[1] L'Occhio || PJO₁

di Josy_98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Il Caso Problematico affetta il Caso Mostruoso con una penna ***
Capitolo 3: *** 2. Le mie sorelle "uccidono" l'eroe ***
Capitolo 4: *** 3. Vengo rapita e Grover fa uno spogliarello nel bel mezzo di una tempesta ***
Capitolo 5: *** 4. Percy gioca ad acchiapparella con un’orrida mucca con i mutandoni ***
Capitolo 6: *** 5. Proviamo a confondere Percy ancora di più ***
Capitolo 7: *** 6. Annie e io scampiamo alla doccia gratuita ***
Capitolo 8: *** 7. Sniffiamo la cena come dei drogati ***
Capitolo 9: *** 8. Un grande cucciolo cattivo tenta di mangiarci ***
Capitolo 10: *** 9. La Mummia chiacchiera e io vengo direttamente coinvolta. Purtroppo ***
Capitolo 11: *** 10. Ci diamo alla chimica con un autobus ***
Capitolo 12: *** 11. Facciamo la conoscenza di una sottospecie di basilisco umano ***
Capitolo 13: *** 12. Una palla di pelo ci salva le chiappe ***
Capitolo 14: *** 13. Induco il Mollusco a tentare il suicidio ***
Capitolo 15: *** 14. Una chiacchierata con il Formichiere mi incasina il cervello ***
Capitolo 16: *** 15. Ares tenta di farmi ingrassare ***
Capitolo 17: *** 16. Faccio un sonnellino degno della bella addormentata ***
Capitolo 18: *** 17. Dei materassi ad acqua cercano di ucciderci. Quasi tutti ***
Capitolo 19: *** 18. Cerbero, bel cucciolone! ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Era una giornata come tutte le altre al Campo Mezzosangue: in un campetto una dozzina di satiri e di ragazzi giocavano a pallavolo, come quasi tutti i pomeriggi. Delle canoe scivolavano sulla superficie di un laghetto, mentre alcuni ragazzini, con indosso la caratteristica maglietta arancione del Campo, si rincorrevano intorno a un gruppo di capanne annidate nel bosco. Alcuni si esercitavano con l'arco in un poligono di tiro. Altri cavalcavano lungo un sentiero boscoso e alcuni dei cavalli avevano le ali.
Sul portico di quella che tutti chiamavano la Casa Grande, il quartier generale del Campo, due uomini sedevano l'uno di fronte all'altro a un tavolino da gioco. L'uomo rivolto verso l’esterno era piccolo ma grassoccio. Aveva il naso rosso, gli occhi grandi e lucidi e dei capelli riccioluti così neri da sembrare quasi blu. Somigliava a uno di quei dipinti di angeli bambini... com'è che si chiamano? Pupi? No, putti. Ecco. Somigliava a un putto di mezza età invecchiato in una roulotte e indossava una camicia hawaiana tigrata. L’altro, invece, era su una sedia a rotelle, indossava una giacca di tweed, i capelli castani erano un po' radi e la barba incolta; negli occhi aveva uno scintillio malizioso.
Si stavano sfidando a Pinnacolo, come ogni giorno, quando una vibrazione nell'aria li avvertì che qualcosa era successo. Ebbero appena il tempo di scambiarsi uno sguardo prima che, accanto a loro, apparissero tre vecchiette dall’aspetto decrepito interrompendoli e facendo spaventare i ragazzi nelle vicinanze. Avevano i volti pallidi e raggrinziti come bucce appassite, i capelli d'argento trattenuti da fazzolettoni bianchi e le braccia ossute che spuntavano da vestiti di cotone scoloriti. La vecchietta sulla destra e quella sulla sinistra avevano entrambe un paio di ferri da calza infilati nella cintura, con un calzino sferruzzato a metà a testa, mentre quella al centro teneva un fagottino tra le mani e un enorme cesto pieno di filo blu elettrico, da cui spuntava il manico di un grosso paio di forbici d’oro e d’argento a lama lunga, infilato su un braccio.
L’uomo con la camicia hawaiana fece sparire le carte e si alzò in piedi di scatto, sorpreso dalla loro comparsa come l’altro.
«Penso sia meglio andare dentro.» mormorò, perplesso e preoccupato, quello sulla sedia a rotelle indicando la porta d’ingresso della Casa Grande, e chiudendo il corteo che si accomodò nel salotto. «Temo di non capire perchè siate qui.» disse alle tre vecchiette scambiandosi uno sguardo con l’altro uomo, una volta che si furono sistemati.
La vecchietta di mezzo mostrò loro il fagottino che teneva in braccio, rivelando il volto di una neonata tranquillamente addormentata. «Deve essere protetta.»
«Non sarà una di quelli.» disse l’uomo con la camicia hawaiana infondendo una nota di disprezzo al pronome.
«È nostra sorella.» spiegò loro la vecchietta di destra, sorprendendoli.
«Come?» domandò sorpreso il secondo uomo.
«È figlia di Temi e personificazione della sua identità di Ananke, la dea del Destino, della Necessità Inalterabile e del Fato. In molti le danno la caccia già adesso, nonostante sia ancora in fasce, per i poteri che svilupperà.» continuò la sorella di sinistra.
«Cosa dice mio padre?» chiese l’uomo con la camicia hawaiana. «Sicuramente vorrà disintegrarla.»
«Zeus non può opporsi al Destino.» disse quella di mezzo. «Nessuno ha mai potuto farlo, nemmeno noi. Siamo le tessitrici del Fato degli uomini, ma non siamo mai state noi a deciderlo. Riportiamo solo i fatti.»
«Questa bambina, tuttavia, potrebbe cambiare le cose.» rivelò la sorella di destra. «Dipende tutto da lei.»
L’uomo in carrozzina sgranò gli occhi. «È lei, vero?» domandò loro. «È la bussola
Loro non dissero niente, ma fu già una risposta.
«E cosa dovremmo fare?» chiese l’altro, infastidito. «Crescerla qui?»
«Sì.» risposero le tre sorelle. «È una semidea, dopotutto. Dovete addestrarla.»
«Non abbiamo una casa per lei.» fece notare loro l’uomo in carrozzina.
«Può restare qui, nella Casa Grande. E se volesse abitare in una delle capanne, potrà farlo. La scelta sarà unicamente sua. Loro sono d’accordo.» disse la sorella di sinistra, sorprendendoli ancora una volta.
«Grandioso.» commentò, ironico, quello con la camicia hawaiana. «Un’altra marmocchia. Suppongo che mi dovrò adeguare. Come si chiama la bestiolina?»
«Avalon.» dissero le tre sorelle mentre quella di mezzo gli porgeva la bambina. «Avalon Elise.» Lui la prese riluttante e loro sparirono. In quel momento la piccola aprì gli occhi, fissando il volto dell’uomo.
«Beh, Avalon Elise.» disse lui alla piccola, osservandola. «Io sono Dioniso, e guai a te se mi darai fastidio.» concluse puntandole contro un dito, minaccioso.
Di tutta risposta lei alzò una manina, stringendola attorno al dito con una presa ferrea, e sorrise al dio.

 
****

 
«Chirone! Chirone!» una bambina particolarmente agitata corse verso il centauro, interrompendo la lezione di tiro con l'arco. Aveva occhi neri e lunghi capelli completamente bianchi, come a simboleggiare il suo legame con la Bilancia, tenuti raccolti da un paio di ferri da calza in bronzo celeste, regalo di tre sue sorelle. «Devo raccontarti una cosa, è importante!» la bambina si fermò ansimando davanti al centauro, che la osservava curioso e un po’ preoccupato.
Chirone fece cenno ai ragazzi di lasciarli soli, poi si rivolse alla bambina abbassandosi alla sua altezza. «Dimmi, Avalon, che cos’hai Visto?»
Lei era molto nervosa, si tormentava la maglietta del campo che le faceva da vestito, ma la sua voce era chiara quando rispose. «Succederà qualcosa di terribile e devo impedirlo.» e gli raccontò tutto.
Da quel momento niente fu più lo stesso.

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Capitolo 2
*** 1. Il Caso Problematico affetta il Caso Mostruoso con una penna ***


Non ho scelto io di essere una mezzosangue. Tecnicamente non sono nemmeno una mezzosangue nel senso classico del termine, ma questo è un dettaglio irrilevante al momento. Nella pratica ho gli stessi problemi di tutti gli altri, se non peggio.
Se state leggendo questo libro perché pensate di poterlo essere anche voi, vi do un consiglio: chiudetelo all'istante. Credete a qualsiasi scemenza i vostri genitori vi abbiano raccontato sulla vostra nascita e cercate di vivere una vita normale, cosa che io non ho mai potuto fare.
Essere dei mezzosangue è pericoloso. È terrificante. Nella maggior parte dei casi, si finisce ammazzati in modi orribili e dolorosi. E credetemi, io l’ho Visto.
Se invece siete dei ragazzi normali e pensate che questo sia solo un romanzo, perfetto. Continuate pure a leggere. Vi invidio per la possibilità di credere che niente di tutto questo sia accaduto.
Ma se vi riconoscete in queste pagine — se vi smuovono qualcosa dentro — smettete subito. Potreste essere dei nostri. E quando lo avrete capito, sarà solo questione di tempo perché se ne accorgano anche loro e vengano a cercarvi.
Non dite che non vi avevo avvertito.
Mi chiamo Avalon Elise, sì niente cognome, e ho dodici anni.
 

****
 

 
Per circa un anno ho studiato alla Yancy Academy, un collegio per "ragazzi difficili" dello Stato di New York. Sono una ragazza difficile? Sì. Direi che la definizione mi calza. Potrei partire da qualunque punto della mia breve e particolare vita per provarlo, ma le cose hanno cominciato a prendere davvero una pericolosa piega quando quell’equino malamente sviluppato di nome Chirone mi ha convinta, anche se sarebbe meglio dire costretta, ad aiutarlo in questa cosa.
Mi spiego meglio: da quando – alcuni anni fa – successe quella tragedia io mi sono sempre tenuta alla larga dalle questioni degli altri. Che fossero dei, semidei, mostri o altro non aveva importanza. Io mi limitavo a vivere la mia vita ai margini, ben consapevole degli avvenimenti che sarebbero accaduti in futuro e desiderosa più che mai di tenermene alla larga per evitare di peggiorare le cose. Come già era successo.
E così doveva essere anche questa volta: Chirone doveva raggiungere Grover, un satiro custode, in una scuola media per tenere d’occhio un potenziale semidio particolarmente potente e in pericolo. Niente di particolarmente anomalo, in apparenza.
Purtroppo si era messo in testa che dovessi esserci anch’io, per qualche assurdo motivo. E dire che lo sapeva benissimo come la pensavo: non dico niente di quello che so e non modifico niente.
Non era nulla di personale, per me. Semplicemente, avevo imparato a mie spese, e – cosa ancora più importante – non solo mie, che se mettevo becco in qualcosa finivo solo per peggiorare tutto. Per farvela breve: avevo tentato di salvare qualcuno ed era morto qualcuno altro. Questa cosa mi aveva traumatizzata in un modo allucinante, soprattutto perchè non l’avevo Vista.
Quando poi, diverso tempo dopo, avevo evitato di avvertire una persona a cui tenevo dei pericoli che avrebbe incontrato e quella si era solamente ferita, al posto di rimanere uccisa… mi è stato ancora più chiaro che avrei potuto rinchiudermi da qualche parte e buttare via la chiave. L’importante era che me ne rimanessi zitta e non accennassi nemmeno per sbaglio a quello che sapevo. E io di cose ne sapevo davvero parecchie.
Dopo il fattaccio successo qualche anno prima, e dopo l’orrore che avevo visto neanche dodici mesi dopo, chiusi i ponti con tutto ciò che riguardava quella mia capacità. O almeno ci provai. In ogni caso, impedii a chiunque di farmi domande di qualsiasi genere, se riguardavano in qualche modo il futuro, e mi limitai ad osservare lo scorrere del tempo sugli altri, vivendo comunque la mia vita.
Non era andata tanto male, fino a quel momento. Certo, non avevo bloccato il potere, quindi sapevo ancora tutto di tutti, ma almeno ora nessuno mi stressava più per avere informazioni, e io potevo fingere di non sapere. O almeno provarci.
Se non fosse stato per Chirone.
Quel maledetto cavallo mi aveva cresciuta, quindi sapeva meglio di chiunque altro cosa fossi in grado di fare. Motivo per cui se ne usciva spesso con domande riguardanti le Profezie, il futuro, gli dei, eccetera. E ogni volta io non lo lasciavo finire e scappavo via, nascondendomi da qualche parte o sparendo in un’insenatura sulla spiaggia da cui potevo buttarmi in mare e smettere di sentire. C’era così tanta pace, in acqua, che rimanevo lì per ore, fino a quando Chirone non smetteva di cercarmi e io decidevo di tornare. Poi facevamo entrambi finta di niente fino alla litigata successiva, se così si poteva chiamare.
Ma quella volta, dannato asino, mi aveva proprio fregata. Era stato talmente diretto che non mi aveva permesso nemmeno di fare un passo. Aveva stabilito che sarei andata con lui in quella scuola, la Yancy, senza possibilità di scelta e lo avrei aiutato a tenere d’occhio quel ragazzo. A meno che non gli avessi dato le informazioni che voleva.
Ciuco bastardo.
Aveva organizzato tutto. Sapeva già che non avrei detto una parola per non peggiorare il futuro, e ne aveva approfittato per incastrarmi.
Così passai l’intero anno scolastico a osservare quella combriccola di sfigati figli di papà e il loro comportamento, cercando di rimanermene in disparte come mio solito. Avrebbero fatto concorrenza alla banda dei figli di Ares.
Puah.
Alcuni erano peggio di altri, come quella Nancy Bobofit: una cleptomane rossa con denti storti e orride lentiggini arancioni che, insieme alla sua cricca, si divertiva parecchio a prendersela con Grover e il Caso Problematico – così avevo chiamato Percy Jackson nella mia testa, il ragazzo che dovevamo tenere d’occhio.
Il satiro, che conoscevo da sempre, aveva deciso di diventare suo amico per controllarlo da vicino, mentre io avevo preferito starmene alla larga, ovviamente. Senza riuscirci quanto avrei voluto.
Già dal primo giorno, infatti, ero stata al centro dell’attenzione a causa dell’inusuale bianco candido dei miei capelli, che fingevo di aver tinto, e dei tralci di vite che li intrecciavano insieme ai ferri, doni di zio D e delle mie sorelle. Fortunatamente non potevano vedere il resto o avrebbero dato di matto, motivo per cui ringraziavo silenziosamente l’esistenza della Foschia – una forza soprannaturale simile alla nebbia che distorce la realtà e impedisce ai mortali di vedere cose come mostri, dei, Titani e li sostituisce con cose banali della loro vita quotidiana.
Inoltre ero stata piuttosto svelta nel creare un muro tra me e quei disadattati grazie a quello che veniva definito come sguardo ipnotico, con il quale, a detta di tutti, ero in grado di mostrare stralci della vita dei malcapitati che lo incrociavano, soprattutto scene di come sarebbero morti. Non mi ero mai soffermata troppo sulla veridicità di questo fatto, limitandomi a usarlo solo su chi mi si avvicinava troppo e traumatizzandolo quanto bastava perchè mi stesse alla larga.
E aveva funzionato, fino a quando non era stato lo stesso Caso Problematico ad avvicinarsi. E io mi ero ritrovata a voler andare in vacanza al Tartaro per la disperazione. Alla fine di quella storia avrei ucciso Chirone e avrei venduto la sua carne di cavallo al migliore offerente.
Òntos.
Lui faceva la bella vita, come insegnante di latino in sedia a rotelle, mentre io dovevo sopportare quella tortura degna delle Furie di zio Gioiello. Avrei preferito mille volte dover fare il bagno a Cerbero.
Comunque all’inizio mi limitai a ignorarlo, esattamente come facevo con tutti gli altri ragazzi. Ma chissà perchè lui non demordeva. Era davvero testardo per essere un Caso Problematico. Un dannato Problema con la P maiuscola, e io ne avevo abbastanza di problemi.
Tuttavia lui continuava.
Non so cosa ci vedesse in me, o cosa non ci vedesse. Fatto sta che mi cercava per pranzo, si sedeva vicino a me in classe, mi chiedeva persino di studiare insieme. E ovunque andava lui Grover lo seguiva, motivo per cui mi ritrovai sempre circondata da quei due. E anche se io non dicevo una parola, limitandomi a osservare, Percy non se preoccupava e parlava anche per me. Dei, il difficile era farlo stare zitto, in realtà. Mi raccontava sempre tutto: dalle poche cose che sapeva del padre, a quanto fantastica fosse la madre, quanto detestasse il patrigno, persino tutte le cose strane che gli erano capitate durante gli anni e nelle scuole precedenti.
Più lo vedevo insistere, più vedevo Grover osservarmi con aria preoccupata, più mi irritavo e mi nascondevo da qualche parte pur di non averli intorno. E quello divenne il mio ciclo giornaliero per mesi: mi alzavo, andavo a lezione, prendevo il pranzo e scappavo da qualche parte prima che Percy potesse anche solo vedermi di sfuggita. Poi studiavo, osservavo quello che succedeva rimanendo nell’ombra e me ne tornavo in camera dopo aver preso qualcosa per cena. E così via, la mattina successiva.
Era una routine consolidata. Soprattutto da quando, a Natale, le cose al piano di sopra si erano smosse e la Dodds, un’orrida vecchietta antipatica, era arrivata come professoressa di matematica. Sapevo perchè fosse lì, così come sapevo perchè Chirone fosse sempre più preoccupato con il passare del tempo. Esattamente come sapevo perchè sembrava che il cielo e il mare fossero sul piede di guerra: Zio Uccello e Zio Pesce stavano litigando di brutto e sempre più pesantemente, portando di conseguenza la tensione fra gli altri dei a livelli davvero alti. Sinceramente speravo che Atena riuscisse a tenerli buoni, ma dovevo aspettarmi che non ne sarebbe stata in grado. Soprattutto sapendo quello che sapevo io.
Non mi restava altro che fare buon viso a cattivo gioco ancora per un po’, poi avrei ucciso Chirone con le mie mani e avrei usato la sua coda per creare pregiati archetti da vendere ai violinisti.
Avrei tenuto d’occhio il Caso Problematico e la Dodds, quel pipistrello avvizzito sotto copertura il cui vero nome era Alecto, Furia di Ade. Zio Gioiello doveva averla mandata qui a tenere d’occhio il ragazzo e, per chissà quale motivo, mi aveva sempre lasciata in pace, ignorandomi totalmente. Strano davvero data l’attitudine dei mostri a mangiarsi quelli come me. Forse aveva a che fare con l’accordo che avevano stretto gli dei…
Fino a quel momento, comunque, si era limitata a osservare – anche lei – il Caso Problematico, come in attesa di un qualche segno divino che le desse il via libera per ucciderlo. Ovviamente nulla le impediva di torturarlo con punizioni e simili, motivo per cui era risultato evidente a tutti fin da subito che Miss Pel Di Carota Andata A Male – alias Nancy – era la sua preferita mentre lui lo odiava.
Avendo scelto di diventare suo amico, Grover si ritrovava sempre coinvolto nei suoi casini perchè la Figlia di Ares Scampata – sempre Nancy – lo bersagliava in continuazione per far esplodere Percy e vederlo sbattuto in punizione dal Pipistrello. Quel ragazzo, infatti, era dannatamente leale. Ma non mi andava giù che cercasse sempre di attaccare bottone anche con me.
Pur vedendomi relativamente poco, dopo che iniziai a scappare letteralmente da lui per tenerlo alla larga, Percy non si era arreso e a volte lo vedevo osservarmi insistentemente da lontano, forse nel tentativo di capire cosa mi passasse per la testa e perché mi tenessi sempre alla larga da chiunque. Tempo perso, non ci sarebbe mai arrivato.
Ogni tanto riuscivo a vedere Grover, però. Senza di lui. E allora ci nascondevamo in un luogo appartato e parlavamo per ore, raccontandoci le cose che ci eravamo persi da quando ci vedevamo così poco. Lui mi parlava di quanto fosse fantastico quel ragazzo e di come avesse difficoltà a studiare a causa della dislessia-che-non-era-dislessia tipica dei semidei. Il nostro cervello, infatti, era impostato sul greco antico, motivo per cui era più difficile leggere in altre lingue – io mi ero allenata ed ero riuscita a superare quest’ostacolo dopo alcuni anni, ma lui non poteva farci niente soprattutto perchè non lo sapeva.
Allora gli passavo alcuni appunti scritti a chiare lettere – un banale trucchetto che avevo imparato con il tempo – in modo che Percy potesse capirli più facilmente, ma erano l’unica cosa che in cui mi permettevo di ficcare il naso. E solo perché sapevo come ci si sentisse a faticare tanto come lui. Del resto, stavo già rischiando troppo con la mia sola presenza lì. E alla fine Grover tornava da Percy con la promessa di tenere segreto il mio coinvolgimento, perchè sapeva che altrimenti il Caso Problematico mi avrebbe assillata con le sue domande e io avrei tosato a zero le sue zampe da capra.
Ma torniamo al punto: dopo aver passato quasi un intero anno scolastico a tenere d’occhio il Caso Umano e il Caso Mostruoso, sapevo che la gita a cui stavamo per partecipare avrebbe cambiato le carte in tavola. Di nuovo. Ma decisi di limitarmi a osservare, ben consapevole che tanto sarebbe successo comunque, prima o poi.
Quel giorno andammo al Metropolitan Museum of Art per vedere anticaglie greche e romane, quelle che poi sarebbero parte della storia della mia famiglia. Eravamo una trentina di ragazzi insieme a Chirone, che si faceva chiamare signor Brunner, e al Pipistrello.
Osservai con distacco, a qualche posto di distanza, quei due poveretti venire bersagliati da Miss Pel Di Carota Andata A Male per tutto il viaggio, con Grover che bisbigliava continuamente qualcosa all’amico per impedirgli di esplodere ed essere sospeso, dato che ne aveva combinate talmente tante durante l’anno da essere finito in libertà vigilata. Rimasi per conto mio anche durante il giro turistico, almeno fino a quando non arrivammo davanti a una colonna alta quattro metri, con una grossa sfinge in cima che fortunatamente per noi era di pietra. Chirone parlò e parlò, raccontandoci aneddoti su quella stele e perdendosi in chiacchiere sull’arte funeraria che io sapevo già, mentre i ragazzi continuavano a farsi i fatti loro. Io lasciai vagare la mente altrove, pur cercando di non pensare a cosa sarebbe successo di lì a poco. Non so per quanto tempo rimasi con la testa nel regno di Zio Pesce, ma un’esclamazione del Caso Problematico mi riportò alla realtà.
«Vuoi chiudere quella boccaccia?»
Quindi, alla fine, era esploso davvero.
Alzai gli occhi al cielo ma non dissi niente mentre il gruppo si metteva a ridere. Chirone interruppe la sua parlantina, con mio sommo sollievo. Stava diventando soporifero.
«Jackson.» disse. «Vuoi fare qualche commento?»
Percy diventò viola. «No, signore.»
Il professore indicò una delle figure sulla stele. «Forse vuoi dirci cosa rappresenta questa immagine?»
Lui guardò la scultura. «È Crono che divora i suoi figli, giusto?»
«Sì.» confermò il professore, poco soddisfatto. «E lo fa perché…»
«Beh...» Percy si sforzò di ricordare. «Crono era il dio sovrano e…»
Io non riuscii a trattenere un gemito di protesta, dal mio angolino in disparte. Quello era un insulto bello e buono ai veri dei.
«Dio?» ripeté Brunner, come a sottolinearlo.
«Titano.» si corresse velocemente lui. «E... non si fidava dei suoi figli, che erano dei. Perciò, ecco, li ha divorati, giusto? Ma sua moglie ha nascosto il piccolo Zeus e al suo posto ha fatto mangiare al marito una pietra. Poi, quando Zeus è cresciuto, con l'inganno ha costretto Crono a vomitare i suoi fratelli e le sue sorelle…»
«Bleah!» commentò una ragazza.
«... e così c'è stata una grande battaglia fra gli dei e i Titani.» continuò Percy. «E gli dei hanno vinto.»
Risatine sparse.
Nancy Bobofit borbottò a un'amica: «Come se questa roba servisse a qualcosa nella vita vera. Come se nelle domande di assunzione ci fosse scritto: “Spieghi perché Crono ha divorato i suoi figli.”»
La sentii persino io che mi trovavo dall’altra parte del gruppo.
«E come mai, Jackson.» fece Brunner. «Per parafrasare l'ottima domanda della signorina Bobofit, questo dovrebbe interessarci nella vita vera?»
«Beccata.» gongolò Grover.
«Chiudi quella bocca.» sibilò Nancy, la faccia più rossa perfino dei capelli.
Percy alzò le spalle. «Non lo so, professore.»
«Capisco.» sembrava deluso, ma io gli lanciai un’occhiata delle mie e lui comprese cosa volessi dire.
Era ovvio che non lo sapesse, non aveva la minima idea di quello che aveva intorno.
«Beh, sei andato benino, Jackson. Forse Elise vorrà esporci nel dettaglio come andarono le cose.» continuò ricambiando l’occhiata.
Lo maledissi mentalmente alzando gli occhi al cielo, poi risposi tenendo gli occhi fissi sulla stele. 
«Zeus fece bere a Crono una miscela di mostarda e vino, inducendolo a rigurgitare i suoi altri cinque figli. Ovviamente, essendo divinità immortali, avevano continuato a vivere e a crescere intatti nello stomaco del Titano, senza mai essere digeriti. Gli dei sconfissero il padre, lo fecero a pezzi con la sua stessa falce e sparsero i suoi resti nel Tartaro, la parte più oscura degli Inferi. Personalmente ritengo che una comune sbronza avrebbe avuto lo stesso effetto ma, ehi, suppongo che a quei tempi fosse un concetto a loro estraneo.» finii ironica facendo sghignazzare i miei compagni.
«E su questa nota allegra, direi che è ora di pranzo. Signora Dodds, vuole condurci fuori?» terminò Chirone dopo la mia spiegazione.
La classe si allontanò, le ragazze tenendosi lo stomaco disgustate da quello che avevano appena sentito e i ragazzi spintonandosi come degli idioti, totalmente indifferenti alla cosa.
Io mi tenni a distanza e li seguii, ignorando Percy che era stato fermato da Chirone. Lasciai perdere entrambi, in realtà. E anche quando Grover mi affiancò non prestai attenzione alle sue domande e mi limitai a osservare di sottecchi il Pipistrello, consapevole che di lì a poco si sarebbe fatta un fantastico – ma anche no – viaggetto al piano di sotto.
 

****

 
Quando il Caso Problematico e il Cavallo Bastardo ci raggiunsero fuori, io ero tranquillamente accomodata su un paio di gradini, intenta a gustarmi il misero pranzo che ci aveva servito la mensa, mentre Grover si era messo sul bordo della fontana, a debita distanza sia da me che da quegli altri che, poveri e insignificanti, si trastullavano con i piccioni. Personalmente trovavo molto più interessante studiare il temporale che si stava ammassando sulle nostre teste; magari avrei capito chi, tra quei due fratelli imbecilli, stava vincendo la litigata dell’anno. La stavano tirando un po’ troppo per le lunghe a mio parere – dopo tempeste di neve, inondazioni, incendi causati da fulmini – e speravo solo che Atena impedisse loro di generare un uragano, o avrebbero causato fin troppi danni.
Continuai a studiare il caotico movimento delle nuvole, sgranocchiando una mela e percependo sempre di più i loro occhi che ci osservavano, fino a quando non vidi con la coda dell’occhio un tentacolo d’acqua afferrare Miss Lentiggini Verniciate e trascinarla nella fontana.
Attorno all’opera architettonica, adesso, si erano radunati tutti i ragazzi della classe, che commentavano l’accaduto bisbigliando tra loro.
Io non mi mossi.
Il Pipistrello era arrivato non appena Nancy aveva urlato di essere stata spinta, ovviamente, ma io rimasi a osservare la Dodds avviarsi insieme a Percy all’interno del museo mentre Grover passava lo sguardo preoccupato dal ragazzo a Chirone, che se ne stava tranquillo in un angolo a leggere un libro sotto un ombrellone fissato alla sua sedia a rotelle, apparentemente ignaro di quello che stava succedendo. Doveva essere davvero preoccupato, il satiro, perchè osservava persino me.
Mi si avvicinò velocemente e si fermò davanti a me con sguardo implorante.
«Avie, ti prego, fa’ qualcosa!» disse.
«Non ci penso neanche.» mi opposi, calma, tornando a osservare le nuvole e tentando di scacciare la sensazione di tensione sempre più crescente intorno a noi.
«Per favore!» insistette lui. «Lo ucciderà!»
«L’idea è quella.» commentai semplicemente.
Lui gemette, ma non si mosse. Rimase lì, di fronte a me, a osservarmi in quel modo tanto insistente da essere irritante.
Sbuffai.
«E va bene.» cedetti, alzandomi e buttando i resti della mela in un cestino vicino. «Ma…» lo bloccai, mettendolo in guardia, prima che potesse dire qualcosa. «Non farò niente di più di quello che so sarebbe successo comunque. Sia chiaro.»
Lui era troppo sollevato per protestare e si limitò ad annuire, seguendomi poi mentre mi avvicinavo a Chirone con tutta calma. Io, intanto, pregavo silenziosamente le mie sorelle che me la dessero buona e che non peggiorassi tutto un’altra volta con quell’intervento non previsto.
«Se aspetti ancora un po’ la penna la userà da morto.» dissi al centauro dopo essermi fermata davanti a lui.
«Credi sia arrivato il momento?» mi domandò senza alzare gli occhi dal suo libro.
Io alzai un sopracciglio senza dire niente. Sapeva benissimo che non avrei risposto. Già quello che stavo facendo era una violazione in piena regola. Ne era perfettamente al corrente.
Una fitta alla testa mi colse in quel momento, ma la nascosi spostando di nuovo lo sguardo sulle nuvole. Si erano fatte più scure, quasi più pesanti, come a mettere in evidenza il pericolo incombente e i successivi guai in arrivo.
Chirone alzò gli occhi su di me e studiò la mia espressione. Poi sospirò.
«Molto bene.» disse, prima di mettere via il libro e muoversi verso la direzione presa da Percy e la Dodds.
Me ne tornai al mio posto sulle scale, riprendendo a ignorare il resto del mondo e rimanendo con i sensi ben allerta. La tensione nell’aria si faceva sempre più alta; riuscivo a sentirne l’elettricità sulla pelle, ma sembravo essere l’unica. Dopo neanche dieci minuti la Foschia circondò ogni angolo del museo e della piazza in cui eravamo, confondendo i ricordi dei mortali e facendogli credere che la Dodds non era mai esistita.
Chirone mi fece un cenno riprendendo il suo posto e Grover dovette capire l’antifona perchè tornò alla fontana. L’idea era talmente semplice che non era necessario ce la spiegasse: fingere che non fosse successo niente e, di conseguenza, fare impazzire Percy.
Avrebbero dovuto chiedere consiglio ad Atena, perchè quello era un pessimo piano. Non so perchè gli diedi ascolto. Ah, sì: non volevo intromettermi. Che cretina.
Quando Percy uscì dal museo, con espressione stralunata e la penna in mano, stava cominciando a piovere, ma io mi limitai a tirarmi su il cappuccio per coprirmi i capelli e rimasi in disparte a osservare la scena del Caso Problematico che cercava di capire cosa stesse succedendo e perchè tutti credessero che la Kerr — una pimpante biondina che non era mai stata presente a scuola finché non scese dall'autobus alla fine della gita — fosse la nostra professoressa di matematica. Lo vidi parlare con Grover, che non sapeva mentire, e poi avvicinarsi a Chirone per restituirgli la penna, prima di scambiare qualche parola con lui.
Era talmente sconvolto che si voltò persino a guardarmi, ma io mi limitai a distogliere lo sguardo e ignorarlo come al solito.
Sospirai, riportando l’attenzione sulle nuvole temporalesche. Sembrava che quel round lo avesse vinto Zio Uccello, ma non ero sicura che l’avrebbe spuntata lui, alla fine.
Il futuro, per quanto chiaro, era maledettamente volubile.

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Capitolo 3
*** 2. Le mie sorelle "uccidono" l'eroe ***


Per il resto dell'anno scolastico osservai, con un certo rammarico lo ammetto, Percy impazzire lentamente. Stava pian piano andando fuori di testa e pensava che tutta la scuola si prendesse gioco di lui. Gli studenti – Grover e io compresi – si comportavano come se fossero convinti che la signora Kerr fosse stata la nostra insegnante di matematica fin da Natale. Mi dispiaceva, ovviamente, ma secondo Chirone non era pronto per sapere la verità. Io, in ogni caso, me ne stetti alla larga e aspettai che crollasse e costringesse gli adulti a chiamare il manicomio.
Ogni tanto lo vedevo buttare là un accenno alla Dodds, per cogliere qualcuno in contropiede, ma gli altri ragazzi lo guardavano come se fosse uno psicopatico. Io semplicemente lo ignoravo se capitava che mi rivolgesse la parola, ma sembrava aver capito, finalmente, che non volevo fare amicizia.
Purtroppo per Chirone e per i suoi piani strampalati, Grover non poteva fregarlo. Come già detto in precedenza, quella capra era peggio di Pinocchio, e Percy lo innervosiva parecchio ogni volta che gli poneva domande sulla Dodds. Quando Percy la nominava, lui esitava sempre prima di dichiarare che non esisteva, facendogli, così, capire che mentiva.
Chirone, però, non voleva saperne di dirgli la verità. Sosteneva che fosse troppo piccolo, che non era pronto, che sarebbe cambiato tutto e bla bla bla. Era già cambiato tutto, ma lui si ostinava a negare l’evidenza. Grover aveva provato a convincerlo, durante le riunioni periodiche che facevamo nel suo ufficio per aggiornarci sulla situazione, ma era un mulo cocciuto ed era rimasto fermo sulle sue stupide convinzioni.
Il tempo intanto continuava a fare il matto e ciò non faceva altro che farmi alzare gli occhi al cielo sempre più spesso, pregando in silenzio quei due imbecilli di darci un taglio con le tragedie. Va bene che erano greci, e che quindi le tragedie le avevano nel sangue, ma un po’ di contegno! Erano dei, accidenti a loro!
Un giorno, il tornado più grosso che si fosse mai visto nella Hudson Valley si abbatté a soli ottanta chilometri dalla Yancy Academy, segnando un punto a favore di Zio Uccello. Allo stesso tempo, leggevamo spesso sul giornale dell'insolito numero di piccoli aerei precipitati nel corso dell'anno a causa di burrasche improvvise sull'Atlantico, che andavano a ingrassare il punteggio di Zio Pesce.
Sinceramente volevo solo che quell’anno scolastico finisse il prima possibile, in modo da tornarmene a casa e rivedere la mia famiglia. Non avevo potuto sentirli quanto avrei voluto, purtroppo, ma i messaggi-Iride – che utilizzavano l’arcobaleno e di cui si occupava la dea Iride in persona – erano molto meglio delle chiamate mortali e ci permettevano anche di vederci. Tuttavia non potevamo toccarci, e io non aspettavo altro che il momento in cui avrei riabbracciato Vettie e Lucky, in assoluto i due ragazzi a cui ero più legata. Erano loro la mia famiglia e avrei fatto qualsiasi cosa per ognuno dei due. Li avrei sempre messi al primo posto, in ogni circostanza.
Alla fine Percy sbroccò.
Sinceramente mi stupii che ci fosse voluto così tanto. Successe durante una lezione d’inglese in cui era particolarmente nervoso. Io mi stavo facendo i fatti miei come al solito, osservando fuori dalla finestra e ignorando completamente la lezione, quando lo sentii dire “vecchio beota”. L’aveva praticamente urlato, in realtà, motivo che mi aveva spinta a voltarmi e a osservare il professor Nicoli, parecchio arrabbiato, ordinargli di uscire. Cosa che aveva fatto sotto lo sguardo preoccupato di Grover.
Circa una settimana dopo, il satiro mi venne a cercare per dirmi che Percy avrebbe finito l’anno ma che, in pratica, era stato espulso e l’anno successivo non sarebbe tornato. Io alzai gli occhi al cielo, per niente sorpresa. Sinceramente neanche mi importava, volevo solo che quell’anno infernale terminasse, motivo per cui ero felice che si avvicinasse la settimana degli esami, indice di quanto poco mancasse alla fine della scuola.

 
****

 
La sera prima degli esami, Grover e io raggiungemmo Chirone al piano degli uffici degli insegnanti per l’ultimo incontro clandestino prima dell’inizio delle vacanze che ci avrebbero riportati a casa. Il satiro era talmente agitato che, quando entrammo, non chiuse nemmeno la porta, lasciandola accostata.
«Ben arrivati, ragazzi.» Chirone ci osservava dall’alto della sua statura equina.
In quel momento infatti, stranamente, non usava la sedia a rotelle come copertura, lasciata abbandonata a lato della stanza, ma passeggiava lentamente su e giù per l’ufficio, con l’arco in mano e la coda che si muoveva avanti e indietro, nervosa, mettendo in bella mostra la sua metà da stallone bianco. Questa situazione doveva dargli più pensieri di quanto pensassi.
Grover avanzò titubante, mentre io mi appoggiai alla parete di fronte al vetro che ci divideva dal corridoio, a braccia incrociate.
«Sono preoccupato per Percy, signore.» disse il mio amico.
Comprensibile. Percy stava impazzendo sotto i nostri occhi e noi non potevamo – o volevamo, nel mio caso – fare niente. Un’ombra al di là della porta attirò la mia attenzione e, quando osservai meglio, mi accorsi che l’oggetto della nostra conversazione stava origliando. Decisi di rimanere in silenzio, ne avrei parlato con Chirone più tardi.
«Non può restare da solo, quest’estate.» proseguì Grover. «Voglio dire, una Benevola a scuola! Adesso che noi ne siamo sicuri e che anche loro ne sono sicuri…»
«Peggioreremmo solo le cose mettendogli fretta.» rispose Chirone, lanciandomi un’occhiata a cui io non diedi peso. Ero troppo impegnata a osservare Percy attraverso lo spiraglio della porta e a cercare di ignorare il mal di testa. E poi sapeva già come la pensavo a riguardo. «Il ragazzo deve maturare.» concluse.
«Ma forse non ne avrà il tempo. La scadenza del solstizio d’estate…» insistè Grover.
«...si dovrà risolvere senza di lui, Grover. Lasciamo che si goda la sua ignoranza finchè può.» ribattè Chirone.
«Signore, l’ha vista…»
«La sua immaginazione.» perseverò il centauro facendomi scuotere la testa. «La Foschia gettata sugli studenti e sugli insegnanti basterà a convincerlo.»
«Signore, io… io non posso mancare ai miei doveri un’altra volta.» la voce di Grover era soffocata dall’emozione. «Sa cosa significherebbe.»
«Non hai mancato ai tuoi doveri, Grover.» dissi io, gelida. «Nè oggi, nè l’altra volta. E lo sai. Vorrei solo che la Foschia avesse funzionato anche con lui.» ammisi, pur sapendo che ci stava ascoltando. «In questo modo non sarebbe impazzito tanto e si sarebbe preoccupato solamente di ricordare la differenza fra Chirone e Caronte e fra Polidette e Polideuce. So che gli stanno dando del filo da torcere.» sospirai.
«Sono sicuro che, con il tuo aiuto, saprà cavarsela, Grover. Comunque Elise ha ragione: non hai mancato ai tuoi doveri. Avrei dovuto riconoscerla. Ora preoccupiamoci soltanto che Percy sopravviva fino al prossimo autunno…»
Sentimmo un tonfo provenire dal corridoio e Chirone ammutolì all'istante.
Il professore mi passò lentamente accanto e uscì in corridoio, perlustrandolo e fermandosi davanti al vetro di una porta poco distante per qualche secondo, poi proseguì.
«Nessuno.» mormorò una volta raggiunto il fondo. «Ho i nervi a pezzi dal solstizio d’inverno.» ammise tornando in ufficio.
«Anch’io.» disse Grover. «Ma avrei giurato…»
«Benvenuti nel mio mondo.» commentai.
«Tornate nei vostri dormitori. Vi aspetta una lunga giornata di esami, domani.»
«Non mi ci faccia pensare.» disse Grover uscendo. «Vieni?» mi chiese quando vide che rimasi ferma.
Io gli feci un cenno con la mano. «Vai pure. Devo parlargli di una cosa.»
Grover mi osservò stranito per qualche secondo, ma poi mi lasciò con Chirone. Io chiusi la porta e mi voltai verso il centauro, sedendomi stanca di fronte alla scrivania.
«Era lui. Era qui.» confermai passandomi una mano sulla fronte.
«Quanto ha sentito?» domandò Chirone riaccomodandosi nella sua sedia a rotelle.
«Più o meno tutto. Dubito che chiederà qualcosa, però. Penso sia abbastanza scioccato e diffidente in questo momento. So che si è nascosto in uno degli altri uffici e credo che stia aspettando che ce ne andiamo prima di tornare nel suo dormitorio.»
«Cosa dobbiamo fare?» mi domandò lui, stanco quanto me.
Questa situazione non piaceva a nessuno.
«Sai che non posso risponderti.» dissi.
Chirone mi si avvicinò, appoggiando una mano sulla mia spalla e stringendo appena. «Non puoi addossarti per sempre la colpa di quello che è successo. Eri solo una bambina.»
«Tu credi?» chiesi, scettica. «Ero stupida se pensavo che avrebbe cambiato in meglio le cose.» mi passai le mani sul volto. «Non posso cancellare ciò che è stato, ma posso impedire che si ripeta.» mi alzai dirigendomi alla porta. «Penso che tu stia facendo la cosa giusta, comunque, date le circostanze.»
Appoggiai la mano sulla maniglia, ma venni richiamata dalla sua voce. «Hai intenzione di intervenire?» gli lanciai un’occhiataccia. «Non intendevo direttamente, no. In qualche altro modo.»
Ci riflettei un istante. «Non se posso evitarlo. Se tutto va come deve, non sarà necessario.»
«Speriamo che sia così, allora.» mormorò lui prima di lasciarmi andare.
Uscì dietro di me e spense le luci del suo ufficio. Io mi diressi in camera e mi fiondai a letto, desiderando il momento in cui sarei finalmente tornata a casa.
 

****

 
Il pomeriggio dopo, mentre finivo l’esame di latino e Percy usciva dall’aula dopo tre ore, facendosi chissà quante fisime mentali sui nomi greci e romani e su come si scrivevano, Chirone lo chiamò.
Per un attimo temetti che volesse parlargli della sera prima, ma poi mi ricordai della presenza degli altri studenti e mi diedi dell’idiota per averlo pensato, realizzando che non poteva essere quello.
«Percy.» disse. «Non scoraggiarti per il fatto di lasciare la Yancy. È... è la cosa migliore.»
Il tono era gentile, ma le parole mi fecero alzare gli occhi al cielo. Anche se parlava sottovoce, all’interno della classe potevamo sentirlo tutti; persino io, dal mio angoletto in fondo all’aula e vicino alla finestra. Nancy Bobofit sogghignò e mimò dei bacetti strafottenti con le labbra nella loro direzione.
Percy mugugnò. «Okay, signore.»
«Insomma…» Chirone dondolava avanti e indietro con la sedia, come se non sapesse cosa dire. E io pregavo davvero che stesse zitto, per una volta. «Questo non è il posto giusto per te. Era solo questione di tempo.»
Anche da quella distanza vidi gli occhi di Percy luccicare, voltato di tre quarti verso la cattedra.
Diedi una testata al banco, ignorando i fogli d’esame che mi lasciarono un leggero segno in fronte e immaginando che fosse la testa di Chirone.
Esasperazione, ecco cosa provavo in quel momento. E voglia di centrarlo con il banco, la sedia e tutta la classe.
«Giusto.» disse Percy, tremando.
«No, no.» riprese Chirone. «Oh, maledizione. Quello che sto cercando di dirti... tu non sei normale, Percy. Non è niente di cui…»
Sbuffai. E Chirone dovette sentirmi, perchè si zittì.
Ops.
«Grazie.» sbottò Percy. «Grazie mille, signore, di avermelo ricordato.»
«Percy…»
Ma se n’era già andato. Ovviamente.
Per una volta aspettai di essere l’ultima prima di alzarmi dal banco e consegnare. Quando lasciai i fogli dell’esame sulla cattedra fui molto chiara. Diedi a Chirone uno schiaffo in fronte, approfittando del fatto che lo superassi temporaneamente in altezza.
«Sei un’idiota.» affermai, schietta.
«Come, scusa?» domandò lui, incredulo.
«Cosa pensavi di fare con Percy?» rigirai, cercando di fargli capire.
«Volevo solo tirargli su il morale.» commentò. «Fargli capire che esistono posti in cui lui verrebbe apprezzato per quello che è.»
Io sospirai, tentando di essere paziente. «Io lo so. Tu lo sai. Grover lo sa. E probabilmente anche sua mamma, per ovvie ragioni. Ma devo ricordarti che Percy è all’oscuro di tutto. Non sa niente. Letteralmente.» gli feci presente, cercando di spiegargli il punto di vista del ragazzo. «L’unica cosa che ha capito, prima, è che il suo insegnante preferito, davanti a tutti, gli ha detto che non poteva farcela; che dopo avergli ripetuto per tutto l’anno che crede in lui, ora gli ha detto che era destinato a essere buttato fuori. Capirai che è demoralizzante.» gli posai una mano sulla spalla. «Hai scelto il posto e il momento sbagliato. Un giorno se ne renderà conto, e tu potrai dargli tutti gli incoraggiamenti che vorrai. Fino a quel momento, però, temo che dovrà accontentarsi di Grover.»
«Tu potresti aiutarlo, Avie. Saresti un’amica fantastica.» mormorò Chirone stringendomi la mano, ancora poggiata sulla sua spalla.
Ripensai a ciò che avevo visto da bambina, quel futuro che mi aveva sconvolta a tal punto da rinchiudermi nella mia cameretta singola – nella Casa Grande – fino a quando non era venuto lo stesso Apollo a parlarmi. Fu un evento talmente unico – la presenza di un dio che non fosse Dioniso al campo – che tutti lo ricordano perfettamente. E anch’io.
«Forse. Ma non per lui.» commentai solamente, prima di uscire dalla classe e lasciarlo solo.
Più stavo lontana da Percy Jackson, più probabilità aveva quel ragazzo di uscirne vivo.
L’ultimo giorno del semestre preparai con calma la mia valigia, consapevole – e maledettamente felice – che non sarei tornata in quella scuola. Per mia scelta, a differenza di Percy. Se Chirone avesse provato anche solo per sbaglio a farmi ripetere l’esperienza, avrei chiesto ai figli di Efesto di creare dei ferri di cavallo e glieli avrei incollati agli zoccoli (essendo un centauro, lui i ferri di cavallo non li usava. Erano un’invenzione degli umani per i cavalli o i muli addomesticati).
Gli altri ragazzi se ne stavano in giardino a scherzare e a parlare dei loro progetti per le vacanze. Uno partiva per le Alpi Svizzere. Un altro aveva programmato una crociera di un mese ai Caraibi. Erano ragazzi a rischio, ma erano ragazzi a rischio ricchi, come li aveva definiti Percy. Io li ritenevo dei bambini viziati e capricciosi, niente di più. I loro paparini erano manager, ambasciatori o celebrità.
Nessuno mi chiese cosa avrei fatto per l'estate e a me andava bene così. Sarebbe stato difficile spiegare dove sarei andata a persone che non sapevano niente della mia vita.
Raggiunsi Percy e Grover, che mi aspettavano alla fermata dell’autobus. Andavamo tutti e tre a Manhattan, perciò prendemmo lo stesso autobus diretti in città.
Mi misi nel posto dietro i loro, con le cuffie alle orecchie, e cercai di essere ignorata da entrambi, nonostante Grover continuasse a lanciare occhiate nervose nel corridoio scrutando gli altri passeggeri. La musica era abbastanza bassa da farmi sentire le varie conversazioni delle persone.
«Cerchi le Benevole?» chiese Percy, facendomi sospirare silenziosamente.
Dovevo aspettarmelo che se ne uscisse con una domanda del genere. Soprattutto dopo aver sentito la nostra chiacchierata.
Per poco Grover non cadde dal sedile. «C... che vuoi dire?» infilò la testa tra i sedili e mi fissò. «Gliel’hai detto tu?»
«Ma sei cretino?» domandai di rimando, infastidita. «Ha origliato la sera prima dell’esame.» rivelai. «Sai che non voglio mettermi in mezzo.»
E per renderlo più evidente mi voltai verso il finestrino.
Grover tornò a voltarsi verso Percy. «Quanto hai sentito?» si arrese.
«Oh... non molto. Cos'è la scadenza del solstizio d'estate?» disse lui, curioso.
Grover trasalì di nuovo. «Senti, Percy... ero solo preoccupato per te, capisci? Insomma, quelle allucinazioni sulla prof di matematica demoniaca…»
«Grover…»
«E stavo dicendo al signor Brunner che forse eri troppo stressato o roba del genere, perché non è mai esistita nessuna signora Dodds e…»
«Grover, sei davvero un pessimo bugiardo.»
Io sospirai di nuovo e appoggiai la schiena al sedile. Per quanto volessi restarne fuori non riuscii a trattenermi.
«Sì, glielo dico sempre anch’io.» commentai.
Le orecchie di Grover si fecero rosse. Mi lanciò un’occhiataccia, che prontamente ignorai, poi dal taschino della camicia, tirò fuori un sudicio biglietto da visita e lo porse a Percy.
«Prendi questo, okay? Casomai avessi bisogno di me durante l'estate.» gli disse.
Il biglietto era scritto in una calligrafia piena di ghirigori — una tortura per la nostra dislessia — ma alla fine Percy riuscì a leggere qualcosa tipo:
 
Grover Underwood
Custode
 
Collina Mezzosangue
Long Island, New York
(800) 009-0009
 
«Cos'è la Colli…»
«Piano!» sibilò Grover guardandomi di sottecchi. «È il mio, ehm... indirizzo estivo.»
Io sbuffai, ma rimasi zitta.
«Okay.» disse Percy, cupo. «Cioè, insomma, casomai volessi venire a trovarti nella tua villa.»
E io compresi al volo che niente era ok. Percy credeva che Grover fosse ricco come gli altri ragazzi della Yancy. Magari fosse così. Se solo avesse saputo la verità…
Grover annuì. «O... casomai avessi bisogno di me.»
«Perché dovrei aver bisogno di te?»
La domanda suonò piuttosto brusca.
Grover arrossì fino al pomo d'Adamo. «Senti, Percy, la verità è... ecco, che devo proteggerti.»
Percy lo fissò, scettico. Per tutto l'anno, aveva fatto a botte per difenderlo dai bulli della scuola. Probabilmente aveva anche perso il sonno pensando che l'anno dopo, senza di lui, gliele avrebbero suonate. E ora eccolo qui, a comportarsi come se fosse stato lui a difendere Percy. Poi lanciò la stessa occhiata anche a me, attraverso i sedili, e alzò pure un sopracciglio.
Io alzai le mani.
«Non guardare me, questo è campo suo.» commentai. «E, come ho già detto, io me ne resto fuori. Quindi smettetela di calcolarmi e fate finta che io non esista.»
«Grover.» replicò Percy al nostro amico, dopo avermi lanciato un’altra occhiata confusa. «Da cosa mi staresti proteggendo, esattamente?»
In quel momento, si sentì uno schianto sotto i nostri piedi. Dal cruscotto uscì una fumata nera e l'autobus si riempì di un tanfo di uova marce. L'autista imprecò e, procedendo a singhiozzo, riuscì ad accostare su un lato della strada. Grover mi lanciò uno sguardo e io aggrottai le sopracciglia, confusa. Questo non l’avevo previsto.
Dopo aver armeggiato per qualche minuto nel cofano, l’autista annunciò che dovevamo scendere. Io, Percy e Grover uscimmo dietro gli altri.
Ci trovavamo su un tratto di strada di campagna, il genere di posto che si nota solo se ci finisci per un guasto. Sul nostro lato c'erano soltanto aceri e rifiuti lanciati dalle auto di passaggio. Dall'altra parte, oltre le quattro corsie di asfalto che tremolavano nell'afa del pomeriggio, c'era una bancarella che vendeva frutta.
La mercanzia sembrava molto appetitosa: casse traboccanti di ciliegie sanguigne, mele, noci e albicocche, bottiglie di sidro immerse nel ghiaccio, in una vasca da bagno con le zampe. Non c'erano clienti, solo tre vecchiette su delle sedie a dondolo, all'ombra di un acero, intente a sferruzzare un grosso paio di calzini.
Insomma, erano grandi quanto maglioni, eppure erano chiaramente calzini. La vecchietta sulla destra ne sferruzzava uno. Quella sulla sinistra ne sferruzzava un altro. La vecchietta al centro reggeva un enorme cesto di filo blu elettrico.
Tutte e tre avevano un aspetto decrepito, i volti pallidi e raggrinziti come bucce appassite, i capelli d'argento trattenuti da fazzolettoni bianchi, le braccia ossute che spuntavano da vestiti di cotone scoloriti. Ma la cosa più strana era che sembravano guardare Percy.
Io le riconobbi all’istante. E compresi. Erano le Parche, le mie sorelle preferite.
Mi girai verso Grover per commentare la scena e vidi che era agitato. Aveva un tic al naso.
«Grover?» lo chiamò Percy. «Ehi, amico…»
«Dimmi che non lo stanno guardando. Non lo stanno facendo, vero?» mi domandò lui, con il panico nella voce.
«Beh, sì. Strano, eh? Pensi che quei calzini mi starebbero bene?» rispose Percy al mio posto.
«Non è divertente, Percy. Non è affatto divertente.» commentò lui.
La vecchietta al centro tirò fuori un grosso paio di forbici: d'oro e d'argento, a lama lunga, simili a cesoie. Sentii Grover trattenere il fiato.
«Torniamo sull'autobus.» ordinò. «Muoviti.»
«Cosa?» protestò Percy. «Saranno cento gradi, là dentro.»
«Sbrigati!»
Spalancò la porta e salì, ma Percy indugiò e io non mi mossi di un millimetro, la mia attenzione fissa sulle vecchiette. Dall'altra parte della strada, infatti, stavano ancora guardando Percy. Quella al centro tagliò il filo e io sentii il suono di quella sforbiciata da quattro corsie di distanza, esattamente come lo sentii anni prima quando Vidi quelle immagini che mi sconvolsero a tal punto da farmi rimanere in camera per giorni. Le sue amiche raggomitolarono i calzini blu, mi lanciarono tutte e tre un’occhiata e io sospirai. Sapevo perfettamente cosa significava e non mi piaceva neanche un po’. Voleva dire che non potevo fare più niente per cambiare le cose. E che avremmo passato entrambi le pene dell’inferno nel tentativo di riuscirci.
Dietro l'autobus, l'autista strappò un grosso pezzo di metallo fumante dal cofano. L'autobus sussultò e il motore tornò in vita.
I passeggeri esultarono.
«Era ora, maledizione!» esclamò l'uomo, colpendo il veicolo col cappello. «Tutti a bordo!»
Una volta ripartiti, Percy cominciò a sentirsi febbricitante, come se si fosse beccato l'influenza. Grover non sembrava stare molto meglio di lui. Aveva i brividi e batteva i denti.
Li osservavo con la coda dell’occhio, dal mio posto dietro di loro, ma cercavo di non farlo vedere.
«Grover?» lo chiamò Percy.
«Sì?»
«Cosa mi stai nascondendo?»
Grover si asciugò la fronte con la manica della camicia. «Percy, che cos'hai visto in quella bancarella della frutta?»
«Vuoi dire le vecchiette?» mi lanciò un’occhiata attraverso i sedili, ma si riconcentrò sull’amico. «Cos’hanno di tanto speciale, amico? Non sono come... la Dodds, vero?»
La sua espressione era difficile da interpretare, ma era chiaro che le vecchiette della bancarella fossero qualcosa di molto, molto peggio della Dodds. Io lo sapevo meglio di chiunque altro.
Grover insistette: «Tu di’ solo cos'hai visto.»
«Quella al centro ha tirato fuori le forbici e ha tagliato il filo.»
Grover chiuse gli occhi e fece un gesto con le dita che somigliava al segno della croce, ma non lo era. Era qualcos'altro, qualcosa di più... antico.
Ripeté: «L’hai vista tagliare il filo.»
«Sì. E allora?» ma perfino mentre lo diceva, sapeva che era qualcosa di grosso. O, almeno, se ne rese conto.
«Questo non sta succedendo.» borbottò Grover. Si mise a mordicchiarsi il pollice. «Non voglio che sia come l'ultima volta.»
«Grover…» mormorai io, la testa piena di immagini che avevo Visto e che avevo cercato in tutti i modi di dimenticare.
Volevo solo che stesse zitto, che la smette di parlarne. E io, forse, sarei riuscita a pensare ad altro.
«Quale ultima volta?» domandò Percy.
«Sempre in prima media. Non superano mai la prima media.» continuò lui.
«Grover.» disse Percy, perché stava davvero cominciando a spaventarsi. «Di cosa stai parlando?»
«Lascia che ti accompagni a casa dalla stazione degli autobus. Promettimelo.»
Percy glielo promise.
«Di che si tratta? È una specie di maledizione o roba del genere?» chiese passando lo sguardo da lui a me.
Nessuna risposta.
«Grover... il taglio del filo. Significa che qualcuno morirà?»
Grover lo guardò con un'espressione afflitta, come se stesse già scegliendo i fiori per decorare la sua bara.
Io alzai il volume della musica e mi voltai verso il finestrino, in silenzio.

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Capitolo 4
*** 3. Vengo rapita e Grover fa uno spogliarello nel bel mezzo di una tempesta ***


Appena arrivammo alla stazione degli autobus, Grover fece promettere a Percy che lo avrebbe aspettato mentre andava in bagno. Cretino.
Pensava davvero che lo avrebbe fatto, dopo averlo tartassato di “Perché succede sempre così? Perché sempre in prima media?” per tutto il viaggio? Ma anche no. Io lo sapevo, per quello non mi stupii per niente quando lo vidi allontanarsi senza di lui.
La cosa che mi lasciò totalmente esterrefatta – e che non avrei potuto prevedere nemmeno in una realtà alternativa – fu che, dopo un paio di metri, si voltò e tornò indietro. Mi prese per un polso e mi trascinò con sé.
Io non mi divincolai nemmeno dalla sua presa – cretina pure io – troppo impegnata com’ero a rimanere di sasso davanti a quella sua uscita totalmente inaspettata.
Ma che cavolo gli prendeva a quello svitato? Io che diamine centravo con i suoi piani strampalati? Ma soprattutto: perché quella testa bacata non riusciva a capire che non volevo essere coinvolta?
Ero talmente sconcertata che non mi accorsi nemmeno che aveva fermato un taxi e mi ci aveva spinta dentro. Mi riscossi solo quando lo sentii rivolgersi all’autista.
«Fra la Centoquattresima Est e la Prima.» gli disse, prima di rilassarsi contro lo schienale del sedile lanciandomi uno sguardo colpevole.
Solo in quel momento si degnò di lasciarmi il polso.
Io ero sempre più allibita.
Che diavolo stava pensando quell’idiota?
 

****

 
Litigai con Percy per tutto il viaggio, cercando di capire perché mi avesse portata con lui. La verità era che l’aveva fatto senza pensarci, cosa assurda dato che era tornato indietro per prendermi. Comunque gli dissi più volte che non sarei rimasta con lui, ma non voleva sentire ragioni.
Quando arrivammo alla palazzina in cui abitava Percy, mi trascinò di nuovo per il polso, consapevole che non sarei mai rimasta di mia iniziativa e sarei scappata il prima possibile; poi entrammo nel piccolo appartamento sperando che Sally fosse già tornata dal lavoro.
Sally era la madre di Percy e, da come me l’aveva descritta durante l’anno – quando cercava in tutti i modi di diventare mio amico – doveva essere una gran bella persona. Ne aveva passate davvero tante, sia prima che dopo la nascita di Percy, ma lui mi aveva raccontato che non se ne era mai lamentata.
Purtroppo per noi, invece, in casa c’era Gabe il Puzzone, in soggiorno, a giocare a poker con i suoi amici. La televisione sparava il canale dello sport a tutto volume e la moquette era cosparsa di patatine e lattine di birra. Alzando a malapena lo sguardo, mugugnò col sigaro in bocca: «Così sei tornato. Chi è l’albina?»
Sapevo chi fosse quel tizio, perché Percy mi aveva assillata anche con storie su di lui. Era il suo patrigno, l’uomo che Sally aveva sposato dopo che suo padre era stato dato per disperso in mare. A quanto pare era un vero imbecille che puzzava come una fetta di pizza all'aglio imputridita e incartata in un paio di calzoni da ginnastica. Disgustoso.
Ecco… da quel lato lì, forse, sono stata più fortunata io. Forse. Anche se non sono cresciuta con mia madre. Almeno so di avere delle fantastiche sorelle maggiori. E sottolineo fantastiche. Suppongo che il significato sia soggettivo...
«Qualcuno che non dovrebbe essere qui.» mormorai in risposta, guardandomi attentamente attorno.
«Dov'è mamma?» domandò Percy, ignorandoci.
Mi teneva ancora il polso, come se temesse che imbucassi la porta e svanissi da un momento all’altro. La voglia c’era, lo ammetto, e anche tanta. Se fossi stata in grado di viaggiare nell’ombra – una capacità che permetteva di spostarsi nello spazio utilizzando le ombre – lo avrei fatto sicuramente. Soprattutto perché quel tipo non mi piaceva neanche un po’. Tuttavia mi limitai a studiare l’ambiente senza dare segno di volermela dare a gambe. Per il momento, almeno.
«Al lavoro.» disse la Puzzola. «Hai dei soldi?»
Dei, quanto era irritante quel tizio. Lo conoscevo solo da trenta secondi e già volevo fargli fare un giro turistico al Tartaro.
Lo osservai in silenzio, così come avevo fatto con la stanza, cercando allo stesso tempo di non respirare per evitare di morire soffocata. Era un miracolo che non avessi ancora vomitato il pranzo. Sembrava un tricheco senza zanne vestito al negozio dell'usato. Aveva due o tre capelli in tutto, pettinati con cura sul cranio pelato, come se servisse a renderlo attraente.
Percy mi aveva detto che, pur essendo il dirigente di un negozio di elettronica nel Queens, se ne stava a casa per la maggior parte del tempo, limitandosi a incassare lo stipendio e a spendere i soldi in birra e sigari rivoltanti.
Che schifo.
In aggiunta pretendeva che Percy gli rifornisse la cassa del gioco ogni volta che era a casa, come un maledetto bastardo.
«Non ho soldi.» gli rispose Percy.
Gabe inarcò un sopracciglio unto.
«Hai preso il taxi dalla stazione degli autobus.» sottolineò. «E probabilmente l'hai pagato con un biglietto da venti. Il che fa sei o sette dollari di resto. Uno che si aspetta di vivere sotto questo tetto, dovrebbe contribuire al suo sostentamento. Dico bene, Eddie?»
Uno degli altri tipi – Eddie, a quanto pare – lo guardò con un barlume di compassione. «Via, Gabe.» commentò. «Il ragazzino è appena arrivato. E ha un’ospite.»
«Dico bene?» ripeté Gabe, calcando spazientito sull’ultima parola.
Eddie si chinò a guardare torvo la ciotola dei salatini. Gli altri due invece si limitarono a scoreggiare all'unisono. Proprio un bel gruppetto.
«Ho pagato io. E li avevo cambi.» lo freddai prima che Percy gli desse ciò che voleva.
Lo conoscevo da neanche due minuti e volevo già ucciderlo. Non andava bene. No, non andava bene per niente.
«Ma guarda, ti sei fatto pagare da una ragazza.» ghignò.
«Fossi in lei starei attenta al gioco.» commentai tranquilla, ben consapevole di quanto gli stesse andando male. «E per la cronaca: non sono albina.»
«Ti auguro di perdere.» aggiunse Percy.
«È arrivata la tua pagella, cervellone!» gli gridò dietro. «Eviterei di fare tanto il saputello.»
Percy mi trascinò via e sbattè la porta della sua stanza, che non era davvero la sua stanza perché durante i mesi di scuola Gabe si divertiva a farne ciò che voleva, trasformandola nel Covo della Puzzola Puzzona.
C’erano degli scarponi sudici sul davanzale e l’aria era satura dell’odore di sigari, birra scadente e una colonia assurda. Davvero rivoltante.
Percy mollò la valigia sul letto e sospirò.
«Grazie.» disse. «Per prima.»
Io lo guardai. Era seduto sul letto e teneva lo sguardo basso. Sembrava in imbarazzo.
Non potei fare a meno di sedermi al suo fianco.
Sospirai.
«Senti… non mi piace che tu mi abbia trascinata qui.» iniziai piano. «Io non dovrei assolutamente esserci. E non riesco proprio a capire perché tu l’abbia fatto, dopo che ho passato un intero anno a cercare di evitarti.» lui alzò lo sguardo e lo puntò sul mio. «Ma quel tipo è davvero un pessimo soggetto.» indicai con il pollice la porta dietro cui avevamo lasciato la Puzzola. «E mi stava irritando più di quanto abbia fatto tu. Quindi non c’è di che.» scrollai le spalle.
Lui rise debolmente, forse ripensando a quanto era stato asfissiante con me a scuola, nel tentativo di diventare mio amico.
Stava per dirmi qualcosa, forse perché mi aveva costretta a seguirlo, quando sentimmo la voce di una donna.
«Percy?» chiamò.
La porta della stanza si aprì e Percy si tirò su di scatto, con una luce negli occhi che non gli avevo ancora visto. Compresi subito quanto tenesse alla madre, era evidente in ogni più piccolo dettaglio del suo viso. Era chiaro come Apollo che quella donna era capace di farlo sentire in pace con il mondo semplicemente entrando nella sua camera.
Sally si fermò sulla soglia e io ne approfittai per studiarla attentamente, come stavo facendo con l’ambiente da quando Percy mi aveva trascinata in quel casino che non era casa mia. Era davvero una bella donna. Aveva un sorriso che mi ricordava quello di Will Solace, caldo come il sole, e lunghi capelli castani con qualche filo grigio nel mezzo che non riuscivano comunque a darle un’aria da vecchia. E mentre guardava il figlio sembrava che non riuscisse a vedere altro che il ragazzo meraviglioso e gentile che aveva cresciuto.
Sembra davvero una madre fantastica e io invidiai il mio amico, per questo. Perché non avevo mai conosciuto la mia.
«Oh, Percy!» lui scattò in piedi per farsi abbracciare forte. «Non posso crederci. Sei cresciuto, da Natale!»
Io rimasi volutamente in disparte, spostandomi in piedi vicino alla finestra. Non volevo intromettermi in quella scena meravigliosa. Erano davvero un bel quadretto. Inoltre era la prima volta che vedevo Percy così rilassato.
L’uniforme rossa-bianca-e-blu che indossava Sally aveva l’odore tipico dei dolcetti, un vero piccolo paradiso degno delle Isole dei Beati a mio parere. Colpa di Afrodite che mi aveva contagiata con la passione per i cioccolatini e i dolci in generale.
Entrambi si sedettero sul bordo del letto, troppo presi l’uno dall’altra per ricordarsi di me, e cominciarono a parlare di quello che era loro successo da quando non si vedevano, il tutto mentre Percy si gustava le caramelle che la madre gli aveva portato.
Mi aspettavo che Sally tirasse fuori l’argomento espulsione, come qualsiasi normale genitore mortale, ma non lo fece. Rimase lì a farsi raccontare dal figlio tutto quello che non le aveva scritto nelle lettere che aveva ricevuto e a passare amorevolmente la mano tra i suoi capelli, un gesto materno così naturale che a me era sempre stato negato.
Distolsi lo sguardo, non riuscendo a sopportare di vedere ciò che, in cuor mio, avevo sempre desiderato ma che non avevo mai potuto avere. Nonostante fossi piena di bei ricordi della mia infanzia, nessuno riguardava i miei genitori. Le persone che mi avevano cresciuta mi volevano bene, certo, e anche tanto, così come io ne volevo a loro. Ma l’amore incondizionato di una madre era qualcosa che non avevo mai sperimentato, e ne sentivo terribilmente la mancanza, anche se non ne avevo mai fatto parola con nessuno.
Sì, ero invidiosa. Ma ero anche contenta per Percy. In più li trovavo adorabili e volevo lasciargli tutto il tempo del mondo per godersi quelle attenzioni.
Purtroppo, Gabe la Puzzola ruppe la bolla in cui si erano rifugiati.
«Ehi, Sally... che ne dici di un po' di salsina ai fagioli, eh?» strillò dall’altra stanza.
Vidi Percy stringere i denti.
Sua madre era la donna più buona del mondo, da quanto avevo visto in quei pochi minuti. Si meritava molto di meglio di un idiota come Gabe. Ma comprendevo perchè lo avesse sposato. Lo avevo capito nell’esatto momento in cui ero entrata in quell’appartamento.
Comunque, lo ignorarono e Percy raccontò a Sally com’erano stati gli ultimi giorni di scuola, cercando di fingersi allegro per non farla stare in pensiero. Le dipinse l’anno accademico in una luce così positiva che per un attimo temetti che Ecate ci avesse mezzo lo zampino con la Foschia.
Tutt’a un tratto perfino Nancy Bobofit non sembrava più tanto male. Beh… paragonata a certe mie conoscenze non lo era di sicuro.
Fino a quella gita al museo...
«Cosa?» gli chiese Sally. Il suo sguardo gli pungolò la coscienza, frugando alla ricerca di segreti. «Ti ha spaventato qualcosa?»
«No, mamma.» negò lui.
Io non mi mossi.
Probabilmente avrebbe voluto raccontarle della Dodds e delle tre vecchiette con il filo, ma sicuramente temeva che l’avrebbe preso per pazzo. Inoltre, tecnicamente, io non sapevo niente della Dodds.
Fu in quel momento che si ricordò di me. Si voltò nella mia direzione con sguardo colpevole, come per scusarsi di non avermi presentata prima.
Io feci un debole sorriso, tranquilla. Non me l’ero presa.
«Scusa, Avie. Ero così preso da mamma che mi sono dimenticato di te.»
«Non preoccuparti, è comprensibile.» mi avvicinai ai due. «Salve, signora Jackson. Scusi l’intrusione, suo figlio ha deciso di trascinarmi a casa sua dalla stazione degli autobus senza apparente motivo.» spiegai alla donna, facendo arrossire il ragazzo. «Letteralmente.» aggiunsi. «Io sono Avalon, una sua compagna di scuola.»
Lei mi studiò attentamente, passando lo sguardo dai capelli bianchi ai vestiti, che mi coprivano interamente il corpo lasciando scoperte solo le mani e il collo, nonostante il caldo.
«Il piacere è mio, Avalon. Percy mi ha parlato molto di te, nelle sue lettere. Diceva che eri una ragazza davvero sfuggente, ma che sembravi una persona gentile.» rispose, facendo arrossire ancora di più il figlio.
«Mamma!» protestò lui, morendo per l’imbarazzo.
«Davvero?» risi. «Non sono particolarmente socievole, è vero. E non avevo molta voglia di fare conoscenza, a scuola.» aggiunsi, senza scendere nei particolari. «Suo figlio, però, è dannatamente insistente, sa? Non mi dava un attimo di tregua.» lo presi bonariamente in giro. «Ogni occasione era buona per tentare di avvicinarmi.»
Sally scoppiò a ridere.
«Ehi!» si lamentò lui.
«Sì.» mi disse lei. «Sa essere davvero testardo, quando vuole.»
«Ok, ora basta!» si intromise Percy, mettendosi tra di noi. «Vi siete conosciute da meno di cinque minuti e già mi prendete in giro? Siete scorrette.» mise il broncio come un bambino.
«Ho una sorpresa per te.» disse Sally, facendolo girare verso di lei. «Andiamo al mare.»
Lui sgranò gli occhi. «Montauk?»
«Per tre notti! Nel solito bungalow.»
«Quando?» era eccitatissimo.
Sally sorrise. «Il tempo di cambiarmi.» poi si voltò verso di me. «Mi dispiace che Percy ti abbia scombussolato i piani. Ti serve un passaggio alla stazione?»
Io sorrisi. «Prenderò un taxi, non si preoccupi. Non devo andare molto lontano.»
Percy mi osservò, confuso. «Ma credevo che partissi.»
Io aggrottai la fronte. Non gli avevo mai parlato dei miei programmi per l’estate. Non gli avevo mai detto una parola prima di quel giorno, in realtà.
«E tu come lo sai?» gli chiesi.
Lui distolse lo sguardo, a disagio. «Me l’ha detto Grover.»
Mi accigliai.
«Mai una volta che sappia tenere a freno il suo essere pettegolo.» sbuffai. «Torno a casa, a Long Island. Abitò lì. La mia famiglia risiede in quella baia da secoli.» spiegai.
«Allora non ci sono scuse, ti accompagniamo noi.» disse Sally.
«Non vorrei disturbare, signora Jackson. Avete dei progetti… allunghereste la strada e vi farei tardare.» protestai, ben consapevole che stavo rischiando troppo a rimanere con loro tutto quel tempo.
Volevo solo prendere le mie cose e sparire da quella casa che, nonostante il calore con cui mi aveva accolta Sally, non era il mio posto, evitando così di rischiare di distruggere tutto ciò per cui avevo lavorato negli ultimi anni. Non potevo mandare tutto al Tartaro proprio adesso, non dopo la fatica che avevo fatto per tenermene fuori il più possibile. Non se volevo sperare che lui si salvasse.
«Sciocchezze. Andiamo nella stessa direzione.» ribattè lei. «Inoltre è stato Percy a cambiare i tuoi, di progetti.»
«Ho la sensazione che Percy abbia preso da lei la testardaggine…» mormorai, beccandomi un sorrisetto da parte sua. «Facciamo così.» mi arresi, alla fine, rendendomi conto che non avrebbero mollato. «Vengo con voi fino a Montauk, poi me la faccio a piedi fino a casa.»
«Sei sicura?» chiese Percy. «Hai anche la valigia…»
«Che è uno zaino da campeggio.» gli feci notare. Un regalo di Ermes che aveva il dono di essere molto più capiente di quanto sembrasse. «Sono abituata a camminare. E poi una passeggiata mi farà bene.» al suo sguardo scettico, insistetti. «Davvero, Percy. Va benissimo così. A casa non sto ferma un minuto. Una scampagnata di qualche chilometro non è niente, in confronto.»
In quel momento Gabe comparve sulla soglia ringhiando: «Allora, Sally, questa salsa? Non mi hai sentito?»
Percy gli avrebbe volentieri mollato un pugno, io lo avrei direttamente infilzato, ma incontrammo lo sguardo di Sally e capimmo che stava offrendo un patto a Percy: doveva essere carino con Gabe per un po'. Solo finché non era pronta. Poi saremmo filati via di lì.
«Arrivo, caro.» rispose. «Stavamo solo parlando della gita.»
Gabe socchiuse gli occhi. «La gita? Vuoi dire che facevi sul serio?»
«Lo sapevo.» borbottò Percy. «Non ci lascerà andare.»
«Ma certo che lo farà.» replicò Sally senza scomporsi. «Il tuo patrigno è soltanto preoccupato per i soldi. Tutto qui. E poi...» aggiunse. «Gabriel non dovrà accontentarsi della salsina ai fagioli. Gli preparerò una scorta di salsa sufficiente per tutto il weekend. Di quella a sette strati: guacamole, panna acida... Vedrai che bontà.»
Gabe si addolcì un po'. «Allora, questi soldi della gita... vengono tutti dal tuo gruzzolo del guardaroba, giusto?»
«Certo.» rispose Sally.
«E userete la mia macchina soltanto per andare e tornare.»
«Faremo molta attenzione.»
Gabe si grattò il doppio mento. «Forse, se ti dai una mossa con quella salsa a sette strati... E forse, se il ragazzo si scusa per avermi interrotto la partita…»
«Mi dispiace.» farfugliò Percy, dopo un po’. Sapevo quanto gli era costato, glielo leggevo negli occhi. «Mi dispiace tanto di avere interrotto la tua importantissima partita di poker. Torna subito a giocare, ti prego.»
Soffocai una risata voltandomi verso la finestra per non farmi vedere, mentre Gabe socchiuse di nuovo gli occhi. Probabilmente il suo cervellino insulso stava cercando di individuare del sarcasmo nella sua affermazione.
«Bah, al diavolo.» decise, e finalmente tornò alla sua partita.
«Grazie, Percy.» gli disse Sally. «Arrivati a Montauk, parleremo più a fondo di... quello che hai dimenticato di dirmi, va bene?»
Per un attimo, mi sembrò di intravedere dell'ansia nel suo sguardo — la stessa paura che avevo visto in Grover durante il viaggio in autobus — come se anche lei avvertisse uno strano gelo nell'aria, lo stesso gelo che io percepivo da mesi. Sapeva molto più di quanto diceva, poco ma sicuro.
Ma poi le tornò il sorriso e accantonai la cosa. Arruffò i capelli a Percy e andò a preparare la salsa a sette strati per Gabe.
Io lanciai un sorriso al ragazzo, poi seguii Sally in cucina.
«Posso darle una mano?» chiesi.
«Non è necessario, non preoccuparti.» rispose lei cominciando a trafficare con gli ingredienti.
Rimasi a osservarla muoversi abilmente in cucina, il silenzio che riempiva lo spazio rotto solo dagli oggetti che utilizzava.
«Sei una di loro, vero?» domandò infine.
«Sì.» ammisi. «Credo sia piuttosto evidente.»
«Sì, lo è.» concordò lei. «E non solo per i capelli bianchi e i tralci di vite che hanno vita propria. Hai uno sguardo che parla per te. Come se sapessi più cose di quanto dici.»
Sospirai. «Non ha la minima idea di quanto sia vero.»
«Come ti sei trovata alla Yancy?» mi chiese, cambiando completamente argomento per non mettermi a disagio. Io mi accigliai e lei continuò. «So che per voi è pericoloso andare nelle scuole normali… così, mi chiedevo…»
Compresi subito cosa voleva sapere in realtà. «Prima esperienza. Ho sempre studiato a casa, quindi è stato un po’ un salto nel buio.» le sorrisi per tranquillizzarla. «Se devo essere sincera, preferivo di gran lunga non andarci: niente classi piene di studenti e compagni antipatici.» spiegai. «Inoltre, casa è pur sempre casa, nonostante sia un tantino difficile avere privacy a causa del gran numero di persone. Anche se lei la pensa diversamente.»
Sally mi sorrise con fare colpevole. Sapevo bene, in fin dei conti, cosa pensava lei del Campo.
«Sono certa che sia un bel posto.» mormorò.
«Il migliore che io abbia mai visto.» confermai.
Rimanemmo in silenzio per un po’, lei intenta a preparare gli strati della salsa e io a osservarla, entrambe perse nei nostri pensieri.
«Cos’è successo a quella gita?» mi chiese, alla fine, rompendo la quiete.
Io puntai lo sguardo sulla finestra con un sospiro. «Non credo spetti a me raccontarglielo.»
«Ma qualcosa è successo.» capì lei.
«Sì.» confermai senza, però, aggiungere altro.
Sally sospirò, appoggiando gli utensili e stringendo il bancone con entrambe le mani. «Per tutto questo tempo era andato tutto bene. Qualche incidente, ma niente di grave. Ora la sua presenza non basta più, vero?»
Era una domanda retorica, era più che evidente. Motivo per cui risposi senza troppi problemi. Dopotutto, Sally lo sapeva già.
«No. Le cose si stanno complicando.» ammisi. «Non so quanto ancora potrà rimanere nell’ignoranza. E mi creda, vorrei che fosse il più a lungo possibile.» le rivelai. «Ma ne arriveranno altri. E non saranno così gentili
Lei mi guardò, gli occhi lucidi. «Devo dirglielo, vero? Ma lui mi odierà.»
Puntai nuovamente lo sguardo fuori dalla finestra, consapevole che ci stavamo avvicinando a un argomento spinoso. Sospirai ancora prima di tornare a guardarla: aveva gli occhi imploranti di chi è terrorizzato e non sa più quale sia la cosa giusta.
Le misi una mano sulla spalla, tentando di rassicurarla per quanto mi fosse possibile. «Percy la ama più di qualsiasi altra persona al mondo. Non potrebbe mai odiarla, nemmeno se ci provasse con tutto se stesso. Mi creda.» sospirai, cercando di tirarmi fuori da quell’impiccio in cui mi aveva messa involontariamente. «In quanto a dirglielo o meno… è una sua scelta e di nessun altro. Lei è sua madre, ed è l’unica persona che può decidere.»
«Io volevo solo che vivesse una vita normale il più a lungo possibile.»
«Lo so.»
«Tu quando l’hai scoperto?» domandò. «Come l’hai presa?»
Sospirai. «Non sono la persona adatta a cui chiederlo, sa?» cominciai misurando attentamente le mie parole. «Non ho avuto la possibilità di vivere nell’ignoranza.» confessai mostrandole la collanina di cuoio con le perle di terracotta di diversi colori che portavo al collo.
«Sono undici.» osservò spostando lo sguardo sul mio volto, su cui campeggiava un debole sorriso. «Oh.» comprese.
«Ho vissuto al Campo per tutta la mia vita. A parte un giorno, credo, quando sono nata. Ecco perché la mia prima esperienza scolastica è stata la Yancy. Non so niente di mio padre, il mio genitore mortale, perciò non saprei dirle come sarebbe stato se fosse toccato a lui raccontarmi la verità.» ammisi cercando di scacciare la luce tremolante che mi aveva invaso la vista, come ogni volta che pensavo a mio padre. «Io sono cresciuta sapendo fin da subito chi fosse mia madre e, di conseguenza, chi fossi io. Non è stato male, in questo modo non sono mai stata sola, ma a volte avrei preferito non sapere niente. Non avere coscienza di chi fossi e di cosa fossi in grado di fare.» rivelai, con la tristezza e il dolore nello sguardo. «Probabilmente sarebbe stato meglio.»
Lei mi strinse in un abbraccio, mentalmente la ringraziai, poi riprese a preparare la salsa per Gabe.
«Perchè non resti a Montauk con noi?» mi domandò a un certo punto, cogliendomi di sorpresa.
«Come, scusi?» ribattei, per niente sicura di aver sentito bene. Non poteva averlo detto davvero…
«Perchè non resti con noi?» ripetè lanciandomi uno sguardo. «Sono sicura che a Percy farebbe piacere... inoltre potresti aiutarmi a parlargli di suo padre.»
No!
Non è possibile che me l’abbia chiesto… e ora come faccio a rifiutare? Non posso restare ancora, è troppo rischioso! Ma come posso declinare l’offerta senza peggiorare le cose?
Sospirai cercando un modo per sottrarmi all’ennesimo impiccio di quella giornata.
«Non crede che sia meglio… ecco… farlo senza di me? Senza interferenze esterne? Voglio dire, è già un argomento spinoso senza aggiungere la parte strana… non sarebbe più semplice, per lei, parlarne senza una sconosciuta?» tentai piano, cercando di farle capire la mia riluttanza.
«Ti prego…» mormorò lei. «La tua presenza potrebbe aiutare entrambi.»
Il mio cuore cedette, a dispetto della ragione. «Va bene. Ma solo per un po’. E devo avvertirli. Dov’è il bagno?»
Lei me lo indicò e io mi chiusi la porta alle spalle, isolandomi. Poi creai due arcobaleni con l’acqua del rubinetto e degli specchietti e lanciai una dracma all’interno di ognuno di essi.
«Oh, Iride, dea dell’arcobaleno, accetta le mie offerte.» mormorai. «Mostrami Grover Underwood, ovunque sia. E mostrami Chirone, al Campo Mezzosangue.»
Quando apparvero le loro immagini tirai un sospiro di sollievo. Appena mi vide, Grover fece lo stesso. Chirone, invece era impegnato in una lezione di tiro con l’arco e non si accorse del messaggio. I ragazzi a cui stava insegnando, però, sì. Rimasero tutti fermi nell’atto di incoccare una freccia, troppo sbalorditi per rimanere concentrati sull’addestramento. Era raro ricevere una chiamata da qualcuno che si trovava fuori dal campo, soprattutto se quel qualcuno ero io.
Feci “ciao ciao” con la mano mentre tentavo in tutti i modi di non ridere per come mi stavano guardando, poi tossicchiai richiamando l’attenzione del centauro.
Fu solo in quel momento che Chirone si accorse di me e del messaggio iride di Grover.
«Bene, ragazzi, per oggi basta così.» congedò i giovani semidei, che si allontanarono dopo averci salutati.
Probabilmente stavano andando a raccontare a tutto il campo cos’era appena successo, il che voleva dire pettegolezzi, pettegolezzi e ancora pettegolezzi. Ne avrebbero parlato per giorni.
Sbuffai, tentando di non pensarci.
«Allora, Avalon, posso sapere perché non sei ancora arrivata al Campo?» mi domandò Chirone. «E tu, Grover, non dovresti essere con Percy?»
«Sì, beh… ecco… veramente io…» cominciò Grover grattandosi la barbetta.
«C’è stato un cambio di programma.» spiegai, facendola breve. «Molto grosso e potenzialmente pericoloso.»
Chirone sospirò, passandosi una mano sul volto. «Quanto pericoloso, Avalon?»
Distolsi lo sguardo, non sapendo bene come dirlo.
«Diciamo che Grover e io siamo momentaneamente al posto dell’altro…» mormorai.
«Voi… COSA?» esclamò il centauro, lo sgomento sul volto. «Sei con Percy? A casa sua?» rimarcò, forse sperando che negassi.
Ma io non potevo negare.
«Sì.»
«E Grover dov’è? E perché non è con voi?» chiese lui agitando la coda per il nervoso.
Io mi voltai verso il mio amico.
«Bella domanda… tu dove sei?» gli domandai.
«Non molto lontano da dove mi avete lasciato.» sospirò. «Stavo cercando di raggiungervi.»
«Non farlo.» lo bloccai. «Vai a Montauk, noi stiamo per dirigerci lì. Ti aspetterò con loro.»
«Noi?» chiese Chirone. «Noi chi, esattamente?»
«Percy… sua madre… ed io.» risposi titubante. «Ed ecco la parte potenzialmente pericolosa.»
«Tu… tu rimarrai con loro?» Chirone mi scrutò a lungo, poi sospirò. «Perché? Dopo tutto quello che hai fatto per rimanerne fuori, perché restare con loro?»
«Potrei tranquillamente dirti che la colpa è tua, sai?» gli dissi. «Non avresti mai dovuto costringermi ad andare alla Yancy. È partito tutto da quello. Io me ne sarei rimasta tranquilla e beata al campo – più o meno – a osservare lo svolgersi degli eventi come faccio da cinque anni, ma tu volevi a tutti i costi che venissi con te a tenerlo d’occhio, e poi lui mi ha letteralmente trascinata con sè…» scossi la testa. «Non ho idea di cosa succederà, adesso. Non con il mio diretto coinvolgimento. E tu lo sai.» nessuno dei due osò ribattere. «Spero solo di non peggiorare le cose.»
«Mi dispiace, bambina.» proferì Chirone con espressione colpevole. «Avrei dovuto darti retta.»
«Già…» mormorai senza guardarlo. «Avresti dovuto.»
Chiusi il rubinetto e feci sparire gli arcobaleni, mettendo così fine alla conversazione. Pregai che filasse tutto liscio fino all’arrivo al campo, ma avevo la sensazione che le cose si sarebbero movimentate piuttosto velocemente.

 
****

 
Il bungalow in affitto di Percy e sua madre era sulla costa meridionale, sulla punta più esterna di Long Island. Era una piccola scatola color pastello con le tendine scolorite, mezza affondata fra le dune. A detta di Percy trovavano sempre la sabbia nelle lenzuola e i ragni negli armadietti, e per la maggior parte del tempo il mare era troppo freddo per nuotare.
Adorava quel posto, si capiva da come ne parlava.
Percy mi raccontò che ci andavano da quando era piccolo e Sally lo frequentava anche da prima. Non l’aveva mai detto esplicitamente, ma lui sapeva che quella spiaggia per lei era speciale. Era il posto in cui aveva conosciuto suo padre.
Più ci avvicinavamo a Montauk e più Sally sembrava ringiovanire. Anni di lavoro e di preoccupazioni le sparivano dal volto. I suoi occhi prendevano il colore del mare.
Arrivammo al tramonto, spalancammo tutte le finestre della casetta e ci dedicammo per un po’ alle pulizie generali. Poi passeggiammo sulla spiaggia, lanciando patatine azzurre ai gabbiani e mangiucchiando gelatine azzurre, caramelle mou azzurre e tutti gli altri campioni gratuiti che Sally aveva portato dal negozio.
Io osservai tutto quel cibo azzurro con un velato sorriso sul volto, cosa che portò Percy a spiegarmi il motivo di questa loro fissa. E ora io lo spiegherò a voi.
Il fatto è che una volta Gabe aveva detto a Sally che una cosa del genere non esisteva. Avevano litigato e all'epoca era sembrata una sciocchezza. Da allora in poi, però, Sally faceva di tutto per mangiare in azzurro. Cucinava torte di compleanno azzurre. Preparava frullati blu al mirtillo. Comprava patatine azzurre e riportava a casa dolciumi azzurri dal negozio. Questo — oltre al fatto che aveva tenuto il cognome da ragazza, Jackson, anziché farsi chiamare signora Ugliano — era la prova che non si era fatta del tutto fregare da Gabe. Aveva anche lei una vena ribelle, come Percy. E come suo padre.
Quando si fece buio, accendemmo un fuoco per arrostire gli hot dog e i marshmallows. Sally prese a raccontarci di quando era piccola, prima che i suoi genitori morissero nell'incidente aereo. Ci parlò dei libri che avrebbe voluto scrivere un giorno, quando avrebbe avuto abbastanza soldi per mollare il negozio di dolciumi.
Alla fine, Percy trovò il coraggio di chiederle quello che, evidentemente, gli passava sempre per la testa ogni volta che venivano a Montauk: suo padre. Sugli occhi di Sally scese un velo di tristezza.
«Era gentile, Percy.» esordì. «Alto, bello e forte. Ma anche delicato. Tu hai preso i suoi capelli neri, sai, e i suoi occhi verdi.»
«Lo sono sempre.» mormorai talmente piano che nessuno dei due mi sentì.
Pescai una gelatina azzurra dalla busta.
«Vorrei che potesse vederti, Percy. Sarebbe così fiero.» continuò lei.
«Concordo.» commentai, intromettendomi nel discorso senza volere.
Percy mi guardò, stranito.
«Che c’è?» domandai cercando di tirarmi fuori dall’impiccio in cui mi ero messa. «Io lo sarei. Sicuramente lui sarebbe d’accordo con me.»
«Quanti anni avevo?» chiese, riportando lo sguardo su Sally. «Cioè... quando è partito?»
Lei fissava le fiamme. «È stato con me solo per un'estate, Percy. Proprio su questa spiaggia. In questo bungalow.»
«Ma... mi ha conosciuto quando ero piccolo.»
«No, tesoro. Sapeva che aspettavo un bambino, ma non ti ha mai visto. È dovuto partire prima che tu nascessi.»
Vidi una gran rabbia passare nello sguardo di Percy e sparire così com’era iniziata, e pensai che dovesse avercela davvero tanto con suo padre. Comprensibile, e normale.
«Hai intenzione di mandarmi via un'altra volta?» le chiese. «In un altro collegio?»
Sally tirò via un marshmallow dal fuoco. Io distolsi so sguardo puntandolo sul mare. Avrei preferito essere ovunque tranne che lì, in quel momento.
«Non lo so, tesoro.» Sally aveva la voce triste. «Penso... penso che dovremo fare qualcosa.»
«Perché non vuoi avermi tra i piedi?» gli tirai una gomitata e lui si pentì non appena lo disse.
Gli occhi di Sally si riempirono di lacrime. Gli prese la mano e la strinse forte. «Oh, Percy, no. Io... io devo farlo, tesoro. Per il tuo bene. Devo mandarti via.»
«Perché non sono normale.» concluse lui.
«Credimi, Brunner lo ha detto con le migliori intenzioni, Percy. La sua non era un’offesa.» gli dissi, capendo a cosa stava pensando. «Solo che, per essere un insegnante, Brunner è anche un cretino.»
«Lo dici come se fosse una brutta cosa, Percy. Ma non ti rendi conto di quanto tu sia importante. Pensavo che la Yancy Academy sarebbe stata abbastanza lontana. Pensavo che finalmente saresti stato al sicuro.» continuò Sally.
«Non si è mai abbastanza lontani.» mormorai fissando il fuoco.
«Al sicuro da cosa?»
Sally mi guardò negli occhi e Percy fece lo stesso; rividi tutte le cose assurde e spaventose che gli erano accadute, alcune delle quali sapevo che aveva cercato di dimenticare.
In terza elementare, un uomo vestito con un impermeabile nero lo aveva molestato in cortile. Quando gli insegnanti avevano minacciato di chiamare la polizia, se n'era andato ringhiando, ma nessuno gli aveva creduto quando aveva detto che sotto l'ampia tesa del suo cappello quell'uomo aveva un occhio solo, proprio in mezzo alla fronte.
Prima ancora, un ricordo molto precoce: era alla scuola materna e una maestra lo aveva messo a dormire in un lettino in cui si era infilato un serpente. Sally aveva strillato quando era venuta a prenderlo e lo aveva trovato a giocare con una flaccida corda rivestita di scaglie: Percy non sapeva come, ma era riuscito a strangolarlo con le sue manine paffute.
In ogni singola scuola, era successo qualcosa di pauroso o di pericoloso, ed era stato costretto a trasferirsi.
Sapeva che avrebbe dovuto raccontare a Sally delle vecchiette della bancarella, della Dodds al museo e di quella che credeva la sua folle allucinazione di averla disintegrata con una spada. Ma non ci riusciva, glielo leggevo negli occhi. Aveva la strana, e molto veritiera, sensazione che la cosa avrebbe posto fine alla loro gita a Montauk con me come ospite imprevisto, ed era evidente che non voleva che accadesse. Inoltre, probabilmente, la mia presenza lo metteva un po’ a disagio. Se solo avesse saputo...
«Ho cercato di tenerti il più possibile vicino a me.» spiegò Sally. «Mi avevano avvisata che era uno sbaglio. Ma c'è un'unica altra opzione, Percy: il posto in cui tuo padre voleva mandarti. Solo che... solo che proprio non riesco a farlo.»
«Mio padre voleva mandarmi in una scuola speciale?»
«Non una scuola.» rispose lei piano, osservandomi di sottecchi. «Un campo estivo.» poi, notando il suo sguardo, continuò. «Mi dispiace, Percy. Ma non riesco a parlarne. Io non... non potevo mandarti in quel posto. Poteva significare dirti addio per sempre.» completò fissandolo con tutto l’amore di una madre negli occhi.
«Per sempre? Ma se è solo un campo estivo!»
Sally si voltò a guardare il fuoco, e dalla sua espressione capii che se Percy avesse insistito sarebbe scoppiata a piangere.
Non la biasimai. Dopotutto, la prima volta che io ero uscita da quel campo era stato per andare alla Yancy sotto costrizione di Chirone. Ed erano davvero pochi i ragazzi che, una volta arrivati, riuscivano ad andarsene nel mondo mortale e a sopravvivere senza problemi. Casa mia era un posto fantastico, è vero, ma poteva diventare anche una prigione. Erano molti i ragazzi a cui quella situazione stava stretta.
 

****

 
Quando mi addormentai, contro ogni aspettativa feci un sogno vivido che mi impedì di dormire per più di mezz’ora. Così mi sedetti vicino alla finestra e ripensai a ciò che avevo visto, incredula di essere davvero riuscita a sognare. Qualcosa non andava se Hypnos permetteva ai sogni di filtrare nella mia mente…
C’era una tempesta sulla spiaggia e due splendidi animali, un cavallo bianco e un’aquila d’oro, cercavano di uccidersi sull'orlo della risacca. L’aquila piombava giù dal cielo e feriva il muso del cavallo con i suoi artigli enormi. Il cavallo si impennava e scalciava l’aquila sulle ali. Mentre lottavano, la terra rumoreggiava e una voce mostruosa rideva in un punto imprecisato del sottosuolo, incitando gli animali a combattere, e facendomi venire la pelle d’oca.
Io correvo verso di loro, sapendo di dover impedire che si uccidessero, ma correvo al rallentatore. Sapevo che non avrei fatto in tempo. Vidi l’aquila che si tuffava, puntando il becco contro i grandi occhi del cavallo, e gridai “No!”, svegliandomi di soprassalto subito dopo.
La tempesta infuriava veramente, e da lì si capiva benissimo quanto quelle due primedonne fossero arrabbiate. Anzi, arrabbiati. Anche se si comportavano come due bambinette dell’asilo che fanno i capricci perché vogliono avere l’esclusiva su un giocattolo.
Sicuramente si stavano impegnando, nella litigata del giorno, perchè era una di quelle tempeste che squarcia gli alberi e abbatte le case, i fulmini illuminavano il cielo a giorno e le onde di sei metri si schiantavano sulle dune come raffiche d’artiglieria. Se ne stavano dicendo di tutti i colori, lassù.
Dopo qualche ora, Percy mi raggiunse e osservammo in silenzio la tempesta. Sembrava agitato. Probabilmente aveva fatto il mio stesso sogno, e questo doveva averlo confuso ancora di più. Anch’io lo ero: ero passata dal non sognare mai niente al condividere un sogno con quel ragazzo. Assurdo. Il mondo stava proprio impazzendo. Eravamo davvero in guai grossi.
All'ennesimo tuono, anche Sally si svegliò. Si drizzò a sedere, con gli occhi sgranati, e disse: «Un uragano.»
Percy mi lanciò uno sguardo incredulo. Potevo capirlo: non c'erano mai uragani a Long Island all'inizio dell'estate. Ma l’oceano sembrava essersene dimenticato. Oltre il ruggito del vento, udimmo un lamento lontano, un verso rabbioso, sofferto, che ci fece drizzare i capelli.
Poi un rumore molto più vicino, come di mazze sulla sabbia. Una voce disperata: qualcuno che gridava, tempestando di pugni la porta del bungalow. Sospirai sollevata: finalmente ci aveva raggiunto.
Sally balzò giù dal letto in camicia da notte e corse a togliere il chiavistello.
Nella cornice della porta apparve Grover, stagliato sullo sfondo della pioggia battente. Ma non era... non era esattamente Grover. Nel senso, era Grover ma senza la sua copertura. E Percy lo guardava cercando di capire cosa non andasse nel suo amico.
«È tutta la notte che vi cerco.» esclamò Grover col fiato grosso. «Che accidenti pensavate di fare?»
«Non avevo molte indicazioni da darti, Grover, dato che non ci ero mai stata.» gli risposi. «Ma penso tu sia arrivato al momento giusto.»
Sally mi guardò, terrorizzata: non aveva paura di Grover, ma del motivo per cui era venuto. Io le feci un cenno e lei si rivolse a Percy. Con quel sogno avevo capito che non avevamo più tempo. E lei lo comprese in quel momento.
«Percy!» disse, gridando per farsi sentire oltre la pioggia. «Cos'è successo a scuola? Cos'è che non mi hai detto?»
Lui rimase impietrito a fissare Grover. Non riusciva a capire ciò che aveva davanti agli occhi. Ancora non sapeva.
«O Zen kai alloi theoi!» urlai io, osservando un punto dietro Grover. «Ce l'hai alle calcagna! Perché diamine te lo sei portato dietro, razza di capra spelacchiata? Non potevi seminarlo, prima di raggiungerci?»
Nello stesso istante lui strillò rivolto a me. «Non gliel'hai detto?»
«Doveva farlo Percy! Hai presente di chi parlo? Il tuo amico, qui, troppo scioccato per notare che ho imprecato in greco antico e che mi ha capito benissimo, perchè sta fissando la tua parte caprina da quando sei arrivato. Te lo ricordi?» accennai sarcastica. «Temo debba rivedere le sue priorità.»
Sally lo riscosse dalla trance in cui era caduto, lo guardò con un'espressione severa e si rivolse a lui in un tono che non le avevo ancora sentito: «Percy. Dimmelo subito
Lui balbettò qualcosa sulle vecchiette della bancarella e sulla Dodds, e Sally spostò lo sguardo su di me, il volto di un pallore mortale nel bagliore intermittente dei fulmini.
Io le sorrisi debolmente. «Temo che il tempo sia finito…»
Sally afferrò la borsetta al volo, gettò addosso a Percy un impermeabile rosso e ordinò: «Filate in macchina. Tutti e tre. Via
Grover si mise a correre verso la Camaro, ma non stava correndo, non nel senso mortale del termine. Stava trottando, dimenando il posteriore irsuto, e finalmente Percy capì come facesse a correre così velocemente, pur zoppicando quando camminava.
Correndogli accanto vidi distintamente l’espressione sul suo volto, illuminata dai fulmini e non potei pensare altro che: deve davvero rivedere le sue priorità.

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Capitolo 5
*** 4. Percy gioca ad acchiapparella con un’orrida mucca con i mutandoni ***


Sfrecciavamo a tutta velocità lungo oscure stradine di campagna. Il vento sbatteva contro la Camaro e la pioggia sferzava il parabrezza. Non sapevo come riuscisse a vederci, ma Sally continuava a pigiare il piede sull'acceleratore.
Ogni volta che c'era un lampo, mi voltavo a guardare Percy e Grover che sedevano l’uno accanto all’altro sul sedile posteriore e mi assicuravo che il primo non stesse impazzendo. Finora sembrava reggere abbastanza bene, anche se la confusione sul suo volto era evidente, ma sapevo che non avrebbe resistito a lungo.
Dopo un po’ Percy se ne uscì con: «Così tu e mia madre vi conoscete?» riferito a Grover.
Grover lanciò una rapida occhiata allo specchietto retrovisore, anche se dietro di noi non c'erano macchine. Sapevo che cercava qualcos’altro. Qualunque cosa fosse.
«Non proprio.» rispose. «Cioè, non ci siamo mai incontrati di persona. Ma lei sapeva che ti sorvegliavo.»
«Mi sorvegliavi?»
«Ti tenevo d'occhio. Per assicurarmi che stessi bene. Ma non fingevo mica di esserti amico.» si affrettò ad aggiungere. «Io sono tuo amico.»
«Ehm... che cosa sei, di preciso?»
«Non ha importanza, in questo momento.»
«Non ha importanza? Ho appena scoperto che, dalla vita in giù, il mio migliore amico è un asino!»
Grover si lasciò sfuggire un verso stridulo dalla gola: “Bee-bee!”
«Capra!» esclamò.
«Cosa?»
«Sono una capra, dalla vita in giù.»
«Hai appena detto che non aveva importanza.»
«Bee-bee! Ci sono satiri che ti calpesterebbero sotto gli zoccoli per un insulto del genere!»
«Cavolo. Aspetta. Satiri. Vuoi dire come... i miti del signor Brunner?»
«Le vecchiette della bancarella erano un mito, Percy?» domandò Grover lanciandomi un’occhiata. «La signora Dodds era un mito?»
«Allora ammetti che è esistita!»
«Naturalmente.»
«Quindi perché…»
«Meno sapevi, meno mostri avresti attirato.» risposi io, attirando la sua attenzione. «Abbiamo gettato la Foschia negli occhi dei mortali. Speravamo che avresti pensato che la Benevola fosse un'allucinazione. Ma è stato inutile. Hai cominciato a renderti conto di chi sei veramente.»
«Di chi... aspetta un minuto, che vuoi dire? E tu? Sei come lui?»
Io feci una smorfia. «No, Percy. Io sono come te. Più o meno.»
«Che vuol dire?»
Da qualche parte alle nostre spalle, più vicino di prima, si levò di nuovo uno strano gemito. Qualunque cosa fosse la creatura che ci inseguiva, era ancora sulle nostre tracce. E le possibilità, in base a ciò che avevo sentito finora, si riducevano a poche pessime razze di mostro.
«Percy.» intervenne Sally. «Ci sono troppe cose da spiegare e non c'è abbastanza tempo. Dobbiamo portarti al sicuro.»
«Al sicuro da cosa? Chi mi sta inseguendo?»
«Oh, nessuno di speciale.» fece Grover, evidentemente ancora piccato per la battuta sull'asino. «Solo il Signore dei Morti e i suoi tirapiedi assetati di sangue.»
«Grover!»
«Scusi, signora Jackson. Non potrebbe andare più svelta?»
Indicai a Sally una stradina a sinistra, più stretta di quella in cui ci trovavamo e lei sterzò bruscamente, imboccandola e oltrepassando a tutta birra fattorie buie, colline boscose e cartelli di RACCOLTA DI FRAGOLE affissi a staccionate bianche.
«Dove stiamo andando?» chiese Percy spostando lo sguardo da me a sua madre.
«Al campo estivo di cui ti ho parlato.» la voce di Sally era tesa; per il bene di Percy, si stava sforzando di mascherare lo spavento. «Il posto dove tuo padre voleva mandarti.»
«E dove tu invece non volevi che andassi.»
«Ti prego.» implorò lei. «È già abbastanza dura. Cerca di capire. Sei in pericolo.»
«Perché delle vecchiette hanno tagliato un filo?»
«Non erano delle vecchiette.» rettificò Grover. «Erano le Parche. Sai che cosa significa il fatto che ti siano apparse? Succede solo quando tu stai per... quando qualcuno sta per morire.»
«Cavolo. Hai detto ”tu”.»
«No, ti sbagli. Ho detto “qualcuno”.»
«Volevi dire “tu”. Nel senso di “tu, Percy”.»
«Volevo dire “tu”, nel senso di “qualcuno”. Non tu “tu”
«Ragazzi!» sbottò Sally.
«Di questo non mi preoccuperei, comunque.» commentai amaramente guardando fuori dal finestrino e attirando la loro attenzione.
Grover mi studiò attentamente, con i suoi occhietti da satiro. «Che cosa sai, tu?»
«Che abbiamo problemi più impellenti, al momento.» risposi piatta. E che il filo non era il suo, pensai.
«E tu come lo sai?» chiese Sally, atterrita, lanciandomi uno sguardo prima di riconcentrarsi sulla strada.
La osservai con un sopracciglio inarcato. «Davvero? Come lo so?» indicai con una mano dietro di noi. «Un qualcosa di non ancora identificato, ma che temo di sapere perfettamente quale mostro sia, ci sta dando la caccia per farci incontrare Ade prima del previsto e voi vi puntante su una cosa che hanno fatto questo pomeriggio le mie sorelle? Sul serio? Va bene che hanno agito in un modo davvero inusuale e che nemmeno io riesca a capire il perché» ammisi sotto i loro sguardi stralunati «ma non vi sembra di dover rivedere le vostre priorità?»
«Le-le tue sorelle?» balbettò Percy, guardandomi ad occhi sgranati.
«Non si direbbe, vero?» scherzai.
«Aspetta…» disse Percy. «Tu sai se quello che muore sono io, vero?»
Distolsi lo sguardo senza emettere un fiato. Certo che lo sapevo, ma non mi sarei espressa per nessuna ragione.
Fortunatamente in quel momento indicai una direzione a Sally e lei sterzò bruscamente a destra facendoci, così, cogliere uno scorcio della figura che stavamo cercando di seminare – una sagoma scura e palpitante subito inghiottita dalla tempesta alle nostre spalle.
«Che cos'era?» chiese Percy.
«Siamo quasi alla meta.» dissi, ignorando la sua domanda. «Manca un chilometro. Ti prego. Ti prego. Ti prego.»
Fuori, c'erano solo il buio e la pioggia: il genere di paesaggio desolato che si incontra sulla punta più esterna di Long Island. Improvvisamente mi si drizzarono i capelli sulla nuca.
«Dannati Fili!» imprecai.
Ci fu un lampo accecante, poi un frastuono da far tremare i denti, e la macchina esplose.
Ricordo di essermi sentita senza peso, come se venissi schiacciata, arrostita e innaffiata tutto in una volta.
Percy gridò: «Ahi!»
«Percy!» strillò Sally.
«Sto bene…»
Scossi la testa per riprendermi dallo stordimento. Non ero morta. La macchina non era veramente esplosa. Ancora. Eravamo finiti in un fossato. Lo sportello dal lato del guidatore era incastrato nel fango, il tetto si era squarciato come un guscio d'uovo e la pioggia ci scrosciava dentro.
Un fulmine. Zeus ci stava mettendo i bastoni fra le ruote, e me l’avrebbe pagata per questo. Ci aveva sbalzato direttamente fuori strada. Mi voltai per assicurarmi che gli altri stessero bene e in quel momento vidi, accanto a Percy, un grosso fagotto inerte.
«Grover!»
Era curvo in avanti, con il sangue che gli colava da un angolo della bocca. Percy lo scosse per il fianco peloso, poi lui mugugnò: «Cibo.»
Io tirai un sospiro di sollievo prima di imprecare di nuovo. Questa non ci voleva.
«Ragazzi.» disse Sally. «Dobbiamo…» esitò e io osservai dietro di noi.
Alla luce di un lampo, oltre il lunotto posteriore imbrattato di fango, vidi una figura che si muoveva pesantemente verso di noi sul ciglio della strada. Mi si accapponò la pelle. Era la sagoma scura di un tizio enorme, come un giocatore di football. Sembrava che si tenesse una coperta sopra la testa ma, in realtà, quel blocco massiccio e irsuto che era troppo grande per essere la sua testa… era la sua testa. E le punte somigliavano a delle corna. La metà superiore del corpo era massiccia e irsuta. Le mani… delle enormi mani carnose… gli ondeggiavano sui fianchi mentre continuava ad avanzare verso di noi, tra sbuffi e grugniti.
Impallidii.
«Ho sempre ragione. Perché ho sempre ragione?» sbraitai. «Dannati parenti!» imprecai consapevole di chi ci avesse mandato contro quell’essere.
«Chi…» cominciò Percy, ma Sally lo bloccò.
«Percy scendi dalla macchina.» disse seria.
Lei si gettò contro lo sportello del guidatore. Era bloccato nel fango. Provai col mio. Bloccato. Guardai disperatamente lo squarcio sul tetto. Poteva essere una via d'uscita, ma i bordi friggevano e fumavamo.
«Devi riuscire ad arrampicarti fuori dal lato del passeggero!» gli ordinò facendogli cenno nella mia direzione, dove io mi stavo inerpicando fuori dal finestrino in frantumi. «Percy... dovete correre. Vedi quel grosso albero?»
«Cosa?» lui la osservava confuso.
Un altro lampo, e attraverso lo squarcio fumante del tetto vide l'albero che gli stavo indicando: un pino sulla cresta della collina più vicina.
«È il confine della proprietà.» spiegai. «Oltrepassata la cima di quella collina, vedrai una grande fattoria in fondo alla valle. Corri e non voltarti. Grida aiuto. Non fermarti finché non sei sulla porta.»
«E tu come lo sai?»
«È casa mia.»
«Che cosa?» esclamò prima di voltarsi verso Sally. «Mamma, vieni anche tu.»
Lei aveva il volto pallido, gli stessi occhi tristi di quando aveva guardato l'oceano.
«No!» gridò Percy. «Devi venire con me. E anche Elise. Aiutatemi a portare Grover.»
«Cibo!» mugugnò lui, un po' più forte.
Io distolsi lo sguardo, improvvisamente a disagio. Era la prima volta che Percy mi chiamava Elise. Non erano in molti a farlo, nessuno in realtà, di solito mi chiamavano tutti Avie.
«Lui non vuole noi.» gli spiegò Sally. «Vuole te. E poi, io non posso varcare il confine della proprietà.»
«Ma…»
«Non abbiamo tempo, Percy. Vai. Ti prego.»
«Ha ragione.» concordai. «Tecnicamente potrebbe volere anche me, ma sicuramente la sua priorità sei tu. Quindi ora muovi le chiappe e vai, mentre io aiuto loro a uscire da qui.»
Dal suo sguardo, però, capii che non l’avrebbe mai fatto. Non ci avrebbe mai lasciati lì. Era fin troppo testardo sotto quel punto di vista.
Si buttò con tutta la forza che aveva contro lo sportello e riuscì a sbloccarlo, spalancandolo nella pioggia.
«Ce ne andiamo insieme.» disse, infatti. «Coraggio, mamma.»
«Ti ho detto…»
«Mamma! Non ho intenzione di lasciarti. Aiutami con Grover.»
«Non è il momento per litigare.» feci notare a entrambi. «Meglio muoversi.» non attesi risposta. «Razza di Mollusco con il cervello di un’ameba.» borbottai trascinando Grover all’esterno, mentre Percy si arrampicava fuori dall’auto.
Il mio amico era più leggero di quanto mi aspettassi, ma non sarei riuscita a portarlo molto lontano se quei due non si fossero mossi. Non li avrei mai lasciati indietro.
Percy e io ci mettemmo le braccia di Grover attorno alle spalle e cominciammo a risalire faticosamente la collina, con l'erba che ci arrivava alla vita, e Sally dietro di noi.
Voltandomi, riuscii a dare la mia prima, vera occhiata al mostro. Era alto almeno due metri, con braccia e gambe che sembravano usciti da una rivista di culturismo: un ammasso di bicipiti, tricipiti e un mucchio di altri "cipiti" rigonfi, tutti infilati come palle da baseball sotto la pelle, solcata da vene. Non indossava niente, a parte le mutande – un bel paio di mutandoni candidi, per la precisione – e sarebbe stato comico, se la parte superiore del suo corpo non fosse stata tanto spaventosa. Un'ispida peluria nera saliva sempre più fitta dall'ombelico alle spalle.
Il collo era una massa di muscoli e pelo che cedeva subito il passo a una testa enorme, con un muso lungo un braccio, le narici bagnate e trafitte da un luccicante anello d'ottone, neri occhi crudeli e un paio di corna: enormi corna bianche e nere che nemmeno un temperino elettrico avrebbe potuto rendere più appuntite.
Sapevo esattamente cosa fosse, lo avevo riconosciuto già alla prima occhiata, ma speravo di sbagliarmi. Purtroppo io non sbagliavo mai.
«Quello è…»
«Il figlio di Pasifae.» finii io al posto di Percy.
«Avrei dovuto sapere che ci tenevano così tanto a ucciderti.» commentò sua madre.
«Solo perchè le cose si sono complicate.» le spiegai io.
«Ma è il Min…» cominciò Percy.
«Non dirlo.» lo ammonii. «I nomi sono potenti. Te ne accorgerai, col tempo. Credo.»
Il pino era ancora troppo lontano, a un centinaio di metri in salita.
Mi voltai di nuovo.
L'uomo-toro era curvo sopra la nostra macchina e scrutava i finestrini… no, non esattamente. Li fiutava, li sniffava.
«Cibo?» mugugnò Grover.
«Sssh.» gli feci.
«Mamma, che sta facendo? Non ci vede?»
«Ha una vista e un udito pessimi.» rispose lei. «Si muove col fiuto. Ma capirà presto dove siamo.»
Come per confermare le sue parole, l'uomo-toro emise un mugghio di rabbia. Sollevò la Camaro di Gabe per il tetto squarciato, fra i gemiti e i cigolii della carrozzeria. La sollevò sopra la testa e la gettò in fondo alla strada. La macchina si schiantò sull'asfalto bagnato e scivolò in una pioggia di scintille per un chilometro, prima di fermarsi. Il serbatoio della benzina a quel punto esplose davvero.
“Neanche un graffio.” aveva detto Gabe.
Ops.
«Percy.» fece Sally. «Non appena ci vedrà, partirà alla carica. Tu aspetta fino all'ultimo secondo, poi salta e togliti di mezzo, scartando subito di lato. Non è capace di cambiare molto bene direzione quando carica. Hai capito?»
«Come fai a saperlo?»
«Era da tempo che temevo un attacco. Dovevo aspettarmelo. Sono stata egoista a tenerti con me.»
«A tenermi con te? Ma…»
«Fa come ti dice.» ringhiai, mettendomi a posto Grover sulla schiena, e liberando così Percy.
«Ma…»
«Io so cavarmela.» aggiunsi per far cessare le sue inutili proteste.
Un altro mugghio di rabbia e l'uomo-toro cominciò a risalire pesantemente la collina.
Ci aveva fiutati.
Mancavano solo pochi metri al pino, ma la collina stava diventando sempre più ripida e scivolosa, mentre invece Grover non si alleggeriva per niente.
L'uomo-toro si avvicinava. Nel giro di pochi secondi ce l'avremmo avuto addosso.
Sally doveva essere esausta, ma si fece coraggio. «Vai, Percy! Separiamoci! Ricorda quello che ti ho detto.»
Non voleva farlo, era evidente, ma Sally aveva ragione: era la nostra unica possibilità. Mi slanciai a destra e vidi che la creatura aveva già preso di mira Percy, come avevo previsto, che invece si buttò a sinistra. I suoi occhi neri luccicavano di odio. Puzzava di carne rancida.
Abbassò la testa per caricare, le corna affilatissime puntate dritte al suo petto.
Lo vidi aspettare, immobile, fino all'ultimo momento,  e poi scartare di lato con un balzo.
L'uomo-toro gli passò accanto come un treno in fuga, poi mugghiò per la frustrazione e si voltò indietro. Ma stavolta non verso di lui: verso Sally, che stava cercando di raggiungere me e Grover, sulla cresta della collina.
In fondo riuscivo a scorgere la valle, proprio come avevamo detto a Percy, e le luci della fattoria che mandavano un bagliore giallo nella pioggia. Era ancora a un chilometro di distanza, ma eravamo vicini al pino.
L'uomo-toro grugnì, pestando il terreno. Continuava a fissare Sally, che adesso stava discendendo lentamente la collina, in direzione della strada, cercando di allontanare il mostro da noi dato che si era accorta che eravamo praticamente al sicuro.
«Corri, Percy!» gli ordinò, indicandoci. «Io non posso proseguire. Corri!»
Ma lui rimase là, impietrito dalla paura, mentre il mostro la caricava. Lei cercò di schivarlo come gli aveva insegnato, ma il mostro aveva imparato la lezione. Tese la mano verso l'esterno e afferrò Sally per il collo, nel momento esatto in cui lei provava a scappare. Poi la sollevò in aria, ignorando i calci e i pugni con cui cercava di divincolarsi.
«Mamma!»
Lei incrociò il mio sguardo e capì, poi lo spostò su Percy e riuscì a pronunciare un'ultima parola strozzata: «Vai!»
Da qualche parte, sulle costole, una sottile striscia di pelle cominciò a bruciare intensamente, facendomi irrigidire per il dolore nonostante me l’aspettassi. Sapevo cosa stava accadendo, e il mio corpo mi aveva avvertito. Come sempre.
Con un ruggito rabbioso, il mostro strinse i pugni attorno al collo di Sally e lei si dissolse davanti ai nostri occhi in un fascio di luce, trasformandosi in una sagoma dorata e tremolante, come un ologramma. Un lampo accecante, e poi... era svanita.
«No!»
La rabbia rimpiazzò la paura che stava provando Percy, ma in quel momento non potei fare nulla per fermarlo. Il mio corpo cominciava a dare segni di cedimento, complice il bruciore che si era fatto più intenso quando Sally era svanita, così appoggiai Grover sull’erba e osservai ciò che avrebbe fatto quel citrullo.
L'uomo-toro si avvicinò a me e Grover, che giaceva inerme in mezzo all'erba dove lo avevo appena lasciato. Si chinò, annusando il satiro, come se avesse intenzione di sollevare e dissolvere anche lui, ma sapevo che non l’avrebbe fatto. Non era lui la sua preda. Poi posò la sua attenzione su di me e io rimasi immobile, ricambiando lo sguardo. Nessuno dei due muoveva un muscolo ma sentivo la rabbia di Percy crescere a ogni secondo che passava, lo vedevo respirare pesantemente al limite del mio campo visivo.
Inclinai la testa di lato, osservando il mostro. Interessante. Nonostante tutto, aveva ancora quell’ordine. E allora perchè quell’idiota di un re degli dei aveva fatto saltare in aria la macchina con me dentro?
«Ehi!» gridò Percy, distraendomi, sventolando il suo impermeabile rosso come fosse il più stupido dei toreri e correndo verso il mostro. «Ehi, stupido bestione! Specie di bovino da macello!»
«Roaaaarrrr!» dopo un’ultima occhiata penetrante, e piuttosto inquietante, alla mia persona, quello si voltò verso Percy, agitando i pugni carnosi.
Beh, il citrullo non poteva lamentarsi. Lo aveva appena offeso.
Lo osservai con un sopracciglio inarcato appoggiare la schiena contro il pino e agitare l'impermeabile davanti all'uomo-toro, chiedendomi cosa diamine stesse facendo, ma rimasi immobile. Era un miracolo che mi reggessi ancora in piedi: non l’avevo detto a nessuno ma, mentre uscivo dalla macchina, mi ero accorta che il fulmine di quel divino borioso mi aveva lasciato un gran doloroso regalino sul braccio e sulla gamba destra. Bruciavano da morire.
L’uomo-toro caricò in fretta, le braccia tese e pronte ad afferrare Percy in qualsiasi direzione avesse cercato di schivarlo.
Il tempo rallentò.
Vidi Percy tendere i muscoli delle gambe e capii cos’avrebbe fatto: balzò verso l'alto, scavalcando la testa del mostro e usandola come punto d'appoggio per girarsi in volo e atterrare a cavalcioni sul suo collo.
Un millisecondo più tardi, la testa del mostro andò a sbattere contro l'albero e l'impatto per poco non fece cadere il ragazzo.
L'uomo-toro scalpitò, cercando di disarcionarlo. Percy si reggeva forte, con le braccia serrate attorno alle corna. Tuoni e fulmini continuavano a esplodere intorno a noi. Avevo la pioggia negli occhi e l'odore di carne bruciata nelle narici.
Il mostro si scrollò e si impennò come un animale da rodeo. Gli sarebbe bastato fare marcia indietro e sbattere contro l'albero per fare a pezzi Percy, ma quel bestione sapeva fare una cosa sola: andare avanti.
Nel frattempo, Grover cominciò a lamentarsi nell'erba ai miei piedi e io tentai di zittirlo.
«Cibo!» mugugnò Grover.
L'uomo-toro si voltò verso di noi, pestando di nuovo il terreno e preparandosi a caricare.
Imprecando, mi preparai a sollevare Grover e scartare verso il pino, nella zona sicura, se quel bestione si fosse avvicinato troppo.
Vidi Percy stringere entrambe le mani attorno a un corno e tirare con tutte le sue forze. Il mostro si irrigidì, emise un grugnito sorpreso, e poi... snap! Lo scagliò in aria, gridando.
Percy atterrò di schiena nell'erba, sbattendo la testa contro un sasso. Quando si mise a sedere, fra le mani aveva un corno, un'arma d'avorio grezzo delle dimensioni di un coltello.
Il mostro caricò nella sua direzione.
Percy rotolò di lato e finì in ginocchio. Quando il bestione gli fu vicino, gli conficcò il corno spezzato nel fianco, proprio sotto il torace irsuto.
L'uomo-toro emise un ruggito agonizzante. Agitò le braccia scompostamente, afferrandosi il petto, poi prese a disintegrarsi, come sabbia che si sgretola soffiata via dal vento, come era successo alla Dodds.
In pochi secondi, il mostro svanì.
La pioggia si era fermata. La tempesta continuava a rumoreggiare, ma in lontananza. Quell’imbecille divino doveva aver deciso di darci una tregua. Forse…
Percy mi si avvicinò lentamente. Era esausto, puzzava di bestiame e sembrava che sarebbe crollato da un momento all’altro. Emotivamente doveva essere a pezzi, era spaventato e stava tremando dal dolore e dallo shock, ma si fece forza e, insieme, cominciammo a scendere a valle, trasportando Grover verso le luci della fattoria.
Lo vedevo piangere e chiamare sua madre, ma non feci commenti. Mi limitai a rinforzare la presa su Grover e su Percy, che sentivo stava iniziando a cedere: non avevo intenzione di lasciarli andare prima di essere arrivati.
Percy crollò appena mettemmo piede sul pavimento di un portico di legno, e io mi ritrovai a sostenere entrambi i ragazzi a peso morto. Un ventilatore roteava sul soffitto, delle falene svolazzavano attorno a una luce gialla, e le facce scure di un uomo barbuto dall'aria familiare e di una ragazza carina con i riccioli biondi che non vedevo da mesi – se non attraverso i messaggi-Iride – e che mi mancava da morire, ci osservavano con sguardo grave.
Ci fissarono e la ragazza disse: «È lui. Deve essere lui.»
«Silenzio, Annabeth.» l'ammonì l'uomo. «È ancora cosciente. Portiamolo dentro.»
«E facciamo in fretta, non so quanto ancora resisterò.» commentai.
«Scusa, Avie.» Annabeth si mosse in fretta e si caricò Percy sulle spalle, entrando.
Io, con ancora Grover sulla schiena la seguii, con Chirone che chiudeva la fila.
Posammo i ragazzi su due lettini e, quando Percy fu del tutto incosciente, cominciai a raccontare loro cos’era successo dal momento in cui Percy aveva voluto seminare Grover alla stazione degli autobus. Descrissi i fatti, così com’erano avvenuti. Chirone aveva cominciato a prendersi cura del mio amico, mentre Annabeth si limitava a stare in disparte e ascoltare il mio racconto.
Quando terminai, Grover si svegliò e si guardò intorno confuso, così spiegai anche a lui cosa si era perso da quando era svenuto. Quando comprese, la sua espressione cambiò: era sollevato che Percy fosse salvo, ma allo stesso tempo si sentiva in colpa per sua madre. Io non dissi niente, quella situazione era un gran casino.
Mi alzai per andare a farmi una doccia e poi a dormire, ma feci in tempo a fare un passo prima che mi cedesse la gamba destra, costringendomi ad aggrapparmi ad Annabeth per non cadere.
«Che cos’hai, Avie?» mi chiese lei, preoccupata.
«Niente di grave, Annie, tranquilla.» risposi mostrandole le ustioni sul braccio e sulla gamba.
«Perchè non l’hai detto subito?» domandò Chirone, contrariato.
Io alzai le spalle. «Non sono mortali, guariranno. Era più importante farvi un resoconto dell’accaduto. Una giornata degna delle peggiori torture che quelli là abbiano mai creato.» commentai lanciando uno sguardo irritato al soffitto.
«Ora tu ti stendi qui.» disse lui, indicando un lettino dopo avermi lanciato un’occhiata ammonitrice. «E ti lasci curare senza fare storie. E non te ne andrai finchè non lo dirò io.»
Io sbuffai ma feci come aveva chiesto, lasciandolo lavorare sulle mie bruciature.
«Bevi un po’ di Nettare, e riposa adesso.» mormorò passandomi un bicchiere. «Sei stata brava. Sono sicuro che hai fatto le scelte migliori.» concluse lanciandomi uno sguardo che compresi al volo, ma che non ricambiai.
Poi mi lasciò riposare.

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Capitolo 6
*** 5. Proviamo a confondere Percy ancora di più ***


Quando mi svegliai, il giorno dopo le ferite erano migliorate molto e Chirone mi diede il permesso di alzarmi, permesso di cui approfittai per scappare dall’infermeria come se fossi inseguita da un branco di segugi infernali.
Approfittai della ritrovata libertà per farmi una doccia e togliermi tutto il sangue e lo sporco di dosso; poi feci un giro per il campo, salutando i vari ragazzi che incontravo e ignorando l’infinita sequela di domande che mi ponevano sul ragazzo nuovo, ovvero Percy. Mi dedicai al relax più totale in quanto le ferite facevano ancora parecchio male, anche se mi costava ammetterlo.
All’ora di pranzo mi diressi al padiglione, dove finalmente riuscii a mettere del vero cibo sotto i denti dopo aver passato la giornata precedente a riempirmi lo stomaco di caramelle e dolcetti – qualcosa di non abbastanza sostanzioso, per quanto buono – e nel pomeriggio tornai in infermeria per vedere come stava Percy e per farmi controllare le ustioni da un figlio di Apollo.
Ero arrivata sulla porta, quando sentii la voce di Annabeth. «Che succederà al solstizio d'estate?»
Qualcuno, che identificai subito come Percy, rispose biascicando: «Cosa?»
Io mi sporsi leggermente all’interno della stanza e vidi Annabeth guardarsi attorno, come se avesse paura che qualcuno la sentisse. «Che sta succedendo? Cos’hanno rubato? Abbiamo solo poche settimane!»
«Mi dispiace.» farfugliò il ragazzo. «Io non…»
Finsi di essere appena arrivata e bussai alla porta e la mia amica si affrettò a riempirgli la bocca di Ambrosia.
Entrai tranquilla, Percy si era addormentato di nuovo. «Pensavi davvero di scucirgli informazioni, Annie?»
Lei si voltò sorpresa, in volto un’espressione colpevole. «Vorrei solo sapere cosa sta succedendo.» si difese. «Chirone non ci dice niente, gli dei stanno litigando e qualcosa è stato rubato. Persino tu sei a conoscenza dei fatti!»
«Annie…» la ammonii.
«Giusto, scusa. Non è colpa tua.» alzò le mani. «Vorrei solo avere delle risposte.»
Le poggiai una mano sulla spalla. «Quando verrà il momento, saprai tutto. Non preoccuparti. Anzi, probabilmente te ne pentirai, un giorno.»
Lei mi sorrise non molto convinta, poi cambiò argomento. «Tu come stai, piuttosto?»
«Bene, direi, date le circostanze. Speravo di incontrare un figlio di Apollo per un controllo, ma qui non c’è nessuno.»
«Ti accompagno alla loro casa, se vuoi.» disse alzandosi e cominciando a tirarmi fuori dalla stanza. «Hai già visto Luke?»
«Veramente no.» ammisi, distogliendo lo sguardo. «Lo sto, tipo, evitando. Forse.»
Lei sgranò gli occhi. «Ma sei matta? Starà andando fuori di testa!» esclamò facendomi alzare gli occhi al cielo. «Ora ti porto dai figli di Apollo, poi vai dritta da Luke. Mi sono spiegata?»
La sua espressione era categorica, quindi mi limitai ad annuire. Annie sapeva davvero spaventare le persone, quando voleva.
 

****

 
Il giorno dopo decisi di passare tutto il mio tempo alla Casa Grande, la fattoria in cui stava ancora dormendo Percy, senza dire niente a nessuno. A detta di Chirone, quel ragazzo si sarebbe svegliato presto e io volevo essere presente alla prima chiacchierata con il signor D, così rimasi nelle vicinanze pur nascondendomi da Annie, che mi cercava infuriata perché dopo essermi fatta visitare da un figlio di Apollo, il giorno prima, ero scappata via senza andare da Luke e irritandola non poco. Stavo tentando di sfuggire alla sua furia, che sentivo fin dalla mia camera al secondo piano: Annie andava in giro per il campo urlando il mio nome come un’indemoniata e sapevo che alla fine, dopo troppo poco tempo purtroppo, mi avrebbe trovata e mi avrebbe sbraitato contro tutto il suo disappunto per il mio comportamento. Annabeth era la figlia di Atena più intelligente che conoscevo: aveva la mia età, mi superava di qualche centimetro in altezza e aveva un'aria molto atletica. Come tutti al Campo. Con quell'abbronzatura e i riccioli biondi, incarnava lo stereotipo della ragazza californiana, a parte gli occhi. Erano di una particolare sfumatura di grigio, come di nuvole temporalesche; belli ma minacciosi, come se stesse studiando il modo migliore per metterti al tappeto. Caratteristica della madre che, personalmente, adoravo.
Era la mia migliore amica da quando era arrivata al campo. Sapevo perché aveva reagito in quel modo: eravamo entrambe molto legate a Luke, anche se in modi differenti. Il figlio di Ermes aveva trascorso diversi mesi con lei, sopravvivendo in giro per l’America prima di arrivare al Campo e se ne era preso cura come un fratello maggiore. Quando vennero portati qui, in condizioni emotive davvero pessime, io non ero messa molto meglio di loro, mi sentivo colpevole per non aver impedito una tragedia e non volevo saperne di niente e di nessuno, men che meno dei due nuovi arrivati che mi ricordavano fin troppo le mie colpe. Paradossalmente fu proprio Luke a farmi riprendere da quello stato, almeno in parte, venendomi sempre a cercare e costringendomi a passare del tempo con lui e Annabeth.
E adesso, dopo diversi anni, io li evitavo di nuovo e i loro ruoli si erano invertiti: Annie mi cercava per costringermi a passare del tempo con Luke. Ma la verità era che non potevo vederlo. Non sarei riuscita a guardarlo negli occhi sapendo quello che avevo capito il giorno prima. Ancora non riuscivo a capacitarmi del fatto che fosse troppo tardi… guardare Luke negli occhi sarebbe stato fin troppo doloroso.
Dalla finestra della mia camera osservai la valle che risaliva fino al mare, che scintillava a circa un chilometro di distanza, e tutto ciò che si trovava nel mezzo: il paesaggio era punteggiato di edifici dell'antica Grecia — un ampio padiglione a cielo aperto, un anfiteatro, un'arena circolare — solo che erano tutti nuovi di zecca, con le colonne di marmo immacolato che luccicavano al sole. In un Campetto a una decina di metri dalla Casa Grande, una dozzina di satiri e di ragazzi più grandi giocavano a pallavolo. Quando gli ero passata accanto, nel tentativo di nascondermi prima che Annie mi trovasse, mi avevano chiesto di giocare con loro, ma i figli di Apollo mi avevano consigliato di non sforzarmi, in modo da non peggiorare le ferite e permettere loro di guarire. Si erano raccomandati parecchio su questo punto, perché sapevano che difficilmente me ne stavo ferma in un posto senza fare niente. E non c’entrava nulla l’iperattività tipica dei semidei: io avevo semplicemente bisogno di tenere la mente occupata. Costantemente.
Spostando lo sguardo vidi delle canoe scivolare sulla superficie di un laghetto, mentre dei ragazzini, con indosso la maglietta arancione del campo, si rincorrevano intorno a un gruppo di capanne annidate nel bosco. Alcuni si esercitavano con l'arco in un poligono di tiro. Altri cavalcavano lungo un sentiero boscoso e alcuni dei cavalli avevano le ali. I pegasi, creature fantastiche ed estremamente intelligenti.
Quella valle era casa mia. E io l’amavo da impazzire.
Sul portico sotto di me, Chirone e il signor D sedevano l'uno di fronte all'altro a un tavolino da gioco che tenevano sempre lì e li sentivo battibeccare prese e punti sulla partita di pinnacolo che stavano facendo. Accanto a loro, Annie se ne stava appoggiata al parapetto. Riuscivo a scorgere la sua coda di cavallo che spuntava dal tetto del portico. Aveva le braccia incrociate, con il disappunto ben evidente sul suo volto. Doveva essersi arresa all’idea di trovarmi, stranamente, ma questo non significava che non fosse più arrabbiata con me.
Sospirai, sapendo bene che, questa volta, non sarei riuscita ad evitarmi la sua sfuriata.
Probabilmente erano tutti in attesa di Percy, che Grover avrebbe dovuto accompagnare da loro una volta sveglio.
Proprio in quel momento i due ragazzi sbucarono da dietro l’angolo, diretti verso di loro. Percy si guardava intorno meravigliato e confuso, mentre teneva una scatola da scarpe tra le mani.
«Quello è il signor D.» spiegò Grover a Percy a bassa voce, indicando uno dei due uomini che non potevo vedere. «È il direttore del campo. Sii gentile. La ragazza è Annabeth Chase. È qui da molto più tempo di chiunque altro a parte Avie. E conosci già Chirone…»
Indicò, probabilmente, l’altro tipo.
«Signor Brunner!» esclamò Percy dopo qualche istante.
«Ah, bene, Percy.» esordì Chirone, e io capii subito che stesse sorridendo. «Adesso siamo in quattro per giocare a pinnacolo.»
Sentii un sospiro profondo, seguito da uno sbuffo.
«Oh, suppongo di doverlo dire. Benvenuto al Campo Mezzosangue. Fatto. Ora, non aspettarti che io sia felice di vederti.»
Alzai gli occhi al cielo: il signor D non cambiava mai.
«Ehm, grazie.» Percy fece qualche passetto indietro, non molto convinto.
«Annabeth?» Chirone si rivolse alla ragazza bionda. Vidi la sua coda sparire e capii che si stesse avvicinando al tavolino per consentirgli di presentarla. «Questa signorina ti ha aiutato a ristabilirti, Percy. Annabeth, per favore, andresti a occuparti del letto di Percy? Lo metteremo nella undici, per ora.»
«Certo, Chirone.» rispose Annabeth. «Quando dormi, sbavi.» aggiunse facendomi ridacchiare.
Sicuramente lo aveva detto a Percy perché, quando era incosciente, Annie e io avevamo dovuto asciugargli la bava che gli usciva dalla bocca.
Poi si avviò per il prato, i capelli biondi svolazzanti sulle spalle. La vidi fermarsi e voltarsi di nuovo verso il portico.
«Se vedete Avie, ditele che quando la trovo finiremo il discorso.» concluse seria facendomi sbuffare, prima di allontanarsi definitivamente.
«Allora.» disse Percy, visibilmente ansioso di cambiare argomento. «Lei, ehm, lavora qui signor Brunner?»
«Non sono il signor Brunner.» rettificò l'ex signor Brunner. «Temo che fosse solo uno pseudonimo. Puoi chiamarmi Chirone.»
«Okay.» nella confusione più assoluta, Percy continuò. «E signor D... la D sta per qualcosa?»
Sentii il signor D smettere di mescolare le carte. «Giovanotto, i nomi sono potenti. Non bisogna andarsene in giro a spararli a vanvera.»
«Oh. Giusto. Mi scusi.»
«Devo dire, Percy.» intervenne Chirone. «Che sono felice di vedere che sei vivo. Era da tempo che non facevo una visita a domicilio a un potenziale acquisto del campo. Detestavo l'idea di aver perso tempo. Ma la riluttanza di Avie è stata significativa.»
La… riluttanza? Chirone ha basato la sua visita a domicilio sulla mia riluttanza a parteciparvi? Ma gli si era fritto il cervello?
«Visita a domicilio?»
«L'anno che ho passato alla Yancy, per istruirti. Abbiamo dei satiri nella maggior parte delle scuole, naturalmente, per tenere gli occhi aperti. Ma Grover mi ha avvisato non appena ti ha conosciuto. Ha percepito subito che eri speciale, perciò ho deciso di salire su al Nord. Ho convinto l'altro insegnante di latino a... a prendersi un anno sabbatico. E ho gentilmente chiesto alla nostra amica, qui, di accompagnarmi.»
Non potei trattenermi oltre. Scavalcai la finestra e mi lasciai cadere sul tetto del portico, da cui saltai giù con un balzo. Atterrai in piedi, dando la schiena ai quattro, e mi voltai nella loro direzione. Percy sembrava avesse appena visto uno spirito. Grover era in piedi, a un paio di passi da lui. Il signor D era piccolo ma grassoccio; aveva il naso rosso, gli occhi grandi e lucidi e dei capelli riccioluti così neri da sembrare quasi blu. Indossava una camicia hawaiana tigrata e sembrava uno di quei tipi in grado di fregare chiunque. Chirone, invece, era ancora sulla sedia a rotelle, probabilmente per non spaventare il nuovo arrivato, aveva i capelli castani, un po' radi, e la barba incolta come al solito e indossava la sua solita giacca di tweed.
«Gentilmente non è la parola che userei, Chirone.» affermai incrociando le braccia. «Il tuo era un vero e proprio ricatto.»
Lui sospirò. «Quante volte ti ho detto di usare le scale, mia cara?»
Alzai le spalle. «Non abbastanza, probabilmente. Così è più divertente.»
Il signor D sorrise.
«Suppongo tu abbia sentito Annabeth, prima…» continuò Chirone.
Io alzai una mano verso di lui, bloccandolo prima che potesse finire. «Sì, l’ho sentita. E no, non ho intenzione di parlarne con te.»
«Sembrava importante.» riprovò lui.
«Cose da ragazze.» risposi ferma, continuando a fissarlo.
Non avrei detto a Chirone di cosa voleva parlarmi Annabeth, perché avrebbe significato dirgli anche cosa mi turbava. E non potevo farlo. Non l’avrei detto a nessuno. Mai.
«Era venuto alla Yancy per istruirmi?» Percy riprese il discorso.
Chirone annuì. «Onestamente, non ero sicuro di te, all'inizio. Abbiamo contattato tua madre per avvisarla che ti tenevamo d'occhio, nel caso fossi stato pronto per il Campo Mezzosangue. Ma avevi ancora tanto da imparare. Tuttavia, sei riuscito ad arrivare qui sano e salvo, e questo è sempre il primo test.»
«Grover.» fece il signor D con impazienza. «Hai intenzione di giocare oppure no?»
«Sissignore!» Grover prese posto sulla quarta sedia, tutto tremante.
«Tu sai giocare a pinnacolo, vero?» Il signor D scrutò Percy con sospetto.
«Temo di no.» confessò lui.
«Temo di no, signore.» lo corresse il signor D.
«Signore.» ripetè Percy.
Avevo la netta impressione che volesse strangolarlo.
«Ebbene.» continuò il signor D. «È uno dei migliori giochi mai inventati dagli umani, dopo i gladiatori e Pac-Man. Mi aspetterei che tutti i giovani civilizzati ne conoscano le regole.»
«Sono sicuro che il ragazzo può imparare.» intervenne Chirone.
«Mi scusi.» replicò Percy. «Ma dove mi trovo? Cosa ci faccio qui? Signor Brun... Chirone, qual è lo scopo dell'istruzione che è venuto a impartirmi alla Yancy?»
Il signor D sbuffò. «È la stessa domanda che gli ho posto io.»
Il direttore distribuì le carte. Grover trasaliva ogni volta che una carta atterrava sul suo mazzo. Avrei voluto rassicurarlo, ma volevo ascoltare senza intervenire, quindi mi limitai ad appoggiarmi al parapetto nel punto in cui prima si era messa Annabeth e non dissi niente.
Chirone sorrise con complicità a Percy.
«Percy.» gli chiese. «Cosa ti ha raccontato tua madre?»
Lui mi lanciò un’occhiata. «Non molto. Mi ha spiegato che aveva paura di mandarmi qui, anche se mio padre avrebbe voluto. Ha detto che una volta qui, probabilmente non me ne sarei potuto andare. Non voleva che mi allontanassi da lei.»
«Tipico.» borbottò il signor D facendomi alzare gli occhi al cielo. «È così che si fanno ammazzare, di solito. Giovanotto, ti decidi a chiamare?»
«Cosa?» domandò Percy.
Gli spiegò con impazienza le regole del pinnacolo, così Percy lo accontentò.
«Temo che ci siano troppe cose da chiarire.» continuò Chirone. «Temo che il nostro solito filmato di orientamento non basti.»
«Filmato di orientamento?» domandò Percy, di nuovo.
Lo vedevo sempre più confuso e, lo ammetto, mi veniva un po’ da ridere. Sì, lo so, sono meschina. Pace.
«Già.» rispose Chirone. «Bene, Percy. Sai già che il tuo amico Grover è un satiro. E sai» indicò il corno nella scatola di scarpe «di avere ucciso il Minotauro. Una prodezza non indifferente, figliolo. Quello che forse non sai è che nella tua vita operano delle grandi potenze. Gli dei, le forze che tu chiami dei dell'Olimpo, sono reali e presenti.»
Percy fissò gli altri seduti al tavolo, probabilmente aspettandosi che qualcuno gridasse che fosse uno scherzo, ma dovette accontentarsi del signor D che strillava: «Oh, coppia reale. Presa mia! Presa mia!» segnò il punteggio ridacchiando.
«Signor D…» chiese timidamente Grover. «Se non la mangia lei, potrei avere la sua lattina di Diet Coke?»
«Eh? Oh, prendila.»
Grover strappò un grosso pezzo della lattina di alluminio con i denti e si mise a masticare con aria afflitta.
«Aspetti un momento.» disse Percy a Chirone. «Mi sta dicendo che Dio esiste?»
«Beh, ecco.» fece lui. «Dio, con la lettera maiuscola, è tutta un'altra cosa. Non entriamo nel metafisico.»
«Anche perchè ogni volta mi viene un gran mal di testa.» borbottai, facendomi sentire solo dal signor D.
«Metafisico? Ma se stava parlando di…»
«Di dei, al plurale. Grandi esseri che controllano le forze della natura e le imprese degli uomini: gli dei immortali dell'Olimpo.»
«Olimpo?»
«Esatto. Gli dei di cui abbiamo parlato nelle lezioni di latino.»
«Zeus.» li nominò Percy. «Era. Apollo. Si riferisce a loro.»
Ed ecco che un tuono risuonò lontano nel cielo sgombro di nuvole.
«Giovanotto.» lo riprese il signor D. «Ci andrei cauto a pronunciare questi nomi, se fossi in te.»
«Ma sono solo storie.» protestò lui. «Sono miti per spiegare i fulmini, le stagioni e il resto. Ci credeva la gente prima della scienza»
«La scienza!» esclamò il signor D sdegnato. «E dimmi, Perseus Jackson, cosa penserà la gente della tua “scienza”, fra un paio di millenni?» e continuò. «Mmh? Diranno che è un mucchio di ridicole credenze primitive e tanti saluti! Oh, beati mortali, non hanno il minimo senso della prospettiva! Pensano di essere così avanti. E lo sono, Chirone? Guarda questo ragazzo e dimmelo.»
«Percy.» intervenne Chirone. «Puoi scegliere di crederci o no, ma il fatto è che immortale significa immortale. Riesci a immaginare, per un attimo, di non morire mai? Di non scomparire mai? Di esistere, così come sei, per l'eternità?»
Lui esitò. «E questo succede a prescindere dal fatto che la gente creda nella mia esistenza o meno?»
«Esatto.» confermò lui. «Se tu fossi un dio, come ti sentiresti se ti considerassero un mito, una vecchia storiella per spiegare i fulmini? E se ti dicessi, Perseus Jackson, che un giorno la gente potrebbe sostenere che anche tu sei un mito, creato solo per spiegare come i ragazzini possano superare la perdita della madre?»
«Non mi piacerebbe. Ma io non credo negli dei.»
«Oh, faresti meglio a crederci.» mormorò il signor D. «Prima che uno di loro ti incenerisca.»
Intervenne Grover: «La p-prego, signore. Ha appena perso la madre. È scioccato.»
«Beato lui.» brontolò il signor D, tirando una carta. «Mentre io devo starmene confinato in questo squallido posto, a lavorare con dei ragazzini che non hanno un briciolo di fede!»
Fece un gesto con la mano e sul tavolo comparve un calice, come se per un attimo la luce del sole si fosse piegata e avesse intessuto l'aria in vetro. Il calice si riempì di vino rosso.
«Zio.» dissi in tono ammonitorio, attirando l’attenzione dei presenti. «Le tue restrizioni.»
Il signor D guardò il vino e si finse sorpreso.
«Povero me!» alzò gli occhi al cielo e sospirò: «Vecchie abitudini! Scusate.»
Un altro tuono.
Il signor D mosse di nuovo la mano e il bicchiere di vino si tramutò in un'altra lattina di Diet Coke, facendone apparire una normale per me e passandomela. Con un sospiro infelice, tirò la linguetta della Coca e tornò alla partita.
«Grazie.» dissi sorridendo, riappoggiandomi di schiena al parapetto e osservando i quattro davanti a me.
Chirone mi fece l'occhiolino, prima di spostare lo sguardo su Percy. «Il signor D ha offeso suo padre un po' di tempo fa, prendendosi una sbandata per una ninfa dei boschi che era stata dichiarata intoccabile.»
«Una ninfa dei boschi.» ripetè lui, passando lo sguardo dalla lattina di Diet Coke alla mia come se venissero dallo spazio.
«Sì.» confessò il signor D. «A mio padre piace punirmi. La prima volta, il Proibizionismo. Una cosa spaventosa! Dieci anni orrendi! La seconda volta... beh, era davvero molto carina, e proprio non ho resistito. E mi ha mandato qui. Collina Mezzosangue. Un campo estivo per marmocchi come te. “Dà il buon esempio.” mi ha detto. “Lavora con i giovani invece di mandarli in rovina.” Ah! Una vera ingiustizia.»
In quel momento il signor D sembrava un bambino di sei anni che faceva i capricci, e mi scappò un sorriso.
«E-e…» balbettò Percy. «Suo padre è…»
«Di immortales, Chirone!» esclamò il signor D. «Pensavo che avessi insegnato le basi a questo ragazzo. Mio padre è Zeus, naturalmente.»
«Lei è Dioniso.» comprese. «Il dio del vino.»
Il signor D alzò gli occhi al cielo. «Come dicono i giovani di questa epoca, Avalon? Qualcosa tipo: “Ma va”?»
«Sì, zio.»
«Ebbene, Percy Jackson: “Ma va!” Chi pensavi che fossi, Afrodite?»
Io risi.
«Lei è un dio.»
«Sì, figliolo.»
«Un dio. Lei.»
Dioniso si voltò a guardarlo fisso e compresi che gli stava mostrando una parte dei suoi poteri: immagini di grappoli d'uva che soffocavano miscredenti fino alla morte, guerrieri ubriachi impazzire per la bramosia della battaglia, marinai che gridavano mentre le loro mani si trasformavano in pinne e i loro volti si allungavano in musi di delfino. Ci ero passata, conoscevo la prassi.
Sapevo che, se Percy l'avesse provocato, il signor D gli avrebbe mostrato cose peggiori. Gli avrebbe impiantato un morbo nel cervello e avrebbe passato il resto dei suoi giorni con la camicia di forza in una stanza con le pareti imbottite.
«Vuoi mettermi alla prova, figliolo?» chiese.
«No. No, signore.»
Il fuoco si smorzò un poco. Il signor D tornò alla partita. «Credo di avere vinto.»
«Non direi.» obiettai io, senza nemmeno aver seguito una manche e facendomi scappare un sorriso in direzione di Chirone.
Lui scoprì una scala, contò i punti e corresse: «Ho vinto io.»
Il signor D sospirò. «Potresti almeno farmi vincere ogni tanto, tesoro.»
«Sarebbe come barare, zio.» gli feci notare. «E poi è più soddisfacente se vinci da solo.»
Lui si alzò e Grover lo imitò subito.
«Sono stanco.» disse. «Credo che farò un pisolino prima del coro di stasera. Grover, dobbiamo parlare di nuovo del tuo rendimento scadente in questo incarico.»
La faccia di Grover si imperlò di sudore e io gli lanciai uno sguardo desolato. «S-sissignore.»
Il signor D si rivolse a Percy. «Capanna undici, Percy Jackson. E comportati bene.»
Mi diede un bacio in fronte, abitudine che aveva preso quando ero piccola, entrò in casa con passo altero e Grover lo seguì sconsolato.
«Grover starà bene?» chiese Percy.
Chirone annuì, anche se sembrava un po' turbato. «Il vecchio Dioniso non è così arrabbiato. Solo odia il suo lavoro. Si trova in punizione, immagino possa definirsi così, e non sopporta l'idea di aspettare un altro secolo per avere il permesso di tornare sull'Olimpo.»
«Il Monte Olimpo.» ripetè Percy. «Mi sta dicendo che c'è davvero un palazzo, lassù?»
«Beh, ecco, c'è il Monte Olimpo in Grecia. E poi c'è la dimora degli dei, il punto di convergenza dei loro poteri, che un tempo era davvero situata sull'Olimpo. Si chiama ancora così, per rispetto delle tradizioni, ma il palazzo si sposta, Percy, proprio come si spostano gli dei.»
«Sta dicendo che gli dei della Grecia sono qui? In America?»
«Ma certo. Gli dei si spostano con il cuore dell'Occidente.»
«In che senso?»
«Riflettici, Percy. Quella che voi chiamate la “civiltà occidentale”, pensi che sia solo un concetto astratto? È una forza vivente. Una coscienza collettiva che brilla da migliaia di anni. Gli dei sono parte di essa. Si potrebbe perfino dire che ne siano la fonte, o perlomeno che vi siano così legati da non poter mai scomparire, a meno che non venga spazzata via l'intera civiltà occidentale. Il fuoco si è acceso in Grecia. Poi, come ben sai... o come spero che tu sappia, dal momento che hai superato il mio esame... il cuore del fuoco si è spostato a Roma, e così gli dei. Oh, con nomi diversi, forse — Giove anziché Zeus, Venere al posto di Afrodite — ma sono le stesse forze, gli stessi dei.»
«E poi sono morti.»
«Morti? No. L'Occidente è morto, forse? Gli dei si sono spostati: in Germania, in Francia, in Spagna, per un po'. Ovunque la fiamma fosse più luminosa, là c'erano gli dei. Hanno trascorso diversi secoli in Inghilterra. Basta guardare l'architettura. La gente non dimentica gli dei. In ogni luogo in cui abbiano governato nel corso degli ultimi tremila anni, li ritroviamo nei dipinti, nelle statue, negli edifici più importanti. E adesso, Percy, sono nel tuo paese, gli Stati Uniti. Pensa soltanto al vostro simbolo: l'aquila di Zeus. Guarda la statua di Prometeo al Rockefeller Center, le facciate greche degli edifici del governo a Washington. Ti sfido a trovare una città americana in cui gli dei dell'Olimpo non siano rappresentati in una varietà di luoghi differenti. Piaccia o no... e credimi, a parecchia gente non andava a genio nemmeno Roma... l'America adesso è il cuore della fiamma. E la grande potenza d'Occidente. Perciò gli dei dell'Olimpo sono qui. E noi siamo qui.»
«Lei chi è, Chirone? E io... io chi sono?»
Chirone sorrise. Si spostò sulla sedia, pronto ad alzarsi.
«Chi sei tu?» ripeté in tono pensoso. «Beh, è la domanda a cui tutti noi vorremmo trovare una risposta, non ti pare? A parte Avie, ovvio, che sicuramente lo saprà già. Ma per ora, dovremo rimediarti un letto nella capanna undici. Incontrerai nuovi amici. Domani avremo tutto il tempo per dedicarci alle lezioni. E poi stasera arrostiamo i marshmallows nel falò, e io adoro infilarli nei biscotti al cioccolato.»
«Mi hai passato questa passione.» mormorai sorridendo e facendolo sorridere di rimando, ripensando alla prima volta che me ne aveva fatto assaggiare uno.
Se pensavo che, all’inizio, non volevo saperne di assaggiare i marshmallows perchè erano molli e rosa, mi veniva da ridere. Chirone mi convinse proprio dicendo che andavano arrostiti sul fuoco facendo andare via il rosa, e io mi eccitai da morire. Da quel momento arrostire i marshmallows era diventata una nostra tradizione. 
E a questo punto Chirone si alzò dalla sedia. Il corpo si allungò a poco a poco, mostrando la sua metà da cavallo che faceva di lui un centauro. 
Fissai con un sorriso il cavallo che era appena spuntato fuori dalla sedia a rotelle, un enorme stallone bianco. Nel punto in cui avrebbe dovuto esserci il collo, c'era il busto ben saldo sul tronco dell'animale.
«Che sollievo.» esclamò il centauro. «Me ne stavo stipato là dentro da così tanto che mi si erano addormentati i nodelli. E adesso vieni, Percy Jackson. Andiamo a conoscere gli altri ragazzi del campo.»

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Capitolo 7
*** 6. Annie e io scampiamo alla doccia gratuita ***


Chirone invitò anche me ad accompagnarli, nonostante la mia voglia fosse sotto zero, sostenendo che una faccia amica avrebbe fatto bene a Percy, così ci avviammo.
Passammo davanti al Campetto di pallavolo. Diversi ragazzi mi salutarono mentre si scambiavano dei colpetti con il gomito. Uno indicò il corno del Minotauro che Percy aveva in mano.
Un altro bisbigliò: «È lui.» facendomi alzare gli occhi al cielo.
Che razza di pettegoli.
La maggior parte dei ragazzi del campo era più grande di noi. I loro amici satiri erano più grossi di Grover e trotterellavano in giro vestiti solo con le magliette arancione del Campo Mezzosangue, con le zampe ispide e nude. Percy non era un ragazzo timido di solito, dimostrato anche dal fatto che aveva provato ad attaccare bottone con me in continuazione a scuola, ma il modo in cui lo fissavano lo metteva in evidente imbarazzo. Come se si aspettassero che facesse una capriola o si esibisse chissà come. Non eravamo al circo, accidenti. E non era la prima volta che un mezzosangue arrivava al campo.
Provai a tranquillizzarlo. «Non farci caso, Percy. Sei carne fresca, il ragazzo nuovo, e tutti vogliono sapere cos’è successo con la mucca.» spiegai facendolo voltare verso di me, confuso. Io lanciai un’occhiata al corno e lui capì, così continuai. «Non ho detto niente, nonostante le numerose domande che mi hanno posto, quindi sono ancora più curiosi. Succede sempre così.»
«E perchè non hai detto niente?» mi domandò.
Io alzai le spalle.
«Non sono affari loro.» dissi semplicemente.
Percy si voltò a guardare la Casa Grande.
«Che cosa c'è là sopra?» chiese a Chirone.
Lui guardò nella direzione che stava indicando e il suo sorriso si spense. «Solo la soffitta.»
«Ci abita qualcuno?»
«No.» rispose in tono perentorio.
«Nessun essere vivente.» aggiunsi con un sospiro. Non più, aggiunsi solo nella mia mente.
«Vieni, Percy.» lo incitò Chirone, con una spensieratezza adesso un po' forzata. «Ci sono un sacco di cose da vedere.»
 

****

 
Attraversammo i prati, dove dei ragazzi raccoglievano cesti di fragole al suono melodioso del flauto di un satiro. I tralci fra i miei capelli presero a vibrare, intrecciandosi ancora più saldamente attorno ai ferri da calza che usavo come bacchette, e attirando lo sguardo di Percy che, però, non disse niente.
Chirone spiegò che producevamo degli ottimi raccolti, che poi rivendevamo nei ristoranti di New York e sul Monte Olimpo.
«Ci paghiamo le spese.» aggiunse. «E la coltivazione non richiede quasi nessuno sforzo.»
Disse che il signor D aveva questo effetto sulle piante da frutto: impazzivano se lui era nei paraggi. Con le viti funzionava meglio, commentò facendo un cenno ai miei capelli, ma dato che al signor D erano proibite, avevano optato per le fragole.
Osservai il satiro all'opera. La musica costringeva intere colonne di insetti a fuggire dall'appezzamento di fragole, in ogni direzione, come per mettersi al riparo da un incendio.
«Grover non avrà troppi problemi, vero?» chiese Percy a Chirone. «In fondo mi ha protetto bene. Davvero.»
Chirone sospirò e io distolsi lo sguardo. Lui si tolse la giacca di tweed e se la ripiegò sulla groppa come una sella.
«Grover fa grandi sogni, Percy.» cominciò. «Forse più grandi che sensati. Per raggiungere il suo obiettivo, deve prima dimostrare di avere parecchio coraggio come custode, trovando un nuovo ragazzo per il campo e portandolo sano e salvo sulla Collina Mezzosangue.»
«Ma l'ha fatto!»
«Io potrei concordare con te.» replicò Chirone. «Ma non sta a me giudicare. Saranno Dioniso e il Consiglio dei Satiri Anziani a decidere. E temo che potrebbero non valutare questo incarico come un successo. Dopotutto, Grover vi ha perso a New York. Poi c'è la malaugurata sorte di tua madre. E il fatto che fosse svenuto quando l'avete trascinato oltre il confine della proprietà. Per non parlare di come Avie sia finita in pericolo. Il Consiglio potrebbe obiettare che questo non dimostri nessun coraggio da parte sua.»
«Quella è stata colpa tua, Chirone.» obiettai senza guardarlo. «E lo sai. Se non mi avessi coinvolta in questa storia non sarei mai finita in pericolo.»
Percy mi lanciò un’occhiata colpevole. Probabilmente stava ripensando a quando mi aveva costretta a scappare alla stazione degli autobus, incolpandosi perché aveva contribuito a farmi rischiare la pelle.
«Gli daranno una seconda possibilità, non è vero?»
Chirone fece una smorfia. «Temo che questa fosse già la sua seconda possibilità, Percy. Il Consiglio non era nemmeno tanto ansioso di offrirgliela, dopo quello che è successo la prima volta, cinque anni fa. Lo sa l'Olimpo se ho provato a convincerlo ad aspettare un po' di più, prima di riprovarci. È ancora così piccolo per la sua età…»
«Quanti anni ha?»
«Oh, ventotto.»
«Cosa? E frequenta ancora la prima media?»
«I satiri maturano a velocità dimezzata rispetto agli umani, Percy. Negli ultimi sei anni, Grover è rimasto l'equivalente di un ragazzo della scuola media.»
«È una cosa orribile.»
«Sì.» concordò Chirone. «A ogni modo, Grover è un po' indietro perfino per gli standard dei satiri e non è ancora molto maturo nella magia dei boschi. Ahimè, era così ansioso di inseguire il suo sogno. Forse adesso comincerà a pensare a un'altra carriera.»
«Non lo farà mai, Chirone.» intervenni perentoria. «Lo sai benissimo. Niente lo convincerà a cambiare idea, nemmeno Dioniso. Grover è un grande satiro, anche se non sembra.»
«Non è giusto.» protestò Percy. «Cos'è successo la prima volta? È andata davvero tanto male?»
Io e Chirone distogliemmo subito lo sguardo. Non era andata male, no. Era andata peggio.
«Andiamo avanti, che ne dici?» disse il centauro.
«Chirone.» disse Percy osservandolo in modo penetrante. «Se gli dei e l'Olimpo sono reali…»
«Sì, figliolo?»
«Significa che anche gli Inferi lo sono?»
Il volto di Chirone si rabbuiò.
«Sì.» fece una pausa, come per scegliere attentamente le parole, e mi lanciò un’occhiata che Percy colse completamente. «C'è un luogo in cui gli spiriti vanno dopo la morte. Ma per il momento, finché non ne sappiamo di più, ti consiglierei di levartelo dalla testa.»
Io sospirai sapendo bene di cosa stava parlando, ma ero decisa a non spiegare niente nemmeno a lui.
«Su cosa dobbiamo saperne di più?» domandò Percy passando lo sguardo da me a Chirone.
«Coraggio, Percy. Andiamo a vedere il bosco.» commentai sospingendolo verso gli alberi.
 

****

 
Mentre ci avvicinavamo, Percy si guardava attorno, incredulo. Probabilmente pensava che il bosco fosse più piccolo. Occupava almeno un quarto della valle ed era fitto di alberi altissimi. Sembrava che nessuno vi avesse messo più piede dal tempo dei nativi americani. E invece ognuno di noi ci si infilava almeno una volta al giorno.
Chirone disse: «I boschi sono stipati, se vuoi tentare la sorte, ma ricordati di girare armato.»
«Stipati di cosa?» chiese Percy allarmato. «Armato come?»
«Lo vedrai.» commentai con un sorrisetto. «La Caccia alla Bandiera è prevista per venerdì notte. Hai una spada e uno scudo personali?»
«Dovrei?»
«Non fino a oggi.» fece Chirone. «La quinta dovrebbe andarti bene. Più tardi farò un salto in armeria.»
Vedevo le rotelle girare all’impazzata nel cervellino di Percy, ma era troppo frastornato per fare domande così il giro continuò. Visitammo il poligono di tiro con l'arco, il laghetto del canottaggio, le stalle (che Chirone avrebbe volentieri evitato), il poligono del giavellotto, l'anfiteatro del coro e l'arena in cui Chirone spiegò che si tenevano i combattimenti di lancia e spada.
«Combattimenti di lancia e spada?»
«Le sfide fra le capanne e via dicendo.» spiegò il centauro. «Avalon partecipa sempre a rotazione, cambiando squadra. Così come dovrebbe fare a caccia alla bandiera se scegliesse di partecipare.»
«Perchè?» domandò Percy. «Non sono obbligatorie?»
«Normalmente sì, ma lei è un caso un po’ speciale e non sempre conviene che partecipi. Sarebbe come se sapessimo già il vincitore prima ancora della partita.» concluse confondendolo ancora di più. «Non sono letali, comunque. Di solito. E quella è la mensa.»
Chirone indicò un padiglione a cielo aperto, incorniciato da candide colonne greche, su una collina affacciata sul mare. C'era una dozzina di tavoli da picnic di pietra. Niente tetto. Niente pareti.
«Come fate quando piove?» chiese Percy.
Chirone lo guardò come se avesse detto un'idiozia. «Dobbiamo pur mangiare, no?»
Alla fine gli mostrammo le capanne. Erano dodici in tutto, nel bosco vicino al lago. Erano disposte a U, due sulla base e una fila di cinque a formare ogni braccio. Tranne per il grosso numero di ottone che campeggiava sopra ogni porta (i dispari a sinistra, i pari a destra), non avevano niente in comune l'una con l'altra. La numero nove aveva delle ciminiere sul tetto, come una fabbrica in miniatura. La numero quattro, dei tralci di pomodori sui muri e un tetto d'erba. La sette sembrava fatta d'oro massiccio e scintillava così tanto al sole che era quasi impossibile guardarla. Tutte si affacciavano su un cortile comune grande più o meno quanto un campo di calcio, disseminato di statue greche, fontane, aiuole e un paio di canestri da basket.
Al centro del campo c'era un enorme braciere rivestito di pietra. Nonostante il pomeriggio afoso, i tizzoni ardevano e una ragazzina sui nove anni badava al fuoco, pungolando le braci con un bastone. Le feci un cenno con la testa e un sorriso che lei ricambiò. Mi appuntai mentalmente di ricordarmi di fermarmi a scambiare qualche parola con lei una volta finito il giro con Percy, come facevo sempre.
Le case in cima al campo, la uno e la due, sembravano una coppia di mausolei gemelli: grossi scatoloni di marmo con delle pesanti colonne frontali. La uno era la più grande e la più massiccia, con porte di bronzo levigato che scintillavano come ologrammi, tanto da sembrare striate di fulmini a seconda dell'angolatura da cui le si guardasse. La numero due era più delicata, con le colonne più snelle e cinte di ghirlande di fiori e melograni. Sulle pareti erano scolpite immagini di pavoni. Non erano particolarmente il mio genere, troppo appariscenti, ma non mi sarei mai azzardata a dirlo ad alta voce per non offendere i proprietari.
«Zeus ed Era?» chiese Percy.
«Esatto.» rispose Chirone.
«Ma le case sembrano vuote.»
«Diverse case lo sono, è vero. Nella uno e nella due non soggiorna quasi mai nessuno. Avalon può dormire in ognuna, a suo piacimento; ma, come ti ho già fatto notare, lei è un caso un po’ speciale. Anche se, devo dire, sembra che la sua casa preferita sia un’altra.» commentò beccandosi una gomitata da parte mia.
«Potresti anche evitare di dirlo, Chirone. Non sia mai che lo prendano come un affronto e decidano di polverizzarmi.»
«Suvvia, mia cara, sai che non lo farebbero mai.» osservò lui.
Percy si fermò davanti alla prima, a sinistra, la numero tre, riflettendo. Io sorrisi; sapevo l’avrebbe attirato.
La casa tre non era alta e possente come la uno, ma lunga, massiccia e bassa. Le pareti esterne erano di pietra grigia e porosa, costellate di frammenti di conchiglie e corallo, come se le lastre provenissero direttamente dal fondo dell'oceano.
Percy sbirciò nella porta aperta e Chirone disse: «Oh, non lo farei se fossi in te!»
Prima che lui lo tirasse indietro, allontanandolo e facendomi segno di seguirlo, sentii un odore salmastro, caratteristico del mare e della spiaggia. Dentro, le pareti luccicavano come il guscio interno di un'ostrica. C'erano sei letti a castello con le lenzuola di seta, ma sembrava che non ci avesse mai dormito nessuno, perchè tendevo sempre a riordinare il letto che sceglievo.
Chirone gli poggiò una mano sulla spalla. «Vieni, Percy.»
La maggior parte delle altre case, in compenso, era piena di ragazzi.
La numero cinque, di colore rosso acceso, sembrava dipinta non con i pennelli ma a secchiate e manciate di colore. Il tetto era rivestito di filo spinato e, sopra la soglia, la testa imbalsamata di un cinghiale sembrava ci seguisse con lo sguardo. All'interno, scorgemmo un branco di ragazzi e ragazze dall'aria poco raccomandabile che si azzuffavano e litigavano, sparando musica rock a tutto volume. Quella che faceva più chiasso di tutti era una ragazza sui quattordici anni con una maglietta XXXL del Campo Mezzosangue e un giubbotto mimetico. Quando piantò gli occhi addosso a Percy, gli rivolse un ghigno di scherno e io sospirai scuotendo la testa. Sapevo cosa sarebbe successo di lì a poco e nascosi a stento un sorriso.
Era comunque una ragazza interessante, anche se non lo sembrava. Forse.
Continuammo a camminare.
«Non abbiamo visto altri centauri.» osservò Percy.
«No.» convenne mestamente Chirone. «I miei simili sono un popolo selvaggio e barbarico, temo. Forse li incontrerai nel bosco, o in qualche grande evento sportivo. Ma non ne vedrai nessuno, qui.»
«Lei ha detto di chiamarsi Chirone. È davvero…»
Lui sorrise. «Il Chirone delle storie? L'istruttore di Ercole, Achille e degli altri eroi? Sì, Percy, sono io.»
«Ma non dovrebbe essere morto?»
Chirone fece una pausa, come se la domanda lo incuriosisse. «Onestamente non so dirti se dovrei. Ma il fatto è che non posso
Al suo sguardo confuso, intervenni io. «Vedi, Percy, secoli fa gli dei hanno esaudito un suo desiderio: poter continuare il lavoro che amava.»
Chirone riprese. «Ho ottenuto tanto da quel desiderio e ho rinunciato a tanto. Ma sono ancora qui, perciò posso solo presumere che ci sia ancora bisogno di me.»
«Non si annoia mai?»
«No, affatto.» rispose lui. «Talvolta è terribilmente deprimente, ma non è mai noioso.»
«Perché deprimente?»
Chirone divenne di nuovo duro d'orecchi, così come io ignorai volutamente la domanda.
«Oh, guarda.» esclamò lui. «Annabeth ci sta aspettando.»
Io gemetti.
Percy mi lanciò un’occhiata che feci finta di non cogliere, così rivolse l’attenzione alla mia amica.
Annie stava leggendo un libro davanti all'ultima casa a sinistra, la numero undici.
Quando la raggiungemmo, lanciò a Percy un'occhiata critica, come se stesse ancora pensando a quanto sbavasse nel sonno.
Osservai cosa stesse leggendo, e non mi stupii quando mi accorsi che il libro era scritto in greco e parlava di architettura. Dopotutto, diventare architetto era il suo sogno. Inoltre, per noi era più facile leggere in greco a causa della dislessia semidivina.
«Annabeth.» esordì Chirone «Ho una lezione di tiro con l'arco a mezzogiorno. Puoi occuparti di Percy insieme ad Avalon?»
«Sì, signore.» mi stava osservando con i suoi penetranti occhi grigi e un sorrisetto sul volto e non potei fare a meno di sospirare, sconfitta. Alla fine, ero comunque finita da Luke.
«Casa numero undici.» disse Chirone rivolto a Percy, facendo un gesto verso la porta. «Accomodati.»
Fra tutte le altre, la numero undici era quella che somigliava di più a una normalissima vecchia casetta, intendendo “vecchia” nel senso letterale. La soglia era fatiscente, con la vernice marrone screpolata, e sopra la porta un caduceo. I suoi abitanti la lasciavano così apposta; dicevano che li rappresentava bene. Li capivo.
Era affollata di ragazzi e ragazze in numero molto superiore rispetto ai letti disponibili. C’erano dei sacchi a pelo sparsi su tutto il pavimento. Sembrava una palestra allestita a centro di evacuazione dalla Croce Rossa.
Chirone non entrò, la porta era troppo bassa per lui. Ma quando i ragazzi lo videro, si alzarono tutti in piedi e si inchinarono con rispetto.
«Bene, allora.» disse. «Buona fortuna, Percy. Ci vediamo a cena.»
E galoppò via, verso il poligono di tiro con l'arco.
Rimanemmo sulla porta, a guardare i ragazzi. Non si inchinavano più. Fissavano Percy, soppesandolo. Io sbuffai. Ogni volta la stessa storia. Ogni. Singola. Volta.
«Allora?» lo spronò Annabeth. «Muoviti.»
Così, naturalmente, Percy inciampò sulla soglia e fece subito la figura del citrullo. Ci fu qualche risatina, ma nessuno disse niente.
Annabeth annunciò: «Percy Jackson, ti presento la casa numero undici.»
«Regolare o indeterminato?» chiese qualcuno.
Io risposi: «Indeterminato.»
Un gemito generale.
Un ragazzo un po’ più grande degli altri fece un passo avanti, zittendoli prima che potessi farlo io. «Via, ragazzi. Siamo qui per questo. Benvenuto, Percy. Puoi prenderti quell'angolo sul pavimento, laggiù.»
Il tipo che aveva parlato aveva sui diciannove anni e sembrava uno in gamba. Era alto e muscoloso, con i capelli biondo rame tagliati molto corti e un sorriso amichevole. Indossava una canotta arancione, jeans tagliati al ginocchio, un paio di sandali e la mia stessa collanina di cuoio, con la differenza che la sua aveva solo cinque perle. L'unica cosa che poteva essere reputata inquietante nel suo aspetto era una spessa cicatrice bianca che gli solcava la guancia, dall'occhio destro alla mascella, come una vecchia ferita da taglio. Mi ero abituata alla sua presenza da tempo, ma mi sentivo ancora in colpa per non aver impedito che se la procurasse.
«Questo è Luke.» lo presentai senza guardarlo e addolcendo il tono senza accorgermene. «Sarà lui il tuo capogruppo, per ora.»
«Per ora?» chiese Percy.
«Sei indeterminato.» spiegò Luke in tono paziente dopo avermi rivolto un sorriso incerto. «Non sanno a quale casa assegnarti, perciò sei qui. La undici accoglie tutti i nuovi arrivati e tutti i visitatori. È naturale. Ermes, il nostro patrono, è il dio dei viandanti.»
«Per quanto tempo resterò qui?» chiese Percy, dopo aver osservato la stanza e i suoi abitanti.
«Bella domanda.» rispose Luke. «Finché non sarai determinato.»
«Quanto ci vorrà?»
Risata generale.
«Vieni.» disse Annabeth. «Ti faccio vedere il campo di pallavolo.»
«L'ho già visto.»
«Muoviti.»
Lo afferrò per il polso e lo trascinò fuori dopo avermi lanciato un’occhiata più che eloquente. Io la fulminai con lo sguardo.
Sentii i ragazzi della casa numero undici che ridevano accanto a me. Percy mi osservò, come in cerca di aiuto e io lo salutai con la mano, sfottendolo, prima di voltarmi a malincuore verso Luke.
«Meglio che non li lasci soli troppo a lungo, o Annie potrebbe finire per farlo a fette.» commentai facendo sorridere lui e sghignazzare tutti gli altri, che ci stavano osservando. «Vedete di non strapazzarlo troppo, per favore.» dissi al gruppo. «E tu tieni a freno i tuoi fratelli fino alla Caccia alla Bandiera.» completai rivolta direttamente a Luke, che non aveva smesso di studiarmi per tutto il tempo.
«Ehi!» protestò Connor Stoll, una delle due pesti del Campo.
«Così non vale!» aggiunse Travis Stoll, suo fratello e altra peste del Campo.
Figli di Ermes come Luke, ma fratelli anche da parte di madre, erano i due giullari di corte, i gemelli Weasley del Campo Mezzosangue e, esattamente come loro, si divertivano a fare scherzi a chiunque, di qualsiasi genere. Anche stupidi. Anzi, più erano stupidi, più si divertivano. Come quella volta che riempirono di ragni la cabina di Atena, mandando Annie e i suoi fratelli letteralmente fuori di testa per settimane. O come quando usarono i trucchi e i prodotti di bellezza dei figli di Afrodite per decorare i volti e la cabina dei figli di Ares di fiori colorati, cuoricini e simili. Bleah. Fecero imbestialire le due case e, cosa più unica che rara data la loro repulsione per le battaglie, i figli di Afrodite si unirono ai figli di Ares nel saltar loro addosso per farli a pezzi e vendicarsi. Quei due imbecilli rimasero in infermeria per una settimana, con parecchie ossa rotte a testa.
«Parteciperai?» mi domandò Luke, incrociando le braccia al petto e con un sorriso sul volto a causa dei suoi fratelli scemi.
Mi osservava dall’alto del suo metro e ottantacinque, facendomi sentire una nana in confronto a lui. Cercava di ignorare il muro che stavo innalzando tra noi, ma vedevo che non capiva il mio comportamento degli ultimi due giorni.
Io sorrisi di rimando. «Me l’hai davvero chiesto?»
Lui alzò gli occhi al cielo, mentre gli altri ridevano di nuovo. «Sì, l’ho fatto. Solo perchè sai come andranno le cose non vuol dire che tu non possa partecipare.» disse. «Non è giusto che tu non possa divertirti con noi.»
«Con te, semmai.» commentò Travis con un ghigno, beccandosi uno scappellotto da Connor e una duplice occhiataccia da parte nostra.
Solo perchè eravamo entrambi legati all’altro non significava che tutti dovessero sempre commentare ogni singola cosa che facevamo o dicevamo. In ogni occasione, che ci salutassimo appena o che ci ignorassimo, che ci trovassero a parlare per ore o che ci scambiassimo solo uno sguardo. Io e Luke eravamo grandi amici, ma nulla di più. Non stavamo insieme, ma tutti sostenevano che fossimo una coppia. Lo saprei, dico io, se stessi insieme a qualcuno. No?
Ci eravamo conosciuti quando io avevo sette anni e lui quattordici, era appena arrivato al campo insieme ad Annie. Era un periodo difficile per tutti e due, e questo aveva fatto sì che legassimo fin da subito. Ma era successa la stessa cosa con Annie, e sul mio legame con lei nessuno diceva mai niente, quindi perchè farlo con Luke? Persino Silena, la Capocasa dei figli di Afrodite, ci si metteva, a volte. E io cercavo sempre di cambiare argomento. Perchè non potevano lasciarci in pace? Volevamo vivere il nostro rapporto a modo nostro. Perchè si trasformavano tutti in quella pettegola di Afrodite, quando si parlava di noi? Eravamo amici, nient’altro, ma sembrava essere un problema per tutti. Anche Clarisse, miss taglia tripla XL, infieriva, ogni tanto, cosa di per sè assurda dato che era figlia di Ares, il dio della guerra, e lui non ci capiva niente di queste cose. Io proprio non li capivo. Nemmeno un po’.
«Se mi schierassi da una parte, invece che dall’altra, sarebbe come dire chi ha vinto. Lo sai.» ricordai a Luke, paziente.
«Non se siamo noi a scegliere in quale squadra giochi.» mi rammentò lui di rimando, chiedendomi silenziosamente spiegazioni sul mio distacco. «Come facciamo quando ci sfidiamo nell’arena.»
«Vorrei farti notare…» intervenne di nuovo Travis. «… che nei combattimenti nell’arena lei vince sempre. Anche contro di te.» concluse facendo sghignazzare i ragazzi attorno a noi. Anch’io sorrisi a quel pensiero.
Era risaputo, infatti, che Luke fosse il migliore spadaccino del campo. Contro di me, però, perdeva sempre. E non poteva incolpare il mio trucchetto sul futuro, perchè tutti sapevano che su di me non funzionava. Semplicemente, a quanto pare, io ero più brava di lui. E questo lo faceva ridere perchè, da quando era arrivato, ci eravamo sempre allenati assieme e lui mi aveva anche fatto da insegnante, all’inizio. Almeno fino a quando non l’avevo superato.
«Perchè le ho insegnato bene.» disse, infatti, con un luccichio divertito nello sguardo. «E poi voi vi godete sempre lo spettacolo, quando combattiamo.» gli ricordò.
A quelle parole gli altri annuirono, perfettamente concordi e soddisfatti.
Era vero. Quando io e Luke ci affrontavamo all’arena era sempre pieno di spettatori: ragazzi, satiri e persino ninfe che ci osservavano per tutta la durata dell’incontro. Quando eravamo in piena forma potevamo scontrarci anche per ore senza fermarci, e questo ci rendeva un po’ gli idoli del campo. Nemmeno i figli di Ares riuscivano a tenere il nostro passo. E Travis e Connor tiravano sempre fuori dei pop corn che distribuivano agli altri. Da dove arrivassero, poi, non ne avevo idea, ma sospettavo rubassero il mais dalle coltivazioni della cabina dei figli di Demetra, perchè loro si lamentavano sempre che sparivano delle pannocchie quando combattevamo. Per non parlare della tremenda fissa della madre per i cereali. Davvero, non pensava ad altro ed esasperava chiunque incontrasse. Dioniso se ne era lamentato parecchio, un giorno.
«Comunque no, Lucky, non parteciperò stavolta.» dissi riportando l’argomento alla Caccia alla Bandiera e usando il nomignolo che gli avevo dato quando lo avevo conosciuto. Vidi la tensione, che lo aveva colto quando mi aveva vista mantenere le distanze, abbandonare il suo corpo, che si rilassò visibilmente.
«Perchè?» domandò lui, rattristato. «Sarà divertente.»
«Oh, sì. Ma non servirà che io giochi.» commentai ripensando a ciò che avevo visto.
«Tu…»
«No comment.» dissi bloccandolo. «Lo sai. Ora scusami, ma vado da quei due.» dissi lanciando un’occhiata ad Annie e Percy poco distanti da noi, e non riuscendo a celare un sorriso divertito. «Non voglio rischiare che Annie lo infilzi come uno spiedino per l’esasperazione.» mi allungai e gli diedi un bacio sulla guancia, proprio sopra la cicatrice, e alzai gli occhi al cielo quando gli altri fischiarono. «Andate al Tartaro.» risposi facendoli ridacchiare e fischiare ancora di più, prima di voltarmi e avvicinarmi a Percy e Annabeth.
Arrivai giusto in tempo per sentire la fine del discorso di Annie. «Affronta la realtà. Sei un mezzosangue.»
«Uh, vedo che hai sganciato la bomba.» commentai.
Poi un vocione gridò: «Ma guarda! Un novellino!»
La ragazzona che avevamo visto in quell'orribile capanna rossa, miss taglia tripla XL, ci stava venendo incontro, baldanzosa. La seguivano altre tre ragazze grosse, brutte e cattive come lei, tutte con dei giubbotti mimetici indosso.
Ecco, vi presento l’adorabile figlia di Ares che si divertiva a diventare figlia di Afrodite quando Luke e io eravamo nei paraggi. Meravigliosa, vero?
«Clarisse.» sospirò Annabeth. «Perché non te ne vai a lucidarti la lancia o che so io?»
«Ma certo, principessa.» replicò la ragazzona. «Così posso infilzarti meglio, venerdì sera.”
«Erre es korakas!» ribatté Annabeth in greco. Significava “Vattene ai corvi!”, ma era un insulto peggiore di quanto sembrasse dato che, per noi giovani ragazzi, era come dire “Vaffan****”. «Non hai nessuna possibilità.»
«Vi schiacceremo.» sibilò Clarisse.
«Luke mi ha chiesto di giocare, sai Clare?» intervenni io facendole venire un tic in un occhio.
«Tu non puoi giocare, Zei!» protestò lei.
Significava “vite” in greco e si pronunciava “zii”. E sì, avevamo entrambe dei soprannomi. Scandaloso, se si pensa che tipo di persona sia Clarisse. Ma, a differenza della maggior parte dei ragazzi del Campo, io la consideravo mia amica e lei lo stesso. Stranamente. Inoltre io avevo la tendenza a dare soprannomi a tutti. Ne avevo già uno pronto anche per Percy, ma dovevo aspettare per usarlo. Assurdo, lo so.
«Io non posso scegliere con quale squadra giocare.» la corressi. «E si dà il caso che non abbia scelto. Luke me l’ha chiesto.» completai tralasciando il fatto che avessi rifiutato.
Vedere la sua espressione non più sicura di essere all'altezza della sua minaccia era troppo bello. Sì, ogni tanto mi divertivo a farle un dispetto, che volete farci. Sono pur sempre umana anch’io. Beh… semi umana.
Clarisse si voltò verso Percy. «Chi è questa mezza cartuccia?»
«Percy Jackson.» rispose Annabeth. «Ti presento Clarisse, figlia di Ares.»
Lui strizzò gli occhi. «Vuoi dire il dio della guerra?»
Clarisse sogghignò. «Ti crea qualche problema?»
«No.» rispose, riprendendosi. «Spiega il cattivo odore.»
Io ridacchiai e Clarisse ringhiò. «Abbiamo una cerimonia di iniziazione per i novellini, Prissy.»
«Percy.»
«Quello che è. Vieni, te la faccio vedere.»
«Clarisse…» cercò di dire Annabeth.
«Tu stanne fuori, sapientona.»
«Te ne pentirai, Clare.» la misi in guardia.
Se ne pentiva sempre, alla fine, perché in un modo o in un altro le vittime riuscivano a fargliela pagare. Solitamente con l’aiuto di Travis e Connor, che non si tiravano mai indietro davanti a una sfida di questo genere.
Ma lei continuò imperterrita e io sospirai. Ci avevo provato. Annabeth sembrava dispiaciuta, ma lasciò perdere.
Percy passò alla figlia di Atena il corno del Minotauro e si preparò a battersi ma, prima che se ne rendesse conto, Clarisse lo aveva già preso per il collo e lo trascinava verso il bagno. Io ed Annie li seguimmo.
Percy tirava calci e pugni, ma contro una figlia di Ares come Clarisse non servivano a niente. Lei lo trascinò dentro il bagno delle ragazze. C’erano una fila di gabinetti da un lato e una fila di docce dall'altro.
Le sorelle di Clarisse si sbellicavano dalle risate, mentre Percy cercava di liberarsi.
«Come se potesse essere roba dei Tre Pezzi Grossi.» esclamò Clarisse spingendolo dentro uno dei gabinetti. «Sì, come no. Il Minotauro probabilmente è morto dalle risate, a vedersi davanti un allocco del genere.»
Le sue sorelle sghignazzarono.
Annabeth rimase accanto a me, con le mani sulla faccia, a guardare la scena tra le dita.
«Clare…» mormorai io, rilassata. «Fossi in te la smetterei.»
«Finiscila, Zei. Cosa vuoi che mi faccia questa mezza cartuccia?»
Mi limitai a sospirare scuotendo la testa, portandola a lanciarmi uno sguardo perplesso. Forse aveva intuito che sapessi più di quanto facessi trasparire. Come al solito, del resto. La mia serietà, però, non la mise in allarme come avrebbe dovuto, quindi continuò il suo piano. Particolarmente stupido.
Costrinse Percy a mettersi in ginocchio e cominciò a spingergli la testa verso la tazza. Io presi lentamente Annabeth per un braccio e la spostai con me a distanza di sicurezza, subito fuori dalla porta dei bagni. Lei non protestò, troppo impegnata a preoccuparsi per Percy e si limitò a lanciarmi uno sguardo confuso, prima di riconcentrarsi su Clarisse, le sue sorelle e Percy.
In quel momento successe qualcosa. Sentii l'impianto che brontolava, i tubi che vibravano. Vidi Clarisse allentare la presa sui capelli di Percy.
L'acqua schizzò fuori dal gabinetto, disegnò un arco sopra la testa di Percy e poi lui si ritrovò a terra sulle piastrelle del bagno, con Clarisse che strillava alle sue spalle. Io stavo cercando di non ridere, ma era difficile. Era ancora più bello di quando l’avevo visto. Perché sì, avevo visto esattamente quella scena, ed era stato magnifico.
Percy si voltò proprio quando l'acqua esplose di nuovo dal gabinetto, colpendo Clarisse in faccia così forte da farla piombare con il sedere a terra. L'acqua continuò a innaffiarla come il getto di un idrante dei pompieri, spingendola fin dentro una doccia. Lei si divincolò, boccheggiando, e le sue sorelle accorsero ad aiutarla. Ma a quel punto anche gli altri gabinetti esplosero e sei ulteriori fiotti d'acqua del water si abbatterono su di loro. Poi si azionarono anche le docce e tutti gli impianti del bagno in contemporanea, cacciando le ragazze fuori dall'edificio e facendole roteare accanto a noi come detriti in uno scarico. Solo allora la tempesta si interruppe con la stessa rapidità con cui era iniziata.
Il bagno era completamente allagato. Annabeth e io, grazie al fatto che ci avevo portate fuori in tempo, eravamo state risparmiate e ora la mia amica fissava Percy scioccata.
In quel momento il ragazzo abbassò lo sguardo e si accorse di essere seduto nell'unico posto asciutto di tutta la stanza. Attorno a lui, infatti, c’era un cerchio di pavimento intatto e sui suoi vestiti non c'era neanche una goccia d'acqua. Niente.
Si alzò, con le gambe tremanti.
«Ma come hai…» gli chiese Annabeth.
«Non lo so.»
Fuori, Clarisse e le sue sorelle erano finite in un lago di fango, mentre un capannello di ragazzi del campo si era radunato per curiosare. Clarisse aveva i capelli appiccicati alla faccia, il suo giubbotto mimetico era zuppo e puzzava di fogna. Lanciò a Percy un'occhiata di odio puro.
«Tu sei morto, pivello. Morto stecchito.»
Percy replicò. «Vuoi fare un altro po' di gargarismi con l'acqua del water, Clarisse? Chiudi il becco.»
«Perché non mi dai mai ascolto, Clare?» osservai cercando ancora di soffocare le risate, senza successo.
Le sue sorelle dovettero trattenerla. La trascinarono verso la casa numero cinque, mentre gli altri ragazzi si scostavano per evitare i suoi piedi scalcianti. Se avessero potuto, le sue occhiatacce mi avrebbero fulminata come la sua lancia. Sì, la sua lancia era elettrica, caro regalo del paparino.
Annabeth fissò Percy. 
«Che c'è?» domandò lui. «A cosa stai pensando?»
«Sto pensando…» rispose lei.
«Che ti vuole nella sua squadra per la Caccia alla Bandiera.» conclusi io al suo posto, facendoli voltare. «Che c’è?» domandai innocentemente. «Ti conosco, Annie.»
«Tu lo sapevi, che è diverso. E sapevi anche dei bagni.»
«Stai farneticando.» commentai. «Sei semplicemente prevedibile. Proprio come lo è Clarisse.»
Dal suo sguardo, però, capii che non mi credeva. Non mi credeva per niente.

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Capitolo 8
*** 7. Sniffiamo la cena come dei drogati ***


La voce sull'incidente del bagno si diffuse all'istante, ovviamente. Era sempre così: i giovani semidei non sapevano cosa fossero i segreti ed erano più pettegoli delle vecchie signore di paese. O di Afrodite. Ovunque andassimo, i ragazzi del campo additavano Percy e mormoravano qualcosa sull'acqua del water.
Gli mostrammo un altro po' di posti: l'officina (dove dei ragazzi si stavano forgiando le spade), il laboratorio artistico (dove i satiri stavano sabbiando una gigantesca statua di marmo di un uomo-capra) e la parete d'arrampicata, che in realtà era costituita da due muri opposti che tremavano violentemente, lanciavano massi, spruzzavano lava e cozzavano l'uno contro l'altro se non eri svelto ad arrivare in cima. La adoravo.
Alla fine tornammo al laghetto del canottaggio, il punto in cui il sentiero ritornava verso le capanne.
«Devo andare ad allenarmi.» disse Annabeth in tono piatto. «La cena è alle sette e mezzo. Per la mensa, segui gli altri ragazzi della tua casa.» stava per andarsene, quando si voltò. «Devi parlare con l'Oracolo.» gli suggerì lanciandomi un’occhiata.
«Con chi?» chiese Percy.
«Non con chi, ma con cosa. Con l'Oracolo. Lo chiederò a Chirone.»
Percy stava osservando le acque del laghetto, quando lo vedemmo salutare le naiadi: avevano l’aspetto di ragazze più grandi, portavano i jeans e delle scintillanti magliette verdi, i lunghi capelli castani e fluttuanti erano attraversati da pesciolini e sedevano con le gambe incrociate sul fondale alla base del molo, ad almeno sei metri sott'acqua.
«Non incoraggiarle.» lo avvisò Annabeth. «Le Naiadi sono delle terribili smorfiose.»
«Naiadi.» ripetè lui; potevo vedere quanto fosse al limite. «Ora basta. Voglio andare a casa.»
Io continuai a rimanere in silenzio e Annabeth aggrottò la fronte. «Non capisci, Percy? Tu sei a casa. Questo è l'unico posto sicuro sulla terra per i ragazzi come noi.»
«Per i ragazzi con disturbi mentali, vuoi dire?»
«Voglio dire per i ragazzi non umani. Non totalmente umani, insomma. Umani per metà.»
«Per metà umani e per metà cosa?»
«Penso che tu lo sappia.»
Vedevo la reticenza negli occhi di Percy, ma anche la consapevolezza. Lui lo sapeva, aveva capito esattamente cosa fossimo, ma non voleva ammetterlo.
«Dei.» cedette, alla fine. «Per metà dei.»
Annabeth annuì. «Tuo padre non è morto, Percy. È uno degli dei dell'Olimpo.»
«È assurdo.»
«Davvero? Qual è la cosa più comune che gli dei facevano in quelle vecchie storie? Se ne andavano a zonzo a innamorarsi dei mortali e a far figli con loro. Pensi che abbiano cambiato abitudini negli ultimi millenni?»
«Ma questi sono soltanto…» stava per dire “miti” un'altra volta, ma si bloccò. «Ma se tutti i ragazzi di questo posto sono per metà degli dei…»
«Semidei.» specificò Annabeth. «È questo il termine ufficiale. Oppure mezzosangue.»
«Allora chi è tuo padre?»
Io mi irrigidii leggermente e lei strinse le mani attorno al parapetto del molo. Quello era un tasto sensibile. Anzi, proprio dolente.
«Mio padre è un professore di West Point.» rispose. «Non lo vedo da quando ero piccola. Insegna storia americana.»
«È umano.»
«E allora? Cos'è, pensi che solo un dio possa provare attrazione per i mortali? Ma quanto sei sessista!» io sorrisi leggermente alla sua risposta, ma non mi intromisi.
«Chi è tua madre, allora?»
«Casa numero sei.»
«E cioè?»
Annabeth drizzò la schiena. «Atena. Dea della saggezza e della battaglia.»
«E mio padre?»
«Indeterminato.» risposi io a quel punto attirando la sua attenzione.
«Come ti ho detto prima. Nessuno lo sa.» continuò Annabeth. «Beh, a parte Avie, ma lei non può dirlo. E tuo padre, ovviamente.»
«Anche mia madre. Lei lo sapeva.» aggiunse lui.
«Forse no, Percy. Gli dei non rivelano sempre la loro identità.»
«Mio padre l'ha fatto di sicuro. Lui la amava.»
Annabeth lo guardò con un'espressione cauta. Non voleva deluderlo. Io non dissi niente, infondo sapevo.
«Forse hai ragione. Forse manderà un segno. È l'unico modo per esserne certi: tuo padre deve riconoscerti come suo figlio mandando un segno. A volte succede.»
«Vuoi dire che a volte non succede?»
Annabeth accarezzò il parapetto con il palmo della mano. «Gli dei hanno molto da fare. Hanno un sacco di figli e non sempre... beh, a volte non gli importa di noi, Percy. Ci ignorano.»
«Perciò sono bloccato qui.» concluse. «È così? Per il resto della mia vita?»
«Sì.» dissi io.
«Dipende.» rispose allo stesso tempo Annabeth, lanciandomi un’occhiataccia. «Alcuni si fermano solo per un'estate. Se sei figlio di Afrodite o di Demetra, probabilmente non sei una forza davvero potente e i mostri potrebbero ignorarti. Così te la puoi cavare con qualche mese di allenamento estivo e vivere nel mondo mortale per il resto dell'anno. Ma per alcuni di noi, andarsene è troppo pericoloso. Ci fermiamo tutto l'anno. Nel mondo mortale, attraiamo i mostri. Ci percepiscono. Vengono a sfidarci. In genere ci ignorano finché non siamo abbastanza grandi da causare problemi... verso i dieci o gli undici anni… ma dopo, per la maggior parte dei semidei ci sono solo due possibilità: arrivare qui o farsi ammazzare. Pochissimi riescono a sopravvivere nel mondo esterno, e diventano famosi. Credimi, se ti facessi i nomi, li conosceresti. Alcuni non si rendono neanche conto di essere semidei. Ma sono casi molto, molto rari.»
«Quindi i mostri non possono entrare qui?»
Annabeth scosse la testa. «A meno che qualcuno non li abbia introdotti di proposito nel bosco o non li abbia evocati dall'interno.»
«E perché mai qualcuno vorrebbe evocare un mostro?»
«Per allenamento. O per scherzo.»
«Per scherzo?»
«Il fatto è questo: i confini sono sigillati in modo da tenere fuori i mortali e i mostri. Dall'esterno, i mortali guardano la valle e non vedono niente di insolito, solo una fattoria in mezzo a campi di fragole.» spiegai io.
«E voi vi fermate tutto l'anno?»
Entrambe annuimmo e Annabeth estrasse la sua collanina di cuoio con le perle da sotto la maglietta. Era identica a quella di Luke, solo che sulla sua c'era appeso anche un grosso anello d'oro di un college. La mia aveva molte più perle.
«Sono qui da quando avevo sette anni.» raccontò. «Ogni agosto, l'ultimo giorno della sessione estiva, riceviamo una perla per essere sopravvissuti un altro anno. Sono qui da più tempo della maggior parte dei capigruppo, e loro sono tutti al college. Avie, invece, è qui da più tempo di tutti. Era tra quelli che mi hanno accolto.»
«Perché sei venuta così presto?» le chiese accantonando la parte su di me.
Lei si rigirò l'anello d'oro fra le dita. «Non sono affari tuoi.»
«Oh!» per un minuto rimase in silenzio, imbarazzato. Poi si voltò verso di me. «E tu? Da quanto tempo sei qui?»
Io alzai le spalle mostrandogli la mia collana, anche se l’aveva già vista. «Da sempre. O meglio, dal giorno dopo la mia nascita. Sono cresciuta qui. Letteralmente. Non è stato così male.» aggiunsi quando vidi la sua espressione.
«E chi è il tuo genitore divino?» domandò ancora.
«Percy…» disse Annabeth, ma io la bloccai con un cenno.
«Tranquilla Annie. Non è un segreto, e prima o poi sarebbe saltato fuori.»
Percy passava lo sguardo da lei a me, e viceversa. «Che cosa?»
Sospirai. «La mia parte divina non è esattamente “divina”, Percy. Ricordi che ti ho detto che le Parche sono mie sorelle?» lui annuì. «E ricordi di chi sono figlie?»
Percy riflettè qualche secondo. «Di Zeus e di una titana, mi sembra… non mi ricordo il nome.»
Io annuii. «Esatto.»
«Quindi… sei figlia di Zeus?» domandò cauto, forse immaginando la risposta.
«No. Sono figlia di Temi, la titana.»
«Ok. E che cosa cambia?» chiese dopo aver registrato l’informazione.
Annabeth sospirò.
«Non lo sappiamo.» ammise. «Non lo sanno neanche gli dei. Sappiamo solo che è diversa da noi, ma allo stesso tempo è come noi. Nemmeno le Parche hanno saputo dire qualcosa, ma credono che la sua esistenza sia la più importante in assoluto, in un certo senso. Quindi hanno stabilito di farla crescere qui e gli dei hanno dato il loro appoggio.»
«Dioniso non è davvero mio zio, ma mi ha cresciuta ed entrambi ci siamo affezionati, in qualche modo. Inoltre sembra ci sia una specie di accordo, tra gli dei, che impedisce loro di uccidermi o anche solo di ferirmi.» continuai. «Zeus deve volerti morto davvero molto per infrangere questo accordo e lanciare un fulmine su una macchina in cui sono anch’io, ferendomi.»
«Cosa?» domandò Percy sconvolto. «Eri ferita? Ma stai bene adesso?» aggiunse poi, osservando ogni centimetro del mio corpo come a cercare di individuare eventuali contusioni o altro.
«Sì, il fulmine che ci ha mandati fuori strada era suo.» confermai tranquilla. «E sì, Percy, mi ha ferita.» lo tranquillizzai. «Ora sto bene, più o meno. Domani dovrei essere quasi definitivamente a posto.» le ustioni bruciavano e tiravano un po’, in effetti, ma niente che non fosse sopportabile.
Percy annuì e non dicemmo niente per un po’, fino a quando lui ruppe il silenzio. «Potrei andarmene anche subito, se volessi?»
«Sarebbe un suicidio, ma potresti farlo, con il permesso del signor D o di Chirone. Loro non accordano permessi del genere prima della fine dell'estate, a meno che…» rispose Annabeth.
«A meno che?»
«A meno che non ti venga assegnata un'impresa. Ma non succede quasi mai. L'ultima volta…» la sua voce si spense e io mi rabbuiai.
L’ultima volta non era andata tanto bene.
«Giù all'infermeria.» disse Percy cambiando argomento. Probabilmente aveva colto il tono di Annabeth. «Quando mi imboccavi con quella roba…» le disse.
«L'ambrosia.»
«Sì. Mi hai chiesto qualcosa sul solstizio d'estate.»
Annabeth irrigidì le spalle e io mi raddrizzai. «Allora sai qualcosa?»
«Annie…» tentai di fermarla.
«Beh… no. Nella mia vecchia scuola ho sentito Avie, Grover e Chirone che ne parlavano. Hanno nominato il solstizio d'estate. Hanno detto che non avevo abbastanza tempo, per via di una qualche scadenza. Che significa?»
Lei strinse i pugni. «Magari lo sapessi. Chirone e i satiri lo sanno, ma non vogliono dirmelo. Anche Avie è al corrente della situazione, anzi penso che lei abbia molti più dettagli, ma tutti sanno che lei non parlerà mai.» commentò osservandomi di sottecchi mentre Percy mi lanciava un lungo sguardo.
«E tutti sanno perchè.» risposi tagliente alla sua frecciatina. «Nemmeno a Chirone ho detto qualcosa. Neanche a Zeus.»
Un tuono risuonò sopra le nostre teste.
Guardai il cielo.
«È inutile che ti scaldi tanto.» commentai. «Sai che non parlerò mai.»
Un secondo tuono rimbombò facendomi sbuffare.
Annabeth continuò. «C'è qualcosa che non va sull'Olimpo, qualcosa di grosso. L'ultima volta che ci sono stata, tutto sembrava così normale.»
«Tu sei stata sull'Olimpo?»
«Con Avie, Luke, Clarisse e qualche altro dei regolari.»
«Abbiamo fatto una gita durante il solstizio invernale. È quando gli dei tengono il loro Gran Consiglio annuale.» aggiunsi io.
«Ma come ci siete arrivati?»
«Con la ferrovia di Long Island, naturalmente. Scendi a Penn Station, poi entri all'Empire State Building e prendi l'ascensore speciale per il seicentesimo piano.» Annie lo guardò come se fosse sicura che lo sapesse già. «Tu sei di New York, giusto?»
«Oh, sicuro.» disse lanciandomi un’occhiata a cui io risposi silenziosamente di lasciar perdere.
La questione seicentesimo piano dell’Empire State Building gliel’avrei spiegata poi, o non ci avrebbe mai creduto.
«Poco dopo la nostra visita.» continuò Annabeth. «Il tempo è impazzito, come se gli dei si fossero messi a litigare.»
«Cosa che è successa.» commentai a bassa voce.
«E, dopo di allora, ho sentito di sfuggita i satiri che ne parlavano un paio di volte. Sono riuscita a capire solo che è stato rubato qualcosa di importante. E che se non viene restituito entro il solstizio d'estate, saranno guai. Quando sei arrivato tu, speravo… cioè… Atena va d'accordo praticamente con tutti, a parte Ares… e naturalmente Poseidone. Ma, a parte questo, pensavo che potessimo lavorare insieme. Ero certa che tu potessi sapere qualcosa.»
Lui scosse la testa. Era ancora troppo stanco e confuso per essere di qualche aiuto, era evidente.
«Devo ottenere un'impresa.» mormorò Annabeth fra sé e sé. «Non sono troppo giovane. Se solo mi dicessero qual è il problema…» mi lanciò un’occhiata penetrante e, allo stesso tempo, supplichevole a cui io risposi alzando le mani e facendo un paio di passi indietro.
«Non guardare me!» esclamai. «Sai esattamente come la penso a riguardo. Posso dirti soltanto che presto saprai tutto.»
Sentimmo profumo di barbecue e Annabeth ci disse di andare avanti: ci avrebbe raggiunto più tardi. La lasciammo sul molo, a disegnare col dito sul parapetto come per tracciare un piano di battaglia, e ci dirigemmo verso le capanne in silenzio. Percy aveva molto da metabolizzare.
Nella casa undici, tutti chiacchieravano o si scatenavano in qualche gioco in attesa della cena. Seguii Percy verso il suo angolo di pavimento e lo osservai accasciarsi a sedere con il corno del Minotauro ancora stretto in mano. Luke, il capogruppo, si avvicinò. Era facile capire chi fossero i suoi fratelli, avevano gli stessi tratti distintivi, gli stessi lineamenti: naso affilato, sopracciglia arcuate e sorriso scaltro; il genere di ragazzi che vengono bollati come piantagrane dopo un’occhiata. La cicatrice sulla guancia destra li alterava, ma il sorriso era intatto. Ed era comunque uno dei più bei ragazzi del campo.
«Ti ho trovato un sacco a pelo.» disse a Percy. «E ti ho rubato un po' di roba per il bagno dal magazzino del campo. Tieni.»
«Grazie»
«Non c'è di che.» Luke gli si sedette accanto, appoggiandosi con la schiena al muro, e mi fece cenno di sedermi appoggiata a lui. Appena lo feci mi circondò con le braccia, facendo in modo che lo usassi come cuscino.
«Com'è andato il primo giorno? È stata dura?» chiese a Percy.
«Questo posto non fa per me.» rispose lui. «Non credo nemmeno negli dei.»
«Già.» convenne Luke. «È stato così per tutti, a parte Lys. E quando cominci a crederci, le cose non diventano affatto più facili.»
L'amarezza con cui lo disse non mi sorprese, anche se Luke sembrava un tipo piuttosto sereno. Aveva l'aria di uno capace di affrontare tutto, ma negli ultimi tempi era molto in difficoltà. Io lo sapevo, ma lui si rifiutava di parlarne. Lo vedevo cambiato, sorrideva meno ed era diventato più ombroso. Solo con me pareva tornare il ragazzo sereno di sempre.
«Lys?» domandò Percy.
«Io.» spiegai. «Luke mi chiama così e io lo chiamo Lucky.» dissi scambiando un sorriso con il figlio di Ermes.
«E se qualcuno prova a usare uno dei nostri soprannomi finisce dritto nel laghetto delle canoe.» commentò il figlio di Ermes, facendomi ridere.
«Davvero? E perchè?» chiese Percy curioso.
«Perchè la ragazza qui presente» disse Luke stringendo la presa su di me «è particolarmente possessiva quando si tratta delle persone a cui tiene e dei suoi soprannomi. Devi sapere che si inventa un soprannome per chiunque e solo lei può usarlo. Vedrai che ne inventerà uno anche per te.»
«Oh, ce l’ho già un soprannome per lui, ma non posso usarlo. Ancora.» spiegai misteriosa rifiutandomi di essere più chiara.
«E dunque tuo padre è Ermes?» chiese Percy cambiando argomento.
Luke tirò fuori un coltello a serramanico dalla tasca posteriore e prese a grattarsi via il fango dalla scuola dei sandali, nonostante la scomodità della posizione dovuta alla mia presenza. Stavo per spostarmi e lasciargli più spazio, ma lui me lo impedì. «Già, Ermes.»
«Il messaggero dai piedi alati.»
«Proprio quello. Messaggeri. Medici. Viandanti, mercanti, ladri. Chiunque usi le strade. Ecco perché sei qui, a godere dell'ospitalità della casa undici. Ermes non fa il difficile nella scelta dei suoi protetti.»
Gli strinsi la mano libera con la mia. Luke non aveva intenzione di dare a Percy della nullità. Aveva solo un sacco di cose per la testa.
«L'hai mai incontrato?» chiese Percy.
«Una volta.» Luke alzò lo sguardo su di lui e si sforzò di sorridere. «Non ci pensare, Percy. I ragazzi, qui, sono quasi tutti in gamba. Dopotutto, siamo una famiglia allargata, giusto? Ci prendiamo cura l'uno dell'altro.»
Io sorrisi a entrambi, come a confermare quelle parole.
«Clarisse mi prendeva in giro, come se volessi essere “roba dei Tre Pezzi Grossi”. Poi Annabeth, un paio volte, ha detto che forse potevo essere “lui”. Ha detto che dovrei parlare con l'Oracolo. Di che si tratta?» domandò Percy.
Doveva chiederselo da quando ne avevamo parlato quel pomeriggio.
Luke richiuse il coltello. «Odio le profezie.»
Io sospirai. «Tutti odiano le profezie, Luke. Le Profezie sono sempre brutte. Quando sentiremo una Profezia bella, ci sarà l'Apocalisse.» commentai.
«Che volete dire?»
Il suo viso si contorse attorno alla cicatrice mentre la sua presa su di me si faceva più salda. «Diciamo solo che ho sconvolto la vita di tutti. Negli ultimi due anni, da quando la mia spedizione al Giardino delle Esperidi è fallita, Chirone non ha più concesso imprese. Annabeth muore dalla voglia di uscire nel mondo. Ha tormentato Avie e Chirone così tanto che alla fine lui le ha detto di conoscere già il suo destino. Ha ricevuto una profezia dall'Oracolo. Non ha voluto rivelarle tutto, ma le ha detto che non era ancora destinata a un'impresa. Doveva aspettare finché... qualcuno di speciale non fosse arrivato al campo.»
«Qualcuno di speciale?»
«Non ci pensare, ragazzino.» disse Luke. «Ad Annabeth piace credere che ogni nuovo arrivato sia il segno che sta aspettando. E adesso andiamo, è ora di cena.»
Nello stesso momento, sentimmo il suono di una conchiglia in lontananza.
Luke gridò: «Undici, in riga!» poi mi aiutò ad alzarmi. «Mangi con noi?»
«Certo.» risposi. «Conosci la tradizione.»
Uscimmo nel cortile, una ventina di ragazzi in tutto, e ci disponemmo in fila in ordine di anzianità. Nonostante non facessi parte della casa undici, affiancai Luke. I ragazzi uscirono anche dalle altre case, tranne che dalle prime tre in cima e dalla numero otto, che era sembrata normale durante il giorno ma che ora cominciava a luccicare d'argento man mano che il sole tramontava.
Marciammo su per la collina fino al padiglione della mensa. I satiri ci raggiunsero dal prato, le Naiadi emersero dal laghetto del canottaggio. Altre ragazze spuntarono fuori dal bosco… letteralmente. Vidi una bambina di nove o dieci anni staccarsi dal tronco di un acero e scendere saltellando giù per la collina. Le Driadi.
In tutto, c'erano forse un centinaio di ragazzi, poche decine di satiri e una dozzina assortita di Naiadi e ninfe dei boschi.
Al padiglione, delle torce fiammeggiavano attorno alle colonne di marmo e un fuoco centrale ardeva in un braciere di bronzo grande quanto una vasca da bagno. Ogni casa aveva il suo tavolo, apparecchiato con una tovaglia bianca bordata di porpora. Quattro tavoli erano vuoti, ma quello della numero undici era fin troppo affollato. Mi dovetti accomodare sulle gambe di Luke, ignorando i fischi di routine dei suoi fratelli e degli altri ragazzi che ci osservavano dai tavoli accanto, e Percy si ritrovò sul bordo di una panca con mezza chiappa fuori.
Grover era seduto al tavolo dodici insieme al signor D, a qualche altro satiro e a un paio di ragazzi biondi e grassocci identici al signor D, i suoi due figli Castore e Polluce. Chirone stava in piedi da una parte, dal momento che il tavolo da picnic era decisamente troppo piccolo per un centauro.
Annabeth era seduta al tavolo sei con un gruppetto di ragazzi atletici e dall'aria seria, tutti con i suoi stessi occhi grigi e i capelli biondi come il miele, i suoi fratelli.
Clarisse invece era dietro di noi, al tavolo di Ares. A quanto pareva, aveva superato l'onta dell'annaffiatura, perché stava ridendo e ruttando allegramente con tutta la sua banda. Anche se dubitavo non si sarebbe vendicata di Percy in qualche modo.
Alla fine, Chirone batté con lo zoccolo sul pavimento di marmo, e si fece silenzio. Levò il bicchiere. «Agli dei!»
Tutti lo imitarono. «Agli dei!»
Le ninfe dei boschi portarono dei vassoi colmi di cibo: uva, mele, fragole, formaggio, pane fresco, e sì: una grigliata di carne!
«Parlagli. Chiedigli quello che vuoi... di analcolico, naturalmente.» sentii dire Luke a Percy mentre riempivo il mio piatto e quello della mia panca umana.
«Cherry Coke.» ordinò, allora, lui.
Il bicchiere si riempì di uno scintillante liquido color caramello.
Io gli feci un occhiolino e sillabai la parola “blu” con le labbra.
Cogliendo il mio suggerimento disse: «Cherry Coke azzurra.»
La Coca assunse subito una violenta sfumatura cobalto.
Ne assaggiò un sorso, poi mi sorrise riconoscente.
Sapevo a cosa stava pensando e non volevo si sentisse solo. Ma non potevo neanche incoraggiarlo. Non ancora comunque.
«Tieni, Percy.» disse Luke, porgendogli un vassoio di carne da cui io ci avevo già servito entrambi.
Lui riempì il piatto e stava per addentare un bel boccone quando gli toccai il braccio facendogli notare che si stavano alzando tutti e portavano i propri piatti verso il fuoco al centro del padiglione.
Gli feci cenno di seguirci.
Quando ci avvicinammo, Percy vide che gli altri sceglievano una porzione della propria cena e la gettavano alle fiamme: la fragola più matura, la fetta di carne più succosa, il panino più caldo e burroso.
Luke mormorò: «Bruciamo le offerte per gli dei. Gradiscono l'odore.»
«Stai scherzando!»
Dal nostro sguardo capì che non doveva prenderla alla leggera, ma era evidente che non capisse come un essere onnipotente e immortale dovesse gradire l'odore del cibo bruciato. Io trattenni un sorriso.
Luke si avvicinò al fuoco, chinò la testa e ci gettò dentro un grosso grappolo d'uva rossa. «Ermes.»
Io mi avvicinai a mia volta e gettai nel fuoco una pesca grande e succosa, sniffandone il fumo che ne scaturì come se non volessi altro. «Temi.»
Sorelle, pensai riferendo l’offerta anche a loro. Era il turno della mamma, quella sera, ma come ogni volta nella mia mente offrivo il cibo anche agli altri parenti.
Percy gettò alle fiamme una grossa fetta di petto di pollo arrosto.
Quando il fumo lo investì, però, non gli venne il voltastomaco come si aspettava. La sua sorpresa era così evidente sul suo volto che non potei fare a meno di ridacchiare.
Non somigliava affatto all'odore di cibo bruciato. Sapeva di cioccolato e biscotti appena sfornati, hamburger alla griglia e fiori selvatici e un centinaio di altre cose buone che, nonostante la stranezza degli abbinamenti, stavano benissimo insieme.
«Sì.» confermai con un sorriso attirando la sua attenzione. «Il fuoco sa di cibo. Di buon cibo. Talmente buono che a volte mi viene voglia di assaggiarlo.» conclusi facendolo ridacchiare.
Tornammo a sederci e finimmo di mangiare, poi Chirone fece di nuovo risuonare il suo zoccolo.
Il signor D si alzò in piedi con un gran sospiro. «Sì, suppongo che debba salutarvi, marmocchi. Ebbene: salve. Il nostro direttore delle attività, Chirone, dice che la prossima Caccia alla Bandiera è per venerdì. Al momento gli allori sono detenuti dalla casa numero cinque.» un coro sgraziato di esultanza si levò dal tavolo di Ares. «Personalmente» continuò il signor D «non me ne importa un fico secco, ma congratulazioni. Aggiungo che Avalon ha deciso di non partecipare, questa settimana, quindi evitate di sfinirla con le vostre richieste. Inoltre, devo dirvi che oggi abbiamo un nuovo arrivato: Peter Johnson.»
Chirone mormorò qualcosa e io alzai gli occhi al cielo. Tipico dello zio sbagliare tutti i nomi a parte il mio e quelli dei suoi figli.
«Ehm, Percy Jackson.» si corresse il signor D. «Giusto. Urrà e via discorrendo. Adesso correte al vostro stupido falò. Via!»
Tutti esultarono.
Ci dirigemmo verso l'anfiteatro, dove la casa di Apollo guidava il coro. Cantammo le canzoni del campeggio sugli dei, mangiammo i marshmallows arrostiti sul fuoco e ci scatenammo.
Tenni d’occhio Percy e lo vidi sempre più rilassato. Si stava sentendo finalmente a casa e ne ero felice. Dopotutto, quella era casa mia.
Più tardi, quando le scintille del falò si levarono roteando verso un cielo stellato, il corno a conchiglia risuonò di nuovo e rientrammo nelle case. Salutai i ragazzi e mi diressi alla Casa Grande: avrei dormito lì per quella sera.

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Capitolo 9
*** 8. Un grande cucciolo cattivo tenta di mangiarci ***


Nei giorni seguenti, ripresi le mie normali attività: tiro con l’arco, corsa d’allenamento, lotta, combattimento, arrampicata, canottaggio e tante altre occupazioni. Il solito insomma. Con la differenza che Chirone mi aveva chiesto di badare un po’ a Percy. Questo stava a significare che le lezioni le facevo con lui, e che passavo molto meno tempo con i miei amici. Non che mi dispiacesse, sia chiaro, ma i capigruppo e i semidei più anziani lo tenevano d’occhio per cercare di capire chi fosse suo padre. E tenevano d’occhio anche me in cerca di un segno che li avrebbe potuti aiutare a capirlo, dato che io sapevo ma facevo di tutto per non dirlo.
Ce n’eravamo accorti entrambi ma, a differenza mia, lui non ci era abituato e si sentiva un po’ sotto pressione. Il fatto, poi, che io lo sapessi e non volessi dirlo nemmeno a lui aveva reso le cose un po’ tese tra di noi, ma era solo perchè lui non capiva. Così come gli altri. Solo Chirone, Dioniso, Annabeth e Luke non cercavano in tutti i modi di farmi vuotare il sacco, avevano accettato la mia frase “quando sarà il momento lo saprete” senza troppe storie, e ora sembravano in attesa che quel momento arrivasse.
Annie aveva persino cercato di spiegare a Percy il motivo per cui non dicevo chi fosse suo padre, ma dubitavo che avesse capito; dopotutto di me non sapeva abbastanza per comprendere una cosa del genere.
Nonostante tutto, però, vedevo che il campo gli piaceva. Si era abituato alla nebbia mattutina sulla spiaggia, dove spesso sapeva che mi avrebbe trovata a dormire, al profumo dei campi di fragole scaldati dal sole del pomeriggio e perfino agli strani versi dei mostri che la notte si levavano dal bosco. Cenava con la casa undici, mentre io mi spostavo da una casa all’altra come mio solito, gettava la sua porzione di cibo nel fuoco e cercava di non pensare troppo a Sally, ma lo vedevo spesso pensieroso e capii presto che continuava a rimuginare: se gli dei e i mostri erano reali, se tutta quella roba magica era possibile, di certo doveva esserci un modo per salvarla, per riportarla indietro… peccato che io non potessi ancora dirgli niente, per quanto avrei voluto farlo.
Per il resto cercavo di passare la maggior parte del mio tempo libero con Luke e Annabeth, a volte insieme e a volte il compagnia di uno o dell’altra, per recuperare il tempo che avevamo passato lontani, quando io ero costretta ad andare alla Yancy. Mi avevano aggiornato sulle novità del campo: i nuovi arrivati, la cronaca dettagliata delle varie partite di Caccia alla Bandiera che avevano fatto, chi si era lasciato con chi e chi si era messo con chi.
I pettegolezzi erano stati offerti da Silena, la capogruppo dei figli di Afrodite, che mi aveva trovata un giorno nella stalla a coccolare i pegasi e si era fermata a chiacchierare tutto il pomeriggio. Era stato piacevole. A differenza degli altri suoi fratelli, non era una ragazza superficiale interessata solo alla moda e ai bei ragazzi. A Silena piacevano tante altre cose, ed era una cavallerizza fantastica. Era una ragazza dolce, solare e sempre gentile con tutti. Ed era bellissima, ovviamente. Non so quanti ragazzi le andavano dietro, ma lei non li filava di striscio. Doveva ancora arrivare quello che avrebbe smosso il suo interesse, parole sue. Non si risparmiò commenti su Luke e me, prevedibile, ma era il suo campo e lo aveva fatto con una delicatezza tale da impedirmi di arrabbiarmi. Diceva che un affiatamento come il nostro fosse raro da trovare in due persone, che era tipico di una coppia predestinata, di quelle che si amano alla follia, e che riusciva a vedere l’amore che ci legava. Disse di essere certa che saremmo finiti insieme, prima o poi.
Io non ne ero così sicura.
 

****

 
Giovedì pomeriggio, cinque giorni dopo l’arrivo di Percy al Campo Mezzosangue, lo portai alla sua prima lezione di combattimento con la spada. Tutti i ragazzi della casa undici si riunirono nella grande arena circolare, dove io e Luke gli avremmo fatto da istruttori. Quella stessa mattina il figlio di Ermes mi aveva chiesto se potevo assisterlo nella lezione e non potei dire di no. Non quando Travis e Connor, alle sue spalle, mi pregavano di accettare facendo facce idiote e con la speranza di assistere a un nostro combattimento dimostrativo. Quindi mi ritrovai ad alzare gli occhi al cielo con espressione divertita e ad accettare, mentre Luke colpiva i suoi fratelli dietro la nuca per farli smettere di fare gli idioti.
Cominciammo la lezione con i colpi di base, usando dei manichini imbottiti e vestiti in armatura greca. Percy non era male, per essere alle prime armi. Aveva dei buoni riflessi.
Il problema era che non riusciva a trovare la spada giusta. O erano troppo pesanti, o troppo leggere, o troppo lunghe. Luke fece del suo meglio per sistemarlo, ma alla fine dovette arrendersi e dargli ragione: nessuna delle spade di allenamento sembrava adatta a lui. Io lo consolai, dicendogli che avrebbe trovato quella giusta, prima o poi.
Passammo ai duelli. Luke sarebbe stato il compagno di Percy, dal momento che era la sua prima volta, mentre io avrei solamente assistito.
«Buona fortuna.» gli augurò uno degli altri. «Luke è uno dei migliori spadaccini degli ultimi trecento anni. Solo Avalon lo batte.»
«Forse con me ci andrà piano.» replicò Percy, facendolo ridacchiare.
Luke gli mostrò stoccate, parate e blocchi con lo scudo, andandoci giù pesante. A ogni colpo, Percy era sempre più malconcio.
«Tieni la guardia alta, Percy.» lo incitavo io da fuori tiro, e poi Luke lo picchiava sulle costole con il piatto della lama. «No, non così in alto!» Spat! «Affonda!» Spat! «Adesso indietro!» Spat!
Quando annunciammo la pausa, Percy era fradicio di sudore. Tutti si accalcarono verso il frigo delle bevande, e io ne porsi una sia a Luke che a Percy. Il biondo se la versò quasi tutta in testa e Percy lo imitò. Lo vidi rinascere, non sembrava più nemmeno stanco.
«Okay, gente, in cerchio!» ordinò Luke scambiandosi un sorriso con me. «Se a Percy non dispiace, vorrei farvi una piccola dimostrazione.»
I ragazzi di Ermes fecero capannello, soffocando i sorrisi, e anche qualche lamento perché speravano in una dimostrazione mia e del biondo. Spiegai loro cosa stava per succedere: Luke gli avrebbe mostrato una tecnica di disarmo: piegare la lama dell'avversario con il piatto della spada e costringerlo a lasciar cadere l'arma.
«È difficile.» sottolineò lui. «L’hanno usata contro di me.» tutti gli occhi dei ragazzi finirono su di me, facendomi sorridere.
«Colpevole.» confermai facendoli sghignazzare. «Quindi non ridete di Percy, adesso. La maggior parte degli spadaccini deve faticare anni per impadronirsi di questa tecnica.» conclusi prima di lasciare spazio ai due combattenti.
Luke mostrò la mossa al rallentatore. E, come previsto, la spada di Percy finì a terra.
«Ora in tempo reale.» continuai, quando recuperò l'arma. «Andate avanti finché uno di voi due ci riesce. Pronto, Percy?»
Lui annuì e Luke si fece avanti. In qualche modo, Percy riuscì a impedirgli di colpire l'elsa della sua spada. Notai che riusciva a prevedere i suoi attacchi e a respingerli. Fece un passo avanti e tentò un affondo. Luke lo schivò facilmente, ma vidi un cambiamento nell'espressione del suo viso. Mi lanciò un’occhiata, a cui io annuii capendo le sue intenzioni, e lo mise alla prova con maggior foga.
A un certo punto, dopo parecchi secondi di combattimento, Percy provò la tecnica di disarmo.
La lama della sua spada colpì la base di quella di Luke e lui fu svelto a piegare il polso, facendo leva con tutto il suo peso verso il basso.
Clang.
L'arma di Luke rimbombò sulla pietra. La punta della lama di Percy era a un paio di centimetri dal suo petto indifeso.
Sorrisi.
Gli altri ragazzi erano ammutoliti.
Percy abbassò la spada. «Ehm, scusa.»
Per un attimo, Luke sembrò troppo sbigottito per parlare.
«Scusa?» il suo viso sfregiato si aprì in un sorriso. «Per gli dei, Percy, perché mi chiedi scusa? Fammelo vedere di nuovo!»
Vedevo Percy titubare, ma Luke insistette e io non mi opposi.
Stavolta, non ci fu gara. Nell'istante in cui le lor spade si toccarono, Luke colpì l'elsa e la lama di Percy volò sul pavimento.
Dopo una lunga pausa, qualcuno del pubblico disse: «La fortuna del principiante?»
Io scossi la testa mentre Luke si asciugava il sudore dalla fronte e mi lanciava un’occhiata di sottecchi. Poi squadrò Percy con un interesse del tutto nuovo. 
«Forse.»  rispose. «Ma mi chiedo cosa saprebbe fare con una spada bilanciata.»
Gli occhi dei ragazzi finirono tutti su di me, in attesa di un commento che gli avrebbe dato modo di saperne di più. Che idioti, sapevano che non mi sarei sbottonata nemmeno su una cosa così insignificante.
«Chi lo sa.» risposi facendoli sbuffare.

 
****

 
Venerdì mattina Luke mi trovò seduta a gambe incrociate sulla spiaggia che fissavo il mare, persa nei miei pensieri.
Mi si sedette accanto. «Hai saltato la colazione.»
Sospirai, smuovendo la sabbia con le mani, ma rimasi in silenzio.
Luke sovrappose le sue mani alle mie, fermandole. «Lys… cosa c’è che non va?»
«Niente.» risposi appoggiando la testa sulla sua spalla e riprendendo a osservare il mare. «Siamo insieme. Non c’è niente che non va.»
Lui sospirò.
«Vedo che qualcosa non va. Ti conosco, Lys. È da quando sei tornata che qualcosa ti turba. E sono sicuro che tu sia venuta sulla spiaggia tutte le notti, da quando sei di nuovo al Campo.» mi avvolse la vita con un braccio, sistemando la sua testa sulla mia. «Vorrei solo sapere come farti stare meglio.»
Sospirai di nuovo, beandomi di quel momento e di come mi faceva sentire in pace, consapevole che la pace sarebbe svanita fin troppo presto.
«Sai che mi piace dormire sulla spiaggia. E che le Arpie me lo permettono.» osservai.
«Ma so anche che il mare ti rilassa quando hai troppi pensieri per la testa.» fu lui a sospirare. «Non mi piace vedere quell’espressione sul tuo volto. Ti prego, dimmi come aiutarti.»
«Restiamo così ancora un po’.» lo pregai. «Insieme. Tranquilli. Come se il resto del mondo non esistesse.»
Lui mi strinse un po’ più forte, lasciandomi un leggero bacio sulla tempia. «Per tutto il tempo che vuoi, Lys.»
 

****

 
Quel pomeriggio portai Percy al laghetto, dove ora eravamo seduti con Grover, per permettergli di riprendersi dall'esperienza quasi mortale del muro d'arrampicata. Lui si era inerpicato fino in cima come una capra di montagna, ma Percy era stato quasi investito dalla lava. Non fosse stato per me, che lo avevo acchiappato al momento giusto, avremmo avuto un bell’arrosto di semidio. Avevamo entrambi dei buchi fumanti sulla maglietta e a lui si erano inceneriti i peli degli avambracci.
Eravamo sul molo e guardavamo le Naiadi che intrecciavano canestri sott'acqua, finché Percy chiese a Grover come fosse andato il colloquio con il signor D.
La sua faccia assunse subito un brutto colorito giallognolo e io sospirai, già messa al corrente da Dioniso in persona.
«Bene.» rispose lui. «Alla grande.»
«Grover…» mormorai.
«Così la tua carriera è ancora sui binari?»
Lui guardò Percy con una certa apprensione. «Chirone t-ti ha detto che voglio una licenza da cercatore? O gliel’hai detto tu, Avie?»
«Beh, no.» rispose Percy, anticipandomi. «Mi hanno spiegato solo che avevi grandi progetti e che dovevi completare un incarico come custode per guadagnare credito. Insomma, ce l'hai fatta?»
Grover chinò lo sguardo sulle Naiadi, che non ci degnavano di un’occhiata. «Il signor D ha sospeso il giudizio. Ha deciso che non si può ancora stabilire se con te io abbia avuto successo oppure no, perciò i nostri destini sono legati. Se ti fosse assegnata un'impresa e io venissi con te per proteggerti, e se tutti e due tornassimo qui sani e salvi, allora forse considererebbe il mio lavoro concluso.»
«Beh, non è tanto male, no?» commentò Percy.
«Bee-bee! Tanto valeva spedirmi direttamente alla pulizia delle stalle. Le possibilità che ti venga assegnata un'impresa... e anche se fosse, perché dovresti volermi con te?»
«Ma certo che ti vorrei con me!»
Grover continuava a fissare l'acqua con la faccia cupa. «Intrecciare canestri... Dev'essere bello avere un compito utile.»
«Finiscila Grover!» sbottai io, incapace di vederlo in quello stato.
Percy cercò di rassicurarlo sui suoi molteplici talenti, ma riuscì solo a rattristarlo di più. Parlammo di canottaggio e di spade per un po', poi discutemmo dei pregi e dei difetti delle varie divinità. Alla fine, Percy ci chiese delle quattro case vuote.
«La numero otto, quella d'argento, appartiene ad Artemide.» risposi io. «Ha fatto voto di castità. Perciò, naturalmente, niente bambini. La capanna è onoraria. Se non ne avesse avuta una, si sarebbe infuriata. Io non ci dormo mai, per rispetto verso i suoi voti, nonostante potrei.»
«E va bene. Ma le altre tre in cima? Sono quelle dei Tre Pezzi Grossi?»
Io e Grover ci irrigidimmo. Ci stavamo avvicinando a un argomento scottante. «No. La numero due è di Era.» spiegò Grover. «Un'altra questione onoraria. È la dea del matrimonio, perciò naturalmente non se ne va in giro a intrecciare relazioni con i mortali. È un passatempo che lascia a suo marito. Quando parliamo dei Tre Pezzi Grossi, parliamo dei tre potenti fratelli, figli di Crono.»
«Zeus, Poseidone e Ade.»
«Esatto. Lo sai. Dopo la grande battaglia con i Titani, hanno ereditato il mondo dal padre e hanno tirato a sorte per decidere a chi spettasse cosa.» continuai io.
«Zeus ha avuto il cielo.» disse Percy. «Poseidone il mare, Ade gli Inferi.»
«Mmh-mmh.»
«Ma Ade non ha una casa qui al campo?»
«No. Non ha nemmeno un trono sull'Olimpo. Se ne sta giù negli Inferi per i fatti suoi, per così dire. Se avesse una casa qui.» Grover rabbrividì. «Non sarebbe piacevole. Diciamo così.»
«Non ne sarei così sicura.» mormorai io.
«Ma Zeus e Poseidone avranno avuto, che so, un fantastilione di figli secondo i miti. Perché le loro capanne sono vuote?»
Grover agitò gli zoccoli, imbarazzato. «Una sessantina di anni fa, dopo la Seconda guerra mondiale, i Tre Pezzi Grossi stabilirono di comune accordo di non generare più altri eroi. I loro figli erano troppo potenti. Stavano influenzando in modo decisivo il corso degli eventi dell'umanità, causando troppe carneficine. La Seconda guerra mondiale in pratica è stata una battaglia fra i figli di Zeus e Poseidone da una parte, e i figli di Ade dall'altra. I vincitori, Zeus e Poseidone, obbligarono Ade a un giuramento comune: mai più relazioni con donne mortali. E tutti e tre giurarono sulle rive dello Stige.»
Il rombo di un tuono.
«Il giuramento più serio in assoluto.» commentò Percy.
Grover annuì.
«E i fratelli hanno mantenuto la parola? Niente figli?»
La faccia di Grover si rabbuiò e fui io a continuare. «Diciassette anni fa, Zeus c'è cascato di nuovo. C'era questa stellina della tv con i capelli cotonati, anni Ottanta, e non ha saputo resistere. Quando la loro figlia è nata, una bambina di nome Talia... beh, lo Stige non scherza sulle promesse. A Zeus è andata liscia perché è immortale, ma fu gettata una maledizione terribile su sua figlia.»
«Ma non è giusto! Non era colpa della bambina.»
Grover esitò lanciandomi un’occhiata. Sapeva che non avevo detto esattamente la verità, ma non protestò. «Percy, i figli dei Tre Pezzi Grossi hanno poteri più grandi degli altri mezzosangue. Hanno un'aura forte, un profumo che attrae i mostri. Quando Ade scoprì della ragazza, non fu molto contento che Zeus avesse infranto il giuramento e sguinzagliò i mostri peggiori del Tartaro per eliminarla. All'età di dodici anni le fu assegnato un satiro come custode, ma lui non poté fare niente. Cercò di scortarla qui insieme a un paio di altri mezzosangue con cui aveva stretto amicizia. Ce l'avevano quasi fatta. Arrivarono fino in cima a quella collina.» indicò in fondo alla valle, verso il pino dove avevamo combattuto il Minotauro. «Avevano le tre Benevole alle calcagna, oltre a un branco di segugi infernali. Li avevano quasi raggiunti, quando Talia ordinò al satiro di portare in salvo gli altri due mezzosangue, mentre lei tratteneva i mostri. Era ferita e stanca e non desiderava vivere come un animale braccato. Il satiro non voleva lasciarla, ma non riuscì a farle cambiare idea e doveva comunque proteggere gli altri. Perciò Talia combatté la sua ultima battaglia da sola, in cima a quella collina. I rinforzi dal Campo non arrivarono in tempo, anche se erano preparati.» io distolsi lo sguardo, puntandolo sulle increspature dell’acqua. «Quando morì, Zeus ebbe pietà di lei. La trasformò in quel pino. Il suo spirito aiuta ancora a proteggere i confini della valle. Ecco perché la collina si chiama Collina Mezzosangue.»
Scrutai il pino in lontananza. Ci passavo almeno una volta al giorno, e rimanevo seduta con la schiena appoggiata al suo tronco per un tempo imprecisato ogni volta, il senso di colpa che mi logorava.
«Grover.» chiese Percy. «Gli eroi hanno davvero compiuto delle imprese negli Inferi?»
«Qualche volta.» rispose lui. «Orfeo. Ercole.»
«Houdini.» aggiunsi io.
«E hanno mai riportato qualcuno dal mondo dei morti?»
«No. Mai. Orfeo c'è andato vicino. Percy, non starai pensando sul serio…»
«Certo che no.» mentì lui, e anche male. «Dicevo così per dire. E dunque, i satiri svolgono sempre il compito di custodi dei semidei?»
Grover lo studiò con sospetto, ma io gli feci cenno di lasciar perdere.
«Non sempre. Andiamo sotto copertura in un sacco di scuole. Cerchiamo di scovare i mezzosangue che hanno la stoffa dei grandi eroi. Se ne troviamo uno con un'aura molto forte, come un figlio dei Tre Pezzi Grossi, allertiamo Chirone. Lui cerca di tenerli d'occhio, perché potrebbero causare problemi gravi.»
«E tu hai trovato me. Chirone ha detto che pensavi che potessi essere speciale.»
Grover lo guardò come se lo avesse appena incastrato.
«Io non... Oh, ascolta, non ragionare così. Se tu fossi... lo sai... non ti verrebbe mai e poi mai assegnata un'impresa, e io non otterrei mai la mia licenza. Probabilmente sei figlio di Ermes. O forse di una divinità minore, tipo Nemesi, la dea della vendetta. Non ti preoccupare, okay?»
«Fossi in voi, non ci penserei adesso.» commentai. «E poi ti ricordo, Grover, che Nemesi è una donna.»
«E allora?»
«Il genitore divino di Percy è il padre.»
 

****

 
Quella sera, dopo cena, c’era molta più eccitazione del solito.
Finalmente, era l'ora della Caccia alla Bandiera.
Quando portarono via i vassoi, la conchiglia suonò e noi ci alzammo in piedi davanti ai tavoli.
Tra le grida e gli applausi generali, Annabeth e due dei suoi fratelli entrarono di corsa nel padiglione portando uno stendardo di seta. Era lungo all'incirca tre metri, grigio e luccicante, con il dipinto di una civetta appollaiata sopra un ulivo. Dal lato opposto del padiglione, Clarisse e i suoi entrarono di corsa con un altro stendardo, di grandezza identica, ma rosso e sgargiante, con una lancia insanguinata e la testa di un cinghiale dipinte sopra.
Percy si girò verso Luke e me, che quella sera avevo di nuovo cenato con loro, e gridò per farsi sentire nel chiasso: «Sono quelle le bandiere?»
«Sì.» confermò Luke.
«Ares e Atena sono sempre a capo delle squadre?»
«Non sempre.» risposi io. «Ma spesso.»
«E se è un'altra casa a prendere la bandiera, che fate, la ridipingete?»
Noi sorridemmo. «Vedrai. Prima dobbiamo riuscirci.» rispose Luke.
«Tu da che parte stai?»
Il biondo gli rivolse un'occhiata furba, come se sapesse qualcosa che lui non sapeva. Al bagliore delle torce, la cicatrice sul suo viso lo fece apparire quasi malvagio. «Abbiamo stretto un'alleanza temporanea con Atena. Stanotte, ruberemo la bandiera di Ares. E tu ci aiuterai.»
Annunciarono le squadre. Atena aveva stretto alleanza con Apollo ed Ermes, le due case più grandi. A quanto pareva, avevano ottenuto il loro sostegno barattando una serie di privilegi: orari delle docce, servizi di pulizia, gli spazi di allenamento migliori. Niente di così nuovo o scandaloso, era usanza comune stringere alleanze in questo modo.
Ares si era alleato invece con tutti gli altri: Dioniso, Demetra, Afrodite ed Efesto. I figli di Dioniso erano bravi atleti, ma ce n'erano soltanto due. I figli di Demetra ci sapevano fare con la natura e la vita all'aria aperta, ma non erano molto aggressivi. Quelli di Afrodite di solito si tenevano fuori da ogni attività e passavano il tempo a specchiarsi nel laghetto, ad acconciarsi i capelli e a spettegolare. I figli di Efesto non erano oggettivamente belli ed erano solo in quattro, ma erano grossi e corpulenti per via delle ore trascorse in officina. Charles Beckendorf, il loro capocasa, era il tipo di persona che io definivo un orsetto gommoso con le spine: grande e grosso ma buono come una caramella, era in grado di stendere chiunque con un colpo bel assestato. E i suoi fratelli non erano da meno. Potevano essere un problema per gli avversari. Questo, naturalmente, tralasciando la casa di Ares: una decina dei ragazzi più grossi, brutti e cattivi di Long Island, o di qualsiasi altro posto sulla faccia del pianeta.
Chirone batté lo zoccolo sul marmo.
«Eroi!» gridò. «Conoscete le regole. Il ruscello è la linea di confine. L'intera foresta è campo libero. Tutti gli oggetti magici sono concessi. Lo stendardo deve essere collocato in bella vista e non può avere più di due guardie. I prigionieri si possono disarmare, ma non si possono legare né imbavagliare. Vietato uccidere o ferire gli avversari. Io fungerò da arbitro e da medico di campo. Avalon sarà l’altro medico di campo e hagios. Alle armi!»
Di colpo i tavoli si coprirono di equipaggiamento: elmi, spade di bronzo, lance, scudi di cuoio rivestiti di metallo.
«Hagios?» domandò Percy.
«Quella che se ne va in giro per il campo senza preoccuparsi di essere attaccata da qualcuno. Chi lo fa si becca la squalifica. Sono letteralmente inviolabile, non accessibile ai combattenti.» commentai sogghignando. «E, se voglio, posso interferire.» rivelai con un luccichio furbetto negli occhi. «Per movimentare un po’ le cose, sai.»
«Questo è il ruolo che ha di solito.» commentò Luke. «Probabilmente è per questo motivo che non sta mai con una delle due squadre: si diverte a fare da rompiscatole universale.» scosse la testa sorridendo e io lo colpii sul braccio.
Stavo sorridendo anch’io e non mi preoccupai di nasconderlo. Dopotutto era vero: mi divertivo da morire a mettergli i bastoni tra le ruote. Era capitato diverse volte che mi intromettessi proprio quando una squadra stava per vincere e lo impedissi, riportando la bandiera al punto di partenza. Gli altri ragazzi me ne dicevano dietro di ogni, per questo, ma alla fine della partita si complimentavano sempre per le mie mosse assurde e ammettevano che si divertivano un sacco a cercare di prevedere cosa avrei combinato.
«Cavolo.» esclamò Percy osservando i tavoli. «Vogliono davvero che usiamo questa roba?»
Luke lo guardò come se fosse pazzo. «A meno che tu non voglia farti infilzare dai tuoi amici della capanna cinque. Tieni, prendi questi. Chirone ha pensato che ti possano andare. Sarai di pattuglia al confine.»
Lo scudo era grande come un tabellone da basket, con un grosso caduceo nel mezzo. L'elmo, come tutti gli elmi della squadra di Atena, aveva un pennacchio di crine azzurro in cima.
Quello di Ares e dei loro alleati era invece rosso.
Io ne indossavo uno bianco e nero, come i miei capelli, così nessuno mi avrebbe confuso con una delle due squadre.
Annabeth gridò: «Squadra azzurra, avanti!»
Loro esultarono e agitarono le spade, quindi la seguirono lungo il sentiero che portava a sud del bosco. La squadra rossa li coprì di insulti prima di allontanarsi verso nord. Io feci un cenno a Chirone, poi affiancai Annabeth.
Percy ci raggiunse senza inciampare nel suo equipaggiamento. «Ehi!»
Noi continuammo a marciare.
«Allora, qual è il piano?» chiese lui. «Non hai un oggetto magico da prestarmi»
Annie si portò subito la mano alla tasca, come se temesse che le avesse rubato qualcosa. E io sapevo esattamente cosa.
«Attento alla lancia di Clarisse.» lo avvisai. «Meglio non farsi toccare da quell'aggeggio.»
«Per il resto, non preoccuparti. Prenderemo la bandiera di Ares.» continuò Annie. «Se Avie non ce lo impedisce…» aggiunse con uno sbuffo. «Luke ti ha assegnato il tuo incarico?»
«Sono di pattuglia al confine, qualunque cosa significhi.»
«È facile. Rimani al ruscello e tieni i rossi alla larga. Per il resto, lascia fare a me. Atena ha sempre un piano.»
E andò avanti dopo avermi lanciato un’occhiata, piantandolo in asso.
«Okay.» borbottò il ragazzo. «Grazie di avermi voluto nella tua squadra.»
Io sorrisi. «Non prendertela, Percy. Annie è fatta così, ma ha ragione: Atena ha sempre un piano, e anche lei ne ha uno. Quindi abbi fiducia in lei e non fare caso al suo comportamento di adesso; è solo impegnata con tutta la strategia della battaglia.»
Percy annuì, confortato dalle mie parole.
Era una notte calda e afosa. Il bosco era buio, tranne per il bagliore intermittente delle lucciole. Una volta arrivati al confine, un ruscello che gorgogliava fra le rocce e si inoltrava con gli altri fra gli alberi, in ordine sparso, lo salutai dicendo che avrei fatto un giro per il campo di battaglia, per vedere di mettere in difficoltà qualcuno prima ancora dell’inizio della partita. Lui mi diede della perfida con un sorriso e io mi allontanai ridendo. In realtà non andai molto lontano, mi limitai a fare un giro attorno al ruscello, tenendo sempre d’occhio la sua postazione. Lo vedevo a disagio, con l’elmo e lo scudo a cui non era per niente abituato. E sicuramente la spada non era giusta per lui ed era troppo pesante. Chissà quando avrei potuto parlargli senza preoccuparmi di misurare ogni parola come facevo con tutti…
In lontananza, si levò il richiamo della conchiglia. Sentii strepiti e grida di guerra nel bosco, il clangore del metallo, il rumore dei ragazzi che combattevano. Un alleato di Apollo con il pennacchio azzurro sfrecciò accanto a Percy come un cerbiatto, superò il ruscello con un balzo e scomparve nel territorio nemico senza notarmi.
Poi sentii un suono che mi fece salire un brivido lungo la schiena, un basso ringhio canino, poco lontano alla mia destra, e compresi subito di cosa si trattasse. Sbiancai, andai in fretta in quella direzione e dopo pochi passi vidi la creatura che puntava Percy voltarsi nella mia direzione. Quando mi mise a fuoco, indietreggiò e scomparve nella boscaglia, ma sapevo che sarebbe tornato. Dopotutto, non aveva finito il suo compito.
Nel frattempo cinque guerrieri di Ares erano balzati fuori dal buio, gridando e osservando Percy.
«A morte il pivello!» strillò Clarisse.
Mi dava le spalle, ma ero sicura che i suoi occhi mandassero lampi di morte. Brandiva una lancia lunga un metro e mezzo, con la punta metallica e uncinata che mandava scintille di luce rossastra. I suoi fratelli erano armati solo con spade di bronzo d'ordinanza... nessuno di loro era degno di ricevere un regalo da papino, a quanto pareva.
Dopo qualche secondo in cui studiarono la situazione, si lanciarono tutti e cinque alla carica attraversando il ruscello.
Percy riuscì a schivare il primo fendente, ma quei ragazzi non erano stupidi come il Minotauro. Lo circondarono, e Clarisse gli assestò un colpo con la lancia. Percy deviò la punta con lo scudo, ma con l'impatto gli arrivò una scossa che gli fece vibrare tutto il corpo e rizzare i capelli. Lo notai anche a distanza. L'aria scottava, ed ero sicura che adesso avesse il braccio insensibile. Scossi la testa: gliel’avevo detto di stare lontano da quell’affare. Quella dannata lancia era elettrica.
Vidi Percy indietreggiare e un altro figlio di Ares gli rifilò una botta in pieno petto con l'impugnatura della spada; lui cadde a terra.
Avrebbero potuto farlo a pezzi, ma erano troppo occupati a ridere.
«Dategli una rapata.» ordinò Clarisse. «Prendetelo per i capelli!»
Percy riuscì a rimettersi in piedi. Alzò la spada, ma Clarisse la colpì con la lancia e lo costrinse ad abbassarla di lato, mentre volavano scintille. Ora aveva sicuramente tutte e due le braccia insensibili.
«Oh, mamma.» lo derise Clarisse. «Che paura mi fa questo marmocchio. Davvero tanta paura…»
«La bandiera è da quella parte.» le disse lui, di rimando.
«Sicuro.» replicò uno dei suoi fratelli. «Ma vedi, a noi non ce ne importa un accidenti della bandiera. Ci importa molto di più di un ragazzino che ci ha fatto fare la figura degli stupidi.»
«Questo vi riesce benissimo anche da soli.» rispose lui.
Io alzai gli occhi al cielo: non sapevo se il suo fosse coraggio o stupidità.
Gli si avvicinarono in due e lui arretrò verso il ruscello, tentando di alzare lo scudo, ma Clarisse fu troppo veloce. Gli infilzò la lancia in mezzo alle costole. Se non avesse indossato l'armatura, lo avrebbe trafitto come un kebab allo spiedo, ma visto che ce l'aveva, la punta elettrica si limitò a fargli tremare tutti i denti. Poi uno degli altri gli sferrò un fendente sul braccio, lasciandogli un bel taglio.
Alla vista del sangue vidi Percy sbiancare e io mi decisi a palesare la mia presenza. A differenza di qualcun altro.
«Vietato ferire.» commentai tranquilla uscendo fuori dalla boscaglia e fermandomi vicino al ruscello.
«Oops.» rispose il tipo. «Credo di avere appena perso il privilegio del dolce, questa sera a cena.»
Diede una spinta a Percy e lo fece atterrare in mezzo al ruscello, tra gli spruzzi d'acqua e a qualche passo da me. I figli di Ares scoppiarono a ridere.
«Veramente hai perso molto di più.» ribattei guardandolo ferma.
Quando Clarisse e la sua banda entrarono nel ruscello per agguantare Percy io mi intromisi, pur non muovendo un passo. «Basta così, Clare. Vi siete divertiti abbastanza.» ma lei non mi ascoltò. Io sospirai. «Come vuoi. Io ti ho avvertito.»
Nel frattempo Percy si era alzato in piedi e li aspettava. Io gli feci l’occhiolino e dal suo sguardo compresi che sapeva cosa fare. Colpì la testa del primo ragazzo con il piatto della spada, facendogli volare via l'elmo e crollare in acqua.
Il Ceffo Numero Due e il Ceffo Numero Tre si fecero avanti. Il primo venne colpito in faccia con lo scudo, mentre al secondo Percy tagliò di netto il pennacchio con la spada. Se la diedero a gambe tutti e due. Il Ceffo Numero Quattro non moriva più dalla voglia di attaccare, ma Clarisse avanzava imperterrita, la punta della lancia crepitante di elettricità. Non appena si slanciò in un affondo, Percy bloccò la lancia, con il bordo dello scudo e la spada, e la spezzò come un ramoscello.
«Ah!» gridò lei. «Maledetto! Verme schifoso!»
«Oh, Clarisse, proprio non ci arrivi…» mormorai io con un lieve sorriso sul volto.
Probabilmente gli avrebbe detto anche di peggio, ma Percy le assestò un colpo in mezzo agli occhi con l'impugnatura della spada e lei arretrò vacillando fin fuori dal ruscello. Poi sentimmo delle grida di trionfo e vedemmo Luke che correva verso la linea di confine tenendo alto lo stendardo della squadra rossa. Un paio dei figli di Ermes gli coprivano le spalle, seguiti da un gruppetto di Apollo che respingeva la difesa di Efesto. Quelli di Ares si rimisero in piedi e Clarisse mugugnò un'imprecazione stordita.
«Un trucco!» protestò osservandomi, come in cerca di una conferma. «Era un trucco!»
Io alzai le spalle. «Sai che non posso dire niente delle tattiche, darei vantaggio alle squadre e non sarebbe giusto.»
I figli di Ares cercarono goffamente di intercettare Luke, ma era troppo tardi. Confluirono tutti al ruscello, mentre Luke entrava di corsa in territorio amico passandomi accanto con un enorme sorriso soddisfatto.
La squadra blu esultò.
In uno scintillio di luce tremolante, lo stendardo rosso diventò d'argento. Il cinghiale e la lancia furono rimpiazzati da un enorme caduceo, il simbolo della casa undici. Tutti i ragazzi della squadra azzurra sollevarono Luke sulle spalle, portandolo in trionfo. Chirone sbucò al trotto dal bosco e soffiò nella conchiglia.
La partita era finita. I blu avevano vinto.
Stavo per unirmi ai festeggiamenti, quando la voce di Annabeth, tra me e Percy, disse: «Niente male, eroe.»
Ci voltammo entrambi, ma lei non c'era. Io sorrisi.
«Dove diavolo hai imparato a batterti in quel modo?» chiese Annie.
Ci fu uno scintillio nell'aria e lei si materializzò con un berretto da baseball in mano, come se se lo fosse appena tolto.
«Mi hai usato.» protestò Percy. «Mi hai piazzato qui perché sapevi che Clarisse sarebbe venuta a cercarmi, mentre hai mandato Luke ad aggirarli di fianco. Avevi calcolato tutto. E tu lo sapevi.» concluse rivolto a me.
Annabeth alzò le spalle. «Te l'ho detto. Atena ha sempre, sempre un piano.»
«Un piano per farmi polverizzare.»
«Ho fatto più in fretta che ho potuto. Stavo per buttarmi nella mischia, ma…» alzò di nuovo le spalle. «Non avevi bisogno di aiuto. E poi c’era Avie, quindi non avrebbero mai fatto niente di irreparabile.»
Poi notò il suo braccio. «Come hai fatto?»
«È una ferita da taglio.» rispose. «Secondo te?»
«No. Era una ferita da taglio.» lo corressi ancora con il sorriso sulle labbra. «Guarda.»
Il sangue era sparito. Nel punto in cui prima c'era la ferita, adesso si notava un lungo graffio bianco, che stava svanendo a sua volta. Si trasformò in una piccola cicatrice e infine scomparve sotto i nostri occhi.
«Io... io non capisco.»
Annabeth stava ragionando in fretta. Riuscivo quasi a vedere gli ingranaggi del suo cervello in movimento. Posò prima lo sguardo sui suoi piedi, poi sulla lancia di Clarisse, infine su di me che sorridevo ancora. Ero sicura che mi si leggesse la verità in faccia ormai, non ero riuscita a trattenere la mia espressione, e lei doveva aver intuito qualcosa, perchè disse: «Esci dall'acqua, Percy.»
«Cosa?»
«Fallo e basta.»
Io annuii sotto il suo sguardo confuso e lui uscì dal ruscello, seguito da me che lo presi al volo mentre stava quasi per cadere.
«Oh, Stige.» imprecò Annabeth. «Questa non è una buona cosa. Non volevo… supponevo che si trattasse di Zeus…»
«Ah, credimi Annie, Zeus l’ha rifatto davvero, ma non è Percy.» commentai io beccandomi un’occhiata scioccata da parte sua e una confusa da Percy. «Niente domande. Non dovevo dirlo.» aggiunsi, consapevole di aver parlato troppo.
Prima che potessero anche solo pensare di farmene sentimmo di nuovo quel ringhio canino, ma molto più vicino di prima. Un ululato squarciò la quiete della foresta.
Le grida di esultanza si spensero all'istante. Chirone gridò qualcosa in greco antico che compresi perfettamente: «Tenetevi pronti! Il mio arco!»
Annabeth sguainò la spada. E io mi voltai nella direzione da cui proveniva l’ululato, mentre Percy si rimetteva in piedi.
In cima alle rocce, proprio sopra di noi, c'era un segugio nero grande quanto un rinoceronte, con gli occhi incandescenti come lava e le zanne affilate come pugnali. Lo stesso che avevo mandato via poco prima con la mia presenza.
E stava guardando Percy.
Nessuno si mosse, tranne Annabeth che strillò: «Percy, scappa!»
Cercò di mettersi davanti a lui, ma io fui più svelta. Il segugio infernale la superò con un balzo — un'ombra gigantesca munita di zanne — e non appena mi toccò, non appena caddi all'indietro su Percy e sentii i suoi artigli affilatissimi che mi trafiggevano, ci fu come una cascata di colpi sordi, simili a molti pezzi di carta strappati l'uno dietro l'altro. Sul collo del segugio spuntò un grappolo di frecce. Il mostro cadde morto ai miei piedi.
Mi voltai subito verso Percy, ignorando le mie ferite, e mi preoccupai delle sue. Lo osservai: alcuni colpi avevano evitato il mio corpo ed erano finiti su di lui, aveva un brutto taglio sul petto che esaminai.
Chirone trottò al nostro fianco, l'arco in una mano, la faccia cupa.
«Di immortales!» esclamò Annabeth. «Era un segugio infernale dei Campi della Pena. Loro non dovrebbero…»
«Lo ha evocato qualcuno.» dissi io. «Qualcuno all'interno del campo.»
Luke si avvicinò con lo stendardo dimenticato in una mano, il suo momento di gloria ormai spento e lo sguardo preoccupato fisso su di me.
Clarisse gridò: «È colpa di Percy! È stato Percy a evocarlo!»
«Silenzio, figliola.» l'ammonì Chirone.
«Ti faccio notare che lui non sa nemmeno come si fa.» aggiunsi.
Osservammo il corpo del segugio infernale trasformarsi in un'ombra scura, intridere la terra e svanire senza lasciare traccia.
«Sei ferito.» notò Annabeth. «Presto, Percy, entra in acqua.»
«Sto bene.»
«Non è vero.» ribattei. «Non ti ha mancato del tutto. Entra in acqua.»
«Chirone, guarda.» continuò Annie.
Percy tornò nel ruscello, mentre tutto il campo si radunava attorno a noi.
Si sentì subito meglio, era evidente dalla faccia che aveva ripreso colore. La ferita che aveva sul petto cominciò a rimarginarsi. Alcuni dei ragazzi rimasero a bocca aperta.
«Sentite, io non so perché succede.» disse a disagio, cercando di giustificarsi. «Mi dispiace.»
«Oh, ma io sì.» dissi a mia volta guardandolo. «E non hai niente di cui scusarti, fa parte dei tuoi poteri.»
«Cosa?» domandò lui osservando prima me e poi gli altri in cerca di una spiegazione.
Ma loro non stavano più guardando le sue ferite. Fissavano qualcosa sopra la sua testa.
«Percy.» fece Annabeth, indicando. «Ehm…»
Quando alzammo lo sguardo, il segno cominciava già a svanire ma riuscivamo ancora a distinguere l'ologramma di luce verde che roteava e luccicava. Una lancia a tre punte: un tridente.
«Tuo padre.» mormorai quasi gongolando.
Ero sollevata. Almeno non dovevo più mantenere il segreto. Questo segreto, per lo meno.
«Questa non è affatto una buona cosa.» aggiunse Annabeth.
«Determinato.» annunciò Chirone.
Attorno a noi, i ragazzi del campo cominciarono a inginocchiarsi, perfino quelli della casa di Ares, anche se non sembravano molto contenti di farlo. Io feci lo stesso.
«Mio padre?» chiese Percy, esterrefatto.
«Poseidone.» specificai ovvia.
«Scuotitore della Terra e delle Lande Marine, Signore dei Cavalli. Ave, Perseus Jackson, figlio del dio del mare.» continuò Chirone.
Poi ci rialzammo, chi incredulo, chi sconvolto e chi perfettamente tranquillo (solo io) e decidemmo di andare a dormire.
«Benvenuto a casa, Mollusco.» gli dissi con un sorriso.
Feci a malapena un passo prima di crollare a terra suscitando esclamazioni sorprese nei ragazzi. Avevo ignorato le ferite del segugio infernale che mi ero presa al posto di Percy e nessun altro ci aveva fatto caso, troppo presi dalla scoperta di chi fosse suo padre, ma ora se n’erano accorti tutti.
Mi diedi mentalmente dell’idiota per essermi messa in mezzo nonostante sapessi che Percy sarebbe sopravvissuto comunque. Dovevo ancora capire perchè l’avessi fatto, dato che mi ero giurata in ogni modo possibile che me ne sarei rimasta sempre e comunque in disparte, a prescindere dai fatti che sarebbero accaduti. Era stato un gesto totalmente istintivo e ancora più insensato di cui non mi capacitavo.
Non ebbi il tempo di fare mente locale, però, che sentii qualcuno sollevarmi e dopo qualche secondo sprofondai nell'incoscienza con l’immagine di un paio di occhi blu visibilmente preoccupati e di un ciuffo di capelli biondo sabbia nella mente.

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Capitolo 10
*** 9. La Mummia chiacchiera e io vengo direttamente coinvolta. Purtroppo ***


Il mattino dopo, Percy si trasferì nella casa numero tre.
Non doveva condividerla con nessuno essendo l’unico figlio di Poseidone, e questo significava che aveva un sacco di spazio per le sue cose, un tavolo tutto per sè a cena, si sceglieva da solo le attività, decideva lui quando fosse ora di spegnere le luci, e non doveva rendere conto a nessuno. In pratica era come me. Beh… quasi.
Ed era al culmine della depressione.
Proprio quando aveva cominciato a sentirsi accettato, a sentire che aveva trovato una casa nella capanna undici e che poteva essere un ragazzo normale – o perlomeno normale nei limiti di un mezzosangue – gli altri lo avevano tagliato fuori come un appestato. Me l’aveva raccontato dopo aver visitato la sua nuova casa, venendo a farmi visita in infermeria, dove ero stata costretta a rimanere fino all’ora di pranzo quando, dopo svariate preghiere da parte mia, Chirone aveva dato il suo benestare perché mi unissi a tutti gli altri al padiglione, mettendo fine anche alla lunga processione di ragazzi che venivano alla casa grande solo per vedere come stavo. Non ero rimasta sola un minuto, da quando tutti si erano svegliati, e Luke non si era mosso dal mio capezzale per tutta la notte in attesa che mi svegliassi. Era terribilmente preoccupato per me, si era spaventato davvero molto quando aveva visto le mie ferite, anche dopo che un figlio di Apollo mi aveva medicata usando nettare e ambrosia, e si era tranquillizzato solo quando mi aveva vista aprire gli occhi.
Avrei preferito si riposasse, invece che vegliare me come se stessi per morire. E quando mi ero svegliata e avevo tentato di convincerlo ad andare a dormire un po’, lui si era categoricamente opposto affermando che non voleva lasciarmi da sola – cosa pressochè impossibile con tutto quel via vai di gente che era iniziato all’ora di colazione con Annabeth e Grover – così lo avevo costretto a stendersi sul lettino con me e a chiudere gli occhi per qualche minuto. Inutile dire che si era addormentato come un sasso, stringendomi a sé come se fossi un peluche. O come se temesse di non ritrovarmi più al suo risveglio…
Travis e Connor non avevano fatto altro che sghignazzare per tutto il tempo, quando erano venuti a vedere come stavo, perché era raro vedere il fratello comportarsi come un bambino. Per loro era una specie di leggenda, sempre pieno di responsabilità, che non lo vedevano mai comportarsi come un ragazzo della sua età. Sembrava sempre più grande.
Quando, finalmente, fui libera di lasciare l’infermeria, non persi occasione per far notare a quei cretini semidivini dei miei compagni e amici quanto fosse idiota il loro comportamento nei confronti del Mollusco, affermando che erano solo degli idioti che non capivano niente. Ero l’unica a trattarlo come un ragazzo normale e Percy lo apprezzava davvero. Inoltre, data la mia parentela non proprio divina e le libertà che comportava, avevo cominciato a sedermi insieme a lui durante i pasti in maniera fissa, sorprendendo tutti gli altri ragazzi che, però, non si opposero a questa mia decisione di sospendere il mio tradizionale girare i tavoli a turno.
Nessuno nominava il segugio infernale, ma io sapevo che tutti ne parlavano alle spalle di Percy. L'attacco li aveva spaventati. Mandava due messaggi: primo, che Percy era figlio del dio del mare; e secondo, che i mostri non si sarebbero fermati davanti a nulla pur di ucciderlo. Avrebbero perfino potuto invadere un campo che era sempre stato considerato sicuro. Avrebbero persino attaccato me, infrangendo un patto che era stato stretto sotto richiesta diretta delle Parche.
Luke era ancora sconvolto dall’accaduto e cercava di separarsi da me il meno possibile. Era diventato la mia ombra. O una cozza. I fratelli Stoll, ovviamente, ne approfittavano per prenderlo in giro ogni volta che ci vedevano, su questo punto, perchè lo trovavano fin troppo protettivo. A volte tentavano anche di rassicurarlo, sostenendo che avevo ricevuto colpi ben più gravi di quelli del segugio infernale, ma lui sembrava non sentirli. Io ci avevo rinunciato in partenza, consapevole che niente gli avrebbe impedito di seguirmi fino a che non fosse stato sicuro che non corressi nessun pericolo. Il che significava che mi sarebbe stato appiccicato fino alla fine dei miei giorni, perché con la vita che facevamo era impossibile dirsi completamente al sicuro.
Appena ricominciai a girovagare per il campo, mi accorsi subito che gli altri ragazzi evitavano Percy il più possibile, come dei veri e propri citrulli. Quelli della casa undici erano troppo nervosi per allenarsi con lui dopo quello che aveva fatto alla banda di Ares nel bosco, perciò io chiesi a Luke di dargli lezioni individuali, ovviamente insieme a me dato che non si scollava quasi mai (avevo una tregua solo in bagno, dove lui non mi seguiva ma aspettava fuori. Come se avesse potuto succedermi qualcosa…). E lo facevamo lavorare sodo, senza risparmiarci. Doveva essere pronto.
«Ti servirà tutto l'allenamento possibile.» gli predisse Luke, mentre ci esercitavamo con le spade e le torce in fiamme. «Ora riproviamo quel colpo per decapitare i serpenti. Altre cinquanta volte.»
Percy mi aveva raccontato che la mattina Annabeth gli insegnava ancora il greco, ma sembrava distratta. Ogni volta che Percy diceva qualcosa, lei lo guardava male, come se le avesse appena ucciso la civetta. Diceva che dopo le lezioni se ne andava sempre via borbottando cose che lui non capiva. Io sapevo esattamente a cosa si riferisse ma rimasi in silenzio, in attesa dello sviluppo degli eventi.
Perfino Clarisse manteneva le distanze, anche se le sue occhiate velenose mettevano in chiaro che avrebbe voluto ammazzarlo per aver spezzato la sua lancia magica. Quando io ero nei paraggi, comunque, lanciava delle occhiatacce anche a me, perchè sosteneva che avrei dovuto dirle quello che sarebbe successo, anche se era comunque venuta a vedere come stavo mentre ero in infermeria.
Purtroppo non capiva che io ero fermamente determinata a non rivelare mai più niente del futuro che vedevo. A nessuno. O, più probabilmente, lei non lo accettava.
 

****

 
Capii che qualcuno del campo ce l’aveva davvero con Percy perché una sera, mentre facevo una passeggiata prima di andare a dormire, vidi Percy fermo sulla soglia della capanna tre con un giornale tra le mani e una faccia strana.
Quando mi avvicinai a lui, vidi che era una copia del “New York Daily News”, aperta sulla pagina della cronaca. Lui mi fece cenno di entrare e mi offrii di leggere l’articolo ad alta voce, essendo più abituata di lui alla dislessia tipica dei Mezzosangue: più leggevo, più Percy si arrabbiava, seduto sul suo letto accanto a me.
 
MADRE E FIGLIO ANCORA DISPERSI DOPO UN INSPIEGABILE INCIDENTE D'AUTO
Di Eileen Smythe
 
A una settimana dalla misteriosa scomparsa, Sally Jackson e suo figlio Percy sono ancora introvabili. La Camaro del '78 di famiglia, gravemente danneggiata dalle fiamme, è stata ritrovata sabato scorso in una stradina a nord di Long Island, con il tetto squarciato e l'asse anteriore rotto. La macchina si è ribaltata ed è scivolata per parecchi metri prima di esplodere.
Madre e figlio erano partiti per un weekend a Montauk, ma si sono allontanati in fretta, in circostanze misteriose. Piccole tracce di sangue sono state ritrovate in macchina e vicino alla scena dell'incidente, ma non ci sono altri segni dei dispersi. I residenti dell'area rurale non hanno riferito niente di insolito nella zona all'ora dell'incidente.
Il marito della signora Jackson, Gabe Ugliano, ha dichiarato che il figliastro, Percy Jackson, è un ragazzo difficile che è stato espulso da numerose scuole e che ha già manifestato tendenze violente in passato.
La polizia non ha voluto chiarire se il ragazzo è indagato per la scomparsa della madre, ma non lo ha nemmeno escluso.
Pubblichiamo qui di seguito delle foto recenti di Sally e Percy Jackson. La polizia invita chiunque abbia informazioni al riguardo a chiamare il numero verde della sezione anticrimine.
 
Il numero era cerchiato con un pennarello nero. Accartocciai il giornale e lo gettai via, mentre Percy rimase immobile.
«Percy…» tentennai.
Non sapevo cosa dirgli. Sicuramente non potevo accennare a ciò che sapevo, ma non potevo nemmeno andarmene e lasciarlo in quello stato o rimanere in silenzio continuando a guardarlo. Era arrabbiato, triste. Per di più nell’articolo non avevano accennato alla mia presenza nemmeno per sbaglio e questo non sapevo davvero spiegarmelo. Forse quel cucù del re degli Dei ci aveva messo lo zampino in qualche modo.
Alla fine sospirai e mi limitai ad abbracciarlo, avvolgendo le mani attorno al suo busto e stringendo forte quando lui appoggiò la testa nell’incavo della mia spalla, ricambiando la stretta.
«Puoi restare?» mi chiese avvilito, in un sussurro che sentii appena. «Per favore…»
Io sospirai di nuovo.
«Certo che posso.» risposi facendo stendere entrambi sul letto e continuando a tenerlo stretto.
In quel momento aveva bisogno di conforto, nient’altro.
«Spegnere le luci.» ordinai al suo posto.
Quella notte sognai di nuovo. Cosa di per sè assurda dato che, a differenza di tutti i semidei, io non sognavo mai, nemmeno per sbaglio. E ora facevo due sogni in due notti? Decisamente c’era qualcosa che non andava. La situazione doveva essere peggiore di quanto credessi. O, forse, stava per complicarsi ancora di più. Temevo che lo avrei scoperto a breve…
Correvo lungo la spiaggia in mezzo a una tempesta. Stavolta c'era una città alle mie spalle, ma non era New York. La conformazione era diversa: edifici radi e sparpagliati, palme e basse colline in lontananza.
A un centinaio di metri lungo la risacca, due uomini che riconobbi all’istante stavano combattendo. Sembravano due lottatori di wrestling della tv, muscolosi, con la barba e i capelli lunghi. Tutti e due indossavano delle ampie tuniche greche, una bordata di azzurro e l'altra di verde. Si avvinghiavano l'uno all'altro, lottavano, calciavano e tiravano testate. Ogni volta che si toccavano, un fulmine lampeggiava, il cielo si scuriva e si levava il vento. Zeus e Poseidone, ovviamente.
Dovevo fermarli. E sapevo benissimo il perché. Ma più mi sforzavo di correre, più il vento mi soffiava contro, finché non mi ritrovai a correre sul posto, i calcagni che scavavano invano nella sabbia.
Oltre il boato della tempesta, sentivo quel cretino di Zeus, ovviamente l’uomo con la tunica bordata in azzurro, che gridava a Poseidone: «Ridammela! Ridammela!»
Sembrava un bambino dell'asilo che litiga per un giocattolo.
Le onde si ingrossarono, infrangendosi sulla spiaggia, spruzzandomi di salsedine.
«Fermi! Smettete di battervi, imbecilli divini!» urlai.
La spiaggia tremò. Da un punto imprecisato del sottosuolo si levò una risata, e una voce profonda e malvagia mi fece gelare il sangue nelle vene.
«Interessante… Vieni giù, piccola bussola.» cantilenava. «Vieni giù!»
La sabbia sotto i miei piedi si divise, spalancando un cratere profondo fino al centro della terra. Scivolai e le tenebre mi inghiottirono.
Mi svegliai con la certezza di stare cadendo.
Ero ancora nel letto di Percy, nella casa numero tre, e il figlio di Poseidone sembrava nelle mie stesse condizioni. Lui aveva un’espressione sconvolta sul viso, mentre io ero principalmente confusa. Il corpo mi diceva che era mattina, ma fuori era buio e i tuoni rimbombavano fra le colline. Si stava preparando una tempesta. Ovviamente non era stato un semplice sogno, questo lo sapevo. Così come sapevo che quei due folli fratelli se le sarebbero date di santa ragione per almeno un altro secolo, se non avessimo risolto le cose. Ma perchè quella voce mi aveva chiamata in quel modo? Cosa voleva dire? Ma soprattutto: era davvero chi pensavo che fosse? E se era così… che diamine voleva da me?
Un calpestio di zoccoli all'esterno mi distrasse dai miei pensieri ed ebbi solo il tempo di mettermi in piedi e darmi una sistemata ai vestiti prima che qualcuno bussasse alla porta.
«Avanti.» disse Percy lanciandomi uno sguardo e mettendosi a sedere sul letto.
Grover trotterellò dentro, con la faccia preoccupata. «Il signor D vuole vederti.» disse a Percy prima di spostare lo sguardo su di me. «E tu che ci fai qui?»
Io feci un gesto con la mano. «Lunga storia.» minimizzai.
«Perché?» chiese Percy.
Grover ci studiò entrambi con lo sguardo, sospettoso. «Vuole uccid... cioè, è meglio che te lo dica lui.» rispose, alla fine.
Dissi a Percy che ci saremmo visti alla Casa Grande. Volevo accompagnarlo, sapevo quanto fosse agitato e da quanto aspettasse quella convocazione, ma prima avevo bisogno di cambiarmi, cosa che corsi a fare impiegando sì e no cinque minuti.
Essendo un figlio di uno dei Tre Pezzi Grossi, un dio che non avrebbe più dovuto averne, Percy sapeva che non sarebbe mai dovuto nascere. Così come lo sapeva il resto del mondo. E io sapevo che quelli là, gli Dei insomma, avevano discusso a lungo su cosa fare di lui. La maggior parte di loro voleva regalargli un viaggio di sola andata per gli Inferi, ma sapevo che non si sarebbero mai azzardati a fare un torno del genere a Zio Pesce. Volevo dire... Poseidone. Zio Uccello… chiedo scusa… Zeus, ovviamente, non era sicuramente d’accordo, ma Poseidone era suo fratello quindi doveva tenersi a freno. E poi lui non poteva esprimersi su questa faccenda, proprio per niente. E sapeva che io sapevo.
In ogni caso, Percy era sicuro di essere finito in un gigantesco problema. Ovviamente aveva ragione.
Pensavo proprio a quello mentre, sotto un cielo che sembrava pronto a esplodere, raggiungevo i miei amici proprio nel momento in cui Percy chiese a Grover se dovessero prendere l’ombrello.
«No.» risposi io facendogli notare la mia presenza mentre camminavamo verso la Casa Grande. «Qui non piove mai, a meno che non lo vogliamo.»
Percy indicò la tempesta, perplesso. «Quella che diavolo è, allora?»
Grover scrutò il cielo, imbarazzato. Io non lo degnai di uno sguardo, ero ancora arrabbiata con Zio Uccello.
«Ci girerà intorno. Lo fa sempre.» disse semplicemente il satiro.
Solitamente era così: il cielo non veniva mai nemmeno coperto dai temporali e le poche nuvole di pioggia che capitavano avevano sempre rasentato i confini della valle.
Ma quella tempesta era spaventosa. E qualcosa mi diceva che quella volta sarebbe stato diverso, anche se non ne ero sicura. Nel senso: non avevo visto niente, a parte l’odioso sogno di quella notte, ma avevo una sensazione e il comportamento del re degli Dei mi dava molto da pensare.
Nel campetto di pallavolo, i ragazzi della capanna di Apollo giocavano una partita mattutina contro i satiri. I gemelli di Dioniso passeggiavano per i campi di fragole, facendo crescere le piante. Tutti erano intenti alle loro faccende abituali, ma sembravano tesi. Anche loro tenevano d’occhio la tempesta. Anche loro sentivano qualcosa di diverso, quel giorno.
Io, Percy e Grover arrivammo davanti al portico della Casa Grande. Dioniso era seduto al tavolo del pinnacolo, con la camicia hawaiana tigrata e la Diet Coke, proprio come il primo giorno. Chirone gli stava di fronte sulla sua sedia a rotelle finta, era più semplice che occupare tutto il portico con il suo culo da cavallo. Stavano giocando una partita contro avversari invisibili: due mani di carte che fluttuavano a mezz’aria.
«Bene, bene.» esordì il signor D senza alzare lo sguardo. «La nostra piccola celebrità.»
Io alzai gli occhi al cielo mentre Percy rimase in silenzio.
«Avvicinati.» ordinò il signor D al mio amico. «E non aspettarti che ti faccia chissà che onori, mortale, solo perché il Vecchio Barba d'Alghe è tuo padre.»
Un reticolo di lampi illuminò le nuvole. Un tuono fece vibrare le finestre della casa.
«Bla, bla, bla.» motteggiò Dioniso.
«Zio…» lo avvertii.
Chirone si finse interessato alla sua mano di pinnacolo. Grover si era rattrappito vicino alla ringhiera, agitando gli zoccoli.
«Oh, non cominciare, Avie. Sappiamo tutti che lui è il tuo preferito, anche se non l’hai mai detto.» altri lampi illuminarono le nuvole.
Io sbuffai.
«Non ho un preferito. E tu lo sai.» ribattei calma. «Trovo solo che sia più alla mano di altri.»
«Sì sì… certo.» continuò Dioniso sventolando una mano come per scacciare le mie parole. «Se si facesse a modo mio le tue molecole avrebbero già preso fuoco, mortale. Saremmo qui a raccogliere le ceneri e ci risparmieremmo un sacco di problemi. Ma Chirone sembra convinto che vada contro la maledetta missione che mi è stata affidata: evitare che a voi marmocchi venga fatto del male.»
«E la combustione è una forma di male.» specificò Chirone.
«Sciocchezze.» replicò Dioniso. «Il ragazzo non si accorgerebbe di nulla. Tuttavia, ho accettato di contenermi. Sto pensando di trasformarti in un delfino, piuttosto, e di rispedirti da tuo padre.»
«Zio…» lo ammonii di nuovo.
«Oh, e va bene.» Dioniso si arrese. «C’è un'altra opzione, te la concedo solo perchè Avalon non mi perdonerebbe mai se non ti dessi una possibilità dato che, tecnicamente, tu non sei nato da solo e la colpa è di tuo padre. Avie ha insistito molto su questo punto, i giorni scorsi. Ma è pura follia.» si alzò in piedi e le carte dei giocatori invisibili caddero sul tavolo. «Salgo sull'Olimpo per la riunione d'emergenza. Se il ragazzo sarà ancora qui al mio ritorno, lo trasformerò in un delfino. Ci siamo capiti? Quanto a te, Perseus Jackson, se hai un minimo di cervello, capirai che è una scelta molto più ragionevole di quello che Avalon e Chirone pensano che tu debba fare.»
Dioniso raccolse una carta, la piegò e quella si trasformò in un rettangolo di plastica che fungeva da pass, poi mi diede un bacio sulla fronte come d’abitudine.
Schioccò le dita.
L'aria si piegò, in un certo senso, avvolgendolo. Diventò un ologramma, poi un soffio di vento, quindi sparì, lasciandosi alle spalle solo il profumo del mosto appena spremuto che si mischiò con quello delle viti tra i miei capelli.
Chirone sorrise, ma sembrava stanco e tirato. «Accomodati, Percy. Anche tu, Grover.»
Si sedettero. Io lo avevo già fatto quando Dioniso si era alzato.
Chirone posò le carte sul tavolo, una mano vincente che non aveva potuto sfruttare.
«Dimmi, Percy…» cominciò. «…che effetto ti ha fatto il segugio infernale?»
Lo vidi rabbrividire accanto a me.
«Mi ha terrorizzato.» confessò. «Se non ci foste stati voi, sarei morto.»
«Incontrerai cose peggiori, Percy. Cose molto peggiori, prima che tu abbia finito.»
«Finito cosa?»
«La tua impresa.» risposi io, cogliendoli di sorpresa. Sventolai una mano. «Chirone ne parlava con il signor D e io ho solo ascoltato il discorso. Non ho detto niente di anomalo.»
«Hai fatto ragionare Dioniso, mia cara.» ribattè Chirone. «E non è una cosa da tutti.»
Alzai le spalle.
«Hai intenzione di accettarla?» mi rivolsi nuovamente a Percy.
Lui lanciò un’occhiata a Grover, che stava incrociando le dita.
«Ehm…» disse. «…non mi avete ancora spiegato di che si tratta.»
Chirone fece una smorfia e io distolsi lo sguardo.
«Beh, questa è la parte difficile: i dettagli.» disse lui.
Un tuono rimbombò in tutta la valle. Le nuvole temporalesche adesso avevano raggiunto il confine della spiaggia. Fin dove riuscivo a spingere lo sguardo, il cielo e il mare ribollivano insieme. Ovviamente quei due stavano ricominciando. Mai un momento di pace.
«Poseidone e Zeus…» cominciò Percy. «…stanno litigando per qualcosa di prezioso… qualcosa che è stato rubato, vero?»
Io, Chirone e Grover ci scambiarono uno sguardo.
Chirone si chinò in avanti, spostandosi sul bordo della sedia. «Come lo sai?»
Percy arrossì. «Il tempo sta facendo il matto da Natale, come se il mare e il cielo stessero litigando. Poi ho parlato con Annabeth, e lei ha sentito di sfuggita qualcuno che parlava di un furto. E poi…»
«Fammi indovinare.» intervenni appoggiandomi allo schienale. «Hai sognato.»
«Lo sapevo.» commentò Grover.
«Silenzio, satiro.» ordinò Chirone.
«Ma l'impresa è sua!» gli occhi di Grover scintillavano di eccitazione. «È evidente!»
«Solo l'Oracolo può determinarlo.»
Certo che è sua, pensai. Ma non lo dissi.
Chirone si accarezzò la barba ispida. «Ad ogni modo, Percy, hai ragione. Tuo padre e Zeus stanno avendo la loro peggiore lite da secoli. Litigano per qualcosa di prezioso che è stato rubato. Per la precisione: una folgore.»
A Percy uscì una risata nervosa. «Una cosa
«Non prenderla tanto alla leggera.» lo ammonii. «Chirone non sta parlando di una saetta rivestita di alluminio di quelle che si vedono alle recite della scuola elementare. Lui intende un cilindro di sessanta centimetri di purissimo bronzo celeste, coronato alle due estremità di esplosivi dalla potenza divina.»
«Oh.»
«Già. Oh.»
«La Folgore di Zeus.» continuò Chirone, scaldandosi. «Il simbolo del suo potere, il modello di tutte le altre folgori. La prima arma forgiata dai Ciclopi per la guerra contro i Titani, la folgore che ha scoperchiato la cima dell'Etna e che ha spodestato Crono dal suo trono; la folgore originale, dotata di una potenza tale che le bombe a idrogeno mortali sono fuochi d'artificio al suo confronto.»
«Ed è sparita?»
«Rubata.» specificò Chirone.
«Da chi?»
«Da te.» risposi io candidamente.
Lui rimase a bocca aperta come un mollusco lesso.
«O almeno…» sollevai una mano «…questo è ciò che pensa Zio Uccello, che in questo caso chiamerei tranquillamente Zio Fulminato.» un tuono rimbombò tra le nuvole e io alzai gli occhi. «Falla finita, ci sei abituato.» dissi prima di riportare lo sguardo su Percy, che mi osservava sconvolto. «Che c’è? È davvero abituato, lo chiamo spesso così. Comunque, durante il solstizio d'inverno, all'ultimo Consiglio degli dei, Zio Uccello e Zio Pesce, tuo padre, hanno litigato. Quando mai non lo fanno? Per le solite sciocchezze, ovviamente: “Sei sempre stato il cocco di nostra madre Rea”, “I disastri aerei sono più spettacolari dei disastri marittimi” e bla bla bla. Una gran rottura, se vuoi il mio parere, una stupida gara a chi ce l’ha più grosso. Dopo, Zio Uccello si è accorto che la Folgore era sparita. Qualcuno l'aveva presa nella sala del trono sotto il suo stesso naso. E, come al solito, ha incolpato subito Poseidone.» alzai gli occhi al cielo, infastidita da quel comportamento. «Tu non lo sai, ma un dio non può usurpare il simbolo del potere di un altro dio direttamente: è proibito dalle più antiche leggi divine. Quindi Zeus crede che tuo padre abbia convinto un eroe umano a farlo. Come che lui non avesse di meglio da fare che provocare una guerra per fare un dispetto al fratello.» sbuffai, infastidita da tanta stupidità.
«Ma io non…» cominciò Percy.
«Abbi pazienza e ascolta, figliolo.» lo interruppe Chirone. «Zeus ha buone ragioni per sospettarlo.»
«Sì, come no.» commentai io, senza riuscire a trattenermi.
Un altro tuono rimbombò sopra le nostre teste e Chirone mi lanciò un’occhiataccia prima di riprendere. «Le fucine dei Ciclopi sono sotto l'oceano, il che dà a Poseidone una certa influenza sui costruttori dei fulmini di suo fratello. Zeus crede che Poseidone abbia rubato la folgore originale e che adesso, in gran segreto, stia facendo costruire ai Ciclopi un arsenale di copie illegali, con l'intenzione di usarle per rovesciare Zeus dal trono.»
«Idea più stupida non poteva trovarla.» un tuono più forte dei precedenti rimbombò tra le nuvole facendomi sbuffare. «E falla finita. Sai anche tu che è una scusa per prendertela con lui. Se non ti avessero rubato la folgore avresti trovato un’altra stupidaggine per cui litigare. A tuo fratello non importa un beneamato merluzzo di farti un dispetto in questo modo!»
Chirone e Percy mi guardavano perplessi, Grover terrorizzato.
«L’unica cosa di cui Zeus non era sicuro era l'identità dell'eroe che Poseidone potesse aver usato per rubare la Folgore.» riprese il centauro, come se niente fosse. «Ora Poseidone ti ha ufficialmente riconosciuto come figlio. Tu eri a New York durante le vacanze invernali. Ti saresti potuto facilmente intrufolare nell'Olimpo. Zeus crede di aver trovato il suo ladro.»
«Ma io non ho mai messo piede sull'Olimpo! Zeus è pazzo!»
Chirone e Grover lanciarono un’occhiata nervosa verso il cielo. Io feci un sorrisetto. Le nuvole non sembravano intenzionate a girare intorno al campo come aveva predetto Grover. Avanzavano imperterrite sopra la valle, chiudendosi sopra di noi come il coperchio di una bara.
«Ehm, Percy?» fece Grover. «Non usiamo quella parola con la “p” per descrivere il Signore del Cielo. A parte Avie, come hai notato, che dice anche di peggio. Ma lei è diversa e, stranamente, gli dei non la fulminano sul posto quando li chiama in un certo modo.»
«Forse “paranoico” è più appropriato.» suggerì Chirone. «Ma del resto, Poseidone ha già tentato di spodestare Zeus, in passato.»
«Pessima mossa anche quella, secondo me.» borbottai io.
Chirone mi ignorò. «Credo che fosse la domanda numero trentotto del compito d'esame.»
Lo guardò come se pensasse davvero che lui potesse ricordarsi la domanda numero trentotto. Seh, come no. Nemmeno in un’altra dimensione sarebbe successo, ma Chirone stava aspettando una risposta.
«Accalappiacani.» dissi, senza un’apparente motivo.
«C’entra una rete d'oro, per caso?» tirò a indovinare Percy, cogliendo chissà come il mio suggerimento. «Poseidone, Era e qualche altro dio… hanno… hanno intrappolato Zeus e l'hanno liberato solo quando ha promesso di essere un sovrano migliore. Giusto?»
«Esatto.» confermò Chirone. «E Zeus non si fida più di Poseidone, da allora. Naturalmente, Poseidone nega di aver rubato la Folgore. Si è offeso mortalmente per l'accusa. I due continuano a litigare da mesi, ormai, minacciando guerra. E adesso sei spuntato fuori tu… la proverbiale ultima goccia.»
«Ma sono solo un ragazzino!»
«Purtroppo no.» dissi io.
«Percy…» intervenne Grover. «…se tu fossi Zeus e pensassi già che tuo fratello stia tramando per spodestarti, e all'improvviso lui ammettesse di avere infranto il sacro giuramento pronunciato dopo la Seconda guerra mondiale e di aver generato un nuovo eroe mortale che potrebbe essere usato come arma contro di te… non ti sentiresti un po' preso per il divino naso?»
«Lui non può proprio parlare.» osservai io, gelida, facendo impallidire sia Grover che Chirone. «Per niente.»
Percy sembrò non farci caso. «Ma io non ho fatto niente. Poseidone, mio padre, non ha davvero ordinato di rubare questa Folgore, vero?»
Io applaudii. «Finalmente qualcun altro che lo dice, oltre a me. Percy è in questa realtà da cinque minuti e ha già capito tutto. Perchè voialtri svitati no, invece?»
Chirone sospirò. «La maggior parte degli attenti osservatori concorderebbe che il furto non è nello stile di Poseidone.» ammise. «Ma il dio del mare è troppo orgoglioso per cercare di convincere suo fratello. Zeus pretende che Poseidone restituisca la Folgore entro il solstizio d'estate, ovvero il ventun giugno, fra dieci giorni. Poseidone esige delle scuse per l'offesa arrecatagli entro la stessa data. Speravo che alla fine la diplomazia avrebbe prevalso, che Era, Demetra o Estia avrebbero fatto ragionare i due fratelli. Ma il tuo arrivo ha scatenato la collera di Zeus. Ora nessuno dei due fratelli ha intenzione di fare un passo indietro. Se non interviene qualcuno, se la Folgore non viene trovata e restituita a Zeus prima del solstizio, sarà la guerra. E tu sai come sarebbe una guerra vera e propria, Percy?»
«Brutta?»
«Immagina il mondo nel caos. La natura in guerra contro se stessa. Gli dei dell'Olimpo costretti a schierarsi fra Zeus e Poseidone. Distruzioni. Carneficine. Milioni di morti. La civiltà occidentale trasformata in un campo di battaglia tale che la guerra di Troia al confronto sembrerà una bravata coi gavettoni.» spiegò Chirone.
«Brutta.» concluse Percy.
«E tu, Percy Jackson, saresti il primo a subire la collera di Zeus.»
Cominciò a piovere. I ragazzi sul campo di pallavolo smisero di giocare e scrutarono il cielo in un silenzio sbigottito.
Era stato Percy a portare quella tempesta sul Campo Mezzosangue. Zeus stava punendo tutto il campo per causa sua, lo sapevamo tutti.
«Non arriveranno mai alla guerra.» dissi io attirando l’attenzione di Percy, Grover e Chirone. «Li infilzerò con i miei ferri finchè non ritroveranno quel po’ di cervello che dicono di avere. E se non dovesse accadere, dovrebbero comunque passare sul mio cadavere.» ghignai. «Auguri, dopo, a passarla liscia con le Parche.»
L’ennesimo tuono rimbombò sopra le nostre teste.
«E così devo trovare quella stupida Folgore.» esclamò Percy. «E restituirla a Zeus.»
«Quale migliore offerta di pace…» disse Chirone. «…del figlio di Poseidone che restituisce il maltolto a Zeus?»
«Ma se Poseidone non l'ha preso, che fine ha fatto quell'affare?»
«Io credo di saperlo.» l’espressione di Chirone era cupa mentre mi lanciava uno sguardo, che prontamente ignorai. «Parte di una profezia che ho ricevuto anni fa... beh, alcuni di quei versi finalmente hanno trovato un senso. Ma prima che possa dire altro, devi intraprendere ufficialmente l'impresa. Devi consultare l'Oracolo.»
«Perché non mi dice prima dov'è la Folgore?»
«Perché se lo facessi, avresti troppa paura per accettare la sfida.»
«Ne dubito.» mormorai tenendo gli occhi fissi sul campo di pallavolo ormai deserto, memore delle speranze segrete del ragazzo.
«Ottima ragione.» osservò Percy, deglutendo preoccupato.
«Allora accetti?»
Percy guardò Grover, che annuiva con fare incoraggiante. Facile, per lui. Era Percy quello che Zeus voleva ammazzare. Poi spostò lo sguardo su di me, che rimasi immobile. Alla fine mi arresi e feci un leggero cenno di assenso col capo.
«Va bene.» concluse. «Sempre meglio che essere trasformato in un delfino.»
«Allora è giunto il momento di consultare l'Oracolo.» disse Chirone. «Sali al piano di sopra, Percy Jackson, in soffitta.»
«Quando scenderai, se sarai ancora sano di mente, continueremo il discorso.» conclusi io.
 

****

 
Dopo circa mezz’ora vedemmo Percy uscire dalla Casa Grande e raggiungerci sul portico. Eravamo rimasti lì per tutto il tempo. L’unica differenza era che non eravamo più soli, ma questo Percy non lo sapeva. Ancora.
«Ebbene?» chiese Chirone.
Percy crollò su una sedia al tavolo del pinnacolo. «Ha detto che recupererò ciò che è stato rubato.»
Grover si sporse sul bordo della sedia, masticando tutto eccitato i resti di una lattina di Diet Coke. «Fantastico!»
«Che cos'ha detto l'Oracolo, esattamente?» insistette Chirone. «È importante.»
Io lo osservavo attentamente, in silenzio. Sapevo esattamente cos’avesse detto.
«Ha detto... ha detto che devo andare a occidente e che affronterò il dio che ha voltato le spalle. Che recupererò ciò che è stato rubato e che lo vedrò restituito.»
«Lo sapevo.» commentò Grover.
Chirone non sembrava soddisfatto. «Nient'altro?»
Percy esitò.
«No.» rispose alla fine. «È tutto.»
Chirone lo studiò in volto. «Molto bene, Percy. Ma sappi questo: le parole dell'Oracolo spesso hanno doppi significati. Non rimuginarci troppo. La verità non è sempre chiara finché gli eventi non si sono conclusi.»
«Percy…» iniziai io. «Quanti versi erano?»
«Cosa? Perchè?» mi chiese lui. «Ha importanza?»
«Ti prego, dimmi che erano quattro.» dissi solamente io, aspettando una risposta affermativa.
«No.» mi contraddisse lui. «Erano cinque.»
Io impallidii, mentre gli sguardi di Chirone e Grover si spostarono subito su di me.
«È uno scherzo.» mormorai, lo sguardo perso nel vuoto.
Chirone sospirò. «Sai cosa significa, vero?»
Io annuii, ma non riuscii ad aggiungere una parola.
«Di cosa parlate?» chiese Percy spostando lo sguardo da me a Chirone. «Che significa? Perché dovrebbe essere uno scherzo?»
Chirone sospirò, lanciandomi uno sguardo preoccupato. «Significa che uno dei versi della profezia riguarda Avie.»
Sentii una mano posarsi sulla mia spalla ma non ci feci caso, troppo impegnata a districarmi dai pensieri che il significato intrinseco di quella rivelazione mi aveva causato.
«Che cosa?» esclamò Percy. «Com’è possibile?»
«Vedi, Percy, Avie ha un dono particolare, se così vogliamo chiamarlo. Essendo nata come personificazione della dea Ananke, una parte della personalità della madre, lei sa esattamente cosa accadrà in futuro alle persone che ha intorno.» spiegò Chirone, mentre io mi perdevo a osservare la pioggia. «Perchè Ananke è la dea del Destino, della Necessità Inalterabile e del Fato.»
«Davvero?» domandò Percy, sorpreso. «Ma è fantastico!» quando vide le nostre espressioni il suo entusiasmo sfumò. «Oppure… no?»
«Questo potere non le permette di vedere come le sue scelte modificano il futuro, nè il futuro che riguarda lei stessa. Per questo motivo sapeva che la tua profezia aveva quattro versi e non cinque: uno dei versi riguarda lei.»
«Questo significa che sono obbligata a venire con te.» tagliai corto. «Ma non chiedermi niente sul futuro, ho giurato che non ne avrei più parlato a nessuno.» scossi la testa, disperata, voltandomi verso Chirone. «Com’è possibile che, dopo tutti questi anni a tenermi in disparte, a impedire in ogni modo possibile di venire coinvolta, capiti questo?» avevo le lacrime agli occhi. «Non voglio farlo, Chirone! Non posso! Non dopo quello che è successo.»
Lui sospirò. «Non so perché l’Oracolo ti abbia coinvolta in questa storia, Avalon, né quale sia il tuo ruolo in questa vicenda. Quello che so, è che non puoi rinchiuderti nel dolore di ciò che è accaduto in passato. Non puoi smettere di vivere a causa di quello che è successo.»
«Ma io non voglio peggiorare le cose…» mormorai sconsolata.
«Lo so.» rispose lui. «Ma sono certo che troverai un modo per aiutare Percy senza complicazioni.»
«Okay…» disse il Mollusco, ansioso di cambiare argomento. «Allora, dove andiamo? Chi è questo dio a ovest?»
«Rifletti, Percy.» rispose Chirone. «Se Zeus e Poseidone si indeboliscono l'un l'altro in una guerra, chi ci guadagnerà?»
«Qualcuno che vuole prendere il comando?» suggerì lui.
«Sì, esattamente. Qualcuno che cova rancore, qualcuno che è scontento di quello che gli è spettato quando il mondo è stato diviso secoli fa, e il cui regno diventerebbe potente grazie alla morte di milioni di persone. Qualcuno che odia i suoi fratelli per averlo obbligato al giuramento di non generare figli, un giuramento che entrambi hanno infranto.»
Ripensai ai miei sogni, alla voce malvagia che proveniva dal sottosuolo. L’ipotesi di Chirone non faceva una piega. Tuttavia c’era anche un’altra possibilità, molto più plausibile della sua, ma era troppo spaventosa perchè lui pensasse anche solo di prenderla in considerazione.
«Ade.»
Chirone annuì. «Il Signore dei Morti è l'unica possibilità.»
Un brandello di alluminio scivolò fuori dalla bocca di Grover. «Cavolo, aspetti un momento. Co-cosa?»
«Percy è stato braccato da una Furia.» gli ricordò Chirone. «Una Furia che l'ha tenuto d'occhio finché non è stata certa della sua identità, e poi ha cercato di ucciderlo. Le Furie rispondono a un unico padrone: Ade.»
«Sì, ma... Ade odia tutti gli eroi.» protestò Grover. «Poi se ha scoperto che Percy è figlio di Poseidone…»
«Un segugio infernale è penetrato nella foresta.» continuò Chirone. «E i segugi si possono evocare solo dai Campi della Pena, e da qualcuno all'interno del campo. Ade deve avere una spia, qui. Probabilmente sospetta che Poseidone cercherà di usare Percy per ristabilire il suo buon nome. Ade sarebbe molto, molto contento di uccidere questo giovane mezzosangue prima che possa intraprendere l'impresa.»
«Fantastico.» mugugnò Percy. «E con questo siamo a due potenti dei che vogliono uccidermi.»
«Tranquillo, sono molti di più.» affermai io, facendogli sgranare gli occhi.
«Ma un'impresa negli Inferi…» Grover deglutì. «Cioè, la Folgore non potrebbe trovarsi in un posto, che so, tipo il Maine? Il Maine è molto bello in questo periodo dell'anno.»
«Ade ha inviato un suo scagnozzo a rubare la Folgore.» insistette Chirone. «E poi l'ha nascosta negli Inferi, sapendo molto bene che Zeus avrebbe dato la colpa a Poseidone. Non pretendo di comprendere perfettamente i motivi del Signore dei Morti o il perché abbia scelto questo particolare momento per cominciare una guerra, ma una cosa è certa: Percy deve scendere negli Inferi, trovare la Folgore e scoprire la verità.»
Percy aveva una strana determinazione nello sguardo, la stessa determinazione che già sapevo lo avrebbe riempito. Stava pensando alla possibilità di riprendersi sua madre.
Grover, accanto a me, stava tremando. Aveva cominciato a mangiare le carte del pinnacolo come fossero patatine.
Poveretto. Doveva completare un'impresa con Percy per ottenere la sua licenza di cercatore, e andare poi in cerca di Pan, ma era evidente che Percy non fosse sicuro di chiedergli di accompagnarlo, soprattutto dopo che l'Oracolo aveva predetto che era destinato a fallire in qualche modo. Era convinto che fosse un suicidio e non lo biasimavo. Io, però, mi chiedevo cosa dicesse il verso su di me, e perchè Percy non ne avesse parlato.
«Senta, ma se sappiamo che è stato Ade…» chiese Percy a Chirone. «…perché non lo diciamo agli altri dei? Zeus o Poseidone potrebbero scendere negli Inferi e far saltare qualche testa.»
«Sospettare e sapere non sono la stessa cosa.» rispose lui. «E poi, anche se gli altri dei sospettano di Ade, e immagino che Poseidone sia tra questi, non possono recuperare la Folgore di persona. Agli dei non è consentito varcare i rispettivi territori senza un invito. È un'altra regola antica. Gli eroi, d'altro canto, hanno certi privilegi. Possono andare ovunque, sfidare chiunque, purché abbiano il coraggio e la forza di farlo. Nessun dio può essere ritenuto responsabile per le azioni di un eroe. Per quale altro motivo pensi che gli dei operino sempre attraverso gli umani?»
«Sta dicendo che mi stanno usando?»
«Sto dicendo che non è un caso che Poseidone ti abbia riconosciuto proprio ora. È un rischio molto azzardato, ma è in una situazione disperata. Ha bisogno di te.»
Percy guardò Chirone. «Ha sempre saputo che ero il figlio di Poseidone, vero?»
«Avevo dei sospetti. Come ti dicevo… anch'io ho parlato con l'Oracolo.»
«E tu, Avie, lo sapevi di sicuro.» continuò spostando lo sguardo su di me.
«Non è che fosse poi così difficile da capire.» osservai. «Hai annaffiato Nancy Bobofit con l’acqua della fontana.» contai, alzando un dito ogni volta che aggiungevo un punto. «Hai fatto lo stesso alle figlie di Ares con l’acqua del bagno, ti sei rinfrescato la faccia e hai combattuto come uno che si allena da anni, l’acqua del fiume ti ha guarito e rinvigorito dopo il combattimento della Caccia alla Bandiera e il segugio infernale. Direi che gli indizi c’erano tutti, e anche piuttosto evidenti. Zio Onda è l’unico che abbia tanto potere sull’acqua.»
«Zio Onda…?»
Scossi la mano. «Un altro soprannome per tuo padre, non farci caso.»
«D’accordo… Perciò fatemi capire bene.» continuò. «Devo scendere negli Inferi e affrontare il Signore dei Morti.»
«Esatto.» rispose Chirone.
«Devo trovare l'arma più potente dell'universo.»
«Esatto.»
«E riportarla sull'Olimpo prima del solstizio d'estate, fra dieci giorni.»
«Proprio così.»
Percy guardò Grover, che inghiottì in un boccone l’asso di cuori.
«Ho già detto che il Maine è un posto bellissimo in questo periodo dell'anno?» chiese con un filo di voce.
«Non sei costretto a venire.» gli disse lui. «Non posso pretendere questo da te.»
«Oh!» agitò gli zoccoli. «No… è solo che i satiri e i luoghi sotterranei… beh…» fece un respiro profondo, quindi si alzò, spazzolandosi brandelli di carte e pezzetti di alluminio dalla maglietta. «Tu mi hai salvato la vita, Percy. Se… se dicevi sul serio quando hai detto che mi avresti voluto con te, non ti deluderò.»
Vidi talmente tanto sollievo negli occhi di Percy che, per un attimo, credetti che si sarebbe messo a piangere.
«Ci puoi scommettere, amico!» si rivolse a Chirone. «Allora dove andiamo? L'Oracolo ha detto soltanto di andare a occidente.»
«L'ingresso degli Inferi si trova sempre a ovest. Si sposta di epoca in epoca, proprio come l'Olimpo. In questo momento, naturalmente, è in America.»
«Dove?»
Chirone sembrò sorpreso. «Pensavo che fosse ovvio. L'ingresso degli Inferi è a Los Angeles.»
«Oh!» esclamò lui. «Naturalmente. Perciò prendiamo il primo volo.»
«No!» gridò Grover. «Percy, che ti viene in mente? Sei mai salito su un aereo in vita tua?»
Lui scosse la testa, in evidente imbarazzo.
«E per fortuna.» commentai. «Se l’avessi fatto, a quest’ora saresti una bracioletta bruciacchiata di Mollusco semidivino. Tua madre sapeva benissimo chi fosse tuo padre, così come sapeva che non ti saresti mai potuto avvicinare al Cielo perchè Zio Fulminato ti avrebbe incenerito. Ti ricordo che quello è il suo regno.»
Un lampo squarciò il cielo. Il tuono riecheggiò ovunque.
«E dacci un taglio.» sbuffai, incrociando le braccia.
«Okay.» Percy sospirò, deciso a non guardare la tempesta. «Così mi muoverò via terra.»
«Giusto.» convenne Chirone. «Puoi avere tre compagni di viaggio. Avalon è la prima, per ovvie ragioni. Grover il secondo. Per il terzo c'è già una volontaria, se accetterai il suo aiuto.»
«Cavolo!» esclamò Percy. Sapevo che aveva capito a chi si stesse riferendo. «Chi altro può essere così stupido da offrirsi volontario per un'impresa come questa?»
Ci fu uno scintillio nell'aria, alle spalle di Chirone. Annabeth diventò visibile, ficcandosi il berretto da baseball nella tasca posteriore. Ci aveva raggiunti poco dopo che Percy era salito in soffitta e le avevo detto io di rimanere invisibile fino al momento giusto. Era rimasta al mio fianco per quasi tutto il tempo, ma poi l’avevo sentita spostarsi e non avevo idea di dove fosse finita.
«È da tempo che aspetto un'impresa, Testa d'Alghe.» esordì. «Atena non è un'ammiratrice di Poseidone, ma se hai intenzione di salvare il mondo, io sono la persona giusta per impedirti di rovinare tutto.»
«Testa d’Alghe, eh?» commentai io con un sorrisetto.
Annie mi diede uno schiaffo sul braccio.
«Se lo dici tu.» replicò lui. «Suppongo che tu abbia un piano, vero Sapientona?»
«Sapientona? Addirittura?» il mio sorrisetto non voleva saperne di sparire.
«Vuoi il mio aiuto oppure no?» chiese Annie, ignorandomi completamente.
Oh, questo sì che sarebbe stato divertente da vedere. Chissà quanto ci avrebbero messo a cedere.
«Un quartetto.» concluse Percy. «Funzionerà.»
«Speriamo…» mormorai, piena di dubbi.
«Ottimo.» disse Chirone, lanciandomi un’occhiata preoccupata. «Si parte nel pomeriggio. Possiamo accompagnarvi fino alla stazione degli autobus di Manhattan. Dopodiché, sarete soli.»
Un fulmine lampeggiò nel cielo e la pioggia divenne più insistente.
«Non c'è tempo da perdere.» incalzò Chirone. «Andate a preparare i bagagli.»

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Capitolo 11
*** 10. Ci diamo alla chimica con un autobus ***


Non ci misi molto a fare i bagagli, appena dieci minuti. Mi limitai a prendere il minimo indispensabile: un cambio, provviste, una borraccia di nettare, una busta di ambrosia, il necessario per il primo soccorso – dato che non potevamo esagerare con il cibo degli dei se non volevamo prendere fuoco – e un po’ di soldi, sia dollari mortali che dracme d’oro: monete grandi come biscotti, con l'effigie di vari dei dell'Olimpo da un lato e l'Empire State Building dall'altro. Sarebbero state utili per le transazioni non-mortali.
Infilai tutto nel mio zaino da campeggio, quello che mi aveva donato Ermes, poi mi assicurai di avere tutte le mie armi al loro posto: i ferri da calza, gli orecchini, la cintura, la collana, i due anelli… sì, c’era tutto. Speravo di non doverli usare, ma sapevo che sarebbe successo.
Stavo stringendo le cinghie dello zaino quando qualcuno bussò alla porta.
«Quindi è vero.» Luke entrò in camera e mi fissò, affranto. «Parti anche tu, con Percy.»
Sospirai. «Non ho molta scelta.»
«Sì, ho sentito.» Luke appoggiò un paio di scarpe da basket – che riconobbi subito – vicino alla porta e si sedette sul letto, osservandomi finire di mettere a posto lo zaino. «Com’è possibile?»
«Non lo so…» mormorai senza guardarlo.
«Lys…» fermò il mio tentativo di fingermi impegnata e mi tirò a sé, facendomi sedere di traverso sulle sue gambe e avvolgendomi le braccia attorno al busto. «Non puoi andare… non dopo tutto quello che hai fatto per restarne fuori.»
Io tenni lo sguardo basso, incapace di osservarlo. Non ce la facevo, perché sapevo che sarebbe cambiato tutto.
«Non posso evitarlo. Non stavolta.» cominciai a tremare e lui mi strinse più forte.
«Lys…» sussurrò lui, preoccupato.
«Sono terrorizzata.» ammisi puntando lo sguardo sullo zaino. «Perché non riesco più a capire cosa stia succedendo. E non voglio essere coinvolta, perché finirei solo per peggiorare le cose.» affondai il volto nell’incavo del suo collo, avvolgendogli le spalle con le braccia, e permisi al pianto – che avevo trattenuto da quando avevo visto le mie sorelle – di scorrere libero, inumidendogli la maglietta arancione del campo. «Non so cosa fare, Lucky.»
Il figlio di Ermes mi abbracciò stretta, cullandomi dolcemente fino a quando non mi calmai. Soprattutto grazie al suo odore che sapeva di casa. Poi mi scostò delicatamente da sé e mi asciugò i resti delle lacrime con movimenti leggeri delle dita, studiando attentamente il mio volto.
«Tu sei la persona più forte che io conosca.» disse, le mani ancora posate sulle mie guance in una lieve carezza. «E sono sicuro che non farai niente che peggiori le cose. Non tu.» scosse lentamente la testa in senso di diniego. «Perché l’unica cosa che vuoi è far aprire gli occhi agli dei sul loro comportamento, e farli smettere di litigare a causa del loro orgoglio.»
Mi conosceva davvero bene, dovevo ammetterlo. Ma non sapeva che era un’altra, la cosa che volevo. E che, probabilmente, non sarei mai stata in grado di avere. Non se le cose fossero andate come avevo visto. Ed era questo a terrorizzarmi davvero. Ma non potevo dirglielo. Avrei distrutto quella speranza quasi inesistente che avevo di cambiare le cose, e non volevo che accadesse.
«Resti con me?» gli chiesi.
«Per tutto il tempo che vuoi, Lys.» rispose, stringendomi nuovamente a sé.
«Fino ai Campi Elisi e ritorno.» sussurrai al suo orecchio, chiudendo gli occhi.
«Fino ai Campi Elisi e ritorno.» ripetè lui riprendendo a cullarmi.
 

****
 
 
Quando raggiungemmo gli altri, mano nella mano, vicino al pino di Talia – la figlia di Zeus – vidi che ero l’ultima del gruppo ad essere arrivata. Annabeth aveva il suo coltello di bronzo – dono di Luke di quando si erano conosciuti e vivevano per strada – nascosto dentro una manica e uno zaino sulle spalle, in cui ero certa ci fosse almeno un libro in greco sull’architettura, da cui spuntava la visiera del suo berretto magico degli Yankees, il regalo della madre per i suoi dodici anni. Ricordavo benissimo come le si erano illuminati gli occhi quando l’aveva visto e aveva scoperto il suo potere. Non se l’era tolto per tutto il giorno, facendo scherzi a tutti. Soprattutto ai fratelli Stoll, che avevano tentato in tutti i modi di rubarglielo, senza successo. Lei li aveva messi entrambi al tappeto, e da quel momento era diventata iper protettiva verso quell’oggetto. La capivo: era raro che un dio si interessasse a un suo figlio mortale, quindi quel regalo valeva davvero molto.
Grover indossava i piedi finti e i pantaloni per passare da essere umano. Portava anche un berretto verde, perché quando pioveva gli si appiattivano i capelli e in mezzo ai ricci spuntavano un po’ le corna. Il suo zainetto arancione era pieno di rottami di ferro, che sentivo sbatacchiare tra loro anche dalla base della collina, e di mele da sgranocchiare. Sapevo che non si sarebbe mai separato dal flauto di canne che suo padre aveva costruito apposta per lui, anche se conosceva solo due canzoni: il Concerto per Pianoforte numero 12 di Mozart e So Yesterday di Hilary Duff, ed entrambe suonavano piuttosto male con il flauto. Quindi significava che ce l’aveva in tasca, in modo che fosse facile da raggiungere in caso di bisogno.
Percy aveva gli stessi vestiti di quella mattina, in più portava sulle spalle uno zaino apparentemente semivuoto in cui doveva averci messo quel poco che possedeva da quando viveva qui. Probabilmente gli avevano dato anche alcuni dollari e qualche dracma, per le emergenze.
Chirone era seduto sulla sua sedia a rotelle, con Argo accanto a lui, il capo della sicurezza del campo. Sarebbe sembrato un normalissimo serfista biondo, non fosse stato per gli occhi: ne aveva sparsi per tutto il corpo, letteralmente, per non farsi cogliere mai di sorpresa, uno anche sulla lingua. Con l’uniforme da autista che indossava oggi, però, gli si vedevano soltanto le pupille in più che aveva sulle mani, sulla faccia e sul collo.
«Ehi!» esclamò Luke accanto a me, col fiato leggermente corto. «Vedo che ci siete già tutti.»
L'espressione di Annabeth si illuminò quando vide le nostre mani intrecciate, ma non disse niente e gliene fui grata.
«Volevo augurarvi buona fortuna.» continuò il figlio di Ermes, stringendo la presa sulla mia mano e lanciandomi un’occhiata. «E pensavo che queste ti potessero tornare utili.»
Dopo un cenno di assenso da parte mia, passò a Percy le scarpe da basket, che aveva recuperato prima di uscire dalla mia stanza.
Poi pronunciò: «Maia!» e sui calcagni spuntarono delle candide ali d'uccello, cogliendo totalmente alla sprovvista il figlio di Poseidone.
Le scarpe gli caddero dalle mani e rimasero a svolazzare a terra per un po', finché le ali si ripiegarono e scomparvero.
«Fantastico!» commentò Grover.
Luke sorrise. «Mi furono utili durante la mia impresa. Un regalo di papà. Naturalmente non le uso molto negli ultimi tempi...» concluse, rattristandosi.
Gli strinsi la mano rimanendo in silenzio. Non c’era niente da aggiungere. Nel periodo in cui ero stata via si era incupito, vedevo che qualcosa lo preoccupava ma non gli avevo mai chiesto niente. Perché sapevo, ovviamente. E perché pensavo che me ne avrebbe parlato lui, se avesse voluto. Ma non l’aveva fatto, e io mi ero ripromessa di stargli il più vicino possibile una volta tornata.
E ora che ero appena arrivata ero costretta a ripartire subito…
«Ehi, amico» disse Percy «grazie.»
«Ascolta, Percy.» adesso Luke sembrava a disagio. «Le nostre speranze dipendono da te. Perciò, ammazza qualche mostro anche da parte mia, okay?»
Si strinsero la mano. Luke diede un colpetto affettuoso a Grover fra le corna, poi abbracciò Annabeth. Infine mi prese da parte per salutarmi come si deve. Mi teneva entrambe le mani tra le sue e mi fissava con l’espressione più preoccupata che gli avessi mai visto.
«Ti prego, fai attenzione.» mormorò. «Non correre rischi inutili.»
«Non ne ho nessuna intenzione.» risposi, tentando di tranquillizzare entrambi. «Poi c’è Annie-la-cervellona, non permetterà a nessuno di fare qualcosa di stupido.» scherzai.
A lui spuntò un flebile sorriso che svanì fin troppo velocemente. Mi strinse ancora più forte le mani, teso come le corde degli archi dei figli di Apollo.
«Per favore, qualunque cosa accada, ritorna da me.» mi pregò. «Non voglio che questo sia un addio.»
Affondai il volto nel suo petto, strinsi le mani sulla sua schiena e lo avvicinai a me fino a far combaciare perfettamente i nostri corpi, nonostante la differenza di altezza.
Lui mi circondò con le braccia, avvicinandoci ancora di più. Poggiò la testa sulla mia e sospirò.
«Non sarà mai un addio.» mormorai abbastanza piano da farmi sentire solo da lui.
Lo percepii rabbrividire nella mia presa, poi ci separammo lentamente e lui mi lasciò un lento bacio sulla fronte insieme a una leggera carezza sulla guancia.
Dopo un ultimo sguardo si voltò e ridiscese la collina con le spalle basse, preoccupato quanto me per quella missione. Anche se, forse, per due motivi differenti.
Feci un respiro profondo e mi voltai verso Chirone, che stava parlando con Percy. Annabeth e Argo si erano già avviati verso il suv bianco che ci aspettava sul ciglio della strada, fuori dalle protezioni del campo.
Grover si stava rialzando da terra, ricoperto di erba, borbottando qualcosa di indistinto e imprecando contro le scarpe che indossava, che mi accorsi essere quelle alate che Luke aveva dato a Percy, mentre Annie e Argo ridevano.
Scossi la testa con un sorriso e vidi Percy infilarsi in tasca una penna, quella penna, con una strana espressione nervosa in volto. Compresi subito cosa stesse pensando.
«Non puoi.» gli dissi, facendoli voltare entrambi verso di me.
«Non posso cosa?»
«Perdere la penna.» risposi. «È incantata. Ti riapparirà sempre in tasca. Provaci. Anche le mie armi hanno un incantesimo simile.»
Era diffidente, lo vedevo dal suo sguardo, ma scagliò la penna il più lontano possibile, in fondo alla collina, e la osservammo scomparire nell'erba.
«Ancora qualche attimo.» feci io, tranquilla. «Ora guardati in tasca.»
Lui la tirò fuori con una certa sorpresa.
«Okay, è davvero forte.» ammise. «Ma che succede se un mortale mi vede estrarre la spada?»
«Vedranno un giocattolo.» risposi. «O una mazza da baseball. O un machete. O un piede di porco.» incrociai le braccia. «O una pistola. Di sicuro, non vedranno una spada di bronzo celeste.»
Percy aveva gli occhi fuori dalle orbite, sembravano due palline da ping pong. Oppure lui sembrava un Black Moor, un pesce telescopio.
Chirone sorrise. «La Foschia è una cosa potente, Percy.»
«La Foschia?»
«Sì. Leggi l'Iliade. La troverai in moltissime situazioni. Ogni volta che elementi divini o mostruosi si mescolano con il mondo mortale, generano una Foschia che oscura la vista degli umani. Tu vedrai le cose per come sono, dal momento che sei un mezzosangue, ma loro le interpreteranno in modo del tutto diverso. È incredibile quello che sono disposti a fare pur di adattare le cose alla propria realtà.»
Percy si infilò Vortice di nuovo in tasca.
«Chirone» disse «quando dici che gli dei sono immortali... cioè, è esistita un'epoca prima di loro?»
«Sono esistite quattro età prima di loro, per la precisione. L'Epoca dei Titani era la Quarta Età, talvolta chiamata Età dell'Oro, secondo una definizione decisamente fuorviante. Questa, l'epoca della civiltà occidentale e del regno di Zeus, è la Quinta Età.»
«Perciò, com'era il mondo prima degli dei?»
Chirone storse le labbra, lanciandomi un’occhiata. «Nemmeno io sono abbastanza vecchio per ricordarlo, figliolo, ma so che per i mortali è stata un'epoca di oscurità e di barbarie. Crono, il re dei Titani, chiamava il suo regno l'Età dell'Oro perché gli uomini vivevano nell'innocenza, ignari di tutto. Ma era soltanto propaganda. Al re dei Titani non importava nulla della vostra razza, tranne quando la usava come antipasto o come intrattenimento a buon mercato. Fu solo agli albori del regno di Zeus, quando Prometeo, il Titano buono, donò il fuoco all'umanità, che la vostra specie cominciò a progredire. Perfino allora Prometeo fu bollato come un ribelle. Zeus lo punì severamente, come forse ricorderai. Naturalmente, gli dei alla fine si sono addolciti nei confronti degli umani ed è nata la civiltà occidentale.»
«Ma gli dei non possono morire. Voglio dire, finché la civiltà occidentale è viva, anche loro sono vivi. Perciò, anche se io fallissi, non potrebbe succedere niente di così tremendo, vero?» la sua voce era speranzosa.
Lo capivo. Al suo posto nemmeno io avrei voluto avere la responsabilità di salvare il mondo dalla distruzione.
Chirone gli sorrise mestamente. «Nessuno sa quanto durerà l'Età dell'Occidente, Percy. Gli dei sono immortali, sì. Ma dopotutto, lo erano anche i Titani. E questi ultimi esistono ancora, rinchiusi in varie prigioni, costretti a patire un dolore e un castigo eterni, indeboliti, ma comunque vivi e vegeti. Gli dei potrebbero essere destinati a una sorte simile e noi potremmo ripiombare nel caos e nelle tenebre del passato... che le Parche non vogliano!» esclamò guardandomi apertamente, come se si aspettasse un mio intervento. «Tutto ciò che possiamo fare, figliolo, è seguire il nostro destino.»
«Ammesso di sapere qual è.» osservò Percy.
«Tranquillo.» lo rassicurai. «Cerca di restare lucido. E ricorda che forse stai per impedire la guerra più colossale della storia dell'umanità.»
«Tranquillo?» ripetè. «Come no! Sono molto tranquillo.» poi si incamminò verso il suv, lasciando soli Chirone e me.
Lui sospirò, prima di tirarsi in piedi e sgranchirsi gli zoccoli.
«Tu sai cosa lo aspetta.» mi disse. «Fai tutto ciò che è in tuo potere perché non fallisca.»
«No.» ribattei. «Farò tutto ciò che è in mio potere per non interferire. Così come ho sempre fatto.»
«Avalon…» mi si avvicinò, sovrastandomi con la sua statura equina. «Non puoi tirarti indietro. Non questa volta. Per quanto lo vorresti.»
Misi un paio di passi di distanza tra noi, per non distruggermi il collo mentre lo guardavo negli occhi.
«Chirone.» feci con lo stesso tono. «Non ho intenzione di ripetere lo stesso errore. Non questa volta. C’è fin troppo in ballo, perché io distrugga tutto con una parola di troppo.»
Il centauro capì che ero fin troppo seria e che non sarebbe riuscito a smuovermi nemmeno con l’aiuto delle Parche o Apollo in persona, gli unici a cui – forse – avrei dato davvero ascolto su quell’argomento.
«Sii prudente.» aggiunse soltanto prima di prendere il suo arco e alzarlo in segno di saluto, rimanendo fermo sotto il pino di Talia.
Osservai attentamente il campo, dicendo a me stessa che lo avrei rivisto presto, poi scesi la collina, raggiungendo gli altri. Mi voltai per qualche secondo a osservare il mio maestro, ancora fermo nel suo saluto, prima di voltarmi e infilarmi dentro il suv, nel posto accanto al guidatore.
 

****

 
Argo ci condusse fuori dalla campagna, nell'area occidentale di Long Island. Era strano ritrovarsi di nuovo in autostrada, con Annabeth e Grover seduti dietro accanto a Percy come se fossimo dei passeggeri normali. Dopo due settimane sulla Collina Mezzosangue, la mia vera casa, il mondo esterno era tornato a sembrarmi un’illusione. Mi ritrovai a fissare distrattamente fuori dal finestrino, su cui vedevo il riflesso di Argo al posto di guida, riflettendo sui pericoli che avremmo incontrato in questo viaggio.
«Finora tutto bene.» sentii dire da Percy. «Abbiamo fatto quindici chilometri e non abbiamo incontrato un solo mostro.»
Sbuffai senza voltarmi. «Congratulazioni, Mollusco. L’hai appena gufata.»
«Porta male dire queste cose, Testa d'Alghe.» aggiunse Annie con tono seccato.
«Ridimmelo, perché mi odi così tanto?»
«Io non ti odio.»
«Mi hai quasi convinto.»
Li osservai con la coda dell’occhio e vidi Annabeth ripiegare il suo il suo berretto dell'invisibilità. «Senti... è solo che noi due non dovremmo andare d'accordo, okay? I nostri genitori sono rivali.»
«Perché?» chiese Percy.
Lei sospirò. «Quante ragioni vuoi? Una volta mia madre ha beccato Poseidone e la sua ragazza che se la spassavano nel tempio di Atena: un’enorme mancanza di rispetto. Un'altra volta, Atena e Poseidone si sono contesi la supremazia sulla città di Atene. Tuo padre ha offerto in dono uno stupido pozzo d'acqua salata. Mia madre invece ha creato l'ulivo. Il popolo ha capito che era un dono migliore e ha dato il suo nome alla città.»
«Devono proprio andare pazzi per le olive.»
«Oh, piantala.»
«Certo, se avesse inventato la pizza, li avrei capiti.»
«Ti ho detto di piantarla!»
Mi scambiai uno sguardo con Argo e non potemmo fare a meno di sorridere. Non dicemmo nulla, ma non ce ne fu bisogno.
Il traffico nel Queens rallentò la nostra corsa. Quando arrivammo a Manhattan, era ormai il tramonto e cominciava a piovere.
Argo ci fece scendere alla stazione degli autobus dell'Upper East Side, non lontano dall’appartamento della madre di Percy.
Aiutai Argo a scaricare i nostri bagagli, lui si assicurò che avessimo i biglietti, mi strinse una spalla per darmi coraggio, poi ripartì, aprendo l'occhio sul dorso della mano per sorvegliarci mentre usciva dal parcheggio. Scossi la testa osservandolo allontanarsi: chissà come, riusciva sempre a capire tutto. A volte mi chiedevo se quegli occhi non fossero magici, in qualche modo, e vedessero oltre ciò che vedevano tutti gli altri.
Grover si infilò lo zaino in spalla e scrutò la strada nella direzione in cui stava guardando Percy. Io feci lo stesso e lo affiancai.
«Vuoi sapere perché l'ha sposato, Percy?» gli chiese il satiro.
Lui lo guardò stupito. «Mi stavi leggendo nel pensiero?»
«No, leggevo solo le tue emozioni.» alzò le spalle. «Mi sa che ho dimenticato di dirti che i satiri lo sanno fare. Stavi pensando a tua madre e al tuo patrigno, giusto?»
Percy annuì.
«Tua madre ha sposato Gabe per te.» gli spiegò Grover. «Lo chiami “il Puzzone” ma non hai idea di quanto sia vero. L'aura di quel tizio... bleah! Riesco a sentirla da qui. Riesco perfino a sentirne le tracce su di te, e non ti avvicini a lui da settimane.»
«Grazie.» replicò l’altro. «Dov'è la doccia più vicina?»
«Dovresti essergli grato, Percy.» dissi io. «La puzza mortale del tuo patrigno è talmente ripugnante che riuscirebbe a mascherare la presenza di qualsiasi semidio. L'ho capito al primo sguardo, entrando in casa tua: Gabe ha coperto il tuo odore per anni. Se non fossi vissuto con lui ogni estate, probabilmente i mostri ti avrebbero scovato molto tempo prima. Tua madre è rimasta con lui per proteggerti. Era una donna intelligente. Doveva volerti molto bene per sopportare quel tizio... se la cosa ti può consolare.» conclusi con un sospiro e dandogli una leggera pacca sulla spalla, anche se sapevo che non lo consolava per niente.
La pioggia continuava a cadere.
Rimanemmo ad aspettare l’autobus per non so quanto e io mi persi nei miei turbolenti pensieri, osservando tutta quella gente mortale andare avanti e indietro per la strada in modo frenetico. Che fortuna che avevano, e nemmeno se ne rendevano conto. Vivevano delle vite così semplici, in confronto alle nostre. Così prive di pericoli. Così prive di mostri e di morti. Così prive di paura…
Mi riscossi soltanto quando qualcosa mi colpì in testa. Mi voltai di scatto e raccolsi l’oggetto da terra, non facendo caso alle innumerevoli scuse di Grover, che sventolava freneticamente le mani a qualche passo da me. Era una mela, constatai con sorpresa. Spostai lo sguardo dal frutto e lo fissai sui miei compagni con un sopracciglio inarcato.
«Ci stavamo annoiando.» disse Percy, con fare colpevole.
Come se anche lui si stesse scusando per avermi tirato fuori dalla mia mente.
Non ero arrabbiata, così mi limitai a levarmi lo zaino e a riprendere il gioco che stavano facendo, cominciando a far rimbalzare la mela su ogni parte del mio corpo: spalle, gomiti, testa, ginocchia, punta del piede, sedere. Poi la lanciai ad Annie, che stava apertamente sorridendo, e la vidi fare lo stesso prima di passarla a Percy. Anche lui era piuttosto bravo, e passammo il nostro tempo così, in attesa dell’autobus, fino a quando Percy non lanciò la mela troppo vicino alla bocca di Grover, che non fece altro che allungarsi leggermente in avanti e divorarla come se non mangiasse da mesi. Torsolo, picciolo, buccia e tutto il resto. Non rimase nulla, nemmeno l’odore.
Scoppiammo a ridere in maniera incontrollata, mentre Grover arrossì e tentò di scusarsi. Non ci prestammo attenzione, troppo divertiti dalla scena a cui avevamo appena assistito.
Quando, finalmente, l’autobus arrivò e ci accomodammo nei sedili in fondo dopo che gli altri avevano riposto gli zaini, vidi Percy sospirare di sollievo. Annie continuava a battersi il berretto degli Yankees sulla coscia e io mi limitai a tenere lo zaino sulle gambe, rigirandomi uno degli anelli in bronzo celeste che portavo alla mano destra, dono di una delle mie altre sorelle. Eravamo entrambe nervose: io per un motivo piuttosto chiaro, lei perché non si sentiva a suo agio. Soprattutto dato che Grover, prima di salire sull’autobus, aveva fiutato qualcosa. Anche se non sapeva cosa. Io mi tenevo pronta a qualsiasi evenienza.
Quando l’autista chiuse le porte, sentii Percy irrigidirsi accanto a me, dall’altro lato rispetto ad Annabeth, e allo stesso tempo la figlia di Atena richiamò la nostra attenzione con un gesto, indicandoci l’ingresso del pullman: tre vecchiette erano salite subito prima della chiusura delle porte, e noi la prima la conoscevamo benissimo. Indossava un vestito di velluto stropicciato, dei guanti di pizzo, un cappello di maglia arancione tutto sformato che le copriva il volto e reggeva una grossa borsa a disegni cachemire. Quando alzò la testa vidi distintamente i suoi occhi neri brillare maligni e sentii Percy rannicchiarsi sul sedile accanto al mio. Io trattenni il fiato.
Il Vecchio Pipistrello era già tornato e ci aveva trovati. E si era portata dietro le sue sorelle. Davvero splendido.
La prima aveva un cappello verde mentre la seconda un cappello viola, ma le avrei riconosciute subito perché erano identiche a quella che, per un anno, avevo chiamato professoressa Dodds: stesse mani piene di rughe, stesse borse a motivo cachemire, stesso vestito di velluto stropicciato. E avevano gli stessi occhi demoniaci.
Si sedettero davanti, proprio dietro l'autista. Le due vicino al corridoio incrociarono le gambe, formando una X che ingombrava il passaggio. Era un gesto casuale, ma mandava un messaggio chiaro: di qui non si passa.
L'autobus lasciò la stazione e ci addentrammo nelle strade lucide di Manhattan. Io cominciai a fare dei respiri profondi per evitare di farmi prendere dal panico. Questo viaggio cominciava male. Non eravamo nemmeno usciti da New York e ci avevano già trovati. Percy l’aveva proprio gufata di brutto.
«Non è rimasta morta a lungo.» commentò lui, cercando senza successo di impedire alla sua voce di tremare. «Ma non avevi detto che si potevano allontanare per una vita intera, Annabeth?»
«Se sei fortunato.» precisò Annabeth. «E tu ovviamente non lo sei.»
«Soprattutto dopo la tua uscita sul pulmino.» aggiunsi.
«Sono tutte e tre.» piagnucolò Grover. «Di immortales!»
«Va tutto bene.» disse Annabeth, che stava chiaramente ragionando alla svelta. «Le Furie. I tre peggiori mostri degli Inferi. Non c'è problema. Non c'è problema. Fuggiremo dai finestrini.»
«Che non si aprono.» ribattei io, ovvia.
«L’uscita posteriore?» suggerì lei.
«Che non c’è.» continuai con lo stesso tono.
E anche se ci fosse stata, non sarebbe servita. Ormai eravamo già sulla Nona Strada, diretti alla galleria Lincoln.
«Non ci attaccheranno con tutti questi testimoni.» disse Percy. «Giusto?»
«I mortali non hanno la vista buona.» gli ricordò Annabeth. «Il loro cervello riesce a elaborare solo quello che vedono attraverso la Foschia.»
«Ma vedranno tre vecchiette che vogliono ucciderci.»
Lei ci pensò su. «Chi lo sa.» mi lanciò uno sguardo e io alzai gli occhi al cielo. «Non possiamo contare sull'aiuto dei mortali. Forse c'è un'uscita di emergenza sul tetto…»
Entrammo nella galleria Lincoln e l'autobus diventò buio, tranne che per le luci del corridoio. C'era un silenzio irreale senza il rumore della pioggia.
La Dodds si alzò. In tono piatto, come se recitasse una parte imparata a memoria, annunciò all'intero autobus: «Devo andare al gabinetto.»
«Anch'io.» disse la seconda sorella.
«Anch'io.» aggiunse la terza.
«Ahi ahi.» commentai a bassa voce. «Siamo nei guai.»
E insieme cominciarono a scendere lungo il corridoio.
«Ci sono!» esclamò Annabeth. «Percy, prendi il mio berretto.»
«Cosa?»
«Vogliono solo te. Diventa invisibile e risali il corridoio. Lasciale passare. Così forse arriverai in cima e potrai scappare.»
«Ma voi…»
«C'è una remota possibilità che non ci notino.» rispose Annabeth. «Tu sei un figlio dei Tre Pezzi Grossi. Il tuo odore potrebbe coprire tutto il resto.»
«Io non ci giurerei.» borbottai osservando la galleria fuori dal finestrino. Eravamo ancora lontani dall’uscita.
«Non posso abbandonarvi così.» protestò Percy.
«Non ti preoccupare per noi.» disse Grover. «Vai!»
Gli tremavano le mani, così presi il berretto da Annie e glielo ficcai in testa. Scomparve all’istante.
Dopo una manciata di secondi vidi la Dodds fermarsi e annusare l’aria, voltandosi verso un sedile vuoto. Pregai chiunque fosse in ascolto – preferibilmente suo padre e non uno dei suoi zii – che Percy non venisse scoperto.
Dopo essere rimasta ferma per qualche secondo, il Vecchio Pipistrello riprese la sua avanza nella nostra direzione, seguita dalle sorelle.
Ed eravamo quasi alla fine della galleria.
Peccato che non fu sufficiente, perché quei pipistrelli rattrappiti si avvicinarono a noi tre e cambiarono i loro aspetti, mostrandosi per ciò che erano in realtà: i volti rimasero gli stessi, ma i corpi si erano raggrinziti in scuri e coriacei corpi di vecchie megere, con vere ali da pipistrello e mani e piedi degni di Edward Mani Di Forbice. Le borse erano diventate delle fruste infuocate.
Ci circondarono e Grover emise un gemito terrorizzato, mentre facevano scoccare le fruste a qualche centimetro dai nostri corpi.
«Dov’è?» sibilarono. «Dove l’avete messo?»
Dove avete messo cosa? Pensai, interdetta. Poi capii e sgranai gli occhi, dandomi mentalmente dell’idiota. Ci mancò poco che mi dessi una sberla da sola… Era ovvio che lo stessero cercando, dopotutto anche quello era sparito.
Gli altri passeggeri strillavano, accovacciati sui sedili. Qualcosa vedevano, dopotutto.
«Non è qui!» gridò Annabeth. «Se n'è andato!»
Le Furie levarono le fruste.
Annabeth estrasse il coltello di bronzo. Grover prese una lattina dalla sua scorta di spuntini e si preparò a tirarla. Io sfilai lentamente l’anello che mi ero rigirata per tutto il tempo.
Quello che successe l’attimo dopo fece male. E mi fece borbottare qualcosa del tipo “Brutto Mollusco iperattivo senza cervello. Questa me la paghi. Ti faccio al forno e ti do in pasto ai mostri del bosco.”
Percy aveva preso il controllo del volante e aveva sterzato tutto a sinistra facendomi sbattere violentemente contro il finestrino, con Annabeth e Grover che mi erano venuti addosso. Sentii un dolore lancinante alla spalla destra ma cercai di non farci caso. Avevamo problemi più urgenti.
«Ehi!» sentii gridare quello che supposi essere l’autista. «Che diamine!»
Lo sentii imprecare, mentre tentavo di tenermi al sedile con il braccio sano per impedirmi di essere sballottata qua e là come una bambola di pezza. L’autobus stava andando a zig zag come uno sciatore in una gara di slalom, e continuava a finire contro le pareti della galleria schizzando scintille da tutte le parti. A ogni colpo che ricevevo sentivo la spalla gemere e il dolore aumentare. Per non parlare delle altre auto presenti nel tunnel che saltavano via come palline rimbalzine fuori di testa.
Chissà come, l’autista e Percy – litigandosi ancora il volante, vedendo come continuavamo ad andare avanti – riuscirono a portarci fuori dalla galleria e dall’autostrada, fregandosene bellamente di tutti i semafori che incontrammo, e finendo in una stradina di campagna del New Jersey. Alla nostra sinistra c’era un bosco, mentre a destra il fiume Hudson. Vidi il fiume avvicinarsi sempre di più e capii che l’autista ci si voleva buttare dentro per fermare quella giostra impazzita.
Qualcuno tirò il freno d’emergenza.
Sbattei la testa contro il sedile davanti al mio, come Grover e Annabeth, imprecando in tutte le lingue che conoscevo contro quel Mollusco decerebrato che mi ostinavo a chiamare amico. Dubitavo sarebbe successo ancora per molto, se continuava a tentare di ammazzarci…
Nel frattempo, l’autobus emise un lungo gemito, compì un giro completo su se stesso sull’asfalto bagnato dalla pioggia, e si schiantò fra gli alberi dall’altra parte della strada rispetto al fiume.
Le luci di emergenza si accesero di colpo e le porte si spalancarono, permettendo all’autista e agli altri passeggeri di scappare fuori, gridando terrorizzati. Non vidi dove fosse Percy, a causa del cappellino degli Yankees, ma non me ne preoccupai. Avevo problemi più urgenti al momento… tipo quelle tre vecchie pipistrelle che si erano raddrizzate in un lampo e ci stavano per attaccare con le loro fuste infuocate. Annie, accanto a me, strillò in greco antico agitando il coltello davanti a sé, come se avesse potuto tenerle lontane in quel modo, mentre Grover lanciava loro contro le sue lattine. Io avevo recuperato il mio anello e lo stavo per lanciare, mirando alla fronte della Furia più vicina, quella con il cappello viola.
«Ehi!» sentii urlare da un punto alle spalle delle megere.
Fermai il braccio e alzai gli occhi al cielo. Avevo pregato che la mia presenza cambiasse questo momento ma, a quanto pare, il Mollusco rincitrullito era rimasto della stessa stupida idea…
Le Furie si voltarono, scoprendo le zanne ingiallite. Percy le osservava con il berretto tra le mani, seduto al posto dell’autista.
La Dodds percorse il corridoio a grandi passi, avvicinandosi a lui fin troppo velocemente, con la frusta che schioccava e sprizzava fiamme rosse a ogni passo.
Le altre saltarono sugli schienali dei sedili per fiancheggiarla, e cominciarono a strisciare verso di lui.
«Perseus Jackson.» disse la Dodds. «Hai offeso gli dei e morirai.»
«Mi piaceva di più come prof di matematica.» replicò lui.
La megera ringhiò.
Io feci un cenno silenzioso ad Annie e Grover e cominciammo a muoverci lentamente dietro le Furie con i nostri zaini, cercando un varco per superarle e raggiungere quell’idiota del figlio di Poseidone, e pregando che non facesse nient’altro di stupido.
Percy tirò fuori Anaklusmos dalla tasca e tolse il cappuccio, permettendo alla lama di allungarsi e di prendere forma.
«Non è possibile.» sibilai talmente piano che Annabeth e Grover mi sentirono a malapena. «Non può essere così scemo.»
I miei due amici mi lanciarono l’occhiata di chi era perfettamente in grado di capire cosa intendessi, ma non distolsi lo sguardo dal gruppetto davanti a noi.
Vidi le Furie esitare, forse a causa del fatto che la Dodds era già stata uccisa da quella spada. Lo capii dalla tensione che la percorse, perfettamente visibile nelle sue ali da pipistrello diventate completamente rigide.
«Arrenditi subito.» sibilò. «E non patirai il tormento eterno.»
«Bel tentativo.» rispose lui.
«Percy, attento!» gridò Annabeth.
In quel momento la Dodds schioccò la frusta, attorcigliandola attorno alla mano con cui Percy reggeva la spada, mentre le sue sorelle gli si scagliavano contro. Percy strinse la presa attorno a Vortice per non lasciarla cadere e colpì con l'elsa la Furia a sinistra, spingendola a gambe levate su un sedile.
Io strinsi la presa sull’anello, mirai, e lo lanciai con tutta la forza che avevo verso la Furia alla sua destra. A metà tragitto, l’anello si trasformò in un sai terribilmente affilato che, appena le sfiorò il collo, riuscì a disintegrarla.
Bene, pensai spostandomi cautamente verso gli altri, una è andata.
Annabeth si slanciò in avanti, afferrò la Dodds alle spalle e la tirò indietro, mentre Grover le strappava la frusta di mano, gridando: «Ahi! Scotta! Scotta!»
Ed ecco un altro idiota che non pensa prima di agire.
La Furia che Percy aveva allontanato con l'elsa si fece di nuovo avanti, sfoderando gli artigli, ma lui la colpì con un fendente di Vortice e quella venne tranciata a metà.
La Dodds stava cercando di scrollarsi Annabeth di dosso. Scalciava, graffiava, sibilava e mordeva, ma Annabeth teneva duro, e Grover riuscì a legarle le gambe con la sua stessa frusta. Alla fine la scagliarono insieme in fondo al corridoio, facendola passare sopra la mia testa mentre li raggiungevo tenendomi la spalla. Il mostro cercò di alzarsi, ma non aveva abbastanza spazio per sbattere le ali, così continuava a cadere.
«Zeus ti distruggerà!» promise. «Ade avrà il tuo spirito!»
«Braccas meas vescimini!» le rispose lui.
«Non l’hai detto davvero.» commentai, voltandomi nella sua direzione con espressione disgustata. «Ti prego, dimmi che non hai davvero detto “mangiami le mutande”…»
Percy mi guardò. «Perché?»
Un tuono scosse l'autobus, facendomi drizzare i capelli sulla nuca.
«Ecco perché!» esclamai riuscendo a infilarmi lo zaino su una spalla e a rimettermi l’anello al dito. «Fuori!» ordinai. «Subito!»
Li spinsi verso le porte con il braccio sano, e loro furono abbastanza intelligenti da darmi ascolto. Ci precipitammo all'esterno e trovammo gli altri passeggeri che vagavano storditi attorno all’autobus, litigavano con l'autista o correvano gridando: “Aiuto! Moriremo tutti!”.
Vidi un turista con la camicia hawaiana scattare una foto a Percy prima che riuscisse a rimettere il cappuccio alla spada ma accantonai la cosa. Continuai a spintonare gli altri il più lontano possibile dal mezzo.
«Gli zaini!» si accorse Grover, voltandosi per correre dentro a prenderli. «Abbiamo lasciato gli…»
BUUUUUM!
I finestrini dell'autobus esplosero e i passeggeri corsero a ripararsi. Il fulmine scoperchiò un enorme cratere sul tetto, ma da un gemito rabbioso proveniente dall'interno mi resi conto che la Dodds non era ancora morta.
Avrei dovuto infilzarla con il pugnale, maledizione.
«Scappiamo!» ci esortò Annabeth. «Sta chiamando rinforzi! Dobbiamo andarcene di qui!»
Ci slanciammo nel bosco sotto la pioggia scrosciante, con l'autobus in fiamme alle nostre spalle e il buio davanti a noi.

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Capitolo 12
*** 11. Facciamo la conoscenza di una sottospecie di basilisco umano ***


Stavo imprecando in greco antico da oltre mezz’ora, motivo per cui sembravamo inseguiti da una tempesta di tuoni e fulmini intenti a giocare al tiro al bersaglio. Quel Babbeo Divino, però, non poteva certo lamentarsi se lo incolpavo per la situazione in cui ci trovavamo al momento: il suo scherzetto con l’autobus ci aveva costretti a scappare in mezzo ai boschi del New Jersey come dei disperati – che effettivamente eravamo – con il fetore dell’Hudson nelle narici e il cielo notturno alle spalle. E, come se non bastasse, lui ci mandava anche la pioggia. E aveva il coraggio di criticare il mio modo di chiamarlo! Quell’ignorante Dio degli Imbecilli Piumati ne avrebbe sentite di gran lunga di peggio, se me lo fossi ritrovato davanti. Doveva sperare che, alla fine di questo casino, io fossi giusto un po’ più calma, altrimenti si sarebbe pentito di non aver dato il via alla guerra con suo fratello.
«Stupido Zio Piccione!» borbottai al cielo beccandomi un’altra scarica di tuoni in risposta. «Cacasotto.»
Grover rabbrividiva e ragliava, lanciandomi parecchie occhiate con i sui grandi occhi caprini con le pupille assottigliate, colmi di terrore. «Tre Benevole. In una volta sola.»
Non era il solo ad essere scioccato. Percy sembrava ancora perso nell’esplosione, ed ero sicura che Annabeth non stese meglio di loro, anche se si limitava ad andare avanti.
«Coraggio! Più ci allontaniamo, meglio è.» affermava, risoluta.
Non potevo darle torto, sinceramente.
«Laggiù c'erano i nostri soldi.» le ricordò Percy. «E anche il cibo e i vestiti. Tutto.»
«Beh, forse se tu non avessi deciso di buttarti nella mischia…»
«Che volevi che facessi? Dovevo lasciarvi ammazzare?»
«Non avevo bisogno della tua protezione, Percy. Me la sarei cavata.»
«Sicuro. Ti avrebbero fatta a pezzi» intervenne Grover «ma te la saresti cavata.»
«Piantala, ragazzo-capra.» lo apostrofò Annabeth.
Grover ragliò mestamente. «Lattine… una busta intera di lattine.»
«In realtà non è detto…» mormorai io camminando accanto ad Annie, lo zaino sulla spalla sana e la mano stretta sull’altra, tentando di tenerla il più ferma possibile. «E poi, là c’era quasi tutto.»
I miei tre compagni si fermarono di botto, osservandomi come se avessero appena visto Cerbero in tutù rosa che ballava danza classica.
«Che vuol dire “non è detto”?» mi chiese Annabeth con sguardo indagatore. «E da quando parli del futuro così tranquillamente?»
«Non è più un possibile futuro.» scrollai le spalle. «Le scelte che sono state fatte lo hanno scartato, rendendolo solo un sogno che non si realizzerà mai.»
«E… come sarebbe stato questo futuro?» indagò Percy.
«Brutto, per te.» rivelai senza più problemi, dato che non parlarne non metteva in pericolo né il presente né i futuri che avevo Visto. «In un percorso noi sopravvivevamo e tu morivi tra atroci sofferenze, bruciato vivo dalle fruste delle Benevole. In un altro morivamo tutti dopo essere stati brutalmente torturati. In un terzo interveniva qualcosa e la scampavamo per un soffio, ma tu ti ritrovavi senza un braccio. In un altro ancora… no, meglio che non ve lo dico. È troppo assurdo.» scossi la testa, ripensandoci. «Erano e tutti più o meno così, comunque. Questo è stato sicuramente il migliore futuro che potesse capitarci. Per adesso.» Percy era pallido come uno spirito. «Ma non azzardarti mai più a gufarcela come hai fatto prima!» lo ammonii, puntandogli contro l’indice. «Mi sono spiegata?»
Lui annuì, incapace di dire una sola parola. Dovevo proprio averlo spaventato… bene. Così, magari, impara ad essere più prudente. Spero.
Riprendemmo la marcia, sguazzando con i piedi su un terreno molliccio, fra brutti alberi contorti che odoravano di biancheria sporca.
Dopo qualche minuto, Annabeth mi lasciò per avvicinarsi a Percy e io mi misi ad ascoltarli senza farmi notare. Ero proprio curiosa di vedere quali cose si sarebbero detti…
«Senti, io…» disse «…apprezzo il fatto che sei tornato indietro per noi, okay? È stato molto coraggioso.»
«Siamo una squadra.»
Lei restò zitta per qualche altro passo. «Solo che se tu morissi, a parte il fatto che sarebbe una gran brutta cosa per te, significherebbe la fine dell'impresa. Questa potrebbe essere la mia unica occasione di vedere il mondo reale.»
Il temporale finalmente era cessato. Il bagliore della città si era affievolito, lasciandoci quasi totalmente al buio. Non osai voltarmi per osservarli, limitandomi ad andare avanti stando attenta a dove mettevo i piedi per evitare di cadere come un’idiota. Non potevo permettermi un’altra ferita.
«Non sei mai uscita dal Campo Mezzosangue da quando avevi sette anni?» le chiese lui.
«No, tranne per qualche gita. Mio padre…»
«Il professore di storia.»
«Già. A casa le cose non andavano. Cioè, casa mia è il Campo Mezzosangue.» parlava in fretta, adesso, come se temesse che qualcuno potesse cercare di fermarla, e io capii al volo quanto fosse nervosa. Era un argomento spinoso, quello. «Al campo non fai altro che allenarti. Ed è fantastico, davvero, ma il posto in cui si trovano i mostri è il mondo reale. È qui che capisci davvero quanto vali.»
Un quasi impercettibile tremolio nella sua voce mi fece pensare che non ne fosse poi così sicura, ma accantonai la cosa ripromettendomi di parlarne con lei più tardi.
«Sei brava con quel coltello.» le disse Percy.
«Dici?»
«Chiunque sia capace di montare a cavalluccio di una Furia è a posto, per me.»
Percepii il suo sorriso anche senza voltarmi. Percy aveva detto proprio le parole giuste.
«Sai» cominciò «forse dovrei dirtelo. È successa una cosa strana sull'autobus…»
Sapevo esattamente cosa intendesse, lo avevo notato anch’io. Ma, a differenza sua, sapevo esattamente cosa significasse.
Qualunque cosa volesse dire, fu interrotta da uno stridulo "Uuh-uuh", come il verso di un gufo torturato. Mi aveva appena trapanato l’orecchio destro, che mi affrettai a strofinare nel tentativo di capire se era vivo o se era andato a farsi un giro negli Inferi.
«Ehi, il mio flauto funziona ancora!» esclamò Grover. «Se solo riuscissi a ricordarmi una canzone per ritrovare la strada, potremmo finalmente uscire da questo bosco!»
Soffiò qualche nota, ma la melodia era ancora fin troppo simile a Hilary Duff. Invece di ritrovare la strada, però, Percy si schiantò letteralmente contro un albero, procurandosi un bernoccolo sulla testa che riuscivo a vedere perfettamente nonostante il buio. Doveva averla più dura di quanto pensassi…
Dopo circa un chilometro con in sottofondi il Mollusco che imprecava, inciampava e faceva di tutto tranne che stare in silenzio, vidi un’insegna al neon spuntare in mezzo agli alberi, e il profumo di cibo fritto invase le mie narici, che non sentivo da quando ero tornata al Campo Mezzosangue.
Mi misi subito all’erta, conscia di ciò che, probabilmente, ci aspettava al di là degli alberi. I ragazzi, invece, sembravano aver riacquistato improvvisamente tutte le loro energie, procedendo spediti verso l’insegna.
Continuammo a camminare finché tra gli alberi non sbucò una strada deserta. Sul ciglio della strada, di fronte a noi, c'erano un distributore di benzina in disuso, il cartellone pubblicitario di un film degli anni Novanta e uno di quei negozi che vendeva di tutto e di più, ogni tipo di chincaglieria possibile. Sembrava un vecchio magazzino lungo e basso ma era aperto, completamente circondato da statue di cemento particolarmente inquietanti ed era l'origine della luce al neon e del profumo appetitoso.
L'insegna altamente accecante sopra la porta era praticamente illeggibile per i semidei, perché se c'è una cosa che non siamo proprio capaci di leggere oltre al corsivo, è il corsivo rosso al neon.
Decifravo una roba tipo: DAIZA ME, LEPMROIO DIE NNATTIE DA GRIADNIO. Ma fortunatamente, o forse no, sapevo esattamente cosa ci fosse scritto in realtà.
Perciò, quando Percy chiese: «Che accidenti dice?» e Annabeth rispose: «Non lo so.» parlai in automatico, sovrapponendo la mia voce a quella di Grover: «Da zia Em, l'emporio dei nanetti da giardino.»
Completai il tutto con una smorfia schifata, indice di quanto poco mi piacesse quel posto, con ancora la mano a stringermi la spalla che, probabilmente, era slogata e faceva un male cane.
Gli altri mi guardarono con espressioni interrogative ma mi rifiutai di spiegare, limitandomi a borbottare qualcosa come “odio i basilischi” distogliendo lo sguardo dal loro e puntandolo su due orrendi omuncoli barbuti di cemento accanto all’ingresso, che sorridevano e salutavano con la mano come se fossero in posa per una foto e che dovevano essere i “famosi” nanetti da giardino dell’insegna.
Percy attraversò la strada, probabilmente seguendo il profumo degli hamburger, seguito subito dalla figlia di Atena.
«Ehi!» fece Grover, andandogli dietro.
«Ci sono le luci accese.» replicò Annabeth. «Forse è aperto.»
«Snack-bar.» disse il Mollusco con voce sognante.
«Snack-bar.» concordò lei.
«Siete diventati matti?» esclamò Grover. «Questo posto è assurdo.»
Felice di non essere l’unica a pensarlo. Loro, però, lo ignorarono completamente, e mi ritrovai costretta a raggiungerli, alzando gli occhi al cielo per l’esasperazione.
Altri guai in arrivo. Fantastico.
Il cortile d'ingresso era una vera e propria foresta composta da statue di tutti i tipi: animali di cemento, bambini di cemento, perfino un satiro di cemento che suonava il flauto e che fece venire a Grover la pelle d'oca.
«Bee-bee!» belò. «Somiglia a mio zio Ferdinand!»
Distolsi lo sguardo, particolarmente a disagio. Forse perché è lui…
Ci fermammo davanti alla porta del magazzino.
«Non bussare.» supplicò Grover. «Sento odore di mostri.»
«Hai il naso intasato dalle Furie.» gli disse Annabeth. «Io sento solo profumo di hamburger. Non hai fame?»
«Carne!» replicò lui, risentito. «Io sono vegetariano.»
«Tu mangi enchiladas al formaggio e lattine di alluminio» gli ricordò Percy.
«Sempre di verdura si tratta. Dai, andiamo via. Queste statue mi stanno guardando.»
Poi la porta si aprì con un cigolio e ci trovammo davanti una donna mediorientale – o perlomeno, indossava un lungo abito nero che la copriva per intero, a parte le mani, e aveva la testa completamente avvolta in un velo. Gli occhi scintillavano dietro uno strato di garza nera, ma non riuscivo a distinguere altro, e ne ero segretamente felice. Le mani color caffè sembravano vecchie, ma erano curate ed eleganti, e io sapevo che un tempo era stata una bellissima donna.
Mi pietrificai sul posto, irrigidendo ogni singolo muscolo del mio corpo, e Grover lo notò, passando lo sguardo da me alla nuova arrivata tentando di capire cosa stava succedendo, cosa sapevo io che loro ignoravano. Sapevo che non avrei dovuto, ma non riuscii proprio a controllarmi. Fu più forte di me.
«Detesto i basilischi.» sibilai talmente piano che non mi sentì nessuno.
O così credevo…
Anche il suo accento suonava vagamente mediorientale. Disse: «Bambini, è tardi per andarsene in giro tutti soli. Dove sono i vostri genitori?»
«Sono… ehm…» cominciò Annabeth.
«Siamo orfani.» rispose Percy, cogliendola totalmente di sorpresa.
«Orfani?» ripeté la donna dispiaciuta. Detta da lei sembrava una parola sconosciuta. «Oh, poveri cari! Non posso crederci!»
Non era poi così lontano dalla verità, se ci pensavo. In un certo senso lo eravamo davvero.
«Abbiamo perso il convoglio.» Percy continuò la farsa. «Il convoglio del circo. Il direttore ci aveva detto di aspettarli al distributore nel caso ci fossimo persi, ma forse se n'è dimenticato o intendeva un altro distributore. Comunque sia, ci siamo persi. Sbaglio o sento profumo di cibo?»
«Oh, poveri cari.» esclamò di nuovo la donna. «Dovete entrare, poveri bambini. Io sono zia Em. Accomodatevi pure sul retro. C'è un'area di ristoro.»
Il Mollusco e la Civetta la ringraziarono ed entrarono. Grover li seguì, ma io rimasi ferma sulla soglia guardandomi intorno, fin troppo indecisa su come comportarmi. Sapevo quale fosse la cosa giusta: fare come loro, stare al gioco e non intervenire. Ma non riuscivo a muovere un passo.
«Qualcosa non va, mia cara?» mi domandò la donna, non l’avrei mai chiamata zia, ferma nell’esatta posizione di prima e in attesa che la superassi.
La fissai apertamente negli occhi coperti dal velo. «Che coincidenza che lei fosse aperta a quest’ora, vero?»
«Non direi.» rispose, suadente. «Io non credo nelle coincidenze, sai? Penso, piuttosto, che il Fato abbia voluto così, e che il Destino abbia programmato il nostro incontro.»
Strinsi la mano sulla spalla, mandandomi fitte di dolore in tutto il corpo.
Lei sapeva chi fossi. Io sapevo che lei sapeva. E lei sapeva che io sapevo.
Sarebbe stato un gran casino. E un miracolo se nessuno dei ragazzi si faceva male.
Distolsi lo sguardo e, con un sospiro, raggiunsi gli altri, che si erano diretti nel retro del magazzino alla ricerca dell’area ristoro, ignorando completamente le altre statue-che-non-erano-statue a grandezza naturale. Avevo visto perfettamente quella donna chiudere a chiave la porta, ma non me ne curai: aprirla era fin troppo facile. Dovevo sperare che, alla fine, avessimo abbastanza mobilità per farlo. Quel citrullo di un Mollusco non aveva per niente chiaro il significato della parola prudenza.
L’area ristoro era di una banalità assurda: un bancone da fast food, un distributore di bibite, uno scaldavivande per i pretzel e un dosatore per le salse più qualche tavolo da picnic.
«Accomodatevi.» ci invitò Em.
«Fantastico.» esultò Percy.
Dovetti trattenermi dallo spiaccicarmi una mano sul volto. Il Mollusco era davvero idiota.
«Ehm» intervenne Grover con riluttanza, specchio parlante di come mi sentivo io «noi non abbiamo soldi, signora.»
Non era del tutto esatto, ma mi astenni caldamente dal dirlo. Non avrei dato nemmeno un centesimo disegnato a quella donna.
Purtroppo Em replicò: «No, no, bambini. Niente soldi. Questo è un caso speciale, no? Offro io, a dei simpatici orfanelli come voi.»
«Grazie, signora.» disse Annabeth.
Em si irrigidì, come se Annabeth avesse detto qualcosa di sbagliato, ma poi si rilassò subito. Ovviamente non le era ancora passata… al suo posto, probabilmente, anch’io sarei ancora arrabbiata.
«Non c'è di che, Annabeth.» rispose. «Hai dei bellissimi occhi grigi, bambina.»
Sbuffai contrariata. Ovviamente conosceva il suo nome. Sapeva chi ero io, era fin troppo ovvio che sapesse anche chi fosse lei. Soprattutto conoscendo la sua storia.
La nostra ospite scomparve dietro il bancone e si mise a cucinare. Nel giro di pochi minuti ci portò dei vassoi carichi di doppi cheeseburger, frullati alla vaniglia e porzioni maxi di patatine.
Percy divorò metà panino prima di ricordarsi di respirare, tanto che, per un attimo, temetti che soffocasse lì dove si trovava, andando a fare visita ad Ade nel modo peggiore. Annabeth, invece, trangugiò il frullato come se non bevesse da mesi. Si comportavano come avrebbe fatto Tantalo se avesse potuto, un pessimo uomo trapassato e condannato dal Tribunale a non poter mangiare né bere nulla nonostante la fame e la sete. Grover, poveretto, piluccava le patatine e sbirciava la tovaglietta di carta cerata come se volesse assaggiare anche quella, ma sembrava ancora troppo nervoso per mangiare. Io non toccai nulla, lo stomaco chiuso quanto una cassaforte blindata.
«Cos'è questo sibilo?» chiese il satiro.
Tesi le orecchie, riconoscendo perfettamente il leggerissimo ronzio che faceva da sottofondo. Annabeth scosse la testa, probabilmente non sentendo niente. Percy… beh, sembrava perso in un altro mondo.
«Un sibilo?» fece Em. «Forse è il rumore della friggitrice. Hai un ottimo udito, Grover.» mi lanciò un’occhiata incuriosita che prontamente ignorai.
Decisamente non era la friggitrice. Ma non le avrei dato la soddisfazione di vedermi intervenire. Avevo giurato che non l’avrei più fatto e avrei mantenuto la parola.
«Prendo le vitamine. Per l'udito.»
«Davvero ammirevole.» replicò lei. «Ma ti prego, rilassati.»
Em non mangiò nulla. Non si era tolta il velo nemmeno per cucinare e adesso se ne stava seduta sul bordo della sedia, a guardare gli altri mangiare con le dita intrecciate, lanciandomi continue occhiate indagatrici. Era un po' inquietante avere qualcuno che mi fissava senza poterlo vedere in viso, ma di certo in questo caso non me ne lamentavo.
«Tu non mangi niente, mia cara?» mi domandò a un certo punto.
«Non ho fame.» scrollai le spalle simulando indifferenza, e trattenendo un gemito per quella slogata che non avevo ancora rimesso a posto. Non volevo che se ne accorgesse, sarebbe potuto diventare un problema. «Ma grazie comunque.»
«E così vende nanetti da giardino.» se ne uscì Percy dopo aver finito il suo panino.
Quasi detti una testata al tavolo per la sua stupidità. Mi trattenni per puro miracolo.
«Oh, sì.» rispose Em. «Ma anche animali e persone. Di tutto! Anche su ordinazione. Le statue sono molto richieste, sapete.»
«C'è molto giro da queste parti?» continuò il Mollusco.
«Non molto, no. Da quando hanno costruito l'autostrada, la maggior parte delle macchine non passa di qui. Devo tenermi caro ogni cliente che capita.»
Percy si voltò di scatto, osservando la-statua-che-non-era-una-statua di una ragazzina con un cestino di uova di Pasqua infilato su un avambraccio. Sul volto aveva dipinta un’espressione di puro terrore. Un leggero formicolio su un fianco mi avvertì su chi fosse e su come fosse finita lì. Per non parlare della fine che aveva fatto. Trattenni un brivido.
«Ah.» disse Em con un sospiro. «Avete notato che alcune delle mie statue non vengono bene. Sono rovinate. Non vendono. La faccia è la parte più difficile. È sempre la faccia.»
«È lei a fare le statue?» chiese Percy. A volte era fin troppo ingenuo.
«Oh, sì. Un tempo mi aiutavano le mie due sorelle ma sono morte, ormai, e zia Em è rimasta sola. Ho soltanto le mie statue. Ecco perché le faccio, capite. Mi fanno compagnia.»
La tristezza della sua voce sembrava così profonda e autentica che quasi provai pena per lei. Quasi, non fosse stato per ciò che sapevo voleva farci.
Annabeth aveva smesso di mangiare. Forse si era svegliata, finalmente. Fortuna che doveva essere lei quella intelligente del gruppo.
Si sporse sul bordo della sedia e chiese: «Due sorelle?»
«È una storia terribile.» raccontò Em. «Non adatta ai bambini, davvero.»
«La prego, signora, ci racconti.» mi intromisi, la voce dolce come miele e l’espressione di pura innocenza che avevo da bambina, prima di capire cosa comportasse il mio potere. «Davvero, ci interessa.» era l’unica cosa che mi venne in mente di fare per aiutare senza compromettere le possibilità che avevamo di uscirne vivi. Speravo solo che funzionasse.
«Se mi guardi così non posso certo dirti di no.» cedette. «Vedete, ragazze, una donna cattiva era gelosa di me, tanto tempo fa, quando ero giovane. Avevo un fidanzato e questa donna cattiva voleva separarci. Provocò un incidente terribile. Le mie sorelle abitavano con me. Hanno condiviso la mia sfortuna fin quando hanno potuto, ma alla fine sono morte. Sono scomparse. Solo io sono sopravvissuta, ma ho dovuto pagare un prezzo. Un prezzo molto alto.»
Trattenni una smorfia, mentre vedevo gli occhi di Annabeth illuminarsi. Le rotelle del suo magnifico cervellino erano entrate in funzione, alla fine, e doveva aver capito la verità. Meglio tardi che mai, diceva il detto. Forse quel tardi non era ancora diventato troppo tardi.
«Percy?» Annabeth scrollò il ragazzo per un braccio. «Forse dovremmo andare. Il direttore del circo ci starà aspettando.»
Sembrava tesa. Sì, decisamente ci era arrivata. Grover ormai stava mangiando la tovaglietta di carta cerata del vassoio. Em lo ignorò completamente, rimanendo concentrata sulla mia amica.
«Hai dei bellissimi occhi grigi.» le ripeté. «Numi del cielo, ne è passato di tempo dall'ultima volta che ho visto degli occhi grigi come i tuoi.»
Tese il braccio come per accarezzare la guancia di Annabeth, ma lei si alzò in piedi di scatto.
«Dovremmo proprio andare.»
«Sì!» Grover inghiottì la tovaglietta e anche lui si alzò in piedi. «Il direttore ci sta aspettando! Giusto!»
Mi alzai a mia volta fissando la donna in silenzio, in attesa di una sua mossa. Sapevo che non credeva alla storia del circo, era a conoscenza di chi fossero i genitori divini dei miei compagni da prima ancora di vederci. Aveva sentito i nostri odori, le nostre aure e il nostro potere. Eravamo le sue prede, e non ci avrebbe lasciati andare così facilmente.
«Vi prego, cari.» ci supplicò. «Mi capita così di rado di passare un po' di tempo con dei bambini. Prima che ve ne andiate, che ne direste almeno di posare per me?»
Sospirai. Prevedibile. Era andata dritta al punto.
«Posare?» chiese Annabeth, cauta.
«Per una foto. La userò come modello per una nuova serie di statue. I bambini sono così popolari! Tutti amano i bambini.»
Annabeth si spostò da un piede all'altro. «Non penso che possiamo, signora. Dai, Percy…»
«Certo che possiamo.» intervenne lui lanciandole un’occhiataccia, ancora seduto al tavolo. «È solo una foto, Annabeth. Che male c'è?»
«Sì, Annabeth.» ribadì suadente la donna. «Non c'è niente di male.»
Lei passò lo sguardo da Grover, che aveva iniziato a mangiarsi le unghie dalla tensione, a me. Ripetutamente. Dovette leggere qualcosa sul mio volto, anche se non capii che cosa, perché cedette con uno sbuffo. La cosa non le piaceva per niente, era più che evidente. Non piaceva nemmeno a me.
Em ci accompagnò fuori, nel giardino di statue, e ci invitò a sederci su una panchina, accanto al satiro di cemento.
«Ora» disse «lasciate che vi posizioni nel modo giusto. Le signorine nel mezzo, ecco qui, e i due giovanotti ai lati.»
«Non c'è molta luce per una foto.» osservò Percy.
«Oh, basterà.» lo rassicurò Em. «Noi riusciamo a vederci, sì?»
«Dov'è la macchina fotografica?» chiese Grover.
Em fece un passo indietro, come per ammirare la posa. «Ora, la faccia è la cosa più difficile. Potete farmi un sorriso, tutti quanti? Un bel sorrisone?»
Grover lanciò un'occhiata al satiro di cemento e borbottò: «Somiglia proprio allo zio Ferdinand.»
«Chissà mai perché…» mormorai in un sospiro.
«Grover» lo rimproverò Em «guarda da questa parte, caro. E tu, tesoro, rilassati.» mi disse. «Sei fin troppo tesa.»
La ignorai, avvicinando lentamente le dita all’anello che avevo usato contro le tre megere. Non aveva ancora la macchinetta in mano. Ovviamente.
«Percy…» fece Annabeth.
«Ci vorrà un momento.» continuò Em. «È solo che non vi vedo molto bene con questo maledetto velo.»
«Percy, c'è qualcosa che non va.» insistette Annabeth.
«Ma dai!» sibilai.
«Qualcosa che non va?» ripeté Em, cominciando a togliersi il copricapo. «Niente affatto, cara. Ho una così nobile compagnia, stasera. Cosa potrebbe mai guastare le cose?»
«Ma questo è lo zio Ferdinand!» esclamò Grover con il fiato mozzo.
«Ma va’!» soffiai, di nuovo.
«Non la guardate in faccia!» gridò Annabeth.
Si infilò il berretto degli Yankees in testa e sparì, tirando via Percy dalla panchina con le sue mani invisibili mentre io facevo lo stesso con Grover, abbassandomi dietro la-statua-che-non-era-una-statua dello zio Ferdinand.
Lo costrinsi ad allontanarsi rimanendo accovacciato, seguendolo, mentre sentivo Annabeth fare lo stesso dietro di noi. Percy sembrava già pietrificato, ma sospirai di sollievo quando lo vidi respirare. Era solo stato colto di sorpresa. Mi voltai di scatto, riprendendo a gattonare.
Udii uno strano suono provenire dall'alto della posizione in cui si trovava lui e pregai che fosse abbastanza intelligente da chiudere gli occhi.
«No! Non farlo!» gridò Annabeth.
No. Evidentemente non era abbastanza intelligente.
Diedi un colpetto sulla spalla di Grover, attirando la sua attenzione. Eravamo coperti dalle statue-non-statue, quindi potevamo alzare lo sguardo senza preoccuparci di venire trasformati in pietra. Gli feci cenno di fare silenzio, poi gli indicai le scarpe alate e la zona in cui si trovavano Percy e quella sottospecie di basilisco umano. Lui comprese al volo quello che avevo in mente: distrarla per permettere a Percy di allontanarsi da lì. Afferrò un grosso ramo da terra e si alzò in piedi. Io lo fermai per un braccio, ricordandogli di tenere gli occhi chiusi. Lui annuì e lo lasciai andare.
«Scappa!» belò al Mollusco.
Lo vidi correre sulla ghiaia e strillare "Maia!" per mettere in azione le scarpe volanti. E vidi Percy rimanere immobile come un perfetto imbecille, la testa semi sollevata all’altezza dei mostruosi artigli di Medusa.
«Che peccato rovinare un volto giovane e bello.» blaterava lei con il tono tipico di una gatta in calore. «Resta con me, Percy. Devi soltanto alzare gli occhi.»
Vedevo la tensione percorrere il corpo di Percy, mentre si sforzava di non obbedire, e intanto mi spostavo alle spalle della donna, di cui vedevo i capelli serpentini muoversi e sibilare in ogni direzione, tenendomi pronta a intervenire. Ovunque fosse Annabeth, sperai che avesse capito il piano e si frapponesse tra me e i due, permettendomi così di stare fuori dall’azione. Non volevo rischiare di interpormi in ciò che avevo visto, modificandolo involontariamente e condannando uno o più di noi al blocco eterno.
«È stata la dea dagli occhi grigi a farmi questo, Percy.» raccontò Medusa, e non sembrava affatto un mostro. La sua voce irretiva le persone, invitandole a crederle, ad alzare lo sguardo, a provare compassione per una povera vecchia nonnina. Puah! «Ero una donna bellissima. La madre di Annabeth, la maledetta Atena, mi ha trasformato in questo.»
«Non ascoltarla!» gridò la voce di Annabeth, da qualche parte alla mia destra. «Scappa, Percy!»
«Silenzio!» ringhiò Medusa. Poi la sua voce si modulò di nuovo in un mormorio suadente e consolatorio. «Capisci perché devo distruggere quella ragazza, Percy? È figlia della mia nemica. Disintegrerò la sua statua. Ma tu, caro Percy, tu non devi soffrire.»
«No.» borbottò lui.
«Vuoi davvero aiutare gli dei?» gli chiese Medusa. «Capisci ciò che ti aspetta in questa folle impresa, Percy? Quello che accadrà se raggiungerai gli Inferi? Non essere una pedina degli dei, mio caro. Staresti molto meglio come statua. Meno dolore. Meno sofferenza.»
«Percy!» vidi Grover piombare giù in picchiata – e alla cieca – dal cielo notturno brandendo il ramo come se fosse una mazza da baseball e muovendo la testa a destra e a sinistra facendosi guidare dal fiuto e dall’udito. «Abbassa la testa! A quella ci penso io!»
Percy si tuffò di lato.
Sbang!
Colpita in pieno. Ma non affondata, purtroppo.
Grover si allontanò svolazzando e Medusa ruggì di rabbia.
«Tu, miserabile satiro.» ringhiò. «Ti aggiungerò alla mia collezione!»
«Questo era per lo zio Ferdinand!» replicò Grover.
Percy riuscì a fuggire carponi e a nascondersi fra le statue a due metri da me. Mentre Grover si lanciava in picchiata per un altro colpo io lo raggiunsi.
Sbadabang!
«Dieci punti per i satiri!» commentai facendo quasi saltare Percy dalla paura.
«Cavolo!» esclamò, bianco come un cadavere.
«Aahhh!» gemette Medusa, la chioma serpentina che sibilava e soffiava.
Dall’altro lato rispetto a me, la voce di Annabeth ci chiamò: «Ragazzi!»
Lo fece saltare così di scatto che per poco non travolse un nanetto da giardino. «Smettetela di spaventarmi!»
Lei si tolse il berretto e diventò visibile. «Devi tagliarle la testa.»
«Cosa? Sei impazzita? Filiamocela.»
«Medusa è una minaccia. È malvagia. Avie non interverrà, per ovvie ragioni… La ucciderei io, ma…» Annabeth deglutì, come se stesse per fare un'ammissione difficile, cosa particolarmente vera. «Ma tu hai l'arma migliore. E poi, io non riuscirei mai ad avvicinarla. Mi farebbe a fettine per via di mia madre. Tu hai una possibilità.»
Io non emisi un fiato, osservando il loro scambio con molto più interesse di una persona normale.
«Cosa? Io non posso…»
«Dì un po', vuoi che continui a trasformare altri poveri innocenti in statue?»
Indicò una coppia, un uomo e una donna abbracciati, che erano stati pietrificati dal mostro. In quel modo lo avrebbe convinto di sicuro. Percy aveva una specie di complesso dell’eroe, voleva salvare tutti. Lo avevo notato durante lo scontro con la mucca prima, e con le tre megere poi. Non voleva mai lasciare indietro nessuno. E questo valeva anche per possibili vittime future.
Annabeth strappò una palla di vetro verde da un piedistallo vicino. «Uno scudo levigato andrebbe meglio.» studiò la sfera con occhio critico. «La convessità causerà una certa distorsione. Le dimensioni del riflesso saranno distorte per un fattore di…»
«Vuoi parlare la nostra lingua, per favore?»
«Lo sto facendo!»
«Non tutti sono in grado di decifrarti quando parli di tecnicismi.» osservai. «Falla più semplice per il Mollusco.»
Lei fece un sospiro e gli lanciò la palla di vetro. «Guardala soltanto attraverso il vetro. Non guardarla mai direttamente.»
«Ehi, ragazzi!» ci chiamò Grover, da qualche parte sopra di noi. «Credo che abbia perso i sensi.»
«Magari.» mormorai.
«Roooaarrr
«Forse no.» si corresse Grover, preparandosi a un'altra bastonata.
«Sbrigati.» lo esortò Annabeth. «Grover ha un fiuto eccezionale, ma prima o poi finirà per schiantarsi.»
Percy tirò fuori la penna e tolse il cappuccio. La lama di bronzo di Vortice si allungò davanti a noi e lui si avvicinò alla serpe seguendo i sibili e i soffi dei suoi capelli, fissando la sfera e cercando di intravedere solo il riflesso della Gorgone.
Grover piombò giù per un'altra bastonata, ma stavolta scese un po' troppo in basso. Medusa afferrò la mazza e lo scagliò lontano. Lui si rigirò in aria e precipitò fra le braccia di un grizzly di pietra, con un "Umfff!" di dolore.
Corsi verso di lui, ignorando i richiami di Annabeth e passando accanto a Percy e Medusa, che mi fissavano sconvolti e che non degnai di un’occhiata. Grover aveva perso conoscenza e cercai di rianimarlo dandogli dei leggeri schiaffetti sul volto.
Sentii dei movimenti alle mie spalle e capii che la serpe si stava avvicinando per attaccarci.
Ma non lo fece.
Si limitò a fermarsi alle mie spalle, abbassando il volto all’altezza del mio. Chiusi gli occhi per riflesso, nonostante non potessi vederla, e misi una mano su quelli di Grover, nel caso si fosse svegliato.
«Dimmi, tesoro» detestavo il fatto che mi chiamasse in quel modo «perché li aiuti? Tu più di tutti dovresti sapere cosa li aspetta.» disse melliflua. «Non vuoi salvare il tuo amico? Non vuoi mettere fine a quella che tu chiami Maledizione?» continuò. «Le voci corrono, tra di noi. Sappiamo cosa sta per succedere. E lui tornerà. E il tuo amico sarà suo. E tu non potrai evitarlo. Ti verrà strappato via e proverai un dolore come mai prima d’ora, e non riuscirai a sopportarlo.»
Mi irrigidii e lei dovette notarlo, perché si fece più vicina. Sentivo i suoi serpenti sibilarmi tra i capelli, smuovendomi piano le ciocche con le teste squamose e le lingue biforcute.
«Credimi, lo so.» riprese, il tono della voce più basso nel tentativo di convincermi. «Non lasciare che ciò che è successo a lei si ripeta. Poni fine a quel dolore prima che inizi. Guardami. E accetta il sollievo eterno.»
La testa di Grover si mosse leggermente sotto la mia mano, segno che stava riprendendo conoscenza, e io strinsi la presa sul suo volto per impedirgli di vedere per sbaglio la serpe.
«Mi spiace deluderti, ma non lo tradirò per te.» risposi.
Le viti tra i miei capelli si mossero, le sentii chiaramente spostarsi verso l’esterno e avvilupparsi attorno a qualcosa. Un attimo dopo Medusa allontanò la testa dalla mia con uno scatto, mentre i suoi serpenti sibilavano rabbiosamente.
Le viti dovevano aver cercato di staccare i serpenti dalla testa della serpe… Quanto le adoravo!
Percepii la furia attraversare Medusa da capo a piedi e compresi che mi avrebbe attaccata, facendomi a coriandoli con i suoi artigli. E io non potevo difendermi senza lasciare liberi gli occhi di Grover…
«Ehi!»
La voce di Percy risuonò chiara e forte, e io lo ringraziai per aver attirato l’attenzione di Medusa, allontanandola da noi.
«Non faresti mai del male a una vecchia signora, Percy.» disse con voce suadente mentre gli si avvicinava. «So che non lo faresti.»
Grover aprì gli occhi, sbattendoli lentamente mentre mi rimetteva a fuoco, e io ringraziai mentalmente gli dei.
«Percy, non ascoltarla!» gemette.
Medusa ridacchiò. «Troppo tardi.»
Dopo pochi secondi un disgustoso szock, seguito da un sibilo, come vento che soffia da una grotta, si diffuse nel giardino: il suono del mostro che si disintegrava.
Qualcosa cadde a terra con un tonfo, ma io rimasi voltata verso Grover bloccandogli la visuale.
«Bleah!» disse lui, togliendomi le parole di bocca. Pur non guardando, riuscivamo a sentire quella cosa friggere e gorgogliare. «Che schifo.»
Annabeth si mosse dietro di noi.
«Non vi muovete!» disse.
Molto, molto attentamente, senza abbassare lo sguardo, si inginocchiò e avvolse la testa del mostro nel drappo nero, quindi la raccolse e ci diede il via libera. Mi voltai: dal collo mozzato colava ancora una specie di poltiglia verde che doveva essere il suo sangue. Disgustoso.
«Stai bene?» chiese Annabeth a Percy con voce tremante.
«Sì.» rispose lui dopo un po’, anche se era verde come quella schifezza. «Perché la testa non si è disintegrata?»
«Una volta tagliata, diventa bottino di guerra.» spiegò lei. «Come il tuo corno del Minotauro. Ma non toglierle il drappo. Può ancora pietrificarti.»
Aiutai Grover a scendere dalla statua del grizzly, ignorando i suoi lamenti. Aveva una bella ferita sulla fronte. Il berretto verde pendeva di traverso da uno dei suoi corni caprini e i piedi finti gli si erano sfilati dagli zoccoli, mentre le scarpe magiche svolazzavano a casaccio attorno alla sua testa. Le tirai giù e gli rimisi dritto il berretto.
«Il Barone Rosso.» disse Percy, avvicinandosi. «Ottimo lavoro, amico.»
Lui gli rivolse un sorriso timido. «Non è stato divertente, però. Beh, la parte delle randellate con la mazza sì. Ma lo schianto sull'orso di cemento? Non direi.»
Si infilò le scarpe, rivolgendomi un sorriso di ringraziamento, mentre Percy rimetteva il cappuccio alla spada.
Rientrammo tutti e quattro nel magazzino, zoppicando.
Trovammo delle vecchie buste di plastica dietro al bancone e le usammo per avvolgere la testa di Medusa. Poi l'appoggiammo in mezzo al tavolo della cena e ci sedemmo, troppo esausti per parlare.
Alla fine Percy interruppe il silenzio: «E così dobbiamo ringraziare Atena per questo mostro?»
Annabeth gli scoccò uno sguardo risentito e io gli diedi un calcio da sotto il tavolo.
«Dobbiamo ringraziare tuo padre, a dire il vero. Non ricordi? Medusa era la ragazza di Poseidone. Decisero di incontrarsi nel tempio di mia madre, motivo per cui Atena l'ha trasformata in mostro. Ecco perché voleva fare a fette me e conservare te come una bella statuina. Ha ancora un debole per tuo padre. Probabilmente glielo ricordi.»
Lui divenne rosso ciliegia. «Oh, così adesso è colpa mia se abbiamo incontrato Medusa.»
Annabeth si irrigidì. Con una brutta imitazione della sua voce, disse: «“È solo una foto, Annabeth. Che male c'è?”»
«Lasciamo perdere.» replicò lui. «Sei impossibile.»
«E tu sei insopportabile.»
«E tu sei…»
«Ehi!» li interruppe Grover, con sollievo della mia mente. «Voi due mi state facendo venire il mal di testa, e i satiri non soffrono mai di mal di testa. Cosa ce ne facciamo di questo trofeo?»
Fissai il pacco informe. Un serpentello sbucava dalla plastica e mi fissava con odio, probabilmente a causa di ciò che avevano provato a fare le viti, e la scritta stampata sulla busta diceva: GRAZIE PER L'ACQUISTO!
Sospirai, ma rimasi immobile. Non avevo detto una parola, ciò che aveva detto Medusa mi risuonava in testa senza che riuscissi ad accantonarlo.
Percy si alzò. «Torno subito.»
«Percy!» gli gridò dietro Annabeth. «Che cosa stai…»
«Qualcosa che non ti piacerà.» mormorai, lo sguardo ancora fisso in quello del serpentello.
Quando tornò al tavolo da picnic, in mano aveva una scatola di cartone abbastanza grande da contenere la testa di Medusa, dei tagliandi di spedizione per il Correre Espresso di Ermes muniti di sacchetto portamonete, venti dollari e alcune dracme d’oro. Poggiò tutto sul tavolo e impacchettò la testa di Medusa nella scatola, compilando un tagliando di spedizione:
 
Gli Dei
Monte Olimpo
600esimo Piano
Empire State Building
New York, NY
Cordiali saluti,
Percy Jackson
 
«Non gli piacerà.» lo avvisò Grover. «Penseranno che sei impertinente.»
Percy mi osservò un istante prima di aggiungere anche il mio nome in fondo al biglietto. Alzai un sopracciglio ma lo lasciai fare. Poi lui infilò qualche dracma d'oro nel sacchetto. Non appena lo chiuse, si sentì un suono simile a un registratore di cassa. Il pacco si staccò dal tavolo, fluttuando, e svanì con un pop!
«Io sono impertinente.» replicò, sfidando Annabeth a criticare.
Non lo fece. A quanto pareva, si era rassegnata al suo talento eccezionale per mandare in bestia gli dei.
«Muoviamoci.» disse solamente. «Ci serve un nuovo piano.»
Io mi massaggiai la spalla slogata, che non avevo ancora avuto modo di mettere a posto, e osservai fuori dal vetro con aria assente. «Comunque, è difficile che agli dei piaccia qualcosa. O qualcuno.»

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Capitolo 13
*** 12. Una palla di pelo ci salva le chiappe ***


Eravamo davvero scoraggiati, quella notte. Ci accampammo nel bosco, a un centinaio di metri dalla strada principale, in una radura fangosa che dei ragazzi del posto avevano chiaramente usato per dei festini. Il terreno era cosparso di lattine schiacciate e cartacce di fast food.
Avevamo preso un po' di cibo e delle coperte da Medusa, ma non ci azzardammo ad accendere un fuoco per toglierci l'umidità di dosso. Le Furie e Medusa ci avevano già fornito emozioni sufficienti per un giorno solo. Non volevamo attirare altro.
Decidemmo di dormire a turno e Percy si offrì volontario per il primo turno di guardia.
Mentre Grover svolazzava con le sue scarpe magiche sul ramo più basso di un albero, Annabeth mi si avvicinò con dei cubetti di ambrosia, che mi porse ignorando la mia smorfia contrariata. Io non li presi. Servivano per le emergenze, non per una semplice spalla slogata.
«Mangia.» disse.
«No.» mi opposi. «Puoi rimetterla a posto tu. Poi guarirà da sola. Non posso usare l’ambrosia per certe sciocchezze, altrimenti finirà subito e non ne avremo quando capiterà una vera emergenza.»
«Avie…» cominciò lei.
«Annie…» feci con lo stesso tono.
«Va bene.» cedette lei, fulminandomi con i suoi occhi grigi. «Io ti rimetto a posto la spalla, ma tu mangi uno di questi cubetti. O così o niente.» aggiunse quando mi vide pronta a protestare.
«Ha ragione.» intervenne Grover, osservandoci dall’alto. «Devi curarti, Avalon. Non possiamo permettere che tu stia male per tutto il tempo.»
«Sono d’accordo.» li appoggiò Percy, seduto davanti a noi con la schiena appoggiata a un tronco. «E poi, con la spalla in quelle condizioni, se ci attaccassero sarebbe un problema.»
Sospirai, sconfitta. Avevano ragione su tutta la linea. Passi il non fare i salti di gioia nel partecipare all’impresa contro la mia volontà, ma non volevo in alcun modo essere un peso. Per nessuno di loro.
«Mangerò il più piccolo.» sbuffai prendendo un cubetto, grande quanto l’unghia del mio mignolo, con la mano sana. «Ora, tu, rimettimi a posto la spalla grazie.»
«Siediti.» mi fece accomodare e si posizionò dietro di me, mettendo con delicatezza una mano nell’incavo del mio gomito e l’altra tra la scapola e la spalla slogata. Percy e Grover non si perdevano nemmeno un singolo movimento. «Farà male. Sei pronta?»
Annuii in silenzio, pensando che c’erano cose ben peggiori del dolore fisico, e aspettai.
«Bene. Uno…»
Sentii la presa di Annabeth farsi più forte, più decisa.
«Due…»
Percy si mosse, teso più di noi due messe insieme.
«…»
Uno schiocco, misto ad alcuni scricchiolii risuonò nella radura.
Inspirai bruscamente, senza rilasciare il fiato.
Per un attimo vidi tutto bianco, ma mi impedii qualsiasi rumore. Fosse mai che i mostri mi sentissero e ci trovassero.
Rilasciai bruscamente il respiro mentre Annabeth mi lasciava libera dalla sua presa. Spostai lentamente il braccio per saggiarne la mobilità: faceva male, ma almeno ora era a posto.
«Grazie.» mormorai, prima di infilarmi il cubetto di ambrosia in bocca.
Si sciolse in meno di dieci secondi, spandendo nella mia bocca il sapore di marshmallows, fragole, pancake, latte al cioccolato e biscotti. La mia tipica colazione, quella che facevo sempre e con cui avevo contagiato anche Luke, che aveva iniziato a mangiare tutti i giorni. Ne ero talmente ossessionata che, a volte, la sostituivo anche agli altri pasti. Oppure la usavo come spuntino notturno. Lucky me la preparava sempre quando stavo male, e io la preparavo a lui.
Sospirai.
Non era passato nemmeno un giorno e già mi mancava come quella stupida Folgore mancava a Zeus. Anzi, no… a me Luke mancava di più.
Vidi Annabeth raggomitolarsi sopra le coperte e cominciare a russare non appena poggiò la testa a terra. Grover si appoggiò con la schiena al tronco e si mise a scrutare il cielo notturno. Io mi misi vicino alla figlia di Atena, rivolta verso Percy e usando un suo braccio come cuscino.
«Dormite pure.» ci disse. «Se ci sono problemi vi sveglio.»
Grover annuì, però nessuno dei due chiuse gli occhi.
«Che tristezza, Percy.» disse il satiro, interrompendo il silenzio.
«Ti sei pentito di esserti imbarcato in questa stupida impresa?» domandò l’altro.
«No. È questo che mi rattrista.» indicò l'immondizia a terra. «È il cielo. Non si vedono nemmeno le stelle. Hanno inquinato il cielo. È un'epoca terribile per i satiri.»
«Ah, ecco. Ci avrei scommesso che eri un ambientalista.»
«E chi non lo è? Solo gli umani. La tua specie sta inquinando il mondo così in fretta…» non riuscivo a vederlo in volto a causa della posizione, ma ero certa che lo stesse fulminando con lo sguardo. «Ah, lasciamo perdere. È inutile dare lezioni a un essere umano. Se le cose continuano di questo passo, non troverò mai Pan.»
«Pam? È una tua amica?»
Soffocai una risata con la mano, ma vidi benissimo Percy guardarmi con confusione. Non dovevo esserci riuscita molto bene…
«Pan!» esclamò Grover, indignato. «P-A-N. Il grande dio Pan! A cosa credi che mi serva una licenza da cercatore?»
Una strana brezza spazzò la radura, coprendo per qualche attimo il tanfo di rifiuti e sporcizia. Trasportava profumo di bacche, fiori selvatici e limpida acqua piovana, le cose che un tempo forse si trovavano nel bosco. Le viti tra i miei capelli vibrarono leggermente, avvolgendosi dolcemente attorno alla mia testa e creando un cuscino naturale. Un sorriso nostalgico si fece spazio sul mio volto.
«Parlami della ricerca.» disse Percy, cogliendomi di sorpresa.
Non pensavo glielo avrebbe chiesto davvero, ma sul suo volto riuscivo a leggere della sincera curiosità.
«Il dio delle selve è scomparso duemila anni fa.» cominciò Grover. «Un marinaio al largo della costa di Efeso udì una voce misteriosa che gridava dalla riva: “Dite loro che il grande dio Pan è morto!” Quando gli umani ricevettero la notizia, ci credettero. E da allora saccheggiano il regno di Pan. Ma Pan era il nostro signore e padrone. Proteggeva noi satiri e tutti i luoghi selvaggi della terra.» spiegò a Percy con tono convinto. «Ci rifiutiamo di credere che sia morto. Ogni generazione, i satiri più coraggiosi consacrano la propria vita alla ricerca di Pan. Setacciano la terra, esplorando i luoghi più selvaggi, sperando di scoprire dove si sia nascosto e di svegliarlo dal suo sonno.»
«E tu vuoi diventare un cercatore.»
«È il sogno della mia vita.» gli confidò. Io già lo sapevo, me lo aveva raccontato tanti anni prima. «Mio padre era un cercatore. E mio zio Ferdinand… la statua che hai visto laggiù…»
«Oh, giusto. Mi dispiace.»
Grover scosse la testa. «Zio Ferdinand conosceva i rischi. E anche mio padre. Ma io ce la farò. Sarò il primo satiro a tornare sano e salvo.»
«Aspetta un attimo... il primo?»
Feci una smorfia. Ecco il lato tetro della medaglia.
Grover tirò fuori il flauto dalla tasca. «Nessun cercatore ha mai fatto ritorno. Una volta partiti, scompaiono. Nessuno li ha più visti vivi.»
«Nemmeno una volta in duemila anni?»
«No.»
«E tuo padre? Non hai idea di cosa gli sia successo?»
«No.»
«Ma vuoi partire lo stesso.» concluse il figlio di Poseidone, sbigottito. «Cioè, credi davvero che sarai tu a trovare Pan?»
«Devo crederci, Percy. Ogni cercatore ci crede. È l'unica cosa che ci salva dalla disperazione quando guardiamo ciò che gli umani hanno fatto al mondo. Devo credere che Pan si possa ancora risvegliare.»
Percy osservò il cielo per qualche minuto, lasciando che i rumori notturni del bosco ci avvolgessero, e io osservai lui. Stava riflettendo sul sogno di Grover, riuscivo a leggerglielo in faccia.
Percy puntò lo sguardo nel mio, serio come poche volte l’avevo visto. «Tu lo sai, vero? Sai cos’è successo a Pan. Se davvero è ancora vivo e se sarà Grover a trovarlo.» si fermò un attimo, incerto. «E sai che fine hanno fatto tutti gli altri satiri.»
Distolsi lo sguardo, puntandolo sulle radici dell’albero a cui era appoggiato che sbucavano dal terreno, ma non aprii bocca.
«Grover, le hai mai chiesto se sapesse qualcosa?» domandò Percy. «Le hai chiesto cosa fosse successo a tuo padre? O a tuo zio?»
«Percy…» tentò il satiro.
«No, davvero.» continuò il Mollusco. «Tu sai, Avalon, cosa succederà una volta che saremo negli Inferi?» riportai gli occhi nei suoi, rimanendo in silenzio. «Tu sai se io…?» non terminò la frase.
Non ce ne fu bisogno. Sapevo esattamente cosa voleva chiedermi: se avrebbe salvato sua madre.
Sapevo una risposta generica a quella domanda, una risposta che non mi coinvolgeva. La verità, però, è che io non ero più così sicura di Sapere. Perché mi ero ritrovata imprigionata nel bel mezzo della storia, partecipe di un’impresa di cui non dovevo fare parte, complice di una missione suicida che avrebbe potuto dare il via al periodo più brutto della mia vita.
L’unica cosa di cui ero Certa, ormai, è che non Sapevo più un accidente.
Grover sospirò, stanco come poche volte l’avevo sentito.
«Avalon non parla mai di quello che Sa.» spiegò a Percy, paziente. «Lo faceva, da bambina. Ma poi…» sospirò di nuovo, mentre io distolsi lo sguardo dal Mollusco e lo puntai a terra, vicino ai suoi piedi. «Ti basti sapere che non è finita bene. Da quel momento non ha più detto una parola di quello che Sapeva o di cui era Certa.»
«Ha delle visioni? Come una specie di Veggente?» chiese Percy.
«Non proprio.» mormorò il satiro. «Avalon dice che le Visioni, come le intendi tu, sono rare.»
«Non capisco.» Percy aggrottò la fronte. «Allora qual è il suo potere?»
«Noi facciamo sempre fatica a capire, quando lo spiega. Ci ha provato, ma non è molto chiaro.» ammise Grover. «È come se Sapesse che qualcuno si comporterà in quel modo o che avverrà qualcosa in un altro, a seconda di quale decisione viene presa, o di quale giornata sarà, persino il tempo atmosferico – dice – che influenza il tutto.» rispose Grover, piano, tentando di essere il più chiaro ed esaustivo possibile. «Lei lo chiama Certezza.»
«Certezza?» ripetè Percy.
Sospirai. «Io sono Certa di tutto. So di esserlo.» parlai senza guardare nessuno dei due, la voce quasi un sussurro, perfettamente udibile nel silenzio della notte. «Io ho sempre ragione. Sempre. Finchè non prendo una decisione.»
Poi mi voltai senza dargli modo di aggiungere altro e chiusi gli occhi, desiderosa più che mai che Morfeo mi accogliesse nel suo regno e che Hypnos continuasse a bloccare i miei sogni.
Mi addormentai ascoltandoli parlare dell’impresa e di quello che aveva davvero in mente Percy, di come non fosse stato sincero con noi. Non riuscii a sentire la risposta di Grover.
Mi ritrovai circondata da un prato di fiori multicolori, il sole che splendeva alto nel cielo sopra di me, illuminando e riscaldando tutto, e un piccolo, fresco ruscello che mi bagnava i piedi.
Inarcai le sopracciglia, osservandomi intorno. Era un piccolo paradiso, di quelli semplici che piacevano a me. Il profumo dei fiori era inebriante, dolce e delicato al tempo stesso, e una leggera brezza mi smuoveva i capelli e il vestitino leggero che – lo notai solo in quel momento – stavo indossando. In stile greco, di un chiaro bianco-dorato, mi copriva solo una spalla e ricadeva morbido sul mio corpo fino appena sopra il ginocchio, lasciando scoperta molta più pelle di quanto fossi abituata, che riluceva chiara sotto i raggi solari. Insieme ai Fili colorati del Telaio del Destino che la solcavano.
Mi lasciai cullare dolcemente da quella brezza, ringraziando mentalmente il dio dei sogni per quella gentilezza che mi aveva riservato. Rimasi così, con il volto rivolto verso il sole e gli occhi chiusi, per quelle che mi parvero ore, fino a quando non sentii il suo stesso calore alle mie spalle e un Filo bruciare, appena sotto il costato.
Strinsi appena gli occhi, ancora chiusi, ma non mi voltai.
«Dovevo capirlo che fosse opera tua.» mormorai rimanendo ferma. «Non ti ho chiamato, però.» osservai, sfiorando con un dito l’orecchino in bronzo celeste che indossavo, dono che mi aveva fatto quando avevo otto anni.
Era da tempo che non toccavo quei piccoli soli per fargli capire che avevo bisogno di lui.
«Non consciamente, Raggio di Sole.» disse lui, il tono calmo che non riusciva a celare completamente la preoccupazione.
Abbassai la mano, riportandola lungo il fianco, e mi voltai lentamente verso di lui, trovandolo intento a studiarmi con le sue profonde iridi blu, le mani nelle tasche dei semplici jeans che indossava, oltre a una maglietta senza maniche. Il viso serio, incorniciato dai capelli biondi che rilucevano sotto la luce del sole, era privo del suo caratteristico sorriso luminoso che metteva sempre tutti di buon umore. Non era cambiato di una virgola dall’ultima volta che lo avevo visto, continuava ad avere l’aspetto di un diciassettenne. Ma quegli occhi, seri come mai li avevo visti, erano una novità.
Gli occhi mi divennero lucidi, mostrando così quelle lacrime che mi ero sforzata tanto di trattenere.
«Perché?» mormorai solamente, la brezza che mi portava i capelli davanti al volto. «Perché, Apollo?»
Il dio sospirò, avvicinandosi. Si fermò a un passo da me, continuando a studiarmi dall’alto, il volto triste quanto il mio. Sapevo che, in qualche modo, tutta quella situazione lo faceva soffrire. Quello che non sapevo, però, era il perché. Non riuscivo a Vederlo, e questo mi portava parecchie domande a cui non riuscivo proprio a dare una risposta.
«Io non capisco…» soffiai con tono tremulo, gli argini che cedevano e le lacrime che mi rigavano le guance.
Apollo non disse una parola. Si limitò ad allungare una mano nella mia direzione e ad avvolgerla intorno al mio busto, spingendomi verso di sé e avvolgendomi in uno stretto abbraccio. Nascosi il volto nel suo petto, soffocando il pianto che mi squassava il corpo e che non riuscivo più a controllare, aggrappandomi a lui come se fosse la mia ancora di salvezza.
E così, alla fine, avevo ceduto. Lo stress di quella situazione, che andava avanti da quattro anni, si era accumulato per tutto il tempo e io, che cercavo sempre di fare finta di niente, lo avevo ignorato, troppo presa a preoccuparmi di altro, troppo impegnata a occuparmi di lui. E adesso, come forse era ovvio, la profezia dell’Oracolo mi aveva fatta raggiungere il limite, senza che me ne rendessi conto davvero. Abituata com’ero a soffocare le mie preoccupazioni, non mi ero resa conto di quanto stessi soffrendo. Solo dopo aver visto il dio del Sole qualcosa in me si era spezzato, e avevo cominciato a piangere senza ritegno, lasciando che mi consolasse come già aveva fatto in passato.
Apollo mi scostò lentamente da sé, facendo riemergere il mio volto e costringendomi a osservarlo. Mi mise le mani sulle guance, in una leggera carezza, e mi asciugò le lacrime ancora presenti. Non distolse mai lo sguardo dal mio, scrutandomi con una dolcezza che agli altri non riservava mai, se non alla sua gemella nei momenti più seri.
«Tu sei forte.» disse. «Sei la persona più forte che conosco. E non lo dico perché Sai tutto.» sospirò. «Lo dico perché, pur Sapendo tutto, cerchi in ogni modo di cambiarlo. Di proteggere quelli che ami.»
Spostò lo sguardo sul cielo, come a cercare le parole adatte, poi lo riportò nel mio, che non avevo mosso dal suo viso nemmeno per un attimo.
«Neanche io so perché sia successo proprio adesso.» riprese. «Ma so che, prima o poi, sarebbe dovuto accadere. Anche se tu non vuoi.»
Sgranai gli occhi dalla sorpresa.
«Non me lo avevi mai detto.» mormorai.
Lui fece un mezzo sorriso, fin troppo triste, e distolse lo sguardo, puntandolo sul ruscello. «Sapevo come ti saresti sentita.»
Inclinai la testa da un lato, le sue mani ancora sulle mie guance, e lo studia attentamente per qualche secondo.
«Anche tu, pur Sapendo, combatti per le persone che ami.» affermai, facendo tornare i suoi occhi nei miei. «Grazie. Per avermi inclusa tra quelle persone.»
Il suo sguardo brillò di un’intensità senza precedenti, come se il Sole ci fosse finito dentro. Mi abbracciò di nuovo, avvolgendomi nella sua calorosa e rassicurante stretta.
«Sempre.»
Mi svegliai più rilassata, il calore di Apollo che ancora mi riscaldava. Sfiorai uno dei piccoli soli che avevo alle orecchie e lo ringraziai in silenzio, per non svegliare gli altri. Il dio era stato in grado di leggermi meglio di quanto avessi fatto io. Si era accorto del malessere che continuavo a soffocare e aveva cercato di alleviarlo. E ci era riuscito, almeno in parte. Mi aveva tolto un peso dalle spalle che, ora, era ritornato, e che non potevo e non volevo ignorare. Però, adesso, Sapevo che il mio coinvolgimento sarebbe successo comunque. Tuttavia non ero sicura di cosa pensassi a riguardo.
Solo in quel momento mi accorsi di non provare più alcun dolore, né alla spalla slogata né negli altri punti in cui avevo sbattuto, e capii che Apollo mi aveva curato senza che me ne accorgessi. Scossi la testa con un sorriso. Sapeva che, se mi avesse chiesto il permesso di farlo, gli avrei detto di no. Doveva avermi curata mentre mi abbracciava. Era incorreggibile.
Mi alzai a sedere lentamente cercando di non svegliare Annabeth, che nel sonno si era voltata verso di me e mi aveva usata come orsacchiotto avvolgendomi con le sue braccia. Le accarezzai piano la testa, spostandole alcune ciocche di capelli dal volto, e sorrisi. Era così tenera.
Mi tirai in piedi osservandomi intorno. Il cielo era ancora scuro, segno che fosse ancora notte, ma a est si cominciava a intravvedere un vago chiarore, segno che l’alba non fosse poi così lontana. Non avendo più il mio corpo vicino al suo, Annabeth si era raggomitolata su se stessa, mentre Percy si era addormentato vicino all’albero su cui si era appoggiato la sera prima. Disteso su un fianco, un braccio piegato sotto la testa come cuscino, respirava profondamente. Sembrava pacifico, ma gli occhi si muovevano veloci sotto le palpebre, segno che non stava facendo un bel sogno. Proprio no.
Vidi Grover farmi un cenno con la mano e mi avvicinai al suo albero, da cui scese con un leggero salto. Mi guardava con una strana espressione.
Inarcai un sopracciglio, in attesa che sputasse il rospo.
«Hai pianto.» disse diretto, facendomi inarcare anche l’altro. «E ho sentito delle strane vibrazioni provenire dalle tue emozioni, mentre dormivi.» mi scrutò con i suoi occhietti da satiro. «Stai bene?»
Sorrisi, comprendendo che era solo preoccupato per me e annuii. «Avevo bisogno di sfogarmi. Troppo stress.»
Lui annuì a sua volta, ma non sembrava troppo convinto. Mi chiesi cosa avesse sentito nelle mie emozioni da allarmarlo tanto, ma non glielo domandai. Temevo la sua risposta.
«Cos’hai sognato?» continuò lui, lo sguardo indagatore che proprio non mi mollava.
«Niente di brutto.» risposi sincera. «O di allarmante.»
«Niente che riguardi l’impresa? O quello che sta succedendo?» insistè.
Ci riflettei un attimo. Più che l’impresa riguardava me, quindi no. Scossi la testa, decisa.
Grover cedette.
Si sedette con la schiena appoggiata all’albero, e io mi misi accanto a lui.
«Sai che puoi parlarmi di qualsiasi cosa, vero?» domandò dopo un po’, il cielo che diventava sempre più chiaro con il passare del tempo. «Che non devi nascondermi niente? Soprattutto dopo…»
Non terminò la frase, ma non ce ne fu bisogno. Sapevamo entrambi a cosa si riferisse. A quando Annabeth e Luke erano arrivati al campo insieme a lui, a quello che era successo. Io non lo incolpavo, ma lui sì. Continuava a ripetere che, se fosse stato più attento, se avesse seguito meglio le direttive, tutto quello non sarebbe successo.
Ma io sapevo la verità: la colpa non era mai stata sua. Neanche per sbaglio. Neanche lontanamente. Un giorno sarei riuscita a farglielo capire.
Un movimento attirò la nostra attenzione: Annabeth si stava mettendo a sedere con uno sbadiglio, guardandosi intorno. Una volta inquadrati, ci salutò con una mano e ci raggiunse, sedendosi al mio fianco e appoggiando la testa sulla mia spalla, segno che non fosse del tutto sveglia.
«Buongiorno.» biascicò, stropicciandosi un occhio. «Avete dormito?»
«Avie sì.» rispose Grover. «E sembra che abbia fatto un bel sogno.»
Gli lanciai un’occhiataccia. Perfetto. Ora Annabeth avrebbe voluto sapere tutto.
«Davvero?» domandò, infatti, la figlia di Atena, tirando su la testa di scatto, gli occhi che brillavano dalla curiosità. «E che cosa hai sognato?»
«Niente di che.» dissi.
«Non mentire.» mi ammonì Grover.
«Non sto mentendo.» protestai. «Hypnos non mi fa mai sognare, lo sapete bene. Le rare volte che mi capita sono sempre pessime notizie. Per una volta ho fatto un sogno tranquillo e rilassante.» non era proprio una bugia ma non era nemmeno la verità. Non del tutto. «Comunque, cosa faremo adesso?» riportai la loro attenzione sui problemi attuali. «Voglio dire: come arriviamo a Los Angeles? Non credo di avere abbastanza soldi, nel mio zaino, per pagare quattro biglietti fino a lì.» ammisi osservando Percy dormire.
Annabeth sospirò, riflettendo.
«Qualcosa ci inventeremo.» proclamò, prima di alzarsi e stiracchiarsi. «Per ora occupiamoci della colazione.»
Si era fatto giorno ormai, e cominciavamo ad avere fame. Mentre io e Annabeth controllavamo le provviste, quello che avevo ancora nello zaino e ciò che avevamo preso dallo snack-bar di Medusa, Grover disse che sarebbe andato in perlustrazione, per controllare con il suo olfatto se ci fossero mostri. Noi lo lasciammo andare, raccomandandogli di stare attento e di tornare presto.
«Sai, Annie…» dissi mentre contavamo delle buste di patatine, dividendole tra classiche, rustiche e piccanti. «Ho la sensazione che il Mollusco ti piaccia.»
BOOM.
Un pacchetto di patatine esplose, spargendo il suo contenuto intorno a noi.
Alzai lo sguardo da quello che stavo facendo e lo puntai sulla figlia di Atena, che mi fissava bianca come un morto e con gli occhi sbarrati, le mani che ancora reggevano il pacchetto ormai vuoto. Lo aveva stretto troppo e lo aveva fatto scoppiare.
Cercai di non ridere per la sua espressione tremendamente buffa. Mai l’avevo vista così. Lanciai un’occhiata a Percy, ma mi accorsi che stava dormendo come un cucciolo, totalmente ignaro. Ah, beata inesperienza. Presto sarebbe diventato un ragazzo dal risveglio estremamente facile, come tutti i semidei.
«Ma come ti vengono in mente certe cose?» mi domandò Annabeth, la voce più acuta del normale.
Alzai un sopracciglio. «Secondo te? Gli hai persino dato un soprannome.»
«Solo perché lui lo ha dato a me.» affermò contrariata, incrociando le braccia. «E poi anche tu hai un soprannome.»
Scossi una mano, come a scacciare quello che aveva appena detto. «Il mio non conta. Lo usano tutti. Tu hai un soprannome solo per lui.» le feci notare. «Testa d’Alghe non lo usa nessuno.»
«Questo non vuol dire niente.» borbottò distogliendo lo sguardo.
Sorrisi.
Stavo per infierire ancora quando Grover sbucò dagli alberi. In braccio teneva quella che, a prima vista, mi sembrò una palla di pelo di una strana sfumatura rosata. Solo dopo mi resi conto che era un barboncino e che lui ci stava parlando come se niente fosse.
Oh, porco criceto! Il barboncino!
Quasi mi schiaffai una mano in faccia. Mi ero dimenticata di questa parte. In tutte le versioni che conoscevo il barboncino c’era sempre, anche se a volte cambiava nome. E anche sesso.
Si sedette su una coperta accanto a noi, il barboncino che ci studiava apertamente, diffidente.
«Guardate chi ho trovato.» esordì il satiro, sotto le nostre espressioni: Annabeth era confusa, io ero curiosa di scoprire quale dei tanti barboncini che avevo Visto fosse quello. «Lei è Gladiola, e ci aiuterà.»
«Davvero?» fece Annabeth, visibilmente scettica.
Lui annuì. «Ma prima dovete salutarla.»
Annabeth rimase immobile, non credendo a quanto appena sentito.
Io guardai il barboncino, che ci fissava con sospetto.
«Ciao Gladiola.» dissi tranquilla. «Perdonala, di prima mattina è un po’ acida.» aggiunsi indicando la figlia di Atena.
«Ehi!» protestò lei, dandomi una leggera spinta sulla spalla.
«Avanti, sorella.» la spronai. «È facile. E poi, lei mica ti mangia.»
Annabeth sospirò, passandosi una mano sul volto mentre borbottava in greco antico.
«Ciao Gladiola.»
Il barboncino abbaiò.
«Vi ha salutato.» tradusse Grover.
Sapevamo già che fosse in grado di parlare con gli animali, quindi nessuna delle due ne rimase stupita. Ci scambiammo uno sguardo.
Poi lui ci spiegò di essersi imbattuto in Gladiola nel bosco, dove avevano attaccato discorso. Il barboncino era scappato da una ricca famiglia dei dintorni, che aveva fissato una ricompensa di duecento dollari per la sua restituzione. Gladiola in realtà non aveva voglia di tornare dalla sua famiglia, ma era disposta a farlo se significava aiutare Grover.
«Davvero lo faresti, Gladiola?» mi rivolsi al cane.
Il barboncino abbaiò.
«Ha detto di sì.» tradusse Grover.
«Bene.» affermai, con un sorriso. «Allora grazie, Gladiola. Lei è Annabeth.» indicai la figlia di Atena. «E io sono Avalon. È un piacere conoscerti.»
Il barboncino abbaiò, muovendo la coda.
«Davvero?» le chiese Grover.
Il barboncino abbaiò ancora e si alzò. Venne verso di me e si accoccolò sulle mie gambe. Io cominciai a farle delle leggere carezze sulla schiena, osservando Grover in attesa di una spiegazione, che aveva un’espressione sorpresa sul volto.
«Dice che ti conosce.» spiegò, incredulo. «Che girano delle voci su di te, tra gli animali. E che sei molto rispettata.»
«Sul serio?» domandai. «E perché?»
Grover aprì la bocca ma la richiuse senza emettere un fiato.
«Non lo so.» disse poi. «Ma sembra che ti considerino qualcuno di davvero importante.»
Ci scambiammo uno sguardo con Annabeth, anche lei confusa dalla questione, ma decidemmo di accantonarla e di svegliare Percy. Dovevamo rimetterci in marcia.
Annabeth gli si avvicinò e lo scrollo con una certa forza. Percy si mosse.
«Bene.» disse Annabeth, tornando vicino a noi. «Lo zombie è vivo.»
Lo vedevo tremare, supposi per via del sogno, ma rimasi in silenzio, continuando ad accarezzare pigramente Gladiola.
«Quanto tempo ho dormito?» chiese mentre si metteva a sedere.
«Il tempo di preparare la colazione.» Annabeth gli lanciò una busta di fiocchi di mais al formaggio, prelevata dallo snack-bar di Medusa, che avevamo già smistato. «E Grover è andato in esplorazione. Guarda, ha trovato un amico.»
Lo vidi cercare di mettere a fuoco, ancora preda del sogno, mentre spostava lo sguardo da Annabeth a Grover, per poi fermarsi su di me. E su Gladiola, che gli abbaiò contro con sospetto, senza spostarsi dalla sua posizione sulle mie gambe.
Grover disse: «No, non lo è.»
Percy sbattè le palpebre, visibilmente perplesso. «Stai... stai parlando con quel coso?»
Il barboncino ringhiò.
Io le feci altre carezze rassicuranti, non distogliendo l’attenzione dai miei amici.
«Questo coso» lo avvisò Grover «è il nostro biglietto per l'Ovest. Sii gentile con lui.»
«Tu parli con gli animali?»
Grover ignorò la domanda, cosa che facemmo tutti. «Percy, ti presento Gladiola. Gladiola, Percy.»
Il Mollusco guardò Annabeth sbigottito, immaginando che sarebbe scoppiata a ridere per lo scherzo, invece era serissima. Poi guardò me, che ero nelle stesse condizioni della mia amica, anche se cercavo di impedirmi di sorridere. Non pensavo che vivere questa scena sarebbe stato più assurdo che vederla succedere.
«Non ho intenzione di dire ciao a un barboncino.» replicò lui. «Scordatelo.»
«Percy…» intervenne Annabeth. «Io ho detto ciao al barboncino. Anche tu dirai ciao al barboncino.»
Il barboncino ringhiò.
Con riluttanza, Percy disse ciao al barboncino.
Grover gli raccontò quello che aveva già detto a noi, mentre Annabeth rimetteva a posto le provviste e io continuavo a coccolare Gladiola, che non voleva saperne di separarsi da me.
«Ma come fa Gladiola a sapere della ricompensa?» chiese, confuso.
«Che domande: ha letto gli annunci.» rispose Grover.
«Naturalmente. Che sciocco.»
«Così consegniamo Gladiola.» spiegò Annabeth, nel suo tono strategico più convinto. «Prendiamo i soldi e, aggiungendoli a quelli di Avie, compriamo i biglietti per Los Angeles. Semplice.»
Lo vidi riflettere a lungo su qualcosa, qualcosa che lo spaventava, ma attesi.
«Niente autobus.» suggerì, cauto.
«No.» concordò Annabeth.
«Decisamente no.» dissi io.
La figlia di Atena indicò in fondo alla collina, verso dei binari della ferrovia che non avevo visto col buio della notte. «C'è una stazione a meno di un chilometro da qui, andando da quella parte. Secondo Gladiola, il treno per l'Ovest parte a mezzogiorno.»

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Capitolo 14
*** 13. Induco il Mollusco a tentare il suicidio ***


Trascorremmo due giorni sul treno per l'Ovest, valicando colline, attraversando fiumi, superando ambrate distese di grano. Non subimmo attacchi, ma il Mollusco non era in grado di rilassarsi. Aveva la sensazione che fossimo in vetrina, osservati dall'alto e forse dal  basso, e che qualcosa stesse aspettando solo l'occasione giusta. Non aveva poi tutti i torti, ma non mi arrischiai a dirglielo. Volevo evitare che desse in escandescenze, come temevo stesse per succedere.
Cercavamo di non dare troppo nell'occhio, tra l’altro, perché il suo nome e la sua fotografia erano spiattellati sulla prima pagina di diversi giornali della East Coast, come se non bastassero i problemi. Sul "Trenton Register-News" c'era la foto che un turista aveva scattato mentre scendevamo dall'autobus. Percy aveva un'espressione folle negli occhi. La spada era una macchia sfocata e metallica fra le sue mani, che poteva passare – come gli avevo già detto io – per una mazza da baseball. La didascalia diceva:
 
Il dodicenne Percy Jackson, ricercato per la scomparsa della madre a Long Island due settimane fa, si allontana dall'autobus a bordo del quale ha molestato alcune anziane passeggere.
L'autobus è esploso ai margini di una strada del New Jersey poco dopo la fuga di Jackson dalla scena. In base alle testimonianze oculari, la polizia ritiene che il ragazzo possa viaggiare in compagnia di due complici adolescenti. Il patrigno, Gabe
Ugliano, ha offerto una ricompensa in contanti per qualunque informazione utile alla sua cattura.
 
«Non ti preoccupare.» gli disse Annabeth. «La polizia mortale non ci troverà mai.»
Non sembrava molto convinta.
«Per lo meno, non troverà me.» commentai. «A quanto pare nessuno mi ha nominata, o anche solo vista. Sembra che gli dei continuino a oscurare la mia esistenza agli occhi dei mortali.»
«Perché lo farebbero?» domandò Percy, passando lo sguardo da me ad Annabeth.
Scrollai le spalle. «Non ne ho idea. Ma la consa non mi piace nemmeno un po’, sinceramente.» ammisi. «È come se cercassero di fingere in tutti i modi che io non esista.»
Percy alzò un sopracciglio. «E non è quello che fai tu?»
«Io mi limito a cercare di ignorare il mio potere.» risposi piatta, spostando lo sguardo sul paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. «Non la mia intera esistenza.»
Il resto del tempo il Mollusco non fu in grado di stare fermo un istante, motivo per cui non fece altro che andare su e giù per il corridoio facendomi desiderare di avere ancora la testa di Medusa per pietrificarlo.
Cercai di ignorarlo come meglio potevo. Soprattutto ignoravo le strane occhiate che mi lanciava, come se volesse chiedermi qualcosa ma avesse paura di farlo.
Notai distintamente diverse creature che vivevano la loro vita, mentre il treno avanzava nella sua corsa, ma non me ne preoccupai più di tanto. I mortali non sarebbero stati in grado di capire quello che vedevano – come al solito – e anche quegli esseri – centauri, animali mitologici e chiunque altro – avevano il diritto di vivere le loro vite liberamente. Anche i mostri, per quanto mi scocciasse che avessero i semidei nella loro dieta preferita.
I soldi che mi ero portata dietro, insieme a quelli della ricompensa per la restituzione di Gladiola, erano bastati solo per comprarci i biglietti fino a Denver. Non ci eravamo potuti permettere delle cuccette, perciò sonnecchiavamo seduti ai nostri posti. Sperai di sentirmi ancora gli arti, alla fine di quel viaggio. O di averli ancora tutti. Grover, accanto a me, non faceva altro che russare, belare e svegliare tutti di continuo, e una volta – a forza di girarsi come un bambino – gli si era sfilato un piede finto, che ci eravamo preoccupati di rimettere a posto in fretta nonostante la Foschia.
Stavo osservando per l’ennesima volta il paesaggio fuori dal finestrino, ripensando alla mia conversazione con Apollo, quando una voce mi riportò alla realtà, facendomi notare – attraverso il riflesso sul vetro – che il Mollusco si era finalmente messo a sedere.
«Allora» chiese Annabeth a Percy con un tono indagatore che mi spinse a non voltarmi «chi vuole il tuo aiuto?»
«Che vuoi dire?»
«Poco fa, mentre dormivi, hai borbottato: "Non ti aiuterò." Chi stavi sognando?»
Oh, lo sapevo bene, io, chi stava sognando. E che lui si fosse già infiltrato nei suoi pensieri in quel modo non mi piaceva per niente. Trattenni un respiro, aspettando di sentire cosa avrebbe risposto il Mollusco. Chissà se avrebbe detto la verità…
Sorprendentemente lo fece, e raccontò per filo e per segno di come una misteriosa voce malvagia, proveniente da un profondo quanto oscuro baratro, lo volesse sfruttare per uscire fuori, per liberarsi. Inutile specificare che aveva la pelle d’oca sulle braccia, mentre parlava. Doveva averlo proprio terrorizzato.
Annabeth restò zitta per un bel po'. Io non mi mossi.
«Non sembrerebbe Ade. Lui compare sempre su un trono nero e non ride mai.» osservò la figlia di Atena.
«Mi ha offerto mia madre in cambio. Chi altri potrebbe essere?»
«Immagino che... se voleva dire "Aiutami a risorgere dagli Inferi" e se vuole una guerra con gli dei dell'Olimpo... ma perché chiederti di portargli la Folgore, se ce l'ha già?»
Vidi Percy scuotere la testa sul riflesso del vetro. Sembrava non avere la risposta.
Grover sbuffò nel sonno, borbottando qualcosa a proposito di verdure, e girò la testa verso di me continuando a dormire. Forse aveva sentito l’inquietudine che cominciava a permeare le mie emozioni.
Annabeth si allungò verso di noi e gli aggiustò il berretto per nascondere le corna. «Percy, non puoi trattare con Ade. Questo lo sai, vero? È disonesto, spietato e avido. Non m'importa se le sue Benevole stavolta non erano aggressive.»
«Stavolta?» chiese lui. «Vuoi dire che le avevi già incontrate?»
Annabeth portò istintivamente la mano sulla collanina e si rigirò fra le dita una lucida perla bianca con l'immagine dipinta di un pino, uno dei suoi pegni di fine estate. Dopo un secondo mi resi conto di aver fatto lo stesso.
«Diciamo solo che non ho nessuna simpatia per il Signore dei Morti. Non puoi lasciarti indurre a stringere un patto per riavere tua madre.»
«Tu che faresti se si trattasse di tuo padre?»
«È facile.» rispose lei. «Lo lascerei a marcire.»
«Non dirai sul serio?»
Sospirai piano, lentamente per non farmi sentire, consapevole. Era maledettamente seria, in realtà. Rimasi ferma, in attesa di scoprire se la mia amica si sarebbe sbottonata un po’, speranzosa che lo facesse. A forza di tenersi tutto dentro, a un certo punto sarebbe esplosa. Dovette rendersene conto anche lei.
«Mio padre mi detesta dal giorno in cui sono nata, Percy.» raccontò. «Non voleva figli. Quando ha avuto me, ha chiesto ad Atena di riportarmi sull'Olimpo e di crescermi là, perché era troppo occupato con il suo lavoro. Lei non ne è stata contenta. Gli ha detto che gli eroi devono essere cresciuti dal genitore mortale.»
«Beh, ma immagino che tu non sia nata in ospedale...»
Feci una smorfia silenziosa, continuando a osservare i loro riflessi sul vetro.
«Sono comparsa sulla soglia di casa di mio padre, in una culla d'oro, trasportata giù dall'Olimpo da Zefiro, il Vento dell'Ovest. Penserai che mio padre si ricordi della cosa come di un miracolo e che mi abbia fatto, che so, una marea di fotografie. Ma lui ha sempre parlato del mio arrivo come della seccatura peggiore che gli fosse mai capitata. Quando avevo cinque anni, si è sposato e si è completamente dimenticato di Atena. Aveva una "normalissima" moglie mortale, due "normalissimi" figli mortali e si sforzava di fingere che io non esistessi.»
Me ne aveva già parlato in passato, quando entrambe eravamo ancora due bambine sconvolte da un evento che non riuscivamo a superare. Dopo che Luke mi aveva costretta a incontrarla. Avevo provato a consolarla, consapevole di quanto ci stesse male nonostante lo nascondesse, ma era stata lei a consolare me, alla fine, stringendomi forte in un abbraccio che sapeva di casa.
«Mia madre ha sposato un tizio orrendo.» le raccontò Percy. «Secondo Grover l'ha fatto per proteggermi, per nascondere il mio odore in quello di una famiglia umana. Forse è quello che aveva in mente anche tuo padre.»
Annabeth continuò ad armeggiare con la sua collanina. Stringeva l'anello d'oro infilato insieme alle perle. Conoscevo la sua storia, ovviamente. Annie era corsa da me non appena lo aveva ricevuto, disperatamente bisognosa di un consiglio che non ero certa di poterle dare. Sembrava essere tornata quella bambina di sette anni che avevo conosciuto tempo prima.
«A lui non importa di me.» aggiunse, poi. «Sua moglie, la mia matrigna, mi trattava come se fossi una svitata. Non mi lasciava giocare con i suoi bambini. E mio padre era d'accordo con lei. Ogni volta che succedeva qualcosa di pericoloso, qualcosa in cui c'entravano i mostri, mi guardavano tutti e due come se pensassero: "Come osi mettere a repentaglio la sicurezza della nostra famiglia!" Alla fine, afferrai il messaggio. Non ero desiderata. E sono fuggita di casa.»
«Quanti anni avevi?»
«Gli stessi anni di quando sono arrivata al campo. Sette.»
«Ma non puoi aver raggiunto la Collina Mezzosangue da sola.»
«Non da sola, no. Atena ha vegliato su di me, mi ha guidato verso il soccorso. Così ho incontrato un paio di amici che mi hanno aiutata, almeno per un po'.»
Gli occhi mi divennero lucidi senza che riuscissi a controllarmi, e fui tremendamente grata a Percy quando smise di fare domande. Non so quale delle due sarebbe crollata per prima, altrimenti.
Verso la fine del nostro secondo giorno di treno, il 13 giugno, otto giorni prima del solstizio d'estate, attraversammo delle colline dorate ed entrammo nell'area di St Louis, superando il Mississippi. Finalmente.
Annabeth allungò il collo per vedere il Gateway Arch.
La prima volta che me l’aveva mostrato, in uno dei suoi libri di architettura, avevo commentato che sembrava una delle gobbette della “M” della scritta del McDonald’s. lei mi aveva colpita in testa con il libro, facendo scoppiare a ridere sia me che Luke, che ci aveva osservate scambiarci pareri, tranquillo, per tutto il tempo.
Luke… quanto mi mancava. Chissà cosa stava facendo, in quel momento, al campo. Un lieve sorriso malinconico mi increspò le labbra, ma la voce della mia amica mi riportò alla realtà.
«Ecco cosa voglio fare.» sospirò, fissando ancora il monumento.
«Cosa?» chiese il Mollusco.
«Costruire qualcosa come quello. Hai mai visto il Partenone, Percy?»
«Solo in fotografia.»
«Un giorno, lo vedrò di persona. Progetterò il più grande monumento di tutti i tempi in onore degli dei. Qualcosa che durerà per migliaia di anni.»
Lui rise, e io dovetti trattenermi dal tirargli uno scappellotto.
«Tu? Un architetto?» domandò incredulo.
Lei inarcò le sopracciglia, probabilmente con il mio stesso desiderio di colpirlo. «Sì, un architetto. Atena si aspetta che i suoi figli creino le cose, non che le distruggano come un certo dio dei terremoti di mia conoscenza.»
E ovviamente finiva per esagerare. Era piuttosto permalosa, quando ci si metteva. Per non parlare dell’orgoglio che la caratterizzava, così simile a quello divino da farmi quasi paura, a volte.
«Scusa.» disse Annabeth. «Questa era cattiva.»
«Non possiamo collaborare in nessun modo?» la supplicò Percy. Doveva essere davvero stanco di quei continui battibecchi. «Voglio dire, Atena e Poseidone non hanno mai cooperato?»
Annabeth ci pensò a lungo, mentre una scena chiara – come se l’avessi vissuta di persona – si faceva largo nella mia mente.
«Immagino... il carro.» rispose poi, esitante. «Mia madre l'ha inventato, ma Poseidone ha creato i cavalli dalla cresta delle onde. Perciò hanno dovuto collaborare per completarlo.»
«Allora anche noi possiamo cooperare. Giusto?»
«Sarebbe anche ora.» commentai, intromettendomi finalmente in quella conversazione. «Stavate diventando esasperanti.»
Entrammo in città, con Annabeth che continuava a guardare l'arco finché non scomparve dietro un albergo.
«Suppongo di sì.» disse, infine, lanciandomi un’occhiata che mi fece capire chiaramente che sapeva che li avevo ascoltati per tutto il tempo.
Arrivammo alla stazione centrale. L'altoparlante annunciò che avevamo tre ore di sosta prima di ripartire per Denver.
Grover si stiracchiò, e ancora prima di svegliarsi del tutto, mugugnò: «Cibo.»
«Coraggio, ragazzo-capra.» esclamò Annabeth. «Andiamo a visitare la città.»
«Come?»
«Vuole salire sul Gateway Arch.» dissi io. «Dovevi aspettartelo. La conosci, dopotutto.»
«Certo che voglio farlo!» commentò lei. «È un'occasione unica, potrebbe non capitarmi più. Avete intenzione di venire oppure no?»
Percy e Grover si scambiarono uno sguardo, prima di puntarlo entrambi su di me. Vedevo chiaramente la titubanza, negli occhi del Mollusco, ma non dissi una parola. A loro la scelta.
Alla fine, Grover fece spallucce. «Purché ci sia uno snack-bar privo di mostri.»
L'arco distava circa un chilometro dalla stazione. Nel tardo pomeriggio le file per entrare non erano troppo lunghe, per nostra fortuna. O sfortuna.
Passammo per il museo sotterraneo, stipato di carri coperti e altra paccottiglia dell'Ottocento. Erano cose che già sapevo, grazie alle ore interminabili che avevo passato con Annabeth mentre ne parlava, ma sopportai tranquillamente che la mia amica continuasse a raccontarci dettagli interessanti su come l'arco fosse stato costruito e Grover riforniva sia me che Percy di gelatine, perciò nessuno dei due poteva lamentarsi. C’erano torture ben peggiori. Decisamente.
Il Mollusco si guardava anche intorno, però, scrutando le altre persone in fila.
«Non fiuti nulla?» mormorò a Grover lanciandomi un’occhiata di sottecchi, come aspettandosi di vedere una mia reazione che non arrivò.
Lui tirò fuori il naso dalla busta delle gelatine il tempo necessario per un'annusatina. «Siamo sottoterra.» rispose, disgustato. «E quaggiù l'aria puzza sempre di mostri. Probabilmente non significa nulla.»
«Ragazzi.» ci chiamò, a un certo punto. «Avete presente i simboli del potere degli dei?»
Annabeth era immersa nella lettura di un brano sugli strumenti utilizzati per costruire l'arco, ma alzò lo sguardo. «Sì?»
«Beh, Ade...»
Grover si schiarì la gola. «Siamo in un luogo pubblico. Vuoi dire, il nostro amico del piano di sotto?»
«Ehi!» protestai con un finto broncio. «Non fregarmi le frasi.»
«Ehm, esatto.» disse Percy con un debole sorriso sul volto, che scomparve fin troppo velocemente. «Il nostro amico del piano parecchio di sotto. Non ha un cappello simile a quello di Annabeth?»
«Vuoi dire l'elmo dell'oscurità.» specificò Annabeth. «Sì, è il simbolo del suo potere.»
«Era accanto al suo seggio durante la riunione del Consiglio nel solstizio d'inverno.» aggiunsi io.
«C'era anche lui?» chiese Percy.
Noi annuimmo.
«È l'unica volta in cui gli è concesso visitare l'Olimpo: il giorno più buio dell'anno. Ma il suo elmo è molto più potente del mio berretto dell'invisibilità, se quello che ho sentito è vero.» spiegò Annie.
«Gli consente di trasformarsi nelle tenebre stesse.» confermò Grover.
«Può diventare un'ombra o passare attraverso i muri. Nessuno può toccarlo, vederlo o sentirlo. E può irradiare una paura così intensa da indurre gli uomini alla pazzia o da fermargli il cuore. Perché credi che tutte le creature razionali abbiano paura del buio?» continuai.
«Ma allora, come facciamo a sapere che non è qui in questo momento, a tenerci d'occhio?»
Annabeth e Grover si scambiarono uno sguardo.
«Non lo sappiamo.» rispose Grover.
«Grazie, questo mi fa sentire molto meglio.» commentò.
Lo vidi talmente abbattuto che non resistetti.
«Non lo sta usando.» dissi, mortalmente seria, senza aggiungere ulteriori dettagli.
Annie e Grover mi osservarono con tanto d’occhi. Persino il Mollusco sembrava sorpreso da quella mia uscita.
«E… perché?» si azzardò a chiedere.
«Perché è impegnato.» risposi.
Non era una bugia. Era effettivamente impegnato… a cercare lui per farselo ridare, convinto che gliel’avesse rubato per fregare la folgore a Zeus.
Ma questo non glielo avrei detto. Sarebbero andati nel panico tutti e tre.
Inoltre, Zio Gioiello era il problema minore, in quel momento.
«C'è rimasta qualche gelatina azzurra?» cambiò argomento Percy, apparentemente rincuorato dalle mie informazioni.
Fino a quando vide la navetta-ascensore che ci avrebbe portati in cima all'arco, e impallidì tutto d’un colpo.
Sospirai. Mi ero dimenticata che soffrisse di claustrofobia.
Gli diedi una pacca incoraggiante su una spalla mentre ci infilavamo in quel cubicolo in compagnia di una signora grande e grossa e del suo cane, un chihuahua con un collare di Strass. Stranamente, che nessuna delle guardie ebbe nulla da obiettare sulla sua presenza.
Cominciammo a salire, all'interno dell'arco e osservai la città dispiegarsi davanti a noi man mano che ci alzavamo.
«Niente genitori?» ci chiese la signora grassa.
Aveva gli occhi piccoli e luccicanti, i denti aguzzi e macchiati di caffè, un cappello floscio di jeans e un vestito dello stesso materiale, talmente gonfio da farla assomigliare a un dirigibile di jeans.
Mi allontanai leggermente da lei senza perderla di vista con la coda dell’occhio.
«Sono rimasti giù.» rispose Annabeth. «Soffrono di vertigini.»
«Oh, poverini.»
Come no. Ti dispiace davvero tanto.
«Ci mancava solo il formichiere.» mormorai, beccandomi tre occhiate confuse dai miei amici e una penetrante dalla signora.
Il chihuahua ringhiò, fissandomi.
Io spostai la mano su uno dei miei anelli. Per precauzione.
«Su, su, bambina. Fai la brava.» disse la donna.
Il cane aveva gli occhi piccoli come la sua padrona, luccicanti, intelligenti e maligni.
«Bambina?» chiese Percy. «Si chiama così?»
«No.» gli rispose la donna, mentre io alzavo gli occhi al cielo.
Certo che era davvero ingenuo, alle volte.
In cima all'arco, il belvedere mi ricordava una lattina rivestita di moquette. File di finestrelle si affacciavano sulla città da un lato e sul fiume dall'altro. La vista era davvero spettacolare, ma cominciavo ad essere inquieta e non sapevo se pregare che il momento di scendere arrivasse in fretta oppure no.
Annabeth continuava a parlare di sostegni strutturali e di come lei avrebbe previsto delle finestre più grandi e progettato un pavimento trasparente. Probabilmente sarebbe rimasta lassù per ore, ma per fortuna il custode annunciò che mancavano pochi minuti alla chiusura.
Percy spinse me, Grover e Annabeth verso l'uscita e nell'ascensore. Stava per entrare anche lui quando ci accorgemmo della presenza di altri due turisti all'interno.
Il custode gli disse: «Aspetti la prossima navetta.»
«Usciamo anche noi.» fece Annabeth. «Aspettiamo insieme a te.»
Lui rifiutò: «No, non c'è problema. Ci vediamo giù.»
Io uscii dall’ascensore. «Non ti ci lascio quassù da solo. Non con la tua claustrofobia.»
Grover e Annabeth mi lanciarono sguardi preoccupati – forse intuendo che qualcosa non andava – ma lasciarono lo stesso che la porta si richiudesse. La navetta scomparve, inghiottita nella rampa. Sul belvedere eravamo rimasti solo io, Percy, un bambino con i genitori, il custode e la signora grassa con il chihuahua.
«Grazie.» mi disse il Mollusco. «Per essere rimasta.»
Io scrollai lei spalle, come se il mio gesto non avesse importanza e indietreggiai lentamente quando mi resi conto che la signora ci stava fissando. E non era uno sguardo gentile. Proprio per niente.
Lui le rivolse un sorriso imbarazzato che lei ricambiò, facendo vibrare la lingua biforcuta fra i denti.
Ecco.
Lo sapevo.
I Guai ce l’avevano proprio con noi.
Il chihuahua – che non era un chihuahua, ma questi erano dettagli – saltò a terra e prese ad abbaiare contro di noi, mentre tiravo indietro Percy per allontanarlo da quella cosa.
«Su, su, bambina.» disse la signora. «Ti sembra il momento giusto? Con tutte queste simpatiche persone intorno...»
«Ecco, brava.» osservai, glaciale. «Tieni la tua piccola al guinzaglio. Dovresti esserne in grado, dato il vostro legame.»
«Cagnolino!» esclamò il bambino. «Guarda, un cagnolino!»
I genitori lo tirarono via.
Bravi mortali.
Il chihuahua ci mostrò i denti, la schiuma che colava dalle labbra nere.
«Beh, figlia mia.» sospirò la signora grassa. «Se proprio insisti...»
«Ehm, ha appena chiamato "figlia" quel chihuahua?»
«Chimera, tesoro.» corresse la donna grassa. «Non è un chihuahua. Si sbagliano in tanti.»
«Che legame pensavi intendessi? Una banale amicizia come un qualunque mortale con il suo amico canino?» dissi io. «Era sperare troppo. Anche per te.»
La donna si arrotolò le maniche di jeans, scoprendo la pelle verde e squamosa delle braccia. Quando sorrise, i denti si mostrarono per ciò che erano in realtà: zanne appuntite come degli spilli. Le pupille erano fessure sottili, come quelle di un rettile.
Il chihuahua abbaiò più forte, diventando sempre più grande a ogni latrato. Prima raggiunse le dimensioni di un dobermann, poi di un leone. Il latrato si amplificò in un ruggito.
Il bambino gridò di paura. I suoi genitori lo tirarono verso l'uscita, andando a sbattere contro il custode, che fissava il mostro a bocca aperta, impietrito.
La Chimera adesso arrivava a sfiorare il soffitto con la schiena. Aveva la testa di un leone con la criniera incrostata di sangue, a quanto pare non faceva uno shampoo da parecchio. Il corpo e gli zoccoli erano di una capra gigante e un serpente a sonagli lungo tre metri le faceva da coda, che spuntava direttamente dal suo posteriore irsuto. Aveva ancora il collare di Strass attorno al collo e sulla medaglietta, delle dimensioni di un vassoio, ora si leggeva bene: CHIMERA — IDROFOBA, SPUTAFUOCO, VELENOSA — IN CASO DI SMARRIMENTO, CHIAMARE IL TARTARO — INTERNO 954.
Il Tartaro ha degli appartamenti… ok. Buono a sapersi.
Il pugnale prese forma nella mia mano, mentre colpivo Percy con il gomito per toglierlo dalla trance in cui era caduto. Non aveva nemmeno estratto Vortice, quel citrullo.
Eravamo a tre metri di distanza dalle fauci insanguinate della Chimera e sapevo che, non appena ci fossimo mossi, quella creatura ci sarebbe saltata addosso.
La donna-serpente emise un sibilo che avrebbe potuto essere una risata.
«Considerati onorato, Percy Jackson. Il Divino Zeus mi concede raramente di mettere alla prova un eroe con la mia progenie. Poiché io sono la Madre dei Mostri, la terribile Echidna!»
La fissammo.
Percy disse: « Ma non è una specie di formichiere?»
Io sghignazzai senza ritegno.
Lei ululò, il volto serpentino marrone e verde di rabbia. «Odio quando me lo dicono! Odio l'Australia! Dare a quell'animale ridicolo il mio nome. Per questo, Percy Jackson, mia figlia ti distruggerà!»
«Guarda che sono stata io la prima a dirlo.» le feci notare, un sorrisetto derisorio ancora stampato sulle mie labbra.
«Non ha importanza!» sbraitò lei, fulminandomi con lo sguardo.
La fissai, mentre una consapevolezza si faceva spazio nella mia mente.
Interessante…
Forse avrei potuto sfruttare questa cosa a nostro vantaggio.
La Chimera si lanciò alla carica, digrignando i denti leonini. Riuscimmo a schivare il morso balzando di lato e io finii dalla parte opposta rispetto a Percy, che si ritrovò accanto alla famigliola e al custode, che adesso gridavano all'unisono, cercando di forzare le porte dell'uscita di sicurezza. Che ovviamente non si muovevano.
Io e il Mollusco ci scambiammo uno sguardo: non potevamo permettere che venissero coinvolti.
Lui tolse il cappuccio alla spada, mentre io attiravo l’attenzione della Chimera.
«Ehi, chihuahua!» gridai per dargli il tempo di allontanarsi dai mortali.
La Chimera si voltò più in fretta di quanto pensassi. Prima che potessi sferrare un colpo, spalancò le fauci, liberando un fetore degno della cacca dei pegasi e cercò di incenerirmi sputando una colonna di fuoco, che evitai gettandomi a terra. La moquette s'incendiò; il calore era così intenso che pensai avrebbe potuto rivaleggiare con quello di Apollo.
«Certo che potresti anche lavarteli i denti, ogni tanto.» commentai, mentre cercavo di riprendere fiato senza morire avvelenata da quell’orrore che mi aveva avvolta.
Per il resto, ero praticamente indenne, anche se – suppergiù nel punto in cui mi trovavo un attimo prima – si era aperto uno squarcio sulla parete dell'arco, con il metallo fuso che fumava attorno ai bordi.
Abbiamo appena dato fuoco a un monumento nazionale. Annabeth mi ucciderà…
Un movimento alla mia destra mi fece voltare di scatto, imitata dalla Chimera.
Percy ne approfittò per sferrare un colpo che rimbalzò sul collare di Strass, mandando scintille. Lo vidi cercare di recuperare l'equilibrio, ma era così preoccupato di difendersi dalla bocca feroce del leone che si era completamente dimenticato del serpente della coda, finché non gli comparve davanti all'improvviso e gli affondò le zanne nel polpaccio. Poi gli si avvolse intorno alle gambe e lo fece cadere, facendo volare Vortice attraverso lo squarcio nella parete. Finì nelle acque del Mississippi, a centottanta metri sotto di noi.
Riuscii finalmente a rimettermi in piedi, con i polmoni che avevano ripreso a funzionare correttamente, e osservai Percy. Si era rialzato, ma era fermo davanti a quel buco, disarmato e con la Chimera a dividerci. E aveva il veleno che si diffondeva nelle sue vene.
Anaklusmos non sarebbe tornata nella sua tasca in tempo, io lo sapevo.
Lo osservai arretrare lentamente verso lo squarcio nella parete, tenendo il pugnale alzato tra me e il serpente, che non mi perdeva di vista nemmeno un istante e mi impediva di avvicinarmi.
La Chimera avanzò ringhiando verso di lui, le labbra fumanti.
Echidna, ridacchiò. «Non fanno più gli eroi come quelli di una volta, eh, figlia mia?»
Il mostro ringhiò. Non sembrava avere fretta di finirlo, ora che lo credeva sconfitto.
Percy mi guardò preoccupato, spostando gli occhi da me ai mortali, e io feci un cenno d’assenso. Li avrei protetti. Certo che l’avrei fatto.
Vidi il terrore nei suoi occhi, se per me o per lui non fui in grado di capirlo.
Si affacciò sul bordo dello squarcio, guardando in basso, dove il fiume scintillava.
Io collegai. E mi diedi della cretina per quello che stavo per fare.
Pregai gli dei – tutti quanti, indistintamente – di non combinare un casino come le ultime volte.
«Buttati.» dissi.
Lui voltò di scatto la testa verso di me, compiendo una torsione del collo che non mi aspettavo. Per un attimo lo scambiai per un gufo.
«Cosa?» mi domandò, incredulo.
«Se sei figlio di Poseidone» sibilò Echidna, capendo cosa intendevo «non dovresti temere l'acqua. Salta, Percy Jackson. Mostrami che l'acqua non ti farà del male. Salta e recupera la tua spada. Dimostra il tuo lignaggio.»
Vedevo l’orrore nel suo sguardo per la folle richiesta che gli avevo fatto e per quello che aveva detto Echidna, oltre alla chiara convinzione che fossimo entrambe completamente fuori di testa. Ma c’era anche preoccupazione.
La bocca della Chimera si accese di un bagliore rosso, scaldandosi per un'altra fiammata.
«Non hai fede.» gli disse Echidna. «Non ti fidi degli dei. Non posso darti torto, piccolo codardo. Meglio morire subito. Gli dei sono sleali. Il veleno ti è arrivato al cuore.»
Non potevo darle torto. Percy non si fidava degli dei, lo sapevo, e aveva tutti i motivi per non farlo. Ma gli avevo chiesto io di buttarsi.
«Non devi fidarti di loro.» gli dissi, attirando nuovamente il suo sguardo, sul volto sempre più pallido a causa del veleno. «Devi fidarti di me.»
Lui fece un ultimo passo e guardò giù, verso l'acqua. Lo vidi riflettere, mille emozioni passarono sul suo viso.
Mi guardò, il tormento negli occhi, e capii. Non voleva lasciarmi da sola con loro. Non voleva costringermi a combattere entrambi quegli esseri, dovendo proteggere anche i mortali.
Ripensai a ciò che avevo intuito prima. Pregai gli dei di non sbagliarmi.
«Vai.» sillabai, facendogli capire che doveva farlo, che non aveva scelta.
Una lacrima mi rigò una guancia. Avrei rischiato. Per la sua sopravvivenza, avrei rischiato tutto. Pregai solo di non sbagliarmi.
«Muori, infedele.» gracchiò Echidna con la sua voce stridula, e la Chimera soffiò una colonna di fuoco verso di lui.
«Perdonami.» mi disse, il senso di colpa che gli invadeva il volto.
E poi saltò.
Con i vestiti in fiamme il veleno che gli scorreva nelle vene, precipitò verso il fiume sotto i miei occhi preoccupati.

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Capitolo 15
*** 14. Una chiacchierata con il Formichiere mi incasina il cervello ***


Quando Percy scomparve alla nostra vista mi voltai verso Echidna, il pugnale ancora sollevato in posizione di difesa, il sole che ci illuminava attraverso lo squarcio nella parete.
«E adesso?» domandai, calma, continuando a interpormi tra lei, sua figlia e i mortali alle mie spalle. Li avrei protetti a qualunque costo. «Che intenzioni avete?»
La madre dei mostri mi studiò attentamente con i suoi piccoli e cattivi occhi da rettile, e io feci altrettanto. Nessuna delle due si perdeva un singolo movimento dell’altra. La sua lingua biforcuta saettò nella mia direzione con un sibilo, prima di sparire.
«Non saprei.» mi rispose, facendo cenno alla Chimera di rimanere immobile. «Zeus non ha dato istruzioni su di te.»
«Ma non mi dire.» commentai con uno sbuffo, trattenendomi dall’alzare gli occhi al cielo. «Chissà perché la cosa non mi sorprende. Quindi?»
Echidna passò lo sguardo da me ai mortali, a cui continuavo imperterrita a fare da scudo. Rifletteva sulla prossima mossa, sulle mie possibili reazioni, sui pro e i contro di ogni sua futura scelta.
«Tu…» cominciò.
«Li difenderò, sì.» confermai, prima ancora che finisse.
«Perché?» mi domandò, la voce sprezzante. «Sono solo degli inutili mortali.»
«Anche loro hanno il diritto di vivere.» affermai. «E né tu, né nessun altro potete sottrargli questo diritto. Anche se vi piace fingere il contrario per sentirvi più potenti, superiori.»
«Noi siamo superiori.» sibilò.
Scossi la testa. «Essere più forti non significa essere superiori. A volte, le persone davvero potenti sono quelle più deboli. Ma dubito che sia un concetto che tu possa capire.»
La madre dei mostri si mosse indispettita, la lingua biforcuta che sibilava di qua e di là.
«Zeus non ha dato istruzioni su di te.» ripetè, come per convincere se stessa ad attaccarmi.
«Lo so.» mormorai. «Ma forse non ne aveva bisogno.»
Osservai i suoi movimenti, poi feci lo stesso con sua figlia. La mia idea, il sospetto che avevo avuto anche in precedenza, si faceva sempre più chiara, sempre più certo. Cominciava a non essere più un semplice dubbio. E più ci pensavo, più mi rendevo conto che era stato lo stesso anche con il Minotauro, i fulmini di Zeus, il segugio infernale che aveva attaccato Percy al Campo, le Furie e Medusa. E anche con l’attacco che loro avevano appena compiuto.
Gli occhi di Echidna si assottigliarono. «Di cosa stai parlando?»
Abbassai il pugnale, rilassando i muscoli.
«Non puoi attaccarmi.» affermai. «Nessuna di voi due può farlo. Così come non possono farlo gli dei, né gli altri mostri. Non direttamente. E nemmeno volontariamente. A meno che non sia io a volerlo.»
Il suo voltò diventò estremamente pallido. «Come…»
«Mi ci è voluto un po’ per capirlo.» ammisi. «Ma, dopo aver collegato, è diventato tutto più chiaro. Non pensavo che le mie sorelle avessero coinvolto tutti in quella specie di patto. A parte i mortali, probabilmente, che non sanno niente di noi.» osservai la Chimera mettersi a sedere, come un normalissimo cane che aspetta pazientemente un ordine dal padrone. «Ma era così ovvio, in realtà… il Minotauro mi ha praticamente ignorata, mentre raggiungevamo il Campo, e anche quando stava per attaccarmi si è fermato. Il segugio infernale non ha mai provato ad attaccarmi, nonostante fossi a pochi passi da lui; mi ha colpita solo perché mi sono intromessa tra lui e Percy.» con la mano libera nascosta dietro la schiena, feci un leggero cenno ai mortali, sollecitandoli ad entrare nell’ascensore e ad andarsene in silenzio. «Le Furie hanno fatto lo stesso, e sono comunque riuscite a evitare di colpirmi lasciandomi addirittura uccidere una di loro. Zeus, con i suoi fulmini, mirava a Percy, non a me. Sperava di non ferirmi, probabilmente. E Medusa… beh, lei ha cercato di convincermi a farmi pietrificare, in modo che fosse una mia scelta e che, quindi, fosse autorizzata a farlo. E voi… tua figlia avrebbe potuto colpirmi tranquillamente, se avesse voluto. Ma mi ha mancata apposta.»
Il leggero tonfo delle porte dell’ascensore che si chiudevano mi fece rilassare. I mortali erano fuori pericolo, adesso, ma non mi arrischiai a togliere l’attenzione dai due esseri di fronte a me, che non avevano dato cenno di essersene accorti. Mi studiavano, entrambe. Sembrava stessero cercando qualcosa sul mio volto. Mi chiesi che cosa, e non trovai risposta.
«Motivo per cui non potevate attaccare i mortali sapendo che mi sarei messa in mezzo.» continuai. «Non potete farmi del male in nessun modo programmato. Quello che mi domando, sinceramente, è perché. Perché le mie sorelle hanno coinvolto anche voi mostri nel patto sulla mia sicurezza?» i dubbi mi si leggevano chiari sul viso, lo sapevo, ma non li nascosi. Quella era una curiosità che mi perseguitava da tempo e che nessuno si era mai degnato di spiegarmi. «Perché fare un patto del genere, in primo luogo?»
Echidna lanciò uno sguardo all’esterno dello squarcio, poi fece un cenno alla Chimera, che lentamente riprese le sembianze del chihuahua.
«Tu non hai idea di chi sei stata, ragazza.» disse seria ma tranquilla, senza più l’odio nello sguardo.
«Io non… cosa?»
«Quando lo saprai, capirai.» affermò indicandomi, prima di scomparire insieme alla figlia.
Quello che avevo letto nei suoi occhi sembrava quasi… non era possibile. Perché mai la madre dei mostri doveva provare rispetto per me? Non l’avevo mai vista prima di quel momento, né lei aveva mai visto me. E allora, perché sembrava che mi conoscesse, in qualche modo? Perché, per un istante, mi era parso che la Chimera aspettasse degli ordini da me? E a cosa si riferiva Echidna quando aveva parlato di chi ero stata?
Che diamine stava succedendo?
Mi osservai intorno, in quel piano panoramico semi-distrutto del Gateway Arch, e sospirai. Lo squarcio sfrigolava ancora, e io mi sporsi leggermente per osservare in basso, dove una moltitudine di puntini si era radunata alla base del monumento. Sperai che Percy si fosse salvato, e che Grover e Annabeth stessero bene.
Il calore del sole mi riscaldò le membra, che rilassai automaticamente. Non mi ero accorta di essermi irrigidita, probabilmente quando Echidna mi aveva detto quelle cose. Osservai per un istante il pugnale che ancora stringevo in mano, poi lo ritrasformai nell’anello e me lo rimisi al dito, ignorando il tremore che mi percorreva le mani.
«Sto bene.» mormorai a me stessa, cercando di convincermi. «Sto bene.»
Alzai il volto al cielo, mi godetti il sole per qualche secondo poi sospirai. Era il momento di tornare di sotto e raggiungere i miei amici.
 

****

 
Quando sbucai dall’ascensore ci mancò poco che venissi travolta dal frastuono che stava sopraggiungendo da ogni direzione. Elicotteri della polizia, ambulanze, vigili del fuoco e tutto ciò che aveva a che fare in qualche modo con le emergenze stavano accorrendo nella mia direzione, così mi affrettai ad eclissarmi il più in fretta possibile, cercando di ignorare i curiosi e di venire ignorata allo stesso tempo.
Vedevo i giornalisti, pronti ad andare in onda, cercare di arraffare più informazioni possibili sull’accaduto, al di là del perimetro di sicurezza che aveva stabilito la polizia.
Scrutai la folla in cerca dei miei amici, ma invece vidi dei paramedici trasportare una barella su cui era distesa la donna della famiglia di mortali che aveva assistito allo scambio con Echidna e la Chimera. Si agitava in una maniera impressionante. Poveretta, sotto shock come doveva essere, probabilmente stava raccontando ciò che aveva visto. E, se fosse stata in grado di vedere attraverso la foschia almeno un po’ – come sapevo che potesse succedere – gli altri mortali l’avrebbero presa tutti per pazza.
Passai accanto a un giornalista, ancora alla ricerca dei miei compagni, e sgranai gli occhi quando sentii ciò che stava comunicando: «Percy Jackson. Esatto, Dan. Canale Dodici ha saputo che il ragazzo che potrebbe aver causato l'esplosione corrisponde alla descrizione di un giovane ricercato dalle autorità per un serio incidente d'autobus avvenuto in New Jersey tre sere fa. E pare che il ragazzo sia diretto a ovest. Per i nostri spettatori a casa, ecco una foto di Percy Jackson.»
Corsi il più in fretta possibile verso la stazione, pregando chiunque fosse in ascolto che anche gli altri avessero deciso di fare lo stesso, e salii sul treno per Denver senza troppi problemi. Rimasi sulle porte, in attesa di vedere arrivare gli altri. Mi raggiunsero appena in tempo. Appena furono a bordo, strinsi a me Percy mentre il treno partiva e sospirai di sollievo.
«Ce l’hai fatta.» mormorai tra i suoi capelli. «Stai bene.»
Lui ricambiò la stretta, sotto gli sguardi perplessi di Annabeth e Grover.
«Echidna ti ha fatto qualcosa?» mi domandò, preoccupato, sciogliendo la stretta e osservandomi bene. «Come hai fatto a salvare quelle persone?»
«Le ho distratte permettendo ai mortali di scappare.» spiegai semplicemente. «Poi se ne sono andate e io sono riuscita a scendere senza farmi scoprire.»
«Aspetta.» intervenne Annabeth. «Come sarebbe a dire che se ne sono andate?»
«Che la Chimera è tornata ad essere un chihuahua e poi sono andate via.» spiegai.
«E non ti hanno attaccata? Non hanno cercato di ucciderti?» mi chiese lei, perplessa. «Niente? Neanche una volta?» io scossi lentamente la testa in segno di diniego. «Ma com’è possibile?»
Alzai le spalle, omettendo ciò che mi aveva detto la madre dei mostri. Mi lasciava terribilmente confusa non capire a cosa si riferisse. Ma avevo la sensazione che fosse un’informazione particolarmente pericolosa, oltre che maledettamente importante. Non volevo turbarli con qualcosa che non ero ancora in grado di capire. Avevano già abbastanza problemi con quell’impresa, per non parlare delle preoccupazioni di Percy riguardo a sua madre. Gliene avrei parlato una volta finita quella missione suicida.
Mi feci spiegare da Percy cosa gli fosse successo, scoprendo così del suo appuntamento sulla spiaggia di Santa Monica e sospirai sollevata.
Non avevo modificato niente. Fortunatamente.

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Capitolo 16
*** 15. Ares tenta di farmi ingrassare ***


Il pomeriggio dopo, il quattordici giugno, sette giorni prima del solstizio, il nostro treno arrivò a Denver. Finalmente.
Non mangiavamo dalla sera prima, quando avevamo cenato nel vagone ristorante da qualche parte in Kansas. Non vedevamo una doccia dalla Collina Mezzosangue e avevo la fin troppo poco vaga sensazione che si sentisse, almeno un po’. Purtroppo.
«Proviamo a contattare Chirone.» propose Annabeth. «Voglio raccontargli della tua chiacchierata con lo spirito del fiume. E di quello che è successo tra Avie ed Echidna.»
«Annie…» mormorai, tentando di lasciar perdere la questione.
«Non possiamo usare il telefono, vero?» domandò Percy, retorico.
«E chi ha parlato di telefono?»
Vagammo in città per una mezzoretta, alla ricerca del luogo perfetto per chiamare casa. L'aria era calda e secca e faceva uno strano effetto dopo l'umidità di St Louis. Continuavo a sentirmi osservata. Il che, sapendo quello che sapevo io, non era un buon segno. Soprattutto dati i possibili futuri che si dispiegavano davanti a noi. Speravo davvero in una giornata buona, per una volta.
Alla fine trovammo un autolavaggio deserto, e ce lo facemmo andare bene. Ci dirigemmo al box più lontano dalla strada, e allo stesso tempo più riparato da occhi indiscreti, tenendo gli occhi aperti per scorgere eventuali pattuglie della polizia. Eravamo quattro ragazzini che si aggiravano senza auto in un autolavaggio: qualunque poliziotto degno della sua ciambella al cioccolato avrebbe capito che stavamo tramando qualcosa.
«Che stiamo facendo?» chiese, mentre Grover estraeva lo spruzzatore.
«Ci vogliono settantacinque centesimi.» brontolò. «A me ne sono rimasti solo cinquanta. Annabeth?»
«Non guardare me.» rispose lei. «Il vagone ristorante mi ha ripulita.»
Nemmeno Percy aveva più niente, tranne una dracma dell’emporio di Medusa.
Tirai fuori alcuni spiccioli che avevo conservato – fortuna che ero una risparmiatrice cronica – e diedi a Grover venticinque centesimi, rimanendo con una ventina di dollari e alcune dracme.
«Ottimo.» esultò Grover. «Potremmo usare anche uno spruzzatore manuale, naturalmente, ma la connessione non è buona e dopo un po' mi fa sempre male il braccio a furia di premere.»
«Ma di che cosa stai parlando?» continuò a chiedere il Mollusco.
Grover lo ignorò e infilò le monete nella fessura, poi posizionò la manopola su ACQUA VAPORIZZATA.
«Dell'iPhone.» rispose lui.
«E cosa c'entra l'autolavaggio?»
«La "i" sta per Iride.» spiegò Annabeth. «La dea dell'arcobaleno, Iride, è la messaggera degli dei. Se sai come chiederlo e lei non è troppo occupata, offre il servizio anche ai mezzosangue.»
«Volete evocare una dea con uno spruzzatore?»
Grover puntò il beccuccio in aria e l'acqua fuoriuscì con un sibilo, creando una fitta nebbiolina candida. «A meno che tu non conosca un metodo più facile per creare un arcobaleno.»
«A casa tua, io ho usato l’acqua del rubinetto del bagno.» commentai.
Percy alzò un sopracciglio. «A cassa mia?»
Io annuii. «Sì. Prima che Grover ci raggiungesse. Quando mi avete praticamente costretta a restare con voi e a usarvi come miei autisti personali.»
«Oh.» il suo sguardo si spense, ripensando a quel momento e a sua madre.
Fortunatamente, in quel momento, la luce del tardo pomeriggio filtrò attraverso il vapore, rifrangendosi nei sette colori dell'arcobaleno.
Annabeth tese il palmo. «La dracma, prego.»
Percy gliela consegnò e lei se la portò sopra la testa. «Oh dea, accetta la nostra offerta!»
Gettò la dracma nell'arcobaleno, dove scomparve in uno scintillio dorato.
«Collina Mezzosangue.» richiesi.
Per un attimo, non successe nulla.
Poi, attraverso la nebbia, mi ritrovai a guardare i campi di fragole con lo stretto di Long Island in lontananza. Era come stare sotto il portico della Casa Grande. Sul parapetto, di spalle, c'era un tizio con i capelli chiari, i pantaloncini corti e una canotta arancione. Aveva una spada di bronzo in mano e sembrava fissare attentamente qualcosa giù nel prato. Lo riconobbi all’istante. Quanto mi era mancato.
«Lucky!» chiamai.
Si voltò, gli occhi sgranati. Avrei giurato che si trovasse proprio là davanti a me, a un metro di distanza nella nebbia, solo che riuscivo a vedere solamente la parte di lui che compariva nell'arcobaleno. E non potevo toccarlo.
«Lys!» il suo volto sfregiato si aprì in un largo sorriso. «Percy! E c'è anche Annabeth? Grazie agli dei! State bene, ragazzi?»
«Noi stiamo... ehm... bene.» rispose Annabeth, lanciandomi uno sguardo mentre cercava di lisciarmi la maglietta. «Pensavamo... Chirone... cioè...»
Le diedi una manata per farla smettere, fulminandola con gli occhi.
«È giù alle capanne.» il sorriso di Luke si spense. «Stiamo avendo qualche problema con i ragazzi del campo.» anche il mio sorriso si spense. Non era un buon segno, proprio no. Le cose stavano peggiorando fin troppo velocemente. «Ma ditemi, è tutto a posto lì da voi? Grover sta bene?»
«Sono qui.» esclamò lui. Spostò lo spruzzatore di lato ed entrò nella visuale di Luke. «Che genere di problemi?»
Ma in quello stesso istante, una grossa Lincoln Continental entrò nell'autolavaggio con lo stereo che sparava hip-hop a tutto volume.
Quando la macchina si infilò nel box accanto al nostro, il basso vibrava così tanto da far tremare l'asfalto.
«Porco Polifemo! Questo mortale vuole morire prima del tempo.» mi lamentai.
«Chirone doveva... ehi, cos'è questo chiasso?» gridò Luke.
«Ci penso io!» strillò Annabeth di rimando, lanciandomi un’occhiata complice che ignorai. «Grover, vieni!»
«Cosa?» fece lui. «Ma...»
Grover borbottò qualcosa tipo: "Le ragazze sono più difficili da interpretare dell'Oracolo di Delfi", passò lo spruzzatore a Percy e seguì Annabeth.
Lui regolò il tubo in modo da mantenere l'arcobaleno, permettendo a entrambi di riuscire ancora a vedere Luke.
«Chirone doveva sedare una rissa.» gridò Luke per farsi sentire oltre la musica. «Le cose sono piuttosto tese da queste parti, ragazzi. La voce dello scontro fra Zeus e Poseidone è trapelata. Ancora non sappiamo come: forse è stata la stessa canaglia che ha evocato il segugio infernale. I ragazzi hanno cominciato a schierarsi. Si sta mettendo come una seconda guerra di Troia.»
«fammi indovinare.» lo interruppi, ironica. «Afrodite, Ares e Apollo sostengono Poseidone, all’incirca. Atena, invece, appoggia Zeus.»
«Sì, esatto.» confermò il biondo. «Tutti gli altri sono rimasti neutrali.»
«Gli unici intelligenti.» borbottai, alzando gli occhi al cielo.
Nel box accanto, sentimmo Annabeth e un tizio che litigavano, poi il volume della musica diminuì drasticamente, per la gioia delle mie povere orecchie.
«Allora, a che punto siete?» chiese Luke. «A Chirone dispiacerà che non lo abbiate trovato.»
Percy gli raccontò quasi tutto, inclusi i suoi sogni e quello che mi era successo dopo che lui era saltato giù dal Gateway Arch. Luke lo aveva ascoltato attentamente, rimanendo in silenzio e lanciandomi delle occhiate preoccupate di tanto in tanto, fino a quando non sentimmo il bip dello spruzzatore e capimmo di avere solo un minuto prima che l'acqua si spegnesse.
«Vorrei essere lì.» disse Luke. «Non possiamo aiutarvi molto da qui, temo, ma sentite... dev'essere stato Ade a rubare la Folgore. Era sull'Olimpo il giorno del solstizio d'inverno. Accompagnavamo i ragazzi in gita e l'abbiamo visto, Lys, ti ricordi?»
Io distolsi lo sguardo e non risposi. Sì, è vero. C’era anche Ade al solstizio, ma non poteva essere stato lui a rubare la Folgore. Prima di tutto perché gli era impossibile farlo a causa delle antiche leggi.
E poi… non riuscivo a guardare Luke sapendo quello che sapevo. Non ce la facevo. Non con la situazione in cui ci trovavamo al momento. E questo mi faceva soffrire quasi quanto la situazione in sé. Quasi…
«Ma Chirone ha detto che un dio non può rubare l'oggetto magico di un altro dio, direttamente.» gli ricordò Percy.
«È vero.» confermò Luke, con un'espressione turbata. «Eppure... Ade ha l'elmo dell'oscurità. Chi altri avrebbe potuto infilarsi nella sala del trono e rubare la Folgore? Bisognava essere invisibili.»
Restammo zitti, finché Luke non sembrò accorgersi di ciò che aveva detto.
«Oh, ehi.» protestò. «Non alludevo ad Annabeth. Io e lei ci conosciamo da una vita. Non lo farebbe mai. È come se fosse la mia sorellina.»
«Inoltre, ha un alibi.» commentai, piatta. «È stata con me per tutto il tempo. Ha voluto visitare l’intero Olimpo per studiarne l’architettura.»
«Ecco dove eravate sparite, a un certo punto.» commentò il biondo.
Mi strinsi nelle spalle. «Sai com’è fatta.»
Nel box accanto al nostro la musica cessò del tutto. Che sollievo.
Un uomo strillò terrorizzato, sentimmo sbattere gli sportelli dell'auto e la Lincoln filò via dall'autolavaggio.
«È meglio che andiate a vedere.» suggerì Luke.
«Giusto per assicurarci che Annie non l’abbia fatto a pezzi.» osservai.
«Ma dimmi, Percy, indossi le scarpe volanti? Mi sentirei meglio sapendo che ti sono servite a qualcosa.» domandò lui.
«Oh... ehm, sicuro!» Percy tentennò, mentendo spudoratamente, ma io non mi intromisi. «Sì, sono state molto utili.»
«Davvero?» sorrise.
Sì, quello era vero.
Il flusso d'acqua si interruppe. La nebbia cominciò a dissolversi.
«Beh, statemi bene lì a Denver.» gridò Luke, mentre la sua voce si affievoliva. «E dite a Grover che stavolta andrà meglio! Nessuno verrà trasformato in un pino se lui...»
«Lucky!» protestai, fermandolo.
La sua espressione divenne colpevole. «Scusami, Lys. Non volevo fartelo ricordare. Ma sai che non ho mai pensato che fosse colpa tua, nemmeno all’inizio. Ti prego, smetti di pensare di essere tu la…»
Ma la nebbia svanì e l'immagine di Luke scomparve nel nulla. Eravamo rimasti soli, in un box vuoto e bagnato. E il mio umore era andato al Tartaro. Percy mi strinse una spalla, tentando di confortarmi anche se non sapeva di cosa stessimo parlando io e Luke.
Annabeth e Grover spuntarono ridendo da dietro l'angolo ma, non appena videro la mia faccia, smisero subito. Il sorriso di Annabeth si spense. «Che è successo, Avie? Cos'ha detto Luke?»
«Non molto.» mentì Percy, risparmiandomi la fatica di rispondere. «Coraggio, andiamo a procurarci la cena.»
Qualche minuto più tardi, eravamo seduti al tavolo di un ristorantino economico decorato con scintillanti cromature. Era pieno di famiglie che mangiavano hamburger e bevevano birre e bibite.
Io, però, non riuscivo a togliermi dalla testa la conversazione con Luke. Perché aveva dovuto tirare fuori quella storia proprio adesso? Sapeva come mi faceva sentire, accidenti a lui!
Alla fine la cameriera si avvicinò. Inarcò un sopracciglio, scettica. «Allora?»
«Noi, ehm, vorremmo ordinare la cena.» disse Percy.
«Ce li avete i soldi per pagare, ragazzi?»
Il labbro di Grover iniziò a tremare. Temevo si mettesse a belare o, peggio, che si mettesse a mangiare il linoleum. Annabeth sembrava sul punto di svenire dalla fame.
Percy non sapeva proprio cosa dire, a dimostrazione che nessuno di loro tre aveva visto che io, effettivamente, di soldi mortali ne avevo ancora.
Stavo per intervenire, quando un rombo scosse tutto l'edificio: una moto grande quanto un cucciolo di elefante aveva accostato al marciapiede.
Tutte le conversazioni ai tavoli si interruppero. Il fanale anteriore della motocicletta mandava un bagliore rosso. Il serbatoio era decorato con delle fiamme e aveva due fondine borchiate su entrambi i lati, complete di fucili.
Il sedile era di pelle, ma di una pelle che somigliava parecchio a... beh, pelle umana. Forse perché, effettivamente, era pelle umana. E io sapevo anche di chi. Che schifo.
Il tizio sulla moto indossava una maglietta aderente rossa, jeans neri e una lunga giacca di pelle nera, con un coltello da caccia legato sulla coscia. Portava degli occhiali da sole a mascherina, rossi, e aveva la faccia più crudele e brutale che avessi mai visto – bella, credo, ma malvagia – con i capelli neri a spazzola e le guance sfregiate da innumerevoli battaglie. E avrebbe fatto paura persino a Lord Voldemort in persona, per gli amici Lord Coso.
Ovviamente, lo avevo riconosciuto subito.
Quando entrò nel ristorante, un vento caldo e secco soffiò nel locale, di quelli da far west che ti fanno salire l’ansia, non di quelli piacevoli.
«Ci mancava solamente il cinghiale, per coronare questa pessima giornata.» borbottai.
Poi diedi una sonora – e dolorosa – testata al tavolo.
«Ma perché le mie sorelle ce l’hanno tanto con me?» mi lamentai, sotto gli sguardi interdetti dei miei amici e quello divertito del nuovo arrivato, che mi aveva osservata quasi per tutto il tempo.
Tutti si alzarono, come sotto ipnosi, ma il motociclista fece un gesto noncurante con la mano e la gente si sedette di nuovo, tornando alle proprie conversazioni. La cameriera strizzò gli occhi, come se qualcuno le avesse appena premuto un tasto nel cervello, riavvolgendo il nastro.
Ripeté: «Ce li avete i soldi per pagare, ragazzi?»
«Offro io.» disse il motociclista, prima ancora che potessi parlare.
Si mise a sedere sulla nostra panca, che era decisamente troppo piccola per lui, schiacciando Annabeth contro la vetrina e me contro di lei.
Poi alzò gli occhi sulla cameriera, che lo stava fissando a bocca aperta, e chiese: «Sei ancora qui?»
Le puntò il dito contro e lei si irrigidì. Si voltò come se qualcosa la facesse girare su se stessa, quindi si diresse con passo spedito verso la cucina.
«Finiscila di metterti in mostra, non è educato.» borbottai, massaggiandomi la fronte nel punto in cui avevo colpito il tavolo e ignorando completamente le brutte sensazioni che erano esplose all’improvviso dentro di me.
Sapevo, dopotutto, che la rabbia, il risentimento, e l’amarezza che sentivo non mi appartenevano. Venivano da lui. E io ero talmente abituata a provarle – a causa di quello che sapevo – che il suo potere non mi faceva effetto. Lo percepivo, certo, ma mi era del tutto indifferente. Avevo imparato da tempo a controllare le mie emozioni.
Lui sogghignò, notandolo, poi spostò il suo sguardo, ancora nascosto dalle lenti nere, su Percy. Sapevo cosa celavano quegli occhiali: due orbite vuote in cui bruciavano esplosioni nucleari in miniatura.
«E così tu sei il figlio del Vecchio Algamarina, eh?» esordì.
«E a lei che gliene importa?»
Ecco, il Mollusco non riusciva a tenere a freno la furia che lui gli scatenava. Male. Malissimo. Ares avrebbe finto che gli andava bene, ma in realtà lo avrebbe odiato parecchio.
Gli occhi di Annabeth gli lanciarono un avvertimento, mentre la sentivo irrigidirsi al mio fianco. «Percy, lui è...»
Il motociclista alzò una mano.
«Non c'è problema.» disse. «Non mi dispiace un po' di sana sfrontatezza. Finché ci si ricorda chi è che comanda. Sai chi sono io, cuginetto?»
A quel punto una luce si accese negli occhi di Percy. Forse il suo cervellino da ameba aveva cominciato a funzionare. Probabilmente si era finalmente accorto del ghigno sprezzante identico a quello di Clare e dei suoi fratelli.
«Lei è il padre di Clarisse!» esclamò, infatti. «Ares, il dio della guerra.»
Ares sorrise e si tolse gli occhiali, mostrando così quegli occhi tanto particolari quanto inumani. «Esatto, pivello. Ho saputo che hai spezzato la lancia di Clarisse.»
«Se lo meritava.» commentai, indifferente.
«È probabile. Ma va bene così. Non mi immischio nelle battaglie dei miei figli, ci siamo capiti?»
«Pff.» alzai gli occhi al cielo e lui mi fulminò con un’occhiataccia.
«Quanto al motivo per cui sono qui, ho sentito che eravate in città e ho una piccola proposta da farvi.» riprese, come se non lo avessi interrotto.
La cameriera tornò con dei vassoi straripanti di roba da mangiare: cheeseburger, patatine, cipolle fritte e frullati al cioccolato.
Ares le diede qualche dracma.
Lei guardò le monete con un certo nervosismo. «Ma questi non sono...»
Ares tirò fuori il suo pugnale da caccia e cominciò a pulirsi le unghie. «Problemi, dolcezza?»
La cameriera deglutì, poi si allontanò con l'oro.
«Non può fare così.» disse Percy. «Non può andarsene in giro a minacciare la gente con un coltello.»
Lui scoppiò a ridere. «Stai scherzando? Adoro questo paese. Il posto migliore del mondo dopo Sparta. Tu non sei armato, pivello? Dovresti.»
«Ripeto: si tratta di educazione, Ares.» osservai, senza toccare cibo. «Ma forse tu non sai cosa significhi.»
«Vedo che oggi sei proprio in vena di battute, ragazzina.» mi rispose, sempre con quel ghigno stampato sul volto. «Mangia. Sei dimagrita, non voglio che sparisci.» aggiunse, spingendo un vassoio verso di me. «Tu, comunque, dovresti saperlo meglio di chiunque altro quanto è pericoloso il mondo, là fuori.» gli lanciai un’occhiataccia e presi a spiluccare qualche patatina. Lui annuì, concorde con la mia decisione di ingurgitare qualcosa, poi tornò a rivolgersi a Percy. «Il che mi porta di nuovo alla mia proposta. Ho bisogno che tu mi faccia un favore.»
«Che favore potrei mai fare a un dio?»
«Qualcosa che un dio non ha il tempo di fare da solo. Non è niente di che. Ho lasciato il mio scudo in un parco acquatico abbandonato, qui in città. Avevo un... appuntamento con la mia ragazza. Siamo stati interrotti. Ho dimenticato di riprendere lo scudo. Voglio che tu lo recuperi per me.»
«Di nuovo?» mi lamentai. «Ma non avete niente di meglio da fare, voi tre?»
Ares sogghignò, ma non mi rispose.
«Perché non ci va da solo?» chiese Percy.
Il fuoco nelle orbite del dio si fece un po' più incandescente.
«Perché non ti trasformo in una marmotta e non ti investo con la mia Harley? Perché non ne ho voglia. Un dio ti sta dando l'opportunità di dimostrare quanto vali, Percy Jackson. Ti dimostrerai un codardo?» si sporse in avanti. «O forse combatti solamente quando c'è un fiume a portata di mano, così il tuo paparino può proteggerti?»
«Tanto per la cronaca, Testa Calda, ma sono stata io a spingere Percy al suicidio, facendolo buttare nel fiume. Non è colpa sue se non sapeva di poterlo fare.»
Vidi Percy respirare pesantemente per trattenersi dal cercare di picchiarlo. Bravo ragazzo. Dopotutto, era quello che Ares voleva.
«Dettagli, ragazzina.»
«Non siamo interessati.» rispose il Mollusco. «Abbiamo già un'impresa da compiere.»
«So tutto della tua impresa, pivello. Quando quell'oggetto è stato rubato, Zeus ha interrogato subito la tua amica, qui, ma lei non ha detto una parola, e lo ha fatto incazzare parecchio. Perché siamo tutti a conoscenza del fatto che Avalon sa benissimo dove sia la folgore, anche se non vuole dircelo. Poi, mio padre si è arreso al suo silenzio e ha sguinzagliato i migliori per cercarlo: Apollo, Atena, Artemide e me, naturalmente. E se non sono riuscito io a scovare un'arma di quella potenza...» si leccò le labbra, come se il pensiero della Folgore originale gli stuzzicasse l'appetito.
«Sì, come no.» mormorai, distogliendo lo sguardo.
Spostai il mio vassoio verso il centro del tavolo. Avevo mangiato mezza confezione di patatine, forse. Sapevo che era troppo poco, ma mi si era chiuso lo stomaco. Non riuscivo proprio a mangiare niente. Ares aveva ragione, stavo dimagrendo, ma non ero in grado di evitarlo. Da quando era iniziata, più quella storia andava avanti, più mi passava la fame. E quello che sapevo mi toglieva persino la voglia di provare a ingurgitare qualcosa. Sperai solo di non crollare, per questo.
«Beh, tu non hai nessuna speranza. Comunque, sto cercando di darti il beneficio del dubbio. Io e tuo padre siamo amici di antica data. Dopo tutto, sono stato io a parlargli dei miei sospetti sul vecchio Fiato Morto.»
«È stato lei a dirgli che Ade ha rubato la Folgore?»
«Sicuro. Incastrare qualcuno per cominciare una guerra. Il trucco più vecchio del mondo. L'ho capito subito. In un certo senso, devi ringraziare me per la tua piccola impresa.»
«Grazie mille.» borbottò Percy, sarcastico.
«Ehi, sono un tipo generoso.» quasi non scoppiai a ridergli in faccia. «Fa’ questo lavoretto per me, e ti aiuterò. Vedrò di procurare un passaggio a te e ai tuoi amici.»
«Ce la caviamo benissimo da soli.»
«Come no. Niente soldi. Niente mezzi. E senza la minima idea di con chi avete a che fare. A parte, forse Avalon. Ma tanto lei non parlerà mai, quindi… Aiutami, e forse ti dirò qualcosa che hai bisogno di sapere... a proposito di tua madre.»
«Mia madre?»
Sogghignò. «Vedo che finalmente ho ottenuto la tua attenzione. Il parco acquatico è a un chilometro e mezzo da qui, seguendo la Delancy in direzione ovest. Non potete sbagliare. Cercate il Tunnel dell'Amore.»
«Cos'ha interrotto il suo appuntamento?» chiese Percy. «Vi ha spaventato qualcosa?»
«Qualcosa non è il termine più appropriato, temo.» risposi io con un mezzo sorriso, al posto del dio. «Anche se calza a pennello la situazione in cui si è messo.»
Ares mi mostrò i denti, ma conoscevo perfettamente quell'espressione minacciosa: l’aveva sempre Clarisse quando era nervosa e stava nascondendo qualcosa.
«Sei fortunato ad avere incontrato me, pivello, e non uno degli altri dei dell'Olimpo. Non tutti hanno la mia indulgenza verso le cattive maniere. E non tutti si fanno tenere a bada da Avalon.» alzai un sopracciglio, scettica. «Va bene, sì.» ammise. «Forse tutti si fanno tenere a bada da te, ragazzina. Forse. Ma non devi approfittartene.»
«Quando mai lo faccio?»
«Ci rivediamo qui quando hai finito.» continuò, rivolto a Percy. «Non mi deludere.»
Dopo meno di un secondo Ares non c'era più. Svanito nel nulla tanto rapidamente da far pensare che non fosse mai stato lì. Ma sapevo che quella conversazione era stata reale, così come se ne stava rendendo conto Percy osservando la mia faccia. E quelle di Annabeth e Grover accanto a noi.
«Si mette male.» commentò Grover. «Ares è venuto a cercarti, Percy. Qui si mette proprio male.»
«Speravo di evitare questa parte.» mormorai con un sospiro.
Scrutai fuori dalla vetrina. La moto era scomparsa. Ovviamente.
Mi sentii osservata e, quando riportai lo sguardo sui miei amici, trovai Percy intento a fissarmi in una maniera quasi morbosa. A cosa stava pensando? Oh, certo. Si stava chiedendo se Ares avesse davvero delle informazioni su sua madre e se io ne sapevo qualcosa. Probabilmente si stava anche domandando se potesse farmi delle domande, ma non sembrava tanto sicuro di volerlo fare davvero. Cosa che apprezzai molto. Non volevo dovergli rispondere in modi che non lo avrebbero soddisfatto.
«Probabilmente è solo un trucco.» disse, alla fine. «Al diavolo Ares. Andiamocene e basta.»
«Non possiamo.» intervenne Annabeth. «Ascolta, detesto Ares come chiunque altro, a parte Avie, forse. Ma non puoi ignorare gli dei, se non vuoi incorrere in seria sventura. Non scherzava quando ha detto che poteva trasformarti in un roditore.»
Lui abbassò lo sguardo sul suo cheeseburger, riflettendo. «Perché ha bisogno di noi?»
«Forse è un problema in cui serve il cervello.» suggerì Annabeth. «Ares è forte. Ma ha soltanto questo. Perfino la forza deve inchinarsi alla saggezza, ogni tanto.»
«Ma il parco acquatico... sembrava quasi spaventato. Cosa potrebbe mai mettere in fuga un dio della guerra?»
Annabeth e Grover si scambiarono un'occhiata nervosa.
«Temo che dovremo scoprirlo.» concluse Annabeth.
«E quando lo avrete scoperto, so già che non vi piacerà.» commentai.
Mi fissarono tutti e tre, preoccupati.
«Lo sai, o lo sai?» mi domandò Grover.
Alzai le spalle. «Tutti e due.»
Il sole stava calando dietro le montagne quando trovammo il parco acquatico. A giudicare dal cartello, un tempo si chiamava Waterland, ma alcune lettere erano venute via, perciò si leggeva solo WAT R A D.
Il cancello principale era chiuso con un lucchetto e sormontato da una protezione di filo spinato. All'interno, enormi scivoli ad acqua, tubi e canali ormai a secco si attorcigliavano ovunque, tuffandosi in vasche vuote. Vecchi biglietti e locandine svolazzavano sull'asfalto. Man mano che si faceva buio, il posto assumeva un'aria triste e lugubre.
«Se Ares porta qui la sua ragazza per un appuntamento» disse Percy, guardando il filo spinato «non voglio sapere quanto è brutta!»
«Percy!» lo ammonì Annabeth, mentre io sghignazzavo. «Sii più rispettoso.»
«Perché? Pensavo che detestassi Ares.»
«È pur sempre un dio. E la sua ragazza ha un bel caratterino.»
«Non ti conviene insultare la sua bellezza.» aggiunse Grover.
«Chi è? Echidna?»
«No, Afrodite.» rispose Grover, in tono sognante. «La dea dell'amore.»
«La Signora Suprema delle Pettegole.» continuai io.
«Ma non era sposata con qualcuno?» chiese il Mollusco. «Con Efesto, mi pare.»
«E allora?» fece Grover.
«Non è che le importi molto.» aggiunsi, più che eloquente. «O che importi ad Ares.»
«Oh!» Percy cambiò velocemente argomento. «Bene, come entriamo?»
«Maia!» sulle scarpe di Grover spuntarono le ali.
Volò oltre la recinzione, fece una capriola involontaria a mezz'aria e atterrò goffamente dall'altra parte. Si spolverò i jeans facendo l'indifferente, come se avesse calcolato tutto. «Venite anche voi, ragazzi?»
Io mi avvicinai alla recinzione e, subito, le viti tra i miei capelli presero vita. Si allungarono fino a superare la recinzione e toccare il suolo dall’altra parte, accanto a Grover, e si ingrossarono abbastanza da sollevarmi dalla vita e farmi arrivare vicino al mio amico, facendomi atterrare molto più delicatamente di quanto aveva fatto lui e senza un graffio. Mentre si ritiravano tra i miei capelli, le accarezzai dolcemente per ringraziarle. Erano davvero fantastiche, quando volevano. Altre volte, invece, sapevano essere davvero permalose. Come il dio che me le aveva donate.
Percy e Annabeth mi guardarono con tanto d’occhi, poi si dovettero arrampicare alla vecchia maniera, reggendosi il filo spinato a vicenda per passare dall'altra parte.
Mentre le ombre si allungavano, ci addentrammo nel parco, scrutando le varie attrazioni. C'erano "L'Isola dei Serpenti d'Acqua Dolce", "Occhio alle Mutande" e "Ehi, bello! Dov'è il mio costume?"
Non sbucò fuori neanche un mostro. Non si sentiva il minimo rumore. E questo non presagiva nulla di buono.
Trovammo un negozio di souvenir lasciato aperto. La merce era ancora allineata sugli scaffali: palle di vetro con la neve dentro, matite, cartoline e pile di...
«Vestiti!» esclamò Annabeth. «Vestiti puliti.»
«Già.» confermò Percy. «Ma non puoi mica...»
«Sta' a vedere.»
Agguantò un'intera fila di roba dagli espositori e scomparve in un camerino. Pochi minuti dopo, emerse rivestita di tutto punto: bermuda a fiori marcati Waterland, un'ampia maglietta rossa Waterland, un paio di scarpe di tela Waterland e uno zainetto Waterland, ovviamente riempito completamente di altri abiti.
«Prego, ragazzi, servitevi pure.» commentai, facendo loro un cenno verso gli espositori.
«Al diavolo!» Grover scrollò le spalle.
Poco dopo, tutti e tre erano vestiti come cartelloni pubblicitari ambulanti del defunto parco a tema. Fortuna che io, avendo ancora il mio zaino, non ebbi bisogno di quegli abiti… non credo sarei stata in grado di portarli con tanta indifferenza.
Continuammo a cercare il tunnel dell'amore. Avevo la sensazione che l'intero parco stesse trattenendo il fiato, come in attesa dello scoppio di una bomba. E, sapendo quello che sapevo, non me ne stupivo affatto. Anche se non mi piaceva per niente.
«E così Ares e Afrodite» disse il Mollusco «hanno una tresca?»
«È una vecchia storia, Percy.» rispose Annabeth. «Vecchia di tremila anni, per la precisione.»
«E il marito di Afrodite?»
«Beh, sai...» continuò lei «Efesto. Il fabbro. È rimasto zoppo da bambino, quando Zeus l'ha scaraventato giù dall'Olimpo. Perciò diciamo che non è una gran bellezza. È bravo con le mani e tutto, ma Afrodite non va esattamente pazza per il talento e il cervello, mi sono spiegata?»
«Zeus, certo…» soffiai. «Per una volta che non ha fatto niente, lo incolpano comunque.»
«Le piacciono i motociclisti?»
«Più o meno.» sogghignai.
«Efesto lo sa?»
«Oh, sicuro.» rispose Annabeth. «Li ha sorpresi insieme, una volta. Ma forse sarebbe meglio dire "presi": li ha catturati in una rete d'oro e poi ha invitato tutti gli dei a guardarli e a farsi due risate.»
«E si è divertito talmente tanto che è diventato il suo passatempo preferito.» commentai.
«Efesto cerca sempre di metterli in imbarazzo. Ecco perché si incontrano in posti fuori mano come...» si fermò, guardando dritto davanti a sé. «... questo.»
Davanti a noi c'era un'enorme vasca vuota che sarebbe stata l'ideale per le acrobazie con lo skateboard. Era larga almeno cinquanta metri e aveva la forma di un pallone tagliato in due.
Attorno al bordo, una dozzina di statue di bronzo di Cupido faceva la guardia, con le ali spiegate e gli archi tesi. Di fronte a noi, sul lato opposto, c'era l'ingresso di un tunnel, nel quale probabilmente fluiva l'acqua quando la vasca era piena. Il cartello diceva: IL TUNNEL DEI BRIVIDI D'AMORE: NON È ROBA PER I VOSTRI GENITORI!
Raccapricciante. Decisamente, non ci aspettava nulla di buono.
Grover si avvicinò cautamente al bordo. «Ragazzi, guardate!»
Arenata sul fondo della vasca, c'era una barchetta a due posti rosa e bianca, sormontata da un baldacchino e ricoperta di cuoricini. Disgustoso. Sul sedile di sinistra, scintillante nella luce tenue del crepuscolo, c'era lo scudo di Ares, un cerchio di bronzo levigato.
«È troppo facile.» osservò Percy. «Possibile che dobbiamo solo scendere giù e prenderlo?»
Annabeth fece scorrere le dita sulla base della statua di Cupido più vicina.
«Qui c'è scolpita una lettera greca.» notò. «Eta. Mi chiedo...»
«Grover» chiese il Mollusco «senti odore di mostri?»
Annusò il vento. «Niente.»
«Niente tipo "sotto-l'arco-c'era-Echidna-e-non-hai-sentito-niente", o niente sul serio?»
Lui ci rimase male. «Te l'ho detto, eravamo sottoterra.»
«Okay, scusa.»
«Solo perché non c’è odore di mostri non significa che non ci sia niente.» commentai.
I loro sguardi si spostarono su di me.
«Che intendi?» mi domandò Percy.
«Cosa c’è?» aggiunse Grover.
Lanciai uno sguardo ad Annabeth, ancora intenta a studiare la lettera Eta chiedendosi dove l’avesse già vista. Sperai ci arrivasse in fretta, così come capitava in alcuni di quei futuri che conoscevo. Anche se, ovviamente, erano davvero davvero pochi. Ovviamente.
Distolsi lo sguardo, puntandolo sulla barchetta, e sospirai. «Niente.»
Percy mi studiò per alcuni istanti, comprendendo al volo che qualcosa non andava ma che non avrei aggiunto altro. Poi fece un bel respiro.
«Vado.» disse.
«Vengo con te.» Grover non sembrava molto contento, ma sapevo che lo faceva perché si sentiva in colpa per averci lasciati da soli sull’arco a St Louis.
«No.» gli disse il Mollusco. «Voglio che rimani quassù con le tue scarpe volanti. Sei il Barone Rosso, l'asso del volo, ricordi? Se qualcosa dovesse andare storto, conto su di te per la ritirata.»
Grover gonfiò un po' il petto. «Ma cosa potrebbe andare storto?»
Io scossi la testa, contrariata. «Dovevi proprio dirlo?»
«Non lo so. È solo una sensazione.» rispose Percy, lanciandomi un’occhiata. «Annabeth, vieni con me.»
«Stai scherzando?» lo guardò come se fosse appena piombato giù dalla luna. Aveva le guance in fiamme e io sghignazzai senza ritegno.
«Che problema c'è, adesso?»
«Io, venire con te nel "Tunnel dei Brividi d'Amore"? Ma ti rendi conto di quanto è imbarazzante? E se mi vede qualcuno?»
«Ma chi potrebbe vederti?»
E ora, anche il Mollusco sembrava un pesce cotto a puntino.
Io sghignazzai ancora di più, mentre tutti e due mi fulminavano con lo sguardo.
«Bene.» disse Percy. «Faccio da solo.»
Annie stava per seguirlo, borbottando qualcosa che assomigliava molto a “I ragazzi sono una gran seccatura”, quando la fermai per un braccio, facendola voltare verso di me.
«Resta con Grover.» le dissi, seria.
«Perché?» mi chiese lei, alzando un sopracciglio.
Io non risposi, ma non servì. La mia espressione doveva essere abbastanza eloquente da ascoltarmi, così annuì e affiancò il satiro. Io mi incamminai verso il fondo di quella scodella gigante, seguendo Percy.
Raggiungemmo la barca. Lo scudo era appoggiato su un sedile, con un foulard di seta accanto. Mi osservai intorno, disgustata. Sapevo perché Ares e Afrodite avevano scelto quel posto, egocentrici com’erano. Gli specchi che ricoprivano ogni singolo centimetro di quell’attrazione permettevano loro di rimirarsi per tutto il tempo che volevano. I gusti erano gusti, certo, ma io avrei preferito infinite volte il Tartaro stesso a un luogo del genere. Puah.
Percy raccolse il foulard, di un rosa scintillante e profumato, e se lo portò al viso per sentirne meglio l’odore inebriante. Glielo strappai di mano prima che potesse strofinarselo su tutta la faccia, come un vero ebete. Non era colpa sua, dopotutto. La magia di Afrodite faceva uno strano effetto a chi non ci era abituato. Le mie sorelle le avevano impedito di regalarmi un oggetto simile, quando ero piccola, e io segretamente ero stata loro grata. Avevo già abbastanza problemi senza un dono del genere…
«Pessima idea, Mollusco.» gli dissi, infilandomi il fazzoletto in tasca. «Stai alla larga dalla magia dell’amore. Credimi.»
«Cosa?»
«Prendi quello scudo, Testa d'Alghe, e andiamocene via di qui.» urlò Annabeth dalla cima della vasca.
Lui lo fece. E nell'istante stesso in cui lo toccò, sgranai gli occhi.
«Porco Efesto!» imprecai.
Quello era uno degli scenari peggiori, uno di quelli che speravo non si avverasse. Ma, come al solito, era proprio il prescelto dal Fato. Il meccanismo di allarme della trappola, poteva essere tante cose diverse. In quel caso, purtroppo per noi, si era attivato quando Percy aveva, involontariamente, spezzato un filo elettrico incredibilmente sottile che legava lo scudo alla panca della barchetta.
Male.
Male male male.
Fortuna che avevo detto alla figlia di Atena di restare con Grover, altrimenti… quello che stava per capitare l’avrebbe terrorizzata.
«Aspettate.» fece Annabeth.
«Troppo tardi.» mormorò Percy.
«C'è un'altra lettera greca sul fianco della barca, un'altra Eta. È una trappola.» osservò lei, studiandoci da lontano.
«Ma dai!» commentai.
Un gran fragore metallico interruppe la nostra conversazione, il rumore di un milione di ingranaggi che entravano in azione, come se l'intera vasca si stesse trasformando in una macchina gigantesca. Efesto doveva essersi proprio divertito a modificare quell’attrazione mortale.
Grover gridò: «Ragazzi!»
Su in alto, lungo il bordo, le statue di Cupido stavano portando gli archi in posizione di tiro. Prima che potessi anche solo pensare di mettere in guardia Percy, fecero fuoco, ma non contro di noi: l'uno verso l'altro, da una parte all'altra del bordo. Dalle frecce si dipanavano dei cavi lucenti che, arcuandosi sopra la vasca, andavano ad ancorarsi sul lato opposto, formando un enorme asterisco dorato. Poi dei fili metallici più sottili cominciarono magicamente a intrecciarsi tra le funi principali, intessendo una rete. E intrappolandoci al di sotto.
«Dobbiamo andarcene.» disse Percy.
«Ma davvero?» ironizzò Annabeth.
«Che deduzione illuminante.» rincarai io.
Percy agguantò lo scudo e scappammo, ma risalire il pendio della vasca non era facile come andare in discesa. Era troppo liscia e senza appigli.
«Forza!» ci incitò Grover.
Stava cercando di tenerci aperto un varco nella rete insieme ad Annabeth, ma ovunque la toccassero, i fili metallici si attorcigliavano attorno alle loro mani.
Le teste dei Cupidi si spalancarono e ne sbucarono fuori delle telecamere. Tutt'intorno alla vasca spuntarono dei riflettori, accecandoci, e la voce di un altoparlante tuonò: «Diretta sull'Olimpo prevista fra un minuto... cinquantanove, cinquantotto...»
«Efesto!» gridò Annabeth. «Che stupida! Eta è l'iniziale di Efesto in greco. Ha costruito questa trappola per sorprendere la moglie con Ares. Adesso verremo trasmessi in diretta sull'Olimpo e faremo la figura dei perfetti idioti!»
«Ecco, Percy, ora sai cos’ha spaventato tanto Ares.» osservai, continuando a cercare di arrampicarmi. «Vi avevo detto che non vi sarebbe piaciuto.»
Eravamo quasi arrivati in cima, quando gli specchi si aprirono come tanti sportelli e migliaia di minuscole cose metalliche si riversarono fuori.
Annabeth gridò, sopra le nostre teste.
Era un esercito di raccapriccianti e brulicanti animaletti a molla: il corpo di bronzo, le zampe affusolate, la bocca piccola e a tenaglia, ci correvano incontro formicolando in un'ondata di crepitii e ronzii di metallo.
«Ragni!» disse Annabeth. «Aaaaaaah!»
«Ecco.» dissi. «L’abbiamo persa.»
Non l'avevo mai vista andare fuori di testa in quel modo. Cadde all'indietro terrorizzata e Grover fu costretto a lasciare la rete e aiutarla a rimettersi in piedi, cercando di convincerla che i ragni non potevano raggiungerla perché intrappolati con noi sotto la rete.
Io e Percy tornammo di corsa verso la barca per impedire che i ragni ci assalissero in massa.
Quei cosi adesso erano ovunque, riversandosi come una marea verso il centro della vasca, circondandoci su ogni fronte. Cominciammo a tirare calci da tutte le parti per allontanare i ragni che cercavano di salire a bordo, rischiando persino di darcene tra di noi. Percy gridò ad Annabeth di trovare una soluzione, ma lei era troppo paralizzata per occuparsi di qualcosa di diverso dallo strillare. Le sue urla mi trapanavano le orecchie nonostante la distanza.
«Trenta, ventinove...» recitava l'altoparlante.
«Oh, che gioia…» mormorai.
I ragni cominciarono a sputare lunghi tratti di filo metallico, cercando di imprigionarci. Erano facili da spezzare, ma ce n'erano così tanti, e i ragni continuavano ad arrivare. Percy ne levò uno dalla mia gamba con un calcio e le sue tenaglie si portarono via un pezzo della sua scarpa nuova. Grover volteggiava sopra la vasca con le sue scarpe volanti, cercando di allentare la rete, che però non si piegava nemmeno. Annabeth continuava a gridare da un punto indistinto al di là della rete.
Mi misi a riflettere. “Quale futuro che conosco è questo?”
Chiusi gli occhi. Analizzai ogni cosa: dall’incontro con Ares, al nostro arrivo al parco a tema. Dalla scenetta dei vestiti al momento in cui avevamo trovato l’attrazione dell’amore. Dal battibecco tra Percy e Annabeth al momento in cui era scattata la trappola.
Ma certo!
L’innesco!
Quel dannato filo metallico aveva fatto partire tutto, e c’erano ben pochi scenari in cui Efesto lo aveva usato.
«Quindici… quattordici…» gracchiava l’altoparlante.
Con le palpebre ancora abbassate, ripassai nella mia mente ogni singolo istante di ogni singola versione di quella giornata folle… e trovai la mia risposta nell’esatto momento in cui Percy gridò: «Grover! Vai in quella cabina! Trova il pulsante di accensione!»
«Ma...»
«Fallo!» urlai io, lanciando uno sguardo d’intesa a Percy.
Perché era così che sarebbe dovuta andare, all’inizio. Con la differenza che Annabeth, al posto di strillare da qualche parte sopra le nostre teste, sarebbe stata accanto a Percy su quella barca. Continuando a gridare come una pazza isterica, ovviamente.
Grover entrò nella cabina di controllo e si mise a smanettare sui pulsanti. Pregai che facesse in fretta.
«Cinque, quattro...»
Ci lanciò uno sguardo disperato, alzando le mani. Un segnale chiaro: aveva premuto ogni pulsante, ma non stava ancora succedendo nulla.
Stritolai il braccio di Percy, terribilmente tesa. «Mollusco…»
Lui chiuse gli occhi e io compresi al volo cosa stesse cercando di fare: stava provando ad attingere ai suoi poteri di figlio di Poseidone. E, come da previsioni, funzionò.
«Due, uno... zero
L'acqua esplose fuori dai tubi, precipitando con un boato nella vasca e spazzando via i ragni.
Mi sedetti di scatto su uno dei sedili della barchetta, allacciandomi la cintura di sicurezza per evitare di venire sbalzata via durante quella corsa folle che stavamo per fare. Nello stesso istante l'onda violenta ci investì dall'alto, travolgendo i ragni e innaffiandoci completamente, senza ribaltarci. La barca si girò, si sollevò nella marea e prese a ruotare su se stessa attorno al gorgo.
L'acqua era piena di ragni in cortocircuito, alcuni dei quali esplodevano violentemente, scaraventati contro le pareti della vasca.
Avevamo i riflettori puntati addosso. Le Cupido-camere stavano girando la diretta per l'Olimpo. Avessi potuto, le avrei disintegrate.
Mi tenni stretta ai bordi della barca mentre Percy la governava, completamente concentrato nel tentativo di farle cavalcare la corrente senza farci spiattellare al muro.
Girammo in tondo per un'ultima volta, con il livello dell'acqua ormai così alto da farci quasi finire schiacciati contro la rete metallica. Poi il muso della barca puntò dritto verso il tunnel e partimmo a razzo nel buio.
Io e Percy ci ritrovammo a tenerci forte l’uno all’altra, strillando a squarciagola mentre la barca sfrecciava lungo gli anelli e le curve vertiginose del percorso e si lanciava in tuffi ripidissimi, superando immagini di Romeo e Giulietta e un mucchio di altra roba sdolcinata che per poco non mi fece vomitare.
Poco dopo eravamo fuori dal tunnel, con l'aria notturna che ci fischiava fra i capelli bagnati mentre la barca si precipitava a rotta di collo verso l'uscita.
Se l'attrazione fosse stata ancora in funzione, avremmo superato in tutta tranquillità la rampa del Cancello dell'Amore e saremmo atterrati sani e salvi nella vasca d'uscita. Ma c'era un problema. Il Cancello dell'Amore era chiuso con una catena. Le due barche schizzate fuori dal tunnel prima di noi adesso erano ammonticchiate contro la barricata: una sommersa, l'altra spaccata a metà.
«Slacciati la cintura.» mi gridò Percy.
«Cosa?»
«Fai come ti dico! Preferisci morire spiaccicata?» si fissò lo scudo di Ares al braccio. «Dobbiamo saltare!»
Oh.
Ma certo.
Avevo involontariamente dimenticato quella parte, mentre rianalizzavo le varie possibilità, perché sapevo quanto fosse facile finire schiantati su quel maledetto cancello. Dopotutto, lo avevo visto succedere parecchie volte. E non era proprio una bella scena.
Mi slacciai la cintura e mi tirai in piedi, afferrandogli la mano mentre il cancello si faceva sempre più vicino.
«Al mio via.» disse lui.
«No! Al suo via!» ribattei.
«Suo?»
«Civettina del mio cuore!» gridai. «Mi serve il tuo cervello! Dimmi che ti sei ripresa.»
«Sono qui!» urlò Annabeth in risposta. «Sto calcolando la traiettoria.»
«Bene!» esclamai. «Al tuo via!»
«D’accordo. Al suo via!» cedette Percy.
Lei esitò... esitò... e poi strillò: «Ora!»
Crac!
Annabeth, con la sua mente geniale, ci aveva garantito la massima spinta. Il che ci aveva portato ad averne addirittura troppa. La barca si fracassò nel mucchio e noi volammo in aria, oltre il cancello, oltre la vasca, e poi giù, verso l'asfalto.
Qualcosa mi afferrò per un braccio, dandomi uno strattone. «Ahi!»
Era Grover!
A mezz'aria, aveva afferrato Percy per la maglietta e me, e stava cercando di evitarci un atterraggio disastroso, solo che noi due viaggiavamo alla velocità della luce.
«Siete troppo pesanti!» si lagnò Grover. «Stiamo andando giù!»
«Lasciami!» gli dissi.
«Che cosa?»
«Fallo!»
Lui lo fece. Nello stesso istante, srotolai la frusta che portavo come collana e la usai per appendermi al cancello ed evitare di spiattellarmi, alleggerendo Grover allo stesso tempo. Lo schianto della barca contro il cancello mi riverberò in tutto il corpo.
Lui e Percy precipitarono comunque a terra, con Grover che faceva del suo meglio per rallentare la caduta. Si schiantarono contro un tabellone fotografico e la testa di Grover finì perfettamente nel buco in cui i turisti infilavano la faccia per fingersi Nunù, la Simpatica Balena. Percy cadde a terra. Forse era un po’ ammaccato, ma sembrava stare bene. E aveva ancora lo scudo di Ares al braccio. Annabeth lo aiutò a rimettersi in piedi e insieme diedero una mano a Grover a scastrarsi dal tabellone.
Io mi lasciai scivolare fino a terra liberando la mia frusta e mi voltai ad osservare il Tunnel Dell’Amore: l'acqua stava calando e la nostra barca si era fracassata.
A un centinaio di metri di distanza, all'ingresso della vasca, i Cupidi stavano ancora filmando. Le statue si erano girate in modo da puntarci le videocamere addosso e avevamo i riflettori in faccia.
Fissai una delle cineprese, mortalmente seria, mentre venivo affiancata dai miei amici.
«Caro Efesto, appena ti acchiappo ti disintegro.» dissi, calma, riavvolgendo con maestria la frusta intorno al mio collo, facendola tornare ad essere una collana.
«Lo spettacolo è finito!» gridò Percy. «Grazie e buona serata!»
I Cupidi tornarono nella posizione originaria. Le luci si spensero. Il parco piombò di nuovo nel buio e nel silenzio, tranne per il tenue sgocciolio proveniente dalla vasca d'uscita del Tunnel dell'Amore. Sperai che gli dei si fossero goduti lo spettacolo, perché presto me l’avrebbero pagata.
Odiavo essere presa in giro, e loro lo sapevano bene.
Percy sollevò lo scudo col braccio e si voltò verso di noi. «Dobbiamo scambiare due chiacchiere con Ares.»
«Non preoccuparti, disintegro anche lui.» affermai.

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Capitolo 17
*** 16. Faccio un sonnellino degno della bella addormentata ***


Il dio della guerra ci stava aspettando nel parcheggio del ristorante.
«Bene, bene.» esordì. «Non ti sei fatto ammazzare.»
«Sapeva che era una trappola.» replicò Percy.
Ares gli rivolse un ghigno malvagio. «Scommetto che il fabbro zoppo c'è rimasto male quando si è trovato nella rete un paio di stupidi ragazzini. Siete venuti bene, in tv.»
Percy gli passò lo scudo. «Lei è un idiota.»
Annabeth e Grover trattennero il fiato, io soffocai una risata.
Ares afferrò lo scudo e lo fece roteare in aria come l'impasto di una pizza. Lo scudo cambiò forma, plasmandosi in un giubbotto antiproiettile che il dio si gettò sulle spalle.
«Vedete quel Tir laggiù?» indicò un grosso autotreno parcheggiato dall'altra parte della strada. «È il vostro passaggio. Vi porterà dritti a Los Angeles, con un'unica fermata a Las Vegas.»
L'autotreno aveva una scritta sul retro che riuscivo a leggere solo perché era stampata a lettere bianche su sfondo nero, una buona combinazione per la dislessia: BUONCUORE INTERNATIONAL: IL TRASPORTO ZOOLOGICO CHE RISPETTA GLI ANIMALI. ATTENZIONE: ANIMALI SELVATICI.
«Sta scherzando.»
Ares schioccò le dita e la porta posteriore del Tir si aprì. «Passaggio gratis per l'Ovest, pivello. Piantala di lamentarti. Ed ecco qualcosina per ringraziarti del lavoretto.»
Sganciò uno zaino blu dal manubrio e glielo lanciò. Dentro c'erano dei vestiti puliti per tutti, venti dollari in contanti, un sacchetto pieno di dracme d'oro e un pacco di biscotti al cioccolato.
«I biscotti sono per Avalon.» aggiunse, osservandomi. «Devi decisamente mangiare di più.»
«Non voglio la sua pidocchiosa...» cominciò il Mollusco.
«Grazie, Divino Ares.» lo interruppe Grover, scoccandogli la sua occhiata da allarme rosso. «Grazie mille.»
Percy si infilò lo zaino in spalla, riluttante.
«Grazie, Cinghiale.» alzai gli occhi al cielo. «Ma non aspettarti che ti perdoni per questo tiro mancino che mi hai rifilato. Resti comunque un imbecille.»
Percy, che si era voltato a osservare il ristorante, si girò di scatto verso di noi, sorpreso da quello che avevo appena detto. Ci fissava con gli occhi spalancati, passando lo sguardo da me ad Ares e viceversa. Il dio sogghignò verso di me, le due pozze nucleari che brillavano dietro le lenti degli occhiali da sole.
«Non c’è di che, ragazzina.» scrollò le spalle. «So quanto ti piacciono i dolci, dopotutto.»
Sospirai. Era vero. Ormai tutti sapevano che i dolci erano il mio punto debole. Non ero il tipo che si faceva corrompere facilmente – mai in realtà – ma se mi avessero offerto un qualsiasi tipo di dolce, io lo avrei preso e me lo sarei intascato senza dare niente in cambio. La mia golosità non aveva limiti, era risaputo.
«Ruffiano.» mormorai, facendolo sogghignare ancora di più.
«Mi deve ancora una cosa.» disse Percy ad Ares. «Mi ha promesso delle informazioni su mia madre.»
«Sicuro di reggere?» il dio mise in moto, lanciandomi uno sguardo penetrante prima di sganciare la bomba. «Non è morta.»
«Che vuole dire?» il Mollusco era senza parole, incredulo.
«Voglio dire che è stata sottratta al Minotauro prima che potesse morire. Si è trasformata in una pioggia d'oro, giusto? Questa è metamorfosi. Non è morte. È tenuta prigioniera.» fece una pausa. «La tua amica lo sapeva, ovviamente.»
«Prigioniera? Perché?» Percy ignorò l’ultima frase.
«Devi studiare l'arte della guerra, pivello. Ostaggi. Prendi qualcuno per controllare qualcun altro.»
«Non mi sta controllando nessuno.»
Il dio scoppiò a ridere. «Ah, sì? Ci vediamo, ragazzino.»
Il Mollusco serrò pugni. «Fa un po' troppo lo sbruffone, per uno che scappa dalle statuine di Cupido.»
Dietro gli occhiali da sole di Ares, il fuoco brillò. Sentii un vento caldo fra i capelli, e seppi esattamente cosa significava. «Ci incontreremo di nuovo, Percy Jackson. La prossima volta che fai a botte con qualcuno, guardati le spalle.»
Mi salutò con una mano, mandò su di giri la Harley, poi si allontanò rombando lungo Delancy Street.
Annabeth disse: «Non è stata una mossa intelligente, Percy.»
«Chi se ne importa.»
«Nessuno ci tiene a inimicarsi un dio. Soprattutto quel dio.»
«Arriverà il giorno in cui te ne pentirai…» aggiunsi a bassa voce.
«Ehi, ragazzi.» fece Grover, prima che uno dei due potesse replicare. «Detesto interrompervi, ma...»
Indicò il ristorante. Alla cassa, gli ultimi due clienti stavano pagando il conto: due uomini vestiti con identiche tute nere, con un logo bianco sulla schiena uguale a quello sul Tir della Buoncuore International.
«Se vogliamo prendere l'espresso zoologico» disse Grover «dobbiamo affrettarci.»
Attraversammo la strada di corsa e salimmo sul retro del grosso autotreno, chiudendoci le porte alle spalle.
La prima cosa che mi colpì fu l'odore. Mi ricordava la stalla dei pegasi il giorno delle pulizie, quando bisognava togliere i loro profumatissimi ricordini.
All'interno era buio finché Percy non tolse il cappuccio di Anaklusmos. La lama gettò una debole luce bronzea su una scena molto triste. Accovacciati in una fila di sudice gabbie di metallo, c'erano tre dei più patetici animali dello zoo che avessi mai contemplato: una zebra, un leone albino e una strana specie di antilope di cui non ricordavo il nome.
Qualcuno aveva gettato al leone un sacco di rape, che ovviamente l'animale non aveva voglia di mangiare. La zebra e l'antilope avevano ricevuto un vassoio di carne macinata a testa. La criniera della zebra era imbrattata di gomma da masticare, come se qualcuno si fosse divertito a sputarci sopra. L'antilope aveva uno stupido palloncino argentato di compleanno legato a una delle corna, con su scritto AUGURI, VECCHIA CARRIOLA!
Che schifo.
A quanto pareva, nessuno si era azzardato a molestare il leone – bisognava avvicinarsi troppo – ma la povera bestia si aggirava irrequieta sopra delle coperte sporche, in uno spazio decisamente troppo piccolo per lei, ansimando per il caldo soffocante dell'autotreno. Gli occhi rosa erano tormentati dalle mosche, mentre dalla pelliccia bianca si intravedevano le costole. Poveretto.
«E questo sarebbe buon cuore?» esclamò Grover. «Un trasporto zoologico che rispetta gli animali?»
Probabilmente si sarebbe precipitato fuori a malmenare i camionisti con il flauto, e io mi sarei goduta la scena, ma proprio in quell'istante il motore del Tir si mise in azione, l'autotreno cominciò a muoversi e noi fummo costretti a sederci.
Ci stipammo in un angolo sopra dei sacchi di foraggio ammuffito, cercando di ignorare l'odore, il caldo e le mosche. Grover parlò con gli animali in una serie di belati caprini, ma loro si limitarono a fissarlo mestamente. Annabeth propose di forzare la serratura delle gabbie e liberarli, ma Percy le fece notare che non sarebbe servito a molto finché il Tir non si fermava.
Trovai una tanica d'acqua e mi feci aiutare dagli altri a riempire le ciotole, poi usai la mia frusta per trascinare fuori dalle gabbie i pasti scambiati, mentre Percy illuminava l’ambiente con Anaklusmos. Diedi la carne al leone e le rape alla zebra e all'antilope.
Grover calmò l'antilope, mentre Annabeth tagliava col coltello il palloncino che le avevano attaccato al corno. Avrebbe voluto grattare via anche la gomma dalla criniera della zebra, ma decidemmo che sarebbe stato troppo rischioso a causa dei movimenti bruschi del Tir. Dicemmo a Grover di promettere agli animali che li avremmo aiutati di più la mattina dopo, e ci sistemammo per la notte.
Grover si raggomitolò su un sacco di rape. Io aprii il pacco di biscotti e ne mangiai un paio; li offrii ad Annabeth, che ne prese uno. Percy rimase in silenzio, immerso nei suoi pensieri.
Io non ero messa meglio, sinceramente. Mi voltai verso il leone albino, dando le spalle ai miei amici, e cercai di prendere sonno. Senza successo.
«Ehi, Percy.» disse Annabeth «Scusa se ho dato di matto giù al parco.»
«Non c'è problema.»
«È solo che...» la sentii rabbrividire sulla mia schiena, che era a contatto con il suo fianco. «I ragni.»
«Per via della storia di Aracne.» capì lui. «È stata trasformata in ragno per aver sfidato tua madre in una gara di tessitura, giusto?»
Annabeth annuì. «I figli di Aracne si vendicano sui figli di Atena da allora. Se c'è un ragno nel giro di un chilometro di distanza da dove sono io, stai sicuro che riuscirà a trovarmi. Odio quelle bestiacce formicolanti.»
«Avalon lo sapeva.» replicò Percy. «Per questo ti ha detto di restare con Grover. Sapeva che avremmo incontrato i ragni.»
Lei scosse la testa. «È più probabile che non ne fosse completamente certa, ma che sapesse che c’era il rischio che quella scena si avverasse. In ogni caso, vi sono debitrice.»
«Siamo una squadra, ricordi?» ribattè lui. «E poi, è stato Grover a fare il volo acrobatico.»
«Sono stato grande, eh?» borbottò il satiro, dall’angolo in cui si era rannicchiato.
Annie e Percy si misero a ridere di gusto, e persino io sorrisi.
Lei spezzò un biscotto e me ne passò metà. «Nel messaggio di Iride, Luke non ha detto davvero nulla?»
Ripensai a quella conversazione, e un velo di tristezza mi avvolse. Avevo fatto di tutto per non pensarci, ma con scarsi risultati. Non riuscivo a togliermela dalla testa. Né a rimuovere i ricordi che mi aveva scaraventato prepotentemente nella mente.
«Luke ha detto che siete amici di lunga data. Ha detto anche che Grover stavolta non avrebbe fallito. E che nessuno sarebbe stato trasformato in pino.» sospirò. «Poi Avalon lo ha interrotto, e lui l’ha guardata come se fosse appena stato fulminato. Ha detto che non aveva mai pensato che fosse stata colpa sua, che lei doveva smettere di pensare di essere “qualcosa”. Il collegamento si è interrotto prima che finisse la frase.»
Man mano che raccontava quello che era successo io mi ero irrigidita sempre di più, tant’è che Annabeth aveva appoggiato una mano sulla mia schiena e la muoveva piano, nel tentativo di farmi rilassare. Aveva capito che non stavo dormento e aveva colto perfettamente la mia agitazione.
Grover emise un belato afflitto.
«Avrei dovuto dirti la verità fin dall'inizio.» gli tremava la voce. «Ma pensavo che se tu avessi saputo che frana sono, non mi avresti voluto con te.»
«Sei tu il satiro che ha cercato di salvare Talia, la figlia di Zeus?» intuì Percy.
Lui annuì cupamente, senza voltarsi.
«E gli altri due mezzosangue con cui Talia aveva fatto amicizia, quelli che sono arrivati sani e salvi al campo... eravate tu e Luke, non è vero Annabeth?»
Lei smise per un attimo di accarezzarmi la schiena, poi riprese. «Come hai detto tu, Percy, una mezzosangue di sette anni non sarebbe mai arrivata molto lontano da sola. Talia aveva dodici anni. Luke quattordici. Sono stati contenti di prendermi con loro. Erano straordinari contro i mostri, perfino senza allenamento. Siamo partiti dalla Virginia senza un vero piano, dirigendoci a nord e respingendo gli attacchi dei mostri per un paio di settimane prima che Grover ci trovasse.»
«Il mio compito era quello di scortare Talia al campo.» spiegò lui, tirando su col naso. «Solo Talia. Avevo ricevuto degli ordini precisi da Chirone: non dovevo fare niente che potesse rallentare il salvataggio. Sapevamo che Ade dava la caccia a lei, solo che non potevo lasciare Luke e Annabeth a se stessi. Pensai... pensai che avrei potuto portarli tutti e tre in salvo. È stata colpa mia se le Benevole ci hanno raggiunto. Mi sono spaventato sulla strada del ritorno e ogni tanto ho sbagliato direzione. Se solo fossi stato un po' più veloce...»
«Smettila.» lo interruppe Annabeth. «Nessuno pensa che sia colpa tua. Nemmeno Talia lo pensava.»
«Si è sacrificata per salvare noi.» continuò lui in tono afflitto. «La sua morte è stata colpa mia. Il Consiglio dei Satiri Anziani ha detto così.»
«Perché non hai voluto abbandonare altri due mezzosangue?» intervenne il Mollusco. «Non è giusto.»
«Percy ha ragione.» approvò Annabeth. «Oggi non sarei qui se non fosse stato per te, Grover. E nemmeno Luke. Non ci importa di quello che dice il Consiglio.»
Non resistetti più.
«Il Consiglio è un branco di idioti.» commentai senza muovermi, gli occhi fissi in quelli del leone albino. «E anche tu lo sei, se gli dai ascolto.»
«Avie!» protestò Annabeth, togliendo la mano dalla mia schiena.
«No, Annie.» la fermai. «Ho ragione, e lo sai. Così come sappiamo tutti di chi sia la colpa di ciò che successe quella notte. Non di Grover, o tua, o di chiunque altro. È stata mia. Mia e di nessun altro.»
«Che cosa intendi?» mi chiese Percy.
Sospirai, voltandomi verso di loro e trovandoli intenti a guardarmi. Percy sembrava pensieroso, come se stesse mettendo insieme i pezzi delle informazioni che gli avevamo dato da quando ci eravamo conosciuti. Annabeth e Grover, ancora nel suo angolo ma ora rivolto verso di noi, mi osservavano con pena e sofferenza.
«Intendo che sono stata io a dire a Grover cosa sarebbe successo. Sono stata io a metterlo in guardia, a spiegargli nel dettaglio cosa fare. Sono stata io a intervenire e ho cambiato il futuro. Quello che avevo visto, che sapevo si stesse avverando, era un futuro diverso da quello che, poi, è successo.» spiegai. «Sapevo che Grover li avrebbe trovati, che avrebbero proseguito il viaggio insieme e che, alla fine, Talia, Luke e Annabeth avrebbero subito delle grosse ferite, anche se forse non fatali, che li avrebbero rallentati parecchio. Volevo impedirlo. Volevo proteggerli.» feci una smorfia. «E il risultato è stato più che evidente. Luke e Annabeth sono arrivati al Campo. Talia no. Grover aveva fatto un ottimo lavoro, ma sono stata io a rovinare tutto. Se non mi fossi intromessa, se non avessi cercato in tutti i modi di cambiare le cose…» scossi la testa. «Talia sarebbe ancora qui. Grover è un grande satiro, ma non riesce a vederlo. Io, invece, sono solo un pericolo per chiunque abbia intorno. Anche per quelli che non mi conoscono.»
Grover continuò a tirare su col naso nel buio. «La mia solita fortuna. Sono il satiro più incapace che si sia mai visto e trovo i due mezzosangue più potenti del secolo: Talia e Percy.»
«Tu non sei incapace.» insistette Annabeth. «Hai più coraggio di qualsiasi satiro abbia mai conosciuto. Fammi il nome di un altro satiro che avrebbe il fegato di scendere negli Inferi. Scommetto che Percy è felicissimo di averti qui.» gli rifilò un calcio in uno stinco.
«Sicuro.» confermò lui, lanciandole un’occhiata infastidita. «Non è una questione di fortuna se hai trovato me e Talia, Grover. Hai il cuore più grande di qualsiasi satiro che si sia mai visto. Sei un cercatore nato. Ecco perché sarai tu a trovare Pan.»
Sentii un respiro profondo e soddisfatto. Attesi che Grover dicesse qualcosa, ma il suo respiro diventò solo più pesante. Quando il suono si trasformò in un lento russare, capii che si era addormentato.
«Ma come fa?» chiese Percy.
«Non lo so.» rispose Annabeth. «Ma tu gli hai detto una cosa davvero bella.»
«Lo penso veramente.»
Io sorrisi, inconsapevolmente.
Se tutto andava come speravo, Percy avrebbe avuto ragione da vendere.
Viaggiammo in silenzio per qualche chilometro, sballottati sui sacchi di foraggio. La zebra masticava una rapa. Il leone si leccava i resti della carne macinata dal muso e mi guardava speranzoso. Non sapevo perché, ma avevo la sensazione che volesse dirmi qualcosa. Cosa, poi, non ne avevo idea.
Mi ero nuovamente voltata verso di lui, sperando di cadere tra le braccia di Morfeo, ma quel dannato dio dei sogni non ne voleva sapere di venire a farmi una visitina.
«La perla con il pino.» la voce di Percy interruppe le mie elucubrazioni. «È quella del tuo primo anno?»
«Sì.» rispose Annabeth. «Ogni agosto, i capigruppo scelgono l'evento più importante dell'estate e lo dipingono sulla perla dell'anno. Io ho il pino di Talia, una trireme greca in fiamme, un centauro in abito da sera... beh, quella è stata un'estate davvero strana...»
«E invece l'anello è di tuo padre?»
«Non sono affari...» si interruppe, e io mi trattenni dal tirarle un calcio. «Sì. Sì, è di mio padre.»
«Non sei obbligata a dirmelo.»
«No, non c'è problema.» fece un sospiro. «Mio padre me l'ha mandato in una lettera, due estati fa. L'anello era, ecco... il pegno più importante che aveva ricevuto da Atena. Non sarebbe riuscito a superare il dottorato a Harvard senza di lei. Ma questa è una lunga storia. Comunque, lui voleva che lo tenessi io. Si è scusato per essersi comportato come un idiota, ha detto che mi voleva bene e che gli mancavo. Voleva che tornassi a casa a vivere con lui.»
«Non mi sembra tanto male.»
«Già, beh... il problema è che gli ho creduto. Ho fatto un tentativo: sono andata a casa per l'anno scolastico, ma la mia matrigna non era cambiata. Non voleva mettere in pericolo i suoi figli facendoli vivere con una svitata. I mostri hanno attaccato. Abbiamo litigato. Non sono arrivata nemmeno alle vacanze di Natale. Ho chiamato Chirone e sono tornata subito al Campo Mezzosangue.»
«Pensi mai di riprovarci?»
«Ti prego. Non sono masochista.»
«Non dovresti arrenderti.» le disse Percy. «Dovresti scrivergli una lettera.»
«Grazie per il consiglio» replicò freddamente «ma mio padre ha già scelto con chi vuole vivere.»
Trascorremmo qualche altro chilometro in silenzio.
«Così se gli dei entreranno in guerra» disse Percy «si schiereranno come per Troia? Atena contro Poseidone?»
Lei si voltò verso di me e poggiò la testa sullo zaino che ci aveva dato Ares, avvolgendomi in un abbraccio. «Non so cosa farà mia madre. Ma so che io combatterò al tuo fianco.»
«Perché?»
«Perché sei mio amico, Testa d'Alghe. Hai altre domande stupide?»
Lui non rispose e, quando Annie si fu addormentata, sospirai.
«Sii grato della sua amicizia, Percy.» dissi senza muovermi per paura di svegliarla. «Non la concede a chiunque.»
«A te sì.» osservò.
«Già…» mormorai, carezzandole il braccio. «E so di non meritarmelo.»
«Senti…» cominciò lui. «Posso farti una domanda?»
«Vuoi sapere se è per quello che è successo a Talia che non parlo più del futuro?» lo anticipai. «Sì, è per quello.»
«Ma non è colpa tua.» mi disse. «Non potevi sapere che sarebbe successo.»
«Ma sapevo come sarebbero andate le cose se non mi fossi intromessa.» risposi. «Io volevo modificare in meglio il futuro che conoscevo, ma ho finito solo per peggiorarlo.»
«Ma eri solo una bambina.» protestò lui. «Non potevi…»
«Non capisci.» scossi lentamente la testa. «È colpa mia, Percy. È colpa mia se Talia, ora è un pino. È colpa mia se Luke e Annabeth hanno sofferto tanto. È colpa mia se Grover si crede un completo fallimento.» spiegai, a fatica. «Perché se io me ne fossi stata zitta, se avessi solamente osservato, Talia sarebbe sopravvissuta, Luke e Annabeth non avrebbero pianto la perdita della loro quasi sorella e Grover avrebbe la sua licenza da cercatore da cinque anni. È colpa mia se…» sospirai, chiudendo gli occhi per impedirmi di piangere. Non sarei mai riuscita a completare quella frase ad alta voce. La lasciai torturarmi dall’interno, come faceva sotto forma di pensiero da ben quattro anni. «Perciò non cercare di giustificarmi, Percy. Sei mio amico, e lo accetto. Ma resta comunque colpa mia.»
«Non trovo giusto che tu ti rinchiuda in te stessa, per questo.» disse lui, dopo un po’. «Luke, Annabeth e Grover non sono gli unici a soffrire per questa storia. Anche tu ci stai male.»
«Sì, è vero. Ma la differenza è che io me lo merito. Loro no.»
Perché tutto quello che era successo da quel momento era colpa mia, conseguenze di ciò che avevo fatto, anche se nessuno lo sapeva.
 

****

 
Mi accorsi di essermi addormentata quando mi ritrovai sulla Collina Mezzosangue senza sapere come ci ero arrivata. Davanti a me si stendeva la vallata in tutta la sua magnificenza, la Cabina di Artemide che brillava sotto la luce della luna, e il silenzio della notte che impregnava ogni angolo, persino il bosco pieno di mostri.
Dietro di me sentivo la presenza del pino di Talia ma, dopo la conversazione avuta da sveglia, non avevo il coraggio di voltarmi e osservarlo. Così rimasi ferma a guardare casa mia immersa nel sonno, pregando gli dei che tutti stessero bene.
«Beh?»
Sobbalzai.
«Pensi di guardarmi, prima o poi?»
Mi voltai di scatto e non credetti ai miei occhi. Non era possibile che fosse lì, davanti a me. Non lei. Non nel futuro che avevo involontariamente creato. Non in quel tempo.
Appoggiata con la schiena al pino, una ragazza all’incirca della mia età con le lentiggini sul naso, occhi verdi tempestosi contornati da eyeliner pesante, i capelli neri spettinati e un abbigliamento da punk mi fissava con le sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate, indispettita. Fulmini azzurrini passarono nelle sue iridi quando le incrociai con le mie, e un bruciore sordo mi perforò il fianco destro, lì dove sapevo ci fosse il suo nome.
Talia, figlia di Zeus, era proprio davanti a me. Ed era identica all’ultima volta che l’avevo vista, e l’unica in cui l’avevo incontrata dal vivo. Il giorno in cui arrivarono al Campo. Il giorno della sua morte.
Feci un paio di passi indietro, colta completamente alla sprovvista, e quasi rotolai giù per la collina.
«Lia…» mormorai.
«Finalmente ti conosco.» asserì lei. «A forza di sentirti parlare tutti i giorni, mi stavo chiedendo che faccia avessi.»
«Io… che?» la fissai, stranita.
«Grazie, a proposito.» continuò lei, come se non avessi aperto bocca.
«Per cosa?» domandai, senza capire.
Lei scrollò le spalle. «Perché mi tieni compagnia quasi tutti i giorni. Non potersi muovere è una vera rottura.»
«Io…» mormorai, sempre più confusa. «Non credo di aver…»
«Tu mi parli.» mi bloccò Talia. «E io ti ascolto. Sempre.»
Strabuzzai gli occhi.
Non era possibile!
Sì, certo. Quando ero al campo, prima di tutta quella storia di Percy, andavo al pino almeno una volta al giorno, mi sedevo con la schiena appoggiata al suo tronco e mi mettevo a parlare come se potesse davvero ascoltarmi. Ma non avrei mai pensato che Talia mi sentisse. Beh, effettivamente non avrei dovuto esserne così stupita. Soprattutto considerando…
Scossi la testa. Al momento quello non era un dettaglio rilevante. E di sicuro non ne avrei parlato con lei.
La vidi sciogliere le braccia e sospirare pesantemente, spostando lo sguardo fino al mare alle mie spalle, su cui si riflettevano le stelle.
«Ti ho sentita» disse, il tono improvvisamente basso «quel giorno. Ti ho sentita urlare il mio nome come nessuno aveva mai fatto prima. Hai gridato “Lia!” con così tanta disperazione che mi è rimasto dentro. Sembrava che qualcuno ti stesse uccidendo.»
«Ma non ero io che stavo morendo.» mormorai, a disagio.
«Lo so.» Talia riportò lo sguardo su di me, e io mi stupii nel trovarli privi di accusa. Erano limpidi, sereni quasi. E comprensivi. «Tienili d’occhio per me, ok?»
La notte mi inghiottì, e io mi ritrovai nuovamente nella caverna buia piena di spiriti dei morti, sul margine della voragine senza fondo.
«…I nostri sei mesi ci hanno fruttato molto. La rabbia di Zeus è cresciuta. Poseidone si è giocato la carta della disperazione. Ora la useremo contro di lui. Ben presto avrai la ricompensa che desideri, e la tua vendetta. Non appena i due oggetti saranno nelle mie mani... ma aspetta. Il ragazzo è qui.» stava dicendo la creatura nel baratro.
«Cosa?» gli rispose una voce nascosta. Una voce che io conoscevo fin troppo bene. «L'ha convocato lei, mio signore?»
«No.» quell’essere adesso stava riversando su qualcun altro la forza della sua attenzione. Qualcuno che compresi essere Percy. «Maledetto il sangue di suo padre: è troppo mutevole, troppo imprevedibile. Il ragazzo è riuscito a trasportarsi quaggiù.»
«Impossibile!» gridò il servo, mentre una morsa mi stritolava l’anima sempre di più.
«Per uno smidollato come te, forse.» ringhiò la voce. Per un istante la sua gelida potenza si concentrò su di lui, poi tornò a rivolgersi a Percy. «Allora... vuoi sognare la tua impresa, giovane mezzosangue? Ti accontenterò.»
Sentii una presenza svanire, e capii che Percy era stato trasportato altrove attraverso i sogni.
«Dove lo ha mandato, mio signore?» domandò la voce.
«Non ha importanza.»
«Cosa intende fare, adesso? Se posso saperlo, ovviamente.»
«Aspettare.» rispose l’essere del baratro. «Vedrai che tutto andrà come deve. E presto i due oggetti saranno nelle mie mani. Arrivato quel momento, tu avrai finalmente ciò che vuoi e la ragazza…»
«Ha promesso che non le verrà fatto alcun male, mio signore.» disse la voce, interrompendolo.
«Silenzio!»
«Chiedo scusa.» mormorò la voce, tremante.
«Sì… ti ho detto che l’avrei risparmiata. Ma solo se si renderà utile.»
«S-sono certo che lo farà… mio signore.» disse la voce.
«Un potere come il suo ci renderebbe tutto molto più semplice.» osservò l’essere, meditabondo. «Ma bisogna fare attenzione. Se scoprisse cosa…»
Silenzio.
Un pesante silenzio si fece largo nella caverna e una fastidiosa sensazione di oppressione mi invase.
«Ben arrivata, piccola bussola.» disse l’essere.
Mi ci volle qualche secondo per capire che si stava riferendo a me. Adesso si spiegava quella gelida sensazione che sentivo, per lo meno. Avvertivo i suoi occhi scrutarmi a fondo, come se cercasse di leggermi dentro. Non dissi una parola.
«Non posso lasciarti tornare proprio adesso.» continuò, la voce soporifera tutta concentrata su di me. «Impediresti il proseguimento del mio piano. Non posso permetterlo.»
«Ma… mio signore…» disse la voce. «Lei non può stare qui. Ricordate che lo avete promesso…»
«Non la ucciderò. Va contro i miei interessi.» affermò l’essere. «Ma non lascerò che li avverta.»
«E… e cosa ha intenzione di fare, allora?»
«La terrò impegnata per un po’.» rispose. «Le mostrerò ciò che non ha il coraggio di vedere. Il futuro che la aspetta.»
Una risata agghiacciante invase la caverna, la pressione sulla mia anima si fece insostenibile.
Urlai.
Decine e decine di immagini invasero la mia mente, centinaia di sensazioni percorsero il mio corpo, migliaia di emozioni devastarono la mia anima.
Non riuscivo a smettere di urlare.
Troppo dolore, troppo sangue, troppa guerra, troppo male.
In quelle scene c’era fin troppa disperazione da sopportare.
E sapevo che sarebbero potute avverarsi davvero. Per quanto non volessi, ciò che vedevo in quel momento sarebbe potuto essere il nostro futuro. Un futuro in cui le strade erano fatte di corpi e i fiumi di sangue.
Un futuro in cui l’odio e la paura regnavano incontrastati.
Un futuro in cui nessuno di coloro che amavo era sopravvissuto.
E io sì.
Non seppi spiegarmelo ma, per la prima volta, riuscivo davvero a vedermi in mezzo a tutto quell’orrore. Incatenata ai piedi di un trono che non avevo mai visto di persona, osservavo impotente la distruzione del mondo che amavo. Cercavo di non ascoltare le grida di dolore delle persone che venivano torturate sotto il mio sguardo, trattenevo il respiro per evitare di inalare quell’odore di cenere, sangue e morte che ricopriva il mondo.
Ero l’ombra di me stessa e, se non mi avessi vista piangere, avrei potuto tranquillamente scambiarmi per un altro cadavere per quanto fossi messa male. Il corpo talmente scavato da rendere visibile ogni singolo osso, la pelle così pallida da essere praticamente trasparente. E i capelli… non sembravano nemmeno più tali.
Avrei voluto correre verso quella me del futuro e liberarla, avrei voluto oppormi a quelle visioni e ricacciarle in un angolo della mia mente. Avrei voluto fare tante cose, ma in realtà rimasi ferma. Immobile. Paralizzata. Non riuscivo a schiodarmi dalla posizione in cui quell’essere mi aveva intrappolata. Non riuscivo a scacciare quelle immagini. Mi stavo facendo trascinare sempre più giù nel baratro della disperazione. Tutto quello che conoscevo stava svanendo dalla mia memoria, tutto ciò che sapevo stava venendo dimenticato. E io non ero in grado di impedirlo.
Rimasi lì, a sprofondare sempre di più nel dolore e nella sofferenza, nella mancanza e nella dimenticanza, nella morte e nella devastazione. Rimasi lì, lasciando che presente e futuro si fondessero dentro e intorno a me, per un tempo infinito.
Poi, un calore.
Qualcosa mi stava scaldando. Ma non avevo idea di che cosa fosse.
Qualcosa stava cercando di tenermi in vita. Ma non sapevo perché.
Qualcosa mi stava richiamando a sé. Ma io non sapevo se volevo andarmene.
Ormai il mio mondo era fatto solo di sangue, morte e disperazione. Non ricordavo nient’altro.
Un lampo mi invase la visuale.
Era stato per meno di un secondo, ma un bagliore che sapeva di vita mi aveva tolto quelle immagini dagli occhi.
Per un attimo credetti che fosse l’ennesima frusta infuocata che si abbatteva sul corpo di una nuova vittima.
Il calore si fece più intenso.
Un punto appena sotto il costato bruciò così intensamente da farmi spalancare gli occhi, facendomi scoprire di averli chiusi senza rendermene conto.
Mi ritrovai rannicchiata ai piedi di un albero su uno strapiombo, una distesa infinita di nuvole dorate davanti a me, il corpo completamente in tensione avvolto da un calore che mi penetrava fin dentro l’anima, riscaldando ogni singolo angolo ricoperto dall’orrore che avevo appena subito.
Alle mie spalle, la vetta di una montagna svaniva oltre le nubi, la terra sotto i miei piedi rilasciava un piacevole odore di natura. Un clima caldo contornava l’insieme, e io mi sentii subito meglio.
Mi ci vollero diversi minuti per rendermi conto di avere le mani sulle orecchie, come per impedirmi di sentire i suoni raccapriccianti che provenivano dalle visioni nella mia mente. E mi ci volle molto più tempo per decidermi che quel posto non era un’illusione. Che era reale e che potevo finalmente rilassare i muscoli. Mi tirai in piedi con estrema calma, gli arti pesantemente indolenziti per la posizione che avevo tenuto per un tempo imprecisato, e mi appoggiai con la schiena all’albero dietro di me.
Solo allora mi accorsi del sole che brillava attraverso le nuvole, illuminandomi quasi di una luce dorata.
Riconobbi quel calore all’istante.
Era quello che avevo sentito prima, quando non ricordavo niente della mia vita se non quelle immagini terrificanti.
Ancora non riconoscevo niente, non rammentavo nulla, ma non me ne preoccupai. Chiusi gli occhi, beandomi di quella sensazione così avvolgente. Lasciai che mi invadesse completamente, mi abbandonai ad essa.
E fu in quel momento che lo sentii.
Qualcosa mi stava tirando, all’altezza del costato. Qualcosa mi tirava verso il sole e lo strapiombo della montagna.
Mi spaventai.
Non volevo finire nel vuoto, non ora che avevo un po’ di sollievo da tutto quel dolore.
Mi opposi a quel filo che sentivo sempre più forte, più determinato. E più caldo. Stava cominciando a bruciare sempre più forte. E il sole diventava sempre più accecante.
Non capivo cosa stava succedendo.
C’era pace, lì, non volevo andarmene. Ovunque fossi, volevo rimanerci.
Ma sembrava che quella specie di filo che mi tirava in avanti non volesse saperne di lasciarmi in pace.
Due iridi blu, luminose quanto il sole, apparvero per un attimo nella mia mente.
Fu talmente improvviso che barcollai e caddi a terra, una mano sugli occhi per assicurarmi di non averli davvero davanti a me e un piede sull’orlo dello strapiombo.
“Sempre.”
Sgranai gli occhi.
Che diamine significava, quello?
E di chi era quella voce melodiosa che aveva appena parlato nella mia testa?
Il filo diede uno strattone, cogliendomi alla sprovvista, e io caddi nel burrone senza riuscire ad aggrapparmi ad una roccia.
Mentre il vento mi fischiava nelle orecchie, il panico mi attanagliava le viscere e io cadevo attraverso strati e strati di nuvole dorate, molte immagini apparvero nella mia mente. E io le riconobbi.
Sorrisi.
«Sempre.»
 

****

 
Aprii gli occhi di scatto, sollevandomi a sedere con il respiro corto.
Mi passai le mani sul volto più volte, cercando di tornare presente a me stessa. Poi mi fermai, rendendomi conto del silenzio innaturale che mi circondava. Nemmeno mentre i miei amici dormivano, c’era questa totale assenza di rumori.
Mi osservai intorno, perplessa e sgranai gli occhi. Ero in una camera in cui non ero mai stata, seduta su un materasso ad acqua su cui erano posizionati quattro cuscini di piume. Era una camera extra lusso di un albergo. E, osservandomi intorno, capii subito di quale albergo si trattasse. I fiori di loto stampati un po’ ovunque erano molto indicativi.
Perfetto.
Eravamo in quella trappola del Casinò Lotus.
Dovevo trovare gli altri il prima possibile. Non avevo la minima idea di quanto tempo avessi passato addormentata, ma ero sicura che fosse stato fin troppo. Sperai solo che Percy, Annabeth e Grover non fossero rimasti vittime dell’incantesimo di quel posto.
Raccolsi il mio zaino, posizionato in fondo al letto e uscii dalla camera, ritrovandomi in un salotto lussuoso quanto il resto della suite. Un angolo bar rifornito di dolciumi, bibite gassate e patatine attirò la mia attenzione. Mi ci avvicinai e riempii lo zaino di tutto quello che riuscivo a metterci. Avremmo avuto bisogno di scorte di cibo per il viaggio, dopotutto.
Lanciai un’occhiata alla televisione a schermo panoramico e repressi l’istinto di accenderla per vedere come fosse. Mi precipitai fuori dalla camera senza voltarmi indietro.
Dovevo sbrigarmi.
Salii su un ascensore, accorgendomi di essere all’ultimo piano del palazzo, e spinsi il pulsante del piano terra, sperando di trovare in fretta i miei amici.
Quando le porte si aprirono sull’atrio mi sentii male. C’erano così tante attrazioni, e talmente tanta gente, da poter tenere impegnate migliaia di persone. Passai accanto la pista di snow-board e sotto lo scivolo d’acqua; mi infiltrai in una battaglia laser, ignorando i giocatori che si lamentavano e mi infilai nella sala giochi.
Avrei cominciato la mia ricerca da lì.
Partii da un angolo e cominciai a ispezione la sala, ignorando le varie occhiatacce e i lamenti che mi rivolgeva la gente ogni volta che interrompevo i loro divertimenti. Avevo fretta.
Finii addosso a un ragazzino, mandandolo a terra.
«Porco Ares!» imprecai, mentre aiutavo quel piccoletto ad alzarsi. «Scusami, ragazzino, non ti avevo visto.»
Lo studiai. Aveva circa dieci anni, lucidi capelli neri e la pelle olivastra. E mi osservava meravigliato con i suoi grandi occhi scuri. Sembrava imbambolato.
«Ti senti bene?» gli chiesi.
Lui scosse la testa, come risvegliato da un sogno.
«Certo!» rispose, la voce squillante ed eccitata e lo sguardo ancora fisso su di me. «Senti… ma tu sei una dea?»
«Che cosa?» sgranai gli occhi.
«Sì… insomma… sei una dea?» ripetè il ragazzino, gli occhi scuri che brillavano.
Mi fece un po’ tenerezza.
«No, cucciolo.» dissi. «Non sono una dea.»
«Peccato.» commentò. «Sai, sei proprio come immaginavo che fosse una dea.»
«Ah sì? E perché la immaginavi come me?» gli chiesi, curiosa. E perplessa.
«Perché sei bellissima.» mi disse candido, spiazzandomi completamente. «E poi, sembri quasi… nah. Niente.»
Lo osservai per qualche istante, incerta. Chissà cosa stava per dire.
Mi abbassai, in modo da avere il volto all’altezza del suo, e gli misi una mano sulla spalla.
«Posso rivelarti un segreto?» feci, con un sorriso sul volto. Sì, quel ragazzino era proprio tenero. «Un segreto che non dovrai dire a nessuno?»
Lui annuì più volte, curioso.
Mi osservai intorno, per assicurarmi che nessuno ci stesse prestando attenzione, e avvicinai ancora di più il mio volto al suo.
«Le dee sono molto più belle di me.» mormorai, gli occhi fissi nei suoi per non perdermi nemmeno un dettaglio della sua espressione.
Le sue iridi scure si sgranarono visibilmente dalla sorpresa.
«Davvero?!» mi domandò, tutto eccitato. «Esistono veramente? E come sono? E gli dei maschi? Anche loro sono belli? E quanto sono forti? Che poteri hanno? Li hai mai incontrati?»
Sparò una raffica di domande a cui non mi diede tempo e modo di rispondere, o anche solo di pensare di farlo. Mi limitai a fissarlo interdetta, non aspettandomi assolutamente una reazione del genere.
Poi venimmo interrotti.
«Eccoti, finalmente!» una ragazzina molto simile a lui, lo aveva affiancato con espressione preoccupata. Avrà avuto un paio di anni in più del piccoletto e, a giudicare dalle caratteristiche che avevano in comune, avrei giurato che fossero fratelli.
«Ti ho cercato dappertutto. Non devi sparire in quel modo, mi hai spaventato.» lo rimproverò.
«Mi dispiace.» disse il ragazzino, mortificato.
«Perdona mio fratello. A volte si fa prendere dall’entusiasmo ed è impossibile controllarlo.» disse poi, la ragazza, rivolta a me. «Spero che non ti abbia disturbato.»
Sorrisi. «Non preoccuparti, è tutto a posto. Ci siamo scontrati senza volerlo, ma non è stata colpa sua.»
Lei sospirò, prima di voltarsi nuovamente verso il fratello. «Devi stare più attento. Avresti potuto farti male.»
«Scusa.»
«Non fa niente. Andiamo adesso.»
Sospinse delicatamente il fratellino in avanti e, dopo avermi salutato, si allontanò in mezzo alla folla. Dopo un paio di passi lui si fermò, si voltò verso di me e mi salutò con la mano, un sorriso che gli illuminava il volto. Lo salutai a mia volta, facendogli un occhiolino mentre sentivo un ricciolo di vite sfiorarmi la guancia. Lui sgranò gli occhi, sorpreso, prima di seguire la sorella.
Mi incamminai tra quella moltitudine di gente riflettendo su quel bizzarro incontro, e quasi andai a schiantarmi contro la postazione della realtà virtuale.
E Percy.
Era talmente concentrato a giocare in simultanea con il suo vicino, un tredicenne che indossava abiti degli anni settanta, che non si accorse minimamente della mia presenza.
Gli sventolai una mano davanti al volto, ma lui continuò a giocare come se niente fosse.
«Ehi.» lo chiamai. «Mollusco? Ci sei?»
Mi ignorò.
Lo scrollai per una spalla. «Ameba, sei vivo?»
Lui si spostò infastidito, senza distogliere lo sguardo dal gioco.
Io mi stufai.
Sciaf!
La mia mano si scontrò con la sua guancia, provocando uno schiocco e facendogli voltare la testa di lato. Accidenti, non pensavo di averlo colpito così forte… pace, magari così si sveglia.
Lui si voltò seccato verso di me, pronto a sbraitare solo gli dei sapevano cosa, ma si bloccò quando si rese conto di chi aveva davanti.
«Avie?» disse confuso, come se stesse cercando di mettermi a fuoco.
«Ah, quindi sei vivo.» commentai. «Grandioso.»
«Cosa ci fai qui? Tu non stavi dormendo?»
Alzai gli occhi al cielo. «Hai detto bene: stavo. Ora non più. Ed è meglio che ti dia una svegliata anche tu, altrimenti rimarrai intrappolato qui per sempre.»
«Cosa?»
«Guardati intorno.» mi limitai a dire.
Lui lo fece, studiando le persone che giravano indisturbate nel casinò, ignare del tempo che passava. Poi mi guardò, perplesso, e io gli indicai con un cenno il suo vicino di gioco.
Gli bastò scambiarci qualche frase per rendersi conto della verità: il Casinò Lotus era una trappola. Se ci entravi, ti inibiva talmente tanto da farti credere che fossero passate solo poche ore da quando eri arrivato mentre, in realtà, era passato molto più tempo. Per alcuni persino anni.
«Vidi chiaramente il panico negli occhi di Percy quando si rese conto che non sapeva da quanto tempo fossimo lì dentro.
«Dobbiamo trovare gli altri.» affermai, categorica.
Percy mi condusse nella zona in cui si potevano costruire delle città in 3D al computer. Annabeth era intenta a costruire la sua.
«Muoviti.» le ordinò. «Dobbiamo andarcene di qui.»
Nessuna risposta.
La scrollò per una spalla. «Annabeth?»
Lei alzò lo sguardo, seccata. «Che c'è?»
«Dobbiamo andare.» ripetè Percy.
«Andare? Ma di cosa stai parlando? Ho appena innalzato le torri...»
«Questo posto è una trappola.» tentò di spiegarle.
Non gli rispose finché non la scrollò di nuovo. «Che c'è?»
«Ascolta. Gli Inferi. La nostra impresa!» tentò ancora Percy.
«E dai, Percy, solo un altro paio di minuti.»
«Annabeth, c'è gente che è qui dal 1977. Ragazzi che non sono mai invecchiati. Entri nell'albergo e ci rimani per sempre.»
«E allora?» fece lei. «Riesci a immaginare un posto migliore?»
Percy mi guardò, disperato.
Io sbuffai, agguantai Annie per un polso e la tirai via dal gioco, ignorando le sue lamentele. La costrinsi a guardarmi negli occhi. Era talmente presa da quella specie di incantesimo che nemmeno si rese conto che ero io e che ero sveglia.
«Ragni. Grossi ragni pelosi.» le dissi.
Funzionò. Fece un sobbalzo e il suo sguardo tornò lucido. Finalmente.
«Avie!» esclamò. «Dei del cielo! Ti sei svegliata! Stai bene? Da quanto tempo siamo qui?»
«Non lo so.» dissi.
«Ma dobbiamo trovare Grover.» completò Percy, sollevato quanto me che fosse tornata in sé.
Lo trovammo intento a giocare al cervo cacciatore virtuale, un gioco in cui erano gli animali a dare la caccia ai cacciatori.
«Grover!» gridammo insieme.
Lui rispose: «Muori, mortale! Muori, stupido e odioso individuo inquinante!»
«Grover!»
Puntò il fucile di plastica contro Percy e cominciò a premere il grilletto, come se fosse solo un'altra immagine dello schermo.
Guardai Annabeth e insieme prendemmo Grover a braccetto e lo trascinammo via. Le sue scarpe volanti presero vita e tirarono le gambe nella direzione opposta, mentre lui gridava: «No! Ero appena entrato in un nuovo livello! No!»
Percy lo prese per le gambe per impedire che i piedi finti si staccassero mostrando gli zoccoli caprini.
Un fattorino della Lotus ci corse incontro. «Allora, siete pronti per le carte Platino?»
«Ce ne andiamo.» gli annunciai.
«Che peccato.» replicò lui e, per un solo instante, ebbi la sensazione che dicesse sul serio. «Abbiamo appena aggiunto un nuovo piano attrezzatissimo per i possessori di carta Platino.»
Ci mostrò le carte e vidi Percy tentennare, così come Annabeth. Sapevo che se l'avessero presa, non sarei più stata in grado di farli tornare in sé.
Grover tese il braccio per afferrare la carta, ma Annabeth lo bloccò.
«Sparisci.» dissi al fattorino, fulminandolo con lo sguardo.
Fortunatamente lo fece, con espressione spaventata.
Mentre ci avvicinavamo alla porta, il profumo del cibo e i suoni dei giochi sembrarono farsi sempre più invitanti. Sentii gli altri rallentare e imprecai.
Li trascinai letteralmente fuori dalle porte del Casinò Lotus, e corremmo fino in fondo al marciapiede. Sembrava pomeriggio, il che non mi piaceva. Soprattutto dato che il tempo era completamente cambiato da prima che mi addormentassi. Era temporalesco, con i lampi estivi che illuminavano il deserto. Zeus era ancora più infuriato del solito.
Percy si ritrovò lo zaino di Ares in spalla, il che era strano, perché prima era senza, ma al momento non me ne preoccupai particolarmente.
Corremmo all'edicola più vicina e per prima cosa leggemmo l'anno su una rivista.
Grazie agli dei, era lo stesso di quando eravamo entrati. Poi però notai la data: il venti giugno.
Sbiancai.
Avevo dormito per quasi sei giorni.
E, a quanto pare, eravamo rimasti nel Casinò Lotus per cinque.
Ci restava solo un giorno prima del solstizio d'estate. Un giorno per portare a termine l'impresa.
Eravamo davvero nei guai

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Capitolo 18
*** 17. Dei materassi ad acqua cercano di ucciderci. Quasi tutti ***





Fu un'idea di Annabeth. Ci fece salire su un taxi di Las Vegas, come se avessimo davvero i soldi per permettercelo, e disse all'autista: «Los Angeles, prego.»
Il tassista masticò il suo sigaro e ci soppesò con lo sguardo. «Sono duecento chilometri. Pagamento anticipato.»
«Accetta le carte di debito dei casinò?» chiese Annabeth.
Lui alzò le spalle. «Dipende. Come le carte di credito. Prima le devo strisciare.»
Annabeth gli passò la sua carta Lotus verde e io compresi subito cosa voleva fare. Degno di una figlia di Atena e di un figlio di Ermes messi insieme. Il tipo la guardò, scettico.
«La strisci.» lo invitò Annabeth. Lui lo fece.
Il tassametro prese a vibrare. Le luci lampeggiarono. Alla fine, dopo il segno del dollaro, comparve il simbolo dell'infinito.
Dopo che il sigaro gli fu caduto di bocca, il tassista si voltò a guardarci con tanto d'occhi. «Da che parte di Los Angeles, di preciso... Vostra Altezza?»
«Il molo di Santa Monica.» Annabeth drizzò un po' la schiena. Capii che la storia dell’“Altezza” le era piaciuta. «Si sbrighi, e potrà tenere il resto.»
Il tassista partì a razzo, e io mi ritrovai schiacciata sul sedile del passeggero come se stessimo decollando.
«Non avresti dovuto dirlo…» mormorai voltandomi verso i sedili dietro, dove gli altri fissavano l’uomo sconcertati.
Il tachimetro del taxi non scese mai sotto i centocinquanta per tutto il deserto del Mojave.
Lungo la strada, avemmo un sacco di tempo per parlare, ignorando completamente il tassista e il fatto che potesse sentirci. Percy ci raccontò il suo ultimo sogno, affermando che più tentava di ricordarne i particolari, più si facevano vaghi. A quanto pareva, il Casinò Lotus gli aveva mandato in corto circuito la memoria. Non riusciva a rievocare il suono della voce del servo invisibile, anche se era sicuro che si trattasse di qualcuno che conosceva. Il servo aveva chiamato il mostro nel baratro in un modo diverso, oltre a "mio signore"... aveva usato un nome o un titolo speciale...
Io mi rabbuiai, ripensando a ciò che avevo visto e che sapevo.
«Il Silente?» suggerì Annabeth. «Il Ricco? Sono entrambi degli appellativi di Ade.»
«Forse...» rispose Percy. Ma non sembrava molto convinto.
«Quella sala del trono però somiglia proprio a quella di Ade.» commentò Grover. «È così che di solito la descrivono.»
Percy scosse la testa. «C'è qualcosa che non torna. La sala del trono non è stata la parte principale del sogno. E la voce del baratro... non lo so. Solo che non sembrava la voce di un dio.»
Annabeth sgranò gli occhi. Io non emisi un fiato.
«Che c'è?» chiese Percy.
«Oh... niente. Stavo solo... No, deve essere Ade. Forse ha mandato questo ladro, questa persona invisibile, a rubare la Folgore, e qualcosa è andato storto...»
«Tipo cosa?»
«Io non lo so.» rispose lei. «Ma se ha sottratto il simbolo del potere di Zeus dall'Olimpo e aveva gli dei alle calcagna, beh, un sacco di cose potevano andare storte. Perciò forse ha dovuto nascondere la Folgore o magari l'ha persa. Comunque sia, non è riuscito a portarla ad Ade. Non è questo che ha detto la voce del tuo sogno? Il tizio ha fallito. Questo spiegherebbe cosa stavano cercando le Furie quando ci hanno assalito sull'autobus. Forse pensavano che avessimo recuperato la Folgore.»
Era diventata pallida tutto d’un colpo e continuava a spostare lo sguardo su di me, come in cerca di qualcosa. Aveva dei dubbi sulla storia di Ade. Me ne resi conto all’istante. Forse stava iniziando a capire la verità. Ma probabilmente aveva troppa paura per prendere davvero in considerazione quell’ipotesi.
«Ma se avessi davvero recuperato la Folgore» obiettò Percy «perché starei andando negli Inferi, adesso?»
«Per minacciare Ade.» suggerì Grover. «Per corromperlo o ricattarlo e farti restituire tua madre.»
Percy fischiò. «Certo che sei sveglio per essere una capra.»
«Oh beh, grazie.»
«Ma la cosa nel baratro ha parlato di due oggetti.» aggiunse. «Se uno è la Folgore, l'altro che cos'è?»
Grover scosse la testa, chiaramente disorientato. Annabeth continuava a passare lo sguardo da me a Percy, come a leggermi dentro e allo stesso tempo convincere lui a non chiederle quello che entrambe sapevamo avrebbe chiesto.
«Tu ti sei fatta un'idea sulla cosa che c'è in quel baratro, vero?» le domandò infatti. «Cioè, nel caso in cui non si trattasse di Ade?»
«Percy, lasciamo stare. Perché se non si tratta di Ade...» mi fissò, visibilmente terrorizzata. «No. Deve essere Ade per forza.»
Percy si voltò verso di me. «Tu lo sai, vero? Cos’è quella cosa.»
Io non risposi. Non ci riuscii. Non gli dissi nemmeno che sì, io sapevo cosa fosse nascosto nel baratro. Fui in grado semplicemente di lanciargli uno sguardo desolato e voltarmi in avanti, poggiando la fronte al finestrino e osservando il paesaggio all’esterno.
Il deserto ci scorreva accanto in tutta la sua desolazione. Superammo un cartello che diceva: CONFINE DELLA CALIFORNIA, 12 MIGLIA.
Per un attimo il deserto scomparve, sostituito da una distesa di corpi in putrefazione e fiumi di sangue.
Chiusi gli occhi, strizzandoli fino a farmi male, e quando li riaprii il deserto era tornato al suo posto, i corpi non c’erano più.
«La risposta è negli Inferi.» tentò di rassicurarlo Annabeth. «Hai visto gli spiriti dei morti, Percy. Ed esiste un solo posto in cui questo è possibile. Stiamo facendo la cosa giusta.»
Cercò di tirarci su di morale suggerendo una serie di ingegnose strategie per entrare nel Regno dei Morti, ma io non riuscivo a prestarle attenzione. Continuavo a ripensare a ciò che mi era successo mentre dormivo, a quello che avevo visto, e non riuscivo a capire come avessi fatto a uscirne. L’unica cosa di cui ero certa era che qualcuno mi avesse aiutato. Chi, però, non ne avevo idea.
Il taxi sfrecciava verso ovest. Ogni folata di vento nella Valle della Morte suonava come uno spettro. Ogni volta che sentivo fischiare i freni di un autotreno dovevo trattenermi dal portare le mani sulle orecchie, ricordando a me stessa che non era il sibilo di una frusta infuocata che infieriva su qualcuno.
«Avie, posso farti una domanda?» la voce di Grover mi riscosse da quelle tetre elucubrazioni.
Mi voltai verso di lui, seduto nel posto dietro il tassista. Mi osservava con espressione preoccupata. Probabilmente stava cercando di leggere il groviglio oscuro che avevo al posto delle emozioni in quel momento.
Gli feci un cenno per incoraggiarlo a parlare, in attesa.
«Cosa ti è successo?»
Alzai un sopracciglio, sperando che si spiegasse. Lo fece.
«Voglio dire: quando il Tir si è fermato abbiamo provato a svegliarti ma non ci siamo riusciti. Abbiamo davvero provato di tutto, ma tu non davi segni di vita. Non fosse stato che respiravi ti avremmo creduta morta.» disse, scambiando delle occhiate con gli altri. «Ci hai davvero spaventati. Non riuscivamo a capire perché non ti svegliassi, così abbiamo cercato un posto in cui rifugiarci e siamo finiti al Casinò Lotus. Poi sei comparsa davanti a noi come se niente fosse e ci hai tirati fuori da lì. Come se non avessi appena dormito per sei giorni infilati ma solo per un paio d’ore.» feci per fargli notare che il Casinò Lotus scombinava il senso del tempo, ma lui mi anticipò. «E non venirmi a dire che sono state davvero un paio d’ore perché non ci credo. Si vede benissimo che ti è successo qualcosa mentre dormivi. Te lo si legge in faccia.» osservò. «E anche il fatto che prima hai risposto a Percy solo con quell’occhiata è molto indicativo del fatto che c’è qualcosa che non va.»
«Io… non…» mi passai una mano sugli occhi, scacciando l’immagine del volto scarnificato di Grover che aveva preso il posto della realtà. «Devo ancora metabolizzare quello che ho visto.» mormorai, alla fine.
«Puoi parlarcene, lo sai.» disse Annie.
«Devi.» aggiunse Percy, tentando di smorzare l’atmosfera. «I tuoi sogni non possono essere peggio dei miei.»
Feci una smorfia. «Non esserne così sicuro.»
Il mezzo sorriso che aveva sulle labbra scomparve e, per un attimo, lo vidi ricoperto di sangue con gli occhi privi di vita. Scossi la testa per scacciare quell’immagine.
«Cosa può esserci di peggio?» domandò, serio.
«La fine.» sussurrai. «La fine di tutto.» mi voltai in avanti, non riuscendo più a sostenere il loro sguardo. «Vi prego, non voglio parlarne.»
Una ventina di minuti dopo il taxi ci scaricò sulla spiaggia di Santa Monica, che era identica alle spiagge californiane dei film, tranne che per la puzza. C'erano giostre sul molo, palme lungo i marciapiedi, barboni che dormivano sulle dune di sabbia e surfisti in attesa dell'onda perfetta. Ci avvicinammo alla riva, con il mare illuminato dai raggi del tramonto che, nonostante il sole estivo, non riuscivano a scaldarmi come avrei voluto. I ricordi di quei giorni sprofondata nel sonno cercavano continuamente di risucchiarmi, e io sentivo sempre più freddo. E faticavo ancora di più a non perdere contatto con la realtà.
«E adesso?» chiese Annabeth, facendomi voltare verso di lei.
Il Pacifico si stava tingendo d'oro alla luce del tramonto.
Percy entrò con i piedi nel mare.
«Percy?» lo chiamò Annabeth. «Che stai facendo?»
Lui la ignorò, continuando a camminare, con l'acqua fino alla vita, poi fino al petto.
Lei gli gridò dietro: «Sai quant'è inquinata quell'acqua? C'è ogni genere di rifiuto toss...»
La fermai con una mano, stringendole appena il braccio.
In quel momento, Percy immerse la testa e sparì.
Annie e Grover mi fissavano ad occhi spalancati in attesa che dicessi qualcosa, che spiegassi perché l’avessi fermata dall’impedire a Percy di scomparire in mare. Mi limitai a scuotere lentamente la testa, preda di una nausea che non ero certa di sapere da dove venisse, prima di sospirare e sedermi con calma sulla sabbia.
Girava tutto.
«Sei verde.» se ne uscì Grover, scrutandomi attentamente in volto. «Molto verde. Fin troppo, per qualcuno che non è una driade.» si accovacciò davanti a me, seguito da Annabeth. «Stai bene?»
Chiusi gli occhi, cercando di compiere dei respiri profondi.
Annie mi passò una mano sulla fronte, asciugando alcune goccioline che la percorrevano.
«Stai sudando.» disse, preoccupata.
«Sto bene.» mormorai, cercando invano di controllarmi. «Datemi solo qualche minuto.»
Avevo una gran voglia di vomitare ma, ancora di più, desideravo poter bere dal Lete e dimenticarmi di tutto quello che avevo visto. Disperatamente.
Non avrei mai pensato che la puzza di quel posto mi avrebbe rimandata con la mente a quelle immagini e sensazioni orribili che avevo provato quegli ultimi giorni.
Volevo solamente aprirmi la testa e rimuoverle a tutti i costi, ma non riuscivo nemmeno a separarle dalla realtà. Cominciai a tremare senza controllo.
Rimasi lì, per minuti interminabili, a dondolarmi avanti e indietro con le mai sulle orecchie e il volto nascosto fra le ginocchia sotto gli sguardi preoccupati e impotenti dei miei amici, nella disperata attesa di un miracolo che mi separasse da quell’incubo che non riuscivo ad accantonare.
Una leggera quanto fresca brezza ci avvolse, mentre i raggi del sole si facevano più caldi e luminosi, con il trascorrere del tempo. La nausea scemò, così come era arrivata, e i tremori si placarono. Con stanca lentezza smisi di dondolarmi, e alzai la testa, accogliendo sul volto gli ultimi fasci ardenti di quel tramonto e inebriandomi del profumo del mare.
Aprii piano gli occhi, che avevo inevitabilmente chiuso con la vana speranza di non vedere più quegli orrori, e mi sentii bene. Per la prima volta da quando mi ero svegliata. Un vero e proprio miracolo divino che quasi mi fece piangere dalla gioia.
Sorrisi ai miei amici per tranquillizzarli e vidi entrambi sospirare di sollievo. Dovevo averli spaventati parecchio.
Prima che potessero domandarmi alcunchè, però, vidi Percy spuntare dall’acqua e feci loro un cenno nella sua direzione. Quando ci raggiunse aveva i vestiti asciutti, potere fortunati di chi poteva controllare il mare.
Ci raccontò dell’incontro con la Nereide, di ciò che gli aveva detto e ci mostrò quattro perle che avrebbero dovuto aiutarlo nel momento del bisogno.
Annabeth fece una smorfia. «Ogni dono ha un prezzo.»
«Questo è gratis.»
«No.» scosse la testa, lanciandomi un’occhiata. «Nessuno dà niente per niente. È un vecchio detto greco che si traduce molto bene nella nostra lingua. Ci sarà un prezzo da pagare. Aspetta e vedrai.»
Mi diede una mano ad alzarmi, poi ci voltammo e ci incamminammo verso la prima fermata degli autobus che trovammo. Pagammo quattro biglietti che ci portassero fino a West Hollywood e Percy si spacciò per una famosa controfigura, in modo da evitare che l’autista lo riconoscesse come “il ragazzo schizzato che aveva fatto sparire sua madre” e bla bla bla.
Fummo costretti a scendere alla prima fermata e vagammo a piedi per chilometri, alla ricerca degli Studi di Registrazione R.I.P., ma sembrava che nessuno sapesse dove fossero. E nell'elenco del telefono non comparivano.
Per due volte, fummo costretti a infilarci in un vicolo per evitare un'auto della polizia.
Poi, davanti alla vetrina di un negozio di elettrodomestici, per poco non mi venne un colpo. Strattonai Percy per un braccio, costringendolo a fermarsi per osservare la televisione accesa al di là del vetro che stava mandando in onda un'intervista con qualcuno dall'aria molto familiare: Gabe il Puzzone, il patrigno di Percy.
Parlava con Barbara Walters, neanche fosse una celebrità. Lei lo stava intervistando nell’appartamento di Percy, nel bel mezzo di una partita a poker, e seduta accanto a lui c'era una biondina che gli faceva coraggio con dei colpetti sulla mano. Disgustoso.
Sulla guancia di Gabe luccicava una lacrima finta.
Stava dicendo: «Onestamente, signora Walters, se non fosse per il sostegno di Miss Sugar, la mia terapeuta per il superamento del dolore, sarei uno straccio. Il mio figliastro si è preso quanto di più caro avessi al mondo. Mia moglie... la mia Camaro... mi dispiace, non ci riesco.»
Cone no!
«Ecco, America!» Barbara Walters si voltò verso la telecamera. «Un uomo distrutto. Un adolescente seriamente disturbato. Lasciate che vi mostri, di nuovo, l'ultima foto nota di questo giovane ricercato, scattata a Denver una settimana fa.»
Sullo schermo comparve una foto sfocata di Percy, Annabeth e Grover fuori dal ristorante in Colorado, mentre parlavamo con Ares.
«Chi sono gli altri ragazzi nella foto?» si chiese Barbara Walters in tono drammatico. «Chi è l'uomo con loro? Chi è Percy Jackson: un delinquente, un terrorista o la vittima di uno spaventoso, nuovo culto che l'ha sottoposto al lavaggio del cervello? Dopo la pubblicità, parleremo con un rinomato psicologo infantile. Resta con noi, America!»
«Andiamo.» incitò Grover, trascinandoci via prima che Percy sfondasse la vetrina con un pugno.
Io non mi opposi, troppo concentrata a cercare di capire come fosse possibile che in quella foto io non ci fossi. Ero esattamente nello spazio tra Percy e Ares, in quel momento, quindi perfettamente visibile dal punto in cui avevano scattato quell’immagine, ma era come se fossi stata invisibile. Com’era possibile? Che gli dei, per chissà quale ragione, continuassero a tenermi celata ai mortali? Ma, se era veramente così, perché mai avrebbero dovuto farlo? E, se invece loro non centravano niente, chi era che impediva ai mortali di notare la mia presenza? Chi mi nascondeva agli occhi del mondo? E perché?
Si fece buio e molti personaggi dall'aria affamata cominciarono a uscire in strada, pronti a entrare in scena. Ora, non fraintendetemi. Ho visto ogni cosa possibile e immaginabile con il mio potere, non sono il tipo di persona che si spaventa facilmente. Ma Los Angeles era un vero e proprio labirinto stradale, tentacolare, caotico e intricato. Mi ricordava Ares, in un qualche modo. Senza nessun senso logico. E io volevo che, almeno per una volta, un senso logico ci fosse. Sarebbe stato tutto estremamente più semplice. Non sapevo proprio come avrei fatto a far trovare l'ingresso degli Inferi agli altri entro il solstizio d'estate, ovvero entro un giorno, senza dirgli apertamente dove fosse per non intromettermi e modificare irrimediabilmente il futuro.
Superammo balordi, barboni e venditori di ogni genere che ci squadrarono con aria scaltra, come per valutare se valesse la pena rapinarci. Decisamente era meglio che evitassero anche solo di provarci. Ero stanca, e non avrei accettato altre intromissioni indesiderate.
Davanti all'ingresso di un vicolo, una voce nel buio disse: «Ehi, voi.»
E, come un idiota, Percy si fermò.
Ero talmente immersa nei miei pensieri che gli andai addosso, sbattendo la fronte sul retro del suo cranio. Me la massaggiai con una smorfia confermando quello che pensavo di lui: aveva proprio la testa dura.
Prima che me ne rendessi conto, fummo circondati da una banda di ragazzini. Erano sei in tutto: dei ragazzini bianchi con i vestiti costosi e la faccia cattiva. Mi ricordavano quelli della Yancy: marmocchi pieni di soldi che giocavano a fare i duri. Patetici.
Percy tolse il cappuccio a Vortice.
Io mi diedi una manata sulla fronte ancora dolorante, provocandomi una smorfia infastidita.
Poteva avere la testa dura quanto voleva, ma il cervello al suo interno doveva essere parecchio scadente.
Quando la spada apparve dal nulla, i bulletti arretrarono, ma il loro capo doveva essere il mortale più stupido sul pianeta, perché continuò a farsi avanti con un coltello a serramanico in mano.
Percy, da bravo idiota quale è, commise l'errore di sferrare un colpo.
Il tipo gridò. Ma dato che era un completo mortale, oltre che imbecille al pari del mio amico, la lama gli oltrepassò il petto senza lasciargli un graffio. Abbassò lo sguardo.
«Ma che diavolo...»
Con un rapido calcolo, intuii che avevamo all'incirca tre secondi prima che lo shock si trasformasse in rabbia e lo spingesse a saltarci addosso insieme ai suoi compari. E io non avevo la minima voglia di fare l’ennesima scazzottata. Perciò feci l’unica cosa sensata per evitare quella rissa imminente.
«Scappiamo!» gridai ad Annabeth e Grover tirando Percy per un braccio.
Togliemmo di mezzo due della banda con una spinta e ci precipitammo in strada, senza sapere dove andare. Svoltammo bruscamente in un vicolo.
«Laggiù!» esclamò Annabeth.
Solo un negozio dell'isolato sembrava aperto, le vetrine sfolgoranti di luci al neon. L'insegna sopra la porta diceva qualcosa tipo DA CRSTUY, LAERGGIA DLE ATMERASOS ADCUQAA.
«Da Crusty, la reggia del materasso ad acqua?» tradusse Grover.
Mi piantai nel bel mezzo della strada, incapace di proseguire oltre. Se per ciò che sapevo di quel posto o se per l’ennesima sovrapposizione della realtà non mi fu molto chiaro.
Fatto sta che, quando in parte mi ripresi, mi ritrovai all’interno del negozio, nascosti dietro un letto, contro le mie silenziose preghiere più disperate.
Mezzo secondo più tardi, la banda di ragazzini passò di corsa davanti alla vetrina.
«Penso che li abbiamo seminati.» disse Grover con il fiato grosso.
Una voce dietro di noi tuonò: «Seminato chi?»
Sobbalzammo per lo spavento.
Alle nostre spalle, c'era un tizio che somigliava a un rapace con un completo casual indosso. Era alto almeno due metri ed era totalmente calvo. Aveva la pelle grigia, ruvida, gli occhi dalle palpebre spesse e un sorriso freddo, da rettile. Si avvicinò lentamente, ma sapevo che avrebbe potuto muoversi in fretta se lo avesse ritenuto necessario.
Con quel completo avrebbe fatto un figurone al Casinò Lotus. Risaliva decisamente ai gloriosi anni Settanta. La camicia era di seta a motivi cachemire, lasciata per metà aperta a scoprire il petto glabro. I risvolti della giacca di velluto erano larghi come piste d'atterraggio, e le catene d'argento che portava attorno al collo... erano fin troppe perché qualcuno riuscisse a contarle. Io sapevo quante erano solo perché sapevo. E avrei volentieri evitato.
«Sono Crusty.» si presentò, con un sorriso giallo tartaro.
Un conato di vomito mi impedì di reagire.
«Ci scusi per come siamo entrati.» gli disse Percy come se niente fosse. «Stavamo solo, ehm, dando un'occhiata.»
«Vuoi dire che vi stavate nascondendo da quei poco di buono.» rettificò. «Girano da queste parti tutte le sere. Mi arriva un sacco di gente, grazie a loro. Che ne dite di dare un'occhiata a uno dei miei letti?»
Stavo per dire: “No, grazie”, quando lui mise la sua grossa zampa su una spalla di Percy e lo spinse all'interno del salone. Grover e Annabeth lo seguirono, lei lanciandomi un’occhiata di sottecchi.
Io, invece, non fui in grado di muovermi dal punto in cui mi avevano fatta accovacciare prima. Stavo ancora cercando di non vomitare qualsiasi cosa mi fosse rimasta nello stomaco dopo praticamente sei giorni di digiuno.
Arresa alla mia momentanea incapacità di rialzarmi, mi sedetti per terra cercando di respirare dalla bocca, nel tentativo di far passare quella inspiegabile nausea e di tornare, allo stesso tempo, con i piedi per terra, nella realtà. Contemporaneamente osservai gli altri girovagare nel negozio sotto la guida del proprietario.
C'era ogni genere di letto che si possa immaginare, tutti ovviamente muniti di materasso ad acqua: diversi tipi di legno, diverse fantasie di lenzuola; di taglia grande, grandissima, colossale.
«Questo è il mio modello più popolare.» Crusty allargò le mani, mostrando con orgoglio un letto coperto di lenzuola di raso nero, con delle lava lamp incassate nella testiera. Con il materasso che vibrava, sembrava un budino al petrolio. Non sarei mai stata in grado di dormirci sopra. «È come il massaggio di un milione di mani!» ci spiegò Crusty. «Coraggio, provatelo. Fatevi un sonnellino. Non è un problema, tanto oggi non c'è gente.»
«Ehm» obiettò Percy «non credo che...»
«Il massaggio di un milione di mani!» esclamò Grover e si tuffò. «Oh, ragazzi! Forte.»
«Mmh.» disse Crusty, accarezzandosi la pelle ruvida. «Quasi quasi...»
«Quasi, cosa?» chiese Percy.
Lui guardò Annabeth. «Fammi un favore, dolcezza, prova quello laggiù. Dovrebbe andare.»
Dolcezza.
Repressi un brivido.
Doveva solo provarci, lo schifoso, a chiamare me in quel modo.
Annabeth replicò: «Ma cosa...»
Lui la rassicurò con delle lievi pacche sulle spalle e l'accompagnò davanti al modello Safari Deluxe, con dei leoni scolpiti sul telaio in tek e una trapunta leopardata. Quando Annabeth si rifiutò di stendersi, lui la spinse.
«Ehi» protestò lei.
Crusty schioccò le dita. «Ergo
Dai lati del letto, spuntarono delle corde sferzanti, che si attorcigliarono attorno ad Annabeth, legandola al materasso.
Grover cercò di alzarsi, ma le corde spuntarono anche dal suo letto di raso nero, immobilizzandolo.
«N-non è f-f-o-o-orte!» gemette, la voce che vibrava per via del massaggio da un milione di mani. «N-non è p-per ni-e-e-ente f-f-o-oorte!»
Il gigante guardò Annabeth, poi si girò verso Percy e sorrise. «Quasi, maledizione!»
Lui cercò di venire verso di me, ma la mano dell’essere schizzò in avanti e gli si strinse attorno al collo. «Diamine, ragazzo. Non preoccuparti. Te ne troveremo uno fra un secondo.»
«Lasci andare i miei amici!»
«Oh, sicuro. Lo farò. Ma prima devo aggiustarli.»
«In che senso?»
«Tutti i letti sono lunghi esattamente un metro e ottanta, vedi? I tuoi amici sono troppo bassi. Devo aggiustarli.»
Annabeth e Grover continuavano a divincolarsi.
«Non sopporto le misure imperfette.» borbottò Crusty. «Ergo
Una nuova serie di corde balzò fuori dalle testiere e dai piedi dei letti, avvolgendosi attorno alle caviglie e alle ascelle di Grover e Annabeth. Le corde cominciarono a tendersi, tirando i miei amici per le estremità.
«Non vi preoccupate.» ci disse Crusty. «È solo uno stiramento. Sette, otto centimetri in più sulla spina dorsale. Potrebbero perfino sopravvivere. Ora perché non troviamo un letto anche per te, ragazzo, che ne dici? Mi è stato proibito di fare lo stesso alla tua dolce amichetta e, seppur contro i miei principi, farò come mi è stato detto.» continuò verso Percy, riferendosi a me. «In ogni caso, temo che lei abbia altri problemi di cui preoccuparsi. Problemi che, incredibilmente, sono decisamente più gravi dell’altezza sbagliata.» si voltò verso di me. «Alcune realtà con cui dover fare i conti.»
Il Mollusco mi fissò confuso e spaventato allo stesso tempo, rendendosi conto solo in quel momento delle mie condizioni. Dovevo essere tornata di nuovo verde.
«Percy!» gridò Grover.
Scossi la testa, per fargli capire che non ero in grado di aiutarlo, al momento. Ero troppo debole anche solo per tentare di rimettermi in piedi, figurarsi uccidere quel mostro.
Lo vidi ragionare in fretta. Sapeva di non potercela fare da solo contro quel venditore gigante. Gli avrebbe spezzato il collo prima ancora di riuscire ad estrarre la spada.
«Il suo vero nome non è Crusty, vero?» gli chiese.
«Legalmente, è Procuste.» ammise.
«Lo Stiratore.» aggiunsi, il tono debole.
Ricordavo la storia: il gigante che aveva cercato di uccidere Teseo con un eccesso di ospitalità durante il suo viaggio verso Atene. Certe immagini avrei volentieri preferito non vederle, nei miei sogni.
«Già.» confermò il venditore. «Ma chi se lo ricorda un nome del genere? Una cosa pessima per gli affari. Crusty, invece, funziona molto meglio.»
«Ha ragione. Suona proprio bene.» concordò Percy lanciandomi un’occhiata.
A Procuste brillarono gli occhi. «Lo pensi davvero?»
«Oh, assolutamente.» ribadì il mio amico. «E la fattura di questi letti? Favolosa!»
Il gigante fece un largo sorriso, senza però allentare la presa sul suo collo. «È quello che dico ai miei clienti. Tutte le volte. Nessuno che si prenda mai la briga di osservare la fattura! Quanti letti con lava lamp incassate nella testiera hai mai visto?»
«Non molti.»
«Esatto!»
«Percy!» strillò Annabeth. «Che stai facendo? Avie fa qualcosa.»
«La ignori.» consigliò lui a Procuste. «È una rompiscatole.»
Crusty rise. «Come tutti i miei clienti. Mai che misurassero un metro e ottanta esatto! Che sconsiderati. E poi si lamentano se devo dargli un'aggiustatina.»
«Che cosa fa se sono più lunghi di un metro e ottanta?»
Procuste gli liberò il collo ma, prima che Percy potesse reagire, allungò il braccio dietro a un bancone vicino e tirò fuori un'enorme ascia di bronzo a doppio taglio. «Centro il soggetto il più possibile e mozzo tutto ciò che sporge alle due estremità.
«Ah.» fece Percy, deglutendo e lanciandomi un’altra occhiata. «Mi sembra ragionevole.»
«Finalmente un cliente con un po' di cervello! Ne sono lieto.»
Le corde adesso cominciavano a stirare i miei amici davvero troppo.
Annabeth era sempre più pallida. Grover gorgogliava come un'oca strangolata.
«Allora, Crusty...» continuò Percy, cercando di mantenere un tono spensierato. Lanciò un'occhiata alla targhetta del letto LUNA DI MIELE SPECIAL, a forma di cuore. «Questo qui ha davvero degli stabilizzatori dinamici per fermare il movimento ondulatorio?» mi lanciò un’occhiata di sottecchi, una muta domanda, spostando ripetutamente l’attenzione da Procuste al letto in questione.
«Assolutamente. Provalo.»
«Sì, forse lo farò. Ma funziona anche con un tizio grande e grosso come lei? Neanche un'onda?» feci un lento cenno con la testa a Percy, confermando quello che mi aveva appena chiesto.
Ora dovevo solo sperare che andasse tutto come una qualunque delle visioni migliori che avevo avuto su quel momento.
«Garantito.»
«Impossibile.» disse Percy.
«Possibile.» Procuste si sedette con entusiasmo sul letto, dando dei colpetti con la mano al materasso. «Neanche un'onda. Visto?»
Percy schioccò le dita. «Ergo
Le corde avvilupparono Crusty e lo schiacciarono contro il materasso.
«Ehi!»
«Centratelo al punto giusto.» ordinò Percy.
Le corde si regolarono al suo comando. La testa e i piedi di Crusty sporgevano per intero alle due estremità.
«No!» gridò. «Aspetta! Era solo una dimostrazione.»
Percy tolse il cappuccio a Vortice. «Qualche piccola modifica...»
«Mi vuoi prendere per il collo.» disse Procuste. «Facciamo così: ti faccio il trenta per cento di sconto sui modelli più esclusivi!»
«Penso che comincerò dall'alto.» Percy sollevò la spada.
«Senza anticipo! Senza interessi per i primi sei mesi!»
Percy abbassò la spada. Crusty smise di fare offerte. Il Mollusco tagliò le corde degli altri letti.
Annabeth e Grover si rimisero in piedi, senza smettere di lamentarsi, contorcersi e insultarci.
«Sembrate più alti.» considerò Percy.
«Molto divertente.» sbuffò Annabeth. «La prossima volta, datti una mossa.»
«Muoviamoci.» disse lui, venendo verso di me per aiutarmi ad alzarmi.
«Dacci ancora un minuto.» si lamentò Grover. «Siamo stati quasi stirati a morte!»
«Allora siete pronti per gli Inferi.» annunciò Percy, sostenendomi con un braccio intorno alle spalle. Solo in quel momento Annabeth e Grover notarono il mio stato. «Sono soltanto a un isolato da qui.»

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Capitolo 19
*** 18. Cerbero, bel cucciolone! ***





Ce ne stavamo nell'ombra di Valencia Boulevard, a scrutare le lettere d'oro incise su marmo nero: STUDI DI REGISTRAZIONE R.I.P.. Sotto, sulle porte di vetro, c'era stampato: NO VENDITORI, NO PERDITEMPO, NO VIVI.
Era quasi mezzanotte, ma l'atrio era pieno di luce e di gente. Dietro al bancone della vigilanza c'era una guardia dall'aria tosta, con gli occhiali da sole e un orecchino.
Percy mi aiutò ad appoggiarmi al muro alle mie spalle. Non mi ero ancora ripresa da quello strano attacco e, nonostante gli altri mi avessero chiesto cosa intendeva dire Procuste, io non avevo ancora emesso un fiato, limitandomi ad ascoltare l’idea che avevano elaborato per entrare negli Inferi.
«Okay. Ricordate il piano.» disse Percy.
«Il piano.» Grover deglutì. «Sicuro. Adoro il piano.»
Annabeth disse: «Che succede se il piano non funziona?»
«Pensa positivo.»
«Giusto.» replicò lei. «Stiamo entrando nel Regno dei Morti e devo pensare positivo.»
Percy tirò fuori le perle dalla tasca, le quattro sfere lattiginose che la Nereide gli aveva dato a Santa Monica. Non sembravano un granché come piano di riserva, nel caso qualcosa fosse andato storto, ma io sapevo che avrebbero funzionato. Più o meno.
Annabeth gli mise una mano sulla spalla. «Scusa, Percy. Hai ragione, ce la faremo. Andrà bene.»
Lui diede un colpetto col gomito a Grover.
«Oh, giusto!» concordò lui. «Siamo arrivati fin qui. Troveremo la Folgore e salveremo tua madre. Nessun problema.»
Io sospirai, portandoli a osservarmi con sguardo preoccupato.
«Sei sicura di stare bene?» mi domandò Grover. «Sei ancora… beh, ecco… verde.»
«Terribilmente verde.» concordò Annabeth. «Vuoi aspettarci qui?»
Sgranai gli occhi. «Non se ne parla. Non vi lascio da soli, non con Zio Gioiello.»
«Sei sicura? Non sembri in gran forma.» ribattè lei.
Mi raddrizzai, staccando la schiena dal muro, e tentai di non vomitare addosso a tutti e tre.
«Sto benissimo.»
Non ci credettero nemmeno per un istante, ma non obiettarono più.
«Qualche ultimo consiglio?» mormorò Percy, più giù di morale di quanto volesse far vedere.
Era chiaro si stesse riferendo a me, lo avevamo intuito tutti. Ma io non potevo assolutamente dirgli cosa sarebbe successo.
Lui continuava a fissarmi in attesa di qualunque cosa, di una negazione, una rassicurazione. Gli serviva solo una spinta per cominciare quella follia.
Sospirai, riflettendo. Cosa mai avrei potuto dirgli senza compromettere tutto?
«Qualunque cosa accada, qualunque cosa sentirai, fidati del tuo istinto e tutto andrà come deve.» risposi, cercando di non sbilanciarmi.
Lui mi studiò per alcuni istanti, poi infilò le perle in tasca. «Andiamo a dare una lezione a questi tizi infernali.»
Entrammo nell'atrio dei R.I.P., io sostenuta da un braccio di Annabeth. Ancora non riuscivo a camminare come si deve, il che era parecchio irritante. Almeno avrei recitato bene la mia parte.
C’era una lieve musica di sottofondo, diffusa da casse invisibili. La moquette e le pareti erano grigio ferro. Folti esemplari di piante grasse spuntavano negli angoli come mani. L'arredamento era di pelle nera e tutti i posti a sedere erano occupati. C'era gente sui divani, gente in piedi, gente che fissava fuori dalla finestra e gente davanti all'ascensore. Nessuno si muoveva, parlava o faceva niente. Con la coda dell'occhio li vedevo tutti benissimo, ma se cercavo di mettere a fuoco qualcuno in particolare, cominciavano a sembrare trasparenti. Riuscivo a vedere attraverso i loro corpi. Il brutto di essere degli spiriti: non si ha più un corpo fisico, resta solamente una pallida ombra di ciò che si era in vita.
Il bancone della reception era un podio rialzato, perciò dovemmo sollevare gli occhi per incontrare quelli della guardia.
Era un uomo alto ed elegante, con la pelle color cioccolato e i capelli biondi ossigenati, rasati come un soldato. Indossava degli occhiali da sole con la montatura di tartaruga e un completo di seta firmato, del colore dei suoi capelli. Sul bavero della giacca, sotto una targhetta d'argento, era appuntata una rosa nera. Avrei riso per il contrasto, se non fossi stata così male.
«Lei si chiama Chirone?» se ne uscì Percy.
Diedi una testata al bancone per la sua stupidità, poi lo fissai incredula. Non poteva averlo detto davvero.
Il tipo si sporse sul bancone, attirando la mia attenzione. Non riuscivo a vedere niente nei suoi occhiali a parte il mio riflesso, ma sapevo perfettamente cosa celavano, e il suo sorriso era dolce e freddo, come quello di un pitone un attimo primo di ingoiarti.
«Ma che bel giovanotto!» aveva uno strano accento, antico. «Dimmi, amico, ti sembro un centauro?»
«N-no.»
«Signore.» aggiunse, mellifluo, facendomi sbuffare.
Erano tutti troppo fissati con questo “signore”.
«Signore.» ripetè il Mollusco.
L’altro si staccò la targhetta e fece scorrere un dito sotto le lettere. «Riesci a leggere, amico? C'è scritto "C-a-r-o-n-t-e". Ripetilo con me: CARONTE.»
«Caronte.»
«Magnifico! Ora: signor Caronte.»
«Signor Caronte.» disse Percy, come un perfetto scolaretto.
«Bravo!» il Traghettatore si rilassò. «Detesto essere scambiato per quel vecchio uomo-cavallo. E ora, come posso aiutarvi, piccoli morticini?»
A quella domanda, Percy cercò il nostro sostegno con lo sguardo.
«Vogliamo andare negli Inferi.» rispose.
La bocca di Caronte ebbe un fremito. «Beh, questa è nuova.»
«Con lui tutto lo è.» borbottai.
«Davvero?»
«Una dichiarazione semplice e diretta. Niente strepiti. Nessun: "Dev'esserci un errore, signor Caronte."» ci squadrò. «Come siete morti, dunque?»
Percy diede un colpetto di gomito a Grover.
«Oh.» fece lui. «Ehm... annegati... nella vasca da bagno.»
«Tutti e quattro?» chiese Caronte. «Doveva proprio essere grossa, questa vasca da bagno.» sembrava leggermente impressionato.
«Era più una piscina, in realtà.» dissi io. «E loro stavano cercando di uscire per venire ad aiutare me.»
Lui mi squadrò dalla testa ai piedi, studiando attentamente ogni mio particolare e fermandosi sulla verdognola tonalità della mia pelle.
«E non sono arrivati in tempo, presumo.»
«No, infatti.»
«Suppongo che non abbiate i soldi per la traversata. Di norma, con gli adulti, posso accettare le carte di credito o addebitare il prezzo del traghetto sull'ultima bolletta. Ma con i bambini... ahimè, non morite mai pronti. Dovrete accomodarvi qui per qualche secolo.»
«Oh, ma noi li abbiamo, i soldi.» Percy mise quattro dracme d'oro sul bancone, parte del gruzzolo che avevamo trovato nella scrivania dell'ufficio di Crusty prima di uscire dal quel posto.
«Bene, bene...» Caronte si inumidì le labbra. «Vere dracme. Vere dracme d'oro. Non ne vedevo da...»
Le sue dita aleggiavano avide sopra le monete. Eravamo così vicini. Poi Caronte mi guardò. Fu come se lo sguardo gelido dietro i suoi occhiali mi perforasse il cervello. E io seppi che aveva capito tutto, perché puntava proprio sui tralci di vite che avevo nei capelli. Si voltò verso Percy.
«Di' un po'» esordì. «non hai saputo leggere il mio nome correttamente. Sei dislessico, figliolo?»
«No.» rispose lui. «Sono morto.»
Caronte si sporse in avanti e tirò su col naso. «Tu non sei morto. Avrei dovuto capirlo appena ho visto lei.» affermò indicandomi. «Sei un piccolo dio.»
«Dobbiamo andare negli Inferi.» insistè il Mollusco.
Caronte emise un ringhio profondo con la gola. Immediatamente, tutte le persone nella sala d'attesa si alzarono e si misero a camminare avanti e indietro in preda all'agitazione: chi si accendeva una sigaretta, chi si passava la mano fra i capelli, chi controllava l'orologio.
«Andatevene, finché potete.» ci disse. «Prenderò i vostri spiccioli e dimenticherò di avervi visto.»
Stava per afferrare le monete, ma il figlio di Poseidone le agguantò per primo.
«Niente servizio, niente mancia.» cercò di sembrare più coraggioso di quanto si sentisse.
Caronte ringhiò di nuovo, un verso profondo, agghiacciante. Gli spiriti dei morti batterono i pugni sulle porte dell'ascensore.
«E poi è un peccato.» sospirò, lanciandomi un’occhiata preoccupata. «Potevamo offrire di più.»
Sollevò tutto il sacchetto del gruzzolo di Crusty. Tirò fuori un pugno di dracme e le fece scorrere fra le dita.
Il ringhio di Caronte diventò più simile alle fusa di un leone. «Pensi di potermi comprare, piccolo dio? Ehm... solo per curiosità, quanto hai lì dentro?»
«Parecchio.» rispose. «Scommetto che Ade non la paga abbastanza per questo lavoraccio.»
«Oh, non sai quanto è vero. Tu come ti sentiresti a fare da balia a questi spiriti per tutto il giorno? Un continuo: "La prego, non mi faccia essere morto", "La prego, mi traghetti gratis". Sono tremila anni che non vedo un aumento di stipendio. Seconde te li regalano, i completi come questo?»
«È un Armani?» domandai curiosa, studiando il tessuto.
«Sì.» sibilò lui, compiaciuto che l’avessi notato.
Fischiai.
«Porco zio, quei completi costano una fortuna.» osservai, beccandomi tre occhiate in tralice da parte dei miei amici.
“Quale zio?” si stavano chiedendo.
Bella domanda…
«Si merita di meglio.» convenne Percy. «Un po' di stima. Rispetto. Uno stipendio decente.»
A ogni parola pronunciata, impilava una moneta di più sul bancone. Caronte abbassò gli occhi sulla sua giacca di seta, come se si immaginasse con qualcosa di meglio indosso. «Devo dire, figliolo, che stai cominciando a ragionare. Appena un po'.»
Lui impilò un altro mucchietto di monete. «Potrei accennare a un aumento di stipendio, quando parlerò con Ade.»
Il Traghettatore sospirò. «Del resto la barca è quasi piena. Tanto vale che ci aggiunga anche voi quattro e mi decida a salpare.» si alzò, raccolse i nostri soldi e disse: «Venite.»
Ci facemmo largo tra la folla di spiriti in attesa, che cominciarono a tirarci i vestiti come il vento, le voci che sussurravano frasi incomprensibili. Cercai di non toccarli nemmeno per sbaglio, per evitare di vedere la loro vita e la loro morte. Ne vedevo già abbastanza normalmente senza andarmele a cercare.
Caronte li allontanò con gesti bruschi, brontolando: «Scrocconi.»
Ci scortò nell'ascensore, che era già stracolmo di anime dei morti, ciascuna con la sua carta d'imbarco verde. Caronte agguantò due spiriti che stavano cercando di salire con noi e li respinse nell'atrio.
«Bene. Ora, non fatevi venire idee strane durante la mia assenza.» annunciò alla sala d'attesa. «E se qualcuno si azzarda a spostare la manopola dalla mia stazione radio preferita, farò in modo che restiate qui per un altro migliaio di anni. Intesi?»
Chiuse le porte. Infilò una scheda d'accesso in una fessura sul pannello dell'ascensore e cominciammo a scendere.
«Che succede agli spiriti che aspettano nell'atrio?» chiese Annabeth, ferma al mio fianco con ancora il braccio attorno al mio corpo.
«Niente.» rispose Caronte.
«Per quanto tempo?»
«Per sempre, o finché non mi sento generoso.»
«Oh.» fece lei. «Mi sembra... giusto.»
Caronte alzò un sopracciglio. «Chi ha mai detto che la morte è giusta, signorinella? Vedrai quando toccherà a te. E morirai presto, nel posto dove state andando.»
«Ne usciremo vivi.» replicò Percy.
«Come no.»
Sentii i loro sguardi su di me, così alzai il mio. Mi stavano davvero fissando, curiosi di un mio intervento.
Mi rivolsi a Caronte: «Se sai chi sono, sai anche che non parlo.»
Lui mi studiò per qualche istante, poi sbuffò. «Non ti lascerebbero mai morire. Nemmeno negli Inferi.»
«E ancora non so il perché.» osservai.
«Temo che lo scoprirai fra molto tempo, ragazza.» disse lui. «Ma cercherei di farlo tardare il più a lungo possibile, se fossi in te.»
Aggrottai la fronte, confusa. «Perché?»
«Potrebbe non piacerti quello che scoprirai…» spiegò con tono lugubre.
Ebbi un'improvvisa sensazione di vertigine. Non stavamo più andando verso il basso, ma in avanti. L'aria si velò. Gli spiriti che avevamo intorno iniziarono a cambiare. Gli abiti moderni che indossavano tremolarono, trasformandosi in tuniche grigie col cappuccio. Il pavimento dell'ascensore prese a ondeggiare.
Riportai lo sguardo su Caronte e vidi distintamente il suo completo chiaro lasciare il posto a una lunga tunica nera in stile greco antico. Gli occhiali con la montatura di tartaruga svanirono, lasciando vedere le orbite vuote che aveva al posto degli occhi – molto simili a quelle di Ares, solo che queste erano fosse di tenebre, piene di buio, morte e disperazione.
«Che hai da guardare?» disse a Percy che, come me, lo stava fissando.
«Niente.» riuscì a balbettare lui.
Più ci inoltravamo negli Inferi, più la carne del suo volto diventava trasparente, lasciando intravedere le ossa del cranio. Il pavimento continuava a ondeggiare, come in balia di onde invisibili.
Grover gemette: «Penso che mi stia venendo il mal di mare.»
Dopo qualche altra spinta, l’ascensore aveva lasciato il posto a una chiatta di legno. Caronte ci stava traghettando attraverso un nero fiume oleoso in cui turbinavano ossa, pesci morti e altri oggetti inquietanti: bambole di plastica, garofani schiacciati, fradici diplomi dai bordi dorati.
«Lo Stige.» mormorò Annabeth. «È così...»
«Inquinato.» finì Caronte. «Da migliaia di anni, voi umani ci gettate dentro di tutto, durante la traversata: speranze, sogni, desideri che non si sono mai realizzati. Una gestione dei rifiuti irresponsabile, se volete la mia opinione.»
«Non possono farne a meno.» commentai. «È il loro modo per liberarsi di ogni cosa e arrivare al Tribunale liberi da tutto ciò che li legava alla vita, pronti per essere giudicati.»
La foschia si levava in volute di vapore dall'acqua sudicia. Sopra di noi, quasi sperduto nell'oscurità, c'era un soffitto di stalattiti. Di fronte, una costa lontana emanava un bagliore verdognolo, il colore del veleno.
Mi osservai intorno senza vedere davvero cosa mi circondava. Sentivo il calore dei miei amici contrastare il freddo dei morti che ci circondava, ma la mia mente continuava a venire risucchiata in un’altra realtà. Quel paesaggio, quell’atmosfera di disperazione e dolore e rimpianto che permeava quel tratto dello Stige, mi ricordava troppo ciò che avevo visto e da cui non riuscivo a fuggire. Mi stava facendo di nuovo precipitare nel baratro.
Ero quasi completamente assente. Ma quando percepii la mano di Percy stringersi attorno alla mia, ricambiai la stretta, aggrappandomi alle sue dita come se fossero la mia ancora di salvezza.
Annabeth, dall’altro lato, strinse la presa sul mio fianco, Grover che le prendeva la mano un po’ più in là. Loro avevano bisogno di sapere che c'era qualcun altro vivo su quella barca, e io avevo bisogno di sentire quale fosse la vera realtà.
La costa degli Inferi entrò lentamente nella nostra visuale. Rocce scoscese e sabbia vulcanica nera si estendevano verso l'interno per un centinaio di metri, fino ai piedi di un alto muro di pietra che proseguiva in entrambe le direzioni fin dove riuscivamo a spingere lo sguardo. Un verso risuonò nella penombra verdognola, riecheggiando sulle pietre: l'ululato di un grosso animale.
«Il vecchio Tre Facce è affamato.» commentò Caronte. Il suo sorriso si fece scheletrico nella luce verdognola. «Peggio per voi, piccoli dei.»
«Cerbero?» domandai, raddrizzandomi.
«Proprio lui.» confermò, lanciandomi uno sguardo curioso. «Perché?»
Alzai le spalle con fare indifferente. «Adoro quel cane.»
Il fondo della barca scivolò sulla sabbia nera. I morti cominciarono a scendere: una donna che teneva per mano una bambina; una coppia di anziani barcollanti, che avanzavano tenendosi a braccetto; un ragazzo non più grande di me, che procedeva muto nella sua tunica grigia. Annabeth mi aiutò a scendere dalla chiatta; ancora non ero abbastanza stabile da reggermi sulle mie gambe, ma stavo lentamente migliorando. Troppo lentamente. Speravo solo di essere abbastanza in forma una volta di fronte ad Ade.
Caronte disse a Percy: «Ti auguro buona fortuna, amico, ma quaggiù non ne troverai. Ricordati di accennare al mio aumento di stipendio.» poi si voltò verso di me. «Tu potresti piacergli. Magari lo farai divertire un po’. Sicuramente ti troverà interessante.»
Si infilò le dracme d'oro nella borsa, una per una, poi raccolse la sua pertica. Gorgheggiò qualcosa che somigliava a una canzone di Barry Manilow e ripartì, traghettando la chiatta vuota lungo il fiume.
Noi seguimmo gli spiriti lungo un dissestato sentiero in salita.
L’ingresso degli Inferi sembrava un aeroporto all’ora di punta. Sovraffollato di migliaia di volte e con i voli cancellati.
C'erano tre entrate separate sotto un'unica immensa volta nera, su cui campeggiava la scritta: STATE ENTRANDO NELL'EREBO. Ogni ingresso era provvisto di un metaldetector sormontato da telecamere di sicurezza, superato il quale c'erano dei caselli con dentro dei demoni vestiti con una tunica nera, come Caronte. Doveva proprio piacergli l’abbigliamento retrò.
L'ululato della bestia affamata adesso era davvero assordante, ma non riuscivo a vedere da dove provenisse. Il cane a tre teste, Cerbero, preposto a fare la guardia alla porta di Ade, non si vedeva da nessuna parte. Per il momento.
I morti si misero l'uno dietro l'altro, dividendosi in tre file, due con su scritto OPERATORE IN SERVIZIO e una con il cartello MORTE FACILE. Quest'ultima procedeva spedita. Le altre due erano più lente.
«Che vuol dire, secondo voi?» chiese Percy indicando le tre file.
«La fila veloce andrà direttamente alle Praterie degli Asfodeli.» rispose Annabeth. «Per quelli che preferiscono evitare controversie legali. Non vogliono rischiare il giudizio del tribunale, perché potrebbe essergli avverso.»
«C'è un tribunale per i morti?»
«Sì. Formato da tre giudici, che cambiano di volta in volta. Minosse, Thomas Jefferson, Shakespeare... gente così.» feci una smorfia, ma non commentai. Non era il luogo né il momento per aprire una parentesi su quell’argomento. «Qualche volta osservano una vita e decidono che quella persona merita una speciale ricompensa: i Campi Elisi. Altre volte stabiliscono una pena. Ma la maggior parte della gente, beh, è vissuta e basta. Non ha fatto niente di speciale, né di buono né di cattivo. Perciò va nelle Praterie degli Asfodeli.»
«A fare cosa?»
Grover rispose: «Immagina di stare in un campo di grano del Kansas. Per sempre.»
«Io mi romperei le dracme dopo cinque minuti.» osservai.
«Dev'essere dura.»
«Non quanto quello che succederà a lui.» mormorò Grover. «Guarda.»
Un paio di demoni avvolti nelle tuniche nere avevano preso da parte uno spirito e lo stava perquisendo al bancone della vigilanza. Il volto del morto sembrava vagamente familiare.
«È quel predicatore che ha dato scandalo, hai presente?» spiegò Grover.
«Ah, sì.»
Distolsi lo sguardo, consapevole di cosa lo aspettava. L'avevamo visto in tv un paio di volte alla Yancy. Era questo insopportabile telepredicatore di New York che aveva raccolto milioni di dollari per gli orfanotrofi e poi li aveva spesi per rifarsi la villa, con accessori indispensabili tipo tavolette del water laminate d'oro e un campo da minigolf da interni. Era morto durante un inseguimento con la polizia, quando la sua "Lamborghini per il Signore" era precipitata in un dirupo. Il Karma sa essere davvero grandioso, a volte.
«Che cosa gli faranno?»
«Ade gli assegnerà una pena speciale.» risposi, senza entrare nei dettagli. «Quelli davvero malvagi ottengono la sua attenzione personale non appena arrivano. Le Pipistrelle inventeranno una tortura eterna apposta per lui.»
«Ma se è un predicatore» disse Percy «e crede in un inferno diverso...»
Grover fece spallucce. «Chi dice che sta vedendo questo posto come lo vediamo noi? Gli umani vedono quello che vogliono vedere. Siete piuttosto cocciuti... ehm, costanti, in questo senso.»
Sogghignai. Grover aveva proprio ragione. Gli umani avevano delle mentalità davvero ristrette.
Ci avvicinammo alle porte. L'ululato adesso era talmente forte da far tremare il terreno sotto i nostri piedi, ma ancora non riuscivo a capire da dove provenisse. Dovetti aggrapparmi con entrambe le mani al braccio di Annabeth per non cadere per terra.
Poi, a una quindicina di metri di distanza, ci fu un luccichio nella foschia verdognola. E lì, nel punto in cui il sentiero si divideva in tre, c'era un gigantesco mostro informe.
Prima non riuscivo a vederlo perché era semitrasparente, come i morti. Finché non si muoveva, si fondeva con qualsiasi cosa ci fosse alle sue spalle. Solo gli occhi e le zanne sembravano solidi. E stava guardando noi.
«È un rottweiler.» disse Percy, completamente stupefatto.
«È bellissimo.» commentai io, gli occhi che brillavano dalla meraviglia.
Cerbero era un rottweiler puro, grande il doppio di un mammut, pressoché invisibile e aveva tre teste. Era semplicemente stupendo.
I morti gli si avvicinavano senza avere il minimo timore. Le file dell'OPERATORE IN SERVIZIO si dividevano ai suoi fianchi, mentre gli spiriti della MORTE FACILE gli passavano direttamente fra le zampe anteriori e sotto la pancia, senza neanche accucciarsi.
«Comincio a vederlo meglio.» mormorò Percy. «Come mai?»
«Penso...» Annabeth si inumidì le labbra lanciandomi un’occhiata. «Temo che sia perché ci stiamo avvicinando di più alla nostra morte.»
La testa di mezzo del cane si allungò verso di noi. Annusò l'aria e ringhiò.
«Riesce a fiutare i vivi.» confermai, quando mi guardarono.
«Non c'è problema.» replicò Grover, tremando al mio fianco. «Perché abbiamo un piano.»
Ci avvicinammo al cane.
La testa di mezzo ringhiò, poi abbaiò così forte da farmi tremare il cervello.
«Lo capisci?» chiese Percy a Grover.
«Oh, sì.»
«Che sta dicendo?»
«Non credo che esista una parolaccia simile in nessun linguaggio umano.»
«Nessun linguaggio recente, per lo meno…» borbottai.
Percy tirò fuori dal suo zaino un grosso bastone, la gamba di un letto che aveva spezzato da un modello Safari Deluxe di Crusty. La sollevò con il braccio e si sforzò di sorridere come se non fosse, secondo lui, sul punto di morire.
«Ehi, bel cagnone.» gridò. «Scommetto che non giocano molto con te.»
«GRRRRRRRRRR!»
Chiusi gli occhi, rivedendo nella mia mente alcune immagini poco piacevoli.
«Moriremo tutti.» sussurrai.
«Buoono.» disse, con un filo di voce.
Percy mosse il bastone. La testa di mezzo seguì il movimento, ma le altre due continuarono a puntarlo, ignorando completamente gli spiriti. Aveva tutta l'attenzione di Cerbero. Poteva essere una buona cosa. Oppure no.
«Prendilo!» Percy lanciò il bastone nell'oscurità: un lancio perfetto che sentimmo piombare nello Stige.
Cerbero lo guardò torvo, per niente impressionato. I suoi occhi erano minacciosi e freddi. Il bastone non gli era piaciuto per niente.
E tanti saluti al nostro piano.
Il ringhio di Cerbero adesso era diverso, un suono che saliva dal profondo delle tre gole.
«Ehm.» fece Grover. «Percy?»
«Sì?»
«Penso che tu voglia saperlo.»
«Sì?»
«Hai presente Cerbero? Ecco... sta dicendo che abbiamo dieci secondi per pregare un dio a nostra scelta. Dopodiché... beh...»
«Ha fame.» conclusi.
«Aspettate!» esclamò Annabeth, mettendosi a frugare nel suo zaino.
Un pesante sospiro di sollievo lasciò le mie labbra. Grazie agli dei, si stava avverando quella realtà. Forse potevamo ancora salvarci.
«Cinque secondi.» contò Grover. «Scappiamo?»
«Aspetta.» lo fermai, mentre mi tenevo in piedi da sola, per dare più libertà alla figlia di Atena.
Annabeth tirò fuori una palla di gomma rossa delle dimensioni di un pompelmo. Era marcata WATERLAND, DENVER, CO. Prima che uno di noi riuscisse a muovere un passo, la levò in alto e avanzò impettita verso Cerbero.
Gridò: «Guarda la palla! Vuoi la palla, Cerbero? Seduto!»
Cerbero sembrava sbigottito quanto Percy e Grover. Io sorridevo come un’idiota.
Tutte e tre le teste si piegarono di sghembo, allungando il collo. Sei narici si dilatarono.
«Seduto!» gridò di nuovo Annabeth.
Cerbero si leccò le sue tre serie di labbra, scrollò il posteriore e si sedette, schiacciando una dozzina di spiriti della MORTE FACILE che gli stavano passando sotto proprio in quell'istante. Gli spiriti si dissolsero con dei sibili soffocati, come aria rilasciata da un copertone.
Annabeth disse: «Bravo!»
E gli lanciò la palla.
Cerbero la prese con la bocca centrale. Date le dimensioni, riusciva a masticarla appena, e le altre teste cercarono di strapparle il giocattolo nuovo.
«Lascia!» ordinò Annabeth.
Le teste di Cerbero smisero di litigare e la guardarono. La palla era incuneata fra due zanne come un minuscolo pezzetto di gomma. Il cane emise un guaito acuto e spaventoso, e poi depositò la palla ai piedi di Annabeth. Adesso era tutta appiccicosa e mordicchiata.
«Bravo, cagnone.» raccolse la palla, ignorando la bava del mostro. Si girò verso di noi. «Andate. La MORTE FACILE è più veloce.»
«Ma...» provò a protestare Percy.
«Ora!» ordinò, con lo stesso tono che stava usando con il cane.
Noi tre ci facemmo debolmente avanti. Cerbero si mise a ringhiare.
«Fermo!» ordinò Annabeth al mostro. «Se vuoi la palla, fermo!»
Cerbero guaì, ma rimase dov'era.
«E tu?» chiese il Mollusco ad Annie mentre le passavamo davanti.
«So quello che faccio, Percy.» mormorò. «Almeno, ne sono abbastanza sicura...»
Percy, Grover e io ci infilammo fra le zampe del mostro. Le mie gambe tremarono e cedettero, mandandomi chiappe a terra proprio sotto quelle di Cerbero. Grover e Percy, che erano riusciti già a passare, si voltarono di scatto allarmati dal tonfo, ma non fecero in tempo a tornare indietro a prendermi che le tre teste di Cerbero mi circondarono. Mi fissavano con i loro occhietti, mentre le loro narici mi annusavano dalla testa ai piedi cercando di identificarmi. Rimasi immobile.
«Non muovetevi.» dissi agli altri.
Aspettai che Cerbero mi analizzasse, senza fretta. Non sembrava essere ostile nei miei confronti, e mi chiesi il perché. Era attratto dai tralci vite, che annusò con particolare attenzione, ma non ringhiò. Poi, a un certo punto, la testa di mezzo mi diede un buffetto sulla guancia, come in cerca di coccole. Allungai piano una mano, tenuta d’occhio dalle altre due teste, e la appoggiai sotto il suo orecchio, dove cominciai a lasciargli qualche grattatina che gli fece sbattere la coda a terra dalla contentezza. Per poco non caddi di nuovo, per il terremoto che provocò.
«Sei proprio un bel cucciolone, vero?» osservai con un sorriso, rilassando il corpo e portando anche l’altra mano ad accarezzarlo.
Lui guaì. Ora tutte e tre le teste si contendevano le mie coccole, le lingue penzoloni e i musi felici.
Con calma mi staccai da loro e feci un gesto ad Annabeth perché attirasse di nuovo la sua attenzione, in modo da permettermi di raggiungere gli altri. Le bastò far rimbalzare la palla a terra un paio di volte per avere di nuovo le tre teste concentrate su di lei.
Indietreggiai con calma e raggiunsi Percy e Grover, che erano già fuori dalla portata di Cerbero. Poi feci un cenno d’assenso ad Annabeth per farle capire che toccava a lei.
La figlia di Atena disse di nuovo: «Buoono!»
Cerbero attese.
Tirò su la palla malconcia e probabilmente giunse alla stessa conclusione a cui eravamo giunti anche noi: se avesse ricompensato Cerbero, non le sarebbe rimasto nulla per tenerlo a bada.
La lanciò lo stesso. La bocca sinistra del mostro l'addentò subito, solo per vedersi attaccata un istante dopo dalla testa di mezzo, mentre quella di destra uggiolava in segno di protesta.
Sfruttando l'attimo di distrazione del mostro, Annabeth sfrecciò rapidamente sotto la sua pancia e ci raggiunse al metaldetector.
«Come hai fatto?» le chiese Percy, sbigottito.
«Scuola di addestramento.» rispose lei, senza fiato, mentre le stringevo una spalla. «Da piccola, a casa di papà avevamo un doberman.»
«E tu, Avie?» si voltò vero di me. «Perché non ti ha mangiato?»
«Lascia perdere.» fece Grover, tirandolo per la maglietta. «Muoviamoci!»
Stavamo per infilarci nella fila della MORTE FACILE quando Cerbero guaì penosamente con tutte e tre le bocche. Io e Annabeth ci fermammo e ci voltammo verso il cane, che ci stava guardando e tirò fuori le lingue, ansimando speranzoso, con la minuscola palla rossa ormai maciullata ai suoi piedi, in una pozza di bava.
«Buoono.» ripeté Annabeth, ma in tono malinconico, titubante.
Le teste del mostro si piegarono di lato, come se fossero preoccupate per lei.
«Ti porteremo presto un'altra palla.» promisi. «E ti farò tante altre coccole. Ti piacerebbe?»
Il mostro guaì.
«Bravo. Verremo a trovarti presto. Te lo prometto.» confermai.
Annabeth mi osservò per qualche istante. «Cerbero ti ha fatto bene, non sei più verde.» osservò. «Grazie.» aggiunse.
Sapevo quanto stesse cercando di nascondere la malinconia che sentiva in quel momento.
Le feci un sorriso, prima di voltarmi verso gli altri. «Andiamo.»
Percy e Grover passarono sotto il metaldetector. L'allarme scattò subito, facendo partire una serie di lampeggianti rossi. «Articoli non autorizzati! Identificata magia!»
Alzai gli occhi al cielo.
Cerbero si mise ad abbaiare.
Ci precipitammo oltre la porta della MORTE FACILE, che fece scattare altri allarmi, ed entrammo a rotta di collo negli Inferi.
Pochi minuti dopo eravamo nascosti, senza fiato, nel tronco marcio di un immenso albero nero, mentre dei demoni della vigilanza ci superavano di corsa, chiamando a gran voce i rinforzi delle Furie.
Grover mormorò: «Beh, Percy, che cos'abbiamo imparato oggi?»
«Che i cani a tre teste preferiscono le palle di gomma rossa ai bastoni?»
«No.» ribattè lui. «Abbiamo imparato che i tuoi piani hanno decisamente del mordente, ma che alla fine sono una bidonata!»
«Non è del tutto esatto.» commentai io, ripensando a quel cane.
Persino lui si sentiva solo.
Cerbero guaiva sconsolato in lontananza, rimpiangendo le sue nuove amiche. Quando Annabeth si asciugò una lacrima dalla guancia, le strinsi una mano. Sapevo esattamente come si sentiva: anche a me dispiaceva lasciarlo lì. Ma avrei fatto di tutto per poterlo rivedere, come gli avevo promesso. Non lo avrei lasciato abbandonato a sè stesso. Non se lo meritava, povero cucciolo.
Dovevo assolutamente parlarne con Zio Gioiello.

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