, siamo venuti a salvarti» continuò quello che aveva le fattezze di suo fratello. Fino ad allora aveva tenuto l’arma sguainata e stretta nella mano destra, portando avanti quello stesso fianco e proteggendo il sinistro, in quella che era la tipica postura da combattimento di Jace. Alec pensò che fosse insolito, in genere i demoni non riuscivano a imitare gli umani in quella maniera così sottile. Soprattutto non avevano armi come quella che era appena stata conficcata nel terreno umido. C’erano delle rune quella lama, rune a lui familiari. Rune angeliche.
«Ammetto che questa vostra imitazione è ben riuscita, ma negli ultimi cinque giorni queste facce mi sono apparse troppe volte perché io sia convinto che sei davvero il mio Parabatai. Se lo sei, voglio delle prove» aggiunse infine, incrociando le braccia al petto. Alec notò che il falso Magnus non lo stava guardando, ma aveva preso a fissare con insistenza la cima della torre, proprio dove si intravedevano le finestre. Proprio dove c’erano loro.
«Sono Jace Herondale» disse suo fratello come prima cosa, attirando la sua attenzione. «Ho cambiato tre cognomi in due mesi, un anno fa. Ho il terrore delle anatre.»
«Mi ha detto la stessa cosa un altro mutaforma due giorni fa.»
«Siamo Parabatai» insistette lui, con una convinzione che ebbe il potere di sorprenderlo. In effetti nessuno prima si era spinto così tanto in là, di solito dopo la prima domanda si spazientivano e mostravano la loro vera natura. L’essere che aveva davanti, invece, sembrava tutt’altro che intenzionato a smettere: «Il giorno in cui abbiamo ricevuto la runa tu non volevi venire, eri convinto di essere innamorato di me e pensavi che diventare il mio Parabatai sarebbe stata una pessima idea, ma Izzy ti ha convinto. Ti ha trovato e ha detto che te ne saresti pentito per tutta la vita.»
«Come lo sai?» D’accordo, era strano. Molto, in effetti. Nessuno sapeva quelle cose, tranne i suoi fratelli. Erano questioni private che non aveva condiviso neppure con Magnus. Magnus, pensò subito, volgendo ancora lo sguardo in sua direzione. Se quello che aveva di fronte era Jace, allora l’uomo che era con lui non era un demone, ma suo marito. Un marito che avrebbe dovuto tentare di convincerlo della veridicità della sua identità, ma che dopo i primi momenti di stupore e felicità, o almeno così era apparsa ad Alec, aveva distolto ogni attenzione da lui e Jace. Se ne stava in silenzio, in disparte e ancora fissava la torre come se in essa fossero contenuti i segreti dell’umanità. Forse non si comportava in quel modo perché voleva entrare e uccidere Max e Rafe, magari ne era attratto. Probabilmente lo capì allora, sebbene sulle prime si rifiutò di concedere a se stesso un po’ di speranza. I demoni che volevano rapire i bambini tentavano continuamente di abbatterla o al massimo di entrarci, non la fissavano come invece stava facendo Magnus. Doveva esserci una ragione per cui pareva così tanto interessato e al contempo perplesso: li aveva sentiti. In un qualche modo aveva percepito la magia dei suoi figli, sentendola come propria, ma era chiaro che non avesse idea di cosa ci fosse per davvero in cima a quella costruzione pericolante. Se lo avesse saputo, se l’angelo avesse annunciato anche a loro della benedizione, era certo che Magnus non avrebbe indugiato così tanto.
«Perché sono Jace!» urlò il suo Parabatai, riportando le attenzioni di Alec su di sé. Aveva alzato le mani in aria in maniera piuttosto comica, sembrava proprio esasperato! Probabilmente avrebbe riso non gli fosse sembrato così tanto disperato ed esausto. Giorni prima, il Leprecauno gli aveva detto che i suoi amici avevano oltrepassato il ponte, aggiungendo che lungo il tragitto avrebbero incontrato delle difficoltà poiché la foresta li avrebbe giudicati, ma in quel momento si rese conto che le prove che avevano superato dovevano essere state molto più dure di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
«Hai preso a pugni il nostro istruttore, una volta, spaccandogli il setto nasale e mamma ti ha detto che era orgogliosa di te» proseguì Jace. «Da quando hai dieci anni la prima cosa che fai appena alzato sono cinquanta flessioni e io ti prendevo in giro per questo, ma tu mi rispondevi dicendo che…»
«Che l’arco richiede una muscolatura diversa dalla tua» finì per lui, stirando un gran sorriso felice. Sì, era davvero suo fratello l’uomo che aveva davanti. E quello che ancora guardava l’entrata della torre era proprio Magnus Bane.
«Ti credo» mormorò, annuendo e dandogli in quel modo le conferme di cui sembrava avere così tanto bisogno.
«Fratellone!» esclamò, raggiungendolo e stringendolo in un abbraccio possente. Ad Alec bastò questo. Sentì la runa Parabatai pizzicare e il legame farsi più intenso. Da un paio di giorni, ovvero da quando il Leprecauno gli aveva detto che Magia e Coraggio avevano oltrepassato il ponte, Alec percepiva suo fratello ancora più intensamente. Un giorno intanto che riposava tra una poppata e l’altra aveva anche avuto una specie di sogno, piuttosto realistico in verità, nel quale Jace gli era apparso e in si erano addirittura parlati. Ora che stringeva suo fratello tra le braccia, capì che era stato reale.
«Ho avuto una cavolo di paura» sussurrò al suo orecchio, lasciando infine la presa e allontanandosi di mezzo passo. «Quando Magnus è arrivato in Istituto dicendo che non davi segni di vita da tre giorni mi sono spaventato a morte. Non fare mai più niente del genere, chiaro?»
«Mi dispiace non avervi avvisati, ma l’angelo mi ha proibito di spedirvi un messaggio di fuoco. Sapete dell’angelo, vero?»   
«Sì, Mag… Ehi, Magnus?» Jace parve accorgersi soltanto in quel momento del fatto che lo stregone fosse distratto. Così tanto da non essergli neppure corso incontro o averlo baciato. Lo fece allora, comunque. Si risvegliò improvvisamente da quella sorta di torpore che lo aveva rapito e quando Alec gli arrivò accanto, sfiorandogli una spalla, lui si voltò attirandolo a sé e stringendolo in un abbraccio caldo e rassicurante.
«Alexander!» sussurrò a metà tra l’incredulo e il felice. «Sei vivo e stai bene.»
«Sì, non ti preoccupare» mormorò, accarezzando la sua schiena. Eccolo lì, il suo amato Magnus. Se ritrovare Jace era stato come sentirsi ancora più forti, rivedere suo marito fu come ricevere gioia pura in vena. Durante i primi momenti in quel posto aveva toccato il cielo con un dito, era felice di avere dei figli, ma con il passare dei giorni aveva iniziato a sentire nostalgia.
«Mi sei mancato tantissimo» sussurrò Alec al suo orecchio, baciandolo prima una guancia e poi catturando le sue labbra in un bacio passionale, senza fare troppi complimenti. Cinque giorni senza baciare il suo uomo… Era troppo anche per il signor Inquisitore tutto d’un pezzo che girava il mondo per risolvere i problemi altrui. Lo sarebbe stato per chiunque in effetti. Lo doveva essere stato anche per Magnus, che cedette al suo bacio afferrandolo per la vita e attirandolo a sé, intanto che si lasciava piacevolmente dominare. Fu un bacio feroce e possessivo, carico di tutta quella voglia di stare insieme che dopo un anno e mezzo non era affatto scemata.     
«Questo sì che è un bacio!» commentò Jace ad alta voce, incrociando le braccia al petto e fischiando di approvazione. «Ma non esagerate ora. Gli ultimi giorni sono stati abbastanza complicati senza che debba sentire mio fratello eccitarsi.»
«Scusa» replicò Alec, arrossendo appena sulle guance e scostandosi, imbarazzato. Si era lasciato trasportare, ma che poteva farci? Inoltre, Magnus non aveva il glamour e sfoggiava un paio di stupefacenti, e decisamente arrapanti, occhi da gatto. In genere quando erano a casa soli e si preoccupava mostrare se stesso per com’era anche facendo cose normalissime come una doccia o cucinare, Alec non resisteva. Finiva sempre per schiacciarlo contro un muro e scoparlo a morte. 
«Allora vuoi dirci che è successo?» si azzardò a domandare Jace, distogliendolo dai propri pensieri. Oh, giusto, doveva loro moltissime spiegazioni.
«Sono arrivato a Stoccolma dopo aver oltrepassato il portale, un istante più tardi mi sono ritrovato qui.»    
«Già, ma perché?» rincarò la dose suo fratello intanto che Magnus sembrava distrarsi di nuovo. In quei giorni di solitudine aveva pensato spesso a come introdurre l’argomento “Figli”. Aveva provato diversi discorsi allo specchio, ma nessuno lo aveva mai davvero convinto. Non avrebbe potuto esordire con un: “Ehi, Magnus, abbiamo due figli, eccoli qui!”, sarebbe stato traumatico e probabilmente lo avrebbero anche creduto pazzo. O almeno, così aveva sempre pensato. A giudicare dalla maniera in cui suo marito pareva fatalmente attratto da quella torre e per come, anche in quel momento, era caduto in contemplazione di essa, forse sarebbe stato più facile del previsto.
«Questo posto è molto strano, Alexander» commentò lui, iniziando a camminare pur senza dimostrare di avere una vera e propria meta. «Lo percepivo anche nella foresta, ma qui è più intenso.»
«Cosa senti?» indagò Alec, curioso. Lo era davvero, in effetti. Quello che Gabriel aveva detto riguardo ai bambini, che erano per metà figli di Magnus e per metà suoi, era impossibile certo. Biologicamente e geneticamente impossibile. Tuttora, e nonostante si fosse preso cura di loro per tutto quel tempo, non aveva idea da dove provenissero quei piccoli.
«È come se dentro questa torre ci fosse un pezzetto della mia magia, come se qualcuno ci avesse messo qualcosa di mio. Il che è assurdo, a me non manca niente. Soprattutto la magia.» Alec annuì, comprensivo. Sapeva che gli stregoni potevano sentirsi l’un l’altro, ma in quel caso i poteri dei piccoli dovevano confonderlo non poco. Avrebbero capito? Sarebbe stato sufficientemente chiaro nella sua spiegazione? Alec lo ignorava, sapeva solo che c’era un unico modo per introdurre l’argomento.

 

«Ho riflettuto a lungo su come parlarti… parlarvi di questa cosa» si corresse immediatamente, spostando lo sguardo anche su Jace. Anche a lui doveva delle spiegazioni. «Quando sono arrivato qui mi è stato subito evidente che l’angelo voleva che proteggessi qualcosa.»
«Questo era chiaro persino a noi» annuì suo fratello, consapevole. «Il messaggio di fuoco che ci ha mandato parlava anche di te, diceva: “Ciò che la lealtà protegge sarà svelato al mondo” o una cosa del genere. Mi sono scervellato su cosa potesse essere e sul perché avessero scelto te e non noi due insieme.»
«Il solito con manie di protagonismo» mormorò Magnus, alzando gli occhi al cielo e sbuffando al contempo. Quei due si stuzzicavano spesso, in effetti non facevano altro, ma Alec non riuscì a non notare uno strano tono dolce nella voce di suo marito. Che avessero imparato ad andare d’accordo?
«Guarda che insieme siamo più forti, lo sai anche tu» replicò Jace senza batter ciglio. «E questo posto in apparenza bellissimo, pullula di demoni dietro ogni cespuglio. Se ci fossi stato anch’io con lui…»
«Il vostro percorso era diverso dal mio o così mi è stato detto» lo interruppe, indicando il cielo come se volesse far capire loro che se avevano fatto ciò che avevano fatto era stata unicamente per volontà degli angeli. «E sì, forse con il mio Parabatai accanto sarebbe stato tutto più facile. Sono stati giorni molto stancanti e ho pensato tanto a come dirvelo, ma… ma forse è meglio che lo vediate con i vostri occhi.» E poi, Alec si incamminò oltre la porticina lasciata aperta, facendo loro strada al di là dell’ingresso, su per quei cento gradini. I bambini li stavano aspettando.

 

 

 

Continua



 

 *Nella serie non viene mai fatta menzione delle “Antiche maledizioni”. Se ne parla solo nei libri, in particolare ne ho letto nella serie “The Eldest Curses” incentrata proprio su Alec e Magnus.
**Per quanto io mi sia sforzata di trovare altri nomi per i bambini, mi pareva un’ingiustizia non chiamarli Max e Rafe.

 

Note: I bambini sono ovviamente diversi rispetto ai libri dove sono rispettivamente uno stregone e uno Shadowhunter. Hanno anche una differenza di età, qua invece sono fratelli gemelli e sono figli sia di Magnus che di Alec, nel senso che sono sia Shadowhunter che stregoni. Ho riflettuto a lungo su questa cosa, all’inizio non volevo farla. Volevo fare qualcosa di più semplice, ma mi ero innamorata dell’idea di una benedizione ricevuta, di due figli che sono in tutto e per tutto frutto dell’amore di due persone anche se questo è impossibile. Non faccio mai scelte che vanno contro la biologia o che la forzano in maniera eccessiva, in minima parte ammetto che tuttora l’idea mi risulta forzata, nonostante il contesto fantasy conceda maggiore libertà in questo senso. Come dicevo, non volevo mettercela, però alla fine si parla pur sempre di un miracolo voluto dagli angeli e questa è la sola spiegazione che darò a riguardo.

 

I capitoli avrebbero dovuto essere tre all’inizio, ma quando sono arrivata al punto in cui ho fatto concludere questo mi è stato chiaro che ne sarebbe servito uno di più che concluderà la vicenda (e che ho già iniziato a scrivere quindi arriverà la settimana prossima). Intanto grazie a chi ha letto e recensito fino a qui, a chi ha lasciato kudos su AO3 e stelline su Wattpad.
Koa

 

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Capitolo 4
*** La maledizione spezzata (Prima parte) ***


 La maledizione spezzata (Prima parte)

 




 

Magnus aveva subito il fascino di quella strana costruzione che si stagliava solitaria in fondo alla vallata, fin da quando lui e Jace erano usciti dalla foresta incantata, ormai due giorni prima. Spesse volte si era ritrovato a fissarla e, quando non lo faceva, ragionava su cosa avesse di così tanto particolare da attrarlo così insistentemente, senza però trovare una risposta. Jace aveva iniziato a prenderlo bonariamente in giro, infilandoci anche il sesso e dicendo che in realtà la torre era una metafora fallica e che in sostanza lui era arrapato. Ogni volta evitava di dirgli che quello con problemi del genere era lui, considerato che ancora subiva il fascino dei suoi occhi, ma si era limitato a mollargli uno schiaffetto sulla nuca per farlo stare zitto, salvo poi ridacchiare tra sé. Non era messo così male, certo gli mancava il suo dolce fiorellino, ma poteva sopravvivere sei giorni senza sesso. E comunque non c’era nessuna metafora fallica dietro la sua ossessione per quella torre. Era qualcosa di radicalmente diverso, e insolito, che non aveva mai percepito prima. Più si avvicinava, più quella strana sensazione diventava potente. Aveva a che fare con la magia, questo lo aveva intuito fin da quando avevano messo piede nella foresta incantata, anche allora aveva sentito un’atmosfera particolare impregnare l’aria, ma sulle prime l’aveva erroneamente addebitata alla presenza degli angeli. Se Ragnor fosse stato lì con lui lo avrebbe di sicuro preso in giro, quel ramarro ammuffito avrebbe trovato spassoso il suo non riuscire a trovare una risposta adeguata ai dubbi che lo attanagliavano, ma soprattutto avrebbe trovato assai divertente il suo seguitare a tormentarsi. In passato aveva sempre dimostrato di avere una soluzione per tutto, anche quando la risposta era scappare dall’altra parte del mondo e far finta di niente. Questo era invece un problema che non poteva evitare e che a dirla tutta lo innervosiva. Era una questione legata alla magia, argomento sul quale era piuttosto ferrato. Come tutti gli stregoni, infatti, era in grado di percepire i suoi simili e più erano vicini, più intensamente riusciva a farlo e in quella torre laggiù era pur certo che ci fosse uno stregone, forse più di uno. Era il tipo di magia che li contraddistingueva, a causargli delle perplessità. Non aveva detto nulla a Jace perché era un qualcosa che non riusciva proprio a spiegarsi. Se Alexander era stato rapito dagli angeli, o portato lì chissà per quale motivo, probabilmente era successa la stessa cosa anche ad altre persone, stregoni a quanto pareva. Quando però Magnus arrivava a questo punto dei ragionamenti, il cervello si inceppava. D’accordo, Alec non era solo e questo ormai era piuttosto chiaro, ma perché aveva la sensazione che fosse letteralmente circondato da incantesimi in tutto e per tutto simili ai suoi? Questo era il nocciolo della questione.

 

La magia di uno stregone era come un’impronta digitale, aveva l’identità del genitore demone che lo aveva generato e non era un qualcosa che si poteva nascondere o falsificare. Era come un’eredità, non era dissimile alla forma di un viso o al colore degli occhi ereditato da un parente. La stessa cosa valeva per i demoni, quando questi venivano sulla terra era impossibile per loro nascondere il proprio potere o mascherarlo in qualche modo. La magia che scorreva nelle vene di Magnus era quella di Asmodeo, la stessa che suo padre in più occasioni aveva definito regale, cercando di convincerlo che era una buona cosa. Non lo era mai stata e, in virtù di questo, era sicuro che non ci fosse proprio nulla di buono in fondo a quella vallata. Il pensiero di cosa avrebbero trovato, francamente lo terrorizzava. Non poteva essere suo padre, era impossibile che fosse sulla terra. Lo aveva confinato nel limbo e con ogni probabilità ci sarebbe rimasto per millenni, sempre se avesse trovato un modo per uscirne. Ma se non era lui, la risposta era una soltanto: Asmodeo aveva avuto altri figli. Il che avrebbe dovuto essere impossibile: ogni Principe dell’inferno generava un’antica maledizione alla volta, non avrebbe mai potuto avere dei fratelli, così gli avevano detto tutti quanti, dai Fratelli Silenti che lo avevano cresciuto sino a Ragnor che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva riguardo la magia. E siccome quella che si sentiva addosso era la stessa impronta di suo padre, non riusciva a essere concentrato e sereno come invece Jace mostrava di essere a ogni passo. Magnus al contrario era confuso e spaventato. E a niente servivano le sue rassicurazioni da Shadowhunter, sebbene più volte avesse avuto la prova che il legame Parabatai fosse attendibile al cento per cento, non ci credeva mai davvero quando gli diceva che Alec stava bene. Si preoccupava anche di aggiungere che, dall’altra parte del legame, continuava a sentire un miscuglio di felicità e preoccupazione, a quel punto Magnus annuiva e cadeva di nuovo preda dei propri pensieri. Non voleva fidarsi delle sue parole e non perché temeva lo stesse prendendo in giro, ma perché non voleva alimentare false speranze. Aveva bisogno di avere paura, se si fosse sentito troppo tranquillo e se il suo dolce marito in realtà fosse… Non riusciva neanche a pensare che potesse essergli successo qualcosa di brutto, eppure ci si sforzava, immaginava Alexander moribondo e ferito, preda di incantesimi che gli causavano terribili allucinazioni. Era meglio questo, che illudersi che andasse tutto bene per poi restare delusi.

 

C’era un aspetto che, dopo un anno e mezzo insieme, trovava affascinante in Alexander e questo riguardava sicuramente l’imprevedibilità. Quel ragazzo non faceva mai quello che ci si aspettava potesse fare, Magnus trovava meraviglioso che nonostante i suoi venti e qualcosa anni riuscisse a stupire un vecchio stregone navigato come lui, che comunque di cose ne aveva viste. Con il passare dei secoli aveva iniziato a trovare banale e prevedibile qualunque persona incontrasse e il mondo aveva cominciato a diventare noioso, poi però aveva conosciuto Alexander. Non aveva bisogno che qualcuno gli ricordasse perché amava quel ragazzo, fu sufficiente posare lo sguardo su di lui dopo giorni di lontananza, per venire sopraffatti da un’incredibile ondata di amore. Con l’ansia che lasciava il suo corpo e Alexander che lo baciava con così tanta passione, Magnus Bane si ricordò con un po’ più di forza quanto amava suo marito. Non ricordava neanche che fosse mai stato così bello, aveva pensato intanto che se lo stringeva al petto e gli tastava con insistenza la schiena, in cerca di ferite che non c’erano. Se le aveva avute, doveva esser stato in grado di guarirle con l’Iratze. Forse riprese a respirare soltanto allora, mentre la sua giovanile irruenza lo prendeva in contropiede e il pizzico di eccitazione che suo marito aveva infilato dentro a quel bacio, lo sconvolgeva e divertiva in egual misura. Stava bene ed era vivo, pensò lasciando che la paura abbandonasse il suo corpo. Alexander lo aveva sorpreso un’altra volta, Magnus lo ripeté a se stesso intanto che Jace si metteva in mezzo e smorzava la passione, ma fu dopo che furono entrati nella torre, che riuscì davvero a sconvolgergli la vita. Tanto per cominciare non capiva proprio perché quella dannata costruzione avesse ben cento gradini che si snodavano su di una ripidissima scala a chiocciola in un edificio odiosamente tondeggiante, se c’erano degli stregoni là dentro, perché non avevano materializzato un ascensore? Era proprio ridicolo, aveva pensato, annaspando per la fatica su per i gradini. Era difficile star dietro a due Shadowhunter allenatissimi, in più pareva che Jace non percepisse affatto la stanchezza, cosa che lo rendeva ancora più odioso del normale. Avevano marciato per giorni in quella dannata foresta, con pericolosi demoni e creature che parevano avere come scopo nella vita il dar fastidio a loro, perché diavolo stava correndo come un forsennato? A un certo punto aveva addirittura accelerato il passo mentre Magnus arrancava, portandosi teatralmente una mano al petto e sostenendo di non farcela più a continuare. Quando arrivarono in cima, dopo tanta fatica, si lasciò melodrammaticamente cadere contro lo stipite della porta. Li vide allora, davanti ai suoi occhi. Erano la conferma a tutte quelle teorie, spesso strampalate, che si era costruito negli ultimi giorni. Alexander non era solo in quella sua insolita prigionia. C’erano degli stregoni, eccome se c’erano. Erano due e se ne stavano in una culla. Bambini, neonati per la precisione. Magnus non era un esperto a riguardo, ma dovevano avere qualche mese. Come aveva percepito si trattava di suoi fratelli, non poteva essere altrimenti dato che avevano il marchio degli Asmodeo. Le iridi avevano lo stesso colore di quelle di suo padre ed erano uguali alle sue in tutto e per tutto: ambrati occhi da gatto su un volto dai tratti orientali. Quindi aveva ragione, papà aveva avuto altri figli. Non aveva proprio idea di come avesse fatto a scappare dal limbo o magari era successo prima che venisse confinato. Poteva anche essere, ragionò. Una gravidanza umana durava nove mesi e quei piccoli quanto tempo potevano avere? Sei mesi? Otto? Non lo sapeva, ma al momento era anche inutile scervellarsi a riguardo, era successo e basta. Probabilmente la loro madre umana li aveva tenuti per un po’ e poi abbandonati, come spesso succedeva ai piccoli stregoni. E forse a quel punto un demone li aveva rapiti e qualcuno, magari, li aveva salvati. E poi? Poi le fate li avevano trovati? E avevano invocato gli angeli, che avevano chiesto il loro aiuto? Sì, pensò, aveva senso. Più o meno. No, non ne aveva, ammise alla fine. Era tutto così strano, si disse, avanzando dentro la stanza con passo incerto. Sino ad allora era rimasto immobile sulla soglia a fissare quei bambini come se stesse guardando due alieni, quando si avvicinò un po’ meglio alla culla, notò che una coperta era stata gettata sopra ai loro corpicini. Niente di strano, se non fosse che questa aveva ricamata sopra la runa dell’angelo, il simbolo degli Shadowhunter. Chissà perché. Poteva anche succedere che i demoni ingravidassero delle Shadowhunter, ma di solito i loro figli morivano ancora prima di nascere, era improbabile che riuscissero a sopravvivere. A parte Tessa, però lei aveva una storia particolare alle spalle.
 

«Loro sono Max e Rafael» disse Alec, spezzando il silenzio, Magnus si ritrovò a sollevare il viso su di lui. Sorrideva e aveva un’espressione dolce che di rado gli aveva visto indossare, era diversa dalla confidenza che mostrava quando erano insieme, sembrava c’entrare con quei piccoli più che con lui. Alec si era avvicinato al lettino con il passo sicuro di chi sa perfettamente come muoversi, quindi si era sporto sopra di essa e i bambini avevano iniziato a ridacchiare e a emettere deliziosi versetti. Oh, Magnus amava i bambini. Gli erano sempre piaciuti.
«Appena arrivato qui» riprese, qualche istante più tardi. «L’angelo Gabriel mi è apparso e ha detto che avrei dovuto proteggerli. Sono stati maledetti, anche se non so come o da chi, ma non possono uscire dalla torre. Ha detto che i demoni continuavano ad attaccarli e che le loro barriere magiche erano allo stremo. Ha anche detto che solo noi tre, unendo le nostre forze, avremmo potuto spezzare la maledizione. Anche se non ho idea di cosa potrei fare io a riguardo.» Lui un’idea ce l’aveva, invece. Non era il più esperto del mondo in quanto a maledizioni, ma poteva anche cavarsela. Solo che non capiva quale sarebbe mai potuto essere il ruolo di Jace e Alec in tutta quella vicenda. D’accordo, il suo fiorellino si era occupato tutto da solo dei piccoli, mentre il biondino… Beh, doveva ammettere che era stato piuttosto utile avere uno Shadowhunter al seguito, lassù nella foresta incantata. C’era comunque qualcosa che gli sfuggiva in quel quadro. Era come se avesse davanti un puzzle di mille pezzi e avesse faticato per riuscire a metterli insieme tutti, ma una volta completato non riuscisse a mettere a fuoco il disegno. Aveva la risposta lì davanti agli occhi e ancora stentava a vederla.
«Poveri bimbi, da soli contro tutti quei demoni» osservò Jace, sporgendosi sopra la culla e sfiorando il nasino di uno dei due con la punta di un dito. Magnus vide il bimbo tendersi, ma subito rilassarsi sotto al tocco deciso di Alexander, corso a rassicurarlo con qualche carezza sulla pancia. Era evidente che avesse già instaurato una sorta di legame con loro, perché c’era familiarità in quel che faceva, così come nella maniera in cui i bimbi lo cercavano con lo sguardo.
«Hanno lottato fino a che hanno potuto, hanno quasi prosciugato la loro magia, quei demoni sono tantissimi e di notte ne arrivano orde intere.» Di questo non ne dubitava, lo aveva capito sin da quando avevano messo piede nella foresta, anche allora era stato chiaro che quegli esseri volevano qualcosa di diverso dall’uccidere loro due. Era come se stessero cercando un tesoro prezioso che gli era stato nascosto, adesso sapeva di cosa si trattava.
«Non c’è da stupirsene» osservò Magnus, ancora restando indietro. «La magia di mio padre è di stirpe nobile, tutti i suoi figli sono dei Principi. Non che a me sia mai interessato, ovviamente.»
«T-tuo padre?» balbettò Alexander. Ma certo, che pensava? Che fossero sbucati da sotto a un cavolo? Era vero che non ne sapeva poi molto di sesso e che, nonostante tutto, fosse ancora un incredibile ingenuo, ma come pensava nascessero i bambini?
«Tranquillo, fiorellino, non penso sia uscito dal limbo» cercò di rassicurarlo. «Però i pettegolezzi girano velocemente nel mondo delle tenebre, mi pare ovvio che siano venuti tutti a sapere che Asmodeo ha avuto altri due figli. Se i demoni arrivano è perché vogliono la loro magia, la mia magia. Quella di mio padre. Mi piacerebbe capire come sia possibile, però» concluse, con fare meditabondo. Quel che era certo era che non avrebbe permesso a nessuno di prenderli e volgerli al male. Erano piccoli e indifesi, ma soprattutto completamente innocenti, meritavano di vivere la vita serena che a lui era mancata durante l’infanzia. Li avrebbe tenuti con sé, avrebbe dato ai suoi fratelli una vera famiglia nella quale vivere. Era sicuro che Alexander non avrebbe avuto niente da obiettare, non avevano ancora parlato seriamente di avere dei figli, ma il suo dolce confettino si era preoccupato di fargli sapere che voleva una famiglia dopo appena due mesi che stavano insieme. Avrebbero dovuto discuterne prima, perché due bambini di quell’età cambiavano la quotidianità di una coppia, ma non potevano lasci…

«Aspetta, che hai appena detto?» se ne uscì Jace, con tono acuto e carico d’incredulità. Aveva urlato così tanto, che uno dei due neonati aveva cominciato ad agitarsi nel lettino. Era il caso di gridare in quel modo? Si chiese, notando come Alec invece che cullare subito il piccolo, si era irrigidito. Che aveva detto di strano? Forse aveva capito che era sua intenzione adottarli e non era d’accordo, in fondo chi vorrebbe orde di demoni alla porta tutti i giorni? Beh lui non…
«Hai appena detto che Asmodeo ha avuto altri due figli, giusto?» gli chiese Jace, questa volta con tono più basso e controllato. Magnus si limitò ad annuire senza ribattere, non capiva la reazione di quello Shadowhunter. E poi perché facevano quella faccia?
«Amico» borbottò quel biondino saccente, scrollando la testa in senso di diniego. Aveva l’impressione che non sapesse bene se ridere o piangere, ma era certo che si stesse trattenendo dal prenderlo a male parole. «Non hai capito davvero niente!»
«Capito cosa?»
«Magnus» intervenne Alec, si era fatto avanti di un passo e lo aveva raggiunto, prendendolo per mano e guardandolo con fare rassicurante.
«Questi non sono i figli di Asmodeo.» Come non lo erano? Ma in che senso? Era chiaro che si sbagliasse, forse l’angelo non gli aveva spiegato come stavano le cose. Ma anche se non l’avesse fatto, cosa non poi tanto strana, come ci si poteva sbagliare? Quello era il marchio di suo padre, nessun altro demone in nessuna dimensione infernale esistente aveva niente del genere.
«Ma i tuoi!»
«I che?» chiese, non capendo.
«Sono i tuoi figli» ripeté Alec. I-i s-uoi cosa? Lui aveva dei figli? No, era impossibile. Gli stregoni erano sterili e anche quando le stregone restavano incinte, i bambini nascevano morti. Era una cosa risaputa. In più erano anni che non faceva sesso con una donna. Lui con dei figli. Magnus Bane? Assurdo! Non seppe spiegare come accadde, ma nei fatti fu proprio allora che successe. Non appena il peso di quelle parole gli arrivò al cervello e si rese conto di quello che Alec gli aveva appena detto, il mondo iniziò a diventare sfuocato e lui si ritrovò a faccia in giù contro il pavimento.



 

*



 

«L’abbiamo perso» commentò Jace, un sopracciglio arcuato verso l’alto e un’espressione divertita in volto mentre osservava il corpo di Magnus steso a terra. Era stato costretto a trattenere le risate quando lo aveva visto svenire, ma in effetti era assurdo che non avesse capito che quelli nella culla erano i figli suoi e di Alec. D’altra parte era talmente ovvio, pensò intanto che il suo Parabatai gli tirava una gomitata nel fianco.
«Smettila di fare l’idiota e aiutami a metterlo sopra al letto» gli disse, azzerando con un paio di falcate la distanza che lo divideva dallo stregone e chinandosi, così da poterlo toccare. Gli sfiorò il viso diventato improvvisamente pallido mentre Jace sorrideva appena. Era incredibile che suo fratello avesse dei figli, oh, avrebbe dovuto spiegare molte cose, questo era certo. Nel frattempo però fece come gli era stato ordinato in silenzio, sollevò il corpo inerte di Magnus per i piedi e qualche istante più tardi lo gettò di malagrazia sopra al materasso. Riusciva a sentire i piccoli agitarsi dentro la culla e incredibilmente non riusciva a smettere di guardarli, erano la cosa più bella che avesse mai visto. Fin da quando gli angeli avevano mandato il messaggio di fuoco, giorni prima a Stoccolma, aveva intuito che Alec stesse proteggendo qualcosa d’importante. Qualcosa che lo aveva trattenuto in quel posto senza neanche tentare di scappare, Jace era sicuro che se l’avesse voluto avrebbe cercato almeno di mandargli un messaggio di fuoco o addirittura di scappare. Suo fratello era uno Shadowhunter molto capace, aveva trattenuto per giorni tutti quei demoni da solo, occupandosi anche di due neonati. Man a mano che si era avvicinato alla torre, aveva percepito qualcosa di diverso in suo fratello rispetto al solito. Non aveva realmente capito di cosa si trattasse fino a quando non li aveva visti, a quel punto tutto aveva avuto senso. Somigliavano così tanto ad Alec, che era impossibile scambiarli per qualcun altro. Al tempo stesso il marchio da stregone che esibivano e i tratti orientali dei loro volti erano il chiaro segno che fossero anche per metà stregoni.
«Come ci sei arrivato?» indagò suo fratello, si era seduto sul letto proprio accanto a Magnus e aveva iniziato ad accarezzarlo dolcemente sul viso.
«Andiamo» borbottò Jace, chinandosi sulla culla e facendo delle facce buffe per farli divertire. Oh, sarebbe stato uno zio straordinario! Ben più di Izzy, che sicuramente li avrebbe viziati e decisamente più di Simon, che avrebbe riempito loro la testa di tutta quella robaccia mondana che ancora Jace faticava a capire.
«Ti assomigliano tantissimo, ma al tempo stesso sono identici a Magnus, quindi era ovvio che fossero figli anche suoi. Sono stati gli angeli, non è vero? O è così o hai nascosto davvero bene la gravidanza sotto agli addominali. Non che mi stupisce che sia stato tu a rimanere incin…»
«Piantala!» sbottò Alec a bassa voce, arrossendo come un peperone. «E non sono certo rimasto incinto, a quanto pare si tratta di una benedizione. Penso siano nati da una donna, anche se non ho idea di chi sia, loro non l’hanno detto.»
«Wow» fischiò Jace di approvazione e stupore, sollevando il viso in direzione di suo fratello. «Sapevo che erano una leggenda.»
«Mh, tutte le storie sono vere» ribatté lui, saggio. «Forse gli angeli non distribuiscono spesso benedizioni, ma ti posso assicurare che in questo caso hanno fatto sul serio.»
«Mi immagino la tua faccia quando ti è apparso l’angelo» commentò Jace, ridacchiando. Poteva quasi riuscirci in effetti, lui che una volta ne aveva visto uno, e in una situazione del tutto diversa, poteva testimoniare quanto stupefacenti potessero apparire. Se poi niente meno che uno come Gabriel scendeva sulla terra per annunciare la nascita di due figli per metà Nephilim e per metà stregoni, beh, era tutto ancora più incredibile.
«Ehi, tu» disse Alec, falsando la propria stessa voce. «Ci sono due bambini nati in modo misterioso che hanno i geni sia tuoi che quelli di tuo marito. Ah, vengono attaccati notte e giorno dai demoni, ma tranquillo li ho messi in una landa desolata in mezzo al nulla piena di fate ladre e Leprecauni molesti.»


«Te l’ho mai detto che amo il tuo sarcasmo?» 

 

A parlare era stata la voce flebile e roca di Magnus, che aveva aperto gli occhi sfarfallando le lunghe ciglia glitterate. Jace aveva spostato lo sguardo su di lui, il suo viso aveva ripreso un bel colorito.
«Stai bene?» aveva domandato Alec, aiutando Magnus a mettersi seduto. Gli aveva passato una mano dietro la schiena e lo accarezzava delicatamente, come a volerlo rassicurare. Non doveva essere facile sapere di avere due figli e trovarseli davanti, già nati e cresciuti.
«Tutto a posto, fiorellino!» aveva esclamato Magnus, guardandosi attorno e posando lo sguardo sulla culla dove si riuscivano a sentire i due bambini gorgogliare. Jace aveva notato i suoi occhi da gatto sbarrarsi e le pupille feline diventare ancora più grandi e liquide. Era evidentemente sconvolto, ma come spesso succedeva suo cognato usava l’ironia per uscire dalle situazioni più imbarazzanti e non far capire al resto del mondo di essere spaventato a morte.
«Fiorellino, sarà meglio che spieghi» disse, indicando con un cenno del mento i due neonati.
«Quello che so è davvero niente» rispose, facendo spallucce. Alec si era alzato dal letto, aveva raggiunto la culla e preso in braccio il primo dei due bambini. Era quello che più somigliava a Magnus in quanto a lineamenti, sulla tutina aveva ricamato il nome: Max. Al loro fratellino sarebbe piaciuto avere un nipote che portava il suo stesso nome. In effetti, a osservare bene il piccolo, poteva notare anche dei tratti in comune con i Lightwood, come la forma del viso o quella del naso. Alec aveva percorso qualche metro con il bimbo in braccio e poi si era seduto sul letto accanto a un Magnus che ora pareva particolarmente agitato. Non stava fermo un istante, sembrava che qualcuno gli avesse messo degli spilli sotto al sedere.
«Mi è apparso Gabriel, ha detto che abbiamo ricevuto una benedizione. I bambini hanno tratti in comune con entrambi, sono sia tuoi che miei. Hanno i poteri da stregone, ma sono anche dei Nephilim.»

«Tesoro» disse Magnus con pazienza. Ancora stentava a guardare il piccolo, anzi pareva voler posare gli occhi ovunque tranne che su Alec e il bambino. Se aveva intenzione di mollarlo solo perché avevano dei figli che non avevano chiesto di avere, beh, se la sarebbe vista con il suo pugno perché gliene avrebbe dato uno talmente forte da spaccargli il naso.
«Ti renderai conto che tutto questo è impossibile!»
«Credi che non lo sappia anche da solo?» sbottò lui, irritato, assumendo un’espressione infastidita pur non alzando troppo la voce per non spaventare il bambino. «Pensi che non abbia rimuginato per giorni sul fatto che si siano sbagliati o che sia tutto un errore? Perché l’ho fatto, in ogni momento e con la paura che magari tornassero a portarmeli via perché si resisi conto di aver commesso un errore. O che uno di quei demoni riesca a rapirli? Se pensi che non abbia…»
«Lo so, tesoro, ti conosco e so che hai pensato a tutte queste cose» annuì Magnus, con tono ora più rassicurante. «Solo che è insolito anche per una benedizione. Sapevo che erano talmente rare che gli stessi Shadowhunter le consideravano un mito, ma sapevo anche che qualche bambino era nato senza essere stato effettivamente concepito da due genitori perché impossibile o perché sterili, eccetera. Ma noi siamo due uomini, tesoro e non abbiamo idea di chi abbia partorito queste creature. Capisci che è troppo anche per una benedizione?»
«Gli angeli agiscono per vie misteriose» commentò Jace, saggio. Comprendeva quel discorso, in effetti si era fatto venire gli stessi dubbi. E lui per primo, con tutto quello che aveva passato con Clary, faticava a fidarsi di un qualsiasi essere celeste. Però anche il mettere in discussione il potere degli angeli in un momento come quello, era tutt’altro che una mossa intelligente.
«E questo che vorrebbe dire?» si indispettì lo stregone.
«Di non mettere in dubbio il potere sconfinato degli angeli, Magnus, questo sto dicendo» annuì Jace con convinzione.
«Sarà, ma neanche sappiamo perché abbiamo ricevuto questa benedizione. Mi rendo conto che abbiamo fatto tante cose positive per unire il mondo dei Nascosti a quello degli Shadowhunter e fare in modo che ci sia più comprensione, ma mi domando se questo sia sufficiente a ricevere un dono del genere.»    
«E infatti non è per quello!» li aveva interrotti Alec. Jace non era riuscito a non notare l’imbarazzo colorare le sue guance, così come il suo tenere gli occhi fissi sul bambino invece che dedicare a loro le proprie attenzioni. Era rimasto fermo unicamente perché aveva un neonato in braccio, ma era sicuro che se avesse potuto avrebbe iniziato a girare per la stanza come un leone in gabbia.
«Quando ho ceduto al ricatto di Asmodeo» esordì, abbassando lo sguardo sino al piccolo Max e iniziando a giocare con lui. Gli aveva dato un dito e questo aveva cominciato a succhiarlo tutto contento. «Ti ho lasciato così che potessi riavere i tuoi poteri, il mio sacrificio è stato giudicato e sono stato benedetto.»
«Oh!» esclamò Jace, sorpreso. Avrebbe dovuto immaginarlo.

 

All’epoca gli sarebbe piaciuto molto sapere quello che suo fratello aveva combinato con quel demone. Non aveva voluto dirgli perché aveva lasciato il suo ragazzo, aveva dovuto scoprire ogni cosa da Isabelle con la quale Alec si era confidato. Probabilmente aveva fatto bene a tacerglielo, perché era quasi sicuro che avrebbe cercato di convincerlo ad agire in un’altra maniera. Jace non era mai stato uno da sacrifici, era fortemente convinto che esistessero maniere per fare le cose che non comprendessero il gettare alle ortiche una cosa bella come un amore. Ma Alec aveva una personalità molto diversa dalla sua, non aveva esitato un istante prima di mettere da parte se stesso, poi aveva fatto in modo che Magnus potesse sentirsi nuovamente completo. 
«Mostramelo» ordinò lo stregone, interrompendo il silenzio che era sceso tra di loro, prima di affrettarsi a spiegare. «Cedere al ricatto di un Principe dell’inferno è un atto che gli angeli non si sprecherebbero a giudicare di per sé, quindi devi aver detto o fatto qualcosa che ha attirato la loro attenzione. Mostrami i tuoi ricordi, qualunque cosa possa avere a che fare con quello che è successo un anno e mezzo fa.» Jace vide suo fratello annuire frettolosamente, prima di alzarsi dal letto dove lui e Magnus erano seduti. Quindi si preoccupò di rimettere il bambino nella culla, dando un bacio a entrambi una volta che erano stati ben coperti e subito li raggiunse sul letto.
«Sono pronto» annuì.

 

Jace non aveva la minima idea di quello che Magnus stava vedendo, aveva posato le mani sulle tempie di Alec e poi i suoi occhi erano diventati bianchi. Erano rimasti immobili in quel modo forse per qualche minuto, non di più, fino a quando non li aveva visti allontanarsi. A quel punto sul volto dello stregone era apparsa un’espressione sofferta, anzi molto di più, era un dolore profondo. Non lo aveva visto in quello stato neanche dopo esser stato colpito da un demone, il giorno prima. Aveva il fiato corto, quasi fosse reduce da una lunga corsa mentre i suoi occhi truccati erano pieni di lacrime che si forzava a trattenere. Come spesso accadeva quando si trattava di lui, Jace aveva la sensazione che volesse fuggire a nascondersi per non far vedere a tutti quanto stesse male, qualunque cosa avesse visto doveva aver bruciato più del fuoco. Poteva soltanto immaginare cosa avesse realmente detto o pensato Alec in quel periodo risalente ormai a un anno e mezzo prima, aveva vissuto soltanto una piccola parte della storia, per la maggior parte gli era stata raccontata in un secondo momento. Ma sapeva che quel periodo era stato drammatico per suo fratello. All’epoca aveva sentito sin da subito che qualcosa in lui non andava, dalla felicità immensa per la proposta di matrimonio che aveva intenzione di fare era passato a un dolore costante che non lo aveva abbandonato fino a quando non si erano ritrovati a Edom. Quella stessa sofferenza ora stava di riflesso tra le espressioni di Magnus Bane.
«Oh, Alexander» aveva sussurrato, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano e cercando di trovare un contegno che pareva di continuo venirgli a mancare.
«Cos’hai visto?» si azzardò a chiedere, facendosi avanti di un passo. Era più che altro curiosità, suo fratello non aveva mai voluto confidarsi con lui e Jace non aveva insistito perché non gli ci era voluto molto per rendersi conto di quanto difficile fosse per una persona introversa, il semplice parlare con qualcuno.
«Tutto!» esclamò Magnus, quindi prese nervosamente a camminare per la stanza. «Il patto con mio padre, le cose che ti ha detto per convincerti che saresti stato la mia rovina e che avrei finito con l’odiare te per quello che mi era successo.»

«Che cosa?» sbottò Jace, incredulo. Sapeva che i demoni superiori oltre che spietati erano anche piuttosto subdoli, che amavano manipolare i mortali o ingannarli, ma Asmodeo lo aveva davvero convinto di una cosa del genere? Decisione sofferta oppure no, era stato Magnus a decidere di sacrificare i propri poteri per salvarlo, nessun altro avrebbe potuto farlo desistere a rinunciare.
«E aveva ragione!» se ne uscì Alec, alzando la voce così tanto che, nella culla, i piccoli avevano cominciato ad agitarsi. «Avevi perso la tua magia soltanto perché io non ero disposto a rinunciare al mio Parabatai, perché ero troppo debole per fare quello che andava fatto.» Seriamente lo pensava? Era convinto di essere un debole? Jace aveva capito con il tempo che quello era uno dei crucci maggiori di Alec, aveva sempre sofferto al pensiero che la sua famiglia lo considerasse indegno di dirigere l’Istituto di New York, ma non pensava che fosse seriamente convinto di valere così poco.
«Tu non sei debole!» esclamò Jace, con forza, facendosi avanti in mezzo a loro senza alcuna paura.
«E invece lo sono stato!» replicò lui, annuendo con forza. «Non avevo il coraggio di ucciderti e lui ha rinunciato a tutto per salvarti. La tua magia era tutto per te e l’hai persa per colpa mia» concluse rivolgendosi a un Magnus che si era ammutolito e che guardava insistentemente a terra. Probabilmente giorni prima gli avrebbe dato del vigliacco per non riuscire neanche ad alzare gli occhi e affrontare lo sguardo di suo marito, ma aveva imparato a conoscerlo e a leggere tra le righe. Tremava vistosamente, con le dita ritorte in due pugni stretti e il corpo teso allo spasmo. Sembrava arrabbiato e sul costante orlo di un precipizio che lo avrebbe fatto affondare dentro a un baratro oscuro. Jace non soltanto vedeva tutto questo, ma lo capiva persino. In fondo, Clary non si era comportata diversamente. Aveva rinunciato ai suoi ricordi del mondo delle ombre, aveva rinunciato a loro pur di salvare tutti quanti dalla follia omicida di Jonathan. E per quanto in un primo momento fosse stato arrabbiato, poi la sola cosa che aveva desiderato era poterla riavere indietro.
«Sei tu a essere tutto per me!» urlò Magnus. «Avrei vissuto da mondano pur di starti vicino» strillò, disperato, spezzando il silenzio sceso su di loro. Aveva sollevato il volto e gridato con quanto fiato aveva in corpo. «E invece sei sceso a patti con un demone.»
«L’ho fatto per» ribatté Alec. «Volevo chiederti di sposarmi e tu ti sei presentato a cena ubriaco, mi hai detto che non saresti mai stato più felice senza la tua magia. Quanto ci avresti messo prima di rinfacciarmi che eri diventato un mortale a causa mia? E non ti azzardare a dire che non è vero, perché ogni dannata volta che ti chiedevo di parlarmene mi riempivi di stronzate. Perché sei sempre quello che deve mostrarsi forte e incrollabile, anche quando ti senti morto dentro. Perché Asmodeo aveva ragione.» Alec aveva concluso il proprio monologo con voce sottile, rotta dalle lacrime che forzatamente tratteneva. Erano cose che si era tenuto dentro per tutto quel tempo, probabilmente tra il matrimonio e il trasferimento ad Alicante non ne avevano più parlato. Rivivere quei ricordi aveva portato a galla nuovamente il dolore, e questo era sfociato in rabbia.
«E quindi è stato meglio lasciarmi, vero?»
«D’accordo, ragazzi» intervenne Jace, frapponendosi tra loro con decisione prima che potessero fare o dire cose di cui si sarebbero pentiti per tutta quanta la vita. Stavano uno davanti all’altro, al centro della stanza, e adesso si guardavano con un’espressione che non riusciva a decifrare. Sembravano arrabbiati e addolorati, forse un po’ malinconici; ma aveva davvero senso prendersela in questo modo? Avevano sofferto come cani, d’accordo, ma poi era andato tutto per il meglio, o no?
«Capisco che portare a galla questi ricordi sia brutto per entrambi, ma è andata a finire bene. Guardate a cos’ha portato il sacrificio di Alec» disse indicando la culla, poco lontana. «Ora avete due splendidi bambini ed è meglio che vi concentriate su di loro. Qui e ora, ragazzi, pensate a come uscire da questa situazione per tornare tutti quanti a casa il prima possibile e vivere quella vita che vi meritate di avere.» Dopo che ebbe detto quelle parole, Jace vide le guance di suo fratello sgonfiarsi e quindi arrossire, la rabbia sembrava svanita tutta quanta all’improvviso, la postura fino ad allora rigida aveva lasciato spazio a un’altra decisamente più rilassata.
«Mi dispiace per tutto il male che ti ho causato» aveva detto e Magnus in risposta aveva sollevato lo sguardo, abbozzando un sorriso furbo e compiaciuto. «Volevo soltanto che tu fossi di nuovo te stesso, che ti sentissi completo. Saresti andato avanti, in un modo o nell’altro l’avresti fatto.» Di nuovo, il silenzio scese tra di loro come una coperta troppo corta. Jace si tirò indietro di qualche passo, era evidente che non avessero ancora del tutto sistemato le cose e si sentiva il terzo incomodo in tutta quella faccenda. Forse avrebbe dovuto dire qualcosa per aiutarli, ma poco dopo fu Magnus a prendere in mano la situazione: «Quello che la notte di Halloween hai detto a Isabelle, lo pensavi davvero?» * Aveva una vaga idea di quello che stesse dicendo, ma di nuovo non conosceva i dettagli. Ricordava che era successo tutto nell’arco di una serata, durante la quale lui era stato preso da altre faccende, ma Alec invece pareva aver intuito perché lo aveva visto annuire, sebbene timidamente. 
 

«Quindi tu credevi seriamente che io mi sarei rifatto una vita? Che avrei avuto qualcun altro dopo di te?»
«Non sono il tuo primo amore, Magnus e non sarò nemmeno l’ultimo» ammise Alec, abbassando lo sguardo. Nei suoi occhi, così come nel fondo della sua anima, Jace riusciva a scorgere la sua sincerità più brutale di quella che aveva usato fino ad allora. Era una verità che faceva male a lui per primo, un qualcosa che aveva impiegato del tempo prima di accettare, ma dirla ad alta voce doveva fare ancora male come agli inizi della loro storia quando suo fratello si era sentito insicuro.
«E se quel giorno Maryse non fosse venuta al loft, dicendomi che avevi intenzione di chiedermi di sposarti? Se non avessi capito dell’inganno di mio padre, tu avresti vissuto tutta la vita da solo?» di nuovo, Alec annuì. Era come se non avesse più parole. Il rossore delle sue guance parlava per lui.
«Gli Shadowhunter si innamorano una volta soltanto ed è per la vita» intervenne nuovamente Jace. Era una di quelle storielle alle quali non aveva mai voluto credere, una fantasia da sciocchi romantici, ma poi aveva conosciuto Clary e aveva capito che qualcosa di vero doveva pur esserci. Vedere la maniera devastante con cui Alec si era innamorato di Magnus o Isabelle di Simon, gliene aveva dato soltanto la prova. Si diceva che i Nephilim amassero in maniera feroce e che, dopo aver perso il loro vero amore, si sarebbero sentiti incompleti e soli per tutta la vita. Jace non aveva dubbi riguardo al fatto che Ale si sarebbe sentito in quel modo se mai avesse davvero lasciato Magnus per sempre. E forse sì, lui non avrebbe mai e poi mai agito in quel modo, ** ma ammirava suo fratello per il gesto di immensa generosità che aveva compiuto. A quanto pareva, pensò osservando la culla con i due bambini che gorgogliavano come se fossero impegnati in chissà quali discorsi, non era il solo a pensarla in quel modo.
«Nessuno avrebbe preso il tuo posto e io non avrei potuto dimenticarti neanche volendo. Però sarei stato felice all’idea che avevi di nuovo i tuoi poteri. Avresti amato qualcun altro e mi sarebbe andata bene.» Da quel momento non ci furono altre parole, quando Magnus attirò Alec a sé per baciarlo con passione, Jace non si mise in mezzo prendendoli in giro. Non era il momento di dar loro fastidio, si disse, decidendo di concentrare le proprie attenzioni su un qualcosa di diverso. Era stato tentato di prendere uno dei bambini in braccio, ma non ne aveva mai tenuto uno per davvero aveva paura di farlo cadere o romperlo; per quanto assurdo potesse sembrare, Jace avrebbe tenuto un bambino come si teneva una spada. *** Quindi preferì avvicinarsi a una delle due finestre, quella che si affacciava direttamente sulla vallata offriva una visione della foresta incantata a dir poco spettacolare. Il tramonto era già passato da almeno mezz’ora, i colori del cielo erano già mutati e dall’arancio erano passati a un violetto bluastro. Ancora poco e sarebbe sceso il buio. 

 

Il primo lo vide arrivare da un paio di chilometri, era un demone ragno gigantesco e avanzava rapido con le sue otto zampe. Il secondo gli stava appresso, esattamente identico a questo, mentre altri per lo più demoni raul, stavano correndo in loro direzione. D’istinto, Jace mise mano alla spada assumendo una postura da combattimento. L’elsa roteò nella sua mano esperta, intanto che l’adrenalina gli correva sotto la pelle, causandogli piccoli brividi e una lieve increspatura.
«Ragazzi, mi dispiace interrompervi» disse, con tono serio. Li vide allontanarsi di scatto l’uno dall’altro e poi guardarlo come se volessero ucciderlo a mani nude. «Abbiamo un problema demoni là fuori, stanno arrivando e presto saranno qui sotto.» Alec parve attivarsi nell'immediato, con l’addestramento da Shadowhunter che si faceva vedere in situazioni come quella. Cambiò immediatamente la propria postura, assumendo un’espressione dura.
«Ho delle armi giù di sotto: spade, mazzafrusti e anche un arco.»
«Ottimo» annuì Jace, aveva sempre sognato di usare un mazzafrusto!
«Voi due andate» intervenne invece Magnus. «Tratteneteli il più possibile. Io intanto cerco di capire di che maledizione si tratta. Presto» gridò alla fine, Alec lo precedette di poco giù per le scale. I demoni, si disse, erano vicini.   

 

 




Continua

 

*Tutta la scena che segue fa riferimento al dialogo che avviene nella 3x18 tra Alec e Isabelle in cui lui le parla del patto con Asmodeo: “But I’m not the first person he’s loved and I wont be the last. Breaking up is gonna hurt like hell, but it’s the kind of hurt he can recover from” (Non sono la prima persona che ha amato e non sarò neanche l’ultima. Lasciarsi farà male da morire, ma è il tipo di dolore dal quale si può riprendere).
E poi quando Izzy gli chiede: “But what about you? Can you recover?” (E tu? Riuscirai a riprenderti) Alec non risponde, ma fa segno di no con la testa come a voler dire che lo amerà per sempre. 
https://www.youtube.com/watch?v=bLmjQtQLFRo&ab_channel=Shadowhunters

**Dalla puntata 3x18, in un dialogo in cui Alec chiede a Jace se si sacrificherebbe per amore nel modo in cui intende fare lui, accettando il patto di Asmodeo e Jace, pur non conoscendo i dettagli, gli dice che non lo farebbe mai. 

***Ne “Il libro bianco perduto”, Jace viene accusato da Alec di trattare il piccolo Max come se fosse un’arma e non un bambino. Nello specifico, dopo che si è reso conto che suo fratello ha sistemato il piccolo in mezzo alle armi perché “Lo trovava divertente”, Alec gli dice che c’è un motivo per cui la gente non vuole affidargli i propri figli. Altra citazione a “Il libro bianco perduto” poco più sotto rispetto a questo punto, quando Jace dice di aver sempre sognato di usare un mazzafrusto.

 

Note: Avrebbe dovuto essere un capitolo unico che chiudeva la storia, ma ho deciso di dividerlo in due quando mi sono resa conto della lunghezza. In questo abbiamo visto gli eventi dal punto di vista di Magnus e da quello di Jace. Nel prossimo avverrà la conclusione della vicenda, narrata da Alec. Il prossimo capitolo è già scritto, va solo revisionato e penso che entro mercoledì lo pubblicherò. Intanto un paio di spiegazioni su questo: quando ho pensato di scrivere questa storia ho subito ricordato della scena tra Alec e Isabelle sopracitata. Avrei tanto voluto che Magnus vedesse quello che Alec aveva detto subito prima di accettare il patto di Asmodeo. Ragion per cui ho deciso di scrivere questa storia. L’idea della benedizione è venuta dopo, però insomma se una persona doveva essere benedetta quella era proprio Alec.

Per me è un periodo un po’ nero con la scrittura, che va avanti da un po’ a dire il vero, quindi questo capitolo sarà un po’ meh, forse. Ma volevo comunque arrivare alla fine e non lasciare la storia incompiuta. Un grazie a chi ha letto e recensito fino a qui, grazie anche per i kudos e i bookmark su AO3 e Wattpad.
Koa
 

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Capitolo 5
*** La maledizione spezzata (Seconda parte) ***


 

La maledizione spezzata (Seconda parte)

 



 

A suo dire c’era un aspetto straordinario nel lottare a fianco di Jace Herondale, un qualcosa che i primi tempi dopo aver formato il legame Parabatai, aveva trovato a dir poco eccezionale ovvero il riuscire a precedere le sue azioni, come se fosse effettivamente dentro la sua testa. Essere uniti da un qualcosa di tanto profondo e intimo non riguardava unicamente il comprendere un po’ meglio i sentimenti dell’altro, o percepire la propria pelle bruciare quando una ferita squarciava la carne del proprio compagno, a detta di Alec aveva a che fare con l’armonia. Quando andavano a caccia di demoni, lui e Jace erano in perfetta assonanza. Si muovevano con una coordinazione esemplare, i loro cuori iniziavano a battere alla medesima velocità e le loro abilità diventavano più accentuate. Ci si sentiva più potenti che mai quando si lottava con il proprio Parabatai che ti copriva le spalle, questo lo avrebbe detto qualunque Shadowhunter che ne aveva uno. Quella sera, Alec si era sentito diverso fin da quando suo fratello aveva tracciato alcune rune sulla sua pelle. Negli ultimi giorni aveva lottato sempre da solo, non aveva chiesto aiuto alle creature magiche della vallata, se non per quanto riguardava il badare ai bambini. Ma anche prima, da quando era diventato Inquisitore non erano poi molti i momenti in cui andavano a caccia insieme. Alec si rese conto di aver dimenticato come ci si sentiva. Le rune tracciate da Jace erano potenti, molto più di quanto non lo fossero mai state e non riusciva a non pensare che avesse a che vedere con il luogo in cui si trovavano. Quando il suo stilo aveva toccato la pelle scoperta del suo braccio, aveva sentito il potere angelico di Ithuriel scorrergli nelle vene e divampare nello stomaco al pari di un incendio. Prima la runa dell’agilità, poi quella della resistenza e infine una per la visione notturna. In pochi istanti, il suo corpo era diventato un quadro fatto di pura luce dorata.

«Io prendo questo» aveva dichiarato Jace, minuti più tardi, afferrando uno dei mazzafrusti e facendogli anche l’occhiolino. Alec si era messo l’arco in spalla, riempiendo la faretra di tutte le frecce che al mattino correva poi a recuperare dai corpi dei demoni. Aveva anche preso anche una lama angelica e ora la teneva a testa in giù mentre con mano ben ferma stringeva l’elsa.
«Gabriel» aveva detto tra sé, prima che l’adamas si illuminasse. Quindi si era messo a spiare attraverso una delle feritoie che quella vecchia porta di legno aveva tra le solide assi. Fuori stava già diventando buio, ma riusciva a vedere  distintamente almeno una cinquantina di demoni. Erano corsi a gran velocità in direzione della torre, ma miracolosamente si erano fermati al limitare della piccola radura. Alec aveva intravisto un enorme demone ragno al di là delle siepi di mirto, l’enorme bestia aveva calpestato le sterpaglie e i rovi con le sue enormi zampe. Al solo vederlo, si era pietrificato. Aveva sempre avuto il terrore dei ragni. Forse era il caso di tracciare anche una runa del coraggio dato che era probabile non sarebbe riuscito a uscire da lì.
«Cosa vedi?» chiese Jace, curioso mentre faceva roteare il mazzafrusto a mezz’aria.
«Sembra che non riescano a entrare» notando la maniera furiosa con cui testardamente andavano a sbattere contro una sorta di muro invisibile. «Credo che Magnus abbia issato una barriera magica.»
«Può essere» ribatté il suo compagno, allungandosi fino alla porta e spiando dall’altra sottile feritoia. Proprio in quel momento si sentì un plop schioccare nell’aria, come di un qualcosa che si rompe all’improvviso e, poco dopo, un qualcosa di molto pesante impattare contro la porta. Incredibilmente, questa resse il colpo, sebbene i cardini avessero tremato e l’intera torre avesse vacillato.
«Alexander, Jace! Mi sentite?» la voce di Magnus riecheggiò giù per le scale, meno di un attimo più tardi. Non li aveva raggiunti di sotto, ma parlava direttamente dalla stanza da letto. Era sicuro che avesse usato un qualche tipo di incantesimo per potenziare la propria voce; pareva allarmato. Come se la sola idea di non essere con loro lo terrorizzasse.
«Siamo qui» ribatté Alec, avvicinandosi al primo gradino e guardando all’insù. Non poteva vederlo, dato quella era una scala a chiocciola, ma poteva portare al meglio la sua voce verso l’alto. «Abbiamo appena finito di tracciarci le rune, che succede?»
«Le mie difese magiche non tengono» gli rispose, confermando le sue teorie. «Sembra che gli angeli non vogliano che protegga questo posto. Dovrete combattere quei demoni da soli, io faccio più presto che posso.»
«D’accordo, ci pensiamo noi» urlò, tornando verso la porta intanto che stringeva maggiormente le dita attorno all’elsa della spada. Non era un vero dramma, erano soltanto dei demoni e loro erano Nephilim, erano nati per questo.
«Iniziamo dai due ragni» disse un Jace particolarmente spiccio. Era l’idea migliore, liberarsi il prima possibile di quelle bestie orribili era quello che chiunque avrebbe fatto. Nel dubbio, però, la runa del coraggio * la tracciò per davvero, sebbene suo fratello lo avesse guardato storto per la maggior parte del tempo. “Non giudicarmi” pareva dire lo sguardo di Alec, intanto che il disegno sul braccio sinistro si illuminava. Non era mai una buona idea, secondo Clary che l’aveva disegnata per la prima volta, andava utilizzata con parsimonia perché si potevano anche commettere azioni sconsiderate. E in famiglia c’era già Jace che corrispondeva a descrizione.


«D’accordo, sei pronto?» chiese, poi, determinato a mettere fine a quella situazione. Sentiva l’adrenalina increspare la pelle e l’aspettativa fargli formicolare un qualcosa di non ben definito alla base della nuca. Non aveva paura, al contrario aveva l’orribile sensazione di essere invincibile. Non era per via della runa, non soltanto, era perché lassù in cima a quelle scale c’era la sua famiglia e Alec l’avrebbe protetta a tutti i costi. Sentiva il bisogno viscerale di spezzare la maledizione che incombeva su Max e Rafe, voleva portarli a casa e iniziare una nuova vita tutti insieme.
«Scommetto che ne farò fuori più di te, fratello» commentò Jace, facendo roteare il mazzafrusto con incredibile abilità. Alec alzò gli occhi al cielo nel sentirlo parlare in quel modo. Aveva dimenticato anche che suo fratello trasformava tutto in una sfida, eppure un sorriso si stirò sulle sue labbra. Avrebbe mentito se avesse detto che non gli era mancato.

 

 
La lotta fu complicata, per certi versi estenuante. A dirla tutta sembrava non finire mai, il che aveva gettato Alec nello sconforto a un certo punto, più precisamente quando la runa del coraggio era svanita. Non durava mai troppo, il che poteva considerarsi soltanto un bene. Avevano tolto di mezzo i due enormi demoni ragno, le frecce non erano bastate a fermarli, avevano dovuto tagliar loro le zampe e poi Jace li aveva finiti con il suo nuovo mazzafrusto, del quale per altro andava discretamente fiero. I primi cinquanta demoni caddero ai loro piedi privi di vita nel giro di una mezz’ora. Il potere di due Parabatai che combattono l’uno a fianco dell’altro, avrebbe potuto annientare eserciti interi e così fu quella notte. Alla fine della battaglia, Alec si ritrovò fastidiosamente coperto di icore. Puzzava anche come uno di quegli esseri e Jace pareva messo molto peggio di lui. Dopo aver tagliato la testa a un demone, un po’ del suo sangue velenoso gli era schizzato sul viso, causando una piccola bruciatura. La bocca di Alec si era spalancata per lo stupore quando si era reso conto che non aveva avuto bisogno di tracciare l’iratze per guarire. Lui, già era pronto con lo stilo in mano, aveva visto con ammirazione tutte le sue rune di Jace illuminarsi di una luce dorata. La bruciatura era sparita subito dopo.
«Wow!» fischiò per la sorpresa, intanto che suo fratello osservava con disgusto la giacca di pelle tutta sporca.
«Sono i vantaggi dello stare in questo posto» aveva ribattuto, facendo spallucce e lamentandosi subito dopo di quanto fosse inzaccherato di icore e terra. Aveva i capelli infangati e con del sangue di demone che era colato sulla fronte, i pantaloni si erano strappati e aveva macchie non ben definite sul viso. Nonostante l’aspetto suggerisse tutt’altro, si ritrovò a pensare che fosse angelico come nessun altro Nephilim avrebbe mai potuto essere.
«Ad ogni modo è stato bello lottare di nuovo al tuo fianco. Mi era mancato» ammise Alec, abbozzando un sorrisetto che però si spense subito. I demoni erano stati cacciati, anche se sapeva per esperienza che non era ancora finita. Tuttavia fu a Magnus a cui dedicò i pensieri successivi: come se la stava cavando? Sollevò il viso verso l’alto, c’era una luce accesa là in cima alla torre. Era calda e bellissima. Per tutto il tempo in cui erano stati lì non aveva percepito lo sguardo di suo marito sulla schiena, nessuna familiare sensazione di benessere gli aveva fatto formicolare la nuca e la sua magia non era volata a destra e a sinistra per dar lo aiuto. Che fosse in difficoltà? Era probabile che stesse facendo delle ricerche prima di gettare un incantesimo, era sempre così attento quando si trattava di magia. Alec non dubitava che quello legato a Max e Rafe fosse un nodo difficile da sciogliere. Nonostante avesse indagato tra le fate e gli esseri magici della vallata, nessuno era stato in grado di dirgli di quale maledizione si trattasse, pertanto aveva supposto fosse roba da stregoni. Alec si era messo in testa che fosse un qualcosa di complicato e potente, ma tuttora non aveva idea neanche di chi l’avesse gettata su di loro. Questo voleva dire che suo marito doveva essere molto impegnato a decifrare un puzzle, reso ancora più misterioso dal fatto che tutto quello avesse a che vedere con gli angeli.
«Anche a me, fratello» ribatté Jace, attirando la sua attenzione prima di corrergli incontro e abbracciarlo senza fare troppe cerimonie. Era mancato anche a lui, lo sapeva. Ma così come lui e Isabelle, Jace mostrava di star soffrendo con molta meno facilità rispetto a chiunque, immaginava fosse una di quelle caratteristiche che aveva assimilato crescendo con i Lightwood.
«Però non credo sia finita. Ne stanno arrivando degli altri.» Non appena ebbe finito di dirlo, un demone raul balzò da dietro una delle siepi, finendo solamente a un paio di metri di distanza da loro. Alec incoccò una freccia così rapidamente che il suo Parabatai ebbe a malapena il modo di accorgersene. Subito dopo quell’essere orribile giaceva trafitto a terra, morto. Da quel momento ne arrivarono ancora, un numero che riusciva a contare soltanto perché Jace non faceva che fargli presente di essere in vantaggio di almeno tre demoni morti. Secondo lui non contava il fatto che Alec avesse fatto fuori una manticora grazie a un preciso colpo di spada ben assestato sulla nuca. quello continuava a valere come singolo demone qualsiasi.
«Bel colpo!» lo sentì esclamare intanto che attaccava ferocemente l’ennesima creatura infernale. Andarono avanti in quel modo fino a quando Magnus non spuntò dalla porticina della torre, con i suoi occhi da gatto e fiammelle bluastre di magia che gli fuoriuscivano dalle mani. Aveva a malapena avuto il tempo di guardarlo e sorridergli timidamente, che lo aveva sentito pronunciare una formula magica in latino, un istante dopo tutti i demoni erano stati polverizzati. La vallata si ritrovò silenziosa come mai Alec l’aveva sentita.
«Ehi, ma così non vale però» si era lamentato subito Jace, guardandosi attorno e assumendo un’espressione contrariata nel notare che il suo divertimento era già finito.
«Sì, beh, abbiamo di meglio da fare ora» replicò Magnus, restando impalato sulla soglia. Aveva ancora le mani tese e scrutava l’orizzonte come a voler sfidare qualsiasi altra creatura demoniaca ad attaccarli ancora. Nessuno si fece avanti. Cosa ci faceva lì? Si chiese, aveva risolto il problema? O forse era accaduto qualcosa?
«I bambini stanno bene?» si allarmò subito, portando nuovamente gli occhi in cima alla torre. La luce era ancora accesa, sembrava la fioca illuminazione di quella vecchia lampada a olio che teneva sul comodino.
«Sì, ma ho bisogno del vostro aiuto, muovetevi!» E detto questo, suo marito volò su per le scale senza nemmeno aspettarli. Qualunque cosa fosse accaduta, lassù in alto, non voleva aspettare un solo momento. I suoi figli, si disse mettendo un piede avanti all’altro con una fretta indiavolata, avevano bisogno di lui.


 

Arrivarono in cima in un lampo, da quando lo conosceva Alec non ricordava di aver mai visto Magnus Bane correre in quel modo. Neanche quando Sephora aveva annunciato una svendita totale con prezzi stracciatissimi; eppure all’epoca aveva urlato, si era cambiato d’abito ed era uscito di casa in meno di trenta secondi. Ripensò con divertimento a quel giorno, almeno sino a quando non giunse sulla soglia della camera da letto, a quel punto l’incertezza tornò prepotente in lui. I bambini non erano più nella culla, ma erano stati posati a terra, sopra a un cuscino che Magnus aveva sistemato sotto ai loro corpicini. Si trovavano all’interno di un pentacolo tracciato sul pavimento con del gesso, a ogni angolo del simbolo magico c’era una candela bianca. Le stelle a cinque punte di solito servivano per…
«Prima che tu me lo chieda» gli disse, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Sino ad allora, suo marito era immerso nella lettura di un libro antico. In effetti di quelli ce n’erano diversi sparsi per la stanza, alcuni chiusi e gettati a casaccio contro le pareti rotonde, mentre altri aperti a pagine che parlavano di malefici. Alec li riconobbe senza troppa fatica: erano gli stessi che avevano nella libreria, al loft. Molti contenevano incantesimi antichissimi, erano testi di magia o manuali da stregoni che Magnus aveva collezionato nel corso dei secoli. Secondo Catarina quella era la biblioteca più fornita dopo il Labirinto a Spirale. Quello che suo marito aveva in mano invece era il Grimorio, ovvero il testo sacro che conteneva tutti i personali incantesimi di uno stregone. Lo stesso che stava in una cassaforte, a casa, protetto da un potentissimo incantesimo. Era rimasto immerso nella lettura fino a che non aveva parlato: «Quello che vedete è un pentacolo di protezione. Le barriere non hanno funzionato attorno a noi, ma funzionano con loro, il simbolo aumenta il potere magico.» Alec aveva anche notato che i bambini non sembravano spaventati, ma che ridevano come matti. Si divertivano a cercare di afferrare delle lucine colorate che saettavano impazzite sopra le loro teste. Luccicavano e si muovevano in maniera irregolare e imprevedibile, sarebbero potuti rimanere lì per sempre, pensò sorridendo.

«Il Leprecauno lo aveva detto» disse, probabilmente leggendo nella sua mente. «O meglio ha detto cose che all’epoca non avevo proprio capito, ma quando li ho visti ho unito i puntini. Ho voluto provare a farli giocare in questo modo. Come ho creato quell’incantesimo hanno smesso di piangere.»
«Hai fatto bene» gli disse, sorridendo nel notare quanto fossero felici. Gli aveva già sentiti ridere in quel modo, la prima volta quasi si era commosso per la felicità. Le fate usavano trucchi simili per farli giocare, erano già molto abituati alla magia, ma quella sembrava starli facendo impazzire di gioia. «Quindi hai capito qualcosa?» si azzardò a chiedere, riportando lo sguardo su di lui. Magnus sollevò gli occhi dal libro, chiudendolo con uno scatto. Aveva un’espressione furba in volto, piuttosto soddisfatta a dire il vero. Era come se fosse riuscito ad afferrare il senso stesso dell’esistenza e ora morisse dalla voglia di mostrarlo anche a lui.
«So molto di più, fiorellino. So tutto!» esclamò.
«Tutto cosa?» intervenne Jace che nel frattempo si era steso sul letto morbido e guardava il soffitto distrattamente.
«Come sono nati, quale tipo di incantesimo è stato gettato su di loro, ogni cosa che li riguardi» disse, agitando una mano a mezz’aria come a voler indicare il luogo stesso in cui si trovavano o il perché erano stati portati lì. Tutte questioni su cui si era fatto domande per giorni, ma a cui non aveva mai trovato una risposta.

«Sono stati partoriti da una donna umana, come spesso succede con gli stregoni» esordì, dopo qualche attimo di silenzio. «Gli angeli le hanno concesso la libertà di scegliere, a quanto ho capito. Le hanno chiesto se voleva portare in grembo due bimbi molto speciali, per due genitori che non potevano portare avanti una gravidanza. Nella mia visione l’angelo le ha anche specificato che però non avrebbe mai potuto crescerli, in cambio le hanno offerto molte ricchezze.»
«Restare incinta per soldi» commentò Jace, con una pessima uscita, mettendosi seduto sul letto intanto che incrociava le braccia al petto.
«Non giudicare, Shadowhunter» lo rimproverò Magnus, severo. «Lo fanno moltissime ragazze e non c’è niente di male. Inoltre la donna ha capito subito che quello che le era apparso era un angelo, ed essendo molto devota, ha detto di sì.»
«Poi che è successo?» chiese Alec, curioso. Era tentato di andare dai piccoli, anche solo per baciar loro la fronte o dargli un buffetto sulle guanciotte piene, ma non sapeva se la magia che li proteggeva li avrebbe difesi anche da lui. Se così fosse stato probabilmente ci sarebbe rimasto male, quindi nel dubbio rimase fermo dove stava e si limitò a osservarli da lontano.
«Beh, è rimasta incinta miracolosamente. Ha cresciuto Max e Rafe dentro di sé con amore, quando sono nati ha capito che la loro natura non era solamente angelica e, temendo di essere stata ingannata da un demone, ha gettato su di loro una maledizione.» A quel punto la voce di Magnus parve tentennare. Alec la sentì tremare leggermente e quando riprese era ancora più roca: «Probabilmente la donna aveva sangue di fata nelle vene, magari senza saperlo, è per questo che i suoi malefici hanno funzionato. Questa è la sola cosa che non so per certo. Ad ogni modo ha augurato loro di perire sotto le ferite dei demoni più spietati, ha detto che sarebbero finiti all’inferno, e che solo i loro veri genitori avrebbero potuto salvarli. Per far sì che questo non avvenisse, però, li ha nascosti convinta che gli angeli non sarebbero mai riusciti a trovarli.»
«Ma così non è stato» annuì Jace.
«Neanche loro si aspettavano che la maledizione funzionasse, era solo una mondana o così erano convinti. Quando però i primi demoni hanno iniziato ad attaccare, hanno creato questa vallata magica e li hanno portati qui. La torre è stata innalzata unicamente per difenderli, l’angelo ha preso a Max e Rafe due ciocche di capelli, le ha gettate a terra ed è sorta una torre. Per questo non possono uscire prima che la maledizione non sia spezzata, questa è la sola protezione che hanno contro quegli esseri. Anche se cercano di attaccarli, è improbabile che uno di loro riesca a ucciderli finché si trovano qua dentro.» Quindi, Magnus finì di parlare, la sua voce si spense in un sussurro. A terra, i bimbi ridevano. 


 

Alec ripensò a tutte le creature demoniache che aveva affrontato e ucciso negli ultimi sei giorni, a quelli che cercavano costantemente di abbattere la torre preferendo questa prospettiva al salire le scale. Di norma non avrebbero dovuto neanche avvicinarsi, ma Gabriel aveva dichiarato che le difese magiche dei bambini stavano venendo meno. Ma tutto questo Alec lo sapeva, aveva capito da sé che la maniera di attaccare che avevano quegli esseri era diversa rispetto a quanto avesse mai visto. Non dubitava che avrebbero finito con l’unire le forze e cercare di abbattere la torre, se necessario. Anche per questo aveva sempre tentato di tenerli lontani dall’edificio. Chiudendo gli occhi e inspirando lentamente, di modo da riacciuffare il proprio autocontrollo, Alec ripeté a se stesso che non doveva arrabbiarsi, che andava bene così. Così non era, in realtà era furioso e non andava bene proprio niente, ma evitò di indugiare su quel pensiero, perché se avesse aperto bocca era probabile che avrebbe gridato. Da quando suo marito aveva smesso di parlare, poi, il silenzio era sceso pesante su tutti loro. I bambini ancora ridevano, Jace pareva perso nei propri pensieri mentre Magnus… Alec non aveva avuto la forza di guardarlo negli occhi, ma immaginava come si fosse sentito ad aver visto quelle cose. Il suo aver evitato di discutere dell’argomento “Figli” era indicativo del fatto che stesse ancora metabolizzando la novità. Avrebbe voluto abbracciarlo e mettere fine a tutto quello semplicemente schioccando le dita. Suo marito aveva già sofferto abbastanza in vita sua e pensare a quei bimbi tutti soli in una vallata piena di creature magiche a loro sconosciute che respingevano demoni al punto da esaurire le loro già poche energie, quando loro non ne avevano saputo niente finora, era la parte più complicata da mandare giù. Avrebbe richiesto del tempo, questo era sicuro. Non potevano farci più niente, faceva male, ma era inutile rimuginare sul passato. Jace aveva avuto ragione prima quando aveva parlato della loro rottura e probabilmente ne aveva anche adesso. C’era proprio questo sentimento dentro di lui, Alec riusciva a percepirlo così come a vederlo nei suoi occhi. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa del genere né che i loro figli avessero avuto una vita simile. Il suo sguardo si rabbuiò, per istinto volse lo sguardo ai suoi figli. Stavano ancora giocando con le lucine colorate, agitavano le manine paffute verso l’alto, aprivano e chiudevano le dita come a voler afferrare l’aria e ridevano, ridevano tantissimo. Mai in tutta la vita aveva provato un così feroce istinto di protezione, avrebbe voluto portarli via da lì subito e non pensare più a niente.
 

«Mh, come sai tutto questo?» intervenne Jace, rompendo gli indugi e spezzando il silenzio. Se l’era domandato, ma sapeva che uno stregone aveva risorse che un Nephilim, per quanto potente, poteva soltanto sognare.
«Grazie all’incantesimo che ho utilizzato prima su Alexander ho assistito a tutta la loro storia. Hanno sei mesi, ad ogni modo e...»
«E hai capito anche come farli uscire da qui?» lo interruppe Alec con voce tagliente. Stava già mandando all’aria tutti i buoni propositi di lasciarsi ogni sentimento negativo alle spalle e concentrarsi unicamente sul futuro. Non avrebbe dovuto rimuginare sulle decisioni degli angeli, eppure adesso era arrabbiato. Non capiva proprio per quale ragione avessero agito in quel modo. Perché non avevano annunciato direttamente a loro la nascita dei bambini? In fondo avevano i geni dei Lightwood e anche quelli di Magnus, che senso aveva farli nascere dal ventre di una sconosciuta? Sua sorella Isabelle, così come molte altre Shadowhunter a Idris, si erano offerte come madri surrogate. Quando avevano saputo del loro matrimonio si erano offerte di portare in grembo il loro figlio e Alec non dubitava che avrebbero mancato alla parola. Se Max e Rafael fossero cresciuti ad Alicante li avrebbero protetti al meglio delle loro possibilità, avrebbero potuto accoglierli in casa sin dal primo attimo di vita. E invece erano stati abbandonati, odiati e attaccati dai demoni più feroci dell’inferno.
«Sì» annuì suo marito. Alec sfarfallò le ciglia, svegliandosi all’improvviso, non si era accorto che gli si era fatto così tanto vicino. Eppure ora stava a un palmo dal suo naso e sorrideva furbescamente. C’era un’espressione incoraggiante sul suo volto, come se fosse sicuro che quella situazione orribile sarebbe finita per il meglio.

 

«Alexander, ho bisogno del vostro aiuto adesso. Credi di farcela?»
«S-Sì» balbettò, scrollando la testa e irrigidendo la postura. Per istinto strinse la mano all’altezza del torace, dove di solito premeva l’arco. Ricordò soltanto allora di averlo levato, sentiva il peso delle armi mancare e non posarsi più sulla schiena. Fu una mancanza quasi fastidiosa da sopportare.
«Io non pensavo avessero passato tante cose brutte.»
«Lo so, tesoro e capisco che sia difficile. Io ancora devo realizzare di avere due figli che sono biologicamente sia miei che tuoi, ma avremo tutta la vita per pensarci e discuterne. Adesso dobbiamo liberarli dalla maledizione che li costringe in questo posto e portarli a casa.» Si ritrovò ad annuire senza quasi rendersene conto, Magnus aveva ragione. La loro priorità era la maledizione e nient’altro. Non dovevano lasciarsi andare ai sentimentalismi, erano Shadowhunter. Lui era uno Shadowhunter, il signor Inquisitore e la missione veniva prima di tutto.

«Perché hai bisogno di me e Alec, a proposito?» domandò Jace, avvicinandosi a loro con la mani nelle tasche e un’aria quasi timida.
«Perché tu hai puro sangue di angelo nelle vene e sei più potente di un comune Nephilim mentre Alec è il tuo Parabatai. In questo luogo il tuo legame con lui è più forte. Insieme avete l’energia che mi serve per realizzare questo incantesimo e comunque i bambini sono per metà Shadowhunter, occorrerà anche la vostra forza angelica e non solo la magia di Asmodeo.»
«Coraggio e Magia arriveranno e ti aiuteranno a spezzare la maledizione» mormorò, parlando più che altro fra sé, ricordando del giorno in cui l’angelo gli era apparso. «Me lo ha detto Gabriel, pensavo intendesse in senso metaforico, ma invece mi rendo conto che parlava letteralmente.»
«Beh, avrebbe potuto dirti anche di più, ci avrebbe risparmiato un sacco di fatica» commentò Jace, pungente, intanto che Magnus toglieva le candele dal pentacolo e la barriera magica attorno ai piccoli svaniva con un altro lieve plop.
«Preparatevi, sarà impegnativo» disse allargando le braccia e invitando entrambi a prenderlo per mano. Lo fecero tutti e due senza alcun indugio e, quando l'incantesimo iniziò a essere recitato, la luce della lampada sul comodino sfarfallò.

 

Aveva già dato a Magnus la propria forza, quando avevano aiutato Luke Garroway a guarire dal morso dell’alpha. All’epoca neanche stavano insieme e lo aveva aiutato soltanto perché, dentro di sé, sentiva che poteva fidarsi di lui. Ora come non mai, Alec era disposto a concedergli anche la più piccola stilla di energia. Aveva bene in mente cosa si provava, per quanto fosse un Nephilim e avesse una resistenza maggiore rispetto a quella di chiunque altro, ricordava all’epoca anche di essersi sentito spossato quando tutto era finito. Dopo che Magnus ebbe stretto la sua mano si sentì invadere da una devastante ondata di magia, all’improvviso ebbe come la sensazione che la sua forza venisse letteralmente risucchiata fuori dal corpo, facendogli tremare le ginocchia. Iniziò a sudare dalla fronte e a vacillare vistosamente, stringendo al meglio che poteva la mano di suo marito quasi fosse stato il suo unico appiglio dentro a un mare in tempesta. A malapena aveva la forza di voltarsi e guardarlo, neanche capiva quello che stava dicendo, la litania che recitava era in una lingua a lui sconosciuta. Qualunque cosa fosse, però, stava funzionando. A un certo punto attorno a loro si creò un vortice, un miscuglio della magia demoniaca di Asmodeo e del potere benefico dei Nephilim. Alec non aveva idea di come avesse fatto a intuire di cosa si trattasse, ma capì che quelle erano le loro essenze e che l’incantesimo stava attingendo a fondo in ciò che erano. Stava scavando dentro a ogni ricordo piacevole, così come nei sentimenti che provavano l’uno per l’altro, a ciò che li legava come amici, fratelli, amanti, uomini innamorati. Sentì un’ondata di puro amore platonico arrivare da Jace e un altro tipo di sentimento amoroso, uno ancora diverso, provenire invece da Magnus. Percepì quello che suo marito provava per lui, dalla gioia alla passione, sino addirittura alla venerazione. Erano sensazioni piacevoli, che gli fecero battere forte il cuore e girare la testa. Quella, in effetti, stava girando anche per altro. L’incantesimo stava prendendo tutte le sue energie, quella tiritera gli entrava fin dentro il cervello, ma via via che veniva ripetuta diventava sempre più distante. Era come se non riuscisse a sentire bene, gli fischiavano le orecchie e aveva male alla testa, eppure resisteva. Doveva farlo per quei bambini, per i suoi figli. Si voltò verso Magnus come a cercare in lui quel briciolo in più di determinazione di cui aveva bisogno, notò subito che i suoi occhi da gatto avevano un’espressione concentrata e seria. Le labbra si muovevano senza sosta, a mormorare l’incantesimo mentre, attorno a loro, il vortice di magia non aveva smesso di turbinare. Alec avrebbe voluto chiedergli se mancava ancora molto alla fine, ma quando aprì la bocca non gli uscì nemmeno un suono. Era come se non avesse più voce, il mal di testa si era diffuso in tutto il corpo e ora anche un senso di nausea risaliva sin dallo stomaco, rivoltandoglielo. Era certo che sarebbe svenuto, ma poi all’improvviso le parole cessarono e il vortice si spostò sui bambini, avvolgendoli completamente. Una luce intensa lo accecò nell’attimo stesso in cui il turbine li avvolse, sollevandoli da terra. Alec si sforzò di tenere gli occhi aperti, ma fu impossibile. Se quella luce bianca stava diventando sempre più intensa, lui si faceva più debole. Forse era una conseguenza dell’incantesimo o magari era il volere degli angeli, non lo sapeva. Sentì Magnus lasciare la presa sulla sua mano e allora tentò di raggiungerlo allungando il braccio, ma non ci riuscì. Aveva la strana sensazione di galleggiare a mezz’aria e trovarsi di una sorta di limbo fatto di gelatina. Era un sentore molto familiare, un calore piacevole e che aveva l’impressione di conoscere perfettamente. Provò di nuovo a parlare, a chiamare suo marito e anche suo fratello, ma di nuovo non riuscì a emettere un suono. Aveva l’impressione che fossero lì con lui, ma non poteva vederli.

 

«Alexander!» Una parola a lui conosciuta. Il suo nome. Qualcuno lo stava chiamando e c’era una sola persona a farlo in quel modo. Aveva sempre pensato che il proprio nome fosse altisonante e pomposo, per questo tutti usavano il diminutivo, ma a Magnus non era mai importato e comunque, ad Alec piaceva essere chiamato in quel modo da lui.
«Apri gli occhi, fiorellino.» Questa volta la sua voce gli arrivò in maniera più marcata, lo sentì soffiare nel suo orecchio una risata soffice. Era piacevole averlo così vicino, non ci si sarebbe mai davvero abituato ad avere accanto a sé un uomo del genere.
«Ancora cinque minuti, è presto» si lamentò, non voleva svegliarsi. Non lo voleva davvero. Aveva fatto un così bel sogno! Stava nuotando in un mare di luce e non si era mai sentito tanto bene.
«Fiorellino, non sei nel nostro letto, ma su un prato umido coperto di sangue di demone.»
«Eh, cosa?» domandò, aprendo gli occhi di scatto e mettendosi a sedere. Un capogiro gli fece pentire di essersi mosso così velocemente, se Magnus non lo avesse sorretto, era certo che sarebbe caduto di nuovo nell’erba. D’accordo, si sentiva davvero molto debole e quando finalmente riuscì a mettere insieme due ragionamenti di fila, così come anche ad aprire decentemente gli occhi, ricordò tutto: i bambini, l’angelo Gabriel, i demoni e l’incantesimo per liberarli dalla maledizione.
«Che è successo?» domandò guardandosi attorno. Erano fuori dalla torre, anche se non aveva idea di come avessero fatto a trasportarlo né del perché non l’avessero semplicemente messo sul letto, in attesa che si svegliasse. Però se erano usciti significava anche che qualsiasi cosa Magnus avesse fatto, aveva funzionato. I piccoli sembravano star bene, notò che li aveva sistemati dentro a un passeggino e sembrava stessero dormendo. Era stata una giornata molto pesante per loro, pensò addolcendo lo sguardo.
«Sei svenuto durante l’incantesimo, fratello» ridacchiò Jace, prendendolo in giro. Subito però gli tese una mano, aiutandolo a tirarsi in piedi. Gli girava ancora un po’ la testa e si sentiva fiacco, ma tutto sommato stava bene.
«Colpa mia, confettino» si scusò Magnus, stringendolo per la vita e baciandolo su una guancia. «Ho preso davvero troppo da voi, Jace ha resistito per via del sangue di Ithuriel, ma tu sei caduto a terra. Ti senti bene?» gli chiese. Annuendo appena, Alec chiuse gli occhi: le dita affusolate di Magnus stavano sfiorando la pelle del suo viso. Amava essere toccato in quel modo da lui, era piacevole e ora che lo aveva così vicino si rendeva conto di quanto la mancanza avesse pesato.
«Sono solo un po’ stanco, ma sono felice perché l’incantesimo ha funzionato. Non siamo più nella torre!»
«Tecnicamente ci siamo ancora» replicò lui, enigmatico. «Non ci siamo mossi di un millimetro, è la torre a essere sparita.»

«Che cosa?» Oddio era vero, osservò sfuggendo all’abbraccio di Magnus e facendo qualche passo in avanti intanto che si guardava attorno. E lui nemmeno se n’era accorto! Nessun altro edificio si stagliava più sul fondo di quella vallata. Era tutto scomparso, fatta eccezione per le armi, accatastate da una parte, disordinatamente. Avrebbero dovuto renderle all’Istituto di Stoccolma, ma come spiegare quello che era successo? Alec sapeva di non volerci pensare adesso.
«Quando ho finito di recitare l’incantesimo si è aperto un portale, uno identico a quello che gli angeli hanno usato per portarci qui. Solo che invece che ritrovarci a Stoccolma, o da una qualsiasi altra parte, siamo rimasti qui e la torre era sparita. Era la loro massima protezione contro i demoni e adesso non ne hanno più bisogno.»
«Stai dicendo che è andato tutto bene? Possiamo tornare a casa?» Alec vide Magnus annuire, poi un grande sorriso esplose sul suo volto. Era tutto finito.

        


 
Era il momento di tornare a casa, aveva dichiarato suo marito, entusiasta. Avevano deciso come prima cosa di andare ad Alicante e portare i bambini al sicuro, poi avrebbero pensato a raccontare a Izzy, Clary e Simon quello che era successo. Stando a quanto gli avevano detto, quando il portale dell’angelo si era aperto, erano insieme all’Istituto con Erik, pronti a indagare sulla sua scomparsa. Conoscendo sua sorella, era piuttosto sicuro che non fosse rimasta ferma a non far niente e che a suo modo, con il prezioso aiuto di Clary e Simon, aveva fatto qualcosa pur di trovarli. Però potevano essere finiti chissà dove. Avendo notato che i cellulari ancora non prendevano, Jace decise per un messaggio di fuoco, quantomeno per avvertirli che stavano tornando a casa. Clary avrebbe potuto aprire un portale anche da sola. Aveva appena recuperato lo stilo dalla tasca dei pantaloni, quando il Leprecauno sbucò letteralmente dal nulla. Gli aveva picchiettato sul fondoschiena con il suo bastone nodoso e Alec, spaventato, aveva emesso uno strillo acuto che era riecheggiato per la vallata e agitato i bambini. Si portò una mano alla bocca, pentendosi amaramente di aver esagerato e sperando con tutto il cuore di non averli svegliati e quando abbassò lo sguardo notò che quel buffo tizio dal cappello verde stava sorridendo da dietro la sua folta barba grigia. 

 

«Non così in fretta, spilungone!» esclamò, parlando con la sua solita voce roca e inacidita.
«Oh, giusto» si ricordò Alec, arrossendo per l’imbarazzo. «Stavamo dimenticando di salutarti. E ti rinnovo anche i miei ringraziamenti per tutto l’aiuto che mi hai dato.»
«Ah, non è per questo che sono qui» replicò lui, stizzito. «Ma comunque ti ringrazio. No, sono venuto perché su al ponte c’è un gruppo di campeggiatori di cui mi piacerebbe liberarmi, grazie tante.»
«E lo dici a noi?» domandò Jace, confuso e irritato. In effetti non era compito loro, avevano già fatto abbastanza o no? «Cioè, se si tratta di demoni potrei anche fare un…»

«Niente del genere, Shadowhunter antipatico» ribatté il Leprecauno, indispettito e facendo arrossire Jace sulle guance. «Però penso proprio che li conosciate: un succhiasangue che avrei preferito non incontrare mai nella vita e due femmine di Nephilim piuttosto aggressive. Belle, ma battagliere. Una di loro voleva far saltare in aria il mio ponte» gli disse, a mo’ di confidenza. Alec sorrise immediatamente, aveva capito subito che stava parlando dei loro amici. In più, soltanto Izzy poteva avere l’idea di far saltare un ponte per minacciare un povero gnomo irlandese.
«Chissà come hanno fatto a trovarci» disse Magnus, meditabondo. «Noi non eravamo riusciti a localizzarti nonostante il tuo legame con Jace. Ad ogni modo è troppa la strada da fare fin là a piedi, apro un portale così li recuperiamo.» Detto e fatto. Magnus fece l’incantesimo senza pensarci due volte, agitò le mani e un portale dal consueto colore violetto si aprì davanti ai loro occhi. Il primo a oltrepassarlo fu Jace, quasi correndo. Giorni lontano da Clary, dopo averle promesso che non l’avrebbe lasciata per più di un pomeriggio? Beh, non dubitava avesse così tanta fretta. Si fece avanti anche Alec, spingendo il passeggino non senza fatica dato che non correva bene sul prato e a seguirlo c’erano Magnus e il Leprecauno, che a suo dire preferiva la strada più breve. Qualche istante più tardi si ritrovarono in uno di quei luoghi di cui aveva tanto sentito parlare, ma che non aveva mai visto. 

 

Alle loro spalle, un ponte fatto di corda e assi di legno, piuttosto inquietante e dall’aria pericolosa, si stagliava su un profondo precipizio. A qualche metro c’era la foresta incantata. L’aveva osservata dalla finestra della torre per giorni, incuriosito e attirato dalla potenza magica che percepiva, ne era stato affascinato dai racconti delle fate, ma vederla faceva tutto un altro effetto. Sapeva essere popolata da tutte le creature che erano venute a trovarlo, portando omaggi ai bambini. Adesso che si trovava a pochi passi dal limitare del bosco, Alec sentì quasi l’impulso di entrarci. Non lo fece, al contrario portò lo sguardo alle proprie spalle, il sole stava sorgendo a est e le luci della notte stavano lasciando spazio a quelle più chiare del giorno. I colori dell’alba tingevano il cielo di rosa e arancione, era uno spettacolo di una bellezza incredibile. Tante volte aveva visto l’alba o il tramonto con in braccio uno dei bambini, o talvolta con tutti e due, raccontando loro di quel fantastico padre che presto avrebbero conosciuto. Avrebbe dato tutto quello che aveva per avere Magnus accanto a sé, che lo stringeva da dietro e guardava con lui il sole spuntare da dietro la linea dell’orizzonte. C’erano stati momenti in cui quasi aveva percepito le sue mani su di sé, salvo poi rendersi conto che i suoi erano soltanto sogni. Questo, però, era reale, si disse. Adesso erano insieme come una famiglia.
 

«Ehi!» Erano molte le volte in cui aveva la sensazione che suo marito gli leggesse nel pensiero, sapeva che non era uno dei suoi poteri, ma era incredibile come riuscisse comunque a prevedere le sue parole o a capire il suo stato d’animo. Ci riuscì anche allora, gli arrivò alle spalle, cingendolo per la vita e abbracciandolo stretto.
«Ehi» rispose, lasciandosi contro al suo petto e sospirando. Era come se la tensione e la mancanza di sonno accumulate per giorni gli stessero crollando addosso soltanto in quel momento. Aveva dormito poco e mangiato male, sempre in allerta per i bambini, ma più di tutto gli era mancato suo marito. E questa lontananza a tratti soffocante venne fuori allora in un respiro frammentato da un pianto che, tuttavia, tenne per sé.
«Tutto bene, cucciolo?»
«Guardavo l’alba» mormorò, con fare sognante. «Non pensi anche tu che sia bellissima?» gli chiese, intanto che lui lo baciava prima sul collo e poi su una guancia.
«Anche tu sei bellissimo, fiorellino» replicò Magnus, in uno slancio di romanticismo che dopo tutti quei giorni di solitudine si ritrovò ad apprezzare. Era sempre lui quello spiccatamente sentimentale, l’uomo dai grandi, piccoli gesti di tutti i giorni. Alec era cresciuto troppo a lungo con gli Shadowhunter per abbandonare del tutto il suo stoico rigore militare, che lo portava a ridurre all’essenziale le sue giornate. Ma con il tempo aveva imparato ad apprezzare i suoi slanci romantici, le parole sentite e i baci infuocati.
«Anche i bambini sono stupendi» continuò, tra un bacio e l’altro. «Assomigliano a te, hanno la tua dolcezza.» Alec non credeva che gli somigliassero così tanto, anzi più li guardava e più trovava tratti in comune con Magnus, ma il pensiero lo fece arrossire.
«Sono miei e tuoi, riesci a crederci?» gli chiese, spezzando il proprio silenzio imbarazzato. Percepiva il suo fiato sul collo, stuzzicargli la pelle infreddolita del volto. Lo sentì annuire tra un bacio e l’altro, intanto che emetteva piccoli mormorii di assenso.
«Ci credo, fiorellino e questo è il momento più bello della mia lunga vita. Proprio questo.» Alec sorrise e inspirò profondamente. Voleva stare solo con lui, anche se si sentiva esausto, aveva bisogno di stendersi in un letto e sentire le sue braccia avvolgerlo, voleva…
«Fratellone!» la voce di Isabelle lo fece sussultare vistosamente. Oh, giusto, ricordò, erano lì per loro! Alec si voltò verso di lei, stava correndo in loro direzione, alle sue spalle c’era anche Simon mentre Clary era stata agguantata da Jace, che pareva non volerla lasciare più. Sorrise, vedere suo fratello così felice faceva gioire lui in rimando. Izzy invece, come prevedibile, non faceva che urlare. La sua corsa era leggera ed entusiasta, correva e si sbracciava come a volerlo salutare. Si fermò di colpo soltanto quando fu sufficientemente vicina da vedere il passeggino. Impietrita rimase a osservare i piccoli mentre, al suo fianco, Simon spalancava la bocca per lo stupore.
«E quelli?» chiese, indicandoli. La bocca spalancata, gli occhi aperti come se stentasse a crederci.
«Loro sono Max e Rafe» disse, annunciando i nomi dei bambini a voce ben alta di modo che tutti potessero sentirlo. Clary, sino a quel momento avvinghiata a Jace, lo aveva spinto da parte e li aveva raggiunti.
«È una storia lunga e complicata» aggiunse. «Però è anche una di quelle a lieto fine, che merita di essere raccontata tra calde e solide mura domestiche. Per ora sappiate che sono i nostri, miei e di Magnus. Siamo… ecco, genitori.» Era la prima volta che usava quella parola e se gli faceva uno strano effetto il pensiero che degli esserini così belli fossero effettivamente suoi e di suo marito, ad Alec quella parola fece l’effetto di una secchiata d’acqua gelida. Era un genitore, un padre. Dirlo ad alta voce a Isabelle e a Clary o a Simon, lo aveva reso ancora più reale.
«Oh, mio Dio» si commosse Iz, saltandogli letteralmente addosso e abbracciandolo stretto. «Sono così felice per voi, ragazzi. Mi devi raccontare tutto, giura!» lo minacciò alla fine, puntandogli contro il dito indice. Annuì, lo avrebbe fatto, era una promessa, ma non adesso. Izzy ad ogni modo parve non dar più peso alla cosa, perché subito dopo si chinò sui piccoli. Si erano svegliati a causa di tutto quel rumore, ma davano segno di essere molto stanchi perché sbadigliavano e si strofinavano gli occhietti.
«Mio Dio, guardali, Simon» disse sua sorella, poco dopo, rivolgendosi al vampiro che già era chino sulla culla. Sino ad allora era rimasto imbambolato a fissarli, ma a quel punto si mise ad annusare l’aria come se stesse seguendo una traccia. Qualche istante più tardi un’espressione di consapevolezza si fece strada sul suo viso. Iniziò a rimpallare lo sguardo tra lui e Magnus come se stesse unendo i puntini soltanto allora.
«Che c’è, Lewis?» domandò suo marito, facendosi avanti di qualche passo.
«I bambini hanno il tuo marchio da stregone» ribatté subito. Si trovavano ancora nella valle, quindi i glamour non avevano ripreso a funzionare. «Odorano anche di bruciato, tutti gli stregoni puzzano di bruciato. Blah, vomitevole!» disse poi. «Ma hanno anche un altro odore, lo sapete… Quel profumo paradisiaco del sangue degli Shadowhunter. Quindi quando dicevi che sono sia tuoi che suoi» disse indicando entrambi «intendevi in senso letterale.»
«Già, ma come ho detto è una storia lunga e…» tentò di spiegare.
«O mio Dio, eri incinto!» esclamò Simon tutto ad un tratto. Alec in risposta alzò gli occhi al cielo, vide Izzy fare altrettanto e quindi rimbrottare qualcosa sul fatto di doverla proprio smettere con quella storia.
«Scusa, ma lo sai come la penso» se ne uscì il vampiro alzando la mani in segno di resa e scrollando vistosamente la testa. «Magnus è talmente virile che potrebbe mettere incinto anche me! E tecnicamente io sarei morto.»
«Non l’ha detto davvero quell’idiota, giusto?» sentì dire a Jace, che aveva affondato il viso tra le mani e scosso la testa.
«Scusate se ho pensato che Alec ci fosse rimasto e che fosse venuto qui a nascondersi per partorire.»
«Sta’ zitto, Lewis!» lo sgridò Jace, dandogli un bonario schiaffetto sulla nuca. «Se sento un’altra parola su mio fratello che partorisce giuro che…»

«Ah, piantatela» intervenne Clary facendosi largo tra i due e andando direttamente da lui per abbracciarlo. «Scusali, sono due idioti. La verità è che siamo stati in pena per te, sono contento che tu stia bene.»
«Lo so, mi dispiace non avervi potuti avvisare» si scusò Alec, attirando in quel modo gli sguardi di tutti su di sé, persino quello di Izzy che continuava a giocare con i piccoli. «Ma gli angeli mi avevano proibito di avvisare che stavo bene. Vi prometto che dirò tutto, giuro, ma adesso» disse guardando i bimbi, che avevano ripreso a sbadigliare. «Sarà meglio che andiamo a casa, vero?» Suo marito annuì lentamente, gli diede un bacio veloce sulla guancia e poi si spostò per aprire un secondo portale diretto a Idris. Era ora di tornare.



 

Lui e Magnus notarono la culla soltanto il mattino successivo. Avevano messo i bambini a dormire in una cameretta che, grazie ai poteri da stregone, avevano arredato nella stanza degli ospiti con uno schiocco di dita. Di fronte all’occhiata di Alec, che detestava quando rubava le cose senza pagarle, lui gli aveva risposto che in realtà ci aveva pensato da un po’ a come decorare una camera per un bambino e che quindi ne aveva già adocchiata una.
«La sola differenza è che sono due invece di uno» aveva detto, mentre li sistemavano nel lettino. Dopo di allora, Alec aveva dormito per dodici ore filate, se Magnus si era alzato per occuparsi di Max e Rafe, lui proprio non lo aveva sentito. Erano quasi le otto del giorno successivo quando se ne resero conto, stava sorseggiando il suo caffè nero seduto al tavolo del soggiorno mentre suo marito beveva una tazza di tè. Aveva già una sfilza di appuntamenti lunghissima, tra cui anche il dover fare rapporto a Jia, ma dato che non erano più soli, stavano programmando come fare con i bambini, quando alzando gli occhi, notò una culla.
«Da quando sta lì quella?» disse, indicandola intanto che si avvicinava. Era la stessa che aveva ospitato i bimbi mentre erano nella torre.
«Non lo so» fece spallucce suo marito, alzandosi dalla sedia e raggiungendo il centro del salotto. «Forse da ieri? In realtà non ci ho fatto caso, tra l’arredare la casa e tutte le telefonate di congratulazioni che sono arrivate…»
«Scusa, ma non l’hai portata tu qui?» gli domandò in risposta, confuso. 

«No, pensavo fosse sparita assieme al resto della torre» disse lui, facendo spallucce, intanto che accarezzava la stoffa liscia che la imbottiva. Alec sfiorò la copertina con le punte delle dita, il simbolo degli Shadowhunter, la runa dell’angelo, ricamata d’oro, luccicava ogni volta che i raggi del sole la colpivano. Sotto di essa, notò spostandola, c’era il sonaglino dorato che il Leprecauno aveva usato per far giocare Max e Rafe. Era sicuro che non se ne sarebbe mai separato, era fatto d’oro e gli gnomi erano avidi.
«C’è un biglietto» disse Magnus, afferrando un pezzettino di carta sistemato sul fondo della culla. Lo prese in mano e se lo girò tra le dita un paio di volte.

«Che dice?» domandò, curioso, lasciando cadere la copertina e il sonaglio, che tintinnò appena.
«C’è disegnata la runa dell’angelo, questa invece è una spirale che indica gli stregoni.» Alec gli si affiancò, allungando lo sguardo. I due disegni erano appena visibili, anch’essi avevano caratteri d’oro su uno sfondo bianco.
«Forse dietro c’è scritto qualcosa.»
«Mh» borbottò suo marito, voltando il cartoncino. «Nella speranza che possa farvi cosa gradita» disse, leggendo. «Vi inviamo questa culla, il signor Leprecauno tiene che i bambini abbiano il sonaglio. Siate benedetti, l’angelo Gabriel.» Appena dopo che ebbe finito di leggere, il cartoncino svanì in uno sfrigolio di luce dorata. Magnus chiuse gli occhi, intanto che Alec lo abbracciava da dietro. Stava per baciarlo quando nell’altra stanza i bambini iniziarono a piangere. Sentì suo marito ridere intanto che gli diceva che ora sarebbe toccato a lui. Alec non era davvero indispettito come volle fargli credere, in realtà era felice. Stupidamente felice.

  



 

Fine
 
    

 

*Runa del coraggio: nella serie non viene nominata, viene citata nei libri. Clary la “inventa” (che virgoletto perché sapete che non è davvero lei a crearle) dopo che Magnus ha curato Luke dalla ferita del demone. La runa viene tracciata proprio su Alec che, spinto dal potere della runa, si decide a fare coming out con Robert e Maryse, è proprio Magnus che lo ferma prima che sia troppo tardi.

 

Note: Devo doverosamente citare “The Shadowhunter Wiki”, ovvero l’enciclopedia di Shadowhunter, perché mi ha fornito informazioni preziose per questa storia, che altrimenti non avrei saputo dove trovare. 
The Shadowhunters' Wiki | Fandom

 

Volevo ringraziare tutte le persone che hanno letto questa storia e a quelle che hanno recensito, anche se poche ho apprezzato il vostro sostegno. Grazie anche per i Kudos su AO3 e le stelline su Wattpad. 
Ora che questa storia è finita mi prenderò una pausa dalla scrittura, non so quanto lunga sarà e non so cosa farò se e quando tornerò. Ho tante idee anche sulla Malec, di storie che ho plottato e mai scritto, spero di rasserenare la mia mente in questo periodo di pausa.
Koa

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