Agapanto

di Kameyo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C'era una volta... ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** C'era una volta... ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
Prompt: Future
 

 
Agapanto

 
 
[1/3] 
C’era una volta un mago dal cuore spezzato,
attendeva il suo Re sulle sponde di un lago incantato.
 
 
 
«E questa è la riproduzione della famosa spada di Re Arthur. Qualcuno ricorda come si chiama?» chiese la signorina Smith alla classe.
Una ventina di manine si sollevarono all’unisono, seguite da cori di Io! Io! Io! Arthur guardò i compagni sbuffando, non aveva mai capito perché nel loro villaggio ci fosse tanto entusiasmo per quella leggenda, ne aveva fin sopra i capelli di negozi, ristoranti, scuole, parcheggi e strade che portavano il nome di quel cavaliere o di quell’altro; era gente morta e sepolta – sempre che fosse esistita – quindi perché osannarla tanto?
«Si chiama Excalibur» disse Gwen con calma. «Merlin il Mago la piantò nella roccia per il re.»
«Esatto, bravissima Gwen. E chi ricorda le iscrizioni sulla lama?»
Lance rivolse a Gwen un sorriso orgoglioso che fece sbuffare Arthur ancora di più, quei due erano la coppia più sdolcinata che avesse mai visto, passavano tutto il tempo a sbattersi le ciglia a vicenda. Si guardò intorno alla ricerca di una via di fuga, era certo che nessuno si sarebbe accorto della sua assenza se fosse sgattaiolato via per qualche minuto, inoltre il museo Avalon – che fantasia! – non aveva chissà quante sale da visitare. Si sarebbe fatto giusto un giretto.
Approfittò dell’ennesimo coro di Io! urlato a squarciagola per sgusciare fuori dalla sala principale e prendere il primo corridoio a disposizione. Aveva visitato il museo un mucchio di volte, per cui non faticò ad orientarsi tra le statue, i quadri e i cimeli medievali che prendevano polvere da più di un migliaio di anni. Tuttavia, dopo essere uscito dalla sala delle armi, trovò la porta del giardino interno stranamente aperta, di solito il custode si premurava di chiuderla a doppia mandata, a meno che non fosse mercoledì, il giorno in cui ai visitatori era permesso andare a trovare il Principe.
«Oggi non è mercoledì» si disse Arthur fra sé e sé.
Non aveva mai visto il Principe se non sui poster appesi all’entrata, alle scolaresche l’accesso era vietato e si poteva entrare nella cripta solo dopo aver passato i controlli. Foto, video e quant’altro erano stati vietati per paura di danneggiare il corpo o il particolare vetro che lo proteggeva.
Arthur si morse le labbra corroso dalla curiosità, aveva sempre desiderato entrare nella cripta, ma i suoi genitori non gliel’avevano mai permesso credendo che si sarebbe impressionato, d'altronde, quando mai si era visto un corpo perfettamente conservato come quello? Aveva sentito dire che non avesse affatto l’aspetto di un cadavere e che la pelle fosse nivea come quella di una principessa d’altri tempi, dava l’impressione di essere soltanto addormentato. Inoltre, gli archeologi non erano mai riusciti a studiarlo come avrebbero voluto, il vetro era indistruttibile e non c’era alcun modo di aprire l’insolita bara.
Arthur pensò che avrebbe potuto dare solo una sbirciatina, giusto il tempo di guardarlo e tornare indietro. Non avrebbe toccato niente e non si sarebbe avvicinato troppo, che male avrebbe mai potuto fare?
Prese un profondo respiro e affacciò la testa oltre la porta, si guardò intorno, di Leon nessuna traccia. Mise un piede fuori e si sporse di più, guardò tra i cespugli, vicino la fontana, ma niente, allora diede un’occhiata alle scale sbarrate dalla transenna che scendevano nella cripta, ma nemmeno lì vide il custode. Attraversato da un’ondata di coraggio, fece qualche passo in avanti fino a poggiare i piedi sull’erba, cercò ancora, e quando capì di essere davvero da solo, corse a perdifiato verso le scale, scavalcò la transenna e iniziò a scendere.
«La maestra mi ucciderà» sussurrò al nulla.
La scalinata che portava alla tomba del Principe non era diversa dalle scale all’interno del museo, marmo bianco e ringhiera in ferro, l’unica differenza stava nel freddo che gelava le ossa. Sembrava che lì sotto fosse inverno, tanto la temperatura era bassa.
Arthur si chiuse la zip della felpa e fece gli ultimi gradini stando attento a non scivolare, il pavimento era coperto da uno strato di brina. Sollevò lo sguardo da terra soltanto quando arrivò all’entrata nella cripta, e nell’istante stesso in cui lo fece gli si spezzò il fiato in gola. Aveva già visto una marea di immagini del Principe, bastava cercarlo su internet per trovare una miriade d’informazioni su di lui, ma Arthur pensò che nessuna foto avrebbe mai retto il confronto col vederlo con i propri occhi.
Il Principe aveva davvero la pelle nivea di una principessa, e capelli scuri dalle onde morbide che ricadevano leggere sulla fronte.
Arthur si avvicinò a passi lenti, sentendosi sempre più attirato da quel ragazzo dormiente. Notò che aveva delle ciglia lunghissime e un accenno di barba che nascondeva la sua vera età, zigomi appuntiti e labbra piene, il dettaglio curioso però erano le orecchie seminascoste dai capelli, erano grandi e a sventola, ma non sminuivano affatto la sua bellezza. E sembrava davvero che dormisse, con quella carnagione nessuno avrebbe mai potuto asserire che era morto.
Arthur osservò la famosa giubba rossa che lo aveva fatto identificare come un principe medievale, e pensò che quel colore non fosse proprio giusto per lui, blu o viola gli avrebbero donato di più. Per non parlare del fazzoletto di stoffa grezza che portava al collo, i principi, per quanto antichi, dovevano indossare tessuti meglio lavorati, o no?
«Non mi sembri un principe» gli disse, inclinando la testa da un lato per osservarlo meglio. «Ma sei bello lo stesso.»
Senza rendersene conto, fece un ulteriore passo avanti e poggiò la mano sul vetro. Quella era certamente la tomba più strana che avesse mai visto, chi si faceva costruire una bara completamente trasparente? C’erano persino dei fiori tutt’intorno al corpo che sembravano appena colti, di un blu intenso, che gli trasmettevano una dolorosa malinconia. In realtà, era il Principe in sé a fargli serrare la gola, il suo viso aveva qualcosa che gli faceva venir voglia di scuoterlo e giurargli che niente l’avrebbe più ferito.
Sentì gli occhi pizzicare e dovette sfregarli per scacciare via le lacrime. Non si era mai sentito tanto triste per uno sconosciuto, perdipiù morto. Cosa gli è successo? Si chiese Arthur, poggiando entrambe mani sul vetro. Perché era morto così giovane? Cosa l’aveva ucciso? Aveva sofferto? L’idea che il Principe avesse sofferto chissà quali pene lo faceva stare male. Sperò che fosse stata una morte veloce, indolore; un attimo c’era e quello dopo non c’era più.
«Non dovresti essere qui» lo sorprese una voce.
Arthur sussultò e staccò le mani dal vetro sentendo il gelo indolenzirgli le dita. Si voltò verso le scale e vide il custode guardarlo con aria canzonatoria.
«Leon!» urlò. «Mi hai spaventato a morte!»
Leon sorrise. «Pensa a quanto mi sono spaventato io, quando ho capito che c’era qualcuno qui sotto. L’hai trattato bene?» gli chiese, indicando il Principe con un cenno del capo.
Arthur fece un passo indietro e si accorse che sul vetro non c’era nessuna impronta. Rivolse un ultimo sguardo al Principe, prima di lasciarselo alle spalle e andare verso le scale.
«Cosa potrei mai fargli? È morto.»
Leon fece una strana smorfia e poggiò un vaso di Non ti scordar di me ai piedi della bara.
«Oggi hai un ospite speciale, eh Merlin? Non vuoi fargli un saluto?»
Sentendo quel nome, Arthur percepì un dolce tepore scaldargli il cuore. Merlin. Era così che si chiamava? Non pensò neanche per un momento che Leon fosse fuori di testa a parlare con un morto, anzi, sentì un certo sollievo a sapere che il custode si prendeva davvero cura del Principe.
«Merlin? Non sapevo si chiamasse così, non c’è scritto nella targa.»
«Perché nessun altro a parte me lo sa» gli rispose Leon con ovvietà. «Se scoprissero chi è davvero non lo lascerebbero più in pace.»
«Perché? Chi è?» chiese Arthur curioso. «Era una persona importante? E com’è che gli archeologi non ne sanno nulla?»
Leon mise le mani nelle tasche e rise. «Secondo te chi è?»
Arthur rimase un po’ perplesso per quella domanda, cosa poteva saperne lui? Guardò il Principe, che se ne stava tranquillo sul suo letto di fiori, e gli venne in mente che gli ricordava la favola preferita di Morgana, quella sulla principessa addormentata che aspettava il bacio del vero amore per risvegliarsi, solo che Merlin non poteva essere davvero un principe, c’era qualcosa che non andava con i suoi abiti e con il suo viso in generale, assomigliava più a una creatura magica che a un uomo, forse era un elfo o qualcosa del genere.
«Non è un principe» affermò convinto.
«Ah no? Perché?»
«Quella giacca è troppo grande per lui, non è sua. E... non mi sembra il tipo che sa usare una spada.»
Il custode scoppiò a ridere e annuì, le chiavi attaccate alla cintura tintinnavano a ogni suo movimento. «Ti ha beccato subito» disse, rivolto a Merlin. «Ti avevo detto che quella giubba era una cattiva idea.»
Arthur fissò Merlin a sua volta, per un attimo pensò che avrebbe aperto gli occhi e avrebbe riso insieme a Leon, ma quando non lo fece si sentì parecchio deluso e anche un po’ triste. Non sapeva bene perché, ma era convinto che sarebbe stata una bella risata la sua, tutta zigomi e fossette sulle guance.
«Se non è un principe, allora chi è? Perché sulla targa non c’è il suo nome? E perché gli parli come se... Lo conoscevi? Non è del Medioevo come tutti dicono?»
«Fai davvero tante domande» gli rispose Leon con un sorriso che sapeva di tristezza. «Ma non posso raccontarti la sua storia adesso, non è il momento.»
«Perché no? È una storia triste? Ha avuto una brutta morte? Guarda che non mi spaventano le storie dell’orrore!»
Leon gli si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla. «Non è niente di tutto questo, anche se... un po’ triste lo è. Ti prometto che te la racconterò. Ora però dobbiamo andare, la maestra ti starà cercando.»
Arthur non voleva ancora tornare indietro, sentiva il bisogno di restare. Voleva guardare Merlin per qualche altro minuto, magari parlargli, conoscerlo come lo conosceva Leon. Gli faceva male il pensiero di doverlo lasciare lì sotto da solo, di abbandonarlo alla solitudine. C’era qualcosa in Merlin. Qualcosa che non riusciva a capire, ma che lo attirava.
«Posso... Posso tornare?» chiese speranzoso.
Il viso di Leon si aprì, gli s’illuminarono gli occhi. «Vorresti venire a trovarlo ancora?»
Arthur annuì.
«Be’... Immagino che a Merlin farebbe piacere vedere qualcun altro a parte me. Però non so se-»
«Mi comporterò bene!» promise Arthur con entusiasmo. «Non toccherò niente!»
Leon finse di pensarci su, ma era ovvio che non gli avrebbe detto di no. «D’accordo» disse infatti. «Ma non devi dirlo a nessuno, sarà un nostro segreto. Non voglio che altri vengano a disturbarlo. Non devi nemmeno rivelare il suo nome, me lo prometti?»
«Te lo giuro!»
«Bene! Allora ti aspetto! Ora però andiamo, prima che Elena inizi a strillare.»
Arthur si voltò verso Merlin e gli regalò un sorriso sdentato.
«Hai sentito, Merlin? Ci vediamo presto!»
Merlin non gli rispose, ma Arthur era certo che anche lui ne fosse felice, l’aria nella cripta era diventata tiepida.

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Capitolo 2
*** 2. ***


[2/3]
Un giorno il lago si prosciugò
E il mago con un incantesimo si addormentò.
 
 

Arthur poggiò il piccolo bouquet di Agapanto sulla bara. «Buongiorno, Merlin» disse. «Ricordi che giorno è oggi? Sono passati 20 anni dal nostro primo incontro, buon anniversario.»
Merlin non rispose. Come sempre, i suoi occhi rimasero chiusi e la sua bocca non si mosse, ma l’aria della cripta si fece meno fredda, la temperatura si alzò di qualche grado.
Arthur mise una mano sul vetro, mentre si passava l’altra sul viso, scompigliandosi anche i capelli. Era esausto. Gli ultimi dieci anni erano stati difficili, pesanti, e il fatto che si sentisse davvero bene soltanto in quel luogo non aiutava, soprattutto per ciò che stava per fare.
«La mia analista è convinta che dovrei smetterla di venire qui. Devi costruirti una vita vera, mi ha detto.» Rise senza allegria. «A quanto pare lavorare per l’università e uscire con i colleghi non basta. Non riuscirai mai a guarire, se non lo lascerai andare. Così ha detto.»
Arthur tirò su con il naso e percepì un dolce tepore scaldargli il cuore, sapeva cos’era, sapeva che cosa stava succedendo, ma ormai non era più abbastanza. Le prove – supposizioni e sensazioni – che aveva fornito all’università negli anni non erano più sufficienti a mandare avanti i suoi studi sul mistero del Principe Dormiente, come ormai avevano preso a chiamarlo da qualche anno. Il mese successivo gli avrebbero tagliato i fondi e lo avrebbero trasferito in un'altra equipe a Londra. Lontano da Merlin e dalle favole fantastiche di Leon.
E non poteva fare niente per cambiare le cose.
Nessuno aveva mai capito quanto significasse Merlin per lui. Agli occhi di chiunque era soltanto lavoro, un’ossessione da cui si era lasciato consumare negli anni e che aveva condizionato tutta la sua vita.
Arthur aveva preferito la facoltà di storia a quella di legge.
Aveva scelto di restare al villaggio, invece che viaggiare con i migliori archeologi inglesi.
E ancora prima, aveva preferito passare i fine settimana in quella cripta, anziché partecipare alle feste del college.
Arthur aveva passato gli ultimi 20 anni al fianco di Merlin.
All’inizio era stato un gioco, una curiosità; Leon conosceva tante storie interessanti, e il fatto che dicesse di essere stato lui stesso un cavaliere non gli aveva dato pensiero. Ai suoi occhi di bambino, Leon appariva come un essere magico, il guardiano del grande mago, di cui nessuno a parte loro conosceva la vera storia. Si era sentito speciale, diverso. Il prescelto. Con il passare del tempo e l’arrivo dell’adolescenza, Leon aveva iniziato a perdere credibilità, ma non la sua attenzione. Le storie non avevano smesso di affascinarlo, ma avevano perso quel velo di magia che le aveva rese tanto accattivanti.
Arthur aveva scoperto che Leon altri non era che il proprietario del museo e che quindi era ovvio che sapesse un mucchio di cose sul Medioevo e su Merlin, anche se crescendo aveva capito che non si trattava affatto di un mago o di un principe. Era stato un percorso graduale il suo, più cresceva, più si rendeva conto di quanto fossero assurde certe storie, solo che, invece di perdere interesse, la sua voglia di sapere, di scoprire chi fosse quel ragazzo dai capelli scuri era aumentata.
Le sue visite, da sporadiche, erano diventate fisse: due volte la settimana, poi tre, poi quattro, fino a passare ogni ora libera sottoterra.
Arthur, oltre ad ascoltare le storie di Leon per saperne di più, aveva preso l’abitudine di parlare con Merlin, di raccontargli la sua giornata. Era andato da lui la prima volta che si era innamorato, ed era stato Merlin il primo a sapere dell’ammissione al college. A lui aveva confidato ogni dubbio, anche quando si era scoperto attratto pure dagli uomini.
Merlin non gli aveva mai risposto, ma Arthur aveva notato piccole stranezze: la temperatura che aumentava, il calore nel petto, la sensazione di una mano sulla spalla, ed era arrivato alla conclusione che la sua anima si trovasse ancora lì. E poi c’erano stati i sogni. Notti e notti di sogni spettacolari su avventure e castelli e mostri mitologici. La dottoressa Mithian li aveva definiti suggestioni. Arthur, per tantissimo tempo, aveva creduto che fossero il modo che Merlin usava per comunicare con lui, perché in ogni sogno, Merlin era là, al suo fianco. Neanche a dirlo, Leon gli aveva dato ragione, ma secondo Mithian, il proprietario del museo soffriva di un disturbo dissociativo che aveva bisogno di essere curato. Così, per mitigare in parte il problema, la dottoressa gli aveva prescritto una lunga lista di pillole, quelle per dormire, quelle per l’ansia, e non lo aveva perso di vista un attimo. Ormai era suo paziente da cinque anni.
Il taglio dei fondi però aveva creato un’enorme crepa nel suo animo, e Arthur non aveva idea di come guarire. Aveva costruito la sua vita e la sua carriera attorno al mistero di Merlin e adesso gli stavano portando via tutto. Trasferendosi a Londra non a sarebbe più stato in grado di andarlo a trovare, di parlargli, e questo era anche peggio che perdere il lavoro.
Non voleva abbandonarlo alla solitudine di quella cripta. Non voleva separarsi da lui. Ed era stato a causa di quella disperazione che la consapevolezza si era fatta nitida: Arthur, per quanto assurdo potesse sembrare, si era innamorato di Merlin. Si era innamorato della sua pelle lattea in contrasto con i capelli scuri, dei suoi zigomi taglienti e delle sue labbra che dovevano essere morbidissime; si era innamorato dell’idea dei suoi occhi azzurri, dell’illusione della sua risata. Si era innamorato del desiderio di poterlo svegliare con un bacio, di poter trasformare quel mistero in una favola a lieto fine.
Quando ne aveva discusso con la sua analista, lei gli aveva dato un solo consiglio: lasciarlo andare una volta per tutte, prima di perdere la ragione. Merlin era morto, non era altro che un cadavere.
Arthur ci aveva riflettuto per settimane, rimettendo insieme i pezzi dei suoi studi e del suo cuore infranto, e quella mattina, a vent’anni di distanza dal loro primo incontro, aveva preso la dolorosa decisione di dirgli addio. Quindi, aveva indossato la sua camicia migliore, aveva comprato un bouquet di Agapanto e si era incamminato verso il museo con l’animo pesante.
Era necessario mettere un punto a quel sentimento a senso unico, prima che la situazione peggiorasse. Da diverse notti, infatti, continuava a sognare di morire tra le braccia di Merlin, mentre lui lo pregava invano di riaprire gli occhi, e la sensazione che provava al risveglio era di totale, inconsolabile disperazione.
«Mi trasferisco a Londra il mese prossimo» disse Arthur, sforzandosi di sorridere. «Mi hanno assicurato che il nuovo lavoro mi piacerà, studierò i resti di una antica cattedrale in campagna. Non sarà come te, ma… Cercherò di farmela andare bene.» Poggiò entrambe le mani sul vetro, sapendo che comunque non sarebbe rimasta alcuna impronta. Nessuna traccia del suo passaggio nella vita – morte – di Merlin. «Anche se... Niente e nessuno sarà mai come te.»
La temperatura nella cripta salì ancora, l’aria divenne tiepida e il profumo dell’Agapanto si disperse impregnando la stanza. Arthur inspirò a pieni polmoni e sbatté piano la fronte contro il vetro, proprio all’altezza del viso di Merlin. Fu come se si stessero abbracciando, e la sensazione fu terribile e meravigliosa allo stesso tempo. Poteva sentire la tristezza di Merlin, la sua richiesta silenziosa.
«Ti prego» sussurrò Arthur, sentendo il cuore stringersi. «Ti prego, non fare così. Non posso... continuare in questo modo. Tu sei morto e io... impazzirò del tutto se ti vedrò ancora.»
La pressione aumentò. Arthur chiuse gli occhi e lasciò che la pelle facesse il resto. Aveva i brividi ogni qualvolta che lo spirito di Merlin lo sfiorava, splendidi brividi che lo facevano sentire desiderato, amato, ma che non poteva trasformarsi in nient’altro. Il principe dei suoi sogni sarebbe rimasto addormentato per sempre, e lui non poteva farci nulla. Non aveva idea di come liberare il suo spirito irrequieto da quella cripta.
Sollevò le palpebre e lo guardò. «Mi dispiace, Merlin. Mi dispiace tanto. Non so come e aiutarti e non posso restare qui per sempre, devo andare avanti, io... Non tornerò mai più.» Gli si riempirono gli occhi di lacrime. «Non tornerò mai più e ricomincerò da capo, perché tu sei... Sei l’unica persona che io abbia mai amato davvero e non va bene. Sei morto. Sei morto da un migliaio di anni e... Cristo. Io continuo a parlarti come se fossi vivo, ma non lo sei. Non lo sei e devo farmene una ragione. Fanculo Leon e le sue stronzate!» Si staccò dal vetro.
La temperatura calò drasticamente, un freddo invernale s’impossessò della cripta e gelò il sangue nelle vene. Arthur comprese di averlo ferito, di avergli spezzato il cuore ancora una volta, ma non riuscì a spiegarsi come aveva fatto, com’era possibile, come potesse essere successo un’altra volta. Erano anni ormai che percepiva lo spirito di Merlin e i suoi sentimenti, ma mai lo aveva sentito così chiaramente. Se chiudeva gli occhi riusciva a vedere il suo viso in lacrime.
No. Arthur. No. Non di nuovo.
Non avrebbe mai voluto abbandonarlo, ma non aveva altra scelta. Non c’era mai stata un’altra scelta.
«Non ti dimenticherò, te lo prometto» disse. «Probabilmente non riuscirò nemmeno a smettere di amarti ma... devo lasciarti andare.» Si asciugò le guance e camminò all’indietro verso le scale. Non riusciva a smettere di guardarlo. «Per questi anni, Merlin, ti ringrazio
Si voltò per dargli le spalle, e la voragine nel suo petto si allargò a dismisura inghiottendo tutto il resto. Una parte del suo spirito parve staccarsi per restare ancorata a quel luogo, a Merlin, e non fece nulla per impedire che accadesse, era giusto che qualcosa di lui rimanesse fra quelle mura.
Resta con me.
Salì i gradini per tornare in superficie e non si voltò indietro nemmeno una volta. Se solo fosse tornato sui suoi passi, avrebbe visto una lacrima bagnare il viso di Merlin.
 
Una volta tornato al museo ed essersi calmato, Arthur si aggirò per le sale alla ricerca di Leon, prima di partire voleva salutare anche lui, dirgli addio e chiudere quel capitolo della sua vita una volta per tutte. Lo cercò ovunque, dalla sala delle armi a quella degli scudi, ma non lo trovò. Pensò di tornare un altro giorno, ma il solo pensiero di dover rimettere piede lì dentro lo fece desistere. Non poteva rischiare di cedere in tentazione e andare da Merlin, sarebbe stato devastante e non aveva abbastanza forza per dirgli addio di nuovo, doveva finire tutto quella mattina.
Decise di provare nel suo appartamento, Leon viveva al primo piano del museo. Salì le scale a due a due, preso da un improvviso bisogno di sbrigarsi e uscire di lì il più velocemente possibile. C’era qualcosa che non andava, l’aria sembrava elettrica e ogni fibra del suo corpo stava urlando.
Torna indietro! Torna indietro!
Arthur dovette aggrapparsi al corrimano per percorrere gli ultimi tratti della scalinata, le sue gambe volevano scendere, ripercorrere ogni passo e correre verso la cripta.
«Leon!» chiamò, quando arrivò al piano.
Trovò la porta dell’appartamento stranamente aperta, e pensò di star vivendo un déjà-vu. Leon non lasciava mai le porte aperte e quelle volte che lo faceva succedevano sempre cose che a lungo andare avevano conseguenze spiacevoli.
«Leon!» chiamò di nuovo.
Voleva andarsene. Doveva andarsene.
Arthur sapeva che se fosse rimasto più del necessario sarebbe successo qualcosa, provava la stessa sensazione di vent’anni prima, quando aveva deciso di uscire in giardino e poi aveva conosciuto Merlin. Un peso gli opprimeva il petto e provava uno strano e intenso dolore al fianco.
Bussò alla porta e sbirciò oltre la soglia. «Leon, ci sei? Sono Arthur, posso entrare?»
Nessuno gli rispose.
Arthur sospirò e fece un passo avanti, i cardini cigolarono, entrò. L’appartamento era esattamente come l’aveva visto sei o sette anni prima, arredamento indispensabile e nulla di più, il tutto rigorosamente in legno scuro. Nessuna foto o quadro alle pareti.
«Leon?»
Niente. Non era nemmeno lì.
Eppure...
Arthur non riuscì più a muoversi. Il desiderio di fuggire che aveva provato fino al minuto prima era scomparso. Adesso voleva restare. Voleva cercare tra quelle stanze. Ma cercare cosa?
Leon gli aveva raccontato un mucchio di storie, aveva condizionato la sua vita, ma cosa c’era di vero nei suoi racconti? Dove aveva letto tutte quelle favole sul re e il suo mago? Perché era convinto che Merlin fosse proprio quel Merlin? E se la risposta fosse stata proprio nel suo appartamento?
Che sto facendo? Si chiese, quando si richiuse la porta alle spalle e andò dritto verso la camera da letto. Era cosciente di star commettendo un errore, non poteva entrare in casa d’altri e frugare tra i cassetti come un ladro, ma sapeva di doverlo fare. Sapeva che le risposte erano vicine.
Come faceva a esserne certo? Non ne aveva idea.
Perché lo stava facendo? Non sapeva nemmeno quello. Era un’urgenza istintiva.
Entrò nella camera da letto e la trovò ancor più minimal della cucina, c’erano solo un letto e una libreria su cui erano state poggiate delle cornici d’argento. Curioso, andò dritto a guardare le foto, scoprendo che per la maggior parte erano in bianco e nero e raffiguravano paesaggi. Vide le rovine di un vecchio castello, una torre su una collina, un albero dalla folta chioma, e poi... il cuore si fermò.
Un campo di grano sullo sfondo.
Merlin.
Merlin in abiti vittoriani.
Arthur afferrò la cornice e fissò a bocca aperta l’uomo in foto. Gli abiti potevano anche essere diversi, ma avrebbe riconosciuto quel viso ovunque. Era Merlin. Ma Merlin apparteneva a un’epoca molto più lontana, gli studi fatti su di lui lo avevano confermato: la fattura dei vestiti, l’antichità della cripta... Ma in nessuno dei fascicoli che aveva studiato aveva letto di un test del DNA, lui stesso non aveva potuto effettuarlo, perché la bara era inaccessibile.
«Mio Dio» mormorò sconvolto.
Si era chiesto un milione di volte se Merlin fosse davvero così vecchio, se davvero provenisse dal Medioevo, ma seguendo la scia dei suoi predecessori aveva messo quell’ipotesi da parte perché... Perché? Chiunque si sarebbe fatto molte più domande. Chiunque avrebbe cercato delle risposte più soddisfacenti. Chiunque avrebbe tentato di fracassare quel vetro pur di scoprire la verità.
Invece, nessuno lo aveva fatto, mai. Perché? Perché nessuno si era spinto più avanti? Perché il solo pensare che Merlin non appartenesse a quel mondo così lontano era blasfemia? Perché lui stesso si era sentito ridicolo a ipotizzarlo?
Era stata una certezza assoluta la sua, una sicurezza radicata nella sua coscienza: Merlin veniva da lì, da quel mondo fatto di cavalieri e draghi e magia, non avrebbe mai potuto essere altrimenti.
Ma adesso aveva fra le mani la prova dei suoi errori. La sua intera carriera era stata basata su una bugia, e Leon, che lo aveva sempre saputo, lo aveva lasciato fare, gli aveva lasciato sprecare i suoi giorni; aveva permesso che s’innamorasse di quel giovane che... Adesso non aveva più alcuna identità.
«Chi diavolo sei allora?»
La porta si aprì con un cigolio e Leon apparve sulla soglia. Arthur lo guardò e sentì il cuore iniziare a battere più veloce, desiderò scagliarsi su di lui, colpirlo, punirlo. Era stato lui a parlargli di Merlin. Era stato lui a raccontargli tutte quelle storie. Era stato lui a riempirgli la testa di ricordi di un uomo che non c’era più. Ma tutto quello che riuscì a fare, fu solo chiedergli: «Perché?»
Leon abbassò la mano che teneva il pomello e guardò la foto che Arthur teneva fra le mani. Non sembrava sorpreso o dispiaciuto, solo tanto, tanto stanco.
«Mi chiedevo quando sarebbe successo.»
«Cosa? Che qualcuno scoprisse il tuo grande imbroglio? Cos’è, un segreto di famiglia?»
Leon scosse la testa e gli si avvicinò di un solo, misurato, passo. Indicò la foto con un cenno del capo.
«La scattai io quella foto» disse con un sorriso nostalgico. «La fotografia è stata una delle invenzioni più belle dell’uomo. Anche Merlin ne era affascinato, diceva che gli sarebbe piaciuto portare con sé una foto di ognuno di noi.» Le sue labbra si stirarono in una piega amara. «Si addormentò due giorni dopo. Lo supplicai di non farlo, ma non volle ascoltarmi. Era stanco.»
Arthur si portò la cornice al petto e indietreggiò, schifato e oltraggiato da quelle ulteriori bugie. Come poteva mentire ancora? Come poteva parlare di Merlin dopo averlo usato per tutto quel tempo?
«Smettila» disse. «Smettila!» urlò. «Merlin non era tuo amico! Non era nemmeno un mago! Merlin era solo un ragazzo e tu lo hai usato per attirare più gente nel tuo stupido museo!»
«Ti sbagli» gli rispose Leon con calma. «Ho creato il museo perché non sapevo in che altro modo farlo arrivare a te, quando sarebbe stato il momento.»
«Farlo arrivare a me? Di che cazzo stai parlando?! Merlin è qui da almeno cent’anni, non sei stato tu a creare questo posto! Quanti anni credi di avere?!»
«Ho qualche anno in più di Merlin, ormai saranno milleseicento. Ho perso il conto in realtà. Non badi molto ai compleanni quando non hai nessuno con chi festeggiarli.»
Arthur lo fissò senza parole. Aveva davvero ascoltato i vaneggiamenti di un pazzo per vent’anni? Forse non era così sano di mente come pensava, forse anche lui era fuori di testa. Essere innamorato di un morto ne era la prova lampante.
«Tu sei pazzo» mormorò. «Cosa credi di essere? Un vampiro? Un immortale? Cosa?!»
Leon non si scompose. «Ti ho raccontato della coppa» gli rispose con calma. «Ricordi? Non sono immortale, ma sono davvero poche le cose che possono uccidermi, e una tra queste è andata perduta.»
«Excalibur!» esclamò Arthur sarcastico. «La spada forgiata per Re Arthur dal fuoco di un drago. Sì, certo. E ti aspetti che ci creda? Tu hai bisogno di un medico, Leon, non stai bene. E questa» sollevò la foto. «Farà a pezzi le tue stronzate. Daranno il museo a qualcun altro e-»
«E cosa credi che faranno a Merlin? Pensi che lo lasceranno dov’è? No. Lo metteranno sottoterra e il mondo si dimenticherà di lui. È questo quello che vuoi?»
«Voglio che sia in pace!»
«Allora sveglialo!» urlò Leon perdendo la calma. «Sveglialo. Non aspetta che te da più di millecinquecento anni. Perché credi che si sia indotto il Sonno dei Morti? Aspettarti lo stava logorando. La tua morte gli ha spezzato il cuore!»
Fu come ricevere un pugno in pieno viso. Arthur barcollò all’indietro e sbatté la schiena contro il muro, strinse la cornice al petto come se fosse il suo unico appiglio. Di cosa stava parlando? Perché Merlin avrebbe dovuto aspettare proprio lui? E di quale morte parlava? Non era lì? Non era vivo?
 Leon è un bugiardo, pensò sconvolto e confuso, Non devo ascoltarlo. Ma allora perché sapeva che stava dicendo la verità? Perché le sue parole gli stavano facendo tanto male? Perché non riusciva ad andare via? Chiuse gli occhi per riprendere fiato e sotto le palpebre apparve il viso di Merlin.
«Arthur! Restate con me! Restate con me!»
Leon non gli diede il tempo di riflettere. «Sei passato davanti ai suoi abiti un mucchio di volte» gli disse. «Li ho sistemati accanto ai tuoi, prima teca sulla sinistra, insieme alla tua spada da allenamento e alla sua borsa per le erbe, quella che usava quando se ne andava in giro da solo per conto di Gaius. Ho disseminato indizi ovunque, ti ho raccontato tutto quello che avete fatto insieme. Quante volte ti ha svegliato in ritardo? Quante volte lo hai trovato con le foglie tra i capelli? Quante volte lo hai rincorso per i corridoi del castello?» gli tramava la voce. «Aspetto questo momento da tutta la vita, Arthur. So che l’hai sognato. So che ricordi. E sai che è tutto vero.»
Arthur abbassò lo sguardo al pavimento, non riusciva più a guardarlo. Aveva sognato quei momenti, li aveva ricordati. E poi li aveva messi da parte perché pensarci era uno strazio, perché credere di starsi suggestionando da solo era stato più facile che ammettere la verità. Si era creduto pazzo per tanto di quel tempo, che alla fine aveva preferito girarsi dall’altra parte.
Guardò la foto e passò il polpastrello sul suo viso.
Quando era bambino, Leon gli aveva chiesto di che colore credeva fossero gli occhi di Merlin, aveva risposto blu prima ancora di rifletterci.
Sapeva che Merlin aveva gli occhi chiari perché erano stati l’ultima cosa che aveva guardato prima di morire, perché si era perso in quel blu rassicurante per più di dieci anni. E conosceva il suono della sua risata perché lui stesso adorava provocarla, Merlin rideva sempre alle sue battute assurde.
E riusciva a capire i suoi sentimenti non perché il suo spirito fosse bloccato nella cripta, ma perché la sua magia lo aveva riconosciuto e lo aveva richiamato a sé.
«Devo raccontarti un’ultima storia, prima che tu decida cosa fare» gli disse Leon più tranquillo. «La storia che mi hai chiesto la prima volta che hai rivisto Merlin.»
Arthur alzò lo sguardo sul suo cavaliere più fidato e si sedette sul pavimento, non c’era più ragione di fingere di non capire. «Che cosa si è fatto?» chiese, e con il cuore in gola aggiunse: «È ancora vivo?»
Leon andò a sedersi sul letto, le spalle curve sotto il peso dei secoli. «È vivo» mormorò. «Si è indotto il Sonno dei Morti, una pozione magica che porta il corpo sul confine tra vivi e morti. Il battito del cuore e quasi inesistente, ma c’è. È la magia a prendersi cura di lui, o qualcosa del genere. Non me l’ha spiegato nei dettagli, ero già abbastanza spaventato quando mi ha detto cosa voleva fare.»
«Perché gliel’hai permesso?»
«Credi davvero che avessi la forza necessaria per fermarlo? Mi avrebbe mandato a gambe all’aria soltanto guardandomi, e poi... Sapevo che era la cosa giusta. Era diventato il fantasma di se stesso, e quando il lago si è prosciugato... Merlin...»
Arthur strinse i bordi della cornice, sentì l’argento graffiargli i palmi. «Che cos’ha fatto?»
«Ha perso ogni speranza quando Avalon è cambiata» continuò il cavaliere. «Ti ha cercato nella torre, ha chiamato quelle creature che avrebbero dovuto curarti, e quando ha capito che non c’era più nessuno si è... spezzato. Ha perso se stesso. Sapevo che era solo questione di tempo prima che facesse qualcosa. Credo... Credo che se avesse avuto Excalibur si sarebbe ucciso.»
«Ucciso?» Arthur non riusciva neanche a immaginare una cosa del genere. Merlin che si piantava Excalibur nello stomaco era... impossibile. Lui, che era sempre stato così pieno di energia, che percepiva la vita stando in mezzo al bosco in silenzio e ne gioiva. Non riusciva a pensarlo così miserabile e vuoto.
Leon annuì. «Perderti lo ha cambiato. Noi tutti, in un modo o nell’altro, siamo andati avanti, ma lui non c’è riuscito. Eri tutto il suo mondo, Arthur.»
Arthur si passò una mano sul viso e si asciugò le guance. Non conosceva abbastanza parole per descrive come si sentisse. Provava un dolore che non aveva mai sperimentato prima, neanche in passato, perché Merlin era sempre stato al suo fianco e lo aveva protetto in più di un modo. Mentre lui non aveva fatto altro che ferirlo.
«Come lo sveglio?» chiese. «Perché un modo deve esserci. Ti avrà spiegato come fare.»
«Un modo c’è» gli assicurò Leon. «Solo che non me l’ha spiegato.»
«Che significa che non te l’ha spiegato?»
«Ha detto soltanto che, se fossi tornato in vita, avresti capito da solo cosa fare.»
Arthur si arrabbiò e si rimise in piedi. «Merlin s’induce un sonno che lo porta un passo dalla morte, e tu non ti fai spiegare come svegliarlo?»
Leon si alzò a sua volta e portò le mani avanti. «Ci ho provato, te lo giuro, ma ha detto che mi sarei dovuto fidare di te e... tu sei il mio re, quindi...»
«E tu gli hai creduto? Forse non te ne sei accorto, ma ci ho messo vent’anni per recuperare i ricordi e non sono più un re! A stento mi hanno messo a capo di gruppo di ricercatori e vedi un po’ com’è andata!»
«Non ho mai pensato che sarebbe stato facile, ma so che puoi farcela. Anzi, credo che tu sappia già cosa fare, solo che...»
«Che cosa?»
Leon tentennò solo qualche secondo. «Hai paura.»
Arthur emise un verso di sdegno. «Paura di cosa? Di fallire? Certo che ho paura di fallire! Tutto questo è...» allargò le braccia. «È troppo!»
«Non penso tu abbia paura di fallire. Se Merlin ha detto che solo tu puoi svegliarlo, allora ci riuscirai. Il vero problema è cosa devi fare per rompere l’incantesimo.»
«Non so di cosa tu stia parlando!» strillò Arthur arrossendo. Non aveva affatto pensato al più potente spezza incantesimi della storia delle favole, non ci aveva pensato neanche negli ultimi vent’anni.
«Certo» gli rispose Leon annuendo. «È come per la storia della poesia, non è vero?»
Arthur arrossì ancora di più. «Il fantasma di mio padre infestava il castello, lo stavamo cercando. Quell’idiota ti ha raccontato la prima balla che gli è venuta in mente!»
Leon lo fissò a lungo, prima di ricadere esausto sul letto e iniziare a ridere a singhiozzi mettendosi le mani sul viso. Arthur lo guardò e non riuscì a immaginare come potesse sentirsi in quel momento, come si fosse sentito per tutti quei secoli e durante quel periodo di totale solitudine. Il suo cavaliere era stato forte e leale fino alla fine, e non solo perché si era preso cura di Gwen e Camelot, ma perché era rimasto al fianco di Merlin, nonostante non toccasse anche a lui aspettarlo. Adesso che aveva riconosciuto i suoi strani sogni per quello che erano, riusciva a comprendere tutti gli sforzi di Leon, e la sua instancabile speranza nel rivedere Merlin sveglio.
Gli si avvicinò con calma e gli mise una mano sulla spalla. «Mi dispiace per averci messo tanto.»
Leon si asciugò il viso e gli sorrise. «Merlin ti chiamava zuccone, no?»
«Non dirgli che aveva ragione, ti prego.»
«Non glielo dirò, ma pretendo che lo svegli.»
Arthur ritirò la mano e guardò la foto in bianco in nero, lo sguardo di Merlin era serio e duro, completamente diverso da quello dei tempi di Camelot. E c’era tristezza nei suoi occhi, qualcosa di immenso e incolmabile.
«Non merito tutto questo. Perché si è spinto a tal punto? Perché non è andato avanti?»
Leon lo guardò con quel sorriso mite che da sempre lo caratterizzava. «Ti ha sempre amato, non è ovvio?»
Arthur strinse la cornice. «Andiamo a svegliare quell’idiota.»

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Capitolo 3
*** 3. ***


 
 
[3/3]
Fiori d’Agapanto lo circondarono,
e con lentezza gli anni passarono.
 
 
 
 
Arthur sentì la magia di Merlin sulla pelle prima ancora di raggiungere l’interno della cripta, era fredda, instabile e disperata; gli fece venire i sudori freddi, gli fece desiderare la morte.
No, si disse, scendendo l’ultimo gradino, è Merlin che vuole morire.
Leon rimase alle sue spalle, impassibile. Arthur non sapeva se il cavaliere riuscisse a percepirla come ci riusciva lui, e una piccola parte di sé sperò che non ne fosse capace. Era qualcosa di terribile. Un vuoto enorme all’interno del corpo. Una voragine da cui non si poteva fuggire. Un abisso senza fine.
Era oscurità, pura e fredda. Era la fine del Sole.
Era il dolore di Merlin per la sua morte.
Arthur raggiunse la bara di vetro e guardò il suo amico dormiente. Merlin aveva deciso di indossare i suoi vecchi abiti da principe, la tunica rossa che tante volte aveva dovuto rammendare a causa degli allenamenti, i suoi stivali, che dovevano stargli un po’ larghi. Aveva scelto di addormentarsi con i suoi vestiti addosso, come un amante tormentato. Si chiese se lo avesse fatto per sentire ancora il suo odore intriso nel tessuto, se fosse stato un tentativo disperato di trovare un minimo di pace almeno in quella semi-morte. Toccò il vetro e, come sempre, la sua impronta non lo macchiò.
Arthur.
La voce di Merlin riecheggiò nella sua mente come un sussurro incredulo. Poggiò anche l’altra mano e premette forte.
Arthur.
Arthur.
Arthur!
Arthur premette sul vetro con tutta la sua forza. «Sono qui» disse. «Merlin, sono qui. Sono accanto a te. Puoi sentirmi?»
Arthur!
Arthur!
Arthur!
ARTHUR!
Arthur tolse le mani di scatto, come se si fosse appena scottato, ma il vetro era gelido. Nella cripta il freddo e l’umidità entravano dentro le ossa, ferivano. Come ferivano le urla di Merlin. Sembrava che stesse gridando a squarciagola da un luogo oscuro da cui non riusciva a fuggire.
«Che cosa hai combinato?» mormorò al suo corpo immobile.
Leon fece un paio di passi verso di lui, ma rimase comunque lontano dalla bara, quasi avesse paura di avvicinarsi troppo. «La sua magia ti obbedisce, dalle un ordine.»
«Come fai a esserne sicuro?»
«Me l’ha confidato Merlin prima di addormentarsi. Ha detto... ha detto che tutto di lui ti appartiene.»
Arthur fissò il viso di Merlin e notò che una lacrima era scivolata dall’occhio destro, desiderò asciugarla con un dito, accarezzargli lo zigomo e sussurrargli dolcemente di svegliarsi. Si passò le mani sugli occhi per scacciare le lacrime che avevano iniziato a offuscargli la vista e tirò su con il naso, non poteva permettersi di scoraggiarsi in un momento simile.
«Potresti... Potresti uscire?» chiese a Leon in un sussurro. Non voleva mostrarsi così debole, non voleva che quel momento così intimo fosse visto da qualcun altro, anche se si trattava di un vecchio amico.
Leon annuì. «Quando il vetro scomparirà, l’incantesimo su questo posto verrà spezzato e ti ritroverai nella casa in cui Merlin viveva prima di addormentarsi. Non so bene come funzioni, so solo che non sarete più al museo.»
«Un’altra delle sue assurdità?»
«Non lo so. Forse voleva essere sicuro che foste da soli dopo tanto tempo.»
Arthur si girò a guardare l’amico. «E tu? Tu dove sarai?»
«Mi troverete al museo o nel mio appartamento. Vi aspetterò.»
«Sei davvero sicuro che riuscirò a svegliarlo?»
«Il bacio del vero amore spezza ogni incantesimo» gli rispose Leon alzando le spalle.
Arthur non gli rispose, ma la sua espressione fu abbastanza eloquente. Leon se ne andò via in silenzio, lasciandolo solo ad affrontare la sua prova più importante. Al contrario suo, il cavaliere sembrava davvero convinto che ce l’avrebbe fatta, che sarebbe riuscito a svegliare l’idiota per vivere per sempre felici e contenti.
Arthur.
Arthur si voltò di nuovo verso Merlin, la sua magia continuava a girargli intorno inquieta e la sua voce gli riempiva le orecchie facendogli stringere il cuore. Non poteva nemmeno immaginare come potesse essersi sentito in tutti quei secoli, cosa avesse provato nell’aspettarlo davanti al lago fino a perdere ogni speranza.
Riusciva a vederlo, seduto sulla riva a guardare l’immobilità dell’acqua in attesa di un segno che non sarebbe mai arrivato. I suoi occhi umidi. Il desiderio di morire e raggiungerlo.
Arthur scosse la testa e si asciugò il viso per l’ennesima volta, represse un singhiozzo. Non poteva capire fino in fondo come si fosse sentito, ma riusciva a comprendere quanta devozione ci fosse dietro, quanta lealtà, quanto amore.
O forse c’era sempre stato soltanto l’amore.
Poggiò di nuovo le mani sul vetro e inspirò, non fece alcuna pressione e aspettò che la voce di Merlin lo chiamasse ancora, e quando lo fece, seppe cosa fare.
«Fallo sparire» ordinò. «Togli questo maledetto vetro.»
Ci vollero pochi secondi, una leggerà vibrazione nell’aria, e il vetro sparì. Il profumo dell’Agapanto si disperse all’improvviso, era delicato, dolce, ricordava l’alba nella foresta di Camelot; il silenzio degli alberi, la rugiada sulle foglie, il sorriso di Merlin illuminato dai primi raggi di luce, quando lo svegliava dopo una notte passata accanto al fuoco. Leon gli aveva raccontato che Merlin aveva scoperto quel fiore straniero per caso, vedendolo su un carretto di un venditore ambulante, e ne era rimasto incantato. Ora capiva perché.
Arthur si ritrovò con le mani a toccare il vuoto, così vicine al viso di Merlin da fargli torcere lo stomaco per l’agitazione. Le abbassò d’istinto e le tenne rigide lungo i fianchi, aveva paura anche di sfiorarlo, credeva che se l’avesse fatto Merlin si sarebbe sgretolato davanti ai suoi occhi.
Ma se non lo faccio, non si sveglierà, ricordò a se stesso. E Merlin doveva svegliarsi. Doveva aprire gli occhi. Doveva sorridergli ancora e passargli le mani fra i capelli e abbracciarlo e stringerlo forte per non lasciarlo andare mai più.
Si guardò intorno e si accorse che Leon aveva avuto ragione, non erano più nella cripta, ma in un cottage che sembrava trovarsi nel bel mezzo della campagna, o almeno questo si vedeva dalla finestra. E se quell’incantesimo si era spezzato, c’era ragione di sperare che sarebbe successo anche con il Sonno dei Morti.
Arthur.
Arthur respirò e respirò, tentò di calmare il cuore in subbuglio, di far smettere il tremolio delle mani, ma non ci riuscì. Era impossibile calmarsi in un momento del genere. E allora fece l’unica cosa in cui era sempre stato bravo, smise di pensarci e agì, si piegò in avanti e allungò la mano fino a sfiorare con le punte delle dita lo zigomo di Merlin. Emise un sospiro tremulo, la pelle era inaspettatamente tiepida.
«Merlin» sussurrò. «È meglio per te che funzioni.»
Si leccò le labbra secche e, prima di chiudere gli occhi, guardò un’ultima volta il viso addormentato dell’uomo che aveva amato in entrambe le sue vite, sperando di trovarlo sveglio quando li avrebbe riaperti, poi si abbassò fino a congiungere le loro labbra in un primo dolce bacio.
All’inizio non accadde niente, ma dopo qualche attimo, Arthur percepì un movimento, una risposta; le labbra di Merlin si mossero contro le sue. Si staccò piano e lo guardò strizzare le palpebre.
«Merlin» sussurrò incredulo.
Merlin aprì gli occhi con lentezza, mostrandogli finalmente il blu familiare e caldo delle sue iridi, e lo guardò spaesato, ancora assonnato. Arthur non riuscì a dire più nulla, un enorme nodo di lacrime gli ostruì la gola. Ce l’aveva fatta davvero, aveva spezzato l’incantesimo. Il bacio del vero amore aveva interrotto il Sonno dei Morti.
Si guardarono in silenzio per lunghissimi minuti, finché le labbra di Merlin non iniziarono a tremare e i suoi occhi si fecero sempre più lucidi fino a straripare in un pianto a singhiozzi. Arthur lo sollevò dalle spalle mettendolo seduto e lo abbracciò, lo strinse così forte da sentire ogni suo osso cozzare contro i propri, ma non gli importò, non gli importò più di nulla, nemmeno di singhiozzare come un bambino, perché Merlin era lì, con lui, sveglio e vivo.
Rimasero stretti in quell’abbraccio fino a quando non si sentirono abbastanza sicuri da staccarsi un po’, ma sempre con le braccia ben ancorate al corpo dell’altro. Merlin gli toccò le spalle, il collo, le guance, risalì ai capelli e glieli accarezzò con amore, e poi scese di nuovo con mani tremanti alla mascella, gli toccò le orecchie, le sopracciglia, il naso. Gli sfiorò le labbra con il pollice.
Arthur gli lasciò fare quello che voleva, avere le sue mani addosso era indescrivibile, meraviglioso e doloroso insieme. Aveva atteso vent’anni per quel momento, ma sapeva che erano niente in confronto a quanto aveva aspettato Merlin.
«A-A-Art... A-Arthur» balbettò Merlin con voce roca.
Arthur sorrise e tenne gli occhi puntati su di lui. Il suo nome detto da Merlin... Le mani di Merlin. Il calore di Merlin. La magia di Merlin.
«Merlin» sussurrò pianissimo.
La bocca gli tremò ancora, ma invece che singhiozzare, Merlin sorrise tra le lacrime. «A-Arthur» disse di nuovo, con più sicurezza.
«Sono qui» gli rispose. «Sono qui, Merlin. Sono tornato. Per te.»
Merlin poggiò la fronte sulla sua. «R-Resta.»
«Certo che resto. Non vado da nessuna parte senza di te» gli promise, poi gli prese il viso fra le mani. «Sei il mio vero amore, Merlin. Il bacio ha spezzato l’incantesimo.»
Merlin gli fissò le labbra e gliele toccò di nuovo con il pollice, i suoi occhi erano grandi e pieni di calore, nessuno – nemmeno Gwen – l’aveva mai guardato così.
«E voglio baciarti ancora» gli rivelò con il cuore che sembrava volesse scoppiargli, tanta era la felicità. «Ogni giorno, ogni ora. Sempre. E voglio vivere con te e... fare l’amore. Renderti felice.» Si sporse in avanti lentamente, senza mai smettere di guardarlo. «Qui. Altrove. Non importa. Purché stiamo insieme. E, sai che sono all’antica, se poi tu volessi... Se tu volessi farmi l’onore di... sposarmi...»
Merlin spalancò gli occhi e schiuse le labbra per la sorpresa, ma durò solo un momento, perché poi iniziò ad annuire freneticamente con il sorriso che si allargava sempre di più.
«S-Sì» balbettò. «S-Sì!»
«Sì?» gli chiese Arthur sollevato. «Davvero? Ma giurami che non farai mai più una cosa del genere! Niente più sonno magico, prometti!»
Merlin annuì di nuovo e la sua magia vibrò nell’aria riempiendo la stanza di calore e luce, l’inverno sembrava essere cessato di colpo. Proprio come nelle favole, pensò Arthur sentendosi di nuovo bambino.
Lui non era più un principe e Merlin non era di certo una principessa, ma avevano avuto le loro avventure e le loro sciagure sia in passato che nel presente, e anche la magia, quello che gli mancava era un degno lieto fine.
Merlin prese uno stelo di Agapanto e glielo porse. «A-Amore» spiegò.
Arthur prese il fiore e glielo mise fra i capelli. «Lo so» gli rispose. «In questa vita e a Camelot, è sempre amore. Questa volta però andrà tutto bene.»
Si baciarono circondati dai fiori e da piccole lucciole di magia. Da quel momento in avanti avrebbero vissuto felici e contenti.
 
 
In un giorno d’inverno il suo Re lo trovò,
e con il bacio del Vero Amore l’incantesimo spezzò.
 
 

 
Fine

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