La prossima vita

di Green Star 90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo dell'epilogo ***
Capitolo 2: *** I. No Geography ***
Capitolo 3: *** II. Poker Face ***
Capitolo 4: *** III. High Flying Birds ***
Capitolo 5: *** IV. Clocks ***
Capitolo 6: *** V. Walk ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo dell'epilogo ***


0. Prologo dell’epilogo

 

 

Da piccola, Irene era abituata ad ascoltare i racconti dell’orrore del suo bisnonno.
Le narrava che tanti anni fa, quando le strade appartenevano ancora ai cocchieri e ai cavalli, il loro progenitore era un famosissimo archeologo inglese che cacciava vampiri.
Talmente grande era la sua fama che l’America richiese i suoi servigi per la risoluzione dei misteri più truci. Da adulta, Irene pensa a quei racconti e la nostalgia le offusca il volto.
Che esistessero o meno i vampiri, l’antenato di Irene era veramente un archeologo che ha girato il mondo prima di morire serenamente di vecchiaia. Secondo nonno Joseph aveva un fratello adottivo malvagio che si è trasformato in vampiro.
Non si conosce il come, non si conosce il perché, ma secondo la leggenda questo vampiro incredibilmente bello è ancora in circolazione e vive da qualche parte in Egitto. Sembra che una volta l’abbiano avvistato a Napoli, ma nessuno ha mai confermato né smentito. Si dice anche che abbia troppa paura dei discendenti dell’archeologo per poter anche solo desiderare di far loro del male.
Grazie a questa storia, bambina mia, è nata la Fondazione Speedwagon. Di giorno sono un ente benefico, ma di notte combattono i vampiri!
V
a bene così, non serve sapere se sia vero o no.
Le fiabe ai bambini, la realtà agli adulti.

 

 

 

***

 

 

Appropinquandomi a pubblicare l'ennesima astrusa raccolta di cose mie, credevo ingenuamente che Irene comparisse nella lista dei personaggi tra quelli elencati in fase di pubblicazione, ma con mio sommo disappunto non è stato così. Questo papello per segnalare che l'Irene della fine di Stone Ocean è un po' la protagonista/attante-oggetto della raccolta, quindi mi sarebbe piaciuto che i lettori comprendessero subito questo particolare dalla descrizione della storia. 
Paturnie a parte, rieccomi nuovamente con, stavolta, qualcosa di breve, una specie di summa delle mie pubblicazioni precedenti su questa sezione che cerca, per quanto possibile, di chiudere un cerchio aperto più di un anno fa. 

Grazie come sempre a chi leggerà e alla prossima settimana.

 

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Capitolo 2
*** I. No Geography ***


I. No Geography


 

Secondo un classico cliché cinematografico, è norma che durante un funerale il cielo decida di partecipare e piangere assieme ai parenti in lutto. Che cosa cretina, avrebbe commentato il nonno.
Il sole è accecante, è caldo, è prepotente. Niente a che vedere con la pioggerellina patinata dei film di serie B.
Il pulviscolo vortica blando nelle lame di luce primaverile che bucano le finestre. Valentina le osserva senza ascoltare il prete che elenca ai fedeli le buone qualità del defunto: grande lavoratore, amico fedele, uomo onesto, padre esemplare, nonno affettuoso. Grazie, lo sapevamo già.
“Dai nipoti, con amore incondizionato”, recita la fascia nera sui fiori che ricoprono la bara. Girasoli, allegri, veraci, mettono buonumore.
I preferiti del nonno.


 

̴


 

Quando Valentina saluta il nonno per l’ultima volta lo fa con compostezza. Non è mai stata la nipote espansiva della nidiata, ma forse è per questo che stava particolarmente a cuore al defunto. Gli ricordava la buonanima della nonna che era il suo opposto: lui biondo e imponente, lei mora e minuta, lui fumantino, lei flemmatica, era l’unica donna a non essersi invaghita al primo istante della sua bellezza. Uno scimunito ho sposato, uno scimunito, le diceva la nonna quando era piccola. E sai perché, a nonna? Perché tutti i masculi sono scimuniti, è la loro natura.
Ma allora perché l’hai sposato?. le domandava Valentina, seduta accanto a una bacinella a sbucciare piselli.
Le rughe attorno alla bocca si piegano – piegavano – in un mezzo sorrisetto. Le labbra serrate, non mostra mai i denti quando la nonna pensa a qualcosa di bello.
È uno scimunito onesto, dice alla fine. Uno scimunito onesto ti devi maritare, altrimenti fai chiu bella figura se resti sola.
Da grande, Valentina ci pensa ancora e, mentre si china per baciare la fronte del nonno, infila due ciocche di capelli biondi dietro le orecchie e scopre le voglie sugli zigomi. È l’unica nipote ad averle ereditate.


 

̴


 

Per Valentina il presente e il passato non hanno alcuna distinzione perché le basta evocare il suo “demone buono” per rivivere la vita dei cari che non può più riabbracciare. Un ominide rosa e azzurro con due occhi da insetto e i polpastrelli luminescenti che si srotola in infinite pellicole di cellulosa che mostrano storie, realtà e persone, siano esse conosciute e non.
Non fa che chiudere gli occhi e immergere lo spirito in una di queste pellicole: è più vivido di un film, è più reale delle fotografie, ma è anche pericoloso e per questo deve stare attenta. Può solo osservare e spostarsi da un luogo all’altro del suo mondo, ma le va bene così perché ha capito che gli ecosistemi temporali sono tesori da preservare.
Ed ecco quindi che rivede suo nonno all’età di vent’anni, incredibilmente bello, scorrazzare in macchina per le vie di Roma, fare la corte alla nonna in Sicilia, ma anche arruolarsi nell’esercito e conoscere altre mogli di altre linee temporali, rivede sé stessa, rivede sé stessa in altri volti, in altre fisionomie, un alcuni mondi non esiste nemmeno perché il nonno muore in un ospedale da campo a Genova, in altri ancora invecchia senza una famiglia accanto. In altri è addirittura una donna, mentre la nonna è il nonno, e così all’infinito finché non ne ha abbastanza.
Ha ereditato il demone dalla nonna, anche lei ne aveva – ne ha – uno. Non lo ha mai detto a nessuno che non siano i ficcanaso della Fondazione Speedwagon, forse nemmeno al nonno, per paura di essere creduta pazza. Solo Valentina ne era – è – a conoscenza, perché è l’unica della famiglia a vederlo.
È una farfalla monaca d’oro e d’argento che riposa in una campana sopra il comodino della camera da letto della nipote. La nonna le diceva che i loro demoni erano – sono – collegati: ogni volta che la farfalla unisce le ali, una nuova realtà alternativa è nata e un nuovo nastro di celluloide metafisica diventa un pezzo del demone di Valentina. Nuove persone sono nate, altre sono scomparse, è il ciclo del tempo e dello spazio.
“Stand automatico”, lo ha chiamato una volta un camice bianco della Fondazione, un demone che sopravvive al suo evocatore e mantiene i propri poteri.
La farfalla batte le ali, e Valentina rivede un’altra sé stessa quasi identica che sbuccia i piselli in un pomeriggio estivo e pone la stessa domanda alla nonna:
«Ma allora perché l’hai sposato?»
«È uno scimunito onesto»
.
No Geography. Lo ha chiamato così perché grazie a lui Valentina non sa cosa sia un limite spaziale.


 

̴


 

Valentina torna in sé. È ancora al cimitero e i conoscenti si stanno congedando dalla famiglia. A un tratto sente una leggera pressione: una mano delicata che riconosce subito.
«Signora Holly».


 

̴


 

Valentina e Holly si allontanano dal resto della famiglia. È venuta apposta dall’America: il nonno era un grande amico di suo padre e per lei è stato come perdere un genitore.
«So che non è il momento adatto per dirtelo, ma tieni» porge alla ragazza una busta, a prima vista sembra un invito di nozze.
«Irene si sposa».
Holly è combattuta tra due emozioni che fanno a botte nel suo animo ed è più che palese nei suoi occhi lucidi. Il suo italiano americano la rende ancora più dolce del solito «sei la prima della famiglia che viene a saperlo, ci sarai?».
Valentina apre la busta e legge i nomi dei futuri sposi. Ma certo che ci sarà.
«Al nonno piacevano i matrimoni» – al nonno piacciono i matrimoni, non se ne perde uno – «se non partecipassi si arrabbierebbe con me».
Holly sorride. È triste, ma è una tristezza che donerà pace una volta che il lutto sarà razionalizzato.
«Ha vissuto una bella vita» le dice «tanti figli e nipoti come ha sempre voluto»
«È vero» conviene Valentina.
Lunga vita a Cesare.


 

***


 

Nome Stand: No Geography.
Portatore Stand: Valentina Zeppeli.

Crea portali attraverso i quali è possibile spostarsi in qualunque luogo del globo terrestre a patto che il portatore conosca le coordinate di destinazione. Nella sua forma “pellicolare” permette di viaggiare attraverso le pressoché infinite realtà alternative differenti e di conservare il ricordo di quanto visto. Tuttavia, se il portatore apporta anche il minimo cambiamento all’interno di una di esse o interagisce con uno sei suoi sé stessi si innesca un paradosso che rischia di cancellare la propria esistenza e quella dell’universo alternativo che ha alterato. Sembra inoltre che il suo potere subisca l’influenza dello Stand automatico della nonna paterna defunta. Per questo motivo, sia entrambi gli Stand che il portatore di No Geography sono sotto stretta sorveglianza della Fondazione Speedwagon.

Potenza distruttiva: ∞; Velocità: D; Raggio d’azione: A; Durata d’azione: C; Precisione: D; Potenzialità di crescita: B.


 


 


 

***


 


Fa uno strano effetto rileggere queste flash dopo aver ultimato la lettura di Steel Ball Run, perché in qualche modo D4C e No Geography si somigliano molto. A parte questo, volevo che il C(a)esar(e) dell’Ireneverse esaudisse il desiderio di mettere su famiglia e che se la godesse fino alla vecchiaia. Non so se canonicamente accadrebbe davvero, ma volevo comunque rendergli omaggio attraverso i ricordi di Valentina.
Ovviamente gli ho anche dato una moglie che è il suo esatto opposto perché credo che per uno come lui ci voglia una donna tosta che non si lascia abbindolare dal primo belloccio di turno. Spero l’abbiate apprezzata nonostante appaia per pochissime righe.

Grazie per aver letto e alla prossima settimana.

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Capitolo 3
*** II. Poker Face ***


II. Poker Face


 

Tsubaki è appena nata e non sa ancora di non essere come gli altri bambini.
L’ostetrica la accomoda sul seno della madre che scosta la coperta per vederla in viso.
«Comme son père», è la prima frase che si sente rivolgere.


 

̴


 

Tsubaki ha quattro anni, si è svegliata poco prima dell’alba e dovrebbe provare tanta paura.
C’è una cosa senza faccia che la segue come fosse la propria ombra e che non vuole lasciarla in pace. Bussa alla camera dei genitori tra un «Okāsan» appena mormorato e l’altro per il timore che la cosa possa farle del male anche se una parte di sé le dice che non c’è niente di cui temere.
Quando la porta si apre sua madre sta infilando la vestaglia da notte. La guarda a metà tra l’interrogativo e l’assonnato e poi volge lo sguardo verso il punto indicato dalla bambina, ma si ritrova a osservare il niente nel corridoio silenzioso.
Con uno sbadiglio, suo padre scende dal letto, sporge la testa oltre la spalla della compagna e subito un lampo gli attraversa gli occhi. Si fa avanti, prende la figlia in braccio e la conduce in soggiorno. La cosa li segue silenziosa e si ferma vicino alla libreria come una piccola guardia del corpo. È poco più alta della sua evocatrice, è argentea e longilinea e imbraccia uno scudo a forma di cuore. Leziosa, una coroncina di boccioli le adorna la testa pelata.
«Ti va se ti spiego un paio di cose?» domanda a Tsubaki mentre la fa sedere sulle sue ginocchia.
Lei annuisce in silenzio e gli stringe un lembo del pigiama. Lui le accarezza i capelli spettinati e inizia a parlarle del fatto che anche lui ha una cosa che gli fuoriesce dall’ombra.
Tsubaki ascolta e per la prima volta ha il sentore di non essere una bambina normale.
Del resto, nemmeno la sua famiglia è normale.


 

̴


 

Tsubaki ha cinque anni e di fronte a lei uno scienziato sta compilando una scheda. Nome. Cognome. Sesso biologico. Genere. Eventuali tare genetiche. Casi familiari: due certificati. Nome dello Stand – «gli Stand – così si chiamano le cose – hanno un nome?» «Sì, ma se non gliene hai ancora dato uno non fa niente» –. Quando ha finito scambia alcune parole con il portatore Stand – così si chiamano le persone che evocano le cose – che le rivolge uno sguardo benevolo. Tsubaki però capisce subito che non conviene farlo arrabbiare, come del resto non conviene fare arrabbiare qualsiasi altro portatore Stand.
Lo scienziato va via e lei resta da sola con quell’uomo. Lui fa tintinnare i bracciali alle braccia ed evoca il suo Stand, una specie di divinità egizia del fuoco con la testa a forma di uccello.
«Wow!» Tsubaki salta giù dalla sedia e si avvicina alla cosa – no, definirla cosa è riduttivo, quella è veramente una divinità, che subito le porge una mano artigliata. Emana un tepore piacevole e un senso di sicurezza che le infonde coraggio.
«Signore?»
«Sì, mia cara?»
«Anche io voglio una cosa grande grande come la tua!».
Lui ride di gusto, schiocca la lingua e agita l’indice.
«Devi allenarti tanto se vuoi che accada, ma sono sicuro che ce la farai. Allora, posso vedere la tua cosa adesso?».
Tsubaki strizza gli occhi per un attimo e quando li riapre la cosa è accanto a lei. La coroncina di boccioli inizia a schiudersi, ma è ancora troppo presto per identificare quali fiori custodisce.
«Ottimo, fammi vedere cosa sai fare!» la esorta l’uomo con un sorriso ampio.


 

̴


 

Tsubaki ha otto anni e sta rovistando nella cassetta del pronto soccorso alla ricerca di un cerotto. Accanto a lei suo zio ha assunto una faccia preoccupata.
«Aaah, ti prego, non dire niente a tua madre, ok?» si guarda alle spalle più volte, come se da un momento all’altro il cancelletto del villino debba spalancarsi per la furia della sorella che più volte gli ha intimato di non giocare a duello di Stand con la nipote. Regola prontamente disattesa dalla suddetta nipote e ignorata dal cognato, che in questo momento si sta godendo la scena simulando una finta pennichella all’ombra di un faggio.
«Petit doigt» cantilena la bambina quando preleva il tanto agognato cerotto «però la prossima volta non fare quella stoccata con la spada, mi stavi amputando la gamba!» e così dicendo si indica il taglio al ginocchio e assume il cipiglio tipico di suo padre.
«E tu smettila di annullare tutte le cose che faccio, così non c’è gusto!» rimbecca lui incrociando le braccia al petto.
«Colpa tua che stai diventando debole!» Tsubaki gli sventola il cerotto sul naso e gli fa una linguaccia.
I due litiganti non se ne accorgono, ma la persona all’ombra del faggio sorride appena e apre un occhio per vedere cosa stanno facendo. Perfetto, fanno casino come sempre.
E dire che voleva un nipote maschio, il cognato francese.


 

̴


 

Tsubaki ha quattordici anni e si tiene una manica premuta sullo zigomo dolorante.
Anche quel pomeriggio, all’uscita di scuola, ha fatto a botte coi bulli. Hanno vessato alcuni kōhai e poi hanno avuto la splendida idea di prendersela con lei perché è una hafu e perché si è permessa di dire loro di smetterla.
Conseguenza: due deficienti dell’ultimo anno sono finiti dritti in un cassonetto della spazzatura con un’alzata di scudo.
Quella violenza non si addice a una ragazzina graziosa come lei. Non le si addice l’uniforme sgualcita. Quella cicatrice sul ginocchio, mio Dio, non va bene. Quelle sfumature ramate sui capelli ondulati in un mondo di chiome lisce e corvine non fanno di lei una vera giapponese. E gli sguardi taglienti, e la risposta pronta, e la propensione a scaldarsi facilmente, non si addicono a una femmina. Che educazione le hanno impartito a casa?
Ma chi se ne frega, diamine.
L’adrenalina in corpo è ancora così tanta da aver dimenticato di ritirare Poker Face. Il suo Stand la segue tra la folla e poi giù fino alle gallerie della metropolitana con sempre il suo scudo e la corona di rose blu sul capo. L’ha nominato così per la sua imprevedibilità nello sferrare gli attacchi e perché è in grado di annullare il potere degli altri Stand. E poi perché non ha un volto, e questo a chi è in grado di vederlo non piace affatto. È inquietante anche con quelle rose in testa.
Tsubaki attende dietro la linea gialla in mezzo alla folla e respira lentamente mentre richiama a sé il suo Stand, quando un tap tap gentile sulla spalla la fa voltare. Lo riconosce, è il dottor Kujo. Sotto al braccio regge una scatola di legno, probabilmente la solita bottiglia di liquore rosso italiano. L’altra mano regge il manico di un trolley.
«Giornata pesante a scuola?».


 

̴


 

Tsubaki cammina impettita a circa un metro di distanza dal suo accompagnatore. Tiene il broncio, è normale. Qualcuno ha già detto che una signorina a modo non dovrebbe fare a botte?
Glielo fanno notare tutti, ma non la cerchia di stramboidi della quale si attornia la sua famiglia. Del resto, anche lei lo è. E lo è anche il tizio alto più di centonovanta centimetri che la segue placido, a passo lento. Non ha mai fretta, il dottor Kujo.
Secondo suo padre ha un’adorabile faccia da teppista.
Papà, quest’affermazione è molto gay, sappilo, gli aveva detto lei.
Capirai, aveva ribattuto, tuo zio credeva fossi gay quando l’ho conosciuto, poi tua madre è rimasta incinta e il resto lo sai già.
«Lo so, è fastidioso».
Tsubaki interrompe il suo viaggio mentale nei ricordi. Si volta a guardare l’adorabile teppista e lui le rivolge il più classico dei suoi sguardi stoici.
«È fastidioso essere mal tollerati perché non si è purosangue. Anche io spesso litigavo con chi faceva il prepotente».
Tsubaki sbuffa e torna a voltargli le spalle, per orgoglio adolescenziale non vuole dargli la soddisfazione di aver trovato rincuoranti quelle poche parole. Che faccia da poker.
Lui non prosegue il discorso, ma rimesta nella tracolla e tira fuori una partecipazione di nozze.
«Irene si sposa» butta lì «le piacerebbe molto averti come damigella».


 

̴


 

Tsubaki non si sorprende quando i suoi genitori mostrano preoccupazione vedendola col volto stropicciato dall’ennesima zuffa. Lei non dà molte spiegazioni – non che ne abbia mai date tante – lascia che il loro sguardo la segua fino alla sua camera, poi apre la porta e se la chiude alle spalle.
Sicuramente stanno parlando di lei in compagnia del liquore, in salotto, con quel bizzarro quadro che l’adorabile teppista osserva sempre quando va a fare loro visita. Raffigura due forme alienoidi, una verde, l’altra argento, immerse in un mondo metafisico, le due metà di Poker Face. Lui sa che esistono gli Stand ma non può vederli, quindi quando ne ha l’occasione indugia su quel quadro. Anche Irene, le volte in cui è stata in Giappone, si è persa spesso nel dettaglio di un tentacolo o in quello dello scintillio del fioretto, e più di una volta ha chiesto a Tsubaki cosa si prova ad avere un guardiano che ti protegge.
Tsubaki glielo ha spiegato, non si stanca mai quando si tratta di Irene. Da brave figlie uniche, è come se fossero sorelle. Anzi, lo sono.
Tsubaki non lo dice apertamente, ma non vede l’ora di riabbracciare Irene e di farsi sentire dire Sorellina! Come stai?
Ma Tsubaki in realtà non lo sa, come sta. Forse sta bene, ma potrebbe andare meglio.
Lo zigomo fa ancora male, ma cerca di non pensarci.
Conoscendola, Irene le farà indossare un abito blu perché è il suo colore preferito.


 

***


 

Nome Stand: Poker Face.
Portatore Stand: Tsubaki Kakyoin.

È in grado di annullare gli effetti degli Stand avversari fino a un raggio di cinque metri e per la durata di dieci secondi. È dotato di uno scudo grazie al quale sferra colpi dotati di una buona potenza distruttiva. Tuttavia, quando il potere di annullamento è attivo non può attaccare e, viceversa, quando attacca non può annullare i poteri Stand altrui. Non si esclude il superamento di questa lacuna col rafforzamento fisico del portatore e per questo motivo gli scienziati della Fondazione Speedwagon lo tengono costantemente sotto osservazione

Potenza distruttiva: B; Velocità: A; Raggio d’azione: C; Durata d’azione: C; Precisione: B; Potenzialità di crescita: A.


 


 


 

***


 


 

Momento pagliaccio numero uno: in fase di stesura ho dimenticato di inserire la versione Ireneverse di Iggy, quindi, se vi è di consolazione, sappiate che in questo universo alternativo vive gaio e felice in compagnia della versione Ireneverse di Abdul e della Fondazione Speedwagon.
Momento pagliaccio numero due: da grande detrattrice delle crack ship quale sono, ho ben pensato di far diventare Kakyoin e Polnareff cognati perché trovavo l’idea divertente e perché se esiste un Jouta che è la crasi di Jotaro e Noriaki non vedo perché non debba esistere una Tsubaki che è la crasi di Jean-Pierre e Noriaki. Per farla breve, la mia intenzione era, anzi è sempre stata, quella di prendere in giro la Jotakak e i tropi che le gravitano attorno poiché l’headcanon secondo il quale Kakyoin sia stato l’unico vero amore di Jotaro non mi è mai andato particolarmente a genio. Inoltre, resto fermamente convinta che Jotaro ami davvero l(a ex) moglie, quindi possiamo riassumere il tutto così: non esiste un solo vero amore, ma tanti amori di uguale valore che costellano le vite dei personaggi di Jojo.
Tornando in focus, Tsubaki ha due fonti di ispirazione: la prima è La signora delle camelie, dal quale prende il nome (Tsubaki è la traduzione letterale di camelia) e in parte il carattere di Marguerite; la seconda è La lettera scarlatta, da cui ho tratto spunto per il legame non convenzionale dei suoi genitori. Non l’ho specificato in diegesi, ma nell’Irenevese la sorella di Jean-Pierre si chiama Esther, mentre Kakyoin viene soprannominato «Arthur» dagli amici occidentali per il suo faccino da «finto puritano» (cit. Jean-Pierre).

Grazie per aver letto e alla prossima.


 

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Capitolo 4
*** III. High Flying Birds ***


III. High Flying Birds


 

Rohan Kishibe non è mai stato un amante degli animali. Non lo è mai stato nemmeno delle persone a essere onesti, ma la creaturina che lo guarda dalla cima della propria gabbia rappresenta un’eccezione più che valida.


 

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Tutti trovano Sally molto carina, forse un po’ troppo sulle sue, ma pur sempre molto carina. Permette a Koichi una carezza di tanto in tanto e il comando di una giravolta alle figlie di Josuke, ma tolto ciò rimane un demonio formato mignon che lascia a terra un casino di cacche e bucce di semi fra gli strali di Rohan che vorrebbe infilzarla con la punta della china. Poi ricorda che gli operatori della Fondazione Speedwagon gli farebbero gli attributi e lascia perdere.


 

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Il loro primo incontro era avvenuto un pomeriggio autunnale di quattro anni prima, e nessuno dei due era intenzionato a fare amicizia con l’altra. Un caso fortuito (leggasi “sì, ok, i portatori Stand si attraggono a vicenda e bla bla bla”) aveva voluto che Rohan passasse dal negozio di animali proprio nel momento in cui al gestore era arrivata una nuova nidiata di calopsiti appena svezzate e pronte per essere messe in vendita.
Da lì in poi, il manicomio.
Uno stormo di origami color ferro aveva infranto la vetrata e seminato il panico tra i pochi avventori della piazza. Sempre il caso fortuito aveva voluto che in mezzo a loro ci fosse Josuke.
La prima cosa che avevano pensato entrambi era stata che nei paraggi ci fosse un nemico, ma non avevano considerato al fatto che non si trattasse di un essere umano.
Tagli, graffi, imprecazioni – quegli affari sono affilati come rasoi, allora come adesso – e finalmente identificata la fonte del disagio, Crazy Diamond era riuscito a tenerla ferma per le ali mentre Heaven’s Door l’aveva trasformata in un libretto.
«Allora» aveva detto Rohan, schiarendosi la gola «sei l’unica sopravvissuta della covata, odi i tuoi simili e il tuo Stand si è manifestato quando tua madre ha cercato di beccarti sulla testa»
«Quindi sei praticamente tu!» aveva sghignazzato Josuke.
«Sei un idiota» gli aveva sibilato Rohan.


 

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Sally – Rohan pensa che abbia la faccia da Sally, per cui ha deciso che quello è il suo nome, anche se quando lei lo indispone la chiama piccione – è una calopsite ancestrale di quattro anni e mezzo, pasciuta, capricciosa e allergica alla socialità come il suo compagno di solitudine, ma è anche un’arma contro mostri, fantasmi e altri portatori Stand.
High Flying Birds è uno di quei poteri che stenti a credere provenga da un pappagallino da compagnia, e forse è anche per questo motivo che tra tutti i portatori di Morio abbiano deciso di appioppare Sally proprio a lui.
Si amano e si odiano, a volte non si sopportano proprio, ma, e questo Rohan non lo ammetterebbe mai a voce alta, come compagni di avventure al di fuori del Giappone funzionano alla grande. E poi da quando i lettori hanno scoperto che il famoso Rohan Kishibe ha adottato Sally le vendite di Pink Dark Boy sono schizzate. Si sa, fai vedere alla gente un animaletto carino e questa va fuori di testa, ma Rohan non se ne lamenta. Con le ristampe degli ultimi numeri ci si è comprato un viaggio in crociera.


 

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La signora Sugimoto è un’altra delle poche persone che Sally trova simpatiche. Appollaiata sul bordo del tavolinetto da tè, si lascia accarezzare sul collo e sulle orecchie. Il volto di Rohan è affondato tra le pagine di cronaca del quotidiano locale alla ricerca di notizie che possano stimolare la sua ispirazione. Con la sua amica di vecchia data può permettersi questi lunghi silenzi di pace perché, esattamente come Sally, quando c’è lei si trova a suo agio.
«Non dovevi vederti con Koichi oggi?» è la domanda inaspettata di lei.
Rohan emerge dal giornale per alcuni secondi prima di sparire nuovamente con uno sbuffo di disappunto.
«È andato in America con Okuyasu e Josuke, una parente di Josuke si sposa»
«Ah» la signora Sugimoto è confusa. Non ricordava che Higashikata avesse chissà quali rapporti con la famiglia del padre biologico «capisco. Ecco spiegato il motivo del tuo broncio, non ti piace quando ti tolgono il tuo amico del cuore».
Rohan non commenta, ma ringrazia che il giornale gli copra la faccia – non vuole che la sua ex babysitter lo veda arrossire.
«Tornerà lunedì prossimo» aggiunge, più a sé stesso che a lei.
Sally si libera dalle carezze della donna e sbadiglia – quando lo fa è veramente adorabile – poi arruffa le piume e zampetta verso Rohan, che le porge un dito affinché ci salga sopra e se la mette in spalla.
«Lasciami una delle tue sorprese sulla camicia e ti tolgo le spighe di panico per una settimana».
La signora Sugimoto ride, ma Sally allunga il becco e gli tira un orecchino per dispetto.
«E scordati il viaggio in Nuova Zelanda» aggiunge maligno.
Sally abbassa di colpo la cresta e gli soffia minacciosa, non è mai capitato che Rohan si muovesse senza di lei.
Ma tu dov’eri una vita fa? Le domanderebbe Rohan.
Non lo saprà mai. Ma d’altronde, che importanza ha?


 

***


 

Nome Stand: High Flying Birds.
Portatore Stand: Sally.

È stata catturata da Rohan Kishibe e Josuke Higashikata in un negozio di animali. Questa femmina di calopsite ancestrale dalla tempra forte e un brutto carattere è capace di evocare e comandare telecineticamente uno stormo di origami volanti taglienti come rasoi. Pur trattandosi di uno Stand multiplo, la sua efficacia d’azione è a corto raggio: con l’aumentare della distanza tra gli origami e l’evocatore la loro pericolosità si riduce esponenzialmente.
Una particolarità di questo Stand è che quando giunge la stagione degli accoppiamenti le uova non fertili di Sally contengono al loro interno un quantitativo sufficiente di materiale esplosivo in grado di stordire gli avversari senza però ferirli seriamente. Lei e Rohan sono compagni di viaggio inseparabili e insieme hanno affrontato più di un’insidia sovrannaturale.

Potenza distruttiva: A; Velocità: A; Raggio d’azione: C; Durata d’azione: D; Precisione: B; Potenzialità di crescita: C.


 


 


 

***


 


 

Sally era stata pensata inizialmente come animale da compagnia di Tsubaki, ma successivamente ho deciso di cambiare idea nonostante l’headcanon di Rohan amico di qualsiasi creatura al di fuori di Koichi non mi faccia impazzire. Tutto sommato non mi pento di questa scelta, anche perché l’idea di lui che accudisce proprio una calopsite mi fa sorridere.
Altro appunto su Josuke che qui fa una comparsa fugace: nella serie lo avevo giusto accennato, ma in queste flash non solo ha mantenuto il proprio Stand non essendo stato ucciso ma soltanto “trasferito” nell’Ireneverse assieme ai suoi amici, ma ha anche messo su famiglia ed è diventato padre di due bambine.
Per il resto, credo che la Morio-Cho post reset sia cambiata molto poco rispetto a quella originale, per cui a parte questa parentesi con Rohan non ho ritenuto opportuno aggiungere altri dettagli.

Grazie per aver letto e alla prossima.

 


 

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Capitolo 5
*** IV. Clocks ***


IV. Clocks


 

Non ho idea di come gli altri oltre a me abbiano vissuto il passaggio da essere umano a creatura dotata di poteri sovrannaturali, ma per quanto mi riguarda dire che è stato spiacevole significa scomodare gli eufemismi.
Quando dico che stavo rischiando la vita per colpa di una scheggia di metallo conficcata nella falange intendo lo sguardo preoccupato di Raffaele che, tra il cambio di una soluzione salina e l’altra, e in mezzo ai momenti di lucidità concessi da un febbrone da quarantatré gradi in pieno agosto, per la prima volta da quando lo conosco aveva gettato la maschera dell’infermiere che tutto può per mostrare la sua espressione da guagliò, ti prego, non morire con tanto di occhioni azzurri sbarrati dal terrore.
Non morii, infatti. Così com’era venuta, la febbre se n’era andata e i medici non sapevano spiegarsi il perché. Mi sentii anzi carico di una nuova vitalità che mai avevo sperimentato prima.


 

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Quando sono tornato in servizio scoprimmo – anzi, Leonardo scoprì – che quel pezzo di metallo era arrivato in questura con l’obiettivo di far fuori quanti più sbirri possibili, un presente della mala o lo scherzo di uno sciamano, ancora oggi non sono sicuro di voler sapere da dove provenisse quel regalo sgradito. Ricordo soltanto che, imprudente quale sono stato, mi ero frapposto tra me e Leonardo quando avevamo capito entrambi che l’affare che si muoveva nella busta aveva puntato lui per ferirlo a morte. Se non lo ha colpito è stato perché quello più vicino alla scrivania ero io. Se lo raccontassimo in giro verremmo presi per pazzi, ma sono sicuro – io e Leonardo lo siamo – che quella specie di freccia fosse dotata di volontà propria. La distrussi col tacco della scarpa poco prima che mi venisse la febbre, e i cinque giorni a seguire furono per me un’agonia.


 

̴


 

Non mi va di spiegare la baraonda che è conseguita da quell’incidente. Leonardo aveva comunicato al maresciallo che nella busta c’erano dei petardi, una scusa ovviamente del cazzo ma l’unica che valesse la pena di essere raccontata senza che la voce di un ammattimento potesse far rischiare a entrambi la divisa. E siccome Leonardo si è fatto la fama di essere il poliziotto più ligio al dovere che Napoli abbia mai avuto – pensa un po’ che (dis)onore – gli hanno creduto.
Meglio così, dai.


 

̴


 

C’è da allora questo fatto curioso che quando la mia volontà lo desidera sul polso sinistro appare un orologio. In realtà funziona come una bussola, ma la sua forma mi ha indotto a chiamarlo Clocks e così è rimasto: un orologio con tante lancette che indicano determinati bersagli. Credo sia intimamente connesso alla mia volontà di ricercare sempre la verità. Che ironia.

 


 

̴


 

La faccenda mi è stata spiegata una notte in cui rincasavo dopo una pizzata coi pochi soliti amici. Lucio, collega e figlio adottivo ufficioso di Raffaele, che ordina sempre e solo margherita con funghi, ventotto anni portati con la leggerezza di un eterno ragazzino e l’ossessione per gli aeroplani. Raffaele, crocerossina nell’animo e adorato da tutte le partorienti che incontrano la fortuna di finire sotto le sue cure («, ma quante bomboniere di nascita tieni a casa?» è la domanda che gli pongo più spesso). Leonardo, serio un giorno sì e l’altro pure, sin dai tempi della caserma non l’ho mai visto mangiare del cibo spazzatura o bere un sorso di vino, sono del parere che, se potesse, vestirebbe la divisa anche per andare a fare la spesa. Ha il superpotere di nascondere un cuore di panna dietro lo sguardo gelido della guardia integerrima, ma quando si ritrova con Raffaele nella stessa stanza quel gelo si scioglie. L’ho notato – lo abbiamo notato – più di una volta, ma non gliene ho mai fatto parola.
Polizia, Italia e preferenze sessuali ritenute non conformi dalla morale cattolica non avrebbero nessun problema di coesistenza pacifica se non fosse per fattori esogeni che non ho mai capito a chi giovino.
Ma sto divagando.


 

̴


 

Dicevo, la mia nuova vita da detentore di superpoteri mi è stata spiegata quella notte. Da bravo guaglione che ha mangiato la foglia, Lucio si era offerto di riaccompagnarmi a casa da solo («se lascio quel palo in culo del tuo collega con Raffa non è che domani viene a cercarmi, vero?» aveva sghignazzato) e mi aveva lasciato davanti all’uscio. Né lui né gli altri due lo sapranno mai, ma avevo usato Clocks su di loro: la freccia rossa si era divisa in tre e per tutta la sera non aveva smesso di indicarli, mentre sul quadrante era riportata la triplice scritta: potenziale portatore. potenziale portatore. potenziale portatore.
Pesco la chiave dal mazzo, guardo la toppa e poi vedo che degli omini gialli fluttuanti e larghi quanto un dito mi stanno fissando. Non ho il tempo di imprecare perché la portiera di un’automobile si spalanca, qualcuno mi tappa la bocca e vengo gentilmente condotto dentro. Nemmeno mi ero accorto dello stemma della Speedwagon sulla fiancata, ma come potevo?


 

̴


 

Avere una bussola metafisica è forse meno improbabile che farsi sequestrare da Giorno Giovanna in persona. L’onorevole nemico numero uno di Leonardo, quello grazie al quale Leonardo si è beccato il soprannome di Zazà e lo stesso Giovanna di Lupin.
Stavolta, era stata la freccia dorata a dividersi in tre: portatore. portatore. portatore.
«Le domando scusa per l’inconveniente» erano state le sue prime parole, guardando sia me che Clocks.
«Io e lei dobbiamo parlare del suo potere Stand».


 

̴


 

Passione è gestita da un triumvirato al cui comando vi è Giorno Giovanna, metà giapponese e metà – così dicono gli anziani – vampiro e di una bellezza androgina al cui fascino solo Leonardo è immune. A seguire, Guido Mista, il braccio armato dei tre e marito della figlia dell’ex boss di Passione, e Pannacotta Fugo, mente del gruppo e personalità più defilata, è stato quello che ha raccolto Lucio dalla strada e invece di presentarlo a Giovanna l’ha portato in pronto soccorso quando Raffaele faceva il tirocinante, e dal pronto soccorso gli ha garantito un posto in casa famiglia.
Queste informazioni mi mandano sempre in confusione perché, morissi adesso, non ho mai conosciuto camorristi più strani di loro.
Comunque, dopo la chiacchierata in macchina ero stato riaccompagnato a casa con parecchi quesiti irrisolti, ma tant’è, avrei dovuto indagarvi da solo. Adesso sapevo che quel pezzo di metallo era il frammento di una freccia antichissima che conteneva un virus in grado di donare capacità sovrannaturali a chi dispone di abbastanza forza spirituale da sopportarli, mentre chi non soddisfa tale requisito non sopravvive. Esistono anche individui che coi loro poteri ci nascono per fattori ereditari o altre cause, ma di fatto la sostanza non cambia. Sei forte, quindi potresti sviluppare uno Stand. Porca miseria.
A pensarci bene, mi domando come sarebbe lo Stand di Leonardo se il suo potere si svegliasse.


 

~


 

Nei giorni a seguire ho vissuto la mia nuova vita tra le scartoffie e gli arresti di portatori Stand nemici di Giovanna. Non sapevo che Napoli pullulasse di così tante emanazioni spirituali. La freccia dorata di Clocks non smette mai di segnalare criminali, sembra incredibile ma i vicoli pullulano di emanazioni spirituali. Una volta ho persino individuato un piccione che aveva ipnotizzato tutti i cani che passeggiavano in piazza Plebiscito. Mi sono accovacciato e gli ho chiesto cortesemente di smetterla. Sembravo un deficiente, ma non potevo fare altrimenti.
Tutto questo, però, era destinato a durare pochi mesi. La fine era arrivata con un po’ di anticipo sotto forma di Stand automatico, una palla di pietra sulla cui superficie erano visibili i bassorilievi di quattro volti che conoscevo bene. Avrei saputo presto il perché, ma in quel momento mi inquietò parecchio e basta.


 

~


 

La risposta giunse per l’appunto alcuni mesi dopo. Una chiamata alla centrale dalla Croce Rossa, venite, è successo un fatto grave, omicidio multiplo-suicidio dentro una chiesa. Doveva esserci il battesimo del figlio di Mista e invece c’è stata una strage. Si parla di Passione, è stato colpito il boss, i suoi collaboratori anche. Per loro non c’è più niente da fare. La madre del bambino è stata trasportata in fin di vita in ospedale e lì ha chiuso per sempre gli occhi, Raffaele le ha tenuto la mano fino all’ultimo. Il bambino è sopravvissuto, lo hanno trovato assieme al prete sotto l’altare trasfigurato in gomma, entrambi illesi.
Qualcuno si è fatto esplodere, sicuramente un attacco Stand. Un traditore, ma non ha importanza, o perlomeno per Leonardo non ne ha. Voleva consegnare Giovanna e i suoi alla giustizia perché così andava fatto e invece è andato tutto perduto. Questa è per lui la sconfitta più grande.
Raffaele non si presenta al lavoro nei due giorni a seguire, non si dà pace per non aver salvato quella ragazza. Lucio invece ha fissato per due ore il portellone dell’ambulanza che trasportava il sacco con dentro la persona che lo aveva salvato dalla strada.


 

~


 

Quando Raffaele sta male anche Leonardo sta male. Glielo leggo in faccia, in questo momento sembra un libro aperto mentre torniamo a casa. Mando al diavolo ogni precauzione mentre metto la freccia e svolto a destra.
«Perché non vai da Raffaele?» butto lì, mi giro a guardarlo. Lui sgrana gli occhi per un attimo, ma non dice niente. Sa che io so, ma non poteva andare avanti a lungo.
«Vi farebbe bene parlarvi» incalzo «e prenditi anche delle ferie, ti stai consumando a furia di non volerci pensare».
Lo sento sospirare. Si sfila il cappello e lo posa sul cruscotto. Da quando lo conosco non gliel’ho mai visto fare.
«Non saprei cosa digli» risponde «conoscendolo, sarebbe lui a consolare me».
La sua voce è appena incrinata. È la prima volta che discutiamo apertamente di questo argomento.
«Senti» voglio essere franco una volta per tutte «io e Lucio lo abbiamo capito da un pezzo, non ha senso continuare così. Dichiaratevi, piangete assieme, sentitevi dei falliti, sfogatevi. Siate onesti con voi stessi. La vita è una sola e domani o tra dieci anni possiamo morire ammazzati in una sparatoria e lui non ne saprà mai niente perché hai la capa dura!»
«Non posso» Leonardo protesta «lo sai che al lavoro...»
«Lo so che al lavoro sarà una merda» lo anticipo, non voglio sentire scuse «ma se sono io a dirti di parlarci significa che non ti lascio da solo. Anzi, includi anche Lucio che quello tifa per voi da una vita».
Leonardo tace. Si copre il volto con una mano e sospira. Non so se stia cacciando via una lacrima, ma l’indomani verrò a sapere che non si è presentato in caserma e che la sua abitazione è rimasta vuota quella notte. Ferie, ok, benissimo.
Un’altra guerra è appena cominciata, e stavolta non ha a che fare con gli Stand.
Ma questa è un’altra storia.


 

***


 

Nome Stand: Clocks.
Portatore Stand: [Nome sconosciuto] alias il collega di Leonardo Abbacchio.

Questa bussola, la cui forma e dimensione ricorda un orologio, è in grado di individuare gli Stand e i loro portatori fino a un raggio di dieci metri. Le molte frecce presenti nel quadrante possono dividersi qualora in zona vi siano più portatori – e di conseguenza più Stand. I riquadri sul display indicano inoltre la potenza degli Stand e la loro eventuale pericolosità, nonché la presenza di coloro il cui potere rimane sopito. Pur essendo privo di capacità combattiva, la sua utilità in ambito investigativo si è dimostrata indispensabile.

Freccia rossa: potenziale portatore;
Freccia dorata: portatore;
Freccia nera: pericolo imminente;
Freccia viola: Stand automatico nelle vicinanze;
Freccia blu: Stand automatico con portatore deceduto;
Freccia verde: portatore non umano.

Potenza distruttiva: Nessuna; Velocità: B; Raggio d’azione: B; Durata d’azione: A; Precisione: C; Potenzialità di crescita: D.


 


 


 

***


 


 

Alcune precisazioni prima che i fan di Giorno vengano a cercarmi: per prima cosa, l’età di Lucio/Narancia dà l’idea di quando è ambientata la raccolta (2012 come la fine di Stone Ocean); seconda cosa, dati gli avvenimento riportati nel prologo, il Giorno presentato in queste flash è figlio del solo Dio Brando, per cui è tagliato fuori dalla discendenza dei (nuovi?) Joestar. A parte la mancanza della voglia a forma di stella non lo immagino dissimile dalla sua controparte ufficiale, quindi non ho ritenuto opportuno apporre descrizioni dettagliate su di lui; in terzo luogo, questo capitolo in particolare stava diventando una vera e propria one-shot e ho dovuto tagliare un bel po’ di roba per non andare fuori tema, ma spero che i contenuti che ho deciso di salvare abbiano mantenuto una certa coerenza. È il capitolo più triste della raccolta? Sì. Finirò in questura per questo? Non ne ho idea. :V
Per chi mi segue con regolarità, il finale era già stato spoilerato qui.

Grazie a chi legge e alla prossima settimana con la conclusione.

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Capitolo 6
*** V. Walk ***


V. Walk

 

 

Now
For the very first time
Don't you pay no mind
Set me free, again
To keep alive, a moment at a time
That's still inside, a whisper to a riot
The sacrifice, the knowing to survive
That first decline, another state of mind
I'm on my knees, I'm praying for a sign

 

 

In macchina si ciarla, ci si scambia convenevoli e auguri per le nozze, ma Emporio tace.
Seduto sul sedile posteriore accanto al finestrino, si stringe le braccia al petto e lascia che il maglione di Irene lo protegga dalla pioggia e dall’incubo al quale è sopravvissuto. Le persone che viaggiano assieme a lui sono sconosciuti che conosce molto bene.
Prima di morire, Pucci aveva farneticato di un futuro diverso fatto di esseri viventi ignari del loro destino.
Camminare sulla strada della giustizia è il vero destino era stata la sentenza pronunziata dal ragazzino prima che Weather Report cancellasse per sempre il passaggio sulla Terra del reverendo, ma il fatto è che Emporio, stanco, solo e trascinato in un nuovo universo, adesso ha paura di questo destino ignoto.

 

 

~

 

Quando Emporio scende dall’auto la prima cosa che nota è un magnifico ciliegio piantato nel giardino della casa dei genitori di Irene. Sta ancora piovendo a dirotto, ma lui indugia a guardarlo con malcelata meraviglia.
«Ti piace?» gli domanda Irene «Ce lo ha regalato la nonna, è il nostro portafortuna!».
Emporio non risponde, annuisce solamente. Poi si rende conto di essersi inzuppato e si affretta a ripararsi dalla pioggia.
«Mi dispiace, il tuo maglione...» inizia a scusarsi lui.
«Tienilo, ti prego».
Irene gli sorride. Lo sguardo assertivo della sua vecchia amica ha abbandonato la foschia della combattente per accogliere la luce della serenità.

 

 

~

 

In questo nuovo mondo Emporio non ha niente e nessuno, ma è come se avesse già tutto. L’infinità della libertà che si è appena guadagnato lo mette in uno stato d’angoscia tale che all’inizio non si rende conto di quanto siano gentili i – nuovi – signori Kujo.
Emporio non ha parenti a cui reclamare un tetto e un pasto caldo, i suoi unici compagni sono i ricordi della vita precedente che lo tormentano in sogno. Il volto di Pucci galleggia in un inferno d’acqua salata assieme a esistenze spezzate e Stand distrutti. Nella sua testa vorticano cose morte che marciscono mentre la realtà fisica gli mostra un caleidoscopio di vita al quale stenta a farvi parte.
Il tempo non può risanare le sue ferite. Deve conviverci perché il destino ha scelto così.
Amica mia, perché proprio io?

 

~

 

Irene è figlia unica, per cui la compagnia di Emporio la assimila a quella di un fratello minore che non sapeva di desiderare.
Irene è buona con lui, forse anche troppo. Lo ha visto da solo e lei gli ha donato compagnia. Lo ha visto all’addiaccio e lei lo ha vestito. Lo ha visto affamato e lei gli ha dato da mangiare. Irene vuole farlo diventare un membro della sua famiglia contro ogni ragionevole buonsenso e lui è spaventato da quella generosità. La si potrebbe pensare una ricompensa per quanto fatto, ma Emporio non se la sente di festeggiare quella conquista, non ancora. Dentro di lui c’è ancora troppo dolore da assimilare.

 

~

 

Emporio ha vissuto da solo per la maggior parte della propria esistenza. Quando non vuole parlare con nessuno si siede all’ombra del ciliegio e rimugina sulle brutte cose a cui ha dovuto far fronte.
Durante uno di questi simposi con sé stesso si accorge che nella corteccia è incastonato un occhio. Emporio scuote la testa, si stropiccia il volto, ma l’occhio è sempre lì, e lo fissa. Batte persino la palpebra. È un occhio marrone che si mimetizza con il tronco, che appare e scompare in punti diversi dell’albero a seconda della propria volontà.
Il ragazzino si gira da entrambe le parti per assicurarsi di non essere visto, avvicina il volto all’occhio e sussurra:
«Sei uno Stand?».
L’occhio risponde battendo educatamente la palpebra. Una brezza leggera scuote appena le fronde.
«Cosa sai fare?».
Un ramo si abbassa fino a raggiungere la spalla di Emporio e mostra i fiori. Uno di questi fonde i suoi petali per trasformarsi in un quadrifoglio rosa.
«Sei una specie di guardiano?»
L’occhio gli arride ancora, poi si ritrae e sparisce. Emporio vorrebbe porgli un sacco di altre domande, ma capisce che per oggi è abbastanza.

 

~

 

Un agente della Fondazione Speedwagon travestito da assistente sociale è venuto a far visita ai genitori di Irene. Con la scusa di fare una chiacchierata a quattr’occhi, spiega a Emporio che quello nel giardino dei Kujo è effettivamente uno Stand guardiano e che loro sanno del riavvolgimento dell’universo. Gli esservi viventi ancora in vita nel vecchio mondo sono stati traslati così com’erano, quelli deceduti sono rinati e – in alcuni casi – morti una seconda volta. Quindici miliardi di anni trascorsi nel giro di un battito di ali. Gli viene detto che in Italia esiste una farfalla monaca in grado di creare nuovi universi alternativi. L’hanno chiamata Across the Universe e non fa altro che generare vite.
Irene e Jolyne sono la stessa persona, ma senza la brutta esperienza dell’abbandono paterno con tutto quello che ne è conseguito e soprattutto senza Stand. Nemmeno suo padre ha uno Stand. Potrebbero (ri)averli, ma sarebbe necessaria una freccia e non è assolutamente il caso.
Emporio ringrazia l’agente per le informazioni, in qualche modo l’angoscia che lo attanaglia ha allentato un po’ il nodo. Lì fuori c’è qualcuno che sa cosa ha passato.

 

~

 

Irene è nella sua vecchia cameretta in compagnia della truccatrice. Sta per sposarsi. Emporio l’ha vista provarsi l’abito ed è semplicemente stupenda.
Emporio è allo specchio e cerca di sistemarsi il papillon, ma gli tremano le mani. Non è ancora del tutto convinto di meritarsi la felicità. Ha paura, una paura viscerale di quello che sarà di lui e di Irene, ma non vuole pensarci proprio adesso, non deve pensarci. Non è l’occasione adatta.
Perché allora è così difficile?
«Emporio, andiamo!».
La voce di Anakis si ode da dietro la porta. Deve raggiungerlo in fretta, era stato deciso che si presentasse alla cerimonia assieme al futuro sposo.
Emporio torna a guardare per l’ultima volta il proprio riflesso e si accorge che sta piangendo. Si asciuga il viso con la manica della giacca e fa per infilare l’uscita. Al di fuori di lui nessuno ne è a conoscenza, ma quello in cui vivono adesso è un mondo meraviglioso.
«Scusami, arrivo!».
In fondo è soltanto l’inizio.

 


 

Forever, whenever, I never wanna die
I never wanna die
I never wanna die
I'm on my knees, I never wanna die
I'm dancing on my grave
I'm running through the fire
Forever, whenever
I never wanna die
I never wanna leave
I'll never say goodbye
Forever, whenever
Forever, whenever


 

***


 

Nome Stand: Walk.
Portatore Stand: Il ciliegio di casa Kujo.

Le origini di quest’albero sono tuttora sconosciute, ma è noto che sia stato piantato nel giardino di casa Kujo quando era ancora un arbusto. A quanto pare il suo potere consiste nel portare fortuna a chi gli sta attorno ed è dotato di una coscienza e di una mobilità limitata che gli permettono di piegare i rami. Non è noto cosa succederebbe se venisse sradicato, ma qualora accadesse per dolo le conseguenze per il fautore dell’azione sarebbero tanto avvolte nel mistero quanto spiacevoli da subire.

Potenza distruttiva: Sconosciuta; Velocità: Nessuna; Raggio d’azione: Sconosciuta; Durata d’azione: ∞ ; Precisione: Sconosciuta; Potenzialità di crescita: Sconosciuta.


 


 

LA PROSSIMA VITA


 

FINE


 


 


 

***


 


 

Ho concepito questo capitolo nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Taylor Hawkins. Riascoltare i Foo Fighters mi fa ripensare al finale di Stone Ocean e a quanto il ricordo dei vivi per i morti sia preponderante nell’opera di Araki. Al di là dell’estetica e delle headcanon sulle quali si può essere più o meno d’accordo, penso che il vero filo conduttore di Jojo sia il rapporto tra la vita, la morte e il modo con cui i personaggi della saga si rapportano a esse. Perché in Jojo si respira una grande vitalità, ma anche un senso costante di morte fin dalle prime pagine e dai primi episodi, e siccome sentivo la mancanza di fanfiction che trattassero il tema nella sua interezza ho colto la palla al balzo e queste fanfiction me le sono create da sola. XD
Ammetto che avrei potuto scrivere più storie e trattare meglio certi personaggi, ma a ben pensarci avrei finito col rendermi ripetitiva, quindi, dovendo fare una cernita, ho sentito il bisogno di mettere un punto a tutto ciò che avevo pubblicato in questa sezione fino a ora.
Non so se scriverò ancora di Jojo. Di certo metterò il profilo in pausa fino a data da destinarsi, e semmai dovesse tornarmi l’estro di pubblicare sapete dove trovarmi (è una minaccia? È una minaccia :p).

Prima di congedarmi, ringrazio sentitamente chi ha recensito, preferito, seguito o semplicemente letto questa e le altre mie storie (che trovate qui, qualora vogliate fare un recuperone nel regno della follia). Presto ripubblicherò questa raccolta su Ao3, ma mi trovate anche su Twitter, dove condivido soltanto i link dei nuovi aggiornamenti, e su Instagram, dove condivido perlopiù shitposting e sciocchezze varie.

Ancora grazie per le belle parole ricevute sia qui che in privato, vi si vuol bene.

Cheers,

Green Star. 

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