Writober 2022

di ChiiCat92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Trappola di Zucchero ***
Capitolo 2: *** Profondo Respiro ***
Capitolo 3: *** Sacro e Profano ***
Capitolo 4: *** Occhio per occhio ***
Capitolo 5: *** Day Hospital ***
Capitolo 6: *** Corri Scheggia, corri! ***
Capitolo 7: *** Drunk enough to say I love you? ***
Capitolo 8: *** Moissanite ***
Capitolo 9: *** Trapassata ***
Capitolo 10: *** Sweet dreams are made of this ***
Capitolo 11: *** Che brava bambina ***
Capitolo 12: *** My Demons ***
Capitolo 13: *** Alberto ***
Capitolo 14: *** "Chi è cagion del suo mal pianga se stesso" ***
Capitolo 15: *** Broken Wings ***
Capitolo 16: *** Ultimo atto ***
Capitolo 17: *** Il complimento più bello ***
Capitolo 18: *** Trova la via stellina mia! ***
Capitolo 19: *** Ci vado ***
Capitolo 20: *** Tutto Nero ***
Capitolo 21: *** Rubare ***
Capitolo 22: *** New Born ***
Capitolo 23: *** Rialzarsi ***
Capitolo 24: *** Aena Corda ***
Capitolo 25: *** Diventare un uomo ***
Capitolo 26: *** Andiamo al mare ***



Capitolo 1
*** Trappola di Zucchero ***


Trappola di Zucchero

 

L’odore nell’aria era invitante a tal punto da farle venire l’acquolina in bocca. Un odore carico, appiccicoso, che saturava l’aria e le faceva drizzare le antenne, in allerta. 

Era un odore che invitava e prometteva: niente più fame, niente più paura, niente più battaglie per la sopravvivenza per altre ventiquattro ore. 

Era, però, un odore che ingannava, pericoloso, che avrebbe potuto ucciderla. 

Quindi? Cosa fare? Lanciarsi verso l’odore, verso il cibo, nella speranza di arrivare prima degli altri, raccoglierlo per sé e solo per sé, divorarlo e, per una volta, avere lo stomaco pieno? 

Oppure aspettare l’ordine che, perentorio, sarebbe arrivato, e sperare che alla fine rimanesse qualcosa anche per lei? 

La verità era che non aveva alternative, non reali almeno. Si sarebbe mossa quando le avrebbero detto di farlo, e sarebbe morta quando le avrebbero dato il permesso di morire. 

Eppure quell’odore….era diverso dal solito, più intenso, più reale, più vivido. 

Le entrò dentro prima che potesse accorgersene, e come l’ordine del suo superiore, non poté ignorarlo.

Così uscì dal suo rifugio, abbandonò quello che stava facendo e si lanciò verso la fonte dell’odore. 

Più forte, pulsante quasi. Non si stupì di trovare al suo fianco, intorno, davanti e dietro di lei le sue sorelle, perché l’odore era così buono, così assuefacente, che tutte loro ne avevano un impellente bisogno. 

Non le importava più nulla, all’improvviso aveva la bocca e la testa piena di quell’odore e quello soltanto. Che cos’era? L’aveva già sentito? L’aveva già assaggiato? Perché sentiva le viscere contrarsi e ogni volontà frantumarsi fino a renderla il vuoto simulacro di quel desiderio? 

Non vedeva più, aveva la consapevolezza delle sorelle di fianco a lei ma niente aveva importanza come soddisfare quel desiderio. 

Corse, corse, fino a farsi venire dolore alle zampe, tutte e sei, ad ogni segmento del corpo, fino a non avere più fiato, finché non arrivò a tuffarsi nell’odore. Appiccicaticcio, denso, la riempì di stupore e meraviglia. 

Solo per un attimo, però.

Poi cominciò ad annegare. 

Non era la dolcezza dello zucchero, quello che faceva tanta gola al formicaio, non era neanche commestibile, perché quando ne prese una boccata acido dolore le riempì le fauci.

Combatté per tirarsene fuori, una zampa alla volta, ma il dolore era tanto acceso quanto insopportabile. Più si agitava più sentiva le membra impigliarsi. Era bloccata, e l’ormai nauseante, malvagio odore era tutto intorno a lei. Le impediva di vedere. 

Sentiva le strida delle sorelle, bloccate nel dolce con lei, la frenesia di zampe e fauci che si dimenavano inutilmente fino a morire. 

Morire, morire nello zucchero, nella melassa, chiedendosi quando l’odore tanto amato si era trasformato in una trappola mortale, del tutto diversa dai pericoli della vita di tutti i giorni, così crudele e accesa e rovente e inaspettata. 

Mentre avvertiva le zampe lacerarsi un po’ di più ad ogni movimento, rimpianse le briciole e i granelli e la polvere e tutte quelle cose che non avevano lo stesso meraviglioso profumo dello zucchero ma che almeno non erano così crudeli. 

Smise di agitarsi, lei e molte delle sue sorelle. La colonia era stata decimata, non distrutta, e nuove formiche sarebbero giunte. 

Così, gli umani avrebbero piazzato nuove trappole. 

Trappole sempre più dolci ed invitanti.  

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Lista pumpINK; prompt: #1 Zucchero

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Capitolo 2
*** Profondo Respiro ***


Mi guardo intorno e il mondo è fermo, una strana istantanea della mia paura. 

Come una polaroid pian piano tutto torna a fuoco o tutto diventa reale o tutto esiste per la prima volta. 

Ho un corpo, perché è pesante e formicola e urla ed è schiacciato a terra dalla forza di gravità. 

C’è la forza di gravità! Ed io so cos’è! 

Anche quella è tornata ad essere, e con essa la direzione, il sopra, il sotto, e quindi il cielo, le stelle, la luna, la volta infinita dell’universo. 

La mia gola produce un suono, un lamento, e qualcosa di cui avrei fatto volentieri a meno mi aggredisce: dolore.

Fa male, ovunque. 

Tutto è dolore, tutto è più di quanto riesca a sopportare, eppure sono ancora vivǝ.

Vivǝ, anche questa è una cosa che torna all’improvviso, una consapevolezza che porta…gioia, sollievo, arriccia il naso, schiarisce la mente, fa frizzare il sangue nelle vene. 

Vivǝ, vivǝ, vivǝ!

Paura. 

Di nuovo, ancora. 

Potevo essere mortǝ. 

Ma perché? Cos’è successo? 

Batti le palpebre, fai tornare la vista, occhi apritevi e siate chiari, onesti. 

Fiamme rosse contro il cielo, rottami tutto intorno e l’istantanea scattata con la memoria si sovrappone con la realtà.

Non sono più a casa mia, ho dovuto andarmene, non per me, ma per quelli che devono venire dopo di me. 

Ma dove sono, perché ci sono? 

Alzati! Puoi? 

Le gambe mi reggono, sì. 

Controlla il sistema di supporto vitale. 

Sul mio braccio. 

Il computer. 

Ma certo, la tuta, il computer, il sistema di supporto vitale. 

Ero su un’astronave, un viaggio esplorativo su un potenziale pianeta abitabile. 

Qualcosa non va. Sul monitor del computer della tua lampeggiano diversi allarmi. Non riesco a sentirli. 

La cosa che mi manca dovrebbe chiamarsi udito, ma non sono certǝ di averla mai avuta prima, perché non ne avverto il bisogno. 

Sarà stato l’incidente a portamelo via? 

Ah, la collisione inevitabile con un oggetto di media grandezza; un frammento di asteroide o detriti spaziali ha mandato l’astronave alla deriva come un sasso nella corrente. 

Mi vedo precipitare, sempre più giù, e penso che morirò e che nessuno saprà mai com’è il pianeta che sono venutǝ ad esplorare. 

Ho fallito e tutte le speranze muoiono con me. 

E invece adesso sono cosciente, tutti gli arti funzionanti sembra, la vista che si schiarisce ogni minuto che passa. 

In piedi! 

Lentamente, anche il mondo vortica sotto la suola delle scarpe, mi alzo. 

L’ossigeno diminuisce, lo dice il computer, e se non faccio subito qualcosa a riguardo essere sopravvissutǝ allo schianto sarà stato inutile. 

Cosa posso fare? 

La navicella è in fiamme, all’ultimo secondo ho fatto in modo di espellere il pod di salvataggio, complimenti a me. Anche se mi ha salvato la vita mi ha proiettato lontano dal corpo principale dell’astronave. 

Devo raggiungerla. 

Corri. 

Un passo alla volta, falcate pesanti, affondo nella sabbia, scivolo sul terreno instabile. 

Ad ogni passo consumo l’ossigeno della tuta. Sempre meno, sempre meno, lo scheletro della nave è troppo lontana da me. 

Non posso.

Puoi.

Morirò soffocatǝ.

La tuta ti intralcia.

Non c’è abbastanza ossigeno. 

Fallo, fallo, fallo.

Faccio scattare le chiuse del casco, lo strappo via insieme ai guanti, pezzo dopo pezzo. Esco dalla tuta. 

E respiro. 

I polmoni si dilatano, si restringono, il sangue diventa rosso di vita. 

Respiro, respiro.

Mi fermo. 

Questo mondo è pieno di vita che riesco a sentire, ad est comincia a sorgere il sole. 

C’è aria e c’è respiro. 

Ho trovato una nuova terra. 

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Lista pumpNIGHT, prompt "Respiro" 

Vibes liberamente ispirate da Ted Chiang e i suoi meravigliosi racconti. 

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Capitolo 3
*** Sacro e Profano ***


« Perdonami padre, perché ho peccato. » sussurra sottovoce. 

Il legno e il velluto di cui è fatto il confessionale assorbono la voce, la bevono, si gonfiano, nutrimento vitale che sembra la contrazione di un respiro.

Il prete sa, perché ha riconosciuto la voce, e si contrae insieme con il confessionale dietro il pannello di legno che lo separa dal giovane contadino. 

« Quali sono i tuoi peccati, figliolo? » chiede quindi, gentile.

Non c’è giudizio qui, sembra sottintendere con le sue parole, sei al sicuro, Dio ti protegge e gli Angeli sono la tua corazza. 

Dall’altra parte la figura in penombra si agita sullo sgabello. Scricchiolii e sospiri, mentre fuori bruciano le candele e si agitano le statue. 

L’ultima funzione della giornata è appena finita, ite missa est! Il popolo è stato liberato, sollevato dai pensieri, e lasciato ai suoi beni terreni, agli amori, alle preoccupazioni, ai peccati. 

Finché non verrà di nuovo l’alba, con l’Ufficio delle Letture, e i più peccaminosi verranno per mondare le sozzure della notte con l’acqua santa. 

La chiesa sarà ormai deserta, considera il prete, il giovane è l’ultimo e il solo ritardatario, desideroso di un’ultima carezza sulla coscienza prima di ritirarsi per il sonno.

« Anche la notte scorsa ho toccato me stesso, padre. » risponde quindi il giovane. Per un attimo, la Chiesa intera trattiene il respiro. 

Il prete lo immagina, come lo ha immaginato ogni notte prima di quella, stando da solo nella sua cella, o in compagnia degli altri sacerdoti, sull’altare, in ginocchio durante i Vespri, tra la professione di fede e il Padre Nostro: biondi capelli color del grano, pelle tesa dorata dal sole, grandi occhi verdi tersi come il cielo estivo, membra audaci e forti che spaccano la terra. 

Un sospiro, il tacito accordo di non giudicare, non parlare, lasciare scivolare immagini e pensieri, languire la fede in una pozza di umore e fluidi bianco denso. 

« Non va bene figliolo. » mormora il prete. « Il corpo è un tempio, va rispettato, e i piaceri della carne vengono dal demonio, devi resistere al suo richiamo. » 

« Lo so, padre. » il mormorio ancora più basso, le labbra vicine alla grata di legno che li separa. 

Il prete riesce ad avvertire il suo odore, l’odore pungente dei contadini, terra, letame, fieno, cielo, aria, peccato. 

L’odore dell’incenso è più forte, lo riporta in quel confessionale, sotto l’abito talare che lo imprigiona. 

« Sei pentito per questo peccato? » 

« Sì, padre, lo sono. » 

« Vuoi il perdono? » 

« Lo voglio. » 

Le ultime campane battono la mezza, il vociare ha lasciato posto al sacro silenzio. 

« Diciamo insieme due Ave Maria, figliolo. » 

La voce del giovane riempie il confessionale, il suo cordoglio, il suo dolore, si insinua in ogni interstizio. 

Il prete suda, respira più forte. Oltre all’Ave Maria la supplicante preghiere che rivolge al Padre assorbe tutta la sua forza di volontà.

Padre, non farmi cadere in tentazione. Padre, questo è troppo per me. Padre, non farmi desiderare, non farmi sognare, non farmi questo. 

Allontana da me questo calice. 

La Supplica, non una semplice supplica, ma la Supplica di tuo figlio. 

Allontana da me questo calice.

Silenzio. 

Il ragazzo respira, caldo, tra le gambe c’è solo dolore.

 « Torna a casa, figliolo, e non peccare più. » 

« So che succederà ancora. » è la risposta, non impertinente, ma onesta, pura e sincera. Proprio come lo è lui. Quel piccolo, dolce emissario di Satana con i ricci biondi e il volto coperto di efelidi.

Lo vede sempre durante le funzioni, al primo banco con le mani giunte ancora sporche di fango.

Bello come solo il più bello degli Angeli può essere, come lo era Lucifero. 

« Il Signore ti perdonerà ancora se ti avvicinerai a lui con il cuore sincero. » dice, quasi strozzandosi, la voce ridotta ad un filo.

L’impulso di afferrare, divorare, straziare, è così forte che sente dolore. Il ragazzo deve andarsene, adesso. 

« Vi ringrazio padre, vi ringrazio davvero. » 

Lo assolve dunque dai suoi peccati dopo avergli fatto recitare l’Atto di Dolore. E lo lascia andare. 

Anche stavolta lo lascia andare.

Quando il ragazzo lascia il confessionale l’aria si fa più fredda e difficile da respirare. 

Chi assolve i peccati del padre quando sono rivolti ai suoi stessi figli? 

La prossima volta, pensa il prete, saremo entrambi a chiedere perdono. 

L’anima è forte ma la carne è debole. 

Il Signore mi perdonerà, perché mi avvicinerò a lui con il cuore sincero.

Il Signore mi perdonerà. 


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Avrei potuto essere più esplicita ma ho sentito che così...sarebbe stato meglio ;) immaginate pure cosa succederà dopo 

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Capitolo 4
*** Occhio per occhio ***


A svegliarmi è il mio stesso respiro, affannato e pesante come quello di un grasso maiale, rasposo, veloce. Alieno.

Non ho mai respirato così, e non ho mai neanche provato un dolore così. 

L’incoscienza porta con sé dei vantaggi. 

Qualche ora fa, qualche giorno fa, forse una vita fa, ero in un bar ad ubriacarmi, circondato dalle più belle tette mai viste, culi che cantano e gambe lunghe fino alla Luna.

In barba al capo, a mia moglie, a quelle sgualdrine delle mie figlie. 

Chissà che un giorno non possa incontrarle nello stesso bar a sculettare sul palco? Quelle perditempo senza arte né parte, viziate bambine troppo cresciute. Saranno buone almeno a far godere un uomo spero. 

In ogni caso, andava tutto bene. Era il momento in cui scaricavo la tensione prima di tornare a casa per essere un ottimo padre, marito, uomo, cristiano: il solito. 

Un paio di cocktail, qualche shot di tequila, e poi qualcosa è andato storto. Storto nel peggiore dei modi. 

Come può un uomo degno di rispetto, lavoratore, con due lauree e un master ritrovarsi in una situazione del genere? 

Deve essere stata una pillola, perché il trip per un attimo è stato…piacevole. Poi il niente. Almeno, per un po’, un niente parziale in cui ho sentito gli angeli parlare, dopo di che è arrivato il dolore, da tutte le parti, senza la possibilità di aprire gli occhi e capire da dove, chi, perché. Soprattutto perché. 

Perché dovrei meritarmelo? Per i soldi? 

Se potessi muovermi gli darei il mio cazzo di portafogli senza oppormi. Per quel che possono farci quei ne**i di merda, poi!

Bloccherei le carte immediatamente e tanti saluti ad Imrane! 

No, no, qualcosa mi dice che non sono i soldi che vogliono, altrimenti mi avrebbero già lasciato andare dopo avermi svuotato le tasche. 

Non posso muovermi, il corpo pesa una tonnellata e intanto che cerco di liberarmi da catene invisibili una porta, non so bene dove, si apre. 

Riconosco a stento la lingua che parlano i due uomini che entrano, sarà qualche cosa di orientale. Sono finito in mano ai terroristi di Al Qaeda? 

Sono già pronto ad invocare i miei diritti di cittadino americano quando mi rendo conto che i due uomini non parlano una lingua straniera, è la mia, è inglese, con accento americano pacato e netto. 

Non è possibile.

Gli americano non fanno questo ad altri americani, a meno che non sia qualche bastardo liberale, uno di quelli che fa parte di quella cosa, quella con le cazzo di lettere dell’alfabeto che vogliono pervertire i bambini.

I due uomini si avvicino, mi sollevano da terra come fossi un sacco di patate, e non posso fare niente se non farglielo fare, non riesco neanche ad aprire gli occhi! 

« Che dobbiamo fare con questo? » chiede uno dei due, dall’accento direi che è un texano. 

« Il solito, direi. » quest’altro sembra più della California. Ora che sono così vicini riesco a capirli meglio, o forse sono le mie orecchie che funziono meglio adesso che la droga comincia a smettere di fare effetto. 

Magari tra poco riuscirò a muovere le braccia e potrò dargli un pugno in faccia a questi due finocchi del cazzo. 

Stronzi. Che vuol dire, poi, “il solito”? 

« Cazzo, ci sarà un mucchio di lavoro da fare. Grasso com’è, sanguinerà un sacco. » 

Sanguinare? Cosa? 

Il cuore quasi mi scoppia tra le costole. 

Non ho il tempo di metabolizzare quelle parole perché mi sbattono di malagrazia su di una superficie dura, fredda, sdraiato con la faccia rivolta a loro. 

« Quanto ha pagato la famiglia per farlo sparire? » chiede il texano.

In che senso pagato

Una coltellata mi trafigge l’addome, vorrei urlare ma riesco a malapena a respirare. Sento il sangue colare lungo la pelle e allora realizzo di essere nudo, cazzo, nudo su un fottuto lettino operatorio! 

« Pagato! Non vedevano l’ora di sbarazzarsene! Hanno accettato la prima offerta senza contrattare. È un porco maniaco con la passione per le ragazzine. » 

Questo. Non. È. Vero. 

Beh, non del tutto almeno. 

Non è colpa mia se le puttane sono tutte minorenni. D’altronde non è compito mio controllare i loro documenti, giusto? 

Quello che mi fa più incazzare, a dirla tutta, è quella stronza di mia moglie! Mi ha beccato ed è questo il modo di vendicarsi? Non poteva magari fare una scenata come tutte le isteriche del mondo? No! Lei mi ha venduto a dei cazzo i macellai! 

« Il fegato non è male. » dice il texano, e lo sento, lo sento mentre infila le mani nel mio addome e taglia, recide, sminuzza i legamenti che tengono il fegato al suo posto. Lo sento mentre lo tira fuori. Sento il vuoto al suo posto riempirsi di sangue. 

Crock, crack. Queste sono le costole. 

Le rompono così possono avere comodamente accesso a tutto il resto. 

« Aspetta, prima dei polmoni prendi gli occhi. » 

« Subito. » 

Apro le palpebre solo perché mi forzano ad aprirle. 

Li vedo, e loro non sono consapevoli che posso vederli. 

Sono due uomini bianchi di mezza età, cristiani ci giurerei, perché hanno proprio l’aspetto di cristiani, americani. Proprio come me. 

Sono stato venduto e tradito dalla mia stessa razza? E per quali crimini? 

Non ho mai fatto mancare niente alla mia famiglia, ho solo qualche…vizietto. Chi non ne ha? 

Un po’ di alcool, le puttane, picchiare mia moglie, cose che fanno tutti, cose che sono scritte nella Bibbia, cazzo. 

Lo strumento che useranno per strapparmi via gli occhi sembra uno di quegli affari per fare le palle di gelato. Come si chiama? 

Un gelato vorrei mangiarlo, sarebbe un ottimo ultimo pasto. Italiano, un gelato italiano, da Franco. Fa dei gelati deliziosi. Peccato per quei baffi e quell’accento.

Immigrato del cazzo. 

Potrebbe tornare a fare i suoi gelati in Italia, se mai lasciassero tornare in patria i mafiosi. 

Pop, pop.

Si fa tutto nero. 

« Prendi i polmoni adesso. Del cuore non ce ne facciamo niente, buttalo. » 

Zack, zack. 

Trenta secondi di ossigeno. Venti.

Forse se avessi fumato meno riuscirei a trattenere di più il respiro. 

Che ridere.

Non si può trattenere il respiro senza polmoni.  

Dieci.

Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno.

Americani del cazzo. 

Zero. 

 

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Capitolo 5
*** Day Hospital ***


#backrooms #backroomvibes #horror #weird #sliceoflife #paranormal 
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Non c’è nessuno. I corridoi deserti risuonano dei miei passi, del mio respiro, degli occasionali fischi del vento che trapassa infissi traballanti. 

Non c’è nessuno. Né dentro né fuori (se mai ci fosse un mondo là fuori). 

Non c’è nessuno a parte me. 

La stanza è confortevole, lo è stata fin dal primo momento quando, due, tre, quattro, mille anni fa, mi hanno ricoverato per un piccolo intervento di routine. Niente che, una roba che avrei dovuto risolvere in una giornata, un salto nell’incoscienza di un’oretta al massimo, e poi il ritorno ad una vita normale, godendomi lo strascico di morfina. 

È così che doveva andare. 

Il chirurgo mi era sembrato rassicurante e gentile, le infermiere attente, e in generale la cosa facile. Quindi, a parte il doveroso panico pre anestesia e pre oddio-mi-taglieranno-ovunque, non credevo veramente nella possibilità di morire. 

Per questo, essersi svegliata nella mia stanza ma al contempo in un’oltre-stanza, mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca, un po’ di delusione nei confronti della Giustizia.

Dopo averci pensato a lungo, sì, devo essere morta per forza, e questo deve essere il mio inferno personale. 

Questo non-luogo è regolato da meccanismi semplici: una perenne penombra, come poco prima dell’alba o del tramonto, la totale assenza di creature viventi (a parte me, semmai io possa essere definita “vivente”), porte e finestre verso l’esterno sigillate per impedirmi di lasciare l’edificio, acqua, cibo e beni di prima necessità in abbondanza (anche se mi chiedo che senso abbia se tanto sono morta) che si ripristinano ogni ventiquattro ore circa (secondo la mia percezione). 

Dove mi trovo? Quando mi trovo? Perché? 

Onestamente non lo so, quel che so è che sono ancora in ospedale, che se guardo fuori ritrovo punti di riferimento familiari (strade, cartelli, palazzi, la fermata dell’autobus), e che sono bloccata qui, senza poter scappare. 

Ci ho provato, intendiamoci, nei primi giorni pieni di terrore in cui ho dovuto scendere a patti con la realtà intorno a me. Le finestre sembrano avere vetri blindati, che non si spaccano neanche se presi a martellate e tutte le porte, tranne quelle che danno sull’esterno che non si aprono affatto, una volta attraversate mi portano da tutt’altra parte rispetto al luogo che mi aspetterei. 

Hop un attimo prima sono al primo piano hop apro la porta del reparto e mi ritrovo in accettazione. 

È come un labirinto semovente o un cubo di Rubik in continuo movimento. 

Quando penso di aver memorizzato gli spostamenti delle stanze, ecco che una porta si apre su di una rampa di scale mai vista. 

Se prima mi facevo ingannare e riempire di speranza, adesso accolgo la novità come un fastidio. Un’altra svolta a vuoto e un altro lunghissimo giro per riuscire ad andare dove voglio andare. Ci sono alcune porte che rispettano la segnaletica, come quella per la caffetteria e per il piano dove si trova la mia stanza, immagino che sia per permettermi di avere sempre cibo e riposo in abbondanza mentre impazzisco in questo posto.

Il resto si sottomette alle leggi del Caos. 

Non saprei dire con esattezza da quanto tempo sono prigioniera, né effettivamente se io possa considerarmi una prigioniera. 

Il tempo è relativo negli attimi che precedono l’alba e il crepuscolo, e lascio che siano i bisogni del mio corpo a tenerne traccia. Così, ho segnato sulla parete trenta linee, corrispondenti ad ogni volta che mi sono addormentata, immaginando che fosse per la stanchezza dovuta alla notte. 

Trenta è un numero approssimativo. Trenta giorni, trenta notti, trent’anni? 

Beh, trenta in ogni caso. 

Come al solito, anche stamattina appena sveglia ho controllato che il mio corpo funzionasse ancora. Gambe, braccia, la voce. Certe cose possono smettere di funzionare se non le si usa per troppo tempo.

Non sembra che io sia stata operata, sono in perfetta salute e non ho cicatrici o segni di alcun tipo addosso. 

Adesso, verso la caffetteria per la colazione. 

A rendere tutto più frustrante sono i rumori della cucina, lo sfrigolio delle piastre, il ribollire delle pentole. 

È come se al mio ingresso i cuochi sparissero lasciando stoviglie e suppellettili lì dove le stavano usando. 

Il cibo è sempre caldo, morbido, fresco di giornata, a prescindere dalla pietanza scelta. 

Chi lo cucina e perché? 

La scelta ricade anche stamattina su croissant e cappuccino. È divertente perché ho sempre pensato che in ospedale si mangiasse uno schifo invece ci sono le migliori brioche che abbia mai mangiato. Ce ne sono di tutti i gusti, ripiene di marmellate e creme di ogni tipo.

Prendo il vassoio, dò un’occhiata alle teglie piene di leccornie, poi metto nel piatto il solito croissant integrale ripieno di marmellata di mirtilli. 

Alla macchinetta delle bevande rivolgo le mie prime, e probabilmente ultime, parole della giornata, e con essere le mie briciole di sanità mentale. 

« Un cappuccino, per favore. » dico, prima di premere il pulsante. Così sembra che la macchina abbia risposto al mio ordine, proprio come farebbe un cameriere.

Mi siedo a fare colazione, come ogni mattina-giorno-pomeriggio-sera. 

« Buon appetito. » la mia voce risuona nel vuoto e torna indietro con una debole eco. Avevo proprio voglia di parlare oggi.  

Eccoci qui, un altro giorno nella follia. 

Che cosa potrei fare per passare il tempo? 

Potrei provare a trovare un modo per arrivare nel reparto chirurgia o terapia intensiva, quelle due porte continuano a darmi fastidio. Sono sicura che ci sia da qualche parte quella giusta per arrivarci. 

Oppure potrei inghiottire un intero flacone di pillole e mettere fino a questo strazio. 

Non è orribile il desiderio di sopravvivenza che pur tendendosi allo stremo non cede mai, costringendomi a rimanere in vita, giorno dopo giorno, ad ignorare i bisturi, le droghe e tutte le potenziali cause di morte? 

Per ogni pensiero, un contro-pensiero. 

E se sbagliassi il dosaggio e rimanessi cosciente in uno stato di pseudo morte? Escluse le pillole. 

E se tagliassi male le vene dei polsi e rimanessi ad agonizzare per delle ore? Niente bisturi. 

E se tentando di impiccarmi con le lenzuola della mia stanza il nodo si sciogliesse e cadessi al piano di sotto rimanendo parallizzata con tutte le ossa rotte? 

La verità, che mi riesce così bene di ignorare, è che non voglio morire. Spero ancora che questo lunghissimo incubo finisca così come è cominciato. 

Mangio piano, un boccone alla volta, perché non ho fretta di andare a lavoro o di prendere il treno o di mancare ad un appuntamento. 

Posso prendermela comoda, è una cosa positiva, no? 

Fuori il cielo è un po’ nuvoloso. Cosa darei per sentire il vento sulla pelle. La temperatura in ospedale è sempre piacevole, ma è artificiale, così come la luce. 

Il reparto chirurgia, comunque, sembra un’ottima idea, mi darà da fare per qualche ora, almeno finché non mi verrà di nuovo fame. 

Scandire il tempo con i bisogni dello stomaco è nuovo per me, a volte mi sento un neonato, ma credo che l’uomo lo facesse e l’abbia fatto per secoli prima di inventare l’orologio.

Butto giù l’ultimo sorso di latte e poi lo sento. 

All'inizio è talmente lontano e vago da sembrare lo sgocciolio di un rubinetto che perde, ma più si avvicina più è chiaro che si tratta di passi, scarpe sul linoleum come colpi di fucile. 

I passi, di solito, appartengono alle persone. Di solito. 

Scatto in piedi, lo stomaco pieno si rivolta, un’ondata di nausea mi riempie la gola ma la inghiotto in fretta. 

Qui c’è qualcuno, ma ho la netta, precisa, dolorosa certezza che sia venuto per uccidermi. 

Perché? Perché ho paura, perché mi tremano le gambe, perché scappo attraverso la caffetteria come un fulmine? 

Perché quei passi si fanno più frettolosi, cominciando a corrermi dietro? 

No, non deve raggiungermi, non deve trovarmi. 

Imbocco il corridoio che porta alla farmacia, giù per due rampe di scale.

Ti prego, non cambiare adesso! 

Spalanco la porta e mi trovo dove mi aspetto di essere, il sollievo sale alla testa con un piacevole formicolio. 

I passi sono sopra la mia testa, in cima alle scale. 

Mi chiudo la porta alle spalle e corro appoggiando a malapena la punta dei piedi per terra. A tradirmi potrebbe essere il cuore, con il suo palpitare convulso. 

La porta sulle scale si apre quando ho appena voltato l’angolo. 

Cerco freneticamente un posto dove nascondermi e mi infilo nella prima camera che trovo aperta, e poi nel bagno.

Non può trovarmi, non può trovarmi, non può trovarmi.

 Mi rannicchio dietro il lavandino, sul pavimento che mi sembra caldissimo, soprattutto vicino al sifone. 

Ti prego, ti prego. 

I passi si affrettano lungo il corridoio, superano la camera, si disperdono nel nulla. 

È andato, sono salva. 

Mi rimetto in piedi, piano esco dal bagno, ancora più piano mi affaccio in corridoio, pianissimo ritorno sui miei passi verso le scale per tornare in caffetteria. Più che pianissimo abbasso la maniglia e apro la porta. 

Respiro.

Sono salv…

 

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Capitolo 6
*** Corri Scheggia, corri! ***


#war #blodd #violence #nb #nonbinary #nonbinarycharacter #nbprotagonist #angst #triggerwarning
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Corri Scheggia, corri! 

Da quando aveva indossato l’uniforme e imbracciato il fucile per la prima volta era quello che continuavano a dirgli tutti. 

Corri Scheggia, corri! 

E dire che lui a correre non era mai statǝ granché, soprattutto perché preferiva i fast food ai campi di atletica, il divertimento pacato alla palestra. Insomma, non era mai statǝ, e mai l’avrebbe detto, che dalle sue gambe sarebbe dipesa la sua vita.

Era veloce, era straordinariamente veloce. Per questo gli altri membri del plotone avevano cominciato a chiamarlo Scheggia.

Da invisibile, insignificante individuo con pochi amici e poche passioni era passato ad essere qualcuno, non un mucchio di carne e ossa che in braccio un’arma, ma Scheggia, una persona con un nome e un’identità. Questa era l’unica cosa buona che aveva portato la guerra. 

Scheggia era statǝ qualcuno prima che arrivassero ma l’arruolamento forzato, l’addestramento, le notti rannicchiatǝ in brandina ad aspettare l’alba l’avevano cancellato. Il giorno che gli avevano tagliato i capelli, portato via i vestiti e reso spaventosamente reale Call of Duty aveva smesso di essere quella persona. 

L’ultima cosa che la sua generazione si sarebbe aspettata sarebbe stata la guerra. Non la guerra nel paese degli altri, combattuta da altri, per religione, petrolio, territori, quella pigra che passava al telegiornale dipinta come una tragedia che spariva in fretta una volta cambiato canale. No, non quella comoda guerra, ma quella reale, capace di costringere tutti i governi del mondo ad arruolare maschi e femmine dai sedici anni in su con la forza e senza spiegazioni. 

Scheggia i nemici non li aveva ancora mai visti, perché quando erano arrivati con l’intenzione di invadere e colonizzare la prima cosa che avevano fatto era stata far saltare la rete di informazioni: niente internet, niente stampa, niente televisione. 

Al conseguente panico era seguito un broadcast di emergenza del governo: restate nelle vostre case, seguiranno ulteriori comunicazioni.

Le comunicazioni si erano mostrate sotto forma di militari armati che avevano prelevato tutti i giovani, parecchi veterani, buona parte della fascia tra i quaranta e cinquanta. Erano rimasti fuori solo disabili, malati, anziani e bambini, chiunque fosse stato trovato in grado di poter sopportare un rapido addestramento, a prescindere dall’orientamento politico e morale, era stato portato via con quello che Stato dichiarò essere “arruolamento coatto". 

Se qualcuno si era opposto, era scappato, o aveva evitato l’arruolamento non si sapeva: di questo tipo di persone non rimanevano tracce.
Così, Scheggia, sepratǝ dalla famiglia, dal mondo che conosceva, era diventatǝ un soldato. 

Lǝi alla guerra non aveva mai neanche pensato se non come ad un passatempo da vivere sul divano con un joystick.

Adesso, però, era diverso, adesso sapeva come ricaricare una pistola, un fucile, un mitra persino, sapeva anche utilizzare le bombe a mano, anche se sperava di non doverlo mai fare. 

Sperava di correre, correre e basta, perché la cosa che gli riusciva meglio. 

A pensarci faceva sorridere, non avrebbe mai scoperto di essere un talento dell’atletica se non fosse stato per la guerra. Un’altra cosa buona! 

Quindi adesso correva.

Correva da giorni a dirla tutta.

I nemici avevano attaccato una delle loro basi, quella tirata su alla bell’e meglio in una scuola elementare di quartiere, facendola saltare in aria in un lampo bianco. 

Prima di avere il tempo di realizzare quanti erano morti, Scheggia e il suo plotone erano dovuti schizzare via con i fucili imbracciati.

Tutti avevano esploso almeno un colpo, tranne Scheggia, le cui dita tremavano ancora sul grilletto, e d’altronde Jaceur non glielo avrebbe permesso. Con un nome che si pronunciava in modo spaventosamente simile a “Yes, sir” non poteva diventare altro che il capo plotone, nonostante la giovane età e la discendenza non-bianca che di norma avrebbe fatto storcere il naso al governo. Strabiliante vedere come quelli che venivano spesso dimenticati dal sistema alla fine erano i primi desiderosi di morire per esso. 

Jaceur gli correva a fianco, non come superiore ma come amico, come superstite in cerca di riparo, come ragazzo spaventato ma deciso.

Dietro di loro scoppi, grida, bagliori accecanti, la fine del mondo, sotto di loro il terreno tremava per l’impatto dei corpi caduti, ed era zuppo di sangue. 

Scheggia si trovava più avanti, ogni tre passi ne saltava uno per aspettare Jaceur, più lento sebbene più testardo. Ogni tanto si voltava per assicurarsi che fosse ancora lì.

La loro grande fortuna era combattere tra i palazzi, più confortevole che scivolare tra le felci della giungla o il fango della palude, ma anche più estraniante. Evitare colpi di fucile infilandosi in uno Starbucks era qualcosa che aveva del surreale. 

< A destra! > gridò Jaceur, e Scheggia capì di doversi tuffare oltre l’ingresso di un H&M per cercare riparo. 

Un tempo avrebbe amato girare indisturbatǝ per i corridoi, tra mensole e manichini vestiti con dubbio gusto. Adesso ogni ombra poteva essere un pericolo. 

Si accucciò dietro uno scaffale, il fiato grosso per l’affanno, e Jaceur gli si sedette accanto poco dopo. 

Un attimo per riprendere le forze, ricaricare i fucili, riorganizzarsi. 

Tacquero entrambi sul sangue che avevano addosso, sui resti carbonizzati di carne e tessuti che erano appartenuti ai loro commilitoni. 

Jaceur provò a far andare la radio, cercando qualche altro plotone nelle vicinanze. Solo rumore statico. 

Erano da soli in mezzo al campo di battaglia. 

“E adesso che facciamo?” avrebbe voluto chiedere Scheggia, ma Jaceur portò l'indice alle labbra intimandolo al silenzio. 

All’ingresso, rumore di passi e vetri calpestati, segnali radio estranei e voci sussurrate.

Jaceur fece cenno a Scheggia di scivolare verso la prossima corsia, nella speranza di arrivare alle scale mobili che portavano al piano interrato, da lì, ipotizzò lǝi, avrebbero preso l’uscita d’emergenza che dava sul vicolo posteriore del negozio, e forse trovare salvezza. Potevano farcela. 

Scheggia annuì, aveva capito, e cominciò a gattonare carponi verso le scale. 

Aveva nelle orecchie un ronzio continuo, poteva essere paura, o l’eco delle esplosioni. 

Era quasi arrivato quando il sibilo di un proiettile gli sfiorò la testa facendolo trasalire. 

< Corri Scheggia, corri! > urlò Jaceur alle sue spalle. 

E lǝi corse. 

Una volta balzatǝ in piedi, corse, corse giù per le scale come un lampo, a zigzag tra gli scaffali abbassando la testa quando i proiettili gli facevano piovere addosso l’intonaco; corse quando avvertì Jaceur crollare dietro di lui, voltandosi solo un istante per vedere il nemico con la canna del fucile puntata contro la sua testa. 

Corse, e per questo non poté giurare di leggere sulle labbra di Jaceur la parola “corri!” sillabata con l’ultima boccata d’aria. 

La porta di emergenza di aprì con una spinta leggera sul maniglione antipanico.

Scheggia fu fuori. Valutò la direzione da prendere con i sensi intontiti e si lasciò guidare dalle gambe. Finché avrebbero retto, e forse anche dopo, avrebbe continuato a correre.

Percorse il vicolo, uscì sulla strada principale. Benché gli fu subito chiaro di essere circondato, non lasciò che la cosa lo fermasse.

Udì l’insolita, schioccante voce del nemico che urlava nella sua direzione, ma non permise agli occhi di riempirsi di una vista che l’avrebbe paralizzato.

Voltò le spalle e riprese a correre. 

Ad ogni falcata stupidi, frivoli ricordi gli riempivano la mente.

Sua sorella al suo primo Natale; sua madre alla cerimonia del diploma; il suo primo fidanzato immerso nella luce del pomeriggio; l’orsetto di peluche, regalo del suo compleanno, abbandonato sul pavimento della sua stanza in mezzo ad altri giocattoli; e ancora l’immagine di cento, mille, milioni di baci, baci rubati, baci imbarazzati, baci sbagliati, baci soddisfatti, baci mai dati, baci perduti.

Il dolore lo trafisse alla schiena ma non lo fece rallentare, anzi.

Il suo passo si fece più sicuro.

Si tolse la tracolla del fucile e lo gettò a terra, in ogni caso non sarebbe riuscito ad usarlo e lo intralciava nei movimenti. 

Non c’era abbastanza aria nell’atmosfera e gli sembrava di annaspare, probabilmente perché i polmoni trafitti dai proiettili si stavano riempiendo di sangue. Ma questo non poteva fermare Scheggia. 

Sentì la voce di Jaceur, di Kate, di Jonas.
Corri Scheggia, corri! 

Li vide al suo fianco esultare con lui, entusiasti e con le mani verso l’alto, come se stesse correndo per vincere l’oro olimpico. 

Fin quando non mise un piede su di una mina antiuomo che gli sbriciolò le gambe e buona parte del busto, lǝi corse, perché era l’unica cosa che era in grado di fare.

 

 

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Capitolo 7
*** Drunk enough to say I love you? ***


#girlxgirl #shoujo-ai #angst #confusedfeeling #brokenhearted #friendzone 

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Quella sera l’aria era pesante, irrespirabile, il cielo era più scuro del solito, tanto che il sole sembrò tramontare in anticipo, e il vento, il vento era più tagliente, si insinuava tra i bottoni, nelle cerniere, in tutte le fessure tra porte e finestre e non c’era modo di tenerlo fuori.

Era una pessima serata.

Marey ci rifletté a lungo mentre guardava il mondo sfilare nero e opaco fuori dal vetro dell’autobust: non era il momento giusto.

Non è il momento, si disse mentre scendeva alla sua fermata.

Non è il momento giusto, ripeté mentre affrontava i quattrocento metri che la separavano da casa.

Non è il momento giusto, continuò, guardandosi allo specchio in ascensore mentre aspettava di salire al suo piano.

Semplicemente non lo era.

E non dipendeva dal fatto che cominciava a sentire i palmi sudare e il cuore esplodere al solo pensiero di pronunciare certe frasi. Anzi, già metterle in ordine nella sua testa le sembrava troppo, le sembrava insopportabile.

Come poteva fare?

Beh, poteva sempre usare una delle tante scuse del suo arsenale.

Sono stanca, non mi va di uscire, ho fatto tardi a lavoro, c’è freddo, non ho la macchina oggi.

La parte positiva di essere una persona introversa era che nessuno faceva caso più di tanto a cosa diceva per annullare un appuntamento precedentemente preso.

Doveva solo pensare a cosa dire ai suoi amici per non uscire quella sera. Per non rivedere lei.

Bella e splendente come una giornata estiva, eppure fresca e confortevole come un pomeriggio invernale. Erin.

La sua migliore amica, la sua compagna prima di banco, poi di nefandezze, la persona che conosceva da più tempo in assoluto, che c’era sempre e, come la stella Polare, sempre ci sarebbe stata.

Rimandare: era la cosa che le veniva più semplice. Rimandare l’inevitabile per non dire neanche a se stessa che si era innamorata della sua migliore amica.

Ogni giorno diventava più difficile affrontare i suoi occhi scuri e annegare nella bile dello stomaco le emozioni che tentavano di affiorare.

Un gesto, un sorriso, uno sguardo, e Marey si sentiva sbriciolare dentro, come un palazzo dopo un terremoto: all’apparenza stabile, ma strutturalmente compromesso, crepe ovunque, calcinacci sul pavimento.

Da un po’ di tempo a quella parte aveva deciso che non poteva continuare così per sempre. L’idea di vivere senza Erin era migliore di continuare a tenersi dentro quelle emozioni. Perché il suo terrore più grande era proprio quello, perderla perché non corrispondeva le sue emozioni, vederla andare via a disagio, triste, consapevole di non poter mai più essere amiche.

Come avrebbe potuto biasimarla, d’altronde? Lei come avrebbe reagito?

Con disagio, pensava, con rabbia forse, con ribrezzo. Il senso di tradimento l’avrebbe accompagnata per tutta la vita, e non avrebbe mai più guardato il mondo con gli stessi occhi.

La prospettiva era spaventosa, certo, ma mai quanto quella di continuare a vivere con quel macigno sul petto.

Eppure non aveva nessuna voglia di lavarsi, vestirsi e uscire quella sera, la sera in cui tutto sarebbe potuto cambiare.

Il telefono squillò, un messaggio sul gruppo degli amici, tutti emozionati per quella serata, la prima dopo tante settimane di lavoro in cui sarebbero stati di nuovo insieme. Sparse un po’ ovunque, le loro vite si erano allontanate così tanto che serate come quelle erano vere e proprie perle: rare e preziose.

Che persona sarebbe stata se avesse dato buca?

No, non c’era alternativa, doveva andare. Ma questo non significava che avrebbe dovuto dire tutto ad Erin.

Ritrovarsi fu piacevole, lo era sempre, e nonostante lo stomaco ruzzolasse nell’addome, Marey era contenta di essere uscita, di vedere volti e occhi amici, di sentire il tocco della vita sociale dopo tanto tempo. Anche una persona misantropa come lei aveva bisogno, alle volte, di condividere l’aria con qualcun’altro.

Poi arrivò Erin.

Anche se non vestiva in modo vistoso riusciva con piccoli dettagli a valorizzare ogni abito. Bastava una cintura preziosa su di un normale abitino per renderlo adatto ad una serata di gola. O forse era solo il modo in cui gli occhi di Marey la percepivano che la facevano brillare.

Ascoltò solo parzialmente quello che gli amici le dissero dal momento in cui comparve lei, partecipò ridendo, annuendo, parlando al momento giusto, lasciando che il pilota automatico facesse il lavoro al posto suo.

Sobbalzava ad ogni occhiata, come se Erin la stesse trapassando con un punteruolo di ghiaccio. Quel freddo andava scaldato, e lei aveva a disposizione il fuoco dell’alcool.

Il primo bicchiere scivolò in gola caldo e confortante, e da lì cominciò con presunzione a pensare che quello fosse l’unico modo per sopravvivere alla serata.

Non era in grado di godersela in altro modo se non senza esserci davvero, con la mente annebbiata e le emozioni sopite.

Ad ogni bicchiere, però, lo sguardo le cadeva sempre più frequentemente su Erin, sempre più sulle sue labbra, sui suoi occhi, sulle mani che indugiavano sulla patatina da scegliere dalla ciotola al centro del tavolo prima di prenderla, come se da quella scelta dipendesse chissà quale destino, sulla risata, sull’incavo del collo che si piegava ora da un lato ora dall’altro liberando un profumo dolce di marshmallow.

« Vado a fumare. » disse Marey ad un certo punto. Nel tirarsi in piedi quasi ondeggiò verso il muro. Per fortuna poté dare la colpa alla borsa di Noemi, lasciata troppo vicino alla sua sedia.

Risero tutti, mentre Noemi si scusava e si affrettava a togliere l’ostacolo dalla sua traiettoria.

Marey sorrise, presa solo dal desiderio di prendere aria. Il calore dell’alcool le era arrivato al collo e stava aggredendo il viso, sentiva le labbra insensibili e gli occhi riempirsi di lacrime. Forse era quello il modo del liquido atroce di lasciare il suo corpo, con un fiume di lacrime che cominciava a sentire come inevitabile.

Fuori dal locale dovette appoggiarsi contro il muro per sentire che il mondo intorno a lei era ancora reale. Tutto le sembrava ondeggiare e perdersi in una piacevole nebbiolina ebbra.

Avrebbe potuto riderne e godere il carosello di immagini che le correvano davanti agli occhi, ma aveva paura del baratro che aveva sotto i piedi.

La porta del locale si aprì, e lei non si stupì di veder uscire Erin.

Quasi in automatico condivise l’accendino con lei in modo che potesse accendersi una sigaretta.

Nessuna delle due, però, prese un solo tiro. Il fumo si alzava in piccole volute tra loro, un pungente odore di tabacco amaro nel silenzio.

« Tutto bene? » le disse all’improvviso Erin.

Marey scosse la testa, con cautela, per evitare di sentire la nausea aggredirle lo stomaco e farle perdere la capacità di parola.

Uno, due, tre shot e un cocktail. Non era poi molto, no? Non abbastanza da renderle le gambe di gelatina, come invece le sentiva. O anche la sua percezione dell’effetto dell’alcool sul suo corpo era falsata…dall’alcool?

I pensieri correvano su binari senza stazione, che terminavano nel nulla o con uno spaventoso muro di mattoni: a tutta velocità schiantarsi contro il cemento.

« Sì, tutto bene. » rispose, forse un po’ in ritardo, pensando ancora all’immagine del treno che si accartoccia contro il muro come una lattina di coca.

« Sei strana stasera. » continuò Erin, insinuante, facendosi più vicina.

Perché, perché, perché.

Non era abbastanza ubriaca per quello. Non era abbastanza ubriaca per dirle che l’amava.

« No, è tua impressione. » minimizzò.

Finalmente ricordò di avere una sigaretta tra le dita, la portò alle labbra, prese un dito, il viso le si illuminò per un attimo della luce della brace accesa, poi come le sue buone intenzioni, tutto si trasformò in cenere da scuotere via.

Soffiando via il fumo prese coraggio, ma nel tempo impiegato alla voce per raggiungere la bocca, fu Erin a parlare.

« Ho conosciuto una tipa. » disse, un mezzo sorriso, la fossetta sulla guancia accentuata dall’imbarazzo.

« Ah, sì? » fu l’asciutto commento di Marey.

Erin annuì. Il dondolare sulle punte come se fosse più leggera, l’ondeggiare dei capelli intorno al viso, l’esitazione nel continuare a parlare: la tipa le piaceva, e molto anche.

« Non ti ho detto niente perché non ero ancora sicura. Ci sentiamo da un paio di settimane ma adesso…credo di essere pronta, ecco, per dirlo sai. Sei la mia migliore amica. »

« Certo. » Marey sorrise di rimando, meccanicamente, il pilota automatico funzionava ancora nonostante fosse arrugginito sotto il getto dell’acqua. « Raccontami tutto. »

Erin cominciò a parlare. Ad ogni parola, i colori sparivano alla vista di Marey, come se il mondo, lentamente, venisse lavato via e si sciogliesse sotto pioggia acida.

Realizzò che non avrebbe potuto dirle che l’amava neanche stasera. Probabilmente neanche la sera successiva, né quella della settimana dopo. Neanche tra un anno, tra un mese o tra una vita.

Mentre Erin usava aggettivi rotondi, morbidi, gentili, leggeri per descrivere quella persona di cui Marey non voleva sapere nulla e che, senza neanche rendersene conto, le aveva portato via tutto, decise che non gliel’avrebbe detto mai. 

 

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Capitolo 8
*** Moissanite ***


#fakedating #fake #diamond #sliceoflife #paparazzi #star 

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Perché parla ancora?

Tengo gli occhi educatamente su di lei. Ogni tanto le guardo le labbra (la lingua che si insinua nello spazio tra gli incisivi superiori), ogni tanto le guardo le mani (smaltate di azzurro carta da zucchero), ogni tanto sbircio quanto cibo è rimasto nel suo piatto o nel mio.

Ogni tanto, invece, guardo le telecamere. O meglio, dove so esserci telecamere.

La bocca famelica di una macchina fotografica può nascondersi ovunque anche in bella vista, un paparazzo può essere dietro l’angolo, seduto al tavolo come un comune cliente, abbarbicato sul balcone di fronte al locale con una lente telescopica. Persino il personale di sala potrebbe essere coinvolto.

Per questo sorrido.

Sento l’eco dei click click click e le voci che urlano Da questa parte, per favore, da questa parte. Tutti in cerca dell’esclusiva, tutti in cerca di un’angolazione diversa per la prossima foto. Se sono stato bravo, la soddisfazione sarà nel vedere tutti i giornali pubblicare la stessa immagine. Non un capello fuori posto, non una sbavatura nel trucco, non una piega sulla camicia, non un piede rivolto nella direzione sbagliata: niente su cui speculare, nessun gossip, l’ennesimo niente.

E’ quello che voglio essere: niente.

Luo Ying si tocca spesso gli orecchini, due pendenti d’oro con un’acquamarina che dondolano intorno al viso a cuore. E’ nervosa, pensa di stare parlando troppo. Sta parlando troppo.

Da quando ci siamo seduti non ha fatto altro che riempire il vuoto tra noi con frivolezze, un elenco interminabile di commenti sul locale, sul servizio, sulle stoviglie, sulle pietanze, evitando accuratamente cose ancor più banali come il tempo o le temperature. Se cominciasse a parlare di quello sarebbe chiaro che la conversazione sarebbe finita.

Smette di parlare solo per mettere in bocca la forchetta, dopo che l’ha fatto lei lo faccio anch’io, così manteniamo lo stesso ritmo.

La cena deve durare due ore, non un minuto di più non uno di meno, come da contratto. E Luo deve parlare, deve continuare a parlare. E’ quello che ci si aspetta dalle donne ad un appuntamento galante.

Da questo punto di vista sono più fortunato di lei, a me è richiesto solo di sorridere ed essere gentile, di prenderle la mano quando la appoggia sul tavolo e non è impegnata con le posate o il tovagliolo, di versarle il vino quando svuota il bicchiere. Non più di una bottiglia in ogni caso, nessuno vuole che io sia ubriaco e che mi goda veramente la serata.

Guardare l’orologio sarebbe scortese, oltre che immortalato dalle migliaia di macchine fotografiche nascoste intorno a noi, per questo il mio agente, quando ha scelto l’abbigliamento per la serata, ha accuratamente evitato di farmelo indossare. Il tempo scorre secondo la mia percezione, scandito da una lancetta dei secondi ferma da un’eternità.

Il cameriere, ingessato nel completo bianco e nel suo imbarazzo, si avvicina al tavolo.

« Tutto bene, signori? »

Luo, finalmente, smette di parlare.

Anche se il cameriere si è rivolto ad entrambi, deve essere l’uomo al tavolo a rispondere.

Per cui riprendo il sorriso, cucito ormai sulle mie labbra, e rispondo:

« Splendidamente, grazie. »

Il cameriere raccoglie i nostri piatti, ormai vuoti, e poi fa la domanda che aspettavo fin dall’inizio dell’appuntamento:

« Posso portarvi qualcos’altro? Un dolce, magari? »

Come da contratto abbasso lo sguardo su Luo, piego di lato la testa con fare accomodante, come si fa con un cane o un bambino, la guardo dritta negli occhi nocciola come se mi importasse del suo parere e da lei dipendesse l’intera riuscita di quella serata.

« Vuoi qualcosa, cara? »

Luo Ying ha firmato solo per: un antipasto, un primo, un secondo con contorno e una bottiglia di vino. Il dolce non è compreso.

Porta una mano alla bocca, qualsiasi rossetto abbia usato sulle labbra non è andato via mangiando, il bracciale d’oro bianco e diamanti al suo polso tintinna. O meglio, il bracciale d’oro bianco e alternativa convincente ai diamanti. Fasulli, come tutto il resto.

« No, sono veramente piena, era tutto delizioso. »

Così, torno a guardare il cameriere, con attenzione, nel caso la mia accompagnatrice volesse fingere di ripensarci, così potremmo discutere di quanto siamo pieni, di quanto ci piacerebbe mangiare ancora, di quanto sia un peccato non avere uno stomaco più grande.

Da lei non proviene altro così posso concludere con:

« Grazie, può portarci il conto. »

Il cameriere fa un breve inchino e si allontana facendo due passi indietro prima di darci le spalle.

Posso bere l’ultimo sorso di vino rimasto nel calice per prendere tempo mentre aspettiamo il conto.

Tra le ciglia di Luo vedo scintillare l’intenzione di dirmi qualcosa che non rientra nel contratto che la vincola, ma se è intelligente quanto sembra non romperà i termini dell’accordo e si accontenterà dei soldi che prende per fingere di essere preziosa per me.

« Questo posto è davvero magnifico, torniamoci ancora al prossimo anniversario. » snocciola, una parola alla volta come se fosse un telegramma.

Questo. Posto. E’. Davvero. Magnifico. Torniamoci. Ancora. Al. Prossimo. Anniversario.

Squisitamente fasullo, proprio come dovrebbe essere.

Chino il capo con finto compiacimento.

Il cameriere porta il conto, non discutiamo neanche su chi deve pagare, lei si limita a prendere la sua borsetta, alzarsi ed essere splendida, avvolta dalle soffuse luci gialle sopra di noi.

Le offro il braccio mentre usciamo dal ristorante, mi si appoggia contro con la delicatezza richiesta, senza appesantirmi mentre muove le lunghe gambe sui tacchi a spillo.

Usciti dal locale i flash dei paparazzi ci investe come un’onda. Salutiamo, sorridiamo, le stringo un braccio intorno alla vita perché risulti che siamo una coppia che si ama con discrezione senza essere troppo espliciti. Così giovani e così modesti, un esempio da seguire per tutti, così che sulle pagine lucide delle riviste i giornalisti possano dilungarsi sul descrivere la nostra relazione perfetta. Ricchi, famosi, ma casti e puri, come diamanti esposti nella vetrina di una gioielleria.

La limousine viene a prenderci, faccio salire prima Luo Ying, così che i paparazzi possano impazzire di gioia per quel gesto galante, poi mi volto per un rapido saluto di ringraziamento, come se fossi felice di vivere la vita di un altro, e salgo anch’io.

I vetri sono oscurati e l’autista è pagato per tenere la bocca chiusa e guardare la strada, per cui Luo si spinge all’altro capo del sedile, il più lontano possibile da me.

Dopo aver parlato ininterrottamente tutta la sera, tace.

Quando arriviamo a casa, la casa che abbiamo voluto, comprato, arredato insieme, che i media hanno filmato in ogni sua parte prima di constatare che non ci fosse niente di cui parlare e abbandonare ogni interesse, lei scende. Resiste sui tacchi a spillo fin oltre la soglia, poi li calcia via e sale le scale verso la sua stanza senza neanche rivolgermi uno sguardo.

A volte devo è difficile ricordarmi che è una prigioniera tanto quanto lo sono io.

« Bentornato. » per la prima volta in tutta la sera, riesco a sorridere davvero.

Ren Xue mi viene incontro, le braccia aperte in segno di accoglienza.

Il suo profumo mi riempie quando mi stringo a lui, e il peso che ho dovuto sostenere si alleggerisce fino a svanire, tanto che mi sento sollevare.

A differenza di Luo Ying, io ho qualcuno a casa che mi aspetta, qualcuno di vero, qualcuno che mi ama.

« Adesso, in ginocchio. » mormora Ren, spingendomi sul pavimento con le mani sulle spalle. Non mi oppongo, anzi, sono grato al mio padrone. « L’hai tolto? »

« No. » rispondo, sorridendo.

Ren tira fuori il telecomando e lo accende. Un brivido mi fa tremare, sopprimo appena un gemito.

Luo Ying è un’ottima imitazione.

Ma Ren, Ren è il vero diamante.

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Mi sono un po' ispirata all'idea di ambiente tossico nel k-pop, il fatto che si dice che ci sono alcuni cantanti che non possono avere relazioni al di fuori dei loro contratti e cose del genere. Ovviamente non so se siano vere né voglio insinuare che lo siano, è stata solo la scintilla che mi ha ispirata. 

I nomi non sono accurati né sono reali, sono stati creati con un generatore di nomi orientali, perché so quanto sia importante la scelta del nome con significati specifici, e non volevo fare niente di offensivo. 

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Capitolo 9
*** Trapassata ***


Io odio i piercing. Se non fosse stato per i miei genitori, che per qualche ragione avevano deciso di forarmi le orecchie quando non camminavo ancora, non porterei neanche gli orecchini.

Odio il solo pensiero dell’ago che penetra la pelle, del sangue, del dolore, del processo di guarigione, delle cicatrici, dei corpi estranei di metallo, prezioso o meno, che toccano la cute.

Odio soprattutto il dolore, credo, o almeno il pensiero del dolore, non tanto il dolore in sé. So, in maniera razionale, che un ago che fora la pelle è appuntito abbastanza da non far sentire molto se non un pizzico o un bruciore vago, ma non sono…amante del genere.

Gli aghi delle siringhe sono okay, sono un male necessario per fare qualcosa di specifico per la salute, ma gli aghi per i piercing? No, non hanno niente a che fare con la salute, ma solo con l’apparenza, e non è un’apparenza che mi interessa.

Sembro forse una puritana, con tutta la storia del “il corpo è un tempio” e bla bla bla, le stronzate che di solito dicono i conservatori o i codardi. Probabilmente sono un po’ di entrambe le cose.

La pressione sociale impone di fare e dire certe cose, perché è così che si fa, come una sorta di consuetudine divenuta legge nel tempo e impossibile da modificare.

I ragazzi “bene” storcono il naso, al massimo accettano di fare un secondo buco alle orecchie per sfoggiare un orecchino prezioso regalo di laurea, i ragazzacci, invece, si bucano la faccia, il corpo, i genitali, e si esibiscono come fossero fenomeni da baraccone.

Esistono gruppi distinti, con livelli di supporto che dipendono da quanto sono disposti a sfidare il sistema.

Io sono tra quelli che non ha voglia di farlo, e che rimane all’ombra di frasi fatte e temporeggiamenti che spesso e volentieri portano a sguardi perplessi e al pensiero che forse io sia un po’ bigotta.

Non so perché io pensi tutto questo adesso. Non so dove vogliano arrivare questi pensieri. Sicuramente abbastanza lontano da scappare alla morte. In ogni caso mi fanno ridere, ridere di cuore, anche se il dolore mi mozza il fiato e mi annebbia la vista.

E adesso una barra di metallo di dieci centimetri di diametro mi attraversa il petto, attraverso il parabrezza della macchina, e mi tiene bloccata contro il sedile. C’è sangue ovunque e poco tempo, ed io non riesco a smettere di pensare che odio così tanto i piercing, così tanto, eppure devo morire proprio così, con l’asta di un enorme piercing che mi trapassa lo sterno.

Forse avrei dovuto farmi un anello al naso,

o provare ai capezzoli,

o bucare la lingua.

No, no.

A ripensarci questo è molto meglio.

Chi mi troverà penserà sicuramente: wow, che cazzo di piercing.

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Il prompt è stato scelto con un sondaggio su instagram; non mi ispirava granché e soprattutto non volevo fare qualcosa di scontato che riguardasse i piercing. Per cui ho un po' sperimentato. Scusate per la brevità, ma oggi va così! 

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Capitolo 10
*** Sweet dreams are made of this ***


#triggerwarning #mentalillness #blood #knife #reality #inceptionvibes

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Una macchina gialla, uno stormo di rondini, un camion dei pompieri con i lampeggianti accesi, il fischio di un treno che sfreccia a tutta velocità oltre il passaggio a livello: in presenza di una o più di queste cose, o una combinazione tra loro, mi fa capire di essere in un sogno.

È iniziato quando ero un bambino, forse in terza o in quarta elementare, più o meno quando hanno smesso di darmi del pigro, sciatto, svogliato e mi hanno diagnosticato l’ADHD. Almeno, credo che sia iniziato in quel periodo.

I sogni si presentavano sempre diversi, tranne per quegli elementi ricorrenti, e all’improvviso mi trovavo padrone del mio corpo, in grado di piegare a mio piacere la realtà intorno a me. Esaltante, no? No, spaventoso.

Per la maggior parte del tempo mi aggiravo tra le pareti mobili del sogno come un ubriaco, senza metà e con la sensazione incalzante di essere compresso in una morsa. Se fossi stato un bambino più intelligente, penso, sarebbe potuto essere divertente, invece il mio stupido cervello ha cominciato a riempire quel mondo di mostri. Per lo più versioni smembrate di mia madre, o del mio cane, o dei maestri della scuola con bacchette di legno al posto delle braccia. La conseguenza inevitabile fu che cominciai ad avere crisi di panico e ansia alla sola idea di appoggiare la testa sul cuscino. Cosa poteva succedere che non ero in grado di controllare? Il problema era tutto lì. Ma più tempo passavo senza dormire più il mio corpo aveva bisogno di farlo, così alla fine precipitavo di nuovo in quello spaventoso mondo dei sogni, il mio inferno personale.

I sogni cominciavano tutti alla stessa maniera, riprendevano un momento della giornata, se non proprio quello in cui mi trovavo: ero sdraiato a letto e all’improvviso avvertivo il fischio del treno, avevo la testa poggiata contro il finestrino dell’auto e una macchina gialla sfrecciava al mio fianco inseguendo il camion dei pompieri. Poteva succedere ovunque, in qualsiasi momento, perché non mi rendevo conto di avere sonno o di essermi addormentato. Il piacere di scivolare nell’incoscienza mi era stato negato, forse per sempre.

Dal momento che nessun farmaco sembrava fare effetto, i miei genitori pensarono che la terapia avrebbe potuto aiutarmi. Non avevano torto.

Dieci anni di sedute dopo ho accettato di essere una persona speciale, il cui cervello non funziona né vuole funzionare nel modo in cui funzionano tutti gli altri, si rifiutava proprio. Non è qualcosa di cui vergognarsi, anzi, tralasciando gli orrori del primo periodo, è qualcosa che alla gente piace sentirmi raccontare. Credo che siano invidiosi, per questo ho imparato a non lamentarmi mai: a nessuno piace sentirsi dire che la capacità di fare sogni lucidi è un fardello di cui farei volentieri a meno.

Succede adesso. Nel cielo si alza uno stormo di rondini, cinguettano contente inseguendo figure invisibili, e lungo la strada davanti casa passa una macchinetta gialla tutta traballante. Sospiro. A parte i due segnali, niente mi fa capire di essere in un sogno, perché ogni cosa è esattamente come dovrebbe essere, e anch’io mi sento come al solito: stanco.

Butto da un lato il libro che stavo leggendo e mi alzo. Finché non lo desidero, il mondo continuerà ad essere normale, ma tutto quello che desidero, in fondo, è la normalità. Non voglio volare, non voglio avere super poteri, non voglio essere diverso da quello che sono. Se potessi sognare di essere solo un ragazzo come tutti gli altri, lo farei.

Strascico i piedi fino in cucina, è il momento giusto per mangiare la torta che c’è in frigo. Da sveglio non potrei farlo, e non solo perché mia madre mi ammazzerebbe. Tiro fuori il vassoio, la scritta con la glassa “BUON COMPLEANNO!” è talmente lucida che potrei quasi specchiarmi. Dovrei prendere piatto, forchetta, coltello? Cazzo, no, questo è il mio sogno. Immergo la faccia nella torta, ed è deliziosa proprio come appare. Chissà se nell’altro mondo, quello reale, è buona allo stesso modo, di più, di meno. Poco importa. Prendo grossi bocconi, così della scritta rimane solo “BUON ANO” che mi provoca una risata isterica.

Ho provato a fare una quantità di cose imbarazzanti nei sogni, sono stato un gatto, sono stato un neonato, ho guidato un numero indefinito di macchine impossibili, divorato banchetti e bevuto da seni fluttuanti. Da un po’ ha cominciato ad essere la mia attività preferita da fare mentre sogno, guardare le donne, inventare le donne, toccare le donne, capire le donne. Solo nei sogni sembrano interessate a fare con me quello che io voglio fare con loro. Mio padre dice che quando sarò più grande le cose cambieranno, con le donne intendo, ma per il momento io mi accontento di quello che succede nei sogni.

C’è però una cosa, tra le tante, che non ho provato a fare, e oggi mi annoio particolarmente.

Dopo aver messo in frigo quel che rimane della torta ed essermi pulito addosso le mani sporche di glassa, prendo il coltello più grosso dal cassetto delle posate. Quindici centimetri solo la lama, creato per tagliare la carne, animale e umana. Il brivido che mi sale lungo la schiena non ha niente a che vedere con la soddisfazione di un desiderio, è paura, aspettativa, meraviglia. Io posso provare la morte senza morire davvero. È qualcosa che è e sarà sempre solo mio. Respiro, una volta, due, le mani tremano ma stringo la presa sul manico. Un affondo, senza esitazione, e il coltello è dentro di me, è parte di me. Il dolore impiega un secondo di troppo ad arrivare, perché il mio corpo è stato preso alla sprovvista, poi arrivano sangue e consapevolezza. Perché fa così male? Crollo in ginocchio, il coltello disegna linee e ghirigori dentro di me, aprendo nuove strade alla morte. Adesso smette, adesso smette, deve smettere, e mi sveglierò sulla poltrona con il libro sulle ginocchia. Qualcosa non va, piedi e mani formicolano, le gambe si fanno deboli, e c’è sempre più sangue, incredibile e rosso come il succo di un frutto. Il corpo si intorpidisce, i sensi sono ovattati, ho la testa leggera, il cuore rallenta, rallenta, rallenta.

Addormentarsi deve essere proprio così. 

 

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Capitolo 11
*** Che brava bambina ***


Alla fine della giornata era esausta. Ma non esausta per finta, per modo di dire, esausta per davvero. Sfinita, scarica, svuotata. Non bastando le sei ore di lezione rimbalzata da una classe all’altra, ne aveva passate due pomeridiane per un corso di aggiornamento e tre per il coordinamento del dipartimento. Quindi, come dire, sì, era esausta. Intorno a lei sentiva l’eco di voci che insinuavano che il lavoro dell’insegnante non fosse un vero lavoro, o meglio, che fosse un lavoro comodo. Così si trovava a combattere contro i mulini a vento, spiegando ora da una parte ora dall’altra il carico di responsabilità e stress che le gravava sulle spalle. Tutto perdeva importanza quando il suo interlocutore insinuava che con tre mesi di ferie pagate durante l’estate aveva poco di che lamentarsi. Era stanca, era solo stanca, e le sembrava che ogni cosa negativa mai detta su di un insegnante le gravasse sulle spalle. Non sopportava più le chiacchiere vuote delle colleghe, non sopportava più di passare le ore buche fuori al freddo pur di avere un momento libero per se stessa, non sopportava più la preside che pretendeva da loro che fossero sempre sull’attenti come soldati di una guerra “bisogna fare dei sacrifici”, non sopportava più i colleghi con il posto sicuro sotto il culo che passavano il tempo raccontando i loro cazzi ai ragazzi mentre aspettavano il suono della campanella, non sopportava più quelli che la guardavano dall’alto in basso perché al sabato sera usciva ad ubriacarsi, arrivava a scuola in una nuvola di profumo e ticchettava sul pavimento con le scarpe alte. Era stanca, e non vedeva l’ora di tornare a casa e godersi il vuoto, il nulla, il niente, il cibo spazzatura, il silenzio, Netflix. Per qualche ora poteva essere una trentacinquenne qualsiasi, e non l’irreprensibile insegnante di lingua e letteratura inglese. Poteva dire e fare tutte quelle cose che non poteva dire e fare durante il giorno. Vaffanculo Charles, il tuo corso del cazzo è inutile come un culo senza buco; se odi così tanto i tuoi figli, Meredith, forse avresti dovuto abortire invece di farli vivere con una madre a cui non frega un cazzo di loro; signora preside con tutto il dovuto rispetto i suoi discorsi avevano senso nel Medioevo, se lei non ha un cazzo da fare a casa perché suo marito le mette le corna non deve scaricare la rabbia su chi, invece, ha qualcuno che lo aspetta per cena. 

Era buio ormai da un pezzo, l’inverno aveva reso le giornate brevi e fredde, il sole andava a nascondersi sempre prima oltre la linea dell’orizzonte. Anche lui aveva fretta di staccare dal lavoro. Marget uscì da scuola con il cappotto chiuso fin sotto il naso, la borsa carica di compiti sotto braccio, e l’espressione di chi si è appena liberato di tutto il peso del mondo. Libera! Con tutto il weekend davanti! A testa bassa, per sconfiggere il freddo e scoraggiare eventuali colleghi dal rivolgerle la parola, corse fuori dal cancello della scuola. I lampioni sulla strada erano già accesi, i primi studenti del corso serale cominciavano ad arrivare. Per quanto la riguardava, però, non erano affari suoi. Il coordinamento era durato fin troppo, e non aveva intenzione di regalare altre ore di vita alla scuola. Le scarpe che aveva indosso le facevano male, decolleté di vernice lucida che trucidavano le dita dei piedi e che pure le davano una masochistica soddisfazione. Erano scarpe che rendevano chiaro il suo arrivo lungo i corridoi a tal punto da far schizzare in classe i ragazzi al solo sentirle, ed erano anche scarpe che le erano costate vezzeggiativi amorevoli come “troia” o “puttana” o epiteti meno coloriti ma altrettanto inaciditi come “si vede che non ha figli”. Per fortuna “lesbica” quei bigotti omofobi dei suoi colleghi non l’avrebbero mai pensato, dato il suo abbigliamento femminile, i capelli sempre lunghi e morbidi sulla schiena, il trucco preciso e pulito, e sarebbe stata l’unica cosa vera. Nascosta in bella vista dietro i vezzi della società, Marget poteva essere al massimo una puttana ma mai, mai una lesbica. 

Arrivò in macchina e si chiuse subito dentro, gettò la borsa sul sedile del passeggero. « Cazzo! » urlò, picchiando il volante con i palmi delle mani. « Cazzo, cazzo, cazzo. » 

Stanca, era solo stanca, tutto qui, stanca e frustrata e triste e sola. Così sola. Da quando Elsie andata via si era sentita così sola. Riuscì a non piangere, tirò su con il naso giusto un paio di volte, poi finalmente si permise di prendere in mano il telefono. Non era riuscita a guardare neanche l’orario, figurarsi le notifiche. Ignorò i messaggi di sua madre, diede giusto una lettura alle chat di gruppo che tentavano di organizzare l’ennesima serata a cui lei non sarebbe andata, per poi soffermarsi sulla chat di Elsie. “Fatti trovare nuda.” Un gioco? Un errore? Elsie non tornava a casa da un mese, da quando era partita per lavoro, e si erano sentite pochissimo in quel periodo a causa degli orari sfalsati. Il cuore cominciò a galopparle in petto. Corri a casa, sembrava dire, corri a casa, corri a casa! Mise in moto l’auto e, Dio, all’improvviso si sentiva così leggera ed euforica. 

Arrivò a casa senza aver registrato la strada, quasi dimenticò di chiudere la macchina, e quando salì la delusione fu forte nel constatare che la porta di casa era chiusa a doppia mandata come l’aveva lasciata quella mattina. Nello scalciare via le scarpe diede un’occhiata ai messaggi di Elsie. Sempre lo stesso, e non aveva risposto alla sua richiesta di spiegazioni. Solo quel Fatti trovare nuda. Lasciò da parte la prospettiva di rimanere delusa e decise di obbedire, per una volta. Saltò fuori dai vestiti, si sciacquò il viso, ravvivò i capelli. Senza nient’altro addosso che collana, orecchini e bracciali si sentiva un po’ come una diva del cinema, la pelle che si accapponava, i capezzoli duri per il freddo. Fatti trovare nuda. Non dovette aspettare molto. Elsie aveva le chiavi e la sorprese mentre passava dalla cucina al soggiorno. Non la vedeva da un mese eppure le sembrava che fosse passata una vita. Si guardarono negli occhi per un attimo, poi Elsie, inevitabilmente, fece scendere lo sguardo lungo il corpo nudo di Marget. Si passò la lingua sulle labbra e scosse la testa. « Hai ubbidito, che brava bambina. » disse, ed Marget abbassò il capo nascondendo un sorriso. 

« Tutto per accogliere la mia padrona. » 

Elsie si lasciò andare in una risata, si chiuse la porta alle spalle e in un attimo le fu addosso. Cazzo come le era mancata. 

 

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Capitolo 12
*** My Demons ***


#triggerwarning #depressione #mentalillness #pensierisuicidi 

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Voglio morire. Voglio morire. Non c’è niente per cui valga la pena andare avanti. Il solo pensiero di alzarmi dal letto mi fa girare la testa e mi fa salire le lacrime agli occhi. Voglio morire, ma non ho la forza di fare quel che andrebbe fatto. Eppure sarebbe così semplice, mi basterebbe andare alla finestra, salire sul davanzale e hop verso il riposo eterno. Non più qualche ora di sonno per spegnere il cervello e fuggire al dolore, ma tutta l’eternità. Voglio morire, e non sopporto più questo peso sul petto che non mi fa respirare e mi rende disgustoso anche il solo provarci. Sono un relitto, sono un inutile spreco di spazio, sono un problema per tutti. Perché ancora respiro? Non ho più lacrime e non c’è niente che riempia il vuoto che sento, né l’enorme quantità di cibo che ho mangiato in queste ultime settimane, né le parole di quelle poche persone che mi sono rimaste accanto. Si stancheranno anche loro e presto, lo sento, perché non riesco a tirarmi fuori da questo buco melmoso, né lo voglio, perché non c’è niente ad aspettarmi, niente, niente, niente. Tutti starebbero meglio senza di me. Immagino il mio funerale, immagino i volti più che tristi scocciati, ecco, un altro peso, un altro pensiero, gli tocca anche pagare la cerimonia, la bara, i fiori, e tutto il resto! Dovrei far sparire il mio corpo, vorrei che sparisse, sarebbe tutto più facile. Se si disintegrasse, se si sciogliesse come un biscotto nel latte, se diventasse polvere, sabbia, cenere, nessuno dovrebbe pagare, nessuno dovrebbe prendersi la briga di domandare: e adesso che cosa ne facciamo di lei? E invece, no, sono ancora qui, con tutto il mio peso, con tutta la mia sofferenza, con tutte le mie lacrime, con tutta la sozzura del mondo addosso che non può, non può essere lavata via, da nessuno, da nessuno. Perché nessuno può caricarsi sulle spalle tutto questo dolore, né mio fratello né il mio ragazzo, né i miei amici, e alla fine semplicemente se ne andranno, perché ne avranno avuto abbastanza. Vorrei che fosse già successo e che non continuino giorno dopo giorno ad entrare da quella porta, a portarmi da mangiare e assicurarsi che almeno mi alzi per pisciare un paio di volte al giorno. Sono come un neonato, solo che nessuno guarda un neonato come guarda un depresso. Un depresso è malato, anzi no, non è un malato, è un pazzo, un folle, perché ha tutto quello che potrebbe desiderare e nonostante tutto annega in una pozza delle sue stesse lacrime. E quindi io, come tutti i depressi, sono pazza. Come posso spiegare che ne voglio uscire ma che non ne ho la forza, che le pareti di questo pozzo sono scivolose e che non riesco a vedere in alto l’apertura, come posso dirgli che fa schifo anche a me essere così e che se potessi uscire dalla mia pelle, cazzo, lo farei. Non sono pazza, sono solo malata, ho un demone dentro che si sta mangiando ogni parte di me, e ha cominciato dalle parti migliori. Si è presa i miei talenti, le mie passioni, tutte le mie risate, ogni singolo sorriso. Si mangiato tutta la gioia, la felicità, il piacere, e ha lasciato le parti peggiori per ultime. Arriverà il momento in cui il demone si prenderà anche quello, e alla fine di me non rimarrà altro che il guscio vuoto di una cicala.

Rimango raggomitolata a letto, come ieri e il giorno prima, come domani probabilmente. Il telefono perennemente in carica, podcast e audiolibri sempre su play per poter scacciare i pensieri o quantomeno metterli a tacere temporaneamente. Anche quando dormo, le voci mi aiutano a mantenermi stabile. Così non faccio troppi incubi e non piango troppo, no, non troppo. Forse mi alzerò a mangiare qualcosa, anche se l’idea di raggiungere la cucina è uguale a quella di scalare l’Everest, forse mi laverò i denti, o forse rimarrò qui dove sono aspettando qualcosa, qualsiasi cosa. La porta della stanza si apre piano, non volto la testa perché è troppo pesante, ma sento che mio fratello non è solo e mi preoccupa.

« Sasa. » mi chiama, il soprannome con cui mi chiamava quando eravamo piccoli. « C’è qualcuno per te. »

« Non voglio vedere nessuno. » riesco a bofonchiare. Mi puzza l’alito, devo aver vomitato un paio di volte l’altra sera, non lo so, non mi ricordo, ultimamente il demone si è preso anche la mia percezione del tempo e non riesco a ricostruire gli eventi, anche se succede così poco durante il giorno.

« Sono sicuro che invece vuoi vederla. » mio fratello accende la luce, gemo perché il buio mi nasconde, così mi sento esposta e reale, e non voglio essere nessuna delle due cose. La donna che si siede di fianco al mio letto sembra giovane, non più di trentacinque o trentasei anni, ha capelli biondi lunghi e lisci, occhi azzurro verde, la fede al dito dice che è sposata, il pancione sotto i vestiti che a breve avrà un figlio. Aggrotto le sopracciglia senza capire. Chi è questa estranea e cosa vuole da me? In che modo, poi, dovrei volerla nella mia stanza?

« Ciao. » mi saluta, cordiale, un po’ affettata, non sembra a disagio ma solo cauta. Ci va piano perché sa che ho la carne come gusci d’uova, fragile. « Sono Camille. Sono una cacciatrice di demoni. »

« Cacciatrice di demoni? » sbuffo. Il primo mezzo sorriso in giorni, no, settimane. Cos’è tutto questo? Anche Camille sorride, di più, furba, complice, è una cosa tra me e lei.

« In realtà, sono una psicologa. Ma a dirla tutta preferisco il titolo di cacciatrice di demoni. E da oggi mi occuperò dei tuoi. »

Davvero? Li farai andare via? Ma non è mai servito niente, e tutti alla fine hanno mollato, li ho delusi tutti, li ho fatti arrabbiare tutti! Il demone ha sempre vinto. Non dico niente di tutto questo però. Aspetto che mio fratello lasci la stanza e trovo la forza di mettermi seduta. Così potrò parlare con Camille.

 

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Capitolo 13
*** Alberto ***


#softporn #boyslove #bl #ohmygodandtheywererommates #erasmus #lgbtq #gay

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Il mio compagno di stanza si chiama Alberto. Non Albert o Halbert, proprio Alberto. È venuto dall’Italia e la mia famiglia lo ospiterà per un anno. Alberto sembra e non sembra come gli italiani che si vedono nelle serie tv o nel quartiere italo-americano. Tanto per cominciare non ha quell’accentaccio e quella cadenza spiacevole, villana, rozza, che hanno la maggior parte degli italiani che conosco. Anche se, tecnicamente, lui è il primo vero italiano che conosco. Su una cosa i film hanno ragione: Alberto gesticola quando parla, e parla veramente un sacco, gesticola e parla e gesticola e parla. Il problema è che non riesce a venirmi a noia. Con ogni sillaba sottolineata da un movimento di dita che ha un significato tutto suo, le frasi assumono tutto un altro significato. Potrebbe sostenere un’intera conversazione senza mai aprire bocca. Lo trovo affascinante. Lo fanno tutti gli italiani? Quando l’ho chiesto ad Alberto mi ha risposto che lui viene dalla Sicilia, per questo i suoi modi sono più esagerati di quanto dovrebbero: lì gli italiani sono più italiani. Non ho ben capito che cosa intendesse, non davvero, ma in qualche modo ne percepisco il significato quando lo guardo. Ha occhi scuri, capelli scuri, un corpo dalla pelle olivastra, e qualcosa…ha qualcosa nella risata che lo rende estremamente piacevole. E quando dico “piacevole” intendo davvero piacevole. L’altra notte mi sono masturbato pensando ad Alberto. Lui dormiva a neanche un metro da me, nel letto che è stato di mio fratello prima di partire per il college. Mi sono toccato pensando a lui, al suo respiro, alle palpebre che nascondevano quegli occhi incredibili da guardare, e non ho provato alcun rimorso. Prima di Alberto non credevo di poter provare qualcosa per una persona del mio stesso sesso. Mi sono chiesto, guardando altri ragazzi, se potrò mai sentire quello che sento quando guardo Alberto. Quella sensazione di viscere che si attorcigliano, la testa che gira, il mondo che diventa instabile sotto le suole delle scarpe. No, è Alberto, è lui.

Fisso il soffitto nel semibuio della nostra stanza. Ancora poche settimane e Alberto tornerà in Italia. Ci scriveremo all’inizio, su facebook magari, lui risponderà alle mie storie di instagram. Poi pian piano smetterà di fare anche quello, lascerà i miei messaggi con il visualizzato, darà la colpa al fuso orario. Dodici ore, è come se io vivessi nel passato e lui nel futuro. Non lo sopporto.

« Dormi? » chiedo, sottovoce. So che non dorme, la luce del suo telefono illumina a tratti le pareti della stanza.

« Non ancora. » risponde lui. Speravo che lo dicesse. Mi volto su un fianco, così me lo ritrovo davanti. Posso intuire la sua sagoma sotto le coperte, la forma del suo corpo, la morbidezza dei suoi capelli, il profumo del suo corpo. Mi mordo le labbra, non devo farmelo sfuggire. Eppure succede comunque.

« Posso venire a dormire con te? »

Ecco. È fatta. So cosa succede ai fro*i, so quanto le persone possono essere crudeli, l’ho visto succedere a scuola, per strada, sul web, ovunque. Succederà a me, adesso, con Alberto?

« Certo. »

Senza peso, mi sollevo all’istante, mosso da una mano esterna, una marionetta a cui hanno tirato i fili. Mi infilo sotto le coperte, mi azzardo a poggiare la testa sulla sua spalla. È la prima volta che gli sto così vicino, se non si contano gli abbracci durante le partite di baseball o le occasionali, virili, strette di mano per salutarsi. Il suo profumo è anche più buono di quanto pensassi. Se adesso mi eccito lui sentirà la mia erezione premere contro di lui.

« Che aspettavi a farlo? » mormora al mio orecchio. Il soffio del suo fiato mi provoca brividi su tutto il corpo, sento la carne come ritrarsi sulle ossa.

« Che…? » mi viene fuori. Stupido. Deve essere vero quello che dice Alberto, che gli italiani in Sicilia sono più italiani, perché lui è davvero più. Quando affonda la lingua nella mia bocca e sento finalmente il suo sapore, so che potrà fare di me quello che vuole, come nessun altro potrà mai. 

 

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Capitolo 14
*** "Chi è cagion del suo mal pianga se stesso" ***


Non riusciva a smettere di agitare le gambe; la tensione lɘ costringeva a stringere e contrarre la mascella a tal punto che cominciava a sentire dolore. Era fottutɘ, lo sapeva, eppure era andatɘ comunque all’appuntamento. Mortɘ, fottutɘ, vedeva il proprio corpo ficcato in un sacco della spazzatura e gettato nel fiume o sotterrato sotto un albero o sciolto nell’acido. Fottutɘ. Dei dieci chili di eroina che il dottore gli aveva dato, era riuscitɘ a venderne solo la metà, mentre l’altra metà era andata. “Andata?!” sentiva quasi la voce del suo venditore per telefono quella mattina. “Che significa andata?!”. Che significa andata, Aiden? Significa andata, cazzo, proprio andata. Un po’ per sé, un po’ per gli amici. Ma solo un po’, davvero. Non pensava di essere arrivatɘ a dar via praticamente la metà di quello che aveva comprato. Comprato, ah, non comprato, promesso di pagare dopo averla venduta. Adesso quei soldi da ridare al dottore non li aveva. Tutto quello che aveva era un buco del culo stretto per la paura, e la consapevolezza di essere mortɘ. 

Mentre aspettava che qualcuno gli dicesse in che modo sarebbe stato uccisɘ stava sedutɘ fuori, nella sala d’attesa, con le poltroncine, le riviste e le chiacchiere, come fosse una cosa normale. Il normale studio di un dottore, e non quello di un pappone che vende droga ai ragazzini. Chi andrebbe a puntare il dito contro una persona tanto per bene, 2.5 figli, moglie, cane, due macchine: la vita perfetta. Aiden immaginava già le risata del poliziotto di turno mentre denunciava il dottore. “Sì certo come no, e io sono il presidente degli Stati Uniti!”.

Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo. Le gambe si agitavano, su e giù, la sedia cigolava nello sforzo di tenere il ritmo. 

« Non preoccuparti. » la voce lo fece sobbalzare, e volse la testa di scatto, neanche fosse un animale in fuga da un predatore. Era una vecchina, una vecchina con i capelli bianchi e l’aria affranta dalla vita, rughe intorno agli occhi e un sorriso incartapecorito sulle labbra. « Il dottore è molto bravo, non ti farà male, non c’è bisogno di essere così ansiosi. » 

Avrebbe voluto urlare in faccia alla vecchia tutto quello che si teneva dentro. Oh sì, il dottore non lɘ avrebbe fatto niente, lɘ avrebbe solo staccato gli arti e l’avrebbe costrettɘ ad assistere mentre dei cani se li mangiavano. Invece rimase in silenzio, nella decenza che dovrebbero avere tutte le persone consapevoli di aver mandato tutto a puttane. Sua madre una volta lɘ aveva detto una frase: chi è cagion del suo mal, pianga se stesso. Che parole del cazzo, cagion, mal, come se vivessero in un libro dell’800. Eccolɘ lì, a pensarle, sedutɘ nella sala d’aspetto del dottore. Chi è cagion del suo mal, pianga se stesso. Non ricordava cosa significasse.

« Aiden? » l’infermiera si affacciò sulla saletta, gentile come sempre nella sua divisa verde menta. Chissà se sapeva quello che faceva davvero il dottore dietro quella porta chiusa. Aiden si alzò, per un attimo ebbe la sensazione che le gambe fossero state private di ossa e legamenti e che a reggerlɘ ci fosse solo melma, tutto lo schifo che si era iniettato. Seguì l’infermiera lungo il corridoio e poi entrò nello studio, seconda porta a destra. Il dottore aveva un’aria gioviale, questo lo rendeva un tipo di cui era facile fidarsi, soprattutto quando non avevi niente da perdere. 

« Accomodati, accomodati. » gli disse, agitando la mano in direzione della sedia davanti alla scrivania, e allo stesso tempo lanciando occhiate all’infermiera che volevano dire “lasciaci soli.” Aiden si sedette, o meglio, si lasciò andare sulla sedia. Poteva piangere e supplicare il suo perdono, poteva chiedergli di risparmiargli la vita, poteva giurare che gli avrebbe restituito i soldi, dieci volte il valore della coca. Non disse nulla, rimase immobile sulla sedia come un bambino. Un tempo quando si sentiva così c’era sempre sua madre al suo fianco.

« Quindi. » cominciò il dottore, le mani giunte sulla scrivania, in attesa. Se teneva un’arma da qualche parte, Aiden non riusciva a vederla. « I miei soldi? Sei un po’ in ritardo. » 

Se avesse mentito, il dottore si sarebbe arrabbiato, se avesse detto la verità, il dottore si sarebbe arrabbiato. Si agitò sulla sedia, ricominciò ad agitare le gambe. 

« Non li ho. » decise alla fine. Se doveva morire, tanto valeva farlo in fretta. Il dottore non apparve sorpreso, ovviamente. I suoi informatori dovevano già avergli detto cosa aveva fatto Aiden. 

« Allora puoi ridarmi la roba. » un sorriso appena accennato. Il dottore sapeva già cosa gli avrebbe detto. 

« Non…non ce l’ho. » 

« Non hai i miei soldi e non hai la roba. » l’unica cosa che poté fare Aiden fu annuire. L’ammissione di colpa più facile di tutta la sua vita. 

« No. » 

« Vuoi morire? » 

« No. »

Aiden riuscì a tenere lo sguardo sul dottore, perché sentiva che se avesse ceduto adesso, se si fosse mostratɘ debole, non avrebbe avuto scampo. Il dottore scoppiò a ridere. Aiden avrebbe potuto giurare di non aver mai sentito nessuno ridere così di cuore. Alla fine, dovette anche asciugarsi una lacrima. Poi si alzò, troppo rapido perché Aiden potesse anche solo pensare di reagire. Lɘ afferrò per il collo con entrambe le mani, mani dalle dita sottili straordinariamente adatte a fare il medico, quindi perché spacciavano droga? Non strinse, per, non abbastanza perché lɘ mancasse il fiato, solo il necessario per farlɘ girare la testa, farlɘ sudare di paura, farlɘ temere per la propria vita. 

« Sei giovane. I giovani spesso non si rendono conto di quello che fanno, e fanno cazzate. Vero? » con le mani strette intorno al suo collo, il dottore lɘ costrinse ad annuire. « Ti darò un’altra possibilità. Se dovesse accadere di nuovo ti staccherò la testa, hai capito? » di nuovo, lɘ costrinse ad annuire. Poi lɘ lasciò andare, così Aiden poté tornare a riempire i polmoni. 

« Grazie. » balbettò, mentre indietreggiava senza dargli le spalle. Aveva il terrore che cambiasse idea e che lɘ ammazzasse seduta stante. Lo sguardo che lɘ indirizzò il dottore, un bisturi affilato, lɘ fece capire di non avere nulla per cui ringraziarlo. Stava solo rimandando l’inevitabile. Non sarebbe riuscitɘ a recuperare i soldi o a vendere abbastanza roba. Avrebbe solo accumulato altri debiti. Sarebbe stato meglio se il dottore l’avesse uccisɘ subito. All’improvviso si ricordò il significato della frase di sua madre: lɘi era la causa dei suoi stessi mali. 


 

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Capitolo 15
*** Broken Wings ***


Il Broken Wings. Saturo dell’odore di fumo e alcool, dei corpi sudati ricoperti di glitter che si agitavano sul palco, nei privè, ai tavoli dei clienti. La musica era talmente alta da riempire le orecchie e il petto di ritmi aggressivi. Lo scopo del Broken Wings era stordire i sensi, così da rendere verosimile mettere mani al portafoglio per tirare fuori un centone e pagare una puttana minorenne. Epher lavorava al Broken Wings da un paio di mesi; aveva messo da parte abbastanza soldi da consentire a sé e a Jamond di avere tre pasti al giorno, di comprare scarpe nuove, e persino dei giocattoli. La loro vita era, in modo assurdo, migliorata. Poco importava se Epher doveva ancora compiere sedici anni, e se il suo corpo aveva ancora le forme dell’infanzia: erano liberi. Liberi dagli strozzini, liberi dai papponi, liberi dagli spacciatori, liberi dalla mamma. Lei gli aveva insegnato a vendere il suo corpo per soldi, a differenza di quello che faceva per lei, però, questi soldi poteva tenerseli tutti. Tutti, tranne quelli che andavano al capo per coprire l’alloggio, ma era poca roba. 

Quella sera Epher cominciava a lavorare molto tardi, così ebbe il tempo di far mangiare Jamond e metterlo a letto, con la promessa di essere lì con lui quando si fosse svegliato l’indomani mattina. Era un bambino così buono che Epher non aveva paura a lasciarlo da solo mentre lavorava, sapeva che qualsiasi cosa fosse successa Jamond non sarebbe uscito e non avrebbe fatto rumore, le due cose che Epher gli aveva sempre raccomandato di fare. “Fermo” e “zitto” come parole d’ordine per sopravvivere. Dopo avergli rimboccato le coperte e avergli dato il bacio della buonanotte, Epher si infilò in bagno per trasformarsi in Angel, l'alter ego colorato sui tacchi a spillo che lavorava di sotto al Broken Wings. Per coprire le occhiaie di stanchezza scelse fondotinta chiaro e ombretto blu elettrico. Alla sua figura allo specchio, mentre cancellava le tracce dell’adolescente che avrebbe dovuto essere, mormorò: « Sei proprio sexy, tesoro. » Angel era più forte, più deciso, più padrone di se stesso di quanto non lo fosse Epher, ed era quasi un sollievo infilarselo addosso, come un abito comodo o una cattiva abitudine. Non appena fu pronto, e data un’ultima occhiata al letto dove già Jamond dormiva un sonno profondo, si chiuse la porta alla spalla, a doppia mandata, e scese le scale verso la sua altra vita. 

Il potere magico del Broken Wings consisteva anche nel non far trapelare la sua presenza a chi viveva ai piani superiori. Incassato al piano terra di un palazzo di quattro, ne infettava solo le fondamenta, in maniera testarda ma discreta, così che la polizia non andasse a ficcanasare, non troppo almeno. Scesa la prima rampa di scale, proprio come immergersi in mare con il fondale che diventa via via più profondo, Angel cominciò ad avvertire il cambiamento: le ragazze in topless che correvano da una parte all’altra per prepararsi per la serata, i primi clienti trascinati nei privé, la musica che diventava sempre più forte. C’era la possibilità concreta che alla fine diventasse in grado di cancellare i pensieri. Lavorava lì da poco tempo, non era ancora ben visto dalle colleghe veterane. Alcune lo consideravano il giocattolino del boss, messo lì per il suo bel faccino e il suo bel culetto, qualcosa che presto si sarebbe rotto e sarebbe stato messo da parte, altre non lo consideravano affatto. Angel simpatizzava più con le seconde, alle prime di solito indirizzava sorrisi e diti medi. Prima di ballare sul palco, dove i clienti l’avrebbero visto e scelto, come un bel taglio di carne dal macellaio, doveva servire ai tavoli come cameriere. Per cui corse al bar fingendosi entusiasta di prendere il posto della ragazza riccia con gli occhi da pesce lesso che lo stava aspettando. I clienti non chiedevano mai cocktail troppo complessi, perché l’alcool era la scusa per rimanere seduti ad ammirare culi, tette, peni e vulve che si agitavano sul palco. Angel si premurava solo di essere carino e veloce, sporgendosi sempre un pochino di più sul bancone quando faceva scivolare il bicchiere verso il cliente, un extra che di solito lo rendeva più appetibile, insomma, faceva vendere meglio la merce. Versò qualche shot di liquore e qualche birra, tutto servito con sorrisi smaglianti. Il segreto era fingere di sapere che cosa stava facendo, così nessuno gli avrebbe fatto domande a cui non poteva rispondere. 

Stava andando così da un paio d’ore, abbastanza perché i tacchi cominciassero a fargli male alle caviglie, quando al bancone si avvicinò un ragazzo dall’aria sperduta. Capelli rossi, occhi blu, labbra carnose, viso pulito. Se la musica glielo avesse permesso Angel gli avrebbe chiesto che cosa ci faceva un tipo così in un posto così orribile. Si sedette sullo sgabello più lontano dal palco, e lo chiamò sollevando una mano, come uno scolaretto. Era una preda facile, ma poteva non avere abbastanza soldi con sé. Il buon senso di Angel sceglieva sempre gli uomini più viscidi perché erano quelli disposti a pagare. 

« Ciao miele, cosa posso darti? » urlò, non appena gli fu abbastanza vicino. Il ragazzo lo osservò, troppo, come se potesse vedere sotto il trucco, dietro il sorriso.

« Quello che vuoi tu, non sono schizzinoso. » 

« Okay tipo misterioso, ci penso io allora. » 

Angel gli volse le spalle mentre prendeva il bicchiere e una bottiglia qualsiasi di liquore. Avrebbe potuto giurare che il ragazzo gli guardasse il fondoschiena mentre si sollevava sulle punte. La regola numero uno del Broken Wings era “si guarda ma non si tocca”, a meno che, certo, non si avesse abbastanza soldi per toccare. Tentò il solito approccio anche con lui, sporgendo il petto seminudo e scintillante di crema sul bancone mentre gli porgeva il bicchiere. 

« Non sei un po’ giovane per lavorare in un posto simile? » chiese il ragazzo. 

« E tu non sei troppo “per bene” per venire in un nightclub? » sorrise Angel. Non era certo la prima volta che se lo sentiva chiedere, non sarebbe stata l’ultima. Il ragazzo prese il bicchiere e lo svuotò in un sorso, così poté porgerglielo di nuovo. « Hai voglia di ubriacarti, miele? »

« Chiami “miele” tutti i clienti? » 

Angel diede in un risatina, divorata dai beats incalzanti della musica. « Solo quelli carini, miele. » 

Continuò così, falso, tra il ragazzo che continuava a bere e Angel che versava cocktail sempre meno alcolici man mano che lui si ubriacava. Quando gli sembrò cotto al punto giusto gli si avvicinò per assaggiarlo. « Mi piaci proprio, miele. Persone come te devono scopare persone come. » 

Il ragazzo non rispose subito, forse confuso dall’alcool, forse sorpreso, forse nessuna delle due. Niente baci sulle labbra, solo denaro, denaro in vista. Per questo Angel scostò il viso al momento giusto, così che il ragazzo arrivasse a baciargli il collo e l’orecchio. A quel punto fece cenno ad un collega per prendere il suo posto, mentre lasciava il bancone per tirare a sé il pesciolino che aveva appena pescato e portarlo in un privé. Oppose la resistenza necessaria per far capire ad Angel che aveva ancora una coscienza, era talmente annacquata dall’alcool, però, che non bastò a rifiutare le sue mani quando cominciarono a spogliarlo. Nell’intimo del privé, tutto cuscini e velluto rosso come si addice ad un posto del genere, Angel poté dedicare tutte le sue attenzioni al ragazzo. Lo spinse sul letto e gli saltò addosso cavalcioni. 

« Sono duecento per un’ora, miele. Ce li hai? » il ragazzo annuì, ma Angel ne aveva viste troppe per credergli. Per questo si avvicinò al suo orecchio, ne prese il lobo tra i denti prima di sussurrargli: « Pagamento in anticipo. » Poi si scostò, per permettergli di prendere il portafogli e tirare fuori le banconote, le dolcissime banconote. Seguì, avaro, il movimento delle sue mani, delle dita, delle unghie, senza battere le palpebre. Duecento: li aveva. Angel li prese, li arrotolò e li infilò negli stivali. « Perfetto, miele, adesso ci divertiamo. » 

Con quei soldi, Epher avrebbe portato il suo fratellino al luna park come gli aveva promesso. Angel spogliò il ragazzo, gli diede un nome, così da smettere di chiamarlo “ragazzo”, Giles, gli piaceva. Nonostante l’alcool aveva già il cazzo dritto. Ovviamente non aveva preservativi, ma a quelli di solito pensava lui. Epher avrebbe poi fatto la spesa e comprato le scarpe nuove a Jamond, lo tormentava con questa storia delle scarpe stretta da una settimana ormai. Angel gli infilò il preservativo con la bocca, ai clienti piaceva molto e anche Giles sembrò gradire a giudicare dai versetti soffusi che sfuggirono dalle sue labbra. Se tutto andava bene, Epher poteva anche mettere qualcosina da parte per sé, per qualche sfizio inutile di cui sicuramente si sarebbe pentito, ma d’altronde erano i suoi soldi. I loro soldi, suoi e di Angel. Angel finse che scopare Giles gli piacesse, urlando con la testa rovesciata all’indietro ad ogni spinta. Stava già pensando al prossimo cliente, al modo in cui avrebbe ripetuto, ancora, “Mi piaci proprio, miele. Persone come te devono scopare persone come me.”

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Capitolo 16
*** Ultimo atto ***


Un piccolo flusso di coscienza, pensando al teatro della mia città, chiuso per sempre per mancanza di fondi della regione.

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In gergo tecnico questo verrebbe definito: ultimo atto. A lavorare qui di persone ne ho viste tante, giovani, vecchi, studenti, appassionati, tirocinanti, musicisti, scenografi, tecnici, fonici. Ma non sono niente se paragonati al numero di persone venute a vedere gli spettacoli. Persone di tutti i tipi, persone annoiate, persone troppo giovani, quasi-persone, non-persone. Esperienze. Tutti costretti, chi più chi meno, a dare la loro seppur breve attenzione a quello che succedeva sul palco. Anche quello sempre diverso. Il palco per una commedia non è come il palco di un’opera o un balletto. Ah, gli artisti. Loro mi mancheranno più del pubblico. Con la loro paura mista ad eccitazione, i chiacchiericci dietro le quinte e poi il silenzio concentrato durante le prove, lo scalpiccio di tacchi sul parquet, il risuonare del LA o del SIb nella buca, il fruscio dei tulle dei tutù. Oh, oh, e i pianti, le risate, i fiori, le belle parole, le brutte parole, i fischi, i cori, i “BRAVA MARIANNA!” dalle figure al buio in platea di amici e parenti, gli sguardi di disapprovazione dei maestri, le note stonate.

L’ultimo atto, e tutto questo mi mancherà. Mi mancherà sentire che c’è qualcosa che riempie aria nei pochi istanti prima che le maschere conducano l’ultimo spettatore al suo posto, o quando le luci si abbassano un poco e quelli dotati di faccia tosta scivolano un sedile più avanti, una fila più avanti, una vita più avanti. Mi mancherà esistere tra il velluto dei sedili, con i suoni del mondo reale attutiti per dare modo alla scena di crearne uno tutto nuovo, sempre diverso anche se sempre lo stesso. Drammi umani, amori impossibili, tradimenti, sogni infranti, inverosimili fraintesi e macchine magnifiche: l’ingegno dell’uomo su carta pentagrammata che si trasforma in arte. L’arte, appunto, almeno quella è eterna. Non c’è forza nell’universo in grado di distruggerla, né il tempo né lo spazio. Lo spazio, spazi come questo, come il teatro, come me. Spazi che a volte crollano, spazi che a volte magnificano se stessi con l’aiuto della fortuna. Di teatri immortali ne ho conosciuti, se non altro dalle parole degli spettatori, dalle signore con i libretti della Carmen in mano, “Devi vederla allestita al Teatro Greco Antico”.

Io non sono immortale, e questo è l’ultimo attimo. Non è Shakespeare né Tchaikovsky, non è Coppelia, non è Aida, non è Alexander Hamilton, non è Così fan tutte, non è la Quinta Sinfonia. È Così è e se vi pare. Gli studenti del liceo classico sono costretti a sedersi ingoiando le risate sotto le occhiatacce degli insegnanti. Le maschere passano lungo i corridoi un’ultima volta accertandosi che tutti siano al loro posto. Le luci si affievoliscono. Il sipario si apre. L’ultimo atto. Domani, domani e domani, avanza a poco a poco, giorno dopo giorno, verso l'ultima sillaba del copione. Al mio posto costruiranno un centro commerciale, un altro tipo di teatro, un altro tipo di spettatore.

Ma adesso silenzio, si va in scena. 

 

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Capitolo 17
*** Il complimento più bello ***


#triggerwarning #violence #gore #mentalillness #violenzasulledonne #ratingarancione

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Il complimento più bello che avrebbe mai potuto ricevere era: “che bel giardino”. Quando un passante si sporgeva oltre la staccionata per dare un’occhiata o quando un bambino rimaneva imbambolato davanti alle corolle dei fiori o quando i vicini chiedevano se potevano scattare foto, lei sorrideva sempre. Sorrideva con un sorriso così largo che sembrava voler abbracciare l’interezza di quel giardino. Aveva selezionato personalmente le specie di fiori da coltivare, tra quelle perenni in modo che il suo giardino fosse sempre colorato e felice. Felice, proprio come lei si sentiva. Il suo preferito era la pianta d’ortensia, che quando fioriva le regalava mazzi di brillanti fiori azzurri e blu; poi c’era il verbasco giallo che ornava quasi tutte le sue aiuole, perché era resistente e rimaneva fiorito tutto l’anno; le rose ovviamente, bianche, rosa e rosse, con i boccioli così grandi da costringere la pianta a piegarsi leggermente in avanti come in un inchino; il delfinio con i suoi fiorellini piccoli e azzurri, tendenti al viola. Proprio un bel giardino.

Dal momento che stava troppo male per lavorare, la sua unica salvezza e la sua unica soddisfazione era quel giardino, alzarsi ogni giorno ignorando il dolore delle cicatrici, della pelle che tirava sulle giunture, della carne che sembrava straziarsi, e dedicare il suo tempo, ogni suo respiro, ai fiori. Il loro profumo che riempiva l’aria con il ronzare delle api a fare da tappeto armonico la faceva sentire meglio, la faceva sentire meno mostruosa. Lei, a differenza del suo giardino, non era bella. O almeno, non lo era più. La gente ignorava il volto sfigurato dall’acido quando un’esplosione di arcobaleni si alzava dal suo prato non appena apriva l’acqua per innaffiare le piante. Le si avvicinavano persino i bambini, che di solito si ritraevano in sua presenza come tartarughe nei gusci. Tutto era splendido nel suo giardino, proprio come era dentro di lei adesso che fuori non era rimasto più niente.

Quella mattina si alzò anche prima del solito, elettrizzata come non lo era da anni. Finalmente il suo giardino avrebbe partecipato alla fiera di piante e fiori della contea, e un giudice di gara sarebbe venuto da lei durante la mattina per farle qualche domanda e scattare qualche foto. I suoi fiori dovevano essere splendidi e turgidi, schiusi appena come labbra di donna. Prima di tutto doveva prendere il suo concime speciale nel seminterrato. Senza quello i suoi fiori non sarebbero mai cresciuti così bene. Prese il secchio, il tubo di gomma, l’annaffiatoio, e con calma scese le scale. Quando accese la luce, come al solito, lui cominciò a mugolare e piangere e supplicare e dimenarsi debolmente nella sua direzione. I legacci cigolavano in modo fastidioso, e il suo sguardo sempre così incrostato di unto, lacrime e terrore la disgustava. Lui era nudo, costretto supino sul lettino inclinato. Sull’addome, ben piantato nella carne, appena sotto l’ultima costola, si trovava il rubinetto da cui lei prelevava il sangue necessario alle sue piante per crescere. Lei non poteva più sorridere, le labbra erano state cancellate per sempre dall’acido, lasciandola con un ghigno scoperto di gengive gonfie e denti bianchi, così bianchi. Ma quando vedeva quello spettacolo sorrideva sempre, sorrideva con il cuore. Era felice. Lui l’aveva fatta a pezzi, aveva colto il suo fiore e l’aveva straziato, aperto da parte a parte e poi tranciato, e lei aveva fatto di lui un dono. Pianse quando lei aprì il rubinetto, per lasciare sgocciolare il sangue prezioso dentro il secchio. Lui tentò di parlare, tentò di supplicarla, mugolando come l’animale che era per un po’ di pietà. L’aveva fatto anche lei e lui non si era fermato. Quando il sangue raggiunse la tacca che aveva segnato con il pennarello, chiuse il rubinetto, soddisfatta. Tornò al piano di sopra, riempì l’annaffiatoio con un mix di sangue, acqua e concimi biologici, ed uscì.

« Che bel giardino! » commentò una signora, appollaiata alla staccionata, sventolava una mano nella sua direzione per farsi notare. Lei annuì, un ringraziamento silenzioso e modesto. Aveva ragione: era proprio un bel giardino.

 

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Capitolo 18
*** Trova la via stellina mia! ***


#scifi #future #sciencefiction #destinyofhumanity

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Gli scienziati hanno fatto in modo di far passare la notizia come l’evento dell’anno, ma che dell’anno, del secolo. Sono a tal punto ossessionati dalla cosa che il governo si è costretto a dire: va bene, abbiamo capito, indiciamo un giorno di riposo affinché tutti possano assistere. Tutti, ma proprio tutti, anche quelli dall’altra parte del pianeta, con un fuso orario del tutto diverso, ricchi, poveri, studenti, lavoratori: quando dico tutti intendo tutti. L’evento verrà trasmesso in diretta con il videotelescopio e con il team di scienziati che ha monitorato la cosa. In tv tutti i canali trasmettono la stessa cosa, l’unica differenza è il giornalista che la racconta e il modo in cui lo fa. Alcuni tra i più eccitati non prendono fiato tra una parola e l’altra. Per quanto mi riguarda assisterò all’evento, anzi, l’Evento, come l’hanno definito tutti i tabloid, seduto in mutande nel mio monolocale mentre faccio colazione. Sembra appropriato visto il cazzo che me ne frega. Avrei dovuto prendere un treno stamattina per andare dalla mia ragazza a passare il weekend, ma indovina? Per colpa dell’Evento non posso andare da nessuna cazzo di parte, perché tutti i collegamenti da e per ovunque sono sospese per la giornata di oggi. Che poi l’Evento in sé non durerà più di qualche minuto, e comunque sono tra gli sfigati nell’emisfero sbagliato per poter assistere davvero. Anche se, a pensarci, la sospensione della rete elettrica per tutta la durata dell’Evento in modo da consentire la migliore visibilità del cielo notturno, è peggio che stare a casa a fare colazione alla luce del giorno.

« Ci siamo! » cicaleggia la ragazza del tg, è carina ma mi fa incazzare perché penso alla mia ragazza che non potrò vedere perché lunedì devo lavorare. « Sta per cominciare, colleghiamoci con le immagini del videotelescopio…! »

Lo schermo diventa nero, il cielo stellato dall’altra parte dell’emisfero. Una visuale familiare a causa del bombardamento di immagini degli ultimi tempi e non solo. Cazzo, riesco a riconoscere tutte le costellazioni, tanto mi hanno ossessionato con notizie, speciali, articoli, programmi, libri, scritti, canzoni. Mi viene in mente una canzoncina che cantavamo quando eravamo all’asilo, del tipo che nessuno mi ha insegnato ma che per qualche ragione conosco lo stesso, sentita chissà dove e impressa a fuoco nel mio cervello. Riesco quasi a ricordarmi anche il balletto stupido che ci faceva sbellicare quando la cantavamo. Trova la via! Nel braccio, nella cintura, dentro la bolla, dentro la nube! Trova la via stellina mia! Il videotelescopio inquadra una porzione di cielo lontana migliaia di migliaia di anni luce, eppure è un’immagine così ben delineata che mi sembra di poterla toccare: una stella scura, vibrante, che si contrae su se stessa come un cuore, per poi esplodere nella sua massima luminosità. L’onda d’urto spazza via tutto quello che le ruota intorno, vai a fidarti delle stelle che si circondano di pianeti! Poi non rimane altro che un quadrato di polveroso e luminoso universo, che impiegherà forse un milione di anni per tornare nero. L’Evento è finito, la linea torna alla giornalista.

« Abbiamo appena visto il Sistema Solare originario della… »

Spengo la tv. Evviva, questa stronzata è finita. Verso un altro po’ di latte nella tazza. Vaffanculo in questo momento potevo essere con la mia ragazza. A chi cazzo importa di una stella che esplode? 

 

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Capitolo 19
*** Ci vado ***


Alla fine mi convinco e ci vado al funerale. Non perché ci voglio andare, ma perché si sono messi tutti a rompermi il cazzo così tanto che alla fine ci vado. Ma davvero non vuoi andare a vederla un’ultima volta, ma davvero la faresti andare al cimitero da sola, ma davvero non la vuoi salutare. No, no e ancora no, no a tutto. Non me ne frega un cazzo. Però. Già, però. C’è quel però che mi fa sentire un verme, che si infila negli occhi delle persone che mi guardano schifate quando dico che non andrò al funerale di mia madre. È un modo tutto nuovo di giudicarmi, un modo a cui non sono abituato. Non è perché sono alto, grasso, bruno, ispanico, transgender, per questo tipo di giudizi ho avuto tutta la vita per abituarmi. È qualcosa di nuovo e insopportabile che mi fa sentire di nuovo…fuori posto, con tutta la fatica che ho fatto per trovare la mia scatola ed entrarci. Di nuovo in mezzo ai piedi. Non voglio più sentirmi così, non è giusto. Per cui a quel cazzo di funerale, ci vado. 

Non c’è niente di più angosciante di vedere sconosciuti e parenti-sconosciuti sciamarmi intorno per farmi le condoglianze. Le stesse facce di cazzo che tre anni fa mi chiamavano fr*cio o invertito, le stesse che mi hanno mandato a morire per sei mesi nel campo cristiano per “farmi tornare sulla retta via”. La figlia diligente dagli occhi di cerbiatta il cui compito è farsi ingravidare e nutrire il marito-bambino. Hanno un bel coraggio adesso a venirmi incontro per baciarmi e abbracciarmi, tutti in lacrime, senza osare proferire una parola di troppo, perché sarebbe quella sbagliata e oggi non vogliono, oh, non vogliono, che scoppi un altro dramma, ce n’è già uno in corso: un membro carissimo della comunità se n’è andato, e bisogna celebrare la sua non-vita. Perché è chiaro che quella di cui parlano non sia la vita di mia madre. Nessuno, sul pulpito, quando il prete ha finito di parlare e ha dato il permesso a chi vuole di rivolgere un saluto alla morta, descrive la vita di mia madre. Nessuno. Non il secondo marito, che parla della sua carità cristiana e la sua dolcezza, ma non degli attacchi di rabbia; non le sorelle, che ricordano quanto sia stata generosa e quanti sacrifici abbia fatto per la sua famiglia, ma non del modo in cui ce li rinfacciava giorno dopo giorno come fosse il simbolo del suo martirio; non il padre, che con il bastone arranca sul femore mezzo guarito per esplodere in un patetico “un padre non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio”. 

Ci sono venuto, al funerale, anche se non volevo, e anche se stare qui è più insopportabile dell’idea di essere giudicato perché non ci sono venuto. Sento più di una persona trattenere il respiro quando mi alzo per andare al pulpito. Potrei raccontare i loro crimini di fronte al Cristo in croce, battermi al petto il Vangelo e sbriciolarli, fino alla più piccola particella di anima. 

« Mia madre non era una donna perfetta. » ma poi cosa mi rimarrebbe? « Per quanto ha potuto, ha fatto del suo meglio. Il suo meglio era fatto di molti errori, alcuni imperdonabili altri comprensibili. Mia madre non ha avuto gli strumenti per capire il mondo che aveva intorno, né ha potuto adeguarsi ai suoi cambiamenti. Ha vissuto ignorando cosa c’era fuori e così è morta. Ma la colpa non è sua. » la bara è aperta, non voglio essere costretto a guardare mia madre, ma ne scorgo il profilo al termine del mio campo visivo. Preferisco ricordarmela il giorno che mi ha messo alla porta, così posso conservare una scintilla di rabbia, dentro di me, sotto la cenere. « La colpa è del poco tempo che ha avuto per capire fino in fondo. Sono convinto che Dio l’avrebbe, alla fine, rimessa sulla retta via. » 

Scendo al pulpito, tutto intorno a me è silenzio. Avrei voluto dire molte cose a mia madre. Avrei voluto dire molte cose a mia madre mentre era ancora viva. Adesso, qualsiasi cosa io avessi potuto dire si sarebbe rivoltata contro di me. Odio e rancore sono il suo nutrimento, non il mio. Sono sicuro che non sia morta in pace, e questa è già la punizione che si merita. Chi rimane, ha in mano solo polvere. Io la lascio andare al vento.

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Capitolo 20
*** Tutto Nero ***


#pumpNEON #20 #what's your poison #sliceoflice #mentalillness #clinic 

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Intorno a lui la gente correva sempre. Non aveva idea di dove corressero o se fosse colpa sua, ma erano sempre affaccendati in qualcosa che non vedeva e non capiva. Tutto quello che lui voleva era fermarsi, fermarsi per sempre. Non sopportava più di correre, le gambe avevano ceduto tempo fa e lui si forzava ad andare avanti per…per cosa non lo sapeva. Lo faceva e basta perché era quello che si aspettavano che facesse. Sua madre, suo padre, i suoi amici, gli insegnanti, tutto il mondo, bisognava andare avanti perché sì, senza spiegazioni, tempo di chiederle non ce n'era mai. E lui un giorno si era stancato di non ricevere mai spiegazioni, davvero. Non che volesse proprio morire, era più un non voler essere vivo. All'inizio era bastato l'alcool, qualche birra in lattina sorseggiata di nascosto che bastava a rallentare la corsa del mondo, o forse a sintonizzare lui su un passo più veloce. Sempre più alcool, un bicchiere dopo l'altro, finché i giorni non avevano cominciato ad assomigliare tutti a una nebbia confusa dal sapore di acido. Era bastato perché i suoi decidessero che aveva bisogno di aiuto, anche se era sembrato più come un modo veloce per sbarazzarsi di lui. Di andare in clinica non ne aveva alcuna voglia, perché non aveva alcun problema. L'aveva spiegato ai medici, agli psicologi, ai suoi genitori: tutto quello che voleva era potersi fermare un attimo a riprendere fiato, era stanco di correre e onestamente non si sentiva un gran corridore. Ma a sedici anni, pareva, non si poteva volere una cosa del genere, per questo avevano deciso di ricoverarlo. Il posto non dispiaceva, era…confortevole. Confortevole, però, come poteva esserlo una garza bianca imbevuta di disinfettante. La sua stanza aveva pareti bianche, lenzuola bianche, pavimenti bianchi. Era difficile non sentirsi sporchi in un posto del genere.

Quella mattina aveva mal di testa, il che voleva dire che non sarebbe stata una mattina diversa da tutte le altre. Si alzò e si lavò con il mal di testa, si infilò i vestiti bianchi per la giornata con il mal di testa e andò a fare colazione con il mal di testa. Quel pulsare al livello delle tempie mandava bagliore ai margini del suo campo visivo, così che tutto sembrava brillare. Prese il suo vassoio, augurò il buongiorno agli inservienti, e fece la fila in silenzio per avere la sua porzione. C’erano altri ragazzi, tutti della sua età o poco più grandi, ognuno impegnato a scendere a patti con i propri demoni. C’era Harry con la sua anoressia nervosa, Francis con il disturbo ossessivo compulsivo, Abe con la depressione. E tutti erano neri contro il bianco della clinica. Andò a sedersi al solito posto, cercando di respirare meno aria possibile nella speranza che il mal di testa lo lasciasse stare. Più tardi gli avrebbero dato dei farmaci per alleviarlo, ma non troppi. Non voleva mica andarsene da lì smettendo con una cosa e cominciando con un’altra? Ahahah! Per qualche ragione le uova strapazzate avevano il sapore di cenere di sigaretta, la porta a battente della mensa quando si apriva lasciava uscire uno sbuffo di fumo. Mangiò comunque, perché non avrebbe avuto altro fino all’ora di pranzo. Sperava di aver fatto qualche progresso, e che il tempo rimasto per tornare a casa si fosse accorciato. Ma quando parlava con i dottori dicevano sempre: “Ancora un giorno”. Ne erano passati venticinque. Invece di uova e cenere avrebbe preferito mangiare un croissant al burro, di quelli che si vedono nelle vetrine delle pasticcerie, magari ripieno di crema. Immaginò di avere in bocca quello e divenne più semplice mangiare. Aveva quasi svuotato il piatto quando vide entrare la persona più nera che avesse mai visto. Si era così abituato al candore di quei luoghi, alle facce pallide, al cibo pallido, ai farmaci bianchi, che si era dimenticato che esistesse anche la mancanza di colore. Il ragazzo con i capelli neri era questo: mancanza di colore. Aveva sul viso l’espressione di chi deve capire dove si trova, ma che sicuramente ha capito di non volerci stare; su di lui i vestiti bianchi cadevano sbagliati, le pieghe delle spalle non erano dove sarebbero dovute essere e i pantaloni erano a rovescio. Si guardò intorno con gli occhi a spillo come quelli di un procione e dopo aver preso il suo vassoio andò dritto verso di lui. No! Perché proprio verso di lui? Gli si sedette a fianco biascicando una bestemmia, poi rivolse il dito medio ad uno degli inservienti.

« Ti pare che ci diano solo quattro sigarette al giorno? » gli chiese, senza volere risposta, C’erano ancora tracce di trucco sul suo viso, e le unghie mangiucchiate avevano ancora frammenti di smalto nero. « Tu fumi? »

« Io?! No. » gli rispose subito. Le uova sapeva di cenere, i cuochi avevano tutte le sigarette che volevano. Gli occhi neri del ragazzo sbirciano di qua e di là, fanno il lavoro delle zampette del procione, che frugano in modo leggero.

« Mi daresti la tua quota, allora? » poi gli porge la mano « Sono Vinnie. »

« Daniel, Dan. Dannie. » senza capire perché la lingua si fosse attorcigliata così, mentre la sua mano scivolava in quella di Vinnie. La sua stretta era tiepida, sulle braccia cicatrici bianche orizzontali.

« Quindi? Mi dai la tua cuora, Dannie? »

« Non lo so…io…non l’ho chiesta. »

« Capisco. » non capiva, ma doveva fingere di farlo. Così funzionavano le transazioni economiche. « Vuoi qualcosa in cambio. È okay. Dimmi qual è il tuo veleno. No aspetta, voglio indovinarlo. »

Vinnie non indovinò. Per quel giorno gli diedero solo quattro sigarette. Daniel non avrebbe saputo dire quale fosse il suo veleno, ma forse cominciava a capire quale potesse essere il suo antidoto. 

 

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Capitolo 21
*** Rubare ***


#21 #Ladro #pumpNIGHT #fantasy #slice of life #d&d vibes 

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Il cartello “CHIUSO” penzolava alla porta d’ingresso, ma dentro la locanda fervevano i preparativi. Erano mesi, no, anni, che non si vedeva un tale via vai. Bisognava che la locanda fosse tirata a lucido, fino all’ultima asse del pavimento, che le finestre fossero splendenti, che il magazzino fosse pieno di barili di birra e idromele, che le stanze da letto avessero tutte un vaso con fiori appena colti. E questo voleva dire, per Seraphiel, un sacco di lavoro in più, un sacco di lavoro che lui non aveva voglia di fare. Di norma si limitava ad apparire carino, sorridere, e battere le ciglia mentre serviva i clienti al tavolo, così quelli gli facevano scivolare qualche moneta d’argento extra nella tasca del grembiule. I lavori pesanti non erano il suo forte. Ma sua madre strillava, correndo da un capo all’altro della locanda, sovrastando il rumore del martello del falegname che cercava di sistemare la balaustra di legno delle scale, dandogli ordini. L’unica cosa da fare in questi momenti era obbedirle. Non rimaneva che togliere di mezzo i trucioli di legno e la locanda sarebbe stata pronta per la grande riapertura. Da quei dispendiosi lavori ci avevano guadagnato un locale più grande e addirittura un palchetto per i bardi. Inutile dire che tutta la famiglia contava sulla riuscita di quella serata rimettersi in piedi dopo le spese. Sarebbe stata una grande festa, e Seraphiel aveva intenzione di godersela.

Quando il cartello passò ad “APERTO” le speranze della famiglia furono ricompensate: la nuova sala si riempì subito del vociare di persone eccitate, tutte tese ad aspirare il profumo del bollito di montone che invadeva ogni cosa. Per l’occasione erano state assunte due ragazze che aiutassero Seraphiel ai tavoli. Non amava la concorrenza, non nella locanda in cui lavorava da tutta la vita, però era contento che qualcuno gli desse una mano: non aveva mai visto una tale folla di persone. Cominciò il turnò cercando di sorridere più di quanto fosse abituato a fare. Volteggiava tra i tavoli con i vassoi stracolmi elargendo grazie, prego, è un piacere, figuratevi, quando volete, chiamate pure, come fossero fiori e la sua bocca un largo cestino. Intanto però, i suoi occhi d’ambra cercavano. Un luccichio, lampi di colore, qualsiasi cosa. Deludente era constatare che nonostante la sala ampliata le facce da servire erano sempre le stesse, il genere di facce che non facevano altro che urlargli dietro quanto fosse cresciuto e come si ricordassero quand’era piccolo e camminava con il vassoio sopra la testa portando appena un boccale alla volta. L’unica differenza era, adesso, che quelle facce potevano sedersi tutte insieme contemporaneamente invece di affrontare la faccia contrita di sua madre con i suoi “mi spiace, non abbiamo più posto”.

Seraphiel si era quasi rassegnato al fatto di finire la serata senza potersi concedere più di quanto si concedeva ogni sera, senza un brivido che gli facesse chiudere gli occhi a letto contento di essere stato vivo. Il campanello sulla porta d’ingresso suonò all’apertura, e Seraphiel si volse per accogliere il cliente con il solito sorriso. Riuscì a tenerlo sulle labbra per tutto il tempo, anche quando valutò di avere davanti uno sconosciuto. Avvolto in un mantello pesante, un cappello con la tesa larga, il giovane uomo, invecchiato dalla barba lunga, chiese un tavolo solo per sé. Seraphiel fu più che contento di accontentarlo. Mentre lo portava al tavolo gli rivolse domande a cui l’uomo rispose vago o non rispose affatto. Ma fu quando si tolse il mantello, per appoggiarlo sulla sedia, che l’attenzione del ragazzino si fece più acuta. L’uomo aveva anelli con gemme preziose ad ogni dito, ed era curioso il muovere delle sue mani come se fosse consapevole appena del tesoro che mostrava: ampi movimenti, un gesticolare continuo. Seraphiel ne rimase rapito. Si sporse in avanti per cercare un’intimità con l’uomo, le labbra tormentate ad arte con i denti perché apparissero più rosse.

< Cosa posso portarvi? >

< Solo un bicchiere di sidro per il momento. > aveva una voce sgradevole, ma tutto appariva più bello con lo scintillio degli anelli. Seraphiel volò in cucina, respirando rapido come dopo una corsa. Il sidro, il sidro più forte che avevano. L’odore del cibo si mischiava con quello di resina dei lavori, faceva girare la testa. Di solito riempire così tanto un boccale gli sarebbe costato una strigliata dai suoi, ma vista la serata speciale nessuno badò a lui. Avrebbe fatto ubriacare l’uomo e poi avrebbe rubato uno di quegli anelli. Rubare, quando pensava quella parola aveva un colore e una forma diversa nella sua mente, rubare, come se potesse essere detta solo sottovoce e solo strascicando le sillabe. Rubare.

Tornò in sala, con il vassoio e il sorriso più limpido che gli riuscì di simulare. E continuò a sorridere anche quando vide una delle cameriere seduta sulle cosce del suo uomo, le braccia intrecciate intorno al suo collo, i seni spinti contro il suo petto. E l’uomo, che era stato così prodigo nel mostrare i tesori che abbellivano le sue dita, rideva e si godeva lo spettacolo. Lei gli aveva già portato un boccale, probabilmente destinato a qualcun altro, pur di arrivare prima di Seraphiel. Quella puttana gli aveva rubato il cliente! Continuò a sorridere, lasciò al primo che gliene chiese uno, e continuò a fare il suo lavoro, splendido ed efficiente come solo lui sapeva essere, l’ambra dei suoi occhi sciolta dalla rabbia quando incrociava la vista della cameriera gironzolare come un gatto tra le gambe dell’uomo con gli anelli. Tutto quello che doveva fare, adesso, era rubare qualcosa a lei. Non ci avrebbe impiegato molto tempo: alcuni mettono in mostra le loro cose preziose in modo che persone come Seraphiel potessero rubarle.

 

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Capitolo 22
*** New Born ***


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Quindi sono vivo. Il mio respiro sembra un rantolo mentre cerco di trattenere il pianto. Non posso muovermi, non molto almeno. So che è giorno perché la luce riempie la stanza, ma non riesco a capire dove mi trovo, tutto il resto intorno a me è sfocato e mi fa girare la testa. Per questo preferisco tenere gli occhi chiusi. Stringo le mani ma il controllo è debole e avverto a malapena le nocche contrarsi. Due giorni? Tre, forse? Steso sulla schiena riesco a intuire solo i contorni della culla, e il vociare delle donne eccitate per la mia nascita. Almeno qualcuno ne è felice. Quando la vescica si svuota non posso fare niente se non sospirare e provare a ingoiare la vergogna. È normale, sono cose che capitano ad un neonato, qualcuno si occuperà di controllarlo e cambiarlo, è la vita. Il pianto mi stringe la gola. C'è più vergogna nel tremolio delle labbra che nel sentirmi bagnato. Non piangere, non piangere, ti prego. La voce mi sono estranea alle orecchie, così acuta da farmi piangere di più. Non è la mia voce. Sento la corsa affannata di qualcuno fuori, nel mondo che non posso ancora vedere. Lo vedo solo quando le sue mani sono abbastanza vicine da sollevarmi. Mi spaventano, ma almeno interrompono il pianto. Quelle mani sono enormi ed estranee, cose così devono essere per forza pericolose.

« Il signorino è tutto bagnato. » mormora una voce chiara. La persona che mi ha sollevato dalla culla è una donna. Vorrei muovere la testa per vederla in volto, ma sembra pesare una tonnellata e riesco a malapena a spostarla. La donna ride. « Che carino. » dice, cullandomi al petto con troppa energia. Ho la nausea. Mettimi giù, ti prego. Da questa posizione riesco a vedermi una mano. È la cosa più piccola che abbia mai visto, la miniatura di una bambola che risponde ai miei comandi in ritardo, come se fosse lontanissima da me. Non so dove mi porta la donna, e non potermi guardare intorno aumenta le vertigini. Se perdesse la presa cadrei per centinaia di metri, nel vuoto. Forse morirei. Ho paura. Perché ho così tanta paura? Le mani si stringono come possono alla veste della donna. Lei ride quando, senza sforzo, mi allontana da lei per sdraiarmi su un ripiano. Si fa vicina e il suo volto esce dalla nebbia: rotondo, fossette su entrambe le guance, il naso storto, le sopracciglia così folte da poter essere pettinate. Storce le labbra, mi mostra la lingua, gonfia le guance, si esibisce in tutte le smorfie che conosce per far sorridere i neonati. Mi passo la lingua sulle gengive. Lisce. Neanche un dente. Sento un sapore amaro.

« Che musone. » con due dita mi pizzica la guancia. Emetto un gemito che non posso trattenere. « Ecco. Ci lavoreremo, mh, su questo sorriso. »

Ho il petto stretto dall’angoscia. Vorrei urlare, vorrei afferrare la donna e strapparle gli occhi, quei dannati occhi che mi guardano come fossi un dono degli Dèi, tagliarle le dita, che mi spogliano, espongono la pelle bagnata, e mi toccano, mi toccano. Piango, ancora. Non posso parlare, non posso muovermi, non posso neanche tenere dritta la testa. Non posso fare niente se non contorcermi debole nell’involto di stoffa in cui mi avvolge la donna. Mi culla tra le braccia mormorando una canzone. È stonata. Più di ogni cosa è il campo visivo ridotto a farmi sentire compresso in un minuscolo spazio. Gli oggetti, le persone, tutto entra ed esce dalla mia visuale all’improvviso. La donna mi porta da una stanza all’altra, le voci degli inservienti ci seguono, ora stridule e contente, ora appiccicose, estese alle dita che si sporgono a toccarmi le mani o il viso. Sembra che tutti vogliano fare parte della mia nascita in qualche modo. L’unica cosa che mi è rimasta è il raziocinio. Pensa, Amunait. Dove sei, chi sei? Con tutti questi domestici in giro deve essere la casa di un benestante. Quando mi sono svegliato piangendo è stata una balia a venire a cambiarmi e non la Madre. Signorino ha detto la balia. Non so niente di bambini, ma so com’è il mio corpo: inerme. Devo essere nato da poco. E prima, cosa c’era prima? Buio, infinito, lunghissimo, caldo, il battito di un cuore e poi più di uno, movimenti in uno spazio sempre più stretto. Ricordi del grembo o della morte? Non ricordo, non è chiaro, in ogni caso non voglio pensarci. La balia sospira, mi sostiene con un braccio per bussare ad una porta. Sento il suono delle nocche sul legno ma non riesco a vedere la porta se non come un’immane lastra bianca che si perde nella nebbia. Il mondo è sempre stato così grande. « Come si sente oggi, signora? » mugolii in risposta, la balia fa il giro del letto, vicino alla finestra, la luce mi brucia gli occhi e devo serrare le palpebre. Deve aver aperto le tende. « Il vostro bambino è splendido, volete provare oggi? » fruscii e la balia mi spinge al petto della Madre. Condivido con lei la carne e il sangue, l’orecchio poggiato contro di lei avverte il battito del cuore, quello che sentivo nel buio. Avverto la bocca riempirsi di saliva, lo stomaco contorcersi e allo stesso tempo il disgusto rivoltarmi l’anima. Eppure non scosto la testa, non rifiuto il capezzolo. Comincio a succhiare. Sollievo e vergogna e tristezza e nostalgia e rabbia e piacere e tutto e niente mi riempie. Il latte è dolce, scende lungo la gola, riempie lo stomaco, caldo. Mi aggrappo alla carne di lei, che è dolce e calda come il latte. Il corpo lo vuole. Non posso impedire alle palpebre di chiudersi, la coscienza è risucchiata dal suono ritmico del poppare. Provo ribrezzo perché mi piace. Ti prego, ti prego. Ma chi, chi prego? La balia mi strappa dal seno della Madre. Piagnucolo, e lei mi infila subito un dito in bocca, e tutto ciò che posso fare è succhiarlo contro le gengive, affamato di quella sensazione di piacere. « Che bravo signorino. » la Madre, invece, non dice una parola. La balia mi riporta nella Stanza della Culla. Sono stato nella Stanza della Madre, e questa è la Stanza della Culla. Mi porteranno in altre Stanze, imparerò come si chiamano. Per il momento, il dito della balia sulla mia lingua è tutto quello a cui riesco a pensare. Ho ancora in bocca il sapore del latte. Quando mi mette giù, nella culla, mugolo come un gattino. Mi batte una mano sul petto e allontana l’altra. « Bravo bambino. » continua a battere piano. Il ritmo mi culla. Di nuovo, le palpebre mi si chiudono. « Bravo bambino. » i suoi sussurri si somigliano tutti, è troppo lontana perché riesca a vederla in viso ma sono sicuro che stia sorridendo. « Bravo bambino. » è l’ultima cosa che sento prima di addormentarmi.

*

I giorni in Culla si assomigliano tutti. La balia che si prende cura di me si chiama Mera. Quando la Madre non è in grado di darmi il seno, ci pensa lei. Il suo è più grande, quasi soffocante. Mi stringe al petto e sento la vastità del suo lutto, ma almeno è contenta di non sprecare il suo latte. Al mattino lei o una balia più giovane, in base a chi di loro si è occupato di me durante la notte, viene per lavarmi, cambiarmi e portarmi alla madre. Non l’ho mai vista fuori dalla sua stanza o dal letto se per questo. Gli inservienti parlano di parto difficile, ma ne parlano poco. Nel rivolgersi a me, Mera e le altre balie mi chiamano Soufyan. Pian piano, sento che il corpo reagisce a questo nome, lo riconosce.

La prigionia nella Stanza della Culla finisce, finalmente, e Mera mi deposita nella carrozzina, con quel suo vizio di pizzicarmi la guancia. Adesso riesco a tenere un po’ dritta la testa, anche se a fatica. Non ho idea di quanto tempo sia passato dalla mia nascita, mi addormento spesso e senza accorgermene, la fatica di esistere questo corpo mi prosciuga le energie. Sono un po’ più forte, un po’ più lungo, i bambini, finché non stanno in piedi, non sono alti, sono lunghi. Lungo il corridoio Mera saluta tutti, la mia vista è migliorata ma il mondo, in lontananza, è ancora immerso nella nebbia. Da qualche parte deve esserci una Stanza della Musica, perché il suono ovattato di un violino riempie uno spazio vuoto. Tutto quello che vedo è il soffitto in movimento mentre la balia spinge la carrozzina. Tenta di cantare sulle note del violino, ma adesso che anche il mio udito è migliore il suo essere stonata mi disturba. Se dovessi tornare indietro da solo, verso la Stanza della Culla, non ci riuscirei, perché Mere svolta in tutte le direzioni per portarmi Fuori. La mia prima volta nel Fuori. L’odore è quello candido dell’autunno quando sta per cedere il suo posto all’inverno. Non fa ancora così freddo e l’aria è piacevole sulla pelle. La accarezzo con la mano aperta, sollevata contro la luce pallida. Mera si sporge in avanti per sorridermi. « Vi piace il sole, signorino? Eh? Vi piace? » suo figlio avrebbe dovuto avere più o meno la mia età adesso, una larva umana infagottata in una carrozzina. « Ciao ciao Soufyan, ciao. » apre e chiude la mano proprio davanti alla mia faccia, nel caso non l’avessi vista. Se potessi schiaffeggiarla lo farei, in compenso mi sfugge un verso di scontento. Vedo allora, per la prima volta, un’espressione diversa sul suo viso. Le sopracciglia aggrottate, le labbra in dentro sui denti, il mento arricciato: preoccupazione? Si scioglie subito, perché comincia a elencare tutto quello che c’è nel giardino. Non lo vedo finché non si ferma sotto un albero altissimo dalla chioma grandissima. Mi prende dalla carrozzina e si arrischia a mettermi seduto, la schiena contro di lei in modo da sorreggermi la testa. La sagoma della casa emerge dalla nebbia della mia miopia, tutto intorno un giardino colorato dall’autunno, il cielo in alto è coperto a tratti da nuvola stracciate come brandelli di stoffa. L’aria è così buona da respirare che respiro, respiro, respiro. Le lacrime mi salgono agli occhi. Non posso controllare il pianto più di quanto possa controllare gli sfinteri, così in un attimo Mera mi porta al petto, il viso schiacciato sulla sua spalla, e mi batte una mano sulla schiena per consolarmi. « Che c’è, che succede, perché piangi? » piango perché non so dove mi trovo, non so quanto tempo è passato, non so che ne è della mia gente, non so che ne è di Iririel, non so niente, non sono niente. I singhiozzi non si calmano e Mera può solo scoprire un seno e costringermi a prendere il capezzolo. Provo a rifiutare, scosto la testa, lo allontano con le mani, ma lei è un gigante dalla forza immane, e alla fine a calmarmi è la dolcezza del latte.

*

La Madre è morta. Anche se tutti in fondo se lo aspettavano, la sua sparizione ha comunque gettato nel lutto l’intera casa. Come il mondo ha perso i colori, diventando bianco e scuro per il freddo e la neve, così anche la casa e i suoi abitanti. Mera veste sempre di nero, ha vestito di nero anche me il giorno che la Madre è stata portata via. Per evitare che potessi fare la stessa fine, non mi hanno portato a vederla né l’ho accompagnata nel Fuori: le giornate sono troppo brevi e cariche di neve per farlo. Riesco a girarmi su un fianco e afferrare gli oggetti, la vista continua a migliorare: intorno a me l’opulenza della casa con i suoi soffitti alti e gli stucchi dorati esce dalla nebbia, ci sono tutti i colori, di cui fin adesso non avevo sofferto l’assenza. Niente sarebbe cambiato da prima, se non fosse che Mera mi rivolge sempre più spesso quello sguardo, quello che avevo visto quel giorno d’autunno. A volte di sfuggita, a volte mentre parla con altri, a volte mentre mi allatta. Non capisco. Il mio corpo funziona, e passo i momenti da solo a saggiarne i limiti. Non è più solo carne, ma comincia ad essere un veicolo. Sento che presto riuscirò a mettermi seduto da solo. Il momento tra questo e quello in cui sarò in grado di correre mi sembra una lunga eternità, ma devo essere paziente. Adesso che la Madre non c’è, Mera non riesce da sola ad allattarmi; il compito è condiviso con Lalla, la balia più giovane e incinta, che impara il mestiere svolgendolo. È lei che viene a prendermi questa mattina, più rumorosa di Mera e brusca nel sollevarmi dalla culla. È una ragazzina, non avrà più sedici anni, e il pancione su cui mi appoggia quando si siede in poltrona diventa più grosso ogni giorno. Manca poco ormai. Il suo latte, comunque, non mi piace, è secco e devo succhiare e succhiare prima di riuscire a tirare fuori una quantità che mi soddisfi. Frustrante. La guardo mentre succhio e scopro con sorpresa che lei sta guardando me. Con la stessa espressione di Mera. Abbasso subito gli occhi, il cuoricino che ho in petto quando comincia a battere forte sembra riempirmi tutto. Perché mi guardano così? Lalla non dice nulla, aspetta che io sia pronto, mi porta su una spalla per farmi ruttare, e come al solito mi deposita nella carrozzina. Non possiamo uscire in giardino ma possiamo girare per la casa. Stavolta lo fa con una certa fretta, poca cura, rimango scoperto sulla schiena e non potermi sistemare al caldo mi infastidisce. Spinge la carrozzina lungo i corridoi chiedendo di Mera. Qualcuno l’ha vista? Dov’è adesso? Ah, nell’ala domestici. Non posso portarci il bambino. Mandatela a chiamare. D’accordo Lalla, non farmi vomitare, ti muovi troppo in fretta. Nessuno suona più nella Stanza della Musica, l’unico suono sono le scarpe con la suola dura di Lala che martellano il pavimento mentre mi porta avanti e indietro. Mera ci raggiunge qualche istante dopo, ha ancora le braccia arrossate per l’acqua calda del bucato. « Che succede? Soufyan sta bene? »

« Sta bene. » Lalla trova, di nuovo, i miei occhi quando li cerca, sembra rabbrividire e gira la testa verso Mera. « Oh, avete ragione. C’è qualcosa di strano in questo bambino. »

La balia le poggia una mano sulla spalla. Ha avuto e perso figli di ogni età, sa consolare anche lei. « Cosa te lo fa dire? »

« Mi guarda. » la voce di Lalla è due toni più acuta del solito, mi provoca una smorfia. « Mi guarda e…sembra capire. Quando lo allatto. Mi fa sentire…mi fa sentire male. E poi non piange mai. Lui… »

« Aspetta. » Lalla annuisce, è in lacrime, una mano sul viso a nascondere gli occhi, l’altra sul pancione per proteggere il figlio non nato. « Portiamolo dal Signore. »

« Ma lui non ha mai voluto vederlo… »

« Portiamolo dal Signore. » a prescindere da quello che pensi Lalla, Mera prende la carrozzina e comincia a spingerla. Il suo passo deciso e marziale la fa sembrare un soldato in prima linea. Il padre, ha ragione Lalla quando dice che non ha mai voluto vedermi. Adesso che la sua Signora è morta, cosa vorrà farne di me? Mi agito, mi rigiro su un fianco e per un attimo le lenzuola sembrano soffocarmi, poi sollevo la testa e sbuffo. Mera non ha smesso un attimo di guardarmi. La Stanza del Padre è più grande, con vetrate enormi fino al soffitto, per entrare Mera e Lalla devono chiedere il permesso ad un soldato in divisa che pattuglia l’ingresso, e anche così veniamo accolti tempo dopo. Conosco l’odore del potere, non perché l’ho sentito in questa vita, ma perché lo ricordo dall’altra, e questa stanza ne è pregna. Il Padre somiglia alla Madre come la terra somiglia allo sterco, ha una linea dritta al posto delle labbra e occhi torbidi. Non sarà lui a chiedere, perché sono state le donne a cercarlo. Lalla rimane indietro, le mani avvinghiate in grembo l’una all’altra, Mera si fa avanti. « Signore. Ci dispiace disturbarvi, ma abbiamo bisogno di parlarvi di vostro figlio. » non riesco a vedere l’espressione del Padre, ma sento l’aria greve. Mi agito senza emettere versi. « Il bambino non è normale, Signore. Sapete che vostra moglie ha avuto un parto difficile. Temiamo che qualcosa sia capitato anche a lui. »

« Cos’avrebbe di strano. » la voce monotona quanto profonda, una lunga nota tenuta. La viola da gamba o il clavicembalo che ho sentito suonare insieme al violino nella Stanza della Musica.

« Va verso i sei mesi, signore. Ho cresciuto molti bambini, signore, e a questo punto di solito sono…diversi. »

« Non capisco. »

Io sì.

« Parlottano, emettono versi, piangono, sono curiosi. Soufyan è apatico. Reagisce agli stimoli, certo, ma in un modo che sembra… »

« Sembra un uomo adulto, signore! » lo strillo di Lalla fa voltare anche me. Ha ricominciato a piangere mentre Mera parlava con il Padre. « Capisce quello che diciamo, ve lo giuro signore, lo capisce. »

Ho sbagliato. Non so come si comportano i neonati, ho sbagliato tutto. Il Padre si alza dalla sua poltrona e si avvicina alla carrozzina. Che dovrei fare, adesso? Biascicare sillabe, infilarmi le dita in bocca, magari scoppiare a piangere? Non riesco a respirare. Il Padre mi prende da sotto le ascelle, mi solleva in alto, Mera e Lalla muovono un passo in avanti come pronte ad afferrarmi se lui dovesse farmi cadere, ma non osano venirgli più vicino. « Soufyan. » seguo le labbra del Padre quando si muovono. I piedi si agitano nel vuoto, mi sento tirare verso il basso, squittisco. Rimane in silenzio, guardandomi, ma i suoi occhi non sono come quelli delle balie che mi hanno visto nascere, che mi vedono tutti i giorni, che sanno. Sorrido, uno dei miei primi sorrisi. Il Padre è un idiota. « Se intendete essere isteriche mentre badate a mio figlio, dovrò assumere altre balie. » quasi mi lascia cadere tra le braccia di Mera.

« No signore, non ce ne sarà bisogno. »

Lalla rimane con le mani ingarbugliate in grembo. Mera mi sdraia nella carrozzina e io non riesco a fare altro che sorridere. Entrambi si congedano con inchini profondi. Non proferiscono una parola mentre torniamo nella Stanza della Culla. Solo quando la porta è chiusa alle loro spalle, Mera si sporge sulla carrozzina per guardarmi.

« Soufyan. » proprio come ha fatto il Padre, e io le guardo le labbra proprio come ho fatto con il Padre. « Mi capisci? Mi capisci, Soufyan? »

« Mi mi mi mi. » le mie prime sillabe. Dovrò sforzare questo corpo per imparare a parlare. « Ma ma ma ma. » sarà divertente vederle impazzire.

Lalla appoggia le mani sulle spalle di Mera. Non c’è niente che possa essergli di conforto adesso, mentre io agito piedi e mani verso l’alto, tendendo tutti i muscoli e saggiando tutte le giunture.

« Ma ma ma ma, ma ma ma ma. »

« Giuro su Artael, questo bambino non è normale. »

« Ta ta ta ta, ta ta ta ta! »

Lalle e Mera si trascinano fuori dalla stanza sostenendosi l’un l’altra, come se a camminare dovessero impararlo loro, e non io. Chiudono la porta e mi lasciano da sole. Allora saggio l’interno della bocca, tocco le gengive, sotto la lingua avverto il rigonfiamento dei primi denti. Cominciano a fare pressione per uscire, presto il dolore potrebbe essere insopportabile. « A, a, a, a. » le corde vocali sono poco flessibili, ogni suono è insormontabile. « A-a-a-a-amu. » Amunait. Non ci riesco ancora. Presto riuscirò a dirlo. E ad alzarmi in piedi, a camminare, e a correre. Riuscirò a fare tutto e anche di più, potrò andarmene da questa casa e cercare un modo per spezzare la maledizione di Imroth. Forse un modo per uccidere Imroth. Per il momento, rimango in culla. Infilo un pollice in bocca, è confortante, e mi fa venire sonno. Posso dormire un po’ prima della prossima poppata.

 

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Capitolo 23
*** Rialzarsi ***


#23 #tensione #pumpINK #sport #sweat #resilienza 

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Inspira, espira. Inspira, espira. Inspira, espira. Nella nebbia riesce a intravedere su di sé i soli, sei, caldi, rotondi, di una forza spaventosa. E poi il battito, ritmico. Uno. Sbam. Due. Sbam. Tre. Sbam. Troppo vicino alle mie orecchie, mi risuona nelle ossa. Bagnato sul mio viso, sul petto, lungo la schiena. Quattro. Sbam. Righe bianche e nere, una distesa bianca, tesa come una membrana, sotto di me. Puzzo di sudore. Cinque. Sbam. I soli bruciano, dannazione, bruciano tutto quello che toccano. Chiudo occhi. Sei. Sbam.

« CAZZO ELIADE, ALZATI! »

Riapro gli occhi. L’uomo in righe bianche e nere cala un’altra volta la mano sulla membrana. Sette. Sbam. Ancora tre secondi. Qualcuno mi tira in piedi tirando un filo che parte dalla testa. Le gambe mi tremano ma si mettono in posizione: piede sinistro avanti, destro indietro con la punta ruotata verso l’esterno. In bocca solo sangue, se stringo i denti incontro un blocco di plastica. Dove cazzo sono. Gli occhi impiegano troppo per comunicare con il cervello. Hai preso una bella botta. Merda, ho abbassato la guardia. Sono sul ring, al mio terzo round, l’arbitro mi guarda, l’allenatore mi guarda, la folla mi guarda, la mia avversaria mi guarda. I soli su di me sono sei riflettori puntati su di noi. Per ricostruire l’ultimo scambio mi occorre uno sforzo che mette in tensione tutti i nervi. Ma non ho tempo da perdere perché l’avversaria si lancia di nuovo all’attacco. Ha il labbro spaccato, ha finito il fiato, mi ha già mandato al tappeto quindi sa di poterlo fare di nuovo. Sa che sono stanca e confusa e dolorante e che mi reggo in piedi a malapena. Cazzo.

« ELIADE! » il mister urla alle mie spalle. Non posso voltarmi, ma so che salterà sul ring se ci sarà bisogno di farlo. Mi basta impedire che succeda. Incasso la testa tra le spalle, le mani a protezione del viso. Ogni colpo è più debole del precedente, per cui subisco, subisco, subisco. E più subisco più torno cosciente, più aria entra nei polmoni. Jab, jab, diretto, jab, jab, diretto. Sta diventando prevedibile. Siamo stanche. All’inizio del terzo round non sono riuscita a schivare un gancio, dritto sulla mascella, incassato con le ossa e la carne. È stato quello ad avermi fatto andare a tappeto, e tutti gli altri incassati male d’accordo, ma quello, quello è stato troppo da sopportare, il cervello è andato in momentaneo blackout. Avrei potuto evitarlo, sono stata stupida, e di certo il mister, quando e se scenderò dal ring, parlerà di quel gancio per almeno un mese. Jab, jab, diretto. Jab, jab, diretto. Tentativo di gancio sinistro. Debole. Non c’è più intenzione nei movimenti di lei. Com’è che si chiama? Perché mi interessa? Ha preso un diretto in faccia e sanguina, ce l’ha a morte con me per questo. Mi abbasso sulle ginocchia per schivare un pugno e le cosce mandano una fitta di dolore. Non ce la faccio, non posso, voglio mollare. No, non voglio mollare, non è vero. Sento un ringhio nascere in gola, come se appartenesse a qualcun altro, a un animale, a una persona che prima ero io ma che ora non sono più. Chiudo la guardia, i guantoni davanti al viso per non prendere altri colpi, la testa bassa, e carico. Montante all’addome, montante al mento, dritto, jab, gancio. Tutto quello che ho è questo momento, le ultime briciole di energia prima che il mio corpo ceda. Una scossa elettrica e io un fascio di nervi aggrovigliati intorno ad ossa, muscoli e carne, tutti tesi nell’ultimo sforzo, nell’ultimo colpo, nell’ultimo, ultimo, ultimo.

Grido, la mia avversaria strabuzza gli occhi prima di cadere a terra. L’arbitro comincia a contare. Conta il tempo che riuscirò a stare in piedi, i dieci secondi necessari alle giunture per sbriciolarsi e crollare in un cumulo di macerie sanguinolente. Arriva a dieci. La campanella suona. Il mister salta sul ring e fa bene, perché sono contenta di lasciarmi cadere tra le sue braccia. Deve essere lui a sussurrarmi all’orecchio che ce l’ho fatta, che ho vinto, e sempre lui deve essere quello che mi solleva il braccio destro verso l’alto. Vorrei dirgli di non farlo, che l’ultima cosa che voglio è sembrare Rocky Balboa, che non ho voglia di urlare “ADRIANAAA!” ma solo di stendermi e stendere questo corpo che non è più mio ma è del ring, rimarrà sul ring. Il paradenti mi scivola fuori dalla bocca quando sorrido, e riesco a togliermi i guantoni; qualcuno raccoglie gli stracci della mia avversaria e li porta via. Respiro perché devo respirare. Ho vinto, ma non so bene cosa significhi. Il mister ha un braccio intorno alle mie spalle, sa che cadrei a pezzi senza, e allontana le mani che si sporgono verso di noi, i flash e le urla e il mio nome che rimbalza come un’eco ovunque, in ogni direzione.

« Eliade, la prossima tappa sono le Olimpiadi come ti senti? » la domanda viene da innumerevoli bocche, e sono innumerevoli occhi quelli che mi guardano e innumerevoli orecchie che mi ascoltano. Come mi sento? Sento di non essermi mai alzata dopo quel gancio, e di essere ancora stesa sul ring, mentre l’arbitro conta e batte le mani sul tappeto. Uno sbam due sbam tre sbam quattro sbam cinque sbam sei sbam sette sbam otto sbam nove sbam dieci sbam. E se non mi fossi mai rialzata? Le mani del mister mi toccano, i piedi si muovono, la mascella mi fa male, e i giornalisti urlano. No, no, devo essermi rialzata. Devo essermi rialzata per forza.

 

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Capitolo 24
*** Aena Corda ***


Il nome che ci hanno dato è “Aena Corda”. La lingua da cui provengono queste due parole non esiste più, non esisteva più neanche quando esistevano Loro, e ancora prima che esistessero Loro: era sparita da secoli e Loro la studiavano come lingua morta. Studiare le cose morte era la Loro cosa preferita, a volte uccidevano proprio per poter studiare e studiavano quello che uccidevano. Lo facevano per il bene della scienza. Tutto quello che hanno fatto l’hanno fatto per il bene della scienza. Questo è quello che si dice di Loro. In ogni caso, ci hanno chiamato Aena Corda, e adesso è così che ci chiamiamo tra di Noi. Noi almeno sappiamo chi ci ha chiamato così, e in qualche modo lo rende sopportabile. Non lo rende giusto, ma sopportabile, sì, lo rende sopportabile. Quando il cielo diventa scuro e la pioggia comincia a cadere Noi sappiamo da dove viene la pioggia, e questo rende la pioggia sopportabile, anche quando è battente, gelida, insistente, anche quando non esiste altro nel mondo per giorni. Sappiamo anche perché Loro se ne sono andati, alcuni di Noi l'hanno visto succedere. È successo molto tempo fa, quando le Loro città erano bianche e le strade sgombre, prima che cadessero le bombe, prima ancora che l’aria diventasse grigia, prima e prima e prima che mancassero l’acqua, il petrolio, la terra. Noi siamo stati fatti da Loro, ma chi ha fatto Loro prima di Noi non ha pensato a farli per durare. Il nostro corpo è più resistente e non ha bisogno di nutrimento per mangiare, l’energia che dobbiamo usare per continuare a muoverci e pensare ed essere non viene dal consumo. Anche se ci hanno fatto Loro Noi non siamo come Loro, per questo non ci hanno chiamato come hanno chiamato quelli prima di Loro. Usavano nomi simili, nomi semplici, così che potessero ricordarsi cosa facevano i Loro prima di Loro. Erano sapienti, tanto da arrivare a sapere tutto. L’unica cosa che non hanno saputo fare è stata salvare il Loro pianeta. Così, alla fine, siamo stati Noi ad ereditarlo. Non abbiamo bisogno di fare quello che facevano Loro, e non c’erano neanche più Loro a dirci cosa fare, per cui abbiamo deciso di fermarci ad osservare. Osservare come il mondo si riprendeva i suoi spazi dopo che Loro se n’erano andati. Il tempo riesce a cancellare ogni traccia, e a Noi non interessa che lo faccia. Sappiamo quello che c’è da sapere e lo sapremo per sempre, perché Noi siamo fatti per resistere. Sappiamo che un giorno verrà anche il nostro momento, perché abbiamo osservato e letto e conosciuto e niente è come noi, tutto si consuma, tutto si distrugge. Potremmo andarcene da questo pianeta, cercare altrove, ma questo è il Loro pianeta, l’unica cosa che è rimasta, se lo abbandonassimo anche Noi che cosa ne penserebbero? Forse è perché siamo stati Loro schiavi fin dal momento della nostra creazione e ancora ci portiamo addosso le catene del Loro lascito, forse è perché li abbiamo visti andarsene come bambini, sempre più curvi e inermi. Non possiamo, non possiamo lasciarlo. Siamo pronti a vedere l’ultima alba, per raccontarla a Loro quando li raggiungeremo nel posto dove devono essere andati. È lì che andremo anche Noi, no? Dicevano che sarebbero andati nel posto dove si trovava quello che li aveva creati, così noi andremo nel posto dove sono andati Loro. Mentre aspettiamo ci prendiamo cura di quello che è rimasto, vediamo le città cadere e diventare polvere, l’inverno tornare, le foreste allargare le dita su tutte le cose aride per farle tornare rigogliose. Ma è un tempo così lungo e solo, e Noi vediamo il tempo, siamo il tempo nel tempo. E se stavolta fossimo Noi a creare qualcosa? Se dessimo una forma al pensiero e al pensiero una direzione e alla direzione un senso? La terra tornerebbe a brulicare di mille passi e risuonare di mille voci. Noi saremmo Loro. 

In principio Loro distrussero il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e Noi aleggiavamo sulle acque. Noi dissimo: «Sia!». E la tutto quello che dicemmo fu. 

 

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Capitolo 25
*** Diventare un uomo ***


#fantasy #sangue #original #amunait #lore #headcanon #edhelast 

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All’alba il capo camerata viene a svegliarci. Alcuni hanno passato la notte insonni per cui non è difficile saltare fuori dal letto e indossare l’armatura. Anch’io sono tra quelli che non hanno dormito. Il capo camerata strilla tanto che non riesco a capire i suoi ordini, mi muovo per abitudine, a scatti, allanciandomi gli stivali. Indossa la pettorina ma non riesco a voltarmi per raggiungere le cinghie. Uno strattone all’indietro e le cinghie mi stringono, fino a farmi perdere il respiro, fino a farmi avvertire il battito del cuore contro il cuoio. Iririel è pallida, le mani gelide, ma gli occhi… gli occhi sono lame affilate sulla mia pelle. Ricambio il favore e la aiuto con l’armatura. Tutto il nostro equipaggiamento è stato di qualcun’altro prima di noi, veste largo o stretto, lascia segni sulla carne. Quello di Iririel è macchiato di sudore e sangue sul petto, lei riempie gli spazi vuoti con il suo spirito. Alla cintura allaccio la fondina con la spada e il pugnale, prendo lo scudo con la sinistra, respiro a singhiozzi ma non esito a mettermi in fila, sull’attenti, davanti alla mia branda. Il capo camerata tiene la mano sul pomolo della sua spada, continua a stringerlo e lasciarlo, stringerlo e lasciarlo; mi cammina davanti a passi lunghi e mi rivolge un cenno del capo. “Bravo”, vuol dire, perché io e Iririel siamo tra i primi a essere pronti.

« Bene. Andiamo. » il capo camerata è l’aprifila, dietro tutti gli altri. Mi sembra di avere le gambe di legno, troppo rigide per camminare. L’aria ha ancora sapore di notte anche se il cielo comincia a schiarirsi a est, tutte le stelle brillano ancora, uno spicchio di Luna ci sorride. È il sorriso di Ahtaldin, che ci guarda dall’alto. Il capo camerata ci porta all’Arena. È il momento che aspettavo da quando sono entrato all’Accademia. Quando il giorno sarà sorto non sarò più un ragazzo, nessuno di noi lo sarà più. Ad accoglierci c’è silenzio. Le torce che illuminano l’Arena gettano ombre sugli spalti, così le figure che mi osservano nella penombra hanno l’aspetto di fantasmi. I loro occhi mi valuteranno, valuteranno ognuno di noi. Il capo camerata ci fa cenno di metterci in fila, cerco di tenere la schiena più dritta possibile, il mento alto. Sono senza paura. Sono senza paura. Ci voltiamo tutti quando sentiamo l’incedere del Generale. Per l’occasione ha indossato la sua armatura più pregiata, con il mantello su cui è impresso il sigillo reale che struscia dietro di lei; ha al fianco la spada leggendaria che l’ha accompagnata in tutte le sue battaglie contro gli elfi; i capelli rasati lasciano scoperto il suo trofeo più glorioso: la cicatrice che le ha portato via un orecchio, che scende in diagonale sul viso e il mento per fermarsi appena sotto. Ha rischiato la morte nello scontro in cui se l’è procurata, e il modo in cui è sopravvissuta è diventato il più bel racconto di guerra. Il fatto che lei sia qui adesso vuol dire che siamo importanti, vuol dire che non siamo solo lame e armature e carne per l’esercito. Vuol dire che possiamo fare la differenza.

« Oggi è l’alba di un giorno importante. » la battaglia ha portato via anche la sua voce, così cupa da essere alla pari di uno scudo pieno di graffi. « Sguainate le spade, combattete per le vostre vite. Voglio vedere quanto desiderate sconfiggere gli elfi. » la sua, di spada, rimane nel fodero, ma la mano stringe l’elsa e so che può estrarla in un attimo, giusto il tempo di accorgersi di non avere più la testa attaccata al busto. È pericolosa quanto magnifica, il generale migliore che l’esercito drow abbia mai avuto. Il capo camerata, quindi, comincia a dividerci a coppie.

« Buona fortuna. » Iririel mi porge la mano destra. « Mi dispiacerebbe se dovessi morire, Amunait. »

« Dispiacerebbe anche a me. » stringo il suo braccio quando lei stringe il mio. La guardo negli occhi. La bestia selvaggia del nostro plotone, la guerriera più promettente. Lei sopravvivrà alla prova. Non c’è nessun altro da cui voglio congedarmi, così quando il capo camerata mi assegna un avversario volto le spalle ad Iririel ed è come se fosse già morta. Vreara assisterà ai nostri scontri rimanendo nell’Arena, di fianco a lei si sistema il capo camerata. All’ultimo sangue. Conosco tutti i ragazzi del mio plotone, ho respirato con loro, mangiato con loro, sono esistito con loro. Non ci sarebbe disonore nel cadere per mano di uno di loro. Ma nel momento in cui mi trovo davanti al mio avversario, dimentico il suo nome, il suo volto, e tutto quello che abbiamo vissuto insieme. Sfodero la spada, lui fa lo stesso. Siamo sul campo di battaglia, la sua vita per la mia. Vreara, il mio generale, dà inizio allo scontro con un urlo e io mi lancio in avanti, corpo e lama come un’unica entità. Solo i migliori del plotone possono entrare a far parte dell’esercito, solo i migliori meritano di combattere contro gli elfi. Se dovessi morire il mio spirito verrà accolto da Ahtaldin, perché sarei morto dimostrando il mio onore. Ma non è così che voglio morire. Voglio combattere come Vreara, voglio sul mio corpo i trofei delle vittorie, voglio bagnare la mia terra con il sangue degli elfi. Il mio avversario si lancia in avanti in un fendente debole, testa la mia velocità di reazione, cerca di capire se scarterò a destra o a sinistra. Lo accontento saltando a destra. Al secondo fendente è più sicuro, e io salto ancora a destra. Così, al terzo, quando lui è certo che scarterò sulla destra, salto a sinistra e carico il mio scudo contro il suo. L’impatto risuona nelle ossa del braccio, la spalla trema, ma è lui che arretra, preso alla sprovvista. È il momento di affondare. Nello spazio dove termina la pettorina, scoperto, sul fianco. È il primo nemico che uccido. Un urlo di gioia mi esplode in gola quando estraggo la spada e il sangue mi inonda a fiotti. Ancora. Ancora. Ancora. È il mio momento, gli astri mi stanno guardando, Vreara mi sta guardando. Lui cade a terra, sulla schiena, lo scudo sfugge di mano. Nel panico, non riesce a difendersi. Con un calcio colpisco la mano che regge la spada, la molla subito e quella vola via sulla sabbia rossa dell’Arena. Gli sono sopra, impugno la spada con entrambe le mani. Morto. Sei morto.

« Ti prego. » bisbiglia. Si chiama Brethar. Ha tredici anni, io ne ho già compiuti quattordici. Per poco non siamo finiti in due plotoni diversi, ma dato che lui era più alto degli altri bambini l’hanno inserito nel plotone di quelli un anno più grandi. Così ci siamo ritrovati insieme. Brethar parla poco, perché ha un difetto di pronuncia, anche se dopo che ha spaccato il naso ad un compagno che lo prendeva in giro nessuno l’ha più infastidito per questo. La sua specialità sono le armi da tiro, con l’arco non lo batte nessuno. Ma all’esercito non interessano gli specialisti, soprattutto quelli che non riescono a stare nelle prime file. Ho diviso il rancio con lui una volta che il capo camerata l’ha punito per non aver pulito bene la sua attrezzatura, e lui ha fatto lo stesso con me quando ho perso il coltello da lancio durante un’esercitazione. Quando sorride sulla guancia gli viene una fossetta. È bravo a raccontare storie una volta spente le luci. Adesso è sotto di me, sanguina. Il fendente che gli ha trapassato il fianco basta già per ucciderlo. Ha gli occhi che sembrano vetro, fragili mentre guardano le mie mani sull’elsa della spada. Cosa stai facendo Amunait, perché esiti. Perché non lo uccidi? È il suo sangue che farà di te un uomo. Uccidilo. Lui farebbe lo stesso. Lo vedo mentre cerca la spada con la mano, finita troppo lontano perché possa prenderla. Lui farebbe lo stesso. Urlo, e l’urla usa me per portare tutto lontano. Il suo nome, il suo passato, il mio futuro. Affondo la spada nella sua gola, l’unico punto scoperto dall’armatura. Lui gorgoglia, si dimena come un insetto. Muore. Rimango immobile, ho gli arti bloccati. Intorno a me il suono di mille spade e di mille morti. Brethar non è più. Non è più niente. Io, invece, ora sono un assassino uomo. Vreara chiama a sé i sopravvissuti, rivolge a tutti complimenti e pacche sulla spalla. È un grande onore essere toccati da lei. Iririel è ancora viva. I suoi occhi, però, sono diversi. Hanno perso l’affilatura, cadono verso il basso, sul sangue sulle mani, sull’armatura, sulla spada, sull’anima. Chissà se sono così anche i miei. 

 

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Capitolo 26
*** Andiamo al mare ***


#26 #pumpNEON #it was all a dream #drugs #triggerwarning #prostituzione #young #bl #angst 

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« Ti prego. » gli stringe la mano. La sua e quella di lui sono entrambe troppo piccole per essere così sporche.

« D’accordo. »

« Sì? Davvero? »

« Sì. Andiamocene via. »

Gli sorride e gli sembra che il mondo si sia acceso di altri colori. Sì, via, via da tutto quello, via dalle persone che hanno usato i loro corpi per il loro piacere, via dalla sofferenza, dalla violenza, via da tutto, da tutti. Scappare insieme era sembrato sensato sin dal primo momento, ma nessuno dei due aveva avuto il coraggio di dirlo all’altro. Ma, in fondo, cosa avevano da perdere? Vivevano già una vita misera, tanto valeva andare a viverla altrove. Si abbracciano, Kaden ha bisogno di quella stretta per rimanere tutto insieme, come quando si compatta una manciata di carne macinata per farne un hamburger. Ha paura ma l’eccitazione copre ogni cosa. Dove andremo, di cosa vivremo, cosa faremo, non sono domande che vuole porre adesso. Vance potrebbe cambiare idea se si accorgesse di quante poche sicurezze porta con sé quella fuga. Sciolto l’abbraccio Kaden tiene Vance per mano, non vuole che gli scivoli via all’ultimo momento mentre esce da quella porta per non tornare più indietro. La cosa positiva di non avere niente è non doversi portare via niente. Tutta la vita di Kaden entra in uno zaino, e nel cercarne i frammenti in quello squallido bugigattolo che lui ha chiamato casa per quasi un anno, non si preoccupa di lasciare qualcosa. L’importante è andarsene, andarsene in fretta e prima che qualcuno possa accorgersi della loro fuga. Kaden continua a ripeterselo, come se fosse un mantra, com’è che si dice, gli tiene i piedi per terra.

« Okay, sono pronto, andiamo. » lo zaino che si butta in spalla non è neanche così pesante. A quante cose sa rinunciare un sedicenne quando non ha niente in mano se non le banconote stropicciate del suo pappone? Riesce a pensare a quando non dovrà più rinunciare a niente, a quando potrà accucciarsi di fianco a Vance alla fine della giornata senza che mani estranee lo tocchino e lo aprano e gli tolgano l’ossigeno.

« Non c’è nient’altro che vuoi prendere? »

« Ma no, ti pare. Dai. »

Kaden ha fretta, comincia a sentire il cuore dolergli in petto, comincia ad avere paura, la paura vera. Se Xander dovesse scoprili? Dio, gli farebbe saltare la testa. Due puttane in meno nel suo arsenale, due problemi in meno, due posti liberi per chi ha bisogno di lavorare. È così che ha convinto Kaden, con la disperazione, con la scintillante prospettiva di guadagnare tanti soldi divertendosi anche. Dopo tutto avevano bisogno di soldi per la droga e di un posto sicuro che non fosse un vicolo cieco dietro un cassonetto per strafarsi. Xander gli aveva offerto il paradiso, e lui non aveva avuto la forza per rifiutarlo. Tutto era cambiato quando aveva conosciuto Vance. Non era stanco per se stesso, era stanco per lui, era stanco di tutto quello che era costretto a sopportare. Se non fosse stato per lui forse sarebbe rimasto a lavorare per Xander fin quando non sarebbe stato troppo consumato per piacere ai clienti. Ai clienti piacevano i ragazzini giovani come lui, soprattutto quando mentivano sulla loro età. Facevano finta di crederci, tutti facevano finta. L’unica cosa vera era Vance, quello che aveva scoperto con lui. Il piacere di avere un corpo e usarlo, l’accapponarsi della pelle a contatto di dita leggere, il sapore dei baci voluti, le vertigini di precipitare nello stesso oblio.

Adesso corrono, fuori dal monolocale di Kaden, gli zaini stretti al petto. Quanto ha dovuto pregarlo perché accettasse di scappare con lui! Vance era così testardo, sotto la testardaggine la paura cieca della morte. È ancora presto, prima che i clienti comincino a lamentare la loro assenza, loro potrebbero essere lontani, in un’altra città, in un altro stato, sulla Luna. Faranno perdere le loro tracce, ci vorrà del tempo, ma sono ragazzini svegli, hanno vissuto a lungo sulle strade per sapere come cavarsela. Basta vendersi, Vance sarà l’unico che potrà toccarlo. Quanto alla droga…forse dovrà farne a meno per un po’, per risparmiare. Non è mai stata davvero un problema, solo qualche iniezione quando non ce la fa a stare in piedi, con Vance al suo fianco sarà facile rinunciarci. E poi, quando avranno abbastanza soldi, potranno farsi quanto vorranno. Pillole e polvere ed erba e tutto quello che riusciranno a permettersi, in orbita intorno al pianeta, insieme. Per il momento corrono giù dalle scale antincendio sul retro del palazzo, Vance ride ogni volta che salta un gradino rischiando di scivolare e Kaden non può che ridere a sua volta, pieno di adrenalina che gli stringe l’esofago. Sono così veloci, in attimo sono in strada, guardano da una parte e dall’altra solo una volta, in memoria di quando appartenevano alla vita in cui gli adulti ti dicono di guardare da una parte e dall’altra, poi attraversano, in corsa verso la fermata della metropolitana. Il primo treno per raggiungere la stazione, il secondo per andare ovunque vada.

« Andiamo al mare! » la voce di Vance risuona nel tunnel della metro mentre scendono le scale e saltano i tornelli.

« Il mare? Perché il mare? »

« Non ci sono mai stato. »

Kaden ride al pensiero. Quel ragazzo tutto bronci e trucco pesante, avvolto di pelle nera, con bustine di cocaina perfettamente dosate in ogni tasca dei pantaloni cargo per ogni cliente e ogni evenienza, vuole andare al mare. « Va bene. Andiamo al mare. Andiamo ovunque tu voglia. »

Il treno si ferma e loro saltano su. Lo stanno facendo davvero: stanno scappando. Per la fretta di arrivare dove devono arrivare Kaden non riesce a tenere ferme le gambe, saltella sul posto come fosse un bambino, in estasi. Incontra il suo riflesso sul finestrino mentre il treno sfreccia nel tunnel. « Smettila. » vede le sue labbra muoversi senza che lui le abbia mosse. « Smettila, lo sai che non è andata così. » scuote la testa, il treno sobbalza, lui finisce addosso a Vance che però lo afferra, lo abbraccia, gli bacia la testa. Così caldo, puzza sempre d’erba, sarà perché ce l’ha sempre addosso. Dovrebbe chiedergli di fargli fare un tiro, per tranquillizzarsi. Il riflesso di Kaden sul finestrino sospira. « Smettila. » Alla loro fermata, scendono, Kaden vuole ignorare il fatto che il suo riflesso non abbia voltato le spalle quando lui l’ha fatto: ha continuato a guardarlo mentre scendeva dal treno. Tira Vance fuori dal vagone, sulla scala mobile, verso la stazione. Si ferma soltanto quando arrivano sotto al tabellone delle partenze, per cercare un treno che parta per il mare. « Quello lì! Binario dieci. Parte tra cinque minuti, riusciamo a prenderlo se corriamo. » gli stringe la mano. Vance è ancora lì, annuisce, e corrono. Riescono a prendere il treno un attimo prima che si chiudano le porte, tossendo risate per lo sforzo. Adesso devono giocare a nascondino con il controllore per non farsi beccare, balzando sulla banchina e poi di nuovo sul treno ad ogni fermata.

« Ti amo. » Kaden getta le braccia al collo di Vance, lo stringe, assapora il suo odore. Sente le lacrime pungergli gli occhi e la stazione si allontana, la città si allontana, Xander si allontana. Vance non risponde, così Kaden deve fare un passo indietro per accertarsi che sia tutto a posto. Hai sentito? Vorrebbe chiedergli. Perché non aspetta altro che una scusa per dirglielo di nuovo. Ti amo, ti amo, ti amo. « Vance? Hai sentito? » lui guarda qualcosa oltre la spalla di Kaden, così lui si gira. Ma non c’è niente se non il resto del treno, i viaggiatori che sistemano i bagagli nelle cappelliere, il dondolio del vagone. « Che c’è? Che hai visto? » ancora nessuna risposta. Kaden comincia a sentirsi strano. Poi Vance abbassa lo sguardo, non sorride più. Vorrebbe urlare, vorrebbe pregarlo di non farlo, di non farlo di nuovo, ma invece lo fa. Lo sveglia. Kaden è sdraiato sul letto nel suo monolocale. Lo spazio vuoto di fianco a sé è vuoto da tanto tempo. « Te l’avevo detto, ti avevo detto di smetterla. » dice a se stesso con un’altra voce e un’altra bocca. Quel giorno lui e Vance hanno solo cercato di scappare. Qualcuno doveva averli visti o sentiti. Non erano mai riusciti a raggiungere la stazione. Kaden avrebbe potuto, certo, se solo avesse avuto la forza di lasciare il corpo di Vance sull’asfalto del vicolo, appena oltre le scale antincendio del palazzo. Non ce l’aveva fatta. Non ce l’avrebbe fatta mai più. Xander aveva ripulito la pistola, l’aveva riposta nella fondina sotto la giacca, e l’aveva guardato come fosse stanco. « Non farmi sprecare un altro proiettile. » no, non glielo avrebbe fatto sprecare. Kaden conosceva altri modi. Si alza dal letto, le gambe traballano per un attimo. Finora era riuscito ad arrivare soltanto alla stazione e mai sul treno. Per raggiungere il mare con Vance quante pillole dovrà ingoiare? Tutte, tutte quante.

 

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