Anarkh

di gt26
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** epilogo ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Era stata una stupida. Perché seguirlo? Sarebbe stato meglio morire, con una corda appesa al collo. 

L'aveva fatto, lei lo sapeva, per quel suo stupido attaccamento alla vita. 

Era troppo giovane per morire. 

L'aveva accompagnata all'interno di Notre Dame, di nuovo. Quel prete che le aveva rovinato la vita, ora gliela aveva appena salvata. 

Le aveva detto che era meglio riportarla dove era già stata: conosceva i soldati e sapeva che l'ultimo posto dove l'avrebbero cercata sarebbe stato quello. 

Si ritrovò quindi di nuovo in quella piccola stanzetta coi muri in pietra, composta da un letto, un comodino, una scrivania con una sedia e una piccola finestrella che dava sulla piazza dove amava tanto ballare, un tempo. 

Le aveva detto che l'amava, che non poteva stare senza di lei, e che la voleva – le aveva fatto scegliere tra la morte, o l'essere sua. Il suo istinto le aveva fatto scegliere la seconda opzione, forse quella meno dolorosa. Non avrebbe mai più ritrovato sua madre: una leggenda gitana lo diceva, se avesse voluto rivederla non avrebbe dovuto concedersi a lui. Ma ormai era fatta. Attendeva solo il giorno in cui Phoebus sarebbe tornato a salvarla.

Claude Frollo aveva trentasei anni, ed era perseguitato dagli incubi. Il suo amore incessante per la gitana non lo faceva chiudere occhio, e quando li chiudeva sprofondava negli abissi più inquieti. 

La sognava di notte e la pensava di giorno, non poteva vivere senza di lei.

Per questo, mentre lei era rinchiusa aspettando la condanna a causa di Phoebus aveva voluto salvarla. Aveva provato pietà per la sua condizione, in cui lui l'aveva trascinata. L'aveva ferito lui Phoebus, quella notte, trascinato da un impeto di gelosia. Non doveva pagare lei, non era giusto. 

Quindi le aveva proposto un accordo: scappare con lui, o morire. Non credeva avesse accettato.

L'arcidiacono entrò nella stanzetta. 

"Phoebus, voglio il mio Phoebus!" Quanto lo odiava, il capitano delle guardie del re. 

Lei era solo una bambina, si era invaghita di lui solo perché era bello, muscoloso e affascinante. 

Ma in realtà, ciò che lei non capiva, è che lui voleva solo soddisfare le sue brame, non la amava veramente. Sciocca ragazzina. 

"Taci."

Esmeralda si abbandonò a sé stessa. Era finita ormai. Era sua. Si sarebbe preso quello che voleva e poi sarebbe sparito per sempre. Sperava facesse in fretta.

"Non vuole..." Non riusciva a dirla, quella parola. 

"Non voglio questo." In realtà lo voleva, ma l'idea lo disturbava. 

Lei non lo amava e non lo avrebbe mai amato.

"E allora perché mi ha rapito?"

"Volevo solo garantirti una vita migliore."

"Questa non è vita. Io voglio Phoebus."

"Non lo capisci? Il tuo Phoebus è un traditore!"

"Lui mi ama, me lo ha detto, ama solo me. Non è come voi."

"Capirai."

"Cosa avete fatto a Djali?" Lui non le rispose.

Fece per andarsene, lasciandola al buio, con la luce della luna a illuminare i suoi pensieri. Era arrabbiato. Perché lei non capiva?

"Qual è il suo nome?"

"Frollo. Claude Frollo."

Uscì, non la guardò. Chiuse la porta a chiave.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Al suo risveglio, Esmeralda trovò un paniere sopra la scrivania. C'era un biglietto. Non lo lesse. 

Aprì la cesta e trovò cibo. 

Nella stanza entrò Quasimodo, il campanaro. Era gobbo, deforme, coi suoi capelli rossi ispidi in testa.

Si conoscevano già; lui era stato incoronato papa dei folli, e lei lo aveva salvato alla ruota. Le aveva dato da bere. Da quel momento era sua amica.

Le sorrise. 

"Questa cesta te l'ha portata il padrone, questa mattina."

"Il padrone? Frollo? È così che lo chiami?"

"Non è cattivo. Mi ha salvato quando ero un bambino. Nessuno mi voleva, a causa della mia... - si interruppe – condizione."

"E ti ha portato qui? In una chiesa? Che vita!"

"Non è brutto sai? Ci sono le campane, i gargoyle, e vedi tutta la città dall'alto. Tutte le mattine passa a trovarmi, mi porta del cibo e chiacchieriamo un po'. Non è cattivo. È solo duro con le persone...e questo lo fa sembrare malvagio."

Le parole di Quasimodo l'avevano rincuorata. Prese il biglietto che aveva scartato. 

"Sai cosa c'è scritto? Io non so leggere."

"Nel caso avessi fame. Claude."

"Grazie."

"Se vuoi, posso chiedere al padrone di insegnartelo. È bravo, sai. L'ha fatto con me. Mi ha insegnato a leggere, scrivere e far di conto."

"Non so se..."

"Hai ancora paura, vero?"

Lei si zittì. Aveva paura.

"Non ti preoccupare, ci parlo io."

A sera Frollo ritornò a trovare la zingara. Aveva qualcosa di diverso. Pareva più gentile. 

Fu lei, con sua sorpresa, a rompere il silenzio. 

"Grazie per il cibo."

"Non c'è di che." 

Si zittirono. Poi lui disse:

"Quasimodo mi ha detto che non sai leggere."

"È vero; non ho mai imparato."

"Ho portato questo. Ti potrà aiutare." 

Era un libro per bambini con le lettere dell'alfabeto e alcune frasi semplici. Claude lo aprì. 

"Era mio, di quando ero piccolo."

Iniziò così una serie di lezioni, e ad Esmeralda piaceva, a dirla tutta, leggere quelle sillabe e dar loro un suono, un senso. Era grata all'arcidiacono per il tempo che le stava dedicando.

Una volta finita una sessione di due ore, Frollo si alzò, uscì dalla stanza e lasciò Esmeralda sola.

Lei accese una candela e si addormentò, lasciando che il rumore della notte la cullasse. 

Frollo ritornò dopo qualche ora. Stava appoggiato sullo stipite della porta, e vedeva quella ragazzina dimenarsi nel sonno. Incubi? Sembrava di sì. 

Si sedette alla scrivania, aprì un vecchio tomo di alchimia, sua grande passione, e si tuffò in quel mondo che aveva imparato ad amare. Non si rese conto della morsa di Morfeo che lo raggiunse, si addormentò con il naso sui libri.

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Capitolo 3
*** 3 ***


"Claude?"

"Sì?"

"Vorresti dormire con me?"

Ammutolì. Non se lo spiegava, tutto quell'affetto improvviso. La guardò interrogativo. 

Il Claude di qualche mese prima avrebbe accettato senza esitare, avrebbe ceduto subito a quella richiesta. Sentì un brivido percorrergli la schiena: era qualcosa che bramava da sempre, ma ora che il momento era arrivato non se la sentiva – gli pareva fosse troppo presto.

"Intendo dormire e basta." Lo rincalzò lei.

Lui non diede risposta – era come paralizzato – aveva paura che gli impulsi prendessero il sopravvento. E se non si fosse controllato? Non voleva perdere la fiducia di lei, ma allo stesso tempo aveva voglia di sentire il suo calore – il suo odore da gitana.

Nell'indecisione, stette lì a fissarla.

"Qualche sera fa...so che hai dormito qui, sulla sedia. Ti ho sentito, nel sonno. Parlavi, non ho capito bene che dicevi ma era decisamente un incubo, quello."

Colpito. E affondato. La sua perspicacia di bambina lo stupiva ogni giorno di più.

"Non ti devi preoccupare; anche a me capita, di fare brutti sogni...in questo periodo spesso, a dir la verità. Phoebus, in particolare."

Quel nome. Guardò i suoi occhi neri. E riconobbe che, forse, quell'uomo non era più il tanto agognato sole dei primi giorni. Non era più l'eroico salvatore.

"Capisco come ti senti. Pensavo che magari, in due, riusciremo a sconfiggere la notte."

Non rispose. Ma cedette. 

Si disse che se non l'avrebbe fatto ora non sarebbe successo mai più, e che con lei anche le tenebre potevano trasformarsi in luce. 

Se Phoebus era il sole, lei era la luna. 

Gli fece spazio sul letto, decisamente troppo piccolo per starci in due. Ci stringeremo, pensò. Una parte di lei era curiosa di scoprire che corpo c'era sotto la tonaca. Si vergognò di quei pensieri, li ricacciò via quando sentì che l'arcidiacono faceva di tutto per evitare di sfiorarla, anche se impossibile, in uno spazio come quello. Sentì il suo petto contro la schiena, era vigoroso, nonostante l'età avanzata, e la pervase anche l'odore, un odore di incenso, di prete e di uomo.

Quella notte Esmeralda non sognò Phoebus, e Claude non sognò il suo dio che lo giudicava.

Dormirono, dormirono soltanto, abbracciati. 

Lasciarono la porta aperta, e Quasimodo, quella notte, che era sceso dalla sua stanza per vedere le stelle, si fermò un attimo a guardarli. 

Pensò che dovesse essere così che gli uomini si giurassero amore eterno per la vita.


 

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Capitolo 4
*** 4 ***


Il mattino dopo, furono i raggi di luce dell'alba a svegliarla. 

Claude non c'era, e la porta era aperta. Sentiva la sua voce soffusa provenire dalla cattedrale. 

Le mura erano spesse, ma al mattino c'era un silenzio irreale a Notre Dame, come se la gente evitasse di fare rumore, a rispettare la sua sacralità.

Si alzò, si rivestì e un pensiero passò per la sua mente: se scendessi?

Voleva scoprire di più di quell'uomo. Cosa faceva durante la giornata? Come viveva? Era felice?

Controllò che Quasimodo non fosse in giro – l'avrebbe sicuramente costretta a tornare indietro. 

Scese i gradini che la separavano dalla verità. 

Sul sagrato di Notre Dame c'erano due persone – un uomo, vestito di nero, e una donna, bionda.

"Padre, devo confessarle una cosa, urgentemente! Manca poco al matrimonio, e non posso vivere senza aver espiato tutti i miei peccati."

"Venga dentro, Fleur-De-Lys." 

Si sedettero su una delle panche della chiesa. Frollo si tolse il cappuccio. 

"Dimmi tutto, cara."

"Vede padre... ecco, non so come dirglielo. Non so nemmeno se sia adatto a sentire questo genere di cose ma...ho tradito Phoebus."

Il lettore si starà chiedendo se Esmeralda fosse già lì in quel momento. 

C'era, era nascosta dietro l'altare. Aveva sentito tutto. Ebbe un sussulto. 

Quindi il suo Phoebus mentiva, le aveva sempre mentito. Lei non era l'unica donna della sua vita, l'unico amore. Che ingenua sono stata, pensò. Volle capirci di più.

"Fleur-De-Lys, sono sicuro che Phoebus ti ama e ti perdonerà sicuramente. Se non lo farà, ci parlerò io stesso. Il matrimonio è tra pochi giorni ormai, non si può più tornare indietro."

Matrimonio? Phoebus si doveva sposare? Che vile, sporco traditore!

Non che la sua lei fosse migliore di certo.

"Padre...non è solo questo. Da questa relazione...insomma, aspetto un bambino."

L'arcidiacono sgranò gli occhi, cercando di mantenersi impassibile. Lui era ciò che era, ma nemmeno lei scherzava. Due anime gemelle.

"Allora, in questo caso, sarà meglio che tu non dica niente. Lo so, non è giusto, ma è a fin di bene. Verrà a saperlo dopo il matrimonio. Se lo dovesse scoprire ora, impazzirebbe."

E con quest'ultima frase si riferiva più a sé stesso che alla povera ragazza.

"Grazie padre, grazie per il suo appoggio. Pensavo avrebbe reagito male, dicendomi che è peccato e che non sono più serva di Dio... quasi non la riconosco."

"Le persone possono cambiare...e poi è meglio così, Fleur-De-Lys." 

La ragazza spostò lo sguardo dagli occhi del prete e vide due occhi, seminascosti nella penombra, carichi di disprezzo. Era la Esmeralda che si alzava per andarsene, convinta di non essere vista. 

Quella donna era amante del suo Phoebus! Un uomo così bello, per giunta, e osava tradirlo! Erano entrambi due sporchi traditori. 

Fleur-De-Lys la vide. E non disse nulla. 

In realtà di primo acchito non la riconobbe, ma si ricordò che il suo Phoebus di recente parlava di una certa zingara, scappata dalla forca, che gli aveva fatto del male, che doveva essere ritrovata e condannata. Voleva vendetta, Phoebus. E lei glielo avrebbe riferito. Avrebbe fatto di tutto per lui.

Quando Claude tornò nello studio per controllare se Esmeralda si fosse svegliata, la trovò in lacrime. 

"Avevi ragione." Gli disse, singhiozzando.

Dapprima l'arcidiacono non capì: di cosa stava parlando la piccola? Poi rifletté, e risolse l'enigma. C'era solo una persona per cui Esmeralda poteva piangere in quel modo. 

E quella persona non era lui.

"Cosa hai fatto? Ti avevo detto di restare quassù, poteva vederti! Tu non sai chi è lei..."

"So tutto, invece. Mi ha ingannato."

"Hai sentito..."

Lei annuì, incapace di proferire parola. 

Claude provò pietà per quella ragazzina; così indifesa, così debole. Si avvicinò a lei, la abbracciò.

Appoggiata al petto del prete, la piccola gitana non provava più paura.

Fu Claude a interrompere il silenzio che era sceso tra loro.

"Speriamo non sia figlio di Dio, altrimenti come glielo spiega alla canaglia che è venuto l'arcangelo?" e rise per la sua stessa battuta.

Esmeralda rise con lui, prima piano, poi esplose in una risata sonora.

Claude era interdetto. Non pensava l'avrebbe capita. 

"Come..."

"Ho letto quel libro che era sul tavolo, il Vangelo...per fare pratica. Non capisco tutto, ma mi piace. È come un romanzo di avventure."

Claude sorrise, le accarezzò i capelli. E lei pensò che fosse più bello quando sorrideva. 

"Ora devo andare. Passo a trovarti dopo, ok?" 

Prese le sue cose, si diresse verso la porta. 

"Claude?"

Si girò. Sentì che, in fondo, voleva restare con lei. Al diavolo, le messe da celebrare.

"Cosa vuol dire ANARKH? C'è scritto lì." E indicò un'incisione sul muro di pietra.

Un tremito lo pervase lungo la schiena. Avrebbe voluto raccontarle tutto. Ma non era il momento.

"Stasera te lo dico."

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Capitolo 5
*** 5 ***


Era una calda sera primaverile. Le stelle pullulavano nel cielo, e preannunciavano che di lì a poco sarebbe arrivata l'estate. 

Claude era tornato, come faceva ogni sera, con un paniere di cibo per tutti. Mangiavano loro tre, lei, lui e Quasimodo. Poi il gobbo si ritirava nelle sue stanze. Non capivano se lo faceva per farli stare soli o perché amava più le campane degli uomini. 

L'arcidiacono accese una candela, la poggiò sul comodino, per fare un po' più di luce in quella stanza buia. Si sedette sul letto. Era pronto. Voleva mostrarsi a lei per quello che era. 

"Mi hai chiesto cosa vuol dire quella parola. È greco, significa Fatalità. Non so come la pensi tu, ma io credo che per ognuno di noi ci sia un destino predestinato, e non possiamo fare nulla per cambiarlo. In un certo senso, c'è qualcuno che disegna la nostra vita per noi. 

O almeno lo credevo. 

Sono cresciuto poco lontano da qui, appena fuori Parigi. Mio padre – quella buonanima – decise che dovevo farmi prete. Non potevo oppormi. Dovevo farlo e basta. 

Vedevo i miei coetanei farsi una vita, divertirsi, mentre io venni mandato in collegio, a stare chino sui libri. Mi parlavano dei piaceri della vita, e io non li avevo mai sperimentati. Non che provassi invidia, almeno i primi tempi. Mi sentivo superiore rispetto a loro, io sapevo. Loro no. 

Però mio padre era anche un uomo severo, e nonostante studiassi più che potevo, a lui non andava mai bene. Dovevo sempre fare di più. E questo mi rattristava. Non volevo diventare insensibile come lui. Decisi quindi di adottare Quasimodo: l'ho trovato sul sagrato, qui a Notre Dame. Nessuno lo voleva. L'ho preso con me con l'intenzione di dargli tutto l'amore che gli era stato negato.

Mio padre e mia madre sono morti, in seguito, a causa della peste. E ho scoperto di avere un fratello."

"Hai un fratello?" 

Quante cose non sapeva di lui, Esmeralda.

"Si chiama Jean.

Quando l'ho preso con me aveva appena un anno. Non sapendo che fare, l'ho mandato dalle suore, perché lo curassero. Volevo diventasse come me, studioso, buono, e devoto. Ma è diventato il contrario. E io non l'ho mai accettato, capisci? Mi ero trasformato in mio padre. Quindi l'ho lasciato vivere la sua vita immonda, senza dirgli nulla. Ogni tanto viene da me a chiedermi soldi. 

Non sono contento di quello che è diventato. E questa è la prima crepa della mia vita." 

Inghiottì la sua saliva. Ora le doveva raccontare la parte più difficile.

"Al collegio mi hanno insegnato i comandamenti, delle regole nella dottrina cristiana, che non devono essere mai trasgrediti – altrimenti finisci all'inferno, che è un luogo circondato dalle fiamme dove sconti un'eterna punizione se non li rispetti – e io quando ti ho vista ballare ho capito. Non esiste nessuna fatalità. Ho sentito che quelle regole sacre non le avrei mai più rispettate, perché ti amavo. E per un prete, che ha giurato di amare solo Dio, questo è il peccato più crudele.

Non dovrei toccare nessuna donna, capisci? Né tantomeno desiderarla – perché sì, ti ho desiderato, e non te lo nascondo – volevo averti anche solo per un minuto, sentirmi un vero uomo, liberarmi da questa costrizione e gridare al mondo che non ero così come tutti vedevano, ma ero un mostro...sono solo un mostro..."

Non ce la fece più. Abbandonò la sua corazza da uomo forte e pianse – davanti a lei, per giunta. Cosa stava facendo? Non doveva mostrarsi debole.

Lei d'istinto lo raggiunse e l'abbracciò, lo strinse come lui aveva fatto quella mattina – e dentro di sé aveva capito tutto. No, Claude non era un mostro, non lo era, il mostro era il sole, e il prete era la luna. 

Phoebus voleva solo averla, mentre Claude questo l'aveva solo pensato. La amava davvero, e aveva il coraggio di mostrarsi fragile.

Non era Phoebus l'uomo dei suoi sogni, il suo principe era quello che stava ora davanti a lei. 

Pensò a quanto coraggio aveva avuto quella sera al Val D'Amore. Non le aveva reso la vita un inferno; l'aveva salvata. Guardò quegli occhi lucidi, e si riconobbe. 

Gli prese il volto tra le mani, e senza esitare lo baciò sulle labbra. Attendevano da tanto quel bacio, lo capì. Sentì il cuore di lui battere più forte, così come il suo. Stavano rinascendo, insieme.

Si baciarono avidamente, Claude la strinse più a sé, si staccò da lei e la abbracciò. 

Mormorò un "grazie", convinto che lei non lo avesse sentito, ma lei lo aveva udito eccome. 

Sorrise, stretta tra le sue braccia.

Aveva trentasei anni, e lei era solo una bambina. Eppure, non si era mai sentito vivo come quella notte. Aveva avuto la conferma dell'inesistenza di un destino; sono le nostre scelte che condizionano una vita. 

Stavano lì, a baciarsi e guardarsi negli occhi, mentre una Parigi addormentata sorrideva a quell'amore appena sbocciato.

Senza dire nulla, Esmeralda lo spinse facendolo distendere e iniziò a sbottonare la sua tonaca. 

"Non devi, se non..."

Lei le poggiò l'indice sulle labbra, intimandogli di stare zitto. Sorrise. Rimase a petto nudo davanti a lei. Era così bello. Gli baciò il petto, poi si strinse a lui in un abbraccio, indagando quel suo corpo che era rimasto nascosto per tutto questo tempo. 

Si girò, indicò a Claude i lacci del corsetto, per chiedergli di slacciarli. Non fu come con Phoebus; quelle mani erano delicate e gentili, avevano quasi paura di farle male. Si sfilò la camicia, e l'arcidiacono ebbe un fremito. Era totalmente inesperto, cosa doveva fare davanti a tanta bellezza? In cuor suo sentì quello che doveva aver provato Adamo con Eva. Le accarezzò i fianchi, la guardò intenerito, e inizio a baciarla, prima sulle labbra, poi sul collo, e infine sui seni. 

Aveva agognato così tanto quel momento, che ora gli sembrava solo un sogno. 

Quella notte si scambiarono le vite. Diventarono moglie e marito davanti a Dio. 

Fecero l'amore, entrambi titubanti e casti, ma così puri. 

Si contorsero, si guardarono negli occhi più volte, si tolsero il fiato a furia di baciarsi, sincronizzarono i loro battiti e i loro respiri. 

Si persero nei loro sapori e nei loro odori; a Claude restò quello d'erba, di danza e di viaggio, a Esmeralda quello di incenso, di segretezza e fatalità. 

Quando i loro respiri si furono regolarizzati e i loro istinti placati, Esmeralda poggiò la testa sul petto di Claude, e lui pianse in silenzio. Erano lacrime di gioia, si sentiva il cuore talmente pieno, pensava che non se lo meritasse, tutto quello. 

Esmeralda sentì una lacrima bagnarle il viso, gli chiese a che pensasse.

Penso che questa notte con te sono sceso nell'Inferno, ma allo stesso tempo ho varcato le porte del Paradiso.

"Ti amo, Claude."

E con quelle parole così soavi chiuse gli occhi.

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Capitolo 6
*** 6 ***


Claude si svegliò osservando Esmeralda dormire. Le accarezzò il corpo, quel suo corpo così soave che aveva voluto concedersi a lui. Le sorrise. Si chiese cosa stesse sognando. 

Quelle carezze fecero svegliare la ragazza, che osservando l'uomo, non poté fare a meno di stampargli un bacio prima sul petto, poi sulle labbra.

Lui le prese una ciocca di capelli tra le dita e iniziò a giocherellarci, sorridendo tra sé. 

"Buongiorno piccola."

"Buongiorno a te dolce prete."

Risero. Sembrava si fosse fermato il tempo solo per loro, in quella mattina primaverile a Parigi.

All'improvviso, sentirono dei colpi alla porta, che Claude aveva avuto l'accortezza di chiudere a chiave. Era Quasimodo. 

"Padrone, aprite! C'è qui il cavaliere Phoebus che vuole parlarvi." 

Quasimodo non sapeva che i due erano assieme – o forse sì, e non voleva fare saltare la copertura. Bravo Quasimodo, pensò l'arcidiacono. 

Si rivestì in fretta, e sussurrò ad Esmeralda: 

"Vestiti e nasconditi in quell'angolo, dove non ti può vedere. Aprirò la porta e lo condurrò giù. Appena vedrai via libera, scappa. Va' a Rue Tirechiappe, c'è la casa dei miei genitori. Nessuno saprà che sei lì."

Si accertò che Esmeralda fosse ben nascosta, e andò ad aprire. Sentiva le bestemmie del capitano crepitare da fuori, e la voce di Quasimodo che lo intimava ad avere pazienza.

Aprì. Si trovò davanti il biondo ufficiale, con quattro uomini della scorta. Era così scintillante nella sua armatura da dargli sui nervi. Lo sposerò, e poi non se ne parlerà più, pensò.

"Buongiorno, don Claude."

"È qui per il matrimonio?"

"Non solo. Mi sono giunte voci...sulla gitana, ricorda? Quella che è sparita. Dicono sia nascosta qui."

"Non so di cosa state parlando, io non l'ho più vista quella ragazzina."

Phoebus gli si avvicinò. Il suo viso era a pochi centimetri dal suo. Poteva sentine l'alito.

"Riconosco – sussurrò minaccioso – l'odore di certe cose, quando lo sento. Sono...familiare."

Già, lurido traditore. Chissà quante ne paghi al giorno perché ti soddisfino, pensò. Ma non lo disse.

Tacque. E il silenzio può essere rivelatorio, a volte. 

Phoebus sguainò la spada, gliela puntò al collo e lo fece indietreggiare. Era finita. 

"Phoebus, ti prego! Fermati! So che c'è del buono in te..."

Esmeralda era sgusciata fuori dal suo nascondiglio, allarmata.

Finito, tutto finito, pensò Claude.

Phoebus sghignazzò abbassando la spada, poi si voltò verso i suoi quattro scagnozzi. 

"Voi" ordinò "portate Quasimodo di sopra, e non lasciatelo scappare. Mi raccomando."

I quattro tirarono fuori le armi e presero il gobbo come da ordini. Erano quattro contro uno, non poteva scappare. Si lasciò portare.

"Che allegro quadretto. La gitana e il prete. Chi l'avrebbe mai detto." 

Girava per la stanzetta, osservando prima loro, poi il letto disfatto. 

C'erano le prove, lì, di quello che era successo. Non potevano giustificarsi in alcun modo.

Si rivolse a Claude.

"Non me lo sarei mai aspettato da lei, don Claude. Davvero vomitevole. Mi fa ribrezzo solo a pensarlo. Con una ragazzina poi!"

"Non sai di cosa stai parlando, Phoebus."

Il capitano rise. "La tua bella ha ragione. Non sono malvagio. Posso proporvi un accordo."

"Che tipo di accordo?"

"Beh, in cambio del mio silenzio sulla condanna di Similar..."

"Si chiama Esmeralda."

"Esmeralda... vorrei terminare ciò che ho iniziato al Val D'Amore."

"Mai!"

Lei si intromise.

"Claude...devi salvare anche Claude."

"Cos'è, lo chiami per nome adesso? Che idiozie da ragazzina!"

"O anche Claude o niente."

La guardò negli occhi con lo sguardo di chi seduce, solo per puri fini meschini. Annuì.

"C'è una cosa che forse non sai del tuo Claude. Quella notte non è entrato dalla porta. Era nascosto dentro l'armadio. Ci spiava."

"Claude...è vero?"

L'arcidiacono tacque. Era vero. Ma all'epoca la sua era pura ossessione, brama di un uomo colto dalle sue infuocate passioni. 

"Quindi...per fare le cose a regola d'arte...dovrebbe esserci anche lui, guardare. O mi sbaglio?"

Tacquero.

Phoebus prese una corda, legò Claude alla sedia e lo lasciò lì. Lui taceva, fissava il muro. Esmeralda non avrebbe dovuto – ma era come lui, avrebbe dato la vita pur di saperlo vivo. Non credeva che Phoebus riuscisse a mantenere la parola, ma in fondo ci sperava. 

Lo osservò mentre bloccava lei ai polsi, avvinghiandola a sé e strappandole i vestiti. 

Si sarebbe accecato col fuoco piuttosto di vedere quello scempio. Quell'uomo era un animale e non poteva, non doveva nemmeno sfiorare la sua Esmeralda. 

D'improvviso, si ricordò. Il pugnale. Ce l'aveva ancora, ben saldo alla cintura. Allungando la mano lo prese, lo usò per librarsi le mani, e di sottecchi si avvicinò al capitano. Gli puntò la lama al collo, fece per stringerlo a sé. 

Poi fu un attimo. 

Phoebus aveva previsto il colpo, d'altronde era tutta una storia che si ripeteva, si era girato di scatto, aveva disarmato l'arcidiacono e le parti si erano rivoltate. Caino era diventato Abele.

Fu un attimo. 

Esmeralda gridò, l'immagine del suo Claude grondante di sangue davanti agli occhi. 

Le pupille di Phoebus scintillavano. Era soddisfatto. Gioiva nell'uccidere.

Si girò verso la ragazza mezza svestita per concludere ciò che aveva iniziato, ma non fece in tempo a voltarsi che nella stanzetta entrò Quasimodo. Lo prese di peso, e lo scaraventò giù dalla cattedrale. Aveva fatto così con gli altri quattro. Era preoccupato per il suo maestro, ma lasciò andare avanti lei. Era giusto così.

Un colpo alla carotide. Deciso e spietato.

Non c'era verso, non ci sarebbe stato verso di salvarlo. 

Si vedeva che Claude soffriva, mentre il sangue usciva rosso a fiotti, ma lui cercava di sorridere, farsi forza per Esmeralda. 

"Claude..."

"Non ti preoccupare. Doveva andare così. È la fatalità."

Piangeva, Esmeralda. I suoi occhi di bambina diventati di donna erano mesti, tristi.

"Vedi quel cassetto a lato della scrivania? Aprilo. C'è una cosa per te."

Le dispiaceva lasciare lì il suo amato, ma fece come lui gli aveva detto. Trovò una lettera. Era chiusa, e c'era scritto un nome. Il suo.

"Claude..." Non sapeva cosa dire. "Grazie."

"Voglio solo che tu sappia che questi giorni con te mi hanno fatto sentire vivo e me stesso come non mai."

Lei si chinò su di lui per baciarlo.

Spirò, col sorriso sulle labbra.

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Capitolo 7
*** 7 ***


Mia cara Esmeralda. 

Se stai leggendo questa lettera, è perché mi è accaduto qualcosa, o ci è accaduto qualcosa. 

Ti scrivo dal passato, più precisamente da una notte di luna piena. 

Mi hai chiesto di dormire insieme a te, stanotte. Mi sono alzato per scriverlo, e convincermi che non è tutto un sogno. 

Non è successo nulla tra noi. E a me va bene così. 

C'è stato un periodo in cui agognavo possederti, averti, sentirti – ma stare vicino a te mi ha cambiato. Non mi interessa soddisfare un piacere, essere un uomo comune, mi basta la tua presenza. 

Mi basta stare accanto a te, guardarti mentre dormi (hai indovinato, l'ho fatto molte volte, e ti chiedo scusa) e osservarti mentre sorridi. 

La prima volta che ti ho vista ballavi davanti a Notre Dame. Ti ho osservato, randagio, dalla finestrella di questa stanza. Ti giuro che non ho mai visto danza più bella in vita mia. Mi raccomando, continua a ballare e ad incantare la gente con i tuoi passi.

La tua capretta, Djali, eri preoccupata per lei. Non te l'ho mai detto. L'ho salvata. L'ho data a Gringoire. Sta alla Corte dei Miracoli con lui, se mai la vorrai rivedere. 

Mi dispiace di averti condannato a questa vita, segregata, chiusa, infelice. È risaputo che gli zingari non vivono bene rinchiusi tra quattro mura. So che in fondo al tuo cuore mi perdonerai. 

Se lo vorrai potrai tornare tra gli zingari, alla Corte, quando io... non ci sarò.

Non so se consigliartelo, perché se non ci sarò vorrà dire che ci avranno scoperti, e sai bene che le voci corrono a Parigi. 

Il mio consiglio è di andare a Rue Tirechiappe, nella vecchia casa dei miei genitori. Probabilmente ci troverai Jean, mio fratello. È un bravo ragazzo, in fondo. Pieno di conquiste, non so se ti ricorda qualcuno... in ogni caso, non spaventarti, penso che ormai tu sappia riconoscere le persone buone. Lui è una di quelle. Ha un buon cuore, anche se non lo dà a vedere. 

Spostati lì per un periodo, poi, se vorrai, alla Corte ci sono Clopin e Gringoire ad aspettarti.

L'ultima cosa che ti voglio dire, cara gitana, è che non ho visto mai, donna più forte di te. 

Hai letto bene, donna. Sei una grande, fortissima giovane donna, non più una bambina. 

L'ho visto nei tuoi occhi.

Ritorno a dormire accanto a te, sperando con tutto il cuore che non dovrai mai leggere questa lettera.

Ci rivedremo nell'altro mondo, sarò lì ad aspettarti. 

Con tutto l'affetto del mondo

Tuo Claude

 

 

Oltre i baci da respirare
Nella morte che dà la vita
All'amore che mai non muore

 

Balla, mia Esmeralda 
Canta, mia Esmeralda 
Con te io vivrò, con te 
Perché con te non è 
Morire

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Capitolo 8
*** epilogo ***


Esmeralda continuò a ballare per tutta la sua vita. Non importa se la folla fosse grande, piccola, o numerosa: i suoi occhi vedevano sempre, tra di essa, un uomo vestito di nero che la guardava. Ovviamente era una sua immaginazione, ma ci piace pensarla come persona reale.

Non si spostò mai dalla casa natia di Claude. Una volta entrata, trovò un ragazzo che doveva avere la sua età intento ad amoreggiare con la sua amata.

Era Jean. Si capirono al volo, i due.

Scoprì poi, con l'aiuto di quest'ultimo (o meglio, della sua fidanzata, Isabelle) di essere incinta. Non sapeva cosa volesse dire, ma le dissero che era una cosa bella. 

Un raggio di luce nella sua vita fu portato da Claude, suo figlio. Era identico al padre.

Decise, di sua spontanea volontà, di prendere i voti. Ogni tanto la passava a trovare, e le raccontava sempre una cosa nuova. Un giorno le portò una notizia che la stupì: si era scoperto un nuovo continente, dall'altra parte del mondo. Si chiamava America.

Quasimodo continuò a vivere all'interno di Notre Dame. 

Non vide mai il mondo, visse solo per le sue campane.

Quando seppe che Esmeralda era venuta a mancare, andò fino al suo letto di morte e si distese accanto a lei, proprio come aveva visto fare il suo padrone tanti anni prima, e si lasciò morire.

Era il suo modo di dirle grazie.

Del resto, caro lettore, non ci è dato sapere.

 

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