amsterdam

di StagTree
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #10 ***
Capitolo 2: *** #14 ***
Capitolo 3: *** #16 ***
Capitolo 4: *** #19 ***
Capitolo 5: *** #20 ***
Capitolo 6: *** fly on ***
Capitolo 7: *** #24 ***



Capitolo 1
*** #10 ***


 

andare avanti si sta dimostrando faticoso e l'umore non è sempre il massimo. ma lo sforzo per lui è pressoché essenziale. buon compleanno reigen <3

 

https://www.fanwriter.it/writober-2022/

 

https://www.youtube.com/watch?v=kr4DNZz_8zI&ab_channel=Coldplay-Topic

 

 

 

 

Come on, oh, my star is fading

and I swerve out of control

If I, oh, if I’d only waited

I’d not be stuck here in this hole

 

 

  1. undici

 

Quello che gli rimane è un miraggio, un'illusione. Sei troppo furbo, gli dicevano, per quelli della tua età. Ma quando crescerai e ti renderai conto che sarai sempre un passo più avanti degli altri, non ti pentirai dei sacrifici che stai facendo ora. Aveva undici anni. Si comincia a chiedere, Arataka, all'alba dei trenta, come si sarebbe sentito se avesse fatto scelte diverse.

 

Non ti capiscono, gli dicevano, e doveva essere di consolazione — e non ti capiranno. Cosa vuoi fare, da grande? Niente, pensa, istintivamente, ma quando Arataka guarda fuori dalle finestre e il sole tramonta dietro gli alberi, già allora ne riconosce il senso metaforico, della quotidiana pena del vivere. E risponde invece, qualcuno, e qualcuno di importante, intende, come gli artisti del city pop che piacciono alla mamma, i direttori d'orchestra che girano per il mondo, astronauti scrittori drammaturghi, il politico, il polemico. Qualcuno che si ricordi di me quando non ci sarò più. E all'alba dei trent'anni queste cose se le chiede, pensa a come la cenere diventi diamante.

 

Quello che gli rimane è il sogno di domani: preme la sveglia, e ignora il calendario.

 

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Capitolo 2
*** #14 ***


 

universo alternativo – preciso – in un cui reigen e mob non si conoscono e suonano strumenti e musica classici. mob è adulto. venticinque o più

non so come funzionano gli spettacoli di questo tipo e sono andata a fantasia sorry. ma la musica mi piace molto

 

https://www.youtube.com/watch?v=U5Y0uQLgriA

 

 

 

But time, is on your side

It's on your side now

Not pushing you down, and all around

It's no cause for concern

 

 

  1. diverso

 

 

Le esibizioni vanno avanti, e non hanno più bisogno delle sue mani – ha i calli, e la nota solo adesso, la bruttezza nel ruvido – quindi siede, nei retroscena, su una panca, e ascolta i passi secchi sul parquet, fuori tempo. C’è musica, ancora, e gli artisti fanno a turno per entrare e uscire, e il pubblico applaude. Non è l’unico pianista; non è l’unico pianista bravo.

Quando ha suonato lui – si è esibito lui, con la giacca nera e il papillon e tutto il resto – si è mosso sui tasti del pianoforte con la schiena incurvata, e il petto pieno d’aria. Molle, flessibile, il corpo è sciolto e preme, morbido, impercettibile; il ragazzo che lo ha accompagnato col violoncello suona timidamente, come il pezzo non lo vuole, e Reigen si è impegnato, accigliato, per regalargli lo spazio che merita. E il ragazzo nel frattempo, se ne accorge: china il viso, leggermente il mento, e a sua volta dona, a Reigen, un profilo giovane, e il maturo rossore sulle guance pallide, gli occhi stretti nella sua smorfia di timore. Il ragazzo lo tocca, con gratitudine e vergogna, e lo sguardo che si scambiano è irrimediabile.

Quando finiscono, si alzano e si piegano e dietro le quinte, quasi corre. Via da lui, Reigen – distrattamente, quando sente, arreso, il vecchio pavimento cigolare, usurato – lo pensa davvero. E le esibizioni vanno avanti, e non hanno più bisogno del ragazzo sommesso e delle sue, di mani, che hanno abbandonato il suo arco almeno mezz’ora fa; il ragazzo sommesso, di cui solamente a Reigen rimane una figura mentale, bianca, di gesso – e l’ombra nera sui suoi occhi non avrebbero potuto oscurarne la luce e l’emozione, lucidi di grazia, mascolina, chiusi poi nel flusso della melodia francese. Non ha motivo per essere lì, ma Reigen non è ancora pronto per lasciare al palco la sua immagine e ricordo, dar loro le spalle, cinte in alloro – non è dimenticare, perché non potrebbe mai dimenticare; è abbandonare – la memoria di un viso tonico, teso contratto – è abbandonare le sue linee magre e quadre del mento, eleganti, che seguono il collo e sorpassano il pomo d’Adamo, fin sotto al colletto soffocante della camicia bianca. E pensa, lo pensa davvero – giù ancora andranno, dove non può vederle. L’immagine è immortale: la corona lo cinge, sopra lo spesso nero alone dei capelli.

Gli tocca una spalla. Reigen si gira, non è aggraziato; da quell’altezza si sente d’esser più basso di quello che è (passivo, umile). E si guardano: ancora è intenso e intimo e personale, e sembra – gli sembra, ed è teso, ne è quasi convinto – che tutto si sia fermato per loro. Il ragazzo è impassivo e ha gli occhi fissi e attenti. Al primo rumore sbagliato, potrebbe balzare, ritirarsi; lepre.

“Reigen,” dice.

Reigen si fa tirare – si sforza – il viso in un sorriso, piccolo, benché, che sia. “Così mi chiamano,” dice. E pare funzionare, illuminato biecamente e senza ritegno. Persone e strumenti camminano loro attorno, e parlano a bassa voce, e con loro, da un’altra parte ancora – città e universi, lontani da loro – applausi. E’ un bel ragazzo.

Si presenta; dice, “Shigeo,” dopo una pausa. E non tende la mano, Shigeo, non serve; sotto la giacca aderisce alla pelle, una camicia bianca, e così sotto la camicia aderiscono muscoli, discreti – e così attorno al collo, una cravatta, e forse, è stretta troppo, troppo poco.

Shigeo è un bel ragazzo. Non è l’unico violoncellista, e non è l’unico bravo – ma è l’unico, Shigeo, e si eregge come una torre, alto, e dall’alto, su Reigen, cade la sua ombra, fantasma.

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Capitolo 3
*** #16 ***


 

And I see no chance of release

And I know I'm dead on the surface

But I am screaming underneath

 

 

  1. perso

 

La città è in subbuglio – è ai tuoi piedi, piegata – e si sgretola, sotto la pressione catartica di un essere che non riconosco nei tuoi occhi. Confusione, e il rumore di vetri e macerie che cadono e volano, tagliano e infrangono ogni regola della vita, dettato dal volere della disgrazia umana, e di tutto ciò che ne conviene.

Ekubo non torna. Non so cosa tu gli abbia fatto, ma quello che vedo – e vorrei non vedere, francamente, non avvalermi di alcuno, dei miei sensi – mi attraversa, mi uccide. La città è in subbuglio e tu sei al centro di tutto; quello che vedo – quello che vedo, Mob, è l’ultima cosa che vedo, prima di soffocare nel delirio, nella demenza di un’immagine implausibile, puramente iperbolica.

Non doveva succedere; il corpo di tuo fratello, inerme, giace sanguinante ai tuoi piedi. La mente è bianca: il fallimento brucia le cornee, e cola qualcosa, dalla fronte.

“Hai perso.”

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Capitolo 4
*** #19 ***


 

Stuck on the end of this ball and chain

And I'm on my way back down again

 

 

  1. office

 

“Reigen?”

Reigen volta lo sguardo dal computer, e gira la sedia il necessario per concedergli uno sguardo di domanda, da sotto le sopracciglia – inarcate; non vuole essere ironico, ma al suo collega pare esserlo, probabilmente. Attende.

“Stavamo pensando di andare a bere qualcosa, stasera,” dice, il collega di cui non ricorda il nome – o se lo ricorda, e non vuole mentalmente nominarlo. “Vuoi venire?” E’ normale: quando non ha il tempo di dimenticarsi del cappio che nasconde in tasca – sempre a portata di mano, caso mai cambiasse idea – non ha nemmeno il tempo per cercare lo sforzo necessario – prendi fiato – di ricordarsi come si chiamano i suoi colleghi di lavoro. E l’ufficio è polveroso; nessuno lo obbliga a stare lì più del dovuto, ma spesso lo fa comunque. Torna a casa raffreddato, e si attacca un cerotto al naso che cola per respirare mentre dorme.

A volte pensa di non usarlo proprio, ma dormire è essenziale se vuole provare la sensazione – inebriante, ne è sicuro – di non esistere per quel numero anonimo di ore che tutti dormono se vogliono svegliarsi freschi, al mattino. E al mattino si sveglia anche lui, e si alza, perché deve; e alla sera dorme anche lui, chiude gli occhi, perché deve. Ed è sempre più stanco, sempre prima del solito, del dovuto.

E comunque, è difficile auto imporsi un’apnea notturna. Quindi il cerotto lo mette, e la polvere la respira consapevolmente. Il cappio è metaforico.

“Mi piacerebbe, ma devo finire qui,” dice, e gesticola vagamente con una mano verso la scrivania del suo cubicolo – e se il suo collega ci casca, penserebbe pure che i fogli sono sparsi con proposito. Reigen gira la sedia e riprende a scrivere, “Grazie, però.”

“Ma sei sempre qui,” insiste; dietro di lui appaiono altre due persone, un uomo e una donna, “Fai il lavoro extra che dovremmo fare anche noi. A che ora esci? Vorrai avere una vita sociale al di fuori del lavoro, no?” E per quanto sia gentile a farlo – persistere, inutilmente – per l’idea vacua di un benvolere mai raggiunto, Reigen non può ritornare il favore rispondendogli onestamente:

No, ti ringrazio. Meno vivo la mia vita più vivo la mia vita, capito? No? E qual è, comunque? Sociale? Non credo proprio. Quello che può offrirgli e, se non è stupido, ci può arrivare da solo, è tenere le mani ferme sulla tastiera, per quel paio di minuti che lui pensa, e arricciare il naso – è un tic nervoso; prima o poi se lo deve togliere. Non voglio ricordarmi di quanto sono miserabile quando apro la porta di casa e faccio finta di dimenticarmi di chiuderla a chiave. Magari aspetto uno di quei fantasmi che maledicono la gente; o un malvivente tradito dalla società e che ruba per vivere. Chi sono io, per giudicare? Non avrei niente di valore da dargli.

E il cappio è metaforico. “Mi spiace, ma è importante che io finisca prima di tornare a casa,” non lo guarda negli occhi, “E i soldi fanno comodo. Mi capisci, no? Sono un po’ stretto, ultimamente.” E con questa crisi, i giovani fanno fatica a tirare avanti. Vuoi risparmiare, no? O vivere costantemente sull’orlo di un precipizio? Legato ad un filo sottilissimo, e quando guardi giù, non ci vedi nulla di male nel cadere. Non ci vedi nulla, punto. Al suo amico sorride: non gli tocca gli occhi e lo sa. Si sente a malapena le guance muovere, e comunque, le occhiaie sono talmente spesse e pesanti che fanno da cuscinetto a qualsiasi smorfia lui possa provare a forzare. Si pensava bello, una volta; quando si guarda allo specchio, adesso, non si pensa nulla.

“D’accordo,” gli dice, ed è dispiaciuto, “Ci vediamo lunedì, allora.” Penoso. Reigen fa un cenno con la mano, mentre lo salutano e se ne vanno. Si chiude la porta e sente l’eco dei passi sulle scale, e un chiacchierio segreto; sono al quarto piano e non va l’ascensore. Se si fa odiare abbastanza, magari lo spingono di sotto.

Quindi c’è solo lui, e il computer che fa il rumore che farebbe qualsiasi apparecchio tecnologico che ha oltrepassato il suo tenore medio di vita. Anche la tastiera è vecchia e datata: i tasti sono troppo alti ed è scomodo scrivere, a lungo andare. Poco importa; si mette comodo – scivola col sedere appena in basso, e appoggia la testa sullo schienale; gli piace sentire la schiena lamentarsi sul materasso, quando si sdraia la notte – e continua a lavorare. Sono le sette. Deciderà se vale la pena mangiare, eventualmente, quando cominceranno a fargli male gli occhi.

Segue i cavi dal monitor scendere per terra e finire nella ciabatta sotto la scrivania. In un momento di debolezza allunga la mano e la spegne; nell’ufficio è buio. Si dimentica, o non si dimentica, di salvare quello a cui stava lavorando sul computer.

Silenzio, e le mani dondolano senza motivo, si aspetta che si stacchino. Il cappio è metaforico?

 

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Capitolo 5
*** #20 ***


 

And I swear I waited and waited

 

 

  1. flower shop

 

Nella disperata accondiscendenza delle tremate voglie e delle loro diverse versioni, versatili e veritiere sempre e comunque, pure sotto strati gommosi e immortali di bugie e fandonie che si avvolgono al corpo come parassiti, scabrosi ma non alieni, mai alieni – Arataka Reigen si trova di fronte ad una bancarella, ed è ben allestita con gusto, e quel senso del decoro tipicamente femminile che riconosce tendenzialmente nelle trasmissioni televisive che guarda di sabato mattina: davanti ad una grossa vetrina si specchia insieme a montagne di fiori e piante di ogni tipo, specialmente virtuosi nel pieno della primavera. E le tremate voglie, diceva: cosa si compra ad un trentenne, si chiede, che non sia disdicevolmente banale, o peggio ancora, non voluto? Serizawa lo sarebbe (ed esiste, ed è di per sé già incredibilmente improbabile così com’è, quel raro tipo di persone che sono riconoscenti e debitrici in qualsiasi caso, e Serizawa è uno di queste), soddisfatto e compiaciuto qualsiasi fosse il ninnolo, e non nel senso astratto. Ma Reigen è cocciuto, e più forse per una questione di orgoglio personale preferisce sempre prendere la via dell’imprevedibilità più assoluta. Non lo conosce, non così bene, ma ad Arataka piacciono i fiori, quindi per quelli ha deciso, ed è per lo più finale. Il suo riflesso finalmente lo nausea, e decide di entrare nel negozio.

Sopra la sua testa suona teneramente una campana a vento; non c’è nessuno mentre accompagna la porta per chiuderla, e l’odore lo attraversa come un dolce, premuroso pugno nello stomaco. Una ragazza si avvicina alla cassa da una porta sul retro, e lo saluta caldamente con i capelli legati e una bandana rossa attorno alla fronte.

Gli dice, “Buongiorno,” e deve avere circa la sua età. Arataka non fa a meno di notare la sua bellezza informale, senza sforzo; si sistema la cravatta attorno al collo e si schiarisce la voce.

Ma non è interessato; “Buongiorno,” le risponde. E con le mani in tasca, disinvolto, si guarda in giro con ambiguo interesse. Dice: “Volevo un mazzo di fiori per un regalo,” e prima che lei si possa proporre con una domanda, aggiunge, “Di compleanno.” Lei sorride e lo raggiunge al di là del bancone.

“D’accordo!” dice, “Che tipo di fiori pensavi di prenderle?”

Lo nota, Arataka. Ma non importa; la scelta specifica di alcune parole piuttosto che altre non fa alcuna differenza. “E’ per un trentesimo,” le risponde. Non fa differenza. E Serizawa non conosce il linguaggio dei fiori come lo conosce lui, poco importa se pensa che sia un regalo per donne. Può sempre cercarlo su internet, se ne sente la necessità.

Non importa se non coglie i segnali. La ragazza pensa ad un regalo romantico e si avvicina alle rose. Scherza: “Se ti senti audace, queste non deludono mai.” Rosse e carnose; tremate voglie, diceva.

“Non abbastanza, mi sa,” dice, Arataka, e si comincia a sentire il leggero sudore dell’imbarazzo, velato sulla fronte, sotto le ascelle. E’ difficile, pure per lui, ignorare la realtà della situazione e non rendersi conto di quello che sta facendo – ma al momento della consegna, può pensare quando uscirà dal negozio. Magari può lasciarglieli nell’ufficio e sparire; mandare Mob, senza ritegno né vergogna, come un paggetto. “Pensavo alle violette,” dice. Un paggetto senza tatto e senza fascino alcuno, ma nemmeno Serizawa è considerabile un uomo elegante, malgrado gli sforzi. Ma piano piano; Arataka è un uomo paziente.

La commessa riconosce il significato della sua scelta precisa e si avvicina alle violette, con il passo distintamente sagace di una persona che ti saprebbe vendere anche telefoni rotti. “Adoro le violette,” dice, “Che signorina fortunata.” Comincia a selezionarle per un mazzo, e sceglie la carta, “Gli uomini di solito non si concedono a questo tipo di cose.”

Già, pensa; accondiscendenza, disperata, al punto di cedere agli istinti più basilari ed umani di ricerca – di attenzioni, di sguardi che hanno un peso diverso dal solito. Non è abituato, ma è facile fingere – sarebbe facile, piegarsi a questo tipo di intimità e momenti. Il corpo di Serizawa è grande; Arataka la pensa facile, elementare, l’idea di doversi piegare al suo, di tipo, di intimità e momenti.

Lei finisce, nel frattempo, e gli porge il bouquet di violette – è piccolo, e delicato, e discreto. “Voilà,” dice, e si concede un ultimo ruffiano sorriso, con tanto di occhiolino. Arataka non si fa influenzare da piccole cose come queste; ma i fiori nella sua mano pesano con l’importanza certa, e indubitabile, di qualcosa di decisivo, incisivo. Ci sono fiori bianchi, nel mazzo, che evidenziano il lilla con amorevole prepotenza.

“Grazie,” dice. E si guarda indietro, torna al suo riflesso sul vetro: si vede bambino, nella sua divisa nera e i cerotti sulle dita, sotto la guancia, sul naso – sognando di un giorno in cui avrebbe potuto fare quello che sta facendo adesso. Quanto tempo, pensa, quanta riluttante sofferenza.

 

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Capitolo 6
*** fly on ***


 

interruzione. è passato solo un giorno ma mi manchi da morire

 

https://www.youtube.com/watch?v=-gA3H3clEqk&ab_channel=Coldplay-Topic

 

 

fly on, ride through,

maybe, one day, I can fly with you

 

  1. culla

 

Corre e gioca, nel largo prato di un parco,

passa sotto un arco fiorito di gelsomini e si rotola, dove ha trovato una farfalla. Salta quando gli tira la palla e fa fatica a riportarla indietro, vuole giocare; lo chiama, con le mani attorno bocca, e urla, anche se sono le otto di sera – e lui arriva, e abbaia felice.

Non è un cane atipico. Arataka pensa, che ce ne sono tanti di Shiba Inu in Giappone, e che il suo si confonderebbe nella massa. Ma Arataka pensa, che ce ne potrebbero essere anche di più, ma nessuno è come tanti, e il suo Shiba Inu non è come i tanti.

Corre e gioca nel piccolo salotto di casa: Arataka lo culla tra le braccia quando dorme e si spegne, perché i cuccioli fanno così. Sua mamma non vuole che salga sul divano, ma la mamma non è mai a casa, quindi se sale non può saperlo.

Arataka ha tredici anni e si chiede cosa cerchi negli spazi di cielo tra i grattaceli, e che senso abbiano le stelle se non le può toccare. Lo fa con il cagnolino sotto braccio: seduto sulle piastrelle del balcone, con i piedi che dondolano tra le barre di ferro battuto della ringhiera. Si ricorda di un momento in cui alle otto di sera avrebbe giocato nel prato con il suo amico, e si chiede come sarebbe la sua vita se il suo cane fosse un bambino come lui.

Non corre più, e non gioca più, e Arataka ha diciannove anni; il suo Shiba Inu non è più come tutti gli altri, ma non lo è mai stato. Guarda, la bestiolina, con malinconia, mentre la palla da tennis rotola sui ciottoli, e si sdraia tra i fiori selvatici nell’erba – tiene il muso tra le zampe davanti, e respira con affanno dal naso. Quando non si muove più Arataka lo guarda dormire, e si china in un abbraccio. La mamma non vuole un altro cane; Arataka non vuole un altro cane. Lo culla in ginocchio, gli chiude gli occhi con le dita. E sente il calore su di lui assopirsi piano piano, con le zampe che dondolano inermi dalle sue braccia.

Correva, e giocava, e alle nove di sera Arataka è ancora al parco, identifica dove l’arco di gelsomini è stato, dove non è più. Ha ventiquattro anni e le aspirazioni sembrano oramai stelle lontane: tiene la pallina in mano, e la stringe e piange, dove nessuno lo può vedere.

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Capitolo 7
*** #24 ***


 

  1. lecca-lecca

 

Shou gli si presenta sotto casa fluttuando, come potrebbe altrimenti non fare, ma a quel punto non sarebbe Shou – con un lecca-lecca tra le labbra. Sono le tre del mattino, dice Ritsu – con lo sguardo e semplicemente aprendo le finestre, non a parole; si strofina le braccia con le mani per il freddo, e gli occhi che si aprono stanchi. Shou non ha freddo; è vestito come vestirebbe qualsiasi ora del giorno, noncurante, mai vibrante.

“Hey là,” gli dice. E non rende conto delle ore piccole e delle regole generali di buone maniere.

“Abbassa la voce,” puntualizza, Ritsu, quindi. E Shou ride.

“Bel pigiama,” commenta; e si sfila il lecca-lecca dalla bocca, con un pop, e un rumore bagnato e bambinesco, “Usciamo?”

“Adesso?”

“Sì? E’ venerdì, non hai scuola domani. Che scusa hai?”

“Che ho sonno, e i miei non mi farebbero mai uscire a quest’ora…”

“Sai,” gesticola, con la caramella in mano, “I tuoi non lo devono mica sapere,” e a quel punto è ufficiale; perché è difficile dire di no all’eccitazione – genuina, nuova, giovane – di fare qualcosa di improbabile e tenerla al segreto. Dall’alto della sua verde, acerba sapienza, Ritsu la pensa un’eccezionale – e d’eccezione – buona idea, giusto perché è Shou. E non ha paura, del buio, di finire dove non dovrebbe – della disubbidienza e del gusto dolce del lecca-lecca, anche se le caramelle non gli piacciono – giusto perché è Shou. Quando si veste pone molta cura in quello che sceglie di mettere, e quando esce di casa, lascia la finestra socchiusa, e lo guarda, di sbieco soltanto, muovere la palla del lecca-lecca da una guancia all’altra mentre parla.

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