Autres temps

di Ciuscream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ti sta guardando Notre-Dame ***
Capitolo 3: *** Necessità ***
Capitolo 4: *** Ninfea tra le ninfee (parte prima) ***
Capitolo 5: *** Ninfea tra le ninfee (parte seconda) ***
Capitolo 6: *** Bocche della verità ***
Capitolo 7: *** Frusci di serpi (parte prima) ***
Capitolo 8: *** Frusci di serpi (parte seconda) ***
Capitolo 9: *** Occhi chiusi, cuore aperto ***
Capitolo 10: *** Monete di scambio (parte prima) ***
Capitolo 11: *** Monete di scambio (parte seconda) ***
Capitolo 12: *** Vecchi sogni (parte prima) ***
Capitolo 13: *** Vecchi sogni (parte seconda) ***
Capitolo 14: *** Vecchi sogni (parte terza) ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Autres temps

PROLOGO

[#writober, 2ott. – respiro]

 

Daphne le ha detto che, ormai, ha perso smalto; Pansy ha messo su una smorfia strana – un miscuglio indefinito di sufficienza e terribile consapevolezza – poi è passata oltre.

Se lo è chiesto spesso se, davvero, finire a fare l'amante significhi aver perso quell'altezzosa fierezza di cui si è sempre fatta vanto. Oppure è stata, dopotutto, una strategia come un'altra per ottenere, con poco sforzo, quello che le è sempre stato negato. Che cosa sia quello che le è sfuggito dalle mani, quello che ancora brucia sulla lingua, ancora non lo ha ben compreso. Forse, voleva soltanto una vendetta su Draco per quella scelta scellerata di sposare una Greengrass, la più sbiadita, o, forse, rincorreva un'attestato di vittoria su Narcissa, che le ha sempre posato addosso occhiate poco lusinghiere.

 

Mentre il sole tiepido di settembre le solletica le gote, però, la risposta le sembra poco rilevante.

 

Respira. L'aria dell'autunno sgomita per rimpiazzare l'afa dell'estate e un pizzicore fresco le invade il petto ed i polmoni, allargandoli. Rue Cortot è, per lei, una zona franca e Montmartre è il piccolo pezzo di mondo che, da subito, ha sentito accoglierla, senza se e senza ma. Non ci sono giudici e giudicati, sulle pietre che hanno visto gente sfilare verso lo Chat Noir, hanno visto modelle scoperte d'ogni cosa, protette soltanto dalla loro pelle, nude di fronte all'immensità di due occhi che tutto colgono, per poi riversarlo sulla tela. Nei sentieri acciottolati, nei fili delle edere che si arrampicano sulle case e le nascondono agli occhi degli altri, lei si sente a casa.

Per questo, Lucius ha scelto quella strada, per incastrare tra le case Babbane un piccolo appartamento, con geranei colorati al balcone e un tenue color avorio a dipingere le pareti.

Per questo, Lucius le ha chiesto di restargli accanto, anche se nell'ombra, e ha cercato di comprare quel sì con ogni punto debole di Pansy conosciuto. Quella strada, quei colori, quell'odore tutto tipico di un luogo intriso di storia antica e indimenticata, d'arte e passato, di bellezze senza tempo e con tutto il tempo del mondo addosso. Le ha posato in mano le chiavi, le ha detto di seguirla, le ha riversato nel respiro il suo respiro e, senza suppliche o preghiere, le ha donato uno stralcio di magia, che della magia però non ha nulla.

E, Pansy si è detta, il suo smalto forse l'ha perso davvero. Perché, per dire di sì, per cedere, per permettere alle mani di lui di posarle addosso le prime di milioni di carezze, ha impiegato meno di un secondo, un brevissimo battito di ciglia, un respiro che si è mozzato e in cui l'aria ha perso la strada di casa.

Ha detto sì e, adesso, un pezzo di Rue Cortot è sua. Solo sua.

 

Il cielo è terso, il respiro pulito, i battiti regolari. Non c'è niente per cui avrebbe dovuto privarsi di tutto questo – non l'orgoglio, non vetuste e ormai anacronistiche regole sociali. Il rumore delle sue scarpe sull'acciottolato, il silenzio tutt'intorno denso come panna, le danno ragione. E lei, con un sorriso molto meno amaro, risale la strada. Gli occhi si perdono tra le piccole margherite che sbocciano contro ogni logica, cancelli di legno sbeccati e ridipinti di un verde acceso e così lontano dalla regalità della Parigi che dorme molto più in basso. Ci sono case piccole e finestre piccole, gatti grandi, invece, e glicini ormai sfioriti che aspettano di tornare alla gloria. I suoi occhi vengono sempre rapiti dalla stessa cosa, però, un giorno dopo l'altro, come se non avesse studiato ogni piccolo angolo e cono d'ombra di quella struttura rimodernata alla bell'e meglio.

La vecchia casa di Suzanne Valadon – quell'immensa donna di cui ha percorso e ripercorso la storia migliaia di volte – si frappone fra lei e il sole, salvandola da raggi tiepidi ma invadenti. Alza gli occhi su quello che ormai è un museo, sulle crepe alle pareti coperte di stucco, sul passato rivestito da una bella passata di vernice. Le gambe le tremano appena, se pensa che la modella di tutti gli Impressionisti – ventre in cui un pittore è nato, viso che di dipinti ne ha fatti nascere a decine, mano che ha mosso colori su tante tele – lì dentro viveva e, adesso, lei ha la fortuna di dimorarle accanto, come se fossero due vicine, due amiche, due che hanno tanto da raccontarsi – della passione, dell'arte, dell'essere amanti sempre alla ricerca di qualcosa di più.

 

Varca la soglia, come ogni volta che passa lì davanti. Non si sofferma sulle indicazioni per turisti ignari, sicuramente incapaci di cogliere la grandezza di così tanto. È sempre la stessa routine: Pansy sorride alla cassiera che le chiede se vuole acquistare un biglietto d'ingresso, le annuisce, senza conoscere nemmeno come siano le fattezze delle inutili monete Babbane, mima con le labbra un Confundus e sfila dietro la porta che dà sul giardino, mentre la giovane donna che le sorrideva prende a trafficare con qualcosa di cui si è ricordata all'improvviso.
Entra nel piccolo giardino che è sempre uguale e sempre diverso ogni giorno, pieno di occhi e visi nuovi, stupiti, stupidi. Questa mattina ospita qualche Babbano dalle grandi macchine fotografiche, due bambini che giocano coi rispettivi cappelli, gente che osserva rapita le aiuole grandi e curate, di cui ormai conosce ogni angolo. Non si sofferma su nulla in particolare. Scivola, come se le gambe andassero da sole, verso il suo posto preferito, verso quella che per lei è calamita a cui non riesce a fare resistenza 
l'altalena che Renoir ha reso eterna, con pennellate che non riesce a non credere intrise di magia  e si stringe appena nell'abito troppo leggero per quell'aria rinfrescata, con un brivido che forse non è solo figlio di temperature che calano a picco.

Respira, ancora. C'è così tanto in quel poco spazio – la vigna, la casa di Suzanne, la sua stanza al piano di sopra, i suoi quadri, la sua fotografia, così innaturalmente inanimata. Quelle stanze che ogni giorno ripercorre, rapita, attratta, risucchiata.

La vedesse Lucius adesso, persa com'è nei meandri Babbani di una vita fa, la prenderebbe in giro per la sua ingenua capacità di sorprendersi, per riconoscere così tanto in cose così prive di magia. Ma adesso lui non c'è e Pansy non pensa. Non pensa e respira. Parigi sembra lontana e vicinissima, un po' come quel suo così desiderato amante.
Se li sente impressi addosso, entrambi, adesi fin dentro le cellule; allo stesso tempo, gli sembrano lontani mille ere, stesi ai suoi piedi, sotto il suo cuore così poco sacro.

Respira, Pansy. E non riesce a non pensare che tutto, intorno a lei, sembra fare lo stesso.


 



Note: ciao a tutti! Non so come sia nato questo piccolo “prologo” e, confesso con sincerità, non so dove andrà di preciso a parare questa storia. Ma complice un recente viaggio a Parigi e la lontananza da questa coppia da troppo tempo, sono arrivata a partorire questo. Ho balzato alla grande il primo giorno di Writober e mi sento sinceramente incapace adesso di seguire un calendario giornaliero. Spero di riuscire almeno a postare nei giorni pari, come oggi, e sperare che qualcosa ne esca fuori – seppur sicuramente folle e confuso. Grazie di essere arrivati fin qui, comunque! 
Vi abbraccio

 

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Capitolo 2
*** Ti sta guardando Notre-Dame ***


TI STA GUARDANDO NOTRE DAME

[#writober, 4ott – occhio]

 

La Senna scivola nera e placida sotto di loro, come un fiume di inchiostro senza foce, costellato di riflessi di luci e di insegne, a screziare una superficie altrimenti spettrale. Lucius osserva quella città, osserva Parigi, osserva quell'acqua e qualcosa lo aggrappa – un fastidio –, quello che avverte sempre quando mette il piede in fallo, quando il terreno è meno stabile del previsto. Si ritrova ad ammetterlo, controvoglia, che di quei luoghi, di quegli odori, di quel pizzicore acre di qualche vicolo o del profumo intenso del  marché aux fleurs, lui non si sente padrone. Si muovono le parole, i gufi, i galeoni – lui no. Lui è ancorato al Manor, alla sua vita, alla sua famiglia, alla campagna nebbiosa e mai scossa, stabile. Per quello, essere lì – in quella città eterna e mutevole, con quella donna sempre diversa e sempre uguale a quella che ha conosciuto bambina – raddoppia l'acredine per quella sua incapacità di trovare un punto fermo fuori dalla sua Inghilterra, fuori dai rapporti che ha costruito per anni, fuori – si dice – da un'abitudine sempre uguale a sé stessa, che nemmeno la guerra è riuscita a distruggere davvero

 

Non è padrone di Parigi, meno che mai lo è di Pansy. Una voce sinistra gli dice che non lo è più nemmeno di casa sua e di sua moglie.

E, a non essere padrone, Lucius non è mai stato abituato.

 

Sente quei pensieri sulla lingua, nel punto deputato a riconoscere l’amaro. E lì rimangono adesi, con forza. Tutto lo scuote: l'aver tradito Narcissa, per la prima volta. Averlo fatto con una ragazzina che ha visto sbocciargli davanti agli occhi (si odia per quei pensieri così inopportuni). Lo scuote aver fatto tutto quello in suo potere per farle dire di sì.

Parigi, una casa incastrata a Montmartre, valanghe di promesse vomitate. Sente il rosone di Notre Dame fissarlo, come un occhio che tutto sa e tutto vede. Si sente penetrato fin dentro le cellule. Lo vede là, fiero e ferito, come si sente lui. È lieto soltanto che lei non si stia accorgendo di quel suo macchinoso marciare (e marcire) di pensieri, perché lui se li sente dipinti addosso, da tutte le parti, scritti a caratteri cubitali dentro gli occhi dalle iridi dello stesso colore di una pagina tutta da scrivere.

Pansy – che di solito è chiusa in quel suo bozzolo di bellezza sfrontata e granitica – adesso le sembra molto più fluida, sciolta, come vittima di un incantesimo che nessuno – oltre quel luogo – avrebbe potuto evocare; non il più potente mago, non la più allagante pozione. La vede sfilare di fronte a lui, il naso all'insù, occhi che ogni tanto si voltano all'indietro a cercarlo, ad inchiodarlo sul posto. È come se fosse rinata, strappata fin dalle radici da un ambiente malsano, da un terreno bagnato di delusioni, concimato a ricordi di quella che era e non di quella che è. Della ragazzina frivola che, per svolazzare dietro a Draco, ha perso tutto di sé, Pansy adesso ha poco o nulla. Lo sente, però, che ogni tanto brucia; lo sente quando lo osserva, quando i suoi occhi si perdono sopra i suoi lineamenti nella penombra, e riesce così a pensarli più giovani, a pensarli diversi. Ma poi l'alba cancella la notte a colpi di pennellate potenti, quelle di quei suoi pittori, e Pansy torna a sorridergli per quello che vede davvero e non per quello che ha immaginato, con i sensi di colpa anestetizzati dal buio.

 

Si riscuote, quando lei gli posa la mano su un braccio e lo tira piano verso la riva opposta. Lo guarda e ride, ancora, di quella bizzarra abitudine Babbana di dare dei colori ai comandi: rosso significa fermo, verde significa andare. Gli ha fatto notare, con un'espressione fanciullesca e buffissima, che, anche per quegli stupidi dei Babbani, i colori Serpeverde battono quelli Grifondoro.

Lucius ha sorriso a sua volta.

Per qualche motivo malsano, quelle espressioni così leggere, spensierate, giovani, gli fanno venire voglia di averla ancora di più. Di macchiarne gli anni, di prendersela, di imprimere il suo nome in ogni angolo di pagina di quella vita ancora tutta da scrivere, mentre la sua ormai ha già scorso troppi capitoli. A volte, gli sembra che, in quella storia che porta il suo nome, non ci sia più nulla da dire e nulla ci sia da rifare.

Poi le unghie laccate di rosso di Pansy gli sfiorano il mento, i suoi occhi nerissimi e letali prendono al lazo i suoi, e Lucius si dimentica tutto, anche di aver pensato.

 

*

 

La figura di Pansy è stagliata lungo quell'orizzonte costellato di luci e brulicante di persone: è un'ombra nera e sottile, lucida e tagliente come una ghigliottina. La Conciergerie dietro di loro sembra sorridere, come lui, di quella metafora così azzeccata. Ha le guance leggermente arrossate da un vento leggero ma insidioso, che le accarezza i capelli attorno alle guance e le incornicia in un andirivieni morbido. Ha le labbra leggermente gonfiate dal freddo, pronte a spaccarsi se non curate per tempo.

 

La guarda, la vuole. I suoi occhi su di lei sono mani, ed unghie, e labbra. Sono incantesimi immobilizzanti, sono serpi.

 

Si arresta; interrompe quei troppi passi che lo ha costretto a mettere uno dietro l'altro, lusingandolo con fiumi di parole sulla bellezza che si può scorgere in ogni angolo, tra quelle strade parigine. Ma adesso si sente improvvisamente sordo a tutto quel tessere. La trattiene piano, con forza esigua, stringendo la pelle morbida dell'avambraccio. Si ritrova ad accarezzarla con il pollice, senza accorgersene; si ritrova a imporle – cauto com'è solo con lei – di fermarsi, di fermare quel suo perdersi, di salvarlo dalle onde che gli provoca addosso quel fiume piatto, dal disorientamento che quelle strade estranee gli cuciono addosso.

 

“Pansy”

La chiama con quella sua voce dura e ruvida, speciale, particolare, quella che a volte fa fatica anche a riconoscere propria, destinata solo a lei. Pansy si volta leggera, la lingua che – sbadata – le solletica un angolo delle labbra, gli occhi puntati su un tavolinetto dalla candela che vomita cera oltre il bordo e due menù scritti in una lingua che non saprà mai comprendere.

“Torniamo a casa?”

 

Lei lo guarda interrogativa, per quel tono che non trasuda propriamente una domanda. Pianta gli occhi nei suoi e riconosce, dentro la pupilla, un'urgenza che spintona e che la allarga. Ci pensa solo un secondo prima di rispondere, una protesta che si pianta dietro gli incisivi, poi annuisce appena.

 

“Avverti gli elfi, però. Ho voglia di fois gras

 

 



Note: se ho due giorni di tempo, è certo (matematico!) che scriverò nelle ultime ore del secondo giorno. E così è stato. Questo capitolo avrebbe potuto sicuramente dire di più ma, visto che ci sono ancora così tanti prompt e sono stati giorni impossibili a lavoro, lascio questa cosa un po' a metà, ancora introduttiva, questa volta dal pov di Lucius. 
So che ogni volta le mie note sembrano più che altro giustificazioni ma tant'è, capitemi.
Il titolo è preso dalla canzone Disney “Le Campane di Notre Dame”, la mia preferita in assoluto.

Grazie a chiunque sia arrivato fin qui, vi abbraccio!
PS. Per un problema tecnico-tattico, il terzo capitolo aveva invaso anche il secondo. Adesso dovrebbe essere corretto! Un abbraccio

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Capitolo 3
*** Necessità ***


 

NECESSITÀ

[#writober, 6ott. - scheggia]
 

Ogni volta che Lucius torna al Manor e la lascia lì – sola, con un carico di consapevolezze a farle la veglia – Pansy ingoia libertà e schegge, Parigi e polvere, profumi e acredine di quella che è una vita per lei nuova, sporcata però da una gelosia antica e senza nome. Ci sono momenti in cui finge che tutto quello che adesso ha – la casa, un Malfoy nel letto, tempo per scivolare da un posto ad un altro senza chiedersi i perché e i per come – siano semplicemente un regalo, qualcosa per cui non viene chiesto nulla in cambio. Ma quando di fingere non ha forza – quando la sera preme e dalle lenzuola entra qualche spiffero di freddo – la consapevolezza di ciò che è davvero rende le lenzuola scheggiate, pungenti, e il sonno prende strade lontane, a lei sconosciute. Sa che Lucius non ama più Narcissa, che le loro camere ormai distano molto di più di pochi di metri di corridoio. Però non riesce a non intravedere, nell'ombra di quelli che di notte sono incubi e nel dormiveglia sono certezze, un amore adulto, d'esperienza, di mani che ricordano perfettamente i punti in cui indugiare, i tasti da premere per muovere una sinfonia di gemiti e voglie – un amore di cui lei è estranea, di cui lei sarà sempre un orpello, un surplus.

Quando uno di questi momenti arriva ad annebbiarle le sinapsi, si è allenata a mettere in atto un forzato Lumos dentro la testa. Scende dal letto, si avvolge nella seta della vestaglia, lascia che la luce di un'alba che insiste per diventare giorno le riluccichi negli occhi e la svegli, le snebbi i pensieri.

I corridoi della casa sono sempre silenziosi ma non sono immobili: le donne ritratte nei quadri di Alphonse Mucha che Lucius le ha regalato, la osservano. Primavera saluta leggera, Estate la guarda sorridente, Autunno ed Inverno si nascondono nella loro indifferenza. Le sembra di non essere mai sola, così, mentre le osserva e osserva i fiori crescere o morire intorno a loro, autonomi, incuranti di cosa succeda nel mondo reale. È un rituale che ripete spesso, in particolare il sabato mattina, quando le voci e i suoni di Montmartre sono più allegri e insistenti del solito. Beve un caffè, si veste leggera, calca un basco rosso sulla testa e si immerge nelle strade acciottolate che ora sono il suo mondo. Percorre sempre la solita traiettoria: Rue Cortot, con piedi svelti, Rue Mont-Cenis che si getta sul panorama parigino lontano, e poi devia, verso la Basilica, con il vociare che si fa sempre più alto e i Babbani sempre più fitti. Mormora un Incantesimo Distanziante e poi si immerge, senza che nessuno riesca a sfiorarla davvero, tra i colori, i suoni e gli odori di quel mercato che riversa per strada tutto ciò che è stato rinchiuso fino a quel momento in soffitte polverose, in scatole dimenticate, in ricordi da rimuovere. Si è sorpresa soltanto la prima volta di trovare lì, tra mille cianfrusaglie Babbane, qualcosa di magico e conosciuto, irriconoscibile ad occhi non di strega: ha trovato Giratempo rotte, Spioscopi sbeccati, vecchi libri di incantesimi e pozioni scambiati per sciocchezze per bambini, collezionisti e vecchie che ormai hanno perso il senno. Li ha accarezzati leggera, come fossero un'ancora alla sua realtà e poi, silenziosa, li ha trasfigurati in qualcosa di piccolo e trascurabile, per nasconderli nelle tasche del gilet. Così, adesso ha una collezione di ditali, chiodi, aghi che in realtà sono tutt'altro, oggetti magici salvati da mani sporche e sangui peggiori, da occhi inconsapevoli ed ignari. Una piccola ampolla con lo stemma di una delle più grandi famiglie magiche francesi – solo Salazar sa e solo Salazar immagina cosa farebbe un qualsiasi Rosier sapendo che un Babbano rivende qualcosa di impresso col suo stemma – adesso è fra le sue mani; poi diventa un dado, poi un biglietto di teatro, poi qualcosa di ancora più piccolo e sottile. Poi sparisce col resto, nella sua tasca, mentre lei continua a scivolare lungo la strada e l'immensità di Parigi, i suoi colori tenui, le pochi torri che svettano a scheggiare il panorama limpido, si sdraia sotto di lei come se fosse l'unica presente sopra quelle scale chiare e lucenti, come se la Basilica non fosse lì per altro motivo che per coprirle le spalle. Fa per alzare lo sguardo a cercare Lucius, per condividere coi suoi occhi dello stesso colore della pietra, quella meraviglia che le strazia il cuore. La sua assenza, però, la strazia ancora di più – un coro di schegge si pianta da qualche parte, fra le costole, e le mozza il respiro. Il caschetto corvino ondeggia leggero sotto la stoffa rossa e lei si chiede se avrebbe avuto altra sorte, se i suoi capelli fossero stati dello stesso colore del grano, come quelli di lei. Come quelli di lui.
 

*

 

Mentre prende una viuzza secondaria per tornare a casa cercando di schivare la calca, un odore leggero di cipolla, uova e altri sapori speziati, la raggiunge e la accompagna proprio fin sotto il portone, non congedandosi nemmeno sull'uscio. La Maison Rose, lì vicino, è sempre un monumento di bellezza incantata ed eterea stagliata contro il cielo terso, ma è anche madre di odori molto più profani, di voci molto più terrene, di scambi molto più colloquiali. Pansy ci posa sempre gli occhi addosso, qualche secondo più del necessario, e poi prosegue, con i pensieri colorati della stessa identica sfumature di quelle sue pareti.

Le case Babbane, tra cui quella di Suzanne Valadon, al centro delle quali Lucius ha incastrato quel suo regalo di mattoni, si spostano per lasciarla passare e lei scivola all'interno senza bisogno di pronunciare alcunché. Lou, la piccola elfa dagli abiti laceri e gli occhi enormi, la accoglie sulla soglia solerte, le piccole braccia protese per raccattare il suo gilet leggero e il cappello che le fa cadere in mano, con un sorrisetto smorzato, tiepido.

Un piccolo scalpiccio, un fermento, abita la grande sala da pranzo, altrimenti muta; la raggiunge veloce, curiosa, impaurita, di cosa provochi tanto scalpore in quelle creaturine di solito quasi invisibili, camaleontiche lungo le pareti affrescate. Poi, senza che se lo aspettasse, senza che lo sapesse, senza che immaginasse di riaverlo così presto, la figura di Lucius si staglia – monumento di bellezza – di fronte a lei. Lo fissa con gli occhi che si sgranano appena e sente muoversi sul viso un'espressione che non riflette ciò che le si dipana dentro, che si agita, che frizza lungo la spina da dorsale, frenando alla gola. Questa lascia uscire soltanto un suono di sorpresa, un'ottava che si arrampica su quella più alta e rende il tono quasi freddo, infastidito.

“Sei già tornato?”

Lucius, che deve averle preceduta di qualche secondo, sfila i guanti con un gesto morbido e marziale al tempo stesso. Indice, medio, anulare di cui pizzica la punta di pelle, che finisce poi sul marmo del tavolo; alza gli occhi su di lei per un attimo fugace, il tempo che serve per decifrare il tono, i connotati, qualche segno che gli permetta di coglierla in fallo. Talmente veloce, però, da evitare che lei faccia lo stesso.

“Ti dispiace?”

La domanda la devasta; non solo perché niente potrebbe, davvero, dispiacerle meno. Ma perché non riesce a comprendere come quelle parole, prive di qualsiasi ironia, quasi inframmezzate da una specie di sottile e recondita paura – identica alla sua –, possano soltanto esistere. Scuote il capo veloce, mentre un passo si affretta dietro al successivo e i pochi metri che li separavano, adesso diventano centimetri, millimetri, bocche che si scontrano, lingue che si cercano, salive che si mescolano.

“Dov'eri?” Un briciolo di respiro riesce ad insinuarsi tra quelle paure che fanno muro e le parole di Lucius, pensate fin dal principio, ne approfittano per uscire, per chiedere.

“Ad aspettarti”

Lucius coglie scampoli di verità nel calore del respiro di Pansy, in quelle sillabe, nel rossore che le ha spruzzato le guance, nelle mani che si sono infilate svelte fra le sue ciocche d'argento, ad aggrapparsi poi alle spalle, a premerselo addosso di impazienza, di mancanza, di pensieri velenosi che adesso sembrano ricordi lontani.

“Spero di non averci messo troppo”

Pansy si rende conto che ogni respiro non ha più il sentore di scheggia. L'aria passa calda e leggera, arriva ai polmoni, finalmente li allaga. Il profumo di Lucius è medicina e tormento, è quello che lascia un buco – enorme, silenzioso – dentro di lei, quando prende la via del Manor, si smaterializza, e lascia nell'aria soltanto particelle di quella brina silvestre.

“Purtroppo sì. Però, puoi provare a farti perdonare”

Lucius la fissa e sorride, alzando appena un angolo delle labbra. Un ghigno molto più tagliato, diabolico, premessa di quel morso che arriva ad aggrapparle la pelle morbida del collo, la gola, la giugulare che adesso è un fiume impazzito di voglie. Lecca piano quel lembo di pelle, il sapore buono di lei e quello molto più alcolico delle gocce di profumo; la bacia. La morde. La accarezza piano con la punta del naso, lascia che le mani scivolino oltre la barriera di seta che li separa.

“Ho intenzione di riuscirci”



 



Note: grazie davvero a chiunque sia passato da qua fino a questo momento! Se qualcuno ha letto qualcosa di mio su Lucius e Pansy sa che sono una coppia tra le mie preferite ma che, nei miei racconti, hanno avuto di solito una dinamica molto più “impari” e molto meno “romantica”. Sarà Parigi, sarà la primavera (ah no?), sarà quel che sarà, ma adesso mi andava di immaginarli così, bisognosi.
“La domanda [la] devasta” è una semi-citazione dalla serie “Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare che vi consiglio vivamente, come ogni sua altra opera.
Grazie davvero ancora, siete preziosi!
Un abbraccio


 

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Capitolo 4
*** Ninfea tra le ninfee (parte prima) ***


 

NINFEA TRA LE NINFEE
(parte prima)

[#writober, 8ott. – pallore]

 

Il pallore della luna spinge oltre il vetro del lucernario e si stende sulla pelle di Pansy come un velo di vernice, accentuando le zone d'ombra d'ogni piega del suo corpo. Lucius ha perso il sonno – mangiato da pensieri che hanno denti aguzzi – e adesso fissa quel suo corpo spiegazzato fino a poco prima dalle sue mani come qualcosa che non conosce davvero. Ha una posa innaturalmente bella, quasi finta, e lui si chiede se davvero ogni pezzo di lei sia parte di un'opera d'arte più grande, quella che mette su soltanto esistendo, muovendosi, dormendo. Pensa che, questa, forse è la loro più grande differenza, il punto di confine che non gli permetterà mai di toccarsi davvero, di fondere una vita nell'altra: lui, l'arte non sa farla. Può collezionare opere, può comprarne, trafficare con altre. Ma non c'è una vena creativa che pulsa, non riesce a produrre della bellezza in modo così naturale, innato. Lui sa solo rubarla ad altri, strappargliela dalle mani con le lusinghe del denaro e delle parole, morbidamente. Quello che sente di aver fatto anche con Pansy: quando la vede immersa nelle strade, a sovrapporre ciò che gli occhi vedono con quello che altri hanno riportato su tela, si chiede come ci riesca. Come riesca, dopo tutto quello che ha visto di lui – la sconfitta, la caduta, l'aver gettato suo figlio in pasto al male – fissare i suoi tratti e vederci qualcosa che fa luce. Come riesca, dopo aver amato Draco per tutta la sua breve vita, aver deciso di lasciarsi stringere da braccia così adulte, da braccia che non hanno velleità. Braccia che, tutta la vita, hanno stretto sempre lo stesso corpo – il corpo di una donna che, come lui, d'arte non sa farne.

Si chiede come riesca a scorgere qualcosa in quella sua – la gola si secca appena a quell'ammissione – aridità.

E poi un pensiero lo immobilizza ancora di più, tagliente nella sua verità: forse, non ci riesce. Forse, Pansy non vede nulla in lui – solo convenienza – la tranquillità che può dare un mecenate, la via per ottenere qualcosa che altrimenti non potrebbe avere, il guadagno che vince l'insicurezza di essere di nuovo messa da parte, per un'altra donna.

Un sospiro leggero lo distrae; si volta e la vede muoversi piano, con una mano che va a stropicciarsi gli occhi e l'altra che si allarga sulle lenzuola di seta, a cercarlo. La luce della luna si muove con lei, disegnandole addosso arabeschi di pallore su pallore.

Forse, si dice, di tutto questo, però, non gli importa poi molto.

 

*

 

“Pansy, svegliati”

 

Sono passate molte notti – alcune le hanno passate avvolti, altre lontani a mangiare il soffitto con gli occhi e il sonno scomparso – e Lucius a quei pensieri non è riuscito ancora a dare risposta. Si è fatto distrarre dal suo corpo, dalle strade che ci ha disegnato sopra con la lingua; ma pure dal Ministero, dall'Inghilterra, dalle cose che ha dovuto fingere e fingere ancora. Sorridere, stringere mani, posare la mano sulla schiena di Narcissa e cercare di non notare la sua rigidità, il disgusto per quel teatrino che devono continuare a mettere in atto e il senso del dovere che preme sulle spalle di entrambi. Le apparenze, prima di tutto.

Ma non lì, non con lei.

Pansy si muove leggera e mugugna appena quelle che sono sillabe senza senso ma dalle venature interrogative, mentre alza gli occhi e vede ancora la luna troneggiare nel cielo e il resto immerso in un buio allagante.

 

“Cosa... che succede?”

 

Lucius sorride appena, perché Pansy ha un viso bambino, gonfiato dal sonno – le labbra grandi, bellissime – e le pupille enormi in quella poca luce, quasi indistinguibili dall'iride di pece.

 

“Preparati”

 

Tutto quello che viene dopo sono movimenti meccanici, ingolfati dal sonno; insieme, un ammirare quel suo muoversi leggero, vagamente indispettito, con gli occhi ancora socchiusi e una curiosità che forse, sola, muove tutto il resto. Un maglioncino a righe, Babbano, un paio di pantaloni scuri, il viso di un pallore delicato, senza nulla ad agghindarlo. Un'espressione dubbia, una mano che si allunga, dita che si stringono contro la veste da mago. Interrogativi: quando ti sei vestito, dove stiamo andando, ma che ore sono. Riposte: alcuna. Un bacio sulla tempia, uno sull'orecchio, poi sul lobo, il collo, la gola, le labbra adesso al gusto di fragola. Il sonno che ancora abbassa le palpebre, corpi che si appoggiano leggeri. L'elettricità della sorpresa e di chi una sorpresa la fa. Un collezionista che vuole collezionare, che vuole tenere tutto quello che si è guadagnato ben stretto. Risultare il migliore – insostituibile, invincibile. La guarda: non vuole perderla, non vuole perdere. Esiste ancora un modo per vincere, strappare l'arte agli artisti, trattenerla, farla propria. Il caschetto si muove leggero, Pansy stroppiccia gli occhi. Il modo in cui la vuole – il modo in cui lei gli restituisce quel senso di vittoria – quasi gli fa male ai polsi, sotto i calli scomparsi alle mani – mani lisce, da signore. Mani che hanno solo conosciuto la fatica della bacchetta, il suo eterno sfregare e colpire e incantare e uccidere. Non può perdere, non può perdere ancora.
 

Pansy mormora piano. “Allora, andiamo?”


 

 



Note: purtroppo oggi non ho davvero avuto tempo per mettere mano alla storia. Quindi lascio un grande to be continued alla prossima puntata (che, se riesco, potrebbe essere proprio domani, tradendo i giorni pari).

Grazie comunque per essere arrivati fino qui!
Vi abbraccio

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Capitolo 5
*** Ninfea tra le ninfee (parte seconda) ***


NINFEA TRA LE NINFEE
(parte seconda)

[#writober, 9 ott. – deviazione]

 

La Smaterializzazione è una delle sue sensazioni preferite, a dispetto di tutto. L'idea di volatizzarsi e fuggire altrove supera, per lei, di gran lunga ogni inconveniente del caso. Quando Lucius l'aggrappa per un braccio, delicato ma fermo, Pansy è felice di farsi trascinare altrove dalla preferita delle sue forze magiche – senza chiedersi né come né dove arriveranno. Chiude gli occhi nella penombra della stanza da letto a Montmartre e, quando li apre, il buio che avvolge entrambi è decisamente più fitto e gli occhi, così poco abituati, non riescono a distinguere quasi nulla di quello che li attornia. Sente un odore leggero di vaniglia e sapone, uno spazio che si apre attorno a lei, anche se sono al chiuso, le gambe che urtano appena sul davanti su qualcosa di metallico e freddo.

 

“Dove siamo?”

 

Lucius dietro di lei non risponde; lo sente solo avvicinarsi, respirare piano il profumo dall'incavo del suo collo, prendere un respiro e sussurrare un incantesimo non verbale, che lei coglie soltanto per leggeri movimenti delle labbra contro la pelle. Il tempo di un battito di ciglia e piccole fiammelle prendono a librarsi in aria, come per magia – per magia davvero – e iniziano a svolazzare intorno a loro, come un grumo di lucciole, e a disporsi lungo le pareti della stanza. Finalmente, Pansy riesce a scorgere i piccoli scorci che le fiammelle inondano con la loro luce tiepida e un candore caldo si intramezza a colori molto più belli e più vividi – conosciuti. Il coro di luci le mostra una stanza ovale, grande e spaziosa intorno a lei, bella di una bellezza da togliere il fiato, bella da sembrare di essere altrove.

A Pansy, per un momento, il respiro si mozza davvero: di fronte a lei, disposte nelle pareti che si avvolgono intorno a loro, dipinti enormi gli rimandano immagini di stagni e ninfee e pennellate audaci e luci che cambiano e colori che si sfumano e si fondono, senza confini e direzioni precise. Chiazze di colori che diventano immagini, che diventano fiori, che diventano eternità. Le riconosce all'istante: intorno a loro, le Ninfee di Monet li abbracciano con la loro confortante bellezza e Pansy volta il viso, più e più volte, a cercare ogni angolo non visto, a imprimersi sulle pupille tutto il possibile, per non perdere nemmeno lo strascichio della sfumatura su un petalo, nemmeno lo scampolo di sole che si riflette nell'acqua di quella che dev'essere un'alba. Nel buio della notte inframmezzata da quelle deboli luci, nel silenzio profondo di ore piccolissime, nella solitudine in cui sono immersi, ogni sensazione – dalle più brevi, brividi, alle più durature, qualcosa che l'aggrappa alla pancia e a cui non saprebbe dare un nome – sono centuplicate dentro di lei.

È così assorta, che sentire muoversi Lucius dietro di lei la spaventa appena. Parla piano, come se in quel museo ci fossero davvero di giorno, con il tono che conviene ad un luogo tanto sacro.

 

“Sei impazzito?” Le venature della voce sono piuttosto quella di qualcuno che sta per impazzire – sopraffatta da troppo, di tutto.

 

“Sono perfettamente lucido” conviene Lucius con l'ombra di un sorriso, e la mano che va alla sua, a voltarla verso di lui, a tuffarsi nel baratro che – per lui – sono i suoi occhi. Non è avvezzo a lasciarsi andare ad esternazioni condite da così tanta ostentazione – anche se qualcuno converrebbe che una coppia di pavoni albini in giardino rientri in tale categoria. Non nei sentimenti, non con Narcissa, non quando le emozioni alla fine sono un gioco in cui è difficile scommettere – troppe variabili. Meglio occuparsi di MagiBorsa, di MagiFinanza, meglio muoversi su terreni che, seppur sabbiosi ed instabili, non lo sono tanto quanto le sabbie mobili delle anime umane, sempre esposte alle intemperie, sempre troppo poco prevedibili. Se n'è reso conto da quando ha iniziato questo loro “gioco” – deve sminuirlo, così, per riuscire a mantenere tutto in piedi – che anche lui non è immune alle stesse identiche oscillazioni. Però adesso ringrazia Salazar che i Dissennatori non gli abbiano strappato tutto – tutto! – e possa ancora sentirsi sotto le mani la pelle di Pansy, possa godere del suo godere, possa immergersi nei suoi gemiti e uscire benedetto, come in un fiume indiano e magico. Perché sa di non meritarlo, sa che lei non merita questo – eppure, eppure... è felice della sua ingenuità, è felice che glielo conceda.

 

“Conosci meglio di me la storia di questo posto, vero?”

Pansy annuisce piano e osserva le fiammelle danzare e creare varie giochi di luci e di ombre sul viso di Lucius, affilando i tratti del mento, allungando la linea del naso, nascondendo quel chiarore così innaturale delle sue ciglia.

“Sapevi che era un mago?”

Pansy sgrana appena gli occhi, di sorpresa e incomprensione.

“Chi? Monet?”

“Sì, e non solo”

“Chi altro?”

Lucius ride piano di come i tratti così incisivi di Pansy, nel momento della curiosità, tornino così bambini, così morbidamente attenti, grandi, invasivi.

“Questa città riserva più sorprese di quel che immagini”

“Questo tuo lato romantico, ad esempio?”

 

Il sorriso di Lucius si affievolisce appena: non deve, non può. Sa che sta dando troppo, sa che tutto questo loro amarsi – o qualcosa che gli assomiglia terribilmente – è deleterio, è sbagliato, per infiniti ordini di ragioni. Nessuna abbastanza valida, però, perché ogni giorno, da quel loro primo aggrumarsi sulle scale del Manor, non abbia voluto di più. Prendere da lei e darle, conquistarla, assicurarla a sé, sentirla come la rete di sicurezza di una vita che ormai è andata in pezzi e che, anche ricostruendo, non avrebbe mai il valore originario. Pansy, in tutto questo, è l'oro che si insinua fra le crepe, che ripara e che abbellisce ciò che ormai è un cumulo di angoli scheggiati.

Non deve, non può ma lo fa.

Si avventa sulla sua bocca, come un assettato, un affamato, intirizzito dal freddo di una solitudine molto più remota, ormai calata dentro le ossa e lì rimasta adesa. È un attimo e tutto quello che la copriva, tutto quello che separava il pallore della sua pelle da Lucius, viene sfilato, gettato altrove, per aprirgli l'immensità di quel corpo ancora giovane, di quei fianchi ancora stretti, di un ventre che non ha conosciuto un amore più grande e totalizzante. Scende a baciarla: la gola, lo sterno, la pelle che copre lo stomaco, l'ombelico, fin dentro di lei. Assapora il suo sapore, si immerge, si perde – come Monet, di fronte a quelle ninfee di fronte a cui ha consumato gli occhi, i minuti, le ore, a dipingerle, ad imprimerle per sempre ad ogni ora del giorno, con ogni loro sfumatura, di un amore che, anche per lui, era totalizzante e pericoloso e impossibile, impossibile, da evitare.

Pansy geme e geme ancora; mugugna qualcosa quando Lucius l'adagia piano sul freddo di quel divanetto destinato a turisti che vogliono ammirare cos'hanno intorno. Ribalta la prospettiva: adesso ci sta sopra ciò che deve essere ammirato.

Bella, di un colore tenue, tenue come non è la sua anima nera, la sua anima solitaria e perduta. Bella come una di quelle ninfee.

Ninfea, tra le ninfee.


 



Note: grazie di aver letto ancora questo piccolo pezzetto di follia! Se non lo avete mai visitato, per rendervi meglio conto dell'ambientazione della storia, potete cercare su google il “Musée de l'Orangerie” che ha ispirato questo capitolo.
Grazie mille come sempre per i riscontri e per la compagnia in questo viaggio! Vvb

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Capitolo 6
*** Bocche della verità ***


 

BOCCHE DELLA VERITÀ

[#writober, 10-11-12ott. – rabbia, aurora, orgoglio]

 

Quando riemergono da quella parentesi rubata alla realtà, il freddo di un mattino ancora da venire pizzica dentro e sotto i vestiti. Sopra di loro, il cielo è colorato dello stesso rosa che tamburella le guance di Pansy e il giardino delle Tuileries, immerso in un silenzio assoluto, ruba le stesse sfumature per la parte più alta delle piante. C'è qualcosa dentro Pansy che si muove placido – le sensazioni che lascia scemare addosso il piacere, distendendosi sui nervi – e lei cammina leggera, come se i piedi non incontrassero attrito contro il vialetto di terra battuta. Lucius, al suo fianco, sembra lo stesso assorto in un silenzio che non cova cattivi pensieri – piuttosto, non ne cova alcuno. Sono entrambi anestetizzati dall'azione benefica di un orgasmo consumato lento e che, altrettanto lentamente, sfuma dalla mente e dal corpo, facendolo tremare appena di freddo e elettricità.
 

Tornare a casa, quindi, è quasi un capriccio, pensa Pansy; una necessità, conviene Lucius. Nonostante la Quai des Tuleries sotto di loro sia abitata solo da qualche sporadica auto – il cui rimbombo sparisce presto inghiottito dall'immensità che sovrasta la Senna – Lucius non riesce a non sentire l'impulso di allontanarsi da quel fiume di persone e di sangue sporco che tra poco prenderà a brulicare, scomposto, la sponda (e, nelle orecchie, l'eco di qualche voce torturata ancora echeggia, implacabile).

È così che Pansy impara che lo spazio destinato alle illusioni è sempre piuttosto irrisorio, se comparato ai minuti in cui la vita vera si sviluppa e si srotola di fronte a lei. Sono attimi rubati alla verità, quelli in cui lui e lei sono davvero solo loro, e il resto è inglese, lontano, perduto, dimenticato, strappato a morsi da una dimensione che non ha spazio per chi ha lasciato, per chi ha scelto altro, per chi è svanito e sfumato da mente e cuore.

Ma poi il giorno torna a dettare i suoi ritmi sempre uguali – una routine di scadenze e ricorrenze – che le ricorda, che ricorda ad entrambi, che il gioco è bello, che il gioco è gioco, quando dura poco; altrimenti, quando i confini languono e si sfrangiano, il gioco diventa senno che si erode, ossessione e cecità.

Pansy ha fatto sue tutt'e tre le cose: s'inganna, chiude gli occhi, volta il viso altrove. Lucius, per lei, non è quello che raccoglie e racchiude quel loro amarsi ad uno spazio biposto, nascosto; è quello, piuttosto, che accende luci e le fa esplodere Monet tra le mani e la drena di tutto quello che ha, per riversargli addosso tutto quello di cui s'è drenato – per lei, per averla.

 

Ma la disillusione è una compagna fidata e Pansy ne è amante, tanto quanto lo è di Lucius. Pochi secondi dopo che la casa a Montmartre si è aperta per loro e il suo tepore le ha arrossato le guance di un colore molto più acceso del cielo, un gufo plana elegante sul tavolo della cucina, lasciando cadere dal becco una lettera destinata a lui. Al collo dell'animale, il piccolo stemma dei Malfoy riluce nei raggi del primo mattino.
Pansy perde qualche battito, uno che si somma ad un altro e questo che si somma al successivo, e il cuore, fino a quel momento sopito, si ricorda in fretta il suo ruolo.

“Cos'è?”

Lucius non lascia trapelare la stessa emergenza che affolla la voce di Pansy, anzi; misura ogni movimento, anche se la calligrafia perfetta che ha inchiostrato il suo nome sulla busta la riconoscerebbe tra mille altre. Non sa cosa Narcissa chieda o voglia da lui, adesso. Le parole che compongono mittente e destinatario sono più di quelle che gli abbia rivolto spontenamente nell'ultimo mese, quando protetti dalle mura del Manor possono fare a meno anche di tollerarsi.

Sfila leggero la pergamena e ci scorre veloce gli occhi sopra, frastagliando da riga a riga; una piega si affossa al centro della sua fronte e Pansy – che studia la sua espressione allo stesso modo in cui si perde nelle pennellate di Renoir – non saprebbe affibbiargli un'origine precisa. Potrebbe dire preoccupazione o fastidio o un miscuglio pericoloso di entrambe. Lascia che lui ripercorra le parole un paio di volte, prima di domandare ancora.

“Cos'è?”

“Devo andare”

Pansy sgrana gli occhi di sorpresa e delusione, in una piega – al centro della sua, di fronte – la cui è espressione sarebbe perfettamente decifrabile anche ai meno avvezzi a studiarne il viso.

“Cosa vuol dire?”

“Quello che ho detto: che devo andare”

“Di già? Sei arrivato nemmeno due giorni fa”

Lucius socchiude gli occhi e un sospiro esala esausto oltre la linea sottile delle sue labbra. Pansy sa che ha sostituito alle parole il fiato e che le sta reprimendo tutte oltre la diga dei denti, ben nascoste.

“Non ho mai detto quanto sarei rimasto”

“Se è per quello, non dici mai nemmeno quando e come tornerai”

“Pansy” Lucius sospira ancora e questa volta, immersa nel respiro caldo, una punta di acredine pizzica le sillabe. “Ho una famiglia e dei doveri. Lo sai, non far finta di stupirti adesso”

“Stanotte non mi sembrava tu pensassi molto alla famiglia e ai doveri”

È diverso
I denti si stringono, la mascella si serra, la mano si stringe appena contro il bastone dalla testa di serpente che ha recuperato all'ingresso.

“E come sarebbe diverso? Che contano solo quando ti torna più comodo?”

“Non quando mi torna comodo, quando devo. Ci sono delle apparenze da salvaguardare, posti in cui devo stare. Non far finta di non capire, Pansy. Sei una Purosangue anche tu”

“E quali sono i posti dove dovresti stare, mh?”

“Astoria è stata ricoverata di nuovo al San Mungo, sarebbe terribilmente sconveniente se non mi facessi nemmeno vedere. Soprattutto, se scoprissero perché

 

Qualcosa aggrappa la pancia di Pansy, dal punto interno in cui l'ombelico ci si tuffa dentro. Da lì, una sensazione di capogiro la risucchia – le risucchia parole ed energie – e la lascia confusa. Non le importa nulla che Astoria sia ricoverata; ha desiderato tante volte – al buio di una stanza in cui i suoi pensieri erano al sicuro – che sparisse, che il mondo la inghiotisse. Ha pensato – non riesce, nemmeno volendo, a vergognarsene – che una maledizione del sangue fosse poco, per quel che le aveva portato via. Le aveva maledetto, lei, con la sua finta innocenza, con quegli occhi così grandi e tondi, sangue, cuore, viscere, sinapsi. Le aveva strappato via tutto quello per cui aveva faticosamente tessuto anni ed anni di vita, di aspirazioni, di mosse studiate con millimetrica precisione: Draco, il sogno di un matrimonio, il sogno di essere una Malfoy, il sogno di avere quello che ora ha. Per questo, l'idea che debba andare per lei – se non per lei, per l'altra, per chiunque altra che non sia se stessa – le ricarica di bile la saliva, le serra le labbra, imbiancandole.

“Sarà sempre questo, vero?”

Le parole hanno il sapore di fiele e la stessa consistenza di un rasoio. Almeno, la fatica che fa Pansy per pronunciarle sembra eroderle le papille, tagliarle la carne. Non sono le parole, forse; forse è la consapevolezza, il toccare di nuovo i piedi a terra dopo una distanza considerevole. È che Lucius non riesce a contraddirla perché ha mentito troppo, nella sua vita bucata e bruciata, per poterlo fare ancora. Così, scuote la testa, abbassa lo sguardo, socchiude le labbra, abbozza un sospiro. Le parole – le sue compagne, armi che hanno sempre battuto e sostituito la bacchetta – adesso languono, sprecise, sgualcite, nella gola. Non ne trova di giuste, né di giustificazione. Se potesse, rimarrebbe inchiodato sul posto e spererebbe – silenziosamente, con lei – che di quella nuora che nulla stima e nulla ama, non rimanesse nulla, neppure il ricordo. Eppure, quella creatura fragile, nel corpo e nella mente, è stato l'unico baluardo – a conti fatti, lo è ancora – che ha separato Pansy da Draco, che le ha permesso per chissà quale gioco di somiglianze e di sovrapposizioni di scegliere il padre invece del figlio, di sgattaiolare fuori dalla vita che aveva pensato per arrivare nella vita che le è toccata in sorte, prendendo la strada secondaria.

Per questo, adesso detesta davvero tutto – della sua famiglia e dei doveri – ma detestare non esonera e quindi aggrappa i guanti dal tavolo, un secondo prima di Smaterializzarsi; lo sguardo risale – riluttante – ad impattare quello di Pansy carico di un astio che, forse, le ha visto addosso soltanto al matrimonio di Draco.

“Torno presto”

I decibel sono alla stregua di quello che potrebbe essere un sussurro. La colpa ne ha azzerato la potenza, silenziandoli.

Pansy serra le labbra, alza il mento in un moto di fierezza che ha dimenticato di possedere – che non possiede, forse, che mima soltanto – e scuote la testa piano, scacciando con un gesto della mano per aria qualcosa che non c'è. Forse il fantasma del pensiero di Astoria o quello di Narcissa o di lei, ridotta così.

“Non disturbarti. Risparmia la fatica per i doveri”

Lucius non può sentirla, però: è già scomparso da Parigi.

 



Note: perdonatemi per l'assenza, sono stati giorni di raffreddore spacca testa e di lavoro spacca … testa, sì. Questo capitolo arriva improvviso dopo l'attacco di romanticheria degli scorsi, ma questi tre prompt mi hanno portata direttamente qui e, forse, serviva riequilibrare un po' la storia con un po' di realtà. Un rapporto che non può vivere soltanto di illusioni, come se Parigi fosse una bolla lontana e protetta; la vita vera, di entrambi, anche se Pansy cerca di dimenticarlo, è altrove e Lucius non ne ha mai reciso le radici.
Spero che comprendiate questa scelta e, anche se non sono riuscita ancora a rispondere alle recensioni, grazie davvero dell'entusiasmo, del tempo e delle bellissime parole che avete dedicato a questa storia. Per me, sono più che preziose 

Vi abbraccio!

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Capitolo 7
*** Frusci di serpi (parte prima) ***


FRUSCI DI SERPI
(parte prima)

[#writober, 14ott – serpente]

 

Pansy ha sempre pensato che, se avesse dovuto scegliere un altro corpo ed essere un Animagus, si sarebbe trasformata sicuramente in un serpente. Ha sempre amato la loro eleganza sobria, il loro muoversi sinuoso, la loro corazza che muta e muta sempre – sempre e mai uguale a se stessa. Si reinventano, i serpenti; quando la loro pelle è stanca e – forse, lo sono anche loro – la abbandonano semplicemente dietro di loro. La dimenticano. Lasciano intatta la loro potenza di veleno, la loro semplice e definitiva capacità di ferire ma si lasciano alle spalle qualcosa di inutile e trascurabile – una certa dose di sé non necessaria a sopravvivere, un'apparenza che si può costruire nuova, si può costruire migliore.

 

Pansy, immersa nelle vie di Montmartre, sente di aver fatto lo stesso.

 

C'è tutto e non c'è nulla di lei nella figura che si aggira fra le strade acciottolate, che si Smaterializza più lontano e lascia che Place des Vosges l'abbracci con le sue delicate ali in mattoni. C'è tutto e non c'è nulla di quello che sognava nella donna che adesso è diventata – se, poi, lo è diventata davvero. Forse, si dice, indietro ha lasciato solo la pelle di bambina, di capricci e meschinerie, di una Hogwarts in cui – sotto il lago – aveva immaginato di nuotare, immersa nella luce verde del suo futuro, in tutt'altra direzione. Forse, come un serpente, è emersa dalle spire morte di quella che era per riemergere in quelle – non troppo più vive – di quella che è. E, faticosamente, ha cercato una via di uscita.

 

Draco non è mai stato serpente, nonostante la sua casa ne fosse cosparsa in ogni angolo; nonostante spire e teste e denti dal veleno di legno fossero intagliate su cornici e tavoli e vasi e listelli del parquet lucido e fosse impossibile non lasciarci cadere lo sguardo sopra, risalire lungo le loro pieghe, arrivare agli occhi dalla pupilla sottile, alla lingua che si spacca a metà così da assaporare doppiamente il dolore instillato, per bearsene di più.

Lucius, invece, serpente era – è – fin dentro le viscere; forse, serpi sono le sue viscere stesse. Pansy ha riconosciuto in lui l'attrazione e la repulsione per qualcosa di tanto simile e, allo stesso tempo, riconosciuto così estraneo, così identicamente estraneo, troppo uguale per essere riconosciuto fratello, troppo specchio per non fare paura.

Lucius s'è insinuato, come lei, in angoli ed anfratti che, forse, adesso, avrebbe voluto aver evitato; perché la curiosità è sirena, ma anche le sirene sanno mordere e ferire e, la sua, ha cantato canzoni di vittoria fin troppo premature, che si sono mutate in lamenti di scuse e giustificazioni, in suppliche e pene fin troppo poco severe.

Come un serpente è riuscito a sguillar via – dalle responsabilità, da quelle più squisitamente legali a quelle verso le persone che ha trascinato nella tana sbagliata. Così come è scivolato via da sua moglie, dal suo sguardo di rimprovero, da un letto freddo e da mani ancora più gelide. È scivolato dove sapeva di poter trovare una preda che non lo avrebbe ritenuto predatore ma che poi avrebbe ceduto. E Pansy è stata quello – preda. Consapevole però e, quindi, doppiamente predata.

 

Pansy ora, però, dei serpenti vorrebbe solo la punta dei denti che cola morte e non quella loro attitudine primordiale a strisciare via, a strisciare altrove, in attesa del momento propizio. Soprattutto perché, teme, il momento propizio per lei non arriverà mai.

È con l'ombra di questi pensieri che si Smaterializza all'interno della casa di Suzanne Valadon, gemella alla sua, ora che tutti i Babbani l'hanno lasciata libera dal loro ingombro e il sole, indebolito dalla notte che incombe, ne lascia sfumare ancora sopra qualche raggio. Sente lo stesso odore di chiuso, in quelle pareti che sono state ridecorate per mimare quello che doveva essere un tempio, un tempio decadente di arte e pittura e amore e della bellezza, infinita, di una musa. Se ci pensa, Suzanne non sarebbe mai stata serpente – piuttosto aquila, scintillante, stagliata nel cielo e sulla tela di una fierezza senza pari.

 

Il piccole salone odora di polvere e stantio e, riflessa nello specchio di fronte a lei tamburellato di rovina, Pansy rivede la sua immagine solo in parte, quella che il sole arriva ad illuminare. Un pensiero, insinuante, la seda sul posto – chi è, quella?

La gioia scomposta che le ha donato Parigi dalla prima volta che ne ha sentito l'odore, le è sgocciolata dalle dita dopo l'ultimo incontro con Lucius, finita in un bicchiere di un rosso Babbano su cui finirebbe per perdere i sensi se non mormorasse prima qualche incantesimo anti-stordimento. E, quindi, deve tornare , deve tornare alla forza di vita, di magia, di potenza che le dà quella casa, le vibrazioni dei muri, il sussurro delle travi al suo passaggio.

S'incammina piano nella stanza accanto, in quello che era lo studio di madre e figlio, in cui madre e figlio hanno creato, hanno vissuto, hanno reso eterno ciò che vedevano i loro occhi mortali; pochi passi e, oltre la porta sbeccata, si trova di fronte l'immensità di una vetrata che si spalanca sul cielo. Cielo che lei, serpente, ha sempre ammirato poco, nascosta nei Sotterranei.

La stanza è grande, illuminata adesso solo dalle sfumature calde di un tramonto che muore e che immerge, della sua luce, cumuli di tele non concluse, tempere e tavolozze ormai seccate dal tempo e dalla dimenticanza, pennelli ritti come bacchette e un divano sfatto, sfinito, come lei.

Prende un respiro. Respiro breve che si mozza – aria che s'interrompe a metà, che non raggiunge i polmoni e non scappa dalla gola – e rimane sospeso, così, mentre una voce estranea, arrochita da un lungo silenzio ma cristallina nel suo dipanarsi, parla alla sua destra, facendola sobbalzare.

Un volto immerso in una cornice polverosa muove leggero le labbra e alza appena il mento, a mo' di saluto leggero.

“Bambina...”

Pansy impiega qualche secondo a mettere a fuoco le pennellate che compongono il volto, la realtà di quel dipinto che ha vita e che, quindi, riconosce simile – riconosce magico. È Suzanne che sta parlando.

“È la prima volta che arrivi così tardi”

Pansy ha la bocca arida di parole, affollata di confusione e di curiosità che non trovano una traduzione in sillabe. La fissa, stupita e rapita, annuendo piano a quella che sembra essere più una constatazione che una domanda. Ci vuole un secondo prima che riesca a biascicare qualcosa.

“Il tuo ritratto...”

Pansy abbozza il ragionamento ad alta voce ma il resto dello stesso si arrovella, silenzioso, nella sua testa, rendendola incapace di articolare altro. Quello che sputa fuori è soltanto la conclusione, mentre le parole di Lucius di qualche notte prima, adesso, le sembrano più chiare che mai.

“Tu... tu sei una strega”

La Suzanne Valadon olio su tela – la terrible Marie di Degas – le sorride piuttosto ironica, come se la divertisse quel suo sottolineare quella conclusione tanto ovvia. Schiocca le labbra prima di parlare di nuovo, un velo di serietà adesso a posarsi sulle lettere.

“Sì, lo sono. Quantomeno... lo ero

Pansy sbatte le ciglia qualche volta – un'aria inebetita che non le dona – e poi riprende a parlare, qualche passo che si muove verso di lei, più rigido e ingolfato di quelli mossi dalla solita leggerezza che le ha regalato Parigi.

“Non lo sapevo. Non mi hai mai... parlato”

“Non potevo, il rischio che entrasse qualche Babbano era troppo grande. Ci pensa già Maurice[1] a spaventarli, a volte” Sorride appena, con soltanto la venatura di un rimprovero ad incupirle lo sguardo. “Il suo ritratto è nell'altra stanza”

 

Pansy lo ricorda perfettamente: i baffi scuri, lo sguardo severo, la posa quasi regale di quell'uomo che non è mai riuscita a riconoscere magico. Se ne vergogna appena, con una punta di rossore sulle gote nascosta dalla penombra. È Parigi, forse, ad averle annebbiato lo sguardo, per colpa della foschia della lontananza o di una bolla di protezione che nasconde ma opacizza. È mortificata, però, che tra i mille cimeli che sa riconoscere strabordanti magia – tanti gli incantesimi che Lucius le ha insegnato, per primo – non ha incluso quei quadri, che le sono sempre sembrati fermi, immobili, innocui. Non ha mai visto una palpebra sbattere, la cornice vuota, uno sbadiglio di fronte alle chiacchiere vuote e incomprensibili di qualche Babbano. Ha trascorso in quella casa tantissimo del tempo che le abbondava ma – mai – avrebbe pensato di trovare lì della magia, mai ha pensato a quanto Suzanne potesse essere davvero simile a lei. Si rende conto con un capogiro di quanto sia stata stupida a non averci pensato prima.

 

“Non volevo interrompere i tuoi pensieri, dovevi averne molti per tornare qua mentre si fa notte. Però ti ho vista tante volte in questi giorni e stasera ho letto qualcosa di diverso nel tuo sguardo” Pansy distoglie le iridi da quelle dipinte con un pizzico di riluttanza, come se ci fosse rimasta incagliata dentro e fosse difficile divincolarsi. Il viso le rimane piuttosto rigido, non tradito da altra sorpresa oltre quel movimento impercettibile; solo gli occhi svettano verso il cielo che si è annerito e inizia a tamburellarsi di qualche stella dalla luce timida.

“Colpa di un uomo?”

Pansy sospira appena e gli occhi tornano improvvisamente annebbiati, come se la sua bolla le impedisse di lasciar trasparire troppo – non di fronte a lei – per non far diventare reale qualcosa che vive sospeso nell'irrealità.

 

“Non mi rispondere, cherie, non importa, lo so da sola. Mi permetto solo di dirti questo: ci sono sguardi che sono fatti per catturare e non per farsi catturare. A quelle come noi piace, alla fine, finire dentro le trappole, avere l'illusione che sia nostra la scelta di stare in una gabbia, anche dorata. Ma una gabbia è una gabbia, una trappola è una trappola. Ho amato molti uomini, molti di più hanno amato me. Mi hanno rubato gli occhi, la bocca, le mani, la linea dei fianchi, il colore delle gote. Tutto hanno preso di me – la luce che si riflette su una treccia – e l'hanno messa su tela. E poi, quando hanno visto che non potevo essere ristretta in pochi colori mescolati, che il mio viso non era proprietà di alcuno e le mie mani potevano competere con le loro pennellate, hanno scelto altro. Gli uomini sono pigri, per natura. Fingono che gli piaccia cacciare ma poi si stancano di correre, soprattutto se qualcun altro corre accanto a loro e, più che mai, se ciò che cercano di catturare è molto più veloce di loro. Non farti rubare gli occhi, ma petite amie, usali per guardare il tuo mondo, per cercare ciò che tu vuoi. Non piegarti, perché l'amore – quello vero, concesso esista – non schiaccia ma innalza. E, stasera, le tue palpebre, le tue spalle, sono piegate oltre la soglia del concesso. Alza gli occhi, bambina: scegli chi vuole renderti eterna, senza avere un quadro da esposizione in cambio.”

 

Pansy tradisce una smorfia, con la mascella che si serra per la frizione che quelle parole le hanno fatto sulla lingua, aspre della sua stessa acerbità. Ma non fa in tempo ad elaborare il pensiero successivo che, dalla stanza accanto, la voce calda e impastata di Maurice arriva alle orecchie di entrambe come un rimbombo, nel silenzio assoluto che le avvolge.

Maman, lasciala stare!”

(continua)

 



Note: [1] Maurice Utrillo, figlio di Suzanne Valadon.

Sul gong, arrivo a consegnare il nuovo capitolo scritto in mega fretta e furia. Era tantissimo che volevo far comparire Suzanne ed eccola qua!
Segnalo solo che il titolo è ripreso dalla poesia “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale.
Vi abbraccio e grazie a tutti per essere arrivati anche oggi fino qui!

 

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Capitolo 8
*** Frusci di serpi (parte seconda) ***


FRUSCI DI SERPI
(parte seconda)

[#writober, 15, 16 ott – “con te”, perso]

 

I ricordi le vorticano in mano come un impasto gassoso e brillante; li vede disfarsi e ricostituirsi, in un tripudio di forme informi, stretti dentro quella piccola bottiglia di assenzio dall'etichetta sbiadita e consunta. Non ha tempo di pensare al veloce susseguirsi degli eventi per cui, dal ritratto di Suzanne Valadon che le sussurra al tramonto, è finita ad avere in mano la copia pallida dei ricordi della sua vita – talmente piena che un capogiro le prende solo ad immaginare di immergercisi dentro. È volata a casa – Smaterializzata in un battito di ciglia – ed è corsa nella grande stanza sotto il salone dove Lucius ha nascosto un po' di oggetti, forse impaurito che, nelle sue sempre più frequenti assenze dal Manor, qualcuno – ora che anche la famiglia non è più un covo di fiducia – potesse prenderle, spostarle o rovinarle.

Un vecchio bacile in pietra troneggia dietro un'anta finemente intarsiata e Pansy lo appoggia sul tavolo con le braccia che tremano di fatica e impazienza. Lo fissa, per un secondo interminabile, con un senso di vertigine ad aggrapparle la pancia: la piccola bottiglia di assenzio – una fatina verde pallida ed immobile a fissarla – è stretta nella destra, ultimo baluardo di ancoraggio a questa realtà. Versa lentamente il contenuto e, con vortici brevi e colori che sfumano, il liquido diventa improvvisamente limpido, distillato di una vita fa; un oblò sul passato di Suzanne le appare di fronte e Pansy, con un respiro che non riempie i polmoni d'aria, tuffa il caschetto dentro la superficie ora piatta ed immobile – trasparente nel suo splendore. Si perde.

I colori intorno a lei si mescolano e si fondono, ridisegnando un paesaggio nuovo mentre la sua casa scompare e, intorno a lei, mura edite ed inedite assieme le rimandano uno scorcio conosciuto ma che non riesce subito ad inquadrare. Le ci vuole un secondo per mettere a fuoco la casa, gemella alla sua, in cui pochi minuti prima soggiornava: i muri scrostati, anneriti dall'umidità, sono adesso privi della carta da parati e si mostrano, a lei, a loro, in tutta la loro sporca tristezza. Non ci sono ritratti né specchi né quadri, solo la desolazione di una casa inabitata da tempo, fatta eccezione per topi e scarafaggi che sul pavimento liso fanno banchetto. Al centro della piccola stanza, una donna alta, dal fisico di chi ha visto molte fatiche, tiene stretta per mano una bambina con un fazzoletto a nasconderle i capelli: Pansy le è di fronte e la riconosce all'istante. Una Suzanne con pochi anni addosso si guarda intorno con aria impaurita, gli occhi chiari screziati da un sentore di estraneità che li incupisce. La vede stringere la mano alla madre e chiedere, con un tono piccolo e pigolante, “Quanto dobbiamo restare?”

La risposta però viene mangiata dal paesaggio che muta ancora e la fa sfilare davanti sequenze di una bambina che cresce e, insieme a crescere, lava, cuce, si tappa le orecchie di fronte a una madre che grida, in mano una bottiglia, sul viso uno sconforto e una perdizione che rendono aspri tratti altrimenti morbidi. Sono diapositive in scala di grigio, secondi rapidissimi che riesce a cogliere quasi per caso. Pansy è sempre vicino a lei, vede quello che lei vede, e della donna ritratta a Montmartre – il viso fiero e bellissimo – non riconosce ancora le tracce, solo una copia più piccola e più pallida. C'è giusto una bellezza acerba, mani piccole e occhi giganteschi, una bambina sottile che si allunga man mano, il seno che si fa spazio sotto i vestiti, i fianchi che si allargano e la rendono sempre più donna.

Il paesaggio si trasforma ancora di colpo e la luce che arriva successiva, un'esplosione di colori e rumori, quasi fa alzare a Pansy una mano a coprire gli occhi e una a coprire le orecchie, in un tentativo vano. Non sfuma tutto in un battito di ciglia, adesso, ma, intorno a lei, inizia a dipanarsi un grande capannone e un brulichio di persone diverse, personaggi dalle fattezze particolari: nani, giganti, animali delle più varie specie – sporchi, dagli occhi vitrei, dal pelo rado – e poi uomini e donne dai vestiti sgargianti, scintillanti di colori dei metalli e delle pietre preziose. Si guarda intorno, smarrita, alla ricerca di Suzanne: non può essere lontana – quelli sono i suoi ricordi. La intravede dopo poco: anche lei è fasciata con una tutina da ginnasta, le gambe nude, una scollatura profonda a lasciar intravedere le costole che si alzano sopra lo sterno e il petto magro. Un uomo, vicino a lei, la trascina per un braccio e negli occhi di lei, più che paura, s'intravede un'infastidita ferocia, qualcosa che trapela di risentimento.

“Muoviti, Marie, tocca a te”

Ed eccola in scena: volteggia, il corpo sinuoso che a Pansy pare quasi privo di articolazioni per quel modo così fluido di muoversi, così simile davvero ad un serpente. Poi vola: lanciata da un trapezista all'altro lì vicino, Suzanne in aria è davvero l'aquila invece che immaginava Pansy. Osserva il pubblico, le bocche schiuse, gli occhi intrappolati su quella figura perfetta che si libra nell'aria come se non conoscesse gravità, in balia di mani che segnano il suo destino.

La scena sfuma ancora ma lo sfondo non cambia poi molto. Dietro le quinte di quello che Pansy ormai è sicura sia un circo, Suzanne – poco lontano da dove sedeva qualche secondo prima – ha il corpo disteso in avanti, copiose lacrime a rigarle il viso e la caviglia nera e gonfia, enormemente più grande della gemella alla gamba opposta. Lo stesso uomo di poco prima, una folta barba a nasconderne le labbra, troneggia sopra di lei e la fissa con espressione dura, la testa che si scuote appena.

“Non posso tenerti in queste condizioni. Se non ti esibisci, sei fuori”

Suzanne fissa la caviglia che potrebbe riparare con uno schiocco di bacchetta o con una pozione, Pansy lo sa, ma invece abbassa il mento, silenziosa, e sceglie il suo destino, probabilmente lontano da lui, lontano da lì. 

 

Ancora. Suzanne non sembra cambiata da pochi istanti prima: lo stesso corpo flessuoso, lo stesso candore della pelle a contrasto con i capelli scurissimi, acconciati in onde morbide attorno al suo viso. È nuda, se non per un drappo che le nasconde le intimità più recondite e ha gli occhi assai diversi da quelli inondati di lacrime del ricordo precedente. Sono molto più fieri, molto più felini – ferini – mentre fissa qualcosa dietro le spalle di Pansy.

Si volta a guardare: dietro una tela, un uomo molto più vecchio di lei, la barba imbiancata di diverse striature, rughe ad incorniciargli gli occhi, la fissa con aria famelica e, nel mentre, dipinge, come se non potesse fare altro, i suoi tratti sulla tela. Un pennello in bocca, un altro stretto in mano, colori che sfumano sulla tavolozza e sulla superficie bianca, colori che si mescolano e, come se fossero mossi da forze magiche, prendono a dipanarsi in modo perfetto. Colore che diventa immagine, nitida nelle sue sfumature, e il volto di Suzanne inizia a diventare verità – inizia a diventare eterno. È diverso dall'originale, è come se quella nel quadro fosse qualcuno di più vissuto e perduto, una donna che quell'uomo vede nella sua testa e non in quella che gli sta seduta di fronte, lo sguardo che sembra sezionarla pezzo a pezzo.
Il ricordo sfuma: la stanza è pressoché la stessa. Si modificano le luci, gli abiti, l'acconciatura dei capelli ma l'uomo dietro la tela non muta. Solo, che ad ogni sequenza, si fa più vicino; finché non arriva a lei, i loro corpi che si fanno uno – così diversi, in quelle età contrastanti; una vita che muove i primi veri passi e una che già ha visto troppo, ma mai nulla di così bello. Pansy gli legge il pensiero negli occhi mentre lui la sfiora leggero – sguardo e mani, bocche e nasi.

La scena si muove ancora: un altro uomo, molto più giovane di quello precedente, adesso sta dietro la tela. La barba curata, grandi baffi, lo sguardo acquoso: Pansy vede una bottiglia vicino a lui a cui ogni tanto s'aggrappa, mentre ancora fissa Suzanne e disegna qualcosa di molto meno sfumato, un ritratto morbido, poco fedele, più dolce dell'espressione che lei ha realmente, con la mascella affilata e le sopracciglia corrucciate. Pensa, Pansy, che forse quello è il modo in cui lui vorrebbe vederla, quello che l'alcol permette di edulcorare. Una donna molto più docile di quella dallo sguardo feroce che le sta di fronte, un'altra donna. Guance morbide, una treccia sfatta a caderle sulla spalla, il seno che sporge timido oltre la scollatura. Dettagli di un corpo che lui conosce – conosce meglio di quello che si conosce di una modella. E poi di nuovo: un bacio, due, e poi delle grida, braccia strattonate, la scena che cambia ambientazione ed è di nuovo nella casa di Suzanne, che adesso ha mura ridipinte, pulite e un vago sentore di ospitalità, nonostante vestiti sparsi qua e là, trucchi e pettini in ogni dove, sgabelli e cavalletti e pitture e tele lasciate a metà – quelli che anche Pansy riconosce come tentativi.

“Cosa ti sei messa in testa, eh? Adesso vuoi dipingere anche tu?”

Suzanne si volta verso di lui: lo sguardo duro, una mano che va quasi a nascondere una tela a mo' di protezione, un passo in avanti. Pansy li guarda di lato, con un sentore di allarme a formicolarle le mani.

“Beh, che male ci sarebbe?”

“Sei una donna, Marie”

“Mi chiamo Suzanne, adesso. Tutti mi chiamano Suzanne, perché non puoi farlo anche tu e basta?”

“Non ti chiami Suzanne. Tu sei Marie-Clementine. Non puoi semplicemente scegliere chi essere e chi no. Prima sei la modella e l'amante di tutti i pittori di Parigi e poi basta, ti stufi, cambi nome e diventi Suzanne la pittrice?”

Suzanne serra la mascella, Pansy la vede che è colpita nel vivo. Gli occhi si assottigliano appena.

“A te cosa importa?”

“Mi importa se ti scopi altre persone, troppe altre persone”

“Tu non scopi tua moglie?”

L'uomo si ferma, la mano sulla maniglia, la mascella contratta e lo sguardo affilato; Pansy trema appena perché – d'improvviso – capisce perché Suzanne le ha detto dove raccogliere quei suoi ricordi nascosti e, soprattutto, perché.

“Non parlare di Aline, Marie. Non sai nemmeno cosa voglia dire la fedeltà”

“Ti sono molto più fedele io di quanto lo sarà mai lei. Ti amo molto più io di quanto non farà mai lei. Ma non posso stare qui ad aspettarti, ad elemosinare...”

“È per questo che lei è mia moglie e tu finirai a passare di mano in mano per tutta la vita, Marie. Non ti nascondere dietro Suzanne, questa sei e questa è la tua natura” Gli occhi la sezionano per un secondo e, nonostante le parole siano ferme, Pansy le sente vibrare di rabbia e fastidio. Quell'uomo soffre, quanto soffre lei, di non poter sopportare altro ma nemmeno di poterle dire che sì, ha scelto lei, che non le permetterà di conoscere altre mani. Me ne vado”

La porta trema appena sui cardini mentre l'uomo lascia la stanza, condita solo dal rimbombo di quel rumore e da un silenzio densissimo. Pansy sobbalza, quando la sente: un grido, di dolore antichissimo, scuote Suzanne. Lacrime identiche a quelle di molti anni prima scendono ad inondarle le guance, anche se il viso tradisce un'espressione diversa, tagliente, feroce. Un vasetto pieno di pennelli si schianta contro il legno della porta, schizzando di colore e schegge il piccolo salone. Suzanne non ha mosso le mani, che sono strette contro i suoi fianchi, in pugni dalle nocche imbiancate: si è schiantato contro la porta da solo, con la magia che le è sfuggita, improvvisa, dalle dita. Un bambino, dietro la porta che dà su un'altra stanza, affaccia oltre il legno due occhi grandi e impauriti e, silenzioso, piange anch'esso.
 

*

Pansy torna alla casa di Montmartre con un leggero capogiro; tocca con le suole a terra ma deve allungare le mani sul Pensatoio per tenersi in piedi. Si accorge di avere il respiro affannato, una specie di macigno sul cuore e impressa, sulle pupille, l'espressione del dolore che quell'uomo ha causato a lei, una maschera di umiliazione e rimpianto e impotenza. Una morsa le afferra la gola: la consapevolezza che non deve accadere lo stesso. Fa per muovere un passo all'indietro ma sente il sangue fermarsi, gelarsi e poi riprendere a guizzare più rapido e sporco di adrenalina a spasso per vene e arterie. Si gira piano, con l'ombra di una presenza alle sue spalle che sente premere sulle stesse.

Lucius, seduto in una posa morbidamente marziale sul grande divano in velluto scuro, la fissa con sguardo interrogativo e granitico, le braccia stese sopra due cuscini, l'abito da mago sostituito da qualcosa di più Babbano, come sempre quando la raggiunge a Parigi. La camicia, bianca ed intonsa, è slacciata al colletto e ai polsini, dove due serpenti d'argento e gli occhi di smeraldo sono stati disincastrati dall'asola.

La sorpresa quasi le si trasforma in un singulto; nessuno dei due pronuncia qualcosa, per secondi che sembrano trascinarsi fino all'esasperazione. Poi Pansy si rimette bene in piedi muovendo un passo verso di lui; Lucius stacca le spalle dallo schienale e si china in avanti, i gomiti sopra le ginocchia. Lei schiude le labbra, la rabbia che già le arriccia. Lui l'anticipa, però, e nelle sillabe un gelo che non conosce le fa tremare appena.

“Allora, Pansy, cos'hai visto?”

Pansy alza il mento, serra le braccia sotto il seno, lascia che i ricordi prendano di nuovo le sembianze di una nebbiolina solida e scintillante e poi parla; sillabe che nella sua bocca sente aguzze ma che, una volta uscite dalle labbra, sono molto più labili di quel che avrebbe voluto.

“Niente che ti riguardi”

“Tutto quello che succede in questa casa mi riguarda. Dopotutto, è mia” E soprattutto lo sei tu, gli resta stretto fra i denti.

“Giusto le mura possono essere tue. Tutto il resto lo hai perso”

Lucius alza appena le sopracciglia e quella che si può leggere sul suo volto forse può dirsi sorpresa, o spavento, o forse questo è quello che Pansy spera di leggerci; un segnale qualsiasi che lui non sia come l'uomo che ha appena visto fra i ricordi di Suzanne o di Marie. Lui non deve, non può, scegliere incondizionatamente l'altro.
Ha ancora in mente l'espressione di quell'uomo mentre si beava della figura di Suzanne, mentre la riversava sulla tela: bramosia e desiderio e qualcosa di vero e allagante.
La voleva. La stessa che ha riconosciuto in Lucius, mille volte, prima nascosti nel Manor e poi lì, in quella casa, per le vie di Parigi dove le ha riversato addosso tutta la necessità, più dura e più pura, di averla. Eppure... eppure quell'uomo aveva scelto altro. Lucius avrebbe fatto lo stesso?

Perso? Tu credi?”

Pansy annuisce senza convinzione, mentre gli occhi le scivolano sulle iridi color della neve, così distanti e diverse dalle proprie; poi il naso, dritto, appuntito; i bottoni della camicia aperti, la pelle candida, le mani affusolate e curate, le labbra sottili e dritte. L'anello con il blasone dei Malfoy a troneggiare al suo anulare, a nascondere una fede infinitesimamente più trascurabile.

“Perché sei tornato?”

Lucius inspira ed espira piano; non c'è calma nelle sue membra, Pansy lo vede chiaramente. È come se potesse sentirne il cuore battere impazzito, dietro quella scorza di calma glaciale. Vorrebbe spaccare quella corazza, farla esplodere con un incantesimo, essere una Legilimens più brava e affondargli nei pensieri, fra le sinapsi, scoprire tutto il marcio purulento del suo cervello. Pulirne ogni parte superflua – eliminare Narcissa, eliminare il Manor, lasciarla come padrona incontrastata di ogni suo pensiero. Regina di quella fortuna immensa, di quella famiglia immensa, di quell'uomo che ha deciso di volere, di dover tenersi stretto. Vuole vincere, come vuole vincere lui, ad un gioco a cui entrambi sono pessimi e su cui hanno fatto scommesse troppo care.

“Perché è con te che voglio stare, Pansy, nonostante tutto. Con te



 



Note: so che Pansy è folle, Lucius pure e io con loro. Di questa storia, poi, nemmeno a parlarne. Non ho davvero plottato qualcosa, seguo il flow, i prompt e quello che mi dice la riga prima. Grazie quindi di assecondare questo delirio, di leggerlo e viverlo con me. So che questa coppia è particolare quindi il mio ringraziamento è doppio per chi ha voluto leggerne, nonostante le titubanze iniziali. Per me è bellissimo ed importantissimo!
Vvb, vi abbraccio

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Capitolo 9
*** Occhi chiusi, cuore aperto ***


 

OCCHI CHIUSI, CUORE APERTO

[#writober, 23 ott. - “find what you love and let it kill you”]

 

Il freddo di novembre pizzica le guance ma rende il cielo terso, di un azzurro profondo e palpabile, su cui il Manor si staglia nella sua grandezza come un monumento di vittoria. Vittoria sui vittoriosi, su quelli che dalla guerra hanno tratto il meglio e hanno lasciato, misericordiosi, ai vinti un angolo lontano della memoria, un posto dove leccarsi le ferite – vere ed immaginarie. Quelle di Lucius si sono quasi rimarginate tutte, perché l'oro è sempre un buon modo per riparare gli oggetti – i legami, gli individui – e lui, di quello, non è mai stato parco. Non c'è angolo della casa che non sia addobbato di rose bianchissime, quasi baluginanti di una luce morbida, e violette del pensiero, in onore di loro, in onore di lei. Il salone brulica di maghi – buoni e cattivi, mescolati, dimentichi – dagli abiti sartoriali più impeccabili; streghe si lanciano sguardi, osservano le curve dei loro abiti aderire a quelle del loro corpo, ad esaltarne ogni pregio con dovizia e un pizzico di magia.

 

Lucius non ha voluto nasconderlo a nessuno, ha voluto che tutte le Sacre Ventotto vedessero: ha scelto. Ha scelto di non dover sottostare più a quello che Abraxas e Cygnus avevano scelto per lui. A quello che, alla fine, era stato un matrimonio sommessamente felice, rigido, dove tutto era stato fatto secondo i dettami, le linee guida, affinché nessun rimprovero piovesse su due che, dei rimproveri, erano impauriti, repellenti.

Draco e Narcissa hanno lasciato la casa – entrambi – e nessuno dei due è voluto tornare, per quel giorno che sancisce quella che è una sconfitta, l'unica ferita i cui lembi non sono riusciti a tornare vicini, che non è riuscita a rimarginarsi per bene. Lucius ha scelto davvero quella che era la bambina che ha visto crescere vicino a suo figlio, che di suo figlio ha seguito le orme, i pensieri più malsani, gli impulsi più biechi per poi, nel momento più importante, nel momento di affibbiare un cognome – quel cognome –, ha scelto altro. Occhi castani, capelli castani, fisico magro, sangue mangiato da una maledizione contro occhi neri, capelli neri, un corpo che esagera solo respirando, sangue puro di Parkinson. Una copia che non può che dirsi sbiadita, un fac-simile della donna che avrebbe dovuto avere a fianco. Quella da sempre designata, quella che Lucius, da sempre, aveva individuato perfetta; quella perfezione che adesso fa sua, se suo figlio è stato troppo sciocco per perderla. Perché un collezionista d'arte e di oggetti magici, quando si trova davanti entrambi, non può voltarsi altrove, non può lasciarli andare: devono diventare suoi. E sua è diventata lei – tra poco, sua moglie.

 

Come sia cresciuto quel desiderio, che prima si è fatto pensiero, poi chiodo, poi ossessione, nemmeno lui saprebbe spiegarlo con parole coerenti. È solo cresciuto come un'erba infestante, che se strappi ritorna, più forte e più viva. Pansy, per lui, è una di quelle edere che si è mangiata la facciata della loro casa di Montmartre – loro per sempre – e non l'ha soltanto nascosta ma l'ha caratterizzata dalla sua presenza, l'ha resa indispensabile, ha reso una inscindibile dall'altra. Lucius inscindibile da lei. Si è fatta spazio tra le sue gambe, nel suo cuore, fra le pieghe del cervello, fra quelle ai lati degli occhi e ha seminato la sua presenza ingombra, non lasciandogli modo nemmeno di abbassare le palpebre senza vederci il suo viso dietro, immerso nell'ombra dei suoi pensieri.

Si meraviglia di come sia stato tutto semplice: ha semplicemente chiesto, semplicemente imposto, che quel matrimonio si sciogliesse, visto che aveva perso ogni sua ragion d'essere. Ha semplicemente comunicato che avrebbe sposato Pansy Parkinson. Ha semplicemente visto sua moglie, suo figlio, sua nuora abbandonare il Manor. Senza parole acri, senza minacce più o meno velate, senza chiedere che venisse messo su pergamena che l'eredità, un giorno, sarebbe stata comunque loro, nonostante adesso volesse cedere ai capricci di uomo a cui l'età fa scherzi. E adesso, intorno a lui, quello che pensava sarebbe stato soltanto un sogno proibito si dipana sotto le sue mani, immancabilmente guantate, come olio sull'acqua.

Lancia uno sguardo allo specchio e si fissa: è invecchiato, lo sa. I capelli sono poco più radi, ma sempre lunghi e lucenti come un tempo, così come lucenti sono i due serpenti ai suoi polsi, gli smeraldi incastonati nella spilla dei Malfoy appuntata al petto. Gli occhi sono circondati da pieghe non più così sottili, anche se lo sono di più di quelle ai lati della bocca, che ha conosciuto pochi sorrisi se toglie quelli destinati alla convenienza.

L'abito da sposo che è stato confezionato per lui è di un verde profondo e avvolgente, si posa sulle sue spalle con precisione marziale, scende con ricami d'argento lungo il petto e le gambe, e lo ammanta di un'aura ancora più vittoriosa di quella della sua casa. L'anello con lo stemma sta sopra la pelle, a mo' di monito, e una fierezza che non conosceva da anni gli scorre benefica lungo tutte le terminazioni nervose, scaldandolo.

Ha già stretto tutte le mani che doveva e che poteva, ha visto sguardi malevoli e altri sinceramente compiaciuti di quella sua nuova aura. Non ha mai avuto amici, perché quando il denaro abbonda, è difficile che non faccia un rumore di lusinga sulle orecchie di molti. Così, Lucius ha tenuto vicino solo coloro da cui poteva captare consigli, tenuto lontano chi poteva costargli denaro, e – del resto – gli è rimasto in mano solo un pugno di mosche, che Pansy ha sostituito con la sua carne calda.

 

Pansy è quello che adesso ha, di vivo. Di umano, di degno.

 

Un violino inizia a suonare una musica leggera e Lucius la riconosce subito, come un avvertimento che si irradia dai timpani all'ombelico, e le persone intorno a lui si zittiscono all'istante. Non c'è un grande altare, né una scenografica presentazione. Due sedie in velluto scuro sono state piazzate al centro del grande salotto, illuminato da una luce che novembre sembra aver rubato ai suoi fratelli estivi, per scagliarla con violenza su di lui e sulle centinaia di rose candide che affollano i tavoli, i mobili, il grande lampadario in cristallo.

La piccola folla si divide in due ali – ugualmente fameliche di vederla, ugualmente curiose di strappare qualche pettegolezzo da raccontare ai grandi assenti – e lasciano un corridoio, per permetterle di sfilare fino a lui, per finalmente restituirgliela.

Per finalmente marchiarla con il nome dei Malfoy.

 

La musica cresce leggera, sempre più acuta e ritmata; la donna che suona si agita come in una danza, lasciando che ogni suo movimento diventi nota e, insieme, diventino l'inno di quell'ingresso. I secondi sfilano, uno dopo l'altro, e Lucius sente l'attesa mordergli le caviglie come mai era successo prima. Forse soltanto mentre tendeva la mano verso Harry Potter affinché la profezia ci cadesse dentro, aveva provato la stessa, inebriante, annichilente, sensazione di impotenza.

Ma il tempo scorre, il violino riempie l'aria del frutto delle sue corde strusciate, eppure Pansy non appare. Il silenzio sacro di poco prima inizia a brulicare di voci, di sibili, di mani che si avvicinano a bocche e bocche che si avvicinano ad orecchie, per nascondere i propri pensieri agli occhi degli altri.

L'impazienza diventa dubbio, il dubbio paura.

 

Non verrà?

 

Ma poi Pansy appare, meravigliosa come una visione, in un abito che la avvolge come una seconda pelle, quella di un serpente che non vuole abbandonare il proprio passato. È di un rosso intenso – il colore del sangue che scorre fuori da una ferita, quella ferita che lei ha riaperto – e le scopre le gambe in un modo che qualcuno (Lucius stesso, se avesse la forza di parlare) non faticherebbe a definire osceno. Osceno in un modo che lo inebria, lo confonde, lo fa vacillare.

La vede avanzare verso di lui, sola, fiera come una fiera pericolosa, le labbra dello stesso colore dell'abito, grandi, di cui vorrebbe sbavare il rossetto adesso, molto prima del sì, un inutile sì che ha già ripetuto, nella sua testa mille volte.

Non sorride a nessuno, Pansy. Sa che tutte quelle persone sono lì solo per banchettare su un qualsiasi passo falso, su quella storia che ha fatto parlare l'Inghilterra magica. Su quel colore che ha addosso, che tradisce che lei – dell'innocenza – si è privata troppo tempo prima perché il bianco potesse cascarle bene addosso.

Ha gli occhi fissi su di lui, piantati come un chiodo, dritti nei suoi come una promessa.

 

Lucius ci si perde; un solo passo e potrà toccarla, un solo passo e sarà sua. Allunga la mano ma non riesce a sfiorarla, gli sfugge. Se ne accorge con un groppo che gli mozza il respiro e gli blocca le dita: non può toccarla.

Non può farlo perché non è fatta di carne; è fatta di vento, di desiderio e di voglie, ma non di realtà, non di verità. Lucius la chiama ma la voce non c'è, non esce. Solo il violino si fa sempre più alto, insieme ai brusii tanto acuti da frizionargli i timpani, da renderlo sordo alla sua stessa voce, alle parole di Pansy che si avvicina ma non esiste, non c'è.

 

Sempre più acuti i brusii, sempre più alte le note del violino, sempre più acuti, sempre più alte, sempre più acuti, sempre più alte...

 

Lucius si sveglia all'improvviso: una goccia di sudore, dalla tempia, si stacca e scivola lungo la sua guancia, precipita oltre il collo, si insinua sotto la seta del pigiama e lo percorre come un brivido. Allunga una mano veloce – terrorizzato – sulle lenzuola lisce; sente il vuoto della mancanza di Pansy vicino a lui, il freddo di un posto che non è stato occupato. Nella penombra non scorge la loro camera da letto parigina, ma quella sua nuova all'interno del Manor – in cui solo dorme, solo vive e solo spera.

I ricordi arrivano veloci: Pansy che chiede, lui che la guarda e, impaurito, chiede tempo. Pansy che urla, Pansy che batte i piedi – capricciosa e sconfitta. Pansy che lo caccia, Pansy dalle pupille enormi e acquose. Pansy che non c'è, meno che mai nel suo abito da sposa color sangue.

 

E lo deve ammettere, mentre la goccia si insinua fra la stoffa e la bagna: non ha mai avuto coraggio, Lucius. Nemmeno per le cose che ama.

Ha sempre lasciato che lo uccidessero o che lo fortificassero, privandosene.

 

E adesso, lo ha fatto di nuovo. Ha perso di nuovo. Se n'è privato di nuovo, si è privato di lei.

 



Note: ormai il mio delirio è fuori controllo. Grazie a chiunque, pur non amando i singoli né la coppia, continui a seguire questa storia con affetto! Per me è più prezioso che mai.
Vi abbraccio

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Capitolo 10
*** Monete di scambio (parte prima) ***


MONETE DI SCAMBIO
(parte prima)

[#writober, 18ott – stelle]

 

Le stelle: schizzi di luce nell'ombra del cielo – magnetiche; masse infuocate grandi e perdute – inavvicinabili. Una faccia indistricabile dall'altra, se non snaturando il risultato finale. È questo a cui pensa Lucius mentre la luce delle candele sparse a mezz'aria nella grande cantina illumina gli occhi pece di Pansy, tamburellandoli di costellazioni di riflessi. È questo a cui Lucius mille volte ha pensato, quando ha soppesato, con premura di funambolo, l'idea di attraversare quella linea sottile che li ha sempre divisi per precipitargli addosso. Pansy – l'ombra di Draco; Pansy – sulla lingua di tutti, lingue velenose di serpenti; Pansy – una promessa di matrimonio mai ricevuta e un'altra mandata all'aria. Pansy – strega dalla magia affilata ma lasciata sopire, mai realmente esplorata.

Lucius ha visto questo e molto altro, in lei: ha visto sotto il petto scollato, sotto le labbra di un rosso rubino, sentieri di possibilità, la potenza del potenziale.
 

Adesso lei è davanti a lui, il caschetto stropicciato da un viaggio di cui nulla conosce, il viso stravolto da quelle che può leggere consapevolezze nuove e parole che a stento vengono a galla.

Con te

Lo ripete e, questa volta, non c'è un intento di lusinga, non c'è una trappola intessuta a forza di sillabe. Adesso c'è una verità che esce fuori quasi acre, quasi sputata, perché, confessarlo, è quasi strapparsi un pezzo. Lucius non si è mai visto fuori dal Manor, non si è mai visto accanto a qualcuno che non sia Narcissa, non ha mai pensato di imbrattare le apparenze dei Malfoy. Le pulsioni, per lui, sono animali da addomesticare facilmente, bestie di cui conosce i punti deboli. Ma Pansy, si è accorto con sgomento, non è pulsione, è solo bestia: è qualcosa di cui non riesce a leggere tutto, di cui non riesce a disinnescare il meccanismo, a trovare il controincantesimo.

Per lei ha lasciato indietro tutto quello che poteva essere lasciato indietro, con l'entusiasmo di un bambino e l'incoscienza di un ubriaco – e lui ha sempre detestato entrambi.

Non riconosce la luce che gli sfuma sugli occhi mentre con la bacchetta intreccia i bottoni di una camicia Babbana, mentre stringe il nodo di una cravatta di seta smeraldo. Non riconosce le mani che, vuote, acchiappano il nulla se non sono riempite dalla curva morbida dei suoi fianchi. Non riconosce l'impazienza e la fretta che lo muovono, lui che ha passato la vita a costruire, a passi piccoli misurati, la grandezza di un impero di conoscenze, ricchezze e galeoni.

Pansy è la variabile che ha scombinato tutto il resto e lui, che l'ha sempre avuta sotto il naso, non è mai riuscito – cieco, cieco! – a riconoscere il pericolo, la portata di ordigno di quel suo corpo da fata. Ma vederla davanti a lui adesso, il viso contratto da quella che riconosce essere rabbia, le labbra schiuse, le guance arrossate, gli fa capire che opporsi sarebbe stato inutile, sarebbe stato impossibile.
 

“Che cosa posso fare?”

Gomiti sulle gambe, intreccia le mani bianche una con l'altra, le dita affusolate che si serrano. È un negoziatore, non riesce a fare altrimenti; è uno scommettitore, accetta solo i rischi che sa essere calcolati.

Pansy scoppia in una risatina che è uno sbuffo, le mani che si staccano dal bordo del tavolo dietro di lei. La sente, la sconfitta; la sente salire rapida, arrampicarsi con la resa, salirle oltre il bordo degli occhi e delle labbra per fargli vomitare promesse di restare. Deglutisce, però, e la ricaccia indietro. Pensa a Suzanne, gli schizzi di colore a sporcare la carta da parati di un rosso vivo, quasi quelli fossero il suo sangue e quella l'entità della sua ferita.

“Non puoi sempre ottenere tutto, Lucius. Non senza dare qualcosa in cambio”

Lucius deglutisce a sua volta e quello che gli crolla nella gola è consapevolezza liquida. Sa che è vero, sa che adesso non può vincere su ogni fronte. Deve scegliere, messo di fronte ad un bivio che sembra strappare in due parti il suo stesso corpo. La voce è meno ferma di quanto sia mai stata da molti anni, da quando potenze molto più oscure lo atterrivano, da quando le vie d'uscita sembravano davvero difficili da scorgere.

“Cosa vuoi in cambio?”

Pansy chiude gli occhi; lascia che le palpebre precipitino stanche a nascondere le stelle che ha intrappolate nell'iride. Si massaggia piano la fronte, come per ritrovare, scavata dentro, una calma che non le appartiene, una calma che i ricordi di Suzanne hanno scosso da dentro le fondamenta, le hanno minato con colpi di Bombarda. Parla piano, le parole che sono un sibilo, un segreto che arriva a malapena ad attraversare lo spazio che li divide, scemando.

“Lo sai. Non di certo questa casa. Non Parigi, non qualcosa. Voglio non condividerti, voglio non nascondermi, voglio non vivere come in una vacanza infinita...”

Lucius fa per replicare, le parole che gli schiudono le labbra, ma Pansy gliele serra con uno scatto veloce della mano, un incantesimo che le fa premere insieme, zittendolo.

“Non voglio stare qua ad aspettare. E, soprattutto, voglio avere la possibilità di andare avanti, se non posso ottenere questo”

 

Avanti. Lucius sente il peso di quelle che dovrebbero essere solo un'accozzaglia di lettere, segni sulla carta, suoni sui timpani. Eppure, hanno quasi la consistenza solida di un muro, la capacità di insinuarsi delle schegge. Niente sangue, solo un dolore via via più fitto mentre la minuscola, impercettibile, ferita si infetta e non c'è modo di togliere quel corpo estraneo, talmente piccolo alla vista eppure grande, ingombrante, della sua tenacia.

Fa per parlare e l'incantesimo soccombe alla sua urgenza.

“Dimmi che cosa vuoi”

Conosce solo questa logica: non c'è nulla – e nessuno – che non possa essere comprato. Che sia con il denaro, con il potere, con l'amore o le promesse, con parole dai suoni lievi. Ognuno ha semplicemente una diversa moneta di scambio, un desiderio che preme più degli altri e lui ha bisogno di sapere, testualmente, qual è il il suo.

“Dimmelo”

Le parole sono strette contro i denti, a premere per uscire fuori con troppi più decibel di quello che è disposto a concedere loro e concedere a lei. Non lo farà, non le permetterà di vederlo crollare di nuovo: non come di fronte ai capricci del Signore Oscuro, non come di fronte alle accuse del processo che lo ha chiamato alle sue responsabilità.

Inspira, espira, le dita che si stringono una contro l'altra, fino alla soglia di un tenue dolore, fino ad una resa incondizionata, una Waterloo di ogni briciolo di resistenza.

“Dimmelo, e te lo darò. Ti darò tutto quello che ho, Pansy. Non andare avanti, fermati qua”

 

(continua)
 



Note: mi rendo conto che questo capitolo è più una sfida con me stessa, quella di riuscire a pubblicare anche oggi, che un capitolo vero e proprio... infatti, alla fine della fiera non dice nulla ahahah come molti degli altri l'ho diviso in due parti e probabilmente nella prossima si capirà meglio (?) o forse no. Per adesso prendetevi questo appetizer (?), cercherò di tornare prima del previsto – real life e lavoro permettendo (...mi di esistere).

Grazie ancora a tutti! Vi abbraccio

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Capitolo 11
*** Monete di scambio (parte seconda) ***


MONETE DI SCAMBIO
(parte seconda)

[#writober, 19-21 ott. - polvere, “relax. nothing is under control”]

 

Pansy si è chiesta spesso se ci si può assuefare al dolore.

Se questo possa diventare un compagno, una polvere che ti piove addosso – cenere dopo un grande incendio – che copre (opacizza, forse) ma anche protegge; un vessillo che ricorda che, alla fine, si è passati oltre, quando delle fiamme rimane solo il fumo e petali grigi dal cielo. Se lo è chiesta spesso mentre suo padre in un letto del San Mungo si spegneva palmo a palmo, non lasciandole nemmeno la consolazione di una morte rapida, di quella che non permette di indugiare nel rammarico e nella sofferenza, di quella che è concesso piangere più intensamente, invece di frammentare le lacrime giorno per giorno, fino a finirle.

Pansy, alla fine, si è risposta di sì.

 

Ci sono tanti tipi di lutto: quello della morte ma pure quello dell'abbandono, di un'illusione che si schianta contro il muro granitico della verità, quello di venire a patti con una vita che non si dipana nel modo in cui si è mille volte sognato. A Pansy, sembra di averli vissuti tutti. Ognuno le ha donato uno strato – polvere su polvere – e della sua luce è rimasto il suo ricordo ovattato, come una lampada su cui è stato buttato uno straccio.

Quando Lucius l'ha scoperta sotto quegli strati che sono corazza, non ha fatto altro che allungare quelle dita lunghe e bianche e, su anni di dimenticanza, ha preso a disegnare arabeschi. Pian piano, a forza di sfregare, disegnare, intessere, ha riportato a galla la luce baluginante della sua anima – quella che Parigi ha visto scoppiare, illuminare, brillare con la Senna, vergognosa, come sfondo.

Per questo non riesce – non vuole, non può – allontanare gli occhi dalla sua figura, dalla bocca che si muove a lasciare uscire suoni di cui non coglie il vero significato, nenia di lettere confuse. Lo osserva: scivola; gli occhi di un colore del cielo che promette neve e, invece, Pansy ha scoperto essere cenere. La bocca – dritta e sottile – come dritte sono le sue dita, la schiena, lo sguardo di lama condita di supplica. Il mento, la pelle perfettamente liscia, perennemente profumata di un odore tanto maschile quanto buono, quanto suo. La gola scoperta – il Pomo d'Adamo fermo perché fermo è il suo respiro, inchiodato nell'attesa. Il colletto della camicia slacciato, l'incavo alla base del suo collo, altri dischi di madreperla a chiudere la stoffa ed impedirle di frugare sopra il resto del suo corpo.

 

Che cosa vuole, le chiede.

Che cosa vuole, che domanda buffa.

 

Tutto, vuole. Tutto quello che si può strappare ad una vita che stenta a concedere, a concederle. Vuole quello che ad altri è arrivato per grazia, con naturalezza, senza sforzi. Perché adesso che ha sentito com'è il gusto dolceamaro della felicità, dell'allagante e inebriante sensazione di quella scomposta gioia parigina, non è capace di farne a meno. E dietro le iridi ha ricordi affastellati, ha diapositive dai toni vividi – pennellate di Renoir, colori di de Vlaminck, corpi di Degas.

Ci sono loro, di notte, all'alba, a scoprire ogni bellezza di Parigi prima che i Babbani arrivino a brulicargli intorno. C'è un'aurora candida, loro e la Sainte-Chapelle, i capelli d'argento di Lucius colpiti da mille raggi e mille colori di quelle vetrate immense e splendide. Uno spettacolo dedicato a lei – solo a lei, unica e sola spettatrice di quel momento strappato alla finzione, così perfetto da sembrare irreale.

C'è poi Place de la Concorde vuota – se chiude gli occhi quasi le sente, le grida e le suppliche, di chi lì è stato privato del respiro – e un vento leggero, suoni di qualche macchina rara, la luna a fissarli benevola, ad allungare le loro ombre sull'asfalto.

La Tour Eiffel – un capogiro, lei che per le vertigini ha sempre litigato perfino con la scopa –, Lucius che sorride di quella paura e se la stringe addosso, in un modo che, forse per la prima volta, Pansy riconosce affettuoso, scevro di quella passione che spezza i freni e serra le mascelle.

I Giardini di Lussemburgo al tramonto, un velo dorato che si sparge sui petali, e Pansy che si confonde con uno di loro – lei, che ha il nome di un fiore – e si sente così, dorata, benedetta, allagata da quel sole che muore e da quello che nasce, in lei, mentre Lucius le preme un bacio breve sulla tempia.

E non è in grado di privarsene, non è in grado di controllare quello che sente fin dentro le viscere, quella sensazione che davvero la scuote, e la arrende, e la fa avvicinare a lui, prendergli le mani tra le proprie – fuoco e ghiaccio –, occhi che affogano e altri che ancorano, bocche che tacciono e, anche in silenzio, parlano.

 

Che cosa vuole, le chiede.

Che cosa vuole, che domanda buffa.
 

Perché Pansy si è chiesta spesso anche questo: se ci si può assuefare alla felicità.

E, alla fine, si è risposta di no.

 

“Lasciala, Lucius. Lasciala e sposa me”
A Lucius, per un attimo, manca il respiro.

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Capitolo 12
*** Vecchi sogni (parte prima) ***


VECCHI SOGNI
(parte prima)

[#writober, 26 ott. - “it was all a dream”]

 

Dicembre gela Parigi e Pansy, che di gelato ha già tutto il resto, copre appena di più il viso con una vecchia sciarpa Serpeverde. Conserva l'odore di un profumo al papavero finito da anni, che lascia una scia sbiadita tra i fili intrecciati. Le ricorda qualcosa che non c'è, ora che i polsi e la base del collo sono addobbati da un sentore lieve di gelsomino, sfondo di una sé più adulta. Che quel distillato glielo abbia regalato Lucius è un pensiero su cui volutamente soprassiede – sono passati quasi due mesi dall'ultima volta in cui lui ha potuto annusarlo dalla base del suo collo e sono due mesi che, immancabilmente, Pansy lo indossa, impaurita dal pensiero che lui la colga senza, al suo ritorno. Non ci sono state parole, gufi, comparse dal giorno in cui lui ha lasciato la loro casa di Montmartre, né da una né dall'altra parte, e Pansy ha cominciato a sovrapporre e sbiadire i ricordi, come se si fosse svegliata da un sogno di cui al mattino non è più riuscita a sondare i contorni. Si è sforzata, ha provato a riportare alla mente i dettagli – il tono della voce, la forma del naso, l'odore delle camicie appena lavate – ma spesso si è ritrovata a domandarsi se si fosse inventata tutto, se la fantasia le avesse giocato un tiro più mancino del solito.

È finita a rispondersi di sì.

Solo la casa in cui ancora vive si erge a prova a contraria: ancora si meraviglia, sbirciando la bellezza delle sue stanze, scoprendone ogni giorno una nuova dietro una porta che non aveva mai notato prima. Lucius ancora la sorprende, a distanza di tempo, con quel dedalo di corridoi, in cui dietro ogni angolo scopre ogni giorno qualcosa di sorprendente, qualcosa che sa essere pensato – essere aggiunto, forse – per ricordarle sempre di loro, per rimanere impregnata di lui.

Per questo, quando la mancanza si fa più puntuta, si avvolge in quella sciarpa ed esce per Rue Cortot, alla ricerca di un riparo sotto il cielo che ormai è scurito. Montmartre e Parigi, ai suoi piedi, sono tutti una luce di festa: le insegne, gli alberi, le porte addobbate da coccarde, annunciano un Natale che arriva; della sua magia, però, Pansy, si sente privata fin proprio alla base.

Il Moulin de la Galette è stata la scoperta più grande del suo soggiorno parigino; Suzanne – lei, sempre lei – le ha sussurrato alle orecchie di andare a fare un giro, tanto per vedere. Pansy è entrata curiosa in quella struttura che le ricorda un tempo andato, gli occhi a serpeggiare qua e là tra i mille turisti Babbani e il soffitto non intonacato, con fili d'edera a screziarlo di sfumature colorate. Poi qualcuno, come attirato dal suo sguardo in ricerca, le ha indicato un punto poco lontano, un quadro a guardia di una porta adiacente a quelle di servizio; una riproduzione del Bal di Renoir troneggiava sulla parete di fondo e lei ha semplicemente atteso. Poi, una ragazza che ha riconosciuto essere una giovanissima Suzanne, dalla tela, le ha strizzato l'occhio, le ha indicato con il mento un punto più in basso e la porta sotto di lei è scattata con un tintinnio sordo.

 

Da quel momento, in ogni scampolo di solitudine che le morde i polsi, i piedi si muovono, rapiti, verso quel posto, l'unico in cui ha trovato un pezzo di magia, anche fuori dall'Inghilterra. Dietro quella porta in legno scuro, infatti, ha scoperto un potpourri delle più svariate famiglie magiche francesi, intente a mescolare incantesimi, arte, magia e un fumo inebriante e leggero, molto simile a quello che nelle lezioni di Divinazione impastava l'aria e ne rubava l'ossigeno. Quel pomeriggio, però, non è l'inerzia o la noia che l'hanno mossa; piuttosto, un biglietto breve, in un inglese stentato, ma con una calligrafia morbida e bellissima.

 

Al Moulin, presto!

 

Che mancasse di firma, è un dettaglio che non ha mai, nemmeno per un istante, pensato potesse ostacolarla; infatti, ha supposto i molti che sarebbero potuti essere gli artefici di quelle poche lettere e, nessuno di questi, avrebbe gradito ricevere un no in risposta.

Rosier, Lestrange, Lefebvre, Durand – solo alcuni dei molti nomi, solo alcuni dei molti visi, delle molte bacchette che ogni giorno in quel piccolo salotto s'incontrano e, brindando con un calicino colmo di Whisky Incendiario, vivono la loro magia proprio ad un passo dai Babbani, lasciati fuori da quella bolla nascosta.

Belmont Lefebvre è quello che, più di tutti, per primo, ha iniziato a danzargli intorno con un ché di sinistro e scivoloso, come un serpente che circonda una preda, stordendola e confondendola prima.

A Pansy, con un tuffo al cuore, ha ricordato all'istante qualcuno.

 

Al suo ingresso, quel giorno, è accasciato morbidamente su una poltrona in pelle, un sigaro dal sapore acre nella destra e un bicchiere pieno nell'altra; la bacchetta sbuca dalla tasca interna della giacca in modo sfacciato – è d'ebano. La accoglie con un sorriso affilato di lato, i capelli scuri a ricadergli in viso e un boccolo incastrato dietro l'orecchio; ha gli occhi di un verde profondo, a fare il paio con quello della sua sciarpa, e Pansy pensa che, con quella al collo, le sue iridi quasi scintillerebbero.

“Hai fatto presto”

Sussurra, un accento francese spiccato a sporcargli le sillabe, e si alza all'istante in modo rapido e leggero. Una mano si allunga a prendere quella di Pansy, per portarla al viso. Non la bacia; lascia soltanto che le labbra stazionino a pochi millimetri dalla sua pelle – può sentirne il fiato caldo – per poi lasciargliela a ricadere lungo il fianco, con una strana grazia.

Un pizzico di delusione le colora le guance; non si aspettava che il mittente fosse nessuno in particolare ma, da qualche parte, in un posto a cui non dà nome, sperava, sperava davvero, fosse stato qualcun altro a chiamarla. Qualcuno per cui voleva cadere in trappola.

“Mi hai mandato a chiamare tu?”

“Non troppo entusiasmo, cherie

Belmont sorride; Pansy lo trova bello di una bellezza fin troppo aggraziata, quasi femminile, che le ricorda Draco più di quanto vorrebbe.

Sorride anche lei; lascia scivolare il cappotto e qualcuno, un Elfo, lo raccoglie velocemente, rimanendo in attesa del resto. Tiene la sciarpa per qualche istante in più tra le dita, come indecisa sul da farsi, e Belmont la indica con un leggero cenno del capo.

“Non farti troppo vedere con quella. Siamo in molti ad essere stati ad Hogwarts all'ultimo Torneo, la sconfitta ancora brucia”

Nelle sillabe, c'è un'ironia non troppo palese, una verità che vuole nascondersi e confondersi dietro la parvenza di un sorriso. Pansy stringe la stoffa verde e argento con una presa ancora più salda, prima di lasciarla cadere.

“Dite di noi, ma voi inglesi siete i veri arroganti. Lo confermate sempre”

“Potter è sicuramente un arrogante, ma non per questo ha vinto il Torneo. Quello è stato per bravura” e per fortuna, vorrebbe aggiungere. Ma non le sembra il momento adatto in cui iniziare ad essere sincera.

 

Belmont sbuffa un po' d'aria dal naso e il suo sguardo si fa appena più affilato; Pansy lo vede che si sta trattenendo dall'aggiungere qualcosa. Socchiude soltanto gli occhi, invece; la studia. Pansy alza il mento, un leggero moto di fierezza che arriccia le labbra colorate di un rosso scuro, e sente l'uomo poggiarci lo sguardo sopra, perdersi per un attimo. Poi scuote leggero il capo, un altro sospiro che gli alza e gli abbassa il petto, un attimo in cui Pansy lo coglie a temporeggiare.

“Non ricordi le parole giuste in inglese?”

Belmont la fulmina con uno sguardo che è veleno e qualcosa di molto più morbido, di acquoso; poi alza appena le spalle e l'abito da mago segue le sue movenze con un fruscio leggero. Il camino poco lontano gli illumina le guance, scaldandole di un colore che altrimenti non gli apparterrebbe.

“Non ne esistono di adatte. Forse, le uniche sono... quel dommage!” Si corregge subito dopo, con un ennesimo sorriso amaro. “Che peccato...”

Pansy mette su uno sguardo interrogativo, gli occhi che piano piano lo seguono mentre inizia a muovere qualche passo. La stanza nascosta nel Mulino oggi le sembra particolarmente povera di avventori; molte delle grandi poltrone sono vuote, il fuoco scoppietta placido – non attizzato dalle continue attenzioni dei presenti – e l'aria è meno satura di fumo. Anche il brusio che solitamente la invade è ridotto a qualche chiacchiera, con parole che non riesce a riconoscere, in un francese troppo stretto perché lei colga anche soltanto qualche spezzone. I presidi di Beauxbatons, appesi tutt'intorno alle pareti, discutono animatamente tra di loro di qualcosa che non riesce a comprendere.

“Che cosa?”

Belmont non risponde; muove soltanto qualche passo ancora fino ad arrivare ad una pesante tenda in velluto bordeaux, che Pansy ha sempre pensato nascondesse un muro. Invece, quando l'uomo la scosta con un gesto leggiadro del braccio, dietro scopre un grumo di porte tutte uguali, in legno scuro, identiche a quella che segnala l'ingresso. Le indica la prima con uno scatto leggero del mento, gli occhi che si scuriscono appena.

 

“Per di qua”

“Dove stiamo andando?”

 

La apre ancora prima che lei riesca a chiedere ancora, senza concedere nulla a sua volta. Un piccolo corridoio si sviluppa oltre la stessa, in mattoncini di un rosso caldo e accogliente, su cui si apre lateralmente una stanza di cui non riesce a vedere l'interno dal suo angolo visuale. Lampade ad olio lo illuminano quasi a giorno, fittissime, e Belmont aspetta lei lo segua, prima di parlare di nuovo. L'abito scuro di Pansy si muove di un fruscio di stoffe lucide, su cui le lampade lasciano dipanare i loro chiaroscuri.

Il ragazzo scuote ancora il capo, l'ennesima delle mille volte, come rassegnato, infastidito, prima di parlare ancora.

“... ci sono persone a cui non si può dire di no”. Precisa, come se volesse rispondere ad una domanda che è stata posta in un altro momento. “A presto”

E prima che Pansy possa aggiungere altro, scivola dietro la porta, sparendo oltre la soglia. Lei sgrana appena gli occhi, guardando il punto in cui un attimo prima sostava il mago, con lo sguardo che si perde sull’ingresso che – anche dal versante interno – sparisce sotto un'identica tenda in velluto.

 

“Ehi, Belmont!” La sua voce rimbomba nello stretto corridoio. “Ma... Ma che significa?” La nota della paura inquieta di un animale braccato le sporca le sillabe.

 

La risposta arriva prima che possa vedere, sentire, captare qualsiasi altro suono; non è una risposta in decibel ma è tutta d'olfatto, un profumo silvestre e speziato, così suo, così terribile, così annichilente, che impiega molti più secondi di quelli necessari a voltarsi. Lo avverte, alle sue spalle, sbucato da quella piccola stanza che si apriva sull'ignoto, il pericolo più grande della sua vita, la sua più grande sconfitta.

Un tremito la scuote appena, con il sangue che si gela e poi si infiamma nel giro di qualche secondo. Sembra tutto troppo assurdo per essere realtà; troppo vivido per essere un sogno.

 

“Ciao, Pansy”

 

Quella voce le striscia lungo la nuca, risalendo fino a riversarsi sui timpani, rigandoli.

Qualcosa, all'altezza del cuore, con furore, esplode.

 

(continua)
 



Note: grazie anche questa volta di essere arrivati fino a qui. State dedicando a questa storia parole che davvero mi scaldano il cuore. Spero di riuscire presto a ringraziarvi come si deve.
Vi abbraccio!

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Capitolo 13
*** Vecchi sogni (parte seconda) ***


VECCHI SOGNI
(parte seconda)

[#writober, 28 ott. - strappo]

 

Non c'è stato un giorno – un brandello d'ora, stralcio di minuti lunghissimi – in cui non abbia pensato di tornare indietro, di tornare da lei. Ad occhi chiusi, nel buio e nel silenzio del Manor, ha immaginato mille volte la risata roca di Pansy risuonare leggera, scaldandolo; l'ha immaginata camminare per quei corridoi, coperta solo da una vestaglia di seta, il viso ancora leggermente gonfiato di sonno e di sogni che scemano. Ha immaginato, solo e soltanto. Perché perdersi è un attimo e concedersi il lusso di raggiungere di nuovo Parigi avrebbe significato soltanto non riuscire a tornare più a casa.

 

Perché, Lucius lo sa, ciò che serve a lui – a lei? - a loro, è soltanto uno strappo. Deciso, letale, permanente.

 

E ci ha provato. Ha lasciato che le parole di Narcissa, dure, taglienti come lame, gli impattassero sui timpani con troppa forza perché lui ne avesse abbastanza per contrastarle. Ama chi vuoi, Lucius, dormi nel letto di chi credi. Però non mi umiliare, come non ho fatto io con te. Non farmi vivere la vergogna di un divorzio, la vergogna di essere rifiutata.

 

Non riesce a comprendere come mai, però, quello strappo non abbia funzionato: perché Pansy è aggrappata ad ogni scampolo di ricordo, ad ogni oggetto che riporta ad un altro, in una catena di immagini che si ferma sempre ed immancabilmente a lei. Ha lasciato che settembre sfumasse nel vuoto, che le foglie si arrossassero e sbiadissero, fino a cadere, fino a rattrappirsi, come lui. Ha lasciato che gli ultimi singulti di caldo venissero rimpiazzati da un freddo che pizzica – quello che si sente addosso, sceso fin dentro le ossa, fino al suo sangue da rettile – ed ha atteso che l'assenza di un segnale qualsiasi gli desse la forza di passare oltre. Ha atteso invano.

Al Ministero, alla Gringott, in salotti addobbati di sete e velluti, lui sposta lo sguardo e vede lei: la vede in disparte, un calice in mano, nel corpo di una ragazza dai capelli castani, appena più lunghi; la vede a Nocturne Alley, un mantello scuro e un cappuccio calato fin sopra gli occhi, passi molto meno aggraziati; la sente dietro un angolo, una voce altrettanto roca e calda, ma una risata che non ha lo stesso sapore.

La sente e la vede – ovunque. Sempre e soprattutto dove non c'è.

 

C'è colpa che striscia nei sentimenti che adesso gli affollano il petto: è stato lui a chiederle di dirgli che cosa avrebbe voluto davvero. Ed era pronto a darglielo, a dargli tutto quello che possedeva: i galeoni, il Manor, anelli, una vita diversa, una vita che non fosse in esilio in un Paese straniero, una vita che non fosse nascosta in una bolla bellissima e lontana.

Sa che lei però non avrebbe accettato niente meno di ciò che chiesto: un matrimonio, una posizione, il posto al suo fianco. La luce del sole di quell'amore tanto sbagliato e tanto giusto – quanto può esserci d'errore in due corpi che si incastrano con geometrie perfette, con punte ed angoli a combaciare di precisione millimetrica? Quanto può esserci d'errore in mani che suonano sempre i tasti giusti di un corpo dalle mille sinfonie, le più belle fra le possibili? Però, Lucius ha mani che tremano e un sì che non esce dalle labbra: davanti a quelle due lettere c'è una moglie, un figlio, una vita passata vicini – se non a proteggersi, a sostenersi – anche quando il buio era grande e la loro casa era la tana del nemico. Narcissa è rimasta a baluardo di quello che erano, nonostante lui fosse diventato la macchietta di sé stesso. Lo ha fatto per entrambi. E lui non può, non può davvero, farle questo.

 

E mentre questo pensiero si fa spazio in lui, mentre si convince che la strada giusta è quella che conduce lontano da Montmartre, un ricordo – improvviso – gli arriva alla mente. Sono tanti, miriadi, e tutti hanno dentro lei. Lei che coglie una violetta del pensiero e la mette vicino al suo viso per fargli scorgere una somiglianza. Lei che si affaccia sul vuoto e, impaurita, scatta all'indietro, rifugiandosi sotto il suo mantello. Lei che plasma la magia tra le mani e la instilla in una collana dalla forma di serpente. Lei che, immersa nei fumi della loro cantina, getta gocce in un pentolone e trasforma ingredienti spaiati in veleno. Lei – nuda – sotto la luce della luna, il suo corpo che non è solo pieghe, è un percorso di vallate e montagne, è una scoperta nuova ad ogni tocco. È la gioventù che torna a rapirlo, a fargli sentire ancora le mani fremere, a sentire il sangue scorrere nei polpastrelli che bramano di toccarla ancora.

Pansy è questo e molto di più – uno strappo, uno strappo che lo divide a metà e lo lascia incapace di vivere in una e nell'altra vita.

 

Così, propositi granitici diventano poltiglia, diventano poco più di un liquido, quando uno di questi ricordi si affaccia su di lui. Basta un profumo – una casa addobbata di gelsomino, incenso che sfuma nell'aria – e deve piantare i piedi a terra per non materializzarsi altrove, per non andare a cercarla ovunque sia. Quando è troppo debole anche per questo, chiede: il ritratto gemello nel Manor e nella casa a Montmartre che fa la spola – un vecchio Malfoy, rapito anche lui dalla bellezza di Pansy, che non dice, ma vorrebbe, che è uno sciocco a stare lì, a farsi mangiare gli ultimi anni da vecchi doveri. Ma non ne ha il coraggio e meno ne ha Lucius: quindi uno tace e l'altro aspetta, entrambi congelati – uno nella tela, l'altro nella vita.

Solo quando i racconti narrano di una Pansy sempre più assente da casa, con il viso non più contrito dal dolore ma arrossato dal vino, da un sorriso, Lucius si scrolla di dosso quell'immobilismo messo a repentaglio da dolore e gelosia in egual misura. Sa che è sbagliato, illogico ed insensato; due mesi a cercare di cancellare le tracce di lei, le loro impronte, e poi basta una miccia appena accennata e tutto brucia di nuovo. Lo sa che l'amore sarebbe lasciarla andare via, salvarla: ma non c'è solo amore in lui, non prova nemmeno a nasconderselo. C'è la possessione e il pensiero annegante di altre mani addosso a lei, c'è il rimpianto di quello che doveri e pressioni non gli permettono di ottenere, nonostante con lo voglia con forza. C'è un dolore sordo che ha preso posto tra i polmoni.

 

Così chiede e così scopre – Malfoy è un cognome che rimbomba alto anche oltre la Manica. Non ci mette molto a sapere del Moulin de la Galette, della corte di Belmont Lefebvre, dei suoi occhi verdi e delle sue spalle larghe. E così, un orgoglio tante volte calpestato adesso scalpiccia dentro di lui come il fuoco nel camino di quella stessa sala dall'odore dolciastro. Non sa perché l'abbia fatta chiamare lì – abbia chiesto e sversato galeoni per avere accesso a quella stanza magica – se poi dovrà andarsene di nuovo, se poi dovrà dirle che, in giorni lunghi e lenti, nulla è cambiato nelle sue premesse e nelle sue promesse. Niente, se non che una mancanza senza nome gli mangia i nervi e una gelosia, che di nomi invece ne ha a milioni, glieli risputa addosso.

Sente la porta aprirsi, sente quel fastidioso accento francese, sente invece le parole di lei. Prima la sorpresa nella voce, poi un'incrinatura, poi la consapevolezza che qualcosa stia per accadere. Scivola oltre la stanza – si odia per averla fatta arrivare lì così, come se l'avesse fatta rapire e ingannare – vede le spalle, l'abito lungo che fruscia. Il corridoio si riempie del sentore di quel gelsomino che ha fatto studiare al milligrammo, per farglielo confezionare così, perfettamente intonato all'aroma della sua pelle bianchissima come quel fiore. Sente il corpo fremere piano, sente il cuore che invece sferraglia, impazzito e impotente, di fronte ad un'adrenalina che arriva a fiotti e a cui deve fare lui stesso una resistenza strenua, per non acchiapparla, per non voltarla, baciarla ed averla. Subito.

“Ciao, Pansy”

La sente fremere di un brivido, la vede scuotersi appena. Non si volta, non ancora – eppure ha davanti agli occhi la sua espressione, gliela può leggere da dietro la nuca, da dentro la testa, può sentirla muovere impercettibilmente gli occhi e le mani. La sente così sua, la sente così vicina, che la gola gli si secca appena. Forse è per quest'arsura o per una paura allagante che passa un secondo lunghissimo e pregno, prima che riesca a dire qualcosa ancora. Manciate di lettere di una verità che lo abbaglia.

“Mi sei mancata”

(continua)
 

 



Note: come flusso degli eventi, questo capitolo non aggiunge nulla ai precedenti. Però mi serviva soffermarmi su quello che Lucius ha pensato in questi due mesi di lontananza da Pansy, sia per la storia (mancano davvero pochissimi giorni alla fine del Writober e di questo viaggio bellissimo ç_ç) sia per non terminare questa storia senza aver detto di lui tutto quello che davvero penso lo animi. La fine è vicina e io tremo un po', questo centellinare serve soprattutto a me che di “strappare” non ho davvero il coraggio.

Grazie a tutti per essere arrivati anche oggi fino qui, vi abbraccio!

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Capitolo 14
*** Vecchi sogni (parte terza) ***


VECCHI SOGNI
(parte terza)

[#writober, 29 ott. seta]

 

Parole. Parole che sono frecce, che sono spine, che sono solo quello – parole.

Pansy si volta cauta, come se, ad aspettarla, dietro di lei, ci fosse qualcosa di feroce e spaventoso o di talmente brillante da accecarle gli occhi. Sente che la voce adesso le si è aggrappata alla gola – spaventata anch'essa – e non sembra intenzionata a salire; rimane lì nascosta, rintanata dietro alle corde vocali, lasciando solo spazio alla rabbia, lasciando che sia quella a serrarle la mascella, a squadrare il volto aggraziato. Ha gli occhi acquosi quando questi si posano su Lucius – lui manca qualche battito, il viso contratto nella luce delle lanterne. Una patina le fa rilucere le pupille d'ebano, rendendole scintillanti di luce e di sensazioni a cui non vuole dare un nome. Non sa se sia paura, fastidio, rancore o sollievo. Non sa se voglia baciarlo, schiantarlo, torturarlo o amarlo fino a perdere i sensi.

È questo che la distrugge, o distrugge entrambi: non c'è niente di univoco e definito in quel loro modo di amarsi. Non c'è niente che segua le regole, niente che vada nella strada tracciata, niente di immutabile e stabile. Tutto cambia, tutto rimane immobile. Né avanti né indietro: si muovono solo in impazziti, assurdi, percorsi laterali.

“Che cos'è questo teatrino, Lucius?”

Non lo dice, non lo direbbe mai, che lui le è mancato altrettanto; che odia questo andirivieni, la sensazione di terrore nel vederlo tornare ancora, proprio ora che si era affacciata su un barlume di accettazione della sua assenza. E adesso si sente di nuovo debole, con il muro che ha passato a mettere su negli ultimi due mesi che si fa molle, si annacqua – si fa diga pronta a cedere.

“Non volevo piombare in casa all'improvviso”

“E perché mai? È casa tua, ti è sempre piaciuto sottolinearlo”

Lucius prende un piccolo respiro, socchiude gli occhi, lascia che i polmoni si riempiano d'aria e del suo profumo, che ruba tutto lo spazio. La verità non sale a galla: ha scelto di incontrarla lì perché voleva farle vedere che sa di quel posto, che sa di Belmont. Voleva farle vedere cosa ancora possono sapere, insieme; voleva usare quella stanza.

“È casa nostra”

“Nostra?”

Pansy ride e della risata che lui ha sentito, immaginato, tra i corridoi del Manor nel tempo che sono stati divisi, non c'è nulla. È una risata molto più amara, quasi stridula, pregna di tutto il dolore che adesso si tiene sotto le ciglia, a ricacciarlo dentro gli occhi.

Lucius fa finta di non aver sentito; fa finta di non vedere i connotati pieni di quel risentimento palese, così lontani dallo sguardo che gli ha sempre dedicato prima.

“Ascoltami, Pansy. Voglio solo farti vedere una cos-”

S'interrompe quasi all'istante; Pansy fa scivolare dall'abito la bacchetta, gliela punta addosso, la mira esattamente al centro del suo petto, contro il cuore. Gli occhi sono grandi, sono liquidi, le iridi immerse di un inchiostro destinato solo a parole di fiele.

“Non voglio ascoltarti. Non ti avvicinare”

Lucius non si scompone, rimane immobile, abituato nella sua non onorevole vita a vedersi recapitata addosso la minaccia di una maledizione. Alza appena le mani, a mo' di resa, e non dice altro. Indica solo con la testa la stanza che si apre alla sua sinistra, in un invito ad entrare che non vuole essere invasivo, che vuole conquistare usando la lusinga della curiosità – il più grande pregio e la più forte debolezza della ragazza che ha di fronte.

Pansy rimane immobile e lascia la bacchetta al suo posto, contro di lui; però lancia un'occhiata laterale, a sbirciare cosa ci sia nel breve angolo che riesce a scorgere. Una superficie specchiata, una luce che ci riflette sopra di un timido azzurro, molto più fredda di quelle delle lanterne che scaldano il corridoio.

Si avvicina di un passo; Lucius ha ancora le mani alzate, l'aria quasi divertita dalla piega che ha preso quell'incontro. Lo vede che sta cedendo: lascia che Pansy si avvicini, che scruti l'interno di quella stanza che è tutta uno specchio, un cubo che riflette le loro immagini da mille diverse angolazioni. Un cubo che li rende piccoli, ed enormi, lunghissimi, schiacciati, quasi impercettibili e moltiplicati.

Abbassa la bacchetta. Lucius la osserva guardarsi intorno, cercarsi nelle mille sé che compaiono e si muovono ad ogni suo movimento. La segue: adesso sono insieme in quei giochi di riflessi, vicini in ogni faccia.

“Posso parl-?”

Pansy alza di nuovo la bacchetta, come se si fosse ricordata all'improvviso il punto esatto in cui aveva interrotto il suo pensiero. Lucius sorride di un ghignetto che si apre di lato e, dentro di lei, qualcosa di accartoccia alla bocca dello stomaco.

“Ti spiego dove siamo, poi puoi decidere di andartene. Va bene?”

Pansy lo scruta con lo sguardo affilato, il sospetto che gronda dalle ciglia.

“Niente giochetti, niente manipolazione. Dì solo dove siamo e soprattutto perché

Lucius annuisce. Non inizia a parlare, però; chiude solo gli occhi e, intorno a loro, le superfici piatte dei mille specchi iniziano a creparsi di onde, come se un sasso fosse stato lanciato sulla superficie di uno stagno e avesse preso ad aprire cerchi sempre più grandi intorno a loro. Anche la luce sfuma e si trasforma, così come i contorni: solo loro rimangono fermi, il resto muta e prende a disegnare nuove geometrie di forme e di luci, con il terreno che trema appena.

La riconosce quasi all'istante: intorno a loro, la loro casa di Montmartre si disegna nelle superfici degli specchi, come se si fossero trasformati in finestre, ognuna affacciata su una diversa parete.

“Che significa?”

Lucius sorride di nuovo, o forse il sorrisetto di prima gli è rimasto in faccia, in attesa di scoprire su di lei quella sorpresa.

“Vieni”

Lucius l'aggrappa per un polso, quello che tiene la bacchetta; si avvia verso una delle pareti: adesso può vederlo, lo specchio che è diventato vetro. Pansy si arresta quando Lucius sta per raggiungerlo; lui non fa lo stesso. Allunga una mano: questa lo attraversa, come se il vetro si fosse fatto liquido, una parete d'acqua che non bagna e che permette di passare oltre.

Pansy arretra di un passo, spaventata.

“Che cos'è? Dove porta?”

“A casa”

“A casa?” Nelle sillabe si leggono, incastrati, mille interrogativi. “È una specie di armadio svanitore...?”

“Mh” Lucius soppesa la risposta e mette un passo avanti; questa volta è più marziale: la presa sul suo polso è più ferma, non le permette di divincolarsi o di usare la bacchetta ancora. Se la trascina dietro. Deve seguirlo. “Una specie”

Pansy attraversa con lui il vetro e una scarica gelata l'attraversa da capo a piedi, come una cascata d'acqua. Dall'altra parte del vetro, tutto è esattamente identico a come lo aveva visto dall'esterno. Solo che è molto più reale, non filtrato da nessuna superficie. È come se davvero si fossero spostati altrove.

Si guarda attorno, un leggero dolore dove Lucius tiene ferma la stretta. Non ci fa caso.

Osserva: tutto è quasi identico a come lo ha lasciato poco prima di uscire. Ma la luce che sfuma dalle finestre è molto più accesa, nonostante l'ora tarda e non ci sono lucine o coccarde che brillano, scoppiettando di luci. Sembra una giornata estiva ma non saprebbe dirlo con precisione. Non riesce a cogliere il freddo o il caldo – è come se fosse una temperatura neutra, indecifrabile – e tutto, seppur identico, le sembra in qualche modo impalpabile, come se fosse fatto della sostanza della seta.

Lucius se la porta ancora dietro e, con un cenno leggero del mento, le indica l'esterno: il glicine che sovrasta la casa di fronte, che ha sempre visto sfiorito, è impazzito di grappoli lilla, che ricadono uno sopra l'altro, appesantendo i rami e facendo scoppiare di colori il muro altrimenti scrostato. Pansy lo osserva, prima questo poi Lucius. Lui coglie ogni interrogativo ma non concede alcuna risposta; ancora, la porta con sé. Nel corridoio, i grandi lampadari in cristallo – gocce di vetro come pioggia – splendono colpiti dai raggi e mille giochi di luce screziano la carta da parati verde e dorata, con motivi di palme e pavoni. Pansy sorride, non volendo, a pensare quanto quella casa sia davvero di Lucius, nonostante da qualche mese lei l'abbia fatta propria.

“Ma... perché è ancora giorno? Perché il glicine è fiorito?”

Ci sono solo domande, nessuna risposta. Ci sono vasi nuovi, quadri alle pareti che si sono spostati dalle loro stanze originarie; ci sono nuovi oggettini magici, un piccolo planetario che gira con un tintinnio adorabile, segnando ogni giro della luna intorno alla Terra con un piccolo gong. Ci sono delle foto magiche: Pansy e Lucius, vicini, sorridenti (o quasi). Lei ha un cappello a tesa larga calcato sulla testa, lui l'espressione di chi vorrebbe fare tutt'altro. Dietro, lo sfondo degli Champs-Élysées addobbati a festa, un'elettricità che si può cogliere nel modo in cui la foto lascia intravedere lo sguardo che lui le rivolge – indulgente, quasi, per quello scatto rubato, per quella vita rubata ai suoi doveri. Altre li ritraggono assieme, altri da soli. Pansy le scorre tutte: sono foto di momenti che loro non hanno vissuto, che non sono mai esistiti. Sono momenti di una felicità ordinaria, che anela, che ha sempre anelato ma che non c'è mai stata.

Un groppo le afferra la gola; si trascina sull'ultimo quadro: un ritratto enorme, che sovrasta la parete, che ritrae una famiglia che lei non conosce. C'è Lucius, su una grande poltrona in velluto smeraldo; c'è lei, in piedi accanto, le dita intrecciate a quelle di lui, un anello che riluce all'anulare. Si fissa: è bella di una bellezza che non possiede. Ha uno chignon morbido che le lascia qualche ciuffo uscire ai lati del viso, ad incorniciarlo; un abito scuro che la fascia da capo a piedi con grazia, unghie e labbra laccate di un rosso profondo. E poi...

Il cuore manca un battito, due, molti di più di quelle che riesce a contare. Una somma di respiri mozzati, il sangue che – per recuperare – prende a viaggiare impazzito, facendole pulsare le vene. La vede: vicino a Lucius, dal lato opposto, una bambina dai capelli d'argento e gli occhi scuri, la fissa con un sorriso beffardo, di chi sta per combinare qualcosa di terribile. In mano, ha una bacchetta finta, che punta verso chi sta guardando, con lo sguardo serio e concentrato. Pansy la fissa: è come se la riconoscesse, come se nei suoi tratti trovasse qualcosa di sé e di Lucius e di loro, insieme. È bellissima, con i capelli di seta e lo sguardo di vetro. Un singhiozzo le scuote la gola.

“Cos'è questo, Lucius? Uno scherzo? Torniamo indietro, riportami al Mulino!”

Lucius le stringe il polso per un secondo, avvicina la sua mano con la bacchetta al suo cuore. Se la punta contro. E poi si tira addosso lei, se la preme addosso. Pansy non gli ha mai visto sul viso quello sguardo. Lo sguardo di chi è davvero crepato a metà, di chi non ha soluzioni, solo altre domande.

Un secondo trascorre interminabile; Pansy, schiacciata al suo petto, sente il cuore premergli contro la cassa toracica. Può sentirne il ritmo direttamente contro il timpano, ovattato solo da ossa e stoffa. Lucius prende un respiro senz'aria e poi inizia a parlare. La voce è arrochita, quasi irriconoscibile; prova a schiarirla con un piccolo colpo di tosse che non sortisce effetto.

Quando le parole escono, sono appena soffiate, sono un sussurro.

“Ascoltami” Ancora la stringe, ancora la intrappola. Pansy non fa resistenza: nelle pupille ha ancora impressa la bambina dai capelli d'argento.

“La stanza in cui ci trovavamo si chiama le Miroir du futur. È una stanza incantata e piena di magia potente e antichissima. I Lefebvre la custodiscono con cura: molte persone si sono perse nelle sue stanze, in passato. Non hanno mai fatto ritorno.” Gli occhi si piantano in quelli di Pansy; li trova tutti pupilla.

“È qualcosa che mescola la potenza dello Specchio delle Emarb e della Stanza delle Necessità: al primo ruba la facoltà di indovinare i desideri; alla seconda, la capacità di trasformarli in realtà, almeno tra queste mura” S'interrompe; la fissa, si fissa su di lei. “Però qua, dietro il vetro, non c'è la realtà. C'è una delle realtà possibili. C'è quella che più desideriamo.” La voce quasi si spegne mentre la frase termina; sta snocciolando le parole contro la fronte di Pansy – questa si è fatta umida di un sudore fatto di incomprensione e paura, di un'emozione che la scuote prepotente.

“Non posso sposarti, Pansy. Ma posso darti questo, se può bastarti. Potremmo esserci noi, a Parigi. Potremmo avere tutto questo” Allarga le braccia intorno a sé; le mostra tutto. La collezione di quelli che sono i suoi desideri, tutti in bella mostra. “Potremmo avere lei”

Pansy si allontana con un piccolo scatto, divincolandosi dalla stretta. Lo sguardo torna al quadro, lo sguardo che si immerge in quello della bambina che le punta la bacchetta contro. Riconosce così tanto di lei – lo sguardo, il colore inghiottente, una provocazione che è già latente in quei suoi tratti bambini – e così tanto di lui – la posa aggraziata, i capelli d'argento, il viso affilato e beffardo. Tutto il meglio e tutto il peggio di loro, mescolato, in un crogiolo esplosivo e annichilente e impossibile.

“La lasceresti essere un'illegittima?”

Pansy torna su di lui, la rabbia che le scuote leggera le dita.

“Se quello che desideri è quella bambina, una nostra bambina, la lasceresti confinata qui?”

Era un'ipotesi su cui non si era mai soffermata: aveva pensato alla bellezza dell'avere Lucius, di potersi dire Malfoy, di passeggiare nel Manor con il mento alto. Scelta. Ma non a questo; non a questa seconda vita – seconda per ordine cronologico, per importanza, per logica. Seconda come seconda sarà sempre lei; dopo Draco, dopo Narcissa, dopo le Sacre Ventotto, dopo il Ministero, dopo il lavoro e il patrimonio e i possedimenti – esima.

Lo allontana di nuovo.

“Non può esistere questo, non potrà esistere mai”

Lucius non si scompone; anzi, se la tira addosso con più violenza.

“Può esistere, se vuoi” Tra le sillabe di Lucius c'è una disperazione che a Pansy è sconosciuta; una che avrebbe riconosciuto simile molti anni prima, quando non conosceva la sorte di suo figlio, quando la Battaglia di Hogwarts infuriava e aveva paura di perdere ciò che aveva di più caro. Come adesso.

Le posa la fronte contro la sua, ce la schiaccia di una prepotenza che lei non gli aveva mai visto addosso, che non gli aveva mai visto usare con lei. Strofina il viso contro il suo, con urgenza, ne ruba l'odore e il sapore. La bacia. Le bacia gli occhi, il naso, le guance, le labbra, il collo e poi scende, tra la scollatura che si apre lenta. Pansy lo scosta ancora, ma è molto più debole, è una resistenza che di strenuo non ha nulla. Morbida.

“Non può bastarti, Pansy? Perché non può?” Preme altri baci contro la sua pelle, le parole ovattate da quella vicinanza, il suo odore che vuole rubarle direttamente dai pori. Porta una mano alla sua nuca, sfila la mano dentro il caschetto corvino; stringe. Il dolore alla base della nuca si dipana lungo Pansy come uno stridio, la scuote.

“Lasciami, Lucius” Le parole sono un sussurro, una supplica senza convinzione.

Lui non obbedisce; le mani lunghe e bianche vanno al suo vestito, al nodo che lo stringe sul davanti. Lo scioglie con un movimento leggero, mentre avanza e, al tempo stesso, la fa arretrare, fino a che le spalle non toccano il muro e lei è di nuovo in trappola, braccata da lui. Fa sfilare le mani sotto la stoffa che si è aperta – per lui, grazie a lui –, le fa frugare sul corpo magro, ad accarezzare la stoffa del pizzo, la texture della sua pelle d'oca. La sente fremere sotto di lui, e lui freme allo stesso modo. Sente le mani di Pansy arrivare da lui: vorrebbe fosse per cercare la sua giacca, per far saltare i bottoni uno per uno. Invece lei spinge, cerca di allontanarlo. Deve farlo da solo, quindi. Sgancia i vestiti, la camicia; stoffe che ora si spalancano da entrambe le parti a lasciare stridere pelle contro la pelle. È ceramica, è porcellana quel loro premere – bianchi e gelidi, caldi solo dei loro tocchi.

“Lasciami, ti prego”

Pansy geme, però, e le parole perdono significato. Lucius scende con la bocca, la bacia; dal seno, alla pancia, l'ombelico in cui immerge la lingua, e poi il confine dei suoi slip che aggira. Le bacia la piega delle cosce, si avvicina e si allontana dal suo piacere; ne sente l'odore, se ne bea, si chiede come potrebbe davvero vivere senza averlo più sotto le mani, sulla lingua. Come può privarsi della più potente delle magie mai create, dell'incantesimo più annichilente. Si odia, per la sua codardia. Basterebbe poco e lei sarebbe sua; solo sua. Affonda il viso contro di lei, contro la stoffa; la scosta con un gesto veloce della mano, la assaggia. Pansy si contrae appena, il vestito di seta che stride contro il muro, la mano che preme sui cappelli d'argento, che se lo preme addosso.

Parla ancora, la lingua sporcata del sapore di lei, le parole sporcate di quell'amore dolciastro.

“Perché non può bastarti, Pansy?”

Affonda la lingua dentro di lei, come a farla sua così, come se volesse rendersi allo stesso modo indispensabile. Sua – nel Miroir, a Montmartre, nella vita che potrebbe essere se soltanto lei facesse un passo indietro, un compromesso.

Pansy geme, e le sillabe le escono a singhiozzi; il piacere vorrebbe chetarle, rubarne tutto lo spazio, non permetterle di rimanere sul punto. Vorrebbe solo lasciar uscire sospiri e grida, una resa incondizionata, un armistizio che sa di orgasmo, un sì che li racchiude tutti. Ma Pansy muove appena il bacino, si fa indietro, riapre gli occhi e fissa un punto di fronte a sé, una loro foto con la Tour Eiffel come sfondo lontano e lei che mima un occhiolino verso l'obiettivo.

“Perché non sarò mai più seconda”

 



Note: CHE FATICA RAGAZZI. Questo Writober mi sta provando: voler dire mille cose e avere il tempo contato per farlo. Spero di essere riuscita a rendere qualcosa del miliardo di cose che avevo in testa. Non lo so. Fatto sta che questo è il penultimo capitolo della storia, il prossimo sarà l'epilogo: grazie a chi ha letto fino a qui, sclerando un po' con me e con loro (per colpa loro!)
Vi abbraccio

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


EPILOGO

[#writober, 31 ott. - bad decisions make good stories]

 

Ci sono anni che sono giorni e minuti che sono ere; Lucius li ha vissuti entrambi ed entrambi hanno portato, faticosamente, fino a lì. Non è uomo da sentimentalismi – non più, almeno – però vedere lo sguardo di Scorpius, le crepe enormi che ha scavate nelle pupille, ancora un po’ gli affatica il passo. Astoria se n’è andata e suo nipote sta ritto per qualche magia a lui sconosciuta. Lucius lo ama ma non riesce a non pensare che forse sarebbe stato altro, con un’altra madre a mettergli dentro del sangue buono. Madre che non se ne sarebbe andata via tanto presto, che sarebbe rimasta a vegliarlo ancora; madre che non gli avrebbe insegnato tanto giovane qual è il sapore amaro del dolore.

Forse, Lucius pensa però, che sia quasi meglio scoprirlo quando gli anni sono pochi e il cuore è ancora malleabile, pronto ad assorbire ogni urto – non quando si è indurito per colpa della vita e ogni botta lo scheggia con poca premura, lo riduce.

Forse, Lucius pensa, è meglio non pensare.

 

Il binario nove e tre quarti è tutto uno sbuffo di sogno e vapore che sfuma i tratti; sente una piccola fitta, un doloretto che stuzzica il cuore, a pensare quanto tempo prima lì sopra stava suo figlio, quello che adesso gli cammina a fianco curvo, il peso della vita a fiaccargli le spalle. Lucius lo osserva, gli passeggia accanto con il bastone in mano, la testa di serpente stretta nella morsa delle sue dita bianche. Salazar, se vorrebbe dargli un colpo in quella schiena piegata! Nessun Malfoy ha mai chinato tanto il capo – solo se stesso, anni prima, al cospetto del Signore Oscuro e il ricordo ancora gli buca lo stomaco di bile solida.

Per questo vorrebbe dirgli che nessun Male farà più tanto male – è quello che si è ripetuto spesso, negli ultimi anni, come una mantra, una nenia, qualcosa che lo cullasse quando il buio si affacciava agli angoli degli occhi e minacciava di mangiarsi – di inghiottire – tutto il resto.

Non dice nulla, invece; gli ha sempre detto troppo poco, di tutto. Per questo, ciò che li separa non sono solo manciate di decine di centimetri; sono anni di silenzi, incomprensioni, bugie e desideri taciuti. Sono anni passati a far pagare ad un figlio colpe che non possedeva – tra cui quella di non poter avere lei, di averla fatta sempre rimanere sua, di non avergliela mai lasciata davvero.

 

Draco poteva avere Pansy – lei gli si era offerta come mai, mai!, aveva fatto con lui, schiusa, sbocciata, pronta. E suo figlio, quell'ingrato e scellerato figlio, ha sempre rifiutato quel dono, quella grazia, con la stessa leggerezza con cui si scacciano le cose di poco conto.

 

Lucius lo guarda – piegato, piagato dal dolore – e non riesce a dispiacersi quanto dovrebbe. Sicuramente, non quanto vorrebbe.

 

*

 

Ci sono giorni che sono anni ed ere che sono minuti; Pansy li ha vissuti entrambi ed entrambi hanno portato, faticosamente, fino a lì. Mentre l'Hogwarts Express l'avvolge con la sua coltre di fumo candido, i suoi pensieri sono molto più ovattati di quell'aria satura. Era certa che mettere di nuovo piede lì – i ricordi ad ingombrarle il passo – sarebbe stato come vedersi presentato il conto; degli anni passati dall'ultima volta che ha calcato le stesse mattonelle – attenta a non toccarne le fughe, in quel solito gioco infantile che nascondeva a tutti – ha solo qualche ammasso di ricordo muffito, come se, davvero, avesse salvato solo manciate di attimi, quelli che gli sono rimasti impressi negli occhi, bassorilievi nelle pupille che non riesce a cancellare. Molti di questi non li confesserebbe mai; perché confessare vuol dire cedere, vuol dire ammettersi che ci sono decisioni sbagliate che sono state molto più giuste di quelle che tutti definirebbero tali. Se l'è chiesto, se ha fatto bene a lasciare che il suo orgoglio vincesse: che te ne fai, poi, dell'orgoglio? Non ha mani e non ha bocca, non ha un profumo, non è caldo di un calore antico, del calore ancora più marcato di chi ha sempre i polpastrelli gelidi, di chi li scalda solo al tuo tocco.

Molte domande, risposte meno di una manciata; si aggrappa all'avambraccio di Belmont, gli chiede silenziosamente che la sorregga, come ha fatto molte volte. Lui ha sempre detto di sì: spesso vuoto (svuotato) dal dolore di chi sa che, il suo amore, ha cuore occhi e labbra destinati altrove, che glieli concede soltanto perché manca il destinatario originale.

 

Pansy trema appena; non sa se sia perché Parigi ha rubato a Londra il sole e le ha lasciato, in cambio, solo una coltre grigiastra e umida. O perché, nemmeno dopo più di una decade passata altrove, ha avuto il coraggio di negare Hogwarts a due piccole, meravigliose, mani da strega. Fatto sta che non c'è un nervo che non sia tirato, che non sia teso come corda di cuore di drago – quelle della sua bacchetta, di cui ancora ricorda anche il più minimo dettaglio.

 

*

 

I ricordi – fautori dei peggiori scherzi, delle più pericolose trappole.

 

Questo pensa Lucius mentre la nebbia, traditrice, gli mostra qualcosa che non esiste davvero, qualcosa che ritrova solo nell'indulgente sapore del passato, nelle sere in cui il sonno non arriva a prenderlo prepotente ma lo lusinga con parole dolci e minuti lunghi, con le difese abbassate e il cuore privo di protezione alcuna.

I ricordi – che invenzione buffa, che arma velenosa. Tante volte ha visto il suo profilo altrove, tante volte ha sentito un simile modo di sospirare, tante volte volte ha riconosciuto un sentore di gelsomino nell'aria – tante volte. Questa è soltanto una di quelle, si dice, una di quelle in cui la distrazione è complice di un dolore mai definitivamente chetato.

 

Eppure, eppure...

 

Lo riconosce, quel passo: breve, preciso e allo stesso tempo fluido, liquido; lo riconosce, quel profilo: il naso dritto, una piccola ed impercettibile cicatrice a segnare il mento di una fossetta breve; lo riconosce, quello sguardo: pozzi di pece su uno scudo pallido, gli zigomi a sporgere timidi oltre la pelle sporcata da sparute e sottili rughe.

 

La riconosce. Molto più bella di come ricordava, di come il cervello gliela figurava, proteggendolo; molto meno sola di come sperava l'avrebbe mai rivista, consolato nel pensiero che nemmeno lei avrebbe mai più amato, lontano dalle sue mani, che nemmeno lei avrebbe più avuto il coraggio di tuffare il cuore in altri petti.

 

Le riconosce, quelle mani: immancabilmente laccate di rosso, aggrappate ad un braccio che non è il suo, screziate all'anulare da uno smeraldo che brilla spavaldo anche sotto la tiepida luce di inizio settembre, con il cielo velato – come i suoi occhi.

 

Il cuore si ferma, poi accelera, poi si ferma ancora.

C'è qualcosa che si apre, sopra lo sterno: una voragine, uno squarcio, una crepa che dà sull'ignoto. Ogni notte passata a pensare, ad immaginare, che trema dentro di lui come terra che poggia su magma vischioso, incontrollato e incontrollabile. Magma che lo trascina, che lo disperde, che lo getta in un mare infuocato di nulla.

Il cuore accelera, poi si ferma, poi accelera ancora.

 

Lo vede un attimo dopo, qualcosa che entra come una meteora nel suo campo visivo e ruba la scena anche a lei. Una ragazzina corre nella loro direzione, sorpassandoli veloce, ignorandoli: ha un basco verde calcato sulla testa e una gonna che svolazza lieve ad ogni movimento delle gambe lunghe e bianche. Ha i capelli che frusciano, di un biondo chiarissimo che sfuma nell'argento e occhi neri e scintillanti, profondi di una vita tutta da scrivere, di un orgoglio tutto da sporcare.

Una voce – quella voce – si alza leggera e Lucius si accorge che proprio a quella bambina è destinata.

 

“Suzanne, non ti allontanare!”

 

E mentre Pansy alza gli occhi a cercarla, i loro sguardi si incontrano: ad un millimetro dalla fine, dall'inizio, dal punto che avvia e chiude il cerchio. A metà tra due vite, tra due sgomenti, tra i non detti e i non fatti anestetizzati dal tempo e dall'incuria di un amore che non ha mai avuto coraggio di essere.

 

Insieme, soli – come sono sempre stati.


 



Note: È FINITA. ANDIAMO A PARIGI BEPPE (?)
È con il cuore un po' stretto e con un capitolo scritto in fretta e furia che termino questo mio viaggio e questo mio Writober. Devo tanto a questa storia – ci ho messo molto più di me di quanto dovrebbe essere concesso. Lucius e Pansy mi hanno rubato il cuore, Parigi prima di loro, e scrivere di questa combinazione invece mi ha dato molto di più di quello che mi aspettassi. Grazie delle bellissime parole che avete speso per questa storia, ognuna è stata un motivo in più per mettersi al pc nonostante le palpebre cadenti. Non l'ho dato per scontato nemmeno per un secondo ed ogni ringraziamento non sarebbe davvero sufficiente.

Vi mando un abbraccio grande, vi voglio bene!

 

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