Effetto farfalla

di summers001
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Effetto farfalla
 
 
Si dice che il battito di una farfalla sia capace di provocare un urgano dall’altra parte del mondo.  Ma cosa succederebbe allora se nella moltitudine di ripetizioni che la storia compie, ribellandosi alle regole della natura, la farfalla si posasse su un altro fiore? 
 
Quella mattina Cyril era stato incaricato insieme al plotone di sorvegliare Parigi. C’erano dei ribelli. Bisognava armarsi, rispondere al fuoco col fuoco. 
 
Cyril era di umili origini. Sua madre si era sposata troppo giovane. Suo padre neanche sapeva in quale buco le avesse infilato il cazzo all’epoca. Avevano vissuto per strada i primi anni. Alla faccia di chi diceva che Parigi era una città per bene. Certo, perché non avevano visto sotto i ponti. Si portava dentro tanta rabbia per questo. Anche se era piccolo se la ricordava bene. 
Sempre troppo tardi, mai troppo presto, però arrivò la svolta. Sua madre conobbe una donna al mercato. Era una cameriera di Versailles, giunta a Parigi per una commissione. Doveva comprare erbe medicali all’epoca della gravidanza di Maria Antonietta. Cyril aveva solo cinque anni allora quando la conobbe. 
 
Andarono così tutti a Versailles, a servire il re, a servire la regina. Suo padre fu ucciso proprio dal re e dalla regina poco dopo. Puzzava d’alcol da fare schifo. Proprio per questo Cyril s’era ripulito. Non aveva mai bevuto, non era mai andato con una prostituta, mai un vizio. S’era arruolato però. Sapeva di non poter puntare in alto, ma almeno così aveva sempre il pranzo nella pancia ed un letto dove dormire. Viveva la sua vita adulta come se fosse stata un riscatto dell’infanzia e di sua madre, Bernadette. Lei, poverina, morì poco dopo. Aveva solo diciotto anni. La fame di Parigi l’aveva segnata troppo e durante un’età critica. E così Cyril si riempì di ancor più di risentimento verso quella città maledetta, che non faceva altro che puzzare ed avere fame. Le torture e le sofferenze, era convinto, fossero state inventate a Parigi. 
 
Quando seppe che i parigini si stavano armando e che il re e la regina avevano intenzione di rispondere all’offesa, Cyril si offrì volontario. Gli altri non volevano. I suoi compagni, alcuni, avevano una famiglia e dei figli là. Cyril invece aveva solo rabbia da riversare. Non avrebbe potuto far parte della fanteria, questo lo sapeva. Non avrebbe potuto esser tra quelli schierati nelle righe nelle piazze, anche questo lo sapeva. Però aveva un fucile e munizioni e polvere da sparo. 
 
Oltre ai parigini c’era un’altra cosa di quella rivolta che lo turbava: i soldati della guardia. Loro erano stati scelti, arruolati, proprio come lui. Non avevano fame, potevano essere brava gente, eppure avevano sputato nel piatto dove mangiavano, avevano tradito la mano che li aveva aiutati, il seno che li aveva allattati. Erano traditori. Proprio come suo padre, quando scopò sua madre e poi cominciò a bere, tradendo la sua fiducia, lasciandoli soli ad aspettare la provvidenza. 
 
A Versailles doveva la salvezza. In più fu proprio lì che conobbe Agathe. 
Agathe aveva i capelli corvini, la pelle chiara che si arrossava al sole, gli occhi azzurri carichi di speranza. Lavorava per i figli di Maria Antonietta. 
Tutti i giorni Agathe svegliava i principini e li aiutava a vestirli. Poi li accompagnava alla colazione e mentre loro mangiavano, lei si affacciava alla finestra dove vedeva le guardie prepararsi per l’addestramento. Gli sorrideva, salutava muovendo le dita, a volte arrossiva quando Cyril le mandava un bacio. Era innamorata, l’aveva capito da tempo e lo sapeva anche lui. Stava aspettando la proposta di matrimonio. Le altre non facevano che dirle che sarebbe arrivata presto, il tempo che lui avesse ottenuto una promozione, altrimenti come avrebbe mai potuto mantenere la famiglia? 
 
Quella mattina sapeva che c’erano stati ordini speciali, perché le guardie non erano allineate in squadroni come al solito. C’era disordine. Nello stesso disordine Cyril stava sbraitando perché il suo comandante lo notasse. Si girò verso i principini, che ancora mangiavano. Guardò le scale. Aveva una brutta sensazione è sapeva di trovarsi davanti ad un bivio.
 
Poteva aspettare che i principini finissero ed accompagnarli da sua madre appena fuori dalla cappella, e quindi andare da Cyril dove gli avrebbe suggerito di fare più attenzione e di tornare, tornare presto. Lo avrebbe incontrato appena in tempo e salutato frettolosamente. Oppure poteva lanciarsi giù per le scale subito. Affrettarsi, correre aggrappandosi alle maniglie per arrivare appena in tempo prima dell’assegnazione dei ruoli. Se l’avesse fatto, avrebbe pensato che era stata una follia ed avrebbe allora deciso di compromettersi fino  alla fine. Avrebbe salutato Cyril e gli avrebbe detto “Torna da me” ancora con l’affanno della corsa. Gli avrebbe legato il suo fazzoletto al polso e Cyril non avrebbe fatto altro che pensare a lei. 
 
Nella storia come la conosciamo, Cyril incontrò appena Agathe, finendo per rimuginare per tutto il giorno su Parigi, su suo padre e sua madre, sull’odio che nutriva, sulla vendetta che doveva compiere. Fu assegnato a controllare i confini dell’Ilè della città, un posto troppo esposto perché i cittadini facessero sciocchezze, lontano dalla periferia turbolenta. Camminò da ponte a ponte, fino a che con la coda dell’occhio non vide qualcosa muoversi alla sua sinistra. Si girò di scatto e vide una macchia indistinta. Erano i soldati della guardia. Prese la mira e sparò. 
 
In un’altra versione della storia invece, il principe Louis Charles raccolse un biscotto e lo tirò a Maria Teresa, scatenandone le ire. I due litigarono, fino a convincere Agathe a correre di sotto, per lasciare la reggia, lasciare quel posto, sposarsi e vivere finalmente felice. Baciò Cyril davanti a tutti, mentre gli altri soldati li fischiavano. Gli legò il fazzoletto al polso come pegno d’amore, gli disse “Torna da me” e solo allora lo lasciò andare. In questa versione della storia, Cyril pensò ad Agathe tutto il tempo e s’offrì lui stesso di pattugliare una zona tranquilla, venendo assegnato all’Ilè de France. Incontrò lo stesso i soldati, ma questa volta in questa versione, Cyril era distratto. Cyril si stava concentrando sul profumo del fazzoletto legato al suo polso, sugli occhi di Agathe mentre se lo scioglieva dai capelli. Pensava a lei, alle sue morbide mani, i morbidi seni, le guance tonde, bianche e rosa. Cyril non fece in tempo a prendere la mira, ma sparò ugualmente.
 
Nella prima versione della storia, Cyril Dubois uccise Andrè Grandier prima di morire egli stesso. Nella seconda versione lo ferì gravemente. In entrambi i casi, non tornò più a Versailles, morendo sotto le mani dei ribelli per un proiettile sparato dal loro comandante. Agathe non lo rivide comunque mai più vivo, rimanendo vedova prima ancora di sposarsi. 



 



Angolo dell'autrice 
Ok, ci ho messo meno di quello che pensavo, merito dei viaggi di lavoro XD 
Allora. Partiamo in maniera fantasiosa. È un'altra storia What if, che vuole riscrivere il finale. Come avrete notato non mi piacciono le narrazioni lineari. 
Che succederà questa volta? Vi annuncio che temo mi ci vorranno più capitoli della precedente, forse un 5-6 (di sicuri ne ho 4, ma mi manca ancora il finale, che arriverà). La frase iniziale è tratta da un celebre film, the butterfly effect.
Spero che vi piaccia anche stavolta. Vi mando intanto un caloroso saluto, spero di ritrovarvi tutti. Aggiornerò quanto prima ;)

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
 

Oscar sparò prima ancora di sentire il proiettile lanciato dal fucile di quella guardia. Fu come se la vista e la paura avessero anticipato i suoni. Solo dopo che l’ebbe osservato cadere morente al suolo sentì il rumore dello sparo, poi un fischio passarle vicino all’orecchio assordandola. I suoni divennero confusi mentre il proiettile colpì. Oscar percepì solo il disordine. Udì delle grida, senza distinguerle e poi la paura che s’era diffusa tra quelli che rimanevano dei soldati della guardia. Il cuore prese a batterle forte nel petto. Dentro, sapeva già quello che era successo. Trattenne il respiro per avere l’impressione che quell’attimo durasse un’ora. Aveva paura persino di riemergere da quella nebbia di suoni. Per qualche istante sentì solo il suo cuore scandire i secondi. “Oscar! Oscar!” si sentì chiamare da Alain. 
Aprì la bocca per respirare, per urlare e chiamarlo se ne avesse avuto il coraggio. Si voltò e lo vide a terra. 
 
Andrè era a terra. 
Si teneva una spalla e sanguinava. Sanguinava tanto, troppo. “Oscar!” chiamò mentre si lamentava. Si sporse di qualche passo, come se avesse voluto raggiungerla, come se avesse voluto chiederle aiuto. Allungò persino una mano per raggiungerla, a lei che lo guardava immobile, impotente, con gli occhi sbarrati dalla paura. Senza rendersene conto stava camminando anche lei, con passi pesanti, lenti eppure veloci a sufficienza per afferrarlo prima che cadesse. Quando se lo ritrovò addosso, col respiro pesante contro la sua spalla e gli occhi chiusi dal dolore, semi cosciente, si svegliò dal torpore in modo violento. Lo strinse, riuscendo appena a circondargli il busto con le braccia. Urlò a tutti di salire sui cavalli, di uscire allo scoperto. Guardò Alain che capì al volo e si caricò Andrè sul destriero, avanti a lui così che non cadesse.
 
Corsero. Corsero tutti per salvargli la vita. 
Si mossero come una macchina perfetta, all’unisono senza domandarsi se stavano facendo la cosa giusta, che strada dovessero prendere o chi dovesse fare cosa. Oscar corse tra le spade e le pistole come una attentatore suicida, distraendo e sorprendendo l’avversario, vincendo ed uccidendo pur di salvare la vita dell’uomo che amava, pur di raggiungere le barricate. Era animata da una furia che mai nessuno le aveva visto dentro, guidava quel gruppo ed usava la spada come Marte in guerra e Cèsar pareva seguire il suo esempio. Disarcionava, colpiva, uccideva quasi fossero un’unica mente. 
 
Dietro le barricate Bernard era pronto, avvisato da una sentinella che spiava dall’alto. Aiuto Alain a tirar giù Andrè da cavallo. Chiamò un dottore a gran voce. La voce di Bernard placò la furia di Oscar. Pensò stupidamente che sebbene fossero molto simili, le loro voci erano così diverse. Quella di Andrè era gentile e ridente. Quella di Bernard più cupa ed imperiosa. 
 
Andrè venne adagiato a terra, su un lenzuolo recuperato di fortuna da una donna. I soldati della guardia lo circondarono, aprendosi poi per lasciar passare il suo comandante, come Mosè in Egitto. Oscar lo raggiunse correndo. Andrè respirava pesantemente. Erano respiri profondi e misurati. Il cuore batteva forte, gocce di sudore gli imperlavano la fronte, mentre la giubba si riempiva di sangue. Provò a raccogliere la sua mano che aveva lasciato appesa al busto. Appena gliela mosse lui urlò di dolore. 
“Andrè!” chiamò lei, lasciandogli poi cadere il braccio nella stessa posizione di prima, terrorizzata dal procurargli ancora più dolore, quando il suo unico intento era stato quello di attutirlo. 
 
Dietro di lei sentì confabulare voci sconosciute.
“Comandante.” Venne chiamata alla fine. Si girò. Quattro sconosciuti l’avevano circondata. Tenevano lo sguardo basso come se portassero rispetto al suo dolore ed al suo amore. 
 
Alain le venne dietro. Le mise una mano sulla spalla, come a chiederle di farsi da parte, ma Oscar non cedeva. 
“Comandante.” Chiamò anche lui e si fece più pesante con quella mano, quasi a farla cadere a terra, per toglierla di mezzo in un modo o nell’altro. Ma Oscar s’alzò, capì. Lasciò che quegli uomini lo spogliassero, gli scollassero i vestiti appiccicosi di sangue dalla ferita, la ispezionassero e decidessero il da farsi. Uno di loro con dei ferri tirò fuori il proiettile di sorpresa. Andrè urlò ed allora Oscar si lanciò di nuovo da lui, venendo fermata però da Alain che la tenne stretta mentre lei si dimenava come un animale selvatico in cattività. Urlava lei mentre urlava anche lui, mentre un altro di quegli uomini insensibili di scienza gli premeva sul petto un panno bagnato, che s’inzuppò di sangue come niente fosse, quasi la ferita gorgogliasse. 
 
Andrè afferrò il bracci0 di quell’uomo. Quello non si fece intimidire e continuò a premere. Un altro dei quattro fece segno ad uno dei soldati della guardia di tenerlo fermo e quello tenne fermo. Oscar allora urlò di nuovo, come se la paura le uscisse solo attraverso grida dalla bocca. Quelli presero poi ago e filo e gli ricucirono la ferita, che si gonfiò di sangue, ma almeno smise di scorrere. Ci versarono dell’alcol. Era marrone, scuro, gli lasciò persino i segni sulla pelle. Bruciò. Bruciò così tanto da farlo svenire. Gli fasciarono la spalla e solo allora Alain lasciò andare Oscar, che si lanciò di nuovo da lui, s’adagiò sul suo petto e contò i respiri, per essere sicura che fossero sempre quelli, regolari, come il battere ritmico del suo cuore.  
 
Alla sera vennero stipati nel retro di una panetteria. Il proprietario era morto, lasciando sola una figlia femmina, che non sapeva neanche impastare la farina. Li ospitò proprio lei, per render merito alla memoria di suo padre. Sistemò paglia, cuscini e lenzuola a formar tanti materassi. I pochi dottori ribelli che erano in città accerchiarono l’edificio ed in poco tempo quello divenne il prototipo di un ospedale per i rivoluzionari. Avevano solo bende, alcol, ago e filo. Sperarono per tutto il giorno e quello successivo di non trovarsi di fronte a qualcosa di peggio che qualche ferita lacero contusa. 
 
Vennero raccolti là tutti i feriti, quelli che avevano possibilità di sopravvivere almeno, compreso Andrè. L’avevano sistemato in un posto contro il muro. Oscar pensò che le mura erano fredde e che dovesse coprirlo in qualche modo. La giubba era ancora piena di sangue, bagnata, rigida. Col mantello della sua uniforme gli coprì e le gambe e l’addome. Gli prese una mano, quella che lui non era riuscito a muovere poc’anzi, mentre con l’altra era attenta a sentire il diaframma salire e scendere in un respiro pacato. C’era troppo buio perché riuscisse a distinguerlo alla vista. 
 
Il sole era calato, si sentiva persino qualche tuono provenire dall’esterno. 
Nella confusione, presto, quel posto cominciò a riempirsi. Pochi volontari aiutavano i feriti, facendo avanti e dietro da un letto all’altro. Nessuno però s’avvicinò per timoroso rispetto. Forse fu merito della divisa che ancora indossava o forse qualcuno l’aveva riconosciuta. Oscar si cullò in quella reverenziale solitudine con sollievo, accasciandosi a terra, accanto al suo letto. Era stremata. Sentiva una vampata di caldo annebbiarle il cervello, avvamparle il viso e chiuderle gli occhi. S’addormentò seduta sul pavimento scomodo, col freddo che le saliva fin dentro ai vestiti ed il dolore che le cominciò da dentro alle ossa. Era agitata e stanca insieme. Si rigirò più volte in quel sonno discontinuo che sembrava durare una vita, mentre sudava e nella confusione stringeva la mano di Andrè in uno spettacolo pietoso di lotta per la vita e malattia. 
 
La voce frastornante ed insolente di Alain la risvegliò improvvisamente con un singhiozzo di paura. “Non vi fa male il culo a star seduta su quel mucchietto d’ossa tutto il giorno?” 
 
Oscar strizzo gli occhi e si rigirò. Non sapeva neanche quanto tempo fosse passato da quando aveva pensato di chiudere gli occhi. “Cosa?” chiese lei. Guardò persino a terra dov’era seduta prima di capire che il mucchietto d’ossa di cui Alain parlava era il suo. In un lampo si ridestò mettendosi ben seduta, intimorita che lui potesse aver compreso il malessere che l’affliggeva, che non era importante, ma che doveva nascondere perché non la limitasse. Non ci aveva pensato sino a quel momento, sino a quando l’infermità di Andrè non era diventata una reale possibilità.
 
“Siete fuori forma, comandante.” Le rispose lui. Oscar non se ne preoccupò e non rispose. Lo ignorò del tutto e nascose il viso contro il materasso, comunicando indisposizione, volontà di esser lasciata in pace accanto ad Andrè, a vegliare su di lui dov’era giusto che doveva stare. “Rimango io.” Sentì dire di nuovo da Alain. 
 
Oscar si strofinò gli occhi, così che il fastidio riuscisse a svegliarla. Cercò il viso addormentato di Andrè nel buio, aspettò di vedere il suo petto gonfiarsi del respiro. “No.” Rispose solo. Era là che lei doveva rimanere, là che lui sarebbe rimasto a parti invertite. Gli passò una mano all’altezza del cuore, in una carezza. Aspettò di nuovo di sentire il cuore battere ed i polmoni respirare. Vide una macchia scura sulle bende, già inzozzate di sangue. Le fissò continuando a vegliare indisturbata sul sonno guaritore di Andrè.
 
Alain si mise due dita sulla fronte, tra gli occhi, a bloccare quel pensiero confuso e quasi rabbioso misto con la paura che si stava facendo forma. Non era mai stato paziente. Fuori dalla caserma era stato per tanto tempo l’unico uomo di casa, dove nessuno, se non sua sorella, osava mettergli i piedi in testa. Ma lei era tutta un’altra cosa. Lei poteva quando lui voleva. In caserma invece aveva fatto scappare via il suo precedente comandante, e nessuno degli altri commilitoni provava anche solo per gioco a rispondergli a tono. Non accettava un “no” da uomo o donna che fosse, soprattutto quando credeva che quella fosse la cosa giusta. 
“Non ci faccio una bella figura quando si sveglia se vi vede con le ossa di fuori e la faccia sbattuta. E neanche voi” provò a stemperare. Sperò che lei capisse, che da quella mattina lui non la poteva lasciar stare. Era diventata la donna del suo migliore amico: la doveva difendere e prendersi cura di lei quando Andrè non poteva. E come glielo poteva spiegare? Chi glielo diceva che lei stessa era sempre stata il suo peggior nemico? Che non stesse bene gli era chiaro da almeno un mese. 
 
“Me ne farò una ragione.” Rispose lei, che al contrario non aveva avuto mai nessuno a dirle cosa doveva fare, dove poteva restare e quando andare via, eccetto che suo padre. Aveva lasciato i gradi ed il titolo però. Si era immersa nel mondo di lui e dei suoi soldati. No, Alain non poteva ordinarle niente, ma lei neanche poteva ordinargli di farsi da parte. Fece per parlare di nuovo, ma a qualche letto di distanza un uomo si lamentava e qualcuno lo zittiva, costringendo tutti ad abbassare la voce per rispetto verso la sofferenza che riempiva le mura della panetteria.
 
“Comandante,” riprese allora Alain dopo qualche secondo di silenzio, fingendo di abbassare la voce. Pronunciò quella parola con qualche dubbio, sforzandosi addirittura perché lei capisse. “i miei erano modi carini per dirvi di farvi da parte.” Concluse levandosi il cappello e grattandosi la testa, fingendo apposta disinvoltura. 
 
Oscar si girò furiosa, con gli occhi vivi e quel fuoco che tutti avevano conosciuto dal primo giorno. Il suo fuoco avvolse Andrè quasi volesse proteggerlo, ignorando chiunque altro si trovasse in quel luogo. “I miei erano modi carini di rifiutare.” Rispose solo.
 
“Oscar,” spazientito Alain la chiamò per nome. Basta con le solite stronzate, pensò, qualcuno glielo dovrà dire prima o poi. “se non ti levi subito dal…”
 
“Non rompere, Alain!” ringhiò lei sormontandolo con la voce in un modo isterico e stanco di vincere quell’inutile battibecco. 
 
“Oscar! Alain!” fu Rosalie ad interromperli. Nessuno dei due s’era accorto che era, tra quei volontari che avanti e dietro aiutavano i feriti. Era stata lei a zittirli per la prima volta, e lei di nuovo a farlo ancora. Fu così diretta ed improvvisa da sorprendere entrambi, così sfacciata che smisero di guardarsi per cercarla. “Uscite tutti e due, ci rimango io!” li mandò fuori entrambi indicando la porta, che portava nella parte di negozio che affacciava sulla strada, dove c’era la vetrina rotta ed i cocci riversati ovunque e calpestati. “Oh, madamigella, io…” chiamò poi, ormai finito quel momento di decisione, per chiedere scusa e farsi perdonare. Certi modi di fare non le appartenevano.
 
Oscar alzò entrambe le mani in segno d’arresa. Guardò Andrè un’ultima volta, aspettò di vederlo respirare e si allontanò. Si sentì fiera di Rosalie, come lo era sempre stata. Fiera e tradita, perché aveva vissuto con loro una volta, li conosceva, sapeva che lei non avrebbe mai abbandonato il suo Andrè, come non aveva mai fatto, neanche all’epoca della sua permanenza a palazzo Jarjayes. Tradita, perché credeva fosse dalla sua parte. Oscar provò vergogna proprio perché Rosalie lo era, dalla parte di Andrè almeno. 
Il peso della giornata le crollò addosso, schiacciandola sotto le macerie di una Francia che cascava a pezzi. 
L’odore della polvere, della muffa e della farina le entrarono in testa per la prima volta in quella sera. Le fecero venire da vomitare. Raggiunse la vetrina, s’affacciò fuori e vide la pioggia battere sui sampietrini e raccogliersi in pozzanghere. Qualcuno correva ancora avanti e dietro imbracciando un fucile. Non vide guardie e non sentì spari. Quella zona pareva tranquilla. 
Sentì i passi pesanti di Alain raggiungerla alle spalle. “Non me ne vado.” Sentenziò, prendendo posto in un angolo, dove sarebbe rimasta forse tutta la notte.
 
“Sai, Oscar,” cominciò. Ormai s’era preso la libertà di chiamarla per nome, come fosse stato un ostacolo da superare oltre il quale non si tornava indietro. “ero venuto ad avvisarti di domani prima di vedere come sei combinata.” Si sedette su un altro di quei materassi di fortuna. Nascose gli occhi, perché in fondo provava vergogna anche lui per le stesse ragioni di lei.
Cullò, mentre le parlava, l’idea che lei gli fosse pari, l’irraggiungibile possibilità di poterle parlare da uomo a donna come faceva Andrè, quella di guardarla ed ammirarla da un po’ più vicino di prima, metterla di fronte alle stronzate che stava facendo. 
 
“Domani?”
 
“Prenderanno la Bastiglia. Si farà casino. Oggi ci sembrerà una passeggiata.” Rispose lui. SI concentrò sulla rivoluzione, parlò di loro prima, dei parigini, poi dei soldati, poi usò quel noi che nascondeva il desiderio recondito di combattere ancora in battaglia per l’ultima volta, di condividere il fuoco che gli bruciava dentro, che le leggeva negli occhi. Lo stesso che gli ardeva dentro.
 
Oscar guardò fuori. Le torri della Bastiglia troneggiavano sulla città, sorvegliandola, proteggendola, minacciandola. Si girò a cercare l’altra stanza, dove riposava e guariva Andrè. “Non me ne vado.” Ripeté. 
 
Anche Alain guardò nell’altra stanza. Andrè ce l’avrebbe fatta, si trovò a pensare. Sorrise, osservò lei che ancora guardava là, che lo cercava, toccandosi il petto all’altezza del cuore. “Se dovesse domandartelo qualcuno, ho provato ad insistere.” 
Avrebbe voluto andarsene, fingere che fosse davvero solo quello il motivo della sua visita. Non mosse un passo però. Si sforzò di ignorare quel moto di terrore che gli prese la testa, la paura di vederla morire di lì a poco se fossero sopravvissuti tutti al domani. Si avviò, si fermò sulla porta. Guardò la pioggia e la gente nascosta dentro alle case, le candele spegnersi mano a mano alle finestre. Si rimise il cappello e si strinse nella giubba per temporeggiare. 
 
“Alain, mi dispiace di aver urlato.” Fece lei alla fine. Se ne stava chiusa nell’angolo che si era scelta, sola e spaventata. Si stava appena adattando. Era stato facile quando presi tutti dall’euforia avevano deciso di lasciare la caserma per combattere coi cittadini. Era diventato più difficile quando la paura della morte li aveva resi tutti isterici e mandati nel panico. Oscar credeva di riuscire a gestirlo. Credeva d’esser stata addestrata per farlo. Si rese conto che lo era solo quando non aveva niente a cui tenesse, niente da perdere. Perdi solo quando hai qualcosa. “So che ti stavi solo preoccupando per me.” 
 
Alain sospirò. Chiuse gli occhi, pensò a Diane che s’era tolta la vita per un uomo, a sua madre che s’era lasciata morire dopo sua figlia. Pensò ai loro cadaveri marcire. Gli avevano fatto rabbia i sentimenti, l’amore assassino che spingeva le persone a fare cose stupide. Pensò ad Andrè che avrebbe fatto la loro stessa fine se Oscar se ne fosse andata. A lei stessa che si stava lasciando morire pur di vegliare su Andrè, che stava bene, che stava guarendo, pur di starsene a giocare coi soldatini in caserma. Pensò che erano stupidi come tutti gli altri, che avevano l’opportunità di vivere la libertà che tutti anelavano e che la stavano sprecando. Gli facevano rabbia tutti e due, perché sarebbero morti se qualcuno non gliel’avesse fatto notare. 
“Non ci costringere a guardarti morire.” Si trovò a dire poi, dando voce ai suoi pensieri ed a quelli che potevano essere i pensieri di Andrè.
 
Oscar si strinse tra le braccia. Si toccò la gola dove bruciava, dentro ai polmoni dove sentiva la fame d’aria diventare prepotente. Incolpò la polvere ed il sudiciume di quel posto, il freddo e la pioggia della notte per la febbre e poi finalmente la malattia quando sentì le gambe trascinarla seduta sul pavimento lurido e gelido. “Ho la tisi.” Confessò per la prima volta ad alta voce ad anima viva. 
 
Alain, che in cuor suo l’aveva sempre saputo, dovette girarsi dall’altro lato. “Lo so.” Le rispose sincero “Ed avresti dovuto dirlo ad Andrè prima che a me.” Continuò con voce dura per nascondere tutto quello che provava. La evitò, cercò d’essere brutale e cattivo. Si pentì addirittura di non esser stato volgare. Strinse i pugni per evitare di prendere a cazzotti tutto quello che si trovava davanti. Provò il bisogno di uscire, per urlare, per menare qualcuno e dare la colpa di tutto al primo che passava. “Spera che muoia domani, perché se non succede glielo dico io.” Disse alla fine e poi se ne andò per davvero. 
 
Oscar rimase sola, con le parole di Alain che l’avevano colpita prima come un’accusa poi come una minaccia. Guardò fuori attraverso le vetrine rotte, fino a non udire più il rumore dei suoi passi che la lasciavano sola. Si fece cullare da quello della pioggia. Chiuse gli occhi ed attese che i suoi pensieri prendessero il ritmo dell’acqua che ticchettava sui sampietrini di Parigi. 
Si calmò.
Un passo per volta, pensò. 
Si alzò e tornò sul retro bottega, dove c’era Andrè e diversi altri feriti, aiutati da Rosalie e altri. Lì a l’odore acido di carne macerata misto ad alcol si fece pungente, cancellando del tutto quello di muffa e farina. Quello ferroso del sangue invece le fece salire un conato di vomito, che Oscar trattenne sul retro della lingua. Che fosse quello l’odore che anticipava le porte dell’inferno? Il buio e quell’odore ripugnante? Era lì che si trovavano? Si portò le mani alla bocca per sentirsi forte anche nell’ade. Chiuse gli occhi  per ricordare le lucciole, l’odore dell’erba e la luce della luna.
 
Quando Rosalie sentì il rumore dei suoi tacchi, s’alzò di scatto. La poverina s’era addormentata al capezzale di Andrè. Doveva ancora volergli molto bene. “Madamigella.” Bisbigliò con voce assonnata. 
 
“Solo Oscar.” Le rispose lei, che non aveva ancora avuto modo di spiegarle tutto quello che era successo. “Posso vegliare con te?” le domandò “Sono innocua, lo giuro.” Promise. Di nuovo con gli occhi cercò Andrè, il suo petto, che s’aspettava di veder gonfiarsi e sgonfiarsi come al solito. In due passi tagliò la distanza e rivendicò il suo posto vicino a lui. Gli prese ancora la mano, scese con il viso sul suo per sentirne l’alito caldo sulle guance. Respirò di sollievo, ricacciò indietro le lacrime. “Buona notte.” Gli bisbigliò e si sedette di nuovo a terra, chiudendo gli occhi. 
 
“Buona notte.” Sentì mormorare da Rosalie.
 
Oscar tornò preda di quel sonno scomodo, sudato ed agitato. Sognò qualcosa che non seppe neanche distinguere. Aveva paura ad occhi chiusi come aperti. Era come provare fastidio fisico e dolore stridente. Il freddo le era entrato fin dietro alle palpebre. La notte sembrò durare un’eternità, per poi finire all’improvviso non appena i sogni finirono. 
 
“Madamigella! Madamigella!” Rosalie la chiamò. Aveva allungato la mano ma senza toccarla, come se ci fosse ancora un timoroso rispetto da parte sua. Appena Oscar aprì gli occhi, Rosalie sovreccitata le indicò Andrè che appena apriva il suo. “Guardate!”
 
Oscar si rigirò di scatto mettendosi sulle ginocchia, come se stesse ringraziando per il miracolo di cui le era stato fatto dono. 
“Andrè?” Chiamò prima con dubbio e titubanza “Andrè!” Ripetè poi quasi con ansia d’aver mal interpretato quei segni e paura d’essersi sbagliata. Invece alla fine gli occhi li aprì davvero. Un lampo di verde luminoso gli illuminò il viso e gli donò colore. Ad Oscar si riempì il cuore di gioia e gli occhi di lacrime. “Ci hai fatto prendere un bello spavento.” Disse con voce dolce e serena, stringendogli la mano e portandosela alle labbra. 
 
“Non potevo continuare a dormire se mi chiami così.” Fu la prima cosa che disse Andrè, folgorato dalla visione della sua Oscar, dei capelli scompigliati dal sonno e degli occhi torturati dalla veglia. Le prese la guancia con una mano e la accarezzò, mentre sentì le sue palpebre sfiorargli le dita mentre si chiudeva al mondo attorno.
 
“Oh.” Sentirono Rosalie sospirare sorpresa ed imbarazzata. 
Per tutto il tempo che era vissuta con Oscar ed Andrè, Rosalie non li aveva mai visti abbandonarsi a tante effusioni. Eppure c’era un legame stretto e particolare che gli aveva sempre invidiato: sapevano tutto l’uno dell’altro; avevano ricevuto la stessa istruzione, lèggevano e parlavano entrambi il latino quasi fosse una loro lingua segreta; si tiravano colpi di spada inutili perché ormai era quasi come gareggiare conto sé stessi; si capivano al volo e del mondo avevano avuto le stesse esperienze. 
 
Andrè provò ad alzarsi, ma venne bloccato dalla fitta alla spalla. “Rosalie, ci sei pure tu.”
 
“Ben svegliato, Andrè.” Rispose lei, abbozzando anche quasi ad un inchino, come la convivenza a casa Jarjayes le aveva insegnato. 
 
“Oh, andiamo, Rosalie, non servono tutte queste..” cominciò a dire sorridendo, cercando di mettere lei a suo agio. Tentò di mettersi a sedere ma un bruciore lancinante alla spalla lo fece ricadere sul materasso scomodo. Si guardò dove era la fasciatura, provò a stringere le dita più giù. Con soddisfazione le vide muoversi e si tranquillizzò. Fischiò persino sollevato.
 
“Stai giù.” Gli raccomandò Oscar preoccupata, che intanto l’aveva osservato anche lei, aspettando di sapere se fosse ancora tutto intero. Andrè seguì il suo sguardo. Con la stessa mano le prese la sua, intrecciò le dita e le strinse. Quando Oscar sollevò lo sguardo lo vide sorriderle. Voleva farlo anche lei ma il viso le si increspò sotto il peso delle lacrime. 
 
“Sto bene.” La tranquillizzò lui. Sorrise, stava ancora per cercando di convincere sia Oscar che sé stesso, ma venne interrotto dal rombo improvviso di un cannone. Tremò tutto: le mura, il pavimento, una sottile cascata di polvere cadde dal soffitto lungo tutte le crepe. 
 
Oscar s’alzò di scatto e corse a guardare il cielo e la città dalla finestra più vicina che riuscì a trovare. Chiuse gli occhi per focalizzarsi bene sul fischio che accompagnava ogni cannonata. Cercò di distinguerne l’origine, la direzione, il luogo di impatto ed i danni causati. “La Bastiglia.” Bisbigliò.
 
***
 
A Versailles, Agathe aspettò i soldati davanti ai cancelli. Aveva le scarpe sporche di fango, l’orlo del vestito insudiciato, i capelli bagnati e la cuffia che le era scivolata ed appiccicata sulla spalla.
Molti erano feriti. Alcuni non erano tornati. Altri erano inermi, trascinati rigidi su barelle dai cavalli. I volti erano coperti. Agathe decise di ignorarli. Lo cercava tra i volti dei vivi. Cercava Cyril studiando non i volti tutti anonimi ed uguali, ma i polsi di tutti, alla ricerca del suo fazzoletto. L’ansia aumentava davanti a quella sfilata di corpi. Poi sotto la pioggia lo vide: il fazzoletto. Era ancora legato al suo polso, che sporgeva da sotto ad un lenzuolo. Inerme, macchiato di sangue. 
Cyril era tornato a casa senza vita. 
Agathe cadde a terra, seduta in una pozzanghera, gli occhi fissi nel vuoto e le lacrime che si confondevano nella pioggia.



 


Angolo dell'autrice 
E ci siamo! Stiamo entrando nella storia. E fuori uno, l'abbiamo salvato! Mi impegno con Oscar che dite? Lieto fine? Tragedia? Come per la one shot che avevo scritto quasi come esercizio per entrare nella mente di Oscar, i personaggi (lei) sono più vicini caratterialmente al manga. La trovo meno robotica, certe volte isterica: urla e chiede scusa di continuo. Però beh, umana. Trovo le loro reazioni anche più genuine. Vi avrò fatto le scatole quadre con Alain poi. Lo trovo un personaggio importante. Fu il primo a dire ad Andrè che stava esagerando, per esempio, è una sorta di voce della ragione. Ma comunque, vediamo come si va.
voi che mi dite? Continuo? 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
 
Agathe rimase a Versailles con i principini quella mattina e solo poi vide Cyril. Giocò nervosa col suo fazzoletto tutto il giorno in attesa, fino a sera, quando scoprì che Cyril a malapena camminava: era stato ferito. Rimase con lui tutta la notte a bagnargli la fronte, sofferente nella camerata della caserma. Dalla finestra si vedeva la reggia.
“E’ bellissima, non è vero?” le disse lui e furono le uniche parole che pronunciò dal suo rientro, mentre un boccolo di capelli neri cadde sulla fronte preoccupata di Agathe, che sorrideva facendo sì con la testa. Sorrise anche lui con tutte le forze che aveva. Si fece prendere la mano, strinse come se potesse essere un abbraccio. Si voltò per catturare con gli occhi le luci del primo sole che ribalzavano sui tetti dorati della reggia. Poi chiuse gli occhi.
 
Agathe urlò, chiamando a raccolta tutti i commilitoni del suo amato, che si strinsero attorno a lei, trattenendola, come se potessero chiudere e soffocare il suo dolore. Pianse tutte le lacrime che aveva, mentre li guardava portare via il suo corpo. Si aggrappò alla sua mano, la strinse, ancora calda.
Rimase là in caserma. Il comandante non aveva il coraggio di cacciarla fuori. I soldati andavano e venivano. Rimase sul suo letto, dove aveva sudato, dormito e dove era morto. Si strinse al cuscino, mentre guardava quei tetti, disprezzandoli, convinta che fossero stati quelli ad aver ucciso Cyril. Ad ora di pranzo apprese che alcune sentinelle, giù alla Bastiglia, avevano colpito a morte Oscar Françoise De Jarjayes, la donna vestita da uomo che aveva frequentato Versailles fino a pochi anni prima. Qualche anno più tardi scoprì che quel giorno di luglio fu proprio lei a sparare un colpo di pistola nel ventre del suo amato, dove colpì e perforò prima l’intestino, poi l’arteria iliaca.
Si prese solo poche ore per piangere. Decise che lo spirito combattivo e redentore di Cyril doveva esserle d’esempio. Uscì dalla caserma e cominciò a camminare, senza guardare indietro, senza tornare mai più.
 
Se le cose fossero andate diversamente invece, Agathe avrebbe pianto sull’erba e sul selciato alla vista del corpo coperto di Cyril, dopo aver scorto il suo fazzoletto. I soldati, che nei giorni precedenti avevano sbeffeggiato Cyril mimando scene di sesso dietro alle spalle di Agathe, la avrebbero aiutata a sollevarsi dal fango e portata in caserma. Là le avrebbero raccontato che il resto della storia. Avrebbe lasciato Versailles per non tornare mai più.
 
In entrambi i casi, vedova in bianco, affamata, triste e sola, sarebbe arrivata alla Bastiglia dopo la sua caduta. Avrebbe guardato gli altri francesi gioire, saltare ed abbracciarsi. Sarebbe rimasta ad osservare prima di scoppiare a piangere al centro della piazza in mezzo alla gente che festeggiava, circondata da vino e festoni.
 
***
 
Intanto, Oscar guardava il cielo mentre il suo cuore batteva al ritmo dei fucili. Nel petto sentiva vibrare l’eco dei cannoni. Il cielo s’era fatto pieno di polvere di pietra grigia, di marrone dei mattoni che cadevano, di giallo zolfo degli spari e di rosso sangue. Erano i colori della rivoluzione.
L’aria s’era fatta irrespirabile, diffondeva un senso di claustrofobia. Oscar s’era fatta inquieta. Il pensiero dei suoi soldati tra la mischia sotto la Bastiglia, la polvere ed il fumo che infestavano l’aria già marcia di Parigi, il tanfo del sangue e delle malattie, la paura che gli tutto sarebbe crollato addosso, e persino quel sentimento che le ribolliva dentro come un fuoco le facevano venire voglia di scappare, sia sul campo di battaglia che all’esatto opposto, molto lontano. Una sola cosa invece la tratteneva, Andrè. Lui la stava chiamando dall’altra stanza preoccupato. Se non avesse avuto il pensiero della sua sicurezza, così lontana da lui appoggiata alla porta di una vetrina mezza rotta in mezzo ad una coltre di polvere, avrebbe provato senso di colpa per la sua ferita, che stava tenendo entrambi lontani dalla fuga e dalla gloria. Il senso del dovere, verso i suoi principi, le faceva fremere le mani, la volontà e l’amore le inchiodavano i piedi a terra.
“Oscar.” Chiamava lui e lo ripeteva all’infinito come se fosse convinto che la sua voce potesse salvare entrambi.
 
Lei si sentì svegliarsi come da un incanto. Lo raggiunse a passi decisi, come se stesse continuando a perseverare lungo una strada. Tutti i sentimenti negativi, la paura, la stanchezza e persino la noia, s’erano mischiati in un’unica poltiglia di emozioni che pesava sulle spalle curvandole.
Raggiunse Andrè. Si sedette su quel lettino di fortuna di fronte a lui e cominciò a tremare. Pensò che se lui non ci fosse stato, se non avesse avuto niente da perdere, sarebbe stata là, respirando in attesa di gridare, incitando lo sparo dei cannoni. Pensò a cosa sarebbe successo se lui non ci fosse stato, o peggio se fosse morto la sera prima e tremò ancora. Provò il forte desiderio di abbracciarlo, sentire la sua pelle calda sotto le dita, come due sere prima, quando sbottonandogli la giubba aveva assaggiato con timore ed intraprendenza il contatto del suo corpo. Lo guardò, quasi studiandolo, ammirando ed apprezzando la naturalezza e a normalità della sua presenza. Notò che ancora non indossava null’altro se non la camicia macchiata e strappata. Aveva entrambe le maniche infilata, ma un enorme squarcio la faceva penzolare sulle spalle, lasciando il petto e la ferita scoperti. Si guardò attorno e ritrovò il mantello che aveva usato per coprirlo poche ore prima e glielo mise sulle spalle. Lo trattò con fare materno. Poi s’appoggiò alla sua spalla, quella sana, cercando rassicurazione, calore e conforto.
 
“Hai paura?” Bisbigliò Andrè, così piano che nessuno potesse sentire.
 
Il tonfo di un’altra raffica di cannoni echeggiò nell’aria. Oscar chiuse gli occhi, come se avesse potuto isolarsi in quel modo. Li riaprì quando sentì altra polvere solleticarle la testa. Guardò in alto solo allora, come per tornare alla realtà ed annuì.
 
Andrè si strinse in quell’abbraccio premuroso. Allungò la mano offesa, si forzò oltre il dolore per prendere quella di lei, intrecciare e stringere le dita. “Va tutto bene.” Le fece con voce rassicurante. “Siamo vivi, sani e salvi. Quasi.” Aggiunse alla fine sorridendo. Si voltò ed aspettò che anche lei sorridesse e le passasse dal volto quell’espressione di terrore, che presto mutò in un colpo di tosse soffocato, di cui Andrè non si preoccupò quanto avrebbe dovuto. Aspettò che finisse, presto. Le chiese come stesse e dopo essere stato rassicurato che non si trattava di altro che di polvere, tornò a stringersi in quell’abbraccio.
 
Attesero così tutta la mattina, occasionalmente interrotti da Rosalie e Bernard che facevano loro cronaca di quello che stava succedendo. Qualche cittadino che aveva saputo dell’esistenza di quella panetteria trasformata a luogo d’aiuto, era entrato invece alla ricerca di modi per tamponare una ferita, sciacquare una bruciatura o avere qualcosa da bere per pulirai la lingua. Osservavano l’andirivieni di gente, il retroscena della rivoluzione. In poche ore sentirono tante storie diverse: i soldati stavano combattendo a mani nude; hanno sparato al generale; smontano la Bastiglia pezzo per pezzo; combattono persino dopo la morte. In tutte le storie comunque i soldati della guardia cittadina si stavano rivelando degli eroi.
 
Poi arrivarono anche loro. Urlavano, chi di dolore, chi esultando “l’abbiamo presa”. Urlavano in un unico coro tre parole: libertà, uguaglianza, fraternità. Furono stappate bottiglie, le poche che si trovavano in giro. Il vino veniva versato da uno all’altro direttamente nelle bocche dei vincitori, sui vestiti e nei capelli. Avevano fatto la nuova Francia. Tutti tra di loro si chiamavano cittadino. Tutti i soldati entrarono per rendere omaggio al capitano, raccontare delle loro eroiche gesta, mimandole persino in un racconto concitato che sapeva di alcol ed adrenalina.
 
Subito dopo arrivarono i feriti, quelli più gravi, storditi o sanguinanti. Allora tutti gli altri uscirono, perché il dolore avesse il rispetto che meritava, prima ancora della vittoria. Tra i feriti c’era anche un omone grande, che a prima vista pareva imbattibile: Alain. Lo sollevavano a tre di loro vista la stazza, uno per braccio e l’altro per i piedi. Lo depositarono con fatica proprio sul letto accanto ad Andrè. Una donna con la cuffietta azzurra in testa accorse subito da lui. La fretta e l’impegno che stava dedicando in quei giorni le nascondevano le rughe del volto. Alain aveva una ferita tra i capelli, forse un urto, una caduta o un colpo intenzionale. Non c’era più sangue ormai, non fresco almeno. Quello che c’era prima s’era rappreso alla polvere nell’aria. Questo, spiegò la donna, faceva ben sperare. “Potrebbe svegliarsi a breve.” Disse poi.
 
Tutti, Oscar, Andrè, persino Rosalie e Bernard e qualche altro soldato che si era allontanato dai festeggiamenti per sapere del suo amico, attesero. Quando aprì gli occhi, si sentì accerchiato ed urlò per allontanarli tutti. “Mica sono morto, stronzi!” Fece a tutti quanti. Gli pareva d’essersi svegliato alla sua veglia funebre. “E che avete da guardare voi?” Sbraitò, si ribellò fino a che una non lo mise calmo a letto e lui si fece accudire. S’addormentò di nuovo, mancando i festeggiamenti per tutto il pomeriggio e pure la sera.
 
Nel frattempo i medici, gli infermieri più o meno esperti, quelli che erano stati in guerra e qualcosa sapevano fare, badarono a tutti gli altri, un cittadino per volta. Un cerusico si adoperò per meglio sistemare la ferita di Andrè. Mise nella mani di Oscar acqua calda ed un panno bianco, più o meno puliti e se ne andò, chiamato da un altro ferito nell’altra stanza che chiedeva pietà.
 
Oscar si sporse sulla spalla di Andrè, per curiosare sulla ferita. Un alone rossastro disegnava ancora dei margini circolari. C’era sangue rappreso che era colato dalla ferita ormai linearizzata dalle suture. Un liquido giallo citrino bagnava i fili di cotone scuro. “Hm” le venne fuori dalla bocca.
 
“Cosa?” chiese Andrè, mascherando un sibilo di dolore.
 
“C’è del sangue.” Rispose lei. Recuperò quello che l’uomo di pocanzi le aveva lasciato. Bagnò il panno con l’acqua e cominciò a pulire, facendo attenzione a non tirare nulla, e non scucire la ferita come se fosse lo strappo di un vestito. Tenne ferma la pelle in alto e cominciò a grattare e strofinare, rivelando il colore pulito della pelle di lui.
 
“Credevo che una donna non si impressionasse per un po’ di sangue.”
 
Oscar fece finta di ignorarlo all’inizio. L’avrebbe fatto ogni altro giorno, ma si era concessa di pensare d’esser felice da quando s’era svegliato, da quando stava con lui, da quando aveva visto il suo sorriso adornargli di nuovo il viso e da quando le grida di libertà le erano entrate in testa. Ci credeva. Gli schizzò acqua dietro la nuca, dove meno se l’aspettava. Andrè rabbrividì e si mise a ridere.
Gli guardò la pelle tendersi sotto il profilo dei muscoli, il disegno dell’abbronzatura tra il collo e la camicia, l’acqua scivolargli addosso come se fosse fatto di seta e fargli venire i brividi, che si vedevano alla vista e si sentivano al tatto. Oscar passò le dita nude lungo un’unica goccia di sangue che scappò dalla ferita, ultima memoria del proiettile, per sentirlo caldo sotto i polpastrelli. Emanava calore. La sua pelle odorava di cuoio caldo e di pino innevato, regalando insieme tepore e freddo in estate.
 
“Sei silenziosa” notò lui, rompendo l’incantesimo in cui s’era persa.
 
“Sono concentrata.” Rispose subito. “E turbata.” Si trovò ad ammettere. Era strano e così normale insieme. Con Andrè non aveva paura di dire cose che s’era sempre tenuta dentro, nascoste, timorosa persino con sé stessa.
 
“Non è nulla, non fa neanche male.” Finse Andrè, mentre cercava di trattenere una smorfia di bruciore ed agitava la mano, come ad essere sicuro di poterlo ancora fare.
 
Oscar si fermò, indispettita dal fatto che dopo aver trovato il coraggio di ammettere il suo turbamento, Andrè non ne aveva neanche colto il significato. Troppo presto? Non adeguato? “Non è quello.” Disse solo fingendosi seria e schiarendo la voce, come a recuperare compostezza per nascondere delusione ed imbarazzo.
 
Ebbe appena il tempo di finirsi di spiegare. Andrè le afferrò il braccio, sorprendendola con l’irruenza in quelle giornate che, nonostante fossero feroci ed instabili, sapevano della calma piatta dell’attesa. Nei suoi gesti c’era l’imbarazzo dell’amore fresco e la complicità dell’amicizia tenuta calda dalla quotidianità. I capelli di Oscar gli si appiccicarono addosso al sudore tanto era vicina. Ne sentiva il solletico accanto allo scorrere lenitivo dell’acqua. Fu immediatamente cosciente di tutti i suoi sensi, come se gli si fosse accesa una fiamma. “E cosa?” Le chiese solo, misurando ogni suono.
 
Il corpo di Oscar tremava. Respirava a fatica come se fosse la sua presenza a togliergli il fiato. Respirò più forte che poteva, ansimando quasi sotto lo sguardo caldo e smanioso di lui. Lo vedeva fissarle le labbra. Sentì la sua mano accarezzarle il viso, dietro l’orecchio, con il pollice che quasi toccava l’aria che lei cacciava. Chiuse gli occhi e lo lasciò fare. Si sentì bruciare addosso, sotto i vestiti, sotto la pelle e poi anche in gola. Si raccontò che era la polvere, che graffiava, fino a sentire il sapore ferroso di sangue in bocca. Allora la richiuse per paura che anche lui potesse sentire ed indietreggiò, quasi fosse spaventata. Aprì gli occhi e lo guardò in cerca dei suoi. Cercò in sé stessa il coraggio di allontanarsi con l’intento di proteggerlo dai segreti che forzavano una distanza. Studiò lui e poi si  guardò attorno anche, sperando che nessuno avesse capito, che quello che sapeva Alain, che ancora dormiva, fosse al sicuro con lui.
 
“Scusa.” Disse Andrè, che aveva seguito il suo sguardo ed aveva frainteso il divincolarsi di lei e la sua ricerca di occhi ed orecchie come vergogna. Bramava la sua presenza, vicina come lo era stata solo qualche notte fa, in cui poteva toccarla, accarezzarla, tenerla vicina e respirare la sua pelle che sapeva di resina calda e confortevole.
 
Oscar sorrise e per davvero provò vergogna, ma non per l’effusione. Era quello che gli stava facendo credere a crearle disagio. “Non è niente.” Mormorò, forzando un tono di voce dolce e mellifluo. Scosse la testa per essere convincente. Ebbe persino paura di avergli lasciato credere che non lo volesse.
 
“Davvero, scusa.” Ripeté lui, vergognandosi di sua volta dei suoi pensieri e dei suoi desideri.
 
Oscar deglutì. Si sentì sola, abbandonata, così in errore, così spaventata d’aver rovinato quei primi approcci. “Ho detto che non è niente.” Rispose insistendo, quasi acidamente, in maniera imperiosa, come era solita fare sempre, salvo poi rendersene conto. Si voltò verso di lui e lo chiamò per nome ed Andrè, come un marinaio, rispose al canto della sua sirena e si trovò ad un respiro dalle sue labbra.
 
Era sempre lei, era sempre la stessa: i suoi occhi azzurri, limpidi, gentili, determinati; le sue mani che possono uccidere, placare, guarire ed allietare insieme, come se fosse Marte e Venere insieme; le sue labbra sagaci che da sempre avevano pronunciato il suo nome con ogni sfumatura, quasi la presenza di lui fosse stata sempre un bisogno nella vita di lei; il suo corpo, atletico, letale e delicato che aveva potuto sfiorare con la punta delle dita e coi pugni; la sua testa, scaltra e libera, che aveva rotto le catene.
Le accarezzò il viso, allontanò i pochi capelli catturati dal sudore attorno agli occhi e glieli arrotolò dietro le orecchie. Andrè respirò la sua aria. Non l’avesse adorato tutta la vita, lo sguardo di Oscar l’avrebbe quasi messo a disagio, invece che provocargli un sorriso. La guardò chiudere gli occhi, aspettare un bacio, godersi l’istante prima del contatto. Chi credeva che fosse una donna fredda, non l’aveva mai davvero conosciuta. Era fatta per amare ed essere amata, per essere libera, per insorgere e sollevarsi. Sfiorò appena le labbra di lei con le sue. Respirò il suo sorriso che stava nascendo e rise sulla sua bocca.
Erano ancora così nuovi all’amore che non ne conoscevano a pieno i gesti e le parole.
 
“Patetico.” Bisbigliò lei, ancora ad occhi chiusi, mentre riguadagnava spazio e l’aria si faceva di nuovo cupa e sporca lontano dal respiro di Andrè.
 
“Io o tu?” Chiese lui sorridendo, mente non smetteva di accarezzarle ancora il volto. Sentiva i calli delle sue dita sfregarle contro il collo
 
“Tu.” Fece lei d’impeto ed in tutta risposta si sentì pizzicare una guancia, mentre la confidenza dell’amicizia tornava, facendoli di nuovo camminare su terreni più sicuri.
 
“Patetico davvero.” Fece la voce boriosa di Alain, che nel frattempo s’era svegliato e li stava guardando, geloso, invidioso, contento ed arrabbiato. Li derise, ridendo egli stesso di quelle poche parole, come se metterli in imbarazzo fosse stata una vittoria. Quando si girarono entrambi a salutarlo, Andrè gli allungò una mano, aspettò che gliela prendesse e che se la stringessero con fare amichevole, per sporsi poi in una pacca ovunque l’amico lo riuscisse a toccare. Dopo quel saluto Alain guardò Oscar, che a sua volta sembrava come indagare ed implorare insieme. Lo fissava ad occhi spalancati, mentre rigida agitava appena la testa per chiedergli di non farlo, di non parlare. “Andrè,” chiamò Alain, quasi sfidando Oscar. Ammirò il suo respiro farsi pesante, le labbra chiudersi per non parlare, gli occhi quasi riempirsi di lacrime. Era fortunata che il fidanzatino fosse orbo! “che ne dici di festeggiare un po’? Del vino?” propose.
 
Ed allora guardò Oscar, ma non era più da solo. Anche Andrè guardava verso di lei, come se la richiesta fosse congiunta. Oscar ebbe paura che entrambi volessero allontanarla, parlare da soli, senza di lei, che Alain rivelasse tutto ad Andrè prima che lo facesse lei, che gli raccontasse del suo amaro fato e che lui perdesse ogni tipo di fiducia che aveva costruito negli anni. Ebbe paura che lui si credesse non degno di custodire i suoi segreti. Assurdo come nonostante la morte imminente, Oscar si preoccupasse di non ferire i sentimenti di Andrè più che della sua stessa vita.
 
Andrè sbuffò. “Siamo a malapena sopravvissuti.” Disse voltando il capo e lasciandosi cadere sui cuscini.
 
Alain invece mantenne ancora lo sguardo con Oscar. La lasciò cuocere, la torturò come non aveva potuto fare in passato, come non aveva più voluto fare dopo. Si sentiva come se fosse l’unico a vederla per quella che era davvero: una donna debole, bugiarda, come le altre; troppo magra, senza forme; scialba. Eppure nutriva quel malsano sentimento di farle male, quella passione sfrenata che sfociava nella violenza. Sapeva che le sarebbe piaciuto. Sapeva che avrebbe goduto e che l’avrebbe supplicato e detto basta, ma lui non si sarebbe fermato. Con quell’immagine di fantasia in testa, continuava a guardarla con un sorriso svergognato ed osceno.
“Sono muto come un pesce.” Disse alla fine mollando la presa.
 
Oscar s’agitò, ancora seduta su quel lettino. Strinse il lenzuolo. Guardò verso Andrè. Sapeva che aveva capito qualcosa. Era intelligente, attento. Coglieva ogni parola o sottointeso. Provò il bisogno di allontanarsi, di respirare aria pulita prima di tornare indietro e scoprire che niente era cambiato.
“Vado a cercare qualcosa da mangiare piuttosto.” Inventò, tirandosi in piedi e se ne andò. Neanche si ricordò di lasciargli un bacio. Andrè allungò la mano e sfiorò le sue dita: aveva capito. Aveva capito e cercava un contatto. Si coprì la bocca con una mano per soffocare i singhiozzi. Ignorò la gente, uscì in strada e si lanciò nella festa e nella polvere. Camminò ed urlò sopra i giubili e la baldoria, fino a che non ebbe più fiato, fino a che l’aria le bruciò gli occhi e sporcò i capelli.
 
***
 
Nel frattempo Alain ed Andrè erano rimasti soli. Non glielo avrebbe detto, no. Non gliel’avrebbe fatto sentire dalla sua bocca. Piuttosto avrebbe costretto lei, in un modo o nell’altro. Più guardava il suo amico, più Alain si convinceva che meritasse di più, di meglio: una donna premurosa, che si sarebbe fatta ingravidare ed avrebbe cresciuto i suoi figli, che avrebbe vissuto per lui, aspettandolo la sera a casa. “Non è tutto questo granché.” Gli uscì ad alta voce, aspramente, quasi stesse cercando di convincersi da solo.
 
Andrè sorrise. Avevano fatto quella discussione mille e mille volte. “Invidioso.” Gli disse solo, colpendo dritto. Si risistemò meglio disteso e chiuse gli occhi. Cosa ne poteva sapere Alain di Oscar. Ripensò a lei, all’intelligenza, al coraggio, alla bellezza. Sembrava di stare ancora in caserma, entrambi sulle lettighe a parlare di donne, anzi sempre di una sola. C’era qualcosa di diverso però che lo turbava: quell’esitazione e quella lontananza che in poche mosse aveva messo Oscar tra loro. Ripensò a quella prima notte, allo sguardo adorante e curioso con cui lo guardava, a come lui s’era sentito più forte allora, a come lei s’era abbandonata e l’aspettava, come se lo stesse facendo da tempo. Chissà quanto. Ripensò alla sorpresa inaspettata che gli aveva fatto in caserma, regalandogli tutto ciò che era, rinunciando a tutto, persino al suo posto nella storia. Poi a come s’era allontanata, alla paura che la faceva tremare, all’odore marcio che le veniva su dalla bocca che si mischiava a quel posto fetido impedendole di brillare. Si girò verso Alain, che tirò su col naso, si pizzicò tra gli occhi e si risistemò meglio steso anche lui. Riempiva il silenzio con gesti d’imbarazzo.
“Non vuoi dirmi nulla?” Chiese, inquisitore ed ansioso.
 
“No.”
 
Strinse i pugni. Gli salì rabbia addosso, insieme alla paura di qualunque cosa gli stessero nascondendo. Strinse ancora la mano, quella sotto alla spalla offesa, fino a sentire il dolore della pelle tirata sulle nocche, scacciando quello della ferita. “Ti ha parlato?” chiese misurando le parole.
 
Alain poteva dirgli tutto ed evitarsi i silenzi e la rabbia passiva, che Andrè preferiva. Sfidò invece il suo amico, decise per il silenzio di nuovo e sperò che lui lo picchiasse, che lo colpisse dritto in faccia, per lenire il dolore del suo segreto e la vergogna dei sentimenti che provava per la donna del suo amico. “Di qualcosa in particolare?” chiese, fingendo disinteresse, sfida, voltandogli addirittura la faccia perché non ce la faceva proprio a guardarlo. Qualunque cosa gli sarebbe arrivata, se la sarebbe meritata.
 
Andrè mollò la presa. Tirò un calcio nel letto, dove colpì solo paglia che attutì il colpo senza neanche fare rumore. “Cristo.” Bestemmiò per non reprimere rabbia e paura, lasciandola uscire in gesti o parole violente.  
 
***
 
Quando Oscar tornò, all’ingresso dello stabile trovò corpi fermi e persone agitate che smaniavano per entrare e per ricevere aiuto. Ancora altri avevano scoperto di quel posto col passaparola ed erano giunti da ogni angolo di Parigi per poterlo raggiungere. Quelli che erano già in piedi stavano aiutando i pochi medici rimasti: tenevano fermi i loro compagni, premevano sulle ferite o rimettevano a posto le ossa con uno strattone.
L’aria era diventata ancora più viziosa e calda, tanto che ne provò nausea. Sembrava aver già dimenticato la muffa che scendeva ed il sangue che macchiava le pareti. Nascose il naso e la bocca nella piega del gomito e raggiunse Andrè. Lo trovò in piedi che metteva via la sua giubba, il fucile, la spada e tutte le sue cose in un sacco bianco creato di fortuna con delle lenzuola rotte. Nel frattempo s’era anche rivestito, con la giubba infilata in un solo braccio ed appoggiata solo all’altra spalla. Aveva fasciato la ferita, arrotolando quel che rimaneva della camicia attorno al petto e sulla spalla, isolandola. Avrebbe preso freddo, pensò Oscar, era completamente scoperto sull’addome ed un braccio.
“Che fai?” gli chiese stranita e preoccupata, mentre deglutiva per mascherare il senso di vomito.
 
Andrè teneva ancora il braccio destro appeso alla spalla, inutilizzato. Usò la mano per stendere le lenzuola e preparare il giaciglio al prossimo che sarebbe venuto. “Lascio il posto a qualcuno che ne ha più bisogno.” Rispose monotono, cercando di stringere il nodo tra le dita di una mano ed i denti dall’altro lato. L’amarezza gli era entrata nella voce, facendola quasi sembrare delusione.
 
Oscar gli si avvicinò e gli sfilò via il fagotto. Lo chiuse con due nodi stretti. Glielo porse mettendolo davanti all’evidenza, come per dirgli che non era neanche capace di fare un nodo. “Tu ne hai bisogno.”
 
Andrè guardò il sacco bianco ed il nodo. Si concentrò su quello, provò a stringere la mano destra. Non sentì le dita chiudersi, ma se le guardò ugualmente, provando una lieve soddisfazione nel vedere il polpastrelli toccare il palmo della mano. “Troveremo un altro posto.” Aggiunse. Evitò di guardarla dritta negli occhi, perché sapeva che avrebbe ceduto. Le passò davanti, si allontanò. Camminò fino all’uscita e raggiunse la strada.
 
Era scesa la sera, non si sentivano più né urla né le feste. La attese sull’uscio della porta. Guardò lo stesso spicchio di cielo sporco che aveva guardato lei quella mattina. Dietro di lui qualcuno tossì. Respirò a pieni polmoni l’aria della rivoluzione, sentendosi fortunato di essere in piedi. In quel momento realizzò che qualunque cosa fosse successa l’avrebbero superata. L’aveva aspettata ed amata tutta la vita. Qualunque cosa fosse l’avrebbero combattuta e superata, non con le unghie e con i denti, ma coi baci e le carezze. Si girò, sperando di vederla dietro di lui, eterea in mezzo alla sofferenza.
 
Si girò e si spezzò.
 
Oscar era sì al centro della stanza, ma piegata su sé stessa. Aveva le mani sulla bocca ed i capelli che le nascondevano la faccia. Le sue ginocchia si sporcavano sul pavimento lurido, sul fango, sul vetro e sul sangue. Dalla sua bocca uscivano suoni che Andrè non aveva mai sentito, che spezzavano l’aria. Sembrò che i polmoni le si rivoltassero fuori in un vomito straziante. Andrè rimase a guardare, impotente. La soccorsero, arrivarono i soldati della guardia, Alain e persino cittadini comuni.
 
La tosse raschiò la gola con violenza, graffiandola a sangue, che venne fuori durante l’accesso. Venne prima la difficoltà a trattenere tutto in bocca, poi l’urgenza, la ferocia e la crudeltà che aveva il sapore di muco purulento e sangue ferroso, che si rovesciò dalla bocca a terra e colò sul mento. Fu come mordere una lama e sputarne gli effetti. Mentre tossiva, Oscar prese coscienza del terrore che bloccava il viso di Andrè, che probabilmente aveva combaciato con il suo di appena due giorni prima.
 
Quegli attimi durarono infinitamente tanto, il tempo della consapevolezza, che lasciava il posto all’angoscia che la morte non solo si stesse avvicinando, ma che fosse addirittura alla porta.
Andrè le fu accanto un attimo dopo aver realizzato il peso di quello che stava succedendo. L’incredulità poi lasciò il posto ad un pensiero egoistico, che era “tutti, ma non lei”. La guardò negli occhi e cercò in lei la paura, perché se lei non ne avesse avuta, Andrè avrebbe capito che episodi del genere s’erano già verificati e non avrebbe dovuto temere dell’immediato. Al contrario invece se fosse stato per entrambi una novità, non gli sarebbe rimasto che affidarsi alla sorte. Ignorò tutto: l’umiliazione e la rabbia, la paura del domani. Le chiese se avesse dovuto spaventarsi in un dialogo muto e sordo, ma non ricevette risposta. Le rimase accanto fino alla fine allora, tenendole le spalle e spostandole i capelli che le si infilavano in bocca, allontanando tutti perché era a lui che spettava il dovere ed il piacere di accudirla, lottando contro il dolore che sentiva alla sua spalla, fino a che non la udì pronunciare il suo nome.
 
“Andrè.” Lo chiamò piangendo. Si afferrò alla manica della sua giubba. Strinse il tessuto fra le dita e nascose gli occhi e la bocca che l’avevano tradita. Continuò a piangere mentre si sentì abbracciare, mentre dimenticava la puzza e l’aria stantia, mentre sulla sua pelle riusciva a respirare, mentre il suo odore gli leniva il dolore come un balsamo. Singhiozzò quasi fosse una bambina che s’era sbucciata il ginocchio e più piangeva, più s’aggrappava a lui che la stringeva sempre più forte, in una morsa invincibile che tagliò gli altri fuori dal mondo.  Oscar urlò fino a che ebbe fiato sotto gli occhi di tutti, di Rosalie, Alain, persino Bernard.
 
Rimasero là aspettando che lei si calmasse, che smettesse di piangere. Stava distesa quasi completamente a terra, con l’uniforme macchiata di liquami. Andrè la tratteneva per la vita con una mano e con l’altra le stringeva le spalle. Oscar era aggrappata ai suoi vestiti, nascosta nel suo petto dalla giubba lasciata aperta e dai capelli sporchi. I singhiozzi ed il pianto si erano esauriti lentamente. Una strana calma, ancor più libera di prima s’era impadronita di lei. Stava addirittura per addormentarsi. Dall’altro lato invece, la veglia di Andrè era appena iniziata. Si stava arrovellando per pensare a quand’era stata la prima volta che l’aveva sentita tossire, che l’aveva vista pallida e debole. Se solo la sua vista l’avesse aiutato prima. Nascose la rabbia per non averlo capito subito, per essersi cullato nella sua cecità, per non aver voluto vedere.
Tisi.
Chi conosceva che l’aveva avuta? Chi conosceva che era guarito e chi conosceva che era morto? Oscar era giovane, forte, non avrebbe mollato, sarebbe guarita, l’avrebbe aiutata. L’avrebbe portata via da quel posto malsano e l’avrebbe curata. Pensò ad Arrais. Se la immaginò là a giocare con l’acqua, a guarire. Sì, l’avrebbe aiutata, le avrebbe procurato tutto quello di cui aveva bisogno, doveva solo pensare a dove andare a stare e come arrivarci.
 
“Scusate.” Una donna coi capelli castani striati di grigio, che fu tutto quello che Andrè riuscì a distinguere, lo chiamò mettendogli una mano sulla spalla. Non l’aveva sentita arrivare. Provò a mettere a fuoco e la riconobbe: era la stessa che s’era presa un minuto per fargli sapere che Alain stava bene. “Esistono dei posti,” iniziò con un velo di mistero come a voler catturare la sua attenzione “per guarire.” Concluse indicando Oscar “Mia figlia ci ha portato suo marito ed i figli.” Si finse indaffarata col grembiule mentre raccontava quest’ultima parte, nascondendo emozioni di pena e preoccupazione. “Si chiamano sanatori.”
 
Andrè si voltò. Tenne stretta Oscar, che sapeva essere in ascolto. Il suo respiro prima regolare s’era fermato e con le mani gli premeva i polpastrelli sulla pelle. Andrè guardò prima lei, s’assicurò che stesse bene, di non toglierle il riparo che si era creata col suo corpo e poi si sporse appena per poter parlare meglio con quella donna. Le avrebbe preso una mano se avesse potuto, se non avesse significato lasciare l’abbraccio. “Dove si trovano?” Chiese.
 
La donna guardò Andrè e sorrise. Pensò a sua figlia, alla su famiglia, al marito ed ai figli che s’era portata via. Era solo una ragazza quando aveva attraversato quel viaggio di speranza, da cui ancora non era tornata. Sapeva come ci sentiva a stare accanto ad una persona in fin di vita, vedeva il dolore che avrebbe provato presto Andrè e ne provò pena al ricordo. “In Slesia. Sulle montagne.”
 
“Fa freddo lassù?” Chiese Andrè, sorridendo grato che già qualcuno gli avesse acceso così presto una speranza. Fu preso dagli eventi immediatamente, non ci fu un momento per pensare. Un attimo prima Oscar era sana e gli stava accanto mentre le sue ferite guarivano, quello dopo Oscar aveva le ore contate e l’orologio ticchettava i secondi dalle montagne della Slesia. La ringraziò, sinceramente con gli occhi umidi e una irrefrenabile contentezza. Si fece dire il nome di quella donna, se lo ripeté mille volte con l’idea che mentre Oscar guariva, lui avrebbe cercato la figlia di quella donna ed avrebbe scritto a Bernard per farle avere notizie.
 
Avrebbero viaggiato coi cavalli. Non ci avrebbero messo più di due settimane. Avrebbero corso e si sarebbero riposati ad intervalli regolari. Oscar sarebbe guarita, sarebbe tornata la Oscar che aveva amato tra le lucciole. Avrebbero avuto una lunga vita felice insieme. Si sarebbe preso cura di lei. Avrebbero costruito una casa, forse una famiglia. Non l’avrebbe mai lasciata. Dio, quanto l’amava.
“Sentito?” le chiese cullandola “Ce ne andiamo via, a respirare aria fresca.” Disse in tono di incredulità, come si parla coi bambini perché il fascino del mondo li incuriosisca.
 
Oscar si strinse ancora di più, chiuse gli occhi timorosa di sperare. Ripensò alle parole del dottor Lasson. Se voleva guarire doveva abbandonare la divisa, andare in un altro posto e respirare aria fresca. Chiuse gli occhi e rimase lì ancora un altro po’ a lasciarsi cullare.
Era così stanca di combattere. 



 


Angolo dell'autrice
Oh, che faticaccia! 
La trama di questa storia è decisamente più lenta. Volevo soffermarmi sulle descrizioni e sui sentimenti dei personaggi, in un racconto corale finché potevo, senza esagerare. E' il caso di Alain per esempio, molto vicino al manga. E' il caso della donna che ha perso la figlia, di Agathe, Cyril... Spero di avercela fatta.
Dunque qualche giorno fa ho contato circa 7 capitoli, nel senso di altri 5, ma mi capita spesso di allungare da qualche parte, quindi non mi fiderei di me stessa. Mi dispiace per il ritardo, ma ho avuto turni molto lunghi a lavoro e di solito nel mezzo tutto quello che si vuole fare è dormire. Prometto però di finire la storia :)
Dunque, fatemi sapere che ne pensate! Un bacio a tutti!

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
 
Nel settembre 1787, il re aveva deciso di fare visita ai suoi figli, mentre riceveva aggiornamenti da parte di un chissacché. Almeno una volta al giorno il re, infatti, passava a dar loro un saluto. Nei suoi anni a Versailles, Agathe aveva imparato a distinguere il suono delle scarpe del re, il suono del suo mantello da cerimonia strusciato sul terreno, dei lucchetti e delle chiavi che si portava dietro e persino quello dei suoi gargarismi. Non era una cosa da tutti. Luigi XVI camminava con passi goffi, instabili, incespicando sulle scarpe. Si sbilanciava a destra e sinistra, ma a corte ci erano ormai tutti abituati. Quando sentivano un rumore di scarpe scricchiolare sul marmo, Agathe si metteva in piedi, dritta, a capo chino, fingendo di non ascoltare.
 
“Ci sarebbe questo nuovo posto in Slesia, un sanatorio. Erano terre schierate contro l’Austria, vostra moglie…” spiegava la voce di un uomo, che la serva non era sicura di conoscere. Da quella posizione riusciva a vedergli solo i piedi, a malapena i vestiti.
 
“Lo so da dove viene mia moglie.” Rispose ingenuamente il re, come a reagire davanti ad una ovvietà. Luigi non parlava mai di sua moglie. Attirò così l’attenzione di Agathe, che sicura di non essere vista alzò la testa. Il re era paonazzo quando si parlava della regina e delle sue origini: la cagna austriaca. Discuteva col ministro degli esteri, si gonfiava, agitava le mani. Il popolo era troppo suscettibile per l’argomento.
 
“Maestà, la tisi sta dilagando. Dalla Slesia chiedono aiuto, pochi fondi..” continuò a supplicare quello, mentre rincorreva il sovrano in chissà quale altra stanza, lasciando Agathe con tante domande e poche informazioni, ancora a testa bassa, ferma, a non far rumore, aspettando di non sentire più voci nei paraggi, prima di tornare dai bambini che chiedevano attenzione.
 
Mesi più avanti aveva sentito la cuoca della colazione, una donna grassa, grande e sempre rossa sul viso e sul petto, parlare della tisi. La malattia gentile, la definiva lei. Se l’era presa sua madre, che Dio l’abbia in gloria. Agathe s’era allora tenuta l’informazione che aveva udito per sé: un sanatorio per la tubercolosi. Era vietato parlare di quello che sentiva nelle stanze reali, qualcuno prima o poi l’avrebbe scoperto. Poi c’era stato uno stalliere delle guardie, che aveva una sorella, il quale marito aveva ricevuto l’inevitabile condanna. Poco più tardi nei giorni, Janette, amica di vita di Agathe, la stessa che le avrebbe raccomandato pazienza con Cyril, le raccontò che suo fratello era stato da un dottore, che gli aveva parlato di tisi. Aveva dovuto lasciare il lavoro a Parigi. Sua moglie lo stava aiutando, ma non reggeva. La donna aveva infatti appena partorito il terzo figlio. Agathe allora, prendendole le mani e facendole giurare di parlarne solo con suo fratello, raccontò a Janette della Slesia. Janette riferì tutto a suo fratello e sua cognata, la quale fu convinta dalla madre, che aveva già curato i feriti in guerra sotto Luigi XV. Per i mali del corpo, quest’ultima aveva una sensibilità particolare. Quella donna avrebbe solo due anni dopo perso la figlia, il cognato ed i nipoti, ma mai perso la sua vocazione. Avrebbe aiutato i moribondi di Parigi, sperando di far del bene durante il buio pesto della rivolta, che viveva fuori e dentro. Quella donna incontrò Andrè la sera del 14 luglio 1789. Fu così che, per vie traverse, Agathe salvò la vita dell’assassino del suo amato, Oscar.
 
***
 
Avevano deciso di partire di giorno. Andrè l’aveva fatto. Aveva messo su un gruppetto che lo potesse aiutare a trovare una strada. Erano ancora a Parigi, ma a casa di Bernard e Rosalie. Quando entrò Andrè notò immediatamente una piantina della città ben elaborata, stesa e tenuta ferma da una brocca d’acqua su un angolo, due pietre da un altro ed un calamaio sul terzo. Vi si erano subito disposti tutti attorno a guardare. C’era Bernard, che col pollice e l’indice sotto al mento studiava i percorsi ed ogni tanto si sporgeva a depositare un seme su certe strade che erano ormai sbarrate. C’era Rosalie, che seguiva lo sguardo attento di suo marito, preoccupata a tratti, ed a volte guardava Oscar di nascosto. C’era Alain, che s’era spaparanzato su una sedia a cosce aperte, che aveva buttato all’indietro la testa ed aspettava il responso. C’era Andrè, che teneva l’occhio stretto e la fronte aggrottata per riuscire a scorgere ogni minimo dettaglio ed imparare a memoria quella mappa. C’era anche Oscar, che sembrava essere l’unica estranea al gruppo, che in maniera sorprendentemente silenziosa fissava una crepa nel muro davanti a lei e stupidamente pensava a quanto era stata brava la sua Rosalie ad adattarsi di nuovo alla miseria.
 
“Dovreste prendere questa strada.” Fece Bernard di punto in bianco, puntando il dito sulla mappa e tracciando una linea. Gli occhi di tutti si alzarono ad osservarlo attenti. Gli occhi di tutti tranne che di Oscar, che appena guardò, senza davvero vedere. “Ci saranno controlli qui,” fece indicando “qui,” continuò “ma non qui.”
 
Andrè annuì. Alain gli leggeva i nomi delle strade seguendo il suo sguardo e lui annuiva di nuovo. Era una complicità raggiunta col tempo, in caserma, quando la vista aveva cominciato a mancargli. Oscar non mancò di notare quel particolare. Avrebbe voluto  essere d’aiuto, avrebbe voluto partecipare, suggerire, farsi notare ancora per la sua capacità strategica, ma aveva così tanto sonno. Gli occhi bruciavano ed il tepore di quella casa sembravano condurla in un’altra stanza, quella dove aveva dormito mesi prima, dopo aver ritrovato Rosalie. Si alzò e si lasciò condurre dal ricordo.
 
Andrè perse la concentrazione quando la sedia, su cui lei era seduta, raschiò il pavimento. Aveva sperato nei suoi occhi, nella sua buona memoria, in tutto quello che gli mancava. Doveva imparare, ricordare. Si muoveva piano,  però, era educata come al solito. Si era allontanata “con permesso” ed era andata a dormire, probabilmente. C’era qualcosa che ancora gli sfuggiva. I suoi occhi erano rossi e gonfi delle lacrime che aveva pianto poco prima, l’andamento lento come se avesse le gambe pesanti. Portava ancora i vestiti sporchi, non s’era presa neanche la briga di lavarsi, come se si stesse lasciando andare alla tristezza.
 
“Vado io.” Fece Alain, alzandosi di sua volta, sicuro d’esser capace di farla ragionare. Avrebbe parlato d’impeto. Le avrebbe detto di vergognarsi, che Andrè dall’altro lato stava facendo tutto quello che stava facendo per salvarla, che stavano tutti pensando a lei, mentre lei non poteva neanche sforzarsi un pochettino di rimanere almeno presente. Fu proprio Andrè invece ad impedirglielo. Lo prese per la manica della giubba, lo guardò dritto come se ci vedesse, come se avesse capito che non si trattava altri che di una scusa pur di poter stare con lei. Lo guardò come se stesse marcando il territorio. Se lo immaginò come un cane che le pisciava addosso e la puzza della sua orina lo allontanò. Gli fece segno di non fare niente e di rimettersi a sedere. Suo malgrado, Alain obbedì, quasi gli avesse fatto paura. Non era gelosia quella di Andrè. Stava proteggendo Oscar ancora ed ancora. La proteggeva perché Andrè la conosceva. Sapeva che voleva e doveva stare da sola, come quella volta che suo padre si presentò per la prima volta con in mano un’uniforme.  
 
“Dovreste togliervi le uniformi.” Rosalie propose, quasi avesse ascoltato i pensieri di Andrè. Bernard le sorrise. Le avrebbe detto che era stata brava, che era intelligente, che gli piaceva quando partecipava alle sue cose e si dimostrava furba. Rosalie lo notò, gli sorrise complice di rimando e poi abbassò gli occhi per non farsi distrarre.
 
“Allora è deciso!” concluse Bernard in tono di festa. Liberato dall’incombenza, poteva tornare a pensare a Parigi ed alle sue vittorie, che stavano segnando il passo nella storia.
 
A mano a mano si congedarono tutti.
Andrè salutò Alain, che gli agitò solo la mano mentre se ne usciva con passo malfermo. Gli raccomandò di non bere e di passare a salutarlo l’indomani. Alain si girò: doveva presentarsi ad un addio, ma era pazzo? Lo lasciò dicendo “sì, come no” e se ne andò.
Poi fu il turno di Bernard e Rosalie. S’avviò lui verso la sua camera da letto, dando la buona notte al suo amico. Si trascinava dietro sua moglie, portandosela per la mano. Lei sorrise imbarazzata mentre si lasciava trascinare. Mormorò “buona notte” e sparì da qualche parte.
Rimase solo. Studiò ancora la cartina ingiallita. Con le dita portò il segno delle strade, si ripeté ad alta voce i nomi che leggeva abbreviati e punteggiati, in caratteri che quasi parevano cirillici. Poi, eventualmente, fu preso dal sonno e dalla stanchezza per tutte quelle emozioni nuove. S’avviò, cercando Oscar, sperando solo di bussare alla porta giusta.
 
Si sentiva fiero di come aveva reagito, delle molteplici soluzioni che aveva già trovato. Soluzioni le chiamava, già, come se avessero potuto sicuramente sistemare le cose. Alla fine la trovò. La stanza era buia, entrava solo la luce della luna dalla finestra. Le strade erano calme finalmente. Non si sentivano più urla né schiamazzi. La trovò distesa a letto su un fianco. La raggiunse e si mise sotto le lenzuola sottili per abbracciarla. Voleva solo stringerla ancora, sentire di nuovo che era sua, vivere quel breve momento di pace prima di dover partire. Se poi lei non l’avesse voluto, le avrebbe lasciato tutto lo spazio che voleva, avrebbe dormito a terra, guardandola più a lungo che poteva. Doveva però rimanere almeno un altro momento con lei a tenerla stretta. “Domani ce ne andiamo.”
 
“H-hm” mugugnò lei nel sonno.
Andrè s’aspettò di essere cacciato, allontanato con uno spintone. Invece lei si risistemò meglio per fargli spazio. Afferrò il suo braccio che timidamente le aveva posato sul fianco e se portò più vicino per stringerlo. Oscar sentì il petto caldo di lui contro la sua schiena. Era confortevole. Sembrava qualcosa che aveva già fatto prima. Si sentiva al sicuro in un letto che non era a casa sua, in una città che puzzava di morte, in un corpo che la tradiva.  
 
***
 
Al mattino successivo, Andrè si svegliò ancor prima dell’alba. Aveva dormito poche ore, forse tre o quattro. Si sfregò gli occhi, si girò e la vide. Era stesa su un fianco, abbracciava un lembo del lenzuolo, stringendolo in un pugno che si era portata vicino al viso. I capelli se ne stavano disordinati sul cuscino. Aveva gli occhi chiusi, il volto tranquillo. Respirava in maniera pesante e ritmica. Occupava così poco spazio che quasi sembrava indifesa. L’avrebbe protetta. L’avrebbe protetta da tutto e tutti. Sarebbe diventato bravo con le armi, avrebbe cullato i suoi sogni, l’avrebbe curata, nutrita ed accarezzata tutti i giorni. Si avvicinò e le lasciò un bacio quasi come un soffio.
 
Tornò al piano di sotto e ricominciò a guardare la cartina. Provò a ripetere ad alta voce quello che gli sembrava di aver imparato il giorno prima fino alla nausea. Lo ripeté ancora ed ancora come una poesia. S’immaginò di esser fermato dalle guardie reali, di dover far finta di non conoscerne nessuno, di abbassare gli occhi e di nascondersi nel buio. S’immaginò di doversi identificare, di dover pronunciare un nome falso. Provò la convinzione che avrebbe dovuto recitare.
 
Lo raggiunse Alain poco dopo. Non aveva dormito per niente. Non disse nulla, fu la prima conversazione silenziosa che fece in tutta la sua vita. Lo guardò solo in faccia e sembrarono capirsi senza dire una parola: Oscar ed Andrè erano diventati tutta la sua famiglia. Aveva accettato che lasciassero Parigi e la guerra solo per salvare la vita di lei. Non si sarebbe presentato per gli ultimi saluti, però gli era sembrato il caso di passare un’ultima volta, l’ultima raccomandazione. “Sopravvivete.” Disse solo, poi gli lasciò un sorriso triste, cominciò a piangere e se ne lamentò. Alla fine sbuffò rassegnato all’ondata di emozioni che gli stavano travolgendo il viso e si allungò per tendere la mano al suo amico e finire in un abbraccio. Abbracciò Andrè come fosse stato davvero suo fratello. Non se la sentiva di salutare anche lei. Sapeva che sarebbe stata davvero l’ultima volta. Gli bastava Andrè. E poi non voleva provocargli altro dolore, non voleva che lui lo capisse ancora una volta, che riuscisse a guardarlo negli occhi e vi leggesse quella pena profonda che stava provando per lei davanti alla morte, quell’amore profondo che mai gli aveva sfiorato l’anima. No, non poteva farlo ad Andrè.
“Stammi bene, Andrè.” Gli disse abbracciandolo un’ultima volta. Chissà se lo credeva pazzo.
 
“Stammi bene, fratello.” Rispose Andrè, spalla contro spalla, nascondendo la ferita contro il massiccio corpo dell’amico.
 
Alain sorrise amaramente. Azzeccato, pensò. Libertà, uguaglianza, fraternità. Si portò due dita alla fronte e lo salutò. Lasciò quella casa a passo lento, quasi trascinandosi, come se la tristezza lo rendesse più pesante. Neanche se ne accorse di aver camminato verso la caserma. Ci si trovò di fronte. Gli enormi cancelli erano spalancati. Raggiunse le camerate, quella che era la sua branda e vi si addormentò, confortato dagli spazi stretti, le mura sporche e le incisioni sconce sulle assi dei letti. Almeno là si sentiva a casa.
 
***
 
Si fece mattino presto e col sole s’avvicinò anche l’ora di partire. Ad Oscar era sembrato di non dormire da una vita. Appena sveglia s’era tirata le lenzuola al collo, annusandone l’odore, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta che dormiva in un letto che poteva considerare come casa per tanto tempo. Forse per l’ultima volta. Si nascose sotto le lenzuola, con la luce del primo sole che appena filtrava attraverso le maglie spesse del tessuto, domandandosi se ce l’avrebbe fatta a guarire, a sopravvivere, a tornare indietro in Francia.   
 
Si scoprì di colpo quando sentì cigolare la porta. Si mise a sedere, con i riflessi pronti, memore della divisa che ancora indossava. C’era Andrè che stava entrando, ancora vestito con gli stessi abiti sporchi anche lui, portando in mano invece roba pulita che profumava di sapone di Marsiglia. Gli sembrò di essere a palazzo Jarjayes, quando Andrè le portava i vestiti lavati dalla nonna, che avevano sempre quell’odore delicato e penetrante. Era come assistere ad una ventata di ricordi. Si sentiva così pericolosamente più vicina alla fine che all’inizio, come se rivivesse a pezzi tutta la sua vita prima dell’epilogo finale.
 
“Sei sveglia.” Constatò lui. Posò i vestiti sul letto, tutti da uomo, forse di Bernard, cuciti e rammendati da Rosalie perché entrassero ad entrambi. C’erano due camicie bianche, pantaloni e giacche verdi e marroni. Niente di elaborato o pregiato, anzi. Sembravano essere fatti per non essere notati, confusi.
“E’ ora.” Fece Andrè, cercando di convincere lei a tirarsi su. Nonostante avesse dormito tutta la notte le sembrò ancora così stanca. Alla luce del mattino notò la pelle ancor più chiara di quel che ricordava. Si domandò come avesse fatto a non notarlo prima, quanto l’avesse ignorata, come fosse tutto così evidente se solo le avesse prestato l’attenzione che lui stesso vantava di riservarle. Cercò di ignorare i sensi di colpa, di concentrarsi sul viaggio, sulla missione che serviva a lei per guarire ed a lui per fare ammenda della noncuranza.
 
Andrè le allungò una mano per aiutarla ad alzarsi. Oscar la guardò. Non ci avrebbe pensato troppo prima. Si sentì come se fosse malata, debilitata, ferma, immobile a letto, trattata come se non avesse avuto neanche le forze per alzarsi da sola. La mano di Andrè pareva così minacciosa stesa davanti a lei. La rifiutò e si mise in piedi. Spiò lui poi, confuso dal suo rifiuto. Alla rabbia che provava nei propri confronti per aver permesso alla malattia di farsi spazio nei suoi polmoni, s’aggiunse quella per esser stata capace di trattar male l’unico uomo che più di tutti l’aveva amata ed il senso di colpa per lo sguardo triste che gli era comparso sul volto. Non si sentiva riposata, né bene, né riusciva a perdonare sé stessa.
 
Raccolse i vestiti che sembravano esser fatti per lei. Si chiuse in un angolo e si girò di spalle. Tolse la giacca dell’uniforme, gli stivali e s’infilò la roba nuova. I vestiti pizzicavano, il tessuto era grezzo, non era seta né cotone lavorato. Aveva quasi paura di morire di freddo con quelli di notte. Considerò l’idea di portarsi dietro l’uniforme, staccando i gradi e le spalline, così da renderla solo blu. Blu troppo brillante. La lasciò andare a terra con rabbia, l’ultimo pezzo della vecchia vita che se ne andava. L’ultima cosa che di lei traboccava di salute.
Quando si girò Andrè la stava guardando ancora in piedi. Stringeva in mano la camicia di Bernard. Le macchie di sangue rappreso, rosso scuro, marroni e nere di fuliggine spiccavano sul blu accecante. Guardando lui, Oscar capì ancor di più la necessità di dover lasciare l’uniforme. Andrè intanto la guardava fisso, neanche capiva il sentimento che gli disegnava l’espressione truce sul volto. Stringeva i pugni e pareva come spento, così diverso dal modo in cui lei l’aveva sempre pensato. Lesse come in uno specchio la sua stessa rabbia. Credette che avesse capito anche lui che la distanza verso il suo epilogo s’accorciava sempre di più. “Mi guardi come se fossi già un cadavere.” Ruggì alla fine. Si voltò per non dover sostenere il suo sguardo deluso da quello sbotto di ira che neanche lei capiva.
 
Andrè sospirò, domandandosi perché lei non fosse felice di aver trovato una soluzione, perché non riuscisse a vedere quel futuro che era ad un passo da loro eppure continuava a sfuggirgli. “Ti guardo come se tu volessi morire.”
 
Oscar ascoltò piegando lievemente il capo di lato. Davanti a lei il sole che saliva da Est illuminava la polvere che danzava nell’aria, immobilizzando l’attimo. Una striscia di luce sembrò come divider la stanza in due parti uguali. Da un lato c’era lui e dall’altro c’era lei, poeticamente divisi al buio, nessuno dei due alla luce. “Non è così.” Fece dura.
 
Andrè strinse i pugni fino a farsi male alla spalla, si passò i vestiti da una mano all’altra perché lei non lo notasse. Alzò gli occhi e gli sembrò di vedere chiaramente il disegno di vene attorno al volto di lei, sotto ai capelli. La luce azzurrina del primo mattino le faceva sembrare gli occhi quasi trasparenti. Gli sembrò di vedere un fantasma. L’istinto gli suggerì di proteggere il suo cuore ed abbassare lo sguardo, di ricordarla con i capelli color dell’oro e la pelle rosa sulle guance. Si rifiutò invece. Voleva vedere la verità fino a farsi male. Intanto la ferita ancora pulsava ed il dolore gli obnubilava la ragione. “Dimostralo.” Le disse tra i denti.
 
“Che vuoi che faccia, che mi metta a cantare?” chiese lei con fare derisorio, nascondendo le mani che tremavano dalla paura, spaventate dalla reale possibilità di morire lontano da casa, lontano dalle persone che le erano care, con Andrè invece, che avrebbe sofferto, pianto. Ne sarebbe rimasto distrutto e se quella era la sua sorte, preferiva che lui non vi assistesse. Pensò di andare lì da sola. Sarebbe tornata viva, sana o non sarebbe tornata affatto, come i figli di quella donna a Parigi. Li capiva. Capiva così bene la paura di provocare dolore semplicemente esistendo ancora, straziando e succhiando goccia per goccia l’anima di chiunque ti rimanga accanto.
 
La frustrazione di Andrè esplose. Tirò per terra il gomitolo di vestiti che si palleggiava in mano ed urlò. “Vorrei che almeno evitassi di rendermelo più difficile.” Voleva che Oscar vedesse la speranza ed insieme il dolore che gli stava provocando. Che l’aiutasse ad aiutarla, che capisse l’angoscia e l’agitazione di dover far tutto in fretta. Conosceva quel modo di fare esageratamente indipendente, come se ci fosse solo lei, come se non capisse che amore ed affetto significavano anche dolore.
 
Lo scatto d’ira di lui fece solo in modo di provocarne un altro in lei. Lo raggiunse a grandi passi. Oltrepassò lo spazio di luce, ritrovandoselo prima completamente addosso, poi alla spalle nello spazio all’ombra di lui. “Sono io quella che sta male.” Ruggì, puntandosi un dito al petto.
 
“Lo so benissimo!” Rispose lui con lo stesso disperato tono di voce. Oscar indietreggiò spaventata. Andrè lo notò e quasi si volle tappare la bocca. La raggiunse, la abbracciò la strinse, oscillando. “Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.” Ripeté in una litania “Mi dispiace, mi dispiace.” Continuava piangendo ed allora la sentì sciogliersi e ricambiare quell’abbraccio. “Ho paura di perderti.” Le rivelò poi “Così paura.”
 
“Ho paura anch’io.” Rispose lei piano. Lo abbracciò forte, stringendo fino a sentirlo sobbalzare di dolore. La spalla era ancora ferita, non era ancora guarito del tutto. Allentò la presa e piegò il capo per nascondersi tra il collo ed il mento, sul suo petto. Il peso della rabbia e della tristezza di entrambi li fece camminare fino al centro della stanza senza mai lasciarsi.  
 
Andrè si riprese, nascose le lacrime, tirò su col naso e lasciò colare quello che rimaneva per lasciare asciugare gli occhi. La guardò dritto. Finalmente erano al sole entrambi, dove la luce lo aiutava. Non resistette e le impresse un bacio umido ed impulsivo sulle labbra di lei. La guardò ancora e cercò di cogliere ed imprimere nella memoria tutte le caratteristiche del suo viso: i capelli dorati, le labbra accese del bacio ed umide della sua saliva e le sue lacrime, le ciglia nere e lunghe, gli zigomi alti. “Promettimi che ci proverai.” Le chiese quasi supplicandola.
 
Oscar sorrise. La rabbia se ne scivolò via come acqua. Il suo viso s’addolcì. Chiuse gli occhi e pensò che se aveva Andrè ce l’avrebbe fatta. Se c’era lui poteva provarci, combattere, vivere. Sarebbe stato addirittura facile, pensò, con lui accanto. “Prometto.” Promise. Desiderò di essere intraprendente nella tenerezza e di avere il coraggio di liberargli il viso dai capelli ed accarezzarlo sulla pelle che sembrava ruvida, con quella barba disordinata, appena cresciuta.
 
Andrè le prese le mani, le tenne strette, poi accarezzò le dita. “Io prometto di non lasciarti mai.” Disse piano. Le baciò le mani fredde, tra le dita, tra l’anulare ed il medio, sigillando la promessa.
 
Oscar guardò le sue mani piccole perdersi nella pelle di lui. Pensò a quanto lui fosse deciso, calmo anche nella rabbia. Era una roccia, un punto fermo attorno a cui s’era agitata freneticamente la sua vita, attorno a cui continuava a farlo.
 
“Dobbiamo uscire.” Le disse lui “Chissà cosa penseranno.” Aggiunse, continuando ad accarezzare le sue dita, a toccarla come aveva sempre desiderato fare. C’erano stati anni in cui il tumulto della gioventù gli aveva riservato solo pensieri sconci, vividi sogni ad occhi aperti di scandalose carnalità, l’umido e violento istinto di essere dentro di lei e sentirsi completo. Invece più lei s’apriva, più gli dava spazio e più allontanava quelle idee. Divenne schiavo della delicatezza, preda di un dolce e lento languore, che lo faceva sentire così sicuro.
 
“Che pensino pure.” Rispose lei. Sorrise maliziosamente, cercò il suo sguardo, lo spiò e poi abbassò gli occhi per nascondersi.
 
Andrè sorrise. Oscar era esattamente come se la immaginava: seducente, eccitante, timida, risoluta, sfrontata ed elegante. Ogni parola sembravano misurata  e ritagliata accuratamente. Era come gareggiare con lei con una spada: ogni gesto era pulito, in ogni mossa non metteva né un poco di più, né un poco di meno. Lo sorprese invece con la tenerezza. Sentiva in lei il bisogno di lui. Lo rendeva così sicuro del suo amore da dubitare di non averla capita per anni, che fosse così da sempre. Forse lo era, lo era sempre stato. Se ci ripensava c’erano sempre stati l’uno per l’altra, dalle punizioni del generale alla rivoluzione francese. Le prese il viso tra le mani. “Dobbiamo andare.” Le ripeté dolce, spronandola, un po’ forzandola, con voce tenera quasi fosse una bambina.
 
“Va bene.” Rispose lei tanto per non lasciarlo senza risposta. “Andrè.” Chiamò però un’ultima volta. E lui s’avvicinò e la baciò. Come faceva lui a sapere cosa voleva? Come faceva a capirla subito, sempre? Come faceva ad essere tutto quello di cui aveva bisogno?
 
***
 
Partirono a cavallo.
Salutare Rosalie sembrò ad entrambi come salutare una sorella più piccola. Oscar la abbracciò e la strinse. Sembrava più grande dell’ultima volta che l’aveva fatto. La strinse per le spalle, le raccomandò di fare attenzione a Parigi. Le fece promettere di andarsene se la situazione si fosse messa male, di non rischiare, non ne valeva la pena. Era lei il futuro per cui la Francia doveva combattere.
 
Salutare Bernard fu più semplice. “Ti tengo d’occhio.” Gli disse Oscar.
“Anch’io.” Rispose lui. Non aveva un significato, ma pareva memoria del vecchio conflitto che avevano avuto in passato.
 
Andrè ed Oscar corsero per le strade di Parigi nel primo mattino. Era ancora troppo presto perché la città fosse sveglia. I cittadini avrebbero sentito il rumore degli zoccoli dei cavalli, immaginando che si trattasse ancora di un sogno. Avrebbero alzato il capo dal cuscino e sarebbero istintivamente caduti di nuovo nel sonno. I soldati non erano ancora dispiegati in posizione. Quelli rimasti fedeli alla corona riposavano ancora nelle rispettive caserme. Erano troppo pochi perché si potesse organizzare una ronda. Per le strade si sentiva l’odore della ritirata insieme a quello polveroso della rivoluzione.
 
Andrè guidò Oscar lungo le strade che aveva imparato a memoria. Non le distingueva, forse alcune non le aveva mai viste, ma sapeva benissimo dove svoltare. Si ripeteva a memoria la filastrocca che aveva imparato la sera prima. Come previsto non incontrarono nessuno fino a raggiungere le campagne. Seguirono la Senna, correndo coi cavalli per non impiegare più dei quattro giorni di viaggio previsi da Andrè. Le strade erano solcate dalle tracce delle ruote delle carrozze, l’odore di alberi ed erba sotto il sole di luglio aveva sostituito quello opprimente delle strade di Parigi. Ad Oscar sembrò di poter respirare meglio anche lì. Si fermarono appena per mangiare un tozzo di pane ed uno di formaggio, portati via in un sacchetto dietro raccomandazione di Rosalie. Non erano neanche lontanamente sufficienti, ma se li fecero bastare, sperando di poter cacciare per strada, raccogliere frutta o trovare una qualche locanda o paese per la strada.
 
Quando venne la sera le prime voci che sentirono pronunciavano parole tedesche. Oscar le riconobbe subito, memore dell’accento di Maria Antonietta. Non erano stati fermati, nessuno li aveva riconosciuti. I tumulti di Parigi li aveva protetti durante la fuga. Oscar non s’accorse d’aver trattenuto il fiato fino ad allora. Sospirò di sollievo. Si sentì come sull’orlo di piangere e ridere insieme. Poi a ridere ci si mise davvero. Fermò il cavallo e scoppiò alle luci del tramonto.
 
Andrè la guardò e si mise a ridere insieme a lei. Le risate s’accesero e continuarono mischiandosi in un pianto liberatorio. Erano salvi, erano vivi.
Scese da cavallo, si guardò attorno. La vegetazione era la stessa. Gli alberi forse sembravano solo più alti e più scuri. Sarebbe stato facile nascondersi nel bosco, pensò, prima di realizzare che non dovevano più nascondersi. Sorrise ancora, di nuovo, soddisfatta. S’addentrò tra gli alberi, lasciando la strada. “Ci fermiamo.” Disse perentoria, con il cipiglio ancora da comandante. Del resto l’aveva fatto tutta la vita, comandare. Vide un posto, poche assi di legno, che delimitavano quattro mura ed un tetto. Lo raggiunse quasi di corsa. Era buio, non aveva una porta, puzzava di stalla, come di fieno ammuffito. Accarezzò il cavallo, anche lui compagno di mille avventure. Sembrava stanco, aveva bisogno di riposare. Avevano già fatto tanto. Nel sacco trovò una coperta. La stese a terra e vi si sedette. La sensazione della sella tra le gambe sembrava bruciarle le cosce. Si sentiva pesante, stanca di nuovo. Non fece davvero attenzione a quello che la circondava. In altri momenti avrebbe seguito con la vista le venature del legno. Gli occhi le si chiudevano. Era cosciente di ogni singolo muscolo del suo corpo per il dolore: tra le scapole, lungo il collo, sulle braccia, dietro i polpacci, sotto la pianta dei piedi. Era come sentirsi schiacciare e bruciare insieme.
 
Dietro di lei Andrè stava imitando i suoi gesti. Aveva fermato il cavallo, era sceso. Cercava qualcosa con cui coprirla dal freddo della notte. Sistemò i due fedeli cavalli, li legò anche se sapeva che non sarebbero mai fuggiti. Raggiunse poi Oscar, al coperto, sistemandosi accanto a lei, con le braccia che si incrociavano. Le sfiorò la mano ed allora lei si voltò e gli poggiò il capo sulla spalla. Guardò di sbieco, oltre la porta che mancava e vide le stelle. “Te le ricordi le lezioni del maestro Morin? Quel puntino laggiù è Giove.”
 
Oscar sorrise. Guardò verso il dito di Andrè incuriosita, come se le stesse dicendo qualcosa che sentiva per la prima volta. I suoi occhi nel frattempo volarono alla costellazione di Ercole, mentre ne tracciava le linee. “Puoi abbracciarmi anche senza trovare sotterfugi.” Gli disse a bruciapelo.
 
Andrè accolse l’invito. Era ancora stordito. S’abbassò e la baciò, costringendola a torcersi il collo all’indietro per poter rispondere a quel bacio. “Scotti.” Le sussurrò accarezzandole una guancia. La lasciò andare e fu preso dalla strana frenesia di dover fare qualcosa. S’alzò, s’agitò, camminò avanti ed indietro pestando le foglie e pensando. “Dobbiamo raggiungere un posto, una locanda. Riprenderemo quando starai meglio.”
 
Oscar lo guardava preda della frenesia di accudirla a dovere. Riconobbe in lui le stesse premure che le aveva sempre riservato la nonna. Voleva alzarsi, ma non ce la faceva. Era così stanca. Sospirò piano e piantando le mani a terra come fossero radici, guardandolo dal basso gli disse: “Allora non ripartiremo mai.”
 
“Cosa?” si voltò lui, sorpreso chiedendosi cosa avesse voluto dirgli.
 
Oscar cercò le parole. “Andrè, non mi passerà.” La conosceva quella febbre, le ricordava le notti a palazzo sperando che passasse, che se ne andasse, sperando di stare meglio. Ricordava la delusione al primo mattino e l’estremo sforzo che le richiedeva alzarsi in piedi, pretendere di star bene ed andare in caserma, dove almeno ci sarebbe stato lui. “Dormiamo qui, accendiamo un fuoco. Proseguiamo domani mattina.”
 
Andrè ascoltò attentamente. Lo faceva sempre, ascoltava. Ascoltava bene e poi ci rifletteva ancora meglio. Solo allora rispondeva. “No.” Disse subito stavolta. Oscar stava per rispondere, ma lui le cadde davanti in ginocchio. L’abbracciò e quasi stavano per cadere entrambi sul terreno duro. L’abbracciò e pianse. Toccò a lui stavolta piangere e disperarsi. “Scusa, non volevo.” Disse tra le lacrime. Stava prendendo una piega disperata. Ad Andrè pareva di lottare contro il tempo, come se raggiungere la Slesia avrebbe potuto immediatamente salvare Oscar dalla morte. Tirò su col naso, sembrò respirare a fatica, prima di mettere un freno alle sue emozioni.
 
Si trovò Oscar a parti inverse a consolare lui. “Non scusarti.” Gli disse accarezzandogli il capo tra i capelli. “Te l’ho promesso, ci proverò.” Continuò con voce dolce ed accomodante. “Tu però mi devi ascoltare.”
 
Andrè fece cenno di sì con la testa. Si staccò, la guardò negli occhi. Cercò di mettere a fuoco. Strinse gli occhi, sperando che entrambe le pupille lo aiutassero, ma da un lato non vedeva che una patina bianca, dall’altro faticava a riconoscere i colori. Le baciò le labbra screpolate. Era così dolce l’amore che provava per lei. Afferrò la coperta ruvida. Era grigia, spinosa, una di quelle che usavano in caserma. La avvolse e la strinse tenendola calda. Andrè sorrise pensando ad un’altra notte di pochi giorni prima, quando l’aveva stretta così per la prima volta, nei boschi. Era diventata la sua ninfa. S’addormentarono distesi mentre lui ancora la stringeva.
 
Non fu un sonno tranquillo. Più e più volte Andrè la sentì tossire e le pulì il sangue dal viso. Si riaddormentava a fatica, mentre pregava chiunque di salvarla. Si ripeteva che doveva stare bene per poterla aiutare, doveva dormire. Chiudeva gli occhi ancora ed ancora, annusava i suoi capelli, scuoteva le spalle per allontanare il freddo. Quando poi riaprì gli occhi alle prime luci dell’alba davanti a lui c’erano ancora i cavalli: legati, riposati. Tra le sue braccia Oscar dormiva ancora, come in un bozzolo. Le spostò i capelli. Con il palmo sulla sua bocca aspettò di sentire il caldo del suo alito. Pareva veloce, affannato, superficiale. Si allarmò all’istante. Le toccò la fronte, scottava ancora più della sera prima. Sapeva di non doverle dare retta, sapeva di dover insistere, sapeva che doveva essere più prudente.
 
Oscar mugugnò appena.
“Ti porto via.” Le fece Andrè, che si tirò immediatamente in piedi, rimpacchettò malamente tutte le cose tirate fuori e salì a cavallo portandosi Oscar in braccio. Si tirò Cèsar e tornò sulla strada. Spinse i cavalli a galoppo. Corse come un ossesso, quasi sentisse il ticchettio di un orologio incombergli addosso. Non si riposò, sempre attento mentre Oscar dormiva fra le sue braccia.
 
A tratti lei si svegliava. Tra la veglia ed il sonno, la sua posizione privilegiata le aveva offerto lo spettacolo del petto di lui, vestito solo di una camicia. Quella, bianca, s’era macchiata di sangue pure, proprio vicino la vecchia ferita. Era il suo o quello di lui? S’era ribellata allora, aveva chiesto di cavalcare da sola. Andrè le promise che sì, certo, solo pochi minuti per raggiungere il prossimo bivio e poi l’avrebbe lasciata cavalcare. Oscar però non rimase mai sveglia per quel bivio, né per quello successivo. Cadde di nuovo incosciente, scossa da incubi di sangue e ferite, domandandosi persino nel sogno se quello che aveva visto era reale.
 
Andrè si fermò poche ore a notte per le due notti successive. Scambiò una pistola per del latte da un contadino. Non fu difficile farsi capire. Riscaldò il latte, bagnò il pane ormai raffermo e glielo fece mangiare. Era un pasto umile, frugale, ricordava ad entrambi delle notti fredde d’inverno a palazzo. La costrinse a bere tutta l’acqua che riusciva a darle. Aveva paura per il suo fisico, che la febbre se la rosicchiasse fino alle ossa. Non parlarono più, presi dalla febbre entrambi, della tisi l’una e della frenesia l’altro.
 
Quando arrivarono in Prussia, ad Andrè bastò pronunciare la parola “sanatorio” in una lingua che non sapeva né di francese né di tedesco, che chiunque fermasse immediatamente capì. Gli indicavano strada per strada. Guardavano Oscar e riconoscevano i segni della malattia. Stare a Parigi gli era sembrato allora come rimanere nell’ignoranza. Più si avvicinava a quel posto, più invece glipare di arrivare alla conoscenza, come se la Slesia fosse l’Alessandria che stava cercando. Alla fine gli fu indicato un castello, che quasi sapeva di medievale. Era piccolo, sulla cima di una collina, circondato da mura rossicce. Non pareva fatto di mattoni, ma quasi scavato nell’argilla e nel ferro. La salita era pendente. I cavalli fecero difficoltà.
 
“Voglio scendere.” Fece Oscar, ancora priva di forze. Erano passati solo cinque giorni, uno più del previsto, eppure sembrava ancora più piccola di quando era partita. Si mise in piedi con difficoltà, ma volle camminare da sola. Pensava e credeva di doversi guadagnare la possibilità di curarsi. Si chiese quanto ci sarebbe voluto. Camminò piano, così piano da montare in Andrè l’ansia di dover proseguire in fretta, per scoprire subito come e se li avrebbero aiutati. Li avrebbe costretti, anzi, si disse.
 
Superarono i cancelli. C’era erba mal curata, alberi senza frutta dai tronchi chiari e sottili. Un portone scuro padroneggiava lo scenario minaccioso. Non si udivano voci, quel posto pareva morto da fuori. Andrè ebbe paura d’aver fatto tardi. Cominciò a pensare mentre camminava, mentre aiutava lei a cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato davvero nessuno. La tenne per le spalle mentre camminavano. Bussarono agitando una maniglia pesante. Attesero un tempo infinito che faceva crescere l’agitazione. Alla fine, aprì una donna vestita con una gonna celeste, lunga ed ampia, un grembiule bianco ed una cuffietta dello stesso colore che nascondeva i capelli chiari. Aveva uno sguardo distaccato, quasi cattivo. Li guardò, li studiò. Si soffermò su Oscar. Notò il collo che si sforzava per respirare, la pelle diafana, malata, gli occhi rossi ed il fisico mangiato dalla malattia.
 
Oscar ed Andrè si guardarono, non sapendo davvero bene da dove iniziare, cosa dire, chiedere, come pregare. Fu lui poi a farsi coraggio, decidendo, come aveva fatto già da tempo, di prendersi cura del suo malanno. “Bon jour, madame.” Cominciò solo, ma non ebbe tempo di finire.
 
La donna alzò gli occhi. “Dentro.” Disse rivolgendosi solo a lei in un francese stentato.
 
Oscar s’avviò, entrò. Dentro pareva ancora più freddo di fuori. Le mura di pietra erano vuote, spoglie. Sembrava abbandonato proprio come dall’esterno. Pensò alla rivoluzione e comprese subito che i veri proprietari di quella struttura non l’abitavano più. Era tutto stato sottratto ed occupato abusivamente. Si chiese fino a dove i moti ribelli s’erano spinti. Si chiese cosa ne fosse stato intanto di casa sua. Da dentro non venivano che lamenti. C’era una scala che portava a quello che pareva un corridoio. Sentì gente tossire, urlare, lamentarsi. Era peggio della panetteria di Parigi. C’era odore di morte. Non era come se l’aspettava. Ebbe paura.
 
Sentì Andrè dietro di lei, fare per raggiungerla, ma la donna lo bloccò. “Tu,” l’additò non sapendo dire altro “fuori”. Andrè sembrò non darle retta, tentare di ribellarsi, ma la donna lo bloccò di nuovo “Fuori.” Fece ancora.
 
“Andrè!” lo chiamò Oscar. Si lanciò disperata da lui, recuperando le forze tutto d’un tratto. Lui invece non faceva che guardare quella donna, che non commossa neanche dal gesto spontaneo di Oscar li guardava annoiata, come se fosse costretta ad attendere là. Oscar la superò, raggiunse Andrè, le cadde quasi tra le braccia. Aveva promesso a lui di sopravvivere, come avrebbe fatto se proprio Andrè non c’era?
 
Andrè la accolse tra le braccia quasi fosse una bambina. Le prese il viso tra le mani, le accarezzò i capelli e glieli allontanò dal volto, fino a vederla tutta, innamorata e disperata. Com’era naturale vederla così, spontanea, quotidiana, bellissima. “Vai.” Le bisbigliò, mentre le catturava le guance calde.
 
Oscar fece cenno di no stringendo gli occhi, rifiutandosi categoricamente di lasciarlo, aggrappandosi alle sue braccia, stringendo nel pugno i suoi vestiti, quasi fossero un’ancora. “E’ ferito.” Cercò di spiegare ancora a quella donna che non la stava neanche guardando.
 
Andrè prese un respiro per farsi coraggio. Gliel’aveva insegnato lei, quando sparavano o combattevano: un respiro profondo rallenta tutto. L’ammirò e la accarezzò rallentando, mentre si dimenava e lo stringeva, mentre s’aggrappava a lui come alla vita. “Vai.” Le disse di nuovo. Oscar si girò a guardarlo. Questa volta aveva le lacrime agli occhi quasi separarsi allora significasse per sempre, tradendo la paura di non uscirne. Spiò dentro di nuovo, si concesse di ascoltare meglio, sperando che l’udito almeno non lo tradisse. Sentì il rumore del morbo e l’odore caldo del sudore malato. Oscar aveva paura di morire là dentro. “Vai.” Le ripeté, sperando di sembrar duro, inflessibile, una roccia, la sua ancora, la voce della ragione. Sperando di darle coraggio.
 
La accompagnò tra le braccia della donna, che la sfiorò per avvicinarla, come si fa con le fiere. Oscar sobbalzò al contatto inatteso, erano mani grandi e calde. Lei l’accolse e la portò dentro, mentre Andrè nascondeva una lacrima e sorrideva. “Troverò un modo.” Lo vide bisbigliare. “Sempre.” Aggiunse quasi urlando perché lei lo sentisse.


 


Angolo dell'autrice
Tadaaaan! Come promesso. Scrivere questa storia mi sta riportando ai tempi di The Walking Dead, come avrei voluto che fosse. Come ormai saprete, quando scrivo una storia parte sempre da una sola scena. La scena che per primissima avevo immaginato di questa storia era questa, l'ultima. Vuole essere questa, come avrete ormai capito, una storia lenta, cruda, realistica. Volevo farvi immaginare l'odore acido della febbre, la paura di vedere persone con la tua stessa malattia morire. Il tutto ovviamente con Oscar ed Andrè, il cui amore brilla in mezzo alla schifezza. Non è una storia semplice. Lenta, sicuramente. Lunga. Con quel pizzico di stranezza nella presenza di Agathe. Per darvi un barlume di speranza vi dico però almeno che avremo un lieto fine. Ammirerò chi mi seguirà fino alla fine. Lo so, non è la tipica storia che vi aspettate in questo fandom. Da lettrice preferisco anch'io quelle storie più veloci, fatte di singoli episodi significativi, che mi lasciano qualcosa di bello. 
Or dunque, ho parlato fin troppo. Vi lascio con un saluto ed un abbraccio a tutti, a presto :*

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