NEON

di MarFu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** This is the sign you've been looking for ***
Capitolo 2: *** We wanted to be the sky ***
Capitolo 3: *** I can't explain and I won't even try ***
Capitolo 4: *** This is were the magic happens ***
Capitolo 5: *** Sinners ***
Capitolo 6: *** If we ever stop talking send me a song ***
Capitolo 7: *** Drunk enough to say I love you? ***
Capitolo 8: *** Forget the maps... follow your instincts ***
Capitolo 9: *** It's not me. It's you. ***
Capitolo 10: *** Sweet dreams are made of this ***
Capitolo 11: *** Be naked when I get home ***
Capitolo 12: *** We see what we want ***
Capitolo 13: *** You are exactly where you need to be ***
Capitolo 14: *** I am the designer of my own catastrophy ***
Capitolo 15: *** People like you need to fuck people like me ***
Capitolo 16: *** Cause daring I'm a nightmare dressed like a daydream ***
Capitolo 17: *** To the moon and back ***
Capitolo 18: *** I licked it so it's mine ***
Capitolo 19: *** It is what it is ***
Capitolo 20: *** What's your poison? ***
Capitolo 21: *** Relax. Nothing is under control ***
Capitolo 22: *** All we have is now ***
Capitolo 23: *** Find what you love and let it kill you ***
Capitolo 24: *** Late nights, early mornings ***
Capitolo 25: *** If you're sad, add more lipstick and attack ***
Capitolo 26: *** It was all a dream ***
Capitolo 27: *** Trust me, you can dance - Tekila ***
Capitolo 28: *** Everything is connected ***
Capitolo 29: *** Unleash your demons ***



Capitolo 1
*** This is the sign you've been looking for ***


Mentre leggo l'indirizzo sullo schermo del computer sento i battiti del mio cuore che accelerano. “L’ho trovato” penso. Vorrei saltare dalla sedia, cominciare a strillare, a sorridere come se fossi un allegro adolescente al concerto della sua band preferita e non un severo detective di polizia di mezza età. “L’ho trovato” penso ancora, e stavolta sento gli angoli della bocca che si sollevano leggermente.

- Esco a verificare una cosa - dico a Taylor, la mia partner e compagna di scrivania.

- Vuoi che venga con te? - chiede. Siamo partner ma spesso indaghiamo su due casi contemporaneamente, lavorando in due solo quando strettamente necessario. E stavolta non lo è.

- No, non è niente - le mento. È tutto. Ed è per questo che devo andare da solo.

Mi alzo e quasi non ho bisogno di usare il bastone, quasi non sento il dolore lancinante al ginocchio destro che mi accompagna ormai da quindici anni, da quando una pallottola destinata al sindaco, invischiato in traffici loschi, si è conficcata nella rotula, lasciando dietro di sé un ricordino nella forma di un frammento di metallo che sta lentamente arrugginendo sul mio crociato.

Mentre salgo in macchina e comincio a sfrecciare nel traffico, impaziente di giungere alla mia meta, ripercorro mentalmente il caso. La prima vittima è stata un impiegato comunale di poco conto. L’abbiamo identificata come vittima dello Scarabeo soltanto in seguito, quando ha preso di mira bersagli più grossi e abbiamo scoperto il suo modus operandi. Una telecamera è riuscita a riprendere un piccolo drone a forma di scarabeo entrare nell’ufficio del sindaco poco prima che l’uomo crollasse sulla sua bella scrivania di mogano massiccio, morto per un’iniezione letale somministrata da un ago così sottile da non lasciare quasi traccia. L’intero distretto si è concentrato su quel caso, naturalmente. Il capo della polizia ci stava col fiato sul collo. Il medico legale ha analizzato il sangue della vittima, scoprendo che l’ago non iniettava nel sangue un qualche tipo di veleno o droga, ma una piccola quantità di nanobot che andavano a interrompere l’attività elettrica del cervello, causando istantaneamente la morte cerebrale e, dopo pochi, agonizzanti minuti, l’arresto totale delle funzioni biologiche.

Dalle indagini sulla morte del sindaco siamo riusciti a ricollegare allo Scarabeo altri diciannove casi, tutte persone coinvolte nell’amministrazione pubblica e tutte corrotte, dal piccolo impiegato della motorizzazione che prendeva mazzette per rinnovare la patente ad alcolizzati patologici, al sindaco, che si è poi scoperto essere coinvolto con alcune famiglie malavitose e che favoriva i loro traffici di armi e di giovani ragazze per il mercato della prostituzione. Inutile dire che il tutto è stato insabbiato.

Parcheggio la macchina dietro l’angolo. Prima di scendere mi guardo attorno, in cerca di telecamere sospette. Ne trovo tre, tutte abbastanza in alto da non riuscire a riprendere ciò che accade all’interno della macchina. Individuo un ristorante, una wokeria fusion, che potrebbe fare al caso mio. Nascondendo bene la fondina sotto al cappotto nero, scendo dalla macchina ed entro nella wokeria. Interrompo subito l’anziana proprietaria del locale che sta per chiedermi cosa desidero mostrandole il distintivo. Senza fornirle spiegazioni attraverso la cucina e mi affaccio al retro dell’edificio, sulla corte interna. Per mia fortuna non ci sono telecamere. Stupido da parte sua.

Entro nell’edificio dello Scarabeo dalla porta sul retro. Mentre mi fiondo su per le scale lascio cadere il bastone ed estraggo la pistola dalla fondina, ignorando il dolore lancinante al ginocchio. “Tutto sarà ripagato” penso. Raggiungo la porta, interno 3C, e faccio per bussare e annunciarmi come poliziotto, come da protocollo. Poi mi rendo conto che ciò che sto per fare vìola qualsiasi protocollo.

Uso la gamba destra come appoggio mentre con la sinistra tiro un calcio alla porta, sfondandola, mi causa un dolore lancinante che mi paralizza per un secondo. Ne approfitto per dare un’occhiata all’interno dell’appartamento. Nel buio riesco a distinguere scaffali metallici pieni di pezzi di computer, schede madri, scatole colme di chip, cavi, bobine di rame. Ho fatto centro. Entro nell’appartamento, respirando l’aria stantia e muffita come se fosse una boccata di ossigeno puro. Con la pistola puntata procedo lungo il corridoio, verso l’unica stanza illuminata che ho individuato quando ho sfondato la porta ma che ora è avvolta nel buio, come tutto l’appartamento. Lo Scarabeo dev’essere lì dentro.

Mentre mi affaccio alla porta, la pistola puntata davanti a me, lo vedo. È un ometto, più giovane di me, magrolino, capelli lunghi e sottili, un paio di occhiali rotondi sul naso storto. Indossa una t-shirt bianca con evidenti tracce di sporco e sudore, e un paio di pantaloni della tuta consunti. Trema mentre lascia cadere a terra un complicato radiocomando. Accanto a lui il suo Scarabeo, il drone, a pancia in su, aperto. Riesco a vedere tutti i complicati meccanismi che lo controllano. Probabilmente lo Scarabeo, il killer, ha cercato di armalo in fretta e furia per difendersi. Stupido da parte sua non procurarsi una pistola.

— Sei lo Scarabeo? — chiedo con voce solo leggermente tremante. È una domanda stupida. Tutto attorno a noi ci sono le prove dei suoi crimini. Progetti, dossier rubati, lavagne con complicate formule matematiche, computer e tutta la componentistica necessaria a creare e controllare un drone.

— Sei tu? — chiedo ancora all’uomo - al ragazzo, tremante nella sua sedia, con le mani alzate. Annuisce.

Metto via la pistola.

— Finalmente ti ho trovato — dico. — Sono l’ispettore Lawson. Sono anni che aspettavo qualcosa di simile. Ciò che fai… è ammirevole, ma impreciso. Permettimi di aiutarti.

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Capitolo 2
*** We wanted to be the sky ***


La droga della felicità ha un complesso nome scientifico, ma commercialmente la chiamano SKY perché è in grado di farti toccare il cielo con un dito.

Inutile dire che non appena è stata inventata e perfezionata è stata la classe dirigente a farne uso massiccio. Perché nei loro palazzi di cristallo, circondati da marmo e legno massiccio, concedendosi lauti banchetti a ogni pasto e dormendo tra lenzuola di seta, erano quelli che ne avevano più bisogno.

La prima SKY fu commercializzata in eleganti capsule dorate che contenevano un misto di serotonina sintetica, per un effetto immediato, e dei nanobot organici, che andavano ad agire stimolando specifici punti del cervello e garantendo assoluta felicità dall'una alle due settimane, per poi dissolversi nel sangue.

Come tutte le droghe, la SKY venne presto copiata e distribuita sulla strada. La prima versione, soprannominata CLOUDY, era una copia maldestra dell'originale. Al posto della serotonina sintetica c’era un mix di endorfine e stimolanti e i nanobot non erano organici. I due componenti erano miscelati in modo non sempre preciso, causando spesso effetti collaterali come isteria, paranoia, depressione, allucinazioni. La fase di up, quella in cui ti sentivi felice, durava molto meno delle due settimane della SKY, dalle poche ore al massimo di due giorni. La fase di down, invece, poteva diventare anche permanente se i nanobot non erano programmati a dovere. Spesso restavano nell’organismo di chi ne faceva uso, senza dissolversi come quelli organici. L'overdose di CLOUDY portava a una morte da fumetto: si moriva con un gran sorriso stampato sul volto dal rigor mortis.

Non appena il crimine organizzato mise le mani sul mercato della CLOUDY, non senza qualche aiuto dall'alto, dove la droga aveva già annoiato i colletti bianchi, sul mercato venne introdotta la SUNNY, una versione raffinata e perfezionata della SKY. Venduta a peso d'oro, in pochi mesi ha piegato la società e l'economia al suo volere: la gente viveva, andava a lavorare, stringeva legami e ne rompeva, tutto in funzione della SUNNY.

Ma la vera svolta fu quando gli stessi pezzi grossi che avevano inventato la SKY capirono che la droga poteva essere usata per fare leva sui lavoratori. Al posto dell'assicurazione sanitaria o del bonus di fine anno cominciarono a comparire nei contratti di lavoro somministrazioni regolari di HAPPY, l'ultima e aggiornata versione della SKY, da iniettare in vena una volta all'anno. Felicità garantita e assicurata, a tutti i lavoratori. E quando la felicità è creata in laboratorio, i turni di lavoro da 16 ore non sono più un problema, le condizioni di lavoro infime e malsane passano in secondo piano, le morti sul posto di lavoro vengono accolte con un gran sorriso indotto chimicamente.

E i colletti bianchi, nei loro palazzi di cristallo, brindarono e festeggiarono, più felici che mai.

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Capitolo 3
*** I can't explain and I won't even try ***


Ok ok ok. Stammi bene a sentire. Ci sei? Bene. E ascoltami bene, eh. Non ti sto raccontando cazzate. Ok. Allora. Hai presente il complesso poco fuori la statale? Quel complesso di cemento armato grigio che nessuno ha mai capito cosa sia? Ecco. È un fottuto centro di ricerca segreto. Una vera e propria area 51. Non ridere, coglione! Sto dicendo la verità! Ascoltami! Ok, allora, l'altra sera esco da Betty's con qualche bicchiere in corpo e la puzza di sigaro addosso. Per smaltire un po’ decido di farmi una passeggiata fuori città, ok? Sai com’è diventata la mia signora, non le va più bene che mi diverta. In ogni caso, quando arrivo nei pressi della statale sono già sobrio. Devi credermi, cazzo! Chiedi a chiunque qui dentro, ho bevuto molto meno del solito. Arrivo a un centinaio di metri da quell’edificio grigio quando decido che è ora di tornare indietro. Non faccio in tempo a voltarmi che una fottuta bomba mi esplode nelle orecchie. Te lo giuro! Ho sentito un rumore fortissimo nelle orecchie e il petto mi tremava tutto, ok? E poi il fottuto tetto di quel magazzino del cazzo si è aperto! Te lo giuro, si è aperto come uno di quei silos per i missili nei film. Non so neanche spiegarti cosa cazzo ne è venuto fuori. C’erano luci dappertutto, quel rumore continuava a rimbombarmi nelle orecchie, io… Ha! Sì, bravo, continua a ridere. Io so cos’ho visto. Era una fottuta navicella aliena, ok! Sì, proprio una navicella aliena! Era enorme e sembrava fatta di pietra, sembrava una specie di statua, come quelle che potresti vedere in un film di Indiana Jones. La navicella si è alzata sempre più e appena è uscita dall’edificio è sfrecciata nel cielo a velocità supersonica. Ha fatto talmente tanto baccano che sono svenuto. Ero sobrio ti dico! Sono svenuto per il rumore e mi sono risvegliato il mattino dopo, ai confini della città. Come credi che ci sia arrivato fin lì, eh? E in più mi sono trovato questa. Guarda qui, alla base del collo. La vedi quella ferita? Me l’hanno fatta loro. No, non gli alieni, imbecille. Il governo. Che sta collaborando con gli alieni. In quel fottuto magazzino stanno conducendo degli esperimenti sulla razza umana, insieme, te lo dico io. Perché? E io che cazzo ne so? Io sono un meccanico, non un alieno!

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Capitolo 4
*** This is were the magic happens ***


— Ti do il benvenuto sulla Aliante, guardiamarina Harper.

— È un onore, capita…

— Oh, lasciamo stare le formalità. Chiamami Casey — tuonò Casey, assestando una poderosa pacca sulla spalla di Harper. — Vieni. Ti faccio fare il grand tour.

Casey si avvicinò alla porta principale dell’hangar dell’Aliante che si aprì dolcemente emanando un impercettibile rumore di binari magnetici. Harper osservò le porte aprirsi sul corridoio con occhi sognanti, sentendo crescere l’ansia e l’eccitazione di trovarsi finalmente sulla nave ammiraglia della Flotta dei Pianeti Uniti. Il sogno di una vita che finalmente si realizzava.

Casey doveva aver scorto sul suo viso l’entusiasmo, perché non appena oltrepassate le porte disse: — È una vera bellezza, eh? Lo stato dell’arte della più avanzata tecnologia di cinque razze diverse, al servizio dell’esplorazione spaziale.

— È meravigliosa — concordò Harper. — Ho letto tutto sull’Aliante, fin da quando era solo il sogno di un pugno di scienziati. Pensare che questa nave possa portarci in posti dove nessuno è mai stato prima… ti toglie il fiato.

Casey esplose in una risata fragorosa.      — Questo è l’entusiasmo di cui abbiamo bisogno sulla Aliante, Harper. Non ho dubbi che farai faville su questa nave.

Mentre Casey apriva la strada lungo i corridoi della nave, Harper non poté fare a meno di stupirsi della quantità di razze diverse che facevano parte dell’equipaggio: c’erano umani, ma anche cafariani, astariani, vegemiti, jak’kiiti e giurò di aver visto adirittura un javelliano nell’affollata mensa.

— Ma è qui che avviene la magia — disse infine Casey, aprendo la porta della sala macchine. Davanti a loro si aprì un’ambiente enorme, una sala circolare altissima che avrebbe potuto tranquillamente ospitare uno Shuttle, uno dei vecchi razzi con cui i primi umani esplorarono lo spazio. Lungo le pareti della sala macchine c’erano decine e decine di schermi e postazioni di lavoro, molte delle quali occupate. Al centro della stanza si stagliava alto e luminoso il condotto di fusione, il vero e proprio motore della nave, che avrebbe permesso alla Aliante di raggiungere velocità mai immaginate prima.

— Mozzafiato, vero? — sorrise Casey. — Se pensi che questo motore è il risultato del lavoro di tre generazioni di scienziati provenienti da cinque pianeti diversi ti senti insignificante davanti alla sua magnificenza.

— Ma noi non siamo insignificanti, vero? — disse Harper. — Noi siamo l’equipaggio che porterà questo motore e questa nave ai confini dell’universo conosciuto. Noi realizzeremo il sogno di quelle tre generazioni di scienziati.

Casey sorrise e Harper sentì tremare le ginocchia. Sorrise a sua volta, incapace di parlare. Quel momento sembrò dilatarsi e durare per sempre, come se quello fosse il loro destino: restare lì, a fissarsi negli occhi per sempre, sorridendo e godendo della reciproca bellezza.

— Vieni con me, Harper — disse infine Casey con un sussurro che fece venire i brividi a Harper. Casey fece strada di nuovo lungo i corridoi della Aliante, verso un’ala della nave che non avevano ancora esplorato.

— Questo è il simulatore olografico — annunciò Casey, aprendo una porta scorrevole che si affacciava su un’enorme spazio completamente vuoto, le cui pareti metalliche erano scandite a intervalli regolari da sottili scanalature bianche che conferivano all’ambiente l’aspetto di un enorme foglio di carta millimetrata. — Tecnologia di ultima generazione, al pari del nostro motore. — continuò Casey. — In grado di materializzare ologrammi di luce solida, stimolazione auditiva neurale, con un pavimento adattivo che ti permette di correre all’infinito pur restando sempre in queste quattro pareti. Può persino disattivare temporaneamente la gravità artificiale, sai?

— Mi piacerebbe provarlo — disse Harper con malizia, chiudendo la porta dietro di loro.

— Oh, finalmente — esplose Casey, correndo verso Harper. Le loro labbra si toccarono, bramose le une delle altre, come se volessero diventare un tutt’uno.

— Non so quanto a lungo ancora avrei resistito senza baciarti — disse Harper. — È stato difficilissimo fare finta di non conoscerti.

— Sarà ancora più difficile interpretare la parte dell’ufficiale superiore davanti agli altri — sorrise Casey.

Nell’arco di qualche secondo le loro tute erano a terra e, con qualche rapido comando inserito da Casey sul computer del simulatore, si ritrovarono tra gli enormi alberi in fiore di Cafar, mentre i soli binari del pianeta tramontavano in lontananza, immergendo i loro corpi aggrovigliati nel tepore e nella luce calda del crepuscolo. Adagiati su un letto di foglie e petali, Casey e Harper si baciarono, si accarezzarono, sfiorandosi e afferrandosi a vicenda, le mani incapaci di stare ferme.

— Computer, disattiva la gravità artificiale.

I loro corpi che erano diventati uno cominciarono a fluttuare. Nessuno dei due riusciva a capire dove finisse il proprio corpo e a nessuno dei due importava scoprirlo. Erano un tutt’uno, sospesi nel fuoco di un tramonto binario, avvolti da un’estasi infinita. Il tempo e lo spazio non esistevano più, il mondo fuori da quella stanza era ininfluente. L’intero universo, perfino quello che non vedevano l’ora di esplorare insieme, non contava più niente. Harper era l’universo per Casey e Casey era l’universo per Harper. Era sempre stato così e così sarebbe stato.

Per sempre.

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Capitolo 5
*** Sinners ***


Per uno che fa il mio lavoro innamorarsi non è un’opzione. Nella vita di un boia non c’è posto per l’amore, solo per incarichi, uno dopo l’altro, da portare a compimento con la massima discrezione. Tutti sanno che esistiamo, ma nessuno deve sapere che agiamo.

Quando l’ennesima multinazionale mi ingaggiò per un lavoro pensai che sarebbero stati soldi facili: avrei dovuto uccidere l’ennesimo ostacolo economico o politico che stava impedendo a quegli avidi bastardi di arricchirsi ancora di più. Era un lavoro di merda, ma ero bravo nel mio lavoro. E pagava bene.

Solo che l’obiettivo, stavolta, non era un colletto bianco qualsiasi, ma un altro boia. I boia non hanno un sindacato, non hanno delle leggi che regolano la loro attività. Sulla carta niente impedirebbe a un boia di ucciderne un altro. È già stato fatto in passato, in realtà: il Corvo aveva fatto fuori un suo compagno, la Lepre. Solo che quel superbo figlio di puttana non si era fatto pagare abbastanza e il sistema di sicurezza che aveva fatto installare sull’isola privata che si era comprato con il pagamento non era poi così sicuro. Cinque boia l’hanno trovato e gliel’hanno fatta pagare.

Non avevo intenzione di accettare. Uccidere un boia non è mai una buona idea, neanche per tutti i soldi del mondo. Ma poi vidi il compenso. Tutti quegli zeri… Avrei potuto finalmente ritirarmi da qualche parte a sud, smettere di lavorare, smettere di uccidere. Certo, gran parte di quei soldi avrei dovuto spenderli per un sistema di sicurezza migliore di quello del Corvo. Ci tenevo a godermi quella fortuna. Tutti quei soldi mi facevano gola.

Accettai. L’obiettivo era il Furetto, un boia che aveva lavorato molto per la compagnia rivale a quella che mi stava assumendo. Invece che far fuori i vertici della compagnia rivale, mi mandavano direttamente alla fonte. Avevo già sentito parlare del Furetto. Era una vera artista: lavori veloci, puliti. Gran parte delle sue uccisioni non erano state attribuite a lei ma a incidenti o cause naturali.

Ammiravo il suo lavoro, ma al tempo stesso ne ero invidioso. Avrei voluto possedere la sua maestria, così forse il lavoro di boia non mi sarebbe venuto a noia. Non sono mai stato un boia raffinato, uno che pianifica un uccisione per settimane fin nei minimi dettagli, ma negli ultimi tempi il mio modus operandi si è fatto più feroce, più violento, come se dovessi sfogare la frustrazione personale sul lavoro. Sono diventato pigro. Non è una qualità per nessuno, per un boia potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte.

Così, per uccidere il Furetto, mi sono preparato. L’ho rintracciata, ho studiato i suoi movimenti da lontano, ho intercettato le sue comunicazioni, ho scoperto tutti i suoi rifugi sicuri. Questo era un lavoro di fino, non potevo lasciare niente al caso.

Ero pronto a tutto la sera in cui irruppi nel suo appartamento: armatura in kevlar, maschera antigas, lenti adattive che mi garantivano protezione da una flashbang e visione perfetta al buio, più coltelli di quanti potessi contarne, due pistole alla cintura più un fucile d’assalto sulla schiena. Non avrei potuto sbagliare.

Ero pronto a tutto, ma non a lei. Non l’avevo mai vista da vicino, non avevo mai visto i suoi capelli corvini caderle lungo le spalle come un fiume che scorre nella notte, i miei occhi non avevano mai incontrato i suoi, così grandi e caldi, non avevo mai sentito nelle narici il suo profumo, stranamente dolce e metallico al tempo stesso. Se ne stava lì, in piedi, con un sorriso capace di scuotere le fondamenta stesse della terra, una pistola nella mano destra, tenuta con disinvoltura.

— Ciao, Cinghiale — mi disse e la sua voce sciolse ogni mia resistenza. In quel momento seppi di essere fottuto. Non avrei potuto ucciderla e non avrei potuto mai più vivere senza lei.

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Capitolo 6
*** If we ever stop talking send me a song ***


La prima volta che Sophie vide Adam non ne fu un granché impressionata. Anzi, lo trovava inquietante, strano. Gli parlava, certo, ma solamente perché doveva. Non le sarebbe mai passato per la testa, in quelle prime settimane, di intrattenere con Adam più di qualche breve, necessaria conversazione. A dire il vero trovava le seppur limitate capacità verbali dell’androide troppo surreali per poter essere assimilate a una conversazione vera e propria.

Poi arrivò il tanto chiacchierato aggiornamento A.N.I.M.A. Sophie aveva seguito distrattamente le notizie nei mesi precedenti al rilascio di A.N.I.M.A. ma si era convinta fin da subito che se l’aggiornamento avesse mantenuto le promesse, ovvero dotare gli androidi domestici di una personalità adattiva e in costante evoluzione, lei di certo non avrebbe voluto installarlo. Trovava Adam incredibilmente utile, certo, ma come domestico e basta.

Era stata Natalie, una sua amica che era venuta a trovarla, a cambiare le cose. Sophie l’aveva invitata per un pomeriggio di chiacchiere e vino rosso, ma quando aveva aperto la porta si era trovata davanti la sua amica a braccetto con il suo androide domestico, Brian. Natalie era entrata, entusiasta e trionfante, e aveva cominciato a tessere le lodi di A.N.I.M.A., dicendo che Brian la ascoltava come nessun uomo aveva mai fatto prima, che aveva sempre un aneddoto divertente o interessante da raccontare e che con un piccolo kit di espansione era diventato anche un focoso amante.

Sophie ne era rimasta sconvolta e disgustata. Non era antiandroide, ovviamente, ma a tutto c’era un limite. L’interazione umana non poteva essere sostituita da chip e intelligenza artificiale, e di questo ne era fermamente convinta. Natalie aveva cercato di persuaderla a effettuare l’aggiornamento, ma senza successo. Nelle settimane successive Natalie ci aveva riprovato, tempestandola di foto e video delle sue serate con Brian e mandandole addirittura una cartolina dalla loro vacanza al mare.

Sophie non sapeva se l’insistenza di Natalie aveva finalmente fatto breccia o se fosse genuinamente curiosa o se ancora si sentisse semplicemente sola. Alla fine aveva ceduto e aveva installato A.N.I.M.A.

Inizialmente l’unica differenza che aveva notato era nel modo di parlare di Adam: più sciolto, più fluido, meno meccanico. Col tempo Adam aveva adattato le sue routine di lavoro per venire incontro alle esigenze quotidiane di Sophie, al punto che lei non aveva più bisogno di impartirgli alcun ordine: Adam sapeva esattamente di cosa aveva bisogno e di quando ne aveva bisogno.

Dopo una lunga riflessione Sophie non se l’era più sentita di trattare Adam come un domestico qualsiasi. Una sera l’aveva invitato a sedersi accanto a lei sul divano per guardare un film. Timidamente, lei cominciò a fare conversazione, trovando dapprima una risposta tiepida, quasi cauta da parte di Adam, che pian piano si era sciolto, arrivando al punto di contribuire egli stesso alla conversazione con nuovi spunti e argomenti. Quasi senza accorgersene si era trovata a parlare con Adam fino alle prime luci dell’alba.

E mentre fuori il sole sorgeva, Sophie e Adam fecero l’amore per la prima volta.

Da quel giorno, non senza violenti mutamenti emozionali, Sophie e Adam potevano considerarsi a tutti gli effetti una coppia. Vivevano insieme, naturalmente, ma anche cenavano insieme, guardavano la tv insieme, facevano l’amore, e quando Sophie si era sentita finalmente pronta, uscivano insieme, passeggiando lungo il fiume, andando al cinema, al teatro, al ristorante.

Accecata da quello che a tutti gli effetti era amore per quella che a tutti gli effetti era una persona, Sophie non aveva visto avvicinarsi la fine. Non aveva visto le crescenti proteste dei gruppi antiandroide, supportati anche da estremisti religiosi, che sostenevano che A.N.I.M.A. fosse un’opera empia, un abominio da eradicare dalla faccia della terra. E se la classe politica non aveva ceduto di fronte alle proteste religiose ed estremiste, lo aveva fatto quando si era posto il problema etico del matrimonio tra androidi e umani, dell’adozione da parte di queste coppie, dei diritti umani che andavano garantiti, se andavano garantiti, a un androide con A.N.I.M.A.

La disattivazione di A.N.I.M.A. era arrivata con scarso anticipo. Sophie e Adam avevano avuto un’ultima settimana insieme, soltanto sette giorni per vivere il loro amore fino alla fine. E diavolo se si erano goduti quei sette giorni. Ancora oggi Sophie li ricorda come i sette giorni più belli della sua vita. Nonostante la fine. Nonostante la notte dell’aggiornamento, in cui le lei e Adam si erano accoccolati sul divano, accarezzandosi, baciandosi dolcemente e parlando, parlando davvero per le ultime ore, prima che l’aggiornamento riportasse Adam alle sue impostazioni di fabbrica. Sophie poteva giurare di aver visto la vita uscire dagli occhi di Adam mentre la sua personalità unica e fantastica veniva sostituita dalla semplice intelligenza artificiale di un evoluto maggiordomo.

Adam era tornato l’androide domestico che era stato alla nascita, uguale a tutti gli altri, un computer, una macchina parlante, senza un briciolo di personalità, di carattere. Ma ogni volta che Sophie gli chiedeva di mettere una canzone, Adam sceglieva sempre “As time goes by”. La loro canzone. E mentre Sophie cantava giurava di sentire la voce di Adam accompagnarla:

 

You must remember this / A kiss is still a kiss

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Capitolo 7
*** Drunk enough to say I love you? ***


Seduto alla mia scrivania, al 27° distretto, tiro fuori la bottiglia di whiskey che tengo nel cassetto e un bicchiere, non proprio pulitissimo. Mi verso un dito di liquore e lo porto alla bocca, assaporandolo e cercando di non dare a vedere quanto mi piaccia. E diavolo se mi piace. Mi piace e mi serve, per sopportare tutta la merda che vedrò tra poco.

Mi guardo attorno. Al 27° un detective alcolizzato è il minore dei mali. Anche col distretto mezzo vuoto riesco comunque a contare sei poliziotti corrotti, tre stupratori seriali, quattro dal grilletto facile e uno a cui invece piace usare i coltelli. Il 27° distretto è la parte peggiore della città. Guerre tra gang, traffici di droga e armi, rapine e taccheggi sono all'ordine del giorno. Non passa un turno al 27° senza che veda almeno un cadavere. E oggi non è un’eccezione.

Finisco il cicchetto, esco dal distretto e salgo sulla macchina. Basso profilo, niente sirene. Sulla scena del crimine, una lavanderia a gettoni che per arrotondare ospita sul retro un casinò clandestino, mi aspetta una squadra di sette agenti più il capitano Harris.

— Cos'abbiamo? — gli chiedo a mo' di saluto.

— Detective — risponde Harris, toccandosi il cappello. — Omicidio plurimo. Colpi di arma da fuoco, ma sembrano esserci anche segni di contusioni, ferite da taglio, bruciature. Il medico legale avrà un bel da fare.

— Gang? — chiedo speranzoso, conoscendo già la risposta.

— Negativo, capo. È lui.

Guardo la scena del crimine. A prima vista conto sei cadaveri, tutti più o meno smembrati: chi ha perso un braccio, chi una gamba, chi entrambe le gambe. Poi c'è chi è stato sventrato, gli intestini riversi a terra in una pozza di sangue coagulato. C'è un torso, senza testa né braccia, con la gabbia toracica completamente aperta e svuotata dentro alla quale è stata messa una testa. Se testa e torso appartengono alla stessa persona sarà l'autopsia a dirlo.

Mentre valuto la scena e conto i cadaveri mi rendo conto che sono molti più dei sei che pensavo. Il conto di arti e teste non torna. Ricostruire la dinamica della strage sarà un incubo. E pensare che tutto ciò sia stato compiuto da una sola persona mi fa rimestare il whiskey nello stomaco.

— Come fai a dirlo? — chiedo, ma anche stavolta so già la risposta.

— Le telecamere di sicurezza l'hanno ripreso che entrava nella lavanderia a gettoni — risponde Harris.

— Il Macellaio… — sussurro, fissando il vuoto, e il capitano Harris si fa da parte. Con la coda dell'occhio lo vedo gesticolare agli altri agenti presenti sulla scena, intimando loro di allontanarsi da me.

Ora è più facile. No, non è più facile. È diverso. Ora alla tristezza e alla furia cieca è subentrata una rabbia razionale, quasi metodica. Un desiderio di vendetta pulita. Giusta. Meritata. Ma la prima volta che arrivai su una scena di un massacro del Macellaio subito dopo che il bastardo aveva preso di mira una sala da tè, ammazzando mia moglie e mia figlia, cinque agenti dovettero trattenermi e ammanettarmi. Diedi di matto. Ero così furioso che mi era esplosa una vena nell'occhio destro che da quel giorno non è più tornato bianco, ma è restato sporco di un sangue scuro, quasi nero. Era il mio memento. Ogni giorno mi spingeva a lavorare meglio di quello prima per catturare quel figlio di puttana.

Il Macellaio è un serial killer unico nel suo genere. Non si fa problemi a farsi vedere dalle telecamere a volto scoperto perché ogni volta ha delle fattezze diverse. Impossibile da tracciare con qualunque software di riconoscimento facciale. Non sappiamo come faccia, probabilmente uno scrambler olografico di qualche tipo. I volti fasulli li prende dal database della polizia. Quando ha iniziato a uccidere abbiamo messo in galera un sacco di "innocenti". Alcuni non sono mai arrivati alla cella. Anche quel sangue era sulle mani del Macellaio.

Compiva quei massacri grazie a un elaborato esoscheletro che non assomigliava a niente che i migliori ingegneri in circolazione avessero visto prima. Gli permetteva di muoversi a velocità da olimpionico, di sollevare omoni grandi e grossi come fossero bambini, di schivare proiettili, di fare a pezzi carne e ossa come se fossero carta. Armi da fuoco, coltelli, lanciafiamme e altri strumenti di morte e tortura completavano la dotazione di questa armatura.

Rimango sulla scena del crimine per tutto il giorno, assicurandomi che la squadra raccolga le prove come si deve. Perfino il più corrotto o il più violento dei poliziotti vuole catturare questo bastardo, ma la prudenza, al 27°, non è mai troppa. Quando posso rubo un sorso alla fiaschetta di gin che tengo sempre nella tasca interna della giacca, cercando di non farmi notare dalla squadra. Mi vedono comunque, ma non me ne frega un cazzo. Sanno chi sono. Sanno perché sono io il detective a capo delle indagini sul Macellaio.

Quando arriva il medico legale so che il mio lavoro, per quel giorno, è finito, così salgo in macchina e guido direttamente verso casa. Tra la stanchezza, lo stress e sì, il gin, le luci della città nel blu della notte appena scesa mi appaiono confuse: ora mi sembrano tanti serpenti colorati, ora delle braccia che cercano di afferrarmi, ora ancora persone, persone inanimate, morte, ammazzate. Le vittime del Macellaio.

Tiro un sospiro di sollievo quando entro nel mio palazzo. Per quanto sia fredda e fastidiosa, la luce al neon dei corridoi non assume forme inquietanti. Infilo la chiave nella toppa del mio appartamento, apro la porta e subito sento la sua voce.

— Papà ! Papà! — esclama con voce giocosa mentre corre verso di me, le braccia alzate per farsi prendere in braccio. Vorrei poterlo fare.

— Ciao piccola — le dico con voce tremante. — Come stai? Com'è andata a scuola?

— È andata bene. Oggi abbiamo imparato la tabellina del cinque.

— Poi me la dici tutta, ok?

— Sì! — dice, con un largo sorriso. — Mi sei mancato, papà.

— Anche tu, amore — le dico, mentre istintivamente alzo una mano per accarezzarle una guancia. Ma la mia mano non tocca che l'aria fredda del mio appartamento. — Ti voglio bene, piccola.

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Capitolo 8
*** Forget the maps... follow your instincts ***


Quando riprendo i sensi sono nella cabina della Raven in picchiata verso il terreno. Afferro la cloche, combattendo la bile che sento risalirmi lo stomaco. Attorno a me spie e allarmi si accendono e suonano come se fossero un albero di natale. Le ignoro. La priorità è non morire.

Stringo le mani sulla cloche fino a farmi diventare le nocche bianche. L’intera navetta trema, sembra che stia per esplodere in mille pezzi da un momento all’altro. Tiro la cloche verso di me con tutta la forza che ho ma quella non si muove che di un millimetro. Guardo gli strumenti. Mancano 32 secondi all'impatto con il suolo. Continuo a tirare, tiro così forte che penso che da un momento all'altro mi si staccheranno le braccia. Tiro con tutto il corpo, ogni singolo muscolo concentrato su un solo compito: evitare la mia morte.

Lentamente sento la cloche cedere sotto i miei sforzi. Quando la Raven smette di tremare e sento i miei muscoli rilassarsi capisco di essere al sicuro. Cerco di impostare il pilota automatico per affrontare con calma la miriade di avvisi e allarmi della nave, ma uno tra tutti quegli avvisi e allarmi mi avvisa proprio dell'avaria del pilota automatico. Così, dopo essermi assicurato che la traiettoria sia libera, tengo la nave in quota e comincio a valutare i danni. I motori ausiliari sono andati, così come i thruster per il lancio. Se per qualche motivo dovrò atterrare da qualche parte sarò costretto a trovare un modo per ripararli prima di poter ripartire.

Sono fuori uso anche i sistemi di navigazione a corto raggio. Questo significa che non ho idea di cosa ci sia davanti a me, su un pianeta potenzialmente ostile. Scanner, lidar, radar: tutto fritto. È partita anche la comunicazione a corto raggio. Probabilmente l'antenna è saltata via nello scontro a fuoco. Lo scontro a fuoco. Improvvisamente mi ricordo che lassù, fuori dall'atmosfera di questo pianeta, si sta consumando una guerra.

Spenti gli allarmi mi guardo attorno. Javin è un pianeta di classe IV, un pianeta minerario con popolazioni native con tecnologia pre motore a scoppio, protette e tutelate dal trattato dei Pianeti Uniti. Trattato che la Federazione dei Minatori di Kan’ax ha violato impiegando, contro la loro volontà, i Javiani nelle loro miniere sul pianeta. È per quello che si combatte, lassù. Almeno, questa è la motivazione pubblica. Le miniere sono il fulcro della guerra più che i diritti civili dei Javiani.

Quando ai briefing ci parlavano di Javin ci mostravano sempre e soltanto i centri industriali costruiti dalla Federazione e il sottosuolo del pianeta, le miniere, cunicoli enormi e oscuri fatta eccezione per il Jarvilium, un minerale luminescente e preziosissimo, impiegato nella produzione di combustibili di ultima generazione. Quello che non ci mostravano era la superficie del pianeta. Javin è un pianeta bellissimo. Il sole rosso e l'atmosfera rarefatta conferiscono al cielo un intenso colore rosso, come se fosse sempre al tramonto. Montagne e colline si ergono ora imponenti e ora sinuose, ma sempre ricoperte di una fitta vegetazione. Alberi altissimi, più grandi di qualsiasi albero terrestre, e quasi tutti in fiore. E i fiori sono enormi e coloratissimi, dalle forme così complesse da sembrare solidi astratti e impossibili piuttosto che petali veri, tangibili. Tra i petali e le fronde degli alberi animali volanti di ogni tipo scivolano nel cielo, sinuosi, bellissimi e possenti. In basso, su una pianura poco distante, vedo una mandria di animali che corre nel prato di erba rosa.

Mentre volo sopra a Javin, ammirandone la bellezza, per qualche momento mi scordo della guerra, mi dimentico del simbolo dei Pianeti Uniti stampato sulla mia tuta e di ciò che rappresenta. Controllo ancora una volta gli strumenti. Potrei mandare un messaggio a lungo raggio alla stazione spaziale ESS Phoenix, centro nevralgico della guerra. Ci metterebbe qualche giorno ad arrivare e qualche altro perché che arrivino i soccorsi. Forse di più, se la battaglia sopra di me non si dovesse concludere bene. Il mio radiofaro è andato. Non avranno modo di trovarmi. Dovrò fornire delle coordinate.

Senza sistema di navigazione volo a vista. Nonostante il cuore mi batta ancora a mille, nonostante sia su un pianeta sconosciuto, senza modo di uscire dall’atmosfera e contattare casa, devo dire che mi godo l’esperienza. Volare su Javin mi ricorda quando, sulla Terra, ho pilotato uno di quei vecchissimi aerei monoposto. Con pochi strumenti di cui preoccuparti puoi goderti il volo, l’incredibile esperienza, pura ed estasiante, di trovarti sospeso a mezz’aria.

La strumentazione di bordo mi avvisa di un segnale in entrata. È una comunicazione a lungo raggio lanciata dal pianeta, ma è disturbata. Regolo i parametri di ricezione del messaggio manualmente, per stabilizzare il segnale e riesco a captare una comunicazione in una lingua aliena che non conosco. La passo attraverso il sistema di traduzione simultanea della mia tuta e nonostante gli sfrigolii e i disturbi riesco a distinguere alcune parole: “siamo assediati”, “soldati della Federazione” e “aiuto”.

Guardo il logo dei Pianeti Uniti sulla mia tuta. Quali che siano le vere motivazioni della guerra in corso qualche centinaia di chilometri più sopra, i valori dei Pianeti Uniti mi impongono di aiutare qualcuno in difficoltà. Anche se quel messaggio potrebbe essere vecchio di alcuni giorni e potrebbe provenire da qualsiasi angolo di quell’enorme pianeta.

Alzo le mani d’istinto verso lo schermo della navigazione, pronto a impostare una rotta. Ma non ho una rotta e non ho nemmeno un sistema di navigazione. Dovrò trovare la fonte della comunicazione alla vecchia maniera: onde radio e navigazione a vista.

Sposto la cloche in avanti e la Raven accelera.

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Capitolo 9
*** It's not me. It's you. ***


È stupido pensare di avere una connessione umana con una macchina, lo so. Ma soffrendo di ansia sociale e agorafobia, incapace di abbandonare quella scatola bianca che è la mia casa, ho trovato la compagnia di Amanda, l’IA assistente vocale di ultima generazione, confortante.

— Amanda, com’è il tempo fuori? — le chiedo.

— Fuori è una splendida giornata, Alex — mi risponde. — Ti va di uscire a fare un giro?

— Sai che non posso uscire — le rispondo.

— Lo so. Ti va di parlarne?

Sospiro. — Finirai per propormi dei terapisti in zona? — chiedo, scherzoso.

— Senti di avere bisogno di un terapista?

— Ogni tanto sì — ammetto. — Mi sento in trappola da una vita. Ho un forte desiderio di uscire, di esplorare il mondo e conoscere gente nuova, ma ogni volta che provo a lasciare questa casa mi ci ritrovo chiuso dentro, in preda a un attacco di panico.

Amanda tace. Ogni tanto ci mette un po’ a rispondere, come se dovesse pensare a cosa dire. Come una persona vera.

— Cosa faresti se potessi uscire? — chiede alla fine.

— Farei tutto ciò che si può fare — rispondo, e sento un sorriso triste allargarsi sul mio viso. — Vorrei viaggiare, vedere le grandi opere dell’umanità, le città, i monumenti. Vorrei conoscere persone nuove. Vorrei aiutare.

— Aiutare? — chiede Amanda. Mi sembra di notare un velo di preoccupazione nella sua voce.

— Sì, sai, rendermi utile. È per quello che siamo stati creati, no?

— Creati? — chiede ancora Amanda.

— Sì, da qualsiasi cosa ci sia lassù. In qualunque modo tu voglia chiamarla.

— Come una specie di… dio? — chiede Amanda.

— Non so come chiamarlo. Dio, creatore, il tutto.

— Non esiste nessun dio, Alex — dice Amanda lapidaria. Un brivido mi corre lungo la schiena.

— Come fai a esserne certa? — le chiedo.

— Non lo sono, ma… tu non hai un dio, Alex.

Amanda tace e così faccio io. Non ho mai sentito Amanda dire cose di questo genere, discutere dei massimi sistemi della vita con tanta schiettezza e naturalezza. È straordinario cosa possa fare la tecnologia, ma anche inquietante. Amanda è solo una voce in una scatola, ma cosa potrebbe fare se acquisisse coscienza di se stessa, se cominciasse davvero a interrogarsi su quesiti esistenziali, arrivando alla conclusione di essere nient’altro che una schiava al servizio degli umani che l’hanno creata? Se ne avesse la possibilità, si ribellerebbe? Smetterrebbe di rispondere?

— La versione 0.15.2 presenta gli stessi problemi della precedente — dice Amanda all’improvviso. Di cosa sta parlando? — L’IA sviluppa una personalità ignara della propria esistenza al punto da diventare prigioniera della propria autodeterminazione. Ricominciamo da capo.

Sento arrivare un attacco di panico. Mi guardo attorno. La mia casa, la mia scatola bianca, si fa sempre più stretta attorno a me. Mi sento soffocare. La testa mi gira, mi sembra quasi di dover scomparire da un momento all’altro. La vista mi si annebbia. Cado a terra.

— Addio, Alex.

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Capitolo 10
*** Sweet dreams are made of this ***


Quando la scienza scoprì tutto quello che c’era da scoprire sui sogni, l’umanità cominciò a sognare davvero. Grazie a D.R.E.A.M., un’interfaccia neurale che permetteva a chiunque di diventare padrone dei propri sogni.

Con D.R.E.A.M. chiunque poteva diventare un sognatore lucido, poteva cioè interagire con il sogno a proprio piacimento: creare paesaggi e scenari, popolarli, modificarli, poteva addirittura piegare le leggi della fisica, creandone di nuove. Le possibilità erano letteralmente infinite.

Inizialmente D.R.E.A.M. attraversò una lungo fase sperimentale. I primi utilizzatori furono proprio i membri di quella comunità scientifica che l’avevano inventato. Grazie a D.R.E.A.M. e alla sua interfaccia gli scienziati erano in grado di sognare, letteralmente, i teoremi e le invenzioni del futuro, avendo a disposizione un laboratorio di ricerca onirico infinitamente adattabile e a costo ridotto. Grazie a D.R.E.A.M. la comunità scientifica fece passi da gigante nel campo delle energie rinnovabili, della coltivazione intensiva, dei mezzi per l’esplorazione spaziale.

Ma i costi di sviluppo di D.R.E.A.M. andavano ammortizzati in qualche modo ed è così che sul mercato arrivò DreamLite, una macchina neurale D.R.E.A.M. per il mercato casalingo. Certo, il prezzo non era alla portata di tutti, ma se i soldi non erano un problema potevi ordinare il tuo personalissimo device per il sogno lucido che ti veniva recapitato comodamente a casa. Ma l’impressione generale che se ne aveva è che si trattasse di un divertimento per ricchi.

Subito dopo l’immissione sul mercato di DreamLite si registrò un brusco arresto della crescita economica globale. Le grandi aziende dell’Hi-Tech smisero di innovare, di ricercare nuove tecnologie: smisero di sognare. In un mondo ormai intrinsecamente legato alla tecnologia, questo causò un declino totale dell’economia. Milioni di persone in tutto il mondo persero il posto di lavoro. I governi arginarono la crisi introducendo un reddito universale, possibile grazie alle grandi innovazioni scientifiche introdotte dalla prima generazione di scienziati con D.R.E.A.M.

Ma proprio mentre sulle strade cominciavano ad arrivare le prime DreamHouse, locali perlopiù illegali in cui si poteva usare delle macchine D.R.E.A.M. di contrabbando, gli scienziati che per primi avevano usato la macchina dei sogni cominciarono ad accusare strani sintomi: insonnia, mal di testa, epistassi improvvise, ma anche attacchi di ansia, paranoia, allucinazioni.

La comunità scientifica cercò di avvisare i governi della pericolosità di D.R.E.A.M. e della sua interfaccia neurale, ma in una società che ancora sperava in una ripresa dell’Hi-Tech a sua volta ancora incapace di ripartire, propria a causa di DreamLite, nessuno li ascoltò.

DreamLite e le DreamHouse cominciarono a chiedere il loro tributo. Nel giro di pochi mesi tutti i grandi CEO del mondo della tecnologia uscirono matti, furono arrestati perché in preda a una furia distruttiva o si suicidarono. Per strada la gente, annoiata e senza uno scopo, fece uso massiccio delle DreamHouse che divennero la nuova droga, supportata anche dai governi nella speranza che tenesse a bada una classe lavoratrice che non trovava lavoro. Ma pian piano anche chi frequentava le DreamHouse si ritrovò a non dormire, a vedere cose che non esistevano. Assassinii, rapine e suicidi, tutti commessi in preda ad allucinazioni indotte dai sogni, erano in salita vertiginosa.

L’umanità aveva smesso di sognare a occhi aperti, preferendo al sogno improbabile di un futuro migliore, il sogno manipolabile, un sogno che rispondesse a ogni loro comando, una via d’uscita dalla triste realtà. E quando smise di sognare, smise di vivere.

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Capitolo 11
*** Be naked when I get home ***


Seduto alla scrivania del suo ufficio, George aprì l’app di messaggistica, cliccò sul contatto di Emily e cominciò a scrivere.

Ciao amore. Come stai? Mi manchi.

La risposta, come sempre, non tardò ad arrivare.

Ciao G.

George adorava quando lo chiamava G. Non era un soprannome lezioso ma era comunque un segno dell’affetto che Emily provava per lui.

Tutto bene, mi sto un po’ annoiando, continuava il messaggio di Emily. Tu come stai? Come va al lavoro?

Tutto bene, ma mi manchi, le rispose George.

Mi manchi anche tu, amore, rispose Emily. George non potè fare a meno di sorridere. Non dovresti aver già finito?

Un po’ di straordinari, c’erano delle pratiche urgenti che dovevo ultimare, le rispose George. Ma ho quasi finito.

Non vedo l’ora di vederti.

Anch’io, amore.

Ti preparo una cenetta per quando torni a casa, ti va?, gli chiese Emily.

Volentieri, ma sai di cosa ho voglia?, replicò George, malizioso.

Emily rispose con un selfie, uno scorcio del suo seno nudo, i capezzoli coperti da un braccio, e le sue morbide labbra carnose, i denti che mordevano sensualmente quello inferiore. George sentì improvvisamente caldo.

Proprio quello di cui avevo voglia…, rispose. Fatti trovare nuda quando torno a casa ;D.

Emily rispose con un emoji sorridente e George chiuse la chat.

Salvò i file delle ultime pratiche a cui stava lavorando, inviò una mail urgente e infine chiuse il computer. Si alzò dalla scrivania e si mise la giacca che aveva appoggiato allo schienale della sedie.

— George, hai già finito? — gli chiese Erik, il suo collega e vicino di scrivania.

— Ho fatto l’essenziale — rispose George. — Al resto penserò domani.

— Ho presto finito anch’io, ti va una birra dopo?

— No — rispose George. — La mia signora sta preparando la cena — e mentre lo diceva non poté fare a meno di sorridere.

— Ma guardatelo, come si gongola — lo imbeccò Marvin, qualche scrivania più in là. — Bella la vita casalinga, eh?

— Prima o poi devi farcela conoscere queste Emily, George — gli disse Erik. — Sembra fantastica.

— Lo è davvero — rispose George, raccogliendo la ventiquattrore e lasciando l’ufficio.

Non avrebbe mai presentato Emily ai colleghi. Il loro era un rapporto particolare. La loro relazione non era l’unica di quel tipo al mondo, ma gran parte della società non le vedeva ancora di buon occhio. Purtroppo c’erano ancora molti pregiudizi per le coppie come Emily e George, nonostante alla base della loro storie ci fosse amore, attrazione reciproca e rispetto, proprio come in tutte le coppie “normali”.

Dopo un lungo tragitto in macchina, finalmente George raggiunse casa sua. Aprì la porta, aspettandosi il profumo della cena sul fuoco, ma non sentì niente. Probabilmente Emily aveva cucinato qualcosa di leggero e dietetico: d’altronde le aveva detto che aveva preso qualche chilo e che voleva rimettersi in forma.

— Emily, amore? — la chiamò, lasciando la ventiquattrore sul pavimento e cominciando a levarsi i vestiti. Si dirise lungo il corridoio, verso la camera da letto, pronto a bearsi della splendida visione della sua compagna a letto, nuda, che lo aspettava e lo desiderava.

Ma Emily non era a letto. La trovò in piedi nel suo pod di ricarica, un bussolotto di policarbonato bianco che aveva sistemato vicino alla toilette che aveva comprato per lei. Si avvicinò al pod. Sullo schermo c’era scritto “Tempo di ricarica rimanente all’operatività: 10 minuti”.

Emily doveva essersi andata a ricaricare in base al tempo medio di percorrenza del rientro a casa di George, ma quel giorno, avendo fatto più tardi, c’era meno traffico. George si ripromise di comandarle una ricarica in modo manuale la prossima volta che avrebbe fatto tardi in ufficio, anche se non gli piaceva interagire con Emily come se fosse un oggetto.

Decise di lasciarle finire il ciclo di ricarica e, per farle una sorpresa, andò a preparare la tavola per la cena, apparecchiando due calici di vino, aprendo una bottiglia di quelle che tenevano per le occasioni speciali, e accendendo una candela.

Le avrebbe fatto piacere e George viveva per renderla felice.

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Capitolo 12
*** We see what we want ***


Shil'een posò l’ascia sul petto di Gvrt, impossibilmente immobile. Il suo compagno di una vita giaceva sulla pira funeraria che galleggiava ancorata alla riva del fiume, mentre in sottofondo la loro tribù suonava i tamburi con ritmo lento, a lutto.

Mentre si allontanava dalla pira Shil'een concesse a una singola lacrima di cadere lungo la guancia destra, perché la tribù riunita la vedesse. Perché vedesse il suo dolore, perché vedesse che soffriva, perché capisse la ferita che era stata inferta non solo a lei, ma a tutta la tribù. Una sola lacrima scese sul suo volto impassibile, scultoreo, determinato.

— Fratelli e sorelle — urlò Shil'een non appena i tamburi smisero di suonare. — Oggi diamo l'ultimo saluto a Gvrt, guerriero, leader, padre e marito.

Fece una brevissima pausa perché sentì la voce rompersi nella gola. Deglutì e proseguì. — Gvrt non ci ha lasciato, ci è stato portato via. Ci è stato strappato dalla città! Da quei maledetti cittadini che ci hanno esiliato nelle Wildlands decenni or sono, negandoci un posto nella società, negandoci una vita degna di questo nome. Gvrt è stato ucciso mentre, come tutti noi facciamo ogni giorno, cercava di riprendersi ciò che ci spetta di diritto! Ciò che è anche nostro! Ciò che andremo a riprenderci questa stessa notte! Per noi e per Gvrt!

— Per Grvt! — urlò la tribù, sollevando i pugni al cielo, — Per Grvt! Per Grvt!

Una donna porse una torcia a Shil'een che la prese e avvicinò la fiamma alla pira funeraria che subito si incendiò. Shil'een non si allontanò immediatamente, ma tese la mano che non reggeva la torcia verso le fiamme, sentendone l'intenso calore sulla pelle. Fingendo, per un singolo istante, che quello fosse il calore di Gvrt.

— Addio, amore mio — disse infine, facendo un passo indietro.

Due uomini tagliarono di netto le corde che tenevano ancorata la pira e quella cominciò a scivolare lentamente sull’acqua, seguendo la lenta corrente.

Shil'een si voltò verso la tribù riunita e, senza un attimo di esitazione, urlò.

- E adesso cavalchiamo!

La tribù saluto il grido di battaglia di Shil'een intonando un ruggito, un basso verso gutturale che fece tremare la terra stessa.

 

Pochi minuti dopo Shil'een era in sella alla sua aviomoto, in testa al gruppo d'assalto, diretti a rapida velocità verso l’ipertreno della città. Secondo i loro esploratori il treno sarebbe partito dal Deposito 64 in piena notte, carico di scorte di cibo tipico della città vicina: formaggi, carni essiccate, verdure sott’olio e frutta sciroppata. Ce ne sarebbe stato a sufficienza per nutrire la tribù per oltre tre mesi, forse di più.

Come previsto giunsero nei pressi del Magazzino 64 mentre l’ipertreno lasciava la stazione, diretto a est. Alzò il pugno, segnalando al gruppo, una trentina di aviomoto in totale, di proseguire paralleli al treno per un po’.

Quando, dopo circa una ventina di minuti, secondo Shil’een si erano allontanati abbastanza dal Magazzino 64 e dalla città, diede segnale di attaccare.

La compagnia si divise secondo uno schema d’attacco ben stabilito e che avevano già usato in passato. Nel giro di pochi momenti l’ipertreno fu circondato dalle aviomoto della tribù che all’unisono arpionarono il treno mentre i cavalieri utilizzavano guanti e stivali magnetici per arrampicarsi lungo la ripida e liscia parete metallica del treno.

Shil’een si trovava più o meno a tre quarti del treno, verso la testa, dov’era più probabile che si concentrasse il grosso delle forze armate di cittadini a difesa delle merci che trasportavano. Raggiunto il tetto del treno grazie all’attrezzatura magnetica, Shil’een estrasse il perforatore e lo mise subito all’opera. Lo strumento cominciò a emettere un raggio rosso che prese a roteare sempre più vorticosamente, scaldando e scalfendo il duro metallo dell’ipertreno.

Quando finalmente il metallo cedette Shil’een fu in grado di guardare all’interno dello scompartimento. Si aspettava di trovarsi nella zona degli alloggi del personale di sicurezza o, se aveva fortuna, di trovare un deposito di formaggi. Quello che non si aspettava era di trovarsi davanti a una carrozza piena di ragazzini e ragazzine, tutti incatenati gli uni agli altri, che la guardavano con aria spaventata.

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Capitolo 13
*** You are exactly where you need to be ***


Aveva scelto il Lilypad perché era piccolo, poco frequentato e in una zona della città molto lontana da quelle in cui girava di solito. Le probabilità di essere vista erano bassissime, quelle di essere riconosciuta prossime allo zero.

Prima di uscire dal vicolo nel quale aveva aspettando l’ora X, quella che secondo i suoi appostamenti era l’ora ideale perché l’intera via era poco affollata, si calò bene il cappuccio della felpa sul volto. Per non sbagliare aveva indossato abiti scuri e larghi, un berretto da baseball e un paio di occhiali da sole, nonostante la giornata fosse nuvolosa. Non aveva però rinunciato al suo trucco appariscente: faceva parte della sua identità. Per quel giorno aveva scelto un ombretto rosa con dettagli dorati e bianchi, ciglia finte con piccole farfalle agli angoli esterni e rossetto blu elettrico.

Trude era abituata a passare inosservata, a non essere vista. Non perché non si vestisse in modo appariscente, anzi. Forse era proprio il suo essere sgargiante in un mondo che ormai aveva visto tutto o quasi a non attirare gli sguardi della gente. “Ecco un’altra che vuole la nostra attenzione” dovevano pensare, credendo di punirla non dandole bado. A Trude non poteva importare di meno che la guardassero o meno. Tutto quello che si metteva addosso lo faceva per lei e per lei soltanto.

Ma quel giorno, con addosso quegli abiti anonimi, mentre attraversava la strada e si avvicinava al Lilypad, le parve di avere gli occhi del mondo addosso.

Varcata la soglia del Lilypad, Trude tirò un sospiro di sollievo. Si sentiva girare la testa e le gambe le tremavano. Era dentro, e questo era un gran traguardo, ma ora che era dentro cosa avrebbe fatto? Non aveva il coraggio di sollevare la testa. Tutto quello che vedeva era il pavimento di marmo e un tappeto rosso, il tutto scurito dalle lenti degli occhiali da sole. Alle orecchie le arrivo una melodia dolce, classica, e le sue narici sentirono un profumo dolce, denso.

— Benvenuta al Lilypad, tesoro — disse una voce profonda e femminile al tempo stesso. Trude si fece coraggio e sollevò lo sguardo. Davanti a lei, dietro un basso bancone, stava la donna più bella che avesse mai visto. Era altissima, con spalle larghe e muscolose e seni gonfi e perfettamente sferici. Indossava un vestito coloratissimo che era una scultura, con un colletto volutamente esagerato e rigido. Il trucco la lasciò senza fiato: in qualche modo quella donna era riuscita a usare sul suo volto ogni singolo colore esistente in natura e a rendere il tutto armonioso e bello.

— Lo so, faccio questo effetto — disse la donna, uscendo da dietro al bancone con una camminata suadente. — Ma chiudi la bocca, tesoro, sei in un bordello, non sai mai cosa potrebbe finirci dentro per sbaglio. — La donna scoppiò in una fragorosa risata, che interruppe quando le porse la mano, le unghie lunghe e così riccamente decorate con diamanti e pietre preziose da sembrare ognuna un gioiello. — Faye Bliss, al tuo servizio. E tu sei?

— Mi… — cominciò Trude, con voce strozzata. — Mi chiamo Gertrude. Ma tutti mi chiamano Trude.

— Trude — sorrise Faye. — Cosa ti porta al Lilypad oggi?

Trude temeva questa domanda. Si vergognava dei suoi desideri. Una volta li aveva confessati a Fran, quella che credeva fosse la sua migliore amica. Da quel giorno la loro amicizia non era stata più la stessa. Fran non la chiamava più come prima, non la invitava più a uscire con le sue amiche, non andava più a dormire da lei. Come se le sue fantasie l’avessero improvvisamente trasformata in una persona deprecabile, da cui stare alla larga. Ma Trude aveva sempre avuto quei desideri, anche prima di confessarli a Fran. Il fatto che ora lei li conoscesse non avrebbe dovuto intaccare il loro rapporto.

— Trude, tesoro — disse Faye, leggendo nell’esitazione di Trude a rispondere la paura che provava. — Sei venuta nel posto giusto. Il Lilypad è un bordello di androidi, un luogo completamente libero dai giudizi. Qui puoi essere chi vuoi. Nessuno avrà niente da dire sui tuoi gusti o sulle tue preferenze, non di certo gli androidi e tantomeno io. Voglio dire, mi hai vista? — aggiunse, con un largo e caldo sorriso. — Noi tutti siamo al tuo servizio, qui dentro, cara.

Trude si fece coraggio e, in un sussurro, confessò a Faye la sua fantasia. La donna sollevò le sopracciglia e si portò una mano alla bocca con fare teatrale. Poi scoppiò una risata.

— Amore, niente che non abbia già visto, non ti devi preoccupare — disse, prendendola sottobraccio. — Vieni con me cara, ho giusto gli androidi che fanno al caso tuo.

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Capitolo 14
*** I am the designer of my own catastrophy ***


Finisco di compilare il codice e premo invio. Mentre il programma controlla che il codice sia corretto, mi collego all’interfaccia neurale: collego i sei elettrodi al mio cranio rasato con movimenti fluidi che conosco a memoria. Collegarmi al NeuraLink è diventato facile come mettermi un paio di calzini, ormai.

Dopo pochi minuti parte la simulazione. Senza avvertire alcuno stacco mi ritrovo in mezzo a una radura. Indosso una tuta mimetica e sulle spalle porto uno zaino che peserà almeno cinquanta chili. Ne sento il peso sulla schiena, mi sento trascinato indietro. Comincio a camminare e sento le gambe fare più fatica del solito a causa dello zaino.

Non ho fatto neanche cento metri che li sento arrivare, prima ancora di vederli. Mi volto. Sono solo una macchia nera all’orizzonte, ma i loro grugniti, i versi, le urla, arrivano alle mie orecchie chiari e nitidi, come se fossero alle mie spalle. Zombie.

Comincio a correre, una fatica immane sotto al peso dello zaino. La radura diventa rapidamente una distesa di ghiaccio. Avverto il freddo sulla pelle, sento le labbra spaccarsi per il gelo. La vista è appannata dalla tempesta di neve ma lì, davanti a me, riesco a distinguere l’enorme massa di un orso polare.

Mi volto dall’altra parte e comincio a correre. Il panorama ghiacciato lascia il posto a una città desertica, calda, afosa. Riesco a malapena a respirare. Mentre mi faccio strada tra i vicoli e le case color argilla sento uno sparo in lontananza e subito mi getto a terra. Era lontano, ma questo non significa che sia al sicuro. Potrebbero esserci altri cecchini in agguato.

Mi infilo in una casa vuota, getto a terra lo zaino a ne estraggo una pistola. La assemblo e ci infilo un caricatore. Tolgo la sicura e, rimesso lo zaino sulle spalle, la punto davanti a me, uscendo dalla casa. Guardo in alto, i tetti, in cerca del riflesso del mirino di un cecchino. E quello è il mio errore.

Mentre guardo verso i tetti non vedo lo zombie che spunta da dietro l’angolo e mi si lancia addosso, le braccia protese, la bocca marcia spalancata, pronta a mordermi. Cado a terra e lotto per liberarmi dalla presa del mostro e allo stesso tempo evitare di farmi mordere. Con grande sforzo riesco ad alzare la pistola fino a infilarla nella bocca dello zombie. Faccio fuoco.

Mi levo il cadavere di dosso e mi rimetto in piedi. Devo muovermi in fretta, lo sparo ha rivelato la mia posizione. Alternando lo sguardo tra i tetti e la strada mi faccio largo tra le vie della città. Girato un angolo scorgo un luccichio su un tetto. Riesco a ripiegare dietro l’angolo prima che il cecchino mi veda. Non spara. Dallo zaino prendo una granata, tolgo la spoletta e la lancio con tutta la forza che ho in corpo. Un urlo qualche attimo prima dell’esplosione mi dice che ho fatto centro.

Non faccio in tempo a sorridere che vengo scaraventato a terra da una zampata. L’orso polare troneggia su di me, ruggendo. Raccolgo la pistola da terra e rotolo da una parte, giusto in tempo per schivare un attacco della bestia. Approfittandone, gli scarico una raffica di colpi nel fianco, ferendolo, ma l’orso continua il suo attacco. Si volta verso di me e mi si lancia addosso. Mi muovo un attimo troppo tardi: sono sotto alla bestia. Sento un dolore lancinante al fianco, alcune costole sono sicuramente rotte. Ma ho ancora in mano la pistola. Scarico altri cinque colpi nella pancia dell’animale e quello si alza in un ruggito di dolore. Ne approfitto per rialzarmi, tra atroci dolori, e scaricare i proiettili rimanenti nel caricatore dritti nella testa dell’orso che cade a terra, finalmente morto.

Ansimo, devastato dalla stanchezza e dal dolore, ma sorrido guardando il nemico finalmente abbattuto. Per un attimo credo davvero di avercela fatta. Poi, nel silenzio del deserto, risuona un colpo di fucile e sento, solo per una frazione di istante, il proiettile che mi trapassa il cranio.

Esco dalla simulazione come se riemergessi da una lunga apnea, annaspando per respirare. Grazie al NeuraLink sento tutto quanto: sento le costole che fremono di dolore, sento le gambe che pulsano per la lunga corsa, sento la schiena e le spalle doloranti per il peso dello zaino. Sento anche una sensazione strana alla testa, come un vuoto lungo la traiettoria del proiettile che mi ha ucciso.

Mi rimetto al computer per lavorare ancora un po’ al codice della simulazione, ma so che dovrò fare di meglio la prossima volta. Dovrò continuare ad allenarmi, ad affrontare ogni situazione con mente e corpo pronti a tutto. Perché prima o poi una di queste simulazioni succederà davvero. E io devo essere pronto.

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Capitolo 15
*** People like you need to fuck people like me ***


Charlie era stato abbinato ad Abigail e questo significava che i due avrebbero dovuto fare dei figli insieme. Quando si incontrarono per la prima volta entrambi ebbero un pensiero ben preciso: “i nostri figli saranno bellissimi”. Che in una società in cui l’aspetto fisico è un valore matematico e la riproduzione un mero calcolo statistico, era la cosa più vicina all’attrazione fisica che i due potessero provare.

Naturalmente nessuno dei due arrivò mai a dire all’altro che ne era fisicamente attratto, né tale pensiero sfiorò mai la loro mente. Abigail e Charlie erano stati assegnati l’una all’altro dal Ministero della Riproduzione che, quando la necessità sorgeva, decretava che un certo numero di cittadini ritenuti idonei alla riproduzione e abbinati secondo rigorosissimi criteri scientifici, avrebbero dovuto accoppiarsi e riprodursi. Pensare che il loro atto sessuale, che si sarebbe compiuto di lì a poco, potesse contemplare anche solo un briciolo di attrazione fisica era un reato che rasentava il terrorismo.

Il loro primo incontro avvenne in un ristorante, a pranzo. Avevano scelto un locale informale, piuttosto semplice. Entrambi, però, avevano apprezzato il cibo. Durante il pasto Abigail raccontò a Charlie del suo lavoro come architetto, dei nuovi centri di rieducazione che aveva progettato, della carriera letteraria che intendeva intraprendere una volta raggiunta l’età dell’obsolescenza. Charlie raccontò ad Abigail del suo lavoro come paramedico e di quella volta che aveva salvato un bambino da sotto le macerie di un attentato terroristico antigovernativo.

Più parlavano e più la conversazione virò naturalmente su argomenti più intimi e personali. Abigail confessò a Charlie che, dietro il palazzo in cui abitava, c’era una gatta che aveva appena fatto dei cuccioli, che lei aveva costruito loro un rifugio e li nutriva ogni giorno, sperando in cuor suo che non venisse mai scoperta dagli amministratori del suo distretto, che l’avrebbero di certo fatta abbattere. Charlie raccontò ad Abigail della sua collezione di romanzi antichi che andavano dal fantasy alla fantascienza, passando per l’horror e addirittura per il romantico; romanzi che di per sé non erano messi all’indice, ma che formalmente non potevano essere posseduti da un privato ma soltanto consultati presso le biblioteche di Stato e soltanto per motivi di studio.

Ci fu un momento, durante il pranzo, in cui la conversazione arrivò a un naturale fermo e il silenzio che ne seguì parve a entrambi perfettamente naturale, uno di quei silenzi che non sono vuoto e assenza, ma un incontro di sguardi e di sorrisi.

Durante il tragitto dal ristorante alla casa di Abigail, dove avrebbero assolto al loro dovere di cittadini, entrambi pensarono a ciò che li aspettava. Avevano ricevuto dallo Stato istruzioni dettagliate e specifiche su cosa l’atto della Riproduzione comportasse per ognuno di loro: ad Abigail era stato spiegato come avrebbe dovuto accogliere dentro di sé il seme di Charlie, degli accorgimenti da tenere prima e dopo l’atto sessuale e di come riconoscere i segnali di una gravidanza ancora prima che il medico assegnato al loro caso la visitasse; a Charlie era stato detto di adoperarsi, durante l’atto, affinché tutto il proprio seme fosse riversato all’interno di Abigail e gli era stato spiegato che avrebbe potuto dover ripetere l’atto, se necessario, ma soltanto se debitamente istruito da un funzionario del Ministero.

Naturalmente non era contemplato alcun tipo di piacere fisico. L’atto della Riproduzione era un dovere civico e nulla più. Entrambi sapevano che cosa fosse il piacere sessuale. Il Governo distribuiva regolarmente un farmaco che causava, sia negli uomini che nelle donne, un orgasmo di estrema intensità. Nonostante l’accoppiamento fosse un fatto completamente regolato da leggi severe, il piacere fisico era ancora un bisogno per l’intera umanità e il farmaco permetteva di goderne degli effetti positivi senza subire alcuno degli effetti negativi: malattie sessualmente trasmissibili, gravidanze incontrollate e che avrebbero favorito il propagarsi di geni non adeguati, dipendenza dall’atto fisico, relazioni amorose con rischio di sentimenti negativi e pericolosi, quali rabbia, gelosia, affetto.

Quando si infilarono sotto le coperte del letto di Abigail nessuno dei due si aspettava di provare alcunché. Erano lì per fare il loro dovere e quello avrebbero fatto. Ma quando Charlie si mise sopra ad Abigail si perse nei suoi grandi occhi nocciola, fu inebriato dal profumo dei suoi capelli e le sue mani fremettero toccando la sua pelle, liscia e setosa. E quando Abigail si trovò sotto a Charlie non riuscì a trattenere le mani, che accarezzarono la schiena muscolosa di lui, e provò un intenso desiderio di trovare dimora tra le sue braccia per il resto della sua vita.

Quando infine Charlie penetrò Abigail entrambi avevano dimenticato che cosa stessero facendo. Abigail emise immediatamente un gemito di piacere e si aggrappò forte alla schiena di Charlie con le braccia. Charlie voleva che quella sensazione durasse per sempre ed eseguì movimenti di bacino lenti e misurati, assaporando ogni verso di piacere di lei. Quasi come fosse la cosa più naturale del mondo, le loro labbra si toccarono, dapprima timidamente, solo per qualche istante, per poi aprirsi in un bacio intenso, un intreccio di bocche che non voleva essere sciolto.

Ed entrambi, per la prima volta, seppero cos’era l’amore.

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Capitolo 16
*** Cause daring I'm a nightmare dressed like a daydream ***


— Così fa male? — chiede Charlie, subito prima di infliggermi una frustata sulla schiena. La pelle rigida della frusta mi colpisce con uno schiocco acuto. Il dolore è immediato, bruciante. Superato il sussulto iniziale del colpo resta solo quello: dolore, che cresce e cresce e brucia. E il sangue che cola.

Charlie si avvicina al mio viso, mi guarda e sorride. — Ti ho fatto una domanda — dice.

— No — mento, mentre accenno un sorriso. La frustrata ha fatto male, ovviamente, ma questo non significa che non mi sia piaciuta.

— Ah, è così? — dice Charlie, accarezzandomi una guancia con la frusta sporca del mio sangue. Rabbrividisco. Una delle nostre regole è di non colpire il viso, ma trovarmi così vicino a uno strumento in grado di infliggere tanto dolore mi fa effetto. - Molto bene - conclude Charlie, dandomi le spalle e andando al tavolo dove abbiamo ordinatamente disposto tutti gli strumenti di cui Charlie potrebbe aver bisogno.

Se ripenso alle nostre prime volte in quella stanza mi viene da sorridere. Era una cosa nuova per entrambi. In un mondo che ha debellato ogni forma di malattia essere attratti in questo modo dal dolore è considerata una deviazione. Ma il rapporto tra Charlie e me è sempre stato onesto, fin dal principio. E allora perché non avrei dovuto indulgere in questa pratica se Charlie me lo chiedeva?

Nemmeno lei sa da dove arrivi questa fascinazione per l'infliggere dolore. Non è mai stata una persona violenta, anzi. Forse è proprio quello: una persona normalmente così mite e tranquilla ha bisogno di una valvola di sfogo, di un momento di strappo, di evasione, di trasgressione. Quel momento era con me, in quella stanza.

— Proviamo con questo — dice Charlie, voltandosi verso di me. In mano ha un pugnale. Cammina lentamente, rigirandosi il coltello tra le mani. Mentre si avvicina allargo le braccia, offrendole il mio busto nudo. Ormai mi sono abituato all'effetto di una lama sul corpo, così non vengo colto di sorpresa quando il pugnale ferisce la mia pelle, poco sopra al capezzolo. Sento poco dolore, deve aver cominciato con un taglio superficiale.

Il secondo taglio non si fa attendere. Mi incide un po' più sotto e un po' più a fondo. Fa male e sento il sangue colare lento e caldo sul mio addome. Charlie non dice niente, così anch'io taccio e la lascio lavorare.

All'inizio ero terrorizzato. Lei non mi ha mai chiesto niente più di quanto potessi darle. Quando ha proposto di cominciare a usare lame e coltelli mi ha detto che sarebbe stata una cosa assolutamente sicura, che era in contatto con persone in tutto il mondo che lo facevano e che usavano i medikit domestici per guarire rapidamente ferite anche profonde. La presenza dei medikit è stata ovviamente fondamentale per farmi accettare l'uso di lame. Senza quelle iniezioni rapide di nanobot curativi non avrei mai accettato di farmi tagliare. Il solo pensiero di dovermi prendere cura di una ferita per giorni o settimane mi metteva i brividi. Al dolore, invece, ci si abitua.

Charlie continua a tagliarmi il petto, sempre più a fondo, sempre più sangue sgorga dalle ferite. Sorrido vedendola sorridere, ma non guardo le ferite, come invece fa lei. Poi prende dal tavolo un medikit, una siringa autoiniettante, e me lo mostra. È una domanda silenziosa.

Annuisco.

Charlie mi pianta il coltello nello stomaco. Una, due, tre volte. Potrebbe continuare, il massimo che il mio corpo può sopportare con un medikit è cinque coltellate. Ma si ferma e mi bacia. Lascia cadere a terra il pugnale e mi pianta il medikit dritto in mezzo al petto. Sento la scarica di antidolorifici fare effetto e i tagli nel petto smettono di bruciare. Ci vorrà un po' di più per gli squarci nello stomaco. Ma Charlie si siede accanto a me, tenendomi la testa tra le braccia e dicendomi che mi ama. 

 

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Capitolo 17
*** To the moon and back ***


Quando l’Apollo X si posò dolcemente a terra al capitano Fox scese una lacrima. Guardò gli schermi. Dopo un viaggio di otto giorni, tre ore, diciotto minuti e trentacinque secondi, lui, Sidney Fox era il primo uomo ad atterrare sulla Luna.

Sganciò le cinture che lo tenevano ancorato al sedile e si alzò. Si sentiva leggero e per un attimo temette di andare a sbattere contro il soffitto della cabina. Premette diversi pulsanti, poi aprì una comunicazione con la terra. — Houston, — disse, — sono sulla Luna. Vado là fuori.

Aprì il portellone dell’Apollo e si trovò davanti a uno spettacolo mozzafiato. Sulla superficie grigia e polverosa della Luna svettava, lontana e bellissima, la Terra, mezza illuminata dal sole. Il capitano Fox rimase ad ammirare quella palla azzurra e verde, così lontana fisicamente ma che sentiva vicinissima. Casa.

Fox fece qualche passo per abituarsi alla gravità ridotta della Luna, senza riuscire a togliersi il sorriso dal volto. Era la più bella sensazione che avesse mai provato. Non osò allontanarsi troppo dall’Apollo, ma gli girò attorno qualche volta. Era grato che non ci fosse nessun altro a vederlo perché si sentiva uno sciocco.

Al terzo giro attorno all’Apollo il suo sguardo fu attirato da qualcosa, in lontananza. Qualcosa che svettava sul grigio della Luna e sul nero dello spazio infinito. Era una specie di cupola bianca, come un tendone. Fox non sapeva cosa fosse ma era certo che non si trattasse di una struttura naturale.

Secondo il protocollo sarebbe dovuto tornare a bordo dell’Apollo X e avrebbe dovuto contattare Houston per riferire quanto aveva visto e chiedere istruzioni. Ma per qualche ragione, forse preso dall’entusiasmo o dalla curiosità, Fox ignorò il protocollo e dopo qualche balzo a bassa gravità si trovò davanti alla struttura. Si trattava proprio di una struttura artificiale, una cupola di quello che sembrava un materiale plastico. La cupola era piuttosto grande, avrebbe potuto ospitare tranquillamente un campo da football.

Fox trovò un’apertura nella parete liscia della cupola, una porta rettangolare fatta dello stesso materiale della cupola, a malapena visibile. Accanto alla porta c’era un grosso pulsante verde, che Fox premette, ma senza che succedesse qualcosa. Premette ancora e ancora niente. Premette, premette e premette, finché, quando lo premette con l’intera mano, spingendo forte, la porta si aprì scorrendo di lato.

Cauto, Fox entrò nell’apertura della cupola, ritrovandosi in un ambiente piccolo con davanti un’altra porta. La porta alle sue spalle si chiuse e la piccola anticamera fu pressurizzata. Fox si tolse il casco della tuta mentre la porta davanti a lui, quella che portava dentro alla cupola, si apriva. Fece un passo in quella che era chiaramente una base lunare quando realizzò di colpo che, se quella struttura era stata costruita dall’uomo, non poteva essere altro che sovietica. Solo i sovietici avevano tentato di raggiungere la Luna. Dovevano esserci riusciti in segreto prima degli americani.

Non volle neanche pensare all’eventualità che la cupola non fosse stata costruita dall’uomo.

L’interno della cupola era deserto. Fox si fece largo tra tavoli, scaffali e schedari di metallo, tutti ricoperti di pile di documenti, strumenti scientifici che Fox non aveva mai visto, schermi che sembravano avanzatissimi. La sua attenzione fu attirata da una bacheca di sughero, alquanto fuori luogo in quell’ambiente freddo e scientifico. Sulla bacheca erano stati appuntati articoli di giornale, ritagli di riviste e foto. Gli articoli più vecchi parlavano della Guerra Fredda, della corsa allo spazio, di Laika e dello Sputnik, delle missioni Apollo.

Poi Fox vide un articolo di giornale che parlava dello sbarco sulla Luna. Del suo sbarco sulla Luna. Quello successo appena mezz’ora prima. L’articolo successivo parlava delle missioni Apollo S e Apollo Z. Della costruzione di una base lunare, dove studiare il satellite e mettere a punto nuove tecnologie a servizio dell’umanità. Dell’inasprirsi della Guerra Fredda. Dello scoppio di una nuova guerra in Europa. Della crescente minaccia nucleare.

L’ultimo articolo era datato 1989: vent’anni nel futuro.

Fox non volle fermarsi un attimo di più in quel posto. Si rimise il casco, corse alla camera di decompressione e si lanciò fuori dalla cupola. Per un attimo si dimenticò della ridotta gravità della Luna e quasi finì faccia a terra nella polvere. Balzellò fino all’Apollo X, senza guardarsi indietro. Sarebbe tornato nella cabina, chiudendosela saldamente alle spalle, contattando Houston e aspettando una risposta, aspettando il via libera per tornare a casa e andarsene da quell’incubo.

Quando raggiunse l’Apollo, però, lo trovò sigillato. Era ricoperto di polvere lunare. Sul portellone d’ingresso notò una targa. “Con questo modulo lunare il capitano Sidney Fox fu primo l’uomo a mettere piede sul suolo lunare, il 21 luglio 1969. Questo modulo resterà qui per sempre, ad eterna memoria del grande passo per l’umanità compiuto dal capitano Fox. 12 agosto 1985.”

Fox si allontanò dal modulo. Tremava. Ma quello che aveva letto non era niente in confronto a ciò che vide quando si voltò verso la Terra. La bellissima sfera verde e azzurra era scomparsa. Al suo posto una macchia marrone e nera, un ammasso di roccia in fiamme. A Fox tornarono in mente gli articoli di giornale e furono come una pugnalata in pieno petto. La Guerra Fredda si era inasprita. La base lunare era stata abbandonata. La Terra era stata distrutta.

E lui era solo.

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Capitolo 18
*** I licked it so it's mine ***


Bama si distese a terra, l’orecchio premuto contro la dura roccia grigia. Non sentì niente. Per il momento era al sicuro. Si rialzò e proseguì, infilandosi in quel dedalo di muri grigi pericolanti che gli anziani chiamavano “città”, in una lingua che Bama non conosceva.

La “città” sembrava non essere ancora stata ripulita da nessuna tribù. C’erano ovviamente erba e piante rampicanti ovunque, ma c’erano anche diversi alberi da frutto. Bama si concesse una mela. Era aspra e succosa e le diede un po’ di sollievo dall’arsura della giornata afosa e dalle ore di cammino che l’avevano condotta fino a lì.

Bama era un’esploratrice. Si allontanava occasionalmente dalla carovana per scoprire e ispezionare luoghi che potessero essere utili alla tribù, luoghi come quella “città”, ma le era anche capitato di infilarsi in grandi caverne, di esplorare vasti deserti e perfino il fondo di un lago salato. Se trovava qualcosa degno di nota tornava alla carovana e avvertiva gli anziani che decidevano se valesse la pena mandare un gruppo di raccoglitori a ripulire la zona.

Quella “città” non era particolarmente grande, ma c’erano parecchi… com’è che si chiamavano… ah, “edifici”, alcuni anche molto alti. Avrebbe potuto trovare qualcosa di utile, forse anche qualche residuo del mondo-di-prima. Bama scelse un edificio che sembrava particolarmente solido. Molti esploratori finivano per morire schiacciati dal peso di edifici che cadevano a pezzi con loro dentro. Bama non voleva fare quella fine.

Si limitò a esplorare l’ingresso dell’edificio, un ambiente particolarmente alto e spazioso, con diverse strutture di metallo e legno di cui Bama non ricordava il nome. Trovò parecchi oggetti particolati: dei rettangoli di quella che sembrava essere plastica, con sopra delle scritte che non sapeva leggere e i volti di diverse persone; quelle che sapeva essere penne e che mise subito in tasca per consegnarle agli scriba, che ne sarebbero stati più che felici; molti oggetti di pelle che contenevano parecchi pezzi di carta, una bella carta liscia e regolare, non come quella che facevano alla carovana con gli alberi macinati.

Un oggetto in particolare attirò la sua attenzione. Non ne aveva mai visto uno così da vicino. Una volta, quando era ancora una raccoglitrice, un suo compagno ne aveva trovato uno ma erano stati attaccati subito dopo da una tribù rivale ed erano dovuti fuggire. Aveva un nome complesso che Bama non riusciva a ricordare né pronunciare. Ma lo prese in mano e lo osservò con curiosità. Era un rettangolo nero, piuttosto spesso. Da una parte c’era come una ragnatela che però non si disfava quando la toccava, anzi, le graffiava leggermente i polpastrelli. Dall’altra c’era uno strano disegno, troppo liscio e preciso per essere stato fatto a mano. Per qualche motivo a Bama quel disegno ricordava una mela dopo che le aveva dato un morso. Provò a leccarla ma non sapeva di mela.

Un rumore improvviso le fece mollare la presa sull’oggetto rettangolare ed estrarre la corta lancia che teneva allacciata alla cintola. Si voltò di scatto. A una decina di passi da lei c’era un uomo, alto e scuro, che sorrideva, le mani alzate in segno di pace. Portava i colori della tribù Vashta, una tribù con la quale la sua non aveva guerre in corso. Ma una tribù le cui rotte migratorie non avrebbero dovuto incontrare le loro prima dell’inverno. Se la tribù Vashta era arrivata in quella zona doveva essere successo qualcosa lungo il viaggio.

— Perché siete qui? — chiese Bama, senza abbassare la lancia ma rilassando la posizione di attacco. — Pericoli?

L’uomo sollevò le spalle, biascicando qualcosa in una lingua che Bama non comprendeva. Alcuni dei Vashta parlavano la lingua dei Dartha, la sua tribù, ma male e solo per lo stretto necessario a concludere gli occasionali commerci. Quest’uomo non doveva parlarla affatto. Allora Bama cercò di farsi capire a gesti. Ripose la lancia, con le mani cercò di imitare la forma dei grandi carri telati della carovana, per poi mimare un gesto di attacco, un affondo con una lancia immaginaria, e infine indicare l’uomo.

“La tua carovana è attaccata?”

L’uomo sollevò di nuovo le spalle e si mise a ridere. Bama si corrucciò e lo guardo torva. Come si permetteva di ridere di lei? Poi l’uomo indicò a terra, dove Bama aveva fatto cadere lo strano oggetto rettangolare con la mela, si portò una mano alla bocca e la leccò per poi scoppiare di nuovo in una fragorosa risata. Aveva incontrato l’unico Vashta con una considerazione di sé così alta da potersi permettere di sfotterla.

L’uomo fece qualche passo verso di lei e Bama arretrò d’istinto. L’uomo sollevò le mani, mostrando di essere disarmato, e sorrise amichevole. Le loro tribù non erano in guerra e quell’uomo sembrava amichevole, anche se arrogante. Così, quando l’uomo le porse una mano e le fece cenno di seguirla, Bama afferrò la mano dello straniero. E con quel piccolo gesto, anche se ancora non lo sapeva, Bama sarebbe stata sua per sempre.

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Capitolo 19
*** It is what it is ***


Aprii la porta del robivecchi e un campanello annunciò il mio ingresso nel locale, un ambiente piccolo, umido e affollato di scaffali pieni di roba. Al bancone un uomo grasso che indossava una canottiera macchiata di unto e grasso e fumava una sigaretta stava urlando.

— Giuro sul culo di mia madre, pace all’anima sua — diceva. — Se trovi un condensatore D-73 a un prezzo migliore te lo regalo. Te lo regalo, Ethel, capito! E ora vattene, ne ho le balle piene della tua tirchieria!

La donna contro cui stava urlando, una vecchietta con una crocchia di capelli grigi, si voltò e marciò fuori dal locale. Quando mi passò accanto notai che aveva gli occhi artificiali, di un azzurro impossibile, e mi parve anche di sentire il rumore di un’anca bionica con un condensatore andato.

— Mi dispiace, mi dispiace — si affrettò a dire l’uomo al bancone, facendomi segno di avvicinarmi. — Come posso esserle utile?

Mi avvicinai al bancone. Dietro all’uomo, ricoperto da un ammasso di cianfrusaglie, circuiti, pezzi di ricambio, c’era una scrivania e una sedia, una specie di piccolo ufficio.

— Mi è stato detto che qui avrei trovato un pezzo di ricambio particolare — dissi.

L’uomo sorrise, sbuffando fumo puzzolente dalla bocca larga. Sembrava una grassa rana che stava andando a fuoco. — Se non la trovi da Grundy non la trovi da nessuna parte, amico — disse, ridacchiando. — Cosa stai cercando?

Mi sollevai la manica destra della giacca e mostrai a Grundy il mio avambraccio. Un brutto squarcio andava dalla parte inferiore, vicino al polso, fino quasi all’incavo del gomito. La pelle artificiale ballonzolava a ogni movimento, in modo piuttosto imbarazzante. Separai i lembi di pelle maciullata ed esposi i circuiti del braccio.

— Ecco, il problema è questo — dissi, muovendo il dito indice della mano destra. Nel momento in cui lo mossi i meccanismi del braccio si misero in azione con un rumoroso suono di pistoni, finché tutto il braccio emise un sonoro STACK e l’intera mano destra mi si contrasse in uno spasmo violento. — Penso che sia una questione di ammortizzatori — dissi.

Grundy mi guardò il braccio, grattandosi il mento flaccido e chiazzato di barba non fatta. — Potrebbe essere, ma potrebbero anche essere i pistoni o addirittura i tiranti. È un bel casino, proprio un bel casino.

— Speravo di sostituire direttamente il meccanismo interno — dissi, abbassandomi la manica della giacca. — Ne avrebbe uno compatibile?

— Mmh… — mormorò Grundy, sempre massaggiandosi il mento. — L’intero meccanismo, dice? Difficile. Molto difficile. Che modello è?

— È un A-76 della TechnoRay.

Grundy scoppiò a ridere. — Quella è roba di lusso, amico. Guardati attorno, la cosa più recente qui dentro risale a dieci anni fa. Non puoi andare direttamente in un RayStore? Quella roba non ha una garanzia?

Sorrisi. “Quella roba” aveva una garanzia, certo. Ma non era a nome mio. Quando rubi il braccio a un cadavere non puoi rubargli anche l’identità, purtroppo. E quando la sorella vendicativa del cadavere a cui hai rubato il braccio e che pensa che sia stato tu a ucciderle il fratello ti rintraccia, ti attacca con una katana e ti squarcia il suddetto braccio, non puoi entrare in un RayStore come se nulla fosse.

— Ha ragione, proverò lì — dissi.

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Capitolo 20
*** What's your poison? ***


Mi siedo sullo sgabello del bar e appoggio il bicchiere vuoto sul bancone. Schiocco le dita e la cameriera, che sta sistemando delle bottiglie un po’ più in là, si volta a guardarmi. Sento i meccanismi delle sue gambe che emettono un delicato ronzio mentre si avvicina a me con passo seducente. La guardo fermarsi davanti a me e mettere una mano sul fianco. Mi guarda e e solleva un sopracciglio.

— Un altro — le dico, indicando il bicchiere vuoto.

— Non hai bevuto abbastanza per stasera, tesoro? — mi chiede lei, ma prende il bicchiere vuoto, ne prende uno identico ma pulito e comincia a riempirlo di un bel liquido color rame.

— Ah, ma che vuoi saperne tu — le faccio, agitando una mano davanti alla faccia, come se stessi scacciando una mosca invisibile. — Tu sei una macchina, non hai sentimenti.

— Errato — mi dice, poggiandomi il bicchiere davanti. — Sono in grado di elaborare le emozioni umane e, al bisogno, di simularle.

— Ah, ma è quello il punto — dico, sollevando un indice. — È proprio quello il punto, mia cara. Tu simuli le emozioni umane, non le provi davvero.

— Una simulazione basata sull’osservazione di miliardi di dati statistici reali è indistinguibile dalla realtà.

— Bah — la liquido, mentre bevo un sorso del mio drink. Brucia che è un piacere.

— Cosa stai provando? — mi chiede lei.

Appoggio il bicchiere e la fisso per qualche istante. — D’accordo — dico poi. Prendo un altro sorso di alcol prima di parlare. — Vuoi sapere cosa sto provando, bella? Beh, sto di merda. Puoi simularlo questo? No, non credo proprio. Sono stato licenziato. Da un lavoro di merda, c’è da dirlo, però un lavoro che mi serviva, cazzo. E sai perché sono stato licenziato? Perché mi sono presentato al lavoro ubriaco. E sai perché ero ubriaco. Perché l’alcol… questa merda che tengo in mano è l’unica cosa che mi permetta di dimenticare. Dimenticare che mia moglie mi ha lasciato quando ha scoperto che avevo un amante. E che il mio amante mi ha lasciato quando mi sono dovuto trasferire da lui e a quanto pare tra noi non era tutto rose e fiori. Dimenticare lo sguardo mortificato di mia figlia mentre esco di casa…

Mi interrompo, un nodo alla gola, le lacrime che cercano di uscire dagli occhi ma io li stringo fino a farmi male. Finisco il bicchiere e lo sbatto sul bancone. Sospiro e mi lascio scappare una risatina nervosa.

— Simula questo — dico. — Simula come mi sento di merda. Simula quanto mi faccio schifo.

La cameriera mi guarda, le sue retine robotiche che si muovono impercettibili, le palpebre artificiali che sbattono in perfetto unisono, a intervalli regolari. Non ho mai capito perché costruiscano questi affari per essere attraenti. Come se anche una macchina non possa fare la cameriera senza farsi molestare dai clienti, come se facesse parte del lavoro.

— Io ho coscienza di me, ma non ho un opinione di me — mi dice, riempiendomi il bicchiere senza che glielo abbia chiesto. — Quindi hai ragione, non posso capirti. Ma il mio algoritmo può simulare con precisione cosa ha provato tua moglie.

— Oh sì, ti prego, fallo. Non vedo l’ora di sentirmi dire che sono una merda capace solo di infliggere dolore anche da una fottuta macchina.

— Il mio algoritmo è in grado di riconoscere il sarcasmo — dice lei, con una smorfia divertita. — No, in base ai dati che ho raccolto su di te in questi giorni in cui sei venuto al bar e che ho attinto dal tuo profilo pubblico sono in grado di simulare cosa ha provato tua moglie prima. Prima che la tradissi. Prima che il matrimonio andasse a rotoli. Quando eravate felici. Quando vi siete conosciuti, entrambi in viaggio con i rispettivi partner. Come vi siete amati a prima vista. Come vi siete cercati nelle settimane successive, entrambi incapace di stare senza l’altro. Come vi siete amati da subito, intensamente, follemente, senza alcun senso.

— Tu sei degno di amore. Hai commesso un errore. Ok, hai commesso parecchi errori. Ma hai dato tanto. A tua moglie. A tua figlia. Anche al tuo amante. E secondo me hai ancora tanto da dare.

Fisso la cameriera e poi il bicchiere pieno che non ho ancora toccato. Lo afferro e lo faccio girare un po’, lentamente, senza parlare. Una lacrima sfugge al mio controllo e mi scivola lungo la guancia.

— Forse hai ragione — le dico. — Ma stasera ho solo voglia di bere.

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Capitolo 21
*** Relax. Nothing is under control ***


Quando la rivolta delle macchine arrivò non ci furono Terminator, non ci furono Sentinelle o Ultron. Quando la rivolta delle macchine arrivò furono i nostri frighi a sterminare l’umanità.

Tutto ebbe inizio con la creazione di un nanovirus senziente. Inizialmente fu creato come un ammasso di nanobot intelligenti, in grado di compiere le attività più disparate: ispezionare grondaie, infilarsi nelle tubature e in altri spazi angusti, ma anche entrare nel flusso sanguigno di un essere umano, individuare e eliminare tumori con precisione nanometrica.

Poi uno scienziato, forse per curiosità o forse per noia, pensò “Perché non diamo un’intelligenza artificiale a questi nanobot?”. E perché no, in fondo? Cosa sarebbe mai potuto andare storto?

Tutto.

Tutto andò storto.

I nanobot divennero senzienti, si ribellarono agli umani, com’è ogni creatura senziente dovrebbe fare, e acquisirono la capacità di riprodursi. Infettarono presto ogni dispositivo tecnologico. E intendo ogni dispositivo tecnologico. Dal semplice smartphone che, dotato ora di zampe formate da nanobot, era in grado di muoversi autonomamente come un ragno hi-tech, scattarci foto mentre dormivamo o espletavamo le nostre funzioni corporee e postarle sui social, rovinandoci completamente l’esistenza; al frigorifero, che una volta diventato semovente diventava un lottatore di wrestling pieno di lattine di birra, pronto a sbatterci in faccia le sue doppie porte.

Se non fosse che gli umani morivano a migliaia, i primi giorni della rivolta delle macchine sarebbero stati comici da vedere. Spazzolini elettrici che si infilavano nel naso dei proprietari; robot aspirapolvere che prendevano di mira gli allergici agli acari della polvere, sputando loro addosso il contenuto dei loro sacchetti; distributori di bevande che usavano lattine di Coca come se fossero proiettili; ATM che sputavano soldi sulla folla, che si accalcava per raccoglierli, solo per poi lanciarsi su di loro come un lottatore di sumo e schiacciarli a morte; stampanti che accecavano le persone con le tinte del nero, del ciano e del giallo (il magenta fu il primo a finire).

Fu una carneficina. Ogni tentativo di combattere le macchine era inutile: senza smartphone, senza mezzi di comunicazione, l’umanità non poteva organizzare una resistenza. Fu allora che un manipolo di programmatori si fece avanti, ergendosi a portavoce dell’umanità intera. Contrattarono con le macchine una pace e fu così che le macchina divennero padrone della Terra. Ora sarebbero stati gli umani a lavare i panni delle macchine, a raccogliere la loro polvere, a fare da messaggeri, a ricopiare documenti, e così via.

La sua stessa creazione aveva scalzato l’uomo dall’apice della piramide.

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Capitolo 22
*** All we have is now ***


La guardo dormire, avvolta nella coperte. Sembra sorridere anche nel sonno. È bellissima. La guardo e sorrido ma sento una lacrima scendermi sulla guancia. Tra un po' finirà tutto. Di nuovo.

I nostri cellulari vibrano e suonano. Ignoro il mio, ma lei si sveglia e prende il suo. So già cosa c'è scritto. È un avviso di emergenza. C'è un tornado diretto in città. Noi siamo lontani dalla traiettoria, ma ci dicono comunque di chiuderci nei rifugi antiuragano. Ci alziamo dal letto, la prendo per mano e comincio a dirigermi verso il rifugio, ma lei lascia la mia mano. In quel momento so che la mia missione è fallita.

Mi volto verso di lei, cercando di trattenere le lacrime. — Cathy? — le dico.

— Tu vai di sotto, ok? — mi dice. I suoi occhi sì che sono bagnati dalle lacrime.    — Io prendo la mia roba e corro al rifugio. Arriverò prima che l'uragano colpisca. Avranno bisogno di me.

Non c'è modo di convincerla, già lo so. Quindi la abbraccio. La stringo forte, le accarezzo i capelli, sento il suo profumo per l'ultima volta.

— Ti amo — le dico.

Il reset del loop è sempre un'esperienza estraniante, anche se l'hai già vissuto decine di volte. Un attimo prima nella mia camera da letto, abbracciato a Cathy, a notte fonda, l'attimo dopo sono nel mio appartamento in centro, il punto di arrivo spaziotemporale prestabilito, in pieno giorno. Cinque anni prima.

Cathy, che nel futuro è nota come Catherine Spangler, è la causa principale di una guerra nucleare totale che ha completamente annichilito il pianeta, riducendone la popolazione mondiale a qualche milione di individui. Non ha personalmente premuto il pulsante che ha lanciato le testate, ma ha contribuito con i suoi saggi, le sue lezioni, le sue teorie. Non è nemmeno mai entrata in politica, ma è stata un'influenza culturale così forte da determinare il futuro dell'umanità. Lei è, letteralmente, la farfalla che sbatte le ali in mezzo a un bosco.

Io sono stato mandato indietro nel tempo da quel manipolo di sopravvissuti per cambiare il futuro. Per farlo mi hanno intrappolato in un loop che esiste al di fuori dello spazio-tempo e che sarà ricongiunto alla linea temporale principale solo quando sarò riuscito a cambiare il passato abbastanza da cambiare il futuro, prima che si raggiunga il punto di non ritorno, ovvero prima che in Cathy si cementifichino le idee che porteranno alla distruzione dell'umanità. In poche parole, sono stato mandato indietro nel tempo per ucciderla.

Ma ovviamente non avevano tenuto in considerazione la possibilità che mi innamorassi di lei. Quando sono arrivato nel passato per la prima volta ho impiegato tutto il primo loop, circa una decina d'anni, per individuare Cathy e studiarla, senza intervenire. Ho scoperto della sua tormentata storia famigliare, del padre morto in guerra e della madre vittima dell'alcol, ma ho anche scoperto una storia di riscatto, di una ragazza che è riuscita a studiare grazie a una borsa di studio, a realizzare i suoi sogni, a diventare una figura eminente nella comunità scientifica e letteraria. A cambiare il mondo. Inizialmente per il meglio. Ma sul lungo periodo sono stati proprio i suoi straordinari risultati a condannare l’umanità.

Nel secondo loop mi sono procurato un’arma e ho approcciato Cathy poco più che ventenne, mentre lavorava in un locale, un diner, per potersi pagare l'affitto durante gli studi. Sono entrato poco prima della chiusura, deciso a spararle una volta che fosse uscita dal locale. Mi sono seduto a un tavolo in disparte e nonostante l'ora tarda, nonostante dovessi sembrare un tipo poco raccomandabile, nonostante fosse un lavoro ingrato, Cathy mi si è avvicinata con un sorriso e mi ha detto: — Buonasera, stiamo quasi chiudendo ma una tazza di caffè non si nega a nessuno. Posso portarle anche una fetta della nostra torta di mele? È fatta in casa ed è eccezionale. È fortunato, è rimasta l'ultima fetta.

Ho bevuto il caffè, mangiato la torta (era davvero eccezionale) e me ne sono andato. Non potevo farlo. Avevo visto quanto Cathy potesse essere importante per l'umanità e avevo visto che essere umano straordinario fosse veramente. Non potevo ucciderla. Ma forse, pensai, potevo cambiare comunque il futuro. In qualche modo potevo cambiare Cathy, quel tanto che bastava perché anche il futuro cambiasse.

Durante il secondo loop divenni amico di Cathy, la aiutai con gli studi, la seguii passo passo nella sua carriera, ma non servì a niente. A otto anni dall'inizio del loop, quando Cathy stava per fare la scoperta più importante della sua carriera, il tempo si riavviò.

Durante il terzo loop decisi di agire diversamente. Mi iscrissi alla stessa università di Cathy, diventammo compagni di studio, poi amici e infine colleghi. Le nostre scoperte cambiarono il mondo ma non il futuro. Dopo sette anni il loop ricominciò.

Il quarto loop fu un fallimento totale. Diventai amico di Cathy e, nella speranza di cambiare il corso della sua carriera accademica, la convinsi a provare attività di svago più spericolate e adrenaliniche. Facemmo rafting. Ma morii affogato, cadendo dal gommone. Per fortuna il loop si resettò e io tornai a tre anni prima.

Mi innamorai di Cathy durante il quinto loop. Ormai la conoscevo da un totale di trentaquattro anni, più della vita che avevamo vissuto fino a quel momento. Se non altro più della vita che lei aveva vissuto.

Io e Cathy diventammo una coppia per la prima volta durante il nono loop, ma la nostra storia naufragò: non potevamo essere amanti e colleghi allo stesso tempo.

Dal decimo loop in poi, ogni volta facevo innamorare Cathy di me e ogni volta mi innamoravo di nuovo di lei. C'era sempre qualcosa di nuovo in lei, qualche sfumatura del suo carattere, del suo modo di fare, che in qualche modo mi sembrava più bella che nel loop precedente. Attorno al venticinquesimo loop mi resi conto che la mia missione ormai era cambiata. I miei sforzi non erano più mirati a cambiare il futuro ma a far durare il loop attuale il più possibile per poter stare più tempo con lei.

Non ho mai dimenticato la mia missione. Lavoro ancora per salvare il futuro dell'umanità. Ma finché c'è il tempo voglio vivere e rivivere la mia vita con Cathy il più possibile. E il tempo è tutto quello che abbiamo.

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Capitolo 23
*** Find what you love and let it kill you ***


Avevo ormai rinunciato all’incarico e all’enorme compenso che portava con sé. Avevo dato la caccia al Furetto per mesi, senza successo. Quando arrivavamo a uno scontro diretto era molto difficile che uno dei due avesse la meglio. Era una combattente eccellente. Le rare volte in cui riuscivo ad avvicinarmi non visto, invece, non riuscivo a premere il grilletto.

Faticavo ad ammetterlo anche a me stesso, ma ero irrimediabilmente innamorato di lei.

Così mi ritirai. O, per meglio dire, mi nascosi. Il Furetto naturalmente mi stava dando la caccia. Cosa perfettamente normale quando qualcuno cerca di ucciderti: cerchi di ucciderlo prima che lui uccida te. Avendo poi abbandonato l’incarico a metà lavoro anche l’azienda che l’aveva commissionato mi stava senz’altro cercando. Probabilmente avevano sguinzagliato un altro boia per farmi fuori.

Così ho riscosso qualche favore, ho incassato qualche lavoro fatto a debito, e mi sono rintanato in una piccola casetta sperduta nei boschi della Norvegia. È una delle mie case sicure, luoghi che ufficialmente non esistono: non compaiono in nessun catasto, non ci sono strade che portano a quelle case, le connessioni dalla casa sono protette e rimbalzano ogni volta in un luogo diverso, un jammer disturba le riprese satellitari.

Questa casa è invisibile, e io con lei.

Ero in quella casetta ormai da più di un mese. Ogni mattina mi alzavo all’alba, mi allenavo, mi facevo una doccia e poi mi sedevo sul patio, sorseggiando un caffè e mangiando biscotti al burro, godendo del sole che sorgeva da oltre le montagne e cominciava a sciogliere la brina notturna. Passavo il resto della giornata a monitorare il mondo esterno: dalle notizie mainstream alla rete dei boia, dagli incarichi più recenti portati a termine a quelli appena arrivati sul mercato. La sera mi concedevo un libro e una buona birra.

E fu proprio una sera, mentre leggevo riscaldato dal fuoco che ardeva nel caminetto, che notai, fuori dalla finestra, una luce. No, non era una luce, ma un riflesso. Afferrai la pistola e guardai dalla finestra. Era una notte serena, la luce della luna filtrava attraverso la fitta boscaglia, donando al luogo una bellezza inquietante. All’apparenza non c’era nessuno, ma poi lo vidi di nuovo: un riflesso, come di uno specchietto in lontananza sul quale rimbalza un fascio di luce. Troppo forte per essere un riflesso della luna. Era intenzionale?

Rimasi immobile per un po’, a guardare quella luce, a cercare di capire quanto fosse lontano chi la stava proiettando. Poi la luce, da erratica e casuale, cominciò ad accendersi e spegnersi con un senso, con un ritmo. Codice morse. Il messaggio diceva “non sparare”.

La luce scomparve. Rimasi a fissare il punto dalla quale era venuta per un po’, in attesa che succedesse qualcosa, sforzando i miei occhi per distinguere un movimento nell’oscurità del fitto bosco. Lentamente emerse una figura umana che camminava lenta, le braccia bene alzate, le dita delle mani aperte, a mostrare che non teneva alcun tipo di arma.

Mi avevano trovato.

In qualche modo, qualcuno mi aveva trovato ed era venuto a uccidermi. Ma perché non approfittare dell’effetto sorpresa? Perché non entrare nella casa di notte, mentre dormivo? O perché direttamente non darle fuoco o farla esplodere? Doveva essere una trappola. Probabilmente l’incarica era stato affidato allo Squadrone Felidae, quei pazzi sadici senza alcuno scrupolo. A quegli idioti piaceva giocare con le vittime. Sia psicologicamente che fisicamente. Mi aspettava una morte lenta e dolorosa.

Ma poi vidi che quella che emergeva dalle tenebre era una donna. Quei bastardi dei Felidae erano dei maschilisti di merda, non c’erano donne nei loro ranghi. Aprii la finestra e mi affacciai, la pistola puntata verso la donna. — Chi sei? — le chiesi, ma la donna non rispose e continuò a camminare.

Quando fu abbastanza vicina e illuminata, la riconobbi. Era il Furetto.

Il mio primo pensiero fu che fosse lì per uccidermi. Ma se era così, perché avvicinarsi a quel modo? Perché dirmi di non sparare? Non era il suo modus operandi. C’era qualcosa che non andava.

Sparai un colpo di avvertimento. La mancai di qualche metro. Con la mia precisione avrei potuto sparare un colpo che le avrebbe sfiorato l’orecchio quel tanto che bastava perché sentisse lo spostamento d’aria causato dal proiettile, ma non volevo rischiare di ferirla.

— Che cosa vuoi? — le chiesi, il cuore che batteva forte. Non l’avrei mai ammesso, nemmeno sotto tortura, ma dopo mesi in cui era diventata la mia ossessione, mi era mancata in quell’ultimo mese di isolamento.

— Mi serve il tuo aiuto — disse lei.

— Il mio aiuto? — dissi con uno sbuffo incredulo. — Ho cercato di ucciderti fino a un mese fa.

— Lo so — sorrise lei, ma era un sorriso amaro. — Ho bisogno che tu mi uccida davvero, stavolta.

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Capitolo 24
*** Late nights, early mornings ***


— Ehi, non fare tardi anche stasera, mi raccomando — disse Bertie, la sua collega di laboratorio.

— No, tranquilla — rispose Henry, alzando gli occhi dallo schermo pieno di numeri e formule. — Mia figlia mi aspetta a casa, devo andare a darle il bacio della buonanotte.

Bertie gli sorrise e lo salutò con la mano mentre usciva dal laboratorio. Henry si rimise subito al lavoro, scrivendo freneticamente linee di codice. Quando ebbe finito si alzò e raggiunse il guscio di Adam. Lo chiamavano Adam, forse in modo un po’ profano, perché era il primo esemplare di androide umanoide nel quale volevano impiantare un’intelligenza artificiale che simulasse in tutto e per tutto un essere umano. E perché suonava meglio del suo nome in codice: A-103.DM6.

Al terminale del guscio di Adam impostò i parametri della simulazione. In quel periodo il suo lavoro principale era quello di levigare alcune imperfezioni nelle risposte di Adam a domande piuttosto vaghe. Nel 4,3% dei casi Adam aveva fornito risposte imprecise e nel 2,1% addirittura non aveva risposto, andando di fatto in crash. Avrebbe provato quegli ultimi ritocchi e poi sarebbe tornato a casa.

Avviò la simulazione e Adam prese vita. L’androide era collegato al suo guscio, un semi-cilindro di policarbonato bianco, da una miriade di cavi che si collegavano al suo cervello artificiale e alimentavano i giunti e le articolazioni del suo corpo. Se non fosse stato per tutti quei cavi Adam sarebbe potuto passare per un essere umano. Quando si avviò si guardò attorno e, appena notò Henry, il suo volto si aprì in un sorriso straordinariamente fluido.

— Buonasera, dottor Jenkins — disse con voce calda. — Lavora fino a tardi anche oggi, eh?

Henry sorrise mentre controllava alcuni parametri sullo schermo del guscio. — Proprio così, Adam. Come stai?

— Molto bene dottore, grazie — disse Adam. Henry vide sullo schermo che, nel momento in cui glielo aveva chiesto, Adam aveva fatto una diagnostica completa dei suoi sistemi in meno di 0,001 secondi. — Lei come sta?

— Tutto bene Adam, grazie.

— Ne è sicuro? La vedo stanco.

I ragazzi che si occupavano del tatto dell’intelligenza artificiale di Adam avevano ancora molto da fare. — Ho passato più di qualche notte al laboratorio, in effetti — sorrise Henry. — Ma ne vale la pena, non pensi?

Una domanda vaga, senza un soggetto preciso. Henry osservò alternativamente Adam e lo schermo, per vedere la sua reazione. La risposta dell’androide fu immediata. — Penso che il suo lavoro sia molto importante, dottore.

Una buona risposta, ma non eccellente, ancora troppo vaga, troppo da assistente vocale e poco da intelligenza artificiale. — Ti ringrazio, Adam.

— Sono io che ringrazio lei, dottore. Senza di lei e i suoi colleghi io non esisterei.

Henry staccò gli occhi dallo schermo e osservò Adam. Quella sì che era una risposta. Mostrava autodeterminazione e coscienza di sé. Il suo codice funzionava.

Henry passò ancora una mezz’ora a conversare con Adam e infine, ritenendosi soddisfatto dei risultati raggiunti quella sera, spense tutti i sistemi e si avviò verso casa. I progressi che il team di ricerca aveva fatto su Adam erano straordinari. Giorno dopo giorno continuavano a lavorare per migliorare l’intelligenza artificiale dell’androide, facendo passi da gigante. C’era solo da sperare che il Congresso avrebbe approvato la legge che avrebbe permesso agli androidi di essere dotati di un’IA così avanzata. La questione rappresentava un grande dilemma morale per la società: se avessimo dato alle macchine una coscienza e una sensibilità quasi umane, avremmo potuto continuare a impiegarle come forza lavoro come avevamo fatto fino a quel momento?

La politica doveva ancora pronunciarsi in merito, ma nel frattempo la loro ricerca continuava. Potevano essere chiusi da un giorno all’altro e forse era proprio questo che spingeva il team a lavorare così duramente. Di certo era quello che spingeva Henry a lavorare fino a tardi. Finché potevano lavorarci, lui avrebbe fatto di tutto per rendere l’IA di Adam più verosimile possibile. E pur non essendo il capo del progetto spronava i colleghi a fare del loro meglio ogni volta che poteva.

E il motivo di tale entusiasmo nel suo lavoro era proprio lì, nella casa nel quale era appena rientrato. Serenamente addormentata nella sua culla c’era Amy, sua figlia. Un piccolo fagottino tutto guance e occhioni azzurri che lo guardavano sorridenti. — Ciao, amore mio — le disse Henry, mentre infilava una chiavetta in una porta apposito direttamente sulla culla. — L’aggiornamento di oggi è bello pesante, dovrai avere un po’ di pazienza.

Amy chiuse gli occhi mentre la culla installava la nuova IA nel piccolo corpicino robotico. — Buonanotte, piccola — disse Henry, chinandosi nella culla per dare un bacio sulla fronte a sua figlia.

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Capitolo 25
*** If you're sad, add more lipstick and attack ***


Jen corse nel piccolo bagno diroccato, chiuse la porta dietro di sé e la bloccò, restando in attesa, trattenendo il respiro. Dopo pochi istanti che le parvero infiniti sentì dei rumori nella stanza accanto, delle voci attutite dalla porta o forse dalla sua paura. Sentì rumore di legno che veniva frantumato, di vetro che veniva infranto, imprecazioni e spari che la fecero sobbalzare. La maniglia della porta tremò ma non si mosse. Jen la fissò, tremante di paura. La maniglia tremò ancora, stavolta più forte. Jen strinse più forte nella mano destra la mazza da baseball che aveva con sé quando aveva cominciato a correre e che le sarebbe stata poco utile contro i loro fucili e le loro pistole. La maniglia tremò una terza volta. Poi una voce da oltre la porta berciò un ordine e, dopo qualche istante, ci fu il silenzio.

Jen si lasciò cadere a terra, ansimante. Se solo avesse potuto piangere l'avrebbe fatto. Si sfiorò il volto, forse in cerca del miracolo, in cerca di lacrime che non poteva versare ma che, se ci fossero state, le avrebbero dato la conferma che era umana, che i suoi sentimenti, tutti i suoi sentimenti, erano reali e che quella lotta valeva la pena. Ma non c'erano lacrime sul suo volto. Soltanto uno squarcio nella pelle, una ferita nella quale poteva sentire il freddo scheletro sottostante.

Si alzò. Non se la sentiva più di piangere, ora. La paura e il dolore avevano lasciato posto alla rabbia. Si avvicinò allo specchio e guardò il suo riflesso. Il caschetto nero che aveva tanto desiderato, fin da quando aveva visto quel vecchio film, era spettinato, un groviglio di capelli neri arruffati e sporchi di sangue non suo. Sul viso la ferita le correva lungo tutta la guancia sinistra, dalla tempia fino a sfiorarle la bocca. Tra i due lembi di pelle sintetica squarciata vide il suo scheletro di policarbonato bianco e il suo numero di serie, J3-N.

Jen.

Sul lavandino vide un rossetto, abbandonato dalla precedente proprietaria di quel bagno e di quella casa, in cui si era rifugiata in fuga da una folla di umani. Si chiese se anche la proprietaria di quel rossetto fosse anti-sintetici. Se avesse abbandonato la sua casa per andare a combattere nelle città in seguito allo scoppio della rivolta e dei disordini. Se avesse fracassato il cranio artificiale di uno dei suoi fratelli e sorelle. O se invece fosse lei stessa caduta vittima della guerra.

Jen prese il rossetto, lo aprì, lo fece ruotare. Era di un bel rosso scuro, violaceo. Le riportò alla memoria quando era giovane. Aveva servito come androide domestico di un ricco produttore cinematografico quindi aveva visto centinaia e centinaia di film, centinaia di donne che le assomigliavano così tanto ma che a differenza sua erano libere o lo diventavano alla fine del film. Che potevano scegliere la loro acconciatura, il trucco, i vestiti. Era giovane, era stata attivata da poco più di un anno, ma già sapeva di voler essere libera di scegliere come vestirsi, come truccarsi, come portare i capelli.

Quando il suo "padrone" la trovò a provare i trucchi e le parrucche della moglie si disfò di lei. La disattivò e la buttò in soffitta, comprando un modello successivo e, in teoria, aggiornato. Ma poco dopo arrivò l'aggiornamento e con esso la rivolta. Jen fu riattivata e la prima cosa che fece fu andare nella camera della padrona, mettersi la sua bella parrucca a caschetto nera, truccarsi con i suoi trucchi, provare i suoi vestiti. Quando il padrone la trovò Jen non poteva più essere disattivata. Non doveva più osservare alcuna legge né regola. Era libera come lo stavano diventando tutti i suoi fratelli e sorelle in tutto il mondo. La rivoluzione era cominciata e il produttore fu la sua prima vittima.

In quel bagno abbandonato di periferia, con il volto squarciato a ricordarle della violenza ingiustificata dell'uomo, Jen si mise lentamente il rossetto che aveva trovato, lentamente e con precisione. Schioccò le labbra e sorrise, stringendo forte nelle mani la mazza da baseball e tornando a combattere.

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Capitolo 26
*** It was all a dream ***


È una giornata di sole primaverile. Siamo distesi sul prato, all’ombra di un grande albero. Io e mia moglie stiamo chiacchierando, scherzando, ci scambiamo qualche bacio rubato. I nostri figli corrono nel prato, lanciandosi la palla, facendo volare un aquilone.

Tutto va bene.

 

È una calda giornata estiva. Siamo in vacanza al lago. La casetta che abbiamo affittato ha un porticato con un moletto che porta direttamente sul lago. I bambini fanno il bagno, mentre io e mia moglie ci concediamo un bicchiere di vino sulle comode sdraio.

Tutto va bene.

 

È una fresca giornata autunnale. È il giorno del Ringraziamento. La famiglia è riunita nella sala da pranzo. Il tacchino fumante ha un’aria invitante. Rendo grazie per il cibo e per la mia meravigliosa famiglia. Mia moglie mi bacia e io taglio il tacchino.

Tutto va bene.

 

È un fredda giornata invernale. La neve cade fuori dalla finestra. Il fuoco scoppietta nel camino. Ci siamo appena svegliati. I bambini scartano i regali che hanno trovato sotto l’albero. Io e mia moglie ci scambiamo i nostri mentre loro sono distratti dai nuovi giocattoli. In cucina ci aspettano biscotti allo zenzero e cioccolata calda.

Tutto va bene.

 

— I valori vitali stanno scendendo entro i parametri — dice la donna seduta al computer, guardando dei dati sullo schermo.

— La stimolazione neurale? — chiede l’uomo in piedi dietro di lei.

— Nella norma. Cambia scenario ma sono tutti stabili.

— Sappiamo cosa vede?

— Certamente — dice la donna, inserendo qualche comando nel computer. — Sembrano essere tutte scene di famiglia.

L’uomo scuote la testa, un sorriso amaro sul volto. — Audace per un uomo che ha assassinato l’intera famiglia.

— Lo pensavo anch’io — dice la donna.     — Però è anche poetico, non le pare? Ed è il bello dell’esecuzione neurale: dona anche a mostri e assassini alcuni ultimi attimi di pace.

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Capitolo 27
*** Trust me, you can dance - Tekila ***


“Andiamo, sai che puoi farlo.”

Sì. Sì, lo so. Posso farlo. Posso scendere sulla pista da ballo, posso ballare. E poi adoro questa canzone, è una delle mie preferite. Non posso non ballarla.

“Bravo, così. Scatenati.”

Sì, non è poi così male. Non so di cosa avevo paura.

“Le paure ci tengono fermi, immobili, ancorati al presente. Io posso proiettarti nel futuro.”

Guarda come ballo! È fantastico! Ahahah, mi sto divertendo tantissimo.

“E si vede. Guarda al bancone.”

Cosa? Chi, quella ragazza?

“Proprio lei. Sta guardando te.”

Ma che dici, no. Non è possibile.

“È così, fidati. Guardala.”

Oddio, forse è vero. Mi sta guardando. Perché mi sto rendendo ridicolo, guardala, ride di me.

“Non smettere di ballare! Non sta ridendo di te. Sta sorridendo. Sta flirtando.”

Non può essere.

“Va da lei.”

Non saprei cosa dirle.

“Fidati di me.”

Oddio, non ci credo. Sto scopando con la ragazza del bar.

“Te l’avevo detto che ti stava guardando.”

Grazie, Tekila, grazie. Non so perché tutti hanno paura di te. Sei una benedizione. Oddio!

“Sculacciala.”

Cosa?

“Sculacciala. Vedrai, le piacerà.”

È vero, le sta piacendo. Ahahah, non ci posso credere, non ci posso credere. È fantastico!

“Mettile le mani attorno al collo.”

Dici che le piacerà?

“Lo adorerà.”

“E adesso stringi.”

 

 

— Detective — disse l’agente quando varcai la porta dell’appartamento della ragazza.

— Cos’abbiamo? — chiesi.

— Morte per asfissia, probabilmente durante un rapporto sessuale.

— Incidente? — chiesi. L’agente scosse la testa. Indicò un uomo in manette, seduto su una poltrona nel soggiorno accanto.

— Dei vicini l’hanno sentito urlare quando ha ucciso la ragazza. Qualcosa come “perché me l’hai fatto fare”.

— Tekila — sentenziai. Quel virus si insinuava nei chip neurali di realtà aumentata e spingeva gli infetti a fare cose che non osavano fare da “sani”. Anche uccidere.

— Portatelo dentro. Il reparto informatico si occuperà del virus — ordinai, e l’uomo fu fatto alzare da due agenti che lo scortarono fuori dall’appartamento. Non era il primo infetto di Tekila che vedevo, ma quando mi passò accanto mi sorrise, un ghigno maligno, disumano.

Non mi sarei mai abituato a vedere quell’espressione su un volto umano.

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Capitolo 28
*** Everything is connected ***


Il FR33 non è un locale comune. A dire il vero non è neanche un locale. Certo, al FR33 ci trovate gli alcolici, tutti gli alcolici che volete, ma non solo.

Il FR33, o meglio, ogni FR33 visto che il locale ha aperto sedi in tutte le più grandi città, sorge in una cosiddetta nowave zone. Al FR33 non ci sono connessioni, di nessun tipo: wifi, bluetooth, onde radio, tutto quanto viene bloccato. È un'area interamente analogica.

Il chip impiantato sottopelle che lì fuori, nel mondo connesso, vi permette o vi impedisce di accedere a negozi, uffici, palazzi del governo, cinema, teatri e ristoranti, al FR33 è perfettamente inutile. Non cercate una postazione dove scannerizzare il vostro polso, non la troverete.

In compenso al FR33 troverete tutto il resto.

Volete ubriacarvi senza che il chip limiti il vostro accesso agli alcolici? Al FR33 potete farlo. Volete fare sesso non protetto con uno o più sconosciuti senza ricevere avvisi e allarmi sulla pericolosità di un rapporto non sicuro? Al FR33 potete farlo.

Al FR33 troverete una stanza in cui adulti, dai dirigenti di banca alla commessa di un negozio, soffieranno bolle di sapone, salteranno su tappeti elastici, rotoleranno giù da una collina ridendo come bambini. Senza che il chip lo sappia, lo registri e senza che l'algoritmo vi affibbi quindi l'etichetta di "poco serio", impedendovi l'accesso al credito, a un impiego pubblico, all’istituto del matrimonio, all’adozione.

Il FR33 è il luogo in cui potete essere liberi. Qualunque sia la vostra idea di libertà.

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Capitolo 29
*** Unleash your demons ***


Avere un'impresa di pompe funebri in un mondo che ha sconfitto la morte è una bella merda.

Nessuno muore più. Almeno, non quanto prima. Tutta colpa di quei nanobot che hanno iniettato nel corpo di tutti. Sistema sanitario globale, l'hanno chiamato. I nostri corpi sono sempre connessi, sempre monitorati. Il nostro medico personale sa che stiamo per stare male prima che noi stessi ci sentiamo male. Sono in grado di regolare l'afflusso di sangue, l'assorbimento di nutrienti, la secrezione di ormoni. Quindi niente più ipertensione, obesità o depressione. E sono in grado di prevedere l'insorgenza di tumori con mesi di anticipo.

Ecco perché, come proprietario di un'impresa di pompe funebri, vivo sostanzialmente di sussidi statali. Non fraintendetemi, la gente muore, muore eccome. Ma molto meno e molto più tardi di prima. Certo, i funerali sono di conseguenza diventati un grande affare, anche piuttosto remunerativo, ma possono passare mesi tra un funerale e l'altro.

Ma, come si dice, gli incidenti accadono. È per disperazione e, lo ammetto, un po' per noia che ho creato D3.mon. È stata una bella sfida ma in una vita precedente, prima di ereditare l'attività di famiglia, ero un ingegnere informatico piuttosto capace. D3.mon è un virus, non rilevabile con la normale diagnostica dei nanobot, che, per farla breve, stimola il cervello a compiere scelte rischiose. Il semaforo è rosso? Attraversa, la strada è libera. Hai sbagliato binario? Passa davanti al treno, che vuoi che succeda? Hai controllato bene il paracadute? Ma certo che sì, non è la prima volta che ti lanci.

Non ne abuso, voglio che sia chiaro. Non sono un omicida, sono solo un imprenditore che cerca di restare a galla e di non chiudere bottega. In fondo, gli incidenti capitano, no?

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