A&A: Strane Indagini – “ROSA CAMUNA”

di Orso Scrive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***
Capitolo 4: *** 3. ***
Capitolo 5: *** 4. ***
Capitolo 6: *** 5. ***
Capitolo 7: *** 6. ***
Capitolo 8: *** 7. ***
Capitolo 9: *** 8. ***
Capitolo 10: *** 9. ***
Capitolo 11: *** 10. ***
Capitolo 12: *** 11. ***
Capitolo 13: *** 12. ***
Capitolo 14: *** 13. ***
Capitolo 15: *** 14. ***
Capitolo 16: *** 15. ***
Capitolo 17: *** 16. ***
Capitolo 18: *** 17. ***
Capitolo 19: *** 18. ***
Capitolo 20: *** 19. ***
Capitolo 21: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

 

La penombra colorata di mille luci rendeva vaga la forma della creatura. Più un’idea che una sagoma precisa, come un sogno dalle fattezze concrete, o una sagoma concreta in forma di sogno.

Difficile stabilirlo.

I suoi occhi, ricolmi della saggezza di uno spirito antico, accesi dalla scintilla di una consapevolezza superiore ma che ancora era capace di stupirsi dinanzi alla meraviglia sconfinata del Tutto, fissavano attraverso la grande parete trasparente.

Il buio intergalattico attorno. Lo sfavillio incessante degli astri luminosi. Il balenare di raggi cosmici. Ciascuna di quelle luci era una meta precisa, un luogo conosciuto o ancora da scoprire. L’infinito e, oltre l’infinito, altro infinito: un concetto che soltanto la mente della creatura era in grado di concepire.

Il satellite grigio e bianco ruotava placido attorno al suo pianeta, verde e blu. Un luogo meraviglioso, una gemma incastonata nel nero risplendente dell’eternità, illuminata dai raggi caldi e benevoli della sua stella.

Lo sguardo senza tempo della creatura – Vrillon, rappresentante del Comando Galattico di Ashtar: questi erano il nome e il titolo con cui era solito presentarsi a chi, non avendo ancora acquisito la completa contezza di essere parte di qualcosa di superiore, di un insieme maggiore, aveva la necessità di conferirgli un’identità, una forma, una verità accettabile – si posò sul pianeta blu e verde.

Lo ammirò in silenzio, in attesa.

Laggiù esisteva il tempo. Quel tempo che per Vrillon non aveva significato, era il regolatore delle esistenze degli abitanti del pianeta. Ciò dava alla sua mente indefinitamente ampia una cognizione in più: ciò che stava guardando, sarebbe cambiato. Un mutamento lungo e lento per chi era laggiù, del tutto istantaneo per lui, passato come futuro, sospeso nel suo eterno presente.

Vide quello che sarebbe stato.

Distruzioni, devastazioni. Annientamenti di ogni sorta. La purezza avrebbe abbandonato quelle menti. Avrebbero cercato in un progresso sfrenato ciò che i loro cuori avrebbero rifiutato di trarre dall’armonia del creato. Avrebbero condannato la loro culla alla miseria, avrebbero trattato la loro madre non come un ventre amorevole da onorare, bensì come una miniera da cui trarre un inutile potere, un profitto condannato da se stesso a non servire a nulla. Si sarebbero odiati e avrebbero scatenato un’insana follia che li avrebbe contrapposti gli uni agli altri, senza che si rendessero conto che questo li avrebbe soltanto condannati all’annientamento. Oppure, rendendosene conto ma senza curarsi di ciò che sarebbe stato di tutti loro e dell’unico luogo in cui potevano esistere.

Ma la purezza era in loro, ancora. Ancora non erano stati corrotti dalla bramosia e dalla concupiscenza di vane ricchezze inservibili. Vivevano ancora in comunione con la natura di cui erano parte integrante. Non era tardi.

Vrillon avrebbe condotto loro il suo messaggio di pace. Lo avrebbe fatto nel suo presente, quell’eterno presente che erano le diverse epoche di coloro che abitavano laggiù.

Se lo avessero accolto, sarebbe stato un monito e un augurio benevole per le future generazioni che avrebbero ammirato il pianeta blu e verde, la gemma incastonata nel cosmo oscuro.

 

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Capitolo 2
*** 1. ***


1.

 

 

Val Camonica, provincia di Brescia, settembre 2021

 

 

«Non capisco perché ci siamo dovuti portare anche i due agenti», sbottò il sottotenente Aurora Bresciani, guardando di sbieco i due uomini in divisa che procedevano a qualche metro di distanza dietro di loro. Da come sbuffavano e arrancavano, non sembravano molto abituati a camminare in montagna. «Bastavo io da sola, per occuparmi di chi ha combinato questo scempio.»

Anche il tenente Alberto Manfredi gettò un breve sguardo ai due agenti. Erano attempati e con pance piuttosto prominenti, ma era il massimo che fosse riuscito a farsi prestare dalla stazione di Capo di Ponte. Tutti gli altri, erano già di pattuglia o impegnati con altri incarichi. Il suo sguardo scivolò dalla valle lungo la parete frastagliata della Concarena imponente e, da lì, si spostò per un breve istante sul didietro del sottotenente.

Sempre una bella visione, non poté fare a meno di pensare. Ma mica glielo dico. Sarebbe capace di uccidermi se solo sospettasse che le ho guardato il culo.

Di altezza media, magro, i capelli castani scompigliati e la barba che aveva urgente bisogno di una regolata, Manfredi indossava jeans, camicia a motivi scozzesi dai toni variegati e scarponi. In testa aveva un cappellino blu con la fiamma dorata dell’Arma dei Carabinieri. I suoi occhi erano nascosti dietro le lenti scure degli occhiali da sole a goccia.

«È proprio per evitare che fossi tu sola a occupartene, che ho voluto portarli», rispose il tenente. «Se becchiamo quei tipi, saresti capace di prenderli per le palle e strizzargliele fino a candidarli al coro delle voci bianche. E ti ricordo che torturare i sospettati è contro il regolamento.»

Aurora si voltò a guardarlo. Nei suoi occhi verdi, passò una strana scintilla. Sempre vestita di nero – dai jeans agli anfibi, fino alla maglietta, sul cui davanti, quel giorno, capeggiava il logo del gruppo musicale dei Lordi – svettava su tutti i presenti dall’alto del suo metro e ottanta, aumentato dalla suola spessa delle scarpe. Slanciata e robusta, pallida e con il viso spruzzato di lentiggini, era resa ancora più appariscente dalla cascata di capelli rossi che le scivolavano fin sotto le spalle.

«Non dire così, Manfredino. Sai bene che non lo farei mai», rispose.

Le sue labbra si allargarono in un sogghigno pericoloso.

«Sai bene che il solo che mi piaccia prendere per le palle sei tu», precisò. «Quei tizi li avrei semplicemente strapazzati un pochino, tutto qui.»

Manfredi sbuffò.

«Non so se esserne lusingato o prenderla come una minaccia», sottolineò.

Meglio non indagare troppo oltre, si disse.

Tenente e sottotenente facevano parte del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. Erano stati inviati in quella zona montana perché, da qualche settimana, alcuni vandali avevano preso l’abitudine di deturpare con bombolette e pennarelli alcuni dei graffiti rupestri che il popolo dei Camuni aveva lasciato in eredità ai posteri. Gli esperti, per fortuna, avevano assicurato che il danno non sarebbe stato irreversibile e che, con qualche restauro, tutto sarebbe tornato come prima. Ma questa non era una scusante: i vandali andavano identificati e arrestati. Anche perché, a qualcuno, bisogna pur presentare il conto – salato – dei restauri.

Tanto diranno che sono nullatenenti o robe così, pensò Manfredi. Alla fine, non tireranno fuori nemmeno mezza lira.

Continuarono a camminare.

L’aria fresca della montagna, che l’imminenza dell’autunno aveva mitigato e profumato di umidità, era un vero toccasana, dopo la canicola che aveva oppresso i mesi precedenti. Un’estate torrida. Alberto sperò con tutto il cuore che, quella dell’anno successivo, sarebbe stata meno invivibile di quella appena trascorsa. In cuor suo, nutriva profondi dubbi.

Di anno in anno, andava sempre peggio.

Sembra di stare ai tropici, in estate. Con la sola differenza che qui non ci sono spiagge di sabbia finissima, palme, acqua cristallina e belle ragazze abbronzatissime e con le tette di fuori.

Lui, al massimo, durante le ferie di agosto poteva concedersi la sponda del Po, all’ombra di un qualche pioppo che non allontanava per nulla l’afa e le zanzare. Ogni tanto si domandava chi mai glielo facesse fare, di continuare ad abitare in mezzo alla Pianura Padana, anziché scapparsene al Tropico del Capricorno o da quelle parti lì. Non era ancora riuscito a darsi una risposta precisa.

Il terreno era ripido, cosparso di erbe verdi e fruscianti. Qua e là, spuntavano delicati fiorellini bianchi, violetti oppure gialli, che occhieggiavano in mezzo agli steli. La zona in cui erano stati vandalizzati i graffiti rupestri si trovava un poco più in alto, nei pressi dei contrafforti rocciosi della montagna. Per raggiungerlo, avrebbero dovuto imboccare un sentiero che si trovava più avanti e che si inerpicava in mezzo a una foresta di castagni.

«E comunque», riprese Alberto, dopo che ebbero proceduto in silenzio per qualche minuto, «non credere che non sia meno incazzato di te. Uno dei graffiti che hanno preso di mira…»

«…è stato scoperto dal tuo vecchio professore di liceo, sì», concluse Aurora al suo posto. «Me l’hai già detto e ripetuto non so quante volte, tenente. Ormai, questa “parete Lancellotti” è diventata la mia ossessione. Giuro che se becco quei tizi mentre la sporcano, gli strappo le budella e gliele faccio mangiare! E sai che non parlo mai in senso figurato.»

Manfredi grugnì. Si voltò di nuovo verso i due agenti che, a quell’uscita, si erano scambiati una breve occhiata ricolma di incertezza.

«Ovviamente scherza», li rassicurò.

Non fu certo di essere riuscito ad apparire sincero. Sapeva più che bene che Aurora faceva uno strano effetto su chiunque la incontrasse. A prima vista, il sottotenente Bresciani poteva attrarre l’attenzione, con il suo aspetto elfico da donna nordica. Ma le bastavano poche parole e ancor meno gesti, perché chiunque avvertisse la necessità di girarle al largo. Emanava qualcosa di pericoloso, da tutto il suo essere. Sembrava nata per disprezzare il mondo intero. E, di conseguenza, il mondo intero disprezzava lei.

Il solo capace di starle vicino era proprio lui, Alberto.

Anzi.

A essere sincero, Manfredi non sarebbe mai riuscito a stare troppo a lungo lontano da lei. Senza Aurora si sentiva perduto, come se gli mancasse una parte di se stesso. Quelli che per gli altri erano difetti profondi, per Alberto Manfredi erano qualcosa di unico e di speciale, che gli permettevano di riconoscere all’istante la sua grande amica.

Alberto era certo che, senza Aurora, non sarebbe mai riuscito a combinare nulla.

Erano cresciuti insieme, erano diventati carabinieri insieme. Insieme erano entrati a far parte del Nucleo Tutela del Patrimonio, contro il parere del padre di Aurora – il maggiore Bresciani – che, per la figlia, avrebbe sognato un ruolo nel RIS. Invece lei, come lui, nascondeva la vocazione a custodire e a proteggere quanto di bello e di prezioso gli antenati avevano lasciato in eredità Così, il loro cammino era stato segnato.

Erano sempre stati insieme, nei momenti belli e nei momenti brutti. Si tenevano su a vicenda, in un certo senso.

E anche adesso erano insieme, a risalire quel versante erboso, alla ricerca di vandali che non avevano nessun rispetto per un patrimonio appartenente al mondo intero.

Questa cosa mi fa girare i coglioni in una maniera che non so dire, pensò Alberto.

Gli erano sempre piaciuti i graffiti che gli artisti di strada creavano su vecchi muri scrostati, su anonime pareti di cemento, sulle cabine dell’Enel e su altri esempi di quello che lui era solito chiamare “post-realismo decadente”. Trovava che dessero un tocco di colore e di spensieratezza in città altrimenti condannate a un grigio anonimato. Erano vere e proprie opere d’arte, da preservare alla pari delle loro controparti considerate maggiori. Ma che qualcuno si arrogasse il diritto di rovinare monumenti o altri lasciti del passato – per di più, con sciocchi scarabocchi, giusto per poter dire “di qui sono passato io” – era qualcosa che gli faceva fremere le dita dalla voglia di mettersi a menare le mani.

Sono in completa sintonia con Aurora, quando vorrebbe compiere stragi e ridurre la gente in poltiglia.

Ma era un Carabiniere. Aveva giurato. Aveva un dovere e degli obblighi. E uno di questi era che i vandali o i delinquenti di qualsiasi risma venissero arrestati con tutte le garanzie che non accadesse loro nulla di male. Poi sarebbe spettato al magistrato di turno decidere che cosa farne.

Nella maggior parte dei casi, in meno di ventiquattro ore il delinquente sarebbe tornato in libertà. Così funzionavano le cose in Italia.

«Bah», sbottò.

Aurora si girò di nuovo a guardarlo.

«Non prendertela, Manfredino, perché farsi venire il sangue velenoso non salverà il mondo e non cambierà le cose.»

Come al solito, lei sembrava essere in grado di leggergli nella mente. Una capacità su cui il tenente Manfredi non aveva mai voluto indagare troppo. In un qualche modo, era certo che la sua amica possedesse strane facoltà medianiche.

Non aveva ancora deciso se la cosa gli facesse paura o lo rincuorasse.

«Non me la prendo, figurati», replicò. «Vivo in una specie di nirvana, sai? Il mondo intero non mi sfiora nemmeno.»

«Anche perché, se soltanto osasse farlo, poi dovrebbe vedersela con me», rimarcò lei.

Entrambi sorrisero.

Continuarono a camminare, Aurora in testa, Manfredi dietro di lei e i due agenti in coda.

La Concarena e il Pizzo Badile li vigilarono in silenzio.

 

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Capitolo 3
*** 2. ***


2.

 

 

Valli Alpine, alla fine dell’ultima Era Glaciale

 

 

Il fiume, placido come l’olio, scorreva attraverso la verde vallata, coronata dai picchi ricoperti di ghiacci. Lastre di un blu intenso che si scontravano con la roccia grigia e frastagliata, lambita alla base dalle sterminate foreste in cui vivevano orsi giganteschi, lupi affamati, cervi lanosi e innumerevoli altri animali selvaggi e indomabili.

Seduto sopra una grossa pietra, i piedi nudi affondati tra le foglie gialle e gli aghi di cui era cosparso il suolo, Gerg stringeva tra le mani il piccolo scalpello di metallo con cui aveva appena terminato di incidere la roccia. Le sue mani abili ed esperte avevano dato forma a un mammifero con un grande palco di corna sulla testa che fuggiva da un gruppo di cacciatori armati di lance. Un’immagine propiziatoria, un augurio per una buona caccia. L’ennesimo e duro inverno si stava annunciando con le prime folate di gelido vento che scivolavano dalle pareti dei monti, e una buona caccia sarebbe stato il solo modo per poterlo affrontare e avere qualche di speranza di sopravvivere fino alla primavera successiva.

L’odore della neve era nell’aria.

Bisognava fare presto; ma questo non significava dimenticare di procedere secondo l’ordine delle cose. C’erano dei ritmi da rispettare, dei rituali da non scordare. Sarebbe stato sciocco, comportarsi in modo differente.

La natura era viva. Bisognava confrontarsi con essa con il rispetto che richiedeva.

Gerg osservò il suo lavoro. Poteva dirsene più che soddisfatto. Il dio-cervo avrebbe accettato quel simulacro in cambio della vita di uno dei suoi figli. Un figlio sacrificato per permettere che la famiglia del cacciatore superasse i rigori della stagione gelida. Poi, in primavera, Gerg avrebbe ringraziato di nuovo il dio-cervo offrendogli le primizie della terra sulla lastra dei tributi.

Il giovane si alzò. La lunga casacca di pelle e di pelo gli ricadde sulle ginocchia ossute. Impugnò la lancia e si accertò di avere con sé la faretra e l’arco. Armi di tasso, l’albero più nobile e più resistente. Infilò nella cintura lo strumento con cui aveva scalpellato la roccia e alzò gli occhi verso i boschi ombrosi.

Mettevano sgomento. Creature misteriose popolavano il buio fitto che si snodava sotto gli alberi imponenti, le cui radici affondavano in profondità nella terra. Le storie che i più vecchi cacciatori – uomini duri e coriacei, coperti di cicatrici, che avevano già visto il sole compiere per trenta volte il suo ciclo nel cielo, oltre il doppio delle volte che aveva potuto ammirarlo Gerg – narravano attorno al fuoco, parlavano di esseri informi e dagli occhi di brace che si annidavano in agguato nell’oscurità. I boschi non amavano essere disturbati.

Ma Gerg non poteva avere paura. Aveva la responsabilità dei suoi due figli piccoli, e di Ania, la sua compagna, nel cui ventre stava crescendo un’altra creatura. La sopravvivenza di quelle vite dipendeva da lui e da lui soltanto. Doveva affrontare il bosco, un’altra volta.

Con un sospiro, il giovane cacciatore cercò di mandare via ogni timore. Si appellò con lo spirito a Otzi, il dio guerriero e cacciatore che si diceva avesse la forma di una delle aquile che volteggiavano in alto, tra i contrafforti più inaccessibili. Il dio della caccia lo avrebbe accompagnato in quell’impresa.

Non era più il momento per esitare.

Gerg infilò ai piedi i suoi pesanti stivali di cuoio foderato di pelo e si avviò di buon passo lungo il crinale che conduceva in alto, verso i boschi ammantati di mistero.

 

* * *

 

La salita non fu semplice.

Farsi largo tra i rami contorti degli alberi si rivelò un’impresa complessa, resa ancora più difficile dal fitto sottobosco che era cresciuto rigoglioso. Rigagnoli celati dal fogliame scendevano a valle, inzuppandogli i piedi e appesantendo gli stivali. A ciascuno dei suoi passi, corrispondeva un fuggifuggi di serpenti, lucertole e piccoli animali come topi e scoiattoli.

Gerg si fermò più volte a osservare quegli animaletti. Per il suo arco sarebbero stati prede semplici da catturare. Ma ne sarebbe valsa la pena? Un coniglio, una lepre o alcuni piccoli ghiri avrebbero potuto sfamare la sua famiglia per un brevissimo lasso di tempo. No, non doveva lasciarsi indurre da quelle semplici tentazioni. Doveva puntare a qualcosa di molto più grosso, come un cervo o un daino: solo così lui e Ania avrebbero avuto a disposizione carne e grasso a sufficienza, da seccare e affumicare per poterli conservare insieme agli altri viveri. Pesce, verdure, frutta e granaglie non mancavano. Ma, senza la giusta quantità di carne, non sarebbero riusciti a sopravvivere.

Era una verità a cui non ci si poteva sottrarre.

«Vienimi in aiuto, dio-cervo, signore dei boschi», implorò Gerg, a bassa voce. «Non lasciare che la nostra vita termini tra i patimenti e i morsi della fama.»

Rabbrividì, mentre ripensava al terribile inverno precedente. Il gelo aveva stretto nella sua morsa fiumi e laghi. Persino le cascate si erano ghiacciate. La neve, caduta in abbondanza, aveva reso impossibile andare nei boschi. Al villaggio costruito su palafitte che formava la comunità di cui lui e Ania facevano parte, moltissimi vecchi e vecchie erano morti. Anche parecchi bambini erano stati uccisi dal freddo e dalla fama.

Il cacciatore aveva perduto un figlio. Invano lui e Ania lo tenuto stretto, dormendo abbracciati accanto al fuoco, avvolti in una grande pelle foderata di pelliccia, nelle interminabili notti. Una mattina il piccolo non aveva riaperto gli occhi. E lo strazio maggiore era stato quello di dover abbandonare il suo corpicino agli animali selvatici. Non era stato possibile scavare il terreno ghiacciato per onorarlo con una sepoltura.

Gerg aveva imparato tantissimo. Non avrebbe permesso che il terribile freddo vincesse ancora una volta contro la sua famiglia. Mentre Ania si era data da fare a cucire capi pesanti e a mettere insieme frutta e verdure di vario genere da conservare nei bacili di pietra e di legno, Gerg aveva fatto una grande scorta di legna. Non avrebbero patito il freddo. E aveva cacciato, ma in questo caso non era stato tanto fortunato: la carne messa insieme non era abbastanza per sfamare quattro bocche, che presto sarebbero diventate cinque, non appena Ania avesse partorito. Era consapevole di questa carenza.

Ecco perché intendeva darsi da fare.

Anche se il gelido vento di settentrione già faceva vorticare le prime foglie rossicce, il cacciatore stava sfidando ancora una volta il declivio boscoso. E non sarebbe tornato a casa fino a quando non avesse potuto caricare sulle spalle una preda grassa, che avrebbe assicurato la sopravvivenza alla sua famiglia.

Perso nei suoi pensieri, Gerg quasi non si accorse del movimento alla sua sinistra.

Uno scricchiolio richiamò la sua attenzione.

Sbirciò tra i cespugli e lo vide.

 

 

* * *

 

Era il cervo più grosso che si fosse mai veduto da quelle parti. Imponente e nobile. Maestoso. La grande gobba sul dorso gli conferiva un aspetto ancora più grosso, e l’immenso palco di corna doveva pesare da solo decine di chili.

Sembrava l’incarnazione stessa del dio-cervo.

L’animale era intento a brucare. D’improvviso, però, alzò lo sguardo e tese le orecchie. I suoi occhi astuti e intelligenti fissarono nel folto dei cespugli. Gli zoccoli batterono il terreno, traendone un suono cupo e profondo.

Gerg sapeva di avere una sola possibilità. Se avesse sbagliato a scagliare la lancia, la bestia sarebbe stata soltanto ferita. A quel punto, avrebbe potuto fuggire e, per lui, sarebbe stata una fatica immane riuscire a inseguirla. Se non fosse fuggito, il cervo lo avrebbe senza dubbio caricato. Con il suo peso, avrebbe di certo avuto ragione in brevissimi istanti del cacciatore.

Per un momento, il giovane rifletté se stesse facendo la scelta giusta. Ma quella era una montagna di carne e di grasso, ciò che avrebbe permesso alla sua famiglia di attraversare indenne il duro e lunghissimo inverno.

Ancora una volta, il suo spirito si appellò al dio-cervo.

E il dio-cervo rispose.

L’animale, anziché attaccare o fuggire, pur avendo fiutato il pericolo si mise a sedere in mezzo alla radura. Tese il collo, come se si stesse preparando ad accogliere la lancia che lo avrebbe trafitto.

Gerg scagliò con precisione la sua arma.

 

* * *

 

Il cacciatore cominciò a discendere a valle. Le cinghie della slitta che aveva costruito premevano sulle sue spalle, lacerando la pelle. Ma erano una fatica e un dolore facilmente sopportabili, perché significavano vita. L’animale esanime disteso sopra il legno e le frasche avrebbe assicurato nutrimento e sopravvivenza non soltanto per lui e per la sua famiglia, ma anche per un buon numero degli abitanti del villaggio.

Più di una volta, Gerg rischiò di mettere un piede in fallo sulla superficie disagevole e sdrucciolevole del declivio. Doveva fare attenzione e procedere con lentezza. Adesso che il dio-cervo era stato benevole con lui e che Otzi, il dio-cacciatore, aveva guidato con precisione la sua mano, non poteva permettersi di cadere vittima del dio-della-montagna, lo spirito benevolo ma al medesimo tempo infido, che concedeva doni facili e poi li riprendeva indietro senza nessun preavviso.

Giunto nei pressi di una radura, il giovane cacciatore decise di riposarsi. Ormai il sole declinava a occidente, e continuare a camminare nel buio sarebbe stata un’imprudenza che gli sarebbe potuta costare molto cara.

Per prima cosa, utilizzando alcuni bastoni abbastanza resistenti, scavò un piccolo avvallamento, in cui dispose diverse pietre. A fatica, vi trascinò la sua preda e ve l’adagiò dentro. La ricoprì con altre pietre, che raccolse tutto attorno. In questo modo, non gli sarebbe stata portata via da qualche animale selvatico.

Ma il rischio era ancora elevato. Gerg provvide a raccogliere parecchia legna, con cui alimentò vari fuochi che accese sfregando tra di loro le pietre focaie che portava sempre con sé, in una bisaccia.

Finalmente, sfinito, poté lasciarsi cadere seduto al suolo.

Era calata la notte. Le stelle riempirono la volta del cielo nero come un ammasso luminoso di punti sfavillanti. Un’immagine di una purezza indefinita. Per qualche ragione, Gerg si sentiva attratto da quella visione: da quando aveva memoria di sé, sapeva che contemplare le stelle gli aveva sempre donato emozioni e un inesplicabile senso di pace interiore.

Aveva fame.

Umettò le labbra e bevve alcuni sorsi da una borraccia di pelle che gli pendeva dalla cintura, e che aveva riempito a una delle tante fonti incontrate lungo il cammino. Represse il desiderio di staccare un pezzo di carne dal cervo per arrostirlo al calore del fuoco. Dalla sua bisaccia, trasse il poco che aveva portato con sé: alcune fave e un piccolo pezzo di formaggio, che Ania aveva ottenuto lasciando cagliare i rimasugli del latte in un recipiente.

Il cacciatore consumò in silenzio il suo magro pasto.

Pensava alla sua capanna, ai figli piccoli che, nella stagione successiva, lo avrebbero accompagnato nelle loro prime battute di caccia. Pensò alla sua compagna, nel cui ventre stava avvenendo per l’ennesima volta la magia della vita in formazione. Gerg e Ania erano sempre stati insieme; come per le stelle, lei gli dava un confortante senso di calore e di sicurezza. Dormire un’intera notte lontano da lei lo fece sentire piccolo e insicuro.

Avendole evocate, Gerg cercò con gli occhi le stelle.

Una in fila all’altra, disposte in cerchi, quadrati, triangoli e altre forme astruse, creavano disegni e ghirigori. Il cacciatore amava seguirne i disegni e, di volta in volta, inventare nuove immagini. Tante notti, soprattutto in estate, lui e Ania avevano trascorso così, volando con la mente tra gli spazi neri delimitati da quelle luci remote.

Ricordava un vecchio. Un uomo vecchissimo. Gli era stato detto che, quell’uomo, aveva generato il padre del padre di Gerg. Nessuno aveva vissuto quanto lui. I suoi capelli erano candidi come la neve dei monti, la barba bianca e fluente, il corpo raggrinzito e secco come il cuoio conciato. Siccome quel vecchio non poteva più andare a caccia, raccontava storie meravigliose. Gerg, ancora troppo piccolo per seguire suo padre nei boschi, adorava sedergli di fronte, ascoltandolo in silenzio, mentre gli occhi del vecchio percorrevano strade invisibili a chiunque tranne che a lui, e che conducevano in luoghi lontanissimi.

«Ogni stella», disse un giorno il vecchio, «è lo spirito di un nostro antenato. Sono le immagini riflessi dei grandi uomini che vennero prima di noi e che abitarono queste terre nelle epoche remote in cui gli eserciti del nord, spinti dal diluvio e dal fuoco, discesero le aspre vallate e si insediarono qui dove noi ora abitiamo. Per questo dobbiamo onorare ogni notte quegli spiriti con preghiere e offerte, perché essi veglino sempre su di noi e ci preservino dal dover provare gli stessi mali che loro provarono all’epoca delle grandi guerre antiche.»

Poi, lo sguardo del vecchio si focalizzò in quello del fanciullo. Era raro che accadesse. E più unico ancora fu che il vecchio gli rivolgesse direttamente la parola, anziché scrutare nel nulla, come suo solito.

«Tu ti chiami Gerg, come tuo padre e come suo padre prima di te. Anche io mi chiamo Gerg, e così si chiamavano mio padre e i miei antenati. Anche i tuoi figli porteranno questo nome. Ma tu, Gerg il giovane, avrai un privilegio che a nessuno di noi è mai toccato: le stelle scenderanno al tuo cospetto e, se saprai ascoltarle, ti parleranno.»

Quelle furono le ultime parole del vecchio. Subito dopo, reclinò il capo e spirò. Per seppellirlo, si radunarono uomini e donne da tutte le vallate, e le preghiere e le orazioni elevate in suo ricordo fecero tremare persino i picchi più lontani delle montagne.

Era trascorso un tempo indefinibile, da quel giorno. Gerg non era nemmeno certo di averlo vissuto davvero oppure di averlo soltanto sognato.

Eppure, adesso, quell’immagine e quelle parole, richiamate alla sua mente dalla contemplazione solitaria di quella fredda notte accesa della purezza dell’aria inverale, rivissero di fronte a lui come se le avesse appena viste e ascoltate.

«Le stelle scenderanno al mio cospetto e mi parleranno, se saprò ascoltarle», mormorò il giovane.

E una stella più luminosa delle altre si staccò dalla volta del cielo e cominciò a scendere verso terra, di fronte agli occhi stupiti di Gerg il cacciatore.

 

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Capitolo 4
*** 3. ***


3.

 

 

Catena dell’Himalaya, Nepal, gennaio 1967

 

 

Il gelido vento sferzò il volto del giovane uomo, spruzzandogli addosso la neve vorticante. Per un istante, intorno a lui fu tutto bianco. Il cielo sopra, la terra sotto, la roccia attorno, tutto quanto scomparve nel candore accecante e vorticoso. Il freddo gli penetrò fin nelle ossa, minacciando di sopraffarlo.

Ma non cedette.

Continuò ad andare avanti, guadagnando metro dopo metro, certo che la vetta inviolata da millenni gli avrebbe riservato conoscenze altrove irreperibili. Perché era solo per questo che aveva compiuto quella scalata pazzesca, sfidando una parete e un clima che erano riusciti a far desistere anche i più ardimentosi ed esperti tra gli alpinisti. Nonostante tutto, trovò persino la forza per sorridere all’ironia di quel momento. Perché, a spingerlo a compiere quel lunghissimo viaggio fino alle vette più alte del mondo, era stata la sua renitenza alla leva militare. Leva che, secondo quanto stabilito da qualche pedante funzionario chiuso nel tepore asfissiante e puzzolente di un polveroso ufficio, avrebbe dovuto fare negli Alpini.

Sfuggire a una montagna per affrontarne un’altra. Una tra le più impegnative e imprevedibili. Se non era ironia questa, non avrebbe saputo a che cosa attribuire un simile concetto.

Salire era stato difficile e pericoloso. Aveva più volte rischiato di precipitare di sotto e di sfracellarsi sulle rocce sottostanti. La morsa del gelo aveva minacciato di sopraffarlo. Il ghiaccio aveva complottato contro di lui.

Non si era arreso.

Il giovane uomo aveva mille domande. Lì avrebbe trovato le sue risposte. Lì, dove si celavano e ancora si preservavano le più antiche conoscenze che fossero mai state consegnate agli esseri umani,

I suoi occhi arrossati, contornati dai cristalli di ghiaccio che gli si erano formati sulle ciglia e tra la barba lunga, forarono il manto bianco e vorticante. Uno sbuffo di vento contrario gli venne in aiuto. La neve fu allontanata e, stagliato sopra di sé, nero e imponente, vide erigersi il profilo misterioso del Tempio delle Anime. Sorgeva lassù, in cima a una lunghissima scalinata, quasi a lambire il cielo con i suoi arcani segreti.

Con gli ultimi residui delle sue forze, il giovane cominciò a salire l’interminabile scala, certo che le porte del sapere si sarebbero spalancate di fronte a lui per accoglierlo.

Da lassù, portata dal vento implacabile, una voce incorporea parve pronunciare il suo nome, invocandolo a sé.

Una voce che echeggiò tra le pareti rocciose delle montagne ghiacciate.

«Lanfrancooooooo…»

 

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Capitolo 5
*** 4. ***


4.

 

 

Pozzolengo, provincia di Brescia, giugno 1978

 

 

«Essere o non essere, questo è il problema!» disse Ugo Tognazzi. «Eh eh, sì: è proprio un bel problema. È o non è prosciutto di Parma? Tagliare, affettare, mangiare, forse… ma quale prosciutto? Se avete dei dub...»

L’immagine sullo schermo televisivo danzò, sbarellò e l’audio si fece intermittente. Scariche fastidiose cominciarono a uscire dalle casse dell’audio.

«Ma che ha, ‘sto televisore?!» sbottò il signor Berti, alzandosi dalla poltrona.

Si avvicinò all’apparecchio rivestito di legno e, senza troppe cerimonie, gli sferrò un paio di manate. L’immagine vibrò ancora una volta, poi Tognazzi riprese a elogiare il marchio del vero Prosciutto di Parma.

«Oh, ecco…» bofonchiò il signor Berti, rimettendosi comodo sulla sua poltrona foderata. Prese la bottiglia di Whürer che aveva lasciato in bilico sul bracciolo e ne trasse una lunga e soddisfatta sorsata. «Non voglio sentire storie proprio stasera che l’Italia gioca contro l’Argentina», sentenziò.

Gli spot pubblicitari sullo schermo lasciarono il posto all’annuncio che, di lì a pochi minuti, ci sarebbe stato il collegamento in diretta con l’Estadio Monumental di Buenos Aires. Il signor Berti accolse la notizia con un rutto soddisfatto.

«Clara, stappami un’altra birra!» gridò, all’indirizzo della porta della cucina.

Apparve l’inquadratura dello stadio… e, di nuovo, l’immagine sullo schermo cominciò a ronzare e a sfarfallare, lasciando il posto a qualcosa di completamente diverso.

Il signor Berti, per lo stupore, sobbalzò e si rovesciò addosso tutta la birra che ancora restava nella bottiglia.

 

* * *

 

Calvagese della Riviera, provincia di Brescia

 

 

Elsa piangeva disperata.

Sullo schermo del televisore, si inseguivano le immagini struggenti e strappalacrime di Love Story. Più si lasciava coinvolgere dalla struggente e impossibile storia d’amore di Jennifer e Oliver, e più sentiva il cuore farsi pesante. Le lacrime le scorrevano copiose dagli occhi e le solcavano le guance.

Tutta colpa di quello stronzo dell’Isacco!

Come aveva potuto farle questo? Come aveva potuto lasciarla, sola e disperata, per andarsi a mettere con quella bruttona, antipatica e indisponente della Chiara? Elsa non riusciva a darsi una spiegazione soddisfacente!

E, visto che non riusciva a trovare una spiegazione, piangeva. Guardava il film più malinconico e strappalacrime che le fosse mai capitato di vedere e piangeva. E, mentre piangeva, studiava un modo per potersi vendicare. No, non sull’Isacco, poverino: era ovvio che quella stregaccia della Chiara lo avesse ammaliato con qualche filtro d’amore. Ma alla Chiara, Elsa sognava di fare di tutto e di più: per esempio, strapparle la pelle e metterla a bollire viva in un pentolone pieno d’acqua bollente.

«Ti insegno io a rubarmi il moroso, strega», singhiozzò, tra una lacrima e l’altra.

L’immagine sullo schermo della televisione era acquosa a causa del velo di pianto che le annebbiava la vista. Nonostante questo, Elsa non si stava perdendo nemmeno un fotogramma, non una sola battuta. Voleva proprio vedere come sarebbe andata a finire. Quasi quasi ci sperava che, per quei due, non ci sarebbe stato un lieto fine: si sarebbe potuta almeno consolare del suo, di mancato lieto fine.

Per questo motivo, fu presa dal disappunto quando l’immagine sullo schermo venne rovinata da alcune interferenze. Righe verticali si sovrapposero ai volti dei protagonisti, che cominciarono a ondeggiare in su e in giù, in giù e in su.

«Che cavolo…» sbottò.

Fu tentata di chiamare suo padre. Lui era sempre bravo a rimettere a posto il televisore, quando cominciava a fare il pazzo. Ma non voleva che lui la vedesse in lacrime: sarebbe stato capace di andare a cercare quel poverino dell’Isacco per cantargliene quattro. E l’Isacco, lei lo sapeva, non aveva nessuna colpa: era vittima delle arti demoniache di quella donnaccia della Chiara!

Si alzò dalla sedia e si avvicinò al televisore in bachelite. Provò a dare qualche colpetto con le dita. Per un attimo, l’immagine tornò a stabilizzarsi e riapparve il film.

Poi, d’improvviso, mutò completamente.

Elsa trattenne a stento un grido, prima di portarsi le mani davanti alla bocca, terrorizzata da quello che stava vedendo e ascoltando.

 

* * *

 

Sarezzo, provincia di Brescia

 

 

«E qui è il vostro amico Luigi che vi parla, sempre pronto a tenervi compagnia per tutta la notte e a deliziarvi con le ultime canzoni, capaci di scalare tutte le classifiche. Eccovi allora la Patty Pravo che vi canta Pensiero stupendo, godetevela tutta!»

Luigi sfilò le cuffie e fece partire il disco con la canzone. Con un sospiro, si rilassò sulla sua poltrona e bevve un goccio d’acqua.

Gestire quella piccola radio locale, che trasmetteva – grossomodo – in tutta la provincia, era un’attività che lo divertiva parecchio. Ma da qualche giorno aveva mal di gola a causa di un raffreddore estivo, e quindi accoglieva con molta benevolenza i momenti di pausa in cui poteva far suonare un brano.

La nonna gli aveva detto che, mangiando miele, il mal di gola gli sarebbe passato in fretta. E se lo diceva la nonna, doveva essere per forza vero. Luigi prese dal tavolino il barattolo del miele e ci inzuppò il cucchiaio. Si apprestava a metterselo in bocca, quando dalle cuffie uscì una forte scarica, un rumore di fondo che non ci sarebbe dovuto essere.

«Cazzo…» sbottò.

Infilò le cuffie e ascoltò.

Alle note della canzone e alla voce della Patty si stava sovrapponendo un rumore molesto e fastidioso, una sorta di scarica elettrica. Sembrava di origine meccanica, almeno a giudicare dal forte rumore di fondo.

«Le mani, le sue e poi un’altra volta noi due…» La meravigliosa voce di Patty Pravo divenne simile a quella di un mostro di ferro e ingranaggi, da quanto risultò artefatta dalle interferenze.

«Ma che sta succedendo?» borbottò Luigi.

Roteò alcune manopole sulla console, cercando di ristabilire il segnale e di vincere quella molesta interferenza.

Invano.

Al segnale se ne sovrappose un altro, finché una voce rimbombante, lontana, insolita – estranea – cominciò a risuonare attraverso gli altoparlanti.

 

* * *

 

Sugli schermi televisivi comparve un’immagine distorta e confusa. Dalle casse audio dei televisori e delle radio fuoriuscì il medesimo messaggio, che fu udito in tutta la provincia di Brescia.

Qualcosa che passò sotto un silenzio quasi assoluto, da quel momento in poi. Nessun giornale commentò la notizia, non risultò avviata alcuna indagine. Soltanto un quotidiano locale dedicò al fatto un brevissimo trafiletto, dicendo che si era trattata della goliardata di un burlone, che era riuscito a sovrapporre un suo segnale a quello delle antenne radio e televisive. Pur non dando generalità di alcun tipo, il quotidiano spiegò che il burlone era stato arrestato, lasciando intendere che si trattava soltanto di un figlio dei fiori con il cervello bruciato dalle troppe droghe ingerite.

Vero o falso che fosse, in quella notte di giugno del 1978 in moltissime case della provincia risuonò la strana voce, meccanica, lontana e rimbombante, che comunicò a chiunque fosse in ascolto il seguente messaggio.

 

Questa è la voce di Vrillon, rappresentante del Comando Galattico di Ashtar, che vi parla. Per molti anni ci avete visto come luci nei cieli. Vi parliamo ora in pace e in saggezza, come abbiamo fatto con i vostri fratelli e sorelle, dappertutto, sul vostro pianeta Terra.

Noi veniamo ad avvertirvi sul destino della vostra razza e del vostro mondo, di modo che possiate comunicare ai vostri simili il percorso che dovrete intraprendere per evitare i disastri che minacciano il vostro mondo e gli esseri sugli altri mondi intorno a voi. Questo, affinché possiate condividere il grande risveglio del pianeta che passerà nella nuova Era dell'Acquario.

La nuova era può essere un grande momento di pace e sviluppo per la vostra razza, ma solo se i vostri governanti sono informati delle forze maligne che possono oscurare i loro giudizi. Resta qui ancora e ascolta, dato che questa occasione può non tornare più. Tutte le vostre armi di malvagità devono essere rimosse.

Il momento dei conflitti è ora passato e la razza della quale fate parte può procedere alle più alte fasi della sua evoluzione, se mostrerete di esserne degni. Avete tempo, ma breve, per imparare a vivere insieme nella pace e nella benevolenza. Piccoli gruppi dappertutto sul pianeta stanno imparando questo ed esistono per passare alla luce dell’alba della nuova era di tutti voi.

Siete liberi di accettare o rifiutare i loro insegnamenti, ma soltanto coloro che impareranno a vivere nella pace passeranno ai più alti regni di sviluppo spirituale. Ascolta ora la voce di Vrillon, rappresentante del Comando Galattico di Ashtar, che vi parla. Siate consapevoli che ci saranno molti falsi profeti e guide che operano nel vostro mondo.

Succhieranno la vostra energia – l'energia che voi chiamate denaro – usandola per fini diabolici, dandovi in cambio avanzi senza valore. Il vostro Divino sé superiore vi proteggerà. Dovete imparare ad essere sensibili alla voce della Verità dentro di voi, che può dirvi cos'è la verità e cos'è la confusione, il caos e la menzogna. Imparate ad ascoltare la voce della verità al vostro interno, vi guiderà sul sentiero dell’evoluzione. Questo è il nostro messaggio per i nostri cari amici.

Vi abbiamo guardato crescere per molti anni, così come voi avete guardato le nostre luci nei cieli. Ora voi sapete che noi siamo qui e che ci sono miriadi di esseri intorno e sulla terra più di quanti i vostri scienziati ammettano. Noi siamo profondamente interessati a voi e al vostro sentiero attraverso la luce e faremo di tutto per aiutarvi.

Non abbiate paura, cercate solo di conoscervi e vivere in armonia al passo del vostro pianeta. Noi del Comando Galattico di Ashtar vi ringraziamo per la vostra attenzione. Stiamo ora lasciando i vostri piani d'esistenza. Possiate essere benedetti dall'Amore e dalla Verità suprema dell'Universo.

 

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Capitolo 6
*** 5. ***


5.

 

 

Val Camonica, provincia di Brescia, novembre 1988

 

 

«Ma lei, caro professore, è davvero convinto di quanto asserisce, oppure… lo prende solo come un gioco? Come una forma di divertimento tra un impegno accademico e l’altro?»

La voce del dottor Giustini suonò velata di una leggera ironia. Sarcasmo, forse. Ma il professor Peppe Lancellotti non si lasciò scoraggiare da quella diffidenza.

«Come le ho detto, non ho dubbi in proposito di ciò che affermo, eh…», ribadì. «Del resto, ho dedicato buona parte degli ultimi anni a ricerche e studi in questa determinata direzione, e sono certo di aver interpretato correttamente ogni dato in cui mi sono imbattuto, eh… E quindi, quando affermo che una civiltà superiore proveniente dagli spazi cosmici ha visitato la Terra migliaia di anni fa, non lo faccio certo per gioco, eh…»

Capelli e barba biondicci, occhiali dalla montatura dorata, con indosso cappello a larghe tese, pantaloni di fustagno, dolcevita nero e giacca grigia di gabardina a quadretti, con le toppe sui gomiti, pantaloni grigi e scarpe di pelle lucida, una penna nel taschino e il taccuino che spuntava dalla tasca destra, il professor Lancellotti sembrava pronto per tenere una conferenza in qualche ateneo. Di certo non dava proprio l’aria di essere impegnato in un’escursione in montagna. La sola cosa che lasciasse intuire le sue reali intenzioni era il bastone dalla punta di metallo che stringeva nella mano destra, e alla cui estremità era infissa una piccozza.

Perché inerpicarsi lungo il versante della montagna era ciò che, invece, stava appunto facendo, insieme al collega, il dottor Giustini. Il quale, pur non meno abituato di lui alla vita agreste, aveva mutato il suo abbigliamento solito – un completo blu, oppure grigio – con jeans e maglione di lana. Ciò nonostante, non dava affatto l’idea di un escursionista esperto.

Entrambi sbuffavano e sudavano, troppo abituati alla vita sedentaria che le loro professioni richiedevano: insegnante di liceo il professor Lancellotti, assistente universitario il dottor Giustini. Il campo di competenza di entrambi era la Storia, ma ciascuno dei due poteva dirsi abbastanza acculturato da essere in grado di spaziare in un vasto campo intellettuale.

«Non metto affatto in dubbio la genuinità dei suoi studi, professore», puntualizzò Giustini. «Anzi, so bene quanto lei abbia contribuito alla ricerca storica negli ultimi tempi. A questo proposito, permetta ancora una volta che le dica che…»

«Non ricominciamo, eh…», lo interruppe bruscamente Lancellotti. «Ne abbiamo già parlato fin troppe volte. Non ho intenzione di smettere di fare l’insegnante di liceo per entrare nel mondo universitario, eh… Quei posti e quelle persone non fanno me, eh… Voglio sentirmi libero di poter spaziare in ogni campo, senza avere le mani legate da assurdi vincoli, eh…»

Giustini fece un mezzo sorriso.

«Non ricomincio», promise. «Quello che volevo dire, comunque, è che ritengo davvero difficile poter accettare queste sue teorie che potremmo definire… ehm… extraterrestri.»

Il professor Lancellotti si prese qualche istante prima di replicare. Spinse lontano il suo sguardo, verso la parete frastagliata della Concarena, la divinità femminile che i Camuni avevano adorato per secoli. La sua controparte maschile, il Pizzo Badile, dio a sua volta, si trovava proprio di fronte.

Il cielo era ammantato di grigio. I due accademici non avevano scelto il giorno giusto per risalire il versante della montagna. Rischiavano di andare incontro a un acquazzone. Da come pungeva l’aria, c’era persino il rischio di essere sorpresi da una nevicata.

Ma il professor Lancellotti aveva scoperto qualcosa, su quella parte della montagna.

Qualcosa di molto importante.

Ora desiderava condividerlo con Giustini che, pur essendo uno scettico totale – al contrario di lui, che invece aveva una mente aperta alle più astruse stranezze che si celavano nel mondo e nell’universo – era uno dei suoi più cari amici.

«Non vedo il motivo di non definire extraterrestri le mie teorie», disse, infine. «In fondo, è proprio questo che sono, eh… teorie sull’arrivo di esseri extraterrestri sul nostro pianeta, in anni lontani e recenti, eh…»

Affrontarono un breve ma insidioso rialzo del terreno che mise entrambi in difficoltà. Sbuffarono e si asciugarono le fronti sudate.

«Anni recenti», ripeté Giustini. «Vuole forse lasciarmi credere che gli extraterrestri ci siano volati sopra la testa fino a poco tempo fa?» Il suo tono si fece ancora più scettico. «E dica, com’è che allora nessuno se n’è mai accorto?»

«Per risponderle le dico solo uno sigla, mio caro: ufo, eh…» replicò Lancellotti. «Ora non sia lei a farmi credere che non ha mai intesto neppure parlare di questo fenomeno che, negli ultimi decenni, ha avuto migliaia – se non addirittura milioni – di testimoni in tutto il mondo, eh…»

Preso in contropiede, per un istante Giustini non seppe che cosa dire. Poi, però, il suo scetticismo tornò a montare, più forte che mai.

«Testimoni che si sono ingannati», disse. «Sa meglio di me che i sensi ingannano, che gli occhi sbagliano, che la mente si confonde…! La gente pensa di vedere qualcosa, ma in realtà si tratta di tutt’altro!»

Da come il tono dell’amico era cresciuto di alcune ottave, Lancellotti comprese che Giustini cominciava a inalberarsi. Non era il tipo da mollare una posizione, quando ne assumeva uno. Ma Peppe Lancellotti, dal canto suo, era ancora più testardo e zuccone di Erasmo Giustini, quando si trattava di difendere un’idea.

«Questo è un atteggiamento della scienza che non mi ha mai visto d’accordo, eh…» ribadì. Il suo tono della sua voce si mantenne basso e pacato, come suo solito. «Voler a tutti i costi negare ciò che non ha una spiegazione e far passare per un errore di percezione ciò che è sotto gli occhi di tutti: che idiozia! Semplicemente, in certi casi, la scienza dovrebbe chinare il capo e ammettere di non poter spiegare tutto, specialmente se si tratta di qualcosa che va oltre ciò di cui normalmente si occupa, eh…»

Giustini scosse il capo con vigore.

«Lei non è obiettivo, professore», sbottò. «È chiaro che uno scienziato possiede molti più strumenti per valutare ciò che vede, rispetto all’uomo della strada. L’uomo della strada si lascia trasportare dalla fantasia, mentre lo scienziato guarda tutto con la giusta aridità mentale, che gli permette di valutare ogni dettaglio senza farsi affascinare o fuorviare da nulla, men che meno da inutili e inesistenti suggestioni.»

Continuando a camminare, avevano svoltato lungo un sentiero e si erano inerpicati attraverso un bosco di castagni. A passo sicuro, il professor Lancellotti si diresse verso una parete rocciosa, celata da alcuni cespugli. Di fronte all’ammasso di pietra, un colossale e antichissimo castagno affondava le sue radici nel terreno. Doveva avere centinaia di anni, forse anche migliaia. Era uno degli alberi più imponenti che si fossero mai visti.

«A me non è mai piaciuta nemmeno questa definizione di uomo della strada, come se solo chi ha un titolo di studio appeso alla parete fosse davvero intelligente, eh… e ne ho visti tanti, di laureati a pieni voti, rimbambirsi fino a perdere la regione, oppure compiere le peggiori nefandezze, che un cosiddetto uomo della strada mai si sognerebbe, eh…» ribatté. «In ogni caso, caro collega, migliaia di anni fa da queste parti non c’erano né scienziati né uomini della strada, eh… Qui c’erano soltanto uomini dei boschi, cacciatori che vivevano a stretto contatto con la natura e che guardavano con amore a tutto ciò che accadeva attorno loro. E, dopo averlo visto, lo immortalavano sulla pietra per poterlo tramandare a chi sarebbe venuto dopo di loro, eh…»

Con un gesto secco, Lancellotti avvicinò il bastone agli arbusti e scostò alcuni rami. Foglie e legna si allontanarono dalla parete di roccia, mettendo allo scoperto il graffito che il professore aveva scoperto in una delle sue precedenti visite.

«Perché, allora, non sceglie di credere a questi uomini?»

 

 

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Capitolo 7
*** 6. ***


6.

 

 

Val Camonica, settembre 2021

 

 

«Eccolo qua», disse Alberto. «Il professore me ne ha parlato tante di quelle volte, che mi pare di averlo sempre avuto davanti agli occhi. E, però, mi sento davvero emozionato, in questo momento.»

Dopo una buona mezz’ora di cammino, facendosi strada tra i sentieri che erano stati aperti in mezzo al castagneto, avevano finalmente raggiunto la parete rocciosa. Non era stato difficile individuarla, perché il castagno millenario che vi cresceva a pochi metri di distanza era un indicatore perfetto per poter riconoscere il luogo. Un albero che le dita di Aurora sfiorarono con amore e rispetto. Quando lo fece, la ragazza parve scossa da un brivido caldo.

I graffiti rupestri, che Lancellotti aveva scoperto tanti anni prima, erano da poco tempo stati liberati dai rovi e dagli arbusti che li avevano sempre tenuti celati. L’idea era stata quella di inserirli in un percorso storico-naturalistico che avrebbe permesso a chi fosse transitato in quei luoghi di ripercorrere le orme degli antichi Camuni. Purtroppo, non era stato risparmiato dalla visita dei vandali: alcuni schizzi di bomboletta spray di colore rosso avevano imbrattato un gruppo di figure, e in basso a sinistra si leggeva a pennarello nero la firma del vandalo di turno: Sukker, aveva scritto.

«Appena lo abbranco, gli insegno io a fare il Sukker», minacciò Aurora a denti stretti. «Gli strappo il cazzo a morsi e glielo ficco in gola.»

Nervoso, Manfredi lanciò uno sguardo ai due agenti. Per fortuna, si erano seduti a riposare sopra un masso screziato di licheni a qualche metro di distanza e non avevano sentito. Non gli andava troppo a genio, che la sua amica facesse la figura della sadica sanguinaria davanti a degli sconosciuti che avrebbero potuto riferire quelle esternazioni a chissà chi. Di gente sempre pronta a farsi bella agli occhi dei superiori ne era pieno il mondo.

«Non farti prendere dalla rabbia», tentò di calmarla. «Ricordati che non siamo giustizieri della notte…»

«Un giorno lo diventeremo, Manfredino bello.» Sorrise. Un sorriso sinistro. «Aurora la Vendicatrice, la Nemesi imbattibile di tutti gli stronzi. Nessun malvagio avrà scampo, dopo che lo avrò condotto nel mio covo e lo avrò legato al letto della Tortura e della Morte. I miei strumenti acuminati e incandescenti avranno carne e sangue per la loro soddisfazione personale.»

Alberto non rispose. Non sapeva mai che cosa replicare, quando lei faceva certe sparate. Dentro di sé, aveva deciso di continuare a non prenderla mai sul serio, quando diceva cose del genere.

Preferisco fare finta che non farebbe mai qualcosa di simile. Io, in ogni caso, non ci penso nemmeno, a chiederle fin dove sarebbe in grado di spingersi.

No, decisamente era meglio non saperlo.

Ignorando la vernice rossa che ne aveva deturpato alcune parti, i loro occhi si concentrarono sul graffito rupestre.

Le figure stilizzate erano quelle classiche dell’arte camuna. Uomini e donne nudi, pochi tratti soltanto, distinti tra di loro per la presenza degli organi sessuali, seppure a malapena abbozzati. Vi apparivano anche alcuni animali, come orsi, cervi e altre bestie che non riuscirono a riconoscere. I guerrieri erano armati di lance e di scudi, altri di arco e frecce, e molti di loro sembravano danzare con le braccia rivolte verso il cielo. Uno sciamano, o un dio, o qualcosa di simile insomma, riconoscibile per il suo copricapo frastagliato e per le dimensioni maggiori, che gli conferivano quasi l’aspetto di una divinità, era situato nella parte superiore del graffito. Era circondato da un ovale, come se l’antico artista lo avesse voluto raffigurare nell’atto di emanare luce. Sopra di lui, alta nel cielo, simile al sole o a una stella, capeggiava la rosa camuna, la croce ansata simile a una girandola inserita tra nove pallini, il simbolo stesso di quei luoghi e, per estensione, di tutta la Lombardia.

Nonostante la sua semplicità, l’intero graffito comunicava una grande forza. Era davvero espressivo. Sembrava proprio di star assistendo di persona a una cerimonia avvenuta in quegli stessi luoghi migliaia di anni prima.

«Questa immagine mi ricorda qualcosa», mormorò Aurora, passando piano il dito indice sopra la figura della rosa. «Ho come l’impressione di aver già vissuto qualcosa di simile.»

«Non è una semplice impressione», replicò Alberto, con tono piatto. Sembrava quasi difficile doverlo ammettere, per lui. «Noi abbiamo già visto una cosa che le assomiglia tantissimo, una dozzina d’anni fa. In realtà, per quello che mi riguarda, non avrei mai fatto alcun collegamento tra le due cose, ma è stato il professor Lancellotti a mettermi una pulce nell’orecchio, quando gliene parlai.» Sospirò. «E una pulce bella grande, anche. E il professore, che prima o poi dovrai conoscere anche tu, ha la capacità di apparire convincente anche quando parla degli argomenti più astrusi e pazzeschi.»

Il sottotenente Bresciani si voltò a guardarlo. I suoi occhi verdi fissarono con intensità quelli nocciola del tenente.

«Vuoi dire che…» cominciò.

Manfredi scosse il capo.

«Io non voglio dire proprio niente», si schermì. «Lo sai come sono fatto: non voglio credere o negare nulla per partito preso. Mi guardo attorno, valuto e giudico in base alla mia percezione e alle idee che mi faccio.»

Guardò ancora il graffito, studiando le figure come se le vedesse muoversi e danzare, come se potesse ascoltare le loro voci intonare invocazioni in una lingua sconosciuta, una di quelle tante lingue originarie che si erano perdute nei secoli, soppiantate dalle parlate indo-europee.

«Mi limito a riportarti ciò che il mio professore ha detto me, durante un intervallo quando andavo a scuola», proseguì. «Secondo lui, questo graffito rappresenterebbe il popolo camuno, in un momento imprecisato della sua storia, colto nell’atto di adorare un… ehm… essere extraterrestre. Sostiene di aver studiato queste immagini così a fondo che non ci possono essere più dubbi, in proposito.»

Allungò la mano e tamburellò sopra la figura più grande, circondata dallo strano alone.

«Che poi, a suo dire, sarebbe questo. E quella», indicò la rosa camuna, «sarebbe l’astronave da cui discese l’essere.» La sua voce si era velata di scetticismo. «Devo ammettere che il professore ha sempre avuto una bella fantasia, per certe cose. Quando avevo quindici anni mi era abbastanza facile credergli, anche perché era il periodo in cui, alla televisione, si sentivano scemenze di ogni genere, ma ora… insomma, faccio parecchia fatica ad accettarle per vere, certe teorie.»

La mano di Aurora scattò a stringere quella di Alberto.

«Ma potrebbero non essere semplici fantasie, Manfredino!» esclamò. Nella sua voce c’era una concitazione rara: aveva perduto la sua solita flemma sinistra, a tratti pericolosa. Era eccitata. «Ora ricordo perfettamente, e ricordi benissimo anche tu, quella notte di agosto… Avanti, me l’hai citata un istante fa, ora non fare finta che non sia successo nulla di strano, quell’estate.»

Anche se con riluttanza, Alberto annuì.

«Sì», borbottò. «Sì, me la ricordo…»

Fissò la rosa camuna e, con gli occhi della memoria, la vide prendere vita, danzare e roteare nel cielo, emanando luci colorate e intermittenti.

 

 

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Capitolo 8
*** 7. ***


7.

 

 

Sirmione, provincia di Brescia, agosto 2009

 

 

Quell’estate – l’estate dei diciassette anni – si stava rivelando esplosiva.

Alberto non avrebbe saputo come altrimenti definirla.

Come ogni anno, al termine delle lezioni scolastiche – era stato promosso alla terza liceo, con una media non altissima ma, comunque, dignitosa: aveva ripetuto due volte la prima liceo, ma da quella bocciatura in avanti le insufficienze, sul suo libretto, erano diventate una vera rarità – aveva lasciato la casa dei genitori, a Novellara, per andare ospite da sua cugina Marina, che abitava a Peschiera, sul lago di Garda. Un rito che si ripeteva ormai da innumerevoli anni e a cui il ragazzino non avrebbe mai rinunciato, per nessun motivo al mondo.

Per Alberto, i motivi di felicità, quando andava a casa di sua cugina, erano differenti e numerosi.

Per prima cosa, poteva ammirare un panorama vero, diverso dalla solita e piatta monotonia della Pianura Padana; il lago, circondato dai monti, con il suo alternarsi di saliscendi, gli dava sempre l’impressione di essersi immerso in un altro mondo. Amava perdersi con lo sguardo in quei paesaggi, sentire l’odore dell’umidità. Gli dava sempre un bel brivido di stupore esplorare le coste, scoprire un anfratto, visitare uno dei caratteristici paesini affacciati sulle sponde. Inoltre, non gli dispiaceva affatto la presenza dei numerosi turisti. Qualcuno li trovava fastidiosi, ma non lui. Soprattutto, non poteva negare che le tantissime ragazze provenienti dal Nord Europa e che, nelle estati gardesane, tingevano di un bel rosso ciliegia la loro pelle immacolata, avessero un certo fascino a cui non riusciva a essere indifferente. Peccato solo che fosse troppo timido per provare anche solo a pensare di poter approcciare quelle bellezze settentrionali. Ma questo era un discorso a cui non dava poi troppo peso, a dire il vero.

Poi c’era la non indifferente libertà che gli conferiva il poter restare lontano da Carla: lui e la sua insopportabile sorella erano perennemente ai ferri corti, e sapere che non l’avrebbe più rivista per tre mesi gli dava sempre un grande sollievo. Non che la odiasse, chiaro: nessuno può odiare un fratello o una sorella, almeno non troppo. Però non la sopportava, nemmeno un po’, e il riuscire a respirare per qualche tempo un’aria diversa dalla sua era un vero motivo di appagamento, per tutto il suo essere. La presenza costante di quella persona era una tortura a cui, da metà settembre a metà giugno, doveva sottoporsi quotidianamente. Gli toccava ascoltare di continuo i suoi rimbrotti: Carla aveva lasciato la scuola dopo la terza media per dedicarsi esclusivamente alla vita dei campi, come i genitori. Trovava che anche il fratello avrebbe potuto – anzi, dovuto – fare lo stesso, anziché perdere tempo a studiare.

Ma ad Alberto studiare piaceva davvero. Imparare cose nuove era per lui motivo di grande interesse. Lo affascinavano soprattutto le materie umanistiche: Storia, Letteratura, Arte… e non vedeva l’ora di cominciare la terza per potersi approcciare anche alla Filosofia. Questo, comunque, non toglieva che non fosse tagliato anche per il lavoro manuale, soprattutto quello a contatto con la natura. Infatti, ogni estate, quando veniva a casa di suo cugina, si prendeva cura del giardino di Marina, oltre che di quello di una villa che sorgeva a qualche chilometro di distanza, e che apparteneva a un ricco medico milanese, che trascorreva le estati sul lago. Però aveva giurato che non avrebbe mai fatto il contadino. E, per questo motivo, Carla lo disprezzava, considerandolo la pecora nera della famiglia Manfredi. I loro genitori, già un po’ avanti con gli anni e infiacchiti dal duro lavoro, non avevano mai fatto commenti in merito. Per sua fortuna, Marina era una donna molto più premurosa e affettuosa, rispetto al resto della famiglia, e lo sosteneva e lo incoraggiava in ogni modo, mettendogli anche a disposizione la variegata raccolta di libri di cui era piena la sua casa.

Quei lavori estivi – soprattutto quello nel grande parco della villa del dottor Fumagalli, dove si occupava di tagliare l’erba, curare le aiuole, potare i rami, tenere sempre bagnato l’orto e via discorrendo – avevano permesso ad Alberto di mettere da parte un bel gruzzolo. E, così, se n’era potuto servire per provare a far sistemare la vecchia Vespa di sua cugina. Non che avesse sortito grande effetto, la messa a punto a cui aveva sottoposto il motore. Il vecchio catorcio continuava a spegnersi nei momenti meno opportuni. Ma avere finalmente la possibilità di andarsene a zonzo seduto in sella era un altro dei motivi che stavano rendendo unica e speciale quell’estate.

E, naturalmente, c’era Aurora.

Era la figlia dei vicini di casa di Marina – i Bresciani, entrambi ufficiali dei Carabinieri – e lei e Alberto si erano piaciuti subito, quando si erano incontrati la prima volta, tanti anni prima. Era scoccata una specie di scintilla, tra loro due. Alberto aveva realizzato di aver trovato la sua più grande amica. E, nonostante il carattere frizzante e a tratti molto difficile della ragazza, non sarebbe mai più riuscito a stare senza di lei. Verso Aurora, provava la sensazione più simile all’amore che avesse mai provato per qualcuno.

Trascorreva l’anno intero a scambiare messaggi con lei via Messenger, seduto davanti al computer, le cuffie sulle orecchie e la playlist dove si ripetevano in continuazione i brani dei Negramaro. E, quando finalmente arrivavano giugno e il momento di rivedersi, era sempre una vera gioia.

Quell’estate, quando lo aveva rivisto, Aurora lo aveva stretto in un abbraccio che non sembrava volesse mai avere fine, facendogli ricadere sul viso una cascata di capelli rossi come la fiamma. La più dolce e più bella sensazione che Alberto Manfredi ricordasse di aver mai provato in vita sua. Non avrebbe mai lasciato andare quel corpo duro e caldo, per certi tratti mascolino e per altri decisamente femminile, che lo faceva sentire vivo e vero come niente e nessuno sapeva fare.

Era stato così che aveva avuto inizio quell’estate.

Quell’estate esplosiva, densa di avvenimenti e di misteri che non avrebbe mai dimenticato.

 

* * *

 

Quella sera dei primi di agosto, Alberto era saltato in sella alla Vespa e aveva percorso la strada da Peschiera a Sirmione. Si era dovuto fermare un paio di volte a margine della carreggiata perché il motore, surriscaldato, si era spento. Con un paio di colpi di pedivella, comunque, si era subito riavviato.

La terza fermata obbligatoria dovette farla nei pressi della Piazza del Mercato di Colombare, una delle frazioni di Sirmione. La vecchia Vespa si spense con un gemito e, nonostante i suoi reiterati tentativi, non volle saperne di rimettersi in moto.

Vabbe’, raffreddati, si arrese Alberto.

Alzò gli occhi al cielo. Era nero, inquinato dalle luci dei lampioni. Le stelle che poteva ammirare erano ridotte davvero al minimo. Ma quelli erano i giorni delle stelle cadenti: chissà se – con un po’ di fortuna – sarebbe riuscito a vederne almeno una.

Forza, stelline, pensò. Ho anche già pronto il mio desiderio.

Come se una forza superiore gli avesse letto nel pensiero e avesse deciso di regalargli quella piccola e insieme immensa gioia, una scia bianca e luminosa attraversò il cielo. Alberto sorrise. Una seconda scia seguì la prima. Fu sul punto di formulare il suo desiderio, quando una terza meteora infuocata solcò la volta oscura della notte, perdendosi nel buio.

Immagini velocissime, fugaci come lampi, ma che gli restarono impresse nella mente e gli donarono una grande pace interiore.

Addirittura tre stelle, si disse. Deve essere un segno. Allora è questo il mio desiderio, stelline… vorrei che io e Aurora restassimo amici per sempre. Non mi importa di quello che accadrà, di che cosa ci riserverà il futuro, purché la nostra amicizia si mantenga salda come è adesso.

Sospirò.

Non voglio perdere Aurora.

Senza volerlo, esprimendo quel desiderio, aveva dato forma alla sua più grande paura. Perché Alberto avrebbe potuto sopportare qualsiasi cosa, ma non di perdere la sua amica. Questo era qualcosa che lo avrebbe soffocato.

E, se qualcuno glielo avesse domandato, non avrebbe saputo dirne nemmeno lui il motivo preciso. Non aveva idea di che cosa davvero lo legasse con tanta passione a quella ragazza dal carattere difficile, spesso esuberante e troppe volte propensa a voler comandare solo a lei. Sapeva soltanto che le voleva bene, gliene voleva davvero.

E volere bene ad Aurora era la più bella cosa del mondo.

Alberto fece per voltarsi verso la Vespa, per scoprire se la vecchia signora avrebbe finalmente acconsentito a rimettersi in moto. Un guizzo rosso nel cielo richiamò la sua attenzione.

Cos’è?

Alzò di nuovo gli occhi verso l’alto.

Non vide nulla di strano o di insolito.

Poteva essersi sbagliato.

Sarà stato un aereo

Una sfera rossa si materializzò all’orizzonte, oltre i tetti delle case circostanti. Brillò tanto forte da illuminare di rosso tutto il cielo.

Ma…

Sbalordito, Alberto la fissò con attenzione.

Di nuovo, così come era apparsa, la sfera scomparve. Poi ricomparve ancora, spostata verso il lago. Continuava a emanare quella sua luce tanto rossa da sembrare incandescente.

Che cazzo, quello non è un aereo!

Con uno scatto fulmineo, Alberto balzò in sella e calò il piede sulla pedivella. La Vespa, quasi avesse avvertito la sua urgenza, si accese all’istante.

Sceso dal cavalletto, il ragazzo diede gas. Avanzò lungo la strada, sempre cercando di guardare la sfera rossa che brillava in lontananza, intermittente. Non sapeva perché, ma quella strana apparizione aveva catturato la sua completa attenzione. Era intenzionato a non perderla di vista nemmeno per un breve istante.

Alberto raggiunse la fine della strada che conduceva alla piazza e si fermò nei pressi del cantiere per la nuova rotatoria e il nuovo marciapiede. Per qualche strano motivo, sindaci e assessori rimandavano i lavori di pubblica utilità sempre all’estate. Sembrava che traessero un sadico piacere dal chiudere strade, modificare percorrenze e interrompere la viabilità proprio nel pieno della stagione in cui, per via del flusso turistico, il traffico era quasi sempre congestionato.

Il ragazzo frenò. La Vespa, obbediente, quasi sapesse che presto avrebbe dovuto correre, questa volta non si spense. Il motore continuò a borbottare, con i giri ridotti al minimo e un filo di fumo azzurrognolo che scappava dalla marmitta.

Alberto guardò.

Ora aveva la visuale sgombra, in direzione di Desenzano del Garda. Di fronte a sé, sul lato opposto della strada cintata di arancione, aveva una fila di pini marittimi che, durante il giorno, ombreggiavano il marciapiede. Sotto i pini era adesso posteggiata una ruspa.

La sfera rossa era ancora là, a una distanza e a un’altezza che non sarebbe stato capace di calcolare.

La vide impallidire, poi riaccendersi e spegnersi di nuovo, a intermittenza. Infine, dopo un guizzo più forte, quasi che avesse emanato della luce infuocata, si spense per l’ultima volta.

A quel punto, prima che un qualsiasi pensiero sull’accaduto avesse potuto formularsi nella mente dell’adolescente, accadde qualcosa di nuovo.

L’ultima cosa che Alberto Manfredi si sarebbe potuto aspettare di vedere in vita sua.

Dalla direzione in cui la sfera rossa si era dissolta, provenne in volo un disco volante.

Il ragazzino non avrebbe saputo come altrimenti definirlo.

Perché quello era davvero un disco volante.

Un disco nero, silenzioso, di metallo o di chissà quale misterioso materiale. Nel centro aveva un cupolino, che sembrava ruotare e che emanava un fascio di luce rossa tutto attorno. Lo strano oggetto era bassissimo, volava a poche decine di metri di altezza, eppure Alberto non sentì alcun suono, e non percepì nemmeno il minimo spostamento d’aria al suo passaggio, nonostante la grande velocità a cui si spostava.

Senza nemmeno rendersi conto di avere la bocca aperta per lo stupore, Alberto fissò il disco volante che attraversava la notte di fronte a lui.

Lo guardò arrivare dalla direzione di Desenzano, lo vide sorvolare le abitazioni, la ruspa e i pini marittimi. Girò la testa per continuare a seguirlo, finché lo vide proseguire verso oriente, verso il Veneto. Lo fissò finché gli fu possibile, finché il misterioso velivolo non fu del tutto scomparso, nascosto oltre i tetti delle case.

Per un brevissimo istante, Alberto Manfredi restò immobile, cercando di elaborare quello che aveva visto.

Tentò di formulare un pensiero.

Non riuscì a mettere insieme niente altro che un: Seguilo.

Abbassò a manetta l’acceleratore della Vespa e partì all’inseguimento.

 

* * *

 

Qualche giornalista, probabilmente annoiato dalla mancanza di cronache con cui riempire le pagine dei quotidiani durante il periodo più afoso – quello in cui, per antica tradizione, non accadeva mai nulla di rilevante – si era divertito a definire “Garda da X-Files” i mesi di giugno, luglio, agosto e settembre del 2008. Del resto, in quel lasso di tempo, gli avvistamenti di strane luci e velivoli misteriosi attorno alle sponde del lago si erano susseguiti numerosi, e c’era chi ne aveva approfittato per trarne articoli di vario genere.

I più scettici erano corsi subito ai ripari, facendo ricorso alle più variegate spiegazioni per dare un senso a ciò che la gente sosteneva di vedere nei cieli notturni dell’estate benacense: droni, aerei militari, proiettori di discoteche, i laser degli spettacoli di Gardaland, e altre simili cose. I giornalisti in cerca del botto, invece, non si erano fatti scrupoli a parlare di UFO, di invasione aliena, di prossimo contatto di massa o, più prosaicamente, di extraterrestri vacanzieri.

Questo, insomma, era stato il trend dell’estate del 2008. In fondo, al principio di quella stessa estate, era uscito al cinema un film che parlava di teschi di cristallo e di alieni. Molti, soprattutto i più facili alle suggestioni, si erano lasciati cogliere e trasportare dall’entusiasmo ufologico che ne era susseguito un po’ ovunque, in televisione come nelle pubblicazioni in libreria.

Solo che, mentre si era pensato che la moda del 2008 sarebbe appunto rimasta legata al 2008, tutto quanto si era ripetuto, uguale e identico, nell’estate successiva. Anzi, i casi relativamente ridotti dell’anno prima, nel 2009 erano aumentati di numero, crescendo a dismisura. Un vero e proprio boom di avvistamenti, al punto da diventare un fenomeno quasi quotidiano e di cui, alla fine, si era occupata persino la stampa nazionale, oltre a quella locale. Ai primi appassionati erano infatti susseguiti i giornalisti di quotidiani locali e provinciali e, dopo di loro, si erano viste in zona anche le telecamere e i microfoni della televisione. Quando un furgone bianco, sulla cui fiancata, in blu, capeggiava la scritta RAI – e nel cui interno, qualcuno era pronto a giurarlo, sedeva Roberto Giacobbo con tutta la troupe del suo programma – aveva attraversato un incrocio con semaforo lungo la Gardesana Occidentale, la mania ufologica era esplosa come un ordigno.

E l’onda d’urto della deflagrazione non sembrava intenzionata a spegnersi.

Signori e signore di una certa età, passeggiando sul lungolago di Salò, asserivano di aver visto strane luci colorate volteggiare nel cielo notturno. Almeno un paio di concerti erano stati interrotti, con musicisti e spettatori rimasti con il naso all’insù per osservare il transito di un inspiegabile velivolo volante. Addetti del Vittoriale di Gardone Riviera raccontavano di aver assistito al passaggio di misteriose flottiglie di sfere nere e bianche. Un impiegato delle Grotte di Catullo giurava che qualcosa di simile a un sigaro gigantesco fosse piombato dal cielo e si fosse tuffato nelle acque prospicienti la penisola di Sirmione, per riemergerne alcuni minuti più tardi e risalire di corsa verso l’alto. Turisti olandesi, sdraiati in spiaggia a Lazise, avevano potuto osservare uno strano oggetto, che ricordava un disco volante, sfrecciare rapidissimo verso nord. Alcuni tedeschi in motoscafo, mentre navigavano senza un solo pensiero, si erano imbattuti in misteriose luci subacquee, che davano l’impressione di inseguirli, nonostante i loro reiterati tentativi di seminarle. Un adolescente in bicicletta, in pieno pomeriggio, a Montonale – dalle parti di Desenzano – aveva visto un cubo di metallo comparire in cielo, stazionario, riflettere la luce e poi svanire con lentezza. Un signore di origini cinesi, che lavorava come addetto alle pulizie nei bagni pubblici di Limone, aveva notato uno strano movimento in mezzo al lago, da dove qualcosa di paragonabile a una stella si era sollevato fino a scomparire nel cielo. Un padre e una figlia, mentre facevano la fila per salire sulle montagne russe di Gardaland, avevano osservato una strana luce rossa apparire e scomparire a intermittenza nel cielo notturno. Una luce simile – ma bianca e affiancata da una luce che, invece, restava immobile – era stata guardata per diversi minuti da una ragazza di vent’anni, prima che entrambe le luci si spegnessero nel cielo notturno. Quattro anziani, che giocavano a briscola in un parco pubblico di Torri del Benaco, erano stati interrotti nel mezzo del loro litigio – uno dei quattro pareva avesse barato – dal passaggio in cielo di una grossa meteora fiammeggiante e sibilante. Una coppietta di fidanzati appartati in una stradina secondaria, verso Torbole, si era trovata la macchina invasa da una luce calda e rossa, che era piovuta dall’alto per alcuni minuti, prima di spegnersi e lasciarli sconvolti e abbronzati. Persino una pattuglia della stradale di Riva del Garda, una notte, aveva riferito di aver inseguito per alcuni metri uno strano e non meglio specificato veicolo, prima che si innalzasse rapidissimo in cielo, scomparendo. E numerosi Tornado dell’Aeronautica Militare – ufficialmente solo per le esercitazioni di rito – sembravano pattugliare di continuo l’intera area gardesana, da nord a sud, da est a ovest.

Insomma, ce n’era per tutti i gusti.

Le ipotesi più svariate e in contrasto tra di loro non avevano tardato a fioccare. Chi non aveva ancora avuto la possibilità e la fortuna di assistere a qualcosa di strano, era quantomeno intenzionato a far sentire la propria voce e dire la sua.

Un sedicente ufologo, Ivano Fagioli, fondatore del G.S.U.G. (Gruppo Studi Ufologici del Garda), aveva scritto sul suo blog: “Chiaramente ci troviamo di fronte a un fenomeno inedito. Il lago di Garda è stato scelto per la nuova ondata di avvistamenti, che dura da ormai un biennio. Tali ondate non sono una novità, a livello mondiale, perché le apparizioni di UFO concentrate in determinate finestre temporali sono eventi che si susseguono a intervalli quasi regolari sin dalla fine dell’Ottocento. Di rado, però, il fenomeno ha coinvolto un’area tanto ristretta come quella del lago di Garda. Dobbiamo forse pensare che chiunque viaggi a bordo di quei velivoli abbia scelto il bacino lacustre come punto di riferimento per un primo avvicinamento di massa al nostro pianeta? C’è da domandarselo, perlomeno. Di certo, dobbiamo chiederci perché le autorità non si stiano interessando al fenomeno. Sempre, beninteso, che non lo stiano facendo, ma coperte dal segreto militare: sarà una semplice casualità ma, proprio in questo momento in cui vi scrivo, lo specchio di lago davanti alla mia finestra è stato sorvolato da un paio di caccia dell’aviazione che hanno compiuto strane evoluzioni.”

Una donna di nome Luisa, invece, aveva a sua volta adoperato un blog per portare avanti le proprie teorie in merito all’evento. Sul suo sito internet tutto luccichini e pixel colorati e brillanti, che impiegavano almeno mezz’ora a caricarsi, si poteva leggere: “Abbiamo sempre saputo che sarebbero tornati. I Seleniti hanno annunciato il loro ritorno – RITORNO!!!!!! – interi cicli fa. Ora è il tempo della nuova rivelazione: i cristalli hanno parlato!!!!!! I CRISTALLI!!!!! Purifichiamoci e insieme avremo accesso alla loro RIVELAZIONE!!!! Unisciti anche tu al GRUPPO DI ACCOGLIENZA DEI SELENITI!!!! Ci riuniremo ogni notte sulle sponde del LAGO DI GARDA e ci metteremo in CONTATTO con le FORZE NATURALI che vibrano nell’aria e insieme accoglieremo i nostri compagni, che ci traineranno con le loro mistiche parole verso la nuova ERA che si chiamerà ERA DELL’ACQUARIO!!! Come dice la canzone che poi è un inno MISTICO scritto da UOMINI E DONNE INIZIATI ai SEGRETI dell’ARMONIA, sarà un’era di PACE e di FRATELLANZA e di COMUNIONE con la NATURA!!! Ci AMEREMO in piena LIBERTÀ e i SELENITI saranno le nostre GUIDE!!!! E, a suffragare i suoi interventi, contribuivano i numerosi commenti che l’utente Lanfra47 – che, pure, frequentava assiduamente il blog di Ivano Fagioli – lasciava in calce a ciascuno dei suoi post. Lanfra47, infatti, non solo credeva a ogni singola parola scritta sul sito internet, ma si diceva più che certo che, molto presto, gli extraterrestri, che in passato avevano più volte contattato l’umanità, sarebbero tornati a farsi conoscere per mezzo di Vrillon, il loro ambasciatore.

Ovviamente, non erano stati solo ufologi improvvisati e santoni illuminati a cercare una spiegazione al fenomeno. Scienziati e giornalisti non avevano atteso nemmeno per un istante a riportare le più svariate teorie, lanciandosi a spron battuto in una direzione come nell’esatta opposta.

A chi diceva che gli alieni dell’anno prima erano tornati – forse, chissà, avevano trovato ameno il Garda – veniva risposto che, in un’estate come nell’altra, si era trattato di semplici inganni della percezione. Qualcuno sosteneva che fosse una trovata pubblicitaria di Gardaland, che proprio quell’anno aveva inaugurato una nuova attrazione a tema extraterrestre; gli veniva puntualmente replicato che nessuna campagna promozionale sarebbe potuta essere tanto estesa e costosa, e gli stessi dirigenti del parco avevano infine ammesso di non essere al corrente di nulla. A chi parlava di genuinità degli avvistamenti, veniva detto senza troppi giri di parole che erano tutte frodi. Alcuni asserivano che il troppo caldo avesse dato alla testa alla gente, soprattutto nelle serate della movida in cui si esagerava ad alzare il gomito: alcol e afa estiva, si sa, non vanno affatto d’accordo. Altri trovavano le solite e più variegate spiegazioni: lanterne cinesi, droni, aerei sperimentali, satelliti, stelle, pianeti… a costoro, veniva lasciato intendere che avessero la testa dura e una mente fin troppo chiusa, con occhi incapaci di vedere oltre il proprio naso.

Si diceva tutto e il contrario di tutto.

Alberto si era interessato solo di sfuggita a quegli eventi.

Aveva letto qualcosa in Internet e qualche trafiletto sulla stampa locale, specie tra le pagine dei giornali a distribuzione gratuita che si trovavano in giro. La cosa non lo interessava. Per quello che lo riguardava, UFO, dischi volanti ed extraterrestri non erano niente di vero. Roba da film, o al massimo di trasmissioni tipo Voyager, che seguiva sempre con divertimento ma senza davvero credere ai temi che, di volta in volta, Roberto Giacobbo presentava. E, per quello che ne sapeva lui, in quei giorni Giacobbo si trovava parecchio lontano dal Garda.

Aurora, invece, ne era entusiasta. La sua amica andava matta per tutto ciò che era misterioso e inspiegabile. Trascorreva interi pomeriggi a parlarne con la sua vicina di casa, anch’essa più che propensa a credere in ogni cosa, specialmente se rientrava nel campo dell’ignoto e dell’irrazionale.

In effetti, quella vicina di casa era la medesima Luisa che curava il sito misticheggiante in cui si parlava di Seleniti e di Era dell’Acquario. Era stata Aurora a far scoprire ad Alberto quella nauseante pagina internet tutta svolazzi e colorini, stelline, ghirigori e cuoricini – a fissarla troppo a lungo, ne era certo, si sarebbe rischiato un attacco epilettico – che lui aveva letto con assai poco interesse.

«L’unica cosa bella della tua vicina, è che prende il sole sul balcone completamente nuda», aveva commentato lui, dopo aver letto quelle righe.

«Lo fa perché dice che vuole unirsi il più possibile alla natura», aveva replicato Aurora, guardandolo storto. «È stato Selenius Maximus a dirle di fare così.»

«Sel… chi?!»

«Il suo spirito guida!» aveva detto Aurora, fissandolo quasi disgustata per via della sua mancata conoscenza in quegli ambiti. «È un’entità astrale che le parla attraverso il cosmo, mandando messaggi telepatici da Alpha Centauri. Se cerchi, nel sito, c’è un’intera sezione dedicata a lui.» Abbassò la voce di parecchie ottave, come una cospiratrice, per non farsi sentire dalla madre che si trovava nella stanza accanto. «Luisa descrive nel dettaglio anche il sesso a distanza che fanno lei e Selenius Maximus.»

«Ah», era stata la sola risposta sensata che Alberto fosse riuscito a formulare.

Secondo me quella Luisa è solo un’esibizionista, oppure una pazza isterica, aveva pensato. Però quando è nuda è bella da guardare. Ha due tette che quasi quasi me le sogno anche di notte.

Anche per questo, quando la sua amica lo invitava a passare il pomeriggio insieme sul balcone, che formava un unico piano con quello di Luisa, da cui era separato solo da una sbarra di metallo, Alberto ci andava sempre volentieri. Ma non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce davanti a lei.

Per qualche ragione, sentiva che Aurora sarebbe stata capace di ucciderlo, se lo avesse fatto.

«Mamma, quando la vede, diventa una furia e minaccia di volerla arrestare», aveva proseguito la ragazza, con candore. «Papà, invece, dice che non c’è niente di male e che non dà affatto fastidio. A quel punto la mamma si incazza ancora di più.»

Una sera che, come spesso stava accadendo in quell’estate, lui e Aurora erano entrati in argomento ufologia, avevano quasi litigato, visto che nessuno dei due voleva abdicare dalle proprie posizioni.

«Sei uno zuccone, Manfredino!» gli aveva gridato lei.

Sedevano in riva al lago, e lui aveva appena finito di dire che, per quello che lo riguardava, non c’era alcun UFO e la gente vedeva chissà quale cosa normalissima scambiandola per tutt’altro.

«E tu sei troppo fantasiosa!» era riuscito a replicare lui. «Leggi troppi di quei libracci che ti passa la tua vicina di casa!»

«Non credi a niente, nemmeno a ciò che ti trovi davanti agli occhi», aveva proseguito Aurora, con fare altezzoso. «Sono pronta a scommettere che, se adesso mi cavassi maglia e reggiseno e ti sventolassi le tette davanti agli occhi, diresti che non sei affatto sicuro di ciò che stai vedendo.»

A me non dispiacerebbe affatto, se lo facessi, si era scoperto a pensare Alberto. Ma questo mica te lo dico.

In ogni caso, poi lei non lo aveva fatto.

Adesso, però, era tutto diverso.

Perché adesso aveva appena visto un disco nero volare silenzioso e veloce in direzione di Peschiera, e lui stava percorrendo la statale nel tentativo di raggiungerlo e vederlo di nuovo. Ora avrebbero potuto raccontargli qualsiasi cosa, riguardo agli errori di percezione, ma di una cosa poteva dirsi più che certo: quello che gli era passato davanti agli occhi, non era stato un errore di percezione.

Non lo era stato affatto.

 

 

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Capitolo 9
*** 8. ***


8.

 

 

Valli Alpine, alla fine dell’ultima Era Glaciale

 

 

La valle, sferzata dal gelido vento del settentrione, era gremita di uomini e di donne. Vecchi e giovani, cacciatori e guerrieri, sciamani e saggi. La moltitudine era giunta da ovunque, da tutte le vallate e dalle cime più distanti, sfidando il freddo che montava man mano che la stagione invernale si approssimava, perché la voce si era sparsa.

Il momento era solenne e tutti erano accorsi alla chiamata degli dèi.

Diversi giorni prima, Gerg aveva riferito del suo incontro con le stelle discese di fronte a lui. Aveva ripetuto le parole che aveva ascoltato, non emesse da alcun corpo. Parole che gli erano risuonate tutto attorno e che aveva udito dentro di sé, prima ancora che fuori.

«Raduna tutti i tuoi simili, di’ loro di radunarsi al mio cospetto, perché io giungerò e porterò loro la mia parola di saggezza. Tu hai udito la voce di Vrillon, e tutti i tuoi simili ascolteranno a loro volta la mia voce, così che nel tempo futuro non vengano commessi errori e ingiustizie.»

In un primo momento, colto dallo sbalordimento, Gerg era stato invaso dal terrore. Il suo cuore aveva minacciato di esplodere, in preda al panico. Poi, però, aveva alzato gli occhi al cielo e aveva visto la girandola dai mille colori, simile a una rosa coronata di sfere, sollevarsi nel buio.

Aveva compreso che a parlare era stato un dio. Un dio che gli aveva dato un incarico. Un messaggio da riferire.

Senza perdere tempo, il giovane cacciatore aveva subito sfidato il buio e la stanchezza per fare ritorno al villaggio. Era stato trattenuto per un solo istante dal dubbio se stesse facendo la cosa giusta, nell’abbandonare a quel modo la preda che gli era costata tante fatiche. Ma non sarebbe stato via a lungo. Il giorno dopo avrebbe potuto recuperarla.

Così, Gerg aveva cominciato a correre.

Gli alberi si protendevano verso di lui, occhi fosforescenti lo spiavano dal fitto del buio fogliame, mormorii senza forma accompagnavano il suo passaggio. Il giovane non se ne curava. Correva, correva e basta.

Corse finché giunse alla riva del lago, in vista del villaggio di palafitte. La sua piroga era ancora tirata in secca nel punto in cui l’aveva lasciata. Nonostante la stanchezza stesse cominciando ad avere il sopravvento su di lui, Gerg la spinse in acqua e pagaiò con foga fino a raggiungere la base del gruppo di casette di legno e dalla copertura di paglia.

Si arrampicò e cominciò a correre lungo i pontili e la passatoie di cordami, chiamando a gran voce gli anziani e i capi del villaggio. Sorpresi, gli uomini si riunirono nell’edificio principale, sedendosi sulle panche che si snodavano tutto attorno alle pareti. Qualcuno accese il fuoco centrale per poter illuminare e scaldare la notte.

Sfinito, ansante e assetato, Gerg trovò lo stesso la forza per parlare.

E disse di ciò che aveva visto e sentito.

Narrò delle stelle che erano discese di fronte a lui e avevano parlato.

 

* * *

 

Ora il popolo era radunato.

Gente di ogni età, di ogni condizione e di ogni luogo aveva risposto alla chiamata. I figli dei principi erano affiancati a quelli dei pescatori; chi aveva avuto tra le mani il bastone del potere era fermo accanto a chi, in vita sua, aveva stretto solo strumenti da lavoro; guerrieri abituati a maneggiare la lancia per combattere attendevano ansiosi vicino a cacciatori che, quella stessa arma, l’avevano adoperata soltanto per sfamarsi.

Tutti erano lì per vedere e ascoltare gli dèi.

Gerg era immobile in cima a un tumulo, al di sotto delle fronde protese di un imponente albero di quercia. Il terreno scricchiolava di ramoscelli, foglie secche e ghiande cadute. I suoi occhi erano fissi al cielo, nel punto in cui sentiva che sarebbe comparso il dio. Non aveva nessun dubbio che colui che aveva detto di chiamarsi Vrillon sarebbe tornato, discendendo tra gli uomini per per portare il suo messaggio. Un messaggio che sarebbe stato ascoltato ed eternato, perché nessuno potesse dimenticarlo.

Alla base del tumulo, erano radunati i più vecchi e i più saggi, i sacerdoti del dio-cervo così come la sacerdotesse della Grande Madre. I loro sguardi erano ieratici, i capelli lunghi e gli abiti di pelle danzavano nel vento, sempre più pungente e impetuoso. Le uniche creature giovani, in quel consesso di anziani, erano Ania e i due piccoli che le si stringevano addosso, intimoriti da qualcosa che non comprendevano. Il grembo della giovane donna era sempre più gonfio di vita, e i suoi occhi non riuscivano a celare la trepidazione che l’aveva colta nel vedere il suo uomo lassù, solo, sotto l’attenzione di tutti, intento ad affrontare una forza sconosciuta.

Il gelo si fece più intenso man mano che il sole cominciò ad abbassarsi sempre più oltre i contrafforti rocciosi dei monti. I ghiacciai sulle vette parvero sfavillare di fuoco, quando i raggi rossi li accesero della loro luce. Presto, le ombre presero ad allungarsi sempre più. Il cielo si tinse di un pallido rosa, di viola, di nero. Le stelle lo punteggiarono con le loro forme arcane e incomprensibili, che celavano i più antichi misteri su cui gli occhi degli esseri umani si fossero mai posati.

Le voci crebbero d’intensità insieme al nero. Le preghiere divennero sempre più acute, grida elevate verso l’infinito.

Ania tremò, ma non per il freddo. La paura le stava stringendo lo stomaco, le mordeva il seno come una bestia feroce. Strinse ancora di più i due piccoli. Aveva un atroce terrore. Temeva che non sarebbe accaduto nulla, che il dio non si sarebbe presentato all’appuntamento. E sapeva che cosa questo avrebbe significato. Per Gerg non ci sarebbe stato nulla da fare. L’immensa folla, guidata dai sacerdoti, avrebbe sfogato su di lui e su tutta la sua famiglia la frustrazione di aver atteso invano.

La giovane donna chiuse gli occhi. Non voleva pensare a che cosa ne sarebbe stato di loro. Ma non poté fare a meno di rivivere le immagini che aveva visto succedere altre volte. Uomini, donne e bambini trascinati da loro simili invasati e ormai incapaci di arbitrio. Spogliati di ogni abito, fatti a pezzi, gettati tra le fiamme di un falò. Udì le grida di dolore dei suoi figli, avvertì l’odore putrido della carne che bruciava…

Dalle palpebre serrate di Ania presero a scorrere le lacrime.

Se soltanto Gerg avesse parlato con lei, prima di radunare gli anziani. Lo avrebbe persuaso a tenere per se quel segreto, a non rivelarlo. Ma il suo uomo sembrava essere stato colto da un furore divino, come se non fosse più padrone delle proprie azioni.

Riaprì gli occhi. Il suo sguardo acquoso faticò a mettere a fuoco i dettagli. Il gelo minacciò di ghiacciare le sue lacrime. Vide Gerg danzare e saltare, e non riuscì a capire se fosse a causa del velo di pianto che le offuscava la vista, oppure se il suo uomo fosse davvero in preda a un qualche tipo di mistico furore.

Poi accadde.

 

* * *

 

Dapprima fu una stella. Una stella tra le stelle.

Poi la stelle discese, sempre più in basso, sempre più grande.

La sua luce divenne rossa e prese la forma di un grandissimo piatto di colore nero, più nero della stessa notte, contro cui si stagliava con nitidezza.

L’intera vallata ammutolì quando quella solida luce nera e rossa si fece più vicina, imponente. Non si udì più alcun suono, al di fuori del sibilo costante del vento.

L’involucro che conteneva il dio si appoggiò al terreno, sulla cima di una collina che si trovava di fronte al tumulo su cui Gerg, immobile, era caduto in ginocchio, in segno di riverenza.

Per un istante, non accadde nulla. Poi si levò un fumo grigio e il dio, altissimo, indescrivibile, apparve nella sua reale figura.

«Qui è Vrillon che vi parla. Ho recato a voi tutti un messaggio per tutte le epoche.

Il mondo muterà e gli esseri che lo popolano si tramuteranno. Se nell’aspetto esteriore resteranno sempre gli stessi, dentro di sé diventeranno differenti. La trasformazione dei loro cuori sarà profonda e dirompente. Abbandoneranno i valori che li hanno legati alla natura. Proveranno odio per la roccia della montagna, ribrezzo per il verde dei boschi, disprezzeranno lo scorrere dell’acqua e l’andare delle stagioni. Essi dimenticheranno che il vero bene è quello che scaturisce dalla Madre Terra, a cui dovrà sempre essere riservato amore e rispetto.

Ma se tramanderete le mie parole, i vostri discendenti non dimenticheranno. Essi non commetteranno l’errore e non trarranno da ciò che li circonda altro al di fuori dell’occorrente alla sussistenza. Fate come vi dico, e i vostri discendenti resteranno puri come voi, continueranno a venerare alberi e animali, terra e natura. Perché se il messaggio di Vrillon sarà scordato, gli errori commessi aumenteranno ancora, sempre di più, fino a quando sarà troppo tardi per poter rimediare al funesto disfacimento che condurrà i vostri successori alla rovina. Una rovina che troverà il suo principio nell’egoismo e nella perdita dei valori che regolano le vostre esistenze e che sono il vero motore dell’esistere.

Falsi dèi e reali divinità malvagie cercheranno di sovvertire queste parole. I loro profeti vi prometteranno la salvezza in altre dimensioni, cercando di farvi scordare il rispetto dovuto alla natura che vi circonda e abita questa terra. Vi diranno che questo mondo è solo un luogo da sfruttare, perché la realtà sarà altrove. Tenteranno in ogni modo di indurvi alla morte, alla distruzione e allo sfacelo, parlandovi di magici e finti altrovi. Non prestate loro alcuna attenzione, non concedete loro alcun consenso, perché sarebbe la vostra completa rovina. Combattete costoro e non dimenticate che gli unici e veri dèi sono gli spiriti che vivono negli alberi, negli animali, nella terra i cui frutti vi sosterranno in cambio di amore e di rispetto, nel vento che vi rinfresca e nell’acqua che vi disseta. Non ascoltate la voce empia di chi dirà che l’uomo è immagine del dio e quindi superiore a tutto il creato, perché sarà una voce falsa e intrisa di pura malvagità. Il suo scopo è soltanto quello di condurvi alla rovina con una finta ed errata percezione di voi stessi. Diffidate di coloro che proveranno a innalzare gli esseri umani sopra le altre creature viventi, perché lo faranno sbagliando e sapendo di sbagliare.

Questo è il messaggio che, attraverso le infinite distese del cosmo, ho recato fino a voi. Tornerò ancora, nel vostro tempo futuro, per accertarmi che sia stato rispettato. E perché questo accada, ciascuno dei vostri discendenti dovrà essere come voi: puro e privo di dubbi nei confronti di ciò che vede. Soltanto credendo e avendo fede in valori più alti, e quindi disprezzando la mera materialità dell’esistere giornaliero, potrete avere accesso alla salvezza. Non sarà mai troppo tardi, ma sarà necessario che le menti siano sgombre, libere dalle disillusioni e dai vani dubbi.

È tempo che io vada. A voi il compito di eternare le mie parole, in attesa del mio ritorno. Trasmettetele e ciascuno dei vostri figli e dei loro figli sarà come voi. Ma se cadrete nel funesto errore, vi prometto che io sarò qui a vegliare e, ancora una volta, a cercare di impedire che voi, figli tra i figli della terra, della vostra benevola Madre, andiate incontro all’ultima rovina. Io, Vrillon, non vi abbandonerò.

Venerate la Madre, figli della Terra.

Amate essa come voi stessi, e non scordate che è il bocciolo della Rosa a celare la vita. Non scordate di onorarlo come merita.»

L’immagine del dio fu ancora una volta avvolta dal vapore. Scomparve all’interno del suo grande guscio nero, che tornò a sollevarsi nel cielo.

Il disco nero salì sempre più in alto, iniziando a vorticare come una girandola. Nove sfere colorate gli ruotarono attorno, rapidissime, emettendo un ronzio capace persino di sovrastare la voce sempre più impetuosa del vento. Girarono sempre più veloci, frammischiando i loro colori, fino a confondersi in un’unica immagine ruotante, di cui fu impossibile distinguere i reali contorni.

Luci rosse, blu, bianche, gialle e verdi parvero avvolgere quell’insieme misterioso, mentre tutto diventava sempre più piccolo e lontano. Il ronzio divenne flebile, finché, ancora una volta, fu soltanto il vento a cantare nella vallata.

Infine il dio che aveva parlato agli abitanti delle valli e dei monti scomparve nel buio della notte, stella tra le stelle.

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Capitolo 10
*** 9. ***


9.

 

 

Val Camonica, novembre 1988

 

 

«Molto bene, professor Lancellotti: lei ha effettuato una scoperta senza dubbio notevole e degna della massima considerazione. Dubito che qualcuno avesse mai anche solo sospettato della presenza di un graffito rupestre in questa parte della vallata.»

Nel tono di Giustini c’era una nota di scetticismo che non piacque al collega. Ma Peppe Lancellotti era abituato a dover lottare strenuamente, quando si trattava di difendere le teorie di cui si era fatto portavoce. Teorie alternative, che al mondo accademico non andavano a genio: anche per questo motivo, si era visto costretto a scegliere uno pseudonimo con cui firmare i suoi libri sui più svariati argomenti. Lui, per il mondo dell’editoria e per il grande pubblico, era Euprepio Filelozio. I pochi a conoscenza di quel segreto – tra cui lo stesso Giustini – si erano impegnati a non divulgarlo.

Decise di attendere, per scoprire dove sarebbe andato a parare il suo amico.

Giustini non si lasciò attendere.

Per un buon minuto, si spostò avanti e indietro lungo il graffito, osservandolo con attenzione e osservandone tutti i particolari. Più volte i suoi occhi si focalizzarono sulla rosa camuna che spiccava su tutte le altre figure. Scostò i rami più insidiosi, che impedivano una visuale completa. Era davvero interessato.

Ma non era d’accordo con Lancellotti.

«Purtroppo, professore, non mi sento minimamente di poter condividere la sua teoria in proposito delle immagini che abbiamo davanti agli occhi», disse, infine.

Lancellotti sollevò un sopracciglio dietro gli occhiali dalla montatura dorata.

«E lei, eh… avrebbe la cortesia di spiegarmi che cosa non la convince di preciso, dottor Giustini?» domandò, con fare pacato.

Giustini si girò a guardarlo. Represse a stento un sogghigno sarcastico.

«Che cosa non mi convince, professore?» disse.

Si girò ancora verso il graffito.

«Ma tutto! Per cominciare, il periodo in cui secondo lei sarebbe stato realizzato il graffito. Mi dice alla fine dell’ultima glaciazione…»

«E ne sono certissimo!» sbottò Lancellotti, colpito sul vivo. «Osservi gli animali raffigurati in basso a destra e nel centro: renne lanose, orsi delle caverne, cervi giganti! Non possono esserci dubbi!»

Giustini scosse con decisione il capo.

«Troppo stilizzati per capire davvero di che animali si tratti», obiettò. «Per quello che mi riguarda, resta valida la sola datazione riconosciuta in modo ufficiale: quella che attribuisce i graffiti dei Camuni al periodo di passaggio tra la fine dell’Età del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro.»

Lancellotti puntò i piedi come un mulo.

«Assurdo!» sbottò. «Questa datazioni, poi… a che cosa farebbero riferimento? Si tratta di speculazioni fatte e finite! E lei, caro dottore, ne è consapevole quanto me, eh…»

Il dottor Giustini lo ignorò.

«Ma non è certo la questione della datazione quella a turbarmi di più! Lei, professore, asserisce che su questa parete sia rappresentato un antico incontro tra esseri umani e popolazioni provenienti nientemeno che dallo spazio! Le sembra davvero plausibile, poter presentare in ambito accademico una simile farneticazione?!»

I toni stavano cominciando ad alzarsi. I due uomini, barricati sulle loro posizioni, non si stavano facendo alcuno scrupolo nel turbare la calma misteriosa del bosco con le loro voci fastidiose.

«Non sono farneticazioni, eh…!» sbottò Lancellotti. «E lei ha del tutto frainteso le mie parole.»

Peppe Lancellotti indicò la grande figura incisa appena sotto la rosa camuna.

«Io non ho mai parlato di intere popolazioni provenienti dal cosmo, eh… io ho solo detto che, quell’essere che possiamo vedere, è Vrillon!»

Giustini si sfregò le guance con evidente disagio.

«La prego, professore, non ricominci ancora una volta con questa storiella dell’alieno che trasmette messaggi via radio e televisione e di cui lei e altri sareste i seguaci!» ululò.

«Non è una storiella, eh…!» barrì Lancellotti. «Vrillon del comando galattico di Ashtar è una figura reale e concreta, eh… e noi non ne siamo affatto i seguaci: io e gli altri membri del Gruppo Alpha ne siamo i portavoce, gli ambasciatori! Noi abbiamo preso l’impegno di diffondere la sua novella e, al medesimo tempo, di cercare in giro per il mondo le prove dei suoi precedenti passaggi in mezzo a noi, eh…!»

Il dottor Giustini voltò le spalle al graffito e affrontò con aria minacciosa lo sguardo di Lancellotti. Quest’ultimo restò immobile, sostenendo i suoi occhi.

«Professore, io e lei siamo amici, ma non le permetto di servirsi di me per le sue… perdoni la parola… stronzate!»

A Lancellotti per poco mancò il respirò.

«Stro… non sono… stro… eh…» farfugliò.

«E le dico di più!» soggiunse Giustini. «Sono pronto a battermi a singolar tenzone, pur di dimostrare che ho ragione e che lei ha torto! La prego, dunque, di prepararsi al duello.»

Con un gesto fluido, il professor Lancellotti si sbarazzò di giacca e occhiali, gettandoli sull’erba. Giustini si rimboccò le maniche del maglione.

Come animali intenti a studiarsi, i due accademici presero a camminare in cerchio, senza perdersi di vista. Tenevano i pugni alzati davanti al viso, in guardia. Studiavano il punto migliore per attaccare.

Il gancio di Giustini partì quasi inaspettato. Lancellotti si scostò appena in tempo per evitare di essere colpito sul naso, e il pugno dell’amico gli sfiorò l’orecchio sinistro. Il dottore si sbilanciò e Lancellotti ne approfittò per rifilargli un montante al mento. L’altro incassò con un grugnito e rispose con un gancio da manuale. Peppe fu costretto ad alzare i pugni per parare e difendersi. Il nuovo gancio di Giustini, questa volta, raggiunse il suo scopo: con una potenza demolitrice, incontrò la guancia di Lancellotti e proseguì nella sua corsa fino a scontrarsi con il naso.

Il professore finì al tappeto, tra aghi di pino, pigne, castagne, foglie secche e radici.

«Si arrende, professore?» domandò Giustini, torreggiando su di lui. «O devo forse ricordarle che, da tutti i nostri precedenti incontri di boxe, lei è sempre uscito sconfitto?»

Lancellotti si mise seduto e strofinò via dal dolcevita il terriccio di cui si era riempito.

«Caro dottore, lei è fortunato che io sia sempre stato contrario alla violenza in tutte le sue manifestazioni, comprese quelle agonali, eh…» disse.

«La solita scusa», sogghignò Giustini.

Allungò la mano, afferrò Lancellotti per il braccio e lo aiutò ad alzarsi. I due uomini si ricomposero in fretta. Tornarono a guardare il graffito.

«Allora, non vuole proprio accettare che quello sia Vrillon?» domandò Peppe.

Giustini agitò la testa.

«Nossignore, no. Quello non è… non voglio nemmeno pronunciarlo, quel nome. Si tratta di un sacerdote, o di un principe, tutto qui. A lei, mio caro amico, va comunque l’immenso merito di aver scoperto questo straordinario esempio di arte rupestre delle valli alpine. Un graffito che sarà ricordato per sempre con il suo nome, vedrà.»

Lancellotti guardò con intensità la grande figura dell’essere extraterrestre.

«Ho quasi ultimato il mio nuovo libro», rivelò. «Si intitola Vrillon e gli antichi, eh… Come sempre, gliene manderò una copia omaggio, con autografo e dedica all’uomo più chiuso di mente che io abbia mai conosciuto, eh…»

Giustini annuì con un sorriso.

«La ringrazio per la stima e l’alta considerazione, professore», rispose. «E, come sempre, io sarò più che felice di stroncare il suo nuovo lavoro dalle pagine di ogni pubblicazione scientifica degna di questo nome.»

«Non si immagina nemmeno quanta pubblicità gratuita mi fa, con le sue recensioni negative, eh…», commentò Peppe.

«Ora che ne direbbe di andare a fare visita a quella bella trattoria che abbiamo visto prima?» chiese Giustini. «Non so a lei, ma a me passeggiare nei boschi e praticare il pugilato mette sempre un buon appetito.»

«Approvato.»

Con aria tranquilla, i due uomini si incamminarono di nuovo nel bosco, seguendo a ritroso il sentiero che li aveva condotti fino a lì. Alle loro spalle, un graffito rupestre con tutti i suoi arcani segreti.

 

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Capitolo 11
*** 10. ***


10.

 

 

Val Camonica, settembre 2021

 

 

«Suvvia, cerchiamo di essere razionali», sbottò Alberto. «Il fatto che, quando avevano quindici o sedici anni, con tutti i grilli che avevamo per la testa, ci sia sembrato di vedere…»

Aurora sbuffò, celando a stento la propria impazienza.

«Non ci è sembrato di vederla, Manfredino! L’abbiamo vista davvero!» Sorrise, maligna. «Guarda che me lo ricordo come se fosse successo ieri sera: mi hai fatto buttare via una sigaretta praticamente appena cominciata per trascinarmi a vedere quella cosa. Ora non vorrai dirmi che non c’era nulla, vero? Che era stato solo un modo per attirare la mia attenzione o cose del genere, giusto? Lo sai, no, che se qualcuno mi interrompe senza motivo mentre sto fumando divento nervosa, e che se divento nervosa mi faccio dispettosa, e che se mi faccio dispettosa, io…»

«Sì, sì, lo so» tagliò corto Manfredi.

Non aveva nessuna intenzione di scoprire che cosa Aurora sarebbe stata capace di fare, una volta diventata dispettosa.

Rischierei di perdere il sonno per una settimana intera, per via degli incubi, si disse.

Guardò con maggiore attenzione la rosa camuna ritratta sul graffito. Ne aveva già vedute parecchie, nel corso della sua vita, ma quella era una di quelle incise e conservate meglio. E non poteva di certo negare che non avesse una notevole somiglianza con ciò che aveva visto tanti anni prima, in una misteriosa e affascinante sera d’agosto che gli era rimasta per sempre impressa nella memoria.

Ma è davvero una somiglianza? Sono davvero due cose simili, per non dire del tutto analoghe? Oppure si tratta soltanto di una semplice coincidenza?

Non andava matto per le coincidenze. Aveva imparato da tempo che le coincidenze, semplicemente, non esistono. In vita sua aveva visto, sentito e fatto cose tali che, alla fine, si era convinto che, dietro a qualsiasi accadimento, ci fosse un motivo. Forse, qualche volta, poteva essere tutto frutto di casualità. O forse sbagliava, ed era sempre un puro caso, a mandare avanti le cose.

Però, non riusciva davvero a convincersene.

Solo che, accettare che non fosse una coincidenza, significava accettare una verità enorme e sconvolgente.

Passi che io abbia visto un disco volante. Ci può stare, in questo secolo: magari era davvero un UFO, oppure era qualcosa di normalissimo ma che io e Aurora non siamo riusciti a riconoscere, per qualche motivo. Fosse solo questo, mi andrebbe tutto bene.

Solo che non era solo quello.

Perché qui c’è da dover ammettere, allora, che gente di non so quanti millenni fa abbia visto un qualcosa di strano che compiva manovre nel cielo. E a quel tempo non c’erano aerei, palloncini o satelliti con cui fare confusione.

C’era una parola che riassumeva alla perfezione quell’idea.

Cazzo.

Ma l’immagine che stava guardando parlava fin troppo chiaro. E quel graffito che aveva davanti agli occhi, ora, non si limitava a riportarlo indietro nel tempo di migliaia e migliaia di anni, rivivendo gli accadimenti di cui erano stati testimoni gli uomini del lontano passato. Perché esso lo faceva ringiovanire ai suoi diciassette anni, a quell’estate della fine degli anni Duemila che gli era rimasta impressa nella memoria. Questo dannato pezzo di pietra incisa creava un collegamento tra il passato remoto e quello prossimo, e sarebbe stato molto più facile poterlo ignorare e fingere di non avere visto nulla.

Purtroppo, per quanti sforzi facesse per dirsi il contrario, Alberto Manfredi doveva convenire con la sua amica Aurora: loro, insieme, quella cosa l’avevano vista per davvero. Ne erano stati testimoni insieme a tante altre persone, e quell’immagine non se ne sarebbe mai più andata dalla sua mente.

 

 

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Capitolo 12
*** 11. ***


11.

 

 

Peschiera del Garda, provincia di Verona, agosto 2009

 

 

«Forza, Pippo, datti una mossa. Devi per forza far passare tutti gli alberi?»

Gianluca stringeva nella mano il guinzaglio di Pippo, il suo bastardino. Un incrocio di varie razze, non aveva mai capito nemmeno lui a che cosa assomigliasse: era una palla di pelo grigio e nero, perennemente arruffata. Come ogni sera, l’aveva portato fuori per la passeggiata e i bisogni. E, come ogni sera, Pippo stava conducendo minuziose analisi scientifiche a colpi di naso e di fiuto contro ogni singolo tronco dei pini marittimi che ornavano il lungolago.

«Non hai voglia anche tu di andartene a casa e buttarti sulla sdraio in giardino?» disse ancora Gianluca.

Il solo responso di Pippo fu fiutare con maggiore attenzione il tronco. Si girò di spalle, sollevò la zampa posteriore e lasciò partire un breve zampillo. Anche quel tronco era conquistato. Roba sua.

«Bene, hai fatto? Che ne dici se adesso…?»

Le parole morirono in bocca a Gianluca. Strabuzzò gli occhi e restò a bocca spalancata. Come lui, moltissimi passanti, sbalorditi, si immobilizzarono e restarono a guardare il cielo, incapaci di credere a ciò che stavano vedendo. Qualcuno disse che doveva essere un miraggio. Qualcun altro imprecò. Un paio di bestemmie volarono da un capo all’altro della strada. Anche Pippo guaì e corse a rifugiarsi dietro le gambe di Gianluca.

 

* * *

 

Paolo e Daniele erano seduti sull’erba.

Il profumo del lago li avvolgeva, mischiandosi ai loro odori naturali. Erano vicini e le mani si sfioravano. Complici il buio crescente della notte e un paio di lampioni rotti che nessuno si era ancora preso la briga di aggiustare, potevano stare insieme in piena libertà, senza dover subire le solite occhiatine petulanti della gente. Che, poi, le occhiatine erano ancora poca cosa, rispetto ai commenti che il più delle volte li inseguivano. Commenti aspri, cattivi, a cui facevano seguito risate sciocche e imitazioni gergali.

Qualcosa a cui non sarebbero mai riusciti ad abituarsi. Potevano soltanto sperare che, prima o poi, la gente si sarebbe finalmente messa in testa che la normalità era la loro. Loro erano normali, mentre non lo erano affatto quelle persone che stigmatizzavano a prescindere qualsiasi cosa, senza curarsi di scoprire se, chi avevano davanti a sé, possedesse un’anima, dei sentimenti, un cuore pulsante. La gente tende ad avere paura di tutto ciò che non conosce e che non vuole conoscere: e, siccome ha paura, attacca e ferisce, nelle maniere più atroci.

I due ragazzi sapevano tutto questo. Conoscevano le difficoltà. Avevano sperimentato più volte sulla propria pelle la cattiveria. Non erano stati insultati apertamente, né avevano subito violenze fisiche; almeno in questo, potevano dirsi fortunati. Ma ai sussurri che li inseguivano, alle risatine, agli sguardi velenosi… a tutto questo non si sarebbero mai davvero abituati.

E allora, per fortuna, la natura veniva loro in aiuto. La notte diventava la complice silenziosa e discreta del loro amore. Nel buio, in mezzo alle tenebre, potevano essere se stessi senza timore di nulla.

La mano di Paolo accarezzò il fianco di Daniele. I loro corpi si strinsero e le bocche si sfiorarono in un bacio delicato. Il primo di quella notte dei loro segreti.

Una luce improvvisa, un baluginio di colore rossastro li colse di sorpresa, facendoli sobbalzare entrambi. Confusi, si guardarono attorno, cercando di capire che cosa stesse succedendo. La paura di essere stati seguiti e sorpresi da qualche tipo balordo scemò all’improvviso quando, in alto nel cielo, videro ciò che li aveva illuminati in quella maniera.

 

* * *

 

Ivano Fagioli camminava con le mani affondate nelle tasche dei jeans.

Camicia a quadretti, capelli lunghi, occhiali Ray-Ban da vista, macchina fotografica appesa al collo… era nato negli anni ‘80, cresciuto in quel decennio e nel successivo, e a quelli era rimasto legato. Forse era anche per tutti i film e le serie tv a carattere fantascientifico che lo avevano accompagnato in quel periodo indimenticabile, che aveva deciso dedicarsi all’ufologia.

Aveva letto tutto il possibile, aveva guardato documentari di ogni genere. Ogni mattina e ogni sera, quando accedeva a Internet, la prima parola che scriveva nel motore di ricerca era “UFO”. Così, giusto per essere sicuro che non gli scappasse nulla. Stampava tutti gli articoli che trovava, e dai quotidiani cartacei ritagliava ogni singolo trafiletto in merito alla questione. Il suo archivio personale, poteva ben dirlo, era ricchissimo. Una vera miniera d’oro per l’ufologia.

L’idea di fare il passo avanti e cominciare a curare un blog gli era venuta l’anno prima. Fino a quel momento, gli UFO si erano palesati altrove. Adesso, però, erano proprio lì, sul tetto di casa sua: aveva deciso di approfittarne. E aveva funzionato. Il suo blog era seguitissimo e, qualche giornale locale, aveva citato i suoi articoli.

Una vera soddisfazione.

Ivano diede un calcio a un sassolino, che rotolò lungo il marciapiede, oltrepassò la ringhiera in ferro battuto che delimitava il fiume e cadde nel Mincio.

La soddisfazione, sul piano teoretico, l’aveva raggiunta. Sul piano pratico, non poteva certo dire lo stesso. Sentiva che gli mancava qualcosa. Qualcosa di importante. Qualcosa che avrebbe fatto di lui un vero ufologo e che lo avrebbe ammesso di diritto nel panorama e nell’olimpo degli esperti del settore.

Gli mancava di compiere un reale avvistamento. Riportare quelli altrui era stimolante, ma finché non avesse avuto occasione lui stesso di vedere qualcosa con i suoi stessi occhi, gli sarebbe sempre rimasto addosso l’annoso dubbio: è realtà, oppure finzione?

Dopo essersi accertato che non arrivassero automobili, Ivano attraversò la strada. Risalì via Marzan per qualche decina di metri e svoltò in via Salgari. Casa sua era una villetta singola, che aveva ricevuto in eredità da uno zio, insieme a un cospicuo patrimonio che gli aveva permesso di dedicarsi alla sua attività senza troppi pensieri riguardo al vivere quotidiano. La proprietà era cintata da una ringhiera ombreggiata da una fitta siepe di alloro, che nascondeva del tutto alla vista il giardino. Dalla strada era impossibile vedere il terrazzino al secondo piano, dove Ivano trascorreva lunghe notte a fissare il cielo, nella speranza di osservare qualcosa.

Si fermò davanti al cancello. Con un certo orgoglio, osservò la targa di ottone dorato che vi aveva infisso, e che recava la dicitura “G.S.U.G. – Sede Nazionale”. Infilò di nuovo le mani in tasca, alla ricerca del mazzo di chiavi.

Le stava provando una per una nella serratura del cancello – ancora non aveva imparato a riconoscere quella giusta – quando una luce insolita, rossa e scintillante, lo investì in pieno, distraendolo.

Ivano si voltò a guardare che cosa stesse succedendo e, per poco, non gridò per lo stupore.

 

* * *

 

Marta e Francesca uscirono dal bar e si diressero con passo calmo lungo il marciapiede, verso il parcheggio in cui avevano lasciato gli scooter. La prima aveva i capelli di un nero lucente, come i suoi occhi. La seconda aveva tinto le sue chiome di un verde quasi fosforescente.

«E allora io gli ho detto che, se voleva scopare, a me stava anche bene, ma solo se si metteva il preservativo», stava dicendo Francesca.

Marta le lanciò una breve occhiata con i suoi grandi occhi neri.

«E lui l’ha messo?» chiese.

«Macché!» brontolò Francesca. «Ha detto che non ce l’aveva, e che poi non gli piace comunque, perché vuole sentire la carne contro la carne e non la plastica. E sai cosa ha detto? Che tanto lo tirava fuori in tempo!»

«Eh sì, certo!»

«No, ma infatti, cioè, gli ho detto che così non se ne faceva niente», andò avanti Francesca. «Cioè, insomma, io non ho una cazzo di nessuna voglia di restare incinta solo perché lui non vuole spendere cinque euro in più.»

«Però peccato, perché Fabio è proprio un bel manzo, io a una cavalcata con lui non ci rinuncerei», disse Marta.

Le due ragazze svoltarono in una stradina attorniata da alcuni cespugli di oleandro. Anche a quell’ora, il profumo delicato dei fiori si faceva sentire con piacere. La musica alta del bar continuò ad accompagnarle. In quel momento, stavano trasmettendo per l’ennesima volta – doveva essere la dodicesima, dalle sei del pomeriggio – LaLa Song di Bob Sinclar.

«Ma infatti, nemmeno io, però gliel’ho detto chiaro e tondo, che dentro non me lo ficca, senza preservativo», replicò Francesca.

«E così?» chiese Marta.

«E così, gli ho detto che se voleva potevo succhiarglielo, e figurati se mi ha detto di no», proseguì la ragazza, scuotendo la testa e agitando i suoi capelli verdi. «E sai che roba? Mi è venuto in bocca quasi subito, veloce come un fulmine! Quello mi sborrava nella figa, altro che! E per giustificarsi, ha detto che è colpa delle polveri che usa per gonfiarsi i muscoli e che lo fanno venire alla svelta.»

«Ah, ma quindi non è che sia un granché a letto?»

Francesca sbuffò, irritata.

«Ma che cazzo ne so: dopo mi sono messa lì a gambe larghe, ho pensato, adesso mi leccherà la passera, visto che gli ho fatto un pompino, no? Eh, no! Si è tirato su i pantaloni e ha detto che doveva vedersi con gli amici per una birretta e mi ha lasciato lì come una stronza.»

Marta fu sul punto di replicare qualcosa di estremamente sferzante di quel Fabio così poco attento alle esigenze femminili, quando qualcosa le distrasse dalle loro chiacchiere.

La luce rossa lampeggiò, illuminandole completamente. Fu così forte che tutte e due alzarono le mani davanti al viso per ripararsi gli occhi.

Non appena fu possibile, guardarono verso il lago, oltre gli oleandri, per capire che cosa stessa succedendo. Le due ragazze, esterrefatte, mandarono un gridolino e si dimenticarono all’istante delle scarse prestazioni sessuali di quel manzo di Fabio.

 

* * *

 

Lanfranco, quella sera, stava mantenendo un buon ritmo di camminata. Il contapassi digitale che teneva legato al polso diceva che aveva già percorso quindici chilometri senza mai rallentare la sua andatura.

Molto bene.

Capelli lunghi e grigi legati sotto una bandana, barba bianca che contornava il volto rugoso, magrezza estrema – quasi eccessiva – messa in risalto dalla canottiera nera su cui era raffigurato un teschio messicano e dai jeans scuri e attillati, braccia coperte di tatuaggi che doveva essersi fatto da solo con l’inchiostro, Lanfranco Bonometti non aveva soltanto l’apparenza di un vecchio hippie.

Lui lo era davvero.

Oltre a questo, era anche scrittore di fantascienza e di filosofia. Due generi che soltanto in apparenza non andavano d’accordo. In realtà, tra le due cose, c’erano innumerevoli punti di contatto; e, quando non ce n’erano, lui riusciva comunque a scovarli e a farli emergere. Purtroppo, la fantascienza era ormai in declino e della filosofia non interessava più a nessuno. I lettori delle opere di Lanfranco, insomma, si riducevano a vista d’occhio mese dopo mese. Ma a lui non importava. Meglio averne pochi, ma buoni, che troppi soltanto per una fama il più delle volte immeritata.

Da un paio d’anni a quella parte, le lunghe passeggiate erano diventate un obbligo, per il vecchio hippie. Una gioventù spesa tra bagordi e droghe di vario genere aveva minato il suo fisico. Ora, se non voleva finire troppo presto in una tomba – e lui, per quanto curioso del mondo aldilà, per adesso si sentiva ancora bene dove si trovava – era costretto a compiere ogni sera delle lunghissime passeggiate. E a Lanfranco, dopotutto, piaceva camminare: lo aveva sempre fatto, in fondo, sin da quando era bambino.

Quando non passeggiava e non scriveva i suoi racconti – nei quali, il più delle volte, filosofia e fantascienza si mischiavano a eventi autobiografici camuffati in vario modo – Lanfranco si dedicava alle ricerche su internet. Reputava il computer e la rete le più grandi invenzioni mai messe a punto dall’essere umano, insieme alla ruota nei tempi preistorici. Avevano reso il mondo un luogo molto più piccolo e aperto, avevano permesso di sondare segreti altrimenti inconoscibili, di avvicinare persone interessanti che, in caso contrario, non sarebbe mai stato possibile incontrare.

In rete, Lanfranco si occupava principalmente di visitatori extraterrestri. Il nome con cui era conosciuto dagli internauti era Lanfra47. Frequentava vari siti, tutti a carattere ufologico. E, da quando aveva letto degli avvistamenti avvenuti sul lago di Garda, Lanfranco aveva deciso di spostare le sue passeggiate notturne dalle campagne del bresciano alle sponde lacustri.

Lui lo aveva sempre saputo che, prima o dopo, loro sarebbero tornati a mostrarsi. Era da oltre quarant’anni che aspettava il grande momento, che Vrillon il Saggio gli aveva annunciato quando gli si era manifestato nel Tempio delle Anime. Adesso il tempo era giunto, lo sentiva.

Lanfranco si sentiva un estraneo in questo mondo che lo aveva sempre rifiutato. Da giovane, i vecchi del paese lo guardavano storto e borbottavano improperi al suo passaggio. Non tolleravano la presenza di quel ragazzino con la testa piena di grilli e dall’aria stravagante. Ora che il vecchio era lui, a guardarlo male erano i giovani, che non riuscivano a capire come potesse un uomo della sua età andarsene in giro conciato a quel modo e dedicarsi ancora ad assurdità come le storielle che scriveva.

Un pesce fuor d’acqua da sempre e per sempre. Una condanna dell’esistere a cui mai avrebbe rinunciato. Essere una persona “normale” solo per compiacere gli altri? Mai. Anche perché, alla fine, non gli era mai stato troppo chiaro, il concetto di “normalità”. Per quello che lo riguardava, erano gli altri, con il loro conformismo, con il loro essere tutti uguali gli uni agli altri, con la loro pressoché totale assenza di fantasia, a essere dei poveracci che non sapevano davvero che cosa si stessero perdendo. Solo che lui, contrariamente a loro, non li condannava in nessun modo: ciascuno doveva essere libero di poter vivere come desiderava, senza giudicare né essere giudicato.

Tuttavia, non poteva nemmeno negare che lo ferisse il fatto che i suoi simili non riuscissero davvero a comprenderlo. Aveva sperato che, con l’andare degli anni, certi atteggiamenti sarebbero cambiati. Si era dovuto disilludere. Erano trascorsi i mesi, gli anni e i decenni, lenti e inesorabili. Erano cambiate le mode, era cambiato il mondo, era cambiato tutto. Quasi tutto, anzi: perché certi atteggiamenti si erano tramandati intatti da una generazione all’altra. Si giudicava – e condannava – come sempre si era fatto. Invece di cercare di comprendere chi in apparenza era diverso, lo si buttava via come uno straccio vecchio. Non si voleva che certi individui insozzassero una società perfetta, con le sue regole e i suoi modi prestabiliti da sempre e per sempre.

Ma Vrillon gli aveva promesso che le cose, almeno per lui, sarebbero mutate. E il saggio inviato da Ashtar non avrebbe mai detto una menzogna. Era tutta la vita che Lanfranco attendeva e, adesso, sentiva che il momento era prossimo. Qualcosa glielo suggeriva, se lo sentiva nell’anima.

Erano diversi giorni che avvertiva qualcosa di insolito. Quella notte, però, la sensazione era stata più forte che mai. Per tutta la durata della camminata si era sentito distratto, distante. Esclusa l’ipotesi che si stesse per fare largo dentro di lui un attacco cardiaco, aveva concluso che stesse per accadere qualcosa.

Non sapeva bene che cosa, di preciso. Ma lui era pronto alla trasformazione. Era sempre stato pronto.

Notò un guizzo luminoso che attraversò il cielo. Un altro lampo di luce lo indusse a fermarsi. Si affiancò a un frassino che affondava le sue radici nelle acque palustri di un canneto e si appoggiò al tronco. Oltre le canne poté vedere le luci accese sulla sponda bresciana del Garda. Ma non fu su quelle che si focalizzò la sua attenzione.

Gli occhi di Lanfranco corsero al cielo e videro.

Videro ciò che anelavano di vedere da un tempo lunghissimo.

Sulle sue labbra contornate dalla barba e dalle rughe, si disegnò il sorriso consapevole di chi abbia appena ricevuto l’illuminazione.

 

* * *

 

Luisa, per quella sera, aveva programmato di restarsene distesa sul divano di casa, davanti alla televisione: su Italia Uno ci sarebbe stata una replica di Mistero, un programma di cui anelava essere ospite per poter rivelare al mondo intero le sue conoscenze cosmiche; mentre Rai Due avrebbe trasmesso la sua serie TV preferita, Ghost Whisperer, con protagonista quella bella piccoletta e tettona della Jennifer Love Hewitt. Insomma, la sua serata sembrava più che stabilita fin dal mattino.

Poi, però, nel pomeriggio, era successo qualcosa.

Come ogni giorno, dopo il tè bollente alle spezie delle 16.30, si era spogliata di ogni indumento e si era seduta a gambe incrociate sul tappeto persiano nel salotto, accanto alla grande piramide di vetro. La musica ambientale diffusa a discreto volume dalle casse dello stereo le aveva accarezzato i timpani e il fumo dei vari incensi accesi qua e là le aveva solleticato le narici. Aveva sollevato le braccia, unito le dita delle mani, chiuso gli occhi e tratto un profondissimo sospiro.

Era, come sempre, il momento di mettersi in contatto con Selenius Maximus. Dentro di sé, sperò che fosse eccitato, perché aveva una gran voglia di sesso, quel pomeriggio. E Selenius era il solo in grado di soddisfare per davvero tutte le sue più insaziabili voglie. Nessun essere umano sarebbe mai stato capace di far provare a Luisa le stesse sensazioni profonde che, ogni volta, le regalava la sua guida spirituale cosmica. Selenius Maximus la lasciava sempre piacevolmente sfinita.

Ma quel pomeriggio, Selenius aveva ben altre cose, per la mente, che non il piacere fisico.

Dopo essere entrata in uno stato di contemplazione interiore molto avanzato, Luisa vide comparire di fronte a sé la figura evanescente e misteriosa di Selenius. Altissima, bellissima come sempre, la figura emanava una luce calda e avvolgente.

Parlò.

«Questa stessa notte voi umani riceverete un segno tangibile della nostra benevolenza verso di voi», disse la voce, lontana e vicina, forte come le comete lanciate negli spazi astrali. «Se sarete capaci di accettarlo, un nuovo passo sarà compiuto perché giunga il momento dell’Incontro. Recati presso la grande concentrazione del liquido vitale e tieni gli occhi fissi all’infinito. Lì vedrai i miei emissari.»

Così aveva detto Selenius Maximus. Ancora frastornata, Luisa era uscita dal suo stato comatoso e si era ritrovata sul tappeto, ansante e sudata. Il messaggio della sua guida aveva continuato a risuonarle in mente per tutto il pomeriggio.

Adesso era il momento tanto atteso.

Il sole era calato e le lunghe ombre avevano ghermito la spiaggia e il lago, tramutandolo in una lastra nera. Luisa si sorprendeva sempre di come, già ad agosto, le ore di luce tendessero ad accorciarsi.

Seduta a gambe incrociate sulla spiaggia, le mani affondate nei sassi umidi, i piedi nudi, con un ampio scialle multicolore sulle spalle e i numerosi ninnoli di metallo – appesi ai lobi e al collo, infilati ai polsi e alle caviglie – che tintinnavano a ogni minimo movimento, avvolta adesso non dall’odore di incenso ma da quello delle alghe che marcivano presso la riva un poco ritirata, Luisa fece come le era stato detto. Tenne gli occhi fissi all’infinito.

Le stelle, con la loro purezza, le parlarono di mondi lontanissimi. Le costellazioni le suggerirono strade di luce capaci di condurre a una nuova conoscenza. Nebulose e pianeti narrarono di mitiche imprese di cui pochi uomini e donne sarebbero mai stati davvero al corrente.

E poi venne la luce rossa e Luisa vide.

 

* * *

 

Aurora era seduta sopra lo schienale della panchina, i piedi abbandonati sul sedile. Quella sera, indossava shorts di jeans tanto corti e attillati da lasciar fuoriuscire la parte inferiore delle chiappe e una canottiera nera. Aveva raccolto i capelli rossi in due trecce, che le ricadevano sulle spalle. Stava fumando la sua sigaretta e non aveva nessun altro pensiero al mondo.

Il rumore scoppiettante del motore le fece alzare gli occhi. Lo avrebbe riconosciuto tra mille altri. La vecchia Vespa ansante e affannata di Alberto era inconfondibile.

Senza smettere di fumare, osservò il suo amico fermarsi di colpo al limitare del parco pubblico, lasciare la Vespa sul cavalletto e cominciare a correre verso di lei. Mentre avanzava a grandi falcate, si sfilò il casco, liberando la massa dei suoi lunghi capelli castani, che gli ricaddero in disordine sul viso e sotto le spalle.

«Aurora… Aurora!» chiamò Alberto.

La ragazza trasse una lunga boccata di fumo e la lasciò scivolare piano da naso e bocca. Non si scompose, ma lo osservò con una certa meraviglia. Di solito, Manfredino era un tipo molto calmo e riflessivo. Non ricordava di averlo mai visto tanto agitato.

«Che cazzo hai combinato, si può sapere?» chiese a bruciapelo, appena lui fu vicino. «Non avrai mica tirato sotto qualcuno con quel catorcio, spero. Per stanotte non ho affatto voglia di aiutarti a occultare cadaveri. Però, se proprio tocca…»

La ragazza prese un’altra boccata di fumo.

«…se tocca lo faccio, va bene. Ma poi mi devi dare qualcosa in cambio. Qualcosa a mia scelta.»

Aveva parlato con una serietà tale da sembrare davvero convinta che lui avesse investito e ucciso qualcuno e poi fosse corso in cerca del suo aiuto.

Alberto si fermò davanti alla panchina e vi buttò sopra il casco.

«Cosa…?» sbottò. «No, no…»

Riprese fiato in fretta.

«Aurora, svelta, devi venire con me! C’è una roba che devi vedere prima di subito!»

Lei gli scoccò un’occhiata assassina. Abbassò gli occhi alla mano che reggeva la sigaretta.

«Sto fumando.»

Una risposta che valeva più di mille altre parole. Quando Aurora fumava, non andava disturbata. Per nessun motivo.

«Puoi fumare anche se…»

«Assolutamente no», replicò lei. «Ho il culo comodo su questa panchina e da qui non mi muovo finché non lo decido io.»

Alberto parve esasperato.

«Cazzo, sono stato quasi sul punto di farmi investire tre volte e ho quasi rischiato di incappare in una pattuglia degli sbirri, per correre qui da te e farti vedere quella roba, quindi ora alza quelle chiappe molli e vieni con me, porco di quel…» E, a questo punto, Alberto Manfredi evocò il Padre Divino.

Aurora fece un sogghigno.

«Mi piaci quando ti imponi, Manfredino», disse melliflua. «Mi ecciti tutta. Non so dirti se mi sono anche bagnata, perché con questo cazzo di caldo sto sudando persino dalla Filippa e non me ne accorgo, ma… mi hai convinta. Quando tiri fuori le palle a questo modo mi accendi tutta.»

Alberto inarcò un sopracciglio. Quel nome lo aveva colto talmente di sorpresa che, per un istante, dimenticò il motivo che lo aveva fatto correre fino a lì.

«La Filippa?» ripeté. «E chi sarebbe, scusa?»

Aurora gli rivolse un sorrisetto indulgente.

«Non lo indovini, Manfredino?» Si colpì con una manata tra le gambe. «È la mia migliore amica, no?»

«Ah…» Alberto deglutì. «E da quando si chiama così?»

«Da questo preciso istante, se non ti dispiace che dia il nome alle mie parti quando ne ho voglia», replicò la ragazza.

Aspirò un’ultima boccata di fumo. Saltò giù dalla panchina e torreggiò su di lui in tutta la sua altezza. Lo sovrastava di oltre una spanna e mezza. Con il rammarico nello sguardo, gettò in terra la sigaretta e la schiacciò sotto il tacco dell’anfibio. Con qualsiasi abbigliamento e con qualsiasi clima, Aurora non avrebbe mai rinunciato ai suoi anfibi neri, perennemente impolverati.

«Ma ti avverto che, se la cosa che devi farmi vedere non mi interessa, dovrai farmi un massaggio ai piedi tutte le sere fino a settembre e dovrai comprarmi tre o quattro pacchetti di sigarette. Come minimo.»

«Ti faccio tutto quello che vuoi, ma ora datevi una mossa, tu e la tua Filippa!»

Le fece cenno di seguirlo. Adesso, doveva ammetterlo, Aurora era quantomeno curiosa.

Alberto la guidò fino alla Vespa. Cercò di avviarla, ma al quarto tentativo dovette desistere. Il motore surriscaldato non ne voleva proprio sapere di mettersi in moto.

«Dammi retta, Manfredino, a questo affare faresti meglio a dare l’eutanasia. Vedrai che starà bene, nel paradiso delle Vespe», commentò lei, aspra e ironica.

«Fa niente, se facciamo una corsa a piedi, forse lo becchiamo ancora», replicò lui.

Cominciò a correre lungo la strada. Interdetta, per un istante Aurora restò ferma a guardarlo passare attraverso i coni di luce proiettati dai lampioni. Infine, si decise a seguirlo. Ora era dannatamente curiosa.

Non le ci volle molto per coprire la distanza che li separava. Anche a scuola, in palestra, Aurora si lasciava sempre tutti quanti alle spalle. Presto però si trovò con il fiato corto. Forse, quell’estate, aveva esagerato un po’ troppo, con il fumo.

«Mi dici cosa cazzo sta succedendo?» sbottò, ansante.

«Aspetta…» borbottò Alberto, senza rallentare il passo.

Continuarono a correre. I pochi passanti li guardarono come se fossero due pazzi. Aurora fu attraversata dal medesimo dubbio. Presto, comunque, si rese conto che Alberto la stava guidando verso il lago. Sembrava che stesse andando verso il Lido Campanello.

E fu infatti nella piazzetta antistante il porticciolo che si fermarono.

Senza fiato, con la milza dolorante e i polmoni infiammati, Aurora si compresse il seno con le mani e si piegò su se stessa.

«Manfredino, giuro che se è uno scherzo del cazzo ti trascino fino a casa per le palle, e dopo te le addento anche, e il mio non è affatto uno scherzo, ti ricordi che l’ho già…» riuscì a mormorare.

Invece che lasciarle il tempo di terminare la sua minaccia, e senza dire alcuna parola, Alberto l’afferrò per il braccio e la trascinò quasi di forza verso la spiaggia. Passarono sulla striscia di erba rinsecchita e calpestarono la ghiaia della riva. Cric-cric. Si fermarono in faccia al lago. Una paio di nutrie, simile a grossi topi, spaventate dal loro avvicinarsi, si tuffarono in acqua.

«Che cazzo stai…» cominciò lei.

Alberto le prese il mento tra le dita e la obbligò a volgersi verso la lastra nera del Garda.

Solo che, in quel momento, la lastra nera sfavillava di rosso. E dal rosso passò all’arancio, dall’arancio al giallo e poi al blu, al viola, al marrone, al verde, a una moltitudine di colori indefinita. Una tavolozza vorticante che si specchiava nelle acque calme del grande lago.

Aurora, suo malgrado, fece un sobbalzo. La sua mano artigliò quella di Alberto e la strinse in modo convulso.

Davanti ai loro occhi, si stava presentando il più stupefacente degli spettacoli.

 

 

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Capitolo 13
*** 12. ***


12.

 

 

Reggio Emilia, maggio 2013

 

 

Nell’aula del liceo serpeggiava un forte entusiasmo. I ragazzi e le ragazze non facevano che sporgersi l’uno verso l’altro, parlottando tra di loro. Un brusio che non mancò di arrivare alle orecchie del professor Lancellotti che, con le spalle rivolte ai suoi studenti, stava tracciando sulla lavagna uno schema riassuntivo della filosofia di Marx applicata al modello sovietico.

Di scatto, si voltò a fronteggiare i suoi giovani alunni.

«Si può sapere che cosa avete, oggi?» sbottò. «Guardate che Marx è molto probabile che vi venga chiesto all’esame di maturità, eh…»

Capelli e barba bianchi, occhiali dalla montatura dorata, giacca, camicia e pantaloni eleganti ma lisi, il professor Lancellotti aveva tutta l’aria di un vecchio topo di biblioteca. Nonostante questo, i suoi studenti lo rispettavano: prima di tutto, perché durante le interrogazioni amava ascoltare il suono della propria voce, finendo così quasi sempre per rispondersi da solo alle domande che aveva posto, gratificando poi l’interrogato di turno con un voto altissimo; e, in secondo luogo, perché era un uomo con cui si poteva parlare di qualsiasi argomento, non soltanto di Storia e di Filosofia, che erano i suoi campi di insegnamento.

«Stavamo parlando dell’avvistamento UFO che c’è stato ieri sera qui nella provincia, professore», replicò Costanza. La ragazza, seduta in prima fila, era sempre la prima a rispondere alle domande.

«Sì, lo ha visto anche lei?» chiese Claudia.

«Ne hanno parlato al telegiornale», aggiunse Federica.

Fu tutto un cinguettare di voci femminili. Le ragazze sembravano provare un’attrazione irresistibile, per quell’uomo maturo e affascinante, di età indefinibile.

Il professor Lancellotti ammiccò.

«Ho sentito qualcosa, sì», ammise. «Ma ora pensiamo a Marx e a Lenin, eh…»

Fece per voltarsi di nuovo alla lavagna, ma un coro di lamentele lo inseguì.

«Ma quello è il passato!» si levò chiara la voce di Costanza. «Gli UFO potrebbero essere il nostro futuro, no?»

«Lei crede che potrebbe avvenire un contatto tra popolazioni della Terra e esseri extraterrestri, professore?» disse Gabriele.

«Ci sarà pure qualche filosofo che ha trattato l’argomento, no?» domandò Lucrezia.

Con un sospiro, il professor Lancellotti tornò a guardare ancora i suoi studenti. Era chiaro che, per quella mattina, la filosofia collettivista avrebbe dovuto essere messa da parte. Non che al docente dispiacesse: trovava sempre piacevole cogliere l’entusiasmo e l’interesse dei giovani, fosse anche per un argomento assai al di fuori dei programmi ministeriali.

«Vari uomini illustri se ne sono occupati, sì», rispose.

Infilò il gessetto in tasca, si pulì alla meglio le mani e cominciò a camminare avanti e indietro per l’aula, a passo lento. Tutti gli occhi si focalizzarono su di lui. Il professor Lancellotti aveva scoperto da tempo che, a fare così, si raccoglieva maggiore attenzione, rispetto al starsene tutto il tempo seduto dietro la cattedra.

«Uno dei primi uomini di scienza a prendere in esame la questione degli avvistamenti UFO, pochi anni dopo che il fenomeno dei cosiddetti dischi volanti era salito agli onori delle cronache, fu Carl Gustav Jung, lo psicanalista allievo di Freud, eh…»

Il professore avanzò fino al fondo dell’aula e toccò il muro con la mano. Fece una breve pausa, Rimise le mani dietro la schiena e ricominciò la sua lenta avanzata in mezzo alla selva dei banchi.

«Jung, in un primo momento, parlò di fenomeno psichico. A suo dire, la gente credeva soltanto di vedere i dischi volanti. Una proiezione della mente, in pratica, eh… ma dovette ricredersi quando il fenomeno assunse una portata globale e decine di migliaia – se non milioni – di persone, cominciarono a raccontare di aver osservato strani fenomeni celesti, eh…»

Lancellotti si fermò davanti al banco di Carolina. Fissò la ragazza senza realmente vederla, e ricominciò a camminare e a parlare.

«Verso la fine della sua vita, Jung riconobbe l’autenticità del fenomeno UFO, pur vedendosi costretto ad ammettere di non sapere di che cosa si trattasse per davvero, eh…»

Tornato davanti alla lavagna, il professore si fermò. Ripreso in mano il gessetto, cominciò a tracciare qualche ghirigoro. Tutti gli occhi si focalizzarono sulla sua mano, mentre le menti rincorrevano ancora le sue parole.

«Quella di Jung, fu una specie di benedizione scientifica al fenomeno: per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, ingegneri, scienziati e militari stilarono rapporti su rapporti, cercando di dare un senso concreto a ciò che la gente aveva visto, eh… e si cominciarono anche a compiere tentativi di contatto: in pratica, da certe potenti stazioni, venivano inviati nello spazio dei segnali radio, con la speranza che qualcuno li intercettasse e rispondesse, eh…»

Rimesso in tasca il gessetto, il professore ricominciò la sua lenta marcia. Transitò accanto al banco di David, diede uno sguardo veloce alle mani di Michela e si spostò in direzione della finestra affacciata sul cortile.

«Poi, però, verso la fine degli anni ‘60, le cose cominciarono a mutare», riprese. «La scienza abbandonò lo studio degli UFO, che venne quasi ridicolizzato, eh… soltanto gli appassionati – i cosiddetti ufologi: un termine che, per certe persone, risulta ridicolo – continuarono a occuparsene, tramite la pubblicazione di libri e studi su riviste specializzate. Ma non sono mancati, comunque, anche i filosofi, che hanno deciso di occuparsi della questione: soprattutto, si sono domandati che cosa accadrebbe, in caso di un incontro tra civiltà, eh…»

Lo sguardo di Lancellotti si perse nel cielo azzurro, che splendeva fuori dalla finestra. Dal cortile, entravano voci umane e grida di rondini. Ogni tanto, dalla strada poco lontana, risuonava il rumore di un motore.

L’avvistamento della sera prima, che tanto aveva fatto parlare, era stato davvero impressionante. Sospese nel cielo, sopra tutta la provincia di Reggio Emilia ancora in buona parte devastata dal terribile terremoto dell’anno prima, erano state viste decine di luci colorate, di cui nessuno aveva saputo dare una spiegazione. Le luci erano rimaste visibili per parecchi minuti – c’era persino chi sosteneva di averle osservate per delle ore intere – prima di spegnersi e svanire a poco a poco.

Ora il cielo sembrava essere tornato normale, ma gli occhi di Lancellotti lo scandagliarono comunque con molta attenzione. Non si poteva mai sapere.

«Un filosofo, in particolare, ha trattato l’argomento in diversi suoi libri», ricominciò a dire il professore. «Si tratta di Euprepio Filelozio, eh…»

Un nuovo brusio corse tra i banchi. Al liceo Ariosto girava voce che, dietro quel nome, si nascondesse niente altri che il professor Lancellotti in persona. Lui non si era mai curato di smentire. E nemmeno si curò di quel brusio, che si interruppe non appena si fu voltato.

Riprese a parlare e a camminare piano per l’aula.

«Filelozio, in particolare, si è posto una serie di domande, alle quali, a suo dire, sarebbe necessario rispondere prima di avventurarsi in un incontro con esseri provenienti da un altro pianeta, eh…» disse.

Si fermò davanti al banco di Alma che, come al solito, sfoggiava una vertiginosa scollatura, che convogliava su di sé parecchi sguardi, tanto maschili quanto femminili. Gli occhi di Lancellotti, ignorando quella visione, scivolarono su tutto il resto della classe.

«Perché è bene sapere che ci vuole una mente aperta, per affrontare un simile incontro, eh… guardate cos’è successo in passato, sul nostro pianeta: ogni volta che uomini di culture e credi diversi si sono incontrati, ne sono scaturite stragi insensate che ci hanno privato di chissà quali tesori della conoscenza, eh… bisogna evitare a tutti i costi che un simile errore marchiano si compia di nuovo, eh…»

Il professore tornò verso la cattedra e si chinò sulla sua valigetta di pelle, tutta consunta e consumata agli angoli. Ci frugò dentro e ne estrasse un libro dalla copertina rossa e sgualcita. A giudicare dalla grafica tutta squadrata, doveva essere un’edizione risalente agli anni ‘90.

«Per pura casualità, ho qui con me il libro di Filelozio, Vrillon e gli antichi, in cui il nostro filosofo si pone le sue domande sul cosmo, eh…» Sfogliò le pagine ingiallite, che doveva aver letto e riletto parecchie volte. «Vediamole insieme, eh…»

Tenendo il libro aperto tra il pollice e l’indice della mano sinistra, Lancellotti ricominciò a muoversi avanti e indietro tra i banchi. Il suono pacato della sua voce accompagnò quel viavai, mentre pian piano elencava i vari quesiti.

«La prima domanda che il nostro filosofo si pone è quella fondamentale: esistono altre forme di vita, nell’Universo? Chiaro che, senza partire proprio da questa, non si va da nessuna parte, eh…»

Il professore contemplò per un istante la parete a cui erano incollati cartelloni e bigliettini di vario genere.

«La seconda domanda è: se queste forme di vita esistono, sono rimaste a livello unicellulare o si sono evolute a uno stadio pluricellulare? Non possiamo infatti dimenticare il modo in cui si è formata la vita sul nostro pianeta, e dovremmo partire dall’assunto che, certe regole, siano universali, eh…»

Si fermò davanti al banco di Mirko. Prese in mano il suo astuccio, lo sollevò verso il soffitto e lo osservò, restando in silenzio per alcuni secondi. Lo rimise a posto.

«Terza domanda di Filelozio. Se queste forme di vita si sono evolute, hanno raggiunto uno stadio tale da creare una civiltà intelligente? È necessario, infatti, tenere in considerazione il fatto che, gli extraterrestri, potrebbero essere dei semplici animali privi di intelligenza, e questo, lo so, deluderebbe molta gente, eh…»

Raggiunta la sedia di Gisella, tamburellò per un istante sullo schienale con le dita della mano destra.

«Vediamo la quarta domanda. Con essa, Filelozio si domanda: se questi esseri extraterrestri hanno creato una civiltà intelligente, essa è pari, superiore oppure inferiore alla nostra? Tutte e tre le possibilità sono realistiche, e partendo da esse si determinerebbero anche molti dei nostri comportamenti, eh… potremmo, infatti, trovarci di volta in volta in condizioni differenti, eh… e non dimentichiamo che, per l’uomo, che si è sempre creduto un po’ il padrone dell’intero Universo, la prospettiva di trovarsi in inferiorità sarebbe devastante, da un punto di vista psichico, eh…»

Lancellotti, camminando, aveva raggiunto la porta dell’aula. L’aprì, si affacciò sul corridoio da cui sopraggiungeva il brusio delle lezioni nelle altre classi e guardò a destra e a sinistra. Richiuse.

«Quinta domanda. Al di là del suo stadio evolutivo, tale civiltà esiste ancora? Ecco, questo è un vero dilemma, eh… le distanze cosmiche sono tanto vaste, e i tempi tanto dilatati, che due o più civiltà potrebbero sorgere ed estinguersi senza mai venire in contatto o sapere nulla l’una dell’altra a causa della lontananza, eh… oppure, riprendendo le teorie degli antichi astronauti, questi popoli potrebbero averci visitato in passato, e poi essere scomparsi, eh… una prospettiva molto triste, lo ammetto: ci farebbe sentire davvero soli, nell’Universo, eh…»

Il professore compì un periplo della cattedra. Sistemò meglio la sua borsa, che aveva lasciato sul ripiano del tavolo.

«Veniamo adesso alla sesta domanda sui nostri ipotetici amici alieni. Qui, Filelozio si chiede: se questa civiltà esiste ancora, si pone le stesse domande che ci poniamo noi? Qui si entra nel filosofico, lo riconosco, ma è importante ragionarci, eh… dobbiamo infatti pensare a questo, che se noi ci interroghiamo sul cosmo, e sui suoi ipotetici abitanti, non è affatto certo che anche altri lo facciano, eh…»

Lancellotti raggiunse di nuovo il fondo dell’aula e, come sempre faceva in quei casi, toccò il muro. Per un istante, parve sinceramente interessato a un graffito a matita che raffigurava quella che sembrava essere la professoressa Albieri, l’insegnante di educazione fisica, nei panni di una terribile strega. Riprese a parlare.

«La domanda successiva è: se questa civiltà si pone le stesse domande che ci poniamo noi, ha sviluppato l’interesse per un incontro, oppure preferisce rimanere nascosta? Non dobbiamo dimenticare, infatti, che noi esseri umani siamo un popolo micidiale, da sempre votato all’autodistruzione, eh… e, oltretutto, incapaci di accettare il diverso in mezzo a noi, le diversità che esistono tra i nostri simili, figuriamoci quindi se queste differenze provenissero dal cosmo, eh… potremmo diventare davvero pericolosi, nei confronti di eventuali visitatori, eh…»

Lo sguardo del professore, ammantato di severità, corse su tutti i suoi studenti. Ogni ragazza e ogni ragazzo sembrava davvero pendere dalle sue labbra. Trascorsa una manciata di secondi, ricominciò a parlare.

«E siamo all’ottava domanda. Questa dice: se questa civiltà avesse interesse a incontrarci, come si comporterebbe, in caso di contatto? In altre parole: verrebbe in pace, oppure sarebbe ostile? Il cinema, negli ultimi decenni, ci ha mostrato entrambe le possibilità, eh… certo, potremmo dirci che, una civiltà evoluta, dovrebbe muoversi con intenzioni pacifiche, ma anche noi umani, a conti fatti, ci riteniamo evoluti, eppure… eh…»

Lancellotti caracollò tra il banco di Ginevra e quello di Assunta. Con fare quasi casuale, chiuse i libri aperti davanti alle due ragazze.

«Nona domanda: ma soprattutto, in caso di contatto, come reagiremmo noi? Eh… eh… eh… ne abbiamo già accennato prima, e temo che tutti conosciamo la risposta: non reagiremmo affatto bene, eh… siamo tanto ostili verso noi stessi: basta un colore della pelle che non ci piace, o un atteggiamento che ci pare sbagliato, o il fatto che a qualcuno piacciano persone del suo stesso sesso, oppure che qualcuno abbia un fisico che non riteniamo bello, e diventiamo cattivi, eh… cattivi, sì. Se ci capitasse davanti un marziano, che cosa mai combineremmo, eh…? Non oso nemmeno immaginarlo, lo ammetto, eh…»

Tornato nei pressi della porta, il professore ci bussò sopra. Restò in attesa, quasi che si aspettasse che, da fuori, qualcuno rispondesse. Si girò di nuovo verso la sua piccola ma attenta platea.

«Dunque… domanda numero dieci: in caso di un contatto, quali misure dovremmo adottare, per evitare un rischio di contaminazione biologica? Può sembrare una domanda molto tecnica, ma non va presa sottogamba, eh… prendete, per esempio, il primo contatto tra gli europei e gli indios americani: malattie sconosciute si diffusero da una parte e dall’altra dell’Atlantico, eh… malattie per cui, ancora, non esistevano gli anticorpi. Il raffreddore quasi sterminò le popolazioni dell’America precolombiana, e l’Europa fu messa in crisi da malattie quali la sifilide, eh… dobbiamo tenerlo presente. Non possiamo incontrare faccia a faccia un essere extraterrestre, abbracciarlo o, chi può dirlo, averci persino dei rapporti sessuali, senza prima aver preso tutte le misure del caso, eh…»

A quelle ultime parole, seguirono alcune risatine. Risatine che gli occhi inflessibili del professore fecero subito scemare in un silenzio carico di aspettative.

«Risolto questo problema, sorge l’undicesimo quesito: chi si dovrebbe occupare, del primo incontro? In altre parole, a chi verrebbe delegato il compito del primo contatto? Il cinema ci ha abituato a vedere gli statunitensi interagire per primi con gli alieni, eh… ma questo accade solo perché, in Italia, non sappiamo fare film decenti. Non dobbiamo prendere i film come una verità, eh… certo, a livello mondiale gli USA sono una superpotenza, ma questa non potrebbe essere una reale giustificazione. Cosa succederebbe, per esempio, se gli extraterrestri decidessero di atterrare, che ne so, in Cina? O a Roma, eh…? O, magari, in Siria? Insomma, bisognerà tenerne conto, di questa cosa, eh… magari evitando di scatenare l’ennesima guerra per poter stabilire il primato, eh…»

Il professore raggiunse l’armadio di metallo in cui erano contenuti i materiali che potevano tornare utili nel corso delle lezioni. Aprì l’anta scorrevole, ci guardò dentro con vivo interesse. Chiuse di nuovo.

«Ora vi dico la dodicesima domanda, l’ultima, per ora, anche se si potrebbe andare avanti praticamente all’infinito, eh… chiede Filelozio: per la popolazione umana, che cosa comporterebbe davvero, un contatto? Nazioni e religioni manterrebbero ancora il loro attuale significato? Riterremmo ancora validi i confini? E ci sentiremmo più uniti e affratellati, di fronte alla prospettiva dell’esistenza di altre civiltà intelligenti? Questa è una domanda veramente filosofica, eh… una domanda a cui non esiste una risposta, per il momento, ma che non dobbiamo affatto dimenticare, eh…»

Con un lungo sospiro, il professor Lancellotti tornò verso la cattedra e vi si sedette dietro. Le sue dita continuarono a giocare con il libro di Euprepio Filelozio.

«E ora a voi, ragazzi, eh… domande? Risposte? Considerazioni?»

 

 

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Capitolo 14
*** 13. ***


13.

 

 

Val Camonica, settembre 2021

 

 

Cominciava a soffiare un leggero venticello, con qualche venatura pungente, che scendeva dalla vetta verso la valle. Una brezza venuta a ricordare che, ormai, la stagione estiva era ridotta a poco più che un ricordo.

Le foglie sugli alberi sussurrarono piano, e le prime di loro a essersi tinte dei caldi colori autunnali parvero pennellate di rosso, giallo e arancione in mezzo al verde. Il sole calava adagio e il cielo ingrigiva in fretta. Le vette circostanti, verniciate di rosa e di violetto, apparvero come immagini scintillanti a fare da cornice meravigliosa a quella tela impareggiabile chiamata natura.

«Tra un po’ sarà buio», constatò uno dei due agenti. Forse sperava che bastasse una simile considerazione per convincere i due membri del Nucleo Tutela del Patrimonio a fare marcia indietro.

Purtroppo per lui, quei due avevano ben altri piani, per la mente.

Alberto annuì e lanciò uno sguardo ad Aurora. Avevano già convenuto che, il momento migliore per acciuffare i vandali, sarebbe stato proprio quello dell’imbrunire. Era probabile che, a quell’ora, sentendosi sicuri e protetti dalla ombre, il tizio che si firmava Sukker e i suoi complici avrebbero potuto pensare di entrare in azione. Ma tenente e sottotenente dovevano anche riconoscere di non essere affatto esperti, di quei paraggi. Dovevano sbrigarsi prima che montasse la notte e, con essa, le tenebre. Altrimenti, c’era la possibilità concreta di smarrire la strada.

«Qualche idea di dove potrebbero colpire questa volta, i nostri amici?» chiese la giovane, rivolgendosi agli attempati e ansanti carabinieri della stazione di Capo di Ponte. Uno dei due, in particolare, non faceva che rammentare ad Alberto una vecchia locomotiva a vapore che aveva visto una volta.

L’uomo-locomotiva si tolse il cappello e si grattò la tempia, pensoso.

«Mah, a giudicare dai punti in cui sono stati rinvenuti i graffiti, pare che i vandali abbiano preso di mira una zona ben precisa e la stiano risalendo in modo abbastanza sistematico, seguendo i sentieri aperti di recente per la nuova zona archeologica… insomma, mano a mano che gli operai del comune e gli esperti della soprintendenza aprono sentieri e puliscono nuovi siti, loro arrivano a sporcare. Andando avanti lungo questo sentiero, dovremmo trovare un punto non ancora visitato.»

Il carabiniere parve titubante. Da come era sudato e arrossato, non sembrava molto propenso a proseguire in mezzo al bosco. Il sentiero si faceva molto più ripido e faticoso, e l’uomo non sembrava avere tanta voglia di affrontare quella pendenza. Il suo collega pareva della medesima idea. Anche la vecchia locomotiva, ricordò Alberto, aveva protestato quando il ferroviere aveva cercato di metterla in moto lungo i binari.

«Ma non è detto che…» cercò di dire.

Aurora non gli permise di finire la frase. Aveva già preso la sua decisione e non avrebbe permesso a nessuno di contrastarla.

«Andiamo», ordinò, con fare secco. «Se non li becchiamo subito, ci apposteremo per qualche ora. E, se non li acciuffiamo questa stessa notte, torneremo domani e dopodomani, finché non li prendiamo in flagranza di reato.»

Senza attendere risposta, la giovane riprese a inerpicarsi lungo il sentiero, che sassi semisepolti e radici intricate avevano reso insidioso. I due carabinieri cercarono lo sguardo di Alberto, sperando che potesse in qualche modo contraddirla. Ma il tenente si strinse nelle spalle, lasciando intendere che comandava lei, e riprese a sua volta l’arrampicata.

Rassegnati, i due carabinieri li seguirono.

«Li stai facendo soffrire, poveretti», disse Alberto a basso voce, affiancandosi all’amica.

«Un po’ di moto non può che fare bene alle loro pancione», sbottò lei. «Diamine, ma li hai visti? Sembrano al nono mese di gravidanza.»

Aurora sbuffò, nervosa.

«Cazzo, lo sai da quante ore è che non fumo, Manfredino?» borbottò. «Almeno tre! Di questo passo, morirò male e infelice… mi viene da piangere…»

Manfredi fissò il pacchetto che sporgeva dal taschino del giubbotto di pelle della ragazza, spinto in avanti dalla prepotente esuberanza del suo seno.

«E perché non te ne accendi una?» chiese.

Il sorriso di Aurora fu satanico.

«Dovresti saperlo, Manfredino», rispose. «Perché quando non fumo mi irrito, e quando mi irrito divento dispettosa, e quando divento dispettosa ho bisogno di sfogarmi su qualcuno: e non vedo l’ora di sfogarmi con quel Sukker.»

Poveraccio, pensò Manfredi, senza fare commenti.

Sapeva fin troppo bene che cosa fosse in grado di fare Aurora, quando diventava – come diceva lei – “dispettosa”.

I cespugli di mirtilli e di altri frutti di bosco mugolarono parole incomprensibili al loro passaggio. I profumi di terra, di foglie, di umidità li accompagnarono lungo la strada. Le ombre scure si chiusero dietro di loro.

 

* * *

 

Aurelio Pedersoli – conosciuto come Sukker – era un diciassettenne grasso, basso e brufoloso, con una vera e propria massa di riccioli intricati, unti e pieni di forfora sulla cima del cucuzzolo tondeggiante. Nonostante facesse un uso smodato di deodoranti, emanava costantemente un fetore di sudore rancido. Una leggera lanugine nera sotto il mento cosparso di acne lo faceva sentire adulto, così come la sigaretta da cui non si separava mai. L’espressione del viso non denotava una grande intelligenza, ma lui si vantava di non aver mai letto un libro in vita sua, e questo lo faceva sentire superiore a moltissima gente. La sua missione personale, nella vita, era quella di scrivere il suo soprannome ovunque.

La scelta dei siti archeologici era stata una conseguenza naturale della sua ricerca di gloria: se la gente, dopo tutti quegli anni, guardava ancora gli sgorbi dei cavernicoli, per miliardi di anni avrebbe continuato ad amare la sua firma immortale.

La mente di Sukker aveva impiegato all’incirca sei o sette mesi, per dare forma a quel pensiero. Ma, dopo aver finalmente tratto quella conclusione precisa e inoppugnabile, era partito all’attacco, bomboletta alla mano e pennarello in tasca. Insieme a lui, c’era quella che lui stesso aveva chiamato la banda del Sukker: Paolo, David e Fabiola. Quest’ultima, in quanto unica ragazza della compagnia, era considerata dal Sukker una sua proprietà privata; ma lei, a dirla tutta, non sembrava volerne sapere proprio nulla. Il Sukker, comunque, era sicuro che fosse solo questione di tempo: come si ripeteva ogni sera, mentre cercava di schiacciarsi qualche nuovo brufolo comparso sulle guance – o mentre si misurava il pene in tiro con un righello per vedere se, durante la giornata, avesse varcato la soglia per ora invalicabile dei dodici centimetri («Ma è come lo usi e la quantità di sborra che versi fuori, quello che conta davvero», non faceva che sentenziare) – nessuno avrebbe potuto resistere al suo fascino.

Il suo sguardo fissò la pietra su cui apparivano alcune immagini. Omini, animali e altre cose del genere. Più li guardava, più Sukker si domandava che cosa mai ci trovassero le persone, in quelle robe. Intere scolaresche di bambini vocianti arrivavano da lontanissimo per poterli vedere e fotografare: del tutto inspiegabile. Ma avrebbe fornito lui, ai futuri visitatori, un reale materiale da ammirare: il suo nome.

Aveva già provveduto a imbrattare il cartello informativo che qualche operaio aveva attaccato a un palo, infilato nel terreno lì accanto: sopra la superficie metallica costellata di scritte che lui non si era certo preso la cura di decifrare, ora appariva per ben sette volte il nome Sukker, scritto a pennarello indelebile rosso. Un segno tangibile ed eterno del suo glorioso passaggio.

Ma per il graffito rupestre, ci voleva ben altro che un pennarello.

Con un cenno imperioso, da leader consumato, Sukker ordinò a David di avvicinarsi. Il ragazzo – biondo, magro e mingherlino, con gli occhiali – non parve molto felice di dover obbedire. Aveva quattordici anni e Sukker lo aveva praticamente obbligato a fare parte della sua banda.

«O fai quello che ti dico, o ti spacco la faccia, testa di cazzo», gli aveva detto Sukker, per convincerlo a seguirlo. Poi, come ricordandosene quasi per caso, aveva anche teso la mano e si era fatto consegnare per intero la paghetta che il ragazzino riceveva ogni sabato dai genitori.

Non che Paolo e Fabiola fossero molto più felici di David, di trovarsi lì.

Il primo, d’accordo, era legato da vecchia amicizia ad Aurelio, da molto prima che diventasse il Sukker. Ma da tempo lo seguiva con sempre minore entusiasmo. Dentro di sé, covava il fuoco della defezione e non vedeva l’ora di cogliere al volo l’occasione propizia per farlo divampare.

La seconda, in pratica, stava subendo un ricatto: quando aveva quindici anni, si era scattata una foto a seno nudo e l’aveva inviata a un tipo che le piaceva. Purtroppo, proprio quel giorno, al tipo era stato rubato il telefono dal Sukker, che si era così appropriato della fotografia: e ora minacciava di diffonderla a tutta la provincia, se lei non avesse acconsentito ad andargli dietro come un cagnolino obbediente.

Insomma, la banda del Sukker, per quanto ne pensasse il capo, non era certo un gruppo leale e compatto. Semmai, traballava e faceva acqua da tutte le parti, e sarebbe bastato pochissimo per mandarla in frantumi. Ma il Sukker non si curava di queste cose. Il Sukker non si curava di nulla. Lui comandava e tanto bastava.

David venne avanti. Era stato deputato al trasporto dello zaino con dentro le attrezzature del Sukker. Quest’ultimo lo costrinse in malo modo a voltarsi, aprì il vecchio borsone Seven e vi frugò dentro.

«Che cazzo di disordine, metti a posto, testa di minchia!» grufolò.

Prese la bomboletta spray e rifilò un calcio nei polpacci a David. Il ragazzino, gemendo, cadde sull’erba.

«Avanti, sistema lo zaino, moscerino», ordinò Sukker. «Altrimenti dopo ti do una lezione!»

Prima ancora che David o chiunque altro avesse avuto modo di dire o fare qualcosa, da dietro un cespuglio apparve una figura minacciosa.

«E se, invece, te la dessi io, una lezioncina che non dimenticherai mai?»

 

 

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Capitolo 15
*** 14. ***


14.

 

 

Valli Alpine, alla fine dell’ultima Era Glaciale

 

 

 

Le stagioni si erano susseguite alle stagioni. I soli avevano compiuto il loro ciclo, le lune erano nate, cresciute e morte. Uomini e donne avevano intrapreso e portato a termine il loro cammino sulla terra, ricevendo insegnamenti da chi era giunto prima di loro e trasmettendoli a chi era venuto dopo. Il volto stesso della montagna era mutato, perché i ghiacciai si erano ritirati e le più lunghe giornate di sole avevano portato alla luce picchi e rocce altrimenti sconosciuti.

Era il volgere imperituro delle cose, che soltanto in apparenza sembravano immobili, ma che non smettevano mai di mutare, in continuo movimento.

Sul volto di Gerg si era distesa una fitta ragnatela di rughe. I capelli, divenuti bianchi, gli ricadevano sottili sulle spalle, ancora larghe nonostante l’età. I suoi occhi brillavano ancora di sapienza e di consapevolezza, nonostante le gambe stanche non lo sorreggessero quasi più.

L’ora del riposo era giunta anche per il cacciatore. L’ora di abbassare le palpebre e di affidarsi al grembo materno della terra, da dove si sarebbe ricongiunto ai suoi antenati, ai figli a cui era sopravvissuto, all’amata Ania, il cui spirito gli era rimasto accanto fin dal momento in cui aveva lasciato il suo corpo, tanto tempo prima.

Più volte, Gerg aveva anelato il dolce momento. Aveva sognato in innumerevoli occasioni di poter finalmente lasciare la valle e ritrovare coloro che aveva amato e da cui era stato amato.

Ma aveva rimandato a lungo. Aveva procrastinato, resistendo con tutte le forze all’incedere della vita. Perché il vecchio cacciatore aveva una missione da compiere, un compito da portare a termine, e non avrebbe potuto andarsene senza prima averlo fatto.

Il messaggio del dio.

Gli uomini delle vallate ne erano rimasti affascinati, dapprima. Poi, pian piano, esso era divenuto per loro come un ricordo sfumato, sempre più simile a un sogno le cui ultime briciole svaniscano nell’alba tinta di rosso. Chi aveva visto ne aveva parlato a chi non c’era, ingigantendo e trasformando tutto ciò di cui erano stati testimoni. E, spesso, le parole non erano bastate, e così si era dovuti ricorrere a esempi noti per dare a quell’immagine una forma tangibile e comprensibile.

Ciò che era stata la realtà per i presenti, era divenuto un mito per coloro che erano venuti dopo.

E, adesso, restava soltanto lui, Gerg. Lui solo ancora in vita tra tutti quelli che, in quella lontanissima notte, aveva assistito alla discesa del dio nel mezzo della valle, sulla cima del tumulo. Forse la sua accanita resistenza, forse una benedizione dovuta alla sua vicinanza al dio, avevano permesso che il cacciatore beneficiasse di un’esistenza più lunga di tutti coloro che lo avevano preceduto e succeduto. Anche se questo aveva significato dover subire il dolore di veder partire tutti quelli a cui era stato legato.

Ora, però, era arrivato anche per lui il grande momento. Aveva compiuto il suo dovere.

Con un sospiro, Gerg si appoggiò con la schiena al tronco dell’immane castagno secolare che, per tutti quegli anni, era stato la sentinella silente del suo lungo lavoro. I suoi occhi ancora vivaci seguirono il terreno cosparso di castagne e toccarono per l’ultima volta la pietra. Un sorriso delicato distese le sue labbra.

Sulla parete di roccia, con la minuziosa accuratezza messa a frutto in decenni di pratica costante, Gerg aveva realizzato delle meravigliose incisioni. Con i suoi strumenti, aveva eternato quella notte lontana. Aveva raffigurato il popolo riunito, gli animali nervosi e là, sulla collina, aveva rappresentato il dio intento a comunicare il suo messaggio. Le creature viventi disposte tutto attorno rappresentavano ciò a cui la divinità giunta da lontanissimo aveva detto di rivolgere amore e attenzioni. E là, in alto nel cielo, era rappresentato il carro volante del dio, uguale alla rosa che molti, tra i cacciatori, avevano ormai preso l’abitudine di incidere nelle vallate.

Un pensiero confortante per Gerg, questo: significava che il ricordo, in un modo o nell’altro, si era serbato. La venuta del dio sarebbe stata rammentata per sempre.

Ma limitarsi a incidere il veicolo volante del dio non sarebbe stato sufficiente. Ecco perché Gerg aveva persino rinunciato alla morte, pur di proseguire il suo lavoro. Perché dalle sue incisioni traspariva ciò che il dio aveva detto. E lo avrebbe fatto per sempre.

Un altro sospiro di soddisfazione fece sollevare il busto del vecchio e gli sfuggì dal naso.

Aveva consegnato all’eternità il messaggio. Ora poteva andarsene con la consapevolezza che altri avrebbero letto e compreso. Non si sarebbe più dimenticato. Le funeste profezie che parlavano di gente che averebbe scordato l’amore per il creato e per gli esseri viventi non si sarebbero mai verificate.

Le dita di Gerg si strinsero sul terreno morbido e friabile, profumato. La terra, nera e fertile, gli lambì le mani e gli penetrò sotto le unghie. Un dolce brivido lo scosse tutto quando i delicati profumi del sottobosco gli entrarono nelle narici.

Una figura si palesò di fronte a lui. Una figura leggiadra, una donna bellissima, che emanava una luce delicata, appagante, riposante. La più bella immagine che gli occhi di Gerg avessero mai conosciuto-

«Ania…» sussurrò il vecchio, avvolto da una profondissima sensazione di felicità.

La figura femminile annuì piano.

La sua mano si tese a sfiorare il volto di Gerg con una tiepida carezza d’amore.

Le fronde del castagno furono attraversate da una brezza delicata che, dalla terra, salì verso il cielo.

 

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Capitolo 16
*** 15. ***


15.

 

 

Bedizzole, provincia di Brescia, giugno 1978

 

 

«Ma ghet sentit ger sera?!»

«Eh se, casso! S’ere dré a vardà la partita, ‘cocane!»

«Ma che i naghe a cagà, chei che fa robe isé»

«I laura mia e i g’ha en casso da fa, ecco!»

«I g’ha bon temp, ecco cosa! Mia come chei che i laura töt el dé per portà a casa el pà da meter en taola!»

«E set cosa gh’ha dit el fancazzista del me niud? Che l’è era! Ma enculet, ghe fo, ma va a laurà che l’è mei!»

I quattro o cinque avventori riuniti al banco del Bar Centro, tutti con la coppola grigia sopra i capelli del medesimo colore e il calice del bianco delle otto e mezza di mattina tra le dita, potevano avere grossomodo un’età compresa tra i sessanta e i settant’anni. Impossibile capire davvero quando potessero essere venuti al mondo. Emanavano odore di vino, di tabacco e di stantio: il medesimo odore di cui era impregnato tutto il locale, buio e fumoso, con il banco di legno lucido interamente ricoperto di macchie di varia origine.

Tutti pensionati bresciani: chi un tempo era stato muratore, chi fonditore, chi meccanico, chi idraulico, chi non meglio specificato operaio. Comunque tutti lavoratori in pensione, fieri delle loro schiene spaccate dalla fatica, perché questa era la regola aurea della provincia di Brescia: se non ti ammazzi di lavoro dalle dodici alle quindici ore al giorno per almeno quarant’anni, e se non fai i lavori manuali più duri e massacranti, non sei degno nemmeno di essere guardato in faccia. Scrittori, musicisti, attori, pittori – esclusi ovviamente gli imbianchini – per un bresciano vero, duro e puro, sono solo dei mangiapane a tradimento, persino peggio dei terroni.

Filosofia nordico-bresciana in auge da sempre e per sempre.

L’argomento della mattinata, ovviamente, era l’interruzione di tutti i programmi radiofonici e televisivi della sera precedente. La maggior parte di loro non aveva capito un accidente delle parole dal suono meccanico pronunciate durante l’irruzione di quel segnale pirata. Sapevano soltanto una cosa: avevano dovuto rinunciare a vedere e ascoltare ciò che si erano meritati con una vita intera di sacrifici. Sacrifici che duravano ancora, ben inteso: perché il bresciano, si sa, è quell’essere che non smette mai di lavorare, nemmeno a ottant’anni suonati. Il riposo non è contemplato dalla sua mentalità. Il bresciano fa, e gli altri sono solo dei rubasoldi.

La discussione proseguiva ormai da quasi venti minuti, condita di bestemmie e di gentili offerte di lavoro verso l’ideatore di quello scherzo. E, finché non fosse accaduto qualcosa di diverso su cui far vertere l’attenzione, si sarebbe di certo continuato a parlarne ancora a lungo.

Dietro il banco, la testa pelata lucida di sudore, il Carlone annuiva compiaciuto, perché più si cianciava e più calici di bianco versava. E, passando per Lugana o Franciacorta quei suoi vinelli da due soldi che acquistava all’ingrosso, faceva come sempre affari d’oro. Tanto, i suoi avventori non si ponevano certo troppi dilemmi, riguardo a ciò che si versavano in gola. A loro bastava essere accontentati in fretta quando comandavano, con un tono di voce capace di rivaleggiare con le esplosioni delle mine nelle cave di Botticino: «Dam en bianc!»

In un angolo del bar, solitario come sempre, era seduto un uomo che non avrebbe potuto essere più differente dai classici avventori di quel bar di provincia. Una bestia rara, la pecora nera del paese.

Anni prima, Lanfranco Bonometti aveva deciso che lui, di bresciano, voleva avere soltanto il luogo di nascita stampato sulla carta d’identità, e soltanto perché ormai non era più possibile cambiarlo. Non aveva avuto nessuna intenzione di fare come i suoi compaesani e coetanei, che iniziavano a farsi le ossa in officina o nei campi a dodici o tredici anni e che, dopo la naja, ricominciavano subito a lavorare in modo massacrante per portare a casa uno stipendio che, nella maggior parte dei casi, sarebbe servito loro a curarsi dagli infortuni sul lavoro o per comprarsi una macchina con cui andare al lavoro.

No, la vita bresciana non faceva per Lanfranco.

Così, nel 1965, sfuggito al servizio militare dopo aver palesato nel modo più pomposo che gli fosse stato possibile una compiaciuta omosessualità che gli era valsa la registrazione in misteriosi archivi segreti – e scampato alle botte che per questo gli avevano rifilato suo padre, suo nonno e tutti gli zii – era partito verso oriente, lungo le strade insidiose del mitico hippie trail. Da Istanbul a Katmandu, dai deserti dell’Afghanistan alle foreste dell’India, dalle rive del Mediterraneo alle cime dell’Himalaya, un viaggio avventuroso e pericoloso, tra deserti e praterie, valicando monti che nascondevano le misteriose città delle Mille e una notte, in compagnia di ragazzi e ragazze che la pensavano e la vedevano grossomodo come lui, facendo di quando in quando qualche lavoretto oppure vendendo sangue per mettere insieme gli spiccioli che, di gran lunga, erano serviti per provare ogni tipo di stupefacente mai apparso sulla faccia della terra.

Era partito in giacca e cravatta, con i capelli corti e i baffetti, ben pasciuto, ed era tornato – dieci anni dopo – con i capelli lunghi sotto le spalle, una gran barba già striata di grigio, la bandana in testa e abiti colorati e sgargianti, lisi e sciupati, che ballavano attorno al suo fisico ridotto a pelle e ossa. Si diceva che, a Katmandu, avesse avuto delle visioni mistiche, forse dovute all’abuso di LSD. Sta di fatto che, dal momento del suo ritorno, vero pesce fuor d’acqua in quel paese dove o si lavora o si lavora, si era messo a fare i più assurdi discorsi sulle origini dell’uomo e dell’universo. Spesso e volentieri lo si era sentito cianciare di marziani e angeli, di venusiani e demoni, di dischi volanti e carri divini e via discorrendo.

Fallito il tentativo di fondare una comune hippie della provincia di Brescia, aveva cominciato a girovagare per le strade di Bedizzole e delle altre cittadine limitrofe, predicando il suo strambo pensiero. Tirava avanti scribacchiando racconti fantascientifici che un giornale a tiratura nazionale specializzato in quel tipo di pubblicazioni gli acquistava una volta o due al mese per qualche lira. Soldi appena sufficienti a non morire di fame e a comprare un libro ogni tanto. Ma non se ne lamentava mai. A Lanfranco quel poco bastava.

«Il superfluo è inutile ed è il male dell’esistenza», era solito dire.

Da un anno circa, era diventato un frequentatore abituale del Bar Centro. Sedeva in disparte, con il suo caffè che gli si raffreddava davanti, senza dire una parola. Intanto, con la penna a sfera in mano e la lingua tra i denti, scribacchiava sopra un taccuino parole e pensieri: perché i racconti di fantascienza non erano la sola opera che avesse in mente. Stava anche lavorando a un monumentale volume in cui aveva intenzione di riversare tutte le sue esperienze, ciò che aveva scoperto nel corso dei suoi viaggi e la sua personale filosofia di vita. I soliti avventori, all’inizio, lo avevano fissato come se fosse stato una bestia rara. Poi avevano deciso di ignorarlo come se non esistesse. Qualche volta, comunque, uno sguardo risaliva fino al suo angolo e si sentiva un sommesso borbottio che suonava pressappoco come un «ma se ne andasse a lavorare.»

Quella mattina, come tante altre, Lanfranco era lì, a sorseggiare il caffè, a ripensare alle sue avventure in Asia e a sognare chissà quali mondi lontanissimi da trasformare nei suoi strani racconti. Però, al contrario del solito, sembrava avere una luce nuova nello sguardo. I suoi occhi grigi sembravano accesi di un’eccitazione insolita. Il taccuino, quella mattina, era rimasto nella tasca della sua camicia dai motivi psichedelici.

Guardò il gruppo dei pensionati. Tornò alla tazzina. Guardò di nuovo. Tazzina. Sbirciò una terza volta.

Infine cedette.

«Ma sul serio credete che si è trattato solo dello scherzo di un buontempone?» disse.

Aveva parlato a voce bassa, pacata, eppure le sue parole scoppiarono come una bomba. Doveva essere la prima volta, da quando aveva messo piede in quel posto, che diceva qualcosa di più di «Un caffè, grazie.»

Nel Bar Centro scese un gelido e palpabile silenzio. Tutti si voltarono verso di lui. Un gruppo di pensionati e un barista pelato in opposizione a un hippie che le troppe droghe avevano invecchiato prima del tempo.

Ma Lanfranco non si lasciò intimidire. Si diceva che una volta, a Katamandu, lungo Freak Street, fosse addirittura sfuggito a un gruppo di agguerriti Gurkha decisi a fargli la pelle. Di certo, non avrebbe mostrato di essere spaventato da un gruppetto di vecchietti avvinazzati.

I vecchi si scambiarono uno sguardo veloce.

«E cosa sarebbe stato, se non uno scherzo del cazzo?» sbottò il Celestino, ex muratore che pesava qualcosa come centoventi chili. Il fatto che si fosse sforzato di parlare italiano la diceva lunga su quanto fosse solenne il momento. Del resto, nessuno tra di loro poteva dirsi certo che, quella bestia rara, potesse comprendere il dialetto.

«Si è trattato di un vero messaggio, ovviamente», insistette Lanfranco. «Vrillon il Saggio è tornato come aveva promesso, per portarci di nuovo il suo messaggio. Era ovvio che lo avrebbe fatto proprio adesso, alle soglie dell’Età dell’Acquario che…»

«Che ce ne facciamo dell’acquario se qui abbiamo il Chiese e il Garda e al massimo pure l’Iseo e l’Idro, dove andare a pescare?» inveì il Beppo Aola, di professione pescatore. «L’acquario è per gli snob di città!»

Lanfranco fece un sorrisetto.

«L’Acquario è un segno zodiacale, una posizione solare, non un mero oggetto di vetro da tenere in salotto. E il suo avvento porterà a tutti noi un mondo nuovo, un mondo migliore, in cui si vivrà in pace e in armonia con il creato.»

«Boh», fu la sola risposta che gli giunse.

L’hippie si alzò. Nonostante la magrezza eccessiva del suo organismo, era molto alto. Con i suoi abiti insoliti e i capelloni arruffati, torreggiò come un gigante su quel mare di coppole scozzesi. I suoi occhi un po’ spiritati si scontrarono con quelli dei pensionati, solcati da venuzze e capillari rotti dalla troppa affinità vinicola.

«Voi non siete mai stati al Tempio delle Anime sulla vetta del Machapuchare, dico bene?»

Nuovi sguardi corsero tra i pensionati. Probabilmente, non avevano nemmeno capito il nome che quel tizio strambo aveva appena pronunciato. Comunque, tanto per non fare una figura da nulla, il Mario si sentì in dovere di dire qualcosa in risposta.

«Io sono stato in viaggio di nozze a Venezia, nel ‘38.»

«Io e la Mariella siamo andati a Napoli, nel ‘39», soggiunse il Benito.

«Me, me muier, l’ho portata alla seriola e se l’è fatta bastare», interloquì il Beppo Aola. «Se no ghe dae!»

Lanfranco annuì con convinzione, come se gli avessero appena esposto un teorema particolarmente complesso ma che, alla prova dei fatti, si fosse rivelato esatto e inconfutabile.

«Sì», disse, serio. «Lo immaginavo.»

Tentò di lisciarsi un poco la barba arruffata. Tentativo inutile. I peli continuarono ad andare di qua e di là a seconda dei loro personali desideri. Lasciò perdere e intrecciò le mani dietro la schiena.

«Io, invece, al Tempio delle Anime ci sono salito», disse.

Negli occhi, gli si accese la luce dei ricordi.

«Un’ascesa complessa, lungo pareti inviolate e sentieri inaccessibili. Ho sfidato gli elementi, ho vinto la furia stessa della natura, pur di raggiungere la meta. Ho sofferto molti patimenti, ma alla fine ne ho avuto una grande soddisfazione personale.»

«Un po’ come quando la Carmen mi fa le trippe per cena», sbottò il Bartolo.

Una risata generale seguì quella battuta. Anche Lanfranco si lasciò rubare un sorriso brillante.

«Nel Tempio delle Anime, ho conosciuto la Verità», proseguì poi il figlio dei fiori. «Il saggio custode, dopo avermi sottoposto alle tre prove della luce, mi ha permesso di accedere alla sala del silenzio, dove lo specchio degli orizzonti mi ha mostrato ciò che è, ciò che fu e ciò che sarà. E, così, ho potuto ascoltare per la prima volta la voce di Vrillon il Saggio.»

Nessuno fiatò, in risposta alle sue parole. Così, Lanfranco poté continuare.

«In passato, più volte, Vrillon fece visita al nostro mondo e parlò agli esseri umani. Il suo messaggio, dapprima ascoltato, venne infine dimenticato, ma egli – al contrario – non si dimenticò di noi. E infatti, come prevedevo, ieri sera ci ha dato una nuova prova della sua venuta… capite? Egli si sta preparando a un grande ritorno, quello definitivo, e ci sta ammaestrando perché le nostre menti siano finalmente pronte al grande momento in cui lo accoglieremo tra tutti noi!»

Ancora una volta, fu soltanto il silenzio a replicare alle parole di Lanfranco.

L’hippie ammiccò, sperando di ottenere almeno un segno di conferma da parte di quel gruppo di vecchietti. Ottenne soltanto sguardi stralunati e volti impassibili.

Il momento imbarazzato durò quasi un minuto.

Poi il vociare dei vecchi esplose all’unisono, e tutti quanti cominciarono a inveire contro di lui.

«Ma basta con ‘ste casade!»

«Me vulie vardà la partita, mia senter chele boiate!»

«Va’ a laurà, va’, invece che perder temp, scansafatiche!»

«Ma mochela, schena falada!»

Improperi e villanie continuarono a montare. Ben presto, il bar cominciò a riecheggiarne completamente. Nemmeno nei peggiori tornei di Trisacco, quando a ogni carta messa in tavola faceva seguito una minaccia di morte o almeno di castrazione, si era mai sentita una simile baraonda nel Bar Centro.

Lanfranco sorrise con mestizia.

Ci aveva provato, ma avrebbe dovuto sapere che sarebbe stata una sfida perduta in partenza. Non sarebbe stato in quel buco di provincia, che qualcuno avrebbe potuto comprendere il grande avvenire che avrebbe atteso la razza umana se solo fosse stata cosciente dei veri misteri dell’universo.

Prese dal tavolo la tazzina e la vuotò. Si assicurò di avere con sé il taccuino e, senza più badare a tutte quelle voci che lo insultavano, uscì a passo lento dal bar.

 

 

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Capitolo 17
*** 16. ***


16.

 

 

Reggio Emilia, maggio 2013

 

 

«E ora a voi, ragazzi, eh… domande? Risposte? Considerazioni?»

Per un istante, l’intera aula restò sospesa. Un silenzio in cui galleggiò l’attesa… e poi scoppiò tutto all’improvviso.

Da ogni banco, da ogni lato, tutti i ragazzi e le ragazze presenti aprirono bocca all’unisono, chiedendo, dicendo, domandando, affermando. Una cacofonia inesplicabile, ma che fece allargare un sorriso luminoso sul volto del professor Lancellotti. Amava quando i suoi studenti si interessavano a un argomento e volevano partecipare in maniera attiva alla lezione. Poco importava, poi, che si trattasse di un argomento decisamente deviato rispetto alle direttive imposte dal Ministero. Tanto, in quell’aula, gli alti e pomposi papaveroni ignoranti che, cullandosi nella loro presunzione di sapere tutto – quando, invece, erano solo dei boriosi incapaci che non sapevano nulla – davano gli ordini da Roma, non avrebbero mai messo piede.

«Uno alla volta, uno alla volta», li invitò il professore, pacato. «Cerchiamo di non parlare tutti insieme, eh… altrimenti, che cosa si capisce?»

I ragazzi non gli diedero granché retta. Si calmarono un poco, ma continuarono lo stesso a parlare. Ciascuno di loro aveva da esporre la propria teoria in merito, e non aveva nessuna intenzione di cedere il posto agli altri.

L’unico che, come al solito, preferì restarsene in silenzio, fu Alberto Manfredi.

Silenzioso come sempre, il ragazzo sedeva in terza fila, su un banco accostato alla parete. La stessa parete a cui si era appoggiato con tutto il peso del proprio corpo. Disposto di fronte a sé aveva un quaderno fitto di appunti e l’astuccio Eastpak da cui aveva tirato fuori le sue tre penne al gel, blu, nera e verde. Lo zaino rosso giaceva abbandonato accanto al banco.

Alberto non aveva mai fraternizzato più di tanto con i suoi compagni di classe. Loro erano tutti amici di vecchia data, che uscivano insieme il sabato sera e si frequentavano anche durante l’estate. Lui, quando capitava di uscire il sabato, lo faceva con pochi amici che frequentavano altri istituti; e le sue estati le aveva sempre passate a casa di sua cugina, sul lago di Garda, vicino a dove abitava la sua amica Aurora. Amica che non vedeva l’ora di rivedere. Ormai contava i giorni che lo separavano dalla fine delle lezioni e, di fatto, da lei. A dire il vero, aveva cominciato a contarli fin da settembre. Aurora era una calamita, una forza magnetica da cui Alberto faticava a tenersi troppo a lungo lontano.

Questa volta, però, la lezione aveva destato in lui un interesse particolare. Non che non capitasse spesso: amava ascoltare il professor Lancellotti parlare. Ma stavolta, l’effetto era stato persino maggiore del solito. Qualcosa si era svegliato, nella sua mente. Un ricordo di alcuni anni prima, una magica notte trascorsa insieme ad Aurora, una notte che né lui né lei avrebbero mai potuto dimenticare…

Prima ancora che avesse potuto formulare un pensiero concreto e di dare una definizione a quella ridda di memorie, il suo braccio scattò verso l’alto. Il professore gli rivolse un ampio sorriso.

«Ecco, vedete, eh… prendete esempio dal vostro compagno Manfredi, che chiede il permesso di poter parlare, eh…»

Alberto arrossì e abbassò di scatto il braccio. Ormai però era fatta. Aveva gli occhi di tutta la classe puntati addosso. Quelli di Lancellotti lo scrutarono con una tale intensità che si sentì trapassare da parte a parte. Il professore aveva il dono raro di saper sbirciare nelle coscienze. Impossibile nascondergli qualcosa.

Anche se avrebbe preferito sparire, ora gli toccava parlare.

«Ecco, io…» balbettò. «Sì, insomma… qualche anno fa… a me e a una mia amica… ci è sembrato di avere visto un… ufo… disco volante, ecco…»

Parlare gli era riuscito difficile. E più difficile ancora gli riuscì restare dove si trovava, quando sentì alcune risatine levarsi di qua e di là per tutta l’aula. Avrebbe tanto voluto essere davvero rapito da un mezzo extraterrestre e portato in un’altra galassia, in quel momento. Specialmente quando le risatine si fecero più forti, seguite da parole di scherno.

«E cosa vi eravate fumati, tu e la tua amica?» domandò la voce di Matteo.

«E da quando tu hai un’amica?» chiese Ilaria, con disprezzo.

«Ma te la trombi, Manfredi?»

«Per me è un’amica immaginaria… l’hai mai toccata?»

Forse altre malignità sarebbero potuto seguire a quelle, ma Lancellotti mise subito tutti in riga.

«Zitti!» disse, secco. Per una volta, aveva messo da parte il suo solito tono pacato e gentile. «Non prendete in giro il vostro compagno! Ma come, abbiamo appena finito di parlare di queste cose, e se uno di voi dice di avere visto qualcosa di insolito, voi lo trattate in questa maniera?!»

Un silenzio profondo scese nell’aula. Un silenzio secco e teso. Un silenzio che disse ad Alberto che, durante la ricreazione, avrebbe fatto meglio a nascondersi da qualche parte, se voleva evitare di dover incorrere in pesantissime prese in giro da parte dei compagni. Andare a scuola diventava ogni giorno di più un inferno e, se non fosse stato per il suo desiderio di conseguire un diploma, Manfredi avrebbe volentieri accarezzato l’idea di mollare tutto e trascorrere il resto della sua vita a lavorare i campi, come i genitori, come la sorella, come i nonni… come quasi tutti i suoi parenti, insomma, se si escludeva la cugina, che si era sposata ed era andata a vivere sul Garda proprio per sfuggire a tutto questo.

E anche Alberto Manfredi voleva sottrarsi a quel destino antico. Anche se questo avrebbe significato dover sopportare ancora per un po’ tutta quella gente che gli era toccato di avere come compagni di classe e che stentava a sopportare. Per fortuna che c’era Aurora, a tenerlo su. C’erano le conversazioni con lei via Messenger e Facebook e, all’orizzonte, la prospettiva di vederla e abbracciarla ancora una volta. E, prima o dopo, Alberto ne era certo, sarebbe giunto il momento in cui avrebbero potuto stare insieme sempre, e non soltanto durante l’estate.

Il professore gli sorrise in modo benevolo.

«E allora, Albi, com’era fatto, questo disco volante, eh…?» domandò. «E dove lo avete visto, di preciso? E quando, eh…?»

Alberto deglutì. Odiava parlare di fronte a tutti. Ma ormai il dado era stato tratto.

«Sarà stato… no, ecco: era l’estate del 2009. Agosto mi pare. Era agosto? Sì, sì, ecco, era agosto, perché volevo vedere le stelle cadenti, quelle della notte di San Lorenzo. Sul lago di Garda. Io ho visto passare in cielo questo disco nero, e allora l’ho seguito e sono andato a chiamare la mia amica, perché volevo che lo vedesse pure lei, e c’era pure altra gente mi pare, quindi non è che ce lo siamo sognati… ed era tipo nero, ma con delle luci che ruotavano, pareva una specie di trottola, e le luci colorate mi pare che erano nove… sì, erano nove, sì… poi a un certo punto è salito altissimo verso il cielo e poi è scomparso… perché non ho detto che era abbastanza basso, saranno stati forse cinquanta metri da terra, ma anche meno, non so, anche perché era grosso e non si capiva bene, poi col buio, ecco, no… sì.»

Aveva parlato tutto d’un fiato, cercando di dare ordine in fretta a tutti i suoi pensieri. Non fu sicuro di aver dato una spiegazione esaustiva o dettagliata, ma di più non avrebbe saputo fare. Più parlava e più Alberto si era sentito il viso scottare dall’imbarazzo di dover dire una cosa simile di fronte a tutta la classe.

Comunque, al professore tanto bastò.

«Per fortuna non stiamo facendo lezione di italiano, Albi, altrimenti ti saresti preso un uno suonante sul registro, eh… Ho capito ciò che hai visto, in ogni caso. La tua descrizione, come dire, corrisponde, eh…»

Sorpreso, Alberto sollevò lo sguardo dalle sue tre penne – dove lo aveva tenuto puntato per tutto il tempo – e fissò il professore. Gli occhi azzurri di Lancellotti ricambiarono con una scintilla di complicità.

Il professore mise le mani dietro la schiena e ricominciò a muoversi piano lungo la stanza, calamitando su di sé l’attenzione generale.

«Vedete, nel suo libro, Euprepio Filelozio parla molto a lungo di un essere intergalattico che, in tempi lontanissimi – ere remote, ormai dimenticate – visitò il nostro pianeta, portando un messaggio di pace e di fratellanza agli uomini, eh... Il suo nome era Vrillon. Egli è stato più volte raffigurato in opere d’arte antichissime, e appare sempre come una figura alta, imponente, dietro la quale attende il suo mezzo di trasporto, eh… un disco a forma di trottola, circondato da un numero variabile di lucette, spesso nove, eh... Non lontano da qui, nelle valli dell’arco alpino, tale simbolo è conosciuto come Rosa Camuna: un simbolo così importante da essere divenuto l’emblema della Regione Lombardia, eh... Ma è un simbolo, per la verità, presente in ogni angolo del mondo, pur con delle variazioni significative a seconda della posizione geografica e dell’epoca, eh…»

Il professore fece una pausa, toccò il muro con le dita e ricominciò a parlare e a camminare.

«Perché vedete, ragazzi: Vrillon si è presentato più volte, in ogni latitudine e in ogni epoca, eh… è sempre tornato a farci visita: e, a quanto pare, il nostro Albi ha avuto l’immensa fortuna di incontrarlo durante uno dei suoi ritorni, eh…»

Ancora una volta, lo sguardo del professor Lancellotti e quello di Alberto si incontrarono. E, se mai fu certo di qualcosa in vita sua, in quel momento il ragazzino ebbe la sicurezza matematica che il docente non si stava burlando di lui. Lancellotti credeva davvero a ciò che gli stava raccontando e, in poche parole, non aveva alcun dubbio riguardo al fatto che lui e Aurora avessero davvero visto qualcosa di straordinario, nel cielo stellato di quell’estate passata.

Una certezza che si fece largo dentro di lui e rischiò quasi di soffocarlo. Perché, fino a quel momento, Alberto aveva cercato di convincersi di aver sognato, di aver immaginato tutto, di aver scambiato qualcosa di normalissimo per un fatto insolito.

Da adesso in poi, con la benedizione del suo professore, sarebbe stato difficile farlo. Forse persino impossibile. Era venuto il momento, per Alberto Manfredi, di abbandonare ogni certezza e di cominciare a convincersi che il mondo non finiva lì, dove sempre aveva creduto. Il mondo andava ben oltre le strade che si percorrevano ogni giorno, si spingeva al di là delle luci e delle tenebre, lambiva i confini dell’orizzonte e li varcava.

E, da quella mattina, Alberto Manfredi ebbe una certezza: il suo scopo, nella vita, sarebbe stato quello di non fermarsi alle apparenze e di andare oltre, di varcare quei confini, quelle colonne d’Ercole che gli esseri umani avevano eretto per non dover affrontare l’ignoto e tutti i timori che esso conteneva nel proprio ventre infinito.

Come se gli avesse letto dentro tutto questo, il professor Lancellotti sorrise con fare incoraggiante. E se Euprepio Filelozio aveva mai cercato qualcuno che si sarebbe rivelato n grado di aiutarlo e di dare corpo e forma alle sue teorie, ora seppe di averlo trovato.

Ma non era quello il momento né il luogo per parlarne.

«Allora, ragazzi, qualcun altro, tra di voi, ha mai visto qualcosa di insolito, nel cielo?» domandò. «Avanti, non siate timidi, eh…»

 

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Capitolo 18
*** 17. ***


17.

 

 

Val Camonica, settembre 2021

 

 

La prima ad accorgersi della presenza del gruppetto dei vandali fu Aurora.

Con il suo passo lungo, aveva distanziato di qualche metro Manfredi, che procedeva alle sue spalle lungo il sentiero. Il tenente cominciava ad arrancare. Del resto, quando lei gli diceva che doveva allenarsi a camminare un po’ di più su terreni accidentati, lui replicava sempre di non averne bisogno e di essere in gran forma. Un sorrisetto le inarcò le labbra. Avrebbe pensato lei a convincere Manfredino a fare un po’ di ginnastica. Per fortuna, quando serviva, sapeva sempre come fare a persuaderlo. Dei due agenti, invece, non c’era più traccia. Dovevano essersi fermati a riposare da qualche parte.

Meglio così.

La ragazza si voltò e fece cenno al tenente di fare piano e non dire una parola. Lui venne avanti e, affiancandola, sbirciò attraverso i rami intrecciati di un nocciolo contorto, le cui foglie cominciavano a screziarsi di venature gialle. Aurora era certa che, tra le radici di quella pianta, abitassero gnomi e altre creature fatate.

Purtroppo, non era il momento di dedicare attenzioni ai suoi amici del Piccolo Popolo.

«Devono essere loro», sussurrò, indicando il gruppetto.

Osservarono senza parlare i quattro adolescenti. Non impiegarono che un paio di secondi a riconoscere il capobranco, quello che si faceva chiamare Sukker e adorava scrivere il suo nome dappertutto. Ad Aurora rammentò un cotechino con un ciuffo di peli pubici in testa spremuto dentro una felpa grigia piena di macchie. Da come gli altri si muovevano nervosamente, e dalle occhiate che gli gettavano quando si voltava, comprese subito la verità: i tre ragazzini più piccoli erano succubi di quel pachiderma puzzolente.

La conferma, se ce ne fosse stato bisogno, arrivò quando Sukker buttò a terra con un calcio il ragazzino biondo che portava lo zaino sulle spalle.

«Aspettami qui, Manfredi», disse, secca. Un tono che non ammetteva repliche. «E se arrivano quei due poltroni di agenti, trattienili e non far vedere loro ciò che sta per accadere. Queste cose non rientrano nei regolamenti, penso.»

«Aurora…» titubò il tenente, incerto.

Lei lo ignorò e si mosse in avanti. Scostati i rami del nocciolo, discese in silenzio il piccolo dislivello che conduceva alla radura in cui si erano raggruppati gli adolescenti. Il profumo del sottobosco le solleticò il naso, ma adesso non aveva il tempo per perdersi in quella poesia. Ci avrebbe pensato a cose fatte.

Silenziosa come un fantasma, approfittò di ogni ombra per avanzare senza essere vista. I suoi capelli rossi e i suoi abiti neri divennero un travestimento perfetto tra le foglie colorate dall’autunno e le tenebre che montavano in fretta.

Mentre si avvicinava, ascoltò la minaccia che il grassone stava rivolgendo al biondino.

«Avanti, sistema lo zaino, moscerino, altrimenti dopo ti do una lezione!»

Sulle labbra di Aurora si disegnò un sorriso diabolico, satanico. Pericoloso. Pregustò il momento di compiere un atto di giustizia. Un atto che nulla aveva a che vedere con il tesserino e il distintivo che teneva nella tasca interna del giubbotto di pelle.

Mosse un altro passo, uscendo dalle tenebre.

«E se, invece, te la dessi io, una lezioncina che non dimenticherai mai?»

Sukker sobbalzò e si voltò a fissarla. Gli altri tre si impietrirono e non fiatarono. Doveva sembrare un’apparizione fantastica, una donna altissima e con i capelli rossi, sbucata dal profondo della notte. Una dea venuta a fare giustizia. Sigyn in persona.

Ad Aurora piaceva sempre paragonarsi a una divinità. Lo trovava corroborante.

«Che cazzo vuoi, troia?!» sibilò Sukker. «Togliti dai maroni e non farmi incazzare!»

Aurora lo ignorò come se fosse stato solo un moscone fastidioso.

«Voi due», disse, rivolta alla ragazza e all’altro adolescente. La sua voce dura, secca, profonda, sembrava provenire proprio dalle labbra di una dea. «Aiutate il vostro amico biondo a rialzarsi e tagliate la corda alla svelta. Non seguite il sentiero principale: è pieno di sbirri rompicoglioni, due vecchi ciccioni e un tenente rompipalle che non vedono l’ora di mettervi le manette ai polsi. Passate da un’altra parte e andatevene a casa a scoprire quanto è bello scopare in tre o al bar a ubriacarvi o dove diavolo vi pare, basta che vi togliate di mezzo alla svelta e non vi facciate più vedere da me. Se vi ribecco da queste parti a fare danni, giuro che divento insolente.»

Aveva parlato con voce bassa e roca, lentamente. Il tono di chi non è abituato a vedere messi in discussione i propri ordini.

La ragazza e il ragazzo avanzarono verso il biondino, rimasto disteso sull’erba.

«Vieni, David», disse il ragazzo, porgendogli la mano. Lui non se lo fece ripetere due volte e si rialzò in fretta.

In breve, tutti e tre si defilarono, senza una sola parola. Per un attimo, Aurora si domandò se sarebbero davvero andati a casa a fare sesso di gruppo. Non ci credette molto, ma di certo potevano dirsi fortunati: avevano scampato grosse rogne.

Quelle che, invece, sarebbero toccate al loro amico.

«E ora a noi, bombolone», disse la giovane, girando lo sguardo verso Sukker, che non si era mosso di un centimetro.

«Ma chi ti credi di essere, troia?!» sbottò Sukker.

Nonostante palesasse sicurezza, nella sua voce vibrò una sfumatura spaventata che non sfuggì al sottotenente Bresciani.

Sul viso di Aurora, si delineò una sfumatura diabolica. L’intera sua figura parve emanare ondate di paura. Pregustò il momento di mettere in atto tutti gli insegnamenti che aveva avuto dalla visione dei film che amava e dalla lettura dei libri che adorava. Nulla a cui venissero istruiti gli allievi dell’Accademia per ufficiali dell’Arma dei Carabinieri.

«Sono la troia che ti insegnerà che cosa voglia dire davvero fare un… come lo chiami…? Un Sukker…»

Il ragazzo fece un movimento rapido. Forse provò ad attaccare, più probabilmente a tagliare la corda. Doveva aver intuito il pericolo. Quali che fossero le sue reali intenzioni, Aurora non gli permise di metterle in pratica.

Un guizzo dei suoi capelli rossi e la giovane donna fu addosso all’adolescente grasso. Le sue mani, forti e abituate a trattare con i personaggi più testardi e insidiosi, afferrarono le spalle di Sukker e le sospinsero verso il basso. Con un tonfo, il ragazzo crollò a terra. Non poté fare un solo movimento, perché subito si ritrovò con Aurora addosso. Il ginocchio destro della giovane affondò nell’inguine di Sukker e la sua mano destra gli artigliò i testicoli attraverso la tela dei pantaloni della tuta.

«Se ti muovi stringo», minacciò Aurora, con un sibilo da serpente. «E se ti muovi troppo, strappo.»

Sukker impallidì vistosamente. Rivoli di sudore freddo gli solcarono le tempie e scivolarono lungo il collo grassoccio. I suoi occhi divennero vitrei, le pupille si dilatarono per il terrore. Quando incontrò lo sguardo di Aurora, cominciò a respirare fortissimo e lei fu certa di aver sentito il suo cuore sbattere contro la cassa toracica, da quanto accelerò in preda alla paura.

Se ne compiacque.

Adorava fare paura.

Era più forte di lei.

«Ora, c’è gente che va in giro a cianciare di essere contraria alla violenza e altre stronzate del genere», mormorò. Si abbassò su Sukker e gli avvicinò la bocca all’orecchio sinistro, per mormorarvi dentro parole solo per lui. «Stronzate, lo ripeto. Adoro il sadomaso. L’unica pratica sessuale a cui mi dedico è il bondage. Godo nel dominare e nel fare male. Mi dà piacere far soffrire gli altri, sentirli urlare e contorcersi tra le mia braccia. Mi domando… vuoi provare?»

Nella sua voce era risuonata una vibrazione strana. Qualcosa di lussurioso e allo stesso tempo di mortale. Qualcosa che suggerì alla sua vittima che, se avesse accettato, avrebbe provato qualcosa di incredibile, ma anche di definitivo. Non ne sarebbe uscito vivo.

«No…» rantolò Sukker. «Per favore, no…»

«No…» ripeté Aurora, sempre parlando contro il suo orecchio. «Peccato. Sarebbe stato divertente, specialmente per me. Ma stavolta intendo darti retta, piccolo mio: non ti torcerò un capello. Stavolta. Ma se scoprirò che hai osato ancora una volta maltrattare un ragazzino più piccolo di te o scarabocchiare anche solo un vecchio muro destinato alla demolizione, tornerò.»

Fece una breve pausa. La sua mano sinistra compresse la bocca di Sukker per impedirgli di urlare e la destra strinse con forza i testicoli. Il ragazzo, in preda al dolore, si agitò e tremò. Lei lo tenne inchiodato dov’era, impedendogli di muoversi. Sentì il calore del suo corpo aumentare.

«Tornerò, lo prometto. E questo è solo un assaggio piccolo piccolo di quello che ti farò se mi avrai disobbedito.»

Lacrime calde riempirono gli occhi di Sukker e mugolii di dolore gli sfuggirono dalle labbra impossibilitate a muoversi. Lo sguardo di Aurora, fisso nel suo, parve un incubo interminabile.

Infine, le mani della giovane lo liberarono. Lei gli lasciò un breve bacio sulla guancia, assaporando il gusto della sua paura, e si rialzò con un unico movimento fluido.

«Cresci e comportati da uomo civile, bamboccio. Altrimenti non avrai scampo», minacciò, senza smettere di guardarlo. «E ora vattene via anche tu. Ti ripeto quello che ho detto ai tuoi amici: evita il sentiero, se vuoi evitare di andare in prigione. E non provare a pensare di denunciare il fatto che la donna più bella del mondo ti ha aggredito in mezzo al bosco. Nessuno ti crederebbe e manderebbero proprio me, a condurre l’interrogatorio per capire che cosa ti sia successo davvero. Comprendi cosa intendo dire?»

Sukker era rimasto sdraiato a terra, ansnate e piagnucolante. Annuì veloce.

«Io… ho capito…» riuscì soltanto a dire.

«Sparisci», ordinò secca Aurora.

Il ragazzo si mise a quattro zampe e, incespicando, si allontanò in fretta da lei. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, riuscì a rimettersi in piedi. Zoppicando, senza più voltarsi indietro, si inoltrò nel bosco e scomparve.

Aurora sorrise.

Il suo incontro con il giovane bullo era durato forse tre minuti di orologio, ma era un’esperienza che Sukker non avrebbe scordato mai più. Anzi, fu più che certa che quel ragazzo, da quel momento in avanti, non avrebbe mai più utilizzato quel soprannome ridicolo.

Si girò verso il nocciolo, di cui intravedeva a malapena la forma nell’oscurità.

«Manfredi!», chiamò. «Cazzo, tenente, muovi il culo! Sempre tutto a me, tocca fare!»

Accompagnato dal rumore di foglie secche e di bastoncini spezzati, Alberto apparve nella radura.

«Io faccio finta di non avere visto nulla», sbottò. «E, se qualcuno lo domanda, tu sei sempre stata insieme a me e non abbiamo incontrato nessuno. Però, davvero, non puoi trattare a quel modo un sospettato, io credo che…»

«Taglia corto, Manfredino», replicò lei. «Il caso è chiuso.»

Colpì con un calcio lo zaino con spray e pennarelli, rimasto abbandonato sul terreno.

«Qui ci sono i corpi del reato, pronti da sequestrare. Nel verbale scriverai che il vandalo era da solo e che, appena ci ha visti, si è dileguato. Puoi usare pressappoco queste parole: appena si accorgeva della nostra presenza, il teppista prendeva la via del bosco. Lo inseguivo invano, perché sono un gattone abituato a stare in poltrona e non riuscivo a mantenere il suo passo nel bosco…»

Per tutta risposta, Alberto sbuffò. Preferì non replicare nulla.

«Si può sapere che cosa gli hai detto, per spaventarlo tanto?» domandò, invece. «Ho visto che gli parlavi all’orecchio e, quando lo hai fatto, è diventato così bianco che vedevo la sua faccia attraverso le tenebre.»

Aurora si strinse nelle spalle.

«Cose mie. Ma, se una di queste sere vieni a casa con me, posso provare a spiegartele…»

Prima che Manfredi avesse avuto il tempo di aggiungere altro, arrivarono i due carabinieri. Erano ancora più sudati e stanchi di prima, nonostante fosse chiaro che avessero approfittato di ogni roccia e di ogni tronco rovesciato per fare una sosta. Con il fiato corto, non sembravano avere un’aria molto minacciosa. Il tenente sperò con tutto il cuore che a nessuno venisse mai in mente di mandare loro a fare un pronto intervento.

«Dov’è il vandalo?» domandò uno dei due.

Manfredi assunse un cipiglio severo.

«Ci è sfuggito per colpa vostra, che siete rimasti indietro!» ringhiò. «E dubito che lo prenderemo mai più. Comunque, ha lasciato qui lo zaino con le sue attrezzature, prendetelo e mettetelo nel magazzino della roba sequestrata.»

L’altro agente sollevò un sopracciglio.

«Forse, esaminandolo, si potrebbe scovare qualche indizio per…»

«Sì, sì, mandiamolo al RIS, a Parma, sono certa che non abbiano altro di cui occuparsi che non analizzare lo zaino di un adolescente che va in giro a scribacchiare il suo nomignolo», lo interruppe Aurora, sarcastica. «Forza, prendete quell’affare a tornate in caserma. Io e il tenente Manfredi abbiamo deciso di rimanere qui tutta la notte a fare la guardia.»

«Ma…» provò a dire uno dei due agenti.

«Ma…» gli fece eco Alberto.

«Abbiamo deciso così», tagliò corto Aurora.

I due carabinieri non sentirono la necessità di replicare altro. Cercarono lo sguardo di Alberto che, rassegnato, fece loro cenno di obbedire. I due uomini, preso con sé lo zaino, fecero un breve saluto e si rimisero in cammino per tornare a valle.

Alberto e Aurora restarono soli in mezzo alla radura.

«Cos’è questa storia che dobbiamo restare di guardia?» domandò il tenente, non appena fu certo che i due agenti fossero fuori portata della sua voce.

Aurora stava armeggiando con una sigaretta e non rispose subito. Diede fuoco all’estremità e ne trasse una lunga boccata di fumo.

«Cazzo, se mi ci voleva», mormorò, infine. «Era da quando ci siamo messi a camminare su per la montagna, che avevo voglia.»

Si girò a guardarlo.

«Siamo in un posto magico, in una notte magica, Manfredino», soggiunse. «Magari non succederà nulla, oppure succederà di tutto, chi può dirlo. Mi piace essere qui e voglio rimanerci, tutto qui. Non ho voglia di andarmene tanto alla svelta. Qui si sta bene. Sento che in te vibra qualcosa di speciale, quindi sono contenta di essere qui, insieme a te. Ma non farmene pentire. Smettila di fare domande idiote e sdraiati qui con me.»

Aurora si lasciò scivolare sull’erba umida e vi si appoggiò con tutta la schiena, continuando a fumare. Dopo un attimo di esitazione, Alberto la raggiunse. I loro corpi si sfiorarono e i calori che emanavano si mischiarono insieme.

Sopra di loro, nella vastità nera della notte, brillavano le stelle.

 

 

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Capitolo 19
*** 18. ***


18.

 

 

Peschiera del Garda, provincia di Verona, agosto 2009

 

 

Era alto sopra il lago di Garda, sulla perpendicolare di Sirmione. Sfolgorava di una luminescenza incredibile e incontrastabile, al punto che le numerose luci accese sulle coste apparivano poco più che lumini appena percettibili.

Era immenso. Un grande disco nero, dalla cui sommità emanava una luce rossa roteante, come se inviasse un segnale misterioso in tutte le direzioni. Se ne stava immobile, vincendo la forza di gravità e sfidando tutte le leggi della fisica. Ma la stessa esistenza di quell’oggetto, in fondo, era una vera sfida, uno schiaffo in faccia alla scienza che avrebbe comunque continuato a negarlo. Attorno gli giravano delle luci più piccole, numerose, dai colori indefinibili. Dava l’impressione di stare guardando attraverso un caleidoscopio in cui, una per una, si sommavano tutte le luci iridescenti dell’arcobaleno, o forse delle più lontane e irraggiungibili galassie, nebulose, costellazioni.

La cosa più strana, in tutto questo, era la totale assenza di rumori. L’aria era immobile, e non si udiva un solo fischio, nemmeno il più minuto. Persino l’acqua sembrava essersi fermata, e non si udiva nessuno dei tipici suoni della risacca.

All’improvviso, il disco cominciò a ruotare su se stesso. Sembrò quasi che non aspettasse altro che di essere osservato da tutti quegli occhi meravigliati per poter dare spettacolo. Ruotò sempre più veloce, assumendo la forma di una trottola, o forse di un fiore a tre petali. Le luci più piccole iniziarono a loro volta a roteargli attorno, formando una corona di colori che si mischiarono fino a fondersi in un’unica tonalità da cui non fu più possibile discernere un tono dall’altro. Presto, i colori mischiati tra di loro divennero di un bianco abbagliante, accecante.

Per un momento, fu come se dal disco si fosse dipartito un raggio luminoso che scese fino a terra, lambendo un punto imprecisato della spiaggia. Fu un attimo, un istante irripetibile, e poi il misterioso oggetto volante – silenzioso e discreto com’era apparso – tornò a sollevarsi verso il cielo, sempre più alto, stella tra le stelle, fino a scomparire del tutto.

 

* * *

 

Pippo non smise un solo istante di guaire, nascosto dietro le gambe del suo padrone. Quest’ultimo restò a bocca spalancata di fronte a quella visione. Si sentì le ginocchia diventare molli per lo spavento e fu costretto ad aggrapparsi al tronco di uno dei pini marittimi piantati lungo il marciapiede, tutto crepato e sollevato dalle loro radici.

Nonostante il terrore crescente, Gianluca non riuscì a muovere un passo fino a quando il disco volante non si fu innalzato nel cielo fino a scomparire. A quel punto scosse la testa e tornò in sé.

Abbassò gli occhi. Cane e umano si scambiarono uno sguardo d’intesa.

«Che dici? Ce lo siamo sognato, vero?» bofonchiò.

Pippo agitò la coda in un segno affermativo.

«Ho esagerato a bere tre Peroni doppio malto a cena, dico bene?» chiese ancora Gianluca.

Di nuovo, Pippo diede il suo assenso.

«Devo smetterla di bere così tanto. Non è solo perché mi cresce la pancia», ragionò Gianluca, battendosi sul ventre che in effetti era parecchio rigonfio, «ma soprattutto perché mi fa male alla testa. Da domani si comincia a bere solo acqua, siamo intesi?»

Il modo in cui Pippo trotterellò attorno alle sue caviglia significò che sì, erano intesi. Basta birra. Solo acqua.

«Solo acqua», ripeté Gianluca. «Solo acqua.»

Cane e uomo si avviarono a passi lenti, senza più pensare a ciò che avevano visto, dimenticandosi in fretta di quell’immagine che non poteva essere reale. Era stata solo un’allucinazione, ovvio. Un’allucinazione dovuta all’abuso di alcol.

Non c’era altra spiegazione.

Maledetta birra.

 

* * *

 

Paolo e Daniele restarono immobili, le mani che ancora si sfioravano. Non una sola parola uscì dalle loro bocche, mentre con gli occhi seguivano quello spettacolo insieme misterioso e meraviglioso.

Mille diverse emozioni attraversarono i loro corpi, facendosi largo fin nei recessi profondi delle loro menti. Ma tra queste emozioni non vi fu la paura. Per loro, costretti sempre a nascondersi, a sfuggire la cattiveria della gente, a dover tenere celato il loro amore proprio per paura delle reazioni degli altri, questa volta non vi fu traccia di quel timore che li seguiva ovunque andassero.

Si sentirono riempire, invece. Si sentirono pervadere da uno strano calore, da una sensazione di benessere e di appagamento. Quella visione disse loro che non erano soli, che non solo il pianeta Terra, ma l’universo intero è fatto di diversità, di differenze, di tutte cose non uguali tra loro, e che è la somma di tutte questa immensa mole di variazioni a creare a quell’insieme unico e variegato racchiuso entro i confini indeterminati del Tutto.

Loro ne erano parte. Non erano esclusi da tutto questo.

Quella luce che brillò nel cielo e che danzò davanti ai loro sguardi prima di risalire nelle profondità stellari, parve venuta a comunicare proprio questo: siamo tutti diversi, eppure tutti apparteniamo allo stesso mondo, abbiamo la medesima origine. E la differenza non deve essere motivo di paura, perché in essa si cela la grandezza, la capacità di andare oltre l’apparenza dettata dalle imposizioni altrui e apprezzare tutto, fin nel suo essere più profondo.

Quando la luce se ne fu andata dal cielo, continuò a brillare negli occhi di Daniele e di Paolo. I due ragazzi la videro riflettersi nei loro sguardi quando li alzarono e li fecero incontrare.

Capirono che rimanere nascosti, d’ora in poi, non sarebbe stato altro che un errore. Non erano loro a essere sbagliati. Sbagliati erano quelli che non volevano capirli, quelli convinti che il mondo fosse regolato da leggi ben definite e immutabili, come se tutto avesse inizio e termine lì, in quei concetti a cui gli esseri umani continuavano a essere legati in modo maniacale. Troppo a lungo gli uomini avevano avuto paura di guardare oltre, di aprire gli occhi su ciò che veramente li circondava da ogni parte.

Non loro. Non più.

Si sarebbero mostrati come parte del mondo, dell’insieme, del tutto. Quella luce che si era palesata loro, sembrava essere venuta a comunicare che i vecchi concetti erano ormai sul punto di crollare – se già non lo avevano fatto – e che un mondo nuovo sarebbe nato dalle ceneri immonde di quello vecchio. Un’epoca nuova era sul punto di cominciare, un’’epoca di uguaglianza e di libertà, dove non ci sarebbero più state sciocche e inutili differenze dettate da paure ataviche e insulse.

Le loro bocche si sfiorarono per un altro bacio. Un bacio nuovo, dolce, pieno, che sapeva di spensieratezza, di vita, di futuro luminoso e acceso da una nuova consapevolezza.

«Andiamo?» sussurrò Daniele.

«Andiamo», rispose Paolo.

Si tennero per mano e uscirono dall’ombra.

Entrarono nella luce, liberi.

 

* * *

 

«Ma porca di quella…»

Marta trattenne a stento l’imprecazione. Francesca non fu altrettanto raffinata.

«Cazzo! Che cazzo è?!»

Fabio e le sue pretese qualità sessuali svanirono come nebbia al sole. Tutto ciò che seppero fu che, in quel momento, la cosa più assurda che avessero mai visto si stava svolgendo proprio davanti ai loro sguardi.

Di dischi volanti, di UFO e di extraterrestri ne avevano sentito parlare spesso. Durante l’anno scolastico, guardare Voyager il lunedì sera e Mistero il mercoledì era quasi un obbligo. Lo facevano tutti, in classe, e il giovedì mattina, alla prima ora, quando le ragazze si radunavano nello spogliatoio per prepararsi alla lezione di educazione fisica – e fosse maledetto l’idiota che aveva messo la ginnastica proprio alle otto del mattino – discutere di quello che avevano visto la sera prima era un rito imperdibile.

Ma un conto era vedere certe robe in televisione.

Tutt’altra faccenda era trovarsele di fronte nella vita reale.

«Oddio, dici che vogliono rapirci?!» domandò tutto a un tratto Francesca. Prese la mano dell’amica e la strinse, forse per cercare protezione, forse per trascinarla con sé nel caso un qualche tipo di raggio misterioso fosse disceso a lambirla.

Per un attimo, entrambe ripensarono a storie di donne rapite e messe incinte, di uomini portati a bordo di astronavi e analizzati in ogni loro parte. Storielle a cui, fino a quel preciso momento, avevano creduto e non creduto. Perché sì, era bello seguire certi programmi, perderci un paio di ore da sottrarre allo studio o ai compiti di algebra… ma, in fondo, non è che ci si credesse realmente, no?

«No, cazzo, non voglio!» strillò Marta.

Cercò di sottrarsi alla presa dell’amica.

«Voglio restare qui! Non ho ancora nemmeno mai scopato! E se devo perdere la verginità, voglio farlo con un manzo terrestre, non con un essere deforme e con le antenne viscide!»

Terrorizzate, il cuore che batteva a mille, le due amiche girarono le spalle alla misteriosa apparizione. Senza attendere di vedere che cosa sarebbe accaduto a quel punto e come si sarebbe comportato lo strano oggetto volante, cominciarono a correre e si defilarono nella notte.

 

* * *

 

 

 

Ivano Fagioli fu costretto a strabuzzare gli occhi.

Una volta, due. Tre.

Per un momento restò incredulo, domandandosi se quello a cui stava assistendo fosse almeno in qualche modo reale. Poteva essere che fosse solo un parto della sua immaginazione. A furia di parlarne e di scriverne, forse adesso aveva le allucinazioni. Un po’ come quando, durante il giorno, ci si occupa a lungo di qualcosa e si finisce di sognarlo durante la notte. Che fosse una sorta di sogno a occhi aperti?

Sbatté le palpebre.

Il disco volante era ancora lì.

Sollevò gli occhiali, si sfregò gli occhi con i polpastrelli. Guardò di nuovo. Rimise a fuoco in fretta e quell’oggetto misterioso si trovava ancora nel cielo, di fronte a lui, a emanare luci, a vorticare su se stesso senza produrre alcun tipo di suono.

Almeno, non un suono percettibile dall’apparato sensoriale umano. Perché chi mai avrebbe potuto asserire che quell’affare non vibrasse su qualche frequenza a ultrasuoni, impercettibile all’uomo?

L’ufologo si svegliò di colpo. Le più disparate teorie gli fluttuarono nella testa, vorticando proprio come il disco. Ma, prima di affrontare quelle idee, avrebbe dovuto dare la precedenza a una cosa fondamentale.

Fotografarlo.

Ivano alzò la macchina fotografica, si portò l’obiettivo agli occhi, regolò la messa a fuoco e cominciò a scattare. Scattò a raffica, un’immagine dietro l’altra, immortalando ogni singolo istante, ogni movimento del disco. Lo seguì e lo bloccò nei suoi movimenti sussultori e ondulatori, accompagnandolo nella sua salita verso l’alto, avvicinandolo con lo zoom man mano che si allontanava sempre di più, fino a quando divenne un puntolino indistinguibile dalle altre stelle e poi nemmeno più quello.

«Gesù Cristo…» fu il solo commento che Ivano Fagioli fu in grado di formulare.

Erano anni che scriveva di quell’argomento. Anni che andava alla ricerca di oggetti volanti non identificati. E adesso che ne aveva visto uno di persona, non avrebbe saputo come definirsi.

Appagato?

Forse.

O, per meglio dire, illuminato. Non avrebbe saputo dire di preciso che cosa avesse visto, in quella calda notte d’estate. Sapeva soltanto di averla vista, e questa significava una cosa ben precisa: le sue ricerche non erano vane. Non stava inseguendo un fantasma, non stava dando la caccia al fumo cercando di afferrarlo a mani nude. C’era qualcosa di reale, di concreto, in quello che faceva.

Non sapeva dove lo avrebbe condotto tutto questo. Ma adesso aveva le prove, dentro la sua macchina fotografica. Prove inconfutabili riguardo al fatto che non tutto si limitasse al solo pianeta Terra. C’era altro, là fuori, altro che aspettava di essere scoperto e studiato, qualcosa che anelava un contatto vero, con gente disposta a credere.

E Ivano adesso sapeva che sarebbe stata una sciocchezza non credere. Se fino a quel momento – ora se ne rendeva ben conto – si era occupato di ufologia solo per passatempo, magari anche per passione, ora lo avrebbe fatto con uno scopo ben preciso: divulgare al mondo intero quella che non si sarebbe più potuta considerare come una semplice fantasia.

Ivano Fagioli aspirò una lunga boccata di aria umida, che sapeva di lago, e restò a guardare il panorama nero punteggiato dalle luci accese sulle coste.

 

* * *

 

Luisa sollevò le braccia verso quell’apparizione.

Non poté fare a meno di trattenere le lacrime di gioia, quando i suoi occhi si fissarono sull’immagine del disco volante, che passò dal rosso a una serie multicolore di variazioni luminose. Tese le dita e, dalle sue labbra commosse, fluttuarono parole in una lingua sconosciuta, quella stessa lingua che le aveva insegnato Selenius Maximus durante i loro accoppiamenti a distanza.

C’era Selenius su quella nave cosmica? Un suo inviato?

Luisa se lo domandò per un solo momento, perché poi comprese la verità. La verità era che non c’erano Selenius, né Luisa, né mille altri nomi differenti, ma solo tante differenti entità, uniche e irripetibili, che assumevano un’identità differente a seconda del contesto, ma che tendevano tutte alla stessa cosa: il Centro. Il Luogo da cui il Tutto era scaturito nel principio e dove il Tutto sarebbe tornato nella Fine. Il Mare delle Origini, il Lago Cosmico che aveva assistito all’Alba della Creazione.

Luisa queste cose le sentiva lì, nella sua mente, mentre se ne stava distesa sui sassi, a fissare l’apparizione iridescente che vorticava e saliva verso il cielo, consapevole che il suo messaggio fosse passato.

L’Età dell’Acquario era giunta, Luisa lo sentì. Era arrivato il momento di prepararsi al Grande Ritorno. E sarebbe toccato a lei farsi portavoce di quella rivelazione, di condurre i suoi simili lungo la Via della Verità. Sarebbe stato difficile, ma Luisa sentì che non sarebbe stata sola, in tutto questo. Altri, di sicuro, avevano visto e recepito il messaggio, e l’avrebbero sostenuta – chi in un modo, chi nell’altro – nel portare avanti la sua missione speciale.

Luisa sorrise, mentre l’invadeva un appagamento profondo, il più forte degli appagamenti, che non aveva provato mai, nemmeno nei momenti più intensi vissuti insieme a Selenius Maximus.

Restò inerte sulla spiaggia, lasciando che i sensi esplodessero nell’intensità di quell’istante magico.

 

* * *

 

Le ginocchia di Lanfranco, già messe alla prova dalla lunga camminata, ebbero un tremito. Fu costretto a inginocchiarsi, senza staccare un solo momento gli occhi da quella visione.

Dentro di sé, il vecchio figlio dei fiori sentì risuonare una voce, una voce lontana e vicina, una voce sconosciuta ma che riconobbe all’istante.

«Sono tornato per riprenderti, mio ambasciatore. Per lunghi anni hai portato al mondo intero il messaggio di Vrillon. Chi ha voluto ti ha ascoltato, ma molti sono stati sordi alle tue e alle mie parole. Ora, se lo vorrai, l’arduo compito di recare la novella della mia prossima venuta passerà ad altri, e tu potrai per sempre riposare insieme a me. Altri mondi ti attendono, altre esperienze, nuove consapevolezze. Ma solo se lo vorrai.»

Senza smettere un solo istante di sorridere e di contemplare il disco volteggiante, Lanfranco meditò su quelle parole e sulle conseguenze che avrebbero avuto.

Provò a pensare a cosa sarebbe accaduto se non le avesse ascoltate. Sarebbe rimasto al suo posto, sempre più solo, sempre più ignorato e incompreso da quelli che sempre meno considerava suoi simili, sino a quando sarebbe giunto il momento di andarsene per sempre. Forse, restando, avrebbe potuto scrivere ancora qualche storiella, che nessuno avrebbe mai letto. A meno che, ovviamente, dopo la sua morte qualche editore furbacchione non avesse deciso di sfruttare il suo nome, di rilanciarlo e di farlo riscoprire. Succedeva sempre così, quando moriva uno scrittore misconosciuto.

E se, invece, se ne fosse andato adesso? Se avesse accettato di seguire Vrillon – perché quello era Vrillon, ne era più che sicuro – in un nuova e indeterminata avventura? Provò a pensare a cosa sarebbe successo. Prima o poi, la Marisa, la sua vicina di casa, si sarebbe accorta della sua scomparsa. Avrebbe chiamato i carabinieri o i vigili del fuoco. Avrebbero fatto irruzione nella sua casa, senza trovare traccia di lui, né nessun indizio su dove potesse essere andato. Magari, dopo qualche giorno, sarebbe intervenuto quel programma di Rai Tre, come si chiamava… ah, sì: Chi l’ha visto? Avrebbero fatto qualche domanda in giro, qualcuno avrebbe raccontato che lui era un vecchio strano, con la mania dei mondi orientali. Forse, avrebbero supposto, era tornato in Nepal, in India o in qualsiasi altro posto che avesse visitato in gioventù. Solo che non risultavano biglietti aerei o altro che avrebbero potuto suffragare questa ipotesi. Il mistero si sarebbe infittito e a quel punto sì, che qualche volpone di editore avrebbe deciso di sfruttare la sua immagine per fare un mucchio di soldi. Lo avrebbero rilanciato come Lanfranco Bonometti, lo scrittore di fantascienza svanito nel nulla, forse rapito da un disco volante. E nessuno avrebbe mai saputo di quanto si fossero avvicinati alla verità, così facendo.

Eccitante.

Questo sì che gli piaceva. Dopo una vita da emarginato, Lanfranco sarebbe stato sulla bocca di tutti. Non che gli importasse, però… doveva riconoscere che fosse parecchio divertente.

Aveva sempre saputo come fare a divertirsi con poco.

Sempre che, abbandonare per sempre il pianeta a bordo di un disco volante giunto dalle profondità del cosmo, si potesse per davvero definire “poco”.

In effetti, ci sarebbe stato qualcosa di poter dire, in proposito. Ma non spettava a lui filosofare sull’argomento. Non questa volta.

«Arrivo», disse. «Vengo con te. Sono pronto.»

Non aveva ancora terminato di pronunciare quelle parole, che un raggio luminoso lo avvolse completamente e Lanfranco non fu più visto da nessuna parte sulla Terra.

 

* * *

 

Fu quasi un istinto irresistibile. La mano di Alberto non bastò più ad Aurora. Quella visione la stava facendo sentire sempre più piccola e insignificante. E lei non era abituata a sentirsi tale. Si strinse al corpo del suo amico e lo tenne stretto come se fosse stato lui la sua ultima ancora di salvezza mentre il mondo intero, tutto ciò che avevano sempre creduto vero e reale, andava lentamente in pezzi davanti ai loro occhi.

Alberto ricambiò la stretta. Dopo la corsa, dopo l’eccitazione, cominciava ad avere paura. Aurora, avvinghiata a lui, con le gambe incastrate tra le sue, con il seno premuto contro il suo petto, con il respiro ancora pesante per la corsa che si intrecciava al suo, lo fece sentire di nuovo vivo. Di nuovo al sicuro.

Perché si poteva dire qualsiasi cosa, dell’avvistamento di un disco volante, ma non che regalasse una vera sicurezza. Un’immagine simile, tanto lontana da qualsiasi cosa fosse ritenuta normale e quotidiana, portava con sé una paura sottile, capace di strisciare nelle tenebre fino a loro, di farsi largo nelle loro coscienze e di avvilupparle con la promessa terribile di non lasciarli andare mai più.

Forse, trovarsi da soli in quel momento, con quell’apparizione negli occhi, sarebbe stato terrificante. Ma non erano soli. Erano insieme, e questo bastava.

I loro odori che si mischiavano, il caldo dei corpi sudati, il deodorante di Alberto e il profumo del tabacco di Aurora, la sensazione di contatto dei loro corpi abbracciati, tutto questo li ricondusse dove si trovavano davvero. La ghiaia sotto i piedi, il lago di fronte, gli alberi dietro e… be’, sì, quella cosa di sopra. Qualsiasi cosa fosse davvero. Ma la stavano vedendo, e potevano accettarla, perché erano insieme.

Restarono muti a contemplare.

Dopo aver sparato una specie di raggio luminoso – per una frazione di secondo, Alberto ebbe la vaga impressione di vedere una sagoma umana dentro quel raggio, ma forse quella fu davvero soltanto una fantasia – il disco volante roteò verso l’alto, fino a scomparire. Forse per sempre. Forse, invece, un giorno o l’altro sarebbe tornato.

Chi avrebbe potuto dirlo.

Per un istante ancora, restarono muti e silenziosi.

Poi…

«Wow», fece Aurora, restando incollata a lui. «Cazzo, Manfredino. Giuro che se mi avessi fatto fare una corsa del genere per niente, ti avrei costretto a leccarmi la Filippa seduta stante, qui, sudata e puzzolente com’è, per riprendermi dallo sfinimento.»

Alberto le sorrise contro la guancia. Si trattenne a stento dal dirle che lo avrebbe fatto più che volentieri, sudata o meno, proprio lì sulla spiaggia, senza perdere un solo istante. Certe cose le pensava di continuo, ma lui non era come Aurora, non riusciva davvero a dirle. Chissà cosa sarebbe successo, tra di loro, se avesse avuto una boccaccia sfacciata come quella della sua amica.

«Ma… ma…» proseguì Aurora, guardando il cielo ormai pieno solo delle stelle. «Ma… wow…»

Da che ne avesse memoria, Alberto Manfredi non rammentava di aver mai visto la sua amica Aurora Bresciani restare senza parole. Era un evento davvero miracoloso, e solo un disco volante era riuscito a farla ammutolire. Avrebbe in qualche modo potuto approfittarne, farsi vedere padrone della situazione e altre cose del genere. Solo che non ci riuscì. Perché anche lui era senza parole.

Non fu affatto sorpreso di scoprirsi a tremare.

Tremava lui e tremava Aurora. Tremavano insieme, nell’afa della notte estiva. Tremavano come se un vento gelido li stesse sferzando. Un vento che proveniva da altri mondi… da altri universi.

Come se si fossero messi d’accordo, si abbassarono all’unisono e si misero a sedere sulla ghiaia. Aurora distese le sue lunghe gambe in direzione del lago. Alberto, vicinissimo, le sfiorò la coscia dura, dalla pelle bollente. Una carezza che riportò entrambi alla realtà, a una dimensione più concreta.

«Dici che era un’astronave o qualcosa di simile?» pigolò il ragazzo.

Lei non distolse lo sguardo dal cielo.

«Di certo non era un aereo o un elicottero», incalzò lei.

«Un’attrazione di Gardaland, magari?» provò Alberto.

«Non dire sciocchezze, Manfredino. Non hanno abbastanza soldi per fare una cosa del genere. Non credo che nemmeno l’Air Force degli USA sarebbe in grado di costruire una macchina di quel tipo.»

Alberto si grattò una guancia.

«Ho sentito dire, qualche volta, che sotto il Monte Baldo c’è una specie di base militare segreta della NATO. Tipo Area 51 o roba simile. La conoscono tutti, l’avrai sentita, no? Forse quell’affare è uscito da lì.»

Aurora ridacchiò. Si contorse per prendere il pacchetto di sigarette dalla tasca posteriore dei suoi shorts. Nel farlo, la spallina della canottiera nera le scivolò lungo la spalla, fino a mezzo braccio. L’altra la imitò. Come suo solito, non indossava il reggiseno e le tette furono libere di guardare anche loro il lago e le stelle. Area 51 e dischi volanti svanirono in fretta dalla mente di Alberto.

Ma non da quella di Aurora.

«Se la base è segreta, com’è che la conoscono tutti?» domandò, con la sigaretta tra i denti.

«Be’…» borbottò Alberto, insicuro di che cosa dire.

Aurora fece scattare l’accendino. Prese una prima boccata di fumo e la cacciò fuori. Tenendo la sigaretta stretta nella mano destra, appoggiò la testa alla spalla dell’amico. La nuvoletta di fumo li avvolse ed entrambi la respirarono.

«Grazie per aver pensato a me e avermelo mostrato, qualunque cosa fosse per davvero e da qualunque posto venisse», sussurrò Aurora, con una dolcezza improvvisa. «Hai voluto condividere con me un istante magico. Grazie, davvero.»

Ogni tanto, lei aveva simili uscite sdolcinate. Arrivavano sempre all’improvviso, ma ogni volta erano come un’epifania. Alberto le passò il braccio attorno alle spalle e la strinse con delicatezza.

«Solo con te avrei potuto condividere questo momento», disse.

Con garbo, le risistemò le spalline della canottiera. Aurora sorrise nel prendere un’altra boccata di fumo.

Le stelle rilucevano nei loro occhi.

 

 

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Capitolo 20
*** 19. ***


19.

 

 

Val Camonica, settembre 2021

 

 

«Non fa esattamente caldissimo, vero?»

Aurora, che stava fumando, non rispose subito. Continuò ad aspirare il fumo e a sospingerlo fuori in lente volute che salivano verso il cielo nero e stellato, prima di dissiparsi nel vuoto. Si domandava sempre se, una parte di lei, se ne andasse con il fumo, dopo che questo era stato nei suoi polmoni. La cosa, dopotutto, non le dispiaceva: voleva dire che stava spargendo se stessa, ovunque nel mondo.

Dopo l’ennesima boccata, lanciò uno sguardo a Manfredi, sagoma oscura distesa accanto a lei.

«Me lo hai detto perché stai dicendo che dobbiamo tenerci abbracciati, oppure soltanto perché sei noioso e hai la mentalità di un vecchio pantofolaio che a quest’ora vorrebbe essere già a letto, con un materasso sotto il culo?»

«Io non…» borbottò il tenente. Si interruppe.

«Ecco, bravo, non rispondere, è meglio», disse Aurora, rimettendosi a fumare.

Tutto in un momento, Manfredi la sorprese. Rotolò su se stesso, finendole sopra. Mancò poco che la punta della sigaretta gli scottasse il viso. Le passò le mani sulle spalle e la tenne stretta.

«Era per questo che te l’ho detto», precisò lui.

«Mmmmh, Manfredino, non dirmi che l’aria di montagna ti ha risvegliato gli istinti primordiali», mugolò Aurora. «O è la tua pistola, che sento premere là sotto?»

«La pistola?» ripeté Alberto, sogghignando. «Temo di essermela dimenticata in macchina.»

«Strano», ridacchiò Aurora.

Il tenente Manfredi aveva un difficile rapporto, con le armi da fuoco. Dimenticava sempre di portare con sé la pistola d’ordinanza. Aurora, per prenderlo in giro, diceva che lo faceva apposta perché aveva paura di sparare. Lui, a dire il vero, non si era mai preso la briga di negarlo.

«Allora sono proprio gli istinti primordiali e animali», sussurrò lei. «Che onore! Chi avrebbe mai detto che anche tu, qualche volta, ti ricordi di essere fatto di carne. Sono davvero lusingata di essere stata io la fortunata ad avertelo fatto tornare in mente.»

Si guardarono negli occhi. La mano di Aurora – quella libera dalla sigaretta – si posò sulla schiena di Manfredi e le sue dita seguirono il corso della spina dorsale, attraverso la tela della camicia. Risalì fino alla nuca e affondò tra i suoi capelli. Lui si mosse piano sopra di lei, facendole capire quanto stesse apprezzando.

A un punto simile, c’erano già arrivati innumerevoli volte. Solo che, di solito, per un motivo o per l’altro, non andavano mai oltre. C’era sempre qualcosa a mettersi in mezzo: un telefono che suonava, qualche rompiballe… ma erano in cima a una montagna, non c’era ricezione e nessuno in giro. Chissà che non fosse la volta buona…?

Aurora mosse il viso. Voleva avvicinare la bocca a quella di Alberto. Chissà, magari avrebbero cominciato con un bacio e avrebbero finito chissà dove. Chi poteva mai dirlo?

Nel muoversi, i suoi occhi notarono un guizzo nel cielo, qualcosa di luminoso…

«Cazzo, Manfredino, guarda!»

Si levò a sedere con tale impeto che Alberto fu scagliato di lato e si trovò a rotolare nell’erba. La sigaretta sfuggì dalle dita di Aurora. Scottandosi, la giovane donna riuscì a recuperarla prima che potesse provocare qualche disastro.

«Che minchia…» borbottò Alberto, sollevandosi sulle ginocchia. Aveva picchiato la testa contro una radice sporgente e, per qualche secondo, vide stelline e costellazioni esplodergli tutto attorno. «Guarda che bastava dirlo, se non avevi voglia…»

«Lascia perdere e guarda lassù, tenente!»

Alberto seguì il dito dell’amica, che puntava verso il cielo. Per un istante, non notò nulla di particolare. Poi, però, lo vide anche lui.

Era un disco volante, nero e rosso, circondato da puntini luminosi. Non potevano esserci dubbi. Era la copia esatta del disco che, proprio loro due, avevano visto da adolescenti, diversi anni prima. Solo che, questa volta, ne riconobbero la forma.

Era come gli aveva detto innumerevoli volte il professor Lancellotti. Lunghe chiacchierate – o, meglio, monologhi – in cui il suo ex insegnate del liceo gli aveva esposto le sue strambe teorie sull’origine dell’umanità.

Solo che, adesso, non sembravano più tanto strambe.

Era uguale a una rosa camuna, come quelle raffigurate nei graffiti rupestri che si rincorrevano per tutta la vallata. Volava leggero, lento, senza fretta, sopra le vette nere e aguzze delle montagne.

Alberto Manfredi e Aurora Bresciani si guardarono negli occhi.

Sorrisero.

 

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Capitolo 21
*** Epilogo ***


Epilogo

 

 

Vrillon continuò a contemplare il pianeta verde e blu che sfavillava in mezzo al nero dello spazio, acceso dalla luce della stella vicina. Per lui era come non essersene mai andato, ma per chi abitava quei luoghi, i suoi erano andate e ritorni continui, senza sosta.

Alcuni lo avevano accolto. Pochi lo avevano ascoltato. Una parte infinitesimale aveva accettato il suo messaggio. La maggior parte di loro lo aveva semplicemente rifiutato, relegandolo allo stadio di fantasia, di allucinazione.

«Ci vorrà ancora molto tempo», disse una voce alle sue spalle.

«Il tempo non è nulla, per me», rispose Vrillon. «Non è nulla per me e non è più nulla per te, ora che sei con me. Ma per i tuoi simili… esso continua a scorrere. Il tempo che regola le loro esistenze dilava le terre e trasforma ogni cosa, ma essi non mutano. Perdurano nella loro ignoranza, nel loro rifiuto. Ecco perché ancora vanno parlando di guerre, di bombe, di distruggersi a vicenda, senza comprendere ciò che io – da quelle che per loro sono innumerevoli ere – sto dicendo loro: sono tutti uguali. Tutti fratelli. Abitano tutti la medesima casa. Non verrà mai loro nulla di giusto e di buono, dalla guerra e dall’odio.»

«Stanno imparando», proseguì la voce. «Impareranno. Io ho cercato di trasmettere loro il tuo messaggio, per quel poco che ho potuto. Adesso tocca ad altri, che ti hanno visto e hanno compreso. Con la perseveranza ci riusciremo. Non sarà mai troppo tardi.»

L’alieno si volse all’abitante del pianeta Terra. La creatura antica e l’essere umano. Il rappresentante del Comando Galattico di Ashtar e il figlio dei fiori. Vrillon e Lanfranco. Entrambi rifiutati da chi avrebbe fatto meglio ad accettarli.

«Tu dai speranza a me che non ne ho più», ammise Vrillon.

Lanfranco sorrise. Era seduto sopra una specie di trono di una lega metallica sconosciuta.

«Non ti è concesso abbandonare la speranza, signore.»

Qualcosa di simile a un sospiro profondo fuggì da quelli che dovevano essere i polmoni di Vrillon.

«Anche essere una divinità ha i suoi lati negativi, presumo», riconobbe. «Non posso fermarmi un attimo. E non è facile essere un dio buono, quando chi dovrebbe ascoltare il mio messaggio continua a venerare falsi dèi e idoli malvagi.»

Lanfranco sorrise. Alzatosi in piedi, si avvicinò alla vetrata e guardò in giù.

Vide il professore e il suo amico che facevano a botte per riconoscere o meno la validità delle loro teorie. Vide lo stesso professore, più vecchio, istruire i suoi allievi perché accettassero la verità. Vide i due ragazzi innamorati che non avrebbero più avuto paura della luce. Vide la donna che comunicava con Vrillon chiamandolo con uno dei suoi innumerevoli appellativi, Selenius Maximus. Vide il giovane ufologo che si sarebbe fatto in quattro, pur di far sapere al mondo intero ciò che aveva osservato di persona. Vide quei due adolescenti seduti sulla spiaggia e allo stesso tempo sdraiati sulla montagna, separati dagli anni ma uniti da un affetto immutato. E vide se stesso nell’atto di partire verso Katmandu, mentre scalava le montagne, mentre discuteva con i vecchi del paese, mentre marciava a passo rapido sulla costa e saliva verso il cielo…

«Siamo in minoranza, d’accordo, ma comunque ci siamo», disse. «E dilagheremo. Saremo sempre di più. E come la marea inarrestabile, porteremo tutti insieme il messaggio ai quattro angoli della Terra… e quel giorno, quando saremo in pace con l’intero universo, allora l’Età dell’Acquario sarà davvero cominciata.»

«Possano le tue parole esaudirsi», rispose Vrillon.

Chiuse gli occhi e, ancora una volta, la nave intergalattica riprese il viaggio attraverso le costellazioni, per portare il suo messaggio di fratellanza a tutte le stelle, a tutti i pianeti, a tutti gli esseri viventi in tutto l’Universo.

 

 

 

 

Scritta: Agosto – Settembre 2022

 

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